And a love so deep we cannot measure

di Roscoe24
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


A Magnus piaceva la sua vita. Era perfetta? No, ma a lui piaceva. Gli piaceva alzarsi tutte le mattine alle sei perché la sua figlioletta di quattro anni gli saltava sulla pancia urlando che era ora di alzarsi perché il sole era entrato dalla finestra. E se si svegliava lui, voleva dire che la notte era finita e con essa anche il tempo per dormire. Magnus avrebbe voluto che sua figlia fosse un po’ meno zelante e che lo lasciasse dormire almeno fino alle sette, ma andava bene lo stesso. Erin era di gran lunga la cosa migliore che gli fosse capitata. Non il suo successo, non la sua fama, non il suo talento. Sua figlia.
Erano soltanto loro due da quando la piccola era venuta al mondo: sua madre non ne aveva voluto sapere, né di crescerla insieme a Magnus, né di formare una famiglia. Camille era sempre stata profondamente egoista e Magnus troppo acciecato da ciò che provava per lei per rendersene conto. La verità era arrivata, alla fine, e Magnus si era reso conto di chi aveva avuto al suo fianco per tutti quegli anni. Erin, comunque, non chiedeva quasi mai della madre e Magnus non ne parlava di sua spontanea volontà. Più nolente che volente, Camille era ancora una ferita aperta, nonostante fossero passati quattro anni, più che altro perché Magnus si domandava spessissimo come avesse fatto a non rendersi conto di chi aveva al suo fianco, di quale fosse la vera natura della donna che aveva amato nell’ultimo decennio della sua vita.
“Papà! Papà svegliati! Il sole!” Erin saltò sulla pancia del padre, come ogni mattina, distraendo Magnus dai suoi pensieri. Osservò la figlia, i suoi occhi a mandorla, il suo sorriso e i capelli scuri come l’ebano. Erin assomigliava a lui e non aveva quasi niente di Camille. Magnus si sentiva sempre un po’ meschino ogni volta che si rendeva conto di essere felice di questa cosa.
“Lo vedo, sayang, il sole è sveglio.”
“E anche noi dobbiamo essere svegli!” Erin si sistemò sotto le coperte del letto di Magnus e si accoccolò al padre. “Però possiamo stare un po’ nel lettone. Basta non dormire.”
Magnus rise e abbracciò la bambina. Era tutta la sua vita, l’unica cosa che contasse davvero. Era per lei che aveva smesso di ballare, per riuscire a crescerla in modo normale. Magnus era un ballerino professionista, classico e moderno, e un coreografo molto richiesto. Aveva visitato ogni paese del mondo, grazie al suo lavoro, ma per quanto l’emozione di essere figlio del globo fosse inebriante, la sua bambina aveva bisogno di stabilità. E Magnus di certo non voleva che Erin crescesse ignorando il concetto di casa, o non sentendosi appartenere a nessun paese in particolare. Così Magnus si era fermato in America, vivendo prima a Boston, e poi trasferendosi a New York, la sua città d’origine. Era tornato da solamente un anno, ma era come se non fosse mai andato via: i suoi amici – più vicini al concetto di famiglia, in realtà – l’avevano accolto a braccia aperte e lo trattavano con lo stesso calore che gli avevano sempre riservato prima della sua partenza, avvenuta ormai quindici anni prima. Magnus era cresciuto (invecchiato, hermano, si dice invecchiato – risuonò la voce di Raphael Santiago, suo amico di vecchia data, nella sua testa) ed era diventato un uomo a tutti gli effetti: trentacinque anni, una figlia di quattro, e proprietario di una scuola di ballo. Erano lontani i tempi in cui, a vent’anni, si dava alla pazza gioia, non conoscendo altre regole diverse da è obbligatorio divertirsi.
“Papà, ma il sole la fa colazione?”
“Certo, lui cuoce la uova su una padella grossa e mangia pancakes giganteschi.”
“Ma dove la fa la spesa?”
“Nello spazio. C’è il supermercato più grande che tu possa immaginare. E il sole, ogni giorno, va a fare la spesa.”
“E dove li prende i soldi?”
Sua figlia era decisamente astuta. E Magnus era giusto un po’ orgoglioso di questa costatazione. “Dal suo conto bancario. Riscaldare l’intero sistema solare è un lavoro ben retribuito.”
“Cosa vuol dire ben retriburito?”  
Magnus rise sommessamente e baciò la fronte della figlia. “Retribuito, bintang. E significa che il sole può fare tutte le spese che vuole.”
La bocca di Erin formò una piccola O di comprensione. “Significa che ha tanti soldi!”
L’uomo annuì. “Sì, più o meno è così.”
Erin annuì e appoggiò una guancia sulla spalla del padre. “Papà, possiamo fare colazione anche noi?”
Magnus sorrise e le baciò i capelli. “Ma certo. Facciamo colazione e poi cominciamo a prepararci, d’accordo?”
Erin alzò la testa e annuì, regalando a Magnus un sorriso dolcissimo.


Magnus amava il suo lavoro. Il vecchio edificio che aveva comprato e restaurato per farlo diventare una scuola di danza lo rendeva felice. Internet si domandava ancora dove fosse finito Magnus Bane, dando per scontato che si fosse rintanato in una cittadella sperduta del Wyoming. Nessuno si immaginava che fosse a New York e insegnasse danza ai bambini. O forse, se alcuni lo sapevano non davano segno di volerlo dire al popolo del web. Forse Magnus stava perdendo la sua importanza, o forse, ormai, era considerato vecchio e di conseguenza meno interessante di altri astri nascenti più giovani di lui. Sia come sia, Magnus era orgoglioso di ciò che era riuscito a fare con le sue forze e quella scuola di danza lo riempiva di gioia. Lo rendeva ancora più felice il fatto che Erin amasse la danza tanto quanto il suo papà e che stesse imparando proprio da lui.
Magnus sapeva che le mattinate insieme alla figlia sarebbero finite a breve, dal momento che con l’arrivo della metà di settembre, Erin avrebbe cominciato il suo primo anno d’asilo. Era un anno in ritardo, ma l’anno precedente Magnus aveva pensato che lasciarla a casa sarebbe stato meglio, aiutandola ad ambientarsi bene nella nuova città, senza che venisse sottoposta a troppi cambiamenti. Comunque, non era la sola: anche Diana Lightwood avrebbe cominciato quell’anno e la piccola aveva la stessa età della sua bambina. Forse era anche per quello che erano diventate amiche. Anche se Magnus riteneva che il fatto che Diana fosse figlia di Clary, una delle sue più vecchie e care amiche, avesse aiutato parecchio. Clary era letteralmente impazzita quando le aveva detto che sarebbe tornato a NY. L’amicizia che legava i due era nata da ragazzini. Jocelyn e Madelaine, rispettivamente le madri di Clary e Magnus, erano molto amiche, quindi i due passavano insieme molto tempo.  Clary era più piccola di lui di sette anni e molto riservata, ma erano riusciti a legare molto bene, tanto che a volte Magnus andava a farle da babysitter , mentre Jocelyn si occupava della casa. Per questo era stato un colpo duro per tutti, quando la ragazza era rimasta orfana di madre: un’orribile malattia se l’era portata via quando lei aveva solo nove anni.
Clary non aveva mai conosciuto il padre biologico, che se n’era andato non appena aveva scoperto che Jocelyn era rimasta incinta, così era stato Luke a prendersi cura di lei e della bambina. Jocelyn e Luke erano migliori amici fin da sempre e ci avevano messo un bel po’ a capire che ciò che li legava non era semplice amicizia, ma vero e proprio amore. Quando Clary compì un anno, Luke l’adottò ufficialmente. Otto anni dopo, erano solamente Clary e Luke. E lo sarebbero stati per molto tempo: almeno fino a quando, qualche anno dopo, non era arrivata anche Maia Roberts, una ragazzina che veniva maltrattata dai genitori e che Luke aveva deciso di prendere con sé, adottandola ufficialmente. Luke era un detective dal cuore decisamente tenero: si era occupato personalmente del caso di Maia e sembrava fosse l’unico del quale la bambina si fidava, per questo era stato relativamente facile adottarla. Gli stessi servizi sociali avevano notato quanto la presenza di Luke tranquillizzasse Maia, di conseguenza avevano accettato la sua domanda.
A Clary piaceva la sua famiglia, con il suo passato triste e tutto il resto. Diceva che era quello che li aveva resi più forti, più uniti. E sebbene quei tre non fossero legati dal sangue, si volevano bene come se fossero un unico essere.
Questa era una delle cose che Magnus apprezzava più di Clary: la sua idea di famiglia, il suo cuore buono. La ragazza gli diceva sempre che anche lui era di famiglia, per lei, quindi se avesse avuto bisogno di qualcosa, la sua porta sarebbe sempre stata aperta. E così era stato: quando Magnus era tornato a NY, Clary l’aveva aiutato con il trasloco. Era arrivata portandosi appresso prole, compagno e famiglia del compagno – con il risultato che Erin e Diana avevano passato tutto il pomeriggio a giocare, mentre Magnus aveva finalmente conosciuto il famoso Jace, di cui Clary parlava nelle loro chiamate Skype,  Isabelle e Max, rispettivamente sorella e fratello minore di Jace.
Erano persone adorabili, soprattutto Isabelle, che oltre ad essere una bellezza mozzafiato, aveva una mente brillante ed acuta. Era il genere di donna per cui ogni uomo perde la testa e lei sembrava essere consapevole di tutto ciò. Max e Jace, se non si assomigliavano fisicamente, si assomigliavano per quanto riguardava la sagacia e il sarcasmo. Erano entrambi belli e intelligenti ed erano consapevoli di queste loro caratteristiche tanto quanto lo era Isabelle. Evidentemente, la consapevolezza era impressa nel DNA Lightwood.
Magnus accantonò quei ricordi e disse alle sue allieve – tra cui c’erano Erin e Diana – di fare stretching. Alla fine di ogni lezione, circa dieci bambine si mettevano sedute e si toccavano le punte dei piedi con le mani, allungando la schiena. Magnus sorrideva ogni volta, ricordando quando anche lui alla loro età faceva i medesimi esercizi. Si sedette a terra a sua volta, unendosi alle bambine. Era già pronto a sentire il solito vociferare sottovoce, a vedere le bambine formare dei piccoli gruppetti e parlare della lezione. Sapeva già che avrebbe trovato Erin e Diana vicine, ma quando alzò gli occhi, vide che lo sguardo della bambina andava oltre la figura di sua figlia. I suoi occhi verdi – come quelli della madre – erano fermi su un punto fisso, verso l’entrata, e la sua boccuccia era spalancata a formare una O di sorpresa. Magnus stava cominciando a preoccuparsi, quando improvvisamente la bambina scattò in piedi e cominciò a correre verso l’entrata, che si trovava a lato del parquet dove avveniva la lezione.
“Zio Alec!” urlò la piccola, i suoi ricci biondi, come i capelli del padre, che balzavano ad ogni suo passo affrettato. “Zio Alec, sei qui!” La vocina della bimba era così emozionata che sembrava stesse per piangere di gioia.
Magnus seguì la direzione della bambina e… Porca. Vacca. La piccola Diana si era appena tuffata tra le braccia di quello che poteva assomigliare alla cosa più simile ad una divinità che la Terra avrebbe mai conosciuto. Zio Alec era un grandissimo figo, alto – tanto alto – moro e barbuto. Era vestito completamente di nero e indossava un giubbotto di pelle. Tutta questa combinazione stava risvegliando in Magnus degli istinti che erano stati assopiti da tempo e che i suoi ormoni impazziti si stavano divertendo a stuzzicare.
Saltagli addosso! Gridarono quei piccoli bastardi.
Sarebbe poco professionale! Strillò la ragione.
Magnus si schierò dalla parte della ragione e quietò la tempesta ormonale che stava avvenendo praticamente in ogni centimetro del suo corpo, ricordando a se stesso che era un professionista e che non aveva più tredici anni. L’età di andare in brodo di giuggiole per uno sconosciuto, per quanto divino potesse essere, era passata da un pezzo. Dunque si avvicinò a Zio Alec e lo salutò cordialmente.
Alec, non appena lo vide, gli rivolse un sorriso storto e un tantino impacciato. Dannazione, pure i suoi sorrisi erano belli. E quegli occhi… Magnus era sicuro che dovessero essere catalogati come arma di distruzione di massa e resi illegali in almeno metà globo. Erano meravigliosi, particolari, erano un misto di verde e nocciola che si combinava alla perfezione, circondati da ciglia scure e lunghe, che li adornavano perfettamente come una corona.
“Mi dispiace essere piombato qui, ma Clary ha detto che potevo venire a prendere Diana.”
Magnus osservò – di nuovo – Zio Figo e, tralasciando che fosse dotato di ogni connotato fisico che trovava di proprio gradimento, notò una certa somiglianza con Isabelle e Max. Gli stessi zigomi alti, gli stessi capelli neri, la stessa bellezza. Magnus scacciò sia l’ipotesi che il grado di parentela potesse derivare dal fatto che Izzy avesse un fidanzato che sua nipote definiva zio, sia la sensazione di tradimento che provava nei confronti di Clary, e domandò, il più professionalmente possibile: “Sei un Lightwood?”
Alec, che teneva ancora la bambina tra le braccia, annuì. “Vuoi un documento?” 
“Sarebbe gradito, sì. Che razza di insegnante sarei se consegnassi bambine al primo sconosciuto che afferma di essere uno zio?”
Alec rise, ma prima che potesse lasciare la bimba per recuperare i suoi documenti, Diana si attaccò al suo collo. “Ma Mangus,” disse, poi, guardando l’insegnante, “Lui è zio Alec!”
“Non lo metto in dubbio, farfallina, ma vorrei esserne sicurissimo.”
“Diana,” Alec intervenne con voce pacata e la bimba portò i suoi occhioni sullo zio, “È una cosa che fanno i grandi.”
“Guardare i documenti degli zii??”
Alec ridacchiò. “Sì, perché devono assicurarsi che siano effettivamente degli zii.” 
“Oooh, capito. Allora va bene.” La piccola fece spallucce e si lasciò mettere a terra da Alec, che estrasse il portafoglio dalla tasca posteriore dei suoi jeans scuri, strappati sulle ginocchia e relativamente aderenti sulle cosce tornite – Magnus, forse, lo stava giusto un po’ fissando. Forse. – e porse i propri documenti all’insegnante.
“Grazie. Se vuoi scusarmi, vado a controllare.”
“Ma certo, chiama Clary, fai quello che devi fare.”
Magnus fece un cenno del capo all’altro e si diresse verso il suo ufficio, che si trovava praticamente di fronte allo spazio dedicato al ballo e aveva le pareti trasparenti, quindi riusciva a tenere sotto controllo tutto: le bambine che continuavano ad allenarsi, Diana e Alec.
Alexander lesse nella carta d’identità. L’universo gli stava decisamente lanciando un tiro mancino: non solo quest’uomo era bellissimo, ma aveva anche un nome stupendo. Doveva avere sicuramente dei difetti orribili, o forse era etero. In caso contrario, stava a significare che era perfetto, ma uomini perfetti non esistono. Giusto, Universo?
Magnus compose il numero di Clary e lasciò squillare. La rossa rispose al terzo squillo.
“Clarissa Adele Fairchild!” esclamò quindi Magnus con la sua voce da papà arrabbiato, nemmeno stesse sgridando Erin per essersi infilata il dentifricio nel naso. “Pensavo fossimo amici!”
“Lo siamo, Magnus!” disse la ragazza, sulla difensiva. Era pienamente consapevole che quando Magnus usava il suo nome per intero c’erano dei guai dietro l’angolo.
“Ah, davvero?”
Clary rimase in silenzio qualche istante, poi capì dove l’amico volesse andare a parare. “Hai conosciuto Alec, deduco.” Tirò un sospiro di sollievo, dopo quella costatazione. Vedere il numero di Magnus le aveva fatto pensare che Diana si fosse fatta male durante la lezione. Invece l’amico voleva solo parlare di suo cognato. Clary era decisamente sollevata.
“L’ho fatto. E ancora non capisco perché tu me l’abbia tenuto nascosto!”
Clary scoppiò a ridere. “Sei così melodrammatico, Magnus.”
Magnus ignorò quell’ultimo commento, perché una parte di lui sapeva che negarlo avrebbe significato negare la verità, e lanciando un’occhiata ad Alec, che stava giocando a battimani con
Diana, disse: “Non mi hai mai parlato di un Lightwood figo.”
“Jace è figo.” Gli fece notare la ragazza, non provando nemmeno a nascondere il suo divertimento.
Magnus decise di non cadere in quella trappola. “Sai cosa voglio dire!”
“Tu non hai mai chiesto.”
“Perché non sapevo esistesse! Pensavo fossero solo in tre!”
Clary sospirò. “Non mi ascolti, quando parlo? Ricordi cosa ti ho detto, la prima volta che ti ho parlato di Jace?”
Magnus fece mente locale, ma l’unica cosa che gli veniva in mente era Clary che diceva che erano tre Lightwood. “Vuoi rinfrescarmi la memoria, biscottino?”
“Jace è stato adottato. Aveva otto anni quando i Lightwood l’hanno preso con loro e avevano già Alec ed Izzy, mentre Max era nato da appena due settimane. Jace non ci ha messo molto ad ambientarsi, ma all’inizio diceva che i Lightwood erano tre e poi c’era lui. Con il tempo poi, e soprattutto grazie ad Alec ed Izzy, ha cominciato a sentirsi un Lightwood a sua volta, sebbene portasse quel cognome non appena venne adottato.”
Magnus si sentì un po’ in colpa per essersi dimenticato questa storia. “Ora ricordo. La mia memoria fa veramente schifo.”
“È l’età, Mangus.
“A tal proposito, devi insegnare a tua figlia a pronunciare bene il mio nome. Non voglio che quella delizia che chiami cognato creda mi chiami in quel modo. Mangus non ha lo stesso effetto di Magnus.”
“Perché Magnus vuol dire grande e tu vuoi mandare un nemmeno troppo subliminale messaggio?”
Magnus spalancò la bocca, quasi come se Clary avesse potuto vederlo. “Il fatto che tu possa pensare una cosa simile mi offende.”
“Magnus. Ti conosco come le mie tasche. So come lavora la tua maliziosa mente e so che serve ben altro per offenderti. Ora, chiarito che il mio futuro cognato non è un rapitore di bambini, ti aspettiamo stasera per cena, d’accordo?”
A Magnus altro non rimase da fare che arrendersi all’inevitabile. “Porterò il vino.”
“Quello buono che mi piace tanto?”
“A patto che non ti ubriachi come l’ultima volta. Sei molesta, quando ti ubriachi. E sorprendentemente forte, il mio mento ancora se lo ricorda.” Le immagini di Clary che, in preda ad un bisogno di affetto estremo, gli si butta al collo con l’intento di abbracciarlo, balenarono nella sua mente. Così come lo fece il ricordo della ragazza che, molto instabile sulle gambe, finì per trasformare quell’abbraccio in una testata.
“Quell’episodio risale a quasi sei anni fa. Sono madre adesso, più responsabile.”
“Mh-mh, staremo a vedere.” Magnus lanciò un’altra occhiata oltre le pareti del suo studio. Erin si era avvicinata a Diana e adesso entrambe le bambine stavano giocando con Alec, che si era chinato alla loro altezza. Il fatto che Magnus lo stesse immaginando nel salotto di casa sua, con il pigiama, mentre guardavano insieme un film, mangiando gelato, dopo aver messo a letto Erin, la diceva lunga sul fatto che la troppa astinenza provoca gravi, gravissimi, problemi mentali. Per quanto ne sapeva  lui, Alec poteva essere sposato. E Magnus aveva decisamente bisogno di una notte fuori, o la sua sanità mentale sarebbe degenerata. “Ci vediamo stasera.”
“A stasera!” lo salutò Clary, prima di attaccare.
Magnus sospirò e dopo aver lasciato il cellulare sulla sua scrivania, uscì dal suo studio con la carta d’identità di Alec ancora in mano. Ne approfittò per dare una sbirciatina: Alexander Gideon Lightwood, nato a NY il 12 settembre di trent’anni prima. Segni particolari: aizza ormoni – avrebbe aggiunto Magnus, ma questi erano dettagli.
Quando l’uomo li raggiunse, Alec si risollevò in piedi e gli rivolse un sorriso. “Clary ti ha detto che non sono un sociopatico?”
“Potrebbe averlo fatto, sì.” Mentre Magnus parlava, istintivamente Erin si mise al suo fianco. Alec notò quel gesto e, notando una certa somiglianza tra la bambina e l’uomo che aveva davanti, dedusse l’ovvio.
“Quindi posso portare via Diana?”
Magnus annuì. “Puoi, ma di a Clary che sarebbe meglio ti inserisse nella lista delle persone autorizzate legalmente a portarla via.”
“Lo farò, grazie.” Alec si chinò all’altezza della nipote e la sollevò per prenderla in braccio. “Hai una borsa, o uno zainetto?” chiese alla piccola, che annuì. I suoi ricci si mossero come tanti piccoli cavatappi intorno a lei. Sembrava un cherubino. Era bella come i suoi genitori e aveva la dolcezza di sua madre. Magnus si chiese se Alec, che guardava la nipote con uno sguardo colmo d’affetto, avesse dei figli, ma scacciò immediatamente quel pensiero: non erano affari suoi.
“Mangus, posso prendere il mio zainetto?”
“Ma certo, farfallina.” Magnus le sorrise e le accarezzò una guancia paffuta, poi Alec la mise nuovamente a terra e la osservò mentre si dirigeva verso l’attaccapanni addossato lungo tutta la parente in fondo alla stanza, dove si trovavano tutti gli zainetti delle bambine. “Come se la cava?” domandò quindi e Magnus portò la propria attenzione su di lui.
“Bene. Impara in fretta e penso sia dotata.”
“Diana è brava,” si inserì Erin e Alec abbassò lo sguardo su di lei.
“Scommetto che anche tu lo sei, vero?”
Erin accennò un sorriso timido. “Papà dice di sì.” Afferrò la mano di Magnus e questi cominciò ad accarezzarle il dorso con il pollice. Alec allora ci aveva visto giusto. Chissà perché andò a cercare una fede e chissà perché rimase piacevolmente stupito quando notò che l’anulare sinistro di quell’uomo era libero. Lo trovi attraente, ecco perché. Ma Alec scacciò quella realizzazione come se fosse la cosa peggiore che potesse venirgli in mente. E non perché non trovasse l’insegnante di danza di sua nipote attraente, ma perché aveva ferite che non si erano ancora chiuse e facevano ancora male. Alec voleva semplicemente tutelarsi. Evitare di farsi coinvolgere in situazioni che sarebbero degenerate. E interessarsi all’insegnante di sua nipote rientrava tra queste. Senza contare che, se aveva una figlia, con ogni probabilità aveva anche una donna con cui l’aveva concepita.
“Zio Alec, ho preso tutto!”
Diana lo estraniò dai suoi pensieri. “Perfetto, allora saluta.”
“Ciao Mangus, ciao Erin!”
“Ciao, piccolina.” Rispose Magnus, mentre Erin agitava una manina. Alec gli rivolse un altro sorriso di saluto e si diresse verso l’uscita della scuola. Se Magnus negasse di aver approfittato di quel momento per guardare il sedere di Alto, Ombroso e Affascinante sarebbe un grandissimo bugiardo.

*

Una delle cose che a Magnus riusciva meglio era apparire fantastico, così non perdeva mai occasione per mettere in evidenza la sua sfavillante persona. Di conseguenza, anche quella sera si era impegnato per essere bellissimo: per la cena a casa di Biscottino aveva optato per un paio di pantaloni di pelle neri, abbinati ad una camicia verde della quale aveva sbottonato qualche bottone per mettere in mostra le collane di varia lunghezza che aveva scelto. Secondariamente, ma non meno importante, si era truccato discretamente: una semplice linea di eyeliner e un po’ di mascara, qualcosa che non fosse esagerato, ma che comunque facesse risaltare i suoi occhi.
“Papà, quando potrò truccarmi anche io?” Gli chiese Erin, mentre Magnus si infilava qualche anello.
“Quando sarai un po’ più grande, bintang.”
Erin, nel suo vestitino azzurro, incrociò le braccia al petto, mettendo su il broncio. Quell’espressione, abbinata alle due trecce che le ricadevano sulle spalle, e il fatto che quel vestitino la facesse sembrare una bambola, la rendevano adorabile. Ma forse Magnus era di parte.
“Ma voglio truccarmi con te!”
Magnus si chinò all’altezza della bambina e la prese in braccio. “Quando sarai grande, lo farai.” Le lasciò un bacio sulla guancia. “Ora andiamo, ti va?”
“Da Diana?”
Magnus annuì ed Erin batté le mani, felice. “Andiamo, andiamo!” disse, così Magnus afferrò le ultime cose che gli servivano – vino compreso – e uscì di casa con la figlia in braccio.

 
Quando Clary l’aveva invitato a cena, Magnus di certo non si era immaginato una tavolata infinita destinata ad ospitare molte persone. Pensava più che altro che sarebbero stati lui, Biscottino, Trace e le bambine. A quanto pare, invece, a quella cena avrebbe partecipato tutta la famiglia, escluse le figure genitoriali.
“Perché non mi hai detto che saremmo stati così tanti?” domandò Magnus, mentre prendeva i piatti dalla dispensa di Clary. Avrebbe apparecchiato lui, ma non prima di ottenere delle risposte.
“Perché, altrimenti ti saresti fatto bello per Alec?” Clary mise un pizzico di sale nella pentola e mescolò. In quella cucina, c’era un profumino delizioso e lo stomaco di Magnus brontolò in approvazione.
“Stai insinuando che così-“ indicò se stesso con un gesto alquanto plateale della mano che aveva libera, “-non sono abbastanza bello?”
Clary ridacchiò. “Tu fai parte di quelle persone ingiustamente belle che stanno bene con qualsiasi cosa. Voglio dire, le mamme fanno commenti d’approvazione su di te in continuazione e ti vedono in calzamaglia!”
“Che ti posso dire: gli indumenti aderenti valorizzano le mie doti!”
La rossa spalancò gli occhi. “Magnus!” esclamò, minacciandolo con il mestolo sporco di sugo. Magnus fece un passo indietro così velocemente da far invidia ad un felino. “Non usare quell’affare sporco contro di me!”
“E tu non fare il malizioso.”
“Sarebbe come chiedere a Trace di smettere di parlare di sé: impossibile, biscottino.”
Clary alzò gli occhi al cielo e tornò alla sua pentola. Stava per correggerlo per tipo la milionesima volta, quando Jace entrò in cucina con il telefono all’orecchio.
“Alec dice se va bene la cheesecake alla nocciola e chiede se deve passare a prendere Max.”
“Sì e sì,” rispose Clary, ma poi guardando Magnus, le venne in mente un dettaglio, “Erin è allergica alle nocciole.”
“Quindi, che gli dico?”
“Se può fare un altro dolce.”
“Non è necessario,” intervenne Magnus, non volendo creare nessun disagio. “Non preoccupatevi.”
Jace guardò Clary, che guardò Jace, allora lui parlò al fratello che stava al telefono. “Alec?”
“Ho sentito.” Disse il maggiore. “Ci penso io, ci vediamo tra poco.”


*

Alec era carico come un mulo, stava sudando ed di certo il suo fratellino ventunenne che calcava con sarcasmo il loro ritardo, non era d’aiuto.
“Se avessi voluto arrivare a questa cena dopo aver compiuto ottant’anni, avrei chiamato Simon e mi sarei fatto venire a prendere da lui.”
“Perché anzi che lamentarti non mi dai una mano?”
“Perché hai voluto fare tutta questa roba?” Max indicò le due teglie che il fratello aveva in mano e il sacchetto  in equilibrio sul braccio, contenente una scatola di metallo piena di biscotti.
“Perché mi hanno detto che c’è una bambina allergica alle nocciole! Come ti sentiresti se tutti mangiassero qualcosa che tu non puoi mangiare?”
Max si fermò nel corridoio, a metà strada tra l’ascensore da cui erano usciti e la porta dell’appartamento di Jace. “La bambina è Erin?”
Alec lo imitò. “E tu come fai a saperlo?”
“Alec.” Max lo guardò come se la risposta fosse ovvia. “Sei l’unico che prima di oggi non conosceva Magnus e sua figlia. Credi che siamo tutti idioti?”
“Non ho mai detto questo. E da quando sei così impertinente?”
“Da quando tu fai dolci in più per impressionare l’insegnante di danza di nostra nipote.”
Alec sentì le guance accaldarsi, ma si rifiutò di arrossire. “Ti preferivo quando avevi otto anni.” Riprese a camminare, fermandosi davanti alla porta dell’appartamento di Jace. Max gli si affiancò subito dopo.
“Non hai negato, quindi vuol dire che ho ragione.”
Alec gli riservò un’occhiata sbieca e gli fece cenno con la testa di bussare, così Max obbedì. Rimasero in attesa qualche istante, prima che la porta venne aperta da Magnus.
Alec, nonostante tutta la sua buona volontà di mostrarsi indifferente, dovette resistere all’impulso di imprecare: Magnus era davvero bello. Era diverso da quella mattina. In qualche modo sembrava più… peccaminoso, e Alec si vergognò non appena quel pensiero attraversò la sua mente. Non poteva farci niente, comunque, se i pantaloni di Magnus erano aderenti oltre il limite umano consentito, mettendo in risalto ogni singolo centimetro delle sue muscolose cosce da ballerino, e se la sua camicia era un tantino sbottonata. Magnus era sexy e Alec in astinenza, non poteva ricevere un po’ di comprensione? Chiedeva troppo? Non pensava.
“Ciao!” li salutò Magnus, con un sorriso che avrebbe illuminato anche la più oscura delle notti. Alec rimase a guardarlo per qualche istante, prima di ricordarsi che non era stato lobotomizzato e quindi doveva comportarsi come una persona normale.
“Ciao…” ricambiò il sorriso e agganciò i suoi occhi a quelli ambrati di Magnus, messi in risalto dal trucco. Erano così belli e intensi che per qualche istante Alec sentì un lieve tremito percorrergli la colonna vertebrale.
I due rimasero occhi negli occhi per un po’, tanto che Max si chiese se fosse diventato invisibile all’improvviso, o se quei due fossero stati ipnotizzati. “Alec? I tuoi dolci, ricordi? Devi metterli nel frigo!”
“Giusto! S-sì, giusto, adesso vado.” Si congedò con un sorriso impacciato e superò sia Magnus che la soglia di casa, dirigendosi verso la cucina. Max salutò l’amico con un abbraccio ed entrò in casa, dove salutò tutti i presenti e poi individuò i suoi fratelli.
“Max!” lo chiamò Izzy, “Dov’è Alec?” La ragazza lo abbracciò e Max per ricambiare quel gesto dovette chinarsi un po’. Max aveva preso l’altezza da Alec e più cresceva più il più piccolo dei Lightwood tendeva ad assomigliare al maggiore dei suoi fratelli.
“È in cucina ad occuparsi della zuppa inglese.”
Isabelle alzò un sopracciglio. ”Pensavo facesse la cheesecake.”
“L’ha fatta, ma ha fatto anche la zuppa inglese. E ha comprato una valanga di biscotti in un biscottificio dall’altra parte della città.”
“E perché?”
“Per Erin. Jace gli ha detto che è allergica alle nocciole.”
Isabelle rimase un attimo in silenzio ad elaborare quell’informazione. Poi passò lo sguardo tra Jace, al suo fianco, e Max, di fronte a lei. “Lo fa per il motivo che penso?”
“Non lo so, per te il fatto che sia rimasto a fissarlo come un pesce lesso quando Magnus ci ha aperto la porta è un indizio valido?”
Jace rise. “Perché mi perdo sempre le scene più belle?”
Izzy diede uno scappellotto a Jace e una manata sul braccio di Max. “Voi non direte niente. Non voglio sentire frecciatine, commenti sarcastici, niente. Mi avete capito?”
“Sì, signora.” Dissero all’unisono.
“Bene. Se deve riaprire il suo cuore a qualcuno, Magnus potrebbe essere la persona giusta.”


Alec aveva sistemato la cheesecake e la zuppa inglese – senza liquori e con il pan di spagna imbevuto nel latte, modificata per fare in modo che una bambina potesse mangiarla – nel frigo e adesso stava aiutando Clary con le ultime cose. La ragazza aveva fatto due diversi tipi di lasagne: al ragù e al pesto – per Simon che era vegetariano – in una quantità tale che sarebbe riuscita a sfamare anche un esercito. Alec la stava aiutando a fare le porzioni e a portarle in tavola, dove tutti gli altri si erano già sistemati. Maia aveva brontolato dicendo che voleva dare una mano, visto che era arrivata per ultima a causa del doppio turno che aveva dovuto fare al bar, ma Alec le aveva detto che proprio perché era stanca, doveva andare a sedersi e lasciarsi servire, una volta tanto.
“Sei un tesoro.” Gli disse la ragazza, quando le porse un piatto pieno di cibo.
Alec sorrise e si chinò per lasciarle un bacio sulla fronte. “Non dirlo a nessuno, però.”
Maia rise e lo guardò sparire di nuovo in cucina. Solo quando la ragazza abbassò di un poco lo sguardo, notò che Magnus, di fronte a lei, la stava guardando con un sopracciglio alzato.
“Che vuoi?” gli sussurrò.
“Niente.”
“Magnus.” Lo fissò, per nulla impressionata da quel miserabile tentativo di fare finta di niente. “Parla. Che c’è?”
“Non posso guardarti?”
“Non con quell’espressione. Forza, non ho tutta la sera.” Maia appoggiò i gomiti sul tavolo e intrecciò le mani per appoggiarci il mento. Studiò l’amico con espressione particolarmente attenta: i suoi lineamenti, il fatto che se non rivolgeva la sua attenzione ad Erin, seduta al suo fianco, la riservava ad Alec ogni volta che entrava per portare da mangiare agli ospiti. “Mio Dio,” esclamò, sorridendo, “Pensi che ci sia del tenero tra me e Alec e la cosa ti infastidisce!”
Magnus afferrò una delle sue collane e cominciò a giocare con il ciondolo, distogliendo lo sguardo da Maia. “Non so di cosa tu stia parlando.”
“Sì che lo sai, invece. Quant’è che non esci con qualcuno? Pensi che Alec sia un ottimo candidato?”
“La mia vita sentimentale non è affar tuo,” sussurrò per non farsi sentire da Erin, che comunque era intenta a giocare con Diana ai my little pony. “E non penso niente di Alexander.”
Maia si aprì in un sorrisetto sornione e compiaciuto. “Alexander.” Lo scimmiottò. “Quindi ti piace.”
Magnus ridusse gli occhi a due fessure. “Hai parlato con Clary? Voi due vi divertite a torturarmi dall’alba dei tempi!”
Maia esplose in una risata che non riuscì a trattenere. “Clary non mi aveva ancora detto niente, ma l’hai fatto tu.”
L’uomo si appoggiò allo schienale della sedia e resistette all’impulso di mettersi le mani nei capelli perché altrimenti avrebbe rovinato la sua perfetta cresta. Non aveva passato mezz’ora ad aggiustarla perché la capacità innata che aveva Maia di provocargli una crisi di nervi la rovinasse.
Adorava Clary e Maia, ma quelle due tendevano a coalizzarsi contro di lui un po’ troppo spesso.
“Non c’è niente tra me e lui. Siamo solo amici. Molto, in realtà… Alec è buono.”
Magnus stava per rispondere, ma decise di rimanere in silenzio quando notò che Alec stava tornando in sala con le ultime porzioni. Lasciò un piatto a Simon e poi si diresse verso di lui.
“Grazie,” gli disse Magnus e Alec gli sorrise.
“Figurati.”
Magnus si chiese se il fatto che nel giro di nemmeno un’ora, quella fosse la seconda volta che rimanevano incantati a fissarsi, potesse avere un significato. Forse poteva sperare. Ma in cosa? Che Alec lo ricambiasse? Non lo sapeva con esattezza. Avrebbe voluto conoscerlo? Sapere cosa celasse la sua mente, scoprire se fosse tanto bella quanto lo era il suo aspetto?
Alec è buono. E Dio sapeva quanto Magnus avesse agognato ad avere qualcuno con quella caratteristica nella sua vita, qualcuno che avesse un cuore capace di amare. Qualcuno che non lo facesse soffrire.
“Alec!” lo chiamò Jace, interrompendo di conseguenza il loro contatto visivo. “Vieni a sederti!”
Alec gli rivolse un sorriso e poi si allontanò, dirigendosi verso il fratello.


“Allora com’è stato il rientro?” Domandò Simon, la bocca piena di lasagne. “Lydia ti è saltata in braccio non appena ti ha visto?”
Alec finì di prendere un sorso del vino che aveva portato Magnus e appoggiò nuovamente il bicchiere sul tavolo. “Più o meno. Mi ha detto di non andare mai più via per così tanto tempo, o mi strozza.”
Magnus drizzò le orecchie con così poca discrezione che Maia gli diede un calcio sotto al tavolo. “Smettila.” Le sussurrò in un sibilo, mentre voltava la testa dall’altra parte del tavolo per captare più informazioni possibili. Se doveva ballare, tanto valeva lo facesse a modo suo. “Lydia è la tua ragazza?” chiese, quindi, cercando di apparire il più calmo possibile e di non prestare attenzione al fatto che nove teste, comprese quelle delle due bambine, fossero rivolte verso di lui. Non avrebbe dovuto essere nervoso, era abituato ai palchi di Broadway e ad infinità di spettatori, eppure nonostante avesse confidenza con le persone sedute a quel tavolo, si sentì improvvisamente vulnerabile. Simon che trattenne una risata, comunque, fece sparire quella sensazione, facendogli tornare la sua solita attitudine spigliata.
“Ti faccio divertire, Sigourney?”
“No, solo che…” Simon lanciò un’occhiata ad Alec, che alzò gli occhi al cielo.
“Quanto ti piace raccontare questa storia?”
“Tanto. Quindi la racconterò di nuovo. Allora, Magnus, devi sapere che conosco Alec da tanto tempo e una volta siamo usciti insieme.”
“Ti sei autoinvitato ad una serata fuori tra me e Jace, se dobbiamo essere pignoli.”
Simon liquidò quel commento con un gesto incurante della mano. “Siamo in questo bar, luci soffuse, musica discreta, un tavolino tutto nostro. Ad un certo punto, si avvicina una ragazza bellissima che chiede ad Alec se ha voglia di bere con lei. Ma lui gentilmente rifiuta e questa ragazza se ne va. Allora io gli domando perché e lui mi risponde che non era il suo tipo. E cosa deve avere una ragazza per piacerti? Gli chiedo, quindi, e lui, con tutta la serietà del mondo, pianta i suoi occhi nei miei e dice: deve essere un ragazzo.”
Alec si mise le mani sul viso con esasperazione e poi si rivolse direttamente a Magnus. “Tutto questo discorso per dire che Lydia è una mia collega e amica.”
Era un coro angelico quello che sentiva Magnus? L’universo l’aveva messo sulla strada di un uomo che era bellissimo, buono (secondo Maia, e lui si fidava di Maia) e gay? Era la mattina di Natale e lui per caso non se n’era accorto?
“Oh,” abbassò lo sguardo sul proprio piatto, altrimenti non solo avrebbe cominciato a sorridere, ma avrebbe addirittura gongolato
“Rovini sempre l’atmosfera. Hai fatto una battuta. Tu che di battute non ne fai mai, quella sera ne hai fatta una! Tutto ciò merita una storia che venga tramandata!”
Alec che ancora stava guardando Magnus e non sapeva come interpretare quella reazione, si sforzò di portare la sua attenzione su Simon. “Se non le faccio con te non vuol dire che non faccia battute.”
“Tu non fai mai battute.” Si inserì allora Max, che fu spalleggiato da Jace e successivamente da Izzy.  
Alec fu tentato di gettare la faccia nel piatto, ma in questo modo avrebbe rovinato le lasagne ed erano troppo buone perché venissero sciupate. “Sapete che vi dico? Non capite il mio umorismo!”
In ogni caso, fu grato a Clary che cambiò argomento, salvandolo da quella specie di inquisizione.


Alec non passava una serata così da… un anno. Da quando era partito, non aveva perso i contatti con la sua famiglia, chiamando via Skype appena ne aveva la possibilità, ma averli con lui in carne e ossa era completamente diverso. Gli mancavano ed era felice di essere tornato. Non era cambiato quasi niente, se si esclude il fatto che sua nipote avesse un anno in più e sapesse dire molte più parole.
«Non mi piace vederti dal computer, zio Alec. Quando torni a casa?»
Alec si sentiva in colpa ogni volta che Diana gli faceva quella domanda. Era partito in un momento di fragilità, dove credeva che allontanarsi fosse la cosa migliore da fare. Forse era stata la cosa migliore per lui, ma non per la sua famiglia: Jace aveva dovuto posticipare il suo matrimonio e Diana sentiva la sua mancanza ogni giorno. Si era scusato con il fratello, ma Jace gli aveva detto che non doveva preoccuparsi. «Non hai mai fatto niente per te, nella vita. Se hai bisogno di andare via, fallo. Io e Clary possiamo aspettare.»
E poi c’era stata Isabelle… lei l’aveva stretto con tutta la forza che aveva in corpo e aveva piantato i suoi occhi neri come la notte in quelli di Alec. «Vorrei che rimanessi, ma capisco perché lo fai. Chiamami, però. Tutti i giorni, o quando torni ti prendo a calci.»
Max non aveva detto niente, si era limitato ad abbracciarlo. In un primo momento, Alec aveva pensato che fosse arrabbiato con lui, che vivesse quell’allontanamento con lo stesso senso di tradimento provato nei confronti del padre quando aveva lasciato la madre. Ma quando si erano sentiti, la prima volta che Alec era atterrato, aveva capito che la situazione non poteva essere più diversa. A Max mancava, ma come Isabelle, capiva il motivo del suo allontanamento.
“Ehi.”
Alec venne distratto dai suoi pensieri. Era in cucina e stava tagliando i dolci per sistemarli su dei piattini da portare a tavola. Alzò lo sguardò da una delle teglie e trovò Magnus sulla soglia.
Ripensò alla reazione che aveva avuto quando Simon aveva detto che era gay. Un Oh che l’aveva portato ad abbassare lo sguardo. Alec conosceva quella reazione. Robert continuava ad averle e si irrigidiva ogni volta che Alec nominava un suo amico, come se un uomo gay non potesse avere amici maschi senza necessariamente andarci a letto.
“Ascolta, se è per quello che è stato detto a tavola, non posso dirti che mi dispiace perché non è così.”
Magnus aggrottò le sopracciglia. “Di cosa stai parlando?”
“Della mia omosessualità. Non è un tabù nella mia famiglia, persino Diana lo sa. Quindi se sei qui per sentirmi dire che è inopportuno dire certe cose a tavola, perché non pensi sia educativo per tua figlia, perdi il tuo tempo.”
“Frena, frena, frena!” Magnus alzò le braccia in segno di resa e si avvicinò ulteriormente ad Alec. C’era un tavolo, al centro della cucina, e i due stavano alle parti opposte di esso. Magnus dava le spalle alla porta, Alec al piano cottura. “Sono qui per ringraziarti.”
Alec sentì chiaramente le guance diventare viola per la vergogna. “Merda. Scusa, io… ringraziarmi per cosa?” Domandò allora, confuso.
Magnus accennò una risata e si avvicinò ancora ad Alec. “Per il dolce in più. So che è stata una cosa dell’ultimo minuto e che l’hai fatto per Erin, quindi grazie. Non tutti  l’avrebbero fatto.”
Adesso Alec si sentiva un totale stronzo prevenuto. Un po’ come suo padre, ma scacciò quell’associazione con orrore. “Mi dispiace, io… pensavo ti desse fastidio. Ho interpretato male la tua reazione, a tavola.”
“Non preoccuparti. Capisco bene che spesso possiamo essere prevenuti. Siamo abituati a determinati comportamenti che ci fanno ancora male, nonostante tutto.”
Alec pensò ancora a suo padre, ma allontanò di nuovo quel pensiero. “Tu…?”
“Bisessuale. Immagina i commenti. E sono anche un padre single che si trucca, quindi quanto pensi si sbizzarriscano?”
“Mi dispiace.”
“Non devi, davvero. È tutto a posto.”
Alec accennò un sorriso, un solo angolo della bocca alzato. “Ricominciamo, ti va?”
Magnus annuì. “Grazie per aver fatto un dolce in più.”
“È stato un piacere.”
“Erin sarà felice.” Magnus accennò alla zuppa inglese. “Adora la crema.”
“In realtà anche io. Potrei mangiarla a cucchiaiate senza sentirmi in colpa nemmeno un po’.”
Magnus rise e Alec si lasciò contagiare aprendosi in un sorriso. Magnus era bellissimo e lui, nonostante avesse un terrore profondo della possibilità di legarsi di nuovo a qualcuno, si sentiva attratto particolarmente da lui. Gli piacevano i suoi occhi: erano a mandorla e di un colore ambrato che trasmetteva calore e dolcezza. Sembravano sinceri. Ma Alec sapeva che era prestissimo per averne la certezza. Alla fine, lui e Magnus non si conoscevano.  
“Vuoi una mano?” chiese Magnus.
“Saresti molto gentile, grazie.”
Quando Magnus fece il giro del tavolo e si sistemò al suo fianco, Alec cercò di non concentrarsi sui loro gomiti che si sfioravano e sul profumo al sandalo dell’uomo che invase piacevolmente le sue narici, invano.
“Non penso ci siamo presentati sul serio,” esordì Magnus, dopo aver tagliato un pezzo di cheesecake e averlo appoggiato su un piattino. “Sono Magnus.” Allungò la mano libera verso Alec, che l’afferrò, prima di sbuffare una risata dal naso.
“Alec.” Si presentò a sua volta. “Avevo intuito, comunque, che il tuo nome non fosse Mangus.
“Grazie al cielo.” Magnus si accinse a tagliare un’altra fetta. Alec lo imitò e dopo qualche istante passato in silenzio disse:  “Comunque, Magnus è più bello di Mangus.
Magnus smise di concentrarsi sul dolce e alzò gli occhi su Alec. Era la terza volta, quella sera, che i loro occhi si incrociavano e rimanevano incatenati gli uni agli altri, attratti inevitabilmente come se delle forze sovrannaturali lavorassero al loro posto, rendendoli vittime di un piacevole, dolcissimo, incantesimo. “Anche Alexander è più bello di Alec.”
Le guance di Alec si colorarono inevitabilmente, mentre si apriva in un sorriso. I suoi occhi, comunque, non lasciarono quelli di Magnus – il quale si chiese quanto sarebbe stato inopportuno sporgersi e baciare quell’uomo bellissimo.
“Papà?”
L’entrata di Erin in quel preciso momento, fu una risposta più che eloquente da parte del destino, che sembrò rispondergli: molto inopportuno.
“Dimmi, bintang.
Erin si avvicinò al padre e cominciò a studiare con i suoi vispi occhi castani l’ambiente che la circondava. “Posso mangiare un biscotto? Clary dice che devo chiederti il permesso.”
“Clary ha ragione, zucchetta.” Magnus guardò Alec. Sapeva che i biscotti in questione erano quelli portati da lui e che Clary li aveva messi in tavola in attesa che Alec facesse le porzioni. “Contengono nocciole?”
Alec negò con il capo. “Sono al latte. Li ho presi di proposito.”
Magnus si chiese quanto fosse stata crudele Clarissa a nascondergli quel tesoro vivente e mentre si rispondeva che era stata crudelissima, prestò di nuovo attenzione ad Erin. “Allora puoi mangiarlo. Uno solo, però.”
“Tre?”
“Uno.”
“Cinque?”
Sayang, non funziona esattamente così una negoziazione.”
Erin aggrottò la fronte e storse leggermente la testa. “Non mi piace quella parola. Non ha un bel suono, quindi ha sicuramente un significato brutto.”
Alec, che stava assistendo a tutta la scena, non riuscì a trattenere una risata. Erin era adorabile.
Magnus sospirò, arrendendosi. “Due. Puoi mangiarne solo due, capito?”
Erin annuì, battendo le mani felice, e uscì dalla cucina.
“È sveglia.” Commentò Alec, con ancora un sorriso sulle labbra.
“Non sai quanto. Fortuna che sa contare fino a cinque, altrimenti avrebbe continuato a salire fino a cento.”
Alec rise di nuovo e tagliò l’ultima fetta. “In ogni caso, riescono sempre a raggirarci.”
“Esperienza personale?”
“Puoi giurarci. Diana mi ha praticamente in pugno, il che non sempre è educativo.”
“Sei suo zio, sei quasi obbligato a viziarla.”
Alec rise e Magnus fu attraversato dal desiderio di sentire quel suono più spesso. “Vallo a dire a Jace, almeno smette di rimproverarmi.”
“Lo farò.”
Rimasero in silenzio per un po’. Era una sensazione piacevole, confortevole, quasi. Alla fine, non si conoscevano, ma nonostante non stessero avendo una conversazione, non c’era quell’imbarazzo che caratterizza di solito due estranei, tra di loro. Ad Alec piaceva, ma la cosa lo terrorizzava a morte, soprattutto perché gli ricordava troppo bene una situazione che l’aveva fatto soffrire.
Che ti ha fatto scappare, vuoi dire.
Alec sospirò impercettibilmente. Era vero, comunque. Non poteva negare che c’era un motivo dietro la sua fuga.
“Alec ti vuoi sbrigare?” gridò Jace dalla sala e Alec alzò gli occhi al cielo. Poi si rivolse a Magnus.
“E poi dicono che i fratelli minori sono una benedizione!” uscì dalla cucina con due piattini in mano, su cui giacevano due porzioni di cheesecake appena tagliate.
Forse Magnus non lo conosceva abbastanza, ma non serviva avere troppa confidenza per capire che Alexander non lo pensasse davvero. Bastava osservarlo mentre guardava i suoi fratelli per capire che si sarebbe gettato nel fuoco per loro.
Alec è buono. Le parole di Maia risuonarono di nuovo nelle sue orecchie e Magnus si ritrovò a crederci ciecamente.



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Ciao a tutti e ben ritrovati!
Allora, se siete arrivati fino in fondo, vi ringrazio immensamente!
Non so bene da dove sia nata questa storia, so solo che l’idea mi frullava in testa da un po’ e ho voluto provare a buttarla giù. È solo il primo capitolo e per adesso ho solo scritto l’inizio del secondo, quindi nonostante abbia più o meno la trama in mente, non so ancora bene come svilupparla. È un AU che vede Magnus padre. Ora, non ho mai scritto di Magnus padre, quindi è un piccolo esperimento e mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, se l’idea secondo voi può essere plausibile o se fa schifo. So che magari non si capisce tantissimo da questo primo capitolo, ma conto di spiegare un po’ le cose mano a mano che la storia prosegue.
È una Malec, ma vorrei provare a sviluppare anche i rapporti degli altri personaggi – spero di riuscirci e di non fare un casino.
Vorrei fare una precisazione su Max: non abbiamo mai avuto modo di vederlo crescere, quindi non so bene come potrebbe essere il suo carattere. Me lo sono immaginato un mix tra Jace ed Izzy, caratterialmente, mentre fisicamente me lo sono immaginato come Noah Centineo. Non so se sapete chi sia, nel caso andate a vederlo, ma secondo me assomiglia un po’ a Matt e ce lo vedo un sacco nei panni di un possibile Max adolescente.
Concludendo: il titolo della storia è preso dalla canzone “Ain’t Nobody” nella versione di Jessie J, che mi ha troppo ricordato Alec e Magnus. 
Inoltre, secondo Google Traduttore, sayang e bintang in indonesiano significano rispettivamente tesoro stella, due nomignoli per Erin. Non so quanto possa essere corretto o affidabile, nel caso ci sia qualcuno che ne sappia più di me è più che legittimato a farsi avanti! 
Vi saluto e vi ringrazio ancora per essere arrivati fino in fondo! A presto :D 

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Capitolo 2
*** 2. ***


Alec non sapeva come interpretare quella curiosità quasi morbosa che sentiva nascere in sé ogni volta che la sua famiglia nominava Magnus. Izzy raccontava un aneddoto che riguardava lei e Magnus in un negozio di trucchi e, improvvisamente, un argomento per il quale non aveva mai provato interesse alcuno, diventava interessante.
Magnus e sua sorella erano amici. Si conoscevano da un anno perché, a quanto pareva, pochi giorni dopo la partenza di Alec, Magnus aveva chiamato Clary informandola del suo ritorno a casa, a NY – e tutta la sua famiglia si era data da fare per aiutare l’amico di infanzia di Clary con il trasloco. Alec non credeva alle coincidenze, era un uomo prettamente logico, ma una parte di lui gli stava suggerendo che ci doveva essere un motivo per cui non si erano incontrati prima. E questo motivo era chiaro e semplice: non dovevano oltrepassare nessuna linea. Essere amici, evitare di fare qualcosa di stupido, che avrebbe portato discordia in entrambe le parti della famiglia. Se Magnus fosse stato colui al quale Alec doveva rivolgersi per guarire le sue ferite, il destino li avrebbe fatti incontrare prima che Alec partisse con il cuore ridotto a brandelli e la convinzione che avrebbe passato la vita da solo.
Si chiese quando era diventato così bisognoso, per non dire patetico, quando il suo cellulare squillò, facendolo sobbalzare sul letto nel quale si era letteralmente gettato dopo un turno di dieci ore. Rispose senza nemmeno guardare chi fosse.
“Eccomi.” La sua voce suonò impastata e un tantino assonnata,  dal momento che prima della telefonata stava per addormentarsi. Si passò una mano sulla faccia per cercare di svegliarsi un po’ e prestare attenzione a chiunque fosse al di là del telefono.
“Alexander.”
Mai si sarebbe aspettato di sentire la voce di Magnus, soprattutto perché l’unica sera in cui si erano visti era stata più di una settimana prima e non si erano scambiati i numeri di cellulare.
“Disturbo?” domandò titubante. Alec non riusciva ad immaginarsi uno come Magnus titubare, eppure il suo tono suggeriva proprio titubanza. Il ragazzo si mise a sedere, pensando che non voleva che Magnus provasse quella sensazione con lui, e appoggiò la schiena alla testiera del proprio letto. “No, io… dimmi tutto.”
“Biscottino ha detto che potevo chiamarti.” Si giustificò ancora Magnus e al cervello stanco di Alec ci volle un po’ per ricordare che l’uomo stesse parlando di Clary. “Ma sembra che tu stessi dormendo. Posso richiamare più tardi.”
Alec sapeva che concentrarsi su quanto suonasse vellutata e premurosa la voce di Magnus non giovava per niente alla sua causa di vederlo solo come un amico. “Non dormivo, tranquillo. Cosa succede?”
Magnus sospirò impercettibilmente, come se stesse ponderando l’idea di dare retta ad Alec o lasciarlo riposare in pace. Alec trattenne il fiato senza nemmeno rendersene conto. Magnus gli faceva un effetto strano. Lo scombussolava. Il che era ridicolo perché si erano visti una volta e quella era la seconda volta che si parlavano. Eppure…
“Clary doveva accompagnarmi a vedere l’asilo, ma è rimasta bloccata al lavoro.” Spiegò, alla fine Magnus, interrompendo il filo dei pensieri di Alec. “Puoi accompagnarmi tu?”
Eppure, Alec bramava la sua vicinanza – per quanto spaventosa quella bramosia fosse. C’era qualcosa in Magnus, qualcosa che lo portava ad interrogarsi su una domanda: cosa c’è al di là della paura?
“Certo.” Rispose, quindi. “Dammi il tempo di farmi una doccia e mandami l’indirizzo di casa tua, ti passo a prendere.”

 
Magnus viveva a Brooklyn, in un imponente palazzo che faceva angolo. Alec parcheggiò la sua auto nel primo posto disponibile e poi scese dalla macchina, dirigendosi a piedi verso l’edificio che corrispondeva all’indirizzo che Magnus gli aveva inviato via messaggio. Trovò ad asciugarsi i palmi delle mani sul tessuto dei jeans più di una volta, come se quello a cui stava per presentarsi fosse una specie di appuntamento e lui, improvvisamente, fosse retroceduto all’adolescenza.
Alec sospirò, scacciando i ricordi di un se stesso sedicenne alle prese con cotte segrete e sguardi controllati, scontroso e arrabbiato con un mondo che non conosceva la sua verità, e si concentrò sulla situazione attuale. Non era un appuntamento e Alec, per grazia divina, non era più un adolescente. Poteva gestire questa situazione. Era un uomo adulto che incontrava un altro uomo adulto per andare a visitare un asilo. Praticità, doveva appellarsi solo a quella. Senza contare che l’asilo che andavano a visitare era per la figlia di Magnus.
Padre single, gli ricordò una parte infida del suo cervello, ma Alec decise di non concentrarsi su ciò. Non poteva permetterselo.
Arrivato davanti al palazzo di Magnus, rimase in attesa. Non voleva andare a suonare, mettendogli fretta. Era qualche minuto in anticipo, quindi decise di aspettare. Estrasse il proprio cellulare dalla tasca del pantaloni e controllò se ci fossero nuovi messaggi: non c’erano, il che poteva essere solo un segno positivo. Di solito, quando all’ospedale avevano bisogno di lui, il suo cellulare veniva intasato e Alec doveva fare le corse per cominciare prima il suo turno. Non che qualche straordinario pagato non gli facesse comodo, ma la fretta non piaceva a nessuno. Tanto meno ad Alec, che era meticoloso e organizzava le sue giornate ora per ora.
“Ciao.”
Alec alzò lo sguardò dallo schermo del proprio cellulare, incontrando la figura di Magnus. L’uomo gli sorrise cordiale e Alec ricambiò. Magnus era una di quelle persone pienamente consapevoli dell’effetto che facevano sugli altri e che risultava bellissimo qualsiasi cosa indossasse, il che era un tantino ingiusto se lo si chiede ad Alec. O a quella parte di sé convinta di dover essere solo un suo amico e che, in quel momento, si sentiva pesantemente sabotata. Che l’Universo volesse prenderlo in giro? Non sarebbe stata la prima volta, si trovò a riflettere Alec.  
Gli occhi dell’uomo erano truccati con un ombretto grigio scuro pieno di brillantini, una riga di eyeliner e mascara; indossava una maglietta nera – aderente e con uno scollo a V relativamente profondo, che mostrava molte collane – abbinata ad un paio di pantaloni dello stesso grigio dell’ombretto, ai cui lati pendevano delle bretelle nere, infilati dentro ad un paio di stivali.
Se Alec avesse negato di trovarlo attraente, sarebbe stato più bugiardo di Pinocchio, ma non poteva di certo dare voce ai suoi pensieri.
“Ciao.” Lo salutò con un sorriso.
“È tanto che aspetti?”
“No, sono solo arrivato un po’ prima. Tu sei puntualissimo.”
Magnus gli fece l’occhiolino. “Solo perché sei tu.”
Alec cercò di non prestare attenzione all’effetto che quel piccolo gesto gli provocò alla bocca dello stomaco. “Quindi devo ritenermi fortunato?”
“Non potevo mostrarmi per il disastro ritardatario che sono proprio il giorno che sei disposto a farmi un favore, ti pare?”
Alec si trovò a sorridere, divertito. “Lo prenderò come un sì.” Dedusse, quindi. “Vogliamo andare?”
Magnus annuì e insieme si diressero alla macchina.

*

 Il viaggio in auto fu abbastanza piacevole. Alec e Magnus parlarono del più e del meno, iniziando prima con il tempo, successivamente commentando il traffico e infine, in prossimità dell’asilo, Magnus espresse la sua agitazione.
“Non sono pronto. Mi sembra troppo presto.” Confessò, mentre Alec parcheggiava. Conosceva quella sensazione perché Jace provava la stessa cosa: «Sembra ieri che mi si addormentava in braccio e adesso va già all’asilo. Com’è possibile?» diceva sempre suo fratello e Alec gli dava mentalmente ragione, anche se poi finiva con fargli discorsi di incoraggiamento tipo fa parte della crescita e cose simili.
“Sarà sempre troppo presto. Crescono in fretta e noi nemmeno ce ne accorgiamo.”
“Non possiamo premere un pulsante e farle rimanere piccole ancora per un po’?”
Alec rise, mentre spegneva la macchina e si toglieva la cintura, pronto per scendere. “Penso non sia possibile. Altrimenti, il mondo sarebbe popolato interamente da bambini i cui genitori non hanno avuto il coraggio di far crescere.” Aprì la portiera e scese dall’auto. Quando Magnus fece lo stesso, Alec chiuse a chiave l’auto.
“Scommetto che da bambino eri carino quanto adesso. Ma nel tuo caso, sono felice che tu sia cresciuto.” Magnus gli riservò un occhiolino che ne aveva del malizioso e squadrò Alec dalla testa ai piedi. L’interessato sentì le guance avvampare, prima di rendersi conto che una sensazione di bruciante calore stava pervadendo ogni centimetro del suo corpo.
“Dovremmo entrare.” Tagliò Alec, smorzando la situazione e parlando il meno possibile perché non si fidava della sua voce, che sarebbe sicuramente uscita alterata dall’emozione.
Magnus, comunque, non sembrò farsi scoraggiare da quella reazione. “Ma certo. Fai strada.” Gli fece cenno con la mano, quindi Alec si incamminò per primo.
Magnus ne approfittò per osservare come la maglietta di Alec scendesse perfettamente lungo la sua colonna vertebrale, mostrando la muscolatura definita, ma sinuosa, della sua schiena. E poi, proprio perché voleva farsi un regalo, guardò anche il sedere di Alec.
Sì, decisamente era felice che non esistessero bottoni che fermano la crescita, altrimenti il mondo – e Magnus, soprattutto Magnus – sarebbe stato privato di tale visione celestiale. E sarebbe davvero stato un peccato.

Entrarono uno dietro l’altro passando attraverso una porta la cui parte superiore era di vetro e sulla quale stavano appiccicati moltissimi disegni di vario genere: fiori, farfalle, stelle, nuvolette, due soli e qualche montagna in miniatura. L’ambiente sembrava accogliente: una volta varcata la porta, Alec e Magnus si trovarono in una grossa sala piena di piccoli divanetti e poltroncine a misura di bambino e mobiletti dove stavano ordinatamente riposti giocattoli di ogni genere. Ufficialmente l’asilo non era ancora cominciato, quindi non c’era nessun bambino, ma c’era il personale addetto all’orientamento e alla visita della struttura. Alec riconobbe subito il ragazzo che era di turno quando Jace l’aveva portato a vedere l’asilo e non riuscì a trattenere un mugugno di disagio.
“Tutto bene?” gli domandò allora Magnus.
Alec lasciò la figura del ragazzo, che stava venendo loro in contro, e guardò Magnus. “Sì, ma solo che… avrei preferito non ci fosse lui.”
“Perché?”
Alec cominciò a sussurrare per fare in modo che solo Magnus sentisse. “Perché mi ha chiesto di uscire e gli ho detto che ero impegnato, così lui mi ha dato il suo numero, ma non l’ho mai richiamato perc-”
“Buongiorno!” Salutò il ragazzo, interrompendo la spiegazione di Alec. Magnus era curioso di sapere la fine di quella storia, ma decise che prima era necessario aiutare Alexander a uscire da quella situazione. Il tempo di osservare il ragazzo guardare Alec come se fosse un dolce e salutarlo con più interesse di quanto fosse necessario in un ambiente lavorativo e la mano di Magnus era già intrecciata a quella di Alec, che sussultò e lo guardò lateralmente. Magnus, però, riuscì a camuffare la sua sorpresa con un bacio sulla guancia.
“Buongiorno,” rispose, quindi. “Sono Magnus. Mia figlia verrà qui tra qualche giorno e vorrei vedere l’asilo.”
“Sono David,” si presentò a sua volta il ragazzo, che osservò le mani intrecciate dei due per qualche istante, prima assumere un’aria più professionale. “Mi occuperò personalmente di farvi fare un giro adeguato ed esaustivo di tutta la struttura.”
Magnus si accoccolò maggiormente ad Alec e appoggiò la mano che aveva libera all’altezza del suo bicipite. Il fatto che stesse facendo un favore ad Alec, non voleva dire necessariamente che non potesse farne uno anche a se stesso. Alec, comunque, superata la sorpresa iniziale, non si irrigidì per quel contatto.
“La ringrazio infinitamente, David. Sono preoccupato, sa? È il primo anno per la mia bambina.”
“Molti genitori sono preoccupati, ma i bambini si trovano sempre bene, qui da noi.” David sorrise e si incamminò all’interno della struttura, facendo strada a Magnus e Alec, che rimasero con le mani intrecciate per tutta la visita.  
Alec aveva le mani calde, le sue dita erano affusolate e i suoi palmi erano leggermente ruvidi, come se avesse avuto dei calli. Magnus dovette fare uno sforzo per non concentrarsi su troppi dettagli, incuriosito da Alec come non gli capitava da tanto tempo.
David parlava e gli mostrava le varie stanze dell’asilo: la zona gioco, la sala mensa, la stanza piena di lettini dove i bambini potevano fare un riposino, il giardino con gli scivoli e i dondoli e le altalene. Era un posto bellissimo e Magnus era super emozionato all’idea che la sua bambina avrebbe passato le sue mattinate in un luogo che trasmetteva una tale serenità.
A fine visita, David consegnò a Magnus un foglio dove erano presenti tutti gli orari dell’asilo.
“Grazie David, è stato molto esaustivo.”
David sorrise. “Lieto di sentirglielo dire. Allora ci vediamo la prossima settimana?”
“Certo.”
Magnus lasciò la mano di Alec – non si erano separati un istante – per stringere quella di David. Alec fece lo stesso, sorridendo cordiale. “Grazie.” Disse a sua volta.
David gli fece un cenno del capo e osservò un’altra volta Alec e Magnus che stavano vicini. “Non avevo capito che con impegnato intendessi questo, mi dispiace.”
“Tranquillo.”
I tre si salutarono un’ultima volta, poi Magnus e Alec uscirono dall’edificio.


“Ok, adesso spiega.” Cominciò Magnus, una volta lasciato l’asilo. Alec si coprì il viso con le mani e cominciò a scuotere la testa.
“Prima di tutto: grazie.” Disse, scoprendosi il viso. “Secondo: non volevo uscire con il maestro di mia nipote per ovvi motivi, anche se la verità è che non sono pronto ad uscire con qualcuno in generale.”
“Perché?”
Alec si fece pensieroso, spostando il peso da un piede all’altro. “Lo vuoi un caffè?”
Magnus aggrottò la fronte davanti a quella risposta, che non c’entrava assolutamente niente con la domanda, ma decise che forse era un argomento troppo personale da affrontare con qualcuno che si conosce a mala pena. “Alexander,” disse quindi, “Faccio finta di essere il tuo ragazzo per un’ora e organizzi già un appuntamento?”
Alec per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. “Cosa?” La sua voce salì di un’ottava. “N-no, io non-”
“Rilassati, stavo scherzando. Non mi piace il caffè, ma berrò un tè. E siccome ti ho buttato giù dal letto, offro io.”
Alec fece per protestare, ma Magnus alzò un dito e lo portò davanti alle sue labbra, senza toccarle. “Non obiettare, tesoro. Lascia che ti offra un caffè. È solo un caffè dopotutto, no?”


Non fu solo un caffè.
Alec e Magnus avevano una sintonia che stupì entrambi. Erano quasi agli opposti, ma si erano presi con una facilità disarmante. A Magnus piaceva il tè, ad Alec il caffè. A Magnus piacevano le montagne russe, Alec dava sempre di stomaco. Ad entrambi, però, piaceva l’altezza e avevano scherzato sul fatto che un giorno sarebbero potuti andare a fare un’arrampicata, con tanto di imbracatura di sicurezza e gesso sulle mani per migliorare l’aderenza della presa.
Alec preferiva i posti silenziosi, Magnus adorava le feste e più rumorose erano, più le trovava divertenti. Ad entrambi piaceva andare al cinema e leggere libri. Alec preferiva il vino rosso, Magnus quello bianco.
Magnus era più un tipo da vodka, Alec da gin. Ad entrambi piaceva il whiskey.
“Vediamo questa.” Cominciò Magnus, mescolando il tè nella tazza. “Snack consolatorio.”
Alec arricciò le labbra, riflessivo. “Snack consolatorio da cuore infranto o da ‘ho avuto una giornata pesantissima mi merito un premio’?”
“Entrambi.”
Alec si sistemò meglio sulla sedia e appoggiò i gomiti al tavolo della caffetteria dove si trovavano da almeno un’ora. “Per il primo vado sempre sul classico: gelato. Se la situazione è orribile lo diluisco con il gin.” Magnus rise e Alec con lui. “Nel secondo caso, invece, mi strafogo in maniera imbarazzante di yogurt alla vaniglia e cereali al miele.”
Magnus accartocciò la faccia. “Sembra stucchevole.”
“Non lo è, in realtà.” Alec abbracciò la sua seconda tazza di caffè con le mani. L’aveva appena ordinata, quindi sentì il calore arrivargli ai palmi. “Mi piace perché è dolce, ma non stucchevole. Come dovrebbe essere quasi tutto, nella vita.”
“Anche le storie d’amore?” azzardò Magnus, ripensando alla conversazione di poco prima, che Alec aveva abilmente evitato.
“Soprattutto quelle. E dovrebbero essere sincere, totalmente. Gli snack non mentono, gli uomini sì.” Alec si rattristò all’improvviso. I suoi grandi occhi, che solo qualche istante prima brillavano insieme ai suoi sorrisi, furono coperti da un velo cupo di tristezza e malinconia. Magnus decise che non era il caso di andare oltre. Non voleva che Alec soffrisse. Era andato tutto bene tra di loro, fino ad ora. Alec si era mostrato per la persona gentile e dolce che Clary e Maia gli avevano descritto e Magnus confidava profondamente nel fatto che sarebbero potuti diventare ottimi amici. E lui, in genere, trovava ogni modo per non far soffrire gli amici.
“Allora, sarei un finto fidanzato pessimo se non sapessi che lavoro fai, tesoro.”
Alec accennò una risata e quel velo malinconico scomparve un poco. “Pediatra.”
“Hai fatto il turno di notte?”
“Sì. Per riprendere il ritmo ho chiesto di poter lavorare anche un po’ al pronto soccorso.”
“E capitano molti bambini?” chiese Magnus con il cuore che si stringeva. Ogni volta che si parlava di possibili bambini in difficoltà, pensava ad Erin, a come reagirebbe lui se le succedesse qualcosa di grave.
“Meno di quanto pensi. In realtà, in pronto soccorso mi occupo di altre cose.”
“Vuoi continuare a fare il misterioso o vuoi spiegarmi tutto senza che ti cavi le parole di bocca?”
Alec ridacchiò. Magnus era un tipo così diretto, senza filtri. Gli piaceva quella caratteristica. “Sono un chirurgo d’urgenza, specializzato in pediatria. Esercito principalmente come pediatra, ma in pronto soccorso mi occupo di casi che richiedono interventi chirurgici.”
Magnus era senza parole, mentre fissava Alec con stupore. “Sei tipo un genio, quindi.”
Alec arrossì ed evitò lo sguardo di Magnus, concentrandosi principalmente sulla sua tazza. “No, sono un normalissimo individuo, un chirurgo come tanti altri. E non è nemmeno la mia prima scelta, quindi ne esistono a vagonate migliori di me.”
“Non dovresti sminuirti. Sono sicuro che sei bravo nel tuo mestiere.”
Alec alzò lo sguardo. “Il mio mestiere è fare il pediatra. E comunque non mi hai mai visto lavorare, quindi non puoi saperlo.”
Magnus agitò una mano. “Quanto sei puntiglioso, Alexander.”
“Dillo ad uno a caso dei miei fratelli, ti daranno ragione.” Alec bevve un sorso del suo caffè. Decise di cambiare argomento, spostando l’attenzione su qualcun altro che non fosse lui. Avrebbe potuto chiedergli di Erin, ma sapeva che Magnus l’aveva lasciata a casa con una sua amica a farle da baby-sitter, quindi trovò opportuno interessarsi a lui, nello stesso modo in cui Magnus si stava interessando ad Alec. “E tu? Non hai sempre insegnato danza, Izzy me l’ha detto. Ha anche aggiunto che il fatto che non sapessi chi fossi mi rendeva più disadattato di quanto si aspettasse.”
Alexander parlava di lui con sua sorella. Magnus nascose un sorriso soddisfatto dentro la sua tazza. “Tua sorella è parecchio diretta.”
“Amore fraterno, che vuoi farci.” Alec fece spallucce. “Allora, il mio finto fidanzato è una specie di star e non lo so?”
Magnus rise e Alec non poté fare a meno di seguirlo. Magnus aveva una risata bellissima.
Ero una star del balletto. Lavoravo con una compagnia, facevamo spettacoli in ogni teatro. Ogni adattamento dal più classico a quello meno conosciuto. Era un’avvenuta continua. Il mondo era la nostra casa.”
A Magnus brillarono gli occhi, Alec lo notò. C’era un entusiasmo particolare, qualcosa che accendeva la sua voce di un’emozione pura e incontrastabile. “Perché hai deciso di insegnare, visto che è ovvio che ami quello che facevi?”
“Perché amo di più mia figlia. Sentirsi cittadino del mondo è bello solo se sai di avere una casa a cui tornare. Se avessi continuato con quella vita, Erin non avrebbe mai avuto un posto da associare a quel concetto. E non volevo.”
La prima volta che l’aveva visto, Alec aveva notato che Magnus era bellissimo. La seconda volta, a quella cena in famiglia, aveva capito che era un tipo diretto e molto spigliato, carismatico. Quella mattina, aveva capito che era intelligente e appassionato. In quel preciso istante, aveva capito quanto fosse premuroso e sensibile. Magnus era raro. “È molto nobile da parte tua.”
“Chiunque l’avrebbe fatto. Amo Erin e mi piace la mia vita con lei.”
“Anche lei sembra adorarti.”
“Quando ottiene quello che vuole. Quando invece si tratta di rispettare delle regole che non le piacciono, diventa una specie di mostriciattolo.”
Alec sorrise ampiamente. “Ti assomiglia, sai?”
“Mi stai dando del mostriciattolo?” Magnus si portò teatralmente una mano al petto. “Non è una mossa da bravo finto fidanzato!”
Il sorriso di Alec si trasformò in una risata. “Dio, no! Sei tutto tranne che un mostriciattolo!” Esclamò, prima di rendersi effettivamente conto dell’implicazione presente in quelle parole. Arrossì un poco, ma Magnus non disse niente, così Alec proseguì. “Intendevo fisicamente.”  
“Ti sei ripreso. A volte mi sento meschino a pensarlo, ma… sono contento che assomigli a me.”
Alec titubò un attimo, poi si fece coraggio e chiese, con più discrezione possibile: “Con sua madre non è finita bene? Non devi rispondere, se non vuoi.”
“Limitiamoci a dire che no, non è finita bene.” Magnus fece vagare lo sguardo nella caffetteria. I divanetti posti ai lati di ogni tavolo, il bancone davanti a cui stavano gli sgabelli, le cameriere, il profumo di zucchero bruciato, caffè e dolci. Tutto trasmetteva quotidianità, qualcosa di normale, persino tranquillo, nelle ore in cui luoghi simili non venivano presi d’assalto. Con Camille tutto questo veniva sempre meno. Non c’era mai normalità con lei, tutto era sempre frenetico, passeggero, effimero. Le piccole cose perdevano di importanza, perché a lei piacevano solo quelle appariscenti, quelle grandiose. Non apprezzava una giornata se non terminava con qualcuno che applaudiva, la venerava, o la riempiva di complimenti e regali. Per questo, quando aveva scoperto di essere incinta, voleva abortire.
«La mia carriera è rovinata, Magnus! Rovinata! Come posso continuare a vivere la mia vita, se ho questa cosa che mi cresce dentro e dipenderà da me?»
«Non è una cosa! Dio Camille, è il nostro bambino!»

«Io non lo voglio un bambino!»
Camille aveva sbattuto la porta della loro camera da letto a Parigi e si era rintanata dentro, chiudendosi a chiave e lasciando Magnus fuori. Si era torturato la mente per ore, poi lei era finalmente uscita da quella stanza. Bella come un miracolo, letale come la morte. «Voglio abortire.» Aveva detto e le sue parole erano calate sul cuore di Magnus come una spada impugnata dal più crudele dei boia.
«No, non è un’opzione!»
«Sì che lo è!»
Aveva gridato Camille, in preda ad un attacco isterico. «È il mio corpo, la mia vita, la mia carriera! Cosa ne sarà del mio futuro?»
Magnus si era arrabbiato, rendendosi conto di quanto fosse egoista Camille, che non era per nulla felice di quell’opportunità di avere una famiglia insieme: Magnus pensava che un giorno avrebbero avuto dei bambini, che si sarebbero addirittura sposati e avrebbero passato la vita insieme, amandosi. Era stato un illuso. Aveva creduto che il suo amore venisse ricambiato, ma Camille non era in grado di amare nessuno al di fuori di se stessa e dell’immagine sfavillante che gli altri avevano di lei. Così Magnus aveva usato la stessa moneta usata da Camille. «Hai ragione: è il tuo corpo, ma è anche il mio bambino. Perciò ti dico cosa faremo: non diremo a nessuno di questa gravidanza, usciremo dai riflettori per un po’, ci inventeremo che sei malata o cose simili e che hai bisogno di cure, le migliori. Porterai avanti la gravidanza fino alla nascita del bambino e rinuncerai legalmente ai tuoi diritti di madre. Se non lo farai, dirò a tutti la verità. E dirò anche qual era il tuo piano. Non vuoi che i tuoi sponsor o i suoi fan sappiano che razza di egoista sei, non è vero?»
Magnus si era vergognato tantissimo di se stesso per essere ricorso ad un ricatto. Non era da lui, era da Camille. Lei manipolava gli altri per ottenere quello che voleva, non lui. Ma c’era di mezzo il suo bambino e sentiva che in qualche modo ciò che stava facendo avesse un fondo di giustizia.
«D’accordo. Ma tra di noi è finita. Finita, Magnus, mi hai capita?»
«Pensavo che quello fosse già ovvio.»

“Magnus senti, mi dispiace. Non sono affari miei, non volevo intromettermi.”
La voce di Alec attirò l’attenzione di Magnus, che si era fatto inghiottire dai suoi ricordi. “Oh, tesoro, non preoccuparti. Togliti quell’espressione affranta dal viso, suvvia. Sei più bello, quando sei tranquillo.”
Alec arrossì. Anche tu, pensò. Ma non lo disse. Se lo tenne per sé, come se fosse un pensiero proibito che doveva rimanere segreto. “Ti sei zittito, quindi pensavo di aver toccato un tasto dolente. Non era mia intenzione.”
“Rilassati, Alexander.” Magnus sorrise e Alec ricambiò, sebbene nei suoi lineamenti c’era ancora un segno di preoccupazione.
“Facciamo così: niente remore, d’ora in poi. Se uno di noi non vuole parlare di una cosa lo dice, d’accordo?”
“Almeno eviti di rispondere a domande tipo: perché non vuoi uscire con nessuno? Sviando il discorso su un caffè?”
Alec sgranò gli occhi e appoggiò la schiena allo schienale del divanetto. “Sai che ti dico? Ho cambiato idea: sei davvero un mostriciattolo.”
Magnus rise, tirando indietro la testa ed esponendo maggiormente il suo pomo d’Adamo, su cui Alec potrebbe (o non potrebbe) aver indugiato più a lungo del necessario approfittando della distrazione di Magnus.
“Me lo sono meritato. Comunque, affare fatto. Ci sto.”
“Bene.” Alec bevve un sorso del suo caffè e quando appoggiò di nuovo la tazza sul tavolo, il suo telefono cominciò a squillare. Lo afferrò dalla tasca dei pantaloni e rispose, mormorando delle scuse a Magnus per l’interruzione.
“Max.”
“Dove sei?”
“Con Magnus. Che succede?”
Una pausa e poi Max parlò di nuovo. “Ti sei dimenticato che oggi devo tornare al campus?”
“Certo che no. Ti devo venire a prendere alle dieci.” Alec afferrò la tazza e agitò il caffè all’interno di essa con movimenti circolatori, facendo agitare il liquido nero all’interno di essa.
“Alec sono le dieci.”
Solo allora Alec prestò attenzione al suo orologio da polso, che segnava proprio le 10.02. “Cazzo!” imprecò.
“Magnus deve averlo magico, se è riuscito a distrarti.” Disse Max all’altro capo del telefono, con una risatina che faceva intuire quanto fosse orgoglioso di se stesso per quella battutina. Alec alzò gli occhi al cielo e gli riservò un’occhiata tagliente anche se non erano nella stessa stanza e non poteva vederlo. Aveva la sensazione che il suo fratellino l’avrebbe percepita dal suo tono di voce seccato quando gli rispose: “Non è successo niente.” Guardò Magnus, che continuava a mescolare il suo tè, ignaro delle insinuazioni che stava facendo Max. “Vengo a prenderti tra mezz’ora. Arriveremo comunque puntuali.”
“Lo scopo di partire presto era arrivare in anticipo, ma va bene comunque.”
“Non fare il puntiglioso.” Lo rimbeccò Alec.
“Chissà da chi avrò preso. È fastidioso quando sono gli altri a guardare il pelo nell’uovo, vero?”
Alec si passò il palmo della mano che non reggeva il telefono sul viso con fare esasperato. Gestire il sarcasmo di Max era più difficile che gestire quello di Jace. E dire che doveva esserci abituato, ormai. “Ci vediamo tra mezz’ora.”
“D’accordo, fratellone.”
Alec riattaccò e guardò Magnus, che lo guardava con un sorriso. “Problemi a casa?”
“No. Dovevo accompagnare Max al campus, oggi. Ma non mi sono reso conto del tempo che passa e mi è sfuggito l’orario. Dovrei essere già da lui.”
Magnus si alzò immediatamente. “Allora andiamo. Non voglio essere la causa del ritardo di tuo fratello!”
Alec rise delicatamente, ma si alzò a sua volta. “Non lo sei. È colpa mia, mi sono… distratto.” I suoi occhi incontrarono quelli di Magnus, ovvero la più bella distrazione che potessero mai incontrare.
Ci siamo distratti.”
Alec deglutì, mentre cercava di ignorare la scarica di adrenalina elettrica che provava ogni volta che Magnus lo guardava come stava facendo adesso, come se Alec fosse una piacevole sorpresa, o la cosa che trovi dopo aver cercato tanto e che quando la ottieni ti rende più felice di quanto avevi immaginato.
“Ti accompagno a casa.” Disse e Magnus annuì.


*


“Allora, come mai il mio super puntuale fratellone si è dimenticato di me?”
Alec teneva gli occhi fissi sulla strada. Max, al suo fianco, giochicchiava con il suo iPod per cercare la canzone da viaggio perfetta. Ne aveva già cambiate otto da quando erano partiti, dieci minuti prima. Direzione: NY University. Max studiava ingegneria meccanica ed era al suo secondo anno di college. Alec si era perso il primo, perché la sua partenza, l’anno prima, aveva coinciso con l’inizio delle lezioni di Max, quindi si era perso il primo giorno di college del suo fratellino – che tanto ino ormai non era più. Quell’anno aveva voluto rimediare, offrendosi per accompagnarlo al campus.
“Non mi sono dimenticato di te.”
“Sei solo stato distratto.”
Alec abbandonò la strada solo mezzo secondo per lanciare un’occhiata truce al fratello. “Piantala.”
“Allora, come ti è sembrato?” Max fece partire una canzone rap piuttosto orecchiabile. Alec fissò la strada davanti a lui, l’asfalto che veniva divorato dalla macchina mano a mano che procedevano. Quella mattina il traffico era abbastanza scorrevole e Alec non poteva che esserne felice. Odiava rimanere imbottigliato nel traffico – come il novanta percento della popolazione, dopotutto.
Come gli era sembrato Magnus? Affabile e carismatico. Gli piaceva, in senso amichevole. Il fatto che fosse l’uomo più bello su cui avesse posato lo sguardo non doveva influenzare il suo giudizio: amici, dovevano limitarsi solo a quello. E sul piano strettamente amichevole, Magnus era davvero una bella persona.
“Simpatico.” Rispose, anche se mentre l’aggettivo lasciava le sue labbra, Alec si rese conto di quanto fosse riduttivo. Era quasi uno spreco associare Magnus a quell’unica, semplice parola.
Max sorrise e non disse altro. Era solo felice di vedere che suo fratello si stesse avvicinando a qualcuno che non facesse direttamente parte della sua famiglia. Alec era quel tipo di persona che si dedica agli altri, ma che ha bisogno di tempo per farli entrare nel suo cuore. Dava tutto se stesso a chi amava, per questo Max tendeva ancora a detestare l’ultimo ragazzo di cui Alec si era (innamorato) fidato e che, senza remore alcuna, aveva calpestato il suo cuore. Capiva perfettamente perché, quindi,  suo fratello voleva andarci piano. Era già un enorme passo avanti il fatto che avesse passato del tempo con Magnus, anziché respingerlo come tendeva sempre a fare.
Rimasero in silenzio ancora qualche istante. Max guardava fuori dal finestrino, Alec la strada. Dopo minuti interi, il più piccolo emise un sospiro e parlò.
“Papà ha chiesto di te.”
Alec tamburellò con le dita sul volante. “Ah, sì? E che ha detto? Se ho finalmente una ragazza?”
Max emise una risata dal naso, simile ad uno sbuffo. “No, ha chiesto se verrai alla cena a casa sua, questo week-end.”
Il primo istinto di Alec fu quello di dire di no, ma una parte di sé gli frenò la lingua. Non era in buoni rapporti con suo padre, prima di tutto perché aveva tradito sua madre e in secondo luogo perché non aveva ancora accettato la sua omosessualità. Alec aveva fatto coming-out da dieci anni, ormai, ma suo padre continuava a vivere la cosa come una fase. Diceva che prima o poi si sarebbe reso conto che era tutto un capriccio, dettato da qualche trauma – forse quello di Max, diceva sempre Robert – e che una volta superato il disturbo post-traumatico avrebbe capito qual era la strada da percorrere. Sottintendendo ogni volta la giusta strada, perché qualsiasi cosa che non rientrasse nella coppia uomo-donna era inconcepibile, per lui. Robert non riusciva ad accettare che uno dei suoi figli fosse gay e mascherava la sua intolleranza dietro ad una serie di discorsi di falso buonismo che in realtà implicavano soltanto il desiderio di sentirgli confessare che in realtà gli uomini non gli erano mai piaciuti.
Stronzate. Erano tutte una marea di stronzate che rendevano Alec particolarmente intollerante alla presenza del padre.
“Ci penserò, ok?”
“Ok.” Rispose Max, abbozzando un sorriso.
“Siamo quasi arrivati.” Disse Alec, contento di poter cambiare argomento. Svoltò verso destra, entrando in una strada decisamente più stretta rispetto a quella in cui erano stati fino a quel momento, trovandosi imbottigliato in una miriade di automobili tutte dirette verso il campus.
“Sembra l’inizio di La La Land.” Commentò Max.
“Sì, ma senza Ryan Gosling, quindi è decisamente uno schifo.”
Max rise di gusto e scelse un’altra canzone dall’iPod, prima di prendere il cellulare e puntarlo contro di sé. “Dai, avvicinati.” Gli intimò. “Nell’attesa, mettiamo un selfie su Instagram!”
Alec si sentì decisamente vecchio per certe cose, ma non riuscì a dirgli di no, così si avvicinò e sorrise pure, come gli suggerì Max. Passarono il successivo quarto d’ora a scegliere didascalia ed hashtag. E Alec, contro ogni sua immaginazione, lo trovò persino divertente.


*


Alec rientrò a casa che erano passate le nove di sera. Era stanco, mezzo affamato e desideroso di farsi una doccia che durasse almeno due ore. Avrebbe voluto avere un materasso impermeabile dentro alla sua vasca, almeno avrebbe potuto riempirla d’acqua e addormentarsi direttamente lì.
Si tolse il giubbotto e lo mise sull’attaccapanni, poi gettò le chiavi di casa e della macchina nel piattino che teneva sul mobile all’entrata.
Alec viveva in un appartamento non troppo grande, visto che ci viveva da solo, quindi la porta d’ingresso dava direttamente sulla sala. Gettò un’occhiata al suo divano e fu enormemente tentato di gettarsi su di esso con la stessa intensità con cui un salmone tenta di risalire la corrente, ma decise di farsi forza e trascinarsi fino al suo bagno. Lo fece, con la stessa euforia e gioia di vivere di uno zombie, trascinando i pieni e sbuffando.
Una volta in bagno, recuperò il cellulare dalla tasca dei pantaloni e lo appoggiò sopra ad un mobiletto vicino al lavandino, si tolse i vestiti e accese l’acqua della doccia. Una volta che fu calda, si mise sotto al suo getto, sentendo la stanchezza della giornata che veniva lavata via.
Ripensò alla sua mattinata, che era risultata la parte più piacevole della giornata, e a Magnus che gli chiedeva un favore e finiva per prenderlo per mano. Il suo cuore si era agitato come quello di un adolescente quando le loro pelli erano entrate in contatto. Quella di Magnus era così morbida che Alec si era vergognato dei calli presenti sulle sue mani a forza di praticare pugilato. Magnus, inoltre, aveva un buon odore, che gli era rimasto nelle narici anche quando Alec aveva accompagnato Max al campus. Doveva ammettere – e solo con se stesso – che quel profumo gli aveva fatto compagnia, durante il viaggio di ritorno, quando si era ritrovato solo con i suoi pensieri e ancora la voce di Magnus nelle orecchie, che suonava delicata, ma accattivante allo stesso tempo. Magnus non aveva niente di noioso – non il guardaroba, non il modo di parlare, non il modo di muovere le mani, cariche di anelli.
Si lavò i capelli, scacciando quei pensieri dalla propria mente: era inopportuno. Magnus era come David. Essendo l’insegnante di danza di sua nipote era off-limits. Come aveva rifiutato David, doveva rifiutare anche Magnus.
Eccezion fatta, signorino, che Magnus non ti ha chiesto di uscire. Non montarti la testa. Te la stai suonando e cantando tutta da solo.
Vero, pensò.
Magnus si era limitato a qualche battutina maliziosa buttata là in modo scherzoso, l’aveva guardato due o tre volte in un modo che ad Alec aveva fatto attorcigliare le budella e scaldare ogni minima parte del suo corpo – un qualcosa che gli aveva pericolosamente ricordato l’eccitazione –, ma a parte questo non aveva detto altro. Avevano semplicemente chiacchierato, come fanno due persone che stanno imparando a conoscersi. Tuttavia Alec, ancora si stupiva per com’erano state facili le cose tra di loro, come se in realtà una parte di lui già conoscesse Magnus e stesse solamente riallacciando quel rapporto che avevano sempre avuto, ma che, con il tempo si era solamente sbiadito. Sembrava che stessero colorando un tatuaggio che con l’andare del tempo si era ingrigito, mantenendo, però, i contorni netti e marcati. Qualcosa che c’era sempre stato, ma che andava solamente riempito. Era una sensazione strana, assurda quasi, ma piacevole. Magnus era un estraneo, ma allo stesso tempo Alec lo sentiva l’essere umano meno estraneo con cui si fosse rapportato fino ad ora.
Alec si sciacquò dallo shampoo e dal sapone che ricopriva il suo corpo e rimase sotto il getto dell’acqua qualche istante più del necessario – c’erano poche cose che gli piacevano come la sensazione rilassante che trasmette l’acqua calda sulla pelle – poi chiuse la valvola della doccia e uscì, scavalcando la vasca per mettere i piedi su un tappetino, che Izzy gli aveva regalato appena si era trasferito, e si allungò per afferrare l’accappatoio, in cui si avvolse.
Si stava godendo la sensazione simile ad un abbraccio di spugna datagli dall’accappatoio, quando sentì il cellulare squillare. Il suono breve di un messaggio. Controllò chi fosse e quando l’anteprima gli mostrò il nome di Magnus, non riuscì a trattenere un piccolo sorriso.

> From: Magnus, 21.26
Allora, tuo fratello ha cominciato ad odiarmi o sono ancora il suo preferito?

Alec ridacchiò.
> To: Magnus, 21.26
Il suo preferito? Pensi di piacergli così tanto?
> From: Magnus, 21.26
Non penso, lo so per certo.
> To: Magnus, 21.27
Ah, sì? E in base a che cosa, di grazia?
> From: Magnus, 21.27
Non posso rivelarti tutti i miei segreti, ti pare?

Alec rise di nuovo, scuotendo la testa.
> To: Magnus, 21.27
Allora rivelami un qualsiasi altro segreto.
Alec si stava giusto chiedendo quanto fosse inopportuno un messaggio simile, se stesse valicando qualche linea che non andava valicata per quanto riguardava la discrezione, ma poi Magnus gli rispose.

> From: Magnus, 21.28
Livello di segretezza base o avanzato?
> To: Magnus, 21.28
Direi base. Partiamo dalle cose semplici.
Mentre aspettava la risposta di Magnus, Alec si diresse ancora con l’accappatoio addosso verso la sua camera. Appoggiò il cellulare sul suo letto di una piazza e mezzo, situato al centro della stanza, e si diresse verso l’armadio, che occupava la parete opposta a dove si trovava la porta. Ne estrasse una tuta e si vestì, dopo essersi asciugato per bene. Più comodo e con i capelli ancora bagnati, recuperò il cellulare mentre tornava in bagno per sistemare l’accappatoio al proprio posto e mettere a lavare i vestiti che si era tolto prima della doccia. Doveva assolutamente fare una lavatrice, costatò, guardando il cestello dei panni sporchi. L’avrebbe fatta la mattina successiva, prima di andare a lavorare.
Prestò di nuovo attenzione al cellulare, mentre usava la mano libera per asciugarsi i capelli con un asciugamano.

> From: Magnus, 21.33
Detesto in maniera assoluta i film sullo spazio. Mi fanno venire l’ansia.
> To: Magnus, 21.33
Non hai mai visto Interstellar?
> From: Magnus, 21.33
No. E mai lo guarderò.
> To: Magnus, 21.34
Non sai cosa ti perdi.
Alec sistemò di nuovo l’asciugamano al suo posto, i capelli ancora umidi ma decisamente meno bagnati. Ogni volta che li lasciava asciugare in quella maniera pensava ad Izzy, che lo rimproverava sempre dicendogli che in quel modo si sarebbe procurato una cervicale con i fiocchi. Alec sapeva che avrebbe dovuto cominciare ad asciugarsi i capelli come la maggior parte della popolazione, ma, a meno che non fosse inverno inoltrato, lui proprio non lo reggeva il phon puntato addosso.
Uscì dal bagno, dirigendosi verso la cucina, il cellulare nella tasca dei pantaloni che ancora non dava segni di vita. Forse Magnus aveva avuto da fare – magari con Erin –  e non aveva più tempo di stare al cellulare. Decise di aspettare. Aprì il frigo ed estrasse lo yogurt, poi si diresse verso la dispensa e prese i suoi cereali e una scodellina. Si preparò il suo snack di fine giornata con grande gioia del suo stomaco che aveva cominciato a brontolare. Non aveva cenato. L’unica cosa che era riuscito a mangiare era stata una barretta energetica nella sua pausa, avvenuta più di quattro ore prima.
Seduto su uno sgabello all’isola della sua cucina, Alec immerse il cucchiaio nello yogurt e mangiò il primo boccone di cereali. Era consapevole che un uomo adulto non avrebbe dovuto avere quel tipo di alimentazione – e nonostante avesse trent’anni poteva chiaramente sentire la voce di sua madre nelle orecchie che lo rimproverava dicendogli di sforzarsi per cucinare come una persona normale – ma non poteva resistere alla comodità di quella sottospecie di cena ritardataria. Veloce ed efficacie.
La cosa strana era che ad Alec piaceva cucinare. Era anche abbastanza bravo, se si escludeva lo stufato. Quello proprio non gli riusciva e ogni volta che provava a cucinarlo, sembrava l’avesse condito con il cianuro. Per il resto, se la cavava piuttosto bene.
La vibrazione prolungata del suo telefono seguito immediatamente dalla suoneria delle chiamate, attirò la sua attenzione. Alec prese il cellulare dalla tasca dei pantaloni e sorrise quando vide il nome di Magnus comparire sullo schermo. Rispose, sistemando il cellulare tra la spalla e l’orecchio.
“Ehi.”
“Disturbo?”
“No, figurati.” Sgranocchiò un’altra cucchiaiata di cereali.
“Stai mangiando?”
“I miei cereali.”
“Quelli stucchevoli al miele?”
“Mi stai giudicando, Magnus?”
Magnus dall’altro capo del telefono rise e Alec si lasciò contagiare. Era bella la sua risata. “No, tesoro, non ti sto giudicando.”
Alec arrossì un poco, quando quel nomignolo lasciò le labbra di Magnus e fu felice che l’altro non potesse vederlo. Alec decise anche, per il bene della sua sanità mentale, di non concentrarsi sulla morbidezza del tono di voce usato dall’uomo. “Bene, perché non sarebbe una cosa carina.”
“Sarei proprio un finto fidanzato orribile, se ti giudicassi.”
Alec arrossì ulteriormente. Era una caratteristica di sé, quella, che non gli era mai piaciuta. Alec arrossiva da quando era un ragazzino e se a sedici anni una reazione simile poteva anche essere scusata e, in qualche modo, vista come tenera ad occhi esterni, a trenta era solo una cosa imbarazzante. Alec l’aveva sempre odiata e ancora di più odiava quando le persone gli facevano notare che stava arrossendo, portandolo ad arrossire ancora di più.
Alec si sentiva davvero un disagio ambulante.
“Allora, non mi vuoi dire cosa mi perdo?”
Alec deglutì il boccone che stava masticando. “Mi stai dicendo che sei propenso a cambiare idea?”
“Sto dicendo che potrei avere un’apertura mentale tale da essere disposto a sentire il tuo punto di vista.”
“È modestia quella che tracanna dalla tua voce?” Commentò Alec, divertito.
“È sarcasmo quello che sento nella tua?”
“Touché.” Alec doveva ammettere che era giusto un po’ intrigato dal modo che aveva Magnus di stuzzicarlo. Non che l’avrebbe mai detto ad alta voce, comunque. “In ogni caso, la mia spiegazione non renderebbe l’idea. Dovresti guardarlo per comprendere in pieno la sua bellezza.”
“D’accordo.” Disse Magnus. “Lo guardiamo insieme?”
Alec per un pelo non si strozzò con i suoi cereali. Niente panico. Niente panico. Niente panico.
Ma ripeterselo risultò inutile: era già preda del panico.
Quanto sei disagiato, Alec. Mica ti ha chiesto di sposarlo, dannazione! Accetta!
Perché era la voce di Isabelle che gli risuonava nelle orecchie? E perché anche quando non era fisicamente con lui doveva dargli del disagiato?
“Ehm, s-sì. Quando?”
Magnus non esitò nemmeno un istante. A differenza di Alec, non era un totale imbranato, a quanto pare. “Domani sera?”
“Va bene.”
“Perfetto. Chissà, magari mi farai anche cambiare idea.”
“Nel caso, sarà merito del film, non mia.”
Magnus rise piano e poi lo salutò, augurandogli la buonanotte. Alec fece lo stesso.
Era solo un film, si disse, quando bloccò lo schermo del cellulare e se lo rimise in tasca.
Non aveva motivo di agitarsi. Gli amici guardano film insieme, dopotutto, no?
Mentre metteva la scodellina, ormai vuota, nella lavastoviglie, Alec decise di non dare troppo peso al fatto che la sua mente gli stesse ricordando che, in anni che conosceva Simon, non aveva mai accettato nessuna delle sue proposte a guardare un film insieme. Eppure, lui e Simon erano amici. È solo un film, si ripeté.
Solo. Un. Film.





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Ciao a tutti e ben ritrovati!
Volevo trovare un modo per far legare Alec e Magnus, almeno un pochino ed è nata questa cosa. Ora, onestamente parlando a me questo capitolo crea dei dubbi, un po’ perché ho paura di non riuscire ad esprimere bene il concetto su cui si baserà questa storia, ovvero il fatto che Alec e Magnus saranno amici per un bel po’ (è un mio fiacco tentativo di scrivere una slow burn, anche se dubito di esserne capace), un po’ perché temo di essere sfociata nell’OOC, soprattutto con Alec. La parte in cui viene nominata Camille è un pezzo che verrà approfondito più avanti e anche in quel caso, nel mini-dialogo che hanno lei e Magnus, mi sembra di aver fatto uscire quest'ultimo dal suo carattere originale. Quindi se voleste farmi sapere cosa ne pensate a me farebbe piacere!
Inoltre, volevo provare a fare la stessa cosa che ho provato a fare nella long precedente: chiedervi cosa vi piacerebbe vedere (leggere?) tra questi due, o se avete anche delle idee riguardanti o solo Alec o solo Magnus, non per forza insieme! Provare a inserire le vostre idee nell’altra storia mi era piaciuto, quindi se vi va come idea, potrei farlo anche qui!
Vi saluto e ringrazio chi ha recensito il capitolo precedente e chi l’ha messo nelle preferite/seguite/ricordate. Mi fa un piacere immenso, quindi grazie! <3  
Alla prossima! :D 

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Capitolo 3
*** 3. ***


“È un’idea pessima, Magnus.”
“Grazie tante, Cat. Meno male ci sei tu a darmi conforto!” sussurrò in risposta il ballerino. Magnus si trovava nella sua scuola di danza con Catarina Loss, sua amica storica nonché consigliera full-time e voce della propria coscienza. Stava tenendo una lezione di yoga per una dozzina di donne, che stavano tutte di fronte a lui, imitando ogni suo movimento. Magnus si muoveva piano e spiegava ad alta voce i movimenti giusti da fare, osservando le sue allieve e spostandosi tra di loro di tanto in tanto per correggerle.
Catarina, quando non lavorava, andava da lui e passava la lezione al suo fianco. La cosa, all’inizio, le aveva provocato parecchio imbarazzo, soprattutto perché era l’unica allieva che stava vicino a Magnus e di fronte alle altre, ma poi ci aveva fatto l’abitudine. Certo, alcune malelingue continuavano a sussurrare acidi commenti su di lei e una presunta relazione sessuale con Magnus che le portava sicuramente quel tipo di vantaggio, ma aveva imparato ad ignorare anche quelli. Aveva notato che quelle due o tre che spettegolavano in quel modo, erano le stesse che guardavano Magnus come se fosse un piatto prelibato che avrebbero sbranato volentieri, quindi, con ogni probabilità, la loro acidità derivava da una forma di invidia. Forse avrebbero voluto essere loro le pupille dell’insegnate. La cosa che ignoravano era che Magnus la faceva stare al suo fianco per motivi che esulavano completamente dall’idea che quelle pettegole si erano fatte: parlarle dei suoi problemi e ricevere consigli.
Quella mattina, l’argomento scottante era Alec Lightwood. Chissà come l’avrebbero presa le Signore Lingua Lunga, se avessero saputo che tutta l’attenzione del loro oggetto del desiderio era focalizzata su un altro ragazzo.
“Se volevi del conforto, dovevi andare da Ragnor.”
“Ragnor mi avrebbe sputato in un occhio e lo sai meglio di me!”
Catarina rise. “Hai ragione, lui detesta i tuoi drammi sentimentali!”
Magnus voltò repentinamente la testa verso l’amica. “Non sono drammi sentimentali. Volevo solo informarti dei miei piani riguardanti la mia serata.”
“Che includono Alec Lightwood che viene a casa tua per guardare un film.” Mimò delle virgolette in aria con le dita, enfatizzando l’ultima frase. “Lo sanno tutti come vanno a finire queste serate.”
“Ah sì, e come?” domandò sarcastico Magnus. Spiegò un’altra posizione alle sue allieve, inarcando la schiena e sollevando una gamba all’indietro. “Tenente la posizione per venti secondi, signore mie!”
Catarina aspettò che l’attenzione dell’amico tornasse su di sé, prima di parlare di nuovo. “Ci finirai a letto. Non sai resistere agli uomini super sexy. Se contiamo inoltre che è alto e moro… Gesù, per te è tipo un invito ad un buffet!”
Magnus la guardò un tantino offeso. Avrebbe voluto domandarle se gli stava implicitamente dando della sgualdrina, ma poi il suo cervello gli fece realizzare un’altra cosa. “Tu lo conosci!” disse in un sussurro accusatorio per non farsi sentire dalle allieve. “Non te l’ho mai fatto vedere, ma l’hai descritto benissimo. Soprattutto la parte del super sexy.”
Catarina ridacchiò. “Sembri una delle tante dottorande che gli sbavano dietro appena mette piede in pronto soccorso!”
Magnus appoggiò nuovamente la gamba a terra – e così fecero le sue allieve. Allungò le braccia sopra alla testa, portando le donne a fare la medesima cosa.
“Penso che tu debba aggiornarmi un pochino, mia cara.” Magnus le lanciò un’occhiata di bonario rimprovero.
“Sono la capo reparto del pronto soccorso. Gestisco le sale dove mandare gli infortunati, compilo un mucchio di burocrazia, ho a che fare con i parenti dei pazienti… le solite cose, lo sai.” Catarina fece una pausa e Magnus annuì, per farle capire che la stava seguendo. “Da poco in pronto soccorso viene Alec, uno dei migliori dottori con cui abbia mai lavorato. Lui non mi sminuisce solo perché sono un’infermiera, anzi mi rispetta e ascolta le mie direttive. Mi aiuta persino a compilare i rapporti di fine giornata, perché a volte ce ne sono moltissimi. È un professionista e mi piace lavorare con lui.”
Magnus sentì il suo cuore accelerare, sentendosi veramente uno stupido. Alexander non era nemmeno lì eppure si trovava a fantasticare su di lui. Se lo immaginò con il camice bianco, mentre si rivolgeva a Catarina per le istruzioni basilari per poi dirigersi dal suo paziente. Chissà che tipo di medico era, trovò a chiedersi.
“Non succederà niente stasera.” Sussurrò dopo qualche istante. Guardò prima l’amica e poi i suoi occhi vagarono in fondo alla sala, dove la piccola Erin stava giocando con un servizio da the e alcuni dei suoi pupazzi. “Voglio allacciare un rapporto con qualcuno che fa parte di una famiglia importante per me e per la mia bambina. Ma non farei mai niente che possa compromettere quel rapporto.”
Catarina annuì, i suoi occhi color nocciola si incatenarono a quelli del ballerino. “Devi solo andarci piano, Magnus.”
L’uomo si voltò verso l’amica e annuì. Catarina aveva ragione: doveva andarci piano e prendere le cose come venivano. Non doveva creare nessun tipo di aspettativa. Lui e Alexander potevano essere amici e nient’altro. Nonostante le apparenze avrebbero potuto mostrare il contrario, Magnus era terrorizzato da una relazione. Per questo non ne aveva avute di serie da quando si era lasciato con Camille. E nessuna delle persone che aveva frequentato si era avvicinata ad Erin. Magnus era categorico su questo: la sua bambina non avrebbe conosciuto nessuno, fino a che Magnus non fosse stato sicuro che la persona in questione fosse quella giusta, anche se finiva sempre per concludere le relazioni dopo pochi mesi. Aveva troppa paura che fidandosi di nuovo di qualcuno nel modo profondo e viscerale in cui si era fidato di Camille, sarebbe rimasto nuovamente bruciato. Il suo cuore si sarebbe frantumato di nuovo e Magnus non voleva provare di nuovo quelle sensazioni dolorose.
“Lo so, Cat. Lo so.” Le rivolse un sorriso che lei ricambiò, prima di concentrarsi entrambi sui loro esercizi.


*

Alec aveva appena finito di visitare il suo ultimo paziente – un bambino di nove anni con le placche alla gola che faceva fatica persino a parlare, tanto che erano infiammate – quando sentì il suo cellulare vibrargli in tasca. Lo estrasse e, leggendo il nome della sorella, sorrise.
“Ehi, Iz.”
“Ciao, hai fame?”
“Dipende.” Rispose cauto Alec, lanciando un’occhiata al suo orologio da polso che segnava le 12.46.
Alec adorava sua sorella, sul serio, e si fidava ciecamente di lei, ma… quando c’era di mezzo il cibo cucinato da Isabelle, c’era sempre il rischio di morire avvelenati. “Hai cucinato tu?”
“Ti meriteresti un pugno, lo sai?”
Alec rise. “Sei negata ai fornelli, Iz.”
Isabelle dall’altro capo del telefono sbuffò. “Vuoi mangiare o no? Ho comprato dei panini per la strada. Se hai tempo per la pausa pranzo mangiamo insieme.”
“D’accordo. Sento anche Lydia?”
“Sì, ne ho preso uno anche per lei.”
“Perfetto. Ci vediamo tra…?”
“Dieci minuti. A dopo!” Izzy riattaccò e Alec digitò velocemente un messaggio a Lydia, che aveva l’ambulatorio accanto al suo, per chiederle se aveva tempo di mangiare. Lydia gli rispose che lei aveva sempre tempo per mangiare e Alec si trovò a ridacchiare.

Isabelle si presentò dopo dieci minuti esatti, puntuale come un orologio svizzero, con la sua tenuta da lavoro: leggins a vita alta e un top elasticizzato nascosti sotto ad un giubbotto leggero. Alec era sicuro che almeno la metà degli infermieri e dottori presenti in quella struttura si fosse girata al passaggio di sua sorella e sebbene fosse sempre stato un po’ protettivo nei confronti di Izzy, ormai ci aveva fatto l’abitudine. Isabelle era bella, consapevole di esserlo, e attirava l’attenzione nel modo più elegante possibile. Lei passava, vestita in qualsiasi modo, e irradiava un’eleganza sinuosa, quasi serpentina, che portava chiunque ad incollare gli occhi su di lei, come se fosse stata una calamita a cui nessuno poteva resistere. Era sempre stato così, fin da quando era ragazzina. Le persone la notavano sempre, mentre tendevano a non notare Alec, che se ne stava sempre in disparte. Per gran parte della sua adolescenza, aveva pensato che Izzy irradiasse così tanta luce da rendere oscuro chiunque vicino a lei. Lo stesso discorso valeva per Jace, che irradiava una sicurezza tale da rendersi irresistibile a chiunque. La verità era che Alec aveva fatto di tutto per non venire notato. Si spegneva la propria luce da solo, auto-sabotandosi, per evitare che qualcuno lo notasse e lui dovesse essere costretto a dire la verità: non voleva che qualche ragazza gli si avvicinasse, perché avrebbe dovuto rifiutarla per non illuderla, ma non voleva nemmeno che gli si avvicinasse un ragazzo, perché a quel punto accettare le attenzioni di un maschio sarebbe stato come gridare a squarciagola il suo orientamento sessuale. Ed Alec, all’epoca, non era pronto. Anzi, era terrorizzato all’idea di dire come stavano le cose.
Con i suoi fratelli non era mai stato necessario: Izzy e Jace l’avevano capito quasi subito e quando lui, a vent’anni, aveva fatto coming-out loro gli avevano semplicemente detto che lo sapevano già e che non cambiava assolutamente niente. Già, fratello, rimarrai sempre il solito musone, puntiglioso, Alec. Aveva detto Jace, facendo ridere Alec. Loro non l’avevano trattato diversamente. I suoi fratelli ci credevano davvero quando dicevano che non cambiava niente: persino per Max, che all’epoca aveva undici anni, era stato così. Se si parla di suo padre, invece, le cose erano diverse, ma Alec scacciò quel pensiero.
Si concentrò invece su Izzy, seduta su una sedia che stava di fronte alla sua scrivania. I suoi capelli erano legati in una coda alta, mostrando completamente il suo viso privo di trucco. Izzy non si truccava mai, quando doveva andare a lavorare, ritenendolo inutile. Sudo, mi cola tutto. E di certo non posso usare i miei trucchi waterproof per andare in palestra, sarebbe uno spreco!
Iz teneva le gambe accavallate, mentre mangiava il suo panino e ascoltava Lydia, seduta al suo fianco, che le raccontava del nuovo ristorante che lei e John, il suo ragazzo, avevano provato la sera prima. Alec si era estraniato, percorrendo chissà come mai il viale dei ricordi.
Erano cambiate parecchie cose, rifletté: erano cresciuti, tutti. Avevano avuto tutti percorsi diversi: Alec era diventato un medico, Izzy una fisioterapista che possedeva una palestra in cui faceva anche la personal trainer, Jace aveva ottenuto la cattedra di lettere antiche all’università, ma il loro rapporto, ciò che li legava era rimasto lo stesso da quando erano piccoli. Max diceva sempre che a volte si sentiva escluso perché lo trattavano ancora come un bambino e un po’ aveva ragione. Forse dovevano accettare che il piccolo Max non era più piccolo e dovevano iniziare a trattarlo come il ragazzo che era. Anche se Alec si sentì più vecchio di quanto non fosse, quando realizzò tutto ciò, ricordando quando da bambino, cambiava i pannolini di un Max ancora bebè. Sembrava passato il tempo di un battito di ciglia, invece erano passati più di vent’anni.
Alec non voleva pensarci.
“Terra chiama Alec. Ci sei?” domandò Izzy, sventolandogli una mano all’altezza del viso. Alec si destò dai suoi pensieri.
“Sì, dimmi.”
“Stasera io, Simon e Maia andiamo a bere qualcosa. Vuoi venire?”
“Ehm, io non posso. Ho da fare.”
“Con chi?” domandò immediatamente Lydia, precedendo di un secondo Isabelle. Alec portò lo sguardo sull’amica, incontrando i suoi occhi azzurri come il cielo. Sentiva su di sé anche lo sguardo della sorella, come se i suoi occhi neri lo stessero studiando per leggergli nell’anima. E, diamine, Izzy era sempre riuscita a leggergli dentro e a carpire le verità prima ancora che Alec stesso le afferrasse, quindi decise che era meglio essere diretti e sinceri. Inoltre, non aveva motivo di non dire la verità. Non aveva niente da nascondere.
“Con Magnus. Guardiamo un film a casa sua.”
Isabelle per poco non soffocò con il boccone che aveva appena messo in bocca, portando Lydia a voltare repentinamente la testa verso di lei. “Che c’è?” le domandò ed Izzy tossicchiò.
“Niente.” Rispose, dopo aver deglutito il boccone infido che aveva tentato di ucciderla.
La bionda alzò un chiaro sopracciglio curato e passò lo sguardo ceruleo tra i due fratelli. “Sputate il rospo.”
Alec sospirò pazientemente. “Isabelle esagera, come sempre. Magnus è un amico di famiglia.”
“Un amico di famiglia molto sexy.” Precisò lasciva Isabelle.
“Ah, ma davvero?” domandò Lydia, un sorriso beffardo che le tirava le labbra, mentre guardava Alec. Il ragazzo arrossì e si maledisse mentalmente per quella reazione così cristallina. Il rossore sulle sue guance era l’equivalente facciale di un megafono impostato al massimo volume che urlava: IZ HA RAGIONE, MAGNUS È SEXY e Alec in quel momento desiderava solo sotterrarsi.
“Davvero.” Commentò Isabelle, stampandosi lo stesso sorriso che albergava sul viso di Lydia.
Alec le guardò male entrambe. “La malizia sta nelle orecchie di ascolta, lo sapete?”
“E con questo?” domandò la sorella, con la sua tipica impertinenza.
“Con questo, se da un semplice film ci ricavate un qualsiasi secondo fine diverso dall’azione base di guardare un film sono ampiamente affaracci vostri!”
Le due ragazze scoppiarono a ridere, mentre Alec si rassegnava al suo destino di essere oggetto di affettuosa (o almeno voleva pensare fosse così) derisione, concedendosi tuttavia delle occhiatacce riservate ad entrambe come rivincita.
 

*


Erin aveva il pigiamino da ben trenta minuti. Magnus le aveva già fatto il bagnetto e asciugato i capelli. Il rumore del phon ancora la spaventava un pochino, ma Magnus sapeva che i piccoli pianti che avvenivano adesso erano niente in confronto alle urla disumane di terrore che la bambina lanciava quando aveva due anni. Ogni volta che le asciugava i capelli sembrava la stesse scuoiando e l’uomo, più di una volta, aveva temuto che i vicini mandassero gli assistenti sociali. Tutto sommato, avevano fatto grandi progressi: Erin piangeva sempre meno e Magnus andava sempre meno in panico, riuscendo a distrarre la sua bambina sempre meglio, con storie di ogni genere. Quella della principessa che cavalcava un drago alato era la preferita di Erin.
“Papà?”
“Sì, bintang?” Magnus, seduto sul pavimento, con la schiena appoggiata al divano e la bambina seduta in grembo, stava pettinando la figlia. I suoi capelli neri e lisci emanavano un profumo di camomilla. 
“Io potrò mai cavalcarlo un drago?”
“I draghi sono molto difficili da trovare.”
“Si nascondono?”
“Sì. Hanno imparato a farlo per sfuggire ai collezionisti di draghi.”
La bambina si voltò, la curiosità impregnava i suoi occhi. “Cosa sono i collezionsisti di draghi?”
Le labbra di Magnus si tesero in un sorriso, sentendo Erin che pronunciava a modo suo una parola che non conosceva. “Persone che volevano mettere i draghi in grossi edifici per esporli, come succede nei musei. Ma i draghi non volevano essere catturati perché amano volare liberi nel cielo.”
“Ma se si nascondono, quando volano?”
Magnus sorrise, intenerito. Doveva ammettere che c’era una certa logica dietro la domanda della piccola. “Di notte, quando sono sicuri che tutti dormono.”
“Oh.” Erin si accasciò sul padre, appoggiando la sua schiena contro il suo petto. Magnus allungò le gambe sul pavimento ed Erin allungò le proprie su quelle del padre. “Allora dobbiamo dormire, la notte, sennò i draghi non volano più!”
“Giusto!” Esclamò Magnus ed Erin annuì con convinzione. Magnus riprese a pettinare i capelli della bambina ancora per qualche istante, poi le lasciò un piccolo bacio sulla testa.
“Ecco fatto!” disse. “Abbiamo finito!”
Erin si alzò e attese che il padre fece lo stesso, poi insieme percorsero il salotto del loft per dirigersi verso il bagno e lasciare in un cassetto di un piccolo mobile il pettine.
Quando tornarono indietro, udirono il campanello suonare. Magnus sentì il cuore balzargli in gola, ma decise immediatamente di smorzare quella sensazione, ripensando alle parole di Catarina.
Doveva andarci piano.
Cautela era la parola chiave.
Con Erin che gli andava dietro, Magnus di diresse verso la porta e guardò dallo spioncino. Fu un gesto meccanico, dettato più dall’abitudine che da altro, perché sapeva benissimo chi avrebbe trovato al di là della sua porta. Quando l’aprì, infatti, si trovò faccia a faccia con Alexander Lightwood, l’uomo che sembrava essere stato messo al mondo proprio per far dimenticare a Magnus il significato di parole come cautela e atti osceni in un luogo pubblico perché viveva come un immenso attentato al suo autocontrollo il modo in cui era vestito. Non che fosse niente di elaborato, o qualcosa che Magnus avrebbe mai messo (troppi pochi colori, per carità!), ma era il modo in cui quella maglietta gli aderiva nei punti giusti che rendeva il tutto estremamente piacevole.
“Ciao.” Lo salutò Alec, sorridendogli.
Magnus ci sarebbe morto per uno di quei sorrisi ne era sicuro. “Ciao. Entra, accomodati!” Si spostò dall’entrata per farlo passare. Alec passò qualche istante a guardarsi intorno, quasi come se fosse a disagio, o nervoso. Magnus a sua volta si sentiva nervoso, ma di certo non poteva dire di essersi pentito di averlo invitato. Aveva promesso a se stesso che non si sarebbe negato niente di bello in vita sua e Alec, sebbene dovesse restare nella sua vita con quella clausola ricordatagli da Cat che implicava cautela, aveva tutte le premesse per rientrare perfettamente in quella categoria. E non solo perché era di una bellezza statuaria e abbagliante, ma perché le persone che lo conoscevano avevano tutte un’alta opinione di lui. Magnus stesso aveva avuto un’ottima impressione, il giorno precedente.
“Ciao Alec!” esclamò Erin, che era rimasta buona e calma dietro il suo papà. Alec non appena si sentì chiamare abbassò lo sguardo sulla bambina e sorrise anche a lei.
“Ciao! Come stai?”
“Bene. E tu?” Erin si diede un tono. Il suo papà le aveva insegnato che i bambini educati rispondono sempre e tu? a domande simili a quella di Alec. E siccome lei voleva essere una bambina educata, aveva preso le giuste precauzioni.
Il sorriso di Alec si allargò. “Bene, grazie. Ho portato una cosa per te e una per il tuo papà.” Continuò, voltandosi poi verso Magnus.
“Intendi qualcosa oltre la tua decisamente piacevole persona?” Commentò Magnus, incapace di trattenersi. Non poteva farci niente, ok? Il lupo per il pelo ma non il vizio; chi nasce tondo non può morire quadrato – come la si voglia mettere, Magnus era sempre stato un tipo diretto e cautela o meno, era solito dire quello che pensava. E Alec, vestito nel modo meno elaborato possibile, con una maglietta grigia e dei pantaloni neri, era decisamente meraviglioso. Non voleva pensare quale risultato celestiale avrebbe ottenuto se Mr. Sono Bello Anche Trasandato si fosse messo qualcosa di più elaborato. Improvvisamente il cervello di Magnus si mise a viaggiare, immaginando scenari che prevedevano se stesso che metteva le mani addosso ad Alec con l’intento di vestirlo in un modo che avrebbe reso perfettamente giustizia alla sua fisicità statuaria. O svestirlo, si corresse mentalmente. Dio, doveva darsi una controllata!
Le guance di Alec divennero rosse come ciliegie e Magnus sentì il suo cuore che si riduceva in un ammasso di burro sciolto al sole. Era così dannatamente adorabile!
“Cosa?” domandò Erin, con l’innocenza della sua età, non notando la reazione di Alec o il commento del padre. Alec le fu silenziosamente grato, comunque, per quell’inconsapevole salvataggio. Incrociò lo sguardo di Magnus che lo guardava con un mezzo sorriso, come se fosse soddisfatto per qualcosa che ad Alec, in quel momento, sfuggiva e gli consegnò la busta che aveva in mano.
“Facciamo prima guardare papà, d’accordo?” Alec stava parlando con Erin, ma i suoi occhi non avevano lasciato quelli di Magnus. Si trovava impossibilitato a farlo, realizzò. C’era qualcosa nel caldo color ambra di quegli occhi che gli rendeva impossibile non guardarli. Erano confortevoli, come l’abbraccio di una calda coperta d’inverno, ma allo stesso tempo davano ad Alec la stessa sensazione di vuoto allo stomaco che si prova quando si salta uno scalino e si pensa di cadere. La cosa strana – da pazzi, quasi – era la consapevolezza che nacque in Alec a quel pensiero: si sarebbe buttato. Gli occhi di Magnus potevano portare verso un vuoto alto quanto uno scalino, o profondo quanto quello del Grand Canyon, che lui si sarebbe gettato comunque. Il suo cuore fece una capriola a quel pensiero, come se quel piccolo bastardo stesse approvando quell’idea – e Alec si stupì della facilità con cui, nonostante fosse ferito, lo spingesse verso Magnus – mentre il suo cervello gli urlava di smettere di fare l’idiota.
Alec era combattuto come non gli capitava da…sempre. Non aveva mai provato sensazioni simili. C’erano sempre state situazioni dove la sua ragione prendeva il comando e Alec la seguiva ciecamente. Altre, invece, meno frequenti, dove era il suo cuore a prendere il sopravvento. Ma mai, mai, il suo cuore e il suo cervello si erano trovati così in conflitto come quando era in presenza di Magnus Bane.
Magnus gli rivolse un piccolo sorriso. “Allora vediamo cos’hai qua.” Afferrò la busta che Alec gli aveva porto e cominciò a guardarci dentro. Trovò una bottiglia di vodka e un ovetto al cioccolato.
“È l’unica che mi piace, quindi pensavo, sai…” Alec si impappinò, una mano andò d’istinto a grattarsi la nuca, mentre i suoi occhi vagavano ovunque meno che su Magnus, tanto che si sentiva sciocco in quel momento. Un disastro ambulante che balbetta. Chissà come doveva essere affascinante agli occhi di Magnus.
Perché ti interessa essere affascinante agli occhi di qualcuno che deve essere solo tuo amico?
Ma che simpatia, pensò Alec, rivolto a quella pungente parte di se stesso che, comunque, per quanto odiasse ammetterlo, tutti i torti non li aveva.
“Di farmela assaggiare?” Magnus posò i suoi occhi sulle labbra di Alec. Fu un momento fulmineo, ma estremamente istintivo. Le sue labbra erano belle, piene e rosee – come quelle descritte nelle favole, dannazione – e Magnus fu attraversato dal pensiero che avrebbe di gran lunga preferito assaggiare quelle piuttosto che la vodka.
Cautela, Magnus. CAUTELA.
Giusto. Cautela, autocontrollo. Le basi solide per non mandare tutto all’aria. C’erano troppe cose in ballo e Magnus non poteva rischiare di rovinare tutto solo perché i suoi ormoni, dormienti da un’eternità, avevano improvvisamente deciso di svegliarsi e di torturarlo nel modo più molesto possibile. Ogni volta che si trovava nelle vicinanze di Alexander, la sua pelle iniziava a formicolare, come se avesse voluto suggerirgli di sfiorarlo, o quanto meno di avvicinarsi di più a lui. Bramava la sua vicinanza, desiderava i suoi sorrisi e il suono della sua voce. Erano anni che qualcuno non suscitava il suo interesse in quel modo.
“Ehm, sì. Spero non sia un problema.”
“No, zuccherino, non è un problema.”
 Alec arrossì di nuovo e non disse nulla perché da una parte non sapeva davvero cosa dire, dall’altra sapeva che anche se avesse saputo ribattere in qualche modo, avrebbe balbettato. Essere lui faceva davvero schifo, a volte.
Magnus estrasse dal sacchetto l’ovetto per Erin e lo porse alla bambina, che aveva assistito alla scena in silenzio senza capire esattamente di cosa stessero parlando Alec e il suo papà. Gli adulti a volte erano strani, pensò per una frazione di secondo, prima che la sua attenzione venisse catturata dall’ovetto che Magnus le stava porgendo. Guardò il dolciume con occhi grandi di stupore, prima di afferrarlo con le sue manine. Magnus pensò, con una punta di tenerezza, che nelle proprie mani l’ovetto sembrava minuscolo, in quelle della figlia, invece, diventava enorme.
“Come si dice?”
Erin portò la sua attenzione su Alec. “Grazie, Alec!”
“Prego, piccolina.” Alec le sorrise e Magnus sentì il suo cuore sciogliersi per la seconda volta. Era stato un gesto dolcissimo. Alexander aveva pensato non solo a lui, ma anche ad Erin. Era come se capisse esattamente cosa intendesse Magnus quando diceva che lui ed Erin erano una cosa sola. Non si poteva avere uno senza l’altra – ed era un concetto, questo, che non tutte le persone che aveva frequentato capivano. Certo, nessuno di loro aveva conosciuto Erin, ma sapevano della sua esistenza. E non tutti avevano capito in pieno l’importanza che aveva sua figlia nella sua vita. Era come se le persone con cui era uscito la ritenessero una sorta di fantasma, qualcosa che aleggia nell’aria, ma che non esiste davvero. Una specie di leggenda che tutti conoscono, ma a cui nessuno crede. Alexander, invece, l’aveva vista come una persona reale e concreta, una persona a cui portare un ovetto di cioccolata.  
“Lo mangi domani, però.” Disse Magnus, suscitando disappunto nella figlia.
“Perché?” protestò.
“Perché è quasi ora di andare a dormire. Non si mangiano i dolci prima di dormire.”
“Perché?” incalzò Erin, che non voleva arrendersi.
“Perché il sapore va via.” Si inserì Alec. Magnus ed Erin si voltarono verso di lui. Passò giusto quel secondo in cui si chiese quanto fosse stato inopportuno inserirsi nella conversazione tra padre e figlia, prima di decidere che, opportuno o meno, ormai il danno era fatto e doveva necessariamente continuare a spiegarsi. “Se mangi un dolce prima di andare a dormire, poi devi subito lavarti i denti ed il gusto va via. Se mangiassi ora la cioccolata, dovresti subito andare a sciacquare via il suo sapore con il dentifricio e sarebbe come se tu non l’avessi nemmeno mangiata. E non è bello non gustarsi la cioccolata.”
Erin arricciò le labbra, in un’espressione pensosa. “Va bene.” Disse poi con un’alzata di spalle. “Lo mangio domani.”
Alec sorrise, mentre Magnus lo guardava. Non si accorse dello sguardo che l’uomo gli stava rivolgendo, ma se l’avesse fatto, ci avrebbe letto dentro una moltitudine di cose: divertimento, tenerezza, calore, stupore. Magnus sapeva che Alec era un uomo sfaccettato – e forse aveva un carattere simile al cubo di Rubik, difficile da decifrare, impegnativo da risolvere. Tuttavia decise, in quel preciso momento, che non gli importava quanto tempo ci avrebbe messo, voleva imparare a conoscere ogni centimetro di ognuna delle sei facce di quel cubo. Voleva imparare a leggere ogni espressione di Alec, ogni sua intonazione, e capire esattamente cosa passasse per la sua mente.
Voleva conoscerlo. Voleva che fosse, in qualche modo, suo. E se per adesso doveva essere solo suo amico, andava bene lo stesso.


*

Simon Lewis aveva un segreto. E non un segreto di quelli super fighi alla James Bond, alla Bruce Banner o alla Clark Kent.
Simon non era un agente segreto donnaiolo e irresistibile, nel suo sangue non scorrevano raggi gamma speciali che lo facevano trasformare in un tostissimo bestione verde e, decisamente, non era un alieno venuto da un altro pianeta la cui unica debolezza era la kryptonite.
Niente di così entusiasmante, decisamente no. Il segreto di Simon, un normalissimo game designer, era il più banale del mondo: era segretamente (e follemente) innamorato della futura cognata della sua migliore amica, conosciuta all’anagrafe come Isabelle Sophia Lightwood.
Izzy era la persona più bella e solare su cui i suoi occhi si fossero mai posati. Lei sorrideva e da qualche parte nel mondo nasceva un unicorno. L’unicorno poi tendeva a suicidarsi ogni volta che Isabelle sorrideva ad un altro ragazzo. Non che Simon fosse geloso – non era quel tipo di persona – ma gran parte della sua convinzione di non confessare i suoi sentimenti ad Isabelle derivava dal fatto che lei sembrasse non notarlo. Almeno, non nel modo in cui lui avrebbe voluto essere notato. Erano amici, tutto qua. Migliori amici, secondo Izzy e Simon, davvero, non aveva mai pensato che la friendzone potesse trasformarsi in un tale pantano di sabbie mobili da cui è impossibile uscire. Era bloccato all’inferno senza nemmeno una carta esci di prigione del Monopoli.
Sospirò, mescolando il suo drink. Lanciò un’occhiata ad Isabelle e Maia, che stavano ballando poco lontano da lui a ritmo di una canzone rock alternativa. Simon non sapeva nemmeno che su certi tipi di musica si potesse ballare, lui al massimo si limitava a roteare la testa come un vero punk e a sentire la mancanza di una chioma foltissima nel processo. Diciamolo, le rotate di testa non hanno lo stesso effetto se non sono accompagnate da capelli lunghissimi.
Non era stato amore a prima vista. Mentirebbe, se lo dicesse. Certo, la prima volta che i suoi occhi si erano intrecciati a quelli neri di Isabelle gli era mancato il respiro, perché era davvero la più bella ragazza che avesse mai visto, ma… l’amore era arrivato dopo. Dopo le serate a casa o dell’uno o dell’altra a guardare film e mangiare cibo spazzatura, dopo le conversazioni a notte fonda, quelle cariche di segreti che la mattina seguente sembravano meno pesanti, solo perché erano stati condivisi con lei; dopo gli scherzi, dopo i compleanni a sorpresa che si organizzavano a vicenda; dopo la prima volta che l’aveva vista piangere. Isabelle non era un tipo che si lamentava, prendeva la vita di petto e tendenzialmente aveva una tempra tale da far sembrare Xena la principessa guerriera una mezza cartuccia. E non si fidava subito delle persone, questo Simon lo sapeva. Per ciò aveva capito quanto fosse profondo il loro rapporto quando l’aveva vista versare delle lacrime che non era riuscita a trattenere, quando, tre anni prima, aveva bussato alla sua porta con il viso trasformato dal dolore e dall’angoscia. L’unica cosa che riusciva a far cedere Isabelle era la sua famiglia e anche quella volta, a farla piangere era stata proprio la preoccupazione per Max, il possibile ritorno della sua malattia. Da quel momento in poi, Simon si era reso conto che indipendentemente dai suoi sentimenti, preferiva celarli anziché rischiare di rovinare ciò che lui ed Isabelle avevano. Non voleva rinunciare a ciò che li legava, alla loro sintonia, alla reciproca fiducia che legava entrambi. Amare qualcuno, talvolta, significa mettersi da parte per fare il bene dell’altro e Simon voleva solo cose belle per Isabelle.
“Perché non smetti di fare la bella statuina e vieni a ballare con noi?” Izzy l’aveva raggiunto, lasciando momentaneamente Maia al centro della pista.
“Devo tenere il tavolo, no?”
“Siamo stati seduti per troppo tempo. Adesso è ora di ballare!” Izzy sorrise e gli porse una mano. Era bellissima, nel suo vestitino blu, truccata in un modo preciso e perfetto, come solo lei sapeva fare. Simon, tuttavia, per quanto sdolcinato potesse sembrare, riteneva che tutti i trucchi del mondo non sarebbero mai riusciti a renderle giustizia. Isabelle era bella al naturale e quando sorrideva, Simon non riusciva a negarle niente.
“D’accordo.” Afferrò la mano della ragazza, che emise un gridolino di euforica soddisfazione, e si fece trascinare al centro della pista.
Non era poi così difficile ballare il rock alternativo, se c’era Isabelle che lo aiutava.


*


Dopo poco più di due ore e quaranta minuti dal suo arrivo, seduto sul divano nel salotto di casa Bane, Alec riuscì a sentire chiaramente il proprietario di casa tirare su con il naso. Separati solo dalla piccola Erin, ormai completamente addormentata sul padre, e da qualche peluche appartenente alla piccola, Alec staccò gli occhi dal televisore per guardare Magnus, che si stava asciugando i propri con quanta più discrezione possibile. Lo capiva in pieno, comunque: la parte finale di quel film faceva sempre piangere anche lui. Era una scena bellissima, commovente in modo viscerale che rendeva Alec un ammasso di lacrime. Anche in quel momento, ma Magnus sembrò non notarlo, così Alec si affrettò ad asciugarsi gli occhi.
“È bellissimo, loro…” Magnus tirò di nuovo su con il naso. “…Si sono ritrovati dopo tutto quel tempo e lui ha mantenuto la sua promessa!”
“Lo so.”
Magnus si voltò verso di lui non appena sulla tv comparvero i titoli di coda. “Questo film è ufficialmente l’eccezione alla mia avversione per i film sullo spazio!”
Alec rise piano per non rischiare di svegliare Erin. “Te l’avevo detto!”
“Ora non metterti a gongolare, tesoro.”
Alec alzò le mani in segno di resa. “Non lo farei mai. Ciò non toglie che è bello avere ragione.”
Magnus reagì nel modo più maturo possibile: facendogli una linguaccia che provocò in Alec ulteriori risate, sempre trattenute. Magnus si chiese quanto potesse essere bello quel suono, se lasciato libero di essere udito nella sua pienezza completa, mentre si alzava dal divano con la bimba in braccio. “La porto a letto, torno subito.”
“Ma certo, vai. Ti aspetto.”
“Lo spero proprio.” Ammiccò Magnus, facendo arrossire Alec. Lo guardò mentre lasciava il salotto con Erin tra le braccia, addormentata dal almeno un’ora e mezza. Non riuscì ad impedire al suo sguardo di posarsi sulle spalle ampie, sul modo in cui la camicia vinaccia che indossava scendeva sulla schiena, aderendo in punti che mostravano quanto fossero definiti i dorsali di Magnus.
È un ballerino, che ti aspettavi? È muscoloso ovunque.
Alec arrossì a quel pensiero e ringraziò che Magnus non potesse vederlo o non avesse capacità sovrannaturali, tipo leggere nella mente.
Non dire boiate, santo cielo!
Giusto. Il panico gli faceva pensare cose assurde.
Osservò Magnus sparire in un corridoio che sicuramente portava alle camere e se negasse di avergli guardato il sedere gli si allungherebbe il naso in modo vergognoso.
Non poteva farci niente, d’accordo? Magnus era bellissimo, in un modo tutto particolare che faceva andare Alec in confusione.
Decise di concentrarsi su qualcosa che non fosse il fisico di Magnus, passando lo sguardo sulla stanza in cui si trovava. Era arredata con colori caldi, prevalentemente rosso e arancione, c’erano mobili in legno che avevano tutta l’aria di essere tanto pregiati quanto costosi, che tuttavia erano stati adibiti alla sicurezza di un bambino. In un angolo del salotto, vicino alla televisione, c’era una cesta aperta piena di giocattoli. Alec vide delle bambole e dei pupazzi, delle tazzine giocattolo e delle spade di plastica, come quelle dei pirati. Vicino c’era una scatola di lego, un trenino di legno, dei dinosauri giocattolo e dei barattoli pieni di pennarelli. Alec sorrise mentre si lasciava prendere dall’idea di Magnus che gioca insieme ad Erin. Era dolcissimo, con lei. La amava sopra ad ogni altra cosa e si riusciva a capirlo solo dal modo in cui la guardava, le parlava o le spiegava le cose. E, ovviamente, Erin adorava il suo papà tanto quanto lui adorava lei. Avevano un rapporto molto stretto e Alec si chiese se ciò non derivasse dal fatto che Erin avesse solo lui. Alec pensò a dove potesse essere sua madre, a cosa fosse successo di così irreparabile da portare alla separazione dei due genitori. Si chiese anche se, sporadicamente, Erin e sua madre si vedessero. La vibrazione del suo cellulare, in ogni caso, interruppe quel filo di pensieri. Lo afferrò dalla tasca dei pantaloni, trovando un messaggio di Max.

> From: Max, 23.15
La nostra foto ha un sacco di mi piace. Sei il mio acchiappa like preferito.
Alec ridacchiò.
> To: Max, 23.15
Non dovresti dormire a quest’ora?
> From: Max, 23.15
Sì, se avessi tipo otto anni.
Alec scosse la testa con fare affettuoso.
> To: Max, 23.16
Idiota.
> From: Max, 23.16
Vecchiaccio.
> To: Max, 23.16
Ti sei appena giocato il tuo acchiappa like preferito

I passi di Magnus fecero alzare lo sguardo di Alec, che lasciò il cellulare per concentrarsi sull’uomo. Lo vide mentre estraeva il DVD dal lettore per rimetterlo nella sua custodia e porgerglielo. Alec lo ringraziò e il suo cellulare vibrò di nuovo. Entrambi lo guardarono e Alec, non si sa perché, sentì l’impulso di specificare chi fosse.
“È Max. Mi tiene informato sulla situazione attuale dei like alla nostra foto su Instagram.” Alec abbassò velocemente lo sguardo per leggere il messaggio: tre faccine che ridevano con le lacrime agli occhi. Decise che avrebbe risposto più tardi, o domani, e si concentrò di nuovo di Magnus.
“Una questione vitale.”
Alec rise. “L’abbiamo fatta ieri mentre eravamo imbottigliati nel traffico.”
“Nel viaggio che avete ritardato a causa mia?”
“Proprio quello. Ma non è colpa tua. E, a proposito, Max pensa ancora che tu sia un tipo a posto.”
Magnus alzò un sopracciglio curato e accavallò le gambe. Alec guardò quel gesto con più interesse del necessario e sentì le guance accaldarsi. “E tu?”
Alec agganciò gli occhi con quelli di Magnus. “Io cosa?”
“Pensi che sia un tipo a posto?”
“Fai sempre domande del genere?” Domandò Alec, mettendosi chissà perché sulla difensiva. Lo sai benissimo perché, odi sentirti esposto in questo modo.
Alec odiava quando la sua razionale coscienza aveva totalmente ragione, dannazione.
“Solo alle persone di cui mi interessa l’opinione. Allora?” Magnus lo guardò in un modo in cui Alec non era mai stato guardato. Le iridi dei suoi occhi sembravano quasi ambra liquida e Alec era sicuro di aver visto dei riflessi dorati brillare in fondo ad esse. Magnus era sicuro di sé in un modo invidiabile, non mostrava cenni di cedimento, o imbarazzo, e trasudava un carisma ipnotico che spingeva Alec a donargli tutta la sua completa e totale attenzione. Era una cosa decisamente pericolosa, ma di cui Alec, si rese conto, non riusciva a fare a meno. Il che era assurdo, perché non si conoscevano. O almeno, non in modo così profondo da suscitargli sensazioni simili, eppure…
“Sì.”
Eppure eccolo che si esponeva. Con un unico monosillabo, con un semplice suono, una piccola, sussurrata affermazione. Un niente, se si usavano gli standard degli altri; un oceano se si usavano gli standard di Alec, che per natura tendeva a non fidarsi delle persone e a non esporsi. Ma Magnus gli faceva anche questo: lo spingeva, contro ogni logica alcuna, a fidarsi di lui.
Magnus sorrise e il cuore di Alec sfarfallò. “Felice di sentirlo, zuccherino. La cosa è reciproca, comunque.” Affermò con una naturalezza e una semplicità disarmante, appoggiando la schiena al divano.
Alec abbassò lo sguardo e accennò un sorrisetto. “Mi fa piacere.” Sussurrò.
“Fantastico! Chiarito tutto ciò, vuoi da bere?”
Alec accennò una risata. Magnus era spontaneo in un modo invidiabile. “No, grazie. Devo guidare.”
“Giusto, allora no. Assaggeremo la vodka un’altra volta. Odio bere da solo.”
“Un altro segreto di livello base?” Domandò Alec, facendo sorridere Magnus.
“Esatto.”
“Le uniche volte che ho bevuto da solo, erano situazioni davvero tristi. Altrimenti, chi mi porta sulla via della perdizione è Jace.”
Magnus ridacchiò. “Perché non faccio fatica a crederci?” Afferrò uno dei peluche di Erin, quello a forma di tartaruga, e cominciò a giocare con l’etichetta. “Ok, segreto base: la sbronza peggiore della tua vita.”
Alec si sistemò meglio sul posto, girando il corpo di tre quarti verso Magnus. Non ebbe bisogno di pensarci troppo perché sapeva che c’era un’unica risposta a quella domanda. “L’anno che Jace ha fatto vent’un anni. Voleva andare a Las Vegas. Trentasette ore di macchina, te le immagini? L’ho dissuaso, ma lui ha detto che per rimediare a quel fiasco, dovevamo fare un tour di ogni bar presente a New York. La serata è finita con noi che vomitavamo nel vicolo dell’ultimo bar, ma tutto sommato è stato divertente.”
“Se si esclude il vomito.” Precisò Magnus e Alec annuì per dargli ragione.
“E la tua?”
“La prima volta che sapevo di dover partire in tour. Io e i ragazzi della compagnia eravamo così felici che abbiamo deciso di festeggiare e la cosa è degenerata. È venuto fuori che avevamo un sacco di motivi per brindare!”
Alec fu tentato di chiedergli se era la stessa compagnia di cui faceva parte anche la madre di Erin – Izzy gli aveva detto che era un ballerina anche lei, anche se non conosceva la sua identità – ma decise che non era il momento. Magnus gli aveva detto che non era finita bene con lei, quindi non vedeva che motivo aveva di dover ricordare all’uomo un argomento doloroso della sua vita solo perché Alec era curioso.
“Quando hai capito che volevi fare il ballerino?” gli domandò, anzi.
“Ero molto piccolo, in realtà. Forse avrò avuto l’età di Erin. Ballavo con la mia mamma e lei, vedendo quanto mi piaceva, mi ha portato in una scuola di danza. È stato amore a prima lezione.”
Alec ripensò per una frazione di secondo al discorso che aveva fatto Magnus il giorno precedente, quello sul pulsante che impedisce di crescere. Per un attimo immaginò il piccolo Magnus, le guance paffute e l’espressione concentrata mentre impara un arabesque, quello successivo pensò che anche lui era felice che i bambini crescessero e che Magnus, nella sua splendida età adulta, adesso fosse lì con lui.
“Tu hai mai ballato?” gli domandò.
“Mai.” Rispose Alec di getto.
Magnus gli porse una mano. “Vuoi provare?”
“Intendi adesso?” Le sopracciglia di Alec schizzarono in alto, mentre i suoi occhi passavano dalla mano che Magnus gli stava offrendo all’espressione carica di aspettativa dell’uomo.
“Sarà divertente.”
“Per te che sai farlo, magari!” Nonostante tutto, comunque, Alec afferrò la mano di Magnus e insieme si alzarono dal divano. Le dita delle mani si intrecciarono automaticamente, come se avessero riconosciuto il posto che spettava loro di diritto, e rimasero uno di fronte all’altro. Alec era poco più alto di Magnus, quel tanto che serviva al ballerino per alzare leggermente la testa e riuscire a guardare l’altro negli occhi. Erano così belli che per un attimo gli si mozzò il respiro. Da quella misera distanza avevano una sfumatura nuova, migliore, dettagli che da lontano non sarebbe mai riuscito a cogliere. Tipo il modo disordinato, ma estremamente compatibile, in cui il verde e il nocciola andavano a mischiarsi, in un insieme particolare che li rendeva unici nel loro genere, irripetibili. Un insieme di colori e sfumature che Magnus avrebbe guardato per ore intere, perdendosi al loro interno.
Alec si passò la lingua sulle labbra, con fare nervoso. “E adesso?” sussurrò, tenendo gli occhi in quelli di Magnus.
Il ballerino si schiarì la gola, riacquistando padronanza di se stesso. “Adesso devi mettermi una mano sulla spalla.”
Alec obbedì, mentre la mano che Magnus aveva libera si piazzava al centro della sua schiena. “Adesso, invece, devi seguire i miei movimenti.”
“Senza musica?”
“Senza musica. Segui me.”
I piedi di Magnus si mossero in un passo leggero che Alec cercò di imitare, ma finì solo per calpestare l’altro. “Scusa!” esclamò, cercando di allontanarsi da lui, ma Magnus lo trattenne saldamente a sé. Alec sentì la colonna vertebrale che si accartocciava su se stessa, sotto quella presa salda, ma confortevole allo stesso tempo. Non aveva mai ballato e in altre circostanze l’attuale situazione l’avrebbe fatto morire dall’imbarazzo, ma con Magnus sembrava tutto più semplice.
“Non preoccuparti. Prova di nuovo.”
Alec riprovò, rilassandosi e lasciandosi guidare da Magnus, che si muoveva lentamente per fargli capire esattamente quali gesti compiere. Procedevano a passo di bradipo e di certo ad occhi esterni non dovevano mostrarsi né aggraziati né leggiadri, ma Alec doveva ammettere che era divertente. Sorrise quando Magnus gli fece fare una giravolta e lui dovette chinarsi un poco per non toccare con la propria testa il braccio dell’altro.
“Sei un ballerino nato, Alexander.”
“Sono un disastro ambulante e tu lo sai.” Rise piano Alec, la mano ancora intrecciata a quella di Magnus, sebbene ci fosse più distanza tra di loro, adesso.
“Devi fidarti di me.”
“Mi fido di te.” Disse Alec, dando voce ai pensieri che avevano albergato la sua mente per tutta la serata. “Solo non quando dici che sono un bravo ballerino!”
Magnus rise e scosse la testa. “Sei sempre così cocciuto?”
“Solo nelle giornate buone.”
Il suono di un bip metallico interruppe la loro conversazione. L’orologio digitale di Alec aveva cominciato a suonare, segnando la mezzanotte. Alec lo guardò con una smorfia di disapprovazione.
“Cenerentola deve andare?”
“Sì. Cenerentola ha dei pazienti da visitare, domani.”
Magnus annuì. “Posso rivederti?”
Il cuore di Alec fluttuò nel suo petto come se fosse stato sistemato sopra ad una nuvola bianca e soffice. “Ad una condizione.”
“Sentiamo.”
“Il ballo deve rimanere un segreto nostro. Hai idea delle risate che si farebbero i miei fratelli?”
Magnus sorrise. “Ieri ero il tuo finto fidanzato e oggi condividiamo già un segreto. Non staremo correndo un po’ troppo?”
Alec cercò di celare – invano – il rossore sulle guance con un’alzata di spalle. “Forse. La ritieni una condizione accettabile?”
“È perfetta.”
Alec sorrise e recuperò la sua roba: il DVD e un giubbotto di pelle che aveva lasciato all’entrata, quando era arrivato. Magnus lo accompagnò alla porta, in silenzio. Sull’uscio, Alec spostò il peso da un piede all’altro, prima di parlare.
“Allora buonanotte.”
“Buonanotte.”
“E grazie.”
“Grazie a te.” Magnus sorrise, perché l’uomo che aveva davanti era inconsapevolmente sexy e dannatamente adorabile allo stesso tempo. “Ti posso scrivere, domani?”
Alec annuì.
“A domani, allora.” Magnus si sporse appena fuori dall’uscio, alzandosi sulle punte con l’automatica grazia acquisita negli anni, e gli lasciò un bacio sulla guancia.
Alec arrossì violentemente. “A d-domani.” Balbettò, insultandosi mentalmente per essere così imbranato e avvezzo alle brutte figure. Si avviò verso le scale e Magnus rimase con la porta aperta a guardarlo finché non lo vide sparire alla fine della prima rampa.

*


Clary Fairchild a mezzanotte passata, fissava il soffitto della sua camera da letto in preda a pensieri riguardanti il suo matrimonio. Lei e Jace si sarebbero sposati a maggio e razionalmente sapeva di avere ancora del tempo, ma il suo cervello sembrava suggerirle il contrario. I preparativi procedevano, ma ogni tanto il panico prendeva il sopravvento e lei si trovava a pensare che si stava dimenticando delle cose importantissime. Oggetto della sua indecisione, quella notte, era l’abito delle damigelle. Ce n’erano due che le piacevano particolarmente, ma proprio non riusciva a decidere. E se non prendeva una decisione, allora sarebbe rimasta bloccata sul punto dell’organizzazione matrimonio che recitava vestito damigelle e non sarebbe riuscita ad organizzare niente in tempo.
“Jace.” Si voltò verso il lato sinistro del letto, quello occupato dal suo fidanzato. “Jace!” lo chiamò con più convinzione, scuotendogli un braccio.
“La bambina?” domandò Jace nel sonno, gli occhi ancora chiusi e la voce impastata.
“Dorme.”
“Allora qualsiasi cosa sia, può aspettare domani.”
Ma Clary non si scoraggiò, piantandogli una mano fredda – Clary aveva sempre le mani fredde –  nel mezzo delle scapole. Jace sussultò e si voltò verso la propria fidanzata, ormai sveglio. “Sai che lo odio, perché continui a farlo? È crudele!”
“Come lo è ignorarmi, eppure volevi farlo.”
Jace ridusse gli occhi bicromatici a due fessure e sbuffò, ma prestò comunque attenzione alla rossa. “Cosa c’è di così importante?”
“Il vestito di Izzy e Maia.”
Jace la fissò, sbigottito, sbattendo le palpebre con incredulità. “Mi prendi in giro?”
“No, sono seria.”
Il biondo le passò un braccio intorno alla vita e la tirò a sé, poggiandole le labbra sulla fronte. “Sai che ci sono persone che uccidono per molto meno di essere svegliate nel cuore della notte?”
Clary, nonostante tutto, si trovò a ridere, ma gli diede comunque un colpetto sullo sterno. “Scemo. Aiutami, sono bloccata nella mia indecisione.”
“Potresti lanciare una moneta. Oppure chiedere ad Iz e Maia quale preferiscono. Fai scegliere loro, così hai una preoccupazione in meno.”
“Non è una cattiva idea.”
“Ho mai cattive idee? Il mio cervello è meraviglioso tanto quanto la mia faccia.”
“Sbruffone. Inoltre Izzy e Alec hanno una lista infinita delle tue cattive idee. Potrei prenderne una a caso, sai?”
“Così mi ferisci!” rispose teatralmente, mentre una mano andava ad accarezzare la schiena di Clary.
“Non è vero!”
Jace rise. “Ora che mi sono reso utile posso tornare a dormire?”
Clary annuì e Jace la strinse più a sé.
“Prima tu lo chieda: no, non ti lascerò andare. Dormirai appiccicata a me, in questo preciso modo, come ricompensa a me stesso per avermi svegliato.”
Clary rise, arricciando il naso in quel modo adorabile che Jace tanto adorava. “D’accordo.”
“Bene.” Jace la baciò e si rimise a dormire. Clary, prima di chiudere gli occhi, passò lo sguardo sui lineamenti decisi e perfetti del suo fidanzato, e poi si lasciò cadere preda del sonno.


*


Sabato arrivò più velocemente di quanto Alec potesse aspettarsi. E se normalmente sarebbe stato felice, quel giorno era solamente appesantito dalla consapevolezza che avrebbe dovuto cenare da suo padre. Alla fine aveva ceduto, non tanto per amore di suo padre, quanto per amore dei suoi fratelli. La sola idea di stare in una stanza con lui, le sue occhiate giudicanti e la sua nuova compagnia lo agitavano più di quanto avrebbe mai ammesso ad alta voce. Davanti ai suoi fratelli si comportava come se avesse superato tutto, come se i comportamenti del padre non lo ferissero più. La verità era che Alec si sentiva ancora un ragazzino abbandonato e tradito da qualcuno che, invece, avrebbe dovuto amarlo per quello che era, dal momento che non aveva fatto altro se non aver dichiarato la verità. Il peccato di Alec, agli occhi di Robert, era essere gay. A volte il ragazzo aveva la convinzione che il padre avrebbe preferito sentirgli dire che era un ladro, purché fosse etero.
Sospirò, mentre si infilava un paio di jeans. Non si era sforzato nemmeno più di tanto indossando solo jeans e maglietta. Non che il guardaroba di Alec fosse chissà quale esposizione di alta moda – Isabelle glielo ricordava sempre con un certo ribrezzo – ma aveva smesso di provare ad impegnarsi anche nel vestiario perché tanto suo padre l’avrebbe comunque guardato come se non fosse abbastanza.
Alec non era mai abbastanza.
Non lo era stato quando era il primo del suo corso all’università. Né quando si era laureato con il massimo dei voti, o quando aveva finito la specialistica. Robert non lo vedeva più, lo giudicava solamente. Alec non era più Alec, ma quello gay. Suo padre lo guardava e non vedeva altro che la sua sessualità e Alec trovava la cosa più dolorosa di quanto ammetterebbe mai. Con i suoi fratelli e sua sorella, tutti e tre etero, questa cosa non avveniva perché erano normali e quindi in loro presenza Robert si sentiva così a suo agio da poter apprezzare i successi che avevano raggiunto nella vita.
Alec scacciò con rabbia quei pensieri perché detestava dare a suo padre il potere di ferirlo e fece un grosso e profondo respiro. Doveva calmarsi. Era fiducioso che quella cena sarebbe durata poco. E se poi la situazione peggiorava, poteva sempre inventarsi una chiamata urgente dall’ospedale e fuggire via.
Il suo cellulare vibrò, segnando un messaggio. Guardò lo schermo: Magnus. Il suo umore migliorò. Erano tre giorni che non si vedevano, ma si sentivano con dei messaggi ogni tanto durante la giornata.

> From: Magnus, 19.57
La tua vodka mi fissa.
> To: Magnus, 19.57
In modo amichevole o minaccioso?
> From: Magnus, 19.57
Direi intimidatorio.
> To: Magnus, 19.58
E perché pensi lo faccia?
> From: Magnus, 19.58
Magari è il suo modo per dirmi che vuole essere assaggiata. Ma come sai, odio bere da solo.
> To: Magnus, 19.58
Stai cercando di dirmi qualcosa, Magnus?
> From: Magnus, 19.58
Sei così perspicace, fiorellino. Riconosci subito un invito velato quando lo vedi.
Alec arrossì, mentre i suoi occhi leggevano quel nomignolo.
> To: Magnus, 20.00
Quando?
Scrisse, tuttavia. Mentirebbe se dicesse di non avere voglia di rivederlo, anche solo per passare del tempo insieme. Magnus era davvero bellissimo e una parte decisamente consistente di Alec era attratta da lui, ma principalmente voleva stare con lui solo per il gusto della sua compagnia, solo perché nonostante si fossero visti pochissime volte, si sentiva terribilmente a suo agio con Magnus. E ad Alec non capitava spesso, quindi voleva approfittarne.
> From: Magnus, 20.00
Che ne dici di stasera?
> To: Magnus, 20.00
Vorrei, ma ho un impegno in famiglia. Qualcosa che preferirei non fare, ma che devo fare.
> From: Magnus, 20.01
Qualcosa che potrebbe richiedere una buona dose di vodka?
> To: Magnus, 20.01
Qualcosa del genere, sì.
> From: Magnus, 20.02
D’accordo, fiorellino. Allora rimandiamo. Se vorrai, ne parleremo, altrimenti ci limiteremo a berci su.
Alec sorrise e apprezzò infinitamente quelle parole.
> To: Magnus, 20.02
Grazie. Devo andare, tra poco mi aspettano. Ci sentiamo più tardi?
> From: Magnus, 20.02
Ma certo, tesoro.
Alec sorrise e si infilò il cellulare in tasca. Afferrò le cose che gli servivano: chiavi, portafoglio e giubbotto e uscì di casa. Destinazione: inferno, con ogni probabilità, ma la conversazione che aveva appena avuto rendeva quella prospettiva decisamente più digeribile.
Decise di non prestare attenzione al fatto che più che la conversazione fosse il chi che stava dietro ad essa ad avergli risollevato il morale, inutilmente.
Alec ancora sorrideva, quando salì in macchina e partì verso la casa di suo padre.


*

A tavola, Alec ascoltava Max che raccontava la sua prima settimana di college alle persone sedute con lui. Suo padre, appena Alec era entrato in casa, l’aveva salutato con una stretta di mano e qualche convenevole. Una formalità che stava bene ad entrambi, dal momento che non sapevano mai davvero cosa dirsi. La tristezza del loro rapporto, se non si vogliono contare i pregiudizi che l’uomo aveva nei confronti del figlio, era che Alec e Robert erano come due estranei l’uno nei confronti dell’altro.
Isabelle e Jace ascoltavano con interesse, ridendo ogni tanto quando Max esagerava con i suoi racconti e faceva le voci buffe. Era sempre stato così fin da bambino: i suoi fratelli più grandi l’avevano abituato a stare al centro dell’attenzione e quando succedeva, il minore dei Lightwood tendeva a dare spettacolo. La cosa buona era che lo faceva in modo simpatico, senza esagerare o finire per risultare fastidioso.
Aveva appena finito di raccontare che un suo compagno di corso si era addormentato a metà lezione, riempiendo l’aula con il suo forte russare, quando Annamarie Highsmith, la nuova compagnia di suo padre, si voltò verso Alec.
“E invece il tuo viaggio com’è stato? Un anno è tanto tempo.”
Non poteva dire di detestarla perché quella donna davvero si impegnava per non essere vista come l’altra o come la matrigna cattiva delle favole, ma non c’era nemmeno un rapporto che li legasse, quindi Alec si sentiva un po’ a disagio con lei. Il suo cervello gli aveva fatto realizzare che quella sensazione derivava dal fatto che fosse uno specie di specchio-riflesso della situazione che c’era tra lui e Robert e ad Alec era sembrata una spiegazione piuttosto logica: se suo padre non fosse stato un tale stronzo, forse Alec sarebbe riuscito anche ad avere un rapporto con la donna che viveva al suo fianco. O forse no, non lo saprà mai.
“Non era propriamente un viaggio di piacere. Ci sono realtà diverse dalla nostra, fuori dal nostro Paese e vederle con i propri occhi fa un certo effetto.”
“Dove sei stato?”
“Haiti.”
“Capisco. È stata una partenza piuttosto improvvisa, se non ricordo male. Tuo padre ne ha accennato. Cosa ti ha spinto a partire?”
“Anne.” Si intromise Robert, con l’intento di smorzare quella conversazione. Non gli piaceva l’argomento che stava per venire fuori e Alec se n’era accorto.
“Ho solo fatto una domanda, Robert. Se Alec la trova inopportuna, può dirmelo apertamente.”
“Non la trovo inopportuna.” Cercò di sorridere, per dare enfasi alle sue parole. “Motivi personali mi hanno spinto a partire in fretta. Avevo bisogno di cambiare aria, di concentrarmi su qualcosa che non fossi io o il disastro in cui si era trasformata la mia precedente relazione.”
Sul viso della donna comparve un’espressione sinceramente dispiaciuta. “Mi dispiace, caro.”
Alec le sorrise con più sincerità. “È passata ormai.” Poteva sentire chiaramente gli occhi dei suoi fratelli su di sé, come se stessero studiando la sua reazione e cercassero di captare quanta verità ci fosse in quelle parole. Non lo sapeva nemmeno Alec, onestamente. Sapeva solamente che parlarne superficialmente faceva meno male, adesso. Tuttavia, era sicuro che se avesse dovuto entrare nei dettagli, avrebbe sentito nuovamente il cuore frantumarsi – ma non era necessario che Annamarie sapesse i dettagli.
“Devi sempre ribadire il concetto, non è vero?” Sbottò suo padre. “Non potevi sorvolare sull’argomento, giusto? Hai dovuto parlarne per forza!”   
“Annamarie mi ha fatto una domanda, io le ho risposto! Avrei dovuto fare finta di niente? Cucirmi la bocca perché a te non piace sentire quello che ho da dire?”
Robert chiuse nervosamente i pugni sul tavolo. “Sei sempre il solito, capriccioso, ragazzino. Non cresci mai!”
Alec lo guardò con incredulità, anche se ormai avrebbe dovuto essere abituato a quel comportamento da parte di suo padre. “Io non cresco mai? Tu sei talmente ristretto da non poter accettare il fatto che sia stato un uomo a spezzarmi il cuore! Lo amavo, Cristo Santo, ma a te non è mai fregato niente dei miei sentimenti! Eri solo felice che fosse finita, non è vero?” Alec sentì le lacrime che gli pungevano gli occhi, rischiando di scendere sulle guance. Le cacciò testardamente indietro e si alzò da tavola.
“Mi dispiace tanto, Annamarie.” Disse rivolto alla donna, che gli rispose con un cenno del capo. Poi si rivolse ai suoi fratelli. “Scusate, davvero.” Detto ciò, Alec afferrò le sue cose e uscì velocemente di casa. Non poteva saperlo, ma una volta sbattutasi la porta alle spalle, Jace si alzò da tavola, seguito da Izzy e Max. “Non riesci mai ad evitare, vero? Lui ci prova ad avere un rapporto, ma te cerchi sempre il conflitto.” Disse il biondo, recuperando a sua volta la sua roba e uscendo di casa, insieme ad Isabelle e Max.
In macchina, nel tragitto verso casa, Alec lasciò che una lacrima solcasse il suo viso. Non pensava a Will da un anno e adesso, nella solitudine del suo abitacolo, il dolore lo colpì come una stilettata in pieno petto.





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Ciao a tutti! Ecco il terzo capitolo dove abbiamo una piccola interazione anche tra Alec ed Erin, oltre che tra i Malec – Alec che balla ce lo vedete? Onestamente no, ma è una cosa che potremmo vedere nella 3B e quindi ho voluto provare a farlo anche io. Piccolo spoiler: succederà di nuovo, in un modo meno spartano. Ovviamente con lo zampino di Magnus, ma veniamo al capitolo.
C’è Robert ed io non riesco a fare a meno di immaginarmelo un po’ così… rude, limitiamoci a dire. Sono una persona orribile? Probabile, ma mi sembra che sia il personaggio perfetto per fare da “antagonista” – nel senso, sappiamo che i fratelli di Alec non hanno problemi per quanto riguarda la sua sessualità; Maryse durante il corso della serie cambia quasi radicalmente, andando verso l’accettazione, quindi mi rimane Robert da utilizzare come “simbolo” di un’omofobia che purtroppo esiste ancora. Chiedo quindi scusa al Robert originale, che nei libri soprattutto ha una sorta di redenzione.
Annamarie è davvero l’amante di Robert, viene nominata sia nei libri che nella serie, ma non mi ricordavo il suo cognome. Secondo Internet è Highsmith, ma se qualcuno ha informazioni diverse, me lo faccia sapere così provvedo a correggere!
Alla fine c’è un piccolo accenno ad un certo Will e vorrei precisare che non è Will Herondale. Quando avevo cominciato ad immaginarmi il suo personaggio, avevo pensato che Will gli stesse bene come nome, quindi ho voluto lasciarlo. Anche perché, devo essere sincera, mi sono ricordata dopo che c’era Will Herondale e la cosa poteva essere fraintesa, ma ormai per me anche il ragazzo di cui si parla alla fine era Will e niente, l’ho lasciato così. Si parlerà di lui, più avanti.
Come avrete notato ci sono accenni a Simon e ai Clace. La storia procederà in questo modo, o almeno vorrei fare così: sviluppare la Malec, mentre si vedono anche altri personaggi – e perché no, sviluppare anche altre coppie, nella speranza di non fare un disastro.
Penso di aver detto tutto, quindi vi saluto! Se ne avete voglia, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di questo capitolo!
Ringrazio i lettori silenziosi, quelli che hanno messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate e chi spende un po’ del suo tempo per recensire. Lo apprezzo tantissimo! <3
Un abbraccio, alla prossima
!
 

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Capitolo 4
*** 4. ***


Alec aveva venticinque anni, la prima volta che mise piede nel suo primo appartamento in cui avrebbe vissuto da solo. Dopo la laurea, aveva trovato lavoro in ospedale come assistente del primario di chirurgia, che più che altro gli faceva compilare le scartoffie di cui lui non voleva occuparsi, ma ad Alec andava bene lo stesso, fin tanto che imparava qualcosa sul campo e riusciva a trovare il tempo per studiare per la specialistica. Pensava che essersi trovato un lavoro fosse il primo passo verso l’indipendenza, il secondo era appunto essersi trovato un appartamento. E sebbene il luogo dove avrebbe vissuto non fosse esattamente la reggia di Versailles, ad Alec piaceva. Era il suo piccolo nido, abbastanza accogliente e decisamente funzionale, dal momento che si trovava vicino all’ospedale. Alec avrebbe potuto andare a lavorare a piedi, o con la metro. Era soddisfatto, pensò mentre sollevava l’ultimo scatolone dal marciapiede. Una ditta di traslochi aveva portato tutta la sua roba al nuovo indirizzo con un camion e Jace l’aveva aiutato a portare le sue cose impacchettate dalla strada al suo appartamento, al terzo piano. Alec si incamminò verso l’ascensore per raggiungere il fratello. La visuale era decisamente compromessa dall’ampiezza di quello scatolone, quindi quando le porte dell’ascensore si aprirono, Alec urtò uno stipite con la spalla.
“Ahia!” imprecò sottovoce, mentre sollevava un ginocchio per tenere in equilibrio lo scatolone e liberava una mano per pigiare il pulsante del terzo piano.
“Aspetta, aspetta, aspetta!” si affrettò a dire una voce, così Alec – maledicendo quell’individuo che gli avrebbe fatto andare in cancrena il braccio che ancora reggeva lo scatolone – tenne la porta aperta. Si ricredette, comunque, ritirando ogni tipo di maledizione, quando la voce si materializzò in una persona, un uomo, a dire la verità. Un uomo bellissimo, se dobbiamo essere pignoli.
“Grazie.” Gli sorrise lo sconosciuto. Era alto, con gli occhi azzurri più belli che Alec avesse mai visto, un sorriso estremamente luminoso e i capelli di un particolare biondo scuro, tenuti lunghi, ma ordinatamente pettinati. Ad Alec erano sempre piaciuti gli uomini alti, ma rientrando a sua volta in questa categoria, finiva sempre per trovare persone più basse di lui. Questo ragazzo, invece, era alto come lui, se non qualche centimetro in più. Niente di troppo consistente, ma Alec lo trovò piacevole.
“Figurati.” Rispose. “Che piano?” domandò poi, educatamente.
“Terzo.”
Alec premette il pulsante e l’uomo, notando che non ne aveva premuti altri, gli chiese: “Vieni a vivere nel 3C?” accennò allo scatolone.
“Ehm, sì.”
L’uomo sorrise di nuovo. “Saremo vicini di casa, allora. Io vivo al 3B. Sono William, ma puoi chiamarmi Will.” Gli tese la mano, che Alec strinse per quanto lo scatolone gli permettesse.
“Alec.”
Le porte si aprirono, mentre una lucina segnava l’arrivo al terzo piano. Will fece un cenno ad Alec di passare per primo e questi passò, ringraziandolo con il capo.
“Era ora, Alec! Pensavo sarei morto di vecchiaia, Cristo! Perché ci hai messo tanto?” Jace lo raggiunse all’ascensore e si bloccò quando vide il fratello che lo fulminava – se gli sguardi avessero potuto uccidere, Jace sarebbe stecchito sul pavimento, adesso.
Alec si schiarì la gola, voltandosi verso William. “Lui è mio fratello Jace.”
Will sorrise e tese una mano al ragazzo. “William, piacere. Sono il vicino di tuo fratello.”
Jace strinse la mano che gli veniva porta. “Piacere di conoscerti.” Lanciò un’occhiata all’uomo e poi al fratello, stringendo le labbra all’interno della bocca per non sorridere. Conosceva Alec come se stesso e sapeva benissimo cosa significasse lo sguardo che adesso impregnava gli occhi di suo fratello.
“Bene, dovrei andare. È stato un piacere, Jace.” Poi si voltò verso Alec. “Spero di vederti in giro, vicino.” Gli sorrise ed Alec altro non fece che balbettare qualcosa di incoerente e annuire. Poi lo guardò mentre si avviava al suo appartamento. Quando Will chiuse la porta, Jace prese parola.
“Vuoi che raccolga la tua mascella dal pavimento, o ti pulisca la bava?”
Alec si voltò verso il fratello con uno sguardo omicida. “Non fare il cretino.”
“Ho forse torto? Mi vuoi dire che non lo trovi attraente?”
Alec si concentrò sullo scatolone che aveva appoggiato a terra, sollevandolo di nuovo per entrare nel suo appartamento, la cui porta era aperta, e che era pieno di altri scatoloni. Jace gli andò dietro e Alec poteva chiaramente sentire il suo sguardo che gli trafiggeva la schiena.
“Smetti di guardarmi così, Jace.” Non poteva vederlo, perché ancora stava dando le spalle al fratello, ma sapeva benissimo cosa stesse passando per la sua testa. Si mise a spacchettare uno scatolone, quello che recitava
vestiti di Alec.
Jace si posizionò di fronte a lui, mettendo a sua volta le mani nello scatolone per aiutarlo a tirare fuori il contenuto.
“Così come, come uno che ha ragione?”
Alec lo fulminò. “Ti odio.”
“Pff, questo è impossibile perché sono adorabile.”
Alec roteò gli occhi al cielo con veemenza.
“Sai, fratello, se non fossi così represso, forse saresti anche un po’ più rilassato!”
“Non sono represso!” esclamò Alec, strabuzzando gli occhi.
“Quant’è che non vai a letto con qualcuno?”
“Non sono affari tuoi!”
“Che è un modo per dire
un’eternità. Perché non ci provi con il vicino figo?”
Alec appallottolò una delle sue magliette con frustrazione e la rigettò all’interno dello scatolone, prima di guardare Jace. “Perché con ogni probabilità è etero e infastidito dalle possibili attenzioni di un ragazzo gay. E in più, è tipo bellissimo e quindi decisamente fuori dalla mia portata.”
Jace si allungò sopra lo scatolone per dargli uno schiaffo sul braccio. “Non dire così, idiota. Nessuno è fuori dalla tua portata, anzi, chiunque sarebbe fortunato ad averti.” Jace guardò Alec che si massaggiava la parte lesa e non diceva niente. “E poi, non tutti hanno la mentalità medievale di papà. Una volta mi ha approcciato un ragazzo gay, la sola cosa che gli ho detto è che ero etero. Quello ha alzato le spalle e se n’è andato. Fine della questione. Provaci, mal che vada ti dice di no. E se dovesse farlo in modo crudele, mi chiami e gli spacco il naso.”
Alec rise, il cuore più leggero. Jace gli faceva sempre quell’effetto. C’era una sintonia tale tra di loro, che spesso Alec pensava che le loro anime derivassero dallo stesso nucleo e fossero complementari l’una con l’altra. “Ma ha un bel naso, mi dispiacerebbe se glielo rompessi.”
Jace esplose in una risata. “D’accordo, allora se dovesse essere sgarbato, gli romperò qualcosa che pensi non sia bello.”
“Va bene.”
Dopo quella conversazione, passarono la giornata a disfare gli scatoloni.


Quel ricordo venne interrotto dalla suoneria del cellulare di Alec. Il medico si trovava seduto sul suo divano, a trangugiare orsetti gommosi. Che bella domenica che stava passando. Si sentiva giù di corda, con il morale sotto ai piedi, e il suo cervello altro non faceva che ricordargli Will. Non succedeva da un anno e adesso sembrava che la sua mente volesse recuperare quei dodici mesi in cui era stata tranquilla e priva di pensieri. Alec si sentiva così scoraggiato che si era versato un bicchiere di gin, sentendo la tristezza che prendeva il sopravvento. Fissando il suo bicchiere e la scatola di caramelle abbandonata sul tavolino di fronte a lui, Alec si alzò per andare a recuperare il cellulare che aveva lasciato in cucina.
“Pronto?” rispose senza nemmeno guardare chi fosse.
“Alexander.”
“Magnus.” Alec era un po’ sorpreso. E si stupì di come quella voce si fece strada nella sua tristezza, alleviandola.
“Disturbo?”
“No, non disturbi mai.” Disse, con una sincerità che lo stupì – di nuovo. Ma era così, dannazione. La voce di Magnus si era insinuata tra le crepe del suo cuore rotto e aveva alleviato il bruciore delle ferite.
Una pausa. “Stai bene? Mi sembri un po’… mogio.”
Alec evitò di dirgli che stava bevendo alle tre di domenica pomeriggio. “Mi limiterò a dire che la serata di ieri non è stata piacevole.”
“Oh, tesoro, mi dispiace.” Magnus fece un’altra pausa e Alec si diresse nuovamente verso il suo divano. Dal tavolino, il bicchiere di gin lo fissava, ma decise di ignorarlo, mentre ripiegò sulle caramelle. Gli capitò l’orsetto all’ananas, quello che gli piaceva di meno. Chi l’avrebbe mai detto che gli orsetti gommosi sarebbero stati una metafora della vita? Nessuna fortuna, per te. Se peschi dalla ciotola del fato, ti ritroverai sicuramente con qualcosa che ti piace poco. Una pioggia di orsetti gommosi all’ananas che non riuscirai ad evitare.
“Mandami l’indirizzo di casa tua, vengo a prenderti e troviamo un modo per sollevarti il morale.”
“No, Magnus, non disturbarti…”
“Non è un disturbo, bonbon. Mandami l’indirizzo, io e Erin saremo lì il prima possibile!”
Alec accennò un sorriso. “Grazie.” Sussurrò, prima di riattaccare. Inviò a Magnus un messaggio con il proprio indirizzo e rimase a fissare per qualche istante il suo bicchiere di gin. Alec non era un gran bevitore. Cedeva all’alcol solo nei momenti in cui Jace lo trascinava e in quelli in cui la tristezza prendeva il sopravvento. E suo padre gli aveva fatto ricordare Will in un modo così viscerale da smuovergli dentro un dolore che si era assopito da tempo, un dolore che Alec si era illuso invano di poter dire dimenticato, superato. Non era così, a quanto pare. E lo detestava, soprattutto perché si sentiva come se fosse l’unico che non era andato avanti, cristallizzato nella situazione in cui si trovava prima della sua partenza.
Detestava questa sensazione e detestava essere vittima della propria sofferenza. Guardando The Brave con Diana aveva sentito mille volte dire a Merida che siamo artefici del nostro destino e Alec voleva crederci. Stava a lui scegliere se affogare nel gin, o reagire.
Alec, quella domenica pomeriggio, mentre si alzava dal divano e si dirigeva verso il bagno per darsi una lavata, decise che avrebbe reagito.  Chi l’avrebbe mai detto che un cartone animato gli avrebbe fatto tornare la lucidità?



Magnus arrivò a casa di Alec verso le quattro e parcheggiò nel primo posto che trovò libero. Mandò un messaggio ad Alec, informandolo del suo arrivo.
“Papà, Alec starà con noi?” domandò Erin, nel suo seggiolino situato nel sedile posteriore della macchina. Magnus si slacciò la cintura per voltarsi verso la piccola.
“Sì, è un problema?”
Erin fece un segno di negazione con il capo. I suoi capelli erano legati in due codine basse, tenute ferme da dei piccoli fiocchi gialli. “Mi piace Alec. Mi ha portato la cioccolata.”
Magnus le sorrise. “Ti sta simpatico, quindi?” indagò. Ci teneva che anche Erin stesse bene in compagnia di Alexander tanto quanto lui.
Erin annuì. “Sì. E a te?”
“Anche a me.”
“Può diventare un tuo compagno di giochi, come me e Diana.”
Magnus rise. “Gli adulti non hanno compagni di giochi, bintang. Ma in ogni caso, la tua è un’ottima idea.”
“Perché non hanno compagni di giochi?” domandò la piccola, curiosa e anche un po’ preoccupata. Come si poteva non avere un compagno con cui giocare? Era la cosa che Erin preferiva e non riusciva proprio a capire come qualcuno avrebbe potuto rinunciare a quel tipo di divertimento.
“Perché gli adulti smettono di giocare, quando crescono, e fanno altre cose.”
“Quali?”
“Parlare, passeggiare, incontrarsi per un caffè. E altre cose.”
Erin accartocciò la faccia in un’espressione dubbiosa. “Sembra noioso.”
“Quando crescerai, capirai che non è poi così noioso.”
La bambina scosse la testa, i fiocchi dei suoi codini si mossero insieme a lei. “Posso anzi non crescere e continuare a giocare?”
Magnus le sorrise con affetto. “No, bintang, tutti dobbiamo crescere. Ma puoi continuare a giocare finché sei ancora una bambina.”
“Va bene.”
“Perfetto.”
In quel preciso istante, Magnus sentì il suo cellulare vibrargli in tasca. Alexander lo stava chiamando, così realizzò che con ogni probabilità era sceso in strada, ma non sapendo che macchina cercare, non sapeva dove fosse. Magnus rispose e aprì la portiera della macchina per uscire. Guardò verso il marciapiede che costeggiava le abitazioni e lo notò subito: alto, vestito di scuro e bellissimo.
“Voltati un po’ più verso destra, tesoro.” Disse, mentre guardava Alec che faceva ciò che gli veniva detto. Anche da quella distanza, Magnus riuscì chiaramente a vedere il suo sorriso, mentre alzava una mano per salutarlo. Il ballerino rispose a quel gesto e guardò Alexander per tutto il tragitto che impiegò a raggiungere la macchina. Era il compagno di giochi più bello che avesse mai avuto, pensò, mentre Alexander si avvicinava fino a quando non gli fu davanti. Alec si era diretto direttamente verso la portiera del passeggero, così lui e Magnus si trovavano uno davanti all’altro, separati dalla vettura.
“Magnus Bane e prole sono sempre così dediti al salvataggio di povere anime in pena?”
“Solo delle anime che intendiamo salvare.” Magnus ammiccò e Alec rise, aprendo la portiera ed evitando il contatto visivo per non mostrare troppo il rossore sulle sue guance. Non si era ancora abituato ai modi diretti di Magnus. Gli piacevano, ma gli provocavano anche reazioni strane, tipo arrossire e sentire uno strano calore all’altezza dello stomaco, che si attorcigliava su se stesso.
Non appena salì in macchina, Magnus lo imitò.
“Ciao Alec!” esclamò Erin, così l’interessato si voltò verso il sedile posteriore dove trovò la bambina nel suo seggiolino.
“Ciao Erin!”
“Allora,” cominciò Magnus, mentre si metteva la cintura, rivolgendosi ad Alec, “Cosa vuoi fare?”
Alec era ancora voltato verso Erin, così si rivolse direttamente a lei. “Non saprei. Tu cosa vuoi fare?”
La bambina, sentendosi tirata in causa, guardò il padre che aveva cominciato a guardarla a sua volta dallo specchietto non appena Alec le aveva posto quella domanda. “Posso scegliere io?”
Magnus portò il suo sguardo su Alec. “Per te va bene?”
“Ma certo! Sono io quello che si è imbucato-”
“Non ti sei imbucato, Alexander!” lo interruppe Magnus. “Ti abbiamo chiesto di passare la giornata con noi e hai accettato.”
Alec sorrise da orecchio ad orecchio, mentre guardava Magnus negli occhi e pensava che fosse davvero il miglior modo di alleviare i suoi tormenti, il balsamo perfetto per quel suo cuore che oggi si sentiva particolarmente ammaccato. “E di questo ti ringrazio.” Alec si regalò ancora qualche secondo, concentrandosi sul viso di Magnus – l’eyeliner dorato gli donava particolarmente – prima di voltarsi di nuovo verso Erin. “Scegli tu, piccolina.”
Erin sorrise. “Possiamo andare alla sala giochi?”
Magnus annuì. “Possiamo.”
La bambina emise un gridolino euforico che fece sorridere sia Alec che Magnus, mentre questi ingranava la marcia e partiva verso la loro destinazione.


La sala giochi era uno dei posti preferiti di Erin. Magnus ce la portava da quando aveva imparato a camminare. Era un luogo che pullulava di bambini, pieno di colori, che odorava di uno strano misto di sudore infantile e zucchero filato. Non sempre era piacevole avere quell’odore nel naso, ma Magnus vedeva il sorriso di Erin e di conseguenza, sopportava tutto.
“Posso andare nella piscina delle palline?” Domandò la piccola, non appena entrarono in quel luogo, tenendo per mano il suo papà.
“Ma certo, bintang. Io rimango fuori a guardarti, d’accordo?”
Erin annuì e insieme al suo papà ed Alec, si diresse alla piscina delle palline colorate. Era una vasca abbastanza grande, colma di quelle palline di plastica di ogni colore, già piena di bambini e recintata per la sicurezza dei pargoli. Alec rimase in silenzio, limitandosi ad osservare Magnus che toglieva le scarpine ad Erin e la aiutava a salire le scalette per raggiungere l’entrata della piscina. La bambina lo salutò con la manina, prima di saltare tra le palline.
“Quando era più piccola mi permettevano di entrare con lei. Mi dispiace non poterlo più fare.”
“Perché non puoi più tenerla d’occhio o perché ti manca giocare con le palline?”
“Eviterò di farti notare quanti doppi sensi potrebbero scaturire dalla seconda parte della tua domanda, ma solo perché il luogo non è consono.”
Alec si voltò verso di lui, gli occhi ridotti a due fessure. “Dicendo che eviterai di farmelo notare, in realtà me l’hai appena fatto notare. E se non fossimo in un luogo decisamente non consono a certe conversazioni, ti direi che mi dispiace per te, se hai sempre avuto a che fare con delle palline nella tua vita.”
Magnus lo guardò con gli occhi sgranati e un’espressione mista a stupore e ammirazione. Alec si chiese se esistesse qualcosa in grado di far sentire in imbarazzo Magnus Bane e si rispose che no, sicuramente non esisteva niente in grado di fargli provare il minimo disagio. La sua espressione, in ogni caso, fece sorridere il più giovane.
“Dove tenevi nascosto questo tuo lato, Alexander?”
Alec abbassò lo sguardo sulle sue scarpe, mentre sentiva le guance accaldarsi. “Non lo so, ogni tanto viene fuori.”
“La malizia ti dona, tesoro.”
Alec rise, lo sguardo ancora basso, mentre scuoteva la testa in modo divertito. “Non hai risposto alla domanda, comunque.”
“Vuoi sapere se ho mai avuto a che fare con delle palline, in vita mia?” Lo punzecchiò Magnus, che era una specie di maestro in questi giochetti. Raphael lo definiva squallido in modo imbarazzante, ma Magnus si divertiva a lanciare frecciatine.
“Magnus!” Esclamò Alec, guardando altrove e passandosi una mano sul viso per cercare di celare un poco il rossore. Comparvero due fossette sulle sue guance, mentre cercava di trattenere un sorriso – nonostante tutto -, che fecero sorridere Magnus di rimando. Erano adorabili, per la cronaca. Ma molto adorabili, al livello dei video pieni di gattini che fanno le fusa, o dormono, e cose simili.
“Adesso non fare finta di scandalizzarti. Hai cominciato tu, tesoro.”
“Touché. Me lo merito.”
Magnus gli diede una spallata giocosa e strinse le labbra all’interno della bocca, combattendo contro un sorriso che inevitabilmente si formò sulle sue guance quando si rese conto che Alec stava ridendo. Un suono trattenuto, quasi timido. Era bellissimo e Magnus non si sarebbe mai stancato di notarlo, ne era pienamente consapevole. La cosa lo terrorizzava anche, se doveva essere onesto, perché erano davvero anni che nessuno riusciva a catturare la sua attenzione in quel modo. Di persone belle ne aveva viste a bizzeffe, con alcune di loro ci era persino uscito, ma al di là della superficie, niente aveva attirato la sua attenzione, niente l’aveva spinto a scavare più a fondo, a grattare oltre la patina della bellezza per raggiungere la profondità. Quando Magnus guardava Alec, invece, tendeva inevitabilmente a chiedersi cosa ci fosse all’interno del suo cuore, o come fosse fatta la sua anima. Era tanto bella quanto lo erano i suoi sorrisi?
“Papà! Guarda!”
Erin attirò la sua attenzione e Magnus abbandonò i suoi pensieri per concentrarsi sulla figlia.
“Cosa, bintang?
“Faccio un salto grande!”
“Fai attenzione, però!”
Erin annuì, prima di voltarsi verso la piscina delle palline. Magnus la vide contare fino a tre con la manina, alzando le dita, prima di saltare dal bordo ricoperto di gomma piuma alla pozza di palline colorate sotto di lei. Sparì per circa due secondi, prima di emergere di nuovo, con un sorriso soddisfatto sul visino.
“Bravissima!” Magnus applaudì e lo stesso fece Alec, al suo fianco. Erin alzò le braccia in segno di vittoria e si tuffò di nuovo.
“Lo facevo per tenerla meglio d’occhio. Quando era piccola piccola, pensavo che si sarebbe persa dentro quel mare di palline. Diciamo che l’idea mi terrorizzava, così andavo con lei.”
Alec alzò solo un angolo della bocca. “Lo sospettavo.”
Rimasero in silenzio per qualche istante, guardando Erin che sbucava dalle palline e si rimmergeva di nuovo, come se fosse un piccolo delfino in un oceano colorato. Magnus tirò fuori il cellulare per farle un video. Gli piaceva immortalare quei momenti, in cui Erin era particolarmente felice per qualcosa. In più, non voleva perdersi niente della sua crescita, quindi tendeva a farle video o foto non appena poteva. Ed era sicuro che quel filmato sarebbe sicuramente durato di più, se non fosse stato costretto ad accorciarlo, stoppandolo prima del previsto, per rispondere ad una chiamata di sua madre.
“Hai appena rovinato quello che sarebbe potuto essere un ricordo meraviglioso.”
“Ciao anche a te, sangue del mio sangue.”
Magnus rise. “Scusa.”
“Dove sei? Sento un casino infernale!”
“Alla sala giochi. Esco un attimo, così mi senti meglio.” Magnus allontanò il telefono dall’orecchio e si rivolse ad Alec, che era al suo fianco.
“Ti dispiace guardare la bimba un attimo?” Gli chiese, poi accennò al telefono, “È mia mamma… cerco di fare presto.”
Alec annuì. “Ma certo, fai pure. Rimango io con Erin.”
“Grazie.” Magnus si avvicinò alla piscina delle palline, dove disse alla bambina che doveva uscire un attimo, ma che rimaneva Alexander con lei. Erin annuì e si rituffò nelle palline. Mentre usciva, con il cellulare all’orecchio, realizzò che era la prima volta che Erin accettava di rimanere con qualcuno con cui non aveva confidenza. Era capitato che incontrasse amiche di sua nonna, o amiche di Catarina, ma non voleva stare con nessuna di loro, se non c’era Magnus nelle vicinanze. Con Alec, invece…
“Chi è Alexander?” Madelaine, sua madre, interruppe il suo ragionamento. La sentiva perfettamente, adesso che era uscito dalla sala giochi.
“Ehm, il futuro cognato di Clary.”
“Esci con un ventunenne, Magnus? Stai avendo una crisi di mezza età in anticipo?” domandò la donna, con una certa preoccupazione.
“Primo: non esco con nessuno. Secondo: è Max il ventunenne, Alexander ha trent’anni. È venuto fuori che Jace ha un altro fratello e io sono un pessimo ascoltatore.” Aggiunse Magnus, ripensando alla prima volta che aveva visto Alec e, di conseguenza, chiamato Clary per delle delucidazioni.
“Oh.” Madelaine fece una pausa. “Oooh, capisco!” esclamò con un tono che sottintendeva qualcosa che a Magnus doveva sfuggire. Ma Magnus conosceva fin troppo bene quel tono.
“Mamma. Non è come pensi.”
“E cosa dovrei pensare, secondo il tuo acuto intelletto?”
“Che ci sia del tenero tra me e lui. Non c’è. Siamo amici.”
Amici.” Madelaine fece un’altra pausa. A Magnus cominciavano a non piacere tutte queste pause silenziose cariche di quei significati che sua madre pensava di vedere dietro le sue risposte. “Sai tesoro, è buffo, perché conosco moltissimi dei tuoi amici e con nessuno usi quel tono.”
“Che tono userei, scusa?” domandò Magnus, sulla difensiva.
“Pronunci il suo nome come se fosse fatto di cioccolata. Non ti ho mai sentito chiamare Raphael in quel modo.”
“Questo perché Raphael più che la cioccolata ricorda il cianuro, o la cicuta. Scegli tu.”
Madelaine rise. “Va bene, ho afferrato. Siete amici. Devi fidarti già molto di lui, se gli hai fatto conoscere Erin. Ma chi sono io per tirare conclusioni affrettate? Solo tua madre, la persona che ti conosce come le sue tasche. Bazzecole, giusto?”
“Mamma…”
“Non spazientirti, tesoro. Sto solo scherzando. Ad ogni modo, ti ho chiamato per chiederti se avete voglia di venire a cena, la prossima settimana.”
“Certo. Vuoi che porti qualcosa?”
“Solo la tua presenza e quella della mia adorabile nipotina.”
“Va bene, ci sentiamo in settimana per i dettagli.”
“Certo. Adesso, torna pure al tuo non-appuntamento! Ci sentiamo presto, ti voglio bene!”
Madelaine riattaccò prima ancora che Magnus riuscisse a dirle che non era un appuntamento e che stava prendendo un granchio grosso quanto uno yacht insinuando il contrario. Fissò il cellulare come un idiota, il suo sfondo – una foto di lui e sua figlia, dove Erin gli circondava il collo con le sue braccine sorridendo – ricambiava il suo sguardo, mentre le insinuazioni di sua madre si insediavano nel suo cervello pericolosamente. Da una parte aveva Catarina che urlava alla cautela, dall’altra ci stava sua madre che sembrava vedere dei significati nascosti che a Magnus sfuggivano, tipo il motivo celato dietro al far rimanere Erin con Alexander. Era vero, comunque, a nessuno aveva presentato la sua bambina e adesso aveva persino invitato Alec a passare la giornata con loro. Che stesse impazzendo? O esagerando?
La risposta arrivò chiara – e Magnus non sapeva se era effettivamente la verità o un modo per raccontarsi una convincente scusa da far passare come verità. Fatto sta che realizzò una cosa: aveva lasciato che Erin e Alexander si conoscessero per il semplice fatto che Alec era un suo amico. Non si era fatto remore a far conoscere Simon alla sua bambina, o Jace, o Max. Per quale motivo doveva farsi problemi con Alec?
Perché sei attratto da lui.
Dannazione!
Magnus decise di accantonare quei pensieri – si sentiva Cat e Madelaine su ognuna delle spalle, come gli angeli e i demoni in miniatura dei cartoni animati – e di rientrare nella sala giochi. Era inutile fare congetture, l’unica cosa che doveva fare era godersi il momento, viverlo senza preoccuparsi. E quella domenica pomeriggio, il momento da vivere prevedeva passare una giornata con la sua bambina e un nuovo amico. Niente di più, niente di meno.
Magnus annuì a se stesso, mentre raggiungeva la piscina delle palline. Erin non l’aveva ancora visto, così decise di non attirare la sua attenzione e di lasciarla parlare con Alec, che si era avvicinato alla rete e la guardava fare le acrobazie.
“Una capriola, Alec!”
“Forse è meglio di no, che dici? Fai anzi un salto.” Disse Alec, preoccupato che la bambina potesse farsi male.
“Ma so fare la capriola!”
“Ci credo, Erin. Ma è meglio farla insieme a papà, non credi?”
Erin parve pensarci su. “Va bene. Quando arriva gli chiediamo se posso farla.”
Alec annuì. “Perfetto. Mi fai vedere un super salto, adesso?”
La bambina emise un piccolo gridolino euforico, mentre annuiva. Si preparò al salto, ma solo mentre si metteva in posizione, Magnus notò che stava aspettando Alec, il quale si mise a contare fino a tre, creando una pausa ad effetto per aumentare la suspense tra un numero e l’altro. Quando arrivò al tre, Erin saltò, tenendo le ginocchia al petto, come se volesse mimare un tuffo a bomba.
Alec esultò, applaudendo. La bambina riemerse e guardò Alec, felice.
“Dieci punti!” esclamò il ragazzo, mentre il sorriso di Erin si allargava sempre di più.
Magnus era sicuro che il suo cuore si fosse allargato almeno di due taglie. E in quel preciso momento, realizzò che ciò che aveva detto sua madre era vero: si fidava di Alec. Per un’assurda, folle, ragione, si fidava di un uomo che conosceva da si e no due settimane. Ma d’altronde un vecchio detto diceva il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce. E Magnus sentiva che era questo il caso.
“Ehi.” Disse, annunciando la sua presenza. Non seppe dire per quale motivo, forse per la confidenza che gli parve di vedere tra Erin ed Alec, o forse perché sentiva una forte necessità di intimità con l’uomo che era riuscito a far sorridere la sua bambina, ma si trovò ad appoggiare una mano sulla schiena di Alec, tra le scapole, accarezzandolo con il pollice sopra alla stoffa della maglietta.
“Ehi. Stiamo facendo i salti.” Gli comunicò Alec, che non parve per nulla infastidito da quel contatto.
“Lo vedo.”
“Papà!” esclamò Erin, notando il padre. “Posso fare una capriola?” 
“Ma certo, bintang. Mi raccomando, come ti ho insegnato!”
Erin annuì e si ritagliò un piccolo spazio sul bordo di gomma piuma per posizionarsi in modo corretto e darsi la spinta per fare la capriola. Quando tornò in posizione eretta, guardò Alec, che batté le mani.
“Bravissima!” Le disse. “Un altro dieci.”
“Grazie!” esclamò Erin, tuffandosi di nuovo nelle palline.
La mano di Magnus aveva lasciato la schiena di Alec e adesso giaceva lungo il fianco del ballerino. Aveva osservato la scena in silenzio, aveva notato i sorrisi di Erin e la disponibilità di Alec, che era decisamente bravo con i bambini. Chissà se progettava di averne di suoi, un giorno…
“Grazie per averla tenuta d’occhio.”
“Figurati, è stato divertente. Tutto bene con tua mamma?”
“Oh, sì. Voleva solo…” insinuare che siamo ad un appuntamento. “…Invitarmi a cena, la settimana prossima.”
“Una cosa tipica delle mamme, insomma.”
Magnus annuì. “Esatto, tutto nella norma.” E forse fu per il filo di pensieri che aveva avuto, o per il fatto che stavano parlando di inviti a cena, ma le parole che successivamente lasciarono la bocca di Magnus, istintive e fluide come un fiume in piena, furono: “Vuoi cenare con noi, stasera?”
“È compreso nel pacchetto-salva-anime di Magnus Bane?”
Magnus guardò ancora una volta il modo che aveva Alec di alzare un solo angolo della bocca, in un sorrisetto storto che era così particolare – in qualche modo irresistibile –  che non poté fare a meno di  ricambiare, a modo suo. Sorrideva. E Magnus non ricordava l’ultima volta che aveva sorriso così tanto in compagnia di un essere umano che non fosse sua figlia, l’unica che riusciva a farlo sentire davvero sereno.
“Una specie, sì.”
“Come potrei rifiutare, allora?”
Magnus lo guardò, negli occhi uno strano luccichio, qualcosa che era certo non compariva quando guardava Raphael. La voce di sua madre riecheggiò nella sua mente: pronunci il suo nome come fosse fatto di cioccolata. E forse, in quel momento, mentre guardava Alexander come una piacevole scoperta, come quella linea di terra ferma dopo anni passati disperso in mare aperto, realizzò che Madelaine, almeno in parte, aveva ragione: Magnus non sapeva cosa fossero esattamente lui e Alec – in primo luogo, perché si conoscevano da poco e in secondo luogo perché gli faceva sfarfallare il cuore come nessuno dei suoi amici faceva. Erano quella piacevole via di mezzo che può portare a qualsiasi cosa; un abbozzo su un foglio bianco che può essere destinato a diventare un’opera d’arte, oppure no. Magnus non poteva saperlo. Sapeva solo che gli piaceva averlo intorno, sentirlo parlare, guardarlo giocare con Erin, vederlo arrossire.
“È deciso, quindi.”  
Alec annuì. Insieme tornarono a guardare Erin, che ancora saltava tra le palline colorate con l’energia quasi inesauribile tipica dei bambini. Passarono il restante tempo dentro la sala giochi a guardare Erin che cambiava giochi e parlando di qualsiasi cosa venisse loro in mente. Ad ogni discorso, se ne sostituiva un altro. E più parlavano, più la distanza tra loro si riduceva, fino a quando i loro gomiti non arrivarono a sfiorarsi. Ma nessuno dei due fece un passo per allontanarsi dall’altro.



“Ti proibisco assolutamente di cucinare!”
“Perché, pensi che sia così terribile?”
“No, tesoro, non lo penso. Sarei solo un pessimo padrone di casa, non trovi?”
Alec rise. Si arrotolò le maniche della maglietta fino ai gomiti, mentre, in cucina, guardava Magnus, con un grembiule legato in vita, che testardamente gli proibiva anche solo di avvicinarsi alla dispensa.
Alec si avvicinò a lui, quasi schiacciandolo tra se stesso e la dispensa, a cui Magnus faceva da scudo per fare in modo che non fosse alla portata del suo ospite. “Lasciati aiutare.”
“Questo è il tuo modo di essere persuasivo?”
Alec sistemò le proprie mani all’altezza della testa di Magnus, appoggiandole sulla superficie del mobile alle spalle dell’uomo, ingabbiandolo definitivamente. “È il mio modo per essere intimidatorio, più che altro, e vedere se almeno così la tua testardaggine cederà almeno un po’.”
Non fu volontario, ma i loro visi erano pericolosamente vicini, così come lo erano i loro nasi, che arrivarono quasi a sfiorarsi. Magnus riusciva a percepire il profumo naturale della pelle di Alec, un misto di sapone e quel particolare odore che ha la sabbia quando è stata colpita per tanto tempo dal sole, e che irrimediabilmente gli provocò una serie di brividi lungo la colonna vertebrale. Per farla breve: l’ultima cosa che provava Magnus in quel momento era intimidazione. Un piacevole brivido di eccitazione, quello sì. La voglia di zittire quella bellissima bocca irriverente con un bacio, pure. Alec era alto, così vicino da essere a portata di bacio e Magnus sentì le ginocchia che cominciavano a cedergli, mentre il suo cuore gli rimbombava fortissimo nelle orecchie come se gli stesse gridando a squarciagola: amici un corno, bacialo! Bacia la reincarnazione del principe uscito dalle favole, fallo, brutto idiota!
Per una piccolissima frazione di secondo, Magnus fu tentato di alzarsi sulle punte e sfiorare le labbra di Alec con le proprie. Un minuscolo, innocente, contatto. Niente di elaborato, solo un delicato sfioramento.
Ma il suo cervello fece si che i suoi piedi rimanessero ben ancorati a terra, e di conseguenza, che la distanza tra di loro, seppur misera, non venisse colmata. Pensa ad Erin, come influirebbe su di lei questa situazione, se tu lo baciassi e lui scappasse via a gambe levate?
In effetti, avrebbe potuto rischiare di rovinare tutto. La prima volta che l’aveva visto, Alexander aveva evitato di parlare del motivo per cui non voleva uscire con qualcuno, respingendo anche David. Questo significava solo una cosa: non era pronto, non ai baci, non all’intimità. E se Magnus l’avesse forzato verso una direzione che Alec non era pronto a seguire, l’unica cosa che avrebbe ottenuto sarebbe stata il suo allontanamento e magari, anche l’allontanamento della sua famiglia – con la conseguenza che Erin non avrebbe più potuto avere lo stesso rapporto che aveva con Diana.
E Magnus non aveva intenzione di fare qualcosa che avrebbe influito negativamente sulla sua bambina.
Così, come il suo saggio cervello gli suggerì, rimase ancorato a terra e posizionò un dito sul mento di Alec, allontanandogli con delicatezza il viso dal proprio.
“Intimidatorio non è la parola che userei, fagiolino, ma sei riuscito comunque nel tuo intento.”
Alec si aprì in un sorriso, non prestando particolare attenzione a quali significati avrebbe potuto cogliere nella prima parte della frase. “Mi lascerai cucinare?” chiese solamente.
Magnus lo ammonì con lo sguardò. “Mi lascerò aiutare. È diverso, zuccherino.”
“D’accordo, mi sta bene.” Alec alzò le mani in segno di resa, liberando in questo modo anche Magnus dalla sua specie di gabbia improvvisata. “Ma dobbiamo stabilire delle regole.”
“Ah, sì?” Magnus alzò un curatissimo sopracciglio. “Farai tu le regole nella mia cucina?”
Alec fece spallucce. “Una delle tante, sì.”
“Sentiamo.” Magnus fece cenno di proseguire con una mano.
“Basta nomignoli.” La serietà nello sguardo di Alec fece fare crac al piccolo cuore speranzoso di Magnus. Tuttavia, l’uomo era sempre stato testardo, quindi non demorse.
“Non puoi chiedermelo! Non ci riuscirò mai!”
Alec incrociò le braccia al petto, risoluto. “Devi riuscirci.”
Un gesto che non aiutò per niente Magnus, che fu distratto dal rigonfiamento dei suoi bicipiti, avvalorando in questo modo la tesi per cui era necessario appellare quella meraviglia di uomo con dei vezzeggiativi. E figo stratosferico dalle braccia distraenti non era esattamente il soprannome anti-sgamo che Magnus stava cercando.
“Non è colpa mia se tutti i tuoi connotati mi fanno venire voglia di darti dei nomignoli! Ti guardo e mi viene in mente lo zucchero!”
Alec guardò altrove, pur di non guardare Magnus negli occhi. Sentì chiaramente la guance andare a fuoco, mentre si rendeva conto, ancora una volta, quanto Magnus fosse diretto e quanto non si facesse la minima remora ad esprimere ad alta voce ciò che gli passava per la testa. Era sinonimo di una sicurezza in se stessi decisamente invidiabile, qualcosa che Alec non aveva mai avuto in vita sua.
“E i fagioli, a quanto pare.”
Magnus roteò gli occhi al cielo. “Non ti chiamerò più fagiolino, se non ti piace. Promesso!” Si mise una mano sul cuore per dare enfasi alle sue parole. Alec si passò una mano sul viso per nascondere un sorriso. “Ma posso concederti solo questo!” continuò Magnus, approfittando del silenzio di Alec.
“Me lo farò bastare.” Concesse infine il più giovane. Magnus gli regalò un sorriso così luminoso che Alec per un irrazionale secondo pensò che si sarebbe lasciato chiamare anche nel modo più ridicolo esistente, se ciò avesse significato veder comparire quell’espressione sul viso di Magnus.
“Abbiamo un accordo, allora, zuccherino.” Disse Magnus, con più soddisfazione del necessario.
Alec ridusse gli occhi a due fessure. “Almeno evita di gongolare.”
“Mai.”
“Sei perfido. Sappilo.”
Magnus rise, pulendosi dell’inesistente sporcizia dalle mani sul grembiule. Era davvero orrendo, quel coso, ma per nulla al mondo avrebbe rischiato di rovinare i suoi pantaloni grigio perla – erano Tom Ford. Non si rovina niente di Tom Ford, a meno che non si voglia finire nel girone infernale dei peccati mortali. Uscì dalla cucina per dirigersi verso il salotto, dove Erin si trovava sul divano a guardare i Looney Tunes.
“Sono in cucina, bintang, d’accordo? Puoi venire di là quando vuoi.”
Erin annuì. “Finisco di vedere questo, posso?”
“Certo.” Magnus le lasciò un bacio sulla testa e si diresse di nuovo in cucina, lasciando Erin insieme a Taz, il diavolo della Tasmania. Raggiunta nuovamente la cucina, notò Alec appoggiato allo stipite della porta che lo guardava.
“Che c’è?”
“Niente.” Rispose Alec. “Non pensavo facessero ancora i Looney Tunes in televisione.”
“In qualche canale sconosciuto. Noi li abbiamo scoperti per caso. Erin li adora.”
“Li adoravo anche io.”
“Chi non li adora? Non bisogna fidarsi di chi non li ha guardati, da bambino.”
Alec rise. “Non penso Diana li abbia mai visti. Mi stai dicendo che non devo fidarmi di mia nipote?”
Magnus entrò in cucina, superando lo stipite e dirigendosi verso il frigo. Alec lo seguì.
“No, ma potrei farti gentilmente notare che sarebbe anche ora di rimediare. Non trovi? È tuo sacro dovere di zio tramandare la tradizione dei Looney Tunes.” L’uomo aprì il frigo e ne estrasse delle carote, che passò ad Alec.
“Hai ragione. Rimedierò, per non sentirmi un totale fallimento.”
Magnus rise. “Taglieresti le carote?”
“Certo.” Alec afferrò il pela-carote che Magnus gli stava passando e cominciò a pulire le carote, gettando le bucce in un canevaccio che l’uomo gli aveva appositamente sistemato sul tavolo.
“Magnus.” Lo chiamò, quindi l’interessato di voltò. Quando i loro sguardi si incrociarono, Alec si sistemò una carota vicino al viso e disse: “Hai intenzione di invitare anche Bugs Bunny a cena?”
Magnus gli lanciò uno dei canevacci che aveva a portata di mano, facendo ridere Alec. In ogni caso, comunque, sarebbe un bugiardo se negasse di aver riso a sua volta.
Il bello dei cartoni, è che ti fanno tornare bambino quando meno te lo aspetti. E Magnus era felice di poter esserlo in presenza di Alec, senza sentirsi a disagio.



La cena fu piuttosto tranquilla. Magnus aveva passato più di un’ora a cucinare, riducendo il compito di Alec al semplice passargli le cose che gli servivano. Dopo il taglio delle carote, Alec in pratica non aveva fatto altro che guardare le mani di Magnus che si muovevano abili mentre si destreggiava tra una pietanza e l’altra. L’aveva osservato cuocere il riso e friggerlo, aggiungendo del pollo che aveva passato in precedenza su un’altra padella, cuocendolo con dell’olio e facendo la stessa cosa con i gamberetti – unendo poi il tutto alla fine, comprese le carote tagliate da Alec.
C’era un quantità di padelle sporche, in cucina, da ricordare un ristorante e Alec, prima che la cena fosse servita, si era impuntato di lavarle.
«Metti giù quelle padelle, tesoro.» Gli aveva intimato Magnus.
«Devi usarle di nuovo?»
«No, ho finito, ma…»
«Niente ma, allora. Non mi hai fatto fare niente. Lasciami almeno lavare qualcosa.»

Alec aveva presto scoperto che lui e Magnus erano decisamente testardi. Non era facile impuntarsi su di lui come lo era ad esempio con i suoi fratelli. Ogni Lightwood è testardo a modo suo, ma c’era questa particolare tendenza ad affidarsi ad Alec, che faceva sì che, alla fine, i suoi fratelli cedessero e gli dessero retta.
Con Magnus era totalmente diverso. Sembravano due arieti che si prendono a testate, senza l’intento di distruggersi le corna a vicenda, ovviamente. In ogni caso, Alec non era sicuro che la cosa gli dispiacesse. Anzi, era piuttosto sicuro del contrario. Le persone con un carattere forte, in grado di tenere testa a chiunque rimanendo pur sempre nei confini dell’educazione, avevano sempre avuto un certo fascino, per lui. E Magnus era pieno di fascino, in molti campi. Irradiava un carisma magnetico, qualcosa che lo rendeva particolarmente interessante.
“Mi stai fissando, Alexander.”
Alec era seduto sul divano, insieme a Magnus ed Erin. La piccola, finita la cena, aveva chiesto se potevano guardare un cartone animato e quando gli adulti avevano detto sì – Magnus temeva che ad Alec i cartoni potessero non piacere, ma aveva presto scoperto che, nonostante i suoi trent’anni, Alec amava i cartoni della Disney – la bambina aveva scelto Mulan.
Erin aveva finito per addormentarsi poco dopo aver visto Mulan che provocava una valanga lanciando un razzo e sotterrando tutti gli Unni. Magnus e Alec, dimostrando tutta la loro età adulta, anzi che mettere in pausa il cartone erano rimasti a guardarlo fino alla fine. Era iniziata da poco la canzone finale, quando Magnus aveva parlato.
Alec in ogni caso distolse lo sguardo.
“Non ho detto che mi dispiaceva.” Specificò allora Magnus, con un sorriso. Erin era addormentata sul suo fianco, un braccio dell’uomo circondava la piccola, che aveva il viso appoggiato al petto del padre. Alec trovò la scena di una dolcezza infinita.
“L’abitudine dell’attenzione da palco scenico è rimasta?”
“Potrei dire di sì, ma mentirei. Non mi piace essere guardato da tutti.”
“E allora da chi?” domandò genuinamente Alec.
“Da te, ad esempio.” Rispose di getto Magnus, prima di rendersi conto di aver valicato quella linea di discrezione e cautela che si era imposto. Osservò il viso di Alec arrossire, prima di vederlo distogliere lo sguardo. Forse l’aveva messo a disagio. Forse la sua assenza di filtri l’avrebbe fatto fuggire alla velocità della luce. Decise di rimediare, cambiando discorso. “Vado a metterla a letto.” Indicò Erin, che indossava già il pigiamino. Magnus sapeva che la piccola aveva la tendenza ad addormentarsi quando guardavano i cartoni, quindi aveva imparato a prepararla per la notte appena dopo cena. Con la figlia in braccio, l’uomo si alzò dal divano e si diresse verso la camera della bambina. Non disse niente ad Alec, non gli fece promettere di aspettarlo. In cuor suo, sperava che il suo commento non lo facesse sgattaiolare via, soprattutto perché avevano passato una giornata bellissima, insieme, e non voleva che finisse in quel modo brusco. Ma una parte di sé voleva lasciare ad Alexander la libertà di andarsene, se l’avesse voluto.
Tuttavia, quando ricomparve in salotto – dopo aver lasciato Erin nella sua cameretta e averle dato il bacio della buonanotte – e trovò Alec esattamente dove l’aveva lasciato, il suo cuore fu liberato da quel macigno fatto di dubbi che si era formato nel giro di qualche istante.
Magnus, decisamente più leggero, si sedette di nuovo al suo fianco con l’intento di scusarsi, ma Alec parlò prima di lui.
“Non mi hai ancora detto cosa ho mangiato. Quando te l’ho chiesto, hai semplicemente detto che è un piatto tipico del tuo paese d’origine, ma hai smorzato il discorso.”
Non c’era imbarazzo, nella sua voce. Non era una domanda fatta per allentare una qualche tensione, un convenevole per arrivare poi inevitabilmente al saluto – una frase che avrebbe preceduto un be’ si è fatto tardi devo proprio andare. No, era una domanda carica di una sincera curiosità, posta per conoscere davvero qualcosa di Magnus. Il ballerino si rilassò. Andava tutto bene. Alec non sarebbe scappato.
“Si chiama nasi goreng. È indonesiano.”
“Era davvero buono.” Commentò Alec, posandosi istintivamente una mano sulla pancia come se volesse avvalorare le sue parole. “Sei nato là?” domandò poi.
Magnus annuì. “A Giacarta. Io e mia mamma ci siamo rimasti fino a quando non ho compiuto cinque anni. Poi siamo venuti in America.”
“Perché? Se posso saperlo.”
Magnus sorrise. La discrezione di Alec gli piaceva. Era un tipo curioso, ma senza essere invadente. “Diciamo che mia madre aveva smesso di andare d’accordo con mio padre.” Non appena il pensiero di suo padre gli accarezzò la mente, tuttavia, il suo sorriso scomparve. Aveva pochi ricordi legati a quell’uomo, ma erano decisamente spiacevoli. Alec si accorse del cambiamento di espressione e gli si avvicinò.
“Va tutto bene?”
Magnus annuì. “Sono solo ricordi.”
Alec appoggiò una mano sopra a quella dell’altro. “Riescono a fare più male quelli di molte altre cose. Scusa se te li ho fatti rivivere.”
Il cuore di Magnus venne risollevato dalla pesantezza che il ricordo del padre, inevitabilmente, gli provocava. Alec era gentile e premuroso, qualità che Magnus aveva sempre apprezzato, ma che raramente aveva trovato.
“Non scusarti, non dipende da te.” Accarezzò con il proprio pollice il dorso della mano di Alec. Entrambi lasciarono aleggiare il discorso ancora per un po’, fino a quando il silenzio stesso non lo inghiottì, portandolo altrove, lontano da lì. Non c’era un modo corretto per chiudere discorsi simili e a volte, era meglio lasciarli al silenzio. Solo quello sapeva come occuparsi di determinate parole, talvolta. Solo l’assenza di suoni riesce a portare via qualcosa che è in grado di fare male anche dopo anni, condannando la pesantezza di quei ricordi all’inevitabile oblio del silenzio.
Alcuni dicono che sia il tempo a curare certe ferite. Magnus non era d’accordo. La comprensione, una parola detta, o in questo caso non detta, aiuta a tamponare il sangue quando riesce ad uscire da delle ferite che nonostante tutto, non si cicatrizzeranno mai.
“Possiamo assaggiare la tua vodka, adesso?”
Alec annuì. “Possiamo.”
Magnus tenne ancora qualche istante la sua mano sotto a quella di Alec, prima di alzarsi e dirigersi verso il piccolo mobiletto degli alcolici che teneva in un angolo del salotto. Era chiuso a chiave per fare in modo che Erin non si avvicinasse nemmeno per sbaglio all’alcol. Quando lo aprì, estrasse la bottiglia che aveva portato Alec qualche giorno prima. Insieme ad essa afferrò anche due bicchieri e si avvicinò di nuovo al divano, sedendosi. Aprì la bottiglia e versò un po’ del liquido trasparente in entrambi i bicchieri, prima di appoggiarla sul tavolino davanti a loro.
“Brindiamo?” domandò Magnus.
“A cosa?”
“Ai momenti brutti? Servono anche quelli, dopotutto.”
“Ci rendono inevitabilmente ciò che siamo.” Confermò Alec, alzando il suo bicchiere. Magnus fece tintinnare il proprio bicchiere con quello di Alec e bevve la vodka tutta d’un fiato. Il bruciore alcolico gli attraversò la gola e gli sciolse un pochino i nervi.
“È buona.”
Alec annuì, finendo il suo bicchiere. Accennò ad una smorfia, che gli contorse un tantino la faccia, come se non fosse propriamente abituato a bere.
Magnus si allungò verso il tavolo e afferrò di nuovo la bottiglia. Poi si sistemò con le gambe incrociate come un indiano e si girò per essere esattamente di fronte ad Alec. Il più giovane fece lo stesso, tenendo i piedi appoggiati a terra, però.
“Ai momenti belli.” Disse Magnus, versando altra vodka nei loro bicchieri. Li fecero tintinnare di nuovo, prima di bere. Magnus tutto d’un fiato, Alec più lentamente. Fece ancora quella smorfia, notò Magnus, ma meno evidente, questa volta. Era sicuro che non bevendo spesso vodka, la gola di Alec dovesse riabituarsi alla forza bruciante del grado alcolico e al sapore pungente.
“Facciamo un gioco, almeno scacciamo via il nuvolone nero che si è formato sopra alle nostre teste!”
Alec annuì. Un lieve sorriso comparve sulle sue labbra. “Ci sto.” 
“Ci facciamo delle domande, ma anzi che rispondere con le nostre esperienze dobbiamo provare ad indovinare quelle dell’altro. Chi sbaglia, beve.”
Alec si passò una mano sul viso. Aveva la barba di qualche giorno. Gli stava decisamente bene, notò Magnus. “D’accordo.” Acconsentì infine. “Cominci tu?”
Magnus annuì. “Vediamo… la prima cotta.”
Alec alzò le sopracciglia, facendo roteare il bicchiere nella mano. Avrebbe dovuto far agitare la vodka, ma il suo bicchiere era vuoto, perciò fu più che altro un gesto meccanico senza particolari conseguenze. “Quindi devo indovinare chi è stata la tua prima cotta, giusto?”
Magnus annuì.
Alec arricciò le labbra, picchiettandosi il mento con l’indice della mano che non teneva il bicchiere. Studiò Magnus per qualche istante, immaginandoselo decisamente più giovane, in età adolescenziale, se non prima. Chissà se era sempre stato un tipo così particolare, fuori dagli schemi. Decise di supporre di sì e di escludere, quindi, che potesse cadere nel cliché di innamorarsi della capo cheerleader del liceo. O del quarterback della squadra di football. Decise di suppore anche che Magnus, in un’età compresa tra gli undici e i quattordici anni – l’età delle prime cotte – sapesse già di essere attratto da entrambi i sessi. Erano tutte congetture, si ritrovò a realizzare. Sapeva poche cose di Magnus, ma decise di basarsi su una di quelle: Magnus aveva cominciato a fare danza da piccolo, e se era arrivato ai livelli professionali in cui si trovava adesso, sicuramente aveva passato gran parte del suo tempo allenandosi, magari da solo o magari in gruppo.
“Una tua compagna di danza.”
Magnus gli rivolse un sorriso che ne aveva del malandrino, mentre versava vodka nel bicchiere di Alec. “Hai sbagliato, ma ci sei andato vicino.”
Alec alzò il suo bicchiere verso Magnus e bevve il dito e mezzo di vodka che l’altro gli aveva versato. Sentì la gola bruciargli un poco, ma si stava abituando al sapore sempre di più. Un piccolo brivido alcolico attraversò il suo corpo, ma durò giusto un secondo. “Sono curioso di sapere qual è la risposta corretta, però.”
Gli angoli della bocca di Magnus si tirarono in un sorriso trattenuto. “Era il fratello di una mia compagna di danza. Eravamo molto amici, io e lei. Aveva un fratello di due anni più grande, con due occhi meravigliosi. Ho impiegato mesi a capire che il fatto che la vicinanza di quel ragazzo mi faceva sudare le mani voleva dire che ero attratto da lui.”
“E come ti faceva stare? Voglio dire… realizzare che ti piaceva un maschio, com’è stato?”
“Strano, all’inizio. Sapevo che ai maschi, secondo convenzione sociale, dovevano necessariamente piacere le femmine. Pensavo di essere difettoso, di avere qualcosa che non andava. Ho passato un periodo chiuso in me stesso, per elaborare quelle sensazioni. Non parlavo più nemmeno con mia mamma – e a lei ho sempre detto tutto.”
“Com’è finita?”
“Per tutto quel periodo, ho pensato di essere gay. Ipotesi avvalorata dal fatto che sono stato malissimo per due settimane, quando un giorno l’ho visto baciarsi con la sua nuova ragazza, che guarda caso era una delle mie compagne di danza. Ero geloso, quindi pensavo che sicuramente dovevo essere innamorato di lui.” Magnus fece una pausa,  cominciando a giocare con un ciondolo di una delle tante collane che portava. “L’anno dopo, a quindici anni, ho avuto la mia prima vera storia con una ragazza. È stato davvero complicato capire effettivamente che ero attratto da entrambi i sessi, sai? Prima pensavo di essere gay, poi pensavo di essere etero. Ho dovuto compiere diciassette anni per realizzarlo in pieno.”
“E hai ricominciato a parlare con tua mamma?”
“Sì. Lei ha avuto pazienza. Mi ha aspettato, rispettando i miei tempi. Ci ho messo tre anni a capire chi ero e a trovare il coraggio di dirglielo, ma dopo averlo fatto il nostro rapporto è persino migliorato.”
“È un bene avere qualcuno che ci supporta.” Alec abbassò lo sguardo sul suo bicchiere vuoto. “Non so come avrei fatto, all’inizio, se non avessi avuto i miei fratelli.”
Magnus rimase in silenzio, lasciando in questo modo ad Alec il tempo di continuare, se avesse voluto. Quando l’altro rimase in silenzio, tuttavia, domandò con un discreto filo di voce: “I tuoi non l’hanno accettato subito?”
“Mio padre non l’ha ancora accettato. Dopo dieci anni dal mio coming-out pensa ancora che la mia omosessualità sia una fase e che un giorno mi sveglierò realizzando che non mi piacciono gli uomini. La verità è che si vergogna di me.” La voce di Alec tremò. Magnus non seppe distinguere se quella reazione era dovuta da un pianto trattenuto o da una sorta di rabbia nervosa. Non lo conosceva abbastanza per poter distinguere le due cose, ma sapeva che Alec soffriva per questo. E aveva la netta sensazione che l’impegno di famiglia a cui non voleva partecipare, ma a cui aveva partecipato lo stesso la scorsa sera c’entrasse proprio con il padre.
“Ci sarà sempre qualcuno che metterà i pregiudizi prima di tutto. Quando sono i genitori a farci sentire a disagio, la sofferenza raddoppia, ma dobbiamo fare di tutto per non farci schiacciare da essa. Se tuo padre non accetta ciò che sei, è un problema suo. Non appesantirti anche dei suoi problemi. La vita ce ne riserva decisamente troppi per occuparci anche di quelli degli altri.”
Alec alzò lo sguardo su di lui, accennando un sorriso che ne aveva del malinconico, ma che celava una punta di gratitudine. “Grazie.”
Magnus gli fece l’occhiolino. “Quando vuoi, zuccherino.”
Il sorriso di Alec si allargò, tornando decisamente luminoso. Rimasero in silenzio qualche istante, facendo aleggiare nell’aria quel discorso nello stesso modo in cui avevano fatto aleggiare le parole di Magnus, prima. Lasciarono al silenzio il compito di cancellare le tracce, poi Alec si allungò verso la bottiglia e riempì il bicchiere di Magnus. “Tocca a me, adesso.”
“E supponi già che non indovinerò?” Agitò leggermente il bicchiere, facendo muovere la vodka all’interno di esso.
“Esatto.”
“Deve essere una domanda difficile, allora.”
“Ingannevole, più che altro.”   
“Spara.”
Alec sorrise beffardo. “Colore preferito.”
Magnus lo fissò come se fosse un alieno sceso da una navicella spaziale. “Stai scherzando? Questa è la tua grande domanda?”
“Smetti di giudicarmi e rispondi!”
Magnus rise, mentre guardava l’adorabile broncio che si era involontariamente formato sul viso di Alec. “Nero.”
“Bevi.” Affermò Alec, il suo broncio adesso si era trasformato in un’espressione soddisfatta. “Non è il mio colore preferito.”
Magnus bevve il contenuto del bicchiere in un fiato. “E allora qual è?”
“Blu cobalto.”
Magnus alzò un sopracciglio, sorpreso. “Allora perché il tuo guardaroba è interamente nero?”
“Reminiscenza adolescenziale. Mi vestivo di nero per non essere notato. Ancora adesso mi fa sentire a mio agio, poco esposto.”
“Oh, tesoro, ma non notarti è impossibile. Se vogliamo sorvolare sulla tua bellezza, sei alto quanto un grattacielo!”
Alec rise, un suono totalmente diverso da quello che aveva sentito Magnus nel pomeriggio. Era una risata lasciata libera, sincera e non esagerata. Era genuina. Era bella, come lo era Alec nella sua totale discrezione e semplicità. A Magnus piacque da morire quel suono. “Prossima domanda.”
Magnus si sistemò meglio sul posto. “Va bene, vediamo…” arricciò le labbra, in un’espressione pensosa, poi il suo sguardo si illuminò di una luce maliziosa. “Ci sono! Fantasie scontate!”
“Tipo avere un debole per gli uomini in divisa e cose simili?”
“Esatto!”
Alec si passò una mano sul viso, nascondendo un sorriso. Fece vagare lo sguardo per la stanza, mentre cercava di trattenere una risata, scuotendo leggermente la testa. Non poteva credere di star avendo una conversazione simile con qualcuno. Alec era un tipo chiuso, schivo e riservato. Tendenzialmente non si fidava di nessuno ed erano rare le volte che si apriva con qualcuno che non facesse direttamente parte del suo nucleo familiare. Eppure… aveva passato tutta la sera a parlare con Magnus, a dirgli cose che lo riguardavano personalmente, come la situazione con suo padre. Non sapeva per quale motivo, ma gli veniva quasi naturale fidarsi di Magnus. Aveva la strana e piacevole sensazione di poter essere apertamente se stesso con lui che tanto non l’avrebbe giudicato. Tutto ciò gli piaceva.  
“Vediamo… quale potrebbe essere la fantasia scontata di Magnus Bane?”
“Io lo so. Bisogna vedere se tu sei così intuitivo da poterlo indovinare!”
Alec reagì a quella frecciatina con una linguaccia. “Non fare l’antipatico, adesso.”
“E tu non temporeggiare.”
Alec gli diede un leggero schiaffetto sul ginocchio, poi dopo averci pensato su per qualche secondo, disse: “Pompieri? Non lo so, penso sia la più scontata, è tipo una fantasia universale. Chiunque ha fantasticato su un pompiere, almeno una volta.”
Magnus rise e annuì. “Indovinato!”
“Quindi sono molto intuitivo.”
“O sono io quello particolarmente scontato.”
“Fingerò di non cogliere un implicito sospetto riguardo il mio intelletto, Magnus. Mi limiterò semplicemente a dire che non sei per niente scontato.”
“Ah no?” Il tono che usò Magnus fu più lascivo di quanto intendesse.
“No.”
Magnus sorrise, ma lasciò cadere l’argomento per lo stesso motivo che l’aveva spinto a cambiare discorso e portare Erin a letto: non voleva rischiare che Alec si allontanasse. E quella sera, si erano avvicinati così tanto che Magnus non si sarebbe neppure sognato di fare qualcosa che avrebbe potuto compromettere quella vicinanza. “La tua?” chiese, quindi.
“La mia fantasia scontata?”
“Sì.”
“Motociclisti. Sono giusto la seconda fantasia universale, dopo i pompieri.”
Magnus annuì. “È il giubbotto di pelle che li rende irresistibili.”
Alec ridacchiò. “Penso tu abbia ragione.”
“Io ho sempre ragione. Lo capirai, con il tempo.”
Alec gli tirò un pupazzetto che stava sul divano a portata di mano, una piccola foca bianca che rimbalzò sul petto di Magnus. “Sbruffone.”
“Ma ho anche dei difetti.”
Alec lo guardò con gli occhi grandi, prima di non riuscire a trattenere una risata a cui si unì inevitabilmente anche Magnus.
Finì così, con il suono delle loro risa che si mischiavano. Con l’ultimo bicchiere della staffa, prima dei saluti. Con Alec che, passata la mezzanotte, si avviava verso la porta e ringraziava Magnus per la giornata e la cena. Con Magnus che si alzava sulle punte per baciargli una guancia, augurandogli la buonanotte e facendogli promettere di mandargli un messaggio, non appena fosse arrivato a casa.
Fu quello che Alec fece non appena varcò la propria porta, dopo un viaggio in metro passato a pensare a Magnus e al modo che aveva di sorridere.

To: Magnus, 00.49
Sono a casa.
From: Magnus, 00.49
Buonanotte, zuccherino.

Mentre si preparava per andare a dormire, Alec era decisamente troppo concentrato a ripensare a tutta la sua bellissima giornata per rendersi conto che, in compagnia di Magnus, il pensiero di Will non l’aveva neppure sfiorato.   




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Ciao a tutti!!
Pensavo che avrei dovuto rassegnarmi all’idea di pubblicare questo capitolo ad anno nuovo e invece, eccomi qua. Contro ogni probabilità ce l’ho fatta e quindi ne approfitto per augurarvi un buon anno e dire che la pagina Instagram di Shadowhunters ci ha fatto un regalo di Natale bellissimo, pubblicando lo sneak peek esteso dei Malec. Se dicessi di non averlo visto a ripetizione per una cinquantina di volte sarei una sporca bugiarda. E se solo non avessi già scritto qualcosa su quella scena, improntando il tutto in un’ottica tendente al triste, cederei alla tentazione di riscrivere qualcosa, concentrandomi su Magnus che passa la giornata a trovare il nomignolo adatto per Alec, mentre Alec grumpy-cat Lightwood glieli boccia tutti. Alec, rassegnati, Magnus ha ragione: sei un cucciolo.
Ad ogni modo, la parte dove in questo capitolo Alec si impunta per non essere più chiamato con qualche nomignolo strano è decisamente presa dallo sneak peek.
Comunque, bandendo le mie ciance inutili, veniamo al capitolo: inizia con un flashback, che mostra come Alec abbia incontrato Will e penso che durante la storia ci saranno spezzoni simili, per mostrare le vite sia di Alec che di Magnus, prima del loro incontro e della nascita del loro rapporto.
Non succede granché in questo capitolo, me ne rendo conto… in pratica ho scritto solo di loro due che fanno cose, ma pensavo fosse un modo per farli legare, qualcosa che li portasse a realizzare che provano già fiducia l’uno nei confronti dell’altro. I riferimenti ai flashback dell’episodio 2x18 (mi sembra, correggetemi se sbaglio) non sono puramente casuali. Amo il fatto che anche quando non si conoscevano ancora, quei due si fidavano già l’uno dell’altro, soprattutto Alec che non si fida mai di nessuno, quindi ho voluto riportare un po’ quella magia speciale anche in questo capitolo. Spero di esserci riuscita, in caso contrario chiedo scusa ai Malec e a voi.
Ultima cosa e poi chiudo: c’è un accenno alla mamma di Magnus. Ora, io non so se nei libri si parli meglio dell’identità della donna, ma nella serie non penso le abbiano dato un nome, quindi me lo sono inventato. Volevo provare a gestire anche Magnus in versione figlio. Vedremo se ci riuscirò o invece farò un casino. In ogni caso, Madelaine tornerà.
Inoltre, il nasi goreng è davvero un piatto indonesiano, ma a parte gli ingredienti che ho letto su Wikipedia non so esattamente come si prepari, quindi anche quella parte è un po’ inventata.
Penso di aver detto tutto e siccome queste note sono venute lunghissime, vi saluto!
Ringrazio chiunque legga, abbia messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate e chiunque trovi il tempo per recensire, lo apprezzo moltissimissimo!
Un abbraccio, alla prossima! E buon anno! <3 

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Capitolo 5
*** 5. ***


Magnus si svegliò con il suono martellante della sveglia nelle orecchie. Si voltò sotto alle coperte, finendo con l’imitare involontariamente un baco da seta, mentre allungava un braccio per spegnere quell’aggeggio. Odiava quando la sveglia cominciava ad emettere quella serie irrefrenabile di bip metallici così insistenti da sembrare il timer di una bomba che sta per esplodere.
Avvolto nelle coperte, si mise a pancia in su, fissando il soffitto. Dalle tende chiuse alla finestra, filtrava una sottile striscia di luce, tenue e timida come l’alba da cui derivava. La stanza era inondata dalla luce grigio-celeste tipica delle prime luci del mattino e Magnus tese l’orecchio verso la radiolina che teneva sul comodino per sentire se Erin fosse già sveglia. Il respiro rilassato che emise l’oggetto gli comunicò che la sua bambina stava ancora dormendo nel suo lettino, così decise di rimanere a sua volta sotto le coperte, aspettando che anche l’ultimo residuo di sonno lo abbandonasse. Appoggiò una mano sull’addome, dove incontrò il cotone della maglietta con cui aveva dormito. Non dormiva mai con magliette simili, di solito i suoi pigiami erano di seta, ma la sera prima la sua testa era altrove. Mentre si vestiva per la notte, la sua mente era su Alec. Lui portava magliette di cotone, semplici, che ricadevano delicatamente sulla sua schiena e aderivano all’addome quel tanto necessario a stuzzicare la fantasia di Magnus, facendogli intuire che c’era la buona possibilità che Alec fosse ben fatto, definito.
Si stupì nel costatare che il secondo suo pensiero, dopo Erin, quella mattina, era stato lo stesso con cui si era addormentato la notte prima: Alexander.
E in particolare, Alexander che parlava con Erin.
“Allora Erin, domani cominci l’asilo?”
“Sì, ma non ho paura. Papà mi ha già detto che non devo averne.”
Alec si voltò verso Magnus, un sorriso soffice sul viso. “Scommetto che ha più paura papà.”
Erin, seduta sulla sua seggiolina a tavola, aveva guardato Alec con gli occhi a mandorla accigliati, come se le sfuggisse qualcosa. “Ma papà non comincia l’asilo, domani. Perché dovrebbe avere paura?”
Alec rise. “Hai ragione. Nessuno di voi due deve averne.”
“Diana ha paura?”
“Anche il suo papà le ha già detto che non deve averne. L’asilo è un bel posto per fare amicizia.”
Erin aveva annuito, prendendo una rotellina di carota dal suo piatto. Per lei niente riso fritto, Magnus pensava fosse troppo presto per cominciare a darle cibi di quel genere, così aveva optato per carne e verdure. “Anche papà l’ha detto. Farò amicizia, gli ho detto, ma Diana rimane la mia preferita.” Precisò e Alec sorrise. L’amicizia che legava le due bambine era palese anche per lui, che le aveva avute sott’occhio insieme solo poche volte. Era una cosa bellissima avere già un amico del cuore a quell’età.
Magnus si trovò a guardare Alec che parlava con Erin, chiedendole altre cose. Se le piaceva disegnare, o qual era il suo animale preferito. Erin rispondeva e faceva domande a sua volta. Era una scena dolce, un quadretto che faceva galoppare il cuore di Magnus in un modo che lo preoccupava anche un po’, ma che, soprattutto, gli risvegliava pensieri che aveva assopito da quando si era lasciato con Camille. Certo, non voleva fare la figura del matto che appena incontra una persona gentile e affettuosa sente già la marcia nuziale in testa, ma… Alexander gli faceva venire voglia di innamorarsi di nuovo. Aveva sbloccato qualcosa, in lui. Fiducia, avrebbe detto su due piedi Magnus.
“Verrai, domani?” domandò Magnus, inserendosi nella conversazione tra Erin e Alec. La principessa più coraggiosa, secondo Erin era Mulan – questo le aveva fatto venire in mente che avrebbero potuto guardare il cartone tutti insieme, dopo cena. Alec, dopo aver risposto di sì alla richiesta della bambina, guardò Magnus.
“Non penso. Clary ci ha banditi. Dice che se poi ci vede tutti insieme si mette a piangere. Saranno solo lei e Jace.”
Magnus annuì. “Piangerà in ogni caso.”
“Oh lo so. Con ogni probabilità, se venissi e guardassi la mia nipotina varcare quella soglia per la prima volta, lo farei anche io.”
Magnus sorrise, annuendo con comprensione. “Io lo farò sicuramente.”
“Terrai compagnia a Clary.” Sorrise, le fossette comparvero sulle guance e Magnus si trovò a guardare quel viso con più attenzione del dovuto. La sua forma, il modo in cui gli occhi cercavano di attirare l’attenzione più di ogni altra cosa, senza che, tuttavia, il loro proprietario lo sapesse. Gli occhi di Alec erano speciali – e non solo per il loro colore mozzafiato ed indefinito. Trasmettevano tranquillità, ma anche sicurezza e calore. Erano occhi che avresti sempre voluto avere addosso, per sentirti protetto. E Magnus aveva la strana certezza che era meglio non esserne nemico perché come erano capaci di proteggere, erano anche capaci di ferire, di mutilare. Una parte di sé, recondita, che gli trasmise una sensazione più che un pensiero razionale, gli fece sperare di non essere mai guardato con freddezza, da quelle iridi, perché sarebbe stato peggio che ricevere un proiettile in pieno petto.
Alexander aveva gli occhi più suggestivi e potenti che avesse mai incrociato.
“Indubbiamente.” Sussurrò, ancora un tantino incantato e preda dei suoi pensieri. Alec sorrise comprensivo e Magnus pensò che era necessario che i suoi occhi facessero di tutto per attirare l’attenzione, quando avevano un rivale simile che poteva prendere il loro posto. Il sorriso di Alec, accecante e raro, era così bello da far smettere di scorrere il tempo per fare in modo che chiunque si fermasse a guardarlo. Come poteva Alec non rendersi conto di tale bellezza? Come poteva il cuore di Magnus rimanere indifferente a tutto ciò? Non lo faceva. Il solo che rimaneva indifferente era il proprio cervello, che gli ricordava costantemente di non lasciarsi abbindolare, di non guardare la luce come se fosse necessariamente il luccichio riflesso dell’oro perché, aveva imparato, non tutto ciò che luccica lo è.
A volte ciò che sembra oro, altro non è che un metallo misero, povero di qualsiasi cosa che conti. Come Camille.
Lui non è Camille, aveva pensato.
Non puoi saperlo, aveva risposto il suo cervello.
Ed era vero. Sebbene Magnus avesse la sensazione che Alexander fosse totalmente all’opposto di Camille, quella rimaneva, appunto, una sensazione. Non lo conosceva a tal punto da poterlo dire.
Ma, tuttavia, la fiducia che sentiva di provare nei suoi confronti, rimaneva. In ogni gesto, in ogni sguardo, in ogni parola. C’era fiducia. E a Magnus, per ora, bastava.

Gli bastava, pensò mentre scostava le coperte e si alzava dal letto, lasciando che quel ricordo riecheggiasse ancora per qualche istante nella sua mente, prima di relegarlo in un angolino speciale.
Gli bastava, pensò mentre usciva dalla sua camera e si dirigeva verso quella di Erin, per svegliarla. Era un giorno importante e voleva che tutto andasse bene. Aveva fiducia che sarebbe stato così.
Fiducia, qualcosa che a quanto pareva era nell’aria; qualcosa che, volente o nolente, avrebbe associato ad Alexander.

*

“Staranno bene, vero?” domandò Clary, stringendosi le braccia al petto. I suoi occhi verdi guardavano la figura della figlia che seguiva la maestra all’interno dell’asilo.
“Sì, amore. Devi stare tranquilla.” Rispose Jace, abbracciandola da dietro. Il viso appoggiato alla spalla della fidanzata. Le lasciò un bacio sulla guancia, prima di osservare a sua volta la sua bambina. Sentì le lacrime pizzicargli gli occhi, ma le ricacciò testardamente indietro per due motivi:  primo, se avesse pianto lui, poi avrebbe dato il via ad una catena di pianti a cui si sarebbero uniti sia Clary che Magnus; due, se l’avesse fatto, Clary se lo sarebbe inevitabilmente fatto scappare, parlando con Alec, Izzy e Max. E quei tre screanzati non vedevano l’ora di prenderlo in giro. Già li sentiva, appellarlo come l’uomo grande e grosso che piagnucola. Infidi, ecco cos’erano. Infidi traditori. Vatti a fidare dei fratelli.
Tuttavia, quando vide la bionda testina riccioluta della sua piccola voltarsi verso di loro e agitare una manina per salutarli, un groppo otturò inevitabilmente la sua gola e allora la presa sui fianchi di Clary si fece più salda, come se aggrappandosi a lei sarebbe effettivamente riuscito a non piangere. Funzionò. Clary ricambiò il saluto della bambina e così fece Jace. Diana teneva Erin per mano, così poco dopo anche lei si voltò per salutare Magnus, che si trovava a vicino alla coppia. L’uomo rispose al saluto della figlia e la osservò varcare la soglia dell’edificio.
Quando le porte si chiusero – riconobbero David farlo, ma nessuno disse nulla – i tre rimasero a fissare la porta a vetro con i disegni qualche istante e in silenzio. Magnus si asciugò gli occhi due volte, prima di spezzarlo.
“Diventano grandi così in fretta.” Sospirò.
Clary e Jace lo guardarono e annuirono. “A me manca già,” aggiunse il biondo, sospirando. Strinse Clary ancora un po’, prima di sciogliere l’abbraccio.
“Devo andare.” Annunciò. Clary si voltò verso di lui e gli occhi bicromatici del biondo percorsero il viso della fidanzata, come se cercasse di memorizzarlo meglio e avere qualcosa che gli desse la forza di superare quella giornata. Non aveva bisogno di memorizzare niente, in realtà. Con gli anni, aveva guardato il viso di Clary così tante volte da conoscerne ogni dettaglio, ma non si sarebbe mai stancato di farlo. Non si sarebbe mai abituato alla bellezza dei tratti delicati di Clary. Era bella, ogni giorno di più. E lui l’amava, ogni giorno di più. “Ho una lezione e se arrivo tardi il rettore mi scuoia. Sono il più giovane professore universitario della città, una specie di prodigio vivente, e mi trattano come uno zerbino.”
Clary lo guardò nel modo tipico che aveva di tenerlo con i piedi per terra. Come a voler impedire a Jace di montarsi troppo la testa. Impresa titanica, ma lei ci provava comunque. In ogni caso, avrebbe mentito se avesse detto di non essere orgogliosa di lui: Jace, a soli ventinove anni, era riuscito ad ottenere una cattedra universitaria. Un evento che non succede mai, ma Jace aveva un cervello fuori dal comune e una passione inarrestabile per tutto ciò che coinvolgeva le lingue antiche. Aveva lavorato sodo per arrivare dov’era. Nessuno gli aveva regalato niente. Ciò che aveva, se l’era ampiamente meritato. “Il prodigio vivente è già in ritardo. Sbrigati!”
Jace sorrise. “Sì, signora!” Si chinò per lasciarle un bacio a stampo. “La passa a prendere mamma, ok?”
“D’accordo.” Annuì Clary, “In ogni caso, chiamerò Maryse per dirle che è andato tutto bene.”
“Perfetto. Ci vediamo stasera!” La baciò di nuovo, stringendola in un abbraccio questa volta e poi, appena la lasciò andare, salutò anche Magnus, che era rimasto in disparte. Il ballerino ricambiò il saluto, mentre il biondo era già partito in direzione della propria auto.
Clary rimase a guardarlo finché non entrò in macchina e partì, poi si voltò verso l’amico. “Mi accompagni in negozio?”
Magnus annuì. Quella mattina, non aveva alcun tipo di lezione da tenere, quindi decise di prendersela libera. Avrebbe aperto il pomeriggio alle tre per la lezione di yoga. Alle quattro, poi, avrebbe tenuto la lezione di danza classica per le bambine, dove avrebbe rivisto Erin. Madelaine sarebbe andata a prenderla all’asilo, accompagnandola poi da Magnus. “Ma certo, biscottino.”
Clary sorrise e insieme si avviarono verso la macchina di Magnus.


Clary aveva un negozio in centro città, ereditato dalla madre, che gliel’aveva lasciato prima di morire.
Dorothea Rollins, Dot per gli amici (e lei e sua madre lo erano state parecchio, prima della morte di Jocelyn), aveva gestito il negozio fino a quando Clary non aveva compiuto la maggiore età. E anche dopo, se dobbiamo essere onesti. Sia Dot che Luke volevano che Clary finisse il college, prima di occuparsi del negozio. Clary era riuscita ad entrare all’accademia d’arte di New York e sapevano tutti quanto fosse importante per lei quella scuola. Sognava di diventare una pittrice da quando aveva l’età della figlia e adesso era una delle disegnatrici migliori della città.
Il negozio, Alicante, era pieno delle sue opere, che venivano vendute quasi regolarmente. Quando non vendeva quadri, Clary vendeva gioielli che lei stessa faceva, con la stoffa e le perline. Dot la aiutava a fabbricare bigiotteria con materiali diversi, che ancora la rossa non riusciva a maneggiare bene. Tuttavia, dietro ogni gioiello c’era il disegno di Clary. Quella mattina, seduta al suo tavolo da lavoro, la ragazza si sentiva particolarmente ispirata, quindi si munì di fogli e matite, mentre Magnus, seduto di fronte a lei, la osservava disegnare.
“Sai, mi ricordo quando imbrattavi i muri di casa mia con i pennarelli, quando venivi a trovarci.”
Clary sorrise, senza alzare gli occhi dal foglio. “Un’altra donna mi avrebbe tagliato le dita, ma non tua madre. Madelaine è la donna più paziente del mondo.”
“La verità era che voleva lasciarti esprimere la tua arte.”
“Avevo cinque anni, Magnus. Non era esattamente arte.” Clary sfumò con la matita un cerchio che si ritorceva su se stesso, come il guscio di una lumaca.
“Quella che fai adesso però sì. E da qualche parte bisogna partire, non pensi?”
Clary alzò gli occhi dal foglio, il verde delle sue iridi incontrò l’ambra di quelli dell’uomo. “Non posso dire che tu abbia torto.”
Magnus sorrise e annuì, abbassando a sua volta gli occhi sul foglio. Clary fece lo stesso, tornando a disegnare.
“Cosa diventerà?” chiese l’uomo, i gomiti appoggiati al tavolo, mentre una mano reggeva il mento.
“Una collana, penso. Ho immaginato il ciondolo troppo grosso per farci un paio di orecchini.”
“Sai già che materiale usare?”
“Non ancora. Lo mostrerò a Dot e sentirò lei cosa ne pensa.”
Magnus annuì in silenzio. Osservò l’amica mentre dava sempre più forma al ciondolo. Le righe tonde e concentriche che prima lo facevano assomigliare ad un guscio di lumaca, vennero tratteggiate in modo più calcato, dando vita ad un nuovo disegno. Ora più che una lumaca sembrava un conchiglia, di quelle allungate, come i gusci dei paguri che si trovano sulle spiagge, vicino al mare.
“Dovresti farla blu.” Commentò quindi, seguendo la fila dei suoi pensieri.
La matita di Clary si fermò e la ragazza spostò la propria attenzione dal foglio all’amico. “Blu?” chiese, un rosso sopracciglio sollevato.
“Sì, come il mare. E quella sembra decisamente una conchiglia, biscottino.”
Clary guardò il suo disegno, analizzandolo. “Sì, mi piace blu.”
Anche ad Alexander, gli comunicò una voce fulminea nella sua testa, ricordandogli la sera precedente. Che fosse stata quell’informazione recondita a condizionarlo, piuttosto che il vero ricordo del mare? Improbabile, ma non impossibile. Soprattutto se si tiene conto del fatto che Alexander, quella stessa mattina, fosse stato il suo secondo pensiero. Non si erano ancora sentiti, realizzò, e di norma durante la giornata qualche messaggio se lo scambiavano. Era vero che Magnus, quella mattina, aveva avuto molto a cui pensare: vestire Erin, prepararla psicologicamente al primo giorno di asilo, accompagnarla, guardarla oltrepassare la soglia. Si chiese se anche Alexander avesse avuto una mattinata impegnativa al lavoro, mentre prendeva il cellulare dalla tasca dei pantaloni e sovrappensiero controllava se ci fossero dei messaggi. Non ce n’erano e forse Magnus risistemò il telefono in tasca con più delusione del necessario perché Clary gli domandò: “Aspetti un messaggio che non arriva?”
La rossa lo conosceva abbastanza bene da riuscire ad interpretare le sue espressioni.
“No, io… lascia perdere.”
Clary gli sorrise, incoraggiante. “Dai, non è da te farti cavare le parole di bocca.”
È più una cosa da Alexander, pensò ancora. Alec era ovunque nella sua mente e Magnus si chiese se non stesse impazzendo.
“Niente, biscottino, è una stupidaggine.”
Clary lo guardò con attenzione, studiando il modo in cui le sue spalle si erano incurvate, o l’espressione fattasi pensierosa nel giro di un attimo. “Non lo è, se ti rende pensieroso. In ogni caso, se il messaggio che vuoi non arriva, mandalo tu per primo.”
La scintilla di incoraggiamento nelle iridi verdi dell’amica lo spronò a riafferrare il cellulare. Magnus, mentre apriva l’applicazione della chat istantanea, si domandò se Clary sapesse chi fosse l’oggetto dei suoi pensieri. Aveva anche solo una vaga idea che fosse il suo futuro cognato? E se lo sapeva, lo stava spronando a farsi avanti lo stesso? Non poteva davvero saperlo, sapeva solo che la rossa aveva ragione. Se il messaggio non arrivava, poteva sempre mandarlo lui per primo. Stava giusto per digitare qualcosa, quando il suo cellulare squillò, costringendolo ad uscire dall’applicazione e a rispondere ad Isabelle. Lightwood sbagliato, rifletté, mentre si portava il cellulare all’orecchio.
“Ciao, mia cara.”
“Ciao, Magnus. Hai da fare domani pomeriggio?”
“Mh, devo fare lezione fino alle cinque. Ma dopo sono libero.”
“Perfetto!” squittì la ragazza dall’altro capo del telefono. “Ho già chiesto ad Aline se le sta bene chiudere la palestra, domani, e ha detto sì. Vorrei andare a fare shopping. Mi accompagni?”
“Oh, tesoro, il giorno in cui risponderò di no a questa domanda, dovrai farmi internare!”
Isabelle rise, una risata fluida e cristallina, e inevitabilmente Magnus si trovò a paragonarla con quella del fratello. Isabelle aveva una risata decisa, non fastidiosa, ma comunque non temeva di essere sentita. Quella di Alexander, invece, era più timida, più musicale. Magnus in qualche modo la preferiva.
“Perfetto, allora. Ci vediamo domani!”
“A domani.” Magnus stava per chiudere la telefonata, quando notò Clary che mimava con le labbra un salutamela. “Ti saluta anche biscottino!”
“Ciao Clary!” esclamò la ragazza, così intensamente che la rossa la udì comunque attraverso il telefono. Conclusero la chiamata dopo essersi salutati un’altra volta e Magnus prima di rimettersi il cellulare in tasca, sorrise notando un messaggio.

> From: Alexander, 10.07
Sono fuori allenamento. Ho bevuto un po’ e questa mattina mi sono svegliato con il mal di testa. Mi sento come uno zombie che cammina tra i reparti.

Magnus sorrise.
> To: Alexander, 10.07
L’allenamento non c’entra, zuccherino. È l’età. La vecchiaia fa brutti scherzi.
> From: Alexander, 10.07
Ah sì? Allora tu cosa dovresti dire?

Piccolo impertinente!
> To: Alexander, 10.07
Mi stai dando del vecchio?
> From: Alexander, 10.08
Preferisci saggio?

“Izzy mi ha mandato un messaggio dicendo che se non fossi allergica allo shopping potrei venire con voi, domani.” La voce di Clary gli arrivò alle orecchie come se provenisse da un altro pianeta, lontana e ovattata.

> To: Alexander, 10.08
Preferirei non avere a che fare con gli impertinenti.
> From: Alexander, 10.08
Sarei io l’impertinente?
> To: Alexander, 10.08
Esatto.

“Magnus? Mi ascolti?”
Solo allora l’uomo alzò gli occhi dallo schermo per portarli su Clary che lo stava guardando con curiosità.
“Onestamente no.”
Clary sorrise sorniona. “Capisco.”
“Puoi ripetere?” le chiese, ma la vibrazione del cellulare lo distrasse di nuovo.

> From: Alexander, 10.09
Sai chi appella i più giovani come ‘impertinenti’? I vecchietti, Magnus.

Gli occhi di Magnus si sgranarono, leggendo quell’ultimo messaggio. La sua bocca si schiuse per la sorpresa e quando guardò Clary, la rossa rinunciò all’impresa di comunicargli ciò che le aveva scritto Isabelle. Era evidente che l’attenzione dell’amico era rivolta a tutt’altro.
“Lui…lui…” Boccheggiò. “Quel piccolo insolente!” esclamò, alzandosi dalla sedia dove si trovava. “Glielo faccio vedere io chi è vecchio!” continuò, sotto lo sguardo perplesso – e un tantino preoccupato – di Clary, che lo fissava con un sopracciglio alzato. Magnus indossò il giubbotto di pelle con le spalle borchiate che aveva lasciato sull’attaccapanni all’entrata. Le piccole borchie emisero un suono metallico, quando cozzarono l’una contro l’altra come tante piccole campanelle.
“Va tutto bene, Magnus?” domandò Clary, che l’aveva seguito alla porta del negozio.
“Sì, cara. Devo solo… provare qualcosa a qualcuno. Tu che volevi dirmi?”
Clary sbatté le palpebre due volte, prima di rispondere. “Ehm, Izzy ha detto che se non fossi allergica allo shopping, potrei venire con voi, domani.”
“Isabelle ha ragione, biscottino. Sarebbe bello averti, se non avessi l’espressione di una condannata a morte ogni volta che entriamo in un negozio!”
Clary non replicò, perché sapeva benissimo che era vero. Odiava fare shopping e si annoiava subito. Magnus, davanti al suo silenzio, si chinò verso di lei, lasciandole un bacio sulla guancia. “Vado. Porti tu Diana a lezione, più tardi?”
“No, Maryse. Io la vengo a riprendere.”
“Perfetto, allora ci vediamo dopo!”
“A dopo.” Disse Clary, mentre guardava l’amico uscire. Era stato strano, pensò la rossa, quando la porta da dove era uscito Magnus si richiuse. Ma, in ogni caso, Magnus aveva un temperamento vulcanico e delle reazioni tremendamente istintive, quindi pensò che trattandosi di lui, poteva essere un comportamento plausibile. Insolito e non così frequente, ma plausibile.
Solo in un secondo momento, realizzò che aveva parlato di un lui. E solo dopo, la possibilità che potesse trattarsi di Alec le sfiorò la mente. Impertinente come tutti i Lightwood, era decisamente possibile che fosse Alec. Clary sorrise e scosse la testa affettuosamente, mentre tornava al suo tavolo da lavoro per finire il suo disegno.


Magnus mise piede in ospedale quaranta minuti dopo aver lasciato il negozio di Clary. Era rimasto imbottigliato nel traffico a rimuginare sulle parole di Alec e più ci pensava, più gli venivano esempi da fargli per mostrargli il contrario.
Quando entrò, la prima persona che incontrò fu Catarina che, con la divisa da infermiera, gli andò in contro. Un’espressione preoccupata tirava i suoi lineamenti.
“Magnus!” lo chiamò, vedendolo entrare a passo spedito. “Cosa succede, perché sei qui?”
Magnus arrestò la sua marcia. “Devo vedere Alexander.”
Catarina sbiancò, la sua pelle scura assunse una tonalità pallida di preoccupazione. “È successo qualcosa ad Erin?”
Solo allora Magnus fece due più due: era entrato in un ospedale come un ciclone e aveva chiesto di un pediatra alla capo reparto del pronto soccorso. Era più che logico che la povera Catarina avesse pensato al peggio. L’uomo si diede dello sciocco e rivolse un sorriso all’amica, accarezzandole un braccio per tranquillizzarla.
“Erin sta bene, è all’asilo. Devo solo parlare con Alexander di…” di come io in realtà non sia un vecchietto! “…una cosa.”
Catarina emise un sospiro di sollievo e tornò alla sua postazione, al banco dell’accettazione. “Vuoi chiedergli se può prendere in cura Erin? Mi ricordo che ultimamente ti lamentavi dell’assenteismo del tuo pediatra.”
Magnus ponderò se fosse meglio assecondare quell’idea, o dirle la verità. Si immaginò mentre informava Catarina dello scambio di messaggi avvenuto tra lui e Alec solo poco prima e della reazione che aveva avuto nel sentirsi definire vecchio. Il tempo di realizzare che Catarina gli avrebbe fatto lo scalpo per essere venuto fin qui (e averla spaventata a morte, facendole credere che fosse successo qualcosa ad Erin) per una stupidaggine simile, bastò a fargli decidere che la cosa migliore da fare era assecondare l’ipotesi di Cat. D’altronde, era una cosa da adulti e decisamente plausibile.
“Sì, sì. Vorrei chiederglielo.”
Catarina annuì, prendendo un modulo da una pila che si trovava vicino al computer. “Pediatria è al quarto piano. Cerca la porta con scritto Dottor Lightwood e parlagliene. Se dovesse accettare, consegnagli quel modulo firmato.”
“Sì, signora!” Magnus annuì e mimò un saluto militare a cui Catarina rispose con un’occhiataccia. Poi si diresse verso l’ascensore. Quando le porte si aprirono, lasciò che la gente uscisse, prima di salire. Digitò il pulsante del quarto piano e attese. Guardò ogni pulsantino contrassegnato dal numero illuminarsi mano a mano che raggiungeva il piano corrispondente: primo piano, 1; secondo piano, 2; terzo piano, 3; quarto piano, 4. Le porte si aprirono e Magnus uscì, ritrovandosi in un corridoio che si apriva sulla sinistra mostrando una sala d’attesa piena di disegni appesi alle pareti e firmati alla bene e meglio da bambini. Il reparto di pediatria era diverso dagli altri: odorava di antisettico e detersivo, ma non era bianco e pallido come gli altri reparti. Aveva i muri verdi che facevano da sfondo a piccoli fiori dipinti, come se fosse un unico grande prato. Magnus sorrise, sedendosi in uno dei posti liberi della sala d’attesa. C’erano tre mamme sedute vicine ai loro rispettivi figli. Magnus si stava giusto chiedendo se fossero tutte lì per Alexander, quando lo vide comparire sulla soglia. Non appena i loro occhi si incrociarono, Alec li sgranò per la sorpresa, arrossendo repentinamente.
“Buongiorno, dottor Lightwood.” Lo salutò Magnus, un sorriso soddisfatto sul viso. Alec, che ancora non si era abituato all’idea di averlo effettivamente davanti agli occhi in carne ed ossa, lo osservò per qualche istante senza dire una parola, studiando il modo in cui aveva accavallato le gambe fasciate peccaminosamente in un paio di aderentissimi pantaloni viola. Una parte del suo cervello gli fece notare il giubbotto di pelle e si chiese se avesse qualcosa a che fare con la confessione che gli aveva fatto la sera precedente. Quando il suo raziocinio gli ordinò di smettere di pensare fesserie e di comportarsi come un adulto professionale, Alec riprese l’uso semi-corretto della parola.
“B-buongiorno.” Rispose, le guance che non volevano saperne di smettere di arrossire. Alec riusciva a percepire vagamente le altre persone, ma non gli interessava granché. A quanto pareva, era solo in grado di concentrarsi su Magnus, sui suoi occhi perfettamente truccati con una riga di eyeliner viola metallizzato che riprendeva in modo esplicito il colore dei pantaloni. Alec si concesse solo un attimo per lasciarsi cullare dalla consapevolezza che l’uomo che aveva davanti fosse il più bello su cui avesse mai posato lo sguardo, prima di ricacciare indietro quel pensiero. Magnus doveva rimanere off-limits, almeno sotto quel punto di vista.
“Ha un momento libero, dottore?”
Solo allora Alec passò lo sguardo sulle donne in attesa. Quando notò che i figli che erano con loro erano tutti pazienti di Lydia, fece cenno a Magnus di seguirlo. “Ma certo.” Guardò Magnus alzarsi dal suo posto e dirigersi verso di lui. Non appena fu abbastanza vicino, Alec sentì il suo profumo invadergli piacevolmente le narici e fu sicuro di percepire la sua colonna vertebrale diventare di pasta frolla. Non gli era mai piaciuto il legno di sandalo così tanto come in quel momento. Si schiarì la gola per destare se stesso da pensieri che erano decisamente poco consoni e si incamminò, con Magnus al suo fianco, verso la porta del suo ambulatorio. Quando la aprì, fece entrare Magnus per primo.
“Prego, entra.”
Magnus gli sorrise, prima di entrare e dirigersi direttamente alla scrivania di Alec, dove si sedette al posto riservato ai pazienti. Se per tutto quel breve tragitto, Alec si incantò a guardarlo camminare è un altro discorso. E se, nel mentre, associò i movimenti aggraziati di Magnus a quelli del più elegante felino che potesse esistere, è un altro discorso ancora. Magnus emanava grazia ed eleganza, e aveva un'aura carismatica che lo caratterizzava in ogni momento. Magnus affettava gamberetti? Era affascinante. Magnus gli porgeva un bicchiere? Era affascinante. Giocava con i ciondoli della sue collane? Affascinante! Respirava? Ancora affascinante.
Qualsiasi cosa facesse emetteva fascino. E Alec si sentiva pericolosamente attratto da tutto ciò. Magnus lo incuriosiva, lo spingeva a rivedere quelle barriere di riservatezza che alzava automaticamente ogni volta che incontrava qualcuno che non conosceva. Con Magnus era diverso. Le difese c’erano sempre, Alec riusciva a percepirle, ma era come se Magnus conoscesse le crepe e sapesse da dove passare per raggiungere ciò che Alec cercava di proteggere: il nucleo del suo cuore titubante.
Il pediatra si sedette sulla sua sedia girevole, guardando Magnus che appoggiava i gomiti sulla scrivania e congiungeva le mani anellate per usarle come sostegno al mento. Alec si trovò a deglutire rumorosamente quando gli occhi magnetici di Magnus incrociarono i suoi.
“Non mi chiedi perché sono qui?” Le sue labbra si incurvarono in un sorriso scaltro che attirò tutta l’attenzione di Alec e lo privò momentaneamente della capacità di articolare una frase di senso compiuto.
Ti ha fatto una domanda, rincitrullito, rispondigli!
Giusto, sì.
“Cosa ti porta qui, Magnus?”
Il sorriso del ballerino divenne ancora più ampio, mostrando i denti bianchi e perfetti. “Sono felice tu l’abbia chiesto, zuccherino.” Sciolse l’intreccio delle mani e si appoggiò allo schienale della sedia. Estrasse dalla tasca dei pantaloni il cellulare e lo porse ad Alec, che guardò l’oggetto con perplessità.
“Avanti, tesoro, prendilo.” Lo esortò.
Il medico, con titubanza, afferrò l’oggetto che gli veniva porto, mentre Magnus tornava alla sua posizione iniziale, i gomiti appoggiati alla scrivania e le mani a sostegno del mento. Accavallò anche le gambe, in quel modo (indovinate un po’?) affascinante e ipnotico che mandò in tilt il cervello di Alec per qualche secondo. Sul serio, che gli prendeva?
Magnus e le sue bellissime gambe ecco che gli prendeva, dannazione!
“Apri la galleria, troverai una cartella con scritto estate. Vorrei l’aprissi, cortesemente.”
Alec, un sopracciglio alzato in un’espressione di esplicito dubbio, fece come gli era stato detto. Sbloccò lo schermo – si trattenne dal sorridere quando vide Magnus ed Erin sullo sfondo – e aprì l’applicazione della galleria. Cliccò sulla cartella estate e rimase in attesa.
“Se scorri, puoi vedere il sottoscritto impegnato in varie attività. C’è stata l’arrampicata in montagna, il bungee jumping, la volta che ho fatto sub – per la cronaca, ho accarezzato uno squalo – e il surf.”
Più Magnus parlava, più Alec scorreva le varie foto, trovando la conferma digitale alle parole dell’uomo seduto di fronte a lui. Ma, ancora, non capiva dove Magnus volesse arrivare.
“È tutto molto bello, Magnus, ma qual è il punto?” Gli occhi di Alec si alzarono dallo schermo e si posarono sul ballerino. A quel punto, Magnus si alzò dal suo posto, sporgendosi verso Alec. I palmi appoggiati alla scrivania, il viso così vicino a quello del più giovane che i loro nasi si sfioravano.
“Il punto, fiorellino, è che sono tante cose, ma di certo non un vecchietto!”
Alec deglutì due volte, a vuoto. Quella misera distanza gli aveva fatto seccare la gola e riscaldare le guance. I suoi occhi erano inevitabilmente attratti dalle iridi ambrate di Magnus, che brillavano di una luce sicura, determinata, come il faro saldo di un porto, piazzato nell’oscurità. Alec si sentiva come una barca che, preda di una mareggiata violenta, agognava quella luce per non cadere vittima delle tenebrose profondità oceaniche. Un punto fermo che riesce sempre a fare da guida, indipendentemente da quanto possa essere impetuosa la tempesta.
Si chiese, seguendo quel pensiero insensato, come sarebbe stato essere guardati perennemente da quegli occhi. Cosa si prova ad essere l’oggetto di un paio di iridi in grado di emettere luce pura? Una tale fermezza, forza?
Alec si schiarì la gola, allontanando quella domanda, respingendola come se avesse la certezza che, assecondandola, l’avrebbe portato verso un percorso inevitabilmente doloroso, un sentiero pieno di rovi.
“Be’, di certo non si può dire che sei uno che si fa scivolare le cose di dosso. Non pensavo te la saresti presa, soprattutto se si conta che hai cominciato tu.”
Magnus lo guardò con sorpresa, ma non si allontanò. “Io?”
Alec annuì. “Sei stato tu a tirare fuori la carta dell’età. Hai parlato di vecchiaia, Magnus.”
“E hai pensato bene di sottolineare che sono più vecchio di te?”
Alec fece spallucce. “Ho solo esposto i fatti. Hai cinque anni più di me, no?”
Magnus si risedette sulla sedia, sconfitto. “Saranno cinque a dicembre!” Precisò, consapevole di non poter negare niente di ciò che usciva dalla bocca di Alec. Il medico si appoggiò allo schienale morbido della propria sedia. Intrecciò le dita delle mani, lasciando alzati solo gli indici che usò per picchiettarsi le labbra arricciate, come se stesse pensando a qualcosa.
“Quando?”
“L’8.”
Alec sorrise. “Festeggerai?”
“Che domanda futile, fiorellino. È ovvio che festeggerò! Ogni scusa è buona per una festa.”
Le labbra di Alec si strinsero all’interno della bocca, mentre i suoi occhi ridenti guardarono altrove. Magnus si chiese il motivo di quella reazione. Si chiese perché se una cosa lo faceva ridere, Alexander tendeva a fare di tutto per camuffare la risata, trattenerla. Non avrebbe dovuto farlo, dal momento che quando rideva emetteva uno dei suoni più belli che l’umanità poteva conoscere. Gli vennero in mente le parole che il più giovane aveva pronunciato la sera prima riguardanti il non essere notato. Chissà se anche questo modo di nascondere il suo riso era una reminiscenza adolescenziale, come il vestirsi di nero, volta a non attirare l’attenzione su di sé.
“Sembra molto una cosa da te, in effetti.”
“È un grosso dito medio allo scorrere del tempo. Inevitabile, ma ciò non vuol dire che dobbiamo accettarlo passivamente, no? Non puoi fermare le lancette del grande orologio universale, puoi solo impegnarti per migliorare la tua vita e apprezzare ciò che di buono ti riserva.”
Alec lo guardò impressionato, pienamente consapevole di essere stato positivamente colpito – e un tantino intrigato – da quella risposta. Si era sbagliato: la luce che aveva visto negli occhi di Magnus non caratterizzava le sue iridi. Magnus era luce, un nucleo palpitante che brilla in mezzo all’oscurità di un universo sconosciuto e vastissimo, qualcosa che irradia luminosità, nonostante tutto. E tale luce era talmente intensa che arrivava ad essere riflessa nei suoi occhi, ma Alec era sicuro che partisse da qualcosa di più profondo, come il nucleo della sua anima o il centro del suo cuore.
Magnus era il sole, un corpo celeste vivo, pulsante, fatto di fuoco e fiamme. E Alec, inevitabilmente, non riusciva a non guardarlo. Come una falena attratta da una lampadina, Alec era attratto da Magnus e da ciò che irradiava. Voleva solo sperare che, guardandolo, non avrebbe finito col bruciarsi le retine.
Deglutì, quindi, facendosi coraggio per dire qualcosa, per rispondergli in modo sagace, ma un lieve bussare alla porta interruppe la risposta sul nascere.
“Avanti.” Mormorò, con meno decisione di quanta avrebbe dovuto. La porta si aprì e Lydia fece capolino. Impiegò qualche secondo prima di notare che il collega era con qualcuno.
“Scusa, Alec! Pensavo fossi solo…”
“Non preoccuparti. Cosa volevi dirmi?”
“La signora Warren e Timmy sono arrivati.”
Alec annuì. “D’accordo, li chiamo io appena ho finito.”
Magnus, che fino a quel momento era stato in silenzio, prese parola. “Me ne vado subito. Non voglio disturbarti oltre!”
“Non mi disturbi, Magnus.” Lo rassicurò Alec, a cui tuttavia non sfuggì l’occhiata che gli riservò Lydia non appena associò il nome all’uomo seduto di fronte al collega. La bionda sorrise e guardò Alec con malizia.
“Bene, ti ho informato. Torno di là, ho una bambina con un principio di bronchite!” Salutò con una mano Magnus e non appena questi si voltò nuovamente verso Alec, Lydia ne approfittò per guardare l’amico e mimare con le labbra è davvero sexy. Alec le lanciò un’occhiata omicida che fu più eloquente di mille parole e che esortò la bionda a chiudere la porta, uscendo definitivamente dall’ambulatorio del collega.
“Lei è Lydia.” Lo informò.
“La ragazza che ti ha minacciato di non andartene più?”
Alec sorrise. “Proprio lei.”
“Dovrai dirmi dove sei andato, prima o poi.”
“La prossima volta.”
Magnus annuì e si alzò dalla sedia. Fece il giro della scrivania e si abbassò all’altezza di Alec che era ancora seduto. Gli lasciò un bacio sulla guancia e si risistemò in posizione eretta.
“Ciao, zuccherino. Ti lascio lavorare.”   
Alec avvampò e sentì – di nuovo – la gola essiccarsi come se avesse inghiottito cartavetra. Deglutì, cercando di riprendere, in qualche modo, controllo di sé, ma trovò incredibilmente difficile farlo.
“C-ciao.” balbettò, dandosi del cretino. Trent’anni e si comportava ancora come il disastro ambulante che era quando ne aveva quindici.
Magnus gli regalò un ultimo sorriso, prima di voltarsi e dirigersi alla porta. Solo quando la sua mano fu sulla maniglia, si ricordò cosa aveva detto Catarina.
“Un’ultima cosa, posso?” chiese, voltandosi nuovamente verso il pediatra.
Alec annuì. “Certo.”
“Puoi prendere in cura Erin? Il mio pediatra è un fan dell’assenteismo, a quanto pare.”
“Posso sì, dovrai portarmi il modulo di richiesta firmato e mi occuperò io di tutto.”
Magnus notò il piccolo cambiamento in Alec, che era passato da essere un adorabile cucciolo dalle guance rosse ad un professionista che ha il controllo. La cosa gli piacque parecchio. Estrasse il modulo dalla tasca interna del suo giubbotto. “Catarina ha già provveduto a darmi il modulo.”
Alec annuì. “Siediti e compilalo, allora.”
Magnus fece come gli venne richiesto, sedendosi di nuovo dove era seduto poco prima. Impiegò cinque minuti a riempire tutti i campi richiesti, poi firmò e consegnò il foglio ad Alexander.
“Perfetto, farò una telefonata al tuo ex pediatra, ma possiamo già dire che Erin è una mia paziente.”
“Devo chiamarti dottore, adesso?”
“Solo quando ci sono altre persone, sai per non far credere che abbia delle preferenze.”
“Mi sembra giusto.” Magnus si alzò di nuovo e questa volta Alec si alzò con lui. Lo accompagnò alla porta, aprendogliela. Magnus rimase sulla soglia per qualche istante.
“Grazie.” Disse, prima sporgersi e lasciargli un altro bacio sulla guancia. Era Alec quello che non doveva avere preferenze, lui le preferenze ce le aveva eccome e non voleva farsi remore a dimostrarle.
“Di nulla.” Sussurrò Alec, mentre le sue guance si coloravano per l’ennesima volta. Magnus gli sorrise un’altra volta, prima di uscire dalla porta. Alec uscì in corridoio per seguirlo con lo sguardo fino a che non lo vide sparire dietro le porte chiuse dell’ascensore.
Sentiva ancora l’impronta delle labbra di Magnus sulla sua guancia, quando il suo cervello gli ricordò della signora Warren e di suo figlio Timmy, dei quali si era completamente dimenticato, in sala d’attesa.
“Merda!” sussurrò a denti stretti, prima di dirigersi verso la sala d’aspetto.


*

Magnus era pienamente consapevole di doversi concentrare. C’era una dozzina di donne, che lo pagava anche piuttosto bene per i suoi corsi di yoga, che attendevano le sue istruzioni, ma la mente del ballerino era altrove. Catarina era ancora a lavoro, quindi non aveva nemmeno nessuno con cui sfogarsi – o che, più probabilmente visto che si parlava di Catarina, lo rimettesse in riga, spronandolo a concentrarsi.
In assenza dell’amica, dunque, Magnus decise di farlo da solo. Smetterla di pensare a quanto stesse bene Alexander con il camice, o di quanto fosse adorabile con i capelli in disordine, e di concentrarsi sul suo lavoro come un adulto responsabile.
Scacciò, quindi, il pensiero di Alec dalla mente e si concentrò sulla lezione. Alzò le braccia sopra alla testa, congiungendo le mani.
Anche Alexander l’ha fatto, quando era seduto alla scrivania.
Decisamente non era d’aiuto pensare a certe cose. Soprattutto perché adesso la sua mente era invasa dalle immagini delle mani di Alec, che erano belle e grandi, le dita lunghe e affusolate – trasmettevano una certa delicatezza, ma anche altrettanta forza e… BASTA!
Concentrazione, Magnus! CONCENTRAZIONE!
Poteva farcela, aveva fiducia in se stesso. Autocontrollo, gli serviva solo quello. Bandire Alec e le sue bellissime mani dalla sua mente, ecco quello che doveva fare.
Si schiarì la gola, mentre allungava la schiena in avanti, andando a toccare le punte dei piedi con le mani. Le donne in quella stanza fecero lo stesso e tennero la posizione con lui per circa trenta secondi. Magnus passò il resto della lezione di yoga a impegnarsi per non pensare ad Alec.

Fu inutile. Cercare di smettere di pensare ad Alec era difficile come cercare di intrappolare l’acqua con le mani: non importa quanto ci si prova, l’acqua riuscirà sempre a sgusciare via dalla nostra presa. Lo stesso valeva per Magnus e i suoi pensieri. Cercava di trattenerli, di intrappolarli in un angolo più o meno remoto del suo cervello, ma quei piccoli impertinenti continuavano a scappare via dal loro angolo e a piazzarsi al centro della mente di Magnus, quasi volessero urlargli la sua impotenza.
Rassegnati, gioia. Passerai la giornata a pensarlo.
E Magnus, mentre salutava le donne che avevano appena finito la lezione, si arrese all’idea che altro non poteva fare che assecondare la sua mente. Così lasciò che il pensiero di Alec lo cullasse un po’. Pensò ai dettagli del suo viso e improvvisamente si chiese dove potesse essersi fatto la cicatrice che solca il suo sopracciglio sinistro. Si appuntò di chiederglielo perché era curioso e perché, si rese conto in quel momento, Magnus aveva decisamente parlato più di se stesso, rispetto ad Alexander – che sì aveva risposto alle sue domande, ma non era stato abbastanza esaustivo. Alec era più il tipo di persona che tende ad ascoltare gli altri parlare di sé, piuttosto che farlo a sua volta. O almeno, questa era l’impressione di Magnus.
“Papà!” La voce di sua figlia lo destò dai suoi pensieri. Magnus alzò lo sguardo verso l’entrata della sala e notò Erin che gli correva in contro. Aveva i capelli d’ebano legati in uno chignon e il tutù sobbalzava ad ogni suo passo. Quando fu abbastanza vicina al padre, si lanciò letteralmente tra le sue braccia, spiccando un piccolo salto. Magnus la prese al volo e la strinse a sé, baciandole una guancia.
“Ciao, bintang! Com’è stato il primo giorno?” domandò. La piccola strinse le braccia intorno al collo del padre ancora per un istante, rimanendo in silenzio, così Madelaine, che aveva accompagnato la nipote ed era rimasta in disparte, prese parola. “È andato tutto bene. Ha giocato con Diana e altri bambini.”
Erin, allora, sciogliendo la presa sul padre, lo guardò e annuì. “Ho anche disegnato.”
“Davvero?”
La bambina annuì con decisione. “E abbiamo appeso i disegni al muro.”
Magnus sorrise e le baciò la fronte. “Ma che bello!”
Erin sorrise a sua volta e abbracciò di nuovo suo padre. Magnus strinse la presa a sua volta e guardò sua madre. Madelaine era una donna di mezza età. Aveva avuto Magnus a vent’anni e spesso la gente faticava a vederli come madre e figlio, se non altro perché lei dimostrava meno dell’età che aveva. Sua madre era bella, se lo si chiede a Magnus, ma lui potrebbe essere un tantino di parte. I suoi occhi a mandorla erano dello stesso colore del figlio e, di conseguenza, di Erin.
All’uomo piaceva che avessero tutti e tre quella caratteristica, come se fosse una palese testimonianza del fatto che fossero una famiglia. Un tratto distintivo dei Bane. Oltre alla bellezza stratosferica, ma quello è un altro discorso.
“Vuoi rimanere a lezione?” chiese Magnus a sua madre.
La donna si sistemò una ciocca di capelli lisci e scuri dietro l’orecchio. “Posso?”
“Certo. Almeno staremo un po’ insieme.”
“Come sei sentimentale, tesoro!” Madelaine allungò una mano per accarezzare la guancia del figlio e Magnus le riservò un’occhiata che doveva essere risentita, ma non lo fu nemmeno la metà di quello che aveva pianificato. La verità era che avere sua madre intorno gli piaceva. A causa della sua carriera, avevano passato anni interi separati. Si chiamavano spesso su Skype e ancora più spesso si telefonavano, ma averla con lui in carne ed ossa era una cosa totalmente diversa. Una voce filtrata attraverso un telefono non ha lo stesso calore di quando arriva direttamente alle orecchie quando la persona con cui stiamo parlando è di fronte a noi. E Magnus, quando era più giovane, nei momenti in cui aveva dubitato di se stesso e delle sue capacità, avrebbe voluto che sua madre fosse nella stessa stanza con lui e non a chilometri e chilometri di distanza. L’aveva rassicurato via telefono, ovviamente, ricordandogli costantemente che, se ballava in giro per il mondo con una delle compagnie più famose dello spettacolo, un motivo c’era – ed era il fatto che fosse pieno di talento, ma… adesso che potevano vedersi con più facilità, stare insieme con più facilità era decisamente meglio.
“Da qualcuno dovrò aver preso!” esclamò Magnus e Madelaine gli diede un buffetto sul braccio. Il figlio le sorrise e poi si rivolse ad Erin. “Mettiamo le scarpette, bintang?
La bambina annuì e si lasciò posare a terra dal padre. Stavano per sedersi e dedicarsi all’allaccio delle punte, quando udirono la porta aprirsi. Magnus controllò l’ora all’orologio appeso alla parete che segnava le quattro e un quarto del pomeriggio, l’ora in cui sarebbe dovuta iniziare la sua lezione. In genere cominciava sempre più tardi per via delle madri ritardatarie, quindi a quell’ora, puntuale come il sorgere del sole, poteva essere una donna sola: Maryse Lightwood. La donna, infatti, comparve nel campo visivo dell’uomo dieci secondi dopo, i tacchi che rimbombavano sul parquet, lo sguardo deciso e i capelli neri legati in una precisissima coda alta. Maryse trasmetteva la stessa forza che trasmetteva Isabelle e la somiglianza tra le due era più che palese, ma Magnus si trovò – per la prima volta – a cercare nel volto della donna anche una somiglianza con il maggiore dei suoi figli. La trovò nella forma del viso, nell’altezza degli zigomi che a quanto pareva era una caratteristica fisica tipica dei Lightwood, così come gli occhi ambrati lo erano per i Bane.
“Mangus!” esclamò Diana, andando in contro al suo insegnante. Magnus sorrise e salutò la bambina, chinandosi alla sua altezza. “Ciao, farfallina!” Quando la bambina portò la sua attenzione su Erin, cominciando a giocare insieme, Magnus si concentrò su Maryse.
“Salve, Maryse.”
La donna gli rivolse un cenno del capo. “Ciao, Magnus. La viene a riprendere Clary, più tardi.”
Magnus annuì. “Me l’ha detto.”
La donna lo guardò con decisione. Maryse aveva gli occhi color antracite, come sua figlia Isabelle, e quel colore così scuro da non riuscire a distinguere l’iride dalla pupilla, le dava uno sguardo severo – trasmettendo, quindi, anche l’impressione che la donna stesse sempre giudicando chi aveva di fronte. La verità era che Maryse non era propriamente una donna espansiva – l’unica eccezione erano forse i suoi figli e sua nipote – ed era veramente di poche parole. Chiusa, riservata. E se la somiglianza fisica con Isabelle era evidente, sul piano caratteriale le due donne erano completamente diverse. Magnus si chiese, in una frazione di secondo, se per trovare una somiglianza con suo figlio, avrebbe dovuto cercare nel carattere della donna più che nel suo aspetto.
Aveva l’impressione la riservatezza di Alexander derivasse tutta da sua madre.
“Bene, allora io vado.” Affermò, rivolgendosi a Magnus. Successivamente, la donna attirò l’attenzione della nipote, abbracciandola e lasciandole un bacio sulla guancia. “La nonna deve andare, tesoro.” Disse, il tono di voce improvvisamente più morbido e carico di un affetto palese. “Viene la mamma a prenderti.”
Diana annuì e circondò il collo della nonna con le sue piccole braccia. “Ciao nonna!”
Maryse strinse a sé la nipote ancora per qualche istante, prima di lasciarla andare e rimettersi in posizione eretta. Diana tornò da Erin e Maryse si rivolse a Magnus. “Arrivederci, allora.”
Magnus annuì. “Arrivederci.”
Maryse rivolse un saluto anche a Madelaine, la quale ricambiò, e poi girò i tacchi dirigendosi verso l’uscita.
“Dimmi, anakku” cominciò Madelaine sottovoce, per farsi sentire solo da Magnus, guardando la porta da cui era appena uscita Maryse, “Quella donna lo sa che sbavi sul suo primogenito?”
L’uomo si voltò repentinamente verso la madre, un’espressione sorpresa – e un tantino risentita – solcò i suoi lineamenti. “Cos- io non sbavo su nessuno!”
Madelaine gli rivolse un sorriso onnisciente. “Certo, anakku, e io sono bionda.” Gli rivolse un occhiolino compiaciuto. Magnus era sul punto di ribattere, ma l’ingresso di un gruppetto di mamme con relativa prole lo costrinse a lasciar cadere il discorso per andare loro in contro.


*

Magnus aveva una tradizione: dal primo ottobre, avrebbe cominciato ad indossare qualcosa di arancione per tutto il mese, fino all’arrivo di Halloween. E quel martedì, alle cinque del pomeriggio, mentre si dirigeva verso casa per andare a cambiarsi, già pensava all’outfit che avrebbe indossato per la giornata di shopping che avrebbe passato con Isabelle. Madelaine era passata a prendere Erin dalla scuola di Magnus per portarla a casa con sé e aveva detto al figlio di godersi la giornata senza preoccupazioni. «Erin starà bene, non cominciare ad ossessionarmi. Sono stata un genitore prima di te, anakku.»
Magnus doveva ammettere che sua madre aveva ragione. L’idea di lasciare Erin lo preoccupava sempre un po’ e non perché non si fidasse di Madelaine – di lei si fidava ciecamente – ma era l’idea di essere separato dalla sua bambina che lo angosciava.
Magnus, quindi, prima di mettersi nell’ottica di godersi la giornata, mandò un messaggio alla madre, chiedendole se andava tutto bene.

> From: Ibu, 17.06
Va esattamente come sei minuti fa, tesoro. Tutto benissimo. Devo cominciare a pensare che non ti fidi di me, piccolo disgraziato?

Magnus scosse la testa, sorridendo con affetto mentre leggeva quel messaggio.
> To: Ibu, 17.06
Mi fido, mamma. Ciecamente.
> From: Ibu, 17.06
Appurato questo, allora, lasciami passare del tempo con mia nipote senza far suonare questo aggeggio infernale ogni tre secondi.

Magnus liberò una vera e propria risata, leggendo quel messaggio. Sua madre e la tecnologia non andavano particolarmente d’accordo – il che non sempre era un bene, visto che, da agente immobiliare, la maggior parte degli incontri con i clienti li doveva organizzare usando cellulari ed email.
Magnus bloccò lo schermo del suo telefono e salì in macchina, poi partì verso casa.


Si incontrò con Isabelle alle diciassette e quaranta del pomeriggio. Contando i tempi di Magnus, era riuscito a prepararsi in pochissimo tempo – e a risultare favoloso in ogni caso. Indossava una camicia di seta arancione, abbinata a dei pantaloni a sigaretta grigio scuro, infilati dentro ad un paio di anfibi dello stesso colore. Si era truccato usando una matita grigia per il contorno occhi, abbinata ad una sfumatura di ombretto di un grigio più scuro. Nei capelli, di un castano molto scuro, spiccava una singola ciocca arancione.
“Penso tu sia uno dei pochi esseri umani che riesca a farmi sfigurare!” Commentò Izzy, non appena lo vide. Lo abbracciò e Magnus ricambiò la stretta.
“Non dire sciocchezze, cara, sei meravigliosa.” E lo era davvero. Magnus non lo diceva tanto per dire. Isabelle era di una bellezza quasi divina e aveva un gusto nel vestire che Magnus approvava in pieno. Quel pomeriggio, in particolare, la ragazza indossava una blusa verde smeraldo, infilata accuratamente dentro ad una gonna nera a vita alta che metteva in risalto la sua vita stretta. Ai piedi, stivali con un tacco vertiginoso, che arrivavano fin sopra al ginocchio.
“Grazie.” Sorrise Isabelle, le labbra accuratamente truccate di un rosso scuro si tesero, mostrando la sua dentatura perfetta.
Magnus pensò al sorriso di un altro Lightwood, un sorriso che era in grado di mozzargli il respiro. Isabelle era bella, indubbiamente, ma non lo sarebbe mai stata quanto suo fratello.
“Vogliamo entrare?” domandò, indicando con un cenno del capo il negozio alle loro spalle. Izzy annuì e, a braccetto, si diressero verso l’entrata.


Magnus ed Isabelle avevano delle batterie inesauribili, se si trattava di girare per ogni negozio della città. Adesso, si trovavano in una boutique di abbigliamento maschile, dove Magnus aveva messo gli occhi su più capi di quanti potesse ricordarsi. Stava girando nel reparto delle camicie, con Izzy al suo fianco, quando si affiancò un commesso.
“Buon pomeriggio.” Sorrise, guardando Isabelle come se stesse assistendo ad un miracolo. Magnus lo trovò persino divertente. Chissà se il ragazzo si rendeva conto di sembrare un pesce lesso, mentre la fissava. “Posso esservi utile?”
Izzy ricambiò il sorriso e un leggero rossore colorò le guance del commesso. “Vorremmo vedere delle camicie. Può consigliarci qualcosa?”
“Ne abbiamo alcune che sono sicuro piaceranno al suo ragazzo.” Rispose il commesso e Magnus dovette fare uno sforzo enorme per non alzare gli occhi al cielo: era il tentativo più palese che esistesse al mondo per scoprire se Isabelle avesse o meno qualcuno nella sua vita.
“Oh, ma lui non è il mio ragazzo!” esclamò Izzy, civettuola. Si arricciò una ciocca di capelli corvini sull’indice e il commesso guardò quel gesto come se ne venisse incantato. “Siamo amici!”
Il ragazzo arrossì un poco e si schiarì la gola. “Oh, bene, sì. Se volete seguirmi, vi mostro qualcosa.” Si avviò e Magnus, prima di seguirlo, bloccò l’amica per un gomito e le lanciò un’occhiata laterale.
“Ti prego, Isabelle, dimmi che non ci stai provando.”
“Perché no? È carino e non esco con qualcuno dal paleolitico!” 
Magnus roteò gli occhi al cielo. “Per favore, tesoro. È uno sciattone! Puoi decisamente avere di meglio, mia cara!”  
Isabelle gli lanciò un’occhiata di traverso, ma non rispose. “Andiamo, o si chiederà se siamo fuggiti.” La ragazza si incamminò seguendo la direzione presa dal commesso. A Magnus altro non rimase da fare che seguirla.

“Abbiamo questa di Gucci che sono sicuro vi piacerà!” disse Mark – il commesso – con una punta di malcelata disperazione nella voce. Magnus aveva visto una marea di camicie, ma nessuna aveva catturato particolarmente la sua attenzione. Era sicuro che il povero Mark stesse prendendo in considerazione l’idea di ucciderlo a sangue freddo proprio lì, di fronte ad una decina di testimoni. Ma Magnus non poteva farci niente, era un perfezionista e in quanto tale non comprava mai, mai, capi a caso. I suoi indumenti, così come i suoi accessori, venivano accuratamente scelti in base al colore, al materiale, alla qualità del prodotto e per ultimo, ma non meno importante, per come apparivano una volta indossati da Magnus nel camerino. Isabelle gli passò la camicia infilando una mano nella tenda, ma senza guardare l’amico – che comunque era vestito. Magnus afferrò la camicia dalla mano della ragazza e se ne innamorò a prima vista. Era di un bellissimo tessuto lucido e liscio, di un blu cobalto che lo fece immediatamente pensare ad Alexander, a come le sue ampie spalle sarebbero state egregiamente all’interno di quella camicia, o di come se le sue braccia ne sarebbero state fasciate alla perfezione. Quella camicia non gridava sono fatta apposta per te, Magnus! – No, sembrava più urlare sono il regalo perfetto per Alexander.
Sorrise. D’altro canto, era passato il suo compleanno – da un bel po’ si trovò a riflettere, dal momento che era stato il 12 settembre – e Magnus non gli aveva fatto nessun regalo. Poteva sempre rimediare, no?
“Pasticcino?” chiamò Magnus, scostando la tenda e attirando l’attenzione di Isabelle. La ragazza, intenta a flirtare nemmeno troppo velatamente con Mark, portò i suoi occhi scuri sull’amico. “Che taglia porta il tuo delizioso fratello?”
Isabelle sgranò gli occhi per una frazione di secondo, prima che lo stupore lasciasse posto alla consapevolezza. “Dipende. Penso che di quella ti serva una taglia in più.” Izzy notò il colore dell’indumento e sorrise, compiaciuta.
“Penso anche io, è irresistibilmente alto!”
Isabelle ridacchiò e poi si voltò verso Mark. “C’è di una taglia più grande?”
Mark annuì e si incamminò verso una porticina che dava sul magazzino del negozio. Quando sparì al suo interno, Isabelle si voltò verso Magnus.
“Hai intenzione di fargli un regalo di compleanno in ritardo?”
“Trent’anni non possono passare inosservati, cara.”
Izzy sorrise. “Volevo fargli una festa, sai? Ma lui me l’ha vietato categoricamente. Con la scusa che è tornato tre giorni dopo il suo compleanno, ha detto che ormai era passato e quindi non si poteva fare niente.”
Magnus si fece pensieroso, l’indice picchiettò il mento. “Però potremmo fargli una festa a sorpresa in ritardo!”
Isabelle gli lanciò un’occhiata mortalmente seria. “Alec odia le feste a sorpresa.”
“Questa gli piacerà. Sarà discreta e nessuno gli canterà buon compleanno, almeno non lo mettiamo al centro dell’attenzione. So che non gli piace.” Fece una pausa, guardando Isabelle negli occhi. La ragazza era ancora un tantino titubante, così Magnus proseguì. “Ci saranno solo poche persone. E una torta. Non puoi dire di no alla torta!” L’uomo la guardò con due occhi da cucciolo a cui Isabelle, inevitabilmente, si arrese. Un sorriso tenero le tese le labbra, mentre acconsentiva a quel piano. Si domandò quanto peso dovesse dare alla volontà di Magnus di voler fare qualcosa di carino per Alec. L’uomo era inevitabilmente attratto dal fratello e Izzy sapeva per certo che anche Alec lo era – sebbene non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce –, ma non aveva idea di che cosa ci fosse tra quei due. Decise di tenere le sue domande per sé, non volendo in alcun modo intromettersi tra i due – per ora. Era solo felice che Magnus, in quel momento, volesse trovare un modo per festeggiare il suo fratellone.
“Dobbiamo informare Jace e Max. Vorranno sicuramente partecipare all’organizzazione.”
Magnus annuì. “Penso lascerò a te questo compito, tesoro.”
Isabelle acconsentì a quella richiesta e si appuntò mentalmente di informare i fratelli non appena sarebbe tornata a casa. Qualche istante dopo l’essersi accordati, Mark riemerse dal magazzino con la camicia in mano. Magnus gli chiese gentilmente se poteva impacchettarla perché era un regalo. Mark acconsentì di buon grado e Magnus, mentre si immaginava Alec  con addosso quella camicia, non riuscì a trattenere un sorriso che ne aveva dell’accecante.




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Ciao a tutti!
Allora… non so bene come cominciare, in realtà, quindi inizierò dicendo che Magnus ha fatto un po’ il re del dramma quando si è sentito dare del vecchio e spero che la cosa sia risultata divertente e non spiacevole. Non vorrei mai rischiare di rovinare un personaggio come Magnus, quindi se pensate sia stata una cosa troppo OOC, fatemelo sapere!
Devo fare una piccola precisazione: il dialogo tra Magnus ed Izzy, dove lei punta Mark e Magnus se ne accorge, è stato suggerito da _itsbea due recensioni fa. Pensavo fosse un’uscita divertente e quindi ho pensato di inserirla. Spero non ti dispiaccia! (:
Altra precisazione: nell’ultima parte del capitolo siamo al primo di ottobre, e questi primi cinque capitoli si sono svolti in circa due settimane. Alec è tornato il 15 di settembre, quando è andato a prendere Diana a danza. E siccome è un grumpy-cat nell’anima non ha voluto festeggiare i suoi trent’anni, ma Mr. Magnus Bane provvederà a questo nel prossimo capitolo. Ad Alec farà piacere? Si sotterrerà? Morirà di imbarazzo? Non lo so, forse tutte e tre le cose insieme!
Comunque, è tornata Madelaine e a questo proposito vorrei dire due cose: secondo google traduttore (sempre lui), annaku e ibu vogliono dire rispettivamente figlio mio e mamma. Succederà durante i capitoli che i due useranno parole in indonesiano, ma non ne garantisco l’autenticità perché, appunto, saranno prese da google traduttore che non sempre è preciso. Quindi, se qualcuno ne dovesse sapere di più, me lo faccia sapere così, in caso, provvederò a correggere!
Parlando di madri, c’è stata la prima apparizione di Maryse, che cercherò di rendere un misto tra la seconda stagione e la terza – onde evitare di renderla troppo austera.
Ultima cosa: Aline ed Izzy lavorano insieme e questo porterà ad un piccolo accenno alla storia tra Aline ed Helen perché ho visto una foto delle due attrici che le interpreteranno nella 3B (sbaglio, o Aline è cambiata?) e ho pensato aaawww. Come sempre, spero di non fare un casino, volendo inserire troppi personaggi! *incrocia le dita*
Penso di aver detto tutto! Ringrazio chiunque legga la storia, l’abbia messa tra le seguite/preferite/ricordate e chi trova il tempo per recensirla. Sono ripetitiva, ma lo apprezzo immensamente, quindi grazie, grazie e ancora grazie!
Vi saluto, un abbraccio e alla prossima! <3 

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Capitolo 6
*** 6. ***


Magnus fissava la facciata dell’Hotel DuMort con un certo timore. Non per l’aspetto dell’edificio in sé, perché quella facciata era un esempio perfetto di architettura antica, tanto che era stato classificato come bene culturale della città di New York – l’unico hotel che, negli anni, non aveva cambiato il suo aspetto ed era rimasto fedele a quello stile arzigogolato tipico delle architetture barocche. Quindi, Magnus non era intimorito dall’imponenza della struttura, no, era intimorito dal proprietario dell’hotel, Raphael Santiago. E il fatto che fosse uno dei suoi più cari e vecchi amici non cambiava assolutamente niente.
Di origini messicane, Raphael aveva trentadue anni all’anagrafe, l’aspetto di un ragazzo di ventitré e il carattere di un uomo di ottanta, scorbutico e scettico. Raphael era il tipo di persona che riesce a far paura  con un solo sguardo e, sebbene la maggior parte delle volte Magnus si diverta a stuzzicarlo solo per provare a sciogliere la maschera impassibile di cera che è in realtà la sua faccia, oggi aveva il timore che l’amico gli sarebbe saltato alla gola con l’intento di succhiargli via tutto il sangue, dopo aver ascoltato – se avesse ascoltato, per essere precisi – la sua richiesta.
“Magnus? Va tutto bene?” domandò Max al suo fianco. Il minore dei Lightwood aveva voluto accompagnarlo, rendendosi utile in qualche modo, dal momento che i suoi fratelli non gli avevano lasciato fare niente per il compleanno di Alec. Izzy si era auto-nominata addetta alla scelta del catering – un modo elegante, se lo si chiede a Max, per dire che si sarebbe occupata del cibo. Il giovane pregò solo che con questo sua sorella non intendesse cucinare lei stessa il cibo, altrimenti il trentesimo compleanno di Alec sarebbe stato anche l’ultimo. Jace, invece, si sarebbe occupato degli invitati e della torta. A Max, quindi, altro non rimaneva da fare che aiutare Magnus nella scelta della location.
“Più o meno. Te lo ridirò non appena incontreremo Raphael.” L’uomo si incamminò verso l’entrata, così Max lo seguì. “Forse doveva venire anzi tua sorella, sai?” sussurrò Magnus, una volta superata la porta d’ingresso, mentre si dirigevano alla reception dell’hotel. “Sembra che abbia un ascendente positivo su Raphael.”
Max ridacchiò. “Izzy ha un ascendente positivo su tutti gli uomini. Simon dice che è sicuramente dotata di un qualche super potere che la rende in grado di piegare gli uomini alla sua volontà.”
Magnus annuì con convinzione. “Solomon ha ragione.”
Simon, Magnus. Simon.” Puntualizzò Max, roteando gli occhi in un modo tipicamente Lightwood.
“E io che ho detto?” domandò Magnus, facendo suonare il campanello sul bancone della reception. Max rinunciò all’impresa di fargli memorizzare il nome di Simon e si appoggiò al bancone. Da una porta che sembrava desse su un ufficio nel retro, uscì un ragazzo dai corti capelli scuri, gli occhi penetranti e la carnagione olivastra. Non era molto alto, ma riusciva comunque a trasmettere una buona dose di inquietudine. Max si chiese se quello fosse lo stesso Raphael di cui parlava sua sorella, quello riservato, ma propenso ad una chiacchierata amichevole. Quello così coraggioso da assaggiare i suoi piatti per poi dirle come poteva fare per migliorarsi. Lezioni inutili, tra l’altro, secondo Max. Isabelle ai fornelli era peggio delle piaghe d’Egitto.
Raphael notò i gomiti di Max appoggiati al suo bancone di marmo nero e gli riservò un’occhiata in tralice che spinse, istintivamente, il ragazzo a toglierli da lì. Ora capiva il timore di Magnus.
“Ciao, Raphael!” esclamò Magnus con un sorriso.
“Dov’è tua figlia?” rispose l’altro, il tono secco.
Ciao anche a te, Magnus. È un piacere vederti, Magnus!” disse teatralmente Magnus.
Raphael lo fissò impassibile, per nulla impressionato da quel teatrino. “Dov’è tua figlia?” Chiese, di nuovo.
Magnus sbuffò e alzò gli occhi al cielo. “Da mia madre.”
“Potevi venire con lei. Preferisco vedere il suo faccino, piuttosto che la tua brutta faccia!”
Magnus gli lanciò un’occhiata omicida. “Erin è l’unica che riesce a sciogliere il tuo cuore granitico!”
Raphael fece spallucce e non negò. “Allora, cosa vuoi?”
“Chiederti un favore.”
Gli occhi neri di Raphael si ridussero a due fessure. “Che genere di favore?”
Magnus decise di giocare bene le sue carte. Raphael non era un tipo espansivo, o che diceva a parole ciò che prova. Anzi, alle volte, negava addirittura di essere in grado di provare dei sentimenti come ogni essere umano normale, ma Magnus sapeva che non è così. Raphael aveva una lealtà fuori dal comune, che lo portava ad aiutare chi ne aveva bisogno – se ovviamente lui lo riteneva parte della sua famiglia. E Magnus, anche se l’altro lo negava una volta sì e l’altra pure, poteva ritenersi parte di quella famiglia.
“Non so più dove sbattere la testa, davvero. Non te lo chiederei, se avessi un’alternativa.”
“Arriva al punto.” Tagliò corto Raphael, che comunque si era già fatto un’idea di quale potesse essere la richiesta.
“Vorremo usare la sala grande per un compleanno.”
Raphael lo fissò per qualche istante in silenzio, come se Magnus si fosse appena bevuto il cervello. “Un cumpleaños? Nel mio hotel? Estas fuera de tu mente! Devo mantenere certi standard, che, sicuramente, non comprendono un compleanno! I miei clienti vengono aqui perché sono sicuri che troveranno solo tranquillità!”
“E l’elevata possibilità di morire di noia.” Aggiunse Magnus.
Max dovette sforzarsi enormemente per non scoppiare a ridere. Non lo fece solo perché aveva un altissimo istinto di autoconservazione. E aveva l’impressione che Raphael l’avrebbe strangolato se solo avesse riso. D’altronde, sembrava che si stesse trattenendo dallo strangolare Magnus, che a detta di quest’ultimo, era un suo grande amico, quindi cosa l’avrebbe trattenuto dallo strozzare uno sconosciuto? Niente.
In ogni caso, decise di intervenire. Di giocare una carta che, secondo lui, poteva essere quella vincente.
“È per il compleanno di mio fratello, Izzy pensava di farlo qui perché è un bel posto.”
Gli occhi neri di Raphael si spostarono da Magnus a Max. “E tu chi saresti?”
“Max, uno dei fratelli di Isabelle.”
Jesús, quanti siete?”
“Quattro.”
Raphael alzò un sopracciglio. “Dios, i vostri genitori non avevano la tivù via cavo?”
Max decise di ignorare quel commento. “Allora, ci aiuterai o no?”
Raphael strinse gli occhi in due fessure strette e fece passare lo sguardo da Max a Magnus e viceversa per due volte, prima di rispondere. “Va bene. Ma non voglio niente di troppo rumoroso.”
“D’accordo.” rispose Magnus.
“E mi devi un favore. Ricordatelo.”
“Se anche dovessi dimenticarlo, ci saresti tu come un avvoltoio sulla mia spalla a ricordarmi costantemente che te debo un favor.” Disse Magnus, imitando l’accento di Raphael.
“Il tuo spagnolo fa schifo.”
“Come il tuo senso dell’umorismo, mio caro, ma mica te lo faccio pesare!”
Raphael lo fulminò con lo sguardo, ma non aggiunse altro. Non era necessario, dal momento che la sua espressione parlava per lui.
“Bene, penso sia giunta l’ora di andare. Ho una lezione da tenere tra meno di un’ora! Grazie, Raphael, ci hai aiutati moltissimo.”
Raphael lo liquidò con un cenno della mano perché tra le altre cose non era nemmeno un fan delle smancerie. E Magnus era pieno di smancerie – e merletti e fronzoli, che Raphael odiava. Li salutò, quindi, solo un gesto della mano.
I due, a quel punto, uscirono dall’hotel e Magnus pensò che doveva informare Steve del fatto che i super poteri di Isabelle funzionavano anche a distanza.


“Non posso rispondere, non con te in macchina!” Esclamò Magnus, l’abitacolo della sua auto che si riempiva della sua suoneria. Il dispositivo bluetooth a cui era connesso il cellulare faceva echeggiare quel suono in modo piuttosto elevato.
“Lui non lo sa che sono in macchina con te!” gli fece notare Max. “Rispondi!”
“Se si accorge che ci sei e chiede cosa stiamo facendo?”
“Gli diciamo che ci siamo incontrati per strada, mi hai offerto un passaggio e mi stai riportando al campus. Non è totalmente una bugia, dopotutto.”
“Dobbiamo solo saltare la parte che prevede l’organizzazione del suo compleanno!” Disse, prima di premere il pulsante con la cornetta verde sul manubrio dell’auto. “Alexander!”
“Ti disturbo?” La voce di Alec uscì metallica dalle casse della macchina e, nonostante tutto, Magnus la trovò bellissima.
“Non dire sciocchezze, tu non disturbi mai.” Sorrise con dolcezza, la voce stessa che trasudava miele.
Max, al suo fianco, sbatté teatralmente le ciglia per prenderlo in giro. Il sorriso di Magnus evaporò, trasformandosi in un’occhiata truce tutta ai danni del ragazzo seduto al suo fianco. Max dovette trattenersi dal ridere e continuò la sua presa in giro arricciando le labbra, come se stesse mimando un bacio. Magnus usò una delle mani per dargli uno scappellotto fulmineo, prima di riportarla sul volante.
“Dovresti venire in ambulatorio, uno di questi giorni. Ho concluso tutte le pratiche che prevedono il passaggio di medico curante, ma ho bisogno di visitare Erin. È l’ultimo passo per ufficializzare la cosa.”
“Ma certo! Domani dovrei avere un’ora libera tra le quattro e le cinque. Va bene?”
“Benissimo. A domani, allora.”
“A domani, tesoro.”
Alec riattaccò e Magnus rimase ad ascoltare il silenzio lasciato dall’assenza della sua voce. Prima di rendersi effettivamente conto di quanto quel pensiero risultasse sdolcinato, Max attirò la sua attenzione.
Alexander,” Lo scimmiottò. “Tu non disturbi mai!” Lo imitò esagerando un tantino con il tono di voce. “Ora, gentilmente, tesoro, potresti sbattermi contro un muro e limonarmi come se non ci fosse un domani?”
Magnus inchiodò, fermandosi al semaforo rosso con più impeto del necessario. Si voltò verso Max, gli occhi sgranati in un’espressione incredula e risentita. “Primo: non parlo in quel modo; secondo: non ho mai pensato niente di simile!”
Max gli rivolse un mezzo sorrisetto malizioso. “Scommetto che i pensieri che hai su mio fratello sono decisamente più porno di una pomiciata, ma ho voluto mantenere la cosa nella fascia riservata ai minori.” Ammiccò, compiaciuto.
Magnus boccheggiò, un tantino offeso e anche un po’ irritato – se non altro perché una parte di sé sapeva che Max aveva ragione. Sarebbe uno sporco bugiardo se negasse di aver immaginato, almeno una volta, di baciare Alexander, o beh… anche altro. Era colpa del suo sedere, ok? Era gloriosamente perfetto. Magnus era solo una vittima innocente, qui!
E come mai nessuno sembrava prestare attenzione al suo autocontrollo? Alla sua scelta, più che matura, di mantenere il rapporto con Alexander su un piano unicamente amichevole?
“Sei fastidiosamente simile a tuo fratello Trace. Lo sai?”
Jace.” Precisò, prima di aggiungere: “Anche Alec lo dice, quando lo faccio arrabbiare. Ciò non toglie che io abbia ragione.”
Magnus gli lanciò un’occhiata tagliente. “Non hai ragione. Io e tuo fratello siamo amici.”
Max annuì senza convinzione. “Ma certo, sì. È ovvio.” Commentò sarcastico.
“Se continui,” cominciò Magnus, gli occhi minacciosamente ridotti a due fessure. “Ti lascio in mezzo alla strada!”
Max scoppiò a ridere. Una risata aperta e genuinamente divertita. Era un suono simile a quello di Isabelle, ma  che ricordava molto anche quella di Jace. “D’accordo, la smetto!”
“Bene.” Annuì Magnus, ripartendo dopo aver visto il semaforo verde. “Sfacciato.” Borbottò a voce nemmeno troppo bassa, facendo ridere di nuovo Max.


*

“Supponiamo che non abbiano ciò che vogliamo, come ce la filiamo?” Sussurrò Simon, rivolgendosi ad Isabelle, al suo fianco. I due si trovavano in piedi nel corridoio d’ingresso di un ristorante suggerito da Raphael che si occupava anche di cose come i compleanni. Il proprietario del DuMort aveva pronunciato quella frase con più stizza di quanto fosse necessario, quando aveva informato Izzy. Lei gli aveva inizialmente chiesto se potevano usare la cucina del suo hotel, ma Raphael aveva risposto che non poteva dare ordinazioni in più ai suoi cuochi, che avevano già una mole di lavoro da svolgere consistente e tempi molto stretti per portarlo a termine. Contro l’aspettativa dell’umanità intera, probabilmente, era davvero dispiaciuto mentre dava la notizia ad Isabelle e ancora più stupefacente era, secondo Simon, che Raphael si fosse prodigato anche per trovare un’alternativa per loro – sebbene disprezzasse i compleanni. E qualsiasi cosa avesse a che fare con l’allegria in generale.
“Con il sorriso, ecco come.” Rispose Isabelle, sicura.
“Puoi sempre sfoderare una delle tue armi segrete!”
“Quali armi segrete?”
“Lascia perdere.” Disse Simon, pensando al messaggio che gli aveva mandato Magnus riguardante i super poteri di Isabelle. “Piuttosto, che cos’hai in mente?”
Izzy arricciò le labbra accuratamente truccate di rosso. “Qualcosa di semplice, una specie di aperitivo. Pensi sia troppo poco?”
“Penso che trattandosi di Alec, più semplice è e meglio è. Ho ancora il dubbio che una volta realizzato che si trova ad una festa per lui, fugga a gambe levate.”
Isabelle ridacchiò, immaginandosi la scena. “Potrei rincorrerlo e braccarlo!”
“Ha le gambe troppo lunghe, fuggirebbe senza problemi!”
“Ma io sono veloce.” ribatté prontamente Isabelle, poggiando le mani sui fianchi come se volesse darsi un tono. Simon pensò che anche un gesto comune come quello la rendesse bellissima. E super tosta, tipo Lara Croft.
“Non posso negarlo. Penso che potresti farcela, in effetti…” Simon si picchiettò il mento con l’indice, facendo ridere Izzy.
“Allora, credi che andrà bene?” chiese Isabelle, di nuovo. Simon sapeva che non lo chiedeva perché era insicura, o perché voleva la conferma da parte di qualcun altro – Izzy era la donna più sicura che conoscesse ed era una caratteristica che aveva contribuito a farlo innamorare di lei – ma lo faceva perché le interessava davvero la sua opinione. Sapeva che Simon era diretto e non le avrebbe mai mentito, o addolcito la pillola. C’era sincerità, tra di loro, sempre e in ogni caso. Se si esclude, ovviamente, la parte di Simon innamorato di lei. In quel caso, Simon non riusciva ad essere completamente sincero. Ma per tutto il resto sì.
Izzy aveva un’idea brillante? Simon glielo diceva.
Izzy aveva un’idea catastrofica? Simon glielo diceva.
Sempre senza mezzi termini – cosa che spesso li portava a litigare, ma non si può dire di avere un’amicizia vera con qualcuno fino a quando non arrivi a litigarci.
“Andrà bene. Cibo e alcol, yee!” esclamò Simon, alzando un pugno in aria come se dovesse esultare per qualcosa che gli piaceva particolarmente.
“E la torta.”
“Giusto. Aspetto da non sottovalutare!”
Isabelle sorrise, gli occhi che le brillavano di divertimento. Simon adorava vederle quell’espressione sul viso, il luccichio nelle sue iridi scure ricordava molto la stella polare piazzata nel mezzo di un cielo notturno.  
“Signori?” li chiamò un cameriere. “Se volete seguirmi, possiamo parlare di ciò che avete in mente e vedere se riusciamo a soddisfare le vostre richieste.”
Isabelle e Simon annuirono. “Grazie.” Dissero all’unisono. Prima di seguire il cameriere, Isabelle prese a braccetto Simon e appoggiò la testa sulla sua spalla. Simon decise di lasciarle un fugace ed impacciato bacio sui capelli.
Isabelle poteva non sapere cosa provasse davvero per lei, ma ciò non toglieva che Simon potesse, di tanto in tanto, concedersi dei minuscoli gesti che aiutassero a chetare il suo cuore innamorato, che inevitabilmente agognava un qualsiasi tipo di contatto con lei.


*

“Cosa vuoi portare alla mamma, principessa?” domandò Jace, tenendo Diana in braccio. Non era un soprannome particolarmente originale. Lui stesso tendeva a roteare gli occhi al cielo quando sentiva qualcuno usarlo, ma aveva scoperto, dopo essere diventato padre, che sebbene fosse un soprannome banale, era quello che, nella sua semplicità, esprimeva al meglio i suoi sentimenti. Diana era la sua principessa, il suo raggio di sole, la sua gioia.
Se quando aveva incontrato Clary pensava di aver capito tutto sull’amore si sbagliava di grosso. L’amore ha varie forme e Jace aveva il cuore straripante di due tipi d’amore ben diversi, ma ugualmente potenti.
L’amore che provava per Clary gli faceva desiderare di fare a pezzi il mondo, se solo lei gliel’avesse chiesto.
Quello che provava per Diana, invece, gli faceva venire voglia di ricostruirlo e renderlo un posto migliore, solo per avere la tranquillità che la sua bambina avrebbe vissuto al meglio, crescendo su questa Terra. Erano due tipi di amori totalmente diversi, ma allo stesso tempo stranamente complementari. Due elementi che lo rendevano un uomo migliore.
“Quello rosa!” esclamò la bambina, indicando con un ditino un cupcake dalla glassa rosa cosparsa di codette al cioccolato. Jace pensò che se l’aspetto di quel dolce dovesse suggerirne la bontà, doveva essere qualcosa di divino, quindi decise di fidarsi della sua bambina, chiedendo gentilmente alla cameriera se poteva metterglielo in una scatola.
La ragazza lo accontentò con più moine del necessario, facendogli gli occhi dolci in maniera così esplicita che se solo si fosse trovato in una situazione del genere circa dieci anni fa, non si sarebbe fatto remore a provarci con lei. Ma Jace Lightwood aveva messo la testa a posto da un pezzo e da altrettanto tempo era innamorato di una certa rossa che, se avesse assistito a questa scena, avrebbe prima schioccato un’occhiataccia alla cameriera e poi, una volta fuori dalla pasticceria, gli avrebbe mollato uno scappellotto, perché smetti di fare il cretino, Jace!
Ah, l’amore.
Comunque, dopo aver afferrato la scatola con il cupcake e aver pagato, Jace uscì dalla pasticceria con Diana in braccio. Non gli piaceva tenerla per mano quando i marciapiedi erano particolarmente affollati come quel pomeriggio. Si sentiva più sicuro se l’aveva in braccio, come se fosse riuscito a proteggerla meglio. Voltò il viso quel tanto da riuscire a lasciare un bacio sulla guancia della bambina e poi si incamminò verso l’Alicante.

Arrivò in negozio dopo circa venti minuti. Quando furono davanti alla porta, appoggiò Diana a terra e si chinò alla sua altezza.
“Vuoi dare tu il dolcetto alla mamma?”
Gli occhi verdi della bambina luccicarono per l’entusiasmo. “Sì!” esclamò, felice. Jace sorrise nel modo più amorevole che potesse esistere e sistemò la scatola nelle mani della piccola, prima di aprire la porta e farla entrare per prima. Furono accolti dal suono di una campanella attaccata alla parte superiore della porta, che portò Clary, seduta al suo banco da lavoro, a sollevare lo sguardo. Il suo viso si illuminò, un sorriso inevitabilmente tirò le sue labbra in un’espressione di pura felicità. Clary si alzò immediatamente dalla sua postazione per andare in contro alla figlia, che stava trotterellando nella sua direzione con un scatola gialla tra le manine.
“Ciao, amorino mio!” esclamò Clary, sollevando Diana da terra e riempiendola di baci. La piccola ridacchiò, felice.
“Guarda, mamma!” disse solamente, porgendole la scatola.
“È per me?”
Diana annuì e si voltò verso il padre. Jace si avvicinò alle due e circondò la vita di Clary con un braccio, prima di lasciarle un bacio sulla fronte. “È per te. Ho la netta sensazione che ti piacerà.”
Clary strinse gli occhi. “Sempre così sicuro di te, Lightwood.”
Jace le rivolse un sorriso smagliante e malandrino. “Dalla nascita, rossa.” Ammiccò, in quel modo un po’ sbruffone che, comunque, a Clary piaceva.
Non che lui dovesse necessariamente saperlo, altrimenti il suo ego si sarebbe gonfiato ulteriormente. “Prendi tua figlia, così posso guardare cosa c’è nella scatola.”
Jace annuì e allungò le braccia per prendere Diana, che automaticamente sistemò un braccio intorno al collo del padre, mentre entrambi fissavano Clary con aspettativa, guardandola aprire la scatola.  
“Un cupcake!” esclamò la rossa. “Amo i cupcake!”
“Lo so.” Affermò Jace, sicuro di sé.
“Grazie!” Clary si avvicinò ai due, lasciando prima un bacio sulla guancia di Diana e poi uno sulle labbra di Jace.
“Hai sentito, principessa?” domandò Jace, tenendo tuttavia gli occhi incatenati a quelli di Clary, “Abbiamo fatto felice la mamma.”
Diana batté le manine con entusiasmo e, a quel punto, sia Clary che Jace portarono la loro attenzione su di lei, sorridendo.

L’Alicante aveva un significato speciale per Jace. Era il posto dove, dieci anni prima, aveva incontrato Clary per la prima volta. Entrambi erano in età da college ed ignari di quello che li aspettava. Lui, di certo, mentre entrava in quel negozio con l’intenzione di comprare un regalo per sua mamma, non aveva immaginato che avrebbe trovato l’amore della sua vita.
La prima volta che l’aveva vista, Clary sedeva in disparte nel negozio, china su un libro di storia dell’arte. Si era avvicinato a lei, chiedendole se poteva aiutarlo e lei gli aveva rivolto il più dolce dei sorrisi, annuendo.
Jace era uscito da quel negozio con una collana per Maryse e il numero di Clary salvato in rubrica.
Dieci anni e una figlia dopo, l’Alicante rimaneva uno dei suoi posti preferiti – se non altro perché poteva guardare Clary fare quello che più le piaceva: creare.
“Ho ordinato la torta.” Disse, seduto di fronte a lei, osservandola infilare delle perline blu in un filo metallico. Stava lavorando ad una collana che assomigliava ad una conchiglia. Clary gli aveva spiegato che voleva coprire lo scheletro metallico con delle semplici perline e riempire i vuoti, tra una spirale e l’altra, incollando dei pezzetti di vetro celesti, cercando in quel modo, di imitare l’effetto che danno le vetrate nelle navate delle chiese.
Clary infilò una perlina, prima di alzare gli occhi. “Quale hai scelto?”
“Sacher. Alec ama la sacher!” Esclamò, vittorioso.
Clary guardò Diana, seduta in braccio al padre. Con Magnus, si erano accordati di non dire niente alle bambine, se non altro perché, nella loro innocenza, avrebbero potuto farsi scappare qualcosa riguardante la festa davanti ad Alec.
Quando la rossa appurò che la figlia era troppo concentrata sul suo disegno (posso fare come te, mamma? aveva chiesto, e Clary aveva annuito, sciogliendosi un po’) per prestare attenzione ai suoi genitori, annuì.
“Scelta saggia. Ci hai fatto scrivere qualcosa?”
Il sorriso di Jace si trasformò nell’espressione più simile a quella di uno squalo che un essere umano potesse concepire. “Certo. Ma è una sorpresa!”
Clary ridusse gli occhi a due fessure, fulminandolo. “Jace!” lo rimproverò, il tono secco.
“Che c’è?”
“Farai arrabbiare Alec!”
“Non è vero!” Mise il broncio, come se le insinuazioni della fidanzata lo offendessero, ma poi si arrese, abbandonando quella recita. “Forse un pochino, sì. Ma niente di esagerato, o grave. Sarà più che altro imbarazzato.”
“Sei sadico.” Tagliò corto la ragazza, rimettendosi al lavoro.
Jace non negò. Più che altro perché c’era una punta di verità in quell’affermazione e perché doveva ancora vendicarsi di Alec per avergli mangiato l’ultimo pezzo di pizza, l’ultima volta che si erano visti per guardare la partita insieme.
La vendetta va servita scritta su una torta sacher al compleanno a sorpresa per il proprio fratello che odia le feste a sorpresa. Se Jace fosse stato un cattivo dei fumetti, adesso si esibirebbe in una risata malvagia, o in una girata di seggiola tattica mentre accarezza un gatto grasso e peloso.
“Appurato che mi ritieni malvagio – grazie amore, sei sempre gentile, a proposito – cosa stai facendo?”
Clary decise di ignorare quell’accusa piena di sarcasmo – perché a volte avere a che fare con Jace era peggio che avere a che fare con Diana a livello di infantilità – e di continuare a concentrarsi sul suo lavoro. Mancavano giusto tre perline e lo scheletro della conchiglia sarebbe stato completo. “Un ciondolo. Diventerà una collana… penso la regalerò a Magnus.”
“A Magnus?”
“Sì, era qui qualche giorno fa, mentre la disegnavo. È lui che mi ha suggerito di farla blu.”
Jace si aprì in un sorriso appuntito. “Oppure puoi approfittare della scia di sadismo e regalarla ad Alec.”
Clary lo incenerì con uno sguardo. “Mi ucciderebbe. E inizio ad avere paura della tua sete vendicativa, si può sapere che ti ha fatto?”
“No, perché mi faresti notare quanto sia infantile e stupido il mio comportamento, ti darei ragione e mi pentirei di ciò che ho chiesto di far scrivere sulla torta.”
Clary sbuffò esasperata, alzando gli occhi al cielo. “Ci rinuncio.”
Jace ridacchiò e facendo attenzione a non schiacciare Diana, si sporse verso l’altro lato del tavolo per lasciare un bacio sulla fronte della fidanzata.
“Anche io, papà! Anche io!” esclamò la bambina, notando il gesto del padre. Jace sorrise e le lasciò un bacio sulla fronte. Poi si rimise a guardare le sue ragazze che lavoravano.



*


Magnus era seduto in sala d’attesa. L’orologio sulla parete segnava le quattro e un quarto del pomeriggio. Al suo fianco, Erin stava seduta composta, facendo ciondolare le gambine nel vuoto. L’uomo aveva coordinato il cerchietto arancione che la bambina aveva nei capelli con il proprio giubbotto di pelle. Un tantino appariscente, avrebbe detto qualcuno (Raphael), ma Magnus era sempre stato dell’idea che bisogna osare nella vita. E per non farsi mancare niente, aveva mantenuto la ciocca arancione tra i capelli. Il mondo doveva sapere quanto Magnus Bane amasse Halloween.
“Papà?”
“Sì, bintang?
“Alec è ancora nostro amico?”
Magnus fu un tantino sorpreso da quella domanda. “Certo, sayang, perché lo chiedi?”
“Perché il dottore di prima era… cattivo. Alec diventerà cattivo, adesso?”
Quel ragionamento non faceva una piega, pensò Magnus. L’ultimo pediatra che avevano avuto oltre ad essere assente per la maggior parte delle volte, quando si presentava alle visite era scontroso e spiacevole. Più di una volta Magnus era stato tentato di rispondergli a tono – alternando a volte in cui, invece, avrebbe proprio voluto dargli una sberla – ma aveva deciso, poi, che almeno uno dei due doveva essere educato, rinunciando a qualsiasi tipo di risposta a quell’odioso comportamento, verbale o fisica che fosse. E dal momento che un comportamento simile, agli occhi di una bambina di quattro anni può essere tradotto come cattivo, non era poi così strano che Erin pensasse che adesso che Alec era diventato il suo medico, si comportasse in quel modo anche lui.
“No, bintang, Alec rimarrà gentile. Ma dovrai ascoltarlo, perché lui vuole solo farti stare bene.”
“Anche quando mi da le medicine?”
“Soprattutto quando ti darà le medicine.”
Erin appoggiò la schiena allo schienale della sedia, un piccolo broncio piegò le sue labbra. “Le medicine sono amare. Non mi piacciono.”
Magnus le accarezzò la testa. “Non sempre possiamo fare cose che ci piacciono, bintang. A volte dobbiamo anche sforzarci di fare quelle che non ci piacciono.”
“Come prendere le medicine?”
Magnus annuì. “Sono amare, ma se le prendiamo poi guariamo. Quindi come vedi è solo un piccolo sacrificio per qualcosa di positivo.”
Erin appoggiò la testa al braccio di Magnus, cercando un contatto. “Positivo vuol dire bello?”
Magnus sorrise. “Sì, bintang.”
“Gli abbracci sono belli. Se prendo le medicine mi dai un abbraccio?”
L’uomo in tutta risposta fece passare un braccio dietro la schiena della bambina e la strinse forte a sé. “Sì, ma non servono necessariamente le medicine per un abbraccio. Ogni scusa è buona.”
Erin ridacchiò e cercò di ricambiare l’abbraccio meglio che poteva. Magnus sorrise. Era tutto quello di cui aveva bisogno, la sua bambina e il loro rapporto. Erano cresciuti insieme, si erano formati attraverso le difficoltà, attraversando quei viali coperti di pregiudizi e di occhiate cariche di diffidenza perché Magnus era un tipo particolare e non l’aveva mai nascosto. Era orgoglioso di quello che era, ma spesso la gente si limitava a guardarlo solo come un clown del circo che si trucca e, dal momento che non rispettava i canoni richiesti dalla società, doveva sicuramente essere un padre orribile ed inadeguato, incapace di crescere una bambina. Ma lui sapeva che non era così. Era in grado di crescere Erin, di darle tutta la stabilità e l’amore di cui aveva bisogno. Esistono così tanti tipi di famiglie, che fermarsi alla sola formata da padre-madre era riduttivo e irrispettoso. Come se, non rientrando nell’ideale perfetto della famiglia formata da un uomo ed una donna, non si fosse veramente una famiglia. Questo Magnus non lo aveva mai accettato.
Famiglia è dove ti senti a casa, dove ti senti amato per quello che sei. Famiglia ha dei significati così ampi che è quasi impossibile ridurla ad un’unica, statica rappresentazione.
“Signor Bane?”
Magnus alzò gli occhi verso la porta della sala d’attesa, trovandoci Alexander in tutta la sua altezza. Il suo viso era attraversato da un’ombra di stanchezza, leggere occhiaie circondavano i suoi bellissimi occhi cervoni. Magnus si chiese da quanto fosse al lavoro e se avesse almeno trovato il tempo per un caffè e si appuntò mentalmente di ricordarsi di portagliene uno, la prossima volta.
“Dottor Lightwood, sembra stanco.”
Alec accennò un sorriso, alzando un solo angolo della bocca. Raggiunse anche i suoi occhi, così Magnus lo reputò un buon segno. “Si sta preoccupando per me, signor Bane?”
“Dovrei?”
“No, affatto.”
Magnus si alzò dalla sedia, seguito da Erin, e si avvicinò ad Alexander. C’erano anche altre persone in sala d’attesa, ma a Magnus poco importava di loro. Studiò il viso di Alec da più vicino, ora che c’era meno distanza tra di loro. Le piccole rughe che si formavano intorno ai suoi occhi quando rideva, adesso erano accennate anche se era serio. Le occhiaie erano più marcate di quanto sembrasse da lontano. Aveva la barba di qualche giorno e i suoi capelli erano più in disordine del solito. Magnus dovette resistere all’impulso di passarci le mani attraverso solo perché era consapevole che altri occhi li stavano guardando e quel gesto avrebbe reso Alexander meno professionale. 
“Ha dormito, dottore?”
“Poco, in effetti.”
Magnus socchiuse un occhio. “Vuole continuare a fare il misterioso?”
“Andiamo nel mio ambulatorio?”
“Sì, certo. La seguo.”
Alec sorrise e poi si rivolse ad Erin, che era rimasta in attesa che i grandi finissero di parlare. “Ciao, piccolina.”
“Ciao, dottor Alec.” disse e il sorriso di Alec si allargò ulteriormente. Magnus ed Erin seguirono Alec fuori dalla sala d’attesa.
Non appena raggiunsero l’ambulatorio, Alec aprì la porta e fece entrare Magnus ed Erin per primi, poi li seguì e si chiuse la porta alle spalle. Alec fece vagare lo sguardo per tutto il suo ambulatorio, come se fosse la prima volta che metteva piede lì dentro. Magnus capì che lo faceva per prendere tempo – lo faceva spesso, quando non sapeva esattamente come cominciare un discorso.  
“Non voglio parlare delle mie cose in quella sala. Le persone ascoltano.”
Magnus sorrise. “L’avevo capito. Ora, rispondimi. Hai dormito?”
Alec decise di non prestare attenzione al tono premuroso e forse anche un tantino preoccupato di Magnus.
“No.” Esalò, sincero. “C’è uno dei miei pazienti che ha una brutta malattia. Sono preoccupato per lui, in più questa situazione mi ricorda un periodo spiacevole della mia vita, quindi non dormo.” Alec si passò una mano sul viso stanco. Magnus si avvicinò e gli appoggiò le proprie mani sulle guance.
“Vuoi parlarne?”
Alec chiuse gli occhi per una frazione di secondo, concedendosi un attimo per assaporare quella sensazione di tranquillità alla bocca dello stomaco, come se avesse appena bevuto un sorso della tisana più rilassante esistente al mondo. Lasciò che la vicinanza di Magnus sortisse il suo effetto, che il suo tocco delicato passasse ad ammorbidire tutto il suo sistema nervoso, sciogliendo lo stress. Permise al proprio naso di essere invaso dal suo profumo. Solo per un minuscolo attimo, prima di riaprire gli occhi e lasciarsi riportare alla realtà.
L’effetto che era in grado di fargli Magnus lo spaventava a morte. Lo attirava, anche, ma Alec era abbastanza pratico da ricordare a se stesso che l’ultima volta che un uomo si era avvicinato a lui in quel modo non era finita bene.
Lui potrebbe essere diverso da Will.
E questo lo diceva perché, inspiegabilmente, già si fidava di Magnus. Ma doveva capire quanta di quella fiducia fosse reale e quanta, invece, fosse dettata dal fatto che il suo cuore voleva a tutti i costi potersi fidare.
“Non adesso. Devo visitare Erin.” Appoggiò le proprie mani sui polsi di Magnus, accarezzando delicatamente con il pollice quella parte di pelle caramellata che non era coperta da braccialetti.
“Ma certo, quando vorrai, tesoro.” Abbassò le mani dal suo viso e gli sorrise con sincerità.
Lui è diverso da Will.
Con quel gesto Alec ne ebbe la certezza. Era un certezza folle, basata solo su un gesto durato cinque secondi. Ma Alec sapeva che era qualcosa di concreto, di vero. Magnus era sincero, Will al contrario avrebbe caricato una frase simile con un tono che faceva intendere tutt’altro. L’avrebbe guardato come se Alec l’avesse appena pugnalato, rimuginando in silenzio fino a che non sarebbe esploso dicendo qualcosa come non parli mai di te stesso o non mi coinvolgi mai nei tuoi pensieri.
Will non si era mai accorto che, in quattro anni di relazione, Alec l’aveva coinvolto nei suoi pensieri più di quanto avesse mai fatto con un essere umano. Il fatto che non lo facesse nel modo in cui Will desiderava, non significava che fosse sbagliato.
Per quanto riguardava il parlare di se stessi, invece… ora che ci pensava, Alec lo trovava un po’ ipocrita, viste poi come sono finite le cose.
“Erin è l’ultima mia paziente. Se non hai da fare… potremmo, sai… parlarne dopo.”
“Sì, certo. Mi andrebbe.”
Magnus non era William.
Magnus avrebbe rispettato Alec: i suoi tempi, il suo modo di relazionarsi con le persone, di parlare di sé – un poco alla volta e con il contagocce. Magnus sapeva già come prenderlo e Alec se n’era accorto, ma non voleva darci troppo peso. Sapeva già che Alec aveva bisogno di tempo per carburare, per sciogliersi e iniziare una conversazione. Rispettava i suoi silenzi e ascoltava, quando invece, Alec era propenso finalmente a parlare. Era successo di persona, succedeva ogni volta che si telefonavano, durante la giornata.
Magnus non era William e mai lo sarebbe stato.
“Grazie.” Sorrise e poi si rivolse ad Erin. “Dobbiamo cominciare.”
La piccola annuì e Magnus approfittò di quel momento per mandare un messaggio a Madelaine per avvertirla che sarebbe arrivato più tardi a casa sua.

> From: Ibu, 16.32
Qualche imprevisto di cui mi devo preoccupare?
> To: Ibu, 16.32
No, devo solo fare una cosa.
>From: Ibu, 16.33
Va bene. Divertiti con Alec, anakku. A dopo ;)

Magnus lesse quel messaggio due volte e l’unica cosa che gli venne in mente era che sua madre doveva necessariamente essere una specie di veggente, poi il suo cervello razionale gli ricordò che l’aveva informata della visita di routine che Alec gli aveva chiesto di fare. Scosse la testa e rimise il telefono in tasca, prima di concentrarsi sulla visita di Erin.


“Sei stata bravissima, Erin. Adesso dobbiamo solo guardare la gola.” Disse Alec con dolcezza. Magnus era già più che soddisfatto della sua scelta di aver cambiato medico. Alexander era professionale, attento ai dettagli, minuzioso e decisamente dolce con Erin. L’aveva messa a suo agio, parlandole delle cose che potevano interessarle mentre procedeva ad una visita scrupolosa. La piccola non aveva pianto nemmeno una volta. Erano progressi, visto che con il pediatra precedente piangeva quasi sempre.
“Devi farmi l’A più grossa che riesci a fare.” Continuò Alec, aprendo a sua volta la bocca più che poteva per far vedere ad Erin come avrebbe dovuto fare. La bambina, seduta sul lettino che Alec aveva in ambulatorio, prima ridacchiò, poi imitò il dottore.
Alec prese un abbassa-lingua e una piccola torcia da un carrellino con le ruote che aveva vicino e si mise al lavoro. Erin rimase buona e calma, facendosi visitare come se niente fosse. Quando Alec ebbe finito, si alzò dal suo sgabello, rimettendosi in piedi e guardando Erin, che a sua volta aveva alzato gli occhi su di lui.
“Finito! Sei stata super brava!”
“Devo prendere le medicine?”
“No, stai bene. Non hai nemmeno la gola rossa.” Sorrise Alec incoraggiante. La bambina, allora, si voltò verso il padre che era rimasto in piedi vicino alla finestra per tutto il tempo e sorrise entusiasta.
“Niente medicine, papà!”
Magnus rise piano. “Ho sentito, bintang.” Si avvicinò ai due e aiutò Erin a scendere dal lettino, poi guardò Alec. “Va tutto bene?”
Il pediatra annuì. “È sanissima, Magnus. Non rischia nemmeno un raffreddore.”
“Tu si che sai come tranquillizzare un padre.”
Alec sorrise, scuotendo affettuosamente la testa, poi si rivolse di nuovo ad Erin. “Sai cosa spetta alle brave bambine?”
Erin fece un cenno di negazione con il capo.
“Vieni con me.” disse Alec e la bambina, prima di seguirlo, alzò lo sguardo sul padre per chiedergli silenziosamente il permesso. Quando Magnus le fece cenno di andare, Erin seguì Alec fino alla sua scrivania. Magnus fece lo stesso, sedendosi di fronte al medico. Padre e figlia osservarono Alec estrarre da un cassetto della propria scrivania una scatola di latta gialla con dei dolcetti stampati sopra. La aprì e la porse ad Erin. La bambina, non appena vide il contenuto di quella scatola, sgranò gli occhi dalla sorpresa.
Caramelle. Quella scatola era piena di caramelle di ogni colore e gusto, incartate singolarmente.
“Posso, papà?” domandò Erin, carica di aspettativa e speranza. Magnus annuì e la bambina scelse una caramella rossa. La porse al padre per farsela scartare. Magnus lo fece e gliela diede, dicendole di fare attenzione a non strozzarsi. Erin annuì e con la caramella in bocca rimase seduta buona buona per non rischiare niente.
“In quanto dottore, non dovresti evitare certe cose?” domandò Magnus, mentre osservava Alec che scriveva qualcosa sul libretto sanitario di Erin.
“Sono un pediatra, mica un dentista. Le caramelle mi aiutano a non essere visto come un mostro a tre teste.” Alzò lo sguardo su Magnus. “E credimi, ci sono un sacco di bambini che hanno paura di me.”
“Non dovrebbero. Sei bravissimo con i bambini.”
Alec arrossì e tornò a scrivere sul libretto. Magnus si chiese se fosse davvero necessario scrivere tutto quello che stava scrivendo o se fosse solo una tattica per evitare di ricevere complimenti. Aveva la sensazione che fosse più per il secondo motivo. Chissà perché Alec dubitava ancora di sé, chissà fino a che punto le insicurezze che aveva avuto da adolescente erano ancora radicate in lui. Si chiese da dove potessero derivare, se ci fosse un motivo specifico per cui non si riteneva mai abbastanza, quando era chiaro persino agli occhi di Magnus, che l’aveva visto in azione solo una volta, che Alexander fosse un bravo medico.
Era una delle cose che avrebbe voluto chiedergli, qualcosa che avrebbe contribuito ad approfondire la loro conoscenza. Ma Magnus aveva la sensazione che ad Alec non piacesse parlare di certe cose. Almeno non subito. Magnus poteva pur dire che lui e Alec erano amici, ma non lo erano ancora tal punto da conoscersi così a fondo. Come potevano, dopotutto? Non era nemmeno passato un mese dal loro primo incontro e sebbene tra di loro ci fosse già un rapporto che poteva essere più profondo di quello che normalmente lega due estranei, l’amicizia che spinge a parlare profondamente di sé non era ancora arrivata totalmente. Si fidavano l’uno dell’altro in maniera inspiegabile, ma la confidenza doveva ancora arrivare. Avevano gettato delle buone basi, secondo Magnus, qualcosa che poteva già essere definito abbastanza solido. Ma erano solo le fondamenta di quello che sarebbe diventato un grattacielo immenso.
“Sei pensieroso.” Disse ad un tratto Alec, la penna poggiata di lato e il libretto chiuso di fronte a sé. Magnus sbatté le palpebre due volte, prima di uscire totalmente dai suoi pensieri.
“È un problema?”
“Solo se c’è qualcosa che ti preoccupa. Erin sta bene, posso assicurartelo.”
Magnus sorrise. La premura nella voce di Alec gli scaldò il cuore, così come l’intensa sincerità nei suoi occhi. “Mi fido, Alexander. Ho l’impressione di avere un bravo medico, sai?”
Alec abbassò immediatamente lo sguardo, ma l’accenno di un sorriso fece comparire le fossette sulle sue guance. Alzò gli occhi dopo qualche istante, come se avesse finalmente trovato il coraggio di reggere un complimento che lo riguardava direttamente.
“Erin è stata una brava paziente. L’hai educata bene.”
“Sai che una frase del genere è tipo l’apoteosi dei complimenti, per un genitore?”
Alec ridacchiò e si appoggiò allo schienale della sedia, guardando Magnus e il modo in cui il suo sorriso illuminava ancora il suo viso. Alec aveva passato abbastanza tempo con Isabelle da sapere che esistono cose come gli illuminanti, trucchi che si danno a viso, e aveva capito che Magnus aveva un debole per i glitter – anche quel giorno il suo ombretto era glitterato – ma nessun cosmetico sarebbe stato in grado di illuminarlo come il suo sorriso.
“Adesso sembri tu quello pensieroso.”
Alec distolse lo sguardo, un leggero rossore colorò le sue guance, quasi come se avesse paura che Magnus fosse in grado di leggergli la mente.
“Vogliamo andare?” domandò il medico, cambiando argomento. “Sempre se tu ne hai voglia…” si affrettò ad aggiungere, un velo di insicurezza fece tremare leggermente la sua voce.
“Non devi nemmeno chiedere, tesoro. Ne ho sempre voglia.” Ammiccò con più malizia di quanta fosse necessaria, visto il contesto. In ogni caso, Alec colse il doppio senso e arrossì di nuovo. Non era un ragazzetto alle prime armi, aveva avuto le sue esperienze – poche, ma c’erano – eppure in qualche modo gestire Magnus e i suoi modi gli risultava difficile. L’uomo che aveva di fronte era diretto in una maniera particolare, per non dire unica. La sua assenza di filtri era una delle cose che piacevano ad Alec, ma erano anche la causa dei suoi rossori una volta sì e l’altra pure. Non era infastidito da Magnus, avrebbe solo voluto saperlo gestire meglio, evitare di fare la figura del docile e ingenuo agnellino.
“Dove andiamo?” si inserì Erin e Alec la nominò sua salvatrice ufficiale. A quanto pareva, la bambina aveva un sesto senso che le faceva aprire bocca nei momenti in cui il cervello di Alec andava in tilt e faceva fatica a trovare le risposte giuste.
“A prendere un caffè.” Rispose Magnus ed Erin guardò il suo papà con curiosità ed interesse, una piccola ruga di espressione si formò tra le sue sopracciglia, quando metabolizzò un pensiero che tramutò in parole.
“Perché Alec ora è il tuo compagno di giochi?”
Se Alec non capì il senso di quella domanda, Magnus impiegò dieci secondi a coglierne il senso. Tempo che, comunque, Erin impiegò per spiegarsi meglio, timorosa, forse, che il padre non ricordasse ciò che le aveva detto.
“L’hai detto tu, papà. Da grandi si smette di giocare e si beve caffè.”
Alec rise, intenerito da quel ragionamento, e guardò Magnus, che ancora non sapeva come rispondere. “Questa devi spiegarmela!”
Magnus annuì. “Mentre camminiamo?”
“Sì.” Alec si alzò dalla sua sedia e si tolse il camice, che appoggiò ad un attaccapanni vicino alla porta – dal quale recuperò anche il suo giubbotto. Era di pelle, come quello di Magnus, ma non poteva essere più diverso: nero e semplice. Un classico giubbotto. Eppure, sulle spalle e sulla schiena di Alexander cadeva così bene, che Magnus l’avrebbe fissato per ore senza ritegno.
“Andiamo?” Domandò Alec sulla porta. Magnus annuì alzandosi e facendo alzare Erin a sua volta. La vestì per bene, risistemandole il giubbottino che le aveva tolto per la visita – era di jeans, con delle piccole ranocchie ricamate ai lati.
Quando furono tutti fuori dall’ambulatorio, Alec chiuse la luce e la porta alle sue spalle, inserendo poi la chiave nella toppa, facendo scattare la serratura. Si diressero all’ascensore, uno di fianco all’altro, mentre Erin trotterellava vicino al suo papà.
Quando le porte metalliche dell’ascensore si aprirono, i tre entrarono ed Erin domandò a Magnus se poteva premere lei il pulsante per scendere. L’uomo annuì e le indicò cosa premere. Quando la bambina lo fece, rimasero in attesa, i pulsantini che si illuminavano mano a mano che scendevano ad ogni piano.
“Sto aspettando, compagno di giochi.” Disse Alec, un sorrisetto sornione che tirava le sue belle labbra. Magnus assottigliò gli occhi. “Ho l’impressione che questa cosa ti diverta più del necessario.”
Alec contrasse le labbra all’interno della bocca per trattenere un sorriso, facendo tornare le fossette sulle guance. “Può darsi. Diciamo che stuzzica la mia curiosità.”
“La tua curiosità è così facile da stuzzicare?”
“In genere, no.”
“Stai dicendo che mi trovi particolarmente interessante, Alexander?”
Alec si passò una mano sul mento coperto di barba. Lo faceva spesso quando qualcosa lo imbarazzava un po’ e non voleva darlo a vedere. Magnus lo trovava adorabile.
“Come se non lo sapessi già.” Esalò tutto d’un fiato, parlando forse un po’ troppo velocemente.
“No, non lo sapevo. E non lo so nemmeno ora, perché non hai esplicitamente risposto alla mia domanda.”
Alec scosse la testa, ma resse lo sguardo furbo di Magnus. Gli occhi del maggiore, magnetici e truccati in modo impeccabile, erano fissi in quelli di Alec – che sentì improvvisamente le gambe molli. Non sapeva bene perché, ma il suo autocontrollo con Magnus veniva meno. Alec non era mai stato un tipo a cui bastano un paio di occhi belli per perdere la testa, ma aveva davanti la prova vivente che una cosa simile era possibile anche per uno stoico come lui. Era la sensazione che gli facevano provare, al di là della loro peculiare bellezza. Magnus aveva dei lineamenti bellissimi: gli occhi a mandorla, di quel colore che tanto ricordava l’ambra liquida, la pelle caramellata, a tratti bronzea; la sua mascella, squadrata in un modo perfetto. Magnus era bellissimo, Alec non era certo cieco. Ma c’era qualcosa in lui, nel modo che aveva di rapportarsi, che incuriosiva Alec più di quanto si sarebbe aspettato. Ad una prima occhiata, Magnus si mostrava carismatico e sicuro di sé, egocentrico quasi. Era consapevole dell’effetto che aveva sulle persone – aveva notato, quel pomeriggio che avevano passato insieme, che aveva destato l’attenzione di molti, mentre camminavano fianco a fianco. Se nessuno di loro aveva notato Alec, per una volta, non dipendeva dal fatto che lui fosse anonimo. Dipendeva, piuttosto, dal fatto che Magnus fosse impossibile da non guardare. Come chiunque si ferma a guardare un bel tramonto, interrompendo qualsiasi attività per lasciarsi abbagliare dai suoi colori caldi e vivi, allo stesso modo le persone – e Alec in particolare – si fermavano a guardare Magnus.
Ma c’era molto più di questo. Ad una seconda occhiata, infatti, Magnus appariva solare, attento ai dettagli, paziente e premuroso. Magnus nascondeva una dolcezza particolare, dietro le prime impressioni.
Era questo che spaventava Alec. La consapevolezza che si sentisse già così legato a lui, nonostante lo conoscesse da pochissimo. La certezza che una parte di sé voleva che la fiducia che sentiva nascere dentro al suo cuore non fosse solo una sensazione, ma la vera e propria realtà. E il fatto che, nonostante avesse tutti questi pensieri che lo spaventavano, non sentiva il desiderio di allontanarlo per provare a tutelarsi.
L’idea di poterlo allontanare, mostrandosi scontroso e schivo come faceva la maggior parte delle volte, lo spaventava più dell’idea di averlo vicino e lasciare che si conoscessero.
La cosa che lo terrorizzava, in definitiva, era che in presenza di Magnus non sentisse la minima necessità di provare a proteggersi da lui o da quello che avrebbe potuto portare il loro rapporto.
“Zuccherino?” Magnus attirò la sua attenzione, destandolo dai suoi ragionamenti. “Siamo arrivati.”
Alec arrossì. Si era perso nei suoi pensieri a tal punto da non rendersi conto che erano già arrivati al piano terra. Le porte dell’ascensore erano aperte, ma Alec non aveva fatto il minimo cenno ad uscire. Si sentì un po’ un allocco.
“S-sì, usciamo.”
Varcarono la soglia dell’ascensore, dirigendosi verso il bancone del pronto soccorso, dove un gran trambusto attirò la loro attenzione. Più quella di Magnus, in realtà, meno abituato alla confusione che poteva regnare in quel particolare reparto dell’ospedale. Alec, al contrario, avvezzo a quel genere di marasma non prestò subito attenzione a ciò che stava succedendo. Per questo, fu Magnus a rendersi conto per primo dell’uomo che stava marciando verso di loro, con un’espressione dura in volto. Il suo primo istinto fu quello di mettersi davanti ad Erin e informare poi Alec dell’uomo che minacciosamente si stava avvicinando. Quando anche Alec lo notò, si sistemò davanti a Magnus e alla bambina, come se avesse voluto fare da scudo ad entrambi.
Di fronte ad Alec, in quel momento, stava Victor Aldertree, un uomo dalla pelle scura, folti ricci castani e una personalità sgradevole.
“Spero tu sia contento del tuo operato, Lightwood.” Sputò con risentimento. Magnus notò che l’uomo dovette alzare lo sguardo per arrivare a guardare Alec.
“Di cosa stai parlando, Aldertree?”
Victor lo fissò come se avesse davanti l’essere più fastidioso del pianeta. “Lo sai di cosa sto parlando. Mi hai portato via un altro paziente.” E a quel punto i suoi occhi neri si soffermarono, carichi di astio, su Magnus, alle spalle di Alec.
“Non guardarlo.” Ordinò, ma l’altro non lo ascoltò. Continuò a guardare Magnus come se fosse uno scarafaggio, percorrendo tutta la sua figura con lo sguardo, come se provasse un profondo disprezzo per lui.  “Aldertree.” A quel punto, Alec quasi ringhiò. “Non guardare lui, guarda me.” La sua mascella  si contrasse.
“Va bene, guardo te. La tua odiosa faccia da spia. Ho la commissione disciplinare che mi sta addosso, per colpa tua!”
Alec reagì a quell’affermazione con un verso di scherno. “Per colpa mia?” La voce grondava sarcasmo. “Sei il più incompetente dei pediatri, Aldertree. Tieni i pazienti solo per avere una parvenza di legalità, quando lo sanno tutti che la cosa che preferisci fare è vendere farmaci al mercato nero.” Alec si abbassò quel tanto necessario affinché Aldertree riuscisse a guardarlo negli occhi. “Se la commissione disciplinare ti sta addosso, è solo perché sei uno spacciatore. Dovresti essere radiato dall’albo.”
Gli occhi di Aldertree saettarono inquieti e nervosi, carichi di una rabbia quasi cieca. Alec per un attimo ebbe la sensazione che l’avrebbe colpito, ma poi Aldertree fece un passo indietro, allontanandosi. “Smetti di rubarmi i pazienti.”
“Dovrebbe essere una minaccia? Dovrei avere paura di te? E non rubo niente a nessuno, sono i pazienti che scelgono di cambiare medico.”
Il tono di Alec era saldo, sicuro di sé, così come la sua postura. A Magnus ricordò tanto una quercia solida ed imponente. E pensò al fatto che Aldertree, a confronto, sembrava una piccola insignificante folata di vento che, senza successo, prova ad abbatterla.
“Vattene, Aldertree. Non voglio fare scenate in ospedale.”
L’uomo lo guardò ancora con rabbia, ponderando se reagire o meno, ma sapeva bene che un comportamento poco etico come una rissa in pronto soccorso avrebbe solo peggiorato la sua situazione. Di conseguenza girò i tacchi e si allontanò senza aggiungere altro, dirigendosi verso l’uscita dell’ospedale.
Sia Magnus che Alec rimasero a guardarlo mentre si allontanava sempre di più, fino a che non sparì. Solo a quel punto, Alec si rilassò e si voltò verso Magnus.
“Mi dispiace.” Esalò, prima di guardare Erin. La bambina non sembrava troppo turbata da quello a cui aveva appena assistito, ma Alec provò comunque l’impulso di chiederle se stava bene.
“Sì,” rispose Erin. “Anche se lui rimane cattivo.”
Alec le sorrise e le lasciò una delicata carezza sulla testa – un gesto che fece istintivamente, con la stessa spontaneità con cui si comportava con Diana. Magnus lo notò e sentì il cuore accelerare. “Hai ragione, Erin. Quell’uomo è parecchio sgradevole.” Affermò Alec.
“Che vuol dire sgradevole, papà?”
Magnus era ancora concentrato su Alec, colpito dal suo comportamento. Si era messo davanti a lui e ad Erin come se avesse voluto proteggerli. L’aveva fatto senza pensarci. Era stato il suo primo istinto. Un gesto puramente altruista. Qualcosa che Magnus non vedeva da tempo.
“Vuol dire che non è simpatico, bintang.”
“Oh. Allora sì.” Continuò la bambina, rivolgendosi ad Alec. “È sgradevole!”
 Alec le sorrise ancora e poi si rivolse a Magnus. “Mi dispiace.” Disse di nuovo. “Non volevo comportarmi in quel modo, ma Aldertree irrita il mio sistema nervoso.”
Magnus gli posò una mano sulla guancia, accarezzandogli uno zigomo con il pollice. “Alexander, non devi scusarti di niente. Quell’uomo è irritante e ti sei comportato nello stesso modo in cui si sarebbe comportato chiunque.” Magnus socchiuse gli occhi, come se stesse riflettendo su qualcosa. “Forse hai reso il tutto un po’ più sexy, ma solo perché sei tu.”
Alec avvampò e i suoi occhi guardarono immediatamente verso il basso. Magnus avvertì il calore della sua pelle arrivargli al palmo della mano, ma nessuno dei due fece niente per interrompere il contatto.
Solo dopo qualche istante, Alec alzò di nuovo lo sguardo su Magnus. “Vogliamo uscire di qui?”
Magnus abbassò la mano e gli sorrise. “Sì. Direi di sì.” Prese per mano Erin e si diressero tutti e tre verso l’uscita, dopo aver salutato una Catarina immersa nelle scartoffie.



“Sei sicuro che la caffeina sia la risposta giusta?”
“Non ho dormito, Magnus. E ho fatto un turno di nove ore. Mi merito litri e litri di caffeina!”
“Bere caffè in pieno pomeriggio porterà il tuo organismo ad avere ancora la caffeina in circolo, durante la notte, e a tenerti sveglio.” Cosa che preferirei fare io. In molti modi. In tante posizioni. Ma questo Magnus lo tenne per sé, se non altro perché gli sembrava inopportuno e, sebbene Raphael avrebbe detto il contrario, anche lui aveva dei limiti alla decenza.
Alec, seduto di fronte a lui ad un tavolo in una caffetteria vicina all’ospedale, lo guardò con un sorrisetto. “Devo cominciare a chiamarti dottore?”
Magnus gli diede uno schiaffetto sul polso, allungandosi un poco sul tavolo. “Devi cominciare a darmi retta e bere meno caffè.”
“La teina pensi sia meglio? È un eccitante tanto quanto lo è la caffeina.”
Magnus decise in quel momento che la peccaminosa bocca di Alexander che pronunciava eccitante doveva essere dichiarato un gesto illegale. Nessuno pensava ai suoi poveri ormoni?
“Non pensavo alla teina. Pensavo a qualcosa più tipo una tisana, o una camomilla. Ti rilasseresti di più.”
Alec abbracciò con le mani la sua tazza fumante colma di caffè fino all’orlo. “Spegnere il cervello mi aiuterebbe a rilassarmi.” Gli occhi di Alec catturarono il liquido nero e rimasero intrappolati dentro di esso per un po’, come se stesse cercando delle risposte nei fondi del caffè che ancora doveva bere.
Magnus pulì una briciolina dalla bocca di Erin, seduta al suo fianco e intenta a mangiare un biscotto, mentre giocava con due piccoli pony, prima di allungare una mano verso Alec. Gli afferrò un polso e tracciò movimenti circolari con il pollice.
“È per il bambino che mi dicevi prima?”
Alec annuì e poi alzò lo sguardo su Magnus. “Ma non dobbiamo parlare di questo. Non voglio rattristarti.”
“Siamo venuti qui apposta per parlare, Alexander.”
“Ma non necessariamente di questo. Avevo solo bisogno di…distrarmi.”
“È questo che sono, quindi?” Domandò Magnus, usando la mano che aveva libera per portarla teatralmente al cuore. “Una mera distrazione? E io che pensavo di essere qualcosa di più!”
“Tipo il mio finto fidanzato?” Stette al gioco Alec, l’ombra di un sorriso che scacciava la preoccupazione.
“Esatto! Mi vuoi dire che sono retroceduto così in fretta?”
Alec liberò una risata vera, sebbene fosse trattenuta, come era suo solito fare. “Ti preoccupi che io beva troppa caffeina. Niente urla più al finto fidanzato di questo.”
Magnus parve soddisfatto di sé. “Giusto, hai ragione. Sono felice di avere ancora il mio posto sul podio.”
Alec gli sorrise in quel modo particolare che faceva brillare anche i suoi occhi e Magnus la reputò una bellissima vittoria.
“Puoi parlare con me, Alexander. Di qualsiasi cosa ti turbi.”
Alec parlò ancora prima che se ne rendesse conto, la risposta gli scivolò fuori dalle labbra come se fosse stata la cosa più naturale da dire. “Lo so.”   
“Allora fallo.” Gli disse Magnus.
Alec non era mai stato un tipo troppo espansivo. Evitava di raccontare i propri problemi, tendendo a tenersi tutto dentro la maggior parte delle volte.
L’argomento in questione lo tormentava parecchio perché gli ricordava un periodo della sua vita che aveva fatto soffrire tutta la sua famiglia e Max in particolare, ovviamente.
I Lightwood si erano riuniti in quella disgrazia – persino suo padre si era riavvicinato a loro, sebbene vivesse con Annamarie già da due anni. Maryse l’aveva trattato con praticità. Aveva reputato giusto informarlo della malattia di Max in quanto padre biologico, ma il tradimento che aveva subito le faceva ancora male – se non altro, perché si era sentita presa in giro da un uomo che non aveva nemmeno avuto il coraggio di lasciarla, ma aveva scelto la via dei codardi: il tradimento, condurre due vite parallele per un po’. Come se Annamarie fosse stata in prova e, nel caso con lei non avesse funzionato, Robert avrebbe potuto rimanere con loro a giocare alla famiglia felice. Quando, in realtà, Maryse e Robert non erano più felici insieme da un pezzo, ma questo è un altro discorso.   
Alec in quel momento desiderava davvero parlare con qualcuno di quello che stava vivendo, dei ricordi dolorosi che quella situazione gli riportava alla mente. Ma non vedeva perché doveva far gravare questo peso su Magnus. Per quanto questa situazione gli desse pensiero, non ne aveva nemmeno parlato con Jace od Izzy perché sapeva che entrambi avrebbero rivissuto quel periodo e non voleva provocare in loro nessuna sofferenza legata al ricordo di quei mesi.
“Non voglio rattristarti.” Ripeté, quindi, Alec. E quella frase gli sembrò tanto banale quanto, tuttavia, vera.
Magnus lo guardò con sincera determinazione. “Alexander.” La presa sul suo polso si fece più salda. “Parlami. Le preoccupazioni possono arrivare a consumarci. E in questo momento ho la sensazione che se non ne parli con qualcuno, potresti esplodere.”
Alec strinse le labbra all’interno della bocca, i suoi occhi erano fissi in quelli di Magnus. La mano dell’uomo era ancora appoggiata al suo polso e Alec pensò che tra di loro c’era sempre una serie di piccoli contatti – che partivano tutti da Magnus – che l’aiutavano a sciogliersi, come se fosse stato argilla malleabile e Magnus sapesse perfettamente come fare per riuscire a modellarlo.
Alec, inspiegabilmente, riusciva a rilassarsi sotto ad ogni tocco. E a trovare il coraggio di aprirsi.
“Non scenderò nei dettagli perché il segreto professionale me lo impedisce. Mi limiterò a dire che c’è uno dei miei pazienti che è malato e questa cosa mi ricorda quando c’era Max, al suo posto.”
Magnus, che non sapeva nulla riguardo ad un periodo in cui Max era stato malato, sentì stringersi il cuore e poté solo immaginare il grado di sofferenza che Alexander e la sua famiglia erano arrivati a toccare. Gli strinse un polso, ma inspiegabilmente Alec fece ruotare una delle mani verso l’alto, abbandonando la tazza per cercare Magnus. L’uomo appoggiò la propria mano sopra a quella dell’altro. Le loro dita non si intrecciarono. I loro palmi, semplicemente, rimasero in contatto. Uno sopra all’altro, Magnus a coprire Alec. Le loro pelli che si sfioravano, il bronzo che faceva da scudo all’avorio.
“Aveva undici anni. Aveva passato due settimane con la febbre altissima, non-stop. Non gli passava. Così il suo dottore ha deciso di fargli degli esami in più e ha scoperto che aveva una massa scura su un rene. Un tumore.” La voce di Alec tremò. “Ha fatto la chemio. Era giovane e quindi i dottori volevano vedere come avrebbe reagito alla terapia, prima di pensare all’estrazione dell’organo.”
Alec ricordava con esattezza le parole del medico.
Cerchiamo di salvaguardare l’organo. Ma Alec ogni volta che andava a trovare Max, sdraiato sopra ad un letto d’ospedale, con la flebo in vena, gli occhi cerchiati di blu e il viso smunto, la pelle grigia e i capelli sempre più sfibrati, pensava che quella soluzione fosse solo deleteria. Sarebbe stato più semplice togliere il rene malato e risparmiare a Max quella sofferenza. O così voleva credere un ragazzo di vent’anni che detestava vedere il suo fratellino ridotto in quelle condizioni.
“Facevamo i turni, sai? Non potevamo andarlo a trovare tutti insieme perché avremmo portato con noi una quantità troppo rischiosa di germi e ridotto com’era anche un semplice raffreddore avrebbe aggravato la sua situazione.”
Alec ricordava anche il procedimento a cui era sottoposto ogni volta che toccava a lui passare la giornata con Max. Lo facevano spogliare dei suoi vestiti in una saletta sterilizzata e gli passavano una divisa dell’ospedale, una tuta verdognola che gli faceva prudere tutto il corpo. Ma non gli interessava, finché era sterile e gli permetteva di vedere Max senza danneggiarlo.
«Dimmi un tuo segreto,» gli aveva chiesto una volta. Max aveva sorriso debolmente, come se avesse voluto dare una parvenza di normalità a tutta quella situazione. Era tipico del suo fratellino –  aveva pensato Alec – che aveva sempre avuto una forza d’animo invidiabile.
Il suo più grande segreto, all’epoca, era essere gay. Nessuno lo sapeva, o almeno Alec pensava fosse così.
«Non saprei, Max.»
«Avanti, Alec. Fammi distrarre un po’. Dimmi qualcosa che non sa nessuno.»

Alec ci aveva pensato su, dubbioso e timoroso che fosse il momento sbagliato – temeva di risultare egoista, confessando una cosa così intima, quando Max stava così male. Ma lo fece perché era quella l’unica cosa che i suoi fratelli non sapevano di lui. «Sono gay.»
Max aveva sorriso. «Sono il primo a cui lo dici?»
«Sì. Ed è stranamente liberatorio.»
«Pensa a quando lo dirai a Jace. La prima cosa a cui penserà è che, senza te sul mercato, avrà più ragazze per sé. Quell’ingordo.»

Alec era riuscito persino a sorridere. Sia perché Max sembrava tranquillo dopo la sua confessione, sia perché era riuscito a fare dell’ironia. Era ancora lui, si era ritrovato a pensare il maggiore. Finché riusciva ancora ad essere ironico, Alec sapeva che Max c’era ancora, che la malattia non era ancora riuscita ad abbatterlo. «Non è detto. Se anche a te piacciono le ragazze, avrà un degno avversario.»
«Mi piacciono. Abbiamo due età diverse, però. Quindi per adesso se le becca tutte lui. Sto aspettando l’adolescenza per sbocciare e diventare più bello di lui. Le premesse ci sono già.»
Max aveva tossito, Alec l’aveva aiutato a mettersi seduto e poi gli aveva dato un bicchiere d’acqua. Erano rimasti in silenzio qualche istante, prima che Max portasse i suoi occhi, così simili a quelli di Alec, sul fratello e gli domandasse: «Ci arriverò, Alec? All’adolescenza?»
Alec aveva chiaramente sentito il suo cuore fermarsi e sprofondare in un abisso. «Certo che ci arriverai.»
Max si era incupito. «È questo il mio segreto. Ho paura. Tutti i giorni. Ho paura che entri un dottore e mi dica che non c’è più niente da fare.» La sua voce aveva tremato e i suoi occhi si erano velati di lacrime.
Alec aveva stretto la mano del fratello nella sua. «Non succederà. Se la massa non dovesse restringersi, hanno già deciso che toglieranno il rene.»
«E se dovesse essere troppo tardi?»
Max aveva cominciato a piangere. «Se più aspettano, più si ingrossa e va a contagiare anche le mie parti sane?»
«Non succederà, Max. Fidati di me.»

Max aveva annuito e Alec aveva stretto la presa sulla sua mano. Una volta arrivato a casa, tuttavia, aveva pianto, sperando con tutto se stesso di avere ragione.
“Sono stati mesi difficili. Mesi in cui la situazione è rimasta stabile. Era positivo, ci dicevano, significava che la massa non si ingrossava. Ma noi non potevamo fare a meno di pensare che non diminuiva nemmeno.” Alec usò la mano che non era in contatto con quella di Magnus per passarsela sul viso. “È successo tutto molto lentamente. Ad ogni ciclo, alla fine, la massa tumorale si restringeva, fino a che un giorno non ci hanno detto che era sparita del tutto. Max aveva perso quasi dieci chili ed era pelato, ma era vivo.” Gli occhi di Alec divennero inevitabilmente lucidi. “Era vivo.” Disse di nuovo, come se per un attimo avesse sentito la necessità di ricordare a se stesso che quella storia aveva avuto un lieto fine.
Rimase in silenzio per qualche istante e Magnus rispettò quella scelta, aspettando. Alec avrebbe potuto continuare a parlare, se avesse voluto, oppure no.
“Lo so che dovrei essere in grado di separare il mio lavoro dalla vita privata, ma… quel bambino ha undici anni, è un maschio e… inevitabilmente penso a Max. E non riesco a fare a meno di pensare a quale sarà il destino di quel ragazzino. Le terapie funzioneranno? La sua famiglia avrà abbastanza aiuto psicologico per affrontare tutto ciò che li aspetta?” Alec sospirò, come se fosse stato prosciugato della maggior parte delle sue energie. Magnus strinse la presa sulla sua mano nel tentativo di trasmettergli un po’ delle proprie – come se davvero una cosa simile fosse possibile.
“Il fatto che tu sia un medico non ti rende invulnerabile, Alexander. È la tua umanità che ti rende più bravo di tanti altri. Hai un’empatia in grado di tranquillizzare chiunque e sono sicuro che la famiglia di questo bambino l’ha percepito. Sapranno gestire la cosa perché hanno te. Ho la certezza che li manderai dai medici migliori che sapranno occuparsi di loro e del ragazzino.” Magnus abbozzò un sorriso per cercare di tranquillizzare Alec. “Ed è normale che tutto questo ti ricordi Max. Ma, ringraziando chiunque sia l’entità celeste lassù, per Max quel periodo è finito. Sta bene. Ed è qui, con voi.” 
Alec annuì, deglutendo come se avesse voluto mandare giù il groppo che si era formato nella sua gola. “Grazie, Magnus.” Sussurrò.
“Non devi ringraziarmi, tesoro. Puoi parlarmi di qualsiasi cosa, quando ne hai bisogno.”
Alec accennò un sorriso a labbra chiuse, un singolo angolo della bocca alzato. I suoi occhi erano ancora velati di tristezza e preoccupazione, ma si sentiva un po’ più leggero adesso.
Il vociare intorno a loro riempì il silenzio che era calato tra i due. Alec e Magnus rimasero con le mani una sopra all’altra senza dire una parola per un po’, lasciando che tutto tornasse piano piano al suo posto – esattamente com’era successo quella sera a casa di Magnus. Il silenzio era il loro aiutante. Un’entità invisibile che li aiutava ad assestarsi.
Fu Erin a rompere quel silenzio, tuttavia, e a riportare leggerezza in quel pomeriggio. “Alec, lo vuoi un biscotto?” domandò, porgendo uno dei suoi Plasmon in direzione di Alec. Il ragazzo si trovò a sorridere, sentendo il cuore alleggerirsi un po’ di più davanti a quel gesto tanto spontaneo. Accettò il biscotto e poi rivolgendosi a Magnus, gli chiese di spiegargli la questione dei compagni di giochi.
Magnus sorrise, bevve un sorso del suo thè e cominciò a raccontare.

*

I compleanni a sorpresa tendevano sempre ad agitare Isabelle. Se non altro perché non poteva mettere bocca su troppe cose senza rischiare di essere scoperta. Andava contro la sua natura basilare di tendere troppo spesso al controllo della situazione, ma se si impegnava, riusciva a tenersi a bada.
L’unica persona che era in grado di mandare – quasi – a monte il suo autocontrollo era il maggiore dei suoi fratelli e il suo guardaroba.
A quanto pareva, nel vocabolario di Alec la nozione mettersi in tiro era inesistente ed Isabelle, che sapeva benissimo dove stavano andando, soffriva dentro a livelli atomici, mentre lo guardava infilarsi un maglione nero sformato, un paio di jeans chiari, e degli anfibi neri così consumati che sembrava fossero stati usati per combattere una guerra.
“Sei sicuro di voler uscire così?” Si lasciò scappare, non appena vide Alec infilarsi un cappellino di lana in testa. D’accordo che con l’arrivo di ottobre le temperature si erano abbassate, ma la soglia di sopportazione di Isabelle era arrivata al massimo: il suo senso del fashion stava gridando all’abominio.
Alec si volò verso di lei con un’espressione che ne aveva dell’annoiato, come se conoscesse quella ramanzina a memoria. “Ti stancherai mai di farmi notare quanto non ti piaccia il mio modo di vestire?”
“Mai. Ho una missione. Sono stata nominata dalla Santa Trinità in persona affinché il mio ineguagliabile senso del fashion salvi i miscredenti come te dalla sciatteria cronica.”
Alec la guardò malissimo, gli occhi ridotti a due fessure. “Sono sicuro che al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo non interessi un bel niente di come mi vesto io!”
“Io parlavo di Yves Saint Lauren, Elie Saab e Christian Dior.” Isabelle, seduta sul letto di Alec, accavallò le gambe fasciate dentro ad un paio di aderentissimi pantaloni neri, abbinati ad una camicetta di seta rossa. Ai piedi, portava delle Louboutin lucide con un tacco altissimo. I suoi fratelli la prendevano sempre in giro, dicendole che comprava scarpe così alte per non sentirsi la Lillipuziana della famiglia. Nemmeno le minacce di Isabelle di usare quelle scarpe come arma, avevano portato quei tre disgraziati che Izzy chiamava fratelli a farla finita. Si credevano tanto simpatici, a quanto pareva.
Alec roteò gli occhi al cielo con così tanta veemenza da rischiare di farli entrare nel retro del cranio. “Sei così melodrammatica, Izzy. Piantala di dire fesserie!”
La ragazza strinse le labbra dipinte di uno scuro color vinaccia in una linea sottile di disapprovazione. “D’accordo. Vestiti come ti pare, basta che ci muoviamo!”
“Perché tutta questa fretta? Di solito impieghi ore solo per truccarti.”
“Smetti di fare il puntiglioso e sbrigati!” Lo liquidò lei con un gesto della mano.
Alec, che era convinto che il comportamento di sua sorella derivasse dal fatto che se la fosse presa perché le aveva dato della melodrammatica, non si insospettì più di tanto e finì di prepararsi.


Isabelle sapeva fare moltissime cose, tra le quali guidare con i tacchi. Alec era stato più volte vittima di svariati mal di stomaco in tutto il periodo che Isabelle aveva impiegato per imparare a farlo, ma circa venticinque mancati rigurgiti dopo, Alec poteva dire che Izzy aveva finalmente imparato.
“Dove stiamo andando?”
“A bere qualcosa.”
“Sì, ma questa non è la strada per l’Hunter’s Moon.”
“No, perché dobbiamo passare prima dal DuMort.”
Alec corrugò la fronte, ma Isabelle non poté vederlo, essendo concentrata sulla strada. “E cosa ci andiamo a fare di sabato sera al DuMort?”
“Raphael sta ristrutturando una sala del suo hotel e vorrebbe un consiglio. Mi ha chiesto se potevo passare per dare un’occhiata a come stanno venendo i lavori e mi dispiaceva dirgli di no.”
“Oh, d’accordo.”
“Come vedi, l’unico che si rifiuta di seguire i miei consigli sei te.”
Alec alzò gli occhi al cielo. “Guida, Isabelle. E falla finita!”
Izzy si voltò velocemente verso di lui giusto il tempo per fargli una linguaccia e poi tornò a concentrarsi sulla strada. Un sorriso le tendeva le labbra, consapevole che fino ad adesso il piano stava funzionando e Alec non sospettava assolutamente nulla.



Arrivarono al DuMort dopo mezz’ora. Dopo aver trovato parcheggio, scesero dalla macchina e si diressero verso l’entrata dell’hotel, dove Alec tenne la porta aperta per la sorella, in modo da farla passare per prima. Non era mai stato dentro a quell’hotel. Sapeva della sua esistenza, perché era il più rinomato di New York, ma non ci era mai entrato. Isabelle, a quanto pareva, sì. Se non altro perché lei e Raphael erano molto amici.
Alec non l’aveva mai conosciuto, ma sapeva che se lui e Izzy erano amici era perché si erano conosciuti tramite Magnus, che conosceva Raphael da tutta la vita, in pratica.
Doveva ammettere, comunque, che quell’hotel era davvero bellissimo. L’interno era bello tanto quanto l’esterno. I pavimenti erano di marmo bianco, con delle venature scure che riprendevano il colore totalmente nero del bancone della reception. Le pareti erano di un lucido legno color mogano e davano un aspetto caldo e confortevole. Un grosso lampadario di cristallo, situato al centro del soffitto, faceva si che lo spazio venisse illuminato a sufficienza, senza dare troppo fastidio agli occhi.
Se quella era la hall, Alec poteva solo immaginare come fosse il resto dell’hotel.
Isabelle suonò il campanello che stava sul bancone della reception e rimase in attesa. Da una porta, che dava su un ufficio sul retro, comparve un ragazzo dalla postura rigida. I suoi occhi scuri, tuttavia, si addolcirono un poco quando videro Isabelle.
“Ciao, Raphael!” Izzy sorrise ampiamente, mentre il ragazzo rispose a quel sorriso con uno un po’ più discreto. “Lui è mio fratello Alec!”
Alec, a quel punto, gli fece un cenno del capo e allungò un mano. Raphael la strinse e si presentò. “Piacere.” Dissero all’unisono.
Rimasero in silenzio per un po’, come se non sapessero cosa fare, o se dovessero dirsi altro, così Isabelle che era una maestra nell’evitare silenzi imbarazzanti, decise di intervenire.
“Mi fai vedere la stanza, Raphael?”
Il direttore annuì e fece cenno ad entrambi di seguirlo. Si diressero verso un ascensore che stava in fondo ad un corridoio che costeggiava la reception. Aspettarono che le porte si aprissero e poi salirono. Una volta dentro, Raphael pigiò il pulsante dell’ultimo piano.
“Ho provato a fare le empanadas, ieri sera!” disse Izzy, rivolta a Raphael, che abbozzò un sorriso. Alec, invece, rabbrividì al solo pensiero. La sera prima, Isabelle l’aveva invitato a casa sua e le aveva assaggiate, quelle piccole ingannatrici. Fagottini dall’aspetto meraviglioso che contenevano un cuore amaro di ingredienti mischiati a caso e immersi in troppo sale. Isabelle non aveva il senso della misura, in cucina, e sembrava non se ne rendesse nemmeno conto.
“E come sono venute?” domandò Raphael.
Orribilmente male, pensò Alec, ma se lo tenne per sé.
“Forse un po’ salate.” Concesse Isabelle. “Appena hai un po’ di tempo, possiamo farle insieme? Almeno mi dici dove sbaglio.”
Raphael annuì. “A patto che posso comprare io gli ingredienti.”
“Che hanno i miei che non vanno?”
“Niente, solo che conosco un posto che vende gli ingredienti migliori.”
“E io non posso sapere dov’è questo posto?” domandò Izzy, un sorrisetto le tirava le labbra.
Erano così diversi, si trovò a pensare Alec. Raphael era stoico, serioso, la postura era rigida e si guardava attorno, studiando sempre l’ambiente che lo circondava, come se avesse il sospetto di poter essere attaccato da un momento all’altro. Isabelle, invece, era sorridente e solare, sprizzava energia positiva da ogni poro. Ed era più che evidente che, in sua compagnia, Raphael tendesse a farsi contagiare un po’ dal buon umore di Izzy.
“Lo saprai quando le tue empanadas saranno perfette.”
“Mi sembra giusto. Verrò a conoscenza di uno dei segreti dello chef quando a mia volta sarò una chef?”
Raphael accennò persino una risata, un suono sommesso e discreto che durò solo pochi secondi. “Esatto. È una tradizione dei Santiago. Svelare segreti culinari solo ai più degni.”
Alec non sapeva dire se Raphael stesse scherzando o fosse serio, ma quando vide Isabelle ridere capì che era uno scherzo.
Isabelle e Raphael erano totalmente all’opposto, ma in qualche modo funzionavano.
“Siamo arrivati.” Fece notare Izzy dopo qualche istante in silenzio. Le porte dell’ascensore di aprirono e, quando uscirono, Alec notò l’assenza di luce. Si stava giusto chiedendo il motivo per cui una stanza in ristrutturazione fosse immersa nel buio, quando la luce si accese improvvisamente e delle voci si soprapposero tra di loro, mentre gridavano sorpresa!!
Alec ebbe giusto il tempo di riconoscere i suoi fratelli, Clary, Simon, Magnus e Maia, prima di sentire chiaramente di star arrossendo. Si voltò verso Isabelle, che sorrideva, al suo fianco. “Sorpresa, fratellone! Non c’è nessuna stanza da ristrutturare, solo il tuo compleanno da festeggiare!”
“Ti sei preparata la rima?”
“Sì. E non puoi fare commenti pungenti al riguardo!” Lo ammonì, prima di saltargli al collo per abbracciarlo. Alec si chinò quel tanto necessario a ricambiare l’abbraccio.
“Pensavo ti fossi arresa all’idea che non avrei festeggiato.” Le disse, una volta che si separarono.
“L’idea non è stata mia.”
Alec corrugò la fronte. “E allora di chi?”
Isabelle sorrise sorniona ed indicò Magnus che era rimasto in attesa con gli altri. L’uomo gli fece uno dei sorrisi più luminosi che Alec avesse mai visto, prima di fargli un cenno di saluto con la mano.
A quel punto Alec si avvicinò a lui, non sapendo bene cosa fare. Era un imbranato cronico in queste situazioni, soprattutto quando era al centro dell’attenzione. Così rimase davanti a Magnus, immobile come una statua di sale, senza sapere esattamente cosa dire. “Io, ehm, grazie.” Furono le parole intelligenti che il suo cervello nel panico gli suggerì. Gran bel lavoro, cervello!
Ma Magnus sorrise lo stesso e si alzò leggermente sulle punte per dargli un bacio sulla guancia. “Buon trentesimo, tesoro!”
Alec arrossì ulteriormente – anche se pensava fosse impossibile – e per un attimo, che non seppe quantificare se fosse fugace od eterno, non percepì altro che Magnus e i suoi meravigliosi occhi su di sé.



Magnus non era mai stato nella sala grande, prima di quella sera. Raphael gliel’aveva fortemente impedito e Magnus ogni volta si sentiva come Belle nell’Ala Ovest del castello della Bestia. Avere una figlia di quattro anni aveva decisamente condizionato il suo modo di pensare.
Ad ogni modo, quella sala era davvero bella. Era la più spaziosa dell’hotel, con i pavimenti di marmo rosa e venature grigie, ampie colonne che stavano ad ogni angolo della stanza e pareti in legno lucido, sulle quali rimbalzava la luce artificiale del grosso lampadario che stava al centro del soffitto. Sul fondo della sala, una parete era interamente fatta a finestra e dava su una terrazza ampia da cui si poteva vedere tutta New York – o quasi.
“Sai, ora capisco tutto questo interesse.”
Magnus, in piedi con un drink in mano, sussultò udendo quella voce alle sue spalle. Era così concentrato a guardarsi intorno e a controllare Erin – che stava giocando con Diana e Alec – che non si era reso conto che Raphael l’aveva raggiunto.
Alle spalle, come un inquietantissimo predatore.
“Non so di cosa tu stia parlando.” Affermò Magnus con convinzione, bevendo un sorso del suo Martini. C’era un piano bar, al centro della sala, gestito da un’adorabile cameriera che faceva dei drink ottimi, secondo Magnus.
Raphael roteò gli occhi al cielo. “Vuoi fartelo. Si vede lontano un miglio. Appena l’ho visto, stasera, ho capito il perché di tanto interesse a festeggiare il suo compleanno!”
Magnus, a quel punto, si voltò verso l’amico. “Primo: sei scurrile; secondo: tu e Catarina parlate di me alle mie spalle, per caso?”
“Lo facciamo solo davanti a te, perché da buon debosciato quale sei non hai una coscienza razionale e hai bisogno di noi per non fare delle stupidaggini.” Raphael lo guardò con una serietà mortale. “In ogni caso, non ho parlato con Cat di niente. Non ci vuole un genio a capire che ti interessa, comunque. Lo guardi come se altro non pensassi a come starebbe senza maglietta.”
“Divinamente bene. Ne sono convinto per un buon 80%.”
Raphael mimò un conato di vomito. “Vacci piano, d’accordo?” Guardò a sua volta Alec, che adesso era stato raggiunto da Jace. I due erano chinati all’altezza delle bambine e stavano parlando di qualcosa. “Ricordarti com’è andata con Camille, Magnus. Eri distrutto.”
“Ti stai preoccupando per me, Raphael? Mi vuoi dire che hai un cuore sotto a quella corazza di impassibilità?”
Raphael alzò gli occhi al cielo, facendo ricorso a tutta la sua pazienza. “Che Dios mi aiuti, ma sì. Mi preoccupo per te, brutto idiota. Non voglio vederti di nuovo ridotto in quel modo.”
L’espressione sul viso di Magnus si addolcì, il suo tono si fece più serio una volta percepita la preoccupazione nel tono dell’amico. “Stai tranquillo. Ci andrò piano. Per ora siamo solo amici.”
“Certo, prima vi siete guardati come se riusciste a leggere le risposte ai misteri della vita l’uno negli occhi dell’altro, ma ehi siete amici!”
“Raphi, Raphi, Raphi… adoro il tuo sarcasmo, ma adesso sei inopportuno e malfidato!”
“Non chiamarmi in quel modo.” Sibilò. “E lo dico solo per te. Se non vuoi darmi ascolto sono affari tuoi.”
“Ti darò ascolto. Rilassati, d’accordo?”
Raphael si limitò a fargli un cenno del capo, le labbra ridotte in una linea sottile e bianca. “Devo tornare di sotto. Non voglio lasciare Rosa sola alla reception per troppo tempo.”
Magnus annuì. “Ma certo, vai. E salutami la piccola Rosa!”
Raphael borbottò qualcosa riguardo al fatto che Rosa non fosse più tanto piccola e fece un cenno sbrigativo con il capo, prima di uscire dalla sala e dirigersi verso l’ascensore. Quando sparì dietro alle porte, Magnus tornò a guardare Alec. Erin e Diana avevano ripreso a rincorrersi e Alec era intento in una conversazione con Jace.
A Magnus, tuttavia, non sfuggì che ogni tanto, lanciava un’occhiata alle piccole per controllarle.
Che fosse tanto sbagliato sperare che fosse diverso da Camille?
Che fosse errato sperare di poter avere qualcosa da lui, qualcosa di speciale, di solido?
I suoi pensieri vennero interrotti dallo stesso Alec, che notandolo da solo gli fece un cenno con la mano per fare in modo che lo raggiungesse. Magnus obbedì.



Era bellissimo, pensò mentre lo osservava attraversare la sala e avvicinarsi a lui.
Quella consapevolezza non poteva più combatterla, ormai. Alec si era arreso alla bellezza di Magnus, che riusciva a stare bene anche con un colore come l’arancione addosso. Quella sera indossava pantaloni scuri, eleganti, con delle scarpe lucide; aveva una camicia nera, di un tessuto semi-trasparente (che dava una vaga idea di come fosse ben fatto il ballerino) costellata di brillantini, alla quale aveva aggiunto un papillon arancione. Tra i capelli, aveva una ciocca dello stesso colore che Alec aveva già notato quando qualche giorno prima si era presentato nel suo ambulatorio. Magnus era bello anche in arancione.
E, soprattutto, aveva pensato di fargli una festa.
Ad Alec, che era restio ai festeggiamenti per natura, ma che davanti ad un gesto così dolce e genuino non poteva far altro che sciogliersi.
Ad Alec, che conosceva da pochissimo. Un mese, ormai, ma Magnus aveva pensato a lui in ogni caso, organizzandogli una festa a sorpresa per non far passare inosservati i suoi trent’anni.
Sentì il cuore accelerare, a quella consapevolezza, e ancora di più lo sentì correre quando Magnus lo raggiunse e Alec avvertì il suo profumo, a cui si era abituato velocemente, ma del quale – aveva la certezza – non si sarebbe mai stancato. E non gli interessava granché se era un pensiero sdolcinato.
“Non penso di averti ringraziato a dovere.” Iniziò Alec. Jace li aveva lasciati soli per andare da Clary che aveva bisogno di lui per qualcosa.
“Non devi, zuccherino.”
Alec fece roteare il bicchiere con suo drink, smuovendo il liquido ambrato al suo interno come se volesse provocare un piccolo tsunami di bourbon.
“Invece sì. Izzy mi ha detto che è stata una tua idea e che li hai aiutati ad organizzare tutto. Quindi, grazie.”
Magnus sorrise e Alec istintivamente ricambiò.
“È stato un piacere.”
“E un altro grosso dito medio al tempo, scommetto.”
Magnus rise, piccole rughe si formarono intorno ai suoi occhi a mandorla. “Esatto. In attesa del mio compleanno, festeggiamo il tuo per beffeggiare il tempo.”
Alec sorrise e finì il suo drink. “Sul serio, grazie.”
“Sul serio, zuccherino, smetti di ringraziarmi. Mi ha fatto piacere.”
Alec lo guardò – ancora – ed era sicuro di avere un’espressione ebete sul viso, qualcosa che rendeva palese la sua attrazione nei confronti di quell’uomo. Una piccola parte di lui desiderò chinarsi quel tanto sufficiente ad appoggiare le proprie labbra sulle sue. Un grazie per aver pensato a me tacito, ma inequivocabile. Qualcosa che riuscisse a rendere più delle parole.
Ma qualcosa dentro di lui lo bloccò. Paura, avrebbe detto. Paura di essere respinto, di aver frainteso ogni cosa, di correre troppo. Paura di mettere di nuovo il suo cuore in mano a qualcuno – e dal momento che l’ultima volta non era andata bene, Alec reputò saggio accantonare ogni tipo di pensiero riguardo a dei possibili baci.
“Vieni un attimo con me?” domandò Magnus e Alec, uscendo dai suoi pensieri, annuì. L’uomo gli fece cenno di seguirlo e Alec lo fece. Attraversarono tutta la sala, Magnus chiese a Clary se poteva controllare un attimo Erin e quando la rossa annuì, l’uomo proseguì. Arrivarono quasi all’ascensore, alla porta sulla destra che celava il guardaroba.
“Vuoi uccidermi, Magnus?”
Magnus liquidò la cosa con un gesto incurante della mano. “Non dire idiozie, Alexander.” Aprì la porta ed entrò. Alec rimase sulla soglia mentre guardava Magnus che rovistava tra i vari cappotti per trovare il suo. Solo quando Alec lo vide sollevare una borsa a tracolla si rese conto che non stava cercando nessun cappotto. Era la borsa di Erin, Alec l’aveva riconosciuta, per cui rimase parecchio sorpreso quando Magnus gliela porse.
“Aprila.” Disse soltanto.
Alec lo guardò con un sopracciglio alzato. “Devo aprire la borsa di Erin?”
Magnus annuì solamente, quindi Alec fece come gli era stato chiesto. Si era aspettato di trovare vestiti di ricambio, nel caso in cui Erin si fosse sporcata, ma l’unica cosa che trovò fu un pacchetto, avvolto in una carta argentata e con un fiocco rosso. Alec lo fissò qualche istante – sentendosi anche un po’ uno sciocco, perché era ovvio che quello fosse un regalo, ma era così sorpreso da quel gesto che non sapeva come reagire.
Sentì il calore arrivargli alle guance prima che qualsiasi sillaba riuscisse ad uscirgli dalle labbra.
Un regalo.
Magnus non solo aveva pensato di fargli una festa, ma gli aveva fatto anche un regalo.
“Grazie.” Sussurrò, alzando lo sguardo su Magnus, che sembrava in trepida attesa.
“Aprilo, prima di ringraziarmi. Magari non ti piace.”
Alec afferrò il pacchetto dall’interno della borsa, che richiuse e porse di nuovo a Magnus. Tolse il fiocco rosso e iniziò a scartare delicatamente la carta, come se avesse voluto evitare di fare eventuali danni al contenuto. Quando anche l’ultimo frammento della confezione fu tolto, Alec aveva tra le mani una bellissima camicia. Sorrise quando notò il colore. “È blu.” Disse, piano. “Ti sei ricordato che è il mio colore preferito.”
Magnus annuì.  “Ti piace davvero?”
“Tantissimo.”
“Mi ha fatto pensare a te, quando l’ho vista, dopo che il povero Mark mi aveva mostrato tutte le camicie che aveva in negozio. Ho rischiato di farmi uccidere.” Ma ne è valsa la pena, solo perché adesso ti vedo sorridere. Pensò Magnus, ma si trattenne. Se non altro perché a Raphael sarebbe venuto un infarto se avesse saputo che si era spinto a tanto. Ed era sicuro come la morte che Raphael sarebbe venuto a saperlo. Lui vedeva tutto, sentiva tutto e sapeva tutto – come una specie di Pizia al maschile, vestita totalmente di nero (anche d’estate).  
Alec ridacchiò, le guance roventi. Sapeva benissimo di essere rosso, soprattutto perché frasi come mi ha fatto pensare a te avevano sempre un forte potere su di lui, le sue guance e la sua colonna vertebrale, che diventava automaticamente di burro. “Lo stesso Mark che esce con Izzy?”
“Proprio lui.”
Alec fece una smorfia di disappunto. “Non mi piace quel tizio. È appiccicoso.”
“Io le avevo detto che era uno sciattone e poteva avere di meglio, ma non mi ha dato ascolto!”
“Izzy fa sempre di testa sua. È incredibilmente testarda.”
“Sarà una caratteristica di famiglia, Mr. Voglio Lavare Per Forza Le Padelle.”
Alec alzò gli occhi al cielo, ma non era infastidito da quel commento, quanto piuttosto divertito. “Era necessario che lo facessi, Magnus. Non mi hai fatto fare niente, quella sera. Mi sentivo inutile.”
“Oh, tesoro, ma solo la tua statuaria presenza ha contribuito a migliorare il mio umore!”
Alec arrossì di nuovo e abbassò lo sguardo, imbarazzato. Stava pensando a come ribattere, cercando un commento appropriato, ma tutti i suoi tentativi vennero interrotti dalla voce di Isabelle, che chiamava il suo nome a gran voce dalla sala.
“Aleeeeeec!”
“Credo dovremmo tornare di là.” Affermò e Magnus annuì. Era bello, ripeté Alec a se stesso. Era gentile, premuroso e aveva pensato a lui nel modo più genuino che potesse esistere. Aveva fatto dei gesti per lui solo perché voleva farli e non perché si aspettasse qualcosa in cambio. Era stato spontaneo, e la spontaneità aveva sempre avuto il potere di colpire Alec nel modo più positivo che potesse esistere. E sebbene il suo compleanno fosse passato da un mese, e lui era ancora pieno di paure riguardo all’avvicinarsi ad un altro uomo, quella sera volle comunque fare un piccolo regalo a se stesso.
Prima di avviarsi di nuovo verso la sala, si chinò verso Magnus e gli lasciò un bacio sulla guancia.
Non esattamente il gesto che avrebbe voluto compiere, ma sempre qualcosa che poteva aiutarlo a far capire a Magnus quanto apprezzava tutto quello che aveva fatto per lui.


Se c’era una cosa che Alec detestava era stare al centro dell’attenzione.
Più di questo, odiava sentirsi cantare tanti auguri a te a squarciagola. Ancora di più non gli piaceva rimanere in attesa della fine della canzone per dover spegnere le candeline su una torta che lo raffigurava a dieci anni, con l’apparecchio ai denti, i capelli sugli occhi e un’orrenda salopette a costine marrone con i bottoni verdi.
Sotto alla foto, scritto con la glassa azzurra, svettava a caratteri cubitali un vendetta! con tanto di punto esclamativo. Alec era sicuro che l’unico miscredente in grado di rovinare una sacher fosse Jace – in più, non ci voleva un genio a capire che quel messaggio fosse riferito a quella volta che Alec si era sgraffignato l’ultimo pezzo di pizza. Conosceva troppo bene suo fratello e sapeva che una delle cose che accendevano il suo senso vendicativo era il cibo.
Alec si coprì il viso con una mano, mentre il vociare aumentava sempre di più. Era sicuro che il suo viso stesse andando a fuoco ed era più che consapevole che Max stesse riprendendo tutta la scena con il cellulare.
Quando la canzoncina finì, Alec soffiò sulle candeline, provocando una serie di applausi. Quello che faceva più casino era Jace, così come fu il primo ad inglobarlo in un abbraccio.
“Hai rovinato una sacher!” gli sussurrò Alec all’orecchio, mentre ricambiava l’abbraccio. Jace rise forte, tanto che Alec riuscì a percepire le vibrazioni della sua cassa toracica contro di sé.
“Ho attuato una vendetta perfetta! Buon non-compleanno, fratello!” Jace sciolse l’abbraccio e gli prese il viso tra le mani, stringendogli le guance. Alec lo scacciò via e Jace rise. A turno, Isabelle e Max abbracciarono Alec a loro volta. Poi ci furono Simon e Maia e infine Clary e Diana. La piccolina passò dalle braccia della madre a quelle dello zio e schioccò un bacetto sulla guancia di Alec, che sorrise ampiamente, scordandosi immediatamente il disagio provocato da tutta quell’attenzione rivolta a lui. “Buon compleanno, zio Alec!”
“Grazie, D.”
La bambina rimase in braccio allo zio e mentre Jace si affrettava per occuparsi del taglio della torta – monitorato da Clary, che temeva il fidanzato rovinasse tutto – Magnus, con Erin in braccio, si avvicinò ad Alec.
“Per quel che vale, eri un bambino adorabile.”
Alec scosse la testa. “Non è vero, ma grazie per il tentativo.”
“Non dico mai le cose giusto per dirle, Alexander. Dico solo quello che penso. Eri un bambino adorabile.”
Alec arrossì e non disse niente. Non sapeva come rispondere ai complimenti. A volte – per non dire sempre – invidiava la capacità che aveva Isabelle di saperli gestire. Alec aveva l’impressione che sua sorella sapesse farlo così bene perché, in realtà, i ragazzi le dicevano cose che lei sapeva già. Sapeva di essere bella.
Alec, invece, non aveva mai speso troppo tempo a guardare se stesso. Non gli piaceva farlo. Per cui quando capitava che qualcuno lo facesse al posto suo, lui non sapeva mai come reagire.
“E sei un uomo adorabile. E mi fermo a questo, perché ci sono due paia di orecchie innocenti e non voglio scandalizzarle.”
Alec si strozzò con la sua stessa saliva, le guance che presero colore per la centesima volta, quella sera. “La tua assenza di freni è spiazzante, Magnus.” Ammise, perché non sapeva come altro rispondere se non con la verità.
Magnus accennò un sorriso. “Forse lo faccio di proposito. Magari mi piace vederti arrossire.”
“Sei così sadico?”
“No. Come ho detto: sei adorabile – e quando arrossisci lo sei anche di più.”
Alec si chiese, mentre sentiva il viso andare in fiamme, se fosse normale che si sentisse attratto anche dalla voce di Magnus. Si sentiva come un marinaio che viene attratto dal canto di una sirena - o un sireno, anche se Alec non era sicuro esistesse il termine, ma chi se ne importa? Il suo cervello era partito per una dimensione dove la razionalità o la grammatica non esistevano. Una dimensione dove la voce di Magnus, morbida come il velluto, risuonava indisturbata – come se fosse l’unico suono esistente.
Ed Alec, in quel preciso istante, un po’ i marinai che si gettavano dalle barche per raggiungere il canto delle sirene li capiva.
Che venga pure la morte, se l’ultimo suono udito è qualcosa di così meraviglioso.
“Ehm, ragazzi?” La voce titubante di Simon frantumò i pensieri di Alec. “Non sono sicuro se interrompo qualcosa o meno. Vi stavate fissando, senza dire nulla. Interrompo qualcosa? Una conversazione telepatica, un gioco del silenzio, o magari una gara a chi sbatte prima le ciglia? O a chi ride per primo?”
Simon parlava. Troppo. E quando era in imbarazzo diceva fesserie senza senso.
Alec lasciò la figura di Magnus per concentrarsi su di lui. “Che c’è, Simon?”
“Izzy vuole fare un brindisi.”
“Va bene, arriviamo.”
Simon annuì e si diresse di nuovo da Isabelle, che stava versando lo champagne nei flûte. Magnus e Alec lo seguirono. Le bambine – rimaste in silenzio fino a quel momento, senza capire cosa stava avvenendo tra i due adulti (i grandi sono strani) – chiesero se potevano scendere per giocare un po’. I due uomini annuirono e posarono le bambine a terra, che presero immediatamente a rincorrersi. Non dissero niente, rimasero semplicemente uno di fianco all’altro. Le loro braccia che si sfioravano appena. La mente di Alec affollata di pensieri. Tra i tanti, la consapevolezza che quel compleanno gli aveva fatto rivalutare le feste a sorpresa e l’impressione che avrebbe ricordato i suoi trent’anni nel più piacevole dei modi.




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Ciao a tutti e ben ritrovati! Con un po’ di ritardo causa mancanza tempo – e ispirazione. Questo capitolo è stato tipo un parto e alcuni pezzi ancora non mi convincono. Primo tra tutti: il compleanno di Alec. L’ho immaginato così tante volte e in modi così diversi, ma poi quando mi ritrovavo a scriverlo le idee venivano a mancare e ciò che scrivevo mi sembrava fiacco e un tantino noioso. Alla fine, ho pensato di gestirlo così – in quella che a me sembra semplicità, se invece a voi ha fatto schifo ditemelo. Nel modo più diretto possibile.
Senza contare che ho realizzato che scrivere una slow-burn è più difficile di quanto pensassi perché durante questo capitolo sono stata tentata di far baciare Alec e Magnus almeno dieci volte. Ma, se lo facessi, l’idea iniziale di questa storia andrebbe a farsi friggere, mandando a monte anche l’intera trama, che per quanto sia semplice in generale, mi serve comunque da linea guida.
Queste note sono più inutili della data di scadenza sulla nutella e vi chiedo scusa.
Passando alla parte un po’ più seria del capitolo: si parla di ciò che ha avuto Max ed essendo un argomento delicato, spero di averlo gestito in modo abbastanza rispettoso, se non altro perché sono cose che generano sofferenza vera e lungi da me il voler banalizzare una malattia così. Ad ogni modo, Alec ne riparlerà con Magnus.
Venendo ad Aldertree… cosa c’entra, direte voi? Compare tipo per tre secondi e basta. Non penso tornerà ed in effetti potrebbe sembrare anche una scena inutile, ma nella 2x09 quando Alec gli dice di non minacciare più la sua famiglia mi piace troppo e quindi volevo un po’ riprendere quella scena.
Credo di aver detto tutto, se vi va fatemi sapere cosa ne pensate. Ringrazio chiunque legga, abbia messo tra le seguite/preferite/ricordate e chi trova il tempo per recensire questa storia. Mi fa un immenso piacere, quindi grazie!
Un abbraccio, alla prossima! <3

 

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Capitolo 7
*** 7. ***


Alec non si era mai definito una persona mattiniera. Odiava le alzatacce – quando non erano obbligatorie, causa lavoro –  e il suono della sveglia. Per questo adorava non metterla, quando sapeva che gli spettava il giorno di riposo. E quel giovedì mattina, quando un fastidioso rumore interruppe il suo (meritato) sonno, la prima cosa che il suo istinto gli suggerì fu quella di cercare a tentoni la sua sveglia, con gli occhi ancora chiusi. La fece finire giù dal comodino – sentì chiaramente il tonfo sul pavimento – ma non se ne preoccupò, soprattutto perché il suono fastidioso continuava imperterrito.  Impiegò un secondo di troppo a capire che era il suo cellulare che stava vibrando come un ossesso. Alec si pentì di non averlo spento, la sera prima.
“Pronto?” bofonchiò, la voce arrocchita e una mano sul viso.
“Sono fuori dalla tua porta.”
“Restaci, Izzy. È il mio giorno di riposo. Voglio dormire.”
“Sono le otto.”
“Questo non mi spinge a cambiare idea.”
“Ho una copia delle tue chiavi, Alec, potrei entrare comunque.”
Alec sbuffò al telefono, alzando con la mano libera il cuscino per metterselo sopra alla faccia. “Sei una despota.” Scostò le coperte – abbandonando tutto il calore confortevole del suo letto – e lasciò da parte il cuscino, sedendosi sul materasso; i piedi nudi che toccavano terra. “Spero sia importante, Iz.”
“Passare del tempo insieme alla tua unica sorella non è importante, per te?”
“Non alle otto, Isabelle. Ma alle dieci diventa importantissimo.” Alec si alzò dal letto, uscendo dalla sua camera per percorrere la casa fino alla porta d’ingresso. Concluse la chiamata con Izzy e lasciò il telefono sul mobile all’ingresso, vicino alla ciotola delle chiavi. Aprì la porta, mentre si strofinava un occhio.
“Buongiorno!” esclamò raggiante la sorella. Alec fu tentato di risponderle male, ma la figura che stava vicino ad Isabelle gli fece morire le parole in gola.
“Buongiorno, raggio di sole.” Magnus stava sorridendo e gli angoli della bocca di Alec si alzarono in automatico. “Isabelle ha detto che non sei proprio mattiniero…”
“Le mie parole esatte sono state orso rabbioso, ma suppongo si possa dire anche così.” Specificò Isabelle, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del fratello.
“…Ma,” continuò Magnus, “Ti ho portato il caffè.”
Alec sorrise e si fece da parte. “Entrate.”
Isabelle lo fece per prima, inoltrandosi in quella casa come se fosse anche un po’ la sua. Magnus sospettava fosse così, mentre entrava quasi in punta di piedi, come se non avesse voluto disturbare. Alzò gli occhi su Alec, che stava chiudendo la porta. Era adorabile in pigiama – che altro non era che una maglietta a maniche corte e i pantaloni di una vecchia tuta –, con i capelli arruffati e ancora mezzo assonnato. “Sai,” disse, “È ingiusto che appena sveglio tu sia così carino.”
Alec scosse la testa, le guance che prendevano una colorazione rosa intenso. “Già, perché sono sicuro che tu appena sveglio, invece, non lo sei per niente.” Commentò con una punta di sarcasmo, totalmente convinto che Magnus, appena sveglio, fosse bellissimo. Quando non lo era, dopotutto?
“Puoi scoprirlo quando vuoi, zuccherino.” Ammiccò Magnus, perché evidentemente gli piaceva torturarlo. Alec si schiarì la gola, mentre sentiva le guance diventare rosse. Non rispose, comunque, perché non si fidava di quello che sarebbe potuto uscire dalla sua bocca. Magnus, per riempire quel silenzio, gli passò il bicchiere di caffè, ancora caldo.
“Grazie.”
“Di nulla, tesoro.”
“Non hai da dire niente sul mio consumo di caffeina?”
Magnus sorrise. “Non a quest’ora. Diventa preoccupante durante il giorno.”
Alec gli fece una linguaccia, prima di appoggiare le labbra al bicchiere di carta e prendere un sorso del caffè. Era caldo, ma non bollente, e il primo sorso ebbe lo stesso effetto di una dose liquida di linfa vitale che gli veniva iniettata nelle vene. Tutto diventa migliore, dopo il caffè.  
“Vuoi fare colazione?” domandò Alec, abbracciando il bicchiere con entrambe le mani.
“Isabelle ha un sacchetto intero pieno di bagel e brioches. L’abbiamo portato come offerta di pace.”
Alec rise e bevve un altro sorso del suo caffè. “Andiamo di là, allora, prima che se li mangi tutti.” Fece strada verso la cucina e Magnus lo seguì.


“Allora,” cominciò Alec, addentando un bagel, seduto al tavolo della cucina insieme ai suoi improvvisati ospiti, “Cosa vi porta, qui, esattamente?”
“La mia geniale idea!” esclamò Isabelle, bevendo un po’ del proprio caffè. Alec sospirò, massaggiandosi una tempia.
“Non c’è frase che mi fa più paura.”
“Lo dici sempre anche quando voglio cucinare, o quanto penso di portarti con me a fare shopping. Ormai sei poco credibile, fratellone!” Izzy sorrise trionfante, come se fosse soddisfatta di sé e della sua arguta risposta, mentre Alec chiudeva gli occhi, disperato. Magnus trovò la scena divertente e, in qualche modo, dolce. Non sapeva cosa volesse dire avere dei fratelli: certo, aveva i suoi amici che considerava come una famiglia, ma… avere un fratello è qualcosa di diverso. I fratelli sono quelle persone che sanno tutto di te, che conoscono anche il tuo lato peggiore e lo accettano. E i Lightwood erano legati in un modo speciale. C’era assoluta fedeltà tra di loro e quella certezza che, nonostante i difetti di ognuno, il bene che si volevano era sicuramente più grande.
“Sentiamo, allora.” Esalò Alec, sconfitto. “Come se avessi scelta.” Borbottò sottovoce e Izzy lo guardò male.
Ancora, Magnus dovette trattenere un sorriso.
“Ho pensato a quello che mi hai detto l’altro giorno, riguardo al fatto che non fai tanta attività fisica quanto vorresti…”
Alec annuì, timoroso di ascoltare il resto.
“…Così, ho pensato che se avessi uno stimolo, per te sarebbe più facile. Ed ecco lo stimolo!” Iz indicò Magnus con un sorriso. Alec sentì chiaramente il panico percorrergli le ossa. Parlando di sua sorella e della sua innata capacità di metterlo in imbarazzo, Alec non escludeva che Isabelle potesse aver frainteso le sue parole, vertendo il discorso su un piano sessuale. Era ovvio che lui non stesse parlando di quello, quanto piuttosto di ricominciare ad andare in palestra da lei. Perché Isabelle doveva capire sempre le cose a modo suo, dannazione?
“I-il mio stimolo?” domandò, titubante.
Izzy annuì, ma fu Magnus a prendere la parola. “Tua sorella mi ha chiesto se avevo voglia di andare a correre. Le ho detto di sì, prima ancora che mi spiegasse le sue vere intenzioni, ma rimango sempre dello stesso parere, se a te va bene.”
Alec avrebbe tirato un sospiro di sollievo, se solo non sarebbe risultato indiscreto. Niente di sessuale, solo una corsa. Che poi, non avrebbe potuto lamentarsi nemmeno nel primo caso, ma… per quanto avesse ceduto alla sua immaginazione, figurandosi Magnus in determinati contesti, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e la realtà è sempre molto diversa dalla fantasia. Primo: la realtà è imprevedibile; secondo: certe azioni portano con loro determinate conseguenze che non sempre sono un bene. Alec era convinto che non fosse il caso di rischiare di scoprire quali potessero essere. Quindi, che solo una corsa sia. Dopotutto, non c’era niente di male. Alec, da quando era tornato, non aveva ancora mosso un muscolo ed era vero che si stava impigrendo. E sapere che almeno una volta a settimana c’era qualcuno disposto a correre con lui poteva davvero essere lo stimolo di partenza per ricominciare a fare attività fisica.
“S-sì, certo, mi va benissimo. Ma tu… non sei impegnato?”
“Non il giovedì mattina. Ho lezione dopo le due del pomeriggio.”
“Oh, d’accordo allora.”
“Bene!” esclamò Izzy, battendo le mani. “Visto che il mio compito, qui, è finito, me ne vado! Ho una palestra da aprire.” Si alzò dal tavolo e risistemò bene la sedia. “A proposito, non pensare che non ti aspetti, fratellone! Verrai anche in palestra da me.”
“Sì, capo.” Alec evitò di dirle che quella era la sua idea iniziale, quando le aveva parlato qualche giorno prima.
“Ti voglio bene!” Isabelle abbracciò Alec da dietro. Il ragazzo era ancora seduto sulla sedia così allungò le braccia dietro la sua schiena per stringere Izzy meglio che poteva. La sorella gli lasciò uno schioccante bacio sulla guancia e sciolse l’abbraccio. Salutò con un bacio simile anche Magnus, prima di dirigersi alla porta. Alec la sentì chiaramente chiudersela alle spalle e sorrise. Questo era un comportamento così tipico di sua sorella che non poteva nemmeno avercela con lei. In più, in questo modo, avrebbe avuto una scusa per passare del tempo con Magnus e di certo non poteva lamentarsi.
“Non sei obbligato a farlo.”
“Lo so.” Rispose Magnus, finendo la sua brioche. “Voglio farlo.”
Alec sorrise e insieme finirono di fare colazione.



“No, è passata solo un’ora e mezza, Alexander!”
“E con questo cosa vorresti dire? Non c’è mica un galateo che impone dei tempi da rispettare!”
Magnus sbuffò, alzando gli occhi al cielo. “Sei così cocciuto. Non accetti davvero che troppo ti fa mal- che stai facendo?”
“Ti provo il contrario.” Rispose Alec, con un sorrisetto, come se fosse ovvio, estraendo il cellulare dall’enorme tasca frontale della sua felpa.
Si trovavano a Central Park. Avevano passato l’ultima ora e mezza a correre in giro per il parco. Magnus era più allenato per via del suo lavoro, ma Alec aveva presto ripreso il ritmo. Aveva dimenticato quanto gli distendesse i nervi correre, o fare qualsiasi tipo di attività fisica.
Adesso, avevano deciso di prendersi una pausa e Alec aveva adocchiato un chioschetto mobile che vendeva caffè. Alla sua decisione di prendere il secondo di quella mattinata, Magnus si era fortemente opposto.
“Il caffè è la più grande fonte di antiossidanti,” lesse allo schermo del suo cellulare, ad alta voce. “La caffeina è la sostanza psicoattiva più conosciuta al mondo e aiuta ad aumentare i livelli di energia.” Alec continuava a tenere gli occhi fissi sul cellulare, mentre scorreva con il pollice l’articolo. “Aiuta ad aumentare il metabolismo e a bruciare i grassi. Oh, e senti qua: abbassa il rischio di diabete di tipo due.” Alec alzò lo sguardo su Magnus, pieno di soddisfazione. Era così tenero con quel sorriso tutto fiero sul viso.
“Sei un so tutto io, non è vero?”
“Un po’, lo ammetto.”
“Sai cosa? Va’ a prenderti il tuo caffè, ma mi darai ragione quando ti verrà la tachicardia.”
Alec sorrise, perché Magnus con il broncio era una delle cose più adorabili che avesse mai visto e gli posò un bacio sulla guancia – come se una parte di sé avesse voluto trovare un modo per farsi perdonare e fargli tornare il sorriso. “Magari la tachicardia mi verrà comunque, visto che abbiamo corso fino ad ora e riprenderemo più tardi.” E poi, spinto da chissà quale coraggio – l’astinenza da caffeina gli faceva male, probabilmente – aggiunse: “O magari mi verrà a forza di starti vicino.”
Magnus lo sguardò sbigottito, sbattendo le palpebre un paio di volte. Rimase senza parole qualche istante, la bocca dischiusa per la sorpresa. Alec resse il suo sguardo, nonostante le guance rosse – Magnus non poteva dire se era per la corsa o per il commento che aveva appena fatto.
“Sei proprio un ruffiano, Alexander! Va’ a prendere quel caffè!” esclamò Magnus, che preso in contro piede non seppe bene come reagire. Alec rise e si avviò al chioschetto, dal quale tornò dopo poco con un bicchiere fumante di Americano.
 

Se ne stavano seduti su una panchina: Alec che sorseggiava il suo caffè, Magnus che faceva semplicemente una pausa. Era una bella giornata, il sole era alto e anche se non riscaldava come d’estate, lasciava una piacevole calura sulla pelle. Con l’arrivo di metà ottobre, i colori degli alberi erano mutati dal verde smeraldo all’arancione intenso, mescolato a qualche punta di rosso e giallo. Ad Alec piaceva tantissimo notare il cambio di stagione e tutte le mutazioni di colore che portava con sé.
“Lo sai, è strano. Non sembri per niente uno che si è impigrito.” Commentò Magnus, dopo qualche istante di silenzio.
“Ma l’ho fatto. Prima di partire, ogni occasione era buona per andare in palestra da Izzy. Un po’ perché siamo stati cresciuti con l’importanza della disciplina sportiva, un po’ perché…” Alec arrossì, “…volevo apparire quanto meno decente senza maglietta.” Borbottò, abbassando la voce, riducendola quasi ad un sussurro.
Gli occhi di Magnus percorsero inevitabilmente il torace di Alec, celato – purtroppo, se doveva dire la sua –  da una felpa. “Le cose che non si fanno per un bel ragazzo!”
Gli angoli della bocca di Alec si alzarono a malapena, ma nascose quell’accenno di sorriso dietro al bicchiere.
“Cosa facevi prima di andare da Isabelle?” Chiese Magnus, curioso.
“Al liceo facevo tiro con l’arco.”
“Davvero?”
Alec annuì. “So che non è lo sport più entusiasmante del mondo, ma a me piaceva. E in più… volevo evitare gli sport collettivi. Jace voleva che entrassi nella squadra di lacrosse con lui, ma, sai, ero un adolescente gay non dichiarato. Trovarmi a fine partita, o allenamento, in uno spogliatoio pieno di ragazzi che si cambiano sarebbe stato più una tortura che altro.”
Magnus annuì comprensivo. “Quindi hai optato anzi per qualcosa di individuale.”
“Sì.”
Magnus incrociò la gambe, sedendosi come un indiano. “E poi? Cos’altro hai fatto?”
“Boxe al college. Quella la pratico ancora, Izzy ha messo un sacco in più in palestra solo per me.” Alec bevve un sorso del suo caffè e Magnus rimase a guardarlo, pensieroso. Alec era un tipo molto riservato, ma il ballerino aveva l’impressione che si stesse aprendo, con lui. Voleva sapere di più, ma non sapeva fino a che punto Alec gli avrebbe permesso di arrivare in profondità.
“Posso chiederti una cosa?”
Alec annuì.
“Perché sei partito?”
Alec sospirò, guardando altrove, verso gli alberi, sulle foglie colorate. Non era un argomento di cui parlava volentieri, ma si fidava di Magnus, sapeva che lui non l’avrebbe giudicato – e inoltre, parlarne forse l’avrebbe aiutato a voltare completamente pagina. Non avrebbe mai dimenticato totalmente i demoni del suo passato, se prima non si fosse deciso a volerli esorcizzare completamente.
“Stavo con un ragazzo, fino all’anno scorso. Siamo stati insieme quattro anni e io… lo amavo così tanto, Magnus. Ma lui, evidentemente, non amava me. O almeno, non quanto diceva di farlo.” Alec fece una pausa. Il ricordo di William era più vivo che mai, adesso, nella sua mente. Riusciva persino a vedere la sfumatura verde dentro ai suoi occhi azzurri come il mare; riusciva a sentire il suo profumo, la sensazione della sua pelle sotto le dita, il sapore dei suoi baci – gli stessi che gli avevano tolto il fiato più di una volta. Sentiva il suono della sua voce nelle orecchie, che pronunciava parole che erano state in grado di mandare Alec a tre metri da terra, tanto erano state belle, quanto erano state in grado di farlo sprofondare nel Tartaro quando la verità era venuta fuori.
“Nessuno sa di noi, Alec! Nessuno lo saprà mai!” gli occhi di Will si posarono su Alec, che se ne stava in piedi al centro del salotto del suo appartamento. Si sentì mancare la terra sotto ai piedi.
“Cosa vuol dire che nessuno lo saprà mai? Avevi detto che ti sentivi pronto, che avresti l’avresti fatto per me, perché sono io l’unico con cui vuoi stare!” Cercò di non tremare troppo, ma la sua voce l’aveva appena tradito.
“Sto bene con te, ma potrei aver esagerato un po’.”
Il cuore di Alec sprofondò in una voragine. “Cosa vuol dire?” Si sentì uno stupido. Aveva chiesto la stessa domanda nel giro di cinque minuti, ma tutto gli sembrava così confuso. Tutto sembrava una bugia. Quattro anni della sua vita passati con una persona che pensava di conoscere e adesso… “Hai fatto finta?”
“No, non ho mai finto, ma… non ho mai avuto intenzione di dire come stessero veramente le cose. Lo dicevo perché sapevo che ti avrebbe fatto stare più tranquillo–”
“Per non rischiare di sentirmi parlare di portare la nostra relazione al passo successivo, per non rischiare di sentirmi parlare della possibilità di dire ai tuoi genitori che sei gay!”
“Non esagerare, adesso.”
“Esagerare?? Will, mi hai
mentito! In tutti questi anni non hai fatto altro che riempirmi di bugie e…” La voce gli morì in gola, un groppo di pianto otturava le sue vie respiratorie, ma decise di non cedere.
“Devo fare ciò che mio padre vuole. E lui vuole che sposi la figlia del suo socio. Non sa che sono gay e nemmeno lo saprà mai. Se si sapesse, tutti i giornalisti scriverebbero articoli su articoli, sarebbe una pubblicità negativa per lui e per l’azienda. Sarebbe un disonore troppo grande e…”
“E non ne vale la pena.” Finì per lui Alec, la voce ridotta in un sussurro. “Io non ne valgo la pena. Non valgo abbastanza per te da rischiare la tempesta in cui ti cacceresti, non è vero?” Alec si passò una mano sul viso, tristezza e rabbia che andavano a mischiarsi in un turbinio di emozioni. “Sai il colmo qual è? Che ti sarei stato vicino, che avrei mangiato la tua stessa merda, perché come uno stupido mi sono innamorato di te! Avrei ripassato le stesse pene dell’inferno che ho passato con mio padre e che, cazzo, continua a farmi passare, perché io ti amo! Ma a te non interessa. Non ti è mai interessato. Ero solo una distrazione dalla soffocante gabbia d’oro in cui si è trasformata la tua vita. Una scopata liberatoria per dimenticare la tua quotidianità.”
“Non dire così, io…”
“Non dire altro. Dalla tua bocca uscirebbero solo altre bugie e penso che tu mi abbia ferito abbastanza. Vattene, Will. Esci da quella porta e dalla mia vita.”

“La cosa strana,” proseguì Alec, con il groppo in gola e lacrime trattenute che gli pungevano gli occhi, “È che in quattro anni non l’ho mai forzato a dire niente. Sapevo cosa significasse non sentirsi pronto a dire la verità, quindi lo giustificavo sempre. Gli dicevo che doveva farlo quando lui reputasse fosse il momento giusto, che avrei aspettato. Passavamo le nostre giornate o nel mio vecchio appartamento, o nel suo. Se dovevamo andare al cinema, uno dei due doveva partire prima, prendere i biglietti e poi essere raggiunto dall’altro. In strada, non dovevamo avere nessun tipo di contatto.” Alec si passò una mano sul viso. “Non era esattamente la storia che uno si aspetta, ma mi andava bene. Lo avevo accettato perché io stesso ci ho messo tanto a fare coming-out e so che nessuno ha il diritto di farlo al posto nostro, quindi aspettavo. Quattro anni di attesa, quattro anni a sentirmi dire che prima o poi l’avrebbe detto ai suoi perché io ero speciale, ero importante; quattro anni che ho passato ad innamorarmi sempre più profondamente di qualcuno a cui interessava solo mentirmi. Sono stato sciocco e cieco.” Abbassò lo sguardo sul suo bicchiere. “Per questo sono partito. L’ospedale mi aveva chiesto se ero disposto ad andare ad Haiti per un anno. Ho pensato fosse la cosa giusta da fare: cambiare aria, provare a dimenticare il mio dolore e rendermi utile agli altri.” Rimase in silenzio, le mani strette intorno al bicchiere di plastica e gli occhi fissi a terra. Magnus non si aspettava una storia simile. Non si aspettava nemmeno che Alec arrivasse ad aprirsi così tanto. Nelle volte precedenti, le sue risposte erano state coincise e non troppo piene di dettagli. Aveva più che altro risposto a delle domande e ne aveva poste subito delle altre, come se non si ritenesse interessante abbastanza da continuare a parlare di sé, ponendo piuttosto l’attenzione sugli altri – su Magnus.
Ma adesso guardandolo seduto su una panchina, sudato e con una tuta addosso, gli occhi tristi e persi nel vuoto, Magnus sapeva che Alec gli aveva mostrato le profondità del suo cuore malandato. Era ferito e, diamine, adesso capiva il perché non aveva voluto uscire con David. Era mancanza di fiducia nei confronti degli uomini, era la paura di rimanere bruciato un’altra volta, di rischiare di donarsi di nuovo a qualcuno che l’avrebbe fatto a pezzi. Magnus conosceva quella sensazione. Camille l’aveva fatto sentire nello stesso modo, prosciugandolo di tutta la fiducia, della capacità di relazionarsi in profondità con qualcuno. Gli appoggiò una mano sul polso, accarezzandogli la pelle accaldata.
“So cosa vuol dire innamorarsi di qualcuno che pensiamo sia in un modo e si rivela essere l’opposto. Ma non devi mai, mai, sentirti sciocco per aver amato. L’amore è un sentimento bellissimo e siamo fortunati se riusciamo a provarlo. Non c’è niente di sbagliato, in questo. Lo sbaglio l’ha fatto lui, Alexander. Ti ha lasciato andare, ha preferito perderti, ed è questa la cosa sciocca.” Magnus gli sorrise, incoraggiante. “Per quello che vale, io penso tu ne valga la pena. E penso anche che non ti serva ammazzarti di palestra per stare bene senza maglietta!”
Alec sorrise e gli diede una piccola spallata. “Grazie, Magnus. Sai ascoltare, è una qualità che non si trova spesso, nelle persone.”
“Sono pieno di qualità che non si trovano spesso nelle persone!” Esclamò, un sorriso a tendergli le labbra.
Alec rise, più leggero questa volta. Intorno ai suoi occhi si formò una rete di rughe d’espressione che lo fecero apparire ancora più bello, secondo Magnus. Reputò un pazzo questo William, che aveva rinunciato a stare con lui.
“Posso chiederti una cosa io, adesso?” domandò Alec, finendo l’ultimo sorso del suo caffè.
“Certo.”
“È la madre di Erin? La persona che amavi e che si è dimostrata essere l’opposto di come pensavi…”
Magnus annuì. “Camille. Ballavamo insieme, l’ho conosciuta a vent’un anni. Dieci anni della mia vita con qualcuno che non conoscevo a fondo. Come vedi, ti capisco benissimo, tesoro.” Magnus guardò altrove, come se riuscisse a guardare attraverso un portale che l’avrebbe portato al passato. Era una persona diversa, più superficiale, forse. Veniva attratto da cosa diverse, come il divertimento sfrenato e incontrollato. Un sé più giovane si lasciava davvero troppo trascinare da Camille, che era una subdola manipolatrice già a vent’anni. Un sé più giovane tendeva a vivere la vita come se avesse voluto bruciarla alla velocità della luce, senza rendersi conto che, così facendo, non riusciva a coglierne i dettagli. Era cambiato, era maturato. La sua vita, adesso, gli ricordava una pianta che ogni giorno lui si impegnava ad annaffiare con le dovute cure per farla germogliare e crescere nel migliore dei modi. Niente più fuoco, solo acqua. Doveva crescere, non radersi al suolo da solo. Sia per se stesso che per la sua bambina.
“La amavo, moltissimo. Ma volevamo cose diverse. Quando abbiamo scoperto di Erin, lei voleva abortire. Ed è stato in quel momento che l’ho vista per quello che era: egoista, subdola. Mi sono reso conto di quanto i miei sentimenti per lei mi avessero offuscato la vista, di quanto l’avessi giustificata solo perché l’amore mi rendeva cieco.” Una pausa, un ricordo doloroso. “Non le ho permesso di farlo, comunque. Mi sento ancora meschino se penso a come ho gestito la cosa: lei era stata talmente crudele, aveva cominciato a definire Erin una cosa che le cresceva dentro, come se altro non fosse che un impiccio. Io vedevo l’opportunità di farci una famiglia insieme, lei solo un qualcosa di cui non vedeva l’ora di liberarsi. La mia carriera è finita! Continuava a dire, senza pensare che ogni parola che usciva dalla sua bocca mi trafiggeva il cuore. Lei non voleva la bambina, non voleva costruire una famiglia con me. Non potevo obbligarla, ma non volevo rischiare di perdere la mia bambina… era Erin, Alexander. L’ho amata ancora prima di sapere se fosse un maschio o una femmina, l’ho amata ancora prima che diventasse un vero e proprio feto.” Magnus sospirò. “Così le ho detto che avremmo trovato un accordo. Avremmo trovato un modo per tenere nascosta la gravidanza, uscendo dai riflettori per un po’, altrimenti avrei detto ai suoi sponsor le cose orribili che le erano uscite dalla bocca.” Fece una pausa. “Dio, mi vergogno così tanto per essermi comportato in quel modo.”
“Mi dispiace, Magnus.” Alec mise da parte il bicchiere vuoto per prendere tra le sue mani quelle di Magnus. “Per quello che vale,” Continuò, “Ci ha perso lei. Tu ed Erin siete una famiglia bellissima.”
“Ti ringrazio, tesoro.”
Alec gli rivolse un sorriso, stringendo un po’ la presa sulle sue mani, prima di lasciarlo andare. Non dissero altro, rimanendo in silenzio per un po’. Seduti uno di fianco all’altro, guardarono Central Park e le persone che lo attraversavano, chi con calma, chi di corsa, chi con gli occhi attaccati al cellulare.  Alec posò nuovamente lo sguardo su Magnus, rendendosi conto che si erano conosciuti un po’ di più, quel giorno; che si erano detti cose importanti, personali. Era un passo notevole, pensò Alec – il primo verso la guarigione, verso il completo esorcismo del suo passato. Sorrise.
“Posso chiederti un’altra cosa?”
“Quanto sei loquace, stamani, fiorellino. Certo che puoi.”
Alec gli diede un colpetto sul ginocchio, cercando di trattenere un sorriso. “Perché l’arancione? I capelli, i vestiti…” alluse ai pantaloni sportivi di Magnus, che erano neri, ma avevano una striscia arancione ai lati.
Magnus si aprì in un sorrisetto malizioso. “L’hai notato. In genere noti sempre tutto o devo sentirmi speciale?”
Alec guardò altrove, le guance che divennero rosa. La risposta era più che ovvia, vista la sua reazione e sapeva benissimo che Magnus aveva imparato ad interpretarlo a tal punto da dedurre che fosse perché, in qualche modo, Alec pensava che lui fosse speciale. “L’ho notato.” Si limitò a rispondere.
Magnus sorrise di nuovo. “Ottobre è il mese di Halloween. Ed essendo l’arancione il colore per eccellenza di Halloween, lo uso come promemoria per ricordare al mondo quanto io ami questa festa.”
Alec accennò con l’indice alla ciocca arancione nei capelli di Magnus. “Lo vedo.”
“Non giudicarmi, tesoro.”
“Non lo farei mai!” Alzò le mani in segno di resa.
“Bene, perché altrimenti dovrei non invitarti alla mia festa e senza di te sarebbe noiosa.”
Alec rise, scuotendo la testa. “È un modo strano per invitarmi, ma ci sarò. Verranno anche i miei fratelli?”
“Lo chiederò anche a loro, sì.”
“Fantastico, così posso vendicarmi su Jace.”
Magnus alzò un sopracciglio. “Per la tua torta?”
Alec annuì.
“È qualcosa che dovrei sapere?”
Alec negò con il capo.
“D’accordo, allora. Vogliamo ricominciare a correre? Vediamo se riesci a starmi dietro?”
“Mi stai sfidando, Magnus?”
“Se devi chiederlo vuol dire che non sono stato abbastanza chiaro, pasticcino.”
Alec ridusse gli occhi a due fessure. “D’accordo, allora. Corriamo.”
Magnus non se lo fece ripetere due volte.


*


Simon era appena uscito dal suo ufficio. Il suo capo lo teneva a lavorare fino a tardi, ultimamente, perché voleva portare a termine l’ultimo progetto a cui stavano lavorando prima dei tempi stabiliti. Ci daranno un bonus, Lewis, se riusciamo a finire prima. E sai cosa significa? Più soldi per me, più pubblicità per te. E non che a Simon non andasse bene, sapeva che essendo ancora giovane, la pubblicità gli faceva più che bene, ma di certo non avrebbe schifato qualche soldo in più a fine mese anche per sé.
Simon si riteneva piuttosto bravo nel suo lavoro, ma questo nuovissimo videogioco sembrava impossibile da perfezionare. Il suo capo continuava a ripetergli che sapeva che poteva fare di meglio, che l’aveva scelto proprio per le sue idee originali ed era ora che cominciasse a tirarne fuori di grandiose – come se il suo cervello fosse stato un dannato cilindro e si aspettasse di vederne uscire un coniglio da un momento all’altro. Simon ci lavorava giorno e notte – e quando non lo faceva in ufficio, a casa si trovava a riflettere su cosa rendesse effettivamente un videogame grandioso. Mentre si dirigeva verso la fermata della metro, si appuntò mentalmente di fare un sondaggio. Avrebbe iniziato con Max, che in pratica sapeva giocare a qualsiasi cosa esistesse.
Con questi pensieri per la testa, Simon cominciò a scendere le scale della metro, ma il suono del suo cellulare attirò la sua attenzione.
“Pron-”
“Oh, Simon, grazie al cielo hai risposto in fretta! È un’emergenza, devi venire immediatamente qui!”
Il tono allarmato di Isabelle lo fece preoccupare. “Iz, va tutto bene?” Simon si stava già immaginando gli scenari peggiori e il suo cervello iniziò a calcolare quanto avrebbe impiegato a raggiungere  l’appartamento di Isabelle se anzi che prendere il treno, avesse corso.
“È enorme Simon!”
“Mi stai facendo preoccupare, Iz. Calmati e dimmi che succede!”
“C’è una pantegana nel mio appartamento. Una pantegana! Come diavolo ha fatto ad entrare?!” La voce di Isabelle salì di un’ottava, ma Simon si rilassò immediatamente. Di tutti gli scenari apocalittici che si era figurato –  ladri, rapitori, un possibile serial killer – un topo in formato gigante era decisamente una passeggiata, a confronto.
“Sarò lì il prima possibile. Tu intanto… sali di una sedia, o sul tavolo.”
“Sono sul tavolo, in cucina. Dio, quanto odio quelle bestiacce!”
Simon sorrise –  ma non si lasciò andare in nessun modo ad una risata, altrimenti Isabelle l’avrebbe ucciso – e la salutò, terminando la chiamata.
Pensava di aver visto parecchie cose, al mondo, ma mai si sarebbe immaginato di assistere ad Isabelle Lightwood che ha paura di un topo.


Simon aveva una copia delle chiavi dell’appartamento di Isabelle. E davvero mentirebbe se dicesse di non aver fantasticato sul significato di quel gesto, prima che la realtà – saccente, crudele e brutale – gli ricordasse che anche i suoi fratelli ne avevano una. Magari non era nemmeno più friendzonato, ma direttamente brotherzonato e anche se non esisteva come parola, nella testa di Simon aveva comunque un significato a cui non voleva pensare in quel momento.
Se, da amico, poteva avere una possibilità su un miliardo, nel caso in cui Isabelle lo vedesse più come un fratello anche quella sua unica possibilità andava in fumo. Quando immaginava di poter essere un Lightwood, non si riferiva alla fratellanza, quanto piuttosto a diventare il marito di Izzy – e no, non gli importava un granché se di solito erano le mogli a prendere i cognomi dei mariti. Simon pensava che quella fosse una tradizione un tantino maschilista e decisamente retrograda. Era ora che si superasse un concetto simile, che prevede il passaggio da “signorina” a “signora” solo dopo che un uomo ha preso in sposa la donna in questione. Per come la vedeva Simon, Isabelle era già una signora – e non solo perché era dotata di un’eleganza naturale e rara da trovare, ma perché era unica nel suo genere, forte ed indipendente, affettuosa e gentile. Izzy era bella, non solo esternamente. Era bella dentro. E questa era la qualità che Simon preferiva in lei.
“Izzy, sono arrivato.” Si annunciò, aprendo la porta di casa. Percorse il piccolo ingresso dell’entrata che dava sul salotto. Era in ordine e decisamente colorato come sempre. Simon sorpassò il salotto, dirigendosi verso la porta sulla destra che sapeva dava sulla cucina. Trovò Isabelle in ginocchio sul tavolo, i capelli legati in una treccia e con indosso una tuta rosa, composta da pantaloni e una felpa aperta su una canottiera bianca. Era armata di un grosso cucchiaio di legno e Simon la trovò carinissima.
“Oh sei qui, grazie a Dio. È enorme Simon e a me fa schifo da morire!”
“Sai, non pensavo che qualcuno in grado di mettere KO energumeni tre volte più grandi di sé avesse paura di un topo.”
Pantegana, Simon. Sono grosse come zattere.”
“Stai esagerando, adesso.”
“Allora guarda tu stesso! L’ho intrappolata lì sotto!” indicò con il cucchiaio di legno una ciotola di plastica gialla rivolta al contrario sul pavimento, come se fosse una piccola cupola.
Simon alzò un sopracciglio. “Hai intrappolato il mostro lì dentro?”
Isabelle annuì. “Puoi fare qualcosa?”
“Senza alzare la cupola di contenimento, non credo proprio.”
Isabelle sgranò gli occhi e gli puntò addosso il cucchiaio. “Non osare anche solo pensare di liberare quella bestia!”
Simon contrasse le labbra all’interno della bocca per non sorridere. “Iz. Uccidi i ragni per tuo fratello, i ragni. E non i ragni super fighi che ti trasformano in Spiderman, ma quelli schifosi, pelosi e grossi come il Texas. Penso tu possa gestire la vista di questa pantegana, mentre provo a prenderla per sbarazzarmene.”
Isabelle appoggiò il suo cucchiaio sulla superficie del tavolo. “Non devi mai dire ad Alec questa cosa. Detesta che gli altri sappiano che è aracnofobico.”
Simon annuì. “Croce sul cuore. Ora, vuoi scendere dal tavolo e aiutarmi con questo problema?” Le porse una mano, che la ragazza afferrò senza pensarci due volte e scese dal tavolo. Quando Izzy portava i tacchi, era un poco più bassa di lui, adesso che aveva addosso solo dei calzini antiscivolo, la differenza d’altezza si notava di più. Simon fu enormemente tentato di darle un bacio sulla fronte per farla sentire al sicuro, ma lo reputò un gesto fuori luogo e un tantino troppo esplicito. C’è qualcosa che grida maggiormente: sono innamorato di te di un gesto simile?
Forse sì in realtà. Magari un bacio sulle labbra, o una confessione vera e propria, ma Simon non dava baci sulla fronte a chiunque, quindi per come la vedeva lui, un gesto simile era inequivocabile.
“Hai un pezzetto di formaggio, in frigo?”
“Vuoi intrappolarla come in Tom&Jerry?”
“Più o meno, sì.” Fece spallucce Simon ed Isabelle sorrise. La ragazza di diresse al frigo e prese un pezzo di formaggio che consegnò a Simon.
Il ragazzo anche se non era propriamente sicuro di quello che stava per fare, alzò con delicatezza la ciotola e sistemò il pezzo di formaggio vicino al bordo alzato. L’animale, percepito l’odore del cibo, anzi che scappare tirò fuori il naso dalla sua trappola improvvisata e si mise ad annusare il formaggio. A quel punto, Simon sollevò completamente la ciotola e trovò… un criceto.
“Isabelle…” cominciò, parlando alla ragazza che si era nascosta alle sue spalle. “…Hai mai davvero visto una pantegana?”
“No, ma so che sono roditori e che sono grosse. E questo animale è grosso ed è un roditore.”
“Iz, questo è un criceto!”
Isabelle gli balzò davanti, offesa dalle insinuazioni dell’amico. “Mica sono stupida, Simon! So riconoscere un criceto e questo non lo è! Guarda quant’è grosso!”
Simon si chinò all’altezza dell’animale e lo sollevò, adagiandoselo contro il petto mentre il piccoletto finiva di mangiare. “È il criceto della signora Andrews, al piano di sopra. Quella donna ha la tendenza a nutrire qualsiasi essere vivente un po’ troppo… pensa che una volta l’ho incontrata in ascensore e mi ha convinto a mangiare due dei panini che aveva appena comprato perché mi vedeva, citandola, un po’ debilitato. Questo criceto è grosso solo perché lei lo fa ingrassare.”
Isabelle lo fissò confusa e un po’ spaesata, poi portò l’attenzione sull’animaletto. Aveva effettivamente le sembianze di un criceto, anche se era davvero gigante. Si sentì improvvisamente una stupida.
“Ho reagito come la classica damigella in pericolo. Quanto posso essere idiota?”
“Non lo sei per niente. Tutti abbiamo paura di qualcosa. Io detesto gli spazi chiusi, tu hai paura dei topi. Sei solo umana, Isabelle.”
Izzy si rilassò: Simon aveva ragione e aveva l’innata capacità di sapere sempre cosa dire per farla stare meglio o tirarla su di morale. Era un dono speciale.
“Grazie per essere corso in mio soccorso.”
“Quando vuoi, milady.”
Isabelle sorrise e si sporse per lasciare un bacio sulla guancia di Simon. “Portiamo il criceto alla signora Andrews?”
Simon annuì. “Sei consapevole che ci chiederà se ci siamo finalmente sposati, vero?”
“Lo dice sempre e tutte le volte dobbiamo ripeterle che siamo amici. Ma su una cosa ha ragione…”
“Quale?”
“Sei davvero un ottimo partito. E sei molto carino.”
Simon si strozzò con la sua stessa saliva, mentre i neuroni dentro al suo cervello cominciavano a scontrarsi nel panico tra di loro, come se fossero improvvisamente saliti sulle macchine degli autoscontri da ubriachi e non sapessero fare altro se non collidere tra di loro senza nessuna logica.
“Ehm, sì, grazie, credo. Andiamo su?” si affrettò ad aggiungere, per evitare di prestare troppa attenzione al suo cuore impazzito.
Isabelle annuì. Insieme si diressero verso la porta di ingresso, dove Isabelle indossò delle pantofole a forma di unicorno e, prese le chiavi, uscirono di casa con il criceto ancora in braccio.
Direzione: terzo piano.


Di ritorno dal loro incontro con la signora Andrews, che, dopo averli ringraziati, aveva raccontato nei dettagli la fuga di Omero – così si chiamava il criceto – e la sua conseguente preoccupazione, Simon ed Isabelle camminavano nel corridoio che portava dall’ascensore all’appartamento della ragazza al secondo piano. Anche quella volta, si trovò a riflettere Simon, la signora Andrews aveva chiesto se si erano sposati. Siete così belli insieme, cari miei. La gioventù è il momento giusto per il matrimonio. Non aspettate di diventare vecchi, credetemi!
Isabelle tutte le volte le ripeteva che erano soltanto amici e Simon, ogni volta, si trovava a detestare sempre un po’ di più quella parola. Amici. Ogni volta che usciva dalla bocca di Izzy, lui avrebbe voluto dirle: ti amo! – o infilare la testa nel forno per la frustrazione data dalla sua mancanza di coraggio – ma poi si immaginava le conseguenze che una confessione simile avrebbe portato: imbarazzo, la rovina della loro amicizia. Simon non voleva questo. Non voleva che si allontanassero perché, oltre all’amore che provava nei confronti di Isabelle, lei era davvero sua amica. Simon era sicuro che, prima o poi, il momento giusto per confessarle i suoi sentimenti sarebbe arrivato. Prima o poi, il coraggio avrebbe preso il sopravvento su qualsiasi altra emozione e le avrebbe parlato a cuore aperto. Le parole gli sarebbero uscite di bocca con naturalezza, non troppo pretenziose, ma giuste. O almeno, questo era quello che Simon sperava.
Arrivati davanti alla porta, Isabelle inserì la chiave nella toppa e l’aprì.
“Vuoi fermarti a cena? Prendiamo la pizza.”
Simon le sorrise. “Non so dire di no alla pizza.” In realtà non sapeva dire di no ad Isabelle. La ragazza sorrise e lo fece entrare in casa per primo; poi chiamò la pizzeria.


“Ma dimmi onestamente, hai davvero mai avuto dei dubbi su chi fosse il candidato perfetto?” domandò Simon, addentando un pezzo della sua pizza ai funghi. Ne avevano ordinata una formato gigante e avevano chiesto di dividerla a metà, mettendo nella parte di Simon i funghi – perché era vegetariano – e in quella di Isabelle il prosciutto. Se ne stavano seduti sul divano della ragazza, le gambe di Isabelle sul grembo di Simon, mentre lo scatolone della pizza era sul tavolino di vetro davanti al divano.
Alla televisione, stavano guardando Il diario di Bridget Jones, un film che guardavano solo quando erano insieme, negando in presenza di chiunque che fosse – insieme all’intera saga – uno dei loro film preferiti.
“Assolutamente no! Mark Darcy vince a mani basse!” Esclamò Isabelle, dopo aver ingoiato il suo boccone.
Simon sorrise. “Colin Firth vince sempre a mani basse. Lo trovo affascinante persino io!”
Isabelle rise e scosse affettuosamente la testa. “Sei proprio un tipo, Simon Lewis.”
“Questo è quello che dite voi ragazze quando avete a che fare con uno che è un po’ strano e magari anche bruttino.”
Izzy gli diede uno schiaffetto sul braccio. “Smettila! Non è vero. Non sei strano e non sei nemmeno brutto! Sei bello e hai un modo di fare speciale, Simon. Ogni ragazza sarebbe fortunata ad uscire con te.” Lo guardò con i suoi bellissimi occhi neri, che avevano la capacità di fargli mancare il respiro come mai era successo, prima di lei. Simon aveva avuto parecchie cotte, ma niente, niente, era paragonabile alla sensazione che provava ogni volta che Isabelle lo guardava in quel modo. Era quella sensazione che gli aveva fatto capire che si era irrimediabilmente innamorato di lei. Isabelle lo guardava e Simon riusciva quasi a sentire il suo sangue che si trasformava in elettricità, dandogli l’impressione di venire folgorato e rianimato allo stesso tempo. Riusciva a fermargli il cuore e a ridargli vita nel medesimo momento, come se lei stessa fosse fine ed inizio, la cosa più simile a quel concetto di alfa e omega.
Solo Isabelle, con la sua capacità innata di accendere il cuore di Simon.
Allora esci con me, avrebbe voluto dirle, prima che si ricordasse che Izzy aveva un ragazzo. Scacciò tutti i suoi pensieri, accantonò le sue sensazioni e chiese, spostando l’attenzione su di lei, piuttosto che su di sé: “A proposito di Mark, come va con il tuo?”
“Non è il mio. Ci stiamo conoscendo, ancora.”
“Ma lui sembra molto preso da te.”
“Anche a me lui piace. È un tipo carino e gentile, ma è presto per dare delle etichette, ecco. Non è che è già il mio ragazzo. Usciamo, tutto qui.”
Simon annuì, sistemandosi meglio le gambe di Izzy sulle sue. Lasciò le mani appoggiate all’altezza delle ginocchia della ragazza, ma fu un gesto così istintivo e naturale che a nessuno dei due diede fastidio – ne risultò essere fonte di imbarazzo.
Uscite, tutto qui. E lui lo sa?”
Izzy annuì. “Certo, sono stata sincera. Gli ho detto che vorrei conoscerlo meglio, prima di buttarmi in una relazione a capofitto. Sai come sono finite tutte le mie relazioni che sono iniziate principalmente con il sesso. Quando si finiva di stare avvinghiati, le conversazioni erano spesso deboli e mentalmente non avevo nessun tipo di connessione. Vorrei avere qualcosa di diverso, un rapporto vero, che vada al di là della fisicità. Ma voglio andarci piano, questa volta. Evitare di affrettare le cose e rimanerci male nel caso non dovessero finire bene.”
Simon zittì quella vocina malefica nella sua testa che gli stava suggerendo che loro avevano una connessione mentale, un’intesa che permetteva loro di capirsi anche solo con uno sguardo, senza aggiungere una parola. Non voleva prestarle attenzione, a quella vocetta. Cos’era, un’auto-sabotaggio? Persino il suo subconscio gli remava contro, adesso, ricordandogli quello che avrebbe voluto, ma che non aveva?
“Prenditi il tuo tempo, tutto quello di cui hai bisogno. Lui aspetterà a dare un’etichetta al vostro rapporto e nel mentre imparerà a conoscerti. Una volta che avrà visto che persona sei, capirà che ne è valsa la pena aspettare.” E forse stava parlando anche un po’ per se stesso, perché davvero per lei avrebbe aspettato fino alla fine dei suoi giorni, se solo avesse saputo di avere una possibilità. Ma lo pensava sul serio. Al di là di se stesso, era sincero. Non c’era egoismo nelle sue parole, solo la pura verità. Isabelle era una ragazza per la quale valeva la pena aspettare. Una volta che lei aveva capito di potersi fidare abbastanza della persona che aveva di fronte, si mostrava esattamente per quello che era – e se uno poteva trovala bellissima all’esterno, avrebbe capito che dentro lo era ancora di più.
Isabelle era come quel sasso che, una volta aperto, mostra al suo interno l’opale più bello che possa esistere.
La ragazza sorrise, un sorriso ampio che le andava da orecchio ad orecchio e spostò le gambe dal grembo di Simon solo per riuscire a mettersi in ginocchio sul divano e sporgersi verso di lui per abbracciarlo stretto stretto. “Come farei senza di te, Simon Lewis?”
“Ce la faresti comunque, sei tipo la Wonder Woman dei tempi moderni.” Rispose e Isabelle rise contro il suo orecchio. Simon si unì a lei. “Sono serio, Izzy,” continuò. “Non sento nemmeno la necessità di dirti che se dovesse farti soffrire ci penserei io perché se lo facesse, sapresti cavartela benissimo da sola. Mi farebbe anche un po’ pena, se devo dirla tutta.”
“Stai esagerando, adesso!” Esclamò Isabelle, sciogliendo l’abbraccio.
“Non esagero, dico la verità. Ma, se dovesse farti soffrire, e vuoi un aiuto per fargli una bella ramanzina, puoi contare su di me!”
“Grazie.” Sussurrò Iz, prima di sporgersi e lasciargli un bacio sulla guancia. Simon sorrise come un bambino a cui era appena stato comprato il gelato.
Rimasero insieme tutta la sera, finirono la pizza e guardarono due film su tre della saga – e il terzo lo mancarono solo perché Simon cominciava ad avere sonno e pensò che fosse meglio tornare a casa sua, farsi una doccia e buttarsi a letto.
Dopo essersi salutati, con un abbraccio e la promessa di non raccontare a nessuno – soprattutto ai fratelli di Isabelle – l’incidente con il topo/criceto, Simon, in viaggio a piedi verso la metro, pensò che era fortunato. Aveva Isabelle nella sua vita e, per adesso, gli bastava.


*


Alec camminava verso la scuola di Magnus. Era quasi ora di cena e lui aveva appena finito il suo turno. Durante la sua pausa, nel pomeriggio, lui e Magnus si erano scambiati qualche messaggio e il ballerino l’aveva invitato a cena a casa sua. Alec si era offerto di passarlo a prendere e andare a casa insieme. Non si vedevano da qualche giorno e Alec era inspiegabilmente elettrizzato all’idea di rivederlo. Se, di norma, tendeva a passare i suoi sabato sera con Maia, Isabelle e Simon all’Hunter’s Moon, quel sabato in particolare l’avrebbe passato con Magnus – e l’idea lo rendeva più felice di un giro di bevute.
Nulla da togliere al tempo che passava con sua sorella e i suoi amici, ma Alec a volte aveva anche bisogno di tranquillità. E poi, doveva ammettere con se stesso, passare del tempo con Magnus gli piaceva, quindi quando gli aveva proposto di fare qualcosa insieme, Alec aveva provato una strana euforia infantile. Non voleva dare troppo peso a quella sensazione, più che altro per non crearsi dei castelli costruiti sull’aria. Contro ogni logica – e Alec ne usava tanta, troppa se lo si chiede ad Isabelle – aveva deciso di non interpretare niente, di non analizzare il rapporto che avevano lui e Magnus. Decise semplicemente che si sarebbe goduto la loro amicizia, senza pensarci troppo.
Aprì la porta a spinta della scuola di Magnus e percorse il corridoio che portava alla grande sala da ballo dove si tenevano le lezioni. Quando la raggiunse, notò immediatamente Magnus. Si era tagliato i capelli, rasandoli ai lati e lasciandoli lunghi al centro. Erano tenuti bassi e pettinati da una parte – la ciocca arancione era ancora presente e Alec, istintivamente, sorrise. Indossava una maglietta a maniche corte bianca e un paio di pantacollant azzurri; ai piedi portava ancora le scarpette da danza classica. Alec non fece in tempo a cercare anche Erin con lo sguardo, che notò l’interlocutore di Magnus. Di norma, sapeva che poteva capitare che qualche genitore si fermasse a parlare con lui riguardo i progressi delle figlie, ma quel tipo sembrava stesse tenendo una conversazione del tutto diversa.
“Dai, Magnus, sarà divertente. Faremo come ai vecchi tempi.” Disse il tizio e Alec ebbe la conferma che di certo non era lì per parlare di figli.
Magnus, tuttavia, sembrava a disagio davanti a quel tipo. “Ti ringrazio, ma…”
L’altro alzò una mano come per zittirlo e quel gesto infastidì Alec. “Non provare a rifilarmi una scusa. So già che hai detto a Sophia che ci sarai. Saremo lì entrambi, io sono in città, e in passato insieme ci siamo divertiti. Non vedo perché non dovremmo farlo.”
Alec non seppe davvero cosa gli passò per la testa, o per quale motivo non riuscì a tenere chiusa la bocca. Forse fu la sensazione di vedere Magnus a disagio, o l’impressione che provò, guardandolo: Magnus sembrava stesse cercando un modo gentile per rifiutare quel tipo senza essere scortese.
“Forse perché ha detto di no? È chiaro che non voglia farlo, quindi perché insisti?” La sua voce echeggiò tra le mura della stanza e i due uomini si voltarono verso di lui, che era rimasto in piedi alla fine del corridoio – o l’inizio, se lo si guardava dalla prospettiva del ballerino e del suo interlocutore.
Non appena Magnus lo vide, gli angoli della sua bocca inevitabilmente si alzarono. Notando quel gesto, Alec si avvicinò ai due, fino a che non li raggiunse. L’uomo che stava parlando con Magnus era decisamente bello, discretamente alto – ma non quanto Alec – con dei tratti del viso marcati. Aveva occhi neri, capelli ricci dello stesso colore e una carnagione olivastra.
Stava guardando Alec con un sorriso, mentre i suoi occhi percorrevano la sua intera figura con interesse. “Lui è il motivo per cui non vuoi venire con me?”
“Ehm, sì.” Disse Magnus, lanciando uno sguardo ad Alec, una silenziosa richiesta di reggergli il gioco.
“Oh, Magnus, hai sempre avuto dei gusti ottimi. Sul serio, tra te e lui non so chi guardare.” L’uomo guardò Alec ancora una volta – e onestamente, tutte quelle attenzioni non richieste infastidirono il medico anche un po’ – prima di guardarlo dritto negli occhi. “E hai un bel caratterino, non è vero? Ma non hai bisogno di essere geloso, so quando devo tirarmi indietro. Anche se, se tu non fossi impegnato con Magnus, potrei perdere la testa per uno come te.”
“Tu perdi la testa per chiunque abbia un bel viso, Imasu.” Commentò Magnus, più pungente di quanto in realtà avesse voluto.  Perché poi? Gli dava forse fastidio che guardasse Alexander con interesse? Che i suoi occhi percorressero lascivi tutta la sua figura?
Forse un po’, ma scacciò immediatamente quel pensiero. Era assurdo. Lui e Alec erano amici. Amici.
“Oh, ritira gli artigli, Magnus. Non infastidirò il tuo bello, e nemmeno te, se è per questo.” Fece una pausa, lisciandosi il cappotto che indossava. “Ci vediamo domani sera. Non vedo l’ora di rivedervi.” Ammiccò, con un sorriso smagliante rivolto ad entrambi e lasciò la sala.
Solo quando Alec sentì la porta chiudersi, si rivolse a Magnus. “Puoi spiegarmi cos’è appena successo?”
“Sì, ma prima vieni nel mio ufficio. Ho lasciato Erin lì e non voglio stia troppo sola.”
Alec annuì e insieme si diressero verso l’ufficio di Magnus.


Trovarono Erin seduta alla scrivania di Magnus, intenta a disegnare. Quando la bambina si accorse del padre sorrise, e il suo sorriso si allargò ulteriormente quando notò che c’era anche Alec.
Scese dalla seggiola girevole – decisamente alta per una bambina della sua età – e corse in contro ai due.
“Alec!” esclamò e l’uomo, istintivamente, si chinò all’altezza della bambina. Allargò le braccia e la piccola si buttò al suo interno, stringendo le proprie al collo di Alec, il quale rise.
“Ciao, piccolina. Come stai?” La sollevò, prendendola in braccio. Erin lo lasciò fare e Magnus, per poco, non si mise a piangere di gioia. Non capitava spesso che  Erin desse confidenza a persone che conosceva da poco. Anzi, non era mai capitato. Eppure, con Alec si comportava come se lo conoscesse da sempre ed era molto espansiva con lui. L’unica persona con cui si comportava in quel modo, oltre a Magnus, era Madelaine. Per quanto Erin fosse legata a Catarina o a Raphael e Ragnor, quando li salutava era molto più pacata.
“Bene.” Rispose la bambina. “Ho fatto un disegno, vuoi vederlo?”
Alec annuì e si diresse verso la scrivania con Erin in braccio. Trovò un foglio dove sopra c’erano disegnate due donnine stilizzate, con le gambe e le braccia a stecco. Dai tutù rosa, tuttavia, Alec dedusse potesse trattarsi di Erin e Diana. Soprattutto perché una aveva i capelli neri e l’altra biondi – capelli, che non erano altro delle righe  disegnate con due pennarelli diversi.
“Siete tu e Diana?”
La bambina annuì. “Diventeremo principesse ballerine, da grandi. Avremo un regno dove balleranno tutti.”
“Oh, ma davvero?” Solo allora, Alec notò le coroncine stilizzate sulle teste delle bambine disegnate.
Erin annuì.
“Sembra davvero molto bello.” Commentò Alec ed Erin sorrise.
Magnus sentì il cuore che batteva un po’ più forte, ma decise di non concentrarsi su quella sensazione. Se non altro perché lo stava portando in una direzione che vedeva come protagonisti lui e Alec, insieme. E non poteva lasciarsi andare a fantasie del genere ogni volta che Alec prendeva in braccio Erin. Primo: perché non voleva fare la figura del pazzo che non appena vede la figlia legare con un uomo – per quanto meraviglioso possa essere – pensa a sposarselo; due: perché aveva appena ricordato a se stesso che lui e Alexander erano amici.
“Qualcuno ha fame?” domandò, inserendosi nella conversazione tra Alec ed Erin. Entrambi lo guardarono.
“Sto morendo di fame!” esclamò Alec e Magnus sorrise.
“Allora vogliamo andare? Decideremo cosa mangiare nel tragitto.”
Alec annuì e, dopo che Magnus ebbe sostituito le scarpette da danza con delle sneakers, uscirono dalla scuola. Dopo averla chiusa con le dovute misure di sicurezza, si avviarono per la strada verso casa, pensando a cosa avrebbero potuto ordinare d’asporto.


*

“Sul serio, non penso tu abbia davvero idea di cosa significhi cibo da asporto, Alexander.” Commentò Magnus, una volta messo piede nel loft. Si voltò alle sue spalle, dove Alec era rimasto fermo sulla soglia con un sacchetto in mano, pieno di cibo che andava cucinato.
“Mi sembrava scortese non fare niente, visto che mi hai invitato. Quindi cucinerò per sdebitarmi.”
“Non devi sdebitarti di niente.” Magnus abbassò la voce e coprì le orecchie di Erin. “E in caso contrario, mi sarei accontentato di vederti senza maglietta.” Ammiccò e Alec, ovviamente, arrossì – ma non demorse.
“Sei meno complicato del previsto, se si tratta di nudità.”
“Della tua nudità.” Specificò. “Chiamala pura curiosità. Solo a scopo scientifico, puramente disinteressato.” Magnus tolse ad Erin il giubbottino e lo sistemò sull’attaccapanni all’ingresso. “Allora, visto che hai deciso di fare la spesa, senza farmi pagare la metà,” Lo guardò serio, consapevole di aver perso quella battaglia al supermercato solo qualche minuto prima, nonostante avesse insistito. Insomma era lui che l’aveva invitato a cena, mica poteva fargli pagare la cena. Ma Alec era di altre vedute: siccome era stato invitato e fino ad ora si erano quasi sempre visti nel loft di Magnus, pensava che fosse giusto che almeno facesse qualcosa – il che implicava preparare la cena.  “Sistemati pure in cucina.” Concluse Magnus. “Fai come se fosse casa tua, confettino. Io faccio il bagnetto ad Erin e ti raggiungo.”
Alec sorvolò sul soprannome, ma a Magnus non sfuggì l’occhiata che gli lanciò. Era divertente trovargli soprannomi simili solo per vederlo corrucciarsi. Era tremendamente carino.
“Fai con calma.” Il medico posò un attimo la busta a terra e si tolse il giubbotto, che appese all’attaccapanni. Rimase solo con un paio di jeans strappati sulle ginocchia e un maglione grigio che un tempo sicuramente era stato nero; le maniche così allungate a forza di tirarle, che arrivavano a coprire metà palmo delle mani.
“Sai dov’è la cucina.” Gli sorrise e quando Alec ricambiò annuendo, Magnus sentì un sentimento strano alla base del suo cuore – qualcosa che aveva seppellito da tempo e che non provava da anni: intimità.
Era sempre stato abituato all’idea che un concetto simile richiamasse necessariamente il contatto fisico, spesso l’atto sessuale in sé, due corpi che si sfiorano.
Aveva dimenticato che intimità, oltre alla fisicità, implica anche altro. Implica sentirsi a proprio agio all’idea che qualcuno prepari la cena in casa sua, mentre lui è in un’altra stanza a fare il bagno alla sua bambina. Implica complicità.
Ed era una cosa che con Alec stava riscoprendo.
“So dov’è la cucina.” Confermò Alec. “Adesso correte a lavarvi. Anche tu, Magnus.”
“Mi stai nemmeno troppo velatamente dicendo che puzzo, confettino?”
Alec ridacchiò. “No, ti sto dicendo che hai lavorato tutto il giorno, sudando, e non ti fa bene rimanere con il sudore addosso. Fatti una doccia, o rischi di ammalarti.”
“Come dici tu, dottore.” Magnus si avvicinò, riducendo la distanza che c’era tra di loro. Gli appoggiò una mano a palmo aperto sul petto, all’altezza dello sterno. “Sei carino quando fai il premuroso, lo sai?” Sussurrò, prima di lasciargli un bacio sulla guancia.
Alec arrossì repentinamente. Tu sei carino sempre, avrebbe voluto rispondergli, ma le parole gli morirono in gola. Forse perché il suo cuore batteva talmente forte da otturarla e impedire a qualsiasi suono coerente di uscire. Ma Magnus, come sempre, capì i suoi silenzi. Non si faceva mai scoraggiare da essi, era come se capisse che, a volte, il carattere chiuso di Alec prendeva il sopravvento su tutto e gli impedisse di aprirsi totalmente.
“Vado, allora. Se hai bisogno di qualcosa chiama.”
Alec annuì, deglutendo nel tentativo di togliersi il cuore dalla gola e rimandarlo nel petto, dov’era giusto che stesse. Osservò Magnus dirigersi verso il corridoio che dava alle camere con Erin e, inevitabilmente – anche se si stava dando dell’imbranato colossale – sorrise.


“Vediamo, di cosa potrei avere bisogno, adesso?” Domandò Alec ad Erin. La piccola, dopo il bagnetto, era rimasta con lui in cucina, mentre Magnus era andato a farsi la doccia. Nella situazione attuale, Erin era stata promossa ad aiuto cuoco e sembrava parecchio felice della cosa.
Alec aveva in programma di cucinare del pollo in salsa di soia, semplificando un pochino la ricetta in modo che risultasse commestibile anche per Erin.
La bambina, seduta al tavolo, adocchiò il pollo fatto a cubetti radunato su un tagliere e sorrise, come se avesse appena risolto un grosso mistero.
“Del pollo! Hai bisogno del pollo!” Esclamò.
Alec, davanti al piano cottura dove aveva messo una padella sul fuoco, si picchiettò la fronte con il palmo della mano. “Giusto! Grazie, chef!”
Erin ridacchiò e guardò Alec che prendeva il tagliere e sistemava il pollo dentro alla padella, dove lo lasciò rosolare insieme alla salsa di soia e al miele. Il pollo sfrigolò e Alec abbassò un tantino il fuoco, prima di allontanarsi per cercare qualcosa con cui mescolarlo senza rischiare di farlo bruciare.
“Sai dove papà tiene i cucchiai di legno?”
Erin annuì. “Nel cassetto proibito.”
Ad Alec venne da sorridere. Non era difficile immaginare perché fosse proibito. “E puoi dirmi qual è?”
La bambina indicò un cassetto proprio sotto al piano cottura, chiuso con un’apposita chiusura anti-bambino. La casa di Jace e Clary era piena zeppa di quegli aggeggi. Alec lo aprì e trovò sia ciò che cercava, sia il motivo per cui Erin non doveva avvicinarsi a quel cassetto: una serie di coltelli, più o meno affilati che avrebbero provocato parecchi danni, se fossero accidentalmente finiti nelle mani di una bambina.
Estrasse un cucchiaio di legno e richiuse il cassetto, con tanto di misura di sicurezza. Erin non si perse una mossa e Alec lo notò. Era una bambina genuinamente curiosa e mai invadente.
“Vuoi aiutarmi a mescolare?”
“Non posso stare vicino al fuoco. Lo dice papà.”
“Papà ha ragione, ma vicino al fuoco ci starò io. Tu puoi stare in braccio, se vuoi, e mi aiuti a mescolare.”
Gli occhi ambrati della bambina luccicarono di entusiasmo. Annuì e allungò le braccia in direzione di Alec, il quale abbandonò la sua postazione per dirigersi verso il tavolo. La sollevò e se la sistemò sul fianco sinistro, in modo da avere il braccio destro libero. Tornato davanti al piano cottura, Alec si sistemò di tre quarti, in modo che Erin fosse lontana da ogni possibile schizzo di salsa bollente o dal fuoco.
La bambina aveva un braccio intorno al collo di Alec, ma usò la mano libera per appoggiarla sopra a quella del medico e aiutarlo nell’ardua impresa di girare il pollo nella salsa. Alec si trovò a sorridere. La manina di Erin era così piccola a confronto con la sua che gli fece molta tenerezza. Gli ricordò le volte che lui e Diana avevano giocato con il pongo e sua nipote diceva sempre che per lui era più facile modellarlo perché aveva le mani grandi.
“Che state facendo?” domandò Magnus, entrando in cucina. Non si erano accorti di lui e per un attimo era rimasto a guardarli appoggiato allo stipite.
Non appena udì la sua voce, tuttavia, Alec si voltò nella sua direzione e sorrise. Magnus aveva pettinato i capelli tenendoli bassi da una parte – di solito, portava la cresta alta – ed era senza trucco. Alec lo reputava bello anche così, gli sembrava più naturale. Portava un paio di pantaloni di una tuta grigi – Alec cercò di non prestare attenzione al fatto che fossero un tantino aderenti, soprattutto sulle cosce. I suoi sforzi, ovviamente, furono inutili – e un maglione rosso e peloso.
“Cuciniamo, papà!” Rispose Erin, entusiasta. “Aiuto Alec a mescolare, ma non sto vicino al fuoco. Ci sta lui. Lui può perché è grande, vero?” domandò, rivolgendosi al padre. Magnus notò Alec che sorrideva e non poté fare a meno di sorridere a sua volta. I ragionamenti di Erin gli scaldavano sempre il cuore.
“Vero, bintang.” Annuì e si avvicinò ai due. “Cosa preparate di buono?” domandò, mettendosi al fianco di Alec. Erin adesso si trovava tra loro due.
“Pollo in salsa di…” La bambina guardò Alec in cerca di aiuto, così lui le sussurrò la parola che non si ricordava all’orecchio. “Soia!” Concluse la piccola.
Magnus le lasciò un bacio sulla guancia. “Sembra davvero buonissimo.” Poi guardò Alec e per un momento gli sembrò strano non baciarlo. C’era così tanta intimità, sintonia, come se facessero cose simili tutti i giorni e si conoscessero da sempre. A volte, quando si guardavano, gli sembrava stranissimo che si conoscessero da poco e non da una vita intera. Distolse lo sguardo, sentendosi improvvisamente vulnerabile, anche se non aveva pronunciato nemmeno una parola dei pensieri che gli ronzavano in testa – quasi temesse Alec riuscisse a leggergli la mente. “Apparecchio.” Disse, distogliendosi totalmente dal treno dei suoi pensieri.
“Posso aiutarti, se aspetti un pochino.”
“Non dire sciocchezze, girasole. Stai già preparando da mangiare. Non posso mica farti fare tutto!” Gli sorrise e, prima di dirigersi verso la dispensa per prendere i piatti, gli lasciò una carezza sulla schiena.
Amici o no, Magnus aveva capito che gli piaceva avere qualsiasi tipo di contatto con Alexander. Di conseguenza, approfittava di ogni occasione per poterlo anche solo sfiorare.



Dopo cena e dopo qualche chiacchiera, Erin aveva avvertito una certa sonnolenza. Si era strofinata un occhietto con il dorso della mano e aveva chiesto a Magnus se poteva andare a dormire.
«Ma certo, bintang. Andiamo a lavarci i denti.» Si era alzato dal tavolo e aveva preso in braccio la figlia, che immediatamente aveva appoggiato la testa sulla sua spalla. Magnus sospettava che sarebbe crollata nel giro di pochissimo tempo.
«L’asilo e le lezioni di danza la stancano. Vado a metterla a letto. Mi aspetti qui?»
Alec aveva annuito e Magnus si era diretto con Erin verso l’uscita della cucina. Solo quando fu sull’uscio, sembrò realizzare qualcosa, che lo spinse a voltarsi di nuovo verso il suo ospite. «E non azzardarti a sparecchiare o a lavare un piatto, intesi? Ho una lavastoviglie, per quello, e tu per stasera hai fatto abbastanza!» Lo aveva ammonito, con tanto di indice alzato e il suo tono paterno da non ammetto repliche. Ad Alec altro non era rimasto da fare che alzare le mani in segno di resa e obbedire.
Magnus in ogni caso era tornato dopo pochissimo e aveva trovato Alec ancora seduto al tavolo.
Adesso, si trovavano entrambi in piedi, uno di fianco all’altro. Magnus con le mani immerse nel lavandino a sciacquare piatti e padella, Alec che lo guardava con le braccia incrociate al petto.
“Perché non posso aiutarti?”
“Perché sarei un padrone di casa pessimo, se ti lasciassi fare tutto.” Magnus aprì la lavastoviglie e ci sistemò i piatti che aveva appena finito di sciacquare. Aprì uno sportello sotto al lavandino e ne estrasse una scatola di cartone che conteneva le pastiglie per la lavastoviglie. Una volta sistemata la pastiglia, avviò il lavaggio. “Finito.” Batté le mani in uno schiocco. “Vuoi da bere?”
Alec sorrise e annuì. Si diressero insieme verso il salotto, dove Magnus aveva il suo angolino per i liquori. Quel mobiletto rigorosamente chiuso a chiave. Alec sospettava che anche quello fosse una zona della casa che veniva associata alla parola proibito da Erin.
Alec osservò Magnus versare del whiskey in due tumbler bassi e poi passargliene uno. Si diresse verso il divano, dove si sedette con più grazia di quanto davvero fosse necessario. Alec, mentre si sedeva a sua volta, pensò che evidentemente a Magnus veniva naturale muoversi in quel modo. Non lo faceva di proposito, era più che altro istinto, o natura.
Magnus era naturalmente aggraziato, elegante. Ad Alec piaceva.
“Direi che dobbiamo parlare.” Cominciò Magnus, guardando Alec alla sua sinistra.
“Questa frase non preannuncia mai niente di buono. È così grave ciò che devi dirmi?”
“Grave, no. Ma penso di averti messo in una situazione che non ti piacerà.”
“Fare finta di essere il tuo ragazzo davanti a qualcuno che chiaramente non volevi avere intorno non mi disturba, Magnus. Tu l’hai fatto con me.”
“Non è quello… anzi, a proposito, grazie. È ciò che Imasu ha detto dopo che penso non ti piacerà.”
“Mettimi alla prova.”
Magnus bevve un po’ del suo whiskey. “Due volte al mese, vado a ballare da una mia amica, Sophia. È un’insegnante di tango. Lei organizza serate alle quali chiunque può partecipare, ballerini professionisti o amatoriali non importa. È solo per divertirsi e, onestamente, a volte ne ho bisogno. Sai, ricordarmi che la danza non è solo il mio mestiere, ma una vera e propria passione.” Alec annuì e Magnus continuò: “Una delle due volte, di questo mese, sarebbe domani. E Imasu era lì, prima, per chiedermi di ballare con lui. Ha visto te e ha pensato che, stando insieme, il motivo per cui gli stavo dicendo di no fosse perché ballerai tu, con me. So che farlo in pubblico ti imbarazza, ma mi faresti un enorme favore. Ricambierò, prometto.”
Era vero. Ad Alec la sola idea di ballare lo metteva in imbarazzo, figuriamoci farlo in pubblico e insieme a Magnus, che era un ballerino professionista. Lui a confronto avrebbe fatto la figura del pezzo di legno. Ma questa serata per Magnus sembrava importante, quasi tanto quanto lo era l’evitare di ballare con Imasu, quindi Alec decise che era sicuramente più forte la voglia di aiutarlo, che il suo imbarazzo.
“Lo farò.” Disse, quindi.
Magnus gli buttò le braccia al collo, abbracciandolo stretto. Alec ricambiò – facendo attenzione a non versare il whiskey sul divano – cingendogli la schiena. Il suo profumo invase le narici di Alec, che sospirò impercettibilmente. Riuscì chiaramente a percepire la propria pelle che veniva ricoperta di brividi, come se persino il suo corpo gli stesse comunicando quanto quel profumo fosse in grado di ammaliarlo. 
“Grazie, tesoro!” Gli sussurrò all’orecchio, prima di sciogliere l’abbraccio.
“Non ringraziarmi.” Alec gli sorrise, un solo angolo della bocca alzato. “Ti pentirai di avermelo chiesto non appena mi vedrai ballare.”
“Ti ho già visto ballare. Non sei male, ti serve solo qualcuno che ti guidi. E domani lo farò io.”
Alec annuì e abbassò lo sguardo sul suo bicchiere. Il liquido ambrato intrappolò i suoi occhi il tempo necessario affinché trovasse il coraggio di chiedere: “Siete stati insieme? Tu e Imasu, dico… puoi non rispondere, se non vuoi parlarne.”
Magnus alzò la mano che aveva libera, in un gesto silenzioso che stava significare che quella domanda non provocava nessun tipo di problema. “Sì, siamo stati insieme. Due anni fa. Lui è un amico di Sophia – sono entrambi peruviani, si conoscono da quando erano bambini, in pratica. Lei me l’ha presentato perché, a quanto diceva, era stufa di vedermi triste. Io e Camille ci eravamo lasciati da due anni e non avevo avuto nessuno, dopo di lei. Non mi sentivo totalmente pronto a riaprirmi a qualcuno, ma pensai che potevo fare un piccolo sforzo, vedere come andava… così ho accettato la proposta di Sophia. Mi ha presentato Imasu, un musicista che girava per il paese con la sua band. All’inizio l’ho trovato davvero interessante: era pieno di storie da raccontare, aveva visto posti che avevo visto anche io e spesso ci trovavamo a discutere sulle abitudini e le usanze dei paesi che avevamo visitato. Pensavo ci fosse sintonia, ma poi gli ho parlato di Erin e tutto è cambiato. Diceva che non era pronto a stare con qualcuno che non l’avrebbe messo al primo posto. Gli pesava l’idea che ci sarebbe sempre stata una bambina tra di noi. Mi è dispiaciuto, perché mi stavo davvero affezionando a lui, ma capisci che se devo scegliere tra qualsiasi persona e la mia bambina, io sceglierò sempre Erin. Così ci siamo lasciati.”
Alec era rimasto in silenzio ad ascoltare. La sua mente venne invasa dalle immagini di Imasu che guardava Magnus come se fosse la cosa più bella del pianeta, come se ancora lo desiderasse. Provò una strana fitta al cuore, un sentimento pungente ed invadente che assomigliava alla gelosia. Ma non poteva essere gelosia, giusto? Lui e Magnus non avevano quel tipo di rapporto. In un’amicizia, quel genere di gelosia non esiste.
“Penso sia ancora preso da te.” Sussurrò. “Da come ti guardava, si vedeva che gli interessi ancora.”
“Non penso. Più che da me, penso fosse attratto dall’idea di me. Voleva rivivere quell’emozione bruciante che abbiamo vissuto all’inizio. Gli inizi sono sempre entusiasmanti. Ma è quando i rapporti, inevitabilmente, si complicano che capisci chi è che vuole restare al tuo fianco, indipendentemente da tutto, e chi no. Imasu fa parte della seconda categoria. Non gliene faccio una colpa, non fraintendermi, semplicemente vogliamo cose diverse.”
“E tu cosa vuoi?”
“Stabilità, Alexander.”
Alec annuì. Non è un po’ quello che vogliono tutti? Sentirsi stabili, avere la sensazione di avere il controllo. Una delle sensazioni peggiori che si possano provare è quella di sentirsi mancare la terra sotto ai piedi. Gli esseri umani agognano la sensazione di sicurezza per tutta la vita, per questo esistono le confort zone, zone nelle quali ci si sente a proprio agio, nelle quali il mondo fa meno paura.
Alec lo capì in pieno. “Sono sicuro che c’è qualcuno per te, Magnus. Qualcuno che ti darà quello che vuoi e ti farà sentire bene.”
“Lo spero.” E mentre, sorridendo, i suoi occhi si posarono su Alec, si domandò se, in fondo, non l’avesse già trovato qualcuno di simile. Se il destino, il fato, o chi per esso, gli stesse dicendo che non doveva cercare lontano, che la soluzione era proprio lì davanti ai suoi occhi.
Forse devi smettere di cercare, gli sussurrò la coscienza. E Magnus, per un minuscolo lasso di tempo, si permise di sperarci.


*


Domenica sera, Magnus, con Erin al proprio fianco, si trovava davanti alla porta dell’appartamento della madre. Non vivevano poi tanto lontani l’uno dall’altra, quindi aveva potuto muoversi tranquillamente a piedi. Bussò e rimase in attesa.
“Amori miei!” esclamò Madelaine, salutandoli, non appena aprì la porta.
“Ciao, ibu.” Magnus si sporse per darle un bacio sulla guancia, mentre Erin alzò le braccia, in una richiesta di essere sollevata. Madelaine non se lo fece ripetere e la prese in braccio, riempiendola di baci. La bambina ridacchiò, felice.
“Come state?”
“Bene,” rispose Magnus, entrando in casa non appena sua madre gli fece spazio. Aveva ancora un po’ di tempo prima dell’incontro con Alexander. “E tu?”
“Tutto bene.” Madelaine lo guardò e un sorriso fece capolino sul suo viso. “Come mai sei così bello, stasera?”
Magnus aveva passato ore a prepararsi. Si era truccato gli occhi usando del kajal per la parte inferiore – aveva letto che dava l’effetto di intensificare lo sguardo ed evidenziare il colore degli occhi – e dandosi dell’ombretto dorato sulle palpebre. Aveva pettinato i capelli in modo che la sua cresta risultasse perfetta e ordinata, con il ciuffo arancione che spiccava orgoglioso. Aveva indossato un paio di aderenti pantaloni grigio scuro, abbinati ad una camicia color oro, ricoperta di minuscoli brillantini, i cui bottoni iniziali erano sbottonati, mostrando varie collane.
“Io sono sempre bello, ibu.” Magnus si lisciò il cappotto scuro che teneva aperto.
“Oh, questo lo so, tesoro. Ma stasera lo sei particolarmente. C’è un motivo specifico?” Madelaine lo guardò con malizia. “Un compagno di ballo speciale?” Aggiunse e Magnus si chiese se sua madre non fosse in grado di leggergli nel pensiero. La donna non sapeva che si doveva vedere con Alexander, sapeva solo che, come ogni mese, quando Magnus andava a ballare lei teneva la bambina.
“Dai per scontato sia un maschio?”
“Do per scontato sia Alec, tesoro.”
Magnus la guardò arrendevole. “E hai ragione.” Come diamine ci riusciva?
La donna sorrise, vittoriosa, ma non disse nulla.
“Ieri Alec è venuto a trovarci.” Disse Erin, udendo quel nome. “Abbiamo cucinato, mentre papà si faceva la doccia.”
Madelaine alzò un sopracciglio e fece passare lo sguardo dalla nipote al figlio. “Ma davvero?”
Magnus sapeva che non poteva sfuggire a quello sguardo che vede anche cose che non sono avvenute in sua presenza e capisce cose che Magnus non aveva detto, così si arrese – mentre la convinzione che sua madre fosse una specie di sacerdotessa voodoo si faceva sempre più strada in lui. Doveva per forza avere dei poteri sovrannaturali, giusto? Altrimenti come faceva a capire sempre tutto?
“Davvero. Siamo prima andati a fare la spesa, poi ha insistito tanto per cucinare perché l’avevo invitato. È venuto a prendermi al lavoro, ed essendo preoccupato che potessi ammalarmi, avendo sudato tutto il giorno, mi ha detto di fare una doccia mentre lui teneva d’occhio la bambina.”
Madelaine ascoltò in silenzio, poi arricciò le labbra e si picchiettò il mento con la mano libera. “Quindi mi stai dicendo che mentre cucinava la cena per te, ha passato del tempo con tua figlia, mentre tu eri in un’altra stanza a fare la doccia?”
“Puoi smettere di fare insinuazioni, per favore?”
Madeline fece spallucce. “Io non sto insinuando niente, anakku, espongo solo i fatti per vedere se ho capito bene. Il fatto che tu pensi che io possa insinuare qualcosa, forse altro non è che il riflesso delle tue insinuazioni  nelle mie.”
“Non credo di aver capito.” La guardò, un tantino confuso. Non era sicuro di aver effettivamente capito il punto, anche se si era fatto una vaga idea.
“Io penso che invece tu l’abbia fatto.” Madelaine si avvicinò al figlio e gli accarezzò una guancia. “Adesso vai alla tua serata, tesoro. Ci vediamo domani mattina.”
Magnus non sapeva davvero come ribattere alle insinuazioni della madre, quindi decise di non farlo. Non era esattamente certo di essere d’accordo con lei, ma non era certo nemmeno di essere in disaccordo con lei. Era un vero casino, quindi decise di smettere di pensare e darle ascolto almeno su un punto: andare al suo incontro con Alec.
Salutò la madre e la figlia, riempiendo quest’ultima di baci – la scorta per quelli della buonanotte, le disse – e si diresse alla porta, uscendo – ignaro del fatto che sua madre stesse ancora sorridendo. Magnus non poteva rendersene conto, ma una madre riesce a percepirle certe cose – e suo figlio irradiava un’aura che Madeline non vedeva da parecchio tempo. Magnus sembrava felice, ma questo il diretto interessato doveva ancora capirlo.


*


Alec era nervoso. Stava davanti all’indirizzo che gli aveva mandato Magnus e si torturava le mani. Si sentiva già inadatto ad un posto simile e nemmeno era ancora entrato. Sospettava che quella sala fosse piena di persone in grado ballare egregiamente, mentre lui non era in grado di fare due passi senza rischiare di inciampare o pestare i piedi a qualcuno. Se non fosse che l’aveva promesso a Magnus, a quest’ora sarebbe già fuggito a gambe levate. Ma aveva fatto una promessa e Alec era un uomo di parola. Così rimase in attesa, osservando coppie o persone da sole che entravano mano a mano dentro a quella scuola. Era arrivato un po’ in anticipo, quindi non si aspettava di vedere Magnus apparire da un momento all’altro, eppure… Magnus si stava proprio incamminando nella sua direzione, un sorriso stampato sul viso –  accendendolo come il sole, tagliando il manto notturno, accende il giorno, colorando il cielo della più appagante e meravigliosa tonalità di rosa. Magnus era uno spettacolo che bisognava fermarsi a guardare per forza.
“Ciao, tesoro.” Lo salutò, quando furono uno di fronte all’altro.
“Ciao.” Alec gli sorrise e improvvisamente percepì tutte le sue ansie svanire, come se solo guardando dentro gli occhi di Magnus, quel nodo di timore si sciogliesse.
“Vogliamo entrare?” Magnus gli offrì un braccio. Alec la trovò una cosa carina e un tantino galante, se doveva dirla tutta. Annuì, comunque, prendendo Magnus a braccetto.
“Se dovessi farti fare una brutta figura, ti autorizzo a vendicarti.”
“Non dire sciocchezze, zuccherino. Non potresti mai farmi fare brutta figura.” Gli sorrise, cercando i suoi occhi. Li trovò immediatamente perché Alec lo stava già guardando. Il medico si chiese se ballare con Magnus fosse facile come perdersi nei suoi occhi. E, soprattutto, se ballare gli piacesse tanto quanto gli piaceva finire immerso da quell’ambra liquida che aveva il potere di rassicurarlo. Istintivamente, si rispose di sì. E per una volta, Alec decise che avrebbe dato retta al suo istinto.



Una volta dentro a quella scuola, Alec si guardò intorno. Era diversa da quella di Magnus, ma in qualche modo simile. Lo spazio ampio dedicato alla sala da ballo e il parquet erano simili, ma questa scuola non aveva attaccapanni ad altezza di bambino. Evidentemente Sophia insegnava solo agli adulti.
“Magnus!” Una donna li raggiunse, raggiante. Era bellissima, Alec doveva riconoscerlo. Aveva il fisico slanciato e tonico di ogni ballerina, era abbastanza alta e mora, con due occhi neri grandi ed espressivi. Salutò Magnus con due baci e poi rivolse un sorriso ad Alec.
“Ciao, sono Sophia.” Si presentò, porgendogli una mano. Aveva i capelli legati in uno chignon stretto ed era truccata appositamente per la serata. Indossava un vestitino pieno di strass argentati e fucsia, che finiva con una gonna che si muoveva ad ogni suo movimento. Alec sapeva che indumenti del genere erano funzionali ad una migliore comodità nel ballo, aiutando il ballerino, o la ballerina, ad avere più libertà di movimento nei passi. Afferrò la mano che gli veniva porta e la strinse. “Alec.”  
“È un piacere conoscerti. Spero vi divertiate, questa sera. Se volete scusarmi, devo controllare che le ultime cose siano a posto.”
“Ma certo, cara, vai.” Magnus la salutò con un sorriso e Alec con un cenno del capo. Entrambi la guardarono allontanarsi.
“Lei sembra più simpatica di Imasu.” Confessò Alec.
Magnus si trovò a ridacchiare. “Sophia è meno… esuberante. È una donna vitale ed energica, ma sa essere più discreta.” Si incamminò verso un angolo della sala, lasciando l’ingresso e dirigendosi verso quello che aveva tutta l’aria di essere lo spazio adibito a guardaroba – dotato di carrelli portatili a cui erano appese una quantità indefinibile di grucce, alcune già occupate.
“È il tuo tipo di donna?” Domandò Alec, rimanendo al fianco di Magnus. Gli occhi bassi per via di quella domanda. Era solo curiosità, la sua, ma gli venne timore di risultare inopportuno, o invadente.
“Non ci ho mai pensato, perché non l’ho mai messa in quell’ottica, ma potrebbe essere sì.”
“Perché la trovi bella, o…?”
Magnus, che stava cercando una gruccia libera, si fermò con le mani a mezz’aria e si voltò verso Alec, che arrossì repentinamente. “Sei curioso, pasticcino.”
“Scusa.” Disse subito Alec, cominciando a giocare con la cerniera del suo giubbotto. 
“Non ho detto che mi dispiace.” Magnus abbandonò la sua posizione per avvicinarsi ad Alec e fermargli le mani. Le tenne sopra alle sue finché Alec non alzò lo sguardo su di lui, poi disse: “Puoi farmi tutte le domande che vuoi, voglio che tu lo sappia, questo.”
Alec sentì la gola diventare arida come il Sahara. Magnus aveva quel modo di guardarlo che lo scombussolava. Le sue mani erano calde contro le proprie e riusciva a percepire il netto contrasto con il metallo freddo degli anelli, ma non gli dispiaceva.
“O-okay. Anche tu, se vuoi.” Alec si schiarì la gola. “Puoi chiedermi quello che vuoi.”
Magnus gli regalò un sorriso soffice. “Ti ringrazio, tesoro. Ho la sensazione che la tua mente sia un mistero, sai? Mi fa piacere sapere che ne ho accesso.”
Alec abbassò lo sguardo, ma un sorriso gli tendeva le labbra. “L’unico misterioso qui, sei tu. Ma suppongo sia un elemento portante del tuo fascino.”
“Mi trovi affascinante?”
Alec ritirò le labbra all’interno della bocca, come se avesse parlato troppo. “Non hai risposto alla mia domanda.” Deviò.
“Nemmeno tu.” Una delle mani di Magnus abbandonò quella di Alec per posizionarsi sotto al suo mento e spronarlo ad alzare il viso. Quando furono occhi negli occhi, Magnus ripeté: “Mi trovi affascinante?”
Alec deglutì e si limitò ad annuire, mentre le sue guance prendevano fuoco. “Adesso tocca a te.” Disse, cercando di togliere l’attenzione da sé.
“Mi piacciono le cose belle, a tutti piacciono. Ma sono il tipo di uomo che si innamora prima dell’anima, che del corpo. La bellezza corporea svanisce, Alexander, quella del cuore rimane tutta la vita.” Magnus gli accennò un sorriso. “Sophia è bellissima, ma non la conosco bene come dovrei per sapere se sia effettivamente il mio tipo. E capisci bene che dopo Camille voglio provare a conoscere chi ho davanti il più possibile.”
Alec annuì perché capiva davvero. Di sicuro, fidarsi per Magnus non doveva essere facile, non dopo Camille.
Alla fine, non erano poi così diversi, sotto questo punto di vista. I loro cuori erano entrambi stati spezzati da due persone cui loro avevano donato loro stessi, i loro cuori e la loro fiducia. Sono esperienze, queste, che inevitabilmente segnano e hanno delle ritorsioni sui rapporti futuri.
“È difficile capire le persone.”
“Sì, ma in alcuni casi vale la pena impegnarsi per farlo. Certe persone valgono quella difficoltà, non credi?”
Alec annuì. “Dal carbonio al diamante, Magnus. Ci sono alcuni processi che portano inevitabilmente a cose belle.”  
“Sei poetico in un modo tutto tuo, confettino.” Magnus accennò un sorriso divertito.
Alec alzò gli occhi al cielo, ma venne tradito da un sorriso tutto fossette che si formò inevitabilmente sul suo viso. “Lo prenderò come un complimento.”
“Voleva esserlo.” Magnus gli fece l’occhiolino e poi si voltò nuovamente a cercare una gruccia. Ne trovò due vicine e ne passò una ad Alec, che la afferrò. Magnus si tolse il proprio cappotto e lo posizionò accuratamente nella gruccia, Alec fece lo stesso con il suo giubbotto. Erano ancora uno di fianco all’altro, mentre risistemavano gli indumenti sul carrello-attaccapanni, quando sentirono una voce giungere alle loro spalle.
“Ragazzi!” Esclamò Imasu e Alec, incapace di trattenersi, alzò gli occhi al cielo nel modo più naturalmente infastidito che esistesse. Magnus dovette trattenere un sorriso perché in certi casi Alec non riusciva ad avere filtri e la cosa gli piaceva parecchio. Era sincero, sia che si trattasse di simpatie che di antipatie. Non aveva maschere che indossava in base a chi si trovava davanti, comportandosi come poteva intuire che il suo interlocutore volesse che si comportasse. Era sempre nudo e crudo, inevitabilmente se stesso. Qualcosa che andava ad inserirsi nella lista cose in cui è diverso da Camille, che invece aveva un’infinità di maschere che metteva a seconda dell’occasione.
“Comportati bene, Alexander.”
Si voltarono all’unisono verso Imasu, che li stava raggiungendo.
“Altrimenti?” lo stuzzicò Alec, ma Magnus non fece in tempo a rispondere perché il peruviano li aveva raggiunti.
“Quanto siete belli, Dio quanto lo siete. Sono quasi invidioso. Potrebbero guardare tutti voi e ignorare me completamente!”
Alec si trattenne dal dire che con quella maglietta verde evidenziatore l’avrebbero notato anche dalla luna, ma solo perché Magnus gli aveva appena chiesto di comportarsi bene.
“Come stai, Imasu?” Domandò Magnus per cortesia, sorvolando su quel commento. Evidentemente, anche alle sue orecchie era risultato artificioso ed inadeguato, ma sapeva essere un uomo di classe – quasi un aristocratico e non solo perché era estremamente elegante qualsiasi cosa portasse, fosse un maglione rosso e peloso, fosse una camicia dorata e scollata che attirò tutta l’attenzione di Alec. Sul serio, come aveva fatto a non notarla, ancora?
Imasu stava straparlando di una nuova tecnica appresa di recente per suonare il charango, il suo strumento, ma ad Alec davvero non poteva interessargliene di meno, soprattutto perché Magnus era vicino a lui, con una camicia sbottonata – quattro bottoni, quattro – che mostrava parte del suo petto glabro e ambrato e, santo cielo, Alec non aveva mai desiderato essere una collana tanto quanto come in quel momento. Arrossì a quel pensiero, vergognandosene un po’. Si stavano conoscendo e l’ultima cosa che voleva fare era oggettificare Magnus, ma ciò non toglieva che Alec avesse dei momenti di debolezza.
“Ti annoio, caro?”
Dal silenzio che seguì a quella domanda, Alec capì che era riferita a lui. Distolse l’attenzione da Magnus per portarla su Imasu. “Alec.” precisò, perché i nomignoli non gli piacevano.
A meno che non sia Magnus, a darteli.
Questo era un altro punto su cui Alec, adesso, non voleva proprio concentrarsi.
“E no, non mi annoi. Tendo sempre a stare in silenzio, quando devo ascoltare qualcuno. È il motivo per cui abbiamo due orecchie e una bocca: ascoltare il doppio e parlare la metà.”
“Ma quanto sei pungente, querido. Sei proprio una rosa perfetta, bellissimo e con le spine.”
“Imasu,” Si inserì Magnus, un tantino infastidito. “Falla finita.”
Imasu alzò le braccia in segno di resa. “D’accordo, d’accordo. Ho afferrato. Vado a cercare il mio compagno di danza di questa sera. È uno dei nuovi allievi di Sophia, ma pare che sia un talento naturale!” Salutò i due sventolando una mano e si allontanò ancheggiando, come se facesse di tutto per essere notato. Alec non se ne stupì, Imasu sembrava un tipo davvero egocentrico.
“Sai, forse Erin ti ha salvato, in fondo. Può essere bello quanto gli pare, ma è veramente fastidioso.”
“Tu dici?” Ridacchiò Magnus. “L’anima, Alexander. L’anima.
Alec concordò con un cenno del capo e la loro conversazione terminò perché Sophia chiamò tutti i ballerini al centro della sala.



Alec non sapeva ballare, questo era ormai un dato di fatto, appurato tanto quanto la consapevolezza che il sole sorge ad est. Ma Magnus… Magnus sapeva farlo benissimo. E sicuramente c’entravano gli anni di disciplina e di allenamento, ma Alec era convinto che fosse un talento naturale. La tecnica aveva solo affinato qualcosa che sarebbe stato perfetto in ogni caso. A Magnus veniva naturale ballare come alle persone veniva farlo camminare.
“Sto ballando da solo, Alexander.” Magnus abbozzò una mezza piroetta e porse una mano ad Alec, che era rimasto fermo fino a quel momento. Guardare Magnus ballare era davvero ipnotico. Amava farlo e si vedeva. Il suo viso si rilassava a tal punto da dare la sensazione che l’uomo fosse in un’altra dimensione, il suo luogo di pace, la sua oasi felice. Si muoveva con delicatezza, ma anche con decisione. Era come se il ritmo giusto scorresse nel suo sangue e lo aiutasse a muovere i passi adeguatamente perfetti alla tonalità della musica. Era come se Magnus fosse la musica.
“Lo scopo di questa serata era che tu ballassi con me, zuccherino.”
Alec afferrò la mano che gli veniva porta e immediatamente Magnus lo tirò a sé – così vicino che i loro nasi si toccarono.
“Sono un uomo di parola, Magnus. Ho solo bisogno di tempo per ambientarmi.”
Magnus deglutì per quella vicinanza e sfiorò il naso di Alec con il proprio – qualcuno l’avrebbe definito l’accenno di un bacio all’eschimese, ma non Magnus. Se avesse dato un significato a quel gesto avrebbe valicato un confine che non andava ancora valicato. “Allora lascia che ti aiuti a farlo.” Cercò con gli occhi quelli di Alec. “Lasciati guidare, sono piuttosto bravo a farlo.”
“Sei piuttosto bravo anche a vantarti.” Commentò, divertito.
“Quella è una delle cose che so fare meglio. Insieme ad altre, che vorrei mostrarti volentieri.” Gli fece l’occhiolino e Alec sentì chiaramente lo stomaco attorcigliarsi su stesso – e ringraziò che determinate sensazioni di fermarono all’altezza del suo addome e non scesero oltre quella zona.
“Parli di danza, non è vero?”
“E di che altro, sennò? A meno che non sia tu a parlare d’altro, in quel caso ti ascolterei più che volentieri.”
“Stai dicendo che in altri contesti non mi ascolti volentieri?”
“Sei sempre così bravo a rigirare la frittata?”
Alec strinse le labbra all’interno della bocca per trattenere un sorriso. “Balliamo?”
“Pensavo non me l’avresti mai chiesto.”
Magnus fece intrecciare le dita delle loro mani e lo trascinò al centro della sala da ballo. Era piena di ballerini, ma Alec ne vedeva solo uno.
Magnus si fermò al centro della sala e si voltò verso di lui. “Conduco io, pasticcino, ma tu cerca di divertirti, d’accordo?” gli parlò alzando un tantino la voce per sovrastare la musica. Alec annuì e sentì una mano di Magnus poggiarsi al centro della sua schiena con l’intento di avvicinarlo più a sé. Era sicuro che i loro addomi collidessero ed era sicurissimo che la cosa gli piacesse pure.
“Dobbiamo ballare il tango?”
“No, non è musica da tango, questa. È più…jazz.”
“E come si balla il jazz?”
“Muovendo i piedi, prima di tutto, tesoro. Evitando di stare immobili, come seconda cosa e, per ultimo, ma non meno importante: rilassandosi.”
Alec gli lanciò un’occhiata seria. “Stai facendo del sarcasmo?”
“Solo a te è concesso?” Magnus sorrise, furbo. “È una regola, del tipo: tu sei quello sarcastico, io quello spigliato?”
“Non mi piace dare etichette.”
“Bene.” Magnus premette Alec ancora di più a sé. “Perché nemmeno a me piace.”
Erano così vicini che Alec poteva chiaramente sentire il respiro di Magnus su di sé. Avevano già provato a ballare insieme, ma adesso era diverso. Erano vicini come non lo erano mai stati, stretti come non lo erano mai stati – come se Magnus non avesse avuto nessuna intenzione di lasciarlo andare.
“Segui la musica.” Soffiò il ballerino, gli occhi che caddero inevitabilmente sulla bocca dell’altro. Era un puro attentato al suo autocontrollo, a quel ferreo contegno che Alec si imponeva sempre prima di ogni cosa.
“Preferisco seguire te.” Gli rispose, posizionando la mano che non era intrecciata a quella di Magnus sulla spalla dell’uomo di fronte a sé.  
Magnus rialzò gli occhi su di lui, un sorriso compiaciuto a tendergli le labbra. “Allora cominciamo.”



Era liberatorio, divertente. Qualcosa che Alec non aveva mai fatto nella sua vita, ma che gli stava piacendo da morire.  Ballare non gli era mai piaciuto, ballare con Magnus gli piaceva tantissimo.
Come da programma, aveva condotto lui per tutto il tempo, muovendosi a ritmo di musica e guidando Alec a fare lo stesso. I loro corpi si erano mossi all’unisono e in sintonia, finendo i movimenti che l’altro aveva iniziato – che Magnus aveva iniziato. Alec aveva perso il conto delle volte che Magnus l’aveva allontanato da sé solo per poi riprenderlo, facendo fare ad Alec una giravolta che inevitabilmente li aveva fatti finire faccia a faccia, così vicini che sarebbe bastato un niente per far scappare un bacio che entrambi stavano trattenendo, secondini di un prigioniero particolarmente ostico e dedito alla fuga.
Aveva perso il conto anche delle risate, causate dai suoi strafalcioni, dal fatto che Magnus avesse dovuto ristabilire l’equilibrio di entrambi più di una volta, perché Alec inciampava sui suoi piedi. Ma Magnus era lì, ogni volta, a riportarlo a sé, a rimetterlo in piedi e a ridere con lui e non di lui.
Gli sembrava di essere tornato bambino, di essere riuscito a rivivere quella spensieratezza del gioco che si ha solo da piccoli, quando la preoccupazione più grande è sbucciarsi le ginocchia.
Alec si stava divertendo facendo una cosa che non aveva mai pensato l’avrebbe fatto divertire. Una minuscola parte di sé si chiese se non fosse proprio l’uomo con lui a fargli quell’effetto. L’effetto Magnus, l’avrebbe chiamato. Qualcosa che rendeva le farfalle nello stomaco una banalità, un nonnulla.
Magnus lo attirò di nuovo a sé, la fronte appoggiata alla sua, mentre muoveva dei passi nuovi, ritmati e decisi, ma in qualche modo più lenti – passi che Alec si trovò a seguire d’istinto, senza inciampare più, come se riuscisse a leggere le mosse giuste da fare negli occhi di Magnus. Provò, dettato forse dal momento, a prendere l’iniziativa: tenne una delle mani di Magnus agganciata alla propria, mentre allontanò Magnus da sé – proprio come gli aveva visto fare solo poco prima. Il ballerino lo guardò divertito e lo assecondò, muovendo dei passi sul posto, ancheggiando un tantino, prima di lasciare che Alec lo tirasse di nuovo a sé. Magnus si esibì in una serie di piroette, prima di finire di nuovo vicino ad Alec. La cosa che stupì il medico, tuttavia, fu il modo in cui Magnus si ricongiunse con lui: circondò la sua vita con una gamba e lo tirò a sé. Rimase in quella posizione e ad Alec non rimase altro da fare che afferrare la coscia di Magnus per dargli un sostegno.  
Impiegò più tempo del necessario a capire che, se Magnus era immobile, era perché la canzone era finita e quello era il loro passo finale.
Non gli importava granché, comunque. Riusciva solo a vedere Magnus, i suoi occhi ambrati che erano incatenati ai suoi, i loro corpi che erano incastrati in un modo perfetto, quasi fossero stati creati per combaciare – come il pezzo di un puzzle. Sentiva il suo respiro accelerato e sicuramente c’entrava il fatto che avesse ballato tutta la sera, ma era anche certo che c’entrasse la vicinanza di Magnus.
“Sei stato bravissimo.” Magnus gli accarezzò una guancia coperta di una leggera barba. Dovette resistere all’impulso di muovere la mano lungo il perimetro della mascella e alzare il pollice per accarezzargli il labbro inferiore. Sarebbe stato troppo. Troppo esplicito, troppo diretto. Così si trattenne. Sciolse quell’intreccio e Alec lo lasciò andare.
“Penso sia solo merito del mio insegnante. A quanto ho sentito dire è bravissimo a condurre.” Alec sorrise, di quei sorrisi pieni di luce che facevano comparire le fossette sulle guance, e Magnus rise – pienamente consapevole che aveva appena passato una serata bellissima, come non gli capitava da parecchio tempo. E il merito era tutto dell’uomo che adesso aveva davanti.






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Ciao a tutti e ben ritrovati! Siete sopravvissuti a questi primi due episodi della 3B? Qual è stata la vostra parte preferita e perché proprio la training scene con un Magnus che flirta spudoratamente e Alec che alla fine cede perché, insomma, chi non cederebbe davanti a Magnus Bane in canottiera? (“You know how we get”, disse Magnus ad un Alec imbronciato per non aver ricevuto un bacio, ma adesso lo sappiamo tutti come va a finire e grazie tante agli autori, davvero). Ho adorato ogni loro singola scena insieme in quell’episodio. E Alec è di una dolcezza unica con Magnus (e anche con Madzie, sono degli zii perfetti per lei e le fantasie sui Malec papà volano come farfalle a primavera).
Comunque, punti per Luke Baines che sembra essere un Jonathan fantastico, con quell’aria calma che nasconde una mente squilibrata. Lo amo già.
Jace mi ha fatto una tenerezza infinita nella 3x11 e quel momento con Isabelle è stato così dolce – il bacio sulla mano mi ha fatta sciogliere un po’ – che volevo abbracciarli entrambi. Sono una brotp che meriterebbe più spazio, secondo me.
Simon e Izzy mi hanno già conquistata e spero riescano a sviluppare il loro rapporto in questi episodi rimanenti – a proposito, ho usato la scena dei tunnel come ispirazione per la parte Sizzy in questo capitolo, ma sicuramente l’avrete capito.  
Ad ogni modo, bando alle mie ciance sugli episodi: vi chiedo scusa per il ritardo, ma ho avuto poco tempo e di conseguenza la scrittura di questo capitolo è andata un po’ a rilento. È venuto un po’ più lungo degli altri e spero che non l’abbiate trovato troppo pesante. Contate che doveva includere anche la festa di Halloween, ma avevo l’impressione che ci sarebbe stata troppa sproporzione con la lunghezza dei capitoli precedenti. In più non volevo aggiornare troppo in ritardo – visto l’immenso in cui sono già – e quindi vi chiedo scusa. Ad alcuni ho detto che Alec in questo capitolo avrebbe avuto la sua vendetta su Jace, ma proprio perché non volevo allungarlo troppo ho pensato di scrivere la cosa anzi nel prossimo capitolo!
Comunque, parlando del capitolo: abbiamo Izzy che si intromette all’inizio perché anche se ha detto ai suoi fratelli nel capitolo 1 di non fare commenti, lei in cuor suo vuole che Alec e Magnus leghino e quindi è propensa ad una spintarella. In più Alec parla un po’ di Will e questo è un pezzo che mi agita un po’ perché temo non vi piaccia. Uso anzi i flashback perché mi sembra rendano la lettura un po’ più scorrevole, se non è così ditemelo senza remora alcuna! In ogni caso, penso che più in là il discorso verrà ripreso e Alec parlerà con Magnus con dei dialoghi diretti tra loro due. Ho una vaga idea di come fare, ma non ne sono ancora sicura.
Anyway! C’è anche una parte Sizzy e mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate perché non ne sono molto sicura. Ho paura di averli resi un po’ OOC, soprattutto Isabelle.
Chiedo scusa all’Imasu originale che nei libri non era così, ma mi serviva un modo per far ballare di nuovo insieme Alec e Magnus, di conseguenza l’ho modificato un po’ per i miei scopi e davvero chiedo scusa a lui e a Cassandra Clare.
Nel complesso, spero che il capitolo vi sia piaciuto e, se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate. Ringrazio chiunque legga la storia, l’abbia messa tra le preferite/seguite/ricordate e chiunque trovi del tempo per recensire. Lo apprezzo davvero moltissimo e vi abbraccio tutti! <3 

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Capitolo 8
*** 8. ***


Isabelle stava seduta nel suo ufficio a controllare la contabilità della palestra. Aveva appena aperto il libro dove teneva registrati tutti i movimenti economici, quando qualcuno entrò senza nemmeno bussare. Isabelle avrebbe dato per scontato che fosse uno dei suoi fratelli – avrebbe puntato su Jace, che sapeva essere particolarmente irruento – ma quando alzò lo sguardo, realizzò di aver ipotizzato male. Chi le stava di fronte, infatti, con una punta di panico negli occhi altro non era che la sua collega e amica Aline Penhallow. Di origini cinesi da parte di madre, Aline era una ragazza capace, dedita al suo lavoro e con un carattere buono. Era gentile, con una simpatia genuina che veniva fuori soprattutto quando prendeva confidenza con le persone.  Lei ed Izzy lavoravano insieme da tre anni e non ci era voluto molto per diventare amiche, se non altro perché Isabelle aveva un carattere molto aperto che aveva portato Aline ad aprirsi nello stesso modo.
Capitava spesso che la ragazza piombasse nell’ufficio di Isabelle – sebbene ne avesse uno suo anche lei – durante le ore morte della palestra, o nelle pause pranzo, ma mai, mai, nelle ore dove la palestra pullulava di persone.
“È qui, Izzy, lei è qui!” La ragazza si fece aria al viso arrossato con le mani.
“Intendi Helen?”
Aline annuì con convinzione. “Mi sento una scema ogni volta che mi fa qualche domanda. Lei si avvicina, io inizio a sudare e mi dimentico come si parla.”
“Non capisco perché diventi tanto nervosa. È chiaro come il sole che le piaci.”
“La fai facile tu, sei la femme fatale perfetta! Qualcuno ti ha mai rifiutata?” La voce di Aline salì di un’ottava, mentre si lasciava prendere un tantino dal panico. Gli ultimi appuntamenti che aveva avuto erano stati un disastro e fare la prima mossa la rendeva sempre particolarmente nervosa.
“Certo che mi hanno rifiutata. Succede a tutti.” Isabelle si alzò dalla sua scrivania e si diresse verso l’amica. Le posizionò le mani sulle spalle e le sorrise. “Sei una bellissima ragazza e sei gentile. Helen non viene qui perché le piace la palestra, viene qui per te. Una volta è venuta a chiedermi di te e quando le ho detto che non c’eri, lei ha fatto qualche esercizio e se n’è andata. Quando ci sei tu rimane ore intere. È un segno, Aline. Le piaci un sacco.”  
Aline deglutì rumorosamente. “Non riesco a parlarle. Ha degli occhi così belli.... Come faccio a rimanere concentrata, come?” 
Isabelle sorrise, intenerita. “Non devi essere concentrata, devi essere te stessa. Ti accompagno di là e poi vai a salutarla, d’accordo? Agli altri clienti oggi ci penso io, almeno potete parlare un po’.”
Se riesco a parlarle.”
“Ci riuscirai. Forza, andiamo!” Isabelle fece voltare l’amica verso la porta e insieme la varcarono per dirigersi nella sala allenamento.


Nella sala piena di attrezzi trovarono Alec e Jace. I due si stavano allenando sul ring, piazzato al centro della palestra, in un incontro di boxe che era diventato ormai tradizione. Almeno una volta a settimana, infatti, i due andavano da Isabelle e si sfidavano. Tenevano anche il conto delle vittorie e chi, a fine mese, aveva subito più sconfitte doveva pagare da bere all’altro.
Isabelle si avvicinò con Aline al ring e salutò i suoi fratelli. “State facendo un incontro pulito, o devo controllarvi come dei bambini?”
Aline sorrise, divertita, mentre i due interessanti si scambiarono un’occhiata.
“Mai stati più onesti di così, sorellina.” Rispose Jace, sfoggiando un sorriso tutto paradenti. “Ciao Aline!” la salutò e la ragazza rispose alzando una mano. Salutò anche Alec, che rispose al suo saluto alzando una mano coperta dal guantone.
“Com’è andata con i tuoi?” Le domandò, il paradenti che gli impediva di parlare correttamente. Izzy salì sul ring e si avvicinò ai due, togliendo il paradenti ad entrambi e appoggiandoli negli appositi contenitori, ai rispettivi angoli del quadrato.
“Grazie.” Le dissero all’unisono, poi Alec prestò di nuovo attenzione ad Aline. Essendo amica di Isabelle, aveva legato anche con i suoi fratelli, tanto che era stata invitata al compleanno a sorpresa di Alec a cui, però, non era potuta andare perché i suoi genitori erano in città e volevano cenare con lei. Aline era figlia di diplomatici che spesso viaggiavano per il mondo.  Il giorno successivo alla festa, Aline aveva mandato un messaggio ad Alec, dicendogli che le era dispiaciuto non aver potuto partecipare e sperava che fosse andato tutto bene.
“Bene, sono sempre i soliti. Parlano di lavoro e di trattati di pace e ignorano completamente la mia vita.” La ragazza fece spallucce, abituata al comportamento dei genitori. “Come se la loro mancanza di interesse non fosse un chiaro segno di disapprovazione.” Aline agitò una mano, come se volesse scacciare quel discorso. “Lasciamo perdere. Chi vince?”
Alec la capiva. Lui ed Aline si erano ritrovati a parlare più di una volta. Genitori che non approvavano il suo orientamento sessuale, ne il modo in cui aveva scelto di guadagnarsi da vivere. Quel genere di disapprovazione silenziosa fatta di sguardi freddi e parole di circostanza, come se si stesse parlando con un estraneo e non con un genitore. Non era proprio il massimo, ma Alec capiva anche perché Aline avesse voluto scacciare l’argomento. Faceva male, nonostante tutto. Nonostante il tempo e il supporto che si può ricevere da altre persone.
“Io.” Rispose, quindi concentrandosi solo sull’ultima domanda. Jace, però, aveva risposto la stessa cosa nello stesso momento. Avevano parlato all’unisono, convinti di quello che affermavano, di conseguenza diedero il via ad un battibecco tipicamente fraterno, costellato di bonarie prese in giro. Isabelle, rimasta in silenzio fino a quel momento, scese dal ring e tornò dall’amica.
“Ignora questi due, hai una cosa da fare.”
“Parlare finalmente con la ragazza dalla treccia?” si intromise Jace e Alec gli diede una gomitata. “Che c’è?” Gli disse e l’altro gli riservò un’occhiataccia che stava a significare perché non ti fai gli affari tuoi?
Isabelle, dal basso, alzò lo sguardo sui suoi fratelli dentro al ring. “Perché non vi allenate e basta?”
Jace la ignorò, avvicinandosi alle corde e appoggiandosi su di esse. “Vuoi che le parli io, da biondo sexy a bionda sexy? Ti faccio da spalla, se vuoi.” Ammiccò, sorridendo ad Aline, che rise. I Lightwood erano strani, a tratti, ma erano alcune delle persone migliori che avesse mai incontrato.
“Faccio da sola, Jace, ma grazie.”
Jace fece spallucce. “Come preferisci. Se cambi idea e vuoi qualche consiglio su come fare colpo su una ragazza, sono il tuo uomo!”
“Un uomo è l’ultima cosa che vogliono avere intorno, Jace!” commentò Alec.
“Non si può dire lo stesso di te, non è vero, fratello? Come sta Magnus?” Sorrise provocatorio e sornione.
Alec lo fulminò. “Sta’ zitto.” Gli piazzò un pugno sulla spalla a cui Jace rispose con uno su un pettorale.
Aline corrugò la fronte, non capendo fino in fondo che piega avesse preso il discorso. Una vaga idea se l’era fatta, ma aveva l’impressione che fosse meglio non fare domande, evitare di scendere nei dettagli. Soprattutto perché Alec era un tipo molto riservato.
Lasciò i due a battibeccare di nuovo, mentre osservava Isabelle alzare gli occhi al cielo – come se fosse abituata a questo genere di cose – e salire sul ring per mettere di nuovo ad entrambi i paradenti.
Individuò Helen nella sala e sentì lo stomaco attorcigliarsi su se stesso quando notò che la stava già guardando a sua volta. Sorrise timidamente, anche se la cosa le faceva piacere. Forse Isabelle aveva ragione: il suo interesse era ricambiato. Fece un profondo respiro e si incamminò verso la ragazza con tutta l’intenzione di farsi coraggio e chiederle di uscire.


Magnus aveva un appuntamento con Clary e Maia – anche se chiamarlo appuntamento non era decisamente corretto, se si pensa che non aveva avuto scelta. Era stato obbligato dalle due ad andare con loro alla scelta del vestito per le damigelle perché, a detta delle ragazze, non riuscivano a sceglierne uno che accontentasse tutte. Clary aveva lasciato loro carta bianca, ma c’erano vestiti che piacevano a Maia e non ad Izzy e viceversa. E dal momento che le tre erano convinte che non avrebbero mai cavato un ragno dal buco, finendo per arrivare a maggio senza vestito, avevano chiesto l’intervento di Magnus, che era stato nominato consigliere ufficiale.
E Magnus aveva accettato, se non altro perché non sapeva dire di no alle sue amiche.
Adesso si trovavano davanti alla palestra di Isabelle. Magnus teneva Erin per mano, mentre Clary teneva Diana. Maia, invece, stava controllando l’ora sul cellulare.
“Dovrebbe aver finito.” Commentò. “Possiamo entrare per vedere a che punto è.”
“Probabilmente in alto mare: Jace e Alec stanno facendo il loro incontro settimanale. Se non si sono già scannati è perché c’è Izzy a fare da baby-sitter.” Disse Clary e Maia rise.
“Quale incontro?” domandò Magnus.
“Ogni settimana, Alec e Jace si sfidano sul ring in un incontro di pugilato. A fine mese, chi ha più subito più sconfitte paga da bere all’altro.” Spiegò Maia.
“Ma siccome sono estremamente competitivi tra di loro, questi incontri sfociano in comportamenti infantili e colpi un tantino scorretti.” Concluse Clary. “Pensa che una volta Alec ha mollato un sinistro a Jace così forte da farlo cadere a terra. Tecnicamente era una vittoria per Alec, ma Jace ha pensato bene di fargli lo sgambetto e farlo cadere. Poi gli ha messo un braccio intorno al collo fino a che Alec non è stato costretto a cedere. Scorretto e infantile, come vedi.”
“Gli uomini sanno essere così bambini, se si impegnano!” Esclamò Maia e Clary annuì vigorosamente. Amava Jace con tutta se stessa, ma non poteva negare le parole della ragazza.
Magnus si limitò ad assimilare quell’informazione. E l’unica cosa che il suo cervello gli fece realizzare fu: “Quindi anche Alexander è dentro alla palestra?”
Clary e Maia si scambiarono un’occhiata complice, un sorriso tirò le labbra di entrambe. “Beh, sì.” rispose Maia. “Mi sembra ovvio, a meno che Jace non abbia cominciato a combattere da solo.”
Magnus rispose a tutto quel sarcasmo con una linguaccia.
“Scommetto che improvvisamente la prospettiva di entrare ti sembra decisamente più allettante.” Clary strinse le labbra all’interno della bocca per non ridere, ma i suoi occhi lo fecero per lei.
Magnus guardò male entrambe, facendo passare lo sguardo da una all’altra – come se improvvisamente avesse davanti due bambine e lui dovesse rimproverarle per qualche marachella commessa.
“Sarei entrato in ogni caso! E smettetela di fare insinuazioni!” Detto questo,  Magnus si avviò verso l’entrata con Erin ancora per mano.
Maia e Clary si guardarono e poi scoppiarono a ridere, prima di seguire l’amico dentro la palestra.
 


Le palestre, se lo si chiede a Magnus, sono un po’ tutte uguali. Hanno tutte lo stesso odore di attrezzi nuovi misto a sudore di decine e decine di persone che tentano di migliorare il loro fisico. Hanno tutte file di pesi di vario calibro, finestre che vengono aperte durante le belle stagioni per non rischiare di soffocare, e un impianto stereo che trasmette musica motivazionale ad un volume discreto, una via di mezzo che permette di essere udito, ma che permette anche di fare conversazione nei momenti in cui si vuole riprendere fiato.  
La palestra di Isabelle, tuttavia, era diversa dalle altre: aveva Alexander Lightwood che stava su un ring –  innalzato come se fosse su un altare dedicato alla divinità che era – senza maglietta, sudato e con un paio di pantaloncini che evidenziavano il suo sedere in un modo che Magnus avrebbe definito ingiusto – ed era ingiusto solo perché riassumevano perfettamente quel concetto ampiamente applicato nei musei che recitava: guardare ma non toccare. Ingiusto. Ingiustissimo.  
Quando aveva supposto che Alec senza maglietta stesse bene, non immaginava certo che stesse così bene. Una vaga idea se l’era fatta, ma la realtà in questo caso era decisamente meglio della fantasia. Alexander era alto, aveva una fisicità longilinea, era ben definito nei punti giusti senza essere esagerato ed era sexy – tanto sexy.
“Magnus?” lo chiamò Maia, ma l’uomo non staccò gli occhi dalla figura di Alec. Non era vicinissimo al ring, ma riusciva comunque a vedere piuttosto chiaramente la sua muscolatura che si tendeva ad ogni movimento.
“Sto per svenire.” Confessò. “E la s è puramente facoltativa.”
Maia scoppiò a ridere, coprendosi la bocca con le mani per cercare di trattenere almeno un po’ il rumore. Clary, al suo fianco, invece, gli diede un colpo sul braccio. “Non davanti alle bambine, Magnus!” lo ammonì.
“Le bambine non possono aver sentito!” Ma per sicurezza le adocchiò comunque – l’ultima cosa che voleva era traumatizzare due quattrenni perché i suoi ormoni avevano improvvisamente deciso di mandare all’aria tutti i suoi filtri bocca-cervello. Diana ed Erin, tuttavia, non stavano prestando attenzioni ai grandi, troppo concentrate a fare finta di essere come Iron Man e sparare luce dai palmi.
“Non si sa mai!”
Magnus ridusse gli occhi a due fessure. “È colpa tua. Mi porti in questo luogo pieno di tentazioni e pretendi anche che ne esca sano di mente?”
“Con tentazioni intendi Alec senza maglietta?” commentò Maia, che dal canto suo trovava il tutto estremamente divertente. “Vuoi un fazzoletto per la bava? O magari direttamente un secchio?”
“Piantala.” Gli occhi di Magnus si assottigliarono maggiormente, ma Maia lo ignorò, non facendosi intimorire da quel comportamento nemmeno un po’.
“Vediamo, cosa potrebbe essere?” Si picchiettò il mento con l’indice. “Il fatto che è alto scommetto influisca parecchio, conoscendoti.”
“È moro…” Aggiunse Clary e Maia le diede ragione con un cenno deciso del capo.
“Vediamo, poi che altro?”
Magnus si arrese. Quel giochetto era durato anche troppo e lui era stufo di far finta che non avessero ragione. “Il fatto che assomigli ad una divinità greca penso sia l’elemento portante del suo fascino. È come guardare un Bronzo di Riace!” 
Maia e Clary si zittirono per qualche istante, si scambiarono un’occhiata complice e poi scoppiarono a ridere.
“Sono felice di farvi divertire, biscottini miei…” Magnus notò che Alec aveva cominciato a guardare nella loro direzione, così alzò la mano e lo salutò. “…Ma è la pura verità.”
Alec ricambiò il saluto e Magnus si incamminò verso di lui. Maia e Clary lo seguirono per la seconda volta.

 
Quando raggiunsero il ring, Alec e Jace stavano battendo sui guantoni, segno che il loro incontro era finito. Jace scese per primo, passando tra la seconda e la terza corda. Una volta fuori dal quadrato si avvicinò alla fidanzata e la baciò. Clary, ricambiò il bacio fugacemente. “Puzzi, Jace. Non avvicinarti alla bambina quando odori di carcassa putrefatta, ti prego.” Afferrò le mani del fidanzato per cominciare a slacciare i guantoni – era una procedura che aveva imparato a fare, durante gli anni.
Jace, con le braccia tese verso Clary, si esibì in una smorfia contrariata associata ad una decisa linguaccia. “Nostra figlia mi ama anche quando puzzo. A differenza tua.”
Clary scosse la testa con rassegnazione, ignorando la frecciatina finale, e continuò a slacciare i guantoni, togliendoli poi uno alla volta. “Prima lavati, poi abbracciala.”
“D’accordo capo, come vuoi.” Jace si sporse in avanti per lasciarle un bacio sulla fronte. Individuò Diana che ancora stava giocando con Erin e decise di non attirare la sua attenzione, rimandando il tutto a dopo una doccia. Le bambine erano entrambe con Maia, che stava assecondando il loro gioco, qualsiasi esso fosse.
Jace adocchiò Magnus che si stava incamminando verso la loro direzione. Ma presto si rese conto che non stava camminando verso di lui, ma verso Alec, che si trovava alle sue spalle e stava armeggiando con i guantoni. Il biondo sorrise e si rivolse di nuovo a Clary, che aveva notato la stessa cosa, ma non proferì parola, nello stesso modo in cui non la proferì Jace. Sapeva che certi commenti avrebbero messo a disagio Alec e non voleva che si tirasse indietro in nessun modo.
“Vado a lavarmi.”
Clary annuì. “Ti aspetto qui.”
Jace le lasciò un bacio su una guancia e si diresse verso gli spogliatoi.


Magnus si era avvicinato ad Alec dopo aver lasciato Erin a giocare con Diana e Maia. Il medico stava armeggiando con i guantoni che non riusciva a togliere e aveva un’espressione corrucciata in viso che lo rendeva ancora più carino.
“Vuoi una mano?” domandò, attirando la sua attenzione. Quando Alec alzò lo sguardo su di lui, immediatamente, sorrise. Aveva i capelli appiccicati alla fronte, bagnati di sudore, e li scostò all’indietro meglio che poté con l’avambraccio.
“Sì, grazie.”
Magnus gli afferrò una mano e cominciò a slacciare il guantone. Si concentrò su quello che stava facendo, cercando di non muovere lo sguardo su qualcosa che non fosse il guantone, ma non ci riuscì. Alexander era mezzo nudo a pochi centimetri da lui, bellissimo e con gli addominali in mostra, come se quei sei piccoli infidi bastardi stessero gridando a pieni polmoni VOGLIAMO TENTARTI, MAGNUS! E ci stavano riuscendo alla grande. Fu nello studio di Alexander Lightwood, la nudità, un olio su tela in forma umana generosamente offerto da Madre Natura in persona, che notò il tatuaggio che Alec aveva sul fianco sinistro, un qualcosa di astratto, che ad un primo sguardo sembrava uno scarabocchio.
“E questo cos’è, Alexander?” tracciò il perimetro  del tatuaggio con l’indice d’istinto, senza nemmeno rendersene conto.
“Un tatuaggio, Magnus. Sono sicuro che sai cosa sia.” Rispose Alec, sperando che la sua voce non tremasse per via di quel contatto. Non voleva che Magnus lo toccasse, visto che era sudato in un modo esagerato, ma allo stesso tempo gli piaceva che l’avesse fatto – doveva ammettere che solo essere sfiorato da lui l’aveva acceso dentro. Sperò solo che Magnus non se ne accorgesse: non voleva certo fare la figura del ragazzino con gli ormoni che impazziscono appena un bel ragazzo lo sfiora.
Magnus assottigliò gli occhi, guardandolo in viso. “Sei simpatico, tesoro, davvero.” Ribatté, riflettendo lo stesso tono sarcastico usato da Alec.
Il medico rise e ritirò le labbra all’interno della bocca per cercare di trattenersi un po’. “È una runa dell’amore.” Spiegò. “Anche i miei fratelli ce l’hanno nello stesso punto.”
Magnus riguardò il tatuaggio: iniziava con un piccolo segmento orizzontale, alla cui estremità destra ne partiva uno verticale più spesso. A metà di esso partiva una biforcazione – una parte finiva con una riga, l’altra invece terminava con un ricciolo. Al centro del disegno completo, tagliandolo perfettamente a metà prima dell’inizio della biforcazione, c’era un segmento orizzontale. “Perché una runa?”
“Perché Jace conosce qualsiasi cosa derivi dalle lingue antiche. E Max voleva qualcosa che simboleggiasse l’amore, ma che non fosse troppo ovvio. Ha scartato il latino e l’inglese, per un po’ era stato tentato dal greco, ma poi ha optato per una runa e Jace l’ha accontentato, mostrandogli quale fosse quella dell’amore.”
Magnus distolse lo sguardo dal tatuaggio e sfilò uno dei guantoni di Alec, concentrandosi poi per cominciare a slacciare l’altro. Alec lo lasciò fare.
“Perché l’avete fatto, se posso chiedere?”
“Puoi chiederlo e ti risponderò, ma non qui, Magnus. È un discorso che non vorrei affrontare in una palestra.”
“Ma certo, tesoro.” Magnus gli accarezzò una guancia e gli sorrise dolcemente. Sapeva che con Alec non doveva insistere – e da parte sua, Magnus non aveva nemmeno un carattere che lo spingeva a farlo. Era fermamente convinto che le persone dovessero avere il loro spazio e che dovessero parlare delle loro cose a tempo debito, o quando avrebbero voluto.
“Grazie.”
“Non ringraziarmi, confettino. Sono io che ringrazio te per tutto questo.” Magnus indicò con un gesto della mano tutta la parte superiore del corpo di Alec, il quale arrossì e rise. “Hai altri tatuaggi sul tuo bellissimo corpo che dovrei vedere?”
Alec si passò la mano che ormai aveva libera sulla faccia, sentendo le guance che prendevano fuoco, ma non riuscendo a trattenere un sorriso. “Ho una freccia all’interno del braccio sinistro.”
Gli occhi di Magnus andarono immediatamente a cercarla, così Alec girò il braccio in modo che riuscisse a vederla. Si trovava nella parte alta del braccio, all’interno, poco visibile ad occhi esterni a meno che non si sapesse della sua esistenza.  Ricopriva in lunghezza quasi tutto l’interno del bicipite. Era semplice e con la punta che mirava in avanti, verso la mano.  
“È il primo tatuaggio che ho fatto.” Disse Alec, “Avevo vent’un anni e mi piaceva ciò che simboleggiavano le frecce. Una volta che le lanci, non tornano più indietro. Conoscono una sola direzione: avanti. È un piccolo promemoria per me, che tendo sempre a farmi condizionare un po’ troppo dal mio passato. Non si può tornare indietro. Ciò che è stato, è stato e bisogna solo continuare ad andare avanti nella nostra vita cercando di essere una persona migliore di quello che siamo stati in precedenza.” 
“È un bellissimo promemoria, Alexander.” Magnus gli sorrise, sincero. “In più, eri un arciere, perciò penso sia perfetto per te.”
Alec ricambiò quel sorriso e incatenò i suoi occhi a quelli di Magnus. Rimasero a guardarsi per qualche istante, poi Magnus finì di togliergli i guantoni e successivamente glieli porse.
“Ecco fatto, ho finito.”
“Grazie, Magnus.”
“Quando vuoi, tesoro.”
Alec annuì, un timido sorriso a tendergli le labbra chiuse – le fossette che fecero capolino. “Vado a farmi la doccia. Ti rivedo o devi andare?”
“Ti aspetto.”
Alec annuì di nuovo e camminò per qualche passo all’indietro, non volendo lasciare la figura di Magnus, che a sua volta lo stava guardando. Tuttavia fu costretto a girarsi quando urtò con la spalla uno degli attrezzi di Isabelle, mugugnando per il dolore. Una volta voltatosi, si diresse verso lo spogliatoio e Magnus ne approfittò per guardargli la schiena  muscolosa, se non altro perché gli avevano sempre insegnato che l’arte va apprezzata e osservata nel dettaglio.


Alec non si era mai lavato così in fretta. Uscì dallo spogliatoio con addosso dei jeans e una maglietta nera sopra ad una camicia di flanella a scacchi neri e verdi tenuta aperta. I suoi capelli erano ancora umidi, ma non voleva fare aspettare troppo Magnus, quindi decise di non perdere altro tempo ad asciugarli. Si chiese perché fremeva dentro ogni volta che all’interno del suo cervello balenava l’idea di vederlo, ma decise di non rispondersi. Aveva troppa paura di quello che la sua voce interiore avrebbe detto e lui non era ancora pronto per ascoltarla.  Individuò Magnus in mezzo alla sua famiglia, circondato da Jace, Clary e Maia. Le bambine stavano giocando con dei peluches così piccoli che stavano perfettamente nelle loro manine.
“Che state facendo?” domandò, una volta avvicinatosi al gruppo. Non si erano allontanati più di tanto dal ring, rispetto a poco prima.
Fu Magnus a rispondergli, voltandosi per primo verso di lui. “Ufficialmente, aspettiamo tua sorella per andare a scegliere il vestito delle damigelle. Ufficiosamente, stavo aspettando te.”
Alec gli sorrise, le guance che si coloravano di un delicato rosa. “Ti hanno convinto, quindi?”
“Mi hanno costretto, Alexander.” Magnus lanciò un’occhiata a Clary e Maia, che gli fecero una linguaccia. “Ma mi piace l’idea di rendermi utile. E poi è pur sempre shopping, io amo lo shopping.”
“Fai bene a guardare il lato positivo della cosa. Se può confortarti, in quelle boutique offrono champagne. Io penso lo facciano perché almeno da ubriache le damigelle vedano belli dei vestiti bruttissimi che i commessi non riuscirebbero mai a vendere a delle persone sobrie, ma può essere comunque divertente, in fondo.”
Magnus ridacchiò e Alec sorrise.
“Berrò un sacco di champagne, allora.”
Alec annuì in approvazione. “È lo spirito giusto, Magnus.”
“Tu non berrai un bel niente!” Si inserì Clary. “Mi servi sobrio, Magnus, proprio per evitare di comprare degli obbrobri!”
“Biscottino, riuscirei a scovare un vestito meraviglioso anche ad occhi chiusi. Cosa ti fa pensare che un po’ di champagne sia in grado di ottenebrare il mio giudizio?”
“Già, devi stare tranquilla.” Aggiunse Alec, con un sorriso.
Clary si arrese, emettendo un piccolo sbuffo. “Parliamo dell’organizzazione di questa giornata: quando Izzy avrà finito di prepararsi, noi cominceremo il nostro giro di negozi. Diana starà con Jace, in modo che non…”
“Rischi di annoiarsi,” La interruppe Alec, che conosceva quel piano a memoria, ormai. L’unica componente a sorpresa di quella giornata, infatti, era stato Magnus. Non sapeva che fosse incluso anche lui, in quel piano. “Io e Jace porteremo la bambina al parco, la faremo giocare, poi la porteremo a fare merenda.” Alec mise le mani sopra alle spalle minute della cognata. “Devi stare tranquilla, è tutto sotto controllo. Rilassati. Andrà bene.”
Clary si sporse quel tanto necessario per abbracciarlo e Alec ricambiò. Si scambiavano segni d’affetto simili molto raramente, ma quando succedeva era perché ce n’era bisogno. E Alec sapeva quanto a volte fosse stressata Clary per via dei preparativi delle nozze. “Grazie.” Gli disse, quando sciolsero l’abbraccio. “Ho solo paura che mi sfugga qualcosa.”
“Lo so, ma hai ancora tutto il tempo che ti serve. Devi solo rilassarti.”
Clary annuì e si voltò a guardare Jace, che teneva in braccio Diana. Stavano facendo finta di ballare, insieme a Maia, che teneva in braccio Erin. Le risatine euforiche delle bambine erano chiaramente udibili. E fu in quel momento che Alec realizzò una cosa, dandosi dello stupido per non averci pensato prima.
“Erin può venire con noi, se per te non è un problema.”
Magnus spostò l’attenzione dalla figlia e la portò su Alec. “Non è necessario, Alexander…”
“Non c’è alcun tipo di problema. Erin può stare con noi. Giocherà con Diana e per lei sarà sicuramente più divertente di girare per un mucchio di negozi in cui non potrà toccare quasi niente.”
Magnus parve pensarci su. Alexander aveva ragione, questo non poteva negarlo, ma non sapeva se fosse appropriato chiedergli una cosa del genere. Ma d’altronde, erano amici e gli amici si aiutano in svariate situazioni, anche quando si vuole evitare ad una bambina di quattro anni di girare tutto il pomeriggio per dei negozi. In più, si fidava di Alec, sapeva che si sarebbe preso cura di Erin nel modo giusto, ma… Erin non era mai stata sola con qualcuno senza di lui – a meno che quel qualcuno non fosse Madelaine, ma lei era sua nonna.
“Sei sicuro che per te non è un disturbo?”
“Assolutamente no, Magnus!”
“Lo chiedo a lei, allora. Non è mai stata sola con qualcuno che non fossi io o sua nonna.”
Alec annuì, comprensivo. “Ma certo.”
Magnus si diresse verso Maia ed Erin, mentre Alec rimase a guardarlo.  Osservò il modo in cui sorrise alla sua bambina e il modo in cui lei si buttò, senza titubanza alcuna, tra le braccia del padre, con la totale certezza che lui l’avrebbe afferrata.
Guardare quel quadro perfetto gli provocò una sensazione strana, soprattutto perché aveva degli effetti sul suo cuore che Alec non voleva ascoltare. Era come se il suo cervello, la sua ragione fortemente radicata in lui, avesse eretto delle barriere trasparenti, permettendogli di poter guardare i suoi sentimenti, ma impedendogli di avvicinarsi, di viverli, di dare libero sfogo a qualsiasi cosa fosse ciò che provava per Magnus. Non sapeva identificarlo e su questo era sincero. Si definivano amici, ma Alec sapeva benissimo che c’era dell’altro tra di loro. Come sapeva che non poteva ancora chiamare amore ciò che provava. A trent’anni compiuti si rifiutava di chiamare cotta questo strano ibrido di sentimenti, che non era ne amicizia ne amore, ma forse, in mancanza di un altro termine doveva accontentarsi. Poteva ammettere, almeno con se stesso – e solo a se stesso – che era invaghito di Magnus. E se avesse negato che questa realizzazione lo spaventava, avrebbe mentito. Così come avrebbe mentito se avesse detto di non voler continuare a passare del tempo con lui.
Magnus era come una calamita. Alec si sentiva attratto naturalmente verso la sua direzione e voleva davvero lasciarsi trascinare da quel campo magnetico, da quell’attrazione incontrastabile che lo spingeva sempre verso Magnus. Ma se quel magnete avesse portato ad un burrone? O ad una valanga, o un palazzo in fiamme destinato solo alla distruzione? Se esporsi avesse solo portato ad una catastrofe? Se il suo cuore fosse stato raso al suolo una seconda volta, l’avrebbe sopportato? Alec non lo sapeva. Era tutto una grossa incognita. Alec ripensò alla spiegazione che aveva dato solo poco prima a Magnus riguardante il tatuaggio con la freccia: si faceva condizionare da ciò che era successo con William. La loro storia era finita in una specie di disastro e gli aveva causato problemi di fiducia. E sebbene lui sapesse che non tutti erano Will, che Magnus non era Will, continuava a non riuscire a lasciarsi totalmente andare. Quel promemoria sul braccio non sempre faceva il suo dovere, Alec questo lo sapeva, e in certi casi continuava a farsi condizionare dal suo passato.
“Erin ha detto sì.” Magnus, avvicinatosi di nuovo a lui con la bambina in braccio, lo riportò alla realtà.
Alec sorrise, accantonando i suoi pensieri. “Perfetto!”
“Farai la brava, vero signorina?” Disse Magnus, rivolgendosi alla figlia. Erin annuì con vigore.
“Obbedirò ad Alec.”
“Bravissima, tesoro mio.” Magnus le baciò una guancia ed Erin sorrise, felice, abbracciando poi il collo del suo papà.
Alec sentì chiaramente il suo cuore liquefarsi, era come se ce l’avesse di cioccolata e l’avesse lasciato al sole in una giornata estiva.
“Qualsiasi cosa, qualsiasi¸ mi chiami e io vi raggiungo, d’accordo?” Disse Magnus, dopo aver appoggiato Erin a terra. La bimba teneva già Alec per mano.
“Stai tranquillo.” Gli sorrise incoraggiante e Magnus ricambiò.  
“Alec, possiamo mangiare il gelato?” Domandò Erin, la manina stretta a quella del ragazzo, mentre alzava il viso verso di lui.
Alec, prima di rispondere, guardò Magnus che diede un silenzioso consenso con il capo. Il medico, allora, si rivolse di nuovo alla bambina. “Certo, lo prenderemo doppio gusto.” Le sorrise ed Erin ricambiò, felice.
Magnus aveva notato che Alec aveva un ascendente particolare sulla sua bambina. Riusciva a farla sentire a suo agio, tanto che la fase timidezza davanti ad un estraneo con Alec era durata, forse, solo durante la prima volta che si erano visti, alla scuola di danza. Era bastato che Alec si chinasse all’altezza sua e della nipote e giocasse con loro a battimani per conquistare la fiducia di sua figlia – e di norma, era una cosa che non succedeva quasi mai. Con Alec, invece, era successo. E adesso Erin si sentiva così a suo agio con lui da accettare persino di passare una giornata insieme ad Alec senza il suo papà. Che fosse un segno del destino? Un messaggio divino, qualcosa che lo spingeva verso Alexander?
“Sono pronta!”
I suoi pensieri vennero interrotti da Isabelle, che era finalmente riuscita a raggiungerli. Aveva fatto una doccia, si era cambiata e truccata – ed era, come sempre, bellissima oltre al limite umano. Indossava un paio di short di pelle a vita alta, abbinati ad una maglietta nera a maniche lunghe con uno scollo a V. Ai piedi, portava delle parigine  con un tacco altissimo.  
“Era ora, Izzy, ci metti sempre un’eternità a vestirti!” Esclamò Jace.
Magnus era stato così preso dai suoi pensieri che non si era accorto che tutto il gruppo, adesso, era riunito nello stesso punto. Avevano formato una specie di cerchio strambo nell’unico spazio vuoto della palestra e l’uomo si chiese, per un istante, se gli altri clienti non li trovassero ingombranti.
“La bellezza richiede tempo, fratello.”
“Non quando sei già bellissimo di tuo.” Ammiccò Jace, sicuro di sé, beccandosi di conseguenza un pugno dalla sorella.
“Stai dicendo che non sono bella?”
“Forse non quanto credi di esserlo, se devi impiegare due secoli per prepararti!” Esclamò, massaggiandosi la parte del braccio che era stata colpita.
“Ripetetemi quanti anni avete, per cortesia?” Si intromise Alec, in tono sarcastico. Roteò persino gli occhi al cielo. “Smettetela di bisticciare come dei bambini!”
Jace ed Izzy si guardarono e sbuffarono in sincronia. “Sei sempre il solito!” Disse la ragazza.
“Vuoi dire l’unico con un po’ di cervello?” Ribatté Alec.
“No, il solito rompi palle!” Sentenziò Jace.
“Cos’è un rompi palle?” La vocina di Diana interruppe quel battibecco tra fratelli, riducendo chiunque al silenzio.
Magnus avrebbe trovato la scena persino divertente, ma non poteva certo mettersi a ridere. Quindi, si concentrò per rimanere serio, mentre guardava il viso di Clary che si sforzava di mantenere un’espressione neutra e di non fulminare con lo sguardo il suo futuro marito. “È una parolaccia, Diana, e le parolacce non si dicono.”
“Ma papà l’ha detta!”
Clary, a quel punto, incapace di trattenersi oltre, lanciò un’occhiataccia a Jace. “Papà ha sbagliato, infatti. Vero, papà?” Enfatizzò l’ultima parola come se fosse un sibilo e Jace sentì chiaramente un brivido di terrore corrergli lungo la schiena: sapeva benissimo di essere nei guai.
“Vero, principessa.” Concordò, quindi, rivolgendosi alla figlia.  “Papà ha sbagliato. Le parolacce non si dicono.”
“E adesso chiedi scusa a zio Alec, avanti!” Continuò la rossa.
Jace si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo, ma solo perché era consapevole che doveva educare sua figlia. E perché aveva seriamente timore che Clary gli facesse lo scalpo mentre dormiva. “Scusa, zio Alec, non volevo offenderti.” 
“Non preoccuparti, è tutto a posto.” Alec gli diede una pacca sulla spalla.
“Fantastico, ora possiamo andare!” Esclamò Clary.
I presenti annuirono e, mentre si muovevano in gruppo verso l’uscita, Isabelle andò a cercare Aline per informarla che stava andando via. La trovò nell’angolo dove si trovavano i pesi, intenta a seguire un gruppo di ragazzi che si allenavano. Controllava che facessero gli esercizi in modo corretto, senza che rischiassero di strapparsi un muscolo.
“Aline, sto andando. Allora ti va bene chiudere tu, oggi?”
La ragazza le sorrise. “Ti ho già detto di sì da una settimana, mi sembra. Stai tranquilla, Iz. Chiudo io.”
Isabelle si sporse per abbracciarla. “Grazie!” Sciolse l’intreccio. “Dov’è Helen?”
Aline non riuscì a trattenere un sorriso. “È andata via prima per riuscire ad organizzarsi meglio: stasera usciamo insieme.”
Isabelle aprì la bocca in un’espressione che era un misto tra sorpresa e felicità. Si trattenne dal saltellare perché erano in un luogo pubblico e non voleva attirare troppo l’attenzione su di loro. “Ma è fantastico! Oh, Aline, sono così contenta!” L’abbracciò di nuovo e Aline ricambiò.
“Anche io.” Ammise, quando si separarono.
“ISABELLE!” gridò Jace, dalla porta d’ingresso, interrompendo la loro conversazione. 
Izzy fece una smorfia. “Devo andare, o rischio di venire flagellata. Tu fammi sapere come va, d’accordo?”
“Sicuramente!”  
Le due si salutarono e poi Izzy si incamminò verso l’uscita. Avevano un vestito da comprare.


*


Alec, Jace e le bambine si trovavano in gelateria. Avevano passato l’ultima ora e mezza in un parco giochi a provare qualsiasi gioco ci fosse: l’altalena, lo scivolo, la corsa ad ostacoli per bambini (che consisteva nel saltare dei sassi bassi e azzurri che sbucavano dal terreno) e altri che onestamente Alec non ricordava. Le bambine, poi,  si erano messe in mente di provare anche la parete d’arrampicata e per un pelo ad entrambi i ragazzi era venuto un infarto: quella parete era decisamente troppo alta e con troppe poche misure di sicurezza per delle bambine così piccole, di conseguenza le avevano dissuase da quella missione estremamente pericolosa con la promessa di un gelato.
E adesso si trovavano nel luogo più colorato e profumato dell’universo, seduti ad un tavolo di metallo verde pastello a controllare che le bambine non si sbrodolassero il gelato addosso.
Una volta appurato che la maglietta di Erin non si sarebbe trasformata in un ammasso appiccicaticcio di gelato sciolto, Alec estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scattò una foto alla bambina, mentre teneva la palettina da sola e la infilava nella sua coppetta di gelato.

> To: Magnus, 16.40
Merenda.
PS: niente nocciola per lei. Ha scelto vaniglia e cioccolato.

Alec aggiunse un’emoticon del gelato vicino alla parola merenda e poi inviò la foto.
La risposta di Magnus arrivò veloce come la luce e Alec non riuscì a trattenere un sorriso.

> From: Magnus, 16.40
È così carina quando mangia il gelato <3
Si comporta bene?
PS: ti sei ricordato della sua allergia?


> To: Magnus, 16.41
Si comporta benissimo. Siamo stati al parco e abbiamo giocato. Principalmente le bambine giocavano e noi controllavamo, ma si sono divertite.
PS: certo che mi sono ricordato, sono il suo medico ed un tuo amico. Se l’avessi scordato, sarei pessimo in entrambi i casi.


> From: Magnus, 16.41
Non sei pessimo, tesoro. In nessuno dei due casi. Anzi, direi proprio che sei fantastico. Non trovi?

> To: Magnus, 16.41
Non sta a me deciderlo.

> From: Magnus, 16.42
Allora decido io: sei fantastico.

“Perché sorridi come un diversamente intelligente al tuo telefono?”
Alec alzò lo sguardo dallo schermo e lo portò su Jace, seduto di fronte a sé. “Diversamente intelligente?” domandò, sollevando un sopracciglio.
Jace annuì. “Non posso dire le brutte parole davanti alla bambina, hai visto come si trasforma Clary. Ma penso tu abbia capito cosa intendo.”
In pratica, suo fratello gli aveva appena dato dell’idiota. Alec stava sorridendo come un idiota allo schermo del suo cellulare e non se la sentì nemmeno di negare perché Magnus gli aveva appena detto che era fantastico e tutto ciò gli trasmetteva un’ondata di euforia che passava attraverso le sue vene e attraversava tutto il suo corpo.
“Ho solo mandato una foto di Erin a Magnus e lui ha detto che è carina.” Minimizzò, evitando di dire tutto il resto. Alec era un tipo decisamente riservato – anche con i suoi fratelli. Era sempre stato così fin da quando erano più piccoli. A differenza di Isabelle e Jace che tendevano a dire qualsiasi cosa appena succedeva ai fratelli, Alec doveva prima elaborarla per sé. Se la teneva dentro per un po’, la faceva macerare e poi la diceva ai suoi fratelli.
“Farò finta di crederci.”
Ma Jace lo conosceva come le sue tasche ed era difficile che Alec riuscisse a nascondergli qualcosa. C’era questo rapporto tra di loro, decisamente stretto, che permetteva ad entrambi di capirsi con un solo sguardo. E quando hai un rapporto così con qualcuno, è difficile riuscire a tenergli nascosto qualcosa.
“Perché dovresti fare finta?”
“Perché ti conosco, Alec. E so che mi dirai le cose quando vorrai dirmele. Elaborerai il tutto e poi un giorno me ne parlerai.” Jace guardò Diana che si era sporcata la bocca. “Attenta, tesoro.” Le disse con dolcezza, pulendola con un fazzolettino.
Alec fece passare lo sguardo dal fratello ad Erin. La bambina stava mangiando il suo gelato con tranquillità. Ne aveva un po’ sul mento, così Alec la pulì e lei gli sorrise, ringraziandolo. Erin aveva lo stesso sorriso del suo papà – Alec l’aveva notato la prima volta che li aveva visti sorridere entrambi. E trovava la cosa estremamente tenera.
Trovava Magnus tenero, dolce e adorabile, ma con quel qualcosa di speziato che lo rendeva accattivante.  Guardarlo era come stare sulle montagne russe: sei lì sul tuo vagoncino che aspetti che arrivi la discesa e ne sei spaventato, ma allo stesso tempo non vedi l’ora che la discesa arrivi perché sai già che la sensazione che proverai sarà emozionante ed inebriante.
Magnus era inebriante. Era un tornado di emozioni e una sfaccettatura di caratteristiche che lo rendevano unico. E Alec era irrimediabilmente attratto da lui sotto ogni punto di vista.
Ma Jace aveva ragione: non era ancora pronto ad ammetterlo. Trovava ancora difficile dire ad alta voce che gli piaceva. Era stato difficile dirlo persino a se stesso, figuriamoci a qualcun altro.
“Mi conosci.” Ammise, quindi.
 “Dimmi qualcosa che non so, fratello.” Jace ammiccò, compiaciuto. “Adesso, finisci il tuo gelato o si scioglierà.”
Alec guardò la sua coppetta al pistacchio e costatò che Jace aveva ragione. Non disse nulla, si limitò a continuare a mangiare fino a che non raschiò il fondo della coppetta con la palettina.
Quando ebbero tutti finito di mangiare il gelato, uscirono dalla gelateria per fare una passeggiata. Con Erin per mano, Alec si chiese cosa stesse facendo Magnus, se anche lui lo stava pensando. E in quel preciso istante, ebbe la conferma di essere fregato: che gli piacesse o meno usare quella parola, Alec Lightwood aveva una cotta per Magnus Bane.



Le uscite a base di shopping erano tanto meravigliose quanto stancanti, questo Magnus lo sapeva bene. L’aveva appurato in anni di esperienza e poteva tranquillamente autodefinirsi un veterano, per questo conosceva le conseguenze di una giornata passata a fare acquisti.
Comunque, non poteva negare di essersi divertito. Le giornate passate con Clary e Maia gli ricordavano sempre la sua gioventù, quando le due ragazzine andavano a casa sua e passavano del tempo insieme. Il fatto che in età adulta avessero ancora quel legame stretto rafforzava in Magnus quell’idea secondo la quale famiglia non è solo chi condivide il tuo stesso DNA. Isabelle, poi, era stata un’aggiunta perfetta a quel quadro che Magnus adorava.
Ma in tutta quella giornata bellissima, passata in giro per boutique a guardare abiti su abiti, a ridere per ogni cosa, a commentare certi stilisti, preferendone alcuni piuttosto che altri, Magnus aveva sentito la mancanza di qualcuno. E vorrebbe dire che la sua mente era volata solo ad Erin, ma non sarebbe stato vero. Il pensiero di Alexander era balenato nel suo cervello più volte di quante si sarebbe aspettato. Non faceva altro che pensare che si era offerto di badare ad Erin per fargli un favore; pensava al fatto che la flanella non gli era mai piaciuta, ma se era Alec ad indossarla diventava automaticamente piacevole. Aveva pensato al modo, del tutto naturale, in cui Erin aveva stretto la mano di Alec e lui le aveva sorriso.
Quando gli aveva mandato quella foto, poi, era stato come se tutti i suoi ricordi diventassero più reali di quanto già non fossero. Quella era la prova grafica del fatto che sua figlia stesse passando del tempo con Alec e Magnus inevitabilmente aveva immaginato come potrebbe essere la sua vita se avesse qualcuno al suo fianco. Cosa si prova a crescere una figlia con qualcuno? Era sempre stato abituato all’idea che l’avrebbe fatto da solo che non si era mai soffermato a rispondere a quella domanda. Probabilmente perché non aveva mai trovato qualcuno che gliela facesse porre quella domanda.
Era come se Alexander, con la sua sola presenza, riuscisse a mostrare un mondo nuovo a Magnus – un mondo che li vedeva come una coppia che crescono una bambina.
E sapeva benissimo che stava correndo come un treno ad alta velocità, che gli elementi che aveva erano ancora pochi per formulare pensieri simili riguardanti un futuro così solido – alla fine, lui e Alec non erano nemmeno usciti insieme per poter capire effettivamente cosa fosse ciò che li legava – ma ogni volta che guardava Alec, Magnus riusciva a non vedersi solo.
Dopo Camille aveva sempre dato per scontato che non avrebbe incontrato nessun altro, o quanto meno non qualcuno con cui pensare di vivere una vita insieme seriamente.
Alexander risvegliava in lui questa speranza, in qualche modo. Costruendo il loro rapporto passo per passo, era come guardare un cantiere in cui si costruisce una casa mattone dopo mattone: all’inizio ci sono solo pavimento e muri portanti, ma dopo mesi e mesi di lavoro, la casa prende forma.
Magnus aveva la convinzione che loro sarebbero potuti diventare quella casa, costruita con calma e con pazienza.
Poteva sembrare un pensiero folle, ma… era convinto che Alexander fosse una persona speciale, qualcuno che era riuscito ad entrare nel cuore di Magnus in poco tempo.
Alec gli piaceva e non solo come amico –  era inutile negarlo –  ma Magnus non voleva correre. Voleva guardare come sarebbero andate le cose, lasciando che il tempo scorresse e il loro rapporto germogliasse. Non voleva iniziare subito a correre, prima doveva passeggiare ancora un po’. Passeggiare e aggiungere un mattone alla volta, costruendo piano piano quella casa. E se erano veramente destinati a stare insieme, un giorno quella casa avrebbe preso forma. Era convinto che se il destino li voleva insieme, la loro amicizia si sarebbe trasformata da sola in qualcosa di più.
“Magnus?” La voce di Clary lo distrasse dai suoi pensieri, riportandolo alla realtà: erano rimasti solo loro, a fine giornata – Maia era andata all’Hunter’s Moon per un turno ed Isabelle era tornata a casa – e si stavano dirigendo all’appartamento di Clary, dove sapevano avrebbero trovato Jace, Alec e le bambine.
“Sì, biscottino?”
“Grazie per oggi. Mi ha fatto piacere averti lì.” Clary sorrise e Magnus le circondò le spalle con un braccio, tirandola gentilmente a sé per riuscire a lasciarle un bacio su una tempia.
“Anche a me ha fatto piacere esserci. Ti stai per sposare… vorrei dire che non piangerò al tuo matrimonio, ma probabilmente non è vero.”
Clary accennò un sorriso, che tuttavia svanì quasi immediatamente. Magnus se ne accorse subito e si accigliò, preoccupato di aver detto qualcosa che aveva turbato l’amica.
“Ho detto qualcosa di sbagliato?”
“No, Magnus, assolutamente! È solo che…” Abbassò lo sguardo sulle sue scarpe, i suoi ricci rossi andarono a coprirle il viso e Magnus, istintivamente si posizionò davanti a lei. Erano fermi in mezzo al marciapiede, uno di fronte all’altra. Magnus guardava Clary, ma lei continuava a tenere gli occhi fissi sulle sue converse.
Sembrava così piccola, minuta e in qualche modo fragile.
Si chiese il perché di quel cambiamento d’umore, mentre le sollevava il viso con le mani, tendendogliele poi appoggiate alle guance. Quando i loro sguardi si incrociarono, gli occhi verdi della ragazza erano velati di un pianto trattenuto.
“Ci pensi mai a lei, Magnus? Io sì, soprattutto in questo periodo.”
“Oh, tesoro.” Sussurrò, stringendola a sé per un abbraccio. Clary ricambiò immediatamente, il viso appoggiato al petto di Magnus.
“Dovrebbe essere qui, con me. Dovrebbe aiutarmi a scegliere il mio vestito, i centrotavola, i fiori. Avrebbe dovuto essere al mio fianco quando ho scoperto di essere incinta e avrebbe dovuto conoscere sua nipote e l’uomo che sto per sposare.” La voce di Clary usciva ovattata, ma si sentiva che non riusciva più a trattenere il pianto, adesso. “Mi è stata portata via troppo presto e sento la sua mancanza ogni giorno.”
Magnus sentì una fitta al cuore: il dolore nella voce di Clary era percepibile, palpabile come se fosse qualcosa di concreto, piuttosto che astratto. Jocelyn era morta quando Clary era ancora una bambina, ma non era così piccola da non ricordare. Clary ricordava eccome, ricordava tutto. La scomparsa prematura di un genitore è devastante e quando sono coinvolti ricordi vividi di un passato di cui si sente la mancanza, la consapevolezza di quell’assenza arriva ad essere così enorme da rischiare di esserne inghiottiti. L’assenza di Jocelyn era un pozzo e Clary camminava costantemente sul bordo. C’erano giorni in cui riusciva a dare solo una sbirciatina verso il fondo e c’erano giorni, invece, in cui perdeva l’equilibrio, cadeva dal bordo e il fondo, scuro e doloroso, la inghiottiva totalmente.
Magnus la strinse di più a sé, quasi avesse voluto proteggerla da quel dolore che si portava dentro. “So che è ingiusto, che si meritava una vita lunga e di guardare la donna che sei diventata. Sarebbe fiera di te, di questo ne sono certo. E so anche che nessuno potrà mai riempire il vuoto che ha lasciato nel tuo cuore, ma… se ti può aiutare, io ci sarò sempre per te.”
Clary ricambiò la stretta con tutta la forza che aveva. “Lo so. Sei la mia famiglia, Magnus.”
“Di questo puoi esserne certa.” Le accarezzò i capelli con dolcezza per consolarla.
Rimasero in silenzio per qualche istante. Intorno a loro i passanti non prestavano attenzione a ciò che stava succedendo. Nessuno aveva notato le lacrime sul viso di Clary perché lo teneva nascosto nel petto di Magnus. Ad occhi esterni, potevano sembrare una qualsiasi coppia che si abbracciava. Nessuno avrebbe mai immaginato quale fosse la verità.
Magnus aspettò in silenzio che Clary si calmasse. Sentì il suo pianto sciamare sempre di più, fino a quando non risollevò la testa e incrociò il suo sguardo. Magnus, d’istinto, le asciugò le lacrime sulle guance con i pollici.
“Grazie. E mi dispiace per essere scoppiata in questo modo.”
“Non scusarti, biscottino. Hai tutto il diritto di piangere, quando senti la necessità di farlo.”
Clary accennò persino un sorriso. “Grazie.” Ripeté.
“Non ringraziarmi.” Le baciò la fronte. “Sono qui per te.”
La ragazza annuì, lo guardò con gratitudine e lo abbracciò una volta ancora, prima di riprendere a camminare verso casa.


 
Arrivarono all’appartamento di Clary dopo una ventina di minuti. Nessuno dei due ridisse nulla riguardo all’argomento Jocelyn, ma Magnus era preoccupato. Voleva fare qualcosa per fare stare meglio la sua amica, ma non sapeva bene cosa. Probabilmente, se avesse parlato con Jace, lui l’avrebbe aiutato. Ma se poi Jace non sapeva niente dello stato emotivo della fidanzata e Magnus finisse per comportarsi da impiccione?
Decise di rimanere in silenzio e di non immischiarsi, ma era comunque determinato a fare qualcosa per Clary.
“Eccoci.” Disse la rossa, mentre arrivavano davanti al suo appartamento. Da dietro alla porta, anche se il suono era ovattato, si sentivano chiaramente le note di Let it Go e delle voci che cantavano a squarciagola.
Clary e Magnus si scambiarono un’occhiata divertita, prima che la ragazza aprisse la porta.
Una volta dentro, lasciarono i giubbotti sull’attaccapanni e si diressero verso il salotto, dove trovarono Jace e Alec, con delle coperte sulle spalle posizionate a mo’ di mantello, e le bambine, che avevano dei foulard legati in vita che fungevano da gonne lunghe e i capelli legati in una treccia laterale. Stavano tutti cantando la canzone più conosciuta di Frozen, così presi dalla loro performance da non essersi accorti che non erano più soli. Clary e Magnus rimasero a guardare la scena ancora per qualche istante, divertiti e inteneriti, prima che la ragazza poi si incamminasse verso la cassa amplificatrice a cui era attaccato il cellulare di Jace e mettesse pausa.
La musica cessò all’istante, così Jace e Alec si voltarono di scatto – sul viso l’espressione di sorpresa tipica di chi è stato colto in flagrante.
“Amore!” Esclamò Jace.
“Magnus!” Disse Alec.
“Mamma!” Si unì Diana.
“Papà!” Concluse Erin.
Clary e Magnus, a quel punto, furono incapaci di trattenersi. Scoppiarono a ridere, mentre guardavano la scena davanti a loro. Era impossibile rimanere impassibili di fronte a tanta tenerezza. In più le facce semi-terrorizzate dei ragazzi erano esilaranti. Non avrebbero potuto negare l’evidenza: stavano cantando una canzone per bambini e si stavano divertendo da morire.
“Vedo anche la vostra giornata è stata piacevole…” Cominciò Clary.
Magnus annuì. “Non saprei dire se si stanno divertendo più loro o le bambine.”
“Loro, sicuramente loro. Non ci sono dubbi.”
E mentre Jace e Alec rimanevano imbambolati sul posto, le due bambine corsero incontro ai rispettivi genitori.
“Guarda papà, Alec mi ha fatto la treccia!” Esclamò Erin, tutta soddisfatta, mentre si voltava per mostrare la sua pettinatura.
Magnus guardò prima la treccia, che era in perfetto stile Regina di Ghiaccio, e poi cercò lo sguardo di Alec. Quando i loro occhi si incrociarono, Magnus gli rivolse un sorriso, che Alec ricambiò timidamente.
“È una bellissima treccia, bintang.”
Erin si voltò nuovamente verso il padre e annuì, un sorriso le apriva il viso e Magnus sorrise a sua volta perché se aveva una certezza, nella vita, era che se sua figlia era felice lui era felice.
“Vi siete divertite?” Domandò Clary, chinandosi all’altezza di Diana e lasciandole un bacio sulla guancia. La bambina annuì e si avvicinò ad Erin, prendendola per mano.
“Siamo sorelle di treccia, adesso.”
Erin confermò, annuendo. “E di gelato. Abbiamo mangiato tutte e due il cioccolato.”
“Chissà com’era buono!” Esclamò Clary, sorridendo. Le due piccole cominciarono a raccontarle nel dettaglio la loro giornata e Magnus, in silenzio, ascoltava a sua volta, guardando la scena dall’alto. Sorrideva, mentre guardava Clary chinata all’altezza di due quattrenni e commentava le loro avventure al parco giochi usando un tono di voce entusiasta e allegro per ogni cosa solo per far sorridere due bambine.  Era così preso da quella conversazione che non si accorse che qualcuno si era avvicinato. Si trattenne dal sussultare, quando una mano si posò sul suo braccio. Si voltò, aspettandosi di trovare Alexander, ma invece incontrò lo sguardo bicromatico di Jace.
“Possiamo parlare?” sussurrò, lanciando un’occhiata furtiva a Clary. Magnus trovò quel comportamento molto sospetto: che sapesse lui, Clary e Jace non avevano segreti, ma decise di non saltare a conclusioni affrettate e ascoltare ciò che il biondo aveva da dire.
“Certo.”
Magnus guardò un’ultima volta Erin. Sembrava fosse presa dalla conversazione, quindi l’uomo pensò che non si sarebbe accorta presto della sua assenza, così seguì Jace che si era incamminato verso la cucina. Per arrivarci, dovettero attraversare tutto il salotto, passando davanti al divano, dove si trovava ancora Alexander, che era intento a sistemare tutti i giocattoli che erano stati usati in precedenza e le coperte che avevano funto da mantello solo poco prima. Gli accennò un sorriso, che Magnus ricambiò, ma al ballerino non sfuggì l’occhiata di intesa che poi lanciò a Jace, seguita da un minuscolo, quasi impercettibile, cenno d’assenso con il capo. Magnus ebbe la certezza che Alec sapesse benissimo cosa Jace stesse per dirgli e si domandò se non fosse il caso di iniziare a preoccuparsi.
Quando arrivarono in cucina, Jace fece entrare Magnus per primo e poi si chiuse la porta alle spalle. Magnus adesso era decisamente preoccupato.
Il biondo, chiusa la porta, si diresse verso la credenza e prese il bollitore. Lo riempì d’acqua e lo mise sul fuoco. Allo sguardo perplesso di Magnus, decise di dargli una spiegazione.
“Mi serve una scusa per averti trascinato qui: Alec mi ha detto che non ti piace il caffè, così fingeremo che ti ho offerto del the.”
Il fatto che Alec parlasse di lui a Jace passò per un attimo in secondo piano, dal momento che adesso Magnus riusciva solo a percepire la propria preoccupazione.
“E siamo qui perché…?”
“Clary ha pianto anche con te. Non è una domanda, ne ho la certezza. So riconoscere quando ha pianto. E sono preoccupato.” Jace si passò una mano sul viso. “Le manca sua madre e da qualche giorno il discorso viene fuori sempre più spesso e io non so come aiutarla. Dal momento che l’ha detto anche a te, a questo punto, penso che potresti aiutarmi ad aiutarla.”
“Ti ascolto.”
Jace fece un profondo respiro.  “So che l’assenza di Jocelyn non potrà mai essere rimpiazzata, ma… pensavo di chiederti se puoi parlare con tua madre e chiederle se potrebbe aiutare Clary con i preparativi. Lo chiederei a mia madre, ma lei è sua suocera e non sarebbe la stessa cosa.” Fece una pausa che impiegò per tirarsi indietro i capelli. Jace continuava a muovere le mani, non riuscendo a stare fermo. Era preoccupato per Clary e probabilmente agitato per ciò che stava chiedendo. “Voi siete cresciuti insieme, sua madre e tua madre erano molto amiche e Clary è molto legata a Madelaine. È tipo una zia e penso che se avesse qualcuno come lei vicino, la sua nostalgia potrebbe affievolirsi, almeno un po’.” Jace fissò il suo sguardo su di lui. “Che dici? Puoi farlo?”
Magnus aveva deciso che avrebbe già detto di sì non appena aveva intuito che piega stava prendendo il discorso di Jace, ma aveva comunque deciso di lasciarlo finire. Certo che l’avrebbe fatto. Gli sembrava un modo adeguato per aiutare Clary ed era sicuro che Madelaine l’avrebbe pensata allo stesso modo.
“Certo che posso farlo. E so già che mia madre dirà di sì.”
Jace emise un sospiro di sollievo. “Grazie, Magnus. Lascia prima che le parli, poi ti faccio sapere.”
Magnus annuì. “Ma certo.”
“Bene, grazie ancora.” Accennò un sorriso pieno di gratitudine, prima che la loro conversazione venisse interrotta dal fischio del bollitore. Sussultarono entrambi, essendosi completamente dimenticati di aver messo a bollire l’acqua.
“Direi che puoi spegnerlo. Non c’è più bisogno di simulare un tea-party.”
Jace ridacchiò. “Hai ragione. Torniamo di là.”
Magnus annuì concorde e insieme uscirono dalla cucina, dirigendosi nuovamente verso il salotto, dove le bambine stavano ancora raccontando la loro giornata.


Erin e Diana aveva passato più di venti minuti a descrivere tutte le cose che avevano fatto e Clary era rimasta ad ascoltarle. Al loro ritorno in salotto, Jace e Magnus avevano trovato anche Alec attento all’ascolto, sebbene avesse vissuto quella giornata in prima persona. I due adulti erano seduti sul pavimento, precisamente su quello che di dorma era il tappeto morbido con i numeri da inserire negli appositi spazi di Diana. Alec e Clary, seduti vicini, stavano ascoltando le bambine.
A Magnus quasi dispiacque dover attirare l’attenzione di sua figlia. “Erin? Dobbiamo andare a casa.”
La bambina voltò la testina verso il padre. “Ma voglio stare ancora un po’ qui.”
Magnus sospirò. “Ma la nonna ci aspetta, tesoro. Vedrai Diana domani.”
“Alla festa di Halloleen?”
Magnus ridacchiò. Erin non riusciva proprio a pronunciarlo in maniera corretta. “Esatto. Giocherete fino allo sfinimento!”
Le due bambine si guardarono sorridenti alla prospettiva di passare un’intera serata insieme a giocare, poi Erin si sporse per abbracciare Diana e salutarla. Sia Clary che Magnus approfittarono di quell’abbraccio per fare una foto alle piccole. Erano troppo tenere insieme e quando manifestavano affetto l’una verso l’altra entrambi si scioglievano. Magnus era sicuro di aver sentito Jace emettere un soffocato aaawww, mentre osservava la scena.
Erin dopo aver salutato Diana, si sporse anche per abbracciare Clary, ancora seduta per terra. La rossa le schioccò un sonoro bacio sulla guancia che fece ridacchiare la bambina. Successivamente, Erin abbracciò anche Alec, circondandogli il collo con le sue piccole braccia. Il ragazzo ricambiò l’abbraccio e si sollevò da terra con la piccola che si sosteneva a lui, stringendogli anche le gambine intorno al busto. Erin era così minuta a confronto con Alec, che sembrava di guardare una minuscola stella marina attaccata ad uno scoglio enorme.   
“Qualcuno ha visto una scimmietta?” Domandò Alec, in tono scherzoso.
“Io so dov’è la scimmietta!” Rispose Erin, ridacchiando e saldandosi meglio ad Alec, che la teneva a sua volta per non rischiare di farla cadere.
“Ah sì? E dov’è?”
“Qui! Io sono la scimmietta!”
Alec le sorrise e cominciò a farle il solletico con una mano, mentre con l’altra faceva in modo di  continuare a sostenerla per non farla scivolare. La risatina euforica di Erin riempì immediatamente la stanza e Magnus avvertì chiaramente la sensazione di star per esplodere. Erin aveva passato soltanto mezza giornata sola con Alec e già si erano inventati un gioco tutto loro. Di questo passo, Magnus avrebbe impiegato trenta secondi a dare retta a Beyoncé e iniziare a pensare di mettere un anello su un determinato dito. Arrivati a questo punto, Magnus era fermamente convinto di essere uscito fuori di testa.
E di essere cotto di Alexander Lightwood, se doveva essere pignolo. Ma dettagli.
Bintang, sei pronta ad andare?”
Erin annuì e Alec la rimise a terra.
“Devo andare anche io. Comincio il turno di notte. Possiamo scendere insieme, se ti va.” Propose Alec e Magnus, in quel momento, dovette sforzarsi enormemente per non cedere alla tentazione titanica di dirgli che insieme a lui avrebbe fatto un sacco di cose – alcune decisamente poco caste e vietate ad un pubblico di qualsiasi età.
“Ma certo, sì.”
Magnus osservò Erin che andava a salutare Jace – a questo punto l’unico rimasto – mentre Alec rivolgeva quasi tutti i suoi saluti a Diana, che gli aveva dato un bacio sulla guancia e adesso lo stava abbracciando.
“Ci vediamo domani, D.”
La bambina annuì, felice e trotterellò dalla madre, mentre Alec si dirigeva verso Jace.
“Allora va bene se domani la passo a prendere?”
“Sì, certo. Le farà piacere stare con te tutto il pomeriggio. Le piacciono le giornate con gli zii.”
“Se conti che sono il suo preferito, le piacerà ancora di più!”
Jace rise e gli piazzò un pugnetto sul braccio con fare scherzoso. “Sei consapevole che dite tutti la stessa cosa? Tu sei convinto di essere il suo preferito, così come lo sono Izzy e Max.”
“Ma solo uno di noi ha ragione.” Ammiccò, sicuro di sé. “Vado, o rischio di fare tardi al lavoro. Ti chiamo domani così ci mettiamo d’accordo.”
“Va bene.” Jace si sporse per abbracciarlo, alzandosi leggermente sulle punte. Alec ricambiò la stretta.
Quando si separarono, Alec si diresse verso Clary per salutare anche lei. L’abbracciò perché in cuor suo sapeva che non stava passando un bel momento, Jace l’aveva informato. Ed era fermamente convinto che in momenti in cui ci si sente più fragili, l’appoggio della famiglia sia importante.
Almeno, per lui era stato così. Se non avesse avuto l’appoggio dei suoi fratelli in quelle situazioni dove tutto sembrava irrisolvibile, avrebbe finito per mettere la testa nel forno.
“Ci vediamo domani!” Alec li salutò, dirigendosi verso la porta affiancato da Magnus ed Erin. Ci fu un ultimo saluto generale e poi uscirono di casa.


Arrivati all’ascensore, Alec fece entrare Magnus ed Erin per primi non appena le porte si aprirono e poi entrò a sua volta. Provava una strana sensazione, qualcosa che assomigliava alla familiarità in un modo pericoloso. Aveva una paura fottuta di essersi diretto in una direzione dalla quale non c’era più ritorno: Magnus gli piaceva, non vedeva l’ora di passare del tempo con lui e iniziava a volere bene ad Erin come se fosse una specie di nipotina acquisita.
C’era qualcosa nel loro rapporto, tuttavia, che lo spingeva a non correre. Non era solo il suo passato, anche se era consapevole che la sua mancanza di fiducia avesse un ruolo quasi fondamentale nella sua decisione di non buttarsi a capofitto nelle relazioni. Era la consapevolezza che lui e Magnus non erano mai usciti davvero. Erano amici. Si erano frequentati come possono farlo due amici. E questo non bastava per capire se erano effettivamente fatti per stare insieme. Gesù, Alec in quattro anni non si era accorto che Will l’aveva riempito di bugie, come pretendeva in poco più di un mese e mezzo di avere la certezza di conoscere Magnus?
Non ce l’aveva, questa era la risposta.
Ma a differenza di altre situazioni, la paura che provava a quella consapevolezza non era paralizzante. Era più che altro catartica: gli dava la spinta per trovare sempre un pretesto per passare del tempo con Magnus. Solo avendo a che fare con lui il più possibile, avrebbe effettivamente capito quali fossero i suoi sentimenti e in che cosa si sarebbe sviluppata la loro relazione. Se davvero poteva usare questo termine per descrivere ciò che c’era tra di loro.
“Cosa fai domani?” gli domandò, dando voce al filo dei suoi pensieri.
“Preparo la casa per la festa.”
“Non hai un po’ di tempo per me?”
Il sorriso che Alec gli rivolse fece afflosciare la colonna vertebrale di Magnus. Per lui avrebbe sempre avuto un po’ di tempo, di questo il ballerino ne era pienamente consapevole. Aveva un debole per quel sorriso e quegli occhi da cerbiatto.
“Mattina o pomeriggio?”
“Pomeriggio. Porto Diana al centro commerciale per attuare la mia vendetta su Jace.”
“Ora capisco: vuoi un complice.”
Alec emise una risata sommessa. “Che ne dici, Magnus? Vuoi passare da finto fidanzato a complice?”
“Suona come una proposta estremamente seria, confettino. Non posso certo rifiutare.” Gli fece l’occhiolino, prima di ricambiare il sorriso che Alec gli stava già rivolgendo.
“Vi passo a prendere domani, allora. Ti chiamo per metterci d’accordo.”
“Perfetto, tesoro.”
Le porte dell’ascensore si aprirono in quel preciso istante, quasi come se il destino o chiunque lo manovrasse avesse voluto lasciarli tutto il tempo per organizzarsi. Uscirono dall’ascensore e si diressero verso l’uscita del palazzo. 
Una volta in strada, Alec adocchiò la sua macchina parcheggiata poco più in là. Aveva trovato quel parcheggio solo qualche ora prima, quando erano tornati dalla loro passeggiata e avevano optato per aspettare Clary e Magnus a casa di Jace. Erin era stata nel sedile posteriore, seduta sul seggiolino che Alec aveva comprato per Diana.
“Vi porto a casa?”
“Non ci starai viziando, Alexander?”
“Forse mi piace farlo.” Alec gli sorrise e incatenò i suoi occhi a quelli di Magnus. Non si sarebbe mai stancato di notare quanto fossero belli, di quanto quel colore ambrato trasmettesse un calore accogliente. “Allora, vi porto a casa?”
Magnus annuì. “Grazie. E grazie anche per esserti occupato di Erin, oggi.” Abbassò lo sguardo sulla figlia, che lo teneva per mano e che, sentendosi tirata in causa, sorrise.
“È stato un piacere. Ci siamo divertiti, vero scimmietta?” Disse Alec, rivolgendosi direttamente alla bambina.
“Vero, io e Alec siamo super amici, adesso!” 
Alec e Magnus sorrisero entrambi alla bambina, prima di guardarsi nuovamente e rimanere per qualche secondo l’uno fisso negli occhi dell’altro – consapevoli che, qualsiasi cosa fosse ciò che li legasse, entrambi non vedevano l’ora di scoprirlo.



*



Quella sera stessa, dopo che Alec li aveva riaccompagni a casa, Magnus stava apparecchiando la tavola, mentre sua madre finiva di preparare la cena. Non lo faceva mai cucinare, quando andava a cena da lui – e questo lo portava sempre indietro di anni, quando era ancora un bambino e vivevano nella stessa casa. Erano sempre stati lui e lei – e la storia si ripeteva adesso che Magnus era padre. Nello stesso modo in cui Magnus aveva avuto solo una mamma, Erin aveva solo un papà.
Si chiese, tuttavia, se lui fosse abbastanza per la sua piccola, se lei in un futuro non avrebbe potuto sentire la mancanza di una figura materna.
Lui, di certo, la mancanza di una figura paterna non l’aveva sentita. Probabilmente perché, a differenza di Erin, lui suo padre per cinque anni della sua vita l’aveva conosciuto. Ed erano ricordi di cui faceva volentieri a meno. Asmodeus, un nome che poteva sembrare irreale, che si sarebbe potuto usare per descrivere il cattivo di una favola, tipo Jafar. Ma per Magnus era reale e di certo non apparteneva ad una favola. Asmodeus era il cattivo della sua infanzia, qualcuno che aveva costretto sua madre a cambiare paese perché troppo possessivo, violento e manipolatore. La violenza fisica arrivava solo dopo quella psicologica. Prima annullava sua madre a parole, poi le mollava qualche schiaffo. Le ripeteva in continuazione che era una nullità, che non era abbastanza, che non sarebbe mai riuscita a combinare niente nella vita, e quando lei provava a rispondere a quegli insulti, arrivavano gli schiaffi. O le percosse. Voleva piegare il suo spirito, la sua mente e successivamente il suo corpo. Suo padre era un maestro nella spregevole arte della manipolazione.
Asmodeus era un uomo terribile, che aveva mascherato la sua meschinità dietro a sorrisi e parole dolci per anni, prima che Madelaine capisse chi fosse colui che aveva vicino.
Un uomo che l’aveva voluta soltanto per sentirla una sua proprietà. Avvilendola in quel modo, essendo sicuro di esserle entrato in testa, inculcandole idee secondo le quali lei non sarebbe mai stata abbastanza, sarebbe riuscito a imporre la sua superiorità, il suo volere su di lei. E una volta completato quel suo sadico piano, Madelaine sarebbe stata sua per sempre – soggiogata nel terrore, consapevole che mai avrebbe dovuto contraddirlo perché era lui quello che dettava regole e leggi, e lei avrebbe solo dovuto obbedire.
Asmodeus non voleva una compagna, voleva solo sentirsi il re del suo regno. Un re cattivo, dal cuore arido e avvelenato dalla sua visione contorta del mondo.
Per questo Madelaine, una notte, era entrata di soppiatto nella camera di Magnus, l’aveva svegliato e l’aveva portato via da quella casa degli orrori, dove più che una famiglia, ormai, sembravano i prigionieri di un sovrano infernale.
Erano saliti su un aereo all’alba.  Magnus si era addormentato durante il viaggio e quando si era svegliato, erano già in America.
Contrariamente a tutto quello che Asmodeus si era sempre impegnato di farle credere, Madelaine era una donna forte e capace che era riuscita a crescere un figlio da sola, in un paese straniero. Avevano cambiato cognome, avevano imparato la lingua insieme e richiesto la cittadinanza per entrambi. Erano cresciuti, cambiati. E senza Asmodeus avevano potuto assaporare finalmente il concetto di famiglia in serenità.
Più di una volta Magnus le aveva chiesto se non avesse paura che li seguisse, che saltasse su un aereo e tornasse a perseguitarli. Madelaine cambiava espressione tutte le volte: il suo viso, per una frazione di secondo, veniva attraversato dal terrore, ma mai una volta aveva espresso quel sentimento al proprio figlio. Non avrebbe mai scaricato i suoi timori su di lui, di conseguenza gli rispondeva sempre che doveva stare tranquillo, che suo padre era ormai solo un incubo lontano.
Non avevano più notizie di lui da trent’anni – e Madelaine, solo adesso, a cinquantacinque anni, riusciva a concedersi la totale tranquillità.
Magnus ancora non riusciva a capacitarsi della forza che aveva avuto sua madre, ma solo perché per lui era così tanta che era impossibile da quantificare. Madelaine era la sua eroina, che l’aveva salvato dal mostro cattivo, dal drago che circondava il castello e li teneva in ostaggio. Se non fosse stato per sua madre e il suo coraggio, la sua vita adesso sarebbe diversa.
Dalla sala, Magnus guardò Madelaine in cucina, ai fornelli intenta a preparare chissà che cosa. Vicino a lei ci stava Erin, che le stava raccontando la sua giornata. Magnus sorrise e si incamminò verso di loro. Quando fu abbastanza vicino alla madre l’abbracciò da dietro, stringendola forte a sé.
Madelaine rise. “Così mi spezzi le costole, annaku.”
Magnus in tutta risposta la strinse ancora di più.
“A cosa devo questo moto d’affetto, tesoro? Nota, non mi sto lamentando, sono solo curiosa.”
“Sei il mio eroe.” Le disse solamente e a quelle parole, la donna lasciò i fornelli e si voltò verso il figlio. Incrociò il suo sguardo, così simile al suo da rendere inequivocabile la parentela.  Madelaine afferrò il viso del figlio tra le mani e gli accarezzò le guance. Sapeva a cosa si stava riferendo, non aveva bisogno di chiedere spiegazioni. Il discorso era venuto fuori parecchie volte, quando Magnus era un ragazzino.
“Ci hai salvati, mamma.”
Gli occhi di Madelaine si velarono di lacrime, ma non le fece scendere. Si limitò solamente ad abbracciare Magnus, a stringerlo forte a sé. “Lui non ci può più fare del male.”
“Lo so.”
“Siamo al sicuro e siamo insieme.” Continuò con tono rassicurante. Una delle tante cose che Magnus apprezzava più di sua madre era il fatto che, nonostante provasse paura, non si faceva mai paralizzare da essa. Sapeva bene che era terrorizzata da Asmodeus – non era stupida, era consapevole che ogni giorno passato con lui rischiava sempre di essere il suo ultimo giorno sulla terra – ma nonostante questo, aveva avuto il coraggio di rischiare. Aveva rischiato, andandosene. Perché era notte fonda e c’era silenzio e anche il minimo rumore l’avrebbe svegliato e se avesse capito cosa stava veramente succedendo l’avrebbe picchiata fino a toglierle la vita e poi chissà cosa avrebbe fatto a Magnus, ora che lei non c’era più a proteggerlo.
Eppure, nonostante i rischi, lei era determinata a portare a termine il suo piano di fuga verso la libertà. Non si era mai guardata indietro, aveva solo guardato in avanti, verso un futuro che sarebbe sicuramente stato migliore del loro passato.
“Ti voglio bene.” Le disse, mentre ricambiava la stretta.
“Anche io, bambino mio.”
Il silenzio calò su di loro, un fantasma dal passato aleggiava sui loro cuori, riportandoli anni indietro, quando stavano ancora a Giacarta.
E poi due piccole braccia scacciarono via quel poltergeist come un raggio di luce porta via le nuvole squarciando il cielo tempestoso. Erin stava abbracciando le gambe di entrambi, unendosi a modo suo in quell’abbraccio.
“Abbraccio grossissimo.” Disse, stringendo una gamba del padre e una della nonna. Sia Madelaine che Magnus si guardarono sorridendo. Il potere di quella bambina era enorme, come il suo cuore gentile e la sua capacità di portare di nuovo il buon umore.
Magnus prese in braccio Erin, che lo abbracciò. Madelaine strinse entrambi a sé. Era quello il suo mondo. Questo era ciò che aveva ottenuto per aver scelto di andarsene, per aver dato retta a quella vocina che le aveva suggerito di rischiare. E l’avrebbe rifatto altre cento volte, se questa era la ricompensa che le spettava. Aveva suo figlio e sua nipote. Per come la vedeva lei aveva tutto ciò che importava.
“Forza, adesso mettetevi a tavola che è quasi pronta la cena.” Diede un bacio sulla guancia ed entrambi, prima di finire di cucinare. Ma Magnus non si allontanò e rimase insieme a lei. La guardò come faceva quando aveva sette anni e rimaneva con lei a guardarla cucinare. La guardò, ringraziando ogni divinità esistente di averla ancora con sé ed essendole grato di tutte le cose che aveva fatto per lui.



Dopo cena, Magnus e Madelaine si trovavano in cucina a lavare i piatti. Erin era in sala a guardare Tarzan della Disney.
Mentre lavava l’ultimo piatto, Magnus pensò al messaggio che aveva ricevuto da Jace solo quindici minuti prima: Ho parlato con Clary. Ha detto sì.
Clary aveva acconsentito alla proposta di Jace di farsi aiutare da Madelaine. A Magnus l’idea piaceva. Sua madre era in grado di trasmettere sicurezza e protezione. Di conseguenza, Magnus voleva sperare che Clary sarebbe stata meglio, insieme a lei.
“Dovrei chiederti una cosa.” Cominciò, quindi.  Madelaine smise di asciugare il piatto che le era stato precedentemente passato e fissò i suoi occhi in quelli del figlio.
“Mi devo preoccupare?”
“No, non troppo, almeno credo.” Magnus si voltò verso di lei, abbandonando momentaneamente quello che stava facendo. Madelaine lo imitò. “Sono stato con Clary, oggi. Siamo andati a scegliere il vestito per le damigelle insieme alle dirette interessate, ma… quando siamo rimasti soli, nel tragitto verso casa, mi ha detto che le manca Jocelyn, in questo periodo particolarmente.” Magnus fece una pausa. “Ho parlato anche con Jace, una volta che siamo arrivati a casa… o meglio, lui ha voluto parlare con me, e ha pensato che a Clary farebbe bene se l’aiutassi con i preparativi. Dice che sei come una zia per lei e averti vicino potrebbe alleviare un po’ la nostalgia. Lo faresti?”
“Certo che sì, non c’era nemmeno bisogno di chiederlo. Adoravo Jocelyn e adoro Clary. Farei qualsiasi cosa per farla stare meglio.”
Magnus le sorrise. “Grazie, ibu, sei la migliore.”
Madelaine si allungò per abbracciarlo forte. “Scrivi a Jace, digli che chiamerò Clary domani e sarò a sua disposizione ogni volta che avrà bisogno.”
“D’accordo.” Magnus estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scrisse a Jace. Non c’erano altri messaggi ricevuti e quando diceva così intendeva che Alexander non gli aveva scritto. Evidentemente non aveva avuto tempo e Magnus sperò solo che in pronto soccorso la situazione non fosse troppo grave. Gli avrebbe scritto il giorno dopo, lasciandolo tranquillo fino alla fine del suo turno.
Il suo cellulare vibrò, dando segno che un altro Lightwood aveva risposto. Grazie, a tutti e due, diceva il messaggio.
“Jace ringrazia.”
Madelaine sorrise. “Jace è un bravo ragazzo. Mi piace.”
“Sono tutte brave persone in quella famiglia.” Ragionò ad alta voce Magnus. Ed era vero. Il fatto che ultimamente avesse un Lightwood preferito non rendeva gli altri meno piacevoli.
“Uno più di altri, scommetto.” Madelaine gli rivolse un sorriso onnisciente dei suoi, ma non disse altro. Si limitò solamente a finire di sistemare l’ultimo piatto asciutto nella credenza e incamminarsi verso l’uscita della cucina. “Andiamo a vedere Tarzan?”
Magnus annuì e la seguì fuori dalla cucina. In fin dei conti, però, sua madre aveva ragione. Uno più di altri. Alexander più di altri.


*



Halloween era arrivato. Dopo giorni interi passati a pianificare la festa perfetta e ad indossare almeno qualcosa di arancione, la festa che Magnus preferiva era arrivata. Doveva ancora finire di sistemare casa con gli ultimi dettagli, ma Alec si era offerto di aiutarlo. Aveva detto che siccome l’aveva praticamente sequestrato per le prime ore del pomeriggio, prima di sera e dell’orario stabilito per l’inizio ufficiale della festa, sarebbe rimasto con lui e l’avrebbe aiutato con gli ultimi dettagli.
Magnus aveva accettato, se non altro perché avere delle scuse formali per passare del tempo con Alexander rendeva la propria attrazione nei suoi confronti meno palese. Con una scusa per frequentarlo, poteva evitare tutte le occhiate che già vedeva negli occhi dei suoi amici – e di sua madre – che capivano sempre le cose prima di lui – o credevano di farlo. Saccenti impiccioni. Ma li adorava.
Ad ogni modo, Magnus era consapevole che se Alexander gli avesse proposto di fissare insieme un muro per un’ora lui avrebbe accettato.
Portatelo ovunque, purché ci sia Alexander Lightwood. Come si dice: non conta il posto, ma la compagnia. Giusto?
“Allora, cerbiattino, mi vuoi spiegare il tuo piano?”
Si trovavano dentro al centro commerciale, un luogo che Magnus adorava, se non altro perché era pieno di negozi, ma starci con Alec assumeva tutto un altro significato. Era passato a prenderli, puntale all’ora che avevano stabilito. Aveva aiutato Magnus a montare il seggiolino di riserva per Erin sul sedile posteriore della sua auto, in modo che le bambine potessero stare abbastanza vicine, ma al sicuro nei loro rispettivi seggiolini. Poi Magnus si era sistemato al sedile del passeggero ed erano partiti.
Cerbiattino, davvero?” Si lamentò Alec, lanciandogli un’occhiata laterale. Passarono davanti ad una vetrina carica di giocattoli, così le bambine si fermarono, appiccicando i nasi e le manine per controllare cosa ci fosse di particolarmente bello. I due uomini si fermarono con loro.
“Che ha che non va? Hai dei bellissimi occhi, in pratica è un complimento.”
Alec sostenne il suo sguardo per una frazione di secondo, poi lo abbassò, mordendosi l’interno delle guance – quasi come se avesse voluto trattenere un sorriso.
“Allora grazie.” Sussurrò, alzando di nuovo lo sguardo su di lui.  Magnus si chiese se fosse possibile guardare un paio d’occhi e associarci la parola ridere. Eppure gli occhi di Alec lo facevano. Il suo sorriso partiva dalla bocca e si estendeva fino ai suoi occhi. Ogni volta che sorrideva, il suo viso si illuminava e Magnus si dimenticava come si faceva a respirare.
“Ciò non toglie, però,” continuò Alec, “Che non userai quel soprannome per me.”
“Sei il solito guastafeste, zuccherino.”
Alec rise sommessamente e poi spostò l’attenzione su qualcosa che non fosse  direttamente lui. “Allora, vuoi conoscere il piano?”
“Illuminami.”
Alec guardò oltre la spalla di Magnus e sorrise. “Vieni con me. Te lo faccio direttamente vedere.” Prese Diana per mano, allontanandola delicatamente dalla vetrina e si incamminò verso il negozio successivo. Magnus, afferrata la manina di Erin, lo seguì.


“Un negozio di costumi?” Domandò Magnus perplesso, rimanendo immobile all’ingresso del negozio. “Tesoro, dobbiamo rivedere insieme la tua idea di vendetta.”
Alec gli diede una leggera spallata. “La tua mancanza di fiducia mi ferisce, Magnus.” Oltrepassò la soglia del negozio, inoltrandosi poi al suo interno, tra i vari scaffali. Con Diana per mano, che guardava quel negozio con occhi curiosi, si diresse verso il reparto riservato ai bambini. La piccola cominciò ad indicare ogni cosa, venendo attratta dalla moltitudine di colori.
Quando Alec si fermò in un determinato punto, Magnus lo imitò e rimase in attesa fino a quando non lo vide chinarsi verso uno scompartimento basso dello scaffale davanti al quale si erano fermati ed estrarre un costume piegato e imballato nella plastica.
Alec sollevò il suo bottino con aria trionfante, mostrandolo a Magnus. “Jace odia le papere. Lo terrorizzano. Vestirò Diana da paperotta a sua insaputa.”
“Mi rimangio tutto quello che ho detto. Conosci bene il significato di vendetta. Sei sicuro che non darete il via ad una serie di ripicche eterne?”
Alec stava controllando la taglia del costume, così alzò gli occhi su Magnus. “È probabile. Ma se ci pensi, ci facciamo scherzi simili da tutta la vita, quindi tanto vale portare a termine il piano.”
“Siete strani.” Sentenziò, un occhio socchiuso.
Alec annuì. “Già. Non lo nego più nemmeno, ormai.”  Si chinò all’altezza della nipote e le mostrò il costume.
“Che dici, tesoro, vuoi essere una paperotta, stasera?”
“Posso avere un fiocco rosso in testa come Paperina?”
“Certo che puoi!”
“Allora sì.” Diana annuì con convinzione, un sorriso sbocciò sul visetto paffuto. “Mi piacciono le papere.”
Alec trovò la cosa piuttosto buffa. Sicuramente Diana non aveva preso da suo padre, pensò.
“Anche a me.” Le disse, accarezzandole i capelli. Erano legati in due codini bassi da due elastici a forma di ciliegia. Il rosso spiccava sul biondo dei ricci. I suoi occhi, di quel verde brillante come quello della madre, erano circondati da lunghe ciglia bionde. Diana era davvero un mix perfetto dei suoi genitori, anche se Alec era convinto che assomigliasse un po’ di più alla madre. Tranne quando si intestardiva sulle cose, in quel caso era spiccicata al padre.
Clary diceva sempre che aveva presto la testardaggine dei Lightwood e quando uno di loro aveva a che fare con la piccola, riteneva che fosse una giustizia voluta dal karma. Ho a che fare con la vostra testardaggine da dieci anni ormai. È giusto che sappiate cosa si prova ad avere a che fare con la testa dura di un Lightwood! – diceva sempre, ma Jace sembrava andasse particolarmente fiero di questa cosa. Se fosse stato per lui, avrebbe affisso manifesti in tutta NY che affermavano che sua figlia gli assomigliava.
Ad ogni modo, appurato che il costume piaceva anche alla bambina, Alec se lo sistemò sotto braccio e si rivolse a Magnus. “Devi comprare qualcosa?”
L’uomo negò con il capo. “Ho già i nostri costumi pronti da una settimana!”
Alec non riuscì a trattenere un sorriso. “Giusto, quasi dimenticavo che sei un fanatico di Halloween.” Alzò gli occhi sul ciuffo arancione di Magnus. “Quasi, visto quel costante promemoria che ti porti dietro.”
Magnus alzò un sopracciglio con fare piuttosto accusatorio. “Hai delle critiche da fare riguardanti il mio ciuffo?”
Alec si avvicinò un po’ di più a lui. Percorse con lo sguardo il viso dell’uomo di fronte a sé, quasi avesse voluto impararne a memoria i dettagli. Quando fissò i suoi occhi in quelli di Magnus disse: “Mi piace il tuo ciuffo. E penso anche tu sia l’unico essere umano a cui sta bene l’arancione.” Gli sorrise e, giusto per infliggere l’ultimo colpo di grazia al ballerino, gli fece l’occhiolino. L’occhiolino. Magnus era certo che stesse per morire.
Alec lo superò, dirigendosi con Diana verso la cassa per pagare il costume. Magnus rimase a guardarlo qualche secondo, prima di riprendere la funzionalità corretta delle gambe e seguirlo, tenendo Erin per mano.
Alexander aveva un potere particolare su di lui. Ne aveva molti in realtà. Uno dei quali, aveva appena appurato, era quello di azzerargli le capacità motorie con un semplice occhiolino.


*


Tornarono a casa di Magnus verso metà pomeriggio. Alec, un uomo di parola, era salito con lui con tutto l’intento di aiutarlo a sistemare casa. Nel tragitto dall’ascensore al loft, aveva chiamato Jace per aggiornarlo e dirgli che andava tutto bene: Diana si divertiva, a breve avrebbe fatto merenda e sarebbe rimasta con lui fino a quella sera. La scusa era per lasciare che Jace e Clary passassero un po’ di tempo da soli, la vera ragione era ovviamente che Alec non voleva che il fratello vedesse la figlia prima del previsto, altrimenti avrebbe rovinato il piano.
Arrivati davanti alla porta di Magnus, Alec lo guardò inserire le chiavi nella toppa per aprirla. Erin e Diana entrarono per prime – perché Erin, durante il viaggio verso casa aveva detto a Diana che aveva una nuova costruzione Lego che dovevano assolutamente costruire insieme. Da quello che Alec aveva capito, doveva essere uno zoo con gli animali componibili ed era stato un regalo di Raphael.
“Prima di iniziare a giocare dovete togliervi i giubbotti, signorine!” Esclamò Magnus, mentre si chiudeva la porta alle spalle. Le bambine, ovviamente, lo ignorarono. Sia lui che Alec sentivano già le loro vocine concitate mentre cercavano il pezzo giusto per completare il delfino.
“Penso dovremmo andare da loro e farlo noi.” Disse Alec, togliendosi il suo giubbotto di pelle e appoggiandolo all’attaccapanni. Solo quando si voltò di nuovo con l’intento di percorrere il piccolo corridoio che separava l’entrata dall’ampio salone, Alec si rese conto che Magnus aveva trasformato completamente la sua casa. I mobili erano ricoperti di decorazioni spettrali: ciotole viola piene di caramelle che venivano abbracciate da dei piccoli Frankenstein verdi; candele a forma di zucca, ognuna delle quali aveva un sorriso spettrale intagliato sulla faccia, accompagnato da due occhi triangolari; c’erano streghe di varie dimensioni ad ogni angolo della casa, alcune erano persino dotate di un sensore di movimento che faceva partire una risata non appena gli si passava accanto. Dai soffitti pendevano delle ragnatele così realistiche che Alec si trovò a rabbrividire pesantemente – brivido che gli percorse tutta la schiena e diventò freddo quando notò gli aracnidi decisamente realistici che abitavano in quelle tele. Alec odiava i ragni. Lo terrorizzavano. A cosa servono quattro zampe in più del normale? Perché non potevano essere dei normalissimi quadrupedi come la maggior parte degli animali? Tutti gli animali carini hanno quattro zampe, superato il quattro gli animali in questione diventavano raccapriccianti – vedi, appunto, i ragni.
Alec distolse lo sguardo dal ragno gigante che si calava dal soffitto e lo spostò su uno scheletro enorme nel salotto.
“Si illumina al buio.” Lo informò Magnus, notando il suo sguardo.
“Non scherzavi quando dicevi che ami Halloween. Casa tua è già praticamente perfetta, cos’altro manca?”
“La palla stroboscopica.”
Alec abbandonò lo studio dei dettagli della casa per guardare Magnus, accanto a lui. “Sei serio?” Domandò, alzando un sopracciglio in modo scettico.
“Serissimo, pasticcino. E visto che sei così titubante, la monterai tu.”
Alec emise un verso a metà tra uno sbuffo e un lamento. “Devo proprio? Non posso fare altro?”
“Potresti, ma in quel caso dovrei usare lo stesso verbo riferito ad altro e cadrei nel volgare. E io non voglio cadere nel volgare, tesoro, non mi piace.” Magnus sbatté le ciglia scure in un modo che ne aveva del civettuolo. “Fammi contento, puoi?”
Alec decise di non prestare attenzione al significato nemmeno troppo velatamente sessuale della prima frase – se non altro perché immaginarsi con Magnus in un determinato contesto non gli faceva bene all’autocontrollo – e annuì.
“Posso, sì.”
Tuttavia, commise l’errore di percorrere di nuovo il viso di Magnus con lo sguardo e di scendere al di sotto del suo mento, posando gli occhi sulle curve del collo – dove spiccava il pomo d’Adamo –  e scendendo fino alle clavicole, lasciate completamente scoperte dai primi bottoni aperti della camicia che indossava. Alec improvvisamente sentì la gola secca e l’allusione di Magnus che gli rimbombava chiaramente nelle orecchie. Si leccò le labbra perché cominciava a sentire aride pure quelle, come se non bevesse da ore, e si schiarì la gola per darsi un contegno. Quando si costrinse a rialzare lo sguardo sugli occhi di Magnus, notò che stava sorridendo, in un modo soddisfatto e famelico.
Se Alec sembrava avesse sete, Magnus sembrava avesse fame. Una fame vorace, che solo un bacio e  un intreccio di mani avrebbe potuto saziare. Un corpo che nutre un altro corpo con il contatto, pelle sudata contro pelle sudata e respiri che nascono e muoiono nella bocca dell’altro.  Desideri reconditi confessati all’orecchio, in un sussurro che portava con sé parole proibite. E baci sazianti, che consumano le labbra. Baci che diventano morsi. Mangiarsi di baci, un concetto che Alec non era riuscito a figurarsi fino a quel momento. In quell’esatto istante, quell’unico concetto sembrava essere la sola cosa in grado di spiegare perfettamente l’atmosfera elettrica che si era improvvisamente creata nell’aria.
Deglutì, a vuoto, perché non sapeva che altro fare. Aveva l’impressione di star annaspando e sentiva chiaramente di doversi trattenere dal fare un gesto avventato. Perché afferrare Magnus per la camicia e far scontrare le loro bocche sarebbe stato un gesto decisamente avventato.
“Le bambine!” Esclamò quindi, perché niente annulla la tensione sessuale come la presenza di due quattrenni.
Magnus uscì dalla bolla che si era appena creata tra di loro. “Devono fare merenda.” Disse, come se fosse una realizzazione lontana, quasi appartenesse a qualcun altro e non a lui. Improvvisamente, era come se Magnus fosse stordito.
Alec annuì – forse con un po’ troppo vigore, quasi come se avesse voluto concentrarsi ardentemente su qualcosa che non fosse Magnus. A cosa poteva pensare? A dei biscotti, o ai lama, ai cani che vanno sullo skateboard, o ai panda che starnutiscono. Qualsiasi cosa che non fosse Magnus e il suo modo decisamente seducente di guardare Alec.
“Vado a preparare qualcosa. Tu provi a convincerle a togliersi i giubbotti?”
Alec annuì di nuovo e seriamente sembrava che qualcuno gli avesse mangiato la lingua. Si sentì un tantino idiota, ma non si fidava di se stesso in quel momento: non della sua voce che sarebbe uscita un’ottava più acuta del normale, non delle sue mani che formicolavano per la voglia di sfiorare Magnus. Così rimaneva immobile e in silenzio, annuendo solamente con il capo.
Magnus accennò un sorriso e alzò una mano verso il suo viso. Gli accarezzò una guancia e Alec dovette resistere all’impulso di piegare la testa verso la sua mano. Perché gli faceva quell’effetto? Perché tutto ad un tratto gli veniva difficile controllarsi? Erano stati l’uno vicino all’altro tantissime volte, ma mai prima d’ora Alec aveva provato l’impulso quasi irrefrenabile di scoprire cosa si provava a percepire la pelle di Magnus sotto ai propri polpastrelli. Si trovò a deglutire di nuovo, a vuoto, e a trattenere rumorosamente il respiro quando la mano di Magnus scese dalla sua guancia,  accarezzandogli il collo e fermandosi sul suo petto, dove rimase ferma e salda. Alec si chiese se in quel modo Magnus riuscisse a percepire il battito impazzito del suo cuore, se sentisse la corsa a cui quel gesto l’aveva sottoposto. Un tamburo tribale che aumenta d’intensità ad ogni attimo passato in contatto con lui. E dire che lo stava toccando da sopra alla maglietta.
“Vado. Faccio presto e torno da te.” Magnus ammiccò e Alec sentì la gola essiccarsi e la lingua ridursi ad una striscia di carta vetrata.
Annuì ancora come un beota e lo osservò dirigersi verso la cucina. Riacquistato il controllo di sé, Alec si diresse verso le bambine. I loro giubbottini erano stati abbandonati sul divano e quando lo videro arrivare, gli mostrarono entusiaste il loro zoo che stava prendendo forma. Avevano costruito il delfino, la giraffa e la zebra, ma non riuscivano a trovare il leone, così chiesero ad Alec di aiutarle. Lui accettò volentieri. Almeno avrebbe avuto momentaneamente una distrazione, qualcosa che lo aiutasse a non pensare a Magnus, alla sua mano e ai suoi occhi su di sé.



La tensione era sparita, costatò Alec. Il formicolio alle mani era passato e riusciva a guardare Magnus senza sentire la gola che si seccava. Era stato un attimo, tanto passeggero quanto veritiero. Alec era pienamente consapevole che la sua cotta dovesse sfociare in qualcosa. E quel qualcosa era stato quell’attimo che avevano vissuto. Tensione sessuale. Alec poteva giurare di averla percepita – tanto che avrebbe potuto tagliarla con un coltello. La colpa, di questo ne era quasi certo, era della sua astinenza. Non toccava un altro essere umano da quasi un anno, era logico che avesse avuto pensieri simili. La sua mente – che a questo punto remava contro di lui – aveva lasciato che quella parte di sé che aveva accettato i suoi sentimenti indefiniti per Magnus prendesse il sopravvento e lo portasse dove gli ormoni avevano deciso di portarlo. Verso lidi in cui Magnus gli mangiava la faccia e lui se la faceva mangiare, felice di ricambiare qualsiasi tipo di bacio Magnus desse.
E sul quell’onda di pensieri, Alec si trovò persino a chiedersi che tipo di baciatore fosse Magnus, ma decise di fermare sul nascere quei pensieri per evitare una replica dell’Alec-imbranato-show di poco prima.
L’ultima cosa che gli serviva era immaginare come Magnus baciasse, se le sue labbra fossero morbide o se avessero un buon sapore.
Decise, invece, per il bene della sua sanità mentale, di concentrarsi su ciò che doveva fare: montare la palla stroboscopica. Per questo si trovava su una scala per capire effettivamente dove dovesse attaccare il pallone che adesso teneva in mano. Era ricoperto di piccoli specchi che avrebbero riflettuto la luce.
“Magnus, esattamente dove vuoi che la metta?” Domandò, guardando verso il basso.
Magnus gli stava reggendo la scala, ma era stato momentaneamente distratto dalla parte bassa degli addominali di Alec che erano sbucati dalla sua maglietta quando questa si era alzata dopo che lui aveva sollevato le braccia. “Vedi quella piccola sporgenza nel soffitto?”
Alec sollevò lo sguardo e notò un gancetto. “Intendi questo gancio?”
“Proprio quello.”
“Non è una sporgenza, Magnus. È un gancio.”
Magnus roteò gli occhi. “Non fare il pignolo, adesso. Mi sembra che tu abbia capito lo stesso.”
Alec non poteva dargli torto, così non ribatté. Adagiò la palla in modo che il gancio entrasse nella fessura che si trovava all’estremità della sfera ed Alec ebbe l’impressione si star infilando un’enorme pallina di Natale nel ramo di un albero natalizio. Dopo di che, la fissò al soffitto con del nastro adesivo isolante, come gli aveva spiegato Magnus in precedenza. Sistemò il nastro adesivo in modo che non si vedesse, perché poteva essere davvero antiestetico vedere dello scotch che sbucava dal soffitto. Quando Alec fu sicuro che quella palla stroboscopica non sarebbe finita in testa a nessuno, scese dalla scala.
“Fatto.”  
“Grazie, sei davvero un tesoro.” Si alzò leggermente sulle punte per baciargli una guancia. La sua mano, in quel processo, si appoggiò istintivamente al fianco di Alec, il quale arrossì. “Ma non abbiamo finito. Vuoi ancora aiutarmi?”
Avrebbe mai trovato la forza per dirgli di no? Si chiese Alec.
“Certo che voglio aiutarti.”
Riposta: no, non l’avrebbe mai trovata. Ma questo solo perché assecondando Magnus, avrebbe passato più tempo con lui. Ed era pienamente consapevole di quanto gli piacesse stare in sua compagnia.
Magnus gli rivolse un sorriso felice così luminoso che avrebbe potuto illuminare l’intera galassia. “Allora seguimi.”
Prima di fare come gli era stato chiesto, Alec lanciò un’occhiata alle bimbe. Erano ancora in salotto, intente a giocare ancora con lo zoo Lego. Sul tavolino davanti al divano c’erano due piattini pieni di biscotti e due bicchieri pieni di succo di frutta. Entrambe ogni tanto piluccavano un biscotto e bevevano un sorso di succo, ma la loro attrazione principale erano quegli animaletti componibili. Alec sorrise, vedendo come si scambiano i pezzi che trovavano. Diana aveva deciso di comporre un ippopotamo, Erin una foca, quindi l’una aiutava l’altra a trovare i pezzi del rispettivo animale nel caso la diretta interessata non ci riuscisse.
“Alexander?” Magnus attirò nuovamente la sua attenzione, così Alec decise di seguirlo. Fu così che scoprì che il loft aveva un piccolo ripostiglio. E che Magnus aveva uno scatolone pieno di decorazioni per ogni festa dell’anno. Tra cui, ovviamente, Halloween.



*



Erano stati insieme tutto il pomeriggio, fino a quando, verso le sette di sera, Alexander non era tornato a casa sua con Diana. Dovevano prepararsi, gli aveva detto, e Magnus aveva resistito all’impulso di dirgli che avrebbero potuto farlo a casa sua e rimanere lì con lui fino all’inizio della festa. Questo per due motivi: non voleva rischiare di venire accusato di sequestro di persona, e Alexander aveva il suo costume a casa. Non aveva voluto dirgli da cosa si sarebbe vestito, così Magnus era oltremodo curioso.
Per conto proprio, invece, quell’anno Magnus aveva optato per vestirsi da Elton John: aveva acquistato una giacca dorata, che avrebbe indossato senza niente sotto, un paio di attillatissimi pantaloni dello stesso colore – aveva dovuto resistere alla tentazione di comprarsi degli shorts, ma più che altro perché aveva paura di traumatizzare la sua bambina – e degli occhiali da sole a forma di cuore con le lenti rosa la cui montatura era ricoperta interamente di brillantini. Ai piedi portava un paio di anfibi maggiormente dorati, con la punta blu e il tallone rosso, da cui partivano due ali. Sobrietà non era la parola d’ordine, quella sera. Non per Magnus, ne tanto meno per Elton. Non era diventato un’icona rifiutandosi di osare. Elton aveva osato e Magnus aveva intenzione di fare lo stesso.
Mentre si truccava, Magnus ripensò a quel breve attimo che avevano condiviso quel pomeriggio lui e Alexander. Era certo che Alec avesse provato esattamente ciò che aveva provato lui: gliel’aveva letto nello sguardo lascivo che gli aveva percorso il viso e il petto. Alec era attratto da lui nello stesso modo in cui Magnus era attratto da Alec, ma c’era qualcosa che lo tratteneva. Una vaga idea di cosa potesse essere se l’era fatta: William. Quell’uomo aveva rotto qualcosa, in Alexander. Qualcosa che richiedeva del tempo affinché venisse ricostruita. E per aggiustare certe ferite, certi sentimenti, non basta un’attrazione fisica. Certo, si può partire da quella, ma per avere il coraggio di rischiare di nuovo bisogna avere la certezza che la persona per cui decidiamo di rischiare sia quella giusta, o quanto meno ne valga la pena. Magnus pensava che potessero essere sulla strada giusta.
Gli piaceva il rapporto che si stava istaurando tra di loro e non aveva fretta. Avrebbe rispettato i tempi di Alec, se non altro perché a sua volta voleva avere la certezza di non cadere di nuovo in una trappola come era successo con Camille l’Arpia Senza Cuore – così l’aveva ribattezzata Raphael dopo che era venuto a conoscenza del comportamento della donna.
Magnus sospirò, scacciando il ricordo di Camille dalla mente. Non voleva pensarci. Ne farsi abbattere da ricordi spiacevoli. Così riprese a  truccarsi: finì di passarsi l’ombretto sulle palpebre sfumandolo nel modo giusto, poi si diede l’eyeliner sopra agli occhi, formando due ali perfette ed identiche, infine si passò il mascara sulle ciglia.
Erin era rimasta a guardarlo tutto il tempo, seduta su uno sgabellino in bagno. Magnus teneva trucchi e oggetti per il make-up in un mobiletto in bagno, accanto al lavandino. E ne aveva qualcuno anche nella toeletta che aveva in camera da letto, ma questi erano dettagli. Possedeva così tanti trucchi da far invidia ad un’azienda di cosmetici, ma non avrebbe rinunciato a nessuno di loro. Erano il suo tratto distintivo, qualcosa che lo aiutava a distinguersi dalla massa. Non sono molti gli uomini che si truccano e Magnus voleva distinguersi – e andare contro quella convenzione sociale secondo cui un uomo non può portare l’eyeliner altrimenti la sua virilità viene meno. A Magnus gli stereotipi non piacevano e faceva di tutto per abbatterli a modo suo.
“Papà?”
“Dimmi, tesoro.” Magnus abbandonò la sua immagine riflessa nello specchio per guardare Erin, seduta al suo fianco e vestita da Sdentato. Era adorabile e particolarmente soddisfatta di quel costume: era una specie di tuta che si chiudeva con una cerniera sulla schiena, nascosta dagli spuntoni che il draghetto aveva sulla schiena. La coda, invece, era liscia e biforcuta alla fine. In quel momento, Erin portava il cappuccio abbassato, ma se l’avesse alzato, sulla sua testa sarebbero comparsi gli occhi di Sdentato e le piccole orecchie. Magnus era fortemente convinto che sua figlia fosse il draghetto più carino dell’universo intero.
“Posso mangiare un marshmallow?”
“Certo che puoi. Andiamo di là a sceglierne uno.”
Erin sorrise e scese dallo sgabello, dirigendosi verso l’uscita del bagno. Magnus la seguì e insieme andarono in salotto dove la bambina prese un dolcetto da una delle tantissime ciotoline viola colme di dolciumi. Scelse quello rosa a righe gialle e lo mangiò a piccoli morsi, come le aveva sempre raccomandato di fare il suo papà per evitare che si strozzasse.
Ad Erin piacevano particolarmente i marshmallow e Magnus, ogni Halloween, ne comprava un po’ di più per fare in modo che la figlia potesse mangiarli.
Stava per prenderne uno a sua volta, quando suonarono alla porta. Guardò l’ora dal cellulare che era miracolosamente riuscito ad infilare in una delle aderentissime tasche dei pantaloni che indossava, stretti come una seconda pelle: le 21.15. Chiunque fosse al di là della porta, era puntualissimo.
In cuor suo sperava fosse Alexander, perché non vedeva l’ora di rivederlo, così, inforcando gli occhiali a cuore che aveva sistemato in una tasca della giacca, e sforzandosi di non affrettare il passo, rischiando altrimenti di sembrare troppo impaziente, andrò ad aprire.



Non era Alexander, ma Raphael insieme a Rosa, la sua sorellina, che ormai non poteva più essere definita in quel modo. La piccola Santiago, infatti, aveva diciannove anni e Magnus si sentiva estremamente vecchio. Le aveva cambiato i pannolini, dei del cielo, e adesso aveva davanti una donna! Com’era possibile che fosse successo tutto così in fretta?
Magnus abbracciò prima Rosa – anche perché sapeva bene che era l’unica Santiago disposta al contatto fisico – e poi salutò Raphael.
“Entrate, prego!” Non appena si fece da parte, i due fratelli entrarono. Rosa era vestita da ape, notò Magnus, mentre Raphael… Raphael indossava uno dei suoi soliti completi scuri, il che stava a significare che non era vestito e Magnus non se ne stupì nemmeno. Avrebbe trovato bizzarro il fatto che Raphael si mascherasse ad una festa di Halloween, lui che di solito partecipava alle feste solo perché Magnus lo obbligava e finiva per passare tutto il tempo a guardarlo male, rinfacciandogli che l’aveva portato in un posto dove tutti invadevano il suo spazio vitale.
“Zio Raphi!” Esclamò Erin, trotterellandogli in contro –  la coda del suo costume che si muoveva a destra e a sinistra ad ogni suo passo. Aveva ancora un marshmallow in mano, segno che mentre Magnus era andato ad aprire lei ne aveva approfittato per mangiarne un altro. Magnus sorrise. E lo stesso fece Raphael, che si chinò all’altezza della bimba e non disse nulla riguardo a quel soprannome.
Se era Erin a chiamarlo in quel modo, andava benissimo; se lo faceva Magnus, rischiava di perdere le falangi.
Bene, ma non benissimo, insomma.
Ad ogni modo, Magnus sapeva che Raphael adorava Erin.
“Ehi, mi querida, quanto sei carina!” La prese in braccio e le lasciò un bacetto sulla guancia.
“Sono un drago, tío, hai visto?”
Nel tempo che passavano insieme, Raphael insegnava anche qualche parola in spagnolo ad Erin e la bambina tendeva ad usarle ogni tanto quando era con lui.
“Ho visto. E sputi fuoco?”
Erin annuì vigorosamente. “Sputo anche luce azzurra!”
“Allora bisogna fare molta attenzione, abbiamo un super drago tra noi!”
Erin ridacchiò e si tirò su il cappuccio per mostrare nell’intero il suo costume. Raphael sorrise. Magnus lo vedeva sorridere raramente. Succedeva quando era con Erin, che era in grado di sciogliere il cuore granitico di Raphael. Non gliel’aveva mai fatto notare, però, perché sapeva che si sarebbe guadagnato solo un’occhiata in tralice. Raphael era un ottimo zio ed Erin gli voleva bene.
Il campanello suonò di nuovo: le 21.22. Magnus lasciò Erin con Raphael e Rosa e si diresse di nuovo alla porta.
Anche questa volta, niente Alexander. Magnus si trovò davanti ad Isabelle, vestita da Wonder Woman, il suo ragazzo Mark, vestito da Superman e Max, vestito da…
“Chi saresti, esattamente?”
“Mi deludi, Magnus.” Max afferrò la visiera del suo cappellino e la girò completamente. “Davvero non ti dice niente questo gesto?”
Magnus lo guardò perplesso. “Zero assoluto, mini-Lightwood.”
“Non chiamarmi così, l’unico Lightwood mini è Izzy.”
La ragazza, sentendosi tirata in causa, gli sferrò una gomitata nemmeno troppo gentile sulle costole. “Poppante.”
Max guardò Magnus in cerca d’aiuto, ma questi scosse la testa. “Te la sei cercata.”
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo – e Magnus pensò inevitabilmente ad Alec – e sbuffò. “Siete cattivi.” Si massaggiò le costole. “E comunque sono Ash Ketchum, cacciatore di Pokémon!”
“Oooh,” Cominciò Magnus, “Non ci sarei mai arrivato.”
“Questo perché, mio carissimo amico, fai parte di quella generazione infelice che non ha conosciuto i Pokémon!” Sorrise, soddisfatto di sé e varcò la soglia. Magnus ne approfittò per dargli uno scappellotto, che fece sorridere Isabelle.
“Sei bellissima, cara.” Le disse, quando lei si sporse per abbracciarlo.
“Anche tu, Elton.” Gli fece l’occhiolino – e ancora Magnus si trovò a pensare ad Alec per colpa dei suoi consanguinei – e poi si diresse da Raphael. Mark rivolse un saluto a Magnus, il quale ricambiò, e poi seguì Izzy.
Magnus individuò la figlia insieme a Rosa e si avvicinò alle due. Erin stava chiedendo a Rosa se voleva una caramella, perché era Halloween, la festa delle caramelle per eccellenza. Rosa aveva sorriso e le aveva detto sì, così la piccola si era diretta alla ciotola di dolci più vicina.
Rosa era la versione solare di Raphael. Avevano gli stessi capelli neri – la ragazza li portava in un caschetto di riccioli ben definiti che arrivava appena sotto al suo mento – e la stessa pelle olivastra. La genetica aveva voluto che avessero anche le stesse labbra piene, al contrario degli occhi, che sebbene fossero dello stesso colore, quelli di Rosa avevano una forma più allungata e le sue ciglia erano più lunghe.
Quando Erin tornò da Rosa, le caramelle non furono l’unica cosa che portò con sé. Teneva Max per mano e Magnus si chiese perché fosse così impaziente di portarselo dietro, ma poi la sentì aprire bocca.
“Max dice che sono più buone le caramelle al limone, ma secondo me si sbaglia. La fragola è la più buona.”  Cominciò la bambina, rivolgendosi a Rosa. “Secondo te qual è la più buona?”
Magnus sorrise. Sia perché trovava sua figlia adorabile – era un padre di parte, ne era pienamente consapevole – sia perché aveva tutta la sensazione che Max fosse appena stato folgorato. Il ragazzo, infatti, mise su un’espressione soffice, con delle sfumature di incredulità, quasi trovasse difficile capacitarsi del fatto che avesse Rosa davanti. Con ogni probabilità, la trovava bella da togliergli il fiato. Cosa mai vista, dal momento che da quando lo conosceva, Magnus  non aveva mai assistito a Max che rimaneva senza parole. In genere aveva sempre qualcosa da dire.
Magnus sentì chiaramente Rosa rispondere che quelle alla fragola erano decisamente più buone delle caramelle al limone e poi la vide rivolgere un sorriso a Max, il quale sembrò rinsavire e sfoderò tutto il suo charm in stile Lightwood. Era diverso da Jace, ma in qualche modo trasudava la sua sicurezza. Era consapevole del suo aspetto, senza risultare tracotante, o convinto. Aveva un modo tutto suo di rapportarsi con chi gli interessava e Magnus pensò che era giusto così. Somiglianza o meno, ogni fratello ha la propria personalità, e Max, nel suo essere irrimediabilmente Max, era una persona estremamente piacevole.
Osservò i due ragazzi scambiarsi qualche battuta e condividere qualche sorriso, il tutto mentre Erin ascoltava senza interromperli, troppo concentrata a scartare la sua caramella alla fragola. Il fatto che i due ragazzi con lei, adesso, fossero presi da tutt’altro, non significava che lei avesse dimenticato l’argomento principale della conversazione: caramelle.
Ognuno ha le sue priorità: Erin i dolcetti, Max le ragazze. In questo caso, una ragazza.
Magnus si trovò di nuovo a sorridere, guardandoli. Erano giovani e pieni di energia. Erano in quell’età dove la chimica scatta subito e i rapporti nascono con facilità. Basta pochissimo: un interesse in comune, un’idea condivisa, gli stessi gusti – che siano essi culinari, o cinematografici, o altro. Una minuscola scintilla da cui nasce un fuoco. Un piccolo fiammifero che da vita a qualcosa di intenso come un incendio. Nasce tutto così, da un unico attimo, da una singola parola detta al momento giusto. E da lì, si comincia. Il punto di partenza per la nascita di qualcosa di bellissimo. Magnus pensò che Max e Rosa dovessero vivere quel momento a pieno e, soprattutto, in solitudine. Solamente loro due. Così con tutta la discrezione di cui era capace, senza intromettersi nella loro conversazione, o interromperla, si avvicinò ad Erin e la portò con sé. Con la bambina che gli camminava vicino, Magnus cominciò a controllare se tutto era pronto. L’aveva già fatto come minimo dieci volte, ma una in più non guastava mai. Quando ebbe finito di ispezionare tutto, il suo sguardo, inevitabilmente, si alzò sulla palla stroboscopica. Sarebbe arrivato, ne era certo, ma fino a quel momento non gli rimaneva altro da fare che aspettarlo. E proprio mentre formulava questo pensiero, quasi Alec fosse stato in grado di leggergli la mente, sentì il suo cellulare vibrargli in tasca: un messaggio.

> From: Alexander, 21.29
Non mi sono dimenticato della festa. Di solito sono anche un tipo puntuale, ma devo arrivare dopo Jace. E lui non è un tipo puntuale.

> To: Alexander, 21.29
Stai tranquillo, zuccherino. Essendo tuo complice, ti informerò del suo arrivo, così potrai raggiungermi. E attuare il tuo piano. Ma il mio aiuto ha un prezzo.

> From: Alexander, 21.29
Ah sì? E quale?

> To: Alexander, 21.30
Ti monopolizzerò per un periodo di tempo che devo ancora definire, questa sera.

> From: Alexander, 21.30
Mi sembra una richiesta ragionevole, e decisamente più piacevole di arrampicarmi su una scala per montare una palla stroboscopica.

Dire che Magnus stava sorridendo era un eufemismo.

> To: Alexander, 21.30
Perfetto, confettino. A dopo.

Magnus fu tentato di finire quel messaggio con un’emoticon del cuore, ma decise di evitare. Non voleva essere troppo esplicito. Alec rispose a sua volta con un a dopo e Magnus altro non rimase da fare che aspettare. In cuor suo sapeva che quella festa, pe lui, non sarebbe mai cominciata fino a che Alexander non avesse varcato la porta di quella casa.


Ore 21.43. Il campanello di Magnus trillò e il padrone di casa, questa volta, sapeva benissimo chi c’era dietro alla porta: Alexander. Fremeva dalla voglia di andargli ad aprire, ma i patti erano diversi: avrebbe dovuto essere Jace a farlo per trovarsi immediatamente faccia a faccia con la figlia vestita da paperotta. Così Magnus, finse di dover fare qualcosa e si rivolse a Jace – vestito da Hercules, con tanto di armatura e mantello, mentre Clary era vestita da Megara – chiedendogli se poteva andare ad aprire. Il biondo annuì immediatamente e si diresse verso la porta. Quando la aprì si trovò davanti Alec, che stava combattendo con tutto se stesso per non scoppiare a ridere. Jace non fece in tempo a chiedergli per quale motivo avesse quell’espressione sul viso, che la voce di Diana attirò la sua attenzione.
“Papà!” Esclamò la piccola e il biondo abbassò lo sguardo. Puro terrore invase i suoi lineamenti, mentre i suoi occhi si sgranavano. Alec sapeva benissimo che stava combattendo contro la tentazione di girare i tacchi e andarsene, perché aveva la consapevolezza che in quel modo avrebbe ferito sua figlia. Così  si sforzò di  restare esattamente dov’era, anche se il suo colorito era appena impallidito.
“Ciao principessa!” disse quindi, cercando di apparire il più normale possibile. “Ti sei divertita oggi con lo zio?”
La bambina annuì vigorosamente. Il suo costume da paperotta la rendeva rotonda e soffice.  In testa, sopra al cappuccio da cui sbucava la sua faccina e a cui era attaccato un becco, aveva un fiocco rosso. Le sue braccia erano nascoste dalle ali e quando le muoveva, sembrava si stesse per alzare in volo. Diana era una paperotta gialla, dalle zampette arancioni e un fiocco rosso sulla testa. Per Alec era super carina, per Jace, invece, era un incubo. Sua figlia, la sua principessina adorata, era vestita come il suo più grande terrore. Jace non si fidava delle papere, con i loro occhi vitrei e vuoti che ti fissano nell’anima e chissà quali piano complottisti tramano. E per quale motivo dovevano avere i denti, dannazione? Non erano già abbastanza spaventose senza? Perché Madre Natura aveva sentito la necessità di aggiungere quel dettaglio inquietante?
“Tantissimo! Mi ha comprato questo costume!” Esclamò allegra, mentre Jace stringeva i denti e alzava lo sguardo su Alec, guardandolo in tralice. “È un bel costume,” bofonchiò.  Se certi sguardi avessero potuto incenerire…
Alec, tuttavia, non era per niente intimorito da quel comportamento, anzi, stava combattendo con tutte le sue forze per non scoppiare a ridere.
“Tesoro, perché non vai dalla mamma?”
Diana annuì e si diresse verso Clary, che l’aveva appena adocchiata.
“Di’ le tue ultime parole!” Lo minacciò Jace, assicuratosi che Diana fosse abbastanza lontana e non sentisse nessuna minaccia.
Alec esplose finalmente a ridere. Rise così tanto che dovette mettersi una mano sulla pancia e asciugarsi una lacrima che stava fuggendo da un angolo dell’occhio.
“Avresti dovuto vedere la tua faccia! È stata la vendetta migliore che abbia mai programmato!”
Jace gli sferrò un pugno sul braccio. “Ti odio. Passerò la serata ad avere paura di mia figlia!”
Alec sorrise ferino e si chinò leggermente verso il viso del fratello. “Lo so.” Disse, pienamente soddisfatto di sé.
Jace si arrese all’inevitabile. “Hai vinto questa battaglia, ma la guerra è appena cominciata!”
“Mi sembra giusto.” Concesse Alec. “Ora mi fai entrare o devo rimanere sulla soglia tutta la sera?”
“Sarei tentato di chiuderti la porta in faccia, ma Magnus impiegherebbe circa tre secondi a venire qui e riaprirla, quindi tanto vale che ti faccia entrare.”
Alec accennò un sorriso ed entrò.
La prima cosa che fece, che gli venne naturale da fare come respirare, fu cercare Magnus con lo sguardo. Quando lo individuò, respirare non divenne poi tanto facile. Al contrario, Alec ebbe la sensazione che, improvvisamente, tutta l’aria che aveva nei polmoni gli venisse risucchiata via. Magnus era bellissimo. E gli stava andando in contro proprio in quell’esatto momento.


Gli sembrava di averlo aspettato per un’eternità, quando in realtà l’aveva aspettato solo per poco tempo. E adesso che ce l’aveva davanti, Magnus realizzò che anche se avesse dovuto aspettarlo per secoli interi, l’avrebbe fatto. Avrebbe aspettato Alexander in ogni caso, sia che si trattasse del suo arrivo ad una festa, sia che si trattasse di fargli aprire di nuovo il suo cuore ad una possibile relazione.
Certe cose richiedono tempo. E Magnus non era più nell’età di Max e Rosa, dove tutto nasce immediatamente e sboccia con la stessa velocità di un fiore a primavera. Era nell’età in cui si è già stati bruciati dal fuoco e si sa benissimo quanto possa fare male, di conseguenza alla prossima fiammella ci si avvicina con cautela, remore dell’ultima ustione. Magnus si era ustionato, poteva ancora sentire le cicatrici sul cuore, ma ogni volta che guardava Alec e stava con lui, aveva la sensazione che la sua sola presenza riuscisse a passare un balsamo sulle sue vecchie ferite.
Tempo. Era ciò che serviva ad entrambi.
E Magnus aveva tutta l’intenzione di prendersi il tempo che gli spettava per conoscere quell’uomo. Per questo si diresse verso di lui non appena lo vide. Era bellissimo, ma questo ormai era un dato di fatto.
Spiccava in quella stanza come se avesse un cono di luce sulla testa, che lo metteva in risalto, un’aura luminosa naturale che veniva irradiata direttamente dalla sua persona. Un qualcosa che Alec sembrava non si rendesse conto di avere. Ma Magnus la vedeva eccome, chiara e nitida come l’alba.
Non appena si rese conto che anche Alec lo stava guardando, gli sorrise e si incamminò verso di lui. Passò vicino a Catarina, a Simon e a Maia, superandoli, ed ebbe la sensazione di non percepirli nemmeno perché i suoi occhi e tutto se stesso erano unicamente concentrati su Alec, che sorrideva.
“Ciao, tesoro.” Lo salutò.
“Ciao. Sei venuto per sequestrarmi?”
Magnus rise. “È giunto il momento di riscuotere il mio pagamento.”
Alec si morse l’interno delle guance. “Mi sembra giusto. Il mio piano è riuscito alla perfezione, grazie anche a te.”
“Allora vieni con me. Il tempo indeterminato che passeremo insieme comincia adesso.” Magnus lo prese per mano e lo trascinò via. Alec si lasciò guidare senza nemmeno tentare di opporre resistenza.





Alec era appoggiato al bordo del tavolo al centro della cucina e teneva un tumbler con del whiskey in mano. Magnus lo guardava, appoggiato al piano cottura. Erano uno davanti all’altro, separati dalla distanza di due braccia, più o meno.
E se di norma, non aveva mai capito il Mad Love e cosa avesse potuto spingere Harley Quinn a perdere la testa per uno che era arrivato addirittura a scaraventarla da una finestra solo perché aveva provato ad uccidere Batman al posto suo,  in quel momento riusciva quasi a capirla, Harleen Quinzel.
Se non altro perché, come lei, quella sera, Magnus si sentiva particolarmente affascinato da Joker.
Il suo Joker, gli altri giorni dell’anno, indossava principalmente il nero, ma non quella sera. Alec, infatti, aveva messo su una versione tutta sua del Clown di Gotham. Era poco elaborato e questo rispecchiava perfettamente il suo stile: indossava una semplice camicia viola, le cui maniche erano state arrotolate fino ai gomiti e alla quale aveva abbinato un papillon verde. I pantaloni, infilati dentro ad un paio di anfibi, erano a scacchi viola e neri – e in questo Magnus, sospettava ci fosse lo zampino di Izzy. Così come era convinto quasi al cento per cento che Isabelle avesse a che fare con gli accenni di verde che spiccavano sui capelli corvini di Alec e la matita che circondava i suoi occhi.
Il trucco gli donava, risaltava il colore delle sue iridi, intensificandolo in un modo da renderlo quasi irreale. Magnus avrebbe voluto vederlo truccato più spesso, ma sapeva che Alec non era per certe cose. Truccandosi avrebbe attirato l’attenzione su di sé e non era una cosa che lo faceva sentire a suo agio.
“Allora, cosa ne pensi?” Domandò Magnus, togliendosi gli occhiali rosa e sistemandoli in una delle tasche della sua giacca.
Alec fece roteare il whiskey nel bicchiere e ne bevve un altro sorso. “Mi piace. Non mi sorprende che tu lo tenga nascosto in cucina, lontano dalla portata di chiunque.”
Magnus abbozzò un sorriso. “Me l’ha mandato Ragnor dall’Irlanda. Fa l’architetto. Sta seguendo i lavori di costruzione del suo ultimo progetto. Una settimana fa mi ha mandato questa bottiglia con un biglietto: assaggialo e dimmi se non è meglio della brodaglia che bevi di solito. Ragnor sa essere un tantino pungente, se si impegna.
Alec ridacchiò. “Be’, però ha ragione. È buono.”
“Sicuramente, ma io non bevo mai brodaglie. Sono un uomo sofisticato.”
Questo Alec non l’aveva mai messo in dubbio. Sorrise. “Lo so.” Finì il suo drink e appoggiò il bicchiere sul tavolo dietro di lui. “Dov’è Erin? Non l’ho ancora vista…”
“Con Raphael. Non la perde di vista un attimo. Stasera ha fatto anche da Cupido.”
“Raphael o Erin?”
“Erin.”
Alec alzò le sopracciglia, incuriosito. “Cosa mi sono perso?”
“Max e Rosa, la sorella di Raphael. Dovevi vedere la faccia di tuo fratello quando l’ha vista. Si stava letteralmente sciogliendo, era adorabile!”
Alec ridacchiò, intenerito, immaginandosi la scena. Max era un tipo piuttosto espansivo, quello che aveva dentro lo mostrava quasi senza filtri e spesso le sue espressioni parlavano prima che lo facesse la sua voce. Riusciva chiaramente ad immaginarselo mentre si scioglieva per una ragazza carina.
“E lei?”
“Oh, lei era ben contenta di assecondarlo. Voi Lightwood avete quel fascino misterioso a cui è impossibile resistere.” Magnus ammiccò e Alec abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore con gli incisivi. Non credeva di essere lui quello che esercitava un certo fascino. Era Magnus. Ma questo il ballerino già lo sapeva. Alec gliel’aveva confessato, giorni indietro. Non si era pentito. In cuor suo, Alec avrebbe voluto essere più espansivo, in certe occasioni. Come Max, che aveva visto una bella ragazza e aveva attaccato bottone. Come aveva fatto Izzy con Mark. Come aveva fatto Jace con Clary. Si erano buttati. Avevano lasciato da parte ogni remora, ogni timore e aveva agito per prendersi ciò che volevano.
Alec non era così. Non lo era mai stato. Nemmeno con Will. Era stato lui, infatti, a fare la prima mossa.
Suonarono alla porta.
Alec viveva nel suo nuovo appartamento da dodici giorni, non che tenesse il conto. Periodicamente, i suoi fratelli lo andavano a trovare, ma quel giorno aveva già sentito tutti per telefono e nessuno l’aveva informato che sarebbe passato. Soprattutto non all’ora di cena. Escluse quindi che fosse una possibile improvvisata dei suoi fratelli. Ed escluse anche che potesse essere sua madre. Maryse non faceva improvvisate: avvertiva del suo arrivo almeno con un giorno di anticipo. Certo, lo chiamava tutte le sere per assicurarsi che mangiasse e che il lavoro non lo consumasse troppo, ma era una donna estremamente organizzata, di conseguenza non improvvisava una visita nemmeno se si trattava dei suoi figli.
Consapevole, quindi, che doveva escludere il suo nucleo familiare – l’idea che potesse essere suo padre non lo sfiorò nemmeno, dal momento che non si parlavano – si alzò dalla scrivania che aveva in camera sua e si diresse verso l’entrata. Percorse tutto il corridoio, fino a raggiungere la porta.
“Chi è?” domandò.
“William. Il tuo vicino.”
Merda. Pensò. Il vicino figo dell’appartamento accanto al suo era davanti alla sua porta e Alec era in tenuta da casa. Abbassò lo sguardo sui suoi pantaloni della tuta sbiaditi e sul maglione sformato che indossava e si maledisse mentalmente per non aver dato retta a sua sorella tutte le volte che gli diceva che era ora di rinnovare il suo guardaroba. Alec non era presentabile, ma non lo sarebbe stato in ogni caso. Il suo armadio non aveva granché al suo interno. Si arrese all’evidenza: avrebbe aperto al vicino figo vestito in quel modo sciatto, pregando che nel momento esatto in cui si fossero trovati uno di fronte all’altro, una voragine si sarebbe aperta nel pavimento, inghiottendolo e salvandolo dall’imbarazzo.
Con un profondo sospiro, aprì.
Si trovò davanti William e, dannazione, era ancora più bello di quanto ricordasse. Non l’aveva più rivisito dal quell’ unico incontro in ascensore e se dicesse di non aver pensato a lui almeno una volta, mentirebbe. Aveva sperato di rivederlo, magari in circostanze diverse e non quando lui sembrava un senzatetto, mentre William sembrava un modello di Abercrombie. La vita era ingiusta e Alec tendeva ad essere un po’ sfigato, a volte.
“Ciao, Alec. Disturbo?”
Alec negò con il capo. Si ricordava il suo nome. Stava giusto iperventilando un pochino.
“Bene.” William sorrise, mostrando i suoi perfetti denti bianchi. I suoi occhi azzurri come il cielo vennero circondati da rughe d’espressione. Alec lo trovò, se possibile, ancora più bello. Portava i biondi capelli legati in una coda bassa, da cui fuoriuscivano delle ciocche che gli ricadevano in avanti, sul viso – le sue guance erano ricoperte di una leggera barba chiara che in alcuni punti, in particolare sul mento e vicino all’attaccatura dei capelli, si scuriva un po’.
“Perché ti ho portato la pizza.” Continuò il ragazzo e Alec rinsavì, trovando nuovamente l’uso della parola.
“La pizza?”
“Non ti piace?”
“Certo che mi piace, ma… perché l’hai portata?”
“Per mangiare insieme a te. Sarei un pessimo vicino se non condividessi la pizza. A meno che tu non abbia già mangiato.”
Alec non aveva già mangiato. Si era dimenticato, ovviamente, preso com’era dal concludere le ultime pratiche per il chirurgo per il quale lavorava.
“No, non ho ancora mangiato.”
William gli sorrise di nuovo. “Allora mi fai entrare?”
“Certo, s-sì.” Alec abbozzò un sorriso timido e si fece da parte. William entrò, si guardò intorno per qualche istante e poi appoggiò lo scatolone con la pizza sul tavolino che stava in salotto per riuscire a togliersi il giubbotto. Alec si ricordò di dover fare il padrone di casa, così afferrò il giubbotto e lo portò sull’attaccapanni, mentre gli diceva di mettersi comodo. Non stava solo con un ragazzo che gli piaceva da un po’, quindi si sentiva più impacciato ed imbranato del solito. Ma sembrava che William non se ne accorgesse.
Alec apparecchiò in cucina e si spostarono là. Mangiarono seduti uno di fronte all’altro, dividendo una pizza gigante con doppia mozzarella che ad Alec piacque un sacco. Parlarono del più e del meno. William era figlio unico, era laureato in economia e commercio e stava lavorando nell’azienda del padre, che poi avrebbe ereditato.
Alec dedusse che avevano quanto meno un rapporto, ma non disse nulla a riguardo. Non voleva tirare in ballo il rapporto con il proprio padre perché non gli piaceva parlare di Robert, o del fatto che non si parlassero.
William non fece domande, in ogni caso, e la loro serata proseguì tra aneddoti più o meno divertenti ed esperienze fatte al college. William gli raccontò la  figuraccia che aveva fatto in Germania, quando per chiedere informazioni aveva provato a parlare in un tedesco parecchio zoppicante, con la conclusione che aveva finito accidentalmente per offendere la moglie dell’uomo a cui aveva chiesto informazioni.
Alec aveva riso, immaginandosi la scena.
William era divertente, bello e intelligente. E mentre Alec formulava questi pensieri, a fine serata, quando avevano finito di cenare da un pezzo, William si alzò dal tavolo e lo circumnavigò. Rimase in piedi davanti ad Alec, che era paralizzato sulla sedia e lo guardava dal basso verso l’alto.
“Devo dirtelo, non sono venuto qui per comportarmi da buon vicino.” Si chinò in modo che il suo viso fosse vicino a quello di Alec, che ovviamente deglutì rumorosamente.
“Ah no?” Riuscì solo a dire, sentendosi imbranato come non mai. “E per cosa, allora?”
“Per te, Alec. Da quando ti ho incontrato non ho fatto altro che pensarti. Pensavo ti avrei rivisto, ma non è successo. Quindi ho deciso di venire direttamente qui.”
Alec deglutì a vuoto, mentre i suoi occhi andavano a perdersi in quelli azzurri di William. Fu in quel momento che notò le sfumature verdi nelle sue iridi ed ebbe la sensazione di annegare in un oceano bellissimo.
“E quando mi hai fatto entrare, ho iniziato a sperare che il mio interesse fosse ricambiato. Spero invano?”
Alec negò con il capo, incapace di proferire parola.
William sorrise di nuovo e avvicinò maggiormente il viso a quello di Alec. Strofinò il proprio naso contro il suo e poi appoggiò la propria bocca su quella di Alec. Lo baciò e nel momento stesso in cui Alec ricambiò quel bacio, facendo scontrare le loro lingue per la prima volta, Alec provò una strana euforia, qualcosa assopito da tempo. Si alzò dalla sedia e tirò William per la maglietta, avvicinandolo di più a sé. L’altro sorrise sulle sue labbra, mentre lo lasciava fare. William era più alto di lui di qualche centimetro, ad Alec questa cosa piaceva. Non capitava mai, di solito nelle poche relazioni che aveva avuto, era sempre Alec quello più alto. Si mossero non staccando mai le labbra da quelle dell’altro, fino a spostarsi sul divano. William si sdraiò per primo, tirando Alec sopra di sé. Risero, quando durante quella caduta, i loro denti si scontrarono accidentalmente e Will gli baciò il labbro superiore. “Scusa,” gli disse, prima di riprendere a baciarlo. Passarono il resto della serata in quel modo. Semplicemente baciandosi, uno sopra all’altro.
E Alec… Alec era felice.
Quando aveva scoperto come stavano le cose, Alec aveva sempre trovato un po’ strano che un ragazzo gay non dichiarato si fosse comportato in quel modo, soprattutto perché William, quella sera, non aveva la certezza che anche Alec fosse gay. Come aveva potuto, quindi avere quella sicurezza? Come poteva avere avuto la certezza che Alec non l’avrebbe respinto in malo modo, se si fosse esposto?
Prima di decidersi a fare coming-out, lui aveva sempre avuto un certo timore a dimostrare interesse. Se non altro perché non tutti reagiscono come Jace, che davanti alle avances di un ragazzo si limita a dirgli educatamente di essere etero, ma perché ci sono uomini che abbracciano ancora una mentalità omofoba che sfocia spesso nella violenza. Di conseguenza, come aveva potuto Will, con tutti i timori che aveva riguardo alla sua sessualità e che Alec aveva scoperto stando con lui, avere avuto una tale sicurezza?
Quando Alec gliel’aveva chiesto, William gli aveva confessato che aveva sentito la conversazione che avevano avuto lui e Jace la prima volta che si erano incontrati. Pareti sottili, aveva detto. Alec all’inizio non ci aveva pensato, ma adesso con la mente non più obnubilata dall’amore, realizzò con una punta di amarezza che Will per lui non aveva mai rischiato. Nemmeno quando si erano incontrati. Si era avvicinato a lui perché aveva la certezza che era gay. Probabilmente non aveva nemmeno messo in conto un rifiuto, perché, ovviamente, aveva sentito ciò che pensava di lui.  
In definitiva, Will l’aveva sempre dato per scontato, come se Alec fosse addirittura qualcosa di banale. Di poco rischioso. Una pantofola comoda.
“Confettino?” Magnus lo riportò alla realtà e al presente.
Alec sbatté le palpebre. “Sì, scusa, mi sono estraniato un attimo.”
“Me ne sono accorto. Pensieri tristi?”
“Non esattamente.” Ed era vero: William faceva ancora male, ma non tanto come all’inizio. Ricordarlo non gli otturava più le vie respiratorie. Alec era consapevole di essere verso la via della guarigione. “Sto rovinando il nostro tempo indeterminato insieme.” Sorrise, mostrandosi più allegro e scacciando definitivamente dalla testa qualsiasi cosa non fosse Magnus. Il passato era passato e poteva rimanersene dov’era, Alec sapeva già che faceva male. Ma il futuro… il futuro poteva essere Magnus e Alec non l’avrebbe mai scoperto se avesse continuato a guardarsi indietro. Sentì quasi la freccia sul braccio prudergli a quel pensiero e sorrise. “Sono a tua disposizione per qualsiasi cosa.”
Magnus lo guardò con malizia. “Così la fai sembrare persino una cosa sconcia, zuccherino.”
“Anche chiedermi come pagamento potrebbe essere una cosa sconcia. Ma mica te l’ho fatto notare.” Ribatté Alec, che a proposito di sconcio, si ritrovò inevitabilmente a far scivolare lo sguardo sulla giacca aperta di Magnus, che mostrava i suoi addominali. Seriamente, quanti ne aveva? E quanto erano definiti, dannazione?
Magnus si staccò dal piano cottura e si avvicinò ad Alec. Ridusse quasi tutta la distanza che c’era tra di loro e alzò gli occhi nei suoi. Lo guardò in quel modo che faceva tremare Alec dentro. Nessuno l’aveva mai guardato così, nemmeno William.
Magnus lo guardava e Alec aveva la sensazione di sentire il mondo che smetteva di girare solo per far fermare lo scorrere del tempo e lasciare che rimanessero sospesi nell’eternità, solo loro due, occhi negli occhi, mentre i battiti dei loro cuori si sincronizzavano per battere all’unisono, come se dovessero fondersi per diventare un unico cuore. Alec si chiese se fosse da pazzi pensare una cosa simile e si rispose che anche se lo era, non gli interessava, perché era ciò che provava.
“Cosa vuoi fare, adesso?” gli domandò, perché se avesse ancora ascoltato ciò che gli partiva dal cuore, inculcandogli determinate idee in testa, era sicuro che avrebbe finito per baciarlo.
Magnus afferrò una delle mani di Alec e cominciò a giocare con le sue dita, facendo intrecciare le proprie con le sue, facendo incontrare i loro palmi. “Qualsiasi cosa ti serva per scacciare i pensieri tristi di poco prima.”
Alec lo guardò, sorpreso e ammaliato, affascinato ancora una volta da Magnus e dal suo cuore altruista. “Tu allontani i pensieri tristi, Magnus. Mi basta fare qualcosa insieme a te.” Non era esattamente un grande passo, ma era comunque un passo. Era il modo che aveva Alec di fare una mossa. Non diretta come sono tutte le prime mosse, ma comunque una mossa. Una mossetta, si può dire, verso Magnus. Un piccolo passo, qualcosa che gli impedisse di continuare a stare fermo e lasciare che fossero sempre gli altri a sceglierlo. Alec, per una volta, voleva scegliere.
“Qualsiasi? Senza preferenze?”
Alec gli rivolse un sorrise soffice, prima di annuire. “Qualsiasi.”
“Allora torniamo di là. Voglio ballare con il ragazzo più carino di questa casa.” Si alzò sulle punte per lasciargli un bacio sulla guancia.
E mentre Magnus lo trascinava fuori dalla cucina, tenendo le loro dita ancora intrecciate, e il suo profumo ancora invadeva piacevolmente le narici di Alec, il medico pensò che di certo non era Magnus che avrebbe ballato con il ragazzo più carino di quella casa, ma lui.
Alec era fregato. Irrimediabilmente cotto. Tanto da arrivare a credere che Halloween, se lo passava ballando con Magnus vestito in quel modo peccaminoso, fosse una festa meravigliosa.



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Ciao a tutti e ben ritrovati!
Curiosità iniziale: siete sopravvissuti agli ultimi episodi?
Venendo a noi, mi scuso immensamente per il ritardo, ma ho avuto poco tempo e spesso l’ispirazione mi è venuta a mancare.
Questo capitolo è infinito, e spero non l’abbiate trovato noioso, ma dividerlo mi scocciava per due motivi: volevo finalmente che arrivasse Halloween e perché pensavo fosse arrivato il momento di far finire Ottobre. In pratica la tempistica della serie TV, dove tre anni sono tre mesi, mi ha contagiata un po’ troppo e dall’inizio della storia è passato si e no un mese e mezzo. Quindi volevo velocizzare un po’ le cose.
Ci sono dei pezzi che non avevo preventivato: la parte dove si parla di Jocelyn e la storia di Asmodeus. In particolare la seconda avevo deciso di farla venire fuori la prima volta mentre Magnus si confidava con Alec, ma visto che si parlava di madri, ho pensato fosse più appropriato dare un background anche a Madelaine, raccontando un po’ il suo passato turbolento con Asmodeus. Non so se si è capito, ma lei era molto giovane quando stavano insieme. Ha avuto Magnus a vent’anni e cinque anni dopo è scappata, essendosi effettivamente resa conto di chi aveva al suo fianco.
C’è anche una piccola introduzione del personaggio di Rosa, che da quello che ho capito, è la sorella minore di Raphael (o sbaglio? Magari sono io che ho capito male). Non so perché ma mi piaceva l’idea che anche Max avesse qualcuno e quindi ho pensato a Rosa. E poi mi piaceva immaginarmi Raphael versione fratello maggiore, quindi ho pensato di inserire anche lei. Spero di non incasinare troppo il tutto, inserendo troppi personaggi!
C’è un accenno anche alle Heline, ad inizio capitolo, e onestamente ho scritto quel pezzo prima di vedere gli episodi dove veniva introdotta Aline. Rispetto a come ce l’hanno mostrata nella serie, secondo me l’ho resa un po’ troppo OOC, ma spero sia stata comunque apprezzabile.
Concludo dicendo che spero che la realizzazione che hanno avuto i Malec in questo capitolo – ovvero che sono cotti l’uno dell’altro – non sia troppo affrettata. Ho un po’ il timore che lo sia perché fino ad ora hanno sempre insistito sul vedersi solo come amici, anche se non ne hanno mai effettivamente parlato. Volevo che la cosa fosse graduale e mi sembrava che lo fosse, ma ho un po’ il timore che in realtà non lo sia. Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va!
Vi saluto e ringrazio chiunque legga questa storia, l’abbia messa tra i preferiti/seguiti/ricordati e chi trova il tempo per recensirla, mi fa un piacere immenso, quindi grazie!
Un abbraccio, alla prossima! <3

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Capitolo 9
*** 9. ***


Magnus si stava sfilando gli scaldamuscoli, quando sentì il suo cellulare vibrare come un ossesso sul parquet della sua sala da ballo, ormai vuota. L’ultima lezione del pomeriggio, danza classica con un gruppo di adolescenti, era terminata e lui altro non desiderava che andare a casa di sua madre, recuperare Erin e tornare a casa propria per farsi una doccia lunghissima.
Il suo telefono non la vedeva così.
Raphael non la vedeva così.
“Pronto?”
Hermano, avrei bisogno di quel favore, ricordi?”
Magnus, seduto sul parquet, le gambe incrociate e gli scaldamuscoli abbassati alle caviglie, rispose: “Mi ricordo. E trovo curioso come io diventi un fratello, quando hai bisogno di me.”
“È un discorso serio, Magnus.” Raphael quasi sibilò.
“Dimmi solo se devo preoccuparmi.” Gli disse quindi, massaggiandosi una tempia per cercare di non lasciarsi andare a pensieri che finivano necessariamente con qualcuno all’ospedale. Quando Raphael assumeva quel tono così serio – più serio del suo solito – nel cervello di Magnus, inevitabilmente, scattava il meccanismo della preoccupazione.
“No, non proprio. Niente codice rosso, se è questo che intendi. Ma vorrei venissi al DuMort. Puoi?”
Magnus si alzò dal parquet e cominciò a dirigersi verso il suo ufficio, dove si sarebbe cambiato. “Venti minuti sono lì.”


Furono più di venti minuti, ma non dipese da Magnus. Aveva trovato traffico e per questo impiegò una buona mezz’ora ad arrivare al DuMort. Trovò parcheggio piuttosto vicino all’Hotel e lo reputò un aiuto divino, dal momento che il parcheggio dell’Hotel era solamente riservato ai clienti e, di conseguenza, ogni volta che Magnus passava a trovare Raphael in macchina, doveva girare per eoni prima di trovare parcheggio.
Sceso dall’auto, si diresse verso l’entrata dell’edificio. Raphael era alla reception e sembrava impaziente. Quando alzò lo sguardo e lo vide, Magnus ebbe l’impressione che l’amico dovette trattenersi dal corrergli in contro. E quello non lo aiutava certo ad evitare di preoccuparsi. Il viso di Raphael era teso in un modo diverso dal solito e Magnus di conseguenza trovava difficile non lasciarsi andare a delle preoccupazioni.
“Raph, che c’è?”
“Devo parlarti.”
Magnus si appoggiò al bancone della reception. “Ti ascolto.”
Raphael si guardò intorno, sebbene non ci fosse nessuno con loro e la hall fosse silenziosa. I clienti erano ancora nelle loro camere, dal momento che era lontana l’ora in cui veniva servita la cena.
“Si tratta di Rosa.”
Magnus avvertì la bocca dello stomaco stringersi. “Raphael, ti prego, smetti di essere così criptico perché mi sto decisamente preoccupando.”
Raphael rimase in silenzio, quasi trovasse difficoltoso far uscire le parole di bocca, come se gli si bloccassero in gola ogni volta che provava a formularle. Ma poi sospirò e le parole uscirono da sole. “Vorrei mi aiutassi a fare il discorso a mia sorella.”
Magnus rimase spiazzato un attimo da quella richiesta, non essendo pienamente sicuro di aver capito. “Il discorso?”
“Il discorso, Magnus!”
“Intendi quello delle api e dei fiori?”
Raphael lo guardò con una serietà mortale. “Proprio quello.”
Magnus sentì la preoccupazione sciamare via dal suo corpo e tirò un sospiro di sollievo. “E io che mi stavo immaginando chissà cosa!” Esclamò, più sereno. “Ma devo dirtelo, hermano, penso che a diciannove anni sia tardi per fare il discorsetto. O per supporre sia vergine. Avresti dovuto farglielo già a quattordici, se non altro perché fosse pienamente consapevole.”
“Speravo in mia madre, ecco perché non gliel’ho fatto prima. Ma sai com’è Lupe, è troppo credente. Solo l’idea del sesso prima del matrimonio la metterebbe troppo a disagio.” Raphael si passò una mano sul viso, sospirando. “E so che probabilmente Rosa non è più vergine, non sono così ingenuo! Ma il fatto che prima d’ora io non le abbia parlato, non vuol dire che non possa farlo adesso.”
Magnus si sporse leggermente sopra al piano della reception per riuscire a dare una pacca sulla spalla dell’amico. Raphael si prendeva cura di sua madre e di sua sorella da quando suo padre, diciannove anni prima, era rimasto vittima di un incidente stradale mentre tornava dal lavoro. Un pirata della strada, avevano detto. Il tizio era ubriaco e guidava a tutta velocità, non aveva visto il semaforo rosso ed era finito contro il padre di Raphael. Era stata una tragedia: Raphael aveva solo tredici anni e Guadalupe era incinta della piccola Rosa. Dopo quel terribile evento, Raphael si era preso cura di sua madre durante tutto il periodo della gravidanza e, dopo la nascita della sua sorellina, l’aiutava ad occuparsi di lei.
Era sempre stato presente. Si era sempre preso più responsabilità di quante veramente gliene spettassero e aveva quasi sempre fatto le cose da solo, occupandosi degli altri, piuttosto che lasciare che gli altri si occupassero di lui.  Se chiedeva aiuto, quindi, era perché non sapeva da dove cominciare.
“Parleremo a Rosa insieme.” Lo rassicurò, quindi. “Posso sapere perché, però, all’improvviso hai tutta questa urgenza?”
Raphael scosse la testa, rassegnato. “Perché tra te e mia sorella, ultimamente, sembrate particolarmente propensi a perdere la testa per un Lightwood!”
Magnus lo guardò sorpreso e non riuscì a trattenere un sorriso intenerito, scegliendo di ignorare volutamente la frecciatina nemmeno troppo velata che gli aveva appena lanciato l’amico. “Vuoi dire che Max e Rosa si sentono?”
Raphael annuì. “Rosa non fa altro che parlare di lui da due settimane. È quasi snervante. Sembra che non esista altro, se non Max.”
Magnus rise sotto ai baffi. “Non è che sei geloso, fratellone? La tua sorellina è cresciuta, è diventata una bellissima ragazza e attira inevitabilmente l’attenzione.”
Raphael strinse la mascella. “Se attirasse l’attenzione delle persone che a lei non interessano, le suddette persone si ritroverebbero gambizzate. Ma Max sembra le piaccia e, per quanto parli decisamente troppo, non dispiace nemmeno a me.”
Era sempre stato così, da quando Rosa era nata: Raphael faceva di tutto per renderla felice. Probabilmente per non farle sentire troppo l’assenza del padre. Se Rosa era felice, forse, non aveva tempo per concentrarsi sulla tristezza che provocava la morte prematura di un padre che non aveva avuto occasione di conoscere.
“So quanto ti costa ammetterlo, Raph. Tu, che sei avvezzo alla misantropia da una vita intera, ormai!” Scherzò Magnus, dandogli un’altra pacca sulla spalla, giocosa, questa volta. Raphael mosse le spalle come se avesse voluto scrollarselo di dosso.  
Magnus era certo che stesse per rispondergli in modo pungente, ma l’entrata di Rosa dall’ingresso impedì qualsiasi risposta.
La ragazza si diresse verso di loro con uno zaino in spalla. Indossava un paio di jeans verde militare, abbinati ad una maglietta magenta dalle maniche lunghe con uno scollo a U. Portava una collanina d’oro con una piccola R come ciondolo. Era un regalo per la sua quinceañera. Guadalupe voleva regalarle un ciondolo che dicesse Rosa, ma la ragazza aveva preferito solo una R perché poteva rappresentare sia il suo nome, sia quello di suo fratello.
Una volta raggiunti i due, si scostò un riccio ribelle dal viso e appoggiò a terra lo zaino. “Fare la pendolare mi uccide, Raph.” Poi si voltò verso Magnus, sorridendo. “Ciao, Magnus!” Lo abbracciò e l’uomo ricambiò, stringendola a sé.
“Come stai?”
“Bene, ero a lezione. Economia e management!” Disse fiera di sé. “Così potrò dare una mano a Raph dopo la laurea!”
“Almeno porterai un po’ d’allegria in questo posto!”
Rosa ridacchiò, mentre Raphael lo guardò male. Uno sguardo così tagliente che fu davvero un miracolo se Magnus non si ritrovò in due pezzi. 
Intenti com’erano a fissarsi – Raphael a guardarlo male, Magnus a fargli una linguaccia – non si resero conto che l’attenzione della ragazza fu attirata dal suo cellulare. Solo quando comparve un sorriso sul suo viso, Raphael capì. Vedeva quell’espressione da due settimane, ormai, e l’aveva denominata sorriso da Lightwood.
“Rosa, dobbiamo parlare.”
La ragazza alzò lo sguardo dal cellulare, un po’ preoccupata. “È successo qualcosa? La mamma estas bien?”
Raphael annuì con convinzione. “Todo bien, no te preocupes. Voglio parlarti di un’altra cosa.”
“Allora dime.”
Raphael lanciò uno sguardo a Magnus, come se avesse voluto assicurarsi che fosse ancora lì e fosse stato in grado di intervenire nel caso in cui lui perdesse il filo. Raphael non era tipo da discorsi lunghi ne tanto meno  espliciti. Di conseguenza si sentiva più sicuro ad avere vicino Magnus che, al contrario, era un maestro nell’arte oratoria, soprattutto se si trattava di discorsi lunghi. Senza contare, tra l’altro, che la sua conoscenza in materia non era esattamente esauriente dal punto di vista pratico. Raphael aveva fatto outing come asessuale da anni, ormai. Sua madre era l’unica a non saperlo, se non altro perché non sapeva come avrebbe reagito. Non era stato facile per lui, capirlo. All’inizio pensava che la sua mancanza di interesse nel sesso fosse dovuta al fatto di essere cresciuto con una donna estremamente religiosa. Pensava che dipendesse da quel concetto di astensione sessuale legato alla castità, a quel principio secondo cui il sesso viene solo dopo il matrimonio. Ma poi, quando a diciotto anni aveva avuto un rapporto completo con la sua ragazza dell’epoca, si era tolto ogni dubbio. Non dipendeva dall’educazione che aveva ricevuto o dalla sua religione. Dipendeva solo da lui. A Raphael il sesso non interessava. Aveva impiegato qualche anno ad imparare ad autodefinirsi asessuale. E mentirebbe se affermasse che parte del suo processo di accettazione verso il vero se stesso non dipendesse anche da Magnus, il quale gli aveva sempre apertamente parlato della sua bisessualità.
«Sono così, Raphael, non posso farci niente. I ragazzi a volte mi prendono in giro, ma io non li ascolto più ormai. Ho impiegato troppo tempo a capire chi sono per lasciare che degli estranei mi portino via ciò che mi rende autenticamente me stesso. Non c’è niente di male a mostrarsi per quello che si è.»
Raphael si era trovato spesso a pensare a quella frase. Ci rimuginava sopra di continuo, fino a quando non gli era entrata nel cervello e l’aveva fatta propria. Raphael era quello che era. Per questo, l’aveva detto a Magnus e a Rosa. Non a Guadalupe, però. Non era sicuro che lei avrebbe capito. Era sicuro che per parlare con sua madre gli servisse più tempo e, adesso, a trentadue anni ancora non aveva trovato le parole giuste. Rosa gli diceva sempre che non c’era fretta, che le avrebbe parlato quando avesse ritenuto lui che fosse il momento opportuno.
Rosa e Magnus l’avevano sempre capito in un modo speciale. E anche se con Magnus Raphael non era propriamente espansivo, era certo del loro legame.
Anche per questo aveva voluto il suo aiuto. Lui conosceva Rosa da quando era piccola e, soprattutto, aveva avuto più esperienze di lui in campo sessuale, dal momento che le relazioni di Raphael erano state tutte su un piano esclusivamente sentimentale.
“Dobbiamo parlare di Max.”
Rosa alzò gli occhi al cielo. “Vogliamo davvero cadere nel cliché del fratello maggiore iperprotettivo, Raph?”
“No. Voglio solo essere sicuro che tu prenda… sai… le dovute precauzioni.”
Rosa arrossì repentinamente e sgranò gli occhi. “È di questo che ti tratta?”
Raphael annuì. “Lui sembra ti piaccia, pajarito, e vorrei che tu fossi pienamente consapevole di…”
Hermano.” Lo interruppe Rosa, appoggiando una mano sopra quella del fratello. “Sono già consapevole. In realtà…” Fece una pausa e lanciò un’occhiata a Magnus. “Ho fatto le domande a tua madre, qualche anno fa.”
Magnus sbatté le palpebre. “A mia madre?”
“Sì… spero non ti dispiaccia,” Si voltò verso il fratello. “E spero non dispiaccia nemmeno a te, Raph. Madelaine non voleva scavalcare la mamma, quindi all’inizio mi ha detto che dovevo parlare con lei di qualsiasi curiosità avessi riguardante il sesso. Ma sapevo che Lupe non mi avrebbe risposto. Era troppo presto, per lei, ma non per me. Vedevo le mie amiche che cominciavano a porsi domande e a ricevere risposte. Volevo delle risposte anche io, così… mi sono rivolta a Madelaine. Mi fido di lei ed è stata veramente dolce.” Rosa guardò Raphael da sotto le ciglia. “Sei arrabbiato?”
L’uomo negò con il capo. “No, pajarito, non sono arrabbiato. Hai fatto bene a rivolgerti a Madelaine. A differenza di suo figlio, è una donna saggia.”
Magnus, a quell’affermazione, reagì lasciando un pizzicotto sull’avambraccio di Raphael, che lo trafisse con lo sguardo.
“Se reputi Magnus poco saggio, perché l’hai chiamato per darti man forte?”
Raphael guardò la sorella con stupore. “Come fai a saperlo?”
“Io ti conosco mejor de lo que piensas, hermano. E comunque non devi preoccuparti, io e Max ci stiamo ancora conoscendo.”
“D’accordo.” Annuì Raphael. “Ora puoi tornare a fissare lo schermo del cellulare e sorridere come un’ebete ogni volta che ti scrive. Dios, ora che ci penso tu e lui avete la stessa identica espressione quando ricevete un messaggio da un Lightwood!”
Rosa e Magnus si guardarono, un tantino offesi dalle parole dell’uomo, ma incapaci di negare.
“Che vuoi farci, Raphi? È così difficile non rimanere affascinati dalla loro bellezza!” Esclamò Magnus e Rosa scoppiò a ridere.
Raphael decise di arrendersi, ma di esprimere tutto il suo disappunto con un’eloquente e convinta alzata d’occhi.
“Devo andare, miei adorati Santiago.” Esordì Magnus, guardando l’ora sul cellulare. “La mia prole mi aspetta. È stato un piacere passare del tempo con voi e… Raphael, caro, sei stato eccezionale anche senza il mio aiuto.” Si voltò verso Rosa e l’abbracciò. “Ciao, mi querida.”
Rosa sorrise e ricambiò la stretta. “Ciao, hermano, e grazie. Soprattutto per sopportare Raphael.”
“Io posso sentirti, lo sai, sì?” domandò il diretto interessato, incrociando le braccia al petto.
Rosa gli mandò un bacio volante. “Lo so, per questo lo dico.”
Magnus rise e li salutò un’ultima volta, prima di uscire dall’hotel. Non avevano legami di sangue, lui e i Santiago, ma facevano parte della sua famiglia. E il fatto che Rosa lo reputasse un fratello gli faceva davvero un immenso piacere.


*


“Quattro.”
“Due.”
“Sei.”
“Che fai, anzi che diminuire aumenti? Sai come funziona una trattativa, Jace?”
“Certo che lo so: io insisto finché tu non ti arrendi.”
Alec, con il cellulare tenuto in equilibrio tra la spalla e l’orecchio, alzò gli occhi al cielo, mentre finiva di raccogliere le sue cose dalla scrivania del suo ambulatorio, sistemandole nel suo zaino. Isabelle ancora lo prendeva in giro per la sua scelta, definendolo l’unico medico che usava uno zaino anzi che una ventiquattrore per portarsi il lavoro a casa, ma lui quegli aggeggi li odiava. Trovava quelle valigette estremamente scomode e decisamente poco pratiche.
“Non funziona così.” Si alzò dalla sua seggiola girevole e si diresse verso l’attaccapanni. Si tolse il camice e lo adagiò sopra ad esso, mentre recuperava la sua giacca di pelle. “Funziona che tu dici un’assurdità, tipo farci sei drink a testa, e io che ti riporto in carreggiata.” Si sistemò lo zaino in spalla.
Jace, dall’altro capo del telefono, emise uno sbuffo. “Sei noioso, Alec. La tradizione vuole che questa sera sia quella in cui ci divertiamo. Come possiamo farlo se tu, uccisore di gioie, imponi solo due drink?”
“La tradizione è iniziata quando avevamo vent’anni, Jace. È tutto un tantino diverso, adesso.”
“Già, perché lo sanno tutti che alla soglia del trenta in pratica si ha un piede nella fossa.” Sarcasmo grondò dalla voce di Jace. “Dai, smettila di fare l’ottantenne e accetta.”
Alec, mentre si dirigeva verso l’ascensore dopo aver chiuso a chiave il suo ambulatorio, si massaggiò le palpebre. Jace aveva ragione. Avevano quella tradizione da quando erano più giovani, boxavano per un mese intero e poi sceglievano una sera del mese successivo per riscuotere il pagamento: il vincitore lasciava che il perdente pagasse da bere. Alec aveva molti ricordi legati a quelle serate, la maggior parte piacevoli, se si escludono le volte in cui la situazione era sfuggita di mano e si erano ubriacati, quindi pensò che forse suo fratello aveva ragione: era la loro serata, si dovevano divertire.
“D’accordo.” Acconsentì, quindi. “Ma i drink saranno tre.”
“Va bene, ci sto. Ci vediamo stasera!”
“A stasera!”
Alec terminò la chiamata ed entrò in ascensore. Pigiò il pulsante del piano terra e rimase in attesa. I suoi occhi erano fissi sulla lucetta che evidenziava ogni numero a mano a mano che l’ascensore scendeva di piano, quando sentì vibrare il cellulare nella tasca dei pantaloni.
Lo estrasse e sorrise inevitabilmente, quando lesse il nome del mittente del messaggio appena ricevuto.

> From: Magnus, 18.43
Com’è andata la giornata, dottore?

> To: Magnus, 18.43
Bene, se escludiamo che un bambino mi ha vomitato addosso.

> From: Magnus, 18.43
Sembra una cosa orribile, tesoro.

> To: Magnus, 18.43
Avevo il camice, quindi i danni sono stati contenuti. Non è la prima volta che mi capita, comunque. 
La tua giornata, invece?


Le porte dell’ascensore si aprirono e Alec, quindi, uscì, immettendosi nel pronto soccorso. Vide Catarina al suo solito posto, così la salutò – lei, immersa nel lavoro, ricambiò con un sorriso. Nonostante tutto, Catarina era sempre solare.
Una volta in strada, Alec tornò a prestare attenzione al suo cellulare, mentre si incamminava verso la fermata della metro.

> From: Magnus, 18.45
Niente vomito per me, se è quello che ti preoccupa. Ho avuto una lezione particolarmente intensa però. Sapevi che le adolescenti sono restie ad ascoltare?

Alec sorrise, mentre leggeva quel messaggio. Concentrato com’era sul suo telefono, tuttavia, non si accorse del lampione piazzato in mezzo alla strada e andò a finirci contro, urtandolo con una spalla.
“Ahi,” si lamentò, prima di decidere che forse era meglio smettere di tenere gli occhi incollati al cellulare. Compose il numero di Magnus e rimase in attesa.
“Tesoro.” Rispose al secondo squillo.
“Ehi, ti ho chiamato perché… sono finito contro un lampione,” confessò Alec, vergognandosi anche un po’, “E non volevo ripetere l’esperienza.”
Magnus ridacchiò. “Stai bene?”
“Sì, sto bene.”
“Non vorrei mai che i miei messaggi ti causassero danni fisici, tesoro. Rovinare il tuo corpo sarebbe come scarabocchiare un Monet con un pennarello indelebile.”
Alec sentì chiaramente le guance accaldarsi, mentre il suo cuore faceva una capriola. “È un modo per dirmi che non ti dispiace ti abbia chiamato?”
“Puoi chiamarmi tutte le volte che vuoi.”
Alec si mordicchiò il labbro inferiore con gli incisivi. Era una sua impressione o la voce di Magnus sembrava fatta di velluto?
Deglutì, cercando di non immaginarsi il sorriso di Magnus, che era sicuro era accompagnato a quelle parole. O qualsiasi dettaglio di Magnus in generale. Non voleva distrarsi troppo e rischiare di finire di nuovo contro qualcosa.
“Non ti hanno ascoltato, quindi?” domandò, riprendendo il discorso che stavano facendo prima che Alec urtasse un lampione come un vero re degli imbranati, e scese le scale che l’avrebbero portato alla sua fermata.
“No, sono dannatamente testarde!”
Alec ridacchiò. “Non è un cliché della fase adolescenziale? Ribellarsi a qualsiasi figura con un po’ di autorità?”
“Potresti avere ragione.” Magnus fece una pausa. “E se dovesse toccare anche ad Erin? Se si ribellasse e cominciasse ad odiarmi?”
Alec era fermo al suo binario, in attesa del suo treno. “Non succederà, Magnus. Tua figlia ti adora e in più…” Ritrasse la labbra all’interno della bocca, quasi stesse trovando il coraggio di finire quella frase.
“In più…?” Lo spronò quindi Magnus.
“In più è impossibile odiarti. Sei…” meraviglioso, pensò ma non ebbe il coraggio di dirlo, “…Un bravo papà.”
Si sentì improvvisamente un codardo. E avvertì anche quei suoi buoni propositi, che gli erano balenati alla mente durante la festa di Halloween, andare in fumo. Aveva pensato di fare dei piccoli passi, qualcosa che assomigliasse anche lontanamente ad una prima mossa, e invece con quella frase aveva fatto circa dieci passi indietro. Avrebbe potuto dirgli la verità. Dire che lo riteneva meraviglioso, che chiunque lo apprezzava perché era impossibile non farlo.
Ma no, Alec aveva dovuto fare il solito Alec e avere paura dei suoi sentimenti. Iniziava a detestare questa parte di sé, questo suo continuo farsi condizionare da ciò che era successo. Aveva già appurato che Magnus non era William, allora perché non riusciva a lasciarsi andare? Perché il dolore che aveva provato era stato troppo forte. E un anno può essere tanto tempo, in determinate circostanze, ma un battito di ciglia in altre. E questo era il caso di Alec. Era passato solo un anno dalla sua ferita, da quel senso di tradimento e abbandono. Stava meglio, certo, ma non era ancora riuscito a digerire che quattro anni della sua vita erano stati tutta un’enorme bugia al fianco di qualcuno che si era preso gioco di lui e dei suoi sentimenti.
“Apprezzo molto che tu lo dica e mi rincuora sentire certe cose.”
“È solo la verità. Non ti direi mai qualcosa che non penso.”
Questo era vero. Alec poteva avere difficoltà a dire certe cose, ma qualsiasi parola avesse lasciato la sua bocca sarebbe sempre stata verità. Sapeva come ci si sentiva, quando si veniva ricoperti di bugie e lui non aveva intenzione di infliggere quel dolore ad un altro essere umano.
“Vedi che ho ragione? Sei uno zuccherino, sotto ogni punto di vista.”
Alec non riuscì a trattenere un sorriso. Il suo treno arrivò e, quando si fermò, aspetto che le altre persone scendessero prima di salire. Scelse di rimanere in piedi, dal momento che erano solo tre fermate per arrivare alla sua.
“Dove sei?” gli domandò Magnus, sentendo vari rumori dall’altro capo del telefono.
“In metro. Sto tornando a casa.”
“Ti aspetta una serata tranquilla?”
“In realtà non lo so. Mi vedo con Jace, più tardi, e con lui si sa come si inizia ma non come si finisce.”
Magnus ridacchiò. “Clary e Maia mi hanno parlato della vostra tradizione, dopo gli incontri. Chi ha vinto, questo mese?”
“Io, il che renderà il prossimo mese un inferno perché, ovviamente, vorrà essere Jace il vincitore.”
“Digli di non mirare al viso, tesoro, o dovrà vedersela con me.”
Alec rise. “Glielo dirò.”
“Bene, sono più tranquillo, adesso.” Magnus fece una pausa e Alec si chiese perché. Tuttavia, quando Magnus pronunciò le parole successive, Alec dedusse che quella pausa gli era servita per guardare l’ora: “Devi scusarmi, Alexander, ma devo andare. Erin deve fare il bagnetto.”
“Non scusarti. Anzi, salutamela.”
“Sicuramente. Buona serata, tesoro.”
“Grazie. Ci sentiamo domani.” Alec lo disse di getto e fu felice di sentire che quella richiesta venne volentieri accolta da Magnus.
“Certamente.”
Alec sorrise. “Ciao.”
“Ciao.”
Alec impiegò qualche secondo a chiudere la chiamata, così come Magnus. Quei saluti rimasero sospesi per un po’, quasi come se entrambi avessero voluto lasciare all’altro qualche istante nel caso avesse voluto dire qualcosa, o per far durare qualche secondo di più quella chiamata, quasi non volessero accertarne la fine. Tuttavia, però, la fermata di Alec lo costrinse a riattaccare definitivamente.
Scese dal treno e si diresse verso casa con il sorriso sulle labbra. Era l’effetto Magnus, ovviamente, a farlo sentire in quel modo.


*


Quando aveva detto che con Jace sapeva quando, e soprattutto come, si iniziava, ma non sapeva quando, e come, finiva, Alec non aveva mentito.
Il piano iniziale prevedeva di vedersi all’Hunter’s Moon, farsi qualche drink in tranquillità e tornare a casa.
Alec non aveva mai sottovalutato la questione come quella sera. Jace, infatti, era determinato a rispettare la scommessa, ma dal momento che toccava a lui pagare, era convinto che gli spettasse anche il diritto di dettare le regole. Regole che prevedevano per la maggior parte il caos più totale.
Era tipico di suo fratello, se ci pensava. Jace non era mai stato il tipo che le rispetta troppo, le regole. Il che rendeva estremamente sensato il fatto che si fosse celato dietro alla scusa di imporne qualcuna solo per poi infrangerla. Sapeva che Alec, a differenza sua, consapevole che avrebbero avuto dei limiti, imposti appunto da qualche regola, si sarebbe rilassato, cullandosi nella falsa speranza che si sarebbero dati una calmata.
Ovviamente Jace si era preso gioco di lui.
E l’aveva fatto ubriacare.
Alec aveva perso il conto dei bicchieri che aveva buttato giù. Uno e poi basta, continuava a dire Jace. E tutte le volte che Alec gli diceva che quello era davvero l’ultimo, lui ribatteva dicendo che spettava al perdente della serata decidere quando sarebbe stato l’ultimo.
Alec non ricordava quella regola, (che tra l’altro, per come la vedeva lui, era totalmente priva di senso), ma ottenebrato dall’alcol come era, trovava difficile persino ricordarsi il suo nome, quindi non era sicuro che il suo cervello fosse affidabile.
Arrivati a questo punto, l’unica cosa che gli sembrava sensata era andare da Maia e chiederle altri drink.  
Barcollò fino al bancone, dove si appoggiò con la grazia di un facocero, e attirò l’attenzione dell’amica.
“MAIA!” Esclamò, ma in realtà ciò che uscì dalla sua gola fu più che altro un grido. Era una sua impressione o le persone dentro a quel bar erano particolarmente rumorose? Non potevano abbassare un po’ la voce e avere un po’ di rispetto per qualcuno che voleva bere in santa pace? Non gli sembrava di chiedere molto.
Solo del sano silenzio, in modo che avrebbe potuto bere il suo drink in tranquillità.
“MAIA!” La chiamò ancora e il tizio che stava vicino a lui in attesa di un drink lo guardò malissimo, tappandosi un orecchio. Alec lo guardò altrettanto male – come si permetteva, poi, di guardarlo in quel modo e di fargli capire che lo trovava fastidioso? Lui era fastidioso, soprattutto con quella maglietta orrenda piena di pappagalli. Quale essere umano normale trova di buon gusto una camicia con i pappagalli?
Il suo pensiero andò a Magnus.
Lui di certo non si sarebbe mai messo un simile obbrobrio. Magnus era un uomo di classe e pieno di buon gusto, si vestiva sempre con roba costosa e di alta qualità. Era una specie di guru della moda, quindi Alec pensò di essere in dovere di informare qualcuno che di moda se ne intende (Magnus), che qualcun altro (il tizio vicino a lui) dentro a quel bar, stava commettendo un crimine.
Sì, all’Hunter’s Moon c’era un criminale e Alec l’aveva appena smascherato. Ma non aveva autorità su di lui, perché lui non era un guru dell’alta moda, protettore di capi pregiati.
Ma Magnus sì, quindi se Alec l’avesse informato, lui avrebbe potuto raggiungerlo al bar, far valere la sua autorità e denunciare quello scellerato dalla camicia verde piena di pappagalli rossi.

> To: Magnus, 22.57
Cè un tzio con una camcia orrenda. Pesno dovretsi intervnire.

Perché le lettere si muovevano, dannazione? Non potevano stare ferme così da permettergli di informare chi di dovere che stava avvenendo un crimine?
Alec inviò il messaggio. Almeno la freccia dell’invio stava ferma, aiutandolo ad adempiere il suo compito.

“Alec, santo cielo, hai finito di urlare?”
Alec alzò gli occhi dal suo cellulare e sorrise, quando riconobbe Maia.
“Hai una ruga in mezzo agli occhi che ti fa sembrare cattiva. Sei arrabbiata con me?” Si sporse sul bancone, allungando un braccio verso l’amica per accarezzarla. Non ci riuscì come aveva immaginato, perché le sue dita sfiorarono a malapena il viso della ragazza. “Non essere arrabbiata con me Maia, io ti voglio bene.” Alec abbandonò la sua impresa e, barcollando, si diresse direttamente nella parte di bancone che permetteva di andare sul retro di esso, nella postazione riservata ai baristi. Maia gli andò in contro, cercando di bloccarlo. Fu inutile, ovviamente, perché per quanto Maia potesse essere forte, Alec la sovrastava con la sua corporatura e altezza. La abbracciò.
“Non devi essere arrabbiata con me.” Le lasciò un bacio sui capelli, prima di accarezzarle i ricci.
“Non lo sono.” Disse lei, ricambiando quell’abbraccio e dandogli una pacca sulla schiena. “Tu invece sei ubriaco. Dovresti smettere di bere.”
Alec sciolse repentinamente quel contatto, separandosi da lei. “NO!” Esclamò, mettendo il broncio come un bambino a cui è appena stato tolto il giocattolo preferito. “Voglio bere! Devo festeggiare! Ho vinto io, lo sai? E poi devo dimostrare a Jace che non sono un ottantenne. Tu pensi che sia vecchio dentro?”
“No, Alec, non lo penso.”
Alec si guardò intorno (tutto era così sfuocato, accidenti!) e poi guardò di nuovo l’amica. Le sorrise, anche se aveva l’impressione di non sentirsi più le guance, quasi come se i suoi muscoli facciali si fossero addormentati.
“Le mie guance russano?”
Maia lo guardò perplessa. “Cosa hai detto?” Alzò un sopracciglio.
“Se le mie guance russano!” Esclamò lui, come se fosse la cosa più normale del mondo. “Mi sa che mi si è addormentata la faccia.”
Maia si passò una mano sul viso e fece appello a tutta la sua pazienza. “Alec, le tue guance non russano. Sei solo… ubriaco. Molto ubriaco.” Lo accompagnò fuori dal bancone e fece cenno ad uno dei suoi colleghi di sostituirla un attimo. Portò Alec in uno dei tavoli liberi e lo fece sedere. “Devi bere  un po’ acqua, adesso.”
Alec, seduto al tavolo, appoggiò la schiena allo schienale della sedia e incrociò le braccia al petto. “NO!” Esclamò, mettendo il broncio, di nuovo. “Non voglio l’acqua. Ti prego, l’ultimo poi basta.”
“Un bicchiere ancora e ti troverò svenuto sul tavolo da biliardo!” Rispose Maia, con decisione. “Tu berrai dell’acqua, io troverò quel disgraziato di tuo fratello, poi vi chiamerò un taxi e porterete i vostri culi bianchi a casa.”
“Dire culi bianchi è un po’ razzista.” Biasciò Alec. “Ma…” Alzò un indice, come se avesse avuto un pensiero importante. “In effetti il mio culo è bianco. Non razzista, però.” Alec negò forte con il capo. “No, no. Il mio culo non è per niente razzista.”
“Lo so, Alec.” Lo assecondò, anche se quel discorso non aveva completamente senso. “Ora, aspettami qui. Torno subito. Non muoverti.”
“Non mi muovo, capo!”
Maia sospirò e si diresse nuovamente verso il bancone. Prese un bicchiere d’acqua e lo portò ad Alec. “Bevilo.” Gli disse, piazzandoglielo sotto al naso. “Vado a cercare Jace.”
Alec annuì e la guardò sparire tra la folla. Si guardò intorno e notò di nuovo il tizio con la camicia orrenda. Il che gli fece ritornare in mente la sua missione. Maia poteva anche averlo distratto – che fosse anche lei una complice del tizio-pappagallo? – ma lui era un uomo che prendeva seriamente i suoi oneri di buon cittadino. E un buon cittadino informa sempre le autorità quando assiste ad un crimine.

> To: Magnus, 23.13
La camcia con i pappagalli. È brutta. Lo so che pesni sia brutta preché tu ti vetsi sempre bne. Quidni è cme un crimne e io devo infomrarti dei crimini contro la moda. Preché sei un guru.

Alec inviò.
Poi pensò di dover aggiungere un’altra verità.

E sei bellissimo.
Vorrei che fssi qui, preché ti pesno da oggi.
Nessno potrebbe odiatri preché sei meraviglioso. Io lo so.


Alec fissava il cursore della chat che lampeggiava, quasi fosse in attesa di veder scritte altre verità. Verità che solo una buona dose d’alcol era riuscita a fargli scrivere.

“Ho chiamato Izzy.”
La voce di Maia, tuttavia, lo costrinse a lasciare perdere il suo cellulare e a portare l’attenzione su di lei. Teneva Jace sotto braccio e lo stava aiutando a sedersi.
“Barcolli come un ubriaco, Jace.” Gli fece notare e il biondo rise.
“Perché sono ubriaco. E anche tu lo sei.” Soffiò ad un centimetro del viso del fratello. “Maia me l’ha detto.”
Alec si voltò verso l’amica, sentendosi tradito. “Non sono ubriaco!”
“Sì, lo sei. Tutti e due lo siete. Quindi starete buoni qui e aspetterete Izzy.”
Entrambi incrociarono le braccia al petto, risentiti. “Izzy è cattiva.” Disse Jace.
“Ci farà la predica.” Finì Alec.
“Userà quel tono di rimprovero severo come quello che usava la mamma. Ti ricordi, Alec?”
“Mi ricordo la mamma e la voce grossa delle sgridate.” Alec fissò il vuoto. “Non era bello essere sgridati.”
Jace negò con forza. “Per niente.” E seguì lo sguardo di Alec, rimanendo incantato a guardare il nulla pure lui.
Maia sospirò. “Immagino, ragazzi.” Li assecondò, paziente. “E mi dispiace, ma adesso devo tornare a fare il mio lavoro. Voi state qui, d’accordo?”
Entrambi annuirono. Maia lanciò loro un’altra occhiata apprensiva, prima di tornare dietro al bancone a servire i clienti. Li tenne d’occhio finché non vide Isabelle comparire dalla porta. Era struccata e indossava tuta e scarpe da ginnastica.
“Ho fatto prima che ho potuto.” Si giustificò, quando raggiunse il bancone. “Dove sono?”
Maia le indicò il tavolo dove aveva parcheggiato gli amici. “Laggiù. Buona fortuna. Alec diventa particolarmente eloquente, quando è ubriaco.”
“L’alcol gli toglie i freni inibitori.” Concordò Izzy. “Grazie Maia.” Le sorrise.
“Non è stato un problema. Non li avrei mai lasciati a loro stessi, non in quelle condizioni!” Sorrise di rimando.
Le due si salutarono e poi Isabelle si diresse verso il tavolo indicatole da Maia per recuperare i suoi fratelli.



Alec si svegliò con un mal di testa atroce e la parte sinistra del corpo addormentata. Il braccio gli formicolava così tanto che per un attimo fu sicuro di doverselo amputare. Quando poi sbatté le palpebre, abituando gli occhi alla luce del sole, e riuscì a mettere completamente a fuoco ciò che lo circondava, si rese conto che si trovava in camera sua: la luce filtrava dalle tende appena scostate e Jace era la causa della sua mancata circolazione. Suo fratello era rotolato nella sua parte di letto e lo stava usando come cuscino umano.
“Jace!” Sussurrò con convinzione, togliendoselo di dosso. L’altro rotolò di nuovo nel suo lato di materasso e gli rispose con un grugnito. “Jace!” Provò di nuovo, scuotendolo con vigore.
“Agitami in questo modo ancora una volta e ti vomito addosso.” Bofonchiò il biondo, scorbutico, tenendo gli occhi chiusi e rifiutandosi di svegliarsi del tutto. “Credo di essere ancora ubriaco.”
Alec poteva capirlo. Aveva in bocca un sapore di morte e pestilenza che gli faceva venire voglia di rimettere – e di rinunciare all’alcol per il resto dei suoi giorni. La testa gli pulsava così forte che aveva l’impressione di averla infilata dentro ad una morsa e che ci fosse qualcuno che stringesse quell’affare con la sola intenzione di fargli saltare le cervella. Si mise seduto con grandissima fatica e rimase a fissare il nulla. Non ricordava come erano arrivati a casa sua, ne tanto meno come avessero fatto ad arrivare fino al suo letto e addormentarsi lì. Alec aveva ancora i vestiti della sera precedente addosso, erano stropicciati e avevano un odore orribile, un misto di gin e sudore che gli fece venire voglia di bruciarli piuttosto che metterli in lavatrice, consapevole che nemmeno dieci lavaggi avrebbero cancellato quella puzza. Si alzò dal letto, scostando i vari plaid sotto cui era sotterrato – non erano andati sotto al piumone vestiti, notò, e questo lo rincuorò parecchio perché non aveva nessuna voglia di cambiare anche le lenzuola.
Uscì dalla sua stanza, lasciando Jace addormentato sul suo letto, e si chiuse la porta alle spalle. Si sarebbe fatto una doccia lunga dieci secoli e poi, forse, avrebbe provato a ricostruire i passi della sera prima.
Ma prima, aveva bisogno di un caffè da sei litri e di un’aspirina. Si diresse, scalzo, verso la cucina con tutta l’intenzione di seguire il suo piano, ma una figura lo spaventò.
“Ma che caz- Izzy!” Esclamò e il tono acuto della propria voce fu una tortura per il suo mal di testa.
“Buongiorno anche a te, fratellone!” Disse la ragazza, mentre adagiava due tazzone di caffè su un vassoio. “Ti sei svegliato, vedo. Stavo per venire a farlo io.”
Alec prese una delle due tazze e l’abbracciò con tutte e due le mani. Annusò il profumo invitante del caffè prima di berne un sorso.
“Grazie, Iz.” Le disse. “Ci hai riportati a casa?”
La ragazza annuì. “Ci siamo fatti una bella dormita nel tuo letto come quando eravamo bambini. Con la differenza che adesso tu e Jace siete decisamente più ingombranti. Ed è difficile gestirvi, quando siete ubriachi. Ho dovuto usare la voce grossa più di una volta, per rimettervi in riga.”
Alec si grattò la nuca, imbarazzato. “Scusa, le cose sono un po’ degenerate, ieri sera.”
“Ho notato. Siete due idioti, lo sapete vero?” Izzy lo guardò con una ruga tra le sopracciglia, lo sguardo serio e severo.
“Lo so.” Alec bevve un sorso del suo caffè e il suo stomaco fece una capriola, probabilmente non ancora desideroso di ricevere altri liquidi. Ad Alec venne la nausea. Era una tortura non poter bere caffè. “Se ti può rincuorare, penso sia l’ultima sbronza della mia vita.”
Izzy emise un verso di scherno dal naso e lo guardò come se la sapesse lunga. “Non è vero, e lo sai. È tipo un ciclo lunare: ogni tot di tempo vi viene voglia di esagerare e vi riducete in questo modo. Per fortuna non vi comportate così ogni mese.”
“Già, per fortuna.” La testa di Alec pulsava ad ogni parola. “Dio, sono sicuro che sto per morire.”
“Non essere melodrammatico, fratellone. Bevi un altro po’ di caffè e prendi un’aspirina, vedrai che starai meglio.” Gli sorrise, prendendo l’altra tazza dal vassoio e superandolo per dirigersi verso l’uscita della cucina. “Ah, e fatti una doccia. Puzzi di morte.” Aggiunse, prima di uscire dalla stanza, sicuramente per portare il caffè a Jace.
Alec non poteva darle torto, comunque. Aveva disperatamente bisogno di una doccia. Bevve un altro po’ di caffè, prendendolo a piccole dosi così che il suo stomaco si abituasse nuovamente ad essere riempito. La nausea iniziale era sparita e Alec lo reputò un buon segno.
Si appoggiò al bordo del tavolo della cucina, godendosi il silenzio. Era un toccasana per il suo mal di testa e immediatamente si rilassò. Si promise, tuttavia, di non ripetere un’esperienza simile. Non reggeva più le sbronze come quando aveva vent’anni e probabilmente quello era il modo che aveva il suo corpo per comunicarglielo.
Sospirò, finendo il suo caffè e dirigendosi verso il lavandino per lavare la tazza. Dopo averla lavata e riposta nella credenza, sentì la vibrazione del suo cellulare. Impiegò qualche secondo a capire che ce l’aveva ancora nella tasca dei pantaloni, dove l’aveva lasciato la scorsa sera.

> From: Magnus, 10.13
Credo che qualcuno abbia bevuto un po’ troppo, la scorsa sera.
Come sta andando con i postumi? Hai bisogno di qualcosa?


Alec corrugò la fronte, leggendo quel messaggio, ma poi un flash di ricordi invase la sua mente e scorse con il pollice per leggere i messaggi precedenti. Trovò tutto ciò che aveva scritto a Magnus – e che invece era convinto di aver solo pensato nei suoi vari vaneggiamenti da ubriaco – e provò un feroce senso di imbarazzo. Gli aveva scritto ciò che pensava da quando l’aveva conosciuto, in pratica: ovvero che lo trovava bellissimo e meraviglioso. Due cose estremamente vere, ma anche molto compromettenti se la persona in questione è un tuo amico e per ora deve rimanere tale. Il fatto che Alec avesse capito di provare dei sentimenti per Magnus non stava a significare che l’altro dovesse necessariamente saperlo. Ma ovviamente, Alec-ubriaco non la pensava come Alec-sobrio.
“Merda,” Sussurrò a denti stretti. “Merda-merda-merda.” Fissò il cursore della chat che lampeggiava. Rimase con i pollici sospesi sulla tastiera, con l’intenzione di sfiorare le lettere e scrivere una risposta che avesse senso. Ma non la trovò. L’unica cosa che poteva avere senso era spiegare a Magnus che iniziava a provare qualcosa per lui e Alec non era ancora pronto per questo. Così chiuse la chat e bloccò lo schermo del cellulare, che appoggiò sulla superficie del tavolo, resistendo all’impulso di scagliarlo a terra.
Era stato un idiota. E adesso si sentiva talmente in imbarazzo che era quasi convinto non sarebbe più riuscito a guardare Magnus in viso.
Sospirò, fissando il telefono, abbandonato ed inerme, sul tavolo. Le parole di quel messaggio gli tornarono in mente. Magnus, in ogni caso, aveva fatto finta di niente. Non aveva dato peso alle parole di Alec, le aveva semplicemente trattate come i vaneggiamenti di un ubriaco, altrimenti avrebbe risposto a quelle dichiarazioni e non avrebbe semplicemente evidenziato che qualcuno aveva bevuto troppo. E poi era passato subito a parlare dei postumi della sbronza, quindi forse se non aveva risposto alle dichiarazioni di Alec era perché non gli interessavano, o perché pensava fossero semplicemente pensieri senza senso pronunciati da qualcuno che aveva il cervello immerso nell’alcol.
Alec era confuso: non sapeva se rimanerci male per questa sua deduzione, o esserne sollevato. Se avessero fatto finta entrambi che quei messaggi non erano mai stati scritti, il loro rapporto sarebbe rimasto invariato, uguale. E ad Alec piaceva davvero tanto il rapporto che avevano.
Ma il fatto che Magnus avesse volutamente ignorato le parole di Alec, significava che anche lui non voleva che il loro rapporto mutasse e questo stava a significare che non voleva altro da lui se non amicizia?
Alec non lo sapeva. E non sapeva nemmeno perché improvvisamente non sapeva più quello che voleva, soprattutto perché tutto gli sembrava un controsenso: era lui stesso il primo a volere che le cose non cambiassero, ma allo stesso tempo desiderava che Magnus le facesse cambiare perché anche Alec, in cuor suo, voleva che cambiassero.
Era un controsenso, un pensiero confusionario dominato solo dall’indecisione e dall’insicurezza. Fissò ancora il suo cellulare, prima di abbandonare definitivamente l’idea di rispondere a quel messaggio. Piuttosto, uscì dalla cucina e si diresse verso il bagno, dove avrebbe fatto la doccia che tanto sentiva il bisogno di farsi.
Era tornato il solito Alec, pensò con amarezza. L’Alec che si faceva scegliere e non aveva il coraggio di fare la prima mossa. Si sentì avvilito e quasi senza speranze. Chissà se un giorno avrebbe davvero avuto il coraggio di cambiare. Chissà se un giorno avrebbe ritrovato la forza e la sicurezza delle quali Will lo aveva privato.
Chissà se un giorno Alec sarebbe riuscito a rimpadronirsi di quella parte di se stesso che Will gli aveva strappato via e che aveva calpestato.


Uscito dal bagno, avvolto nel suo accappatoio e con i capelli ancora bagnati, Alec si diresse in camera sua per prendere dei vestiti puliti. Aveva gettato quelli che aveva addosso in lavatrice e forse aveva usato più detersivo del necessario per  lavarli, ma questi erano dettagli. Una volta aperta la porta della sua camera, trovò Isabelle e Jace sdraiati sul suo letto, uno vicino all’altra, a guardare qualcosa sul tablet – di Alec, ovviamente.
Entrambi avevano la schiena appoggiata alla testiera del letto e fissavano lo schermo che avevano sistemato al centro del materasso. Jace stava ancora bevendo la gigantesca tazza di caffè che Izzy aveva preparato.
“Come mai con lei non sei scorbutico?” Domandò Alec, dirigendosi verso il suo armadio.
“SSSHHHH!!” lo zittirono entrambi. Alec capì l’antifona e afferrò dei vestiti a caso: maglietta e pantaloni di una vecchia tuta, poi si abbassò verso il cassetto che stava alla base del suo armadio e afferrò un paio di boxer. Continuando il mutismo che gli era stato imposto, uscì dalla sua camera e si diresse di nuovo verso il bagno per cambiarsi. Si tolse l’accappatoio e lo sistemò al suo solito posto, in un gancio attaccato al muro vicino alla vasca da bagno. Si vestì velocemente, si asciugò i capelli con altrettanta velocità con un colpo di phon e infine si lavò i denti. Due volte perché non voleva rischiare nemmeno lontanamente che quel sapore amaro gli rimanesse in bocca.
Con il mal di testa che ancora pulsava feroce, Alec aprì lo sportello del mobiletto dei medicinali che stava proprio sopra al lavandino in cui si era appena lavato i denti. Prese la confezione di aspirina e ne estrasse una, che ingoiò senza problemi. Ne estrasse una seconda da portare a Jace e poi uscì dal bagno.
Percorse la poca distanza che separava il bagno dalla sua camera ed entrò di nuovo. Senza dire una parola, si sistemò sul letto, vicino ad Izzy e allungò l’aspirina a Jace, che l’afferrò, ringraziandolo.
Alec, a quel punto, prestò finalmente attenzione al tablet: stavano guardando New Girl e Alec sorrise, perché ricordava bene quando Izzy li aveva quasi costretti a guardarla con lei e alla fine si erano appassionati pure lui e Jace. Erano alla terza stagione e appena avevano un po’ di tempo libero, si riunivano per guardarla insieme. E dal momento che Alec non avrebbe cominciato a lavorare prima di sera, il turno di Izzy sarebbe cominciato alle tre del pomeriggio e Jace aveva il giorno libero, quello era il momento adatto per guardarsi qualche episodio. Alec era sicuro che Jace avesse già chiamato Clary per informarla di dove fosse, anche se ormai la rossa conosceva l’andamento. Nei casi in cui la situazione degenerava, come la sera precedente, Jace si fermava sempre a casa di Alec. Per fortuna, comunque, non capitava spessissimo.
“Avreste dovuto aspettarmi.” Sussurrò Alec, sistemandosi meglio, mentre Izzy gli faceva spazio.
“Ci stavi mettendo una vita a farti la doccia, così abbiamo deciso di cominciare.” Rispose Jace.
“Sono commosso dalla vostra gentilezza.” Ribatté Alec, sarcastico. Isabelle ridacchiò e, dopo aver messo pausa, gli raccontò velocemente la parte di episodio che si era perso. In pratica, quasi tutto, ma Alec non lo fece notare e rimase ad ascoltare la sorella.
Nei momenti in cui si sentiva perso, quelli in cui si sentiva inadatto e inadeguato, dove gli sembrava di essere un caos ambulante che si nutre di insicurezze, vivere attimi simili lo aiutava sempre un po’ a ritrovare se stesso. Jace ed Izzy lo aiutavano dall’alba dei tempi, anche quando non sapevano di farlo: a volte, come in quell’istante, bastava solo la loro presenza a far tranquillizzare Alec.


*


Giovedì, il terzo di novembre, ore 18.00. Alec era appena entrato nel suo palazzo e aveva notato che l’ascensore era guasto. Perfetto, pensò sarcastico, quattro piani di scale, che vuoi che sia!
Il suo nuovo appartamento, quello in cui viveva da quando era tornato da Haiti, si trovava al quarto piano. Prima della sua partenza, aveva annullato il contratto di affitto dell’appartamento precedente perché c’erano troppi ricordi. Voleva evitare qualsiasi luogo gli ricordasse Will, di conseguenza aveva deciso che lasciare il posto dove aveva vissuto quella storia d’amore finita in un disastro fosse un bene, per lui.
Poi, circa due mesi prima del suo ritorno, durante una delle chiamate via Skype, Izzy l’aveva informato che aveva trovato un appartamento perfetto per lui.
«Stai per tornare, giusto? Quindi mi sono presa la libertà di trovarti un posto in cui vivere, quando tornerai in patria.»
La verità era che Isabelle si era data tanto da fare a trovargli un appartamento perché temeva che, senza una casa a cui fare ritorno, Alec avrebbe prolungato la sua permanenza ad Haiti.
Alec la conosceva abbastanza da saperlo, ma non gliel’aveva mai fatto notare. Si era semplicemente limitato a ringraziarla e a prendere in considerazione l’appartamento, nel quale adesso viveva.
Continuò a salire e l’improvviso brontolio del suo stomaco gli ricordò che il suo pranzo era stata una barretta ai mirtilli presa al distributore automatico tra una visita e l’altra. Con l’arrivo dell’inverno i bambini si ammalano con una facilità disarmante. Aveva perso il conto delle gole rosse che aveva visto durante il giorno.
Ultima rampa di scale. Era finalmente arrivato al suo piano, il che stava a significare che appena messo piede nel suo appartamento, avrebbe potuto sfamare il suo stomaco e smettere di farlo brontolare.
Un imprevisto, tuttavia, lo informò che il destino non la pensava come lui.
“Magnus.” Balbettò, stupito.
Un imprevisto bellissimo, si sentiva di dire, ma non appena i loro occhi si incrociarono Alec provò una cosa che non aveva mai provato stando insieme a Magnus: imbarazzo. Riusciva solo a pensare all’ultimo messaggio che gli aveva mandato e improvvisamente ebbe voglia di sotterrarsi.
Magnus si staccò dal muro al quale era appoggiato e gli si avvicinò. Indossava un cappotto color vinaccia, lungo fino al ginocchio e aperto su una camicia color avorio, che aveva dei ricami dorati. Indossava dei pantaloni dello stesso colore del cappotto, aderenti e infilati dentro ad un paio di anfibi neri, i cui lacci erano pieni di brillantini scuri.
Era bello da togliere il fiato e Alec improvvisamente ebbe la sensazione che la sua spina dorsale fosse fatta di burro.
“Allora ti ricordi di me.” Cominciò Magnus, fermandosi di fronte a lui. Aveva gli occhi truccati con dell’eyeliner puntellato di glitter. “Questo significa che mi stai ignorando volutamente.”
“Magnus…” Iniziò Alec, dispiaciuto. Era vero. Non parlava con Magnus da due giorni. Non aveva risposto al suo messaggio e non gliene aveva mandati altri. Non si erano nemmeno sentiti per telefono e, da quando si conoscevano, telefonate e scambi di messaggi durante la giornata erano diventati la normalità per loro. “Io…” prese un profondo respiro per trovare il coraggio di dire la verità, “Io mi sentivo in imbarazzo. Quel messaggio…”
Magnus lo zittì gentilmente, alzando l’indice anellato ad altezza delle sue labbra, ma senza toccarle. “Alexander. Se ti avessi evitato ogni volta che ti ho fatto un complimento, non saremmo nemmeno dovuti diventare amici, non trovi?”
Alec si sentì un idiota. Il fatto che avesse capito di provare qualcosa per Magnus l’aveva destabilizzato al punto da non rendersi conto che, forse, stava esagerando. Magnus gli faceva complimenti di continuo, gli aveva persino detto che lo trovava fantastico, e non si era mai tirato indietro. Non l’aveva mai evitato. Anzi, era sempre stato piuttosto esplicito e questo mai aveva creato degli imbarazzi tra di loro – certo, Alec arrossiva ogni volta che Magnus gli diceva una carineria, ma questo perché era un disastro ambulante che non sapeva reagire ai complimenti.
Era stato sciocco reagire in quel modo, da parte sua. Dire a Magnus che lo trovava bellissimo non era una dichiarazione dei suoi sentimenti, era semplicemente un dato di fatto. Alec aveva capito, passando prima attraverso la moltitudine delle sue insicurezze, che per capire effettivamente cosa sarebbero potuti diventare, doveva buttarsi un pochino anche lui. Non poteva continuare a pretendere che fosse sempre Magnus a fare i primi passi, doveva muoverli anche lui, perché solo in quel modo avrebbero capito se da amici potevano diventare qualcosa di più.
“Hai ragione.”
“Certo che ho ragione, girasole.”
Alec sorrise. “Mi dispiace. E mi dispiace anche di averti mandato quei messaggi strani.”
“In realtà li ho trovati divertenti. È bello sapere che mi ritieni un guru della moda. Oltre che bellissimo e meraviglioso.”
Alec arrossì, nonostante tutto. “Diciamo che ti ho solo detto cose che sai già.”
“Ma è comunque bello sentirsele dire.” Magnus gli accarezzò delicatamente una guancia arrossata. “Ora, visto che siamo tornati alla normalità, devo dirti una cosa.”
“Entriamo e ne parliamo con calma?” Alec indicò la porta di casa sua. Magnus annuì e insieme percorsero la breve distanza che li separava dall’appartamento di Alec.


“Devo preoccuparmi?” Domandò Alec, una volta varcata la soglia del suo appartamento, mentre si toglieva il giubbotto.
“No, cioccolatino.” Magnus lo imitò, togliendosi a sua volta il cappotto e appoggiandolo all’attaccapanni vicino alla porta, proprio dove lo stava sistemando Alec. “Volevo solo parlare con te di una cosa che mi riguarda.”
“Questo non mi aiuta a non preoccuparmi, Magnus.”
Alec percorse il piccolo corridoio che separava l’ingresso dal resto della casa, e Magnus lo seguì: il salotto e la cucina erano quasi del tutto comunicanti, separate solo da un mezzo muretto basso. Non c’era la porta, quindi si poteva dire che fossero quasi la stessa stanza.
Nella parte del salotto, comunque, si trovava un divano in pelle nera, largo e dall’aspetto comodo; davanti ad esso ci stava una televisione attaccata al muro. Vicino alla tivù, si trovava un mobile che arrivava quasi a toccare il soffitto, nel quale si trovavano una moltitudine di libri e DVD. In fondo alla stanza, sotto all’ampia finestra, c’erano degli scatoloni ammucchiati, alcuni già aperti e svuotati, alcuni ancora imballati.
La casa di Alec, per quello che poteva dire Magnus da ciò che adesso aveva sotto gli occhi, rispecchiava molto la sua personalità: era semplice, ma estremamente accogliente e trasmetteva una sorta di calore confortevole, qualcosa che ti fa sentire al sicuro.
Alle parole di Alec, comunque, Magnus sospirò. “Mi è arrivata una lettera, ieri.”
“Una lettera?” Alec alzò un sopracciglio, mentre faceva cenno a Magnus di seguirlo in cucina. Magnus lo fece e osservò Alec fargli cenno di sedersi al tavolo, mentre lui si dirigeva verso la credenza e prendeva un bollitore, che riempì d’acqua e mise sul fuoco.
Magnus in un primo momento, però, rimase in piedi. “Lo so, vero? Ormai chi le usa più le lettere? Voglio dire, ci siamo evoluti, esistono le email dal 1971!”
Alec abbandonò il bollitore e si voltò verso di lui. Erano abbastanza vicini, così gli mise le mani sulle spalle, per cercare di calmarlo. “Magnus, stai straparlando. Non agitarti e dimmi che succede.”
L’uomo si rilassò sotto il tocco gentile di Alec e sospirò, prima di guardarlo da sotto le lunghe ciglia. “Mi hanno chiesto di fare il giudice speciale ad un talent show. Parteciperei a tre episodi, dove giudicherei i ballerini emergenti e dove mi farebbero fare delle esibizioni speciali.”
“E questo è un bene o un male?”
“Non lo so, è questo il punto. Per questo vorrei la tua opinione. Mi fido di te e mi hai detto che mi avresti sempre detto la verità.”
Alec sentì l’ombra di un sorriso che tentava di aprirgli il viso, ma si trattenne. Magnus si fidava di lui. Era una cosa così bella da sentirsi dire.
“Allora analizza i pro e i contro. Partiamo con i contro, quali sono?”
“Dovrei stare a Los Angeles per tre settimane, lontano da Erin.” Magnus alzò un dito per numerare il primo contro. “Dovrei tenere chiusa la scuola di danza.” Alzò un secondo dito. “E terzo, ma non meno importante, starei lontano da te.”
Alec arrossì violentemente, non aspettandosi per niente di essere incluso in uno dei tre motivi che spingevano Magnus a non andare. Il suo cuore si agitò un poco per quell’improvvisa tanto quanto inaspettata confessione.
“Adesso vediamo i pro.” Balbettò Alec, cercando di darsi un contegno e non apparire come uno scolaretto imbranato. Troppo tardi, pensò.
“I pro, in realtà, sono in svantaggio. Ne abbiamo uno contro tre: andrei a Los Angeles per ballare.”
“E tu ami ballare.”
“Ma amo anche mia figlia.”
“Magnus.” Alec prese il viso dell’uomo tra le mani. “Andare non significa non amare Erin, o abbandonarla. Lei starà con tua madre, noi tutti le daremo una mano, e starà bene. E poi circa dal 1871 hanno inventato il telefono, quindi potrai sentirla ogni volta che vorrai.” Gli sorrise incoraggiante e Magnus ricambiò quel sorriso, appoggiando le mani sui polsi di Alec. Tuttavia, non sembrava ancora convinto, così Alec continuò. “Quando mi hai portato da Sophia mi hai detto che partecipare a quelle serate ti fa bene, perché ti ricorda che la danza non è solo il tuo lavoro, ma anche la tua passione. Questa è un’occasione in più per vivere la tua passione.”
“Pensi che dovrei accettare, quindi?”
“Io penso che se fossi stato convinto fin dall’inizio di voler rifiutare, non saresti venuto qui a chiedermi cosa ne penso.”
Magnus accennò una risata. “Sei un so tutto io fastidioso.”
“Questo l’avevi già appurato, mi sembra di ricordare.” Alec gli accarezzò le guance con i pollici e abbassò le mani. “Vai, Magnus. Erin starà bene. E io non vado da nessuna parte. Mi troverai qui, quando tornerai.”
Magnus sorrise. “Uscirai con me, al mio ritorno?”
Alec avvampò per quella richiesta così diretta, ma annuì. Il suo cuore perse un battito al pensiero che anche Magnus voleva che le cose tra di loro cambiassero, si evolvessero – di conseguenza, tutti i timori che aveva avuto qualche giorno prima si affievolirono parecchio.
“Un appuntamento vero?”
Alec annuì ancora, incapace di proferire parola. Si sentiva uno stupido. Perché doveva reagire in quel modo? L’idea di uscire con Magnus gli faceva chiudere la bocca dello stomaco dall’euforia, ma non riusciva ad esprimere quell’emozione come avrebbe voluto. Era come se in realtà la sua contentezza stesse remando contro di lui e lo facesse chiudere in se stesso, piuttosto che aiutarlo a mostrarsi felice.
“Quando devi partire?” Domandò, perché Alec era davvero idiota fino al midollo.
“Il dieci di dicembre. Finirei intorno al trentuno, ma penso di tornare per Natale.”
“D’accordo. Allora abbiamo tempo per prepararci e per trovare un sostituto per non chiudere la scuola, durante la tua assenza.”
Abbiamo?”
“Pensavi di fare questa cosa da solo? No, Magnus. Mi hai coinvolto, ormai. Ci siamo dentro insieme.”
Magnus si aprì in un sorriso enorme, sentendo il cuore che veniva invaso da un profondo senso di gratitudine. “Grazie, Alexander.”
“Non ringraziarmi, mi fa piacere esserti d’aiuto.”
Magnus gli stampò un bacio sulla guancia e Alec, inevitabilmente, sorrise.
Il bollitore fischiò. Entrambi si erano dimenticati che Alec l’aveva messo sul fuoco, così sussultarono. Si guardarono e risero di quel gesto, poi Alec si allungò verso uno scaffale della dispensa dove teneva vari tipi di the per far scegliere a Magnus quello che preferiva.
“Li ho comprati per te.” Confessò. “Spero ti piacciano.”
Magnus scelse del the nero. “Vuoi dire che stavi pianificando di invitarmi a casa tua, Alexander?” Alzò gli occhi su di lui, guardandolo con un’astuta malizia.
Alec arrossì. “Ho solo pensato, nell’eventualità in cui tu capitassi da queste parti, che sarebbe stato gentile avere qualcosa da offrirti, visto che non bevi caffè. E come vedi, la mia lungimiranza è servita.”
Magnus ridacchiò. “Non posso darti torto. A mia discolpa, però, devo dire che la mia improvvisata qui è stata dettata dal tuo silenzio. Non mi piace passare le giornate senza sentirti, così mi sono fatto mandare il tuo indirizzo da Isabelle. È così una cara ragazza.”
“Izzy è solo una grandissima impicciona. Ma sono contento ti abbia detto dove vivo, almeno abbiamo chiarito.” Alec prese la bustina che Magnus aveva scelto e si voltò verso il bollitore per lasciare che l’infuso restasse in ammollo nell’acqua bollente. Il the solubile non era buono come il the in foglia, ma Alec aveva trovato solo quello. “Anche a me non piace passare le giornate senza sentirti.” Aggiunse, con un filo di voce, ma Magnus riuscì chiaramente a sentirlo.
“Allora non facciamolo più.” Gli rispose semplicemente.
Alec si voltò di nuovo verso di lui e annuì. Gli piaceva come piano. Soprattutto, lo rendeva felice. Tanto felice.


Magnus stava seduto al tavolo della cucina di Alec e lo guardava, in piedi davanti al frigo mentre lo apriva per tirare fuori dello yogurt. Gli venne inevitabilmente da sorridere, ricordando il loro incontro in caffetteria, due mesi prima.
Era davvero strano pensare come quel ragazzo fosse diventato importante per lui in così poco tempo. Quando aveva ricevuto quella lettera, era stato Alexander il primo a venirgli in mente, non sua madre o Raphael o Cat. Alexander. Voleva sapere cosa ne pensasse, voleva che lo aiutasse a scegliere, dal momento che era davvero indeciso. Si fidava di lui e della sua opinione, gli piaceva il suo modo di pensare e di vivere le situazioni. Ora che ci pensava, gli piacevano parecchie cose di lui, tipo che agitasse il naso, quando era sovrappensiero, finendo per assomigliare ad un coniglietto (era adorabile oltre ogni limite, davvero). Gli piaceva quel senso di protezione che trasmetteva e Magnus era sempre stato affascinato da chi riesce a trasudare una sensazione simile. Non tanto perché avesse bisogno di sentirsi protetto, ma perché chi sa proteggere, sa anche dare un senso di sicurezza che non si trova molto spesso.
Gli piaceva che arrossisse davanti ai complimenti e che sorridesse di più, in sua compagnia – Magnus l’aveva notato. Era oltremodo soddisfacente essere motivo di un sorriso tanto luminoso.
Gli piaceva che, nonostante Alec avesse le sue barriere, continuasse a fare di tutto per aiutare Magnus a scavalcarle, giorno dopo giorno.
E gli piaceva che lo trovasse meraviglioso.  Magnus ancora sentiva il cuore scalpitare, se solo ripensava a quel messaggio. Sei meraviglioso. Io lo so.
“Ti piace?” Domandò Alec, sedendosi di fronte a lui con una tazza piena di yogurt e cereali in una mano e un piattino di biscotti nell’altra. Posizionò il piattino vicino a Magnus, in modo che se avesse voluto avrebbe potuto mangiarne un po’. “Sono sicuro che non è buono come il the che ti compri, ma spero non faccia schifo.”
Magnus gli sorrise. “È buono, Alexander. Ti ringrazio.” Afferrò un biscotto e gli diede un morso. Era buono e sapeva di mandorle.  
Alec mescolò i suoi cereali nello yogurt e ricambiò quel sorriso. Affondò il cucchiaio in quella mistura e la portò alla bocca. Il suo senso di fame si calmò immediatamente.
“Ti prego, non dirmi che quella è la tua cena.”
“No, diciamo che è più… una merenda?”
“Hai pranzato, oggi?”
“Con una barretta ai mirtilli.”
“Quindi no, non hai pranzato, confettino. Stasera ceneremo insieme, così mi assicurerò che mangerai!”
Alec rise e guardò altrove. La premura di Magnus era una delle cose che gli piacevano più di lui. “Va bene,” Rispose, tornando a guardarlo,  “Ma offro io.”
“No.”
“Sì.”
“Ti ho invitato io.”
“E io non mi sono fatto  vivo per due giorni. Voglio farmi perdonare.”
“Non hai niente da farti perdonare, abbiamo già chiarito.”
“Allora diciamo che è una clausola legata al mio consenso: accetto l’invito, a patto che offro io.”
“Questa è dittatura, Alexander!”
Alec mise da parte i suoi cereali e allungò una mano verso quella di Magnus, coprendola. “Hai ragione, non voglio essere dittatoriale. Quindi senti se questa idea ti va bene: oggi offro io, la prossima volta offri tu.”
“Mi piacciono le prossime volte.” Affermò Magnus, con la voce morbida.
“Anche a me. Implicano sempre un dopo.”
“E che il prima è andato così bene che vuoi ripetere per forza.”
Alec annuì e abbassò gli occhi sulle loro mani: Magnus aveva fatto in modo che si intrecciassero e adesso Alec stava guardando le loro pelli che si univano, mentre le dita andavano a riempire i rispettivi vuoti l’uno nella mano dell’altro. Magnus accarezzò con il proprio pollice quello di Alec, che si ritrovò a cercare nuovamente lo sguardo dell’uomo. Lo trovò immediatamente, perché l’altro lo stava già guardando. Si sorrisero, in un modo che diede l’impressione ad Alec che il mondo si fosse fermato, che l’umanità fosse estinta e loro due fossero gli ultimi uomini rimasti sulla Terra. Improvvisamente, divenne sordo a qualsiasi suono e cieco a qualsiasi immagine non fosse Magnus, i suoi occhi bellissimi, il suo sorriso luminoso e il suo viso. Alec era sicuro che quel viso l’avrebbe fatto morire, prima o poi.
Era tutto così giusto che Alec pensò per una frazione di secondo che potessero essersi trovati per un motivo. Non aveva mai creduto nel destino, ma da quando conosceva Magnus, un po’ doveva ammettere di essersi ricreduto.
Lo squillo improvviso del suo cellulare, tuttavia, lo riportò alla realtà con un sussulto. Non erano più gli ultimi due uomini sulla Terra, e l’umanità abitava ancora il pianeta.
“Scusa.” Disse a Magnus, sciogliendo l’intreccio delle loro mani. L’uomo gli fece un cenno con la mano che stava a significare non preoccuparti.
“Pronto.” Rispose, dopo aver estratto il cellulare dai pantaloni.
“Ehi fratellone, mamma non risponde, così ho pensato di informare te.” Cominciò Max, dall’altro capo del telefono. “Torno mercoledì all’ora di pranzo, non nel pomeriggio.”
“E come mai?”
“Lezione rimandata, quindi finisco prima. Non sei contento di vedermi?”
“Certo che sono contento. Vuoi che ti venga a prendere?”
“No, prendo il treno, ma grazie.”
“D’accordo… lo dico io a mamma.”
“Sei così efficiente, fratellone!”
Alec poté chiaramente percepire il sorriso nella voce del fratello. “Ricordati di chiamarla comunque stasera, però. Sai che le fa piacere quando la chiami.”
“Certo, capo!” Esclamò Max, un altro sorriso che sicuramente gli tendeva le labbra. Alec riusciva a percepirlo. “Un’altra cosa…” continuò il minore e Alec, questa volta, sentì il sorriso che sciamava. Si preoccupò un po’, ma rimase in silenzio ad ascoltare. “Mi ha chiamato papà. Chiede se lo andiamo a trovare per il Ringraziamento.”
Alec chiuse gli occhi e una ruga si formò in mezzo ad essi, quando aggrottò leggermente le sopracciglia. Magnus notò quel cambiamento di espressione, ma non disse nulla.
Era tipico di suo padre, pensò Alec. Tendeva sempre a comunicare attraverso Max, perché sapeva che tra i suoi figli era quello che, di solito, tendeva a dare una buona attenuante a tutti. Max era il tipo di persona che dava molta fiducia, pensando in partenza che la persona che si trovava davanti ne fosse meritevole, e poi la toglieva nel caso in cui quella persona si fosse dimostrata indegna di quella fiducia. Questo non gli impediva, tuttavia, di credere nelle seconde opportunità. Max era dell’idea che le persone sbagliano e che bisogna ascoltarle, quando vogliono rimediare ai loro errori.
Quando Robert se n’era andato Max aveva solo nove anni e quel gesto aveva spezzato la fiducia che provava nei confronti di suo padre, al quale voleva molto bene. Per questo motivo, Robert era tornato da lui chiedendogli perdono e l’occasione di poter riallacciare il loro rapporto. E Max, che aveva un cuore buono, aveva accettato. Non sarebbe stato facile perdonarlo, sia per come aveva trattato sua madre, sia per il modo in cui li aveva abbandonati, ma voleva provarci.
Alec era convinto che Robert non si meritasse la bontà di Max, ma era anche convinto che il suo fratellino, sotto quel punto di vista, fosse una persona decisamente migliore di lui. Max stava provando ad abbandonare il rancore, Alec no. Non riusciva a perdonare qualcuno che ogni volta che lo guardava non riusciva a celare il disprezzo che provava nei suoi confronti. Non riusciva a perdonare qualcuno che aveva tradito sua madre e l’aveva lasciata sola con quattro figli.
Sospirò. “Max, Robert è tuo padre. Non mi devi chiedere il permesso per vederlo.”
“Lo so, ma… l’ultima volta che vi siete visti non è finita bene…”
“Quando mai finisce bene?”
Max sospirò, dispiaciuto. “Lo so che lui ti ferisce e detesto quando lo fa. Vorrei che si svegliasse un giorno e avesse una mentalità completamente diversa, vorrei che…”
“Che mi accettasse?” Finì Alec per lui, rendendosi conto che Max non avrebbe finito quella frase.
“Sì.” Sussurrò il minore. E Alec sentì il petto che si colmava d’affetto per quel ragazzo.
“Ascoltami,” cominciò, “Papà ha le sue idee, è fatto a modo suo e questo ormai l’ho appurato. Rimane il fatto, però, che non mi trovo bene con lui. Ma questo non significa che tu non possa avere un rapporto con lui. È tuo padre, Max. Non devi sentirti in colpa se vuoi provare a passarci del tempo insieme.”
Max rimase in silenzio, quasi come se stesse riflettendo sulle parole del fratello, così Alec continuò. “Se vuoi vederlo per il Ringraziamento, digli che passerai a trovarlo. Chiedilo anche a Jace ed Izzy, se ti fa piacere. Ma spero tu mi capisca, se non verrò.”
“Lo capisco, Alec, e mi dispiace. Mi dispiace che abbia scelto di non averti nella sua vita perché non sa che si perde.”
Alec accennò un sorriso. “Stai facendo lo sdolcinato, adesso.” Ma in realtà le parole di suo fratello l’avevano emozionato.
“Ti voglio bene.” Continuò Max, ignorando quel commento.
“Anche io.” Rispose quindi Alec.
“E grazie per esserci sempre.”
“Non ringraziarmi, Maxie.”
“Non chiamarmi così, sono adulto ormai!”
“Ti chiamerò così ogni volta che vorrò. Sono più grande di te.”
“Sei solo un Matusa, Alec!” Rise il ragazzo e Alec, inevitabilmente, accennò un sorriso. “Devo andare, fisica non si studia da sola!”
“D’accordo. Non torni questo week-end?”
“No, rimango. Torno direttamente mercoledì.”
“Va bene, allora ci vediamo mercoledì. Ciao, Maxie!” Alec ridacchiò e sentì chiaramente Max dall’altro capo del telefono che si esibiva in una smorfia di disappunto rumorosa per quel soprannome, prima di riattaccare. Alec bloccò lo schermo del suo cellulare e se lo rimise in tasca, prima di guardare di nuovo Magnus. Non aveva sentito il desiderio di alzarsi e andare in un’altra stanza per mantenere privata quella conversazione. Era rimasto seduto esattamente dov’era, davanti a Magnus, che era a portata d’orecchio, perché con lui gli veniva naturale essere se stesso e lasciare che venisse a conoscenza delle sue dinamiche familiari. Forse perché aveva la certezza che Magnus non l’avrebbe giudicato, o forse perché voleva mostrargli anche le cose spiacevoli della sua vita e vedere se le avrebbe accettate come quelle belle. Non era un test contorto per mettere Magnus alla prova, era solo il modo che aveva Alec di mettersi a nudo, di mostrarsi nella sua interezza – di chiedere, indirettamente e attraverso i gesti: guardami, c’è anche questo in me, ti piaccio lo stesso?
“Va tutto bene?” gli domandò Magnus, davanti al suo silenzio.
“Sì.”
Magnus lo scrutò. “Sei sicuro?”
Alec intuì che dalle risposte che aveva dato a Max al telefono, Magnus era riuscito a comprendere quasi tutta la conversazione. “Sì, Magnus, stai tranquillo. Sono abituato a mio padre.” Sospirò. “Lui… lui fa così da dieci anni ormai.” Alec si appoggiò allo schienale della sedia. “Pensa ancora che la mia omosessualità sia dettata dal trauma che mi ha provocato la malattia di Max.”
La fronte di Magnus si aggrottò. “Che vuoi dire?”
“Ho fatto outing a vent’anni, dopo che Max aveva finito la terapia e si era ripreso. Il medico che l’ha curato era un uomo, quindi mio padre pensa che le cose siano collegate. Crede che, e cito quasi testualmente, la paura di perdere il mio fratellino sia stata così forte che ho sviluppato un moto di gratitudine così elevato per chi l’ha salvato che mi ha spinto a credere di essere attratto dagli uomini.”
Magnus non sapeva cosa dire. Si limitò a guardare Alec pensando a come potesse sentirsi ad avere un padre che trovasse scuse così assurde per giustificare il suo orientamento sessuale. Robert preferiva credere che fosse tutto dettato da un trauma, piuttosto che accettare suo figlio per quello che era.
“È assurdo, lo so.” Continuò Alec, davanti al suo silenzio. Guardò altrove e il suo sguardo riuscì quasi a viaggiare indietro nel tempo, a un decennio prima, quando aveva riunito tutta la sua famiglia e aveva detto la verità. Alec ricordava che tutta la situazione di Max l’aveva fatto riflettere: a undici anni suo fratello era stato così coraggioso da affrontare una terapia contro il cancro. Alec voleva smettere di avere paura di quello che avrebbero potuto pensare gli altri di lui, voleva essere coraggioso, voleva guardare la vita in faccia e affrontarla, proprio come aveva fatto Max.
Così aveva dato voce ai pensieri che lo tormentavano da quando aveva tredici anni e li aveva tirati fuori. Veritas vos liberat, la verità rende liberi. Era scritto nel vangelo di Giovanni, quello che leggeva suo padre.
E Alec voleva finalmente essere libero. La sua libertà, tuttavia, ebbe un prezzo: suo padre, di fronte al suo coming-out, l’aveva guardato come se fosse la più grande delusione della terra e aveva lasciato la stanza senza dire una parola, senza salutare nessuno. Da quel momento, i loro discorsi erano cessati. E se prima di quel momento, il loro rapporto era fragile per il comportamento di Robert – che due anni prima li aveva lasciati per andare da Annamarie, dopo aver passato anni a tradire Maryse – dopo quel giorno, non rimase più niente. Alec e suo padre si scambiavano convenevoli e poi, inevitabilmente, finivano per discutere. Per questo preferiva non vederlo.
“Max ha avuto una ricaduta.” Cominciò Alec, perché voleva che Magnus sapesse tutto e pensò che quello fosse il momento adatto. “Dopo la fine della terapia, ha sempre fatto esami di routine e, tre anni fa, i medici si sono accorti che c’era qualcosa che non andava. La malattia era tornata, allo stesso rene.” La voce di Alec tremò un attimo, senza che lui davvero volesse o riuscisse a trattenersi. La sua mente venne invasa da flash di ricordi veloci che scorsero come un fotogramma che ne segue un altro e poi un altro e un altro ancora. Ricordò l’ospedale, sua madre con il viso tirato, preoccupato. L’angoscia era riuscita persino a modificarle i bei lineamenti, rendendoli quasi spigolosi. Ricordò Jace, che aveva sempre Clary al suo fianco a fargli da roccia. Diana aveva solo un anno all’epoca , così Luke e Maia si prendevano cura di lei, quando i genitori erano da Max. Ricordò Simon con un braccio intorno alle spalle di Izzy, che non piangeva mai davanti ai suoi fratelli, ma Alec sapeva riconoscere quando l’aveva fatto. Era sicuro lo facesse davanti a Simon, che si era dimostrato un amico eccezionale e una spalla solida su cui fare affidamento. Durante tutto quel periodo, infatti, non aveva mai lasciato il fianco di Isabelle.  Per Alec era stato diverso: non aveva mai chiesto a Will di accompagnarlo in ospedale perché sapeva avrebbe trovato anche suo padre. E non era dell’umore giusto per affrontare litigi e discussioni, non quando suo fratello doveva affrontare un’operazione, così si limitava a lasciarsi andare una volta tornato a casa. Ogni volta che apriva la porta del proprio appartamento, puntualmente ci trovava Will, che non diceva mai niente, quando lo vedeva con le lacrime che gli gonfiavano gli occhi, e si limitava a stringerlo a sé.
Quel filo di ricordi venne interrotto dalla mano di Magnus che coprì la sua – un gesto di comprensione e rispetto –  così Alec continuò a parlare. “Non mi scorderò mai come mi ha guardato, mentre l’oncologa ci spiegava, con tatto, come stavano le cose. Max mi ha dato del bugiardo, mi ha detto che gli avevo promesso sarebbe andato tutto bene e che invece non era vero niente.” Deglutì, sentendo le parole che gli morivano in gola.  Sarebbe sempre stato doloroso, ricordare quel periodo. “Mi disse che era stato tutto inutile perché adesso rischiava di morire.” Alec si passò la mano che aveva libera sul viso. “Mio fratello ha avuto un attacco di panico. Aveva diciotto anni, era più consapevole e più spaventato. La paura gli ha fatto dire cose che non pensava. Ancora mi chiede scusa, se gli torna in mente quello che ha detto quel giorno, ma gli dico che non deve scusarsi di nulla. Era spaventato, quindi tutto ciò che usciva dalla sua bocca era solo la paura a farglielo dire.” Alec abbassò lo sguardo sulle loro mani. “Non ha mai rischiato di morire davvero. La dottoressa che l’ha seguito ha detto che eravamo ancora in tempo a togliere il rene. Ciò non toglie, comunque, che eravamo tutti preoccupati e, soprattutto, spaventati.” Sospirò, come se dovesse trarre sollievo da quei ricordi, come se ancora una volta, proprio come era successo durante la prima volta in cui aveva accennato a Magnus della malattia di Max, avesse dovuto ricordare a se stesso che adesso le cose andavano bene, che era tutto finito. “Comunque, Max ha acconsentito all’operazione, così come mia madre e mio padre. Siamo stati fuori dalla sala operatoria per tutto il tempo e quando si è svegliato e ci hanno detto che potevamo andare da lui, ci ha accolto con un sorriso. È andato tutto bene, è stata la prima cosa che ci ha detto.” Alec accennò un sorriso a labbra chiuse, alzando solo un angolo della bocca in modo quasi impercettibile. Senza lasciare la mano di Magnus, appoggiò la schiena allo schienale della sedia e, con la mano libera, sollevò la maglietta quel tanto da mostrare il tatuaggio. “Pochi mesi dopo, ha voluto che ce lo facessimo. Ha detto che, se non ci avesse avuto vicini, non sarebbe mai riuscito a superare la paura che quella malattia gli aveva fatto provare.” Alec si riabbassò la maglietta e tornò a guardare Magnus, che rimaneva ad ascoltare in rispettoso silenzio. Si ricordava quando gli aveva chiesto il significato di quel tatuaggio, poche settimane prima. E adesso capiva perché non aveva voluto dirglielo in una palestra piena di persone: era un argomento troppo delicato, troppo importante e troppo intimo. Una storia che non poteva essere condivisa davanti ad orecchie casuali. Magnus apprezzò moltissimo che Alec si fidasse di lui al punto da raccontargli il resto di una storia che aveva già iniziato a raccontargli tempo indietro.
“La cosa assurda di tutta questa situazione si è manifestata alla fine. Un giorno sono andato a trovare Max e ho incontrato mio padre che stava andando via. Ci siamo salutati e pensavo che la cosa finisse lì, dal momento che non moriva mai dalla voglia di parlarmi, ma mi sbagliavo.”
Alec camminava lungo il corridoio dell’ospedale. Non voleva cadere nel solito cliché secondo cui gli ospedali si assomigliano un po’ tutti, ma non poté fare a meno di pensarlo. Quell’ospedale non era poi così diverso da quello in cui lavorava. Aveva corridoi ampi e bianchi, mentre i muri erano colorati. Uno studio aveva dimostrato che la policromia aiutasse a prevenire gli attacchi di panico, quindi i reparti ospedalieri avevano abbandonato il bianco totale. Teoria che, purtroppo, non sempre funzionava. C’era lo stesso odore di disinfettante che penetrava nelle narici, dando l’idea di una pulizia estrema e minuziosa. Tuttavia, quell’ospedale era diverso da quello in cui lavorava per un motivo ben specifico: in una di quelle stanze c’era il suo fratellino. Max aveva appena subito l’estrazione del rene malato e adesso era sotto osservazione. Alec aveva pensato di andare a trovarlo per vedere come stesse e proprio mentre si dirigeva verso la stanza di suo fratello, in corridoio incontrò suo padre che procedeva nel senso opposto al suo: probabilmente se ne stava andando. Alec lo salutò, convinto che come ogni volta suo padre si sarebbe limitato a ricambiare per poi superarlo senza aggiungere altro. Quella volta, invece, Robert si fermò davanti al suo primogenito – cosa che stupì parecchio Alec.
“Max sta bene.”
Alec annuì. “Reagisce bene all’intervento.”
Solo quando Robert parlò di nuovo, Alec si rese conto di aver frainteso le sue parole.
“Intendo che è guarito, Alec. Starà bene, d’ora in poi. Non devi più temere per lui.”
Alec in un primo momento non volle crederci. Non voleva credere che suo padre stesse tirando fuori di nuovo quella storia ridicola secondo cui il suo coming-out derivasse dal trauma dovuto a ciò che era successo anni prima.
“Lo pensi davvero, non è vero? Pensi che sia una conseguenza di un trauma. Se fosse come dici, perché Jace è innamorato di Clary? Perché anche lui non ti ha detto che gli piacciono gli uomini?”
“Jace non è mai stato confuso. Tu sì. Sei sempre stato sensibile, Alec. Tutta la faccenda di tuo fratello ti ha segnato più di tutti, ma adesso…”
“Adesso cosa? Speri che ti dica che siccome questa volta a curarlo è stata una donna, adesso sono etero? Non funziona così, e dovresti saperlo!”
Ad Alec faceva male. Faceva così male che sentì le lacrime affiorare, ma le ricacciò indietro. Suo padre riusciva a pugnalarlo con ogni parola che usciva dalla sua bocca e con ogni sguardo che albergava nei suoi occhi. Non era stato più lo stesso da quando gli aveva detto come stavano le cose. Si era semplicemente limitato a guardare Alec e vedere solo la sua sessualità, che disapprovava a tal punto da cercare di trovarne una causa, quasi come se, derivando da qualcosa, avesse potuto avere la certezza che, prima o poi, proprio come Max, anche Alec sarebbe guarito. L’unica, sostanziale, differenza era che Alec non era malato.
“Perché non puoi accettarmi e basta?” Glielo domandò senza astio alcuno nella voce, ma con tutta la sofferenza che un cuore umano poteva sopportare. Suo padre si era comportato in modo pessimo, sia con lui che con sua madre. Ma rimaneva pur sempre suo padre e proprio per questo i suoi comportamenti avevano il potere di farlo soffrire. “Perché non puoi smettere di trovare scusanti, o giustificazioni, a quello che sono? Perché non puoi volermi bene e basta?” Una lacrima solcò il viso di Alec e lui l’asciugò via con la stessa velocità con cui era scesa. Suo padre rimase immobile. Guardò Alec e restò impassibile davanti al suo dolore. Non pronunciò parola alcuna. Non si sforzò nemmeno di provare a rispondere alle sue domande. Alec si sentì uno stupido solo per aver pensato di poterci provare, a chiarire con lui.
“D’accordo. Gestiamola a modo tuo. Fingiamo che io non esista.” Alec serrò la mascella e ricacciò indietro le lacrime di rabbia che minacciavano di scendere. “Per la cronaca: non sono mai stato confuso. So che mi piacciono i maschi da quando avevo tredici anni! Solo che a
te questo non sta bene, quindi fingi che io sia confuso nella speranza che un giorno possa redimermi e cominciare ad innamorarmi delle persone che tu ritieni giuste: donne. Non succederà mai. Ho un ragazzo, lo sai? No. E nemmeno ti interessa. Probabilmente la cosa ti disturba anche, quando, in realtà, dovresti solo accettarmi, volermi bene.” Alec guardò suo padre, nella speranza che provasse almeno a capirlo, ma non fu così. Robert rimase immobile, di nuovo, a fissarlo come se le parole che stava pronunciando fossero assurdità inconcepibili, capricci privi di senso, le lamentele di un bambino che non sa chi è o cosa vuole davvero dalla vita. Fu un’altra pugnalata, così Alec decise di lasciar perdere. “Adesso, se vuoi scusarmi, devo andare a trovare mio fratello.” Si voltò, con un groppo che gli otturava la gola, e si diresse verso la camera di Max.
“Lui è sempre stato così.” Concluse Alec, terminando il suo tuffo nel passato. Mentre lui parlava, Magnus era rimasto in silenzio ad ascoltare. Stringeva la sua mano per fargli sentire la sua presenza e tutta la sua comprensione. Quando finì di parlare, però, Alec sentì chiaramente la presa di Magnus allentarsi: lasciò la sua mano solo per alzarsi dal tavolo, circumnavigarlo e raggiungerlo. Fu una specie di flashback, per Alec, che ripensò allo stesso gesto fatto da Will, cinque anni prima.  
Ma Magnus non aveva niente di William.
Will non l’aveva mai guardato come adesso lo stava guardando Magnus: con comprensione, con tenerezza e affetto. Lo guardava quasi come se avesse voluto fargli da scudo contro il mondo e le cose che gli facevano male. Per questo, quando Magnus lo abbracciò, Alec provò una strana sensazione: ebbe la certezza che l’avrebbe protetto da tutte quelle parole cattive che riuscivano a ferire più di un pugno in pieno stomaco. Alec si alzò dalla sedia per riuscire al meglio a ricambiare l’abbraccio di Magnus, che lo strinse forte a sé quasi avesse voluto fondersi con lui.
“Ti sceglierei sempre.” Sussurrò Magnus, quando si allontanò da lui quel tanto da riuscire a guardarlo in viso. Gli appoggiò le mani sulle guance e gliele accarezzò. “Sceglierei sempre di averti nella mia vita, piuttosto che bandirtene. Tuo padre non si rende conto della fortuna che ha avuto e che ha scioccamente buttato via.”
Alec ebbe la certezza di sentire il suo cuore fermarsi, prima di riprendere velocemente la sua corsa, quasi battesse a velocità triplicata. Magnus era Atlantide: ne parlano tutti, chiunque racconta di quella meravigliosa città andata perduta nelle profondità marine. Tutti ci credono, come si può credere ai miti, ma nessuno la trova mai.
Alec aveva trovato la sua Atlantide in Magnus, che lo capiva e sapeva sempre cosa dirgli per farlo sentire meglio; che sapeva farlo ridere nel modo più genuino possibile, che lo faceva ballare e gli permetteva di essere liberamente se stesso; che guardava le parti spiacevoli della sua vita e le abbracciava quanto quelle belle, se non di più. Alec, raccontandogli il rapporto controverso che aveva con Robert, era come se gli avesse indirettamente chiesto: c’è anche questo in me, ti piaccio lo stesso? E Magnus, stringendolo con così tanta forza tra le sue braccia, pronunciando quelle parole così dolci, era come se avesse risposto a quella domanda con certo, mi piaci sempre, in ogni caso, indipendentemente da tutto.
“Riesci sempre a tirarmi su di morale.” Sussurrò Alec, quasi avesse temuto che qualcun altro avesse potuto udire quelle parole che, invece, dovevano rimanere solo ed esclusivamente per Magnus – perché solo lui aveva quel potere.
Magnus sorrise. “Non te l’ho detto? È diventata la mia missione principale assicurarmi che tu sia felice.”
Alec ricambiò quel sorriso e scosse affettuosamente la testa. Mai come in quel momento era stato convinto di provare dei sentimenti per Magnus che esulassero dall’amicizia. Non sapeva ancora dargli un nome, ma qualsiasi cosa fossero, classificarli come amicizia non era abbastanza.
“Grazie.”
“Non dirlo nemmeno, Alexander. Sono qui per te.” Gli accarezzò una guancia e Alec inclinò la testa verso il palmo di Magnus. Rimasero in silenzio. Magnus continuava ad accarezzare il viso di Alec con dolcezza, mentre lui lasciava che quel contatto facesse da balsamo su quelle cicatrici, che ogni tanto facevano ancora male. Era come se Magnus fosse il suo acchiappasogni e lo stesse proteggendo dagli incubi solo per far filtrare i sogni belli.
In realtà, Alec era convinto che Magnus stesso fosse un sogno, il più bello che avesse mai potuto avere. Se davvero fosse stato così e lui stava dormendo, non voleva assolutamente essere svegliato.
Tuttavia, la suoneria del cellulare di Magnus non la pensava così. Lo squillo ruppe il silenzio e li fece sussultare. Quando vide che a chiamarlo era sua madre, Magnus rispose immediatamente. Alec lo guardò rimanere esattamente davanti a lui, senza allontanarsi di un millimetro, mentre parlava con Madelaine. E ancora una volta, realizzò quanto fosse bello, sia dentro che fuori.



*


“Farò schifo, Izzy!”
“Non è vero, Simon. Rilassati.”
Isabelle gli rivolse un sorriso incoraggiante e gli prese una mano tra le sue. Si trovavano al Pandemonium, un locale che normalmente era una discoteca, ma una volta a settimana organizzava serate evento dove artisti emergenti potevano esibirsi. Quella sera, toccava a Simon, che settimane prima si era fatto convincere da Izzy che esibirsi in pubblico fosse una buona idea. Così, di giovedì sera, si dietro le quinte del palco che di solito al Pandemonium veniva usato come pedana per il dj.
Simon rimpiangeva le quattro mura del suo appartamento. Il pubblico in genere lo metteva in agitazione. La sola idea di salire su quel palco gli faceva venire voglia di vomitare.
“Non posso farcela.”
“Puoi, invece!” Esclamò Isabelle, convinta delle sue parole. “Da quanto ti conosco?”
“Dieci anni, più o meno?”
“E ti ho mai mentito?”
Simon negò con il capo.
“Quindi dovresti credermi quando ti dico che ti adoreranno.” Isabelle sorrise.  “Sei un musicista eccezionale, Simon, e il tuo talento merita di essere condiviso con il mondo.”
Simon suonava la chitarra da quando era un bambino. Amava suonare e aveva passato gli ultimi anni a farlo per Isabelle, improvvisando concerti solo per lei nel proprio appartamento, quando lo andava a trovare.
E tutte le volte che suonava, sul viso di Izzy compariva un sorriso luminoso e orgoglioso che si tramutava in parole di incoraggiamento non appena la canzone finiva. Dovresti farlo di mestiere, Simon, sei bravissimo! Gli diceva sempre e Simon inevitabilmente si trovava ogni volta a pensare che Isabelle aveva il potere magico di infondere fiducia alle persone che la circondavano: se lei credeva in qualcuno, quel qualcuno cominciava automaticamente a credere in se stesso. E questa era una delle tante ragioni che la rendevano fantastica, uno dei tanti motivi per cui Simon si era innamorato di lei.
“Il mio talento stava benissimo nel mio appartamento.” Simon sbirciò la folla davanti al palco. Era formata da un numero discreto di persone. “Lontano da estranei.” Aggiunse, con gli occhi ancora fissi sulla gente.
“Non dire idiozie! Il tuo talento è esattamente dove deve essere. E anche tu. In ogni caso, se dovesse venirti l’ansia, io e Maia siamo nel primo tavolo sotto al palco. Griderò il tuo nome in segno di apprezzamento per infonderti coraggio!”
Simon rise e la guardò. Era consapevole che la sua faccia assomigliasse all’emoji con gli occhi a cuore, perché Izzy era meravigliosa e bellissima  e ogni giorno gli dava un motivo nuovo per amarla. E più i motivi aumentavano, più Simon era sicuro andassero a nutrire il suo coraggio. Sapeva che prima o poi sarebbe arrivato il momento di confessarle i suoi sentimenti. Ci voleva sperare, almeno.
“Penseranno che sei la mia groupie…” Arrossì al solo pensiero.
“Non vuoi che scoraggi possibili fan interessate a conoscerti meglio?” Izzy svirgolò le sopracciglia con malizia. “Ma forse hai ragione… conterrò l’entusiasmo. Tu guardami e io ti incoraggerò silenziosamente, che so con un’alzata di pollici o un sorriso…”
Simon avrebbe voluto dirle che non gli interessava nessun’altra, che era lei l’unica e che sempre lo sarebbe stata, ma rispose anzi: “Sembra perfetto.”
Isabelle ridacchiò e si sporse per abbracciarlo. “Adesso vai, tocca a te e non puoi più rimandare!” 
Simon ricambiò quell’abbraccio, stringendola forte a sé. Quando si separarono, Isabelle gli diede un bacio sulla guancia come ultimo segno di incoraggiamento e scese dalle quinte, dirigendosi verso il tavolo dove stava Maia. Simon la seguì con lo sguardo finché non la vide sedersi e poi, con un ultimo profondo respiro, afferrò la chitarra e si diresse verso il palco.



Era andata sorprendentemente bene. Simon non aveva vomitato nemmeno una volta, ne era svenuto. Si era persino divertito e le sue canzoni erano piaciute. Ne aveva cantate tre, tutte scritte da lui. Aveva sempre pensato che ci fosse qualcosa di estremamente intimo nel far ascoltare a qualcuno le proprie canzoni. Era come mettere a nudo la propria anima, o la parte più profonda dei propri pensieri. Scrivere una canzone e farla ascoltare a qualcuno era l’equivalente di dire ehi, nella mia testa ci sono questi pensieri, prendeteli!
Per questo Simon era sempre stato un po’ restio a cantare in pubblico. Aveva il timore che chiunque lo ascoltasse non apprezzasse i suoi pensieri. Questo problema con Isabelle non si era mai posto, perché lei conosceva i suoi pensieri e li apprezzava, alcuni li condivideva persino. C’era quella complicità tra loro che cancellava ogni tipo di imbarazzo. Si parlavano sempre a cuore aperto, senza temere l’uno il giudizio dell’altra.
“Glielo dirai prima o poi?” La voce di Maia, seduta al suo fianco lo destò dai suoi pensieri. Finita la sua esibizione, Simon aveva raggiunto le ragazze al tavolo, mentre il suo posto sul palco era stato preso da un sassofonista di mezza età.
Simon si voltò verso l’amica. “Cosa? E a chi?”
Maia indicò con l’indice il bancone del locale, qualche metro più in là, dove Isabelle stava aspettando le loro bevute. “Che sei innamorato di lei.”
Simon divenne rosso come un peperone. Alla faccia del non essere scoperto, Lewis! Come agente segreto avrebbe davvero fatto schifo. Se l’MI6 fosse dipeso dalla sua inesistente faccia di bronzo, i servizi segreti britannici sarebbero durati circa trenta secondi, prima di andare in contro ad un’implosione certa. Simon aveva appena appurato che non aveva niente di James Bond e questo faceva decisamente schifo. Non sapeva dire nemmeno una minuscola bugia, o camuffare un segreto, perché la sua faccia aveva appena deciso di contribuire alla sua esecuzione sociale e farlo avvampare davanti alle insinuazioni di Maia. Insinuazioni, tra l’altro, che erano solo la pura verità – ma accidenti Simon pensava di poter fare meglio di così! E invece era appena diventato il cosplay scadente di un pomodoro.
“N-non so di cosa parli!”
Maia roteò gli occhi al cielo. “Simon. L’unica cosa più ovvia di te che scrivi una canzone per lei sarebbe andare là adesso e dirle apertamente che la ami!”
“Non ho scritto una canzone per lei!” Mentì Simon, mettendosi sulla difensiva.
Maia alzò un sopracciglio, non credendo nemmeno per un attimo a ciò che usciva dalla bocca dell’amico. “Ah no? Perché ogni volta che ti guardo vedo tutto ciò che desidero e non posso avere dice proprio il contrario.”
Vorrei sentirti mia.
Ci sono volte che amarti mi fa male, volte in cui penso di chiudere gli occhi e smettere di guardarti perché ogni volta che ti guardo, vedo tutto ciò che desidero e non posso avere.
Ma poi penso a come sarebbe un mondo senza te. Oscuro, come il buio che vedo non appena i miei occhi si chiudono, o si posano su qualcosa diverso da te.
Sei il mio sole, la cosa più vicina a tutto ciò che di vitale e bello c’è in questa esistenza.
Se rinunciassi a te, perderei tutto ciò che c’è di buono in me.

Era un pezzo della canzone che Simon aveva scritto per Isabelle. E forse quella sera l’aveva cantata perché, in cuor suo, desiderava soltanto che Izzy gli chiedesse dove aveva trovato l’ispirazione e lui avrebbe potuto finalmente farsi coraggio e dire che era lei la sua musa, che ogni volta che il suo viso albergava la mente di Simon lui veniva invaso dalla voglia di scrivere musica. O forse l’aveva cantata e basta, solo per se stesso. Solo per fare in modo che le parole riempissero l’aria e alleggerissero  il suo cuore, così abituato a tacere su determinati sentimenti da trovare persino assurdo l’ipotesi che qualcuno potesse davvero ascoltare quella dichiarazione d’amore. Ma qualcuno l’aveva fatto: Maia si era accorta di tutto e gli aveva fatto una domanda ben specifica, una domanda da cui Simon non poteva sottrarsi.
“Sei la prima che se ne accorge.” Rispose, quindi, arrendendosi all’inevitabile. Negare, ormai, sarebbe stato inutile. “E vorrei che rimanesse un segreto. Voglio dirle ciò che provo, Maia, davvero, ma…”
“Al momento giusto.” Concluse lei per lui.
Simon annuì. “Sì. Senza contare che ora ha un ragazzo, quindi è piuttosto ovvio che non le interesso.”
“Spesso abbiamo la soluzione davanti agli occhi e non ce ne rendiamo conto. Forse anche tu le interessi, ma non l’ha ancora capito, o forse hai ragione e non le interessi. Ma non lo capirai mai, se non provi.” Maia accennò un sorriso. “Il momento giusto arriverà quando sarai saturo di aspettare, quando il desiderio di capire se hai anche solo una chance sarà più forte di qualsiasi altra cosa.”
“Anche della paura di perderla?”
“Soprattutto di quella. Il timore di perderla, di rovinare quello che avete in caso lei non ricambi, è lo scoglio più grande da superare. Ma sono sicura troverai il coraggio di parlarle, prima o poi.”
Simon sorrise. Era stranamente liberatorio sapere che qualcun altro oltre a lui fosse a conoscenza di ciò che provava davvero. Sapeva, tuttavia, che il momento giusto non era ancora arrivato perché Izzy stava ancora con Mark e Simon non voleva mettersi in mezzo a loro due. In più, sentiva che il suo coraggio non era ancora arrivato al livello pieno. C’erano ancora delle tacche da riempire. Voleva credere, però, che un giorno sarebbe stato in grado di dire ad Isabelle che era innamorato di lei da anni, ormai, e che la reputava la creatura più straordinaria che avesse mai messo piede in questo mondo.
“Eccomi!” Isabelle interruppe i suoi pensieri, arrivando al tavolo con un vassoio su cui stavano tre drink e prendendo posto davanti a Simon. I tre presero il proprio drink e prima che potessero assaggiarlo, Izzy alzò il proprio bicchiere invitando gli altri due ad imitarla. “A Simon!” Esclamò, prima di far tintinnare i bicchieri e bere un sorso del suo drink. “Sei stato bravissimo! Ti avevo detto che dovevi fidarti di me!”
Simon le sorrise e annuì. “Mi fido sempre di te.”
Isabelle ricambiò quel sorriso, facendo perdere a Simon una quantità di battiti cardiaci indefinita. Era così bella che sembrava fosse stata disegnata da un angelo, o che lei stessa fosse un angelo. Abbassò lo sguardo sulle sue mani che abbracciavano il drink, quasi temesse che Izzy potesse leggergli la mente e venire a conoscenza di quel pensiero. Molte volte Simon avrebbe voluto essere più spigliato, più sicuro di sé. Era certo che se avesse avuto più fiducia in se stesso avrebbe anche avuto più successo con le ragazze, ma le volte che aveva provato a cambiare era diventato solo una parodia di sé, qualcuno con cui nemmeno Simon stesso si sentiva a proprio agio. Quindi aveva accettato ormai di essere fatto a modo suo: Simon Lewis era impacciato e a tratti imbranato, tendeva a straparlare quando era nervoso, spesso dicendo anche cose senza senso. Gli piaceva fare battute che solo lui capiva, citare film che solo lui conosceva e indossare t-shirt colorate che avevano stampe sopra che facevano riferimenti a libri fantasy, fantascientifici o a gruppi rock che ormai non ascoltava più nessuno, se non lui.
E finché lui si sentiva a suo agio con se stesso, andava bene così.
Rialzò lo sguardo dalle proprie mani ad Isabelle. Lei e Maia stavano ridendo per qualcosa che Simon non era riuscito a cogliere, troppo intento com’era stato nei suoi pensieri.
Lui si era innamorato di Izzy per quella che era e, se fosse stato destino, forse un giorno anche lei si sarebbe innamorata di lui per quello che era. A Simon non rimaneva altro che pazientare e scoprirlo.


*



Madelaine aveva chiamato Magnus per sapere a che punto fosse ed entro quanto sarebbe arrivato a casa sua. L’uomo aveva quindi guardato Alec, che gli aveva risposto con un’alzata di spalle e un circa un’oretta? chiesto sottovoce per non disturbare la sua conversazione. Al che, Magnus aveva riferito le tempistiche alla madre e aveva concluso la telefonata.
«Ti dispiace se viene anche Erin con noi?» Aveva domandato, rimettendosi il cellulare in tasca. Alec si chiedeva come fosse possibile che riuscisse a farlo visto quanto erano aderenti i suoi pantaloni. Non che se ne lamentasse, comunque. Magnus aveva delle gambe bellissime: definite e muscolose in un modo perfetto. E se dicesse di non averle guardate sarebbe uno sporco bugiardo, quindi era inutile che mentisse anche a se stesso.
«Assolutamente no, Magnus!» Aveva esclamato, tranquillizzandolo. «A te dispiace se vado a farmi una doccia veloce? Sono stato in ambulatorio tutto il giorno e…» aveva cominciato a giustificarsi, ma Magnus l’aveva interrotto alzando un indice. Lo sistemava sempre all’altezza delle sue labbra, ma non lo toccava mai.
«Vai, pasticcino. Io ti aspetto qui.»
Alec aveva sorriso. «Fai come se fossi a casa tua. Faccio presto.»
Magnus aveva dovuto mordersi la lingua per non dirgli che l’avrebbe volentieri raggiunto. Avrebbe gettato i propri vestiti sul pavimento e si sarebbe infilato in doccia con lui, anche solo per rivedere il corpo di Alexander in tutta la sua meravigliosa gloria – e questa volta, magari, senza pantaloncini – ma si era trattenuto. Aveva optato per sedersi sul divano, mentre Alec spariva nel corridoio che legava il salotto al resto della casa, dove Magnus aveva supposto ci fossero il bagno e le camere.
Alec aveva davvero fatto presto ed era tornato dopo una ventina di minuti, fresco di doccia e vestito con un maglione nero e un paio di jeans. Magnus davvero non si capacitava di come un essere umano potesse risultare così bello vestito in un modo così semplice. Avevano lasciato l’appartamento di Alec dopo poco e si erano diretti verso l’ascensore per poi dirigersi in strada, dove Magnus aveva parcheggiato solo qualche ora prima.
Adesso, si trovavano entrambi davanti alla porta dell’appartamento di Madelaine, in attesa. Alec sentì un certo nervosismo invaderlo e impiegò qualche secondo a capire che era dettato dalla consapevolezza che stava per conoscere la madre di Magnus. E non seppe perché tanto nervosismo, dal momento che non era niente di ufficiale: lui e Magnus non uscivano insieme – ancora – quindi perché agitarsi  tanto? Per adesso, probabilmente, Magnus l’avrebbe presentato come un suo amico, di conseguenza non avrebbe dovuto sentirsi nervoso. Ma allora perché riusciva a percepire i palmi delle mani sudati?
Madelaine aprì la porta e lasciò inconsapevolmente in sospeso quell’interrogativo che Alec si era posto nella propria mente.
La donna assomigliava moltissimo a Magnus: aveva gli stessi occhi e le stesse labbra – Alec lo notò perché più di una volta si era trovato a fissare quelle di Magnus – i suoi capelli lunghi e neri le incorniciavano il viso, ma era comunque evidente che madre e figlio avessero gli stessi zigomi. A differenza del figlio, che aveva tratti più marcati, la sua bellezza era più delicata, più femminile, ma era evidente che Magnus avesse preso anche quella dalla madre.
Anakku!” Esclamò la donna, abbracciando Magnus di slancio. Alec non sapeva cosa significasse quella parola, ma dalla reazione di Magnus doveva essere sicuramente qualcosa di bello.
“Ciao, ibu.” Ricambiò l’abbraccio e, ancora, Alec udì una parola di cui non colse il significato. La stessa cosa gli capitava quando Magnus appellava Erin e in quei momenti, proprio come adesso, si era chiesto che lingua fosse. E dal momento che sapeva che Magnus era nato a Giacarta, aveva dedotto potesse essere indonesiano, di conseguenza, come lo parlava lui, probabilmente anche sua madre lo parlava.
“Lui è Alexander.” Magnus sciolse l’abbraccio e introdusse Alec. Quando la donna posò i suoi castani occhi a mandorla su di lui, Alec sentì lo stomaco chiudersi in se stesso. Madelaine lo guardò con attenzione, quasi volesse studiarlo, ma senza metterlo in soggezione. Non voleva metterlo a disagio, sembrava solo… curiosa – come se stesse finalmente dando un volto ad un nome che aveva sentito spesso. Alec arrossì al solo pensiero di Magnus che parlava di lui con sua madre.
“Buonasera, signora.” La salutò perché si era reso conto che era rimasto in silenzio e restare muto come un pesce non rientrava esattamente nelle mosse vincenti per fare una bella impressione. “Può chiamarmi Alec.” Allungò una mano per presentarsi, ma Madelaine preferì abbracciarlo. Era più bassa di Magnus, così per ricambiare quella stretta – che lo colse del tutto di sorpresa – Alec dovette chinarsi un po’. Adesso capiva da chi Magnus aveva preso l’espansività.
“E tu puoi chiamarmi Madelaine. Signora mi fa sentire vecchia!” La donna sciolse l’abbraccio e alzò lo sguardo su di lui. “E dammi del tu, caro.”
Alec le sorrise, percependo le guance che si accaldavano nonostante tutto. “Va bene.” Rispose, prima di guardare Magnus. Non seppe esattamente perché lo fece, forse voleva solo essere certo che a lui andasse bene, che fosse a suo agio con l’idea di Alec che chiama sua madre per nome e le da del tu come se la conoscesse da sempre. Quando vide Magnus sorridergli e fare un cenno d’assenso con la testa, tuttavia, si rilassò immediatamente.
“Dov’è Erin?” Domandò Magnus, riportando l’attenzione sulla madre.
Madeline si spostò dall’ingresso per lasciarli passare. “Ti sta aspettando, in realtà.”
Magnus a quelle parole, entrò per primo e Alec lo seguì subito dopo.


Erin si trovava in salotto. Aveva i capelli legati in due treccine da due elastici a forma di piccoli pompon viola. Indossava una maglietta dello stesso colore a maniche lunghe su cui era stampata un’ape e dei jeans. Era seduta sul pavimento a gambe incrociate come una piccola indiana e stava giocando con una bambola. Magnus la osservò mentre le pettinava i capelli con cura per qualche istante, prima di attirare la sua attenzione.
“Ciao, bintang.
La bambina si voltò immediatamente e non appena vide il padre, lasciò la bambola sul pavimento per alzarsi e corrergli in contro. Magnus si chinò alla sua altezza e lasciò che Erin si tuffasse tra le sue braccia, circondandogli il collo in un abbraccio.
“Ciao papà!” Erin gli lasciò un bacetto impacciato sulla guancia e Magnus sorrise inevitabilmente.
“Ti sei divertita con la nonna?”
Erin annuì e cercò Madelaine alle spalle del padre. Quando, però, i suoi occhi incontrarono la figura di Alec, la bambina non riuscì a trattenere un sorriso. “C’è Alec!” Esclamò, emettendo un gridolino euforico, ed allungò le braccia verso di lui.
Alec, che era rimasto in disparte fino a quel momento a guardare Magnus, si avvicinò ai due e assecondò la richiesta della bambina di essere presa in braccio. Non appena Erin passò dalle braccia del padre a quelle di Alec, circondò il collo di quest’ultimo per abbracciarlo.
“Ciao, scimmietta.” Le disse con un sorriso. “Come stai?”
Erin si scostò da lui quel tanto per riuscire a guardarlo. “Bene, e tu?”
Alec sorrise, perché Erin aveva questa abitudine di domandare e tu? quando le veniva chiesto come stesse che la rendeva ancora più adorabile. Alec era sicuro che ci fosse Magnus, dietro a quella particolare abitudine, perché aveva capito quanto l’uomo tenesse all’educazione di sua figlia.
“Bene, grazie per averlo chiesto.”
Erin sorrise e si sistemò meglio. Alec assecondò i suoi movimenti in modo che stesse più comoda.
“Vuoi vedere la mia bambola?”
“Sì.” Le rispose, prima di voltarsi verso Magnus. “Abbiamo un po’ di tempo prima di andare?”
Magnus, che era intento a guardare Alec che teneva in braccio sua figlia – appurando che quello sarebbe sempre stato uno dei suoi punti deboli, qualcosa che avrebbe sempre ridotto il suo scheletro ad un ammasso morbido di burro fuso – annuì.
“Certo.”
“Andare dove?” Si inserì Madelaine.
“A cena.” Le rispose Magnus, mentre lasciava la figura di Alec che si dirigeva verso il centro del salotto con Erin e si concentrava sulla madre.
Madelaine aggrottò la fronte. “Ma avevi detto che avreste cenato qui.”
“Quando l’avrei detto?” Le chiese, perplesso.
“Prima! Hai detto veniamo a cena. Sono sicura, anakku.
“Ho detto che andiamo a cena. Sarei venuto a prendere Erin e saremmo andati a cena.”
Madelaine si fece pensierosa. Ricordava la telefonata con Magnus, ma… “Accidenti! Odio quel telefono! Mentre parlavamo la tua voce è andata via, ho sentito solo iamo e ho dedotto fosse veniamo!” La donna si picchiettò la fronte con il palmo della mano. Odiava quell’aggeggio infernale! Non lo sapeva usare, dannazione, e evidentemente quel coso odiava lei altrimenti non sarebbero successe certe cose!
“Hai già preparato da mangiare?” Le domandò Magnus.
“Sì, ma andate se avete altri piani!” Madelaine sorrise, cercando di tranquillizzarlo. A Magnus, però, dispiaceva andarsene così guardò Alec, che era seduto sul pavimento insieme ad Erin e, intuendo la conversazione, si era messo ad ascoltarli. L’idea di cenare a casa di Madelaine lo agitava meno di quanto si sarebbe mai aspettato. Soprattutto perché quella donna sembrava naturalmente propensa per far sentire le persone a proprio agio – e poi, visto che aveva già cucinato includendo anche lui nell’invito, gli sembrava scortese rifiutare.
“Per me possiamo restare.” Gli disse, quindi, rispondendo alla tacita richiesta che Magnus sembrava stesse porgendogli solo con gli occhi. “Sempre se va bene per tutti.” Alec guardò più che altro Madelaine, per essere sicuro di non essere di troppo.  
“A me va benissimo, caro.” Gli sorrise, e poi si voltò verso Magnus. “A te sta bene?”
Il figlio annuì. “Potrei approfittarne per parlarti di una cosa.” Guardò di nuovo Alec e questi intuì che voleva parlare con la madre della sua partenza verso Los Angeles, così annuì complice.
“Vai, io e Erin giochiamo un po’.”
Magnus annuì e lo guardò, rendendosi pienamente conto dell’espressione soffice che doveva avere sul viso. Il fatto era che non riusciva a trattenersi, non quando si trattava di Alexander. Lui lo capiva con uno sguardo e si impegnava sempre per riuscire ad aiutarlo, qualsiasi fosse la situazione. Era una dote che Magnus ammirava, un qualcosa che si trovava raramente nelle persone, soprattutto perché Alec lo aiutava solo perché voleva farlo e non perché si aspettasse qualcosa in cambio. Era gentile di natura. E in quel momento, a Magnus vennero in mente le parole di Maia, pronunciate quella sera di ormai due mesi prima, quando aveva visto Alexander per la seconda volta, a cena a casa di Clary: Alec è buono. E ora, Magnus ne aveva la certezza. Aveva provato sulla sua pelle quella verità e sapeva che era una delle cose che gli piacevano di lui.
“Grazie, tesoro.”
Alec gli sorrise, mentre le sue guance si coloravano di un rosa intenso. “Vi aspettiamo qui.” Gli disse, non staccandogli gli occhi di dosso finché Magnus non sparì in cucina con la madre. Il ballerino dovette fare appello a tutte le sue forze per non raggiungere l’altra stanza camminando all’indietro come un gambero, pur di non interrompere il contatto visivo con Alec – ma era sicuro che se l’avesse fatto, sarebbe finito inevitabilmente contro uno spigolo, quindi preferì evitare.
Quando entrò in cucina, Madelaine lo seguì e incrociò le braccia al petto.
“Devo preoccuparmi?”
“No.”
“Allora inizia a parlare.”



“Los Angeles?” Domandò Madelaine non appena il figlio finì di raccontarle tutto ciò che aveva raccontato ad Alec qualche ora prima.
Magnus annuì, le braccia incrociate al petto. Sospirò, guardando la madre di fronte a lui. “Cosa ne pensi?”
“Penso che tu debba fare ciò che ti rende felice.” Madelaine accennò un sorriso. “Accettare ti renderebbe felice?”
Magnus non aveva bisogno di pensarci su, non più almeno. La chiacchierata con Alexander aveva portato i suoi buoni frutti ed erano arrivati insieme alla conclusione che fare quell’esperienza l’avrebbe fatto felice.
“Sì.”
“Allora penso tu abbia già la tua risposta. ” La donna lo abbracciò e Magnus ricambiò, chinandosi un poco e sistemando il viso nell’incavo del collo della donna – un’abitudine che aveva fin da bambino e che l’età adulta non era riuscita a portargli via.
“Sai, il fatto che tu sia andato da Alec per primo, dovrebbe farti riflettere.”
Magnus sorrise, anche se Madelaine non poteva vederlo. “Abbiamo già trovato tutte le soluzioni ai miei dubbi. Vuole aiutarmi a trovare un sostituto che tenga aperta la scuola quando non ci sono e ha messo a disposizione se stesso e la sua famiglia nel caso tu abbia bisogno di aiuto con Erin.”
Madelaine sciolse l’abbraccio, mettendo le mani sulle spalle del figlio e scostandolo quel tanto da sé per riuscire a guardarlo in viso. “Mi spieghi cosa accidenti stai aspettando a chiedergli di uscire? È palese che gli piaci!”
Sul viso di Magnus sbocciò un sorriso che andava da orecchio ad orecchio. “L’ho fatto, in realtà. Gli ho chiesto se al mio ritorno potremmo avere un appuntamento vero e ha detto sì.”
Gli occhi di Madelaine si illuminarono, riflettendo la felicità che albergava nella voce del figlio. “Si vede da come vi guardate, che vi piacete, sai?”
Magnus non riusciva a smettere di sorridere. “È bello, ibu, bellissimo come nessuno prima di lui. Dentro e fuori.”  
Madelaine gli accarezzò una guancia. “Te lo meriti, lo sai, vero? Ti meriti qualcuno che ti faccia stare bene, qualcuno di salutare per te e per tua figlia. Qualcuno che ti veda esattamente per quello che sei e ti apprezzi, pregi e difetti.”
Madelaine non aveva bisogno di pronunciare il nome di Camille per far capire a Magnus che stava parlando di lei. A sua madre, Camille non era mai piaciuta – questo perché era riuscita a capire prima di lui che razza di persona orribile fosse. Ma Magnus all’epoca era giovane e ingenuo. Non riusciva a vedere al di là del proprio naso, tanto che era accecato dall’amore. Un amore che l’aveva reso incapace di capire che i sentimenti di Camille non erano puri, ma dettati da un profondo egoismo. Era riuscita a manipolarlo, quasi a plasmarlo affinché si comportasse come lei voleva che si comportasse. Aveva cercato di privarlo della sua essenza per fare in modo che assomigliasse sempre di più a lei. Madelaine l’aveva capito, ma Magnus in quel periodo era stato sordo alle parole della madre che cercava di avvisarlo, di salvaguardarlo da un’arpia. «Ti sbagli, mamma. Camille non è così, lei mi ama!» Era sempre così che Magnus concludeva le loro telefonate, quando era ancora in giro per il mondo con la sua vecchia compagnia di danza. Aveva avuto torto, comunque. Magnus aveva donato il suo cuore a qualcuno che l’aveva masticato, sputato e calpestato. E Madelaine nonostante tutto, nonostante avesse passato anni a cercare di metterlo in guardia, quando le sue parole, alla fine, si erano avverate non aveva pronunciato il fatidico te l’avevo detto. Al contrario, si era semplicemente limitata a sostenere Magnus, a stargli vicino, occupandosi di lui nel modo più materno possibile e a raccogliere i cocci del suo cuore infranto, aiutandolo a ricostruirlo passo dopo passo.
E adesso, forse, con un po’ di fortuna, quel cuore avrebbe potuto tornare a battere in modo giusto, vigoroso.
Forse, avrebbe potuto tornare a battere per Alexander.







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Ciao a tutti e ben ritrovati!
Mi scuso immensamente per il ritardo, ma ho avuto poco tempo! Spero che non abbiate trovato questo capitolo noioso, proprio perché un po’ più lungo e spero di riuscire a ridurre i tempi di pubblicazione tra un capitolo e l'altro! 
Parlando di questo capitolo, devo ammettere che sono un po’ insicura sulla parte di Raphael – perché temo sempre di rovinare il suo personaggio, o di non riuscire a trattare bene il tema della sua asessualità dal momento che mi documento su Internet. Nella serie Raphael dice “I’m just not interested in sex”, quindi mi baso anche su quello, ma se ci fosse qualcuno più documentato in materia, me lo faccia sapere, così eventualmente cercherò di caratterizzarlo meglio in futuro!
Sono poco convinta anche della parte riguardante Simon, soprattutto perché temo di banalizzarlo un po’.
Tutto questo per dirvi che mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di queste parti e del capitolo in generale!
Vi saluto e ringrazio immensamente chiunque legga questa storia, chi l’abbia messa tra le seguite/preferite/ricordate e chi spende un po’ di tempo a recensirla! Lo apprezzo davvero tantissimo, quindi grazie, grazie, grazie!
Un abbraccio, alla prossima! <3

PS: Vi siete ripresi dal finale di serie? E, soprattutto, vi è piaciuto?
E, ancora, quanto da 1 a 10 siamo tutti come Alec, quando guarda il suo futuro marito e gli dice “I do like you in a tux” con gli occhi a cuore? 

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Capitolo 10
*** 10. ***


Il Ringraziamento era sempre stata una festa importante, per Magnus. Quando era un bambino, Madelaine passava la giornata a cucinare. Si alzava la mattina presto e cominciava a preparare il ripieno per il tacchino, l’insalata di patate e le frittelle di grano, faceva rosolare piccoli spiedini di verdure grigliate e quando tutto era pronto, metteva il tacchino in forno e cominciava a preparare un dolce alla zucca.
Magnus aveva un bellissimo ricordo dei suoi Ringraziamenti, soprattutto perché coinvolgevano anche Clary e la sua famiglia. Magnus ancora ricorda i muffin alla mela che portava sempre Jocelyn – e il fatto che non appena metteva piede in casa sua, dopo aver salutato tutti, si dirigeva automaticamente in cucina per aiutare Madelaine.
Magnus era convinto che Jocelyn fosse la sorella che sua madre non aveva mai avuto. Era sempre stata sola, avendo perso i genitori quando era molto giovane, di conseguenza, quando aveva incontrato Asmodeus, a diciassette anni, lui doveva sembrarle quell’ancora di salvezza in grado di liberarla dalla solitudine. La sua giovane età e l’ingenuità che viene con essa, l’aveva spinta a fidarsi di un uomo che sapeva come manipolarla. Per questo, forse, Madelaine si era accorta di che stoffa fosse fatta Camille prima che Magnus se ne rendesse conto: la sua ex fidanzata non era poi tanto diversa da suo padre. Non era manesca, o violenta, ma era una subdola manipolatrice, che sapeva esattamente cosa dire e come dirlo per fare in modo che Magnus la assecondasse sempre, anche quando lui, inizialmente, era contrario.
Dopo anni passati con Asmodeus, Madelaine sapeva riconoscere una personalità simile. Magnus, invece… lui era solo un bambino la cui madre aveva cercato il più possibile di fargli da scudo contro le angherie del padre, di conseguenza non si era reso pienamente conto di che razza di uomo fosse. E questo l’aveva spinto a non capire nemmeno che tipo di donna fosse Camille. Aveva dovuto batterci di naso per conoscerla. Aveva dovuto finire con il cuore fatto a pezzi per capire che Madelaine aveva pienamente ragione a metterlo in guardia.
Sua madre, quindi, era sempre stata scettica riguardo a Camille e al suo modo di essere; Alexander, invece, sembrava le piacesse.
Non poteva darle torto, dopotutto piaceva anche a lui. Moltissimo.
Magnus sorrise, pensando ad Alec e al fatto che dopo il suo ritorno sarebbero usciti insieme. Un appuntamento vero. Magnus era emozionato al solo pensiero. Avrebbe organizzato qualcosa di speciale, perché Alexander era speciale. Si sentiva quasi come un ragazzino che scopre per la prima volta cosa si prova ad avere una cotta per qualcuno. Ogni volta che Magnus pensava ad Alec, il suo stomaco faceva una capriola ed il suo cuore accelerava in una quantità di battiti che non riusciva nemmeno a contare.
Per questo voleva passare più tempo possibile con lui, prima che partisse. E proprio per questo, aveva deciso di organizzare il Ringraziamento a casa sua. Non era stato facile convincere tutti, soprattutto perché Maryse Lightwood aveva già organizzato una cena a casa propria, ma con le giuste parole i suoi figli erano riusciti a convincerla.
Il loft di Magnus sarebbe stato pieno di persone a cui voleva bene. Sarebbe stato un Ringraziamento in pieno stile Madelaine Bane: con tante persone, tanto cibo, un sacco di chiacchiere e, soprattutto, tranquillità e armonia. Magnus ne avrebbe approfittato anche per informare gli altri del suo temporaneo soggiorno a LA.
Per ora a saperlo erano in tre, se si escludeva lui stesso: Alec, sua madre ed Erin. La piccola all’inizio non l’aveva presa molto bene, ma con l’aiuto di Madelaine e Alexander erano riusciti a farla ragionare.
“Non voglio stare senza te! Perché vai via?” Erin aveva alzato la vocetta, mentre i suoi occhi a mandorla si facevano lucidi di lacrime. Alec aveva guardato Magnus, preoccupato che una reazione simile portasse a galla le sue paure. Temeva che la figlia si sentisse abbandonata e infatti, quando le sue iridi cervone si posarono sul viso di Magnus, notò i suoi bei lineamenti tirati dalla preoccupazione. Alec ci avrebbe scommesso la testa: in quell’istante, Magnus Bane si sentiva l’uomo più egoista della Terra. Ma siccome non era così, decise di intervenire. E non gli importava se nel suo ruolo non rientravano comportamenti simili – erano ancora solo due amici, dopotutto. Ma Alec sapeva bene che non era così. Ad occhi esterni, e sotto un punto di vista prettamente pratico, non erano ancora usciti insieme, né avevano  varcato la soglia che separa l’amicizia da quel ‘qualcosa di più’, ma lui sapeva bene cosa provava per Magnus e di certo non era solo amicizia. Di conseguenza, decise di comportarsi come avrebbe fatto se fossero ufficialmente usciti insieme. Aspettò inizialmente che Magnus e Madelaine gestissero la cosa – perché erano una famiglia e fino ad ora avevano vissuto secondo le loro regole – ma quando Erin si era messa a singhiozzare e gli era corsa in contro, di certo Alec non si era tirato indietro, o aveva fatto finta di niente. Si era chinato alla sua altezza e aveva abbracciato la bambina, che aveva nascosto il viso nel suo petto, e le aveva gentilmente accarezzato la schiena, nel tentativo di calmarla.
“Dillo anche tu a papà, Alec! Digli che non deve partire!”
Fare ragionare una bambina di quattro anni non è semplice, soprattutto se è coinvolta l’assenza momentanea – presente o futura – di un genitore.
Alec, piegato sulle ginocchia, aveva alzato gli occhi su Magnus, che aveva ancora quell’espressione triste in viso. Avrebbe fatto di tutto per far si che quell’espressione venisse cancellata dai suoi lineamenti.
“So che papà ti mancherà…” Cominciò, scostandola con delicatezza da sé per fare in modo di guardarla in viso. Erin si strofinò un occhietto ancora umido, mentre lacrime ormai scese le rigavano le guance. Alec gliele asciugò, piano. “Mancherà anche a me…” Sussurrò come se fosse un segreto, ma allo stesso tempo fosse qualcosa che sentiva il bisogno di dire – se non altro per farlo sapere a Magnus. Per questo spostò lo sguardo su di lui per una frazione di secondo, dopo quelle parole, prima di riportarlo sulla bambina e continuare. “Ma tornerà. Andrà via solo per qualche settimana… sai cosa andrà a fare?”
La bambina negò con il capo. Il discorso di Magnus si era fermato poco dopo che le aveva comunicato che doveva andare via per qualche settimana. Non aveva fatto in tempo a spiegarle cosa andava a fare perché Erin si era messa a piangere e, di conseguenza, Magnus aveva subito provato a calmarla – accantonando, così, momentaneamente il discorso.
“Andrà a ballare in tivù, come i ballerini famosi.”
Erin accennò un sorriso, sebbene la sua vocina suonasse ancora rotta dal pianto. “Sarà il più bravo di tutti, secondo me.”
Alec sorrise. “Anche secondo me.”
La bambina si avvicinò a lui per riuscire ad abbracciarlo di nuovo. Le sue piccole braccia gli circondarono il collo. “Lo guarderai con me, quando sarà alla tivù?”
Alec sapeva che quella sarebbe sempre stata una sua scelta. Non spettava a nessun altro decidere, se non a lui. Per questo non alzò nemmeno lo sguardo su Magnus, prima di rispondere, perché non era il momento di chiedergli il permesso. Quello era il momento per dimostrargli che ci sarebbe sempre stato, indipendentemente da tutto, e che avrebbe sempre fatto tutto ciò che era nelle sue piene capacità per aiutarlo. Alec voleva dimostrargli che sarebbe stato presente sia per lui che per Erin, perché sapeva quanto fosse importante per Magnus che la figlia facesse parte di qualsiasi equazione. Non poteva esserci nessun Alec + Magnus, se il primo non accettava Erin. E dal momento che Alec aveva già accettato la bambina e che si era già affezionato a lei, voleva che Magnus lo sapesse.
“Ma certo. Verrò a trovare te e la nonna e guarderemo papà ballare, insieme.”
Alec si alzò, tornando in posizione eretta e prendendo Erin in braccio. La piccola si sistemò, circondandogli il busto con le gambine e il collo con le braccia.
“Dov’è la scimmietta, Alec?” domandò Erin, più serena.
Alec sorrise, mentre si avvicinava a Magnus e a sua madre con la bambina ancora in braccio. “È qui,” rispose, circondandola con un braccio, mentre usava l’altro per farle il solletico.  
“Grazie.” Gli disse Magnus, non appena furono abbastanza vicini. Allungò una mano per accarezzargli il viso e Alec, istintivamente, sorrise. I motivi di quel sorriso erano essenzialmente due: il contatto con Magnus e l’espressione che adesso abitava il suo viso. Non c’era più tristezza, o preoccupazione, o angoscia. Magnus sembrava più sereno e Alec non poteva esserne che felice. La mano di Magnus, successivamente, si spostò dal viso di Alec alla schiena della figlia. Erin non appena riconobbe il tocco del padre si voltò verso di lui.
“Sei arrabbiato, papà?”
“No, amore, non sono arrabbiato.”
Erin, allora, si staccò da Alec per buttarsi verso il padre. Lo strinse in un abbraccio che Magnus ricambiò. “Tu sei arrabbiata?” Le domandò l’uomo, un velo di preoccupazione nella voce.
La bambina negò con il capo. “Io e Alec pensiamo che sarai il più bravo.”
Magnus sorrise, sereno e decisamente più tranquillo. “Ho sentito. E ho sentito anche che verrà a trovarti.”
Erin annuì e poi si voltò verso Madelaine. “Può, nonna?”
La donna si avvicinò al figlio e alla nipote, baciando quest’ultima su una guancia. “Ma certo, mio tesoro. Alec può venire a trovarci ogni volta che vuole.”
Madelaine guardò il diretto interessato dritto negli occhi. Alec sotto quello sguardo arrossì inevitabilmente, se non altro perché gli venne in mente che aveva detto, solo qualche istante prima, che anche lui avrebbe sentito la mancanza di Magnus proprio davanti a sua madre. Come se una frase simile non fosse una dichiarazione di per sé. Madelaine, però, non sembrava infastidita né dal comportamento che aveva avuto Alec, né dalle sue parole.
“Grazie.” Le rispose e la donna gli fece un cenno d’assenso con il capo.

Alexander si era comportato in un modo così dolce che aveva scaldato il cuore di Magnus. Ma l’uomo era sicuro che quel gesto avesse colpito anche sua madre perché quella sera, dopo che aveva riaccompagnato Alec a casa e lui ed Erin erano tornati a casa loro, Madelaine l’aveva chiamato, dicendo che Alec le piaceva.
Era stata diretta e sincera – come sempre – e non si era fatta nessuna remora a dire che le aveva fatto una buona impressione. È bravo con i bambini, Erin si fida di lui e ti guarda come se fossi tu la ragione per cui l’universo esiste.
Queste erano state le parole di Madelaine, al telefono, e Magnus… Magnus inevitabilmente si era trovato a sorridere – e forse, dopo anni, persino ad arrossire. Non capitava mai, ma Alec aveva un potere particolare su di lui.
Magnus sorrise a quel pensiero. Era passata una settimana da quella sera e lui adesso si ritrovava a sistemare la sua casa per il Ringraziamento, in attesa che i suoi ospiti arrivassero. Erano riusciti persino a convincere Simon, che nonostante fosse ebreo, non era stato in grado di resistere a del buon cibo. Niente tacchino, aveva detto, perché era vegetariano, ma Clary gli aveva promesso una quantità spropositata di dolcetti alla mela e Magnus un’infinità di spiedini di verdura a cui il ragazzo non aveva saputo dire di no.
Era stato un accordo strano, quello che aveva fatto sì che tutti accettassero l’invito di Magnus a solo pochi giorni dal Ringraziamento: chiunque avrebbe portato qualcosa da mangiare, onde evitare che tutto il menu gravasse sul padrone di casa. Di conseguenza, avevano stillato una lista di primi, secondi e dolci, che la combriccola aveva fatto in modo di dividersi.  Magnus aveva insistito per preparare il tacchino – Madelaine l’avrebbe aiutato – mentre gli altri avevano insistito affinché Isabelle pensasse solo alle bevande.
A Magnus veniva ancora da ridere al solo pensiero del tono risentito del messaggio vocale che la ragazza aveva invitato nella chat di gruppo creata appositamente per l’occasione.
Prenderò da bere. Ma consideratemi offesa, brutti traditori!!
Da lì poi il discorso era degenerato, soprattutto perché Jace aveva iniziato a fare una serie di battute solo per stuzzicare la sorella e il suo lato permaloso.
Magnus stava ancora sorridendo, quando i suoi pensieri vennero interrotti dal suono del campanello. Smise di sbucciare le patate per il purè e si pulì le mani sopra al grembiule che stava indossando e che serviva a proteggere i suoi pantaloni. Vista l’ora, doveva sicuramente essere sua madre, che veniva ad aiutarlo per preparare il tacchino.
Uscì dalla cucina, diede un’occhiata ad Erin in salotto – ancora seduta sul divano a guardare un cartone animato – e si diresse verso la porta d’ingresso. Aprì senza nemmeno guardare chi fosse dallo spioncino, ormai convinto che avrebbe trovato Madelaine al di là della porta. Si sbagliava. Perché chi aveva suonato non poteva essere più diverso dalla donna che l’aveva concepito. Primo: era un uomo; secondo: era molto più alto di lei; terzo: era Alexander – bellissimo, come sempre, ovviamente. Il giorno in cui Magnus avrebbe smesso di trovarlo tale, probabilmente avrebbero dovuto internarlo.
Indossava un maglione verde scuro di lana intrecciata, la sua solita giacca di pelle, pantaloni neri e anfibi.
Magnus si prese più tempo del necessario per studiarlo e osservarlo, quasi non avesse voluto perdersi nessun dettaglio. C’era qualcosa nello stile di Alec che lo attirava particolarmente. Per quanto fosse semplice e decisamente poco colorato, a Magnus piaceva… se non altro perché metteva in risalto la mascolinità di Alec. C’era qualcosa nel modo in cui tendeva ad usare sempre il nero, o colori scuri, che lo rendevano ombroso e affascinante. Tall, Dark and Handsome era un detto che sicuramente era stato inventato dopo che Dio aveva messo al mondo Alexander Gideon Lightwood, le sue lunghissime gambe e le sue ampie spalle.
“Ciao, tesoro.” Gli sorrise, dopo la sua attenta analisi. Fosse stato per lui, avrebbe continuato a guardarlo per tutta la giornata. Improvvisamente, l’idea di chiamare tutti e annullare la cena per restare a fissare ogni singolo dettaglio di Alec per tutta la sera non gli sembrava poi tanto una pazzia, quanto più un suo diritto. A breve, avrebbe passato tre settimane lontano da lui, il minimo che poteva fare era guardarlo finché ancora poteva.
“Ciao, Magnus.” Ricambiò quel sorriso e Magnus sentì le gambe diventare di gelatina. Quando sorrideva era ancora più bello. Il suo viso si apriva, assecondando i movimenti della sua bocca, quasi ogni centimetro del suo volto avesse voluto favorire lo sbocciare di quel sorriso, come se i suoi muscoli facciali fossero consapevoli dell’opera d’arte che sarebbe venuta fuori e volessero partecipare al meglio per rendere quello spettacolo meraviglioso. Ed era così, in effetti. Ogni volta che Alexander sorrideva a Magnus mancava il fiato, proprio come succede davanti ai miracoli.  
“Sono un po’ in anticipo…” si scusò, “Spero non ti dispiaccia.”
“Assolutamente no, fagiolino.” Magnus si fece da parte per far entrare Alec, che dal canto suo alzò gli occhi al cielo per quel soprannome.
“Magnus,” Disse, in tono grave, “Fagiolino? Davvero? Avevamo già detto di non usarlo.”
“Hai ragione. Preferisci patatino?”
Alec aggrottò lo sopracciglia. “NO!” Esclamò, facendo ridere Magnus.
“D’accordo,” Gli appoggiò una mano sul petto – senza un apparente motivo che non fosse, ovviamente, il fatto che volesse farlo – e gli diede una leggera pacca. “Niente verdura.”
“Grazie.”
“Prego, cioccolatino.” Magnus spostò la mano dal petto al suo viso, per accarezzargli una guancia. “Ora, vuoi toglierti la giacca e venire di là con me?”
Alec annuì – evitando di ribattere su quel nuovo soprannome, perché se doveva scegliere preferiva essere associato ad un pezzo di cioccolata piuttosto che ad una patata – e si tolse la giacca.
Solo quando appoggiò due sacchetti a terra, Magnus si rese conto che aveva qualcosa in mano.
“Cosa sono quelli?”
Alec si sfilò la giacca e l’appoggiò all’attaccapanni, poi si chinò per sollevare nuovamente i due sacchetti che aveva poggiato a terra. “Qui ci sono i bignè per la cena di stasera,” sollevò uno dei sacchetti con la mano sinistra, “E qui c’è una cosa per Erin,” sollevò l’altro sacchetto con la mano destra.
“Per Erin?”
Alec annuì. “Un regalino per il Ringraziamento. È una specie di tradizione… compro sempre qualcosa a Diana per il Ringraziamento e quest’anno ho pensato di prendere la stessa cosa anche ad Erin…” Alec titubò un attimo, quasi come se il pensiero che Magnus potesse non gradire quel gesto gli balenasse solo ora nella mente. “Se ti da fastidio posso non darglielo…” Tentennò, insicuro.
Magnus gli prese il viso tra le mani e lo guardò, ammorbidendosi davanti a tanta dolcezza. “Non mi da fastidio. Mi stupisce il fatto che hai pensato a lei… nessuno l’aveva mai fatto…”
Alec sorrise. “Mi hai scoperto. In realtà lo faccio solo per entrare nelle tue grazie.”
Magnus spostò una delle mani dal viso di Alec per dargli uno schiaffetto sulla spalla. “Scemo!”
Dopo una breve risata, Alec si fece serio. Piantò i suoi occhi in quelli di Magnus, quasi avesse voluto lasciarli nei suoi per sempre. “Lei è importante per te, com’è giusto che sia. Voglio solo che non mi veda come una minaccia, in futuro.”
“Con futuro intendi quando usciremo insieme?”
Alec arrossì. “Sì. Quando tu, super star, tornerai tra i comuni mortali e uscirai con me.”
Magnus sorrise al solo pensiero. Non vedeva davvero l’ora che quel giorno arrivasse. E ora, con le parole di Alec nelle orecchie, più che mai. Nessuno aveva mai pensato anche ad Erin. Le persone con cui era uscito vedevano solo Magnus, senza prendere davvero in considerazione il suo passato, o la sua storia, o il fatto che avesse una figlia. Alexander era diverso: lui vedeva Magnus, ma anche ciò che era stato, vedeva i passi che aveva compiuto per essere l’uomo che era diventato e, soprattutto, vedeva Erin – la vedeva come la piccola persona reale che era e come la priorità di Magnus. Non pretendeva di mettersi tra di loro, né che Magnus smettesse di darle attenzioni per rivolgerle tutte a lui. Alec si era inserito nella vita di Magnus in punta di piedi, senza avanzare pretese e senza cambiare nulla della sua routine. Per questo Erin gli voleva bene, perché Alec aveva sempre rispettato sia lei che Magnus.
“Erin ti adora, Alexander. Non ti vedrà mai come una minaccia, o come qualcuno che vuole portarle via il suo papà.”
“Non vorrei mai una cosa simile.”
“Lo so. E lo sa anche lei.”
Alec sorrise, tranquillo. Sentirsi dire certe cose era davvero un sollievo. “Posso andare a darle il suo regalo, quindi?”
“Puoi.” Magnus ridacchiò, il cuore che si allargava di almeno una taglia. “Finirai davvero per viziarla!”
“Forse, chi lo sa!” Alec fece spallucce e si inoltrò in casa. E mentre raggiungeva il salotto, Magnus notò con quanta naturalezza ormai Alec si muovesse in casa sua. Per questo motivo, il suo cuore accelerò – o forse accelerò al pensiero di Alec che si impegna per farsi volere bene da Erin, o del fatto che avesse parlato del loro primo appuntamento come se lo aspettasse con la stessa euforia con la quale lo aspettava Magnus. O forse, il suo cuore accelerò perché semplicemente la presenza di Alec gli faceva quell’effetto. Bastava uno sguardo, un sorriso, e Magnus si dimenticava di qualsiasi cosa non fosse Alexander.
Forse, dopo anni, Magnus Bane si stava innamorando di nuovo.


Erin era una bambina molto attratta dalle storie, come tutte le bambine. In particolare, amava i draghi e le sirene – per questo, aveva adorato il regalo di Alec: una coperta a forma di coda di sirena, viola e con i ricami rosa.
Quando Alec era comparso in salotto, Erin si era immediatamente alzata dal divano per andargli in contro. Quando, poi, lui le aveva detto che aveva un regalo per lei, il viso della bambina si era illuminato ancora di più. A quel punto, Alec le aveva passato il sacchetto ed Erin ci aveva messo le manine dentro, curiosa come non mai di scoprire cosa fosse quel regalo. Quando aveva visto la coda da sirena, i suoi occhietti si erano illuminati e poi si era lasciata andare ad un gridolino euforico.
“È bellissima, Alec!” Erin saltellò per tutto il salotto stringendo la sua nuova copertina. Alec la seguì con lo sguardo, mentre un grosso sorriso albergava sul suo viso.
“Sono felice ti piaccia, monyet.”
Ecco quello fu il momento che contribuì a far sciogliere Magnus. Non solo Alec aveva fatto un regalo a sua figlia, ma stava pure imparando l’indonesiano? Cos’era, un altro modo che aveva l’universo per dirgli che Alec, in pratica, era perfetto?
“Cosa hai detto?” chiese, stupito.
Alec a quel punto si voltò verso di lui, le guance rosse e l’espressione titubante in viso. “L’ho detto male? O non dovevo dirlo?”
Magnus si avvicinò a lui, mettendosi al suo fianco. Erano entrambi in piedi e rivolti verso Erin, che adesso era tornata sul divano e stava mettendo le gambine dentro alla sua coperta-coda.
“Nessuna delle due, tesoro. L’hai detto benissimo, solo che…” Magnus spostò lo sguardo dalla figlia e lo alzò su di lui, “Continui a sorprendermi, Alexander.”
Alec accennò un sorriso storto, alzando solo un angolo della bocca. “In positivo, spero.”
Magnus annuì, continuando a guardare Alec come se fosse la galassia in cui fluttua il pianeta e tutto ciò che esiste al mondo dipendesse da lui, o fosse stato direttamente creato da lui. Quel pensiero che aveva avuto poco prima si fece ancora più strada in lui e, soprattutto, non lo spaventò. Magnus si stava innamorando dell’uomo che aveva vicino e la cosa non lo terrorizzava. Non provava più l’impulso di nascondersi dietro a una qualche maschera che serviva a non mostrare il suo cuore al primo, o alla prima, che gli capitava. Alexander era diverso da tutti, con lui non servivano maschere perché riusciva a vedere Magnus esattamente per quello che era. E al ballerino questa cosa piaceva, lo faceva sentire bene come non gli capitava da parecchio tempo.
Terima kasih atas hadiahnya, Alec!”
La voce di Erin distrasse Magnus dai suoi pensieri. La bambina aveva parlato dal divano sul quale si era riaccomodata, rimanendo ben al caldo dentro alla sua nuova coperta-coda.
L’espressione confusa di Alec, tuttavia, gli fece capire che non aveva capito una sola parola di ciò che aveva detto Erin.
“Ha detto: grazie per il regalo, Alec.” Tradusse Magnus e Alec annuì.
“Prego, Erin!” rispose, rivolto alla bambina, che sorrise e si rimise a guardare la televisione. Dopo qualche istante, Alec si rivolse di nuovo a Magnus. “La mia conoscenza dell’indonesiano si riduce a pochissime parole: ho cercato bintang e sayang perché spesso ci chiami Erin; ibu e anakku perché ho sentito tu e tua madre l’altro giorno ed ero curioso di sapere cosa significassero tutte queste parole.”
“E hai cercato come si dice scimmietta perché chiami Erin così.”
Alec annuì.
Altra cosa che nessuno aveva mai fatto per Magnus: cercare di imparare la sua lingua d’origine. Era importante per lui mantenere le sue radici vive, così nello stesso modo in cui sua madre aveva insegnato l’indonesiano a lui, lui l’aveva insegnato a sua figlia.  Ma nessuno al di fuori di loro tre si era mai interessato alla sua lingua madre. Alexander sì. E Magnus inevitabilmente si trovò a sorridere.  
“Sei stato dolcissimo, tesoro, ma potevi chiedere. Ti avrei detto i significati di quelle parole.”
“Ma, se l’avessi fatto, adesso non ti avrei sorpreso.”
“Volevi sorprendermi?”
“Volevo fare qualcosa di carino per te. Ci sono riuscito?”
Magnus annuì, sentendo il cuore che si gonfiava per l’ennesima volta nel giro di pochissimo tempo. “Sì.”
Alec sorrise, felice. “Mi insegnerai la tua lingua, Magnus?”
“Certo, cioccolatino.” Gli accarezzò una guancia e Alec inclinò il capo verso il palmo della sua mano. “Ti va di aiutarmi a preparare la cena?” domandò Magnus, perché se fossero stati ancora per qualche istante in silenzio era certo che avrebbe finito per baciarlo.
Alec annuì. “Sono qui per questo, no?”
Magnus ridacchiò e gli fece cenno di andare verso la cucina. Dopo un’ultima occhiata ad Erin, che muoveva le gambine per far muovere di conseguenza la sua coda, seguì Alec.



I suoi ospiti arrivarono uno dopo l’altro e nel giro di poco tempo, il loft si riempì di persone. Voci che andavano a mescolarsi tra di loro echeggiavano tra le pareti, trasformandosi in risate o in gridolini nel caso si trattasse di Erin e di Diana, che correvano euforiche per casa. Più di una volta Clary aveva intimato alla figlia di non correre, ma Magnus le aveva detto di lasciarle stare. Si stavano divertendo e se per una volta facevano le scalmanate non succedeva nulla.
Magnus, dalla cucina, riusciva distintamente a riconoscere chi stesse parlando e chi no. Sentiva Simon discutere con Jace su quale squadra di basket fosse la migliore, o Isabelle, Clary e Maia organizzarsi per trovare il giorno perfetto per riuscire ad andare da un fioraio per il matrimonio; sentì chiaramente la voce di sua madre che chiedeva un consiglio a Maryse riguardante un libro da leggere – Madelaine sapeva che la donna era la proprietaria di una libreria e che si teneva sempre aggiornata sui libri usciti di recente, quindi aveva pensato che nessuno meglio di lei sarebbe stato in grado di consigliarle cosa leggere nel suo tempo libero.
Era certo che tutto questo gli sarebbe mancato, nel suo soggiorno lontano da NY. Avrebbe sentito nostalgia di casa, di quelle persone che adesso erano nel suo salotto ed erano entrate a far parte della sua famiglia. L’idea di partire lo elettrizzava perché avrebbe fatto qualcosa che amava fare, ma anche l’idea di tornare era piacevole. Magnus era un uomo diverso, adesso… non bramava più le attenzioni del mondo intero, bramava solo quelle delle persone che erano importanti per lui.
Non era sempre stato così, però, e di questo Magnus ne era pienamente consapevole.
Rientrò nella sua stanza d’hotel a Parigi. La serata era andata alla grande e lo spettacolo era piaciuto a tutti, tanto che ogni singola persona dentro al teatro si era alzata in piedi per applaudire. Magnus aveva il cuore che traboccava di gioia e di entusiasmo. Stava vivendo il suo sogno – anzi, poteva quasi dire con esattezza che la realtà che adesso si trovava a vivere aveva superato ogni suo sogno, ogni sua aspettativa. E la cosa migliore era che stava vivendo tutto con lei, Camille. Si erano incontrati tre anni prima, durante il suo primo giorno all’Accademia. Era così nervoso, ma lei con un solo sorriso era riuscita a far sciogliere tutta la sua tensione.
Era bellissima, la sua Camille. Aveva i capelli biondi, lunghi e ondulati, come la più preziosa cascata d’oro. I suoi occhi erano due zaffiri rari e ogni volta che si posavano su Magnus lui sentiva il respiro venirgli meno.
La amava così tanto. Era certo che avrebbero passato la loro vita insieme. Si sarebbero sposati, un giorno, e avrebbero avuto una famiglia. Contava solo lei, per Magnus. Le gravitava attorno come un satellite. Lei si muoveva in una stanza e Magnus, automaticamente, sentiva l’impulso di seguirla – indipendentemente da quello che stava facendo, interrompeva qualsiasi cosa per andarle dietro. Perché se lei non era in quella stanza, nulla contava e tutto perdeva d’importanza.
“È stato elettrizzante, non è vero?” le chiese, quando anche lei entrò nella camera che condividevano e si chiuse la porta alle spalle. Camille gli si avvicinò, circondandogli il collo con le braccia. Avvicinò il naso al suo, sfiorandogli la punta prima di posare le sue labbra su quelle di Magnus.
“Lo è stato, amore mio. E sai cosa c’è di ancora più elettrizzante? Le feste. Ne hanno organizzata una solo per noi della compagnia, ci saranno esponenti di ogni giornale francese! Dobbiamo andarci, mio dolce tesoro. Immagina la pubblicità!”
Magnus sospirò. “Dobbiamo proprio? Non possiamo stare tranquilli io e te, qui?”
Camille sciolse l’abbraccio, con una freddezza tale che avrebbe congelato il sole. “Mi vuoi infelice, Magnus? Vuoi che io sia triste? O magari vuoi tenermi lontana dagli occhi di tutti perché sei geloso? Non vuoi condividermi?”
“No, non è questo, è che io…”
“Tu, cosa? Vuoi diventare possessivo come tuo padre? Hai i suoi geni, dopotutto… Ma ricordati che il comportamento di tuo padre ha fatto fuggire tua madre. Vuoi che fugga anche io?”
Era una cosa che Magnus non avrebbe mai sopportato. Perdere Camille, vivere senza di lei. Voleva dimostrarle che lui era diverso da suo padre, che mai sarebbe stato come Asmodeus e che mai,
mai, l’avrebbe costretta a sentirsi in trappola nello stesso modo in cui si era sentita sua madre.
“Andremo a questa festa, se ti rende felice.”
Camille emise un gridolino euforico e la freddezza di poco prima scomparve. Era una donna particolare, questo Magnus lo sapeva. Forse era un tantino volubile, ma ne valeva la pena. Ogni suo sbalzo d’umore negativo era sopportabile perché quando Camille era di buon umore lo faceva stare bene.
Camille lo baciò di slancio. “E poi immagina, amore mio, i fotografi, i giornalisti… tutti che parlano di noi! Non vuoi che parlino del nostro talento?”
Magnus annuì. Voleva che parlassero di lui. La fama è una signora affascinante che sussurra parole dolci e che riesce a far pendere chiunque dalle proprie labbra. La fama riesce a donare quella luce che tutti agognano, ti fa sentire speciale, quasi diverso dagli altri, quasi dipendessi da ciò che pensano gli altri – e più parlano di te, più la tua figura diventa grande e impossibile da non notare.
Magnus voleva essere famoso. E mai lo sarebbe diventato se avesse passato le sue notti rinchiuso in una camera d’hotel.
“Andiamo,” Disse quindi. “Facciamo parlare di noi.”

All’epoca, Magnus aveva ventiquattro anni. Non era più un bambino, certo, ma si portava ancora dietro l’ingenuità della giovane età, dove tutto ciò che luccica sembra necessariamente oro. Niente poteva essere più lontano da questa convinzione – questo Magnus l’aveva capito maturando, vivendo la sua vita e facendo determinate esperienze. Non aveva mai visto quanto Camille lo manipolasse, pensava solo che avesse un carattere particolare. Non si era mai sbagliato così tanto su qualcuno come aveva fatto con lei. Ci erano voluti giusto dieci anni e la possibilità di perdere la sua futura bambina per capirlo.
Camille tirava fuori la sua parte peggiore. E quel ricordo che fino a poco prima abitava la sua mente ne era la prova. Era una tentatrice, qualcuno in grado di far sembrare irresistibile o indispensabile qualsiasi cosa, anche la più frivola. E Magnus era stato sciocco e cieco a credere che ciò che contasse davvero nella vita fosse un branco di sconosciuti che parla di te, giudica la tua vita, e costruisce una versione di te che è lontanissima dalla verità. I media dell’epoca dipingevano Camille come una donna buona, energica e capace di amare il prossimo. Era una ballerina eccezionale con il cuore di una santa, sempre dedita ai suoi fan e a qualsiasi ente di beneficenza.
Nessun quadro poteva essere più lontano dalla verità di questo. Camille era egoista, meschina e trattava male ogni suo dipendente, credendosi superiore a tutti. Qualcuno potrebbe dire che fosse stata la fama a ridurla così, a corromperla a tal punto da trasformarla in una grottesca parodia di quello che era stata prima che la dea alata la toccasse. Ma non era così. Quella era la sua vera natura. La fama, in questo caso, non aveva peggiorato niente. Per questo la cosa migliore che aveva potuto fare Magnus per se stesso – ed Erin –  era stata allontanarsi da una persona simile.
“Sei pensieroso, chef.”
Una voce distolse Magnus dai suoi pensieri. Si voltò verso l’ingresso della cucina, trovando Alexander che si avvicinava a lui. Si appoggiò al piano cottura e incrociò le braccia al petto, guardando Magnus in viso quasi volesse studiarlo.
“Sto bene.” Si affrettò a tranquillizzarlo.
“Non ho detto che stai male, ho solo evidenziato che sei pensieroso.”
Magnus mescolò la pastella delle frittelle di grano per un po’, prima di rispondere. “Sai, Max ha ragione: sei puntiglioso.”
Alec tirò indietro la testa e ridacchiò, poi tornò a guardare Magnus. “Allora, mi dici che hai? Sei preoccupato?”
“No.” Sospirò Magnus, “Sono solo… ricordi.”
“Brutti?”
“Diciamo poco piacevoli. Pensare di andare via per tre settimane mi ha fatto capire che sono in uno stato emotivo diverso rispetto a quando ero più giovane. Da qui, ho iniziato a pensare a cosa volevo quando ero giovane e che davo importanza a cose che, in realtà, non ce l’hanno… ero molto più stupido.”
“Più giovani siamo, più stupidi siamo, Magnus. È la natura umana. La saggezza viene con l’avanzare dell’età, ma non possiamo diventare saggi, se prima non abbiamo fatto degli errori da cui imparare. Non trovi?”
Magnus sorrise. “Ti diverti a darmi sempre prova di non essere solo un bel faccino, non è vero?”
Alec guardò verso il basso, le guance che si arrossavano e le labbra che venivano ritirate all’interno della bocca.
Era bello e intelligente, ma non riusciva a reggere i complimenti. Magnus non aveva ancora capito se ciò derivasse da una profonda insicurezza o da una discreta umiltà. Alexander, talvolta, era difficile da decifrare, ma a Magnus andava bene così. Le cose interessanti richiedono sempre tempo per essere capite a pieno, altrimenti non sarebbero interessanti.
Alec alzò di nuovo gli occhi su di lui, un leggero rossore ancora colorava le sue guance. Il suo sguardo, però, si fece più attento e profondo, quasi indagatore.  “Allora, vuoi dirmi a cosa stavi pensando?”
Magnus mescolò l’impasto delle frittelle e poi usò un mestolo per versare cinque cerchietti in una padella che stava sul fuoco. Il tutto sfrigolò all’istante. Magnus osservò la pastella friggere per qualche secondo, prima di parlare.
“Pensavo ad una versione di me più giovane e…a Camille. Lei mi manipolava e coltivava le mie insicurezze, sfruttandole a suo piacimento, ma io ero così stupido da lasciarglielo fare, da non capire chi avessi vicino e lasciarmi abbindolare dalle sue parole.” Girò le frittelle per far cuocere l’altro lato. “Ciò che ho provato per lei era autentico, ma è come se ad amarla fosse stata un’altra versione di me. C’è stato un tempo in cui pensavo che tutto ciò che contasse fosse la fama che avevo acquistato, il fatto che se passavo in una strada affollata almeno metà delle persone sapeva il mio nome. Mi sentivo una specie di divinità pagana solo perché una manciata di sconosciuti mi dava importanza per qualche istante. In quel tempo, viveva quella versione di me che era innamorata di Camille – e solo adesso capisco che era così perché lei altro non era che la personificazione fisica di tutti quei desideri. Lei stessa si nutriva di fama, la preferiva addirittura all’ossigeno. Le dava così importanza che era impossibile non venire contagiati dalla sua idea di come andava vissuta la vita e io mi sono lasciato affascinare da tutto questo.” Fece una pausa. “Non fraintendermi, apprezzo ancora le persone che mi hanno seguito, in passato. Se non avessi avuto dei fan non avrei raggiunto il successo, ma… era il mio modo di vederli che era sbagliato. Mi sentivo…” Una punta di imbarazzo impregnò la sua voce, “…Quasi superiore a loro, come se fossi costantemente su quel palco che calcavo ogni sera, durante ogni spettacolo.” Guardò Alec, quasi avesse timore che potesse cambiare idea su di lui, sentendogli dire certe cose. Ma Alec si limitò a guardarlo, senza giudizio alcuno negli occhi.
“Chi siamo stati ha contribuito a forgiare chi siamo adesso. Commettere degli errori o avere determinati comportamenti ci aiutano a capire chi vogliamo essere. Se tu non avessi passato quel periodo della tua vita non avresti mai capito che in realtà non vuoi essere qualcuno che si sente in qualche modo superiore agli altri, né avresti capito che non vuoi qualcuno come Camille vicino.” Alec gli sorrise, dolce come solo lui sapeva essere. “Ciò che sei stato, Magnus, ha fatto sì che diventassi l’uomo che sei ora. E se devo essere onesto a me piace parecchio ciò che sei.”
Magnus gli sorrise. Lo guardò con un’espressione soffice, quasi i suoi sentimenti stessero salendo dal suo cuore e si volessero manifestare attraverso i lineamenti del suo viso. Quasi volesse, solo attraverso uno sguardo, fargli capire ciò che stava capendo a sua volta: mi sto innamorando di te. Magnus forse non era ancora pronto a dirlo ad alta voce, ma a quanto pare i suoi occhi lo erano. Altrimenti non avrebbe guardato Alexander come se fosse il suo personale miracolo.
“Quanto sei dolce, tesoro.”
Alec arrossì di nuovo. “Ho detto solo ciò che penso, Magnus.”
Magnus si avvicinò a lui quel tanto necessario a ridurre la già poca distanza che li separava e si sporse per lasciargli un bacio sulla guancia – Alec si era fatto la barba e Magnus non sapeva decidere se gli piacesse di più con o senza. Nel dubbio, decise che gli piaceva in entrambi i casi.
Tornò alla sua postazione per togliere le frittelle dal fuoco e metterle sopra ad un piatto coperto di carta assorbente. Successivamente, sistemò altra pastella nella padella per fare altre frittelle. L’unico rumore in cucina, adesso, era lo sfrigolio dell’impasto che friggeva.
“Sai,” Cominciò Alec, dopo istanti di silenzio, “Non riesco ad immaginarti insicuro.”
“Eppure… lo sono stato. Sotto certi punti di vista, lo sono ancora, ma cerco di mascherarlo.”
“Perché?”
“Perché se gli altri non vedono i tuoi punti deboli, non possono usarli contro di te.”
“Non è sbagliato avere punti deboli, Magnus. È sbagliato che ci siano persone che li usano contro di te.”
“Lo so, ciò non toglie che incontrare persone simili fa nascere grandi problemi di fiducia verso il prossimo… tu dovresti capirmi, Alexander.”
“E ti capisco, infatti…”
Magnus fece vagare lo sguardo per la stanza, un’improvvisa consapevolezza albergò il suo sorriso amaro. “Siamo stati fregati per bene, io e te.”
“In modi diversi, ma sì.”
“Ci è servito a capire cosa non vogliamo?” Domandò, riprendendo il discorso che Alec aveva fatto poco prima.
“Penso di sì. Sono certo di non volere qualcuno al mio fianco incapace di darmi sicurezze o di dirmi la verità.”
“E io sono certo di non volere qualcuno che mi manipola o… usa la storia di mio padre contro di me.” Magnus aggiunse l’ultima parte quasi con timore. Parlare di suo padre non era mai facile… l’aveva fatto con Camille perché era stato così ingenuo da fidarsi di lei, ma una parte di sé voleva che Alexander sapesse affinché avesse una piena conoscenza del suo passato. E, cosa da non sottovalutare, si fidava di lui. Non come pensava di potersi fidare di Camille… quella fiducia era nata dall’ingenuità, dal fatto che fosse così acciecato dai suoi sentimenti da aver perso completamente il raziocinio. Con Alec la razionalità c’era e sia il suo cuore sia il suo cervello erano concordi sul fatto che l’uomo che aveva vicino adesso fosse meritevole di tutta la sua fiducia. Alec non l’avrebbe mai manipolato, non avrebbe mai usato la storia di suo padre contro di lui – e questo perché era buono, gentile, premuroso. Tutte qualità che Camille non aveva mai posseduto.
Alec chinò leggermente la testa, quel tanto che gli permettesse da entrare nel campo visivo di Magnus, che adesso stava guardando le sue frittelle. Le tolse dalla padella, mettendole insieme alle prime e poi versò dell’impasto per prepararne altre. Solo allora alzò lo sguardo su Alec.
“Non è una bella storia.” Lo informò.
“Non devi raccontarmela, se non vuoi.”
“Ma io vorrei farlo.”
“Allora fallo.” Lo guardò con un’intensità che fece tremare Magnus dentro e gli provocò i brividi su tutto il corpo. La consapevolezza che Alec fosse una persona in grado di trasmettere un’elevata dose di sicurezza gli riempì il cuore. Alexander era una specie di colonna portante, difficile da abbattere e su cui veniva quasi istintivo fare affidamento. Si chiese, per un breve attimo, se questa sua caratteristica non derivasse dal fatto che suo padre gli avesse lasciati quando ancora lui era un ragazzino. Probabilmente, in quanto figlio maggiore si era sentito quasi in dovere di aiutare sua madre ad occuparsi dei suoi fratelli. Magnus aveva l’impressione – per non dire la certezza – che Alec tendesse a mettere gli altri al primo posto, se queste persone rientravano nella categoria di coloro che amava. Tendeva a dare tutto se stesso, a cercare di aiutare nel miglior modo possibile, a proteggere coloro che erano stati così fortunati da riuscire ad entrare nel suo cuore – persone che, probabilmente, addirittura possedevano quel cuore. Alec non aveva mezze misure, questo Magnus l’aveva capito. Era un tipo da tutto o niente, di conseguenza o amava con tutto se stesso, o non amava affatto. L’aveva visto come si comportava con i suoi amici, con i suoi fratelli – come era dolce con loro e disponibile,  sebbene battibeccassero, come in ogni rapporto fraterno che si rispetti. Ma l’aveva visto anche come si era comportato con Imasu, con il quale era stato distaccato e un tantino freddo, solo perché aveva avuto un comportamento che aveva fatto sentire a disagio Magnus. E questo dimostrava anche quanta lealtà abitasse il suo cuore. Alec non conosceva Imasu così bene da poter esprimere un giudizio su di lui, ma gli era bastato vedere che Magnus in sua compagnia non si sentisse propriamente a suo agio per decidere di prendere le sue parti, schierarsi con lui e fare in modo che quell’uomo capisse l’antifona e lo lasciasse stare.
Una parte di lui sapeva che forse, l’unica mezza misura di Alec, per adesso, era Magnus stesso. E questo, probabilmente, perché non avevano ancora dato un nome a ciò che erano. Non sapeva se anche Alexander si stesse già innamorando di lui nello stesso modo in cui lo stava facendo Magnus, ma era certo che fosse sulla buona strada per entrare completamente nel suo cuore. Altrimenti non si sarebbe comportato in modo così dolce con lui; altrimenti non avrebbe fatto dei regali ad Erin e avrebbe cercato di istaurare un rapporto con lei solo perché sapeva quanto questo fosse importante per Magnus.
 Alexander in greco significa protettore degli uomini… visto il nome che portava, era quasi profetico che diventasse un uomo simile.
“Se è quello che vuoi, io sono qui per ascoltarti.” Aggiunse, distogliendo Magnus dal filo dei suoi pensieri. L’uomo fece un profondo respiro, chiuse gli occhi e sulle palpebre abbassate riuscì a vedere immagini della sua infanzia che pensava avrebbero smesso di fargli paura, crescendo. Non fu così ovviamente. Rivide suo padre, in tutta la sua estrema altezza, rincorrere sua madre, afferrarla per i capelli e sbatterla a terra. Lo rivide darle un calcio in pieno stomaco e rivide sua madre che si racchiudeva in posizione fetale cercando la posizione giusta per parare i colpi e tentare almeno un po’ di ammortizzare il dolore. Magnus ricordava bene quel giorno perché era stata l’ultima volta che aveva visto suo padre. Infatti, dopo quell’ultimo brutale atto di violenza, la notte stessa se n’erano andati.
“Mio padre, Asmodeus, picchiava mia madre…” Cominciò, la voce ridotta ad un sussurro, un groppo improvvisamente troppo grosso da mandare giù gli otturava le vie respiratorie e gli rendeva difficile parlare. Era sempre brutto ricordare quegli episodi di violenza a cui aveva assistito – perché se Madelaine aveva fatto di tutto per fare in modo che Magnus non venisse mai coinvolto, Asmodeus non aveva mai avuto la stessa premura. Non l’aveva mai toccato, ma non si era mai interessato a non mostrarsi violento nei confronti di Madelaine davanti al figlio.
Lo faccio perché tua madre si è comportata male, figlio mio. Tu capisci, vero?
Ma Magnus non capiva, perché lui lo sapeva che la mamma non si comportava male. La mamma era buona e gli cantava le canzoni prima di dormire, giocava con lui e gli accarezzava sempre i capelli. Lo abbracciava durante i temporali, quando lui aveva paura perché i tuoni erano così forti che facevano rimbombare i vetri delle finestre.
La mamma non si meritava quelle cose, Magnus riusciva a capirlo già a cinque anni.
“Diceva che lo faceva perché mia madre si comportava male… ma io sapevo che non era vero. Non so cosa scatenasse una tale violenza, perché a volte bastava una parola di troppo, altre volte ancora bastava solo uno sguardo storto da parte di mia madre e lui la schiaffeggiava. Era geloso e possessivo con lei in un modo tossico e prepotente. La vedeva come una sua proprietà… nessuno doveva guardarla, al di fuori di lui – e lei non doveva guardare nessun altro, altrimenti… la picchiava. Cronometrava il tempo che impiegava per fare la spesa, o portarmi all’asilo, e se ci metteva più del previsto… la picchiava. ” Magnus fece una pausa, il groppo alla gola era diventato così grosso adesso che aveva l’impressione di soffocare – era quasi come se riuscisse a sentire le dita di suo padre che gli stringevano la trachea per farlo tacere, per fargli smettere di raccontare quella verità scomoda che nessuno aveva mai conosciuto, se non sua moglie e suo figlio. Perché ovviamente nessuno sapeva che razza di uomo abominevole fosse in realtà. Si mostrava per il mostro che era solo in casa.
“Cercava di annullarla in ogni modo possibile, faceva di tutto per sminuire la sua persona e per azzerare la sua autostima. Non voleva che lavorasse, perché per lui era inaccettabile che avesse un minimo di indipendenza economica… Ma mia madre lavorava di nascosto, sai? Quando lui usciva per andare a fare il suo lavoro, lei faceva arrivare le sue clienti. Faceva la sarta in casa: rammendava orli, metteva le toppe, allargava o stringeva i vestiti a seconda delle taglie che le chiedevano. Tutto di nascosto e solo per le donne. Sapeva che gli uomini avrebbero parlato e sapeva che se mio padre avesse scoperto che gli disubbidiva l’avrebbe… uccisa.” Pronunciò l’ultima parola con paura, quasi avesse il timore che potesse capitare anche adesso, a distanza di anni. “È così che è riuscita a racimolare i soldi sufficienti per riuscire ad andarcene.” Sospirò, “Siamo partiti una notte, lasciandoci quella prigionia alle spalle, e abbiamo cambiato cognome, in modo che lui potesse avere più difficoltà a rintracciarci…” Deglutì, sentendo la gola che adesso cominciava ad aprirsi un po’, quasi il ricordo della libertà cominciasse a permettergli di respirare correttamente. “Mia madre mi ha salvato.”  
Guardò di nuovo Alec, che era rimasto in rispettoso silenzio ad ascoltare. Non c’era giudizio nel suo sguardo, solo una profonda comprensione e, probabilmente, una giustificata rabbia provocata dall’ascoltare una tale tirannia. Non disse niente per qualche istante, limitandosi in un primo momento a ridurre la poca distanza che c’era tra di loro e a circondarlo con le braccia. Lo strinse a sé con forza, quasi avesse voluto proteggerlo da quei ricordi che gli facevano tanto male.
“Tua madre è stata coraggiosa.” Gli sussurrò, prima di appoggiargli le labbra sulla fronte. Gli lasciò un bacio dolce e premuroso. “E tu non hai niente a che fare con un uomo come tuo padre. Non sei come lui e mai lo sarai. Se assomigli ad uno dei tuoi genitori, puoi star certo che è Madelaine.” Gli diede un altro bacio sulla fronte, più prolungato questa volta.  Quando ebbe finito, gli afferrò il viso tra le mani e si scostò da lui quel tanto necessario a guardarlo dritto negli occhi, con tutta la convinzione di cui era capace – perché voleva che quelle parole gli entrassero bene in mente. “E chi insinua il contrario, mente. Mente, Magnus, mi hai capito?”
Magnus annuì e incatenò gli occhi ai suoi. Lo guardò come se fosse la cosa più vicina al divino che potesse essere stata mandata sulla Terra, una specie di angelo. Lo guardò sempre più convinto del fatto che si stesse innamorando di lui. Era una strada di non ritorno. Inevitabilmente, quel percorso avrebbe portato ad un’unica tappa finale: Magnus che si innamora irrimediabilmente, perdutamente, di Alexander Lightwood.
“Perché non ti ho incontrato prima?” Domandò, più al destino o a qualsiasi entità superiore che ad Alec.
Alec lo abbracciò di nuovo, inglobandolo completamente. Magnus appoggiò la guancia all’altezza del suo cuore, mentre gli circondava la vita con le braccia.
“Me lo sono chiesto anche io.” Gli lasciò un bacio sui capelli. “E sono arrivato a due conclusioni: la prima, il destino voleva che tu diventassi il padre di una bambina adorabile; la seconda, invece, è che dovevo conoscere altri, prima, per capire che nessuno è come te.”
Magnus sciolse l’abbraccio e guardò di nuovo Alec. Era sempre di poche parole, ma quando parlava diceva cose che gli partivano dal cuore ed erano pregne di una sincerità quasi disarmante. Non diceva le cose per fare colpo, le diceva perché le pensava davvero. Ed era una delle qualità che Magnus più apprezzava in lui – senza contare che questo suo comportamento riusciva sempre a sorprenderlo.
“Dici sempre le cose giuste al momento giusto.”
“Ah sì?”
Magnus annuì. “Mi fai stare bene.”
“Anche tu.” Alec si chinò leggermente, quel tanto che bastasse a far sì che sfiorasse il naso di Magnus con il proprio – l’accenno di un bacio all’eschimese.
Magnus avrebbe tanto voluto baciarlo, fare proprie le sue labbra e togliersi ogni curiosità su di esse. Capire, finalmente, se fossero morbide come si immaginava che fossero e che sapore avessero. Voleva sapere che tipo di baciatore fosse Alexander e come gli piacesse essere baciato. Voleva rischiare l’apnea a forza di baci, voleva toccarlo ovunque ed essere toccato, perché le mani di Alec gli piacevano da morire ed era certo che sentirle su di sé gli sarebbe piaciuto ancora di più.
“Magnus?”
Il ballerino si stava già sollevando sulle punte. L’avrebbe fatto, questa volta l’avrebbe baciato. “Sì?” domandò, forse un po’ più lascivo del necessario.
“Le tue frittelle. Stanno bruciando.”
“Merda!” esclamò e solo in quel momento sentì l’odore di bruciato che ormai aveva impregnato la cucina da un pezzo. Si era distratto troppo e quello era il risultato. Bella fregatura, pensò. Non solo aveva bruciato le frittelle, ma aveva anche perso l’attimo perfetto per riuscire finalmente a baciare Alexander.
Sai, karma, il tuo tempismo fa veramente schifo! Pensò, con una punta di sarcasmo.
Si affrettò a togliere la padella dal fuoco e a buttare le frittelle ormai carbonizzate. In tutto questo, Alec rideva. E Magnus, inevitabilmente, si trovò a ridere con lui. Perché tra le altre cose, anche la sua risata gli piaceva incredibilmente.




Alec guardava Magnus. Era una cosa che faceva spesso da quando l’aveva conosciuto. Si rendeva conto di non poterne fare a meno – e non solo perché lo trovava di una bellezza disarmante. Magnus era, certo, bello da togliergli il fiato, ma aveva un qualcosa che spingeva Alec a non staccargli gli occhi di dosso. C’era qualcosa nel modo in cui si esprimeva, o muoveva le mani mentre spiegava un concetto particolarmente elaborato, che lo affascinava. Alec si trovava inevitabilmente a seguire con lo sguardo le dita di Magnus, anellate e con le unghie rigorosamente smaltate, e a sentirsene ipnotizzato. Magnus aveva delle mani bellissime.
Ma c’era altro, ancora.
C’era qualcosa nel suo sguardo, una luce particolare, che lo rendevano splendente. C’era qualcosa nel suo cuore, nella sua intera personalità, così sfaccettata ed elaborata, che lo rendevano sempre piacevole da scoprire. Passare del tempo con Magnus era come imparare a risolvere uno dei misteri più avvincenti della storia. E ad ogni indizio scoperto, conoscere il prossimo diventava sempre più intrigante, eccitante. Alec non vedeva l’ora di conoscere, giorno dopo giorno, un altro lato di Magnus, un altro tassello della sua persona, delle sue esperienza passate che avevano contribuito a renderlo l’uomo che era… l’uomo di cui si stava innamorando. Alec doveva ammetterlo almeno a se stesso. Le cose stavano così, ormai, ed era inutile negarlo. Si stava innamorando di nuovo e sebbene la situazione lo terrorizzasse, al tempo stesso sembrava… estremamente giusta. Era così che doveva andare. Alec era destinato ad innamorarsi di colui che adesso stava seduto di fronte a lui, a tavola, insieme a tutta la sua famiglia – anche se, in un certo senso, si poteva dire che fosse la famiglia di entrambi. A quel tavolo c’erano sì sua madre e i suoi fratelli, ma c’erano anche Madelaine, Luke, Clary e Maia – persone con le quali Magnus aveva passato la sua infanzia e l’adolescenza. Per ciò sì, era giusto dire che fosse la famiglia di entrambi.
Lo guardò alzare il proprio bicchiere, portarselo alle labbra e bere un sorso di vino. Alec non si perse nemmeno il minimo movimento, mentre Magnus riappoggiava il bicchiere sul tavolo e riprendeva il discorso che aveva interrotto per bere. E ognuno, ogni singola persona a quel tavolo, pendeva dalle sue labbra desiderosa di ascoltare la fine di quel racconto.
Tutti erano rapiti da Magnus e dal suo modo di splendere anche quando raccontava degli aneddoti riguardanti quella volta in cui, ad Amsterdam, aveva rischiato di essere preso a borsate da una signora solo perché era entrato nel bagno delle donne anziché in quello degli uomini.
“A mia discolpa, posso dire che quelle porte erano prive di qualsiasi segno di riconoscimento! ”
Dal tavolo si alzarono varie risate e Alec sorrise, sentendo le guance che si sollevavano per fare in modo che il suo sorriso si allargasse il più possibile.
Magnus era magnetico e Alec si sentiva attratto da lui inevitabilmente, sotto ogni punto di vista, come se una forza esterna e potentissima lo spingesse verso di lui, come se non avesse altra scelta, come se non ci fosse una vera alternativa. Alec nemmeno l’avrebbe voluta un’altra scelta, o un’altra alternativa, dal momento che gli andava benissimo così. Gli sarebbe sempre andato bene, finché le cose l’avrebbero condotto in direzione di Magnus.
“Avrei pagato per vederti preso a borsate da una vecchietta!” Max rise, appoggiandosi allo schienale della sedia per mettersi una mano sulla pancia.
Li aveva raggiunti da qualche ora, dopo aver passato del tempo da Robert. In realtà, tutti i suoi fratelli erano prima passati da Robert, tranne Alec. Lui aveva speso quel tempo con Magnus. E di certo non poteva dire di essersene pentito perché in quel modo, prima dell’arrivo degli altri, aveva potuto stare un po’ da solo con lui. E dal momento che mancava poco alla sua partenza, Alec voleva spendere con lui più tempo possibile, per fare scorta dei momenti insieme che avrebbero alleggerito il peso della sua lontananza.
Magnus si voltò verso il ragazzo e lo indicò con l’indice. “Sei crudele, Maxie!” scherzò.
Max sbatté le palpebre più volte, come se non si aspettasse che un simile nome venisse pronunciato da qualcuno che non fosse uno dei suoi fratelli.
Alec ritirò le labbra all’interno della bocca per resistere alla tentazione di ridere. Al minore dei suoi fratelli, tuttavia, quel gesto non sfuggì.
“Gliel’hai detto tu, non è vero?” L’espressione sul suo viso trasudava un profondo senso di tradimento e imbarazzo – dal momento che Max, ritenendosi ormai un adulto, trovava imbarazzante quel soprannome, che gli era stato affibbiato quando aveva due anni.
“Tecnicamente non gli ho detto niente. È capitato che fossimo insieme e che mi sentisse chiamarti in quel modo mentre io e te eravamo al telefono, qualche giorno fa.”
Max si voltò di nuovo verso Magnus. “Ti prego, non cominciare a chiamarmi in quel modo anche tu. È imbarazzante.”
Magnus emise una piccola risata. “Non lo farò. Ci pensa già Alexander a metterti in imbarazzo!” A quel punto cercò Alec con lo sguardo – e ovviamente i loro occhi si incrociarono subito perché lui lo stava già guardando, dal momento che non aveva fatto altro da quando aveva messo piede nel loft.
“Da che parte stai?” gli domandò e il sorriso di Magnus si allargò e addolcì allo stesso tempo.
“Dalla tua, mi pare ovvio!” Ammiccò e il cuore di Alec accelerò.
“Non mi sembra, invece!”
Magnus ridacchiò. “Non fare quella faccia corrucciata, tesoro, non ti si addice!”
Alec avrebbe voluto chiedergli cosa mi si addice, allora? ma a differenza di Magnus non riusciva ad essere troppo spigliato, se a tavola con loro c’era tutta la sua famiglia.  In più, i suoi fratelli erano dotati di un istinto naturale che gli spingeva ad impicciarsi, sempre.
“Non gli si addice? Stai scherzando?” Rise Jace, voltandosi verso Isabelle, come se cercasse conferma alle sue parole. La ragazza annuì con vigore.
“Non so se l’hai notato, ma Alec non è decisamente un tipo espansivo. Corrucciato è il suo secondo nome.”
“Pensavo fosse Gideon!” tentò Magnus, fingendo ingenuità e cercando di attuare un piano di salvataggio in pieno stile principe azzurro che salva la principessa (o un altro principe, in questo caso) dalla torre più alta del castello, alla guardia della quale ci sta un drago sputa fiamme. Purtroppo, il suo tentativo di sviare l’attenzione da Alec a qualcos’altro non funzionò.
“Dai Magnus!” Esclamò Jace, “Sai cosa vogliamo dire!”
“Lo so, ma non concordo con voi.”
“Ah no?” Isabelle alzò un sopracciglio, curiosa. Fece vagare lo sguardo da Magnus al fratello e viceversa.
“No,” rispose il padrone di casa, “E ho i miei buoni motivi per discordare con voi.”
“E quali sarebbero?” incalzò Max, perché lui di certo non poteva essere da meno! Sul serio, non c’era nessuno a quel tavolo con un minimo di pudore? Dovevano necessariamente sbandierare tutto ciò che accadeva nella vita di Alec di fronte a Maryse, Madelaine e Luke?
Era imbarazzante. Ancora di più se si teneva conto del fatto che tutti e tre tenevano le orecchie bene aperte per captare quante più informazioni possibili e non pronunciavano nemmeno una sillaba per non rischiare di interrompere quella specie di teatrino.
“Non sono affaracci vostri!” Esclamò quindi Alec, “Potete smetterla di parlare di me come se non ci fossi, per cortesia?”
“Vedi?” disse Isabelle, “Corrucciato e scontroso!”
Alec alzò gli occhi al cielo, arrendendosi all’inevitabile consapevolezza che i suoi fratelli erano cocciuti, e optò per il piano B: cambiare argomento, spostando l’attenzione su qualcosa che non fosse se stesso.
“Vado a prendere un’altra bottiglia di vino,” indicò quella vuota al centro del tavolo, “Bianco o rosso?”
“Prendili entrambi.” Rispose Magnus, “Sai dove sono, vero?”
Alec annuì. Aveva imparato a conoscere quella casa come stava imparando a conoscere Magnus. Sapeva dove si trovava il bagno, sapeva dove trovare le cose negli scompartimenti della cucina e sapeva dove teneva l’alcol. I super alcolici erano in salotto, chiusi sotto chiave in un mobiletto di legno pregiato e sportelli di vetro, mentre il vino si trovava in cucina, in una mensola sopraelevata che si trovava subito sulla sinistra, appena varcata la soglia della stanza.
“So dove sono.” Annuì, mentre si alzava da tavola. Magnus gli sorrise e lo lasciò fare, come se fosse completamente a suo agio con l’idea che qualcun altro, in casa sua, si comportasse come se la conoscesse quasi quanto lui. La verità era che a Magnus piaceva guardare Alec muoversi nella propria casa. Gli altri, a differenza sua, erano più impacciati, come capita spesso quando si va a casa di qualcuno – per quanto amico possa essere c’è sempre una sorta di reverenza in ogni movimento, quasi come se si volesse continuamente rispettare quegli spazi che non appartengono agli ospiti. Alexander, invece, sebbene a sua volta fosse pieno di rispetto ed educazione, sembrava a proprio agio. Gli veniva naturale stare in ogni ambiente, quasi come se si fosse adattato perfettamente alla situazione.
Magnus sorrise e lo seguì con lo sguardo, mentre lasciava il salotto e si dirigeva verso la cucina.
Era sicuro che quell’anno, tra le cose per cui avrebbe ringraziato, c’era anche Alexander.



*


Jace si stava asciugando i capelli. Erano più lunghi al centro e rasati ai lati, un taglio che ormai era diventato parte integrante di se stesso. Se non altro perché sapeva quanto piacesse a Clary. Lei passava le dita tra i suoi capelli, accarezzandoli con dolcezza, e ogni volta gli diceva quanto fossero belli e morbidi. Di solito succedeva quando erano a letto e li descriveva sempre come una cascata dorata. Lui ogni volta rideva e Clary reagiva mettendo il broncio perché non prendermi in giro solo perché amo i tuoi capelli.
Erano in quei momenti che l’abbracciava, stringendola forte a sé, affondava il viso nell’incavo del suo collo e, dopo aver respirato l’odore naturale della sua pelle, la riempiva di baci.
A quel particolare rito, ne seguiva un altro perché ogni volta, inevitabilmente, Clary si sistemava sopra di lui e finivano per fare l’amore, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare Diana nell’altra stanza.
Jace non avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe finito così. Non si immaginava con una famiglia. Non avrebbe mai pensato di riuscire a trovare qualcuno che lo amasse nello stesso modo intenso in cui lo amava Clary e ancora meno avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato padre, un giorno.
I primi anni della sua vita erano stati un disastro. Non aveva mai conosciuto le vere identità dei suoi genitori biologici, sapeva solo che suo padre era un soldato che era morto in guerra (non si sapeva in quale dal momento che era un’informazione riservata) e sua madre era morta di parto a causa di una malformazione cardiaca: il suo cuore non aveva retto lo sforzo del parto – e lo stress per aver perso il marito che tanto amava non aveva giovato alla situazione. Così Jace, un bambino sano di tre chili e due grammi, si era ritrovato solo al mondo dopo appena un minuto dalla sua nascita. E se era certo di non conoscere l’identità dei suoi genitori biologici, non poteva dire altrettanto per quanto riguardava quella dell’uomo che l’aveva tenuto con sé fino agli otto anni: Valentine Morgenstern, un uomo che non gli aveva mai mostrato un briciolo di affetto e che l’aveva preso con sé con l’unico scopo di farlo entrare nel suo progetto segreto. Valentine, infatti, era un trafficante d’armi a capo di un proprio esercito formato da ex militari che erano passati dalla sua parte perché corrotti dall’idea di fare una vagonata di soldi.
Quando il suo giro era stato smascherato dall’FBI, Jace aveva appena compiuto otto anni e, durante tutta la durata del processo, aveva scoperto tutta la verità sul suo passato: suo padre era stato costretto da Valentine a partecipare ad ogni sua operazione, altrimenti diceva che si sarebbe vendicato sulla sua bella moglie – e le cose si erano aggravate quando aveva scoperto che la donna era incinta – così suo padre l’aveva assecondato. Ma Valentine vedeva dei principi troppo solidi in quel ragazzo che lo contestava davanti agli altri membri della sua organizzazione e, temendo che con il tempo avrebbe fatto in modo di alzare una ribellione, o peggio ancora l’avrebbe venduto ai federali, aveva estirpato il problema alla radice e aveva deciso di ucciderlo. 
Quando poi era venuto a conoscenza del fatto che la madre di Jace era morta, aveva deciso di prendere il bimbo con sé per crescerlo con i suoi ideali e fare in modo che qualcuno, un giorno, avrebbe continuato quel business anche dopo che Valentine fosse stato troppo vecchio per continuare.
Quel mostro voleva un erede e aveva trovato quasi profetico che quel ruolo spettasse al figlio di colui che aveva provato a contrastarlo – quasi avesse voluto vendicarsi in pieno, come se aver tolto la vita ad un giovane uomo non fosse abbastanza. Valentine voleva infierire crescendo Jace nel modo in cui sapeva che suo padre non avrebbe mai voluto venisse educato.
Ma poi l’FBI aveva trovato prove schiaccianti, aveva arrestato Valentine e tutti i suoi complici e aveva fatto in modo che Jace andasse in un orfanotrofio.
Era stata dura all’inizio, fino a quando Maryse non aveva varcato la soglia.
Jace ricorda ancora come lo sguardo della donna l’avesse colpito. Non lo guardava con pietà, come tutti gli adulti che aveva conosciuto dopo che era stato separato da Valentine, e non lo guardava nemmeno con la freddezza glaciale con cui lo guardava Valentine. Maryse semplicemente lo guardava e vedeva un bambino. Un bambino con un passato turbolento e traumatico, certo, ma lei sembrava andasse al di là del trauma. Non voleva concentrarsi solo sul passato di Jace, ma sul suo futuro.
A quell’epoca, Robert e Maryse erano ancora sposati e Robert, in quanto giudice affidato a quel caso, aveva parlato di Jace alla moglie. Il primo pensiero di Maryse era stato che quel bambino aveva più o meno l’età dei suoi figli e l’ultima cosa di cui aveva bisogno era passare da un ambiente ostile come lo può essere il covo di un trafficante d’armi ad una struttura che, per quanto qualificata, non può garantire l’affetto che da una famiglia. Così era andata a trovarlo. E Jace ancora ricorda la prima volta che la vide, con i capelli neri e lunghi che le ricadevano sulle spalle e le incorniciavano un viso gentile; come fosse dolce la sua voce, come l’avesse fatto immediatamente sentire al sicuro, sebbene fosse un po’ restio a fidarsi di lei. Avendo vissuto con Valentine, che l’unica cosa che faceva era fargli lezioni storiche e di strategia, che l’aveva istruito alla conoscenza dettagliata di ogni arma e ogni sua caratteristica, non sapeva cosa volesse dire avere un rapporto normale, e in ogni rapporto sano ci sono fiducia, stabilità, affetto – tutte cose che il piccolo Jace non conosceva.
Aveva impiegato circa cinque mesi per parlarle, ma a Maryse non sembrava importasse che lui fosse taciturno e un tantino scontroso. Per quei cinque mesi, necessari a completare le pratiche di adozione, Maryse si era presentata ogni giorno all’orfanotrofio per parlare con Jace. A volte, gli portava anche dei regali – per lo più giocattoli di piccola statura, come animali di gomma o macchinine. Non gli aveva mai portato una pistola giocattolo o un fucile, nemmeno una fionda. Mai un’arma per il bambino che ne era stato traumatizzato – e lui adesso, da adulto, lo apprezza più di quanto potrebbe aver fatto da piccolo, se non altro perché ora capisce l’importanza di quel gesto: guardare al futuro, rispettando il passato. E non si poteva fare di certo finta che le armi non fossero un tasto dolente per Jace.
Ad ogni modo, con il passare dei mesi, Jace si era reso conto che aspettava Maryse. Si svegliava, si preparava, mangiava la sua colazione e poi rimaneva in trepida attesa della signora gentile che gli sorrideva e gli raccontava delle storie, leggendogli dei libri pieni di figure colorate.
“Jonathan, tesoro, ti piacerebbe venire a casa con me?” Gli aveva chiesto un giorno, dopo aver chiuso il libro di Pinocchio che aveva appena finito di leggergli.  E il piccolo Jace – che all’epoca veniva ancora chiamato Jonathan –  aveva appena imparato che le bugie non si dicono, quindi gli venne naturale dire la verità.
“Sì.”
Furono le prime parole che disse a Maryse. In realtà fu una parola, ma alla donna bastò per sentire la commozione gonfiarsi nel cuore e salirle fino agli occhi, dove prese la forma di lacrime di gioia che si sforzò di trattenere davanti al bambino. Non voleva piangere davanti a lui perché temeva che quel gesto sarebbe stato frainteso. I bambini fanno fatica a capire che le lacrime possono anche essere legate alla gioia, dal momento che quando piangono, lo fanno perché soffrono.
Così Maryse si era impegnata per non piangere e aveva sfoderato il sorriso più genuino che Jace avesse mai visto.
“A casa c’è il bambino?”
Il sorriso di Maryse si era fatto più ampio, Jace lo ricorda bene, e gli aveva accarezzato una guancia. La prima volta che Jace aveva visto Maryse, la donna era incinta di quattro mesi. Gli unici giorni in cui non era andato a trovarlo, infatti, erano stati quelli in cui Maryse aveva dato alla luce il piccolo Max e quelli successivi al parto, necessari a fare tutti i controlli al bambino e a lasciare che la mamma si riprendesse totalmente.
In quei giorni, Maryse aveva temuto che Jace potesse sentirsi abbandonato, così aveva fatto in modo di fargli sapere che era in ospedale e che non appena le fosse stato possibile, sarebbe tornata da lui.
“Sì, c’è. Si chiama Max e ha due settimane.”
“Non è più un cocomero nella tua pancia…”
Jace aveva ridacchiato, e quella risatina aveva illuminato persino i suoi vispi occhi bicromatici.
“No, non lo è più…” Maryse aveva ricambiato quel sorriso. “Ti piacerebbe vederlo?”
Jace aveva annuito.
“E…Alec ed Izzy? Ti piacerebbe vedere anche loro?”
Maryse era sempre stata sincera, con lui. Questa era una delle cose che l’aveva spinto a fidarsi e a sentirsi al sicuro. Lei non mentiva per manipolarlo e convincerlo a fare cose che inizialmente non voleva fare, ma che alla fine faceva perché si sentiva sotto pressione, come aveva sempre fatto Valentine. Maryse gli aveva sempre parlato della sua famiglia, dei suoi figli. E solo adesso Jace sa che lo faceva perché voleva abituarlo alla famiglia in cui avrebbe vissuto, alla realtà che sarebbe diventata anche la sua realtà.
“Sì, ma…” Jace aveva titubato, i suoi occhi avevano vagato per la stanza qualche istante, prima di tornare su quelli di Maryse, “…a loro piacerò?”
La donna, seduta su un divanetto insieme a lui, nella zona dell’orfanotrofio riservata alle visite, si era sporta verso Jace, riducendo la distanza che li separava e l’aveva stretto in un abbraccio – il primo da quando veniva a trovarlo perché aveva notato che Jace era restio ai contatti. Questo perché nessuno l’aveva mai abbracciato, prima di Maryse. E al piccolo Jace piaceva la sensazione che si provava a venire inglobati da due braccia che ti fanno sentire protetto e… amato. Per questo aveva ricambiato quell’abbraccio quasi aggrappandosi a lei, stringendola così stretta che era persino riuscito a percepire il suo battito cardiaco. Era un suono calmo, tranquillo, qualcosa che gli infuse un senso di appartenenza. Quella donna sarebbe diventata la sua mamma, anche se sapeva che non era nella stessa situazione di Max-cocomero, dal momento che lui non era stato nella sua pancia, ma… ma sentiva chiaramente i loro cuori battere allo stesso ritmo e a lui quel suono bastava per sentirsi legato a lei.
Maryse gli aveva lasciato un bacio sulla testa, prima di rispondergli. “Certo che gli piacerai, loro ti stanno già aspettando.” E stringendolo ancora a sé, gli aveva detto le parole che lo accompagnano da tutta la vita: “Sono i tuoi fratelli, loro e il piccolo Max, e io… io sono la tua mamma, Jonathan. Voglio che tu lo sappia, questo. Ma voglio anche che tu sappia che non devi avere fretta, hai tutto il diritto di abituarti a noi e a questa nuova situazione con calma. Rispetterò i tuoi tempi, tesoro.”
Jace non aveva saputo cosa rispondere, per questo si era limitato a stringerla ancora di più e Maryse aveva risposto abbracciandolo ancora più forte.
Jonathan, che con il tempo era diventato Jace, aveva impiegato tre mesi a chiamare Maryse Lightwood mamma e non aveva smesso da allora.
Jace si guardò alla specchio, mentre quei ricordi ancora vorticavano nella sua mente. Ogni anno, dopo il Ringraziamento, viveva quel periodo. Questo perché ogni anno ringraziava sempre per la stessa cosa: Maryse che era venuta a trovarlo e l’aveva portato via, regalandogli una famiglia che lo amava e che gli aveva dato l’opportunità di conoscere Clary e avere una figlia con lei. Se Maryse non avesse mai varcato la soglia di quell’orfanotrofio, chissà cosa sarebbe successo al piccolo Jonathan. Probabilmente sarebbe rimasto lì fino alla maggiore età e poi sarebbe stato trasferito in una di quelle case famiglie troppo affollate e piene di adolescenti problematici. Jonathan sarebbe stato uno di loro, Jace invece ha avuto un’altra vita, un’altra occasione, un’altra possibilità. E tutto questo grazie a Maryse, che ogni giorno andava a trovarlo, anche quando il suo pancione la faceva sembrare un’astronave e avrebbe dovuto stare a riposo.
Sono stata a riposo, Jace. Stavamo seduti su quel divano per ore intere. Gli aveva detto una volta, quando lui gliel’aveva fatto notare. E rifarei tutto daccapo, se servisse ad averti con noi, tesoro. Gli aveva accarezzato una guancia e lui l’aveva abbracciata.
Era consapevole che Maryse l’avesse salvato e che continuava a farlo ogni volta che lo chiamava figlio mio – e che l’avevano fatto i suoi fratelli, ogni volta che lo definivano parte integrante della famiglia, fratello tanto quanto lo erano loro. Non avevano mai dato importanza al sangue. Jace non aveva mai sentito differenza tra lui e Alec, o Izzy o Max perché a nessuno dei tre era mai importato che non avessero lo stesso DNA.
Era bello sentirsi parte integrante di qualcosa. Era bello sapere di poter contare su di loro, sempre e comunque.
Jace sorrise a quell’ultimo pensiero. Ricordò una volta in particolare. Jace aveva fatto da poco nove anni, Isabelle ne aveva otto e Alec dieci. Erano in un parchetto a giocare a pallone  e Jace aveva tirato un calcio così forte che la palla era finita verso un altro gruppo di bambini. Loro tre si erano immediatamente avvicinati per recuperare la palla, ma uno dei bambini dell’altro gruppo voleva tenersela.
“L’avete tirata nella nostra direzione. E avete preso mio fratello su una mano con quel tiro, quindi ci teniamo la palla.” Il bulletto aveva incrociato le braccia al petto, mentre il bambino che era stato accidentalmente colpito teneva la palla stretta al petto.
“Mi dispiace se ti ho  fatto male…” aveva cominciato Jace, guardando il bimbo con la sua palla.
“…Ma quella è nostra e dovete ridarcela,”
Aveva concluso Alec, risoluto, dandogli manforte e indicando l’oggetto in questione con l’indice.
“No,” aveva risposto il fratello più grande, “Le scuse non bastano, quindi ci prendiamo anche il pallone!”
Jace ricorda perfettamente l’espressione che comparve sul volto di Izzy. Quel bambino era più grande e più alto di lei, ma Isabelle aveva alzato il mento e l’aveva guardato dritto negli occhi, senza lasciarsi intimorire.
“I miei fratelli sono stati gentili, a differenza tua, che altro non sei che un grandissimo maleducato! Quindi se non vuoi che ti dia un pugno sul naso, ridacci la nostra palla!”
Capendo quanto Izzy fosse seria, e volendo evitare di beccarsi un pugno, il bambino più grande fece cenno al fratellino di restituire il pallone. Isabelle lo afferrò con decisione e si voltò tenendo il pallone ben saldo a sé. Alec e Jace la seguirono, sorridendo felici di aver riavuto ciò che gli apparteneva.
I miei fratelli… Isabelle non aveva esitato un attimo a definirli così, a mettere entrambi sullo stesso piano. E Jace ancora ricorda come gli aveva fatto piacere, come apprezzasse che episodi del genere mostrassero la naturalezza con cui Isabelle e Alec si erano affezionati a lui.
“Papà?”
La voce di Diana lo riportò alla realtà. Si voltò e la trovò sulla soglia della porta del bagno aperta. Aveva già il pigiamino – rosa con un mucchio di pecorelle stampate sopra – e i capelli biondi sciolti.
“Dimmi, principessa.”
“Mamma vuole sapere se sei pronto per la favola della buonanotte.”
Jace sorrise. Era una tradizione che i Lightwood tramandavano da un po’ –  Maryse l’aveva fatto con loro quando erano piccoli e Jace lo faceva con Diana: ogni sera, prima di dormire, sceglievano una favola da un libro grosso come un mattone e la leggevano.
Jace fissò un’ultima volta il suo riflesso allo specchio, i capelli asciutti e la combinazione t-shirt grigia sopra ad un paio di pantaloni di una vecchia tuta come pigiama. Osservò se stesso e gli parve quasi di riuscire a vedere la gratitudine che usciva dai suoi pori facciali.
Era felice, sereno. E non faceva più incubi. Non vedeva più la faccia di Valentine che lo guardava con i suoi penetranti occhi neri. Non vedeva più le sue mani che si allungavano verso di lui per portarlo via, per strapparlo alla sua famiglia e nasconderlo di nuovo in uno dei suoi covi segreti.
Valentine era ormai solo un ricordo lontano, un incubo che apparteneva al passato.
Non c’erano più loschi signori del crimine e armi illegali nella vita di Jace. E da un pezzo, anche.
Adesso per lui c’erano solo amore e famiglia e favole della buonanotte.
“Certo che sono pronto, tesoro mio. Cosa vuoi leggere, stasera?”
Diana arricciò il labbro superiore, come se stesse pensando a fondo. “Vorrei Alice nel Paese delle Meraviglie… possiamo leggerla?”
Jace sorrise e uscì definitivamente dal bagno, sollevando Diana per prenderla in braccio. La bambina gli circondò immediatamente il collo con le sue piccole braccia.
“Ma certo che possiamo, principessa!” Le riempì le guance di baci e la bambina ridacchiò per tutto il tragitto che separava il bagno dalla sua cameretta, dove Jace trovò già Clary seduta sul letto – i capelli rossi raccolti in una treccia morbida – avvolta in un pigiama di cotone verde-azzurro. Era sbalorditivo che la trovasse perfetta anche quando era così semplice. La trovava bellissima sempre, in un modo che gli faceva mancare il respiro ogni volta.
“Pensavo ti fossi addormentato sotto la doccia!” Lo prese in giro, mentre faceva spazio al fidanzato e alla figlia sul letto. Diana si sistemò sotto le coperte, nel mezzo tra la sua mamma e il suo papà, mentre Clary porgeva il libro della favole a Jace. Lui approfittò di quel gesto per afferrarle il polso e tirarla delicatamente a sé. Le lasciò un bacio sulle labbra, un contatto a bocca chiusa che tuttavia lui prolungò.
“Mami e papi si danno i baci!” ridacchiò Diana, coprendosi la bocca con le manine paffute.
Jace e Clary si separarono e si guardarono, come se riuscissero a vedere di cosa fosse esattamente fatta la felicità l’uno negli occhi dell’altra. Erano anime gemelle e di questo nessuno dei due aveva mai dubitato. Erano stati creati per trovarsi ed amarsi.
Fu Jace a interrompere quel contatto visivo, sporgendosi verso la figlia. “Perché mami e papi si amano tanto. E si danno i baci speciali.” Le lasciò un bacetto sulla fronte e Diana ridacchiò.
“Cosa sono i baci speciali?” Chiese, poi.
“Sono i baci che si danno i grandi,” Le spiegò, “Quando due persone grandi si amano tanto tanto, si danno i baci speciali.”
“Sulla bocca?”
Jace annuì.
“Quando sono grande voglio dare anche io i baci speciali.”
Clary trattenne una risata a quell’affermazione e guardò Jace, estremamente protettivo per natura. La ragazza riusciva quasi a vedere i pensieri che si formavano nel cervello del fidanzato: Diana adolescente che torna a casa in lacrime perché qualcuno le ha spezzato il cuore dopo un periodo passato a scambiarsi baci speciali. Clary riusciva quasi a percepire le preoccupazioni di Jace, per non dire le ansie. I padri sono esageratamente protettivi con le figlie – lei in primis lo sapeva bene. La prima volta che aveva presentato Jace a Luke, quest’ultimo aveva fatto uscire il detective che era in lui e aveva quasi torchiato Jace.
Era stato imbarazzante. E un tantino traumatico per Jace, che pensava di non avere più uno straccio di chance di piacere al padre di Clary.
Con il tempo – e dopo un’esaustiva chiacchierata su come comportarsi con i ragazzi che le piacciono davvero moltissimo, citando la Clary del passato – Luke aveva capito che il suo comportamento, quella sera, era stato un tantino esagerato. Ma, aveva detto lui giustificandosi, voleva essere certo che Jace avesse buone intenzioni e provasse le stesse cose che provava lei per lui, e che non avrebbe finito per spezzarle il cuore, altrimenti poi Luke sarebbe stato costretto a spezzargli le dita.
Clary non se la sentiva di negare che un giorno anche Jace avrebbe fatto un discorso simile.
“E li darai, tesoro.” Intervenne Clary, abbracciando la figlia. “Quando incontrerai qualcuno di molto speciale che ti farà sentire bene, vorrai dargli tanti baci speciali.”
Diana annuì, soddisfatta di quella risposta. “Ora possiamo leggere?” domandò, facendo ridere entrambi i suoi genitori.
“Ma certo!” Rispose Clary, “Papà, vuoi cominciare?”
Jace per tutta risposta aprì il libro alla pagina di Alice nel Paese delle Meraviglie e cominciò a leggere, dando l’intonazione giusta per ogni frase che veniva pronunciata.
Amava quei momenti. E, soprattutto, amava la sua famiglia.



*


Dicembre aveva sempre avuto un unico significato, per Alec: Natale.
E un’invasione di febbri e raffreddori in ambulatorio.
D’accordo, quindi forse i significati che fino ad ora aveva avuto dicembre erano stati due: ambulatorio pieno di pazienti febbricitanti e Natale.
Alec decise di concentrarsi soprattutto sul Natale, dove tutto girava intorno a due cose in particolare:  la preparazione della cena, che si sarebbe tenuta come da tradizione a casa di sua madre, e trovare i regali adeguati per tutti.
Quell’anno, tuttavia, dicembre avrebbe assunto anche un terzo significato: il compleanno di Magnus, a cui mancavano sette giorni.
In parte era felice di festeggiare il suo compleanno – l’idea di trovargli un regalo lo emozionava persino – ma in parte non voleva che quel giorno arrivasse perché significava che da lì a poco Magnus sarebbe partito. E sarebbe stato via tre lunghissime settimane.
Non voleva fare la figura dell’egoista, quindi non l’aveva detto a nessuno, ma almeno con se stesso poteva ammettere che Magnus gli sarebbe mancato. Tantissimo. L’idea di stare così tanto senza di lui lo rattristava parecchio, ma poi pensava quanto Magnus amasse ballare e quella tristezza si affievoliva.
Magnus sarebbe andato a ballare. In televisione. Era una cosa grossa, importante. E al solo pensiero il cuore di Alec sfarfallava, quindi in fondo, forse, non era così egoista come si sentiva. O almeno lo sperava.
Guardò l’ora: erano le 13.15. La sua pausa pranzo sarebbe finita tra quarantacinque minuti, quindi aveva un po’ di tempo. Accantonò il suo secondo involtino primavera lasciato a metà, rimettendolo nella sua confezione di cibo da asporto, e, dopo essersi pulito le mani con un fazzoletto, avviò una ricerca sul computer.
Tutto quel pensare a Magnus in versione ballerino professionista aveva fatto nascere in lui una curiosità che ormai non riusciva più a frenare, di conseguenza picchiettò sulla tastiera del pc le parole Magnus Bane e premette invio. In quel secondo che il motore di ricerca impiegò per mostrargli una lista di risultati, Alec pensò a quella volta che Isabelle l’aveva definito più disadattato di quanto lei pensasse perché non sapeva chi fosse Magnus Bane.
E forse Alec non conosceva la stella di Broadway che era stato, ma conosceva l’uomo che era adesso. E a lui era bastato vedere quel lato di Magnus per innamorarsene.
Innamorarsene.
Alec era innamorato.
Si ripeteva quella parola in testa, aspettando di sentire il cuore gonfiarsi del solito, familiare, panico al solo pensiero di riavvicinarsi a qualcuno in modo intimo come può fare l’amore, ma… non c’era traccia di panico nel suo cuore, solo… amore. E quella voglia formicolante di vedere Magnus, di passare del tempo con lui.
Era un buon segno, pensò Alec.
Era finalmente guarito. Will non faceva più male, non aveva più nessun tipo di potere su di lui. Adesso era soltanto un ricordo spiacevole, una tappa nella sua vita che l’Alec venticinquenne aveva dovuto affrontare per far sì che l’Alec trentenne capisse cosa, chi, volesse davvero nella sua vita.
E Alec sapeva che era Magnus che voleva.
O meglio, Magnus Bane, la promessa del balletto, che incanta ogni platea con il suo talento e la sua grazia, stando al primo articolo della lista di link offertagli da Google.
Alec aprì l’articolo, a cui era allegata una foto di Magnus in calzamaglia mentre stava sulle punte. I muscoli delle gambe erano tesi, contratti, e trasmettevano una sensazione di stabilità, di forza – come se avessero voluto rassicurare chiunque guardasse che Magnus non avrebbe sbagliato nessun passo. Le sue  muscolose braccia erano sollevate sulla testa, i medi delle mani che si congiungevano dando un aspetto delicato a quel movimento, che era in netto contrasto con la forza che Alec aveva percepito prima.
Ma Magnus era questo: forza e delicatezza che andavano a mischiarsi alla perfezione. Era grazia e irruenza allo stesso tempo. Era eccitazione e sicurezza. Alec non sapeva come potesse essere possibile, ma era così.
Sentì chiaramente il suo cuore accelerare a quel pensiero e un calore che invase tutto il suo petto.
Guardò ancora quella foto e ci passò un dito sopra, quasi come se potesse davvero accarezzare Magnus. Se solo qualcuno l’avesse visto, l’avrebbe preso per un pazzo, ma non gli importava granché. Anzi, se non avesse compiuto quel gesto, non avrebbe avuto l’illuminazione sul regalo perfetto da fare a Magnus.
Sorrise e, dopo aver recuperato il suo involtino primavera lasciato a metà, continuò a leggere l’articolo.



Quella sera stessa, Alec si trovava nella cucina di casa sua e mentre estraeva dalla busta della spesa le sue provviste, si trovò a sorridere, pensando al regalo che aveva fatto a Magnus.
Erano anni che non faceva un regalo ad un ragazzo che gli piaceva. Will non era il tipo da regali. Non gli piaceva riceverli perché poi si sentiva obbligato a restituire il favore e lui odiava fare regali – così Alec, anzi che vedere la sua espressione contrita ogni volta che gli porgeva anche un minuscolo pacchettino, aveva rinunciato. Niente regali. Nemmeno per Natale, o il compleanno.
Una tristezza infinita. Soprattutto perché ad Alec piaceva fare regali. Niente di plateale, ovviamente, ma… Alec pensava ci fosse qualcosa di estremamente dolce nel fare regali. Per lui era uno dei tanti modi che le persone possono adottare per prendersi cura di coloro a cui tengono. Qualcosa che dica ho pensato a te – e Alec ultimamente aveva pensato parecchio a Magnus. Sperava solo che il suo regalo di compleanno gli piacesse.
Sospirò. Solo in quel momento gli venne in mente che non potesse piacergli e uno spiraglio d’ansia gli abbracciò il cuore, ma prima che potesse anche solo formulare dei pensieri negativi, una voce riempì l’ingresso di casa.
“Alec!! Sono arrivata!”
Izzy aveva smesso di bussare da un pezzo. Non si scomodava più nemmeno di mandargli un messaggio per informarlo che era alla porta. Semplicemente, usava la sua copia delle chiavi dell’appartamento di Alec ed entrava.
“Sono in cucina!” Le rispose, continuando a togliere cibarie dalla busta e accantonando i suoi pensieri ansiogeni.
Isabelle lo raggiunse in un attimo – i suoi tacchi che picchiettavano sul pavimento annunciarono il suo arrivo in quella stanza.
“Hai fatto la spesa?”
Alec annuì. “Di solito è così che funziona, se vuoi mangiare.”
Izzy gli fece una linguaccia. “Non sei per niente simpatico!”
Alec fece spallucce e continuò a togliere la spesa dalle buste. Izzy si sedette al tavolo e osservò in silenzio il fratello che sistemava le cose al proprio posto. E questo comportamento insospettì il maggiore, dal momento che sua sorella di solito non stava mai in silenzio. Non appena si vedevano, cominciava ad inondarlo di parole riguardanti la sua giornata. In quell’istante, invece, Isabelle fissava il vuoto con espressione assente.
“Iz, che hai?”
“Nulla… io…” Isabelle alzò lo sguardo sul fratello e sospirò. “Ho litigato con Mark e sono arrabbiata con lui.”
La mascella di Alec si irrigidì all’istante. “Cosa ti ha fatto?”
“Vacci piano con la modalità fratello maggiore iperprotettivo, Alec. Non mi ha fatto niente, ha solo detto delle cose che mi hanno infastidita.”
Alec afferrò il cartone del latte e lo infilò nel frigo con un po’ troppo impeto. Avrebbe deciso da solo se andarci piano o meno con la modalità fratello iperprotettivo. “Del tipo?”
“Dice che non vuole che passi troppo tempo con Simon, perché la gente potrebbe farsi strane idee. Si è persino arrabbiato per l’ultima foto che ho pubblicato su Instagram.” Isabelle tirò fuori il cellulare dalla tasca dei suoi jeans aderentissimi e picchiettò sullo schermo per qualche istante, prima di porgere il telefono al fratello. Gli stava mostrando la suddetta foto: erano in palestra, Simon era senza maglietta e teneva Izzy – in tenuta sportiva composta da top e leggins –  a cavalluccio, le sue mani tenevano saldamente il retro delle cosce della ragazza, mentre lei gli circondava il collo con le braccia. Sorridevano entrambi, come se fossero le uniche persone su questo pianeta ad essere felici di venire massacrate da un allenamento sfiancante.
Il migliore, recitava la didascalia.
“Il migliore?” Domandò Alec, alzando il sopracciglio solcato dalla cicatrice.
“Beh, sì. Simon è il mio migliore amico e il migliore cliente che io abbia in assoluto. Non si lamenta mai e non contesta i miei metodi solo perché sono una ragazza e, a differenza di molti altri uomini, non crede di saperne di più solo perché, appunto, è un uomo. Si fida della mia opinione, professionale e non.”
“Capisco.” Alec, che ormai aveva sistemato tutta la spesa, si sedette di fronte a lei. Per qualche motivo si trovò a pensare a lui e Magnus. Prima di incontrarlo non aveva mai messo in dubbio le parole di Izzy riguardanti la sua amicizia con Simon perché non aveva un metro di paragone che gli facesse pensare il contrario. Se sua sorella diceva così, lui dava per scontato che fosse così. Ma poi aveva incontrato Magnus, con il quale aveva instaurato un rapporto che stava a metà tra l’amicizia e l’amore e aveva capito che spesso le persone tendono ad etichettare quel tipo di rapporto amicizia perché hanno paura di varcare la linea.
Alec ne aveva avuta parecchio all’inizio, e ne aveva tutt’ora. Lo spaventava varcare quella soglia, ma al tempo stesso sapeva di essere pronto a farlo – e il fatto che al ritorno di Magnus sarebbero usciti per un appuntamento vero ne era la conferma.
Pensò a cosa avrebbe provato se avesse visto una foto di Magnus con qualcun altro in quella stessa posizione e immediatamente realizzò che avrebbe sicuramente pensato che ci fosse dell’altro oltre all’amicizia. E poi pensò all’effettiva possibilità che ci fosse qualcosa che legasse Isabelle e Simon – e a quel punto, inevitabilmente, la sua mente ripercorse il loro rapporto negli ultimi dieci anni. La prima cosa che gli venne in mente fu il modo in cui Simon era stato vicino ad Izzy quando Max aveva avuto una ricaduta. Alec era stato troppo preso dal suo dolore e dalla sua preoccupazione per accorgersene subito, ma adesso la situazione gli balenò alla mente chiara e nitida: Simon non aveva mai, mai, lasciato Isabelle da sola. Nonostante conoscesse a sua volta Max, davanti a lei non aveva mai versato una lacrima, mostrandosi forte per lei. La abbracciava ogni volta che lei si sporgeva verso di lui, le accarezzava la schiena con movimenti circolatori e rassicuranti. Le sussurrava che tutto si sarebbe risolto perché Max era forte. Tornava sempre a casa con lei, talvolta rimanendo a dormire, o a volte semplicemente ascoltando le paure di Izzy e asciugando le sue lacrime.
Simon si era comportato più come un fidanzato che come un amico e improvvisamente si chiese se non provasse qualcosa per sua sorella da anni. E poi si domandò se anche Isabelle provasse qualcosa per lui e non se ne fosse mai accorta.
“Non sto giustificando Mark, perché certi comportamenti non mi piacciono, ma… forse è geloso.” Cominciò, cauto. Di certo lui lo sarebbe stato, se avesse visto Magnus postare una foto simile – ma non si parlava di lui, adesso. Adesso si parlava di Izzy e Simon.
Isabelle aggrottò le sopracciglia. “E perché dovrebbe essere gelo-” Si interruppe all’improvviso. Un lampo di realizzazione attraversò il suo viso, mentre la sua bocca rimaneva aperta in una O nella quale era ancora sospesa la frase che aveva interrotto bruscamente. “Tu pensi che mi piaccia Simon?”
Alec non era bravo in queste cose. E si vedeva, dannazione.
“Non ho detto questo!” Esclamò, “Ho supposto che, forse, Mark lo pensa.”
“È ridicolo! Io e Simon siamo amici.
Anche io e Magnus, ma la maggior parte delle volte vorrei baciarlo. Ah, e al suo ritorno usciremo insieme, quindi… amici un corno!
Ma questo Alec se lo tenne per sé.
“Io lo so. Tu lo sai. E probabilmente anche Simon lo sa. L’unico che non lo sa, a quanto pare, è il tuo ragazzo. Parlargli, tranquillizzalo, e già che ci sei ricordagli che non siamo nel Medioevo e che una ragazza può avere tutti gli amici maschi che vuole. O posso sempre spiegarglielo io, questo concetto.”
Isabelle ridacchiò. “Vacci piano fratellone. Ci penso io, ma grazie.” Si alzò dal tavolo per andare ad abbracciare il suo protettivo fratellone, che riusciva a prendersi cura di lei da sempre. Lo strinse così forte che ad Alec mancò il respiro per un attimo, ma ricambiò quella stretta. Conosceva sua sorella, sapeva bene che dirle cose che non si sentiva pronta a sentire l’avrebbe solo agitata. Alec sospettava che ci fosse di più tra lei e Simon – e c’era voluto il suo incontro con Magnus e la conseguente situazione che si era creata tra di loro per fargli aprire gli occhi su una cosa che stava sotto il suo naso da dieci anni e lui non aveva mai notato –  ma sapeva anche che Isabelle questo non l’aveva ancora realizzato e non voleva affrettare niente. Se i suoi sospetti erano fondati, il tempo gli avrebbe dato ragione. Ma fino ad allora voleva dare ad Izzy tutto il tempo di capire i suoi sentimenti da sola, se eventualmente ci fossero dei sentimenti diversi dall’amicizia.
“Ordiniamo la pizza?” domandò Isabelle, dopo aver sciolto l’abbraccio.
“Certo.” Alec le sorrise e poi estrasse il telefono dalla tasca dei pantaloni per ordinare la loro cena.
Passarono il resto della serata sdraiati sul divano, mangiando pizza e guardando un film.


*


Isabelle era concentrata a seguire un nuovo cliente. Avevano da poco fatto la sua tabella e la ragazza si stava impegnando per mostrare correttamente tutti gli esercizi al nuovo arrivato, un ragazzo sulla ventina che aveva deciso di mettere su più massa muscolare. Isabelle per questo aveva studiato una tabella che avrebbe aiutato il ragazzo a raggiungere risultati nel modo più sano possibile. Un lavoro lungo ma dettagliato che l’avrebbe aiutato ad ottenere ciò che voleva senza mettere a rischio la sua salute o la sua mobilità.
“Hai capito tutto?” gli domandò, dopo avergli mostrato i vari esercizi.
Il ragazzo annuì.
“Perfetto, se hai bisogno chiamami. Sono qua per questo.” Isabelle sorrise gentile e cordiale. Stava giusto per voltarsi e allontanarsi dal ragazzo, quando due braccia le circondarono la vita da dietro.
“O la borsa o la vita, signorina!” Esclamò Simon, tra le risate.
Ma Izzy non riuscì a ridere subito: era troppo concentrata sull’improvvisa sensazione alla bocca dello stomaco che il contatto tra la pelle degli avambracci di lui e quella della sua pancia nuda le aveva provocato. Uno strano calore che le rimase addosso anche quando Simon sciolse l’abbraccio.
“Non ho una borsa, Simon! Questa cosa non ha senso!”
“Stai dicendo che non apprezzi il mio umorismo?” Le sorrise e sulle sua guance si formarono due fossette adorabili.
Adorabili???
Ma che stava dicendo? Era diventata matta, per caso?
Conosceva Simon da dieci anni, sapeva benissimo che quando sorrideva gli venivano le fossette e mai prima di adesso le aveva reputate adorabili. Mai.
Alec.
Era di Alec la colpa di questi improvvisi pensieri.
Alec e le sue dannatissime insinuazioni!
“Lo apprezzo, ma lo apprezzo di più quando ha senso!”
Simon rise. “Potresti avere ragione. Ad ogni modo, cosa facciamo oggi, coach?”
“Non sono un coach,” Isabelle scosse la testa, un sorriso, adesso, le tendeva le labbra e non accennava ad andarsene. Simon le faceva quell’effetto. La metteva di buon umore semplicemente con la sua sola presenza. “Ma abbiamo del lavoro da fare.”
“Lo so, capo!” Simon mimò una posa militare, come se fosse sull’attenti.
Isabelle ridacchiò. “Allora vatti a cambiare!”
“Sissignora!”
Simon si allontanò verso gli spogliatoi ed Isabelle rimase a guardarlo. Qualche istante dopo si rese conto che non era l’unica a farlo. Il ragazzo nuovo, infatti, seguì Simon con lo sguardo fino agli spogliatoi e quando si accorse che Isabelle lo aveva notato, arrossì violentemente e si rimise a fare i propri esercizi.
Izzy non poté fare a meno di sorridere e, in seguito, di domandarsi se Alec non avesse ragione.


La risposta alla sua domanda arrivò un’ora dopo, quando Isabelle dal fondo della sua palestra, osservò Simon alla chest press, mentre si allenava privo di maglietta. Senza effettivamente volerlo si trovò a guardare le sue braccia, i suoi muscoli che si contraevano e distendevano ad ogni sforzo. I suoi bicipiti si gonfiavano e sgonfiavano al ritmo del cuore di Isabelle, che improvvisamente accelerò.
Era una cosa sciocca, giusto?
Lei e Simon erano amici da sempre! Non poteva davvero provare qualcosa per il suo migliore amico. Eppure… eppure una parte di lei, qualcosa che proveniva da un angolo remoto del suo cervello, le disse che in fondo l’aveva sempre saputo.
Aveva sempre saputo di provare qualcosa per il ragazzo che l’aveva sempre fatta sentire in pace. Simon non l’aveva mai giudicata. Aveva sempre accettato il fatto che fosse estroversa ed un tantino esuberante. Aveva accettato che fosse testarda e poco propensa a lasciare che un uomo facesse ciò che lei era perfettamente in grado di fare da sola, senza mai sentirsi minacciato da questo suo lato emancipato. E al tempo stesso, c’era sempre stato quando lei si rendeva conto che certe cose, da sola, non poteva affrontarle e chiedeva il suo aiuto.
Sia che fossero topi-criceti invasori di cucine, sia che fossero cose più serie come la malattia di Max.
Simon c’era. Da sempre.
E lei si era così ancorata a questo rapporto, al volerlo nella sua vita a tutti i costi che non si era mai azzardata a pensare a lui come a qualcosa di più di un amico, perché era perfettamente consapevole che fosse una frana nei rapporti amorosi. Quelli avuti fino ad ora non erano finiti bene e questo perché Isabelle non aveva fiducia nell’amore.
Da bambina era convinta che i suoi genitori si amassero, che sarebbero stati insieme per sempre e poi… poi aveva scoperto che suo padre aveva tradito sua madre per anni, vivendo una vita parallela con un’altra donna, prima di lasciare Maryse. Questa cosa l’aveva segnata più di quanto le piacesse ammettere. Ed era questa, forse, la ragione per cui non si era mai permessa, prima d’ora, di mettere Simon sotto una luce diversa da quella dell’amico. Perché se avesse permesso a se stessa, anche solo per un attimo, di vederlo come qualcosa di più, il terrore di rovinare tutto e perderlo per sempre le avrebbe attanagliato le viscere.
Quindi sì, probabilmente negli anni aveva represso i suoi sentimenti a tal punto da convincersi che ciò che legava lei e Simon fosse solo amicizia.
Ma adesso… adesso era come se quella voce che aveva ignorato per tutti questi anni bussasse insistentemente alla porta del suo cervello, pretendendo di essere ascoltata.
Ti piace Simon. Lo sai che ti piace. Smetti di negarlo.
Forse Alec non era l’unico ad avere ragione.
Parla con Mark. Sai che ciò che provi per lui non è abbastanza.
Già. Perché lui non è Simon – si trovò a pensare Isabelle, ormai preda di quella consapevolezza che non riusciva più a negare.
Isabelle si allontanò dalla sala, distogliendo lo sguardo da Simon, e andò dritta nel suo ufficio, dove recuperò il telefono e digitò il numero di Alec.
Suo fratello rispose al terzo squillo. “Iz, dimmi.”
“Potresti avere ragione.”
“Riguardo?”
“A Simon. Potrebbe piacermi il mio migliore amico.”
Alec rimase in silenzio qualche istante, assimilando l’informazione. “Ho un’ora buca a pranzo. Ti porto del cibo e parliamo, d’accordo?”
“Ti adoro. Tantissimo.”
Alec rise sommessamente e la salutò, riagganciando.
Quando Izzy rimase di nuovo sola con i suoi pensieri, si diresse nuovamente nella sala allenamenti. I suoi occhi cercarono immediatamente Simon e lo trovarono dove l’aveva lasciato: alla chest press, con i suoi bicipiti e i suoi addominali definiti, che improvvisamente divennero una tentazione più di quanto non lo fossero mai stati negli ultimi anni. Isabelle aveva sempre saputo che Simon avesse un bel fisico, ma solo adesso, che non si imponeva più una carestia sentimentale, sentiva il pieno effetto che aveva su di sé. E le faceva parecchio effetto. Simon era… sexy. La combinazione perfetta di sensualità e dolcezza di cui Isabelle si era volutamente privata in questi anni.
Sospirò, guardandolo per un’ultima volta prima di distogliere lo sguardo. Aveva bisogno di concentrarsi e di riordinare i pensieri per decidere poi come agire. E per questo, Isabelle tendeva ad adottare il metodo Lightwood, che prevedeva due guantoni e un sacco da boxe.



Alec arrivò all’ora di pranzo, quando la palestra era ormai vuota, e come promesso le portò del cibo. Due Caesar Salad con il pollo da asporto. Una per sé e una per Isabelle.
Izzy era talmente affamata che quasi la divorò e fu ben contenta quando Alec le mostrò un altro sacchetto in cui erano presenti due donuts con la glassa al cioccolato.
“Avevi fame.” Scherzò Alec, guardando la sorella addentare la ciambella.
“Taci.”
Alec rise, mentre finiva la sua insalata e si accingeva a prendere il suo dolcetto. “Allora, parliamo?”
“Da quando sei diventato così impaziente di parlare di sentimenti?”
“Non lo sono. Voglio solo aiutarti. E tu non mangi mai così in fretta. Di solito finisco sempre prima di te, a meno che tu non sia nervosa. O preoccupata, in quel caso diventi una specie di aspirapolvere.” Alec addentò la sua ciambella. “In quanto medico, devo dirtelo: non fa bene mangiare troppo velocemente.”
Izzy sbuffò e diede un altro morso alla ciambella, masticando più lentamente, questa volta. “Sono terrorizzata, Alec.” Confessò, dopo aver deglutito il boccone. “So di provare qualcosa per Simon e so che devo parlare con Mark e farla finita. Ma… poi? Qual è il passo successivo?”
“Parlare con Simon?”
“Per dirgli cosa? Ehi ciao, ho capito che mi piaci? Se non dovesse ricambiare? Butterei all’aria dieci anni di amicizia!”
“Se non provi, non lo saprai mai.” Erano seduti nell’ufficio di Isabelle, alla sua scrivania, una di fronte all’altro. Alec si allungò sulla superficie di legno per raggiungere la mano di Izzy. La coprì totalmente con la propria. “So quanto fa paura, credimi. Non c’è nessuno che lo sa meglio di me. Ma la paura paralizza, Isabelle. E ti toglie le cose belle senza che tu te ne accorga.”
“Questo è il tuo modo carino per dire che Will era uno stronzo e che ti ha creato problemi di fiducia?”
Alec rise, guardando altrove. “Potrebbe essere sì, ma non mi riferisco solo a Will.”
Isabelle si fece più attenta. I suoi occhi neri come il carbone si assottigliarono. “Cosa non mi stai dicendo, Alec?”
“Non stiamo parlando di me, adesso.” Disse Alec, agitando una mano per allontanare anche la minima possibilità che si cominciasse a parlare di lui. Era lì per cercare di aiutare Izzy e così sarebbe stato. “Stiamo parlando di te. Lo so che hai paura. Ti conosco, Iz, e so come sei fatta. Vuoi l’amore, ma hai paura di trovarlo. Ma Simon potrebbe essere la tua occasione. C’è un motivo per cui con tutti i ragazzi, fino ad ora, non ha funzionato.”
Già, pensò Isabelle, perché nessuno di loro era Simon – era la seconda volta che aveva quel pensiero. E se anche Alec, che la conosceva meglio di quanto lei conoscesse se stessa, l’aveva insinuato allora forse era vero.
“Ti preferisco silenzioso, musone e scontroso, sai?”
Alec ridacchiò. “Cercherò di non offendermi.” Addentò la ciambella e masticò il suo boccone con calma, prima di ingoiarlo e domandare: “Allora, gli parlerai?”
Izzy sospirò, come se avesse il cuore pesante e quello fosse un modo per provare ad alleggerirlo. “Prima devo parlare con Mark. Non è giusto continuare a stare insieme a lui quando so benissimo ciò che provo per un altro.”
Alec annuì.
“Poi parlerò con Simon.”
Alec annuì di nuovo.
Calò il silenzio e Alec finì la sua ciambella. Isabelle sembrava pensierosa e Alec iniziava a preoccuparsi di aver varcato la soglia che separa la discrezione dall’indiscrezione. Forse le aveva indirettamente fatto pressione e adesso lei si sentiva in qualche modo obbligata ad affrettare le cose. Non era questo ciò che voleva, lui voleva semplicemente aiutarla.
“Izzy…” la chiamò, “Se ho detto qualcosa che in qualche modo ti fa sentire costretta a cambiare le cose, mi dispiace.”
Isabelle gli rivolse un sorriso tenero. “Niente di ciò che hai detto mi ha fatto sentire costretta a cambiare le cose, Alec. Mi sono solo resa conto che devo farlo e che… ho paura.”
Alec realizzò quanto lui e i suoi fratelli fossero propensi a quel sentimento, se si trattava di amore.
Jace aveva sempre saputo che voleva Clary, nella sua vita, ma durante i primi appuntamenti si era dimostrato distaccato e silenzioso, quasi volesse prima studiarla, capire che tipo di persona fosse e se potesse fidarsi di lei al punto da aprirsi totalmente. Non voleva che gli spezzasse il cuore. Voleva essere certo che lei non l’avrebbe ferito. 
Isabelle aveva sempre tenuto i ragazzi a distanza. Li frequentava per qualche mese e poi inevitabilmente loro se ne venivano fuori dicendo che lei non si lasciava conoscere in pieno. Izzy non aveva mai permesso a nessuno di scavare a fondo nel suo cuore per capire cosa si celasse nella parte più profonda di sé. In questo si assomigliavano tutti e tre.
Ma poi era arrivata Clary e Jace aveva lasciato che avesse accesso pieno al suo cuore, nel modo più totalitario possibile.
E lo stesso era successo per Izzy, quando aveva conosciuto Simon e… e beh, era successo anche ad Alec quando aveva conosciuto Magnus.
Nemmeno Will era riuscito a toccare in profondità le corde di Alec nello stesso modo in cui era riuscito a farlo Magnus. E ad Alec andava bene così. Gli piaceva che Magnus e William fossero diversi anche in questo. Gli piaceva che Magnus riuscisse ad avere accesso a delle parti di Alec alle quali nessuno, prima di lui, era riuscito ad accedere.
“Dopo Will sai com’ero ridotto. Sono letteralmente fuggito dal paese, cavolo! Avevo bisogno di stargli lontano il più possibile. Mi aveva ferito così profondamente, Izzy, che pensavo che il mio cuore avrebbe sanguinato per il resto dei miei giorni.” Alec fece una pausa. “Non sapevo se mi sarei mai rifidato di qualcuno…”
“Ma poi hai incontrato Magnus…” Isabelle sorrise – uno di quei sorrisi dolci e comprensivi, uno di quelli carichi di complicità che facevano sentire Alec al sicuro. Isabelle aveva sempre significato questo per lui: sicurezza, comprensione, l’assoluta certezza che lei ci sarebbe sempre stata per lui e che l’avrebbe sempre capito.
Alec annuì. “Sono piuttosto certo di essermi innamorato di lui, Iz.” Dirlo ad alta voce faceva meno paura di quanto credesse. E sentiva che fosse giusto dirlo ad Isabelle: primo, perché era Izzy; secondo: perché le aveva appena detto che tutte le cose belle si trovano al di là della paura. E magari Alec non si sentiva ancora pronto per dirlo a Magnus, ma era già un passo avanti. “Ho paura a dirglielo? Sì, cacchio. Ma… usciremo insieme, al suo ritorno. È un passo avanti, un passo lontano dalle mie fobie e verso ciò che voglio davvero.”
Isabelle sorrise di nuovo. “Sono felice per te, Alec, te lo meriti.”
“Anche tu lo meriti. E se pensi che sia Simon ciò che vuoi, percorri quella direzione. Con i tuoi tempi, certo, ma concediti di essere felice, Isabelle. Felice per davvero. Te lo meriti.”
Izzy aveva gli occhi lucidi. Si alzò dalla sedia e circumnavigò la scrivania per raggiungere il fratello. Alec si alzò dalla propria sedia, avendo capito cosa stava per fare la sorella, e si lasciò abbracciare, ricambiando la stretta.
“Hai parlato più in questa mezz’ora che in tutta la tua vita, ne sei consapevole, vero?”
Alec ridacchiò sommessamente.
“Ma sono convinta che dovresti farlo più spesso, Alec.”
Il ragazzo la strinse a sé e le lasciò un bacio sui capelli – un gesto che facevano da sempre, anche quando Alec non superava ancora Isabelle di venti centimetri abbondanti. “Non mi preferisci più scontroso e musone e tutte le cose carine che mi hai detto solo poco fa?” Scherzò, una punta di sarcasmo colorava la sua voce.
Isabelle rise e scosse la testa in un cenno di diniego. Alec, allora, la strinse un po’ più a sé.
“Ti voglio bene, fratellone.” Sussurrò la ragazza, dopo istanti di silenzio.
“Anche io.”



*


Magnus era emozionato e ansioso allo stesso tempo. Emozionato perché il giorno del suo compleanno era arrivato e si sentiva di affermare con assoluta tranquillità di indossare i suoi trentacinque anni in modo favoloso.
Ansioso perché mancavano pochissimi giorni alla sua partenza. Tutto era pronto: le valige, il biglietto aereo, tutti i documenti necessari. Lui e Alexander avevano trovato qualcuno che aprisse la scuola di danza in sua assenza, pescandolo tra le schiere fidate di Sophia, che era sempre ben disposta ad aiutare un amico. Magnus era soddisfatto della scelta del suo sostituto, o meglio sostituta. Si chiamava Sarah e aveva un entusiasmo contagioso. Quando era venuta a sapere che avrebbe aiutato niente meno che Magnus Bane non era riuscita a trattenere un grido euforico e Magnus aveva sorriso. Non tanto perché era stato riconosciuto dopo anni lontano dai palchi scenici, ma perché aveva rivisto in Sarah la stessa scintilla carica di entusiasmo e voglia di fare che aveva lui alla sua età. Sarah aveva affiancato Magnus nelle ultime settimane, di conseguenza il ballerino aveva abbastanza elementi per affermare che la ragazza avrebbe fatto un ottimo lavoro.
Almeno sotto quel punto di vista era tranquillo.
Il viaggio, invece… più si avvicinava e più Magnus sentiva l’ansia montargli dentro. Tre settimane. Sono solo tre settimane – continuava a ripetersi, ma non per questo diventava meno spaventoso. Tutto ad un tratto la paura di non essere più in grado di fare quello che aveva fatto per anni era diventata insistente, come se un tarlo si fosse formato nel suo cranio e adesso fosse arrivato a divorargli il cervello. E se si fosse messo in ridicolo? Se l’avessero trovato ridicolo? O avessero pensato che questo fosse il tentativo disperato di una stella cadente per ritornare sotto la luce dei riflettori?
A Magnus piaceva la sua vita, ma forse gli altri avrebbero pensato il contrario. Non voleva fare la figura del disperato.
Tutto ad un tratto l’idea di partire non lo entusiasmava più. Guardò le sue valige pronte da giorni in un angolo della sua camera da letto. Fu enormemente tentato di disfarle e successivamente chiamare la produzione per disdire, ma proprio mentre stava per fare il fatidico passo verso le valige, sentì suonare alla porta.
“Papà! Hanno suonato!” Lo informò Erin, dal salotto. Stavano giocando insieme fino a qualche istante prima, fino a quando Magnus non aveva sentito il desiderio di vestirsi in modo più comodo e si era diretto in camera. Non si era cambiato, dal momento che i suoi pensieri l’avevano assalito, di conseguenza indossava ancora una camicia nera, con le maniche arrotolate fino ai gomiti, abbinata a dei pantaloni dorati.
“Ho sentito, bintang, adesso papà va ad aprire!” Magnus uscì dalla propria stanza e percorse tutto il corridoio che portava al salotto. Una volta attraversato pure quello, arrivò alla porta e la aprì.  
Lo stupore che attraversò il suo viso fece sorridere il suo visitatore.
“Ciao, Magnus.”
“Ciao, tesoro.”
“So che non si fanno le improvvisate, scusami.”
“Puoi farmi tutte le improvvisate che vuoi, solo che… pensavo dovessi lavorare, oggi pomeriggio.”
Alec socchiuse un occhio e gli rivolse un sorriso di scuse. “Potrei aver mentito, ma a scopo benevolo, giuro!”
“E quale sarebbe questo scopo benevolo?”
“È una sorpresa.” Sorrise Alec.
“Mi sento in dovere di dirti, pasticcino, che non mi piacciono le sorprese.” Confessò Magnus, spostandosi dall’uscio per far entrare Alec in casa. Il medico entrò, ma non si tolse il giubbotto. Era dicembre da più di una settimana, ormai, eppure Alexander continuava ad usare un giubbotto di pelle, quando sarebbe stato più appropriato usare un cappotto, o un parka. Qualcosa che lo tenesse al caldo per davvero.
“Non hai freddo?” Gli domandò, accennando al fatidico giubbotto con lo sguardo.
Alec sorrise, guardando prima l’oggetto in questione e poi alzando di nuovo lo sguardo su Magnus. “Ti preoccupi per me?”
“Ho solo paura che tu prenda freddo.”
Alec si avvicinò. Erano così vicini che Magnus dovette alzare di un pochino la testa per riuscire a guardarlo negli occhi.
“Quindi ti preoccupi per me.” Soffiò Alec. La distanza tra loro era così poca che Magnus sentì il suo respiro su di sé – e ciò gli provocò una scarica di brividi lungo la schiena.
Era dicembre, fuori faceva freddo e a lui era appena balenato nella mente un rimedio perfetto per risolvere il problema. In più sarebbe stato un regalo di compleanno azzeccatissimo. Ma poi Alec fece un passo indietro, rimettendo distanza tra di loro e frantumando tutte le fantasie di Magnus riguardanti qualsiasi tipo di contatto fisico con l’altro.
“Ma non devi,” affermò con un sorriso, “Il mio giubbotto è imbottito. Dentro è caldo come una coperta.”
Magnus sospirò, come se fosse stato svuotato delle sue energie.
Quali energie, gioia? Quelle sessuali? – gli domandò la sua vocina interiore, pungente e sarcastica. Lui la scacciò. Non era il momento. C’era Erin nell’altra stanza, diamine! Doveva darsi un contegno.
“Ora, torniamo al discorso principale: a te che non piacciono le sorprese.” Cominciò Alec.
“Lo so, tesoro, ma…”
Alec alzò un indice e lo interruppe. “Niente ma, Magnus. Non oggi. Fidati di me, per favore.” Lo guardò con i suoi grandi occhi cervoni, così espressivi che fecero attorcigliare le già sensibili budella di Magnus e non riuscì a resistere. Era vero che non gli piacevano le sorprese, ma Alexander… lui gli piaceva da morire ed era pienamente consapevole che non gli avrebbe mai negato niente. Non quando glielo chiedeva con quegli occhi.
“D’accordo.” Si arrese, quindi.
Alec gli regalò uno dei suoi meravigliosi sorrisi, quelli che gli illuminavano tutti i lineamenti. “Erin è già vestita?”
Magnus annuì.
“Andiamo, allora.”
Alec sorrise di nuovo e Magnus sentì il suo cuore accelerare. Forse le sorprese non erano poi così spiacevoli.



Stavano camminando per Central Park da un po’, ormai. Con l’arrivo di dicembre era arrivata anche la prima nevicata, di conseguenza il parco aveva toni bianchi lasciati dai fiocchi di neve che erano rimasti incastrati tra le chiome degli alberi e non si erano ancora sciolti. Sull’erba piccole gocce di brina congelata rendevano il tutto luccicante alla flebile luce del sole che tentava, con coraggio e testardaggine, di scaldare almeno un po’ l’aria. Sembrava di guardare una cartolina. E il fatto che fossero vicino ad uno dei laghi rendeva questa immagine ancora più veritiera.
Magnus guardò la superficie dell’acqua incresparsi leggermente, quando si alzò una folata di vento e la sua attenzione, a quel punto, si spostò su Erin. Era abbastanza coperta? Sentiva freddo?
Ma la sua bambina sembrava tranquilla. Continuava a mangiare lo zucchero filato che Alec le aveva comprato ad una bancarella – era stato irremovibile sul non far pagare Magnus, così tanto che alla fine il ballerino aveva dovuto cedere – e si guardava intorno, affascinata dalla neve e dal parco in versione invernale.
“A cosa pensi?” gli domandò Alec, che era completamente concentrato su di lui. Magnus si chiese se non avesse una specie di radar che gli permettesse di percepire i pensieri altrui.
“Erin è abbastanza coperta, secondo te?”
Alec abbassò lo sguardo sulla bimba, che continuava a mangiare lo zucchero filato. Era in mezzo a loro due, come se Alec e Magnus fossero i suoi bodyguard – e un po’ lo erano, dal momento che non la perdevano di vista un attimo – e sembrava stesse bene.
“Ha un giubbotto, una sciarpa e un capello, Magnus. Penso stia bene.”
“Ma non ha i guanti. E fa freddo. Sei un medico, dovresti sapere che la grande circolazione si ferma, quando c’è troppo freddo! Se le andassero le mani in ipotermia?”
Alec si fece pensieroso per un attimo e di colpo la consapevolezza che non si trattasse solo di quello si appropriò del suo cervello. Sospirò, con pazienza, e si chinò all’altezza di Erin.
Monyet,” La chiamò, “Hai freddo alle mani?”
Erin, con la bocca piena di zucchero filato, negò con il capo. I suoi lunghi capelli neri uscivano da un cappellino di lana lilla.
“E stai bene?”
Erin annuì e visto che Alec era alla sua altezza, ne approfittò per prendere un ciuffo del suo zucchero filato e porgerglielo. Il ragazzo sorrise e accettò quell’offerta, ringraziando la bambina, prima di tornare in posizione eretta e guardare Magnus. Appurato che la bimba stava bene, adesso bisognava occuparsi del padre.
“Erin sta bene, Magnus. Ora dimmi cosa ti preoccupa davvero. Perché non può dipendere tutto dall’assenza di un paio di guanti.”
Sì, era ufficiale: Alexander Lightwood aveva un radar incorporato nel cervello che gli permetteva di leggere i pensieri altrui.
Oppure gioia, se vogliamo ragionare in termini di ipotesi razionali e non di follie da ciarlatani – cominciò la sua coscienza e Magnus si sentì un tantino offeso dal suo subconscio per quel tono sfacciato – semplicemente ti capisce e ti conosce meglio di chiunque altro. Dovresti esserne felice, invece di ragionare come un pazzo.
D’accordo, il suo sfacciato ed oltremodo pungente subconscio poteva avere ragione. Per questo svuotò il sacco, perché sapeva di potersi fidare di Alexander e perché parlare con lui lo aiutava sempre a stare meglio – e a vedere le cose da un’altra prospettiva. Una prospettiva che spesso lo tranquillizzava.
“Sto pensando di non partire.” Disse sottovoce per non farsi sentire da Erin.
“Cosa??” Esclamò Alec, perplesso. “E perché?”
“Perché ho Erin e devo occuparmi di lei.”
Alec si bloccò in mezzo al percorso e trascinò Magnus di lato per evitare di intralciare gli altri passanti. Erin li seguì senza fare domande.
“Abbiamo già parlato di questa cosa, Magnus. Abbiamo organizzato tutto settimane fa. Erin starà con tua madre e con me, se vorrà.” Gli prese il viso tra le mani, spronandolo a guardarlo negli occhi. “Cosa ti preoccupa, Magnus?”
L’uomo sospirò, arrendendosi. Non sapeva davvero negare niente a quegli occhi. Niente. Alec lo guardava in quel modo così intenso e particolare, senza filtri, senza secondi fini. Gli penetrava l’anima con quelle iridi bellissime. Alexander lo guardava come se avesse messo il cuore in ogni suo sguardo e lo stesse pregando di essere sincero con lui – perché Alec di certo lo sarebbe stato. E come si fa a negare qualcosa a qualcuno che ti guarda in questo modo? Come si nega qualcosa a qualcuno che ti guarda come se altro non gli importasse che tu sia felice e stia bene?
Semplice.
Non si può.
“Ho paura che mi vedano ridicolo. Temo possano pensare che non mi piaccia la mia attuale vita e che questo sia il mio tentativo disperato per tornare alla ribalta dopo anni di inattività lontano dal mondo dello spettacolo.”
Alec gli accarezzò gli zigomi con i pollici. “Non succederà nulla di tutto questo.” Gli sorrise, incoraggiante. “Vuoi sapere cosa succederà?”
Magnus annuì.
“Andrai là e ti divertirai. Sarà una bellissima esperienza. E sarai il ballerino più bravo di tutti, anche dopo anni lontano dai palchi scenici. Noteranno solo questo: la tua bravura e il tuo talento. Nessuno dirà niente di cattivo su di te perché non ne hanno motivo. La verità è che sono stati loro a cercare te, non il contrario. Se davvero tu stessi cercando a tutti i costi di tornare alla ribalta, li avresti ossessionati fino farli cedere e convincerli a farti partecipare. Ma non è andata così.” Alec gli baciò la fronte. “Non devi temere nulla, Magnus.”
L’uomo gli rivolse un sorriso colmo di gratitudine. “Grazie.” Appoggiò le mani sopra ai polsi di Alec, accarezzando la pelle nulla che sbucava dalle maniche del giubbotto.
In quel momento, Magnus non ebbe più dubbi: lo amava. Sapeva di amarlo, ne ebbe la certezza. Magnus era arrivato al capolinea di quel percorso che aveva imboccato mesi prima e adesso… adesso era chiaro come la luce del sole che si era innamorato di Alexander. Non c’era via di ritorno, per lui. C’era solo un’unica, semplice verità: lo amava.
Dio, se lo amava. Con tutto se stesso. Con tutto quel cuore pieno di cicatrici che Alec aveva avuto tra le sue mani fin dalla prima volta che i loro sguardi si erano incrociati. E quanta delicatezza aveva riservato a quel cuore, quanto rispetto.
Magnus avrebbe voluto dirglielo in quell’istante, gridarlo persino a tutti gli sconosciuti che adesso li circondavano ma dei quali era solo vagamente consapevole. Perché non contavano niente. L’unico che contava era l’uomo che adesso era di fronte a lui e che sapeva sempre cosa dire e come dirlo per aiutarlo, per farlo sentire al sicuro.
Ma sapeva che non sarebbe stato giusto. Che avevano ancora bisogno di tempo, prima di arrivare a pronunciare quelle due paroline cariche di un significato titanico.
Alec sorrise e abbassò le mani dal suo viso. “Ora, sei pronto per la tua sorpresa?”
Magnus rise e annuì. Insieme continuarono a camminare con Erin che trotterellava in mezzo a loro, troppo concentrata sulla sua nuvola di zucchero filato per capire a pieno quello che era appena successo.


Camminarono ancora una decina di minuti prima di raggiungere il Delacorte Theater.
Magnus non ci era mai stato. Aveva vissuto a New York per anni, prima di partire con la sua compagnia in giro per il mondo e non aveva mai visto quel teatro. Aveva la forma di un anfiteatro greco ed era all’aperto. Era davvero bello e pieno di gente, tutta infagottata nei suoi cappotti.
Alec, al suo fianco, lo guardava. “Ti piace?”
Magnus annuì. La scenografia del teatro dava direttamente sul Belvedere Castle, che conferiva al tutto un’aria magica, come se fossero stati catapultati indietro nel tempo. A Magnus piaceva davvero tanto. E doveva ammettere che per la prima volta in vita sua, l’idea di una sorpresa lo incuriosiva, anzi che terrorizzarlo.
“Ora mi puoi dire perché siamo qui?”
Alec sorrise, anche se c’era una punta di insicurezza nascosta dietro il suo sorriso. Temeva che la sua sorpresa non fosse gradita. Ma decise comunque di portare a termine il suo piano. Per questo frugò nella tasca interna del suo giubbotto e gli allungò uno dei due biglietti che aveva acquistato per assistere allo spettacolo.
Magnus lo afferrò e lo studiò. Era un biglietto per un posto in terza fila centrale. Lo spettacolo in questione era Il Cigno Nero.
“Sophia qualche settimana fa mi ha parlato di questo evento. Ha detto che voleva dirtelo perché il cigno nero è una delle tue rappresentazioni preferite. Le ho chiesto se poteva non farlo perché avrei voluto farti una sorpresa di compleanno. Mi ha aiutato a trovare i biglietti. È stata molto gentile.”
Magnus alzò lo sguardo dal biglietto ad Alec. Il rossore sulle sue guance non aveva niente a che fare con il freddo che li circondava. Alec era in imbarazzo, Magnus lo sapeva. Era sicuro che l’uomo al suo fianco temesse che la sorpresa non era gradita, quando invece lo era eccome.
C’era sempre una prima volta per tutto. E quel giorno era arrivata anche la prima volta in cui Magnus Bane aveva gradito una sorpresa.
“Sei dolcissimo, lo sai?” Magnus allungò una mano per accarezzargli una guancia accaldata e Alec, istintivamente, abbassò lo sguardo – i complimenti ancora lo imbarazzavano. Magnus decise in quel momento che sarebbe diventata la sua missione personale fare in modo che Alexander imparasse ad accettarli, perché si meritava tutti i complimenti esistenti al mondo.
“Quindi ti piace? Nel senso, ti piace davvero? Non lo dici per cortesia?”
Magnus sorrise, intenerito. “Mi piace davvero. Grazie, tesoro.” Si sporse verso di lui quel tanto che bastava per lasciargli un bacio fugace sulla guancia.
Era sincero, quella sorpresa gli piaceva davvero. Ma ancora di più gli piaceva passare il pomeriggio del suo compleanno con Alexander.
“Forse dovremmo sederci…” Ipotizzò Alec, notando che piano piano tutta la folla cominciava a prendere posto.
Magnus annuì e prese posto. Alec si sedette al suo fianco, mentre Erin si sedeva in braccio al padre. La fregatura di non far pagare i bambini sotto ai sei anni era che non gli riservavano un posto proprio.
“Cosa guardiamo, papà?”
“Uno spettacolo di danza, bintang.
La bambina si sistemò meglio sulle gambe del padre per essere più comoda. “Hanno i tutù?”
Magnus ridacchiò e notò che anche sul viso di Alec era comparso un sorriso tenero. “Penso proprio di sì, sayang.
“Mi piacciono i tutù. E la danza.” Erin annuì, come se avesse voluto dare solennità alle sue parole.
Magnus e Alec si guardarono, sorridendo.
Erano felici, come nessuno dei due lo era da tempo. E, per entrambi, era tutto merito dell’uomo che avevano al proprio fianco.




Dopo lo spettacolo tornarono verso la macchina. Alec aveva trovato parcheggio poco lontano dal parco per un puro colpo di fortuna e adesso stava riaccompagnando Magnus ed Erin a casa. La piccola era sistemata sul seggiolino che di solito Alec usava per Diana, mentre Magnus era seduto al fianco di Alec. L’abitacolo dell’auto era immerso in un piacevole tepore, dal momento che appena saliti in macchina Alec aveva acceso il riscaldamento.
Il viaggio dal parco alla casa di Magnus trascorse in un piacevole silenzio, rotto solamente dalle domande di Erin, che era curiosa riguardo ad un sacco di cose: come si fanno i tutù, chi è che li fa; come mai lo zucchero filato è così morbido e perché a volte diventa rosa; aveva fatto domande sulla neve, chiedendosi se avesse un qualche sapore particolare. 
Magnus aveva risposto con pazienza ad ogni domanda, soffermandosi particolarmente sull’importanza di non mangiare la neve, mentre Alec continuava a guardare la strada con un sorriso che si allargava ad ogni interazione padre-figlia di cui era spettatore silenzioso.
Magnus ed Erin avevano un rapporto bellissimo. Era sicuro che niente e nessuno sarebbe mai stato in grado di mettersi tra loro due, o di scheggiare anche solo minimamente il loro legame.
“Eccoci.” Comunicò Alec, quando fermò la macchina davanti al palazzo dove viveva Magnus. “Aspetta un attimo, prima di scendere, ok?”
Magnus lo guardò con un sopracciglio alzato, incuriosito da quella richiesta, ma non disse niente, limitandosi ad annuire.
Alec si slacciò la cintura e scese dall’auto. Magnus lo seguì con lo sguardo fino a che non lo vide aprire la bauliera, nella quale si chinò, sparendo di conseguenza dal campo visivo del ballerino. Rimase in attesa circa tre secondi, prima di vederlo ricomparire. Qualche istante dopo, Alec era di nuovo in macchina, seduto al sedile del guidatore e teneva un pacco in mano. Era incartato con precisione in una carta color avorio a cui era abbinato un fiocco verde smeraldo.
“Per te.” Disse Alec, porgendoglielo. Le sue guance erano tornate color porpora. E ancora, quel rossore non aveva niente a che fare con la temperatura. “Buon compleanno, Magnus.”
L’uomo afferrò il pacchetto che gli veniva porto. Ci passò le dita sopra, accarezzando la carta liscia al tatto. Alzò di nuovo lo sguardo su Alec. “Non dovevi. Già il teatro e questa giornata sono stati perfetti.”
Alec arrossì. “Aprilo, magari non ti piace.”
Magnus scosse la testa. “Impossibile. Qualsiasi cosa abbia a che fare con te mi piace in automatico, pasticcino.”
Le guance di Alec presero fuoco e Magnus sorrise. Gli piaceva sapere di essere in grado di provocargli reazioni così profonde e spontanee. Gli piaceva essere la causa di quel rossore tanto adorabile.
Dopo un ultimo sguardo al viso di Alec, Magnus si concentrò sul pacchetto, cominciando a scartarlo con devozione, nemmeno avesse paura che strappando l’involucro avrebbe rotto anche il regalo stesso. Tolta di mezzo la carta e il fiocco, Magnus si trovò in mano una scatola. Assomigliava ad una scatola di scarpe, per questo spinto dalla curiosità, sollevò in coperchio senza rifletterci troppo.
Ciò che i suoi occhi incontrarono lo lasciò un attimo senza fiato. Anche quella fu una sorpresa, piacevole tanto quanto lo era stato lo spettacolo a teatro e quell’intero pomeriggio.
Alexander gli aveva regalato delle scarpe da punta, tipiche della danza classica. Non erano le classiche punte rosa, ma erano nere e i lacci che avrebbero avvolto i polpacci di Magnus sembravano fossero fatti di seta lucida. Erano bellissime. E per un attimo non riuscì a fare altro che guardarle perché le adorava – e pensare al fatto che non vedesse l’ora di metterle e ballarci.
Ma il silenzio di Magnus, dettato da un piacevole stupore, agitò Alec.
“Se non ti piacciono posso cambiarle…” Si affrettò a dire.  
Quelle parole destarono Magnus dalla sua attenta contemplazione. “Non dire sciocchezze, confettino. Le adoro. Sono bellissime.”
Alec tirò un sospiro di sollievo. “Davvero?”
“Davvero.” Confermò l’altro, prima di sporgersi verso di lui per abbracciarlo. Alec venne invaso dal suo profumo e respirò a pieni polmoni, mentre ricambiava quell’abbraccio, quasi avesse voluto fare scorta di quell’odore – che aveva lo stesso effetto di una droga, per lui – che non avrebbe sentito per tre settimane.
“È stato il miglior compleanno di sempre.” Gli sussurrò Magnus all’orecchio, prima di sciogliere l’abbraccio e tornare al suo posto.
Alec sorrise. “Mi fa piacere.” Le guance tornarono a colorarsi nuovamente di cremisi. “E… sono stato bene anche io.”
Magnus allungò un braccio verso di lui per accarezzargli una guancia. E Alec, seguendo un istinto che non riuscì a frenare in tempo, sporse il viso verso il suo palmo. Magnus gli accarezzò uno zigomo con il pollice per qualche istante, prima di rompere quel silenzio. Doveva romperlo, altrimenti avrebbe finito per prendere il viso di Alexander tra le mani e tirarlo a sé per baciarlo con tutta la foga di cui era capace. L’unica cosa che lo trattenne fu la consapevolezza che avrebbe solamente confuso le idee della sua bambina, ancora seduta nel seggiolino sistemato sul sedile posteriore.
“La giornata non è ancora finita.” Sorrise, con un’astuta malizia. “Ci vediamo stasera?”
Alec annuì, un sorriso gli tendeva le labbra. “Ovviamente.”
Magnus lo guardò ancora un istante, volendosi imprimere quel sorriso bene in mente, prima di scendere dall’auto e recuperare Erin dal seggiolino. Con la bimba in braccio e il suo regalo stretto nella mano che aveva libera, Magnus si chinò all’altezza del finestrino che Alec aveva aperto. “A stasera, passerotto.” Gli fece l’occhiolino – Alec, ovviamente, arrossì di nuovo – e poi si voltò verso casa.
Alec rimase a guardarlo finché non lo vide sparire all’interno del palazzo. Poi si accasciò sul sedile della sua auto e liberò un respiro profondo.
Era fottuto. E alla grande, anche. Ogni suo minimo dubbio era sparito nell’esatto momento in cui Magnus gli aveva appoggiato una mano sulla guancia e lui, come un cucciolo bisognoso d’affetto, aveva sporto il viso verso il suo palmo.
Era innamorato di lui. Totalmente e irrimediabilmente.
E ad Alec andava benissimo così.





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I’m baaaaaack
Seriamente, mi sembra di essere stata via per un’eternità. E di questo mi scuso immensamente. Ho avuto da fare quest’estate e di conseguenza il tempo per scrivere era davvero poco. Vi chiedo scusa ancora.
Ad ogni modo spero che abbiate passato una bella estate e che questo capitolo, nonostante l’attesa millenaria, vi sia piaciuto lo stesso.
Ho qualcosa da specificare al riguardo: non so se effettivamente anche gli ebrei festeggiano il Ringraziamento. Ho letto su Internet di no, ma si sa il mondo del web spesso nasconde delle bufale immense, quindi se ci fosse qualcuno che ne sa più di me al riguardo non si faccia remore a farsi avanti, cosicché io possa eventualmente modificare la prima parte del capitolo.
Parlando sempre di Simon e soprattutto di Simon ed Izzy… pensate abbia affrettato troppo la cosa? Non so perché ma mi sembrava arrivato il momento di smuovere un po’ la loro situazione, ma adesso ho paura di averlo fatto in modo repentino e poco realistico/coerente. Per questo vi chiedo per favore di farmi sapere cosa ne pensate – e soprattutto se avete trovato OOC il comportamento di Alec mentre parla con Isabelle.
Un’altra cosa: la parte del compleanno di Magnus doveva comprendere anche la parte dedicata alla festa di sera, ma visto che il capitolo è già venuto lungo di per sé e voi avete aspettato anche troppo, ho deciso di dividere la cosa. Per questo l’undicesimo capitolo inizierà con la seconda parte del compleanno di Magnus.
Credo di aver detto tutto, spero che il capitolo via sia piaciuto e mi scuso ancora averci messo così tanto a pubblicarlo. Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va!
Vi saluto e, come sempre, ringrazio chiunque legga la storia, la recensisca o l’abbia messa tra le preferite/seguite/ricordate. Lo apprezzo tantissimo!
Un abbraccio, a presto! <3

PS: So che sono in ritardo di due giorni, ma trovo opportuno fare gli auguri al nostro archer boy preferito che il 12 ha compiuto 30 anni tondi tondi! Auguri Alec, ti amiamo come ti ama Magnus (o quasi!) <3
 

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Capitolo 11
*** 11. ***


“Quindi mi stai dicendo che non solo ti ha portato a vedere uno dei tuoi spettacoli preferiti, ma ti ha anche fatto un regalo?”
Catarina era seduta sul letto di Magnus, mentre lo osservava tirare fuori vestiti di ogni genere dalla sua gigantesca cabina armadio, che era addossata alla parete. Magnus era il tipo che pianificava i propri outift con giorni d’anticipo, ma quella volta gli sembrava che tutto ciò che si provava fosse banale. E lui non aveva niente di banale nell’armadio. Il fatto era che era nervoso. Voleva apparire al meglio e ormai non negava più nemmeno che lo volesse fare per Alexander – perché gli piaceva il modo in cui i suoi occhi scivolavano sulla sua figura quando si metteva qualcosa di particolarmente vistoso, o aderente. E normalmente scegliere qualcosa che rientrasse in queste due categorie non sarebbe stato un problema, dal momento che quasi tutti i suoi indumenti erano vistosi e aderenti, ma quella sera cercava qualcosa di più. Qualcosa che mirasse a stupire Alexander, a lasciarlo senza parole, a spingerlo a non guardare altri se non lui. E forse poteva suonare un discorso un tantino narcisistico, ma non gli importava granché: sapeva bene quanto gli piacesse avere gli occhi di Alexander incollati addosso e dal momento che sarebbero stati lontani per tre settimane, voleva fare scorta di tutte le attenzioni possibili che l’altro potesse offrirgli.
Purtroppo, non riusciva a trovare niente che riuscisse a soddisfarlo. Ed era frustrante.
“Sì,” rispose quindi, voltandosi verso Catarina e raggiungendola sul letto – gettandosi sul materasso come un salmone che risale il fiume. “Un regalo che adoro, come se la giornata in sé non fosse già stata perfetta.” Magnus sentì le guance sollevarsi in un sorriso. Non stava così bene da anni. Ed era tutto merito di Alexander e delle sue sorprese dolcissime. Lui era dolcissimo.
“Erano anni che non ti vedevo sorridere così.” Affermò Catarina, la voce carica di tenerezza.
Magnus alzò lo sguardo su di lei. Se ne stava seduta a gambe incrociate sul materasso e le tante treccine che tenevano legati i suoi capelli le ricadevano sulle spalle, incorniciandole il viso. I suoi occhi nocciola erano fissi su Magnus e… e lo guardavano come se sapessero tutto. Magnus non si stupì nemmeno più di tanto: Catarina era in grado di leggerlo come un libro aperto.
“Lo amo, Cat.” Sussurrò con un filo di voce che uscì dalle sue labbra ancora prima che lui si rendesse effettivamente conto di volerlo fare. Abbassò lo sguardo sulle sue mani, cominciando a giocare con l’anello che portava all’indice della mano destra. Lo fece ruotare tre volte prima di riguardare l’amica in viso. “Lo amo.” Ripeté, come se fosse una verità ormai appurata, un fatto inconfutabile, qualcosa che nemmeno lo scorrere inevitabile del tempo avrebbe potuto cambiare. Certi amori, semplicemente, nascono per durare e Magnus aveva la certezza – e forse anche la presunzione – di pensare che quello che provava per Alexander fosse un amore del genere, un sentimento nato solo per diventare sempre più grande, giorno dopo giorno.
Catarina lo guardò con un sorriso e gli occhi carichi d’affetto. Si sporse verso di lui per stringerlo in un abbraccio spacca costole. “Sono così felice per te. Te lo meriti. Ti meriti qualcuno che ti faccia sorridere in questo modo, che ti faccia stare bene e che ti faccia sorprese di compleanno.”
Magnus emise una risatina, prima di sciogliere l’abbraccio. “Sai, dopo oggi credo proprio di aver rivalutato le sorprese.”
Catarina rise. “Solo perché è stato lui a fartele.”
Magnus si trovò concorde. Alexander stesso era una sorpresa. Una di quelle mandate dalla vita quando vuole farti un regalo prezioso. Occasioni rare che non vanno sprecate –  e di certo, Magnus non aveva intenzione di sprecare ciò che la vita, il fato, o chiunque manovrasse il destino, gli aveva offerto.
“Potresti avere ragione.”
Ho ragione.”  Catarina sorrise, furba. “E scegli una qualsiasi cosa a caso da quel gigantesco armadio. Sono sicura che non gli interessa cosa indossi.”
Magnus stava per ribattere a quell’affermazione dicendo che invece era importante farsi vedere al meglio, ma le sue parole morirono sul nascere, interrotte dall’arrivo di Erin in camera.
“La nonna dice che è pronto da mangiare.”
Magnus e Catarina scesero dal letto e immediatamente la donna sollevò Erin tra le braccia, riempiendola di baci. “Sei la bambina più carina del mondo, lo sai?”
Erin ridacchiò e l’abbracciò, circondandole il collo con le piccole braccia. “Anche tu sei carina, zia Cat.”
Magnus le guardò uscire dalla stanza con un sorriso stampato sul viso. Era felice per così tante cose nella sua vita, che per un attimo temette che il cuore avrebbe potuto esplodergli. Ma, almeno, dopo anni lo sentiva di nuovo nel pieno delle sue forze. E fu in quel preciso momento che Magnus Bane capì di essere guarito, che tutte le ferite del passato non facevano più male.
Stava bene.
Stava finalmente bene.




Madelaine era passata per stare con lui, aveva detto. Per festeggiare il compleanno del suo bambino. Magnus le aveva fatto notare che non era più un bambino da anni, ormai.
“Per me sarai sempre il mio bambino.” Aveva ribattuto lei, schioccandogli un bacio sulla guancia, prima di intimargli di mettersi a tavola. Aveva preparato la cena di compleanno, così la chiamava lei, a cui avrebbero partecipato anche Catarina e Raphael, che li aveva raggiunti una volta assicuratosi che il suo stagista avesse l’hotel sotto controllo. Raphael odiava lasciare l’hotel in mano a qualcuno che non fosse lui, o Rosa, ma entrambi quella sera avevano degli impegni e quindi il ragazzo aveva dovuto ripiegare su Miguel, un tizio che era figlio di un’amica di Lupe e che sembrava fosse stato creato di proposito per far saltare i nervi a Raphael.
“Sei troppo severo con lui.” Cominciò Catarina, seduta a tavola, dopo aver ascoltato il racconto di Raphael.
“Severo, dici? Quello non sa nemmeno trovare il registro dei nostri ospiti. Ed è letteralmente sulla scrivania del mio ufficio. Non serve nemmeno saper usare il pc, perché è un quaderno. Un quaderno, Cat!” Si appoggiò allo schienale della sedia, come se quel gesto fosse utile ad enfatizzare le sue parole. Magnus non gliel’aveva mai detto, perché altrimenti si sarebbe guadagnato un’occhiataccia letale, o addirittura un morso, ma Raphael sapeva essere tremendamente teatrale, a volte.
“Deve solo imparare, Raph! Alla sua età tu eri bravo come lo sei ora?”
Puedes jurar, mia cara!”
Catarina lo guardò con gli occhi ridotti a due fessure. “Non ci credo! Mi ricordo benissimo il panico nei tuoi occhi la prima volta che l’ex proprietario del DuMort ti ha messo alla reception!” Ribatté, piccata.
Si preannunciava una discussione all’ultimo sangue, Magnus lo sapeva. Conosceva i suoi amici da una vita intera, ormai, e poteva affermare con assoluta certezza che erano due testarde teste dure. Ed erano così persistenti da essere estenuanti, a volte. Per questo sapeva benissimo che quella discussione sarebbe sfociata in una battaglia a chi avesse ragione. E dal momento che entrambi pensavano di avere ragione, Magnus non prevedeva niente di buono all’orizzonte.
Si stava già immaginando un dibattito all’ultimo sangue, con Raphael che alla fine inizia a parlare solo ed esclusivamente in spagnolo, con il risultato che nessuno riesca più a capirlo fino in fondo, quando il campanello suonò. La conversazione cessò all’istante e i presenti si guardarono uno ad uno.
“Aspetti qualcuno?” Domandò Raphael.
“No,” rispose Magnus, alzandosi da tavola.
“Potrebbe essere il tuo bello che ti fa un’altra sorpresa.” Commentò Catarina, bevendo un sorso del suo vino e guardando l’amico da sopra il bicchiere con una certa malizia.
Magnus le lanciò un’occhiataccia, ma non ribatté. Doveva ammettere che quell’idea aveva sfiorato anche lui. O forse ci sperava. Non sapeva esattamente come era successo, ma da qualche parte, tra la chiacchierata sul letto con Cat e la mancata discussione a tavola, Magnus aveva cominciato a sentire la mancanza di Alexander. Una cosa ridicola, se ci pensa, dal momento che erano stati tutto il pomeriggio insieme e che, di lì a poco, l’avrebbe rivisto.
Arrivato davanti alla porta, comunque, accantonò tutti i suoi pensieri e l’aprì. Ciò che si trovò davanti fu decisamente una sorpresa, ma quella volta non era stato Alexander a fargliela.
“Ragnor?”
Magnus non credeva ai suoi occhi. Ragnor Fell, che teoricamente doveva essere in Irlanda, si trovava davanti all’uscio di casa sua, vestito di tutto punto e con un bell’aspetto per uno che ha quasi nove ore di volo sulle spalle.
“In persona.” Sorrise l’uomo. “Aspettavi per caso qualcun altro? Dovrei offendermi?”
Magnus rise e abbracciò l’amico. Non lo vedeva da mesi, ormai, e gli era mancato tantissimo. Ragnor aveva sei anni più di lui e Magnus lo conosceva da quando erano dei bambini. O meglio, lui era un bambino e Ragnor un ragazzino che aveva sempre avuto la tendenza a controllare che il nuovo arrivato che abitava nel suo stesso quartiere non si cacciasse troppo nei guai. Erano diventati amici per caso: Magnus si era arrampicato su un muro troppo alto per un bambino di sette anni e Ragnor, sulla via di ritorno verso casa, aveva notato la sua difficoltà a scendere. L’aveva aiutato senza dire una parola e poi l’aveva riaccompagnato a casa. Non aveva fatto la spia con Madelaine, si era semplicemente limitato a dire che avevano fatto per caso lo stesso tratto di strada e che, siccome si stava facendo buio, era meglio che nessuno dei due stesse solo.
Da quel giorno si erano rivisti in modo sporadico, fino a quando Magnus non era entrato negli anni dell’adolescenza e avevano potuto instaurare un rapporto un po’ più profondo.
“Non aspettavo nessuno, sono solo… sorpreso di vederti qui!” Rispose, sciogliendo l’abbraccio.
“Non mi sarei perso il tuo compleanno, soprattutto quest’anno. Dopo i trentacinque si è ufficialmente quarantenni, quindi adesso non sono l’unico vecchietto della compagnia!”
Magnus lo guardò malissimo. “Ah-ah, divertente!” esclamò, senza alcun divertimento nella voce.
Ragnor ridacchiò, dandogli una pacca sulla spalla. “Allora, mi fai entrare o sei troppo offeso?”
“Entra.” Magnus si fece da parte per far passare l’amico. Niente valigia, notò, quindi con ogni probabilità Ragnor era prima passato da casa per darsi una sistemata. Una cosa più che ragionevole, pensò.
Magnus aspettò che Ragnor si togliesse il cappotto e lo appendesse all’attaccapanni, poi insieme si diressero verso l’interno della casa.
Una volta raggiunta la sala da pranzo, Magnus attirò l’attenzione dei presenti.
“Guardate chi ho trovato sulla porta!”
Madelaine, Raphael e Catarina si voltarono verso di lui e sui loro volti comparve un’espressione di piacevole stupore.
“Ragnor!” Esclamò Catarina, alzandosi per prima e andandogli in contro. Lo abbracciò stretto e l’uomo ricambiò. La seconda ad alzarsi fu Madelaine, la quale lo abbracciò a sua volta. Successivamente, anche Raphael si alzò dal tavolo, ma visto che era Raphael, il contatto tra i due si limitò ad una stretta di mano. Raphael non era decisamente il tipo da abbracci.
“Ciao, zio Ragnor!” La piccola Erin, invece, costretta al tavolo per via del suo seggiolino per bambini, salutò l’uomo dal tavolo. Un gran sorriso sollevava la sue guance. “Ti piace l’Irelanda?” La bimba pronunciò male il nome, ma Ragnor trovò quell’interessamento decisamente adorabile. Con un sorriso sulle labbra, si avvicinò al tavolo per prendere in braccio la bambina. Gli era mancata tantissimo. “Mi piace.” Confermò, dandole un bacio sulla fronte. “E a questo proposito, ti ho portato un regalo.”
“Le state facendo un sacco di regali, in questo periodo.” Mormorò Magnus, una punta di tenerezza nella voce. Il suo pensiero era corso ad Alexander e alla coperta a forma di coda di sirena. Non riuscì a trattenere un sorriso soffice, a quel ricordo.
“Oh-oh.” Esclamò Ragnor. “Sorride come un idiota.” Poi si voltò verso Catarina e Raphael. “Perché sorride come un idiota?”
“Perché è un idiota!” Sentenziò Raphael, beccandosi uno scappellotto da Catarina.
“Ti sei perso un sacco di cose, Ragnor!” Disse la donna con un sorriso astuto. “Perché non dai il regalo ad Erin, così poi dopo ti aggiorniamo?”
Magnus allora decise di intervenire. Si stava parlando di lui, accidenti, e i suoi amici stavano conversando come se lui nemmeno fosse lì!
“Siete davvero simpatici.” Disse, gli occhi ridotti a due fessure. “Non avete altro di meglio da fare che parlare di me? Insomma, non vediamo Ragnor da mesi! Avrà tantissime cose da raccontarci!”
“Non è vero.” Negò l’interessato. “Ho solo aneddoti riguardanti un palazzo. Tu, invece, hai aneddoti riguardanti qualcuno che, apparentemente, fa regali a tua figlia. Direi che vinci tu.”
I presenti si misero a ridere, compresa Madelaine. Persino Raphael accennò un sorriso.
“Siete tutti dei traditori. Tutti.
“Fai contento il tuo vecchio amico, Magnus.”
Magnus roteò gli occhi al cielo e si arrese all’inevitabile. “Va bene, d’accordo.” Sbuffò. “Tesoro,” continuò riferendosi alla figlia, “Zio Ragnor ha qualcosa da darti. Ringrazialo.”
“Grazie, zio Ragnor.” Disse la bambina, ancora tra le braccia dell’uomo. L’interessato le diede un bacio sulla fronte.
“È un piacere, Erin.”
E detto questo, la portò con sé verso l’ingresso, dove aveva lasciato il cappotto.



Ragnor aveva portato alla piccola Erin il pupazzo di un leprecauno, che aveva sistemato dentro ad una delle tasche interne del suo giaccone. La bambina l’aveva adorato, tanto che, dopo cena, quando era andata via con Madelaine per dormire a casa sua, aveva voluto portarselo dietro, insieme alla coperta a forma di coda di sirena. Ed era stata proprio quella coperta a far sì che i tre amici di Magnus, rimasti a casa sua dopo che sua madre e sua figlia se n’erano andate in modo che lui potesse uscire a far festa per il suo compleanno (idea questa che era partita proprio da Madelaine, la quale aveva esattamente usato quelle parole), cominciassero a parlottare come tre vecchie pettegole – e come se lui non fosse presente.
“Dovresti vederlo, Ragnor!” Ridacchiò Catarina, mentre si ritoccava il mascara – preso in prestito da Magnus. “Quando parla di lui mette su un’espressione estasiata!”
“Già. È imbarazzante!” Confermò Raphael, roteando gli occhi, seduto su una delle poltroncine che Magnus aveva in camera. Gli esseri umani comuni hanno delle sedie, Magnus Bane delle poltrone. Comodissime, tra l’altro, ma questo Raphael se lo tenne per sé. 
“Oh, e aspetta!” Esclamò ancora Cat, guardando Ragnor dallo specchio della toeletta su cui era seduta, “Alec gli ha fatto una sorpresa per il suo compleanno e lui l’ha gradita. Riesci a crederci?”
Ragnor, seduto sulla seconda poltroncina vicino a Raphael, rise e si rivolse Magnus, che invece era sparito nella sua gigantesca cabina armadio. L’architetto era convinto che quel luogo fosse un misto tra Narnia e la Tana del Bianconiglio. Qualcosa di mistico e decisamente enorme. Tanto che poteva benissimo essere considerato un’altra stanza. E lo era, dal momento che Magnus era entrato lì dentro da un pezzo e non si vedeva più.
“Alec? È così che si chiama l’uomo che ti fa sorridere come un idiota?”
“Lui lo chiama Alexander, e, te lo giuro, pronuncia quel nome come se fosse la cosa più sporca che qualcuno possa dire.” Aggiunse Raphael, il quale, evidentemente, sembrava essere stato messo al mondo dal suo caro Dio solo ed esclusivamente per sfottere Magnus.
Non può negare che sia vero, comunque. Al ballerino piace particolarmente pronunciare il nome completo di Alec. Gli piace godersi ogni sillaba: scivolare sulla x, arrotondare la r, e riempirsi la bocca di quel nome. Un nome bellissimo, audace, forte… un nome che calza perfettamente con la persona che lo porta.
“Oh, e sai chi è stato il primo a cui ha detto della sua partenza?” Incalzò Raphael Sono-Un-Traditore Santiago.
“Ad Alexander?” Rise Ragnor, senza premurarsi di nascondere lo sfottò nella voce. “Fossi in voi, io mi sarei quasi offeso. Passiamo anni a sopportarlo e non appena lui incontra il primo belloccio che gli capita sotto gli occhi diventa la sua assoluta priorità?”
“Avete finito?” Domandò Magnus, uscendo dalla sua cabina armadio, vestito di tutto punto.
“Di prenderti in giro?” ribatté Ragnor, “Mai.” Aggiunse, facendo ridacchiare Raphael. Era tipo un miracolo e Magnus sapeva che Ragnor era una delle tre persone in grado di suscitare una reazione simile nel suo amico. Le altre erano Isabelle ed Erin.
Il bello del loro rapporto era che i suoi migliori amici erano anche migliori amici tra di loro. Ragnor e Raphael erano legati da un rapporto speciale, qualcosa che li aveva sempre spinti a coprirsi le spalle – mentre coprivano anche quelle di Magnus – e avevano questa capacità di capirsi con il pensiero. Bastava uno sguardo, e tutto era già stato detto. Magnus lo sapeva perché era stato spesso oggetto di quegli scambi. Quando erano stati preoccupati per lui, dopo la rottura con Camille, nessuno dei due aveva parlato – si erano semplicemente limitati ad esprimere la loro preoccupazione con vari scambi di sguardi. E Magnus si era sentito come un adolescente che attraversa una fase depressiva e fa preoccupare i suoi due papà.
Il rapporto che avevano con Catarina, invece, era diverso, ma non per questo meno profondo. Lei era la loro mascotte, la loro ragazza. La voce della loro ragione. Catarina era la saggezza fatta a persona. E tutti e tre si sarebbero presi un proiettile per lei. Erano consapevoli di essere un tantino protettivi nei suoi confronti –   anche se lei negli anni aveva sempre ribadito che non era una donzella in difficoltà. Sapeva benissimo proteggersi da sola e aveva sempre dato prova di ciò.
“Questo perché siete dei grandissimi stronzi. Ma vi voglio bene lo stesso!” Esclamò, soffiando baci volanti nella loro direzione, prima di dirigersi alla toeletta, dove Catarina era ancora seduta.
“Stai benissimo.” Gli disse, con un sorriso, alludendo al suo outfit.
Magnus si chinò per lasciarle un bacio sulla guancia. “Per questo sei la mia preferita.” Commentò ad alta voce, per farsi sentire dagli altri due alle sue spalle e facendo ridere Cat.
“Vuoi truccarti?”
“Solo se tu hai finito, cara.”
La donna annuì e si alzò dalla toeletta, prendendo posto sul letto. Magnus si sedette e, prima di concentrarsi sul suo riflesso, guardò alle sue spalle. Sul letto, Cat era seduta con le gambe a ciondoloni, mentre poco distanti, Ragnor e Raphael continuavano a sghignazzare a sue spese.
Erano tre delle persone più importanti della sua vita. I fratelli e la sorella che non aveva mai avuto. Persone che facevano parte del suo passato – perché Magnus faceva davvero fatica a ricordare una fase della sua vita dove quei tre non fossero presenti – e che era sicurissimo avrebbero fatto parte anche del suo futuro.
Gli amici sono la famiglia che ti scegli. E mai, prima di quel momento, Magnus aveva creduto a quella frase così intensamente.



*


Isabelle era nervosa.
E il fatto di essere nervosa la rendeva ancora più nervosa perché lei non lo era mai.
Si guardò allo specchio per quella che probabilmente era la centesima volta, lisciandosi il vestito. Per l’occasione ne aveva scelto uno bianco, senza spalline e con la scollatura a cuore, che le arrivava appena sopra al ginocchio. Ai piedi portava un paio di decolleté rosse che le piacevano da morire – un regalo che Jace e Alec le avevano fatto per il suo ultimo compleanno. Adorava quelle scarpe. Ed era consapevole di non averle messe tante volte quanto avrebbe voluto.
Si guardò ancora, questa volta lisciandosi i capelli anzi che il vestito. Tutto quel ‘lisciare’ cose che non avevano assolutamente bisogno di essere aggiustate le dava l’impressione di avere la situazione più sotto controllo – senza contare che in quel modo avrebbe evitato di sentire i palmi sudati.
Altre cosa che non capitava mai: sudore sulle mani.
Isabelle avrebbe voluto chiedersi come mai era così agitata, ma sapeva benissimo qual era la causa del suo stato d’animo: quella sera avrebbe approfittato della festa di compleanno di Magnus per parlare con Simon e dirgli apertamente ciò che provava per lui.
E mentirebbe se dicesse che il pensiero di lui che la rifiuta, o le ride in faccia, non la spaventa.
Non ti riderebbe mai in faccia, sciocca. Se non ricambiasse, te lo direbbe in modo dolce e rispettoso perché Simon è così.
Era vero. Simon era gentile e sensibile, era dotato di un livello di empatia elevatissimo, e mai, mai, avrebbe fatto qualcosa di spregevole come riderle in faccia dopo una confessione simile.
Sospirò al suo riflesso. Doveva stare tranquilla. Non sarebbe successo niente di catastrofico. Un no non ha mai ucciso nessuno.
E se rovinassi la vostra amicizia per il tuo egoismo?
Isabelle scacciò quel pensiero. Era quella domanda che la rendeva nervosa. Le stava martellando il cervello da giorni. Non era tanto la paura del rifiuto a tormentarla, quanto le conseguenze del rifiuto. Quando in una coppia di amici, uno si innamora dell’altro e l’altro non ricambia, inevitabilmente si spezza qualcosa. Il rapporto muta, trasformandosi nel fantasma di ciò che è stato.
Isabelle non era sicura di voler correre quel rischio. Non voleva che Simon diventasse solo un ricordo, non l’avrebbe sopportato.
“Izzy?”
La voce di Simon interruppe tutti i suoi pensieri. Era entrato in casa sua usando la chiave, come ormai faceva da anni. Si annunciava sempre, però, perché voleva evitare di spaventarla.
“Arrivo!” Esclamò lei, dalla sua camera. Si guardò un’ultima volta, prima di uscire da quella stanza e dirigersi verso il salotto.

Quando arrivò in sala, trovò Simon che si guardava intorno. Le venne naturale sorridere, quando lo vide e, per un attimo, Isabelle avvertì chiaramente il suo cuore accelerare. Chissà quanti segnali le aveva mandato, durante tutti quegli anni, quante volte aveva accelerato per farle capire che ciò che provava per lui andava al di là dell’amicizia, ma lei l’aveva sempre ignorato – troppo timorosa di ascoltare quel cuore che adesso non le lasciava tregua e batteva, batteva, batteva. Forte e chiaro, un tamburo nel petto che ha smesso di non essere ascoltato.
Simon era bello. Di una bellezza semplice e naturale, ma che inevitabilmente non puoi fare a meno di notare. Izzy questo l’aveva sempre pensato. C’era una genuinità nel suo sorriso, che lo rendeva speciale, e gli illuminava gli occhi castani di una luce particolare, rara.
“Ehi,” lo salutò.
Simon si voltò verso di lei e si prese qualche istante per guardarla. “Sei bellissima.” Sussurrò, perché era l’assoluta verità.
Isabelle arrossì leggermente – cosa anche questa che non faceva mai – e lo ringraziò. “Anche tu stai benissimo.” Constatò, osservando l’abbinamento jeans scuro-camicia bianca che Simon indossava. Una camicia, se lo si chiede ad Izzy, che rendeva particolarmente giustizia alle sue spalle.
“Grazie.” Le sorrise Simon, leggermente imbarazzato. “Allora… vogliamo andare?” Le porse il braccio libero, quello che non reggeva la sua giacca di pelle.
“Con molto piacere.” Isabelle fece passare il proprio braccio intorno a quello di Simon e, dopo aver preso il suo cappotto grigio, uscirono da casa.
Gli avrebbe parlato. Era decisa a farlo.
Nonostante le sue paure, sapeva che era Simon quello giusto per lei.
Adesso doveva solo scoprire se anche Simon pensava che lei fosse quella giusta per lui.



*



“Pensavo che Izzy venisse con noi!”
“No, la passa a prendere Simon. Poi ci raggiungono direttamente là.”
“Perché?”
Alec si voltò verso Jace, entrambi già vestiti per la serata. Il maggiore era passato a casa del fratello e insieme sarebbero andati al Pandemonium, la discoteca dove Magnus aveva organizzato la festa per il suo compleanno. Un’ora prima, Luke era passato a prendere Diana, che avrebbe dormito a casa sua, quella sera, e adesso Alec e Jace stavano aspettando Clary che stava finendo di prepararsi.
I due fratelli erano seduti sul divano a guardare passivamente un programma di incontri tra robot. Nessuno dei due prestava particolarmente attenzione alla televisione – non da quando Jace aveva iniziato quella conversazione e Alec era stato in silenzio.
Jace conosceva suo fratello. Sapeva quando c’era qualcosa che non gli stava dicendo. E il fatto che non avesse risposto alla sua domanda era un chiaro segno che stava nascondendo qualcosa.
“Cosa mi sono perso, Alec?”
Alec sospirò. Non gli piaceva mantenere segreti con i suoi fratelli. Quando Jace gli diceva qualcosa ed Izzy intuiva che c’era qualcosa che lei non sapeva, lo torchiava fino a farlo cedere. E Jace, ovviamente, non era da meno.
Per questo decise di parlare subito, consapevole che comunque Jace avrebbe trovato un modo per estorcergli la verità. “Io e Izzy abbiamo parlato, qualche giorno fa…”
“E…?”
“E mi ha detto che pensa di provare qualcosa per Simon. Vuole parlargli stasera. E penso che volesse rimanere un po’ sola con lui.”
“Per questo ha lasciato Mark?”
“Sì.”
“Non mi è mai piaciuto Mark,” cominciò Jace.
“Nemmeno a me, troppo appiccicoso.”
Jace annuì, concordando. Rimase in silenzio per qualche istante, riflettendo su ciò che gli aveva appena detto Alec. Poi si voltò di nuovo a guardarlo, incontrando lo sguardo del fratello. “Simon?”
“Lo so, fa un po’ strano anche a me.”
Jace si appoggiò allo schienale del suo divano “Però al tempo stesso non è strano per niente.”
Alec lo imitò, prima di riflettere su quella frase. Era vero. All’inizio poteva sembrare strano solo perché l’idea di Simon ed Isabelle insieme andava a scombinare quell’equilibrio che si era stabilito negli ultimi dieci anni. Ma allo stesso tempo, proprio come aveva detto Jace, il pensiero di Isabelle e Simon insieme come coppia sembrava estremamente giusto. Alec aveva notato come Izzy fosse più felice, quando gravitava intorno a Simon. Era come se lui l’accendesse di una luce diversa da quella che la caratterizzava di solito, ma egualmente intensa.
Cosa che con Mark – o qualsiasi altro ragazzo – non avveniva.
“È vero.” Sorrise Alec. “Pensi che dovremmo fargli il discorsetto?”
Jace ridacchiò. “Se ricambia i sentimenti di Izzy e da stasera saranno una coppia, potremmo farglielo solo per spaventarlo un po’.”
“Tipo: falle del male e veniamo a cercarti, Lewis!”
“Esatto! Un cliché molto da fratelli maggiori.”
“Izzy ci ucciderà.”
“Probabile, ma il rischio varrà sicuramente l’espressione mezza terrorizzata di Simon!”
Alec si lasciò sfuggire una risata, ma poi si fece serio. “Sai, ho sempre pensato che nessuno l’avrebbe mai meritata davvero, che nessuno sarebbe stato abbastanza per lei…” Abbassò lo sguardo sulle sue mani e giocò con una pellicina che aveva sul pollice. “…Ma Simon è un bravo ragazzo, sappiamo che le vuole bene.”
Jace si voltò alla sua sinistra, verso Alec. “Negherò di averlo detto, perché altrimenti Lewis si monta la testa, ma… se dovessero davvero diventare una coppia, stasera o in futuro, sono contento che sia Simon. È gentile con lei e c’è sempre. La rispetta, ma le tiene anche testa.”
Alec annuì, un sorriso affettuoso tirò le sue labbra. “Probabilmente, se Iz sapesse che stiamo parlando di lei e  approviamo un suo possibile nuovo ragazzo, si arrabbierebbe da morire.”
“Oh sì!” Esclamò il biondo, concorde. “Ci guarderebbe con quello sguardo terrificante che ha ereditato da mamma e comincerebbe a strillare cose del tipo non siamo nel 1600! Non dovete approvare con chi esco! Sono perfettamente in grado di scegliere da sola, senza che lo facciate voi per me!
Il maggiore rise. “E aggiungerebbe discorsi tipo perché già che ci siete non mi barattate con una dote di tre capre e due mucche?
Jace seguì la risata di Alec e insieme si guardarono, con quella complicità che li aveva caratterizzati fin da sempre. Non avevano passato tutta la vita insieme, perché i suoi primi otto anni erano stati a dir poco traumatici, ma Jace sapeva che la sua vita vera era cominciata quando era entrato a far parte dei Lightwood.
Lui e Alec erano stati partner in crime fin da subito e con Izzy avevano formato un trio formidabile. C’erano sempre stati degli alti e bassi, ma non esistono dei fratelli che non litigano.
Jace amava i suoi fratelli. Tutti. Incondizionatamente. Anche se Max a volte tendeva a sentirsi un po’ escluso per via dell’età, i tre maggiori sapevano sempre come fare per farlo sentire importante. Perché lo era, davvero, davvero, molto.
“Che avete da ridere voi due??” Domandò Clary, interrompendo le loro risate, quando entrò in sala. Jace si voltò con tutta l’intenzione di risponderle, ma quando i suoi occhi si posarono su di lei per un pelo non si strozzò con la sua stessa saliva: Clary era bellissima. Indossava un vestitino blu di seta lucida con gli spallini fini che le arrivava sopra al ginocchio. Il tessuto ricadeva morbido sul suo corpo e le evidenziava i punti giusti – sui quali era possibile che Jace avesse indugiato un po’ troppo con lo sguardo, ma ehi tra qualche mese quella donna sarebbe stata sua moglie, quindi poteva farlo!
“Sei bellissima, amore.” Le disse, alzandosi dal divano per raggiungerla. Nonostante Clary portasse i tacchi, rimaneva comunque un poco più bassa di lui. Le baciò il naso. “La più bella in assoluto.”
Clary arrossì e si sistemò una ciocca ramata dietro l’orecchio. “Anche più bella di te?”
“Adesso non esagerare, Fairchild!”
Clary rise, mentre Alec alzò gli occhi al cielo.
“Come rovinare il romanticismo, una guida dettagliata a cura di Jace Lightwood, narcisista di professione.” Brontolò Alec, alzandosi dal divano per andare a salutare Clary. La abbracciò e le lasciò un bacio fugace sui capelli.
“Non starlo a sentire. Sei molto più bella di lui.”
Clary approfittò di quel momento per passare un braccio dietro la schiena del cognato e accostarsi a lui. “Grazie.”
Jace li guardò, accostati l’uno all’altra e stretti in quel piccolo abbraccio, che ridevano a sue spese. “Sapete una cosa? Preferivo quando non vi piacevate! Almeno, in quel caso, non vi alleavate contro di me!”
Non era vero, ovviamente, ma a Jace piaceva fare un po’ di scena, ogni tanto – lasciarsi andare ad un po’ di melodrammaticità.
La verità era che non poteva essere più felice del fatto che il periodo di antipatia reciproca che avevano provato Clary ed Alec l’uno nei confronti dell’altra fosse durato poco. All’inizio, ad Alec Clary non piaceva perché pensava che volesse monopolizzare Jace, isolarlo da tutti e allontanarlo dalla sua famiglia. Clary, che avvertiva questo muro che Alec aveva messo tra di loro, agiva di conseguenza, ignorando il maggiore dei suoi fratelli. Quel loro comportamento era durato circa due mesi, prima che Jace decidesse di intervenire e farli parlare a cuore aperto l’uno con l’altra. Li aveva quasi obbligati, se deve essere onesto, ma non si era mai pentito di averlo fatto.
Non avrebbe mai accettato che la ragazza di cui era innamorato e suo fratello non andassero d’accordo. Erano entrambi troppo importanti per lui, così aveva deciso di eliminare qualsiasi tensione, o attrito. Ed era particolarmente orgoglioso di dire che ci era riuscito.
“Non ci credi nemmeno tu a questa cosa.” Sentenziò Clary, non credendo nemmeno per un secondo alle parole del fidanzato. “Ora, che ne dite se ci avviamo?”
Alec e Jace annuirono e, tutti e tre insieme, si diressero verso la porta.  
  


*



Le intenzioni di Isabelle erano svanite nell’esatto momento in cui Simon aveva fermato l’auto davanti a casa di Maia.
Lei si era voltata verso di lui, con uno sguardo carico di curiosità e lui si era semplicemente limitato ad alzare le spalle.
“Ha la macchina dal meccanico. Mi sembrava scortese farle prendere la metro.” Aveva detto, inconsapevole che con quelle parole aveva appena dichiarato fine alle intenzioni di Isabelle ancora prima che queste prendessero forma. La ragazza sapeva che era giusto così, comunque. Si sarebbe sentita estremamente in colpa, se avessero lasciato Maia a piedi, di conseguenza aveva deciso di rimandare la conversazione – magari appena avessero avuto un po’ di tempo soli.  
Tuttavia, sembrava che il fato fosse determinato a non farle tenere quella conversazione – e se Isabelle fosse un tipo superstizioso, penserebbe che c’era un motivo, dietro quella casualità, ovvero: non dire al tuo migliore amico che ti piace. Ma Isabelle non era superstiziosa, quindi scacciò quel pensiero con velocità – perché non appena scesero dall’auto e si diressero verso l’entrata del Pandemonium, notò che i suoi fratelli e Clary erano già arrivati. Avrebbe di nuovo dovuto rimandare la conversazione. Doveva ammettere che un po’ si stava agitando. Il pensiero che qualcosa potesse andare storto le invase il cervello, come un lampo che filtra da una finestra in una casa, interrompendo per un attimo quel senso di quiete e conforto. Non appena anche Maia li notò, comunque, sciolse la presa con Simon per dirigersi verso di loro – quasi corse incontro a Clary e la strinse in un abbraccio. Isabelle approfittò di quel momento sola con Simon per buttare le basi della loro futura conversazione.
“Simon,” Sussurrò, e quando il ragazzo si voltò verso di lei, Isabelle continuò. “Dopo possiamo parlare?”
“Certo. Devo preoccuparmi?”
Lei negò con il capo. “No, solo… devo dirti una cosa.”
“Lo sai che non esiste nessun essere umano che non si preoccupa dopo aver sentito questa frase, vero?”
Isabelle sorrise e appoggiò la testa sulla sua spalla. “Stai tranquillo.” Gli disse, anche se era lei la prima a non esserlo. Più ci pensava e più l’idea di perderlo la spaventava. La possibilità che lui potesse non ricambiare si era fatta strada in lei, come un tarlo che si era impossessato del suo cervello, e le suggeriva sempre di più di lasciar perdere, di evitare di complicare le cose. Ma c’era una parte di lei, quella sulla quale aveva fatto luce Alec con le sue parole, che la spingeva invece ad andare al di là della paura. Era proprio quella parte che le diceva che se le sue relazioni non erano finite bene, in questi anni, era perché lei si era sempre tirata indietro, dopo un po’. Con Simon non sarebbe successo. Perché lui era più importante di quanto nessuno era e sarebbe mai stato. A lui, se avesse voluto, avrebbe donato tutta se stessa. Senza barriere. Senza condizioni.
Si accoccolò ancora di più a Simon e lo sentì reagire a quel gesto sciogliendo la stretta delle loro braccia per fare in modo che lui riuscisse a passarle il proprio dietro la schiena. Il suo cuore accelerò a quel contatto. Isabelle alzò lo sguardo su Simon per cercare di capire qualcosa dalla sua espressione, per vedere se riuscisse a trovare anche un minimo indizio riguardante i suoi sentimenti. Trovò il solito sguardo, quello dolce e gentile che le riservava sempre. Trovò lo stesso accenno di sorriso, sempre solare e confortante. Trovò semplicemente Simon, con tutta la sua bellissima genuinità.
“Lo sapevo!”
Un’esclamazione, una voce vagamente familiare, irruppe tra di loro e solo quando Isabelle alzò la testa per vedere chi fosse, realizzò quanto il suo viso fosse vicino a quello di Simon solo qualche istante prima.
E forse era la bolla in cui era inconsapevolmente finita che aveva fatto sì che non si rendesse conto di chi avesse parlato, o forse era il fatto che di tutte le persone che poteva incontrare lui era l’ultimo che si aspettava di vedere, ma sta di fatto che quando realizzò che era Mark quello che aveva parlato, la prima reazione di Isabelle fu pieno stupore.
“Mark? Che ci fai qui?”
“Non cominciare!” Le disse, in tono accusatorio. “Volevo vedere con i miei occhi, e guarda un po’ avevo ragione!” Indicò con un gesto della mano la loro vicinanza, il fatto che solo fino a qualche istante prima lei e Simon erano stretti l’uno all’altra.
“Cosa sta succedendo?” Chiese Simon, perplesso.
“Oh, non te l’ha ancora detto? Strano, visto che ti ha sempre detto tutto!”
“Mark, adesso basta, stai facendo una scenata…” Cominciò Isabelle, ma lui la interruppe.
“NO! NO! Perché io odio essere preso in giro. Vuoi sapere cosa è successo, Simon??”
Mark…” Isabelle tentò di nuovo: era seccata, certi atteggiamenti non le piacevano, ma lui non voleva saperne. Parlò ancora prima che lei potesse impedirglielo.
“Mi ha lasciato. Per te, è ovvio. Le avevo chiesto se poteva evitare di essere così attaccata a te, di pubblicare certe foto, di nominarti di continuo. Di darti così tanta importanza. Ma no, lei anzi che smussare un po’ il vostro rapporto ha preferito lasciarmi! Non chiedevo molto, solo che non foste così affiatati! Hai idea di come potevo sentirmi?”
“No, amico, non lo so. Non ho mai avuto un complesso di inferiorità nei confronti di qualcun altro.” Cominciò Simon, stufo di quel comportamento. Non gli piaceva l’atteggiamento di Mark e nemmeno come si era rivolto ad Isabelle fino a quel momento, mancandole di rispetto. “Non so come ci si sente ad essere uno stronzo totale. Non dovevi chiederle un bel niente, brutto idiota, dovevi semplicemente fidarti di lei. E rispettare il fatto che prima di te avesse una vita sua della quale facevano parte altre persone!” Simon lasciò il fianco di Isabelle, interponendosi tra lei e Mark. “Cosa prendetevi che facesse, eh? Avrebbe dovuto rinunciare a tutta la sua vita per iniziare a gravitare solo ed esclusivamente intorno a te? Avrebbe dovuto diventare la tua bella fidanzata trofeo? Era questo che volevi?” Simon era arrabbiato. “Lei è molto più di questo e se non sei riuscito a capirlo, vuol dire che non la meriti.”
Mark era furioso. I suoi occhi saettavano di rabbia e fissavano Simon con astio. “E tu la meriti, invece?” ringhiò.
Simon ponderò bene la sua reazione. Era una provocazione bella e buona, quella. Un commento fatto solo ed esclusivamente per spingerlo a reagire. Probabilmente, Mark pensava che ponendogli quella domanda, Simon sarebbe stato colpito nell’orgoglio e sentendo il proprio ego offeso, in qualche modo, avrebbe finito per dargli un cazzotto. Ma Simon non era il tipo da reagire a certi comportamenti.
“Vattene. Evita di fare altre scenate. Non piacciono a nessuno.” Rispose, quindi. Una parte di lui era convinta che avrebbe ricevuto un pugno in pieno naso, ma non gli importava. Certi comportamenti non gli erano mai piaciuti. Più di una volta sua sorella Becky si era trovata impelagata con ragazzi che all’inizio erano dolcissimi, ma poi si rivelavano troppo gelosi. E sebbene lui fosse il minore dei due, aveva sempre aiutato sua sorella a sbarazzarsi di tipi simili. Lo stesso avrebbe fatto con Isabelle, anche a costo di beccarsi un pugno. Non gli importava. L’avrebbe protetta, sempre, anche se lei era perfettamente in grado di farlo da sola.
Alla fine, comunque, Mark se ne andò, senza percuotere Simon in nessun modo. Solo quando sparì dal suo campo visivo, Simon tornò a guardare Isabelle.
E proprio nell’istante in cui stava per chiederle se stesse bene, lei gli prese il viso tra le mani e lo baciò.



Fu uno slancio. Puro istinto dettato dal comportamento che gli aveva visto assumere, dalle parole che erano uscite dalla sua bocca. Ancora prima di rendersi conto cosa stesse effettivamente per fare, le labbra di Isabelle si appoggiarono su quelle di Simon, il cui stupore  e conseguente tentennamento, la spaventarono –  facendole credere di aver rovinato tutto con la sua impulsività. Ma nel momento stesso in cui stava per tirarsi indietro e chiedergli scusa, Simon la strinse fra le braccia, sollevandola un pochino a terra, e ricambiò il bacio.
Fu qualcosa di impacciato, all’inizio, quasi frettoloso, come se nessuno dei due credesse davvero a quello che stava accadendo. Ma era bastato pochissimo alle loro labbra per conoscersi e ai loro cuori per capire che tutto ciò che stava succedendo era giusto e naturale, come se avessero finalmente trovato il pezzo mancante di loro stessi dopo una lunghissima ricerca.
Isabelle si sentì come una principessa delle favole, che deve baciare un sacco di rospi, prima di trovare il suo principe.
Era così felice di quel bacio che il suo cuore non voleva smettere di battere – le rimbombava nelle orecchie e le impediva di sentire qualsiasi altro suono.
Solo quando per mancanza d’ossigeno furono costretti a separarsi, Isabelle riprese piena facoltà della realtà che la circondava. Improvvisamente, riuscì a percepire di nuovo la fila infinita che stava fuori dal locale, piena di persone in attesa di entrare. Riuscì a sentire di nuovo il vociare assordante delle chiacchiere, il rumore delle macchine, i clacson che suonavano frenetici e la musica attutita all’interno del locale. Riuscì a sentire nuovamente tutto, ma improvvisamente, sembrava che l’unico suono che avesse importanza fosse il battito del suo cuore scalpitante. Un sorriso enorme tirava le sue labbra, mentre sul viso di Simon era stampata un’espressione tanto sorpresa quanto appagata.
“Questo riassume pressappoco il discorso che volevo farti,” cominciò lei, “Ho parlato con Alec, qualche giorno fa… mi sono lamentata con lui del comportamento di Mark, del fatto che non mi piacesse che mettesse bocca sul nostro rapporto e…” Izzy fece una pausa, osservando il viso di Simon, forse aspettandosi una sua reazione, o temendo una sua reazione. Era ridicolo che avesse paura, dal momento che Simon aveva appena ricambiato il suo bacio, ma era ancora timorosa del fatto che potesse in qualche modo rifiutarla. Questa insicurezza non era per niente tipica sua, ma riflettendo sul fatto arrivò presto alla conclusione che i sentimenti, quelli veri, tra le altre cose ci rendono anche estremamente vulnerabili. Forti in alcuni casi, certo, ma fragili in altri. È ciò che ci rende umani, in fondo.  “…E in pratica Alec mi ha fatto riflettere. Mi ha fatto capire che se non ero disposta a cedere per quanto riguarda noi due è perché ciò che mi lega a te non è semplice amicizia. Tu non sei solo il mio migliore amico, Simon. Tu mi piaci. Davvero, davvero tanto.” Un’altra pausa, che impiegò per fare un respiro profondo. “Sei importante e ci ho impiegato troppo tempo a capire perché ti ritenessi così importante. Spero solo che questo non rovini ciò che abbiamo adesso, se tu non dovessi ricambiare questo sentimento.”
Simon la guardò come se avesse trovato il suo personale tesoro, il Sacro Graal di Indiana Jones, la pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno, il segreto della bontà indiscutibile della Nutella.
Le prese il viso tra le mani, con il cuore che gli esplodeva in petto, quasi non riuscendo a credere a quelle parole. Era innamorato di lei da anni e, per anni, aveva creduto che il suo sarebbe stato sempre e solo un amore non corrisposto. Si era rassegnato da tempo all’idea che avrebbe avuto Isabelle nella sua vita solo come un’amica e adesso… adesso lei gli stava dicendo che provava qualcosa per lui.
Era tipo il giorno più bello della sua vita.
“Mi piaci da anni, Izzy.” Evitò di usare la parola ti amo per non affrettare troppo le cose. “Non ho mai avuto il coraggio di dirtelo perché ero certo non ricambiassi e non volevo perderti. Sei la cosa più importante per me.” Le accarezzò le guance con i pollici, un gesto così dolce e pieno di reverenza, quasi stesse toccando un’opera d’arte. “E adesso, in questo preciso istante, mi hai reso l’uomo più felice della terra.” Si chinò per lasciarle un bacio a stampo. “Però trovo ingiusto che tu mi abbia anticipato, sai? Se solo mi avessi detto che avevi lasciato Mark mi sarei fatto avanti.”
Isabelle rise, accostando il naso a quello di Simon in un bacio all’eschimese. “Davvero?”
Simon annuì, baciandola di nuovo. Gli piaceva da morire poterlo fare. E per quanto avesse fantasticato su un momento simile, negli anni, niente, niente, batteva la realtà.
“Be’ penso di sì, magari non subito. Forse prima avrei preparato un discorso, chiesto il permesso ai tuoi fratelli…”
“Il permesso ai miei fratelli?” Izzy assottigliò lo sguardo, pungente.
“Sai cosa voglio dire. I tuoi fratelli fanno paura, sono iperprotettivi con te e guardano malissimo ogni ragazzo con cui sei uscita. Hanno spaventato più povere anime loro che Ade negli Inferi!”
Isabelle rise. “Non devi uscire con i miei fratelli, Simon. Devi uscire con me. E a me vai benissimo.”
“Mi piace come idea.” Le baciò la fronte. “Quella di uscire con te, ovvio, non con i tuoi fratelli.”
Isabelle alzò gli occhi al cielo, ma un sorriso tirava le sue labbra. Non era mai stata se stessa con nessuno nello stesso modo in cui lo era stata con Simon. Lui conosceva tutto di lei, le parti belle e le parti brutte, e aveva abbracciato entrambe nello stesso modo, senza distinzione.
Non voleva rovinare tutto.
Non voleva che qualcosa andasse ad intaccare qualcosa di così bello, perciò chiese ciò che più le faceva paura: “Anche se fino ad ora le mie relazioni sono state un disastro?”
“Le mie pensi siano state migliori? Devo ricordarti Heidi la stalker?”
“No, non devi. Me la ricordo benissimo.” Isabelle rabbrividì al ricordo della biondissima Heidi che seguiva Simon dovunque – concerti, lavoro, sotto casa – in attesa di uscire insieme. Erano stati cinque mesi pessimi. Isabelle ricordava benissimo come la gelosia di Heidi soffocasse Simon. Lo controllava, gli sequestrava il cellulare ogni volta che si vedevano perché non voleva che mentre erano insieme lui mandasse messaggi ad altri, in particolare ad Isabelle. Quando poi un giorno Heidi aveva avanzato la pretesa che non le rivolgesse più la parola, Simon aveva finalmente deciso di troncare quel rapporto malsano.
“Vediamo come va, Izzy. Siamo sempre noi. E fino ad ora abbiamo sempre funzionato benissimo. Io ci vorrei provare, se tu sei d’accordo.”
“Certo che sono d’accordo.” Lo baciò sulle labbra, delicatamente. “Sei speciale, Simon.”
“Anche tu.” Si chinò su di lei per lasciarle un altro bacio. “Ora credo che dovremmo raggiungere i nostri amici. E i tuoi fratelli. Se mi faranno a pezzi, sappi che la nostra storia di soli cinque minuti è stata la più bella che abbia mai avuto!”
Izzy scosse la testa in modo affettuoso prima di prenderlo per mano e dirigersi verso il loro gruppo di amici.




“Lo sai, io pensavo che avresti usato la lingua per parlare.” Jace rise, pienamente soddisfatto della sua battuta. Infelice, se lo si chiede ad Alec – e probabilmente a tutto il gruppo dal momento che nessuno rise.
Isabelle, di certo, non provò alcun tipo di ilarità per quell’uscita. Fulminò prima Jace e poi Alec.
“Gliel’hai detto?” Domandò rivolgendosi al maggiore.
“Sai bene che non ha avuto scelta.” Lo difese Jace, “Non avrei lasciato correre.”
“Questo perché sei un pettegolo!”
“Non fare l’ipocrita, Izzy! Lo torchi anche tu quando vuoi sapere qualcosa su di me!”
“È diverso.” Tentò Isabelle, cercando di non darla vinta al fratello.
“No, è uguale. Solo che a te è concesso intrometterti, ma ti infastidisce quando gli altri si comportano esattamente come te.”
Alec alzò gli occhi al cielo. “Basta, vi prego.”
“Sì, infatti. Ci sono cose più importanti di cui parlare, adesso,” Si intromise Clary, facendo passare gli occhi da Izzy e Simon. “Tipo voi due.”
“A questo proposito,” iniziò la mora, “Ti va bene?”
“Ah, quindi tu puoi chiedere il permesso a Clary, ma io non posso chiederlo ai tuoi fratelli?”
“Sta’ zitto, Simon!” Dissero all’unisono le due ragazze e Maia, che fino a quel momento era rimasta in silenzio, non riuscì a trattenere una risata. Trovava la cosa divertente, se doveva essere onesta, ma era felice per Simon e per Isabelle – soprattutto visto che l’ultima volta che l’argomento era saltato fuori, lui era spaventato dall’idea di confessare all’altra i suoi sentimenti. Aveva avuto il suo lieto fine. Aveva conquistato la sua principessa. Era una cosa romantica, a dirla tutta.
“Siete due delle persone a cui voglio più bene, ragazzi. Certo che mi sta bene!” Clary abbracciò Isabelle, la quale ricambiò la stretta.
“Ora possiamo dire la nostra?” domandò Jace.
“NO!” Esclamò Isabelle, lapidaria, sciogliendo l’abbraccio con Clary e guardandolo male.
Jace reagì con una linguaccia. E parlò lo stesso. Perché era Jace e se c’era una cosa che lo caratterizzava era la testardaggine. “Anche a noi sta bene.”
“È vero,” convenne Alec, “Ma siamo pur sempre i tuoi fratelli maggiori, quindi da copione dobbiamo informare Simon del fatto che se ti facesse soffrire anche solo lontanamente, se la vedrà con noi.”
Simon sbiancò leggermente a quelle parole, mentre Jace concordò con il fratello annuendo e non riuscendo a trattenere una risata davanti all’espressione di Simon. Era esattamente come se l’era immaginata – forse solo un po’ più divertente. Isabelle, invece, si voltò verso di loro con uno sguardo assassino.
“Piantatela, non siete divertenti!”
“E invece sì!”
“E invece no!”
“Sì!”
“Smettila, Jace!” Uno scappellotto zittì il biondo ed Isabelle fu particolarmente fiera di se stessa. “Ora, perché non chiamiamo Magnus e sentiamo a che punto è? Lo chiami tu, Alec?”
Ma Alec non le rispose.
“Alec?” La sorella gli passò persino una mano davanti al viso, ma lui non reagì. Il fatto era che mentre Isabelle e Jace erano impegnati in un’altra delle loro infantili discussioni, Alec aveva cominciato per caso a guardarsi intorno e la sua ricerca casuale aveva portato un risultato particolare: sul marciapiede, aveva adocchiato Magnus che si stava dirigendo verso di loro insieme a Raphael, Catarina e ad un altro che non conosceva.
“Sta avendo un ictus?” Domandò Simon.
Una cosa del genere, avrebbe voluto rispondere Alec, che davvero non riusciva a distogliere lo sguardo da Magnus. Era bellissimo, riusciva a vederlo anche da quella distanza. E gli aveva già tolto il fiato e mandato in tilt il cervello. Avrebbe davvero voluto smettere di fissarlo per non sembrare un idiota davanti ai suoi amici, ma non ci riusciva. I suoi occhi erano incollati alla figura di Magnus, che diventava sempre più grande mano a mano che si avvicinava.
“No, penso sia solo Magnus.” Intervenne Jace e questa volta la sua battuta scatenò qualche risatina – di Maia in particolare.
Alec, comunque, riuscì a trovare una parte del suo cervello non focalizzata su Magnus – era veramente una parte minuscola, ma sufficiente a far sì che riuscisse ad alzare il dito medio per schiaffarlo in faccia a Jace, al suo fianco.
“Antipatico!” Esclamò il biondo, scacciando la mano.
Alec reagì piazzandogli un pugno sulla spalla – non forte, ma deciso.
“Ok, smettetela!” Intervenne Isabelle.
“E comunque, ha ragione Jace, Alec.” Commentò Maia, guardando l’amico. “Hai smesso di funzionare.”
Alec alzò gli occhi al cielo, esausto. Essere l’oggetto di derisione dei suoi amici era quasi sfiancante. “Siete tutti molto simpatici.” Dalla sua voce grondò sarcasmo, mentre il suo sguardo si assottigliò. Lo posò prima su Maia, poi su Simon, e infine su Jace. “Simpaticissimi.
I suoi amici ridacchiarono e ad Alec altro non rimase che arrendersi all’evidenza: anche i sassi avrebbero capito che provava qualcosa per Magnus solo dal modo in cui lo guardava.



Magnus stava camminando sul marciapiede. Era in ritardo, ma per una volta non era colpa sua: tutta la popolazione di NY aveva deciso di riversarsi in strada munita di un’autovettura proprio all’ora in cui era uscito e di conseguenza il traffico era stato un inferno in terra.
Il suo umore tendeva al nero, soprattutto perché non gli piacevano gli automobilisti maleducati che lanciano insulti a chiunque. Magnus aveva rischiato di litigare con uno dei tanti cafoni più di una volta – e se non fosse stato per Ragnor, che gliel’aveva impedito sempre, probabilmente sarebbe ancora fermo a tre isolati da casa sua a litigare con il primo maleducato che avevano incontrato nel tragitto.
Non gli piaceva essere arrabbiato la sera del suo compleanno, soprattutto perché era stata una giornata bellissima e aveva prospettato una serata altrettanto bella, quindi decise di scacciare qualsiasi cosa portasse cattivo umore dalla sua mente.
E se doveva essere onesto, riuscì in quell’impresa solo quando adocchiò Alexander Lightwood che lo aspettava sul marciapiede davanti all’ingresso del Pandemonium. D’accordo, non era solo – con lui c’erano anche gli altri, ma lui fu il primo che vide. Come era possibile non farlo, dopotutto? Alexander spiccava tra la folla – e non solo perché era altissimo e la sua testa emergeva tra la gente. Spiccava perché lui avrebbe spiccato in qualsiasi situazione. Era come guardare una stella che brilla nel buio, inconsapevole di quanta luce riesce ad emettere.
Quando finalmente raggiunse il gruppo, ebbe la possibilità di guardarlo più da vicino. E trovò estremamente adorabile il fatto che con indossare qualcosa di carino, Alexander intendesse una camicia di jeans sopra ad un paio di pantaloni neri. Il tutto rigorosamente accompagnato dal suo solito, immancabile, giubbotto di pelle.  Stava benissimo, comunque, e quella per Magnus fu un’ulteriore conferma del fatto che se Alec si fosse vestito con un sacco di patate avrebbe comunque fatto bella figura.
Se qualcuno è bello, dopotutto, è bello sempre.
“Ciao, tesoro.” Lo salutò, dirigendosi direttamente verso di lui e lasciandogli un bacio sulla guancia. Alec arrossì immediatamente, ma un sorriso tirò le sue labbra.
“Ciao,” sussurrò, non riuscendo a distogliere lo sguardo dal viso di Magnus. Era truccato, ovviamente. Alec aveva sempre pensato che Magnus avesse un talento particolare. La sua mano era ferma e precisa e il suo eyeliner era sempre impeccabile, come quella sera. Ne aveva scelto uno color azzurro, abbinandolo ad un ombretto glitterato. A lato di ogni occhio, nella parte vicina al naso, era situato un brillantino – due piccoli punti luce che aiutavano gli occhi di Magnus a brillare più di quanto non lo facessero già al naturale.
Si era accorciato i capelli ai lati, rasandoli ancora un po’, mentre al centro erano eretti in una vaporosa, precisissima cresta, le cui punte riprendevano l’azzurro dell’eyeliner.
Magnus aveva sempre questo modo particolare di fare abbinamenti che ad Alec piaceva. Era come se attraverso il trucco o i capelli mandasse piccoli indizi riguardo anche gli abiti che indossava. E Alec trovò conferma a questa sua teoria quando fece scivolare lo sguardo su tutta la sua figura. Magnus indossava un cappotto nero aperto sopra ad un paio di pantaloni di pelle azzurri, che su chiunque sarebbero risultati ridicoli, ma non su di lui. Li aveva abbinati ad una camicia nera decisamente trasparente, che il ballerino aveva appositamente tenuto aperta fino a metà petto, mostrando tutta la bellezza della sua pelle liscia e bronzea, che per l’occasione era costellata di glitter. Le varie collane che indossava, comunque, non riuscivano a nascondere il suo petto definito e Alec dovette sforzarsi per distogliere lo sguardo e non risultare troppo esplicito. Gli piaceva davvero tanto quello che vedeva, ma non era necessario che gli altri se ne accorgessero – soprattutto se si tiene conto del fatto che, a quanto pare, si accorgevano di un sacco di cose!
“Magnus, non mi presenti?”
“Non puoi farlo da solo?” Magnus rispose senza distogliere lo sguardo da Alec. Si era vestito in quel modo solo ed esclusivamente per lui e l’occhiata che gli aveva riservato era proprio il tipo di sguardo che voleva ottenere. Alexander lo guardava in quel modo intenso e Magnus si sentiva bruciare dentro – si sentiva desiderato nel modo più primordiale possibile. Era quasi come se ci fosse una forza che li legava e che andava a connettersi con i loro istinti più primitivi. Scattava qualcosa, in entrambi. Era puro istinto, passione. Era la consapevolezza che si appartenevano. Era la curiosità di scoprire come sarebbe stato sentire su di sé il corpo dell’altro.
“Non fare il maleducato, Magnus, non ti si addice.” Sussurrò Alec in tono scherzoso, sorridendo solo per lui.
“Hai ragione, zuccherino.” Ammiccò e poi girò su se stesso per guardare il gruppo. “Amici, lui è Ragnor. Ragnor, i miei amici!”
Ragnor alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, arrendendosi all’evidenza: tutta l’attenzione di Magnus, da quel momento, sarebbe stata per Alec. Per questo si diresse verso le persone che già conosceva: Clary, Simon e Maia, salutandoli con un abbraccio, e successivamente si rivolse alle persone che non conosceva: Isabelle e Jace, presentandosi e ascoltando i loro nomi. Lasciò per ultimo Alec.
“Ciao, sono Ragnor.” Gli porse la mano e il medico gliela strinse.
“Alec.”
“Oh, lo so. Sono stato con lui tre ore e non ha fatto altro che parlare di te.”
Se Alec arrossì per quel commento, Magnus sgranò gli occhi e fulminò l’amico. Fu anche tentato di pestargli un piede e mandarlo a farsi giro, ma resistette a quella tentazione perché non sarebbe stato un comportamento appropriato. “Vogliamo entrare?” Domandò invece, cambiando argomento. Gli altri annuirono e si diressero verso l’entrata. Quando anche Magnus fece per incamminarsi, Alec lo fermò tenendolo per un gomito. Il ballerino si voltò verso di lui.
“Cosa c’è, confettino?”
Alec si chinò su di lui e gli lasciò un bacio su una guancia, pericolosamente vicino ad un angolo della sua bocca. “Sei bellissimo.” Sussurrò ad un centimetro dal suo viso, prima di tornare in posizione eretta. Magnus rimase interdetto. Il suo cuore cominciò a galoppare non solo per quelle parole, che ancora gli risuonavano nelle orecchie, ma anche per quel bacio ricevuto – che per quanto piccolo e delicato fosse, aveva provocato in lui lo stesso effetto che potrebbe provocare un maremoto su una barchetta situata in mezzo all’oceano. Devastante.
“Anche tu, tesoro.”
Alec arrossì, ma nessuno dei due ebbe il tempo di dire nient’altro perché Jace li chiamò dall’entrata.
“Volete muovervi? Se non c’è Magnus non ci fanno entrare!”
Si guardarono ancora una volta e poi, uno vicino all’altro, raggiunsero il gruppo.



Il Pandemonium era di nome e di fatto un pandemonio. 
Appena avevano messo piede in quel locale, Alec era stato travolto dalla bolgia, dai corpi in movimento, dalla musica assordante e dall’odore di alcol, misto a sudore. La gente ballava con i bicchieri in mano e lui l’aveva sempre reputata una cosa poco saggia da fare, a meno che non si voglia sicuramente versare un drink da dodici dollari sul pavimento – o peggio, addosso a qualcuno. Non si spreca l’alcol, folli incoscienti!
“Andiamo di sopra,” Magnus lo disse al suo orecchio per essere sicuro di farsi sentire. Aveva appoggiato una mano sulla sua schiena e lì l’aveva lasciata. Ad Alec non dispiaceva, ovviamente. “C’è un piccolo privée, possiamo stare lì così stiamo più tranquilli.”
Alec annuì e notò che il resto dei loro amici si stava già dirigendo verso la scalinata che avrebbe portato al piano superiore. Sorrise, quando vide Isabelle e Simon per mano.
“Oh,” Disse Magnus, notando la direzione del suo sguardo. “Cosa mi sono perso?”
“Simon ed Izzy si sono baciati, prima che tu arrivassi.” Cominciò Alec, chinandosi su di lui per farsi sentire meglio. Cercò di non prestare attenzione al fatto che in quel modo i loro visi erano vicinissimi. “Abbiamo parlato, qualche giorno fa. Lei mi ha detto che Mark aveva dei comportamenti che non le piacevano, che le chiedeva di non essere troppo attaccata a Simon e a lei questa cosa non stava bene. Le ho fatto notare che, seppur non giustificassi Mark, forse lui era geloso di Simon perché aveva intuito che lei potesse provare qualcosa per lui. Dopo un attimo di negazione ha capito che era così, di conseguenza ha lasciato Mark. Lui stasera si è presentato e ha provato a parlare con lei – non so cosa si sono detti, perché erano troppo lontani. Lui e Simon hanno parlato e deve avergli detto delle cose che hanno colpito Izzy particolarmente perché non appena Mark se n’è andato, lei ha baciato Simon. E adesso vogliono uscire insieme.”
Magnus sorrise. Gli piacevano Simon ed Izzy, insieme. Da quando li conosceva entrambi e aveva avuto modo di vedere come si comportassero l’uno in presenza dell’altra, aveva sempre sospettato che ci fosse qualcosa, tra di loro, ma non aveva mai detto niente perché, in fondo, non erano affari suoi. Ma li vedeva bene come coppia. Erano complementari. Senza contare che Magnus era fermamente convinto che le migliori storie d’amore sono quelle in cui le due persone coinvolte, prima, sono stati migliori amici.
“Quindi, vediamo… nell’ultimo periodo abbiamo avuto Erin che fa da Cupido a Max e Rosa e tu che fai da Cupido per Simon ed Izzy.”
Alec ridacchiò. “Sì, è vero.” Il suo pensiero corse al suo fratellino, che quella sera aveva preferito stare con Rosa, come era giusto che fosse – dal momento che lei non aveva ancora l’età per entrare nei locali e per bere.
Magnus lo guardò e sorrise. Si alzò leggermente sulle punte, quel tanto necessario a far si che potesse raggiungere il suo viso e lasciargli un bacio nello stesso punto in cui Alec l’aveva baciato prima: su un angolo della bocca – un contatto che Magnus prolungò per qualche secondo, prima di scostarsi e posare di nuovo lo sguardo su Alec. Si godette la sua espressione stupita, il rossore sulle sue guance, la bellezza assoluta di quel viso, prima di parlare.
“Mi domando, dunque, chi farà da Cupido per noi due, Alexander.”
Alec fece vagare lo sguardo su tutto il viso di Magnus. Era bellissimo. La cosa più bella su cui i suoi occhi si fossero mai posati. Sapeva che ciò che stava per fare era poco logico, era contro tutto ciò che si erano prefissati di fare, ma in quel momento mentre erano occhi negli occhi, ad Alec sembrò la cosa giusta. Afferrò il mento di Magnus tra l’indice e il pollice con delicatezza e poi si chinò su di lui. Appoggiò le proprie labbra sulle sue, lasciandogli un bacio delicato, quasi puerile. Un bacio a stampo, breve, ma deciso.
“Sono un arciere, Magnus.” Disse, quando tornò in posizione eretta. “Direi che tocca a me.”
Il cuore di Magnus stava per esplodergli in petto. Se quella era la sua reazione ad un semplice contatto di labbra, non voleva pensare cosa sarebbe successo se si fossero baciati veramente. Per adesso, comunque, Magnus era felice così. Era stato il suo regalo di compleanno migliore in assoluto.
“Vuoi sedurmi prima del nostro appuntamento, zuccherino?”
“Mi ferisce sapere che non mi ritieni un gentiluomo, Magnus.” Scherzò Alec, guardandolo nel modo più soffice possibile. “Ti bacerò in modo appropriato dopo averti riaccompagnato a casa e solo ed esclusivamente se lo vorrai anche tu.”
“Io lo vorrò tantissimo.”
Alec sorrise, le guance che ripresero a colorarsi di un leggero cremisi. “Lo vorrò anche io.”
Magnus era quasi impaziente. Avrebbe voluto avere dei poteri magici in grado di far scorrere il tempo. Avrebbe voluto saltare direttamente alle tre settimane successive e passare direttamente all’appuntamento con Alexander. Ma sapeva che non sarebbe stato giusto. Non è mai un bene affrettare le cose. E per quanto impaziente potesse essere, l’idea di aspettare, un pochino, gli piaceva. Gli dava quell’idea di antico corteggiamento che si legge nei romanzi. E Magnus aveva un animo profondamente romantico. Avrebbe aspettato, ma questo non gli impediva di prendersi qualcosina nell’attesa. Di conseguenza, lasciò un bacio a stampo sulle labbra di Alec, sorridendo sulla sua bocca perché davvero non riusciva a contenere la sua felicità.
“Andiamo su?” domandò, dopo essersi allontanato dal suo viso.
Alec annuì, offrendogli il palmo della sua mano. Magnus fece intrecciare le loro dita e insieme si avviarono verso la scalinata.



“Mi vuoi dire che sta succedendo?”
“Cosa significa?”
“Tu ed Alec.” Disse Raphael, guardando il medico da lontano. Lui e Magnus erano al piano bar riservato solo al privée del piano superiore del locale. Magnus si era offerto di andare a prendere i drink per tutti, mentre gli altri continuavano a stare seduti sui divanetti a parlare e a fare conoscenza nel caso di Ragnor. Raphael l’aveva semplicemente seguito.
“Io e Alec, cosa, Raph?”
“Vi ho visti. Ti ha baciato, tu l’hai baciato.”
“Da quando fai il guardone?”
Raphael lo fulminò con lo sguardo. “Sono serio,” brontolò, “Dimmi cosa sta succedendo.”
“Niente. Assolutamente niente. Usciremo insieme al mio ritorno, come avevamo stabilito.”
Raphael sospirò. “È stato un bacetto da niente, quindi? Non ti stai creando aspettative?”
“Perché mi fai tutte queste domande?”
“Perché sono preoccupato. Temo solo che tu possa crearti delle aspettative che poi verranno distrutte e che tu possa stare male di nuovo.”
“Come con Camille.” Aggiunse Magnus, iniziando ad intuire le paure dell’amico.
“Esatto. Solo che quando è stata lei a spezzarti il cuore, Erin era neonata. Adesso invece lei ed Alec hanno stretto un rapporto, lei si è affezionata molto a lui, gli vuole bene. Se con lui non dovesse funzionare, ci saranno due cuori infranti, questa volta.”
Magnus appoggiò le mani sulle spalle dell’amico. Capiva la sua preoccupazione. Per lui era stato difficile guardarlo andare in pezzi quando Camille se n’era andata e lui aveva una bambina di pochi giorni di cui occuparsi. Ed era stato doloroso per Raphael, anche se non l’aveva mai detto perché si era sempre concentrato su come fare per lenire il dolore di Magnus.  
“Lo so, Raph. Ci ho pensato. Per questo voglio andarci piano, non affrettare le cose. Usciremo insieme, guarderemo come va… come amici funzioniamo bene, quindi sono fiducioso. Se dovesse effettivamente andare bene, parlerò ad Erin di lui, nel senso di una persona che sta con papà.”
“Puoi dirle che è il tuo principe azzurro. Le piacciono le favole con i principi.”
Magnus sorrise perché era vero. “Non è una cattiva idea.”
“Io non ho mai cattive idee.”
“In realtà nei hai, ma eviterò di rinfacciarti quali.”
Raphael lo guardò malissimo e quando il barman piazzò sul bancone il drink che Magnus aveva ordinato, glielo rubò da sotto il naso. “Così impari a dire scemenze.” Si voltò e si avviò verso i divanetti dove erano gli altri.
“Raph! Non posso portare tutti i drink da solo!”
“Sì che puoi, pide una bandeja!”
Magnus si arrese e chiese un vassoio. Nonostante gli anni, evidentemente, non aveva ancora imparato quanto Raphael fosse permaloso.




Magnus era certo di essere felice. Guardava la persone intorno a lui e si sentiva grato. Aveva avuto cose brutte dalla vita, come suo padre, ma c’erano sempre anche state cose belle, come sua madre. Per ogni esperienza negativa, c’era un rovescio della medaglia positiva. La storia catastrofica con Camille gli aveva portato Erin, e non esisteva esperienza più positiva di essere il padre di quella bambina adorabile.
Nonostante tutto, Magnus si impegnava sempre per guardare il lato positivo delle cose. Portava con sé i suoi traumi, le sue ferite, ma le custodiva senza necessariamente farli diventare la parte cruciale del suo essere. Erano parte di lui, certo, ma non erano lui. Magnus era altro. Gli piaceva pensare di essere un misto, un insieme di cose, quasi come se le sue esperienze passate fossero gli ingredienti necessari a creare il prodotto finale: lui stesso.
E più guardava le persone che erano con lui quella sera, più era convinto che la vita mette tutti alla prova, ma regala anche gioie.
E una di queste gioie era Alexander, che adesso stava ridendo per qualcosa che aveva detto Jace – e aveva le guance arrossate dall’alcol, gli occhi lucidi e i capelli spettinati perché ci aveva passato le mani attraverso circa una decina di volte.
Era uno spettacolo che Magnus, realizzò in quel momento, voleva solo per sé. Era egoista? Forse, ma lui sarebbe partito tra due giorni e doveva fare la sua scorta di Alexander per il viaggio. Così si alzò dal divanetto e si diresse verso quello dove era seduto Alec, piazzandosi davanti a lui. Quando lo vide, Alec smise di ascoltare Jace e alzò lo sguardo su di lui, rimanendo incantato a fissarlo. Aveva persino le labbra schiuse, quasi come se fosse ipnotizzato, e Magnus dovette fare ricorso a tutto il suo autocontrollo per non sedersi sulle sue gambe e baciarlo fino a fargli perdere il fiato. Si trattenne, comunque, e si limitò ad afferrargli delicatamente il mento con due dita.
“Vieni a ballare?”
“Alec non bal-”
“Sì,” disse Alec, interrompendo sul nascere la frase di Jace, il quale guardò stupito prima il fratello e poi Magnus, il quale ammiccò nella direzione del biondo.
“Con me lo fa.”
Jace, a quel punto, afferrò il suo bicchiere, nascondendoci un sorriso all’interno. “Con te vorrebbe fare un sacco di cose.” Disse, prima di prendere un sorso del suo drink. Alec non gli risparmiò un’occhiataccia e una gomitata in pieno costato, prima di alzarsi e seguire Magnus, che ebbe la decenza di non rispondere. Alec lo ringraziò mentalmente, mentre faceva intrecciare le sue dita con quelle di Magnus. Il ballerino strinse la presa sulla sua mano, mentre insieme scendevano le scale e si dirigevano verso la pista da ballo. Si fecero strada tra i corpi accaldati, tra coppiette che si baciavano e tra gruppi di amiche che strillavano a squarciagola perché, evidentemente, il DJ aveva appena messo la loro canzone. Era il tipo di energia che piaceva a Magnus, viva e pulsante, vitale. La testimonianza che nel sangue può scorrere il fuoco, che nel cervello c’è ancora spazio per la spensieratezza – che a volte è giusto lasciarsi andare e gridare di euforia per la propria canzone.
“Cosa vorresti fare con me, Alexander?” domandò Magnus, quando trovò un punto vuoto al centro della pista e lì si fermò.
“A quanto pare, un sacco di cose.” Rispose evasivo, facendo eco alle parole di Jace.
Magnus si avvicinò a lui e gli allacciò le braccia intorno al collo. Alec reagì circondandogli la vita con le proprie. La canzone che stava rimbombando tra le pareti non era un lento – al contrario, era più qualcosa di tecno e assordante, ma a nessuno dei due importava davvero.
“Dimmene una.”
Ma Alec era un osso duro, questo Magnus l’aveva capito fin da subito. “Pensavo che il tuo silenzio precedente fosse un atto di cortesia, Magnus, e invece adesso scopro che non era così?”
Magnus sorrise. “Non volevo metterti in imbarazzo, tesoro. Non davanti ai nostri amici, ma adesso siamo soli.”
Alec si guardò intorno e alzò un sopracciglio con fare teatralmente dubbioso. “In realtà penso che intorno a noi, solo in questo momento, ci siano un centinaio di persone.”
“Ma nessuna di loro è abbastanza intelligente da prestarci attenzione. Il che è un vero peccato perché siamo una gioia per gli occhi.” Ammiccò e Alec rise – una risata spontanea che gli fece tirare leggermente indietro la testa.  Espose per qualche secondo le curve del suo collo, perfette e sinuose, la pelle chiara e liscia e bellissima. Fu una tentazione, per Magnus, che aveva i freni inibitori – già poco funzionanti da sobrio – completamente annebbiati dall’alcol. Fu un attimo, la velocità di un lampo. Agì ancora prima che il suo cervello gli gridasse che non era una buona idea – e di solito, la voce della sua coscienza aveva l’accento spagnolo e assomigliava a quella di Raphael – e si alzò sulle punte per baciare un punto sul collo di Alec, poco sotto al pomo d’Adamo.
“Questa è una delle cose che vorrei fare.” Ammise Magnus, quando Alec incrociò il suo sguardo. C’era sorpresa nei suoi occhi, ma anche una piccola scintilla di malizia e divertimento. A Magnus piacque quello sguardo.
“Ah sì?” Alec alzò il sopracciglio solcato dalla cicatrice.
Il ballerino annuì. Allora Alec sciolse la stretta sulla sua vita per alzare una mano sul suo viso. Magnus lo lasciò fare. Alec accarezzò tutto il perimetro del suo volto, soffermandosi particolarmente sul perimetro della mascella, prima di afferrargliela con una sola mano – le dita su una guancia e il pollice sull’altra –  e avvicinare il proprio viso al suo per baciarlo. Magnus era immobilizzato da quella stretta, ma non si sarebbe allontanato per nulla al mondo. La labbra di Alec si appoggiarono sulle sue con più decisione e questa volta non fu un semplice contatto. Alec spinse la propria lingua all’interno della bocca di Magnus con delicatezza, quasi a chiedergli il permesso, e quando Magnus aprì le labbra, accogliendolo di buon grado, Alec si fece più deciso. Sapeva di whiskey e cola, misto a qualcos’altro – menta, forse – ma non che a Magnus importasse. L’unica cosa che gli importava era quel bacio, che era meglio di quanto mai si fosse aspettato, e ricevere la conferma alle sue fantasie: le labbra di Alec erano davvero morbide come se l’era immaginate e sopra alle sue gli piacevano da morire.
Questo non è un bacetto da niente, gioia!
Merda. La voce della sua coscienza non poteva aspettare ancora qualche minuto? Doveva ricordargli la conversazione con Raphael proprio in quel momento?   
“Aspetta,” cominciò, separandosi da lui. Gli appoggiò le mani sul petto e riprese fiato.
“Che c’è? Ho fatto qualcosa di sbagliato?”
“Assolutamente no, tesoro, è che… sarebbe meglio andarci piano.”
Quella frase fece catapultare Alec di nuovo nella realtà, come una secchiata d’acqua gelata che risveglia da un bel sogno. C’erano delle regole, da seguire. Un piano sul quale avevano concordato e che serviva a tutelare entrambi ed Erin. Qualcosa che serviva a non farli reagire come due adolescenti in piena tempesta ormonale che cercano un angolo riservato in una discoteca. “Hai ragione. Possiamo aspettare altre tre settimane.”
“Possiamo?”
“Io posso.” Affermò Alec, anche se non sembrava molto credibile con le labbra lucide di baci. “E tu, Magnus? Tu puoi?”
Doveva andarci piano. Non crearsi aspettative. Non partire in quarta. Non lasciarsi guidare da quelle emozioni assopite da tempo e che Alexander gli aveva risvegliato e adesso stavano pretendendo di prendere il controllo assoluto. Razionalità. Doveva pensare alle parole di Raphael.
“Posso.”
“D’accordo. Aspetteremo, allora.” Alec lo guardò e Magnus sentì il cuore accelerare. Era così bello. E fino a qualche istante fa era suo. Gli piaceva quella sensazione. Gli piaceva il calore che si era scatenato all’altezza del suo stomaco, la sensazione di sentirlo così vicino a sé. Desiderava solo qualche minuto in più. Desiderava prendersi quel qualcosa prima di dover andare in contro ad un’attesa di tre settimane. Attesa che mai, prima di quel momento, gli era sembrata così concreta. Non avrebbe potuto vederlo, non avrebbe potuto toccarlo. Non avrebbe potuto sentire il suo profumo. Avrebbe dovuto solo farsi bastare il suono della sua voce attraverso un cellulare e sapeva che non sarebbe stato sufficiente a colmare quella mancanza che la lontananza gli avrebbe provocato.
“Cenerentola!” Esclamò, quindi, provocando uno sguardo perplesso negli occhi di Alec. “Cenerentola ha avuto fino a mezzanotte per ballare con il principe. Facciamo un’eccezione solo per oggi, da domani poi torniamo ad andarci piano.”
Alec non rispose, si limitò semplicemente a baciarlo di nuovo. E ancora, e ancora, e ancora, fino a far diventare gonfie le labbra e felici i cuori.
Magnus era certo anche di un’altra cosa, in quel momento: era il suo miglior compleanno di sempre.


*




La mattina seguente, Magnus si svegliò con un leggero mal di testa. La sua casa era stranamente silenziosa per essere domenica mattina e sentì immediatamente la mancanza della sua bambina, che di solito veniva a svegliarlo per stare con lui nel lettone. Lo tempestava di domande, o gli chiedeva di leggerle un libro. Magnus accettava sempre di buon grado.
Quella mattina, tuttavia, la sua camera da letto era silenziosa e vuota. Allungò una mano verso il comodino e afferrò il cellulare: erano le 8.23, Erin non sarebbe arrivata prima delle undici, insieme a Madelaine. Per quanto a Magnus sarebbe piaciuto rimettersi a dormire ancora un po’, sapeva che aveva delle cose da fare: prima di tutto, una doccia. Poi avrebbe fatto colazione e successivamente si sarebbe messo a sistemare casa; avrebbe ricontrollato i bagagli e i documenti necessari alla sua partenza e poi avrebbe passato tutto il giorno insieme alla sua bambina, per salutarla a dovere.
Ancora non riusciva a crederci che il fatidico giorno era arrivato. Quel lunedì sarebbe partito. Tre settimane lontano da casa, da Erin, da sua madre, dai suoi amici.
Lontano da Alexander.
Sorrise involontariamente pensando a lui. E cominciò a fissare il soffitto come l’idiota innamorato che era, mentre riviveva il loro bacio. Ce n’erano stati tanti. Tutti diversi. Tutti bellissimi. Avevano pomiciato in discoteca come dei ragazzini ed era stato emozionante. Tutto così genuino da sembrare irreale. Quasi come uno di quei film in bianco e nero, dove il romanticismo sfiora il concetto di antiquato, ma riesce sempre a colpire nel profondo il cuore dello spettatore.
Con il telefono ancora in mano, sbloccò lo schermo e aprì l’applicazione di messaggistica. Stava per aprire la chat di Alec, ma tenne il dito sospeso per aria perché gli venne in mente una cosa: Cenerentola aveva finito il suo tempo. La carrozza era tornata una zucca e i cavalli erano di nuovo topolini. Lui ed Alec, quella domenica mattina, erano di nuovo solo amici. A Magnus personalmente quell’idea non piacque più di tanto, ma era stata sua, quindi doveva rispettarla per primo. Sbuffò, frustrato, e uscì dall’applicazione, bloccando lo schermo del telefono e rimettendolo sul comodino. Avrebbe voluto scrivergli qualcosa di sdolcinato, ma gli amici non si scrivono cose sdolcinate. Sbuffò ancora e questa volta scostò le coperte e si alzò dal letto. Se fosse rimasto a rimuginare ancora un po’ era sicuro che avrebbe finito per scrivergli qualcosa di decisamente poco amichevole e più da ti penso perché ti amo – e questo non era il suo piano. In quel preciso istante, Magnus della domenica mattina avrebbe voluto prendere a schiaffi Magnus del sabato sera per le sue idee idiote.
Sbuffò – di nuovo – e uscì dalla sua stanza per dirigersi verso il bagno. Avrebbe fatto una doccia e spento i pensieri.
Almeno così voleva sperare.




Il suo cervello era un dannatissimo stacanovista. Non aveva smesso di pensare un attimo: non sotto alla doccia, non mentre faceva colazione, non mentre passava l’aspirapolvere e Magnus si era messo a cantare I want to break free, perché è così che l’aspirapolvere si passa o non si passa affatto.
Il suo cervello aveva continuato a muoversi, ad arrovellarsi, a tornare su Alexander. Sui suoi occhi. Sulle sue labbra. Sui suoi occhi in quelli di Magnus. E sulle sue bellissime, morbidissime labbra su quelle di Magnus.
Fanculo, cervello.
Magnus desiderava un attimo di tregua, se non altro perché tutto quel pensare altro non faceva che fargli venire voglia di chiamare Alexander, dirgli che la sera prima era stato tutto meraviglioso e che moriva dalla voglia di rifarlo.
“Che palle!” Brontolò a se stesso, mentre fissava il suo riflesso allo specchio. Il suo cervello pensava così velocemente che Magnus aveva l’impressione di avere circa diciassette coinquilini che berciavano a squarciagola, parlando uno sopra all’altro sebbene gli dicessero tutti la stessa cosa: chiamalo, idiota!
E l’avrebbe fatto, davvero, se non altro perché era stanco di essere tormentato dai suoi pensieri, ma il campanello suonò, annunciando l’arrivo della sua bambina e di sua madre. Magnus si guardò un’ultima volta allo specchio della sua toeletta – aveva optato solo per un po’ di eyeliner nero – e indossata la collana che Clary gli aveva regalato la sera prima – quella a forma di conchiglia, blu, che gli ricordava tanto Alexander, tanto per cambiare – uscì dalla propria stanza per andare ad aprire la porta d’ingresso.

“Papà!” Esclamò Erin, non appena Magnus aprì la porta. L’uomo si chinò all’altezza la figlia e la sollevò, stringendola forte in un abbraccio. Per quanto avere una serata libera di tanto in tanto gli piacesse, niente gli piaceva di più che rivedere la sua bambina.
“Ciao, bintang! Hai dormito bene dalla nonna?”
“Sì, benissimo!”
“Sono felice.” Le lasciò un bacio sulla guancia, prima di farsi da parte per far entrare la madre in casa. “Ciao, ibu, grazie ancora per ieri sera.”
“Non dirlo nemmeno, tesoro. Allora, com’è andata?”
“Ci siamo divertiti.”
“Tutto qui? Non cominci a raccontarmi le cose nei minimi dettagli?”
“Non ho più diciotto anni, mamma.”
“Ma sei ancora mio figlio e io sono ancora interessata alla tua vita.” Madelaine si tolse il cappotto e lo sistemò sull’attaccapanni, dove sistemò anche la borsa di Erin. Magnus fece lo stesso con il giubbottino di Erin, prima che la bambina si inoltrasse in salotto in cerca dei suoi giocattoli.
Magnus, però, non era dell’umore per raccontarle cosa era successo. Sebbene la serata precedente lo rendesse felice oltre ogni limite, parlare di Alexander e di come adesso si sentisse le mani legate, non era esattamente ciò che volesse fare – soprattutto perché aveva passato le ultime ore ad arrovellarsi il cervello.
“Lo so, ma non sono dell’umore per i minimi dettagli.”
Sul viso di Madelaine comparve una ruga di preoccupazione. “Stai bene, tesoro?”  
Magnus la abbracciò. “Ma certo che sto bene. Ieri è stata una serata bellissima, ho solo… un po’ di confusione in testa. Sai di cosa avrei bisogno?”
“Cosa?”
“Un pranzo fuori con le due donne della mia vita.”
Madelaine rise e afferrò il viso del figlio tra le mani. “Tutto quello che vuoi, anakku.” Gli lasciò un bacio sulla fronte, alzandosi un poco per raggiungere l’altezza di Magnus. “E se vorrai parlare di questa confusione, la tua mamma ha due orecchie per ascoltarti.”
“Grazie.” Sorrise, prima di abbracciarla più forte che poté. Le voleva bene. Dio, se gliene voleva.


*



La sua giornata era passata esattamente come aveva pianificato. Aveva pranzato fuori con sua madre e sua figlia e poi nel pomeriggio erano andati tutti insieme alla sala giochi che tanto piaceva ad Erin; poi avevano fatto una passeggiata fino alla gelateria preferita della bambina e avevano fatto merenda con un gelato gigantesco e pieno di praline colorate. Erin era stata bene e Magnus, vedendo il sorriso sul viso della sua piccola, aveva smesso di pensare a tutto ciò che non la riguardasse.
Nel tardo pomeriggio, Madelaine era tornata a casa sua, mentre Magnus ed Erin erano passati a salutare Ragnor, che aveva tanto insistito affinché Magnus andasse a trovarlo prima della sua partenza. Il ballerino sospettava che dietro a quella richiesta ci fosse anche la voglia dell’amico di passare un po’ del tempo con Erin, che non vedeva da mesi. È cresciuta così tanto in questo lasso di tempo, Magnus, voglio conoscere tutti i suoi progressi! Aveva detto, infatti, quando avevano raggiunto la casa dell’architetto. Ragnor sarebbe ripartito la settimana prossima per l’Irlanda, sarebbe stato lì altre due settimane e poi sarebbe ritornato definitivamente in patria. Ormai il suo palazzo era concluso.
Magnus era felice all’idea di riavere Ragnor vicino, ma soprattutto era felice che l’amico ricevesse tutto il riconoscimento che meritava. Era un bravo architetto, amava il suo lavoro e si impegnava tantissimo per creare strutture che soddisfacessero sia se stesso che gli altri. Magnus era molto fiero di lui. Gliel’aveva persino detto e l’uomo aveva reagito con un borbottio e un grazie.
Era stata una giornata intensa e adesso, dopo aver messo Erin a dormire da quasi un’ora ormai, si trovava nella sua camera da letto a fissare il soffitto, proprio come quella mattina. L’orologio sullo schermo del suo cellulare segnava le 22.47. Aveva deciso di andare a letto presto per riuscire a svegliarsi presto e dirigersi all’aeroporto in tempo per prendere il suo volo, ma il sonno non voleva coglierlo. Quel bastardo di Morfeo aveva fatto sciopero e adesso Magnus si sentiva sveglio più che mai. Non avrebbe preso sonno nemmeno se qualcuno l’avesse narcotizzato e sapeva il perché: lui e Alexander non avevano avuto un contatto in tutto il giorno. E questo era strano perché di solito o si chiamavano o si mandavano messaggi. Magnus era preoccupato che la sera precedente avesse spezzato ciò che li legava, che avesse rovinato il loro rapporto sul nascere. Forse aveva avuto dei comportamenti che avevano turbato Alexander, o gli avevano fatto capire che non voleva altro da lui se non amicizia e non sapeva come dirglielo.
Quel pensiero gli fece accelerare il cuore, ma non in modo positivo. Era più che altro la corsa che precede il disastro, una macchina con i freni manomessi che si dirige a tutta velocità verso un guardrail. Ma prima che il cuore di Magnus arrivasse a schiantarsi nell’abisso della tristezza e del panico, il suo cellulare vibrò sul comodino. Lo afferrò ad una velocità disumana.

> From: Alexander, 22.51
Dormi?
> To: Alexander, 22.51
No.
> From: Alexander, 22.51
Disturbo?
> To: Alexander, 22.51
Mai, zuccherino, dovresti saperlo.

Magnus osservò i tre puntini di sospensione che stavano ad indicare che Alexander, dall’altro capo del telefono, stava digitando un messaggio. I puntini sparirono e ricomparvero ad intermittenza per almeno tre volte – e in quel lasso di tempo Magnus aveva pensato che stesse trovando le parole giuste per piantarlo in asso ancora prima che potessero davvero diventare un noi – ma poi finalmente il messaggio arrivò.


> From: Alexander, 22.57
È una follia, lo so, ma sono fuori dal tuo portone. Potresti aprirmi?

Magnus fissò quelle parole per qualche istante, mentre il suo cuore cominciava a correre di nuovo – e questa volta non verso un guardrail. Alexander era fuori da casa sua, la sera prima della sua partenza. Era il più classico dei gesti romantici, dopo le serenate sotto alla finestra.
Magnus corse, insieme al suo cuore, fuori dalla sua camera da letto e si diresse verso il citofono. Aprì il portone e rimase in attesa sulla porta, spalancandola per essere sicuro che Alexander la trovasse subito aperta, non appena avrebbe raggiuto il suo piano. Non si tuffò di corsa giù per scale solo perché era consapevole che così facendo avrebbe lasciato Erin in casa da sola, ma ogni secondo di attesa era quasi frustrante. E poi… lo vide comparire sulle scale: Alec non si accorse subito di lui perciò non si rese conto che Magnus vide esattamente la sua impazienza, che lo vide fare le scale a due a due per essere sicuro di arrivare prima. Solo quando finì l’ultima rampa di scale, alzò lo sguardo, trovando Magnus ad aspettarlo sull’uscio della porta. Era struccato, i suoi capelli lisci pendevano da una parte ed indossava uno dei suoi costosissimi pigiami di seta. Era bellissimo e il cuore di Alec prese residenza nella sua gola e lì rimase, battendo più forte che poté.
“È tutto il giorno che voglio scriverti, ma ho pensato che volessi passare questa ultima giornata con Erin e quindi ho resistito.” Si avvicinò a lui, non staccandogli gli occhi di dosso. “Ma poi ho pensato che avresti potuto fraintendere il mio silenzio, che avresti potuto pensare che mi fossi pentito di ieri sera…” Il suo sguardo vagò su tutto il viso di Magnus con ingordigia, volendo memorizzare ulteriormente ogni dettaglio.  “E volevo dirti che niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Se potessi, passerei tutta la vita a baciarti, Magnus.”
Ad Alec non importava se quella frase poteva suonare come una dichiarazione d’amore bella e buona perché era la pura e semplice verità.
Magnus aveva la gola secca. Il cuore gli rimbombava selvaggio nelle orecchie e non riusciva a calmarlo. Batteva così forte, così vivido che era come se fosse tornato alla vita dopo anni passati in uno stato comatoso.
“Se potessi?” Gli fece eco, quando fu sicuro che la sua voce non avrebbe tremato.
Alec annuì. “La mezzanotte è scoccata, Magnus. Cenerentola è fuggita dal palazzo. E dal principe.”
“Questa Cenerentola,” indicò se stesso, “Non fuggirebbe mai da questo principe,” indicò Alec. Si avvicinò ancora di più a lui e adesso li divideva una distanza ridicola. Magnus appoggiò le proprie mani sul petto di Alec, che –  notò solo in quel momento –  indossava il suo solito giubbotto sopra ad una maglietta di cotone e un paio di pantaloni della tuta. Chissà se quello non era il suo pigiama. Chissà se non stava per mettersi a letto e, consapevole che, proprio come Magnus, non sarebbe riuscito a dormire , era andato da lui.  “Questa Cenerentola bacerebbe questo principe ad ogni occasione. Se solo il principe volesse.”
Alec sorrise e sulle sue guance comparvero le fossette. “Questo principe vuole, ma smettiamola di riferirci a te stesso come Cenerentola.”
“Immaginarmi nei panni di una donna ti fa passare la voglia di baciarmi?”
“In un certo senso.”
“Allora puoi immaginarmi come un principe a tua scelta tra la variegata gamma Disney.”
“Come Eric della Sirenetta?”
“Se ti fa piacere. Hai delle fantasie su di lui, per caso? Devo essere geloso di un disegno?”
Alec alzò gli occhi al cielo e gli tappò la bocca con un bacio. Una mano andò ad appoggiarsi sulla schiena di Magnus, tirandolo a sé. E mentre il ballerino ricambiava il bacio, allacciò le braccia dietro al collo di Alec, dove le sue dita cominciarono a giocare con i capelli corvini sulla sua nuca.
“Sai, ora che ci penso, sei tu che assomigli ad Eric.”
Alec rise, la fronte appoggiata a quella di Magnus. “Perché non stai un po’ zitto?”
“Perché non mi ci fai stare tu?”
Alec si morse il labbro inferiore, prima di baciare Magnus di nuovo. Si sentiva leggero, il suo cuore era pieno d’amore e la sua mente era, finalmente, libera. Non aveva più pensieri negativi o ansie, non aveva più paure. Era certo che Magnus fosse l’uomo giusto per lui. Ed era certo che avrebbe aspettato tre settimane prima di un appuntamento vero, ma adesso… adesso tutto questo lo rendeva l’uomo più felice della terra.
“Rimani.” Sussurrò Magnus, quando si separarono. Aveva ancora le braccia allacciate alla nuca di Alec e gli occhi chiusi. Quando li riaprì incontrò lo sguardo cervone di Alec. “Rimani.” Ripeté, “Dormi con me. Dormiremo soltanto, ma non andartene la notte prima della mia partenza. Voglio stare con te, prima di dover stare tre settimane senza di te.”
Alec gli baciò la punta del naso. “Va bene, ma andrò via prima che Erin si svegli e tornerò in tempo per accompagnarti all’aeroporto.”
Magnus sapeva che la premura che Alexander aveva nei confronti di sua figlia non avrebbe mai smesso di meravigliarlo. Altri avrebbero semplicemente visto la situazione dal loro punto di vista, Alexander metteva sempre in conto anche quello di Erin e di Magnus. E sapeva perfettamente che la priorità di Magnus era non creare confusione nella mente della sua bambina. Così si sarebbero comportati nel modo più giusto per lei.
“Mi sembra un piano perfetto.” Magnus si sollevò sulle punte per lasciargli un bacio a stampo, prima di farsi da parte per far entrare Alec in casa. Il medico si tolse il giubbotto e lo appoggiò sull’attaccapanni, mentre Magnus chiuse la porta. Non appena lo fece, sentì due braccia circondargli la vita da dietro.  
“Ti porterò del caffè a tradimento come colazione, domani.” Sussurrò Alec, lasciandogli un bacio sul collo.
Magnus fece scorrere una mano nei suoi capelli, prima di tirarli leggermente. “Fallo e la nostra storia finirà ancora prima di cominciare, pasticcino.” Si girò di trecentosessanta gradi, rimanendo inglobato nella stretta confortevole di Alec, e lo guardò in viso. Lo vide sorridere, gli vide quella luce splendente negli occhi.
Alexander era davvero la persona più bella che Magnus avesse mai conosciuto, sia dentro che fuori.
Ne era certo.
“Andiamo a dormire, tesoro.”
Alec sciolse la presa sulla sua vita e cercò la mano di Magnus, il quale fece intrecciare le loro dita.
Intrecciati e uno accanto all’altro, si diressero verso la camera da letto di Magnus.
Entrambi avevano l’impressione di camminare sulle nuvole.





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Ciao a tutti! In ritardo, come sempre e di questo mi scuso, ma ci sono! E… con una sorpresina per voi! Ve l’aspettavate? Io personalmente no, avevo programmato il capitolo nella mia testa in modo totalmente diverso, ma mentre scrivevo mi sembrava che in realtà questo potesse essere il giusto andamento. Più che altro perché temevo che l’assenza di una svolta nel loro rapporto anche in questo capitolo avrebbe reso l’andamento della storia un po’ troppo piatto e quindi ta-daaaan i Malec si sono baciati! Un piccolo bacetto e qualche altro bacio sparso qua e là – e devo ammettere che l’idea mi è venuta da Hil89 (quindi, ringrazio lei <3) che nella sua ultima recensione ha parlato di un “bacino”. Ecco, mi è scattata un po’ l’idea che potesse esserci un intermezzo, qualcosa tra la loro amicizia e l’inizio vero e proprio della loro storia d’amore. Una specie di bolla sospesa nello spazio e nel tempo dove per adesso si sono solo scambiati, appunto, un “bacino”.
La “cosa che deve succedere” di cui ho parlato fino al capitolo precedente nelle note succederà comunque, anche se devo ancora decidere bene come svilupparla!
Oltre ai Malec si sono baciati anche i Sizzy! Non sapevo bene come gestire la cosa, quindi l’ho scritto così. Anche se, ammetto, non mi convince ancora del tutto – più che altro temo di non aver resto giustizia ne a Simon né ad Izzy, quindi se vi va fatemi sapere cosa ne pensate! In realtà mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di entrambe queste coppie e del capitolo in generale!
Come sempre, ringrazio chiunque legga la storia o la metta nei seguiti/preferiti e chiunque trovi il tempo per recensirla, lo apprezzo tantissimo!
Vi mando un abbraccio, alla prossima! <3



 

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Capitolo 12
*** 12. ***


Magnus si svegliò con il suono della sveglia. Si allungò immediatamente verso il comodino per spegnerla – e per un pelo non fu tentato di lanciarla fuori da quella stessa finestra da cui filtrava la luce azzurro-grigiastra tipica della mattina presto. Ma sebbene le 5.30 fossero un orario tragico, nemmeno quell’alzataccia rovinò il suo buon umore. Se non altro perché appena aveva aperto gli occhi aveva visto il braccio di Alec che lo circondava e lo teneva stretto al suo petto. Ancora non riusciva a crederci che avevano dormito insieme. Non passava una notte così da anni. Dormire con qualcuno porta sempre con sé quel senso di intimità, di familiarità. Di amore. E anche se non avevano fatto altro, se non stare abbracciati, Magnus toccava il cielo con un dito. Sentire il corpo di Alexander contro il suo, il calore che emanava, era una sensazione meravigliosa. Era come se avesse avuto l’impressione di aver trovato il pezzo mancante del suo intero essere. Era certo che avrebbe voluto svegliarsi in quel modo ogni mattina per il resto della sua vita. Avrebbe voluto dirglielo. Avrebbe voluto guardarlo negli occhi e dirgli sei quello giusto, la persona creata apposta per me, la metà della mela. Perché era così. Nessuno gli aveva mai fatto provare emozioni così intense, nessuno l’aveva reso felice stando semplicemente abbracciati l’uno all’altro. Una sensazione così profonda di pace e tranquillità non l’aveva provata nemmeno con Camille quando, nei primi anni, pensava che lei fosse l’amore della sua vita. Solo adesso Magnus si rese conto di quanto sbagliasse a pensarla in quel modo. Solo dopo aver incontrato Alexander aveva capito che non poteva essersi sbagliato di più, all’epoca. Perché ora che l’aveva conosciuto, che aveva passato del tempo con lui, sapeva per certo che l’amore della sua vita fosse proprio l’uomo che adesso lo teneva stretto a sé. Sorrise, prima di voltarsi verso di lui, facendo bene attenzione a non sgusciare da quella presa. Gli piaceva stare tra le sue braccia.
Lo guardò dormire. Osservò il suo viso rilassato dal sonno, il respiro regolare, le lunghe ciglia scure che sfioravano le guance, le labbra socchiuse. Ci lasciò un bacio delicato, che tuttavia servì a far svegliare il bell’addormentato, proprio come nelle favole.
“Buongiorno.” Mormorò Alec, la voce impastata dal sonno. Impiegò qualche secondo ad aprire gli occhi. “Devo andarmene, non è vero?”
“Vorrei che non fosse così, confettino.”
“Ma è giusto, in realtà.” Alec sorrise per rassicurarlo, per fargli capire che andava bene così, che non era arrabbiato o scocciato. Era d’accordo quanto lui di tutelare Erin il più possibile. L’ultima cosa che voleva era confondere una bambina di quattro anni riguardo al suo ruolo nella vita del padre. Per adesso era giusto che pensasse che fossero solo amici e poi, quando anche i due adulti coinvolti fossero stati certi della direzione che aveva preso il loro rapporto, avrebbero coinvolto anche la piccola. 
“Sei un tesoro.” Magnus si accoccolò a lui ancora di più, circondandolo a sua volta con un braccio. Alec sorrise ancora e lo strinse a sé, lasciandogli un bacio sui capelli.
Rimasero in silenzio, assopiti, aspettando insieme che il sonno residuo scivolasse via dalle loro membra.
“Mi mancherai.” Mormorò Magnus, con il viso ancora nell’incavo del collo di Alec. Il suo respiro gli solleticò la pelle in modo piacevole.
Alec lo strinse a sé ancora di più, così tanto che se avesse potuto se lo sarebbe sistemato dentro al cuore. “Anche tu.” Poi si scostò quel tanto necessario a guardarlo in viso e appoggiò le proprie labbra sulle sue. “Devo andare.” E lo disse come se fosse la peggiore condanna a cui potesse andare in contro. Lo disse quasi come se separarsi da Magnus gli facesse male. E in effetti un po’ era così. “Tornerò alle 8, così avremo il tempo per andare in aeroporto con calma.”
“Sì.”
“E ti porterò la colazione. Niente caffè, promesso.” Alec ridacchiò e Magnus lo seguì, guardandolo affascinato. Il suo viso si illuminava sempre, quando rideva o sorrideva.
“Mi vuoi viziare?”
“Sì. Sempre.” Alec gli lasciò un altro bacio.
Magnus sorrise. “E io? Io posso viziarti?”
“Se ti fa piacere, chi sono io per dire di no?”
Il ballerino rise e lo baciò, cercando di approfondire il bacio, prima che Alec si tirasse indietro.
“Non mi sono lavato i denti.” Protestò.
“È irrilevante,” ribatté Magnus, prima di provare di nuovo nel suo intento. Ma Alec si scostò di nuovo.
“No, che non lo è.” Si era allontanato da Magnus, tanto che se prima entrambi occupavano il centro del letto, adesso Alec si trovava quasi vicino al bordo. A Magnus quella distanza non piaceva, per niente, e ancora meno gli piaceva non poter baciare Alexander per un motivo futile. Così, con l’agilità che l’aveva sempre caratterizzato e che aveva sviluppato in anni di esercizio, si avvicinò a lui e gli salì sopra, immobilizzandolo al materasso. Alec fu parecchio sorpreso da quel gesto, ma si arrese all’inevitabile e, rimanendo supino, si sistemò meglio per fare in modo che Magnus stesse più comodo… sopra al suo bacino. Una posizione abbastanza tentatrice, che fece deglutire Alec un paio di volte.
Magnus si chinò all’altezza del suo viso. “Adesso ripeti con me: è irrilevante.”
“Non è irrilevante, Magnus, ma penso che i tuoi metodi di persuasione siano parecchio efficaci.” Con lo sguardo, Alec accennò alla loro posizione, ai loro bacini inequivocabilmente vicini e al fatto che Magnus, senza troppi preamboli, gli fosse saltato in braccio a gambe aperte.
“Quindi posso baciarti?”
Alec appoggiò le proprie mani sulle cosce di Magnus. “Puoi.”
Magnus sorrise vittorioso, prima di prendere il viso dell’altro tra le mani e chinarsi su di lui per baciarlo come pensava fosse giusto. Alec socchiuse le labbra e lasciò che la lingua di Magnus danzasse con la propria per qualche istante. Pensò per una frazione di secondo a Will, al fatto che in quattro anni che erano stati insieme, non gli aveva mai permesso di baciarlo appena sveglio, la mattina, perché si sentiva troppo a disagio. Adesso, nonostante credesse ancora nella sua iniziale protesta, non poteva fare a meno di notare quanto in realtà si sentisse a suo agio. Quanto Magnus riuscisse a farlo sentire bene in ogni contesto, a farlo sentire tranquillo, senza nessun tipo di imbarazzo.
Quando si separarono, Magnus appoggiò la fronte a quella di Alec. “Vorrei rimanere qui con te, sempre.”
“Ma devi partire, Magnus. E per quanto io condivida il tuo desiderio, non mi perdonerei mai, se fossi la causa della tua mancata partenza. Amerai quelle tre settimane, ne sono convinto.”
“Le amerei di più se tu ed Erin foste con me.”
Il cuore di Alec si bloccò per un attimo, prima di ripartire all’impazzata. “Io e lei saremo qui ad aspettarti.”
“Lo so. E per quanto quelle tre settimane potranno essere eccitanti, niente sarà paragonabile a ciò che avrò al mio ritorno.” Gli accarezzò il viso, quasi con devozione, prima di lasciargli un altro bacio a stampo.
Alec sorrise e si mise seduto, con Magnus ancora addosso, e lo strinse in un abbraccio. Le sue mani percorsero delicatamente la schiena dell’altro, tracciando il solco della colonna vertebrale, accarezzando i muscoli da sopra la stoffa del pigiama. E poi si fermarono. Alec tenne i suoi palmi al centro della schiena di Magnus e lo strinse ancora di più a sé. Rimasero intrecciati ed in silenzio per qualche istante, pienamente consapevoli che quello era il loro momento per salutarsi. Erano consapevoli che all’aeroporto per salutare Magnus ci sarebbero stati tutti e non avrebbero potuto tenere certi atteggiamenti. Niente baci, davanti agli altri, non ancora. E così quello era il loro momento. Loro due da soli, immersi nel silenzio in una stanza semi-buia, illuminata solamente dalla fioca luce della primissima mattina. Si baciarono ancora, di nuovo, con calma, prendendosi ancora qualche attimo, prolungando ancora per qualche istante quel momento, e poi Alec, con una malavoglia che riuscì a celare a malapena, disse: “Devo andare. Ci vediamo dopo.”
“Certo, passerotto.” Magnus scese da lui con riluttanza e lo osservò uscire dal letto. Gli sarebbe mancato come può mancare l’aria ad un povero disgraziato che sta per annegare. I suoi polmoni cercano aria, ma trovano solo acqua. Magnus avrebbe passato tre settimane a fare una cosa che amava e di questo era felice. Lo rattristava, invece, l’idea di partire senza chi amava.
Accompagnò Alexander alla porta e quando uscì definitivamente da casa sua, Magnus sentì un vuoto dentro. Un vuoto che, era consapevole, si sarebbe riempito nuovamente solo al suo ritorno, quando l’avrebbe rivisto.



 
 Le lenzuola avevano il suo odore. Ed emanavano ancora il suo calore corporeo. Le cose che a Magnus sarebbero mancate di più. Era consapevole che avrebbe sentito il suono della sua voce, quando si sarebbero telefonati, e avrebbe visto anche la bellezza del suo viso, durante le videochiamate.
Ma l’odore della sua pelle e il calore del suo corpo… quelle sono due cose che un telefono non è in grado di trasmettere. Magnus le sentiva entrambe ancora addosso, mentre sistemava la sua camera da letto. Alexander era uscito da dieci minuti e lui doveva andare a farsi una doccia. Non voleva. Lavarsi avrebbe significato lavare via anche l’odore di Alec da sé. E sarebbero passate settimane prima di risentire un profumo simile addosso. Sentiva ancora le sue braccia attorno alla propria vita, il suo respiro delicato sulla pelle, la pressione gentile delle sue labbra sulle proprie. Erano sensazioni fantasma, ma così dannatamente reali.
Magnus, una volta rifatto il letto, raggiunse il comodino e afferrò il cellulare.

> To: Alexander, 05.56
Scrivimi quando arrivi a casa.
E poi aggiunse ciò che veramente voleva dirgli.
È stato bellissimo, stanotte. Mi manchi già.

E sapeva che probabilmente non l’avrebbe letto subito, perché stava guidando e quindi non poteva guardare il cellulare, ma Magnus aveva sentito la necessità di scrivere ciò che provava. Se non altro perché, durante la loro lontananza, rileggendo quei messaggi avrebbe riportato alla mente le stesse sensazioni che adesso erano stampate sulla sua pelle. Avrebbe sentito senza troppa fatica di nuovo le braccia di Alec intorno a sé, avrebbe sentito l’odore della sua pelle e il suo calore corporeo. E, soprattutto, avrebbe sentito il cuore battere all’impazzata al solo ricordo di quella notte passata insieme. 
Magnus sorrise e si diresse verso il bagno per farsi una doccia. Adesso sapeva che non avrebbe mai lavato via Alexander da sé. Non puoi lavare via qualcosa che hai radicato nel cuore. Mai.




Alec rientrò a casa verso le sei e un quarto del mattino. Per uno che odiava le alzatacce, non era mai stato così felice. Avevano dormito insieme. Ancora non ci credeva. Era stato qualcosa di così intimo ed estremamente naturale, come se fosse giusto, come se entrambi fossero esattamente dove dovevano essere: stretti l’uno nelle braccia dell’altro.
Alec non vedeva l’ora di ripetere quell’esperienza. Magari, la prossima volta, avrebbero potuto stare a letto un po’ di più, senza dover correre via perché uno dei due aveva un aereo da prendere.
Tempo al tempo, si disse Alec. Avevano avuto pazienza fino ad ora, l’avrebbero avuta per altre tre settimane. Attendere valeva la pena. Alec lo sapeva. E sapeva anche che avrebbe aspettato Magnus per anni se fosse stato necessario. Era lui quello giusto, ciò che romanticamente viene descritto come l’anima gemella.
Ad Alec quel pensiero fece persino sorridere perché era strano pensare che la sua anima gemella fosse qualcuno così diverso da lui. I loro caratteri erano quasi agli opposti, ma si completavano. Erano come i lati delle calamite. Un polo negativo che attrae necessariamente un polo positivo. I poli uguali non si attraggono mai, quelli opposti, invece, lo fanno sempre. E quando due calamite si attaccano è sempre difficile riuscire a separarle.
Alec voleva sperare che lui e Magnus fossero due calamite potenti. Due magneti destinati a stare insieme.
Sorrise, di nuovo. Magnus gli faceva quell’effetto. Nessun altro era in grado di farlo sorridere così spesso, pensò, mentre si toglieva il giubbotto e ne svuotava le tasche. Notò che sullo schermo del cellulare era comparsa la notifica di un messaggio. Sbloccò lo schermò e vide che il mittente era Magnus. Sorrise di nuovo e il suo sorriso si allargò ulteriormente quando lesse il contenuto del messaggio.
Il suo cuore accelerò, quasi come se volesse fargli capire che aveva ragione a pensare che era lui quello giusto. Quasi volesse dirgli, un’altra volta, ciò che Alec ormai sapeva già: era innamorato di Magnus. Come mai lo era stato di nessun altro. Si trattava di un amore così profondo, che faceva persino fatica a misurarlo, quantificarlo.

> To: Magnus, 06.17
Sono a casa.
Anche per me è stato bellissimo. Non vedo l’ora di rifarlo. Mi manchi già anche tu.


E mi mancherai
, avrebbe voluto aggiungere, ma non lo fece perché non voleva gravare su Magnus, non voleva che partisse mal volentieri. Fissò per un istante ancora la chat, poi si diresse verso il bagno per farsi una doccia.
E, ancora, il suo sorriso non voleva abbandonare il suo viso.




*



Alec arrivò alle 8 precise. Davanti alla porta di Magnus inevitabilmente ripensò a qualche ora prima, quando aveva percorso le scale a due a due perché l’impazienza di rivederlo era troppa. Sorrise. E ripensò a quanto Magnus fosse bello in pigiama. O a quanto fosse bello in generale, sempre, indipendentemente da ciò che aveva addosso. Una piccola parte del suo cervello – un po’ sfacciata, oserebbe dire – gli fece domandare quanto potesse essere bello Magnus senza vestiti. Ed Alec, seppur scacciò quel pensiero perché lo trovava poco adatto alla sua attuale situazione, era certo che fosse ancora più bello. D’altronde l’aveva visto con una giacca dorata e decisamente aperta ad Halloween e solo due giorni prima si poteva dire che la sua camicia fosse in realtà inutile tanto che era trasparente, di conseguenza Alec sapeva con assoluta certezza che Magnus senza vestiti sarebbe stato decisamente un bel vedere. Evitò di pensarci. Non voleva distrarsi. Piuttosto, decise che era meglio bussare. Rimase in attesa qualche secondo, prima che la porta si aprisse. Magnus lo accolse in tutto il suo splendore. Indossava una camicia verde alla coreana, abbinata ad un paio di pantaloni grigi che riprendevano lo stesso colore dell’eyeliner.
“Buongiorno, tesoro.”
“Buongiorno.” Alec sorrise. Ed era consapevole che il suo sorriso era soffice e irrimediabilmente innamorato. Dovette fare uno sforzo enorme per non chinarsi e baciare Magnus, ma sapeva che il loro momento alla Cenerentola era finito. “Ti ho portato la colazione, come promesso.” Alzò un sacchetto pieno di dolci. “Niente caffè.”
“Te lo faccio io, tesoro. Abbiamo tempo.” Magnus si spostò per far entrare Alec in casa, il quale gli porse il sacchettino e cominciò a togliersi il giubbotto.
“Non sapevo avessi del caffè.” Puntualizzò Alec, mentre appendeva il giubbotto all’attaccapanni.
“Ce l’ho da quando ti ho conosciuto, zuccherino. Ti ricorda niente?” Lo sguardo di Magnus era furbo e divertito. Alec sapeva che si stava riferendo alla volta che era capitato a casa sua e lui gli aveva offerto del the, che aveva appositamente comprato per Magnus.
“Qualcosa, vagamente sì.” scherzò Alec. “Lo trovo un gesto molto altruistico.”
Magnus sorrise e si avvicinò a lui, riducendo la distanza tra di loro. Erano di nuovo vicini, così tanto da rischiare di sfiorarsi con un minimo movimento. Alec deglutì a vuoto quando gli occhi di Magnus si piantarono nei suoi. Non si sarebbe mai abituato alla loro bellezza, al loro magnetismo, all’effetto devastante che avevano su di lui. Lo sguardo di Magnus aveva un ascendente particolare su Alec, questo ormai l’aveva capito. Lo facevano sentire speciale.
“Tu vizi me, io vizio te.”
Alec arrossì e Magnus gli baciò una guancia.
“Vieni,” disse il ballerino, “Facciamo colazione. Erin ti sta aspettando da quando si è svegliata.”
Alec sorrise e seguì Magnus in cucina. Percorsero il tragitto che separava il salotto dalla cucina uno vicino all’altro, ma Magnus entrò per primo. Alec notò Erin seduta al tavolo della cucina, intenta a giocare con una bambola. Alec sorrise con tenerezza guardando le piccole mani della bimba che impugnavano i vari vestitini sparsi sul tavolo.
Sayang, guarda chi c’è.” Disse Magnus con dolcezza, chinandosi su di lei per lasciarle un bacio sulla testa. Erin si voltò verso la porta della cucina e quando incontrò Alec il suo visetto si illuminò di felicità. “Alec!” Esclamò e si agitò sulla sua seggiolina per essere presa in braccio. Alec non se lo fece ripetere due volte e l’accontentò subito, sollevandola e lasciandole un bacino sulla guancia. La bambina ridacchiò e lo abbracciò forte.
“Ciao, monyet.” Alec se la sistemò in braccio e poi guardò il tavolo pieno di vestitini. “Stavi vestendo la tua bambola?”
“Sì.” Confermò la piccola. “Vuoi provare?”
Alec sorrise. “Certo.” E si sedette al tavolo con la bimba in braccio. La sistemò sulle sue gambe e fece in modo che le sue braccia fossero ai lati della bambina per far sì che non rischiasse di cadere. Erin si allungò immediatamente verso un vestitino azzurro pieno di fiori gialli. “Volevo metterle questo, ti piace?”
“Mi piace tantissimo.”
Erin batté le manine, felice. “Mettiglielo!”
Alec l’accontentò e si mise a vestire la bambola, sotto lo sguardo intenerito di Magnus, che nel mentre aveva tirato fuori tutto l’occorrente per fare il caffè. Di solito, quando preparavano la colazione, il tavolo era sempre sgombro, ma quella mattina Magnus aveva deciso di fare uno strappo alla regola. Lui ed Erin sarebbero stati lontani per tre settimane, quindi per una volta poteva lasciarla giocare mentre lui preparava la colazione. In più, Alexander ed Erin erano adorabili da guardare e Magnus voleva fare il pieno il più possibile di quella bellissima immagine – stamparla nella memoria e nel cuore.
Niente era più bello e soddisfacente che guardare l’uomo che amava e sua figlia giocare insieme. Niente gli dava più gioia di sapere che andavano d’accordo.
Rimase a guardarli interagire fino a quando la macchinetta del caffè non cominciò a borbottare, segno che il caffè stava salendo e che era quasi pronto. Alec alzò lo sguardo su di lui, ma Magnus gli fece cenno di rimanere dov’era. Si sarebbe occupato lui di tutto. Versò il caffè, nero e senza zucchero, in una tazza per Alec, mentre in un’altra versò il latte caldo per Erin. Nell’ultima, versò il suo the. Portò al tavolino le prime due, sistemandole davanti ad Alec ed Erin, che gli sorrisero e lo ringraziarono entrambi e poi mise la sua davanti al proprio posto, vicino ad Alexander. Prima di sedersi, prese dalla dispensa i biscotti di Erin e il sacchetto di dolci che aveva portato Alec, e poi si accomodò vicino a lui.
Erin, ancora in braccio ad Alec, guardò con curiosità il sacchetto, mentre non prestò particolare attenzione ai suoi biscotti. Li conosceva già. Sapeva che erano a forma di fiore e che erano molto buoni, ma il profumo che proveniva da quel sacchetto la incuriosiva particolarmente.
“Cosa c’è lì, papà?”
“Dolcetti, bintang.
“Posso mangiarne uno?”
Magnus controllò il contenuto del sacchetto. Dentro c’erano bagel e brioches. Prese una brioche e la divise a metà. Una parte la porse ad Erin, una parte la tenne per sé.
La bambina afferrò il pezzo di dolcetto che le veniva porto e ci diede un morso. Masticò piano e con attenzione, come le aveva sempre insegnato il suo papà, e una volta finito il boccone sorrise. “È buonissimo!”
Sia Magnus che Alec si guardarono, inteneriti da quella reazione genuina, e si scambiarono un sorriso.
“Hai ragione, bintang, è buonissimo.”
Erin annuì e continuò a mangiare la sua parte di dolce, mentre Magnus finiva la sua e Alec prendeva un bagel.  Mangiarono con calma, ascoltando i discorsetti di Erin e parlando tra di loro di tutto e di niente. Chiacchiere leggere, da mattina. Chiacchere in serenità, come può succedere in una famiglia. Magnus accarezzò quell’idea quasi con speranza, mentre guardava Erin che raccontava ad Alec del nuovo gioco che avevano fatto all’asilo giorni indietro lei e i suoi compagni.
Alexander era entrato nella vita di entrambi. E Magnus pensò a ciò che aveva detto Raphael, al fatto che se non fosse andata bene, tra di loro, ci sarebbero stati due cuori spezzati, questa volta. E per quanto questa idea lo terrorizzasse, per quanto non si sarebbe mai perdonato se davvero fosse stato la causa della sofferenza della sua bambina, in cuor suo sapeva che lui e Alexander erano stati creati per stare insieme. Si completavano. Erano uno parte dell’altro. Era come se i loro cuori fossero stati legati dal destino, quasi come se Dio stesso, creandoli, avesse scritto che si sarebbero incontrati solo con lo scopo di innamorarsi.
Avrebbe funzionato.
Magnus se lo sentiva.



*



“Ho preso tutto, vero?”
“Sì, Magnus. Abbiamo controllato due volte, prima di lasciare la macchina nel parcheggio, ricordi?”
“Stai facendo il so-tutto-io con me?”
“No, sto solo puntualizzando che non c’è niente di cui preoccuparsi.” Disse Alec, portando una delle valige di Magnus. “Ti stai agitando. Non farlo.”
“La fai facile, tu.” Borbottò Magnus, tirando le altre due sue valige. Madelaine, che teneva in braccio Erin e si trovava alle loro spalle, ridacchiò. Dopo aver fatto colazione e aver sistemato le valige di Magnus nella bauliera di Alec, i due erano passati a prendere anche Madelaine. E adesso la donna li guardava entrambi con un’immensa tenerezza e con la consapevolezza che si comportavano già come se fossero una coppia. Chissà se davvero pensavano di darla a bere, dicendo che erano ancora amici. Madelaine era una donna piuttosto intuitiva e conosceva bene suo figlio. Aveva il sesto senso che fosse successo qualcosa tra lui e Alec, ma siccome Magnus non le aveva detto niente, aveva scelto di starsene in silenzio.
Trovò conferma alle sue intuizioni, tuttavia, quando notò che Alec posò con delicatezza la mano che aveva libera sulla schiena di Magnus e gli lasciò una carezza.
“Andrà tutto bene.” Gli disse con voce rassicurante. “Hai preso tutto, non manca niente.”
Magnus si avvicinò d’istinto a lui, quasi quella carezza non gli bastasse e volesse essere abbracciato. Ma si fermò a metà strada, probabilmente rendendosi conto che non erano da soli. Madelaine notò quel gesto e sorrise, ma non disse nulla. Si limitò semplicemente a seguire i due fino all’ingresso dell’aeroporto.
Una volta varcato l’ingresso del JFK International, i rumori diventarono sempre più forti e il via vai delle persone sempre più frenetico.
Magnus si guardò intorno. Vide persone trascinare valige verso l’area apposita per fare il check-in, vide altre persone che invece si dirigevano ai loro gate e altre ancora troppo impegnate a salutare i loro cari per prestare attenzione ad altro. Provò un moto di nostalgia e una sensazione strana gli otturò la bocca dello stomaco. Mancanza. Ecco cos’era. Sentiva già la mancanza di coloro che lasciava a NY e non era ancora partito. Si bloccò all’improvviso, smettendo di trascinare le proprie valige. Alec notò quel gesto e si fermò al suo fianco.
“Che c’è?”
“Come sei riuscito a farlo?” Domandò.
Alec era confuso. “Cosa?”
“Quando sei partito, l’anno scorso. Come ci sei riuscito?”
Alec sospirò. Iniziava a capire il punto di quella domanda. “Non è stato facile. Lasciare qui la mia famiglia per un lasso così lungo di tempo è stato doloroso. Si può dire che ho lasciato a loro la parte sana del mio cuore e ho portato con me solo quella distrutta.” Posò due dita sotto al mento di Magnus per fare in modo che lo guardasse. “Ho sentito la loro mancanza ogni giorno, ma sapevo che al mio ritorno tutto sarebbe stato uguale.” Lasciò la valigia per avere entrambe le mani libere e riuscire così a prendere il viso di Magnus tra di esse. “Quando tornerai, sarà tutto esattamente come l’hai lasciato.”
“Alec ha ragione, tesoro.” Intervenne Madelaine, che aveva guardato in silenzio la scena fino a quel momento. Era assolutamente certa che quel ragazzo fosse la persona adatta per suo figlio. E in cuor suo sperava davvero di averci visto giusto e che sarebbero diventati una coppia, in futuro.
Magnus si voltò verso di lei. Guardò sua madre, sua figlia e infine tornò a guardare Alec. Tre delle persone più importanti per lui – e per un attimo si stupì di quanto Alexander lo fosse diventato in così poco tempo.
“Mi mancherete.” Disse a sua madre. “Non sono più abituato a stare lontano da te, o da Erin.”
Madelaine si avvicinò al figlio e gli accarezzò il viso. “Lo so. Ma è temporaneo. Cerca di guardare solo l’aspetto positivo della cosa: ballerai.”
Magnus sbuffò una risatina. “Vi siete messi d’accordo alle mie spalle, voi due?” Domandò, guardando prima sua madre e poi Alec.
Madelaine portò i suoi occhi su Alec, il quale arrossì leggermente, prima di parlare. “Gliel’ho detto anche io.”
“E hai ragione.” Gli disse, prima di riportare l’attenzione sul figlio. “Hai sentito? Alec ha ragione, dovresti dargli retta.”
Magnus sorrise. “Avete ragione entrambi.” Si sentiva più tranquillo. Avevano ragione. Tutto sarebbe stato esattamente come l’aveva lasciato al suo ritorno. Magari, l’unica cosa che sperava cambiasse era il suo rapporto con Alexander. Magari, al suo ritorno, avrebbero potuto smettere di definirsi solo amici. “Vado a fare il check-in.”
“Ti accompagno.” Disse Alec.
Madelaine rimase con Erin e li guardò avviarsi verso l’apposita area, fianco a fianco. Stavano bene insieme. E la donna aveva notato quanto suo figlio fosse diverso quando vicino a lui c’era Alec. Era più felice, più luminoso, sorrideva più spesso di quanto già non facesse. Alec gli faceva bene. Ed era sicura che fosse anche riuscito a sistemare, finalmente, il cuore ammaccato di Magnus.



*



In fila per il check-in, Alec cercò la mano libera di Magnus. L’uomo sorrise, prima di voltarsi verso il medico.
“Cosa stai facendo, tesoro?”
“Ti prendo per mano, mi sembra ovvio.”
“E dov’è finita tutta la discrezione di stamani?”
Alec socchiuse un occhio. “Devo ricordarti che l’altra sera mi hai preso per mano davanti a tutti? Dov’era, in quell’occasione, la tua discrezione?”
Magnus sorrise e lasciò che Alec intrecciasse le loro dita. “Sei contento?”
“Di prenderti per mano in pubblico? Non ne andrà della vostra reputazione, signor Bane?” Lo prese in giro Alec.
“Piantala.” Rispose Magnus, con un’occhiata.
Alec ridacchiò. “Cosa penseranno di voi i domestici, o la plebe che ci circonda, dopo avermi concesso un gesto tanto sfacciato e audace?”
“Sei un idiota.” Magnus alzò gli occhi al cielo, ma un sorriso lo tradì. Alec si chinò leggermente a baciargli una guancia e a Magnus non rimase altro da fare che reggergli il gioco. “Chissà cosa dirà la plebe di questo bacio, signor Lightwood. Volete proprio rovinare la mia nobile reputazione?”
Alec rise e fece per baciarlo di nuovo, ma Magnus questa volta si voltò per fare in modo che fossero le loro labbra a sfiorarsi.
Questo è stato un gesto sfacciato, signore. Ma oltremodo piacevole.” Disse Alec, che sentiva il cuore sfarfallare. Magnus sorrise, mentre avanzava in fila. Dopo poco sarebbe toccato a lui.
“Lo so. Di recente, signor Lightwood, ho scoperto quanto sia soddisfacente baciarvi.”
Alec lasciò la presa sulla mano di Magnus e fece vagare la propria sulla schiena del ballerino, fino a stringerlo a sé. Gli baciò una tempia, prima di farsi serio e sussurrargli all’orecchio: “Per questo non vedo l’ora che torni. Voglio passare un’intera giornata a baciarti.”
“Solo una?” Lo stuzzicò Magnus, che dal canto suo si era accoccolato meglio al fianco di Alec.
Le labbra di Alec, che adesso erano di nuovo all’altezza della tempia di Magnus, sfiorarono la sua pelle quando si aprirono in un sorriso. “Non volevo sembrare appiccicoso, Magnus.”
“So che non lo sei. Quindi, ti domando di nuovo: solo una?”
Alec baciò di nuovo la tempia di Magnus, prima di rispondere. “No. Passerò tutte le giornate che mi concederai a baciarti. Userò ogni occasione, ogni banale scusa per baciarti, sfiorarti, e averti vicino. Perché mi viene istintivo toccarti, perché se non lo faccio mi sembra di impazzire.”
Magnus, con la spina dorsale che stava diventando di burro, si guardò intorno per costatare se qualcuno – Erin o sua madre – potessero vederli. Appurato che le due non erano nelle vicinanze, Magnus lasciò i suoi bagagli per essere in grado di afferrare il viso di Alec con entrambe le mani. Lo tirò a sé per baciarlo. Un bacio vero, non un semplice contatto di labbra. Alec rispose a quel bacio quasi come se lo avesse agognato da tempo e finalmente venisse accontentato. Circondò la schiena di Magnus con entrambe le braccia e lo strinse forte a sé, come se volesse unire i loro cuori e i loro corpi, prima che dovessero separarsi. Non prestarono particolare attenzione al resto delle persone in fila perché poco contavano. Prestarono unicamente attenzione alle loro labbra, che si muovevano insieme morbide e complici, e alle loro lingue che si intrecciavano e danzavano insieme con dolcezza, con quella voglia di scoprirsi e di conoscersi.
Quando si separarono per prendere fiato, Magnus appoggiò la fronte a quella di Alec. “Ogni volta che ti bacio,” cominciò, sussurrando, “Mi sembra che tu possa essere mio, ogni volta sempre un po’ di più.”
Alec sorrise e, senza titubanza alcuna, o timore, disse con totale semplicità, come se fosse la più assoluta delle verità: “Io sono già tuo, Magnus. E non vorrei essere di nessun altro.” Ed era vero. Il cuore di Alec, del quale Magnus aveva avuto tanta cura fino a quel preciso momento, apparteneva a lui – e sempre sarebbe stato così.
Magnus sorrise, mentre con i pollici accarezzava il viso di Alec. Gli sembrò di essere in un’altra dimensione. Un luogo quasi mistico, nel quale era finito per pura fortuna e dal quale non avrebbe mai voluto uscire. In quella specifica dimensione, si appartenevano. Non c’erano voli da prendere e settimane da passare separati. C’era solo la prospettiva di stare insieme e darsi un’infinità di baci.
“Ehm, signori?”
La dimensione di Magnus venne frantumata dalla voce del ragazzo addetto al check-in. Il giovane li stava guardando come se disturbarli fosse l’ultima cosa che volesse fare, ma che, data la fila che si era momentaneamente bloccata, era costretto a fare.
“Tocca a voi.”
Magnus sussultò leggermente, accarezzò un’ultima volta Alec e si riappropriò dei propri bagagli. “Scusami tanto, caro. Sono stato distratto.” Magnus sorrise e appoggiò le proprie valige una ad una sul rullo, dove vennero pesate e poi fatte scivolare fino a che non sparirono dietro ad una tendina, dirette verso la stiva dell’aereo. Il ragazzo completò l’operazione al computer e poi salutò educatamente i due, che uscirono dalla fila per tornare a cercare Erin e Madelaine.
“Chissà dove sono finite.”
“Chiamale,” disse Alec, “Io chiamo Izzy, prima mi ha chiamato, ma non ho sentito il cellulare. Ero… distratto.”
Magnus gli rivolse un sorrisetto complice e poi estrasse il telefono. Lui chiamò suo madre, mentre Alec chiamava sua sorella. Durante entrambe le telefonate, nessuno dei due lasciò gli occhi dell’altro, leggendoci dentro un amore che ancora non erano riusciti a confessare a parole.





Madelaine ed Erin si erano allontanate perché la donna aveva sentito un forte bisogno di caffè. A differenza del figlio, Madelaine adorava il caffè e per questo lei e Alec si trovarono subito immersi una conversazione sui vari tipi di chicchi che esistevano e i vari modi in cui venivano lavorati in base ai paesi di provenienza.
Magnus era felice che legassero, anche se doveva ammettere che sentirsi un po’ escluso andava a ferire un tantino le sue ancora presenti manie di protagonismo, nonostante queste fossero decisamente diminuite rispetto a quando era più giovane.
“Papà?”
“Dimmi, tesoro.” Magnus prestò attenzione ad Erin, che era seduta sulle sue ginocchia, mentre aspettavano seduti in una sala d’attesa, l’arrivo della combriccola che voleva salutarlo prima della partenza.
“Mi vorrai bene anche da lontano?”
A Magnus vennero quasi le lacrime agli occhi. Strinse forte a sé la sua bambina e le baciò i capelli. “Sentirò la tua mancanza ogni giorno, harta saya yang berharga. E certo che ti vorrò bene anche da lontano. Io ti vorrò bene per sempre, Erin. Kamu adalah hal terpenting dalam hidupku. Lasciarti qui è come lasciare il mio cuore.”
“Anche tu mi mancherai tanto.” La bambina si accoccolò al padre e affondò il faccino contro il suo petto, aggrappandosi con le manine alla camicia di Magnus. “E ti voglio bene per sempre anche io, papà.”
Erin alzò lo sguardo sul padre e sorrise, prendendo il viso di Magnus tre le sue manine paffute. Erano calde e morbide.
“Dalla luna e ritorno?” domandò l’uomo.
La bambina annuì.
“Io di più. Due volte dalla luna e ritorno.” Le disse Magnus.
“Allora io tre volte!” Esclamò convinta Erin. 
Magnus ridacchiò, stringendola di nuovo non appena Erin lasciò il suo viso. “D’accordo, bintang. Tu di più.” L’accontentò, ma non era sicuro fosse vero. Sapeva quanto sua figlia gli volesse bene, ma lui avrebbe dato la vita per lei senza batter ciglio. Erin era il suo cuore e la amava con la parte più profonda di se stesso. Se si trattava di lei, tutto il suo egoismo smetteva di esistere perché, automaticamente, era lei la cosa più importante dell’universo, persino più importante di se stesso – era così da quando era venuta al mondo, e sarebbe stato così fino alla fine dei suoi giorni.



Gli altri arrivarono dopo poco. L’ora della partenza di Magnus era sempre più vicina e lui era sempre più consapevole che tutto, piano piano, stava diventando sempre più reale. Non era più solo un’idea proiettata nel futuro, era un avvenimento imminente, qualcosa che di li a pochi istanti, l’avrebbe messo su un aereo diretto verso la città degli angeli.
Lontano da Erin, da Alexander e da tutta la sua famiglia, composta proprio da quelle persone che adesso erano lì con lui, formando una piccola folla.
C’erano tutti: Isabelle, Simon, Clary, Jace e Diana. Raphael, Rosa e Max – che avevano deciso di saltare le prime ore di lezioni per salutare Magnus; Catarina e Maia, che poverina era arrivata direttamente dopo un turno notturno all’Hunter’s Moon.
“Oh, cara, dovevi riposare.” Le disse Magnus, abbracciandola. La ragazza ricambiò quella stretta con un sorriso stanco, ma felice.
“Riposerò dopo che sarai partito. Non potevo non salutarti.”
Magnus la strinse di più. Maia era minuta e quasi spariva tra le sue braccia. “Fai buon viaggio. Stai attento, divertiti e chiama, ogni tanto. Tienici informati, d’accordo?”
Magnus le lasciò un bacio tra i ricci. “Sì, mamma.”
“Idiota.” Gli sussurrò, prima di abbracciarlo di nuovo e poi sciogliere l’abbraccio. “Hai salutato Alec come si deve?” scherzò, sempre tenendo un tono di voce basso.
“Che vuoi dire?”
“Se avete finalmente smesso di guardarvi come se voleste saltarvi addosso e vi siete saltati addosso per davvero.”
Magnus per una frazione di secondo si chiese se fosse davvero così evidente quello che provava per Alexander. Compreso il volergli saltare addosso.
Ripensò alla notte prima, a come fossero stati abbracciati, a come fosse stato meraviglioso svegliarsi e trovarlo nel suo letto. Si sforzò di trattenere un sorriso perché era consapevole che sarebbe stato più eloquente di una miriade di parole e l’avrebbe smascherato. Quel sorriso sarebbe stato l’equivalente di lo amo più di quanto abbia mai amato nessun altro.
“Non dire sciocchezze, cara. Siamo…”
“Amici,” Lo precedette lei, guardandolo con un sopracciglio alzato come se non credesse minimamente a quello che Magnus stava dicendo. “Sì, certo. E io sono la regina di Inghilterra.”
Insolente. Ma a Magnus, Maia piaceva anche per quello. Era schietta, diretta, sfacciata e onesta. Non girava mai intorno a nessuna questione e arrivava sempre dritta al punto.
“Beh, allora c’è da dire che li porti davvero bene i tuoi novantatré anni!”
La ragazza lo fulminò. “Ripeto: sei un idiota.”
Magnus rise e lei gli fece una linguaccia.
“Hai finito di monopolizzarlo?” Max si intromise tra di loro, scansando delicatamente Maia, per piazzarsi davanti a Magnus e abbracciarlo. Erano alti uguali, anche se Magnus era convinto che il ragazzo sarebbe cresciuto ancora un po’. Maia protestò per come era stata liquidata, ma poi decise di farsi da parte.
“Mi mancherai, amico.” Disse Max, mentre abbracciava Magnus. “Ogni tanto mandami dei messaggi, magari non come quelli che manderai ad Alec.”
Magnus sciolse l’abbraccio, prendendo il ragazzo per entrambe le braccia e scansandolo leggermente da sé. “Che messaggi pensi mandi a tuo fratello, scusa?”
“Non lo so, sicuramente qualcosa di tremendamente sdolcinato o oscenamente sexy.”
“Non ho mai fatto niente del genere!”
Tranne quelli sdolcinati che vi siete scambiati questa mattina, gli fece notare una vocina nella sua testa. Ma Magnus decise che non era il caso che si sapesse.  
Max sembrò genuinamente stupito. “Ah, no? Cavolo, ero convinto di sì. Voglio dire, da come vi guardate, pensavo fosse evidente che aveste passato la fase ‘siamo solo amici’, e invece…beh, scusami.”
Perché tutti lo pensavano, dannazione? Era così palese? Magnus era davvero così incapace a mascherare i suoi sentimenti? A quanto pareva, gli si leggeva in faccia ciò che provava per Alexander.
“Non importa…”
Max guardò l’amico per qualche istante, per assicurarsi di non averlo infastidito in qualche modo. Appurato che non c’era alcun tratto di fastidio nei lineamenti di Magnus, lo abbracciò di nuovo. L’uomo ricambiò e poi il ragazzo si fece da parte per fare in modo che anche Rosa lo salutasse. Lo abbracciò fortissimo, stringendolo più che poté.
“Raph sarà insopportabile, senza di te. Sei tipo il suo regolatore umano dell’umore.”
“Ti ho sentito, piccola impertinente!” Brontolò Raphael alle spalle della sorella. “Ed è ovvio che ciò che è uscito dalla tua bocca es mentira, il mio umore mica dipende da questo idiota!”
“Aw, quanto sei dolce, Raphi. Mi mancherai anche tu caro.” Disse Magnus, con un sorriso stampato sul volto, mentre si accingeva ad abbracciare Raphael, il quale, restio al contatto, lo osservò con una smorfia contrariata.
“Non ci provare.” Lo ammonì, ma Magnus lo ignorò, inglobandolo comunque in un abbraccio.
“Ammetti che ti mancherò. Ammettilo, Raphi.” Magnus continuò a stringerlo, nonostante le proteste di Raphael.
“Solo se smetti di stringermi e di chiamarmi in quel modo ridicolo, sai che lo odio.”
Magnus sciolse la presa e rimase in attesa, guardando l’amico negli occhi con un sorriso stampato sul viso che doveva essere innocente, ma che in realtà era solo insolente. “Sto aspettando, Santiago.”
Raphael alzò gli occhi al cielo, un ringhio gutturale precedette le sue parole: “Mi mancherai, brutto idiota.”
“Anche tu, bestiolina scontrosa!”
Raphael lo fulminò. “Basta che non mi abbracci più.”
Magnus rise e scosse la testa, alzando le mani in segno di resa. Raphael, a quel punto, si fece da parte per lasciare che il resto del gruppo lo salutasse.
Clary lo strinse più forte che poté, dicendogli che le sarebbe mancato tantissimo, ma che era felice per l’opportunità che aveva. Jace, che era pur sempre Jace, lo abbracciò con la delicatezza di un grizzly e gli disse di prendere un po’ di sole anche per lui. Anche Diana volle salutarlo, facendosi prendere in braccio.
“Danza non sarà bellissima senza te, Mangus.” Gli disse circondandogli il collo con le piccole braccia.
Il cuore di Magnus si intenerì tantissimo. Le lasciò un bacio sulla guancia. “Ma ci andrai lo stesso? Farai compagnia ad Erin?”
“Certo!” Esclamò la bambina, come se fosse una cosa ovvia, “Io e Erin faremo tantissime cose insieme!”
Magnus sorrise e le lasciò un bacio sulla fronte. Era felice che Erin avesse Diana. Era sicuro che Clary avrebbe fatto di tutto per non far sentire sola sua figlia ed era certo che avrebbe fatto in modo che le due bambine passassero più tempo possibile insieme. Era grato per avere una persona premurosa e attenta come Clary, nella sua vita.
Dopo Diana, fu il turno di Catarina, la quale gli lasciò un bacio sulla guancia e gli disse che era felice per lui, e che lo aspettava per Natale, per rispettare, come ogni anno, la loro tradizione di farsi una bevuta prima del cenone della vigilia. Magnus sperava davvero che il suo contratto venisse rispettato e che riuscisse davvero a tornare almeno per Natale e ripartire poi il 26 sera.
Dopo Cat, anche Simon ed Isabelle lo salutarono, abbracciandolo a turno. Isabelle scherzò dicendogli che avrebbe fatto bene a portarle qualcosa di carino da LA e lui, sebbene sapesse che non fosse seria, si appuntò mentalmente di comprarle qualcosa.
Avrebbe comprato qualcosa a tutti, durante il suo soggiorno nella soleggiata Los Angeles.
“Posso salutare il mio bambino?” Domandò Madelaine, quando tutti gli amici ebbero finito di spupazzarsi Magnus.
Il ballerino sorrise. “Non sono più un bambino.”
Madelaine liquidò quell’affermazione con un gesto casuale della mano. “Lo dici sempre e io ti dico sempre che per me lo sarai sempre.” La donna lo strinse a sé, con tutta la sua forza. Magnus dovette chinarsi un poco per ricambiare quella stretta. “Divertiti, tesoro. È una bella opportunità. Non preoccuparti troppo per Erin, ci siamo noi con lei. Tu goditi questa avventura, noi saremo qui al tuo ritorno. E staremo bene.”
E Magnus per una frazione di secondo si domandò se in quel noi sua madre stesse includendo anche Alexander, come se anche lei stesse cominciando a vederlo come un membro della loro famiglia.
Volle pensare di sì.
Sua madre gli lasciò un bacio sulla guancia, prima di farsi da parte, lasciando che Alec, con Erin in braccio, si avvicinasse.
La bambina immediatamente si sporse verso il padre. “Ciao, papà.” Disse la bambina, stringendolo forte, dopo che lui l’ebbe presa in braccio. Di tutte le braccia che l’avevano stretto in quell’ultima mezz’ora, Magnus ebbe la sensazione che quelle di sua figlia gli lasciassero un’impronta profonda addosso. Dovette ricordarsi che sarebbe stata bene, che c’era un’intera famiglia a prendersi cura di lei, che non sarebbe stata sola.
Lasciarla gli fece male al cuore, come se qualcuno gli stesse cavando il petto con un cucchiaio.
“Ciao, piccola mia. Papà torna presto. E ti porterà un regalo.”
Erin sorrise e annuì. “Quando torni hai promesso che faremo i biscotti.”
“Ma certo. Faremo quelli al cioccolato, i tuoi preferiti.” Le lasciò una serie di baci sulle guance, quasi avesse voluto lasciarle una scorta di affetto che la bambina avrebbe potuto immagazzinare da qui al suo ritorno.
La abbracciò ancora una volta, stringendola un po’ di più, e quando l’altoparlante annunciò l’apertura dei gate e l’imminente partenza del suo aereo, Magnus lasciò che Alec riprendesse in braccio la bambina.
“Devo andare.” Disse e di tutti gli occhi che lo stavano guardando, lui intrecciò quelli di Alec. Il medico si avvicinò e lo abbracciò con il braccio che non reggeva Erin.
“Mi mancherai,” gli sussurrò all’orecchio, “Ma sono felice che tu faccia qualcosa che ti rende felice.”
Magnus avrebbe voluto dirgli che lui lo rendeva felice, ma non gli sembrava il caso. Stava per partire e una frase del genere avrebbe reso il momento ancora più emotivo di quanto non fosse. Se lo tenne per sé, decidendo che, comunque, avrebbe ritrovato un’occasione per dire quella frase ad Alexander.
“Anche tu mi mancherai.” Rispose, quindi, sussurrando a sua volta.
Magnus lo guardò ancora per qualche istante, poi gli accarezzò una guancia. Dopo aver accarezzato anche quella di Erin, rivolse di nuovo un saluto generale a tutti e poi si voltò per incamminarsi verso il suo gate.
Alec lo seguì con lo sguardo per tutto il tragitto. E se, un anno prima, quando era stato lui a partire, il suo cuore era rimasto a NY con la sua famiglia, questa volta riuscì quasi ad avvertire il momento in cui gli uscì dal petto per seguire Magnus su quell’aereo.
Magnus si era portato via il suo cuore, lasciandogli un vuoto nel petto che si sarebbe ricolmato solo al suo ritorno.




 
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Ciao a tutti! I’m back e mi dispiace tantissimo di averci messo così tanto, ma è un periodo un po’ particolare, dove ho davvero pochissimo tempo e scrivere mi viene difficile.
Comunque, dal momento che non aggiorno da un secolo, ho pensato di pubblicare questo capitolo nonostante sia decisamente più corto degli altri – è quasi la metà di quelli pubblicati prima di questo, ma è anche una sorta di capitolo di passaggio, dedicato solo alla partenza di Magnus, e avevo paura che farlo troppo lungo sarebbe stato lento e noioso, quindi eccoci qui! Spero comunque che vi sia piaciuto e mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate!
Mi farebbe piacere anche sapere alcune delle vostre idee… nel senso, cosa vi piacerebbe vedere tra Alec e Magnus, o tra qualche altra coppia… non so, momenti che potrei inserire nella storia e di cui, ovviamente, vi darei i crediti!
Se avete qualche idea, scrivetemi pure come preferite: nelle recensioni o nei messaggi privati!
Come sempre, ringrazio chiunque legga, abbia messo tra le preferite/seguite/ricordate e chi trova il tempo di recensire, lo apprezzo davvero tantissimo!
Un abbraccio, alla prossima! <3 

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Capitolo 13
*** 13. ***


Max aveva sonno.
Un sonno mortale, provocato dalla notte quasi in bianco che aveva alle spalle. Gli esami di dicembre lo tormentavano e il fatto che fossero gli ultimi, prima di Natale, non rendevano il suo umore proprio roseo.
Era nervoso, stanco e non vedeva l’ora di lasciarsi i libri alle spalle per almeno una settimana.
Voleva dormire. E smetterla di stare in ansia.
“Hai un aspetto orribile, amico. Stai bene?” Disse Aron, il suo compagno di stanza al dormitorio, quando lo raggiunse al bar vicino al campus – il Dolly’s, un nome che Max trovava estremamente buffo, ma che tutto sommato gli piaceva. Il proprietario del bar era un fan sfegatato della musica country e di Dolly Parton, per questo aveva chiamato così il suo locale.
“Sto bene, ho solo… sonno.”
Gli occhi grigi di Aron si posarono sul viso stanco dell’amico con comprensione.
“Non hai dormito stanotte?”
Max negò con la testa. “Sono rimasto sveglio a studiare. Ti ho disturbato?”
“No, affatto.” Aron si era già liberato dell’ultimo esame di dicembre, quindi era in uno stato emotivo più rilassato rispetto al compagno di stanza. “Devi prenderti un bel caffè e distrarti un po’.”
Max accennò un sorriso e guardò l’amico. Aron era alto quasi quanto lui, ma aveva una fisicità totalmente diversa. Max era longilineo, come Alec, la sua muscolatura era abbastanza definita – e questo perché Isabelle lo costringeva ad andare in palestra da lei, nel week-end – ma non esageratamente scolpita. Aron era un atleta, un giocatore di rugby nella squadra dell’università, e seguiva degli allenamenti decisamente più sfiancanti che lo portavano ad assomigliare ad una specie di armadio.
Era un vero talento, in campo, tanto che Max si divertiva da morire quando andava a guardarlo giocare.
Erano diventati amici in breve tempo, avendo più cose in comune di quante mai si sarebbero aspettati.
“Ho bisogno di una tanica intera di caffè. O meglio ancora, potrei spararmi la caffeina direttamente in vena.”
Aron, che aveva preso posto al tavolo davanti a lui, rise. “No, perché poi diventeresti super nervoso e a quel punto chi ti sopporterebbe?”
“Tu, ovviamente. Gli amici servono a questo, no?”
Aron scosse la testa. “Idiota.” Affermò, prima di guardare alle sue spalle e alzare un braccio per attirare l’attenzione di qualcuno. Max si voltò a sua volta e notò che dalla porta del bar erano appena entrati i loro amici: Jason, compagno di squadra di Aron; Amber, Judy e Scott.
Frequentavano tutto gli stessi corsi e formavano un gruppo studio abbastanza equilibrato, sotto la guida ferrea di Scott, che non permetteva la minima distrazione se si trattava di preparare un esame.
Se si trattava invece di uscire per far festa, automaticamente la guida del gruppo diventava Jason.
I quattro raggiunsero Max e Aron al tavolo: Amber vicino a Jason, che a sua volta si sedette vicino ad Aron; Scott e Judy, invece, presero posto ai lati di Max.
“Hai una faccia orribile.” Cominciò Judy, scrutando Max con i suoi profondi occhi azzurri. “Sei sicuro che durante la notte non ti sei trasformato in uno zombie?”
“No, altrimenti ti avrei già mangiato il cervello, Miss Gentilezza.”
Judy liquidò quell’affermazione con un gesto della mano incurante. “Parliamo di cose serie: dov’è la tua ragazza?”
Max alzò un sopracciglio con fare volutamente teatrale. “Hai una cotta per la mia ragazza, Jud?”
“Piantala. Ormai dovresti saperlo che ho una cotta per tua sorella. Le mie giornate migliorano quasi, quando pubblichi foto con lei su Instagram. A proposito, vedi di pubblicarne tante a Natale.”
Max rise, una risata che gli riverberò in tutto il corpo e che lo mise subito di buon umore. All’improvviso tutte le sue ansie sembravano divorarlo di meno. “Lo terrò a mente.”
“Bravo, Lightwood. Ora, dov’è Rosa?”
“Credo stia arrivando. Mi ha scritto che tardava perché si fermava a studiare in biblioteca. Perché?”
“Dobbiamo assolutamente discutere di Lucifer. Mi ha detto guardala, ti piacerà, e aveva ragione. Ho finito quattro stagioni in nemmeno una settimana.”
“Tu hai un problema. E serio, anche.” Si inserì Scott.
Judy gli fece una boccaccia. “Anche tu ne hai un sacco, ma mica te lo faccio pesare!”
Max si trattenne dal ridere. Non voleva prendere le parti di nessuno, ma i battibecchi tra Scott e Judy lo divertivano sempre. Erano completamente diversi. Lei era una specie di vulcano, frizzante ed estroversa, con un sarcasmo pungente e un’intelligenza brillante.
In comune con Scott aveva solo l’intelligenza. Lui era più timido, riservato, misurava sempre le parole prima di aprire bocca ed era estremamente introverso.
Loro erano l’esempio lampante di quel detto secondo cui se un introverso ed un estroverso diventano amici è perché l’estroverso ha visto l’introverso e ha deciso di adottarlo.
Erano amici fin da quando erano bambini. Erano stati vicini di casa, compagni di giochi e, crescendo, avevano frequentato sempre la stessa classe, fino a quando non erano riusciti ad entrare nello stesso college.
Facevano persino parte della stessa band – Scott suonava il basso, Judy la batteria – e vista la sua esperienza in campo di fratellanza, Max poteva dire con assoluta certezza che quei due fossero la cosa più vicina a due fratelli che potessero essere.
Si dicevano tutto. O meglio, Judy gli diceva tutto. Scott si limitava semplicemente ad ascoltarla e ad ammonirla di tanto in tanto quando diventava troppo esplicita.
Si fidavano totalmente l’uno dell’altra. Si volevano bene.
E a Max ricordavano davvero un sacco lui e i suoi fratelli.
“Ah sì, e quali problemi avrei, di grazia?”
“Tantissimi. Non ho tempo di elencarteli tutti.”
Scott liquidò il tutto alzando un dito medio, facendo ridacchiare Amber.
“D’accordo bambini,” Affermò Jason, che di solito era quello che veniva rimbeccato e raramente era quello che rimbeccava, “Vogliamo ordinare?”
“Sì, mi sembra una buona idea.” Concordò Aron, segnandosi sul cellulare tutte le cose che i suoi amici volevano, prima di alzarsi e dirigersi al bancone.
Gli altri lo ringraziarono e Max da quel momento in poi decise di spegnere il cervello almeno per un po’. Doveva distrarsi, Aron aveva ragione. E passare del tempo con i suoi amici gli sembrava una buona idea.



Rosa arrivò quando Max era al secondo caffè.
“Ne bevi troppo, Max. Non ti fa bene al cuore.”
Max si alzò dal suo posto e le passò un braccio intorno alla vita. “Tu invece sì. Tu mi fai tanto bene al cuore.” Si chinò per lasciarle un bacio leggero sulle labbra.
“Ruffiano.” Sussurrò lei, le guance che si coloravano di un leggero rosso, prima di andarsi a sedere vicino a Judy.
Max la seguì con lo sguardo fino a che non prese posto. Gli formicolavano le dita ogni volta che l’aveva vicina, quasi le sue mani gli stessero dicendo che erano state troppo tempo senza toccarla e ne avvertivano un viscerale bisogno.
Max non era mai stato innamorato, o almeno non in quel modo. Aveva avuto qualche ragazza, qualche cotta, ma con Rosa… con lei aveva capito la differenza che c’è tra provare qualcosa per qualcuno e amare qualcuno.
Bastava un suo sorriso e il suo stomaco faceva le capriole. Provava costantemente il desiderio di farla felice, di assicurarsi che fosse appagata. Era un qualcosa che non riusciva a spiegarsi, almeno non a parole. Il suo cuore, invece… lui sapeva spiegarlo perfettamente: la amava. Moltissimo. Con lei si sentiva libero di essere se stesso sotto ogni punto di vista. Sapeva che qualsiasi versione di sé le avesse mostrato, lei non l’avrebbe giudicato o deriso. E lui si impegnava ogni giorno per fare in modo che lei provasse lo stesso, in sua compagnia. Voleva che lei si sentisse a proprio agio, con lui, tanto quanto lui si sentiva con lei. E Max sperava davvero di riuscirci. Aveva la sensazione che fosse così – voleva credere che la complicità che li legava nascesse anche dal fatto che non erano solo ragazzo-e-ragazza, ma anche amici.
La guardò ancora un attimo, mentre cominciava ad ascoltare i discorsi di Judy riguardanti la bellezza della serie e di come Lucifer l’avesse conquistata al primo episodio. Rosa sorrideva e Max sentì il cuore che saltò un battito.
Era felice che i suoi amici l’avessero accolta con tanta facilità. Ed era felice che, nonostante fossero una coppia, riuscissero ad avere anche i loro spazi con gli amici. A volte capitava che anche Max stesse con gli amici di Rosa, e altre volte ancora, capitava che ognuno stesse con i propri amici – altre volte ancora, invece, capitava che si vedessero tutti insieme.
Ad entrambi piaceva mescolare le loro vite, senza perdere le abitudini che avevano prima di mettersi insieme. Era bello. A Max piaceva che avessero certe libertà ed era sicuro che anche Rosa la pensasse come lui.
“Max, ieri non ti ho visto alla prima lezione.” Esordì Jason, attirando l’attenzione dell’amico.
“No, eravamo al JFK per salutare un amico.”
Eravamo?” Gli fece eco il ragazzo, “Tu e chi?”
Max annuì. “Io, Rosa e la mia famiglia.”
“C’era anche la mia di famiglia, sai com’è.” Puntualizzò Rosa, estraniandosi un attimo dalla conversazione con Judy, “Raphael è mio fratello e conosco Magnus da più tempo di te.”
“Vero, ma io ho una grande probabilità di averlo come cognato, un giorno!” Le fece una linguaccia a cui Rosa rispose con un’altra.
“Per chi dei due fratelli rimasti?” Si intromise Amber, curiosa. “Isabelle o Alec?”
“Alec,” rispose Max, che sperava davvero che suo fratello decidesse di darsi una mossa. Capiva il perché della sua iniziale cautela, Will l’aveva ferito in un modo profondo e lui davvero detestava quel biondo chilometrico per aver fatto del male a suo fratello, ma… era palese che lui e Magnus provassero qualcosa l’uno per l’altro e di certo non era la semplice amicizia che continuavano a propinare a tutti quanti.
“Per Isabelle ci sono sempre io!”
Max si voltò verso Judy, “Izzy sta con Simon, adesso.”  
Judy fece teatralmente finta che il suo cuore si stesse spezzando, piazzandosi le manu sul petto. “Come farò adesso? Dovrò sfidarlo a duello per conquistare il cuore della donzella!”
“Oppure…” Suggerì Scott, “Puoi trovarti una ragazza della tua età e che almeno sappia che tu esisti!”
Judy si voltò verso l’amico, un’espressione di puro tradimento solcò il suo viso. “Sei cattivo! Cattivissimo!” Si allungò per dargli un colpetto sul braccio. “Max!” Esclamò, poi, “Digli che è cattivo, diglielo!”
Max alzò le mani in segno di resa, mentre tutti gli altri al tavolo ridevano. “Io non mi immischio.”
Keeping up with the Lightwoods, presto su E!” Esordì Aron, imitando la voce di un presentatore televisivo. Quell’uscita fece sì che tutti si concentrassero su di lui, scoppiando a ridere.
Max rise con loro.
Era felice.



Uscirono dal bar un’ora dopo. Max si sentiva meglio. Lo stress accumulato in quelle ultime settimane era più gestibile e anche le sue preoccupazioni sembravano meno ansiogene adesso.
Aveva salutato i suoi amici all’uscita del bar e adesso lui e Rosa stavano camminando per strada mano nella mano.
“Tra quanto devi tornare a casa?”
A volte a Max pesava il fatto che lei fosse pendolare, mentre lui rimaneva al dormitorio durante la settimana. Avrebbe voluto fare avanti e indietro con lei per passare un po’ più tempo insieme, ma si tratteneva dal dirglielo perché aveva paura di risultare appiccicoso.  
“Un’oretta, più o meno.” Rispose lei, guardando l’ora sul cellulare. “Raphael mi aspetta. Devo aiutarlo alla reception.”
“D’accordo. Vuoi fare qualcosa in questo ora?”
Rosa annuì. “Ti va di andare in libreria?”
“Io amo andare in libreria, mi querida, dovresti saperlo.”
La ragazza si fermò, bloccandosi in mezzo al marciapiede. Max si fermò con lei perché le loro mani erano ancora intrecciate. Lo fissò con curiosità, stupore e una punta di tenerezza.
“Cos’hai detto?”
Max sentì il panico impossessarsi di tutte le sue membra. Ultimamente era venuto a conoscenza del fatto che Alec si fosse messo ad imparare un po’ di indonesiano per fare una sorpresa a Magnus. E Max, che l’aveva trovata una cosa molto dolce e possibilmente romantica, aveva deciso di fare lo stesso per Rosa, imparando un po’ di spagnolo.
Gli era sembrata una buona idea, fino a che, in quel preciso istante, non aveva provato il terrore di aver fatto una figura orrenda.
Max si sentì il più imbranato degli imbranati. Il re degli idioti. Il sovrano degli impacciati. Poteva quasi sentire Jace nelle orecchie che lo insultava per essersela giocata così male.
“Niente,” tentò di riprendersi, ma lei non si lasciò scoraggiare da quell’iniziale tentativo di lasciar perdere.
“Max.” Disse, con un tono così serio che per un attimo ricordò suo fratello Raphael. A quanto pareva, essere capaci di usare dei toni da brivido in certe occasioni era un tratto distintivo dei Santiago.
“Rosa.” Tentò di nuovo lui, ma poi si sentì ancora più idiota e decise quindi di dirle la verità. “Volevo chiamarti mio tesoro in spagnolo. L’ho detto male? Ti ho offesa? Scusami se è così non era mia intenzione! Volevo fare qualcosa di carino per te e non di certo offenderti!”
Rosa gli afferrò il viso tra le mani, costringendolo a tacere e a guardarla negli occhi. “Sta’ un po’ zitto. Era perfetto. È stata una cosa dolcissima e l’hai detto benissimo.”
Adesso Max stava mentalmente ringraziando suo fratello per aver avuto quell’idea. E ringraziò un pochino anche qualsiasi divinità celeste per l’esito positivo del suo tentativo.
Rosa stava sorridendo. Aveva le guance arrossate – ma Max non era in grado di affermare se quel rossore dipendesse dal freddo o da quel momento specifico. I suoi occhi neri erano incastrati in quelli di Max e il ragazzo sentì chiaramente il cuore saltare un battito, prima di cominciare a correre impazzito.
Era così bella, così genuina e rara. Era la persona più spontanea e dolce che avesse mai incontrato. Era gentile e intelligente, divertente.
Stare con lei era stimolante. Stare con lei gli faceva venire voglia di essere una persona migliore – una persona in grado di meritarsela. Perché Max era pienamente consapevole di quanto fosse fortunato ad averla nella sua vita.
Rosa si alzò sulle punte dei piedi per riuscire a baciarlo e Max, come da consuetudine, si chinò leggermente, circondandole la vita con entrambe le braccia. A volte capitava persino che la sollevasse e lei, ogni volta, si trovava sorridere. Quella volta Max non lo fece. Continuò semplicemente a baciarla, approfondendo il loro contatto di labbra. Lasciò che le loro bocche si scontrassero e che la sensazione familiare di pace e serenità si impossessasse di ogni fibra di sé stesso.
Rosa era tutta la luce che esiste al mondo sotto forma umana. E lui la amava da morire.
Te quiero,” Sussurrò, quando si separarono. Perché era vero, perché aveva sentito il bisogno di dirglielo in quel preciso momento. Appoggiò la fronte a quella di Rosa. “E spero di averlo detto bene perché non voglio che tu fraintenda.”
Rosa, con il cuore che aveva preso residenza nella sua gola, sorrise. “L’hai detto bene. Benissimo.” Lo baciò di nuovo. “Ti amo anche io.”
Max riuscì quasi a sentire il suo cuore esplodere, mentre afferrava Rosa per la vita e la sollevava, facendole fare un giro completo in mezzo al marciapiede.
Se qualcuno avesse detto qualcosa, a nessuno dei due importava.




*




 Jace tornò a casa dalla passeggiata con Diana verso le cinque del pomeriggio. Clary non era andata con loro perché, a quanto pareva, doveva lavorare ad un dipinto su commissione che un mezzo riccone le aveva chiesto qualche settimana prima, quando era passato in negozio e aveva notato alcuni dei lavori di Clary appesi alle pareti.
Jace aveva pensato bene di lasciarle i suoi spazi, quel giorno, e di uscire con la bambina per fare in modo che la sua fidanzata potesse concentrarsi al meglio.
Di certo, non si aspettava di sentire delle grida al suo rientro a casa.
“Amore?” la chiamò, entrando in casa. Diana gli teneva ancora la mano, infagottata nel suo piumino giallo. La piccola alzò lo sguardo sul padre e gli strinse la mano per attirare la sua attenzione. Era strano anche per lei sentire la mamma gridare in quel modo.
Jace abbassò lo sguardo sulla bambina e si chinò alla sua altezza, togliendole giubbotto, sciarpa e cappello. “Va tutto bene, principessa. Sicuramente la mamma sta facendo un gioco nuovo.”
Un altro grido – che assomigliava tanto ad un grido di battaglia – e il suono ovattato di qualcosa che si scontra contro qualcos’altro. Jace non sapeva davvero cosa aspettarsi. Clary non perdeva mai la pazienza.
“Tesoro di papà, perché non vai sul divano e guardi un po’ di televisione? Puoi guardare quel cartone che ti piace tanto.”
“Oceania?”
“Sì, quello.”
Insieme si diressero verso il divano e Jace inserì il DVD nel lettore specifico, facendo partire il cartone animato.
“Aspettami lì, va bene?”
Diana annuì. “Poi verrai a cantare le canzoni con me?”
Jace si chinò sulla bambina per lasciarle un bacio sulla fronte. “Ma certo, tesoro. Tu aspettami.”
La bambina annuì di nuovo, seduta sul divano, e osservò il padre che spariva in corridoio e andava verso lo studio della mamma.
Jace non sapeva davvero cosa aspettarsi. Rimase a fissare la porta chiusa dello studio di Clary per qualche istante, prima di aprirla.
Trovò la sua futura moglie piena di pittura dalla testa ai piedi. I suoi capelli rossi erano legati in una coda, ma nemmeno quella mossa era riuscita a salvaguardarli dai vari colori che ricoprivano anche la salopette di jeans che indossava. Davanti a lei c’era una gigantesca tela che era piena zeppa di colori che andavano a soprapporsi gli uni agli altri formando un quadro astratto e senza nessun tipo di senso apparente.
Clary non si era ancora resa conto della sua presenza e continuava a lanciare palloncini pieni di vernice contro quella tela, facendoli esplodere uno ad uno.
“Ehm, amore?” La chiamò Jace con cautela. La donna si voltò. Due ciuffi erano sfuggiti dalla sua coda e adesso le cadevano ai lati del viso.
“Oh, ciao, tesoro. Siete tornati?”
“Sì, proprio adesso, mentre stavi gridando come un’amazzone. Va tutto bene?”
“Ma certo!” Esclamò Clary a denti stretti, prima di afferrare di nuovo un palloncino e scaraventarlo contro la tela. “Va. Tutto. Benissimo.” Scandì, lanciando un nuovo palloncino ad ogni parola che lasciava la sua bocca.
Jace si avvicinò piano e le appoggiò le mani sulle braccia nude. Sotto alla salopette portava una maglietta a maniche corte nera e probabilmente l’unico motivo per cui non aveva freddo era perché era così arrabbiata che il sangue le stava ribollendo nelle vene.
Non appena avvertì quel contatto, comunque, Clary rilasciò un sospiro e si voltò verso di lui, più calma di prima.
“Il mezzo riccone non vuole comprare il mio quadro. Dice che gli ho chiesto troppo e non posso pretendere quella cifra dal momento che sono una dilettante.”
“Non sei una dilettante.” Le assicurò Jace.
“Ma non sono famosa.”
“Questo non significa che tu sia una dilettante, Clary. Quell’idiota non ha diritto di sminuirti. Non vuole comprare il tuo quadro? Che si fotta! Lo comprerà qualcun altro.”
Sul viso di Clary comparve persino un sorriso. “Ho lavorato sodo per quel quadro. Mi sono impegnata.”
“Lo so. Per questo meriti qualcuno che apprezzi la tua arte. Sei determinata, io lo so. Digli che se vuole il quadro il prezzo non è trattabile, altrimenti puoi sempre venderlo a qualcun altro.”
“Domani lo chiamerò.”
“Brava la mia ragazza.” Le lasciò un bacio sulla fronte. “C’è dell’altro? O Mr. Mezzo-Riccone era l’unico motivo del tuo… attacco d’arte?” Indicò con lo sguardo la tela multicolore, la vernice che colava andava a mischiarsi con quella già mezza asciutta.
“Intoppi per il matrimonio. Non riescono a trovarmi i gigli blu. Dicono che possono darmeli bianchi, ma io non li voglio bianchi. Sono banali. Li voglio blu. E so che esistono. Ma vogliono farmi passare come una sposa-zilla pazza.”
“Sei solo stressata,” Disse Jace, rendendosi conto di quanto Clary fosse stressata. Nonostante l’aiuto di Madelaine e sua madre, la maggior parte del lavoro continuava a farlo lei, anche se lui era coinvolto in tutto. Si sentì un po’ in colpa, per questo, promettendosi di aiutarla di più, di cercare di alleggerirle lo stress.
“Cambieremo fioraio, se questo non può darti i fiori che vuoi. Posso andare domani stesso a cercarne uno nuovo con Isabelle, mentre tu tratti con il mezzo riccone.”
“No, Jace, non è necess-” iniziò, ma lui la interruppe, appoggiandole delicatamente l’indice sulle labbra.
“È il nostro matrimonio. Non è giusto che tu faccia tutto da sola. Ti troverò i gigli blu.” Fece un passo verso di lei, riducendo la già poca distanza che c’era tra di loro. Clary dovette alzare lo sguardo per riuscire a guardarlo negli occhi. Jace la circondò con le braccia, appoggiandola al proprio torace, incurante che tutta la tinta che aveva addosso Clary adesso stesse colorando anche il suo maglione. L’avrebbe lavato. Non gli importava di sporcarlo. Gli importava solo confortare la donna che amava, esserci per lei, sostenerla. “Ti cercherei anche un’idra a dodici teste, se tu me lo chiedessi.”
Clary rise, la guancia appoggiata al suo petto. “Non so quanto sarebbe producente per un matrimonio, avere un feroce mostro mitologico mangia-persone.”
Jace le punzecchiò un fianco. “Sei una distruttrice di romanticismo. Io intendevo che farei di tutto per te, anche l’impossibile.”
Clary alzò la testa e gli lasciò un bacio sulle labbra, prima di cercare il suo sguardo. “Lo so, sei il mio eroe, Jace. E non parlo di fiori. Parlo di ogni momento in cui mi stai vicino quando mi sento fragile.”
E Jace sapeva che era riferito a Jocelyn. Al vuoto che le aveva lasciato dentro. Per questo la strinse di più, con tutta la forza e l’amore di cui era capace.
“Se potessi proteggerti dal male, lo farei.”
“Ma lo fai. Vorrei solo essere in grado di darti la stessa sicurezza che mi dai tu.”
“Lo fai. Ogni giorno che mi stai vicino, ogni volta che affrontiamo un problema insieme. Sei tu la mia forza. Se non ci fossi stata tu, quando Max si è ammalato, sarei diventato matto. Ma mi hai sostenuto, sei stata in piedi per entrambi, quando l’unica cosa che io avrei voluto fare era gettarmi a terra.”
Clary per tutta risposta strinse le proprie braccia intorno al suo torace per abbracciarlo. “Ti amo.”
Jace le lasciò un bacio sui capelli. “Anche io. Tanto.”
Clary sorrise, rimanendo abbracciata a lui in quel modo. Si sentiva meglio. La rabbia e lo stress si erano allontanati immediatamente. Jace aveva un effetto terapeutico, molto più di un paio di palloncini lanciati contro una parete.
“Mami?”
Una vocina portò entrambi a voltarsi verso la porta. Diana se ne stava sulla soglia e guardava i suoi genitori abbracciati. La curiosità di sapere cosa succedesse nello studio della mamma era stata più forte della sua voglia di guardare un cartone – aveva persino messo pausa da sola perché mami le aveva insegnato come fare.
“Ehi, piccola mia.” Clary sciolse l’abbraccio in cui era stretta per andare verso la figlia. “Ti sei divertita con papà?”
La bambina annuì. “Ma stai bene? Perché gridavi prima?”
Clary colse la preoccupazione nella voce della figlia e si sentì in colpa. Non voleva in alcun modo che le sue frustrazioni – per quanto potessero essere momentanee – ricadessero su sua figlia.
“Sto bene, D. La mamma stava solo… provando un nuovo gioco. Vuoi giocare anche tu?”
Diana sorrise all’istante, annuendo con vigore – i ricci biondi che si mossero con lei. Tutte le sue preoccupazioni sciamarono nell’istante esatto in cui Clary le diede un palloncino pieno di vernice e le disse di lanciarlo contro la tela. La piccola rise non appena il palloncino scoppiò e guardò sua madre che batté le mani, dicendole che era stata molto brava.
“Vuoi continuare?”
“Sì!”
“Allora andiamo a cambiarci. Questa vernice in particolare va via, lavandola, ma è meglio mettersi una tuta.”
Diana annuì e si lasciò condurre dalla madre nella propria cameretta, dove Clary la cambiò. Quando tornarono nello studio, trovarono Jace che si era cambiato a sua volta, e le guardava tenendo un palloncino in mano.
“Chi lo lancia più forte vince.” Disse, facendo sorridere entrambe.
Passarono il resto del pomeriggio a lanciare palloncini, ridendo insieme e lasciando che ogni pensiero o preoccupazione scivolasse via.
Le cose importanti della sua vita, Clary le aveva con sé proprio in quel momento, sorridenti e sporchi di vernice.


Dopo la doccia, Clary se ne stava in cucina. Indossava una tuta e i suoi capelli le ricadevano puliti sulle spalle. Stava leggendo da un ricettario come si prepara il pollo alla cacciatora ed era talmente concentrata che non si rese conto dell’arrivo di Jace alle sue spalle. Si accorse di lui solo quando le sue braccia le circondarono la vita da dietro. La sua pelle emanava ancora il calore della doccia e il suo profumo le invase piacevolmente le narici, facendola rabbrividire. Stavano insieme da dieci anni e lui riusciva ancora a farle lo stesso effetto che le faceva quando erano due ragazzini.
“Che prepari?” Le domandò, appoggiando il mento sulla sua spalla e strofinando il naso contro la pelle del suo collo.
Un altro brivido la percorse, e un sorriso comparve istintivo sul suo viso.
“Per ora niente. Sto solo leggendo.” Indicò il libro davanti a lei, appoggiato al piano cottura. “Dov’è nostra figlia?”
“Su un’astronave diretta verso Marte.”
Clary gli diede un buffetto su una delle braccia che ancora circondavano la sua vita. “Idiota.”
“Sta giocando di là. Dice che uno dei suoi peluche ha preso la febbre e lei deve curarlo. Vuole fare come zio Alec, ha detto.”
“Aw, ma quant’è carina?”
“Ha preso tutto da me, ovviamente.”
Clary voltò la testa di tre quarti e lo guardò con la coda dell’occhio. “Ripeto: idiota.”
Jace rise, stringendola a sé, assicurandosi che stesse completamente appoggiato al suo petto. “Ma mi ami.” Le lasciò un bacio sul collo. “Mi ami, mi ami, mi ami.”
Lei abbandonò il ricettario per voltarsi verso di lui. Gli circondò il collo con le braccia e si alzò sulle punte per baciarlo. “Tantissimo. Anche se sei un idiota.”
Jace rise, tra un bacio e l’altro. Le sue mani vagarono sulla schiena di Clary e scesero, lente, fino a che non arrivarono al suo sedere. Lo agguantò e la sollevò, spronandola a circondargli la vita con le gambe. Spostò entrambi dal piano cottura al tavolo, dove appoggiò Clary.
“No, Jace.”
“No, Jace, cosa, mio amore?”
“Non possiamo farlo qui, non con Diana di là.”
Jace le lasciò un bacio sulle labbra e poi una serie sul collo, delicati. “Non ho mai pensato ad una cosa del genere. Credi che sia un padre così degenerato?”
Clary gli sistemò le mani sulle spalle per farlo indietreggiare e riuscire a guardarlo negli occhi. Sciolse l’intreccio delle proprie gambe, ma Jace rimase tra di esse, appoggiandole le mani sulle cosce. Lo guardò con un sopracciglio alzato. “Non credo che tu sia un padre degenerato. Credo solo che il tuo tempismo non sia dei migliori.”
“Volevo solo coccolarti un po’, non posso?”
Clary sorrise. “Sì che puoi.”
Jace si sporse verso di lei per lasciarle un bacio casto. “Vedi?” Sussurrò, “Sei tu la pervertita. Hai subito pensato al sesso. Gesù, Clary, so di essere irresistibile, ma dovresti contenerti.” La guardò dritta nelle iridi verdi. Un lampo di malizia e divertimento, invece, attraversò le sue. Si morse il labbro inferiore per cercare, invano, di trattenere un sorriso ferino e compiaciuto.
Clary gli baciò via quell’espressione impertinente dalla faccia, circondandogli di nuovo il collo, prima di far salire le mani fino ai suoi biondi capelli. Ne afferrò delicatamente una ciocca per fargli tirare la testa indietro, in modo che lui la guardasse negli occhi.
“Sai, inizio a pensare che l’idiota sia io a volerti sposare.” Lasciò la presa sui suoi capelli e cominciò ad accarezzargli distrattamente la pelle della nuca con la punta dei polpastrelli – quasi stesse disegnando qualcosa di astratto.
“Non dire così, piccola, mi ferisci.” Jace si mise entrambe le mani sul cuore, con fare estremamente teatrale, mentre metteva su il broncio. “Vuoi spezzarmi il cuore?”
Sebbene stessero scherzando, l’espressione di Clary si addolcì. “Non potrei mai. Fare del male a te significherebbe fare del male alla parte migliore di me.”
E il suddetto cuore attualmente non spezzato di Jace, cominciò a battere più veloce del necessario. Era quello l’effetto che aveva su di lui. Da sempre.
L’aveva incontrata quando era ancora un ragazzino un po’ idiota, che non sapeva bene come gestire i rapporti con le ragazze. Il Jace di dieci anni prima era consapevole dell’effetto che aveva sulle ragazze e usava questa cosa a suo vantaggio, non sempre comportandosi bene.
Con Clary era stato diverso. Quando l’aveva conosciuta si era reso finalmente conto che razza di cretino era stato con le altre, quante volte, spesso, nonostante non fosse sua intenzione, aveva ferito quelle ragazze con i suoi comportamenti infantili. Un donnaiolo da strapazzo, un affascinante rubacuori.
Jace voleva migliorare. E doveva farlo da solo. Voleva prima essere in grado di meritarsi Clary, prima di chiederle ufficialmente di uscire insieme.
Sua madre gli aveva sempre insegnato che i cambiamenti vengono da noi stessi. Non dobbiamo cercare qualcun altro che faccia questo lavoro per noi. Clary non doveva essere un tramite, un mezzo, non era compito suo migliorare Jace, era compito di Jace migliorare sé stesso.
E l’aveva fatto. Aveva messo la testa a posto, aveva fatto in modo di rendersi più rispettoso e più empatico. Era sempre Jace, solo meno… stronzo.
E solo quando quel cambiamento era arrivato, allora le aveva chiesto ufficialmente di uscire. Voleva impegnarsi con lei. Essere la cosa più vicina all’uomo che lei si meritava, perché Clary era speciale e si meritava solo cose belle nella vita.
“Sei così dolce. Amo la tua dolcezza, lo sai?” Le sfiorò il naso con il proprio. “Amo così tante cose di te, Clary.” Le afferrò il viso con le mani, accarezzandole gli zigomi con i pollici, e la guardò.
La guardò con tutto l’amore di cui era capace, come se fosse la manifestazione fisica di tutti i suoi desideri. Jace era fermamente convinto che Dio l’avesse creato con lo scopo di amarla. Gli era entrata dentro in modo radicale, irreversibile. Il suo cuore le apparteneva. Da sempre e per sempre.  
“Ti amo e ti amerò fino alla morte, e se c’è una vita dopo la morte, ti amerò anche allora.” (1) Cassandra Clare, Città di Vetro.
Gli occhi di Clary, pieni d’amore, si velarono di lacrime di emozione. “Lo sai, sembra una di quelle promesse che vengono dette all’altare,” Sorrise, sfiorando il naso di Jace con il proprio. “Ti amo anche io,” Gli sussurrò, poi, prima di sporgersi per baciarlo. Si abbracciarono, quasi come se avessero voluto fondersi, come se avessero voluto diventare un tutt’uno – e, in un certo senso, già lo erano. Erano consapevoli di non poter vivere l’uno senza l’altra. E avevano la certezza, forse un po’ presuntuosa, che il loro amore avrebbe potuto affrontare qualsiasi cosa. Era qualcosa di puro, profondo, come se fosse nato da un nucleo pulsante di luce e fosse stato mandato sulla Terra da un’entità celeste per far capire agli esseri umani cos’è davvero l’amore.
“Che cosa state facendo?”
La voce di Diana li fece sussultare. Dopo aver interrotto il bacio, si guardarono un secondo. Jace era ancora sistemato tra le gambe di Clary, le sue braccia la circondavano completamente e la stringevano a sé, mentre Clary gli aveva circondato il collo. I loro corpi erano così vicini che tra di loro non sarebbe passato nemmeno uno spillo.
Si scambiarono un’occhiata, cercando di concordarsi silenziosamente su cosa dire alla loro figlioletta.
“Ehm, noi…” cominciò Jace, guardando la fidanzata.
“Noi ci stavamo abbracciando, tesoro.” Concluse Clary, optando per dirle la verità. Spinse con delicatezza Jace lontano da sé e scese dal tavolo, dirigendosi verso la figlia. “È una cosa che fanno i genitori quando si vogliono tanto bene. Tipo darsi i baci speciali.”
La bambina arricciò la bocca, come se stesse pensando. “Oh,” Decise che quella spiegazione aveva senso e alzò le spallucce. “D’accordo.” Sollevò le braccia, chiedendo silenziosamente alla madre di essere presa in braccio. La ragazza l’accontentò, ovviamente.
“Zia Izzy e zio Simon si vogliono tanto bene?” domandò ad un tratto la bambina.
“Sì, tesoro.”
“Credevo anche io. Gli ho visti darsi un bacio speciale, quando abbiamo salutato Mangus.”
Clary guardò Jace, che annuì come a volerla spronare a fare la domanda che lui aveva intuito volesse fare alla bambina. “Non ti piace che zia Izzy e zio Simon si bacino?”
“No, mi piace.” Si affrettò a dire Diana. “Voglio bene a zia Izzy e zio Simon.”
“Lo so, bambolina,” Disse Clary, lasciandole un bacio sulla guancia. “Anche loro te ne vogliono.”
Jace si avvicinò a loro. Baciò Clary sulla fronte e Diana su una guancia. Le abbracciò entrambe. Erano radicate entrambe così in profondità che a volte aveva l’impressione fossero diventate necessarie per farlo continuare a vivere. Erano la ragione per cui respirava, l’ossigeno necessario alla sua sopravvivenza. Erano tutto ciò che di buono la vita gli aveva regalato, insieme a tutto ciò che aveva ricevuto da quando Maryse l’aveva adottato.
Jace non avrebbe mai smesso di essere grato per tutta la sua famiglia.
“E, a proposito, domani dormirai da zia Izzy. Sei contenta, principessa?” Le domandò, lasciandole un altro bacetto sulla guancia. Diana ridacchiò e annuì, i riccioli biondi le ballarono intorno al visetto paffuto.
“Sì!” Batté le manine e sorrise, facendo sorridere anche i suoi genitori di rimando. Jace e Clary si scambiarono un’occhiata. Lessero l’uno negli occhi dell’altra tutto l’amore che li legava, tutta la felicità che provavano per essere una famiglia, per aver fatto insieme qualcosa di bello come la bambina che Clary teneva in braccio.
Era tutto perfetto e, a volte, ne erano terrorizzati – perché la perfezione non esiste e avevano sempre paura che qualcosa avrebbe rotto quella magia che sembrava caratterizzare la loro vita.
Accantonarono entrambi quel pensiero e Clary decise piuttosto di rompere il silenzio, chiedendo: “Chi ha fame?”
Diana alzò immediatamente una manina. “Io! Io!”
“Allora prepariamo la cena. Papà, mi aiuti?” Chiese Clary. Jace le sfiorò delicatamente le labbra con le proprie.
“Ma certo.”
Diana sorrise. Era felice che mamma e papà si volessero bene, e che ne volessero a lei.



*


“Ta-daaan!” Esclamò Simon, fiero di sé.
Isabelle alzò lo sguardo dai giocattoli che stava sistemando sul tappeto morbido per Diana e lo portò sul suo ragazzo.
Il suo ragazzo, era strano associare quelle parole a Simon, ma ogni volta che lo faceva, sentiva il suo cuore agitarsi.
Era fermamente convinta che quella sensazione fosse ciò che viene descritto come farfalle nello stomaco e le piaceva tantissimo.
Chiamare Simon in quel modo le sembrava giusto. E, cosa più importante, non le faceva paura. Stare con lui le veniva naturale. Sentiva il bisogno di averlo vicino, di sfiorarlo, di lasciarsi abbracciare. Stare con lui era come sentirsi in una casa che conosceva e che le era familiare, ma che le aveva fatto riscoprire un nuovo senso di appartenenza, di sicurezza.
Era tutto nuovo, ma allo stesso tempo, non lo era affatto.
Simon e Izzy non erano cambiati. Erano sempre loro, soltanto che adesso avevano aggiunto baci e coccole al loro rapporto.
“Che cosa hai fatto?” Sorrise, avvicinandosi a Simon.
“Pensavo fosse evidente, mia cara. È un fortino di coperte, o una tenda. Stasera, dopo cena, ci rifugeremo tutti e tre li dentro e leggeremo una bellissima favola!”
Isabelle guardò quella fortezza e sorrise. Simon aveva legato insieme le coperte e aveva fatto in modo che stessero su, come una tenda. Isabelle sospettava che avesse comprato una specie di scheletro per tende in qualche negozio per l’occasione – non sapeva se esistesse una cosa simile, ma non si sarebbe stupita se Simon si fosse adoperato tanto per far felice Diana. Gli veniva naturale occuparsi di lei, inventarsi le cose più fantasiose per vederla felice.
L’interno della tenda era illuminato da una abat-jour che rifletteva ombre a forma di fiore ed era tappezzato di cuscini su cui potersi sedere, evitando così il contatto con il pavimento.
“È bellissima, Simon.”
“Pensi le piacerà?”
“Credo che l’adorerà.” Isabelle si avvicinò a lui e appoggiò le mani su suoi fianchi, prima di alzarsi leggermente sulle punte e baciarlo. Senza i tacchi, Isabelle risultava molto più bassa di lui e, doveva ammettere, che la cosa le piaceva. 
Simon sorrise sulle sue labbra, prima di baciarla di nuovo. “Sei bellissima, lo sai?” Le sfiorò il naso con il proprio.
C’era così tanta sincerità nella sua voce, così tanto affetto, che Izzy non riuscì a non arrossire. Le faceva complimenti casuali, senza nessun tipo di secondo fine. Glieli faceva e basta, solo perché voleva farglieli. E ad Izzy piaceva, la faceva sentire speciale.
“Anche tu, soprattutto quando fai cose virili tipo costruire tende.” Scherzò e notò una scintilla di divertimento anche negli occhi nocciola di Simon. La ragazza avvertì le sue mani sui propri fianchi, le sentì risalire piano, in una carezza gentile e devota, e più le mani di Simon salivano, più il respiro di Isabelle accelerava. Fino a quando quella carezza non si trasformò in solletico. Fu un cambiamento così repentino che Isabelle sussultò per la sorpresa, prima di scoppiare a ridere.
“Basta, basta!” Esclamò, tra una risata e l’altra, indietreggiando fino al divano, dove si sedette, armandosi di cuscino.
“Quello non ti salverà dalla mia solletico-vendetta, signorina!”
Isabelle si sollevò sulle ginocchia. “Vediamo, Lewis. Fatti sotto!”
Simon si avvicinò di scatto, ma Isabelle fu più veloce e gli diede una cuscinata su una gamba. Lui incassò il colpo, ma afferrò il cuscino e lo lanciò proprio vicino alla tenda. Non ne rimanevano più perché tutti quelli che Isabelle aveva, adesso stavano fungendo da pavimento per il rifugio. Le rivolse un sorriso vittorioso, mentre si metteva in ginocchio sul divano a sua volta. Erano uno di fronte all’altra.
“Ammetti la sconfitta e dichiarami vincitore.”
“Mai!” Esclamò lei, gettandosi verso di lui, cercando le sue costole per fargli il solletico. Simon, colto di sorpresa, si gettò all’indietro cercando di schivare quell’attacco, ma finì sdraiato, intrappolato tra il divano ed Isabelle.
Avrebbe potuto liberarsi facilmente, sollevarla di peso e far alzare entrambi dal divano, ma la verità era che non voleva. Sarebbe stato un pazzo, se avesse interrotto quel contatto.
Il corpo di Izzy aderiva perfettamente al suo, come se fossero stati due pezzi di puzzle complementari.
“Se la metti così,” le sussurrò, sistemandole una ciocca di capelli dietro all’orecchio, “Mi arrendo.” Si sporse leggermente per lasciarle un bacio. “Sei la vincitrice.”
Isabelle sorrise e appoggiò la fronte a quella di Simon. Rimasero in silenzio, una sopra all’altro. Simon le accarezzò di nuovo i fianchi, disegnando dei cerchi concentrici, muovendo le dita con delicatezza, fino a che non superarono la stoffa della maglietta di Isabelle per andare a cercare la sua pelle.
Izzy cambiò posizione, si mise seduta su di lui, con le ginocchia ai lati dei fianchi di Simon e si chinò su di lui per baciarlo – i suoi capelli neri crearono una specie di tenda che coprì entrambi, mentre si baciavano.
“Scusa,” gli disse, quando si staccarono e i capelli finirono sul viso di Simon.
“Non ti preoccupare,” sussurrò, mettendosi seduto. Rimasero incastrati così, guardandosi negli occhi. Simon non riusciva ancora a credere alla sua fortuna. Gli sembrava tutto un sogno dal quale preso si sarebbe svegliato, ma poi si ricordava che Isabelle era reale, che le sue labbra sulle proprie erano una sensazione troppo forte e inebriante per non essere vera.
La baciò di nuovo, appoggiando una mano sulla sua schiena per tirarla a sé, mentre l’altra vagava tra i suoi capelli, neri e setosi. Isabelle aveva un profumo buonissimo, un odore fresco e dolce che gli rimaneva addosso ogni volta che facevano l’amore.
“Quanto tempo abbiamo?” Domandò la ragazza, allacciando le braccia al collo di Simon, quando si separarono.
“Credo un’oretta, più o meno?”
“Abbiamo tempo, allora.” Izzy sorrise con malizia e sciolse l’abbraccio con Simon per sfilarsi la maglietta. Rimase seduta su di lui, in leggins neri e reggiseno di pizzo. Era un colore tenue, tipo rosa antico, ma non che a Simon importasse. Vederla senza maglietta gli toglieva sempre il fiato. Isabelle era perfetta. La sua pelle era liscia e candida, morbida. Sembrava vellutata.
“Che c’è?” gli domandò, notando la sua espressione.
“Ti guardo.” Le rispose, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Le accarezzò un fianco, con dolcezza, tracciò il perimetro della runa che aveva tatuata sul costato, e salì lentamente fino a che non si spostò sulla sua schiena. Percorse con il polpastrello la linea della colonna vertebrale più di una volta, prima di slacciare il reggiseno. La guardò negli occhi, in attesa che fosse lei a decidere quando toglierselo. Non voleva metterla in imbarazzo, perciò ogni volta, incatenava sempre i suoi occhi a quelli di Izzy. La cosa che, apparentemente, Simon non aveva ancora capito era che Isabelle non si sentiva mai in imbarazzo con lui, ma adorava che la rispettasse tanto da avere queste piccole, silenziose, accortezze nei suoi confronti.
Izzy sfilò il reggiseno e lo lasciò cadere a terra. Sentì chiaramente Simon trattenere il respiro quando la vide mezza nuda in quel modo. E sorrise. Gli piaceva avere quell’effetto su di lui, la faceva sentire desiderata.
“Adesso tocca a te,” gli sussurrò, baciandolo, “Voglio guardare qualcosa anche io.”
Simon ridacchiò e si sfilò la maglietta, accontentandola. Le mani di Izzy cominciarono istintivamente a tracciare i contorni dei suoi muscoli. Cominciò con i pettorali e scese, facendo passare il dito tra la riga che divide gli addominali e poi fece aderire i loro corpi, allacciando di nuovo le braccia intorno al collo di Simon. La pelle del ragazzo era calda e liscia. Isabelle fu percorsa da un brivido quando i suoi seni nudi si appoggiarono ai pettorali di Simon. Erano definiti e saldi.
Simon era saldo. Le dava un senso di sicurezza che non aveva mai cercato in nessuno, ma che in lui aveva trovato. Era certa di poter contare su di lui, di potersi fidare di lui. Sapeva che, in qualsiasi occasione, Simon sarebbe stato lì per lei.
Come sapeva, con assoluta certezza, che lei ci sarebbe sempre stata per lui.
E fu in quel momento che realizzò una cosa. Fu colta da una consapevolezza improvvisa, che le fece battere il cuore all’impazzata. Si tirò leggermente indietro, senza sciogliere la presa su Simon, e lo guardò negli occhi.
Aveva sempre avuto la verità sotto al naso.
Erano dieci anni che ce l’aveva davanti, ma lei l’aveva capito solo ora. Stando tra le sue braccia, non sentendosi vulnerabile in alcun modo, nonostante la sua nudità. Non sentendosi mai in imbarazzo, quando era con lui, e provando desideri che con altri non aveva mai provato – come passare ogni singolo momento libero della sua giornata con lui.
Simon era il suo primo pensiero appena sveglia e l’ultimo prima di addormentarsi. E adorava quando si fermava a dormire da lei perché significava averlo con sé sia a fine giornata che all’inizio della giornata successiva. E quando il sole sorgeva e Simon era nello stesso letto con lei, Isabelle sapeva che la giornata sarebbe iniziata nel migliore dei modi.
E se si sentiva così, forse c’era un unico modo per riassumere tutti i suoi sentimenti.
“Io ti amo.” Lo disse quasi come se fosse una piacevole scoperta. “Ti amo, Simon.”
Simon per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. Quelle parole, agognate da anni, avevano appena lasciato la bocca di Isabelle, non una ma ben due volte, e lui non riusciva a crederci. Il suo cuore gli martellava talmente forte nel petto che aveva l’impressione di sentirlo premere contro le costole, quasi come se avesse voluto uscire e raggiungere il posto a cui apparteneva davvero: Isabelle.
Lei lo amava.
Lo amava.
Era la sensazione più bella del mondo.
“Ti amo anche io, Iz. Non sai quanto.” L’abbracciò, stringendola a sé il più possibile, prima di baciarla. Lei ricambiò il bacio e lo approfondì, socchiudendo la bocca e spronando Simon a fare lo stesso.
La assecondò, perché baciarla gli veniva naturale.
Come gli venne naturale farla sdraiare sotto di sé, sfilarle leggins e mutandine, e coprire tutto il suo corpo di baci, prima di fare l’amore.
La amava da morire. E le avrebbe sempre donato tutto sé stesso. Anima e cuore.






Clary e Jace arrivarono intorno alle 19.30.
Simon e Izzy si erano dati una sistemata, facendosi una doccia e rimettendosi i vestiti.
Quando suonarono alla porta, Isabelle stava ancora finendo di asciugarsi i capelli, così fu Simon ad andare ad aprire.
“Ciao, ragazzi!”
“Ciao!” Ricambiò Clary, lasciandogli un bacio sulla guancia.
“Ehi, Lewis. Perché sei qui?”
Simon guardò Jace con le sopracciglia aggrottate. “Cosa vuol dire perché sono qui? Sapevi che Diana dormiva da Izzy, stasera.”
“Hai detto bene. Da Izzy, tu cosa c’entri?”
Simon era ancora confuso e guardò Jace come se gli fosse appena spuntato un terzo occhio in mezzo alla fronte.
“Mi stai prendendo in giro, vero?”
“Sono contento tu ci sia arrivato,” Jace rise e gli riservò una pacca sulla spalla. “Izzy! Il tuo ragazzo è un po’ lento, lo sai?” gridò poi, rivolgendosi ad un punto non specifico della casa, consapevole che comunque Isabelle l’avrebbe sentito. E infatti fu così. La ragazza sbucò dal corridoio che dava al bagno con i capelli freschi di asciugatura. Era priva di trucco e indossava una tuta celeste. Fulminò suo fratello in men che non si dica.
“Il mio ragazzo non è lento, sei tu che sei molesto!” Isabelle liquidò la faccenda con un gesto della mano, dirigendosi verso Clary per abbracciarla.
“Ciao, Izzy.” Esordì la rossa.
“Avanti, Iz, saluta il tuo fratellone!” Esclamò Jace, allargando solo un braccio dal momento che con uno stava reggendo Diana.
“No, prima saluto mia nipote! Ciao, amore della zia!” Si sporse verso la bambina, prendendola in braccio. La piccola le gettò le braccia al collo e ridacchiò quando Isabelle le riempì le guance di baci.
“Ehi, smettila di monopolizzarla! Tocca a me!” Si intromise Simon, allungandosi per prendere in braccio la bambina. Isabelle glielo lasciò fare e Diana fu felice di essere al centro dell’attenzione dei suoi zii.  
“Lo zio Simon ti ha preparato una cosa.” Le disse, attirando la sua attenzione. Gli occhi verdi della bimba luccicarono di curiosità. “Vuoi andare a vedere?”
“Sì!” Esclamò euforica la piccola e così Simon la portò in salotto.
Isabelle si voltò verso Jace e Clary. “Potete andare a vedere anche voi, se volete. Simon ci ha lavorato parecchio oggi pomeriggio.”
Il tono della sua voce cambiò, ammorbidendosi. Se ne accorsero tutti, persino Isabelle, ma nessuno commentò. Invece, Clary seguì Simon in salotto, mentre Jace passò un braccio intorno alle spalle della sorella e le baciò una tempia.
“Sei più felice, quando sei con lui. Ti si legge in faccia.”
Isabelle gli passò un braccio dietro la schiena e sorrise, senza aggiungere niente. Sapeva che suo fratello aveva ragione. Lo sentiva ogni giorno: era più felice, con Simon.
“Sono contento per te, Izzy, te lo meriti.”
“Grazie,” Sorrise ancora, mentre entrambi si avviarono in salotto.



Clary e Jace erano andati via poco dopo aver ammirato il lavoro di Simon.
La tradizione di famiglia prevedeva che, a ruota, Diana passasse almeno una notte a settimana dai suoi zii. Era stata un’idea di Isabelle e di Alec per permettere a Clary e Jace di avere almeno una serata libera – che di solito passavano come se fossero ad un appuntamento. Quando Maryse e Luke erano venuti a conoscenza della cosa avevano preteso di essere inseriti nella rotazione – più che altro per avere una scusa in più per passare del tempo con la loro adorata nipotina.
Inutile dire che anche Maia aveva voluto partecipare a quella tradizione. Così, da due anni a questa parte, almeno una volta a settimana Diana passava la notte a casa di un suo parente a rotazione.
Prima da Maia, poi da Maryse (e di solito Max cercava di essere a casa, quando sapeva che sua nipote sarebbe stata dalla madre), quindi Alec, Isabelle e infine Luke. Da quando stavano insieme, Simon e Isabelle avevano deciso di unire il loro turno, in modo da passare la serata tutti e tre insieme. E quella sera, nello specifico, era la prima volta che testavano il nuovo metodo.
Simon era un po’ nervoso, se doveva essere onesto, ma sembrava che tutto procedesse per il verso giusto.
Aveva cucinato lui, perché Izzy per quanto si impegnasse era davvero negata, e aveva fatto in modo di preparare ciò che piaceva alla bambina.
Aveva preparato degli involtini di carne e delle verdure grigliate. Quest’ultime non erano state la sua prima scelta, ma quando aveva parlato di patatine fritte Clary gli aveva categoricamente vietato di riempire sua figlia di roba fritta. È troppo piccola! Aveva detto e Simon non se l’era sentita di ribattere – più che altro perché Clary in modalità mamma-orsa-iperprotettiva gli faceva un sacco paura.
Era abbastanza fiero di dire, comunque, che Diana aveva mangiato tutto volentieri. E adesso se ne stavano tutti e tre nella tenda, già pronti per la notte con tanto di denti lavati e pigiami indossati, intenti a leggere una favola. O meglio, Isabelle leggeva, Simon e Diana la stavano ad ascoltare. I due adulti seduti a gambe incrociate uno davanti all’altra, la bambina, invece, aveva voluto sdraiarsi sui cuscini stando in mezzo agli zii.
“…E fu così che il lupo cominciò a soffiare, e soffiare, e soffiare!” Intonava Izzy, facendo la voce grossa e imitando un soffio sempre più forte mano a mano che andava avanti a leggere. Diana ridacchiò e imitò un soffio a sua volta, non riuscendoci totalmente e finendo per sputacchiare involontariamente.
“E la casetta di paglia del primo porcellino volò via. Allora il nostro piccolo maialino, cominciò a correre veloce, fino a che non raggiunse la casa del suo fratellino. Di cosa era fatta, D, te lo ricordi?”
La bambina guardò in alto, verso la zia. “Sì! Di legno!”
Isabelle le lasciò una carezza sulla guancia, “Bravissima! Vuoi vedere la figura?”
Diana annuì e Isabelle girò il libro di favole nella sua direzione. Nella pagina che aveva appena letto era raffigurato il lupo che soffiava, il porcellino che correva e poi i due porcellini nascosti nella casetta di legno.
“Andiamo avanti?” Chiese Isabelle e, quando la bambina annuì, voltò pagina. Riprese a leggere: “Il lupo arrivò alla casetta di legno… ‹‹Uscite porcellini! O butterò giù la vostra casa!›› gridò il lupo, ma i maialini erano sicuri che non sarebbe riuscito ad abbattere la casa di legno! Così rimasero al suo interno. Ma il lupo perse la pazienza e cominciò a soffiare fortissimo! E soffiava, soffiava, soffiava, fino a quando la casetta di legno non venne spazzata via. Allora i due porcellini cominciarono a correre più veloci del vento per sfuggire al lupo e si rifugiarono nella casa del terzo porcellino.”
“Quella di mattoni.” Disse Diana, per far vedere che era attenta. Sia Simon che Isabelle sorrisero per quell’intervento.
“Brava!” Si complimentò Simon e Diana gli rivolse un sorriso soddisfatto.
“Arrivati alla casa di mattoni,” Isabelle voltò il libro verso la nipote per farle vedere la figura. I tre porcellini erano dentro alla terza casa, mentre il lupo era raffigurato davanti ad essa con un’espressione accigliata. “I due porcellini più piccoli cominciarono a raccontare l’accaduto al maggiore dei fratelli… ‹‹Vi avevo detto di impegnarvi, ma voi avete preferito tirare via per poter passare più tempo a giocare e ora il lupo ha abbattuto le vostre case! Ma non disperate, fratellini miei, non riuscirà a buttare giù la mia casa! Ma, attenzione, che questa esperienza vi sia di lezione!›› Disse il terzo porcellino e aveva ragione! Il lupo soffiava e soffiava e soffiava, ma la casa di mattoni non si mosse nemmeno di un centimetro! Era il rifugio più sicuro e presto anche il lupo si stancò di provare e se ne tornò nel bosco da dove era venuto.” Isabelle voltò pagina, arrivando alla fine della storia. “Dopo quell’esperienza, i tre porcellini continuarono a vivere nella casa di mattoni, e i primi due divennero più responsabili e si impegnarono ad ascoltare di più il loro fratello maggiore.” Izzy chiuse il libro e lo posizionò accanto a lei, su uno dei cuscini che rivestiva il pavimento. “Fine.”
“Mi piace la storia dei porcellini,” cominciò Diana, lasciandosi andare ad uno sbadiglio. “Mi ricordano tanto te, papà e zio Alec.” Un altro sbadiglio. “Vorrei che fossero anzi quattro, così anche zio Max potrebbe essere un porcellino.”
Isabelle rise e si sdraiò accanto alla bambina. Simon fece lo stesso, con un sorriso stampato sulle labbra.
“Possiamo sempre fare finta che ci sia un quarto porcellino, se ti fa piacere.”
La bambina annuì. “Ha costruito una casa anche lui?”
“Certo,” intervenne Simon, “Una casa di bastoncini di zucchero. Sembra una cosa che farebbe Max.”
Diana ridacchiò, immaginando tanti bastoncini di zucchero, mentre Isabelle annuiva. Simon aveva ragione: era una possibilità, quella, che si addiceva al suo fratellino.
“Allora dalla prossima volta, modifichiamo la storia e ci mettiamo anche un quarto porcellino.”
“Sì!” Esclamò la bambina, sorridendo, prima di sbadigliare di nuovo. Le sue palpebre si fecero pesanti per un attimo.
“È ora di andare a letto, paperella.” Sussurrò Izzy, lasciandole un bacio sulla fronte.
“Possiamo dormire qui? È comodo e mi piace stare nella tenda.”
Isabelle guardò Simon, per cercare consiglio, ma anche per capire se eventualmente quella possibilità gli andasse bene. Lui fece spallucce. “Ho portato delle coperte in più. Sono pesanti, non dovremmo avere freddo, stanotte.”
“D’accordo, allora, dormiamo nella tenda.”
Diana lanciò un gridolino euforico, e si voltò prima verso Isabelle e poi verso Simon, lasciando un bacetto impacciato sulla guancia di entrambi.
Le sorrisero e poi Simon uscì dalla tenda per andare a recuperare le coperte. Quando rientrò, Diana stava lottando con tutta sé stessa per combattere il sonno, dal momento che non voleva addormentarsi senza aver dato la buonanotte ad entrambi gli zii. Quando Simon la coprì per bene, la bambina salutò entrambi e si addormentò quasi immediatamente.
Isabelle le stava ancora accarezzando i riccioli biondi, quando parlò. “È dolcissima.”
“Ed è gentile e affettuosa. È una bambina speciale.” Concordò Simon, sdraiato in costa, guardando la nipote che dormiva rilassata.
“Sei bravo con lei.”
Simon alzò lo sguardo sulla sua ragazza. Erano entrambi messi nella stessa posizione: su un fianco, ai lati della bambina. “Anche tu.” Le sorrise e non riuscì a bloccare il pensiero che si era appena formato nella sua mente: avere un figlio tutto loro. Era strano perché stavano insieme da poco, ma si conoscevano da così tanto e Simon era fermamente certo che non avrebbe voluto passare con nessun altro il resto della sua vita, se non con Isabelle. Avrebbe voluto costruire un futuro con lei. E in questo futuro lui ci vedeva anche un bambino, o una bambina. Non aveva davvero una preferenza.
“Che c’è?” gli domandò, notando che si era assentato.
“Niente,” si affrettò a dire lui, spaventato dall’idea che un pensiero simile potesse far credere ad Isabelle che voleva affrettare le cose.
Non voleva affrettarle. Voleva fare tutto con calma, passo dopo passo.
“Simon.” Insistette lei, “Ti conosco. Avanti, parla.”
Il ragazzo si agitò sul posto, sdraiandosi a pancia in su. “Pensavo al futuro, al fatto che un giorno… sai… vorrei un figlio anche io.”
Isabelle rimase per qualche istante in silenzio e Simon si chiese se con quella semplice frase non avesse rovinato qualcosa nel loro rapporto. Ma poi Izzy parlò e tutti i suoi dubbi svanirono con la stessa velocità con cui erano arrivati. “Anche io. Penso che l’unica volta in cui io sia stata invidiosa di Clary e Jace sia stata quando hanno messo al mondo Diana. Li guardavo e invidiavo la loro assoluta certezza di aver fatto un figlio con la persona di cui si fidavano di più al mondo, la persona che erano certi avrebbero amato per il resto della loro vita.” Izzy face una pausa e allora Simon si rimise in costa per guardarla. “Con gli altri non avevo questa certezza e quindi non ho mai nemmeno sfiorato l’idea di pensare a costruirmi una famiglia, ma con te…” Izzy deglutì, un po’ nervosa. “Con te è diverso, Simon. Io mi fido ciecamente di te e sono certa che ti amerò per sempre.”
Simon per poco non si mise a piangere. Sentiva gli occhi lucidi e il cuore che correva impazzito, tanto da rimbombargli nelle orecchie e in gola. “È la cosa più bella che potessi dirmi, lo sai?”
Isabelle sorrise e si sporse per dargli un bacio, facendo attenzione a non schiacciare Diana.
“Ti amo anche io,” Le disse, perché ora che poteva farlo apertamente non avrebbe sprecato nessuna occasione per ricordarglielo. “E potremmo cominciare a piccoli passi. Potrei liberarti una parte di armadio nel mio appartamento e tu potresti lasciare dei vestiti a casa mia. Portarti dei trucchi o tutti quei prodotti per la pelle e i capelli che ti piacciono tanto, che per me invece sono tutti uguali.”
Isabelle lo guardò male, ma un sorriso tirò le sue labbra. “Un giorno ti farò una lezione dettagliata in modo che tu possa smettere di dire simili eresie. Ma mi piace l’idea dello spazio nell’armadio. Lo farò anche io, così potrai portare anche tu qualcosa qui.”
“Perfetto.”
“Mi piacciono i piccoli passi.” Confessò Izzy, il sorriso che non voleva abbandonare il suo viso.
“Anche a me, tanto.”
Si scambiarono un altro bacio, sempre facendo attenzione a Diana, e poi con il cuore che traboccava di una felicità mai provata prima, si misero a dormire.



*



Magnus ricevette una telefonata di giovedì sera.
Si trovava nella sua stanza d’albergo ed era parecchio stanco. Fare il giudice comportava anche allenarsi con i ragazzi che avrebbe successivamente giudicato in diretta alla fine della settimana, seguendoli nelle coreografie e migliorando ciò che c’era da migliorare.
In più doveva lavorare ad una coreografia tutta sua per esibirsi come singolo. Lui non sarebbe stato giudicato, ma in quanto ospite speciale doveva inventarsi qualcosa per fare spettacolo, per intrattenere il pubblico.
Magnus era davvero stanco. Ed era a Los Angeles da soli quattro giorni. Non riusciva davvero a pensare quale sarebbe stato il suo livello di stanchezza raggiunte le tre settimane.
Non pensarci, goditi solo il tempo qui.
Giusto. Lo spirito doveva essere quello. Godersi il tempo lì e guardare solo il lato positivo di quell’esperienza. Non creava coreografia da anni, se si escludono quelle per le sue piccole ballerine della scuola. Ma sebbene adorasse quell’aspetto del suo lavoro, sapeva che c’era un’abissale differenza tra creare coreografie per delle bambine e crearle per dei quasi-professionisti. Ed era elettrizzato dall’idea di poterlo rifare, di riscoprire quella parte di sé che aveva assopito da tanto tempo. Magnus il coreografo dormiva da un pezzo ed era felice di essere stato risvegliato.
Il suo flusso di pensieri, comunque, venne interrotto dallo squillo del suo cellulare e lui si precipitò sul letto dove l’aveva lasciato prima di farsi la doccia perché era convinto che fosse Alexander. Lo chiamava sempre, a fine giornata, per sapere come stava e come procedevano le cose. Passavano quasi un’ora al telefono tutte le sere e nonostante questo, a Magnus non bastava mai.
Quel giovedì sera, tuttavia, dall’altro capo del telefono non trovò Alec, bensì Ragnor.
“Ehi, uomo che ha abbandonato il suo migliore amico all’aeroporto, come stai?” Esordì Magnus, sedendosi sul bordo del letto.
Dal cellulare arrivò un sonoro sbuffo da parte di Ragnor. “Mi perdonerai mai per non avercela fatta? Stavo per uscire di casa e mi hanno bloccato in una video conferenza d’emergenza. Era il mio palazzo, Magnus, non potevo semplicemente ignorare la cosa. E ti ho già chiesto scusa.”
Magnus tirò le labbra all’interno della bocca per trattenere un sorriso. “Lo so. In realtà ti ho anche già perdonato, ma mi piace rinfacciartelo.”
“Ti odio.”
“Lo so, ti sei persino dimenticato di me.” Scherzò l’altro.
“Dio, dammi la forza…” mormorò Ragnor dall’altro capo del telefono.
“Smettila di essere melodrammatico. Allora, cosa volevi dirmi?”
“Niente di particolare, volevo solo sapere come stavi.”
“Bene, caro, e tu? Sei pronto per la partenza?”
Ragnor domenica sera sarebbe ripartito per l’Irlanda. Avrebbe passato lì le due settimane successive e poi, concluso definitivamente il palazzo, sarebbe tornato definitivamente in America.
“Sì, ho quasi finito di sistemare le ultime cose. Non vedo l’ora di tornare a casa, sai? L’Irlanda mi piace, il mio lavoro pure, ma ho sentito la mancanza della mia vita qui.”
“E noi abbiamo sentito la tua. Due settimane passano in fretta, sarai a casa prima che tu riesca davvero ad accorgertene.”
Ragnor fece una piccola pausa e quando parlò, Magnus riuscì chiaramente a percepire un sorriso nella sua voce. “Lo stai dicendo a me, o lo stai ricordando a te?”
“Possibile che mi credi così egocentrico? È ovvio che stavo parlando di te. Principalmente. Poi, forse, in piccola parte, su un piano del tutto secondario, anche di me.”
Ragnor rise. “Sei sempre il solito.” E Magnus riuscì quasi ad immaginarselo mentre scuoteva la testa. “Devo andare, ci sentiamo presto, Magnus. Buonanotte.”
“A presto. Salutami gli altri.”
“Sicuro.”
“Buonanotte, Ragnor.”
Conclusero la chiamata e Magnus si sdraiò sul suo letto a pancia in su, fissando il soffitto. Il silenzio della sua camera lo avvolse lentamente, quasi cullandolo. La stanchezza stava già prendendo il sopravvento, le sue membra rilassate stavano per cedere al sonno, ma un pensiero lo tenne sveglio, aiutandolo a non gettarsi tra le braccia di Morfeo. Non aveva ancora sentito né Alec, né Erin. E quello era il momento più importante della giornata: chiamare casa e sentire come stessero i due pezzi di cuore che aveva lasciato a NY.
Si rimise a sedere e cercò sul cellulare l’app di Skype. Per prima cosa cercò il contatto di sua madre, convinto che di lì a poco Erin sarebbe andata a letto. Non voleva rischiare di non salutarla.
Dopo qualche squillo a vuoto, Magnus vide comparire sul suo schermo l’orecchio di sua madre. “Ciao tesoro!” Esordì la donna e Magnus non riuscì a trattenere una risata.
“Ciao, ibu. È una videochiamata, non devi tenere il cellulare all’orecchio.”
“Oh, questi dannati cosi! Non li sopporto! E non li capirò mai!” Sbottò Madelaine, prima di sistemare il telefono davanti al suo viso. “Eccomi!”
“Eccoti,” ripeté Magnus. “Erin?”
La donna uscì dalla cucina di casa propria e si incamminò verso il salotto, dove Erin era seduta sul divano, rigorosamente avvolta nella sua coperta a coda di sirena, e stava guardando un cartone animato. “Tesoro, è papà.” Le comunicò Madelaine e il viso di Erin si illuminò all’istante. Sgusciò agilmente fuori dalla coperta e saltò giù dal divano per correre verso la nonna.
Madelaine la prese in braccio e sistemò entrambe dentro lo schermo del cellulare, in modo che Magnus le vedesse.
“Papà! Papà!” Gridò Erin, agitando una manina davanti allo schermo per salutare il padre.
Magnus sorrise d’istinto. “Ciao, bintang, come stai?”
“Bene. Oggi all’asilo abbiamo imparato a disegnare un rombo. È molto difficile perché deve essere dritto e io l’ho fatto storto.”
“Sono sicuro che con la pratica lo migliorerai. E sono anche certo che, anche se è storto, è bellissimo lo stesso.”
“Te ne faccio uno, quando torni.”
“Non vedo l’ora di vederlo, tesoro mio.”
Era strano non poterla abbracciare. Non erano mai stati così lontani e Magnus aveva davvero l’impressione che gli mancasse un arto, o una parte importante del suo corpo. Era una mancanza quasi fisica, quella che percepiva, troppo abituato ad avere sua figlia sempre con sé.
“Magnus?” Domandò sua madre, notando la sua espressione, “Stai bene?”
“Sì, sì. Tutto bene.” Liquidò la faccenda con un gesto della mano, non volendo far preoccupare Madelaine senza motivo. “Avete già mangiato?”
“Sì, stavo finendo di lavare i piatti, prima di portare questa signorinella a letto.”
“Possiamo leggere una favola, papà?”
“Ma certo!”
“E puoi rimanere al telefono, mentre leggiamo la favola?”
Magnus in quel momento sentì un profondo desiderio di abbracciarla. “Sì, bintang, posso.”
Erin emise un gridolino felice, mentre abbracciava forte la nonna. Madelaine sorrise, intenerita da quella reazione.
“Allora ti richiamo tra dieci minuti. Finisco di lavare i piatti e le metto il pigiama.”
“Vi aspetterò con immensa gioie, mie donzelle!”
Madelaine chiuse la chiamata e Magnus rimase di nuovo avvolto nel silenzio della sua camera. Si era già preparato per la notte: dopo la doccia, si era lavato i denti e aveva indossato il suo pigiama di seta, così si sistemò sotto le coperte in attesa della chiamata.
Nell’attesa, mandò un messaggio ad Alexander, scusandosi e sperando che lui capisse.

> To: Alexander, 21.30
Ciao tesoro, credo che dovremmo rimandare la nostra telefonata. Erin mi ha chiesto se posso stare al telefono con lei, mentre mia madre le legge la favola della buonanotte. Mi dispiace.

La risposta di Alec arrivò immediatamente.

> From: Alexander, 21.30
Non preoccuparti. Stai con lei. Ci sentiamo domani. Salutami entrambe e manda loro un grosso bacio da parte mia.

> To: Alexander, 21.30
Sei un tesoro, grazie. Riferirò saluti e baci. Per me, invece? Non ci sono baci, per me?

> From: Alexander, 21.31
Ci sono. Tantissimi, in realtà. Ma preferisco darteli, piuttosto che mandarteli.

Magnus sorrise allo schermo del cellulare, il cuore che saltava un battito, colmo di un’euforia elettrica.

> To: Alexander, 21.31
Non vedo l’ora di riceverli tutti. Buonanotte, tesoro <3

> From: Alexander, 21.31
Buonanotte, Magnus.
<3


Quando, qualche minuto dopo, sua madre lo chiamò di nuovo, Magnus aveva ancora il sorriso sulle labbra.





*



Fiori.
Jace stava impazzendo per dei dannatissimi fiori.
Adesso capiva davvero la frustrazione di Clary. Nessun fioraio con il quale aveva parlato era stato in grado di trovargli i gigli blu – e la cosa peggiore era che tutti lo trattavano come se fosse un pazzo invasato che stava pretendendo la luna.
“Basta, ci rinuncio! Potrei fare come la Regina di Cuori, comprare un’infinità di gigli bianchi e colorarli di azzurro.”
Si accasciò sul tavolo del bar in cui lui e Izzy erano entrati per fare una pausa. Era un venerdì mattina. Lui aveva la prima lezione nel pomeriggio, mentre Isabelle aveva cambiato il proprio turno con Aline per poter aiutare il fratello.  
“Le ho promesso i gigli blu. È la prima promessa che non mantengo. E se non mantengo una promessa così semplice, come farò a mantenere quelle più importanti? Che razza di marito sarò?”
Isabelle allungò la mano sul tavolo, posandola su quella del fratello. “Adesso stai esagerando, Jace. Sarai un ottimo marito, perché negli ultimi dieci anni sei stato un ottimo fidanzato. Dei fiori non cambieranno ciò che sei.”
“Lo stress da matrimonio ha contagiato anche me.”
Isabelle sorrise. “Credo che sia normale. Entrambi volete che il vostro giorno sia perfetto.”
Jace annuì. “Grazie, Iz.”
“Prego.” La ragazza gli sorrise e bevve un sorso del suo caffè. I due rimasero in silenzio, fino a quando il cellulare di Jace non cominciò a squillare. Alec.
“Ehi, Alec.”
“Indovinello. Chi è disperato per il proprio matrimonio?”
“Che fai, infierisci? Da quando sei così sadico?”
Alec dall’altro capo del telefono rise. “Dai, Jace, assecondami.”
Jace sbuffò, “Io.”
“E chi è che ha trovato la soluzione al tuo dilemma dei fiori?”
“Di certo non io.”
“Ma io sì,” Alec sorrise trionfante e Jace riuscì a percepire quel sorriso attraverso il telefono.
“Davvero?”
“Sì. Ho parlato con Lydia e lei mi ha detto che John ha una cugina che coltiva fiori e crea delle specie ricercate che i fiorai non vendono. Hai un appuntamento con lei domani mattina. Ti mando l’indirizzo.”
“Oh, Alec, ti adoro. Tantissimo. Ti devo un favore.”
“Mi aspetto un enorme regalo di Natale.”
“Materialista.” Lo accusò bonariamente, prima di salutarlo e riattaccare la chiamata.  Jace ebbe la sensazione che gli avessero tolto un peso di dieci tonnellate dalle spalle. Non vedeva l’ora di informare Clary della novità, ma sapeva che era ancora impegnata con Mezzo Riccone per concludere la faccenda del quadro. Decise di aspettare e di informarla anzi di persona per vedere che faccia avrebbe fatto a quella notizia.
“Allora?” Attirò la sua attenzione Isabelle. “Non mi aggiorni?”
“Alec ha trovato i fiori. Una cugina di John sa creare delle specie particolari e domani abbiamo un appuntamento.” Mentre finì la frase, il suo cellulare vibrò: Alec gli aveva scritto l’indirizzo e l’ora dell’incontro.
“Ma è fantastico!” Esclamò Isabelle con più entusiasmo del necessario, tanto che altri clienti del bar si voltarono verso di loro.
A nessuno dei due importò. Erano felici. Avevano raggiunto un piccolo traguardo e Jace, quella mattina, ebbe l’ulteriore conferma di quanto funzionasse bene la squadra Lightwood.
Adorava i suoi fratelli.
Con tutto il suo cuore.




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Ciao a tutti! Sono tornata, un po’ prima del previsto – e meno male, aggiungerei.
Comunque, questo è il capitolo dei ti amo e me ne sono accorta solo rileggendolo – spero che non ci siano troppi errori, che magari mi sono sfuggiti.
Partiamo dal principio: la parte iniziale del capitolo con Max come protagonista nasce da un’idea di LilyScorpius che ha proposto di porre l’attenzione sulla vita al college di Max e il possibile rapporto con i suoi amici. Ho intenzione di riprendere questa idea, di scrivere altre scene lungo la storia, perché mi è piaciuto tanto immaginarmi Max sotto quel punto di vista e spero che sia piaciuto anche a te!
Per quanto riguarda le scene Clace e Sizzy l’idea, invece, è stata di Feroniche, che ha proposto qualcosa che riguardasse il matrimonio dei Clace – come un po’ di isterismo e non so perché ma ce la vedevo Clary che lancia palloncini di vernice per la frustrazione. Spero che le scene descritte ti siano piaciute. Ho cercato di inserirle nel contesto della storia. Scriverò qualcosa anche dal punto di vista di Diana, come avevi suggerito, ma un po’ più in là, probabilmente. Come idea mi piace e pensavo di inserirla in un altro contesto, se per te va bene!
Non vorrei aver affrettato troppo le cose per quanto riguarda i Sizzy, ma fremevo dalla voglia di scrivere una scena dove si dichiarassero il loro amore e pensassero al loro futuro. Fatemi sapere se vi è piaciuto, o se ho affrettato troppo! Siate sinceri!
Per quanto riguarda Magnus, ha una piccola parentesi, ma nel prossimo capitolo avrà più spazio, promesso. Così come Alec.
La parte che ho scritto riguardante Ragnor è nata soprattutto perché nel capitolo precedente mi sono dimenticata di inserirlo tra le varie persone che vanno a salutare Magnus. Shame on me. Perdonatemi.
Detto questo, vi saluto e ringrazio chiunque legga, segua e abbia messo tra le preferite/ricordate la storia. Lo apprezzo davvero tantissimo e mi fa un piacere immenso!
Vale sempre la stessa cosa del capitolo precedente: se avete in mente qualcosa di particolare per i personaggi, ditemelo! Vi darò i crediti per le idee.
Un abbraccio, alla prossima! <3 

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