So many worlds, so many stories

di Khailea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gaerys ***
Capitolo 2: *** Gunmar ***



Capitolo 1
*** Gaerys ***



Gaerys





Nel regno di Fiore, ben conosciuto per la sua popolazione possedente una grande forza magica, convivono un gran numero di creature assieme agli esseri umani, i quali possiedono a loro volta alcuni tipi di magia, chi più chi meno.
A sua volta tale regno è diviso in varie zone, ciascuna delle quali con la propria storia e culture frammentate al suo interno, la più misteriosa però potrebbe facilmente essere quella del regno dell'Ovest, il cui intero territorio è nascosto dietro un muro d'alberi cresciuti lungo i suoi confini.
Motivo del mistero di tale luogo è il fatto al suo interno vivono moltissime creature magiche, alcune delle quali raramente vogliono mostrarsi a degli sconosciuti.
Tra tali creature v'era la tribù dei Sérhendit, figure aventi il busto, la testa e le braccia umane mentre le gambe erano quelle di un grifone, e di tale creatura possedevano anche delle splendide ali poste poco sotto le braccia.
Erano un popolo nomade, che si spostava spesso soprattutto tra le foreste e le montagne seguendo l'andamento delle prede delle loro battute di caccia oppure il soffio del vento che muoveva i loro cuori.
Al contrario di molti altri non seguivano il credo di una divinità, in quanto consideravano ogni creatura pari alle altre, sostenendo che tutto appartenesse al grande disegno della natura e della vita stessa. 
Anche per tale motivo quando uno di loro moriva non ne soffrivano molto, in quanto ciò apparteneva a quel disegno più grande di cui loro facevano parte. 
Era quindi solo finita la storia del singolo, ma gli riservavano comunque una degna cerimonia lasciando il corpo, o ciò che ne restava, in una radura in modo che i suoi resti potessero offrire da mangiare ad una qualche altra creatura, nel cui disegno di vita v'era scritto sarebbe giunta in quel punto nutrendosi proprio del "dono" fatto.
La loro tribù era molto tradizionale, i maschi forti ed abili si occupavano della caccia utilizzando in particolare archi e frecce costruite utilizzando il legno dei pini, mentre le donne incantevoli e gentili si prendevano cura dei figli e si dilettavano nell'arte del canto.
Se una cosa infatti era degna d'esser ricordata veniva trasmessa attraverso le canzoni, non v'era bisogno di scritture o simili fino a quando si aveva la voce.
Era comunque possibile trovare delle femmine che prediligevano l'arte della caccia e dei maschi che accudivano i figli nelle proprie dimore, ma erano comunque abbastanza rari, non per questo comunque scherniti.
I Sérhendit avevano dei lineamenti molto fini e dei corpi magri, nonostante soprattutto negli uomini si potessero trovare dei muscoli tonici questi non erano mai esagerati nelle dimensioni. 
All'età di tredici anni i bambini venivano introdotti nel mondo della caccia, in quanto considerati ormai adulti, e come prima cosa veniva insegnato loro il rispetto per ogni forma vivente, uso comune era addirittura non sprecare un solo pezzo di carne degli animali uccisi come forma di stima del loro sacrificio.
Nonostante fossero di indole nomade erano anche abili costruttori, e visto i loro edifici spesso si trovavano tra i rami più forti delle querce oppure lungo le sporgenze delle montagne le fabbricavano in modo fossero sia resistenti ad ogni tipo di intemperie che semplici da demolire in vista della loro partenza.
La tribù era guidata da una coppia di grifoni, la quale si era tramandata da generazioni tale compito.
La femmina si chiamava Ildra, possedeva dei meravigliosi capelli biondo platino che le arrivavano poco sopra le spalle, morbidi come le nuvole e lisci come la seta e tra i quali comparivano due canine orecchie  bianche dal pelo interno giallo. I suoi occhi possedevano una tonalità d'arancione richiamante al tramonto, così caldi e dolci che ci si poteva perdere per ore intere percependo perfino il calore del sole in essi.
Dettaglio che la rendeva ancor più adorabile erano delle vivaci lentiggini sul suo viso del color del latte.
Possedeva un corpo molto minuto ed era solita indossare solamente un tessuto azzurro per nascondere i piccoli seni ed una piccola coroncina di fili di rame al capo, la quale possedeva una gemma azzurra alla fronte.
Le sue ali non erano particolarmente grandi, e dal piumaggio di una tenue tonalità color crema, ma erano adatti a voli di grande abilità e non s'appesantivano durante i giorni di pioggia. 
Dall'ombelico partiva poi un folto pelo azzurro che arrivava fino alle gambe animalesche, dello stesso colore di quest'ultimo e che andava a sbiadirsi solo una volta raggiunta la meravigliosa coda. Lunga e sinuosa era, come per caratteristica comune, dotata di un pelo molto folto ed a grandi ciocche.
Il maschio invece si chiamava Daunir ed aveva dei capelli neri come la notte che gli arrivavano leggermente sotto le orecchie, ma incredibilmente ribelli visti i ciuffi che andavano in ogni direzione, e del cui stesso colore erano oltretutto anche le orecchie aventi però all'interno del pelo bianco, mentre gli occhi erano color rosso rubino.
Durante la notte di fronte al focolare li si poteva vedere perfino brillare, ed erano capaci sia di incantare che di pietrificare, soprattutto nei momenti in cui si doveva mostrare maggiormente severo.
Era dotato di robuste spalle e braccia forti, le quali però avevano numerose cicatrici bianche, purtroppo visibili nonostante la pelle chiara ma non per questo disonorevoli.
Anzi, avere delle cicatrici significava che si era dei sopravvissuti, ed a giudicare dal numero che possedeva si poteva subito intuire fosse qualcuno di grande valore. Una di queste gli tagliava anche l'occhio destro, rimasto fortunatamente intatto dalla battaglia passata.
A sua volta aveva una sottile corona quasi identica a quella della compagna, se non per un leggero cambiamento nella forma visto sembrava un intreccio di due fili.
Le sue ali al contrario della compagna erano molto grandi e soprattutto di una notevole lunghezza, quasi completamente nere se non per delle sfumature grigie lungo le estremità inferiori.
Non indossava alcun indumento ma non ve n'era uno stretto bisogno, visto in generale gli organi intimi erano nascosti sotto il pelo che dall'ombelico arrivava fino alla coda unendosi ad essa. Nel suo caso il colore d'esso era grigiastro con delle sfumature blu scuro, che arrivavano fino alle zampe dalle unghie affilate.
La coda invece era più piccola del normale, ma ciascuno poteva decidere se trarre vantaggio o meno dalla fisionomia del proprio corpo.
Ildra possedeva un animo buono e gentile, provvedeva soprattutto alla gestione dei raccolti, i quali dovevano avvenire in maniera rapida, ed assisteva le altre femmine durante le nascite oppure nelle malattie. Tramandava oltretutto gesta ricche di significato che stupivano chiunque. 
La sua voce era tra le più belle si fossero mai sentite.
Era capace sì di cacciare, soprattutto con l'arco, ma contribuiva in essa solo nei periodi di crisi.
Chiunque poteva vedere in lei una seconda madre, giusta e capace di vedere i buono in ogni cosa.
 Daunir invece era un animo calmo e coscienzioso, che si preoccupava prima della sua tribù che per se stesso. La sua dedizione lo portava a procacciare quanto più cibo necessario nel massimo della sicurezza e ad affrontare le creature peggiori per difendere la sua gente.
Si mostrava imparziale nelle decisioni preservando l'armonia creata nel clan, senza far distinzioni tra ciò che era giusto e ciò che era sbagliato, attribuendo quindi sempre le giuste punizioni, ma ciò non accadeva molto spesso.
La sua lealtà l'aveva portato ad ottenere grande fiducia da parte di tutti.
In linea di discendenza diretta era Ildra la figlia del precedente capo clan, ed aveva scelto proprio Daunir durante il periodo dell'accoppiamento in quanto l'aveva reputato come l'esemplare più nobile ed adatto.
Durante tale rito i maschi dovevano portare alle femmine la preda più grande che potessero trovare, in modo da dimostrare che potevano occuparsi di una famiglia, mentre le femmine dovevano cantare per giorni e giorni attirandoli.
Daunir  avrebbe potuto facilmente portare alla femmina, per la quale provava una naturale ammirazione in quanto la più bella e generosa tra tutte, la bestia più grande di tutti gli altri, ma durante la caccia un suo compagno  venne ferito dalla bestia scelta e lui per salvarlo sacrificò il proprio trofeo, rinunciando alla possibilità di unirsi alla compagna tanto desiderata pur di salvare un amico.
Tale gesto era bastato a far interessare Ildra, e dalla loro unione nacquero ben tre figli.
La maggiore si chiamava Thatié. Possedeva gli stessi occhi arancioni della madre ed i capelli neri nel padre, ma li teneva sciolti fin sotto le spalle con solo una treccia che le circondava il capo partendo dalla fronte. Aveva ereditato il corpo sottile della madre e così anche le sue ali color crema, mentre le zampe partivano con una sfumatura di blu profondo per poi terminare nell'azzurro.
Era indubbiamente una cucciola molto vivace, che tuttavia non provava interesse nella caccia e che per questo non s'era dilettata nell'arte dell'arco, anche se in parte l'aveva fatto con la lancia.
Amava cantare ed inventare storie e la sua voce animava gli animi di chiunque.
Il secondogenito si chiamava invece Gaerys, ed era nato quando Thatié aveva sei anni.
Il ragazzo aveva ereditato un colore degli occhi che si poteva definire un misto tra quello dei due genitori.  Era infatti prevalentemente rosso ma vi si trovavano le gentili sfumature arancioni della madre, e di lei aveva oltretutto ereditato non solo la pelle chiarissima ma anche le sue simpatiche lentiggini.
Aveva anche i suoi capelli biondo platino ma erano ribelli quanto quelli del padre, ed ogni ciocca aveva alla punta delle sfumature nerastre. Di tale colore erano anche le sue orecchie dal pelo interno bianco.
Non aveva un corpo robusto ma anche le ali avevano caratteristiche simili a quelle di entrambi i genitori.
Di colore erano tendenti al bianco ma da circa il centro era presente una striscia di piume nere attorno alle quali ne erano cresciute varie di azzurro, il primo dei due colori però era nettamente dominante alla base. Le ali di grandezza erano piccole quanto quelle della madre ma la lunghezza eguagliava quelle del padre, soprattutto alle ultime e lunghe piume.
Il pelo che partiva dalla pancia era azzurro bruciato ma la coda era nella parte esterna completamente bianca mentre l'interno era nero, con solo pochi ciuffi quasi azzurri.
Le zampe invece possedevano partendo dalle cosce tale colore ma poi dei polpacci si scurivano fino a diventare blu, ed infine quasi nere.
Il suo viso ispirava una grande tenerezza visti i lineamenti morbidi che possedeva, sembrava quasi un dono dal cielo.
Tuttavia il suo animo era a dir poco...ambiguo, rispetto al resto dei cuccioli.
Aveva indubbiamente una delle voci più cristalline e melodiose mai sentite ma narravano di vicende macabre come lo sgozzamento o lo spellamento degli animali, ed arrivavano perfino a far piangere i più piccoli.
A tale gesto le uniche sue reazioni erano delle vivaci risate, troppo belle per poter derivare da qualcosa di così brutto.
Trovava poi grande divertimento nell'infastidire chiunque con scherzi non sempre molto leggeri, come ad esempio incollare con del catrame delle piume di cacciatori adulti ai loro giacigli, oppure immergere i giocattoli dei bambini nel sangue animale preparato in delle bacinelle.
Approfittava oltretutto del suo titolo di figlio dei capi clan per comandare i giovani pretendendo da loro le razioni migliori di cibo.
Naturalmente entrambi i genitori avevano tentato di correggere tali suoi atteggiamenti, sia con parole nelle quali si potevano leggere accenni di comprensione che con metodi più duri, ma il tempo non aveva cambiato le sue attitudini.
Non per questo però aveva un cattivo rapporto con la sua famiglia, amava infatti sua madre ed ogni sera desiderava ascoltarla cantare prima di dormire, mentre rispettava gli ordini del padre e lo ammirava entusiasta ogni volta portava del cibo nella loro dimora. Perfino con la sorella andava d'accordo, infatti spesso la seguiva durante le giornate volando assieme a lei e portandole varie volte dei fiori.
Come amava era anche amato da loro, ma i suoi comportamenti non potevano non portare del dolore nei cuori dei cari, anche se non sembrava capirlo.
All'età di tredici anni divenne a sua volta un cacciatore dimostrando un particolare interesse nell'arco. Purtroppo però, pur seguendo il credo di non sprecare nemmeno una parte del cibo, uccideva le creature innocenti anche solo per divertimento e non per necessità.
Durante quello stesso anno la madre diede alla luce il loro terzogenito, un bambino sanissimo dai capelli neri e le punte bianche, dalle ali quasi completamente azzurre salvo alcune sfumature bianche e le zampe dello stesso colore del padre.
I suoi occhi erano arancioni proprio come la sorella maggiore, ma aveva ereditato anche delle piccolissime lentiggini attorno al naso. Il suo nome era Vhair, e sia Thatié che Gaerys provarono nei suoi confronti fin da subito un grande affetto. 
Lei lo esprimeva cantandogli delle dolci ninne-nanne, lui invece portandogli dei giocattoli, anche se di altri bambini, e cantando di stelle che precipitavano sul terreno o simili.
Fortunatamente il bambino era troppo piccolo per capire e si limitava a ridere di quelle canzoni tanto catastrofiche, visto i toni usati, ma la madre aveva cercato più volte di far smettere il maggiore.
Nonostante il carattere particolare del giovane cucciolo i provvedimenti non erano mai stati estremi, forse appunto per l'immenso amore dei genitori, e perfino gli altri per senso di solidarietà faticavano a far molto, cercando di spronarlo a migliorarsi.
Il vero punto di rottura tuttavia arrivò durante i suoi quattordici anni, il giorno in cui la tribù incontrò un celestiale...
Avvenne durante l'inizio della primavera, quando la tribù  dei Sérhendit si spostò dalla montagna verso le foreste. Solitamente i loro spostamenti potevano prevedere sia viaggi ad alte altezze oppure precise camminate seguendo dei rigorosi sentieri percorsi da generazioni e generazioni di loro.
Le femmine camminavano al centro del gruppo, in modo che in caso d'attacco fossero protette assieme ai bambini.
Si era deciso di prendere quest'ultimo percorso in modo da poter, con le loro abilità, individuare già le tane di future prede, ma qualcosa attirò l'attenzione di Ildra Daunir.
Era una figura femminile che si trovava a non molti metri da loro, che camminava con grande serenità tra i giganteschi alberi dalle foglie verdi.
In un primo momento sarebbe potuta sembrare un essere appartenente alla loro specie per via di due gigantesche ali gialle, piegate in modo da non esser d'ostacolo durante il cammino, ma con una seconda occhiata era evidente il corpo fosse unicamente quello di un essere umano.
I suoi ondulati capelli arancioni le arrivavano quasi ai fianchi, e dal capo partiva una particolare corona dorata avente come una grande ruota dalle punte leggermente affilate dalla parte delle spalle. Era vestita con due strati, il primo composto da una toga bianca mentre la seconda era un'armatura in argento con rifiniture dorate, formata da un bustino senza braccia e dei lunghi stivali che partivano da metà coscia.
Tra le mani teneva una lancia in oro dalla punta completamente bianca, ma nonostante l'arma non incuteva alcun timore. Aveva oltretutto con sé una sacca che sembrava contenere qualcosa di pesante...ma non fu chiaro esattamente cosa.
In un primo momento l'istinto dei capi fu quello di aggirare la sconosciuta, non sapendo se fosse pericolosa o meno non intendevano correre rischi, ma visto il loro numero l'azione fu alquanto fallimentare a causa del poco preavviso e la figura, volgendo lo sguardo nella loro direzione, iniziò a camminare a passo calmo raggiungendoli.
Daunir si schierò davanti a lei chiedendole cosa il motivo della sua presenza tra gli alberi, e la donna, intuendo fosse il capo, rispose dopo un breve inchino che si trovava in pellegrinaggio, spiegando fosse una creatura celestiale.
I celestiali erano esseri puri votati al bene, aventi sì la possibilità di morire ma molto più forti delle comuni razze, e per questo motivo non videro in lei alcun segno di pericolo.
La celestiale disse oltretutto d'essere in cammino da molti giorni, e con garbo domandò un sorso d'acqua per potersi dissetare.
Non essendo una razza meschina, seppur schiva, Daunir acconsentì alla sua richiesta, scoprendo poco dopo il suo nome, Inyhé.
I bambini più curiosi, tra cui anche Gaerys che fuggì dalle braccia della sorella, si avvicinarono facendole domande sulla lancia che portava, mostrando a loro volta le proprie.
Inyhé rispose a tutti loro con sorrisi pieni di tenerezza, e siccome stava ormai calando la sera lungo la foresta Ildra le propose di unirsi a loro per la notte, onde evitare spiacevoli incontri, e l'altra acconsentì felice di poter avere un po' di compagnia.
Quella notte la tribù si esibì in delle magnifiche canzoni all'insegna delle più belle gesta dei loro avi, solo per poter dimostrare il loro valore di fronte ad un essere celestiale. Banchettarono anche con le prede cacciate giorni prima, dormendo infine sotto il dolce cielo stellato...tutti ad eccezione di Gaerys.
Non aveva mai tolto gli occhi di dosso dall'arma della creatura, e come prima cosa non appena la vide dormiente si avvicinò per prendergliela, inciampando tuttavia nella sacca che questa aveva lasciato incustodita.
Cadendo il giovane aveva fatto uscire una parte del contenuto, che si rivelò essere uno spesso libro dalla copertina in cuoio, avente i bordi gialli ed una chiave incastonata al centro.
La loro tribù non era dedita alla scrittura, ma non per questo non la conoscevano, altrimenti sarebbe stata dura l'incontro anche con altre razze, ma si limitavano ad una conoscenza basilare.
Per un lettore accanito Gaerys sarebbe stato tutto tranne che qualcuno interessato ad un libro, ma il ragazzo ancora non ne aveva mai visto uno, e così il suo interesse passò dalla lancia a quell'oggetto.
Grazie alle stelle non gli fu difficile vedere i dettagli, e con grande silenzio lo prese sedendosi vicino aprendolo, così in caso qualcuno si fosse svegliato avrebbe potuto rimetterlo subito al proprio posto.
Per un qualche scherzo del destino, oppure per l'incoraggiamento nella fortuna di chissà quale divinità, il libro era scritto proprio in quella lingua comune che poteva comprendere, ed oltretutto aveva anche un gran numero di figure dettagliate che semplificavano la cosa.
Il tema principale erano le divinità, forse non tutte ma comunque un bel numero.
Alcune erano completamente dedite al bene ed alla salvezza dell'equilibrio, altre invece si dimostravano più neutrali ma con un alto codice morale.
Nessuna di loro comunque attirò grande interesse da parte del lettore, tutte ad eccezione di una che gli fece spalancare gli occhi.
Il primo impatto venne dall'immagine di un gigantesco squalo dalle ruvide scaglie nere piene di profondissime cicatrici, ciascuna poi talmente affilata da sembrare un coltello. Le sue pinne possedevano poi degli artigli gialli, alcuni molto lunghi soprattutto in punta mentre altri più sottili.
Il muso presentava poi dei piccolissimi occhi neri dalle pupille rosse, le quali incantarono per un po' il ragazzo, come se al loro interno vedesse chissà quale grande forza e potenza.
Le sue fauci poi avevano file e fila di denti affilatissimi che lo fecero quasi rabbrividire, essendo ancora così piccolo, ma che aumentarono comunque lo stupore e l'interesse.
Il nome recitato in cima a quell'immagine era Sekolah.
Con scrittura sottile v'era descritto come fosse un potente diavolo e divinità principale adorata dalla razza sahuagin. Il suo animale sacro era lo squalo, ed il simbolo sacro  uno squalo bianco o una pinna dorsale che sale dall'acqua. A quanto pare poteva essere trovato normalmente a caccia di calamari giganti e altre prede che trova opportunamente impegnative. Il grande squalo permetteva ai sahuagin di formare patti temporanei con altre divinità malvagie; importava poco finché continua a ricevere regolarmente dei sacrifici. Sekolah rappresentava la forza impotente e la brutalità. È anche un dio della fertilità.
Secondo i miti e le leggende molto tempo prima, quando gli oceani erano privi di vita sapiente, Sekolah cacciava i primitivi leviatani degli abissi. Dopo una caccia particolarmente riuscita, il dio cantò una canzone della vittoria, una melodia inquietante che riecheggiava nella profonda trincea oceanica. Per la prima volta, le voci gli risposero, risonando dal vuoto dell'abisso acquoso. Incuriosito, Sekolah continuò la sua canzone, e lentamente una grande conchiglia si levò dall'oscurità. Il guscio si aprì per rivelare il primo sahuagin, che nuotò attorno a Colui che li aveva chiamati, cantando in armonia con l'aria trionfante di Sekolah. 
I Sahuagin sacrificano i nemici sconfitti ed i preziosi gioielli a Sekolah quando possibile. La chiesa di Sekolah segue una gerarchia rigida e tirannica in cui lo stato è determinato attraverso il combattimento rituale.
Ogni singola parola si insediò nella mente del giovane, stregato da tutto ciò.
Ritrovava nel mito del canto di Sekolah la tradizione della sua tribù nel narrare miti e grandi gesta, ed avrebbe tanto voluto poter ascoltare quella canzone. La brutalità delle sue azioni e di coloro che lo seguivano poi riempivano il suo petto con una sensazione nuova, mista all'eccitamento ed al desiderio di dimostrarsi altrettanto forte.
Voleva essere riconosciuto come un grande campione, soprattutto da parte della sua famiglia.
Se avesse dimostrato di non avere rivali, che poteva sconfiggere ogni genere di cosa, magari l'avrebbero visto come lui vedeva suo padre, e la parte della lettura a riguardo del combattimento come forma di rituale lo interessava particolarmente...
La sua lettura venne però interrotta dalla voce della sorella, che svegliatasi senza trovarlo vicino si era alzata raggiungendolo. Sussurrando lui le mostrò le immagini che aveva visto con fare carico di gioia, ma lei non sembrò altrettanto felice, e gli chiese di rimettere tutto al proprio posto per tornare a dormire.
Gaerys fece subito come gli era stato detto, ma quelle parole erano rimaste ben impresse nel proprio animo, sentendo che gli appartenevano completamente.
Avrebbe dimostrato il suo valore, proprio come aveva fatto Sekolah e i sahuagin...
La notte passò e così la creatura celestiale diede il suo addio alla tribù che proseguì durante il viaggio, fino a raggiungere una zona particolarmente fitta della foresta nella quale avrebbero potuto costruire in un solo giorno le loro abitazioni.
Fu proprio durante queste ore in cui il ragazzo decise di rendere realtà il pensiero nato giorni prima, ed individuò all'interno del clan un giovane rimasto per il momento in disparte.
Questo era leggermente più robusto di lui, con grandi ali arancioni dalle estremità inferiori gialle, gli occhi verdi ed i capelli color del grano. Arancioni erano anche le zampe mentre il pelo della coda era tendente al bianco.
Non conosceva il suo nome in quanto non aveva mai mostrato interesse per quelle cose, e senza tante cerimonie lo prese per il braccio trascinandolo lontano, dicendogli che essendo il figlio dei capi doveva fare come diceva.
Non appena furono abbastanza distanti Gaerys senza nemmeno spiegargli ciò che stava accadendo si voltò con uno scattò, aggredendolo graffiandogli il viso puntando agli occhi.
Il povero ragazzo naturalmente dalla sorpresa cadde a terra spaventato, tentando subito dopo di fuggire gridando aiuto, ma erano troppo lontani e l'altro saltandogli addosso iniziò a colpirlo con violenti pugni.
Iniziò così una breve lotta in cui anche l'altro provò a colpirlo per cacciarlo, riuscendoci anche spingendolo via, ma Gaerys non volendo deludere la sua famiglia afferrò una pietra dal terreno e gliela spaccò sulla testa. Il colpo non fu definitivo, e fu seguito da molti altri fino a quando il suo avversario non smise di muoversi coperto dal sangue, proprio come lo erano le sue mani, il viso ed il petto.
Eppure, sul suo viso non c'era altro che un sorriso.
Con il cuore pieno d'orgoglio si alzò abbandonando il cadavere, correndo subito urlando a squarciagola chiamando i suoi genitori, quando i vari membri della tribù lo videro coperto di sangue supposero si trattasse di quello di un animale, e così fecero anche i genitori, almeno fino a quando lui non disse d'aver superato la prova di forza di Sekolah.
Confusi gli chiesero spiegazioni, e lui raccontò per filo e per segno tutto ciò che aveva letto, ed infine ciò che aveva fatto. Ma mentre il suo viso era il dipinto della gioia quello dei famigliari divenne quello dell'orrore, ed il padre subito volò verso la zona dalla quale era venuto mentre la madre si inginocchiò a terra iniziando a piangere.
Confuso il figlio provò  a sorreggerla, ma ciò che vide nei suoi occhi fu solo un puro terrore e rimorso, mentre balbettava di come era per questo che non erano necessarie divinità, di come quei culti corrodessero la mente, ripetendo chiedendosi dove aveva sbagliato.
Perfino la sorella, che aveva sentito ogni cosa, sembrava terrorizzata e disgustata, soprattutto quando il padre arrivò con il cadavere del bambino ucciso...
Si udirono quindi le urla piene di dolore dei genitori, mentre il colpevole sembrava sempre più confuso, e cercando qualche segno da parte del padre trovò in lui una freddezza mai vista fino ad allora.
Per la prima volta quegli occhi rossi quasi lo spaventarono...
I secondi sembrarono durare in eterno, mentre finalmente il padre parlò, pronunciando parole che non avrebbe mai dimenticato.
Aveva disonorato la sua tribù, il suo onore ed il suo nome, macchiandosi di un crimine indicibile nei confronti dei suoi stessi simili, e per questo motivo sarebbe stato esiliato dal clan.
I singhiozzi della madre divennero l'unico suono udibile mentre il mondo sembrava crollare addosso al ragazzo, che perdendo il sorriso si avvicinò al genitore confuso.
Cosa aveva sbagliato?
Voleva solo renderlo orgoglioso, non era una bella cosa volergli assomigliare?
Non stava dicendo la verità, non l'avrebbero veramente cacciato?
Era il suo stesso figlio...ma tali parole non sembrarono arrivare all'uomo, che voltandogli le spalle diede l'ordine di portarlo via.
Due uomini afferrarono le braccia di Gaerys, che subito si divincolò spaventato, urlando aiuto alla madre ed alla sorella, chiedendo pietà al padre di non abbandonarlo, ma questo non lo guardava nemmeno.
La sua forza non era nulla di fronte a quella di due adulti, che subito volando lo portarono lontano da quel luogo, abbandonandolo vicino alle montagne ed allontanandosi quanto più velocemente possibile per evitare fossero seguiti.
Durante le notti a venire il ragazzo pianse nella solitudine, urlando aiuto a chiunque, che qualcuno venisse a portarlo a casa, ma nessuno arrivò.
Nemmeno la sua famiglia.
Per un cucciolo non era comunque semplice procurarsi da mangiare, soprattutto non avendo alcuna arma, e nelle ore di solitudine cercò il motivo per il quale tutto era andato in quella maniera, e fu solo una la soluzione che trovò.
Era tutta colpa di quella celestiale...se non fosse mai arrivata non avrebbe letto il libro, e non avrebbe fatto nulla per far arrabbiare suo padre.
Era solo colpa sua, ma lui aveva superato la prova di forza di Sekolah, e desiderava farla pagare a quella creatura, rendendosi disposto perfino ad uccidere suoi simili addossandole la colpa delle sue azioni come una forma di peccato di cui si sarebbe macchiata.
Giurò questo ideale quindi su Sekolah, quella divinità in cui ancora rivedeva il proprio essere e possibilità di diventare più forte.
Senza rendersi conto che l'unico ad avergli rovinato la vita era stato lui stesso con le proprie mani...



"Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici."

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Capitolo 2
*** Gunmar ***


Gunmar 




Gunmar nacque dall’unione di un orco chiamato Ergok, di classe barbaro, e da un’umana di nome Idrys, di classe stregone.
Entrambi vivevano nel regno di Rhotwe, celebre non solo per la rigogliosa ed abbondante natura che ricopriva ogni cosa ma anche per gli importanti scambi di minerali dalle proprietà mistiche che avvenivano tra le varie città ed oltre.
Per molti erano indimenticabili i paesaggi del regno, le verdeggianti radure che proseguivano per kilometri, le fitte foreste che nascondevano meraviglie per gli occhi, i limpidi laghi dentro cui si muovevano numerose creature acquatiche che le notti andavano a riposare nelle grotte nascoste, i tunnel sotterranei lungo le cui pareti si potevano trovare gemme di tale bellezza da incantare anche il cuore più puro.
Ma per coloro che vivevano in quel regno tali bellezze erano inferiori solamente al cielo notturno che regalava la vista di un’infinità di stelle ed aurore, che danzavano attorno alle tre lune che si muovevano a distanza di poco tempo, e che al tramonto dell’unico sole si allineavano quasi perfettamente ad esso creando per una manciata di minuti una debole oscurità dentro cui si riflettevano infiniti colori tra le nuvole.
Tra le varie capitali del regno vi era Talas, all’interno di cui tuttavia in quegli anni si era iniziato a creare un acceso dibattito a causa di vari dissapori del passato, riguardanti principalmente il fatto che la città concedesse i propri materiali a gente di cui il mondo avrebbe fatto volentieri a meno.
Con il corso del tempo avevano iniziato a crearsi varie fazioni in contrapposizioni, chi riteneva fosse solo affari non voleva rinunciare ad una simile opportunità mentre altri, preoccupati degli usi barbarici che certi figuri avrebbero potuto fare delle loro gemme, volevano impedire che le vendite continuassero.
Si erano così venuti a creare piccoli eserciti ma non tutti erano interessati a partecipare ad una guerra, tra questi c’erano gli Orghe, una tribù di orchi che si era stabilito in una radura nascosta nella foresta più grande del regno.
Gli Orghe non avevano intenzione di partecipare alle guerriglie d’altri, dal loro punto di vista avevano già tutto ciò di cui avevano bisogno ed unirsi a qualcosa di simile sarebbe stato inutile.
Avevano costruito le loro case nei tronchi cavi degli alberi più grandi o scavando delle grotte quanto più in profondità fino a raggiungere giacimenti minerari strabilianti, anche se a loro non importava nemmeno di questi.
Preferivano vivere la loro vita in tranquillità seguendo le loro tradizioni, come il rito di passaggio all’età adulta dei giovani orchi, che avveniva alla mezzanotte della terza luna nascente.
Veniva preparato un meraviglioso banchetto con ogni ben di dio che essi conoscevano ed al centro del villaggio veniva tracciato con sangue fresco un gigantesco cerchio, i giovani dovevano lottarvi fino all’alba ed una volta superata questa prova potevano gioirne banchettando con le famiglie. Il sorgere del sole simboleggiava la nascita del nuovo adulto.
Non c’era alcuna barriera a protezione del loro territorio ma si poteva intuire di starvisi avvicinando perché erano soliti segnare gli alberi con delle particolari scritte nella loro lingua, ciascuna dal diverso significato in base all’orco che l’aveva scritta.
Molti viaggiatori o commercianti invece ne erano interessati e per questo non erano in pochi a cercar d’entrarvi ma questa scelta comportava un enorme rischio. La tribù non era particolarmente ostile ma le loro azioni erano spesso dettate dal caos, per questo motivo lo sventurato poteva esser fortunato e venir semplicemente cacciato oppure esser smembrato e divorato dagli orchi.
Solo perché prediligevano la solitudine però non significava che vivessero senza mai abbandonare la loro casa, il caso volle che un giorno Ergok decise di muoversi oltre il bosco dentro cui aveva sempre vissuto e dal quale era uscito solamente per cacciare, all’epoca aveva all’incirca 35 anni.
Era alto circa 2,70 metri e pesava 136 kg, nella tribù gli orchi anche se non avevano una vera e propria gerarchia gli era riservata una posizione comunque rispettosa, mai si era fatto indietro davanti ad uno scontro, che fosse con un suo coetaneo o con un estraneo ed ogni volta aveva sempre terminato la lotta con la morte. L’unica cosa che si poteva dire era che non li aveva mai cercati, erano stati sempre altri ad interrompere la sua tranquillità. La sua dura pelle era d’un colore verde mela, interrotto solo in alcuni punti da parti nerastre, gli occhi erano completamente verdi e le pupille erano nere, di questo stesso colore erano i corti capelli e le folte basette.
Come ogni altro orco nel villaggio non temeva di nascondere le numerose e profonde cicatrici sul petto e sulle braccia, per questo motivo lo teneva sempre scoperto, tra le altre ferite aveva anche una parte dell’orecchio che gli era stato rimosso. 
Per gli orchi simili segni erano un simbolo del loro valore, nasconderli era una vergona.
Quel giorno comunque il suo cammino durò a lungo e presto portò la sete con sé, conoscendo il luogo però sapeva benissimo che oltre una collina vi era un piccolo lago nascosto e vi si recò per riposare, una volta arrivatovi però scoprì di non esser solo.
Alla sponda del lago si trovava difatti una femmina umana di 20 anni dal corpo incredibilmente gracile coperto da abiti umili quali una gonna azzurra ed una camicia bianca, i suoi lunghi capelli neri erano lasciati sciolti a ricadere lungo le spalle ma le lasciavano completamente scoperto il viso, era Idrys.
L’istinto di un orco poteva variare dal ruggire per spaventarla, avvicinarsi per violentarla o ucciderla o simili, certamente non erano conosciuti per i modi gentili, ma la donna stava muovendo la mano sulla superficie dell’acqua seguendo degli strani percorsi e ciò incuriosì l’orco che si avvicinò.
Non si era portato alcuna arma perché non ne aveva bisogno ma anche senza far particolar rumore presto la donna si voltò dalla sua parte, i rossi occhi spalancati erano fissi su di lui ma al contempo guardavano in tutt’altro luogo.
Ergok rimase fermò assumendo un’espressione minacciosa ma questa non parve spaventare la donna, che si limitò a salutare cordialmente il nuovo ospite del lago invitandolo perfino a sedersi vicino a lei.
Confuso ma ancor più incuriosito il maschio s’avvicinò ma prima di sedersi portò il viso estremamente vicino a quello di Idrys per spaventarla, ma lei sorrise soltanto affermando fosse felice avesse deciso di venire lì.
Senza modi particolarmente garbati lui chiese spiegazioni sui movimenti che lei stava facendo e la donna spiegò stesse cercando di praticare un semplice incantesimo sull’acqua, una cosa comunque di poco conto ma che nonostante una breve spiegazione Ergok non riuscì a comprendere, tanto che espresse da subito l’inutilità di tale azione visto l’acqua era buona solo per esser bevuta, e difatti fece proprio quello dopo la risposta.
Lei però non si scompose ridendo leggermente, rispondendo che infondo aveva ragione ma che la curiosità l’aveva spinta a tentare.
Rimasero in silenzio per un po’ fino a quando lei improvvisamente non gli domandò se poteva toccargli il viso, lui ringhiò infastidito da tale domanda visto qualsiasi contatto che aveva ricevuto era solo per lottare, ma lei spiegò subito che era cieca e che le sarebbe piaciuto poter conoscere il viso del suo interlocutore.
Ergok rimase interdetto e ruggendo s’alzò allontanandosi, irritato da quel comportamento singolare.
Tornò così alla propria casa catturando nel mentre una creatura del bosco con cui si cibò, mentre la donna rimase a lungo nei dintorni del lago prima di tornare anch’essa a casa. 
La notte trascorse rapida ma il giorno dopo, spinto da chissà quale forza, l’orco volle tornare in quel lago dove aveva incontrato la femmina, con sua sorpresa vide che anche lei era ancora lì.
La scena si ripeté per molti giorni, alcune volte lui rimaneva fermo a guardarla ed altre si avvicinava lasciando che lei tentasse di parlargli, l’unica cosa cambiata era il fatto lei non tentava più alcun incantesimo.
Al contrario dell’orco Idrys sapeva benissimo perché tornava lì ogni giorno, a causa della sua cecità era stata allontanata dal luogo in cui viveva, veniva considerata inutile perché non poteva combattere in quel periodo di scontri, e così nella solitudine si era stabilita in una casa non molto distante dal lago ma comunque ben nascosta, anche se non volutamente.
Aveva trovato in quello sconosciuto una compagnia inaspettata e di volta in volta l’apprezzava sempre di più, non poteva vedere ma i suoi sensi erano abbastanza sviluppati da percepirlo, questo comunque spiegava come fosse sopravvissuta per tanto.
Con il passare del tempo le ore che trascorrevano insieme aumentarono sempre di più e non ci volle molto prima che l’orco iniziasse a provare un senso di protezione ed attaccamento verso la femmina, in lei l’attirava il caos, non aveva atteggiamenti normali, come quando improvvisamente s’alzava per ballare spinta dall’istinto, e la sua imprevedibilità era affascinante, d’altra parte anche lei provò un forte affetto per colui che ogni giorno riempiva le sue giornate.
Un giorno Ergok le insegnò perfino a leggere la scrittura orchesca che veniva incisa sugli alberi, smembrando un animale ed usando un coltello per incidere nella pelle segni profondi in modo che lei potesse toccarli con mano. 
Sperava così che se  avesse dovuto imbattersi in quel tipo di scrittura non avrebbe avuto problemi a riconoscere il pericolo.
Fu quando l’attaccamento fu evidente ad entrambi che iniziarono a conoscersi più in profondità, ed anche quando Idrys scoprì fosse un orco non ebbe la minima paura, sentiva di non averne bisogno.
Solo dopo qualche mese però  tentò di chiedergli ancora se poteva toccargli il viso, questa volta con il consenso dell’altro.
Vista la differenza d’altezza Ergok dovette sedersi e lasciare che lei salisse sulle sue gambe, la morbida pelle di lei era in netto contrasto con la sua dura scorza ma il contatto fu comunque piacevole per entrambi, tanto che quel giorno il sorriso di lei fu ancora più splendido e tutto ciò che riuscì a dire era che lo trovava perfetto.
Il seme dell’affetto che era sbocciato in entrambi crebbe sempre più tanto che il loro legame divenne ancor più profondo, e dalla loro unione circa un anno dopo, nacque il loro primogenito maschio.
Il parto era avvenuto nello stesso lago dove si erano conosciuti, il sangue della donna ne aveva macchiato la cristallinità ma entrambi erano sopravvissuti.
Al mezz’orco venne dato il nome di Gunmar, il padre volle che questo scuotesse l’animo dei nemici provocando terrore nei loro cuori mentre la madre desiderò avesse un tono solenne che venisse riconosciuto.
Ergok fu preoccupato che, vista l’indole caotica dei propri simili, lasciar solo il figlio e la madre sarebbe stato un rischio per entrambi, per questo motivo rimase con lei solo per poche settimane prima di tornare con il figlio al villaggio.
Per evitare le potesse accadere qualcosa aveva insistito rimanesse nella sua dimora, ma non avrebbe mancato di farle visita.
L’arrivo di un mezzosangue non era certo una cosa rara, vari orchi e orchesse avevano rapporti con altre specie, anche se questi non sopravvivevano mai a lungo visti i piccoli scontri tra giovani.
Durante i primi sette anni il giovane si mosse spesso tra le due case imparando dal padre le basi della caccia e delle lotte, durante questi allenamenti era capitato spesso venisse ferito ma Ergok aveva sempre evitato potesse essere qualcosa di grave, per questo motivo molti orchi iniziarono ad accusare il figlio di star ammorbidendo il padre, cosa mal vista tra tutti.
La madre invece faceva leva sulla sua istruzione, la sua cecità non le aveva impedito di imparare numerose informazioni di vari argomenti, gli insegnò il draconico, la lingua dei draghi, raccontandogli di come gli stregoni discendessero da essi.
Sotto il cielo stellato gli parlò di questi esseri maestosi e della conoscenza infinita paragonabile solo alla loro forza, e cullandolo tra le braccia gli sussurrava parole ispiratrici che lo vedevano come un futuro drago saggio e forte.
Alla sua istruzione partecipò perfino il padre che gli insegnò non solo la lingua degli orchi ma anche quella dei goblin, era strano un orco conoscesse più lingue ma aveva imparato quella durante un attacco a quelle creature.
Gli raccontò di come assieme a suoi simili si era spostato in una foresta lontana dove quei mostriciattoli vivevano, avevano tentato d’attaccarli ma era stato facile catturarli e mentre li torturavano aveva imparato il modo con cui comunicavano.
Gunmar crebbe seguendo il credo di Gruumsh, colui che non dorme mai.
La divinità orchesca era venerata anche dalla madre che ne aveva conosciuto l’esistenza grazie a Ergok, anche se non condivideva appieno il principio d’allontanare i deboli e ad esser sinceri lo stesso orco aveva smesso di farlo da quando l’aveva conosciuta, ma per quanto riguardava il caos era qualcosa che entrambi avevano sempre apprezzato.
Nei giorni al villaggio comunque al giovane non erano mancate le occasioni per interagire con altri della sua età ma questi erano più interessati ad uccidere e lottare, di conseguenza l’interesse che provava svanì rapidamente anche se vari tentativi c’erano stati.
Per loro natura gli orchi non erano gentili quindi non ci fu mai una vera e propria esclusione, aumentò solamente il pensiero comune di come il padre fosse diventato troppo morbido a causa del figlio, visto ogni volta accadeva qualcosa lui lo portava via, e così nacque anche il pensiero lo stesso Gunmar fosse solo un debole senza valore.
Una notte in cui il giovane stava tornando dalla tribù dopo esser stato a casa della madre per studiare iniziò a sentire nell’aria uno strano odore di fumo, seguendone la scia trovò un piccolo accampamento di una decina di uomini, rimase in silenzio nascosto tra i cespugli ascoltando le loro conversazioni scoprendo così che uno di loro era già stato nelle grotte della tribù e che era stato risparmiato dagli orchi, dopo poco tempo però aveva deciso di radunare dei suoi simili per rubare quante più pietre possibili nelle case del villaggio.
Da quel discorso Gunmar imparò una prima importante lezione, mai lasciare modo ad un nemico di tornare.
Nonostante la saggezza della madre gli avesse insegnato a comprendere varie situazioni era comunque un giovane cresciuto con i brutali valori degli orchi e, nonostante non avesse mai veramente ucciso prima d’ora, non aveva dubbi su ciò che avrebbe dovuto fare.
Purtroppo non possedeva alcun tipo d’arma ma questo comunque non lo fermò dal tentare di costruirne una. Radunò rapidamente alcuni rami, delle liane e delle pietre e, seghettandole con i denti, riuscì a costruire delle piccole lance, non molto ben fatte ma comunque efficaci su della semplice carne.
Lasciò che gli uomini bevessero e si crogiolassero nella loro sicurezza prima di attaccare, strisciò dietro uno dei tronchi su cui uno di questi si era appoggiato e con rapidità conficcò la punta della pietra nel collo dell’uomo.
Non poté impedirgli di urlare e questo allertò gli altri, mentre li loro compagno perdeva una copiosa quantità di sangue che macchiava il terreno e le mani del mezz’orco.
Questo cercò di allontanarsi per tentare nuovamente un attacco a sorpresa ma ormai era troppo tardi e prima che potesse farcela venne afferrato per un braccio da un uomo decisamente robusto che lo lanciò in mezzo al gruppo.
In un primo momento nessuno lo colpì preoccupati potessero esserci anche altri orchi ma presto uno di loro s’accorse che lui non era completamente di quella razza e con un ghigno gli sputò in faccia tirandogli il primo calcio allo stomaco.
Gunmar non si lasciò colpire però tanto facilmente ed anche quando questi attaccavano lui rispondeva con ferocia, si sarebbe potuto quasi definire un animale ma i suoi occhi lo tradivano, c’era di più in essi di quanto traspariva.
Ad un tratto un lampo bianco balenò nell’oscurità e del sangue viola venne sparso sull’erba.
Il normale sangue umano era rosso, quello della tribù degli Orghe blu, e così il suo era viola.
Uno degli uomini aveva aperto una profonda ferita sulla schiena del giovane che ululò dal dolore accasciandosi a terra.
Altri colpi arrivarono ma Gunmar riuscì ad evitare colpissero le zone più importante coprendosi con le braccia, si sentiva completamente inerme ed alle strette, il cuore gli batteva nel cuore come non mai mentre le orecchie fischiavano in maniera assordante.
Non voleva morire.
Senza curarsi di ciò che sarebbe potuto accadergli si alzò spingendo via le lame affilate delle armi degli uomini e tentò di caricare uno di loro, sentiva il suo intero corpo fremere ed una strana energia stava affiorando dal suo intero essere.
E poi…accadde.
Nessuno dei nemici riuscì a capire cosa fosse successo, un istante prima il mezz’orco stava cercando di colpirli e quello dopo era sparito.
Nemmeno Gunmar riuscì a spiegarselo, anche se si rese conto del fatto dopo gli altri.
Infatti lui non aveva mai smesso di muoversi ma quando aveva notato un’apertura nella difesa di uno degli uomini vi si era gettato contro portandosi alle sue spalle, solo quando fece per colpirlo si rese conto che la sua mano non c’era più.
Era diventato invisibile.
Il colpo andò comunque a segno ed aprì una ferita nel cranio del nemico e dopo pochi secondi rispetto all’urlo di questo il giovane tornò normale.
Sbalordito Gunmar si bloccò per qualche secondo permettendo sfortunatamente così agli otto restanti di individuarlo, un grottesco ruggito però li paralizzò.
Il sangue schizzò da ogni parte, le urla si persero nel bosco mentre il suono della carne lacerata e le ossa frantumate facevano da accompagnamento, Ergok era arrivato per salvare ancora una volta suo figlio.
I cadaveri dei nemici giacevano inermi ai piedi del gigantesco orco il cui sguardo era ora puntato sul cucciolo, gli orchi non erano mai stati di grosse parole ed anche per il più ottuso di loro sarebbe stato chiaro ciò che era successo, ma invece di ritenere quell’azione avventata il padre fu fiero delle azioni del figlio e così volle trasportare tutti i cadaveri al villaggio, mostrando a tutti loro che la morte era stata finalmente  portata dalle mani di Gunmar.
Per la prima volta dopo molto tempo nessuno mise in discussione la forza di Ergok, vedendo quanto sangue macchiava il suo corpo, ed anche Gunmar venne trattato da pari e rispettato per la ferita alla schiena, che sicuramente sarebbe divenuta cicatrice.
Ciò che riempiva però la testa del giovane non riguardava quelle cose ma la sparizione del suo corpo, il giorno dopo Ergok volle andare a casa della madre per raccontarle ciò che era accaduto e celebrare le azioni del figlio ma quando questo svelò loro ciò che era successo rimasero senza parole, solo le improvvise lacrime della donna spezzarono il tempo che parve essersi fermato.
Poche volte prima d’allora era stata più felice, loro figlio era uno stregone.
Anche il padre ne fu felice visto significava avrebbe potuto essere ancora più forte e per molti giorni rimasero insieme gioendo dell’accaduto. Solo in seguito gli allenamenti del ragazzo si intensificarono.
Idrys iniziò ad insegnargli tutto ciò che sapeva e che aveva imparato nel corso del tempo, di giorno lasciava che il padre lo istruisse nelle lotte mentre di notte lei gli insegnava a controllare la propria magia.
Andarono avanti così per circa quattro anni, il corpo del mezz’orco iniziava a crescere  come quello dei suoi coetanei ma era palese la differenza, mentre loro diventavano grossi, brutali o grotteschi lui manteneva una muscolatura ben definita, un aspetto fiero ma composto, entrambi i risultati erano dati dai genitori, gli allenamenti di Ergok gli davano modo di sviluppare anche la propria agilità e prontezza nei riflessi mentre Idrys premeva non solo perché imparasse gli incantesimi ma anche quanta più cultura possibile e che si mostrasse all’occorrenza un essere civile.
A quattordici anni ciò che la madre conosceva stava volgendo al termine e per questo ella decise di portarlo a Talas, desiderava imparasse l’importanza dei libri e che accrescesse la sua conoscenza attraverso essi, purtroppo non era stato affatto facile insegnargli anche a leggere e per questo c’erano molte lacune nella sua istruzione, ma non abbastanza da frenarlo.
L’indole di entrambi i genitori aveva formato il suo carattere dandogli un tono di curiosità e testardaggine, difficile dire a chi dei due appartenessero rispettivamente.
In una splendida giornata i due si recarono davanti alle porte della capitale, nonostante il passaggio degli anni la tensione non era diminuita ma l’unico cambiamento era stata la comparsa di una guerra fredda, anche così però l’accesso alla città era consentito a chiunque.
Senza mai lasciare la mano del figlio Idrys gli chiese di descrivere passo per passo ciò che li circondava, Gunmar le parlò allora delle gigantesche mura grigie percorse da sottili rampicanti su cui erano aggrappati dei fiori dai vari colori, parlò del fiume cristallino che circondava la città e sotto le cui pareti risplendevano migliaia di gemme, descrisse le gigantesche ma lontane torri della zona più ricca e le basse case fatte di pietra, parlò dei ciottoli che componevano le strade e di tutti i curiosi negozi che si trovavano tra le vie.
La mano del ragazzo era stretta a quella della madre per l’emozione mentre i suoi occhi restavano spalancati per la meraviglia, ogni cosa lì era una nuova conoscenza.
Quando arrivarono alla biblioteca il cuore del giovane sembrò scoppiare, non riuscì nemmeno a parlare tanta era l’emozione.
Libri su libri erano accatastati su scaffali che arrivavano fino al soffitto mentre un arazzo di gemme decorava  il soffitto in legno.
Iniziò a studiare partendo dalla cultura di quante più razze possibili, conobbe gli halfin, gli gnomi, gli elfi e mezz’elfi, venne perfino a scoprire cose degli orchi e dei mezz’orchi.  
Lesse perfino di varie classi quali stregoni, paladini, maghi, bardi, barbari e ladri. 
Tutto ciò era comunque approssimativo ma non sminuì la gioia del ragazzo, a questo però pensarono coloro che vivevano nella capitale…
Un gruppo di giovani studiosi notò presto l’arrivo del mezz’orco ed espresse chiaramente la propria indignazione verso la sua presenza.
Lo definirono indegno di quel sapere, un grottesco obbrobrio incapace d’apprendere qualcosa e che insudiciava i libri con la sua sola presenza.
Quando notarono anche fosse un mezz’orco lo definirono impuro.
Gunmar ringhiò loro contro con fare minaccioso ma questo li portò solo a ridere e a sostenere avessero la conferma della sua bassezza.
Idrys disse al figlio di non far caso alle malelingue, che lui era meglio di loro e per evitare potessero continuare a ferirlo in simili modi decise che per quella giornata lo studio era finito.
Il ragazzo però si sentiva punto nell’orgoglio e fu una grande fatica per lui tornare a casa, chiedendogli il perché l’avessero chiamato impuro.
A malincuore Idrys gli spiegò che la varietà di razze nel mondo impediva ad alcune persone di vedere quanto tutti fossero simili tra loro, considerando alcuni in posizioni più alte di altre, ma non era così che stavano le cose.
Tutti loro facevano parte dello stesso mondo e condividevano esperienze comuni, inginocchiandosi al figlio lo pregò di non esser mai così, di non pensare mai fosse superiore a qualcuno solo perché era di una razza diversa, ricordandogli quale malessere ciò avesse provocato in lui.
Come prova delle sue parole parlò anche dell’amore che provava per il padre, nonostante fossero diversi lei guardava a ciò che c’era dentro il suo cuore.
Giurando Gunmar lasciò la madre nella propria casa, tornando verso la tribù, quella sera però non andò a coricarsi presto ma rimase appollaiato su uno dei rami degli alberi ad osservare il cielo.
In lui c’erano molte emozioni a dar battaglia, rabbia per quegli studiosi, desiderio di rivincita nei loro confronti, il bisogno di qualcosa di più…
Quando l’ora divenne estremamente tarda arrivò anche il padre per controllare cosa stesse facendo, la sua altezza gli permetteva quasi d’arrivare a quella del giovane. Prima di farlo scendere si fece raccontare il motivo del suo atteggiamento freddo ed alla spiegazione alzò il pugno verso il cielo ruggendo.
Iniziò poi a parlargli della forza della sua razza, del fatto che non doveva piegarsi a nessuno e che il sangue dei suoi nemici avrebbe bagnato le sue mani nel momento opportuno, ma mai doveva abbassare il capo di fronte a qualcuno, non importava la razza.
Il giorno dopo comunque la prima cosa che Gunmar fece fu tornare alla capitale per imparare ancora più cose e dimostrare a quegli studiosi che si sbagliavano sul suo conto, purtroppo il fatto fosse solo non evitò a molto d’insultarlo o perfino lanciargli oggetti contro per farlo uscire dalla biblioteca, non tutti erano così ovviamente, c’erano stati alcuni che si erano opposti a tali azioni, tra cui un anziano nano che viveva nella capitale da parecchi anni.
Il suo nome era Bugnus, dall’aspetto tozzo era alto solo 1,20 ed aveva 300 anni. Privo di capelli ne compensava la mancanza con le folte sopracciglia che gli coprivano gli occhi ed una barba bianca arricciata.
Nonostante non corresse buon sangue solitamente tra orchi e nani Bugnus aveva spesso notato negli ultimi mesi Gunmar alle prese con i libri della biblioteca, visto comunque era solito bere per numerose ore nella locanda dall’altra parte della strada.
Così aveva potuto anche notare i maltrattamenti via via sempre più insistenti degli altri studiosi ed un giorno s’intromise scacciandoli in malo modo.
In un primo momento canzonò il giovane perché non era stato in grado di difendersi, parlando di come gli orchi sapessero essere brutali e pericolosi, ma in seguito dovette ammettere che la sua resistenza era stata notevole.
Quando Gunmar gli chiese il motivo della sua intromissione questo rispose che era stata causata da un briciolo di caso e molta curiosità. Per molto tempo quando il mezz’orco passava davanti alla biblioteca si fermava a guardare il vecchio nano con un impercettibile segno di saluto, passarono altri mesi prima che questo parlasse nuovamente con lui.
Accadde stavolta al tramonto, il mezz’orco era rimasto tutto il giorno a cercar di leggere delle scritte antiche ma con scarso successo, il nano vedendo la frustrazione nei suoi occhi lo chiamò con ben poca grazia a bere e l’altro, seppur dubbioso, accettò.
Inutile dire che fosse solo un ragazzo quindi la sua capacità nel bere non s’avvicinava nemmeno lontanamente a quello dell’anziano, che era comunque divertito dai suoi tentativi, così all’improvviso gli fece una proposta.
Se fosse riuscito a trangugiare un intero barile della miglior bevanda nel locale, lui gli avrebbe insegnato alcune delle cose che sapeva.
In risposta al perché disse che si trattava solo di curiosità e divertimento, e che dopo anni in quella monotona città qualche sfida era accattivante.
L’aspettativa di ciò che Bungus poteva sapere era decisamente allettante e per questo motivo subito l’altro tentò di vincere la sfida, ma i risultati furono molto scarsi e nauseanti, tanto che riuscì a tornare alla tribù solo dopo qualche giorno.
La sua tenacia però era decisamente più forte del suo giovane stomaco, ogni giorno faceva l’impossibile per riuscire nell’impresa e di volta in volta riusciva anche a migliorarsi, ogni volta inoltre era il nano a pagare, dicendo che quella era stata una sua idea e che visti i danni il giovane faceva al proprio corpo era il minimo non farlo pagare.
I suoi studi e la sua gara però furono interrotti dal padre, il suo sedicesimo compleanno si stava avvicinando e questo significava avrebbe dovuto dar prova di se stesso durante la cerimonia per il passaggio all’età adulta.
Per un intero anno tutti gli allenamenti di Gunmar riguardarono soltanto la lotta, notte e giorno furono usati per migliorarlo e temprarlo, il suo corpo cambiò ancora diventando più robusto di un umano ma comunque più gracile di altri orchi. La sua voce stava cambiando ed i suoi ruggiti erano più forti e profondi, le rarissime volte in cui aveva rivisto la madre questa non aveva potuto non notarlo, ma anche così non lo temeva ed accarezzandogli il viso e curandogli le ferite diceva stava avendo una voce simile a quella del padre.
Durante uno di questi momenti, in cui quest’ultimo non era presente ed i due si trovavano a casa di  Idrys, lo stesso gruppo che per molto tempo aveva perseguitato lo studio del mezz’orco si era radunato oltre la casa della donna, iniziando a colpirla con vari oggetti al solo scopo di far uscire entrambi.
Urlavano quanto fosse stato immondo il suo atto, come fosse un sacrilegio la sole esistenza di una creatura simile e che il suo unico posto fosse i meandri più bui del regno.
Solo in quell’occasione Gunmar attaccò ferocemente, nel corso del tempo aveva imparato ad usare la propria magia ma in quell’occasione non si degnò d’usarla, voleva che quei vermi venissero schiacciati dalle sue stesse mani e dimostrargli che lui anche solo così era meglio di ciò che credevano, si limitò solo a proteggersi dai colpi magici.
Non poté però farlo quando i nemici iniziarono ad aggredire anche la madre e tentarono di dar fuoco alla casa, se in un primo momento aveva mantenuto la sua parte umana a quell’azione gli occhi del mezz’orco si tinsero di sangue e furia omicida ed iniziò ad aggredire con ancor più brutalità i giovani uomini.
Conficcò le zanne nella loro carne, strappò pelle ed abiti insieme, smembrò quanto più dolorosamente i corpi fino a quando non ne restarono che un paio.
Spaventati gli ultimi tentarono un attacco congiunto ma a causa del mancato controllo la mira fallì ed un incantesimo venne scagliato contro la madre.
Per Gunmar fu come se il tempo rallentasse, il suo corpo si muoveva ma la sua mente era completamente staccata, capiva ciò che stavano facendo ma non ne comprendeva il motivo.
In pochi istanti gli occhi del mezz’orco vennero abbagliati da una luce intensa, ogni suono svanì mentre un dolore lancinante lo colpì al viso costringendolo a piegarsi su se stesso.
Quando riuscì a riaprire gli occhi si sfiorò la guancia avvertendo la mancanza d’un grosso strato di pelle ed il sangue violaceo aveva completamente sporcato la sua mano, con la gola secca alzò lo sguardò verso i due colpevoli e vide che ormai erano già corsi lontani.
Il cuore riprese a battere rapidamente e con un ringhio gutturale Gunmar prese a rincorrerli muovendosi proprio come una bestia, non gli importava del dolore voleva solo ucciderli.
Quando raggiunse il primo gli azzannò il collo spezzandolo con un solo morso e gli staccò la testa con un colpo secco, al secondo che era caduto riservò una fine più dolorosa sbranandogli il petto arrivando fino al cuore, prima di poterlo uccidere però gli sentì dire che avevano sempre avuto ragione e che era solo un mostro.
I suoi morsi divennero più lenti e si bloccarono quando azzannarono l’organo pulsante, mentre la bava sporcava la cassa toracica gli sembrò di rivedere ogni singola scena di quel massacro.
Alzò gli occhi verso sua madre che si trovava a terra svenuta e sulla casa che per puro miracolo non aveva preso vuoto, muovendosi come un animale ferito le si avvicinò riportandola in casa.
Mentre le curava le ferite non riuscì in alcun modo a trattenere delle lacrime, si sentiva come se l’avesse delusa, come se ogni suo insegnamento fosse stato inutile e fatto solo su una bestia.
Quando aveva ormai finito di sistemare ogni cosa ed ebbe radunato i cadaveri la sentì chiamare il suo nome, fortunatamente non le era successo nulla ma era stato un attacco piuttosto grave. 
Lei però nonostante avvertisse l’odore del sangue sul suo corpo gli accarezzò con amore il viso riservandogli solo parole gentili ed accarezzandogli la testa quando lui l’appoggiò al letto dando modo alle varie emozioni di uscire.
A sera Ergok li raggiunse e cercar di definire la sua ira sarebbe stato completamente inutile, per tutta la vita del figlio aveva preferito che la compagna non vivesse assieme a lui, gli orchi della tribù erano guidati dal caos e sarebbe stato molto pericoloso per lei, non avrebbero mai potuto accettarla con facilità e non era nemmeno detto qualcuno non intendesse riservarle una sorte orribile solo per puro divertimento. Anche così però la sua vita era stata messa a rischio.
Era ovviamente furioso anche che avessero tentato di far qualcosa al figlio ma lui era in parte orco ed era certo se la sarebbe potuta cavare, i tagli che aveva sul viso ne erano la prova e perfino per Gunmar erano un simbolo da non nascondere.
Gli avrebbero ricordato come qualsiasi creatura era capace di far cose orribile, di come le apparenze ingannassero nascondendo quando gli altri erano simili e di come lui stesso era capace d’essere una bestia.
Non sarebbe stata comunque la sua ultima lotta…
Il giorno dopo era infatti il sedicesimo compleanno di Gunmar.
Durante l’intero pomeriggio vennero allestiti i preparativi completi per la cerimonia, tutti diedero una mano tranne ovviamente i giovani che avrebbero dovuto lottare, questi preferivano allenarsi o fare altro, tutti ad eccezione di Gunmar.
Il ragazzo era rimasto nella “casa” del padre, in realtà era più simile ad una grotta scavata nel terreno ma che era stata comunque sistemata in modo da essere abitabile.
Pareti, pavimento e soffitto erano stati lavorati a fondo facendo sì non si corresse il rischio che qualche sasso cadesse e grazie a delle speciali pietre azzurrognole c’era anche una discreta illuminazione.
Avevano scavato circa tra stanze la principale dove si trovavano i trofei delle lotte di Ergok, il cibo ed alcune armi, e le stanze dove i due dormivano su dei letti costruiti con foglie e paglia.
Il ragazzo si trovava sopra il proprio intento a fissare la parete, rivedeva nella sua testa infinite volte il momento in cui aveva fatto rischiare la vita della madre ed anche se non era successo sentiva una forte colpa nel cuore.
Solo perché lo reputavano diverso era successo tutto ciò, ma se avesse potuto dimostrare il contrario forse avrebbe ricevuto qualcosa di meglio…
Questi pensieri attraversarono rapidamente la sua mente ma il tempo scorreva altrettanto velocemente e prima che potesse rendersene conto suo padre era venuto a chiamarlo per la lotta.
Il ragazzo uscì dal suo nascondiglio quando le stelle erano già alte in cielo e splendevano solo per quei giovani guerrieri, assistendo al rito di passaggio all’età adulta.
Camminando in mezzo al villaggio Gunmar sentì tutti gli occhi su di sé ed anche alcune risate di scherno, poté udire facilmente le previsioni di alcuni secondo i quali non sarebbe durato nemmeno mezz’ora perché era impuro, e perfino contro dei cuccioli non avrebbe potuto farcela.
Ancora una volta il suo essere lo portava a farsi sottovalutare.
Al centro del villaggio era stato disegnato un gigantesco cerchio con della sabbia ricavata dai teschi dei caduti della tribù e tutti gli orchi attendevano fuori da esso che il rituale iniziasse, a poco a poco tutti i giovani andarono a mettersi in fila lungo la linea del cerchio.
Il più vecchio degli orchi si prese qualche minuto per pronunciare alcune parole rivolte ai combattenti, incitandoli a non trattenere la loro furia in vista di ciò che sarebbe accaduto, nemmeno la morte era vietata.
La lotta partì al suono di un corno intagliato con le ossa di una creatura sconosciuta e forse mitologica, i giovani entrarono subito nel cerchio iniziando a colpirsi tra loro con artigliate, pugni, morsi e quant’altro.
Non c’era nulla di corretto in una simile lotta, anche se per lo meno non prevedeva l’uso d’armi, ma in breve fiotti di sangue iniziarono a macchiare la recinzione di polvere.
Gunmar per almeno la prima ora riuscì a schivare ogni colpo, approfittando del fatto che fosse molto più esile degli altri riusciva a mostrar movimenti più fluidi e scattanti, ancora però non aveva colpito nemmeno una volta un suo pari.
Alla terza ora i più deboli erano già ricoperti dal loro stesso sangue mentre i più forti sentivano crescere dentro di loro l’eccitazione della lotta e la frenesia che li avrebbe guidati nei campi di battaglia, volevano vedere sempre più sangue e chi non ne era ancora coperto veniva preso di mira.
Erano partiti in una ventina o giù di lì a lottare ed ormai solo la metà era quasi completamente illesa o provata dalla lotta, fu alla quinta ora che la situazione per Gunmar si fece più complicata.
Quasi tutti sembravano volergli dare contro, i colpi presero solo ad essere rivolti contro di lui ed allo stesso modo insulti e provocazioni.
Dicevano che era solo un debole incapace di reagire, che indeboliva quelli attorno a sé e che non era un vero orco.
Fu così che lui fu costretto a combattere sul serio, i suoi colpi ovviamente non avevano la stessa forza degli altri ma erano mirati in maniera più coscienziosa e grazie a ciò poté stenderne ben più di uno. A causa del fatto non stava più lontano dagli scontri venne colpito più volte, evitando comunque qualcosa di troppo grave, e quando finalmente l’alba conquistò il suo essere divenuto adulto.
Durante tale festeggiamento però, mentre il padre gioiva ruggendo al sole nascente in onore del figlio assieme agli altri genitori, lui non provò alcuna particolare gioia o senso d’appartenenza.
Da quando era nato gli era stato fatto capire che non essendo un completo orco non valeva né come né più degli altri di quella razza, mentre siccome ve ne apparteneva per metà non poteva essere al pari di razze diverse e che non sarebbe mai stato colto, rispettabile ed intelligente.
Questo suo essere niente e tutto lo faceva sentire vuoto ed immeritevole di quell’orgoglio paterno che Ergog stava dimostrando.
In quel momento il suo unico desiderio divenne quello di poter riscattare il suo intero essere agli occhi di quel mondo che non faceva altro che sottovalutarlo, e di ottenere degnamente il merito che desiderava.
Abbandonò il banchetto verso le otto del mattino e si diresse verso Talas senza mai guardarsi indietro, non aveva dato alcuna spiegazione ed aveva rifiutato ogni invito dato dagli altri.
Camminando a passo spedito ignorò gli sguardi malevoli che le persone gli lanciavano mentre passava e si diresse verso la locanda che ormai non vedeva da parecchi mesi, lì non fu difficile trovare Bungus nello stesso identico tavolo in cui sedeva da anni.
Ancora il mezz’orco era sporco di sangue e terra, e le sue ferite erano facilmente definibili come fresche, forse per questi tutti non apprezzarono la sua vista ma a Gunmar non importò, andò a sedersi davanti al nano senza dire nulla e si fece portare  l’ennesimo barile oggetto di sfida.  Il ghigno divertito del nano aumentò ad ogni sorso del giovane che negli anni aveva raggiunto una resistenza sempre maggiore agli alcolici, dopo quella notte che l’aveva provato quasi non gli importava nemmeno vincere la sfida, voleva solo alleviare il senso di dolore e di desolazione che portava nell’animo.
Fu grazie a ciò che riuscì a finirlo completamente e per darne prova distrusse il legno con le proprie mani mentre il nano rideva ormai senza remore, invece che congratularsi però andò subito al sodo dicendo che siccome aveva vinto la scommessa gli avrebbe concesso ogni giorno cinque minuti del suo tempo per insegnargli qualcosa.
Inizialmente Gunmar protestò dicendo che solo cinque minuti erano troppo pochi ma Bungus replicò che dal punto di vista di un nano, capace di vivere per quasi più di 370 anni, cinque minuti ogni giorno in una vita intera ammontavano a 3514 minuti, un bel po’ di tempo che avrebbe concesso al suddetto vantaggi e conoscenze utili. 
Visto comunque che il mezz’orco difficilmente avrebbe potuto raggiungere tale età aggiunse che, anche nei giorni in cui non si sarebbero visti, lui avrebbe scritto su un libro il suo sapere fino alla sua morte per cinque minuti, così al loro incontro lui avrebbe potuto leggere con calma.
Non avendo quasi la forza di obbiettare e trovando fosse già tanto che un nano volesse arrivare a tale compromesso con un mezz’orco Gunmar si vide costretto ad accettare e subito dopo ciò Bungus prese a parlare in maniera rapida a riguardo delle gemme, più precisamente sul modo in cui esse potevano esser tagliate.
Gli esseri umani solitamente facevano tale lavoro su pietre preziose per renderle oggetti d’abbellimento, altre razze invece più esperte d’arti magiche lo facevano per rivelare il vero potenziale racchiuso in quelle pietre.
Per farlo era necessaria non solo una fucina ben fornita ma anche una conoscenza delle singole pietre e di determinate rune, prima però che potesse sporgersi più su tale argomento il tempo finì e lui riprese a bere con una sonora risata.
Distrutto per la giornata l’unica cosa che il giovane riuscì a fare fu trascinarsi fuori dalla capitale procedendo verso l’immensa radura che separava il centro abitato dalla foresta dove viveva, lo stacco tra quei due mondi quasi lo fece ridere ma non era lì che era diretto.
Quando il sole fu alto nel cielo giuste allo stesso lago in cui era stato concepito e lì vi si immerse lasciando che il suo sangue macchiasse ancora l’acqua limpida di quel luogo, regolando il proprio respiro rimase a metà di quello specchio che rifletteva in quel modo ironicamente la sua vita.
Osservò le nuvole scorrere sotto i suoi occhi, udì ogni suono presente attorno a sé e rimase in assoluto silenzio lasciando rilassare i propri muscoli, rimase per quasi sei ore fermo nella stessa posizione fino a quando la madre, che faceva visita al lago ogni giorno, non lo raggiunse.
La prima cosa che lei fece fu congratularsi per la riuscita della sua prova di maturità e sentendo chiaramente l’odore del sangue volle pulire le ferite del figlio immergendosi a sua volta in acqua, vicino alla riva questa non era molto profonda e ciò permise a lei di star comodamente seduta, lasciando che solo la gonna dell’abito si bagnasse, mentre a Gunmar concesse di star sdraiato con la testa appoggiato alle gambe della madre.
Per almeno un’altra ora non ci fu altro che silenzio, fino a quando il giovane non iniziò a raccontare come si erano svolti i fatti ed anche la sua riuscita della vincita con quel nano, inutile dire che l’orgoglio di Idrys cresceva sempre più ma sentiva nella voce dell’altro una nota amara, chiedendone spiegazione la ricevette rapidamente.
Si trattava di ciò che era e di ciò che non era, la sua parte orchesca forse poteva aver raggiunto la maturità ma non voleva dire fosse lo stesso per quella umana, aveva vissuto in bilico tra i due mondi e solo in quel momento iniziò a temere il momento in cui avrebbe dovuto scegliere quale fosse realmente il proprio.
La risposta della madre però fu carica di premura e comprensione, gli disse che lui non avrebbe mai dovuto scegliere se non lo desiderava, era un figlio del caos e la sua anima avrebbe potuto correre in ogni dove, che fosse nel mondo degli orchi o in quello degli umani, oppure dai nani e perfino dagli elfi.
L’ultima frase fu accompagnata da una risata del figlio che s’immaginò come potesse esser la vita di quella razza, e visti gli stereotipi faticò ad immaginarsi vestito in maniera altezzosa e con i loro lunghi capelli biondi ed il viso pallido.
Idrys continuò dicendogli che il fatto fosse un mezz’orco non lo limitava o penalizzava, anzi gli dava qualcosa in più rispetto agli altri esseri comuni.
La sua parte umana discendeva dai pionieri e dai conquistatori, da abili mercanti e viaggiatori, quegli esseri in apparenza così deboli erano tra i più flessibili alle intemperie della vita e si spingevano dove pochi osavano. La loro diversità perfino nella loro stessa razza generava infinite possibilità da esplorare.
La parte orchesca invece portava con sé l’insormontabile forza dei suoi predecessori che lo rendeva di fronteggiare le peggiori minacce facendo sì che ne uscisse quasi illeso, il loro essere gli avrebbe dato modo d’apprezzare i piaceri più semplici come il buon cibo, il bere, il cantare e, come ad esempio lampante, perfino quel piccolo lago che nulla aveva di particolare per gli altri.
E non era certo solo questo, per chi era in grado di vedere non solo con gli occhi, come ad esempio lei, Gunmar era molto più di ciò che mostrava la dura scorza verdastra della sua pelle.
Vedeva un giovane verso cui si prospettava un futuro ricco, da cui avrebbe potuto trarre tutti i vantaggi desiderava, vedeva una giovane curiosità che l’avrebbe potuto portare oltre i limiti degli alberi attorno al suo villaggio, un’intraprendenza e coscienziosità che avrebbero potuto renderlo un abile oratore ed un giovane cuore che gli avrebbe dato modo di distinguere tra bene e male.
Gli disse di seguire sempre il caos nel suo animo, quello l’aveva spinta a recarsi in quello stesso lago e ad Ergok aveva dato modo di sviluppare una sana curiosità nei suoi confronti, l’intero universo era dettato da quell’unica legge che lui non poteva contrastare ma poteva volgere a suo favore.
Non c’erano limiti per i figli del caos e lui era uno di loro.
La cecità della donna le impedì di vedere delle lacrime scorrere lungo gli occhi del figlio, ma l’udito e le mani di lui che si aggrapparono alla gonna le permisero d’udire i singhiozzi trattenuti in gola. 
Rimasero nella loro tranquillità fino a quando le stelle non riempirono il cielo sopra ai due, solo allora si decisero ad allontanarsi tornando alle loro rispettive case.
Per circa due giorni Gunmar non uscì dalla propria casa, rimase nell’oscurità a riflettere sulla propria condizione, su ciò che avrebbe potuto fare per ribaltarla.
Tentò d’ideare qualsiasi tecnica per farlo ma si rese ben presto conto che nell’ignoranza della propria condizione rispetto all’intero mondo erano troppo basse per poterglielo permettere e che avrebbe dovuto uscire dai propri schemi.
Solo una volta che fu certo della propria posizione uscì per incontrare il padre e la madre, per informarli sulla propria decisione.
Chiese ad Ergok di poter andare poter andare alla casa di Idrys e solo una volta furono tutti insieme ne parlò, non cercava approvazioni o permessi ma non intendeva andarsene senza averli informati.
Entrambi non mancarono però di mostrare il loro orgoglio, la madre comprendeva maggiormente a livello di cultura le sue preoccupazioni mentre il padre era solo orgoglioso si volesse mettere alla prova e dimostrare quanto valeva.
Per il suo viaggio decise di portarsi dietro solamente una penna ed un foglio su cui avrebbe costruito una mappa di ogni luogo da lui visitato, come vestiario scelse qualcosa di semplice, il petto lo lasciò nudo coprendosi le spalle con un lungo mantello marrone scuro che gli arrivava fino ai piedi, all’ estremità superiore di questo c’era una lunga corona di coltelli che avrebbe potuto tentar d’usare sfilandoli dalle sottili fodere nascoste nel momento del bisogno, il mantello era chiuso da una spilla che raffigurava l’immagine con cui il suo dio era conosciuto, una pietra ovale e violacea in cui sembravano potersi vedere alcune venature in determinati punti, con una piccola fossa a forma di rompo al centro e dentro cui c’era a sua volta un’infinita voragine nera. Poteva quasi sembrare solamente un occhio per chi non ne conosceva l’origine, ma per lui aveva una grande importanza.
La vita invece era nascosta sotto una cintura di pelliccia bianca dalla cui estremità inferiore pendeva una stoffa viola, che in parte avvolgeva anche la vita del mezz’orco mentre un grosso pezzo gli arrivava fino alle ginocchia. Alle gambe invece portava dei pantaloni marroni nascosti però da dei grossi stivali di ferro con sfumature nere e degli artigli argentati ai piedi.
Anche se il viso era ancora giovane non si poteva certo dire non fosse cambiato rispetto a pochi anni prima, si era fatto più quadrato e la fronte e la mandibola erano più larghe, le sopracciglia si erano poi fatte volte e gli erano cresciute delle basette ai lati del viso, su cui ancora si vedeva con facilità le tre cicatrici lasciate dall’attacco degli studiosi contro la casa della madre.
I capelli neri, che mai aveva voluto tagliare, erano annodati con una sottile coda di cavallo che gli arrivava quasi al fondoschiena.
Sistemata all’interno della borsa la penna ed il foglio volle andare prima di partire da Bungus, per informarlo non si sarebbero visti per un po’.
Come un anno prima aveva trovato il vecchio seduto al solito tavolo con però una visibile differenza, sulla superficie di questo c’era un grosso libro dalla copertina marrone e le pagine che sembravano nuove di zecca, quando il nano lo vide storse leggermente il naso borbottando qualche parola sul fatto avrebbe quasi scommesso un occhio che, dopo aver vinto la scommessa, non sarebbe più tornato da lui e che si era quasi convinto la cultura per lui non fosse così importante come gli aveva dato credere.
Alla spiegazione di Gunmar poi disse che erano solo tutte scuse ma gli mostrò anche il libro che teneva con sé, aprendolo il mezz’orco poté vedere che molte pagine erano già state scritte.
Bungus disse poi che lui era un nano di parola, e che anche se non fosse mai tornato lui non avrebbe mai smesso di scrivere su quel libro.
L’altro mostrò un ringhio simile ad un sorriso mentre leggeva rapidamente le pagine, la prima parte riguardava la cultura dei nani ed il fatto che erano esperti minatori, abili fabbri e formidabili guerrieri  valorosi in battaglia. Erano inoltre tipicamente resistenti alla magia ed ai veleni, avidi però con l’oro e metalli preziosi.
Solitamente la loro razza viveva organizzata in clasn in cittadelle naniche fortificate scavate nelle profondità della terra al di sotto di zone caratterizzate in superficie da montagne o colline; generalmente questi insediamenti si trovavano nei pressi di miniere e, in questo caso, sono costruite apposta anche per fungere da ingresso alla miniera e prima linea di difesa. Le attività principali dei nani erano poi quelle legate all'estrazione; successivamente vendono il ricavato delle attività minerarie o lo lavorano nelle fogge per fabbricare ottime armi ed armature. Secoli di vita sotterranea ha fatto sviluppare negli individui della razza anche la capacità di vedere al buio; finché si trovano sottoterra sono inoltre capaci di rilevare molto facilmente la presenza di gallerie, passaggi segreti, trappole, porte nascoste, dislivelli, nuove costruzioni ecc. I linguaggi normalmente conosciuti dalla razza sono Nanico e Comune.
Scoprì inoltre che non erano molti ad apprezzare il mare, soprattutto per viaggiare.
In alcune pagine erano anche descritte leggende della loro razza, come Fanfur il tossico, che per sconfiggere una potente creatura carica di veleno s’allenò anni nel tentare di contrastare gli effetti di esso, ingerendo giornalmente quantità di veleno in modo il suo corpo potesse abituarsi.
In questo modo riuscì ad uccidere la bestia, anche se il suo intero corpo puzzò di miasma per anni al termine dell’impresa.
Questo a dimostrare dove poteva portare la testardaggine dei nani.
Scoprì perfino che i nani sono generalmente diffidente, soprattutto con le razze che vivono esclusivamente in superficie, ma può rivelarsi generoso e fedele, specie se non viene tradito. Ha un grande senso della famiglia e dell'onore e che ai nani non piacciono gli elfi probabilmente perché li ritengono frivoli, superficiali e dediti alla "pericolosa" magia, verso la quale sono quasi sempre scettici; sono invece ben disposti verso gnomi ed halfling, mentre odiano gli orchi e i goblin, che attaccano a vista. I mezz’orchi fortunatamente invece venivano visti solo con diffidenza e per la prima volta questa sua caratteristica gli tornò utile.
C’erano anche alcuni appunti riguardanti il modo di fabbricare armi e scudi, quella parte lo interessò molto visto fino ad ora non era mai stato solito ad usare un’arma, ma un giorno fabbricarla si sarebbe potuto rivelare utile.
Al termine di questa lettura consegnò nuovamente il libro al nano, spiegandogli che per altro tempo ancora non si sarebbero visti per un viaggio avrebbe intrapreso, l’altro rispose nuovamente con il fatto la mancata fiducia dei nani verso razze come la sua era giustificata vista l’inaffidabilità loro, ma Gunmar era certo non avrebbe smesso di scrivere su quel libro fornendogli altre informazioni.
Senza più alcun vincolo a trattenerlo il giovane mezz’orco iniziò così il suo viaggio, segnando da subito la foresta nella quale era cresciuto e la capitale poco distante da esso, da ogni luogo che avrebbe visitato avrebbe sempre cercato d’ottenere un qualche tipo di conoscenza in più, solo allora l’avrebbe disegnato sulla mappa.
La sua prima meta, dopo essersi ben informato, fu una cittadinella che distava a circa tre giorni di viaggio a piedi da Talas, procedendo verso nord-ovest, si chiamava Ardia e durante il periodo di guerra fredda che imperversava nel regno non aveva mai mostrato una ferma posizione, ma era talmente piccola che non suscitava alcun interesse.
Rispetto alla grande capitale era composta da case molto più piccole, i muri di queste ovviamente erano in gran parte ricoperte di fiori dai pistilli gemmati ma non v’era alcun luogo imponente che attirasse l’attenzione.
Le persone che vi vivevano erano di varie razze, ma gli orchi o i mezz’orchi erano comunque pochi visto tanti preferivano vivere in modo solitario o nella natura.
Dai pochi che incontrò, fortunatamente civilizzati e ben disposti a parlare con un simile, capì che Ardia era più che altro usato come sosta dai mercanti che dovevano fare lunghi viaggi da città in città, i minerali che possedevano erano molto comuni ed il luogo era buono solo per chi voleva una vita tranquilla.
Il primo luogo che volle visitare fu la biblioteca, ma anche questa non era nulla in confronto a ciò che era abituato, i libri interessanti si potevano contare perfino sulle dita di una singola mano e riguardavano per lo più pietre particolari e le loro proprietà.
Si fermò in quel luogo per circa quattro giorni ed al termine d’esso ormai ne conosceva pressappoco le strade principali, era già pronto ad andarsene quando notò una gran massa di persone accalcata davanti a quello che sembrava una specie di palco appena fabbricato in legno.
C’erano alcuni striscioni sopra ma le scritte azzurre sembravano incomprensibili, e non perché fossero in una lingua diversa ma proprio la scrittura era molto poco chiara, e non solo lui lo diceva.
Dall’altra parte della folla però una giovane voce attirava ancor più persone e ben presto lui si ritrovò immerso in quel caos di gente, a quanto pare la persona che li stava attirando era una giovane gnoma dal viso paffuto e lentigginoso, dai capelli e gli occhi marroni vestita con un abito di pelliccia.
Da quel che urlava sosteneva d’esser la migliore inventrice del regno e che si trovava lì per vendere i tesori da lei creati, oggetti in grado di semplificare la vita di tutti quanti.
Sul palco assieme a lei c’erano strani macchinari in ferro che Gunmar non aveva mai visto, ma dai quali era comunque attratto.
Non furono in pochi quelli che, attratti da una prospettiva più agevole di vita, vollero aprire i loro portafogli per comprare il più possibile, la gnoma però sembrava scegliere accuratamente i propri clienti e per dar prova della sua abilità nelle invenzioni le faceva provare sotto gli occhi di tutti.
I suoi occhi si muovevano abili tra la folla, era chiaro che volesse dar quelle prove per convincere anche i più sospettosi e quando videro Gunmar sembrarono brillare di vita propria.
Urlando lo indicò chiedendogli ciò che gli servisse, affermando lei avrebbe potuto darglielo, lui rispose però che non aveva denaro da darle e lei, interpretando la verità come un modo di dirle non aveva intenzione di pagare per cose reputasse inutili, rispose gli avrebbe dato ciò che voleva gratis, ovviamente era un’altra strategia per attirare persone, ma la prospettiva interessò il mezz’orco che sicuramente non avrebbe potuto perderci nulla.
Espresse così il suo desiderio per una spada e lei rispose che non c’era nulla di più facile per la grande inventrice Mitria, dietro ad alcuni macchinari rivelò una gigantesca sfera metallica che lasciò tutti perplessi, questa aveva anche un foro in cima e alcuni pulsanti ai lati.
Mitria ne schiacciò alcuni e, prendendo della sabbia dal retro del palco, la versò all’interno assieme a qualche pietra di poco conto.
Passati pochi minuti l’aggeggio si aprì rivelando una lunga ma sottile spada semi trasparente, la gnoma la prese tra le mani e, quando Gunmar si avvicinò, gliela mostrò sotto la luce del sole ormai alto, spiegando che la sua spada sarebbe stata in grado di tagliare ogni cosa.
La folla subito fu entusiasta ed arrivarono a frotte guerrieri a richiedere quell’arma, il mezz’orco fece appena in tempo a prenderla e ad allontanarsi per osservarla meglio.
Non conosceva le caratteristiche per cui una spada era ritenuta buona o meno, anche se ne aveva letto un breve estratto dal libro di Bungus, ma dalle letture nella biblioteca della città aveva imparato cosa si poteva creare dalla sabbia e fu molto scettico a riguardo di quell’arma, non aveva però motivo di provare subito se fosse inutile o meno, se Mitria era solo una ciarlatana era solo peggio per coloro che cascavano nelle sue truffe, e così senza aggiungere nulla al discorso ed alla foga della folla s’avviò verso l’uscita della città con quella strana arma.
Continuò così il suo viaggio, stavolta non verso una nuova città ma più lungo i villaggi, aveva comunque bisogno di mangiare e non aveva soldi con sé, ma non era mai stato un problema visto era sempre stato in grado di procurarsi della selvaggina.
Gli orchi non sono certo schizzinosi, perfino i cadaveri vanno bene se possono nutrire, e visto lui ne era in parte questa caratteristica lo avvantaggiava in determinate circostanze.
Erano passati circa tre giorni da quando aveva ottenuto “l’arma” che portava con sé ed ancora non l’aveva utilizzata, preferendo concentrarsi sull’allenamento delle proprie magie.
Una in particolare si rivelò a lui interessante, la scoprì per caso quando fece, con fare annoiato, il gesto di colpire con un pugnale invisibile un frutto sulla cima di un albero.
Con sua grande sorpresa vide un dardo da lui creato fare esattamente ciò che aveva pensato, non poteva utilizzare molti incantesimi al giorno e per questo gli allenamenti non erano molti, ma fu comunque una grande scoperta che, se combinata con adeguate tattiche, gli avrebbe garantito una vittoria in sicurezza.
Durante una di queste notti sentì in lontananza il suono di alcune risate e l’odore della carne che veniva cotta al fuoco.
Seguendo questi sensi, incuriosito, volle andare a scoprire di che si trattava e trovò un piccolo accampamento che come lui stava riposando.
C’erano in totale sette figure, il capo era facile da individuare, si trattava di un orco dai capelli rasati che indossava una pesante armatura, accanto a lui c’era la quantità d’alcol e cibo maggiore, i sottoposti erano due halfing, tre orchi di statura decisamente più piccola rispetto al capo ed un umano, certamente non sembravano affiatati ma per lo meno non si uccidevano tra loro.
Mal nascosta dietro agli alberi e ad alcuni cespugli c’era una carovana in legno sul cui tetto era appesa una gabbia, questa però era coperta da un tessuto viola e così Gunmar non capì cosa vi fosse all’interno.
Era però più interessato ad altro, come ad esempio allo spadone a due mani che l’orco capo teneva con sé, lo voleva. Quell’arma sarebbe stata senza dubbio perfetta, ma come prenderla?
Rimase in ascolto per molto tempo e pazientemente, ascoltando la maggior parte delle loro conversazioni, anche se molte le reputava inutili arrivò infine qualcosa che poteva usare a suo vantaggio.
Il capo non faceva altro che vantarsi della propria forza, che nessuno sarebbe stato capace di batterlo in una sfida e che era pronto a scommettere qualsiasi cosa per provarlo, fu lì che il mezz’orco ideò il proprio piano.
Come prima cosa trovò del fango con cui ricoprire la propria spada, erano ubriachi ed era notte fonda, non si sarebbero mai accorti che era solo una spada di vetro.
Dopo aver sistemato tutto, durante le loro risate, si avvicinò attirando la loro attenzione, specificando subito che non aveva intenzioni aggressive ma sentendo le affermazioni del loro capitano aveva deciso di sfidarlo.
Non era difficile riconoscere un mezz’orco e così questo credendo d’avere una vittoria facile iniziò a ridere, ma non si tirò indietro ed alzandosi s’avvicinò a Gunmar, chiedendo in che modo avrebbe voluto lottare, l’altro però rispose che invece che qualcosa di simile trovava più sensato dimostrare la differente forza distruggendo uno specifico oggetto, una delle spade che loro possedevano. In questo modo non ci sarebbe stato il rischio d’imbrogliare.
Fortunatamente l’altro non vi vide nulla di male ed ordinò subito ad uno dei suoi uomini di portargli una spada, vedendo quella di Gunmar nessuno disse nulla e così l’inganno ebbe inizio.
Il primo fu l’orco, che riuscì con solo dei tagli alle mani a piegare la spada in due, sul suo viso c’era già la traccia della vittoria, questa traccia però svanì nel nulla quando Gunmar spezzò la propria arma.
Tutti rimasero immobili ed ammutoliti vedendo i frammenti dell’arma, i sottoposti guardarono preoccupati il loro capo che sembrava sull’orlo di una crisi di rabbia, ma nonostante questo suo aspetto si limitò a chiedere cosa il mezz’orco volesse.
Quando lui rispose che voleva la sua arma fu costretto a dargliela, senza nascondere la rabbia e la riluttanza.
Con un po’ di furbizia anche una situazione svantaggiosa poteva fruttare grandi cose, una spada inutile gliene aveva fatta avere una eccellente, e così il mezz’orco soddisfatto si congedò nella foresta.
Dopo pochi passi però sentì l’urlo di rabbia dell’orco ed anche un tonfo che stava ad indicare aveva colpito la carovana, a quanto pare la sconfitta l’aveva irritato più del previsto, siccome Gunmar non si era allontanato molto poteva ancora sentire le sue imprecazioni e gli insulti rivolti verso la sua persona.
Alcuni non sapevano proprio perdere con onore ma per lui era solo una vittoria in più che dimostrava la superiorità sugli altri, per questo, divertendosi, tornò vicino a loro abbastanza da poter sentire tutto perfettamente senza farsi vedere.
Notò però qualcosa di molto interessante, il tessuto che aveva coperto la gabbia era caduto a causa dell’urto rivelando un grosso corvo dalle piume nere dalle sfumature grigie e blu, il suo becco era poi argentato ed i suoi occhi arancioni sembravano quasi brillare.
Una creatura così non poteva certo restare nelle mani di simili esseri, oltretutto, non appena l’aveva visto Gunmar volle che fosse suo o di nessun’altro.
Utilizzando l’incantesimo dell’invisibilità si mosse indisturbato verso la carovana e raggiungendola tentò d’aprirla a mani nude, fortunatamente il ferro era rovinato e spezzarlo fu molto semplice, le urla di rabbia dell’orco attutivano anche il suono e nessuno del gruppo s’accorse che l’animale era uscito dalla sua prigione, se non quando era già troppo tardi.
Solo con quest’ultima soddisfazione finalmente il mezz’orco scelse d’allontanarsi nelle tenebre, proseguendo il suo viaggio.
Nessuno poteva sapere dove l’avrebbe condotto o a quali anime l’avrebbe legato, l’intero universo è dopotutto composto da fili che, intrecciandosi tra loro, generano un armonico caos in cui nessuno è in grado di muoversi fino a quando, voltandosi sul suo passato, non osserva la strada che ha seguito, pretendendovi di trovarvi l’ordine.
Ma questo è solo un costrutto delle menti di coloro che vogliono forzatamente trovare un significato ad ogni cosa, divenendo incapaci di godere dei doni del disordine attorno a loro.


“Ben venga il caos, perché l’ordine ha fallito.”

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