Not Natural

di Marra Superwholocked
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 0 - Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Pilot? Pilot. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - In The Shadows ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - My songs know what you did in the dark ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Stairway To Heaven...okay, maybe not (P1) ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Stairway To Heaven...okay, maybe not (P2) ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - Don't threaten me with a good time ***
Capitolo 8: *** Speciale ***
Capitolo 9: *** Capitolo 7 - Man With The Hex ***
Capitolo 10: *** Capitolo 8 - Galway Girl ***
Capitolo 11: *** Capitolo 9 - Centuries ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10 - E.T. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11 - Capitolo Undici come il numero di neuroni che hanno traslocato mentre scrivevo questa fanfiction by Fall Out Boy ***
Capitolo 14: *** Capitolo 12 - Car Radio ***
Capitolo 15: *** Capitolo 13 - Time Has Come Today ***
Capitolo 16: *** Capitolo 14 - Witch's Rune ***
Capitolo 17: *** Capitolo 15 - Angolo inutile dell'autrice ***
Capitolo 18: *** Capitolo 16 - Heroes ***
Capitolo 19: *** Capitolo 17 - Journey Through the Portal ***
Capitolo 20: *** Capitolo 18 - Mrs Believer ***
Capitolo 21: *** Capitolo 19 - Parte Prima ***
Capitolo 22: *** Capitolo 19 - Parte Seconda ***
Capitolo 23: *** Capitolo 19 - Parte Terza ***
Capitolo 24: *** Capitolo 19 - Parte Quarta ***
Capitolo 25: *** Capitolo 20 - This Is War ***
Capitolo 26: *** Capitolo 21 - Carillon ***
Capitolo 27: *** Capitolo 22 - Engel ***
Capitolo 28: *** Capitolo 23 - Forest ***
Capitolo 29: *** Capitolo 24 - Call Me Devil ***
Capitolo 30: *** Capitolo 25 - Torna A Casa ***
Capitolo 31: *** Capitolo 26 - Rescue Me ***
Capitolo 32: *** Capitolo 27 - Everybody ***
Capitolo 33: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 0 - Prologo ***


Not Natural


Angolo dell'autrice:
Holaaaa :D
Terza ed ultima parte della storia di Cathy e Silvia ;-; odio dir loro addio, fanno parte della miglior storia che mi sia mai uscita, ma non posso portare avanti la loro "leggenda" per sempre, quindi mi sono spremuta le meningi ed è uscito tutto ciò! Mentre scrivo questo "angolo", ho in mente tutta la trama – pochi sono i particolari – e ho pronta solo la prefazione, ma EHI tranquilli: ho imparato la lezione e ora voi state leggendo a opera già ultimata (pubblicherò un capitolo alla settimana, ogni lunedì a partire da oggi. Le date le trovate sulla mia pagina Facebook!).
Ma ho un'altra cosa di dirvi: devo spiegarvi la scelta del titolo!
Punto primo: lo sapevate che, prima di intitolarsi Supernatural, avevano in mente di chiamarla Unnatural? Strano, vero? Suona un po' male xD Comunque! L'idea era quella di riprendere un "titolo alternativo" della serie tv e di usarlo per la fanfiction e mi prendeva tantissimo l'episodio in cui Zaccaria faceva credere ai Winchester di avere una vita al di fuori della caccia ai mostri, di avere ancora una madre, una casa, un lavoro "normale" e una fidanzata bellissima, per poi riportarli alla realtà e dirgli che erano i dannatissimi tramiti di due arcangeli e che sarebbe andata esattamente come i piani alti volevano... *riprende fiato* oops xD Quindi... Vi ricordate la battuta di Sam? Quando dice "Non ti sembra che tutto questo sia... non naturale?" (o qualcosa del genere)? E su Tumblr partirono i commenti tipo "YOU HAD ONE JOB SAM!"? Quante risate :'D
Credo che non ci sia nulla d'altro da aggiungere per la spiegazione xD


Detto questo, vi invito a lasciare un commento man mano che leggerete per aiutarmi a capire se vi piace, se c'è qualcosa che secondo voi non si capisce o se ci sono errori di qualsasi tipo :') Fa sempre piacere leggere una recensione di chi segue una tua storia! :)
Ehhh va bene :3 io vi ringrazio di cuore (lo faccio sempre in anticipo LOL) e vi lascio proseguire!
Sempre lieta di "passare del tempo con voi",


xoxo
Marra

 

 

Prefazione
ovviamente a cura di Marra Superwholocked


Ottobre 2016
Ed eccoci tornati con la terza ed ultima parte dell'avventura delle nostre Catherine e Silvia! Credevo di poter finire il mio racconto con l'addio tra le due ragazze, il Dottore ed i Winchester, ma non potevo lasciare tutto in sospeso. So che morite dalla voglia di sapere cos'è successo e per questo ho deciso di dedicare altro del mio tempo alla stesura di questa storia. (Più di due anni di stesura, santa madre del peccato!). Tutto questo discorso mi fa sembrare Metatron con quella sua vecchia ed arrogante – come lui – macchina da scrivere, ma, vi prego, non pensate a me come lui! Io mi sento un po' più come una cantastorie, ma senza tutta quella musica. Perché nelle altre storie non vi parlavo come vi sto parlando ora? A dire il vero, nemmeno io lo so... Forse volevo solo mettere una maschera, la maschera di una scrittrice diabolicamente geniale – molto modesta, lo so... – che sta alzata fino alle tre di notte pur di finire il capitolo lasciato in sospeso da una settimana... O forse no, chi lo sa? La cosa certa è che ora sono qui, senza Muse o calici di vino, a scrivere di un mondo che non è il vostro e nemmeno il mio. Di mondi che non sono vostri. ...Okay, sì, forse uno lo è, ma dettagli... Di un mondo in cui Catherine e Silvia sono reali e sono sopravvisute ad un demone grazie ad un alieno che per voi è solo il personaggio di una serie tv, di un mondo in cui i mostri esistono davvero, in cui cacciare significa difendere la propria comunità da fantasmi e altre schifezze. Di un mondo che ha portato nel vostro informazioni riguardanti strani esseri che minacciano la tranquillità degli esseri umani. (Proprio come per le fiabe, ma questa – forse – è un'altra storia). Ma non dovete averne paura. Io, in questa storia, li descriverò come reali, ma non lo sono. Almeno per voi. Le due ragazze, praticamente nuove in questo lavoro, agiscono per ottenere un futuro migliore, più sicuro. Lo stesso traguardo che hanno Catherine e Silvia ce l'hanno anche le forze dell'ordine del vostro universo. A volte vi sembrerà che tutto abbia poco senso, come questa prefazione... E avete ragione! A volte capita che ci sia il caso di un omicidio pressocchè impossibile da risolvere e voi sarete lì a pensare: "UFO!", "FANTASMI!", "UOMO FALENA!"... Ehm... No. Non so per quale assurdo motivo voi crediate a queste cose, ma non c'entra alcuna creatura strana, si tratta solo di cervelli facilmente strumentalizzabili da forze superiori, credetemi. Parlo sempre del vostro universo
...Okay, ora sembro Adam Kadmon... Wow...
Ma torniamo alle cose importanti! Dato che la storia di Catherine e Silvia è suddivisibile in tre parti, la chiamerò Trilogia. Poco originale, me ne rendo conto, ma non ho tempo da perdere! Dunque, dicevo? Ah, sì! Le tre avventure di questa ...Trilogia... sono strettamente collegate fra loro: nella prima parte della storia, un demone di nome Mary rivela alle protagoniste che la Nebbia segnerà la fine della vita umana, scatenando una sorta di Apocalisse; nella seconda parte, invece, Catherine e Silvia aiutano i Winchester (in una realtà alternativa e parallela) a ritrovare l'arcangelo Gabriele assicurandogli la salvezza. Ma ogni azione genera una conseguenza!
Ora... Perché vi sto mettendo sull'attenti?
Per rispondere a questa domanda, credo abbiate bisogno di proseguire a leggere...
Spegnete i cellulari, signore e signori, perché state entrando in una realtà in cui essere disturbati può essere sinonimo di-
*tempo scaduto per la registrazione*


...Cheppalle!

 

Prologo


E voi? Cosa fareste se tutto il creato fosse in pericolo? Dareste ascolto ad una strega? Oppure le voltereste le spalle dandole della pazza, e cercando comunque di mettere in salvo, seppur non credendole, la vostra famiglia e i vostri amici? Magari su un'astronave grande quanto uno sgabbuzzino...
La maggior parte di voi, cari lettori, risponderebbe "Certo che ascolterei quella dannata strega!", ma solo perché si crede un eroe. Quello che fecero Silvia e Catherine, due ragazzine ancora troppo inesperte, ma dal sangue freddo e pronte a (quasi) tutto, supera il semplice coraggio. Soprattutto perché la minaccia che gravava sulle loro spalle non era semplice.


Silvia non vedeva nulla oltre il suo naso. Era diventato tutto buio e silenzioso. La assalì il panico: perché era lì?
«Cathy!» tentò di urlare, ma la bocca le si riempì di fumo che tentò di scacciare prima tossendo poi trattenendo il respiro fino a star male: non poteva andare in apnea, così riempì nuovamente i polmoni e si arrese. Gridò, ma nessuno poté udirla.
Silvia cadde in ginocchio, esausta.
La sua mente era al sicuro.
A governare il suo corpo, però, ora c'era qualcun'altro.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Pilot? Pilot. ***


PARTE PRIMA

La Caccia Ha Inizio

 

CAPITOLO I

Pilot? Pilot.

 

L'anno sabbatico di Catherine e Silvia stava finalmente per cominciare e, come tante altre ragazze appena uscite dal liceo e con tanta voglia di vivere il mondo reale, avevano organizzato un viaggio. Ma non un viaggio qualunque: sarebbero andate a caccia. Catherine era riuscita a prendere la patente appena in tempo per la partenza; Silvia, invece, ce l'aveva già da un po', ecco perché sarebbero partite con la macchina di quest'ultima, usata precedentemente dal padre. Aveva già parecchi chilometri e la vernice vecchia e rinsecchita, ma Silvia la considerava perfetta – non la sua macchina preferita, ma comunque perfetta per il tipo di viaggio che avevano in mente le due ragazze.
Nel pomeriggio più caldo del settembre di quell'anno, il 2016, Silvia sostava proprio sotto la finestra della cameretta di Catherine. Agli occhi di alcune loro amiche, sarebbe potuto sembrare un appuntamento galante. La verità? Assolutamente no! Catherine, così come Silvia, lo avrebbe considerato una sorta di incesto e, nonostante entrambe adorassero mettere dubbi nelle menti di chi le osservava, negavano apertamente una qualsiasi relazione che andasse al di là della "sorellanza".
«Mi raccomando, Cathy» le disse sua madre con le lacrime agli occhi mentre guardava la figlia allontanarsi dalla porta. Aveva promesso a se stessa di non guardarla salire sulla macchina di Silvia, ma non riuscì a resistere alla tentazione e scese con lei le scale. Sapeva certamente che quell'immagine le si sarebbe stampata in mente finché la sua principessa non avesse fatto ritorno a casa, eppure ascoltò il suo cuore piuttosto che la ragione e la seguì tenendola per mano. La guardò scendere quelle poche scale e ripensò alle prime volte che le aveva salite, talvolta usando anche le mani per compensare le piccole gambine, troppo corte per quei gradini da adulti. «Mi raccomando...» ripeté inconsciamente. Ormai erano arrivate al cancello che le avrebbero portate sulla strada, dove Silvia aspettava appoggiata alla sua macchina. Quest'ultima si staccò dal veicolo non appena le vide e andò subito ad abbracciare la mamma di Catherine come se fosse stata la sua vera madre.
«Mamma, stai tranquilla» le sorrise Catherine col cuore in gola quando le altre due slegarono l'abbraccio. «Ci sentiamo quando raggiungiamo Bologna, okay?»
«Okay, tesoro, va bene» le rispose la madre abbracciandola forte.
Poi Silvia sottrasse dalle mani di Catherine borsone e valigia – a momenti più leggeri dell'aria –, li ripose nel cassone della sua Nissan Navara nera a quattro posti e tornò a guardare l'amica; sua madre le stava tenendo il viso tra le mani, piangeva lacrime non di tristezza, bensì di malinconia, nonostante la figlia fosse ancora lì con lei, sentendola già lontana. Un anno e poi avrebbe toccato di nuovo le guance della sua bambina, i suoi capelli, le sue mani... Mani che all'improvviso presero le sue e gliele staccarono dalle guance. Le sembrò di non poter più respirare e le lacrime non osavano fermarsi.
Le due ragazze salutarono la madre di Catherine un'ultima volta, quella decisiva, poi montarono in auto. Silvia accese il motore e lasciò qualche secondo all'amica per rendersi bene conto di quanto stavano per fare. La riccia vide Catherine cercare un qualsiasi riflesso degli occhi della madre e, percependo la sua tristezza, convenne che fosse meglio per tutti partire subito.


La radio aveva smesso di gracchiare – Silvia aveva inserito il suo album preferito, Bombs Away, e stava canticchiando allegra e spensierata – e stavano quasi per arrivare a destinazione. In mezzo alla campagna dorata e verde per il grano e le uve della Toscana, la strada a doppio senso veniva totalmente ignorata da Silvia, il che faceva innervosire Catherine.
«Silvia, ti prego, torna nella tua corsia, non stare in mezzo alla strada» mugugnò la minore delle due tenendosi ben stretta alla maniglia in alto, quella vicina al finestrino. Okay che era matta da legare anche lei, ma un minimo di buon senso cercava sempre di conservarlo.
«Oh, avanti, ho sempre voluto guidare così! E poi, guarda: non c'è nessuno!» esclamò l'altra tutta estasiata.
«Per favore, Silvia» tentò di non urlare Catherine, sovrastando tuttavia gli Sheppard e la loro Let Me Down Easy.
Silvia abbassò automaticamente il volume della musica e tornò nella sua corsia. Si era totalmente dimenticata del piccolo problema che Catherine aveva con le auto, a prescindere da chi fosse il guidatore, e si sentì un po' in colpa. Pensò che fosse meglio sdrammatizzare: «Che ne dici di dare un nome all'auto?» chiese mantenendo sempre i settanta chilometri orari nonostante il limite di cinquanta.
«Be', la macchina è tua» le rispose Catherine guardando fuori dal finestrino per distrarsi.
Silvia la guardò un paio di volte di sfuggita. Non l'aveva mai vista così distaccata. C'era qualcos'altro, sotto, oltre al mal d'auto. Qualcosa che non voleva svelare per due possibili motivi: o Catherine riteneva non fosse importante, oppure non voleva farla preoccupare inutilmente per qualcosa che poi magari poteva rivelarsi una stupidata. L'una o l'altra cosa, Catherine non sapeva fingere abbastanza bene da poter ingannare l'unica persona – dopo i suoi genitori – che la conosceva come le sue tasche.
«Il Dottore chiama la TARDIS Sexy... Dean accarezza l'Impala sussurrando Baby... Phil Coulson ha la sua Lola...»
«Mh-mh.»
Silvia si accigliò. Cosa cavolo voleva dire Catherine con quel verso? La guardò di sottecchi, senza farglielo pesare assolutamente e architettò una piccola trappola. «Sai, Cathy? Pensavo che sarebbe meglio dire ai tuoi genitori la verità, tutta la verità. Non hai mai mentito a loro due e cominciare proprio ora non mi sembra l'ideale.»
«Già» rispose Catherine, distante e distratta come mai prima.
«E, tanto che ci siamo, perché non dir loro anche che ci sarà difficile arrivare ai quarant'anni d'età senza morire almeno una volta?»
«Sì, mi piace: è perfetto.»
A quel punto, Silvia prese un profondo respiro e accostò con calma sulla destra. Vide l'amica accigliarsi e scambiare con lei uno sguardo confuso. Catherine si assicurò che non arrivasse nessuna macchina alle loro spalle – aveva paura che qualcuno le falciasse – ma non si era nemmeno accorta che avevano ormai lasciato la provinciale per stradine secondarie ed erano così arrivate nel punto più isolato della periferia, dove la luce del tramonto ricopriva d'oro e rame tutto l'ambiente, a partire dal terriccio umido fino alle tegole delle poche case lì attorno. «Perché ti sei fermata?»
«Cathy» disse Silvia con lo sguardo basso. «So che vorresti finire gli studi, quindi sono pronta a fare marcia indietro e a rimandare la caccia se è quello che vuoi.»
Catherine spostò lo sguardo su di una gazza ladra ai piedi di un albero. Beccava frenetica tra l'erbetta secca alla ricerca di cibo. Era molto probabile che ci fossero dei semini o che qualcuno le avesse gettato delle briciole di pane poco prima che le due ragazze fossero arrivate sul posto. Tuttavia, Catherine e Silvia non seppero mai che quell'uccelletto beccava i tessuti organici ancora attaccati ad un osso, forse di un animale o forse no.
Era esattamente in quei momenti che Catherine preferiva non dover scegliere: un futuro certo o la caccia? La famiglia o Silvia? Perché non poteva avere entrambe? Forse un modo esisteva... Forse no... Forse avrebbe potuto tornare a casa una volta ogni tanto, ma se fosse tornata per restare... Se fosse tornata per restare, Silvia sarebbe poi ripartita , senza indugio, perché era quello per cui era nata, lei glielo ripeteva spesso. Ma ormai avevano deciso: un anno di prova e poi le alternative erano chiare ad entrambe. «No» rispose sorridendo. «Ho un anno di tempo per capire cosa è meglio per me.»
Silvia, rincuorata, le sorrise e le diede un pugnetto leggero sulla spalla. Controllò poi che da dietro non arrivasse nessuna macchina e tornò dunque a guidare. «Abbiamo fatto credere alle nostre famiglie di voler andare a visitare Roma e hai detto a tua madre che l'avresti avvertita quando saremmo arrivate a Bologna, quindi immagino che dovrò darmi da fare coi fotomontaggi, dico bene?»
«Esatto, sis. Tanto basterà mettere uno sfondo e regolare le luci!» le rispose l'altra, ben ancorata alla maniglia come sempre.
«Sì, okay, ma quanto tempo ci vuole per fare Milano-Bologna con la provinciale?»
Catherine controllò l'orologio. «Dunque...» Fece il calcolo almeno tre volte per essere più sicura e... «Cacchio!» esclamò spaventando così Silvia. «Per loro, saremmo già dovute arrivare da più di un'ora! Oddio, oddio, oddio! E adesso chi la sente, mia madre?!»
Silvia rise e Catherine stava già per chiamare la madre quando se ne accorse. «Che hai da ridere?»
«L'ho chiamata io mentre schiacciavi un rumoroso pisolino» rise Silvia.
Catherine rimase a fissarla per dieci secondi buoni senza dire una sola parola poi, finalmente, apprese lo scherzo. «Porca miseria, quanto ti odio» esclamò anche lei ridendo.
Le due ragazze si scambiarono uno sguardo d'intesa lungo quattordici anni di amicizia. Cosa poteva andare storto, durante quel viaggio verso il loro primo caso? Be', un po' tutto, a dire il vero, ma mai e poi mai si aspettavano di investire la creatura su cui avrebbero voluto indagare. Infatti, gli Sheppard avevano da poco finito di allietare l'abitacolo con Halfway To Hell quando Silvia sbandò, spaventata – Catherine terrorizzata –, dopo aver leggermente urtato quello che le era sembrato essere un cane randagio spuntato dal nulla.
«Santo cielo, come se fossimo invisibili!» urlò Silvia inchiodando.
«Silvia, dai, magari era incuriosito dai fanali» cercò di calmarla Catherine dopo che si fu calmata prima lei.
L'altra grugnì e le disse di rimanere in macchina, che avrebbe dato una controllata. Non aspettò nemmeno la sua risposta – non avrebbe accettato alcuna replica – e prese una torcia dal cruscotto. Uscì alla fioca luce della sera, il sole è veloce a nascondersi, e rimase in ascolto. Con sé solo un dannato fascio di luce. Merda!, pensò: si era dimenticata in macchina la pistola! Fece subito per riaprire la portiera, ma un rumore alle sue spalle attirò l'attenzione di Silvia. Ella rimase lì ferma, immobile, a fissarsi le mani sulla maniglia nera del suo pickup mezzo scassato. Un altro rumore. Più vicino. Totalmente diverso dal verso di un cane. Silvia deglutì ed ebbe la sensazione di essere il prossimo pasto di qualsiasi creatura avesse alle spalle. Si umettò le labbra e cercò nelle proprie tasche, senza muoversi troppo, un coltello o simile, ma si ricordò di avere tutto nel cassone. Cioè troppo lontano.
All'improvviso il rumore che la creatura aveva già ripetuto due volte si intensificò gradualmente, fino a diventare un orribile ringhio di una belva, non più di una semplice creatura.
«Silvia!» urlò forte Catherine da dentro l'abitacolo, tanto che la maggiore si spaventò. D'istinto, quest'ultima aprì il più velocemente possibile la portiera dell'auto e si infilò dentro con il terrore che le ballava negli occhi. Subitamente, sul finestrino del guidatore si stamparono due zampe canine con artigli forti e incredibilmente taglienti – o così sembrava. La campagna era ormai al buio, ma entrambe le ragazze poterono scorgere la furia nelle iridi della belva, la quale sputava ripugnante saliva sul finestrino ad ogni suo abbaio.
Catherine e Silvia erano a dir poco terrorizzate, ma riuscirono a mantenere un sangue freddo davvero invidiabile e, senza quindi andare nel panico, Silvia staccò gli occhi dalla belva ruggente, ancorò bene le mani al volante e sfrecciò via, lasciandosi alle spalle quella specie di cane assassino.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - In The Shadows ***


CAPITOLO II

In the shadows*

 

La notte era passata, lontana ormai da qualche ora. Le due ragazze si risvegliarono con le ossa mezze rotte ancora in macchina; non avevano trovato alcun posto in cui dormire e ne approfittarono per abituarsi alla vita da cacciatrici.
«Cathy...»
«Mhm» grugnì Catherine. «Per l'amor del cielo, mamma, lasciami dormire...»
Silvia non poté fare altro che sorridere e sistemarsi meglio sul suo sedile. Guardando fuori dal parabrezza, il parcheggio in cui erano arrivate era leggermente diverso da come lo aveva visto la notte precedente, una volta seminata quella creatura. Molte persone già entravano ed uscivano da quel che sembrava essere un supermercato e Silvia pensò bene di uscire dall'abitacolo e prendere qualcosa da mangiare per entrambe.
Difatti uscì e la prima cosa che le venne in mente, guardando il suo orologio segnare le 9.30, fu Sarà un anno fantastico con un leggero sorriso a colorarle il viso.
I suoi passi si sentivano forti e chiari per l'umidità che si era sdraiata a terra nelle prime ore del mattino, ma Silvia era la sola ad avere un'espressione angosciata. Per ben due volte pensò di lasciar stare la colazione e tornare indietro, ma se quella creatura avesse avuto l'intenzione di seguirli, l'avrebbe già fatto e ora Silvia non sarebbe lì a comprare due stupide fette di torta.
Poco prima dell'uscita del supermercato, poi, Silvia trovò una vecchia macchinetta del caffè. Fu così che, arrangiandosi come meglio potè, la giovane diede vita alla loro prima colazione da cacciatrici.
Quando Silvia fu di ritorno, ella trovò Catherine fuori dal pickup a parlare con un'anziana signora dai vestiti poco curati.
«Mai vista una cosa del genere in tutti i miei sessantasette anni di vita, mai!» stava dicendo la signora non così anziana come a Silvia sembrò appena la intravide, ma doveva avere proprio un cattivo alito perché Catherine cercava in tutti i modi possibili di allontanare la sua faccia da qulla della signora che continuava ad invadere il suo spazio personale.
«Mio marito ci ha quasi rimesso la gamba e a me ha morso la mano e graffiato l'occhio, guarda! Ho ancora le cicatrici» esclamò la signora con un forte accento toscano mentre mostrava i segni della lotta avvenuta davvero. Ella vide la ragazza impressionarsi e si ricoprì il polso alla svelta. «Comunque tu e la tua amica non dovreste mettervi nei guai. È una cosa seria, non una leggenda come pensano tutti.»
«Quale leggenda?» chiese Silvia che ormai era arrivata al suo pickup. L'anziana signora la scrutò un attimo e, quando intercettò il suo sguardo, a Silvia parve di svenire: era cieca da un occhio e una vistosa cicatrice le attraversava la fronte, passava sul povero occhio sinistro, cieco, e finiva sulla guancia sinistra. «I-io sono... Silvia» balbettò. Le sembrò la cosa più giusta da dire, in quella circostanza.
Dopo un attimo di silenzio imbrazzante, la signora si presentò a lei, ancora un po' diffidente. «Vittoria» disse senza scomporsi.
Silvia le sorrise e passò a Catherine un caffè porgendole anche il contenitore di plastica per farle prendere una fetta di torta. Vide l'amica sorridere alla vista del dolce: era fatto con gocce di cioccolato e pezzetti di banana, estremamente squisita, una bomba calorica, ma era anche la torta che la madre di Catherine aveva fatto il giorno prima della loro partenza.
«Scusate, ma ora è meglio che vada.» Vittoria gettò uno sguardo freddo in direzione di Silvia. «Non fate sciocchezze» aggiunse guardando Catherine negli occhi, la quale non rispose se non con un sorriso imbarazzato, poi la signora filò via.
Silvia sorseggiò il suo caffè squadrando Vittoria che si allontanava velocemente. «Gente strana ne abbiamo?»
Catherine ghignò per mezzo secondo, poi tornò seria. «Credo abbia intuito qualcosa.»
«Del tipo?»
«Che sei una wicca?» azzardò la minore e nel momento stesso in cui pronunciò quell'espressione se ne pentì.
«Ehi, lo dici come se fosse qualcosa di brutto!» esclamò Silvia fingendo risentimento. «Guarda che, tra le due, quella inquietante era lei!»
«In effetti...» Catherine sorrise, certa che quel piccolo malinteso non sarebbe mai sfociato in un'importante discussione... come sempre, del resto. Una volta rientrate in auto, Catherine addentò la sua fetta di torta. «Oh. Mio. Dio» esclamò lentamente.
Silvia mise in moto il pickup ed accese il riscaldamento. «Che c'è?»
«Assaggiala!» sussurrò. «Assaggia la torta!»
Silvia, che aveva appena finito il suo caffè, pose il bicchierino nella tasca rigida in basso alla portiera e assaggiò la torta. All'inizio sentì solo un sapore dolce per tutta la bocca, poi le sue papille gustative sembrarono concentrarsi meglio e... «Oh, mio Dio!» esclamò con la bocca piena. «Nulla da togliere a tua madre, ma questa è da orgasmo!»
«Già! Scusa, mamma...» disse un po' triste, ma poi aggiunse, più allegra: «Lode a te, pasticcere slash pasticcera che ha fatto questa squisitezza, noi ti adoreremo per il resto delle nostre vite e giuriamo fedeltà a te e solo a te. Amen!»
Silvia smise di masticare e guardò l'amica. «Seriamente?» Poi scoppiò a ridere buttando indietro la testa. Una risata incontrollata ed un tantino insensata ma fondamentale, poiché unica: Catherine sorrise e capì che avrebbe sempre potuto contare su quella matta che le siedeva accanto.


«Letto matrimoniale, giusto?»
«No, due singoli, grazie.»
«Mhm...»
Ma "Mhm" cosa? pensò Silvia, notevolmente irritata. Catherine, d'altro canto, sembrava divertita.
«Camera numero duecentosei. Ecco la chiave.» L'uomo che stava alla reception del piccolo ma ben tenuto motel in cui le due cacciatrici intendevano stabilirsi fino a caso chiuso sembrava una copia di Michel di Gilmore Girls; l'unica differenza era che l'uomo in questione era più pallido d'un lenzuolo.
In quel momento, rientrò dalla porta d'ingresso una cliente accompagnata dal suo splendido golden retriver. Silvia notò l'espressione nostalgica del receptionista e intuì il motivo del colore del suo viso.
«Ci dispiace per la sua perdita.»
Quando l'uomo tornò a guardare le due nuove clienti, esse avevano già preso le chiavi della loro camera ed erano salite sull'ascensore. Avrebbe voluto ringraziarle e dir loro in quale stato aveva ritrovato il suo pastore tedesco una volta rientrato a casa, ma non fece in tempo: Silvia e Catherine erano ancora molto inesperte da non vedere, e così raccogliere, ogni songolo indizio per i loro casi.


«Portatile. Caricatore. Cuffie» elencò Catherine disponendo i suoi attrezzi da lavoro sulla scrivania offerta dalla loro camera. Una parte di lei era così felice di iniziare una nuova vita, mentre l'altra, quella più razionale, stava già cominciando a calcolare ogni singolo pericolo in cui sarebbero potute incappare.
Silvia stava invece controllando la pulizia e l'igiene del loro bagno; sembrava a posto e quindi passò alle lenzuola del suo letto: anche quelle sembravano a posto. «A che ti servono le cuffie?» chiese cercando un secondo cuscino, magari più alto di quello del suo letto e degno di quel nome.
«Non riesco a concentrarmi col silenzio, lo sai» rispose Catherine imitando Silvia, la quale rise e le lanciò addosso un pacchetto di fazzoletti. «No, è che studiavo con la musica e mi è rimasta l'abitudine» continuò la piccola cacciatrice.
«Okay, fa' pure. Se hai bisogno di me, svegliami.»
«Perché, dormi?»
«Ehi, tu hai dormito per quasi tutto il viaggio! Permetti? Sono un po' stanca.»
«Ahh» sospirò scherzosamente Catherine. «La vecchiaia...»
Silvia si sistemò meglio sul letto e fece finta di non averla sentita. Quei due anni in più d'età non le pesavano affatto e non sentiva differenze tra se stessa e la sua migliore amica, ma ogni tanto, nel profondo, si sentiva davvero la sorella maggiore e vedere Dean Winchester passare la pala al fratello perché, non ancora quarantenne, non ha le forze necessarie per scavare una semplice buca la preoccupava un po'.
Silvia sentì poi le dita sottili di Catherine digitare veloci sulla tastiera del portatile. Aveva già tolto gli occhiali da vista e chiuso gli occhi quando un'ondata di agitazione la investì senza preavviso. E se i genitori di Catherine fossero venuti a sapere un giorno della vera natura del loro viaggio? E se fosse successo qualcosa a Catherine? E se fosse successo qualcosa a lei stessa? Catherine avrebbe avuto la forza di reagire e superare la situazione? Silvia non era del tutto certa che quel fenomeno di ragazza sarebbe riuscita a voltare pagina: spesso era Silvia stessa che spronava l'amica, seppur lentamente e con qualche difficoltà, non essendo molto brava in circostanze difficili.


«Silvia! Silvia!»
«Eh?! Cosa?! Che vuoi?!» le urlò addosso Silvia, sentendosi più agitata di prima.
«Ti sei addormentata e hai cominciato a fare dei versi strani. Come se ti stessi lamentando...»
«Mi succede spesso. Ogni volta che c'è qualcosa che non va.»
Catherine si accigliò. Ogni giorno che passava, i sensi di Silvia sembravano diventare sempre più forti. «In che senso?» le chiese con voce tremante, incerta sul voler sentire o meno la risposta.
Silvia chiuse un istante gli occhi, cercando di ricordare il sogno appena fatto. «Ricordi la volta in cui ho sognato mio zio che stava male?»
«Impossibile dimenticarlo» rispose Catherine mentre Silvia riapriva piano gli occhi. «Dopo due giorni, tuo zio è svenuto per un calo di pressione e da allora fai sempre sogni premonitori o qualcosa del genere» proseguì già intuendo cosa Silvia le avrebbe poi detto.
La wiccan rivolse lo sguardo verso il viso angosciato della migliore amica. I suoi occhioni scuri e a mandorla erano più preoccupati che mai e sembravano già sapere tutto. «Credo non c'entri col caso che stiamo seguendo, ma non è qualcosa da sottovalutare. Anche se la maggior parte dei miei sogni poi si rivelano essere semplici...sogni
«Sì, ma cosa hai sognato, si può sapere?»
«Buio. Ho sognato il buio, il nulla, il vuoto» sbottò Silvia. «Non vedevo assolutamente nulla, non c'era niente se non il colore nero ovunque mi sembrava di puntare gli occhi. Sopra di me nero, sotto nero, a destra e a sinistra nero... Solo buio» ansimò cercando di descrivere come meglio poteva ciò che aveva, o non aveva, visto.
Catherine, d'istinto, si tirò indietro con mezzo corpo, come per prendere le distanze da una wiccan da brividi. «Cosa può significare?» chiese impaurita.
«Non ne ho la più pallida idea» disse. Ma Silvia non era del tutto sincera. Anzi, per nulla: sapeva, come Catherine, che le loro vite scorrevano in parallelo con quelle di Sam e Dean Winchester – come se in due universi paralleli succedessero le stesse cose e fossero risolte da due coppie di Winchester differenti – ed era molto preoccupata. Silvia era alla pari con la messa in onda americana delle puntate di Supernatural ed era a conoscenza dell'arrivo dell'Oscurità mentre Catherine era solo all'ottava stagione e sapeva a malapena del ritorno di Abaddon.
Rischiare lo spoiler o rischiare la vita?
«Hai già trovato qualcosa sul nostro caso?» cambiò discorso Silvia. Doveva ancora pensarci se dire o no a Catherine a cosa stava pensando.
«S-sì» rispose Catherine, un po' sorpresa. «Ho scoperto che in questi ultimi anni ci sono state innumerevoli sparizioni di animali, soprattutto di cani ed è cominciato tutto da un vecchio pastore tedesco.»
Per Silvia fu estasiante: era così interessata che sembrava non sbattere nemmeno le palpebre. «Oh, credo di aver capito» sorrise facendole segno di proseguire.
«Il padrone del pastore tedesco» continuò la giovane cacciatrice, «è morto di vecchiaia circa cinque anni fa; lo hanno trovato due mesi dopo la sua morte, in casa, col suo fedele amico a quattro zampe al fianco. Era così denutrito da essere irriconoscibile. Inoltre, e qui ci avviciniamo alla soluzione del problema, ha vissuto nella sporcizia per ben due mesi e quando la polizia è entrata in casa dell'uomo, il cane ne ha approfittato per prendere l'uscio e scappare e nessuno lo ha più visto da allora... Ora prova ad immaginare lo stato in cui quel cane potrebbe trovarsi!» Catherine vide Silvia fare in quel momento una bruttissima smorfia. «Ah, e i presenti al ritrovamento del cadavere descrissero il cane come un animale selvaggio e rabbioso. Ti ricorda qualcosa?»
Silvia si alzò subito dal letto, entusiasta e raggiante. «Prima stagione, secondo episodio, Wendigo! Solo che non è un Wendigo, ma un Chupacabra perché non si tratta di un essere umano, ma di un animale!» esclamò vedendo Catherine farsi una sana risata. «Ricordi come fermarono il Wendigo?» chiese riferendosi ai Winchester.
Catherine frenò la risata all'improvviso. Era confusa. Come lo avevano ucciso? Sale? No, quello era per demoni e fantasmi. Decapitazione? No, vampiri. Rimanevano poche cose, tra cui... «Una pallottola d'argento?» chiese incerta.
«Ma no, Cathy!» sussurrò Silvia un po' delusa. «Fuoco! Col fuoco!»
Catherine ora ricordava: lo avevano abbrustolito ben bene, quel povero Wendigo... «Sei incredibile» riprese Catherine divertita. «Silvipedia: the free enciclopedia of Supernatural» rise. «Ma noi non abbiamo un lanciafiamme o roba del genere» puntualizzò poi camminando verso il suo portatile ancora acceso sulla scrivania.
Silvia ghignò. «Non avremo forse un lanciafiamme» disse in un tono accattivante, «ma qualcosa di simile ce l'abbiamo eccome!»
«Sarebbe?» chiese l'amica dopo un altro attimo di confusione.
«Ma io, ovviamente.»


«Okay, quindi ora sappiamo come porre fine a questa storia del Chupacabra, ma non sappiamo esattamente dove trovarlo.»
«Esatto» rispose Silvia sfogliando le pagine di un libro ingiallito dal tempo.
«E tu intendi trovarlo tramite un incantesimo di localizzazione.»
«Esatto. Mi servono solo un paio di cosette.» Silvia aveva già finito di guardare velocemente gli ingredienti dell'incantesimo dal suo librone e stava cercando in rete un posto lì vicino dove comprare il necessario.
«E non sarà pericoloso?»
«Come ogni tipo di magia, Cathy... Sì» rispose sinceramente Silvia continuando con la sua ricerca. «Ma della mia ci si può fidare perché uso incantesimi di magia bianca, rossa e verde. Lo sai bene che sono io la prima a non voler rischiare, con queste cose.»
«Certo.» Ma Catherine non era comunque a suo agio e Silvia lo percepì. Tuttavia, quest'ultima non amava obbligare Catherine a parlare e fu proprio il silenzio a farla aprire. «Prima, quando mi hai raccontato del tuo sogno, il buio... Hai detto che non sapevi che significato potesse esserci dietro.»
Silvia smise di cercare e alzò lo sguardo lentamente su Catherine. «Mh-mh» annuì.
«Non mi sembravi del tutto sincera, ecco.»
La maggiore scosse la testa sorridendo. Aveva un paio di lacrime agli occhi. Commozione? Paura? «Non posso e non riesco a nasconderti nulla, porca misera!»
«Nope» sorrise Catherine.
Silvia si sistemò le mani sul grembo e pesò bene le parole che intendeva utilizzare. «Okay, dunque... Cosa sai sull'Oscurità di cui si parla nella Sacra Bibbia?»


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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - My songs know what you did in the dark ***


CAPITOLO III

My songs know what you did in the dark*

 

Il mattino seguente, il vento correva veloce tra i rami quasi del tutto spogli degli alberi dell'allegra città di Lucca. Il periodo fine ottobre – inizio novembre era quello più strano e spensierato di tutto l'anno, per gli abitanti della città ed i suoi visitatori. Diventava, per circa una settimana, un'isola felice in mezzo ad un mare di disperazione ed angoscia italiana. Si poteva assistere ad un'amichevole chiacchierata tra un Mangiamorte e Jon Snow; Deadpool che magari correva di qua e di là mettendo in atto i suoi scherzi più bastardi; personaggi di manga potevano prendere un caffé assieme a fate e cavalieri di qualche videogioco... Nessuno prendeva per matti tutti quei ragazzi e tutti si divertivano. Anche Catherine e Silvia.
«Uh, guarda!» continuava ad esclamare Silvia, come se non fosse mai stata ad un evento simile a quello. «C'è Harley Quinn! E quello è Ash Williams! Ommioddio, lo Stregatto!»
«Calmati, sis» sorrise Catherine. «Ricorda che siamo qui per comprare code di rospi e cuori di conigli!»
Ecco, ora... Dire una cosa del genere in mezzo ad un gruppo di gente che ama autodefinirsi normale porta ad occhiatacce e pregiudizi; tuttavia, le due cacciatrici erano contornate da cosplayer da tutta Italia, matti tanto quanto loro due: non correvano alcun rischio.
«Non dobbiamo prendere quelle schifezze» rise Silvia, ammirando un magnifico trio composto da Loki, Thor e Nick Fury.
«Non è che cambi molto, lo sai? È comunque roba da streghe.» Improvvisamente, Catherine tornò seria e diversa, strana e Silvia, per questo, si fermò.
Attorno a loro, la gente rideva e continuava per la sua strada come se nulla fosse perché, ovviamente, non poteva sapere cosa stesse succedendo alle due ragazze.
«Si può sapere cos'hai?» chiese Silvia. Catherine fissava il cielo con occhi assenti. Amava sempre studiare i luoghi attorno a sé, ma ora lo stava facendo in modo inquietante. «È da quando siamo partite che hai dei momenti da... Da doppia personalità. Mi metti paura.»
Catherine sospirò. «Lo so.» Continuò a fissare le candide nuvole finché una folata di vento gelido non la fece rabbrividire. Gli occhi le guizzarono dunque verso il basso; vide gli alberi e le persone che, felici, si dirigevano verso il centro della città. Si voltò ed incontrò gli occhi preoccupati di Silvia. «Scusami» sussurrò senza far trasparire alcuna emozione. «A volte, non so che mi prende.»
Silvia non esitò un attimo di più. Pose la sua mano destra sul cuore dell'amica e pronunciò un incantesimo. Parole in latino che ella stessa, mesi prima, faticò a memorizzare poiché non pensava le sarebbero tornate utili.
«Ehi, ma che fai?» cercò di divincolarsi Catherine, ma non fece in tempo: l'incantesimo di Silvia riuscì ad anticipare le sue mosse: gli occhi di Catherine sembrarono risvegliarsi da un incubo, si ingigantirono e ritornarono a splendere. D'istinto, abbracciò la cacciatrice wiccan. «Sis!» Quel nomignolo uscì con voce fievole dalla sua bocca increspata. «Cosa mi sta succedendo?!» chiese, stringendo ancora di più Silvia a sé, come se avesse paura di perdersi.
«Nulla, Cathy! Nulla...» la rassicurò l'altra. «Finché ci sarò io, non ti accadrà nulla.»
Catherine si umettò le labbra e fece un lungo respiro prima di lasciare l'amica. Bugiarda, avebbe voluto dirle: ogni giorno correvano innumerevoli rischi; tuttavia le chiese quale incantesimo avesse lanciato.
«L'exorcizo malum» rispose Silvia. «Sembrava che qualcosa di malefico fosse penetrato nel tuo cuore» spiegò meglio. «Così l'ho esorcizzato.»
«Tornerà?»
Silvia si guardò prima attorno e poi, mordendosi il labbro inferiore, gettò gli occhi sui suoi anfibi neri e scricchiolanti. «Non so nemmeno cosa fosse, a dire il vero.»
All'improvviso, Silvia avvertì un fischio all'orecchio, acuto e penetrante, esattamente come quello sentito da Dean quando Castiel cercò di parlargli per la prima volta dopo averlo salvato dall'Inferno. Pensò che stesse diventando sorda, se l'aspettava da un momento all'altro, mentre tentava di tenere tappate le orecchie con entrambe le mani. Pronunciò anche qualche incantesimo, sottovoce, ma fu inutile: il fischio non si fermava, anzi: sembrava aumentare d'intensità. Silvia desiderò di svenire, almeno avrebbe smesso di sentire quel fischio assordante e di soffrire nel vedere Catherine andare nel panico. Aveva le lacrime agli occhi dal dolore alla testa, ma riuscì ad intravedere Catherine. Qualcosa in lei la incuriosì: aveva dei movimenti lentissimi, tanto da sembrare quasi immobile, ad un certo punto. Fu lì che il fischio cessò di tormentarla e tutto riprese a scorrere normalmente.
«Silvia!» esclamò Catherine disperata.
La wiccan tremava per lo spavento, si sentiva ondeggiare come in balia delle onde e fissava un negozio alla sue destra. «Lì!» disse indicando il negozio. «È lì che dobbiamo entrare!»
«Sì, ma cosa diamine ti è successo?!»
Silvia ansimava ancora. Nessuno, stranamente, si era accorto di nulla, forse perché troppo presi dall'immedesimarsi col personaggio che intendevano interpretare per un giorno. «La magia è cambiata...» sussurrò. «È cambiata ed è anche in pericolo.»
«P-pericolo?» chiese Catherine, sconvolta che ci fosse qualcosa più potente della magia che potesse mettere in pericolo quest'ultima.
Senza aggiungere altro, Silvia prese Catherine per la manica della sua giacca e la trascinò fino all'entrata del negozio, il quale, all'apparenza, poteva essere scambiato per un'innoqua bottega in cui acquistare erbe, infusi e candele profumate dalle forme più bizzarre. Anzi: sembrava che Catherine non riuscisse proprio a vedere il negozio, tanto che la maggiore pensò fosse sotto un'incantesimo di protezione. L'antica insegna recitava C'era una volta e nella vetrina erano esposte varie cianfrusaglie tra cui un acchiappasogni ed un libro senza titolo, rilegato in pelle.
Silvia non lasciò andare il braccio di Catherine nemmeno una volta davanti all'entrata. Per ella era tutto normale, ma per la piccola cacciatrice sembrava di andare a sbattere contro un muro. Quest'ultima cercò di riprendersi il braccio, di ribellarsi, ma Silvia la teneva molto stretta. Catherine cominciò a domandarsi da dove le uscisse tutta quella forza, ma proprio in quel momento ecco che il muro le sfiorava già la punta del naso e sentì immediatamente una sensazione orribile: le sembrò che qualcuno la stesse ricoprendo con uno strato di lattice nero, sottovuoto, le mancò il respiro, per un attimo non vide più nulla, e dove la stava portando, perché, panico, aiuto non respiro cosa sta succedendo?!
Poi Catherine si trovò all'interno del negozio.
Silvia la lasciò andare, ma i suoi occhi non cercavano nulla al di fuori di ciò che voleva trovare; al contrario, Catherine osservava, dopo essersi ripresa, cosa aveva attorno. Il locale era sufficientemente grande, tuttavia l'organizzazione lasciava un po' desiderare. Pile di libri, identici a quello esposto in vetrina, erano sparsi un po' ovunque. Una cinquantina di acchiappasogni erano appesi per tutta la superficie del soffitto ed erano stati appena smossi dalla lieve folata di vento che aveva accompagnato l'entrata delle due cacciatrici. Sotto di essi e a pochi passi da Silvia lo spazio era parzialmente occupato da oggetti senza nome e da un bancone di legno marcio, un pezzo d'antiquariato lasciato lì a morire.
«Regina?» chiese una voce stridula e femminile. Non era molto lontana, proveniva da dietro il bancone; difatti Silvia riuscì ad intravedere una sagoma tremante al di là della tendina che divideva il negozio dal suo retro, così le rispose per rassicurarla:
«No... Mi chiamo Silvia.»
«Oh, grazie al cielo!» disse la voce ora più serena. Una manina tirò indietro la tenda e una donna sui sessantanni oltrepassò la soglia. Ella indossava una lunga tunica di cotone, forse un po' troppo fresca per quel periodo dell'anno, sotto ad un poncho di chiffon bianco, della stessa tonalità della tunica. I capelli raccolti in un'elegantissima crocchia erano argentati mentre la sua pelle era di un magnifico color cioccolato, morbida e ben curata. E gli occhi? Verdi come pochi, sembravano due smeraldi strappati alla Madre Terra ed incastonati in quel viso ipnotizzante. Non aveva alcun filo di trucco, ma era agghindata ben bene con bracciali, anelli e raffinate collane d'oro. A catturare l'attenzione delle due ragazze, poi, fu un piccolo tatuaggio sul polso sinistro della signora.
«Ma quello è...» balbettò Catherine indicando il tatuaggio. «Ce l'abbiamo anche noi, ma come ciondolo!» Ed entrambe le ragazze tirarono fuori dal collo delle magliette il loro ciondolo antipossessione.
La signora sorrise. «Ragazze, fareste meglio a tatuarvelo o così rischiate di farvelo strappare dal collo.»
«E lei rischia di farsi bruciare mezzo braccio» controbatté Silvia.
«Sì, ma almeno son sicura di non perderlo» disse dunque la negoziante.
Catherine e Silvia si scambiarono un'occhiata e i loro occhi sembravano dire l'una all'altra: Non ha tutti i torti! Poi Silvia si ricordò della prima cosa che la signora disse quando loro erano entrate nel suo negozio:
«Mi scusi, ma potrebbe dirci chi è Regina?» chiese, curiosa, la maggiore.
«Regina...» farfugliò la donna. «Regina è una strega molto potente. È buona, per l'amor del cielo, adesso sì, ma...»
«Ma...?» fece eco Catherine vedendo la donna incerta sul da farsi .
«Be'... Regina ha una specie di gemella malvagia, la regina cattiva. È stata proprio lei ha mettere in pericolo la magia, poco fa!» spiegò la signora.
«Allora è vero» esclamò sussurrando la piccola Catherine. Era più spaventata che mai: tutte le paure che aveva provato fino a quel momento non erano nulla, messe a confronto. Ma doveva tenere duro, per il bene di tutti.
«Sì, purtroppo. Vorrei dirvi che non è così, ma la magia è cambiata. Prima questo luogo era conosciuto come La Terra Senza Magia. Solo quelli con particolari abilità potevano farne uso, come ad esempio me o voi due.» La negoziante tormentò un anello d'oro facendolo girare attorno al suo dito sottile e affusolato. «Con il suo ultimo gesto, la regina cattiva ha cambiato le leggi della magia, espandendola a tutti i Regni, in tutte le Terre, mettendola così in pericolo. Così come le nostre vite e l'intero Creato. E tutto questo perché avete dato il via ad un effetto domino inarrestabile.»
Catherine e Silvia rimasero scandalizzate. «Credevo che fosse dei nostri!» esclamò la prima mentre la seconda cercava di capire cos'avessero fatto di tanto sbagliato.
«So chi siete e di certo sono dalla vostra parte» si difese la negoziante. «Ma avete commesso un grave errore, aiutando quell'arcangelo.»
Silvia capì. «Ma Gabriele non meritava di morire!» le disse Silvia, quasi urlando.
«No, certo che no, ma avete fatto varcare i confini della realtà da voi conosciuta all'uomo con la cabina blu e avete disturbato l'ordine cosmico!»
«I-il Dottore?» chiese Silvia.
«Il Dottore non è umano!» precisò Catherine. «E poi lo ha fatto, lo abbiamo fatto per una giusta causa. Non sapevamo che ci sarebbe stata una conseguenza simile.»
«Questo perché voi cacciatori non ragionate mai prima di agire» disse seriamente la donna. «Ma oramai è fatta e non c'è modo di tornate indietro.»
«Potremmo sempre sistemare le cose!» propose Catherine con vigore e speranza e Silvia la seguì come sempre:
«Esatto!» esclamò anch'essa piena di positività. «Ci dica solo cosa sta succedendo esattamente e faremo tutto il possibile per porre rimedio!»
La signora congiunse le mani e sospirò. «Qualcosa di oscuro sta arrivando e vi servirà molta, molta magia, per sconfiggerla. E, per trovarla, dovrete chiedere aiuto a colei che scrive di voi.»
Passò qualche istante di silenzio, pausa durante la quale Silvia continuò a sbattere le palpebre cercando di capirci qualcosa. Immediatamente dopo Catherine tirò una leggera manata sullo stomaco di Silvia. «Marra Superwholocked!» esclamò con gli occhi sbarrati. Notando l'espressione confusa della sua amica, la piccola cacciatrice si spiegò meglio: «Il Dottore ci aveva parlato di questa ragazza, Marra Blablabla, che aveva scritto delle storie su di noi, ricordi?»
Silvia rifletté qualche secondo, tormendandosi i ricci disperati, poi assottigliò gli occhi e le tornarono in mente le parole dell'alieno. «Ma è di un'altra dimensione; non possiamo raggiungerla se non col TARDIS!» esclamò e sentì la negoziante sogghignare. La cacciatrice la squadrò, insospettita, e così anche Catherine. «Lei...» disse la maggiore puntandole un dito contro. «Lei sa come farci arrivare alla scrittrice.»
«Diciamo di sì» rispose la negoziante sempre sorridendo. «Sulla vostra strada incontrerete un ...giovane di nome Theck. Sarà lui a dirvi chi cercare per sapere cosa fare.»
Silvia non aveva mai sentito parlare di questo Theck, ma dal nome le sembrava rassicurante. «Okay, perfetto, e Theck sia!» esclamò sorridendo. Finalmente una gioia! «Ma prima dovremmo occuparci di quel cagnolone che vaga per la città.»
«Oh, sì, certo! Quasi dimenticavo che eravate venute fin qui per il Chupacabra!» esclamò la negoziante. «Sono più che sicura che troverete qualcosa appartenente ad esso nella vostra macchina» aggiunse facendo l'occhiolino mentre le due ragazze la guardavano shockate: come faceva a saper che erano state attaccate?
La signora sorrise e prese da un cassetto del bancone una collana. Il cordoncino era fatto di semplice e rudimentale spago, ma il ciondolo non gli si accoppiava affatto: era un cristallo lungo sì e no quattro centimetri e di un delicato color rosa. «Tenete. Sapete come funziona?.»
Silvia prese fiato, senza staccare gli occhi di dosso alla signora. «G-grazie, sì, è... L'ho già usato» disse un po' pensierosa. «Quanto le dobbiamo?» chiese e ripose, nel frattempo, il cristallo nella tasca dei suoi jeans.
In quel momento il cellulare di Catherine squillò. «È mia madre» disse preoccupata. Silvia si girò verso di lei, perdendo così il contatto visivo con la negoziante. Le disse di rispondere pure e che avrebbe pensato lei ad un fotomontaggio se ce ne fosse stato il bisogno; quando poi Silvia si voltò nuovamente nella direzione del bancone... la signora era sparita. Ed il cellulare di Catherine aveva smesso di squillare.
«Ma cosa...?» si chise Silvia. «Signora?» chiamò incredula; si alzò sulle punte dei piedi e si assicurò che ella non fosse caduta o svenuta dall'altra parte del bancone, ma non c'era traccia di lei. Nel mentre, Catherine si era diretta verso la soglia che portava al retro del negozio; scostò la tenda e si guardò attorno, ma sembrava non essere nemmeno lì.
«Comincio a pensare che forse dovremmo uscire di qui. Tipo subito» propose Silvia incamminandosi verso l'uscio e facendo segno a Catherine di seguirla alla svelta.
«Oh, sì, sì, sì! Ottima idea!» esclamò l'altra ed entrambe si precipitarono fuori, di nuovo in mezzo ai tanti cosplayer. Si fermarono dopo soli pochi passi all'esterno del negozio e si girarono per guardarlo, ma...
«È sparito! È sparito l'intero negozio!» esclamò Silvia incredula e con gli occhi che rischiavano di uscirle dalle orbite. Attorno a loro, le due cacciatrici potevano percepirle: le persone cominciavano a guardarle male. Ma Silvia non se ne preoccupò: immerse fulminea la mano nella tasca dei jeans e si accertò che il cristallo fosse ancora al suo posto. Vi era ancora, per fortuna. «Va bene, il ciondolo è qui.»
«Sarà stata quella regina cattiva di cui parlava la negoziante?» sussurrò Catherine.
Silvia si schiarì la voce. «Penso proprio di sì, poveretta» disse alludendo alla signora che le aveva appena aiutate. «Ci ha rimesso la sua stessa vita e noi non sappiamo nemmeno quale fosse il suo nome.»
Quelle parole fecero gelare il sangue alla piccola Catherine. Una parte di lei ci aveva appena pensato, ma preferiva non dirlo ad alta voce: come spesso accadeva, Silvia le leggeva dentro. Una lacrima solcò una tenera guancia di Catherine, la quale prese Silvia per la manica della sua giacca di pelle nera e la trascinò via di lì, lontano dai guai.

«Ahh» si arrabbiò Silvia sbattendo forte la portiera del pickup. «Io qui non vedo nulla!»
«Calma, sis» sorrise Catherine continuando a cercare. «Sono sicura che troveremo qualcosa. Credimi.»
«Mhm...»
«Credimi» ripeté sbucando fuori dall'auto e guardando l'amica con un'espressione seria. «Tipo... Hai già controllato il tuo finestrino?»
Silvia aggrottò la fronte, poi capì e guardò il vetro in questione. Con faccia inorridita, richiamò l'amica.
«Che ti avevo detto?» esclamò Catherine dandole una leggera spallata.
Silvia rise grattando parte della saliva lasciata lì dalla creatura per raccoglierla in un fazzoletto. Finito il lavoro, mise via il fazzoletto e toccò la fronte di Catherine con un dito, proprio dove dovrebbe esserci il terzo occhio, come per accecarglielo scherzosamente. «Mannaggia a te» rise.
Catherine le fece la linguaccia e rise con lei. «Bene, dunque... Let's boogie!» esclamò felice. Lo era davvero, felice. Cacciare non la entusiasmava, ma era divertente. Per il momento.

«Finito?»
Silvia annuì. Catherine era appena tornata dal centro; era andata a prendere un pranzo veloce, giusto un paio di panini, ma Silvia non vedeva l'ora di porre fine a quella storia. Nel frattempo che l'amica era fuori, infatti, lei si era data da fare col piccolo incantesimo. Aveva bruciato la saliva del Chupacabra, immerso il ciondolo nelle loro poche ceneri e fatto poi oscillare lo stesso pendolo di cristallo sulla cartina della città di Lucca.
«Quindi?» chiese Catherine, su di giri. «Dove si va?»
«Da nessuna parte. L'incantesimo non ha funzionato.»
«Cosa?!»
Silvia inspirò significativamente. Si guardò i piedi, prendendo tempo. «Scherzavo!» esplose poi in una potentissima risata. Catherine le rispose lanciandole addosso la busta con dentro il suo panino. L'afferrò al volo, continuando a ridere come una pazza. La fregava sempre!
«So esattamente dove andare, Cathy. Mangiamo e poi andiamo a prenderlo, okay?»
«E se mangiassimo dopo?» propose la minore.
Silvia fece spallucce e abbandonò il suo panino sul tavolo. Lo stesso fece Catherine ed entrambe uscirono di fretta dal motel e si diressero al pickup nero.
Sfrecciarono veloci verso il punto in cui Silvia era sicura di trovare la creatura; la loro primissima caccia stava per terminare e ne avrebbero cominciate altre ancora. Mentre viaggiavano coi finestrini giù per metà, Silvia guardava l'amica di sottecchi. Le sembrava ancora tutto un sogno: solo pochi mesi prima erano sopravvissute ad un mezzo esorcismo nella loro scuola ed ora eccole lì. Chi l'avrebbe mai detto, che Silvia avrebbe realizzato il suo più grande sogno? Ricordava ancora l'età in cui era ossessionata dall'idea di divenare poliziotta. Non si era mai tolta dalla testa quel suo desisderio, ma poi, ripensandoci, era troppo restia alle regole per poter diventare una brava poliziotta e, diciamolo... Sam e Dean erano sempre stati i suoi idoli.
All'improvviso, Silvia rallentò. Erano arrivate. Condusse il pickup per un vialetto non asfaltato e spense l'auto. Davanti a loro si estendevano circa tre ettari di terreno incoltivato e abbandonato. Abbandonato proprio come lo era anche la piccola cascina che padroneggiava l'area selvaggia di vegetazione incontrollata.
Catherie sperava con tutto il suo cuore che la creatura non fosse nascosta in quella catapecchia che stava in piedi per miracolo, ma che fosse bensì in mezzo a qualche cespuglio, molto più sicuro se si fossero imbattute in una lotta due contro uno. Ma poi Silvia aprì bocca e le sembrò di perdere il terreno sotto i piedi:
«Dai, entriamo.»
«È... È lì dentro?» chiese indicando la cascina fatiscente.
Silvia annuì, seria in volto. Un po' dispiaciuta, anche, ma soprattutto molto euforica. Tuttavia teneva quest'ultima emozione per sé: sapeva che Catherine non era al settimo cielo e mostrare il contrario l'avrebbe infastidita. «Sì, ma meglio se ci limitiamo a parlare a gesti, fin da qui.»
«Certo» rispose Catherine mettendo il suo cellulare in silenzioso. Subito dopo lo fece anche Silvia, così poterono finalmente affrontare il Chupacabra. La maggiore si era però dimenticata di avvertire Catherine del piccolo piano che aveva in mente: disse, il più a bassavoce che potè:
«Tu lo distrai, io lo faccio alla griglia.»
L'altra annuì, pronta ad affrontare le sue paure, quando un ruggito alle loro spalle le spaventò tanto da farle balzare sul posto.
Silvia fu la prima a voltarsi e dalle sue mani partì una palla di fuoco. Ma mancò la mira e la sua magia andò a schiantarsi contro un mucchio di mattoni marci a pochi passi dalla creatura, la quale si infuriò ancora di più.
«Piano B?» chiese Catherine disperata.
«Corri!» urlò Silvia nell'esatto momento in cui il Chupacabra balzò nella loro direzione.
Le due ragazze si divisero e la creatura decise di seguire Silvia, la più lenta nella corsa. Catherine se ne accorse solo dopo qualche istante, giusto in tempo per vedere il salto dell'amica per evitare di inciampare nel tronco di un albero lasciato lì a terra a morire.
«Cathy!» urlò Silvia quando recuperò un po' di terreno mentre l'amica non la perdeva di vista. «Distrailo! Ora!»
«Sì, ma come?» esclamò Catherine dall'altra parte della strada. Rischiavano di attirare troppe attenzioni, in quel modo. Ed ecco che le venne l'idea. Portò due dita alla bocca e fischiò. Fischiò così forte da interrompere la corsa del Chupacabra che si voltò, la guardò e ringhiò. Silvia non aveva più alcuna importanza, ora, poichè Catherine l'aveva provocato. E cominciò dunque ad inseguirla all'interno dell'edificio abbandonato.
«Oh, Cristo!» esclamò correndo più veloce di come era abituata per allenarsi, ma fortuna che si era allenata: questo le permise di mantenere una velocità stabile e di compiere salti e altre piccole acrobazie che mai in vita sua si sarebbe sognata di poter fare.
Silvia, ormai, aveva ripreso fiato. Vedere Catherine correre disperata l'avrebbe divertita, ma non in quell'occasione. Così cercò di concentrarsi al meglio. Era sulla soglia della cascina. La prima cosa che notò fu l'odore: non sapeva esattamente di cosa fosse quel puzzo nauseante – se delle vacche che c'erano lì anni prima o del Chupacabra – e non voleva di certo scoprirlo. Aumentò la concentrazione al novantanove per cento – il cento per cento era impossibile, in mezzo alle urla e alle maledizioni di Catherine – ed entrambe le sua mani crearono un'enorme palla di fuoco. Scagliò la palla verso l'animale, ma lo mancò ancora una volta. Subito creò un'altra palla infuocata, ma aspettò a lanciarla: doveva cogliere l'attimo giusto.
«Silvia, sbrigati!» urlò Catherine col fiato corto, ma l'amica non la sentì.
La maggiore sentiva solo il suo battito cardiaco e contava i secondi, studiava il vento e la velocità dell'animale. Fissò un punto sul muro, prendendolo come obiettivo. Catherine non osava zigzagare, ragion per cui era tutto più facile, per Silvia. E poi... Il Chupacabra rimase impigliato mezzo secondo in una vecchia trave del soffitto rimasta sul pavimento. Eccolo, era l'attimo che attendeva: scagliò la palla infuocata ed essa sembrò rallentare, ma fu solo un'allucinazione di Silvia. Non appena l'animale si liberò dalla trappola di legno marcio, esso venne colpito dall'incantesimo di Silvia. Subito venne avvolto da fiamme incandescenti e violente. Lui urlò, si dimenò, scalciò e cercò di seguire comunque Catherine, ma dopo pochi istanti di follia ceca, il vecchio pastore tedesco si accasciò a terra, esanime.


«Be', dai, è stato facile!»
Catherine la fissò torva. La sua mano sinistra sulla maniglia della portiera. «Facile?! Stava per sbranarmi!»
Silvia rise, nervosa. «Avevo tutto sotto controllo» disse per tranquillizzarla. Non era esattamente tutto sotto controllo e per questo si sentiva un po' bugiarda, ma erano le "regole" del mestiere, dopo tutto.
«Sì, vabbè...» Catherine abbozzò un sorriso e sbuffò dal naso. Aprì poi la portiera e fece per salire in auto, ma sul suo sedile vi era qualcosa di famigliare. Un libro, ma non un libro qualunque: era uno dei libri che aveva visto nel negozio della signora che le aveva aiutate. «Sis!»
«Mhm? Che c'è?»
«Questo è uno dei libri che ho visto in quel negozio! C'è anche lo stesso titolo... Once upon a time.» Catherine accarezzò la copertina. Era morbida e l'odore che emanava quel libro era come una droga: un intenso e piacevole profumo di carta che adoravano entrambe annusare quando compravano un libro nuovo.
«Vuol dire C'era una volta, vero?» chiese Silvia sedendosi e mettendo in moto il pickup.
«Sì, esatto. Sembra un libro delle favole» disse col sorriso di una fantastica bambina curiosa. Quindi aprì il libro e subito dopo se ne pentì. Non lo aveva aperto verso la fine, ma ciò che vide la fece rabbrividire lo stesso. Si sedette in auto e chiuse la portiera senza guardare cosa stava facendo. «Siamo noi due» disse con la convinzione che le si fosse congelato il cervello.
«Sì, certo, come no!» esclamò Silvia. Stava per partire quando Catherine le mise sotto gli occhi un'immagine di loro due che, con l'aiuto del Dottore, esorcizzavano un demone nell'Aula Magna del loro liceo. «Jesus Christ!» esclamò quindi Silvia.


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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Stairway To Heaven...okay, maybe not (P1) ***


PARTE SECONDA
Ciao, bestiolina


CAPITOLO IV
Stairway To Heaven*...
...okay, maybe not
(Parte Prima)


Silvia russava. Catherine avrebbe voluto ucciderla.
Alla fine, la minore delle due si arrese e si alzò dal letto. Nel mettersi le scarpe, guardò la sua migliore amica bofonchiare mezza scoperta e in una posizione comoda solo per un gatto. Aveva caldo ed era stremata dalla fatica, ecco perché russava così tanto, ma a Catherine venne comunque l'istinto – fortunatamente represso – di soffocarla con un cuscino. Si stropicciò gli occhi ed uscì sulla veranda del motel, passeggiata di legno instabile che collegava tra loro tutte le stanze della struttura, portando con sé il suo computer.
Catherine si sedette ai piedi della loro porta, una volta richiusa, e, prima di accendere il portatile, ammirò l'alba autunnale stretta nel suo fidato giubbotto. Era fredda e tutto sembrava essere rinchiuso in una bolla azzurra. Da lì riusciva a scorgere parte della città in cui erano arrivate dopo il Chupacabra e ben due fantasmi: Bologna, ancora lei. Più o meno.
Il panorama era così rilassante che la ragazza non avrebbe mai più voluto andarsene. Tuttavia era solo una piccola sosta fra tante tappe. Diede un ultimo sguardo alle nuvole rosa sopra le punte dei sempreverde, lontani di fronte a lei, ed accese infine il computer.
Subitamente, Catherine si collegò alla rete. Controllò la posta elettronica, rispose ai messaggi dei suoi ex compagni di classe che la cercavano su Facebook e poi, infine, dette una sbirciata alla cronoca tramite un giornale online. Non l'avesse mai fatto!
«Silvia! Silvia, svegliati!»
«Ohh» replicò l'altra con gli occhi ancora chiusi ed impastati dal sonno.
«Ho trovato un caso!» esultò. Catherine era piombata di nuovo in camera portando con sé scompiglio ed entusiasmo. Aveva in mano del fantastico materiale per dare vita al loro non quarto, ma bensì quinto caso se si conta anche Mary, il demone sconfitto grazie all'aiuto del Dottore.
«Ah, un caso? Bene.» Silvia sbadigliò, non ancora consapevole di chi fosse. Mai svegliare un Acquario in quel modo... Potrebbe rovinarti l'intera giornata.
«Non mi sembri molto felice» osservò Catherine intristendosi.
Silvia si alzò dal suo letto e, senza mettersi gli occhiali, si diresse verso il bagno. «Be', Sherlock, è come se mi avessi svegliata investendomi con un carrarmato, fai un po' te!»
Catherine rise. «Ops» disse mentre Silvia si fissava allo specchio. «Ne hai ancora per molto o prima o poi inizierai a lavarti?»
La maggiore si massaggiò gli occhi, poi prese spazzolino e dentifricio. Poco prima che iniziasse a lavarsi i denti, tuttavia, Silvia sentì un gallo cantare. D'istinto si arrestò e, con gli occhi chiusi, pregò Catherine: «Cathy, dimmi che non è l'alba.»
Catherine, allora, scappò via correndo disordinatamente mentre Silvia si spazzolava i denti con malavoglia: Catherine aveva scelto di essere mattiniera proprio quel giorno, quando Silvia non aveva riposato bene durante la notte. Si sentiva a pezzi, il dentifricio salato non la aiutava, anzi le dava più sonnolenza.
«Comunque sembrerebbe che a Ferrara stiano diventando tutti santi, uno dopo l'altro» gridò Catherine dal suo letto.
«First of all»[1] sputacchiò Silvia, sporcando di dentifricio mezzo lavandino, «abbassa la voce...» Sentì la compagna d'avventure ridacchiare, consapevole del tono di voce alto che le veniva naturale usare. «E poi... What the hell?!»[2]
«Sì, sis, lo so» proseguì Catherine ora con un volume più moderato. «Per questo mi sembrava appunto un caso!»
In quel momento Silvia uscì dal bagno, raggiungendo Catherine ed il suo portatile. «Hai un buon fiuto, Cathy!» La minore le sorrise. «Dimmi tutto su questi santi» la invitò lei.
La minore si schiarì la voce. «Sette scomparsi, quattro donne e tre uomini, tutti cristiani. Due di loro, marito e moglie, avevano ritrovato la Fede dopo un incidente stradale e la morte della figlia più piccola. Gli altri sono, o erano, credenti ma non praticanti. Ma, oltre a questo, non c'è nulla che li accumini.»
«Allora come fai a dire di aver trovato un caso?»
Catherine sorrise ed esclamò: «Leggi qua!» poco prima di porgerle il computer che mostrava ancora l'articolo di cronaca. La ragazza aveva evidenziato la parte più interessante dell'articolo, intitolato Miracolo o "solo" un serial killer?, e dalla faccia che Silvia assunse nel leggerla parve piacerle.
«Cathy...» Silvia faceva fatica a credere ai propri occhi. «Sei sicura che questo non sia un sito satirico o qualcosa del genere? Sai, tipo Nonciclopedia?» chiese preoccupata.
«No, è scritto da esperti e ottimi giornalisti, purtroppo! Ho fatto alcune ricerche sui nomi!»
«Accidenti, mi sembra tutto così assurdamente simile ad un libro di Stephen King, Insomnia...»
«Non l'ho ancora letto, che vuoi dire?» chiese Catherine inclinando la testa di lato.
«Nel libro, King parla di alcuni anziani che cominciano ad avere difficoltà a dormire. Per questo, sviluppano una particolare dote: possono vedere le auree delle persone. Inoltre, fatto più inquietante, possono vedere delle strane creature, invisibili ai più, che agiscono per conto del Destino. Mi pare vi fosse nulla di divino, ma non ne sono sicura... Comunque una di queste creature è credo impazzita e uccideva gente a caso in milioni di modi possibili.» Silvia appoggiò il computer sulle gambe della sua proprietaria e si aggirò per la stanza, probabilmente pensando a voce alta: «Può darsi che Stephen King non sia del tutto matto come dicono!»
«Nel senso che credi davvero che quelle creature esistano?» Catherine la guardò con un mezzo sorriso. Silvia stava dicendo sul serio?
«Sì, perché no?» esclamò la maggiore. Cominciò a vestirsi; voleva capirci qualcosa di più, su questa storia, poiché se la sua teoria era corretta... Molta gente rischiava grosso! «Sette persone scomparse dopo che sulle loro teste appare un'aureola? Oltre che ridicolo, è pericoloso. Che sia una delle creature di King o no, dobbiamo fermarla subito.» Barcollò un istante e decise che forse era meglio infilarsi le scarpe da seduta. Le stomaco le brontolò, seguito da quello di Catherine. Entrambe si guardarono in faccia, incapaci di non ridere. «Sto morendo di fame! Presto, andiamo!»
Uscite dalla loro camera, si misero in viaggio e, appena varcati i confini di Ferrara, si diressero verso un bar, uno qualsiasi, quando incontrarono un'umile edicola. Per un euro e qualche centesimo, Silvia acquistò un quotidiano e mostrò a Catherine la prima pagina: avevano foto e nominativi degli scomparsi di Ferrara.


La porta del bar scampannellò e Catherine e Silvia vissero un dejà-vu tremendamente angosciante. Grazie a questo, tuttavia, Catherine si ricordò di una cosa importantissima: «Sis, hai nascosto bene quel libro?» le chiese d'un tratto.
«Sàmhach!»[3] le rispose l'altra, con la stessa parola di quando non voleva farla agitare mentre sorrideva al barista. «L'ho oscurato insieme agli attrezzi da lavoro.» E per attrezzi da lavoro Silvia intendeva pugnali, balestre, macheti, pistole e fucili, ovviamente.
«Ciao! Cosa posso farvi?» chiese loro il barista.
Silvia notò le vene nel braccio del ragazzo e rimase lì impalata a fissare ciò che più l'attraeva in una persona. Catherine se ne accorse, lo sapeva, e rispose per entrambe: «Due cappucci e due cornetti vuoti, grazie!»
Il barista ampliò il suo sorriso ed indicò la teca dei cornetti: «Fate pure. Banco o tavolo?»
«T-tavolo» balbettò Silvia ricevendo anche una pacca sullo stomaco da Catherine, la quale andò a prendere le brioches.
«Smettila, Dean» scherzò quest'ultima sedendosi.
«Shut up, Sammy!» la seguì poi Silvia.
Poco dopo ecco i cappuccini, ma il barista sembrava più attratto da una coppia di muratori appena entrati nel piccolo locale piuttosto che da Silvia. Essa notò tutto questo e preferì incupirsi ed ascoltare i discorsi della gente attorno a loro.
Una donna, probabilmente colombiana, parlottava con un'altra donna, la quale, dai tratti rigidi e spigolosi, era quasi certamente di origini russe. «La mia povera signora» stava dicendo la colombiana con le mani giunte come in preghiera. «La sua sorella è stata scelta dal Signore!» esclamò poi facendosi il segno della croce. La russa la guardava con tanto d'occhi, stentava a crederci.
Silvia prese allora il quotidiano acquistato qualche istante prima. Guardò attentamente le foto di ogni donna scomparsa: ce n'era una sola su quattro dell'età giusta per avere una sorella che avesse bisogno di una badante. E fino a che Silvia non sentì le parole della colombiana, prima di sapere quanto soffrisse la sorella della scomparsa, ella era rimasta piuttosto professionale; ora, invece, si sentiva a pezzi proprio come le persone coinvolte nel caso e Catherine, la quale girava il suo cappuccino fissandolo raffreddarsi da un bel po' di tempo. «Ehi, Cathy, tutto bene?» stava stupidamente per chiederle, ma non fece in tempo poiché il barista tornò dalle due cacciatrici con aria curiosa.
«Poliziotte?»
«Cosa» esclamò Silvia più che chiedere. Okay che non era fresca come un fiorellino appena sbocciato, ma si vedeva che era troppo giovane, per dinci!
«Ahem... No» sorrise Catherine. «Siamo...» brancolò nel buio. La sua mente sembrò in tilt mentre i suoi occhi supplicarono la compagna di viaggio.
La copertura era l'unica cosa a cui non ebbero mai pensato prima di quell'istante, ma fortunatamente Silvia si fece trovare pronta: «Investigatrici private» disse lei. «Stiamo cercando sette dispersi. Ne sai qualcosa?» Mostrò poi l'articolo al barista, pochi attimi per capire ed ecco che egli fece un mezzo passo all'indietro, impallidito.
«S-siete le uniche, sapete?» disse lui con voce tremante.
Catherine e Silvia si guardarono l'un l'altra, accigliate, poi, all'unisono, chiesero: «Come, scusa?»
«Siete le uniche... Qui nessuno si è ancora interessato veramente al caso! Ho raccontato alla polizia quello che ho visto, ma mi hanno riso in faccia. Anzi! Ho rischiato il reparto psichiatrico! Purtroppo siamo in un quartiere ...bigotto.» Il ragazzo tornò ora più vicino alle ragazze, mantenendo un tono di voce piuttosto basso ma udibile. «Chi vi ha ingaggiate? Anzi, no, non ditemelo» Sembrava molto turbato e cominciava a sudare. Fece finta di pulire un tavolo lì vicino e rimise sul bancone lo strofinaccio. «Fareste meglio ad andarvene, non sto scherzando!» bisbigliò dando alle due ragazze dei tovagliolini puliti e poi filò dietro al bancone.
Catherine e Silvia non sappero come reagire. Come si faceva a rimanere tranquilli avendo il distintivo e vedendo tutte quelle persone sparire una dopo l'altra? Silvia non ne poteva più di gente come quella. Si alzò, stanca e confusa e seguì il barista.
Lui la vide e alzò il mento. A Silvia venne da sorridere: quel ragazzo era proprio una prima donna adorabile. Sulla maglietta blu a maniche lunghe vi era scritto qualcosa, in bianco, che Silvia notò solo in quell'istante: Gabriele, il suo nome.
«Avanti, Gabe» fece la smorfiosa. Sapeva che non avrebbe funzionato, ma volle provarci lo stesso. Gli accarezzò il gomito da dietro e quello si ritrasse immediatamente.
«No» disse lui. «Non dirò nient'altro.»
Silvia si rassegnò insoddisfatta. Andò alla cassa ed estrasse il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans tirando poi fuori una banconota da venti euro. «Pago e ce ne andiamo, tranquillo.»
Gabriele lasciò cadere lo strofinaccio zuppo nel lavandino e si asgiugò le mani nel camice rosso. Fece lo scontrino e prese con due dita affusolate la banconota, sfiorando la mano di Silvia, sbadatamente. Subito, entrambi ritrassero le loro mani, come se avessero ricevuto la scossa l'una dall'altro. Si guardarono perplessi ed increduli per qualche istante. La banconota era rimasta sola soletta sul bancone, ma ecco che Gabriele fu il primo a riprendersi: tirò fuori il resto che le spettava e lo pose gentilmente sul piattino, prendendo poi la banconota per riporla nel cassetto.
Ancora un po' intontita, Silvia prese il resto, lo infilò nel suo portafogli e si diresse fulminea da Catherine. «Svelta, andiamo» esclamò dandole una leggera pacca sula schiena.
«Ma non ho ancora finito» protestò l'altra masticando da un lato la punta del cornetto burroso.
«Catherine Sarah Girado!» Silvia la guardò severamente, con gli occhi sbarrati e la bocca un po' all'ingiù. Era la prima volta che pronunciava il suo nome per intero. Le fece cenno di seguirla, poi prese l'uscio del locale.
Catherine, dunque, non poté fare altro che afferrare cornetto, quotidiano e telefono e seguirla fuori.
Cominciarono a camminare, senza meta, lungo le strade invernali di Ferrara addobbate con ghirlande dai profumi inebrianti. Al centro di ogni ghirlanda vi era una foto accompagnata da un nastrino color perla con la scritta Santa della settimana. La ragazza in foto appariva felice e beata e, esattamente come le due cacciatrici avevano letto nell'articolo di giornale poche ore prima, ella aveva una strana luce attorno alla nuca; era così luminosa che dava quasi fastidio agli occhi, anche solo a guardare l'immagine stampata e lucida.
Catherine si avvicinò alla ghirlanda più vicina a loro. «Macabro» sospirò.
«Umano» replicò Silvia guardando altrove. «Non sanno cosa in realtà stia succedendo. Non sanno darsi alcuna spiegazione se non una divina e, per questo, non riescono a vedere la verità.»
Catherine si accigliò, ma rimase a fissare i rametti di pino intrecciati nella ghirlanda. «E quale sarebbe la verità?»
La maggiore si strofinò le mani per riscaldarsi. «Stephen King.»
«Oh, ma dai!» ridacchiò Catherine. «Non dirmi che ci credi sul serio!»
Silvia alzò le spalle mezzo secondo. In quel momento, da dietro, le arrivò un'improvvisa folata di vento gelido e rabbrividì, chiudendosi di più dentro il suo giubbotto verde militare. L'accompagnava ancora quell'espressione torva e seria che aveva nei momenti di pensierosità particolarmente angosciante.
«Sis, che hai?» le chiese infine Catherine.
Un'altra folata di vento gelido. Questa volta Silvia si mise a posto i ricci ribelli. L'aria era così fredda e inquietante che nemmeno le foglie secche osavano danzare sui marciapiedi, ma correvano. «La negoziante aveva davvero ragione.»
«Cosa?!» esclamò Catherine.
«Ho toccato per sbaglio la mano del barista e... Ho visto ciò che ha visto lui. Non sono mai riuscita in questo potere, Cathy. La magia sta cambiando troppo in fretta. Dobbiamo sbrigarci a fermare tutto questo!»
Catherine balbettò parole sconnesse prima di riprendersi e parlare. «Non sappiamo nemmeno cosa stia succedendo davvero alla magia, come pensi di riuscire a fermarla? Non ci sono più regole!»
«Già» disse Silvia sorridendo all'amica. «Non ci sono più regole»


Note:
[1] Traduz.: "Prima di tutto"
[2] Traduz.: "Ma che cavolo...?!"
[3] Tradotto dal gaelico scozzese significa pace, ma anche tranquillo/a


*https://www.youtube.com/watch?v=iXQUu5Dti4g (Tasto destro del mouse; Aprire in unaltra scheda)

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Stairway To Heaven...okay, maybe not (P2) ***


CAPITOLO V
Stairway To Heaven...
...okay, maybe not
(Parte Seconda)


Erano ancora in quella viuzza fredda e umida. Catherine stentava a crederci: la sua migliore amica non era più una semplice ragazza che sapeva prataicare magia rossa, verde e bianca; Silvia era diventata una strega a tutti gli effetti e ora ne era certa! Prima le sfere di fuoco per uccidere il Chupacabra, ora la Chiaroveggenza... Il pensiero che attraversò la sua mente in quell'istante fu: Non c'è due senza tre: e se arrivasse un terzo potere, più pericoloso e difficile da gestire?
«Cathy» la ridestò Silvia. Ella le indicava un punto alle sue spalle e, improvvisamente, la piccola cacciatrice si rese conto della presenza di un coro.
Catherine si voltò e vide un gruppo di donne cantare. Camminavano lente verso di loro, spargendo petali di rose prima del passaggio di una fanciulla vestita di bianco. Era piuttosto gracile, con un musino a punta e la bocca minuscola e stretta. A Silvia sembrò un'aliena e rise tra sè e sè, nonostante la cosa non fosse molto divertente.
«È lei» disse Catherine. «È la ragazza della ghirlanda.» La guardò intensamente e dopo qualche istante dovette staccarle gli occhi di dosso: al centro del suo campo visivo aleggiava quel fastidioso cerchio di luce che ognuno di noi vede quando guarda il Sole. Era giorno, ma l'aureola era molto potente. Le vennero i brividi. Da credente ma non praticante che era, una parte di Catherine credette al miracolo.
Silvia, invece, studiava la scena da un'angolatura diversa. La recente perdita della nonna le aveva fatto perdere ogni speranza nell'esistenza di un Essere Superiore... Prese Catherine per la manica e la trascinò da parte, per far passare la processione.
La fanciulla della ghirlanda intercettò lo sguardo delle due cacciatrici e sorrise loro. Non ricevendo in cambio un loro sorriso, si fermò. Tutte le altre donne smisero di camminare, qualcuna si coprì la bocca in segno di stupore. Videro che la ragazza guardava le due straniere con occhi misericordiosi e colmi di benevolenza e, ovviamente, chinarono il capo lasciandole libero un passaggio diretto alle due giovani.
«Chi siete?» chiese una voce falsamente angelica. «Il mio nome è Selenia.»
Catherine si accigliò. C'era qualcosa che non andava per il verso giusto, qualcosa di evidente, ma che non riusciva a notare. Selenia, la ragazza della ghirlanda, la santa della settimana, si stava lentamente, inesorabilmente avvicinando a loro e nei suoi occhi Catherine riusciva a scorgere qualcosa che non riusciva a tradurre.
«Da dove venite?» chiese Selenia in tono dolce.
«Da lontano.» Silvia fu fredda come la sua risposta, secca e cruda.
Woah! Easy, tiger! avrebbe voluto dirle Catherine, ma stava ancora cercando tra gli occhi di Selenia una risposta. Ella sbatteva le palpebre così ferocemente che si chiese se avesse un pelucco in un occhio, ma poi si accorse che rispettava un determinato ritmo: tre battiti brevi, tre più lunghi e ancora tre battiti brevi. Cosa significava?
«Qual è il vostro nome, straniere?» Parlava come se fossero state nel diciannovesimo secolo e quella vocina quasi stridula dava immensamente fastidio a Silvia.
«Io sono Melissa, lei è la mia amica Valeria» disse Silvia.
Selenia sorrise, ma il suo viso mostrava sempre più angoscia e disperazione. «Benvenute» aggiunse prendendo, tra le sue, la mano di Silvia e stringendola con occhi colmi di speranza prima di voltare loro le spalle e tornare tra le donne, le quali ripresero a cantare.
Catherine aspettò che il gruppo si allontanasse per poi rivolgersi a Silvia, sussurrando: «Perché le hai mentito?»
«Non lo so, istinto.» Silvia si rese conto solo allora che Selenia le aveva lasciato qualcosa tra le dita. Si guardò la mano e vide un piccolo pezzo di carta su cui c'era scritta una sola parola: Aiuto. Lo passò a Catherine la quale spalancò gli occhi e subito capì cosa volessero dire i battiti di ciglia ritmati: era un codice morse usato per urlare in silenzio S.O.S.


«Due Geronimo, un'acqua e una Coca, okay!» La cameriera sorrise e se ne andò via con l'ordinazione.
Al tavolo, Silvia si guardava attorno con gli occhi lucidi. «Ahh, quanto adoro questi posti!»
«Me ne sono accorta» rispose Catherine sorridendo. «Secondo me, in una vita precedente eri un pistolero o magari uno sceriffo bastardo.»
Silvia staccò gli occhi dalle travi di legno al soffitto e guardò storta l'amica. «Perché bastardo?» chiese incredula.
«Dai, non sei buona come il pane» rise.
Ma Silvia continuava a guardarla mezza divertita e mezza confusa. «In effetti...» aggiunse ridendo. «Però, parlando del caso...»
«Sì?»
Silvia spostò il suo bicchiere. «Quella ragazza...»
«Ha paura» completò Catherine. Vide che Silvia annuiva senza guardarla negli occhi: stava pensando a quella povera "santa della settimana" e probabilmente si sentiva in colpa per non averla aiutata subito. Erano rimaste a guardare il gruppo di donne portarla via, non avevano mosso un dito ed entrambe si sentivano uno schifo. La verità è che, fino a quel momento, i loro casi non coinvolgevano molti umani, c'erano solo loro e il mostro di turno. Da quel giorno cambiò tutto.
«Sis» la richiamò Catherine. «Sis, non potevamo fare nulla. Non con tutte quelle donne attorno.»
Silvia sbuffò dal naso facendo girare gli occhi sull'interno dell'Old Wild West della città. Sgranocchiò una nocciolina e si ripulì le mani dalle briciole. «Lo so.»
«Ecco, quindi non stare ad arrovellarti la testa, ti fa solo male!»
Silvia annuì ed in quel momento arrivò la cameriera di prima. Lasciò loro una bottiglietta ed una lattina e tornò al suo lavoro. Le due ragazze sorseggiarono, senza farsi prendere dalla gola, la bevande.
«Avremmo però dovuto seguirle, vedere dove avrebbero lasciato la ragazza e poi capirci qualcosa di più.» Silvia sembrava alterata con se stessa e il silenzio di Catherine le fece capire che anche lei la pensava uguale: avevano sbagliato.
«Appena finito il pranzo, torniamo indietro» le promise Catherine e Silvia, per la prima volta dopo l'incontro con Selenia, le sorrise sinceramente.
Mangiarono in silenzio e velocemente, col rischio di star male, ma non importava: volevano salvare Selenia a tutti i costi. Trangugiarono ogni singola briciola e patatina nei loro piatti, anche le due foglie di insalata riccia sparirono nei loro stomaci perché, sì, erano nervose, ma avevano anche bisogno di tanta energia poiché non sapevano quando avrebbero mangiato di nuovo.


«Selenia?» Una donna aprì la porta della cameretta della ragazza. «Selenia, tesoro» disse la donna richiudendosi la porta alle spalle dopo essere entrata nella piccola stanza rosa. Dalle pareti erano state tolte le foto, custodite nei loro quadretti, e lo si poteva notare dagli spazi più puliti di quelle quattro mura che gridavano tristezza. La scrivania prima ricoperta da libri di scuola e disegni ora era spoglia: non serviva più nulla. L'armadio era stato svuotato e dato tutto in beneficienza. Le era rimasto solo il letto, due abiti bianchi e la biancheria.
«Mamma...» Selenia si alzò dal letto. Una lacrima ancora esistante nel suo occhio destro, ma prontissima a scendere.
«Cosa c'è che non va?» le chiese la madre con tutta l'ingenuità del mondo.
Selenia spalancò gli occhi; in tutti i suoi diciassette anni, sua madre non l'aveva mai trattata così, come una bambina. «Smettila!» le urlò spaventata. «Smettila, okay?!»
«Selenia, bimba mia, non capisci che sei stata scelta?» disse avvicinandosi alla figlia, ma ella si scostò per scappare verso la finestra. Sebbene lì sentisse freddo, percepiva più calore umano che da quella madre che non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Possibile che fosse una dei pochissimi a chiedersi perché le persone del suo paese continuassero a sparire nel nulla?
«Sei stata scelta dal Signore, sei fortunata!» continuò comunque la madre.
Selenia guardò fuori dalla finestra. Gli occhi guardavano distratti oltre le cime degli alberi, i loro rami secchi, senza vedere nulla. Il vuoto in quella camera e dentro di sé. Poggiò le mani sul calorifero per riscaldarsi e quasi si bruciò. «Fortunata?» Selenia si voltò e inspirò lentamente. «Fortunata? Qui vengono scelti e poi muoiono. Dici che sono fortunata?»
«Ma, no, Selenia, che dici?» rise dolcemente la madre. «Non muoiono!»
«Okay, spariscono!» esclamò esasperata. La lacrima non poté più attendere e si fece strada sulla sua pelle. Avrebbe voluto aprire velocemente la finestra e gettarsi nel vuoto. Era una scelta drastica, ma certa. Non sapeva cosa sarebbe successo alla scadenza della settimana di gloria; mancavano solo pochissime ore, dopo tutto!
«Tesoro, non fare così.» La donna si avvicinò alla figlia, che questa volta non si scansò, ma si fece accarezzare il volto da quelle mani traditrici. «Stai diventando una lampadina» cercò di scherzare. In effetti, avevano notato che la luminescenza del nimbo aumentava o diminuiva in base alle emozioni provate dal soggetto.
Tuttavia, Selenia non rise.
«Vedrai che, quando tutto sarà finito, sarai felice. Andrà tutto bene, stai tranquilla!»
Tranquilla?, pensò la ragazza, ma non disse nulla; preferì soffocare un singhiozzo e chiudere gli occhi, desiderando che sua madre capisse.
Quando finalmente Selenia rimase da sola, la diciassettenne ne approfittò per fare ciò che andava fatto. Era uno dei tanti pomeriggi nebbiosi e scuri, per cui nessuno l'avrebbe vista distintamente. Si alzò dal suo letto e andò verso la finestra. Era decisa a farla finita. Guardò l'orologio. Erano le quindici. Mancavano nove ore. Chissà perché le cose misteriose a spaventose accadono tutte a mezzanotte?
Col cuore in gola e i piedi scalzi e infreddoliti, Selenia aprì la finestra. Sotto di lei solo il vuoto. Il fico nel giardino della vicina era mezzo congelato, ma con i rami potati era più scoperta. Fortunatamente per lei, tattavia, non vi era anima viva nei paraggi. Selenia si sporse un pochino. Non era altissima, ma non fece fatica a sedersi leggermente sul davanzale freddo e umindo della sua finestra. Per un attimo ci ripensò... Ma no, porca misera, era decisa!
Prima una gamba.
E poi l'altra.
Ora Selenia era sempre seduta sul davanzale della finestra, ma le gambe non erano più rivolte verso la camera che l'aveva vista crescere, ma fuori, verso l'esterno. Una pantofola le scivolò dal piede già infreddolito mentre una nuvoletta densa le si formò davanti alla bocca. Poi, improvvisamente, Selenia si lasciò andare; le sembrò di cadere da un grattacielo benché stesse facendo solo due piani molto bassi in caduta libera. L'aria fredda le graffiava il morbido volto facendola rabbrividire. E poi, d'un tratto, quando meno se l'aspettava... Poof! Selenia cadde con un tonfo sordo sul prato bagnato dalla nebbia.
«Ahi!» si lamentò sussurrando ad occhi chiusi. Si massaggiò il braccio poiché era caduta male: un po' in piedi, un po' sul fianco e poi aveva rotolato sul braccio dolorante. Nemmeno lei sapeva come aveva fatto esattamente ad atterrare così stupidamente. Ma non poteva perdere tempo! Ed ecco che, in un lampo, si alzò da terra e, guardatasi attorno per accertarsi che nessuno l'avesse vista, scavalcò il basso muretto di cemento che delineava il perimetro della proprietà.
Una volta in strada, libera, Selenia provò un po' di panico: e se l'avessero riconosciuta? Ormai tutti sapevano chi fosse, tutti conoscevano la sua famiglia, il suo indirizzo, il suo numero telefonico di casa...
Subito Selenia rientrò in una via secondaria e buia, così stretta che non si poteva passare se non in fila indiana. Alimentata dalla speranza di salvarsi, la ragazza continuò a camminare velocemente per lasciarsi alle spalle la madre e le sue stupide convinzioni. Perché non danno mai ascolto ai giovani?
I passi di Selenia diventarono sempre più lenti. Echeggiavano stanchi e più lei andava avanti, più quella via le sembrava non finire mai. Ma poi, ecco, un angolo. Svoltato quello, Selenia avrebbe raggiunto la casa abbandonata. Era appartenuta ad una coppia di inglesi morti molti anni prima nella loro camera da letto in seguito ad un incendio e nessuno si era più occupato di abbatterla e ricostruirci sopra una nuova abitazione. Era rimasta semplicemente lì, a cadere a pezzi, a riempirsi di muffa e graffiti, vittima delle solite ragazzate. Tuttavia, quel giorno avrebbe finalmente riavuto l'occasione di ospitare tra le sue mura una persona: Selenia.
Peccato che fosse già occupata.
Selenia si guardò attorno; non vide nessuno. Probabilmente erano tutti a casa a scaldarsi davanti al caminetto o intenti a pregare, a ricamare o a spettegolare tra un sorso di cioccolata calda e l'altro. Indi attraverò, convinta che non vi avrebbe trovato nessuno. Invece, appena spalancò la porta d'ngresso della villetta mangiata dai tarli e dall'umidità, Selenia si ritrovò una pistola puntata alla tempia.
«Silvia!» urlò una ragazza con in mano un fucile dall'altra parte della sala.
E Silvia si rese conto di chi fosse. Mise giù la pistola e studiò il volto luminoso. «Ehi, ciao, Santa della Settimana!»
Selenia entrò, ripugnante. «Non chiamarmi così» disse quasi inferocita. «Mi chiamo Selenia.»
Silvia alzò entrambe le sopracciglia. «Wow, scusa...»
Ma Selenia non era più arrabbiata. Chiuse la porta e sospirò. «No, scusatemi voi» disse guardando in basso. La vergogna era alta e sentiva il suo peso schiacciarla lentamente. Era troppo, per lei, troppo. «È che tutta questa situazione mi sta mangiando viva, non ce la faccio più» pianse e finalmente trovò il coraggio di alzare lo sguardo. Intercettò gli occhi di Catherine, la quale si spaventò e le corse incontro.
«Ehi, ma guardati!» esclamò lasciando il fucile in bilico sul tavolo. «Da quanto tempo è che non ti fai una bella dormita?»
Selenia provò ad immaginare se stessa con gli occhi di Catherine, o, per come la conosceva lei, Valeria. Si vide con gli occhi tremendamente rossi, due valige sotto di essi e la pelle biancastra; doveva fare davvero schifo. Un'altra nota di vergogna l'attraversò ed ecco gli occhi ancora giù, sul pavimento scricchiolante. «Giorni, credo.»
Silvia e Catherine la fecero sdraiare sul pavimento; Silvia si sfilò anche il giubbotto e lo appallottolò per farne un cuscino. «Quanto manca all'ora X?»
«Non lo so» rispose Selenia e le due cacciatrici pensarono che fosse un mostro poco professionale, ma poi Selenia aggiunse: «Quanto manca alla mezzanotte?»
Catherine diede uno sguardo all'orologio: «Sei ore e mezza, perché?»
«Perché tra sei ore e mezza esatte lui mi troverà.»


Silvia provò ad accendere il fuoco. Pochi rametti raccolti per strada pensava sarebbero bastati, ma si sbagliava. «Fanculo» disse ed evocò una palla di fuoco. Fu così che cucinò con la mano et voilà i fagioli erano pronti! Li suddivise in tre; due parti nelle ciotole, la terza rimanente la lasciò nel padellino ancora bollente. Infilò un cucchiaio in ogni recipiente poi andò da Catherine. Ella stava sorvegliando Selenia, totalmente persa nei suoi pensieri.
«Yo.»
Catherine inspirò e tornò alla realtà solo quando una ciotola di fagioli le si presentò dinnanzi. «Uhh!»
«Già» rise Silvia. «Stasera si dorme in tre stanze separate!»
«Non credo che stasera si dormirà» precisò Catherine indicando Selenia.
Silvia adagiò la seconda ciotola ed il padellino sull'instabile tavolo e andò dalla ragazza, abbassandosi piano per svegliarla. «Selenia» sussurrò sfiorandola. Quella emise un gemito e si alzò subito dopo, scattando seduta, rischiando di dare una testata a Silva, che cadde all'indietro sul pavimento.
«Oddio, scusa!»
«No... Tranquilla...» faticò Silvia. Si tirò su e si massaggiò il fondoschiena. «Sto bene, sto bene» aggiunse vedendo Selenia preoccupata. «Dai, vieni a mangiare qualcosa finché è caldo.»
Cenarono in silenzio. Ogni tanto Catherine ripensava alla caduta di Silvia e le scappava una risata. Tutte stavano attente all'orario, ma nessuna osava dire una parola. Poi Silvia prese in mano la situazione.
«Sai già ciò che accadrà?»
Selenia mise giù il cucchiaio nella ciotola e così fece Catherine, ma solo quest'ultima aveva finito i suoi fagioli: Selenia aveva perso d'un tratto la fame. «No» rispose sinceramente. «So che, allo scadere del tempo, si scompare senza lasciare traccia. Se qualcuno rimane con te, non succede niente, ma non appena si rimane soli...» A Selenia vennero le lacrime agli occhi. «Gli altri sono spariti anche ore dopo lo scadere del tempo, basta anche solo un attimo di distrazione.»
«Quindi non potremo affrontare questa creatura se non lasciandoti sola» pensò Catherine a voce alta.
«Cosa?! No! Vi prego, non lasciatemi sola, ho paura!»
«No, no, no, tranquilla, non ti accadrà niente, okay?» cercò di rassicurarla Catherine, ma ormai non poteva più ritirare ciò che aveva detto: era vero che dovevano lasciarla sola, era indispensabile, purtroppo.
«Selenia» parlò Silvia continuando a mangiare i fagioli, come una selvaggia, direttamente dal pentolino. «Noi siamo qui per uccidere questo mostro, quindi dovremo per forza lasciarti da sola!»
Selenia sbiancò, era terrorizzata. Forse era meglio se stavo a casa, pensò.
«Ma non sarai davvero da sola» aggiunse Silvia trangugiando un'altra cucchiaiata di fagioli. «Farai da esca e noi saremo pronte e vedrai che andrà tutto bene, fidati!» Le fece l'occhiolino per incrementare lo spirito positivo sempre presente in lei, per sdrammatizzare e la cosa sembrò funzionare.
«Okay» sorrise Selenia. «Non mi sembra un ottimo piano, ma...»
«Ma è l'unico che abbiamo» finì Catherine. Ella prese poi le ciotole, il pentolino e i tre cucchiaie li portò verso quella che una volta era la cucina. Mise tutto nel lavandino e fece per aprire il rubinetto, stupendosi perché non usciva acqua corrente. Poi si drizzò e, girandosi, vide Silvia ridere sotto i baffi. «Sì, io essere stupida, va bene. Ora agita la bacchetta, Fata Madrina» esclamò Catherine senza alcuna arroganza.
Silvia agitò una mano e, magicamente, il rubinetto si riempì d'acqua, dapprima ferrugginosa, poi sempre più limpida, così che Catherine poté lavare le sei stoviglie.
«Ma cosa-?» si spaventò Selenia. «Sei una strega?!»
«No!» esclamò Silvia. «No, non sono una strega... Sono una wiccan! C'è una bella differenza!»
«Be'... Da quel che ho visto, non hai usato nessun incantesimo infinitamente lungo e noioso e nemmeno amuleti o...»
«O...?»
«Code di rospo?» chiese schifata Selenia.
Silvia sbuffò tra le risate di Catherine, poi si coprì la faccia in segno di rassegnazione; Catherine rispose per lei:
«Sì, lei è partita come wiccan, ma, vedi, Selenia...» cominciò ad asgiugare il pentolino ancora un po' unto per mancanza di sapone con cui lavare. «Sono successe un bel po' di cose, ultimamente. Lo vedi quel libro su quella sedia?» chiese indicando alle sue spalle.
Selenia si voltò e notò solo in quel momento il libro. Strano, pensò, non lo avevo notato fino ad adesso...
«Quel libro parla di noi ed è una delle tante conseguenze scatenate dal ribaltamento delle regole della magia» spiegò Catherine asciugandosi le mani; aveva finito di fare la bella lavanderina e ora aveva mani e braccia congelate.
Selenia rimase perplessa, con gli occhi spalancati e la bocca pure. «Eh?!»
«Sì, mi rendo conto che tutto questo sia strano, per te...» fece Silvia alzandosi da tavola. «Cathy, che ti viene in mente? Raccontarle una cosa del genere!»
Catherine stava per scusarsi quando Selenia la interruppe:
«Cathy? Ma non ti chiamavi Valeria?»
Catherine e Silvia si scambiarono un'occhiata fugace che voleva dire: Miseriaccia.
«Sì, ehm... Dovevamo inventarci nomi falsi. Fa parte del mestiere» disse Silvia.
«Mestiere?»
«Siamo cacciatrici.»
Siamo cacciatrici. Quelle due parole dette da Catherine con estrema naturalezza riempirono di gioia il cuore di Silvia. Era al plurale e finalmente sentiva che la sua migliore amica provava entusiasmo in ciò che facevano. Si sentì così felice che per un istante dimenticò la situazione alla Insomnia. Poi un suo stesso colpo di tosse la riportò alla realtà e guardò l'orologio. «Ragazze. Sono le ventidue e trenta.»
Catherine annuì seria. «Prepariamoci.»
In pochi minuti Silvia descrisse la creatura a Catherine: bassa, grassa ma agile, molto simile ad uno gnomo ma senza cappello a punta. Questo era tutto ciò che ricordava dal contatto con il barista; niente di più, niente di meno.
Ore ventitré, pistole cariche. Ore ventitré e un quarto, smantellamento della stanza in cui avevano cenato: i borsoni vennero riposti in un altro angolo della casa abbandonata mentre le due cacciatrici spostarono il divano dalla parete e vi si nascosero in mezzo, pronte a sparare.
Selenia non voleva parlare. Non perché in quel modo pensasse di farla a quel mostro, ma perché era una situazione davvero insostenibile. Stettero in silezio tutte e tre per più di quaranta minuti, immobili.
Poi, all'improvviso, il rumore.
Il cigolio della porta, poi un tonfo, rumore di passi, lenti, poi veloci, sembrava avere dieci, cento, mille piedi, poi di nuovo passi goffi, un altro tonfo, questa volta sulla parete. A Silvia stava per scappare uno starnuto, per tutta quella polvere che si stava respirando. Per mille antistaminici, era allergica agli acari della polvere! Ma Catherine, fulminea, le tappò il naso, così che il mostro non scappasse; funzionò e Silvia tornò a respirare normalmente.
Altri piccoli passi e Selenia si sentì svenire; seduta sulla stessa sedia su cui aveva cenato, ora voleva solo scappare il più lontano possibile.
I passi, poi, entrarono nel salotto, oltrepassarono il divano e raggiunsero il tavolo. Fu lì che Selenia avvertì una ventata d'alito pesante e fece l'errore di voltarsi. Urlò suo malgrado; Silvia e Catherine scattorno in piedi come grilli e videro il mostro. Un mostro molto più umano di quanto si aspettassero. Tuttavia, egli articolava il braccio che le due cacciatrici non riuscivano a vedere bene in un modo alquanto strano: sembrava molle, gelatinoso.
Il mostro si voltò e vide le cacciatrici. Sorrise, poi anche il braccio più vicino a loro divenne molle fino a terminare la trasformazione – che durò pochi istanti – per diventare uno splendido tentacolo lungo quasi due metri. Con questi scaraventò le cacciatrici a terra con un semplice gesto, con l'altrò perforò deciso il torace di Selenia.
Ella gridò fino a che non emise che un semplice soffio e lasciò cadere in dietro la testa. Sangue caldo colò dalla ferita irreparabile poco prima che il mostro ingollò il corpo esanime della ragazza. Due istanti dopo la cena della creatura, la stanza si riempì di luce e quando tutto tornò sereno, Selenia ed il mostro erano spariti.
Forse non c'è nemmeno bisogno di dirlo, ma Catherine e Silvia ne rimasero sorprese. Si erano rialzate quasi subito dopo essere state balzate da una parte all'altra della stanza, tuttavia non avevano fatto in tempo ad attaccare il mostro per evitare la morte di Selenia.
«Se l'è mangiata...» sussurrò Silvia incredula. «Se l'è mangiata!»
Poco distante da loro, la pozza di sangue fumava ancora e le rimproverava come se Selenia fosse ancora lì con loro.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - Don't threaten me with a good time ***


CAPITOLO VI
Don't threaten me with a good time*


La mattina seguente nessuno sembrava cercare la piccola Selenia, piuttosto erano tutti concentrati ad ascoltare il parroco del paese. Riuniti in piazza e rivolti verso la breve gradinata diretta alla chiesa, sembravano ipnotizzati.
«Incredibile» commentò Silvia sottovoce. Si erano tenute alla larga dalla massa, solo per vedere come si sarebbero comportati. «Una ragazzina è scomparsa come altre sette persone, una dopo l'altra, per due mesi interi e nemmeno le autorità si scomodano per indagare! E ora annunciano che nella notte c'è stata un'altra santificazione. Che poi, vabbè, non funziona così, ma okay...» Poi Silvia si accorse che, nonostante la pioggia fine e fastidiosa, Catherine aveva chiuso l'ombrello. Ella, infatti, guardava un punto fisso davanti a sè, un po' in basso, con i capelli che le si appiccicavano alla fronte, a pochi centimetri dagli occhi, ma sembrava non curarsene.
«Cathy» la chiamò Silvia. Ruotò se stessa abbastanza da vederla bene in volto, lasciando stare la massa di pecoroni poco distante da loro.
Catherine inspirò lentamente, alzando il petto e raddrizzando la schiena. Il vento freddo non le faceva alcun effetto; continuava a pensare alla povera Selenia, i graffi sulla sedia, la pozza di sangue... Non avevano ancora capito cosa fosse successo e con quale creatura avessero a che fare, non sapevano nulla, non erano pronte a quella vita, alle scelte sbagliate, alle vittime che avrebbero visto morire davanti ai loro occhi. Catherine mandò giù il boccone amaro e guardò la sua migliore amica. «Sarà sempre così?»
Silvia capì immediatamente. «Non lo so, Cathy» le disse mettendosi proprio di fronte a lei. «Ma voglio essere onesta: può darsi che diventi sempre peggio.»
In quel momento Catherine sperava di sentirsi dire di no, una bugia, la prima bugia, invece Silvia fu limpida come al solito. Perché? Non poteva mentirle, per una buona volta?
«Può darsi che tutto migliori come può darsi che tutto vada a rotoli, da un giorno all'altro. Non possiamo sapere cosa ci attende. Possiamo solo andare avanti, un giorno dopo l'altro.» Silvia mise la mano libera su una spalla di Catherine e cercò il suo sguardo, trovandolo.
«Selenia era solo una ragazzina.» La voce di Catherine barcollò. Frustrazione, desolazione, rabbia... Erano tutte dentro il suo petto e vorticavano veloci e senza sosta, pronte a farla esplodere, ma Catherine era forte e ricacciò indietro le lacrime.
«Andiamo, Cathy» sospirò Silvia mettendole un braccio attorno al collo. La portò via di lì, sotto un unico ombrello, verso la casa abbandonata. «Rivendicheremo Selenia.»


Era sceso il buio e con esso anche il freddo. Silvia stava camminando avanti e indietro per riscaldarsi mentre Catherine faceva qualche ricerca. «Hai fame?» chiese. Vide Catherine togliersi gli occhiali dalle sottili lenti e posarli sul tavolino. Guardava la pioggia fitta illuminata dal lampione in strada, nessuna tenda ad isolarle dall'esterno. «Cathy, hai fame? Vado a prendere qualcosa?» ripeté.
«Uh? No, grazie» rispose Catherine distrattamente.
Silvia la vide rinforcarsi gli occhiali e rimettersi al lavoro, ricurva sul computer. Deglutì, guardò a terra. Si sentiva inutile, ma con unico portatile era difficile lavorarci in due. E poi non sapeva che incantesimo avrebbe potuto fare per portare avanti il caso. Si allontanò dalla porta e andò verso uno dei borsoni in cui tenevano le scorte di snack; vi trovò all'interno una barretta energetica. Mela e cannella. Stronzi, pensò la giovane cacciatrice scartando lo snack. Lo so che dentro ci mettete pure l'uvetta. L'addentò e, nonostante fosse squisita, sapeva e sentiva che l'uvetta si stava malvagicamente appiccicando ai suoi denti che tanto curava. Tutto pur di stare accanto alla "sorellina" ed aiutarla in qualche modo.
Quando Silvia finì di ruminare la barretta e mise da parte la carta per poterla gettare in un secondo momento, Catherine si alzò di scatto dalla sedia spaventando la maggiore. «Che succede?!» esclamò quest'ultima.
«Forse ho capito di che si tratta!»
«Cosa? Sul serio? Cos'è?»
«Cosa sono» la corresse Catherine. Sorrise mentre prendeva dal suo zaino un libro. Il titolo Creature mitologiche già diceva tutto. «K... Kr... Kra... Ah eccolo! Kraken!» esultò, dopodiché iniziò a leggere il breve trafiletto dedicatogli. «Conosciuto anche come Distruttore di navi, il Kraken fu una creatura leggendaria marina dalle enormi dimensioni e dalla straordinaria forza. La grande piovra affondava le navi al largo senza lasciare superstiti. Diversamente da come si pensa, non fa parte della mitologia greca nè di quella romana. Alcuni relitti, una volta ritrovati, presentavano segni sui fianchi: perforazioni date dal penetramento di un oggetto estraneo all'interno delle navi, buchi dal diametro di circa un metro: un mistero se si pensa che le palle da cannone, generalmente, raggiungevano un diametro di cinquanta o settanta centimetri. Dotato sia di branchie che di polmoni, esso fu l'ultimo dei Titani.» Detto questo alzò gli occhi dal libro e commentò saccentemente: «Ahimè, i Titani sono immortali... Questo libro ne sa meno di me, dovrei bruciarlo!»
Silvia pensò un istante alle parole dell'amica. «Ma questo non c'entra niente col caso, Cathy.»
«Okay, senti qua!» Catherine richiuse il libro e lo lanciò sul borsone, tornando poi al computer, povero di vitalità per colpa della batteria scarica. Seguita da una Silvia ancora un po' affamata, Catherine lesse le informazioni trovate con un leggero sorriso a colorarle ulteriormente il viso, rendendola più spensierata, serena. «Leggende narrano che il Kraken non si sia mai estinto, ma che viva in forma umana, sotto i nostri occhi: potrebbe essersi evoluto e aver trovato altri metodi per cacciare e sopravvivere; potrebbe essere il nostro vicino di casa, ma non sapremo mai la verità su questa straordinaria creatura. Tuttavia, in forma umana perde forza, ecco perché si pensa operi con l'aiuto di un'ancella di nome Djaba.» Catherine sembrava in estasi poiché la sua intuizione calzava a pennello. Ma non aveva ancora detto nulla su Djaba... «Sis, sai quali sono i poteri dell'ancella?»
«Mhm, sì, ovvio, ma è meglio se lo dici tu!» scherzò Silvia sedendosi sul letto di Catherine, dietro di lei.
«Djaba è portatrice di luce!»
Silvia spalancò gli occhi. «I santi della settimana! È lei che li sceglie! Cathy, sei un genio!»
Catherine si girò verso l'amica ed imitò un fugace inchino.
«Ma come li catturiamo? Come li uccidiamo?»
Una folata di vento fece entrare qualche goccia di pioggia dalla finestra priva di vetri e fece ricordare a Catherine che non stavano sostando in un motel, per cui non avevano corrente: spense il computer, che finalmente poté riposare, e lo ripose nella sua valigetta imbottita. «Nella maggior parte delle storie che parlano di com'è morto il Kraken di turno c'è una lama che trafigge o stacca la testa al polipone. Per quanto riguarda l'ancella non ho trovato nulla, ma opterei per il medesimo sistema.»
«E magari poi facciamo un bel falò?» aggiunse Silvia strofinandosi le mani già pregustado l'idea.
«Tu hai un problema serio, sorella» rise Catherine. «Ma, ahimè, sì: credo che sia l'unico modo per cancellare ogni prova.»
Entrambe, poi, raccolsero le loro cose. Avevano praticamente risolto il caso, sarebbero andate a caccia di notte perché era decisamente più sicuro: lontane da occhi indiscreti. Ma intanto dovevano capire come trovare mostro e aiutante.
Catherine fu la prima ad uscire dalla casa abbandonata. Controllò che nessuno fosse nei paraggi, ma la zona era deserta e fece quindi segno a Silvia di uscire a sua volta. Il pickup era a pochi metri da loro, bastava girare l'angolo ed eccolo lì. Caricarono le borse sul retro, Silvia praticò il solito incantesimo di occultamento e poi si sedettero ai loro posti. Prima, però, Catherine mise la valigetta col suo portatile sotto al suo sedile assieme al libro.
«Dunque» cominciò Silvia mettendo in moto il veicolo freddo in ogni angolo. Nel frattempo che si fosse scaldato il motore, voleva capirci qualcosa in più sul Kraken e Djaba. «Quindi... Djaba sceglie una qualsiasi vittima e poi il Kraken la fa sparire, dico bene?»
Catherine annuì mentre scaldava le sue mani alitandoci sopra. «Sì e ricordi quella luce poco prima che il Kraken sparisse?»
«Sì. Prima della luce, c'era così tanto buio che non siamo riuscite a vedere bene i lineamneti del mostro poi... poof!»
«Già!» esclamò Catherine. «È molto probabile che fosse opera di Djaba, essendo portatrice di luce. In più che marca le vittime, lo teletrasporta.»
Silvia si allacciò la cintura e così fece anche la più piccola delle due, partendo poi a tutta birra. «Be', sennò era troppo facile con due prede che rimanevano ben ferme, eh!»
Catherine rise, ma era concentrata su un dettaglio. «Sis, dove stiamo andando?»
«Ahem... A saperlo! La mia idea era di girare per la periferia alla ricerca di qualcosa di strano.»
«Mhm, no» disse Catherine accigliata. «Ho un presentimento: opterei per quel bar in cui siamo andate la mattina in cui siamo arrivate!»
«Gabe? Dici che...»
«Non dico nulla» sussurrò Catherine mettendo le mani avanti a sè. «Ho solo un presentimento!»
Silvia fermò l'auto. Tamburellò qualche istante sul volante poi si rimise in marcia: fece inversione e via dirette verso quel bar!


Era tardi e Silvia si aspettava di trovare il bar chiuso come tutto il resto attorno a loro. Infatti fu così. Nella via non passava anima viva. C'erano giusto un paio di lampioni funzionanti su sette per cui i fari della macchina delle due cacciatrici erano come un pugno nell'occhio. Silvia spense le luci dopo aver accostato e rimase lì ferma a guardare Catherine. «E ora? All'apertura mancano solo...» Controllò l'orologio. «Otto ore, che vuoi che sia?»
«Shh! Guarda là!»
«Eh? Cosa? Dove?» Silvia si accuattò e guardò fuori attraverso i fori del volante. Catherine le indicava un punto così lontano che la maggiore intravide qualcosa solo dopo qualche secondo che ebbe strizzato bene gli occhi. «È Gabe?»
«Credo di sì! Ehi! Hai visto? O me lo sono immaginato?»
«Che cosa?»
«Avevo ragione!»
«Ma cosa?!»
Catherine non capì più nulla. Aprì e si fiondò sul marciapiede sbattendo poi la portiera con noncuranza.
Silvia la chiamò, ma era troppo tardi; non le rimase che seguirla. «Cathy, cosa fai? Torna qui!» urlò sussurrando preoccupata. «Cathy! Cathy!»
Nulla. Catherine non la sentiva. Le sue orecchie ribollivano dalla rabbia, così tanto che a stento sentiva il suo respiro diventare sempre più arrabbiato. «Tu!» gridò. «Mostro!»
E Silvia ebbe la conferma che Gabriele era coinvolto in quella storia in prima persona: egli si arrestò di colpo appena riconobbe le due ragazze. Non sembrava spaventato, nemmeno intimorito. Poi Catherine lo chiamo per nome:
«Djaba!»
Silvia si accigliò. «L'ancella?» si chiese. Le scappò una risata. «Gabriele è l'ancella del Kraken? Dio mio, adoro questo lavoro!» esclamò sorridendo. Tenendo sotto controllo sia Djaba che Catherine, frugò nei borsoni dopo aver tolto l'incantesimo e ne estrasse due lunghi macheti.
«Io vi avevo avvertite, ragazze!» esclamò l'ancella arretrando senza alcuna espressione sul viso. «Speravo che non foste cacciatrici. Ve la siete cercata!»
«Cathy, sbaglio o è la prima volta che ci succede di poter parlare col mostro prima che arrivi il momento della ghigliottina?» Silvia stringeva un machete per mano e si avvicinò correndo; lanciò una delle due armi a Catherine e si arrestò.
«No, aspettate un momento...» Ora sembrava che Djaba avesse paura. Indietreggiava più velocemente, le mani protese in avanti come per difendersi nonostante le due cacciatrici non lo avessero ancora attaccato. «Possiamo arrivare ad un accordo! Non sono io quello cattivo! Voi non sapete tutta la storia, vi prego!»
«Col cavolo!» esclamò Catherine prima di avventarsi sull'ancella. Lo prese per la collottola e lo sbatté contro il muro, accanto all'entrata del bar. «Come scegli le vittime?»
«C-cosa?»
Silvia, rimasta in disparte, aveva già capito tutto.
«Non fare il finto tonto, razza di nullità!» Catherine lo schiacciò ancora facendolo tossire. Quello teneva le mani alzate, chiedeva pietà con gli occhi, tuttavia Catherine era troppo alterata per graziarlo. «Dimmi come li scegli o ti stacco la testa a morsi» lo minacciò fredda.
Djaba respirava così affannosamente che pareva stesse morendo da un momento all'altro. «È del tutto casuale!»
«Cathy, ferma» le si avvicinò Silvia. I suoi ricci ondeggiarono quando saltò sul marciapiede. «Ha detto che non sappiamo tutta la storia.»
«Già, è vero» si accigliò la minore. «Quale storia?»
«Facciamo che mi lasci andare e te la racconto?»
«Facciamo che lei ti lascia andare e io ti do fuoco se scappi?» sorrise Silvia dando vita, nella mano libera dal machete, ad una sfera di fuoco scoppiettante. Entrambe lo videro annuire senza alcuna preoccupazione così Catherine lo liberò dalla morsa.
«Sei una strega» constatò Djaba indicando la mano di Silvia che, fino a pochi istanti prima, alimentava del fuoco magico.
«Ero una Wiccan, a dire il vero.»
«Eri?»
«Storia lunga» tagliò corto Catherine. «Racconta la tua versione dei fatti» aggiunse poi, nascondendo il machete dietro la schiena. «Siamo curiose.»
Djaba deglutì. «Tutto iniziò dalla nascita del mio capo. Il Kraken. Ebbe origine negli oceani ed era una creatura totalmente libera e buona. Tuttavia, un giorno, la dea Calispo vide quanto egli fosse potente e grande e volle catturarlo. Lo attirò a riva con l'inganno, dopodiché lo tramutò in un uomo. Calipso voleva sapere tutto di lui: se fosse stato Zeus stesso a crearlo, Calipso avrebbe potuto ricattare il dio in qualche modo per diventare più potente...» Djaba fece una pausa. «Calipso, però, non riuscì a terminare il suo piano: si innamorò della forma umana del Kraken, il quale la rifiutò, così lei pensò che l'umanità fosse spregievole ed egoista. Lo maledisse: da quel giorno in poi, avrebbe vissuto per metà umano e per metà creatura marina, costretto a uccidere per evitare la furia della dea che, altrimenti, avrebbe dato inizio all'Apocalisse.»
Silvia e Catherine cambiarono espressione.
«Apo-cosa?» disse Silvia con voce strozzata.
«Il Kraken sarebbe una specie di eroe?»
Djaba alzò le spalle. «Pensate quello che volete, ma se il Kraken smettesse di uccidere un umano alla settimana... Moriremmo tutti. Io sono stato creato solo per aiutarlo a ricordare.»
Poi a Catherine venne il lampo di genio. «Ah, ma forse tu non sai una cosa! Silvia ti ricordi quei cacciatori che incontrammo circa un tre mesi fa a Bari?»
Silvia si accigliò, ma stette al gioco. «Sì... Mi ricordo...»
«Erano greci!» esclamò la minore con un sorriso mezzo falso. Le poche lezioni di recitazione prese durante il periodo delle medie erano finalmente servite a qualcosa. «Facevamo fatica a capirli, ma parlarono di una dea che loro stessi uccisero per salvare dei bambini che aveva rapito. Ora che ricordo bene, la dea era proprio Calipso!»
«Dici sul serio?» esultò. «Questo vuol dire che l'incubo è finito!»
Silvia allentò la presa sul machete: ora le era tutto chiaro sul serio. Il piano di Catherine era davvero arguto!
«Calipso è morta!» Djaba alzò le braccia al cielo e sembrò ringraziarlo devoto. Poi, all'improvviso, abbracciò Catherine piangendo. «Niente più morti sulla nostra coscienza!» Appena la ebbe lasciata andare si asciugò le lacrime che gli stavano facendo gelare le guance. «Devo avvertire subito il mio capo! Venite con me?»
Catherine e Silvia inspirarono a pieni polmoni. Eccoci, si dissero guardandosi negli occhi per pochi istanti. «Certo!» dissero poi all'unisono.


Pochi chilometri dopo ecco che il pickup delle cacciatrici stava parcheggiando di fronte ad un eco mostro. Si trattava di una vecchia fabbrica lasciata lì a marcire in mezzo alla campagna gelata dalle fredde notti invernali. La struttura di tre piani cadeva letteralmente a pezzi, non aveva più né porte né finestre; le mura, sia esterne che interne, erano ricoperte da graffiti e simboli rabbrividevoli. Sparsi ovunque c'erano siringhe usate, profilattici e un odore di urina così schifosamente forte che Silvia dovette usare la magia e creare una bolla d'aria pulita attorno alle loro teste per poter continuare a camminare. Esse facevano tuttavia fatica a proseguire con un'andatura naturale, poiché nascondevano nel fianco dei giubbotti i lunghi machete della notte appena passata.
«Manca poco, ancora una rampa di scale e siamo arriv-»
«Djaba.» Una voce imponente provenì dal piano superiore interrompendo la salita dell'ancella.
«Tranquillo! Porto buone notizie!» esclamò radioso aumentando il passo. «Queste due cacciatrici affermano che la dea Calipso è morta, mio signore!»
Silvia e Catherine raggiunsero le due creature pochi istanti dopo.
Il Kraken era, in quel momento, totalmente umano. Le squadrò con occhi vacui, sembrò volesse leggere loro nella mente. Dopo un po' alzò il capo e regalò a tutti un sorriso che gli procurò delle piccole fossette. Si mise una mano tra i capelli mori e lunghi fino alle spalle per pettinarli all'indietro rivelando due occhi blu profondi come l'oceano da cui proveniva. Indossava abiti stropicciati e infeltriti, ma il fascino rimaneva lampante. «La dea Calipso morta...» disse incredulo. «Djaba, ti rendi conto?»
«Oh, sì, mio signore! Non è fantastico?» esultò ancora.
Il Kraken sorrise ancora e si voltò.
Catherine, che fino a quel momento era rimasta in un religioso silenzio come Silvia, prese parola: «Il pericolo dell'Apocalisse è terminato. Siete liberi» sorrise.
Mentre Djaba manteneva la sua espressione felice, il Kraken si voltò nuovamente. «Djaba, sei uno sciocco.»
Parole taglienti che spezzarono il sorriso ebete di Djaba. «Come, scusi?»
«Credi forse che non mi sarei accorto della dipartita della dea che mi ha condannato a tutto questo?» disse il Kraken, anche se l'espressione più adatta sarebbe urlò.
Djaba rimase a bocca aperta. «Mi hanno mentito...»
Silvia si mise subito sull'attenti; Catherine sorrise, più rilassata. La maggiore non si era accorta che l'altra impugnava il machete con una totale disinvoltura tale da sembrare pazza. «Avete ucciso milioni di persone: ovvio che abbiamo mentito, idiota» esclamò Catherine. «Però ora sono stufa di chiacchierare!»
Silvia approfittò dello stordimento di Djaba: prese il machete da sotto il suo giubbotto e corse verso Gabriele il quale non si accorse dell'arma. Il suo collo zampillò qualche secondo poi, dopo che la testa cominciò a rotoloare giù per le scale imbrattandole di sangue caldo, il suo corpo cadde con un lieve tonfo ai piedi della ragazza. Ella guardò il Kraken che la fissava impassibile.
«Non sarà così semplice, ora» dichiarò il mostro tirando un angolo della bocca leggermente in su. Nemmeno una smorfia ed ecco che entrambi gli arti superiori si erano trasformati in tentacoli violacei con striature rosate e ventose candidamente bianche. Arrotolò uno di essi per poi allungarlo nella direzione di Silvia che venne scaraventata dieci metri più in là.
Di lì in poi fu questione di frazioni di secondo: il cuore di Catherine era alimentato dalla rabbia per la morte di Selenia e per quanto il Kraken aveva fatto alla sua migliore amica. Solitamente, Catherine era il cervello mentre Silvia era il braccio; tuttavia, quella volta la piccola cacciatrice non riuscì a mettere da parte i suoi sentimenti. Il Kraken sorrideva soddisfatto a pochi passi da lei, guardando Silvia tossire senza riuscire a rialzarsi e qualcosa, negli occhi di lei, la fece scattare: partì in corsa e, con un colpo secco e assolutamente imprevedibile, tagliò di netto il tentacolo destro del mostro: secondo i suoi calcoli, avendo ucciso Selenia e scaraventando Silvia col tentacolo destro, la forma umana del Kraken non era mancina. Tagliandogli il suo arto prediletto, il mostro doveva risultare più impacciato o, per lo meno, disorientato. Disorientato al punto da dare a Catherine il tempo di attaccare una seconda volta, mirando al collo, ma il Kraken ebbe, inaspettatamente, i riflessi pronti.
Esso arrotolò il tentacolo sinistro attorno al polso della mano di Catherine che reggeva il machete. «Sei una ragazza sveglia» sibilò il Kraken. «Sarebbe davvero un peccato se tu morissi ora proprio come quella ragazzina che avete cercato di salvare.»
Catherine cercò di tirare un calcio in faccia a quel mostro quasi gelatinoso senza successo. Poteva far cadere il machete nell'altra mano, ma lei era mancina: rischiava grosso. Poi, quando meno l'avrebbe detto, il Kraken emise un urlo di dolore. Era straziante, i suoi occhi sembrarono schizzargli fuori dalle orbite umane mentre una ferita andava bruciando e mangiando parte del tessuto del tentacolo rimasto: era la magia di Silvia.
Poco a poco, anche quel tentacolo si staccò dal resto del corpo e si srotolò lasciando libera Catherine, la quale, senza pensarci troppo, alzò in alto l'arma. «Ciao, bestiolina!» urlò; fendette l'aria per poi colpire il collo del Kraken staccandogli di netto la testa umana. Quest'ultima ruzzolò rimbalzando a terra mentre il suo corpo zampillante in ben tre punti cadde emettendo un fastidioso rumore gommoso.
Subitamente, Catherine si precipitò ad aiutare Silvia. «Stai bene?» chiese preoccupata.
L'altra mugugnò massaggiandosi una spalla. «Fa male, non riesco a muovere il braccio.» E in effetti aveva una lussazione anteriore. «Aspetta, stai ferma che ci penso io!» Le andò incontro e, prima di farla alzare in piedi, le fece scattare la palla nella posizione naturale. La vide celare un gemito di dolore come era solita fare poi si alzò come se nulla fosse.
Era finito. Era tutto finito. Dovevano solo bruciare i corpi e rimettersi in viaggio.


*https://www.youtube.com/watch?v=H5NqIsnyTG8 (Tasto destro del mouse; Aprire in unaltra scheda)

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Capitolo 8
*** Speciale ***


CAPITOLO
SPECIAL BDAY
per festeggiare questo mio quarto di secolo


Zibido San Giacomo, Milano


La serata era appena cominciata e Catherine e Silvia si erano meritate una piccola pausa dai mostri. L'imbrunire autunnale colorava tutto di un blu tendente al viola con una leggera spruzzata di rosa, sfumature che facevano sognare Silvia come una bimbetta che assiste ai suoi primi fuochi artificiali.
«Magico» commentò la maggiore sovrappensiero e con gli occhi incollati al cielo.
Catherine sorrise. Non volle assolutamente disturbare le fantasie dell'amica, così prese dal bancone del furgoncino entrambi i panini ricchi di salse e formaggi vari. Almeno quello di Silvia perché Catherine, ovviamente, aveva scelto un panino più sano. Dietro di lei – davanti a Silvia – erano disposti ben quaranta tavoli da sagre di paese e altri furgoncini adibiti alla vendita di alimentari, simili a quello cui si erano rivolte loro due – erano quasi una decina. Catherine s'incamminò verso il quarto tavolo, quello più libero dopo aver dato una leggera gomitata a Silvia per avvertirla del suo spostamento. Silvia si ridestò dal suo sogno ad occhi aperti e, così facendo, attirò l'attenzione di una bambina che si spaventò dallo scatto improvviso della cacciatrice. Un uomo anziano virò lo sguardo stanco sulla bimba spaventata il cui palloncino rosso si alzava felice e libero nel cielo ormai quasi del tutto blu oceano e privo di nuvole. Un ragazzo si accorse che all'anziano signore era caduto il bastone da passeggio e glielo raccolse; di quel gesto così raro e bello se ne accorse una sola persona che passava di lì alla ricerca di cibo solo per scoprire, qualche istante dopo, girandosi, che la sua fidanzata era rimasta poco più indietro. E ora seguiamo l'urlo del ragazzo nel tentativo ri richiamare la sua amata: la sua voce viaggia nell'aria come un'onda attraverso le persone, coinvolgendole seppur poco. Vediamo un giovanotto che raccoglie un bastone e lo porge all'anziano che ha ancora gli occhi puntati in alto nel cielo, ammirando lo stesso oggetto rosso – che al buio ormai sembrava viola – che sta ammirando una bambina in lacrime mentre una piccola carovana di persone bizzarre attraversavano la distesa di panche e furgoncini.
Nesuno si accorse di loro, ma una di loro seguì l'effetto domino fino a trovarne la causa. La signora – sui cinquant'anni, bella, distinta, grossi orecchini a cerchio che le sbucavano appena sotto ai capelli ricci e rossicci i quali, per poco, non riuscivano a sfiorarle le spalle coperte da uno scialle di lana lilla – assottigliò i grandi occhi, poi si rivolse al nano che la affiancava: «Roy, arrivo subito.»
Roy annuì divertito e la signora con lo scialle si staccò lentamente dal gruppo bizzarro.
Nel frattempo Silvia stava azzannando il suo agglomerato di grassi, proteine e carboidrati. Il formaggio filò disegnando un elastico che univa la sua bocca ed il panino quando Catherine notò la signora pocanzi descritta avvicinarsi a loro. Aveva un'aria molto amichevole, ma anche molto... strana.
«Voi due siete le cacciatrici, vero?» sorrise la signora con lo scialle lilla.
Catherine aggrottò la fronte. Ora il pasto caldo era l'ultimo dei suoi pensieri: chi era quella donna?; come faceva a sapere che erano cacciatrici?; cosa voleva da loro?; la voce si era sparsa e quindi ora avrebbero lavorato su commissione?
E mentre Catherine formulava tutte queste domande nella sua mente cercando nel frattempo di decifrare la sconosciuta, ecco Silvia che finiva di masticare, con una briciola di pane che rotolava giù dalla sua giacca di pelle nera; la riccia deglutì solo un decimo di quello che i suoi denti stavano macinando e chiese «E lei come fa a saperlo?» guardando la signora con lo scialle.
Ella sorrise sembrando così molto più giovane di quanto già apparisse normalmente. «Vi ho viste, tutto qui.»
«All'opera?» azzardò Catherine, sentendosi un po' esposta, scoperta.
«No, non all'opera, ma qui dentro» rispose la signora mettendo sul tavolo, tra le due cacciatrici sedute l'una di fronte all'altra, un vecchio e profumato – incenso all'ambra, Silvia lo riconobbe senza sapere bene perché e le venne in mente l'immagine di una ragazza coi capelli colorati in una giungla di piante da appartamento; forse lei da giovane, pensò la riccia – mazzo di carte. Quella in cima era girata con la sua figura rivolta al cielo.
«Tarocchi?» si stupì Silvia ancora masticando il suo panino. «Mai capiti.»
«Le carte o chi le fa?» chiese la signora col suo affascinante sorriso di chi la sa sempre lunga.
Silvia ci pensò su qualche istante. «Tutti e due» esclamò guardando la sconosciuta con vera curiosità.
«Be', certo» affermò la signora con lo scialle pensando nel frattempo quanto fosse stata fortunata col fatto che le due cacciatrici non sapessero come funzionano effettivamente i tarocchi. «Come se avere strane sensazioni e poter prevedere parte del futuro dopo un rituale filippino fosse normale.»
A Silvia andò di traverso il boccone, mollò il panino sulla carta oleata e si diede un forte pugno sul petto per poi bere un lungo sorso d'acqua comperata precedentemente. Catherine, invece, appariva così serena esteriormente che metteva i brividi; tuttavia dentro era in pieno subbuglio. La piccola cacciatrice aggrottò ancora di più la fronte tant'è che a prima vista poteva sembrare estremamente arrabbiata.
«Non voglio importunarvi o spaventarvi, assolutamente» chiarì la signora sistemandosi meglio lo scialle sulle spalle e le braccia tatuate – strani simboli tenuti ben nascosti da occhi indiscreti. «Vorrei solo aiutarvi.»
«In cosa? C'è un mostro nelle vicinanze?»
«No, Catherine» le rispose la signora sorridendo.
La piccola cacciatrice dimenticò totalmente il suo pasto, la gente attorno a lei, la bimba che singhiozzava ancora per la perdita del suo palloncino e la madre che gliene comperava un altro. «Non ci eravamo ancora presentate» disse in un fil di voce, incredula.
«Ragazze, non ho molto tempo ed è importante che voi due sappiate alcune cose su quello che vi aspetta. Posso sedermi?» La signora attese che le due cacciatrici annuirono poi prese posto non appena Silvia scalò dello spazio necessario per accoglierla sulla panca. «Il mio nome è Sabrilla. Nome d'arte, ma sarà l'unico col quale mi conoscete. Intese?» Le due cacciatrici annuirono di nuovo mentre Sabrilla si fece più seria e abbassò il tono di voce e proseguì: «Voi due vi siete perse e ritrovate più volte, lo so e so anche quanto sia importante per voi due, ma arriverà una prova decisamente più importante. Metterete a rischio entrambe la vostra vita e una di voi dovrà risollevare di peso l'altra. Chi deve cadere, cadrà, non lo si può impedire, ma ciò che si può evitare sarà il punto di non ritorno. E ricordate» aggiunse prendendo i suoi tarocchi: «qualsiasi cosa accada, vi ritroverete sempre. Basta solo cercare tra i libri.»
(Pre)detto questo, Sabrilla si aggiustò lo scialle lasciando intravedere ciò che a Catherine sembrò un ciondolo di labradorite e si alzò. «Ora vado. La mia compagnia si starà chiedendo dove io sia finita. Voi due fate le brave, okay? Buona serata.»
Catherine e Silvia seguirono le movenze di Sabrilla e notarno un gruppo di persone che, in lontananza, come per lasciare un po' di privacy, la attendevano. Un nano con baffi pungenti e curvati all'insù, un omone con ancora del trucco in faccia a renderlo solo apparentemente pallido, un ragazzino magro ma con occhi voraci del mondo che lo circondava e un'adolescente con una scimmietta sulla spalla che le scompigliava i capelli. Avevano tutti l'aria di aver passato un'ottima serata al lavoro, ai loro stand e al tendone principale poco distante e ancora allegramente in vita con gli ultimi spettacoli. Sì, perché mi ero scordata di dirvi che i furgoncini di quello street food si erano riuniti in occasionedel New York Saint Marie [1], un gruppo circense originariamente americano, ora misto, che stava girando l'Italia senza fissare nè date nè poster.
«I circensi sono proprio strani» commentò Silvia quando Sabrilla e i suoi amici furono spariti.
«Silvia!» esclamò Catherine mentre l'altra già tornava ad azzannare il suo panino. «Sis', non ti rendi conto di quello che ha appena detto?» Catherine allontanò il suo pasto da sé e guardò l'amica con tanto d'occhi. «Credo poco ai tarocchi, ma se quello che Sabrilla ha detto è vero...»
Silvia mandò giù il boccone e si fece seria. «Nemmeno io credo molto alle carte, ma quella signora mi ispirava fiducia. Se quello che dice fosse vero, allora abbiamo una marcia in più.»
«Non ti seguo» ammise Catherine cercando già un cestino per gli avanzi. Le era anche del tutto passata la fame, maledetta la sua paranoia...
«I libri. Sabrilla ci ha dato la soluzione» disse Silvia, un luminoso sorriso in mezzo alla penombra caotica della festa di paese.
Sentirono la risata di un bambino e, virando gli sguardi, notarono un gruppo di clown girare tra le panche. Catherine scattò in piedi come un grillo afferrando gli avanzi e li cestinò immediatamente appena vide il cestino che l'attendeva proprio dietro di lei. «Andiamo?» chiese con una nota di angoscia nella voce.


Lontana una cinquantina di metri, Sabrilla giocherellava con un tovagliolo di carta. Aveva mangiato poco quella sera, forse a causa della sua empatia. Vide le due cacciatrici affrettarsi a lasciare il posto e dirigersi verso il parcheggio. Prese il suo telefonino e compose un numero, fece partire la chiamata e attese. Dopo qualche secondo, qualcuno rispose. «Ciao, sono io, Sabrilla... Sì, sono appena andate via... No, non credo abbiano già incontrato Theck. Ho detto loro dei libri e sono andate via...» Un lungo silenzio durante il quale il suo interlocutore volle rassicurarla, questo è quello che la sua compagnia leggeva negli occhi della cartomante. «Grazie. Già, il mio l'ho fatto, ora non ci resta che pregare che vada tutto bene. Per fortuna nessuna delle due sapeva che per leggere i tarocchi serve prima un contatto con l'interessato... Ma, dai, Amnesha, nessun debito, stai serena! Ciao, cara, ci sentiamo.» Sabrilla chiuse la telefonata e guardò le stelle.
L'indomani della compagnia circense non si seppe più nulla. Sono partiti nel cuore della notte verso una nuova meta, Dio solo sa quale, avrebbe detto la gente, curiosa, mentre Catherine e Silvia avevano già un altro caso a cui pensare.


[1] Le iniziali saranno N.Y.S.M., riprendendo così Now You See Me, un film con Morgan Freeman e Mark Ruffalo (link al trailer: https://www.youtube.com/watch?v=jA_rwUgj4xM) Il senso lo si capirà a fine capitolo!

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Capitolo 9
*** Capitolo 7 - Man With The Hex ***


PARTE TERZA

Scusate il ritardo

 

Capitolo VII

Man With The Hex[1]

 

La radio a tutto volume nella Nissan Navara era la maggiore protagonista in quella notte primaverile. A dire il vero, non pareva essere già la stagione dei fiori rigogliosi e del sole caldo poiché le mattine vedevano ancora rugiada ghiacciata sui poveri fili d'erba delle strade meno trafficate.
Silvia canticchiava spensierata. Catherine aveva finito il suo turno da pilota da qualche oretta e ora dormiva come un sasso nonostante il volume della musica. Improvvisamente, la radio gracchiò. Silvia, accigliata ed infastidita dato che passavano i Panic! At The Disco, diede un paio di botte al cruscotto, sopra allo stereo, e la musica tornò limpida, ma Catherine si svegliò.
«Che fai, che picchi?» chiese la più piccola con la voce impastata e gli occhi ancora chiusi.
Fuori, l'alba cominciava a far entrare i primi raggi solari all'interno dell'abitacolo che sfrecciava tagliando l'aria e smuovendo i rami morbidi degli alberi più vicini al ciglio della strada.
«Interferenze, stavano rovinando la mia canzone preferita» disse Silvia con un sorriso.
«Tutte le canzoni dei Panic! At The Disco sono la tua preferita» scherzò Catherine mettendosi più comoda sul suo sedile. «Dove siamo?» chiese infine.
«Bella domanda!»
Dal lato del passeggerò arrivò una lieve risata divertita. «Dai, seriamente! Non vedo cartelli.»
Silvia annuì spegnendo la radio. «Non li vedo da circa un'ora se proprio lo vuoi sapere. Siamo ancora sul pianeta Terra?» si chiese con voce innaturalmente stridula.
Fuori dal finestrino, Catherine poteva vedere le cime di alcuni alberi, ma erano troppo lontani perché potesse vederli davvero bene. Devo avere ancora la vista annebbiata dal sonno, pensò e poi si stropicciò gli occhi con i polpastrelli dopo aver spostato gli occhiali alla base della fronte; li rimise al loro posto e riguardò fuori alla sua destra. «Sis, c'è qualcosa di strano» disse monocorde. Ormai si era abituata agli eventi sovrannaturali in cui si erano addentrate.
L'altra la guardò per una frazione di secondo per non perdere la visuale della strada che andava curvandosi verso destra. Ma allora perché le sembrava di aver girato il volante verso sinistra?
«Non so esattamente cosa, ma non mi fido» l'avvertì Catherine. «Ferma subito la macchina.»
Silvia, senza dire nulla, accostò e spense il motore. Lo spense, ne era sicura. Convinta. Non aveva dubbi. Eppure l'auto continuava a rombare. Girò la chiave, ma dovette ritrarre la mano subito dopo: la chiave era troppo calda.
«La pistola» disse Catherine indicandole la parte inferiore del sedile di Silvia mentre lei tirava fuori dal vano porta oggetti davanti a sé una seconda arma: un serramanico dalla lama rigata dall'usura. Era un oggetto a lei carissimo poiché del padre: glielo aveva lasciato prima che partisse con Silvia perché avesse sempre avuto modo di difendersi.
Entrambe le cacciatrici scesero cautamente dall'auto e... E tutto cambiò.


«Marilena!» La voce di Melissa echeggiò per lo spazio occupato solo da stand di magliette e oggetti vari. Quando l'altra ragazza, Marilena, si voltò, Melissa vide che avevano fatto cosplay di coppia involontariamente: Marilena indossava una cravatta a righe blu e bianche ed un impermeabile beige, mentre Melissa una maglietta nera sotto una camicia verde oliva e una parrucca corta e dal taglio maschile.
Si abbracciarono a lungo; era da tanto tempo che non si vedevano di persona e, finalmente, il Festival del Fumetto di Segrate le aveva riunite. Fuori faceva ancora abbastanza freddo, così le due amiche passeggiarono all'interno della fiera.
«Dov'è Cata?» chiese Melissa ad un tratto soffiando via una zanzara dal suo braccio.
Marilena si guardò attorno. Vedeva già molta più gente di prima tra cui vari cosplayer e fotografi. «È là da qualche parte a spaventare gente con la maschera di Jeff the Killer!» rise indicando un po' dappertutto. «L'ha fatta lei, tutta da sola, è stata davvero brava e ora io sono disoccupata!»
«Oh, ma dai!» esclamò Melissa. «Devi lavorare alle cicatrici del Joker e a Twisty The Clown!»
«Sì, ma...» Marilena esitò guardandosi le scarpe. «Non è la stessa cosa» disse infine. «È più difficile se il trucco lo fai a te stessa, visto che bisogna usare uno specchio.»
Melissa sorrise e capì. «Sai? Ho una mezza idea su un cosplay, ma non saprei da dove iniziare» azzardò.
Marilena parve illuminarsi; si arrestò e la guardò con gli occhi a cuoricino aspettando il seguito.
«Si tratta di Mantis. Vorrei essere il più fedele possibile, magari una vera e propria trasformazione.»
A Marilena si gelò il sangue nelle vene. «Sei pazza?!»
«Eh, infatti... Non saprei da dove iniziare... Il make up è un po' complicato» mentì l'altra. Dai, abbocca, pensò.
Marilena agitò le mani sbatacchiandole su e giù come era solita fare nei momenti di pazza gioia. «Potrei fartelo io!» urlò in preda ad attacchi di fangirlite acuta. Vide Melissa sorridere e tenderle la mano; lei gliela strinse ed ecco che Marilena stava già meglio: le aveva risollevato il morale nel giro di pochi istanti. Erano davvero poche le persone che riuscivano a farlo.
«Ma dimmi...» disse poi Melissa per cambiare discorso. «A che punto sei messa con Not Natural
Marilena sbuffò sorridendo. «Sono ferma al capitolo sette. Non so ancora che titolo dargli e nemmeno cosa raccontare esattamente! Cioè, voglio dire...» si spiegò meglio. «So cosa voglio scrivere e raccontare, ma non so dove ambientarlo, ecco tutto! Non è stato semplice nemmeno con il Kraken e ho quasi urlato al miracolo quando ho rivisto per caso il video di Don't Threaten Me With A Good Time! È stato propio... Boom! Una raffica di idee!»
Melissa increspò le labbra in un sorriso. «Possibile che tu finisca sempre per parlare dei Panic! At The Disco?»
«Ops...» rise Marilena mentre Cata correva verso di loro.
Finita quella giornata, le tre ragazze fecero ritorno nelle loro calde case e, mentre Cata e Melissa passavano le ultime ore della serata rilassandosi davanti alla tv o con della buona musica nelle orecchie, Marilena accese il suo computer. Lo fissò per qualche minuto senza sapere bene cosa scrivere. Scartava ogni idea che le veniva in mente come se fosse stata uvetta che si spacciava per cioccolato. Una era troppo banale, l'altra scontata, l'altra ancora era troppo complicata anche per lei che era abituata alle fanfiction intricate. Alla fine si tolse gli occhiali e, miope fino al midollo, si fece un tè; fu allora, durante quei quaranta secondi davanti allo sportellino del microonde a contemplare i suoi ricci disordinati e senza volume, che trovò l'idea giusta per proseguire.


«Oh, mio Dio!» esclamò Silvia abbassando la pistola. «Cos'è successo?!»
Catherine si voltò nella direzione di Silvia notando che la loro macchina era sparita. Oppure erano loro ad essere comparse in una nuova realtà. «Credo che...» deglutì mentre raggiungeva la migliore amica. «Credo che qualcosa ci abbia deviate dalla Terra.»
Silvia spalancò gli occhi. «Cosa?»
«Non lo so» ammise l'altra portando davanti a sè il serramanico. «Questo posto non mi dice assolutamente nulla.» Poi rizzò la schiena. «E se...?»
«No.»
Catherine alzò le spalle. «Dico solo che potrebbe essere lui...»
«Non saprebbe come raggiungerci, Cathy! Non sa i nostri indirizzi, non lo abbiamo mai chiamato, siamo in giro per l'Italia da mesi...» Silva si guardava attorno alla ricerca di una cabina telefonica blu, ma tutto quello che riusciva a vedere era rosso e arido. Una lunga distesa di terra polverosa con, qua e là, degli arbusti rinsecchiti come promemoria di una fonte d'acqua nel sottosuolo.
«Il Dottore trova sempre un modo. Oppure è solo una coincidenza.» Catherine chiuse la lama, infilò poi il coltello nella tasca dei jeans e indicò a Silvia un punto all'orizzonte. «Vedi là? Mi sembrano delle mura.»
Silvia, guardando dal fondo delle lenti degli occhiali, vide una lunga linea marrone, lontana parecchi chilometri. «Una città?»
«Speriamo.»
Camminarono per circa un paio d'ore. Le loro gole cominciavano a diventare sempre più secche mentre il vento alzava nuvole rosse da terra, terra che sembrava essere bruciata secoli prima. Ogni tanto entrava loro un granello di polvere negli occhi e dovevano sostare qualche istante poiché non potevano procendere in quelle condizioni. Man mano che si avvicinavano, tuttavia, il vento sembrava calmarsi. Questo permise alle due cacciatrici di aumentare il passo e di raggiungere quelle mura di cui, finalmente, riuscivano a distinguere nettamente i contorni.
«Sembra medievale» osservò Catherine.
«Però non ci sono merlature» disse Silvia a sua volta. Passato lo sguardo sulla parete di fronte a loro, notò una rientranza. «Forse ho trovato l'ingresso.»
Lottarono contro una violenta folata di vento polverso ed improvviso; costrette a tenere gli occhi serrati, camminarono strisciando contro il muro di pietra. Una volta raggiunto, videro che il portone d'ingresso era fatto di un magnifico legno scuro, forse ciliegio, intagliato da mani esperte. Esso rappresentava una schiera di creature molto simili a degli angeli che accerchiavano, armate di lance, un secondo gruppo di creature, queste ultime più ingobbite e dai volti a dir poco rassicuranti. In alto, sovrastanti le due schiere, lottavano ciò che sembravano essere luce ed oscurità. Esse erano state intagliate in due diversi modi: la luce era stata intagliata come a voler colorare l'intera area che occupava, l'oscurità, invece, era stata intagliata solo nei bordi.
«Dici che sono Michele e Lucifero, quelli lì?» chiese Silvia indicando le due entità in alto sul portone.
Catherine si avvicinò di più e assottigliò gli occhi. Con le dita affusolate sfiorògli intagli, li annusò attentamente poi si ritrasse e sorrise. Aveva finito per imitare il Dottore da tanto le mancava. «Non penso sia qualcosa di cattolico» disse, infine.
Un'altra folata di vento. Quasta volta, però, il vento portò ai piedi delle due cacciatrici un arbusto arrivato da chissà dove. Il che fece notare loro una targhetta di legno, dipinta ma consumata dal tempo, tuttavia ancora leggibile, in basso a sinistra rispetto al portone. Le ragazze si abbassarono prontamente e lessero alcune parole che, per loro, non avevano alcun senso:

Angra Mainyu
Ahriman
Arimane
Mephistopheles


«Un momento» si alzò improvvisamente Catherine. «Il nome Arimane...» disse grattandosi la testa. Mephistopheles era certa fosse un altro nome per Lucifero, ma gli altri? Pensò senza farsi venire in mente nulla, eppure quel nome, Arimane, lo aveva già sentito... Ma dove? «Cavolo, non riesco a ricordare.»
«Proviamo ad entrare?»
«Silvia, no!» esclamò Catherine. «Non sappiamo cosa o chi ci sia dentro!»
Silvia si guardò attorno un istante, alzò le braccia e indicò l'orizzonte. «In queste situazioni, l'unico modo per uscirne è entrare e attraversare.»
La minore sospirò, vinta. Non voleva rischiare, però la sua migliore amica non aveva tutti i torti. «Ce l'hai ancora la pistola?» chiese a Silvia tirando fuori il suo serramanico.
Silvia le mostrò l'arma che reggava nella mano destra. «Entro io per prima, okay?» Vide Catherine annuire e non esitò a posare una mano sul portone per aprirlo.
La porta di sinistra cigolò annunciando la loro entrata, facile. Troppo facile. Difatti entrambe le cacciatrici sbiancarono nel vedere di fronte a loro una lunga e apparentemente interminabile parete. Parete costruita con milioni e milioni di ossa pulite e incastrate tra di esse con una tal precisione da far rabbrividire.
«Siamo in un labirinto» sussurrò Silvia tremando da testa a piedi. Erano finite in un incubo.


Note:
[1] Man With The Hex è il titolo della canzone cantata dagli Atomic Fireballs basata sulla versione (con una lyrics in parte simile... okay, solo l'inizio xD) cantata da David Bowie nel film Labyrinth (1986): Magic Dance (Babe With The Power).
David Bowie: https://www.youtube.com/watch?v=Cts-jXlULEI (Tasto destro del mouse; apri in un'altra scheda)
Atomic Fireballs: https://www.youtube.com/watch?v=GSlNTwbU4mM (Tasto destro del mouse; apri in un'altra scheda)


(in realtà non so quale delle due sia uscita prima LOL)

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Capitolo 10
*** Capitolo 8 - Galway Girl ***


Capitolo VIII

Galway Girl*


Silvia aveva lo stomaco capovolto, la pistola le stava scivolando dalle mani proprio come l'autocontrollo. Da piccola amava i labirinti e si scocciava se riusciva a trovarne il centro prima del previsto. Ma, con l'andare degli anni, era sopraggiunta l'antica fobia dell'essere legati, imprigionati, sepolti vivi. Sentiva le mani di Catherine sulle spalle, vedeva lo scintillio del serramanico infilato alla bellemeglio nella tasca anteriore dei suoi jeans. Stava tentando di calmarla, ma a Silvia si stava pian piano annebbiando la vista. Il cuore alla gola. Il fiato corto. La pistola cadde ed un corvo s'alzò in volo mentre il portone della gabbia si richiudeva con un pesante tonfo.


«Signore! Signore!» urlò il corvo una volta sopraggiunto alla caverna del suo padrone. «Signore, sono arrivate!»
«Smettila di strillare, corvaccio!» urlò il ragazzo e gli lanciò addosso uno stivale senza riuscire ad atterrarlo. Il ragazzo, demone perennemente ubriaco, gli rivolse poi uno sguardo confuso. «Chi è che è arrivato?»
Cra! «Le due cacciatrici, signore!» Il corvo si stroppicciò un po' le ali e svolazzò fino all'altro lato della caverna umida, buia e mezza spoglia. Ancora in volo, dette qualche beccata ad una pergamena appesa alla parete.
Il suo padrone gli si avvicinò, incredulo. «Non è possibile» disse più a se stesso che ad altri mentre il corvo gli si posava sulla spalla. «Fanno parte dei miei sogni, non possono essere qui! Loro...» Le parole gli morirono in gola.
«Signore, io glielo avevo detto che un giorno sarebbero arrivate!»
«Ma loro non esistono!» esclamò il demone. Disperato, si mise le mani nei capelli già arruffati, spaventando il corvo il quale volò per posarsi nuovamente a terra. Si lasciò cadere sul suo giaciglio di rami secchi e foglie morbide coperto da vecchi abiti rammendati assieme per formare un ampio lenzuolo. «Corvo, cosa sta succedendo?»
L'animale zampettò con aria severa. «Le due cacciatrici sono qui perché doveva succedere.»
«Ma come? Se non esistono, com'è possibile che siano arrivate qui
«Signore, esse sono di un'altra dimensione, è vero, ma la magia può fare grandi cose» spiegò il corvo.
Il demone prese in mano una bottiglia di liquore piena a metà e la svuotò d'un sorso. Passò qualche istante a guardarsi riflesso nel vetro della bottiglia. La tempesta, là fuori, era terminata e ora entrava qualche raggio di sole nella sua casa. «Sono qui per Arimane, vero?»
«È quello che la strega le ha detto, signore.»


«Silvia!» Catherine scosse ancora l'amica, questa volta un po' più forte. «Silvia!»
Finalmente, la maggiore aprì gli occhi. Intontita, chiese cosa fosse successo.
«Sei svenuta» le spiegò Catherine. «Ecco, tieni» le disse poi, porgendole la pistola. L'aiutò a rimettersi in piedi. «Come stai?»
«In piedi» rise Silvia. Accorgendosi della serietà di Catherine, annuì e aggiunse: «Meglio, ma siamo ancora in un labirinto quindi non troppo bene. Per caso hai dato un'occhiata in giro mentre ero KO?»
«Nope» rispose Catherine riparandosi gli occhi dalla luce del sole. «Questo posto sembra deserto, non penso correremo pericoli. Dobbiamo solo cercare il centro: magari è così che si torna indietro!»
Silvia impugnò meglio la pistola. «Sì, però meglio stare attente, okay?»
«Okay» disse l'altra riprendendo il serramanico in mano.
Camminarono per minuti interminabili, tanto che il sole disegnò il suo arco nel cielo: mancava poco al tramonto.
«Mi brontola lo stomaco, Cathy» mugugnò Silvia. «Dannazione.»
«Scommetto che ci siamo già passate di qua.» Catherine stava guardando un femore dall'aria familiare. «Solo che eravamo dirette dalla parte opposta.»
«Dannazione!» esclamò l'altra. «Non ce la faccio più! Ho fame! E qui vedo solo muri con disegnate sopra torte, panini e arrosti!»
Catherine si accigliò. «Come, scusa?»
«Eddai, non dirmi che non ti fanno venire fame...»
«No, è che...» Catherine indicò il femore che stava guardando prima ed esso era ancora là, sempre familiare. «Davvero tu vedi del cibo su queste pareti?»
«Dipinte, sì. Non so se sono affresci o cosa, ma sì: vedo il cibo e questo mi fa imbestialire a liveli ipergalattici!» esclamò Silvia.
«Sis» rise Catherine. «Qui ci sono solo ossa!»
«No.» Silvia pareva confusa. «No, ti sbagli, sis.»
«Non è che ti sbagli tu?»
«Non sbaglia nessuna delle due!» disse una voce maschile gracchiante. Si sentì un battito d'ali ed ecco che la voce assunse forma fisica: da dietro la parete del labirinto, alta circa due metri e mezzo, spuntò un bellissimo corvo dal piumaggio brillante e sano. «Cra!» urlò il volatile posandosi sul bordo della parete.
«Ma che...?»
«Non può aver parlato quel corvo, dai» sorrise Silvia.
«Cra! E invece sì, cacciatrici!»
Silvia lo fissò ad occhi spalancati. «Sono ancora a terra svenuta, sì sì.»
«Ci hai chiamate cacciatrici?!»
«Sì, piccola Catherine! Cra!»
Silvia indiettreggiò impaurita, ma Catherine sembrava divertita ed incuriosita.
«Come sai il mio nome e che siamo cacciatrici?»
«Sis!» sibilò Silvia rimproverandola.
«La tua amica, ha ragione, piccola Catherine: non dovresti prendere così tanta confidenza con un animale parlante come me! Cra!» Il corvo beccò il bordo della parete e sistemò il piumaggio sbatacchiando un po' le ali. «Ma credo di essere l'unico che può aiutarvi a trovare il centro del labirinto e ad uscire da qui, quindi se volete seguirmi...» Senza minimamente aspettare una risposta, il corvo prese il volo e si diresse verso la caverna del suo padrone.
Prima Catherine poi Silvia, le due ragazze lo seguirono. Non si fidavano appieno, ecco perché tenevano ben strette le loro armi in caso di necessità. Non lo persero di vista fino a che l'animale non si tuffò in una fitta tenda di edera smossa appena dal passaggio del corvo stesso.
«Vado io per prima» disse Silvia, serissima come mai. E così fece: puntò avanti a sé la sua pistola e si fece spazio tra le foglie. La prima cosa che vide fu un uomo sdraiato su di un materasso malconcio, pareti gocciolanti ed il corvo appollaiato sul ginocchio tirato leggermente su del ragazzo.
«Fa' entrare pure Catherine. Non vi faremo del male. Cra!»
In quel momento entrò anche Catherine, la quale notò subito la pergamena appesa al muro. «Ma quelle siamo noi!» esclamò superando Silvia per guardare il foglio più da vicino.
«Questo è da vedere.» Il ragazzo, finalmente, si alzò, facendo scappare il corvo dal suo ginocchio. Egli si ripulì gli stracci malconci che gli facevano da abiti e sorrise appena squadrandole. «Mi serve una prova che voi» disse indicandole, «siate quelle» finì indicando la pergamena. «Per prima cosa i nomi.»
«Io sono Silvia, lei è Catherine.»
«Detta anche...?»
«Cata. Cathy per chi è di famiglia» disse Catherine.
«Come avrebbero voluto chiamarvi i vostri genitori se foste nate dell'altro sesso?» chiese ancora il ragazzo.
Catherine fu la prima a rispondere: «Charlie.»
Silvia, invece, ci pensò su un attimo. Non ne avevano mai parlato, a dire la verità. «I miei aspettarono a pensare ai nomi finché non seppero che ero una femmina. Volevano chiamarmi Laura come mia nonna paterna, ma optarono per Silvia, così da non far ingelosire mia nonna materna.»
Theck assottigliò gli occhi e curvò la testa di lato, avvicinandosi a loro di qualche passo. Il corvo ai suoi piedi che faceva dei saltelli in segno di gioia. «Chi era Silvia per i tuoi genitori?» chiese diretto alla maggiore.
Silvia deglutì. «Un'amica. Non ho ricordi di lei.»
«Mhm, bene» disse, infine, il demone. «Ora passiamo alle cose difficili.»
«Del tipo?» s'incuriosì Catherine.
Il demone incrociò le braccia sul petto rivelando quei pochi muscoli che ancora aveva. «Il libro che nascondete nella vostra auto.»
Alle due ragazze si gelò il sangue nelle vene. Come faceva a saperlo? Non lo avevano neppure accennato ad anima viva, ne erano più che sicure. «C-cosa... Come...» balbettarono quasi all'unisono.
«La strega di Lucca.» egli sorrise. «È stata la sua magia a crearlo per voi. Che lo apriate o no, quel libro scrive, man mano che la vivete, la vostra storia.»
«Ma come fai a sapere che il libro è arrivato fino a noi?»
«Come faceva il corvo a sapere i vostri nomi?» chiese lui di rimando. «Glieli ho detti io. E questo perché vi sogno ogni notte da quando ne ho memoria.» Si fece più scuro e serio. Barcollò verso una roccia dalla superficie piana, adibita a tavolino, e prese una bottiglia di liquore, forse l'ultima. Ne fece saltare il tappo e la stava facendo avvicinare alla bocca quando Silvia sparò un proiettile e la frantumò in mille pezzi. Il demone, con gli abiti inzuppati e frammenti di vetro sui piedi nudi, estrasse la pallottola conficcata nella parete della sua casa poi la guardò sorridendo. «Lo sapevo non mi avresti creduto.»
«Infatti.»
«Sis» intervenne Catherine. «C'è una possibilità che dica la verità. Non abbiamo detto a nessuno del libro. È sempre rimasto nascosto con l'attrezzatura.»
«Esiste la magia, Cathy» disse Silvia; l'arma ancora puntata in direzione dello sconosciuto. In effetti, vi era ancora una cosa che non sapevano sul suo conto. «Non sappiamo nemmeno chi sia.»
«Mi presento» recitò il ragazzo con fare antico. «Sono una divinità ed il mio nome, signore, è Theck» concluse e poi si inchinò profondamente.
Silvia, che abbassò piano la pistola, rimase senza parole e così anche Catherine. Nell'aria si percepivano solo i loro respiri e l'inutile beccare a terra del corvo. «Theck, hai detto? Sei tu Theck? Allora la strega di Lucca la conoscevi di persona» sussurrò Catherine.
Gli occhi del demone si velarono di una tristezza fitta di ricordi vecchi di secoli. «Sì» rispose monocorde. «Secoli fa, noi demoni di Arimane potevamo stare a contatto con gli umani a patto che non creassimo alcun tipo di interferenza. Questo patto è ancora in vigore, ma io non ne faccio più parte.»
Silvia gli si avvicinò, ora meno tesa. «Perché?»
Theck sussultò impercettibilmente. «I demoni che disobbediscono ad Arimane finiscono qui» disse allargando le braccia per indicare l'intero labirinto in cui erano. Dai suoi occhi color cioccolato stava per scendere una lacrima.
«In che senso hai disobbedito? Hai praticato magia assieme alla strega?»
«Maria. Si chiamava Maria» precisò Theck. «E no, non è perché ho praticato magia con lei... Cioè ho anche praticato magia con lei... Ma non solo...» Theck sorrise. «Non so se mi spiego.»
Catherine era confusa. «Io non ho capito, a dire il vero.»
«Cathy» rise Silvia. «Vuole dire che...» Gesticolò per cercare le parole giuste mentre nascondeva un sorriso imbarazzato. «Hanno avuto una relazione, okay?»
«Oh...» realizzò Catherine. «Oh. Ohhh... Okay, sì, ci sono, bene, perfetto, questa immagine non se ne andrà più dalla mia testa.»
«Una notte... Tanti anni fa» Theck vagò tra i ricordi accarezzando il viso di Maria col pensiero. «Quella notte a Galway fu magnifica, indimenticabile. Ma io fui punito subito dopo, davanti ai suoi occhi. Ho continuato a vederla solo tramite i miei sogni su di voi, quasi ogni notte, ed è stata una vera e propria tortura, vederla muoversi, parlare, sorridere e non poterla toccare.» Theck abbassò lo sguardo sulle mani. Solo in quel momento si accorse delle ferite provocate dai pezzi di vetro della bottiglia esplosa poco prima. Sangue caldo gli colò dall'arto fino a terra; Silvia se ne accorse e si precipitò da lui per accertarsi che fossero solo tagli superficiali.
«Dammi la mano» gli ordinò la cacciatrice. Lei pose la mano del demone tra le sue e premette leggermente. Subito dopo una luce dorata li investì ed ecco che la mano era tornata più sana di prima.
«Sei una brava wiccan, Silvia.»
«Sistemeremo il nostro pasticcio, Theck» intervenne Catherine. «Per Maria.»
Theck lasciò finalmente andare le lacrime. «Per Maria!»


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Capitolo 11
*** Capitolo 9 - Centuries ***


CAPITOLO IX

Centuries*

 

Silvia continuava a vedere cibi succulenti, ma evitava di guardarli troppo a lungo; Catherine vedeva ancora mucchi di ossa, perfettamente incastrate in modo da formare le pareti dell'immenso labirinto. Il corvo aveva raccontato loro che si trattava di un'illusione creata da Arimane stesso: l'intero labirinto era un'illusione e l'unico modo per arrivare al centro e quindi risvegliarsi era quella di evitare di seguire i consigli delle creature che tentavano di convincerli a non proseguire in determinate direzioni. Ma di quello si era già occupato Theck tempo addietro piazzando sacchetti magici in ogni angolo del luogo per rendere visibili le trappole di Arimane.
«Alcuni pensano che Arimane sia una creatura spirituale celeste di Ahura Mazdā, il nostro dio, a cui si è ribellato per libera scelta. Altri, invece, lo vedono come un essere originario contrapposto fin dall'inizio dei tempi ad Ahura Mazdā stesso.» Theck procedeva lungo una parete del labirinto con fare deciso. Non si stava nascondendo, sembrava non avere paura e parlava con un tono di voce così alto che lo avrebbero sentito pure sulla Luna se solo il satellite terrestre fosse stato lì ad ascoltarlo: il cielo era così nero e privo di qualsiasi luce che metteva i brividi. Silvia e Catherine, difatti, camminavano tenendosi per mano, strusciando i piedi per evitare di inciampare; Silvia, davanti, si teneva alla maglietta logora di Theck, costringendolo a rallentare il passo. Il corvo, allegro come sempre, li controllava dall'alto e li guidava con i suoi versi poiché era impossibile scorgerlo in mancanza di luce.
«Per di qua! Cra!» urlò il volatile portandoli a girare a destra e subito dopo a sinistra.
«Durante il mio soggiorno sulla vostra Terra, ho scoperto che Arimane ha ispirato gli ebrei nella creazione dell'ideologia di Satana. Non di Lucifero, ma di Satana. Vedete» sorrise Theck continuando a camminare, «non credo siano la stessa cosa, ma è solo il mio punto di vista.»
Silvia ghignò: anche lei la pensava così; Catherine, d'altro canto, era confusa, non sapeva molto della sua religione, così come Silvia, ma davvero non sapeva cosa pensare: le servivano più informazioni per poter esporre una sua ipotesi.
«Tuttavia» proseguì Theck, «ho trovato le ricerche e gli studi di Rudolf Steiner molto più interessanti: lui attribuiva, sì, ad Arimane una natura malvagia simile a quella mefistofelica o satanica, ma lo distingueva da Lucifero in modo quasi netto in base ai loro modus operandi.» Theck sostò un attimo in prossimità di un incrocio, guardando in alto: aspettava un'indicazione dal corvo, il quale, dopo aver riflettuto un momento nel buio della notte senza Luna, si alzò in volo proseguendo dritto. Theck schioccò la lingua e riprese a camminare. «Sapete, mentre Lucifero agisce occultando all'uomo le sue facoltà spirituali interiori con cui può prendere coscienza del tutto, Arimane agisce sulle percezioni esteriori come illusioni o mascheramenti della realtà.»
Catherine e Silvia, che erano rimaste in un religioso silenzio fino a quel momento, avevano in testa ancora molte domande, ma il tempo stringeva.
«Non hai paura a stare qui?» chiese Silvia.
«Chi, io?» rise Theck. «Non finché quella bestia rimane legata. Ma non sarà così a lungo.»
«Perché?»
«Perché... Catherine che chiede perché... Di solito quella che non capisce è Silvia» disse voltandosi leggermente e regalando loro un ghigno divertito. «Arimane venne scacciato da un ameša spenta, un angelo, come li chiamate voi, di Spenta Mainyu, che è la parte umana, per così dire, di Ahura Mazdā. Vedete? La vostra religione non è poi tanto diversa!» esclamò il demone.
«Tu cosa saresti?» chiese Silvia, sempre più interessata a quei paroloni che non avrebbe mai imparato.
Theck sospirò. «Un demone, ma non un demone come li conoscete voi... Sono un daēva.»
«Ah, okay» disse Catherine. In realtà non era okay, ma voleva sembrare okay.
«Theck» sussurrò Silvia. «Che cosa accadrà quando Arimane sarà libero?»
Il demone arrestò bruscamente il passo tanto che le due cacciatrici gli andarono addosso. Ricopososi, Theck deglutì rumorosamente. «Troverà il modo di raggiungere la Terra e la divorerà il più lentamente possibile. Per vendicarsi del passato. Dopodiché creerà il suo Impero, oscuro e maligno e vi assicuro che non sarebbe affatto carino. Voi dovete uscire di qui e trovare la strega Amnesha: solo lei può aiutarvi.»
Ripresero a camminare e dopo qualche secondo di silenzio, Catherine disse: «Quindi siamo qui perché era scritto in quel libro?»
«No» rispose Theck. «È l'unica cosa fuorviante dalla linea temporale della vostra storia. Arimane sta piano piano recuperando le forze, ormai. È stato lui a farvi arrivare qui: gli serve un passaggio, un portale. Ecco perché dovete affrettarvi: se ritardiamo, rischiate di ritrovarvelo alle calcagna e tutto sarà perduto.»
«Hai però parlato di una strega... Amnesha, giusto? Hai detto che ci può aiutare.»
«Sì, Silvia.» Theck ascoltò il corvo e virò a sinistra. Ormai mancava poco, ma aveva il cuore in gola per l'ansia di non riuscire nell'impresa. «Ma lei non fa miracoli, può solo darvi una piccola mano e se per caso Arimane vi dovesse segui-»
In quell'istante un lungo e saettante graffio illuminò il cielo nero. Poi si udì un potente urlo maschile; esso sapeva di ribellione.
Theck sostò in prossimità dell'ultimo bivio. Boccheggiava e tremava da testa a piedi. «È lui» sussurrò. «Dobbiamo far presto, venite!»
Il corvo indicò loro l'ultima svolta col becco, poi volò via gracchiando un saluto e un augurio. I tre rimasero da soli, nella notte fredda e buia. Si fecero coraggio e, silenziosi come Hobbit, attraversarono quella che sembrava un'arcata formata da due alberi secchi i cui rami dell'uno e dell'altro s'intrecciavano formando un'entrata – o un'uscita, dipende dai punti di vista – tetra e paurosa. Il rumore di catene li fece rabbrividire. Arimane era legato sulla sommità di una piramide capovolta, marmorea e brillante di luce propria. Come faceva a rimanere in equilibrio quella struttura lo spiegava solo la magia.
«Theck! Che piacere rivederti!» Arimane ringhiò e si dimenò nel tentativo di liberarsi dalle catene quando una di esse scivolò dal suo corpo e cadde in un gran frastuono. La terra sotto i loro piedi tremò e Arimane sorrise. «Salve, ragazze. È un piacere vedervi» disse infine rivolto a Catherine e Silvia.
I tre non cambiarono espressione: rimasero seri e scuri in volto, concentrati sul portale da aprire. Esso era alle spalle di Arimane, in cima ad una breve scalinata. Si trattava di un'ampio cerchio di pietra che dava sul nulla, oltre il quale potevano scorgere il resto del labirinto e i primi raggi del sole che sorgeva.
«Seguitemi» disse Theck ignorando Arimane mentre egli gettava a terra la seconda catena. Ne mancavano due, soltando due. Guidò le cacciatrici oltre le piramide capovolta, fermandosi ai piedi della scalinata quando Arimane gettò a terra la terza catena ghignando. «Azionate il portale, presto!» esclamò voltandosi.
Silvia guardò Catherine confusa.
Catherine guardò Silvia confusa.
«E come?» strillarono all'unisono.
«Toccate i pilastri.» Theck guardava Arimane il quale era intento a capire come togliere o spezzare l'ultima catena, il penultimo passo verso la libertà quando il portale emise un potente bagliore violaceo che investì i quattro.
«Sono molto in gamba, quelle due, devo ammetterlo. Sono arrivate fin qui tutte intere!»
Theck non sapeva cosa fare, aveva solo paura che le due ragazze non riuscissero a tornare sulla Terra prima che Arimane si fosse liberato, così cercava di mascherare le sue preoccupazioni dietro uno sguardo glaciale. «Sono le Prescelte. Lo sai.»
«Sì, sì, stessa storia della Salvatrice, bla bla bla...» sorrise Arimane. «Sono solo storielle.»
Theck strinse i pugni: Arimane aveva liberato la parte superiore del suo corpo, la terra cominciò a tremare nuovamente sotto i loro piedi. Si voltò; vide che le due ragazze avevano messo un piede sopra il primo dei sette gradini, lo stavano superando, mettendo così i piedi sul secondo e poi sul terzo... Quando si voltò a controllare Arimane, questi aveva liberato anche le gambe.
Nel frattempo, Catherine e Silvia misero i piedi sul quinto gradino mentre una folata di vento proveniente dal portale le investì facendo perdere loro un po' d'equilibrio.
Arimane li stava raggiungendo: era appena saltato giù dalla grossa piramide quando essa crollò pezzo dopo pezzo, perdendo luce e maestosità.
Dallo spavento, le cacciatrici si voltarono e videro Arimane addosso a Theck; egli gli stava massacrando il volto a suon di pugni mentre ghignava divertito.
«No!» urlò Silvia mentre Catherine la tirava verso l'uscita.
«Andate!» disse Theck sputando sangue. Il sapore di ferro lo investì ed ebbe voglia di vomitare. «Il portale può essere aperto una sola volta! Con il tocco di mani umane! Una volta varcato, si richiuderà automaticamente alle vostre spalle e lui non potrà mai più uscire di qui!» eslamò mentre Arimane si rimetteva in piedi.
Solo allora Silvia ebbe la possibilità di vedere bene l'aspetto del loro nemico. Alto, snello. Lineamenti degni di una creatura divina. Capelli scuri come la notte. E le braccia decorate da decine di rune e cicatrici. Di queste ultime, una più grossa attraversava diagonalmente il suo petto.
Catherine tirò un'ultima volta Silvia e la buttò oltre l'uscita. Prima di passarci lei, tuttavia, si girò a guardare Theck, steso a terra svenuto. Un altro innocente che non erano riuscite a salvare. Quanti ancora dovevano morire per fare in modo che tutto quel grande pasticcio finisse? Prese fiato ed infine si gettò nella luce del portale ritrovandosi a bordo della Navara, con Silvia al suo fianco.


Un topolino nero squittì quando il motore della Navara si accese. Era un po' confuso, ma ebbe il riflesso di allontanarsi dalla strada quando l'auto partì.
Nessuna delle due aveva idea che il portale impiegasse qualche secondo prima di chiudersi.
Nessuna delle due poteva immaginare che Arimane avesse varcato la soglia.
Certamente, però, avrebbero entrambe ricordato Theck per il resto delle loro vita.


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Capitolo 12
*** Capitolo 10 - E.T. ***


PARTE QUARTA
L'alieno


Chapter X
E.T.*


Un città non presente sulle cartine del Maine (USA)


Le strade della città erano deserte. Illuminate dalla fioca luce del sole, le macchine parcheggiate sembravano comunque più allegre delle nuvole sopra di esse. Una travagliata coppia di giovani innamorati entrò in un locale accogliente la cui insegna recitava Granny's.
«Ciao, Regina!» salutò la ragazza. «Ehi, Henry! Mamma, papà...»
«Sta arrivando una tempesta!» sbottò il ragazzo indicando l'uscita del locale con il suo uncino. Sì, avete capito bene: al posto della mano sinistra, il fidanzato della ragazza che era appena entrata nel locale aveva un uncino. Ma non era un ragazzo qualunque: egli era il genero di Biancaneve e Azzurro ed il suo nome era Killian Jones, ovvero il Capitano Uncino. «Emma, tesoro, è meglio se non restiamo a lungo qui, potremmo beccarci l'acquazzone.»
«Sta' tranquillo, restiamo solo per i festeggiamenti e poi torniamo a casa, okay?» disse Emma. Gli stampò un bacio sulle labbra e lui le afferrò una ciocca bionda tra le dita. Quanto lo amava...
«Va bene» sorrise Killian.
«Mamma?» chiamò Henry e sia Emma che Regina, una donna dall'aria distinta ed elgante, si voltarono per dare retta al ragazzino il quale si mise a ridere. «Mamma?» ripeté guardando Regina. «Sì, Henry?»
«Stasera ti va di cenare insieme?»
«Ma certo!» esclamò Regina. Finalmente era tutto a posto, tutto tranquillo. Avevano sconfitto anche il Male in persona, Fiona, e adesso si meritavano un lieto fine per lo meno grandioso! Henry dormiva un po' da entrambe le madri poiché intuiva quando Uncino ed Emma avessero bisogno di un po' di spazio per loro, e non era mai stato così felice. Era perfino riuscito a dominare sui suoi poteri di Autore. Cosa poteva mai succedere?
All'improvviso, una folata di vento investì tutti i clienti del locale ed uno strano rumore come struscìo accompagnò la comparsa di una simpatica cabina blu.
«Ma cosa diavolo...?» disse Regina tra sè e sè.
«Henry, vieni qui.» Emma attirò il figlio verso di lei e lo tenne stretto per la camicia.
Il resto della clientela di quel piccolo locale interruppe il chiacchiericcìo e rimase sbalordita quanto Emma, Killian, Henry e Regina nel vedersi davanti una vecchia cabina telefonica della polizia, blu, apparsa dal nulla e che produceva un suono strano, tranquillo, come una ninna nanna. Dall'interno del piccolo abitacolo provenirono rumori tipici di qualcuno che aveva appena inciampato su del ferro. Si sentì un «Ahi!», un «Mannaggia a me» ed un «Sono troppo vecchio e disordinato!» quando una delle due porte della cabina si aprì verso l'interno nonostante sulla targhetta rappresentativa esterna vi fosse chiaramente scritto Tirare Per Aprire.
«Salve!» esclamò il piccolo uomo arruffato all'interno della cabina. «Sono ancora sulla Terra, vero?»
«Chi sei?» si agitò Emma, avanti a sè le mani per creare uno scudo pronto a tutto.
Il piccolo uomo vecchio e disordinato alzò i palmi e sorrise appena. Il suo viso era fresco e giovane, tuttavia i suoi occhi erano segnati da lunghi viaggi e interminabili sofferenze. «Sono il Dottore e questo» disse indicando con una mano la cabina blu, «è il mio TARDIS.»
«Non capisco...» Henry era confuso. Si staccò dalle spalle protettrici della madre biologica per andare dall'adottiva. «Non è presente in nessuna fiaba, come ha fatto ad arrivare fin qui?»
Regina guardò meglio quel parallelepipedo blu. «È vero, Henry ha ragione. A meno che non si tratti di un altro tronco intagliato e magico come quello che trasportò Emma e Pinocchio!»
Il Dottore rise di gusto, spostando un pochino il farfallino blu al collo. «Magia!» rise ancora più forte. «La magia non esiste! Si tratta solo di scienza e fisic-»
Emma lo interruppe colpendolo con un lungo fascio della sua magia bianca; lo fece ruzzolare a terra, a molti metri di distanza, non calcolando la potenza del gesto. Fu così che, mentre quello strano ometto cercava di ricomporsi senza mettere troppo in mostra la sua sorpresa, che Henry ricordò.
«Oh, mio Dio!» esclamò il ragazzo. «Tu sei il Dottore di Doctor Who! L'undicesima incarnazione! È più grande all'interno! E tu sei reale! Non ci posso credere!»
Tra le espressioni frastornate dei presenti, compreso il Dottore stesso, Henry sgattaiolò dalle grinfie delle madri ed entrò nel TARDIS: era davvero più grande all'interno; non poteva essere un effetto speciale, Matt Smith non poteva entrare nei confini della città – e, anche se avesse potuto per una qualsiasi strana ragione, perché mai avrebbe dovuto farlo e comportarsi in quel modo? «È magnifico...» esclamò piano.
«Henry» disse Emma preoccupata. «Vuoi spiegarci?»
«Già, Henry, vuoi spiegarci?» fece eco il Dottore.
Il ragazzo sorrise e corse fuori da quella strana cabina. «Mamme, vi ricordate quella serie tv che adoravo guardare prima che Storybrooke cadesse di nuovo nel caos, l'ultima volta?»
«Perché, abbiamo mai avuto il tempo di rilassarci?» ironizzò Emma, ma guardando Regina accigliarsi, ritornò seria. Sì, si ricordavano entrambe.
«Doctor Who, sì, è vero...» anche Killian ricordava, sebbene non credeva all'esistenza degli alieni. Proprio lui, poi, che ha visto le cose più strane esistenti in questo universo!
«Lui è il protagonista! L'alieno!» esclamò Henry indicando il nuovo arrivato.
«È quella serie tv di universi paralleli di cui mi parlavano Catherine e Silvia» osservò il Dottore ad alta voce. Al che Henry si incuriosì e gli chiese:
«Scusa, chi?»
«Due amiche.» Il Dottore tirò fuori la lingua e assaggiò, come sempre, l'aria per capire bene dove si trovasse. «Sì, decisamente un altro universo.»
«Ma...» Henry era confuso. «In Doctor Who non esisiste alcuna coppia di companion con quei nomi.»
«Oh, questo perché io, da dove provengo, sono reale. Ci sono tante cose che, negli universi in cui sono un semplice personaggio di uno show televisivo, non vengono raccontate. Come quando mi scontrai con il Conte Vlad! O quella volta in cui...» O quella volta in cui cavalcai un Dalek vestito da cowboy mentre con una mano sventolavo la mia biancheria intima e con l'altra mi tenevo ben fermo sulla testa il mio adorato fez, voleva dire... È che dopo aver festeggiato con River il loro anniversario, aveva impostato delle coordinate che lo avevano condotto ad un deposito abbandonato di Dalek malfunzionanti e, ovviamente, brillo com'era... No, forse era meglio tacere. Increspò difatti le labbra e si strofinò le mani. «Quello che voglio dire, ragazzo, è che-», ma venne interrotto.
Nel locale sempre pieno zeppo di gente, attonita e silenziosa come mai, vacillò la luce elettrica un paio di volte. Quando essa si fu ristabilizzata, il Dottore chiuse a chiave le porte del TARDIS e si fece strada in mezzo agli abitanti di quella strana città borbottando qualcosa di insensato. Henry lo seguì standogli il più vicino possibile per capire cosa stesse dicendo, ma era incomprensibile.
«Si può sapere cosa sta succedendo?» Regina era evidentemente infastidita dalla nuova situazione poiché sembrava aleggiare su di loro un'altra, l'ennesima, minaccia.
«Universi paralleli, Regina!» esclamò il Dottore in mezzo alla strada di fronte al locale.
Regina, Killian, Emma ed i suoi genitori si guardarono con sorpresa. «Come fa a sapere il mio nome?» chiese la prima.
Il Dottore non rispose; armeggiava nell'aria puntando al cielo una strana penna luminosa per poi potrarsela all'orecchio.
«Così come lui in un universo è reale e in un altro è una serie tv, forse lo stesso vale per noi» disse Henry.
«Ragazzo intelligente!» esclamò il Dottore scompigliandogli i capelli.
Henry sorrise, ma non durò a lungo: mentre tutti guardavano il forestiero per quello che era, un alieno, e ne erano sia meravigliati che confusi, il ragazzo aveva capito che se il Dottore era lì, stava succendo qualcosa di veramente importante. «Aspetta, Dottore» disse afferrangogli una manica della giacca in tweed prima che egli corresse via da qualche parte. «Se sei qui, non è un caso.»
Il Dottore smise di studiare l'aria. «Infatti. È proprio così» sorrise, ma era un sorriso stanco e preoccupato. «Com'è che dicono? È tutto connesso!»
Henry stava per chiedere all'alieno come mai fosse lì, proprio a Storybrooke e perché proprio in quel momento della loro storia quando venne interrotto da lampi e tuoni, ma provenienti a pochi metri da loro, ad altezza uomo, non dal cielo come di consueto.
Un agglomerato di luce e rumore che sembrava volesse squarciare l'aria.
Impaurita, Storybrooke attendeva silenziosa un'altro periodo nero.
Nero come...


*https://www.youtube.com/watch?v=t5Sd5c4o9UM

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Capitolo 13
*** Capitolo 11 - Capitolo Undici come il numero di neuroni che hanno traslocato mentre scrivevo questa fanfiction by Fall Out Boy ***


Chapter XI
Capitolo Undici come il numero di neuroni che hanno traslocato mentre scrivevo questa fanfiction
by Fall Out Boy*


Molti mesi prima che il Dottore arrivasse in città, Belle stava facendo ordine nel negozio di Tremotino. Dopo qualche minuto, la ragazza guardò fuori dalla finestra della porta del locale. Era una giornata così uggiosa che non aveva voglia di fare nulla se non tornare nel suo letto caldo. Anche perché, diciamocela tutta, le pause tra un pericolo ed un altro durano ben poco a Storybrooke e quella giornata faceva parte della piccola pausa tra, per come conoscete voi la storia, la sesta e la settima stagione.
«Se c'è una cosa che proprio non sopporto fare è l'inventario di tutti questi oggetti!» esclamò Belle a bassa voce, ma Tremotino la sentì ugualmente:
«Belle, te l'ho detto» sibilò Tremotino dolcemente facendo capolino dalla tenda che separava il retro dal negozio. «Posso farlo io.»
«No, Tremo. Una promessa è una promessa.» Gli sorrise dolcemente e riprese a catalogare la merce nella teca del bancone quando vide una striscia di carta bianca spuntare da sotto di esso. «E questi da dove vengono?»
Tremotino, con fare gentile, si piegò sui ginocchi e cercò di tirar fuori da quell'insolito nascondiglio ciò che aveva trovato Belle. «È incastrato» constatò nel tornare in piedi. Difatti il bancone poggiava direttamente a terra ed il suo peso non permetteva la foriuscita dell'oggetto sottile situato sotto di esso. «Belle» disse alzando lo sguardo. «Io spingo un poco il bancone, alzandolo, e tu tiri fuori quella cosa, okay?»
Belle, preoccupata che fosse l'ennesimo problema, annuì già pronta al peggio.
Fecero quanto detto dall'Oscuro e si accorsero che erano delle semplici pagine, tre per essere esatti. Fogli di carta bianca del tutto anonime, scritte a computer, prive di immagini o titolo, che raccontavano la breve storia di due ragazze italiane alle prese con un'entità maligna chiamata Arimane. La storia era ambientata in parte in Italia ed in parte a Storybrooke e le pagine comprendevano sia storia che un breve riassunto a scaletta.
«Catherine e Silvia... Chi sono?»
Belle prese le pagine dalle mani di Tremotino e le picchiettò sul bancone per riordinarle. «Non lo so. Forse possiamo chiedere a Biancaneve.»
«Buona idea.»
Così spensero le luci del loro umile ma prezioso locale, girarono la targhetta sulla porta e chiusero a chiave. Diretti verso casa Azzurri, nessuno dei due azzardò ad aprir bocca: erano certi che non sarebbe finita bene.


David stava cucinando; Mary Margaret, o meglio Biancaneve, stava chiacchierando con la loro figlia maggiore, Emma. All'improvviso qualcuno suonò il campanello.
Facendo un cenno al marito per fargli capire che sarebbe andata lei alla porta, Mary Margaret si alzò fulminea dal divano. Non aspettavano altri ospiti oltre ad Emma, per quel pranzo, ecco perché era accigliata. Guardò dallo spioncino della porta: era Belle. Aprì la porta e la fece entrare nell'appartamento piccolo, ma accogliente. Emma vide poi che Belle era seguita dal suo compagno, Tremotino, non molto ben visto dal resto della città.
«Ciao, Belle!» esclamarono gli Azzurri ed Emma, ma solo quest'ultima sorrise veramente a Tremotino dopo averlo salutato.
«Come mai siete qui?» chiese David pulendosi le mani unte sul grembiule bianco e schizzato di sugo al pomodoro.
Belle guardò Tremotino; Tremotino guardò Belle. Ella tirò fuori dalla sua borsa a tracolla le tre pagine trovate nel loro negozio e le mostrò a Mary Margaret. «Venendo qui, ho pensato lo avesse perso un tuo alunno, che magari si trattava di un tema o qualcosa del genere.»
«Già, ma i tuoi alunni, Bianca, non sono mai entrati nel mio negozio» replicò Tremotino. «A dire la verità, siamo un po' preoccupati su cosa davvero possano essere queste pagine.»
David prese i fogli dalle mani della moglie e li studiò a grandi linee. «Sembra il riassunto di una storia. Qui c'è anche una scaletta.»
Fu il turno di Emma, la più attenta ai dettagli. Lesse il tutto molto velocemente, ma senza perdersi alcuna parola. «La storia è incompleta. Ci sono molti buchi, come se fossero dei semplici appunti. La scaletta, invece, è interessante.»
«Perché?» chiese Belle incuriosita.
«Il riassunto si ferma all'incontro tra due ragazze ed una creatura sovrannaturale per poi terminare con l'arrivo di un uomo con una cabina blu» spiegò brevemente Emma; mostrò poi la scaletta a Belle: «Però qui la storia è diversa. Dopo un certo labirinto, un uomo con una cabina telefonica blu arriva a Storybrooke. Da qui in poi, è tutto diverso.»
«Come se chi ha scritto queste pagine avesse cambiato idea.» Mary Margaret era ormai certa che non si trattasse del tema di un suo alunno: non aveva mai assegnato compiti del genere.
«Aspetta» disse David d'un tratto. «Gira il secondo foglio.»
Emma fece quanto le disse suo padre e notò, infatti, che sul retro del secondo foglio vi era annotata una specie di introduzione seguita da una firma. Chiunque avesse scritto quelle parole si faceva chiamare Marra Superwholocked.


Nei giorni seguenti, non avvenne niente di speciale. Henry non sapeva nulla del ritrovamento di quelle tre pagine e così nemmeno Regina: prima dovevano accertarsi che fossero davvero un pericolo. Si erano organizzati in questo modo: Tremotino continuava a lavorare in negozio tenendo sotto controllo chi vi passava di fronte o vi entrava, raccogliendo ogni informazione che potesse esser loro utile; Belle, sommersa dai libri, ed Emma, sommersa dalla rete di internet, effettuavano le richerche più noiose che avessero mai fatto; Mary Margaret seguiva il suo solito programma scolastico tenendo d'occhio i suoi alunni per capire se qualcuno di loro potesse avere doti letterarie; David badava al piccolo Baelfire e non era una cosa affatto semplice ora che cominciava a gattonare di qua e di là per casa.
Ma poi, inaspettativamente, Regina entrò nel negozio di Tremotino proprio mentre Belle studiava l'ultimo libro in suo possesso; appena Belle vide l'altra donna venirle incontro, richiuse bruscamente il libro, il che fece insospettire Regina e anche molto.
«Cosa succede?» chiese Regina con il sorriso di chi sospetta qualcosa ma non vuole darlo a vedere.
Belle ripose il volume sulla mensola sotto al bancone, fulminea, ricambiando il sorriso di Regina. «Ehi, mi hai spaventata» disse semplicemente. «Ero così immedesimata nella lettura che non ti ho sentita entrare!»
Regina, che era tutto meno che stolta, si accorse dell'omissione di Belle, ma decise di passarci sopra. «Sto cercando Tremotino» disse con un ampio sorriso falso. «Vorrei un suo parere riguardo ad un incantesimo di botanica.»
«Sta finendo l'inventario. Ma se vuoi, posso aiutarti io, dipende da cosa ti serve.» Belle appoggiò entrambi i gomiti sul vetro del bancone per poi appoggiare il grazioso mento sulle palme delle mani, aspettando che Regina esponesse il suo problema.
«No, in realtà...» Regina si guardò le scarpe. Tirò su nuovamente il capo e scostò una fastidiosa ciocca di capelli. «Vorrei sapere cosa mi stai nascondendo.» I suoi occhi si erano fatti cupi e indagatori.
Belle ne rimase sorpresa. «Io? Nulla» le rispose con un tono di voce troppo alto per far fessa Regina. La ragazza se ne accorse e tentò di ammaliarla con un sorriso.
«Mh-mh» fece Regina. «È quasi una settimana che voi due e tutti e tre gli Azzurri vi aggirate per Storybrooke come dei ragazzini alla ricerca di un tesoro nascosto.» Le labbra tirate solo a metà, come di chi sa che il suo interlocutore sta mentendo. «Quindi non ti dispiacerà se lo prendo in prestito» disse spalancando le mani avanti a sè mo' di piatto, facendoci apparire sopra, in una grande nuvola di fumo viola, il libro che stava leggendo Belle proco prima. Regina vide l'epressione un po' preoccupata di Belle e non capiva. Il titolo del libro recitava: La realtà nascosta; Universi paralleli e leggi profonde del cosmo**. «Davvero? Scienza?»
Belle girò attorno al bancone e raggiunse Regina. Sospirò rumorosamente; non sapeva da dove partire per spiegarle tutto. Aprì bocca per iniziare, ma si fermò subito. Dopo qualche istante di silenzio in cui Regina non sapeva se Belle si fosse pietrificata o chissaccosa, la ragazza amante dei libri disse ciò che tutti sapevano ma che non osavano mai dire: «Storybrooke non sarà mai un luogo sicuro.»


«Wow» sentenziò Regina appena finì di leggere le pagine misteriose. «E le avete trovate nel vostro negozio?»
Belle e Tremotino annuirono accigliati. «Speravamo di trovare qualche informazione senza dover far preoccupare troppe persone» disse lei.
«Tuttavia» si intromise l'Oscuro, «le richerche sono state del tutto vane.»
«Avete cercato proprio ovunque?» chiese Regina poggiando i fogli sul divanetto nel retro del negozio di Tremotino.
«Sì» rispose Belle. «Tremo ha tenuto d'occhio i passanti, io ed Emma abbiamo cercato nei libri e nel web e Bianca controllava se qualche suo alunno avesse una passione riguardante la letteratura.»
«Mhm» Regina tirò un solo angolo della bocca e assottigliò gli occhi. «C'è ancora qualcosa che possiamo consultare.»


Nonostante la cripta fosse stata rimessa in ordine da poco, Regina dovette scavalcare uno scatolone, un paio di provette vuote - «Ecco dove eravate finite!» - e un calderone arrugginito. Arrivata a destinazione, tirò giù il tessuto grigio topo e scoprì un grosso ed ovale specchio, il quale emanava una luce violacea e verdeggiante allo stesso tempo. La cornice era d'oro e, finemente elaborata, dava proprio l'idea di essere un oggetto regale.
«Specchio, Specchio delle mie Brame» disse Regina con voce ferma e melliflua.
Dal vetro riflettente si udì un uomo sbadigliare e le luci fluttuarono, si aggrovigliarono, si amalgamarono per formare i lineamenti dell'uomo che esso ospitava. «Sì, mia regina?» chiese pacato e stanco.
«Cosa mi sai dire degli universi paralleli?»
«Mia regina» parlò lo Specchio con una nota di ilarità nella voce . «Voi più di chiunque altri sapete che sono molteplici e come funzionano, quindi perché chiederlo ad un umile e vecchio Specchio?»
Regina, spazientita dalla calma di quella specie di oracolo, si massaggiò le tempie. «In termini scientifici, intendo.»
«Oh...» Lo Specchio sembrava meravigliato. «Bene, vediamo... Nulla è certo, ma è possibile che vi siano più modi di raggiungerli: magia e scienza si combinano, si uniscono per creare spaccature permanenti nello spazio-tempo. Ma se dovesse mai lavorare uno solo di questi due fattori, la spaccatura o portale si richiuderebbe qualche istante dopo essere attraversato.»
«Quindi è possibile che quei fogli abbiano passato un portale» disse Regina a nessuno in particolare in quelle quattro mura buie e umide.
Lo Specchio la guardava con occhi ora sempre più curiosi. «Cosa vi turba?»
La donna rivolse allo Specchio uno sguardo colmo di irritazione. «Non ti riguarda.»
«Certo che no, mia regina» esclamò lo Specchio, il volto che pareva allontanarsi lentamente come se fosse impaurito. «Non mi fate altre domande?»
«Del tipo?» chiese Regina, stizzita.
«Del tipo: Chi è l'uomo descritto in quei fogli?»
Regina ne rimase sconvolta. «Come fai a saperlo?!»
Lui rise sommessamente, poi tossicchiò un paio di volte per scacciare il divertimento dalle sue labbra scaltre. «Io so tutto, mia regina. So chi è quell'uomo, da dove proviene, quando arriverà in città...» disse lo Specchio con fare misterioso. «Ma, dato che la cosa non mi riguarda, vi lascio la sorpresa sul quando
«Sta bene» acconsentì Regina. «Da quanto abbiamo letto, non sembra un tipo pericoloso. Parla, Specchio.»
I lineamenti colorati si mossero e mostrarono un sorriso. «Egli è colui che attraversa la storia e il tempo. Proviene da un altro universo e si fa chiamare anche, in circostanze di estremo pericolo, Presidente della Terra.»


*band americana che AMO, nota anche per i titoli inizialmente lunghissimi delle loro canzoni (ora si sono dati una regolata). Ho usato due loro titoli per due miei capitoli, il terzo ed il nono! Volete un cosniglio? Se non li conoscete, cercateli e ascoltatevi altra roba come Irresistible, Immortals e Novocaine... Poi tutto il resto della discografia, eh! XD
**libro di Brian Greene (https://www.ibs.it/realta-nascosta-universi-paralleli-leggi-libro-brian-greene/e/9788806186135)

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Capitolo 14
*** Capitolo 12 - Car Radio ***


PARTE QUINTA
Ci conosciamo?


Chapter XII
Car Radio*


Silenzio. Silvia guidava in silenzio. Sentiva solo il sordo rumore degli pneumatici che sfrecciavano sull'asfalto rovinato da numerose buche, il suo respiro, i suoi pensieri. Catherine si era addormentata con il viso rivolto al panorama alla sua destra per nascondere le lacrime. Poi i pensieri nella testa di Silvia si fecero più rumorosi e insistenti, urlavano e avevano la voce di Theck. Strizzò gli occhi stando attenta a non sbandare, ma continuava a sentire la voce del demone, a ricordare il volto di Maria, a sentirsi sussurrare il nome di Amnesha...
Rallentò ed accostò. Aveva bisogno di distrarsi o tutto quel silenzio l'avrebbe divorata fino alle ossa. Senza svegliare Catherine, aprì il vano portaoggetti appoggiando lo sportello sulle ginocchia dell'amica. Vi trovò, andando a tastoni, un album, Cleopatra dei Lumineers, e lo scartò; poi trovò quello che stava cercando. Chiuse lo sportello ed aprì l'album scelto con un sorriso, inserì il cd nell'autoradio, andò diretta alla seconda traccia, e Lies** riempì l'abitacolo di note rincuoranti e cariche di energia. I Lumineers avevano il potere di tranquillizzarla, ma i Last Illusion le permettevano di non pensare alle cose tristi appena vissute. Inoltre conosceva di persona il bassista, avevano fatto assieme i tre anni di scuola media e sapere che era riuscito a fare così tanta strada, be', la faceva sentire ancor più felice.
Catherine parlò nel sonno. Disse qualcosa che somigliava ad «Abbassa la musica», ma anche a «Ga bassa la mòlfica».
Silvia rise di gusto e Lies venne ridotta al cinquanta per cento, smettendo di far rimbombare le casse della Nissan Navara. «Buongiorno!» esclamò Silvia.
«Cosa vuoi dire? Che sarà una buona giornata che mi piaccia o no o che sarà una giornata senza mostri o fantasmi?» bofonchiò la più piccola riprendendo una posizione più comoda sul suo sedile.
«Ah, Lo Hobbit! Più o meno...» sussurrò Silvia. Quel libro significava molto per lei e Catherine lo sapeva. Le aveva ridato alcune speranze che i suoi genitori cercavano sempre di toglierle, la speranza di, un giorno, intraprendere un viaggio, un viaggio proprio come quello che stava compiendo in quel momento.
«Dove siamo?»
«Che tu ci creda o no» rise Silvia tenendo il tempo della musica, «ho seguito l'istinto e ora siamo a La Cugna.»
«Dove?!»
«Manca poco a Pistoia...»
«E perché siamo qui?!»
«Non lo so...»
Loro non lo sapevano, ma io sì.

 

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*https://www.youtube.com/watch?v=92XVwY54h5k (tasto destro del mouse, apri in un'altra finestra)
**https://www.youtube.com/watch?v=ubnDYkD2kr0 (tasto destro del mouse, apri in un'altra finestra)
E sì, conosco davvero il bassista... Per come lo conosco io, posso dire che è un ragazzo d'oro, nonostante non ci si veda mai. Avrà anche lui i suoi difetti, come tutti, ma è stato l'unico a non farmi mai stare male durante quei tre terribili anni alle medie e per me è davvero molto importante. Ci tenevo a dirlo.

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Capitolo 15
*** Capitolo 13 - Time Has Come Today ***


Chapter XIII

Time Has Come Today*

 

Amnesha.
Chi era?
Dove viveva?
Che aspetto poteva mai avere una persona, una strega di nome Amensha?
Ovviamente, sapevano solo che era femmina. Per il resto era tutta un'incognita, ma forse Silvia poteva fare qualcosa al riguardo...
«Cathy, prendi anche il libro, okay?» Silvia aveva già afferrato una delle due sacche, quella senza armi, e si stava dirigendo verso l'entrata del motel – l'insegna luminosa recitava un rosso vivo Motel Penna – mentre lasciava il parcheggio. Nell'altra mano reggeva i documenti per il check-in. Camminava spedita senza curarsi della pioggia e del buio, ormai che senso aveva dopo tutto quello che avevano passato? Era solo un po' di acqua e di oscurità, in fondo.
«Sis!» la chiamò Catherine allarmata.
Silvia si voltò assottigliando gli occhi per scrutare oltre le piccole gocce di pioggia ferme sulle lenti dei suoi occhiali. In effetti non era stata una buona idea non prendere l'ombrello. «Cosa c'è?»
«Hai spostato il libro?»
«No» rispose Silvia. Le venne in mente solo in quel momento che forse era meglio mettere in salvo i documenti, così si aprì la giacca di pelle nera a metà e le infilò dentro per poi tirar su di nuovo la cerniera.
«Sis...» Catherine pareva angosciata. «Qui non c'è. L'abbiamo perso?!»
«No, ehi, dai, calmati», ma c'era poco da stare calme: quel libro era un gran bel mistero, perderlo sarebbe stata una mossa da idiote. «Cominciamo a prenderci una camera, poi vedremo» disse.
E così entrarono nel motel a due stelle, il primo che trovarono sulla strada che le stava portando chissà dove. Il merlo indiano dei padroni era chiuso nella sua gabbia, adagiata sul bancone verso cui erano dirette Catherine e Silvia. L'animaletto dormiva appollaiato, sereno e spensierato. Quando Silvia fece suonare il campanello posto sul bancone, il merlo scattò sulle graziose zampe in un lampo. Craaaa, fece l'animale; sembrava volesse sgridarle per averlo disturbato. Clienti, clienti! gracchiò poi.
«Arrivo subito!» si udì da sotto al bancone; mezzo secondo dopo ecco spuntare quasi dal nulla un ragazzotto sorridente. Non sembrava affatto il proprietario del motel: un sottile paio d'occhiali neri erano accompagnati da una maglia nera con lo stemma di Batman ed un berretto con la visiera.
«Mi scusi, vorremmo una camera. Con chi possiamo parlare?» chiese Silvia accennando un sorriso imbarazzato.
Il ragazzo, che poteva avere trentacinque anni al massimo, si toccò il petto. «Con me! Sono io il proprietario non che factotum!»
Silvia, ora più che imbarazzata, diventò rossa per la vergogna. «Mi perdoni» disse abbassando lo sguardo.
Catherine ne rimase sorpresa. Non era più abituata a vedere Silvia così fragile e timida. Le piacque, le sembrò di tornare indietro di un paio di anni e le venne da sorridere.
«Una camera doppia, la prego.» Silvia cercò in tutti i modi di mandare via il rossore dalle sue guance mentre il proprietario del motel cercava nel database del suo computer. Silvia lo capì dal riflesso sulle lenti.
«Ecco qua, camera ventisei.» Prese le chiavi della camera che aveva assegnato loro e aggiunse: «Avrei bisogno dei vostri documenti per la registrazione.»
Silvia glieli porse senza dire una parola.
«Comunque non c'è nessun problema, riguardo a prima» disse il proprietario del motel. «Lo so bene anche io che non è l'abbigliamento che un cliente si aspetta da me.» Aveva ancora stampato in viso un gran bel sorriso felice. Le labbra sottili tirate senza mostrare i denti e gli occhi luminosi e simpatici, amichevoli. «È che mi piace essere me stesso, almeno nelle ore notturne quando entrano pochi clienti e non fanno nessun controllo!» Rise e la sua risata era leggera e confortante.
Risero anche Catherine e Silvia, dimenticando per un attimo mostri e fantasmi. Ed il sacrificio di Theck.
«No, allora...» Quando il proprietario del Motel Penna terminò di riportare i dati dai documenti delle due ragazze, egli allungò loro le carte e la chiave della loro camera. «Scherzi a parte, io mi chiamo Andrea, ma tutti mi chiamano Frank. E lui», indicò il merlo indiano al suo fianco, «è Penna, grande chiacchierone, ma solo di mattina» disse. «Mi avverte quando entrano facce nuove.»
«È un piacere» fece Catherine a Penna. Allungò un dito alla gabbia per farsi mordicchiare, ma il merlo indiano era così assopito che mancava poco che russasse.
«Grazie. Ora filiamo a letto, siamo stanche morte. La ringrazio» sorrise Silvia.
«No, no, no» disse Frank scuotendo il capo. «Vorrei che mi deste del tu per tutta la durata della vostra permanenza. A proposito... Quanto rimarrete?»
Silvia guardò Catherine; Catherine guardò Silvia. «Chi lo sa?» si disse la più grande.


«Mio, dio, vorrei che la doccia lavasse via non solo lo sporco e la stanchezza, ma proprio tutto...»
Catherine sorrise. Sapeva cosa Silvia volesse dire con quel tutto. Il dolore, il peso sulle loro spalle... Tutto.
«Come hai intenzione di cercare la strega?»
«Non so ancora con certezza, Cathy» disse Silvia sbarazzandosi della giacca di pelle e rimanendo con addosso un paio di jeans e un maglioncino leggero. Si accasciò su di un letto, a pancia in su e guardò il soffitto, ma non era una posizione comoda: si girò fino a mettersi a pancia in giù e fece per togliersi gli occhiali quando notò qualcosa di strano sotto al letto accanto al suo. «Sis, cos'è quello?»
«Mhm?» Catherine si voltò e puntò lo sguardo laddove le veniva indicato dall'amica. «Ma cosa...? Non è possibile, dai!» esclamò per poi fiondarsi a prendere l'oggetto nascosto sotto a quello che poi sarebbe stato il suo letto. Lo trascinò sulle piastrelle e lo sollevò reggendolo con entrambe le mani. Si trattava di un libro, un libro come quello che pensavano di aver perso. Lo aprì e vide il disegno di una ragazza riccia affiancata da una poco più alta della prima, con la carnagione scura e i capelli lisci e corti. Erano proprio loro due e quello era lo stesso libro che fino a poco fa davano per disperso.
«Non so che dire, sinceramente.» Silvia si era alzata a sedere e fissava a bocca aperta quel libro. «Forse è magico» disse, ma pareva più una domanda.
Catherine deglutì e poggiò il libro sul letto di Silvia. «Se qui c'è scritta e disegnata la nostra vita da cacciatrici, forse c'è anche un capitolo che parla di Amnesha e forse, ma forse, viene anche detto come trovarla o perlomeno dove si trova. È vero che è scritto in tempo reale, ma non si sa mai.»
«Buona idea!» Silvia prese il libro e lo aprì sulla prima pagina. «Gli do un'occhiata io, tu vai pure a lavarti!»
La più piccola la ringraziò e, presi i panni puliti e tutto il necessario, si chiuse in bagno.
Una ventina di minuti più tardi, Catherine si era appena accasciata sul letto, lavata e impigiamata, quando Silvia inspirò allarmata e richiuse il libro rilegato in pelle.
«Cosa?» mugugnò Catherine con il viso spiaccicato sul cuscino, a pancia in giù. «Cosa c'è?»
«Arimane!» esclamò Silvia. «Ha oltrepassato il portale! Ci ha seguite!»
Catherine scattò sulle ginocchia in un lampo. «Come sarebbe a dire Ci ha seguite?! Theck è...» Le parole gli morirono in gola. «Lui... Si è sacrificato per nulla...»
Fuori si alzò un vento improvviso, talmente forte che alcune macchine parcheggiate in strada fecero partire i loro antifurti. La finestra che dava sul piccolo balcone che offriva loro il motel si spalancò e tutta la camera venne invasa dall'alito fresco della notte. Silvia corse a richiuderla e lottò qualche istante prima di poter girare la maniglia e serrare il tutto. La tenda svolazzò ancora qualche istante, poi si accasciò mostrando qualche piastrella coperta da foglie di tasso.
«Oh-oh.»
Dall'altra parte della stanza, strisciando sulle bianche lenzuola, Catherine si alzò dal letto. «E ora che c'è?»
«Tasso.» Silvia si piegò sulle ginocchia per raccogliere una foglia secca e sa la rigirò tra le dita. «Esotericamente parlando, significa sia immortalità che morte.» Si rialzò, incontrando lo sguardo accigliato di Catherine. «Non intendo metter più naso in quel libro finché tutta questa faccenda non sarà finita» disse seria, «ma dobbiamo trovare quella strega e forse ho qualche asso nella manica. Però ora dormiamo, ci penseremo domani.»


Il vento della notte aveva spazzato via ogni nuvola affinché il cielo del mattino seguente fosse così limpido da far male agli occhi. Il sole caldo cercava di entrare, piano piano, nelle camere del Motel Penna. In una di quelle silenziose camere, la numero ventisei, due cacciatrici erano già in piedi, seppure ancora assonnate e frastornate: avevano dormito senza aver riposato.
Silvia trafficava con la connessione Wi-Fi; Catherine cercava ulteriori informazioni su Arimane.
«È in momenti come questi che gradirei la presenza del Dottore.» Silvia era riuscita a stabilire una buona connessione ad internet, trovando la giusta posizione del computer sul tavolo: un pochino storto, aperto sul sostegno cartaceo di un libro di magia bianca, il più vicino possibile alla porta d'entrata.
Catherine sorrise. «Perché?»
«Tutti i miei contatti magici sui vari forum conoscono Amnesha solo di nome, sanno che è molto potente e ha molte risorse, ma dicono che sia lei ad andare dai suoi clienti.» Silvia si sentì scoraggiata. Le avevano detto tutti la stessa cosa: è lei che ti contatta, perché lei sa. «Non c'è numero, non c'è indirizzo. Solo un nome e tante speranze di essere il prossimo sulla sua lista.»
«Se non ricordo male» disse Catherine staccando gli occhi dal suo computer, «senza coordinate, non potrebbe aiutarci nemmeno il Dottore.»
«Wow... Tu sì che sai come rallegrare le persone!» scherzò la maggiore. Si massaggiò gli occhi già stanchi poi abbassò lo schermo del suo portatile. «Tu? Trovato nulla?»
«Nada. Arimane è una divinità, quindi pressocché immortale.»
Silvia assottigliò gli occhi. «Pressocché. Non del tutto. Vuol dire che ha un punto debole. Troviamolo e miriamo a quello!»


Circa cinque ore più tardi, Catherine e Silvia erano al punto di partenza: di Arimane sembrava che ne sapessero meno di prima; di Amnesha solo che era una strega e che era impossbile contattarla.
Catherine era così stanca che si sorprese a fissare il vuoto, risvegliata da Silvia che sbatteva la testa sul computer.
«Ehi» disse Catherine stropicciandosi gli occhi. La foglia di tasso che era entrata la sera prima nella loro camera giaceva ancora sul tavolino su cui le due cacciatrici stavano facendo le loro ricerche, le guardava e ricordava loro che stavano sprecando troppo tempo.
Dall'altra parte del tavolo, Silvia smise di torturarsi la fronte e si mise a sedere ora più dritta. «Niente da fare» disse nascondendo male la sua frustrazione. «Questa Amnesha è fin troppo brava a nascondersi.»
Catherine inspirò e rimase con lo sguardo apparentemente perso per una manciata di secondi. «Senti. Io non mi reggo in piedi e tu hai bisogno di una boccata d'aria.»
«Ho già capito dove vuoi andare a parare e sono d'accordissimo. Uscire mi farebbe proprio bene» sorrise Silvia e si alzò pimpante. «Preferenze o quello che trovo?»
«Quello che trovi. Andrà più che bene.» Catherine lasciò il tavolino dopo aver spento i portatili e si sdraiò sul suo letto. «Prendi la chiave, mi raccomando.»
Silvia schioccò la lingua e le fece l'occhiolino. Controllò di avere abbastanza soldi per pagare il motel e del cibo. Sì, in contanti aveva ancora poco più di settanta euro, se li sarebbe fatti bastare. Lasciata la camera – senza dimenticarne la chiave –, salì in macchina e si diresse al discount più vicino per recuperare qualcosa per l'ennesimo pranzo da cacciatrici. Fin'ora è filato quasi tutto liscio, pensò la maggiore mentre guidava; non poteva proseguire così?
Nel medesimo istante, poco distante da lì, Catherine era già crollata nel mondo dei sogni.


Non si vedeva. Non vedeva le sua mani, non percepiva il suo corpo. Era come se non esistesse. Eppure lei era lì. Si muoveva. Si spostava tra le vie d'una città che non conosceva, come un drone, sinuosa e veloce, con movimenti perfetti e sicuri. Incontrò un bivio e guardò in alto. Un cartello la invitava a prendere la strada di sinistra e così lei fece: andò a sinistra e vide, in fondo alla via, un'insegna luminosa. Forse era viola. O forse rossa. Non ci fece caso, presa com'era a continuare ad aumentare la velocità. All'improvviso un taglio netto ed ecco che di fronte a lei vi era un gatto nero. La lunga coda si muoveva lentamente, ondeggiando. Al collo portava una targhetta con scritto "Bevimi", ma le lettere non stavano ferme, tremavano e ora erano cambiate in "Mangiami". Il gatto miagolò e strofinò una zampetta sul muso, leccandosela, poi la rimise a terra. O meglio, la rimise sul tavolo scuro su cui era seduta. O almeno sembrava essere un tavolo. Non lo sapeva più nemmeno lei. Poi vide che l'altra zampetta del gatto nascondeva un biglietto: lo afferrò e in quel momento vide le sue mani. Sì, era proprio lei, non era nessun altro, era ancora Catherine, la cacciatrice in prova. Ed il biglietto parlava chiaro.
Catherine spalancò gli occhi e non fece assolutamente caso a Silvia che stava rientrando con la busta del pranzo. Si fiondò al tavolo, prese carta e penna e scrisse Crepuscolo, Latina.

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 14 - Witch's Rune ***


Chapter XIV

Witch's Rune*

 

Silvia fissava le due parole scritte velocemente dalla sua migliore amica. Crepuscolo e Latina. «Cosa vogliono dire, sis?» le chiese. Le cartacce dei panini accartocciate sul tavolo e lei che ci giocava quasi spensierata.
«Be'» fece Catherine deglutendo. «Crepuscolo sarà il nome del negozio e Latina... Dai, Latina è Latina» rise.
«Sì, okay, ma si trattava di un sogno. Come possiamo fidarci di esso?»
Catherine si picchiettò la fronte, poco sopra il lobo frontale.
Silvia sorrise e guardò fuori dalla finestra. «Certo» disse, poi andò a controllare il cielo. Terso. Limpido. Così come la strada. Però vi era qualcosa di strano... Ed eccola, davanti a lei, ciò che sembrava il riflesso di qualche auto. «Cathy, vieni qui, per favore.» Una volta che venne affiancata dall'amica, Silvia indicò il presunto riflesso. «Secondo te, cos'è?»
Catherine strizzò gli occhi e si sitemò meglio gli occhiali sul naso. «Sembrerebbe una-»
«Spaccatura spazio-temporale, eh, sì, ragazze mie!»
Catherine e Silvia, riflessi pronti, si voltarono immediatamente. Una donna, poco distante da loro, stava sorridendo con tristezza e malinconia. Era bionda, la chioma le scendeva fino a sfiorarle la mascella, gli occhi dolci e materni sovrastati da sopracciglia fini e castane e la bocca dalle labbra sottili ma gentili. Indossava una lunga giacca color tortora sopra ad una felpa con un arcobaleno lungo il seno piccolo e delle bretelle che davano sul mattone.
Silvia gettò uno sguardo fulmineo alla pistola lasciata incustodita sul suo comodino, troppo distante dalle sue mani; Catherine si toccò le tasche dei pantaloni: il coltellino di suo padre non c'era.
«Chi sei?» chiese Catherine.
La donna sbattè le palpebre e sorrise.
«E come sei entrata?» ruggì Silvia.
La donna si umettò le labbra e aprì la bocca, mostrando una fila di denti sani e bianchi. «Ci siamo già incontrate, molto tempo fa. Anche se per voi si tratta solo di un annetto, credo.»
«Okay, frena» disse Catherine ponendo una mano avanti a sé. «Cosa intendi dire?»
«Il tempo è corso in maniera diversa per me, Catherine.»
Alle due cacciatrici si gelò il sangue nelle vene.
«Non dirmi che sei...»
«Sì» disse la donna con un sorriso. «Sono proprio io. Devo ancora conoscermi e capire come mi piace muovermi e parlare, ma sono io.»
Catherine si coprì la bocca con le mani unite e guardò Silvia che non riusciva a capire che stesse accadendo. «Sis» le disse con le lacrime agli occhi per la felicità. «È il Dottore!»


«Ancora non mi convince.» Silvia guardava la donna, che per lei non era che un'estranea, dall'alto in basso, con le braccia incrociate e lo sguardo attento ad ogni suo minimo movimento.
«Te l'ho detto, Silvia!» esclamò la donna aggirandosi con fare naturale per la stanza d'albergo. Sfiorò con le dita affusolate le tende. Fuori il sole era alto in cielo e riscaldava i suoi piedi, chiusi in scarpe marroni e pesanti. «Noi Signori del Tempo ci rigeneriamo, cambiamo. Prima o poi sarebbe successo» si spiegò meglio. Accennò ad un sorriso, ma incontrò gli occhi severi di Silvia; quella ragazza non avrebbe ceduto facilmente. «Il Dottore che avete conosciuto a scuola esiste ancora, da qualche parte dell'universo. Una parte di lui è ancora con me, ecco perché vi riconosco: non ricordo tutti i volti che incontro, ma voi avete lasciato un'impronta che non se ne andrà mai.»
Catherine rimase a bocca aperta per lo shock. «C'è la possibilità di rivederti in quelle vesti?»
«Sì, assolutamente!» La donna si voltò per sorridere alla più piccola. «Me lo ricordo benissimo, quel giorno. Proprio quando stavo perdendo le speranze... ecco che siete apparse voi!»
«Quale giorno?» chiese Silvia rilassando ora le braccia indolenzite.
«Il giorno in cui...» Cominciò a dire, ma s'interruppe e parve ripensarci. «No, meglio di no.»
Catherine, prima seduta sul suo letto, s'alzò di scatto. «No! Vogliamo sapere!»
«No, credimi» le rispose calma. «Quando siete arrivate, mi avete raccontato tutto sul tempo che abbiamo trascorso ora e che trascorreremo fino al nuovo addio.»
«Quindi...» Catherine assottigliò gli occhi a fessure. «Tu ora non ce lo dici perché noi nel nostro futuro e nel tuo passato ti abbiamo detto che nel nostro passato nonché presente e nel tuo futuro non ci avevi detto nulla?»
Silvia avrebbe voluto tirare una testata al muro. La donna che diceva di essere il Dottore, tuttavia, sorrideva fiera e rispose: «Esatto!»
Ora Catherine non appariva più nè turbata nè confusa: aveva capito esattamente cosa fare una volta che avrebbero rivisto il loro Dottore. Il dove e il quando, con esattezza, ancora non lo sapeva, ma almeno erano un passo avanti, o no?
«Quindi ora che si fa?» Silvia si avvicinò piano piano alle altre due, cominciava a fidarsi. Dopotutto quella donna sapeva troppe cose per non essere il Dottore.
«Prendete le vostre cose, quelle essenziali, e poi tutti dentro al TARDIS!»
«A tutta birra?»
Il Dottore guardò Catherine di sottecchi. «Mhm» disse con una smorfia. «Troppo comune, ci vuole più fantasia!»


Era nuova. Aveva una nuova faccia. Una nuova voce. Nuovi modi di fare e di parlare. Non c'era da fare altro se non rassegnarsi e andare avanti. Silvia prese atto delle informazioni e mandò giù il boccone. Sebbene ritenesse il Dottore una creatura non terrestre altamente pericolosa – nonostante le numerose volte in cui salvò, salva e salverà la Terra –, era affezionata a quel ragazzo col papillon le cui mani si contorcevano continuamente nel vano tentativo di seguire i suoi pensieri. E ora quel ragazzo non c'era più. O così aveva capito.
«Da quel che ricordo» stava dicendo il Dottore aprendo le porte del TARDIS per le due cacciatrici, «mi avete detto che dovete andare a Latina, in Italia, giusto?»
«Quando te l'avremmo detto, scusa?»
Il Dottore si fermò un attimo con le mani sulla consolle. «È tutto molto complicato quando le linee temporali non coincidono» disse tra sé e sé. Poi, a voce più alta ma senza urlare: «Me lo direte! Anzi, dovrete dirmi tutto su questo giorno cosicché il futuro me possa ripetere le mie stesse azioni!»
Catherine e Silvia annuirono felici e, prima che potessero aggrapparsi da qualche parte per assicurarsi un minimo di stabilità, il TARDIS partì e lasciò il parcheggio incustodito di fronte al Motel Penna.
Dopo un attimo di trambusto, Catherine fu la prima a rialzarsi, seguita da Silvia ed il Dottore. «Wow, ma sono sempre così impacciata con la guida?» chiese quest'ultima.
Silvia si pettinò i ricci con le mani e la guardò torva. «Almeno l'altro Dottore avvertiva prima di partire» disse, poi le scappò un sorriso.
Uscirono dal TARDIS che sembravano una più disperata dell'altra: quella con i capelli più in ordine era Catherine poiché li aveva lunghi mezza spanna. Col sole dritto in faccia, poi, era ancora peggio. Ovviamente nessuno le notò così come nessuno notò l'astronave atterrare. Attorno a loro solo palazzine, auto e nogozi.
«Sicura che siamo a Latina?» chiese Catherine.
«Già» osservò Silvia guardando il panorama rumoroso. «Mi sembra simile alla nostra Milano.»
«Per di qua» fece dunque il Dottore. Prese entrambe le ragazze, un braccio ciascuna, e se le tirò dietro. Attraversò con loro la strada, come una madre con le due figlie. Sapeva esattamente cosa fare: doveva portarle al Crepuscolo il più veloce possibile.
Attraversarono ancora una volta, fino a lasciarsi alle spalle ettari di smog e chiacchiere e, dopo un lungo camminare in rettilineo, ecco che il Dottore le fece svoltare a destra, entro una viuzza buia e isolata dal mondo. Pareva di esser entrati in un altro mondo. Non l'avevano nemmeno notata all'inizio!
L'aliena lasciò le braccia delle due cacciatrici e scrutò il cielo. «Siamo in anticipo. Il sole è ancora troppo alto.»
Silvia e Catherine si guardarono preoccupate. «E quindi?» chiesero all'unisono.
«Come si chiama il negozio?» replicò il Dottore.
«Crepuscolo
Il Dottore continuò a guardare in alto, le nuvole pigre che pascolavano nel loro azzurro prato. «Vi siete risposte da sole!»
Catherine intuì che avrebbe avuto un po' di tempo per rimettere in ordine le idee. Theck aveva detto loro di recarsi da Amnesha e così stavano facendo. Ma se questa Amnesha non avesse voluto aiutarle? O se, peggio ancora, il sogno che aveva fatto la notte precedente si fosse rivelato solo un semplice sogno e Amnesha non fosse stata lì ad aspettarle ma da tutt'altra parte, per nulla vogliosa di aiutarle? Il panico cominciò a mangiarla dentro, ma stette zitta. Come sempre.
Silvia, d'altro canto, appariva più spensierata: guardava le mura di quella via. Costruita con mattoni e pietre centinaia di anni fa, risultava assolutamente fuori luogo. Ogni tanto, dalle crepe spuntava qualche felce selvatica o margherita dai lunghi e sottili petali bianchi. Le mura erano alte e prive di finestre o portoni: serviva solo a separare, così aveva pensato Silvia, due altissimi e antichi palazzi. A stento ci sarebbero passate quattro persone l'una di fianco all'altra, eppure nessuna delle presenti avvertiva il classico senso di claustrofobia che avrebbe generato una qualsiasi via come quella.
E fu proprio mentre Silvia tentò di scacciare col piede un orrido scarafaggio che il Dottore corse dalle due ragazze e disse loro: «È ora! Guardate il cielo!»
Catherine e Silvia spostarono i loro occhi da quelli dell'aliena fino a sopra, al cielo. Esso stava cambiando colori e, dal turchese intenso, stava raggiungendo tonalità calde e fredde che si mescolavano tra di loro come pigmenti sulla tavolozza di un pittore distratto. Il sole camminò ancora un poco tra le nuvole che sembravano tirate con una spatola ed ecco che presero il sopravvento l'arancio, il corallo e, striscianti qua e là, anche un pizzico di lilla, violetto e lavanda.
«Mio Dio» disse Silvia in un lieve sussurro, rimanendo a bocca aperta. Non aveva mai assistito ad un tramonto così spettacolare. A dire il vero, non aveva mai assistito a nessun tramonto. Solo qualche sguardo fugace tra gli alberi dal finestrino dell'auto in corsa. Fece di tutto per trattenere una lacrima e il miglior modo fu guardare altrove. Si lasciò dunque Catherine alle spalle, la quale ammirava quello spettacolo mozzafiato in silenzio, con un semplice sorriso stampato in viso. Tuttavia, la lacrima di Silvia scese comunque dinnanzi a ciò che le si presentò davanti quando i raggi del sole del crepuscolo colpirono la prima pietra di quella silenziosa via. «Mio Dio!» esclamò ora.
Alle parole di Silvia, si voltarono anche Catherine ed il Dottore. Per quanto riguarda quest'ultima, le era stato già tutto riferito dalle due cacciatrici, ma vederlo di persona era una cosa del tutto differente. Catherine, ovviamente, ne rimase così affascinata che assistette alla magia del tramonto semplicemente a bocca aperta. Ed il motivo era semplicemente magico.
Dalla prima pietra in poi, si era propagata una scia che aveva cambiato, man mano che essa camminava e si allargava, l'aspetto delle pareti. Dapprima umide e spoglie, erano ora gioiose e vive. Vive del chiacchiericcìo proveniente da tutto attorno a loro. La scia toccò il suolo e questi si allargò, dando l'impressione che la pavimentazione fosse più ampia e i tre viaggiatori videro nettamente persone e negozi e bancarelle tutti lì, ammassati, urlanti, colorati e spensierati.
«Mele candite!» si udì da una parte.
«Filtri d'amore!» urlarono dall'altra.
Ma, in fondo alla via, c'era qualcosa che attirò l'attenzione di Catherine. Oltre la massa di gente vestita chi di stracci chi di velluto e sete, vi era l'insegna più umile che la ragazza avesse mai visto. Lo sfondo color panna era ormai così lurido da apparire marrore da tutta la ruggine che vi era cresciuta sopra, tuttavia si leggeva ancora il nome del locale: Nero Di Seppia, dal 1894. L'unica vetrina che l'esercizio commerciale offriva a chi vi passava davanti era ricoperta da più di un secolo di polvere e grasso delle mani dei bimbi curiosi.
Silvia notò che l'amica era attratta da quel negozio anche se non ne capiva il motivo: non aveva mai visto un negozio più maltenuto. «Sis!» la chiamò, ma Catherine non le dava ascolto. Volle chiamarla una seconda volta, ma venne interrotta dall'arrivo di una ragazza che le dava le spalle e il cui abbigliamento, la capigliatura ed il make up facevano proprio pensare allo stile dark gotico.
«Catherine Sarah Girado?»
Catherine si scosse e si voltò. «S-sì?»
«Non andare. È lo stregone più truffaldino del quartiere Crepuscolo.»
Catherine, Silvia e il Dottore guardavano la ragazza gotica con tanto d'occhi, ma lei non ricambiava. «E tu devi essere Silvia Morelli» disse guardando i capelli della diretta interessata, ma mai gli occhi.
«Sì, ma tu come fai a sapere-?»
La ragazza la interruppe bruscamente con il gesto d'una mano bianca e dalle lunghe dita sottili, smaltate di un bordeaux tremendamente scuro. «E lei è il Dottore, quindi.»
Il Dottore rimase in silenzio, indispettita. Non le piaceva, dopotutto, che la sua fama la precedesse così tanto.
«Venite» disse la ragazza sorridendo per la prima volta in quella sera. «Amnesha vi sta aspettando.»

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Capitolo 17
*** Capitolo 15 - Angolo inutile dell'autrice ***


Chapther XV

Angolo inutile dell'autrice

 

Non ce la posso fare.
Non ce la posso fare.
La storia sembra avere sempre meno senso, è troppo complicata, non ce la posso fare.
Mentre cerco di non pensare a queste cose e a tirarmi su di morale con una tazza di tè, mi arriva un messaggio. È da parte di Cathy, dice Forse domani finiamo di imbiancare! Che ne dici se dopodomani ci vediamo? Chiedo anche alla Manu così ci organizziamo per il gruppo cosplay!
Certo, come ho fatto a scordarmi del gruppo cosplay?
Il gruppo cosplay...
Non so nemmeno da dove partire per fare del filo spinato con lo spago. Vernice spray argentata, chilometri di spago, forbici e pazienza. Io sono più per la cartapesta, non ho grandi abilità. Ahimè, è sempre così: sono attratta dalle novità, ma le temo.
Riapro il computer e faccio mente locale: le parti senza Catherine e Silvia sono con Marilena; Silvia rappresenta Marilena, Marilena rappresenta me, la Marra, ma io mi chiamo Marilena; Marilena è la Marra; la Marra è Marilena; e io chi sono?; non me lo ricordo più; è complicato; molto complicato; Catherine è sempre Catherine, per fortuna. Ho sempre amato il suo nome. Il suono duro iniziale seguito, poco più avanti, da quello morbido del th sembrano fare proprio per lei.
No, sto divagando.
Okay, ci sono.
Bevo un sorso di tè, per schiarirmi meglio le idee.
Arriva mio padre e inizia a parlare. Sarà una lunga serata. Mi dice che domani devo pulire la mensolina di vetro in bagno. Quella in alto, tanto in alto. Dovrò prendere la scala e io odio prendere quella scala. Ho paura di cadere. Gli dico Okay, punto.
Mi arriva un messaggio da Roberta. Mi viene subito in mente Amnesha e mi scappa un sorriso. Mi ha mandato una gif con Dallon Weekes. Le rispondo con un cuore.
Basta, meglio spegnere il telefono e ascoltare un po' di musica mentre tento di scrivere. Prendo Multiply poi lo rimetto giù, ormai conosco le canzoni a memoria, mi distrarrei. Prendo quindi l'unico album che non ho ancora memorizzato, Trash di Alice Cooper. Ovviamente salto la prima traccia, che so a memoria, e mi godo il mio angolo di pace e tranquillità.


Pagina bianca.
Così fino a fine album. E le canzoni son tante, eh.
Non riesco a scrivere nulla. Mi sento come Chuck Shurley, veramente. Anzi, no, come Johnny Depp in quel film in cui c'erano delle pannocchie e lui aveva il blocco dello scrittore. Come si intitolava? Aspetta che lo cerco su Goog- Ah, no, ho spento il telefono. E non ho nemmeno risposto a Cathy.
Maledizione. Un'altra serata gettata al vento.
Riaccendo il telefono, ci impiega una vita. Le rispondo Non preoccuparti, al massimo si fa quando torniamo dal mare tutte e tre! Uno smile e invio. Spengo di nuovo. Che serata noiosa.
La fanfiction è tutta nella mia testa, eppure è così difficile tramutare il tutto in parole.
Alla fine mi ritrovo a tirare fuori dal comuter l'album di Alice Cooper e a fissare il muro di fronte a me. Vedo il dipinto a tema Doctor Who che mi ha fatto Cathy per Natale del 2016. È stupendo... Mi ero messa a piangere quando lo scartai...
No. Basta. Devo scrivere.
Finisco il tè e sento mio padre russare. Mi disconcentro. Fine.
E anche oggi si scrive domani!

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Capitolo 18
*** Capitolo 16 - Heroes ***


Chapter XVI

Heroes*

 

Attraversarono i pochi metri che le separavano dalla famosa Amnesha con il cuore in gola. Tuttavia la ragazza dall'aria dark che le accompagnava, appariva felice e serena, come se fosse divertita dall'arrivo di tre straniere.
Catherine si guardava attorno meravigliata da ciò che prima non si poteva vedere; era come se un'antica magia aleggiasse attorno a loro, sulle loro teste, davanti ai loro occhi e si palesasse solo in determinate circostanze. Ed era infatti ciò che stava spiegando la loro accompagnatrice: «Merlino visitò la città e se ne innamorò a tal punto che incanalò parte della sua magia proprio qui!» e mentre parlava, gesticolava come una guida turistica al primo giro della giornata. «Ovviamente nessun altro testo se non quelli adoperati da maghi e streghe riporta questa importante e fondamentale notizia.»
«Perché?» intervenì il Dottore.
La ragazza si fermò e si voltò, regalando all'alieno uno sguardo privo di qualunque emozione esistente. «Potrebbe essere pericoloso. Non per noi, no... Per i non-magici.»
«Perché?»
La ragazza ora guardò il Dottore più accigliata. «Perché potreste morire per la troppa conoscienza.»
Il Dottore le si avvicinò come per surrarle il mistero più oscuro di tutta la storia. Tuttavia, chiese ancora: «E perché?»
La ragazza, dapprima un po' irritata, battè le ciglia ed ecco che un sano sorriso apparve sul suo volto, illuminandole gli occhi. «Perché voi non avete la Dote» le disse.
«Perc- No, scusa» rise il Dottore. «Ci stavo prendendo gusto.»
Silvia ripensò alle parole della ragazza vestita di nero da testa a piedi. «Cos'è la Dote?»
«La Dote è...» cominciò la ragazza, ma non sapeva esattamente come rispondere, sapeva solo come funzionava. «Una mattina ti alzi, scendi dal letto e capisci che appartieni ad un'altra realtà. Poi, per istinto, esci di casa e ti ritrovi qui e vedi. Senza dover attendere il tramonto.» La ragazza fece una pausa ad effetto per riprendere poi il discorso iniziale. «Come vi dicevo, Merlino assicurò un rifugio a quelli come noi, proprio tra queste mura. Lo fece all'imbrunire della sera, ecco perché siamo visibili a voi altri solo al calar del sole.»
«Che mi dici di tutti gli altri, i non-magici come noi, là fuori? Non avete paura che vi scoprano e che facciano un'altra caccia alle streghe?»
La ragazza sbuffò un sorriso. «Loro non vogliono vedere. Avete mai letto Nessun Dove
Catherine strabuzzò gli occhi e si agitò; Neil Gaiman era tra i suoi autori preferiti, accidenti!
«Bene» disse la loro guida, «qui succede una cosa molto simile.» Riprese a camminare e le tre forestiere la seguirono con interesse. «La troppa conoscenza uccide, inoltre. Non fisicamente, ma mentalmente e Luisa ne è la prova.»
«Chi è Luisa?» chiese Catherine accigliata.
«Lei» rispose la ragazza indicando loro un punto alla loro sinistra.
Ai piedi di una piccola fontanella oramai non più funzionante, giaceva una donna minuscola, tutta ricoperta da stracci che cercava di non far svolazzare troppo in giro; erano suoi, se li era guadagnati, nessuno poteva toccarli. Un viso un tempo paffuto e solare ora veniva solcato da numerose rughe, le sopracciglia perennemente aggrottate le conferivano un'aria dura e severa mentre i suoi capelli non avevano più alcuna forma, erano semplicemente arruffati in modo selvaggio.
«Lei è una non-magica. È qui da quando ancora io non ero nata.» La ragazza si rattristì nel parlare della donna: vederla tutti i giorni era una cosa, parlare di lei un'altra. «Era in fuga da un marito violento e trovò la nostra strada. Non riuscì più a staccare gli occhi da queste mura da tanto la affascinavano e più le raccontavano di noi, più lei rimaneva persa tra le parole della mia gente. Ora quella è la sua casa, una fontanella in disuso e la costante confusione che aleggia nei suoi occhi.»
«Caspita!» si lasciò sfuggire Catherine senza rendersene conto.
La ragazza notò che i morali di tutte e tre le forestiere erano visibilmente a terra, così congiunse le mani e ampliò il suo sorriso. «Bene!» esclamò guardandole dritte negli occhi una ad una per far loro dimenticare la storia di Luisa, il che era un'impresa davvero ardua. «Amnesha è in bottega, si starà chiedendo che fine abbiamo fatto.» E riprese di nuovo a camminare, ma questa volta senza più parlare: tirava dritto, decisa, verso il suo obiettivo. Mancavano pochi metri al termine della via; le tre viaggiatrici nel tempo le sentiva dietro di sè e le venne da sorridere un po': chissa come avrebbero reagito alla vista di Amnesha?
I loro nasi vennero invasi da uno strano odore estremamente dolciastro, a tratti nauseante. La gente si spostava al loro passaggio senza distogliere lo sguardo dalle bancarelle e fu così che pian piano davanti a loro videro la più bella vetrina che si possa mai immaginare: cristalli e minerali dalle varie dimensioni incorniciavano la vetrata principale. L'entrata era contornata da un'appariscente e sanissima glicine in fiore. L'insegna, esattamente opposta a quella di Nero Di Seppia, dal 1894, recitava a grandi e sinuose lettere La Bottega Di Amnesha, e sotto, in piccolo, Candele Acchiappasogni Cristalli . . .
Silvia ne rimase talmente affascinata che fissava più punti contemporaneamente, non riusciva a godersi una sola cosa alla volta. Catherine se ne accorse e allungò la mano per tirarle su la mandibola e chiuderle la bocca. Questo ridestò la più grande, la quale tornò con la mente alla realtà ed esclamò: «Maria!»
«In realtà sarebbe Roberta, ma potete chiamarmi Amnesha.» La voce proveniva dall'interno della bottega, oltre la soglia che non aveva nessuna porta, bensì una lunga e colorata tenda fatta di perline di legno colorate infilate a caso negli odorosi capelli di spago.
«Be', io...» disse Silvia sorridendo. Guardò alle sue spalle per cercare l'approvazione della ragazza in nero; le fece cenno di proseguire, così lei si fece spazio tra le perline ed entrò nella bottega seguita da Catherine, il Dottore e la loro guida. «Io intendevo un'altra cosa, sai...» Voleva aggiungere altro, ma l'odore dolciastro si fece più forte e ora non sembrava affatto nausenante, anzi, l'attirava e la calmava. Poi sentì la gola bruciare e prese a tossire così forte che le parve di morire.
Da lontano, in mezzo al fumo, Amnesha schioccò le dita e quattro ventilatori, uno per ogni angolo del negozio, presero a girare sempre più veloci fino a rendere l'aria più pura.
Silvia smise di tossire, Catherine si asciugò gli occhi. Non erano abituate a tutto quel fumo e, quando videro la loro guida ed il Dottore rimanere impassibili in quella situazione, rimasero un po' sconvolte. Una volta che si furono riprese, le due cacciatrici alzarono gli occhi al soffitto. Meravigliate, non riuscirono a dire nulla.
Mezzo soffitto era occupato da una cinquantina di acchiappasogni di tutte le forme e colori; alcune piume sfioravano le loro teste. In primo piano, invece, ecco delle spledide campane del vento; ce ne erano di tutti i tipi: in legno, in bambù, in vetro ed in metallo, con le conchiglie, con cocci di porcellana o ceramica riciclati. In un angolo riservato al giappone, in alto dove l'aria dei ventilatori non poteva arrivare, vi erano dei silenziosi fūrin.
Delle quattro pareti di cui disponeva la bottega, quella a sinistra rispetto all'entrata era interamente occupata da uno scaffale in ciliegio colmo di cristalli suddivisi, ognuno nella sua apposita vaschetta, per grandezza e colore. A destra, invece, si potevano vedere gli incensi disposti su un unico piano e, più sotto, decine e decine di candele i quali odori si mischiavano tra di loro creando un indescrivibile paradiso. La terza parete, quella di fronte all'ingresso, ospitava il bancone. Esso era stato ricavato da un pezzo unico di legno grezzo con sopra una tavola di vetro spessa un paio di centimetri per evitare schegge nelle mani di chi lo toccasse, ed occupato solo dalla cassa, una campanella e un cestino con una mangiata di caramelle. Come d'abitudine, Amnesha era seduta a gambe incrociate proprio sul bancone. Spense ciò che alle due cacciatrici sembrava una grossa sigaretta – ma che in realtà era altro – e sciolse le gambe facendole penzolare giù dal grosso blocco di legno.
«Benvenute, Catherine e Silvia» disse Amnesha, poi aggiunse: «Salve, Dottore.» Le uniche che sorridevano erano proprio Amnesha e la ragazza in nero. «Seguitemi, prego.» Dopodiché balzò giù dal bancone e ne percorse il perimetro fino a sparire oltre la tendina che portava nel retro.
La ragazza in nero fece cenno alle tre viaggiatrici di seguire i passi di Amnesha, ma quest'ultima le gridò dal retrobottega: «Loro sì, tu no, Inkheart. Qualcuno deve pur badare al negozio!»
La ragazza in nero, Inkheart, sbuffò e roteò gli occhi e, nell'urlare un Va bene! ad Amnesha, fece ancora segno alle altre tre di andare oltre la tendina.
Pochi istanti dopo, le due cacciatrici ed il Dottore potevano ammirare il retrobottega. Quello era il vero e proprio regno di Amnesha nel quale padroneggiava il colore verde; numerose bacchette di incenso alla salvia bianca erano posizionati in ogni punto lasciato libero dalle piante. Una ventina di vasi di edera pendevano dal soffitto mentre anfore di media altezza lasciavano viaggiare per la stanza ondate di profumi inebrianti quali sono quelle delle rose bianche, unici punti luce in quel mare verde. Uno scaffale alla loro destra era incredibilmente colmo di piante grasse: lithops, cactus zebra, Buddha's Temple, fraliea, schlumbergera e altre simpatiche specie attirarono l'attenzione di Silvia.
«Sono bellissime. Le curi tu?»
«Sì, Silvia» rispose Amnesha con un sorriso.
«Mia madre non ha nemmeno un briciolo di pollice verde, farebbe morire pure loro» disse ancora la maggiore sfiorando la foglia appuntita di un cactus zebra. Provò un senso di vuoto ripensando alla madre, al suo sorriso, ai suoi capelli, alla sua pelle morbida, al suo odore... Si schiarì la voce e si girò, cancellando ogni emozione dal suo viso. «Bene!»
«Bene?» chiese il Dottore.
Catherine guardò prima Amnesha, poi Silvia, poi ancora Amnesha. I capelli e i dread della strega di Latina erano perfettamente in tinta con il resto della stanza – erano stati colorati di un verde così acceso da fare invidia ad un prato di montagna – ed essi si intonavano anche con il braccialetto a forma di acchiappasogni che portava al polso. Un grosso paio di occhiali dalla montatura nera nascondevano due iridi color caramello mentre due piercing erano posti poco sotto i due angoli della bocca. Se l'avessero vista per strada, tra la gente comune – i non-magici – non avrebbero mai detto che fosse una strega; nulla di lei lasciava pensare ciò, dal suo aspetto, ai suoi atteggiamenti, fino ai suoi vestiti, dei semplici skinny jeans e una maglietta viola. Normale, una come le altre. Invece lei era speciale. «Bene» si ritrovò a sussurrare mentre Amnesha le passava davanti.
Silvia si ritrovò a maledire i silenzi imbarazzanti e prese l'iniziativa di chiedere: «Amnesha, come fai a sapere i nostri nomi?»
La strega fermò i suoi passi e sistemò una piantina grassa facendola girare su se stessa per qualche istante, mostrando così un bellissimo fiore rosa. «Io sono una strega» spiegò dandole le spalle.
«Sì, ma...»
«Ho comunicato io con Theck. Sono stata io a dirgli che sareste arrivate e che lui avrebbe dovuto dirvi di me. Tempo addietro conobbi Maria, la strega di Lucca, e mi tenni in contatto con lei. Una notte feci un sogno strano, c'eravate voi...» Amnesha si fermò e guardò in alto, in un angolo del retrobottega, senza puntare gli occhi su nulla in particolare. «Capii subito l'importanza della missione e le parlai di voi per chiederle consiglio e per dirle che era sul vostro percorso.» Si girò quasi ghignando e incrociò le braccia tatuate, piccoli simboli, rune, che riempivano la sua pelle aristocraticamente bianca donandole armoniosità e fascino. «Ah, le dissi che un giorno avreste incrociato anche Theck, per cui il demone ha ricevuto un doppio avviso. A proposito!» Amnesha spalancò gli occhi e sorrise, illuminando l'ambiente di felicità. «Come sta Theck?»
Silvia e Catherine avevano addosso gli occhi sia di Amnesha che del Dottore. Deglutirono e non sapevano come spiegarglielo. «C'è stato un problema, Amnesha» cominciò Silvia. Non ne avevano mai parlato seriamente, ma non c'erano dubbi su quanto accaduto in quel labirinto.
«Theck ha distratto Arimane affinché noi potessimo tornare in questo universo, ma non ce l'ha fatta» proseguì Catherine. «Theck è morto.»

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Capitolo 19
*** Capitolo 17 - Journey Through the Portal ***


Chapter XVII

Journey Through the Portal*

 

Morto. Theck era morto. Aveva aiutato le due ragazze a raggiungere nuovamente il loro universo e avrebbe dovuto seguirle, invece non ce l'aveva fatta.
Amnesha provava un'intensa fitta allo stomaco. Era dolore, rabbia e paura. L'ultimo pasto cominciò ad animarsi dentro di lei, ma mantenne la calma; si sedette su uno sgabello vicino allo scaffale delle piante grasse. Nell'altra stanza, in negozio, era entrato un cliente; il fruscio delle perline la distrassero dalle sue emozioni per un istante.
«Ehi» sussurrò Catherine avvicinadosi alla strega dai capelli verdi. «Tutto bene?»
«No» disse Amnesha. Poi ci ripensò su e deglutì. «Sì» si corresse. «È solo che... Theck era un bravo demone.»
«Già.» Silvia non riusciva a staccare gli occhi dal soffitto. Sapeva che, se solo si fosse azzardata ad abbassarli, sarebbe scesa almeno una lacrima. «Non meritava quella fine.»


Lontana da Amnesha, dalle cacciatrici e dal Dottore, al terzo piano di un antico palazzo vicino al centro storico di una cittadella in provincia di Milano, una ragazza era intenta a picchiettare velocemente i polpastrelli sulla tastiera del suo computer. Era notte fonda, mancava un quarto alle tre, ma i suoi occhi non avevano sonno. Si era appena bevuta la seconda tazza di tè della serata; ne avrebbe bevute molte di più se solo il microonde non avesse fatto tutti quei rumori. Stava scrivendo dando spazio alla scrittrice di cui stava scrivendo. Era complicato, lo sapeva, non provava nemmeno a stillare uno schema per spiegarlo alle persone. Scriveva e basta. Ciò che sarebbe saltato fuori alla fine sarebbe bastato a farla sentire meglio.
Marilena scriveva quella storia da più di due anni. L'ultima parte della sua trilogia più complicata che abbia mai pensato. Iniziata come semplice fanfiction, era poi divenuta una vera e propria sfida.
Ora basta, pensò. Devo andare a letto. Chiuse il file del sedicesimo capitolo dopo un veloce controllo ortografico e spense il computer, lasciando tutto lì, sul tavolo della sala, tanto anche il giorno dopo sarebbe stata di riposo dal lavoro: avrebbe sistemato più tardi.
Barcollò verso il bagno e ora sì che sentiva il sonno appropriarsi dei suoi muscoli. Si lavò i denti tenendo gli occhi chiusi, poi la faccia, si mise in pigiama e strisciò nuovamente in sala, laddove tirò giù il suo letto a divano, entrò nelle coperte e non sentì più nulla fino al mattino seguente.


«Quindi, fatemi ricapitolare...» Amnesha si tormentava un dread mentre pensava. «Avete conosciuto Maria quasi per caso. Lei vi ha detto di cercare questa Marra e che avreste capito come trovarla solo dopo aver incrociato Theck. Egli vi ha poi detto che sareste dovuti venire da me e questo perché, ovviamente, sono stata io a dirglielo e che io avrei saputo aiutarvi a trovare Marra. Giusto?»
«Più che perfetto» esclamò Catherine. «Però c'è un particolare che non mi quadra.» La piccola cacciatrice studiò i micromovimenti della strega coi suoi occhi a mandorla incredibilmente attenti. «Theck ci ha detto che sapeva di noi perché ci sognava, non perché fossi stata tu a dirgli come sarebbe andata» disse ricevendo uno sguardo di assenso da parte di Silvia mentre il Dottore perlustrava la zona e sorrideva ad ogni pianta.
«Oh, be', sono stata io a dirgli di mentire» sorrise la strega. Poi, ricordando i pochi minuti trascorsi con Theck, si rabbuiò. «In realtà lui sarebbe dovuto diventare la vostra guida. Era un buon piano per riaverlo nuovamente qui.» Amnesha notò le occhiate confuse delle tre viaggiatrici – sì, il Dottore sembrava totalmente distratta, ma non lo era affatto – e si spiegò meglio: «Intendevo dire nuovamente sulla Terra
«Be', ormai è tardi per piangere sul latte versato, quindi non ci resta che andare avanti» disse Silvia tendendo una mano.
«Cosa fai?» le chiese Amnesha, pensierosa.
«Un patto tra wiccan e strega» si spiegò la cacciatrice. «Ci aiuterai a trovare la scrittrice e nessuna delle due parti ferirà in alcun modo l'altra.»
Amnesha guardò verso l'arcata che portava al negozio. Inkheart stava spiegando ad una vecchia sdentata che le candele da loro vendute venivano tre euro l'una. «Quelle con le fette d'arancia o di limone vengono tre e mezzo» stava dicendo la ragazza in nero. Amnesha strinse infine la mano di Silvia e disse: «Però è meglio salire in casa mia, ci sarà molto meno caos.»
«Okay!» esclamò il Dottore già felice di vedere la casa di una strega.
Amnesha fece segno a tutti di seguirla e si diresse ad una piccola scala a chiocciola che prima era alle sue spalle. Era coperta da numerosi teli e, tirando il primo, chiese: «Qualcuno è allergico ai gatti?»
Tutti risposero di no.
Salirono i trentasette gradini, arrivando in cima con la testa che girava un pochino. Al buio, riuscirono a scorgere una porta dal legno assai scuro, forse nero. Amnesha poggiò una sua candida mano e si sentì lo scatto della serratura; la porta cigolò e si aprì. «Benvenuti nella mia umile dimora» sussurrò la strega, poi, dopo aver controllato il corridoio, spalancò l'entrata e vi fece passare tutte e tre le viaggiatrici. Quando richiuse la porta, la luce di un lampadario in stile liberty si accese sopra le loro teste. Amnesha prese dunque a camminare in testa al gruppo, portandole al salotto. Per terra vi erano raggruppati qua e là mucchi di giocattoli felini, ogni tanto si intravedeva un tarocco mentre nuvolette di incenso alla salvia bianca aleggiavano attorno a loro come curiosi animali da compagnia. «Perdonate il disordine, ma vivo con sei gatti.»
«Sei?!» esclamò Silvia la quale, in vita sua, non aveva visto più di due gatti nello stesso posto. «Come fai a gestirli senza che ti distruggano casa?»
«Dimentichi che sono una strega» sorrise Amnehsa prendendo posto al tavolo tondo al centro della stanza luminosa nonostante il sole fosse tramontato già da un po'. Ben sette candele erano distribuite per tutta la sala, accese da una vita, bianchissime e molto grandi, e la tenda che copriva la finestra che guardava la via magica era color crema con qualche ricamo floreale arancio e sembrava brillare di luce propria. L'unico mobile, che fronteggiava un divano bordeaux quasi del tutto nuovo, era molto scuro e dal taglio importante, di quelli che li avrebbe spostati solo Dwayne Johnson. «Ho sempre un asso nella manica» proseguì la strega accavallando le gambe.
«Un attimo» si intromise il Dottore. «Io qui ne vedo solo cinque di gatti.»
Silvia e Catherine li cercarono da già sedute: in effetti, due gatti neri e dagli occhi gialli sonnecchiavano sul divano, uno accanto all'altro; uno tigrato si riscaldava sul termosifone; uno, ancora cucciolo, giocava con il quinto.
Amnesha sorrise sommessamente. «La sesta sarebbe Inkheart. È il mio famiglio. Quando è nella sua forma felina, è davvero una peste. Ecco perché la tengo in negozio!»
«Ti aiuta e non distrugge nulla» osservò Catherine. «Ottima mossa! Astuta!»
La strega ringraziò con un tenero sorriso, formando delle fossette nelle guance e il Dottore si sedette per terra, a coccolare tutti i gatti presenti nella stanza. «Oh, voi fate quello che dovete fare, io me ne starò qui con i miei fan.» Tanto ho già vissuto tutto e non posso dire nulla al riguardo, pensò. La mia parte la farò tra qualche istante.
«Dunque, vediamo...» Amnesha socchiuse un attimo gli occhi. «Qualcosa che vi faccia andare da un universo all'altro senza fare danni, né a voi né alle cose o altre persone innocenti... Di non troppo complicato e nemmeno faticoso, quindi semplice e veloce.»
«Un incantesimo?» propose Catherine.
«No, è decisamente da escludere! Dobbiamo trovare un passaggio universale, cioè la cui magia sia uguale per tutti. Gli incantesimi, purtroppo variano, sia nel tempo che nello spazio. Basta una parola o, peggio, una lettera per far crollare tutto.» Amnesha dondolò una gamba, pensierosa.
«So che, se esistono due oggetti gemelli ognuno in due luoghi completamente diversi e se ne tocca uno, l'individuo viene praticamente teletrasportato da una parte all'altra in una frazione di secondo» disse Silvia, non proprio convinta delle sue parole. «Qualcosa come la passaporta in Harry Potter, ecco!»
Ma Amnesha continuava a fare cenno di no con la testa quando, all'improvviso, si fermò. «Ci sono!» esclamò alzandosi dalla sedia. Scavalcando un micio che passava di lì per sbaglio, raggiunse un'antina del mobile che non apriva praticamente da anni. «Aperi»** disse Amnesha in un sussurro appena percettibile ed una serratura magica scattò aprendo di pochi millimetri l'antina. Amnesha tirò a sè l'apertura e infilò una mano nel buio con gli occhi delle tre viaggiatrici addosso. Sorrise. Un sorriso triste, poichè non avrebbero avuto modo di ripetere quell'azione in caso di errori, ma sapeva che l'occasione giusta per utilizzare quella magia non sarebbe stata migliore di quella.
Un gatto balzò sul tavolo facendo sussultare Silvia per poi tornare giù sul pavimento con un tonfo sordo e morbido: Amnesha lo aveva scacciato per appoggiare su quello spazio di legno una piccola scatoletta bianca, tipica delle gioiellerie, poi si sedette.
Silvia e Catherine aspettavano con ansia una qualsiasi spiegazione e la guardarono molto incuriosite: chissà quale strano amuleto avrebbe tirato ora fuori la colorata Amnesha?
«Ragazze, ora state molto attente.»
Anche il Dottore alzò lo sguardo.
Amnesha accarezzò la scatolina. «Il suo contenuto è molto prezioso» disse indicando l'oggetto bianco. «Non va assolutamente sprecato e non va usato con leggerezza. Il suo valore è inestimabile, inoltre è...» La strega esitò un attimo, la sconvolgeva staccarsi da un oggetto simile. «È l'ultimo della sua specie: se sbagliate, non ci sarà alcuna seconda chance. La magia al suo interno svanirebbe e dovremmo cercare un'alternativa. Alternativa che non abbiamo.»
Le due cacciatrici trasalirono. Solo un paio di anni prima erano ancora del tutto inconsapevoli dei rischi a cui sarebbero andate incontro. La maggiore rivolse al Dottore uno sguardo crudo e severo; È colpa tua, pensò, Se non ti avessimo mai conosciuto, ora non saremmo in questo maledetto pasticcio. Due istanti più tardi, tuttavia, ci ripensò su: Però se non fosse stato per te, ora saremmo tutti morti in quel liceo. Tornò con gli occhi sulla scatolina giusto un secondo prima che Amnesha la aprisse e tutti i suoi pensieri sul Dottore svanirono nel nulla.
«Ed ecco a voi» disse Amnesha girando la scatolina bianca per mostrare alle cacciatrici il suo contenuto, «l'ultimo Fagiolo Magico.»

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**Tradotto dal latino: "aperto".

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Capitolo 20
*** Capitolo 18 - Mrs Believer ***


Chapter XVIII

Oh, Mrs Believer
(Parabatai)

 

L'ultimo fagiolo magico. L'ultimo del loro universo. Forse anche l'ultimo in tutti gli universi.
«È una grossa responsabilità, me ne rendo conto.» Amnesha stava evitando il contatto visivo con le due cacciatrici, non per vergogna, ma per paura: se avessero fallito e si fossero trovate in un luogo sperduto senza via di fuga, sarebbe stata in parte anche colpa sua. Ma, ovviamente, non vi era alternativa. «Tuttavia» proseguì la strega, «siamo ad un bivio: da una parte avete un fagiolo magico che vi aprirà un portale, si spera per l'universo giusto, dall'altra il buio certo. Perché se vi fermate adesso, è ciò che succederà: sparirà tutto.»
Preoccupata, Catherine sospirò rumorosamente e si stropicciò gli occhi. Si voltò e vide il Dottore ricambiarle uno sguardo distante anni luce; non avrebbero ricevuto consigli da lei. «Cosa facciamo, Silvia?»
La maggiore inspirò fissando quello strano fagiolo magico che sembrava più essere una gelatina storta al limone. Si sfilò dal polso destro il suo codino nero e appallottolò i ciuffi ricci in una cipolla alta e disordinata. «Direi di tentare la sorte.»
«Bene!» esclamò Catherine. «Sono d'accordo con lei. Si va avanti!»


Dunque era arrivato il momento dei saluti. Il patto era che il Dottore avrebbe portato le due cacciatrici in un luogo isolato e sicuro, lontano da occhi indiscreti, per evitare soprattutto che qualcuno oltre loro due finisse dentro il vortice spazio-temporale. Difatti, la zona industriale di Latina era perfetta, specialmente quella notte di luna piena tra un allegro sabato sera ed una pigra domenica mattina. Faceva freddo e l'aria frizzantina spettinava i capelli delle quattro donne.
Amnesha reggeva in mano la scatolina con dentro il fagiolo magico mentre il Dottore sostava sull'uscio del TARDIS quando si ricordò di una cosa assai importante e tornò all'interno della sua nave.
«Tenete» disse Amnesha allungando alle cacciatrici la scatolina bianca. «Pensate alla vostra destinazione e lanciatelo. Saltateci dentro assieme prima che il portale si chiuda. Buona fortun-»
«Aspettate!» urlò il Dottore correndo loro incontro. «Date questo a Marra!» Mise poi tra le mani di Catherine un vecchio prototipo di un cacciavite sonico.
«Cos'è, esattamente?»
«Un rompicapo. A lei piacciono molto, mi sembrava carino fargliene uno personalizzato.»
«E una volta risolto ...cosa troverà?» chiese Silvia.
Ma il Dottore non rispose, sorrise semplicemente.
«Appunto» dissero le cacciatrici all'unisono, un po' sconsolate.
Un abbraccio prima al Dottore, poi ad Amnesha e indietreggiarono.
«Ci siamo appena conosciute e già vi devo dire addio» sospirò la strega.
«Eppure a me sembra di conoscerti da una vita» disse Silvia rivolta alla strega.
Amnesha le ammiccò e sorrise. «Forse è proprio così, ma in un'altra realtà.»
Anche Silvia sorrise per un istante, ma era troppo pensierosa per cercare di memorizzare l'attimo. Da quel momento in poi, l'incontro con la strega di Latina divenne come un sogno, un'immagine sbiadita, un po' dimenticata nell'angolo più remoto della casa, della sua mente. Silvia si voltò e già faceva fatica a ricordare i lineamenti del viso di Amnesha, perché è proprio così: sono i dettagli dei volti ai quali siamo più abituati che dimentichiamo più facilmente.
«Pronta?»
Silvia venne scossa dalla domanda improvvisa di Catherine. Annuì ed entrambe gettarono un ultimo sguardo sul Dottore ed Amnesha, sorridendo per ringraziarle. Poi Catherine si girò tra le dita snelle il fagiolo magico, scintillante alla luce lunare alla quale era esposto: visto così sembrava ancora più magico di quanto già lo fosse.
«È ora» disse Catherine. «Perché stai piangendo?»
«Io...» Silvia si voltò verso il buio, boccheggiante. «Non lo so» disse esitando. «Non lo so» ripeté.


Una rosa bianca, intanto, stava seccando a testa in giù accanto al letto di una scrittrice milanese. Ero io. Quella scrittrice ero io. La rosa bianca me l'aveva regalata la mia Amnesha, a Latina, qualche settimana prima. Perché stavo piangendo? Non era un capitolo triste, quello. Questo.
Amnesha mi mancava.
La mia Tyler.
La mia Parabatai.


Silvia non voleva più girarsi per guardare il volto di Amnesha. I suoi dreads, i suoi piercing, il suo sorriso. La sua presenza la rassicurava, senza capirne il vero motivo. Non guardandola più, le sembrava più facile dimenticare e andare oltre. Ma nemmeno lei sapeva esattamente perché si sentisse così. Vide dunque il braccio di Catherine allungarsi e lasciar cadere, poco più lontano da loro, il fagiolo magico. Dapprima esso rimbalzò un paio di volte, ma, quando si fermò, ecco che al suo posto comparve un minuscolo vortice color limone e più questi prendeva energia, più si faceva spazio nell'asfalto e cresceva, cresceva sia in larghezza che in profondità, sembrava voler scavare nel globo fino a raggiungere il centro della Terra, veloce com'era. Attorno a loro, l'aria si fece rumorosa e frenetica, come in una tempesta, ma illuminata da una luce gialla e fastidiosa.
«Saltate!» urlò Amnesha aggrappata al Dottore. «Non abbiate paura!»
Catherine si riparò gli occhi dalla luce con un braccio mentre con l'altro si avvinghiò ad un arto della migliore amica e si tuffarono, alla cieca.
A Silvia parve di perdere la terra sotto i piedi, cosa più vera di quanto possa sembrare e, mentre spariva da quella sua Terra, le sue orecchie udirono la voce di Amnesha esclamare: «Addio, Joshua Pun!» e non ne capì mai il senso.

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Capitolo 21
*** Capitolo 19 - Parte Prima ***


PARTE SESTA
La Marra


CAPITOLO XIX
Capitolo Diciannove
Parte Prima


Silvia ruzzolò malamente a terra, sbucciandosi un gomito, mentre Catherine era magicamente tutta intera, scura in viso.
«Ma siamo a casa!» esclamò la minore d'età ma più grande in altezza.
Silvia si rimise in piedi sistemandosi gli occhiali sul naso; si guardò attorno e, nelle prime luci dell'alba, intravide le sagome di un parchetto di periferia, un ex asilo nido ed un imponente condominio vecchio più di mezzo secolo. «No...» sospirò amareggiata. «Abbiamo sbagliato qualcosa?»
Catherine tacque. Assottigliò gli occhi. «Facciamoci un giro» disse seria.
Attraversarono e presero a camminare verso la farmacia, verso est, ma qualcosa, nell'aria, incuriosiva Catherine. O meglio: la convinceva a tal punto da farle pensare che fossero proprio nel posto giusto, nonostante le apparenze. Ma perché proprio tra quelle vie dove erano cresciute loro due?


«Avremo fatto circa mezzo chilometro e io ancora non ho notato nulla di diverso.» Silvia camminava dietro Catherine cercando di tener duro per non addormentarsi tra un passo e l'altro.
«Sono sicura che il dettaglio che cambierà tutto arriverà tra poco, sis» disse Catherine. «Abbi fede.»
La riccia sorrise e guardò a terra. «Va bene, Cathy.»
Poi Catherine si fermò, incredula. «Di certo questo è un enorme dettaglio!»
«Oh, mio Dio!» Ecco la fede che prima non aveva! Più o meno... Okay, più meno che più...
Ma ora vi spiego: laddove, nel loro universo, sorgeva un'umile eppur meravigliosa Esselunga, vi era, qui, un lussuoso... ecomostro. Mura in rovina soffocate qua e là da edera e altri rampicanti, nidi di rondini e altri volatili negli angoli più sicuri e al riparo, graffiti che mettevano i brividi per la loro bruttezza che ricoprivano veramente tutto.
«Trovami qualcosa di più triste in questo universo e ti pago la cena per una settimana!»
Catherine sospirò. «Vorrà dire che si dividerà come al solito» scherzò.


La mia testa che scoppia. Chiudo gli occhi un attimo, tanto oggi sarà domenica. O forse è giovedì? Be', chi ci fa più caso, ormai? Di certo non io. Mi ricordo solo adesso che mi ero fatta una tazza di tè, infatti è freddo. Dannazione! Stiro la schiena e mi alzo per scaldare il brodaglio dolce nel microonde, se poi sarà bollente, lascerò che si intiepidisca sul tavolo. Ma questa volta metterò la tazza più vicina a me, così non la dimentico.
No, non mi reggo in piedi, anche questa volta ho tirato l'alba, non è possibile.
Chissà se anche Stephen King ha orari improponibili come i miei?
Spengo il computer, poi andrò a prendere l'alluminio per coprire la mia tazza di Ed Sheeran, dritta in bagno e poi a letto.
Aspetta...
Sì, certo, oggi è lunedì.


Maledettissima sveglia! Mi sembrava di averla spenta, invece l'avevo solo posticipata. Però se ora tiro via le coperte, congelo. Starò qui ancora qualche minuto, mi scoprirò piano piano così che il mio corpo si abituerà grado per grado alla temperatura della casa.
Ecco, ora ho la pancia scoperta. È quasi fatta. Però io, quasi quasi, mi ricoprirei di nuovo fino al naso, così, per sport...
Squilla il telefono.
Ovviamente.
Guardo lo schermo, è mio padre. Lo lascio squillare finché non cade la linea, poi gli dirò che non l'ho sentito. Sicuramente avrà da ridire riguardo il mio stile di vita. È stata una fortuna che loro si siano voluti trasferire. Certo, pago loro l'affitto, ma sono libera di essere me stessa e finalmente posso scrivere tutta la notte senza che loro mi dicano nulla. D'altronde è anche il mio lavoro. Come lo svolgo a loro non deve interessare, ormai sono adulta.


Colazione fatta, ora chiudo le finestre, mi do una lavata e mi rimetto all'opera. Per tornare verso la camera, passo davanti ad alcune foto di famiglia. È ancora tutto come quando c'erano qui i miei genitori, solo più disordinato. I mobili colmi di buste e fatture di bollette pagate o ancora da pagare, lasciate lì come promemoria. Questo lo devo mettere a posto, questo è da pagare, ma tanto mi ricordo tutto. Sì, come l'appuntamento dalla parrucchiera di due settimane fa. Al quale non sono andata e ho inventato una scusa: "Non sto bene, ti richiamo io!" le avevo detto, ma non l'ho più richiamata ed i miei ricci sono sempre più disperati.
Mi sistemo meglio gli occhiali sul naso e chiudo le finestre. Accendo il mio computer, poco distante sulla scrivania che, un tempo, era di mio padre. È quasi mezzogiorno, devo sbrigarmi se voglio finire l'articolo prima di sera.
E invece apro il file del capitolo diciannove di Not Natural.


Di ritorno verso il punto in cui il fagiolo magico le aveva portate, Catherine e Silvia si fermarono nell'unica panetteria che incontrarono per strada. La commessa dai lunghi capelli ricci raccolti in una cipolla disordinata le accolse con un grande sorriso.
«Ciao, vorremmo delle brioches!»
«Certo, come le volete?» chiese la donna dietro il bancone colmo di pizze e focacce.
«Pistacchio?»
«Sì, ce l'ho! L'altra?»
Catherine guardò il vassoio di cornetti con occhi famelici. Da quante ore non mangiavano? «E se invece ti chiedessi un trancio di margherita?»
La commessa sorrise e digitò il prezzo della brioche di Silvia sulla bilancia; prese poi un nuovo sacchetto e ci infilò un trancio di pizza come voleva Catherine e pesò.
Le due cacciatrici pagarono, salutarono e uscirono dalla panetteria.
Il sole in alto nel cielo fece loro intuire che potevano essere circa le dieci del mattino.
«Ho come l'impressione che qui il tempo scorra in maniera diversa» disse Catherine addentando la sua pizza.
«In che senso?»
«Siamo arrivate qui che era l'alba e in un batter d'occhio siamo già a metà mattinata. Non è strano?»
Silvia fece spallucce. «It is what it is.»
Catherine ghignò. «Non è il momento di citare Sherlock» disse sorridendo.
Superarono la farmacia di prima, attraversarono e rieccole laddove quel fagiolo magico le aveva portate poco prima. Avevano già finito di mangiare quando Silvia cercò tra i tasti del citofono di quel grande condominio Morelli, il suo cognome, ma non lo trovò.
«Be', suona quello su cui dovrebbe esserci il tuo cognome, allora!»
E così fece: Silvia premette il polpastrello e attese.


Squilla di nuovo il telefono; guardo lo schermo ed è nero. Ma come? Allora perché ha squillato? No, un momento. Ah! Era il citofono!
Mi alzo dalla sedia e vado dritta in corridoio, quasi trascinando le pantofole, il file lasciato aperto sulla parte più strana della mia storia, il suo punto forte, il collegamento ritenuto da me sacro tra la fanfiction e la serie tv e la realtà e l'altra realtà e omammamiachecasino!
Chi potrà mai essere?
Chi è che rompe le scatole a quest'ora?
Alzo la cornetta del citofono e chiedo: «Chi è?»
Dall'altra parte del ricevitore si ode solo un lontano vociare ed il rombo di una macchina per cui rimetto a posto la cornetta e torno in camera a scrivere un po' stizzita. Maledetti ragazzini. Non hanno mai niente di meglio da fare se non rompere le scatole.


Catherine e Silvia rimasero shockate.
«Sis» sussurrò Catherine. «Aveva la tua voce!»
Ma Silvia ci credeva poco, poteva essere una semplice casualità. Controllò che la targhetta fosse quella giusta. Non vi era scritto Morelli Silvia, ma Semplici Marilena, tuttavia era certa che lì in quel punto sarebbe dovuto esserci il suo nome, non quello di un'altra.
In quel medesimo istante, proprio mentre Silvia stava per premere nuovamente lo stesso tasto, una signora, da lontano, si avvicinava a loro a gran passo ed aprì il portone.
Le due cacciatrici, approfittando di quella piccola fortuna, entrarono.
«E ora?» Catherine riconosceva quel piccolo spazio echeggiante e lugubre, era uguale a quello che per loro era l'originale.
«Sinistra, scala F, terzo piano» disse Silvia. Camminò lentamente verso l'estremo opposto dell'area in cui sostavano, il cortile condominiale composto di ghiaia e macchine non autorizzate a stare lì. «È tutto così stranamente uguale e diverso allo stesso tempo, Cathy.»
«In che senso?»
Silvia alzò un arto e indicò avanti a sé. «Lì dovrebbe esserci la casetta delle pattumiere con un affresco del Cristo Re, ma non c'è l'affresco. Vicino dovrebbero esserci un pino e altri due alberi a coprire il giardino con gli stendini, invece c'è solo una vecchia altalena. E il mio balcone...» Silvia cercò in tutti i modi un aggettivo adatto al suo pensiero e l'unico che trovò fu: «Fa schifo.» E, in effetti, non aveva tutti i torti: vernice che cadeva a pezzi, nessuna tenda o sedia o qualsiasi oggetto all'esterno che facesse pensare ad un utilizzo di quell'area dell'appartamento.
«Speriamo di non trovare in quella casa una mia versione più disperata e strana di me» proseguì la maggiore incamminandosi nuovamente.


Di nuovo qualcuno che rompe le scatole, ma questa volta è il campanello. Il suono echeggia per tutta la casa. Voglio sprofondare nella sedia. Forse sono i miei genitori? Hanno ancora le chiavi dell'appartamento, tutto sommato.
Mi trascino malvolentieri fino al corridoio e poi fino alla porta di casa, un percorso di sì e no quindici metri, e sento il cuore pesarmi nel petto. Non un'altra volta, penso; non voglio che i miei genitori si intromettano nella mia vita, non più.
Apro la porta con gli occhi chiusi, sapendo già di dover litigare con qualcuno, con mia madre, tuttavia mi si gela il sangue nelle vene quando vedo Cathy.
Cathy e me.
Un'altra me.

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Capitolo 22
*** Capitolo 19 - Parte Seconda ***


CAPITOLO XIX
Capitolo Diciannove
(Parte Seconda)


Lei è uguale a me. Tuttavia presenta qualche caratteristica diversa. Come la montatura degli occhiali, ad esempio. I vestiti. Il fisico più asciutto del mio. Ma lei è me ed io sono lei. Indi per cui quella Cathy non può essere la mia Cathy.
«Come... Quando... Come?!» balbetto incredula tirandole dentro casa mia e richiudendomi la porta alle spalle. Le guardo dalla testa ai piedi: sono un po' spaventate, un po' spaesate, un po' shockate. «Com'é diamine è possibile?!» urlo, noncurante dei vicini di casa.
L'altra me mi guarda preoccupata. «Dovresti saperlo!» esclama.
«Ma io...» Io stavo solo scrivendo una fanfiction, una semplicissima storia, tutto qui. Di certo non avrei mai pensato che...
«Sei Marra Superwholocked, giusto?» mi chiede Catherine.
Io annuisco, non sapendo cos'altro dire. Poi faccio andare le gambe e passo in mezzo a loro, diretta in camera, alla scrivania. Fisso lo schermo del mio computer e leggo.
«Voi due non esistete» dico seria. «Siete solo due personaggi della mia storia e io sto sognando.»
«Veramente» mi corregge Catherine, «da quel che sappiamo, siamo le tue protagoniste.»
Deglutisco. «Ma...»
«Ma cosa?»
Guardo Silvia e mi vengono i brividi; non ce la faccio a risponderle fissandola negli occhi. Il letto è bello. Ancora sfatto, ma molto affascinante. «Appunto per questo! Siete due prodotti della mia fantasia! E, come tali, non potete essere reali!»
«Sai» dice d'un tratto l'altra me curvando la testa come Castiel, «tutto questo mi ricorda l'episodio di Supernatural quando Chuck incontra Sam e Dean. Hai anche tu le allucinzioni, per caso? Sei un profeta?»
«Niente di tutto questo» dico irremovibilmente. «È incredibile... Io stavo...»
«Stavi?»
Guardo Catherine. Anche lei così simile ma diversa dall'originale. «Stavo scrivendo il capitolo diciannove, dove l'autrice di Not Natural incontra Silvia e Catherine.»
«Ma Silvia e Catherine siamo noi due» si acciglia quindi Silvia.
«Sì, genio, e io sono l'autrice di Not Natural
Nella mia camera da letto cala un lugubre silenzio interrotto solo dall'aspirapolvere della vicina di casa. Perché? E, soprattutto, come? Non riesco a capire, ad afferrare. Quello che stavo scrivendo fino a solo pochi attimi prima fa parte della mia immaginazione, com'è possibile che io abbia di fronte le mie protagoniste? Non è un sogno e non so se sarò mai in grado di pensare a queste ore come a qualcosa accaduta per davvero.
«Quindi, se voi due esistete, avete realmente passato tutto quello che io ho scritto...» Vedo le due ragazze deglutire e abbassare lo sguardo. Probabilmente sono venuti loro in mente il Chupacabra, la piccola Selenia e Theck. «Mio dio» sussurro coprendomi la bocca. Mi accascio sulla sedia della scrivania, incredula. «E se fossi io la causa del vostro dolore?»
Silvia mi guarda dall'alto in basso e aggrotta la fronte. «Perché pensi una cosa del genere?»
«Non lo so» mi agito, «stavo scrivendo dell'incontro tra la scrittrice e le sue creature ed ecco che spuntate voi! Vuol dire che ciò che scrivo accade in tempo reale!»
«Non deve per forza essere così» dice Catherine, calma. «Può essere che, magari, nei due universi alcune cose accadano e vengano raccontate nel medesimo istante senza che siano necessariamente connesse tra loro. Anzi, è probabile che alcune cose che hai scritto non siano successe esattamente in quel modo. O che non siano affatto successe.»
Dopo quelle parole, eccomi sorridere di nuovo e sperare. Mi rialzo e apro l'anta del piccolo mobile posto sopra la mia testa. Vi trovo dentro circa un paio di centinaia di folgi, scritti a mano o a computer, ricette e vecchi curriculum di lavoro. Trovate le tre pagine che stavo cercando, le allungo a Silvia. «Sono i miei appunti e la prima stesura dell'ultima parte della storia che parla di voi. Leggete e ditemi.»
Silenzio tombale; Silvia che allunga piano la mano per prendere i miei appunti e il mio stomaco che brontola.
«Che ne dite se prima pranziamo?» chiedo più a me che alle mie due ospiti.
Catherine e Silvia si guardano sorridendo. Sono bellissime, così belle che mi si riempiono gli occhi di lacrime. Chi altri può mai avere l'onore ed il privilegio di incontrare i personaggi delle proprie storie? Ancora fatico a crederci, sembra un sogno, eppure ricordo bene di non aver bevuto roba strana ieri sera. Mi sorprendo a sorridere di nuovo, ma mi risveglia un altro gorgoglio provenire dal mio stomaco.
«Ho della roba in frigo, da qualche parte» dico alzandomi. Raggiungo la sala e così anche il frigo. Lo apro ed è vuoto. «Come non detto.» Mi sento così stupida. Da quanto tempo è che non vado al supermercato? Ormai alla pizzeria dietro l'angolo sanno tutto su di me.
«Andiamo a cercare qualcosa io e Catherine» dice Silvia. Alza in aria di un poco le pagine che le ho dato prima. «Nel frattempo tu ti rilassi e noi leggiamo.»
È così strano ricevere ordini da me stessa. «Okay» le rispondo imbarazzata.
«E quando torniamo» aggiunge Catherine «dobbiamo parlare di qualcosa di molto importante.»
«Sì» rispondo tornando seria. «Arimane, sì.»


Circa tre anni fa, o giù di lì, feci delle ricerche riguardo mostri e leggende metropolitane. Tuttavia, nessuna delle trovate mi entusiasmò abbastanza da includerle in Not Natural. Un giorno, però, in un momento di noia, aprii un vecchio libro di mio padre. Si intitolava Dizionario della magia e, sfogliandolo, lessi numerosi vocaboli interessanti. Erbe, piante, nomi e riti cominciarono a stuzzicare la mia fantasia quando, infine, la mia mente fu colpita da un singolo nome.
Arimane. A questo essere erano dedicate solo una manciata di righe, come per non dargli troppa importanza, ma io volevo sapere di più. Mi collegai subito ad Internet e lì capii che avevo trovato l'antagonista perfetto.


«Ecco a voi!»
Catherine e Silvia ritirarono le loro buste dopo aver pagato ed uscirono dal ristorante cinese.
«Certo che quante probabilità c'erano che accadesse tutto questo?» si chiese Silvia.
«Cosa in particolare?»
«Ti ricordi di Chuck Shurley?»
Catherine rimase allibita. I Winchester che incontravano colui che scriveva i vangeli su di loro. «Dici che ci potrebbe essere qualche legame con noi due?»
Silvia ci pensò su un attimo guardando la vetrina dell'edicola del centro storico. «Forse. Anzi, quasi sicuramente» disse proseguendo a camminare dietro a Catherine. Tirò fuori dalla tasca dei jeans i fogli che aveva dato loro Marra. L'atmosfera era così piatta che nulla le fece prevedere quanto accadde: una folata di vento improvvisa le strappò di mano il primo, poi il secondo e, infine, il terzo ed ultimo foglio. Essi ruzzolarono un poco a terra, un poco in aria, si mischiarono a delle foglie secche, alcuni bambini ne calpestarono un paio correndo all'impazzata, inseguendosi; Catherine si lanciò per afferrarne almeno uno, ma le scivolò dalla punta dei polpastrelli; Silvia rischiò di rovesciare il cibo cinese nel tentativo di acchiapparne un altro, poi una seconda folata di vento li portò in alto, molto in alto, irraggiungibili, leggeri come piume, come nei film, e li persero di vista quando superarono il tetto della banca lì vicino ed entrarono in uno strappo di luce a mezz'aria che si richiuse non appena vi entrarono.

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Capitolo 23
*** Capitolo 19 - Parte Terza ***


CHAPTER XIX
Capitolo Diciannove
(Parte Terza)


Bussano alla porta e mi stacco nuovamente dal computer. Sono Catherine e Silvia, quest'ultima coperta dal cappuccio del suo giubbotto per non dare nell'occhio.
Le faccio entrare, loro mi mollano in mano le buste e si tolgono le giacche appendendole vicino allo specchio del corridoio.
«Abbiamo perso i fogli» mi dice subito Silvia.
Non molto sorpresa, la guardo male. «Come avete fatto, si può sapere? Non erano post-it!»
«Si è alzato un bel vento, a dire il vero» mi dice Catherine. «Ce li ha strappati via di mano.»
Chiudo gli occhi, un po' amareggiata. Fortuna che ho trascritto tutto a computer: sono fin troppo scrupolosa, io. «Li avete almeno letti prima di farveli rubare dal vento?»
Loro, i miei personaggi, annuiscono felici.
Bene, penso. «Quindi?»
«È successo tutto per davvero.»
Le parole di Catherine mi fanno crollare il mondo addosso. Cosa sono? Chi sono? Un mostro? Ho poteri particolari oppure mi stanno mentendo? «Ma non è possibile! Ci deve essere qualcosa di diverso nelle due versioni, per forza! Qualche particolare che non ho scritto» esclamo, gli occhi che mi bruciano.
Ma Silvia fa cenno di no con il capo guardando a terra. «Perché devi continuare a ripeterti questo?»
«Noi siamo reali» aggiunge Catherine con un leggero sorriso. «Ed è reale anche quello che ci è successo.»
«Mary, il Dottore, Gabriele, il pastore tedesco, Selenia, Arimane, Theck, Amnesha...» elenco mentre loro annuiscono a tutto. A questo punto devo metterle alla prova: «Jack» dissi senza scompormi.
Silvia e Catherine smettono di annuire e mi guardano accigliate.
«Jack» ripeto. «Il ragazzo.»
«Chi?» chiede Silvia, la più propensa a dimenticarsi i nomi delle persone. Come me, del resto.
«L'Anticristo» mi spiego. «Il figlio di Lucifero avuto con la donna che, facendo un patto con un demone degli incroci per riavere indietro il marito, ha accettato di riaverlo ad ogni costo
Catherine curva la testa senza capire. «Come, scusa?»
«Non ci siamo imbattute in nessun Anticristo, Marra» si insospettisce Silvia.
Mi viene da sorridere: almeno le cose non andavano come nella serie tv del mio universo. Tuttavia, il sorriso dura molto poco dato che Arimane è una minaccia inevitabilmente reale. «Vi ho messe alla prova.» Quindi prendo dallo scaffale alle mie spalle, in corridoio, il libro più impolverato e ingiallito che possiedo. La copertina anonima e bordeaux lasciava molto spazio all'immaginazione di chi lo apriva per la prima volta senza sapere nulla sul suo contenuto. Eccomi andare dritta a pagina diciannove e scorrere i vocaboli trattati fino al prescelto. «Ahriman, divinità malefica dello Zoroastrismo, spirito del male, in contrapposizione con Ohrmazd, divinità e spirito del bene» leggo a voce alta poi alzo lo sguardo. Noto con piacere che anche Catherine e Silvia sono precipitate nella serietà all'improvviso così rimetto via il libro e spengo la luce del corridoio, invitandole a procedere verso la sala, sul divano.
«Tutto è cominciato da un sogno, uno stupido sogno.» Mi siedo su una sedia, il pigiama che sa del mio odore per le troppe ore trascorse con quella roba addosso nonostante le docce. «Io e la mia Catherine nei panni dei Winchester che, dopo aver trascorso del tempo con il Dottore, davamo la caccia ai mostri.
«La mattina seguente al sogno cominciai a buttar giù qualche idea e la cosa mi piaceva sempre di più, continuavo a fare ricerche su miti e leggende metropolitane finché...» mi interrompo bruscamente con il fiato mozzato. «Mi appisolai e feci un altro sogno, ma non era affatto come quello precedente.»
«Cioè?» chiede Silvia, curiosa.
Sospiro così forte che mi sentono pure nella palazzina di fronte. «Ahriman nel pieno delle forze che dilaniava i vostri corpi.» Catherine e Silvia sconvolte e spaventate. «Pensai immediatamente che fosse solo un incubo, ma poi feci altri sogni, sempre su di voi, che sembravano seguirvi giorno per giorno e, quando non trascrivevo, i sogni si ripetevano, talvolta anche durante la stessa notte. Mi tormentavano fino a che non scrivevo ciò che vedevo.»
«E ti succede ancora?»
«Sì, Silvia, tutte le notti.» Tutte le notti io sogno di loro due che combattono contro il male e sono costretta a scrivere se non voglio rivedere quelle scene. Tutte le notti le sogno con i volti insanguinati, i cuori indeboliti dal dolore, le lacrime trattenute per poter andare avanti. Anche stanotte, io lo so, le sognerò, perché la mia vita va così da più di tre anni. Solo una cosa può porre fine a questi incubi, ma non voglio che vinca la Morte.


Scende la sera senza che quasi ce ne siamo accorte e io sto ancora parlando di Ahriman.
«Quindi sarebbe da associare ad un demone?»
Guardo Silvia che, come pensavo, è andata in confusione. «No» le dico. «I demoni sono i daēva. Come Theck. Ahriman è paragonabile a Satana o Mefistofele. Non a Lucifero, badate bene: sono due cose diverse.»
«In che senso?» chiede Catherine.
«Lucifero è l'arcangelo portatore di luce, mentre Satana, o Mefistofele, è colui che porta l'uomo a vedere immagini illusiorie di se stesso nonostante non possa mentire. Arimane può distorcere le percezioni dell'uomo.
«Detto in poche parole, quindi» cerco di riassumere, «mentre Lucifero nasconde all'uomo le sue stesse facoltà spirituali che gli consentirebbero di prendere coscienza della realtà, Arimane agisce sulle sue percezioni esteriori, sulla sua visione dell'esterno e non dell'interno.»
Catherine probabilmente ha subito pensato al labirinto, sul fatto che Silvia vedeva panini mentre lei solo ossa. Due visioni differenti della stessa realtà: ottimismo e pessimismo. «Come possiamo combatterlo?»
Inspiro. Non lo sapevo, non ne avevo idea, assolutamente, zero. «Spero di sognarmelo, prima o poi.»
«Ma non possiamo aspettare» esclama Silvia a gran voce. «Dobbiamo agire subito! C'è il rischio che Arimane ci abbia davvero seguite attraverso il portale e che ora stia già prendendo appunti su come distruggere il nostro mondo!»
Ahi, sento una stretta allo stomaco. «Sì» dico.
«Sì, cosa?»
Cerco di non incrociare i loro sguardi e, rispondendo alla domanda di Silvia, sussurro: «È così, vi ha seguite.»

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Capitolo 24
*** Capitolo 19 - Parte Quarta ***


CHAPTER XIX
Capitolo Diciannove
(Parte Quarta)


So come si sentono perché lo prova anche una parte di me. È una strana sensazione. Paura. Angoscia. Adrenalina. Tutto si mischia e si contorce. Lo stomaco in subbiglio, la vista annebbiata. Catherine e Silvia avevano fatto una scelta di vita, ma era stata anche la vita stessa a sceglierle. Il Destino. E io sono una semplice scribacchina. Non è colpa mia.
Almeno così spero.
Le due cacciatrici sospirano quasi all'unisono e si scambiano uno sguardo, sedute sul mio divano mentre io preferisco la sedia del tavolo a pochi passi da loro, poi Silvia, rassegnata dalla mia conferma che Arimane le avesse davvero seguite, tira fuori dalla tasca un oggetto simile ad una quattrocolori.
«Lo sapevo» dico e mi scappa un sorriso.
«Sapevi cosa?» mi chiede Catherine.
Indico l'oggetto. «È un prototipo di cacciavite sonico» mi spiego meglio. «Dentro c'è un messaggio per me, dal Dottore.»
Vedo Silvia sbiancare. «Marra, i tuoi non sono solo sogni, lo sai, vero?»
Non capisco, che intende dire?
«Se è tutto uguale alla realtà, se ciò che vedi e scrivi accade davvero, allora si tratta di visioni» dice Catherine in tono serio.
«E, come Chuck Shurley» riprende Silvia, «anche tu potresti essere un Profeta.»
No. Non può essere così. Ci penso su un attimo. «Ma io non prevedo il futuro!» esclamo.
Loro scuotono la testa come professori durante un esame di maturità. «Un profeta non si limita a prevedere il futuro» dice Catherine. «Egli rivela anche fatti ignoti agli esseri umani, li racconta anche dopo che si sono verificati.»
«O in contemporanea» aggiunge Silvia sottovoce, accigliata.
Hanno ragione: una veloce ripensata alle vecchie lezioni fatte durante le noiose, per me, ore di religione trattava i profeti ed era vero ciò che le due cacciatrici mi stanno dicendo.
Ahimé, credo non troverò mai risposta a questo dubbio: sono un Profeta o no?
Sta di fatto che io di Profeta sento di non avere assolutamente nulla.
«Al di là di queste teorie» dico poi riprendendo in mano la situazione, «all'interno del cacciavite sonico c'è un messaggio in codice pigpen.» Guardo Silvia e Catherine concentrarsi e seguire attentamente il mio discorso: sono davvero perfette, bellissime, le mie creature...
Mi alzo di scatto spaventando Silvia e mi dirigo verso il televisore. Nel mobile sopra di esso, dentro ad uno dei tanti raccoglitori in legno marcati IKEA, trovo qualche foglio bianco. Ne prendo uno. Prendo anche una penna e poi torno al tavolo. Faccio segno loro di unirsi a me e poi mi metto più comoda per scrivere.
«Il cifrario pigpen, chiamato anche cifrario massone o alfabeto dei Rosacroce, è un sistema di crittografia a sostituzione semplice e ha una chiave grafica con la quale si possono sostituire con molta facilità lettere e simboli. Ha una protezione assai debole, infatti non viene più utilizzata da molti decenni.» Mi sento gli occhi di Silvia e Catherine addosso, ma proseguo nella spiegazione. «Probabilmente il Dottore ha usato questo codice solo per divertimento.»
«Divertimento?» mi chiede Catherine allontanadosi col busto dal tavolo. «Che divertimento c'è nell'usare un codice se poteva dire direttamente a noi quello che c'è scritto qui dentro?» esclama, indicando il cacciavite sonico, con voce alterata.
«Non lo so.» Rimango sincera, non voglio solo evitare di parlare troppo. «Ma tutto è connesso e ogni cosa ha il suo perché.»
«Tipo il destino?»
Guardo Silvia e sorrido. Giusto, lei non ha mai visto Dirk Gently's Holistic Detective Agency. «È più una cosa... olistica.»
Silvia mi ricambia con uno sguardo confuso. «Cosa c'entra l'olio, ora?»
Che brutto quando non afferrano i concetti.
«Comunque» prorompe Catherine ridacchiando. «Il Dottore in effetti ci ha detto che si trattava di un rompicapo e che lo avresti apprezzato. Tutto qui.»
C'era da aspettarselo, è una persona di poche parole in queste situazioni. E poi io lo sapevo.
«Fatemi vedere cosa posso fare» dico quindi loro e la minore mi allunga il prototipo.
È molto più pesante di quanto pensassi. La riproduzione in scala 1:1 che ho io del cacciavite sonico è in plastica e, probabilmente, pesa un decimo di quello originale, ma questo... Il prototipo pesa fin troppo per contenere solo un messaggio su carta. Mi sento all'improvviso come Sophie Neveu e questo cacciavite sonico è il mio cryptex: ora è tutto nelle mie mani, letteralmente.
Provo a svitare la parte superiore di quell'aggeggio e ci riesco alla grande, ma così bene che mi parve strana tutta quella fortuna, così, come se piovesse dal cielo.
E infatti...
«Cosa diamine sono quelle?» chiede Catherine, più a se stessa che a noi altre.
Anche Silvia sembra interessata a quegli oggetti dorati caduti sul tavolo assieme ad un foglio di carta e, mentre io prendo tra le dita il messaggio, loro esaminano le pepite piatte.
Dopo un primo esame del messaggio mi scappa un ghigno. «Quelle sono monete d'oro» dico io stropicciandomi gli occhi. «Servono come offerta per aprire un portale.»
«Un portale?»
«Un altro portale?» sottolinea Catherine.
«Un altro, sì» annuisco io.
«E dove si trova?» Silvia la sento ansiosa, come sempre, di affrontare la nuova avventura che le si pone davanti. Per tutti gli anni precedenti all'incontro con il Dottore nel loro liceo, la ragazza viveva i suoi giorni uno uguale all'altro, uno dietro l'altro; amava la sua routine, ma, al tempo stesso, la odiava profondamente. Non aveva stimoli nuovi e ogni settimana somigliava fin troppo a quella appena vissuta. Sono sicura che, nonostante questa avventura abbia portato dolore e sventura, Silvia proseguirà la sua vita da cacciatrice, e non perché l'ho sognato, ma perché lo farei anche io.
«Questo non lo so ancora.» Sono sincera, lo giuro.
«In che senso?» chiede quindi Catherine. «Dovresti saperlo, no? Non era nei tuoi sogni?»
«In realtà i miei sogni si sono fermati all'incontro tra la scrittrice e i personaggi della sua stessa storia» dico abbassando lo sguardo. «Non sono andati oltre, so solo che il Dottore ha usato il codice pigpen per dirci dov'è il portale e che c'è un pedaggio da pagare. Devo solo analizzare questo» aggiungo stirando il foglio sul tavolo di legno. Non dedico a loro altro tempo, mi metto dunque immediatamente a lavorare su quel pezzo di carta e, mentre le due cacciatrici analizzano e osservano le monete d'oro, mi scappa un AH-A! Sorrido, entusiasta, e nel frattempo trascrivo il messaggio del Dottore sul foglio di carta preso poco prima dal mio raccoglitore. Quando alzo gli occhi, Silvia mi sta guardando accigliata. «Le signorine Catherine e Silvia sono pregate di salire in carrozza!»
«In carrozza?!» esclama Silvia, impaurita dai treni. Come me.
«Sì! Si va a Grazzano!»


«Chi è Aloisa?» mi chiede Silvia.
Alla fine optiamo per la mia macchina, una Citröen C3 verde prato, un po' gibollata ma più sicura e meno costosa del viaggio sui binari. E poi la loro auto era rimasta al Motel Penna, quindi... Ah, vi ricordate, vero, che il libro magico era rimasto in quella camera d'albergo? Bene. Ricordatelo ancora per un po'. Appuntatelo da qualche parte.
In meno di due ore, eccoci di fronte all'entrata di Grazzano Visconti, il borgo medievale più bello che io avessi mai visitato. E questa è la mia settima volta. Vedete? Io l'ho sempre detto che il numero sette è magico! «Una donna che non fu molto fortunata in amore» dico rispondendo alla domanda della mia non-gemella. «Era una dama, aveva sposato un capitano di milizia che la tradì. Aloisa morì di dolore e da allora il suo spirito aleggia nel borgo donando fortuna alle fanciulle che entrano in questo territorio, venerandola con qualche piccola offerta.»
«Poveretta» commenta Silvia con una smorfia triste.
Catherine cammina veloce in testa a tutte. Lei è l'unica del gruppo a non conoscere bene ogni angolo del borgo, ma si destreggia così bene da sembrare una guida turistica. E chi la ferma?
Passiamo vicino a vecchi negozi di candele, saponette, giocattoli, fatine e gnometti (teneteli lontani da me!), incensi e magliette, tutti chiusi poiché è ancora l'alba; svoltiamo un paio di volte ed eccola là, seminascosta da una siepe secca: Aloisa.
Silvia ghigna in direzione di Catherine poi schiaccia con l'indice sulla fronte della sua compagna di avventure nel punto conosciuto come la sede del terzo occhio.
Intorno a noi il silenzio interrotto solo da un leggero cinguettio proveniente da lontano. Le nuvole basse e colme d'acqua piovana si bucano, mosse dal vento, alle nostre spalle, lasciando passare un sottile raggio di sole appena nato.
Aloisa, in cima a una piccola colonna di mattoni ricca di muschio, non sorride. Le mani unite poco sotto il seno reggono alcuni fiori di pietra e tutt'intorno si vedono altri fiori ormai secchi o ancora freschi, brevi messaggi simili a preghiere e, ai piedi della sua fluente veste, alcune monete.
Silvia indica queste ultime con aria interrogativa.
«No» dico piano. «Per pagare il pedaggio servono monete d'oro. Queste» sfioro le monetine ai piedi di Aloisa, «sono di rame, di poco valore. Sono solo un ringraziamento anticipato per i desideri che la gente esprime.»
Le due cacciatrici sorridono e io mi perdo ancora ad ammirarle. In quel momento mi ricordo le giornate passate con la mia Cathy, momenti che avrei voluto durassero per sempre. All'improvviso, poi, per tornare al presente, mi schiarisco la voce, attirando la loro attenzione. «Ragazze, dobbiamo sbrigarci ad aprire il portale.»
Mentre Catherine recupera le piccole monete d'oro lasciateci dal Dottore, io vedo un corvo nero come la pece appollaiato sul cornicione della casa di fronte a me e sento una strana sensazione. Un brivido gelido lungo la schiena mi paralizza, con l'idea che quello non fosse realmente un corvo. Lui se ne accorge e vola via, sparendo dalla mia visuale. Con mille pensieri in testa, noto che le ragazze stanno spargendo le monete ai piedi della statua di Aloisa troppo velocemente. La mia testa pesa e un gran dolore parte dal mio naso e sale fino al cervello, come quando si inspira odore di ammoniaca. Mi sembra che gli occhi vogliano esplodermi da un momento all'altro, poi sento rumore di foglie secche calpestate. Quattro zampe pelose e veloci. Abbasso lo sguardo proprio mentre Catherine depone l'ultima moneta ed ecco che alle nostre spalle, sospesi a poche spanne dalla ghiaia del sentiero, compaiono dei fulmini. Essi si contorcono e si espandono a scatti, poi formano un enorme imbuto giallastro e questi vortica e vortica, inghiottendo l'aria attorno a noi. A quanto pare, Aloisa sa sempre tutto. Torno immediatamente con gli occhi sul gatto. Lui mi guarda spavaldo e mi dà pure una codata sulla gamba mentre mi passa davanti, convinto che non gli avrei fatto del male. Ma perché? Perché non riesco a muovermi?
«Marra?»
Qualcuno mi chiama, ma io continuo a guardare il gatto e, incapace di muovermi, sentendo che le gambe stanno per cedermi, mi limito ad indicarlo mormorando a malapena il suo nome. Arimane. Ma le ragazze non mi sentono. Faccio dunque appena in tempo a fare ciò, che il gatto, Arimane, balza dentro il portale, divorando così anche la più piccola speranza di poterlo sconfiggere. O forse no, chissà?
«Presto, cosa state aspettando?! Saltate!» urlo ora con voce tremante. «Prima che il portale si chiuda!»
Catherine e Silvia sono ancora spaesate. Non avevano visto ciò che avevo appena visto io, ma non c'era tempo per spiegare: Arimane ci aveva seguite fin lì e ora sì che le cose si facevano davvero difficili. «Saltate!» le prego nuovamente.
«Ma cosa dobbiamo fare, esattamente?» urla Silvia per superare il rumore del portale.
«Trovate un modo per fermare Arimane! Una gabbia, un universo parallelo, qualsiasi cosa, ma fate presto, vi scongiuro!»
Vedo Catherine annuire e prendere per mano la sua migliore amica, trascinarsela via mentre Silvia è ancora un po' intontita dagli eventi. Saltano insieme, nello stesso momento; il portale luminoso e leggermente sospeso in aria le inghiotte e, subito dopo, comincia a restringersi, sempre di più, come se attendesse proprio loro per richiudersi. Ansimante e stanca nonostante non avessi fatto granché, mi volto e ringrazio Aloisa con un sorriso triste. «Ti prego, aiutale.»


Questa fu l'ultima volta che vidi Catherine e Silvia nella mia realtà.

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Capitolo 25
*** Capitolo 20 - This Is War ***


PARTE SETTIMA
Buio


CHAPTER XX
This is war*


[Nero come...]


Un gatto.
Poteva arrivare di tutto e di più, chiunque, persino un vascello, da quel turbinio di luce giallastra, eppure vi uscì un tenero gattino nero, una piccola palla di pelo. Atterrato sulle quattro zampe, la creaturina non degnò del minimo sguardo i presenti alla sua entrata; perlustrò l'area e decise di voltare loro le spalle.
Storybrooke cominciava ad accigliarsi. Un gatto? Fosse stato col pelo variopinto e sorridente, avrebbero capito, ma quello era un semplice ed innocuo gatto nero. Cosa mai poteva significare?
Il portale non accennava a richiudersi, il che poteva significare una sola cosa: sarebbero arrivati altri visitatori. Ma chi? Quanti? E sarebbero stati buoni oppure cattivi?


«Saltate! Non abbiate paura!» Dread colorati, cinque gatti ed un famiglio, piante grasse, incenso. Il cervello di Silvia recuperava questi ricordi durante il salto nel portale mentre Catherine non le lasciava la mano. Catherine aveva paura, Silvia poteva percepirlo, così quest'ultima serrò di più la presa. Poi, nemmeno il tempo di pensare alle sette lettere che componevano il nome della strega di Latina, le cacciatrici avvertirono il peso della gravità sulle loro teste e la rugosità dell'asfalto sulle loro palme.
Ruzzolarono, gemettero e, infine, aprirono gli occhi. Dov'erano finite? Aloisa le aveva portate nel luogo giusto o ...?
«Catherine? Silvia?»
Le due amiche si voltarono di scatto verso la fonte di quella voce così famigliare da far male. «Dottore!» esclamarono all'unisono.
Era lui, era davvero lui, il Dottore! Il loro Dottore! Le due ragazze si rimisero in piedi, non curanti dei graffi subiti per lo sfregamento sull'asfalto della strada, e guardarono quel ragazzotto alto, magro, col papillon un po' sgualcito. Subitamente, Catherine gli fu al collo, cincendolo più forte che potè, come per timore che non fosse vero. Le braccia del Dottore si strinsero attorno alla cacciatrice, lentamente, incredule, insicure. Le annusò i capelli; sapevano di pesche mature.
«Cosa ci fate qui, voi due?» chiese il Dottore, la voce ridotta a un sussurro.
«È una lunga storia» rispose Silvia. Aspettava silenziosa alle spalle di Catherine, cercando di non lasciar scappare nemmeno una lacrima. Deglutì, poi si guardò attorno: non vedeva nessun gatto, solo molte persone curiose. «Dottore» sussurrò.
L'alieno e la piccola cacciatrice sciolsero l'abbraccio e guardarono Silvia, la quale si accigliò e disse, semplicemente:
«Siamo in guerra.»


Guerra.
Silvia faceva fatica a capacitarsene, ma era evidente. Osservava i volti angosciati – o rassegnati – delle altre persone lì presenti. Un uomo di media statura, molto magro e con i capelli che sfioravano le spalle teneva la mano di una giovane e bellissima donna. Accanto a loro, da una parte un ragazzino affiancato da due donne, una mora e una bionda, sulla difensiva; dall'altra, una giovane donna dai capelli corti e molto scuri era accigliata e per mano a quello che poteva essere il marito.
Silvia boccheggiò e si voltò. Il Dottore aveva appena assimilato la parola guerra mentre Catherine, mani sui fianchi, guardava a terra, pensierosa. «Siamo... Siamo...?»
Il Dottore annuì. «Storybrooke.»
«Un'altra volta...» Catherine portò in avanti la mandibola e si torturò coi denti il labro superiore. Emise un ghigno, certa che fosse uno scherzo. «Prima Supernatural, ora Once Upon a Time? Siamo diventate le cacciatrici interdimensionali, per caso?»
Silvia, notato la seccatura di Catherine – non una cosa da poco, aggiungerei – sviò l'attenzione del Dottore: «Da quanto tempo sei qui?»
«Mah... Più o meno...» Si guardò l'orologio e poi finì: «Mezz'ora! Minuto più, minuto meno, eh!»
«Ma perché? Voglio dire... Come facevi a sapere che c'era bisogno di te proprio qui e ora?» chiese Silvia e la sue domande doveva averle sentite anche quel ragazzino con due mamme** perché si stava avvicinando: voleva delle risposte anche lui.
«Ho ricevuto questa.» Il gallifreyano estrasse dalla tasca interna della giacca una busta da lettere di colore blu, ma non un blu qualsiasi: era blu TARDIS. «Dentro ho trovato solo le coordinate per Storybrooke la quale, devo essere sincero, è difficile da raggiungere. Il TARDIS ha perso quota ben quattro volte ed ero sul punto di mollare tutto quando BOOM è saltata la corrente e sono stato sballottato da tutte le parti e poi mi sono ritrovato qui e... Cosa stavo dicendo?»
Silvia chiuse gli occhi e inspirò con calma. «La busta con le coordinate» disse con un mezzo sorriso esausto.
«Ah, sì!» esclamò il Dottore. «All'inizio pensavo fosse un'idea di River, ma poi ho riconosciuto il luogo e ne ho dedotto che l'unica persona che avrebbe potuto mandarmi questa lettera ero io stesso.»
«Perché?» chiese il ragazzino. «Non potrebbero essere state loro due?» aggiunse indicando le ragazze.
Il Dottore sorrise. «Ero nel Medioevo, Henry. Loro sono del ventunesimo secolo proprio come voi qui a Storybrooke.»
Imbarazzato per l'errore, Henry tacque e annuì. «Quindi loro sono le tue amiche?»
«Esatto, piccolo umano!» esclamò il Dottore.
All'improvviso una donna, Regina, si staccò dal gruppo di curiosi e marciò a passo deciso verso le due nuove arrivate. «Dottore?» lo chiamò. «O... qualunque sia il tuo nome...» aggiunse a voce più bassa. «Sono loro? Caroline e Cintia?»
«Catherine» la corresse la più piccola.
«Silvia» aggiunse l'altra.
«Perdonatemi» si scusò Regina. Sorrise loro e due file di denti perfettamente bianchi sembrò voler riflettere la loro immagine. «Piacere di fare la vostra conoscenza, ragazze, ma qui siamo un po'... Confusi, ecco.»
Silvia annuì. «Ci credo! Lo siamo un po' anche noi, ma possiamo spiegare tutto.» Guardò oltre la figura nera ed elegante di Regina. «Voglio essere sincera: state correndo un grosso pericolo.»
«Io direi che, per iniziare, sarebbe meglio portare il più lontano possibile tutti loro» disse Catherine sistemandosi gli occhiali sul naso.
Regina era perplessa. «Sapevo sarebbe successo qualcosa di pericoloso, ma fino a questo punto? Siete sicuri? Non starete esagerando?»
«Fidati, mamma» le disse Henry. «Meglio dar loro ascolto.»
Regina, dopo qualche tentennamento passato a scrutare i volti dei tre forestieri, assottigliò gli occhi. «Va bene» disse. «Affideremo ad ogni gruppo un luogo sicuro lontano da qui e lo proteggeremo io ed Emma stesse, ma prima voglio sapere una cosa.»
«Cosa?»
Regina fissò Silvia dritta negli occhi scuri. «Cosa sta succedendo?»
Le cacciatrici si scambiarono uno sguardo colmo di stanchezza e angoscia poi Catherine incontrò le iridi impazienti di Regina: «Dobbiamo sconfiggere una divinità malvagia.»

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*https://www.youtube.com/watch?v=hMAVLXk9QWA (tasto destro mouse; apri in un'altra scheda)


**ammetto che potrebbe essere frainteso per chi non segue OUAT: Henry ha una madre biologica e una adottiva!

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Capitolo 26
*** Capitolo 21 - Carillon ***


CHAPTER XXI

Carillon*

 

«Come, scusa?» Regina credette di non aver capito bene cosa avesse detto la ragazza coi capelli ricci. Divinità? Divinita malvagia? Perché le cose più strane dovevano arrivare sempre a Storybrooke? Perché non da un'altra parte? Cos'era Storybrooke, una discarica per le assurdità dell'intero Universo?
«Hai capito bene» disse Silvia. Una folata di vento le scompigliò i ciuffi ribelli e avvertì un brivido lungo la schiena; solo allora digerì le sue stesse parole. «Il suo nome è Arimane e, come abbiamo appurato poco prima di arrivare qui, può cambiare sembianze ogni volta che ne ha voglia.»
«E perché è qui?»
Il Dottore prese parola guardando i capelli perfettamente in ordine di Regina: «È colpa nostra. Credo» disse. Mary. Gli occhi neri della studentessa sfortunata che non faceva altro che mangiare. Amy. La sua Amy Pond, anch'essa vittima di quella creatura infernale. «Tempo fa io, Catherine, Silvia e altri due miei amici ci siamo imbattuti in una creatura mostruosamente malvagia.»
«Un demone» intervenì Catherine con mezzo sorriso a illuminarle il volto ora un po' meno cupo rispetto al solito. Il Dottore faceva ancora fatica a credere.
«Sì, ci siamo imbattuti in un demone.» L'alieno deglutì. La magia e quel tipo di cose che gli umani chiamavano religioni lui le accettava, ma non poteva credere a nient'altro se non alla scienza. Non ci riusciva ancora. E non riusciva nemmeno a mandar giù il fatto che Catherine e Silvia usavano la magia per combattere ciò che lui avrebbe combattuto con la scienza. «Mary, così disse di chiamarsi, ci aveva avvertiti riguardo un'entità distruttrice: la Nebbia.»
«Dottore» lo interruppe Catherine con lo sguardo basso e con un lieve sorriso sulle labbra. «In realtà non si chiama Nebbia.»
«E forse non sono nemmeno la stessa cosa» terminò Silvia.
Il Dottore, più confuso che mai, staccò gli occhi da Regina e guardò perplesso le due cacciatrici. «In che senso?»
«Nel senso che, come ho detto prima» specificò Silvia, «il suo nome è Arimane e non credo che lui e la Nebbia siano la stessa cosa. Mary non era abbastanza informata.»
Regina ascoltò attentamente le parole della riccia, accigliata. «Ti sbagli» disse sospirando. «Silvia, giusto?» Vedendo la cacciatrice annuire, proseguì. «Nel nostro regno, la Foresta Incantata, viveva un mago assai potente.»
«Sì, l'Oscuro, ma è qui a Storybrooke» esclamò Silvia indicando l'uomo con i capelli che gli sfioravano le spalle. «È Tremotino.»
Regina fece cenno di no con il capo. «Non si tratta dell'Oscuro, ma proprio della Nebbia.»
Sui volti dei tre forestieri spuntò una strana curiosità e Regina sorrise appena, ma era un sorriso fiacco. «Che ne dite di una cioccolata calda?»


Al Granny's era tornata la solita calma. Appena entrata, Regina chiamò al rapporto Emma, Killian aka Uncino, gli Azzurri – i quali, si sa, viaggiano sempre in coppia – e Tremotino; tutti gli altri – i più fortunati – erano a pochi passi a origliare.
Una cioccolata con panna e cannella, sette semplici e un bicchierino di rum riunivano ben nove eroi dei giorni nostri e, mentre Uncino squartava Tremotino col semplice sguardo, Regina preparava le parole del suo discorso ai nuovi arrivati. «Vorrei partire col dire che nel corso degli anni la storia è variata almeno cinque o sei volte come accade spesso in situazioni del genere.»
Regina avvolse la tazza con le mani e sbuffò dal naso perfetto.
Emma notò le difficoltà di Regina e guardò i suoi genitori, al suo fianco, gli Azzurri: Mary Margaret e David, o meglio: Biancaneve e il Principe James. Essi si rabbuiarono: sapevano perché Regina faceva fatica a proseguire: sarà anche stata la regina cattiva della Foresta Incantata, ma aveva anche lei un cuore.
«È una vecchia storia usata per spaventare i bambini» disse Mary Margaret. «Si dice loro che se non fanno i bravi, verrà la Nebbia a punirli, ma la realtà, o quello che si pensa che sia, è un po' diversa.»
«Vale a dire?»
Tremotino – un nome, un programma – prese parola guardando Catherine fisso negli occhi. «Alla Nebbia non importa né quanti anni hai e né se ti comporti bene o male: arriva e basta» disse e, dopo quelle parole, scese un lugubre silenzio.
L'Oscuro allontanò la tazza di cioccolata ancora bollente e guardò desideroso il liquore tra le mani del pirata, il quale lo minacciò picchiettando il tavolo con il suo uncino affilato. Tremotino fece finta di nulla e proseguì: «La Nebbia viene chiamata così per la sua forma con la quale si manifesta.»
«E anche perché ormai tutti hanno dimenticato il suo vero nome.» A parlare, questa volta, era stata la nonna di Ruby – meglio nota come Cappuccetto Rosso – e proprietaria del locale: una donna sulla settantina, bassina e dai capelli bianchi raccolti in un piccolo ed ordinato chignon. «Io me lo ricordo molto bene, il suo volto.» Parlava da dietro il bancone e sembrava non voler ricordare veramente quei giorni. «Alto, snello. I lineamenti di un angelo e capelli così scuri da fare invidia alle tenebre. E furono proprio queste a divorare la sua fragile anima.
«Una notte di molti anni fa, un giovanotto fece visita al mio villaggio. Disse che era nato lì, che la sua famiglia si era trasferita in un altro regno quando lui era ancora in fasce. Voleva vedere cosa ne era stato della sua precedente casa. Nessuno si ricordava di lui, nemmeno i più anziani, ma lo accogliemmo molto volentieri. Tuttavia lui, per la notte, si accampò nella foresta limitrofa.
«La luna era ormai alta nel cielo quando cominciammo a sentire strani ululati accompagnati da una fitta e densa nebbia che avanzava lentamente. Tutti tememmo per quel giovane ragazzo, ma non appena lo vedemmo giungere dal confine della foresta, con quegli occhi iniettati di sangue e strani simboli sulle braccia, capimmo che avevamo fatto un grosso, enorme errore.
«I più fortunati come me riuscirono a scappare, portando con sé solo alcuni averi e i prorpi cari» concluse l'anziana donna guardando la nipote. «Ma, ahimé, in molti perirono quella stessa notte assieme al villaggio. E girano molte voci al riguardo: divorati dagli animali che lo stregone aveva evocato, avvelenati dalla nebbia, uccisi a mani nude da lui stesso o dalla sua magia... Non si sa quale sia la verità, si sa solo che stava letteralmente divorando il nostro regno, villaggio dopo villaggio. E chissà quanti altri regni aveva già sterminato?» La donna scacciò una lacrima e passò un panno sul bancone, facendo finta di dargli una veloce ripulita per poi appoggiarci sopra il caffé che qualcuno aveva ordinato. Tacque a lungo, poi sparì nel retro: troppi ricordi tutti insieme a tormentarle quella mente stanca e vulnerabile, diversamente da come voleva dimostrare agli altri. Era da molto tempo che non parlava di quella notte.
«In un momento di distrazione, anni dopo, il ragazzo venne catturato dalle guardie reali. Le mie» disse Regina. «E fui io stessa ad imporgli l'esilio.»
Catherine, preoccupatissima, si agitò e per poco la sua cioccolata non ruzzolò a terra. «Dove?»
Regina ponette un palmo di fronte a sé, verso l'alto, sorrise ed un fumo violaceo fece apparire quello che sembrava un carillon. «All'epoca detestavo che qualcuno potesse essere più potente della sottoscritta. Era un avversario» si giustificò senza alcuna ombra di pentimento.
«Grande!» esclamò Silvia entusiasta. «Però tutta questa storia non c'entra nulla con il nostro caro Arimane.»
«E cosa mi dici dell'avvertimento di quel demone?» chiese il Dottore.
Silvia fece spallucce. «Forse si è solo confusa?»
«Arimane è una divinità mentre la Nebbia è uno stregone» proseguì Catherine. «Ed è intrappolato lì dentro» aggiunse indicando il carillon tra le mani di Regina.
A quella postazione da nove della tavola calda più frequentata della città cadde il silenzio, tuttavia i nove cervelli in quesione stavano ronzando alla ricerca di una soluzione.
Emma spostò improvvisamente la sua tazza al centro del tavolo e, tamburellandoci sopra le dita, suggerì: «Se abbiamo a che fare con la Nebbia perché, non so, è riuscita a scappare con la magia che ha creato Storybrooke, allora dovremmo creare un incantesimo di contenimento e rispedire nuovamente lo stregone all'interno del carillon. Semplice.»
«E se non fosse la Nebbia, Emma?» le chiese Mary Margaret, sua madre, accigliata e seria.
Emma non sapeva cosa dire, come gli altri presenti, così calò nuovamente il silenzio. Silenzio interrotto poi di colpo, dopo pochi istanti, dalla sberla che il Dottore tirò al tavolo, come per dire Ci sono!, spaventando Catherine e Silvia. «Utilizzeremo lo stesso metodo usato per imprigionare Arimane la prima volta!»
Silvia accasciò la testa sul tavolo mentre a Catherine scappò un sorriso. «Dottore» disse quest'ultima. «L'ultima volta venne incatenato da un'entità simile ad un angelo.»
«E allora?» chiese il Dottore, innocentemente.
«E allora» ripeté la piccola cacciatrice, «stai proponendo a tutti di sostituirci a una divinità che neanche conosciamo! Sarebbe come fingersi l'arcangelo Michele, un suicidio, insomma!»
Calò un terzo silenzio durante il quale tutti guardarono chi la tazza chi il bicchierino vuoto o le proprie mani. Regina si massaggiò le tempie mentre il locale continuava a brulicare di gente, la sua gente, quando riprese a parlare: «Forse, prima di pensare all'atto finale, dovremmo cercare di capire come distinguere Arimane in mezzo a tutti noi, in mezzo a tutta Storybrooke, la quale, vorrei precisare, ha anche una fitta boscaglia.»
«Giusto» commentò David, il padre di Emma. «Dal portale, prima di voi due, è uscito solo un gatto. Niente divinità.»
«Forse è invisibile» ipotizzò Killian giocherellando col suo prezioso uncino.
«No, era proprio lui. Quel gatto era Arimane.» Silvia non cercò mezzi termini, preferì dire subito le cose come stavano: «Può cambiare aspetto, ricordate?»
«Quindi ora può essere chiunque» osservò Emma. Nervosa, cercò la mano di Killian, il suo campagno, e la strinse.
«O qualunque cosa.»
I tre viaggiatori del tempo e dello spazio annuirono alle parole del pirata. Nessuno si sentiva a proprio agio, ma uno solo in particolare, Tremotino per la precisione, non riusciva a credere ai tre nuovi arrivati.
«Tutto questo è assurdo» disse l'Oscuro alzandosi in piedi. «Déi? Demoni? Chi mai crederebbe a queste storie?» Si sistemò la cravatta, segno che, nonostante le sue parole, aveva una gran paura. «Ed ora mi venite a dire che quello stupido gatto altri non era che una divinità malvagia che vuole distruggere ogni mondo? No, mi spiace. Potevo accettare la Nebbia, ma non tutto questo. Gran bella favola.» Tremotino voleva solo uscire di lì, ma Silvia non glielo permise: l'Oscuro si sentì afferrare il braccio.
«Non ti rendi conto che siamo tutti in pericolo?»
Tremotino si riprese il braccio e uscì dal Granny's. Oh, certo che si rendeva conto che Storybrooke e tutto quel mondo privo di magia – ancora per poco, forse – era sotto attacco, ecco perché voleva in tutti i modi trovare una via di fuga.
«Non badate a lui» disse Regina. «Fa sempre così.»
«Io sto con Tremotino» confessò David.
«Papà!» esclamò Emma in disapprovazione. «Davvero credi che stiano mentendo?»
«No, non credo stiano mentendo, ma è possibile che quel gatto sia solo un gatto.»
«No.» Silvia si alzò. «Non era un semplice gatto.» Si sentiva addosso gli occhi di tutti e solo allora si rese conto di avere alzato troppo la voce. Continuò, ora con toni più calmi: «Tremotino ci ha letteralmente abbandonati, molto probabilmente perché ha troppa paura di affrontare la situazione. Non possiamo permetteci di dividerci così, dobbiamo collaborare. Lottare. Almeno noi, i cosiddetti eroi
Silenzio. Ancora quel maledetto silenzio. Storybrooke non si metteva all'opera se non quando era ormai troppo tadi.
«È il tramonto» disse poi Regina. «Ragazze, prendete dei pasti caldi, ve li offro io. Poi prenderete una camera sempre qui al Granny's per stanotte. Riposatevi, ve lo leggo negli occhi che ne avete bisogno. Domani alle otto in punto ci rivediamo qui per decidere cosa fare.»


«Regina aveva ragione.» Catherine era in piedi davanti al lavandino del bagno, di fronte al piccolo specchio da parete. «Guarda che occhiaie!» Da quanto tempo non dormivano?
Silvia sorrise. Nemmeno un anno di caccia ed erano già conciate come i Winchester. «Lo sai, a settembr-»
«Sì, a settembre scade la prova e potrò decidere se studiare o cacciare» la interruppe Catherine poco prima di lavarsi la faccia. Mancavano ancora parecchi mesi a settembre, non era dunque il caso di preoccuparsi.
«Bene.» Silvia sussurrò e si sedette sul suo letto, già in pigiama. Si infilò nelle coperte ruvide e puntò la sveglia del telefono solo dopo averlo messo sotto carica. Si girò prima che l'amica finisse di lavarsi. E se decidesse di lasciare la caccia? Cosa ne sarà di me?

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Capitolo 27
*** Capitolo 22 - Engel ***


CHAPTER XXII

Engel* **

 

La mattina seguente poco era cambiato: Storybrooke si risvegliò consapevole dell'ennesima sfortuna; Tremotino aprì il negozio come di consueto; Regina, gli Azzurri, Emma e Uncino aspettavano le due cacciatrici e il Dottore. All'appuntamento arrivò per primo l'alieno, dopo una lunga nottata passata a sistemare le molteplici stanze messe a soqquadro durante il viaggio verso la città delle favole.
«Buongiorno!» salutò il Dottore sedendosi al tavolo con gli altri.
I clienti del Granny's, come al solito, sapevano cosa stava succedendo, tutti lì erano esperti nell'origliamento ed avevano cercato di sentire il più possibile, ma facevano anche finta di nulla, come se la situazione scivolasse loro addosso.
Killian alzò l'unica mano che aveva in segno di risposta al Dottore mentre gli altri biascicarono qualcosa di simile ad un «Ciao» assonnato e rassegnato.
Pochi istanti dopo arrivarono anche le cacciatrici le quali si sedettero al tavolo solo dopo aver ordinato due caffè.
«Allora, che ci dite? Qualcuno ha novità su Tremotino?» chiese Silvia.
Tutti scossero la testa. Silvia sperava che l'Oscuro ci avesse ripensato; aveva un brutto presentimento.
«Faremo a meno di lui.» Catherine lo disse con un mezzo sorriso mentre sorseggiava il suo caffè tiepido.
Regina ed Emma strabuzzarono gli occhi. «Come sarebbe a dire? Abbiamo bisogno di lui se vogliamo porre fine a questa storia!» esclamò la bionda. Henry, seduto a bere cioccolata calda a qualche tavolo di distanza le sorrise e le fece il classico gesto col pollice all'insù; le si strinse il cuore.
«No.» Silvia e Catherine lo dissero all'unisono, quasi ghignando.
«Per creare il Nodo di Blumhardt servono solo tre persone che sappiano gestire la magia» proseguì Silvia. «Quella di Tremotino è troppo nera perché possa funzionare, ma per fortuna ci sono io.»
Il Dottore in tutto questo era rimasto in silenzio: aveva certamente capito che era un genio indiscusso della scienza, ma per quanto riguardava la magia, be', forse doveva ancora imparare qualcosina. Tuttavia quando sentì quel nome, Blumhardt, gli si rizzarono i peli sul collo: non poteva credere alle sue orecchie! «Blumhardt? Quel Blumhardt?»
Catherine lo guardò storto, con gli occhi ridotti a fessure. «Johann Cristoph Blumhardt, sì, perché?»
Il Dottore fissò il vuoto per qualche istante. «Scherzando, gli diedi del ciarlatano durante una sua predica, ma avevo torto, poverino: era tutto vero!»
Silvia sogghignò. «Sì, Dottore!» esclamò divertita. «Non esiste solo la scienza. Comunque stavo dicendo...» riprese. «Inizialmente ero una semplice wiccan, ma è successo qualcosa che ha scombussolato tutti gli universi. Qui da voi c'è una Regina malvagia che ha portato la magia fuori da Storybrooke» disse guardando Regina, quella buona. «Liberata per sbaglio» aggiunse per non farle pesare la situazione. «Nel mentre noi abbiamo salvato un arcangelo e, sfidando così il destino, Arimane ha acquisito potere ed è riuscito a liberarsi e ora-»
«Aspetta, aspetta, aspetta.» Regina ponette le mani avanti a sé. «È colpa vostra, quindi, se questa divinità distruttrice è qui da noi?»
«Sì, ma non potevamo sapere che sarebbe andata così! Non sarebbe dovuta andare così...» cercò di spiegare Catherine.
Con la coda dell'occhio Catherine vide il Dottore massaggiarsi le tempie e prendere parola: «Tutti qui abbiamo talvolta agito pensando di fare del bene, tuttavia sbagliandoci di grosso.» Guardò negli occhi uno ad uno gli eroi della battaglia imminente. «Tutti commettono degli errori. Il nostro è stato quello di salvare l'Arcangelo Gabriele senza sapere che avremmo innescato una pericolosa reazione a catena e la prima tessera di questo domino letale è Arimane libero dalla sua prigione. Il vostro errore è stato quello di dividire yin e yang.»
«E tutti noi uniti abbiamo il compito di fermare la prima tessera prima che abbatta la seconda.» Catherine finì il suo caffè annacquato e appoggiò rumorosamente la tazza sul tavolo. «Quindi ora la domanda è: ci aiuterete o no?»
Regina ed Emma si scambiarono uno sguardo fugace; la scelta toccava praticamente solo a loro visto che erano le uniche abitanti di Storybrooke – tranne Tremotino – con un vero asso nella manica. Sembrarono leggersi nel pensiero: «Sì» dissero insieme. Gli altri tre abitanti di Storybrooke presenti annuirono in segno di consenso.
Ora Catherine e Silvia potevano finalmente vedere la luce in fondo al tunnel; tirarono un sospiro di sollievo: non potevano cantar vittoria, ma era davvero una bella sensazione avere degli alleati. Sorrisero e sorrise loro anche il Dottore. Tuttavia il TARDIS stava gridando attenzione, ma nessuno poteva sentirlo.
In quel preciso istante, la corrente venne a mancare e tutti smisero di parlare bruscamente; non proveniva alcun rumore nemmeno dall'esterno.
«È lui» affermò il Dottore. Si alzò per primo, dirigendosi verso l'uscita del locale. Catherine e Silvia lo seguirono quasi correndo. Silvia perse la sua collana, agganciandosi a qualcosa o forse semplicemente le si sfilò dal collo, ma non se ne accorse: era troppo preoccupata che il Dottore avesse ragione.
La porta della tavola calda tremò così leggermente che solo la cacciatrice riccia, la più vicina, se ne accorse. Catherine e il Dottore erano accucciati poco distanti dalla porta d'ingresso, a scrutare l'esterno attraverso la persiana, quando Silvia mise una mano sul pomello e aprì. Poi non ricordò più nulla.


«Silvia, no!» urlò tendendo una mano come per riprendersi l'amica, ma il Dottore, prontamente, l'aveva già afferrata per l'altra, riportandola così all'internò del locale. Chiuse la porta facendo scattare la serratura e quando si voltò gli vennero i brividi: regnava una calma così piatta da fare paura. A quante tragedie aveva assistito la gente di Storybrooke per reagire così?
Una donna ruppe il silenzio con i suoi singhiozzi. «I miei figli» pianse. Un anziano l'abbracciò gingendole le spalle. Solo in quel momento realizzò quanto fosse buio; sembravano essere piombati in una notte senza stelle.
«Dannazione!» Catherine batté le mani sulla finestra del Granny's così forte da farla tremare poi le tenebre vennero come risucchiate dall'alto, lentamente, e tornò il sole a specchiarsi sulle strade di Storybrooke.
«Era un avvertimento» disse qualcuno alle sue spalle.
Catherine sentì poi la mano del Dottore sulla sua spalla. Le stava dicendo qualcos'altro, forse che sarebbe stato meglio non uscire o che avrebbero sistemato tutto o che Silvia stava bene, ma non sentiva: era sconvolta, troppo sconvolta. Aveva visto uscire Silvia, certamente attirata dalle illusioni di Arimane, e l'aveva persa. Forse per sempre.
E poi, dal nulla: «Cosa diamine è successo?»
Killian, Emma, Regina e gli Azzurri si voltarono, sorpresi di udire quella giovane voce che conoscevano da poco. Era Silvia.
Catherine e il Dottore corsero da lei; la piccola cacciatrice abbracciò la sua migliore amica, sua sorella, poi la prese per le spalle e le chiese, quasi urlando: «Dov'eri finita?»
«È diventato tutto buio» disse Silvia con una luce diversa negli occhi. Catherine avrebbe giurato di vederla lontana. «Sono tornata indietro, ma la porta era chiusa, allora ho seguito il muro, ho girato l'angolo e sono rientrata dal retro.»
«Silvia, ma perché sei uscita?» Il Dottore era molto preoccupato e la sua voce lo tradì tremando qua e là. «Poteva succederti qualcosa di brutto!»
«Io non lo so!» esclamò la cacciatrice voltando loro le spalle. «È stato più forte di me, okay?»
«Come nel labirinto.» Catherine abbassò lo sguardo ricordando quanto fosse stato difficile non dar retta alle illusioni di quel farabutto. La sua attenzione venne attirata da qualcosa di familiare che brillava alla fioca luce del sole arrivato ormai al suo punto più alto.
«Quindi questo Arimane può non solo cambiare forma, ma anche portarci a compiere azioni contro la nostra volontà» osservò Regina. «Ama giocare con le nostre menti.»
«In pratica siamo fregati.» Killian tormentò con l'uncino le dita dell'altra mano, graffiandosi: era nervoso.
Regina ed Emma videro Henry avvicinarsi a loro ed entrambe ebbero la stessa idea solo che parlò per prima la mora: «Bene. David, Mary Margaret: a voi la zona nord; Uncino: la parte sud della città. Fate in modo che tutti ritornino nei loro alloggi. Nessuno dovrà uscire per nessun motivo: coprifuoco fino a che non avremo sistemato questa faccenda. Nel frattempo, io ed Emma passeremo casa per casa per proteggerle con degli scudi.»
Il Dottore annuiva. Rispettava e condivideva la scelta di chi, in qualche modo, faceva rispettare l'ordine in quella città: la sicurezza dei più deboli prima di tutto. Sorrise nel virare lo sguardo su Catherine. Voleva sussurrarle che sarebbe andato tutto bene, ma si fermò: vide che la ragazza si stava rialzando dopo aver preso da terra qualcosa: reggeva tra le dita affusolate un filo di caucciù annodato in due punti per far scorrere lo stesso e creare varie misure attorno al collo di chi lo indossava. Da quel filo un po' consumato, ma ancora giovane, pendeva un ciondolo uguale a quello che indossava lei stessa: un cerchio con una stella a cinque punte al suo centro. Era un pentacolo, amuleto che proteggeva il proprietario anche dalle possessioni.
Silvia notò la scena, roteò gli occhi e sorrise. «Ci hai messo più tempo di quanto pensassi» disse a Catherine, dopodiché un vortice di fumo nero e denso la coprì a partire dai piedi salendo fino alla testa. Quando questi svanì, svanì anche Arimane.

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*link alla canzone: https://www.youtube.com/watch?v=bQfClF6MoG8 (tasto destro mouse; altra scheda)
**link al trailer del film: https://www.youtube.com/watch?v=WVjggWQRlQQ (tasto destro mouse; altra scheda) (la canzone scelta per il titolo di questo capitolo fa parte della colonna sonora del film linkato)

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Capitolo 28
*** Capitolo 23 - Forest ***


PARTE OTTAVA
Tra i Libri


CHAPTER XXIII
Forest *


Catherine stava girandosi tra le dita il ciondolo di Silvia. Come ha fatto a distrarsi fino a quel punto? Avrebbero dovuto badare l'una all'altra, invece lei aveva fallito. Si guardò le mani. Tremavano. Chissà se almeno non sta soffrendo? si chiese la cacciatrice. Dio, fa' che non stia soffrendo, pregò ed una lacrima le bagnò la maglietta. Avrebbe voluto alzarsi da quella sedia, uscire all'aria aperta, magari correre fino ai boschi e urlare più forte che poteva tutto il dolore che provava. Lo desiderò così tanto che provò una fitta allo stomaco e non riuscì a muovere un solo muscolo. Il quel momento le stava funzionando solo la testa, mentre tutti gli altri – il Dottore e gli abitanti di Storybrooke – stavano discutendo sul da farsi, ma Catherine non li udiva. Tutto attorno a lei era diventato sfocato, i rumori ovattati, i colori sempre più opachi e si mescolavano, si fondevano; poi le voci ripresero a farsi più chiare e così anche le figure. Pensò di avere avuto un leggero attacco di panico, ma subitamente si accorse che qualcosa era cambiato.
Regina ed Emma erano rivolte l'una di fronte all'altra. Parlavano all'unisono, ad occhi chiusi, in una lingua a lei familiare. Enochiano? Filippino? No, era latino.
«Ehi, cosa succede?» chiese Catherine, ma le due donne non la udirono: continuavano a recitare le parole ad occhi chiusi. Catherine si avvicinò. Camminava facendo rumore, calpestando e spezzando foglie e rami senza prestarvi attenzione, ma era solo un'illusione: appena abbassò lo sguardo, il rumore nella sua testa cessò; ora guardò in alto, tra gli alberi e vide le piante in balia di un vento che faceva pensare all'inizio di una tempesta, ma non percepiva l'aria sulla sua pelle.
«È una visione.» Catherine sorrise; aveva appena capito cosa fare ed ebbe altri indizi guardando attorno a sé. Vide del fumo... Oppure erano i colori che andavano ancora mescolandosi tra loro... Sbatté le palpebre, pensando di avere la vista annebbiata, e si ritrovò con una luce verde che le ronzava a due centimetri da naso.
«Catherine!» esclamò il Dottore. «Tutto bene? Fissavi il vuoto, ci siamo preoccupati» aggiunse assicurandosi che la ragazza avesse al collo il suo amuleto.
Catherine si guardò attorno: gli Azzurri mancavano all'appello come tutti gli altri clienti del Granny's che aveva visto lì dentro poco prima. «Sì, sì» disse con un leggero tremito nel suo sorriso. «Ho avuto una visione.»
Henry sgusciò dallo scudo umano formato dalle sue due madri. «Hai le visioni?»
«A quanto pare sì, ma solo grazie al Terzo Occhio.» La piccola cacciatrice sembrò compiacersi: finalmente anche lei poteva contribuire con qualcosa che andasse oltre il semplice presentimento. Poi, d'un tratto, il sorriso che le era nato sul viso ambrato scomparve: piuttosto che vedere nel futuro, avrebbe preferito il presente, sapere che Silvia stava bene. Il Dottore parve accorgersene e le si sedette accanto.
«Cos'hai visto?»
Catherine si ridestò dai suoi pensieri e si schiarì la voce. «Dobbiamo andare in un punto preciso della foresta.»
«Quale?» chiese Emma.
Catherine si grattò in testa e sorrise, imbarazzata. «Lo saprò appena ci arriveremo, ma prima» disse cercando qualcosa nei paraggi. «Qualcuno ha carta e penna?» Vide il Dottore infilare una mano all'interno della sua giacca in tweed infinitamente grande all'interno ed estrarre da essa un taccuino vecchio e sgualcito ed una penna a sfera. L'abbinamento antico-moderno la fece sorridere. Lo ringraziò, prese i materiali e, trovata una pagina bianca, scrisse qualche riga. «Andiamo» annunciò poi strappando la pagina e infilandosela nella tasca posteriore dei jeans. Ridiede al legittimo proprietario il taccuino e la penna e si incamminò, seguita dal Dottore, Emma, Regina ed Henry. «Il ragazzo è meglio se rimane qui.»
«Ma...»
«No, Henry» convenne Regina. «Catherine ha ragione.»
Il piccolo eroe guardò Emma, speranzoso, ma la bionda ricambiò con uno sguardo molto severo. «No» si sentì dire.
«Senti...» Il Dottore gli cinse le spalle con un braccio. «Lo so che vorresti partecipare, lo capisco perfettamente, quindi tu avrai un compito molto importante.» Vide gli occhi del ragazzo farsi più grandi e felici. «Sai bene quanto io tenga al TARDIS, ecco perché voglio affidarlo a te» disse porgendogli la chiave della navicella.
«Davvero?» chiese Henry, incredulo, con la mano che gli tremava.
Il Dottore annuì tirandosi su bene con la schiena e sistemandosi il suo prezioso farfallino – oggi color Tiffany abbinato ad una camicia bianca e bretelle petrolio. «Sulla consolle cerca una leva color acqua marina.» Aprì cautamente la porta del Granny's e dette uno sguardo alla strada: calma piatta. «Se ti senti in pericolo, tirala velocemente verso il basso: manderà un segnale al mio cacciavte sonico e io verrò subito ad aiutarti, okay?»
«Certo!» esclamò Henry che già correva verso il TARDIS. Ne aprì una porta, poi si voltò; fermo sulla soglia disse: «Mamme, state attente, okay?» Vide le due donne sorridere ed annuire poi entrò nel TARDIS e si chiuse a chiave al suo interno.
«Pessimista.»
«Razionale» rispose il Dottore guardando Catherine negli occhi.
Emma si avvicinò ai due viaggiatori. «Non capisco» disse. «Perché proprio lì dentro? Poteva andare a casa dei miei genitori.»
«O in qualsiasi altro luogo che io ed Emma abbiamo già messo sotto protezione» intervenì Regina.
Catherine mise la testa fuori dalla tavola calda. «Ormai è tardi, non possiamo rischiare di girare per Storybrooke con Silv- ...Con Arimane libero.» Le si contorse lo stomaco, ma strinse i denti. Con lo sguardo basso, senza mostrare alcuna emozione – la maschera che preferiva per non pensare a come si sentiva – uscì all'aria aperta ed una ventata gelida le fece accapponare la pelle. «Quando un pericolo si avvicina al TARDIS, questi cerca riparo in qualsiasi altro luogo tranquillo e sicuro dell'Universo.» Senza voltarsi, Catherine si incamminò veloce senza realmente sapere in che direzione stesse portando tutti quanti, ma sapeva certamente che il Dottore stava ridendo sotto i baffi.
E così uscirono tutti allo scoperto. Una regina, una principessa, un alieno ed una cacciatrice, armati solo di magia, scienza, qualche parola in latino e molta speranza. La luna era da poco scomparsa mentre un ormai caldo sole faceva sudare la fronte concentrata di Catherine, in testa a tutti. Non avevano paura di nulla e, forse, era perché sapevano che non poteva finire così: per eroi del loro calibro non potrebbe mai finire.


«È qui.» Catherine bloccò i suoi passi in mezzo alla vegetazione selvaggia e si guardò attorno. La posizione degli alberi e degli arbusti più bassi coincidevano alla perfezione così come la luce filtrata dalle foglie silenziose.
«Perché proprio qui, in mezzo al nulla?» chiese il Dottore puntando il suo sguardo in alto, verso il cielo. «Non siamo troppo lontani dalla città?»
«All'inizio lo pensavo anche io» rispose Catherine. «Ma poi ci sono arrivata e direi che la vera motivazione è piuttosto banale!»
«Tenere Arimane il più lontano possibile da Storybrooke?» tentò Emma.
Catherine si voltò e le puntò un dito contro, esclamando: «Esatto!»
«Sì, ma è fin troppo banale» affermò tuttavia Regina. Si sentì tre paia d'occhi addosso, attenti alle sue parole. «Tu hai avuto una visione, ma non sai l'esatto motivo per cui l'incantesimo vada fatto proprio qui. Ci deve esse qualcos'altro sotto.»
Il Dottore si grattò distrattamente il mento per mettere insieme i suoi pensieri. «O sopra... Cos'aveva detto Flynn riguardo le Leylines?» disse tra sé e sé.
«Cosa?»
Il Dottore prese a camminare avanti e indietro tormentandosi le mani nodose e callose, corrucciato e ingobbito come un anziano alla ricerca di antichi ricordi, evitando involontariamente la domanda di Catherine.
«Chi è Flynn?» chiese Emma.
«Cosa sono le Leylines?» si interessò Regina.
«Chi diavolo è Flynn?!» strillò Catherine.
«Flynn Carsen...» Il Dottore gesticolò a casaccio nell'aria. «Un... mio amico» tagliò corto. «E le Leylines fanno parte di un'accesa discussione che abbiamo avuto parecchio tempo fa.» Gesticolò ancora un po', ma con più calma. «Entrambi sosteniamo che le Leylines esistano e che ricoprano l'intero globo» spiegò simulando una sfera con le mani.
«Un po' come le meridiane!» esclamò Catherine.
«Diciamo che ci passano proprio sopra.» L'alieno guardò Regina ed Emma annuire come per dire Okay, è strano, ma ora va' avanti. «La differenza nelle nostre teorie stava nell'affermare cosa le Leylines trasportassero: lui sostiene che esse siano letteralmente dei fiumi magia, mentre io pensavo fossero semplicemente un ammasso di residui di energia volatile, sospesi in aria per un motivo al quale non vi ero ancora arrivato.»
Le due donne lo guardarono accigliate, senza capirci molto e nonostante la cacciatrice lo conoscesse abbastanza bene da poter interpretare le parole sconnesse dell'alieno, nemmeno lei riuscì a capire. «Credo di essermi persa» disse infatti.
«Immaginavo» rispose lui con un sorriso. «Effettivamente mi sono un po' perso anche io, però il punto è che né io né Flynn avevamo ragione!» Girò su se stesso e intorno ad Emma, Regina e Catherine.
«Nessuno dei due?» Emma scostò una ciocca di capelli dalla fronte e si voltò alla ricerca degli occhi di quello strano ragazzotto. «E quindi cosa trasportano queste Leylines?»
Il Dottore guardava in alto, ancora, oltre le foglie che ora avevano preso a ballare e a tremare; qualcuna cadde, troppo fragile o troppo stanca per lottare contro l'inverno. Si voltò e alzò il cacciavite sonico, azionandolo. Cominciò così a formarsi aldilà degli alberi in trambusto un globo di energia che andava sempre più espandendosi, ma non mantenendo una forma tondeggiante, bensì si allungava prendendo le sembianze di ciò che poteva somigliare ad un enorme uovo di Pasqua. «Avevamo ragione entrambi! Le Leylines trasportano energia» spense il cacciavite e se lo rimise in tasca. «Qualsiasi tipo di energia» terminò tornando dal trio femminile. «E voi due, mie care» aggiunse ponendo una mano sulla spalla di Regina ed una su quella di Emma, «farete l'incantesimo proprio sotto una Leyline, sfruttandola per sostituire Silvia.»
Ed ecco il motivo del Nodo in mezzo al bosco di Storybrooke.

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* https://www.youtube.com/watch?v=FVY-OJoOx38 (tasto destro mouse; apri in altro scheda)

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Capitolo 29
*** Capitolo 24 - Call Me Devil ***


CHAPTER XXIV
Call Me Devil *


«Stupidi umani» mormorò Arimane. Nel corpo di Silvia si sentiva estremamente limitato sia a livello di vista che di potere. Si rimise gli occhiali con le lenti spesse, senza le quali la ragazza era un'autentica talpa, e fece qualche passo sull'asfalto deserto. Basterà stare attento a non perdere questo strano oggetto sul naso, pensò; un problema da poco. Ma i suoi poteri impoveriti dall'involucro umano... Quello sì che sarebbe potuto diventare un vero guaio, un ostacolo concreto sul quale gli umani abitanti di quella cittadina avrebbero forse avuto la meglio. Decise quindi di allenarsi.
Per prima cosa, riscaldare i muscoli. Strinse le mani a pugno, segnando le palme della cacciatrice con le sue stesse unghie. Sentì dolore, giusto un pochino; ne convenne che, se qualcosa fosse andato storto, torturare il suo ospite di carne per ottenere informazioni o altro sarebbe stato controproducente.
Arimane aprì le mani lasciando defluire tutte le energie all'interno di esse. Le portò avanti a sé e ciò che vide fu decisamente più di quanto si aspettasse. Un globo di luce ed energia e magia che non accennava a spegnersi, come se non ci fosse solo lui ad animarlo, ma anche l'umana di cui era diventato padrone. I suoi occhi si illuminarono; c'erano molte, moltissime possibilità che quel mondo sarebbe finalmente caduto ai suoi piedi. Vero era che quello non era affatto il suo universo, ma da qualche parte doveva pur cominciare, no?
«Perfetto» sorrise Arimane soddisfatto. «Ora mostrami cosa siamo capaci di fare!» Egli scagliò il globo simile ad una tempesta contro un edificio qualsiasi e questi – un'edicola a chiosco – saltò in aria scagliando detriti di metallo, vetro e carta, la quale cominciava a prendere fuoco, in ogni direzione immaginabile. La divinità rise, entusiasta del grande successo che aveva generato l'irresponsabilità di Silvia, e creò un secondo globo distruttore senza nemmeno doversi concentrare: gli bastava pensarci e un istante dopo ecco pronta la magia: quella ragazza era per lui, come diremmo noi umani, una manna dal cielo.
«E ora...» Arimane parlò a se stesso alla ricerca di un secondo obiettivo. I suoi occhi guizzarono lì attorno: egli si trovava in una piazza, forse tra le più dimenticate della cittadella, circondata da alberelli molto giovani e promettenti, aldilà dei quali si potevano scorgere le vetrine di alcuni negozi – bui e deserti – e case a più piani. Ecco i suoi nuovi bersagli. Scagliò nell'aria il globo lampeggiante ed esso attraversò, scuotendo il fogliame, un punto del perimetro verde tutto attorno alla piazza, ma, invece che incenerire le strutture abitative, si disintegrò a poca distanza da esse.
La gola di Arimane – di Silvia – produsse un grugnito di disapprovazione. Si incamminò veloce e rabbioso calpestando rumorosamente i sanpietrini grigi e si fermò poco oltre la vegetazione a ferro di cavallo squadrato solo quando sbatté col naso contro qualcosa che, al contatto, produsse un'onda d'urto violacea. Arimane studiò perplesso la cupola protettiva di Regina ed Emma: si ricordava del loro piano, ma si stupì comunque dell'esito positivo dello stesso.
La divinità sfiorò con le dita l'incantesimo e gli sembrò di toccare una grossa gelatina. No, pensò, sono io il più forte.
All'interno della casa proprio sotto al negozio di alimentari davanti cui Arimane sostava viveva una famigliola formata da madre, padre e tre ragazzini. Il più piccolo di questi ultimi andava a scuola con Henry, il figlio naturale di Emma e adottivo di Regina. Jaycob, questo era il nome del ragazzino, si strinse ancora più forte alla madre mentre, tutti affacciati alla finestra che dava sulla strada, guardavano impotenti la scena: Arimane lanciava, uno dietro l'altro, tutti i globi che riusciva a creare contro l'incantesimo che teneva gli abitanti di Storybrooke lontani da quell'essere, talvolta prendendolo a pugni per la disperazione. I cuori dei cinque componenti di quella brava famiglia erano ora più tranquilli nel constatare che la cupola protettiva di Regina ed Emma era inespugnabile, ma fu proprio in quel momento che essa si crepò.


Catherine allungò il foglio ad Emma. «È una sola frase» disse. «Ma va ripetuta finché il Nodo non sarà completato.»
La bionda afferrò il pezzo di carta e lesse: «Nodi nodi ostende te, lucet lucet ut nobis[1]
Catherine sorrise e guardò Regina. La vide un po' titubante e le lesse un pensiero negli occhi, qualcosa come Io non so nulla di latino... «Tranquilla, Regina» le disse riprendendosi il foglio. «Non dovrete impararlo a memoria e, ripetendolo, pian piano riuscirai a dirlo bene. Io terrò il foglio in mano in modo tale che voi riusciate a leggere.»
«Grazie» sussurrò Regina, visibilmente preoccupata. Non era la prima volta che una missione la facesse sentire inferiore, non a suo agio, ma il latino... Non aveva mai avuto a che fare con quella lingua.
«Quando il Nodo sarà completo, dovrete pronunciare il nome di Arimane in latino: Ahriman» terminò Catherine.
Regina ed Emma annuirono. «Dove dobbiamo metterci, esattamente?» chiese la prima cercando un punto nel cielo, il punto in cui poco prima il Dottore era riuscito a far apparire un agglomerato di energia e magia.
Il Dottore ricordava bene dov'era apparso il globo, ecco perché non ebbe bisogno di ripetere l'operazione col cacciavite sonico. Prese prima una poi l'altra per le spalle e le mosse come pedine su una scacchiera, ponendole una di fronte all'altra. Facendo questo, ripensò a Flynn e a tutte le persone che nel corso della sua lunga vita avevano sostenuto che la magia esistesse. Rivalutò il concetto di Dio, tutte le fedi della Terra e degli altri pianeti anche al di fuori del Sistema Solare. Rivalutò perfino le fedi, le tradizioni e le credenze della sua Gallifrey e gli scappò un sorriso amaro. Tutti questi anni, pensò. Così cieco e stupido. Scompigliò leggermente i capelli corvini di Catherine e le sussurrò: «La riavremo, mi costi pure la mia stessa vita.» Poggiò leggermente la mano calda su una spalla della ragazza e la sentì rabbrividire un poco. «Ora tocca a loro» aggiunse invitandola a fare un passo indietro assieme a lui.
Catherine si allontanò da Emma e Regina. «Ora, una di fronte l'altra, unite le mani e leggete. Dovrà essere fatto tutto come nella mia visione.»
Le due donne annuirono un po' incerte, ma appena Catherine alzò il foglietto con l'incantesimo impresso con inchiostro, lessero ad alta voce. I primi quattro vani tentativi sembrarono a tutti sufficienti per capire che forse non avrebbe funzionato, ma la cacciatrice non si diede per vinta: fece da leader e guidò dunque Emma e Regina nel loro latino stentato. Avanti così, ragazze, pensò Catherine sorridendo appena mentre notava un miglioramento di pronuncia. Sentì dietro di lei il Dottore cambiare la gamba su cui appoggiava il peso del suo corpo, segno che era – almeno in parte – rilassato. Questo pensiero la fece star meglio: se perfino il Dottore, in una situazione come quella, riusciva a pensare positivo, allora avevano davvero una buona percentuale di successo. E infatti la buona sorte sembrò davvero ascoltare le preghiere di Caherine e vegliare su di loro; finalmente stavano stravolgendo le carte in tavola. Difatti ecco che attorno ai piedi di Emma e Regina vennero a disegnarsi delle spirali di luce che, espandendosi a ritmo costante, bruciacchiavano il terriccio sottostante il fogliame e mentre questi si alzava assieme al debole vento di energia scatenato dalla nascita del Nodo rivelando così il suo intero disegno intrecciato, sopra le teste delle due donne apparve un'altra luce: la Ley Line stava rilasciando parte delle energie da lei trasportate per tutto il mondo e grazie ad esse e all'incantesimo il Nodo proseguì col suo complicato ed intrecciato disegno bruciacchiato.
«Sta funzionando!» esclamò il Dottore con gli occhi di un bambino felice. Raggiunse Catherine e la prese da dietro per le spalle e avvicinò la bocca all'orecchio della ragazza e le sussurrò: «Se fino a poco fa ti fossi mai ritenuta poco utile, questo è il momento di ricrederti. È solo merito tuo se ora Regina ed Emma stanno portando a termine l'incantesimo.»
Negli occhi della giovane cacciatrice si formarono delle grosse pozze di lacrime che rotolarono giù veloci e pesanti. Nessuno mai le aveva detto quelle parole, nessuno mai le aveva fatto capire quanto lei fosse importante, forse nemmeno Silvia per colpa della sua stupida abitudine di tenersi tutto dentro. Resse alto il foglietto fino a che non sentì il braccio indolenzirsi fino a bruciarle dallo sforzo, ma resistette e fu allora che le lacrime si intensificarono, silenziose. Pensò che il Dottore avesse ragione, che Arimane sarebbe stato sconfitto anche grazie a lei. Tuttavia i pensieri negativi avevano sempre la meglio in lei, nonostante tutti i suoi coraggiosi tentativi. E se qualcosa fosse andato storto? Forse Silvia era ormai irrecuperabile! Poteva sempre fare lei in prima persona un passo falso, qualcosa che avrebbe poi mandato all'aria l'impegno di tutti i partecipanti a quella battaglia contro il tempo.
Catherine singhiozzò sentendosi persa e debole senza il suo braccio destro, la faccia sempre bicchiere pieno della medaglia. Qualcuno le strinse forte le spalle, cingendogliele: il Dottore sorrideva.
«Guardate a terra» disse il gallifreyano indicando il Nodo mentre Catherine si riprendeva lentamente ma con notevole successo. «Si è fermato. È completo.»
Emma e Regina, che ormai avevano imparato a memoria quelle parole in latino, guardarono ai loro piedi e ricordarono. «Il nome!» esclamò loro la piccola cacciatrice, con voce tremante. Era fatta. Le due donne continuarono a tenersi per mano mentre Catherine si stringeva più stretta tra le braccia sicure del suo Dottore. Era fatta. Emma e Regina sorrisero soddisfatte e dissero, all'unisono ancora, «Ahriman». Uscirono svelte dal Nodo e attesero. Era fatta. Catherine percepiva il tempo dieci volte maggiore rispetto l'effettiva realtà; le sembrò un'eternità, ma era fatta. Gli alberi smisero di muoversi uno dopo l'altro, come se su di loro fosse calata una cupola di vetro e li avesse isolati dal resto del mondo. Effetivamente Catherine era così che si sentiva ora che erano tutti lì ad aspettare quel demone che le aveva preso Silvia: in trappola. Era fatta. Deglutì e pensò a tutti gli abitanti di Storybrooke che erano riusciti a mettere in salvo in così poco tempo e si sentì improvvisamente meglio anche per Emma e Regina. Sapere che tuo figlio, anche se qui andrà tutto perduto, potrà sempre ricominciare da zero non ha prezzo.


Arimane stava ammirando la piccola crepa che egli stesso aveva causato. Gli venne da sorridere compiaciuto, una smorfia che, se non fosse stato per il tenero viso di Silvia, sarebbe stato paragonabile a un ghigno malvagio e rabbrividevole. Finalmente, dopo così tanta attesa, avrebbe potuto recuperare il tempo perduto. A partire da quella stupida cittadella felice. La divinità protese una mano avanti a sè e generò l'ennesimo globo. La gente all'interno dell'incantesimo ormai non più sicuro urlava e cominciava a perdere il controllo della situazione, a farsi prendere dal panico. Erano abituati a situazioni come quelle, ma ogni volta era come la prima.
«Che favolosa melodia per le mie orecchie» fu il commento di Arimane a quello scenario un po' apocalittico. Stava per lanciare il globo che avrebbe fatto crollare definitivamente l'incantesimo quando... «Ma cosa...?» disse la divinità tra sè e sè. I suoi piedi erano avvolti da una turbinosa nebbia dorata, tuttavia egli era certo di non volersene andare da nessuna parte. Tentò comunque di lanciare il globo distruttivo, ma quello, prima ancora di lasciare la sua stessa mano, perse intensità sempre di più fino a spegnersi del tutto. «No!» esclamò Arimane allungando la mano in un disperato tentativo di afferrare qualsiasi cosa pur ti sfuggire a quella nebbia. Lo sapeva. Non avrebbe dovuto sottovalutare i potenti di quella città. Stava accadendo una seconda volta, un'altra trappola, solo che adesso aveva assaporato la libertà dopo la lunga prigionia e l'illusione di poter far cadere l'Universo ai suoi piedi fu per Arimane un grosso e potente calcio nello stomaco.
Oltre l'incantesimo di protezione, davanti alla finestra di casa sua, Jaycob guardava attonito la scena. Al richiamo della madre, sull'uscio con il resto della famiglia pronta a scappare da qualsiasi altra parte purché lontani da quell'essere, il ragazzino si voltò e sorrise. «Ce l'hanno fatta!»


Silenzio. Non fosse stato per il vento che aveva ripreso a soffiare lento e costante e per il respiro dei quattro lì presenti, non ci sarebbe stato alcun rumore. Arimane giaceva all'interno del grande Nodo luminoso; il corpo di Silvia girato su un fianco, il volto coperto dai suoi stessi riccioli.
All'improvviso, nella testa di Catherine balenò un pensiero: Caso Uno, con il Nodo abbiamo catturato Arimane ancora nel corpo di Silvia, ma i due non si possono dividere per cui la mia migliore amica vivrà per sempre e solo nella sua stessa mente; Caso Due, col Nodo abbiamo strappato Arimane dal corpo di Silvia, lei è qui sana e salva mentre quel bastardo è là fuori, libero di trovare un altro tramite e distruggere Storybrooke ...se non è già oltre il confine della città.
Catherine non seppe per quale delle sue due ipotesi sperare.
Volete un piccolo spoiler?
Caso Tre.

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Note:
[1] "Nodi nodi ostende te, lucet lucet ut nobis Ahriman", vale a dire "Nodo Nodo palesati, brilla brilla portaci Arimane"


* https://www.youtube.com/watch?v=K2b_Vk132_I (tasto destro mouse; apri altra scheda)

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Capitolo 30
*** Capitolo 25 - Torna A Casa ***


CHAPTER XXV
Torna A Casa*


Silvia correva nel buio. Ci fossero stati degli ostacoli, non avrebbe avuto modo di evitarli o aggirarli. Non aveva caldo, non aveva freddo – il che le sembrava strano – ma aveva tanta, tanta paura. L'ultima cosa che ricordava era l'irrefrenabile voglia di uscire dalla tavola calda, il fumo nero che le accarezzava malvagemente la pelle chiara e delicata... E ora il nero sembrava più tangibile di prima. Impossibile che sia un'illusione, si disse riprendendo fiato con le mani agganciate alle ginocchia. Si tirò su dritta sulla schiena e provò a creare un globo fuoco, ma questi si spense dopo una piccola scintilla, come se mancasse ossigeno laddove si trovava anche lei.
«Se manca ossigeno, come posso respirare?» ragionò Silvia ad alta voce. L'unica soluzione era che non stesse correndo da sveglia e cosciente, ma che quello fosse un altro degli innumerevoli trucchi di Arimane. All'improvviso ricordò che quel fumo, dopo che era uscita dalla tavola calda, era anche sparito e lei si era poi ritrovata . «Ma come?» si chiese cercando un'immagine della sparizione di quel fumo vellutato nella sua breve memoria. E poi le sembrò che il cuore le si congelò nel petto nel ricordare quindi come il fiume nero le era scivolato dentro, insinuandosi nei suoi occhi, diventando una cosa sola.
Silvia si lasciò cadere sulle ginocchia. Era in trappola nella sua stessa mente.


Una nuova sensazione: irritazione. Concretizzata da un sonoro sbuffo e allargamento delle narici. Labbra strette: facoltative, ma sfruttate.
Arimane si alzò in piedi avvertendo attorno a sé un campo di forza. Pensò all'ironia della situazione: lui aveva da poco intrappolato Silvia e ora quella strana veggente e i suoi nuovi amici avevano intrappolato lui. «E bravi» applaudì Arimane, scocciato. Un sorriso così malvagio a contrarre il volto della ventenne che lo ospitava che a Catherine salirono i brividi dalle caviglie fino al collo. «Ma avete vinto una battaglia. Non la guerra.»
Catherine, scura in viso e sorvegliata a vista dal Dottore, si lanciò verso la divinità armata solo di rabbia e dolore. «Reagisci!» urlò a pieni polmoni.


Se ci fossero state delle pareti in quel buio pesto, avrebbero certamente vibrato. Silvia staccò le mani dal viso rigato di lacrime, incredula. Aveva appena avuto la sensazione che qualcuno avesse gridato qualcosa. Una voce così familiare, ma lontana. È Catherine, pensò alzandosi subito in piedi. «No» disse tra sè. «No, no, no» ripeté girando su se stessa, preoccupata che Arimane avesse preso anche lei. «Cathy, va' via!» Ansimava; occhi sbarrati e attenti, incontrollabili.


Catherine, sguardo fisso sulla creatura che fino a poco prima si spacciava per Silvia, non accennava a distogliere l'attenzione su di lei. Non poté ovviamente avere la certezza che la sua migliore amica l'avesse sentita, ma ebbe la sensazione, seppur minima, che avesse almeno risvegliato qualcosa in lei: Arimane sembrava, difatti, non padroneggiare gli occhi, i condotti lacrimari per esattezza. Le sclere di Silvia si stavano arrossando e riempiendo del liquido salato e, sì, forse Arimane percepiva un abbassamento della vista, ma, non conoscendo bene i processi umani, non vi diede peso.
«Questo vostro giochetto durerà poco» grugnì Arimane con un mezzo sorriso. «Uscirò di qui e ridurrò in cenere prima voi, poi questa cittadella e questo mondo.» Pregustò l'idea della distruzione mentre esponeva i suoi programmi per il futuro prossimo. «Dopodiché passerò ad altri mondi, ad altre dimensioni. E non passerà giorno senza che un sole non verrà spento.»
Catherine strinse la mandibola tant'è che si rilassò solo quando sentì male ai denti. Il Nodo che circondava Silvia aka Arimane con un diametro di circa due metri, ancora illuminato da quell'incredibile magia, vibrò al contatto con la pelle ambrata di Catherine la quale, senza accorgersene, vi si era avvicinata troppo. La cacciatrice non sentì il suono leggero come di un'arpa in lontanaza e nemmeno vide l'impronta della sua scarpa lasciata sul Nodo leggermente lacerato.
Con un non molto simpatico sorriso sulle labbra, la divinità che avrebbe certamente intrattenuto bene il signor Loki parlandogli dei suoi progetti, si sedette a terra con le gambe incrociate al centro del Nodo.
Catherine lo guardò di sottecchi mentre il Dottore, sistemandosi nervosamente il farfallino, le si avvicinava; Emma e Regina erano al solito posto, in lontananza ma a portata d'orecchio, pronte a tornare in città se qualcosa fosse andato per il verso sbagliato. «Cos'hai?» chiese ad Arimane.
«Mhm, niente. Stavo solo pensando che, tutto sommato, ora sono comunque chiuso qui dentro.» Fece spallucce e si guardò le unghie. «Ho aspettato non so più quanti secoli in quel maledetto labirito... Cosa volete che sia, per me, aspettare ancora un po'?»
«Non penso che il termine giusto sia aspettare.» Catherine si sentì una mano del Dottore sulla propria spalla. «Una volta che avremo separato te da Silvia, ti rispediremo subito in quel tuo inferno di labirinto.»
Arimane sorrise ancora. «Vorrei rinfrescarti la memoria: quella realtà è morta. Esattamente come quell'idiota di Theck.»
«Non osare pronunciare il suo nome.»
«Uh, ho toccato una tasto dolente» rise Arimane stringendosi nelle spalle. La conversazione non gli sembrava molto interessante, tuttavia ognuno gioca le proprie carte come meglio può. E lui era un ottimo giocatore. Gli occhi iniettati di rabbia di Catherine lo divertirono. «Al di là del fatto che non capisco come abbiate fatto ad affezionarvi a quell'essere ripugnante e senza valore, davvero voi non avete la minima idea di ciò che state facendo.»
«Cosa vuoi dire?» s'intromise il Dottore.
«Immagina una gabbia per un felino di piccola taglia. Un gatto d'appartamento.» Arimane vide gli occhi della giovane cacciatrice assottigliarsi, segno che lo stava seguendo, così proseguì. «E ora immagina una tigre in quel trasportino.» Nemmeno lui stesso riusciva a capire dove stesse pescando quelle parole, però avevano un senso e non solo per lui: sia il Dottore che Catherine capirono. «È questione di tempo.»
Arimane aveva ragione; era una follia pensare di tenere a bada una divinità con un incantesimo così fragile, ma avevano altra scelta?
«Se solo Silvia non fosse uscita dalla tavola calda...» La voce era di Silvia, ma le parole no. Arimane sorrise. «Stavi pensando a questo, dico bene? Dai, a zio Arimane puoi sempre dire la verità.»
Catherine strinse i pugni e il Dottore le massaggiò la spalla. Due a zero per zio Arimane.
«Cosa provi?»
«Come, scusa?» chiese Arimane un po' confuso – e confuse erano anche Catherine e le due donne ancora sull'attenti.
«Cosa provi nel ferire così tanto tutti coloro che non sono te? Cosa provi nel distruggere le loro case, i loro mondi, le loro vite? Cosa provi nel vedere la luce che abbandona i loro occhi?» Non erano vere domande, ma vedeva la certezza vacillare così poco al di là degli occhi di Silvia che quello non più molto certo di ciò che stava facendo ora era il Dottore stesso.
«E cosa proveresti se la vittima fossi tu?» Questa volta fu Emma ad intervenire, camminando lentamente nel fogliame con Regina alle spalle. «Cosa proveresti se tu o le tue creature, i tuoi demoni, o qualcuno che ami perdesse la vita solo perché un'entità, un essere a suo dire superiore, vuole vendicarsi o solo divertirsi?» Emma si fermò a pochi passi dalla divinità ancora seduta per terra e che la guardava con espressione così neutra da far rabbrividire un omicida seriale. La bionda sapeva che la sua forza di volontà sarebbe venuta un po' a mancare solo se avesse voltato lo sguardo all'indietro su Regina e avesse incrociato lo sguardo di quest'ultima, i suoi occhi preoccupati per Henry. «Dentro le abitazioni protette dai nostri incantesimi ci sono persone. Persone innocenti che non hanno fatto assolutamente nulla per meritarsi tutto questo terrore. Eppure tu le avresti uccise senza batter ciglio.»
Arimane ascoltò fino all'ultima parola poi volse lo sguardo al cielo poco visibile per gli alberi fitti. «E allora?» fu il suo unico commento svogliato.
Scese sui cinque un silenzio colmo di rassegnazione.
«Una volta ero come te.»
Queste parole attirarono l'attenzione di Arimane su Regina. «Ecco, lei mi piace» esultò, ma la felicità si spense quasi subito: «Però parlavi al passato e questo ti getta addosso la stessa cattiva luce di prima.»
«L'unica cosa che mi faceva sentire viva e importante era distruggere e annientare le vite delle altre persone. La vendetta era l'unica cosa che alimentava il mio freddo cuore.» La donna fece una breve pausa durante la quale Emma ricordò le avventure che le avevano portate vicine all'amicizia, alla complicità; Regina era cambiata così tanto in meglio e si sentiva così fiera dei suoi traguardi! «Subii una sorta di tradimento da parte di una bambina che voleva solo aiutarmi,» proseguì, «che credeva in me e voleva che io fossi felice. Le ho fatto del male, non solo a lei, ma anche alla sua famiglia e nonostante tutte le mie azioni... Lei mi ha sempre dato infinite possibilità e crede ancora in me, alla mia parte buona.
«Non è una cosa semplice e veloce, la redenzione, ma è assolutamente possibile. Anche per te, anche se avrai sempre in testa un pensiero fisso: distruggere. Io lo chiamo istinto di sopravvivenza. Distruggere o essere distrutto. E ricordati che non devi essere solo nell'affrontare una cosa del genere: circondati di persone che hanno fiducia in te e che ti capiscono. Io credo in te, Arimane, so che ce la puoi fare.»
Arimane si concentrò sulle ultime parole di Regina e abbassò lo sguardo, triste. «Ero chiuso in un labirinto mica per niente. Pensi che le persone degne di perdono vengano rinchiuse in quell'universo? Incatenate e costrette a guardare il cielo, simbolo di libertà, per il resto dell'esistenza del Creato? No, io non ho alcuna chance. Sono un caso perso.»
Regina prese un'iniziativa tra il genio e la follia: «Sono pronta a spezzare il Nodo se mi prometti che non cercherai di finire ciò che hai iniziato. Sono pronta a fidarmi di te perché prima o poi qualcuno dovrà pur farlo.»
Arimane non riusciva a crederci. Gli esseri umani, creature così fragili e facili... «Sul serio? Sei realmente disposta a rischiare?»
«Non rischio nulla perché so che ce la puoi fare» disse Regina, sicura, ma mentre lo diceva, le venne in mente Henry.
Emma vide l'ex regina cattiva allungare una mano e d'istinto, le afferrò il braccio. «Non farlo, ti prego.» Le si avvicinarono anche il Dottore e Catherine.
«Ha saputo giocare con la mia mente» disse la giovane cacciatrice. «Potrebbe aver fatto lo stesso con lei» aggiunse rivolgendosi al Dottore. Lui annuì alle parole di Catherine, ma lo sguardo lo aveva fisso su Regina.
«Regina.» Il tono di voce del Dottore era calmo e irrequieto allo stesso momento. Non sapeva cosa fare perché non riusciva a calcolare le possibili conseguenze delle intenzioni della donna. «Regina» ripeté per essere sicuro che lei lo avesse sentito. «So che forse ti ritrovi un po' in Arimane e vorresti dargli ciò che tu stessa non hai avuto in passato, vale a dire comprensione.» Il Dottore le si fece ancora più vicino mentre gli occhi di Arimane – Silvia – rotearono scocciati. «Ma ti assicuro, e penso che Emma possa essere d'accordo, che tu non sei minimamente simile a lui. Perché tu, Regina, hai trovato te stessa. Hai capito e ammesso i tuoi errori. Lui no. E finché non vedrà, non sarà mai degno del tuo perdono e della tua fiducia.» Il Gallifreyano le toccò una spalla, dolcemente. La guardò nei profondi occhi scuri come la notte e sorrise. «Aiutaci ad affrontare un problema alla volta. Liberiamo la mia amica e troviamo una soluzione senza termine per Arimane.»
«Ehi» s'intromise Arimane. «Guardate che sono qui. Vi sento.»
Regina si asciugò veloce una lacrima e comprese che il Dottore era una benedizione per quella cittadina. «Se non ci foste stati voi, Emma, Dottore, ora avrei già fatto il mio ennesimo passo falso» sorrise la donna, tuttavia l'attenzione dell'alieno era già sul loro prigioniero.
«Cathy?»
Catherine, confusa, annuì, «Sì?»
Il Dottore sorrideva, genuinamente convinto della sua brillante idea. «Ti va di raccontarci come tu e Silvia vi siete conosciute?»
Un tuffo nel passato, poco meno di vent'anni indietro, un vuoto nello stomaco della piccola cacciatrice. «Era il mio primo anno di scuola materna. Per Silvia era il suo terzo ed ultimo.
«Erano tutti fuori in giardino a giocare, le suore... Anche loro giocavano con noi. Le più anziane erano sempre sedute con in braccio i più piccoli che erano ancora assonnati dopo la nanna o che non avevano semplicemente voglia di correre.
«Io ero rimasta in aula. Non so esattamente perché, sentivo solo il bisogno di starmene per conto mio. A pochi tavoli da dove stavo disegnando io, stava disegnando anche Silvia. Non era la prima volta che la vedevo, ma era la prima volta che riuscivo a rivolgerle la parola.
«Mi sedetti affianco a lei e vidi che aveva la gamba sinistra un po' troppo voluminosa e al piede uno scarpone troppo grande per una bambina. Allungai il collo e capii che si trattava di un'ingessatura così tornai in piedi, presi un pennarello rosso e mi diressi alla sua sinistra. Le alzai un po' il pantalone e le disegnai una stella sul gesso. Era l'unica macchia di colore su tutta la tela bianca.
«Lei allora mi fece vedere il suo disegno, ma non lo ricordo, sono passati troppi anni, però ricordo che subito dopo le chiesi se voleva giocare con me e da lì...» Catherine sentì la sua voce tremare. Raccontare quella storia di solito piaceva ad entrambe. Incrociò lo sguardo con Arimane. Occhi assenti, lontani, ma nessuno ci fece caso. «Da lì in poi diventammo sorelle. Il corso delle nostre vite ci ha divise tante volte quante ci ha fatte ritrovare. Nulla ci può dividere.»
«È come se voi due aveste lo stesso legame dei mie genitori» commentò Emma.
Il Dottore fu felice che qualcun altro ci avesse fatto caso, ma ora la priorità era un'altra: «Cathy, grazie» le disse e subito dopo, però, guardando Arimane, intuì che il suo tentativo era stato totalmente vano. «Silvia?» la chiamò, ma Arimane rise, dapprima solo sommessamente, poi più diabolico. Il Dottore alzò la guardia e indietreggiò assieme ad Emma e Regina.
«Se vuoi, le lascio spazio» disse Arimane rivolgendosi a Catherine. Non le lasciò il tempo di rispondere: chiuse gli occhi e li tenne così finché il suo volto non mutò espressione: fu Silvia a riaprirli.
«Sis'?» sussurrò Catherine, incerta. Vide i suoi occhi scuri e preoccupati cercare qualcuno o qualcosa oltre lei.
«Dottore! Cosa sta succendo?» urlò Silvia e scoppiò in lacrime. Il Dottore fece qualche passo nelle rumorose foglie e le fu subito di fronte, affiancando Catherine. «Ricordo solo di essere uscita dalla tavola calda e che uno strano fumo nero mi è entrato dentro e...» La voce le si spezzò, non ci capiva più nulla; sentiva un grande vuoto che non riusciva a colmare e nemmeno ne sapeva il motivo.
«Silvia, stai tranquilla, lo tireremo fuori, te le prometto.»
«Le tue promesse sono quasi sempre vane, Dottore» disse Silvia in un tono così gelido che l'alieno capì subito che l'essere lasciata nell'America di un universo parallelo non l'era ancora andata giù. «Lui, piuttosto» aggiunse indicando Catherine. «Chi è?»
La piccola cacciatrice sentì il vuoto sotto ai piedi. Quella domanda suscitò in lei emozioni contrastanti: felicità nell'essere scambiata per un ragazzo con quei capelli corti, trucco pari a zero e gli abiti acquistati nei reparti maschili; senso di abbandono poiché la sua migliore amica non l'aveva riconosciuta. «Silvia» disse piano. «Sono io, la tua sorellina.»
«Impossibile» controbatté Silvia. «Sono figlia unica.» Nessun accenno all'averla scambiata per un ragazzo, ma solo con quella sua risposta notò un brusco cambiamento in quella ragazza. Un umore così profondamente turbato che preferì virare il suo sguardo sulle cose più importanti per lei in quel momento. «Se avete un piano, non azzardatevi a dirlo ad alta voce: lui sente tutto.» Vide il Dottore annuire e pensò che non sempre quel simpatico nomade aveva un piano e, se lo aveva, era pessimo e si doveva sempre ricorrere ai ripari più disperati. «Perché voi avete un piano, vero?»
Il Dottore si strofinò le mani e deglutì senza una risposta. Tuttavia disse lo stesso: «Certo! Che domande! Certo che abbiamo un piano e, visto che sente tutto, è anche molto efficace. Permanente! Non avrà più modo di fuggire.»
Silvia si rasserenò. Notò ovviamente che il tono di voce dell'alieno era così alto che chiunque si sarebbe accorto che il Dottore stava mentendo, ma volle credergli comunque: era la sua unica speranza. In quanto alla ragazza che sosteneva di essere sua sorella... Sperò vivamente che il Dottore riuscisse ad aiutarla. «Okay, però fate in fretta: vuole agire stanott-» Poi tossì. Un colpo. Due. Il quinto le fece uscire le lacrime dallo sforzo. Il settimo la fece ridere. Al nono era tornato Arimane. «Tempo scaduto» disse rauco.
«Cosa le hai fatto?» Catherine stringeva i pugni per scaricare la sua energia solo mentalmente.
«Mhm» finse di pensare Arimane. «Le ho cancellato la parte più insignificante della sua memoria. Cioè te.» Arimane guardò in alto; il cielo tra il fogliame si stava scurendo. Mancava poco.
«Razza di-»
«No!» esclamò il Dottore tenendosi Catherine stretta a sé. «Non fare il suo gioco, Cathy: se tocchi i confini del Nodo, lo spezzi e ti fai pure male!»
Catherine si placò ricordandosi un particolare. «Credo...» balbettò. «Credo di averlo sfiorato, poco fa.»
«Cosa?» Il Dottore non era mai stato così terrorizzato, nemmeno quella volta sulla spiaggia con l'astronauta.
«Mi spiace, scusa, non lo sapevo! Ero talmente arrabbiata che avrei voluto spaccargli la faccia e mi ha fermata solo il fatto che il corpo fosse quello di Sivlia e-»
Il Dottore si strofinò la fronte e poi gli occhi. Le mise una mano dietro la nuca e l'attirò a sé per abbracciarla. Arimane era schifato. Poi il gallifreyano si girò verso le altre due donne. «Ci serve un piano. E alla svelta.»
«Fermi tutti» esclamò Regina, sguardo fisso sul terreno. Fece segno loro di seguirla per non essere a portata d'orecchio per Arimane. «Ho la soluzione. Nella mia cripta custodisco da sempre un oggetto magico, molto simile al Vaso di Pandora.»
«Non dire altro» sorrise il Dottore. «Io e Catherine restiamo qui a controllare che il Nodo regga, voi due, invece, andrete a recuperare quell'oggetto.»
Emma e Regina annuirono, poi sparirono in una nuvola di denso fumo viola.

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Capitolo 31
*** Capitolo 26 - Rescue Me ***


CHAPTER XXVI
Rescue Me*


Camminavano in silenzio, guardando per terra. Le foglie si sbriciolavano sotto i loro piedi mentre le due donne si dirigevano verso la città. La bionda solo più leggermente avanti rispetto alla mora a non pensare al buio ormai padrone della notte imminente il quale non le aiutava a capire se stessero girando intondo o se si stessero davvero dirigedo verso la città.
«Davvero avresti rischiato tutto per quell'essere?» disse Emma d'un tratto, guardando Regina di sottecchi dietro di lei. «Ad Henry non ci hai pensato? Oltre a tutta Storybrooke e al resto di questa realtà e tutte le realtà, ovviamente.»
«Certo che ci ho pensato» rispose Regina seccata; «Ma...»
«Ma cosa?»
Regina continuò a camminare senza risponderle; mosse leggermente una mano e produsse una sfera blu tendente al nero. Non è bianca, ma almeno è luminosa, pensò. «Era come se non volessi farlo, ma non potessi fermarmi» disse infine. «Il Nodo era senza alcun dubbio già danneggiato e-» Non aveva più Emma affianco a sè. Si voltò e la vide una decina di metri indietro.
«Regina» sussurrò Emma. «Dobbiamo sbrigarci.»
Preoccupata, Regina raggiunse Emma e guardò nella direzione che la bionda le indicava: tra gli alberi – alcuni caduti, altri solo un po' ammaccati – ruotava sospesa in aria un agglomerato nero; gridava aiuto, Regina lo percepiva.
«Credo che sia la magia di Arimane» spiegò Regina, ammaliata da cotanta disperazione. «Tu la senti?» Ma Emma fece cenno di no: che Arimane avesse creato un legame tra loro due? «Forse è questa cosa che ha giocato con la mia mente poco fa. Lo sta aspettando, si è persa.»
«Questo vuol dire che se non ci sbrighiamo, Arimane farà il suo primo check sulla sua lista.»
Regina non se lo fece ripetere due volte: al diavolo il profilo basso! Un altro vortice di fumo le avvolse partendo dai loro piedi fino ad arrivare alle teste e quando sparì, videro la loro cittadina: alberi abbattuti, palazzi attraversati da lunghe crepe, strade aperte in due dalle radici degli alberi più forti e infastiditi.
«Dividiamoci!» esclamò Emma. «Tu vai dritta alla cripta a prendere il Vaso di Pandora mentre io cercherò Tremotino.»
«Okay» annuì regina. «Però non si chiama Vaso di Pandora.»
«Regina, non abbamo il tempo di dargli un altro nome. Vai, corri! Ci vediamo al Nodo!» Il suo era un ordine e, sebbene non le piacesse essere così severa, era l'unico modo per far sì che Regina non prestasse troppa attenzione ad Arimane. La vide allontanarsi verso il cimitero, diretta alla sua cripta come da programma. Emma sospirò: Storybrooke non sarà mai una città normale e tranquilla, disse tra sé e sé.
Lasciò Regina alla sua missione e pensò a come poter convincere Tremotino ad aiutarli. Sarebbe stato difficile, ma ce la doeva fare.


Regina aveva smesso di correre: le facevano male i piedi e, come se non bastasse, aveva cominciato a piovere, ma tanto era quasi arrivata. Cosa avrebbe dato per avere una serata tranquilla, davanti a un camino o con Henry al Granny's... E invece no, un'altra emergenza. E questa volta non era nemmeno colpa sua! Chissà se un giorno gli abitanti di Storybrooke sarebbero riusciti a gustarsi un po' di pace e serenità?
Eccola, era arrivata. Regina aprì la porta della cripta e si chiese se fosse magari arrivato il momento di trasferire tutte quelle cose in un luogo più sicuro e a portata di mano. Andò dritta all'ultima stanza, laddove era solita custodire i cuori dei suoi avversari. Ora, al posto dei muscoli luminescenti, in quei cassetti riposavano incantesimi e talismani; uno fra questi oggetti era proprio il suo obiettivo. Aprì dunque un cassetto e dentro vi trovò un piccolo portagioie adatto a contenere un semplice e poco vistoso bracciale da polso. Era molto pesante e coperto da una stoffa simile al velluto, nero; le giunture erano fatte di un prezioso metallo dello stesso colore dell'argento ma idoneo anche al tocco delle fate. Nel mezzo, sul coperchio, una piccola targa con inciso La potenza del tre è più forte del falso re. Una frase che la diceva lunga.
Regina prese il portagioie, richiuse il cassetto, poi il suo sguardo ricadde sul tavolo colmo di provette vuote o contenenti antidoti ed altri incantesimi o fatture.
Trenta secondi dopo Regina era di nuovo fuori dalla cripta, di ritorno verso il Nodo, e con sé il portagioie e un incantesimo.


Emma era finalmente arrivata davanti la vetrina del negozio di Tremotino. Lo osservava, da fuori, controllare alcuni documenti. Lui l'aveva vista, ne era certa: faceva solo finta di non essersi accorto della sua presenza. Emma inspirò e aprì la porta del negozio per varcarne la soglia.
«Ehi» disse piano Emma.
«No.»
«Avanti, Trem-»
«Ho detto di no» replicò l'Oscuro staccando gli occhi dai suoi documenti.
Emma sospirò. «Perché?»
Ora Tremotino ripiegò i fogli in due e li ripose in un cassetto del suo bancone. Sospirò anche lui. «Sono stanco.»
Emma si avvicinò di più al bancone, scura in volto. Sapeva, era sicura, che l'unico modo per riuscire a coinvolgere l'Oscuro era parlare alle sue paure. «Se vuoi morire, fai pure, Tremotino» disse Emma. «Ma in questa città non ci sei solo tu. Ci sono persone che contano su di noi per porre fine a questa storia nel migliore dei modi. Ci sono donne, bambini e anziani che non sanno come aiutare e hanno risposto la loro fiducia in due donne che a malapena hanno capito cosa diamine stia succedendo.» Una ciocca di capelli biondi vibrò e si staccò dal resto della capigliatura ricadendole sul viso, ma lei non se ne preoccupò, mentre Tremotino pareva del tutto indifferente a quelle parole. «Se non ci aiuti, Arimane vincerà. Dannazione, sta già vincendo! Prenderà Storybrooke e la raderà al suolo, di noi non resterà nulla e poi passerà ad altre città oltre i nostri confini!» urlò Emma. «Non possiamo uscire dai confini di Storybrooke, Tremotino. Quindi quando sarai nell'angolo e non riuscirai a strappare uno straccio di contratto con quell'essere, cosa farai? Ti rassegnerai e basta? Fine dei giochi?» disse Emma, ora più calma, ma voleva sottolineare un concetto e perciò si avvicinò di più al viso dell'Oscuro e quasi in un sussurro finì: «Ti arrenderai alla morte e trascinerai Belle con te?»
Silenzio. Tra le strade della città delle favole non si udivano nemmeno gli uccellini e dentro il negozio di Tremotino il ronzio insistente del silenzio era ancora più assordante.
L'Oscuro, toccato nel profondo, abbassò lo sguardò sul bancone e chiuse gli occhi. Emma, ancora una volta, aveva ragione: nessuno aveva scampo.


«Non so se ce la faccio, Dottore.» Catherine si era seduta lontano da Silvia, da Arimane, con le spalle contro un albero. «Anzi, sono totalmente sicura che non ce la farò.»
Il Dottore si sedette proprio di fronte alla piccola cacciatrice, con le gambe incrociate e lo sguardo serio ma per nulla severo. «Perché pensi questo?»
Catherine giocherellò con il suo ciondolo a forma di pentacolo. Rimuginò a lungo e attentamente su come trasmettere al Dottore i suoi pensieri. «Io sono la Luna, lei è il Sole. Silvia vede sempre il lato positivo delle cose mentre io non ci riesco. È lei che trova il modo pratico di fare le cose, io penso e basta» disse tirando su col naso e scacciando una lacrima con la manica della giacca.
Il Dottore non si mosse, perfino i suoi capelli rimasero immobili, e la studiava. Non aveva mai avuto quell'occasione prima d'allora e così ne approfittò. «Tu puoi anche essere la Luna e brillare di una luce che non è la tua, Cathy. Ma le stelle sono le tue fidate amiche» le disse il Dottore. «I tuoi soldati.»
«I miei soldati?» chiese lei confusa. Arimane che cercava di ascoltare senza riuscirvi.
Il Dottore annuì e le sorrise. «Sì. La tua schiera di soldati pronti a combattere per farti riavere il tuo Sole. Una scorta di piccoli puntini luminosi che ti guiderebbero ovunque. Basta solo chiedere.»
«E cosa dovrei mai chiedere, io, alle stelle?»
«Un'eclissi.»


Tremotino uscì dal negozio accompagnato da suo fedele bastone da passeggio e da Emma. Chiuse a chiave la porta e il suo sguardo volò fino a una finestra sull'altro lato della strada. Una bambina lo guardava e pregava. Bae, pensò. Ripose le chiavi nella tasca del cappotto e sparirono entrambi in una nuvola di fumo.
Riapparvero poi dove ancora brillava il Nodo; qualche istante dopo ecco tornare anche Regina.
«Ho portato qualcosa che ci potrà aiutare» disse l'ex regina cattiva. Porse il pugno chiuso a Catherine e le lasciò cadere nelle mani a coppa una fialetta con un liquido al suo interno. «Emma, tu tieni il... Vaso di Pandora» disse affidandoglielo, poi guardando Tremotino: «Grazie.»
«Cos'è?» chiese Catherine studiando la fialetta che Regina le aveva lasciato tra le mani.
«Un incantesimo del Sonno.» Regina la prese per il braccio e l'allontanò da Silvia ancora di più – ovviamente il Dottore fu la loro ombra. «Basterà berlo e pensare a Silvia. Vi addormenterete entrambe e Arimane non avrà potere. Così potrai risvergliare la memoria della tua amica e questo indebolirà Arimane.»
«Non è pericoloso?» Catherine era dubbiosa. Di sé, dell'incantesimo, di tutto. Era sempre così. Finché non aveva successo nel risolvere la situazione, non credeva mai di poterci riuscire. «Forse è meglio che lo beva il Dottore, io potrei fare solo danni.»
«Cathy.» Il Dottore prese la fialetta dalle mani della ragazza e ora gliela sventolava davanti agli occhi e con quell'enfasi c'era il rischio che la fecesse cadere e addio a Silvia. «Sai perfettamente che mi getterei nelle fiamme per salvare coloro che amo e berrei l'incantesimo al posto tuo se questo aiutasse a riavere Silvia.» Le rimise la fialetta in mano e le prese il viso affaticato, stanco, appesantito. «Ma solo tu conosci Silvia a tal punto da farla ricordare. Tu e solo tu sei essenziale e fondamentale nella sua vita. Senza te, Silvia non sarebbe la ragazza che è oggi. Guardala» disse poi indicandole l'amica, sorvegliata da Emma e Tremotino. «Lei è così non a causa tua, ma grazie a te. Siete un punto fisso nella storia dell'universo. I Winchester, Thor e Loki, Miguel e Tullio. Storie diverse, stessi punti fissi a reggere tutto il resto. La scrittrice delle vostre avventure non ha messo le parole lì a caso, ma ha scritto perché la vostra storia passasse un messaggio: sorellanza al di là del legame di sangue
Catherine abbracciò il Dottore e pianse, bagnandogli la giacca in tweed, uno sfogo veloce perché non vedeva l'ora di scacciare Arimane a calci nel fondoschiena. Si asciugò le guance salate e andò di gran carriera verso il Nodo. Stappò la fialetta e guardò Arimane. Lui ricambiava la sfida. «Yo-oh, beviamoci su» disse la cacciatrice, poi trangugiò l'incantesimo e cadde a terra seguita da Silvia.


I movimenti erano lenti, come se fosse stata sott'acqua e impossibilitata a correre. Non sentiva freddo nonostante i corridoi con le finestre spalancate e cigolanti per la corrente. Catherine udì dei bambini in lontananza. Ridevano e urlavano di gioia. Poi i capelli corti di Catherine si rizzarono e qualcosa la richiamò. Volse il suo sguardo sulla sua destra, oltre una porta bianca con su di essa il disegno di un trenino arancio a vapore. Sentì qualcuno, aldilà della porta, canticchiare sommessamente, una melodia inventata e prodotta a bocca chiusa. Catherine entrò in quell'aula aspettandosi, dall'età della voce, tavole periodiche e segni inconfondibili di adolescenza, tuttavia grandi cartelloni con disegni astratti, foglie e foto di gruppo erano i padroni di quelle quattro mura punteggiate qua e là da fogli più piccoli con persone, animali o semplici alberi o case.
Non era come lo ricordava, ma Catherine era certa che quello fosse nient'altro che la sua scuola materna. Quindi ne dedusse che quella ragazza in fondo all'aula che le dava le spalle e che aveva una gamba ingessata fosse proprio Silvia.
Catherine avvertì dei lunghi brividi che dal collo le arrivarono fin giù alle ginocchia; non disse nulla e avanzò.
Silvia si fermò e cambiò matita, ne prese una azzurra e cominciò a disegnare il cielo: una riga orizzontale che correva lungo la cornice superiore del foglio.
«Posso sedermi?»
Silvia continuò a disegnare.
Allontanata la sedia dal tavolo, Catherine si sedette e solo allora riuscì effettivamente a notare con quanta fatica Silvia teneva le lunghe gambe sotto il tavolo dei bambini. «Ti va di giocare?» Glielo chiese con la speranza che solo quella domanda avesse compiuto il miracolo.
Allora Silvia smise di disegnare e posò la matita sul banco colmo di pastelli di ogni genere. Sembrò funzionare, tuttavia la cacciatrice disse: «Non ti conosco.»
«Sono Catherine» rispose sorridendole. « Ora sai il mio nome, mi conosci e possiamo gioc-»
«Ho come la sensazione di averti già incontrata. Come una personificazione di un sogno.»
«Senti, voglio essere diretta» disse Catherine, d'un tratto seria. «Noi due siamo migliori amiche sin dal tuo terzo e mio primo anno di scuola materna. Siamo inseparabili e così profondamente legate che ci sentiamo sorelle.» Catherine riprese fiato e guardò Silvia accigliarsi. «Io sono qui per davvero, non sono frutto della tua immaginazione, però questo è un sogno. Il ricordo alterato del nostro primo incontro. Probabilmente Arimane mi avrà spostata all'esterno dell'aula, modificando la giornata più imporante delle nostre vite, ostacolando il destino e-»
«Arimane...» Silvia fissava il vuoto. «Sì, questo nome mi è familiare, dove l'ho già sentito?»
«Nella realtà!» esclamò Catherine felice come una Pasqua. «Dobbiamo assolutamente sconfiggerlo, ma non riesco senza il tuo aiuto, Silvia!» La giovane cacciatrice sentì il sangue pomparle in testa con la violenza che solo l'adrenalina sapeva creare. «Ho bisogno che tu riprenda le redini per disarcionare quel demone, solo così riusciremo a intrappolarlo per sempre. E per farlo... Devi ricordare.»
Silvia sospirò. «Sembra un piano bellissimo. Ma cosa dovrei ricordare?»
«Il nostro giorno» disse Catherine posando una sua mano sul ginocchio dell'amica. «Questo giorno.»
Quel contatto, così semplice eppure così importante, fece scattare in Silvia qualcosa di inaspettato che era rimasto lì sepolto nella sua memoria per ore fino a che non vide le dita di Catherine, le stesse dita che adorava seguire – con scarso successo – mentre correvano veloci come il vento sui tasti del pianoforte di casa Girado. Un'immagine bene impressa nella sua mente, che la fece ripiombare nei ricordi di quelle giornate passate a casa della sua migliore amica e in cui non facevano altro che divertirsi con un po' di musica. Anime innocenti e inconsapevoli di ciò che le attedeva alla fine del liceo.
«Ricordo...» Silvia sussurrò questa parole con occhi sognanti e pieni di momenti felici e anche un po' meno felici. «Ricordo tutto. Tu sei la mia sorellina. A volte ti chiamo Alce, ma non ti piace, preferisci Moose. Sul mio gesso avevi disegnato una stella. Ti sei sottoposta ad un rituale filippino del Terzo Occhio.» Silvia si alzò in piedi e guardò verso l'uscita dell'aula. Catherine non lo vedeva, però Arimane era lì, nell'ombra, nelle sue vere sembianze; le sembrava quasi impotente. «Ti piace il tè alla pesca, il cocco, il cioccolato e il torrone. Gli Hollywood Undead. E la cicatrice che hai in fronte te la sei fatta giocando alle elementari, andando a sbattere contro il termosifone» proseguì con un sorriso. «Ricordo tutto. Ricordo la mia promessa: non ti abbandonerò mai.»
Catherine la guardava a bocca aperta, meravigliata da ciò che era appena accaduto dinnanzi ai suoi occhi: l'eclissi.
«Ricordo tutto» ripeté Silvia ora in un tono di voce più deciso e meno dolce del solito. «Facciamola finita.» Poi, come se l'effetto "fondo piscina" fosse terminato all'improvviso, Silvia si lanciò in una corsa contro l'uscita dell'aula preparando attorno al suo pugno destro un grosso e minaccioso globo di fuoc-
Catherine si risvegliò di sopprassalto, col fiatone. La prima cosa che le venne naturale fare fu girarsi subito verso Silvia e tirarsi su a sedere: la sua compagna d'avventure e di sventure era ancora stesa sulla terra umida e fredda, ansimava e sembrava in preda a un incubo. Ce l'aveva fatta, ma a quale prezzo? Non potevano certo sapere se Silvia sarebbe riuscita a tenere a bada Arimane il tempo necessario a loro per imprigionarlo definitivamente. «Veloci!» esclamò quindi. «Adesso o mai più!»
Regina era tornata in possesso del Vaso; lo posizionò a terra vicino al bordo del Nodo e prese Emma per mano. «Circondiamo il Nodo.»
Catherine cercò di avvicinarsi a Silvia stando questa volta attenta a non sfiorare nemmeno per errore l'incantesimo di prigionia. «Tieni duro, sis, ce la faremo.» Si rialzò in piedi e prese posto al fianco del Dottore.
Dunque fu così che mentre Henry orbitava – un po' in collera col Dottore – sopra Storybrooke senza meta, Uncino e gli Azzurri tenevano al sicuro gli abitanti della città delle fiabe e io, umile narratrice, pensavo a come tutto non potesse essere evitato nemmeno non salvando l'Arcangelo Gabriele, Emma, Regina e Tremotino si tenevano per mano e cercavano di porre fine a quelle terribili ore. Hanno fatto loro il lavoro sporco, sì, è vero, ma d'altro canto avrei potuto farlo io?
«Ripetete con me» disse Regina agli altri due. «La potenza del tre è più forte del falso re.» Aspettò qualche secondo poi disse nuovamente la stessa formula e questa volta Regina venne seguita anche da Emma e Tremotino, diventando un coro tendente alla perfezione.
Fu allora che Silvia spalancò gli occhi e cominciò a urlare.

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Capitolo 32
*** Capitolo 27 - Everybody ***


CHAPTER XXVII
Everybody *
(OMG We're Back Again)


Una cantilena continua, sempre uguale, che si insinua nel cervello e ti confonde. Le parole cominciano ad essere più reali, fisiche, le vedi galleggiare attorno a te e prendono il posto degli effettivi oggetti nell'ambiente circostante. Quella forma di cantilena quasi clericale che ti fa pian piano assopire e perdere la cognizione del tempo avrebbe avuto lo stesso effetto sul trio magico di Storybrooke se non fosse stato per le urla provenienti dal Nodo: «Smettetela! Smettetela, fa male!» continuava a a strillare, ma Catherine era prontamente intervenuta, conoscendo Silvia come le sue tasche: «Non è Silvia, continuate!»
E così la cantilena proseguì, ma Arimane sembrava non voler cedere. Si ritrovò in ginocchio, sempre ansimante e con le orecchie tappate dalle mani. Maledisse quella gente, il suo creatore e tutti i creatori. Se lui era in quella situazione, la colpa non era tutta sua: non fu lui a scegliere di nascere, né come diventare. Mosso da queste tesi, la divinità riuscì a muovere le gambe dell'umana posseduta fino a rialzarsi, traballante, in piedi.
«Così non va bene» disse il Dottore in tono grave. «Assolutamente no. Cathy, un passo indietro.» E, detto questo, sfoderò ancora una volta il suo cacciatore sonico. «Devo riuscire a fare in modo che l'incantesimo lanciato sia più potente.»
«Invertire le polarità?» la buttò lì Catherine.
Ma il Dottore scosse la testa. «No, farei solo scoppiare il Nodo e allontanerei anni luce le onde prodotte dall'incantesimo» le rispose guardando il suo marchingegno sonico.
«Moltiplicare le onde?» accennò ora la cacciatrice mentre la cantilena andava avanti.
«Genio!» esclamò il Dottore. «Ma non per un numero qualsiasi. La formula dell'incantesimo lo sottolinea ripetutamente!»
«Per tre?»
Per risponderle, il Dottore mostrò una bellissima fila di denti splendenti. «Esatto» disse entusiasta. Puntò subitamente il cacciavite sonico verso il suo obiettivo, il Nodo. Lo azionò e l'aria vibrò facendo urlare Arimane ancora più forte.
«Ci siamo quasi, lo sento» sussurrò Catherine. Non riusciva a staccare gli occhi dal Nodo; già gioiva per quello che sarebbero riusciti a fare e soffriva per come ne sarebbe uscita ammaccata Silvia stessa. Si meravigliò dei suoi pensieri parzialmente positivi e sorrise.
Tutto apparve fermarsi per un attimo, senza preavviso. Tutto tranne loro. La cantilena si spezzò quando Arimane fissò un punto nel vuoto. Il sangue che colava dal naso e da un orecchio.
Interminabili secondi durante i quali ai presenti sembrò di morire. Arimane ancora in ginocchio ora prese a tossire e a prendere coscienza di quello che sarebbe successo. Tossì più forte e frenò la caduta in avanti con le palme delle mani. Alzò lo sguardo e fissò Catherine negli occhi. Per la prima volta in tutta la sua esistenza sentiva di provare quel sentimento umano che chiamano paura, ma era troppo orgoglioso per darlo a vedere. «È tutta colpa tua, mocciosa.»
Catherine forzò un sorriso e si avvicinò alla divinità imprigionata, appollaiandosi davanti al Nodo dopo che il trio magico di Storybrooke si fu allontanato di qualche passo. «Assolutamente» disse. «E sono in pace con me stessa.» Poi si tirò nuovamente su in piedi e sentì Arimane tossire ancora e ancora, sempre più forte finché non sembrò soffocare e lo vide mettersi le mani al collo.
«Ci siamo» preannunciò Regina. «Solitamente il nemico viene intrappolato anche fisicamente, però qui è diverso: sono curiosa.»
Catherine la annientò con lo sguardo. «E me lo vieni a dire adesso?!» Tutte le certezze che si era costruita per affrontare al meglio la situazione erano crollate come un castello di sabbia in riva al mare durante la marea. Preoccupata, d'istinto prese la mano del Dottore; aveva paura. Rivisse l'esorcismo di Rebecca nel suo liceo. Stessi brividi, stessa esaltazione nel salvare qualcuno. Però questa volta nella trappola non c'era una ragazza qualunque, ma un pezzo del suo cuore. Guardò come gli occhi di Silvia continuassero a riempirsi di lacrime, probabilmente per lo sforzo. Strinse la mano del Dottore ancora più forte, percependo il suo sguardo preoccupato. «Andrà tutto bene» gli disse, ma era rivolta più a se stessa che a chiunque altri.
Poi una nuvola di fumo scaturì fuori dalla bocca di Silvia riempiendo l'aria all'interno dei confini creati dal Nodo, come un enorme cilindro, avvolgendo così la cacciatrice e facendola sparire dalla visuale dei presenti. Il terreno illuminato dalla magia del Nodo si spense, segno che esso si era aperto, e così il cilindro di fumo nero rimase sospeso in aria, confuso come Willy il coyote prima della caduta libera giù da un burrone. E solo un attimo più tardi, come tutto era cominciato, finì: il Vaso si aprì di scatto risucchiando il fumo, intrappolando Arimane e lasciando Silvia stesa a terra.


O così pensarono. Difatti, quando il fumo venne totalmente risucchiato dal Vaso, sentirono tutti come un'onda d'urto e gli occhi di Catherine si spalancarono sconvolti. «Silvia, no» disse in un sussurro.
«Non è possibile» disse Regina. «Non capisco.»
«Regina» la chiamò Emma, «forse il Vaso non ha avvertito la differenza tra Arimane e Silvia. C'è un modo per tirarla fuori di lì?» chiese indicando il portagioie magico.
«Non senza liberare anche Arimane.»
Catherine corse più vicina a dove prima c'era il Nodo e, sotto gli occhi del Dottore, raccolse il Vaso e provò ad aprirlo, senza successo.
«Ci vuole un incantesimo, tesoro» disse Tremotino riprendendo in mano il suo bastone da passeggio.
«Aprilo!» urlò Catherine allungando il Vaso a Regina. «Tirala fuori, ti prego.»
«Cathy.» Il Dottore la affiancò e le prese una mano. «Se liberiamo Silvia, liberiamo anche Arimane.»
«Non mi interessa! Lei ha promesso di restare al mio fianco! Lo ha promesso!»
Il Dottore guardò il cielo e strinse la ragazza in un abbraccio, sottraendole il Vaso per restituirlo a Regina. Sentì Catherine non riuscire più a reprimere tutto, un urlo, un pianto, una rabbia tremenda. «Cathy...» L'alieno non sapeva cosa dire, le parole che pensava per poter rassicurare e far sentire meglio la sua amica umana sembravano tutte idiozie, così optò per un classico: «Mi dispiace.»
«Dovremmo tornare in città.» Regina lo disse in tono di scuse, si sentì a disagio a dover interrompere quell'istante, il momento in cui ti accorgi che una parte di te se n'è andata per sempre, in cui sai che ti rimangono i ricordi ma hai comunque un vuoto sotto i piedi e lo avrai fino alla fine dei tuoi giorni perché, nonostante gli sforzi fatti, da solo o assieme, chi non c'è più, non c'è più e basta. Fine.
Catherine lasciò il Dottore e in un primo momento vide di fronte a lei solo un muro di fumo, forse viola, poi nuovamente le strade di Storybrooke. Come in un sogno, la piccola cacciatrice percepiva la presenza di altre quattro persone vicine a lei, ma non le distingueva. Camminava, inoltre, senza avere la benché minima consapevolezza di essere lì. È un incubo, continuava a ripetersi.
Arrivarono al Granny's senza che Catherine se ne fosse accorta. Entrarono nella tavola calda e ad attenderli vi erano Belle che si precipitò da Tremotino, gli Azzurri e Uncino che si riunirono ad Emma e vari altri cittadini.
Regina alzò il Vaso. «È finita.»
A quelle parole, Catherine reagì rendendosi conto della realtà: il suo yang perso per sempre. Vide tutti attorno a lei sorridere. Tutti tranne il Dottore, che le rimase accanto finché non notò l'espressione persa della ragazza.
«Cathy, vuoi tornare a casa?» le chiese prendole una mano.
La cacciatrice rimase a fissare gli occhi del Dottore perdendosi nelle sue iridi stanche. Volse lo sguardo e notò che Belle aveva con sè un paio di libri sull'universo, forse quelli per comprendere tutta quella vicenda del Dottore e le crepe spazio-temporali. «No.»
Il Dottore si accigliò. «No?»
«No» ripeté Catherine. «I libri.»
«I libri? Cosa vuol dire i libri
Catherine lasciò la mano del Dottore e si fece largo tra la folla felice di essere salva – per lo meno da Arimane – e si diresse da Belle. «Belle!» la chiamò a gran voce. «Belle, dov'è la biblioteca?»
Confusa, Belle la guardò un istante senza capire. «Catherine, Tremo mi ha detto di Silvia, mi dispiace...»
«Belle, la biblioteca!»
«Ma... Perché vuoi andare in biblioteca adesso?» Nel locale scese il silenzio. Belle vide Regina avvicinarsi e ascoltare.
«È lì che si trova Silvia» esclamò Catherine. «Tra i libri, come ha detto la cartomante!»
Senza fare altre domande, Regina fece sparire Catherine in un nuvola viola con un semplice gesto della mano e il locale si ammutolì.
«Bene!» disse il Dottore sfregando l'una contro l'altra le mani screpolate. «Riportiamo a casa Henry.» Azionò il cacciavite sonico avanti a sè ed il TARDIS vacillò nel Granny's finché si stabilizzò e atterrò. Henry era tornato.


La nube si dissolse nell'aria fresca del Maine e Catherine potè vedere l'insegna della biblioteca. Col cuore in gola, entrò. Sapeva che al'interno dell'edificio non avrebbe trovato Arimane, ma non sapeva se avrebbe trovato Silvia.
«C'è nessuno?» La sua voce echeggiò lungo gli interminabili scaffali colmi di libri. Passò le dita affusolate sui dorsi impolverati e poco consultati. «Silvia?» chiamò, ma il silenzio che c'era metteva i brividi. Poi, d'un tratto, come per rispondere alle domande di Catherine, un libro cadde, aprendosi.
La giovane cacciatrice si voltò verso la fonte del tonfo cartaceo e vide il libro aperto per terra a circa dieci corridoi da lei. Lo guardò a bocca aperta per un po', il tempo necessario per realizzare, poi corse più veloce che poté , raggiunse il libro che aveva il fiatone ma non se ne accorse; si abbassò per vedere meglio di che libro si trattasse e vide se stessa in una biblioteca, accucciata a terra guardare un libro. Lo chiuse velocemente e la copertina la fece tremare, anche se non si sentì sorpresa: c'era scritto Once Upon A Time. Rieccolo. Catherine deglutì e puntò lo sguardo verso il corridoio che il libro sembrava volerle indicare. Scorse una figura femminile, riccia, stesa a terra...
«Silvia» sussurò quasi incredula di quello che le mostravano gli occhi. Camminò svelta con la paura che potesse essere tutto un'illusione, che Silvia potesse sparire all'improvviso. Quando arrivò da lei, si abbassò e la scosse. Notò che Silvia non reagiva e si allarmò; indice e medio premuti sul polso della sua migliore amica: il battito c'era e pure normale. La scosse ancora e finalmente la sentì mormorare qualcosa di incomprensibile.
«Silvia!» urlò Catherine con lacrime di gioia che le rigavano le guance che solo ora stavano riprendendo colore.
«Buon appetito» sembrò dire la cacciatrice più grande, con gli occhi ancora chiusi. Quando li riaprì, le venne da ridere.
Catherine, insospettita, le chiese: «Cosa c'è?»
«Niente» rispose Silvia tirandosi su a sedere. «È che siamo in una biblioteca» rise. «Sabrilla aveva ragione.»
Spinta dall'entusiasmo per aver riavuto parte della sua vita – volete per il Destino o perché hanno veramente ascoltato la cartomante – Catherine si lanciò in avanti per abbracciare Silvia, ributtandola ancora una volta a terra. Terminate le effusioni fra sorelle non di sangue, si ricomposero e sentirono la porta d'ingresso dall'enorme biblioteca aprirsi. Si alzarono in piedi e andarono incontro al rumore prendendo però, prima di incamminarsi nel corridoio centrale, il libro, il loro angelo custode.
Dalla porta d'ingresso fecero capolino Regina, Henry, i tre Azzurri, Uncino ed il Dottore. Questi si fermò sulla soglia e sorrise. Sapeva che ce l'avrebbero fatta; il futuro può cambiare in base alle scelte che facciamo, è vero, ma universo che vai, punto fisso che trovi.


E finì così. Con Catherine e Silvia a festeggiare con tutta Storybrooke che riempiva il Granny's e le strade. Con il Dottore che rispondeva alle domande di Henry e gli altri ragazzini. Con Tremotino sempre tirato in mezzo anche quando non c'entrava, come al solito. Con Regina che «No, Silvia, la me malvagia spetta solo a me. Salvarti è stato un piacere, ma ora il vostro universo ha bisogno di voi tre» guardando anche l'alieno.
E finì anche per me, che voi ci crediate o meno: finirono i sogni e le visioni sulle due cacciatrici più temerarie che io abbia mai conosciuto, finirono i giorni di litigi tra me e i miei genitori, finì il periodo di stress per il lavoro. Non finirono ahimè i miei giorni da single, ma quello è un altro discorso, temo.
Finì.
E finì anche bene, tutto sommato.


Alla prossima settimana,
Marra

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https://www.youtube.com/watch?v=rZSXpshaHQw (testo destro, apri altra scheda)

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Capitolo 33
*** Epilogo ***


Epilogo

Il Demone, la Strega, il Libro


Compiamo scelte fin da quando intravediamo la luce per la prima volta. Quando l'ostetrica ci picchia il sederino, c'è chi fa finta di nulla e torna a dormire e chi invece urla e strilla per il trauma del cambiamento. Quando mamma ci dice che siamo ormai grandi, al mattino decidiamo noi come vestirci. Decidiamo a quale amichetto sederci accanto per cominciare l'anno scolastico nel migliore dei modi. Quando siamo al ristorante e il cameriere ci si avvicina per prendere l'ordinazione... Insomma, avete capito.
Le scelte che facciamo, dicevo, fanno sì che si crei, ad ogni bivio, un universo parallelo o alternativo in base all'importanza di quella decisione. E così, mentre la mia Catherine studia recitazione per diventare doppiatrice, un'altra sarà al conservatorio, un'altra ancora non mi avrà mai chiesto di giocare con lei. E magari in altri universi io, Catherine, il Dottore... Voi... Forse neanche esistiamo, forse neanche esistete. Ma non pensatela come Bandesnatch: non si può tornare indietro.
O forse sì, ma quella è chiamata seconda possibilità e l'errore commesso non si può cancellare.
Quindi è proprio qui che Catherine fece la sua scelta, ma partiamo dall'inizio.


Fine agosto 2017
«A chi scrivi?» Silvia era entrata nella camera d'albergo in cui avrebbero dormito per l'ultima notte nel loro primo anno da cacciatrici. Nelle mani reggeva due buste Burger King che poggiò sull'unico tavolo della stanza con moquette. Guardò Catherine comodamente sdraiata sul suo letto col telefono a illuminarle il volto stanco ma felice. «È il Dottore?» domandò sfilandosi gli anfibi.
Catherine annuì. «Dice che ha conosciuto una strana ragazza di nome Clara*.»
«In che senso strana?» Silvia riprese i sacchetti take away e ne porse uno a Catherine prima di sedersi anche lei sul suo letto.
«Non lo sa nemmeno lui di preciso» rispose la più piccola prendendo due patatine dal sacchetto medium. «Gli ho chiesto se volesse che indagassimo, ma ha risposto che sarebbe inutile: ci ha già provato lui e non ha concluso nulla.»
«Ti ha dato anche un cognome?»
«No.»
«Allora non vuole che ci immischiamo» disse Silvia ingurgitando patatine e Coca-Cola.
A Catherine scappò un sorriso. «Starai male se non ti dai una calmata, mangia piano!»
Silvia mandò giù il boccone aiutandosi con un pugno sul petto. «L'abitudine» disse e frenò un rutto.
Catherine rispose con un altro rutto. «Meglio fuori che dentro!»
E risero quasi dimenticandosi di essere due cacciatrici, di praticare magia e di aver salvato il mondo.
Tornarono alla realtà grazie ad un nuovo messaggio del Dottore a Catherine. Lei prese il telefono e lesse: «Ah, dimenticavo: il Vaso l'ho portato in un carcere di massima sicurezza su un pianeta lontano anni luce dalla Terra. È chiuso in uno scrigno dentro un baule con tripla chiusura in una cella che si apre solo con le onde prodotte dal mio cacciavite sonico.» Catherine non poteva sentirsi più soddidsfatta di come si sentiva in quel momento.
Anche Silvia era felice di come la cosa si era conclusa: con pochi danni e un passaggio a casa. Poco più di otto mesi prima, infatti, stavano uscendo dalla biblioteca con in mano quello strano libro delle favole. Silvia un po' zoppicante per la botta di sangue al cervello e Catherine che la sorreggeva, come sempre. Avevano poi festeggiato, salutato ed erano entrate nel TARDIS mentre il Dottore ringraziava Regina, Tremotino ed Emma per essere stati così pronti a tutto per loro e si scusò ancora con Henry per avergli mentito. Dopo qualche scossone, il Dottore riuscì ad oltrepassare i confini di Storybrooke, a chiudere la crepa spazio-temporale che aveva causato varcando l'entrata della città e a riportare Catherine e Silvia al Motel Penna.
Le due cacciatrici, dopo un fugace scambio di sguardi, convennero che la cosa migliore da fare fosse lasciare il Vaso al Dottore poiché solo lui avrebbe potuto trovargli una sistemazione adatta.
«Grazie» gli aveva detto Silvia lanciandosi in un abbraccio.
«Perché?» le aveva chiesto il Dottore stringendola appena.
«Perché» spiegò Catherine unendosi all'abbraccio, «se non ci fossi stato tu, non saremmo riuscite a salvare nulla.»
Il Dottore, in cuor suo, sapeva che, in merito alle coordinate che si sarebbe poi inviato dal futuro al suo passato, era lui stesso vittima di un punto fisso nell'Universo: in due determinati momenti della sua vita avrebbe dovuto compiere determinate azioni. Però sì, l'avrebbe fatto volentieri all'infinito pur di aiutare le sue due nuove amiche umane.
Catherine, poi, aveva tirato fuori dalla tasca dei jeans un fogliettino di carta con annotata una serie di numeri. Aveva mostrato il fogliettino al Dottore. «Questo è ancora valido?» gli aveva chiesto. Il Dottore annuì e Catherine rimise il fogliettino in tasca dov'era prima.
Era l'alba di un giorno non ben definito, tuttavia le due ragazze sapevano che giorno fosse: era il giorno in cui erano diventate ufficialmente cacciatrici.


Torniamo quindi all'abbuffata di Silvia. Finito di mangiare e di riposare, al mattino seguente presero le loro cose e lasciarono il motel in cui stavano alloggiando. Silvia accese il motore della Navara e partì. Fecero Montenero – Milano in quasi cinque ore di viaggio, contando anche le varie soste per il bagno, con la compagnia melodica dei Queen, dei Bon Jovi, dei Kiss, degli One Ok Rock, dei Muse e, quando preferivano rilassare la corde vocali, Ed Sheeran ed Elvis.
«Hai già avverito i tuoi che stiamo per arrivare?» chiese Silvia lasciando il Naviglio e svoltando in un quartiere chiamato Giardino, ovviamente ricoperto di cemento.
«Ho scritto a madre mentre eravamo all'ultimo Autogrill. Sono al bar sotto ai portici.» Catherine prese fiato come per aggiungere altro, ma ci ripensò e si interruppe.
Silvia, ovviamente, se ne accorse. «Cos'altro stavi per dire?» le chiese guardandola di sottecchi.
«Niente» mentì la più piccola guardando fuori dal finestrino la scuola elementare in cui si era fatta quella cicatrice sulla fronte.
«Catherine.»
La piccola cacciatrice guardò ora avanti a sé. Erano ferme ad un semaforo. «Ci sono anche i tuoi genitori.»
Un paio di clacson risvegliarono Silvia dai suoi pensieri e ripartì proseguendo dritto. «Okay» disse semplicemente. «Okay» ripeté più piano. Alzò il volume, ma l'ultima canzone dell'unico album di musica italiana che Silvia possedeva – Bianco dei Synesthesia – finì pochi istanti dopo e così le due neocacciatrici rimasero in assoluto silenzio fino a che non arrivarono nei pressi della casa di Catherine.
Silvia parcheggiò di fronte ad una statua a forma di aquila e, quando scesero entrambe dalla Navara, il cielo le accolse plumbeo e silenzioso: sarebbe arrivato un temporale o forse era solo come si sentiva Silvia e mentre questi percorreva quei pochi metri che la separavano dai suoi genitori senza pensare a niente, Catherine sospettava che dopo quella breve festa di bentornato ci sarebbe stata la fatidica domanda. Tuttavia, quella domanda arrivò prima del previsto.
«Quindi cosa hai intenzione di fare?»
Catherine arrestò il passo e deglutì. «A cosa serve inseguire un altro titolo di studio se poi tornerei comunque sulla Navara?» le rispose col cuore in gola. Era la prima volta che esprimeva a voce alta quel pensiero e le suonava bene. Gratificante.
A Silvia mancò il fiato e si ritrovò a fissare Catherine a bocca aperta. «Come?» balbettò. In quel frangente un paio di piccioni sfiorarono la testa di Silvia, spaventandola a morte. La ragazza quasi strillò e, d'istinto, come faceva in Piazza Duomo, si aggrappò al braccio e Catherine e serrò gli occhi.
Alla piccola scappò un sorriso. «Vedi?» le chiese. «Come posso lasciarti sola con mostri e fantasmi se poi due polli ti fanno saltare in aria?» rise.
«Cattiva» mugugnò Silvia, poi la lasciò andare per ripensarci subito dopo e abbracciarla più forte che poteva. La lasciò nuovamente e quindi fecero quegli ultimi passi sul marciapiede e poi salirono gli scalini tempestati di mozziconi e cicche ormai nere; quando varcarono la soglia del bar all'angolo sotto i portici, a Silvia mancò il respiro ed esclamò: «Mamma!»
Una donna minuta e poco più bassa di Silvia si girò in direzione della porta d'entrata e si illuminò. I suoi lunghi ricci sobbalzarono più volte, anche loro felici di rivedere quello stupido viso. Madre e figlia si abbracciarono stringendosi forte come non mai. «Mi sei mancata, stupidina» le disse la madre con le lacrime agli occhi.
«Anche tu, mami.» Silvia strinse la madre ancora più forte. Quando alla fine la lasciò andare, alle sue spalle spuntò alto e calvo suo padre. L'uomo era scuro in volto, tant'é che Silvia pensò che fosse – un'altra volta – arrabbiato con lei per le sue decisioni, ma lo tradì il tremolio del labbro. La ragazza gli sorrise e gli fu al collo senza riuscire ad abbracciarlo bene per la grossa pancia muscolosa ch'egli aveva. Silvia sentì l'odore di suo padre e fu un sollievo sapere di essere a casa. «Papino» sussurrò ad occhi chiusi; poi all'improvviso si ricordò che nella piccola sala del bar c'erano anche i genitori di Catherine e Catherine stessa; si divincolò dalle braccia di suo padre e vide la madre della sua migliore amica accarezzare i capelli quasi a spazzola della figlia mentre il padre si copriva il volto celando le lacrime di gioia.
«E adesso che farete?» chiese qualcuno, ma né Catherine né Silvia avrebbe saputo dire da chi fosse provenuta quella voce.
Le due cacciatrici si scambiarono un lungo sguardo d'intesa. Nessuno tranne loro due lì dentro sapeva la verità e loro stesse non sapevano se fosse stato meglio dire l'ennesima bugia a fin di bene oppure raccontare tutto e non sentire più quel peso sulle spalle. Soppesarono semplicemente la cosa: dire la verità avrebbe scaturito panico e forse qualcuno non avrebbe accettato la loro scelta, considerandole pazze; raccontare frottole da lì per sempre avrebbe impedito ai loro cari di entrare in contatto con quel mondo pericoloso. Quale delle due cose andava fatta? Avrebbero voluto raccontare tutto per proteggerli, ma le due strade non si sarebbero mai potute – e dovute – incontrare e così scelsero la via migliore. Se fosse poi quella giusta, questo io non posso dirlo: mi limiterò solo ad esporvi quanto successe.
«Credo che continueremo a viaggiare» si ritrovò a dire Silvia, la quale già sentiva lo sguardo in disaccordo del padre e tentennò: non sapeva cos'altro aggiungere per rimediare.
«Sì, esatto!» intervenne Catherine a braccetto del padre che la guardava curioso. «Ci hanno offerto di fare da promoter per un'azienda discografica. Un termine carino per dire che dobbiamo andare a caccia di artisti di strada che possano crescere e diventare qualcuno.»
I genitori di Catherine e di Silvia rimasero a bocca aperta finché il cane di un'anziana signora lì nel bar a bere un caffè lungo, macchiato caldo e con due bustine di zucchero non abbaiò rompendo il silenzio imbarazzante, ridestando tutti.
«Be', è...» cominciò il padre di Silvia.
«Meraviglioso!» esclamò la madre di Catherine abbracciando la figlia con entusiasmo vero.
«Quindi ogni quanto verreste a casa?» chiese la madre di Silvia già in pensiero per la sua bimba di ventitré anni.
Silvia e Catherine sorrisero senza pensare a nessuna conseguenza ed insieme esclamarono: «Chi lo sa?»


E così, come avete già capito, Catherine e Silvia iniziarono un nuovo anno pieno di nuove avventure spostandosi continuamente da un motel all'altro, da una città all'altra, portandosi dietro quel pesante libro che sembrava aumentare di volume giorno dopo giorno. La copertina in pelle si scurì sempre di più fino a sembrare mulatta e Silvia poteva giurare che, annusandolo, avesse un odore simile all'incenso alla salvia. Ma quel libro cambiò così lentamente, tuttavia, che le due cacciatrici non poterono accorgersi. Faceva parte del loro armamentario tanto quanto i fucili al sale e i machete o gli altri libri di magia wicca.
Anche la magia di Silvia mutò: tornò ad essere quella semplice wicca che era prima di conoscere il Dottore, solo un pochino più esperta. Non poteva più creare globi di fuoco né comandare i suoi poteri col solo uso del pensiero, ma era felice della sua normalità.
Anche Catherine, dal canto suo, non era più la veggente del duo: continuava sì a fare sogni che le aiutavano nei casi, ma non erano più così chiari come con il Crepuscolo di Latina. Poteva vedere gli spiriti con più facilità grazie ai quotidiani esercizi di meditazione a cui si sottoponeva mentre Silvia dormiva o faceva ricerche, spiriti guida o spiriti da cacciare che ora apparivano più nitidi al suo Terzo Occhio.
E mutò anche il Dottore. Sì, mutò anche lui come avete già letto – o visto, miei cari e fedeli lettori, ma di una cosa ancora vi dovrei parlare: il Libro.
Guardiamo più da vicino...


Una dolce notte di primavera, Catherine e Silvia avevano appena terminato una battuta di caccia. Ventidue vampiri in una volta sola. Erano partite col buon proposito di tenere il conto per ogni vampiro abbattuto così da fare a gara, tuttavia tornarono al motel senza saper dire chi ne avesse uccisi di più. Silvia buttò i machete insanguinati nel lavandino della loro camera mentre Catherine già si preparava per una doccia rigenerante. «Ehi, sis'» la chiamò all'improvviso Catherine da fuori il bagno.
«Hai spostato tu il libro?» chiese la più piccola a bassa voce per non disturbare i possibili vicini.
Silvia chiuse l'acqua del rubinetto e ci mollò dentro i machete ancora mezzi lerci, sbucò fuori dal bagno con la maglia sporca e brandelli di esofago. «Assolutamente no, l'hai messo sotto il tuo letto e lì è rimasto.»
Catherine, seria in volto, alzò le coperte e mostrò all'altra cacciatrice il pavimento occupato solo da qualche accumulo di polvere. «Sparito. Di nuovo.»
Silvia si raggelò all'istante. «Forse la donna delle pulizie lo avrà spostato. Hai controllato nell'armadio?» propose con poche speranze.
Catherine scosse la testa. «Siamo arrivate nel pomeriggio e domani mattina lasceremo la stanza» le disse. «Che senso ha farla venire nel frattempo che eravamo a caccia?» Vide la migliore amica mordicchiarsi il labbro inferiore e sistemò meglio le coperte del suo letto. «Speriamo riappaia, prima o poi.» E detto questo Catherine tirò fuori un comodo pigiama e biancheria pulita per avviarsi nel bagno in cui Silvia terminò di lavare anche il machete di Catherine.
Da lì in poi pensarono spesso a che fine avesse fatto il Libro: apparso dal nulla e scomparso senza lasciar traccia. Di certo non le aiutava con i loro casi, ma era come un fedele compagno, una certezza, quasi un terzo componente del loro gruppo. Non lo aprivano mai: erano assolutamente curiose di leggerne le pagine, ma se solo avessero letto una parola in più, chissà cosa sarebbe successo?
Di certo c'era che il Libro avrebbe sempre vegliato su di loro anche se le due cacciatrici non poterono mai saperlo. Quella notte, infatti, il Libro si rivelò per quello che era.
Fuori dalla finestra della stanza del motel dove Catherine e Silvia dormivano profondamente, la lunga tunica bianca era l'unico punto luce in quella notte senza luna. La pelle della donna era fresca ma senza brividi. Sulla sua spalla coperta da uno scialle di lana bianca si appollaiò un corvo nero come la pece. I capeli bianchi e corti della donna gli sfiorarono le piume mentre ella girava la testa per guardare l'uccello. «Ne hanno fatta di strada, non è vero?»
Il corvo le beccò affettuosamente il collo mulatto. «Cra!» gracchiò.
«Smettila, lo so che sei tu» sorrise la donna arruffando le piume del corvo.
Il pennuto le saltellò sulla spalla con le lunghe zampette ed emise quel tenero verso dei corvi paragonabile alle fusa dei gatti. «Cra! Cra! Ma-» gracchiò ancora. «Ma- Cra! Mar-»
La donna sorrise nuovamente davanti a quegli straordinari sforzi.
Ora il corvo si abbassò, come per concentrarsi meglio e quasi in un sol fiato esclamò: «Mar- Mari- Cra! Mari- Ah! Maria! Maria!»
«Bene, bravo!» esultò Maria, la strega di Lucca. «Hai solo passato troppo tempo nelle sembianze di corvo, che ne dici di tornare come prima, Theck?»
Il corvo la guardò curvando il musetto e spiegò le ali per volare lontano; tuttavia rimase sospeso in aria e girò un po' su se stesso finché, con grande meraviglia della strega mulatta, le ali diventarono braccia, le zampe mutarono in forti gambe e il muso da corvo cambiò aspetto fino a che Theck non fu se stesso, con i piedi ben saldi a terra e la pelle protetta solo dai vecchi indumenti ancora laceri dalla lotta contro Arimane. «È davvero necessario che Catherine e Silvia continuino a pensare che io sia morto?»
Maria accarezzò una mano del demone. Era come se la ricordava, solo leggermente più rugosa. Quanti anni erano passati? Secoli, si corresse. Da quella tavola calda di Galway non avrebbe più voluto uscire quella notte e gli occhi di Theck le dissero la stessa cosa. «Sì, Theck» gli disse Maria. «È davvero necessario. Servirà a non pensare al loro come ad un lavoro come un altro. Sarà un peso che le aiuterà a crescere. Staranno più attente, non solo l'una nei confronti dell'altra, ma anche verso il prossimo. Questa non è più una storia per ragazzi, Theck.» Maria ora guardò avanti a sé, attraverso la finestra buia. «Catherine e Silvia stanno crescendo e dovranno affrontare altri mille pericoli per cui saranno pronte gradualmente.»
«E i primi martiri dovevamo essere noi» terminò Theck abbassando lo sguardo annuendo. «Okay» disse a voce più bassa. «E tu ti sei tramutata in quel libro per tenerle d'occhio» sorrise il demone.
Maria rise con lui, divertita. «Ovvio, non potevo lasciarle sole.» La strega guardò Theck nelle iridi e per un attimo si perse. «Ma ho notato che non sono stata l'unica capace di non lasciarle andare da sole. Bello il tuo trucchetto di sdoppiamento, laggiù nel Labirinto!»
Theck le allontanò una ciocca di capelli dal viso e le accarezzò una guancia fresca. «Potrei dire la stessa cosa di te e del tuo camuffamento.»
Allora Maria sospirò e si passò le mani tra i capelli. Subitamente essi si allungarono, alcune ciocche rimasero sciolte e libere, altre formarono delle trecce, altre ancora si annodarono fino a formare dei lunghi dread e, da bianco latte, si colorarono del verde dei prati di montagna. La pelle si schiarì fino a sembrare aristocratica e delicata come quella di un bambino. Dalle mani fece apparire un paio di occhiali neri da vista che infilò all'istante mentre due piercing bucarono la pelle sotto gli angoli della bocca.
«Ora va meglio» disse Theck soddisfatto. «Così ti ho conosciuta e così ho sempre sognato di riaverti.»
Amnesha sorrise mostrando due fossette sulle tenere guance e tirò un pugnetto sul braccio scolpito di lui. «Tranquillo» disse la strega di Latina. «Maria era solo temporanea, non tornerà più, promesso» spiegò, poi sorrise nuovamente al suo amante infernale e gli strinse la mano.
E rimasero così, l'uno accanto all'altra, nella notte più magica di tutte, dinnanzi ad una finestra da cui potevano vedere solo i riflessi dei lampioni giù in strada e qualche insegna a neon lontana all'orizzonte alle loro spalle. La luna sarebbe apparsa sorridente la notte seguente, mentre Inkheart la ammirava nella sua forma felina, ma Amnesha e Theck non ci fecero caso, persi come due innamorati l'una negli occhi dell'altro, questa volta per sempre.

 

fine


*    *    *

 

RINGRAZIAMENTI


Non ho mai scritto i ringraziamenti, ma credo che a questo giro mi tocchi.
Inizierò da Cathy, ché è la più importante. A lei va tutto il bene del mondo; grazie, sis, per esserci stata sempre. Le parole non esprimono bene ciò che provo per te, mia Dipper.
Grazie a voi, a tutti voi; a chi ha letto dall'inizio, da Correte, la Nebbia sta arrivando, a chi è arrivato dopo, a chi ha sempre recensito, a chi ha seguito in silenzio.
Particolari ringraziamenti vanno a...
Alla mia dolce Rob per avermi ispirata con Amnesha, suo nome ...d'arte, e per avermi voluto bene quando nemmeno io me ne volevo. Grazie, cutie Ty.
Grazie a Marty e a Sayu su due livelli diversi: vi voglio bene, ragazze, grazie per avermi aiutata a rivedere i miei errori di ortografia e i miei errori nella vita.
Grazie a Sarah e a Silvia, le "zie" che ho sempre voluto.
Grazie a Dan che ha saputo dirmi di no, ma con classe, e siamo ancora amici.
Grazie a Melissa Malberti, Penelope Delle Colonne, Vera Winters e Valerio la Martire per avermi dato alcuni suggerimenti sul metodo di scrittura, per avermi allietata con le loro storie o anche solo per avermi dimostrato che scrivere non è solo un passatempo, ma un duro lavoro!
Grazie a Sabrina, mia magika collega che solo io posso chiamare Sabrilla; hai un cuore grande grande grande...
Grazie a tutti i miei colleghi e team leader di lavoro che mi hanno supportata e sopportata durante questo duro anno.
Grazie ad Emi, amico e compagno di battute sconce. Grazie a Valentina perché è italofrancese anche se non lo sa. Grazie a Rory che sembra calabrese, ma in realtà è sarda. Grazie a Schamy che è più bella ogni giorno di più. Grazie ad Elena perché è stupenda e i suoi lavori sono opere d'arte. Grazie a Gabe McCoy per le sue lotte per i diritti LGBT+. Grazie ad Elisa e Federica che mi deliziano con meme e gif fantastici. Grazie a Mars che capisce quando scrivo asajhxbhjsb. Grazie a Marty e a Giuse perché mi assecondano quando lancio sfide. Grazie a Milena, ai meme sull'Esselunga e sull'ATM. Grazie a Nayana perché ha seguito il suo sogno ed è felice. Grazie a Flavia perché mi ha tenuto la mano mentre avevo il cuore spezzato a metà. Grazie a Dean Fox e a Cas Cat perché l'amore vero esiste...
Grazie a tutti, perché elencarvi sarebbe troppo lungo, ma in cuor mio e vostro si sa e si sente la verità. Vi voglio bene perché, in un modo o nell'altro, mi sorprendete ogni giorno e perché mi avete aiutata a superare le crisi, i momenti grigi, i blocchi e grazie perché con voi ho soprattutto condiviso momenti indimenticabili di gioia ed euforia.
Grazie anche ad artisti che non sapranno mai che io son qui a render grazie al loro duro lavoro: Brendon Urie, Robert Downey Jr, Ellen, Pete Wentz, Matt Bellamy, Misha Collins, Tyler Joseph, Chris Evans, Mark Sheppard, Tom Hiddleston e solisti o interi gruppi che mi hanno accompagnata durante la scrittura come i miei amati Sheppard, Ed Sheeran, i KISS, i Queen, i Talking Heads, i Green Day, i Led Zeppelin, Alice Cooper, i Lynyrd Skynyrd, le Runaways, i Take That, i Duran Duran, i Kansas, Mika, Elvis, i Lumineers...

Anche questo viaggio si è concluso, ma non è un addio: questo è un arrivederci.
Forse.


Grazie, di cuore.
Marra


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* Sì, Clara appare nel 2013, ma non stiamo parlando dello stesso universo della serie tv, ricordate?

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