O viandante, annuncia agli Spartani...

di Old Fashioned
(/viewuser.php?uid=934147)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***
Capitolo 3: *** Parte terza ***



Capitolo 1
*** Parte prima ***


AVVISO

Inclito lettore,
mi sento un po’ stupido a fare questa premessa, ma visti i tempi che corrono, temo che non me ne potrò esimere.
La storia che stai per leggere è narrata dal punto di vista di combattenti tedeschi della seconda guerra mondiale.
Per quanto senza dubbio non sia mancato chi più o meno segretamente non apprezzava il Nazionalsocialismo, puoi immaginare che questa non fosse la norma.
La gente perlopiù era convinta di quelle idee e cercava quotidianamente di metterle in pratica, esattamente come oggi si mettono in pratica quelle che attualmente sono considerate le idee giuste.
I protagonisti di questa storia reputano il Nazionalsocialismo un’ideologia egosintonica e mio obiettivo in quanto autore è quello di rappresentare i personaggi così com’erano e non spurgati o edulcorati da una correttezza politica che obbliga a proclami ideologici ogni tre righe.
Con ciò ritengo di averti avvisato: se vuoi dare un’occhiata ne sarò molto contento, ma se il mio modo di parlare di certi argomenti ti disturba, fa’ una bella cosa: non leggere e saremo più felici in due.








O VIANDANTE, ANNUNCIA AGLI SPARTANI…




La guerra volge alla fine, le potenze nemiche hanno trascinato l’umanità nella follia.



L’aria è fredda. È già buio, anche se è solo tardo pomeriggio.
Piove, tanto per cambiare. Uno scrosciare monotono da opificio, acqua che scorre sulle cose e le rende lucide al chiarore dei fari, poi sgronda e si raccoglie in pozzanghere sul suolo già fradicio.
Un Opel Blitz arriva traballando sulla strada sterrata, si ferma al margine della pista mantenendo il motore acceso.
Il caporale Klein osserva attento i militari che ne scendono, scorre volti e uniformi. Alla fine individua un paio di mostrine gialle con due gabbiani e sul viso gli compare un’espressione soddisfatta.
Raggiunge il nuovo arrivato, si mette sull’attenti, saluta. “Signor tenente, caporale Klein a rapporto!” annuncia con voce marziale.
Il tenente è praticamente un ragazzo. Alto per essere un pilota, pallido, dall’espressione seria. Occhi blu come porcellana. Saluta a sua volta e si presenta: “Tenente Friedrich Lützow.”
“Piacere di conoscerla, signore,” risponde il caporale, “ha fatto buon viaggio?”
“Tutto sommato, sì.”
Tutto sommato’ significa ‘nonostante i partigiani, le strade impraticabili, i posti di blocco e gli attacchi aerei nemici.’
Detto questo, il tenente gli rivolge uno sguardo vagamente interrogativo.
“Il comandante la vuole vedere, signore,” spiega il caporale, “mi segua, prego.” E si incammina verso un edificio dalle finestre oscurate.
Strada facendo, Klein si mette a parlare. “Le baracche che vede sono per le munizioni e gli approvvigionamenti, signore. I piloti alloggiano nella palazzina. Qui abbiamo una situazione relativamente tranquilla, capita solo ogni due o tre notti che si debba scendere nei rifugi. Sono là in fondo, a proposito.” Indica con la mano una vaga sagoma chiara nel buio.
Il tenente rimane in silenzio, forse è un tipo taciturno, o forse è solo troppo stanco per rispondere.
“Ho dato ordine di portare dentro i suoi effetti personali,” prosegue Klein continuando a camminare di buon passo. “Ora la accompagno dal signor maggiore, vuole sempre conoscere personalmente tutti i nuovi arrivati.”

Il maggiore Hirschmann è seduto alla scrivania nella stanza che gli funge da ufficio. Non arriva a trent’anni, ma la sua espressione sicura è quella di un uomo abituato alle responsabilità.
Si cresce in fretta in guerra.
Osserva attento il giovane subalterno, ascolta la sua presentazione. “Esperienze di combattimento?” chiede dopo una breve pausa meditativa.
“Otto mesi con il Terzo Stormo, signore”
“Ha esperienza con il Messerschmitt 109?”
“Pilotavo un Me 109 F.”
“Molto bene.” Hirschmann annuisce pensoso, il suo sguardo d’acciaio non abbandona il tenente. Dal suo giudizio dipendono tante cose: con chi volerà Lützow, che aereo piloterà, a quali missioni sarà assegnato.
Se sbaglia, rischia di far morire inutilmente il tenente Lützow o il pilota che volerà con lui.
Gli fa ancora alcune domande, le cui risposte sembrano soddisfarlo.
“Ho quel che fa per lei,” dice infine.
Il tenente si limita ad annuire, quindi rimane a fissarlo attento.
Alzandosi dalla scrivania, il maggiore spiega: “Il gregario del tenente von Kleist è caduto in combattimento due giorni fa. Ora lui è solo, quindi lei diventerà il suo gregario.”
Detto questo precede il nuovo arrivato in un salone e si dirige verso un gruppetto di piloti. “Von Kleist!” chiama.

Lützow osserva i colleghi con aspettativa, chiedendosi chi risponderà al richiamo.
Quello che si alza in piedi è un giovane falco spavaldo. Altezza media, fisico asciutto da spadaccino, spalle dritte e portamento marziale. Ha i capelli biondissimi e il viso da ragazzino. Gli occhi, di un azzurro straordinariamente intenso, sembrano al tempo stesso ardenti e gelidi. Fissa il maggiore Hirschmann in una muta richiesta di spiegazioni.
“Questo è il tenente Lützow,” dice il maggiore, “volerà con lei come gregario.”
Von Kleist si avvicina. Ha un’espressione attenta, concentrata. Sembra che da quella prima occhiata dipenda l’idea che si farà di lui.
Un attimo dopo gli rivolge un sorriso radioso. “Tenente Siegfried von Kleist,” si presenta. Tende con risolutezza la mano.
Lützow lo fissa a sua volta, sentendosi stranamente turbato. Lo smarrimento non dura che un attimo, poi anche lui declina le proprie generalità. Stringe la mano al giovane falco.

Il maggiore se ne va. “Così avrete modo di fare conoscenza,” dice, e scompare nel suo ufficio.
I due rimangono a guardarsi in silenzio.
“Chiamami Siegfried,” propone allora il tenente von Kleist.
Lützow ha un moto di sorpresa. “Siegfried?”
“È il mio nome.”
“Sì, ma...” comincia il nuovo arrivato. Vorrebbe dire che si sono appena conosciuti, che il regolamento dà indicazioni diverse per quanto riguarda i rapporti tra ufficiali, che tanta familiarità gli sembra fuori luogo, poi incontra lo sguardo carico d’aspettativa del collega e quasi si perde in occhi di cielo che non conoscono il dubbio. “Io sono Friedrich,” capitola. Tende di nuovo la mano, perché quella in effetti è una seconda presentazione, più intima ed esclusiva.
“Friedrich, molto bene,” risponde von Kleist stringendogliela con entusiasmo. “Hai già fatto voli di guerra, vero?”
“Sì.”
Siegfried sorride quasi con complicità, come se i voli di guerra garantissero l’accesso a una specie di confraternita. “Cosa pilotavi?” gli chiede subito dopo.
“Messerschmitt 109 F.”
Gli occhi di von Kleist si illuminano. “Un aereo meraviglioso!” esclama, “Veloce, potente, risponde magnificamente ai comandi. Se le valchirie decidessero di modernizzarsi, quelli sarebbero i loro mezzi.”
Friedrich sorride. “Dici?”
“Assolutamente. E se il buon vecchio Wagner fosse ancora fra noi mi darebbe ragione,” risponde l’altro con sicurezza. Poi, cambiando bruscamente discorso, chiede: “Ti hanno già fatto vedere il tuo alloggio?”
“Veramente no,” risponde incerto Lützow. Si aspettava una discussione sugli aerei e quel subitaneo guizzo l’ha colto un po’ alla sprovvista. Come tutto quello che concerne il tenente von Kleist, del resto.
“Allora vieni con me. Se aspetti che ti accompagni Klein…”
Con un movimento agile Siegfried lo precede verso una scala che si perde nell’oscurità di un piano superiore. “Di sopra non c’è la luce,” spiega prendendo una candela da una mensola.

Un attimo dopo i due sono soli in un silenzio buio e raccolto. Gli unici rumori sono i passi e il frusciare delle uniformi, di tanto in tanto un respiro lieve.
Il crepitio del fiammifero che accende la candela è come lo sfrigolare di acciaio incandescente. La tenue luce dorata rende Siegfried una statua crisoelefantina, con occhi di zaffiro purissimo.
“I piloti dormono tutti qui?” chiede Friedrich. Una domanda qualsiasi, nel tentativo di ignorare il brivido che a quella vista gli ha percorso la spina dorsale.
“Sì, certo. Ci sono molte stanze.”
Von Kleist si incammina risoluto per il corridoio, Lützow lo segue un po' a distanza, come se volesse tenersi al di fuori di un’aura che percepisce potentissima e per tanti aspetti pericolosa.
Arrivano a una camera, il primo fa qualche passo all'interno e solleva la candela per illuminare meglio l'ambiente. Ci sono due letti.
“Io dormo qui. A te hanno assegnato l'altro.”
Friedrich si avvicina titubante. Qualcuno ha già portato su i suoi bagagli. Per un istante si sente in trappola, prova la vertigine dell'attimo senza peso prima che l'aereo si rovesci precipitando in vite.
Stabilisce di essere stanco per il viaggio, e che quello è il motivo dello strano turbamento che si sta impadronendo di lui.
Prende la valigia, la apre. La prima cosa che ne esce è un quaderno dalla copertina nera, seguito da un libro. Heinrich von Ofterdingen, di Novalis.
Siegfried si fa avanti incuriosito. “Ti piace leggere, vedo,” gli dice a bassa voce guardando da sopra la sua spalla. Forse è quella penombra intima che invita ad un tono di voce così sommesso. Il suo respiro caldo gli sfiora la nuca.
“Sì... è il mio passatempo.” Di nuovo quel brivido, e il cuore che salta un battito.
Il libro gli scivola di mano. Siegfried si china a raccoglierlo, glielo porge con un sorriso. I due si fissano negli occhi per un istante. Turbato, Friedrich si ritrae appena.
L'altro abbassa lo sguardo. “Scusa, io...” comincia, per poi interrompersi subito dopo. Appoggia il libro sul letto e fa un passo indietro.
“Forse è meglio che torniamo giù,” mormora Friedrich. E poi, per giustificare in qualche modo ciò che ha appena detto, aggiunge. “Fa... fa piuttosto freddo qui.”
“Già, scusa,” risponde l'altro, il tono è quasi di sollievo. “Ora torniamo giù.”
Il turbamento che ha invaso Friedrich, però, non scompare con la luce e il calore. Rimane come una sorda sensazione di disagio, che lo rende inquieto come accade di solito nell'imminenza di un combattimento aereo.
Vorrebbe proporre di unirsi agli altri, che stanno ancora conversando tranquillamente in gruppetti di tre o quattro, ma al tempo stesso ha l'impressione che tra lui e quel Siegfried si sia instaurato uno strano legame esclusivo, che non ha nulla a che vedere col rapporto che lo ha sempre legato ai colleghi.
È una sensazione sconosciuta, che gli fa paura e lo affascina al tempo stesso.

Si siedono su un paio di poltroncine, Siegfried raccoglie una rivista, cincischia un po’ con le pagine, la lascia ricadere. Si guarda intorno ed emette un sospiro che ha il tono del disagio. “Andiamo al bistrot?” propone.
Lützow sgrana gli occhi. “Al bistrot? Ma abbiamo il permesso di farlo?”
Siegfried lascia passare qualche secondo, poi risponde: “No. Non abbiamo il permesso.” Gli rivolge un sorriso spavaldo.
Essendo appena arrivato alla base, Lützow è imbarazzato. Sarà opportuno seguire quel falchetto temerario?
Ovviamente no, gli direbbero la ragione e il buon senso. Ma von Kleist lo sta fissando come se fosse assolutamente certo del suo appoggio e gli sta sorridendo con la complicità che riserverebbe a un vecchio amico. Si conoscono da meno di un'ora, ma Friedrich ha la sensazione di conoscerlo da sempre.
“Nel parcheggio c’è una macchina a disposizione degli ufficiali,” gli dice Siegfried cogliendo al volo l’attimo di esitazione, “se facciamo le cose per bene non se ne accorgerà nessuno.”

Un attimo dopo la vettura sta fendendo l’oscurità diretta verso il paese.
“So come evitare le strade pericolose,” dice Siegfried con sicurezza, e Friedrich si accorge che persino i partigiani non sono per il compagno altro che una sfida esaltante. “Non hai paura?” gli chiede.
Senza distogliere gli occhi dalla strada, von Kleist risponde: “Chi ha paura muore un po’ tutti i giorni. Io intendo morire una volta sola, possibilmente in grande stile.” Dà gas e la macchina balza in avanti nelle tenebre.
Lützow rimane in silenzio. In un certo senso quel ragazzo lo spaventa. È puro, intatto, affilato come una lama. “Vorrei vederti volare,” mormora. Pensa di averlo detto fra sé e sé, ma l’altro prontamente gli risponde: “Domani voleremo insieme.”
E poiché Friedrich non replica, sorridendo aggiunge: “Sono sicuro che saremo perfetti. Io sento che siamo nati per stare insieme.”
Friedrich si trova a deglutire turbato. “In che senso?” chiede a disagio. Poi offre: “Intendi come capopattuglia e gregario?”
Siegfried si limita a ridere, noncurante adamantina creatura. “Ma certo, proprio quello che volevo dire!” esclama divertito.

Il bistrot è un posto squallido, in cui pochi torvi avventori rivolgono ai due boche occhiate velenose.
Ma Siegfried è come luce pura di diamante e il livore che promana dalla sordida mescita non scalfisce minimamente il suo entusiasmo.
Ordina due birre in un francese lievemente appesantito dall’accento e si dirige a un tavolo invitando il collega a seguirlo.
“Parlami di te,” dice non appena sono seduti faccia a faccia. Lo fissa socchiudendo gli occhi, con i gomiti appoggiati sul tavolo e il viso fra le mani.
Friedrich esita. Sono risposte, quelle che vorrebbe. Perché sono in quel bistrot per esempio, a guardarsi negli occhi attraverso un tavolino traballante, a chiamarsi per nome come vecchi amici pur non sapendo nulla l’uno dell’altro.
“Io sto vicino a Potsdam,” comincia Siegfried, interrompendo il filo dei suoi pensieri, “e tu?”
“Berlino,” borbotta Lützow, ancora non del tutto libero dal disagio.
“Berlino è grande,” obietta l’altro.
“Vuoi sapere in che via abito?”
Von Kleist sorride. “Voglio sapere tutto di te.”
“Ma… per quale motivo?” sbotta Lützow, senza riuscire a evitare una punta di durezza nella voce.
Siegfried assume l’espressione costernata di chi si aspettava una carezza e invece ha ricevuto uno schiaffo. Abbassa lo sguardo sulla birra che l’oste gli ha controvoglia servito e risponde: “Voleremo insieme, il che vuol dire che rischieremo la vita insieme. Mi piaceva l’idea di diventare amici.”
Friedrich deglutisce e si deve impedire di spingere la mano a coprire la sua. “Hirschmann mi ha raccontato che hai perso il tuo gregario,” gli dice. Tiene la voce basa, come per una specie di pudore.
“Hans si è buttato in mezzo ai P-51,” mormora von Kleist senza alzare lo sguardo. “Se li è tirati addosso per difendermi.”
Lützow china a sua volta la testa. “Mi dispiace.”
L’altro rialza la propria con uno scatto risoluto, un lampo metallico gli indurisce per un attimo lo sguardo. “È morto da eroe,” replica asciutto.
“Scusami,” dice Friedrich dopo un po’, di nuovo resistendo alla tentazione di spingere la mano verso la sua.
“Scusami tu. Forse sono stato troppo precipitoso.”
Friedrich non risponde. Sta provando di nuovo la sensazione al tempo stesso esaltante e spaventosa dell’istante senza peso che precede l’entrata in vite. “Sto a Moabit,” si decide a dire infine, “mio padre fa l’operaio. Ho un fratello minore che è ancora nella Hitlerjugend e uno più grande che è nelle Waffen-SS.”
Siegrfied stringe appena gli occhi, come se ognuna di quelle notizie gli procurasse un enorme piacere. “E tu come mai non sei nelle Waffen-SS?” gli chiede.
Friedrich sorride. “Per lo stesso motivo per cui anche tu sei nella Luftwaffe, credo.”
“Davvero? Quale pensi che sia?”
“Un pilota non può parlare delle meraviglie del cielo nemmeno all’essere più amato.”
Siegfried sorride a sua volta. “Ma a un altro pilota sì,” risponde fissandolo negli occhi.

Parlano a lungo, incuranti dei francesi che li guatano rancorosi come potrebbero esserlo della terra quando sono in volo.
Ma l’ora si fa tarda, devono rientrare. La macchina divora la strada a malapena illuminata dai fari oscurati.
Finalmente compare la base, un insieme di sagome scure che si intuisce contro un cielo nero e opaco. La sentinella all’entrata si china appena per scrutare chi è alla guida, poi salutando annuncia: “Signore, il maggiore Hirschmann vorrebbe vedere lei e il tenente Lützow nel suo ufficio immediatamente.”
“Certo, grazie,” risponde von Kleist impassibile. Poi a bassa voce, proseguendo verso il parcheggio: “Maledizione.”
“Problemi?” s’informa Friedrich.
“Altroché,” risponde l’altro, ma nella voce si coglie già di nuovo la consueta nota di spavalderia. “Hirschmann mi aveva ordinato di smettere con le gite al bistrot.”
“Allora siamo nei guai!”
“Temo proprio di sì.”

Il maggiore Hirschmann in effetti è furente. “Von Kleist!” tuona non appena i due sono sull’attenti davanti alla sua scrivania, “Le avevo espressamente proibito queste sue uscite notturne!”
Ne silenzio greve che fa seguito alle sue parole, d’impulso Friedrich dice: “Signore, la colpa è mia. Sono stato io a chiedere al tenente von Kleist di portarmi in paese.”
“Stia zitto, Lützow,” replica l’altro duramente, “Quando vorrò la sua versione dei fatti gliela chiederò.”
Poi, rivolgendosi di nuovo a von Kleist, prosegue: “Lei è un irresponsabile, un incosciente! Poteva cadere vittima dei partigiani, poteva essere preso prigioniero! Senza contare che ha violato i miei ordini! Cos’ha da dire a sua discolpa?”
“Niente, signore.” Non c’è niente da dire, obiettivamente. Sapeva che non avrebbe dovuto farlo, ma l’ha fatto ugualmente. Voleva solo far divertire un po’ Friedrich. Sul suo volto liscio compare un impercettibile sorriso.
“Non c’è niente di cui essere soddisfatti,” lo riprende Hirschmann notando il cambio d’espressione. Si volta poi verso l’altro e dice: “Lützow, sono costretto a constatare che lei non ha esitato ad assecondare la deprecabile insubordinazione di von Kleist.”
“Sono stato io a chiedere a von Kleist di accompagnarmi in paese, signore. Lui non voleva,” ripete Lützow impassibile.
“Ma non è vero!” interviene con slancio Siegfried, a dispetto di ogni regolamento, “Sono stato io a convincere il tenente Lützow a venire con me. Gli ho fatto credere che fosse una cosa consentita!”
“Basta!” ruggisce il maggiore.
I due si zittiscono di colpo.
“Consegnati entrambi, sospesa la libera uscita fino a nuovo ordine.”

“È andata bene, temevo che ci avrebbe proibito di volare,” dice Siegfried mentre si dirigono al loro alloggio. L’altro rimane in silenzio.
“Perché ti volevi prendere la colpa, Friedrich?” chiede allora von Kleist.
Lützow si volta verso di lui. Già, perché? La domanda per il momento non ha risposta. Non ama le bravate e la spavalderia fine a se stessa, mai nella sua vita avrebbe pensato di addossarsi la responsabilità di un atto di insubordinazione commesso da qualcun altro, soprattutto se inutile e sciocco come andare al bistrot per il solo gusto di farlo, eppure quando ha visto il compagno minacciato non ha potuto evitare di intervenire in sua difesa. “Forse ho preso molto sul serio il mio ruolo di gregario,” risponde quando il silenzio diviene troppo pesante. Una battuta per dissipare la tensione, ben lontana però dal descrivere il reale stato delle cose. Quello del gregario è solo un ruolo, e come tale è asettico e impersonale. Nulla a che vedere con l’empito selvaggio che si è letteralmente impadronito di lui quando ha visto il maggiore aggredire Siegfried.

Una volta in camera, von Kleist fissa il collega con occhi brillanti. “Però ne è valsa la pena, vero?” gli dice sorridendo.
Per il tenente Lützow, serio, riflessivo, decisamente portato a considerare la guerra come una sacra missione, la risposta dovrebbe essere inequivocabilmente negativa, tuttavia non ha cuore di raffreddare l'entusiasmo del collega, che invece sta ancora assaporando l'ebbrezza di una sfida che nonostante tutto considera vinta.
“Ci siamo divertiti,” risponde pacatamente. Comincia a spogliarsi per andare a letto. È molto tardi e il sonno è vitale per un pilota da caccia.
“Non vorrai dormire,” protesta Siegfried incredulo, “abbiamo ancora milioni di cose da dirci.”
Friedrich gli rivolge un sorriso, ma rimane in un silenzio pensoso. Avverte la sensazione di essere su una soglia, indeciso se varcarla o no. Cosa significherà concedere a Siegfried la confidenza che sta chiedendo? A cosa porterà? Lo fissa di sottecchi: l’unica luce della stanza è una candela e il giovane pilota è di nuovo una statua crisoelefantina, dagli occhi accesi di un fuoco che senza fatica potrebbe bruciare entrambi. Ha sempre sentito dire che le persone sono come la luna, hanno un lato oscuro che non mostrano mai a nessuno, eppure Siegfried gli pare la negazione vivente di quella massima. È come un sole: non c'è nulla di umbratile in lui, nulla di ambiguo. Chiede ciò che desidera con la serenità di chi non ha nulla da nascondere. Forse è per quello che in sua presenza avverte così forte il rischio di perdere il controllo.
“Fammi dormire, Siegfried,” lo implora in un estremo tentativo di difesa, “è dall’alba che sono in piedi.”
Von Kleist aggrotta per un attimo le sopracciglia, poi annuisce e l’espressione spavalda si spegne in una via di mezzo tra delusione e imbarazzo. “Certo, scusami,” gli dice, quindi senza aggiungere altro gli volta le spalle e comincia a spogliarsi.

Rannicchiato sotto le coperte, le spalle rivolte al compagno, Siegfried fissa la tenda che oscura la finestra, cercando di immaginare il cielo al di là della cortina di stoffa. Sa che è coperto, se si concentra riesce anche a percepire lo scrosciare fioco della pioggia.
Gonfia il petto in un sospiro, ma poi lascia uscire il fiato più adagio che può per non farsi sentire.
In cielo è tutto facile, sa in ogni momento cosa fare. Non ha bisogno di pensare, non succede mai che una sua azione abbia un risultato diverso da quello atteso.
A terra le cose non sono così facili.
Ripensa a Friedrich. Non è molto abituato a dare un nome ai propri sentimenti, ma gli è chiaro che quelli che prova per lui sono tutti positivi.
Avverte un'istintiva attrazione nei suoi confronti, un'attrazione strana, che fino a quel momento non aveva mai provato per nessun altro. Nemmeno a quella sa dare un nome, ma sa che è talmente intensa che quando è in sua presenza gli risulta quasi impossibile controllarsi.
Si rannicchia più strettamente, come per impedirsi di compiere qualsiasi movimento verso di lui, e chiude gli occhi tentando di abbandonarsi al sonno.

L’alba è una gloria barocca di nubi, indaco e porpora e oro contro un cielo di cupo zaffiro. Gli aerei, dodici caccia dal muso aguzzo, sono già allineati e pronti.
Il maggiore Hirschmann spiega la missione: “È in arrivo da nord-ovest uno stormo di Möbelwagen,, con parecchi Indiani di scorta. Intercettatene più che potete e tornate al Gartenzaun per il rifornimento tutte le volte che ne avete bisogno. Il primo che si fa coinvolgere in un duello coi serbatoi mezzi vuoti o le armi scariche lo prendo a calci nel sedere personalmente, se sopravvive agli americani.” Detto questo si volta verso Lützow. “Stia dietro a von Kleist e non faccia di testa sua,” gli ordina.
“Stia tranquillo signore,” risponde il tenente lanciando uno sguardo al collega. Questi sorride socchiudendo gli occhi come un gatto che riceva una carezza. Ci manca solo che si metta a fare le fusa, pensa Hirschmann con una strana sensazione di disagio.

Dopo essere stati congedati dal maggiore, i due si dirigono ai rispettivi aerei, due Messerschmitt 109 F che portano gli identificativi di Rosso Tre e Rosso Quattro. “Andiamo, Friedrich!” lo incita Siegfried, che non vede l’ora di involarsi. Il suo sguardo brillante è fisso sul cielo. Sta valutando le condizioni meteorologiche, vento, visibilità, nubi, temperatura. Aria calda al carburatore a basso regime? Sì, altrimenti c’è rischio di fare ghiaccio. E sarà possibile mantenersi a 2000 metri in mezzo a quei banchi di nubi stratificate?
Friedrich effettua le stesse valutazioni. Nell'imminenza di un combattimento il cielo perde la sua magia per trasformarsi in una serie di variabili fisiche il cui esatto rilevamento è determinante per la sopravvivenza.

Poco dopo tutto lo stormo è in volo diretto a nord-ovest. Lützow è già al suo posto, dietro e più in alto rispetto a von Kleist. Dalla posizione che ha assunto e dalla disinvoltura con cui la mantiene si vede che conosce bene il mestiere.
Tutta la caccia della Luftwaffe si basa del resto sul sodalizio capopattuglia-gregario. Il primo attacca, il secondo gli copre le spalle, in un’efficiente e letale suddivisione dei compiti.
Improvvisamente nella frequenza radio si ode un grido: “Pauke, Pauke!”
Qualcuno delle Staffel più avanzate ha avvistato il nemico e ha dato il segnale d’attacco.
Friedrich controlla il cielo e anche lui li avvista quasi subito: grossi Viermot verde oliva, sicuramente B-17. Tutt’intorno guizzano nervose le ali d’argento dei caccia di scorta.
La voce calma del maggiore avverte: “Möbelwagen a ore 11, Hanni 2000 o 2500!”
Ed ecco che il falco parte in caccia. Motore, picchia leggermente per prendere velocità, compie una larga virata e si porta in coda al più avanzato dei nemici. La manovra è disarmante nella sua semplicità, due raffiche ed è finita. Il Mustang, uno squalo lucente, si rovescia e precipita verso il suolo.
Siegfried si sgancia, si mette sulla traiettoria dei Viermot. L’unico modo per attaccare le Fortezze Volanti è di fronte, da ogni altro lato sono armate troppo pesantemente. “Stammi dietro, Lützow!” grida.
“Eccomi, von Kleist!”
I bombardieri si avvicinano a velocità vertiginosa, quasi 500 chilometri all’ora, che naturalmente vanno sommati ai quasi 700 dei caccia. Il che significa che Siegfried ha pochi istanti per mirare, sparare una raffica e cabrare evitando l’onda d’urto e i detriti. Friedrich, dal canto suo, deve avere riflessi fulminei per cogliere l’attimo della cabrata, o si schianteranno l’uno contro l’altro.
Von Kleist punta un B-17 e dà tutto motore. Gli scarica addosso le mitragliatrici. Niente di personale, è la guerra, pensa vedendo l’equipaggio sobbalzare e cadere sotto i suoi colpi, del resto voi state andando a scaricare tonnellate di bombe sulla mia Patria.
Una frazione di secondo: colpisce, si sgancia, cabra. Lützow è alle sue spalle come se stessero volando livellati e in linea retta.
Siegfried cerca un’altra preda, sopraggiunge un caccia nemico. Friedrich lo avvista, guizza rapido a intercettarlo proteggendo il suo capopattuglia dalle micidiali raffiche. Questi intanto è già sulla dirittura di un altro bombardiere. Spara, si sgancia, cabra schizzando nell’azzurro inseguito da nugoli di traccianti. Sembra semplicissimo, come il salto mortale di un trapezista. Ci sono dietro lo stesso allenamento e lo stesso rischio.
Il bombardiere esplode.
Il Mustang colpito da Lützow plana frattanto malamente verso la pianura francese emettendo fumo nero.
“Ben fatto, Friedrich!” esclama Siegfried, leggermente ansimante per la brusca manovra, “Questo abbattimento è tuo!”
Non sente neanche la risposta del compagno, è di nuovo all’attacco di un Viermot.
È arrivato nel frattempo un altro stormo a dare man forte a quello di Hirschmann e il cielo sembra letteralmente ribollire di aerei. Gli unici che si staccano da quella mischia furiosa sono i caduti, americani e tedeschi, che precipitano verso terra.
La battaglia finisce con l’ultimo bombardiere. I caccia nemici rimasti invertono la rotta per tornare alle loro basi inseguiti dai Messerschmitt.
L’aria è resa opaca dal fumo dei relitti che stanno bruciando al suolo. Ecco delle bombe che non uccideranno civili inermi.
Nessuno sorride, però. Non è più il tempo. Finita l’epoca dei duelli onorevoli, ora è macello e basta. E l’atroce consapevolezza di essere come una roccia nel mare, salda ma impotente ad arrestare la rovina.

Se von Kleist pensa questo, di sicuro non lo dà a vedere. Balza fuori dal suo aereo con la consueta energia, si sfila il casco e scuote la testa come un puledro nervoso. Per prima cosa cerca con gli occhi Friedrich, e trovatolo s’illumina in volto. “Sei un magnifico Rottenflieger!” esclama entusiasta, “Stupendo, il migliore che abbia mai avuto! Incollato al mio aereo come un francobollo!”
“Ho cercato di fare del mio meglio,” risponde Lützow pacatamente, “ma non è stato facile, tu voli come se in un Me 109 ci fossi nato.”
L’altro sorride, gli si avvicina. “Oh, ero sicuro che saremmo stati perfetti insieme. Siamo talmente in sintonia io e te! Ti potevo quasi sentire, sai, lì dietro mentre mi proteggevi le spalle.”
Si scambiano una lunga occhiata silenziosa, che si interrompe solo quando il meccanico fa rispettosamente sapere al tenente von Kleist che la semiala destra è stata trapassata in più punti dai detriti di un’esplosione.
“Già, mi pareva di aver sentito qualcosa di strano mentre mi allontanavo dall’ultimo bombardiere,” commenta Siegfried noncurante. Va al suo aereo, osserva gli squarci con espressione vagamente divertita, poi si informa: “Può volare?”
“Lo sistemeremo per domani, signor tenente.”

Il resto della giornata trascorre in voli di guerra. Con un altro aereo, Siegfried decolla più volte insieme a Friedrich per missioni di Caccia Libera alla ricerca dei P-51 americani.
Rientrano dall'ultimo volo in corsa con le effemeridi, così esausti che quasi barcollano mentre si dirigono verso la palazzina che funge da alloggio per i piloti.
“Di solito non rimango su così tanto,” confida von Kleist al collega, “gli americani dopo una certa ora se ne vanno e diventa difficile trovare un avversario, ma oggi non sarei mai sceso.”
“Perché?” gli chiede Lützow.
L'altro si ferma, lo fissa negli occhi. È come se in un certo senso la domanda lo stupisse. “Perché tu eri con me,” gli risponde. Sparito lo sguardo spavaldo e vagamente canzonatorio, sul suo volto pallido di stanchezza si legge solo una commovente espressione di affetto. “Non ho mai volato così con nessuno,” gli dice poi, quindi riprende a camminare, distaccandolo di qualche passo come se quella confessione l'avesse imbarazzato.

“Dicevi sul serio prima?”
“Cosa?”
“Che non hai mai volato così con nessuno.”
“È la verità. Tu ed io sembriamo nati per volare insieme. Oggi avevo quasi l'impressione che tu mi leggessi nel pensiero.”
Sono nella loro stanza, l'unica luce è il fioco bagliore delle stelle, appena sufficiente a disegnare i contorni delle cose. Sdraiati nei rispettivi letti, faticano a prendere sonno nonostante la stanchezza.
“Neppure io ho mai volato così con nessuno,” dice Friedrich dopo un silenzio.
“Sul serio?”
“Certo. Tu sai davvero tenere in mano un Messerschmitt 109. Vorrei pilotare come te.”
D'impulso ognuno dei due tende la mano verso l'altro. Le dita s'incontrano nel buio con sicurezza, s'intrecciano salde.
“Io e te dobbiamo stare sempre insieme, Friedrich.”
In risposta, Lützow si limita a stringere più forte la presa.

I giorni che seguono sono di fuoco e acciaio, di sangue e morte.
Arrivano i bombardieri da ovest, in stormi che oscurano il cielo. I combattimenti sono furiosi, i caccia della Luftwaffe mietono vittime, ma abbattere i nemici serve solo a farne arrivare altri, mentre diventa sempre più difficile rimpiazzare i tedeschi che cadono. Ogni battaglia porta con sé l’angosciante consapevolezza che nessuno sforzo, nessun sacrificio sarà più sufficiente, le difese saranno infine travolte e la spaventosa marea dilagherà inghiottendo ogni cosa.
Von Kleist e Lützow sono in volo dall’alba al tramonto, muovendosi in perfetta e letale sincronia nei cieli sconvolti dai continui combattimenti. Evocano l’immagine di cavalieri teutonici che fronteggiano orde di infedeli.
Le loro croci nere insegnano il rispetto alle stelle bianche.

Le sagome scure dei Messerschmitt 109 si stagliano contro un cielo che ha tutti i toni del rosso. Un vermiglio aranciato laddove il sole è scomparso dietro l’orizzonte, che più in alto digrada lentamente verso lo scarlatto e poi il cinabro. La volta celeste è già nera, punteggiata qua e là di fioche stelle.
Atterrato da poco, Siegfried è appoggiato all’ala del suo aereo come se non si risolvesse ad abbandonarlo. Tutt’intorno i meccanici lo fissano in rispettoso silenzio, pronti a rimorchiare il caccia nell’hangar non appena il signor tenente si sposterà.
Friedrich nota la scena e si avvicina.
“A cosa pensi, Siegfried?”
L’altro si volta verso di lui, gli sorride. “Guardavo il cielo.”
“Non l’hai già visto abbastanza per oggi?”
“Mai abbastanza.”
Il collega lo prende delicatamente per una spalla. “Vieni, andiamo dentro. Gli uomini neri devono lavorare.”
Siegfried si lascia condurre via con insolita docilità. “Grazie, Friedrich” dice appena sono in camera.
“E di che?”
“Sei sempre così premuroso con me.”
“È normale, sono il tuo gregario.”
“Ora non siamo in volo,” replica Siegfried facendo un passo verso di lui.
L’atmosfera si fa elettrica, Friedrich sente il cuore saltargli un battito. Ecco di nuovo la soglia, e questa volta sta per varcarla. Sa che lo farà, e che non ci sarà ritorno.
L’altro gli si avvicina ancora. Ansima leggermente, come durante le manovre acrobatiche più impegnative, e la poca luce rende i suoi occhi simili a pozzi profondi circondati da un anello di ghiaccio.
Ora sono uno di fronte all’altro. Si fissano in silenzio. Infine von Kleist mormora: “Sai qual è l’unica occasione in cui Siegfried – quello della mitologia, intendo – ha paura?”
“No, quale?”
“Quando si innamora.”
Lützow deglutisce a vuoto. Apre la bocca come per parlare, ma non ne esce alcun suono. La consapevolezza è come un lampo doloroso: lui prova gli stessi sentimenti, solo che Siegfried è più temerario e ha parlato per primo.
Solleva una mano adagio, con cautela, muovendola come se fosse pesantissima. Va a sfiorare con una delicata carezza la guancia liscia del compagno, che a quel tocco socchiude gli occhi accennando a un sorriso.
Un attimo dopo si ode all’esterno un ululato stridente. “A terra!” urla Friedrich. Fa appena in tempo ad afferrare von Kleist e a gettarsi al suolo, poi la finestra esplode in un uragano di fuoco e schegge di vetro.
“È un’incursione aerea!” esclama subito dopo, “Dobbiamo andare ai rifugi!”
“Dannazione, proprio adesso!” protesta Siegfried, ma in un attimo è di nuovo in piedi, e assicurandosi che Friedrich lo segua si butta nel corridoio già pieno di gente.
All’esterno lo spettacolo è spaventoso.
Le bombe scoppiano tutt’intorno, sollevando fontane di terra e detriti, i bengala rischiarano il cielo con la loro luce livida, conferendo a ogni cosa oscillanti ombre violacee. Hirschmann è in piedi in mezzo al piazzale, Klein corre sostenendo un ferito, un aereo scompare in un’esplosione accecante, qualcuno sta gridando da qualche parte. Poi l’antiaerea del campo entra in azione e al boato cupo delle bombe si sovrappone il latrato secco dei cannoncini Flakvierling 38.
Chiusi nel rifugio assieme agli altri, rabbiosamente impotenti, i due possono solo aspettare. Si scambiano qualche occhiata ogni tanto, soprattutto in occasione degli scoppi più forti. “Purché non facciano saltare in aria i nostri aerei…” mormora Siegfried, rivolgendo uno sguardo come d’intesa a Friedrich.








Il gergo della Luftwaffe

Möbelwagen: letteralmente, il veicolo adibito al trasporto dei mobili durante i traslochi. Indica un bombardiere pesante.
Indiani (Indianer): i caccia di scorta ai bombardieri.
Gartenzaun: il recinto. Indica la base che ospita lo stormo.
Pauke! Pauke!: letteralmente “Picchia, picchia!” (nel senso di una mazza che picchia su un tamburo, dal verbo pauken). Era il richiamo di chi avvistava per primo i nemici in lontananza.
Viermot: diminutivo di Viermotorig, ovvero quadrimotore. Sono i bombardieri pesanti.
Hanni: sta per altitudine.
Rottenflieger: termine ufficiale per definire il gregario. La caccia tedesca si basava sul binomio di Rottenjäger (capopattuglia) e Rottenflieger (gregario). Il primo attaccava i nemici e il secondo gli copriva le spalle.
Caccia Libera (Freie Jagd): missioni in cui i caccia decollavano alla ricerca di caccia nemici per impegnarli in duello e possibilmente abbatterli.
Uomo nero (Schwarzer Mann): nomignolo con cui si definivano i meccanici, che portavano una tuta nera per far sì che le macchie di grasso e olio motore si vedessero meno.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Parte seconda ***


Gente, vi perseguito con i miei mappazzoni. Spero che non vi siate spaventati troppo per il disclaimer, era solo per tenere lontani talebani e zeloti. Come vedete, non è che ci siano contenuti così sulfurei…
In ogni caso, grazie a tutti quelli che sono passati a dare un’occhiata e un ringraziamento particolare a chi mi ha commentato^^






Seconda parte

L’alba rivela le carcasse fumanti di due B-26 poco lontano dal campo, segno che qualche americano ha sottovalutato la contraerea della base.
Una squadra li raggiunge alla ricerca di eventuali feriti bisognosi di cure, un’altra chiude i buchi che le bombe hanno scavato nella pista, quindi l’attività dello stormo riprende come se l’incursione non avesse mai avuto luogo.
La missione consiste nello scortare gli Stuka che attaccano i mezzi corazzati in prima linea, un compito sicuramente poco gradevole per gente abituata agli scontri nel cielo. Più ci si avvicina al suolo, infatti, più la guerra mostra il suo lato spaventoso e crudele.
Lo Stormo decolla.
Gli Junkers 87 procedono in formazione serrata diretti verso il loro obiettivo, ovvero un gruppo di Sherman che sta impegnando in combattimento un reparto delle Waffen-SS.
Ai comandi dei loro caccia, von Kleist e Lützow controllano l’orizzonte con attenzione, gli Stuka rappresentano una preda troppo ghiotta per i Mustang.
Eccoli che sbucano infatti da dietro un banco di nubi, stavolta è il circo al gran completo, saranno almeno una ventina. Sembra che stiano letteralmente fiutando il cielo alla ricerca di prede. Non appena si accorgono dei tedeschi si animano guizzando in tutte le direzioni.
Subito Siegfried si porta in posizione d’attacco seguito da Friedrich: individua il più vicino dei nemici, picchia per prendere velocità, cabra, spara una prima raffica. L'altro scarta, i traccianti lo sfiorano senza colpirlo. Siegfried spara di nuovo, l'americano si rigira brusco, si sposta per prenderlo di coda. A questo punto interviene Friedrich cercando di portarsi a sua volta in coda al caccia che sta minacciando il compagno, ma altri due Mustang stanno arrivando a tutta manetta. Il più avanzato spara una raffica, Friedrich è obbligato a scartare mentre pezzi di rivestimento alare baluginano al sole prima di cadere verso terra. Vira, torna verso la mischia, ma un altro americano gli si butta addosso. Un altro ancora, evidentemente consapevole del ruolo determinante del gregario, lo tiene ulteriormente impegnato.
Siegfried abbatte il suo avversario, ma non fa in tempo a sospirare di sollievo che subito un altro prende il suo posto. Intorno agli Stuka la battaglia è furiosa, i caccia si inseguono con evoluzioni che portano macchine e uomini ai limiti delle loro possibilità. Attraversata da migliaia di traccianti, l’aria stessa sembra farsi rovente.
Per la prima volta da quando fa voli di guerra, Siegfried si trova a combattere per la propria vita. Le pallottole gli mordono più volte il rivestimento delle ali strappandone brandelli, attraversano la fusoliera. Su un angolo del vetro blindato della capottina si allarga una ragnatela di crepe.
“Friedrich!” chiama in frequenza. Disperato lo cerca con lo sguardo e lo vede alle prese con due Mustang.

Friedrich sente il richiamo, prova a sganciarsi, ma ai due americani se ne aggiunge un terzo. Sottoposte a forze immani da manovre al limite delle loro possibilità, le ali del suo caccia gemono a ogni virata. Le lancette degli indicatori sono stabilmente all'estremo destro dei quadranti, l'accelerazione lo inchioda al seggiolino minacciando di farlo svenire da un momento all'altro.
Spara due raffiche, uno degli antagonisti si rovescia e plana verso terra emettendo una scia di fumo nero. Non ha tempo di godersi la vittoria, immediatamente manovra per mettersi in coda del secondo, scartando per non farsi prendere dai traccianti dell'altro, che nel frattempo lo sta raggiungendo con un'ampia virata. Porta la barra tutta in avanti, l'aereo butta il muso in basso, i proiettili del Mustang che ha in coda vanno a crivellare quello che stava inseguendo. Richiama, cabra, dà tutta manetta e il motore ulula fuori giri.
Ha davanti agli occhi Siegfried, attorniato da almeno tre caccia nemici. Lo vede dare fondo a ogni potenzialità del suo aereo per cercare di sfuggire alle raffiche, ma è solo questione di tempo e poi arriverà la manovra imperfetta, quella che lo porterà nel collimatore di uno dei tre P-51 con cui sta combattendo.
Spinge in avanti la manetta già al massimo, individua fra i nemici quello che maggiormente minaccia il compagno e gli si lancia contro, ma nel momento in cui sta per azionare il comando delle mitragliatrici, un altro caccia gli piomba addosso, costringendolo a scartare bruscamente.
Mentre guizza via coi traccianti che gli sfrecciano tutt'intorno, realizza con angoscia di aver mancato il decimo di secondo in cui avrebbe potuto colpire il P-51 che sta incalzando von Kleist più da vicino.
Ha perso l'attimo.
Una raffica ben assestata si pianta nel muso del Messerschmitt di Siegfried, il motore immediatamente prende fuoco e comincia a emettere un fumo nero e denso, l'elica si inchioda.
L’aereo sembra torcersi nell’aria come un animale ferito, poi scivola d’ala ed entra in vite.
“Siegfried!” urla Friedrich nella frequenza radio.

Von Kleist si riscuote in un attimo, si rende conto della situazione. Si attacca ai comandi con tutte le sue forze, l’aereo si stabilizza, ma sta ancora perdendo quota col muso in fiamme e una semiala gravemente danneggiata. La terra si avvicina con agghiacciante velocità. Terra nemica, peraltro, perché il combattimento ha trascinato i tedeschi ben al di là della linea del fronte.
Il giovane si guarda intorno cercando uno spiazzo dove atterrare, la quota è troppo bassa per tentare un salto col paracadute. Sa di non avere molto tempo prima che il radiatore gli scoppi in faccia inondandolo di olio bollente.
Finalmente trova un campo arato. Non è l’ideale ma non ha altra scelta. Tira la cloche cercando di assumere un assetto cabrato e subito dopo con un rumore assordante il Me 109 tocca il suolo. Striscia sulla pancia sfasciandosi completamente, le pale dell’elica si torcono come se fossero di cera, le ali si squarciano.
Infine la carcassa si ferma in un silenzio irreale.
Siegfried apre gli occhi intontito, dolorante ma vivo.
La cosa più importante è uscire prima che la benzina residua prenda fuoco. Febbrilmente si toglie le cinture di sicurezza, si alza nonostante gli faccia male dappertutto, spalanca il tettuccio, quindi si lascia scivolare sull’ala e barcollando si allontana.

“Siegfried!” esclama di nuovo Friedrich cercandolo ansiosamente con lo sguardo. Impegnato in combattimento non ha potuto seguire la planata del compagno, ma ora vede il relitto fumante a terra, e la cosa lo getta nello sgomento. Ti prego, fa che sia vivo.
E finalmente lo vede, una figuretta malferma, dall’andatura incerta. È ferito, pensa con orrore. Sa che è in territorio nemico. Finirà ucciso o prigioniero. Soffrirà.
Analizza il terreno con occhio esperto. Pessimo, terra arata, una fitta macchia di alberi, eppure deve tentare. La sola idea di abbandonare Siegfried al suo destino gli è intollerabile.
Riduce la velocità e tira fuori una tacca di flap.
“Lützow, che sta facendo?” gli chiede Hirschmann via radio.
Friedrich non risponde, quello che sta facendo è abbastanza chiaro: vuole atterrare, raccogliere Siegfried e ripartire prima che arrivino i soldati americani che dall’alto ha visto muoversi in direzione del relitto.
Il maggiore sta ancora parlando, ma Lützow continua caparbiamente la manovra di atterraggio. Individua una striscia di terra dall'aria apparentemente solida, tira fuori il carrello e riduce ancora la velocità. Ha già sganciato la capottina, pronto a far salire von Kleist a bordo il più rapidamente possibile per poi girarsi, ridare motore e ripartire.
Tocca terra con un sobbalzo, apre il tettuccio e si sporge da una parte alla ricerca del compagno, ma in quel momento urta qualcosa al suolo. Una gamba del carrello cede di schianto, il Messerschmitt crolla di lato sollevando zolle di terra nell'impatto dell'elica col terreno.
Il motore si ferma, l'aereo è ormai inservibile. Friedrich ode di nuovo la voce preoccupata di Hirschmann alla radio: “Tenente Lützow, è ferito?”
“No, signore.”
“Von Kleist sta bene?”
“Credo di sì, signore. Sta venendo verso di me.”
Le istruzioni del maggiore seguono rapide e precise: “Siete in territorio nemico, ci sono dei soldati americani che vengono verso di voi, manderò Henning e Möller a fare un paio di bassi passaggi per coprirvi la fuga, ma non possiamo atterrare per recuperarvi, ha visto anche lei che il terreno non lo consente. Cercate di raggiungere le nostre unità a sud-est, sono a pochi chilometri da qui, le avvertirò della vostra presenza appena sarò al campo.”
“Sì, signore.”
“In bocca al lupo, ragazzi.”
“Grazie, signore.”
Friedrich vede i due Me 109 virare in formazione per prepararsi al basso passaggio. Inonderanno di piombo la boscaglia. “Siegfried!” chiama, “Siegfried, presto, mettiti al coperto!”
In quel momento il primo degli americani esce dalla vegetazione, avvista il tenente von Kleist che sta correndo, punta il fucile e spara.
Sotto gli occhi inorriditi di Friedrich, Siegfried sussulta sotto l'impatto della pallottola e crolla a terra.
Un istante dopo, con un rombo assordante arrivano i due caccia a bassa quota, sparando tutto quello che hanno e facendo a pezzi la pattuglia nemica.
Contemporaneamente lo stormo di Junkers 87 così efficacemente protetto giunge sull'obiettivo e comincia le picchiate contro i mezzi corazzati nemici, scatenando un inferno di fuoco. Il fumo delle esplosioni oscura il cielo.
In una caligine venefica, atterrito, frastornato, Friedrich corre verso Siegfried, che giace ancora immobile dove è caduto. Lo afferra per i vestiti e lo trascina via.

Non ha tempo di pensare, si impone di non farlo. Cerca un riparo che riesca in qualche modo a proteggerli da quella spaventosa apocalisse. Al limitare della vegetazione individua un avvallamento del terreno che somiglia in qualche modo a una trincea ed è lì che faticosamente porta il compagno. “Andrà tutto bene, Siegfried,” ansima mentre l'angoscia gli serra il petto, “non preoccuparti, non è niente.”
Si passa la mano sul viso: sangue, lacrime e sporcizia.
“Andrà tutto bene,” ripete disperato, cercando di suonare convincente.
Mette febbrilmente a nudo la sua ferita: la spalla è stata trapassata, si vedono bene i fori d'entrata e di uscita della pallottola. Li copre con i pacchetti di medicazione, augurandosi che risponda a verità quello che ha sempre sentito dire, ovvero che le compresse di garza sono impregnate di una sostanza emostatica.
Il bombardamento frattanto continua. Più di una volta Friedrich deve protendersi sul compagno privo di sensi per proteggerlo dalla terra e dai detriti scagliati in aria dalle esplosioni. A un certo punto crolla addirittura un abete secolare, con un lungo gemito cigolante e un tonfo spaventoso. Le sue fronde coprono il piccolo avvallamento, offrendo ai due un insperato rifugio.
Lützow continua a parlare. “Andrà tutto bene, ne usciremo,” ripete ossessivamente, con la mano inerte di Siegfried stretta fra le sue e le lacrime che gli scorrono libere lungo le guance, “ce la farai, è solo una ferita leggera.”

Passano le ore, gli Stuka se ne sono andati, sulla zona aleggia un silenzio spettrale. Non una voce, non un verso d'animale. Sembra che la guerra – quella guerra orribile che strazia e fa a brandelli, così diversa dalle onorevoli tenzoni su nel cielo – abbia distrutto ogni forma di vita.
Friedrich striscia cautamente fuori dal rifugio, si guarda intorno. Di quello che una volta era un boschetto rigoglioso non rimangono che pochi alberi, tutto il resto è stato abbattuto dalle bombe o dalle manovre dei blindati. I loro due aerei sono masse di lamiera accartocciata, più lontano giace anche uno Junkers 87 senza un'ala e ancora oltre, a circa un chilometro verso est, ci sono dei carri armati distrutti, dai quali si alzano lente colonne di fumo.
Torna accanto al compagno, lo osserva critico. Gli accarezza delicatamente il viso.
Siegfried geme e apre gli occhi. Si guarda intorno smarrito, poi volge lo sguardo verso di lui in una muta richiesta di spiegazioni.
“Dobbiamo andarcene da qui,” gli dice Friedrich per tutta risposta, “ce la fai a camminare?”
“Certo che ce la faccio.” Il volto pallido di Siegfried assume la consueta espressione spavalda, sebbene gli occhi siano lucidi di dolore. “Dammi sono una mano a rimettermi in piedi.”

Escono faticosamente da sotto le frasche, Siegfried si raddrizza con una smorfia. L’altro non dice nulla, qualsiasi considerazione sarebbe superflua. I partigiani hanno l’abitudine di uccidere tutti i piloti della Luftwaffe in cui si imbattono e ci sono pattuglie americane che perlustrano costantemente la zona, quindi l’unica cosa sensata da fare è cercare di raggiungere le truppe tedesche a sud-est.
La luce si è fatta livida, sta per arrivare il crepuscolo.
Friedrich gli rivolge uno sguardo preoccupato e chiede: “Ti fa molto male?”
“Un po'.”
L'altro si sfila dal collo la sciarpa, la annoda fabbricando una benda per aiutarlo a sostenere il braccio ferito. Successivamente si fa passare l’altro intorno alle spalle e i due si incamminano adagio.
Avranno fatto sì e no un chilometro quando Siegfried incespica, e cadrebbe a terra se non ci fosse Friedrich a sostenerlo.
“Scusami,” balbetta con voce incerta. Ha il volto madido di sudore e l’impressione di camminare sull’ovatta. La voce di Friedrich sembra arrivare da lontanissimo: “Tu devi riposare, ora trovo un posto adatto.”
“No, andiamo avanti.”
“Devi riposare” insiste Lützow.
Von Kleist non replica. È talmente esausto che non ne avrebbe la forza. Si limita ad aspettare di essere adagiato da qualche parte per poter finalmente dormire.
L’altro si guarda intorno, poi dice: “C'è qualcosa, sembra il rudere di una casa. Vado a vedere.” Lo aiuta a sedersi ai piedi di un albero.
Con voce debole, Siegfried balbetta: “Sta' attento.”
“Sembra disabitato,” risponde il compagno, cercando di suonare convincente. “Do un'occhiata e torno subito da te.”
Von Kleist rimane immobile, impedendosi di pensare a quello che succederebbe se Friedrich non tornasse. Chiude gli occhi scivolando quasi subito in un torpore pesante come piombo.

L’altro torna dopo poco. Ha trovato un fienile abbandonato. Non più di quattro muri e un tetto fatiscente, ma c’è dentro ancora un po’ di paglia pulita, che servirà a proteggerli dal freddo della notte.
Vi giungono dando fondo alle ultime energie.
Siegfried crolla senza un lamento sull’improvvisato giaciglio. “Solo qualche ora,” riesce a balbettare, “poi ripartiamo.”
Friedrich gli avvicina la borraccia alle labbra, gli fa bere un po’ d’acqua. “Come ti senti?” gli chiede scostandogli un ciuffo ribelle dalla fronte sudata.
“Ho freddo.”
È freddo in effetti, considera preoccupato Lützow, ma von Kleist è debole perché ha perso molto sangue. Avrebbe bisogno di qualcosa di caldo e sostanzioso da mangiare, di un buon letto e soprattutto di cure adeguate.
Sono proprio le cure a preoccuparlo maggiormente. Non ha il coraggio di guardare la ferita, ha già usato tutti i pacchetti di medicazione che possedeva e comunque non potrebbe fare molto di più con i mezzi e le competenze che ha. Molto meglio lasciare tutto com’è e aspettare di trovare un dottore.
Cautamente si sdraia accanto al compagno, se lo tira contro. “Ci scalderemo a vicenda,” gli dice piano.

“Friedrich.”
“Dimmi, Siegfried.”
“Non voglio morire in questo modo.”
“Smettila, tu non morirai.”
“Intendo dire che ho intenzione di morire combattendo, non rintanato qui dentro come una specie di coniglio.”
“Appena possibile ripartiremo, e comunque vorrei che tu evitassi certi discorsi.”
“Perché?”
“È… è disfattismo.”
Tra i due cala il silenzio. Friedrich allunga la mano nel buio e accarezza piano la guancia di Siegfried. La sola idea di perderlo lo riempie di sgomento.
L’altro sospira a quel tocco, e posa la propria mano su quella del compagno. “Però abbiamo volato bene, vero?” sussurra.
“Certo. E voleremo ancora.”
“Non vedo l’ora di farlo. Tu ed io. Sempre insieme.”
“Sempre insieme.”
Dopo il breve scambio, Siegfried si addormenta esausto fra le braccia di Friedrich.

Non è ancora l’alba quando i due si rimettono in marcia, guidati solo dall’ago fosforescente della bussola, dopo essersi divisi una tavoletta di cioccolata alla caffeina che Friedrich aveva in tasca e la poca acqua rimasta nella borraccia.
Siegfried ha la febbre e non riesce più a muovere il braccio. Con ammirevole stoicismo avanza però deciso, senza emettere un lamento.
“Se riusciamo a cavarcela ti invito a casa mia,” annuncia, tentando di assumere il tono di una normale conversazione.
“Ci verrei molto volentieri.”
“Allora lo faccio di sicuro,” replica von Kleist riuscendo persino a sorridere, “in inverno normalmente stiamo vicino a Potsdam, ma la mia famiglia ha una bella tenuta vicino a Mühlenberg, è lì che andiamo d’estate. Sono certo che ti piacerebbe.”
“Davvero?”
“Sì, abbiamo una biblioteca enorme. E poi abbiamo i cavalli, sai, potremmo fare delle galoppate tutti i giorni. Ti piacciono i cavalli?”
“Sì, molto.”
“Anche a me. In scuderia ce n'è uno che sarebbe proprio adatto a te, sai?”
“Davvero?”
Siegfried annuisce. “È il più veloce di tutti, ma fa solo quello che vuole.”
“Allora è come te.”
Von Kleist sorride appena, alza lo sguardo su di lui e risponde: “Ma sono sicuro che con te sarebbe docile come un agnellino.”
Lützow scuote la testa. “Non credo proprio. Non sono così bravo a cavalcare.”
“Sì che lo sei. Sono sicuro che lo sei. E comunque scommetto che farebbe qualsiasi cosa, se gliela chiedessi tu.” Tace per un po’, poi riprende: “Ma se preferisci, possiamo anche starcene a poltrire e basta, senza cavalcate o altro.”
Friedrich fa una lieve risata. “Tu che stai fermo per più di dieci minuti? Non ci credo.”

Attraversano in questo modo campagne desolate, che spesso recano i segni di furiosi combattimenti. I campi sono stati distrutti dai cingoli dei blindati, ovunque ci sono crateri di esplosioni e le poche case intatte hanno porte e finestre sbarrate.
Più si avvicinano alla linea del fronte, più la marcia diventa faticosa e pericolosa.
Hanno smesso di parlare ad alta voce, le pattuglie nemiche potrebbero essere ovunque. Procedono tenendosi a ridosso delle macchie di vegetazione, sfruttando qualsiasi cosa possa offrire loro una copertura.
Friedrich è preoccupato. Siegfried è allo stremo, sta andando avanti per pura forza d’inerzia, e appena si fermerà crollerà definitivamente. Non parla neanche più, il che è un pessimo segno.
Nemmeno le domande sul combattimento aereo ricevono in risposta più di uno stentato monosillabo.
“Vuoi riposarti?” gli chiede.
L’altro scuote caparbiamente la testa.
“Coraggio, tra un po’ ci siamo.”
Nessuna risposta.
Sta ancora valutando il da farsi quando si sentono delle voci in lontananza. Frettolosamente spinge il compagno al coperto e si nasconde a sua volta.
Le voci si fanno più intense, si ode il tramestio di parecchi piedi in movimento. Friedrich scruta fuori dall’improvvisato nascondiglio e vede una pattuglia americana che si sta facendo strada in mezzo alla vegetazione. Sono otto uomini che avanzano tranquillamente parlando e ridendo forte, come se stessero facendo una specie di gita. Lützow si appiattisce al suolo come la volpe all’arrivo dei segugi.
Prega che non si muovano verso di loro. L’uniforme grigio-blu, infatti, così elegante e adatta ai combattimenti nei cieli, è tragicamente inadeguata quando è necessario nascondersi a terra in mezzo alla natura.

Gli americani sono alti, grossi e hanno equipaggiamenti che paiono appena usciti dal magazzino. La stoffa delle uniformi è ancora un po' rigida, il cuoio degli scarponi scricchiola lievemente quando si muovono. Passeggiano lì intorno per un po’, uno urina contro un albero, uno fuma addirittura una sigaretta e l’odore forte del tabacco si diffonde ovunque, coprendo quello della terra bagnata e degli aghi di abete. Conversano fra loro, Friedrich riesce anche a comprendere qualche parola. Si volta verso Siegfried e gli fa cenno di tacere, ma il compagno ha già capito la situazione ed è rannicchiato immobile sotto un cespuglio.
Passa un tempo che ai due pare infinito, la pattuglia non accenna a spostarsi. Lützow fa scivolare la mano verso la fondina della pistola. Che probabilità di riuscita avrebbe se saltasse su all’improvviso e li abbattesse sfruttando l’effetto sorpresa?
Abbandona subito l’idea. Farebbe fuori i primi due, forse, poi gli altri ammazzerebbero lui e catturerebbero Siegfried.
Nonostante l’angoscia mortale che gli serra il petto, si costringe a conservare il sangue freddo e la lucidità, esattamente come è abituato a fare durante le battaglie aeree.
Finalmente gli americani sembrano intenzionati ad abbandonare la zona. Dopo essersi scambiati qualche altra battuta raccolgono le loro cose, imbracciano i fucili e si apprestano a partire.
Siegfried, intorpidito dalla lunga immobilità, è pallido di dolore. Ha assunto nella fretta di nascondersi una posizione in cui la spalla ferita gli fa male e naturalmente non ha potuto modificarla fintantoché la pattuglia nemica è rimasta nella zona. Appena si ristabilisce un approssimativo silenzio, si sposta rotolando fuori dal suo rifugio. Friedrich cerca di fermarlo, ma è troppo tardi. L'ultimo degli americani sente il fruscio delle foglie e si volta indietro, trovandosi in questo modo faccia a faccia con un pilota della Luftwaffe ferito.
Friedrich soffoca un'imprecazione maledicendo l'impulsività del compagno, ma l'americano ha già puntato il fucile contro Siegfried, che non ha altra scelta se non alzare la mano che è ancora in grado di muovere.
Nell'attimo di immobilità che segue, Lützow valuta se non sia il caso di sparare all'americano che sta minacciando Siegfried e poi darsi con lui alla fuga, ma abbandona rapidamente l'idea. Quanto potrebbe correre il suo compagno nelle condizioni in cui si trova? No, non c'è altra scelta che abbassare le armi e arrendersi.
Alla sua comparsa, von Kleist si volta bruscamente verso di lui, sbianca e atteggia le labbra a un muto 'no'. Per la prima volta da quando lo conosce, Friedrich coglie lo sgomento nel suo sguardo. Sta per dirgli qualcosa quando l'americano, evidentemente impensierito da quei movimenti, afferra il fucile per la canna e colpisce Siegfried col calcio, facendolo cadere in ginocchio con un lamento.
Vedere quello e lanciarsi in avanti per Friedrich è tutt'uno. Balza addosso al soldato, lo rovescia a terra. Solleva la destra chiusa a pugno per colpirlo, ma in quel momento arrivano gli altri. Qualcuno lo afferra, lo strappa all'indietro, gli piovono addosso colpi. Si sente un vociare rabbioso.
Friedrich stringe i denti quando il calcio di un fucile gli si abbatte sul costato, si rigira, si rialza a metà e cerca con lo sguardo il compagno, pronto a difenderlo da altre percosse. Lo vede in piedi, tenuto per il braccio sano e per la collottola da un paio di soldati. Uno dei due ghermisce la sua croce di ferro di prima classe, gliela strappa via e se la mette in tasca.
“Siegfried!” urla Friedrich, ma un colpo sulla schiena lo fa crollare in avanti.
A quel punto echeggia un ordine e i soldati si immobilizzano.
Ancora ansante per la colluttazione, Lützow si rialza adagio e vede avvicinarsi un graduato. Questi dice qualcosa in tono duro, uno dei soldati risponde con l'atteggiamento di chi sta dando spiegazioni. Indica alternativamente lui e von Kleist, ma parla così in fretta che Friedrich non riesce a capire quasi nulla.
Poi le cose sembrano calmarsi. Gli americani parlamentano un po' fra di loro, qualcuno gli dice qualcosa in tono brusco, prima in inglese e poi in un tedesco talmente appesantito dall'accento da risultare quasi inintelligibile: “Non muoverti,” o qualcosa del genere. Di nuovo, Friedrich non è ben sicuro di aver capito. Si lascia comunque docilmente portare via la pistola e qualsiasi altro oggetto essi ritengano pericoloso o interessante: l'importante è che non facciano del male a Siegfried.
Cerca di far capire che il suo compagno è ferito e ha bisogno di cure, ma gli americani sembrano essersene resi conto, tant'è che gli offrono acqua, un po' di whisky e anche qualcosa da mangiare.
Lützow cerca di non farsi prendere dalla disperazione. Ora finirà prigioniero, probabilmente non potrà più combattere. Lungi dal comunicargli una sensazione di sollievo, la cosa lo getta in un cupo sgomento. Non potrà più difendere la sua Patria dalle orde subentranti di bombardieri nemici, dovrà rassegnarsi ad aspettare quietamente la fine della guerra in qualche campo chissà dove. Se vinceranno, sua sarà l'amarezza di non aver contribuito alla vittoria. Ma se perdessero dovrà vivere per sempre con la vergogna di non aver fatto tutto il possibile per evitare che ciò accadesse.
E Siegfried? Una creatura del cielo, nata per combattere, che sembra nutrirsi solo dei più puri ideali. Anche lui dovrà finire la guerra in un'odiosa gabbia?
Quasi rimpiange di non aver dato seguito all'idea di uscire con la pistola in pugno e abbattere più americani possibile prima di venire ucciso.
Una spinta dietro le spalle interrompe il corso dei suoi pensieri. Qualcuno gli ordina di camminare e la piccola colonna si rimette in marcia.
Vorrebbe parlare a Siegfried, dirgli qualcosa per risollevarlo, ma gli americani sono sospettosi e gli impediscono di comunicare con lui. Lützow rinuncia. Non saprebbe spiegare in inglese quello che intende dire, e se lo spiegasse in tedesco non capirebbero. E forse certe cose non le capirebbero neanche in inglese.

Stanno camminando da un po' quando a Friedrich sembra di cogliere dei movimenti nel fitto degli alberi.
Si guarda bene dal far trapelare qualsiasi cosa, ma cerca con gli occhi Siegfried, pronto ad afferrarlo e portarlo al coperto se mai se ne presentasse l'occasione.
Se effettivamente c'è gente che li sta seguendo, ragiona, non possono essere americani, altrimenti avrebbero già dato segno della loro presenza. I partigiani francesi non starebbero mai così vicino alla linea del fronte, troppo pericoloso per loro. Considerano assai più sicuro sparare alla schiena rimanendo ben nascosti nelle retrovie.
Non osa sperarlo, ma tutto lascia pensare che ci siano dei tedeschi sulle loro tracce.
Si volta di nuovo verso Siegfried, uno degli americani gli dice qualcosa, ma un secondo dopo una raffica di mitra lacera il silenzio.
Un soldato cade. Gli altri imbracciano le armi, si buttano al coperto dove capita. Il graduato sbraita un ordine, che viene coperto dal crepitare degli spari.
Approfittando della confusione, Friedrich afferra il compagno per il braccio sano e salta con lui in una macchia di vegetazione più folta. Qualcosa lo colpisce al fianco provocandogli una fitta lancinante, ma stringe i denti costringendosi ad ignorare il dolore.
“Come stai, Siegfried?” chiede per prima cosa.
“Ora bene, e tu?”
“Bene anche io.”
Lützow vede passare una mimetica tedesca, ode un tramestio concitato, altri spari. Di nuovo c'è il tonfo di un corpo che cade, poi ordini che finalmente riesce a comprendere. Lancia un'occhiata a Siegfried e il suo sguardo, pur esausto e febbricitante, gli rimanda lo stesso messaggio di speranza.
Rimpiangendo di essere disarmati, i due restano appiattiti sotto un cespuglio in attesa dello svolgersi degli eventi.

Quando tutto è finito, Friedrich esce lentamente dall'improvvisato rifugio. Si guarda intorno e si trova davanti una pattuglia di Waffen-SS. Le loro mimetiche sono sdrucite, non portano decorazioni visibili, ma danno l'idea di essere combattenti esperti.
Si fa avanti un capitano alto, dalle spalle larghe, che lo fissa serio e poi aggrotta le sopracciglia.
“Sono il tenente Friedrich Lützow,” dice allora il pilota, “e con me c'è il tenente Siegfried von Kleist.”
“Capitano Karl Strasser,” si presenta l'altro a sua volta. “Siete per caso i due dispersi dello stormo di Hirschmann?”
“Sì, siamo noi. Prego, il mio collega è ferito, ha urgente bisogno di cure.”
“Anche lei è ferito, tenente.”
“Cosa?”
“Al fianco.”
Friedrich appoggia la mano dove un attimo prima aveva sentito la fitta lancinante e la ritira coperta di sangue.
“Stia fermo, sembrerebbe piuttosto grave,” aggiunge il capitano Strasser.
“Un momento...” dice Lützow faticosamente. Di colpo parlare gli costa uno sforzo enorme. “Un momento, prima lui... è più grave...”
Si gira per cercare con gli occhi il compagno, ma anche quel semplice movimento lo fa barcollare.
L'ultima cosa che vede è un angolo di cielo grigiastro, che si offre ai suoi occhi mentre sta crollando all'indietro, poi tutto si fa nero.




Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Parte terza ***


Ed ecco qui, signori, abbiamo finito anche questo mappazzone. Il più cliccato di sempre, nella mia pagina, il che vuol dire che perlomeno ha riscosso un po’ di interesse.
Ringrazio tutti quelli che sono passati da queste parti a dare un’occhiatina, ringrazio molto chi mi ha messo in qualche lista e moltissimo chi è stato così gentile da lasciarmi anche un parere.
Alla prossima!






Terza parte

Essendo entrambi gravemente feriti, i due vengono inviati a un tranquillo ospedale nelle retrovie, dove rimangono fino alla guarigione. È lì che apprendono tramite un telegramma di aver ricevuto una settimana di licenza-premio.
“Che meraviglia, così ti posso invitare alla tenuta come ti avevo promesso!” esclama Siegfried. Si è perfettamente ristabilito, i suoi movimenti sono tornati agili e fluidi come quelli di un felino, i lineamenti sono distesi e gli occhi non più febbricitanti e lucidi di dolore.
Fissa Friedrich con aspettativa. “Ti ricordi che te l'avevo promesso, vero?”
“Certo.”
“E allora cosa farai? Verrai da me?”
Lützow abbassa gli occhi. Siegfried è di nuovo una statua crisoelefantina, di nuovo una lama affilata. Non ci sono ombre, in lui, né lunari lati oscuri. È un sole che irradia luce e calore con noncurante generosità.
Si morde il labbro. Ecco ricomparire la soglia, oltre la quale estasi e perdizione lo attendono. Cosa succederebbe se la varcasse? Quali sarebbero le conseguenze? Sa – lo sente, col cuore e con tutto il corpo – che il rapporto con lui non sarebbe solo un’amicizia, e al di là di tutti i discorsi sul Männerbund che gli hanno ripetuto fin dai suoi primi giorni nella Hitlerjugend, sa cosa succederebbe se la cosa venisse scoperta.
Perché la vita non è solo puro cielo in cui involarsi: c’è anche la grigia terra, abitata da persone che non capirebbero e condannerebbero. Persone che prenderebbero il giovane falco e lo trascinerebbero nel fango.
Proferisce parole ferali: “Vorrei passare a vedere i miei.”
Il sorriso scompare dal volto di Siegfried lasciando il posto a un’espressione costernata. “Avevi promesso,” mormora incredulo. I suoi occhi limpidi, incapaci di falsità, sono colmi di smarrimento.
“I miei genitori,” argomenta Friedrich, incapace di guardarlo in faccia. “Devo vedere come stanno. I bombardamenti, capisci anche tu. Il razionamento...” Si interrompe. Spinge la mano a sfiorare quella di Siegfried, che rimane immota. “Sono pur sempre i miei.” Alza su di lui uno sguardo speranzoso.
“Certo, capisco,” risponde in tono incolore von Kleist.
“Anche tu vorrai vedere i tuoi, immagino,” tenta Lützow.
Siegfried alza le spalle. “Non ce li ho più, i miei.”
Ora è Friedrich a rimanere costernato. “Cosa?”
Di nuovo un’alzata di spalle. “Acqua passata, nemmeno me li ricordo più.” Poi solleva come sua abitudine la testa e la scuote come farebbe un puledro. I suoi occhi sono di nuovo limpidi, liberi dal velo di malinconia che li aveva per un istante offuscati.
Friedrich non replica. Ormai conosce l’amico – qualcosa di più di un semplice amico – e sa che l’argomento è chiuso. “Potrei...” comincia.
In un istante, lo sguardo di Siegfried gli si punta addosso. Lui alza il proprio a incontrarlo e il cuore gli salta un battito. “Potrei stare dai miei un paio di giorni e poi venire da te.”
Appena pronunciata quella frase, capisce che non ci sarà ritorno: il suo compagno non conosce esitazione, non conosce dubbio. È luce pura, è fuoco e ardimento.
Decide di donarglisi. In cuor suo del resto sapeva già che non avrebbe potuto essere altrimenti. Spiega a sua volta le ali, preparandosi a solcare quell’azzurro che sarà estasi e rovina per entrambi.
“Solo un paio di giorni e poi sarò...” avrebbe voluto dire tuo, si accontenta di ripetere da te.
Siegfried sorride. Se anche lui sia consapevole di ciò che li attende, non è dato sapere. Forse sì, ma sua è la noncuranza dell’eroe, immune dai timori piccoli dell’uomo comune. “Ti aspetterò,” dice semplicemente, e questo è tutto. La sua mano ora stringe quella di Friedrich, il suo sguardo guizza a cogliere quello del compagno, poi corre al cielo solcato di nubi che si vede dalla finestra.

È un'elegante Mercedes nera che li va a prendere all'aeroporto di Tempelhof. La guida un dignitoso autista in livrea, che chiama Siegfried signor conte e gli porta con deferenza la valigia.
Vagamente impacciato, Friedrich si accomoda accanto al compagno su un sedile morbido, che odora di cuoio fine e colonia, e la vettura si avvia.
Tra i palazzi si allargano voragini sempre più ampie. Spesso l’autista è costretto a compiere deviazioni, perché in molte strade ci sono squadre di ragazzi della Hitlerjugend che sgombrano macerie.
I due si scambiano un’occhiata consapevole, quindi simultaneamente volgono lo sguardo al cielo, in quel momento coperto di pesanti nubi.
La Mercedes procede inoltrandosi nel quartiere popolare in cui risiede Lützow. Al suo passaggio, la gente rimane a seguirla con lo sguardo e i bambini smettono di giocare. Qualcuno saluta col braccio teso, forse scambiandola per l’auto di qualche membro del Partito.
Il palazzo di Friedrich, uno scuro caseggiato popolare del secolo precedente, è ancora intatto. La macchina vi si ferma davanti, l’autista spegne il motore, scende e apre la portiera.
Lützow guarda lo sportello aperto come se fosse il portellone di uno Junkers 52 in volo, poi volge lo sguardo al compagno.
Questi si limita a sorridergli incoraggiante. “Quando torno a prenderti?” gli chiede, come se lo stesse lasciando davanti a un grande magazzino per qualche compera.
“Verrò io da te,” risponde Friedrich, gli occhi di nuovo fissi sul tratto di marciapiede grigio che lo sportello aperto incornicia. Più oltre, dentro il portone, al di là del cortile, c’è la scala che porta al suo appartamento. Può quasi sentire l’odore di cavoli e liscivia che vi aleggia perennemente, gli pare di udire un’eco delle canzonette che la sua vicina di pianerottolo ascolta sempre alla radio.
Pensa a sua madre. La vede china sui fornelli, intenta a cucinare qualcosa di buono. Avverte di colpo una dicotomia profonda, quasi dolorosa, tra quell’immagine di tranquilla quotidianità e tutto ciò che ha attraversato negli ultimi tempi. Si sente un estraneo, o più propriamente un iniziato, che ormai guarda il mondo con occhi nuovi. Rivolge ancora lo sguardo a Siegfried, cerca la sua mano con la propria. “Verrò io da te,” gli sussurra all’orecchio.
E poi si butta, come dal portellone dello Junkers 52, aspettando che l’ombrello del paracadute si gonfi dietro di lui. Non si volta per seguire la Mercedes che si allontana, per cercare di carpire un ultimo lampo della nuca bionda di Siegfried nel lunotto posteriore, altrimenti è certo che non riuscirebbe più a raggiungere la sua vita precedente. Si allontana caparbio, i pugni stretti in fondo a braccia così rigide da far male, e si ripete che era l’unica cosa da fare, che è stato meglio così. Che volare troppo vicino al sole porta unicamente alla rovina.

Tenendosi appena fuori dal rettangolo di sabbia del maneggio, in tono forbito il maggiordomo annuncia: “Signor conte, la cena attende che lei si compiaccia.”
Siegfried interrompe la figura di dressage che stava eseguendo, smonta da cavallo e consegna l’animale a un garzone di stalla, quindi precede il domestico all’interno della villa.
La sala da pranzo è così grande che ogni rumore si scompone di migliaia di echi sull’alto soffitto. Lungo le pareti affrescate, cariatidi di donne in armi lo scrutano mute e severe. C’è un solo coperto, a capotavola. Dietro la sedia attendono immobili due camerieri in livrea.
“Buona sera, signor conte,” lo accoglie il più vecchio dei due.
“Buona sera, Johann,” risponde Siegfried, quindi si siede, spiega il tovagliolo e se lo pone sulle ginocchia.
In quel silenzio, il rumore del vino che viene versato nel calice è quello di una gora impetuosa, l’acciottolio lieve delle stoviglie fa pensare a sassi che rotolano lungo il fianco di una montagna.
Siegfried sposta con la forchetta ciò che ha nel piatto, assaggia un boccone di malavoglia, beve un po’, ma gli sembra che niente abbia sapore.
Sarà stato trattenuto dai parenti, si dice, avrà dovuto restare più del previsto. Fa scorrere lo sguardo sulla lunghezza del tavolo vuoto. Non si intende molto di parenti, per la verità: i suoi genitori quasi non se li ricorda più. Dei suoi tre fratelli, uno è caduto per la Patria all’inizio della guerra e gli altri due sono al fronte. È tanto che non li vede.
Si rende conto di non ricordare un’occasione in cui ha visto quel tavolo completamente occupato.
Abbassa gli occhi sul piatto, ripensa a quando lui e Friedrich si sono divisi una tavoletta di cioccolato alla caffeina prima di allontanarsi dal fienile diroccato.
Nonostante il dolore, la stanchezza e la paura di quel frangente, sorride fra sé e sé al pensiero.
Sarà stato trattenuto, pensa di nuovo. Gli sfugge di mano la forchetta, il rumore improvviso quasi lo fa sobbalzare.
Nel profondo del suo cuore, segreto, doloroso, alberga il timore che Friedrich possa non arrivare. Che lo consideri uno scioccherello fatuo, non alla sua altezza. Un ragazzetto viziato che fa bravate per il solo gusto di farsi notare.
Abbassa lo sguardo come per un rimprovero.
Rievoca con nostalgia i lineamenti del compagno, i suoi occhi profondi e seri. Lo immagina con elmo e scudo sui bastioni di una fortezza, la croce nera sul petto, armato del tranquillo coraggio della fede.
Allontana il piatto ancora pieno, vi depone accanto il tovagliolo e si allontana a grandi passi.

La signora Lützow si asciuga le mani nel grembiule e fissa pensosa il figlio. “Che c’è, non hai fame?” gli chiede preoccupata. “Eppure ho fatto la zuppa di patate come piace a te.”
Friedrich alza gli occhi sulla donna: ha più rughe rispetto all’ultima volta che l’ha vista, più capelli grigi. Sicuramente avrà dato fondo alla tessera del razionamento per offrirgli quel piatto. Sorbisce qualche cucchiaio, più che altro per farle piacere, ma la minestra sembra non avere alcun sapore.
Allontana la scodella, si alza e dice: “Scusa, mamma. È buonissima, ma non ho fame.”
“Che c’è, non stai bene?”
Friedrich scuote la testa. Non sta bene, in effetti, ma certo sua madre non capirebbe il genere di malessere che lo affligge. Non capirebbe il dolore e il senso di vuoto che lo stanno letteralmente mangiando dentro, che gli tolgono il sonno, l’appetito e la tranquillità. Emette un lungo sospiro e semplicemente dice: “Perdonami: devo andare.”

Arriva al piccolo centro vicino a Potsdam dove abita Siegfried su un camion di militari della riserva, scende nella piazza del paese e non ci mette molto a trovare la villa della famiglia von Kleist: è un’imponente costruzione barocca circondata di querce secolari, ammantata delle prime nevi.
Si ferma per qualche istante davanti al cancello di ferro battuto, deglutisce con la bocca secca e il cuore che gli batte all’impazzata. La metaforica soglia su cui tante volte si è affacciato, affascinato ma anche timoroso, se l’è già lasciata alle spalle; l’attimo di immobilità senza peso ha ceduto il posto alla folle caduta della vite e lui ormai sa solo una cosa: che oltre quelle sbarre c’è Siegfried.
Ci sono i suoi movimenti eleganti, la sua temerarietà, il suo fuoco. Inspira di nuovo profondamente, socchiudendo gli occhi come per distoglierli brevemente dalla contemplazione del palazzo settecentesco. La luce sta già calando, il cielo sta assumendo la tonalità opulenta dell’ora blu. Pallida, ancora sbiadita, una falce di luna sembra una pennellata data per sbaglio, uno sbaffo che rovina invece di abbellire.
Friedrich la guarda e di nuovo gli torna in mente la frase sul lato nascosto che tutti dovrebbero avere. Colpevolmente ricorda gli ultimi eventi e si rende conto di averlo lui stesso. Un lato cauto, calcolatore, che soppesa rischi e conseguenze. Che si preoccupa di quello che potrebbe pensare la gente.
Se rivolge lo sguardo al palazzo, invece, ha quasi l’impressione che dalle finestre filtri la luce di Siegfried: una luce pura, adamantina, senza ombre.
Un rumore di passi lo fa sussultare. Un uomo con una redingote scura si sta avvicinando. “Il signor tenente desidera?” gli chiede fissandolo serio.
Friedrich deglutisce. “Sono un camerata di Siegfried von Kleist,” risponde, e all’alzata di sopracciglio dell’altro si corregge: “Del conte von Kleist. Lui… voglio dire, il conte mi sta aspettando.”
“Attenda un attimo, prego.”
L’uomo si allontana verso una costruzione poco distante. Friedrich, che al suo arrivo aveva fatto un passo indietro, torna ad aggrapparsi alle sbarre. Al di là c’è un viale coperto di ghiaia, bianco nella luce ormai cupa del crepuscolo, e più oltre la sagoma scura della villa.
Cerca di immaginare in quale punto di quella massa nera si trovi Siegfried, si augura che lui ci sia, che lo stia ancora aspettando.
Che non lo disprezzi per aver esitato.

“Signor conte?”
Siegfried alza la testa dal libro che sta leggendo. “Che c’è, Johann?”
“Un ufficiale chiede di lei, signor conte.”
“Cosa? Un ufficiale?”
“Un tenente. Ha detto che è un suo camerata, signor conte. Mi sono preso la libertà di farlo accomodare nel salotto verde e...” non fa in tempo a finire la frase: Siegfried butta il libro da una parte ed esce di corsa dalla stanza.
Divora il corridoio, scende a precipizio le scale.
Friedrich. Lui lo sa che è Friedrich. Verrò io da te, ha detto.
Raggiunge il salotto verde e spalanca la porta.
Lui è lì. È in piedi a una certa distanza dalle poltroncine di velluto, come se le disdegnasse. Con le mani dietro la schiena, sta osservando un quadro appeso alla parete.
Gli corre incontro, lo abbraccia con tale impeto da obbligarlo a fare un passo indietro per mantenere l’equilibrio, poi si sente cingere da lui, stringere così forte che quasi gli manca il respiro. Ma non basta, non più. È passato il tempo degli sguardi carichi di desiderio, il tempo delle distanze dolorosamente mantenute.
È passato il tempo delle cose che non si possono fare.
Alza il viso verso di lui, va a cercare le sue labbra con le proprie. Friedrich risponde con un bacio che sembra il tracannare di un assetato: profondo, intenso, colmo di un lancinante anelito.
Incuranti di qualsiasi cosa crollano sul divano, le bocche ancora unite, le mani che si fanno sempre più audaci, mentre l’eccitazione cresce come una marea che spazza via qualsiasi cosa.
Alla fine è Friedrich, ansante, scarmigliato, con il volto arrossato e umido di baci, che mormora: “Andiamo... da qualche parte.”
Siegfried annuisce come se non stesse aspettando altro. Si libera agile dal suo abbraccio, si alza e semplicemente ripete: “Andiamo.”
Basta quella semplice parola per descrivere quello che sarà: andiamo, lasciamoci dietro tutto, noi siamo già oltre.

Friedrich lo segue per i corridoi oscuri con sicurezza, come se davvero a guidarlo fosse una luce. Ripensa a una frase di Nietzsche: ciò che viene fatto per amore accade sempre al di là del bene e del male.
Si chiede se sarà così anche per loro.
Lo schiudersi di una porta lo distoglie dal suo ragionamento: oltre la soglia vi è una camera da letto morbidamente illuminata da un’abat jour. Sul tappeto c’è un libro aperto.
Si buttano dentro. L’anta sbatte dietro di loro, serrata con forza nella frenesia di gettarsi di nuovo l’uno fra le braccia dell’altro. Crollano avvinghiati sul letto ansimando, divorandosi di baci. Sfilate da mani che l’urgenza rende imprecise, le uniformi si ammucchiano sul pavimento.
E poi sono insieme: pelle contro pelle, le bocche per l’ennesima volta unite, i respiri che si mischiano. Se anche razionalmente non hanno idea di cosa si debba fare, i loro corpi e i loro istinti sembrano saperlo da sempre. Essi li guidano: come ali potenti, li sollevano verso le vette di un piacere che non ha nome, ma li lascia storditi ed ebbri come adepti cui è stato concesso di contemplare il Sublime.
Quando l'atto giunge a compimento, essi si abbandonano l'uno contro l'altro esausti, con la consapevolezza che tra loro sia successo qualcosa cui erano da sempre destinati.

È la luce che filtra dalle tende a svegliarli. Nessuno è venuto a bussare alla porta del signor conte: forse è ancora troppo presto, o forse i domestici immaginano che vedrebbero cose impossibili da ignorare e preferiscono rimanere fuori.
La cosa non li sfiora nemmeno, sono di nuovo i corpi a dettare legge. Il mondo scompare mentre ancora una volta le ali potenti della passione li spingono verso il nitore delle vette.
Quando ridiscendono verso terra, non ci sono parole umane che possano descrivere il sentimento che li pervade.
Si limitano a scambiarsi un lungo sguardo silenzioso, con la consapevolezza che dopo aver raggiunto l'acme non potrà che esserci l'inesorabile caduta. Un aereo non può restare fermo nel cielo, e anche loro sono così, destinati ad attraversare tutto a folle velocità senza potersi fermare. Guardare il mondo dal punto di vista degli dei ha un prezzo, del resto.

Qualche giorno è concesso ai due. Un assaggio di vita segreta dalla quale tutto il resto è escluso, sulla quale nessuno può esercitare controlli, porre veti. Un mondo in cui esistono solo loro.
Come purosangue tenuti a freno per troppo tempo, essi sono ansiosi di dar sfogo a tutta l’energia accumulata, avidi di libertà, traboccanti di desiderio.
Si amano. Totalmente, in maniera assoluta. Se fosse possibile, si amerebbero ogni giorno di più, ancora di più, sempre, fino a un parossismo, fino a che la fiamma che arde in loro non li consumasse in un lampo abbagliante.
Morire così, in un'esplosione di luce accecante, insieme, sarebbe una dolce morte.
Ma la guerra non tarda a ricordarsi di loro. Il suo artiglio li ghermisce dove si sono rifugiati, nella villa barocca, tra i campi innevati della tenuta.
Giunge sotto forma di un telegramma, che i due trovano al rientro da una cavalcata. Siegfried se lo vede recapitare con solenne deferenza dal maggiordomo.
Quale decadente eleganza, gli viene fatto di pensare. Al signor conte la morte giunge su un vassoio d'argento.
Ancora prima di aprirlo sa cosa contiene. Solo il luogo e l'ora non gli sono noti, ma quelli in fondo non sono che vili dettagli.
Strano non aver sentito rumore di zoccoli. La Morte cavalca un morello nero come il carbone, non è così che dicono gli antichi versi?
Alza il viso, fa girare lo sguardo su tutto ciò che lo circonda: il palazzo avito, la campagna che si stende fuori, il suo destriero, il sole, il vento. Sta prendendo commiato.
Infine ferma gli occhi in quelli di Friedrich e il suo sguardo è limpido e saldo.
“È inutile perdere tempo,” dice, “voglio la mia migliore uniforme.” Si rivolge ironico al compagno: “Questa è un'occasione in cui non ci si può mostrare sciatti, non ti pare?”
Fa un sorriso tirato, ma gli occhi sono indomiti, fieri. E la testa è orgogliosamente eretta.
“Andiamo, Friedrich. E' ora di volare. È ora di staccarsi da terra. Siamo nati per il cielo in fin dei conti.”

Vanno. Non c'è tempo per gli addii strazianti, e forse è bene che sia così. Sarebbe solo zavorra inutile per due rapaci che si apprestano a combattere nei cieli.
Vengono accompagnati all'aeroporto di Tempelhof dalla Mercedes nera. Decisamente, la Morte tratta bene il signor conte.
La Morte evidentemente è sensibile ai titoli nobiliari. E' raro infatti che sia così forbita. Di solito ghermisce e strazia, non invita così compitamente.
E Siegfried accoglie anche quei discutibili privilegi come se fossero le cose più naturali del mondo. Sembra muoversi a suo agio come nel salone delle feste di casa sua.
Lui e Friedrich si presentano al comandante dello stormo, ascoltano le consegne, si fanno indicare i loro aerei. Non c'è altro da dire.
Centinaia di Fortezze Volanti stanno giungendo da ovest, a momenti saranno su Berlino per scaricare tonnellate di morte e distruzione su civili inermi. Compito dei cavalieri è proteggere i deboli, anche a costo della vita.

Il falco avanza risoluto. Passa davanti alla fila dei piloti silenziosi guardandoli uno per uno, come per motivarli, per dar loro un esempio.
Spavaldo, temerario. Testa alta, per prima cosa. Anche la morte - anzi, soprattutto quella - si deve affrontare con fermezza.
Si avvicina al suo aereo. Un Focke Wulf 190 D. Un ottimo caccia. Sorride soddisfatto, farà un buon lavoro. Ne porterà parecchi con sé.
Accanto a lui, con un aereo analogo in dotazione, c'è Friedrich. Pacato, tranquillo. Lo sguardo sereno e al tempo stesso carico di una consapevolezza straziante.
Siegfried lo fissa, negli occhi gli passa il consueto guizzo. Si fa avanti con un balzo agile. È nel piazzale, davanti a tutti, ma lo abbraccia stringendolo a sé.
“Friedrich,” mormora, “io... volevo dirti che...” Si ferma, deglutisce. Un attimo di commozione glielo possiamo anche concedere, non è facile abbandonare la vita e l'amore a poco più di vent’anni con la leggerezza con cui si butterebbe un pugno di terra dietro le spalle. Anche se ti chiami Siegfried, anche se la tua famiglia combatte da secoli contro i nemici della Germania.
Posa la testa fra la spalla e il collo dell'altro.
Un abbraccio può durare un'eternità?
O forse quello diventa l'eternità, cristallizzata, immobile, quando si sta per affrontare la morte.
Cosa c'è dopo non lo sa nessuno, nessuno è tornato a raccontarlo. Si conosce solo la paura ancestrale di fare il grande salto.
Se fossi certo di ritrovarlo di là, pensa Siegfried con il volto contro il collo dell'amato, se ne fossi certo, allora non mi importerebbe di morire. Quello che mi strazia è il terrore di finire in un'oscurità gelida, solo, per sempre senza di lui.
Ma testa alta, innanzitutto. Siamo nati per morire, non è così che si legge in ogni caserma?

Troverà la morte su una macchina d'acciaio e alluminio sparata nel cielo a seicento chilometri l'ora e lo sa perfettamente. Fa solo che sia breve, mormora tra sé.
Un'ultima occhiata all'amato, un ultimo sorriso e va.
Sono tanti come lui, cavalieri del cielo che si lanciano contro le orde di invasori. Sa già che combatteranno fino all'estremo sacrificio. Ma così dev'essere. Sta finendo l'era dei cavalieri, comincia quella dei ratti.
E allora è meglio così. Che mondo è quello dove un cavaliere è sopraffatto da un'orda di ratti? Un mondo dove non è poi così desiderabile vivere.
Se non fosse per Friedrich che lo sta guardando, forse non sarebbe neanche male andarsene così.
“Facciamo a chi ne abbatte di più?” chiede prima di chiudere la capote. “Peccato solo che non potremo confrontare il bottino.”
L'altro si ferma per un attimo, il braccio teso a sostenere a sua volta il tettuccio. “Lo confronteremo nel Walhalla, Siegfried.” Sorride fiero, orgoglioso. “Per cui fa' del tuo meglio, non vorremo presentarci a mani vuote.”

Ma è finito il tempo delle parole, ora si deve combattere. Le fortezze sono quasi sulla periferia della città. Uno dopo l'altro i caccia si involano rapidi e spariscono verso l'orizzonte nel cielo di smalto.
Anche Siegfried e Friedrich sono in volo, nella formazione tipica di capopattuglia e gregario.
Le comunicazioni radio si sovrappongono in un magma concitato.
“Viermot a ore dodici, Hanni 2000.” Questa è l'unica notizia che vale la pena di tenere in considerazione.
Di Viermot ce n'è da oscurare il cielo.
Sono centinaia e ognuno di essi porta nel ventre tonnellate di morte.
Quanti ne potranno distruggere? Quanti di quell'orda immane?
Quanti? Tutti quelli che capiteranno davanti alle loro mitragliatrici.
Siegfried dà tutta manetta, il caccia schizza in avanti, si inclina, guizza verso i primi bombardieri. Viene accolto da un uragano di fuoco, spara contro la carlinga del più avanzato, cabra, si disimpegna.
Il primo dei Viermot punta verso terra.

Il suo aereo è Bianco Tre. Lo si può vedere guizzare come uno squalo fra i nemici. Colpisce, abbatte, si sgancia.
Un meccanismo perfetto. O almeno dovrebbe esserlo
Ma se diamo retta a von Clausewitz, già è difficile vincere una battaglia contro forze nemiche doppie. Figuriamoci qui, dove combattono dieci a uno. E anche una belva, in un branco di cani, soccombe.
Una raffica colpisce la fusoliera di Bianco Tre. L'attraversa di taglio, da davanti in alto a dietro in basso come una sciabolata. Da come vibra l'aereo, il pilota è stato colpito. Un altro Mustang cade sotto le sue mitragliatrici, però. Si era fatto troppo spavaldo, attirato dalla preda facile. Paga con la vita il suo errore.
Come un cinghiale incalzato dai cacciatori, Bianco Tre indietreggia, si difende, ma nulla può contro forze così soverchianti.
E infine sembra rimanere per un istante immobile nel cielo mentre un'altra raffica lo coglie nel mezzo di un'elegante virata sfogata.
La virata non si compirà mai. L'aereo cade in vite e si schianta in un delirio di fuoco e fiamme.

Ma un altro aereo ci interessa, è Bianco Quattro. Un altro fiero combattente, i Mustang d'argento hanno imparato a rispettarlo.
Loro così tracotanti, che si credono i padroni del cielo perché sono dieci volte più dei tedeschi.
Il caccia guizza fra loro facendo vittime come il Tristo Mietitore, ma anche in questo caso la battaglia è persa in partenza. L'unica cosa che può fare è perderla con onore.
Ci sono i Viermot. Quelli devono andare giù, loro e il loro carico di morte.
Il caccia si porta in posizione d'attacco, spara, cabra e si disimpegna, ma non è facile fare manovre del genere in uno stormo di bombardieri.
Bianco Quattro viene preso nella turbolenza di scia dei grossi aerei, sbanda, perde quota. Nell'attimo un caccia nemico ne approfitta per prenderlo di coda. Bianco Quattro si disimpegna, ci vuol altro, ma nel frattempo ne arrivano altri, e tutti si accalcano per buttarglisi addosso.
La battaglia fa presto a finire: una raffica gli tronca un'ala e gli attraversa la fusoliera come una fascia.
Chi avesse buon colpo d'occhio potrebbe notare la capottina schizzata di sangue all'interno, dunque il mostro d’acciaio aveva un cuore pulsante.
Ma è tardi ormai, il Focke Wulf senza più controllo butta il muso verso il basso ed entra in vite. Pochi secondi e la campagna del Brandeburgo accoglie il suo figlio prediletto.
In cielo la battaglia continua, la guerra non si ferma per così poco.

O viandante, annuncia agli Spartani che qui
noi morimmo obbedienti al loro comando.



Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3831471