O viandante, annuncia agli Spartani... di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***
Capitolo 3: *** Parte terza ***
Capitolo 1 *** Parte prima ***
AVVISO
Inclito
lettore,
mi
sento un po’ stupido a fare questa premessa, ma visti i tempi che
corrono, temo che non me ne potrò esimere.
La
storia che stai per leggere è narrata dal punto di vista di
combattenti tedeschi della seconda guerra mondiale.
Per
quanto senza dubbio non sia mancato chi più o meno segretamente non
apprezzava il Nazionalsocialismo, puoi immaginare che questa non
fosse la norma.
La
gente perlopiù era convinta di quelle idee e cercava quotidianamente
di metterle in pratica, esattamente come oggi si mettono in pratica
quelle che attualmente sono considerate le idee giuste.
I
protagonisti di questa storia reputano il Nazionalsocialismo
un’ideologia egosintonica e mio obiettivo in quanto autore è
quello di rappresentare i personaggi così com’erano e non spurgati
o edulcorati da una correttezza politica che obbliga a proclami
ideologici ogni tre righe.
Con
ciò ritengo di averti avvisato: se vuoi dare un’occhiata ne sarò
molto contento, ma se il mio modo di parlare di certi argomenti ti
disturba, fa’ una bella cosa: non leggere e saremo più felici in
due.
O
VIANDANTE, ANNUNCIA AGLI SPARTANI…
La
guerra volge alla fine, le potenze nemiche hanno trascinato l’umanità
nella follia.
L’aria
è fredda. È già buio, anche se è solo tardo pomeriggio.
Piove,
tanto per cambiare. Uno scrosciare monotono da opificio, acqua che
scorre sulle cose e le rende lucide al chiarore dei fari, poi sgronda
e si raccoglie in pozzanghere sul suolo già fradicio.
Un Opel
Blitz arriva traballando sulla strada sterrata, si ferma al margine
della pista mantenendo il motore acceso.
Il
caporale Klein osserva attento i militari che ne scendono, scorre
volti e uniformi. Alla fine individua un paio di mostrine gialle con
due gabbiani e sul viso gli compare un’espressione soddisfatta.
Raggiunge
il nuovo arrivato, si mette sull’attenti, saluta. “Signor
tenente, caporale Klein a rapporto!” annuncia con voce marziale.
Il
tenente è praticamente un ragazzo. Alto per essere un pilota,
pallido, dall’espressione seria. Occhi blu come porcellana. Saluta
a sua volta e si presenta: “Tenente Friedrich Lützow.”
“Piacere
di conoscerla, signore,” risponde il caporale, “ha fatto buon
viaggio?”
“Tutto
sommato, sì.”
‘Tutto
sommato’
significa ‘nonostante
i partigiani, le strade impraticabili, i posti di blocco e gli
attacchi aerei nemici.’
Detto
questo, il tenente gli rivolge uno sguardo vagamente interrogativo.
“Il
comandante la vuole vedere, signore,” spiega il caporale, “mi
segua, prego.” E si incammina verso un edificio dalle finestre
oscurate.
Strada
facendo, Klein si mette a parlare. “Le baracche che vede sono per
le munizioni e gli approvvigionamenti, signore. I piloti alloggiano
nella palazzina. Qui abbiamo una situazione relativamente tranquilla,
capita solo ogni due o tre notti che si debba scendere nei rifugi.
Sono là in fondo, a proposito.” Indica con la mano una vaga sagoma
chiara nel buio.
Il
tenente rimane in silenzio, forse è un tipo taciturno, o forse è
solo troppo stanco per rispondere.
“Ho
dato ordine di portare dentro i suoi effetti personali,” prosegue
Klein continuando a camminare di buon passo. “Ora la accompagno dal
signor maggiore, vuole sempre conoscere personalmente tutti i nuovi
arrivati.”
Il
maggiore Hirschmann è seduto alla scrivania nella stanza che gli
funge da ufficio. Non arriva a trent’anni, ma la sua espressione
sicura è quella di un uomo abituato alle responsabilità.
Si
cresce in fretta in guerra.
Osserva
attento il giovane subalterno, ascolta la sua presentazione.
“Esperienze di combattimento?” chiede dopo una breve pausa
meditativa.
“Otto
mesi con il Terzo Stormo, signore”
“Ha
esperienza con il Messerschmitt 109?”
“Pilotavo
un Me 109 F.”
“Molto
bene.” Hirschmann annuisce pensoso, il suo sguardo d’acciaio non
abbandona il tenente. Dal suo giudizio dipendono tante cose: con chi
volerà Lützow, che aereo piloterà, a quali missioni sarà
assegnato.
Se
sbaglia, rischia di far morire inutilmente il tenente Lützow o il
pilota che volerà con lui.
Gli fa
ancora alcune domande, le cui risposte sembrano soddisfarlo.
“Ho
quel che fa per lei,” dice infine.
Il
tenente si limita ad annuire, quindi rimane a fissarlo attento.
Alzandosi
dalla scrivania, il maggiore spiega: “Il gregario del tenente von
Kleist è caduto in combattimento due giorni fa. Ora lui è solo,
quindi lei diventerà il suo gregario.”
Detto
questo precede il nuovo arrivato in un salone e si dirige verso un
gruppetto di piloti. “Von Kleist!” chiama.
Lützow
osserva i colleghi con aspettativa, chiedendosi chi risponderà al
richiamo.
Quello
che si alza in piedi è un giovane falco spavaldo. Altezza media,
fisico asciutto da spadaccino, spalle dritte e portamento marziale.
Ha i capelli biondissimi e il viso da ragazzino. Gli occhi, di un
azzurro straordinariamente intenso, sembrano al tempo stesso ardenti
e gelidi. Fissa il maggiore Hirschmann in una muta richiesta di
spiegazioni.
“Questo
è il tenente Lützow,” dice il maggiore, “volerà con lei come
gregario.”
Von
Kleist si avvicina. Ha un’espressione attenta, concentrata. Sembra
che da quella prima occhiata dipenda l’idea che si farà di lui.
Un
attimo dopo gli rivolge un sorriso radioso. “Tenente Siegfried von
Kleist,” si presenta. Tende con risolutezza la mano.
Lützow
lo fissa a sua volta, sentendosi stranamente turbato. Lo smarrimento
non dura che un attimo, poi anche lui declina le proprie generalità.
Stringe la mano al giovane falco.
Il
maggiore se ne va. “Così avrete modo di fare conoscenza,” dice,
e scompare nel suo ufficio.
I due
rimangono a guardarsi in silenzio.
“Chiamami
Siegfried,” propone allora il tenente von Kleist.
Lützow
ha un moto di sorpresa. “Siegfried?”
“È
il mio nome.”
“Sì,
ma...” comincia il nuovo arrivato. Vorrebbe dire che si sono appena
conosciuti, che il regolamento dà indicazioni diverse per quanto
riguarda i rapporti tra ufficiali, che tanta familiarità gli sembra
fuori luogo, poi incontra lo sguardo carico d’aspettativa del
collega e quasi si perde in occhi di cielo che non conoscono il
dubbio. “Io sono Friedrich,” capitola. Tende di nuovo la mano,
perché quella in effetti è una seconda presentazione, più intima
ed esclusiva.
“Friedrich,
molto bene,” risponde von Kleist stringendogliela con entusiasmo.
“Hai già fatto voli di guerra, vero?”
“Sì.”
Siegfried
sorride quasi con complicità, come se i voli di guerra garantissero
l’accesso a una specie di confraternita. “Cosa pilotavi?” gli
chiede subito dopo.
“Messerschmitt
109 F.”
Gli
occhi di von Kleist si illuminano. “Un aereo meraviglioso!”
esclama, “Veloce, potente, risponde magnificamente ai comandi. Se
le valchirie decidessero di modernizzarsi, quelli sarebbero i loro
mezzi.”
Friedrich
sorride. “Dici?”
“Assolutamente.
E se il buon vecchio Wagner fosse ancora fra noi mi darebbe ragione,”
risponde l’altro con sicurezza. Poi, cambiando bruscamente
discorso, chiede: “Ti hanno già fatto vedere il tuo alloggio?”
“Veramente
no,” risponde incerto Lützow. Si aspettava una discussione sugli
aerei e quel subitaneo guizzo l’ha colto un po’ alla sprovvista.
Come tutto quello che concerne il tenente von Kleist, del resto.
“Allora
vieni con me. Se aspetti che ti accompagni Klein…”
Con un
movimento agile Siegfried lo precede verso una scala che si perde
nell’oscurità di un piano superiore. “Di sopra non c’è la
luce,” spiega prendendo una candela da una mensola.
Un
attimo dopo i due sono soli in un silenzio buio e raccolto. Gli unici
rumori sono i passi e il frusciare delle uniformi, di tanto in tanto
un respiro lieve.
Il
crepitio del fiammifero che accende la candela è come lo sfrigolare
di acciaio incandescente. La tenue luce dorata rende Siegfried una
statua crisoelefantina, con occhi di zaffiro purissimo.
“I
piloti dormono tutti qui?” chiede Friedrich. Una domanda qualsiasi,
nel tentativo di ignorare il brivido che a quella vista gli ha
percorso la spina dorsale.
“Sì,
certo. Ci sono molte stanze.”
Von
Kleist si incammina risoluto per il corridoio, Lützow lo segue un
po' a distanza, come se volesse tenersi al di fuori di un’aura che
percepisce potentissima e per tanti aspetti pericolosa.
Arrivano
a una camera, il primo fa qualche passo all'interno e solleva la
candela per illuminare meglio l'ambiente. Ci sono due letti.
“Io
dormo qui. A te hanno assegnato l'altro.”
Friedrich
si avvicina titubante. Qualcuno ha già portato su i suoi bagagli.
Per un istante si sente in trappola, prova la vertigine dell'attimo
senza peso prima che l'aereo si rovesci precipitando in vite.
Stabilisce
di essere stanco per il viaggio, e che quello è il motivo dello
strano turbamento che si sta impadronendo di lui.
Prende
la valigia, la apre. La prima cosa che ne esce è un quaderno dalla
copertina nera, seguito da un libro. Heinrich von Ofterdingen, di
Novalis.
Siegfried
si fa avanti incuriosito. “Ti piace leggere, vedo,” gli dice a
bassa voce guardando da sopra la sua spalla. Forse è quella penombra
intima che invita ad un tono di voce così sommesso. Il suo respiro
caldo gli sfiora la nuca.
“Sì...
è il mio passatempo.” Di nuovo quel brivido, e il cuore che salta
un battito.
Il
libro gli scivola di mano. Siegfried si china a raccoglierlo, glielo
porge con un sorriso. I due si fissano negli occhi per un istante.
Turbato, Friedrich si ritrae appena.
L'altro
abbassa lo sguardo. “Scusa, io...” comincia, per poi
interrompersi subito dopo. Appoggia il libro sul letto e fa un passo
indietro.
“Forse
è meglio che torniamo giù,” mormora Friedrich. E poi, per
giustificare in qualche modo ciò che ha appena detto, aggiunge.
“Fa... fa piuttosto freddo qui.”
“Già,
scusa,” risponde l'altro, il tono è quasi di sollievo. “Ora
torniamo giù.”
Il
turbamento che ha invaso Friedrich, però, non scompare con la luce e
il calore. Rimane come una sorda sensazione di disagio, che lo rende
inquieto come accade di solito nell'imminenza di un combattimento
aereo.
Vorrebbe
proporre di unirsi agli altri, che stanno ancora conversando
tranquillamente in gruppetti di tre o quattro, ma al tempo stesso ha
l'impressione che tra lui e quel Siegfried si sia instaurato uno
strano legame esclusivo, che non ha nulla a che vedere col rapporto
che lo ha sempre legato ai colleghi.
È una
sensazione sconosciuta, che gli fa paura e lo affascina al tempo
stesso.
Si
siedono su un paio di poltroncine, Siegfried raccoglie una rivista,
cincischia un po’ con le pagine, la lascia ricadere. Si guarda
intorno ed emette un sospiro che ha il tono del disagio. “Andiamo
al bistrot?” propone.
Lützow
sgrana gli occhi. “Al bistrot? Ma abbiamo il permesso di farlo?”
Siegfried
lascia passare qualche secondo, poi risponde: “No. Non abbiamo il
permesso.” Gli rivolge un sorriso spavaldo.
Essendo
appena arrivato alla base, Lützow è imbarazzato. Sarà opportuno
seguire quel falchetto temerario?
Ovviamente
no, gli direbbero la ragione e il buon senso. Ma von Kleist lo sta
fissando come se fosse assolutamente certo del suo appoggio e gli sta
sorridendo con la complicità che riserverebbe a un vecchio amico. Si
conoscono da meno di un'ora, ma Friedrich ha la sensazione di
conoscerlo da sempre.
“Nel
parcheggio c’è una macchina a disposizione degli ufficiali,” gli
dice Siegfried cogliendo al volo l’attimo di esitazione, “se
facciamo le cose per bene non se ne accorgerà nessuno.”
Un
attimo dopo la vettura sta fendendo l’oscurità diretta verso il
paese.
“So
come evitare le strade pericolose,” dice Siegfried con sicurezza, e
Friedrich si accorge che persino i partigiani non sono per il
compagno altro che una sfida esaltante. “Non hai paura?” gli
chiede.
Senza
distogliere gli occhi dalla strada, von Kleist risponde: “Chi ha
paura muore un po’ tutti i giorni. Io intendo morire una volta
sola, possibilmente in grande stile.” Dà gas e la macchina balza
in avanti nelle tenebre.
Lützow
rimane in silenzio. In un certo senso quel ragazzo lo spaventa. È
puro, intatto, affilato come una lama. “Vorrei vederti volare,”
mormora. Pensa di averlo detto fra sé e sé, ma l’altro
prontamente gli risponde: “Domani voleremo insieme.”
E
poiché Friedrich non replica, sorridendo aggiunge: “Sono sicuro
che saremo perfetti. Io sento che siamo nati per stare insieme.”
Friedrich
si trova a deglutire turbato. “In che senso?” chiede a disagio.
Poi offre: “Intendi come capopattuglia e gregario?”
Siegfried
si limita a ridere, noncurante adamantina creatura. “Ma certo,
proprio quello che volevo dire!” esclama divertito.
Il
bistrot è un posto squallido, in cui pochi torvi avventori rivolgono
ai due boche occhiate velenose.
Ma
Siegfried è come luce pura di diamante e il livore che promana dalla
sordida mescita non scalfisce minimamente il suo entusiasmo.
Ordina
due birre in un francese lievemente appesantito dall’accento e si
dirige a un tavolo invitando il collega a seguirlo.
“Parlami
di te,” dice non appena sono seduti faccia a faccia. Lo fissa
socchiudendo gli occhi, con i gomiti appoggiati sul tavolo e il viso
fra le mani.
Friedrich
esita. Sono risposte, quelle che vorrebbe. Perché sono in quel
bistrot per esempio, a guardarsi negli occhi attraverso un tavolino
traballante, a chiamarsi per nome come vecchi amici pur non sapendo
nulla l’uno dell’altro.
“Io
sto vicino a Potsdam,” comincia Siegfried, interrompendo il filo
dei suoi pensieri, “e tu?”
“Berlino,”
borbotta Lützow, ancora non del tutto libero dal disagio.
“Berlino
è grande,” obietta l’altro.
“Vuoi
sapere in che via abito?”
Von
Kleist sorride. “Voglio sapere tutto di te.”
“Ma…
per quale motivo?” sbotta Lützow, senza riuscire a evitare una
punta di durezza nella voce.
Siegfried
assume l’espressione costernata di chi si aspettava una carezza e
invece ha ricevuto uno schiaffo. Abbassa lo sguardo sulla birra che
l’oste gli ha controvoglia servito e risponde: “Voleremo insieme,
il che vuol dire che rischieremo la vita insieme. Mi piaceva l’idea
di diventare amici.”
Friedrich
deglutisce e si deve impedire di spingere la mano a coprire la sua.
“Hirschmann mi ha raccontato che hai perso il tuo gregario,” gli
dice. Tiene la voce basa, come per una specie di pudore.
“Hans
si è buttato in mezzo ai P-51,” mormora von Kleist senza alzare lo
sguardo. “Se li è tirati addosso per difendermi.”
Lützow
china a sua volta la testa. “Mi dispiace.”
L’altro
rialza la propria con uno scatto risoluto, un lampo metallico gli
indurisce per un attimo lo sguardo. “È morto da eroe,” replica
asciutto.
“Scusami,”
dice Friedrich dopo un po’, di nuovo resistendo alla tentazione di
spingere la mano verso la sua.
“Scusami
tu. Forse sono stato troppo precipitoso.”
Friedrich
non risponde. Sta provando di nuovo la sensazione al tempo stesso
esaltante e spaventosa dell’istante senza peso che precede
l’entrata in vite. “Sto a Moabit,” si decide a dire infine,
“mio padre fa l’operaio. Ho un fratello minore che è ancora
nella Hitlerjugend e uno più grande che è nelle Waffen-SS.”
Siegrfied
stringe appena gli occhi, come se ognuna di quelle notizie gli
procurasse un enorme piacere. “E tu come mai non sei nelle
Waffen-SS?” gli chiede.
Friedrich
sorride. “Per lo stesso motivo per cui anche tu sei nella
Luftwaffe, credo.”
“Davvero?
Quale pensi che sia?”
“Un
pilota non può parlare delle meraviglie del cielo nemmeno all’essere
più amato.”
Siegfried
sorride a sua volta. “Ma a un altro pilota sì,” risponde
fissandolo negli occhi.
Parlano
a lungo, incuranti dei francesi che li guatano rancorosi come
potrebbero esserlo della terra quando sono in volo.
Ma
l’ora si fa tarda, devono rientrare. La macchina divora la strada a
malapena illuminata dai fari oscurati.
Finalmente
compare la base, un insieme di sagome scure che si intuisce contro un
cielo nero e opaco. La sentinella all’entrata si china appena per
scrutare chi è alla guida, poi salutando annuncia: “Signore, il
maggiore Hirschmann vorrebbe vedere lei e il tenente Lützow nel suo
ufficio immediatamente.”
“Certo,
grazie,” risponde von Kleist impassibile. Poi a bassa voce,
proseguendo verso il parcheggio: “Maledizione.”
“Problemi?”
s’informa Friedrich.
“Altroché,”
risponde l’altro, ma nella voce si coglie già di nuovo la consueta
nota di spavalderia. “Hirschmann mi aveva ordinato di smettere con
le gite al bistrot.”
“Allora
siamo nei guai!”
“Temo
proprio di sì.”
Il
maggiore Hirschmann in effetti è furente. “Von Kleist!” tuona
non appena i due sono sull’attenti davanti alla sua scrivania, “Le
avevo espressamente proibito queste sue uscite notturne!”
Ne
silenzio greve che fa seguito alle sue parole, d’impulso Friedrich
dice: “Signore, la colpa è mia. Sono stato io a chiedere al
tenente von Kleist di portarmi in paese.”
“Stia
zitto, Lützow,” replica l’altro duramente, “Quando vorrò la
sua versione dei fatti gliela chiederò.”
Poi,
rivolgendosi di nuovo a von Kleist, prosegue: “Lei è un
irresponsabile, un incosciente! Poteva cadere vittima dei partigiani,
poteva essere preso prigioniero! Senza contare che ha violato i miei
ordini! Cos’ha da dire a sua discolpa?”
“Niente,
signore.” Non c’è niente da dire, obiettivamente. Sapeva che non
avrebbe dovuto farlo, ma l’ha fatto ugualmente. Voleva solo far
divertire un po’ Friedrich. Sul suo volto liscio compare un
impercettibile sorriso.
“Non
c’è niente di cui essere soddisfatti,” lo riprende Hirschmann
notando il cambio d’espressione. Si volta poi verso l’altro e
dice: “Lützow, sono costretto a constatare che lei non ha esitato
ad assecondare la deprecabile insubordinazione di von Kleist.”
“Sono
stato io a chiedere a von Kleist di accompagnarmi in paese, signore.
Lui non voleva,” ripete Lützow impassibile.
“Ma
non è vero!” interviene con slancio Siegfried, a dispetto di ogni
regolamento, “Sono stato io a convincere il tenente Lützow a
venire con me. Gli ho fatto credere che fosse una cosa consentita!”
“Basta!”
ruggisce il maggiore.
I due
si zittiscono di colpo.
“Consegnati
entrambi, sospesa la libera uscita fino a nuovo ordine.”
“È
andata bene, temevo che ci avrebbe proibito di volare,” dice
Siegfried mentre si dirigono al loro alloggio. L’altro rimane in
silenzio.
“Perché
ti volevi prendere la colpa, Friedrich?” chiede allora von Kleist.
Lützow
si volta verso di lui. Già, perché? La domanda per il momento non
ha risposta. Non ama le bravate e la spavalderia fine a se stessa,
mai nella sua vita avrebbe pensato di addossarsi la responsabilità
di un atto di insubordinazione commesso da qualcun altro, soprattutto
se inutile e sciocco come andare al bistrot per il solo gusto di
farlo, eppure quando ha visto il compagno minacciato non ha potuto
evitare di intervenire in sua difesa. “Forse ho preso molto sul
serio il mio ruolo di gregario,” risponde quando il silenzio
diviene troppo pesante. Una battuta per dissipare la tensione, ben
lontana però dal descrivere il reale stato delle cose. Quello del
gregario è solo un ruolo, e come tale è asettico e impersonale.
Nulla a che vedere con l’empito selvaggio che si è letteralmente
impadronito di lui quando ha visto il maggiore aggredire Siegfried.
Una
volta in camera, von Kleist fissa il collega con occhi brillanti.
“Però ne è valsa la pena, vero?” gli dice sorridendo.
Per il
tenente Lützow, serio, riflessivo, decisamente portato a considerare
la guerra come una sacra missione, la risposta dovrebbe essere
inequivocabilmente negativa, tuttavia non ha cuore di raffreddare
l'entusiasmo del collega, che invece sta ancora assaporando
l'ebbrezza di una sfida che nonostante tutto considera vinta.
“Ci
siamo divertiti,” risponde pacatamente. Comincia a spogliarsi per
andare a letto. È molto tardi e il sonno è vitale per un pilota da
caccia.
“Non
vorrai dormire,” protesta Siegfried incredulo, “abbiamo ancora
milioni di cose da dirci.”
Friedrich
gli rivolge un sorriso, ma rimane in un silenzio pensoso. Avverte la
sensazione di essere su una soglia, indeciso se varcarla o no. Cosa
significherà concedere a Siegfried la confidenza che sta chiedendo?
A cosa porterà? Lo fissa di sottecchi: l’unica luce della stanza è
una candela e il giovane pilota è di nuovo una statua
crisoelefantina, dagli occhi accesi di un fuoco che senza fatica
potrebbe bruciare entrambi. Ha sempre sentito dire che le persone
sono come la luna, hanno un lato oscuro che non mostrano mai a
nessuno, eppure Siegfried gli pare la negazione vivente di quella
massima. È come un sole: non c'è nulla di umbratile in lui, nulla
di ambiguo. Chiede ciò che desidera con la serenità di chi non ha
nulla da nascondere. Forse è per quello che in sua presenza avverte
così forte il rischio di perdere il controllo.
“Fammi
dormire, Siegfried,” lo implora in un estremo tentativo di difesa,
“è dall’alba che sono in piedi.”
Von
Kleist aggrotta per un attimo le sopracciglia, poi annuisce e
l’espressione spavalda si spegne in una via di mezzo tra delusione
e imbarazzo. “Certo, scusami,” gli dice, quindi senza aggiungere
altro gli volta le spalle e comincia a spogliarsi.
Rannicchiato
sotto le coperte, le spalle rivolte al compagno, Siegfried fissa la
tenda che oscura la finestra, cercando di immaginare il cielo al di
là della cortina di stoffa. Sa che è coperto, se si concentra
riesce anche a percepire lo scrosciare fioco della pioggia.
Gonfia
il petto in un sospiro, ma poi lascia uscire il fiato più adagio che
può per non farsi sentire.
In
cielo è tutto facile, sa in ogni momento cosa fare. Non ha bisogno
di pensare, non succede mai che una sua azione abbia un risultato
diverso da quello atteso.
A terra
le cose non sono così facili.
Ripensa
a Friedrich. Non è molto abituato a dare un nome ai propri
sentimenti, ma gli è chiaro che quelli che prova per lui sono tutti
positivi.
Avverte
un'istintiva attrazione nei suoi confronti, un'attrazione strana, che
fino a quel momento non aveva mai provato per nessun altro. Nemmeno a
quella sa dare un nome, ma sa che è talmente intensa che quando è
in sua presenza gli risulta quasi impossibile controllarsi.
Si
rannicchia più strettamente, come per impedirsi di compiere
qualsiasi movimento verso di lui, e chiude gli occhi tentando di
abbandonarsi al sonno.
L’alba
è una gloria barocca di nubi, indaco e porpora e oro contro un cielo
di cupo zaffiro. Gli aerei, dodici caccia dal muso aguzzo, sono già
allineati e pronti.
Il
maggiore Hirschmann spiega la missione: “È in arrivo da nord-ovest
uno stormo di Möbelwagen,,
con parecchi Indiani di
scorta. Intercettatene più che potete e tornate al Gartenzaun
per il rifornimento tutte le volte che ne avete bisogno. Il primo che
si fa coinvolgere in un duello coi serbatoi mezzi vuoti o le armi
scariche lo prendo a calci nel sedere personalmente, se sopravvive
agli americani.” Detto questo si volta verso Lützow. “Stia
dietro a von Kleist e non faccia di testa sua,” gli ordina.
“Stia
tranquillo signore,” risponde il tenente lanciando uno sguardo al
collega. Questi sorride socchiudendo gli occhi come un gatto che
riceva una carezza. Ci manca solo che si
metta a fare le fusa,
pensa Hirschmann con una strana sensazione di disagio.
Dopo
essere stati congedati dal maggiore, i due si dirigono ai rispettivi
aerei, due Messerschmitt 109 F che portano gli identificativi di
Rosso Tre e Rosso Quattro. “Andiamo, Friedrich!” lo incita
Siegfried, che non vede l’ora di involarsi. Il suo sguardo
brillante è fisso sul cielo. Sta valutando le condizioni
meteorologiche, vento, visibilità, nubi, temperatura. Aria calda al
carburatore a basso regime? Sì, altrimenti c’è rischio di fare
ghiaccio. E sarà possibile mantenersi a 2000 metri in mezzo a quei
banchi di nubi stratificate?
Friedrich
effettua le stesse valutazioni. Nell'imminenza di un combattimento il
cielo perde la sua magia per trasformarsi in una serie di variabili
fisiche il cui esatto rilevamento è determinante per la
sopravvivenza.
Poco
dopo tutto lo stormo è in volo diretto a nord-ovest. Lützow è già
al suo posto, dietro e più in alto rispetto a von Kleist. Dalla
posizione che ha assunto e dalla disinvoltura con cui la mantiene si
vede che conosce bene il mestiere.
Tutta
la caccia della Luftwaffe si basa del resto sul sodalizio
capopattuglia-gregario. Il primo attacca, il secondo gli copre le
spalle, in un’efficiente e letale suddivisione dei compiti.
Improvvisamente
nella frequenza radio si ode un grido: “Pauke,
Pauke!”
Qualcuno
delle Staffel più avanzate ha avvistato il nemico e ha dato il
segnale d’attacco.
Friedrich
controlla il cielo e anche lui li avvista quasi subito: grossi
Viermot verde oliva,
sicuramente B-17. Tutt’intorno guizzano nervose le ali d’argento
dei caccia di scorta.
La voce
calma del maggiore avverte: “Möbelwagen
a ore 11, Hanni 2000 o
2500!”
Ed ecco
che il falco parte in caccia. Motore, picchia leggermente per
prendere velocità, compie una larga virata e si porta in coda al più
avanzato dei nemici. La manovra è disarmante nella sua semplicità,
due raffiche ed è finita. Il Mustang, uno squalo lucente, si
rovescia e precipita verso il suolo.
Siegfried
si sgancia, si mette sulla traiettoria dei Viermot.
L’unico modo per attaccare le Fortezze Volanti è di fronte, da
ogni altro lato sono armate troppo pesantemente. “Stammi dietro,
Lützow!” grida.
“Eccomi,
von Kleist!”
I
bombardieri si avvicinano a velocità vertiginosa, quasi 500
chilometri all’ora, che naturalmente vanno sommati ai quasi 700 dei
caccia. Il che significa che Siegfried ha pochi istanti per mirare,
sparare una raffica e cabrare evitando l’onda d’urto e i detriti.
Friedrich, dal canto suo, deve avere riflessi fulminei per cogliere
l’attimo della cabrata, o si schianteranno l’uno contro l’altro.
Von
Kleist punta un B-17 e dà tutto motore. Gli scarica addosso le
mitragliatrici. Niente di personale,
è la guerra,
pensa
vedendo l’equipaggio sobbalzare e cadere sotto i suoi colpi, del
resto voi state andando a scaricare tonnellate di bombe sulla mia
Patria.
Una
frazione di secondo: colpisce, si sgancia, cabra. Lützow è alle sue
spalle come se stessero volando livellati e in linea retta.
Siegfried
cerca un’altra preda, sopraggiunge un caccia nemico. Friedrich lo
avvista, guizza rapido a intercettarlo proteggendo il suo
capopattuglia dalle micidiali raffiche. Questi intanto è già sulla
dirittura di un altro bombardiere. Spara, si sgancia, cabra
schizzando nell’azzurro inseguito da nugoli di traccianti. Sembra
semplicissimo, come il salto mortale di un trapezista. Ci sono dietro
lo stesso allenamento e lo stesso rischio.
Il
bombardiere esplode.
Il
Mustang colpito da Lützow plana frattanto malamente verso la pianura
francese emettendo fumo nero.
“Ben
fatto, Friedrich!” esclama Siegfried, leggermente ansimante per la
brusca manovra, “Questo abbattimento è tuo!”
Non
sente neanche la risposta del compagno, è di nuovo all’attacco di
un Viermot.
È
arrivato nel frattempo un altro stormo a dare man forte a quello di
Hirschmann e il cielo sembra letteralmente ribollire di aerei. Gli
unici che si staccano da quella mischia furiosa sono i caduti,
americani e tedeschi, che precipitano verso terra.
La
battaglia finisce con l’ultimo bombardiere. I caccia nemici rimasti
invertono la rotta per tornare alle loro basi inseguiti dai
Messerschmitt.
L’aria
è resa opaca dal fumo dei relitti che stanno bruciando al suolo.
Ecco delle bombe che non uccideranno civili inermi.
Nessuno
sorride, però. Non è più il tempo. Finita l’epoca dei duelli
onorevoli, ora è macello e basta. E l’atroce consapevolezza di
essere come una roccia nel mare, salda ma impotente ad arrestare la
rovina.
Se von
Kleist pensa questo, di sicuro non lo dà a vedere. Balza fuori dal
suo aereo con la consueta energia, si sfila il casco e scuote la
testa come un puledro nervoso. Per prima cosa cerca con gli occhi
Friedrich, e trovatolo s’illumina in volto. “Sei un magnifico
Rottenflieger!” esclama
entusiasta, “Stupendo, il migliore che abbia mai avuto! Incollato
al mio aereo come un francobollo!”
“Ho
cercato di fare del mio meglio,” risponde Lützow pacatamente, “ma
non è stato facile, tu voli come se in un Me 109 ci fossi nato.”
L’altro
sorride, gli si avvicina. “Oh, ero sicuro che saremmo stati
perfetti insieme. Siamo talmente in sintonia io e te! Ti potevo quasi
sentire, sai, lì dietro mentre mi proteggevi le spalle.”
Si
scambiano una lunga occhiata silenziosa, che si interrompe solo
quando il meccanico fa rispettosamente sapere al tenente von Kleist
che la semiala destra è stata trapassata in più punti dai detriti
di un’esplosione.
“Già,
mi pareva di aver sentito qualcosa di strano mentre mi allontanavo
dall’ultimo bombardiere,” commenta Siegfried noncurante. Va al
suo aereo, osserva gli squarci con espressione vagamente divertita,
poi si informa: “Può volare?”
“Lo
sistemeremo per domani, signor tenente.”
Il
resto della giornata trascorre in voli di guerra. Con un altro aereo,
Siegfried decolla più volte insieme a Friedrich per missioni di
Caccia
Libera
alla ricerca
dei P-51 americani.
Rientrano
dall'ultimo volo in corsa con le effemeridi, così esausti che quasi
barcollano mentre si dirigono verso la palazzina che funge da
alloggio per i piloti.
“Di
solito non rimango su così tanto,” confida von Kleist al collega,
“gli americani dopo una certa ora se ne vanno e diventa difficile
trovare un avversario, ma oggi non sarei mai sceso.”
“Perché?”
gli chiede Lützow.
L'altro
si ferma, lo fissa negli occhi. È come se in un certo senso la
domanda lo stupisse. “Perché tu eri con me,” gli risponde.
Sparito lo sguardo spavaldo e vagamente canzonatorio, sul suo volto
pallido di stanchezza si legge solo una commovente espressione di
affetto. “Non ho mai volato così con nessuno,” gli dice poi,
quindi riprende a camminare, distaccandolo di qualche passo come se
quella confessione l'avesse imbarazzato.
“Dicevi
sul serio prima?”
“Cosa?”
“Che
non hai mai volato così con nessuno.”
“È
la verità. Tu ed io sembriamo nati per volare insieme. Oggi avevo
quasi l'impressione che tu mi leggessi nel pensiero.”
Sono
nella loro stanza, l'unica luce è il fioco bagliore delle stelle,
appena sufficiente a disegnare i contorni delle cose. Sdraiati nei
rispettivi letti, faticano a prendere sonno nonostante la stanchezza.
“Neppure
io ho mai volato così con nessuno,” dice Friedrich dopo un
silenzio.
“Sul
serio?”
“Certo.
Tu sai davvero tenere in mano un Messerschmitt 109. Vorrei pilotare
come te.”
D'impulso
ognuno dei due tende la mano verso l'altro. Le dita s'incontrano nel
buio con sicurezza, s'intrecciano salde.
“Io e
te dobbiamo stare sempre insieme, Friedrich.”
In
risposta, Lützow si limita a stringere più forte la presa.
I
giorni che seguono sono di fuoco e acciaio, di sangue e morte.
Arrivano
i bombardieri da ovest, in stormi che oscurano il cielo. I
combattimenti sono furiosi, i caccia della Luftwaffe mietono vittime,
ma abbattere i nemici serve solo a farne arrivare altri, mentre
diventa sempre più difficile rimpiazzare i tedeschi che cadono. Ogni
battaglia porta con sé l’angosciante consapevolezza che nessuno
sforzo, nessun sacrificio sarà più sufficiente, le difese saranno
infine travolte e la spaventosa marea dilagherà inghiottendo ogni
cosa.
Von
Kleist e Lützow sono in volo dall’alba al tramonto, muovendosi in
perfetta e letale sincronia nei cieli sconvolti dai continui
combattimenti. Evocano l’immagine di cavalieri teutonici che
fronteggiano orde di infedeli.
Le loro
croci nere insegnano il rispetto alle stelle bianche.
Le
sagome scure dei Messerschmitt 109 si stagliano contro un cielo che
ha tutti i toni del rosso. Un vermiglio aranciato laddove il sole è
scomparso dietro l’orizzonte, che più in alto digrada lentamente
verso lo scarlatto e poi il cinabro. La volta celeste è già nera,
punteggiata qua e là di fioche stelle.
Atterrato
da poco, Siegfried è appoggiato all’ala del suo aereo come se non
si risolvesse ad abbandonarlo. Tutt’intorno i meccanici lo fissano
in rispettoso silenzio, pronti a rimorchiare il caccia nell’hangar
non appena il signor tenente si sposterà.
Friedrich
nota la scena e si avvicina.
“A
cosa pensi, Siegfried?”
L’altro
si volta verso di lui, gli sorride. “Guardavo il cielo.”
“Non
l’hai già visto abbastanza per oggi?”
“Mai
abbastanza.”
Il
collega lo prende delicatamente per una spalla. “Vieni, andiamo
dentro. Gli uomini neri devono lavorare.”
Siegfried
si lascia condurre via con insolita docilità. “Grazie, Friedrich”
dice appena sono in camera.
“E di
che?”
“Sei
sempre così premuroso con me.”
“È
normale, sono il tuo gregario.”
“Ora
non siamo in volo,” replica Siegfried facendo un passo verso di
lui.
L’atmosfera
si fa elettrica, Friedrich sente il cuore saltargli un battito. Ecco
di nuovo la soglia, e questa volta sta per varcarla. Sa che lo farà,
e che non ci sarà ritorno.
L’altro
gli si avvicina ancora. Ansima leggermente, come durante le manovre
acrobatiche più impegnative, e la poca luce rende i suoi occhi
simili a pozzi profondi circondati da un anello di ghiaccio.
Ora
sono uno di fronte all’altro. Si fissano in silenzio. Infine von
Kleist mormora: “Sai qual è l’unica occasione in cui Siegfried –
quello della mitologia, intendo – ha paura?”
“No,
quale?”
“Quando
si innamora.”
Lützow
deglutisce a vuoto. Apre la bocca come per parlare, ma non ne esce
alcun suono. La consapevolezza è come un lampo doloroso: lui prova
gli stessi sentimenti, solo che Siegfried è più temerario e ha
parlato per primo.
Solleva
una mano adagio, con cautela, muovendola come se fosse pesantissima.
Va a sfiorare con una delicata carezza la guancia liscia del
compagno, che a quel tocco socchiude gli occhi accennando a un
sorriso.
Un
attimo dopo si ode all’esterno un ululato stridente. “A terra!”
urla Friedrich. Fa appena in tempo ad afferrare von Kleist e a
gettarsi al suolo, poi la finestra esplode in un uragano di fuoco e
schegge di vetro.
“È
un’incursione aerea!” esclama subito dopo, “Dobbiamo andare ai
rifugi!”
“Dannazione,
proprio adesso!” protesta Siegfried, ma in un attimo è di nuovo in
piedi, e assicurandosi che Friedrich lo segua si butta nel corridoio
già pieno di gente.
All’esterno
lo spettacolo è spaventoso.
Le
bombe scoppiano tutt’intorno, sollevando fontane di terra e
detriti, i bengala rischiarano il cielo con la loro luce livida,
conferendo a ogni cosa oscillanti ombre violacee. Hirschmann è in
piedi in mezzo al piazzale, Klein corre sostenendo un ferito, un
aereo scompare in un’esplosione accecante, qualcuno sta gridando da
qualche parte. Poi l’antiaerea del campo entra in azione e al boato
cupo delle bombe si sovrappone il latrato secco dei cannoncini
Flakvierling 38.
Chiusi
nel rifugio assieme agli altri, rabbiosamente impotenti, i due
possono solo aspettare. Si scambiano qualche occhiata ogni tanto,
soprattutto in occasione degli scoppi più forti. “Purché non
facciano saltare in aria i nostri aerei…” mormora Siegfried,
rivolgendo uno sguardo come d’intesa a Friedrich.
Il
gergo della Luftwaffe
Möbelwagen:
letteralmente, il veicolo adibito al trasporto dei mobili durante i
traslochi. Indica un bombardiere pesante.
Indiani
(Indianer): i caccia di scorta ai bombardieri.
Gartenzaun:
il recinto. Indica la base che ospita lo stormo.
Pauke!
Pauke!: letteralmente “Picchia, picchia!” (nel senso di una mazza
che picchia su un tamburo, dal verbo pauken). Era il richiamo di chi
avvistava per primo i nemici in lontananza.
Viermot:
diminutivo di Viermotorig, ovvero quadrimotore. Sono i bombardieri
pesanti.
Hanni:
sta per altitudine.
Rottenflieger:
termine ufficiale per definire il gregario. La caccia tedesca si
basava sul binomio di Rottenjäger (capopattuglia) e Rottenflieger
(gregario). Il primo attaccava i nemici e il secondo gli copriva le
spalle.
Caccia
Libera (Freie Jagd): missioni in cui i caccia decollavano alla
ricerca di caccia nemici per impegnarli in duello e possibilmente
abbatterli.
Uomo
nero (Schwarzer Mann): nomignolo con cui si definivano i meccanici,
che portavano una tuta nera per far sì che le macchie di grasso e
olio motore si vedessero meno.
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Capitolo 2 *** Parte seconda ***
Gente,
vi perseguito con i miei mappazzoni. Spero che non vi siate
spaventati troppo per il disclaimer, era solo per tenere lontani
talebani e zeloti. Come vedete, non è che ci siano contenuti così
sulfurei…
In
ogni caso, grazie a tutti quelli che sono passati a dare un’occhiata
e un ringraziamento particolare a chi mi ha commentato^^
Seconda
parte
L’alba
rivela le carcasse fumanti di due B-26 poco lontano dal campo, segno
che qualche americano ha sottovalutato la contraerea della base.
Una
squadra li raggiunge alla ricerca di eventuali feriti bisognosi di
cure, un’altra chiude i buchi che le bombe hanno scavato nella
pista, quindi l’attività dello stormo riprende come se
l’incursione non avesse mai avuto luogo.
La
missione consiste nello scortare gli Stuka
che attaccano i mezzi corazzati in prima linea, un compito
sicuramente poco gradevole per gente abituata agli scontri nel cielo.
Più ci si avvicina al suolo, infatti, più la guerra mostra il suo
lato spaventoso e crudele.
Lo
Stormo decolla.
Gli
Junkers 87 procedono in formazione serrata diretti verso il loro
obiettivo, ovvero un gruppo di Sherman che sta impegnando in
combattimento un reparto delle Waffen-SS.
Ai
comandi dei loro caccia, von Kleist e Lützow controllano l’orizzonte
con attenzione, gli Stuka rappresentano una preda troppo ghiotta per
i Mustang.
Eccoli
che sbucano infatti da dietro un banco di nubi, stavolta è il circo
al gran completo, saranno almeno una ventina. Sembra che stiano
letteralmente fiutando il cielo alla ricerca di prede. Non appena si
accorgono dei tedeschi si animano guizzando in tutte le direzioni.
Subito
Siegfried si porta in posizione d’attacco seguito da Friedrich:
individua il più vicino dei nemici, picchia per prendere velocità,
cabra, spara una prima raffica. L'altro scarta, i traccianti lo
sfiorano senza colpirlo. Siegfried spara di nuovo, l'americano si
rigira brusco, si sposta per prenderlo di coda. A questo punto
interviene Friedrich cercando di portarsi a sua volta in coda al
caccia che sta minacciando il compagno, ma altri due Mustang stanno
arrivando a tutta manetta. Il più avanzato spara una raffica,
Friedrich è obbligato a scartare mentre pezzi di rivestimento alare
baluginano al sole prima di cadere verso terra. Vira, torna verso la
mischia, ma un altro americano gli si butta addosso. Un altro ancora,
evidentemente consapevole del ruolo determinante del gregario, lo
tiene ulteriormente impegnato.
Siegfried
abbatte il suo avversario, ma non fa in tempo a sospirare di
sollievo che subito un altro prende il suo posto. Intorno agli Stuka
la battaglia è furiosa, i caccia si inseguono con evoluzioni che
portano macchine e uomini ai limiti delle loro possibilità.
Attraversata da migliaia di traccianti, l’aria stessa sembra farsi
rovente.
Per
la prima volta da quando fa voli di guerra, Siegfried si trova a
combattere per la propria vita. Le pallottole gli mordono più volte
il rivestimento delle ali strappandone brandelli, attraversano la
fusoliera. Su un angolo del vetro blindato della capottina si allarga
una ragnatela di crepe.
“Friedrich!”
chiama in frequenza. Disperato lo cerca con lo sguardo e lo vede alle
prese con due Mustang.
Friedrich
sente il richiamo, prova a sganciarsi, ma ai due americani se ne
aggiunge un terzo. Sottoposte a forze immani da manovre al limite
delle loro possibilità, le ali del suo caccia gemono a ogni virata.
Le lancette degli indicatori sono stabilmente all'estremo destro dei
quadranti, l'accelerazione lo inchioda al seggiolino minacciando di
farlo svenire da un momento all'altro.
Spara
due raffiche, uno degli antagonisti si rovescia e plana verso terra
emettendo una scia di fumo nero. Non ha tempo di godersi la vittoria,
immediatamente manovra per mettersi in coda del secondo, scartando
per non farsi prendere dai traccianti dell'altro, che nel frattempo
lo sta raggiungendo con un'ampia virata. Porta la barra tutta in
avanti, l'aereo butta il muso in basso, i proiettili del Mustang che
ha in coda vanno a crivellare quello che stava inseguendo. Richiama,
cabra, dà tutta manetta e il motore ulula fuori giri.
Ha
davanti agli occhi Siegfried, attorniato da almeno tre caccia nemici.
Lo vede dare fondo a ogni potenzialità del suo aereo per cercare di
sfuggire alle raffiche, ma è solo questione di tempo e poi arriverà
la manovra imperfetta, quella che lo porterà nel collimatore di uno
dei tre P-51 con cui sta combattendo.
Spinge
in avanti la manetta già al massimo, individua fra i nemici quello
che maggiormente minaccia il compagno e gli si lancia contro, ma nel
momento in cui sta per azionare il comando delle mitragliatrici, un
altro caccia gli piomba addosso, costringendolo a scartare
bruscamente.
Mentre
guizza via coi traccianti che gli sfrecciano tutt'intorno, realizza
con angoscia di aver mancato il decimo di secondo in cui avrebbe
potuto colpire il P-51 che sta incalzando von Kleist più da vicino.
Ha
perso l'attimo.
Una
raffica ben assestata si pianta nel muso del Messerschmitt di
Siegfried, il motore immediatamente prende fuoco e comincia a
emettere un fumo nero e denso, l'elica si inchioda.
L’aereo
sembra torcersi nell’aria come un animale ferito, poi scivola d’ala
ed entra in vite.
“Siegfried!”
urla Friedrich nella frequenza radio.
Von
Kleist si riscuote in un attimo, si rende conto della situazione. Si
attacca ai comandi con tutte le sue forze, l’aereo si stabilizza,
ma sta ancora perdendo quota col muso in fiamme e una semiala
gravemente danneggiata. La terra si avvicina con agghiacciante
velocità. Terra nemica, peraltro, perché il combattimento ha
trascinato i tedeschi ben al di là della linea del fronte.
Il
giovane si guarda intorno cercando uno spiazzo dove atterrare, la
quota è troppo bassa per tentare un salto col paracadute. Sa di non
avere molto tempo prima che il radiatore gli scoppi in faccia
inondandolo di olio bollente.
Finalmente
trova un campo arato. Non è l’ideale ma non ha altra scelta. Tira
la cloche cercando di assumere un assetto cabrato e subito dopo con
un rumore assordante il Me 109 tocca il suolo. Striscia sulla pancia
sfasciandosi completamente, le pale dell’elica si torcono come se
fossero di cera, le ali si squarciano.
Infine
la carcassa si ferma in un silenzio irreale.
Siegfried
apre gli occhi intontito, dolorante ma vivo.
La
cosa più importante è uscire prima che la benzina residua prenda
fuoco. Febbrilmente si toglie le cinture di sicurezza, si alza
nonostante gli faccia male dappertutto, spalanca il tettuccio, quindi
si lascia scivolare sull’ala e barcollando si allontana.
“Siegfried!”
esclama di nuovo Friedrich cercandolo ansiosamente con lo sguardo.
Impegnato in combattimento non ha potuto seguire la planata del
compagno, ma ora vede il relitto fumante a terra, e la cosa lo getta
nello sgomento. Ti prego, fa che sia
vivo.
E
finalmente lo vede, una figuretta malferma, dall’andatura incerta.
È ferito, pensa con orrore.
Sa che è in territorio nemico.
Finirà ucciso o prigioniero. Soffrirà.
Analizza
il terreno con occhio esperto. Pessimo, terra arata, una fitta
macchia di alberi, eppure deve tentare. La sola idea di abbandonare
Siegfried al suo destino gli è intollerabile.
Riduce
la velocità e tira fuori una tacca di flap.
“Lützow,
che sta facendo?” gli chiede Hirschmann via radio.
Friedrich
non risponde, quello che sta facendo è abbastanza chiaro: vuole
atterrare, raccogliere Siegfried e ripartire prima che arrivino i
soldati americani che dall’alto ha visto muoversi in direzione del
relitto.
Il
maggiore sta ancora parlando, ma Lützow continua caparbiamente la
manovra di atterraggio. Individua una striscia di terra dall'aria
apparentemente solida, tira fuori il carrello e riduce ancora la
velocità. Ha già sganciato la capottina, pronto a far salire von
Kleist a bordo il più rapidamente possibile per poi girarsi, ridare
motore e ripartire.
Tocca
terra con un sobbalzo, apre il tettuccio e si sporge da una parte
alla ricerca del compagno, ma in quel momento urta qualcosa al suolo.
Una gamba del carrello cede di schianto, il Messerschmitt crolla di
lato sollevando zolle di terra nell'impatto dell'elica col terreno.
Il
motore si ferma, l'aereo è ormai inservibile. Friedrich ode di nuovo
la voce preoccupata di Hirschmann alla radio: “Tenente Lützow, è
ferito?”
“No,
signore.”
“Von
Kleist sta bene?”
“Credo
di sì, signore. Sta venendo verso di me.”
Le
istruzioni del maggiore seguono rapide e precise: “Siete in
territorio nemico, ci sono dei soldati americani che vengono verso di
voi, manderò Henning e Möller a fare un paio di bassi passaggi per
coprirvi la fuga, ma non possiamo atterrare per recuperarvi, ha visto
anche lei che il terreno non lo consente. Cercate di raggiungere le
nostre unità a sud-est, sono a pochi chilometri da qui, le avvertirò
della vostra presenza appena sarò al campo.”
“Sì,
signore.”
“In
bocca al lupo, ragazzi.”
“Grazie,
signore.”
Friedrich
vede i due Me 109 virare in formazione per prepararsi al basso
passaggio. Inonderanno di piombo la boscaglia. “Siegfried!”
chiama, “Siegfried, presto, mettiti al coperto!”
In
quel momento il primo degli americani esce dalla vegetazione, avvista
il tenente von Kleist che sta correndo, punta il fucile e spara.
Sotto
gli occhi inorriditi di Friedrich, Siegfried sussulta sotto l'impatto
della pallottola e crolla a terra.
Un
istante dopo, con un rombo assordante arrivano i due caccia a bassa
quota, sparando tutto quello che hanno e facendo a pezzi la pattuglia
nemica.
Contemporaneamente
lo stormo di Junkers 87 così efficacemente protetto giunge
sull'obiettivo e comincia le picchiate contro i mezzi corazzati
nemici, scatenando un inferno di fuoco. Il fumo delle esplosioni
oscura il cielo.
In
una caligine venefica, atterrito, frastornato, Friedrich corre verso
Siegfried, che giace ancora immobile dove è caduto. Lo afferra per i
vestiti e lo trascina via.
Non
ha tempo di pensare, si impone di non farlo. Cerca un riparo che
riesca in qualche modo a proteggerli da quella spaventosa apocalisse.
Al limitare della vegetazione individua un avvallamento del terreno
che somiglia in qualche modo a una trincea ed è lì che
faticosamente porta il compagno. “Andrà tutto bene, Siegfried,”
ansima mentre l'angoscia gli serra il petto, “non preoccuparti, non
è niente.”
Si
passa la mano sul viso: sangue, lacrime e sporcizia.
“Andrà
tutto bene,” ripete disperato, cercando di suonare convincente.
Mette
febbrilmente a nudo la sua ferita: la spalla è stata trapassata, si
vedono bene i fori d'entrata e di uscita della pallottola. Li copre
con i pacchetti di medicazione, augurandosi che risponda a verità
quello che ha sempre sentito dire, ovvero che le compresse di garza
sono impregnate di una sostanza emostatica.
Il
bombardamento frattanto continua. Più di una volta Friedrich deve
protendersi sul compagno privo di sensi per proteggerlo dalla terra e
dai detriti scagliati in aria dalle esplosioni. A un certo punto
crolla addirittura un abete secolare, con un lungo gemito cigolante e
un tonfo spaventoso. Le sue fronde coprono il piccolo avvallamento,
offrendo ai due un insperato rifugio.
Lützow
continua a parlare. “Andrà tutto bene, ne usciremo,” ripete
ossessivamente, con la mano inerte di Siegfried stretta fra le sue e
le lacrime che gli scorrono libere lungo le guance, “ce la farai, è
solo una ferita leggera.”
Passano
le ore, gli Stuka se ne sono andati, sulla zona aleggia un silenzio
spettrale. Non una voce, non un verso d'animale. Sembra che la guerra
– quella guerra orribile che strazia e fa a brandelli, così
diversa dalle onorevoli tenzoni su nel cielo – abbia distrutto ogni
forma di vita.
Friedrich
striscia cautamente fuori dal rifugio, si guarda intorno. Di quello
che una volta era un boschetto rigoglioso non rimangono che pochi
alberi, tutto il resto è stato abbattuto dalle bombe o dalle manovre
dei blindati. I loro due aerei sono masse di lamiera accartocciata,
più lontano giace anche uno Junkers 87 senza un'ala e ancora oltre,
a circa un chilometro verso est, ci sono dei carri armati distrutti,
dai quali si alzano lente colonne di fumo.
Torna
accanto al compagno, lo osserva critico. Gli accarezza delicatamente
il viso.
Siegfried
geme e apre gli occhi. Si guarda intorno smarrito, poi volge lo
sguardo verso di lui in una muta richiesta di spiegazioni.
“Dobbiamo
andarcene da qui,” gli dice Friedrich per tutta risposta, “ce la
fai a camminare?”
“Certo
che ce la faccio.” Il volto pallido di Siegfried assume la consueta
espressione spavalda, sebbene gli occhi siano lucidi di dolore.
“Dammi sono una mano a rimettermi in piedi.”
Escono
faticosamente da sotto le frasche, Siegfried si raddrizza con una
smorfia. L’altro non dice nulla, qualsiasi considerazione sarebbe
superflua. I partigiani hanno l’abitudine di uccidere tutti i
piloti della Luftwaffe in cui si imbattono e ci sono pattuglie
americane che perlustrano costantemente la zona, quindi l’unica
cosa sensata da fare è cercare di raggiungere le truppe tedesche a
sud-est.
La
luce si è fatta livida, sta per arrivare il crepuscolo.
Friedrich
gli rivolge uno sguardo preoccupato e chiede: “Ti fa molto male?”
“Un
po'.”
L'altro
si sfila dal collo la sciarpa, la annoda fabbricando una benda per
aiutarlo a sostenere il braccio ferito. Successivamente si fa passare
l’altro intorno alle spalle e i due si incamminano adagio.
Avranno
fatto sì e no un chilometro quando Siegfried incespica, e cadrebbe a
terra se non ci fosse Friedrich a sostenerlo.
“Scusami,”
balbetta con voce incerta. Ha il volto madido di sudore e
l’impressione di camminare sull’ovatta. La voce di Friedrich
sembra arrivare da lontanissimo: “Tu devi riposare, ora trovo un
posto adatto.”
“No,
andiamo avanti.”
“Devi
riposare” insiste Lützow.
Von
Kleist non replica. È talmente esausto che non ne avrebbe la forza.
Si limita ad aspettare di essere adagiato da qualche parte per poter
finalmente dormire.
L’altro
si guarda intorno, poi dice: “C'è qualcosa, sembra il rudere di
una casa. Vado a vedere.” Lo aiuta a sedersi ai piedi di un albero.
Con
voce debole, Siegfried balbetta: “Sta' attento.”
“Sembra
disabitato,” risponde il compagno, cercando di suonare convincente.
“Do un'occhiata e torno subito da te.”
Von
Kleist rimane immobile, impedendosi di pensare a quello che
succederebbe se Friedrich non tornasse. Chiude gli occhi scivolando
quasi subito in un torpore pesante come piombo.
L’altro
torna dopo poco. Ha trovato un fienile abbandonato. Non più di
quattro muri e un tetto fatiscente, ma c’è dentro ancora un po’
di paglia pulita, che servirà a proteggerli dal freddo della notte.
Vi
giungono dando fondo alle ultime energie.
Siegfried
crolla senza un lamento sull’improvvisato giaciglio. “Solo
qualche ora,” riesce a balbettare, “poi ripartiamo.”
Friedrich
gli avvicina la borraccia alle labbra, gli fa bere un po’ d’acqua.
“Come ti senti?” gli chiede scostandogli un ciuffo ribelle dalla
fronte sudata.
“Ho
freddo.”
È
freddo in effetti, considera preoccupato Lützow, ma von Kleist è
debole perché ha perso molto sangue. Avrebbe bisogno di qualcosa di
caldo e sostanzioso da mangiare, di un buon letto e soprattutto di
cure adeguate.
Sono
proprio le cure a preoccuparlo maggiormente. Non ha il coraggio di
guardare la ferita, ha già usato tutti i pacchetti di medicazione
che possedeva e comunque non potrebbe fare molto di più con i mezzi
e le competenze che ha. Molto meglio lasciare tutto com’è e
aspettare di trovare un dottore.
Cautamente
si sdraia accanto al compagno, se lo tira contro. “Ci scalderemo a
vicenda,” gli dice piano.
“Friedrich.”
“Dimmi,
Siegfried.”
“Non
voglio morire in questo modo.”
“Smettila,
tu non morirai.”
“Intendo
dire che ho intenzione di morire combattendo, non rintanato qui
dentro come una specie di coniglio.”
“Appena
possibile ripartiremo, e comunque vorrei che tu evitassi certi
discorsi.”
“Perché?”
“È…
è disfattismo.”
Tra
i due cala il silenzio. Friedrich allunga la mano nel buio e
accarezza piano la guancia di Siegfried. La sola idea di perderlo lo
riempie di sgomento.
L’altro
sospira a quel tocco, e posa la propria mano su quella del compagno.
“Però abbiamo volato bene, vero?” sussurra.
“Certo.
E voleremo ancora.”
“Non
vedo l’ora di farlo. Tu ed io. Sempre insieme.”
“Sempre
insieme.”
Dopo
il breve scambio, Siegfried si addormenta esausto fra le braccia di
Friedrich.
Non
è ancora l’alba quando i due si rimettono in marcia, guidati solo
dall’ago fosforescente della bussola, dopo essersi divisi una
tavoletta di cioccolata alla caffeina che Friedrich aveva in tasca e
la poca acqua rimasta nella borraccia.
Siegfried
ha la febbre e non riesce più a muovere il braccio. Con ammirevole
stoicismo avanza però deciso, senza emettere un lamento.
“Se
riusciamo a cavarcela ti invito a casa mia,” annuncia, tentando di
assumere il tono di una normale conversazione.
“Ci
verrei molto volentieri.”
“Allora
lo faccio di sicuro,” replica von Kleist riuscendo persino a
sorridere, “in inverno normalmente stiamo vicino a Potsdam, ma la
mia famiglia ha una bella tenuta vicino a Mühlenberg, è lì che
andiamo d’estate. Sono certo che ti piacerebbe.”
“Davvero?”
“Sì,
abbiamo una biblioteca enorme. E poi abbiamo i cavalli, sai, potremmo
fare delle galoppate tutti i giorni. Ti piacciono i cavalli?”
“Sì,
molto.”
“Anche
a me. In scuderia ce n'è uno che sarebbe proprio adatto a te, sai?”
“Davvero?”
Siegfried
annuisce. “È il più veloce di tutti, ma fa solo quello che
vuole.”
“Allora
è come te.”
Von
Kleist sorride appena, alza lo sguardo su di lui e risponde: “Ma
sono sicuro che con te sarebbe docile come un agnellino.”
Lützow
scuote la testa. “Non credo proprio. Non sono così bravo a
cavalcare.”
“Sì
che lo sei. Sono sicuro che lo sei. E comunque scommetto che farebbe
qualsiasi cosa, se gliela chiedessi tu.” Tace per un po’, poi
riprende: “Ma se preferisci, possiamo anche starcene a poltrire e
basta, senza cavalcate o altro.”
Friedrich
fa una lieve risata. “Tu che stai fermo per più di dieci minuti?
Non ci credo.”
Attraversano
in questo modo campagne desolate, che spesso recano i segni di
furiosi combattimenti. I campi sono stati distrutti dai cingoli dei
blindati, ovunque ci sono crateri di esplosioni e le poche case
intatte hanno porte e finestre sbarrate.
Più
si avvicinano alla linea del fronte, più la marcia diventa faticosa
e pericolosa.
Hanno
smesso di parlare ad alta voce, le pattuglie nemiche potrebbero
essere ovunque. Procedono tenendosi a ridosso delle macchie di
vegetazione, sfruttando qualsiasi cosa possa offrire loro una
copertura.
Friedrich
è preoccupato. Siegfried è allo stremo, sta andando avanti per pura
forza d’inerzia, e appena si fermerà crollerà definitivamente.
Non parla neanche più, il che è un pessimo segno.
Nemmeno
le domande sul combattimento aereo ricevono in risposta più di uno
stentato monosillabo.
“Vuoi
riposarti?” gli chiede.
L’altro
scuote caparbiamente la testa.
“Coraggio,
tra un po’ ci siamo.”
Nessuna
risposta.
Sta
ancora valutando il da farsi quando si sentono delle voci in
lontananza. Frettolosamente spinge il compagno al coperto e si
nasconde a sua volta.
Le
voci si fanno più intense, si ode il tramestio di parecchi piedi in
movimento. Friedrich scruta fuori dall’improvvisato nascondiglio e
vede una pattuglia americana che si sta facendo strada in mezzo alla
vegetazione. Sono otto uomini che avanzano tranquillamente parlando e
ridendo forte, come se stessero facendo una specie di gita. Lützow
si appiattisce al suolo come la volpe all’arrivo dei segugi.
Prega
che non si muovano verso di loro. L’uniforme grigio-blu, infatti,
così elegante e adatta ai combattimenti nei cieli, è tragicamente
inadeguata quando è necessario nascondersi a terra in mezzo alla
natura.
Gli
americani sono alti, grossi e hanno equipaggiamenti che paiono appena
usciti dal magazzino. La stoffa delle uniformi è ancora un po'
rigida, il cuoio degli scarponi scricchiola lievemente quando si
muovono. Passeggiano lì intorno per un po’, uno urina contro un
albero, uno fuma addirittura una sigaretta e l’odore forte del
tabacco si diffonde ovunque, coprendo quello della terra bagnata e
degli aghi di abete. Conversano fra loro, Friedrich riesce anche a
comprendere qualche parola. Si volta verso Siegfried e gli fa cenno
di tacere, ma il compagno ha già capito la situazione ed è
rannicchiato immobile sotto un cespuglio.
Passa
un tempo che ai due pare infinito, la pattuglia non accenna a
spostarsi. Lützow fa scivolare la mano verso la fondina della
pistola. Che probabilità di riuscita avrebbe se saltasse su
all’improvviso e li abbattesse sfruttando l’effetto sorpresa?
Abbandona
subito l’idea. Farebbe fuori i primi due, forse, poi gli altri
ammazzerebbero lui e catturerebbero Siegfried.
Nonostante
l’angoscia mortale che gli serra il petto, si costringe a
conservare il sangue freddo e la lucidità, esattamente come è
abituato a fare durante le battaglie aeree.
Finalmente
gli americani sembrano intenzionati ad abbandonare la zona. Dopo
essersi scambiati qualche altra battuta raccolgono le loro cose,
imbracciano i fucili e si apprestano a partire.
Siegfried,
intorpidito dalla lunga immobilità, è pallido di dolore. Ha assunto
nella fretta di nascondersi una posizione in cui la spalla ferita gli
fa male e naturalmente non ha potuto modificarla fintantoché la
pattuglia nemica è rimasta nella zona. Appena si ristabilisce un
approssimativo silenzio, si sposta rotolando fuori dal suo rifugio.
Friedrich cerca di fermarlo, ma è troppo tardi. L'ultimo degli
americani sente il fruscio delle foglie e si volta indietro,
trovandosi in questo modo faccia a faccia con un pilota della
Luftwaffe ferito.
Friedrich
soffoca un'imprecazione maledicendo l'impulsività del compagno, ma
l'americano ha già puntato il fucile contro Siegfried, che non ha
altra scelta se non alzare la mano che è ancora in grado di muovere.
Nell'attimo
di immobilità che segue, Lützow valuta se non sia il caso di
sparare all'americano che sta minacciando Siegfried e poi darsi con
lui alla fuga, ma abbandona rapidamente l'idea. Quanto potrebbe
correre il suo compagno nelle condizioni in cui si trova? No, non c'è
altra scelta che abbassare le armi e arrendersi.
Alla
sua comparsa, von Kleist si volta bruscamente verso di lui, sbianca e
atteggia le labbra a un muto 'no'. Per la prima volta da quando lo
conosce, Friedrich coglie lo sgomento nel suo sguardo. Sta per dirgli
qualcosa quando l'americano, evidentemente impensierito da quei
movimenti, afferra il fucile per la canna e colpisce Siegfried col
calcio, facendolo cadere in ginocchio con un lamento.
Vedere
quello e lanciarsi in avanti per Friedrich è tutt'uno. Balza addosso
al soldato, lo rovescia a terra. Solleva la destra chiusa a pugno per
colpirlo, ma in quel momento arrivano gli altri. Qualcuno lo afferra,
lo strappa all'indietro, gli piovono addosso colpi. Si sente un
vociare rabbioso.
Friedrich
stringe i denti quando il calcio di un fucile gli si abbatte sul
costato, si rigira, si rialza a metà e cerca con lo sguardo il
compagno, pronto a difenderlo da altre percosse. Lo vede in piedi,
tenuto per il braccio sano e per la collottola da un paio di soldati.
Uno dei due ghermisce la sua croce di ferro di prima classe, gliela
strappa via e se la mette in tasca.
“Siegfried!”
urla Friedrich, ma un colpo sulla schiena lo fa crollare in avanti.
A
quel punto echeggia un ordine e i soldati si immobilizzano.
Ancora
ansante per la colluttazione, Lützow si rialza adagio e vede
avvicinarsi un graduato. Questi dice qualcosa in tono duro, uno dei
soldati risponde con l'atteggiamento di chi sta dando spiegazioni.
Indica alternativamente lui e von Kleist, ma parla così in fretta
che Friedrich non riesce a capire quasi nulla.
Poi
le cose sembrano calmarsi. Gli americani parlamentano un po' fra di
loro, qualcuno gli dice qualcosa in tono brusco, prima in inglese e
poi in un tedesco talmente appesantito dall'accento da risultare
quasi inintelligibile: “Non muoverti,” o qualcosa del genere. Di
nuovo, Friedrich non è ben sicuro di aver capito. Si lascia comunque
docilmente portare via la pistola e qualsiasi altro oggetto essi
ritengano pericoloso o interessante: l'importante è che non facciano
del male a Siegfried.
Cerca
di far capire che il suo compagno è ferito e ha bisogno di cure, ma
gli americani sembrano essersene resi conto, tant'è che gli offrono
acqua, un po' di whisky e anche qualcosa da mangiare.
Lützow
cerca di non farsi prendere dalla disperazione. Ora finirà
prigioniero, probabilmente non potrà più combattere. Lungi dal
comunicargli una sensazione di sollievo, la cosa lo getta in un cupo
sgomento. Non potrà più difendere la sua Patria dalle orde
subentranti di bombardieri nemici, dovrà rassegnarsi ad aspettare
quietamente la fine della guerra in qualche campo chissà dove. Se
vinceranno, sua sarà l'amarezza di non aver contribuito alla
vittoria. Ma se perdessero dovrà vivere per sempre con la vergogna
di non aver fatto tutto il possibile per evitare che ciò accadesse.
E
Siegfried? Una creatura del cielo, nata per combattere, che sembra
nutrirsi solo dei più puri ideali. Anche lui dovrà finire la guerra
in un'odiosa gabbia?
Quasi
rimpiange di non aver dato seguito all'idea di uscire con la pistola
in pugno e abbattere più americani possibile prima di venire ucciso.
Una
spinta dietro le spalle interrompe il corso dei suoi pensieri.
Qualcuno gli ordina di camminare e la piccola colonna si rimette in
marcia.
Vorrebbe
parlare a Siegfried, dirgli qualcosa per risollevarlo, ma gli
americani sono sospettosi e gli impediscono di comunicare con lui.
Lützow rinuncia. Non saprebbe spiegare in inglese quello che intende
dire, e se lo spiegasse in tedesco non capirebbero. E forse certe
cose non le capirebbero neanche in inglese.
Stanno
camminando da un po' quando a Friedrich sembra di cogliere dei
movimenti nel fitto degli alberi.
Si
guarda bene dal far trapelare qualsiasi cosa, ma cerca con gli occhi
Siegfried, pronto ad afferrarlo e portarlo al coperto se mai se ne
presentasse l'occasione.
Se
effettivamente c'è gente che li sta seguendo, ragiona, non possono
essere americani, altrimenti avrebbero già dato segno della loro
presenza. I partigiani francesi non starebbero mai così vicino alla
linea del fronte, troppo pericoloso per loro. Considerano assai più
sicuro sparare alla schiena rimanendo ben nascosti nelle retrovie.
Non
osa sperarlo, ma tutto lascia pensare che ci siano dei tedeschi sulle
loro tracce.
Si
volta di nuovo verso Siegfried, uno degli americani gli dice
qualcosa, ma un secondo dopo una raffica di mitra lacera il silenzio.
Un
soldato cade. Gli altri imbracciano le armi, si buttano al coperto
dove capita. Il graduato sbraita un ordine, che viene coperto dal
crepitare degli spari.
Approfittando
della confusione, Friedrich afferra il compagno per il braccio sano e
salta con lui in una macchia di vegetazione più folta. Qualcosa lo
colpisce al fianco provocandogli una fitta lancinante, ma stringe i
denti costringendosi ad ignorare il dolore.
“Come
stai, Siegfried?” chiede per prima cosa.
“Ora
bene, e tu?”
“Bene
anche io.”
Lützow
vede passare una mimetica tedesca, ode un tramestio concitato, altri
spari. Di nuovo c'è il tonfo di un corpo che cade, poi ordini che
finalmente riesce a comprendere. Lancia un'occhiata a Siegfried e il
suo sguardo, pur esausto e febbricitante, gli rimanda lo stesso
messaggio di speranza.
Rimpiangendo
di essere disarmati, i due restano appiattiti sotto un cespuglio in
attesa dello svolgersi degli eventi.
Quando
tutto è finito, Friedrich esce lentamente dall'improvvisato rifugio.
Si guarda intorno e si trova davanti una pattuglia di Waffen-SS. Le
loro mimetiche sono sdrucite, non portano decorazioni visibili, ma
danno l'idea di essere combattenti esperti.
Si
fa avanti un capitano alto, dalle spalle larghe, che lo fissa serio e
poi aggrotta le sopracciglia.
“Sono
il tenente Friedrich Lützow,” dice allora il pilota, “e con me
c'è il tenente Siegfried von Kleist.”
“Capitano
Karl Strasser,” si presenta l'altro a sua volta. “Siete per caso
i due dispersi dello stormo di Hirschmann?”
“Sì,
siamo noi. Prego, il mio collega è ferito, ha urgente bisogno di
cure.”
“Anche
lei è ferito, tenente.”
“Cosa?”
“Al
fianco.”
Friedrich
appoggia la mano dove un attimo prima aveva sentito la fitta
lancinante e la ritira coperta di sangue.
“Stia
fermo, sembrerebbe piuttosto grave,” aggiunge il capitano Strasser.
“Un
momento...” dice Lützow faticosamente. Di colpo parlare gli costa
uno sforzo enorme. “Un momento, prima lui... è più grave...”
Si
gira per cercare con gli occhi il compagno, ma anche quel semplice
movimento lo fa barcollare.
L'ultima
cosa che vede è un angolo di cielo grigiastro, che si offre ai suoi
occhi mentre sta crollando all'indietro, poi tutto si fa nero.
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Capitolo 3 *** Parte terza ***
Ed
ecco qui, signori, abbiamo finito anche questo mappazzone. Il più
cliccato di sempre, nella mia pagina, il che vuol dire che perlomeno
ha riscosso un po’ di interesse.
Ringrazio
tutti quelli che sono passati da queste parti a dare un’occhiatina,
ringrazio molto chi mi ha messo in qualche lista e moltissimo chi è
stato così gentile da lasciarmi anche un parere.
Alla
prossima!
Terza
parte
Essendo
entrambi gravemente feriti, i due vengono inviati a un tranquillo
ospedale nelle retrovie, dove rimangono fino alla guarigione. È lì
che apprendono tramite un telegramma di aver ricevuto una settimana
di licenza-premio.
“Che
meraviglia, così ti posso invitare alla tenuta come ti avevo
promesso!” esclama Siegfried. Si è perfettamente ristabilito, i
suoi movimenti sono tornati agili e fluidi come quelli di un felino,
i lineamenti sono distesi e gli occhi non più febbricitanti e
lucidi di dolore.
Fissa
Friedrich con aspettativa. “Ti ricordi che te l'avevo promesso,
vero?”
“Certo.”
“E
allora cosa farai? Verrai da me?”
Lützow
abbassa gli occhi. Siegfried è di nuovo una statua crisoelefantina,
di nuovo una lama affilata. Non ci sono ombre, in lui, né lunari
lati oscuri. È un sole che irradia luce e calore con noncurante
generosità.
Si
morde il labbro. Ecco ricomparire la soglia, oltre la quale estasi e
perdizione lo attendono. Cosa succederebbe se la varcasse? Quali
sarebbero le conseguenze? Sa – lo sente, col cuore e con
tutto il corpo – che il rapporto con lui non sarebbe solo
un’amicizia, e al di là di tutti i discorsi sul Männerbund che
gli hanno ripetuto fin dai suoi primi giorni nella Hitlerjugend, sa
cosa succederebbe se la cosa venisse scoperta.
Perché
la vita non è solo puro cielo in cui involarsi: c’è anche la
grigia terra, abitata da persone che non capirebbero e
condannerebbero. Persone che prenderebbero il giovane falco e lo
trascinerebbero nel fango.
Proferisce
parole ferali: “Vorrei passare a vedere i miei.”
Il
sorriso scompare dal volto di Siegfried lasciando il posto a
un’espressione costernata. “Avevi promesso,” mormora incredulo.
I suoi occhi limpidi, incapaci di falsità, sono colmi di
smarrimento.
“I
miei genitori,” argomenta Friedrich, incapace di guardarlo in
faccia. “Devo vedere come stanno. I bombardamenti, capisci anche
tu. Il razionamento...” Si interrompe. Spinge la mano a sfiorare
quella di Siegfried, che rimane immota. “Sono pur sempre i miei.”
Alza su di lui uno sguardo speranzoso.
“Certo,
capisco,” risponde in tono incolore von Kleist.
“Anche
tu vorrai vedere i tuoi, immagino,” tenta Lützow.
Siegfried
alza le spalle. “Non ce li ho più, i miei.”
Ora
è Friedrich a rimanere costernato. “Cosa?”
Di
nuovo un’alzata di spalle. “Acqua passata, nemmeno me li ricordo
più.” Poi solleva come sua abitudine la testa e la scuote come
farebbe un puledro. I suoi occhi sono di nuovo limpidi, liberi dal
velo di malinconia che li aveva per un istante offuscati.
Friedrich
non replica. Ormai conosce l’amico – qualcosa di più di un
semplice amico – e sa che l’argomento è chiuso. “Potrei...”
comincia.
In
un istante, lo sguardo di Siegfried gli si punta addosso. Lui alza il
proprio a incontrarlo e il cuore gli salta un battito. “Potrei
stare dai miei un paio di giorni e poi venire da te.”
Appena
pronunciata quella frase, capisce che non ci sarà ritorno: il suo
compagno non conosce esitazione, non conosce dubbio. È luce pura, è
fuoco e ardimento.
Decide
di donarglisi. In cuor suo del resto sapeva già che non avrebbe
potuto essere altrimenti. Spiega a sua volta le ali, preparandosi a
solcare quell’azzurro che sarà estasi e rovina per entrambi.
“Solo
un paio di giorni e poi sarò...” avrebbe voluto dire tuo,
si accontenta di ripetere da te.
Siegfried
sorride. Se anche lui sia consapevole di ciò che li attende, non è
dato sapere. Forse sì, ma sua è la noncuranza dell’eroe, immune
dai timori piccoli dell’uomo comune. “Ti aspetterò,” dice
semplicemente, e questo è tutto. La sua mano ora stringe quella di
Friedrich, il suo sguardo guizza a cogliere quello del compagno, poi
corre al cielo solcato di nubi che si vede dalla finestra.
È
un'elegante Mercedes nera che li va a prendere all'aeroporto di
Tempelhof. La guida un dignitoso autista in livrea, che chiama
Siegfried signor
conte e gli
porta con deferenza la valigia.
Vagamente
impacciato, Friedrich si accomoda accanto al compagno su un sedile
morbido, che odora di cuoio fine e colonia, e la vettura si avvia.
Tra
i palazzi si allargano voragini sempre più ampie. Spesso l’autista
è costretto a compiere deviazioni, perché in molte strade ci sono
squadre di ragazzi della Hitlerjugend che sgombrano macerie.
I
due si scambiano un’occhiata consapevole, quindi simultaneamente
volgono lo sguardo al cielo, in quel momento coperto di pesanti nubi.
La
Mercedes procede inoltrandosi nel quartiere popolare in cui risiede
Lützow. Al suo passaggio, la gente rimane a seguirla con lo sguardo
e i bambini smettono di giocare. Qualcuno saluta col braccio teso,
forse scambiandola per l’auto di qualche membro del Partito.
Il
palazzo di Friedrich, uno scuro caseggiato popolare del secolo
precedente, è ancora intatto. La macchina vi si ferma davanti,
l’autista spegne il motore, scende e apre la portiera.
Lützow
guarda lo sportello aperto come se fosse il portellone di uno Junkers
52 in volo, poi volge lo sguardo al compagno.
Questi
si limita a sorridergli incoraggiante. “Quando torno a prenderti?”
gli chiede, come se lo stesse lasciando davanti a un grande magazzino
per qualche compera.
“Verrò
io da te,” risponde Friedrich, gli occhi di nuovo fissi sul tratto
di marciapiede grigio che lo sportello aperto incornicia. Più oltre,
dentro il portone, al di là del cortile, c’è la scala che porta
al suo appartamento. Può quasi sentire l’odore di cavoli e
liscivia che vi aleggia perennemente, gli pare di udire un’eco
delle canzonette che la sua vicina di pianerottolo ascolta sempre
alla radio.
Pensa
a sua madre. La vede china sui fornelli, intenta a cucinare qualcosa
di buono. Avverte di colpo una dicotomia profonda, quasi dolorosa,
tra quell’immagine di tranquilla quotidianità e tutto ciò che ha
attraversato negli ultimi tempi. Si sente un estraneo, o più
propriamente un iniziato, che ormai guarda il mondo con occhi nuovi.
Rivolge ancora lo sguardo a Siegfried, cerca la sua mano con la
propria. “Verrò io da te,” gli sussurra all’orecchio.
E
poi si butta, come dal portellone dello Junkers 52, aspettando che
l’ombrello del paracadute si gonfi dietro di lui. Non si volta per
seguire la Mercedes che si allontana, per cercare di carpire un
ultimo lampo della nuca bionda di Siegfried nel lunotto posteriore,
altrimenti è certo che non riuscirebbe più a raggiungere la sua
vita precedente. Si allontana caparbio, i pugni stretti in fondo a
braccia così rigide da far male, e si ripete che era l’unica cosa
da fare, che è stato meglio così. Che volare troppo vicino al sole
porta unicamente alla rovina.
Tenendosi
appena fuori dal rettangolo di sabbia del maneggio, in tono forbito
il maggiordomo annuncia: “Signor conte, la cena attende che lei si
compiaccia.”
Siegfried
interrompe la figura di dressage che stava eseguendo, smonta da
cavallo e consegna l’animale a un garzone di stalla, quindi precede
il domestico all’interno della villa.
La
sala da pranzo è così grande che ogni rumore si scompone di
migliaia di echi sull’alto soffitto. Lungo le pareti affrescate,
cariatidi di donne in armi lo scrutano mute e severe. C’è un solo
coperto, a capotavola. Dietro la sedia attendono immobili due
camerieri in livrea.
“Buona
sera, signor conte,” lo accoglie il più vecchio dei due.
“Buona
sera, Johann,” risponde Siegfried, quindi si siede, spiega il
tovagliolo e se lo pone sulle ginocchia.
In
quel silenzio, il rumore del vino che viene versato nel calice è
quello di una gora impetuosa, l’acciottolio lieve delle stoviglie
fa pensare a sassi che rotolano lungo il fianco di una montagna.
Siegfried
sposta con la forchetta ciò che ha nel piatto, assaggia un boccone
di malavoglia, beve un po’, ma gli sembra che niente abbia sapore.
Sarà
stato trattenuto dai parenti, si dice, avrà dovuto restare più del
previsto. Fa scorrere lo sguardo sulla lunghezza del tavolo vuoto. Non
si intende molto di parenti, per la verità: i suoi genitori
quasi non se li ricorda più. Dei suoi tre fratelli, uno è caduto
per la Patria all’inizio della guerra e gli altri due sono al
fronte. È tanto che non li vede.
Si
rende conto di non ricordare un’occasione in cui ha visto quel
tavolo completamente occupato.
Abbassa
gli occhi sul piatto, ripensa a quando lui e Friedrich si sono divisi
una tavoletta di cioccolato alla caffeina prima di allontanarsi dal
fienile diroccato.
Nonostante
il dolore, la stanchezza e la paura di quel frangente, sorride fra sé
e sé al pensiero.
Sarà
stato trattenuto, pensa di nuovo. Gli sfugge di mano la forchetta, il
rumore improvviso quasi lo fa sobbalzare.
Nel
profondo del suo cuore, segreto, doloroso, alberga il timore che
Friedrich possa non arrivare. Che lo consideri uno scioccherello
fatuo, non alla sua altezza. Un ragazzetto viziato che fa bravate per
il solo gusto di farsi notare.
Abbassa
lo sguardo come per un rimprovero.
Rievoca
con nostalgia i lineamenti del compagno, i suoi occhi profondi e
seri. Lo immagina con elmo e scudo sui bastioni di una fortezza, la
croce nera sul petto, armato del tranquillo coraggio della fede.
Allontana
il piatto ancora pieno, vi depone accanto il tovagliolo e si
allontana a grandi passi.
La
signora Lützow si asciuga le mani nel grembiule e fissa pensosa il
figlio. “Che c’è, non hai fame?” gli chiede preoccupata.
“Eppure ho fatto la zuppa di patate come piace a te.”
Friedrich
alza gli occhi sulla donna: ha più rughe rispetto all’ultima volta
che l’ha vista, più capelli grigi. Sicuramente avrà dato fondo
alla tessera del razionamento per offrirgli quel piatto. Sorbisce
qualche cucchiaio, più che altro per farle piacere, ma la minestra
sembra non avere alcun sapore.
Allontana
la scodella, si alza e dice: “Scusa, mamma. È buonissima, ma non
ho fame.”
“Che
c’è, non stai bene?”
Friedrich
scuote la testa. Non sta bene, in effetti, ma certo sua madre non
capirebbe il genere di malessere che lo affligge. Non capirebbe il
dolore e il senso di vuoto che lo stanno letteralmente mangiando
dentro, che gli tolgono il sonno, l’appetito e la tranquillità.
Emette un lungo sospiro e semplicemente dice: “Perdonami: devo
andare.”
Arriva
al piccolo centro vicino a Potsdam dove abita Siegfried su un camion
di militari della riserva, scende nella piazza del paese e non ci
mette molto a trovare la villa della famiglia von Kleist: è
un’imponente costruzione barocca circondata di querce secolari,
ammantata delle prime nevi.
Si
ferma per qualche istante davanti al cancello di ferro battuto,
deglutisce con la bocca secca e il cuore che gli batte all’impazzata.
La metaforica soglia su cui tante volte si è affacciato, affascinato
ma anche timoroso, se l’è già lasciata alle spalle; l’attimo di
immobilità senza peso ha ceduto il posto alla folle caduta della
vite e lui ormai sa solo una cosa: che oltre quelle sbarre c’è
Siegfried.
Ci
sono i suoi movimenti eleganti, la sua temerarietà, il suo fuoco.
Inspira di nuovo profondamente, socchiudendo gli occhi come per
distoglierli brevemente dalla contemplazione del palazzo
settecentesco. La luce sta già calando, il cielo sta assumendo la
tonalità opulenta dell’ora blu. Pallida, ancora sbiadita, una
falce di luna sembra una pennellata data per sbaglio, uno sbaffo che
rovina invece di abbellire.
Friedrich
la guarda e di nuovo gli torna in mente la frase sul lato nascosto
che tutti dovrebbero avere. Colpevolmente ricorda gli ultimi eventi e
si rende conto di averlo lui stesso. Un lato cauto, calcolatore, che
soppesa rischi e conseguenze. Che si preoccupa di quello che potrebbe
pensare la gente.
Se
rivolge lo sguardo al palazzo, invece, ha quasi l’impressione che
dalle finestre filtri la luce di Siegfried: una luce pura,
adamantina, senza ombre.
Un
rumore di passi lo fa sussultare. Un uomo con una redingote scura si
sta avvicinando. “Il signor tenente desidera?” gli chiede
fissandolo serio.
Friedrich
deglutisce. “Sono un camerata di Siegfried von Kleist,” risponde,
e all’alzata di sopracciglio dell’altro si corregge: “Del conte
von Kleist. Lui… voglio dire, il conte mi sta aspettando.”
“Attenda
un attimo, prego.”
L’uomo
si allontana verso una costruzione poco distante. Friedrich, che al
suo arrivo aveva fatto un passo indietro, torna ad aggrapparsi alle
sbarre. Al di là c’è un viale coperto di ghiaia, bianco nella
luce ormai cupa del crepuscolo, e più oltre la sagoma scura della
villa.
Cerca
di immaginare in quale punto di quella massa nera si trovi Siegfried,
si augura che lui ci sia, che lo stia ancora aspettando.
Che
non lo disprezzi per aver esitato.
“Signor
conte?”
Siegfried
alza la testa dal libro che sta leggendo. “Che c’è, Johann?”
“Un
ufficiale chiede di lei, signor conte.”
“Cosa?
Un ufficiale?”
“Un
tenente. Ha detto che è un suo camerata, signor conte. Mi sono preso
la libertà di farlo accomodare nel salotto verde e...” non fa in
tempo a finire la frase: Siegfried butta il libro da una parte ed
esce di corsa dalla stanza.
Divora
il corridoio, scende a precipizio le scale.
Friedrich.
Lui lo sa che è Friedrich. Verrò io da te, ha detto.
Raggiunge
il salotto verde e spalanca la porta.
Lui
è lì. È in piedi a una certa distanza dalle poltroncine di
velluto, come se le disdegnasse. Con le mani dietro la schiena, sta
osservando un quadro appeso alla parete.
Gli
corre incontro, lo abbraccia con tale impeto da obbligarlo a fare un
passo indietro per mantenere l’equilibrio, poi si sente cingere da
lui, stringere così forte che quasi gli manca il respiro. Ma non
basta, non più. È passato il tempo degli sguardi carichi di
desiderio, il tempo delle distanze dolorosamente mantenute.
È
passato il tempo delle cose che non si possono fare.
Alza
il viso verso di lui, va a cercare le sue labbra con le proprie.
Friedrich risponde con un bacio che sembra il tracannare di un
assetato: profondo, intenso, colmo di un lancinante anelito.
Incuranti
di qualsiasi cosa crollano sul divano, le bocche ancora unite, le
mani che si fanno sempre più audaci, mentre l’eccitazione cresce
come una marea che spazza via qualsiasi cosa.
Alla
fine è Friedrich, ansante, scarmigliato, con il volto arrossato e
umido di baci, che mormora: “Andiamo... da qualche parte.”
Siegfried
annuisce come se non stesse aspettando altro. Si libera agile dal suo
abbraccio, si alza e semplicemente ripete: “Andiamo.”
Basta
quella semplice parola per descrivere quello che sarà: andiamo,
lasciamoci dietro tutto, noi siamo già oltre.
Friedrich
lo segue per i corridoi oscuri con sicurezza, come se davvero a
guidarlo fosse una luce. Ripensa a una frase di Nietzsche: ciò che
viene fatto per amore accade sempre al di là del bene e del male.
Si
chiede se sarà così anche per loro.
Lo
schiudersi di una porta lo distoglie dal suo ragionamento: oltre la
soglia vi è una camera da letto morbidamente illuminata da un’abat
jour. Sul tappeto c’è un libro aperto.
Si
buttano dentro. L’anta sbatte dietro di loro, serrata con forza
nella frenesia di gettarsi di nuovo l’uno fra le braccia
dell’altro. Crollano avvinghiati sul letto ansimando, divorandosi
di baci. Sfilate da mani che l’urgenza rende imprecise, le uniformi
si ammucchiano sul pavimento.
E
poi sono insieme: pelle contro pelle, le bocche per l’ennesima
volta unite, i respiri che si mischiano. Se anche razionalmente non
hanno idea di cosa si debba fare, i loro corpi e i loro istinti
sembrano saperlo da sempre. Essi li guidano: come ali potenti, li
sollevano verso le vette di un piacere che non ha nome, ma li lascia
storditi ed ebbri come adepti cui è stato concesso di contemplare il
Sublime.
Quando
l'atto giunge a compimento, essi si abbandonano l'uno contro l'altro
esausti, con la consapevolezza che tra loro sia successo qualcosa cui
erano da sempre destinati.
È
la luce che filtra dalle tende a svegliarli. Nessuno è venuto a
bussare alla porta del signor conte: forse è ancora troppo presto, o
forse i domestici immaginano che vedrebbero cose impossibili da
ignorare e preferiscono rimanere fuori.
La
cosa non li sfiora nemmeno, sono di nuovo i corpi a dettare legge. Il
mondo scompare mentre ancora una volta le ali potenti della passione
li spingono verso il nitore delle vette.
Quando
ridiscendono verso terra, non ci sono parole umane che possano
descrivere il sentimento che li pervade.
Si
limitano a scambiarsi un lungo sguardo silenzioso, con la
consapevolezza che dopo aver raggiunto l'acme non potrà che esserci
l'inesorabile caduta. Un aereo non può restare fermo nel cielo, e
anche loro sono così, destinati ad attraversare tutto a folle
velocità senza potersi fermare. Guardare il mondo dal punto di vista
degli dei ha un prezzo, del resto.
Qualche giorno
è concesso ai due. Un assaggio di vita segreta dalla
quale tutto il resto è escluso, sulla quale nessuno può esercitare
controlli, porre veti. Un mondo in cui esistono solo loro.
Come purosangue
tenuti a freno per troppo tempo, essi sono ansiosi di
dar sfogo a tutta l’energia accumulata, avidi di libertà,
traboccanti di desiderio.
Si amano.
Totalmente, in maniera assoluta. Se fosse possibile, si
amerebbero ogni giorno di più, ancora di più, sempre, fino a un
parossismo, fino a che la fiamma che arde in loro non li consumasse
in un lampo abbagliante.
Morire così, in
un'esplosione di luce accecante, insieme, sarebbe
una dolce morte.
Ma la guerra
non tarda a ricordarsi di loro. Il suo artiglio li
ghermisce dove si sono rifugiati, nella villa barocca, tra i campi
innevati della tenuta.
Giunge sotto
forma di un telegramma, che i due trovano al rientro da
una cavalcata. Siegfried se lo vede recapitare con solenne deferenza
dal maggiordomo.
Quale decadente
eleganza, gli viene fatto di pensare. Al signor conte
la morte giunge su un vassoio d'argento.
Ancora prima di
aprirlo sa cosa contiene. Solo il luogo e l'ora non
gli sono noti, ma quelli in fondo non sono che vili dettagli.
Strano non aver
sentito rumore di zoccoli. La Morte cavalca un
morello nero come il carbone, non è così che dicono gli antichi
versi?
Alza il viso,
fa girare lo sguardo su tutto ciò che lo circonda: il
palazzo avito, la campagna che si stende fuori, il suo destriero, il
sole, il vento. Sta prendendo commiato.
Infine ferma
gli occhi in quelli di Friedrich e il suo sguardo è
limpido e saldo.
“È inutile
perdere tempo,” dice, “voglio la mia migliore
uniforme.” Si rivolge ironico al compagno: “Questa è
un'occasione in cui non ci si può mostrare sciatti, non ti pare?”
Fa un sorriso
tirato, ma gli occhi sono indomiti, fieri. E la testa è
orgogliosamente eretta.
“Andiamo,
Friedrich. E' ora di volare. È ora di staccarsi da
terra. Siamo nati per il cielo in fin dei conti.”
Vanno. Non c'è
tempo per gli addii strazianti, e forse è bene che
sia così. Sarebbe solo zavorra inutile per due rapaci che si
apprestano a combattere nei cieli.
Vengono
accompagnati all'aeroporto di Tempelhof dalla Mercedes nera.
Decisamente, la Morte tratta bene il signor conte.
La Morte
evidentemente è sensibile ai titoli nobiliari. E' raro
infatti che sia così forbita. Di solito ghermisce e strazia, non
invita così compitamente.
E Siegfried
accoglie anche quei discutibili privilegi come se fossero
le cose più naturali del mondo. Sembra muoversi a suo agio come nel
salone delle feste di casa sua.
Lui e Friedrich
si presentano al comandante dello stormo, ascoltano
le consegne, si fanno indicare i loro aerei. Non c'è altro da dire.
Centinaia di
Fortezze Volanti stanno giungendo da ovest, a momenti
saranno su Berlino per scaricare tonnellate di morte e distruzione su
civili inermi. Compito dei cavalieri è proteggere i deboli, anche a
costo della vita.
Il falco avanza
risoluto. Passa davanti alla fila dei piloti
silenziosi guardandoli uno per uno, come per motivarli, per dar loro
un esempio.
Spavaldo,
temerario. Testa alta, per prima cosa. Anche la morte -
anzi, soprattutto quella - si deve affrontare con fermezza.
Si avvicina al
suo aereo. Un Focke Wulf 190 D. Un ottimo caccia.
Sorride soddisfatto, farà un buon lavoro. Ne porterà parecchi con
sé.
Accanto a lui,
con un aereo analogo in dotazione, c'è Friedrich.
Pacato, tranquillo. Lo sguardo sereno e al tempo stesso carico di una
consapevolezza straziante.
Siegfried lo
fissa, negli occhi gli passa il consueto guizzo. Si fa
avanti con un balzo agile. È nel piazzale, davanti a tutti, ma lo
abbraccia stringendolo a sé.
“Friedrich,”
mormora, “io... volevo dirti che...” Si ferma,
deglutisce. Un attimo di commozione glielo possiamo anche concedere,
non è facile abbandonare la vita e l'amore a poco più di vent’anni
con la leggerezza con cui si butterebbe un pugno di terra dietro le
spalle. Anche se ti chiami Siegfried, anche se la tua famiglia
combatte da secoli contro i nemici della Germania.
Posa la testa
fra la spalla e il collo dell'altro.
Un abbraccio
può durare un'eternità?
O forse quello
diventa l'eternità, cristallizzata, immobile, quando
si sta per affrontare la morte.
Cosa c'è dopo
non lo sa nessuno, nessuno è tornato a raccontarlo.
Si conosce solo la paura ancestrale di fare il grande salto.
Se fossi certo
di ritrovarlo di là, pensa Siegfried con il volto
contro il collo dell'amato, se ne fossi certo, allora non mi
importerebbe di morire. Quello che mi strazia è il terrore di finire
in un'oscurità gelida, solo, per sempre senza di lui.
Ma testa alta,
innanzitutto. Siamo nati per morire, non è così che
si legge in ogni caserma?
Troverà la
morte su una macchina d'acciaio e alluminio sparata nel
cielo a seicento chilometri l'ora e lo sa perfettamente. Fa solo che
sia breve, mormora tra sé.
Un'ultima
occhiata all'amato, un ultimo sorriso e va.
Sono tanti come
lui, cavalieri del cielo che si lanciano contro le
orde di invasori. Sa già che combatteranno fino all'estremo
sacrificio. Ma così dev'essere. Sta finendo l'era dei cavalieri,
comincia quella dei ratti.
E allora è
meglio così. Che mondo è quello dove un cavaliere è
sopraffatto da un'orda di ratti? Un mondo dove non è poi così
desiderabile vivere.
Se non fosse
per Friedrich che lo sta guardando, forse non sarebbe
neanche male andarsene così.
“Facciamo a chi
ne abbatte di più?” chiede prima di chiudere la
capote. “Peccato solo che non potremo confrontare il bottino.”
L'altro si
ferma per un attimo, il braccio teso a sostenere a sua
volta il tettuccio. “Lo confronteremo nel Walhalla, Siegfried.”
Sorride fiero, orgoglioso. “Per cui fa' del tuo meglio, non vorremo
presentarci a mani vuote.”
Ma è finito il
tempo delle parole, ora si deve combattere. Le
fortezze sono quasi sulla periferia della città. Uno dopo l'altro i
caccia si involano rapidi e spariscono verso l'orizzonte nel cielo di
smalto.
Anche Siegfried
e Friedrich sono in volo, nella formazione tipica di
capopattuglia e gregario.
Le
comunicazioni radio si sovrappongono in un magma concitato.
“Viermot a ore
dodici, Hanni 2000.” Questa è l'unica notizia che
vale la pena di tenere in considerazione.
Di Viermot ce
n'è da oscurare il cielo.
Sono centinaia
e ognuno di essi porta nel ventre tonnellate di morte.
Quanti ne
potranno distruggere? Quanti di quell'orda immane?
Quanti? Tutti
quelli che capiteranno davanti alle loro
mitragliatrici.
Siegfried dà
tutta manetta, il caccia schizza in avanti, si inclina,
guizza verso i primi bombardieri. Viene accolto da un uragano di
fuoco, spara contro la carlinga del più avanzato, cabra, si
disimpegna.
Il primo dei
Viermot punta verso terra.
Il
suo aereo è Bianco Tre. Lo si può vedere guizzare come uno squalo
fra i nemici. Colpisce, abbatte, si sgancia.
Un
meccanismo perfetto. O almeno dovrebbe esserlo
Ma
se diamo retta a von Clausewitz, già è difficile vincere una
battaglia contro forze nemiche doppie. Figuriamoci qui, dove
combattono dieci a uno. E anche una belva, in un branco di cani,
soccombe.
Una
raffica colpisce la fusoliera di Bianco Tre. L'attraversa di taglio,
da davanti in alto a dietro in basso come una sciabolata. Da come
vibra l'aereo, il pilota è stato colpito. Un altro Mustang cade
sotto le sue mitragliatrici, però. Si era fatto troppo spavaldo,
attirato dalla preda facile. Paga con la vita il suo errore.
Come
un cinghiale incalzato dai cacciatori, Bianco Tre indietreggia, si
difende, ma nulla può contro forze così soverchianti.
E
infine sembra rimanere per un istante immobile nel cielo mentre
un'altra raffica lo coglie nel mezzo di un'elegante virata sfogata.
La
virata non si compirà mai. L'aereo cade in vite e si schianta in un
delirio di fuoco e fiamme.
Ma
un altro aereo ci interessa, è Bianco Quattro. Un altro fiero
combattente, i Mustang d'argento hanno imparato a rispettarlo.
Loro
così tracotanti, che si credono i padroni del cielo perché sono
dieci volte più dei tedeschi.
Il
caccia guizza fra loro facendo vittime come il Tristo Mietitore, ma
anche in questo caso la battaglia è persa in partenza. L'unica cosa
che può fare è perderla con onore.
Ci
sono i Viermot. Quelli devono andare giù, loro e il loro carico di
morte.
Il
caccia si porta in posizione d'attacco, spara, cabra e si disimpegna,
ma non è facile fare manovre del genere in uno stormo di
bombardieri.
Bianco
Quattro viene preso nella turbolenza di scia dei grossi aerei,
sbanda, perde quota. Nell'attimo un caccia nemico ne approfitta per
prenderlo di coda. Bianco Quattro si disimpegna, ci vuol altro, ma
nel frattempo ne arrivano altri, e tutti si accalcano per buttarglisi
addosso.
La
battaglia fa presto a finire: una raffica gli tronca un'ala e gli
attraversa la fusoliera come una fascia.
Chi
avesse buon colpo d'occhio potrebbe notare la capottina schizzata di
sangue all'interno, dunque il mostro d’acciaio aveva un cuore
pulsante.
Ma è
tardi ormai, il Focke Wulf senza più controllo butta il muso verso
il basso ed entra in vite. Pochi secondi e la campagna del
Brandeburgo accoglie il suo figlio prediletto.
In
cielo la battaglia continua, la guerra non si ferma per così poco.
O
viandante, annuncia agli Spartani che qui
noi
morimmo obbedienti al loro comando.
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