Post Captain

di Spoocky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Disclaimer: i personaggi riconoscibili non mi appartengono e questo scritto non è a scopo di lucro. 

Warning: descrizione di ferite da battaglia, pur non nel dettaglio. 

Questa storia, e questo capitolo in particolare, sono dedicati a nattini1 che voleva leggere di interventi chirurgici ad opera di Stephen, con i miei migliori auguri ^^

Buona Lettura ^^


Quando glielo deposero davanti, Stephen vide solo sangue.
Il liquido cremisi sgorgava inesorabile, impregnando i vestiti lacerati al punto da impedirgli di individuare l’origine del sanguinamento a prima vista. Il rosso pulsante del corpo disteso sul tavolo operatorio soppiantò il pallore cadaverico del volto di Aubrey, ancora fisso nella sua mente, spingendolo verso il fondo dei suoi pensieri e permettendogli di concentrarsi su chi aveva più bisogno del suo aiuto in quel momento.
La figura dinoccolata del marinaio gli era apparsa da subito famigliare ma fu scostandogli i capelli,  scioltisi nella foga della battaglia e incrostati di sangue rappreso, dal viso che con una fitta al cuore riconobbe il giovane Thomas Pullings. 
Contratti per il dolore anche nella profonda incoscienza in cui versava, i lineamenti dell’allievo erano ingrigiti e ricoperti da una patina di sudore. La pelle era gelata, sintomo della copiosa emorragia, e respirava con evidente fatica. Tastandogli il torace, mentre i suoi assistenti facevano pressione sulle ferite per rallentare il flusso di sangue, Maturin individuò una depressione causata dalla frattura di due costole sul fianco destro.

Tagliò la camicia con il bisturi e la strappò a mani nude senza rimorsi: sarebbe finita da buttare comunque. Sotto trovò una serie di lividi, freschi ma profondi, che circondavano l’area delle fratture, dove l’infiammazione aveva già iniziato a gonfiare la carne. Con una serie di guizzi secchi delle dita, ricompose la cassa toracica come meglio poteva. Il corpo dell’allievo sussultò violentemente sotto di lui, e gemette attraverso il pezzo di cuoio che gli avevano fatto scivolare tra i denti ma, con grande sconcerto del dottore, non riprese conoscenza. 

“Non andatevene, Tom. Non così!” Si ritrovò a sussurrare, contro la sua volontà cosciente, mentre scollava brandelli di tessuto dalla coscia destra del giovane, dilaniata da sopra il ginocchio fin quasi all’anca, la pelle squarciata ed i muscoli a vista. Riconobbe l’operato terrificante di un proiettile di mitraglia e pregò con tutto il cuore che il femore fosse ancora intatto, o avrebbe dovuto amputare la gamba e il suo paziente avrebbe potuto non sopravvivere.
“Grazie a Dio! Grazie a Dio!” singhiozzò quando si accorse che, non solo l’osso, ma anche i vasi sanguigni principali erano intatti.
Impiegò un tempo indefinito, un minuto, un’ora, una vita intera, a ricomporre i muscoli e l’epidermide lacerati per poi rinsaldarli attraverso le suture.
Avvolse la ferita in diversi strati di bende con un’attenzione che sfiorava la tenerezza.

Stava per passare alla spalla sinistra, una ferita di spada profonda un pollice abbondante, quando i francesi irruppero nell’infermeria, e due di loro lo afferrarono alle spalle, strappandolo di forza dal tavolo operatorio.
“No! No! No!” Gridò, contorcendosi come un’anguilla per divincolarsi dalla presa ferrea dei due energumeni. Senza rendersene conto, contrasse spasmodicamente le dita sulla lancetta e un terzo individuo gli si avventò contro, cercando di forzare la sua stretta con entrambe le mani.
Attorno a lui echeggiavano grida e insulti, molto probabilmente stavano anche piovendo colpi ma non vi prestò attenzione: gli importava solo del ragazzo che si stava dissanguando sul suo tavolo.

“Fermi! Fermi, che il diavolo vi porti!” Una voce più forte ed autoritaria delle altre irruppe nella foschia del suo smarrimento e si bloccò immediatamente, congelandosi tra le braccia dei suoi assalitori. Solo in quel momento si accorse che il nuovo arrivato aveva parlato in Francese, ma si stava ora rivolgendo a lui in un Inglese ineccepibile, sebbene con un forte accento: “Voi dovete essere, le docteur. E’ corretto?”
“Sì.” Rispose lui, secco.
L’altro, un pezzo d’uomo di sei piedi abbondanti[1] e robusto quasi quanto Jack, annuì comprensivo e ordinò ai suoi uomini di lasciarlo andare: “Non farà del male a nessuno. Lasciategli fare il suo dovere.”

Maturin non perse tempo con le presentazioni ma si precipitò subito accanto al suo paziente.
Fu enormemente sollevato nel constatare che respirasse ancora. Il processo di coagulazione iniziava a prendere piede e l’emorragia dalla spalla era rallentata notevolmente, ma una ferita del genere andava suturata quanto prima per eliminarne la pericolosità.
Era talmente assorto nelle sue osservazioni da non notare che l’uomo misterioso si era portato dall’altra parte del tavolo e, piegando il tronco con le braccia incrociate sul petto, stava studiando anch’egli il corpo martoriato che vi era disteso, con un' espressione di sensibile comprensione. Neppure vide come l’altro non poté impedirsi di aggrottare le sopracciglia, quando realizzò la gravità della situazione.

Non si accorse di lui finché non lo sentì considerare:  “E’ molto giovane.”
Stephen non batté ciglio e continuò a pulire con delicatezza i labbri infiammati della lacerazione, tastandoli con i polpastrelli per accertare l’assenza di corpi estranei, ma non gli sfuggì il fatto che lo sconosciuto avesse parlato in Inglese, per farsi capire: “Ventun’ anni lo scorso agosto.”
Con la coda dell’occhio, vide l’altro irrigidirsi: “Mon Dieu, è quasi un bambino! Lo conoscete?”
“Da un paio d’anni. Ho servito con lui in precedenza.”
“Sono delle brutte ferite. Deve aver combattuto bene e aver resistito fino all’ultimo, per uscirne così.”
“Sì.” Accondiscese il chirurgo, con un tono deliberatamente brusco, appena nei limiti dell’accettabile “Ma non gli resterà molto da vivere, se non intervengo. E per farlo ho bisogno dei miei strumenti.”
Il suo sguardo corse verso il marinaio francese che stava osservando i suoi attrezzi con un’ espressione vorace, come se stesse valutandone il prezzo in un’ eventuale asta.
Gli occhi dell’estraneo seguirono i suoi e quando l’avvoltoio se ne accorse, arretrò immediatamente di un passo, abbassando la testa mortificato.

Fu in quel momento che Stephen capì di avere davanti il capitano di quella gente, o quanto meno un ufficiale comandante e provò un improvviso moto di rispetto verso di lui, per il modo civile in cui lo stava trattando: a quel punto era evidente che fossero stati catturati, e quell’uomo aveva ora su di lui potere di vita e di morte.
Sentendo il suo sguardo su di sé, il Francese si voltò e, con sua grande sorpresa, sorrise, incoraggiandolo con un cenno del capo: “Lavorate tranquillo, docteur, salvate la vita di questo poveretto. Baderò io che nessuno vi disturbi, e potete stare certo che non vi saranno altre interferenze.”   

Se la ferita sulla coscia era slabbrata e irregolare, la spalla presentava invece una lacerazione netta, con i bordi ben definiti.
Stringendo gli occhi a due fessure, inserì il filo nella cruna dell’ago annodandone il capo estremo per suggellare la sutura. Accostò con le dita i margini della ferita, li trapassò con l’ago e vi fece scorrere il filo attraverso, sigillando il primo punto. Poco dopo, il braccio di Pullings cominciò a contrarsi e a sussultare, sull’onda di spasmi involontari causati dal dolore. Fu l’ufficiale Francese ad appoggiarvi sopra le mani, aiutando Maturin a mantenere tesa la pelle e permettendogli di portare a termine la ricucitura in tempi ragionevoli.

Finalmente, Stephen poté lavare la zona circostante la ferita, coprirla con dei tamponi di garza, e avvolgerla delicatamente con un rotolo di bende. Poi sfilò il morsetto di cuoio dalle labbra dell’allievo e gli accarezzò una guancia con la mano libera, lasciando scorrere le dita sulla sua epidermide umida e gelata  finché il palmo non andò a posarsi sulla giugulare.
Per un lungo momento rimase immobile, assaporando il pulsare silenzioso della vita sotto la sua mano e trattenendo le lacrime di sollievo che gli bruciavano gli occhi.  

Alzò lo sguardo, intenzionato a passare lo straccio umido sul volto di Pullings per detergerlo, ma venne sbilanciato da un capogiro improvviso: l’infermeria prese a girargli vorticosamente intorno mentre i corpi distesi sul tavolo diventavano due e poi quattro.
Tutto era sfocato e confuso.

La pezza gli scivolò di mano, tentò inutilmente di aggrapparsi a qualcosa ma perse immediatamente la presa e sarebbe caduto a terra se qualcuno non lo avesse sostenuto. Si sentì afferrare per un gomito e condurre con fermezza fino ad un supporto orizzontale prima ignoto, dove venne fatto sedere.
Qualcuno gli stava parlando, non capì di cosa, ma riconobbe la voce dell’ufficiale francese. Con un supremo sforzo di volontà alzò la testa nella sua direzione generica e sbiascicò: “Il ragazzo...”
“E’ vivo, docteur, e presto starà bene. Potete rilassarvi adesso, state tranquillo.”
Maturin scosse il capo, provocandosi un’ulteriore ondata di vertigini che per poco non lo abbatté: “Il ragazzo... ha le costole rotte.” Strinse i denti per dominare la nausea “Bisogna farlo stendere... adagio... con la testa e le spalle sollevate... sempre... ha difficoltà a respirare.”
“Non preoccupatevi, docteur: me ne occuperò io. Voi avete bisogno di riposare.”

Poi diventò tutto buio.

Quando Stephen riaprì gli occhi, si trovò disteso a terra, con la giacca piegata sotto la testa come cuscino. Scattò a sedere e dovette portarsi una mano alla fronte per l’ondata di capogiri che ne conseguì.  Si riprese piuttosto rapidamente e subito iniziò a fare il punto della situazione: erano stati catturati e, a quanto poteva vedere, confinati nella stiva del veliero, Jack era stato ferito.

JACK!

Il pensiero dell’amico in pericolo lo galvanizzò immediatamente e scattò in piedi.
Trovò il comandante riverso in posizione supina a un braccio scarso da dov’era stato disteso lui. Controllò immediatamente i segni vitali e scoprì con sollievo che respirava correttamente, mentre il cuore batteva forte e regolare. L’unica fonte di preoccupazione era il prolungato stato d’incoscienza.
Voltando delicatamente la testa dell’amico con una mano, vide una serie di ematomi che andavano formandosi dalla tempia sinistra fino sopra l’orecchio, dove sparivano sotto i capelli.

“Beh, mio caro, hai sempre avuto la testa dura: supererai anche questa.” Lo disse più a se stesso per farsi coraggio che ad Aubrey, perché era abbastanza convinto che questi non potesse sentirlo. Non si poteva mai dire, con le ferite alla testa: potevano stabilizzarsi e poi precipitare all’improvviso, senza che si potesse intervenire in alcun modo.  C’era anche ben poco da fare, in effetti, con Jack incosciente: poteva solo sperare, e pregare, che la situazione si risolvesse.
Strinse forte la spalla dell’amico, nella speranza di comunicargli tutto il suo affetto e dargli un appiglio per tornare al mondo dei viventi, e si tirò in piedi.

Visitò rapidamente i suoi pazienti: grazie a Dio, i Francesi avevano avuto il buon senso di separare i malati d’influenza dagli altri, e i suoi feriti erano in condizioni relativamente stabili. Apprese da un marinaio che, mentre era incosciente, i loro carcerieri li avevano perquisiti e privati della maggior parte dei loro beni, tra i quali gli inestimabili strumenti chirurgici anche se, nel complesso, erano stati trattati più che decentemente.
Soffocando una serie di virulente imprecazioni, Stephen si accostò ad un capannello di uomini, riuniti intorno ad una figura prostrata sul pavimento che riconobbe come Thomas Pullings.

“Adagio, adesso. Adagio! Adagio!”
“Vedi di fare più attenzione, Wilkies, imbranato d’un leccapalle!”
“Morte e dannazione a te, Stevenson, scimunito pidocchioso!”
“Signori.” Al sentire la voce di Maturin, i marinai si placarono istantaneamente “Potrei sapere cosa stareste facendo al mio paziente?”
“Beh, signore... dottore, cioè, sarebbe che Stevenson, qui, è riuscito a recuperare una camicia e dei calzoni puliti dal baule del signor Pullings prima che i mangiarane lo sequestrassero, e siamo appena riusciti ad infilarglieli.”
“Non potevamo mica lasciarlo lì mezzo spogliato” spiegò l’interessato, come per giustificarsi “Non va bene per un giovane gentiluomo come lui.”
Sinceramente toccato dalla premura degli uomini, Stephen si inginocchiò accanto all’allievo e gli prese un polso tra le dita, per contargli i battiti: “Si è svegliato? Ha detto qualcosa?”
“No, dottore.”
“Niente, dottore. Però il capitano francese ha detto che voi avete detto di tenergli su la testa ed è quello che abbiamo fatto.” Effettivamente, le spalle di Tom erano puntellate dalle ginocchia di un marinaio, che gli cullava la testa nel proprio grembo.
Il chirurgo notò la secchezza delle labbra e delle narici del giovane, mentre le vene pulsavano troppo velocemente sotto i suoi polpastrelli e la pelle gelida era ancora ricoperta dal sudore freddo: “Ha perso molto sangue.” Constatò “ Forse troppo.”
“Ce la farà, dottore?”
Solo allora Stephen si rese conto di aver parlato ad alta voce e di non poter ritrattare: “E’ giovane e forte, confidiamo in questo. Sapreste dirmi che ore sono, per cortesia?”
“Hanno appena suonato i due colpi della prima guardia, dottore.”
Circa le nove di sera, dunque: “Molto bene, signori. Vi dispiacerebbe trasportare il signor Pullings presso il mio giaciglio? Vorrei poterlo sorvegliare questa notte.”
“Certo, dottore.”

Nel giro di pochi minuti, Stephen si trovò con la schiena appoggiata alla paratia e la giacca sotto la testa, aprì le braccia e vi accolse il corpo inerte di Tom, supportandolo con il proprio, petto contro petto, mentre la fronte gelata del ragazzo si andava a posare nell’incavo del suo collo.  Per quanto filiforme potesse essere, l’allievo era molto alto e il suo peso non indifferente, ma riuscì a distribuirselo addosso in maniera soddisfacente.

Il marinaio che prima aveva tenuto il ragazzo sulle ginocchia si sfilò la giacca dalle spalle e vi avvolse sia il ferito che il dottore. Quello che avevano chiamato Wilkies si sedette accanto a loro e sfilò i capelli dell’allievo dalla coperta improvvisata, lasciando che si spargessero sulle sue spalle prima di produrre un nastro di riserva da un qualche meandro dei suoi indumenti.
“Con permesso, dottore, ma non sta bene lasciarlo così.” In pochi, agili, movimenti raccolse la capigliatura del giovane in una coda e annodò la striscia di tessuto prima di salutare e ritirarsi. Solo allora il medico notò che avevano anche provveduto a lavare via il sangue dai capelli del ferito.

In tutto quel movimento, Pullings non si era mosso di un centimetro e non aveva emesso un fiato, anche se Stephen sapeva che, per quanto fossero stati cauti nel maneggiarlo, dovevano sicuramente avergli provocato dolore.
Quella debolezza lo spaventava: esisteva la possibilità concreta di perdere sia il suo amico più caro che il giovane subordinato, per il quale entrambi avevano maturato un sincero affetto.

Pur non essendo di norma dedito ai sentimentalismi, in quel momento Maturin venne sopraffatto dall’angoscia al punto da stringere il ragazzo più forte che poteva, come avrebbe voluto fare con Jack se avesse potuto. Si spinse addirittura a premere le labbra sulla fronte del giovane, sfiorandogli l’attaccatura dei capelli con un bacio leggerissimo: “Resistete, Thomas, ve ne prego.”
Come unica risposta, ricevette gli ansiti sommessi ed irregolari che costituivano il respiro del giovane. Lo accompagnarono nel sonno, rassicurandolo sul persistere della sua vita.
 
Note: 
[1] Poco più di 1,80 m


 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Disclaimer: stesso di prima. Non faccio la fame solo perchè mi nutro degli ortaggi scagliatimi contro dai lettori ^^
Il mio unico guadagno sono le belle parole di chi commenta, che ringrazio di cuore perchè mi riempiono di gioia. 

Buona Lettura ^^


Stephen si svegliò diverse ore dopo, con un peso enorme sul petto e qualcosa che gli tirava la camicia.
Lontano, in uno spazio ed un tempo indefiniti, qualcuno stava piangendo.
Man mano che la coscienza ritornava, riconobbe quei lamenti come gemiti di dolore: rannicchiato contro di lui, qualcuno stava soffrendo terribilmente.
Quel pensiero bastò a svegliarlo del tutto. Riaprendo gli occhi, trovò ad accoglierlo i capelli castani di un Tom Pullings pallidissimo che tremava e gemeva forte, aggrappandosi con le mani alla sua camicia e premendo la testa contro la sua spalla.

“Shh.” Il suo primo istinto fu accarezzargli il capo e stringerlo a sé “Shh. Sono qui, sono qui. Dove sentite dolore?”
“La gamba.” Ansimò il giovane, a denti stretti “La gamba.”
“Come va la spalla? E il fianco?”
“Meno. Oddio! DIO!” singhiozzò il ragazzo, nascondendo il volto nel suo petto.

Non passò molto tempo prima che Maturin percepisse il calore umido delle lacrime attraverso la camicia. Inghiottendo il groppo che gli ostruiva la gola, fece scivolare la mano sulla coscia ferita di Pullings e non tardò a scoprire il motivo di tanto strazio: i muscoli dilaniati dal proiettile si stavano contraendo spasmodicamente in conseguenza del trauma subito. Il dolore doveva essere disumano.
In condizioni normali, avrebbe somministrato del laudano per sedare il suo paziente ma non dubitava che quei barbari scriteriati avessero fatto razzia di tutte le sue scorte: il povero Tom doveva stringere i denti e sopportare finché la debolezza non avrebbe preso il sopravvento, riducendolo all’incoscienza.
Cercò di rassicurarlo come poteva: parlandogli e cullandolo, accarezzandolo e stringendolo, mentre i suoi lamenti gli straziavano il cuore.
“Dio. Dio. Dio. Dio.” I singulti erano scemati in una litania infinita, respirata con affanno tra gli spasmi: la miseria umana al suo peggio, e Stephen non era mai stato tanto incapace di alleviarla.

“Perdonate, dottore.”

Alzando lo sguardo, Maturin si trovò ad incrociare quello di Olyffe, un massiccio timoniere brizzolato, con le braccia piene di tatuaggi e una profonda cicatrice sul lato di un volto che avrebbe messo paura a Torquemada.
Come un simile individuo fosse finito a prestare servizio su un mercantile, sia Stephen che Jack se l’ erano chiesto infinite volte da quando erano saliti a bordo. Eppure eccolo lì, a tendere le braccia verso di lui con rispettoso contegno: “Mi permetto tanta confidenza perché da noi si usa così, soprattutto quando uno ha raggiunto una certa età, spero non ve ne abbiate a male.”
“Affatto.”
“Bene. Allora, per cortesia, non è che mi passereste il signor Pullings, dottore? Forse posso aiutarlo.”

Stephen rifletté per un momento sull’opportunità di porre il suo fragilissimo paziente in braccio ad un individuo di tale fatta, poi si rese conto di non aver effettivamente nulla da perdere ma, se davvero quel lupo di mare sapeva il fatto suo, tutto da guadagnare. Soprattutto, il poveretto avrebbe finalmente trovato un po’ di sollievo.
“Va bene.” Accondiscese, con un filo di riluttanza.

Dovettero faticare un po’ per districare la presa ferrea di Tom sulla persona del dottore, ma ci riuscirono.
Tolto il calore emanato dal corpo dell’allievo, Maturin rabbrividì e si avvolse nella giacca per proteggersi dall’umidità. Nel farlo, cercò con lo sguardo il corpo di Jack.
Nessun cambiamento: steso dove lo aveva lasciato, immobile come una balena spiaggiata e altrettanto rilassato. Respirava bene, però, e regolarmente. Non necessitava di alcun intervento urgente e poteva dedicarsi a Thomas Pullings.

Olyffe se l’era posto a sedere in grembo, sostenendolo senza fatica tra le sue braccia poderose e lasciando che gli appoggiasse la testa sulla spalla. Pallido come un fantasma, il giovane ansimava e tremava. Ogni tanto, uno spasmo più forte degli altri gli strappava qualche gemito.
Modulando la voce profonda su un tono basso e rassicurante, il marinaio gli rivolse finalmente la parola: “Signor Pullings? Mi sentite, figliolo?”
“S-sì.”
“Bene. Cercate di respirare, adesso. Piano. Fate dei bei respiri profondi.”
“N-non ce la faccio.” Ansimò il ferito.
“Sì che ce la fate. Ascoltate i miei, di respiri. Fate come me.” E trasse una serie di respiri lenti e profondi, riempiendo gradualmente l’ampio torace e svuotandolo.
“Non ce la faccio.” Ripeté l’allievo, i cui atti respiratori erano crudelmente limitati dalle costole rotte.
“Non dovete riempirvi i polmoni di colpo, ragazzo. Inspirate un poco per volta, fin dove riuscite, ed espirate lentamente. Così.” Gli mostrò di nuovo il movimento, fino a quando non fu in grado di replicarlo, compatibilmente con lo stato della sua cassa toracica.
“Bravo, Tom.” Lo incoraggiò Stephen, che aveva capito dove il marinaio volesse andare a parare. “State andando molto bene. Coraggio.”
“Il dolore è come un’onda.” Spiegò Olyffe al giovane sofferente. “Non è sempre lo stesso. Sale e scende, va e torna, come la risacca. Lo sentite?”
Un cenno tremante del capo.
“Prendete fiato man mano che sale e poi trattenetelo, lasciate andare il respiro man mano che scende. Come l’onda sulla spiaggia, arriva e torna indietro. Arriva. E torna indietro.”

Guidato dalla voce del marinaio, Tom riuscì a sincronizzare il respiro con l’andamento degli spasmi e il suo corpo si rilassò progressivamente, fino a che cadde addormentato tra le braccia del suo bislacco infermiere.

“Il dolore è una brutta bestia.” Questa volta Olyffe era rivolto al dottore, anche se non aveva distolto lo sguardo dal volto dell’allievo. “Anni fa, quando ero ancora un gabbiere alle prime esperienze, caddi da un pennone e mi fratturai un braccio. Niente di grave, per fortuna, ma mi faceva un male porco e il dottore aveva finito i medicinali. Così i compagni mi insegnarono questo trucco per tirare avanti quando diventava insopportabile. Ho pensato che, magari, poteva[1] far bene anche a lui.”
“Avete fatto bene: è stato davvero un bel gesto.”

Come risposta, ottenne solo un grugnito inarticolato che avrebbe suscitato l’ammirazione, se non l’invidia, di Preservato Killick.



Qualche ora più tardi emerse un altro problema, altrettanto grave: Pullings rifiutava il cibo.
A onor del vero, aveva preso un cucchiaio di quella specie di porridge annacquato che costituiva le loro razioni, ma l’aveva rigettato subito dopo. Debole e sofferente com’era, aveva anche fatto lo sforzo di scusarsi, solo per essere zittito da Stephen e Olyffe, che ancora lo sorreggeva.
Tergendogli la fronte con il proprio fazzoletto, il dottore si premurò di controllare se avesse la febbre. La cute ancora fredda e sudata fugò immediatamente ogni preoccupazione a riguardo, anche se la pelle attorno alle fasciature era più tiepida e i linfonodi alla base del collo erano leggermente ingrossati, così come quelli dell’inguine destro. Il forte senso di nausea che provava era dovuto quindi al dolore estremo provocato dalle ferite e dalle conseguenze dell’ipovolemia.

Riaccomodandolo tra le braccia del marinaio, Stephen desiderò ardentemente di avere sotto mano un qualunque alimento semplice ma nutriente per rompere il circolo vizioso nausea-debolezza. Solo un banalissimo pezzo di galletta avrebbe compiuto miracoli, o una tazza di tè, leggero e molto zuccherato, meglio ancora un bicchiere di limonata. Purtroppo non aveva a disposizione nulla di tutto questo.

Se non altro, il ragazzo tenne giù la razione d’acqua a cui i Francesi ritenevano ciascuno di loro avesse diritto.
Convincerlo a bere, quando aveva appena vomitato, fu un’impresa ma non appena il liquido fresco entrò in contatto con le sue labbra screpolate, Tom si rese conto di quanto in realtà fosse assetato. Il dottore lo aiutò a sorbire l’acqua a piccoli sorsi, facendo in modo che non gli andasse di traverso.
Finì anche troppo presto, ma Stephen si proclamò fiducioso nel fatto che quel poco liquido ingerito contribuisse a reintegrare i fluidi persi e ad aumentare il volume sanguigno, alleviando la sua debilitazione.
In cuor suo, il medico sapeva di stare mentendo, perché quel mestolo d’acqua non era neppure lontanamente sufficiente a contrastare gli effetti dell’emorragia. Si guardò dall’esternare la sua preoccupazione, tuttavia: avrebbe mentito fino al Giorno del Giudizio, per il bene e la tranquillità dei suoi pazienti.

Si occupò di umettare, per quanto possibile, anche le labbra di Jack.
Il comandante persisteva nel suo stato d’incoscienza e le sue condizioni gravavano notevolmente sul cuore e l’animo di Stephen, che temeva il sopraggiungere dell’imprevedibile coma e di sua sorella, l’inarrestabile agonia.
Finché il respiro ed il battito si mantenevano regolari, tuttavia, si autoimpose di non preoccuparsi più del necessario: anche le sue capacità mediche avevano un limite, e quella situazione era fuori dalla sua portata. Rivolse un’accorata preghiera alla Vergine, ai loro angeli custodi, ai santi Stefano, Giacomo, e Tommaso perché vegliassero su di loro e sopperissero alle sue mancanze.
Questo, almeno, lo fece sentire meglio.

Più tardi, rimase sinceramente commosso quando uno degli altri prigionieri rifiutò la sua razione d’acqua con la massima decisione: “Datela al ragazzo.” Gli intimò. “Io posso resistere tranquillamente fino a domani.”
Seguì un’accesa discussione, perché altri avevano il desiderio di aiutare e vedevano quello come l’unico modo per farlo. Stephen temette di dover intervenire ma, inaspettatamente, i marinai riuscirono a mettersi d’accordo, assegnandosi dei turni per garantire all’allievo e agli altri feriti almeno una razione supplementare al giorno.

Lo spirito di abnegazione e la tempra morale di quegli uomini non cessava mai di stupirlo.
 


Verso sera, l’ufficiale che aveva difeso Stephen in infermeria, piombò nella stiva scortato da due marinai nerboruti.
Il medico, che stava riallacciando una fasciatura, terminò in fretta il lavoro e si diresse ad accoglierlo dopo essersi pulito le mani nei pantaloni.

“Posso fare qualcosa per voi, monsieur?”
“Ah! Monsieur le docteur, come state? Vi prego di perdonare la mia scortesia : nel caos di ieri ho dimenticato di presentarmi. Sono il capitano Azemà, ufficiale ora al comando di questa nave.”
Stephen accettò la mano profferta e ricambiò la stretta con sincero calore: “Servo vostro, capitano. Il mio nome è Maturin, dottor Stephen Maturin.”
Azemà gli fece un breve inchino con il capo: “Piacere di conoscervi.”
"Piacere mio, monsieur. Vi sono grato per il sostegno che mi avete dimostrato durante l’intervento.”
“Ah, non!” Sorrise l’ufficiale “Ho fatto davvero poco. Soprattutto mi rincresce non aver potuto impedire le perquisizioni sui vostri uomini ma, vedete, noi siamo…com’era quella parola? Come dite voi? Privées?”
“Corsari[2]?”
“Précieusement[3]. Come tali, guadagniamo quello che riusciamo a procurarci: non abbiamo garanzie. I miei uomini vivono di questo.”

Stephen avrebbe voluto ribattere che nessuno li aveva costretti a quella scelta di vita ma capì che gli sarebbe convenuto tacere e decise saggiamente di sviare il discorso: “Posso aiutarvi in qualche modo, capitano?”
“Oui, je pense[4]. Sto facendo un appello degli ufficiali imbarcati su questo mercantile. Sono confinati nelle loro cabine ma stanno bene, non preoccupatevi. E anche le due mademoiselles che, devo ammettere, ci hanno posto qualche difficoltà. ” Ridacchiò “Tuttavia, ne manca ancora uno e ho pensato potesse trovarsi tra i vostri feriti.”
“Di chi si tratta?” Il pensiero di Maturin corse subito a Jack ma, quasi altrettanto rapidamente, realizzò che i Francesi non potevano sapere che fosse ufficiale di Marina.
“Il… oh, mon Dieu! Come lo chiamate voi? Il… le… merde… le timonier!”
“Il timoniere?”
“Non. Quello che controlla le vele? Come si chiama?”

Data la sua cronica ignoranza in materia di termini nautici, Stephen stava per rispondere “gabbiere” ma venne salvato da un membro dell’equipaggio che, vedendolo in difficoltà, si permise d’intromettersi: “Credo s’intenda il nocchiere, dottore.”
“Précieusement! Merci beaucoup, monsieur. Nous sommes entrainé de chercher[5]…Oh, pardon! Stiamo cercando proprio il nocchiere, un giovanotto a quanto dice Monsieur Spottiswood. Un certo Monsieur Tomas Pullings.”

“Sono io.”

Una voce rauca interruppe la loro conversazione e a Stephen si strinse il cuore nel petto a vedere l’allievo che cercava di mettersi seduto, facendo forza sui gomiti e tremando per lo sforzo, solo per fallire miseramente.
“Non muovetevi, Tom. Non cercate di alzarvi: potreste farvi del male.” Gli raccomandò, accorrendo al suo fianco.
“State giù, signore. Avete sentito il dottore.” Consigliò Wilkies, sulle cui ginocchia risiedeva il giovane al momento.
Purtroppo o per fortuna, Pullings era tanto debole e sofferente da avere le vertigini solo se alzava la testa, quindi i suoi sforzi non gli procurarono altro che una fitta tanto lancinante da costringerlo a desistere ed accasciarsi, con il volto sbiancato e contratto, tra le braccia del suo soccorritore.
Dal canto suo, Azemà aveva sufficiente buon senso per capire la gravità della situazione e fece cenno ai suoi uomini di aspettarlo, mentre andava ad accosciarsi vicino al ferito, evitandogli ulteriori problemi.

“Sono io.” Ripeté il ragazzo, ansimando tra i denti stretti “L’ufficiale nocchiero. C’est moi[6].”
Il capitano gli appoggiò una mano sulla spalla: “Vi ho visto, ieri, sul ponte. Avete combattuto molto bene: avete tenuto testa a tre dei miei da solo. Siete stato molto bravo.”
“Fate in fretta.” Lo ammonì Stephen “Sta soffrendo molto e non reggerà a lungo.”
“Oui, docteur, j’entende[7]. Monsieur Pullings, mi capite?” Parlava piano, scandendo le parole ma senza alzare la voce, per non intimidire il ragazzo e accertarsi che lo comprendesse.
“S-sì.”
“Bien, bon garçon[8]! Sono il capitano Azemà e ho preso il comando della Lord Nelson.” Fece una pausa, per dare tempo all’altro di capire “Voi e i vostri uomini siete miei prigionieri.”
Un cenno tremante del capo, unico segno di assenso.
“Ho bisogno della vostra parola di ufficiale che non tenterete la fuga e che rispetterete la mia autorità.”
“L- l’avete.” Ansimò Pullings, ormai pallidissimo e a malapena cosciente “V-vous avez… ma parole… monsieur.[9]”

Sopraffatto dal dolore, il giovane cadde svenuto in braccio a Wilkies, che gli aggiustò addosso la propria giacca e lo sistemò affinché fosse il più comodo possibile.
Maturin gli tastò la giugulare: fluttuava sotto la pelle cinerea, pulsando di un battito erratico e leggero, troppo irregolare. Si sporse con l’orecchio verso il volto di Pullings, lasciando che il suo respiro fragile gli sfiorasse una guancia. Stando seduto, sostenuto dall’ampio torace del marinaio con il fianco ferito libero di espandersi, respirava un po’ meglio che da sdraiato ma la fatica del movimento era evidente nel modo in cui i muscoli s’inceppavano, provocando un singhiozzo se cercava di inspirare profondamente. L’aria viziata della stiva non aiutava di certo.
Aveva iniziato a tossire, da sveglio, e per quanto doloroso fosse era un bene perché poteva espellere il liquido in eccesso anche se l’attacco lo lasciava stremato.
Stephen raccolse una ciocca ribelle dal viso del giovane e gliela pose con delicatezza dietro un orecchio, prima di alzarsi e raggiungere Azemà, che lo attendeva poco distante.

“Posso fare qualcosa per aiutarvi, docteur?”
“Se non fosse di troppo disturbo, coperte e cuscini sarebbero una manna per i miei feriti. Anche dei semplici sacchi andrebbero bene. Alcuni di loro sono piuttosto gravi, come avete visto.”
“E Monsieur Pullings?”
“Sta molto male: lo avete visto. Il dolore è intenso e ha perso molto sangue. Come avete detto ieri, sono brutte ferite.” Trasse un sospiro profondo, cercando di resistere allo scoraggiamento “E non c’è verso di farlo mangiare, purtroppo.”
“Ha bisogno di qualcosa, in particolare?”
“Un piatto di minestra, o qualcosa del genere.”
“Del latte?”
“Di capra, magari. Sarebbe perfetto: leggero e facile da digerire, lo aiuterebbe a tenersi in forze e agevolerebbe la guarigione delle fratture.”
“J’entende. Vedrò cosa posso fare, docteur, ma non aspettatevi troppo. Bonne soirèe[10].”
“Buonasera, capitano.”
Azemà si congedò con un inchino e si allontanò, sempre scortato dai suoi uomini.

“Dottore! Venite, presto: sanguina di nuovo!”
Sentendo il suo richiamo accorato, Stephen accorse da Wilkies: “Dove?”

Il chirurgo sperava si trattasse della spalla, ma notò la macchia cremisi sui calzoni di Pullings prima ancora che il marinaio gliela indicasse.
Slacciò i pantaloni del ragazzo e glieli calò fino alle caviglie, esponendo il bendaggio ormai fradicio. Premette due dita sull’inguine, sentì il battito accelerato e irregolare ed ebbe paura: Tom non poteva permettersi di perdere altro sangue.
Sciolse con rapidità la fasciatura, e trovò subito la causa del sanguinamento: cercando di alzarsi il ragazzo aveva tirato i punti e un paio di essi si erano allentati, per poco non si erano rotti. Raccolse le bende, ammucchiandole a casaccio, e le premette con tutta la forza sulla ferita, per fermare l’emorragia.
Pur nell’incoscienza, Tom gemette, un suono leggero e rauco ma perfettamente udibile agli uomini chini su di lui.

“Shh, shh.” Sussurrò Maturin “Presto sarà tutto finito.”
“Coraggio, figliolo.” Wilkies passò un braccio attorno al torace di Pullings, immobilizzandolo con le braccia lungo i fianchi per evitare che si agitasse, e gli appoggiò una mano sulla fronte per stringerlo a sé “Passa presto. Passa presto.”

Stephen contò cinque minuti prima di sollevare con cautela le bende dalla ferita. Grazie a Dio era riuscito a fermare il sanguinamento e prevenire l’irreparabile.
Pullings giaceva immobile ed esangue tra le braccia del marinaio. Tastandogli la giugulare il medico avvertì il gelo della cute e venne travolto da una fitta di preoccupazione, ma il battito persistente sedò la sua ansia: per quanto provato fosse, l’allievo avrebbe continuato a vivere.
In quel momento, per lui era più che sufficiente.
Trasse un sospiro di sollievo e si asciugò il sudore dalla fronte con un polso mentre cercava una soluzione al nuovo problema: avrebbe dovuto sostituire la fasciatura ma non aveva più bende disponibili.

Non fece in tempo a verbalizzare quel pensiero che si ritrovò sotto il naso il braccio tatuato di Olyffe, la cui mano era avvolta nella stoffa grezza di una camicia. Doveva essere la sua dato che il suo petto si mostrò in tutta la sua villosa e possente estensione quando il chirurgo voltò la testa nella sua direzione: “Usate questa, dottore.” Gli disse “Posso anche fare senza.”
“Siete sicuro? Qui sotto è molto umido, rischiereste di buscarvi un malanno.”
“Pfft. Mai stato malato, io. Nossignore, nemmeno dopo essere stato tutta la notte in testa d’albero con la pioggia! E non la pioggerellina dei Tropici, una vera burrasca al largo di Dover: veniva giù come il Diluvio Universale!”
“Se lo dite voi.” Tagliò corto Stephen, poco convinto “Grazie, comunque.”

Altro grugnito inintelligibile.

Insieme stracciarono la camicia, producendo delle lunghe strisce di tessuto da usare come bende.
Stephen le avvolse intorno alla gamba dell’allievo, coprendo la ferita e stringendo la fasciatura quel tanto che bastava ad impedire un’altra emorragia.
Gli riallacciò i calzoni e lo lasciò riposare, abbandonato tra le braccia di Wilkies, mentre Olyffe si adoperava per raccogliergli di nuovo i capelli con il nastro.



Note:

[1]Soffro nello storpiare questo congiuntivo. Soffro tantissimo.

[2] In Inglese privateers, le navi da guerra di corsa (o guerra privata) erano autofinanziate e comandate da ufficiali esterni ai gradi ufficiali della Marina. Le loro azioni di guerra, intraprese per iniziativa privata, venivano autorizzate dalla Lettera di Marca, che garantiva loro l’appoggio dello Stato.

[3] Esattamente.

[4] Penso di sì.

[5] Precisamente! Mille grazie, signore. Stiamo cercando...

[6] Sono io.

[7] Sì, dottore, capisco.

[8] Bene, bravo ragazzo!

[9] Avete la mia parola, signore.

[10] Buona sera.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***



Disclaimer: Sempre quello del capitolo I ^^

Siamo giunti alla fine anche di questa storiella di sofferenze marinaresche. 
Vorrei ringraziare quanto più cordialmente possibile tutti coloro che si sono prestati a leggere ma soprattutto a lasciare commenti tanto partecipati e sentiti a questo racconto. Siete stati gentilissimi, grazie, non riesco nemmeno a trovare le parole giuste. 



“Ho freddo.”
La voce del ragazzo era ridotta a poco più di un sussurro mentre Stephen lo accoglieva di nuovo tra le proprie braccia, a fine giornata. I marinai avevano trascorso il giorno a bisticciare tra loro su chi avesse il diritto di sorreggerlo per primo ma, al calar della notte, non vi fu dubbio alcuno sul fatto che l’onore di fargli compagnia spettasse al chirurgo. 

Maturin se lo sistemò in modo tale che poggiasse la fronte nell’incavo del suo collo e gli strinse addosso la giacca che Stevenson gli aveva offerto per scaldarsi, strofinandogli braccia e schiena per dargli un po’ di calore.  Non era da lui lamentarsi: lo aveva visto sopportare egregiamente situazioni ben peggiori e trascinare i suoi uomini in battaglia, con i nervi saldissimi nonostante fosse poco più di un ragazzino. Ma ora era stremato, distrutto dal dolore e dalla perdita di sangue.
Pullings si rannicchiò quanto più possibile senza sforzare la gamba ferita, stringendosi a lui per cercare riparo e conforto come qualunque ragazzo spaventato e sofferente avrebbe fatto al suo posto. Non lo giudicò per questo, ma cercò di consolarlo come riusciva, traendo egli stesso consolazione dalla propria angoscia grazie alla sua presenza.

“Come sta il capitano?” chiese debolmente il giovane.
Maturin non ebbe il cuore di dirgli la verità: “Ha preso un brutto colpo alla testa, ma si riprenderà presto. E anche voi, Tom: state tranquillo.”
Il ferito annuì e si abbandonò contro di lui, fidandosi della sua comprovata autorità.
Non sarebbe servito a nulla dirgli che, ormai, era probabile fosse sopraggiunto il coma e che Aubrey versava in condizioni tanto precarie che avrebbe anche potuto smettere di respirare in quel momento. Pullings era già sufficientemente angustiato dal proprio calvario, sapere di poter perdere il suo mentore avrebbe rischiato di essere il colpo di grazia.
Era una croce che Stephen avrebbe dovuto portare da solo.

I Francesi portarono coperte per i feriti e dei sacchi, che gli uomini riconobbero come le confezioni di stoppa facenti parte del carico, per adagiarveli sopra al posto dei cuscini. Stephen ebbe quindi il suo bel daffare per sistemarli, operazione che lo occupò quasi tutta la mattina: provvide prima ai malati d’influenza, poi agli altri pazienti.
Ne mise due, anche tre per sacco, per ottimizzare gli spazi.  Decise che la scelta più sensata sarebbe stata mettere Jack accanto a Pullings, nella speranza che la vicinanza e la voce del ragazzo fungessero da stimolo per la coscienza sopita dell’amico e il contatto con il venerato superiore fosse di conforto al ragazzo.

Spostare le duecentoquaranta libbre[1] di Aubrey a peso morto fu un’operazione difficile, che richiese ben cinque uomini. Tom, che ne pesava centocinquantaquattro[2] scarse, era più maneggevole ma richiese molta più attenzione per lo stato precario delle sue ferite. Maturin gli resse la nuca, posandola dolcemente sul tessuto ruvido del sacco prima di stendergli addosso una coperta, avvolgendolo fino alle spalle.
L’allievo socchiuse gli occhi e gemette piano, abbandonandosi al calore della coltre che mitigava finalmente il gelo provocato dall’emorragia, alleviando i dolori intercostali provocati dall’umidità e gli spasmi muscolari.    

Stephen vide il suo volto pallido distendersi per la prima volta dopo due giorni di sofferenza. Era ancora molto grave: l’epidermide era fredda e sudata, diuresi ed enuresi densissime e pressoché inconsistenti, e l’unica traccia di colore sul suo viso erano due occhiaie profonde e scure come lividi. Respirava ancora però, e il polso iniziava a rallentare. Si poteva ancora sperare.  
Gli accarezzò una guancia, sentendo i peli ispidi di una barba ancora acerba sotto il palmo. Se il ragazzo se ne accorse, non ne diede cenno.

Azemà si materializzò alle sue spalle, allungandogli una tazza in peltro con un’espressione indecifrabile. Maturin l’accettò senza una parola e vide che si trattava di latte.
Non riuscì a credere ai suoi occhi e alzò lo sguardo verso il capitano francese, che annuì incoraggiante.
Chinatosi, raccolse il capo di Tom da dove poggiava e gli accostò la tazza alle labbra. Gliele bagnò appena e lui le aprì istintivamente: pelle e mucose erano aride, nonostante la nausea doveva essere arso dalla sete perché vuotò il recipiente, anche se impiegò molto tempo e diversi, piccoli, sorsi.
Stephen lo riadagiò dolcemente, restandogli accanto finché non fu sicuro che avrebbe tenuto giù il latte: era la cosa più simile ad un pasto che avesse avuto negli ultimi tre giorni e ne aveva un bisogno disperato per recuperare le forze.
Sedette al suo fianco e gli accarezzò i capelli, aiutandolo a respirare a fondo e lentamente per sopportare il dolore, fino a quando si addormentò.

Allora si alzò per ringraziare il capitano, ma lo trovò che lo fissava cupo: “Tutto questo non è a fondo perduto, docteur. Ho bisogno del vostro aiuto.”
Stephen gli appoggiò una mano su un gomito e lo condusse in disparte, per parlargli a quattr’occhi: “Ditemi pure, capitano: farò quello che posso.”
 

Impiegò tutto il pomeriggio ad estrarre il proiettile dalla spalla di Dumanoir: la ferita era profonda e si era infettata. La pelle ed i tessuti circostanti, infiammati, si erano gonfiati tanto da complicare l’intervento, e il pus prodotto nella lacerazione gli limitò la visuale.
Il paziente sopportò bene l’intervento, nonostante tutto. Alla fine, per quanto stordito e febbricitante, era ancora sufficientemente in forze da ringraziarlo e concedergli il permesso di far passeggiare i suoi compagni sul ponte, affinché potessero prendere un po’ d’aria.
 

Quando tornò sulla Lord Nelson era ormai sera inoltrata.
Avevano aperto gli osteriggi e non appena mise piede a bordo sentì i lamenti dei suoi feriti. Tra i tanti, riconobbe i gemiti arrochiti di Tom Pullings: doveva essere di nuovo in preda agli spasmi.
Aveva avuto un giornata difficile e tutto il peso dell’operazione appena terminata gli gravava addosso, tanto che camminava curvo, trascinando i piedi. Giurò a se stesso, tuttavia, che non si sarebbe concesso riposo finché non avesse alleviato le sofferenze di quei poveretti.

Fece un giro di visite approfondito, prestando tutto il conforto possibile con gli scarsi mezzi a sua disposizione. Fu per lui un enorme sollievo constatare un arresto nel numero dei casi d’influenza e la loro stabilizzazione.
Si arrestò improvvisamente, tuttavia, prima di arrivare da Jack e Pullings.

Patrick Shaw, un anziano e riverito aiuto carpentiere, cieco da un occhio e con solo tre dita nella mano destra, si era accovacciato vicino al ragazzo, che era sopraffatto dal dolore . Gli parlava piano, raccontandogli storie di quando aveva servito sotto l’ammiraglio Howe.
Stephen si trattenne discretamente in un angolo, sfruttando il  lato cieco del marinaio, e ascoltò rapito il suo splendido resoconto del Glorioso Primo Giugno, intervallato da frasi come: “Tranquillo, piccolo, non ti agitare.” O “So che fa un male del diavolo, ma non preoccuparti: passa presto. Stringi forte i denti e respira.”
Non passò molto tempo, tuttavia, prima che Shaw si accorgesse di essere osservato. Emise un brontolio confuso, mugugnò una bestemmia e qualcosa del calibro di: “Certi leccapalle ficcanaso devono imparare a farsi i fattacci loro.” E sgusciò via, rapido e silenzioso come un topo verso la sua tana.

Ma quando Maturin s’inginocchiò accanto all’allievo, lo trovò serenamente addormentato, con il volto disteso ed un’ombra di sorriso sulle labbra. Aveva i capelli raccolti e ordinati, la coperta rimboccata sulle spalle come un bimbo nel lettino. Il polso carotideo era stabile e regolare, la pelle quasi tiepida.
Gli sarebbe piaciuto ringraziare il marinaio per il suo gesto ma, quando lo cercò con lo sguardo, vide il suo occhio superstite fissarlo in cagnesco e capì che, per salvaguardare la propria integrità fisica, gli sarebbe convenuto tacere e fingere che non fosse successo nulla.
Non proferì parola, dunque, e si raggomitolò accanto a Jack per dormire, profondamente toccato e commosso dalla scena a cui aveva involontariamente assistito.

Trascorsero altri due giorni prima che Jack, finalmente, riaprisse gli occhi.

Nel ragguagliarlo sugli eventi, Stephen si compiacque di trovarlo lucido e coerente, per quanto indebolito dal prolungato stato d’incoscienza e dalle ferite. Gli somministrò la sua razione d’acqua, quella di cibo, ed un poco della scarsissima pozione che gli era rimasta.
Provò un enorme sollievo nel constatare che la costituzione dell’amico avesse retto bene il trauma: mentre lo accudiva parlava e faceva domande, lucido nonostante tutto. La tensione che lo aveva tormentato dal giorno della battaglia finalmente lo abbandonò.

Quasi si accasciò, quando realizzò definitivamente che Aubrey sarebbe sopravvissuto, ma non ebbe tempo di gustare a fondo quella liberazione perché gli venne posta una domanda penosa: “Non ho più visto Tom Pullings, come sta?”
Dalla posizione in cui era non poteva vederlo in volto, sebbene gli fosse sdraiato accanto.
Maturin sospirò a fondo: “Riesci a metterti seduto, fratello? Aspetta: lascia che ti dia una mano.”  
Jack aveva ancora le vertigini ma, aiutato dal chirurgo riuscì a tirarsi su, con tutte le precauzioni del caso.
Una volta seduto, riconobbe finalmente la sagoma distesa accanto a lui.

Se non lo avesse conosciuto avrebbe stentato a credere che fosse lo stesso giovanotto al quale aveva stretto la mano sul ponte, solo pochi giorni prima: sotto le occhiaie livide, sotto gli zigomi arrossati per la febbriciattola conseguente le ferite, Pullings era esangue. Sulla fronte, intorno agli occhi e alle labbra screpolate si erano formate delle piccole rughe per il dolore, che continuava a provare anche nel sonno. Indossava una camicia di lino, macchiata di sudore e tanto aperta sul petto da permettergli di vedere la fasciatura che gli avvolgeva una spalla. Ogni centimetro di pelle esposta era altrettanto pallido e anche al suo sguardo inesperto il respiro appariva superficiale ed affaticato.
Gli fece male vederlo così, quasi più delle sue stesse ferite.

Realizzò di aver chiesto cosa fosse successo quando sentì la risposta affranta di Stephen: “Un proiettile di mitraglia gli ha devastato una coscia, gli ho salvato la gamba per miracolo, un colpo di spada nella spalla e due costole rotte. Non credo sia più in pericolo di vita, ma sta soffrendo molto ed è meglio lasciarlo riposare quando riesce a farlo. Almeno, avete entrambi scampato l’influenza.”
Un rumore di passi e Stephen scattò in piedi: “Rimettiti sdraiato e resta fermo, per l’amor di Dio non rivolgere la parola a nessuno.”
Il tono non ammetteva repliche e Jack si riadagiò obbediente sul suo sacco, nel farlo si mise su un fianco e appoggiò una mano sul braccio dell’allievo, un gesto istintivo di sostegno e conforto.

Lo aveva già visto ferito, le lesioni da schegge erano all’ordine del giorno sul ponte di batteria e una in particolare aveva lacerato la schiena del ragazzo ad Abukir, ma questo era molto peggio.
Il suo fu anche un segno di affetto: Pullings gli piaceva molto, sia come marinaio che come uomo. Era coraggioso, deciso, ottimo nocchiero, e precisissimo ai canoni. Nonostante la timidezza, aveva un bel carattere ed era capace di imporre a se stesso e agli uomini la disciplina senza rendersi odioso. Sarebbe stato uno splendido ufficiale, ne era certo, ed era orgoglioso di aver contribuito alla sua formazione.
Per questo ebbe l’istinto di stringerlo a sé, per proteggerlo, quando sentì il misterioso interlocutore di Stephen parlare in Francese.

Monsieur, le docteur?”
“Oui, qui est là?”


Capì subito, però, di non aver nulla da temere.

« C’est Jaques, docteur. J’ai portait du lait, pour le garçon. »
« Merci, monsieur, merci beaucoup. »
« Je vous en prie, docteur. Comment il va? »
« Il est blessé sérieusement, comment vous savez, et il a du fièvre mais il n’est pas malade. Je pense il se remettra bientôt. »
« Ah, très bien ! Bonne fortune avec lui et les outres patients, docteur. »

« Merci, Jacques, et bonne journée. [3]»

Jack sentì una mano sulla spalla e riconobbe il tocco di Stephen. Allentò la presa sul corpo dell’allievo, pur continuando a circondarlo con il braccio, e gli rivolse uno sguardo interrogativo; ma il chirurgo fu rapido a spiegare:  “Ho preso accordi con Azemà perché mi facesse avere ogni giorno un bicchiere di latte per il nostro Tom: tra il dolore e le ferite, è tanto debole da non riuscire a prendere cibo. Questo dovrebbe aiutarlo a recuperare le forze… Gesù, Giuseppe e Maria! Che c’è adesso, si può sapere?”

Voltandosi, Maturin riconobbe le facce ormai note di Wilkies e Stevenson che, con tutto l’affetto possibile, aveva soprannominato mentalmente “l’Asino e il Bue”, e gli venne male al pensiero di cosa potessero aver combinato mentre non guardava.
I marinai confabularono un po’ tra loro,  passandosi la proverbiale patata bollente, finché Wilkies non si decise a prendere la parola: “Signore, dottore cioè, abbiamo del rum, signore.”
“Sarebbe che lo abbiamo procurato scambiandolo con i mangiarane, dottore.”
“Ah sì? Buon per voi, ma non vedo come mi possa essere utile.”
“Lo abbiamo preso per il signor Pullings, voleva dire lui.”
“Sta ancora molto male e abbiamo pensato che gli faceva[4] bene averne un po’. Per alleviare il dolore, capite?”

Stephen storse il naso davanti alla bottiglia che gli veniva offerta ma Jack, che capiva di cosa si stessero privando quei due uomini e i sacrifici che dovevano aver fatto per recuperarla, fu commosso dal loro gesto. Intercettando lo sguardo dell’amico, gli fece capire a gesti di essere gentile con quei due buzzurri, perché stavano facendo del loro meglio per aiutare.
Allora Stephen si ammansì un poco e, quando rivolse loro la parola, lo fece con un tono fermo ma rispettoso: “Vi sono grato per la gentile offerta, signori, anche a nome del mio paziente. Purtroppo, il signor Pullings ha perso molto sangue e l’alcool lo farebbe solo stare peggio. Quindi, mi dispiace ma devo rifiutare. Grazie comunque, gli farà piacere sentire del vostro gesto, quando si sveglierà.”
Sentendo quelle ultime parole i due uomini sorrisero e si toccarono la fronte con le nocche: “Dovere, signore.”
“Dovere, signore.”
E si congedarono.

Anelando un sollievo momentaneo dalle interferenze, Stephen si chinò di nuovo su Aubrey e cominciò a trafficare con le sue fasciature: “Quasi una settimana di immobilità completa e ora non riesci a star fermo un minuto, accidenti a te. Fammi controllare se ti sei disfatto i punti.  No, per ora no. E le ferite sono quasi rimarginate …  non posso che complimentarmi per la tua prossima guarigione, fratello.”
“Ti ringrazio, anima mia, hai bisogno di aiuto per qualcosa?”
“Veramente non dovresti sforzarti ma, dato che comunque sei qui e tanto in vena di dare una mano, potresti aiutarmi con Tom. Te la senti?”
“Dimmi solo che devo fare.”
“Mettiti seduto, allora. No, non così. Piano, Jack, devi fare piano. Piano. Adesso appoggiati con la schiena. Ci credo che hai le vertigini! Non devi esagerare: è ancora presto. Bene così, adesso sta fermo.”

Stephen fece scivolare le braccia sotto le ascelle di Pullings e se lo tirò al petto, sollevandolo a sedere e appoggiandolo contro il torace di Jack perché lo sostenesse.
Ancora una volta, Jack si meravigliò per la resistenza fisica dell’amico che, sebbene tanto esile, riusciva a compiere sforzi assurdi con imperturbabile tenacia. Non disse una parola, tuttavia, e si limitò a sorreggere l’allievo ferito, obbedendo attentamente alle indicazioni di Stephen per non aggravare le lesioni di entrambi.
Tom gemette diverse volte, nel corso delle loro manovre, ma non aprì gli occhi e non diede cenno di aver capito cosa stesse succedendo. Sentendolo a contatto con il proprio corpo, Jack percepì solo vagamente il calore della febbre, e dovette accomodarsi la testa del giovane sul petto perché questi era troppo debole per tenerla su da solo e sarebbe ricaduta all’indietro, restando penzoloni dal suo braccio.

Recuperata la tazza, Stephen si inginocchiò di fronte a loro e accarezzò la testa dell’allievo, chiamandolo finché non riprese i sensi: “Caro ragazzo mio, ve la sentite di bere qualcosa?”
Il corpo del giovane venne scosso da un fremito, se per il dolore o la fatica impossibile stabilirlo, ma annuì comunque e lasciò che gli venisse accostato il bicchiere alle labbra.
Stephen rimase stupito quando Pullings riuscì a tenerlo in mano da solo e vuotarlo, anche se gli ci vollero diversi minuti.
“E’ la prima volta. “sottolineò, a bassa voce e con un sorriso. “Cominciate a stare meglio, Tom, tra qualche giorno dovreste riuscire ad alzarvi.”
Pullings ricambiò il sorriso come poteva e alzò lo sguardo per vedere chi lo stesse sorreggendo, allora gli si illuminarono gli occhi e, per un momento, tutti i segni della sofferenza parvero abbandonare il suo volto.

 Aveva la voce rauca e sottilissima, ma sia Jack che Stephen furono comunque felicissimi di sentirla: “Capitano! Signore, state bene?”
“Non vi mentirò, Tom: sono stato meglio. Ma il dottore mi dice che fino a questa mattina sembravo stecchito come uno dei suoi reperti anatomici, quindi direi che c’è stato un netto miglioramento.”
“Beh, non è peggio di quella volta che avete quasi perso l’orecchio.”
“Né delle schegge ad Abukir, se per questo.”
“E nemmeno di quando è caduto l’alberetto di mezzana sulla Victory.
“E quella tempesta al largo di Gibilterra, quando siamo rimasti inzuppati per giorni?”
“Basta così, signori. Tom, sono felice che iniziate a stare meglio ma siete ancora troppo debole per tenere un comizio. E anche tu, Jack, devi riposare. Rimettetevi giù, tutti e due.”
“Sentito, Tom? Parleremo più tardi.”
“Volentieri, signore. “ Rispose l’allievo, le cui palpebre già iniziavano a calare.

Si addormentò in poco tempo, con la testa ancora appoggiata al petto di Jack, che si alzava ed abbassava ad ogni suo respiro mentre il suo battito lento e regolare lo cullava.
“Che stai facendo, fratello?”
“Lo rimetto sdraiato.”
“Per lui è un problema restare così?”
“No, non dovrebbe. “
“Allora lascialo stare: non mi dà fastidio e credo ne abbia bisogno. Guarda.” Gli indicò il punto in cui la mano di Pullings si era stretta sulla sua camicia, mentre nel sonno si era aggrappato a lui, e Stephen desistette.

Malgrado tutto quello che aveva vissuto, nel profondo Tom era comunque ancora un ragazzo, e Aubrey era felice di potergli offrire la sua protezione ed il suo sostegno, soprattutto perché ormai aveva passato l’età dei piagnistei.
Ridacchiò tra sé ricordando quella sera in cui se l’era ritrovato davanti in lacrime: era al suo primo imbarco, si era perso e per poco non era caduto nel pozzo di sentina, ma soprattutto non era mai stato tanto lontano dai suoi genitori. Jack non aveva saputo fare altro che offrirgli un fazzoletto e dargli una pacca sulla schiena tanto forte da ribaltarlo.

Erano passati diversi anni e quel bambino era cresciuto. Aveva ancora molta strada davanti ma si stava già dimostrando un ottimo elemento.  
Alcune di queste riflessioni le espresse a mezza voce, mentre scivolava anch’egli nel sonno.
Se ne accorse solo quando sentì Stephen mormorare: “D’accordo, mio caro, adesso però cerca di riposare: ne hai bisogno.”
Credette di avergli risposto, poi si addormentò come un sasso.
 

Stephen avvolse i due ufficiali nelle loro coperte e si sedette accanto al loro giaciglio, guardandoli dormire.

Avevano di fronte un futuro nebuloso ed incerto: se fossero arrivati a La Coruna, per quanto tempo sarebbero rimasti prigionieri? Se i Francesi avessero scoperto che Jack e Tom erano ufficiali della Royal Navy, che sarebbe stato di loro? Non avrebbe avuto pace se li avessero torturati per ottenere informazioni che non avrebbero potuto dare, entrambi mancando dalla madrepatria da mesi.
Non aveva paura per se stesso, dato che aveva messo in conto quel rischio nel momento in cui aveva deciso di collaborare con il Servizio Informazioni e si era preparato mentalmente, ma per loro che non avevano nulla a che vedere con la sua attività e che avrebbero rischiato di subire sofferenze indicibili anche a causa sua.

Tutto questo era ancora lontano, e per il momento decise di restare a vegliare su di loro, assistendoli al meglio delle sue possibilità.
Sfilò il rosario da una tasca del panciotto e si segnò: era giovedì e iniziò a recitare i misteri gaudiosi nella speranza che potesse essere un buon auspicio per i giorni a venire.
Tra una decina e l’altra si fermò a contemplare i volti dei suoi amici.

Per quanto consumati fossero, era certo che nessuno di loro stesse provando dolore.
 
- The End -
 
Note:
[1] Circa 109 Kg
[2] 70 Kg
[3] “Signor dottore?”
 “Sì, chi c’è?”
“Sono Jaques, dottore, vi ho portato del latte per il ragazzo.”
“Grazie, signore, grazie mille.”
“Prego, dottore. Come sta?”
“E’ ferito gravemente, come sapete, e ha un po’ di febbre ma non è malato. Penso che guarirà presto.”
“Ah, molto bene. Buona fortuna con lui e gli altri vostri pazienti, dottore.”
“Grazie, Jacques, e buona giornata.”
[4] ARGH.

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