La dama nera

di Dark Sider
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Note: la storia si basa sulla leggenda della dama nera di Parco Sempione.

 

 

La dama nera

 

 

 

1.

 

Era l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze pasquali. La campanella che sanciva la fine delle lezioni era suonata da qualche minuto, e studenti chiassosi ed urlanti si stavano riversando nel cortile, pregustando una settimana di ozio e festeggiamenti; io, che a quel tempo ero un giovane insegnante di letteratura senza pretese, mi godevo l’atmosfera gioiosa passeggiando per i corridoi deserti, diretto alla biblioteca.

Se per i miei studenti tempo libero significava uscire fino ad ora tarda e perdersi in inutili passatempi, per me aveva tutt’altro suono: quello del frusciare lieve delle pagine di un libro, gustato senza fretta sulla mia poltrona, sorseggiando un buon bicchiere di Burbon. A nemmeno quarant’anni, sarei decisamente dovuto uscire di più e cercarmi, magari, una donna da sposare e con cui mettere su famiglia: era ciò che mi ripeteva continuamente Wilson, che sulla soglia dei sessant’anni pareva convinto di possedere la saggezza di un santone indiano; con i suoi tre divorzi alle spalle, tuttavia, mi dava l’impressione che il mio ritiro ascetico fosse decisamente migliore di qualsiasi interazione sociale non necessaria. E poi lui era un matematico, un razionale, io uno che viveva di castelli in aria: non poteva di certo pretendere che avessimo la stessa concezione della vita.

Non dubitavo che le calde cosce di una bella donna avrebbero potuto darmi più appagamento di Dickens o Joyce, così come avere sempre le camice stirate ed inamidate ed un pasto decente, anziché i surgelati di Wal-Mart, ma mi sentivo decisamente più al sicuro tra le pagine di un libro che in qualunque altro posto.

Non deve stupire, dunque, che mi stessi dirigendo proprio in biblioteca. A dire il vero, per ironia della sorte, non ero mai entrato in quella della scuola, ma la mia bibliotecaria di fiducia, la vecchia e cara miss Harlin, aveva deciso di prendersi due settimane di vacanza, non lasciandomi altra scelta se non noleggiare un libro nel luogo in cui insegnavo.

«Jonathan, che sorpresa vederti qui!» cinguettò Charlotte, non appena varcai la soglia della mia meta. Charlotte era la bibliotecaria, aveva trentadue anni - appena tre in meno di me -, era carina e le interessavo, a quanto diceva Wilson: insomma, aveva tutti i requisiti necessari per proporle di uscire a cena. Non che avessi la benché minima intenzione di farlo, comunque.

«Ciao, Charlie: sono venuto a noleggiare un libro» risposi, laconico. Lei assunse un colorito più rosso del maglione che indossava ed abbassò lo sguardo. «Cercavi qualcosa in particolare?» mugugnò, iniziando a picchiettare animatamente sui tasti del vecchio computer, più per disimpegno che per altro.

«A dire il vero, no: credo che darò un’occhiata in giro e mi lascerò ispirare» risposi, con un sorriso serafico: dubitavo che la biblioteca della scuola fosse sufficientemente fornita da possedere qualche volume che non avessi ancora letto, tuttavia non mi dispiaceva l’idea di rispolverare qualche classico.

Charlotte parve delusa dalla mia dichiarazione d’indipendenza, ma non ci feci particolarmente caso. «È bizzarro vederti qui» mi urlò dietro mentre iniziavo ad avviarmi verso gli scaffali, in barba ai cartelli appesi lungo i muri, che intimavano di parlare a bassa voce.

«Sembra che la mia presenza qui fosse destino» ridacchiai, senza nemmeno voltarmi. Il silenzio da parte di lei mi fece intendere che aveva travisato le mie parole.

Come pronosticato, non trovai nulla d’interessante né che non avessi già letto. Stavo per arrendermi a La fiera della vanità di Tacheray, quando uno strano volume attirò la mia attenzione. Era proprio accanto a quello che stavo per prendere io e non aveva alcun titolo o autore sul dorso; pareva molto vecchio, a giudicare dallo stato della copertina in pelle rossa.

Tentennai per un istante, poi abbandonai il libro che avevo parzialmente estratto dallo scaffale ed agguantai il tomo misterioso. Appena lo ebbi tra le mani, una sensazione di familiarità mi pervase, in contemporanea ad un angoscioso brivido, ma mi dissi che doveva trattarsi solamente di autosuggestione.

Ora che potevo osservarlo meglio, mi resi conto che il tomo era molto più antico di quello che m’era parso ad una prima occhiata; odore di polvere e muffa mi invase le narici mentre mi rigiravo lo spesso libro tra le mani. La copertina era macchiata e graffiata in vari punti e le pagine ingiallite. Sul fronte, sbiaditi e consunti, ma ancora leggibili, vi erano autore e titolo del libro: La dama nera di Josephine Collins.

Aggrottai le sopracciglia. Non avevo mai sentito parlare di quel libro, tantomeno dell’autrice. Cominciai a sfogliarlo, credendo si trattasse di uno scherzo e aspettandomi di non trovarvi nulla scritto all’interno. Le pagine incartapecorite scricchiolarono sotto le mie dita mentre le giravo, rivelandomi un testo sorprendentemente scritto a mano, in una calligrafia fitta ma ordinata. Mi pervase l’improvvisa curiosità di leggere quel libro, così violenta e vorace che feci fatica a richiuderlo e a non lasciarmi vincere dalla tentazione di rimanermene lì in piedi e divorarne il contenuto.

Avevo dimenticato persino dove mi trovassi e, in un primo momento, mi guardai intorno parecchio spaesato. L’urgenza di conoscere l’argomento di quel bizzarro tomo mi aleggiava ancora dentro, insistente. Mi diressi verso la scrivania di Charlotte, trasognato.

«Hai trovato quello che cercavi?» mi domandò, studiandomi di sottecchi: non dovevo avere il migliore degli aspetti.

«In realtà, non proprio» risposi, strascicando le parole come se avessi la bocca impastata. Charlotte mi restituì uno sguardo interrogativo.

«Ho trovato questo libro e mi sembra piuttosto bizzarro: tu lo conosci?» chiesi, dopo alcuni istanti di pausa, porgendole il tomo con una certa riluttanza. Lei lo studiò per un secondo, poi lo afferrò con le esili dita: per un lungo istante, continuai a trattenerlo, poi lasciai la presa quasi disgustato.

Charlie si rigirò il libro tra le mani, lo sfogliò brevemente, lasciando di tanto in tanto scorrere lo sguardo sulle parole, poi lo richiuse e me lo restituì con una stretta di spalle. «Mai visto. Probabilmente è più vecchio del preside Wilkins» ridacchiò. «Comunque, ha tutta l’aria di essere una storia d’amore» aggiunse, iniziando a digitare il nome del libro sulla tastiera, per registrarne il noleggio.

Mi diede fastidio la noncuranza con cui liquidò la faccenda.

Attesi impazientemente che Charlotte terminasse la procedura, stringendo convulsamente il tomo tra le mani, ma d’un tratto lei sollevò uno sguardo corrucciato su di me e disse: «Che strano, questo libro non compare nel database». Un improvviso senso di panico mi avvolse: temetti di non poter portare via il tomo, dal momento che era impossibile registrarlo, e la prospettiva mi lasciò attonito.

Iniziai a pensare ad una serie di argomentazioni che potessero convincere l’integerrima Charlotte Stevens a cedermi comunque il libro, quando lei mi precedette. «Facciamo così: è tardi, io voglio andare a casa e tu anche, immagino. Prendi pure il libro: mi fido di te. Quando torneremo dalle vacanze, risolverò questo inconveniente. Però devi restituirmelo non appena riapre la scuola, intesi?»

Annuii con vigore quasi esagerato, poi le stampai un bacio sulla guancia, senza pensarci. «Grazie, Charlie» cinguettai, mentre lei sbarrava gli occhi e diventava ancora più rossa di quanto non fosse già stata fino a quel momento. Senza darle il tempo di aggiungere altro, mi precipitai fuori dalla stanza e, altrettanto celermente, raggiunsi la mia macchina.

 Guidai febbrilmente fino a casa, senza badare al rispetto delle norme stradali. Il libro posato sul sedile al mio fianco sembrava attrarmi a sé con una forza innaturale: dovevo sapere i suoi segreti; dovevo scoprire cosa la mano sconosciuta di Josephine Collins aveva vergato su quelle pagine ingiallite dal tempo. Non m’importava di null’altro e a nient’altro riuscivo a pensare. Quasi non vedevo la strada: ancora oggi mi sorprendo di come sia riuscito a non avere un qualche tipo d’incidente.

Giunto a destinazione, agguantai il libro come se ne andasse della mia stessa vita e mi precipitai in casa con urgenza. Ignorai Rufus, il mio gatto, che era venuto a salutarmi con delle fusa affettuose e mi lasciai cadere pesantemente su una sedia vicino all’ingresso: non avevo avuto nemmeno la pazienza di raggiungere il salone.

Sospirai di sollievo quando aprii la copertina del libro, lasciando che l’odore di antico mi inebriasse. Il mio sguardo si posò su di una pagina completamente vuota, che tuttavia lasciava intravedere qualcosa scritto sul retro. Con il battito del cuore accelerato senza un apparente motivo, voltai lentamente la pagina, come se temessi ciò che avrei potuto incontrare. Trovai poche parole, vergate anch’esse a mano, ma con una calligrafia differente da quella del resto del libro; l’inchiostro era più scuro e nitido, segno che quell’inciso fosse più recente del resto del tomo.

In un primo momento, feci fatica e decifrare ciò che era scritto su quella pagina, come se le parole fossero vergate in un alfabeto a me ignoto. Dovetti concentrarmi molto a fondo, prima di rendermi conto di essere in grado di leggere quelle frasi.

All’iniziò mi stupii nel trovarmi dinanzi ad una lettera; subito dopo, divenni terrorizzato nel constatare che quelle parole erano rivolte a me.

Mio caro Jonty,” diceva la dedica, “non credo che tu possa ricordarti chi io sia: eravamo nella stessa classe alle elementari ed è passato davvero molto tempo. Inoltre, non ti sei mai curato di me, mentre io non ho fatto altro che pensarti ed amarti per tutto questo tempo. Ti ho aspettato fino ad ora, sperando che tu venissi da me, sperando che ti accorgessi di ciò che provo per te, ma non è accaduto. È per questo che ho deciso di dirti addio: tra una settimana esatta, porrò fine alla mia vita e al tormento che mi accompagna da tanti anni. Se deciderai di cercarmi e mi troverai, allora saprò che in realtà anche tu mi hai sempre amata e potremo stare insieme per sempre. In alternativa, sei libero di ignorare le mie parole ed allora la morte sarà per me compagna gradita. In un certo qual modo, posso dire che il mio destino sia nelle tue mani e non v’è luogo migliore in cui potrei riporlo. Con tutto il mio amore, Violetta”.

Mi accorsi di aver smesso di respirare. Ripresi aria con una boccata disperata: sentivo la testa girare e le mani mi tremavano talmente tanto che quelle parole funeste danzavano follemente dinanzi ai miei occhi, dandomi la nausea. Jonty era il soprannome con cui mi appellavano le miei insegnanti delle elementari: nessun altro mi aveva mai chiamato in quel modo. Forse quella lettera era solo uno scherzo di cattivo gusto, ma sicuramente architettato da qualcuno che davvero aveva frequentato la mia stessa classe.

Cercai di riportare la memoria a quei tempi, per tentare di ricordare i volti ed i nomi dei miei compagni di classe, con il risultato di non rimembrare nulla. E se non fosse stato uno scherzo? Se davvero qualcuno aveva fatto giungere quel libro nelle mie mani, per rivelare i suoi sentimenti nei miei confronti ed i suoi foschi propositi, non poteva che trattarsi di una persona profondamente disturbata. Ma potevo forse ignorala? Se le parole vergate in quella lettera corrispondevano alla verità, potevo vivere con il peso di una morte sulla coscienza?

Certo che no.

Con un sospiro tremulo mi passai una mano incerta sulla fronte, trovandola madida di sudore, dopodiché iniziai a leggere il libro, in parte perché supponevo che la trama fosse in qualche modo legata alla persona che mi aveva destinato il suo proposito di suicidio, in parte perché quell’urgenza di sapere, che mi aveva attanagliato in biblioteca, ancora aleggiava prepotente, più forte del mio terrore e della mia costernazione.

Alzai gli occhi arrossati dal libro che era calata la sera; chiusi il tomo e solo in quel momento mi accorsi di quanto fossi esausto: avevo letto senza fare mai pause, nemmeno per mangiare o per andare in bagno, fatto che la mia vescica mi stava facendo fastidiosamente notare. Il racconto mi aveva attratto in un vortice nel quale non mi ero nemmeno reso conto di star cadendo, e non mi era stato possibile smettere finché non era terminato. Si trattava davvero di una storia d’amore, come pronosticato da Charlotte: la protagonista era una donna di cui non si rivelava mai il nome, ma a cui ci si rivolgeva sempre con l’appellativo di dama nera, che trascorreva la sua misera vita anelando l’amore di un uomo che non aveva occhi per lei; alla fine, resa folle dal suo stesso sentimento non corrisposto, la donna si toglieva la vita, non senza aver prima scritto una lettera d’addio all’amato, il cui contenuto corrispondeva a grandi linee a quello vergato da Violetta sulla prima pagina.

La storia sarebbe potuta essere anche piacevolmente interessante, senonché una psicopatica aveva ben pensato di trarvi ispirazione per rovinarmi la vita. Mi chiesi per quale motivo avessi preso proprio quel libro, perché semplicemente non lo avessi lasciato dove si trovava, in favore de La fiera della vanità: suppongo che sia perché le cose che ci sono destinate trovano sempre il modo di arrivare a noi. Non avevo mai creduto particolarmente al destino, alla sorte o alla predestinazione, ma la coincidenza di aver scelto, tra tanti, proprio quel tomo funesto mi stava facendo ricredere. Non poteva essere un caso che miss Harlin si fosse presa una lunga vacanza, né che io avessi deciso di noleggiare un libro nella scuola in cui insegnavo. Non poteva essere un caso che mi fossi diretto in quello specifico settore della biblioteca e che avessi scelto di prendere proprio La fiera della vanità.

La dama nera di Josephine Collins era destinato a me, e quello era il motivo per il quale ora si trovava posato sulle mie ginocchia.

Mi massaggiai le tempie e sospirai: mi sentivo scombussolato, avevo fame e presto me la sarei fatta addosso come un poppante, se non mi fossi sbrigato a raggiungere il bagno e svuotare la vescica. Quando ebbi soddisfatto i miei bisogni fisiologici, notai che Rufus mi girava intorno nervoso, facendo guizzare la coda con scatti rabbiosi e fissandomi con indignazione, miagolando sommessamente. Mi ricordai solo in quel momento di non avergli dato da mangiare.

«Scusami» mormorai, accingendomi ad aprire una scatoletta di cibo per gatti per Rufus ed una di cibo per uomini per me. Mentre versavo il pasto di Rufus nella sua ciotola, sovrappensiero, mi accorsi di due fatti bizzarri: il primo era che il libro era appoggiato al mio fianco ed io non mi ero nemmeno accorto di averlo portato con me; il secondo era che stavo per dare la mia cena al gatto.

Scossi la testa, cercando di riprendere il controllo di me stesso: mentre trasferivo dalla ciotola ad un piatto un poco invitante stufato, riflettei che avrei potuto ignorare il libro e la lettera che conteneva. Avrei potuto convincermi che non fosse rivolta e me e che mi fossi solamente lasciato suggestionare. Potevo decidere di dimenticarmi di tutta quella storia, riporre il libro lontano dai miei occhi e restituirlo a Charlie non appena fossero ricominciate le lezioni.

Potevo. Ma non sarei stato in grado di farlo. Con tutta probabilità si trattava di uno scherzo di pessimo gusto, ma dovevo accertarmene per riacquistare la stabilità mentale che mi stava lentamente abbandonando.

«Come dovrei comportarmi?» domandai a Rufus, che continuò stoicamente a divorare il suo pasto, ignorandomi completamente. «Avrei dovuto prendere un cane» borbottai, ingollando il primo boccone della mia triste e solitaria cena.

Decisi che sarei andato a letto presto, sperando che la notte mi avrebbe portato consiglio, come un vecchio detto suggeriva. Non avevo idea di come compiere le mie ricerche per scoprire l’identità di Violetta, né da dove cominciare. Avevo un libro ed una lettera come unici indizi e, mentre mi coricavo, pensai vagamente che sarebbe potuta essere una buona idea iniziare da questi. Dopodiché, mi costrinsi a smettere di rimuginare sull’accaduto e cercai di dormire. Sulle prime parve anche funzionare, poi il mio sonno divenne agitato e disturbato da un incubo ricorrente: una donna vestita di nero, con un velo dello stesso colore a celarle il volto, passeggiava lungo un sentiero immerso nella nebbia; io la seguivo poco distante, inquietato ma attratto al contempo. D’improvviso, la donna si fermava e volgeva la sua attenzione su di me: non potevo vederle il volto, ma sapevo ugualmente che era bellissima; lei iniziava ad incedere lentamente nella mia direzione ed un senso di allarme s’impadroniva della mia persona, eppure non mi muovevo, non ne ero in grado. Quando lei arrivava ad un passo da me, il sogno s’interrompeva, per poi ricominciare daccapo. Sempre uguale, per tutta la notte.

Mi svegliai più esausto di quando ero andato a dormire. Mentre mi preparavo il caffè, ragionai sul fatto che non avevo la più pallida idea di quando quella lettera fosse stata scritta, e quindi i sette giorni a mia disposizione potevano anche essere già scaduti da un bel po’. Più passava il tempo, più mi convincevo di essere vittima di uno scherzo di pessimo gusto; tuttavia, ora, ero intenzionato a scoprirne l’autore, anche solo per conoscere le motivazioni che l’avevano spinto ad architettare quella macabra messinscena.

Mi sedetti al tavolo della cucina con un’abbondante tazza di caffè fumante in mano ed accesi il mio portatile. Nel libro, si diceva che la dama nera fosse sempre accompagnata da una fragranza di violette, per cui decisi che fosse inutile cercare una persona di nome Violetta della mia città, perché probabilmente era uno pseudonimo ispirato a quella particolarità della protagonista del libro di Josephine Collins. Piuttosto, mi interessai a sapere se, di recente, ci fossero stati dei casi di suicidio di donne. Ovviamente, non trovai nulla, il che mi convinse ancora di più che si trattasse di una farsa, oppure che i fatidici sette giorni non fossero ancora trascorsi.

Dopo aver passato in rassegna le sporadiche e poco recenti notizie di cronaca nera - tutto sommato, la mia era una città tranquilla -, pensai che fosse una buona idea contattare Charlotte e domandarle se per caso avesse notato qualcuno di strano aggirarsi nella biblioteca della scuola nell’ultimo periodo; ovviamente, il luogo era molto affollato e frequentato, sia da studenti che da docenti, quindi la misteriosa persona che stavo cercando poteva essere passata tranquillamente inosservata, tuttavia un tentativo non mi costava nulla.

Mentre mi munivo dell’elenco telefonico per cercare il numero di Charlie, mi ricordai di esserne già in possesso: me lo aveva fornito l’anno precedente, quando avevamo coordinato il gruppo di teatro per portare in scena un riadattamento di Uomini e topi; era anche venuto fuori qualcosa di decente, senonché la sera della prima Harry Williams, nei panni di George Milton, era caduto dal palco come un deficiente, rovinando quasi un anno di duro lavoro. Al che, ovviamente, mi ero chiamato fuori dal gruppo di teatro: io, di certo, non ero più disposto a fare figure di merda di tal genere.

Scuotendo la testa per scacciare quel ricordo raccapricciante, presi il cellulare e cercai il numero di Charlotte: era davvero lì, nella mia rubrica, per destino o per caso.

Rispose al secondo squillo, con malcelata sorpresa nella voce. Mentre mi chiedeva se mi servisse qualcosa, mi domandai cosa le dovessi dire ed in che modo. Non volevo passare per un pazzo paranoico, ma era esattamente in quel modo che mi sentivo e mi pareva che qualsiasi cosa avessi detto, sarebbe stata fuori luogo.

«Jonny?» provò Charlotte, dal momento che mi ero chiuso in un ostinato silenzio e non avevo intenzione di parlare.

Mi riscossi. «So che ti sembrerà una domanda un po’ bizzarra,» biascicai, «ma volevo sapere se nell’ultimo periodo si è presentato qualcuno di sospetto, in biblioteca.» La pausa che seguì la mia affermazione mi diede conferma del fatto che dovessi apparire completamente fuori di testa.

«Sospetto in che senso?» domandò Charlotte, con la cautela che si userebbe nell’avvicinare un leone affamato.

«Non so: qualcuno che non è della scuola, oppure che si è comportato in modo strano e circospetto.»

«Non mi pare, Jonathan, ma perché me lo chiedi?» Ecco, quello era esattamente il tipo di domanda che non volevo sentirmi porre.

«Per sapere» buttai lì, sentendomi estremamente stupido.

«D’accordo» rispose Charlie, con poca convinzione, poi cambiò discorso, preferendo non indagare oltre, fatto che apprezzai oltremodo. «Com’è il libro che hai noleggiato?»

«Molto bello» risposi precipitosamente, mentre il mio cuore prendeva ad accelerare in maniera innaturale.

«Sicuro di sentirti bene?»

«Certo, ci sentiamo» farfugliai, chiudendo con impeto la chiamata. Mi dispiacque di aver troncato in quel modo la comunicazione, ma mi sentivo nervoso, come se stessi custodendo un prezioso segreto che non doveva essere divulgato. Qualcosa, dentro di me, mi stava impedendo di parlare liberamente degli avvenimenti del giorno prima, anche se non si trattava di nulla di scabroso.

Tornai a sedermi al tavolo della cucina e mi accorsi che il libro era poggiato lì sopra. Quando ce lo avevo messo? Ero certo che non ci fosse, prima.

Mi strofinai gli occhi e sospirai. Probabilmente stavo impazzendo del tutto. Afferrai il volume e lo scagliai contro il muro, dove impattò con un tonfo sordo per poi cadere sul pavimento. Mi accasciai sulla sedia, completamente privo di forze, come se quel gesto mi avesse prosciugato qualsiasi tipo di energia.

Non seppi quantificare il tempo in cui rimasi in quel modo, immobile a fissare il pavimento come se mi trovassi in stato catatonico. Fu il suono del campanello a riscuotermi: mi alzai di malvoglia ed andai ad aprire, mentre Rufus fuggiva a rintanarsi in qualche angolo della casa, come ogni buon gatto che si rispetti.

Sulla soglia apparve Charlotte, cosa che mi lasciò sorpreso e deluso al contempo: sorpreso perché non avevo idea di come facesse a sapere dove abitassi, magari glielo avevo detto una volta e nemmeno me lo ricordavo; deluso perché mi aspettavo che a bussare alla mia porta fossero le risposte che cercavo, venutemi a trovare per pura pietà.

«Cosa ci fa qui?» chiesi, con una certa aggressività che mi lasciò di stucco.

Charlie trasalì, ma non si scompose più di tanto. «Ti ho sentito strano, al telefono. Volevo assicurarmi di persona che fosse tutto apposto.» Nemmeno mia madre si preoccupava tanto.

«Te l’ho già detto: è tutto ok» mormorai, aggrappandomi allo stipite della porta come ad un’ancora di salvezza: avvertivo il libro guardarmi dalla sua posizione sul pavimento, come se mi stesse invitando a pensare molto bene a ciò che dicevo.

«Come vuoi tu» acconsentì Charlotte, con uno svolazzo della mano. «Ti ho portato una crostata, comunque» aggiunse, e solo in quel momento mi accorsi del sacchetto che aveva con sé. Senza ulteriori indugi e senza aspettare che la invitassi a farlo, entrò, spintonandomi con la spalla per farmi scansare. Non avrei mai detto che fosse così impetuosa, abituato com’ero a vederla timida e composta dietro la sua scrivania.

Dopo aver lanciato un’occhiata laconica al mio appartamento, si diresse in cucina, visibile dall’ingresso, e poggiò la crostata sul tavolo.

«Non credevo che un amante della lettura come te trattasse così i libri» sentenziò quando la raggiunsi, dirigendosi verso il libro di Josephine Collins. Dovetti fare appello a tutte le mie forze per non gridarle di lasciarlo dov’era, o l’avrebbe uccisa.

Charlie prese tra le mani il tomo consunto, poi si voltò a guardarmi come se mi conoscesse da sempre e non potessi avere segreti con lei. «Cosa c’è che non va, Jonathan?»

In qualsiasi film romantico degno ti tale nome, ora avrei dovuto raccontarle tutto e lei, con un moto di compassionevole comprensione negli occhi, si sarebbe dovuta avvicinare a me, sussurrarmi che avremmo superato tutto insieme e poi mi avrebbe baciato. A seguire, una scena di sesso appassionato.

Non essendo quello un film, però, ma solamente la mia ridicola vita, incespicai sul topo a carica di Rufus, mentre tentavo di avvicinarmi a Charlotte per strapparle il libro di mano, con sguardo febbricitante. È mio, continuavo a pensare, geloso come un amante. Riuscii a ritrovare l’equilibrio prima di capitombolare a terra, sotto le risate cristalline di Charlie. In un moto improvviso, ebbi voglia di metterle le mani al collo e strozzarla, non tanto perché stava ridendo di me, quanto più perché non si decideva a lasciare La dama nera.

«Jonny, dal momento che va tutto bene ed è quasi ora di pranzo, che ne dici se ti siedi da qualche parte mentre io preparo qualcosa da mangiare?» saltò su Charlie, posando finalmente il tomo sul tavolo; la rabbia cieca che si era impossessata di me svanì ed io rimasi inebetito: Charlotte si stava autoinvitando a pranzo, io avevo pensato di ucciderla perché aveva raccolto un libro da terra e tutto mi sembrava maledettamente assurdo e surreale.

Crollai sulla sedia più vicina senza avere nemmeno la forza di risponderle.

Poiché la mia dispensa non offriva granché ed il frigorifero ancora meno, il nostro pasto consistette in della pasta, riesumata da uno scaffale e probabilmente più datata di mio padre, con del tonno in scatola di sottomarca. Fu comunque il cibo più decente che avessi mangiato negli ultimi anni. La crostata con confettura di ciliegie di Charlotte, poi, fu squisita: ne mangiai con gusto tre fette, dimenticandomi per un istante del libro. Me ne rammentai quando Charlie mi chiese di cosa parlasse, mentre preparava il caffè.

«Di una donna che si suicida per un amore non corrisposto» risposi sussurrando, come se ci trovassimo in una vecchia cattedrale; abbassai lo sguardo ed il tomo era lì, appoggiato sul tavolo accanto a me, dov’ero sicuro che non fosse fino ad un istante prima.

«Alquanto melodrammatico» ironizzò Charlotte, versando il caffè in due tazzine. Era a suo agio, come se vivessimo quella quotidianità da sempre, come se fosse tutto naturale. Provai una strana sensazione, che era disagio ma anche calma.

«Perché, tu non ti uccideresti per amore?» scherzai, con una risatina che voleva essere sarcastica, ma che risuonò isterica.

«Non mi sono suicidata quando ho trovato il mio ex a letto con la mia migliore amica, penso di poter resistere a tutto» ghignò, per nulla a disagio nel parlarmi della sua sfortunata vita privata. «Zucchero?» domandò poi, spingendomi davanti la tazza di caffè. Scossi la testa.

«C’è una lettera sulla prima pagina del libro» buttai lì, per poi sorseggiare il caffè con impeto, per disimpegnarmi dalla sensazione che il tomo fosse molto indignato con me per quell’affermazione.

«Ma davvero? Che tipo di lettera?»

«Una lettera indirizzata a me.» Ecco, lo avevo detto: ora che avevo palesato quella realtà, mi sembrava ancora più assurda di quanto già non m’era parsa nella mia testa e mi pentii di averle dato voce. Charlie, tuttavia, sembrava affascinata ed incuriosita, e non pareva pensare che fossi un pazzo. Non ancora, per lo meno.

«Cosa ti fa pensare che sia diretta a te?» Le feci leggere l’epistola, spiegandole i miei sospetti e tutte le mie ipotesi. Ovviamente, sorvolai sul fatto che avessi desiderato strangolarla quando aveva raccolto il libro, o che me lo ritrovassi sempre intorno, anche in luoghi in cui non ricordavo di averlo spostato.

«Io non prenderei la cosa tanto sul serio» mi disse Charlie, dopo avermi ascoltato attentamente. «Probabilmente è solo qualcuno che ti vuole fare uno scherzo, forse qualche studente a cui hai dato un’insufficienza e che vuole rovinarti le vacanze.»

Charlotte se ne andò un’ora più tardi, consigliandomi di cercare notizie riguardo La dama nera e Josephine Collins, cosa che fu illuminante, poiché io non c’avevo pensato affatto. Rimasto solo, digitai titolo ed autore sul motore di ricerca, scoprendo con sorpresa - ma neanche troppa - che non c’era nessun volume come quello che avevo io; inoltre, esisteva solo una Josephine Collins, che scriveva per un piccolo giornale locale di uno sperduto paesino del Montana e che non aveva pubblicato alcun libro.

L’unica notizia che trovai su una certa dama nera si riferiva ad una leggenda di origine sconosciuta. A quanto sembrava, nel corso degli anni, c’erano stati parecchi avvistamenti di una donna vestita di nero, che passeggiava al tramonto in un parco e portava via con sé coloro che avevano l’ardire di avvicinarla, conducendoli nel suo castello. Le notizie erano imprecise e divergenti: alcuni affermavano che la misteriosa dama regalasse una notte di passione agli uomini che portava via con sé, per poi sparire nel nulla, altri affermavano che fosse un demone maligno assetato di sangue, e che uccidesse chiunque vi fosse entrato in contatto. Anche le aree geografiche erano delle più disparate.

Mi domandai se Violetta non desiderasse che io mi recassi al parco della mia città, dove l’avrei trovata ad attendermi al tramonto. Oppure, più probabilmente, poteva trattarsi di miei inutili vaneggi, di costruzioni mentali senza fondamento, frutto di una fantasia malata e paranoica.

Con un brivido, non potei fare a meno di notare la corrispondenza tra il sogno che avevo fatto la notte precedente e la leggenda della dama nera. Scossi la testa e spensi con rabbia il mio portatile, come se fosse tutta colpa sua.

«Io non andrò proprio da nessuna parte, dico bene, Rufus?» mugugnai, con poca convinzione. Il gatto mi rispose con un miagolio costernato, poi zampettò via; in quel momento, lo invidiai: non aveva nulla a cui pensare, nulla di cui preoccuparsi. Desiderai essere come lui.

Passai il resto della giornata a camminare per casa, irrequieto, ponderando il da farsi. Almeno una decina di volte presi in mano il cellulare, tentato di chiamare Charlie per palesarle i miei tormenti e rinunciandovi subito dopo.

Nel tardo pomeriggio, avevo preso la mia decisione: mi ero infilato le scarpe ed ero uscito, diretto al parco della mia città il più velocemente possibile, prima che mi perdessi il tramonto. Razionalmente, mi sentivo uno sciocco e non potevo fare a meno di dare ragione a Charlotte: probabilmente, avrei trovato qualche ragazzino che, ridendo sguaiatamente, avrebbe ripreso con il cellulare le conseguenze del suo scherzo ben riuscito; inconsciamente, tuttavia, in un modo che non sapevo spiegare ed in un luogo della mia mente che non sapevo individuare, sentivo che stavo facendo la cosa giusta, ciò che dovevo. Ero giunto ad un bivio, mi si erano poste dinanzi due strade ugualmente ignote ed io avevo fatto la mia scelta.

Avevo, naturalmente, portato il libro con me: mi dava sicurezza, per un inquietante e malato meccanismo della mente che non sapevo spiegarmi, e la sola idea di lasciarlo a casa mi dava la nausea.

Quando raggiunsi il parco, lo trovai parecchio affollato: tra coppie che passeggiavano e persone che facevano jogging, mi sentii parecchio fuori luogo, col mio libro sottobraccio e l’aria stralunata. Mi incamminai sulla strada principale, un sentiero acciottolato che tagliava a metà una ovale di alberi e prati, disseminato di stradine e con al centro un laghetto, la cui superficie il tramonto aranciato stava dipingendo di tinte pastello. Era un luogo assolutamente ameno, immerso nel cinguettio degli uccelli e nel parlottare sommesso della gente.

Improvvisamente, mi sentii in pace con me stesso e l’irrequietezza che aveva attanagliato il mio animo fino a quel momento scomparve senza lasciare traccia. A passi lenti, mi diressi verso lo specchio d’acqua, vagamente visibile anche dall’ingresso. Giuntovi, mi appoggiai alla ringhiera che lo delimitava e rimasi e rimirare il tramonto finché il cielo non virò verso una fosca tinta bluastra ed il parco si svuotò.

Dovrei venire qui più spesso, mi ritrovai a pensare, mentre i lampioni s’accendevano specchiandosi sull’acqua come tremuli fuochi fatui. In quel momento, tutto mi parve naturale e razionale: nessuna Violetta era ad aspettarmi in quel parco. Non ci sarebbe mai stata. Chiunque avesse scritto quel libro e quella lettera e qualunque fosse stato il suo scopo, nulla del contenuto del tomo era rivolto a me. Era così semplice che non seppi come avevo fatto a non pensarci prima.

Risi della mia stessa stoltezza, poi flettei l’arto che teneva il libro per imprimervi tutta la forza di cui ero capace e lo distesi, lanciando il volume il più lontano possibile a me: cadde nelle placide acque del lago con un tonfo sordo, sollevando un nugolo di spruzzi che scintillò alla luce argentea della luna. Una calma assoluta continuava ad aleggiare nel parco e nel mio animo: mi sentivo liberato di un peso.

Guidai placidamente fino a casa, mangiai il cibo più invitante che trovai in dispensa e guardai un film qualsiasi, grattando le orecchie di Rufus e godendomi le sue fusa. Quando mi coricai, dormii un sonno tranquillo e privo di sogni.

Il giorno dopo mi svegliai che il sole era già sorto da parecchio tempo, riposato e rinfrancato. Quello stato d’animo, tuttavia, durò solamente il tempo necessario a mettere a fuoco gli oggetti poggiati confusamente sul mio comodino: un abat-jour con la lampadina fulminata da tempo immemore, una sveglia digitale, un pacchetto di fazzoletti, i miei tre libri preferiti e lui, un vecchio tomo consunto rilegato in pelle rossa, che mi fissava sbeffeggiante e placido dalla sua posizione torreggiante.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


2.

 

Inizialmente, spalancai la bocca e rimasi immobile, con la testa poggiata sul cuscino ed un’espressione atterrita in volto; dopodiché iniziai ad urlare: gridai così tanto che la gola mi fece male e sentii le corde vocali bruciare per lo sforzo. Solo allora mi costrinsi a tacere. Mentre m’imponevo di mantenere la calma, mi accorsi di averla già persa del tutto e da parecchio tempo.

Mi domandai se la mia visita al parco non fosse stata tutta un sogno, poiché era l’unica spiegazione razionale e plausibile che mi veniva in mente. Tuttavia, ero parecchio sicuro di essermi diretto davvero in quel luogo, quindi dovevo far fronte all’assurda realtà secondo la quale il libro era tornato da me in qualche modo.

In preda al panico e all’angoscia, feci la prima ed una cosa che mi venne in mente: chiamai Charlie. Non sapevo perché lo stessi facendo, non sapevo perché proprio lei: forse perché si ha sempre bisogno di qualcuno a cui aggrapparsi nei momenti peggiori della vita, e lei era l’unico essere umano con cui avevo avuto un contatto al di fuori dell’ambito professionale, seppur minimo.

«Jonathan, sentivi la mia mancanza?» rise Charlotte, quando rispose alla mia chiamata.

Le mani mi tremavano talmente tanto che faticavo a tenere il telefono attaccato all’orecchio e, no, non sentivo assolutamente la sua mancanza. «Sto impazzendo» esalai.

Tutta la giovialità scomparve dalla voce della mia interlocutrice e, anche se non potevo vederla in faccia, ne potevo immaginare il viso tirato e preoccupato. «Cosa stai dicendo?!»

«Ieri ho lanciato quel maledettissimo libro nel lago del parco, per tentare di liberarmene, e stamattina, al mio risveglio, me lo sono ritrovato sul comodino. Capisci?»

«No, Jonathan, in realtà temo di non capire molto bene» rispose Charlotte, titubante, come se stesse ponderando l’eventualità di farmi un T.S.O. Non potevo biasimarla: quella faccenda sembrava assurda persino a me che la stavo vivendo, figurarsi a qualcuno che se la sentiva raccontare.

«Senti, lo so che ti sembra assurdo, ma questo libro mi sta perseguitando.»

«Se è uno scherzo, lo trovo di pessimo gusto.» Il tono di Charlotte, ora, era torvo e tirato e potevo percepire una nota di terrore aleggiare nelle sue parole. In quel momento, mi resi conto di quanto fossi stato sciocco a chiamarla e credere che avrebbe compreso. Che mi avrebbe creduto. Non mi credevo nemmeno io: quelle erano cose da film horror, non da vita reale.

Mi costrinsi ad una risata, che non sarebbe potuta uscirmi più tirata ed artefatta. «Mi hai scoperto: era uno scherzo» esclamai, cercando di risultare allegro e gioviale. «Ti consiglio di leggere quel libro, comunque: è molto bello» aggiunsi, per poi chiudere la chiamata. Dopo pochi istanti, il cellulare squillò e sul display comparve il nome di Charlotte. Ignorai la chiamata e fissai il libro: mi convinsi che l’unico modo per liberarmene era arrivare fino in fondo a quel mistero, che ora mi sembrava più macabro che mai.

Avrei anche potuto sforzarmi di ignorare la vicenda e cercare di tornare alla mia vita: dopotutto, si trattava solamente di un insieme di fogli di carta messi insieme. Che male avrebbero potuto farmi? Avrei dovuto imparare a convivere con la costante presenza di quel volume, ma non mi sembrava difficile da fare. Potevo riuscirci. Di nuovo, ero dinanzi ad un bivio.

La vita è una questione di scelte e di destino. Ci si può illudere di aver preso una decisione nel pieno del libero arbitrio, ed invece è il fato ad intervenire costantemente per guidarci: scegliamo sempre quello che ci porta ad essere dove dobbiamo essere, nel momento esatto in cui deve accadere. Tempo fa non ci credevo, ma questa vicenda mi ha insegnato molte cose, prima fra tutte che catene invisibili legano i nostri polsi, dimenandoci come burattini impazziti.

Quella mattina ancora non lo sapevo, perciò mi arrabattavo sulla scelta da fare, senza rendermi conto che in realtà avevo già deciso. Senza quasi accorgermene, mi ritrovai seduto dinanzi al mio portatile, a fare ricerche approfondite sulla leggenda della dama nera, su libri maledetti e su una commistione di entrambe le cose. Non trovai altro sul misterioso fantasma, se non ciò che avevo già letto il giorno precedente, e di tutti i miti su volumi maledetti, nessuno sembrava collegato ad esso o a qualcosa di simile.

Frustrato e senza speranza, ripresi il libro tra le mani e lo sfogliai, in cerca di qualcosa che m’era sfuggito e che potesse aiutarmi a fare chiarezza. Misi anche le pagine in controluce, per vedere se ci fosse qualche messaggio nascosto nella filigrana.

Alla fine, dovetti arrendermi all’evidenza che non avevo con me altro che una macabra storia, una lettera ancora più raccapricciante ed una leggenda. Giunsi alla conclusione che sarei impazzito prima di svelare l’arcano.

Al tramonto, tornai di nuovo al parco e ancora una volta non accadde nulla. Mi attardai fin quasi a mezzanotte, immobile vicino al lago, infreddolito dalla brezza notturna. Nessuno arrivò.

Continuai a tornare in quel luogo ogni giorno, ossessionato e sempre più convinto che qualcosa dovesse succedere. Charlie non mi aveva più chiamato: probabilmente era giunta alla conclusione che non le importasse nulla dei miei deliri.

Dovettero trascorrere cinque giorni, altri cinque miserabili giorni a crogiolarmi nella mia pazzia e nell’ansia di un qualcosa di definitivo che non si decideva ad accadere, prima che succedesse qualcosa. Nel settimo giorno esatto da quando avevo trovato il libro, mi diressi al parco come sempre. Era il tramonto ed una moltitudine di persone affollava i viottoli.

Con il libro sottobraccio, mi diressi al lago in un automatismo acquisito in quella lunga settimana e al quale non facevo nemmeno più caso. La superficie increspata dal lieve vento che spirava era cremisi, come se qualcuno avesse sostituito l’acqua col sangue: quando mi sporsi, il mio riflesso tremulo mi restituì uno sguardo stanco e folle e, per un assurdo istante, ebbi l’impressione che stesse invitandomi a buttarmi. Se lo farai, tutto questo finirà, pareva dirmi. Non vuoi che finisca? Ovviamente, non c’era nulla che desiderassi di più al mondo, in quel periodo della mia vita, ma avevo ancora abbastanza lucidità in corpo da staccarmi con impeto dal parapetto e non cedere a quelle allettanti assurdità.

Mi riscossi: m’accorsi di essere solo e che non avevo più il libro con me; in un primo momento ne fui sollevato, poi terrorizzato.

Il tramonto era svanito, lasciando posto alla notte, in un repentino passaggio che m’era chiaramente sfuggito. L’umidità era palpabile ed il silenzio, calato sul parco a cancellare persino il cinguettio degli uccelli, era sinistramente inquietante.

Una fitta nebbia salì d’improvviso ad avvolgere ogni cosa, rendendola indefinita. La massa scura del lago era solo uno sfocato miraggio in quel surreale biancore. Il mio corpo reagì con i segnali tipici della paura: battito accelerato, sudorazione e peli dritti sulle braccia; eppure io, emotivamente, non sentivo nulla. Non riuscivo a provare niente, se non una calma apatia che mi spingeva a rimanermene immobile, in attesa.

Un violento brivido fu l’ultimo segnale d’avvertimento che il mio istinto di sopravvivenza tentò di inviarmi, poi anche il mio corpo si rilassò, quasi si fosse arreso.

La repentina raffica di vento, che si levò a far frusciare le fronde degli alberi attorno a me, portò con sé un intenso e pungente profumo di violette, così inebriante da stordirmi. Mi guardai attorno, consapevole che di lì a poco sarebbe accaduto qualcosa di sconvolgente, ma incapace di razionalizzare davvero quella realtà.

I lampioni del parco erano spariti, sostituiti dalle timide fiammelle di candele, che baluginavano a delineare i contorni dei sentieri, fendendo la nebbia e gettando oblunghe ombre sinistre sull’acciottolato.

Mi mossi verso quella che ritenni essere la strada maestra, in un trasognato tentativo di tornare alla mia macchina, senza volerlo davvero. Ad ogni passo, il profumo di violette si faceva più intenso, come se la fragranza volesse catturarmi in quel luogo ed impedirmi di lasciarlo.

Un improvviso fruscio alle mie spalle mi fece voltare di scatto: il cuore mi traboccò di costernata gioia nell’individuare una figura scura, che incedeva lentamente accanto al lago, persa nella nebbia; non stava avanzando verso di me, ma percorreva un cammino tutto suo, apparentemente ignara della mia presenza. Istintivamente, mi avvicinai con urgenza, spinto da un impetuoso desiderio.

Quando fui a pochi passi da lei, la figura s’arrestò di colpo e ruotò su se stessa con una lentezza esasperante, che fece ruggire d’impazienza la mia trepidazione. Dinanzi, mi ritrovai una donna che indossava un sontuoso abito nero che le ricadeva fino ai piedi, a disegnare morbidamente le forme di un corpo che s’intuiva essere assolutamente perfetto, anche se celato. Il volto era coperto da un pesante velo nero, che ne nascondeva le fattezze: il respiro lieve ne increspava il tessuto, come una tenda mossa da un leggero vento. Era la donna del mio sogno e, com’era accaduto quando l’avevo vista nel sonno, sapevo che era bellissima anche se non potevo guardarla in viso.

Non volli scappare e nemmeno per un istante provai una sensazione di pericolo: solo placida calma. Ero felice e finalmente appagato.

La dama nera prese a camminare verso di me, coprendo la poca distanza che ci separava; il suo viso arrivò quasi a sfiorare il mio ed il profumo di violette divenne talmente intenso che per un istante persi la cognizione di ciò che avevo attorno. Quando tornai in me, trovai la donna immobile, così vicina che avrei potuto baciarla allungando appena il collo, eppure non riuscivo a scorgere ancora nulla del suo viso, neppure a quella distanza così ravvicinata.

Completamente privo di resistenza davanti al fascino di quella misteriosa donna, non potei far altro che accettare la mano pallida che lei mi porse, stringendola con febbricitante aspettativa. La sentii fredda, talmente tanto che il gelo mi serpeggiò fin nelle ossa, facendomi rabbrividire.

La dama nera cominciò ad avanzare lentamente ed io mi lasciai condurre; percorremmo zone del parco che ero sicuro di non aver mai visto. Incedemmo nei meandri di quel luogo improvvisamente nuovo e sconosciuto, tra laghetti e ponti, tra fontane ed angoli nascosti, tra le piante e lungo i viali. Era tutto così idilliaco e perfetto, così paradisiaco da non poter essere reale, eppure un senso di tranquillità e beatitudine continuava a pervadermi.

«Finalmente vi ho trovata, mia signora» mormorai, come se l’avessi sempre cercata, come se avessi anelato a lei per tutta la vita. La donna continuò ad avanzare senza degnarmi di uno sguardo, ed io dovetti accontentarmi di fissare la sua schiena dritta e sensuale, pur ammantata di nero.

C’era qualcosa di profondamente sbagliato in ciò che stava accadendo, qualcosa di pericoloso: forse una parte della mia mente ne era consapevole, ma al resto di me non importava.

Camminammo per un tempo indefinito, che non seppi quantificare: non ero stanco, né affamato o assetato, sebbene proseguimmo per quelle che inizialmente mi parvero ore, poi forse ere. La nebbia aleggiava ancora sorniona a coprire ogni cosa, eppure la donna si muoveva con sicurezza, come se conoscesse la strada senza bisogno di vederla.

D’improvviso, mi ritrovai dinanzi ad un cancello di ferro, alto circa tre metri. Al di là delle sbarre potei scorgere quello che sembrava un parco e, più in lontananza, il profilo di un’imponente villa dall’aspetto molto antico. Istintivamente, mi voltai con aria interrogativa a guardare la dama nera: nonostante fosse impossibile scorgere il suo sguardo dietro il velo, ne percepii comunque una profonda tristezza; ella non stava guardando me, ma dinanzi a sé, forse persa nella contemplazione della casa.

D’un tratto, dalla veste, la donna estrasse una grande chiave ricoperta di ruggine, con la quale aprì il cancello. Solo allora m’accorsi che mi aveva lasciato la mano: sarei potuto scappare, se solo avessi voluto. Ma non volli. L’inferriata si dischiuse con un cigolio penoso quando lei la spinse; dopodiché mi riprese la mano e mi condusse attraverso un lungo vialetto e, infine, davanti alla porta della villa.

Questa volta, non adoperò alcuna chiave per entrare, ma spinse semplicemente il pesante portone, come se non stesse facendo alcuna fatica per compiere il gesto, e quello s’aprì con silenziosa innaturalità.

Entrammo e ci ritrovammo in una grande sala, che non potei analizzare con attenzione poiché la dama nera prese a condurmi nel palazzo, interamente illuminato dalla luce di decine di candele che, con la loro fiamma tremula, mostravano pareti listate a lutto e saloni di marmo e stucco ricoperti da insegne funebri.

La donna mi portò in un ampio salone centrale; ancor prima d’entrare, potei avvertire la musica innaturale che proveniva dal suo interno: era una melodia dolce, quasi un valzer, eppure uno stridore sinistro tra le note ne rivelava la natura tutt’altro che umana. Quando entrammo, il mio sguardo si scontrò con una stanza similare alle altre, sempre illuminata da candele e sempre ornata con panneggi luttuosi. In un angolo un’orchestra, composta da allampanati ed impassibili uomini in eleganti frac d’altri tempi, suonava una melodia che sembrava andare avanti da sempre. Nessuno dei musicisti si voltò a guardarci quando entrammo, concentrati nel mantenere l’armonia di quella ballata, le candele a illuminare sinistramente la loro pelle pallida tirata su volti lunghi ed ossuti che li facevano somigliare a maschere orientali.

Se ebbi paura, non ne ho memoria. La dama nera, senza mai lasciare la mia mano, iniziò a muovere i primi passi di un ballo in cui presto mi lasciai trascinare e che si trasformò in fretta in una vorticosa ed allucinata danza. Sentivo di non avere più il controllo di me stesso o del mio corpo, come se mi trovassi in un profondo stato di trance; stavo ballando una danza di cui non conoscevo i passi come se non avessi fatto altro per tutta la vita. Non esistevano che la splendida donna che volteggiava con me e quella musica ultraterrena che avvolgeva i nostri corpi, sospingendoci in leggiadri volteggi.

Lei era così vicina al mio viso da poterne sentire il respiro leggero, regolare pur nella frenesia del ballo; il suo profumo di violette, che sembrava provenire dalla sua stessa essenza, mi avvolgeva completamente. Non riuscivo a staccare gli occhi da lei, e non potevo fare a meno di continuare a fissare il velo, che le celava il viso, sollevarsi di pochi centimetri senza mai scoprirlo.

Danzammo per un tempo ignoto: non provavo stanchezza, né titubanza; perdutamente innamorato, ero privo di qualunque desiderio che non fosse quello di stare al fianco di lei. Desiderai che quegl’istanti non finissero mai, che quella danza frenetica e passionale perdurasse per l’eternità, consumandomi tra le piroette ed i passi sicuri e sincroni che compivamo. Anelai fondermi con lei, donarle tutto me stesso, nutrirla con la mia anima ed il mio amore; dimentico di chi fossi prima di arrivare lì, non mi sentivo altro che uno strumento al servizio del suo compiacimento. Avrei fatto qualsiasi cosa mi avesse chiesto. Davvero qualsiasi.

Quando la dama nera si fermò, la musica non cessò con la sua danza, ma continuò a perdurare, come se i musicisti non potessero - o non volessero - fermarsi. Lei mi riprese la mano con la sua, sempre fredda, e mi condusse fuori dal salone. Ben presto, ci lasciammo alle spalle la melodia che aveva accompagnato la nostra accalorata danza. Stanze e corridoi, che mi parevano tutti uguali, si susseguivano in uno schema monotono e senza fine; le ampie vetrate mi restituivano la vista di una notte eterna abbracciata da una nebbia sempre più fitta.

D’un tratto, lei si fermò dinanzi ad una porta, mi lasciò la mano e l’aprì. Mi condusse in una stanza da letto, scura per le poche candele che la illuminavano. La donna non disse nulla, ma s’avvicinò al baldacchino e si voltò verso di me. Il mio cuore accelerò i suoi battiti ed una subitanea eccitazione s’impadronì del mio corpo, che aveva compreso cosa stava per accadere ancor prima della mente abbacinata.

La dama si spogliò lentamente dinanzi a me. Lasciò cadere le vesti con una lentezza quasi esasperante, rivelando a poco a poco un corpo paradisiaco, molto più bello e sensuale di quello che avrei mai potuto immaginare. Rimase immobile, nuda e bellissima a fissarmi, in attesa. Indossava ancora il velo.

Come trasognato, mi avvicinai a lei, sentendomi fluttuare. Quasi non mi resi conto che avevo iniziato a spogliarmi anch’io e mi ritrovai unito a lei in un lungo amplesso senza nemmeno sapere come fosse accaduto. Fu meraviglioso: migliore di qualsiasi cosa mi fosse mai capitata nella vita, migliore persino della danza che aveva preceduto quel momento. Migliore di qualsiasi cosa terrena: vagamente constatai che quella donna non poteva appartenere a questa realtà, che dovesse venire da altrove; fu un pensiero fugace, annegato dal piacere e dalla foga del momento. Come in precedenza, persi la cognizione del tempo, beandomi del suo corpo che era freddo eppure accogliente, delle sue forme perfette e dei movimenti del suo bacino che accompagnavano i miei. Quando il mio piacere esplose dentro di lei, quasi fui colto dal pianto per la disperazione dovuta alla fine di quell’idilliaco momento.

Mi lasciai cadere accanto alla dama, vinto da una quieta spossatezza, il profumo di violette ad aleggiare tra le lenzuola sfatte e nere del letto, che esaltavano il suo corpo pallido, muovendomi dentro la primordiale voglia di possederla di nuovo. Ma, soprattutto, mi colse un irrefrenabile moto di curiosità nel voler vedere il suo volto, nel voler sollevare il velo e scoprire ciò che esso celava, sicuramente paradisiaco.

Di nuovo, avrei potuto andarmene e, di nuovo, non volli. Invece, la guardai, sdraiata sul letto e forse addormentata, e m’avvicinai al suo volto; accostai dita tremanti al velo e per un istante esitai. Sei sicuro di non volertene andare? mi domandai, titubante. Certo che sì, mi risposi subito dopo: il destino m’aveva fatto incontrare una donna di tale meraviglia, ed io avrei dovuto abbandonarla? Se era davvero lei la misteriosa autrice della lettera a me indirizzata, non potevo che essere felice d averla cercata e di essere riuscito a trovarla.

Afferrai con delicatezza il bordo del velo e lo sollevai.

Quello fu il momento in cui appresi che la vita ha una sua macabra ironia e che qualunque nostro tentativo di opporci al suo sadismo è inutile.

Quando vidi il teschio rinsecchito e dalle orbite vuote, che era il viso della dama nera, voltarsi lentamente nella mia direzione, mi resi razionalmente coto di essere in un pericoloso incubo; il mio istinto, tuttavia, pareva come impazzito e voleva tenermi inchiodato in quel luogo. Mi tirai a sedere sul letto e fu tutto ciò che fui in grado di fare: non scappai via, non gridai. Non feci assolutamente nulla.

La donna, che ora si rivelava nella sua scheletrica forma da morto, mi imitò: le sue splendide forme erano sparite, sostituite da ossa annerite dal tempo. Il teschio sembrava sorridermi, mentre filamenti stopposi di capelli gli aleggiavano intorno, come sospinti da una forza invisibile.

Poi lei parlò, e la sua voce risuonò dolce e calda, ma distante, come se provenisse da un altro luogo.

«Mio amato Gregor, ognuno di noi si trova dove è per via delle scelte che ha compiuto. Che fossimo in classe insieme non è stato un caso. Per scrivere questa lettera d’addio ho scelto un testo qualsiasi preso in biblioteca e tu, a cui piace leggere, hai selezionato proprio questo libro e poi hai deciso di venirmi a cercare. L’universo si è mosso affinché noi ci incontrassimo.» Mi accorsi che aveva il libro dalla consunta copertina rossa in grembo, stretto tra le mani ossute ed aperto alla pagina dell’epistola a me indirizzata. Le sue furono parole scandite con lentezza, come se dovessi comprenderle bene e non dimenticarle mai più: erano ferme e definitive, come una sentenza ineluttabile emessa da un giudice supremo.

Una scarica di puro terrore mi attraversò il corpo, donandomi un minimo di lucidità. «Io non mi chiamo Gregor» esalai, senza nemmeno sapere dove avessi trovato la forza per parlare.

Lei rise biecamente. «Sapevo che il mio amore era ricambiato, sapevo che non mi avresti lasciata morire in nome di un sentimento condiviso. Tu mi hai sempre amata, lo vedevo da come mi guardavi in classe, lo capivo da come mi parlavi. Non sei stato sordo alle mie richieste, ed il destino ha fatto in modo che noi ci rincontrassimo e ci congiungessimo qui, dove eternamente ed indissolubilmente rimarremo insieme.»

Avrei voluto ripeterle che non ero Gregor e che ciò che stava accadendo era un assurdo delirio. Avrei voluto davvero, ma tutto ciò che uscì dalla mia bocca fu: «Mia amata Josephine, non desidero altro che rimanere con te per l’eternità». Non sapevo dire come fossi consapevole della sua identità, ma ero certo che si trattasse davvero di lei e non avevo alcun dubbio a riguardo.

Lo scheletro annuì e colsi una sorta di compiacimento nel suo gesto. In un momento imprecisato di quella surreale conversazione, il libro rosso era scomparso, sostituito da un pugnale con la lama scarlatta e l’impugnatura d’argento finemente decorata. Compresi che la mia ora fosse giunta, ma non ne fui terrorizzato: non riuscivo a muovermi, riuscivo solamente a rimanermene lì, ad attendere la mia fine quasi con trepidazione. A desiderare di trascorrere l’eternità con la mia amata Josephine Collins, che aveva scritto un libro su di noi ed una lettera per me, che non ero più Jonathan, ma Gregor.

Fu il mio cellulare che squillava a riportarmi alla realtà, a riscuotermi. Mi alzai di scatto dal letto, improvvisamente lucido e consapevole, e mi avventai sui jeans, estraendo dalla tasca il telefono come se fosse la mia unica salvezza. Sto sognando, è tutto un sogno, continuavo a dirmi, sperando che ripeterlo avrebbe fatto scomparire quell’allucinazione.

Guardai il display: Charlie mi stava chiamando, chissà da dove, chissà da quale realtà. Josephine Collins stava per uccidermi e Charlotte Stevens mi stava salvando la vita.

La dama nera non fu felice della mia presa d’iniziativa e con un grido stridulo, che s’addiceva più ad una bestia che ad un essere umano, s’avventò su di me con una rapidità inaudita. Io mi mossi altrettanto celermente, correndo verso la porta e pregando di non trovarla chiusa a chiave: fortunatamente la serratura scattò quando abbassai la maniglia e potei uscire sul freddo corridoio.

Non mi voltai mai indietro a guardare quanto distante fosse il mostro immondo che mi stava inseguendo. Nudo e non sapendo bene dove andare, correvo con i piedi scalzi ad impattare dolorosamente sulla gelida pietra: mi dissi che era così che dovevano sentirsi gli uomini nella preistoria, quando fuggivano da bestie molto più possenti e feroci di loro. Cercai di percepire il suono della musica dell’orchestra, di modo che mi aiutasse ad orientarmi, ma tutto ciò che sentivo era lo squillo martellante del cellulare che ancora stringevo in mano.

«Gregor! Mio amato Gregor, dove stai andando?» mi gridava dietro la dama nera e la sua voce, unitamente all’odore di violette, trasformatosi ora in un rancido fetore di fiori marciti, era tutto ciò che riuscivo a percepire di lei.

Continuai a correre a perdifiato lungo corridoi e stanzoni che mi parevano sempre uguali, lugubri con le candele ad illuminare le loro funeree decorazioni. Avevo il fiatone e la milza mi pulsava dolorosamente, così come i muscoli delle gambe, sottoposti ad uno sforzo considerevole. Morirò qui, mi dissi, ed un velo di lacrime scese ad appannarmi la vista. È esattamente qui che morirò, e nessuno mi troverà mai.

«Vieni da me, mio amato: il nostro destino è stare insieme per sempre!» stridette Josephine Collins e mi parve di sentire la sua voce ancora più vicina. Il cellulare non smetteva di suonare e credetti che i suoi squilli penetranti mi avrebbero fatto impazzire.

Improvvisamente, come un miracolo, udii una musica lontana, come di un valzer ultraterreno, e ne seguii la scia con rinnovata speranza. Ben presto, mi ritrovai nella stanza in cui l’orchestra suonava la sua melodia eterna: nemmeno in quel caso i morti si voltarono a guardarmi, ma continuarono a seguire il direttore in una sincronia perfetta.

«Gregor, perché te ne stai andando? Perché vuoi abbandonarmi?»

Scacciai le lacrime che continuavano ad affollarsi e strinsi i denti. Non volevo morire, non in quel momento ed in quel luogo. Mi domandai perché il mio cellulare continuasse ancora a squillare e mi venne da chiedermi quanto tempo fosse effettivamente trascorso.

Quando giunsi in vista del pesante portone d’ingresso, mi parve quasi un miraggio. «GREGOR!» gridò disperatamente la dama nera, terribilmente vicina a me. Afferrai i pesanti battenti e tirai; in un primo momento nulla si mosse e fui certo che per me non ci fosse più nulla da fare, poi le ante si aprirono con un penoso stridio, che tuttavia non riuscì a superare quello rabbioso che lanciò Josephine Collins, così prossima a me che sentii lo sferzare della lama del pugnale mancarmi la schiena per pochi centimetri.

Mi catapultai fuori, nel freddo umido della notte e tra la nebbia fitta. Un silenzio innaturale mi circondava e mi sentii perduto, tuttavia continuai ad avanzare, sospinto dalla forza della disperazione.

Impattai contro qualcuno dove avrebbe dovuto esserci il cancello. Caddi all’indietro e gridai, mentre il cellulare smetteva di squillare.

«Jonathan!» mi urlò Charlotte, scuotendomi per le spalle. Quando mi resi conto che era lei la persona con cui ero andato a sbattere, smisi di gridare e rinsavii del tutto. Mi guardai attorno, con l’adrenalina ancora in corpo e la tachicardia: mi trovavo vicino al lago e la nebbia era scomparsa.

«Stai bene?» volle sapere Charlie, aiutandomi a rimettermi in piedi. Quella fu la prima volta in cui mi vide nudo: davvero una bizzarra circostanza. Non che sembrasse importarle più di tanto.

Sentivo le gambe malferme e non ero certo che sarei riuscito a non svenire. Mi costrinsi ad annuire, ma la verità era che non stavo affatto bene e non ero ancora riuscito a comprendere del tutto cosa mi fosse accaduto.

Fu Charlotte ad illuminarmi, alcune ore ed una doccia dopo, seduti sul divano del mio salotto, con Rufus a pulirsi il pelo ai miei piedi, come se per lui il mondo avesse girato sempre allo stesso modo. Probabilmente era anche vero.

«All’inizio ho pensato che stessi esagerando con quella storia del libro» mi spiegò Charlotte, con una tazza di tè bollente stretta in mano. «Poi mi hai fatto quella strana telefonata in cui mi dicevi che il libro ti perseguitava. La prima cosa che ho pensato è che fossi impazzito, ma ho deciso comunque di fare delle ricerche approfondite. Ho girato praticamente tutte le biblioteche disponibili. Alla fine, ho trovato un vecchio tomo che riportava alcune leggende poco conosciute, tra cui una che aveva molti punti in comune con la tua vicenda: agli inizi del Novecento, una giovane donna di nome Josephine Collins scrisse un manoscritto che raccontava la tormentosa storia del suo amore non corrisposto verso un uomo, che l’avrebbe portata prima alla pazzia, e poi al suicidio. Insieme al manoscritto, scrisse anche una lettera indirizzata all’uomo in questione, Gregor Smith, in cui gli concedeva una settimana di tempo per congiungersi a lei e coronare il loro amore; in caso contrario, si sarebbe suicidata. Gregor Smith non diede adito alla missiva contenuta nel libro che ricevette e bruciò tutto, considerandolo il delirio di una pazza. Josephine Collins si suicidò davvero una settimana dopo, maledicendo colui che aveva amato e tutti gli uomini. La leggenda narra che il manoscritto si sia riformato dalle sue stesse ceneri, per la forza della maledizione da lei lanciata, e che si faccia trovare da uomini che hanno una passione per la lettura, come Gregor Smith: costoro sono inspiegabilmente attratti dal libro e nella lettera in esso contenuta trovano sempre qualche particolare che li induce a credere che sia rivolta a loro. Josephine Collins li attira a sé per mezzo del tomo e poi li uccide, credendoli Gregor Smith, in cerca del coronamento dell’amore eterno.»

Rimasi a fissarla per un tempo indefinito, incapace di proferire parola. Mi sembrava tutto tremendamente assurdo, come se Charlie mi stesse raccontando la trama di un film dell’orrore. Peccato che non si trattasse di un film e che fosse accaduto davvero - a me, per giunta -, anche se faticavo ancora a crederlo.

«Come mi hai trovato?» riuscii a domandare, infine, attonito.

«La dama nera viene sempre avvistata in un parco, mentre passeggia al tramonto. Ti ho chiamato parecchie volte, oggi, ma non hai mai risposto, così ho pensato di venirti a cercare.»

«Davvero?!» Ero stupito, non avevo mai sentito il mio cellulare squillare. Probabilmente faceva parte del sortilegio.

Charlotte annuì. «Sono passata a casa tua, ma non c’eri: ho iniziato a preoccuparmi, così sono venuta al parco, pensando che ti avrei trovato lì, se anche tu avevi fatto ricerche sulla dama nera; infatti ho visto la tua macchina. Ti ho cercato ovunque, ma non sono riuscita a trovarti, perciò ti ho chiamato e dopo un po’ ti ho visto correre verso di me, nudo ed in preda al panico. Sei letteralmente comparso dal nulla e quello è stato il momento in cui ho smesso di crederti pazzo.»

Raccolsi le forze e raccontai a Charlotte ciò che mi era accaduto, per quanto mi apparisse assurdo. Più ne parlavo e più mi sembrava surreale, eppure sputare fuori quelle parole mi aiutò a metabolizzare l’avvenimento. Conclusi che ero stato davvero molto fortunato: se Charlotte non mi avesse chiamato, sarei certamente stato ucciso; poi mi dissi che probabilmente non era quello il mio destino di morte, perciò gli eventi s’erano congiunti affinché mi salvassi.

Non chiesi mai a Charlie cosa pensasse di quella storia, se anche a lei pareva tutto assurdo o se ci credesse davvero. Non lo chiesi mai nemmeno a me stesso. Non ne parlammo più.

Per un po’, andai da uno psicologo, sperando che mi aiutasse a disfarmi dell’angoscia e degli incubi che quella brutta esperienza mi aveva lasciato, ma l’unica cosa di cui riuscii a liberarmi furono un bel po’ di dollari, così lasciai perdere.

Un mese dopo il mio brutto incontro con la dama nera, chiesi a Charlotte di uscire. Ci sposammo l’anno successivo. Fare sesso con lei non è mai stato bello come con Josephine Collins, ma per lo meno Charlie non vuole uccidermi. E poi è una persona davvero piacevole. A breve nascerà il nostro primo figlio, ed io non potrei essere più felice.

Ho lasciato perdere con la lettura e mi sono dato ad hobby completamente diversi: ho provato con la pittura, ma non sono affatto portato. Ogni tanto vado a pesca, o a fare lunghe passeggiate. Ho regalato tutti i libri che avevo in casa e ho a che fare con un volume solo nelle mie ore di insegnamento, proprio perché non ne posso fare a meno. Non credo di voler mai più vedere un foglio con qualcosa scritto sopra in tutta la mia vita, a meno che non sia strettamente necessario.

Alla fine, sono riuscito a diventare l’uomo normale che Wilson tanto decantava: ho una moglie, una bella casa, faccio pasti veri ed ho sempre i vestiti puliti ed in ordine. Ho una persona accanto con cui litigare su quale film vedere la sera e da baciare la mattina quando mi sveglio. Tutto sommato, non mi dispiace come vita. La cosa divertente è che devo ringraziare Josephine Collins per questo: se non mi fossi imbattuto nella sua maledizione, certamente non avrei mai trovato il coraggio o la voglia di chiedere a Charlie di uscire.

In linea di massima, la mia esistenza scorre ordinaria e tranquilla. Va tutto bene, se non fosse che ogni tanto, di notte, faccio un sogno. Una donna vestita di nero passeggia in riva ad un lago, al tramonto: profuma di violette ed ha il volto celato da un velo. È bellissima mentre si avvicina e mi prende per mano, trascinandomi in una frenetica danza sensuale al ritmo di una musica di un altro mondo. Mentre balliamo, mi si accosta all’orecchio e mi sussurra: «Mio amato Jonty», e la carezza del suo alito sulla mia pelle è così reale e la sua stretta sulla mia vita così concreta che mi pare davvero di essere lì.

Potrei andarmene, se volessi. Solo che non voglio. E la musica ci trascina lontano, in un’eternità fatta di volteggi e sospiri.

 

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