Quattro di Picche

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno di picche ***
Capitolo 2: *** Due di picche ***
Capitolo 3: *** Tre di picche ***
Capitolo 4: *** Quattro di picche ***



Capitolo 1
*** Uno di picche ***


N.d.A.

E niente. Ogni tanto mi sale l’ignoranza e sento il bisogno di scrivere qualcosa di inutile/idiota tanto per auto consolarmi davanti alle disgrazie della vita e alla futilità dell’esistenza (semicit).

Questa storia può essere considerata una sorta di sequel di “Come perdere la verginità grazie a WikiHow e a un pacchetto di caramelle al malto”, ma penso sia leggibile anche separatamente. È comunque ambientata nello stesso universo e nella stessa linea temporale. Sarà breve, solo quattro capitoli, tanto per svagarmi con una scrittura leggera e poco impegnativa che spero riesca comunque a strappare un sorriso. :)

Avviso che più avanti ci saranno dei riferimenti a Big Mouth, quindi c’è un possibile pericolo spoiler per chi sta seguendo la serie. Sì, Gilbert mi dà l’idea di essere una di quelle brutte persone che guardano Big Mouth. Quelle brutte persone di cui io non faccio sicuramente parte. *Si guarda attorno fischiettando*. Ma lo seguo solo perché mi sono presa una cotta bestiale per Connie, mica per altro, eh.

Aggiornerò una volta ogni due settimane, in alternanza al Miele.

Buona lettura!

 


 

Quattro di Picche

 

 

 

 

 

 

 

. Uno di picche

 

 

Feliciano balzò in ginocchio sul suo sedile imbottito, si sporse contro il finestrino del treno e appiccicò le mani al vetro intiepidito dai raggi del sole. I suoi grandi occhi color nocciola luccicarono di meraviglia, le labbra s’incurvarono in un ampio sorriso, luminoso come il riflesso del giorno fra le onde cristalline, e il cuore compì una capriola di gioia. «Ooh!» Si spinse più avanti, premette il ginocchio contro il bracciolo del sedile e accostò al vetro anche la fronte e la punta del naso, per vedere meglio al di là della fila di rotaie che correva parallela al loro binario. «Si vede già il mare!»

Un’ampia distesa di onde luccicanti sormontava la linea d’orizzonte, nel punto in cui s’incontrava con il cielo azzurro sbavato solo da qualche nuvola e diviso dai cavi della linea ferroviaria. Il bianco disco del sole troneggiava alto e gonfio, i suoi raggi cadevano in mare come lame, e la loro luce s’increspava fra le onde di spuma come una sbriciolata di diamanti. Dal profilo della costa sorgevano gruppi di briccole rivestite di alghe spugnose. Stormi di gabbiani volavano in cerchio, alcuni se ne stavano appollaiati sulle recinzioni di legno e altri si tuffavano in picchiata fra le onde, riemergendo con gusci di paguro stretti nel becco. Piccole barchette giacevano riverse sul bagnasciuga, alcune legate con cime di corda e altre abbandonate, accasciate sul fianco. Le vernici scorticate e il legno in decadenza. Solo un piccolo peschereccio navigava alla fonda. Stormi di gabbiani a volargli attorno, il sole a battere sulla vernice bianca, e il vento a soffiare fra i tralicci luccicanti.

Feliciano staccò la fronte e le mani dal finestrino e ricadde sulle ginocchia, urtando il gomito di Ludwig che gli sedeva affianco. Si girò verso Lovino e spinse l’indice sul vetro. «Lovi, Lovi, guarda!» Picchiettò più volte senza far sbiadire quel sorrisone dalle labbra. «C’è il mare. Si vede il mare!»

Lovino, stravaccato con la schiena contro il fianco di Antonio, accavallò le gambe sul bracciolo del suo sedile e urtò il finestrino con il piede ciondolante. Non staccò gli occhi dalla schermata di Instagram che stava sfogliando, e fece scorrere il pollice sulla pagina. Sbuffò un sospiro annoiato. «Uau, Feliciano. Lo stesso mare che vedremo ogni schifo di giorno per una settimana? Proprio non devo perdermelo, guarda.» Si girò sul fianco, dandogli la schiena, e aprì un altro profilo. Diede una ruminata alla catenina dorata stretta in bocca, lo stesso sottile crocifisso che pendeva anche dal collo di Antonio. Il ritmico crunch, crunch del metallo rosicchiato si alternò al suono scarrozzante del treno che sfrecciava sui binari.

Antonio gli sfilò il braccio dal fianco e gli diede un’energica strofinata ai capelli. «Dai, Lovi» lo rimproverò. «Sii carino con tuo fratello.»

Lovino alzò gli occhi al soffitto e reclinò il capo per sfilarsi dal suo tocco. «Mhf.» Tornò a girarsi sulla schiena, spingendosi contro il suo braccio, e continuò a sfogliare Instagram, per lo più selfie di belle ragazze, vigneti e colline di Toscana bagnati dalle luci dell’alba dorata, i meme dell’ultimo periodo, e tifosi che esultavano fra gli spalti gremiti di folla – i volti tinti di azzurro e di bianco – da cui pendevano bandiere del Napoli.

Anche Gilbert si sporse dal suo sedile per volgere lo sguardo al finestrino, e dovette spingere indietro le spalle di Antonio per vedere oltre lui e Lovino che tappavano il panorama. Inarcò un sopracciglio. «Ma ci sono sempre state quelle palizzate nel mare?»

Feliciano accostò la mano sulla bocca sorridente, nascose il lieve rossore spolverato sulle guance, e ridacchiò. «Si chiamano “briccole”, Gilbert.»

«Sarà» fece lui. «Ma io non ricordo di averle mai viste.»

Ludwig raccolse la felpa di cotone leggero che aveva ripiegato sul bracciolo fra lui e Kiku e lo rigirò in cerca della cerniera. «Non mi sorprende: non vieni qua da anni.» Se la posò sulle spalle senza infilarci le maniche, solo per proteggersi dal soffio dell’aria condizionata che rischiava di fargli venire il torcicollo. «Te ne sarai dimenticato.»

Gilbert spinse il gomito sul bracciolo e affondò il pugno nella guancia, sfiorando la spalla di Antonio con il capo reclinato. «E chissà quanto tempo passerà prima che io possa tornarci di nuovo.» Abbassò le palpebre e sospirò, flesse le sopracciglia in un’espressione più nostalgica. «Dopo che...»

«Ma ormai dovremmo essere quasi arrivati alla stazione!» Feliciano tornò a mettersi seduto composto, togliendo le ginocchia dal sedile, e anche lui si accasciò contro il fianco di Ludwig. Tese le braccia sopra la testa e stiracchiò le gambe fino a urtare il sedile di Lovino con le scarpe da ginnastica. Le vertebre scricchiolarono di sollievo dopo tutte le ore che aveva trascorso seduto. «Non vedo proprio l’ora di infilarmi il costume e andare in spiaggia.» Contò sulle punte delle dita. «Poi di mangiare il gelato ogni giorno, di fare il bagno, di giocare a calcio, di andare a passeggiare in centro la sera, di stare alzato fino a tardi, e... oh!» Batté le mani. «E anche di fare i falò sulla spiaggia!»

Kiku abbassò la piccola guida turistica che stava sfogliando e su cui aveva incollato i post-it nelle pagine con le recensioni dei ristoranti più economici in città. Inviò a Feliciano un’occhiata dubbiosa. «Speriamo solamente che ci lascino davvero rimanere in spiaggia anche dopo il tramonto e che ci diano il permesso di accendere i fuochi.» Sfogliò una pagina e si strofinò la nuca. «Appena arrivati all’ostello dovremmo subito andare a parlare con i bagnini.»

«Mhm.» Feliciano fece dondolare le gambe. Raccolse un braccio di Ludwig, se lo passò attorno al fianco, e si mise a giochicchiare con la sua mano, a intrecciare le dita alle sue e a massaggiargli gli spazi fra le nocche. «Ma l’anno scorso hanno detto che li hanno lasciati.»

«Sì, ma un solo falò è diverso» rispose Ludwig. «Quest’anno siamo di più, e sicuramente anche gli altri vorranno accendere i loro fuochi.»

Gilbert si strinse lo stomaco e scoppiò a ridere. «Oh, sì, non vedo proprio l’ora di assistere al falò vichingo di Mathias e gli altri.» Fece roteare lo sguardo tenendo alto quel ghigno sarcastico. «Quei cinque delinquenti daranno fuoco alla spiaggia, garantito.»

Antonio si sporse a battergli il gomito sul fianco, ammiccò con le sopracciglia. «Se prima non lo facciamo noi, eh.»

Gilbert allargò il sorriso aguzzo, emise una ridacchiata gracchiante, e ricambiò le gomitate. «Così imparano a sbatterci fuori dalla festa di fine anno, eh, eh.»

Lovino abbassò lo schermo del telefono, sollevò di scatto lo sguardo, e inviò a Gilbert un’occhiata lancinante. Raccolse il braccio di Antonio, se lo allacciò attorno alle spalle, si raggomitolò al suo fianco e piantò il muso dando la schiena a Feliciano e agli altri. «Se avete intenzione di fare i coglioni già dal primo giorno e se pensate di rovinarci la vacanza allora potete anche andare a farvi fottere.» Chiuse la pagina di Instagram e andò sul sito di uno dei ristoranti di pesce vicino all’ostello, di quelli con la terrazza sul mare. Sfogliò la tabella oraria. Fece schioccare la lingua e tenne la fronte aggrottata. Le luci del display s’infossarono fra le rughe di rabbia contratte attraverso quella maschera di malumore. «Già il fatto che abbiamo dovuto riorganizzare le camere all’ultimo momento è stata una rottura di palle. In cinque in camera.» Scosse il capo. «Come merda si fa a stare in cinque in camera? Neanche fossimo in una gita delle elementari.»

«Oh, dai, Lovi.» Antonio si chinò a sussurrargli all’orecchio. «Tanto uno dei matrimoniali ce li prendiamo comunque noi. Io, te...» Indicò entrambi e strizzò l’occhiolino. «E il mostro delle coccole.»

Lovino tenne il broncio per nascondere uno sciocco e patetico sorrisetto che non seppe proprio controllare. Aprì una mano sul viso di Antonio e lo allontanò. «Piantala, idiota.» Si rimise a rosicchiare la catenina dorata da cui pendeva il piccolo crocifisso. «Te lo do io il mostro delle coccole.»

«Non aspetto altro.»

Kiku richiuse la guida turistica, la rimise nel suo zaino, ma lo sguardo si soffermò su Lovino che dava loro la schiena, su quell’ombra di negatività e malumore che lo circondava come una nuvoletta plumbea e brontolante. Aveva trascorso tutto il viaggio stando appiccicato ad Antonio, senza quasi parlare a suo fratello e senza sfiorare Ludwig nemmeno con lo sguardo.

Kiku si sporse verso Feliciano, stando attento a non spremersi contro la spalla di Ludwig, e aprì una mano affianco al viso per nascondere il movimento delle labbra. «C’è forse qualcosa che turba Lovino-kun?» gli domandò. Il rumore della corsa del treno coprì i suoi bisbigli. «È di cattivo umore fin da quando siamo partiti.»

Feliciano si strinse nelle spalle e scosse il capo. «È solo un po’ nervoso.» Si sporse anche lui, ma sempre tenendosi appeso al braccio di Ludwig che gli passava attorno al fianco. Lasciò anche lui che lo scarrozzare del treno celasse le sue parole. «Ma lo è da quando ci hanno detto che le doppie erano finite e che quindi dovevamo stringerci nelle camere multiple. Probabilmente sperava di avere una camera solo per lui e Antonio.»

Kiku arrossì e si affrettò ad abbassare gli occhi, colto da una fitta d’imbarazzo. «Oh.»

Feliciano annuì. Abbassò lo sguardo, si strofinò la nuca con gesti rapidi e nervosi, e il rossore sulle guance assunse una tinta più vivace. «Poi credo che ce l’abbia ancora un po’ con me per quello che è successo all’inizio dell’estate, sai», un altro dondolio di piedi, «quando ha scoperto che Ludwig ha dormito a casa nostra la sera della festa.»

Ludwig si strozzò con un sussulto. Una vampata di calore gli infiammò le guance e arrivò a bruciare all’altezza delle orecchie. Evitò lo sguardo di entrambi e strinse un pugno davanti alle labbra per tossicchiare via quel nodo di vergogna che era incastrato nel petto dall’inizio dell’estate, da quando aveva trascorso la notte più traumatizzante e meravigliosa della sua vita.

«Credo non gli sia ancora passata» sussurrò Feliciano, sempre rivolto a Kiku. «È da quel giorno che fa lo scontroso. Anche Antonio ha provato a parlarci e a convincerlo di far pace, ma non sembra aver funzionato. Sai com’è Lovino quando decide di fare il difficile. Poi penso proprio che sia il periodo sbagliato per farlo ammorbidire, dato che Antonio il prossimo mese comincia l’università e che quindi non potranno più vedersi a scuola.» Si strinse nelle spalle e i suoi occhi s’intristirono, nonostante la calda luce del sole a tingergli le iridi, a mettere in risalto le pagliuzze dorate fra le sfumature d’ambra. «Spero solo che il cattivo umore non gli rovini troppo la vacanza, povero fratellone.»

Kiku scosse il capo, costernato quasi quanto Feliciano, e gli rivolse uno dei suoi forti sguardi d’incoraggiamento, trasmettendo una spinta consolatoria anche a Lovino. «Sono certo che non sarà così. Il mare lo metterà di buon umore, ne sono sicuro.»

Passi pesanti e incalzanti attraversarono il corridoio del treno, si avvicinarono al loro scompartimento. Una figura si materializzò all’entrata e sventolò il braccio in un energico saluto. «Ehi, gente!» esclamò Alfred. «Siete ancora vivi?»

Lovino fece roteare lo sguardo e soffiò un pesante sbuffo sconsolato. «Grandioso.» Si tenne spinto contro il fianco di Antonio, le ginocchia raccolte al ventre e il viso chino sullo schermo del cellulare. «Non c’erano già abbastanza idioti in questo scompartimento?» borbottò con tono acido.

Feliciano invece s’illuminò di gioia e tornò a rizzarsi sulle ginocchia, ricambiando il saluto sventolante. «Ciao, Alfred!» Indicò la distesa di mare che scorreva come una pellicola fuori dal finestrino. «Hai visto, c’è il mare! Si vede già il mare, siamo quasi arrivati. Pensavo di venirvi a chiamare io, ma mi hai battuto sul tempo.»

Anche Alfred sgranò gli occhi, si sporse verso l’interno della cabina e lasciò che le sue profonde iridi azzurre assorbissero il colore del cielo specchiato fra le onde. «Ooh, ma qua si vede bene. E guarda quant’è blu! Noi invece abbiamo i finestrini sull’altro lato, è uno schifo, si vede solo la recinzione. Ah, comunque...» Estrasse il cellulare dalla tasca dei calzoncini e lo scosse facendo tintinnare il ciondolo smaltato con lo scudo stellato di Capitan America. «Mi hanno mandato ad avvertirvi che sarebbe meglio fare un gruppo collettivo su WhatsApp in modo da non perderci di vista. È stata un’idea di Arthur. Sto facendo il giro delle cabine per avvertire tutti e...» I suoi occhi caddero inconsciamente sulla piccola figura di Kiku. Incrociarono gli sguardi.

Fra di loro corsero gli stessi ricordi, le stesse rapide immagini della serata di inizio estate trascorsa nella palestra della scuola, durante la festa, quando c’era stato l’incidente fra loro e Arthur.

Kiku si fece piccolo-piccolo, sprofondò nel sedile, e si nascose contro la stazza di Ludwig.

Anche Alfred fece schizzare gli occhi al pavimento, avvampando all’altezza delle guance che erano già arrossite davanti alla visione del mare. Scosse il capo, si riprese, e rinfilò il cellulare nella tasca. «E quindi pensavamo fosse il caso di organizzarlo prima di scendere dal treno e di perderci di vista, sapete, con la sistemazione nelle camere e tutto.»

Ludwig annuì. Lo sguardo serio e attento. «Mi sembra una proposta ragionevole.» Estrasse anche lui il suo cellulare e aprì la pagina di WhatsApp, in cerca del gruppo.

Feliciano spostò lo sguardo dal viso paonazzo di Alfred a quello basso di Kiku, celato dall’ombra dei capelli corvini ricaduti sulle guance. Sollevò un sopracciglio, confuso. Chissà perché...

I ricordi riaffiorarono, sia le immagini a cui aveva assistito di persona sia quelle suscitate dal racconto che Kiku gli aveva rivelato dopo la serata della festa. Alfred che aveva convinto Kiku ad accompagnarlo per far ingelosire Arthur che gli aveva piantato il muso per aver spifferato la vicenda del loro bacio alla partita di baseball. La truce espressione di rabbia e gelosia contratta sul volto di Arthur quando Alfred si era presentato al ballo in palestra tenendo Kiku per mano. Il pugno che gli aveva stampato sul naso davanti a tutti gli studenti. Kiku che aveva cercato di separarli e che poi li aveva riconciliati a festa finita.

Ooh! Gli occhi di Feliciano tornarono a illuminarsi, attraversati da una scintilla di realizzazione. Ora ho capito. Ma sul serio ci stanno ancora pensando?

Antonio fece correre il pollice attraverso la lista di contatti aggiunti al gruppo “Last Summer Memories”, e sfogliò i vari nomi. «Chi è l’amministratore del gruppo?» Con un nome così malinconico e deprimente, doveva per forza essere Arthur.

Alfred si riprese dal rossore d’imbarazzo, levò lo sguardo al soffitto e picchiettò l’indice fra le labbra. «Uhm, forse Arthur. Oppure Francis.» Fece sventolare la mano. «Però poi si sono messi a litigare con gli altri perché col gruppo di Ivan e di Yao è successo che...»

Uno scossone del treno fece rimbalzare l’abitacolo della carrozza. Alfred inciampò di lato, sbatté con la spalla sulla soglia dello scompartimento e si tenne aggrappato per non finire sbalzato via.

Feliciano trasalì per lo spavento e tese una mano verso di lui. «Stai bene?»

Gilbert fece roteare lo sguardo e inviò un cenno col mento ad Alfred, indicandogli i sedili. «Senti, entra e siediti, così eviti di sfracellarti la testa prima ancora che la vacanza cominci.»

Feliciano scivolò in braccio a Ludwig, gli cinse le spalle, fece dondolare le gambe, e lasciò libero il sedile accanto al finestrino. «Puoi stare al mio posto, se vuoi.»

Alfred aggiustò gli occhiali che gli erano caduti sulla punta del naso, dopo lo scossone del treno, e sorrise. «Se insistete.»

Lovino sbuffò. «E chi insiste.»

Feliciano gli lanciò un’occhiataccia storta.

Alfred passò davanti a Kiku, ancora arricciato contro il fianco di Ludwig, e andò a sedersi al posto di Feliciano. Di nuovo volse lo sguardo fuori dal finestrino e tese la mano davanti alla fronte per resistere alla forte luce del sole che gli batteva sulle guance. Riacquistò lo stesso sorriso sognante comparso sulle sue labbra quando i suoi occhi si erano riempiti del riflesso blu delle onde. «Non vedo l’ora di fare il bagno.»

Antonio – lo sguardo ancora chino sullo schermo del cellulare – si soffermò sugli ultimi nomi aggiunti in fondo al loro gruppo.

 

“Ivan ^J^ Braginski”

“Yao W Panda”

“♥Mei-Mei♥”

“Pretty♀Little♀Psycho”

“Katya”

“Li-Xiao-Leon”

“Yong Soo ☆*:.。. o(≧▽≦)o .。.:*☆ Da-ze!”

“Toris L.”

“Totally☆Feliks”

“E. √on Bock”

“Raivis~”

 

Antonio inarcò un sopracciglio in un’espressione dubbiosa. «Il gruppo di Yao e quello di Ivan avranno intenzione di fare un falò tutto loro?» Sollevò gli occhi dallo schermo del cellulare. «So che Mathias voleva farne uno per i fatti suoi, ma se ce ne saranno più di due forse potrebbero darci rogne.»

Alfred scosse il capo. «Ancora non lo so.» Tolse la mano tesa da davanti la fronte e sollevò un indice. «Però anche loro hanno detto che dovremmo organizzarci subito. Sia per i falò sia per le cene, anche perché non possiamo permetterci di mangiare fuori ogni sera. Il pranzo è un conto, possiamo fare dei panini da portare sulla spiaggia, ma sapete come sono questi posti di mare. Non aspettano altro che arrivino turisti da spennare e tirano su i prezzi come fosse – ah!» Batté un pugno sul palmo e i suoi occhi riacquistarono la solita vivacità. «E poi dovremmo anche stabilire i turni per prenotare la rete da beach volley!» Le ginocchia saltellarono, frementi di emozione. «E potremmo anche organizzare delle partite a eliminazione ogni giorno, e dare un premio a quella che sopravvive fino alla fine della vacanza, e...»

«Oh, beach volley!» Feliciano batté le mani, e anche lui rimbalzò di entusiasmo sul grembo di Ludwig. «Non vedo l’ora! Ma anche a calcio, però. Voglio anche giocare a calcio. E per quello non serve nemmeno la rete o nulla, basta solo mettere delle bottiglie sulla sabbia per formare le porte.»

Lovino lasciò scivolare la catenina dorata fuori dalle labbra e squadrò Alfred con un’espressione perplessa. «Sul serio avresti l’energia di fare una partita al giorno?»

«Anche cinquanta!» Gli occhi azzurri di Alfred scintillarono come quelli di un bambino davanti ai cancelli di Disneyland. «Non sto più nella pelle.»

Lovino fece roteare lo sguardo e gli sventolò una mano contro, come per scacciare una mosca. «Be’, goditela da solo.» Diede una stiracchiata alle gambe e strusciò la schiena contro il braccio di Antonio. «In vacanza si va a rilassarsi, non a sfaticare.»

«Giocare a beach volley o nuotare non è sfaticare. È divertirsi!»

Antonio si chinò ad accostare le labbra all’orecchio di Lovino, ammiccò con le sopracciglia. «Magari noi troveremo altri modi di sfaticare divertendoci.»

Lovino torse un angolo della bocca, nascondendo il sorrisetto indesiderato che tinse anche a lui le guance di rosso, e gli diede un colpetto sulla spalla.

Gilbert si riappoggiò col gomito sul bracciolo imbottito e rivolse a sua volta un’occhiata scettica ad Alfred. «E gli altri cosa dicono?»

«Be’, loro...» Lo schermo del cellulare s’illuminò dalla tasca di Alfred, aprendo un rettangolo di luce dietro la stoffa dei calzoncini. La suoneria di una chiamata invase l’intero scompartimento.

 

Good morning U.S.A, I’ve got a feeling that it’s gonna be a wonderful day! The sun in the sky has a smile on his face, and he’s shining a salute to the American race!

 

Alfred estrasse il cellulare facendo di nuovo dondolare il ciondolo di Capitan America, e lanciò un’occhiata allo schermo. «Oh, è Arthur.» Ridacchiò. «Deve aver captato che stavamo per parlare di lui.» Si avviò verso il corridoio, sventolò a tutti lo stesso energico saluto con cui si era presentato, e strizzò l’occhiolino. «Ci si becca fra poco!»

Feliciano si tenne aggrappato a Ludwig con un braccio e ricambiò il saluto con la mano libera. «Ciao, Alfred!»

Alfred uscì e i suoi passi si allontanarono verso gli altri vagoni assieme alla suoneria.

 

Oh boy it’s swell to say, good morning U.S...

 

«Arthur, sto arrivando.» Anche la sua voce si fece più lontana e ovattata, sovrapposta alla ritmica corsa del treno sui binari. «No, non mi sono perso, mi ero fermato per... sì, lo so che anche Mattie si preoccupa, adesso infatti sto tornando. Sono lì in tre minuti, promesso.»

Gilbert stiracchiò le braccia sopra la testa e stirò le gambe fino a toccare il sedile di Kiku. Sgranchì le caviglie. «Be’, signori miei.» Batté le mani sulle cosce e si alzò con un balzo. Diede una massaggiata anche alle vertebre della schiena irrigidite dopo le ore di viaggio incollato alla poltroncina. «Penso che anch’io ne approfitterò per andare a dare un’occhiata ai miei consorti.»

Feliciano compì un rimbalzo fra le braccia di Ludwig. «Oh, vai da Eliza e Roderich? Vengo anch’io!» Saltò giù dalle gambe del suo ragazzo e seguì Gilbert fuori dal loro scompartimento. «Spero non si siano annoiati a fare il viaggio senza di noi.»

Gilbert si fermò sulla soglia, interruppe un passo a metà, e spinse le spalle all’indietro per lanciare un ultimo cenno agli altri. «Torniamo in un secondo.» Lui e Feliciano s’incamminarono.

Feliciano strinse le mani dietro la schiena, saltellò sfilando accanto ai finestrini che davano sull’altro lato del treno, sulle altre corsie di rotaie delimitate dalla recinzione attraverso cui si scorgeva comunque la distesa azzurra del porto, i tralicci delle imbarcazioni ormeggiate, la punta del faro, e i tetti dei primi condomini, degli alberghi da cui spiccavano cartelloni pubblicitari e le antenne della tv.

Feliciano sospirò. «Che fortuna che hai avuto.» Saltellò per raggiungere la camminata di Gilbert. «Tu puoi stare in camera con loro e sarete solo in tre. Secondo te in cinque riusciremo a dormire bene? Spero che nessuno si metta a russare.»

Gilbert sollevò un ghigno che gli fece luccicare il rosso delle iridi e affondò i pugni nelle tasche dei pantaloni. «O che Lovi e Toni non si mettano a fare altro.»

Feliciano si nascose la bocca e ridacchiò. «Oh, dai, non dire così anche tu. Lovino è già abbastanza arrabbiato per non avere la camera doppia solo con Antonio. Spero davvero che non stia col muso per tutta la vacanza.»

«Gli passerà, gli passerà» fece Gilbert. «Vedrai che Antonio saprà consolarlo a dovere quando torneremo a casa. Tu, piuttosto...» Chinò la spalla per punzecchiargli il braccio con una soffice gomitata. «Non sei triste per non poter stare solo soletto con Luddy?»

Feliciano intrecciò le dita delle mani davanti al ventre, strofinò le unghie fra le nocche e guardò in basso, celando il rossore che gli aveva spolverato gli zigomi. «Staremo bene, non ti preoccupare.» Sollevò un sorriso tiepido e sincero. «Non è un problema condividere la camera, sarà divertente. Poi sarebbe stato scortese lasciare Kiku da solo, anche se avrebbe comunque potuto unirsi al gruppo di Yao. Ma è il nostro migliore amico, e io voglio passare la vacanza assieme a lui tanto quanto lo voglio con Ludwig. E poi fra due settimane si torna a scuola, e io e Ludwig potremo vederci tutte le mattine in classe e anche i pomeriggi al club e durante lo studio. Avremo un sacco di tempo per stare assieme.»

Gilbert abbassò le palpebre e sospirò a fondo. «Aah, Feli.» Sfilò una mano dalla tasca dei jeans e gli strofinò una carezza fra i capelli castani. «Cos’ha fatto quell’energumeno per meritare uno come te? Ma cos’è questa storia che vi vedrete tutti i pomeriggi?» Gli scoccò una furba occhiata d’intesa. «Che c’è, avete intenzione di approfittare della casa libera solo perché io parto per l’accademia e potrete fare tutte le porcellate che volete senza che nessuno vi disturbi?»

Feliciano compì un rimbalzo e il suo viso si accese come un semaforo rosso. «Eeh?» Il ciuffo cadente sulla spalla si arricciò in una spirale d’imbarazzo.

Gilbert mostrò i palmi con espressione sdrammatizzante. «Niente in contrario, sia chiaro. Basta solo che risparmiate la mia camera e che diate da mangiare a Gilbird ogni giorno. Ma niente semi di girasole, ricordatevelo. Quelli proprio non li sopporta.»

Quella frase passò attraverso il petto di Feliciano come una frecciata e gli strinse il cuore in un’amara e inaspettata fitta di tristezza. Cancellò il rossore sulle guance e appiattì il sorriso fra le labbra.

Entro un paio di settimane, Gilbert non sarebbe più vissuto in quella casa assieme a Ludwig, non lo avrebbero più incrociato nei corridoi della scuola durante la ricreazione, o le ore buche, o i tragitti verso la presidenza per l’ennesima punizione. Lui e Ludwig e Kiku non avrebbero più udito la sua voce o il rumore dei suoi passi durante i pomeriggi trascorsi a studiare da loro. Niente più casse dell’impianto stereo che pompano i Sabaton o i Powerwolf o i Nanowar of Steel – era stato Feliciano stesso a farglieli conoscere, regalandogli un loro album per Natale – a tutto volume, facendo vibrare le pareti delle camere. In cucina non sarebbe più aleggiato il delizioso profumo degli sformati di patate e salsicce che solo lui sapeva preparare e che cucinava sempre durante le cene di gruppo. E anche Gilbird si sarebbe ritrovato solo e triste, senza nessuno a farlo zampettare fra le dita o a farlo svolazzare fuori dalla gabbia come faceva sempre il suo padrone, lasciando che andasse a beccare i semini di sesamo direttamente dalla credenza.

Nel cuore di Feliciano si spalancò un buio vuoto di tristezza che pesò sul petto come un pezzo di piombo. Raffreddò tutto l’entusiasmo che gli aveva infiammato il viso nell’attesa di scendere dal treno e di far cominciare la vacanza.

Feliciano sospirò. Sollevò comunque un tiepido sorriso e rivolse a Gilbert un dolce sguardo già nostalgico della sua rumorosa presenza di cui nessuno riusciva comunque a fare a meno. «Ci mancherai tanto, Gilbert.»

Gilbert intercettò quel sorriso triste, la malinconia riflessa negli occhioni nocciola, e quella nostalgia a ingrigire l’aura attorno a lui. Gli diede una pacca di consolazione. «Ma è per questo che ho intenzione di godermi al massimo questa vacanza, no?» Gli avvolse le spalle e lo attirò a sé, bacchettandolo con la punta dell’indice. «Quindi niente facce tristi e niente piagnistei, intesi? Anche se dal prossimo mese dovrete fare a meno di me.»

Feliciano riacquistò il suo solito sorriso, più splendente di quel sole estivo specchiato fra le onde del mare, e annuì battendo un saluto militare sulla fronte. «Okay!» Sgusciò fuori dall’abbraccio di Gilbert e corse attraverso il corridoio fino allo scompartimento di Roderich ed Elizaveta.

Il treno sorpassò il cartello azzurro che annunciava l’entrata nella stazione e sfrecciò affianco alle prime persone che attendevano sulla piattaforma di cemento. I freni stridettero, la corsa rallentò, e la cittadina di mare accolse il loro arrivo.

 

 

Feliciano abbandonò il borsone sul pavimento – tunf! – compì uno scatto di corsa, spiccò un balzo, e spalancò le braccia per tuffarsi sul letto matrimoniale accostato alla parete di fondo. «Letto prenotato!» Abbracciò uno dei due cuscini, rimbalzò sul fianco, fra le lenzuola pulite, e si rotolò supino stritolando l’imbottitura di piume fra le braccia. Finì sotto la luce proveniente dalla porta-finestra che dava sulla terrazza in giardino. Una luce frastagliata dalle tende ancora tirate e dai riflessi verdi degli alberelli che crescevano rigogliosi attorno allo steccato confinante con le altre camere.

Feliciano si spinse sull’altro fianco, tenendo il cuscino soffocato fra le braccia incrociate, e inviò un’occhiata alla parete opposta della camera da letto, dove era posizionato un altro matrimoniale preparato con le stesse lenzuola color lavanda.  «Oh, ma c’è solo un altro matrimoniale» si lamentò. «E Kiku dove dorme? Ci stringiamo e lo facciamo stare fra me e Ludwig?»

Kiku posò la sua borsa accanto all’armadio e divenne scarlatto, sentendo le orecchie bruciare. «N-non penso sia il caso.»

Ludwig raccolse il borsone che Feliciano aveva abbandonato in mezzo al corridoio – stava intralciando l’entrata – e lo sistemò fra il guardaroba e il tavolino. Si guardò attorno – armadio, sedia, tavolino, due letti matrimoniali, porta vetrata sulla terrazza – e si sporse anche verso la porticina socchiusa del bagno. «Dovrebbe esserci una rete per un letto a una piazza da unire al nostro. Pensavo ce l’avrebbero fatta trovare direttamente in camera, ma a questo punto ci converrà andare a chiederla alla reception.»

Kiku annuì e si sfilò la felpa di cotone leggero che aveva indossato durante il viaggio in treno per non prendersi un colpo di freddo con l’aria condizionata, come Ludwig. «Dovremmo approfittare anche per chiedere dei falò sulla spiaggia.»

«Buona idea.»

Feliciano mollò il cuscino, saltò giù dal letto lasciando le lenzuola sgualcite, e impennò il braccio al soffitto. «Allora vado subito a mettermi il costume!»

Lovino sistemò il suo bagaglio ai piedi dell’altro matrimoniale, affianco alla borsa di Antonio, e lo fulminò con un’occhiataccia. «Feliciano, non osare entrare in bagno per primo. Ci impieghi un’eternità.»

«Ma Lovino» si lamentò lui. «Non posso cambiarmi davanti a tutti.»

Antonio si coprì la bocca e nascose una ridacchiata. «Oh, non è un problema.»

Lovino gli batté una gomitata sul fianco.

Gilbert strinse il suo borsone che teneva ancora a tracolla – non era ancora passato in camera sua per posare il bagaglio – e si guardò attorno. Passò davanti al tavolino affianco al guardaroba e rigirò il deodorante per ambiente posto affianco alla lampada. «Allora lasciamo tutto a voi.» Raccolse il braccio di Antonio, incatenando il gomito al suo, e rivolse una spolliciata a Lovino. «E date retta a Lovi. È lui l’adulto designato quando noi non ci siamo.»

«Perché?» Ludwig richiuse la porticina del bagno e aggrottò un sopracciglio. Nonostante il deodorante per ambienti che profumava di salsedine e di macchia mediterranea, sentì già puzza di guai. «Voi cos’avete intenzione di fare mentre noi saremo via?»

Gilbert si tenne incollato al fianco di Antonio, sollevò un indice e fece per rispondere tenendo le spalle larghe in quella solenne posa da adulto.

Una voce cinguettante li chiamò dalla soglia ancora aperta della camera. «Toc, toc.» Francis si sporse facendo ricadere una ciocca bionda sulla guancia e sventolò un saluto tenendo l’altro braccio piegato dietro la schiena. «I signori Beilschmidt e Fernandez Carriedo sono in casa?»

Antonio si sfilò dalla stretta di Gilbert e lo salutò anche lui sventolando la mano sopra la testa. «Ehiii, stavamo giusto per mandare via i marmocchi.»

A Lovino scoppiò una vena in fronte. «I cosa, prego?»

«I piccoli.» Gilbert raccolse le spalle di Ludwig – dovette mettersi in punta di piedi –, lo fece girare e gli diede un paio di spintarelle per condurlo fuori dalla porta. «Su, su, andate a divertirvi e a fare i castelli con la sabbia, ché i grandi hanno altre faccende da sbrigare.»

Ludwig lo squadrò di traverso. «Quali faccende?» L’olezzo di bruciato e di cattivo presentimento non era ancora sparito da sotto il suo naso.

«Ciao, Francis!» Feliciano saltò affianco a Francis e gli sorrise, circondato dalla sua solita aura di allegria nella quale sbocciavano fiorellini e scoppiettavano cuoricini rossi. «Com’è andato il viaggio? Avete visto il mare dal finestrino? Alfred è passato da noi e ci ha detto che avevate la cabina sull’altro lato ed è un peccato perché dai binari si vedeva tutta la laguna, e alla stazione vi ho cercato anche quando siamo scesi, ma era pieno di gente, e hai visto che ci siamo aggiunti sul gruppo di WhatsApp?»

Francis sospirò, sorrise sconsolato ma intenerito – aveva perso il filo già alla seconda domanda – e gli diede una strofinata ai capelli sempre tenendo l’altra mano nascosta dietro la schiena. «Ciao, Feli. Quanto sei caruccio, oggi.»

«E quanto avete intenzione di tenere la camera occupata, si può sapere?» sbottò Lovino, le braccia annodate al petto e la punta del piede a picchiettare sul pavimento.

Antonio si sfilò le scarpe, lanciandole sotto il letto, e indossò le ciabatte di cuoio marrone che aveva appena tirato fuori dalla sua borsa. «Vi raggiungiamo presto, promesso.» Posò una mano sul capo di Lovino e si chinò a sorridergli. «Tu mi prometti di tenere a bada tuo fratello e gli altri? Solo per qualche ora.»

Lovino arricciò la bocca, tenendo il viso imbronciato. Picchiettò di nuovo il piede sul pavimento, strinse le mani aggrappate alle braccia incrociate, e soffiò un piccolo sbuffo. «Uhmf.» Distolse gli occhi, sciogliendosi davanti allo sguardo più tenero e accattivante di Antonio che riusciva sempre a spazzare via le sue nuvolette di malumore. «D’accordo.»

Antonio gli scostò le ciocche della frangia e gli posò un bacino sulla fronte. «Bravo il mio Lovi.»

Gilbert acchiappò Antonio per il bavero della maglietta e lo tirò indietro. «Okay, okay, basta pomiciare. Avete tutta la vacanza per farlo.»

Lovino digrignò i denti. «Veramente...»

«Divertitevi in spiaggia!» Gilbert trascinò fuori Ludwig che si premurò di portarsi dietro Feliciano e Kiku aggrappati alle sue braccia, punzecchiò anche Lovino con una serie di spintarelle, e richiuse la porta della camera. Si girò ad accasciarsi sull’anta, le braccia distese sui fianchi e la nuca reclinata, e soffiò un lungo sospiro di sollievo. «Dio, finalmente.»

Una scintilla di anticipazione attraversò gli occhi di Antonio. Si girò a lanciare a Francis uno sguardo d’intesa velato da un’ombra di mistero e segretezza. «Le hai portate?»

Francis ricambiò il sorriso da mascalzone. Sfilò la mano da dietro la schiena ed esibì il pacco da sei bottiglie di Corona. «Portate, portate.» Scosse la confezione. Gocce di condensa rotolarono attraverso il vetro delle bottiglie ghiacciate e percorsero le etichette plastificate. «Ancora fresche di frigo.»

Gilbert si rialzò dalla porta, impennò il braccio e distese un sorriso ingolosito. «Prendo il cavatappi!»

Antonio andò a spalancare le tende e ad aprire le porte vetrate che davano sulla terrazza. «Sistemo le sedie in veranda.»

«E dai anche una pulita al tavolino.» Francis estrasse qualcos’altro dalla tasca posteriore dei pantaloni e lo mostrò agli altri due. Una vecchia confezione di carte da Uno, consumata agli angoli, e con rughe biancastre ad attraversare il disegno del mazzo di carte colorate sulla parte frontale del pacchetto. «Godiamoci degnamente la meritata ricompensa per tenere a bada questa banda di marmocchi.»

 

 

Antonio lanciò la sua carta, un tre rosso, sul mazzo accumulato al centro del tavolino in veranda, coprendo il sette rosso che aveva giocato Francis prima di lui. Si abbandonò contro lo schienale della seggiola e continuò a scavare nei ricordi del racconto risalente all’inizio dell’estate, e non riuscì a trattenere una risatina di tenerezza. «E insomma io faccio le scale, lascio Lovino al piano di sotto perché avevamo comprato le brioche per fare una sorpresa a Feli, dato che lo avevamo lasciato solo e pensavamo di farci perdonare portandolo anche a pranzo fuori.» Sorseggiò dalla sua bottiglia di Corona già mezza vuota. «Apro la porta, non faccio nemmeno in tempo a mettere naso nella camera che – bang!» Sbatté la bottiglia sul tavolino e sventolò il suo mazzo di carte. «Abiti per terra, letto disfatto con le lenzuola tutte sul pavimento, Ludwig vestito solo con i jeans, e Feli con una camicia di tre taglie più grande che cercava di spingerlo nell’armadio. E per terra c’era anche la bustina del preservativo.» Indicò il pavimento di legno sempre con le carte fra le dita. «Io lo vedo e faccio: “Ehi, quella non è la bustina di un preservativo?” Lud e Feli avranno cambiato colore dieci volte in faccia, avreste dovuto vederli. Sembravano una tavolozza.» Accavallò le gambe, reclinò il capo godendosi il tepore dei raggi di sole che gli solleticavano le guance e la punta del naso, e assaporò la dolce e fresca brezza che soffiava sulla veranda e attraverso i suoi capelli, cullato dalla sensazione estatica e ovattante birra che gli stava già salendo alla testa. Inspirò quella frizzante e speziata aria di mare, di sabbia, dei sorbetti alla frutta che vendevano nella gelateria dietro l’angolo, e il profumo più intenso e muschiato dei pineti, dei mirti e dei ginepri che crescevano lì attorno, nel piccolo giardino confinante con la stradina che conduceva alla spiaggia. Un profondo senso di pace lo pervase, dandogli l’impressione di trovarsi già a galleggiare fra le onde del mare, a bagnarsi la pelle di sole. «Se non è palese questo.»

Francis si pettinò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e rise a sua volta. «Quanto avrei voluto assistere. Che dolci angioletti. Situazioni del genere mi suscitano sempre una tenerezza infinita.»

Gilbert alzò gli occhi e fece schioccare la lingua fra i denti. Fece sfilare il tocco fra le sue carte, indugiò fra un cinque rosso e un Cambio Colore +4. «Che ingrato traditore» commento, scocciato. «Lud non mi ha nemmeno detto nulla.» Buttò giù il cinque e tracannò voraci sorsate dalla sua birra. «E il giorno prima gliel’avevo anche chiesto.» Scollò il vetro dalle labbra con uno schiocco e tese l’indice su Antonio. «Ovvio che avevo capito che sarebbe successo, che avrebbe passato la notte da Feli per fare ciaf-ciaf e non per giocare con i soldatini. Gli avevo chiesto se gli servivano preservativi – glieli andavo a comprare io – ma lui ha fatto tutto lo scontroso, mi ha sbattuto la porta in faccia e si è rinchiuso in camera.»

Antonio risollevò il capo e inarcò un sopracciglio. «Gilbert, chi mai andrebbe dal proprio fratello a chiedere di comprare preservativi?»

Francis si strinse nelle spalle, si fece aria con le carte e scrutò il suo mazzo – ne aveva sei. «Chiedere al proprio fratello è un conto. Chiedere a Gilbert è un altro. Nemmeno io avrei corso il rischio.» Pescò una nuova carta dal mazzo ribaltato – un otto giallo – e lo aggiunse al mazzo. «Passo.»

Gilbert scosse il capo e rise premendosi la mano sulla fronte. «Mi sto ancora chiedendo da chi li abbia presi. Uno come Luddy non avrebbe mai coraggio di andare a comprarli, dai.»

Francis gli lanciò un’occhiata di rimprovero. «Guarda che non c’è niente da vergognarsi. E comunque...» Raccolse la sua bottiglia umida di condensa – beveva per solidarietà, lui detestava la birra – e la fece oscillare. «Ci sono sempre i distributori automatici.» Prese un piccolo sorso.

Antonio assottigliò le palpebre, aguzzò lo sguardo sulle sue carte, torse un angolo delle labbra e si strinse il mento, pensieroso. «Uhm.» Fece tamburellare le dita sul tavolino di ferro. Le rilesse tutte un’altra volta e scelse un +2 rosso, gettandolo nel mazzo.

Gilbert gli lanciò una breve occhiata assassina, giurando mentalmente vendetta, ma pescò le sue due carte e le aggiunse al mazzo. «Secondo me Luddy si è fatto accompagnare da Kiku e ha mandato lui in cassa a comprarli, standosene a sorvegliare la situazione dal fondo della farmacia.» Scosse il capo. «Non ce lo vedo proprio ad andare assieme a Feli. E non riesco nemmeno a immaginare Feli che trotterella da solo, tutto innocente e puccioloso, andandoli a comprare come se fossero caramelle.» Gettò un Cambio Colore. «Cambio giallo.» Francis fece la sua mossa, e Gilbert rivolse a entrambi un’occhiata incerta e titubante. «Voi li vendereste mai a Feli?» Si posò la mano sul petto, sul ciondolo a forma di croce di ferro. «Io mi sentirei sudicio nell’anima, avrei l’impressione di essere complice di un crimine nell’intaccare il suo candido animo innocente.»

Francis se la rise e sventolò il suo mazzo di carte davanti al viso, scuotendo le ciocche di capelli che gli cadevano sulle spalle. «Io non direi per niente. Feli fa tanto il visetto dolce e innocente davanti a tutti, ma secondo me a letto è un maiale.»

«Già, ci pensate?» Antonio sgranò gli occhi. La faccia di colpo grigia e sconvolta. «Feli non è più vergine.» Buttò un Cambio Giro.

«Be’, tanti auguri a Ludwig.» Francis esaminò le sue carte e sollevò un sopracciglio. Una scintilla di concentrazione guizzò attraverso le iridi azzurre. «Se non avesse avuto uno come Feli e se non si fossero innamorati a vicenda, probabilmente si sarebbe portato la verginità nella tomba.»

«Ehi!» Gilbert gli ringhiò addosso. «Vacci piano, è del mio fratellino che stiamo parlando. Solo io posso sparare merda su di lui.»

Francis lo ignorò. Soffermò il tocco su un Cambio Colore +4 e i suoi occhi scintillarono. Giocò la carta.

Gilbert ebbe un sussulto, ma durò poco. Ghignò anche lui, attraversato da un bruciante fremito di vittoria, e gettò a sua volta il suo Cambio Colore +4. «Suuucchiamelo

Antonio cacciò un gridolino di panico. «Aah! No, no, fermi, aspettate.» Toccò ogni sua carta, pescò il +2 giallo, e lo buttò sopra l’infame carta nera.

Gilbert aggrottò la fronte. «Ma che...» Pigiò l’indice sul mucchietto di carte. «Non puoi buttare giù un Più Due

«Ma è giallo» protestò Antonio. «Ed è comunque un Aggiungi Carta

Anche Francis assecondò Gilbert. «Ma le carte devono essere uguali per essere sovrapposte.»

«Ma con Lovi vale» frignò Antonio. «Quando gioco con lui questa mossa vale.»

Gilbert pescò otto carte dal mazzo ribaltato e gliele passò senza sbirciarle. «Si cucchi le sue otto carte, signore.»

Antonio piagnucolò ancora qualche breve protesta a fior di labbra, gli occhi lucidi di disperazione, e aggiunse le carte al mazzo che ora faceva fatica a tenere in mano. «Che colore?»

«Blu.»

Antonio buttò giù un otto blu e passò il turno.

Francis pinzò un nove blu dal suo mazzo, senza sfilare la carta, e diede una piccola spallata ad Antonio, rivolgendogli un sorrisetto di striscio. «Tu invece vai a comprare da solo la merce che scotta?» Giocò il nove.

«Sì» annuì Antonio. «Lovi di solito si vergogna. Ma a me non disturba, lo faccio volentieri.»

«Che palle» si lamentò Gilbert. «Tutto questo macello di Lud e Feli ci sta distraendo troppo, diavolo.» Buttò anche lui una carta blu in cima al mazzo e ammiccò in direzione di Antonio. Gli occhi rossi luccicarono come perle di sangue, avidi di aspettativa. «Non ci hai ancora raccontato cos’avete fatto tu e Lovi la sera della festa.»

Nonostante la batosta da otto carte aggiunte al mazzo, sulle labbra di Antonio ricomparve un piccolo sorriso, assieme a una spolverata di rossore sulle guance. «Ve l’ho detto.» Buttò una carta. «Abbiamo cenato.»

Anche Francis gli rivolse un guizzo con le fini sopracciglia bionde e imitò lo stesso sguardo malizioso di Gilbert. «E poi?» Carta.

Antonio raccolse la sua bottiglia di Corona, fece oscillare la birra avanzata, e rivolse lo sguardo sognante al cielo soleggiato che splendeva sulla veranda, fra i rami dei rampicanti profumati. Sospirò. «Poi abbiamo preparato assieme i pancake e la salsa di cioccolato fatta in casa.»

Gilbert aggrottò un sopracciglio, sempre più impaziente. «E poi?» Gettò uno Stop. Di nuovo il turno di Francis.

Antonio avvolse le guance fra i palmi e continuò a sorridere, a rimanere avvolto in quell’atmosfera soffice e smielata come una distesa di zucchero filato rosa. «Poi abbiamo guardato Adventure Time mangiando sia i pancake che il gelato che aveva portato Lovino.»

Gilbert sbuffò e fece roteare lo sguardo. «Sfigati.» Prese la sua bottiglia di Corona e tracannò un altro paio di sorsi.

Francis piegò il gomito sul tavolo, stando attento a non urtare le birre e il mazzo di carte già giocate, e si sporse verso Antonio. «E poi?»

«E poi anche le televendite» rispose lui. «Quelle che fanno di notte dopo i talk show e i reality.»

Gilbert si sfilò la bottiglia dalla bocca e si soffocò con un sorso di birra andato di traverso. «Le cos – le televendite?» Batté le mani sul tavolino e fronteggiò Antonio a occhi sgranati, allibiti. «Ma siete scemi?»

«No, ci divertiamo!» Antonio abbassò le palpebre e tornò a esibire un’espressione pacifica e beata. L’espressione di chi si trova a saltellare fra le nuvolette del paradiso, circondato da spirali di cuoricini e da cascate di fiori colorati. «Ci piace guardare i prodotti e immaginarci cosa faremmo se li avessimo anche noi. Sai, le macchinette per fare lo yogurt, le pentole dove ci puoi cucinare di tutto senza che si attacchi niente, i set di cuscini, le poltrone massaggiatrici. Poi ci piace immaginare che tipo di vita avremmo se avessimo tutti quei prodotti assieme, e ogni volta ce ne costruiamo una diversa. Un giorno io e Lovi vivremo una casa con una piscina con l’idromassaggio e i materassini gonfiabili. E avremo anche un portico dove coltiveremo le spezie, e avremo anche uno di quei cosi per fare le centrifughe di frutta e di verdura, e – oh, la stanza cinema con il megaschermo! Poi avremo una cucina di quelle con il bancone al centro e le sedie alte girevoli, e un freezer enorme con uno scompartimento solo di gelati che sarà pieno tutto l’anno, poi una mansarda super mega gigantesca dove faremo le feste e appenderemo delle lampade che saranno come delle lanterne, e avremo anche una mini palestra con il...»

«Mio. Dio.» Gilbert scosse il capo, amareggiato, e non lo lasciò finire. «Non so nemmeno perché continuo a uscire con voi due.» Giocò un’altra carta. «Che palle! Voglio dettagli sul culo di Lovino non sul set di pentole!»

«Scordatelo.»

Francis nascose una ridacchiata dietro il dorso della mano e si sporse a bisbigliare sopra la spalla di Antonio. «Gilbert brama di scoprire i dettagli solo perché lui non ha ancora avuto esperienza diretta sul campo.»

La faccia di Gilbert divenne di pietra, le unghie stridettero sul vetro bagnato della Corona, e il suo cuore batté un palpito fitto e pesante come una martellata di piombo.

Francis pescò una carta dal suo mazzo, la usò per sventolare un po’ d’aria sulle guance già rossicce d’alcol, e gli rivolse una fine occhiata saccente. «Come ci si sente a sapere che tuo fratello minore ha perso la verginità prima di te?» Buttò la carta nel mucchio.

Gilbert si morse il labbro, assorbendo il sapore amarognolo di schiuma di birra, e gettò gli occhi in disparte. Fece uno sbuffo e tirò su il mento, gonfiando un sorriso noncurante. «Dovrebbe turbarmi?»

Francis si strinse nelle spalle. «Be’, sai...» Si pettinò una ciocca dietro l’orecchio. «Hai appena finito le superiori e sei ancora vergine. E se persino uno come Ludwig ci è arrivato prima di te...»

«Già, Gil!» Antonio gli scagliò l’indice contro. Trasse un sospiro scandalizzato che rese il suo viso più buio. «Non si può arrivare alla fine delle superiori ed essere ancora vergini, è tipo la sacra morale di American Pie

Francis si schiaffò una mano sulla fronte. «No, imbécile. La morale di American Pie è che devi fare sesso solo quando ti senti pronto per fare sesso. L’età o l’anno scolastico non c’entrano niente.»

«Ma alla fine lo hanno fatto comunque tutti e quattro durante la festa di fine anno!» ribatté Antonio. «Quindi che senso avrebbe quel film?»

Gilbert gli rise dietro. «Non puoi basare la tua morale sui film!»

«E tu non puoi accettare così alla leggera il fatto di essere ancora vergine!» Lo sguardo di Antonio tornò mortalmente serio. «Lo sai che è scientificamente provato che quelli che finiscono la scuola da vergini rimangono soli a vita?»

«Ma che...»

«E pensa a cosa succederà ora che andrai in accademia!» Antonio sgranò gli occhi e impallidì di terrore. Un brivido viscido e freddo come un cubetto di ghiaccio gli discese la schiena. «Se quelli scoprono che sei vergine ti sfonderanno come un materasso, organizzeranno le orge nei bagni e ci sarà anche un buttafuori che ritirerà i biglietti di quelli che vogliono partecipare, metterà i timbri sulla mano, e...»

«Piantala!» Però un brivido di panico e disgusto fulminò anche Gilbert. Gli ghiacciò il sangue nonostante il calore del sole a battergli sul viso e sulle braccia nude. Gilbert pescò una carta dal mazzo al centro, la sventolò per scacciare la vampata di sudori freddi e per far sfumare via quell’immagine dalla testa. Soffiò un borbottio da sbruffone. «E poi chi vi dice che io sia ancora vergine?»

Francis rise. «Oh, andiamo, Gilbert. Se fosse già successo ce l’avresti detto, lo avresti sbandierato ai quattro venti.» Giocò la sua carta e indicò Antonio con il pollice. «Ti ricordi quando Antonio e Lovino lo hanno fatto la prima volta?»

Gli occhi di Antonio tornarono dolci e sognanti, due cuoricini pulsanti fra le palpebre. «Io sì.»

«Ecco» considerò Francis. «Non ha fatto altro che parlarne per una settimana. E tu sapresti essere ancora più irritante.»

Gilbert si mise a braccia conserte e piantò un muso da offeso. «Be’, guarda che non sarei comunque l’unico ad aver finito la scuola e a essere ancora vergine.» Socchiuse gli occhi, si guardò alle spalle, oltre il confine della veranda, oltre le siepi che delimitavano il giardino, oltre la stradina che scorreva fra gli altri condomini, verso la linea di mare da cui arrivavano gli scrosci delle onde e le risate schiamazzanti dei ragazzi che si erano già precipitati in spiaggia. Si nascose le labbra e torse un sorriso aguzzo e malefico che gli accese gli occhi di rosso. «Secondo me anche Arthur lo è ancora.»

Francis sgranò le palpebre, compì un piccolo rimbalzo sulla sedia, come se avesse preso la scossa, e si nascose dietro il suo mazzo di carte.

Antonio guardò in alto, fece tamburellare fra le labbra la bocca della bottiglia, e stropicciò la stessa smorfia pensosa che aveva mostrato prima mentre sceglieva quale carta giocare. «Uhm.» Annuì. «Sì, effettivamente anche secondo me lo è.»

«Vero, no?» Gilbert sorseggiò dalla sua birra. «Anche se sta con Alfred da mesi, Arthur dà l’idea di uno che te lo fa sudare. È così scorbutico, per me non si lascia nemmeno palpeggiare.»

«No. Arthur...» Francis strinse un pugno davanti alla bocca e tossicchiò tenendo gli occhi distanti, l’aria vaga. «Arthur non è vergine, ve lo assicuro.»

Gli sguardi di Gilbert e Antonio schizzarono su Francis, le loro bocche mute e le espressioni congelate.

Antonio rizzò un sopracciglio, già sentendo un formicolio di sospetto prudere dietro la nuca. «E tu che ne sai?»

«Be’...» Francis tenne gli occhi distanti – gesto così raro da parte sua – e si strofinò la nuca, impacciato e vulnerabile. «Una volta, fra di noi...» Si morse il labbro e mozzò la frase a metà.

Gilbert e Antonio sbiancarono e spalancarono le bocche. Si guardarono fra loro, sbatterono più volte le palpebre, come in preda a un miraggio, e tornarono su Francis.

«Stai scherzando?» esclamò Gilbert. «Lo...» Lasciò il suo mazzo di carte, sbatté le mani sul tavolino e si gettò col viso a una piuma dal suo naso. «Lo avete fatto?»

Antonio non diede nemmeno tempo a Francis di rispondere, imitò la stessa faccia scandalizzata di Gilbert e lo stesso tono incredulo, quasi offeso. «E non ci hai detto niente?»

Francis sospirò, abbassò le palpebre in un gesto sconsolato, e corrugò la fronte. «Sentite.» Appoggiò il suo mazzo di carte, tenendole coperte verso il basso, e mostrò i palmi, di nuovo serio. «A mia discolpa posso dire che è successo prima che si mettesse con Alfred. Arthur pensava che Alfred lo avesse già fatto, allora è venuto da me, mezzo disperato, e mi ha detto: “Non posso mettermi con uno più giovane di me ed essere vergine mentre lui non lo è. Devi insegnarmi qualcosa in modo da non fare figuracce”. E allora ci siamo fatti un po’ prendere la mano. Ma è stato prima che si mettesse con Alfred» sottolineò di nuovo. «Quindi teoricamente non ha mai tradito nessuno e io non sono stato complice di un crimine.»

Antonio richiuse la bocca, cancellandosi dalla faccia quell’espressione da beota, e l’ombra attorno ai suoi occhi assunse una sfumatura amareggiata. «Non ce lo avevi mai detto.»

«Perché sarebbe dovuto rimanere un segreto. In teoria.»

Gilbert fece scivolare il gomito contro di lui, spremette la spalla sulla sua, e ammiccò, di nuovo ghignante e fremente di curiosità. «E com’è stato armeggiare con Mister Sopracciglio?»

Francis alzò lo sguardo al cielo. «Imbarazzante. Orribile.» Pescò dal suo mazzo la carta dello Stop e la gettò nel mucchio al centro. Prese un sorso della sua birra e si strinse nelle spalle. «In realtà sarebbe anche potuta essere una bella esperienza, dato che voglio tanto bene ad Arthur e che effettivamente lui mi piace, ma si capiva che lui lo stava facendo solo per Alfred, e si capiva anche che mentre lo stava facendo con me pensava a lui. Poi non siamo riusciti a guardarci in faccia per una settimana.» Piegò il gomito sull’orlo del tavolino e raccolse la guancia nel palmo. Sospirò. Sulle labbra sbocciò di nuovo un sorrisetto divertito. «E la cosa più comica in tutto questo è che Alfred era comunque vergine, quindi Arthur si è pentito ancora più di me perché ha perso l’occasione di consumare la prima volta con lui.»

Gilbert sollevò un sopracciglio. «Esilarante.»

Gli occhi di Antonio invece brillavano come smeraldi, affascinati. «E loro due lo hanno già fatto?»

«No» rispose Francis. «Be’, circa. In realtà mi ha raccontato che lo scorso mese è successo che...» Scosse il capo e tagliò la conversazione con un gesto della mano. «Sentite, non sono affari nostri. Andate a chiederlo ad Arthur se ci tenete tanto. O ad Alfred.»

Gilbert tirò su uno dei suoi migliori sorrisi da idiota. «Be’, Francis, se ti offri spontaneamente di fare da nave scuola...» Gettò un +2 blu e si accostò a Francis, allacciò il braccio al suo e gli sfiorò l’orecchio con le labbra. «Allora potresti anche cederti a me. Tanto a te va bene sia sotto che sopra, no?»

Quel pensiero si materializzò in una nuvoletta bianca e fluttuò sopra la testa di Antonio. Antonio arrossì. Scosse più volte il capo e agitò le dita nella nuvoletta per dissolvere quelle immagini indesiderate.

Francis aprì una mano sulla faccia di Gilbert se lo scollò di dosso. «Te lo scordi» rispose con tono grave, lapidario. «Non farò mai più una cosa del genere.» Pescò dal suo mazzo capovolto le due carte che gli spettavano e ammorbidì lo sguardo. Anche attorno a lui fiorì un’aria sognante, profumata delle erbe e dei fiori mediterranei che riempivano il giardino. «Senza contare il fatto che ora c’è Matthew. Non potrei mai andare con qualcun altro.»

«Ma non state ancora assieme, dai.»

«Ma sono in piena fase corteggiamento.» Francis si posò la mano sul petto, sollevò il mento mostrando una posa solenne. «Ho un impegno con lui e con me stesso, e non potrei mai tradire i miei principi morali.»

Antonio sbatacchiò le palpebre, perplesso. Fase corteggiamento? Sopra di lui si gonfiò una nuova nuvoletta bianca. Questa volta, al suo interno, comparve l’immagine di Francis vestito con vaporoso abito azzurro, tutto pizzi e volant, e con una pelliccia di piume attorno alle spalle. La miniatura di Francis spalancò le braccia esibendo le piume, compì un paio di piroette e danzò attorno a Matthew, come un pappagallo durante il corteggiamento. Davanti a lui, Matthew lo ammirava con gli occhi luccicanti, incantati dalla danza delle piume, e batteva le mani, contento come un bimbo. Antonio si tappò la bocca, s’infiammò fino alle orecchie e soffocò una risata, strozzandosi con il suo stesso fiato.

Gilbert sventolò la mano verso Francis, sdrammatizzante. «Pfft» ridacchiò. «Tu prendi queste cose troppo seriamente.»

«Certo che prendo queste cose seriamente.» Francis si appoggiò sul gomito, posò il mento sulle nocche, affilò un sorriso ammaliatore, e socchiuse le lunghe ciglia da cerva. I suoi occhi azzurri luccicarono di furbizia. «Ecco perché io non sono più vergine mentre tu lo sei.»

Antonio spalancò gli occhi e staccò la mano dalla bocca per trarre un lungo sospiro di scherno. «Ooh!»

Gilbert si morsicò l’interno del labbro, spezzò il sorriso, e stritolò il pugno sul tavolino fino a ficcarsi le unghie nel palmo. Il senso di vergogna e di sconfitta salì a sfrigolare fino alle punte dei capelli.

Antonio gli scagliò l’indice contro. «Sfondato, Gil!» rise. «Come un materasso durante un’orgia! Aspetta, aspetta, devo fare una cosa.» Posò le sue carte e tirò fuori il cellulare dai pantaloni. Si mise a smanettare. Il sorrisino sempre lì. «Francis, ridi’ la frase.»

Francis lo squadrò di traverso. «Toni...»

«Ridilla!»

Francis fece roteare lo sguardo, sospirò, e tornò a poggiare il mento sulle nocche. «Ecco perché io non sono più vergine mentre tu lo sei.»

Antonio portò il cellulare dietro la testa di Gilbert e fece partire la parte corale di For the Damaged Coda. Fece oscillare il cellulare soffocando gli sghignazzamenti dietro la mano libera.

Gilbert allontanò il cellulare di Antonio dall’orecchio e strinse più forte il pugno, fino a sentire le falangi scricchiolare, sopprimendo al suo interno la tentazione di stampargli un cazzotto sul naso. «Ah ah, divertente, Toni, davvero.»

Antonio spense la musica e annuì. «Ovvio che sono divertente. Lovino lo dice sempre.» Si posò l’indice sulle labbra. «E col tuo stesso tono di voce, poi.»

Francis lo squadrò con un’occhiata ambigua.

Gilbert si diede una spolverata alle spalline nere della maglietta, si ricompose, si rivestì del suo solito atteggiamento pomposo e arrogante, e si posò la mano sul petto, sul muso di Mister Pickles disegnato dentro il pentacolo capovolto e sanguinante. «Tanto io non ho bisogno di Francis per perdere la verginità. Qualsiasi persona al mondo vorrebbe venire a letto con me. E poi...» Circondò con un braccio le spalle di Antonio, lo attirò a sé, e gli diede una spremuta alla morbidezza delle guance. «La risposta a tutti i miei problemi è proprio qui affianco a me.»

Antonio sobbalzò e sgranò le palpebre, già attraversato da un brutto presentimento che fu come una coltellata allo stomaco. «I-io?» balbettò, soffocato dalle dita di Gilbert strette sulle sue guance.

Gilbert annuì. Gli tolse le dita dalla faccia, gli afferrò le spalle, stringendo una presa salda, e lo guardò dritto negli occhi. «Toni.» L’espressione più seria che mai.

Antonio s’impietrì. Sudò freddo, brividi gelati risalirono la schiena, i suoi occhi impauriti non riuscirono a scollarsi da quelli così rossi, intensi e ipnotici di Gilbert. Oh, no, e adesso che faccio? Non voglio andare a letto con Gilbert, ma se me lo chiede con quegli occhi come faccio a rifiutare? Poi è pur sempre un favore al mio migliore amico, non so se avrei mai cuore di dirgli di no e anche se si trattasse di...

«Mi presti Lovino?»

La faccia di Antonio divenne nera di colpo, come se il sole che picchiava in giardino fosse morto, come se una vampata di gelo siderale avesse congelato il venticello estivo, come se tutte le foglie fossero cadute dagli alberelli e come se tutti i fiori fossero marciti dai cespugli.

Antonio s’impennò dalla sedia facendone stridere le gambe sul pavimento, artigliò la maglietta di Gilbert, lo tirò contro di sé, e lo trafisse con occhi in fiamme che avrebbero potuto liquefargli il cervello. Attorno a lui si accese un’iraconda vampata di fuoco. «Avvicinati a Lovino», stritolò il pugno fino a far pulsare le vene fra le nocche sbiancate e fino a sollevare lo schiocco delle falangi contratte, «provaci a toccarlo anche con un dito, e ti spedisco su Yugopotamia a mangiare letame per il resto dei tuoi giorni. E non sto scherzando, Gilbert.»

Francis levò gli occhi al cielo con un sospiro, e si sporse a stringere il polso di Antonio e spingere all’indietro le spalle di Gilbert. «Ehi, ehi, calmi, voi due.»

Gilbert però sorrise in faccia ad Antonio, distese uno dei suoi aguzzi ghigni da sbruffone, e continuò a fronteggiarlo senza paura quegli occhi di fuoco che avrebbero potuto incenerirlo. «Ma su Yugopotamia verrei trattato come un prigioniero, quindi non mi farebbero mangiare letame, ma dolci e cioccolata. Quanto sei ignorante, Toni. Smettila di essere così ignorante. Ti metti in ridicolo da solo.»

Francis staccò il pugno di Antonio dalla maglietta di Gilbert. «D’accordo, grazie per l’esaustiva lezione antropologica.» Spinse sulle spalle di entrambi e li costrinse a ricadere sulle seggiole di vimini. «Ma ora mettetevi giù tutti e due.»

Antonio tenne la fronte aggrottata, quella saetta omicida a sfrigolare dai suoi occhi puntati su Gilbert. Acchiappò la sua bottiglia di Corona e tracannò una sorsata per placare i gorgoglii di rabbia che gli stavano ancora ribollendo nel sangue e battendo sulle tempie.

Francis scivolò accanto a Gilbert, premendo la spalla sulla sua, e lo tirò a sua volta per il bavero della maglietta, sfiorandogli la fronte. «Sei scemo a dirgli una cosa del genere?» bisbigliò. «Vuoi farti ammazzare?»

Gilbert sbuffò. Si strappò il suo tocco di dosso e si mise a braccia conserte. «Almeno io saprei andare dritto al sodo e non passerei la sera a guardare le televendite o Dora l’Esploratrice.»

Antonio sbatté la bottiglia sul tavolo. «Era Adventure Time

Francis rise. «Sì, effettivamente questa sua abitudine è davvero...» Si appoggiò col mento sulle nocche, fece scivolare su Antonio un’occhiata più fine, e strizzò l’occhiolino. «Inaccettabile

Antonio afferrò la battuta al volo. Gli tornò il sorriso, «Ah!», e le fiamme di rabbia si spensero come se Francis gli avesse rovesciato addosso un bicchiere d’acqua fresca.

Ripresero a giocare, finirono di scolare le birre che seppero acquietare gli animi. Altre carte si accumularono nel disordinato mazzo al centro, mentre quello capovolto divenne più sottile man mano che i turni passavano.

La leggera e piacevole brezza estiva soffiò attraverso il giardino su cui affacciava la veranda, spanse il forte e mieloso profumo di arbusti, delle aiuole in fiore e dei rampicanti che rivestivano le facciate bianche degli appartamenti. Tre ragazzini vestiti in costume si rincorsero attraverso la stradina, ridendo, battendo sulle pietre le ciabatte da spiaggia incrostate di sabbia, e facendo rimbalzare una palla gonfiabile fra i piedi. Dalla spiaggia giunse il trillo del furgoncino dei gelati che stava passando sul bagnasciuga. Seguirono i gridolini di gioia di quelli che accorsero uscendo dalle onde o dal riparo degli ombrelloni, e a Gilbert parve di riconoscere le esclamazioni di gioia di Feliciano e di Alfred.

Antonio, nonostante la fucilata da otto carte che aveva incassato nei turni precedenti, era rimasto con sole tre carte nel mazzo. Riprese il discorso. «Non capisco quale sia il problema, Gilbert.» Esaminò le sue tre carte ma pescò dal mazzo. «Chiedi a Roderich, no? O a Eliza.» Si portò una mano alla bocca per nascondere un sorrisetto di perfidia che gli tinse le guance di un rosso acceso. «Oppure loro si sono messi assieme a tua insaputa?»

Quel pensiero sfondò il ventre di Gilbert come un pugno di ghiaccio. Gilbert pietrificò il tocco delle dita sulle sue ultime carte, a sfioro di un tre rosso. Rabbrividì e fulminò Antonio da dietro il mazzo. «No che non si sono messi assieme!» Si spinse il pollice sul petto, sulla croce di ferro che gli pendeva dal collo. «Noi tre non potremmo mai metterci con uno di noi, sarebbe uno scandalo, sarebbe un crimine.» Sfilò il quattro giallo dalla sua mano e lo gettò sul mazzo al centro. «Sarebbe come... Uno!» Abbassò la fiammata d’entusiasmo, si ricompose, rigirando l’unica carta che gli era avanzata, e sventolò le dita per scacciare quel pensiero. «Sarebbe come tradire automaticamente l’altro.»

Francis flesse il capo di lato e gli rivolse un’occhiata tutta luccicante di aspettativa. «Allora potreste fare tutti e tre assieme. Vi insegno io, se vuoi.»

Antonio si diede una grattata dietro l’orecchio e guardò in alto, di nuovo scavando in cerca di una soluzione nelle sue nuvolette immaginarie. Un ronzio di confusione a vorticargli attorno alla testa. «E come farebbero a incastrarsi?»

«Guardate che io sono in grado di perdere la verginità quando e come voglio.» Gilbert strinse il pugno sul tavolino. I suoi occhi si accesero di combattività. «Non ho bisogno di chiedere il permesso di nessuno.»

Francis sollevò un sorriso ammiccante. «Allora facciamo una sfida. Tu, Monsieur Gilbert Beilschmidt, dovrai perdere la verginità prima della fine della vacanza.» Abbassò il tono. «Altrimenti...»

Gilbert trattenne il fiato, come se si fosse trattato di rimaner immobile su una sedia fatta di spilli. «Altrimenti?»

Francis gli scagliò l’indice addosso, sfiorandogli la punta del naso. «Vergogna a vita!»

Anche Antonio si unì alla cagnara, e il suo animo già fremette all’idea. «Ti prenderemo in giro per il resto della tua esistenza, e persino al tuo funerale.»

Gilbert si stravaccò sulla seggiola di vimini, si fece aria con l’ultima carta rimasta fra le dita, e si strinse nelle spalle esibendo un sorriso disteso e sdrammatizzante. «Tutto qua? Devo solo farmi pregare da tutti quelli che si metteranno in fila solo per strusciarsi con me?» Impennò la sua ultima carta e raccolse la sfida, già succhiando il dolce sapore della vittoria fra le guance. «Andata.» Buttò il tre rosso sopra il tre giallo in cima al mazzo e vinse la partita.

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Capitolo 2
*** Due di picche ***


. Due di picche

 

 

Gilbert sgattaiolò attorno al perimetro del giardino a cui si affacciava la veranda della camera che lui condivideva assieme a Roderich ed Elizaveta. Infilò le mani fra i cespugli chiazzati da fiorellini bianchi da cui proveniva un dolciastro e nauseabondo odore di polline, spalancò la visuale sul giardino, scacciò via il volo di un’ape che gli era ronzata sopra la spalla, e aguzzò lo sguardo verso la piccola terrazza in ombra.

Roderich sedeva da solo al tavolino. Lo sguardo basso sul libro che reggeva fra le mani – una raccolta di poesie di Bertolt Brecht – e un bicchiere mezzo pieno di tè freddo alla menta su cui galleggiavano due foglioline verdi e un cubetto di ghiaccio ridotto ormai alle dimensioni di una nocciolina. Sfogliò una pagina, aggiustò la montatura degli occhiali che gli stava scivolando dal naso, e prese un sorso dalla cannuccia, continuando a leggere.

Gilbert abbassò le palpebre, guadagnò un respiro profondo nonostante l’odoraccio di fiori che gli dava il mal di testa, e rilassò il fascio di nervi già indurito sulle spalle e bruciante attraverso la schiena ricurva. Coraggio, Gil, puoi farcela. E che sarà mai, no?

Si tirò in piedi con uno scatto, lasciandosi inondare dai forti raggi di sole estivo che lo caricarono di energia, e scavalcò le siepi con una falcata sola. Attraversò il giardino con l’audacia e la sicurezza di un soldato che pesta i piedi sul campo di battaglia, esibì uno dei suoi sorrisi più sgargianti, e sventolò un braccio sopra la testa. «Ehiii, Roddie!» Prima che Roderich potesse anche solo sollevare lo sguardo dal libro e rivolgergli la parola, Gilbert agguantò una delle seggiole e si lasciò cadere nel guscio di vimini. Premette i gomiti sul tavolino, raccolse il viso fra i pugni, e ammiccò stendendo un sorrisone che splendeva come quel rovente sole pomeridiano. «Ma come sei bello, oggi, Roddie. Il sole ti bacia divinamente il viso, Roddie, ti fa splendere i capelli.»

Roderich inarcò un sopracciglio, azzardò una sillaba. «Cos...»

«Shampoo nuovo?» Gilbert gli raccolse una ciocca di capelli dalla fronte e la arricciò attorno alla punta dell’indice. Annuì. «Mi piace. Profumi proprio come un dolce mazzolino di fiori freschi.»

Le labbra di Roderich si schiusero in un’espressione perplessa ma ancora troppo spaesata per accendersi di rabbia. Roderich squadrò di traverso la mano di Gilbert intrecciata ai suoi capelli, gliela cacciò via con un colpetto, e tirò le spalle all’indietro, corrugando le sopracciglia in quella sua perenne espressione di disappunto. «Cosa vuoi, Gilbert?» Si girò sul fianco, sfogliò un’altra pagina della raccolta di poesie, si sistemò gli occhiali, e riprese a leggere.

Gilbert sbuffò. «Che sfiduciato.» Si tenne appoggiato sul gomito e reclinò il capo di lato, affondando le nocche nella guancia. Batté le palpebre imitando uno degli sguardi ammaliatori di Francis. «Non posso semplicemente venire qui a dirti quanto sei carino?»

«No. Dimmi cosa c’è o lasciami in pace.» Roderich prese un sorso di tè freddo dalla cannuccia, facendo trillare il ghiaccio. «Sto leggendo.»

Gilbert appiattì quel sorrisetto inebetito, socchiuse un occhio per aguzzare la vista, e si guardò attorno. Giardino vuoto, porta scorrevole della veranda lasciata aperta, e nessun profilo a occupare l’interno della camera. Tese l’orecchio. Solo il cinguettare degli uccellini, il ronzio delle api che banchettavano con i fiorellini delle siepi, gli schiamazzi provenienti dalla spiaggia, e il soffio del vento che faceva frusciare gli alberelli. Nessun altro all’orizzonte.

«Dov’è Liz?»

Roderich posò il bicchiere di tè freddo e sfogliò un’altra pagina del libro, senza sollevare gli occhi dalla lettura. «È uscita assieme a Natalia a visitare i negozi in centro. Volevano comprarsi un vestito nuovo per la spiaggia.»

«Ah.»

L’occhio di Gilbert tornò a cadere su Roderich, sul suo profilo irradiato dalla luce del sole che si frammentava fra le foglioline e attraverso cui filtrava la tinta verde smeraldo del prato. I capelli scuri e profumati di shampoo cadevano un po’ ribelli sul suo viso delicato reso ancora più chiaro e sottile dal sole estivo. Il colletto sbottonato della camicia scopriva l’invitante curva del collo, bianca e liscia, ancora senza abbronzatura, che sembrava fatta apposta per ricevere i baci mordicchianti di qualcuno, per passarci sopra la punta della lingua e succhiare il sapore di salsedine dalla sua pelle diafana, perdendosi nella sua dolcezza.

Gilbert deglutì, ricacciando indietro quella voglia. Strizzò le mani a pugno grattando le unghie sulla stoffa dei pantaloncini, e soppresse il prurito alla pancia che minacciò di salirgli alla testa come le sorsate di birra che aveva tracannato solo qualche minuto prima assieme a Francis e Antonio.

Scrollò il capo, si rivestì della sua migliore maschera di serietà, e piantò le mani sul tavolo. «Okay.» Trascinò la sedia per portarsi più vicino a Roderich e spinse le spalle in avanti. «Senti, non c’è un modo semplice per dirtelo, quindi io te lo dico e basta.» Sollevò un ghigno aguzzo da guancia a guancia e ammiccò con le sopracciglia. «Ti va di fare sesso con me stasera?»

Roderich allargò le palpebre, sbiancò di colpo – la faccia di un cadavere –, e strinse le punte delle dita sulla copertina flessibile del libro, raggelato. Tirò su lo sguardo dal libro, sbatté gli occhi, e squadrò Gilbert con la stessa espressione persa e un po’ stordita che aveva mostrato al saggio di musica in terza media, quando gli si erano rotti i crini dell’archetto mentre suonava il violino davanti a tutta la scuola. Un’espressione che diceva: “Gilbert, per cortesia, convincimi di aver sentito male”.

Gilbert incassò quella cinerea occhiata di disagio e sospirò. «Ascolta, è successo un casino con Francis e Antonio.» Indicò alle sue spalle con entrambe le mani. «Loro mi fanno: “Ehi, Ludwig ha perso la verginità prima di te che sei il fratello maggiore. E non puoi finire le superiori se non hai fatto sesso almeno una volta, perché è la morale di American Pie, e saresti marchiato come uno sfigato a vita. Ho chiesto a Francis. Ma Francis non vuole farlo con me perché è in fase corteggiamento con Matthew o che cavolo ne so. Antonio non mi lascia chiederlo a Lovino. E se facessi sesso con Antonio poi lui mi farebbe vedere le televendite dei frullatori e si metterebbe a progettare la planimetria della nostra casa. Ma se lo facessi con te sarebbe tutto a posto, sarebbe il piano perfetto. Ci divertiamo per una sera, io vincerò la scommessa, e poi finirà là.»

«Gilbert, cosa stai...»

«Sarebbe solo sesso, lo giuro.» Gilbert diede una sventolata di mani, di nuovo esibendo il suo sorriso da sbruffone, e si spolverò le spalline della maglietta. «Mica ti chiederei di metterci assieme o di sposarmi, so di essere irraggiungibile per i comuni mortali.» Giunse le mani in preghiera, fece gli occhi dolci, e inzuccherò il tono di voce. «Ti prego.»

Roderich sollevò un sopracciglio. Le labbra ancora schiuse in quella smorfia d’incredulità, in quella faccia di sasso a cui pareva avessero succhiato tutto il sangue dalle guance. «Tu vorresti fare...» Sbatté di nuovo le palpebre, chiuse gli occhi, prese un lungo sospiro, ripose il libro sul tavolo e si massaggiò le tempie sotto le stanghette degli occhiali. «Tu in pratica mi stai chiedendo di avere un rapporto solo per vincere una scommessa con quei due? Correggimi se sbaglio.»

Gilbert annuì con energia. «Più o meno è così, sì.»

«Io non...» Roderich strinse le dita sulla fronte, contro il profilo di una vena bluastra salita a martellare in superficie, e si lasciò scuotere da un tremolio rovente, da un breve tic all’occhio. Scosse il capo e riprese in mano il suo libro. «Gilbert, non esistono espressioni abbastanza civili ed educate per manifestare quello che vorrei dirti in questo preciso istante, quindi mi limiterò a starmene in silenzio, a chiederti cortesemente di andartene, e farò finta che tu non mi abbia mai detto nulla di simile.»

«Oh, dai, so che lo vuoi anche tu. Chiunque lo vorrebbe.»

«No, Gilbert. Non lo voglio.»

«Ma ti prometto che faccio piano.»

Il viso di Roderich avvampò di colpo. Un violento rossore risalì le guance e lo incendiò fino alle punte delle orecchie, appannandogli gli occhiali. «C-cosa?»

«Lo giuro» confermò Gilbert. Si posò una mano sul petto, sulla croce di ferro, e sollevò l’altra in segno di giuramento, di patto solenne. «Guarda che so essere gentile e delicato anch’io, quando voglio. Se mi dici: “Gilbert, fermo”, io mi fermo. Se mi dici: “Gilbert, non toccarmi lì”, io non ti tocco lì. E così sarebbe...»

«Ti prego, Gilbert.» Il tono di Roderich assunse una sfumatura disperata. «Finiscila con queste tue scemenze.» Si rialzò dalla seggiola e si passò una mano fra i capelli. Lo sguardo di nuovo calmo ma ancora contratto da una scura ruga d’irritazione. «Ne ho davvero abbastanza.» Compì un primo passo per rientrare in camera e lasciare la veranda.

Gilbert si tuffò al di là del tavolo, prima che Roderich potesse scappargli, e lo acchiappò per il braccio, da sopra il largo bracciale di cuoio che gli fasciava il polso. «No, no, aspetta, aspetta, Roddie, solo un secondo, ti preeego

Roderich arrestò il passo, irrigidì il braccio sotto la presa di Gilbert, e strinse il pugno tremante. Riportò il piede indietro e rivolse a Gilbert un’occhiata di striscio da sopra la spalla. Un’ultima pietosa occasione per permettergli di chiedere scusa e di rimangiarsi tutte le assurdità che aveva pronunciato.

Gilbert rinnovò il sorrisone da beota. «E se ti pago?»

Roderich divampò d’indignazione, la bocca cadde aperta in un gemito soffocato, e un violento tremito di sconcerto attraversò il braccio ancora intrappolato fra le dita di Gilbert.

Corrugò la fronte in un’occhiataccia furente, gli strappò il braccio dalla presa, ribaltò la mano, e gli scaricò addosso un ceffone tale che lo schiocco si sentì fino alla spiaggia.

 

 

Gilbert avvolse il pacco di fagioli surgelati in uno strofinaccio che aveva rimediato alla mensa dell’ostello. Rigirò il fagotto e lo premette sulla guancia ancora rossa e gonfia dopo lo schiaffo di Roderich che aveva stampato un’impronta pulsante sulla pelle. Storse il naso e masticò un gemito a denti stretti, piantando uno scuro broncio da offeso. Accavallò le gambe, sistemandosi sulla seggiola di vimini, e finì di sorseggiare il tè freddo che Roderich aveva abbandonato assieme al libro di Brecht dopo essersene andato dalla veranda, indignato come una primadonna.

Dannato damerino. Gilbert risucchiò dalla cannuccia una sorsata di tè alla menta ormai intiepidito. Il ghiaccio si era sciolto completamente. Come osa profanare il mio magnifico viso? Un filo d’acqua rotolò dal fagotto in cui aveva avvolto il pacco di fagioli surgelati, gli attraversò la guancia e gocciolò dal mento. Gilbert aumentò la pressione e placò il bruciore pulsante che rievocò il ricordo del ceffone, il sonoro ciaf! del palmo di Roderich sulla guancia, e quel lampo bianco che gli aveva ribaltato la faccia. Aggrottò un sopracciglio, rosicchiò fra gli incisivi l’estremità della cannuccia che reggeva fra le labbra. Per essere così delicatino ha una mano che sembra fatta di cemento, Cristo. Si diede una strofinata sotto l’impacco di fagioli. Sarà che a forza di suonare gli è venuto il callo? Come i tennisti?

«Gilbert?»

Gilbert rimbalzò sulla seggiola di vimini, sputacchiò l’ultimo sorso di tè dalla cannuccia, e si girò verso la voce che lo aveva colto di spalle.

Elizaveta lo osservava stupita dalla soglia della veranda, fra le due ante trasparenti che si aprivano sulla loro camera da letto. La borsa di paglia a ricadere sull’abito da spiaggia, e la mano stretta sulla tracolla che le fasciava la spalla nuda. «Cosa fai in camera? Pensavo fossi in spiaggia con gli altri.»

Gilbert allontanò di colpo gli occhi. «Sono stato da Francis e Antonio fino ad adesso» farfugliò. La cannuccia gocciolante ancora a pendere dalla bocca. «Sono tornato per...» Premette la mano sui fagioli surgelati avvolti nel panno di stoffa e un’altra goccia d’acqua gli solcò il viso arrossato. Indicò il fagotto. «Per mettermi il ghiaccio.»

«Il ghiaccio?» Elizaveta flesse il capo e fece scivolare dietro l’orecchio una ciocca di capelli sfuggita all’elastico che teneva ferma la coda di cavallo. Assottigliò le palpebre velate di ombretto verde, lo squadrò con perplessità. «Ma che hai fatto al viso?»

Gilbert si morsicò il labbro e succhiò il sapore del tè che gli era rimasto in bocca. Mantenne lo sguardo lontano da quello di Elizaveta, nascose il rossore raffreddato dal pacco di fagioli surgelati spinti sulla guancia. «Uhm...» Merda! Pensa, cervello, pensa! «L-la saracinesca. Prima...» Rivolse l’indice al di là del giardinetto, verso le siepi in fiore che confinavano con le altre camere. «La saracinesca nella camera di Antonio si era bloccata, io ho provato ad aggiustarla perché sono il più forte, ovviamente, ma il nastro si è spezzato e mi ha sbattuto in faccia.»

Elizaveta arricciò una smorfia addolorata e rabbrividì. «Che male.» Raccolse la ciocca di capelli castani scivolata fuori dall’elastico e la sistemò dietro l’orecchio, sotto il fermaglio a forma di fiore pinzato sulla tempia. Sfilò affianco a Gilbert trascinandosi dietro il dolce profumo di crema solare al cocco sprigionato dalla sua pelle, poggiò la borsetta di paglia su una delle seggiole vuote, e andò a stiracchiarsi sotto il sole, tendendo le braccia sopra il capo. «Non vedo l’ora di farmi anch’io un giro in spiaggia.» Raccolse un lembo dell’abito verde che le arrivava alle ginocchia, compì una mezza piroetta sulle punte dei sandaletti, e lanciò un sorriso in direzione di Gilbert. «Ti piace il vestito nuovo?» Diede un’altra sventolata alla stoffa per mettere in risalto le sfumature color smeraldo e la fila di brillantini d’argento ricamati sull’orlo. «Io e Natalia li abbiamo comprati in uno dei negozi in centro, sai quello vicino alla pizzeria da asporto. Lei lo ha preso viola, stasera lo vedi.»

Ancora stordito dal dolce profumo di crema solare al cocco, Gilbert batté due volte le palpebre e le rivolse la stessa occhiata rapita con cui aveva percorso il profilo di Roderich irradiato dal sole estivo. Per la seconda volta finì risucchiato in uno splendente vortice di scintille incantate.

Elizaveta indossava un vaporoso abito da spiaggia color verde smeraldo, senza spalline, stretto in vita da una sottile cinta di caucciù. Nuvolette di lentiggini erano spolverate sulle spalle ancora bianche, senza abbronzatura. Sandali col tacco, composti da intrecci color cuoio, le sollevavano i piedi di almeno cinque centimetri da terra, adornati da una cavigliera dorata che ricadeva dalla gamba sinistra. Due bracciali di pietre colorate trillavano dal polso destro ogni volta in cui lei faceva oscillare il braccio per spostare l’orlo luccicante della gonna. Sulla scollatura a conchiglia che le fasciava i seni ricadeva una lunga collanina a cui era appeso un piccolo ciondolo a forma di lecca-lecca a spirale. I raggi del sole rendevano i suoi occhi luminosi come il prato alle sue spalle, e le tingevano le guance di un dolce colorito roseo, libero dalle ciocche di capelli legate in un’abbondate coda di cavallo all’altezza della nuca.

Effettivamente, ragionò Gilbert, felice che il gelo dell’impacco gli impedisse di arrossire, anche lei oggi è più carina del solito. La squadrò per l’ennesima volta, indugiando sulle spalle nude e sul petto. Dovrei dirle che il vestito le sta bene? Sarebbe strano da parte mia, dato che le dico sempre che i vestiti le stanno da schifo, ma se le dicessi che sta male sarebbe da stronzi. Aargh, che diavolo dovrei dire?

«Mhf.» Gilbert scosse le spalle. «Carina.» Risucchiò l’ultima sorsata di tè sollevando un forte gorgoglio sul fondo del bicchiere dove giacevano solo le due foglie di menta sciupate.

Elizaveta stropicciò una prevedibile smorfia contrariata ma non nascose il sorrisetto di chi non aspettava altro che attaccar briga. «Ma come?» Strinse le mani sui fianchi, facendo trillare i bracciali di gemme colorate. «Non sei tu quello che non fa altro che dirmi come mi stanno male le gonne e che a Roderich donerebbero molto...» Arrestò la frase a metà, si guardò attorno, ancora a labbra schiuse, e risollevò un’espressione interrogativa. «A proposito, dov’è Roderich?»

«Oh. Veramente è...» Gilbert si guardò alle spalle, verso la porta scorrevole lasciata aperta, e soppresse un gorgoglio di nervosismo sotto l’impacco umido e ghiacciato. Prima era talmente incazzato che probabilmente è andato a farsi un giro per smaltire i bollori. Chissà quando tornerà. «Quando sono tornato in camera non c’era. Forse è uscito.»

«Uscito?» fece Elizaveta. «Ma come?» Sospirò e si diede una strofinata ai capelli dietro l’orecchio. «Dovevamo andare a fare la spesa assieme.»

«Voi?» Gilbert le rimbalzò indietro la sua stessa occhiata stranita. «Ma non doveva andarci il gruppo di Alfred? Francis mi ha detto così.»

«Teoricamente sì» annuì lei. «Ma se spediscono Alfred al supermercato va a finire che ci troviamo con le borse piene di idiozie e con i portafogli bucati già al primo giorno di vacanza. Quindi serve qualcuno di responsabile e che sappia controllare gli impulsi, e hanno affidato la lista a me e a Roderich.» Si strinse nelle spalle. «Andando in due facevamo meno fatica con le borse, ma se lui non c’è...»

Gilbert mollò l’impacco di fagioli, saltò giù dalla sedia e impennò il braccio sopra la testa. «Ci vengo io!»

«Oh.» Elizaveta accostò una nocca alla bocca spalmata di lucidalabbra, sollevò un sopracciglio, e lo squadrò da capo a piedi, mezza sorpresa e mezza tentata. «Sul serio?»

Gilbert raccolse una mano di Elizaveta, chiuse il pugno libero dietro la schiena, e affondò un inchino da galantuomo. «Sir Gilbert al suo servizio, madamigella.»

La mano di Elizaveta divenne più tiepida, avvolta nella sua. Lei non si sottrasse, ma piegò un mezzo sorriso diffidente, voltò la guancia e lo squadrò di traverso. L’espressione scettica di chi fiata il familiare odore di guai in arrivo. «D’accordo, cosa nascondi? Come mai oggi fai tutto il carino?»

Gilbert le lasciò la mano e si diede un’aggiustata alla maglietta di Mister Pickles. «Donna di poca fede» borbottò. «Non posso semplicemente essere felice di aiutarti e di rendermi utile?»

«Suppongo.» Elizaveta rindossò la borsetta di paglia che aveva abbandonato sulla seggiola, strinse l’elastico per capelli, e compì un primo passo per imboccare la stradina di pietre che attraversava il giardinetto e che s’immetteva nella via asfaltata distesa davanti agli appartamenti. Arrestò la camminata. Si girò di scatto e puntò l’indice sul petto di Gilbert, sotto la croce di ferro. «Niente giochetti, però, d’accordo?» Lo trapassò con un truce sguardo d’ammonimento.

Gilbert sollevò il mento, gonfiò il petto in una posa solenne, e batté un saluto militare. «Agli ordini.»

«Lo spero.» Elizaveta fece strada lasciandosi dietro una scia al profumo di cocco, scese dalla veranda e attraversò il piccolo giardino lasciandosi sommergere dalla luce del sole.

Gilbert si diede un’ultima strofinata alla guancia da cui lo stampo della mano di Roderich cominciava a sbiadire. Si ficcò le mani nelle tasche dei calzoncini e seguì Elizaveta a passo incalzante, andando dietro al ticchettare dei sandali sulle pietre e al trillo dei bracciali che rimbalzavano attorno al polso. Flesse il capo di lato, percorse la curva delle gambe attorno cui oscillava l’orlo dell’abito verde.

Le sue guance tornarono a tingersi di rosso, in fondo alla pancia si raggomitolò lo stesso formicolio rovente che aveva provato davanti alla visione del collo scoperto di Roderich. Magari sarà davvero una buona idea. Si morse l’interno della guancia, scrollò la testa, e raffreddò gli impulsi che, nonostante il desiderio, spandevano comunque uno sgradevole e viscido senso di disagio lungo la schiena. Però devo giocarmela bene e approcciarmi con più delicatezza. Non voglio che finisca con un’altra manata stampata sulla faccia come con Roddie. Ma varrà lo stesso per la scommessa, anche se lei è una ragazza? Bah, ovvio. Poi Francis e Antonio non hanno mai specificato in quale piatto deve finire la salsiccia, quindi non c’è niente di male a chiedere a lei. Piegò un sorrisino tremolante, rivolse gli occhi altrove, si coprì la bocca e ridacchiò da solo, come un idiota. Dio, perché non c’è mai nessuno ad ascoltarmi quando faccio queste battute?

 

 

Elizaveta si scostò la ciocca ribelle dal viso, tornò a pettinarla sotto il fermaglio a forma di fiore, e liberò la vista concentrata sulla lista della spesa che Alfred aveva scribacchiato su una pagina strappata dal suo vecchio diario di scuola.

 

- Coca-Cola e Pepsi (X2 ciascuna)

- Aranciata (X2)

- Acqua (X4)

- Barrette di cioccolata al latte (NON FONDENTE!)

- Marsh-mallows

- Biscotti

- Pane da hot dog e pane da hamburger

- Wurstel

- Hamburger

- Ketchup, maionese e senape

- Orsetti gommosi

- M&M’s

- Patatine (CHEETOS!)

- Doritos

 

La rilesse un paio di volte e corrugò un’espressione dubbiosa. «Speriamo che qua abbiano i marsh-mallows. Alfred deve ancora capire che questi supermercati di mare non sono forniti come un Walmart, ci puoi comprare solo l’indispensabile. Ma lui ha insistito tanto che vuole fare i S’Mores.» Si scostò per lasciar passare una signora che tirava un carrello riempito di sacchetti di frutta e di almeno cinque buste di cibo per gatti, e si girò a sventolare la lista spiegazzata verso Gilbert. «Io direi di occuparci prima di prendere le bibite, in modo da infilare subito le bottiglie nel carrello e da non schiacciare tutto dopo.»

Gilbert trasalì, preso alla sprovvista mentre il suo sguardo era ipnotizzato dai colori sgargianti del reparto dolciumi, e strinse le braccia incrociate sul manico del carrello ancora vuoto. Lo spinse in avanti, seguendo Elizaveta. Si allontanò dalle vampate di gelo provenienti dal reparto frutta e verdura che emanava un intenso profumo di orto, e si diede una strofinata alle braccia spoglie per placare i brividi suscitati dall’improvviso sbalzo di temperatura. «Come vuoi tu.»

Elizaveta annuì. Si aggrappò al muso del carrello, intrecciando le dita nella griglia di ferro, e guidò Gilbert fra gli scaffali, dirigendosi nel reparto dell’acqua, delle bibite e dei liquori. «Vieni. Le bottiglie sono di qua.»

Gilbert si lasciò trascinare e rimase accasciato sul manico di gomma. I gomiti intrecciati, le spalle chine, l’udito rapito dai continui blip! provenienti dalle casse, e lo sguardo smarrito a vagare in mezzo ai pochi clienti che girovagavano fra i corridoi, seguiti dal cigolare delle ruote e dallo scricchiolio dei sacchetti di plastica.

Una ragazza teneva a braccetto un altro ragazzo, mentre lui aveva la mano occupata a reggere il cestello rosso. Lei si chinò a pescare un sacchetto di pinoli e un vasetto di olive, e glieli passò con un sorriso. Un’altra coppia ronzava attorno alle bilance per la frutta e la verdura. Si aiutavano a vicenda strappando gli adesivi con i codici a barre e annodando i sacchetti da infilare nel carrello. Lui disse qualcosa e la ragazza rise, gli diede un bacio sulla guancia prima di chinarsi a sistemare il cestino di albicocche.

Gilbert strizzò i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi, corrugò la fronte, e si rosicchiò il labbro, bruciando fino alle punte delle orecchie. Fiamme verdi d’invidia gli rosero il fegato. Ma guarda questo branco di plebei come se la spassano a fare pucci-pucci davanti a tutti. A nessuno importano le vostre effusioni!

Un’altra coppietta si diresse in fila alla cassa tenendosi la mano e reggendo un cestello riempito di sacchetti di pane, brioche e una bottiglia di vino. Risero anche loro a una battuta che Gilbert non colse.

Gilbert distolse lo sguardo gettando il capo contro la spalla. Approfittate della vacanza al mare per rotolarvi come ricci sotto le coperte, eh? Poi magari vi mettete la crema solare a vicenda, leccherete il gelato dallo stesso, berrete il cocktail dallo stesso bicchiere, sarete tutti: “Oh, amore, ciccino, facciamoci una foto mentre prendiamo il sole, oh, tesoro, andiamocene in giro per mano e sbaciucchiandoci a ogni passo tanto per far vedere in giro quanto siamo love-love, e far crepare d’invidia tutti i single e...”

«Direi di prendere tre bottiglie d’acqua naturale e una di gassata, che dici?» Elizaveta fermò fra gli scaffali il carrello che stava tirando per il muso, e si chinò a spostare il tocco fra le bottiglie di plastica involucrate nelle confezioni da sei. Erano già arrivati allo scompartimento delle bibite, senza che Gilbert se ne fosse reso conto. Elizaveta strappò due bottiglie dalle confezioni e le soppesò. «Tanto se mancherà l’acqua naturale possiamo sempre riempire le bottiglie vuote da una fontana o da un rubinetto.»

«Uhm.» Gilbert scosse il capo, distolse l’attenzione dalle allegre coppiette che facevano la spesa, e annuì. «Sì, direi di sì. Come ti pare.»

Elizaveta infilò quattro bottiglie nel carrello e riprese a esaminare lo scaffale. «Ora la Coca, la Coca... oh, eccola qui.» Si alzò sulle punte dei piedi e raggiunse le bottiglie facendo trillare i bracciali di pietre. «E anche la Pepsi.» Mise tutto nel carrello ma restò sulle punte dei sandaletti, lo sguardo assottigliato verso gli scompartimenti più alti e il capo reclinato all’indietro. «Per l’aranciata direi... ecco, questa dovrebbe andare. È quella che costa meno.» Si riavvicinò al muro di bibite, tese le braccia sopra la testa, barcollò di un passetto di lato per non perdere l’equilibrio, e strizzò più volte le dita riuscendo solo a sfiorare il bordo dello scaffale. Fece schioccare la lingua in un moto di frustrazione e compì un salto, mancandolo di nuovo. «Se solo...»

Gilbert fece roteare lo sguardo, non riuscì a contenere un sorriso di tenerezza. «Aspetta.» Mollò il manico del carrello e le si avvicinò. «Faccio io.» Si mise alle sue spalle, si alzò a sua volta sulle punte dei piedi tendendo il braccio sopra di lei, e le sfiorò la schiena con il petto, accostandosi al dolce profumo di cocco emanato dalla pelle nuda delle sue spalle. Raggiunse la bottiglia di aranciata.

Elizaveta girò lo sguardo, inarcò un sopracciglio, e una scintilla di piacevole stupore attraversò il verde dei suoi occhi che s’intonava con la tinta smeraldina dell’abito nuovo. Il sorriso spalmato dal lucidalabbra color ghiacciolo si schiuse, e un vivace colorito roseo le spolverò le guance.

Gilbert scese dalle punte dei piedi, voltò il capo per nascondere l’espressione tinta d’imbarazzo, e tossicchiò porgendole l’aranciata per il collo della bottiglia. «Ecco qua.»

Elizaveta tenne il sorrisetto inarcato, se lo gustò. Raccolse l’aranciata dalla mano di Gilbert e accennò un piccolo inchino col capo. «La ringrazio, Messere.» Riprese il carrello per il muso, per trascinarselo dietro, e tese il braccio davanti a sé come un condottiero. «Carne e pane, ora!»

Gilbert scosse il capo, si diede un piccolo schiaffetto per cancellare il profumo della pelle di Elizaveta, la visione estatica della sua bocca schiusa e spalmata di lucidalabbra trasparente, e si aggrappò al carrello, lasciandosi guidare. Cambiarono reparto. L’entusiasmo che gli aveva infiammato l’animo durante il tragitto dall’ostello al supermercato scemò, facendolo di nuovo ricadere con le spalle in avanti, accasciato sul manico di gomma, e costringendolo a trascinare i piedi sulle piastrelle. Ma sarei davvero in grado di andare a letto con Liz? Con qualcuno che conosco da quando eravamo all’asilo? Con qualcuno con cui mi impiastricciavo quando giocavamo con gli acquerelli? Con qualcuno con cui trascorrevo le estati in tenda? Con qualcuno con cui mi arrampicavo sugli alberi, e con cui andavo a saltare nelle pozzanghere e a tirarmi le palle di fango? E se anche lei mi dicesse di no come Roddie? No, dai, che dico! Ovvio che vorrà venire a letto con me. Lei è pazza di me, tutti sono pazzi di me! Ma se le camere sono sempre occupate, dove mai potremmo...

Elizaveta raccolse i sacchetti di pane preconfezionato dallo scaffale con i cracker e i grissini, sistemò tutto nel carrello, e si spostò nel reparto frigo, sommersa dalle luci bianche gettate dalle ghiacciaie. Aprì un’anta trasparente per raccogliere le confezioni di wurstel. «Li prendo sia di pollo che di maiale, tanto per accontentare tutti. Per gli hamburger invece dovrebbe bastare un pacco solo, ma prendiamo quello da dodici. Anche perché Natalia prima mi ha detto che domani sera anche il loro gruppo e quello di Yao faranno un falò assieme, e ci sarà anche il gruppo di Mathias, e probabilmente ci divideremo tutto, quindi rischiamo di...» La sua voce si dissolse, divenne un ronzio simile a quello dei frigoriferi, e si mescolò al brusio degli altri clienti che passavano loro affianco chiacchierando e battendo le suole delle ciabatte da mare sulle piastrelle.

Gilbert strinse le mani sulla sbarra del carrello e tornò a isolarsi nella sua bolla di pensieri. Brividi di ansia e agitazione gli strinsero la bocca dello stomaco, risalirono la schiena e gli rosicchiarono la nuca, scuotendogli le spalle ingobbite. Una riga di sudore si sciolse dalla tempia, nonostante l’ambiente gelido del reparto frigoriferi. Domani al falò, si disse. Sì, il falò di domani sarà la soluzione più sensata. Tutti saranno impegnati a cazzeggiare in spiaggia e noi potremo appartarci da soli. Magari dietro gli scogli. Combiniamo una sveltina e la cosa finirà lì. Corrugò un sopracciglio in una smorfia d’indecisione. Oppure sulla sabbia? Con gli asciugamani? No, troppo scoperti. Troppo rischio di essere beccati. Oppure facciamo finta di andare a prendere da bere, a riempire le bottiglie d’acqua, e ci infiliamo in camera da soli.

Elizaveta riesaminò la lista spiegazzata, lanciò le ciocche della coda di cavallo dietro la spalla, corrugò un’espressione indecisa, e guidò Gilbert verso il reparto dolciumi. «Di solito si usano i Graham Crackers per fare i S’Mores, giusto? Ma non so se qui li hanno.» Sfilò lungo lo scaffale dei biscotti, flesse il capo di lato per esaminare quelli più in basso. Raccolse un pacco, lo rigirò, lo rimise giù, e ne pescò un altro. «Magari vanno bene dei semplici biscotti integrali. Basta che siano abbastanza spessi.»

Ma Gilbert non l’ascoltava, era ancora perso nel suo mondo, estraniato dall’ambiente del supermercato.

Socchiuse gli occhi. Si proiettò in quello scenario che lo avvolse come una nuvoletta di zucchero filato rosa.

Posare le mani sulle spalle nude e lentigginose di Elizaveta, affondare la bocca nella sua, dolce e umida di lucidalabbra, inspirare il suo profumo di cocco e salsedine urtandosi a vicenda le punte dei nasi, scostarle i capelli dal viso, sentire la morbidezza del seno sul suo petto, intrecciare le gambe sprofondando fra le sue cosce.

Dentro Gilbert crebbe un gorgoglio ribollente di angoscia, estasi, terrore ed eccitazione. Violenti spasmi risalirono le gambe investite dal gelo proveniente dai frigoriferi. Forti brividi si arrampicarono lungo la schiena e lo soffocarono in una gabbia di rimorso. Il profumo di zucchero filato si sciolse, squagliato da una nera nuvola di pioggia e oscurità che gli diluviò in testa.

Ma è normale che io lo trovi così angosciante?  si domandò Gilbert. E se poi non fossi in grado di andare fino in fondo? E dopo cosa dovrebbe succedere fra noi? Forse sarebbe davvero da bastardi fare una sveltina e comportarsi come se non fosse successo nulla. Dovrei fermarmi lì per un po’ a farle le coccole? Dovremmo stare un po’ abbracciati? Lei è una ragazza, alle ragazze piacciono le coccole dopo il sesso, no? Be’, ma anche a me piacerebbero le coccole. Scosse il capo e si colpì con uno schiaffo. No, no, fai l’uomo, Beilschmidt, e non pensare da femminuccia! Agli uomini non piacciono le coccole. Credo. Però potrei farle un regalino. Un regalino di ringraziamento per avermi aiutato a vincere la scommessa. O sarebbe davvero come pagare una battona? Un momento...

Spalancò gli occhi e aggrottò un sopracciglio, di nuovo trovandosi sommerso da quella brontolante nuvola nera di pensieri indesiderati che lo teneva isolato dall’ambiente luminoso del supermercato.

E se poi mi venisse sonno? E se mi addormentassi di colpo? Che figura di merda.

«Oh, ecco i marsh-mallows!» Elizaveta risollevò le spalle, dopo essersi chinata a raccogliere cinque barrette di cioccolata dagli scaffali più bassi, ed esibì una gonfia confezione di marsh-mallows bianchi. Sulla plastica trasparente spiccava il disegno di un marsh-mallow cilindrico che sorrideva, intento ad arrostire uno spiedo su cui erano infilzati altri tre suoi simili, più piccoli, e senza faccetta simpatica da cartone animato. «Ta-daan! Siamo stati fortunati. Ah, guarda, ci sono anche gli M&M’s. Mhm, però...» Elizaveta fece cadere nel carrello la cioccolata, due buste di marsh-mallows, e ricontrollò la lista della spesa, accigliandosi. «Non hanno specificato di quale tipo. Bah, io prendo un pacco ciascuno.» Mise nel carrello un pacchetto giallo, uno marrone e uno blu, e si diede una spolverata alle mani. «E ora dovrebbero mancare solo gli orsetti gommosi.»

La corsa trotterellante di un bambino si infilò nel reparto, inseguito dal rumore delle sue ciabatte da mare che schiaffeggiarono allegramente il pavimento lustro. Il bambino superò il carrello di Gilbert ed Elizaveta, salì sulle dita dei piedini, levò la punta del nasino fino a raggiungere con lo sguardo gli scaffali più alti, e scandagliò ogni pacco di caramelle colorate. Si soffermò su quelle mou – il disegnino di una mucca tuffata in un catino di latte spiccava sulla confezione – e sgranò gli occhi luccicanti di gioia. «Mamma, mamma!» Si girò verso il carrello della mamma e sbracciò fra un saltello e l’altro. «Vieni, le ho trovati, sono qui! Sono nello scaffale alto.»

La madre si fermò a raccogliere il sonaglio del fratellino che aveva sistemato sul seggiolino del carrello e gli inviò un’occhiata di rimprovero. «Amore, non correre per i corridoi. C’è la gente che passa con i carrelli.»

«Ma le caramelle, mamma. Prendo solo le caramelle.» Il bimbo con le ciabatte da mare distese le braccia verso il pacchetto di caramelle, spalancò le piccole dita, compì un passetto sulle punte dei piedi, e urtò gli scaffali più bassi. Spiccò un balzo, sfiorò l’angolino della confezione con la mucca, e tornò a cadere. La gioia si sciolse dai suoi occhioni, lasciando solo una profonda espressione di tristezza. «Mamma, mi aiuti?»

Elizaveta sorrise, intenerita. Sollevò il braccio, raggiunse la confezione di caramelle mou, e si chinò a porgerla al bimbo. «Tieni.»

Il bambino trasse un sospiro di meraviglia e incredulità davanti a quel gesto. Raccolse il pacchetto di caramelle, se lo strinse al petto come se avesse appena recuperato un forziere di diamanti dalle profondità dell’oceano, e i suoi occhi tornarono a risplendere di felicità. «Grazie, signorina alta!» Fece dietrofront e corse dalla mamma sventolando il bottino sopra la testa. «Mamma, mamma, le ho prese. Sono quelle dell’altra volta.»

Elizaveta scosse il capo senza smettere di sorridere. Le guance ancora arrossite di tenerezza. Raccolse il muso del carrello, guidò Gilbert fuori dal reparto di dolci e diede un’ennesima controllata alla lista. «Ora mancano solo le patatine, i Doritos. Ah, e anche le salse per i panini. Forse le abbiamo superate, dovrebbero essere lì dei sottaceti.»

Gilbert tornò ad accasciarsi a braccia incrociate sopra il manico del carrello e si lasciò guidare senza badare troppo a dove Elizaveta lo trascinava. Si voltò verso gli schiamazzi di gioia del bambino rimasto nel reparto dei dolciumi.

Sua mamma infilò nel carrello un sacchetto di caramelle alla liquirizia, strofinò i capelli del figlio che stava ancora saltellando per la contentezza, e sistemò il ciuccio del bimbo più piccolo che si era rimesso a scuotere il sonaglio appena raccolto da terra.

Davanti a quelle immagini, un pensiero di ghiaccio fulminò il cervello di Gilbert. Ora che ci penso... Arrossì di colpo – le guance a fuoco, un formicolio d’imbarazzo in fondo al ventre, il labbro tremolante morsicato fra gli incisivi – e si girò di colpo. Lo sguardo volò inconsciamente verso il reparto della parafarmacia, avvolto da una corona di luce sterile e azzurrina. Mi sa che con lei mi toccherà usare per forza i preservativi. Se fosse stato con Roddie forse avrei anche potuto farne a meno, ma con lei proprio no. Quindi dovrei essere io ad andare a prenderli? Anche quello sarebbe considerato un gesto di galanteria? Stritolò la sbarra del carrello, piantò le unghie nella gomma rigida, e le dita sudate vi stridettero sopra. Merda, non posso credere che Luddy è passato attraverso una cosa del genere e che ne è anche uscito vivo. E se chiedessi a lui come...

«Gilbert?»

Gilbert trasalì come se gli avessero spremuto un pizzicotto all’orecchio. «Eh?» La nuvoletta di pensieri estranianti esplose e lo fece precipitare di nuovo fra gli scaffali del supermercato, davanti allo sguardo perplesso di Elizaveta. «Cosa?»

Elizaveta infilò nel carrello i Doritos, le Cheetos, un pacchetto extra di patatine al barbecue a forma di spirale, e si accostò a Gilbert aggrottando la fronte. Si strinse la mano sul fianco, piantò una delle sue pose autoritarie. «D’accordo» sbottò. «Si può sapere cos’hai oggi?»

Gilbert irrigidì le spalle e scattò sulla difensiva. «Perché?» Si appoggiò con un gomito solo sul manico del carrello, spostò lo sguardo su un signore anziano che era passato loro affianco, e allentò il bavero della maglietta per far respirare il collo accaldato nonostante l’aria condizionata del supermercato. «Cosa dovrei avere?»

«Sei silenzioso.» Elizaveta abbassò il tono. «Sei tutto imbambolato nel tuo mondo. Non è da te.» Nei suoi occhi si specchiò una luce preoccupata che le ammorbidì i tratti del volto. «È successo qualcosa?»

Gilbert tornò a pinzare il labbro fra i denti e ingoiò la rovente tentazione di spiattellare tutto e di farle la proposta davanti agli scaffali delle patatine e dei pop-corn. «N-no, ehm, niente.»

«E allora cosa c’è?»

«È solo...» Gilbert allentò il bavero della maglietta. «Il caldo.» Tornò a farsi aria al viso e alla gola. «È il caldo che mi spompa. E poi il nastro della saracinesca che mi ha sbattuto in faccia.»

Elizaveta corrugò un sopracciglio in un’espressione ancora carica di dubbio. «Sicuro?»

«Yup.»

Elizaveta sospirò. Si scostò una ciocca di capelli dal viso e diede un colpetto alla griglia del carrello. «Be’, allora qua ci mancano solo le salse. Ah, poi ci converrà anche prendere una scatola di fiammiferi in più, dato che quella che abbiamo sta finendo, e il gruppo di Yao ha portato i fuochi d’artificio e le stelle filanti per domani notte.» Strinse l’elastico della coda di cavallo, sventolò le ciocche dietro la spalla, e fece strada. «Speriamo solo che ci diano il permesso di far esplodere i fuochi in spiaggia.»

Raggiunsero lo scompartimento delle salse, e un bruciante formicolio di ansia si spanse attraverso la pelle di Gilbert, come se gli avessero rovesciato quella al peperoncino sulla testa. Devo chiederglielo. Deglutì. Fece tamburellare le dita sul manico del carrello, agitò le punte dei piedi sul fondo delle scarpe, e rallentò il respiro per placare i sudori sulla fronte e per non accentuare il rossore sulle guance. Devo chiederglielo subito, prima che mi passi la forza.

«Eccole qui.» Elizaveta le trovò tutte e tre – ketchup, maionese e senape –, incastrò le bottigliette spremibili fra le patatine e le bottiglie delle bibite. «E ora solo...» Raggiunse un commesso che stava sistemando i barattoli di cetriolini. «Scusi, dove posso trovare le scatole di fiammiferi?»

Lui puntò l’indice al di là dello scaffale. «Sono nel reparto qua affianco. Li trovi dove hanno esposto le griglie da barbecue, accanto alle tavolette d’accensione.»

«Grazie.»

Gilbert le andò dietro e guadagnò un profondo respiro dalle narici, sciacquando via la sensazione di avere la salsa al peperoncino a gocciolargli dalla testa. Okay. Strinse i pugni e annuì a se stesso. Okay, ora glielo dico. Ma con che approccio? Come con Roddie? Le spiego come stanno le cose, che mi sono immischiato in questa stupida scommessa e che ora l’unica maniera per uscirne è farmi dare una mano da uno di loro due. Eh eh, già, una mano... Si colpì con un altro schiaffo sul rossore lasciato dalla sberla di Roderich. No, concentrati, idiota, non distrarti! Fa’ una faccia da uomo, dannazione.

Elizaveta guidò il carrello verso una cassa occupata solo da una signora che stava già pagando la sua spesa. «Per fortuna non c’è nessuno.» S’incastrò nella corsia, rivolse un sorriso cordiale alla cassiera, e cominciò a sistemare le confezioni sul nastro.

Gilbert si mise ad aiutarla e si occupò delle bottiglie delle bibite. Okay, si disse, armandosi di una fiammata di coraggio. Posso farcela. Ora glielo dico. Ora o mai più! «Sai se ci hanno aggiustato il ventilatore in camera? Quando sono passato a mettere giù la valigia ho provato ad accenderlo ma non andava.»

«Ho fatto un salto alla reception prima di uscire con Natalia e mi hanno detto che avrebbero mandato un tecnico nel pomeriggio.» Elizaveta caricò anche i sacchetti di patatine e quelli dei marsh-mallows. «Magari quando torniamo indietro passiamo a chiedere se hanno già risolto.»

«Ecco, perché non riuscirò mai ad addormentarmi con questo dannato caldo.» Gilbert posò le M&M’s sul nastro. «Poi il ventilatore non fa nemmeno chiasso come un condizionatore, e potremmo anche lasciarlo acceso tutta la notte, tanto basta coprirsi il collo e non c’è nemmeno rischio di beccarsi un accidenti e ti andrebbe di fare sesso con me stasera?»

Elizaveta raccolse il sacchetto di orsetti gommosi, sgranò gli occhi, s’impietrì mentre era ancora con le spalle chine e le braccia immerse nel carrello, e sbatté due volte le palpebre velate di ombretto. Sul volto si stampò la stessa bianca espressione da cadavere che aveva imbalsamato anche il viso di Roderich. Ruotò lo sguardo, andò incontro agli occhi di Gilbert, e corrugò le punte delle sopracciglia. «Cos’hai detto?» La mano si contrasse attorno al pacchetto di orsetti, le dita deformarono la plastica, facendola scricchiolare, e un violento spasmo le percorse il braccio, indurendole i muscoli e gonfiandole le vene fra le nocche.

Questa volta fu Gilbert a sbiancare, e la guancia schiaffeggiata da Roderich pulsò di dolore. Davanti al suo sguardo si spalancò l’immagine del pugno di Elizaveta che si schiantava sull’altro lato del volto, facendolo volare a terra. «A-aspetta.» Mise le mani avanti per pararsi. «Prima che mi picchi anche tu, giuro che ho una giustificazione più che sensata.»

«Sarà meglio per te.»

«Ho fatto una scommessa con Francis e Antonio, okay? E...»

«Cosa?» Elizaveta fece roteare lo sguardo, soppresse un ringhio sconfortato, e allentò la pressione attorno alla confezione di orsetti colorati. «Ooh, ci sono loro due di mezzo, ovvio.» Lasciò cadere le caramelle sul nastro della cassa. «Chissà perché non mi sorprende.»

Gilbert esalò un sospiro di sollievo che sciolse i sudori freddi dalla sua pelle. Si massaggiò la guancia risparmiata, felice di non percepire alcun gonfiore rovente attraverso lo zigomo, e continuò a caricare le bottiglie di bibite. «Sì, ma la cosa è giusto un tantino degenerata.» Tenne la mano ferma sulle bottiglie d’acqua per evitare che rotolassero giù dal nastro mentre quello avanzava verso la cassiera. «E tutto perché Ludwig ha perso la verginità prima di me, quindi la colpa di tutto questo è solo sua e di Feli. In pratica, Francis e Antonio mi fanno: “Ehi, devi perdere la verginità anche tu prima che finisca la vacanza, altrimenti ti prenderemo per il culo a vita”. In senso figurato.» La cassiera passò la confezione di hamburger surgelati – blip! – e lanciò a Gilbert un’occhiata basita. «Ma non hanno realmente specificato con chi o in che modo» disse ancora Gilbert. «Quindi io ho chiesto a Roddie, ma lui ha detto di no, poi mi ha tirato uno schiaffo, e poi sei arrivata tu, e allora ho pensato che...»

Elizaveta si girò di scatto facendo volare la coda di cavallo contro la spalla e strabuzzò gli occhi. «Hai chiesto a Roderich di fare sesso con te?»

Anche i clienti fermi alla cassa affianco si girarono verso di loro. Un ragazzino si coprì la bocca e ridacchiò, il signore che lo accompagnava scosse il capo con un’espressione di disappunto, e una signora si chinò a tappare le orecchie alla figlioletta.

Gilbert lanciò loro solo una breve occhiata di striscio, s’infischiò delle loro espressioni perplesse, e tornò su Elizaveta. «Ehm. Sì.» Annuì e stese un largo sorriso accondiscendente. «Direi di sì.»

La rabbia si sciolse dal viso di Elizaveta, le lasciò addosso un pallore smorto e infittito di grigio attorno alle palpebre sgranate, le labbra schiuse in una muta esclamazione di sconcerto, e gli occhi vacillanti.

Gilbert storse un sopracciglio, gli cadde il sorriso. «Che hai?»

Elizaveta si morsicò il labbro spalmato di lucidalabbra, distolse lo sguardo, serrò la mano attorno al portafogli appena estratto dalla borsetta, e piantò le unghie nella stoffa laccata. Gli ultimi blip! della loro cassa e lo scarrozzare di un carrello che si era messo in attesa dietro di loro riempirono quel silenzio precipitato nella corsia. Un silenzio ghiacciato, come se si fossero trovati ancora nel reparto surgelati.

Gilbert alzò gli occhi al soffitto e sventolò una mano. «Ooh, dai, non mi dire che te la sei presa perché non ho chiesto prima a te?»

La cassiera passò l’ultimo articolo – la bottiglia di maionese spremibile – e spostò lo sguardo da Elizaveta a Gilbert, senza sapere a chi rivolgersi. «Sono cinquantadue e venticinque.»

Elizaveta si riprese con un sobbalzo. «Ah, sì.» Si passò una mano sulla fronte, scostò la ciocca dal viso, ma le rimase addosso quell’espressione tetra, quel tono abbattuto di chi ha appena perso il gatto in un incendio che ha raso al suolo l’intera casa. «Mi scusi.» Infilò le unghie nell’apertura magnetica del portafogli. «Solo un attimo.»

«Ha la carta fedeltà?»

«Io...» Elizaveta diede uno strappo al bottone magnetico, i polpastrelli scivolarono. «Uhm, no.» Rinfilò le dita tremanti sotto la chiusura a forma di fiore, grattò il bottone, fece schioccare la lingua in un moto di frustrazione, e il portafogli non si aprì.

Gilbert sospirò. «Lascia stare.» Sfilò il suo dalla tasca dei pantaloni. «Pago con i miei.»

«Faccio io.» Elizaveta forzò di nuovo la chiusura. Clack! Lo spalancò facendo volare fuori l’abbonamento dell’autobus, si chinò a raccogliere la tessera, riuscendoci al terzo tentativo, e sfogliò le banconote con gesti rapidi e nervosi.

«No, sul serio» insistette Gilbert. «Se vuoi...»

«Lascia stare, Gilbert.» Elizaveta pagò la cassiera, intascò il resto, diede le spalle a Gilbert, e andò a ficcare la spesa nelle buste di plastica. Una borsa solo per le bibite e due per tutto il resto.

Gilbert andò a raccogliere il manico di una busta. «Liz, dai a me le borse, ti aiuto.»

«Faccio da sola.» Elizaveta gliela strappò dalle dita, raccolse tutte e tre le borse da sola, infilandone una nell’incavo del gomito, e uscì rivolgendolo solo un ultimo saluto di cortesia alla cassiera. «Buona giornata.»

«Liz...»

Le porte automatiche si spalancarono. Elizaveta le valicò, e la sua camminata si allontanò pestando il marciapiede che sfilava sotto i portici.

Gilbert, ancora impalato affianco al nastro della cassa, si guardò attorno. Alcune delle persone ferme alle corsie affianco continuavano a fissarlo. Uno di loro bisbigliò all’orecchio dell’altro, una ragazza nascose la bocca per ridacchiare, e la stessa signora che aveva tappato le orecchie alla figlia scosse la testa mantenendo quel broncio di disappunto.

Gilbert sospirò, si passò una mano sulla faccia e si strofinò tempie e palpebre, mitragliato da quelle occhiatacce come da una serie di schiaffi. Una cascata di brividi roventi risalì la schiena sfrigolando fino alle punte delle orecchie. Ma che cazzo sta succedendo? «Liz, aspetta.» Volò fuori dal supermercato, boccheggiando sotto la folata di caldo improvviso, e le corse dietro. Esibì un sorriso sdrammatizzante, la buttò sul ridere. «Ma dai, non ci credo. Sei davvero offesa perché ho chiesto prima a Roddie che a te? Giuro che l’ho fatto solo perché ho trovato lui per primo, ma tanto mi ha già scaricato.» Si batté la mano sul petto e ammiccò. «Quindi puoi consolarti al pensiero che potrai essere tu quella ad avermi tutto per te.»

«Non mi parlare.» Elizaveta diede un colpetto alla borsa incastrata nel gomito, schiacciò i pugni attorno ai manici di plastica che reggeva fra le dita, e continuò a marciare senza degnare Gilbert di un’occhiata. «Non ti voglio ascoltare.»

Fra lei e Gilbert si spalancò una breccia che li rese distanti.

Fronteggiando solo la sua schiena sempre più lontana, senza riuscire a guardarla in viso, e aggredito dal timore che lei rifiutasse di girarsi e che non gli avrebbe nemmeno più rivolto la parola, Gilbert provò una fitta in fondo al cuore. Sospirò, sinceramente amareggiato, e si strofinò la nuca. «Liz, senti.» Tornò a raggiungerla, a camminare al suo fianco incrociando la traiettoria dei passanti, e anche in lui scemò la voglia di ridere. «Mi dispiace, okay? Ma ormai dovresti conoscermi. Di cazzate del genere ne faccio ogni santo giorno e questa non è nemmeno la più grossa. Non tenermi il muso, dai.»

Elizaveta tenne la fronte aggrottata e voltò la guancia. Neanche un battito di ciglia.

Gilbert schivò un gruppetto di bambini fermi davanti alle casse della sala giochi e tornò a saltellarle affianco. «Okay, ho un’altra idea grandiosa.» Giunse le mani in preghiera. «Possiamo fare come se non ti avessi mai detto niente? Né a te né a Roddie. Facciamo che io non abbia mai aperto bocca sulla questione, facciamo tornare tutto come prima e morta là. M’inventerò qualcosa, dirò a Francis e ad Antonio che ci abbiamo provato e che non abbiamo combinato niente perché non siete riusciti a resistere davanti al mio...»

«Gilbert.» Elizaveta si fermò di fronte alla facciata di una gelateria, posò le borse ai suoi piedi, e si girò a fronteggiare Gilbert.  

Gilbert frenò il passo con un ruvido struscio di suole, rimbalzò all’indietro per non finirle addosso, e sbatté sul bidone a forma di cono gelato. Gli occhi seri e magnetici di Elizaveta lo catturarono, gli scaricarono un brivido gelido lungo la nuca e gli seccarono la gola. «Cosa?» borbottò Gilbert. Una vocina dietro il suo orecchio però gli bisbigliava di non voler scoprire cosa si celasse dietro quello sguardo.

Elizaveta si mise a braccia conserte, strinse le dita facendo trillare i bracciali di pietre che le ciondolavano dal polso, e nascose lo sguardo dietro l’ombra della ciocca che continuava a caderle sul viso. Pizzicò il labbro inferiore fra le punte dei denti, fece tamburellare le dita, guadagnò un lungo sospiro. I suoi occhi così distanti si colmarono di una buia colpevolezza. «Io e Roderich ci siamo messi assieme.»

Il brivido alla nuca si condensò in un pugno ghiacciato che affondò nelle viscere di Gilbert, sfondandogli la pancia e mozzandogli un rantolio in fondo alla gola. La faccia di Gilbert divenne di sale. Attorno a lui si spalancò uno spazio nero e vuoto, come se fosse affogato in un lago di pece. Nonostante la canicola, un soffio di vento gelato gli alitò in faccia e sul torso, rizzandogli la pelle d’oca lungo le braccia. Il crack cristallino del cuore spezzato e ridotto a un pugno di briciole risuonò attraverso la sua anima. Se Elizaveta gli avesse sfondato le costole con un cazzotto, se gli avesse strappato il cuore dal petto e se glielo avesse spappolato davanti agli occhi riducendolo a una poltiglia di sangue e carne maciullata, avrebbe fatto meno male.

La grigia ombra che celava il viso colpevole di Elizaveta si trasformò in un rossore d’imbarazzo che le chiazzò le guance. Elizaveta strinse la collanina a forma di lecca-lecca, intrecciò la catenina fra le punte delle dita, strofinò le unghie sul ciondolo smaltato, ma non riuscì a sollevare gli occhi da terra. «È così.»

La bocca di Gilbert rimase aperta in quell’espressione di sconcerto. Le labbra ancora secche, la lingua congelata, e un ronzio di confusione a fischiargli nelle orecchie. «Ma...» Qualcuno gli passò affianco, gli urtò la spalla, ridestandolo, ed entrò nella porta vetrata della gelateria. Gilbert scosse la testa, si allontanò dal cestino a forma di cono gelato, e indurì lo sguardo. «Quando?»

Elizaveta continuò a sviare i suoi occhi. Rigirò il ciondolo, strofinò le unghie sul filo della collana d’argento. «Dopo la serata da te» confessò. «Quella della festa di fine scuola.»

Quindi all’inizio dell’estate, realizzò Gilbert. Da quasi tre mesi! E in tutto questo tempo loro... «E non mi avete detto niente?»

«Non lo ritenevamo ancora opportuno.»

«Una cosa del genere?» Anche Gilbert si mise a braccia conserte, soppresse un fiotto di rabbia affondando le unghie nella pelle, ma il bruciore avvampò comunque fino alle guance, arrochendogli la voce. «E quando lo avreste ritenuto opportuno, sentiamo? Quando sarei partito per andarmene in accademia?»

Elizaveta gettò i pugni ai fianchi e finalmente tirò su lo sguardo. «Guarda che non avevamo nessun dovere di dirti niente.»

«Certo che ce l’avevate!» Gilbert aprì tre dita a ventaglio e ne indicò le punte. «C’è un patto sacro e indissolubile fra noi tre, Liz. Noi tre siamo... siamo consorti, che diavolo! Avete tradito l’alleanza!»

«No, Gilbert. Non siamo consorti, non c’è nessun patto, non c’è nessuna alleanza, e non c’è nessun obbligo.» Il viso di Elizaveta tornò buio, un’aura sfrigolante a scoppiettarle attorno. «E quello che succede fra me e Roderich non ti riguarda.»

«Sì che mi riguarda» esclamò Gilbert. «Perché non avete voluto dirmelo? Per tutta l’estate, dannazione! Avete avuto un’estate intera per dirmelo!»

«Non te l’abbiamo detto perché non volevamo ferirti.» Elizaveta abbassò gli occhi di colpo. «Non ancora, per lo meno.»

«Allora sapevate che me la sarei presa.»

«Sì, ma allo stesso tempo sapevamo che non c’era motivo di prendertela.» Sospirò per riprendere fiato, si pettinò la ciocca di capelli dietro l’orecchio, e abbassò il timbro di voce. «Ascolta, il fatto che io e Roderich stiamo assieme non cambierà comunque quello che c’è fra noi tre.»

«Sì, invece. Lo cambierà eccome.» Gilbert stritolò i pugni ai fianchi, facendo scricchiolare le ossa, e il suo sangue tornò a ribollire fino alle orecchie. «Merda.» Marciò avanti e indietro davanti alla gelateria, sopprimendo il formicolio che gli bruciava in fondo al petto, e fece correre una mano fra i capelli. «Merda, merda, e stra-merda, come avete potuto farmi questo?»

«Oh, non metterti a fare la vittima, adesso.»

«La vit...» Gilbert pestò un ultimo passo e le si piantò davanti. «Spiegami solo una cosa.» Socchiuse le palpebre. La squadrò con occhi truci e penetranti. «Di chi è stata l’idea?»

Lei non esitò neanche di un brivido, non emise nemmeno un battito di ciglia, per nulla intimorita. «Di entrambi. Sono scelte comuni, Gilbert.»

«Ma perché voi due? Perché tu? Avevi tanta voglia di trovarti un ragazzo? Fai tanto la spacca-culi, ma alla fine hai paura che rimanendo single ti considerino una frigida?»

Le guance di Elizaveta s’infiammarono. L’aura elettrica attorno al suo profilo si accese, facendo schiantare un fulmine di rabbia alle sue spalle. «Non si tratta di questo, stupido idiota!» Alcuni passanti si girarono. «Si tratta del fatto che io sto bene con Roderich e che voglio che fra noi ci sia qualcosa di più rispetto...» Elizaveta raffreddò il calore paonazzo del viso, una ruga d’incertezza le solcò la fronte. «A quello che c’è stato fino a ora.»

«E allora perché lui e non me?» Gilbert si strinse una mano sul fianco e si posò l’altra sul petto. «Anche con me stai bene, no?»

Elizaveta abbassò le palpebre, tenendo la fronte corrugata. «Ho scelto Roderich perché lui mi rispetta.» Contò sulle punte delle dita. «Perché Roderich è educato, equilibrato, gentile, coerente, e perché prende le cose seriamente, e...»

«Ehi, anch’io prendo le cose seriamente.»

«Gilbert, mi hai appena chiesto di fare sesso con te senza impegno! Come...» Elizaveta spalancò un braccio contro la ormai lontana facciata del supermercato, e i bracciali le rimbalzarono attorno al polso. «Come se si fosse trattato di chiedermi di andare a fare la spesa. Cos’avresti voluto fare, sentiamo? Infilare l’uccello e poi piantarmi lì come se non fosse successo nulla? Trattandomi come una pagnotta da hot dog?»

«Ma era...» Fu in quel momento che Gilbert si rese conto dell’enorme e irreparabile cazzata di cui stava per rendersi protagonista.

Su di lui grandinarono le occhiatacce dei passanti, le espressioni perplesse di chi era rimasto a bocca aperta lasciando squagliare il gelato raccolto nel cucchiaino di plastica, le ridacchiate delle ragazzine che passeggiavano a braccetto, e il rumore delle camminate più rapide di quelli che avevano accelerato per allontanarsi dalla scenata.

Gilbert li ignorò come aveva fatto con quelli del supermercato e strinse le braccia al petto. «Oh, dai» borbottò. «Adesso non legartela al dito.»

«E allora tu non legarti al dito il fatto che io e Roderich stiamo assieme» ribatté Elizaveta. «Qui non si tratta di te, per una volta, Gilbert. Si tratta di noi.»

«Anche io faccio parte del noi, merda. Avreste dovuto chiedermelo prima di mettervi assieme.»

«Non dovevamo chiederti un bel niente.»

«Ma...» Gilbert distese i pugni, tornò a stringerli, e raffreddò i bollori. Sollevò il mento mostrando uno sguardo granitico e due occhi freddi, nonostante la tinta bronzea delle iridi. Affilò la spada per affondare il colpo decisivo. «Lo avete già fatto?»

Quella domanda si schiantò sul viso di Elizaveta con la prepotenza di uno schiaffo. Le strappò di dosso l’espressione inferocita e la fece di nuovo impallidire all’altezza delle guance. «Cosa?»

«Sesso» specificò Gilbert. «Avete. Già. Fatto. Sesso?»

Elizaveta corrugò la fronte, storse la punta del naso per nascondere il rossore imbarazzato, e gettò lo sguardo in disparte. «Perché dovrei dirtelo?»

«Sì o no?» Anche Gilbert allentò il tono. «Niente dettagli, non voglio sapere niente di niente, lo giuro, solo sì o no. E non mi dire bugie.»

Elizaveta abbassò le palpebre. Dopo un lungo sospiro, borbottò un mormorio a fior di labbra. «No.»

Gilbert strinse entrambe le mani sui fianchi, flesse il capo di lato, e la squadrò dalla testa a piedi, contenendo un risolino di scherno. «Ma ti ha almeno baciata?»

«Certo che ci siamo baciati.»

«Con la lingua?»

«Gilbert!»

«Con la lingua

«Sì!»

Gilbert spezzò la curva delle labbra nel piccolo ghigno malefico di chi si pregusta la risposta prima ancora di aver scagliato la domanda. «Lui ha baciato te o tu hai baciato lui?»

Una nube scivolò davanti al sole, risucchiandone la luce e il calore. Cadde un silenzio glaciale, nonostante l’afa estiva che risaliva dal marciapiede e dall’asfalto e che ristagnava sotto i balconi degli appartamenti e le tende dei negozi. Il silenzio risucchiò ogni suono, i passi delle persone, i rombi delle auto, il vociare dei passanti che entravano nei negozi e che uscivano dalla gelateria succhiando voraci leccate dai coni gocciolanti.

Elizaveta non emise un fiato.

Gilbert fece schioccare la lingua, levò gli occhi al cielo tenendo il sorriso alto e il petto all’infuori, e sventolò la mano. «E lo consideri un uomo migliore di me?»

Elizaveta scosse il capo, si massaggiò la fronte e gli angoli delle palpebre, stando attenta a non sbavare l’ombretto, e trasse un altro sospiro più stanco e trascinato. «Vedi, Gilbert, è proprio per questo che mi sono messa con lui anziché con te. Roderich non è un egoista, e soprattutto non è un coglione montato come lo sei tu. Tu sei sempre stato così, invece.» Lo indicò con una sbracciata. «Sempre convinto che il mondo giri attorno a te, alle tue cazzate. Be’, indovina: per una volta non si tratta di te e di quello che vuoi tu, ma di quello che voglio io.»

«Ma...»

«È questo che Roderich ha di diverso rispetto a te. Lui non ha paura di crescere, di affrontare le sue responsabilità e tutto quello che comportano.» Elizaveta si posò la mano sul petto, sotto la scollatura a conchiglia dell’abito. «E anch’io sto crescendo, Gilbert. Non siamo più bambini, e non possiamo più comportarci come tali, commettendo una stupidaggine dietro l’altra infischiandocene delle conseguenze.»

Gilbert lasciò che quel discorso gli scivolasse addosso come acqua sul vetro e si soffermò solo su ciò che gli interessava per davvero, animato da quella fiammella di speranza che ancora ardeva vivace in fondo al suo cuore. «Ma se non siete ancora andati a letto assieme allora non è una cosa ufficiale, no?»

«Sì che è ufficiale» esclamò Elizaveta. «È ufficialissima.»

«Allora ho un’idea!» Gilbert sollevò gli indici e ne fece combaciare più volte le punte. «Se tutti e due faceste sesso con me, sarebbe una sorta di annullamento fra due forze equivalenti, quindi non sarebbe un vero tradimento. È più che sensato, ti pare?»

Elizaveta socchiuse le labbra, inarcò un sopracciglio, si contenne, ma un breve tic le fece traballare una palpebra. Stritolò i pugni e inghiottì una nuova ondata di rabbia che le gridava di riempire Gilbert di cazzotti fino a fargli gli occhi neri come un panda. «Gilbert, non so nemmeno perché io ti stia ancora...» Scosse il capo mettendo a tacere quella feroce vocina e sventolò via le parole dell’idiota. «Sai una cosa? Hai ragione.» Si chinò a raccogliere le tre borse della spesa e fece scivolare quella delle bibite, la più pesante, di nuovo nell’incavo del gomito. «Facciamo finta che questa conversazione non sia mai avvenuta, dimentichiamocene, e andiamo avanti con le nostre vite come abbiamo sempre fatto.» Compì una mezza piroetta, diede la schiena a Gilbert, «Fine della discussione», e si incamminò a passo pesante verso l’ostello.

Quell’immagine – Elizaveta che si allontanava dandogli le spalle, rimpicciolendosi in mezzo alla folla, con le borse della spesa contro i fianchi e l’aura di rabbia e malumore a circondarla come un’elettrica nuvoletta di temporale – affondò nel petto di Gilbert, rievocando lo stesso pugno di dolore che aveva provato quando lei gli aveva confessato di essersi messa assieme a Roderich. Andata. Finita. Persa per sempre. Un’ondata di panico lo fece sudare freddo, gli fece traballare le ginocchia e spalancò una voragine sotto i suoi piedi. Li ho persi tutti e due? No, che cazzo, mi rifiuto di farla finire così!

Gilbert la inseguì schivando i profili dei passanti. «Liz, Liz, no, aspetta!» Le acchiappò il braccio stringendola sopra l’intreccio dei bracciali. «Ho un’ultima proposta.» La voce assunse una piega implorante e disperata. «Ultima, ultima, lo giuro!»

Elizaveta serrò il pugno sul manico della borsa di plastica ma arrestò il passo. Voltò la guancia, squadrò Gilbert da sopra la spalla, e sollevò il sopracciglio. L’espressione di chi è ancora disposto a perdonare ma che si aspetta in cambio scuse immediate e più che ragionevoli.

Gilbert sollevò lo stesso impacciato sorriso da beota che aveva rivolto a Roderich, giocandolo come ultima carta. «E se ti pago?»

Elizaveta contrasse la fronte, e il viso divenne di pece. Fiamme ardenti bruciarono fra le palpebre, una vena pulsò contro la tempia, e una cascata di brividi roventi le si rovesciò contro la schiena, facendola rabbrividire.

Mollò le borse della spesa, strappò il braccio dalla presa di Gilbert, schiacciò il pugno facendo schioccare le falangi, e gli sganciò un cazzotto sul muso, ribaltandogli la faccia. Risollevò le buste di plastica dal marciapiede e s’incamminò da sola verso l’ostello, sfilando sotto gli sguardi allibiti dei passanti che le avevano aperto la strada, seguita dalla nuvoletta scoppiettante di rabbia che spruzzava fulmini e scintille sopra la sua testa.

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Capitolo 3
*** Tre di picche ***


. Tre di picche

 

 

Emil giunse i pugni intrecciando le dita e sovrapponendo i pollici, distese le braccia, e si piegò sulle ginocchia, puntando lo sguardo concentrato sulla palla gialla e azzurra che gli stava volando contro. Ricevette la pallonata – un sonoro schiaffo sui polsi già martoriati – e la fece rimbalzare verso Alfred. Alfred la ricevette, compì un rimbalzo sollevando uno sbuffo di sabbia da sotto i piedi nudi, e la alzò con entrambe le mani in direzione di Mathias. Mathias spiccò il volo, impennò il braccio rovesciando la mano sopra la testa, divaricò le dita, e schiacciò la palla oltre la rete.

La palla schizzò come una meteora infuocata.

Feliciano emise un gridolino d’allarme, balzò di lato, e la scia roteante gli sfrecciò sopra la spalla. La palla si schiantò a terra, schizzando un rigetto di sabbia sulle sue caviglie, e segnò il punto per la squadra avversaria.

Mathias riatterrò dalla schiacciata, strinse i pugni, e compì un altro energico balzo a gambe raccolte. «Evvaiii!» Il viso bagnato di sudore, ma rosso di emozione e di fatica, luccicò sotto i raggi di sole che splendettero attraverso l’azzurro ridente dei suoi occhi. «Punto alla Squadra Nordica!»

Alfred s’indicò il petto dove pendeva la targhetta militare che rimbalzava ogni volta in cui lui compiva un salto. «Con acquisizione americana» specificò.

Anche Leon, disposto a fondocampo affianco a Emil, sollevò la mano. «E asiatica.»

Sottorete, Tino batté le mani e saltellò senza riuscire a contenere l’entusiasmo che gli formicolava sotto i piedi sporchi di sabbia. «Un altro punto per noi!» esclamò. «Siamo ancora in vantaggio! Non ci batte nessuno!»

Emil si passò un pugno sulla fronte, asciugandosi il sudore imperlato sulla pelle ancora bianca e poco abbronzata, e si massaggiò i polsi doloranti dopo l’ultimo bagher che gli aveva stampato una chiazza rossa e bruciante sugli avambracci. «Capirai.»

Mathias compì una piroetta, girandosi verso il loro ombrellone, e sventolò il braccio per richiamare l’attenzione di Lukas. «Ehi, Lukie, hai visto? Hai visto che ho segnato il punto?»

Lukas abbassò il libro che stava leggendo ma da dietro cui aveva sbirciato la partita senza farsi notare. Fece roteare lo sguardo, diede un colpetto agli occhiali da sole che gli stavano scivolando dai capelli, e richiamò le ginocchia al ventre, accoccolandosi contro lo schienale della sdraio. «Vedi di non romperti la testa.» Girò pagina e riprese a leggere. «Ammesso che ci sia qualcosa da rompere.»

Berwald sistemò le creme solari che stava riorganizzando nella loro borsa da spiaggia. Raccolse la maglietta di Tino, la ripiegò e la infilò dentro la borsa per evitare che si sporcasse di sabbia. Anche lui, da sotto l’ombrellone che offriva loro riparo, teneva gli occhi vigili sulla partita.

Dall’altro capo della rete, Lovino si diede una strofinata alla fronte sudata e corrugò una scura e profonda espressione di rabbia e bramosia vendicativa. «Dannati.» Distese il braccio e puntò l’indice contro suo fratello. «Feliciano, sistemati indietro. È da quando è cominciata la partita che non hai preso neanche una palla.»

Feliciano raccolse la palla atterrata affianco ai suoi piedi e la spedì alla squadra avversaria. «Perché ho paura di prendermele in faccia» protestò. «Anche a calcio è così, sai che non faccio mai il portiere.»

Lovino fece schioccare la lingua e alzò lo sguardo al cielo, corrugando una smorfia di disappunto. «Patetico.» Infilò due dita fra le labbra e fece un fischio a Ludwig. «Ohi, crucco!» Indicò la rete con un cenno del capo. «Renditi utile con quella tua montagna di muscoli e vai a fare muro sotto la rete.»

Ludwig annuì e si diede una sgranchita alla spalla. «Come vuoi.» Passò davanti ad Antonio, già posizionato a gambe piegate e a spalle basse, e si mise di fianco a Kiku che faceva la guardia sottorete.

Tino si portò all’angolo del campo, preparò la battuta reggendo la palla con il braccio teso, e aprì la mano libera accanto alla bocca per farsi udire da tutti. «Palla!» Schiacciò il suo lancio e la palla volò al di là della rete.

Ludwig ricevette la palla e la innalzò senza buttarla nel campo avversario. Alle sue spalle, Lovino prese la carica, spiccò un salto affianco a Kiku, ribaltò il braccio come aveva fatto Mathias prima, e scaricò una feroce schiacciata sulla palla.

La palla si deformò in una scia gialla e azzurra. Leon si tuffò in avanti, distese il braccio, la sfiorò col pugno, ma la palla gli sfregiò le nocche e si schiantò sulla sabbia, segnando il punto.

Lovino riatterrò sul campo, prese fiato, e strinse il pugno in segno di vittoria. «Sì!»

Antonio spiccò un balzo ed esultò. «Puntooo!» Batté le mani sopra la testa.

Mathias si chinò a raccogliere la palla e la fece rimbalzare da una mano all’altra. Soffiò uno sbuffo scocciato ma combattivo. «Questa gliela faremo pagare, dannata Squadra Asse.» Passò la palla agli avversari e si girò. «Ehi, Emil.» Indicò Leon che si stava rialzando dopo il tuffo. «Di’ al tuo ragazzo di schiacciare la palla come se si trattasse di sculacciare il tuo sedere, oppure lo piazzo di nuovo a fondo campo.»

Emil avvampò come se il caldo sole pomeridiano gli avesse abbrustolito le guance. «Non è il mio ragazzo!»

Leon non fece una piega e si ripulì dalla sabbia che gli era rimasta incollata alla canotta nera. «Forse è meglio se torna Tino sottorete, io mi trovo meglio come servente.»

«Segnate il punto» esclamò Feliciano. «Punto per noi, punto per noi!»

Da sotto l’ombrellone più vicino al campo da beach volley, seduto sul telo da mare assieme ad Arthur, Francis sventolò la mano in segno di conferma. «Punto per voi, Feli.» Usò l’indice per tracciare una linea sulla sabbia spianata come una tavola, e segnò un altro punto sotto la casella della squadra di Feliciano, arrivando a ventuno. La squadra di Mathias era in vantaggio. Loro erano arrivati a ventisette.

Arthur pescò la bottiglia di tè freddo al limone dal letto di ghiaccio che riempiva il frigo portatile, lo stappò e si rinfrescò con un paio di sorsate. Si asciugò la bocca e si guardò attorno, buttando l’occhio oltre il profilo di Francis seduto accanto a lui e sporgendosi con le spalle in avanti per sbirciare anche al di là della sdraio su cui era seduto Matthew. «Ma dove diavolo è finito Gilbert?» Rivoletti di ghiaccio sciolto percorsero la bottiglia di tè freddo e colarono fra le sue dita. «Non doveva esserci anche lui alla partita?»

Francis spinse i gomiti sulle ginocchia, raccolse il viso fra le mani, affondando le nocche nelle guance rese già rossicce dal sole estivo, e sorrise, complice di quel segreto. «Oh, aveva da fare. Forse non lo vedremo per tutto il pomeriggio.»

Arthur riaffondò la bottiglia di tè freddo nel frigo portatile dove stavano conservando anche gli ultimi ghiaccioli. «Magari ha chiamato e non...» Sollevò la maglietta che Alfred aveva abbandonato sotto l’ombrellone, la rigirò, la tornò a posare, e si piegò a controllare anche nello spazio fra la sabbia e il telo da mare. «Ma dove diavolo ho messo...»

Matthew strinse le ginocchia al petto, accucciato sull’orlo della sdraio, e sporse le spalle in avanti per rivolgergli uno sguardo premuroso. «Qualcosa che non va?»

«Non trovo il cellulare, dannazione.» Arthur mollò l’orlo del telo da mare, accostò la mano alla bocca e gridò verso la rete da beach volley. «Alfred!» Sollevò il telefono di Alfred che aveva trovato sotto la sua maglietta. «Uso il tuo cellulare per chiamarmi e trovare il mio!»

Alfred riatterrò dopo un’alzata sottorete, e la targhetta militare gli rimbalzò sul petto. «Uh, cosa?» Calò le braccia. «Ah, sì, okay, non...»

La pallonata di Ludwig gli schizzò sopra la testa, emise un fischio dietro il suo orecchio, e cadde alle sue spalle, spalancando un cratere nella sabbia.

Feliciano compì un balzo di gioia e impennò le braccia sopra la testa. «Punto per noi!» Saltò ad appendersi alla schiena di Ludwig, come una scimmietta, e fece dondolare i piedi. «Il capitano ha fatto punto, il capitano ha fatto punto!»

Mathias riprese fiato dopo gli ultimi passaggi e aggrottò la fronte. «Ma che diavolo!» Si girò a gridare verso Arthur. «Ci hai sabotati, Arthur!» Gli scagliò l’indice contro. «Non vale! Punto annullato! Esigo l’annullamento del punto!»

Arthur emise un piccolo sbuffo e lo ignorò. «Chiudi il becco, idiota.» Sbloccò lo schermo del telefono di Alfred.

Come sfondo era impostata una fotografia di loro due, vestiti con cappotti invernali e sciarpe, il giorno in cui erano usciti al luna-park. Alfred sorrideva – un braccio teso per reggere il cellulare in alto, l’altro avvolto attorno alle spalle di Arthur, e le labbra sporche dello zucchero spolverato sulla frittella che aveva appena divorato. Arthur teneva lo sguardo sbieco – odiava farsi fotografare – ma anche le sue labbra erano piegate in un fine sorriso che teneva nascosto sotto la sciarpa. Fra le braccia sorreggeva l’orsacchiotto azzurro che Alfred aveva vinto al tiro a segno e che gli aveva regalato.  

Arthur fece roteare lo sguardo, arricciò una smorfia per celare il rossore del suo viso intenerito, e compose il suo numero.

La suoneria infranse l’atmosfera di pace che regnava sotto l’ombrellone, distante dagli schiamazzi provenienti dalla rete da beach volley.

 

Mister Peanutbutter’s house. Who’s that dog? Mister Peanutbutter! Knick-knack-paddy-whack. Give-a-dog-a-bone. Who’s that dog? Mister Peanutbutter!

 

Arthur inseguì il volume della suoneria e trovò la luce dello schermo fra le pieghe dell’asciugamano di riserva ancora infilato in borsa.

«Oh, eccolo.»

Scavò nel tessuto di spugna fino a incontrarne la consistenza.

 

Trying to catch a break Jack. Leave a dog alone. Good boy...

 

Spense la chiamata.

Francis lanciò un’occhiata perplessa prima al cellulare e poi ad Arthur. «Perché hai la suoneria di Mister Peanutbutter?»

«È solo quella di Alfred.» Arthur sbloccò lo schermo con lo stemma dei Serpeverde e controllò le notifiche. Nessuna traccia di messaggi o di chiamate da Gilbert. Francis lo stava ancora fissando di traverso, un sopracciglio inarcato e un mezzo sorrisetto che conosceva bene a rompere la curva delle labbra. Arthur lo fulminò. «Che c’è?» sbottò, quasi giustificandosi. «Gli somiglia.»

Francis accostò il viso al suo, tenendo steso quel sorriso inquisitorio. «Quindi tu saresti un’intellettuale vietnamita affetta da crisi esistenziali?»

«Considerando com’è finita» sospirò Arthur, «spero decisamente di no.»

«Arthur, guardami!» Alfred inviò una schiacciata nel campo avversario, riatterrò dal balzo, e sventolò le braccia verso l’ombrellone. «Mi guardi?»

Arthur gli rispose con un cenno della mano. «Ti guardo, ti guardo.»

«Mattie!» esclamò ancora Alfred. «Mi guardi anche tu?»

Matthew sorrise e sventolò anche lui la mano. «Sì, Al, ti guardiamo tutti.»

Lo sguardo di Francis era ancora concentrato sul cellulare di Arthur. Francis si strinse il mento, corrugò un’espressione dubbiosa ma incuriosita, e raggiunse il suo telefono nella tasca dei pantaloncini. Compose il numero di Arthur.

Lo stemma verde-argento dei Serpeverde tornò a illuminarsi, e la vibrazione della suoneria spanse un coro di rane gracidanti.

Francis trasalì. «Quella è la mia suoneria?»

Arthur spense il cellulare e ghignò. «La più adatta che ho trovato.»

Francis stritolò il telefono, facendo stridere le unghie sulla cover che riproduceva una carta da lettere con scritte in corsivo. «Maledetto.» Si avventò addosso ad Arthur fino a schiacciare la fronte sulla sua. «Per vendetta andrò in giro a dire a tutti che dormi con il peluche di Twilight Sparkle.»

Arthur avvampò. «S-sta’ zitto!» Tornò a spingerlo indietro tenendosi appeso ai suoi polsi. «Me l’ha regalata Alfred per il nostro primo appuntamento, non ho nulla da vergognarmi!»

Gli occhi di Francis si fecero fini, bui e malefici. «E dirò anche che è la versione alicorno

Arthur trasse un ansito scandalizzato che infiammò la sua espressione furente. «Bastardo.»

«Traditore del fandom!»

Matthew gesticolò per separarli. «Ehm, ragazzi» mormorò. «Forse sarebbe meglio non...»

«Puntooo!» Mathias corse intorno alla loro porzione di campo, lasciandosi dietro un turbine di sabbia, ed esultò ancora. «Sempre più vicini alla vetta!»

Tino saltò a sua volta e il suo viso luccicante di sudore splendette sotto i raggi del sole. «Grande, Mathias! Squadra Nordica all’attacco!»

«E asiatica» ribadirono Leon ed Emil.

Alfred sbracciò sia verso l’ombrellone sia verso i suoi compagni di squadra. «Mi avete visto, eh, eh, mi avete visto? Sono stato io ad alzare la palla! Se non l’alzavo io non facevamo punto! È tutto merito mio!»

Anche Matthew batté le mani, meno rumorosamente di Tino ma con lo stesso dolce sorriso a rallegrarlo. «Bravissimo, Al!»

Arthur tracciò la stanghetta nella sabbia spianata, sotto il nome della Squadra Nordica. «Vedi di non esagerare al tuo solito solo per metterti in mostra.» Si diede una spolverata alle mani. «Matthew, di’ qualcosa a tuo fratello prima che si rompa la testa.»

Matthew rise, sciolse le gambe incrociate e affondò i piedi nudi nel calore della sabbia, dondolando avanti e indietro con le spalle. «Sono sicuro che a te darebbe più retta.»

«Non badarci, mon petit.» Francis accostò una mano al viso di Matthew e gli scostò una ciocca ribelle dalla guancia, facendogli il solletico dietro l’orecchio. «Io ti darò sempre retta.»

Matthew rise – una risata soffice come la sua voce – e arrossì. Raccolse anche lui un boccolo di capelli biondi e lo rigirò attorno all’indice, celando gli occhi così belli che però lui teneva sempre bassi e nascosti dai riflessi delle lenti.

Pesanti passi di piombo attraversarono la spiaggia, raggiunsero l’ombrellone portandosi dietro un’aura scura e nebulosa che parve congelare i raggi di sole, e dilatarono un’ombra nera che inghiottì Francis e Arthur, spingendoli a guardare in alto.

Gilbert si lasciò cadere sul secondo telo da mare steso accanto al frigorifero portatile. Non disse una parola. Raccolse un ginocchio al petto, tenne lo sguardo distante, celato dall’ombra che gli gravava addosso come una nuvola di pioggia, e si massaggiò la guancia rossa e gonfia all’altezza dello zigomo.

Arthur sollevò le sopracciglia. «Oh, ma guarda un po’ chi si è degnato di graziarci con la sua presenza.»

Gilbert strinse la mano sulla guancia arrossata, ignorò il suo commento, e increspò le labbra in un tremolante principio di ringhio. Pescò un ghiacciolo all’anguria dal frigorifero, gli strappò la plastica di dosso, e affondò un primo morso, continuando a tenere gli occhi distanti e rimanendo chiuso in quella sua nera bolla di malumore.

Francis si spremette contro il fianco di Arthur e si sporse a squadrare la guancia gonfia e rossa di Gilbert. «Che hai fatto alla faccia? Hai attaccato briga e ti hanno gonfiato di cazzotti?»

Gilbert strinse i denti sul ghiacciolo, spaccò un altro doloroso morso al sapore di anguria, e incise lo stampo degli incisivi sullo stecco, sollevando uno scricchiolio del legno. Sbranò la pasta di ghiaccio – un rivolo rosso gli colò dall’angolo delle labbra – e lasciò che la botta di gelo salita alla testa dolesse contro le tempie, distraendolo dal dolore che pulsava in fondo al suo petto, straziandogli il cuore.

Francis scavalcò le gambe di Arthur, s’infilò fra lui e Gilbert, e lo punzecchiò con una gomitata sul braccio. «Allora, alla fine come ti è andata?» Chiocciò una risatina. «Ti hanno scaricato tutti e due?»

Un tremore attraversò il corpo di Gilbert e gli rese i muscoli di pietra, la faccia di sasso. Le sue dita strinsero lo stecco di legno, sbiancarono, e s’impiastricciarono con la colata di sciroppo rosso sciolto dall’avanzo di ghiacciolo. Gilbert azzannò gli ultimi morsi al sapore d’anguria, sputò lo stecco, si ripulì dal succo rimasto fra le labbra, tuffò la mano nel piccolo frigo e pescò un ghiacciolo al limone. Scartò anche quello e lo divorò con la stessa ferocia. L’aspro sapore di limone gli graffiò la gola come se avesse ingoiato una sorsata di puntine da disegno. Quel freddo bruciore risalì le guance, lacrimò agli angoli delle palpebre, e gli appannò la vista.

Francis perse il sorriso. La freddezza degli occhi di Gilbert e la rabbia scagliata dai suoi gesti gli strinse il cuore in un piccolo singhiozzo di timore. «Ehi, Gil, tutto bene? Guarda che scherzavo.»

Matthew si strinse le ginocchia al petto e si sporse dal bordo della sdraio. Anche lui rivolse a Gilbert uno sguardo silenzioso ma apprensivo.

Un ultimo schiaffo di mano dato alla palla da beach volley fischiò attraverso l’aria. La sfrecciata terminò con un tonfo sordo, con gli schizzi di sabbia esplosi dal piccolo cratere, e con il profilo di Alfred che si slanciò innalzando le braccia al cielo. «Ultimo punto!»

«Trenta raggiunti!» Mathias tambureggiò i pugni sul petto e scagliò un ruggito di vittoria. «Vincono i nordiciii!» Raccolse Tino da terra, se lo caricò sulla spalla, e gli fece fare il giro del campo, esultando assieme. «Vi-chin-ghi! Vi-chin-ghi! Vi-chin-ghi!»

Arthur tracciò con l’indice l’ultima stanghetta sotto il nome della squadra, e spianò la tabella dalla sabbia, cancellandone le tracce. «Fine partita» annunciò. «Vince la squadra di Alfred.»

Mathias arrestò la corsa, si strinse la mano sul fianco – la mano libera che non reggeva Tino sulla spalla – e s’impuntò in una posa da galletto. «È la Squadra di Mathias, prego. È la Squadra Nordica!»

Alfred s’indicò il petto. «Con acquisizione americana» ripeté.

A fondocampo, anche Leon alzò la mano e aggiunse per l’ennesima volta: «E asiatica.»

Dall’altra parte del campo, oltre la rete, Lovino riprese fiato a rauche boccate, si asciugò la fronte madida di sudore, e fece schioccare la lingua. «Colpa della luce» si giustificò. «Avevamo il sole contro.»

Kiku chinò lo sguardo e si strofinò la nuca. «Spero non sia stata colpa del mio ultimo passaggio.»

Feliciano volò con un balzo a battere pacche di consolazione sulla spalla di Ludwig. «Ma ci siamo divertiti, vero?» Il suo sorrisone tenne viva la luce del sole, non permise alla sconfitta di ombreggiarne il calore. «È stata una bella partita.»

Lovino sbuffò e annodò le braccia al petto. «Aspetta che ci procuriamo un pallone da calcio e poi vedrai che rivincita che ci prendiamo. Gli faremo il culo a strisce.»

«Lovi, non dire le parolacce.»

Tino balzò giù dalla spalla di Mathias e corse verso il loro ombrellone facendo sventolare il braccio sopra la testa. «Berwald, Lukas, abbiamo vinto! Ci avete visti, eh, ci avete visti? Siamo stati fortissimi!»

Berwald estrasse la crema solare dalla borsa che aveva appena sistemato, lo raggiunse, e si affrettò a spalmargliene un ciuffo sulle spalle che si stavano già arrossando.

Feliciano si asciugò la fronte come aveva fatto Lovino poco prima e sventolò la mano davanti al viso accaldato. «Ora però sono tutto sudato.» Il sole gli batté fra le ciocche castane, fece splendere le ciglia raccogliendosi in sfumature d’ambra fra le iridi, e brillò attraverso le goccioline di sudore rotolate sulle guance rosee. «Avrei una gola matta di farmi un bagno.»

Ludwig richiuse la bottiglietta d’acqua da cui aveva appena preso un sorso e gli scoccò uno sguardo di rimprovero. «Non andare subito in acqua, o ti verrà un colpo. Almeno asciugati il sudore.»

«Oh, e se mi porti a cavalluccio tu? Così non tocco l’acqua.» Feliciano giunse le mani in preghiera e gli rimbalzò davanti. «Dai, dai, ti prego, ti prego, ti preeego

Anche Kiku rivolse al mare un’occhiata restia, immaginandosi la scena. «Forse non è prudente, potreste cadere sugli scogli.»

«Ludwig non mi lascerebbe mai cadere.»

Antonio sollevò una mano sventolante. «Anche io porto Lovi a cavalluccio.»

Alfred corse verso la fontana, ma anche i suoi occhi si lasciarono catturare dallo splendore del sole, dal chiarore dei suoi raggi che si sbriciolavano sulla superficie calma e piatta color turchese. «Se andate in acqua vengo anch’io!» Aprì il getto della fontana, si diede una sciacquata ai piedi incrostati di sabbia, e si passò una mano fra i capelli sudati. «Phew, però prima devo bere. Mi è venuta una sete atroce.» Si attaccò al sifone e ingollò avide boccate. Un rivolo trasparente gli scivolò all’angolo delle labbra e gocciolò dal mento.

Arthur trasalì e si rialzò dal telo da mare. «Alfred» gli sbraitò contro. «Non bere direttamente dalla fontana!»

«Mhf?» Alfred sollevò la testa dal getto, «Cosha?», e sbrodolò un sorso d’acqua.

Arthur fece roteare lo sguardo, pescò una bottiglietta d’acqua dal ghiaccio del frigo portatile, e gliela portò. «L’acqua, scemo.» Svitò il tappo di plastica. «Non berla direttamente dalla fontana. Hai idea di quanta gente ci ha messo la bocca sopra? Poi ti viene l’epatite.»

«Non mi viene l’epatite.»

Un altro sospiro da parte di Arthur. «Su.» Gli passò la bottiglietta già stappata. «E bevi piano, ché è ghiacciata.»

Alfred gettò il capo all’indietro, tracannò due sorsate, staccò la bottiglietta dalle labbra con uno schiocco, e la ridiede ad Arthur. «Me ne versi un po’ sulle mani? Così mi sciacquo la faccia.» Mise le mani a coppa e lasciò che Arthur gliene rovesciasse un po’ fra le dita. Si strofinò la fronte, le palpebre sotto gli occhiali, e ne chiese ancora. Aspettò che i palmi giunti a coppa si riempissero e spruzzò uno schizzo in faccia ad Arthur.

«Gha! Alfred!»

Alfred scoppiò a ridere e scappò verso il mare.

Arthur si diede una strofinata alla faccia, tenne il braccio accostato al viso e vi nascose dietro un piccolo ghigno di sfida. «Se ti prendo...» Gli corse dietro fino al bagnasciuga. «Torna qui, maledetto!»

Alfred lo prese fra le braccia per evitare che finisse con le gambe in mare dove non si toccava, gli sbaciucchiò il collo, e continuò a ridere anche quando Arthur prese a tempestargli le spalle di pugnetti vendicativi.

Accucciato nel suo angolino di ombra e solitudine, Gilbert strinse le braccia attorno alle gambe raccolte al petto, stritolò lo stecco del ghiacciolo fra le dita appiccicose di sciroppo sciolto, e soppresse in fondo allo stomaco un gorgoglio di rabbia e invidia. Rosicchiò quel che rimaneva del ghiacciolo e spostò lo sguardo altrove.

Feliciano strinse le gambe che aveva appena allacciato attorno al torso di Ludwig, si aggrappò alle sue spalle e distese un braccio verso il mare, «Vai, Ludwig! Verso il mare!», come un condottiero che brandisce la sua spada verso la landa conquistata.

Kiku zampettò loro dietro. «Ludwig-san, forse non è prudente correre, la sabbia è troppo cedevole.»

Gilbert grugnì di nuovo e distaccò lo sguardo dal mare, girandosi verso gli altri ombrelloni.

Mathias si massaggiò le spalle, si strofinò le mani arrossate dopo tutte le schiacciate e le battute scagliate sulla palla, e si passò l’asciugamano sul viso sudato. Abbassò il panno e strizzò l’occhiolino a Lukas. «Lukie, ti porto anch’io a cavalluccio?»

«Scordatelo.» Lukas sfogliò un’altra pagina del libro e accavallò le gambe.

Mathias si accovacciò accanto alla sua sdraio, gli avvolse i fianchi fra le braccia, e lasciò riposare il capo sul suo grembo. Abbassò le palpebre, l’espressione serena come se si fosse assopito, e gli strofinò una serie di carezze lungo la schiena. «O mi vuoi portare tu a cavalluccio?»

Lukas fece roteare lo sguardo. Si sfilò gli occhiali da sole dalla fronte e glieli fece indossare. «Mettiti questi.» Gli passò anche lui una morbida carezza fra le ciocche bionde e gli diede un colpetto alla fronte. «Con tutto questo sole va a finire che ti bruci gli occhi.»

Tino aspettò che Berwald finisse di spalmargli la crema solare sulla schiena, lo prese per mano e lo tirò verso il mare. «Andiamo anche noi a fare il bagno! Oh, aspetta, aspetta...» Diede una frenata affondando i piedi nella sabbia, estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloncini e si mise a digitare. «Avverto anche Ed e gli altri così ci raggiungono.»

Berwald spremette un altro ciuffo di crema solare dal tubetto e glielo spalmò sul viso, attorno alla radice del naso e sugli zigomi, dove il candore della pelle si stava già abbrustolendo come sulle spalle.

Tino ridacchiò continuando a digitare il messaggio. «Mi fai il solletico.»

Emil annodò le braccia al petto, immusonì un’espressione scura e scocciata, e guardò altrove. «Chiama anche gli altri» commentò. «Grandioso. Ora la spiaggia si riempirà di gente e sarà un casino fino a stasera.»

Leon s’infilò le mani nelle tasche dei pantaloncini. Diede un piccolo calcetto alla sabbia, gli si approcciò con tono vago e indifferente. «Ehi, ti va di venire in camera nostra? Yao ha portato il kit per i tatuaggi all’henné, possiamo farcene un paio. Tanto per starcene in pace se adesso arrivano anche gli altri a occupare la spiaggia.»

«Uhm.» Emil fece spallucce. «Come vuoi.» Lo seguì verso la stradina di pietra che conduceva alla via per l’ostello e lanciò un fischio agli altri. «Ehi, io vado in camera con Leon! Ci vediamo a cena.»

Mathias sventolò un saluto senza sollevare il capo dal grembo di Lukas, senza sottrarsi al soffice tocco delle sue dita fra i capelli. «Non scopate troppo! Ci hanno appena messo le lenzuola pulite, facciamole durare almeno fino a metà settimana.»

Emil divenne paonazzo. «Mathias!»

Leon lasciò che quella battuta rimbalzasse contro la sua aura di indifferenza. Prese Emil per mano, raccolse uno dei pugni che pulsavano di rabbia e vergogna, e lo guidò attraverso il vialetto. Sparirono assieme dietro le file di ombrelloni.

Antonio riemerse dalla superficie del mare e infranse un’onda che gli schiumò contro la schiena. Gettò il capo all’indietro, spruzzò una fontanella d’acqua, e intrecciò le dita alle ciocche bagnate, scostandosele da davanti gli occhi. Agitò il braccio verso Francis. «Venite anche voi a fare il bagno?» Si diede una spinta all’indietro e tornò a tuffarsi in acqua, spalancando una doppia ala di schizzi turchesi. «L’acqua è fantastica!»

Francis ricambiò lo sventolio di mano. «Arriviamo.» Si rialzò dal telo da mare e si chinò a porgere il palmo a Matthew. «Mi concede l’onore di un bagno?»

Matthew arrossì e accettò la mano. «Volentieri.»

Francis lanciò un’occhiata anche a Gilbert. «Ehi, Gilbert, vieni anche tu a...» Lo trovò ancora rinchiuso nella sua scura bolla di silenzio e malumore che nemmeno i raggi del sole pomeridiano riuscivano a sciogliere e scaldare. Inarcò un sopracciglio. «Si può sapere che ti prende?»

Gilbert non lo degnò nemmeno di un’occhiata di striscio. Lasciò cadere lo stecco spolpato fino all’osso, pescò un altro ghiacciolo al limone, addentò solo un morso, e fece sciogliere il boccone fra i denti, abbandonandosi alla sensazione fredda, aspra e bruciante che gli stava rodendo sia la bocca che l’anima.

Nella sua testa turbinarono le parole che Francis e Antonio gli avevano rivolto solo poche ore prima, rimbombarono come una serie di mazzate sul cranio, dandogli la nausea.

“Come ci si sente a sapere che tuo fratello minore ha perso la verginità prima di te?”

“Non si può arrivare alla fine delle superiori ed essere ancora vergini, è tipo la sacra morale di American Pie!”

“Lo sai che è scientificamente provato che quelli che finiscono la scuola da vergini rimangono soli a vita?”

Soli a vita...

Il ghiacciolo al limone si sciolse fra le sue dita. Il succo s’infoiò fra le falangi contratte, appiccicandosi a lui come quelle frasi che non riusciva a scollarsi di dosso.

Il ricordo delle parole di Elizaveta invece arrivò secco, freddo e aspro come il boccone di ghiacciolo che aveva appena masticato. “Non siamo consorti, non c’è nessun patto, non c’è nessuna alleanza, e non c’è nessun obbligo.” L’immagine della sua figura che si voltava tenendo le buste della spesa fu più dura del pugno che gli aveva sganciato sulla guancia e che ancora pulsava attraverso il gonfiore della pelle. “Per una volta non si tratta di te e di quello che vuoi tu, ma di quello che voglio io. È questo che Roderich ha di diverso rispetto a te. Lui non ha paura di crescere, di affrontare le sue responsabilità e tutto quello che comportano.”

Gilbert strinse i denti e soppresse un guaito di frustrazione, soggiogato dal pensiero di aver perso i suoi migliori amici e di essere stato scaricato per ben due volte in un solo pomeriggio.

Chinò la fronte contro le ginocchia, rabbrividì, scosso da uno spasmo, e le prime amare lacrime di rabbia gocciolarono dagli occhi strizzati, bruciando come il resto del ghiacciolo che stava continuando a sciogliersi fra le sue dita.

Una scossa di allarme punse Francis lungo la nuca, gli fece sbatacchiare gli occhi in un’espressione di stupore. «Gilbert?»

Matthew si sporse a guardare, altrettanto preoccupato, e rivolse un sussurro a Francis. «Sta bene?» domandò. «Gli è successo qualcosa?»

Gilbert si strofinò il braccio contro gli occhi, scivolò all’indietro per nascondersi all’ombra, e tornò a cadere con la fronte sulle ginocchia, a far stridere i singhiozzi fra i denti e a tremolare lungo la schiena ricurva.

Matthew finì trafitto da una frecciata di dolore e compassione. Compì un passo indietro per lasciare da soli Gilbert e Francis. «Ehm, io vado...» Raccolse la borsa di tela, si mise la tracolla alla spalla, e indicò il viottolo di pietre che conduceva all’ostello. «Vado a prendere altri ghiaccioli. Voi...» Si avviò e rivolse a Francis un dolce sorriso d’intesa. «Voi fate con calma.»

Francis annuì, aspettò che il profilo di Matthew scomparisse fra i tralicci degli ombrelloni e tornò su Gilbert.

Stava ancora frignando. Il ghiacciolo al limone continuava a colargli fra le dita e il succo aveva aperto una chiazza scura sul telo da mare.

Francis si prese la fronte, sospirò a fondo, e lasciò che un debole sorriso di compassione gli toccasse le labbra. «Aah, Gilbert.» Raccolse la felpa di cotone leggero che aveva indossato durante il viaggio in treno e che si era portato in spiaggia per ripararsi dalle raffiche di vento. Si mise seduto affianco a Gilbert, gli stese la felpa sopra la testa china in modo che nessuno si accorgesse che stava piangendo guardando o dal mare o dagli altri ombrelloni, e gli batté soffici pacche sulla schiena.

Consolato da quel gesto di solidarietà, Gilbert finì di piangere all’interno della sua bolla di solitudine, fredda e aspra proprio come l’indigesto ghiacciolo al limone che gli era rimasto sullo stomaco.

 

 

Gilbert si strofinò il viso imbronciato, ancora scuro e stropicciato di rabbia dopo aver tenuto il muso per tutta la notte, dopo non aver rivolto nemmeno uno sguardo a Roderich ed Elizaveta, e dopo non essere nemmeno uscito a cena con gli altri la sera prima, nonostante avessero prenotato i tavoli alla pizzeria che lui aveva adorato tre estati prima. Rimboccò il cuscino sotto la guancia, rannicchiò le ginocchia strusciando i piedi nudi sul copriletto, e sfiorò lo schermo del telefono tenuto in orizzontale, alzando il volume del video.

Missy entrò nell’inquadratura, le spalle strette in una posa impacciata e lo sguardo distante. «Ciao, Andrew.»

Andrew si affrettò a scendere dalla sedia con un balzo. «Ciao, Missy.» Non le diede tempo di continuare, sollevò l’indice per richiamare la conversazione precedente. «Ehm, ascolta, riguardo quello che ho detto nella cabina delle fototessere, facciamo finta che non sia successo.»

«Oh, ma è successo. Dobbiamo affrontarlo.» Missy trovò la forza di posare gli occhi nocciola su di lui. «Andrew, tu sei come lo zucchero per me.» Accennò un sorrisetto. «Mi piaci, ma ogni volta che sto con te perdo il controllo, e – odio doverlo dire – ma finisco per pentirmene.»

«Ma Missy...»

Gilbert, attraverso quelle parole di giustificazione e quello sguardo di rifiuto, percepì l’eco del dolore che aveva subito lui stesso solo il giorno prima e per ben due volte di seguito. Pescò dal pavimento la bottiglia di Corona già stappata e tracannò una sorsata di consolazione. Lasciò che la dolce e calda nuvoletta di alcol gli riempisse la testa, che appannasse i ricordi, e che lo isolasse da quel dolore che voleva solo dimenticare.

Nello schermo del telefono, Missy distolse di nuovo lo sguardo da Andrew. «I miei genitori hanno ragione. Dobbiamo lasciarci.» Aggravò il tono. «Sul serio, questa volta.»

Maurice comparve nell’inquadratura e si prese la testa fra le zampe, strizzando gli artigli nella zazzera di pelliccia. «No, non dirlo, possiamo sistemare tutto.» Si rivolse a Connie, giunse le zampe in preghiera, e i suoi occhi luccicarono, imploranti. «Connie, ti prego.»

Connie non poté fare altro che dargli la schiena tenendo la zampa sul fianco inarcato. «L’ho persa, amore, almeno per i prossimi anni.» Si abbandonò a un’espressione amareggiata tanto quanto la sua. «È arrivata a tutta velocità ma si è bruciata in fretta.»

Gilbert strizzò la mano libera sul cuscino, soppresse un gorgoglio nell’imbottitura. «Quante scuse del cazzo» brontolò. Tracannò un altro sorso di birra e rivolse il collo della bottiglia allo schermo, come sperando che i personaggi lo sentissero. «Dille di continuare a stare assieme al ragazzino e piantatela lì, no?» Tornò ad accucciarsi contro il cuscino. Le gambe rannicchiate nel suo bozzolo di solitudine da cui non avrebbe più voluto uscire. «A te darebbe retta, dannazione.»

Due colpi alla porta della camera lo fecero sobbalzare, «Gilbert!», accompagnati dalla voce allarmata di Francis.

Gilbert mise in pausa il video, e rivolse lo sguardo alla porta, senza però rispondere o sollevare la guancia dal tepore consolatorio del cuscino.

Altri colpi ovattati picchiettarono sull’anta. «Gilbert, sei in camera? Dai, apri la porta.»

La voce di Francis scivolò attraverso la pelle di Gilbert come una scossa elettrica, fece esplodere la tiepida bolla di intontimento gonfiata dalle sorsate di birra, e gli scaricò una frustata di rabbia dietro la nuca. Pensare che tutto era nato solo dalla stupida scommessa sollevata da quei due... «Vattene.» Gilbert risucchiò un altro sorso di birra e fece per far ripartire il video.

Un’altra bussata più insistente picchiò sulla porta e frenò il suo pollice a una piuma dallo schermo. «Gilbert!» Era Antonio. La sua voce più alta e spaventata scavalcò quella di Francis. «Gilbert, Francis mi ha detto che ieri ti sei messo a piangere! Apri la porta e non fare niente di avventato, ti scongiuro!»

Un violento bruciore di vergogna fumò dalle orecchie di Gilbert. «Non ho pianto!» Tuffò il viso nel cuscino, nel profumo della crema solare che si era spalmato il giorno prima e che era rimasto sulla stoffa, e ne strizzò l’imbottitura. «Andate fuori dalle palle e lasciatemi in pace!»

«Gilbert, dai» disse ancora Antonio. «Ci dispiace per quello che abbiamo detto ieri! Giuro che era solo uno scherzo, non è vero che ti prenderemo in giro a vita. Non tenerci il muso, ti prego, possiamo parlarne!»

Gilbert tirò su la faccia e gli sbraitò contro. «Andate a farvi fottere!» Sollevò il mento e spinse il petto all’infuori, sforzandosi di fare il solito pomposo, anche se non potevano vederlo. «Guardate che non me la sono presa per niente, voglio solo starmene per i fatti miei.»

«Gilbert...»

Gilbert si rotolò sull’altro fianco, diede la schiena alla porta, e spinse il pollice sull’insegna Play stampata sul viso di Andrew.

«Missy» disse lui, «andiamo, non... non devo essere lo zucchero.» Socchiuse le palpebre, ammiccante. «Posso essere l’uvetta.»

«Ooh, Andrew.» Missy gli si avvicinò, compassionevole. «L’uvetta è piena zeppa di zucchero naturale.» Il suo sorriso cadde e lei scosse la testa. «Mi dispiace. Non si può evitare. Sei troppo dolce per me.» Strappò a metà il nastro stampato dalla cabina e diede due delle fototessere ad Andrew come regalo d’addio. Poi se ne andò.

Gilbert si aggrappò di nuovo al cuscino per non sentirsi sprofondare nel suo oscuro abisso di disperazione. Lo strap! della carta da fototessera rimbombò nel suo petto, simile a quello emesso dalla sua anima nel momento in cui Elizaveta gli aveva confessato di essersi messa assieme a Roderich. Lo strap! delle loro vite che si separavano, dei loro ricordi che venivano cancellati, delle immagini di tutti gli anni trascorsi assieme che si sarebbero lentamente affievolite, come fotografie lasciate ingiallire in un album.

Davanti al video che proseguiva, l’ondata di tristezza e sconforto tornò a inondarlo, a schiacciarlo sotto la sua massa pesante e ghiacciata. Non posso credere che dei tredicenni rimorchino più di me. Bevve ancora, risucchiando gli ultimi grappoli di schiuma dal fondo della bottiglia.

L’inquadratura si allargò dal viso in lacrime di Andrew al profilo di Maurice che teneva la zampa avvolta attorno alle spalle del suo protetto. Lo sguardo di accusa rivolto a Connie. «Con tutto il rispetto, Connie, questa ragazza è una stronzetta del cazzo. E io e il ragazzo ci suicideremo, stasera.»

Connie tenne la zampa sul fianco, «Sì, lo capisco», sempre dandogli le spalle. «Fa’ quel che vuoi, Maury.» Levò i palmi al cielo con fare impotente. «Fa’ quel che vuoi.»

Passi affrettati attraversarono la veranda, al di là della doppia porta vetrata che Gilbert aveva tappato con le tende. La porta scorrevole si aprì con un rullio, due braccia scostarono le tende, e il viso ammiccante di Francis sbucò fra i lembi di stoffa che reggeva fra le mani. «Bonjour

Antonio gli sbucò affianco, si aggrappò alla spalla di Francis e sollevò gli occhi verso il soffitto della camera da letto. «Ooh» esclamò. «Ma voi avete anche il ventilatore. Nella nostra non c’è.»

Gilbert scattò a sedere, rimbalzando sul materasso, e abbandonò il cellulare sul cuscino. «Che dia...» Rimase a bocca aperta. Le palpebre socchiuse in un’espressione perplessa. «Come siete entrati?»

Francis valicò la soglia fra la veranda e la camera e indicò alle sue spalle. «Avete lasciato la porta della veranda aperta. Dovreste stare più attenti, potrebbero anche girare malintenzionati.»

Antonio lo superò e si mise in punta di piedi per scavalcare una delle bottiglie vuote di Corona che giacevano sul pavimento, rovesciate sul fianco. «Ti sei scolato tutte le birre!» Si chinò a raccoglierne due e le sventolò verso Gilbert. «Queste dovevamo farcele bastare per tutta la vacanza» frignò. «Dovevamo berle assieme!»

Gilbert strinse un pugno sul ginocchio e soffiò uno sbuffo scocciato e indisponente. «Be’, abituatevi all’idea di organizzare i vostri piani senza di me, da ora in poi.» Riprese il cellulare, si tuffò con la faccia nel cuscino, e rotolò sull’altro fianco, dando le spalle a entrambi.

Francis e Antonio incrociarono uno sguardo sconsolato.

Francis sospirò, lasciando che la sua espressione si velasse di un’amara colpevolezza, e si passò una mano fra i capelli. Andò a sedersi sull’orlo del letto, fece rimbalzare il materasso, e le sue mani scivolarono sulla trapunta, senza però sfiorare Gilbert. «Gli altri sono già in spiaggia a preparare i falò. Hanno pensato di fare una gara a gruppi a chi lo farà più grande e a chi preparerà la cena migliore, quindi ci servono adulti per monitorare la situazione e assicurarci che nessuno finisca carbonizzato.» Chinò il capo per raggiungere lo sguardo di Gilbert, gli rivolse uno di quei sorrisini accattivanti di cui solo lui era capace. «Vieni a darci una mano?»

Gilbert non distolse gli occhi dallo schermo del telefono – le luci del cartone animato si specchiarono sulle sue guance e sulla sua fronte corrugata – e si tenne abbracciato al cuscino. «Io passo.» Sventolò una mano, come a scacciare due insetti fastidiosi. «Arrangiatevi da soli.»

Antonio strabuzzò lo sguardo, incredulo. «Cosa?» Raggiunse anche lui il letto e si tuffò a pancia ingiù, le gambe piegate e i gomiti incrociati, facendo traballare il materasso. «Non vieni al falò?» Si trascinò più vicino a Gilbert. «Ma se è da tutto l’anno che non aspettiamo altro.»

«Ho detto che non vengo.» Gilbert affogò il grugno nel cuscino. «Me ne starò qua in camera. In pace. Con l’unica persona che a quanto pare gradisce la mia presenza.» Si posò la mano sul petto. «Me stesso.»

Francis buttò un’occhiata sul cellulare messo in orizzontale e sorretto dalla mano di Gilbert. La scena era cambiata. Andrew e Maurice si tenevano abbracciati e frignavano standosene rannicchiati sul letto del ragazzo, «Sapevo che sarebbe finita male», «Lo sapevi?», «Certo, sei un cazzo d’imbranato!», circondati da fazzoletti appallottolati che per una volta erano fradici di lacrime invece che di qualcos’altro.

Francis inarcò un sopracciglio. «E cosa intenderesti fare?» Indicò lo schermo con un cenno del mento. «Startene tutta la sera a guardare Big Mouth

«Anche per tutto il resto della vacanza.»

Francis sospirò, sconfortato, e rivolse di nuovo lo sguardo ad Antonio, in cerca di supporto. Antonio sollevò le sopracciglia in un cenno d’intesa e flesse il capo indicando più volte Gilbert.

Francis annuì, afferrando al volo, e scivolò a sedere più vicino a Gilbert. Si rivolse a lui armandosi di un’aria paterna. «Roderich ed Eliza ci hanno detto quello che è successo.»

Gilbert sbarrò le palpebre, le sbatté un paio di volte, colto da una scossetta di piacevole stupore, e fece volare lo sguardo su Francis. Inarcò un sopracciglio, ancora scettico, ancora diffidente.

Francis incrociò le braccia al petto e alzò gli occhi al soffitto. «Se la sono presa con noi e hanno detto che è colpa nostra se ti sono venute in mente strane idee riguardo loro due e il vostro rapporto.»

Antonio annuì, fece dondolare le gambe piegate. «E che è colpa nostra se hai accettato la scommessa di andare a letto con qualcuno entro la fine della vacanza. Ma guarda che noi scherzavamo, Gil!» Gli diede un colpetto alla spalla e ridacchiò. «Non ti prenderemmo mai in giro a vita per una cosa del genere. Mica siamo così bastardi.»

Francis ammiccò. «Lo faremmo solo per un paio di anni.»

Gilbert arricciò un angolo della bocca, tenne nascosto quel lieve tepore di sollievo che gli spolverò le guance di rosa. Roddie e Liz se la sono davvero presa con loro? Allora è un po’ come se mi avessero difeso. Lasciò di nuovo cadere il capo sul cuscino, schiacciato da una botta di sconforto. Ma questo non vuole comunque dire che tutto tornerà come prima. «Ma è comunque colpa vostra se si è sollevato tutto questo casino!» Rimbalzò a sedere, il cellulare scivolò sul copriletto e cadde dimenticato. «Perché dovrei continuare a starmene con voi fingendo che non sia successo niente? Tanto fra qualche settimana vi sarete tutti sbarazzati di me e allora non avrà più senso rimanere amici, no? Quindi tanto vale farla finita qui in ogni senso, sia fra me e loro due e sia fra noi tre.»

Francis scosse il capo, si strinse la fronte fra le dita e si massaggiò le tempie. «Mon Dieu» sospirò. «Mi sembri Arthur.»

Antonio se la rise di gusto e gli diede un’altra spintarella sulla spalla. «Dai, Gil, non posso credere che tu te la sia presa tanto per una stupida scommessa. Guarda che noi ti vogliamo bene lo stesso, anche se non vogliamo venire a letto con te.»

«Questo non cambia il fatto che sono incazzato!»

«Allora dovresti focalizzare meglio il tuo dolore per poterlo sradicare definitivamente.» Francis accavallò le gambe, si pettinò una ciocca dietro l’orecchio, e fece dondolare il piede. «Cosa ti ha fatto più male in tutto questo? L’essere scaricato, o il fatto che loro due ti abbiano scaricato?»

Gilbert rivolse lo sguardo al ventilatore, accigliandosi. «Cos’ha fatto più male?» La guancia sinistra, ancora rossa e gonfia dopo il pugno che Elizaveta gli aveva stampato sul muso davanti alla gelateria, pulsò di dolore. Gilbert si diede una strofinata al viso e rabbrividì. «Il cazzotto di Liz, direi.»

Anche Antonio si posò una mano sulla guancia, scosso da un tremore elettrico simile a una frustata sulla pelle. «Uuh, Liz ti ha sganciato un pugno?»

«Già.» Gilbert annodò le braccia al petto, si strinse nelle spalle, e si morse il labbro, ingoiando un altro acido fiotto di rabbia. «Non è giusto, merda. Perché diavolo è dovuta finire proprio in questo modo? E non solo il fatto di essere stato scaricato e tutto, ma anche...» Spalancò un braccio verso la porta finestra. «Anche il fatto che quei due si siano messi assieme. Traditori.» Schiacciò il pugno sul ginocchio, bruciò di rabbia e invidia. Il suo sguardo ridivenne nero come pece. «Stavamo così bene noi tre assieme, e loro hanno rovinato tutto.»

Francis sospirò. «Esattamente, cosa ti aspettavi quando hai deciso di andare da loro a chiedergli di venire a letto con te?»

«Che almeno uno dei due avrebbe accettato. È solo...» Gilbert si strinse nelle spalle e volse i palmi al soffitto, ancora incredulo davanti a quel doppio rifiuto. «Sarebbe stato solo sesso, dannazione, e fra di noi non sarebbe comunque cambiato nulla.»

«E credi davvero che sarebbe stato facile andare fino in fondo e poi comportarsi come se non fosse successo nulla?»

«Ovvio! Se persino uno come Ludwig ha fatto centro al primo colpo, allora perché io non...»

Antonio si spinse sui gomiti e gli si piazzò col viso davanti. «Non puoi paragonarti a tuo fratello e alla sua storia con Feliciano» esclamò. «Nessuno potrebbe mai pretendere di paragonarsi a quei due.»

Gilbert tirò la faccia all’indietro. «E perché no?»

Francis ridacchiò, intenerito, e fece di nuovo dondolare la gamba accavallata. «Perché Ludwig e Feliciano sono due scherzi della natura, Gilbert. Non è facile entrare in simbiosi con una persona, capire le sue necessità, rispettare i limiti, e allo stesso tempo continuare a piacersi nonostante tutti i difetti. Sono Feliciano e Ludwig che lo fanno sembrare semplice, ma la realtà fra persone normali è ben diversa.»

Antonio annuì e si posò la mano sul petto, sollevando una posa fiera. «Tranne per me e Lovino, ovvio.»

«Quello che stiamo cercando di dirti...» Francis fece scivolare i piedi sul materasso, si mise anche lui a gambe incrociate sul copriletto, sfiorando il ginocchio di Gilbert, e lo squadrò con un’espressione più seria, la stessa di quando imbastiva una delle sue paternali. «Trovare la persona giusta per la prima volta non è mai facile, Gilbert. È quasi impossibile. E probabilmente è a questo che Roderich ed Eliza hanno pensato quando ti hanno scaricato. Non volevano sprecare la loro prima volta per una stupida scommessa, tantomeno con qualcuno che la prende così alla leggera come te.»

Antonio fece roteare lo sguardo. «E chi mai lo vorrebbe?»

Gilbert si massaggiò la fronte che ancora pulsava per tutta la tensione che lo aveva stritolato e preso a cazzotti il giorno prima, si diede una strofinata ai capelli e sospirò a fondo. «Che gran casino.» Si lasciò ricadere sul letto, la nuca spremuta sul cuscino, lo sguardo rivolto al ventilatore fermo, e le braccia spalancate. «Forse...» Strinse le dita sulla trapunta e girò la guancia, borbottando. «Forse c’è solo una cosa positiva in tutto questo macello.»

Francis e Antonio incrociarono un’occhiata scettica, tornarono su Gilbert. «E quale?» domandarono in coro.

«Che effettivamente...» Gilbert si rotolò su un fianco, abbracciò l’imbottitura del cuscino, e fece spallucce. «Non avrei saputo scegliere fra i due. Entrambi...» Corrugò un sopracciglio, pensando a come esprimere a parole il gomitolo di emozioni appallottolato in fondo al petto. «È strano, non so nemmeno io come buttarla, ma...» Distese le mani, i palmi rivolti verso l’alto, e ne bilanciò il peso, come a soppesare le due scelte. «Entrambi mi danno qualcosa che l’altro non mi dà e di cui allo stesso tempo non riesco a fare a meno.»

Francis si massaggiò il mento. «Affascinante.» Gli occhi luccicanti e trasportati dal discorso.

Antonio si dovette coprire la bocca per soffocare una risata di scherno. «Certo che essere scaricato due volte in una giornata sola è davvero...» Una scossa d’illuminazione gli folgorò il cervello, gli fece schioccare le dita. «Oh, Gilbert, ho trovato!»

«Eh?» Gilbert sollevò la tempia dal letto e lo squadrò con un’occhiata sbieca. «Cos’hai trovato?»

Antonio gli rivolse entrambi gli indici e sollevò i pollici, mimando un doppio colpo di pistola. «Sai com’è che si dice in italiano quando uno viene scaricato? Si dice: “Gli hanno dato un due di picche”. Me l’ha spiegato Lovino.»

«E allora?»

«Be’, dato che tu ne hai ricevuti due, è come se avessi preso un quattro, no?» Impennò quattro dita e gli sventolò la mano davanti al naso. «Un quattro di picche!»

Gilbert finì risucchiato in un baratro oscuro che gli fece diventare il viso ancora più buio e gli occhi ancora più freddi. Forzò un ghigno sbilenco, ridacchiò contro il cuscino. «Esilarante.»

«Vero, no?»

«Tanto non m’importa già più.» Gilbert mollò il cuscino, tornò a rotolare sulla schiena, accavallò le gambe, e intrecciò le mani dietro la nuca. Fece dondolare il piede mostrando un’aria indifferente. «Dovreste conoscermi, no? Io alla fine sto bene da solo, non ho bisogno di nessuna relazione e non ho bisogno di nessuno che mi completi.» Si batté la mano sul petto e mantenne quel sorriso tirato ma ancora un po’ tremolante. «Io faccio già per quattro. Si è solo trattato di perdere una stupida scommessa e ormai mi è già passata.»

Francis sollevò un sopracciglio, tastò il fine ma pungente odore di bugia, e accostò le nocche alla guancia per flettere il capo di lato e squadrare Gilbert con occhi inquisitori. «E con loro due come farai?»

«Pft, cosa vuoi che faccia?» Gilbert sventolò le mani come a dissolvere una nuvoletta di fumo. «Se vogliono starsene da soli a fare pucci-pucci per il resto della loro vita allora di certo non mi metterò a piangere. Peggio per loro, hanno perso l’occasione di cedersi a uno come me.» Tagliò l’aria con un gesto netto. «E un’occasione del genere non gli ricapiterà mai più nella vita.»

Anche Antonio ricambiò l’occhiata scettica di Francis, ma sorvolò. «E il falò?»

Gilbert fece schioccare la lingua e tirò su il mento per non far cadere il nuovo sorriso carico d’ottimismo. «Non lascerò di certo che sia questa stupida idiozia a rovinarmi la serata.» Saltò giù dal letto, diede una sistemata ai vestiti che si erano sgualciti dopo essere rimasto per mezza giornata sdraiato sul fianco, e guadagnò un profondo respiro per ricaricarsi l’animo. «Andiamo a costruire il più immenso e magnifico falò che si sia mai visto sulla faccia di questa spiaggia!» Tirò le tende, spalancò la porta finestra, e si lasciò inondare dai raggi del sole, dal venticello pomeridiano che profumava di polline, di erbe aromatiche, di mare, e della pizza che vendevano al di là della strada.

Gilbert tese una mano davanti alla fronte per ripararsi dai raggi. Il sole splendeva tondo e bianco, appeso sulla cima di un cielo terso in cui avrebbe potuto annegare. Non riuscì comunque a rallegrarsi, nonostante quella splendida giornata d’estate si sarebbe trasformata in una notte altrettanto meravigliosa, senza nuvole, e carica di sciami di stelle che si sarebbero specchiati fra le calme acque del mare come una gettata di diamanti. Dentro di lui persisteva quel bozzolo di buio, incastrato nel petto come un boccone andato di traverso, che gli impediva di sorridere come avrebbe voluto, di essere felice quanto avrebbe desiderato, e di fremere di impazienza ed eccitazione per la serata che li attendeva.

Abbassò le palpebre, e le uniche immagini che gli passarono attraverso la mente furono quelle di Roderich ed Elizaveta da soli, mano nella mano, con espressioni serene appagate e gli occhi che si guardavano con trasporto. Con l’arrivo dell’autunno avrebbero trascorso le loro giornate senza di lui, a sbaciucchiarsi, a starsene accoccolati sotto le coperte davanti a un film, a passeggiare la sera lungo il vialetto dopo una cena al ristorante o dopo un gelato alla pasticceria, imboccandosi a vicenda con i cucchiaini di plastica. Si sarebbero dati appuntamento davanti al negozio di dischi – il loro solito punto d’incontro – ma Gilbert non sarebbe più stato assieme a loro. Avrebbero portato i tappetini nel parco e si sarebbero sdraiati sul prato, a guardare il cielo, a chiacchierare, a spennacchiare margherite, a contare le nuvole, e a lanciare sassolini nel laghetto. Avrebbero visitato assieme le fiere di stagione scambiandosi stupidi regalini, biglietti a forma di cuore, bracciali di stoffa, chincaglieria da bancarella che però a Elizaveta era sempre piaciuta e di cui aveva i portagioie zeppi. Tutte cose che avevano sempre fatto assieme, ma che ora sarebbero appartenute solo a loro due.

Roderich ed Elizaveta si sarebbero costruiti un futuro nuovo, un futuro di cui Gilbert non avrebbe più fatto parte. E non avrebbero sentito la sua mancanza.

 

 

Ludwig strinse le pinze da grigliata su uno degli hamburger che stavano rosolando sulla piastra da campeggio, lo ribaltò sull’altro lato, sollevando una vampata di fumo rovente e profumato di carne cotta, e diede un’aggiustata anche alla fila di wurstel striati di nero che gli stavano cuocendo affianco. Raccolse uno degli hamburger già pronti, quello prenotato da Alfred che lo voleva “tanto al sangue da sentirlo ancora muggire”, e glielo adagiò nel panino aperto e già spalmato di ketchup e maionese.

Alfred richiuse il panino – già il secondo della serata – e ringraziò Ludwig con un sorrisone. «Grazie!» Lasciò il posto a Matthew, anche lui in fila per la sua cena, passò in mezzo ai fumi spanti dalla postazione delle griglie e raggiunse Arthur che lo aspettava seduto sotto le luci oscillanti del loro falò, davanti alle pietre che avevano disposto attorno alle fiamme per contenere gli spruzzi delle scintille incandescenti.

Feliciano aprì la nuova busta di pagnotte da hamburger e passò i fagottini già tagliati a Ludwig. «Ecco, metti a cuocere anche il pane, così sarà croccante e non si infradicerà con il sugo di carne.»

Kiku passò in mezzo a loro reggendo il distributore di fazzoletti fra le mani e il rotolo di sacchetti di plastica sottobraccio. «Io mi occupo di distribuire i fazzoletti e i sacchi della spazzatura per raccogliere l’immondizia.»

Antonio impennò il suo bicchiere vuoto di Coca-Cola e lo sventolò sotto le luci del falò che splendevano attraverso il suo sorriso già euforico come se avesse tracannato un’intera caraffa di birra. «Ancora Coca, qui!» Diede un’altra agitata al bicchiere di carta e andò al tavolo delle bibite, affianco a Lovino che si stava servendo con la Pepsi. «Chi mi mescola un po’ di aranciata nella Coca?»

A Lovino andò la Pepsi di traverso. Fulminò Antonio con un’occhiataccia disgustata che avrebbe potuto incenerirlo. «Fai cagare.»

«Sono creativo!»

Lovino scosse il capo, prese un altro sorso di Pepsi e raggiunse il tavolo dei dolci dove avevano disposto le scodelle colorate che traboccavano di caramelle e cioccolatini. Pescò una manciata di M&M’s, si riempì la guancia come un cricetino, e tese l’orecchio verso la musica che avevano agganciato alle casse portatili. Le note di Riders on the Storm si diffondevano lente attraverso la spiaggia, sovrapponendosi in un flusso morbido simile a quello delle onde che schiumavano sul bagnasciuga sommerso dall’oscurità della notte. Lovino diede una masticata alle M&M’s e sbuffò. «Chi diavolo ha messo ‘sta musica?» Buttò giù i cioccolatini con una sorsata di Pepsi. «Siamo a un falò sulla spiaggia o a una rievocazione storica?»

Arthur, accoccolato fra le gambe di Alfred che si era seduto assieme a lui sul telo da spiaggia davanti al falò, annuì a malincuore. «Per una volta sono d’accordo.» Pescò una Cheetos dal suo bicchiere di carta ripieno di patatine, la sgranocchiò, si succhiò l’indice, e tese anche lui l’orecchio sopra il chiacchiericcio proveniente dagli altri gruppi, oltre lo scoppiettare della legna dei falò, lasciandosi catturare dalla musica spanta dalle loro casse. La canzone finì, la sostituì Paint it, black. Arthur aggrottò un sopracciglio. «Come diavolo si chiama questa playlist? “Viaggio in elicottero attraverso le paludi del Vietnam con il mio commilitone mutilato che parla di sua moglie di sua figlia prima di morire fra le mie braccia macchiate del sangue dei Vietcong”?»

Alfred rise, gli avvolse un braccio attorno ai fianchi reggendo il panino rosicchiato con la mano libera, e gli accostò alla guancia le labbra profumate di ketchup e maionese. «Quanto mi piace quando diventi biblico.»

«Non ero biblico» precisò Arthur. «Ero catastrofista.»

«Volevo citare South Park

Arthur gli diede un pizzicotto alla punta del naso, gli strinse la catenina a cui era appesa la targhetta militare, attirando Alfred a sé, e si accostò alla mano che reggeva il panino, all’invitante e solleticante profumo di carne grigliata. «Dammi un morso di hamburger.»

Alfred glielo portò davanti alle labbra. «Di’ “Aaah”.»

«Aaah.» Arthur addentò un morso e si leccò le labbra per raccogliere uno schizzo di ketchup e le briciole di pane tiepido che gli era scricchiolato fra i denti. Pescò una Cheetos dal suo bicchiere di carta e la accostò alle labbra di Alfred. «Patatina?»

«Yes, Sir.» Alfred la divorò, succhiò le dita di Arthur sporche di polvere di formaggio color arancio, e tornò a sbranare il suo panino, non ancora sazio.

Anche Paint it, black terminò. Le casse attaccarono San Francisco, di Scott McKenzie, e dal falò di Ivan e Yao si elevò l’esulto di Yong Soo. «Yee, musica da fricchettoni!»

Dal Falò Vichingo invece s’innalzò un’esclamazione contrariata di Mathias. «Levate ‘sta merda!»

Arthur pescò altre Cheetos dal bicchiere e si mise a sgranocchiarle tenendo la fronte aggrottata. «Okay, ora è davvero la playlist “Viaggio in elicottero attraverso le paludi del Vietnam con il mio commilitone mutilato che parla di sua moglie di sua figlia prima di morire fra le mie braccia macchiate del sangue dei Vietcong”.»

Matthew si avvicinò al falò reggendo il piattino su cui, in un letto di Doritos, era adagiato l’hot dog che si era appena fatto cuocere da Ludwig. Pescò una Doritos e ne rosicchiò la punta. Sorrise. «A me piace.» Lo sguardo rivolto alle casse da cui strimpellava la musica tutta chitarra e sonagli. «Sono canzoni dolci.»

Alfred si leccò le dita sporche di ketchup e di semi di sesamo e si batté la mano sul petto sporto all’infuori. «Se le cantassi io sono sicuro che ti piacerebbero di più!» Si schiarì la voce e attese il ritornello. «For those who cooome to Saaan Fraaanciscooo, summertime will be a love-in there...»

Arthur lasciò ciondolare il capo in avanti, abbandonandosi a un sospiro di disperazione. «Alfred, non cantare.»

Alfred strinse l’abbraccio attorno ad Arthur e spremette la guancia sulla sua. «In the streets of Saaan Fraaanciscooo, gentle people with flowers in their hair.»

Arthur gli spremette una mano sulla faccia per allontanarlo, ma anche lui dovette trattenersi dal ridere. «Piantala!»

La sagoma scura di Mathias si piantò davanti alle fiamme del Falò Vichingo. Mathias si strinse le mani sui fianchi, divaricò i piedi nella sabbia, e di nuovo la sua voce si elevò assieme alle scintille che gli scoppiettavano alle spalle. «Vi facciamo smettere noi!» Si girò verso gli altri e accostò la mano alla bocca per indirizzare la voce. «Ohi, Tino, passami il jack delle casse!»

La voce sconsolata di Lukas si perse come sabbia al vento. «Non mettere una schifezza delle tue.»

Mathias accostò il jack al cellulare e fece uno sbuffo, indicando il terzo falò che bruciava sulla spiaggia. «Mi sbrigo prima che il gruppo dei comunisti laggiù si metta a sparare musica cosacca o musica di propaganda, che ne so. Altrimenti rischiamo di ritrovarci con la spiaggia invasa dall’Armata Rossa che fa sfilare la bara di Lenin in mezzo agli ombrelloni.»

Ivan si voltò da sotto le luci del loro fuoco, catturato da quel commento, e gli rivolse uno sguardo incuriosito. «Vuoi davvero ascoltare musica cosacca?»

Yao scosse il capo, gli avvolse il braccio per farlo girare, e bevve dal suo bicchiere di carta. «Ivan, lasciali perdere.»

Yong Soo saltò davanti al loro falò, e la sabbia schizzata da sotto i suoi piedi bruciacchiò fra le fiamme. «Facciamo una gara a chi spara la musica a volume più alto!»

Yao lo fulminò di traverso. «Scordatelo!»

Mei giunse le mani e trasse un sospiro di meraviglia che le fece brillare gli occhi sfumati dall’ombretto rosa. «E magari la musica diventa così alta da spegnere i falò degli altri!»

Accanto al tavolo su cui avevano disposto ciotole e vassoi, Natalia ghignò, smangiucchiò una forchettata di insalata di riso freddo, e rigirò i pezzetti di peperoni per metterli in disparte. «Gli Hunger Games dei falò. Incantevole, davvero.» Stritolò le dita attorno al manico della forchetta. La luce del fuoco luccicò sulle sue guance, attraverso il sorriso aguzzo, e fra le palpebre, donandole un aspetto demoniaco. «Quelli che perdono li gettiamo fra le fiamme dei vincitori.»

Katyusha finì di distribuire i tramezzini di gamberetti e salsa rosa, scosse il capo con un sospiro, e raccolse la bottiglia di Coca-Cola per versarla a Eduard e Raivis. «Natalia, ti prego.» Ripose la bottiglia sul tavolo e scoperchiò l’insalatiera dove avevano affettato la macedonia di frutta, accanto al vassoio degli spiedini di carne e verdura grigliata, al piatto con la quiche di formaggio, e a quello con le alette di pollo marinate. Lei e Yao avevano sfaccendato tutto il pomeriggio nella cucina dell’ostello per preparare la cena.

Anche le casse del Falò Vichingo attaccarono a pompare la musica dal cellulare di Mathias. Suonarono Pohjola, degli Ensiferum, che cozzò come un pugno sopra la musica dell’altro falò, frantumandone la melodia.

Seduto sugli scogli affacciati alle onde nere, con i piedi nudi a ciondoloni nell’acqua e il piattino della cena fra le gambe, Feliks si tappò le orecchie e si girò a lanciare un’occhiata bruciante da sopra la spalla di Toris che gli sedeva affianco.  «Che cavolo di diavolo state mettendo?» strillò. «Mi spaccate i timpani!»

Mathias gli sventolò il pugno contro e rispose con tono ancora più alto. «E siete fortunati che non vi mettiamo tutta la colonna sonora di Skyrim!»

Tino saltò attorno alle fiamme del loro fuoco, e le sfumature rossicce resero il suo volto ancora più acceso di gioia. «Falò Vichingo! Falò Vichingo! Inchinatevi davanti alla nostra – ooh, arrivano le stelle filanti!» Corse da Emil e Leon che stavano passando da un gruppo all’altro reggendo le scatole di bastoncini incandescenti. Tino sorrise a entrambi e mostrò otto dita. «Ne prendo otto, grazie.»

Emil lo squadrò con espressione scettica. Inarcò un sopracciglio, e il tatuaggio d’henné dipinto sulla sua guancia – una riproduzione del talismano Vegvisir – s’infossò fra le ombre rosse e arancio gettate dall’oscillazione delle fiamme. «Hai almeno un accendino?»

Tino raccolse i bastoncini dalle mani di Leon e li infilò fra gli spazi delle falangi, imitando gli artigli di Wolverine. I suoi occhi splendettero d’entusiasmo. «Le accendo con il sacro Fuoco Vichingo!»

Emil e Leon incrociarono un’occhiata perplessa e passarono anche agli altri. Emil indicò il loro falò con un cenno del capo. «Secondo te quanto tempo resisteranno prima che li caccino dalla spiaggia?»

«Mezz’ora.» Leon si strinse nelle spalle. «Il tempo di dar fuoco anche al bagnasciuga e agli scogli.»

«Puoi dirlo.»

Passarono al gruppo di Ludwig e scossero le scatole di stelle filanti per farsi notare in mezzo alla confusione. «Volete stelle filanti?»

Feliciano adagiò l’hamburger appena cotto nel piatto di Francis e anche il suo viso s’illuminò come quello di Tino. «Ooh, stelle filanti!» Abbandonò la postazione delle piastre di cottura, saltò davanti ai due ragazzi, e sollevò tre dita. «Ne prendo una per me, una per Ludwig, e – ooh, che bei tatuaggi che avete! Li avete fatti con l’inchiostro di china? Ne voglio uno anch’io!»

Emil arrossì, allontanò lo sguardo, e si massaggiò la guancia senza toccare però il talismano islandese. «No, con l’henné.» Ne aveva anche sugli avambracci superiori. Un ricamo di rune nordiche che proseguiva anche sotto le maniche della maglietta.

Anche Arthur li raggiunse, pescò un paio di stelle filanti dalle scatoline di cartone, e si soffermò sui tatuaggi di Leon. Lui si era disegnato un’intricata rete di mandala su entrambe le braccia, dalle spalle ai polsi, con decori floreali e spirali annodate fra cerchi e puntini di diversa grandezza. «Come vi siete combinati?» Corrugò un sopracciglio e lo guardò in volto. Sulla guancia sinistra spiccava una grande bauhinia a cinque petali, la stessa ritratta anche sulla bandiera di Hong Kong. «Avete eseguito rituali alchemici sulla pelle? Che demone cercavate di evocare?»

Feliciano prese i suoi tre bastoncini dalla scatola di Emil. «Io li trovo bellissimi.»

Leon annuì. «Grazie. Li ho disegnati io. A mano libera.»

Arthur rise, «Yao come l’ha presa quando ti ha visto conciato in quel modo?», già immaginandosi la risposta.

Leon alzò lo sguardo al cielo notturno. «Lascia perdere. Ha evitato di fare scenate solo perché siamo in vacanza.»

Emil gli raccolse il braccio e lo condusse lontano dagli altri, a distribuire le stelle filanti anche al resto dei ragazzi che occupavano la spiaggia.

Leon buttò un ultimo sguardo ad Arthur e a Feliciano. «Dopo il nostro gruppo spara i fuochi d’artificio. Non andate via prima di averli visti.»

Feliciano impennò i pollici e compì un saltello sul posto. «Contaci!»

Altra musica, altre risate, altra legna gettata nei falò scoppiettanti e sempre più alti, altre bibite frizzanti rovesciate nei bicchieri di carta, altra carne e altro pane messi a cuocere sulle piastre sfrigolanti, e i primi spruzzi bianchi provenienti dai bastoncini di stelle filanti si accesero fra le mani dei ragazzi, gettando luce su quella notte senza fine.

Gilbert sgusciò in mezzo ai fianchi dei ragazzi che affollavano il loro falò, si portò davanti al tavolo dei dolci, e indugiò fra la scodella degli M&M’s, quella con gli orsetti gommosi, il vassoio dei biscotti integrali e dei marsh-mallows da fondere assieme alle barrette di cioccolata che non avevano ancora scartato. Tuffò il suo bicchiere vuoto nella ciotola di M&M’s e fece lo stesso in quella degli orsetti colorati. Gettò il capo all’indietro e tracannò una sorsata di cioccolatini mescolati a caramelle gommose alla frutta che masticò con avidità.

Ludwig gli si accostò, prese della cioccolata per Feliciano, guardò Gilbert di traverso, e diede un morso al suo panino avvolto da un fazzoletto di carta. «Stai già mangiando i dolci? Almeno prima cena con qualcosa di sostanzioso.»

Gilbert buttò giù il boccone masticato. «Sono in vacanza, non rompere. In vacanza si cena con quello che si vuole.» Pescò un orsetto rosso dal bicchiere e ne strappò la testa fra i molari. «Potrei anche cenare con le barrette di cioccolata e mangiare un hot dog per dessert, guarnendolo di panna montata e ketchup.»

Ludwig rabbrividì e scosse il capo. «Sei disgustoso.»

«Lo so e me ne vanto.»

«Oh, guardate!» esclamò Feliciano. «Il gruppo di Yao e Ivan sta distribuendo il gelato!» Si appese alle braccia di Ludwig e Kiku e li trascinò dietro alla sua corsa. «Io prendo un cono anche con la panna montata sopra!»

In mezzo alla musica, alle risa e agli scoppiettii dei falò, la voce bacchettona di Roderich riuscì comunque a raggiungerlo. «Feliciano, non ti rovinare la cena.»

Elizaveta rise e gli diede una spintarella alla spalla. «Eddai, lascia che si diverta. Siamo in vacanza, no?»

Gilbert piantò i denti sull’orlo del bicchiere di carta da cui aveva appena risucchiato un’altra sorsata di cioccolato e caramelle gommose, vi stritolò le mani sopra, e ruotò la coda dell’occhio verso le loro voci. Incrociò gli occhi di Roderich ed Elizaveta, di sfuggita, e tornò a voltarsi di scatto. Si sottrasse a una sfrecciata di dolore che riuscì comunque a conficcarsi nel petto e a rendergli la bocca amara, nonostante l’overdose di zucchero.

Guadagnò un respiro profondo, si armò di un sorrisone da “Ormai non m’importa più niente e tutto ciò che voglio è godermi la mia vita anche senza quei due”, e corse da Francis e Antonio, sventolando il braccio al cielo. «Ehiii, i miei migliori amici.» Avvolse le braccia attorno alle spalle di entrambi e schiacciò la guancia contro il viso di Francis, accostandosi al suo profumo di rosa selvatica. Ammiccò con le sopracciglia senza far cadere il ghigno dalle labbra. «I miei migliori amici che non mi abbandoneranno mai, vero? E che non si metteranno mai a fare le porcate fra di loro pugnalando il sottoscritto alle spalle, vero?»

Francis fece roteare lo sguardo e raccolse una Cheetos dal suo bicchiere colmo di patatine e di Doritos. «Sei già ubriaco, Gilbert?»

«Sì, di saccarosio.» Gilbert agitò quel che rimaneva nel suo bicchiere, finì di tracannare il resto dei dolcetti, raccolse una manciata di marsh-mallows che si era tuffato nelle tasche dei pantaloncini, e trangugiò tutto gonfiandosi le guance fino a scoppiare. «Ne appvofitto fintanto che possho ancova mangiave quello che voglio quando voglio.» Ingollò il boccone e si strofinò le labbra.

Gli occhi di Antonio si colmarono di una tristezza improvvisa, compresero tutte le conseguenze che si celavano dietro quelle parole. «Oh, Gilbert» sospirò. «Vedrai che...»

Lovino gli scivolò affianco, furtivo. Si alzò sulle punte dei piedi e si nascose le labbra dietro la mano per sussurrargli all’orecchio. I suoi occhi scuri brillarono di malizia.

Il viso di Antonio avvampò come se gli avessero dato fuoco alle guance. Lui sgranò gli occhi, contrasse le dita attorno al suo bicchiere di carta, e si forzò di non rendere ovvio il sorrisetto tremolante comparso fra le labbra. «Ehm, ragazzi, io...» Si lasciò trascinare via dal braccio che Lovino aveva incatenato al suo gomito, rimbalzò su un piede solo per mantenere l’equilibrio, e indicò il confine della spiaggia, dove erano disposte le cabine di legno. «Io vi lascio un attimo. Io e Lovino dobbiamo andare a... a controllare di aver chiuso le porte delle camere e...» Compì un altro rimbalzo rischiando di inciampare nella sabbia. «E magari andiamo a prendere qualcos’altro da bere dato che stanno...» Fissò il suo bicchiere mezzo pieno e rovesciò la cola-aranciata sulla spiaggia. «Stanno finendo le bibite, sapete, e...» Lovino intrecciò la mano alla sua, lo guidò lontano dalle luci dei falò, e Antonio aprì un palmo attorno alla bocca per elevare la voce al di sopra della musica. «E potremmo metterci un po’, quindi voi fate senza di noi!» Corsero via e svanirono nella notte.

Gilbert stritolò la mano attorno al bicchiere di carta vuoto che gli era rimasto fra le dita. Bruciò di rabbia e risentimento. Le fiamme arse nei suoi occhi divorarono le immagini indesiderate che gli si erano proiettate in testa. «Ingrati traditori» gorgogliò. «Spero rimaniate incastrati.» Tornò al tavolo dei dolci assieme a Francis. Pescò due Graham Crackers dal vassoio e ci ficcò in mezzo un pezzetto di cioccolata e due marsh-mallows. Strappò avidi bocconi croccanti e tornò a guardarsi attorno, a scavare fra le sagome dei ragazzi che si spostavano come ombre attorno alle luci dei fuochi.

La sua coda dell’occhio intercettò nuovamente le sagome di Roderich ed Elizaveta. Elizaveta mormorò qualcosa all’orecchio di Roderich, incrociò lo sguardo di Gilbert, e si voltò, evitandolo di nuovo.

Gilbert non badò all’ennesimo conato di amarezza rigettato dalle viscere, nonostante tutti i dolci di cui si stava imbottendo. Finì il suo S’More, leccò le briciole dalle dita, e diede una gomitata a Francis. «Tu almeno non mi abbandoni, no?»

Francis sospirò e si spostò una ciocca di capelli dal viso, pettinandola dietro l’orecchia. «Gilbert, sai che...»

«Francis!» La voce di Arthur lo chiamò dalla postazione delle griglie. «Alfred si è scottato con la griglia degli hot dog, vieni ad aiutarmi a mettergli un po’ di ghiaccio!»

«Non è colpa mia!» protestò Alfred. «È colpa di Ludwig che ha lasciato le pinze vicino alla piastra e non mi ero accorto che erano bollenti.»

«C’era la presina!»

Francis scosse il capo, passò il suo bicchiere di Cheetos a Gilbert, «Reggimi questo», e si diresse in soccorso di Arthur.

«Ma che...» Gilbert diede una scossa alle patatine che gli aveva mollato fra le mani, tornò a ribollire di frustrazione, e gli sventolò un pugno contro. «Bel sostegno, eh!»

Francis levò i palmi al cielo senza però voltarsi. «I grandi devono fare il loro dovere.»

Gilbert sbuffò. Risucchiò le patatine dal bicchiere che Francis gli aveva lasciato, pescò una manciata di M&M’s, si versò della Pepsi, e si annaffiò la bocca con una lunga sorsata. «Maledetti.» Preparò un altro S’More. «Neanche un minimo di sensibilità verso di me che...» Lo divorò in due azzannate. «Che sto trascorrendo le ultime settimane di libertà. Quando mi daranno la licenza non verrò...» Pescò dalla scodella di Cheetos, si riempì la bocca, e prese anche un’altra manciata di orsetti gommosi. «Non verrò a trovarli nemmeno una volta. Li farò pentire di non...» Finì la Pepsi e si picchiò il pugno sul petto per non ingozzarsi. «Di non avermi tenuto stretto quando ne avevano l’occasione. Oh, ci puoi scommettere che qui si sentirà la mancanza di Gilbert Beilschmidt.» Bevve ancora a sorsate più lente e riprese fiato. «Non hanno nemmeno idea di come si sentiranno persi senza di me, piccoli ingrati traditori dei miei stivali.»

Intanto attorno a lui la musica proseguiva, le canzoni si susseguivano una dopo l’altra, come le onde che si sovrapponevano sulla costa, senza che nessuno prestasse loro particolare attenzione.

Qualche idiota del loro gruppo prese comando delle casse e mise Kamikaze, dei Night Argent. Gilbert incassò un pesante tuffo al cuore che gli strinse lo stomaco e gli fece bruciare gli occhi. Quella melodia così straziante, quelle parole così profonde e ironicamente pertinenti con il suo stato d’animo, gli trafissero l’anima come l’affondo di una spada, facendolo sentire ancora peggio.

Gilbert rilassò le dita tremanti attorno al bicchiere di carta, lasciò ciondolare il capo fra le spalle schiacciate dal peso della canzone piovuta su di lui come il freddo scroscio di un diluvio, e sospirò a occhi chiusi. Eppure le mie ultime settimane da uomo libero me le ero immaginate diversamente.

«Gilbert.»

Gilbert raggelò, fulminato da quella voce che gli aveva trafitto il cranio e scaricato una scossa lungo la spina dorsale.

Si girò di scatto. Una manciata di patatine e di orsetti ancora schiacciata fra le dita.

Roderich ed Elizaveta lo fissavano con espressioni serie ma non ostili, toccati di traverso dalla luce dei falò che brillava sui loro volti impassibili.

Roderich si mise a braccia conserte e ripeté: «Gilbert.» Il tono di chi non ammetteva repliche o proteste. «Io ed Elizaveta dovremmo parlarti.»

La guancia di Gilbert pulsò di dolore, memore dello schiaffo e del pugno che aveva incassato solo il giorno prima. Gilbert allontanò lo sguardo e si massaggiò il viso su cui era rimasto un lieve segno rosso stampato delle manate di entrambi. «Vi siete già espressi abbastanza chiaramente.»

Anche Elizaveta indurì lo sguardo e si mise a braccia conserte. Quella sera teneva i capelli sciolti ma sempre pinzati dal fermaglio a forma di fiore sulla tempia. Indossava un paio di shorts di jeans strappati agli orli che mettevano in risalto i muscoli tonici delle gambe, assieme a un’ampia maglietta bianca tenuta ferma da un nodo alla vita con su scritto “Sometimes the king is a woman”. Le si vedeva l’ombelico. «Dobbiamo parlare civilmente di quello che è successo ieri pomeriggio. Per chiarirci una volta per tutte.»

Gilbert si sforzò di ridere. «Perché?» sbuffò. «Pensate che me la sia presa? Pensate che io abbia bisogno di altre giustificazioni?» Divorò i dolci avanzati fra le dita, sventolò la mano con fare indifferente e si versò un altro bicchiere di Pepsi. «Guardate che potete fare quel che volete, non m’interessa un accidenti se vi siete messi assieme.»

«Bene» rispose Roderich. Fece un cenno a Elizaveta e lei rispose annuendo. Tutti e due raccolsero un braccio di Gilbert e lo trascinarono lontano dal tavolo dei dolci, lontano dal falò e lontano dal gruppo di ragazzi. «Allora suppongo che non ti dispiacerà dedicarci due minuti del tuo preziosissimo tempo per poterci spiegare come si deve.»

«Ehi, ehi» protestò Gilbert. «Mettetemi giù, non...» Gettò lo sguardo all’indietro, verso le luci dei fuochi che si stavano lasciando alle spalle assieme alla musica e ai tiepidi fumi della cena cotta alla piastra, diede due frenate affondando i piedi nella sabbia, ma la presa di Elizaveta strinse e lo costrinse a proseguire. Non poté fare altro che lasciarsi trascinare incontro al suo destino.

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Capitolo 4
*** Quattro di picche ***


. Quattro di picche

 

 

Roderich ed Elizaveta posarono il peso di Gilbert di nuovo con i piedi sulla sabbia, sganciarono le braccia dai suoi gomiti, e si misero in ginocchio sulla spiaggia asciutta ma fredda, distanti dal calore ardente dei falò che brillavano dietro le sagome degli ombrelloni chiusi.

Roderich si diede un’aggiustata agli occhiali e tenne premuto su Gilbert lo stesso sguardo duro e intransigente che gli aveva rivolto prima di trascinarlo via dal gruppetto di ragazzi. «Siediti, Gilbert.»

Gilbert sbuffò tenendo il mento alto, si massaggiò il braccio che Elizaveta aveva stretto con più forza per non lasciarselo sfuggire, e guardò a malincuore la festa che intanto proseguiva senza di loro attorno alle luci dei falò e alle fumate della grigliata.

La musica continuava a pompare degli impianti stereo, ma suonava più ovattata da quella distanza. Le casse di Mathias stavano sparando Metal Legacy, degli Stormwarrior, mentre quelle del loro falò erano state conquistate dal monopolio di Alfred che aveva attaccato Shots, di LMFAO. La musica così forte stava richiamando anche gli altri ragazzi, allungando le loro ombre attorno ai falò sempre più alti e sempre più incandescenti.

Yong Soo passò da un fuoco all’altro, distribuendo vassoi su cui traballavano bicchierini ripieni di vodka colorata che il loro gruppo aveva tirato fuori assieme alle vaschette di gelato, e la sua vociaccia sgraziata si elevò al di sopra dello schiamazzare confuso di risa. «If you ain’t getting drunk get the fuck out the club, if you ain’t takin’ shots get the fuck out the club, if you ain’t come to party get the fuck out the club!»

«E chiudi quella merda di bocca!»

«Now where my alcoholics let me see ya hands up!»

Gilbert alzò gli occhi al cielo, desiderando solo farla finita una volta per tutte con quella storia, e cedette. Si lasciò cadere seduto sulla sabbia morbida e fredda, si mise a gambe incrociate e annodò le braccia al petto, innalzando attorno a sé un gelido scudo di difensiva.

Roderich accostò un pugno alle labbra e si schiarì la voce. «Elizaveta mi ha detto che hai saputo» annunciò. «Che hai saputo di noi due.»

Gilbert corrugò la fronte. «Già.» Tamburellò le dita sulle braccia incrociate. «Pensa un po’.»

Un grido più tonante si elevò dalla musica dei falò. «... shots, shots, shots! Everybooodyyy

«Abbassate quel cazzo di volume!»

«Altri shots quaggiù! Facciamo ubriacare Tino!»

«Fatemi ubriacare, sììì! Voglio vedere quanto resisto!»

«Qualcuno gli tolga dalle mani quello Jägermeister!»

«Ma chi è l’idiota che si è portato lo Jägermeister?»

Roderich scosse il capo, contenne un mezzo broncio d’irritazione, e ignorò gli schiamazzi ovattati dalla distanza e dallo scroscio delle onde che si infrangevano sul bagnasciuga alle loro spalle. Scivolò più vicino a Elizaveta. «Gilbert, alla luce di tutto quel disastro che è capitato ieri, io ed Elizaveta riteniamo sia giusto...» Inspirò a lungo e abbassò le palpebre. Forzò quell’espressione scura, tremante e sofferente che gli stropicciava il viso ogni volta in cui era costretto ad ammettere le sue colpe, ogni volta in cui l’aspro sapore del rimorso toccava quella sua santa boccuccia dorata. «Riteniamo che sia giusto porti le nostre scuse.»

Gilbert sgranò le palpebre, e le sue labbra caddero schiuse in un singhiozzo di stupore. «Eh?» La tensione sul suo viso si ammorbidì, le dita si rilassarono ed estrassero le unghie dalla pelle, lasciandoci sopra rossi segni a forma di mezzaluna. «Cosa?» balbettò. «Scuse?»

Elizaveta annuì. Gli occhi bassi e la stessa scura espressione di frustrazione che mascherava anche il viso di Roderich. «E non fraintendere. Non ti chiederemo scusa per esserci messi assieme. Quello che è successo fra me e Roderich non cambierà e noi non torneremo indietro. Però...» Allontanò lo sguardo, quella faccia colpevole, e prese a giochicchiare con la collanina a forma di lecca-lecca che ricadeva sulla maglia annodata in vita. «Riconosciamo entrambi che è stato scorretto da parte nostra escluderti in quella maniera, dopo...» I suoi occhi si velarono di una certa nostalgia che li rese più lucidi e distanti, affacciati ai ricordi passati. Sospirò, arrendevole. «Dopo tutto quello che c’è sempre stato fra noi tre.»

«Ovviamente» la assecondò Roderich. «Avremmo avuto l’intenzione di dirtelo fin dall’inizio di questa estate, ma non si è mai presentata l’occasione...» Si strinse nelle spalle ed esitò, in cerca delle parole. «L’occasione adatta. Così abbiamo pensato che sarebbe stato meglio per tutti confessartelo quando tu saresti partito.»

Gilbert tornò ad aggrottare la fronte. Il peso di quelle parole fu di nuovo improvviso e doloroso come l’impronta dello schiaffo e del pugno che ancora gli pulsava sulla guancia. «Così non avrei potuto far niente per impedirvelo, eh? Non avrei più avuto voce in capitolo, dato che ormai mi sarei trovato fuori dalle scatole. Solo...» Strinse di nuovo le mani sugli avambracci incrociati, e un violento tremore gli risalì la schiena. «Solo perché me ne andrò in accademia allora pensate che le cose fra noi tre dovranno per forza cambiare in questa maniera?»

«Ma le cose cambieranno, Gilbert» rispose Elizaveta. «È inevitabile. Questa...» Ingarbugliò le dita attorno alla sottile catenina che reggeva il ciondolo a forma di lecca-lecca e vi grattò l’unghia sopra, dove si erano aggrovigliati i primi nodi. Nodi stretti e complicati come quella situazione nella quale tutti e tre si erano ritrovati incastrati. «Questa relazione fra noi tre non poteva durare in eterno, e lo abbiamo sempre saputo.»

«Balle» sbottò Gilbert. «Fra noi tre è sempre andata in questa maniera e ha sempre funzionato alla grande. Fin da quando eravamo all’asilo, noi...»

«Infatti» ribatté Roderich, con tono più fermo e più freddo rispetto a quello di Elizaveta. «Non siamo più all’asilo, Gilbert. Io ed Elizaveta abbiamo deciso di crescere e da ora in avanti ci comporteremo da adulti, ci assumeremo le nostre responsabilità e prenderemo seriamente le relazioni nelle quali saremo coinvolti. Qualsiasi tipo di relazione. Ed è proprio perché vogliamo prenderci fin da subito le nostre responsabilità che...» Irrigidì le braccia conserte e allontanò anche lui lo sguardo. La luce dei falò si specchiò sulle sue lenti, nascondendogli lo sguardo vacillante. Il rossore delle fiamme gli invase le guance, le fece diventare paonazze. «Che abbiamo deciso di porre rimedio al nostro errore. E per scontare questo...» Fece tamburellare le dita e strinse i denti sul sottile labbro inferiore. «Questo debito nei tuoi confronti, abbiamo deciso di...» Abbassò le palpebre, sollevò il mento e inspirò a fondo. Lo disse d’un fiato, prima di pentirsene. «Di concederti un bacio a testa. Uno solo, sia chiaro.»

Gilbert sbarrò gli occhi e le sue pupille si dilatarono come davanti a un’allucinazione. I suoni della spiaggia – le pulsazioni dei bassi provenienti dall’impianto stereo, le risate dei ragazzi, lo scroscio delle onde, lo scoppiettare dei falò – si congelarono, facendo cadere attorno a loro un silenzio disarmante. Una scossa di calore gli sfrecciò attraverso il petto e sciolse la barriera di ghiaccio che lui aveva innalzato per non ricevere altre pugnalate morali. «Eh?» Scosse il capo, si strofinò l’orecchio per timore di averci sentito male. «C-cosa? Voi volete...» Guardò le loro facce, entrambe rosse, entrambe distanti. Gli occhi di Roderich vacillavano dietro le lenti, le sue dita tamburellavano sugli avambracci incrociati. Le mani di Elizaveta continuavano a giocherellare con la catenina della collana, e anche lei aveva preso a rosicchiarsi il labbro inferiore senza riuscire ad alzare gli occhi da terra. Gilbert inspirò, colto da un tuffo allo stomaco. Si rese conto che non stavano scherzando. «Dite sul serio?»

Roderich ed Elizaveta si guardarono. Nessuno di loro infranse il muto silenzio di consenso.

Elizaveta lasciò in pace la collanina e annodò anche lei le braccia al petto. Aggrottò le sopracciglia per nascondere il rossore divampato attraverso le guance già lievemente abbronzate. «Solo per farci perdonare, sia chiaro. E solo per questa volta, quindi non farti venire in mente strane idee perché non ricapiterà più una cosa del genere, e se credi di...» Le sue parole sfumarono, perdendosi in uno sfocato rumore bianco simile al suono scrosciante delle onde sulla spiaggia. La mente di Gilbert partì per l’iperspazio e non riuscì più ad afferrarne il senso.

Un bacio a testa. Un bacio da entrambi. Un bacio vero. Due baci veri!

Il cielo notturno si tinse di un rosa acceso, si gremì di nuvolette di zucchero filato che lo sollevarono, dissolvendo la sensazione della sabbia sotto le sue gambe, fino a fargli toccare la luna con un dito. Un coro angelico intonò un inno che risuonò attraverso la sua testa ormai schizzata altrove, in un logo paradisiaco dove paffuti cherubini soffiavano note dorate attraverso trombe e flauti incantati, dove fatine battevano le ali in mezzo ai prati e spargevano petali di rosa su quell’aria che profumava di polline, di dolci appena sfornati, e delle mele candite che crescevano fra i rami degli alberi. Marsh-mallows bianchi, confettini colorati e bastoncini di zucchero a spirali sbocciarono in mezzo al prato fiorito dove coppie di orsetti gommosi passeggiavano tenendosi zampa nella zampa, saltando attraverso i fiumiciattoli di cioccolata calda dove pony arcobaleno si fermavano ad abbeverarsi assieme a unicorni color panna e a coniglietti batuffolosi che...

«Gilbert?» La voce di Roderich fece precipitare Gilbert dal Paradiso e lo tornò a catapultare col sedere sulla spiaggia. Roderich diede un colpetto alla montatura degli occhiali e lo guardò di sbieco. Le guance ancora sfumate di rosso. «Sei d’accordo o no?»

Gilbert mosse le labbra secche e solo allora si rese conto di essere rimasto con la bocca aperta come un beota. Ritrovò la lingua e compì un piccolo balzo, rianimato da una scossa di entusiasmo. «Sì! C-cioè...» Voltò una guancia, si diede una spolverata alla spalla, allentò il colletto della maglietta, e sollevò un ghigno da coglione per nascondere l’eccitazione che gli fremeva fra le labbra e in fondo allo stomaco. «Ovvio che vi concederò il privilegio di baciare uno come me, se ci tenete tanto.» Mostrò i palmi. «Ma non mettetevi a pregarmi in ginocchio, eh, sarebbe umiliante. E lo dico per voi.»

Roderich ed Elizaveta si guardarono di sbieco e sollevarono le sopracciglia. Elizaveta scosse il capo, Roderich sospirò e si massaggiò le tempie. Riuscivano ancora a stupirsi di lui nonostante tutti quegli anni trascorsi a crescere assieme.

Roderich tossicchiò e si passò una mano fra i capelli. «Dunque...» Buttò un’occhiata furtiva verso le luci dei falò. Gli altri erano impegnati a ridere, a litigare per il monopolio degli impianti stereo, a lottare per le ultime forchettate dei piatti preparati da Yao e Katyusha, a schizzarsi addosso le bibite gassate, ad accendere i bastoncini di stelle filanti, e a badare a Tino ubriaco che si era messo a ballare attorno alle luci dei fuochi sventolando il suo bicchiere di Jägermeister che Mathias continuava a riempire nonostante le occhiatacce fulminanti di Berwald. Alcuni di loro si erano tuffati in mare e sguazzavano dove si toccava, lasciandosi bagnare dai riflessi d’argento della luna che rischiariva le creste d’onda alte fino alle ginocchia. Nessuno badava a loro tre e Roderich provò un soffio di sollievo. Si rivolse a Elizaveta. «Preferisci fare per prima o...» Strizzò le dita nella sabbia e anche dentro di lui crebbe un formicolio di timore e impazienza che gli infiammò il petto.

Elizaveta estrasse una monetina dalla tasca degli shorts e gliela mostrò. «Io testa.»

Roderich annuì. «Croce.»

Elizaveta le fece compiere un salto – la monetina roteò più volte su se stessa –, la acchiappò al volo e schiuse il pugno sotto il riverbero di raggi di luna. Uscì testa.

Elizaveta sospirò a fondo. «D’accordo.» Scivolò con le ginocchia davanti a Gilbert e lo guardò dritto negli occhi. Un’espressione di monito ma anche più morbida rispetto a quelle con cui lo rimproverava di solito. «Solo uno, però, chiaro?»

Gilbert strizzò i pugni fino a sentire i palmi andare a fuoco sotto la pressione delle unghie. Deglutì per ricacciare in fondo allo stomaco il groppo di fiato che gli soffocava la gola, e la pancia gli si riempì di un nervoso e irrequieto sciame di farfalle. Gli occhi verdi di Elizaveta lo catturarono come magneti. Gilbert vi si sentì annegare. «Come vuoi.»

Elizaveta annuì e gli posò le mani sulle spalle. Strinse la presa e increspò le punte delle sopracciglia come faceva sempre quando si concentrava prima di una partita a Battlefield o a Doom. Gilbert le avvolse i fianchi sfiorando la pelle nuda, scoperta dalla maglietta troppo larga che lei aveva annodato in vita, e strinse le labbra formicolanti per sopprimere il desiderio di scoppiare a ridere davanti a quella situazione tanto ridicola quanto eccitante. Il busto di Elizaveta fremette sotto il suo tocco. Il suo respiro lo raggiunse assieme all’aroma del lucidalabbra alla cola che le brillava sulla bocca, al profumo della crema solare e a quello della salsedine di cui erano impregnati i capelli che le cadevano dietro le spalle.

Gilbert le scostò una ciocca ribelle dalla fronte, gliela pettinò dietro l’orecchio, sotto il fermaglio a forma di fiore, e tenne la mano accostata al suo viso scottante. Le labbra di Elizaveta fremettero e scintillarono sotto le luci dei falò che battevano sul suo profilo, invitanti proprio come un lecca-lecca tutto da succhiare.

Nella penombra, voltato di profilo e ancora a braccia conserte, Roderich fece scivolare lo sguardo su di loro e sollevò un sopracciglio.

Gilbert si accorse della sbirciata e si sporse affianco alla spalla di Elizaveta. «Ti dispiace evitare di fissarci? Stiamo cercando di essere intimi, qui.» Ammiccò e lo abbagliò con il suo sorrisone da scemo. «Tanto dopo tocca anche a te.»

Roderich tornò ad arrossire fino alle punte delle orecchie e gli diede la schiena, farfugliando qualcosa che si mescolò allo scroscio delle onde sovrapposte sul bagnasciuga.

Elizaveta rivolse a Gilbert un broncio scocciato e strizzò le mani sulle sue spalle. «Ti muovi?» gli fece. «Non abbiamo tutta la serata, e io vorrei anche tornare a mangiare prima che finiscano i gelati che hanno portato Yao e Ivan, e...»

«Non mi deconcentrare!» Gilbert inspirò, espirò, impastò la bocca per inumidirsi le labbra diventate asciutte per l’agitazione, e il formicolio al petto scese fino allo stomaco, aumentando lo sfarfallare fra le pareti della pancia. Le mani avvolte ai fianchi di Elizaveta tremarono e presero a sudare come la sua fronte. «Okay.» Annuì a se stesso. «Okay, ci sono.»

Elizaveta gli scoccò un’ultima occhiata spazientita, distese i tratti del volto, e abbassò le palpebre. Accostò il viso al suo, sfiorandogli la punta del naso, e attese.

Gilbert fece scivolare le mani lungo le sue braccia nude, chiuse a sua volta gli occhi, e si chinò prima di ripensarci, prima che il formicolio che gli bruciava nel sangue gli inviasse l’impulso di scappar via.

Posò le labbra su quelle umide e morbide di Elizaveta, spalmate di quel lucidalabbra così dolce e sciropposo da dar l’impressione di affondare davvero la bocca in un lecca-lecca alla cola. Elizaveta schiuse la bocca, fece scivolare la lingua sulla sua, e assaporò quel bacio che li trasportò altrove, racchiudendoli in una spirale che li isolò dal tambureggiare della musica, dalla sensazione fredda della sabbia sotto le ginocchia, e dal profumo di grigliata e di legna bruciata.

Gilbert rilassò la tensione dei muscoli, si lasciò trascinare via da quella sensazione di dolcezza fra le labbra, e soffiò un lieve respiro dal naso. Volò via assieme a lei.

Quel bacio serbò il sapore fresco, vivo e selvaggio di una cavalcata attraverso terre appena conquistate da ferro e fuoco.

Il vento di quella fantasia turbinò attorno a loro in una spirale che li risucchiò altrove, in mezzo a una landa verde e sconfinata come gli occhi di Elizaveta, sormontata da un tramonto rosso sangue e da nuvole grigie come i fumi sorti dal campo di battaglia sul quale avevano appena combattuto guidati da una forte scossa di adrenalina, dal bruciore del sangue e dai forti battiti dei loro cuori galoppanti. Gilbert lo vide. Spirali di vento attraversarono i capelli di Elizaveta che gli cavalcava affianco, scossero le ciocche castane, e lasciarono che i raggi di sole rosso battessero sulle sue guance rosee, che le illuminassero il viso animato da un sorriso combattivo. La sottile armatura che le fasciava il petto scintillò come una guaina di diamanti, la spada foderata le batté sul fianco, e i finimenti trillarono a ogni falcata di galoppo.

Quel bacio profumava di terra ribaltata, di erba umida, di ferro carbonizzato, e di vento infuocato. Lo stesso vento infuocato che lo aveva travolto quando le sue labbra si erano posate su quelle di Elizaveta.

L’ebbrezza risalì, spalancò una seconda visione. Gilbert ed Elizaveta fermi in cima alla collina verdeggiante e tinta dai raggi del tramonto che si spalancava su altre pianure da conquistare, su altri boschi da esplorare, e su altri fiumi da attraversare. Le loro mani giunte, le dita intrecciate e incrostate di terra, e i visi sporchi di nerofumo rivolti alle lame di luce rossa che tagliavano quel paesaggio biblico che non aspettava altro di essere solcato dai loro passi e dalla loro galoppata.

Gilbert prese Elizaveta fra le braccia, le strinse i fianchi fasciati dalla cotta di maglia, e le passò le dita fra i capelli che le cadevano sul viso arrossato dal tramonto. La sua voce suonò intensa e profonda. «Conquisterò mille altre lande per te. Giustizierò ogni nemico che si metterà sulla nostra strada, taglierò mille teste, attraverserò mari e monti se si tratterà di cavalcarti affianco.» Percorse il profilo del suo viso, le fece sollevare il mento, e fece correre il pollice sul suo labbro inferiore, accostando la fronte alla sua. «Ti bacerò con labbra sempre sporche del sangue dei miei nemici.»

Lei gli sorrise, arricciò la punta del naso sulla sua, e lo assecondò con una delle sue scaltre occhiate da volpe. «E con mani lerce della terra strappata ai pagani e spremuta sotto i tuoi nobili passi.»

«Dio, quanto sei sexy.» Gilbert la baciò di nuovo, inspirò a fondo l’odore di fumo, di terra bruciata, e della battaglia appena consumata. Le labbra di Elizaveta erano bollenti, sapevano di sangue, e quel sapore caldo e ferroso gli salì alla testa, gli piacque da impazzire.

Gli occhi di Elizaveta tornarono a risucchiarlo nel loro incantesimo. Lei batté le ciglia, affilò quel sorriso attraversato da un rovente brivido d’eccitazione. «Sir Gilbert il Magnifico.»

Il suono del suo nome evocato con quel tono di adorazione gli infiammò l’animo. Gilbert tornò ad avvolgerle le spalle, le aprì una mano sul viso per attirarla a sé e la baciò di nuovo, facendo cozzare le armature una sull’altra. La baciò così a fondo da strapparle il fiato dal petto.

Elizaveta schiuse le labbra e separò il bacio. Trasse un respiro profondo, batté le ciglia sulle palpebre di Gilbert ancora chiuse, e annaspò. «O-okay.» Chinò la fronte, lasciando che i capelli le ricadessero sulle guance, e si passò la punta della lingua fra le labbra. Tenne gli occhi bassi e si diede una strofinata al viso rosso come se il fuoco dei falò le fosse bruciato sulla pelle, come se avesse avuto le guance ancora sporche e viscide del sangue dei nemici sgozzati. «Contento, ora?»

Gilbert sbatacchiò gli occhi, dissolse le scintille incantate che gli erano turbinate attorno durante l’incanto di quel bacio, e si ritrovò di nuovo con le ginocchia sulla sabbia, con lo sguardo rivolto alla luna specchiata sul mare – un disco bianco e perfetto –, sommerso dal profumo umido e salato della schiuma delle onde. Sopra di lui, il cielo notturno era un enorme e sconfinato manto nero trapuntato da sciami di stelle. «Uhm.» Scosse il capo, ancora stordito, e si passò una mano fra i capelli. Si stupì di trovarli puliti anziché impolverati di terra e umidi di sudore. «Sì? Credo.»

Elizaveta raccolse i capelli con un’ampia manata e se li scostò dal viso, intrecciò qualche ciocca fra le dita e ne rigirò le punte fra le falangi, lanciando a Gilbert un ultimo sguardo con gli stessi brillanti occhi verdi che lo avevano stregato nella sua fantasia. Si voltò e fece spazio a Roderich. «Tocca a Roderich.»

Roderich le scivolò vicino, si mise sulle ginocchia davanti a Gilbert, si diede un’aggiustata alla maglietta – tanto per prendere tempo – tornò a stringere i pugni sulle cosce, e lo guardò dritto negli occhi. Anche il suo sguardo vacillò, la linea delle labbra fremette, e un tremore più caldo e penetrante risalì la spina dorsale, pizzicandogli il collo.

Gilbert mosse la bocca, già pregustandosi la sensazione del bacio che si sarebbero scambiati, e il sapore del lucidalabbra di Elizaveta gli tornò a scivolare sulla lingua, facendolo sobbalzare. «Ah, aspetta, aspetta.» Mise le mani avanti per bloccarlo. «Ho ancora addosso il sapore di Liz!»

Roderich avvampò d’imbarazzo e trattenne le mani brucianti per resistere all’impulso di mollargli un altro schiaffo. «Gilbert, sei un indecente!»

«Che c’è?» ribatté lui. «È vero! E poi non sarebbe corretto, no? Baciarmi quando ho ancora addosso la sua saliva.»

Elizaveta si tappò le orecchie e cacciò uno strillo. «Che schifo, Gilbert!»

Roderich sospirò e scosse il capo. Tornò a mascherarsi il volto con la sua dura e inflessibile espressione d’intolleranza. «Tu sì che sai come uccidere l’atmosfera, non è vero?»

«Uhm» rimuginò ancora Gilbert. «Forse dovrei davvero sciacquarmi la bocca.»

«No, Gilbert. Sarebbe un gesto scortese nei confronti di Elizaveta.»

«E allora come...»

«Ascolta» esclamò Roderich, a sopracciglia aggrottate. «Baciami e basta.»

Quelle parole affondarono nel petto di Gilbert, fecero compiere una capriola al suo cuore, e strinsero un caldo e piacevole nodo di emozione alla bocca dello stomaco. Sentirglielo dire così apertamente – Baciami e basta – valse più di qualsiasi stupida scommessa siglata per salvare la faccia.

Roderich sbatté le palpebre e la realizzazione di quello che aveva appena detto piombò anche su di lui, facendolo strozzare col suo stesso respiro. «I-intendevo...» Scosse il capo più volte e si coprì con una mano per nascondere la vampata di rossore. «N-no, non è quello che volevo dire, e...» Prese fiato. «Insomma, sbrigati e concludiamo prima che io cambi idea.»

«Okay, okay» cantilenò Gilbert. «Come Sua Signoria desidera.» Gli fece scivolare le mani sulle spalle, come aveva fatto con Elizaveta, si avvicinò di un saltello con le ginocchia e gli passò una soffice carezza fra le ciocche scure, scostandogli un ciuffo dalla fronte.

Roderich corrugò le fini punte delle sopracciglia e gli cacciò via la mano con uno schiaffetto. «Mi faresti la cortesia di non spettinarmi? Te ne sarei infinitamente grato.»

Gilbert fece roteare lo sguardo –Stupida principessina – ma spostò comunque la mano attorno al suo fianco. Gli avvolse il busto e lo attirò a sé, arrivando con il viso a una piuma dal suo naso, vedendosi riflesso nelle lenti dietro le quali gli occhi di Roderich avevano preso a luccicare. Il suo profumo estatico e floreale risalì dalla curva del collo diafano, quasi trasparente, e Gilbert si trovò di nuovo travolto dal desiderio di affondarvi la faccia e di sciogliere quel sapore sotto i suoi baci.

Roderich chiuse gli occhi per primo. Gilbert abbassò le palpebre e gli andò incontro, spingendo la bocca sulla sua. Le labbra di Roderich erano più sottili di quelle di Elizaveta, ma erano anche più calde e serbavano un sapore più puro senza la barriera di lucidalabbra.

Gilbert inspirò, schiuse la bocca per primo e affondò il bacio. Un bacio dolcissimo e fresco, come un morso dato a una pesca non troppo matura. Strinse il braccio attorno a Roderich, raccolse un suo sussulto soffiato fra le labbra tremanti e completamente sciolte nelle sue, e si lasciò di nuovo travolgere dal vortice della sua fantasia.

La musica sparata dagli impianti stereo tornò a dissolversi, ma rimase l’impronta di una melodia di sottofondo che si trasformò in una soave serenata di Chopin, leggera e tiepida come il tocco di una piuma scivolata sulla pelle, rilassante come un tuffo sprofondato in un letto di cuscini.

Gilbert si ritrovò ad avanzare a passi pesanti lungo un corridoio di pareti di marmo e di vetrate colorate che spargevano una tenue tinta rosata, dando l’impressione di trovarsi all’interno di una nuvola di zucchero filato. Indossava ancora l’armatura con cui aveva cavalcato assieme a Elizaveta. I suoi passi squillarono e rimbombarono attraverso il corridoio, e l’ambiente si spalancò su un grande salone che lo accolse inondandolo con un profumo di fiori appena recisi, di lavanda, di velluto, e di tappeti d’oriente.

Gilbert s’immerse nelle sfumature rosa del marmo di cui erano composte le pareti, nell’oro delle rifiniture e delle cornici delle vetrate, e nella cascata di brillanti gettata dal lampadario di cristallo che vegliava dal soffitto del salone. Attese.

Roderich, al suono di quei passi pesanti e metallici, si girò facendo roteare attorno alle caviglie l’ampio e vaporoso abito color lavanda che ricadeva attorno ai suoi fianchi, lasciandogli le spalle nude e il busto fasciato dall’intreccio del corsetto, tutto pizzi e nastri. I suoi occhi luccicarono di stupore e il suo sguardo s’illuminò. «Siete tornato.» Le sue dita fremettero attorno al giglio che reggeva fra le mani, con i petali a fior di labbra.

Gilbert strinse un pugno sul petto e s’inchinò davanti al suo cospetto, facendo di nuovo trillare l’armatura. «La battaglia è vinta, i nemici sono sconfitti, il Regno non è più in pericolo. Vostra Maestà può tornare a dormire sonni tranquilli.»

Roderich lasciò cadere il fiore e raggiunse Gilbert facendo sventolare l’abito dalle sfumature bianche e viola. «Siete sano e salvo» rispose con voce soave tanto quanto il Notturno che suonava in sottofondo. «È solo questo che mi basta per poter dormire sogni tranquilli.»

Gilbert ghignò. «Vi avevo promesso che non sarei morto.» Gli raccolse le mani fra le sue. Mani bianche e sottili che accostò alle labbra, guardando Roderich con trasporto e adorazione. «Ed è stato proprio il pensiero di poter tornare da Voi che mi ha tenuto in vita. Nemmeno la guerra mi avrebbe impedito di infrangere la mia promessa, anche se si fosse trattato di sfidare la Morte stessa.»

Roderich si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo e gli gettò le braccia al collo, lasciandosi sorreggere per i fianchi. Si scambiarono un bacio disperato ma consolante, carico di sollievo, ed entrambi i loro cuori si sciolsero, lasciando che i battiti diventassero un tutt’uno. Le labbra di Roderich erano sottili ma dolci, sapevano di fragole, di cioccolato e di panna. Fu come dare un morso a un pasticcino e leccarsi la bocca inzuccherata.

Si separarono e gli occhi di Gilbert si lasciarono risucchiare da quelli di Roderich, violacei e carichi di desiderio. Ma mancava ancora qualcosa... «Di’ il mio nome.»

Roderich batté le palpebre e sollevò un sopracciglio. «Heisenberg?»

«Niente citazioni!»

«Siamo in una tua fantasia mentale» protestò Roderich, tornando ad aggrottare un leggero broncio. «È chiaro che la visione che hai di me rispecchia le idiozie che diresti tu.»

Gilbert gli strinse i fianchi, quella vita così snella e sottile, e ammiccò. «Allora dovresti sapere come voglio essere chiamato in situazioni simili.»

Roderich arrossì e chinò lo sguardo di colpo. «S...» Fece un respiro profondo. «Sir Gilbert il Magnifico.»

«Ci puoi giurare, baby.» Lo baciò di nuovo. Le mani corsero lungo i fianchi di Roderich, raggiunsero la sensazione più soffice e vaporosa dell’abito, e spremettero una carezza più profonda attorno alle natiche.

Roderich trasalì e sgranò le palpebre, facendo scoppiare la bolla del loro incantesimo. Staccò le labbra da quelle di Gilbert, guadagnò una boccata di fiato, di aria marina, e gli schiaffò via la mano dal suo sedere. «E-ecco» borbottò. «Hai avuto abbastanza.» Soffiò un altro piccolo broncio e si strofinò le guance scarlatte. «Ti senti sufficientemente soddisfatto?»

Anche Gilbert rinvenne con un profondo respiro, e l’aria di mare gli riempì il petto, cancellando da sotto il suo naso il profumo di fiori, di seta, e di tappezzeria pulita. Si guardò attorno, gli occhi ancora velati dalla patina del sogno, e si ritrovò davanti alla stessa scena in cui era stato catapultato anche dopo la rottura della fantasia con Elizaveta. I soliti falò, il solito odore di grigliata, la solita sabbia sotto le ginocchia, la solita musica – ora erano passati ad Hangover, la cover degli Alestorm –, e tutto il resto si era dissolto. Niente più selvagge lande sconfinate, niente più saloni di marmo e cristallo. Quella realizzazione fu uno schiaffo di sconforto. Ma Roderich ed Elizaveta erano ancora davanti a lui.

«Allora?» gli domandò Elizaveta.

Gilbert dovette stropicciarsi gli occhi per mettere a fuoco la sua immagine. «Uh?» Flesse il capo di lato, diede una piccola leccata al labbro inferiore che serbava ancora il retrogusto dei due baci. «Allora cosa?»

Elizaveta si strinse le mani attorno ai fianchi e accennò un sorrisetto, una delle sue fini espressioni volpine. «Con chi ti è piaciuto di più?» Affianco a lei, Roderich si stava ancora strofinando le guance che avevano assunto una sfumatura spaventosamente rossa.

Gilbert levò lo sguardo al cielo, al disco della luna che si specchiava fra le onde dove la sua luce si frammentava in una serie di scaglie argentate, e quello splendore tornò a catapultarlo altrove, nel luogo dove i due baci lo avevano rapito e trascinato. Gli tornarono in mente le parole che aveva confessato a Francis e ad Antonio solo il pomeriggio prima. “È strano, non so nemmeno io come buttarla, ma entrambi mi danno qualcosa che l’altro non mi dà e di cui allo stesso tempo non riesco a fare a meno.” Il bacio con Elizaveta era stato puro fuoco sulle labbra, una scossa di adrenalina che gli aveva infiammato ogni fibra del corpo, accelerando il galoppare del cuore e facendogli desiderare che non finisse più. Il bacio con Roderich era stato più fine e delicato, come sdraiarsi in un campo fiorito sotto un profumato e tiepido sole di primavera. Una sensazione ristoratrice, simile a una doccia fresca dopo una lunga sudata, o a una nuotata fra le acque limpide di un laghetto turchese, che lo aveva riempito di una dolcezza di cui nemmeno lui avrebbe mai creduto di aver bisogno. Lo aveva avvolto in una soffice e tiepida sensazione di sicurezza, gonfiandogli il cuore di una pace simile al calore di un abbraccio. Sensazioni diverse e contrastanti, ma le più belle che avesse mai provato in vita sua.

Gilbert sbuffò e volse gli occhi altrove per non rendere ovvio il luccichio che ancora gli brillava nelle iridi. «Pft, dovrei fare io a voi questa domanda.» Sventolò le mani. «Baciare voi mi ha fatto capire quanto io sia dannatamente dotato. È meglio baciarsi con me piuttosto che baciarvi fra di voi, no?»

Elizaveta e Roderich incrociarono gli occhi, compirono un piccolo sobbalzo, tornando entrambi ad arrossire, e distaccarono gli sguardi. Elizaveta riprese a rigirare una ciocca di capelli fra le dita e si rosicchiò il labbro inferiore umido di lucidalabbra e del bacio di Gilbert. Roderich accostò una nocca alla montatura degli occhiali e celò la sua espressione ancora stordita dietro l’abbaglio di luce sfrecciato attraverso le lenti. Nessuno dei due rispose.

Un fischio stridente risalì il cielo notturno, ne toccò la cima, esplose in un botto, e spalancò una fontana di luci dorate che si unì agli sciami di stelle, illuminando la spiaggia e il mare. I primi «Ooh!» accompagnarono lo scoppiettio delle scintille che si dissolvevano, lasciando solo un fiore di fumo e un forte odore di zolfo. Altri fuochi artificiali schizzarono in cielo assieme ai fischi sempre più acuti e sempre più numerosi. Spalancarono luci rosse, verdi e blu, illuminando i profili dei ragazzi che si erano radunati tutti tenendo i nasi per aria e gli occhi spalancati verso lo spettacolo. Alcuni di loro avevano ancora i bastoncini di stelle filanti stretti fra le mani assieme agli spiedini di marsh-mallows arrostiti e ai bicchieri di carta colmi di soda.

Feliciano compì un rimbalzo sotto le luci colorate e corse da Ludwig e Kiku. «Oh, cominciano, cominciano!» Si appese a entrambi e li condusse lontano dai falò, dove il chiarore delle fiamme non interferiva con i colori dei fuochi artificiali. Diede un altro morso al suo S’More e si ripulì le labbra sporche della panna che si era fatto spruzzare sul gelato che aveva già divorato. I suoi occhi luccicarono d’incanto. «Guardate quanti colori! Uhm, ma dov’è finito il fratellone? È da mezz’ora che non lo vedo in giro, e anche Antonio è sparito.»

Poco distante da loro, Tino era troppo ubriaco per prestare particolarmente attenzione allo scoppiettare dei fuochi. Strinse le braccia e le gambe allacciate al torso di Berwald, standosene avvinghiato come un piccolo orsetto lavatore, e fece dondolare i piedi canticchiando il ritornello di Viinamäen Mies fra le labbra ancora umide dell’ultimo Jägermeister che gli aveva sparato il cervello sulla luna. Mathias ricadde sulla schiena e si sbracò dalle risate, reggendosi la pancia per sopprimere gli spasmi. I fischi e gli scoppi dei fuochi camuffarono i suoi farfugliamenti.

Elizaveta spalancò gli occhi, trasse un sospiro che sciolse il rossore del viso, e le stelle spruzzate dai fuochi artificiali si riflessero fra le sue palpebre. «Che meraviglia.» Scivolò sulle ginocchia, senza alzarsi dalla sabbia, e si accostò al fianco di Gilbert, sfiorandogli la spalla con la sua. «Yao è davvero un mago quando si tratta di queste cose. Guardate quanti colori!»

Gilbert sussultò sotto quel tocco, provando la stessa piccola scossa che gli era saettata fra le labbra durante il loro bacio. La guardò di striscio, senza muovere un muscolo, e un’altra presenza occupò l’altro suo fianco, spingendolo a voltarsi anche dall’altro capo. Anche Roderich gli sedeva vicino. Il capo reclinato per affacciarsi allo spettacolo dei fuochi colorati, la mano sulla sabbia, e quel lieve stupore fisso a brillare sul suo viso ancora sfumato di rosso, fra le labbra schiuse e ancora leggermente umide del loro bacio.

Gilbert lasciò scivolare la mano su quella di Roderich. Roderich rispose al tocco, voltò il palmo e intrecciò le dita alle sue, lasciandosi avvolgere senza protestare. Gilbert distese l’altro braccio, raccolse il fianco di Elizaveta e lasciò che lei si stendesse su di lui, poggiandogli il capo sulla spalla e inebriandolo col profumo dei suoi capelli.

Dentro di lui permase quella briciola di gelosia, quel fastidioso sassolino nella scarpa che tornava a pungerlo ogni volta in cui pensava a quei due stretti mano nella mano, a scambiarsi quegli stessi baci che lui stesso aveva assaporato. Ma il pensiero di vederli felici riuscì a rasserenargli il cuore e ad alleggerirgli l’animo, nonostante quell’agrodolce sapore di nostalgia che sarebbe risalito fra le guance ogni volta in cui avrebbe chiuso gli occhi e ripensato a quella sera, a quei momenti che non si sarebbero più ripetuti. Sospirò, strinse la mano di Roderich e il fianco di Elizaveta, tenendoseli vicini finché gli era concesso. Siglò quel ricordo dentro di sé, dove nessuno avrebbe potuto rubarglielo. «Da adesso cambierà tutto, no?»

Lo sguardo di Elizaveta sfumò nella sua stessa espressione nostalgica, accentuata dal colore blu schizzato dalle fontane degli ultimi fuochi d’artificio. «Già» confermò con lo stesso sospiro. «Cambieranno molte cose.»

Roderich annuì. «Suppongo sia inevitabile.» Altre luci scoppiettarono nel cielo e colorarono il biancore delle sue guance. «Stiamo crescendo, dopotutto. E dovremo passare attraverso molti altri difficili cambiamenti.»

Elizaveta sorrise e si posò la mano sul cuore. «Ma finché saremo assieme potremo passare attraverso qualsiasi difficoltà.»

Gilbert rise, e una fitta di malinconia tornò a schiacciargli il petto. Finché saremo assieme... Spinse su entrambi una soffice gomitata d’intesa. «Chiamatemi quando vi verrà la crisi del settimo anno, eh. Ma ricordatevi che ricevo solo su appuntamento.»

Elizaveta scosse il capo e si abbandonò a un sospiro sconsolato. Roderich chinò la fronte, si massaggiò le tempie, passò le dita fra i capelli, ma nemmeno lui riuscì a contenere un sorriso intenerito e un po’ commosso. Inutile nasconderlo: sarebbe mancato a entrambi.

Sopra di loro, lo spettacolo di colori, di scintille e di scoppiettii proseguì.

Gilbert strinse la mano di Roderich, passò quella libera fra i capelli sciolti di Elizaveta, e immortalò nei suoi ricordi quel momento che non sarebbe mai più tornato. La notte volse al termine, racchiuse nel suo grembo i ricordi dei baci che si erano scambiati e che sarebbero per sempre rimasti impressi su quella spiaggia.

 

 

Feliciano stappò il tubetto di crema doposole all’aloe, ne spremette una generosa quantità sul palmo spalancato, si sporse dal suo sedile, schiacciandosi contro quello centrale occupato da Ludwig, e gli spalmò la pomata sul viso bruciato. Ludwig strinse i denti, arricciando una lieve smorfia di dolore, e Feliciano sospirò, sconsolato. «Eppure non capisco proprio come tu abbia fatto a scottarti così tanto.» Spremette dell’altra crema all’aloe e gliela distribuì sugli zigomi e attorno alla radice del naso, raffreddando quel suo mezzo broncio di frustrazione. Feliciano gli posò l’indice sulla punta del naso e gli rivolse un’occhiata di rimprovero, senza però riuscire a contenere un sorriso intenerito. «Ti ho messo la crema ogni giorno e te l’ho spalmata proprio su ogni centimetro di pelle. La prossima volta ti metterò la Protezione Sessanta al posto della Quaranta, lo giuro. Oppure inventerò quella Cento solo per te.»

L’odore di crema doposole si diffuse rapidamente nello scomparto del treno irradiato dalle luci rosse e basse del tramonto che stava calando fuori dal finestrino. Il profumo di aloe si mescolò a quello più aspro e pungente della schiuma di mare, della sabbia rimasta incrostata sotto le loro scarpe, e a quello della salsedine che aveva intriso le loro pelli abbronzate che la grigia vita di città avrebbe provveduto a impallidire, sciacquando via il profumo del sole che li aveva annaffiati durante la settimana appena trascorsa.

Gilbert si sporse verso Antonio, premendo il fianco sul bracciolo che separava i loro sedili, e nascose il ghigno dietro la mano per mormorargli all’orecchio. «Sentito?» gli fece. «Gliel’ha spalmata su ogni centimetro di pelle.» Ammiccò con le sopracciglia.

Antonio – abbronzato come un beduino – si coprì a sua volta la bocca e ridacchiò. Gli occhi verdi splendettero come gemme scardinate dalla sciabola di un guerriero del deserto, in contrasto con la pelle così scura e con le ciocche color cioccolato che ricadevano in disordine sulla fronte e sulle guance.

Ludwig si spalmò un ultimo sbuffo di crema sulla pelle bruciata, distribuì quella che era avanzata anche sugli avambracci diventati rossi come bucce di peperoni, e sospirò. «La colpa è tua, Feliciano» lo rimproverò. «Ho dovuto rincorrerti ogni giorno in mare per evitare che tu finissi troppo lontano dalla riva, o in mezzo agli scogli, per di più subito dopo pranzo quando non avevi mai la pazienza di aspettare almeno tre ore dopo aver mangiato. E così non ho mai avuto tempo di lasciarla asciugare.»

Gilbert – bruciato anche lui come un pomodoro bollito – si stravaccò sul suo sedile, stiracchiò le gambe, e poggiò la tempia al finestrino affacciato all’ultimo scorcio di costa. Rise. Le sfumature scarlatte del tramonto che correva assecondando il treno sfrecciante si raccolsero nei suoi occhi. «E lascia che Feli ti spalmi la crema, per Dio. Io non mi lamenterei.»

Feliciano spremette dell’altra pomata fuori dal tubetto, si sporse in avanti, verso il sedile di Gilbert, e gli sorrise tendendo anche verso di lui la mano ricolma di crema doposole. «Infatti ora tocca anche a te.»

La crema rinfrescante sfrigolò a contatto con la pelle rovente di Gilbert, sciogliendosi come burro gettato sulla padella. «Argh!» Gilbert strizzò le mani sui braccioli del sedile, come se gli avessero sparato una scossa lungo la spina dorsale, e ingoiò il gridolino di dolore. Continuò a frignare anche mentre Feliciano finì di distribuire la crema sul resto del viso e sulle spalle scarlatte coperte solo dalle sottili maniche della canotta nera.

Lovino, sdraiato con la schiena contro il braccio di Antonio come durante il viaggio di andata, abbassò il cellulare aperto sul profilo di Facebook dove stava finendo di postare le ultime foto della vacanza. Alzò gli occhi al soffitto e scosse la testa. «Crucchi che si bruciano al mare.» Anche lui era abbronzato come se avesse trascorso un mese nel deserto del Sahara. «Mai sentito nulla di più banale.»

Kiku finì di sistemare il suo borsone negli scomparti superiori, schiacciandolo fra quello di Ludwig e quello di Feliciano. Si rimise seduto e ripiegò la felpa di cotone sule ginocchia. «Speriamo che non si tratti di ustioni troppo gravi.»

Gilbert riguadagnò un mezzo sorriso ancora tremolante di dolore e si strofinò il naso unto di crema all’aloe. «Mi sono scottato solo perché il sole mi ama troppo e non riusciva a scollarmi i raggi di dosso.»

Antonio si posò la mano sulla guancia bronzea e sospirò, sollevando un sorriso sconsolato. «Aah, quanto vorrei essermi bruciato anch’io solo per farmi mettere la crema da te, Feli.»

Lovino lo fulminò di traverso e gli batté una gomitata sul fianco. Infilò il cellulare in tasca, si girò facendogli scivolare le braccia attorno al torso, rannicchiò le ginocchia contro il suo fianco, e gli premette la fronte sulla spalla. «Idiota» brontolò.

Antonio sorrise e gli diede una strofinata ai capelli. «Che c’è, Lovi?» Gli posò le labbra sulla fronte, solleticato dal profumo di mare spanto dalle sue ciocche. «Sei triste?»

Lovino gli sfregò il viso sulla spalla e si tenne nascosto nell’ombra del grugno. «Sta’ zitto, dannazione.»

Antonio soffiò una risata. Lo strinse forte, inghiottendolo in un abbraccio da orsacchiotto, e gli posò un bacio fra i capelli. «A casa ci spalmiamo tutta la crema del mondo, te lo prometto. E ci facciamo anche il bagno assieme.»

«Mhf.»

Fuori dal finestrino, le luci del tramonto bruciavano fra le nubi rosate e spaccate da venature simili a saette di fuoco. I raggi scarlatti oscillavano e splendevano lungo la distesa del mare che diventava sempre più sottile all’orizzonte. La forma del sole era un mezzo disco affondato sul pelo dell’acqua, rosso e sanguineo come un’arancia appena affettata, e circondato dalle nubi più basse e scure che si confondevano con le creste delle onde. Stormi di gabbiani volavano in cerchio attorno alle briccole sempre più piccole e distanti, nere e piatte contro quel tramonto che si stava spegnendo come gli ultimi giorni d’estate, come la loro vacanza.

Feliciano intrecciò il braccio a quello di Kiku, raggiunse la mano di Ludwig che sedeva contro il suo altro fianco, e gli appoggiò il capo sulla spalla, accostandosi al profumo di crema all’aloe che gli aveva appena spalmato. Il tramonto si specchiò nelle profondità dei suoi occhi, fra le ciglia color ambra, e fece splendere le pagliuzze dorate che sfumavano le iridi color nocciola. Sospirò, sognante, e sollevò un sorriso nostalgico. «È sempre tristissimo quando finisce una vacanza, vero?» Si stiracchiò contro il braccio di Ludwig e lasciò che lui gli carezzasse la guancia passando le nocche lungo il profilo tondo del viso. «Però non vedo l’ora di raccontare tutto al nonno e di dargli quel bel quadro di conchiglie che gli abbiamo comprato alla bancarella. In fondo sono anche felice di tornare a casa.»

Lovino tornò a circondarsi di quella nera aura di malumore che abbrustolì il profumo di mare e spiaggia e che rabbuiò i colori del tramonto filtrati attraverso il finestrino. «Sì» sbuffò, senza sollevare la fronte dalla spalla di Antonio. «E poi tornare a scuola.»

Antonio lo consolò sfregandogli una mano fra le scapole. «Tanto per te è l’ultimo anno, Lovi, e devi godertelo.»

Lovino mugugnò un brontolio incomprensibile, strinse la presa attorno ai fianchi di Antonio, e tenne schiacciato il viso contro la sua spalla, lasciando che i capelli ricaduti in avanti nascondessero la sua espressione sciolta in una smorfia di improvvisa tristezza.

Antonio se ne accorse, flesse il capo di lato per incrociare lo sguardo avvilito e imbronciato che non si faceva trovare. «È per questo che sei triste?» gli domandò con una punta di stupore. «Perché non mi vedrai più a scuola?»

Lovino strinse l’abbraccio attorno ai suoi fianchi, strizzò le mani tremanti sulla sua maglietta, quasi avesse paura di lasciarlo andare, e tenne la faccia schiacciata su di lui.

«Ooh, Lovi.» Antonio lo raccolse fra le braccia, lo fece accoccolare sulle sue gambe come quando erano piccoli, se lo strinse al petto e gli massaggiò la schiena tenendo le labbra posate sulla sua fronte che profumava ancora di mare. «Su, su, non devi essere triste.» Tenne alto il sorriso e continuò a sfregargli soffici carezze di consolazione lungo la schiena e sulla nuca. «Prometto che ti verrò a trovare ogni volta in cui sarò libero. E poi avremo anche i pomeriggi da trascorrere assieme, e tutti i week-end. E potrai venirmi a trovare in università ogni volta che vorrai, magari quando ci sarà un’assemblea o avrai delle ore buche. Sono solo due fermate di autobus, dopotutto. Vedrai che il tempo passerà in un attimo, non te ne accorgerai nemmeno.» Gli passò una mano fra i capelli, gli scostò la frangia dalla fronte aggrottata e gli sfiorò la punta del naso con la sua. «Mi prometti che ce la metterai tutta?»

Lovino tenne gli occhi bassi, si rosicchiò il labbro per nascondere quella smorfia tremolante che non riusciva a rimanere seria davanti all’irresistibile sorriso di Antonio, e annuì.

«Bravo il mio ragazzo.» Antonio gli schioccò una sbaciucchiata sulla guancia e gli strofinò una carezza d’incoraggiamento fra i capelli, cullandolo avanti e indietro. «E non farti bocciare» rise. «Sennò ti tocca aspettare il doppio del tempo.»

Lovino affondò il viso nel suo incavo del collo e trattenne a stento una risatina, facendogli solletico all’orecchio.

Gilbert scosse il capo, poggiò il gomito contro il ripiano davanti al finestrino, e allontanò gli occhi da quella scena diabetica che gli diede il voltastomaco, come gli era successo dopo la cena attorno dei falò, dopo aver passato la serata a trangugiare dolci, mescolando le caramelle gommose alla cioccolata e ai marsh-mallows. Si lasciò catturare dallo splendore del tramonto che si stava sciogliendo fra le onde, e anche lui venne assalito da una fitta di malinconia che lo fece sospirare davanti all’immagine del cielo rosato sempre più scuro e da quella del mare sempre più distante e sottile.

Abbassò le palpebre.

I grani di sabbia rimasti incastrati all’interno delle scarpe lo riportarono con le ginocchia sulla spiaggia, distante dalle luci dei falò e dalla musica sparata dagli impianti stereo, ma vicino a Roderich ed Elizaveta, allo scrosciare morbido delle onde che s’infrangevano alle loro spalle, sotto il riverbero argenteo della luna che vegliava su di loro come un faro. Il profumo della crema doposole che Feliciano gli aveva spalmato sul viso e sulle spalle rievocò quello che aveva respirato attraverso la pelle di entrambi mentre li baciava. Gilbert strinse le punte dei denti sul labbro inferiore e riassaporò la dolcezza delle loro bocche, quella più morbida e fresca di lucidalabbra di Elizaveta e quella più sottile ma altrettanto deliziosa di Roderich. Si perse di nuovo nell’estasi di quei baci. Baci che sapeva non avrebbe mai più riassaporato. Ma andava bene così.

Gilbert riaprì gli occhi sullo scenario di pace che regnava nello scompartimento del treno. Feliciano steso lungo il fianco di Ludwig, gli occhi chiusi, un sorriso sereno e beato a tenergli sollevati gli angoli delle labbra, la mano intrecciata alla sua, e Kiku intento a posargli la felpa sulle spalle per proteggerlo dal soffio freddo dell’aria condizionata. Lovino abbracciato ad Antonio, accoccolato fra le sue gambe, cullato dallo scorrere delle sue carezze fra i capelli e dal tocco delle sue labbra sulla guancia abbronzata.

È vero, pensò Gilbert, con un sospiro. Le cose cambieranno da ora in poi. La nostra vita andrà avanti, seguirà il suo ciclo, ma rimarranno comunque tutti i ricordi che nemmeno il tempo ci porterà via. Tornò a poggiarsi con la tempia sul finestrino e salutò il mare con un ultimo sguardo di gratitudine per quell’ultima vacanza della sua giovinezza, per i suoi primi baci scambiati con coloro che amava di più al mondo, per tutte le risate condivise con i suoi migliori amici, per le serate trascorse con i piedi affondati nella sabbia e con lo sguardo rivolto al cielo chiazzato dalle luci colorate dei fuochi d’artificio. Lo ringraziò per tutti quei ricordi che avrebbe conservato nel cuore lungo tutto il corso della sua vita. E a me non gli resta altro da fare che godermi quello che il destino ha in mente per i prossimi anni.

 

 

 

 

Fine

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