Contra Diabolum

di Red Owl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cheden Chnospinci ***
Capitolo 2: *** 1. El Böcc dal Seerp ***
Capitolo 3: *** 2. Il Dream ***
Capitolo 4: *** 3. Un aiuto inatteso ***
Capitolo 5: *** 4. La Zingara ***
Capitolo 6: *** 5. Broken Flag ***
Capitolo 7: *** 6. La Scatola dei Tesori ***
Capitolo 8: *** 7. La chiave d'ambra ***
Capitolo 9: *** 8. La chiave nera ***
Capitolo 10: *** 9. Colazione in Città Alta ***
Capitolo 11: *** 10. Solo un amico ***
Capitolo 12: *** 11. Un pomeriggio al lago ***
Capitolo 13: *** 12. Incontri ***



Capitolo 1
*** Cheden Chnospinci ***


"Uuola, uuiht, taz tu uueist, taz tu uuiht heizist,

Taz tu neuueist noch nechanst cheden chnospinci."


Scongiuro alemanno - manoscritto miscellaneo del XI secolo

(Traduzione: "Bene, creatura, che tu sappia che sei chiamato creatura,

che tu non sappia né possa pronunciare chnospinci")

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Capitolo 2
*** 1. El Böcc dal Seerp ***


Quasi cent’anni prima

In piedi sul bordo del laghetto celato nelle profondità del bosco, Agnese getta alcune foglie nell’acqua quieta. Non pesano niente e non vanno lontane e la bambina è insoddisfatta. Vorrebbero che volassero un po’ più in là, verso il centro di quel curioso specchio d’acqua, piccolo e profondissimo.

In verità Agnese non lo sa, se quel lago è davvero profondo, ma immagina che sia proprio così: la mamma le ha sempre detto di stare attenta a non cadere nel Böcc dal Seerp, perché, se lo facesse, annegherebbe.

Nascosto tra i bassi rami di nocciolo alla cui ombra l’ha adagiato, Mario piagnucola e si agita. Contrariata, Agnese si volta verso il cuginetto ancora in fasce e, portandosi un dito alle labbra, gli fa segno di tacere. Il bambino non capisce, naturalmente, è ancora troppo piccolo. È per questo che zia Elvina glielo affida, di tanto in tanto: per avere un po’ di requie da quel bimbetto esigente, l’ultimo di una serie di cinque, che, con le sue costanti richieste di attenzioni, prosciuga le energie della donna.

Ad Agnese non piace, Mario: lei ha appena sei anni e fino a qualche tempo prima era abituata ad essere lei la piccola della famiglia. Per questo non bada a lui, ma lo lascia tra l’erba bassa, alla mercé di formiche e zanzare. A volte ha la tentazione di prenderlo tra le mani, alzarlo in alto sopra alla testa e buttarlo nell’acqua scura, lì nel bel mezzo del Böcc dal Seerp. E chissà che il serpente non se lo mangi.

Non può farlo, naturalmente. Anche perché sa benissimo che non c’è nessun serpente, là dentro: sospetta anzi che a lei non piacerebbe affatto se, svegliandosi, si ritrovasse quel piccoletto sul fondo del suo lago.

Meglio non rischiare: non si sa mai, con quella. È sempre buona, con lei, ma è meglio non rischiare di fare qualcosa che potrebbe non piacerle. Non si sa mai.

Accovacciandosi sulla riva fangosa, Agnese immerge le mani nell’acqua e raschia il fondo con le dita grassocce. Una miriade di girini schizzano via, inoltrandosi nelle profondità del lago e allontanandosi rapidamente dalle manine della bambina. «Non voglio prendervi» dice lei, la voce come una cantilena. «Voglio solo darle da mangiare.»

Agnese prende una manciata di fango e la impasta con un po’ di foglie. Pensa che, forse, il peso della terra farà volare meglio le foglie, portandole là dove lei potrà prenderle. Con uno sguardo speranzoso negli occhi verdi, la bambina scaglia davanti a sé il proiettile brunastro che ha appena confezionato: il fango schizza verso il centro del laghetto, le foglie cadono mestamente a pochi centimetri dai suoi piedi. Non ha funzionato.

Agnese aggrotta la fronte, frustrata. Poveretta, non avrà fame? L’erba le piace tanto, ama in maniera particolare le spesse foglie di acetosa e quelle di borragine, morbide e larghe. Sospetta che le piacciano anche le ortiche – soprattutto le cime tenere – ma, quelle, Agnese non gliele porta quasi mai. Pungono.

La bambina sta valutando se entrare un poco nell’acqua – poco poco, nemmeno fino alle ginocchia – quando, dal sentiero poco distante, uno scalpiccio sommesso l’avverte dell’arrivo di qualcuno. Lo sguardo vigile, Agnese spinge i capelli chiari via dagli occhi e si volta per accogliere gli intrusi.

«Ohi, nini!» l’apostrofa il ‘Tilio che, come suo solito, apre la fila dei suoi compari. «Attenta a non caderci dentro, che poi il serpente ti mangia!»

Agnese gli rivolge una smorfia – nelle sue intenzioni un sorriso – e si pulisce le mani sugli stinchi lasciati scoperti dal vestitino estivo. «Non ci cado dentro» mugugna, guardandolo di sottecchi, quasi a sfidarlo. Non lo sa, il vecchio somaro, che lei è molto più agile di lui?

«E dove l’hai lasciato, il Mario?» chiede allora il Zepp, quello che quando parla si fa fatica a capire quello che dice, perché la sua voce raspa e trema come se fosse sempre senza fiato.

Prima che Agnese possa spiegare, il ‘Tilio vede il bambino. «Ma guardala, ‘sta stria! L’ha lasciato in mezzo al prato.» Guardandola con i suoi occhi da uomo adulto, il ‘Tilio si rivolge a lei: «Ma la tua zia lo sa, che è così che curi tuo cugino?»

«Ma no», si difende la piccola, «non lo lascio mica sempre lì: l’ho appena appoggiato. Poi me lo riprendo. Però avevo caldo, volevo mettere un po’ le mani nell’acqua.»

«Cosa ci sei venuta a fare, qui?» chiede ancora il ‘Tilio che, adesso che Agnese ci pensa bene, dev’essere un mezzo parente della mamma. «C’è anche la fontana, sei hai caldo e vuoi rinfrescarti. Non c’è mica bisogno di fare tutta ‘sta strada per venire fino a qui, che è anche pericoloso.»

Agnese si stringe nelle spalle e pensa che non sono proprio per niente affari del ‘Tilio, quello che fa lei. Prima che lei possa replicare, però, il Mengo, ch’è guercio e che secondo la mamma è anche un po’ un porco, ridacchia. «Lo so io, che cosa ci è venuta a fare, qui.» La piccola lo guarda, solo blandamente allarmata. Tanto non ci crederebbe nessuno, se anche dicesse che lei è lì sotto, sul fondo del lago. Be’, a parte forse la Zingara, naturalmente. «È venuta a cercare la bricolla del Fino di Róss» dice infatti il Mengo, e lei scuote la testa: quella è una storia a cui non ha nessuna intenzione di credere.

I tre uomini ridono, come se la battuta fosse estremamente divertente: il Fino di Róss era un mitico contrabbandiere che, nel folklore locale, era scomparso nel nulla in una notte d’inverno, seppellendo però da qualche parte la sua bricolla, un sacco pieno zeppo di oro e franchi svizzeri che aveva portato di nascosto in Italia. Si narrava che avesse stretto un patto con il Diavolo, chiedendogli di aiutarlo a sfuggire dai burlandòt e di conservare intatto il suo tesoro: il Maligno l’aveva accontentato, ma, com’era suo costume, aveva voluto in cambio l’anima del Fino di Róss, condannando il contrabbandiere a un’eternità passata a guardia del suo tesoro perduto.

Quella è la storia che si racconta ai bambini: il nonno di Agnese le ha detto che il povero Fino era scivolato su una lastra di ghiaccio e si era sfracellato sulle rocce a picco sul fiume, rompendosi l’osso del collo per portare in Italia un po’ di sigarette. Agnese ci crede, al nonno, e la battuta del Mengo le sembra stupida. Voleva forse prenderla in giro?

«No, volevo cercare qualche spugnola» dice allora, indovinando perché i tre uomini sono lì, a zonzo per i boschi. Sono troppo vecchi per andare a lavorare; sono troppo vecchi anche per andare in guerra, come il papà di Agnese, che è in Russia da tanti, tanti mesi. Anche il Zepp c’era stato, in Russia, ancora prima che Agnese nascesse. Però non doveva essergli andata tanto bene, perché è tornato indietro che parlava in un modo strano e ogni tanto guarda la gente con la faccia di uno che non è mica tanto a posto.

«E le hai trovate?» le chiede il ‘Tilio, con la faccia di uno che non ci crede.

Agnese fa le spallucce. «No, non ne ho trovate. Tra un momentino torno a casa.» Ha fretta di rimanere da sola: sa che finché quei tre saranno lì con lei, lei non si farà vedere, e la bimba non ha nessuna intenzione di tornare a casa senza averla almeno salutata.

«Vieni con noi, ti accompagniamo» le propone il ‘Tilio. «Ti facciamo vedere dove cercarle e ti aiutiamo anche a riportare a casa il Mario.»

«No, grazie» scandisce Agnese, con l’affettata educazione che le ha insegnato la maestra a scuola. Confusamente, la bambina avverte che il ‘Tilio ha paura che si metta nei guai, rimanendo da sola, e la cosa la irrita: è abbastanza grande per badare a un bambino di nemmeno un anno, ma non è abbastanza grande per starsene in piedi sulle rive di un laghetto?

I tre uomini la guardano ancora per qualche istante, poi scuotono la testa e si allontanano borbottando. Sicuramente si stanno lamentando di quanto sia sfacciata e disobbediente, ma ad Agnese non interessa. Sorridendo, li guarda sparire dietro la curva del sentiero, inghiottiti dalle foglie dei castani e dei frassini.

Nella sua culla fatta di rami di nocciolo, Mario sgambetta e sbadiglia, ma, per una volta, non piange. Forse anche lui è contento di non essere più in compagnia di quei tre sconosciuti.

«Finalmente» sorride Agnese, chinandosi per cogliere un fiore di trifoglio.

Finalmente, risponde l’acqua del lago, in un gorgoglio di bollicine.

Finalmente.

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Capitolo 3
*** 2. Il Dream ***


Oggi

«Hai capito quello che ho detto?»

La domanda urlata di Alessandra fece trasalire Caterina e persino Matteo, il ragazzo di Alessandra, sobbalzò sul posto, sollevando per un istante lo sguardo dallo schermo dell’iPhone che teneva stretto tra le mani.

«Eh?» strizzando gli occhi per leggere quantomeno il labiale dell’amica, Caterina si sporse al di sopra del piano bianco del tavolino che la separava dagli altri due ragazzi, facendo attenzione a non rovesciare i bicchieri da cocktail posati su di esso. «Non sento un tubo!»

Alessandra sospirò e disse qualcosa, ma il suono delle sue parole si perse nel frastuono che riempiva il locale. Che posto di merda, pensò Caterina, facendo scorrere lo sguardo all’interno della grande sala gremita di gente. Sebbene il Dream fosse un locale alla moda che attirava frotte di clienti già da un paio di anni, quella era la prima volta che Caterina ci metteva piede e, se fosse stato per lei, sarebbe stata certamente anche l’ultima. Era più tipa da pub irlandesi, lei, con i loro confortanti angoli bui e consunti tavoli di legno spesso: le luci violette del Dream, che pulsavano al ritmo della musica che fuoriusciva dagli altoparlanti posizionati un po’ ovunque, stavano iniziando a farle venire il mal di testa.

Alzandosi in piedi ed ergendosi in tutto il suo metro e cinquantacinque centimetri, Alessandra si piegò in avanti, riuscendo così a raggiungere l’orecchio dell’amica. «Ho detto che ho parlato con Mattia, il tipo che gestisce ‘sto posto: tra due sabati potremo suonare qui. Una figata, no?»

Davanti ai brillanti occhi scuri della giovane, carichi di aspettative, Caterina fece del proprio meglio per fare buon viso a cattivo gioco. Alessandra aveva sempre amato cantare ed erano quasi dieci anni che si esibiva come vocalist di un piccolo gruppo che proponeva pezzi rock: in qualità di sua migliore amica, Caterina era presente a quasi tutte le loro serate. Sforzandosi di distendere in un sorriso le labbra pallide, la giovane annuì debolmente. «Che bello.»

Nell’udire quella risposta tiepida, Alessandra le lanciò un’occhiata indagatrice, ma, prima che potesse dire dell’altro, una giovane cameriera si fermò accanto al loro tavolo. «Posso portarli via?»

Caterina fece appena in tempo a intravvedere il suo viso perfettamente truccato e il suo seno abbondante, che la camicetta bianca, sapientemente sbottonata, faceva ben poco per mascherare, che la mano della ragazza calò sul mojito che la giovane aveva bevuto solo per metà. «Aspetta un po’!» sbottò con malagrazia, lanciandosi in difesa del proprio bicchiere e afferrandolo a due mani. «Ti sembra che abbia finito?!»

La cameriera ritrasse immediatamente la propria mano e osservò con evidente sdegno il viso della ragazza, struccato e inondato di lentiggini, poi ritirò i bicchieri vuoti di Alessandra e Matteo e girò sui tacchi, non prima di aver lanciato un ultimo sguardo carico di antipatia in direzione di Caterina.

«Minchia, Cate, datti una calmata!» la rimbrottò Alessandra, incrociando le braccia attorno al petto e facendo tintinnare i braccialetti che le adornavano i polsi sottili. ­«Quella povera disgraziata stava solo facendo il proprio lavoro: si può sapere perché sei così nervosa?»

Caterina affondò gli incisivi nel labbro inferiore, irritata dall’osservazione dell’amica. «Ho mal di testa» borbottò, voltandosi per cercare la borsetta adagiata sulla panca al suo fianco. Sono sicura di avere una tachipirina o qualcosa del genere, pensò, evitando di incontrare per qualche istante gli occhi di Alessandra. Appena le sue dita sfiorarono la pelle scamosciata della borsa, però, questa scivolò via dal sottile cuscino viola sul quale era appoggiata e cadde a terra, riversando il proprio contenuto sul pavimento lucido.

«’fanculo!» ringhiò la ragazza, tuffandosi sotto il tavolo per recuperare i propri averi. Confusamente avvertì la voce di Matteo che le chiedeva se avesse bisogno di una mano, ma la ignorò, continuando a gettare all’interno della borsetta ciò che ne era fuoriuscito pochi istanti prima. Ci mancava solo questa, pensò, esasperata, allungandosi per raggiungere una penna che era rotolata a un metro di distanza. Quando riuscì a riemergere dal pertugio in cui si era infilata, la giovane si alzò bruscamente in piedi. «Vado un attimo in bagno» annunciò seccamente.

Abituata ai suoi sbalzi d’umore, Alessandra si limitò a fare un vago cenno d’assenso, mentre Matteo, che la conosceva ancora poco, le rivolse un sorriso lievemente imbarazzato. Volgendo le spalle agli amici e passandosi una mano tra i lunghi capelli ramati, Caterina ispirò profondamente, cercando di calmarsi e di alleviare il dolore sordo che le pulsava nella tempia destra. Il Dream era stracolmo di gente che chiacchierava, rideva e si accalcava tutt’attorno al lungo bancone del bar. A pochi tavoli di distanza, un gruppo piuttosto nutrito di giovani donne era impegnato a festeggiare un addio al nubilato: le damigelle, palesemente alticce e con delle improbabili alucce di peluche fissate alla schiena, ballavano in maniera scompagnata, senza curarsi di invadere lo spazio vitale degli altri avventori.

Che tradizione demenziale, pensò Caterina, orripilata. Irrompendo senza scrupoli nel bel mezzo del trenino improvvisato, la ragazza puntò decisa verso l’insegna lampeggiante che indicava la toilette. Mentre passava loro accanto, alcune delle giovani smisero di danzare e la squadrarono da capo a piedi. Sentendo su di sé gli sguardi di quelle sconosciute, Caterina avvertì le proprie guance farsi improvvisamente più calde: lei odiava dare nell’occhio, essere al centro dell’attenzione. Ogniqualvolta sentiva di essere osservata, si trovava a desiderare di essere qualche decina di centimetri più bassa: superava abbondantemente il metro e ottanta di altezza, il che le dava l’impressione di essere troppo alta, troppo sgraziata, troppo vistosa.

Allungando il passo per allontanarsi dal gruppetto, la ragazza scartò bruscamente di lato per schivare un cameriere che si dirigeva verso uno dei tavoli reggendo su un’unica mano un vassoio con quattro o cinque calici di vino e, così facendo, venne investita da un altro uomo, che le si aggrappò alle spalle per evitare di finire a terra.

«Scusa, scusa» bofonchiò quello, e Caterina storse il naso quando avvertì il forte sentore di alcol nel suo fiato. L’ubriacone anche no, grazie! Pensò, sottraendosi alla sua presa e sputando un “non fa niente” che con ogni probabilità non raggiunse mai le orecchie dell’uomo.

Quando finalmente riuscì a guadagnare la porta del bagno, la giovane vi si lasciò quasi cadere contro, aprendola di scatto e poi chiudendola altrettanto rapidamente dietro di sé. Salva, pensò, mentre un’ondata di sollievo la percorreva da testa a piedi. Lo stanzino era miracolosamente vuoto, pulito e, soprattutto, silenzioso. La spessa porta di legno che separava l’antibagno dal resto del locale tagliava fuori il suono delle voci e il rombo della musica, facendo penetrare solamente un brusio ovattato troppo lieve per peggiorare l’emicrania di Caterina.

Sospirando e sentendo un poco di tensione scivolarle via dalle spalle, la giovane raggiunse il ripiano di granito che ospitava i lavabi e vi si appoggiò di peso, scrutando il proprio riflesso nello specchio posto al di sopra di esso. Aveva l’aria stanca. La sua pelle, sempre pallida, appariva ora quasi traslucida, secca e tirata sugli zigomi sporgenti. Le lentiggini, troppo abbondanti e troppo vistose per poter essere definite sbarazzine, arrivavano a sfiorare le profonde occhiaie scure che le cerchiavano gli occhi, dandole un aspetto decisamente poco sano. Sembro già vecchia, pensò Caterina, toccandosi con l’indice un angolo delle labbra sottili e tirando la ruga piccola, ma visibile, che da qualche anno si era formata nella pelle. Ho venticinque anni e sembro già vecchia. Persino i suoi occhi, dal taglio un po’ triste e di un indefinibile colore tra il marrone e il verde, avevano un’aria un po’ retrò. Forse dovrei truccarmi un po’, considerò Caterina, ripensando alla cameriera che aveva cercato di sottrarle il mojito e al suo impeccabile eyeliner scuro. Forse dovrei smetterla di prendermela per ogni minima idiozia…

In quel momento, la porta dell’antibagno si aprì nuovamente e due ragazzine che di certo non potevano essere maggiorenni piombarono davanti a Caterina, ridacchiando convulsamente e indicando qualcosa sullo schermo dello smartphone di una delle due. Accorgendosi di non essere sole, le due ammutolirono per un istante, ma poi ripresero a confabulare tra di loro. Quando quella più minuta si mise a sghignazzare stridulamente, Caterina si allontanò rapidamente dallo specchio. Sì, dovrei decisamente imparare a essere più paziente, decretò la giovane. Però facciamo che inizio ad applicarmici domani.

Scacciata da quell’insperata oasi di pace, la ragazza si ritrovò di nuovo nel cuore del Dream e immediatamente venne travolta dalla valanga di rumore e confusione alla quale aveva cercato di sottrarsi qualche minuto prima. Da quella posizione non riusciva a vedere il tavolo al quale erano seduti Alessandra e Matteo, ma era assolutamente certa che i due, che stavano insieme da pochi mesi soltanto, non stessero soffrendo per la sua mancanza. Una boccata d’aria mi farà bene, pensò Caterina, adocchiando la porta d’ingresso del locale.

Appena ebbe messo piede all’esterno, si trovò avvolta da una nuvola di fumo di sigaretta e represse un sorriso esasperato. Naturalmente, pensò. Sebbene avesse lei stessa fumato per un breve periodo della sua adolescenza, la ragazza si era ormai lasciata alle spalle quel capitolo della sua esistenza e non aveva alcuna intenzione di respirare le esalazioni emesse dagli altri fumatori. Molto meglio godersi la meravigliosa solitudine notturna di un parcheggio brianzolo, si disse, allontanandosi lentamente dalla folla radunata davanti alle porte a vetro del Dream.

Quando si fu allontanata di qualche decina di metri, estrasse il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e si lasciò scivolare su un muretto di cemento armato. Sono solo le undici e venti, notò, demoralizzata. L’Ale non vorrà mai andare a casa prima di mezzanotte… giuro che questa è l’ultima volta che mi faccio trascinare in ‘sto schifo di un posto. E chi se ne frega del suo concerto!

Trovando ben poco allettante la prospettiva di gettarsi nuovamente nella bolgia infernale all’interno del locale, Caterina diede un’occhiata al proprio profilo Facebook e Instagram e poi rabbrividì, mentre un refolo di aria fredda si infilava nel retro della maglietta leggera che indossava. Anche se la primavera era già sbocciata da un paio di settimane, di sera le temperature erano tutt’altro che estive. Improvvisamente Caterina si rammaricò di avere lasciato il proprio golfino nella borsa che aveva abbandonato al tavolo con Alessandra e Matteo. Per fortuna, però, ho in tasca le chiavi della macchina. Era una ragazza previdente, lei, e teneva sempre sul sedile posteriore della sua Clio un giubbino leggero. E questo è il momento di usarlo… se solo mi ricordassi dove diavolo abbiamo parcheggiato.

Per sua sfortuna, il senso dell’orientamento non rientrava tra le sue doti e Caterina ci mise qualche minuto a ricostruire la strada che lei e gli amici avevano fatto per raggiungere il locale. Il Dream si trovava in quella che era un’ex aria industriale e per questo era dotato di un parcheggio immenso, senza grandi punti di riferimento che potessero aiutare la giovane a individuare rapidamente la propria auto.

Però, se non sbaglio, dovrebbe essere laggiù… ora che ci penso, l’abbiamo lasciata sul retro. Quel cartellone dall’altra parte della strada mi ricordo di averlo visto.

Era meno vicina di quanto le sarebbe piaciuto, ma voleva godere ancora di qualche minuto di tranquillità prima di raggiungere nuovamente gli amici. Dopo essersi stiracchiata pigramente, Caterina si avviò verso il lato opposto del parcheggio, giocherellando distrattamente con il bordo liscio del sottile portachiavi metallico che aveva estratto dalla tasca.

Certo che potevano anche metterla, qualche luce in più, osservò la ragazza, notando che il parcheggio era più buio di quanto non le fosse sembrato in un primo momento. Se si escludeva il rombo delle macchine che correvano sulla superstrada poco distante e l’eco della musica che proveniva dal locale, il silenzio era quasi totale. Non c’erano voci, non c’era il frusciare del vento, non c’era nemmeno il canto dei grilli che aveva accompagnato la maggior parte delle notti della sua vita. C’era però l’odore dell’asfalto caldo, acre, penetrante, appena intaccato dal sentore dei gas di scarico e della benzina.

Improvvisamente, Caterina udì dei passi alle proprie spalle.

«Aspetta!»

Ancor prima di voltarsi, la ragazza seppe che non si trattava di nessuno che conosceva. Irrigidendo istintivamente i muscoli delle gambe e delle braccia e trovandosi a stringere le dita sulle chiavi dell’auto, la giovane ruotò lentamente sui tacchi, trovandosi così a fronteggiare la persona che la stava seguendo.

Oh, cazzo. Anche se prima non l’aveva visto bene, le bastò un’occhiata per capire che l’uomo che le stava davanti era lo stesso che l’aveva travolta qualche decina di minuti prima all’interno del locale, quando aveva cercato di raggiungere il bagno. È l’ubriacone. Quanto avrà bevuto? Se la sarà presa per come l’ho trattato?

Cercando di cogliere qualche informazione in più sullo stato psicofisico dell’individuo, Caterina fece scorrere su di lui un’occhiata rapida, ma minuziosa. Era giovane, indiscutibilmente bello e con un fisico di tutto rispetto, a giudicare da quello che riusciva a intravvedere nella penombra, ma quelle informazioni non le parvero di alcuna rilevanza, considerate le circostanze. Dev’essere alto più o meno quanto me, considerò, invece. Ma scommetto che è più forte di me, e probabilmente pure più veloce.

Occhieggiando alla propria sinistra, la ragazza cercò di calcolare la distanza che la separava dalle persone intente a fumare davanti all’entrata del locale. Qualcuno l’aveva vista? Qualcuno l’avrebbe sentita, se avesse gridato?

«No, no, cosa guardi?» le chiese l’uomo, avvicinandosi a lei di qualche passo. «Ti ho spaventata? Scusa, non volevo! Non preoccuparti, non voglio farti del male.»

Immediatamente, la giovane indietreggiò, facendo attenzione a non finire intrappolata tra due automobili. Lo sconosciuto si muoveva in modo apparentemente sicuro, segno che, forse, era meno ubriaco di quello che aveva temuto. Allo stesso tempo, però, le sembrava che parlasse in modo leggermente impacciato, come se avesse la lingua impastata. In ogni caso, è meglio non approfondire la faccenda.

«Che cosa vuoi? Non ci conosciamo, lasciami in pace» gli ordinò, facendo del proprio meglio per mantenere un tono di voce ragionevole, ma fermo.

L’uomo si passò una mano tra i capelli scuri, come se l’osservazione della giovane l’avesse messo a disagio. «Sì, lo so, però… prima ti sono venuto addosso. Volevo scusarmi.»

Caterina deglutì. «Scuse accettate» disse, un po’ troppo in fretta. «Adesso sparisci.»

Così dicendo, la ragazza si incamminò decisa verso l’ingresso del locale, cercando di superare l’uomo sulla sinistra. Quello, però, allungò rapidamente una mano e la richiuse sul braccio della giovane. «No, aspetta un attimo. Voglio…»

Senza lasciargli il tempo di terminare la frase, Caterina ritrasse di scatto il proprio braccio. «Lasciami immediatamente!» sibilò, sentendo la paura mescolarsi alla rabbia. Forse avrebbe dovuto veramente urlare per attirare l’attenzione. O forse avrebbe dovuto prenderlo a calci, e al diavolo le conseguenze.

Per tutta risposta, l’uomo ridacchiò, apparentemente divertito. «Va bene, va bene, non ti tocco» disse, sollevando le mani come per dimostrare di essere innocuo. «Tu però me lo dici, il tuo nome?»

«No!» sputò lei, trovando oltraggioso il fatto che quel tizio osasse farle una richiesta del genere.

«Ma…»

«Allontanati immediatamente da quella ragazza.»

Le proteste del giovane vennero interrotte da una voce profonda. Alzando lo sguardo oltre le spalle dello sconosciuto, Caterina vide Hasim, uno dei buttafuori del Dream, avanzare a grandi passi verso di loro. L’uomo aveva conosciuto Alessandra durante un’esibizione della ragazza e da allora erano diventati amici: era stato lui a darle il contatto del gestore del Dream, dicendole che c’era la possibilità di farsi conoscere da un nuovo pubblico. Caterina l’aveva già incrociato un paio di volte, in passato, e le era sembrato una persona per bene, ma mai come in quel momento era stata felice di vederselo comparire davanti.

L’uomo che aveva cercato di approcciarla si voltò di malavoglia verso di lui. «Non sto facendo niente» gli disse, con la voce che tradiva tutto il fastidio di essere stato interrotto.

Senza nemmeno ascoltarlo, Hasim lo raggiunse e lo superò, frapponendo tra lui e Caterina tutta la sua ragguardevole stazza. «Ti ha dato fastidio?» chiese, chinandosi leggermente per incontrare gli occhi della giovane.

Caterina esitò appena un istante, poi si strinse nelle spalle. «Non più di tanto» replicò. Per qualche ragione, l’idea di confessare all’uomo la paura che l’aveva assalita la metteva a disagio. Si sentiva decisamente più tranquilla, ora che lui era al suo fianco e, a conti fatti, quell’idiota non aveva fatto nulla di eccessivamente minaccioso. Forse perché non ne avuto il tempo, si disse, soffocando però subito il pensiero.

«Ne sei sicura?» insistette Hasim, gli occhi neri luminosi nel buio della notte.

Caterina gli posò una mano sul braccio e gli sorrise. «Assolutamente» lo rassicurò. «Potresti riaccompagnarmi dentro, però? L’Ale penserà che mi sono persa…»

Caterina non si voltò mai, mentre il buttafuori la scortava verso l’ingresso del locale, ma era assolutamente certa che gli occhi dell’altro uomo la stessero ancora seguendo.

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Capitolo 4
*** 3. Un aiuto inatteso ***


Oggi

Caterina alzò gli occhi dalla propria dispensa, la punta dell’evidenziatore ferma a pochi millimetri dalla pagina. Poi riabbassò prudentemente lo sguardo sul paragrafo che stava leggendo, evitando di commentare la scena che si stava svolgendo a poche decine di centimetri da lei.

Halima, il volto rosso quasi quanto l’hijab che aveva indossato quel giorno, stava sottolineando furiosamente alcune frasi che aveva scritto quella stessa mattina. Il tratto della penna era talmente profondo che quasi passava il foglio da parte a parte. «Niente» sibilò la ragazza, arricciando il naso per spingere in su gli occhiali. «Non le va bene assolutamente niente

Caterina contò fino a tre, poi si lasciò sfuggire la frase che mai, per nessun motivo, avrebbe dovuto lasciarsi sfuggire. «Te l’avevo detto, io, che fare la tesi con la Magni non era una buona idea.»

Immediatamente Halima lasciò cadere la penna sul tavolo e si voltò per guardare in faccia l’amica. «E con chi avrei dovuto farla, se non con lei?» sbottò. «Non è che avessi molte alternative, eh! E poi, la mia almeno è una tesi utile, sulla traduzione…»

Cogliendo la frecciatina, Caterina incrociò le braccia davanti al petto scarno. «Pure la mia è una tesi sulla traduzione, sai?» si difese. «Se stai insinuando che non è una cosa utile…»

Halima alzò gli occhi al cielo. «Sì, in effetti è davvero fondamentale che qualcuno si prenda la briga di tradurre degli scarabocchi fatti in una lingua che nessuno parla più da centinaia di anni…»

Arricciando le labbra in una smorfia di disgusto, Caterina afferrò nuovamente l’evidenziatore rosa. «Quanta ignoranza» commentò sdegnosamente.

«… e comunque», riprese Halima, «io almeno studio la traduzione di articoli accademici: non come qualcuno, che traduce incantesimi e formule magiche

Il tono con cui aveva pronunciato quei termini non lasciava alcun dubbio su quale fosse l’opinione che la ragazza aveva a proposito dell’argomento scelto dall’amica per la propria tesi di laurea. Esasperata, Caterina sospirò. «Ma cosa ne vuoi sapere, tu, che nemmeno hai mai fatto Filologia Germanica. E poi ci sono anche benedizioni, ricette mediche… sono testi di un’enorme rilevanza culturale, sai?»

«E allora? Se volete chiacchierare, andate in corridoio o in cortile!» Evidentemente disturbata dalla loro discussione, la ragazza con la quale dividevano il tavolo le richiamò all’ordine, facendo loro notare che, in effetti, la biblioteca dell’università non era il posto migliore in cui fare conversazione. Decidendo di lasciare cadere l’argomento, Caterina tornò a dedicarsi alla noiosissima dispensa che illustrava gli elementi base del marketing.  

Posso dire che non me ne frega assolutamente nulla delle “4P del Marketing Mix”? Si chiese, colorando con la punta dell’evidenziatore la freccetta curva che recava la dicitura “Price”. Forse Halima non aveva tutti i torti, quando diceva che l’argomento con il quale aveva scelto di laurearsi non aveva la benché minima utilità pratica. Ma chi se ne frega? Una volta uscita da qui, mi andrà già bene se troverò un impiego come stagista addetta alle fotocopie: tanto vale che mi concentri su un argomento che mi interessa, no?

E la traduzione di antichi testi germanici e anglosassoni le interessava davvero. Era quasi come un gioco enigmistico, per lei: le piaceva concentrarsi sulle parole arcaiche trascritte dagli antichi monaci, con la loro grafia incerta e fluida nella forma, la divertiva formulare ipotesi su termini per i quali non esisteva una traduzione ufficiale e trovava estremamente soddisfacente riuscire a trarre una traduzione di senso compiuto da quella che, a prima vista, sarebbe potuta sembrare un’accozzaglia di parole senza senso.

Quando traduceva, Caterina si trovava immancabilmente a fantasticare sul contenuto dei testi che aveva sotto gli occhi. Leggeva di ortiche, piantaggine e altre piante medicinali e la sua mente correva inevitabilmente ai pomeriggi della sua infanzia quando, in primavera e in estate, si ritrovava a ruzzolare tra boschi e prati, cogliendo fiori e preparando intrugli fantasiosi con tutte le erbe che le capitavano a tiro. Erano ricordi che sapevano di libertà, spensieratezza e prati assolati ed erano sufficienti per allontanare un poco la noia di ore intere passate seduta alla scrivania.

La sua tesi era ormai a buon punto, sebbene la sua relatrice, la Professoressa Boschi, non fosse meno intransigente di quella scelta da Halima. Il problema era che tra lei e la discussione finale si ergeva un ultimo ostacolo, apparentemente insormontabile: l’esame di Marketing 1, al quale la ragazza era già stata bocciata due volte. Del resto, come diavolo faccio a studiare su una dispensa ultra-sintetica, quando del corso avrò frequentato sì e no due lezioni?

Dopo un’altra mezz’ora di studio silenzioso, Halima si tolse gli occhiali e, sbilanciandosi indietro sulla sedia, si stiracchiò platealmente. «Sai che ti dico?» annunciò, lanciando un’occhiata al proprio orologio da polso. «Io me ne vado: per oggi ho fatto fin troppo. Se mi do una mossa, riesco a prendere l’autobus delle 16:15 e non devo aspettare quello delle 17:30.»

Chiudendo di scatto la dispensa, Caterina annuì. «Io resto ancora un po’» disse. «Però faccio pure io una pausa, perché inizio a non capire nemmeno più quello che sto leggendo.» Rapida, la giovane recuperò l’astuccio e il resto del materiale che, durante la sessione di studio, aveva sparso su buona parte del tavolo della biblioteca. Poi infilò il tutto nella consunta tracolla di stoffa verde militare che la accompagnava ormai da sei anni, ovvero dal giorno in cui aveva messo piede per la prima volta all’interno di una delle sedi dell’Università di Bergamo.

«Andiamo?» la spronò Halima, sistemandosi in spalla il proprio zainetto. Mentre percorrevano le ampie scale di pietra che conducevano verso il piano terra e quindi verso il chiostro dell’antico monastero che ospitava il dipartimento di Scienze Umane e la biblioteca umanistica, Caterina lanciò un’occhiata alla macchinetta del caffè posta accanto all’ingresso. Perfetto, pensò, mentre l’ombra di un sorriso le piegava le labbra. È tutta per me!

«Ci vediamo domani, allora?» chiese, rivolta all’amica.

«A domani» confermò Halima, sollevando una mano a mo’ di saluto.

Quando la ragazza si fu allontanata, Caterina posò la tracolla sopra al tavolino ingombro di volantini posto accanto alla macchina del caffè e prese a frugarsi nelle tasche, alla ricerca della moneta da due euro che era assolutamente certa di avervi depositato quella mattina. Eccoti qui, pensò, pescandola dalla tasca dello spolverino che aveva portato con sé per difendersi dalla pioggia sottile che cadeva dalla sera prima.

Mentre si apprestava a selezionare la bevanda, udì i passi leggeri di alcuni studenti che entravano dalla porta e, con la coda dell’occhio, li vide scuotere gli ombrelli nel tentativo di liberarli dalle gocce di pioggia. Sempre senza voltarsi, Caterina prese atto del fatto che qualcuno aveva appena preso possesso della fotocopiatrice posta alle sue spalle, mentre qualcun altro aveva preso posto sugli ultimi gradini della scala che portava al piano superiore e qualcun altro ancora indugiava accanto alla bacheca, leggendone forse gli annunci.

Inizia a esserci un po’ troppa folla, per i miei gusti, si disse, mentre, con la punta del dito, componeva il codice corrispondente a un cappuccino con polvere di cioccolato. Nell’istante preciso in cui la macchina iniziava a ronzare e a preparare quanto le era stato ordinato, la ragazza avvertì una presenza alle proprie spalle.

«Oh, ma sei davvero tu?» le chiese una voce.

Caterina, che si era chinata per raccogliere il resto dall’apposito sportello, si rialzò lentamente, stringendo nella mano le monetine sino a quando non ne avvertì i bordi penetrarle nel palmo. Com’è possibile riconoscere una voce dopo averla sentita pronunciare solo un paio di frasi? Si chiese, mentre il suo cuore accelerava i battiti in maniera del tutto involontaria.

Voltandosi quel tanto che bastava per guardare in faccia il suo interlocutore, la giovane si impose di mantenere un’espressione assolutamente neutra mentre i suoi occhi incontravano quelli dell’uomo che, qualche giorno prima, l’aveva avvicinata nel parcheggio del Dream.

«Cosa vuoi?» lo interrogò, mettendo in quelle parole quanta più ostilità possibile.

Lui parve stupito dal suo tono astioso e sgranò gli occhi, come se la domanda l’avesse colto alla sprovvista. In maniera del tutto indipendente dalla sua volontà, il cervello di Caterina registrò il fatto che quel tizio aveva degli occhi di un blu davvero stupefacente, talmente intenso da farle quasi dubitare che fossero naturali.

«Scusarmi.»

La replica dell’uomo la distrasse dalla sua contemplazione e la ragazza incrociò le braccia davanti al petto, creando inconsciamente una barriera tra sé e lo sconosciuto. «Non me ne faccio niente, delle tue scuse» ribatté asciutta. «E, poi… come facevi a sapere che mi avresti trovata qui?» Mentre pronunciava quella domanda, Caterina sentì una punta di inquietudine morderle lo stomaco. Era forse uno stalker? Un maniaco? L’aveva seguita di nascosto e così aveva scoperto dove studiava? E se avesse scoperto anche dove abito? Si chiese, mentre l’inquietudine raggiungeva per un istante un picco molto simile all’angoscia.

L’uomo si strinse nelle spalle. «In realtà, non lo sapevo. Io…»

«Ti dispiacerebbe muoverti?»

Immersa com’era nel confronto con lo sconosciuto, Caterina non si era accorta che il suo cappuccino era pronto già da diversi secondi e che dietro di lei si era formata una piccola coda di tre persone. La ragazza che le stava alle spalle e che le aveva rivolto la parola con tanta scortesia era decisamente più bassa di lei, ma, in compenso, era equipaggiata con una notevole quantità di borchie e spuntoni di ferro che fuoriuscivano da parti anatomiche piuttosto improbabili. Davanti all’immobilità di Caterina, la ragazzetta – che doveva anche essere piuttosto giovane – sollevò le sopracciglia con aria esasperata. «Beh?»

Muovendosi in maniera del tutto automatica, Caterina recuperò la propria bevanda e si fece da parte, lasciando che gli altri studenti potessero servirsi a loro volta. Subito, il giovane sconosciuto le si fece più vicino. «Come stavo dicendo», riprese, «io non sapevo affatto che ti avrei trovata qui. Ero semplicemente venuto in biblioteca per cercare un libro che mi serve per il mio prossimo esame, tutto qui.»

Caterina avvertì chiaramente lo scricchiolio della plastica del bicchiere che si incrinava sotto la pressione delle sue dita. «Quindi tu studieresti qui?» chiese, piegando le labbra in un sorriso sarcastico. «Strano, non ti ho mai visto.» E sta tranquillo che, se ti avessi visto da queste parti, non mi sarei scordata facilmente di te. Perché quel tipo era bello da fare schifo, inutile negarlo. Gli occhi azzurri erano gradevolmente in contrasto con i capelli scuri, di un castano intenso, tagliati in un taglio curato-ma-non-troppo che lo facevano probabilmente apparire più giovane di quanto in realtà non fosse. La sua pelle aveva quasi un riflesso bronzeo, come di chi sta molto tempo all’aria aperta e può concedersi il lusso di un’abbronzatura sana e graduale, i tratti del suo viso erano eleganti, il naso dritto, le labbra dalla curva morbida… Caterina si concesse una breve contemplazione delle sue spalle larghe e dei suoi muscoli che riempivano in modo decisamente suggestivo la camicia che indossava e poi si costrinse a tornare con i piedi per terra e a bere un generoso sorso di cappuccino.

Se l’uomo si era accorto del modo in cui lei l’aveva guardato, non lo diede a vedere. Anzi, aggrottò leggermente la fronte, come se fosse stato turbato dalle parole della giovane. «Ehm… in realtà ci siamo già visti. Ci siamo anche già parlati: non ti ricordi?»

Per un brevissimo istante, Caterina si ritrovò a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. «No» ribatté poi, risoluta.

Il giovane inclinò leggermente la testa di lato, sfoggiando quello che alla ragazza parve un sorrisetto leggermente imbarazzato. «Quest’autunno, sempre qui in biblioteca… la fotocopiatrice che si mangiava i fogli, tu che tiravi dalla parte sbagliata e li sbriciolavi, scomodando nel frattempo tutti i santi del Paradiso…»

Improvvisamente, un flashback si palesò nella mente della ragazza. Adesso che ci pensava meglio… ora che glielo aveva fatto venire in mente, aveva come un vaghissimo ricordo di lui che le mostrava come liberare i fogli incastrati… «Oh» commentò, mentre le guance le si arrossavano un poco per l’imbarazzo.

L’uomo si aprì in un gran sorriso e lei ebbe l’impressione di rimanerne abbagliata. «Ti ricordi, adesso?»

Nel tentativo di non fissarlo con troppa insistenza, la giovane finì il cappuccino. «Sì, mi ricordo» replicò sbrigativa. «Questo non toglie però che l’altra sera tu ti sia comportato come un grandissimo stronzo. Continuo a non avere niente da dirti.»

«Ma almeno ti sei convinta che non sono uno stalker?» le chiese, indovinando i pensieri che le erano passati per la mente qualche minuto prima.

Lei annuì. «Sì. Non sono assolutamente fisionomista, ma, in effetti, ora ricordo di averti già incrociato da queste parti.»

«Bene» commentò lui. «Senti, capisco che tu voglia liberarti di me il prima possibile, ma me li dedichi, cinque minuti? Probabilmente a te non te ne fregherà niente, ma vorrei spiegarti perché l’altra sera mi sono comportato in quel modo… voglio dire, di solito non le faccio, quelle cose.»

Caterina gli lanciò un’occhiata scettica. Avrebbe voluto rispondergli che non sapeva cosa farsene, delle sue spiegazioni, ma doveva ammettere di essere curiosa. «Cinque minuti» acconsentì, incrociando le dita e sperando di non aver fatto la scelta sbagliata.

Mentre lei recuperava la tracolla, lui le porse una mano a mo’ di presentazione. «Io sono Michael: ti va se ci sediamo un attimo nel chiostro, che c’è un po’ più di spazio?»

Lei gli strinse appena la mano, ritraendosi velocemente quando si accorse di avere le dita sgradevolmente fredde e anche un po’ sudaticce. «Caterina. Va bene.»

Quando raggiunsero la prima arcata libera e vi si sedettero, Michael abbassò brevemente lo sguardo sulle proprie scarpe da ginnastica, come se stesse cercando le parole migliori per introdurre il discorso. «Avevo bevuto. Cioè, non che di solito io sia esattamente astemio, ma l’altra sera avevo decisamente esagerato. Per un motivo davvero stupido, tra l’altro: avevo litigato con il mio migliore amico per una cavolata e lui mi ha dato buca all’ultimo minuto. Avremmo dovuto trovarci direttamente al Dream, ma quando ero già lì da un pezzo Lorenzo mi ha scritto per dirmi che non aveva voglia di uscire.»

«Mh» commentò Caterina, senza riuscire a mostrare un eccessivo coinvolgimento.

«Be’, oramai ero lì e mi sembrava stupido tornare a casa» continuò Michael. «Sono entrato, poi ho visto che c’era quella festa di addio al nubilato, le ragazze mi sembravano tutte sull’allegro andante e, come dire… ho pensato che ci fosse la possibilità di divertirsi un po’. Da sobrio non riuscirei mai a rimorchiare una ragazza ubriaca persa, quindi ho pensato di adeguarmi al loro stato…»

«Che mossa intelligente» commentò Caterina sarcastica. «Voglio almeno sperare che tu non abbia una ragazza, perché altrimenti saresti proprio pessimo.»

Gran bella mossa, Cate! Si disse, congratulandosi silenziosamente con se stessa per la nonchalance con cui si era accertata dell’esistenza di un’eventuale fidanzata. Non che la cosa le interessasse, naturalmente: la sua era solo una curiosità scientifica, nel caso nel futuro ci fossero stati sviluppi interessanti.

«No, nessuna ragazza» la rassicurò lui, con un sorriso che le fece temere che la sua mossa non fosse stata tanto abile, dopotutto.

Senza lasciare che l’imbarazzo si impossessasse di lei, Caterina scrollò le spalle. «Debbo quindi dedurre che le fatine dell’addio al nubilato ti abbiano mandato in bianco e che tu ti sia gettato sulla prima sfigata che ti è capitata a tiro? Oppure hai molestato tutte le ragazze del locale?»

Lui scosse mestamente il capo. «Ma no… è solo che, ubriaco com’ero, al primo sguardo mi hai ricordato una persona che conoscevo. Poi ho capito che non eri lei, ma… boh, non lo so, cos’ho pensato. Probabilmente non ho pensato affatto. Però non volevo farti del male. Non te l’avrei mai fatto.»

La ragazza si irrigidì, ricordando per un istante la paura che l’aveva colta, prima che Hasim accorresse in suo aiuto. «Voglio sperarlo» commentò, più bruscamente di quanto avrebbe voluto.

Quando comprese che non avrebbe aggiunto dell’altro, Michael annuì e poi si alzò in piedi. «Va bene. È tutto qui, volevo solamente scusarmi per come mi sono comportato.»

Pareva onestamente dispiaciuto per il suo comportamento e Caterina si sentì un po’ meno intransigente nei suoi confronti. «Va bene» sospirò, rivolgendogli poi un mezzo sorriso.

Ricambiando il sorriso, il ragazzo si chinò per raccogliere la tracolla che la giovane aveva posato a terra e poi inclinò il capo per leggere meglio il titolo della dispensa che vi faceva capolino. «Bello!» esclamò, con un entusiasmo nuovo. «Studi marketing?»

Lei gli rivolse uno sguardo annoiato. «Studio lingue straniere. Marketing è l’ultimo esame che mi manca. Ah, e mi fa schifo.»

Michael le rivolse un sorriso smagliante. «Io sto facendo un master in marketing» la informò amabilmente.

Ecco, perfetto, pensò la ragazza, chiedendosi se avesse appena fatto una gaffe. «Cioè, forse mi fa schifo perché non ci capisco niente» disse, sentendo il bisogno di correre ai ripari. «Non ho praticamente mai seguito il corso e la dispensa che mi hanno dato è troppo schematica…»

«È fatta male?» indagò Michael, estraendola dalla borsa e sfogliandola rapidamente. Caterina osservò il suo viso contrarsi in un’espressione concentrata, poi il giovane richiuse il fascicoletto con uno schiocco e sospirò. «In effetti, ‘sta cosa qui va bene per ripassare, ma non per studiare partendo da zero. Se vuoi posso consigliarti un paio di libri, ma probabilmente sarebbero troppo avanzati, considerato quello che mi pare essere il livello del corso che avresti dovuto frequentare. Oppure, se preferisci, posso prestarti la mia, di dispensa, con i miei appunti.»

Caterina lo guardò sorpresa. «La tua dispensa?» ripeté, per essere certa di aver capito bene.

L’uomo annuì. «Sì: quella del corso base, ovviamente. Ha ormai qualche anno, ma credo che vada bene comunque. A te serve solo conoscere le basi, dopotutto. Se vuoi, te la porto qui in università.»

La giovane esitò. Era tentata di accettare. Era molto tentata di accettare. Se, da un lato, non voleva dare troppa corda a Michael – dopotutto, il suo comportamento al Dream non le era piaciuto per niente – dall’altro lato lei aveva un disperato bisogno di appunti decenti, se voleva sperare di non essere bocciata per l’ennesima volta.

E poi, se proprio ce ne fosse bisogno, potrei sempre chiedergli di darmi lezioni private… soffocando quel pensiero sul nascere, la ragazza annuì. «Saresti gentile, grazie.»

Michael si schernì. «È il minimo che possa fare, visto come mi sono comportato. Vedo quali sono i miei impegni per i prossimi giorni e poi ti faccio sapere quando possiamo trovarci: mi dai il tuo numero di cellulare?»

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Capitolo 5
*** 4. La Zingara ***


Quasi cent’anni prima

È autunno e il sole placido riscalda le ampie foglie delle viti, ravvivandone i riflessi scarlatti. Il sole splende a lungo, su quel lato della valle, ed è per questo che qualcuno, parecchio tempo fa, ha deciso di piantarci un piccolo vigneto. L’uva cresce bene, lì, anche se il terreno è impervio e il pendio così ripido che, se appena ti scappa un piede, scivoli e rotoli verso valle per parecchi metri.

Agnese slitta da un terrazzamento all’altro, allungandosi tra la polvere e l’erba e strisciando per raggiungere i grappoli più bassi, quelli che crescono quasi a contatto con il terreno e che, qualche volta, prendono anche un po’ il sapore ferruginoso della terra. È un compito che spetta a lei, quello, perché è la più piccola e minuta tra tutte le persone che si sono date appuntamento per vendemmiare: gli adulti farebbero troppa fatica, se dovessero cogliere quei grappoli così nascosti.

Stringendo tra le manine una cascata di grossi acini succosi, di un viola così scuro da sembrare quasi nero, la bambina rotola su un fianco e poi si mette seduta, allungando davanti a sé le gambe e agitando un pochino i piedi. È un lavoro scomodo, quello che le hanno assegnato. Le fa venire uno strano formicolio ai polpacci e alle piante dei piedi, quasi che un’infinità di formiche avessero preso a correre avanti e indietro sulle sue gambe.

Anche Giovanni e Alberto corrono avanti e indietro. Agnese guarda con disapprovazione i suoi due fratelli maggiori, intenti a rincorrersi tra i filari: si sono stancati di lavorare e ora giocano alla guerra, lanciandosi l’un l’atro manciate di acini marci. Quando uno dei ragazzini sfiora una delle grosse gerle colme d’uva, rischiando di rovesciarla, la bambina trattiene il fiato. «Issä mochìllä» abbaia la mamma, adesso finitela. Alberto è più grande e schizza via, ma Giovanni non è abbastanza rapido e la mamma lo affetta per la collottola, sollevando una mano e minacciando di tirargli uno scappellotto. Agnese abbassa il viso verso le ginocchia e ridacchia. Se fossero stati soli, gliel’avrebbe tirato per davvero, lo scappellotto, ma qui ci sono tutte le amiche della mamma e lei non ha voglia di arrabbiarsi. Giovanni è stato fortunato.

La bambina è giunta alla fine di un filare e si prepara a passare a quello successivo, qualche metro più in basso, quando le donne che lavorano con lei alla vigna salutano qualcuno. Alzandosi sulla punta degli scarponcini consunti, che sono passati da Alberto a Giovanni e infine a lei, Agnese scorge una testolina adornata da due brillanti trecce scure. Subito sorride. È Margherita, quella.

Schermandosi gli occhi con una mano sporca di terra, la bambina osserva l’amica guardarsi in giro e poi arrampicarsi rapidamente su per il pendio, affrettandosi a raggiungerla. Margherita non deve lavorare alla vigna e il suo vestitino azzurro, il suo maglioncino color panna e le calze immacolate sembrano quasi risplendere, se confrontate agli abiti macchiati e un po’ rovinati indossati da Agnese.

Con le guance pallide leggermente arrossate dalla salita, Margherita si lascia cadere a terra accanto all'amica, ripiegando compostamente le gambe cosicché la sottana non salga troppo. "La Zingara vuole vederci" le dice, con un ansito nella voce che è solo in parte dovuto allo sforzo fisico.

Agnese aggrotta la fronte. «Adesso?» chiede, anche se, in realtà, conosce già la risposta.

La bambina bruna annuisce. «Andiamo?»

Agnese esita solo un istante, prima di alzarsi in piedi. Il lavoro alla vigna è tutt'altro che finito, ma sa benissimo che, se è Margherita a chiamarla, la mamma non avrà nulla di ridire: la sua amica ha un cognome importante, uno di quei cognomi che parlano di ricchezza antica e di nobiltà mai del tutto dimenticata e la mamma è contenta di sapere che loro due sono tanto legate.

Cionondimeno, le apparenze sono importanti. «Posso andare a giocare, màm?» chiede, tirando fuori la vocina più dolce che le riesce. La mamma posa a terra la gerla che si era appena caricata sulle spalle e, nel farlo, si sgranchisce un poco la schiena affaticata dal peso eccessivo. Si passa una mano sulla fronte, dove i sottili capelli castani rimangono appiccicati a causa del sudore, poi guarda le persone che ancora si affaccendano attorno alle viti. «Va bene, vai pure» concede. «Torna in tempo per iniziare a preparare la cena, che io faccio tardi.»

Mentre si allontanano dai campi e si dirigono di buon passo verso la casa della Zingara, le due bambine chiacchierano e fantasticano. Chissà che cosa vorrà, questa volta. Chissà quali meraviglie mostrerà loro.

In realtà, non sono mica tanto sicure che sia veramente una zingara: le comari del paese la chiamano semplicemente "La Francesa" o, se vogliono essere più formali, la Signora Mursciù (pronunciato proprio così, perché tanto nessuno lo sa, come si legge o come si scrive, il suo cognome). A loro pare tanto una zingara, però, perché ha la pelle morbida e scura come il caramello, gli occhi di brace e capelli talmente neri da sembrare quasi blu. Non lo sanno, se è giovane o vecchia, perché a sei anni tutti gli adulti sembrano vecchissimi, ma la trovano straordinariamente bella nei suoi abiti colorati. Ad Agnese piacciono tanto i suoi gioielli; Margherita, invece, è attratta da quel suo profumo che non sa definire.

È una donna strana, la Zingara, perché se ne sta quasi sempre in casa. Deve sentirsi molto sola, perché suo marito, il Signor Mursciù, è sempre via per lavoro - in Svizzera, dicono. Agnese ha di lui un'immagine estremamente vaga: un uomo grande e grosso, ma con un braccio soltanto. La Zingara gliel'ha raccontato, che fine ha fatto, quel braccio mancante: se l'è mangiato un cane gigante contro cui il Signor Mursciù ha combattuto tanto tempo fa, prima ancora che Agnese nascesse. A volte la bambina pensa che deve fare un male terribile, farsi mangiare un braccio da un cane.

Dal momento che è sempre tanto sola, la Zingara invita spesso le signore a casa sua a bere il tè. E fin qui non ci sarebbe niente di strano. Quello che la mamma trova un po' strano - e che il papà troverebbe molto strano, se lo sapesse - è che alla Signora Mursciù sembra piacere anche la compagnia di Agnese e Margherita. Di fronte a quell'amicizia tanto singolare - ma che, in fin dei conti, non fa male a nessuno - la gente del paese scuote la testa e si dice che forse alla Francesa piace avere attorno le bambine perché sono ragazzine curiose e spigliate. Lei non ha figli e forse il loro chiacchiericcio rallegra le sue giornate.

La realtà, ovviamente, è ben diversa.

Arrivate in paese, le due bambine si arrampicano su per il viottolo acciottolato che conduce alla casa che il Signor Mursciù ha preso in affitto quando è arrivato in Italia. È una casa bella, forse una delle più belle del paese. Ha la facciata intonacata di fresco e attorno alle finestre c'è un bordino azzurro che, chissà perché, fa sembrare tutto più grande e più luminoso.

L'elegante portone di legno di noce è chiuso, ma ormai le bambine sanno che non hanno bisogno di annunciarsi e di attendere che qualcuno venga ad accoglierle. Margherita, che è più alta della compagna di una buona spanna, afferra la maniglia e spinge. Eccole, le scale che conoscono tanto bene: di un verde grigiastro che le fa sempre pensare al freddo, illuminate dalla luce che filtra dalle finestrelle linde. C'è sempre un odore di sapone e di pulito, su quelle scale, anche se le bambine non hanno mai visto alcuna domestica intenta a pulirle - e dubitano che sia la Zingara stessa, a farlo.

La curiosità mette loro le ali ai piedi e le ragazzine volano su fino all'ultimo piano, dove sanno che troveranno la Signora Mursciù. C'è un'altra porta, lì in cima, da parte alla ringhiera bassa, che se uno non sta attento e si sporge rischia di cadere di sotto. Agnese apre anche quella e poi chiama: «Siamo arrivate!»

«Di qui» risponde una voce con un delizioso accento straniero.

Di qui” significa nel salotto dove la padrona di caso accoglie gli ospiti e le ragazzine non si fanno pregare. Quando le vede comparire nella stanza illuminata dalla luce morbida delle abat-jour rosse e arancioni, la Zingara sorride. «Hai fatto in fretta» dice, rivolta a Margherita, e Agnese lancia all’amica uno sguardo sospettoso. Mentre la bimba bruna sembra risplendere davanti al complimento fattole dalla donna, la piccola bionda si chiede quando si siano viste, quelle due, e quanto spesso si incontrino senza che lei lo sappia.

La Zingara è seduta sul divano di velluto giallo che sta in fondo alla stanza e con una mano fa segno alle bambine di avvicinarsi. Margherita si siede a terra con le gambe incrociate, Agnese esita un istante, poi sceglie la poltroncina ricoperta di stoffa rossa, quella con le gambe che sembrano serpenti. Ha fatto fatica, oggi, e adesso ha voglia di stare un po' comoda.

Allungando una mano verso il tavolino basso posto accanto il divano, la Signora Mursciù sorride di nuovo. «Volete del tè?» chiede, sollevando un’ingombrante teiera smaltata di rosso. Agnese annuisce subito, ancora prima di Margherita, entusiasta: le piace tanto, il tè della Zingara. Probabilmente perché ci mette talmente tanto zucchero che il gusto amarognolo delle foglie lasciate in infusione è a malapena riconoscibile. Muovendosi con la stessa eleganza dei gatti, la donna versa il tè nelle tazze che aveva preparato prima del loro arrivo, certa, evidentemente, che le ragazzine non avrebbero rifiutato la sua offerta. Agnese osserva come ipnotizzata il liquido ambrato e limpido cadere dal beccuccio della teiera e finire nella tazza, perdendosi oltre i suoi confini e sollevando una nuvola di vapore evanescente.

Quando la Zingara finisce di preparare il tè, Margherita si muove in silenzio e, senza dire una parola, passa una tazza ad Agnese, prendendo poi l’altra per sé. La Zingara è tornata ad adagiarsi contro lo schienale del divano e i suoi occhi scuri e caldi seguono pigramente i movimenti della bambina, ma Agnese, che la sta studiando di soppiatto, crede di vedere un’ombra di impazienza muoversi in quei pozzi neri. Improvvisamente le capita una cosa strana, una cosa che, forse, non le era mai successa, in passato: si sente a disagio. Per una frazione di secondo, sente che vorrebbe scappare via, ma percepisce altrettanto chiaramente che farlo sarebbe maleducato. Quindi, resta e non dice niente.

«Sapete, vi ho chiesto di venire perché volevo che voi provaste questo tè» diche la Zingara, mentre le bambine accostano le tazze alle labbra. «È nuovo, me l’ha mandato mio marito da Ginevra. Il mese prossimo, lui sarà di ritorno: se vi piace, gli chiederò di portarmene una buona scorta.»

Ad Agnese sembra un po’ strano, che la Signora Mursciù le abbia fatte venire fin lì solo per assaggiare un po’ di tè, ma, in fin dei conti, la Francesa a volte è un po’ strana e quindi non è il caso di sorprendersi. La bambina si rigira il liquido sulla lingua, cercando di trovare qualcosa di intelligente da dire. A lei sembra una tisana come tutte le altre. Forse un po’ più aspra. Forse c’è un sentore di miele, sullo sfondo. Forse c’è qualcosa che le ricorda i mandarini che, qualche volta, mangia a Natale.

La Zingara le osserva attentamente e lei si sente in dovere di compiacerla. «È buono» le dice, rivolgendole un piccolo sorriso.

«È troppo aspro» dice, nello stesso istante, Margherita. «Sa un po’ di paglia.»

Di fronte a due reazioni così diverse, la Zingara scoppia a ridere, un suono profondo, che ha il sapore della terra e del fuoco. «Quindi cosa devo fare?» chiede, con un sorriso che le fa risplendere gli occhi come se fossero diamanti neri. «Devo farmene portare un po’ o credete che non ne valga la pena?»

Le bambine si guardano un po' imbarazzate e non sanno cosa rispondere. La donna però agita una mano come per dire che la cosa non è così importante e poi si fa seria. «In verità», dice, «vi ho chiesto di venire a trovarmi anche per un altro motivo.»

Mentre la Zingara pronuncia quelle parole, Agnese sente un rumore ventre dalla stanza con la porta bianca - quella che non è mai stata invitata a superare - e si rende conto che in casa c'è anche qualcun altro. Per un qualche motivo che non sa spiegarsi, la cosa le provoca un dolorino inquieto all'altezza dello stomaco. Con la coda dell'occhio, sbircia Margherita e nota che anche l'amica sembra un po' allarmata, gli occhioni azzurri spalancati e guardinghi.

«Ho ricevuto la visita di un amico», continua la Signora Mursciù, «che mi ha portato delle notizie preoccupanti. Ecco, vorrei presentarvelo.»

Come se stesse aspettando di venire nominato per lasciare il suo nascondiglio e raggiungerle nella stanza dei divani, un uomo fa il suo ingresso nel salotto. È estremamente alto, imponente, e la sua pelle è nera come quella dei personaggi che Agnese vede sulle pagine del Corriere dei Piccoli che a volte le regala lo zio Luigi, o come quella dei bambini africani sulla copertina di certi suoi quaderni di scuola. La bimba pensa che faccia impressione e, senza nemmeno accorgersene, si accartoccia un pochino sulla poltrona, stringendo tra le mani la tazza ancora fumante.

Margherita raccoglie le gambe sotto di sé in una postura da vera signorina e lancia allo sconosciuto un'occhiata che ha quasi il sapore della sfida, ma quello si limita a risponderle con un sorriso gentile. Poi si siede sul divano da parte alla Zingara che, accanto al suo corpo massiccio, sembra quasi una bambina.

«Non avete motivo di temerlo» dice la donna, accorgendosi del turbamento delle ragazzine. «Come vi dicevo, è un amico.»

Agnese lo guarda di sottecchi e pensa che, comunque, lei non ha voglia di dargli confidenza. Si sente timida, un sentimento che non le è famigliare: l'hanno definita sfacciata, maleducata, selvatica, ma mai timida.

La Zingara e l'uomo nero si scambiano uno sguardo da persone adulte e poi la Francesa riprende a parlare. «Vi ricordate di quella volta in cui vi ho raccontato del motivo per cui mio marito e io abbiamo dovuto lasciare la Francia?»

Le bambine annuiscono. Se lo ricordano bene, perché era una storia molto triste e ingiusta: i Signori Mursciù vivevano da molto tempo in un paese bellissimo, perso tra il mare e i campi di lavanda (che, aveva spiegato la Zingara, era un fiore molto profumato), avevano una casa di pietre bianche e molti amici con cui ridere e festeggiare nelle sere d’estate. Un giorno, però, erano arrivati degli uomini malvagi, gelosi della felicità e delle ricchezze che i Signori Mursciù avevano raccolto nel corso della loro vita. Siccome all’epoca il Signor Mursciù aveva già perso il suo braccio destro, non era stato in grado di lottare contro di loro e per salvarsi lui e la moglie avevano dovuto scappare lontano, in un posto talmente sperduto che quegli uomini cattivi non avevano più saputo dove cercarli. Nella fuga, però, avevano dovuto abbandonare gran parte dei loro beni, e tutti i loro amici. Poi era arrivata la guerra, che aveva confuso e spezzato e spazzato via le cose. La Zingara aveva spiegato che era soltanto grazie alla posizione del marito, che conosceva tanta gente importante, che lei poteva continuare a vivere lì senza avere noie di alcun tipo. Agnese non aveva capito bene a cosa si stesse riferendo, ma quelle parole le avevano comunque messo addosso una gran tristezza.

La donna resta in silenzio per qualche attimo, come se stesse cercando le parole più giuste per spiegare quello che ha in testa. «Non ne siamo certi, ma è possibile che uno degli uomini che mi hanno costretta a scappare dal mio paese sia arrivato da queste parti.»

Seduta sul tappeto, Margherita trasalisce. «Ti hanno trovata?» chiede, nella voce una preoccupazione che stupisce Agnese.

«Non l’hanno trovata» dice l’uomo dalla pelle scura. Non c’è traccia di accento straniero, nelle sue parole, come se l’italiano fosse la lingua che ha parlato sin da bambino, come se l’accento altalenante delle valli gli fosse del tutto naturale. «Però è possibile che siano arrivati fino a qui, in un modo o nell’altro. Ed è per questo che vi chiediamo di stare attente.»

«A cosa dobbiamo stare attente?» chiede ancora Margherita, rubando le parole di bocca ad Agnese.

La Zingara sospira. «Voglio che veniate a dirmelo, se degli uomini che non conoscete cercano di avvicinarvi e di parlarvi. Questo è un paese piccolo, sono certa che conoscete tutte le persone che vi abitano: se dovesse capitarvi di vedere dei forestieri di cui non avete mai sentito parlare, fate attenzione e venite subito da me.»

Agnese vorrebbe dire che la sua è una richiesta un po’ bizzarra, perché è vero che il loro è un paesino piccolo piccolo, ma è altrettanto vero che è proprio sulla via per la Svizzera, che è solo là, oltre alla curva della valle. Ne gira tanta, di gente strana, da quelle parti. Soldati, finanzieri, guardie di frontiera che non sono sempre le stesse. Prima che la bambina possa esternare le sue perplessità, la Signora Mursciù si sporge un po’ verso di lei e verso Margherita. «Avete ancora quella boccetta che vi ho dato lo scorso anno?»

Margherita prende subito tra le dita la catenina che porta al collo, quella a cui è appeso un medaglione dorato. È uno di quei medaglioni a cerniera e Agnese sa che, lì dentro, dovrebbe esserci la foto della sorellina dell’amica, morta prima ancora di raggiungere l’anno di vita. All’interno del piccolo scrigno, però, non c’è nessuna foto sbiadita, ma solo una minuscola fiala di cristallo che contiene poche gocce di liquido scarlatto. Margherita la mostra brevemente sul palmo aperto, poi la richiude nel piccolo scrigno d’oro.

Nel vederla, la Zingara annuisce soddisfatta. «E tu?» chiede, rivolta ad Agnese.

La bambina bionda china il capo, mentre le guance le bruciano un poco per la vergogna. «Io ce l’ho a casa» confessa. «Non me la porto mica dietro: io non ce l’ho, un medaglione come quello, e ho paura di perderla o di romperla.»

Lo straniero dalla pelle nera lascia il divano e si accuccia davanti a lei, portando i suoi luminosi occhi scuri allo stesso livello di quelli verdi e freddi della bimba. «È importante che tu l’abbia sempre con te, Agnese» spiega, con voce paziente. La piccola fa appena in tempo a stupirsi del fatto che sappia il suo nome, che l’uomo pesca dalla tasca del panciotto un fazzoletto di quella che sembra seta cruda. Con gesti rapidi e precisi, piega e ripiega il tessuto grigio-argento e, in un men che non si dica, tra le mani tiene un medaglione in tutto e per tutto simile a quello di Margherita, colore a parte. «Ecco» dice, porgendolo alla piccola bionda. «Non ho un cordoncino da darti, ma quello puoi procurartelo da sola. Un normale pezzo di corda andrà benissimo: questo non è il tipo di ciondolo che si stacca e si perde facilmente.»

Agnese lo prende, trattiene il fiato, lo soppesa tra le mani. Non la stupisce tanto il fatto che l’uomo abbia preso un lembo di stoffa e l’abbia tramutato in metallo, quanto piuttosto che abbia deciso di farle un dono tanto prezioso. «Grazie» le scappa detto.

Margherita, che ha seguito affascinata l’intero processo, guarda la Zingara. «Ma c’è qualcuno che potrebbe volerci fare del male?» chiede, aggrottando le sopracciglia scure.

La donna scuote la testa. «È improbabile, ma crediamo che sia meglio essere prudenti.»

Nell’udire quelle parole, Agnese storce appena un po’ la bocca. Lei si fida, della Zingara, ed è abbastanza convinta che, se lei dice che non c’è nulla da temere, allora è proprio così. La bambina stringe nel palmo il medaglione che le è appena stato donato, poi lo lascia scivolare nella tasca che la mamma le ha cucito all’interno del vestitino. Però, per essere sicura che davvero non ci siano pericoli, andrà a trovare la Bestia che vive nel Böch dal Seerp. Sa un sacco di cose, lei, anche più di quante non ne sappia la Zingara, e di certo sarà capace di scacciare tutte le sue preoccupazioni. L’importante è portarle qualcosa di buono in cambio, così che si senta più generosa e abbia più voglia di chiacchierare un po’ con lei.

Mentre è assorta in quei pensieri, Agnese si rende conto che l’uomo dalla pelle scura – che nel frattempo è tornato a sedersi accanto alla Signora Mursciù – la sta fissando da un po’ troppo tempo. La bambina si sottrae al suo sguardo, si nasconde dietro la tazza rossa e, con un paio di sorsate decise, la svuota del suo contenuto. L’ultimo sorso è amaro e polveroso e la bambina si trova a sputacchiare un po’ di foglie tritate che le sono rimaste appiccicate alla lingua.

«Avete finito il tè?» chiede allora la Zingara. Quando le bambine annuiscono – alla fine, anche Margherita ha bevuto ciò che le era stato offerto – la donna ritira le tazze. Prende per prima quella di Margherita, la fa ruotare, l’inclina, ci guarda dentro e poi sorride. Poi fa lo stesso con quella di Agnese. Un giro, due giri, una leggera inclinazione e un colpetto laterale. Alla fine, osserva il fondo anche della seconda tazza.

Solo che, quando lo fa, non sorride affatto.

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Capitolo 6
*** 5. Broken Flag ***


Oggi

 

Weaving tho the eyes are pale,

what will rend will also mend.

The sifting cloth is binding,

and the dream she weaves will never end.

For we're marching toward Algiers.

 

La voce di Alessandra era densa, pastosa, riempiva il locale con le sue note graffiate e un po’ roche. Le veniva bene, cantare Patty Smith. Stringendo distrattamente tra le mani un bicchiere di birra scadente, Caterina osservava la sua amica muoversi morbidamente sul palco.

Questa ragazza è assolutamente camaleontica, pensò, sollevando appena un angolo della bocca in un sorriso sarcastico. Nella vita di tutti i giorni, Alessandra era estremamente curata, amava le camicie ben stirate, il trucco poco appariscente ed era solita domare i suoi selvaggi ricci scuri stringendoli in uno chignon dal quale non sfuggiva una singola ciocca. Eppure, quando si arrampicava – anche solo metaforicamente – su un palco e vestiva i panni della cantante rock, subiva una trasformazione piuttosto sconcertante. Gli abiti neri dall’aria vissuta, che con ogni probabilità conservava in una sezione dell’armadio a loro appositamente dedicata, prendevano il posto di quelli più leggeri e variopinti che portava durante il giorno, il suo trucco si faceva più pesante e drammatico e i suoi capelli venivano lasciati liberi di muoversi liberamente.

Sono abbastanza certa che si alleni di nascosto, giudicò Caterina, notando come Alessandra si gettava dietro le spalle la cascata di riccioli con un gesto armonioso della testa, facendoli atterrare elegantemente sulla propria schiena.

Le luci del Dream, come sempre viola e come sempre pulsanti, disegnavano delle ombre strane sui quattro ragazzi ammassati sul palchetto che i gestori del locale avevano allestito per loro. Il volto di Alessandra sembrava esotico, le labbra gonfie e scure, mentre Samuele, che suonava il basso e che in passato aveva tentato qualche sfortunato approccio con Caterina, sembrava quasi bello.

«Bravi, bravi» commentò la ragazza sulle note finali di Broken Flag. Matteo, appollaiato su uno sgabello di fianco a lei, manifestò il proprio entusiasmo in maniera più vigorosa, battendo entusiasticamente le mani e urlando il nome della propria fidanzata nel tentativo di sovrastare il brusio che riempiva il locale e le prime note della canzone successiva.

Discretamente, Caterina mosse un paio di passetti laterali verso sinistra, mettendo qualche decina di centimetri in più tra se stessa e l’individuo urlante che, in ogni caso, non aveva occhi che per Alessandra. Lanciando un’occhiata veloce verso il palco per assicurarsi che l’attenzione dell’amica fosse diretta altrove, la giovane pescò il proprio cellulare dalla borsa e fece scorrere lo sguardo sullo schermo desolatamente vuoto.

Michael non le aveva scritto. Era passata più di una settimana dal loro incontro fortuito nella biblioteca dell’università e, nonostante le promesse, il ragazzo non si era fatto più vivo. Ma si sa che le promesse lasciano un po’ il tempo che trovano, si consolò Caterina. Anch’io mi ero ripromessa di non mettere mai più piede in questo postaccio, eppure, eccomi qui.

Non è che ci fosse rimasta male per il fatto che Michael le avesse estorto il numero di cellulare e che poi avesse pensato bene di non usarlo. La questione era molto più prosaica: lei ci aveva creduto, quando lui le aveva detto che le avrebbe prestato la sua dispensa di marketing. Quell’aiuto inaspettato le aveva infuso nuove speranze circa il superamento dell’odiato esame, e adesso… adesso sono di nuovo al punto di partenza. Porca vacca. Se almeno non mi avesse detto niente, non mi sarei illusa inutilmente. ‘Sto cretino.

Senza riuscire a reprimere un sospiro afflitto, la giovane si appoggiò al bancone bianco e lucido che occupava il centro del locale, evitando per un soffio di abbattere con una gomitata un calice vuoto che qualcuno aveva abbandonato lì e che i camerieri non avevano ancora fatto in tempo a ritirare.

«Tutto bene, Cate?»

Matteo stava prendendo un po’ più di confidenza, notò la ragazza. Si erano visti in un altro paio di occasioni, dalla sera in cui Alessandra l’aveva portata al Dream per la prima volta, e quello che sulle prime le era sembrato un ragazzo silenzioso e non troppo sveglio stava dando prova di una vivacità insospettabile. Parlava tanto, esattamente come Alessandra, e a volte Caterina si chiedeva come potessero andare d’accordo due persone che facevano fatica a restare in silenzio per più di cinque minuti di fila.

«Sì, è tutto a posto» abbozzò. «È solo che questo posto non mi piace un gran ché.»

Matteo sorrise. Aveva un bel sorriso, allegro e sincero come quello di un bambino. Si abbinava stranamente bene con il suo marcato accento emiliano. «Questo l’avevo capito già l’ultima volta che siamo stati qui. Magari possiamo chiedere ad Alessandra di trovare un’altra location per i suoi concerti?»

Caterina si strinse nelle spalle. «Immagino che si possa fare, ma questo posto le garantisce sicuramente più visibilità rispetto alle bettole che frequentiamo di solito. Temo che l’Ale si sia un po’ stancata di suonare per quattro metallari che si improvvisano critici musicali e per marmocchi quindicenni che pensano solo a riempirsi di birra fino a rotolare…»

Matteo sogghignò. «A me sono simpatici, i metallari criticoni.»

La giovane fece per rispondere, ma venne distratta da una vibrazione proveniente dalla sua borsa. Colta come da un presentimento, Caterina afferrò di nuovo il cellulare e constatò che, proprio come aveva creduto, sul display compariva una notifica di WhatsApp. Aprendo l’applicazione, vide che il messaggio le era stato inviato da un numero che non conosceva. Se l’immagine del profilo non le era di alcun aiuto per capire chi fosse il mittente – vi era ritratto semplicemente un panorama lacustre – il testo la faceva ben sperare: “Possiamo vederci lunedì mattina?” recitava infatti il messaggio riportato nel riquadro bianco.

“Chi sei?” digitò rapidamente, prima di infilare il cellulare nella tasca posteriore dei jeans. Sapeva di poter ragionevolmente sperare che fosse stato Michael, a scriverle, ma voleva evitare di fare figuracce. Però, diciamocelo: non è che mi capiti proprio tutti i giorni, di ricevere richieste di appuntamento da numeri sconosciuti.

Un minuto più tardi, il telefono vibrò nuovamente. “Ah, ti sei già dimenticata di me? Credevo che ci tenessi, a mettere le mani sulla mia dispensa…”

Caterina si concesse un sorriso. “Se tu mi avessi lasciato il tuo numero, non avrei avuto questi dubbi.” Una volta che ebbe inviato il messaggio, si morse nervosamente il labbro inferiore, rileggendo ciò che aveva appena scritto. Sembra che stia flirtando? Si chiese, con una certa apprensione. Non voglio flirtare! Non voglio che pensi che lo sto facendo!

Nel tentativo di correggere il tiro – ovviamente Michael aveva già letto il messaggio, rendendo inutile ogni tentativo di farlo sparire – la ragazza scrisse ancora. “Comunque lunedì va bene. Facciamo alle nove in Piazza Vecchia, che poi ho un appuntamento con un’amica? Quanto ti devo, per la dispensa?”

Ecco, buttala sui soldi, si complimentò con se stessa.

Dal momento che la risposta di Michael tardava ad arrivare, Caterina si sistemò nuovamente il cellulare in tasca e, appropriatasi di uno sgabello, tornò a osservare l’esibizione di Alessandra e del suo gruppo. Abbandonata Patty Smith, la ragazza era passata ai Metallica, cimentandosi nell’ennesima cover di Nothing Else Matters.

Tutte cose allegre, questa sera, pensò la giovane, trovandosi improvvisamente a desiderare qualcosa di meno malinconico. Malgrado facesse del proprio meglio per concentrarsi sull’esibizione dell’amica, la sua mano correva a intervalli regolari alla tasca dei jeans, estraendo il cellulare quel tanto che bastava per lanciare un’occhiata allo schermo, nel caso la vibrazione dei bassi le avesse fatto perdere quella che segnalava l’arrivo di un nuovo messaggio.

Incrociando le braccia davanti al petto, Matteo si voltò per osservarla meglio. «Stai aspettando un messaggio importante?» le chiese, con un sorriso che era solo un po’ malizioso.

Malgrado la domanda del ragazzo non fosse altro che una provocazione innocente, Caterina si sentì comunque arrossire e fu grata alle luci viola che mascheravano l’improvviso colorito che sicuramente le aveva macchiato le guance pallide. «Ma no, sto solo aspettando che un tizio mi faccia sapere se va bene che ci incontriamo lunedì mattina.»

Matteo inarcò comicamente le sopracciglia scure. «Appuntamento galante?»

La giovane sbuffò. «Come no. Deve vendermi una dispensa. È l’ennesimo tentativo che faccio per superare quel cazzo di esame di marketing.»

Dopo qualche minuto, il cellulare prese a vibrare e Caterina vide che non si trattava di un messaggio. «Scusa, mi sta chiamando» disse balzando in piedi e guardandosi rapidamente attorno. Anziché risponderle via WhatsApp, Michael aveva avuto la brillante idea di telefonarle, senza sapere che, tra chiacchiericcio e musica alta, lei non sarebbe stata in grado di sentire una parola.

Portandosi il telefono all’orecchio e avviandosi a grandi passi verso la porta d’ingresso, la ragazza provò comunque a rispondere. «Pronto?» chiese, cercando di avvicinare quanto più possibile l’oggetto al proprio orecchio. «Pronto, mi senti?»

La giovane udì delle parole vaghe e assolutamente indistinguibili giungere dall’apparecchio e sbuffò, frustrata. «Un attimo!» urlò, cercando di sovrastare il frastuono. «Aspetta che esco, che non sento niente!»

Schivando la maggior parte degli avventori accalcati davanti all’ingresso e spintonandone qualcuno, Caterina riuscì a guadagnare l’uscita. «Eccomi» esalò, quando si fu allontanata a sufficienza. «Scusami, ero all’interno del Dream e non sentivo un accidente.»

Dall’altra parte della cornetta le giunse la risata di Michael, calda e avvolgente, e lo stomaco le si contrasse in un brivido deliziato. Oh, per l’amor di Dio! Si rimproverò la giovane, obbligandosi a ignorare quelle reazioni istintive che la facevano sentire un’adolescente in piena crisi ormonale.

«Scusa, non avevo proprio pensato che tu potessi avere degli impegni per il sabato sera» spiegò il ragazzo, con l’eco della risata ancora nella voce.

Caterina sedette sullo stesso muretto su cui si era seduta due settimane prima e aggrottò la fronte, chiedendosi come dovesse interpretare l’affermazione dell’uomo. «Perché? Ti do l’idea di una che il sabato sera se ne sta in casa a fare la calza?» chiese, un po’ piccata.

«No, no» si affrettò a rispondere lui. «È solo che… è solo che non ci avevo pensato, ecco. Se ci avessi pensato, non ti avrei chiamata.»

La ragazza sorrise, placata dalla spiegazione di Michael. «In effetti, sarebbe stato meglio se mi avessi scritto. Sono qui perché c’è una mia amica che sta suonando con il suo gruppo e… be’, se si accorge che non sono più sotto al palco ad applaudirla, mi toglie di sicuro il saluto per due o tre settimane.»

«Non sia mai!» ridacchiò l’uomo. «Allora ti lascio subito rientrare.»

«Perché mi hai chiamata?» lo interrogò lei, chiedendosi perché non si fosse limitato a confermarle l’appuntamento via messaggio.

Michael esitò per qualche istante e, in quel silenzio, Caterina udì un vago rumore di sottofondo, fruscii e forse passi. Si chiese se l’uomo fosse solo, ma poi si disse che non aveva il minimo diritto di interessarsi degli affari suoi. «Non sono un grande amante dei messaggi» ammise, poi. «Preferisco di gran lunga telefonare: quando ci si parla, ci si capisce subito meglio e si risparmia anche un sacco di tempo.»

«Mh» annuì Caterina, senza prendersi il disturbo di spiegare che lei era sempre un po’ a disagio, quando parlava al telefono. «Allora ti va bene se ci incontriamo lunedì mattina alle nove?» chiese, riportando la conversazione sul suo binario iniziale.

«Va bene» confermò Michael, prima di aggiungere: «Senti, ma a che ora ti devi incontrare con la tua amica?»

«Verso le nove e mezza… non ho un orario preciso, dobbiamo solo trovarci per studiare insieme» rispose la giovane. «Perché? Preferisci fare un po’ più tardi?»

Il ragazzo esitò ancora qualche secondo. «Più che altro, volevo chiederti se ti andrebbe di fare colazione insieme.»

«Ah…»

Caterina si mordicchiò le labbra. Non faceva mica colazione alle nove, lei: mangiava almeno un’ora e mezza prima, prima di uscire di casa e correre in stazione per prendere al volo il treno che l’avrebbe portata a Bergamo. Inoltre, non era del tutto sicura che fosse una buona idea dare tanta confidenza a Michael: l’ultima volta che l’aveva incontrato, si era dimostrato gentile, educato e disponibile, ma non riusciva a togliersi dalla mente il loro primo incontro, quello in cui lui era ubriaco e l’aveva cercata in modo insistente, spaventandola anche un po’.

Ma aveva davvero una buona scusa per rifiutare? Non voleva rischiare di offenderlo e, soprattutto, non voleva lasciarsi condizionare dalle proprie paranoie. Le aveva chiesto di fare colazione nella piazza più affollata di Città Alta, non di partire per un week-end insieme.

«Va bene» concesse, allora. «Però facciamo una cosa veloce, perché Halima – l’amica con cui mi devo incontrare – non è esattamente famosa per la sua pazienza e per il suo carattere accomodante.»

«Perché la cosa non mi stupisce?» chiese Michael, ridendo.

Caterina sgranò gli occhi, oltraggiata. «Cosa vuoi dire?» chiese, senza riuscire a trattenere a sua volta una risatina. «Che cosa staresti insinuando?»

«Ci vediamo lunedì, Cate» rise ancora Michael, prima di riagganciare senza nemmeno darle il tempo di ribattere.

“Cate”, pensò la ragazza. L’aveva chiamata “Cate”, esattamente come facevano i suoi amici e i suoi genitori. Per qualche motivo, quel particolare la fece sorridere. Alzandosi in piedi e dirigendosi lentamente verso l’ingresso del Dream, la giovane soppesò pensosamente il cellulare. Aveva fatto bene ad accettare l’invito dell’uomo.

Ma sì, si disse, colpendo l’aria con una mano come per scacciare fisicamente i dubbi che ancora affollavano la sua mente. Alla fine, è solo un gesto di cortesia: non mi ha nemmeno detto se e quanto vuole essere pagato. Magari me la presta soltanto, quella dispensa, e in cambio non vuole un centesimo.

Sentendosi stranamente leggera e di buon umore, Caterina raggiunse la porta d’ingresso e nel farlo passo di fronte a Hasim, il buttafuori, che le rivolse un cenno di saluto e un sorriso.

«Ciao» fece lei, ricambiando il suo sorriso.

Lui la squadrò con i suoi occhi scuri e poi spinse il proprio sguardo più in là, oltre le spalle della ragazza e verso la porta che lei aveva appena varcato, come se stesse cercando qualcuno. «Te ne vai ancora in giro da sola?» le chiese, con solo una punta di rimprovero nella voce.

Lei aggrottò la fronte, stupita da quel commento, e poi si avvicinò un po’ di più all’uomo, spostandosi con lui verso un punto in cui la folla era meno fitta e dove avrebbero potuto parlare senza dover necessariamente urlare. «Come?» chiese, invitandolo ad elaborare quanto aveva appena detto.

Lui inclinò il capo verso destra, come se volesse inquadrarla meglio, e quel movimento attirò l’attenzione della ragazza sul suo collo possente. Il colletto della camicia nera della divisa, appena di qualche tonalità più scura della pelle dell’uomo, era in parte sollevato, e la giovane dovette reprimere l’impulso di allungare una mano e sistemarglielo.

Dopo qualche istante, Hasim sorrise ancora, ma a Caterina parve un sorriso un po’ meno sincero del primo.  «L’ultima volta che sei andata a fare un giro nel parcheggio da sola, hai rischiato di metterti nei guai per colpa di quell’idiota che aveva bevuto troppo. Non è un posto sicuro, quello: non ci sono luci e ci gira gente strana.»

Sentendosi come una bambina ripresa dal padre – o dal fratello maggiore – Caterina chinò il capo, un po’ a disagio. Accorgendosi del turbamento della giovane, l’uomo le sfiorò una spalla con una mano. «So che sei abituata al tuo paesino piccolo, dove tutti sono amici di tutti» la stuzzicò. «Però devi capire che il mondo vero funziona un po’ diversamente.»

«Il mio paese ha quasi quindicimila abitanti ed è sicuramente più grande di quello da dove vieni tu» ribatté lei con un mezzo sorriso, reclinando il capo all’indietro per incontrare gli occhi dell’uomo.

Hasim si mostrò sorpreso. «Intendi Dalmine?»

La ragazza scoppiò a ridere. «Sì, proprio quello.» Per qualche strano motivo, l’uomo sembrava sempre restio a parlare delle proprie origini e della strada che l’aveva portato in Italia, in un paesotto sospeso tra la Brianza e la provincia bergamasca, e Caterina sentiva di non essere abbastanza in confidenza con lui per provare a insistere un po’ di più. Del resto, la vicenda la incuriosiva, ma non era certo in cima ai suoi pensieri.

Lentamente, l’ombra del sorriso si spense sul volto dell’uomo e lui tornò a guardarla più seriamente. Sentendo che era tempo di lasciarlo libero di tornare a dedicarsi al lavoro per cui era pagato, la giovane si strinse nelle spalle. «No, comunque non hai motivo di preoccuparti: questa volta non sono andata a farmi una passeggiata nel parcheggio. Ero semplicemente al telefono con…» Con l’idiota di cui sopra, concluse mentalmente, prima di decidere che, forse, non era il caso di rivelare a Hasim che si era mantenuta in contatto con il tizio del parcheggio. «… con un tipo che mi deve vendere un libro per l’università. Sono dovuta uscire perché, con il casino che c’è qui dentro, non riuscivo a sentire nemmeno una parola.»

Hasim la guardò con gli occhi leggermente socchiusi. «Hm-hm» fece, senza distogliere lo sguardo.

Inconsciamente, Caterina arretrò di un passo. Cosa voleva dire “hm-hm”? Se non fosse stato impossibile, avrebbe giurato che l’uomo avesse annusato la mezza bugia che gli aveva appena rifilato. Sentendosi tutto d’un tratto desiderosa di concludere in fretta quella conversazione, la ragazza allungò platealmente il collo verso il palchetto sul quale Alessandra stava ancora cantando. «Va beh, adesso vado, che non vorrei che l’Ale si accorgesse che sono uscita e ci rimanesse male.»

L’uomo parve sul punto di dire qualcosa, ma poi fece un cenno d’assenso con il capo. «Va bene», concesse, «vai pure. Ci vediamo in giro.»

Caterina sorrise e gli rivolse un vago cenno di saluto con una mano. Si era allontanata solo di qualche passo, quando la voce del buttafuori la raggiunse di nuovo. «… e stai attenta.»

La ragazza sgranò gli occhi e, rallentando il passo, si voltò per guardarlo al di sopra della propria spalla sinistra. Hasim, però, si era già disinteressato a lei ed era occupato a parlare con un paio di ragazzi apparentemente appena entrati.

Cosa voleva dire con quel “stai attenta”? Si chiese spaesata. Se il contesto fosse stato diverso, avrebbe potuto interpretare quelle parole come un avvertimento, una minaccia. Ma conosco Hasim, è una brava persona, ragionò, cercando di allontanare quel pensiero assurdo. Ma lo conosceva davvero? Cosa sapeva di lui? Prima che venisse in suo soccorso due settimane prima, non sapeva praticamente nulla a proposito di quell’uomo, che era per lei solo uno dei tanti amici di Alessandra con il quale aveva scambiato solo qualche parola casuale.

E se non era una minaccia, allora era una raccomandazione. Ma che tipo di raccomandazione? Un qualcosa con il quale l’uomo le chiedeva di non fare sciocchezze in generale, oppure Hasim la stava mettendo in guardia contro qualcuno? Contro Michael, per esempio? Le suggerì il suo inconscio.

Oh, che idiozia! Perché mai avrebbe dovuto sospettare che lei e il ragazzo si fossero ancora incontrati e avessero in programma di incontrarsi di nuovo in futuro? Perché gli sarebbe dovuto interessare, in ogni caso? Di malavoglia, Caterina dovette riconoscere che, se si stava facendo tante paranoie su una frase che Hasim aveva verosimilmente buttato lì senza neppure pensarci, era perché, con ogni probabilità, era lei la prima a non essere del tutto convinta dell’affidabilità di Michael e delle sue buone intenzioni.

Immersa in quei pensieri, la ragazza tornò nel punto in cui aveva lasciato Matteo, ma, riappropriandosi della birra ormai calda, ignorò lo sguardo interrogativo che il ragazzo le stava rivolgendo. Portandosi il bicchiere alla bocca, la giovane cercò di concentrarsi sulla voce di Alessandra, ma tutto quello che riusciva a sentire erano le parole di Hasim, che si ripetevano nella sua mente come in un’eco infinita.

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Capitolo 7
*** 6. La Scatola dei Tesori ***


Negli Anni Novanta

Caterina si appoggia al tavolo con gli avambracci e osserva in religioso silenzio Margherita che versa nei vasetti di vetro la densa marmellata di sambuco. Quasi quasi trattiene anche il fiato. Non perché lo trovi uno spettacolo entusiasmante, ma perché la vecchietta ha la mano che trema e le serve tutta la concentrazione possibile per evitare che il fluido viscoso finisca sul tavolo, impiastricciandolo tutto.

Ha un caratteraccio, Margherita. La sua bocca non è mai veramente ferma, mastica e borbotta e ansima e, se Caterina e gli altri bambini non filano dritti, da quelle labbra escono anche delle sgridate con i fiocchi. La maggior parte dei ragazzini che d’estate affollano San Giorgio ha paura di lei, alcuni di loro la considerano addirittura una strega, ma Caterina sa che, sotto sotto, non è così cattiva come sembra. La conosce bene, lei, perché sono vicine di casa e spesso la mamma la spedisce lì quando, di pomeriggio, è troppo occupata per vigilare sulla figlia mentre questa svolge per la prima volta nella sua vita i compiti delle vacanze.

Era una maestra, una volta, Margherita: è stata la maestra anche della mamma. Caterina pensa che è per questo che è un po’ severa: anche se non lavora più da tantissimi anni, il mestiere dell’insegnante dev’esserle rimasto appiccicato addosso. La bambina se la immagina quasi: se la vede lì, davanti alla lavagna nera, mentre righe ordinate di ragazzini con il grembiule la fissano attenti. Probabilmente aveva già la sottana nera che indossa anche adesso. È quasi certa che avesse sempre a portata di mano una bacchetta per picchiare le mani degli alunni più indisciplinati (come lo zio Carlo, che saltava fuori dalla finestra e faceva disegni osceni sulla lavagna). Solo, non riesce proprio a immaginarsela giovane: probabilmente è sempre stata così, una donna vecchia, alta, massiccia, con penetranti occhi azzurri e capelli bianchissimi raccolti in un’esile crocchia spettinata.

«Va’ a prendere le etichette adesive.»

L’ordine di Margherita la fa trasalire e Caterina si accorge di essersi persa nei propri pensieri. Ubbidiente, raggiunge la credenza, si arrampica sullo sgabello e afferra la busta contenente i foglietti pretagliati che serviranno per etichettare i vasetti di marmellata. Mentre è in piedi sullo sgabello di legno, la bambina guarda per un istante fuori dalla finestra e respira qualche boccata di aria che sa di sole e di ortiche. È il profumo della libertà ed è in netto contrasto con l’odore che si respira all’interno della casa di Margherita. La mamma dice che c’è puzza di chiuso, lì dentro, e che la vecchietta dovrebbe chiedere a qualcuno di darle una mano con le faccende domestiche, ma la bimba non è del tutto d’accordo. Quella che sente lei non è davvero puzza, ma qualcosa che sa di vecchiaia, solitudine e di brutti pensieri: è un odore che, sulle prime, le fa sempre venire voglia di girare sui sandaletti di gomma e scappare via.

Tuttavia, anche questa volta fa un respiro profondo e poi balza a terra, facendo emettere alla suola dei sandali blu un lamento stridulo. «Vieni qui», le ingiunge Margherita, «e scrivi sopra ogni etichetta “sambuco”. Bello chiaro, mi raccomando, che poi non riesco a leggere.»

Caterina torna alla sua postazione accanto al tavolo e poi occhieggia in direzione del portapenne che vi è posato nel mezzo, a mo’ di centrotavola. «Posso usare la penna viola?» chiede, fremendo dalla voglia di allungare la mano e di afferrare quella particolare penna che la vecchietta le impedisce di usare per compilare il libro dei compiti delle vacanze.

«Usa poi quella che ti pare» borbotta Margherita. «L’importante è che scrivi bene.»

Annuendo solennemente, la bambina si sistema su una delle scomode sedie di paglia e impugna la penna, sforzandosi di tenere le dita così come vuole la donna che la osserva con occhio critico. Lentamente, inizia a vergare le lettere con la concentrazione che solo chi ha imparato a scrivere da meno di un anno può avere e, dopo dieci minuti, posa la penna sul tavolo, soddisfatta. «Ecco fatto!» proclama fiera, reclinando leggermente il capo per ammirare meglio il proprio lavoro. «Vanno bene, così?»

Margherita si porta alle spalle della bambina e poi legge, con un filo di voce: «Sanbuco». Per un istante osserva le palline che la piccola ha disegnato sul margine di ogni etichetta – rappresentazione, nelle sue intenzioni, dei frutti che hanno dato origine alla marmellata – e poi annuisce. «Vanno benissimo» la rassicura, con un mezzo sorriso smarrito.

Caterina incrocia le braccia davanti a sé e alza il visino lentigginoso verso quello di Margherita, segnato dalle rughe. «Adesso posso guardare i cartoni?»

Eccolo, uno dei vantaggi di passare qualche pomeriggio a casa della vecchietta: anche se è pignola quando si tratta di fare i compiti, le lascia una certa libertà su tutto il resto. La cosa più importante è che le permette di guardare quei cartoni animati giapponesi che a Caterina piacciono tanto e che la mamma definisce “stupidate”, facendola sentire terribilmente in colpa ogni volta che accende la vecchia televisione nascosta nell’armadio per seguire le avventure dei suoi eroi preferiti. Anche Margherita sbuffa e scrolla il capo davanti alle avventure di quegli strani eroi variopinti, ma almeno non commenta.

«Prima fai merenda, che è ancora presto, per i cartoni» la frena però la vecchietta. «Mettiti sul divano, che ti ho preparato il frullato.»

Caterina freme d’impazienza, ma fa comunque come le è stato chiesto: del resto, all’orologio non si comanda e lei ha iniziato a capire che il tempo passa più velocemente, quando ci si distrae un po’. Mentre aspetta che Margherita le porti il bicchiere con il frullato, la bambina osserva la foto sbiadita posta di fianco al televisore spento. Ogni volta che se la trova davanti, non può fare a meno di studiarla per qualche minuto. Non sa cosa l’affascini tanto della persona ritratta: forse è il fatto che non c’è più, oppure è perché ha lo stesso nome della mamma. Quella è “l’Altra Elena”, così definita per distinguerla dalla madre di Caterina, che si chiama anche lei Elena ed è anche lei bionda, esattamente come la ragazza ritratta.

È quasi una creatura mitologica, l’Altra Elena. La bambina sa poco di lei; le hanno solo detto che era una ragazza che Margherita conosceva quando era più giovane e che è morta in un incidente stradale. Anche la mamma la conosceva e Caterina ha notato che, quando parla di lei, fa sempre una faccia strana: una volta le ha raccontato che era una persona che aveva tanti problemi.

Quasi senza rendersene conto, la bambina si alza e raggiunge il mobile della televisione. Allunga la manina verso la foto racchiusa nella cornice di metallo lavorato e segue con la punta delle dita i tratti del viso della giovane, il naso diritto, le labbra curvate in un sorriso un po’ triste, i boccoli chiari che le ricadono sulla fronte. Quando sente i passi pesanti di Margherita giungere dalla cucina, si affretta a tornare verso il divano. Sa che la vecchietta non vuole che tocchi quella foto. Forse ha paura che la faccia cadere e rompa il vetro che la protegge.

«Ecco qui» annuncia la donna con la sua voce raspante. Caterina si siede più compostamente e la guarda avvicinarsi strascicando i piedi avvolti nelle pantofole morbide: il suo passo è incerto e tremulo, ma dal bicchiere che regge tra le mani non esce una sola goccia. La bambina si dice che è perché il frullato di pesca e banana che fa Margherita è talmente denso che è difficile che trabocchi: a volte pensa che le converrebbe mangiarlo con un cucchiaino, piuttosto che cercare di versarselo in bocca come farebbe con qualsiasi altra bevanda.

Nonostante quella non sia esattamente la sua merenda preferita, la piccola ringrazia e si porta alle labbra il fluido dolce e viscoso. Solitamente, una volta che le ha portato lo spuntino, Margherita inizia a occuparsi di qualche piccola faccenda domestica: sguscia i fagioli, passa la scopa sotto il tavolo, attacca qualche bottone. Oggi, però, fa una cosa del tutto diversa: oggi apre l’ultima anta del mobile che si trova accanto alla porta del bagno, quella in basso a sinistra. Quella che è sempre chiusa a chiave. Ancora prima di vedere quello che sta facendo, Caterina sa che la donna sta prendendo la Scatola dei Tesori.

«Che cosa fai?» chiede comunque, dimenticandosi di colpo dei cartoni animati che inizieranno di lì a poco.

Con un gemito di dolore, la donna raddrizza la schiena e si dirige verso il divano tenendo tra le mani una vecchia scatola di latta che in origine aveva contenuto dei cioccolatini “Quality Street”. Il tempo ne ha sbiadito i colori e in alcuni punti la ruggine ha intaccato il metallo, ma la bambina riconosce il caratteristico motivo bianco e fucsia. Prendendo posto accanto a Caterina, Margherita solleva con qualche difficoltà il coperchio metallico. «Oggi lucido l’argenteria» spiega, posando la scatola tra sé e la ragazzina. «Voglio recuperare un po’ di catenine e di anelli che ho lasciato qui dentro, prima che diventino più neri del carbone.»

Caterina annuisce, ma non è interessata ai vecchi gioielli, lei. No: ciò che la attira veramente sono tutti gli altri oggetti strani e misteriosi che si trovano all’interno di quella scatola.

Accorgendosi dell’attenzione quasi maniacale della bimba, Margherita sospira. «Lo sai che non devi toccare niente, vero? Con quelle manacce che ti ritrovi mi rompi di sicuro qualcosa!»

Caterina fa del proprio meglio per assumere un’espressione contrita. Glielo dice ogni volta, ma poi, immancabilmente, la lascia frugare quasi a proprio piacimento. Posando il frullato sul tavolino, la bambina punta un dito in direzione di una pallina gialla e rossa. Potrebbe sembrare una di quelle che si appendono all’albero di Natale, se non fosse che non ha nessun gancio che possa ancorarla ai rami dell’abete. È divisa in due metà perfette di plastica semitrasparente e al suo interno è possibile scorgere un minuscolo campanello dorato. «Che cos’è, quella?» chiede. La sua è una domanda superflua, perché quella pallina l’ha già vista diverse volte e Margherita le ha già spiegato la provenienza di quello e di altri oggetti che si trovano all’interno della scatola, ma non fa niente: non è la risposta a essere importante, quanto piuttosto il racconto stesso.

È come quando la zia Simona, sorella della mamma, la convince a mangiare la cena più velocemente recitandole alcune fiabe di sua invenzione. Caterina lo sa benissimo, che alla fine del racconto l’anatroccolo ritroverà la mamma e il gigante regalerà il suo tesoro all’orfanella che l’ha curato, ma il modo in cui la zia interpreta il racconto la diverte sempre.

Margherita alza gli occhi al cielo e poi afferra la pallina con le dita rese nodose dall’artrite. «Lo sai benissimo, che cos’è. È una storia che ti ho raccontato un sacco di volte.»

Caterina le rivolge un sorriso smagliante. «Me la racconti un’altra volta?» supplica, consapevole che, in realtà, alla vecchietta non dispiace raccontarle delle vicende che la fanno ripensare a quando era più giovane.

Scuotendo il capo, la donna solleva la pallina e la porta all’altezza degli occhi della bambina. «Questa», dice, «viene da un circo che girava da queste parti all’epoca in cui la tua mamma aveva circa la tua età. C’era un orso, in quel circo: era un animale strano, perché, di solito, gli orsi hanno il pelo marrone…»

«… a meno che non siano orsi bianchi!» la informa Caterina, che guarda spesso Super Quark ed è quindi informatissima su tutto ciò che riguarda il mondo animale.

Margherita le rivolge un’occhiata severa e la bimba si morde la lingua, sapendo che non avrebbe dovuto interromperla. «Beh, quello non era un orso bianco» sbotta la vecchietta. «Quello era un normale orso bruno, solo che il suo pelo era biondo come i capelli di un bambino. Era una delle attrazioni principali del circo e durante il suo numero faceva un giro di pista camminando sulle zampe posteriori e tenendo questa pallina in equilibrio sul naso.» Interrompendosi brevemente, la donna agita la mano facendo tintinnare il sonaglio all’interno della sferetta di plastica. «Tra gli spettatori girava la storia che questa cosa portasse fortuna. Era una storia messa in giro dalle persone del giro non so più per quale motivo: dicevano che tenesse alla larga gli spiriti maligni.»

«Ma funziona davvero?» chiede Caterina, affascinata da quella storia come la prima volta che l’aveva sentita.

Margherita si stringe nelle spalle. «E chi lo sa. Da quando me l’hanno regalata, non ho incontrato nemmeno uno spirito maligno, quindi può darsi che funzioni veramente.»

La bambina annuisce: la risposta le pare soddisfacente. Distogliendo l’attenzione dalla pallina rossa e gialla, allunga una mano e con la punta delle dita pesca la statuetta di un cavallino. È una bestiola tozza, dai lineamenti grossolani scolpiti frettolosamente nel legno chiaro. Un tempo doveva essere ricoperto da una pittura bianca, perché, a tratti, il colore affiora ancora sulla groppa insellata, sul ventre protetto dalle zampe, sulla gola. «Questo da dove viene?» chiede, sollevando il cavallino nella parodia di un salto esagerato e facendolo poi atterrare morbidamente sullo schienale del divano. Mentre attende la risposta di Margherita, fa oscillare la statuetta, mimando quello che immagina essere un galoppo.

La vecchietta fa come per toccare a sua volta il cavallino, ma poi raccoglie le mani in grembo. Caterina sbircia la sua faccia e, per un attimo, i suoi occhi le sembrano tristi. «Quello è il regalo che una mia amica mi ha portato tanto tempo fa» spiega. «Viene dalla Francia, da un posto che si chiama Saintes-Maries-de-la-Mer.»

Il nome non le è famigliare, anche se lei in Francia ci va tutti gli anni, in vacanza al mare con la mamma e con il papà. «Che posto è?» chiede. «Un posto da gente ricca?»  Non sa perché, ma le sembra il nome di un posto chic, uno di quei posti pieni di villoni e di macchine di lusso.

«Non lo so» risponde Margherita. «Non ci sono mai stata, ma non credo. È un posto pieno di paludi e di campi di lavanda. Lo sai che cos’è, vero, la lavanda?»

La bambina annuisce. «Certo, che lo so!» conferma con un certo orgoglio. «Ce l’abbiamo anche noi, nella casa in città. La mamma la tiene in giardino.»

Mentre chiacchierano, Margherita toglie sistematicamente gli oggetti dalla scatola di latta e li sistema in due pile accanto a sé: da una parte i gioielli che intende lucidare, dall’altra tutto il resto. Ben presto, il fondo metallico viene alla luce e, con esso, una coppia di oggetti che fanno brillare di interesse gli occhi della bambina. «Posso vedere le chiavi?» chiede Caterina, quasi trattenendo il fiato.

La vecchietta le rivolge uno sguardo severo. «Va bene, ma stai attenta a non farle cadere: non sono giocattoli, queste.»

Con estrema cura, Margherita consegna alla bimba una coppia di chiavi antiche. Non misurano più di cinque centimetri l’una, ma le mani di Caterina sono piccole e, per precauzione, la bambina se le appoggia immediatamente sulle gambe nude, lasciate scoperte dai pantaloncini sdruciti. Mentre ne percorre le curve con la punta dell’indice, pensa che le piacciono tanto, quelle due chiavi. Forse perché sono troppo strane per poter veramente aprire qualche serratura. Sono perfettamente identiche nella forma – sembrano la versione rimpicciolita di una di quelle chiavi pesanti che servono per aprire e chiudere le porte delle stalle – ma la prima è fatta di una pietra così nera che pare inghiottire ogni singolo bagliore o riflesso, mentre la seconda, di un arancione intenso, sembrerebbe quasi di plastica trasparente, se non fosse per le mille scintille iridescenti che risplendono al suo interno. Sono unite da un nastrino di velluto rosso un po’ spelacchiato, il nodo che lo chiude talmente stretto che, ormai, se qualcuno volesse dividere le due chiavi, sarebbe costretto a tagliare il legaccio.

«Ma lo sai, a che cosa servono?» chiede la bimba, dopo qualche minuto di contemplazione silenziosa.

Margherita ha finito di pescare i gioielli dalla scatola dei cioccolatini e adesso vi sta risistemando dentro tutto quello che ne ha estratto, la pallina e il cavallino e tutti gli altri oggetti che Caterina non ha fatto in tempo a esaminare da vicino. Osserva con occhio critico una catenina che il tempo ha annerito e annodato e poi sposta lo sguardo sulla bambina. «Ad aprire delle porte» risponde.

Caterina aggrotta la fronte. Quella risposta tanto scontata le sembra sbagliata: lo sa bene, che le chiavi servono in generale ad aprire le porte, ma quelle? Quelle sembrano più ciondoli o soprammobili. Sembrano tanto fragili e la bambina è quasi sicura che si spezzerebbero, se venissero veramente inserite in una serratura. «Quali porte?» insiste, allora.

Margherita le rivolge uno dei suoi rari sorrisi. «Non me lo ricordo», dice, «o forse non l’ho mai saputo. Però le chiavi le tengo lo stesso: se un giorno dovessi trovarmi davanti a una porta chiusa, potrei provare ad aprirla con una di queste. O magari potresti farlo tu quando, tra qualche anno, io sarò morta.»

«Non morirai tra qualche anno» la contraddice la bambina a mezza voce. Non riesce a metterci troppa convinzione, in quelle parole, perché Margherita è davvero vecchia e non potrà vivere in eterno.

«Eh, car Signur!» sospira la donna. «Da vecchi si muore, nini. Meglio da vecchi che da giovani.»

Caterina la guarda senza sapere cosa dire. Non le interessa parlare della morte: sente che è un argomento che non la riguarda, qualcosa di lontano e confuso. Parlarne la mette a disagio: Margherita se ne accorge e cambia rapidamente argomento. «Se fai la brava e fai bene i compiti, te ne lascio in eredità una.»

La bambina sgrana gli occhi. «Una delle chiavi?»

La vecchietta annuisce. «Sì. Quale preferiresti?»

La piccola esita. Vorrebbe dire che è indifferente, che le piacciono entrambe, ma poi pensa che quella arancione ha un colore più bello e che brilla come se avesse il fuoco dentro. Fa per rispondere che vuole quella, ma, mentre le osserva ancora una volta entrambe, il suo sguardo cade sulla chiave più a sinistra, quella nera. La pietra liscia è più scura della notte e altrettanto impenetrabile. La bambina fissa quel nero e vi si perde dentro: per un istante infinito, le pare di fissare un’acqua cupa e profonda, quieta e antica. La vede oscillare, arricciarsi in increspature infinitesimali, e vede l’ombra che vi striscia sotto, che si contrae e guizza, una forma che ha in sé mille forme diverse.

«Voglio questa» dice, e la sua mano si chiude con decisione sulla chiave nera. Non appena le sue dita sporche di inchiostro viola si sono serrate sulla pietra fredda, però, la mano ruvida di Margherita vi cala sopra e, con gentile fermezza, le schiude.

Vedendosi sottrarre il proprio bottino, la bambina le lancia uno sguardo tradito, ma la vecchietta le rivolge un sorriso che, questa volta, sa un po’ di presa in giro. «Ho detto che te la do quando sarò sottoterra e quando avrai imparato a fare i compiti senza sbirciare sulla pagina delle soluzioni.»

Caterina è tentata di farsi venire gli occhi lucidi di lacrime e di sporgere un po’ il labbro inferiore nell’imitazione di un pianto incipiente, ma poi si trattiene. Non è più una bambina piccola e, comunque, con Margherita quelle sceneggiate non funzionano. «Ok» si arrende, lasciandosi ricadere contro lo schienale del divano. La donna la guarda come se volesse dire ancora qualcosa, ma la bambina pensa che, se non può avere subito quella chiave che l’affascina tanto, allora tanto vale cambiare argomento. Decisa a chiudere la questione, afferra il telecomando e lo punta verso il televisore. «Allora adesso posso guardare i cartoni?»

Margherita sembra colta di sorpresa dal brusco cambio di rotta della conversazione, ma poi scrolla la testa e sospira. «Va bene, va bene, guardali: io vado a cercare l’Argentil.» Così dicendo, la vecchietta raccoglie la manciata di gioielli d’argento che si è depositata in grembo e, alzandosi dal divano con un gemito di fatica, si dirige un po’ barcollante verso il tavolo ancora ingombro di vasetti di marmellata.

Accoccolata sul divano, Caterina si perde nel suo cartone animato e, almeno per il momento, si dimentica di tutto il resto.   

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Capitolo 8
*** 7. La chiave d'ambra ***


Quasi cent’anni prima

Sta salendo la nebbia. Margherita spinge indietro la tendina e guarda la densa foschia bianca strisciare lungo il fianco ripido della montagna. Fa sempre così, quando piove d’autunno: l’umidità si condensa giù dove la valle è più ampia e poi si compatta, unendosi fino a formare una sorta di serpentone evanescente. È allora che viene raccolta dal vento del sud, che la sospinge verso la Svizzera e verso le rampe che conducono all’altopiano engadinese, ricco di laghi e di pascoli rigogliosi. Lungo il suo cammino, la striscia di nebbia incrocia inevitabilmente San Giorgio e lì si ferma per un bel po', perché le montagne si stringono attorno al paese e formano una barriera che il vento e la foschia faticano a superare.

La casa della Zingara si trova in una posizione sopraelevata rispetto a quelle che la circondano e questo fa sì che dalla sua finestra si goda di un'ottima vista sul lato destro della valle. Con un sospiro che appanna il vetro di fronte al suo viso, Margherita osserva la massa fumosa riempire il solco scavato dal fiume, avvolgere gli alberi, le rocce e le abitazioni grigiastre. Peccato. Ottobre è ormai iniziato e bastano un paio di giorni di pioggia per uccidere definitivamente l'estate e sprofondare la terra in un autunno freddo e umido. Le sarebbe piaciuto approfittare ancora un po' del sole tiepido di un settembre che è stato insolitamente mite.

Dopo aver lanciato un'ultima occhiata ai tetti ricoperti da solide lastre di granito rese lucide dalla sottile pioviggine, la bambina si allontana dalla finestra e si siede sulla poltroncina rossa che la Zingara di solito riserva a lei o ad Agnese. Sistemandosi meglio la sottana attorno alle ginocchia, Margherita si passa le mani sulle braccia. Fa freddo, lì dentro. L'umidità le morde le ossa, ma non può fare nulla per scacciarla, perché il brutto tempo è arrivato all'improvviso e la Signora Mursciù non ha ancora chiesto a nessuno di portarle su un po' di legna per il camino.

Dopo averla invitata in casa sua, la Zingara è sparita dietro la porta bianca e non ne è più riemersa. La sente muoversi in quella che immagina essere la cucina, ma non ha il coraggio di andare a vedere che cosa sta facendo: i suoi genitori le hanno insegnato le buone maniere e sa che non è educato muoversi in casa degli altri come se si fosse nella propria abitazione. Però inizia ad annoiarsi. Le piacerebbe che ci fosse anche Agnese, lì con lei: in due, potrebbero scacciare l’imbarazzo dell’attesa chiacchierando un po’. La Francesa però non ha invitato la ragazzina bionda, e forse è per questo che Margherita si sente quegli strani brividi nelle ossa.

Non è la prima volta che la Signora Mursciù decide di vederla senza chiamare anche la loro comune amica e la bambina prova dei sentimenti contrastanti in proposito. Se, da un lato, quel rapporto preferenziale con la Zingara la fa sentire speciale, quasi importante, dall’altro Margherita non riesce a scacciare i sensi di colpa che l’assalgono ogni volta che Agnese non è lì con loro. Se ci pensa, le sembra quasi di tradire l’amica, di infrangere un patto che nessuna delle due ha mai menzionato ad alta voce, ma che entrambe sentono di avere stretto con il cuore.

Che poi, chissà perché la Francesa a volte decide di non invitare Agnese? Margherita non riesce proprio a vederne il motivo. Talvolta pensa che sia tutto un trucco, quello della Zingara: chi glielo assicura che la donna non veda di nascosto anche l’altra ragazzina? Forse la sta solo illudendo di essere speciale. Forse riserva lo stesso identico trattamento sia a lei che ad Agnese. L’idea le accende già una scintilla di gelosia nello stomaco.

Prima che possa approfondire ulteriormente quei pensieri, Margherita viene distratta dall’arrivo della padrona di casa. Di nuovo, come nell’occasione della sua ultima visita, la donna non è sola, ma è accompagnata dal suo amico dalla pelle scura, quello che ha preso un fazzoletto e l’ha trasformato in un medaglione. Quando la vede, l’uomo sorride mettendo in mostra due file di denti bianchi e perfetti, ma la bambina lo ignora: la sua attenzione è tutta concentrata sull’altro uomo, quello che sta un po’ indietro, alle spalle della Zingara. L’ha visto una sola volta, ma non ha alcun dubbio circa la sua identità: è il Signor Mursciù.

E Margherita non lo riconosce solo perché non ha il braccio destro – quello che un cane gigante gli ha strappato via, lasciando solo l’aria a riempire la manica della camicia – ma anche e soprattutto per quel certo nonsoché che si porta addosso. Il Signor Mursciù brilla, esattamente come brilla la Zingara.

La bambina si trova a fissarlo a bocca aperta. Anche se è più basso del gigante dalla pelle scura, anche se ha le spalle più strette e non è altrettanto imponente, Margherita trova che la sua presenza assorba tutta l’aria della stanza. Ha la stessa pelle ambrata della moglie, ma il volto non è liscio come quello di lei: no, è coperto da uno strato di barba ispida e bruna che gli nasconde le guance, la gola e si unisce alla peluria che si intravede sul petto, lì dove la camicia non è chiusa fino all’ultimo bottone. Anche le nocche della mano sinistra sono coperte da peli scuri, e i suoi capelli sono scarmigliati, selvaggi, troppo lunghi per essere i capelli di un uomo.

Per un attimo, la ragazzina pensa che quello non è un cristiano come tutti gli altri, ma il Gigiatt, la creatura selvatica e solo vagamente umana che, secondo il maestro Silvano, vive nei boschi della Val Masino, al di là delle montagne a sud. Ma è soltanto un pensiero passeggero, perché, nonostante l’aspetto trasandato, il Signor Mursciù sembra risplendere di una luce impalpabile: i suoi occhi non sono gli occhi di una bestia o di un Omm Selvadégh, ma sono pieni del bagliore di un’alba senza tempo.

Margherita non è sicura di cosa sia quell’uomo, ma si sente intimidita, più piccola della sua età. Lo straniero dalla pelle nera le sembra quasi rassicurante, adesso.

Senza prendersi il disturbo di fare le presentazioni, la Zingara la indica con un cenno del capo. «Voilà la petite» dice, e Margherita le punta addosso gli occhi chiari, presa alla sprovvista da quella lingua strana. «Qu’en penses-tu? Elle te plaît?»

Il Signor Mursciù non dice niente, ma fa segno di sì con il capo. Poi rivolge alla bambina un sorriso gentile a cui lei risponde con uno sguardo duro come il granito. Non c’è niente da sorridere. Scommette che l’italiano lo sa parlare benissimo, quindi il fatto che la Francesa si sia rivolta a lui in un’altra lingua non le piace affatto. Ha la sensazione che quei due – quei tre – stiano tramando qualcosa alle sue spalle e la cosa le fa ribollire lo stomaco dalla rabbia.

«Che cosa hai detto?» chiede allora, rivolta alla Zingara.

«Nulla» la tranquillizza la donna. «Gli ho solo spiegato che sei una mia amica.»

Margherita aggrotta la fronte, sentendosi tradita da una bugia così palese. «Non è vero» protesta. «Gli hai chiesto qualcosa. L’ho sentito bene, che gli hai fatto una domanda.»

La Signora Mursciù sembra quasi imbarazzata, ma l’uomo dalla pelle scura scoppia a ridere. «È una bambina intelligente» commenta, guardando la Zingara. La cosa sembra divertirlo, ma almeno ha parlato in italiano e Margherita lo trova subito un po’ più simpatico di prima.

Lo sguardo della Francesa si fa più dolce. «Lo so» commenta in un soffio.

Il Signor Mursciù borbotta ancora qualcosa e la Zingara sospira un “oui” che anche Margherita sa che vuole dire “sì”, poi si avvicina al marito, gli posa le mani sulle spalle e lo bacia. La bambina sente il disgusto vibrarle nella gola e subito si volta a fissare il camino spento, perché a lei quella cosa lì fa schifo e comunque si vergogna da morire ad assistere a quelle faccende da grandi.

Lo straniero dalla pelle nera ridacchia ancora – forse trova divertente la reazione della ragazzina – e poi si avvicina alla coppia. «Dobbiamo andare» dice, posando una mano sulla spalla del Signor Mursciù. Anche se sembra dispiaciuto, lui si allontana dalla moglie. «Fais attention à toi, chérie» le sussurra, e Margherita si chiede se quello sia un addio. Di certo è un arrivederci che guarda lontano, ragiona la bambina, perché il lavoro tiene il Signor Mursciù via da casa per molto tempo e forse passeranno parecchi mesi, prima che la Zingara lo possa riabbracciare. È una sorte comune a molte donne del paese, quella: che sia per il lavoro, per la guerra o per il desiderio di cercare fortuna oltreoceano, gli uomini iniziano a scarseggiare, lì da quelle parti.

«A presto, Margherita» la saluta l’amico della Francesa, prima di dirigersi nuovamente verso la porta bianca dalla quale è comparso poco prima. Quando vede che il Signor Mursciù lo segue, la bambina aggrotta la fronte, confusa. Non avevano forse detto che dovevano andare? E allora perché non hanno preso le scale che conducono al portone giù al piano terra? È quella, l’uscita. Pochi istanti più tardi, sente dei passi sopra la propria testa e capisce che dev’esserci una seconda rampa di scale: invece che scendere, questa sale. E dove va? Si chiede Margherita. Sopra di loro ci sono soltanto il solaio e il tetto.

La bambina lancia un’occhiata curiosa alla Zingara. «Ma dove vanno?» chiede.

«Via» sospira la donna, gli occhi scuri un po’ meno luminosi del solito.

«Perché non escono dalla porta?» si informa Margherita, che è abituata alle stranezze, ma che non riesce comunque a capire perché i due uomini non abbiano preso la via più comoda.

Per tutta risposta, la Signora Mursciù scrolla le spalle e cambia argomento. «Parliamo del motivo per cui ti ho fatta venire qui» dice, rianimandosi e pescando una sottile chiave di ottone dalla tasca dell’abito rosso che indossa quel giorno. Sotto lo sguardo attento della ragazzina, raggiunge l’antica cassettiera di mogano posta accanto all’ingresso e fa scattare la serratura del cassetto inferiore. Con i gesti rapidi e precisi di chi sa cosa sta cercando, vi fruga dentro per qualche istante, prende qualcosa e poi lo richiude.

Quando la donna si siede di fronte a lei, accomodandosi sul divano, Margherita fa del proprio meglio per mantenere un contegno educato e non cedere alla curiosità che le imporrebbe di sbirciare ciò che la Zingara ha in mano. Senza farsi pregare, la Signora Mursciù si posa sulle ginocchia un fagottino di cotone azzurro. La stoffa, ripiegata a mo’ di pacchetto, custodisce qualcosa di piccolo e, per un attimo, la bambina si chiede se si tratti di un gioiello, o magari di un’altra fialetta come quella che la donna aveva dato a lei e ad Agnese tempo prima.

Quando la Zingara scioglie il legaccio che tiene uniti i lembi del fazzoletto chiaro, però, la bimba vede che l’oggetto che la donna ha preso dal cassetto non è altro che una seconda chiave. «Voglio che questa la tieni tu» dice la Francesca, porgendogliela.

Margherita l’afferra con circospezione. Nessuno le ha mai affidato una chiave, prima d’ora. Quella che tiene tra le mani in quel momento è piccola, apparentemente delicata: più che una porta, sembra adatta per aprire l’anta di un armadio. La bambina lo solleva per osservarla meglio: è fatta di un materiale trasparente e la luce la attraversa da parte a parte, riempiendola di innumerevoli riflessi infuocati.

Margherita ne saggia la consistenza con un’unghia, poi si rivolge alla Zingara. «Di cos’è fatta?» le chiede.

La donna le sorride. «È ambra» le spiega. «È come la resina che trovi sugli abeti, ma è molto più vecchia.»

Perplessa, la bambina la stringe un po’ più forte tra indice e pollice. La resina che cola dagli abeti e dal pruno che cresce davanti a casa sua è morbida, malleabile e appiccicosa, mentre quella di cui è fatta quella chiave è dura come il vetro. Però non vuole apparire sciocca, così cambia domanda. «Di cos’è?» indaga.

«Vuoi sapere che cosa apre?» si accerta la Zingara, sporgendosi un pochino verso di lei. La ragazzina annuisce, abbassando lo sguardo sulla chiave, e la Signora Mursciù allunga una mano fino a coprire quella di Margherita, pelle color caramello, dalle ombre dorate, contro pelle d’alabastro, segnata da vene azzurrine. «Questa chiave», annuncia, con il tono basso con cui è solita raccontarle le storie più bizzarre e grandiose, «apre una porta molto antica. Non è un posto adatto ai bambini, quindi, almeno per adesso, non posso portarti a vederla, né posso rivelarti dove si trovi. Tra qualche anno, però, prometto che ti condurrò lì e ti racconterò tutto quello che c’è da sapere a proposito di quella porta e di quello che ci si trova al di là di essa.»

Quella risposta, naturalmente, non fa che stuzzicare ulteriormente la curiosità di Margherita, che ora sente di avere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di più a proposito della porta che solo la chiave che ha tra le mani può aprire. Sente di volerla toccare, vuole impugnarne la maniglia, abbassarla e passare oltre l’uscio.

Per qualche secondo, la sfiora la tentazione di insistere e provare a convincere la Zingara a portarla in quel posto misterioso, se non altro per dare una sbirciatina. Desiste subito, però: sa benissimo che quando la Signora Mursciù dice di no a una cosa, non c’è verso di farle cambiare idea. «Ma che tipo di porta è?» chiede invece. «Serve per entrare in una casa? O forse in un palazzo?» O magari in un castello, pensa la bambina con un fremito di eccitazione. Lei non l’ha mai visto, un castello vero, perché da quelle parti non ce n’è nemmeno uno. Quelli che i valligiani chiamano con deferenza castèi non sono altro che palazzotti di modeste dimensioni, mezzi diroccati e con solo qualche sparuta torretta.

La Francesa esita per un istante. «No, direi che è… direi che è piuttosto la porta di una recinzione che separa questa nostra terra dalla terra di altre persone. Come un cancello che delimita i confini di un giardino o di un orto che non ci appartiene»

Margherita annuisce in silenzio per qualche istante con lo sguardo perso nel vuoto. La sua mente le propone l’immagine di un fazzoletto di terreno ombroso e verdeggiante, ricco di alberi strani e di fiori dal profumo vibrante. Le pare di vedere il terriccio scuro e fertile, il muschio spesso che cresce sui tronchi, il gioco sinuoso dei raggi obliqui del sole che si intrecciano con i rami. Forse ci sono dei pavoni che zampettano tra le felci, le sembra di scorgerne i riflessi bluastri delle code magnifiche, e tra le foglie più alte saltellano i merli indiani. Può quasi annusare il profumo del proibito e si chiede se quel cancello assomigli almeno un po’ a quelli che, in qualche occasione, lei e Agnese hanno scalato e scavalcato per introdursi in un campo non loro e rubare qualche mela o una manciata di ciliegie.

«Prometti di averne cura?»

La voce della Zingara la distrae dalle sue fantasticherie e Margherita annuisce senza nemmeno pensarci. Guarda la chiave per un secondo soltanto e poi cerca gli occhi neri della Signora Mursciù. «Va bene», promette, «ma perché l’hai data a me? Perché non puoi tenerla tu?»

La Francesa sorride e alla bambina il suo sguardo sembra più dolce del solito. «L’affido a te perché io dovrò andare via per qualche tempo. Se qualcuno dovesse averne bisogno in mia assenza, potrà rivolgersi a te.»

Quella notizia è inaspettata e Margherita aggrotta la fronte, turbata. «Devi andare via?» ripete, per accertarsi di avere capito bene. «Perché? Dove devi andare?» Nelle orecchie le risuona all’improvviso ciò che la donna aveva detto una delle ultime volte che lei e Agnese le avevano fatto visita, quando aveva confessato che le persone che l’avevano costretta a fuggire dalla sua casa erano sulle sue tracce. Che l’avessero infine trovata, obbligandola a lasciare anche San Giorgio della Valle?

Intuendo forse le sue preoccupazioni, la Zingara posa una mano sul ginocchio della ragazzina. «Non temere, non è nulla di allarmante» la rassicura. «Tra poco avrò una bambina e voglio che nasca tra la mia gente. Non posso tornare in Francia, ma ho degli amici in Svizzera, vicino a Ginevra: andrò lì.»

Margherita è sbalordita. Lo sguardo le cade sulla pancia della donna, che le pare piatta come sempre: non le sembra proprio che ci sia una bambina, lì dentro. «Come fai a sapere che sarà proprio una femmina?» è la domanda migliore che le riesce di fare.

La Francesa si sfiora appena il ventre con la punta delle dita. «L’ho sognata» rivela. «Sarà una bambina, sarà piccola e bruna, con occhi buoni e capelli selvaggi. Si chiamerà Flora e vedrà il mare.»

Le parole della donna sono talmente sicure che a Margherita sembra quasi di vedersela davanti, quella bambina che ancora non esiste: se la immagina come una versione infantile della Zingara, piccola e minuta e con gli occhi neri.

«Passerà qualche anno, prima che potremo rivederci» continua la Signora Mursciù. «Cambieranno tante cose, in questi anni: la guerra finirà e tu crescerai, avrai altri interessi e conoscerai altre persone. Non dimenticarti mai di me, però, e non dimenticarti mai di questa chiave. Sii una buona custode e non cederla a nessuno che non abbia il diritto di averla.»

Una fitta di apprensione attraversa lo stomaco della piccola. «Ma come faccio a sapere se qualcuno ha il diritto di averla oppure no? Prima mi hai detto che qualcuno potrebbe averne bisogno: come faccio io a capire se chi me la chiede ne ha davvero bisogno o se, invece, me la vuole rubare e basta?»

La Zingara le sorride di nuovo. «Lo capirai da sola.»

Quella risposta non piace alla bambina, le sembra terribilmente insoddisfacente. «Ma come?» insiste. «Spiegami un po’ meglio come fare! Non voglio sbagliare!»

La mano della donna sale ad accarezzarle la guancia rotonda e morbida. «Non ti sbaglierai, Margherita. Tu hai un dono raro, anche se ancora non lo sai. Scoprirai anche questo, negli anni a venire.»

La bambina si stringe la chiave al petto, sentendosi preda di una strana tristezza. Vorrebbe sapere molto di più, ma percepisce con estrema chiarezza che la Zingara non ha intenzione di dirle altro. Sembra quasi che la stia salutando, in effetti: è come se le stesse lasciando un ultimo dono, un’eredità che dovrà gestire da sola per molto tempo.

Animata da una flebile scintilla di speranza, Margherita da voce al pensiero che le ha appena attraversato la testa. «E Agnese?» chiede. «C’è una chiave anche per lei?»

Non appena la sente fare il nome di Agnese, la Signora Mursciù si rabbuia. «No. Per lei non ho niente.»

La bambina non riesce a dare un nome all’ombra che ha scorto nel tono della Zingara, ma avverte con chiarezza l’aria della stanza farsi pesante e stringersi attorno a lei nello stesso modo in cui la nebbia, là fuori, si stringe attorno alle case di San Giorgio.

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Capitolo 9
*** 8. La chiave nera ***


Quasi cent’anni prima

Ha appena smesso di piovere e l'aria è pregna di un'umidità densa e persistente. A fine ottobre, il sole non riesce più a scavalcare le creste delle montagne e l'intero lato nord della valle è immerso in un'ombra perenne. Fa freddo, nel cuore del bosco, un freddo che penetra nelle ossa e toglie la sensibilità alle dita delle mani e dei piedi, ma Agnese non vi bada.

Accoccolata su un masso ricoperto di muschio smeraldino, la bambina non presta alcuna attenzione alla macchia scura e bagnata che le si sta formando sul retro dell'abito di lana, così come non si preoccupa di liberare gli scarponcini dallo strato di fango e di foglie morte che vi si è depositato sopra.

È interamente concentrata sulla sottile chiave nera che tiene nel palmo della mano: la gira e la rigira, osservandone la superficie perfettamente uniforme, senza riflessi, senza scintillii, senza ombre, purissima nella sua totale assenza di colore.

Non era stato facile mostrarsi delusa quando, due settimane prima, Margherita le aveva dato appuntamento in gran segreto alla fine della giornata scolastica e le aveva mostrato il dono che aveva ricevuto dalla Zingara. Quando aveva visto la piccola chiave arancione comparire dalla tasca del grembiulino dell'amica, Agnese aveva sgranato gli occhi per la sorpresa, ma aveva tenuto la bocca ben chiusa, simulando un silenzio mortificato. La bambina mora era arrossita, mentre gliela mostrava quasi di soppiatto. «Non so se faccio bene a dirtelo», aveva confessato tenendo lo sguardo basso, «però mi sembra giusto così.»

In silenzio, Agnese aveva lasciato che Margherita le raccontasse come la Zingara l'avesse invitata a casa sua, l'avesse (forse) presentata a suo marito e le avesse infine affidato quella chiave fatta di resina secca, facendole promettere di custodirla con cura fino al suo ritorno. «Perché, sai, presto avrà una bambina e dovrà andare via per un po'.»

«Non è giusto che a te abbia dato quella chiave e me, invece, non abbia dato niente» le aveva fatto notare Agnese con un tono controllato, quasi da persona adulta.

Margherita I'aveva guardata con aria dispiaciuta. «Lo so» aveva sospirato con una vocina sottile sottile. «Non so perché abbia deciso di fare così.»

Agnese aveva finto di rifletterci per qualche istante, poi aveva scrollato le spalle. «Va be', non fa niente. È solo una chiave: non me ne faccio niente, di una chiave che non posso nemmeno usare.»

La ragazzina mora l'aveva fissata per qualche secondo ancora, poi si era infilata in tasca la chiave ambrata e aveva abbozzato un sorriso impacciato. «Magari uno di questi giorni chiamerà anche te e ti regalerà qualcos'altro» aveva suggerito, con l'aria di una che ci credeva davvero.

Agnese aveva reclinato graziosamente il capo. «Magari sì» aveva concordato con voce leggera. L'aveva detto sorridendo, ma dietro la piega amichevole delle sue labbra si nascondeva un'espressione di scherno. Margherita pensava forse di poterla prendere in giro? Lo sapeva benissimo, che la Zingara non l'avrebbe mai chiamata. Era esattamente come aveva sempre sospettato: lei e Margherita si incontravano di nascosto, alle sue spalle, escludendola da quella che le sembrava sempre più un'amicizia a due nella quale non c'era posto per lei.

Ma, proprio come aveva appena detto alla bambina bruna, non faceva niente. Che si incontrassero pure per bere il tè, la Zingara e Margherita, che si facessero promesse e si scambiassero regalini: lei aveva un'altra amica, ben più speciale della Signora Mursciù, e non aveva niente da invidiare a nessuno.

E, caso strano, la sua amica aveva giustappunto regalato anche a lei una chiave, qualche giorno prima, ed era ancora più bella di quella che la Zingara aveva dato a Margherita.

Per ringraziarla di quel dono, da allora Agnese va a trovarla ancora più spesso di prima: è per questo che oggi, appena la pioggia è cessata, è corsa nel bosco senza dire niente a nessuno e ha raggiunto il Böcc dal Seerp.

Lei la stava aspettando: non ha dovuto attirarla verso la superficie con piccoli doni vegetali. Quando è comparsa dalla boscaglia, era già lì che la fissava con i suoi grandi occhi neri senza iride né pupilla. Quegli occhi non l'hanno lasciata neanche un istante, e anche adesso ce li ha ancora addosso, mentre quella le spiega per l'ennesima volta perché deve tenere nascosta la chiave, senza mai mostrarla a nessuno, nemmeno a Margherita o alla Zingara.

Non parla con parole umane, perché la sua lingua è biforcuta e la sua bocca piena di zanne affilate, ma i suoi pensieri sono suoni e onde di colore che dalla sua mente arrivano direttamente a quella della bambina. Dietro alle sue palpebre, essi si condensano in immagini, idee e sensazioni. Agnese vede bestie fantastiche, draghi come quelli combattuti da quel San Giorgio che da il nome al suo paese, cavalli più bianchi della neve, galli con la coda da serpente, leoni con la testa d’aquila e creature, piccole o immense, che nemmeno sa descrivere. Vede donne vestite di ferro e di piume che reggono tra le mani picche affilate e uomini immensi con corna ritorte e zoccoli di capra.

Sono solo lampi fugaci che la bimba riesce a malapena ad afferrare, poi arriva un’immagine più chiara, più netta, che quella le scaraventa in testa come per imprimerla per bene nella sua memoria. La bambina vede una porticina da niente, legno marcio incastrato sotto a un arco di roccia come se fosse la porta di un crotto* poco frequentato, e davanti a essa scorge schiere di guerrieri splendenti dai visi di ferro e di vetro. Non sa cosa siano, non sa cosa vogliano, ma avverte che desidererebbero oltrepassare quella porta striminzita. Dall’altra parte, in un mondo più caldo e famigliare di quello che ha visitato sino a pochi istanti prima, Agnese vede delle fanciulle dalla pelle bruna e dagli abiti sgargianti. Non fanno nulla, ma se ne stanno immobili, con le schiene dritte come fusi, con gli occhi fissi sulla porta e le mani tese verso di essa. Risplendono di una luce interna, potente come se al posto del cuore avessero una palla di fuoco pallido. La bimba pensa che hanno un qualcosa di famigliare, ma così, su due piedi, non riesce a definire meglio quella vaga sensazione.

Lei la scuote con il pensiero e Agnese sente crescere in sé qualcosa di strano. È paura, ma anche rancore, invidia, rabbia e un impeto di ribellione che non aveva mai provato, prima di allora. È un’ombra amara che le riempie l’anima, lava bruciante; è anche soddisfazione e trionfo e non c’è nulla di contraddittorio in tutti quei sentimenti contrastanti. Agnese si spaventa e lo stomaco le si contrae in preda alla nausea: perché sta provando quelle cose? Si chiede. Poi, all’improvviso, capisce che non sono emozione sue, comprende che lei le sta di nuovo mostrando qualcosa. Sono uomini, quelli che improvvisamente vede con gli occhi della mente, uomini mortali (perché le altre creature che ha visto non erano affatto mortali, oh, no) come quelli che conosce anche lei. Solo che non sono esattamente uguali a quelli che incrocia tutti i giorni per le stradine di San Giorgio: c'è qualcosa di diverso in loro, una tendenza all'infinito che avverte, ma non sa spiegare, il desiderio di innalzarsi al di sopra al mondo e al di sopra al tempo che lo regola, l'esigenza di sfidare la natura e di vincerla.

«Chi sono?» chiede Agnese, sentendosi turbata da quegli strani uomini. Non capisce perché la creatura che vive nel lago le stia mostrando quelle cose e il fatto di non capire le causa un dolorino preoccupato all'altezza dello stomaco.

Quella, però, sembra non essere in grado di fornire delle spiegazioni più approfondite. Davanti alla domanda della ragazzina, si limita a mostrarle di nuovo le stesse immagini che le ha mostrato pochi attimi prima, come se si aspettasse che queste fossero sufficienti a fare comprendere ad Agnese il messaggio che sta cercando di trasmetterle. Solo che lei non riesce proprio ad afferrarlo, quel messaggio: con un fremito di frustrazione, pensa che forse quella non è abituata a trattare con i bambini. Del resto, da quelle parti non ne devono passare proprio tanti, e Agnese pensa che, prima che lei capitasse lì per caso, doveva essere passato molto, molto tempo dall'ultima volta che qualcuno si era fermato a chiacchierare con la creatura del lago.

E allora cerca di spiegarsi meglio. «Mi dispiace, ma proprio non capisco che cosa mi vuoi dire» confessa, con il tono di voce più educato che le riesce di tirar fuori. «Non è che potresti provare a dire qualche parolina? Oppure potresti scrivere: se vuoi, la prossima volta ti porto il mio pennino e un quaderno che non uso più. Non ho l'inchiostro, ma magari possiamo usare il fango?»

La sua mente è invasa da una risposta negativa e, forse, anche da una punta di divertimento. Agnese fissa la creatura che ha davanti agli occhi e si chiede se è davvero impossibile, per lei, parlare. Non per la prima volta, guarda le zanne che le fuoriescono dalla mandibola e si chiede a cosa le servano dei denti così affilati, se mangia solo ortiche e borragine. D'accordo, forse quella non è una bocca fatta per parlare la lingua degli uomini, ma che dire delle sue mani? Sono belle ed eleganti, anche se del colore della pelle dei serpenti, e sono anche ornate da bracciali di legno e liane. Forse potrebbe veramente scrivere. È chiaro che capisce l'italiano, quindi Agnese pensa che ci siano anche buone possibilità che lo sappia riprodurre per iscritto. Forse dovrebbe dirle che non deve preoccuparsi di fare errori di ortografia, perché ne fa tanti anche lei e quindi non si formalizzerebbe di certo su un'acca mancata o su una doppia di troppo.

Prima che possa farle quella proposta, però, lei le riversa in testa un'altra serie di immagini e di sensazioni: chiave, segreto, nascondere, protezione. Agnese serra istintivamente il piccolo pugno grassoccio attorno alla chiave. «Sì, la tengo nascosta» sospira. «Ho capito, non c'è bisogno che tu me lo ripeta un'altra volta.»

Nascondere, nascondere. Ripete la creatura. Silenzio, segreto. E poi: non come Margherita. Perché lei lo sa, che Margherita ha tradito la promessa che aveva fatto alla Zingara e ha mostrato la chiave ad Agnese. La bambina bionda non deve fare lo stesso errore: quello è un segreto che si deve portare nella tomba.

A meno che... Agnese non sa nemmeno come fa a decifrarlo, quel pensiero, ma avverte che la creatura le ha appena detto che esiste una condizione in grado di spezzare il suo voto di segretezza.

«A meno che... cosa?» chiede, perché sente che c'è qualcosa che è rimasto in sospeso, capisce che quella ha omesso una parte fondamentale dell'informazione che ha cercato di trasmetterle.

Poi. Futuro. Vedrai.

Non vuole dire niente. Agnese non vuole indizi vaghi, ma istruzioni sicure. «No» protesta. «Me lo devi dire adesso, che cosa devo fare, perché altrimenti rischio di sbagliare qualcosa e poi tu ti arrabbi.»

La creatura del lago non le dà però la soddisfazione di una risposta e con un guizzo elegante si ripiega su se stessa, mostrando alla bambina la schiena nuda e poi sprofondando nelle acque scure del Böcc dal Seerp con un guizzo della sua lunga coda da serpe.

Vedrai, è la parola che riecheggia nella mente di Agnese mentre sulla superficie della pozza d'acqua rimangono solo dei cerchi concentrici che si fanno sempre meno pronunciati. Vedrai.

Lei è sparita, lasciando dietro di sé solo un'umida giornata autunnale. Un po' infastidita dal modo in cui si è conclusa la conversazione, la bambina sbuffa rumorosamente e il fiato le si condensa davanti al naso in una nuvoletta effimera. Inizia a fare freddo, il che significa che è proprio ora di tornare a casa, prima che la mamma si indisponga per la sua assenza non giustificata.

Prima di alzarsi in piedi, la ragazzina si rigira un altro po' la chiave nella mano destra, mentre la sinistra corre a tastare la forma appena accennata del medaglione donatole dallo strano amico della Zingara. Lo porta sempre con sé, nascosto sotto il vestito e il grembiulino. Seduta davanti al Böcc dal Seerp, la bambina si chiede se non sia forse il caso di disfarsene: ora che quella le ha detto che la chiave non la deve mostrare nemmeno alla Signora Mursciù, Agnese si chiede se la Zingara e l'uomo dalla pelle scura siano davvero suoi amici come ha sempre pensato. E se, invece di proteggerla, la spiasse? Però poi pensa che da quando lo porta non le è successo nulla di male – non ha mai preso un brutto voto a scuola e la mamma non le ha tirato nemmeno uno scapaccione – quindi almeno un po' deve funzionare.

Rassettandosi la sottana e facendo del proprio meglio per liberarla dalle foglie secche, dal fango e dagli aloni verdognoli lasciati dal muschio, la bambina prende una solenne decisione: terrà con sé il medaglione, ma terrà anche fede alla promessa che ha fatto alla creatura del lago. Nessuno saprà mai della chiave e dell'essere che gliene ha fatto dono. Mai. Quello sarà un segreto che la accompagnerà per tutto il resto della sua vita.

* I “crotti” sono degli anfratti naturali che si formano all'interno di frane antichissime. Tra un masso e l'altro scorre costantemente una corrente d'aria fredda (circa otto gradi) proveniente dal centro della frana: in alcune zone della Lombardia (la nostra storia si svolge in provincia di Sondrio) si sono ricavate delle specie di cantine che sfruttano questa sorta di frigorifero naturale per far stagionare vino, formaggi e salumi. Spesso è presente anche una sala o un tavolino esterno dove è possibile pasteggiare.

***

Capitolo breve, che, in teoria, avrebbe dovuto essere la seconda metà di quello precedente (postato secoli or sono). Però sarebbe venuto troppo lungo, quindi l'ho diviso.

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Capitolo 10
*** 9. Colazione in Città Alta ***


Oggi

Anche se non erano ancora suonate le nove, la Piazza Vecchia era tutt'altro che deserta. Tra coloro che ne calpestavano la pavimentazione di mattoncini rossastri ancor prima che questa venisse illuminata dai raggi del sole erano riconoscibili due particolari categorie umane: i turisti e gli studenti sotto esame. I primi, incoraggiati da quella che prometteva di essere una splendida giornata di maggio, camminavano con piccoli passi incerti, con la guida stretta sotto il braccio e il naso all'aria per ammirare gli archi del Palazzo della Ragione e l'imponente Campanone. I secondi, invece, si muovevano in gruppetti compatti, discorrendo con apparente disinvoltura degli argomenti che avrebbero dovuto affrontare in sede di esame. Bastava osservarli con un po' più di attenzione, però, per scorgere la tensione che irrigidiva i loro lineamenti e rendeva meccanici i loro gesti.

Rannicchiata sui gradini bianchi della biblioteca Angelo Mai, Caterina li osservava con un misto di compassione e noia e, di tanto in tanto, lanciava un'occhiata in direzione degli eleganti archi candidi che la sovrastavano, accertandosi che nessuno dei piccioni che infestavano la piazza avesse deciso di posarsi proprio sopra alla sua testa.

Da che parte sarebbe arrivato Michael? Quando avevano deciso di incontrarsi in Piazza Vecchia, non avevano concordato un luogo preciso e ora la ragazza si sentiva percorsa da un sottile brivido di inquietudine. È presto, si disse, guardando rapidamente le lancette dell'orologio che portava al polso sinistro. Non amava arrivare in ritardo ed era dunque partita di buon'ora, prendendo un treno che l'aveva fatta approdare alla stazione di Bergamo con più di settanta minuti di anticipo sull'orario stabilito per l'incontro. Per evitare di sudare eccessivamente e di arrivare all'appuntamento con un aspetto poco presentabile, aveva rinunciato ad arrampicarsi fino alla Città Alta a piedi e aveva invece preso un autobus: il risultato di tanta premura era stata un'attesa snervante seduta sui freddi gradini di pietra della biblioteca.

Però sarebbe buona educazione non presentarsi all'ultimo minuto, ragionò di nuovo la ragazza, sporgendosi per avere una visuale migliore della strada che costeggiava la piazza. La verità era che si sentiva nervosa. Il che è una grandissima idiozia, riconobbe, tormentando con due dita la leggera stoffa gialla del vestito che indossava. Più i minuti passavano e più cresceva in lei il sospetto che Michael non si sarebbe presentato o che, se anche fosse venuto, si sarebbe limitato a lasciarle la dispensa di marketing, senza però accompagnarla a fare colazione.

Sarebbe meglio così, no? Sbottò la parte della sua mente che aborriva il contatto umano e preferiva ritirarsi entro i confini noti e rassicuranti della propria solitudine distaccata, dove tutto era perfettamente controllabile e prevedibile. Se il ragazzo si fosse limitato a consegnarle il materiale che le aveva promesso e poi si fosse dileguato, le sarebbe stato risparmiato l'imbarazzo di una conversazione piena di silenzi e frasi fatte davanti a un caffè troppo amaro. Del resto, lei nemmeno lo conosceva, Michael: perché le aveva chiesto di fare colazione insieme? Che cosa mai avevano da dirsi?

Ma è proprio questa, la cosa interessante! La redarguì quella parte del suo inconscio che invece ricordava perfettamente gli occhi blu del ragazzo, le sue spalle larghe e i suoi capelli spettinati e tremava d'emozione all'idea di rivederlo.

Con lo sguardo perso nel vuoto, Caterina si permise di pensare per qualche secondo a uno scenario in cui lei e Michael non erano semplici conoscenti: a quell'invito inaspettato ne sarebbero seguiti altri e poi, forse... Una ragazza con un'ingombrante borsa a tracolla le transitò davanti a passo spedito e la giovane si riscosse. Niente idiozie adolescenziali! Si impose, scuotendo la testa come per liberarla da quei pensieri. Erano finiti i tempi in cui si prendeva cotte ridicole – e quasi mai ricambiate – per qualsiasi umano di sesso maschile che le sembrasse anche solo vagamente gradevole alla vista. Malgrado fosse single da più di due anni, non sentiva il bisogno di trovarsi un ragazzo o qualcuno con cui passare le serate: lei stava bene come stava. Era una donna adulta e indipendente e non si sarebbe resa ridicola davanti a un tizio belloccio, ma comunque potenzialmente poco raccomandabile, fissandolo con gli occhi persi e un filo di bava alla bocca.

Non dimenticarti come ti ha trattata nel parcheggio del Dream! Si impose. Forse poi si è pentito e si è sempre mostrato gentile e disponibile, ma quella sera era palesemente ubriaco marcio: vogliamo davvero frequentare un personaggio del genere, Cate?

No, naturalmente era troppo assennata per lasciarsi coinvolgere da un'avventura simile. Avrebbe magari sperimentato un po', al massimo avrebbe scambiato con lui due chiacchiere informali, ma poi l'avrebbe ringraziato per l'aiuto che le aveva fornito e l'avrebbe gentilmente espulso dalla propria vita. Era questo, quello che faceva con le persone che non si inserivano alla perfezione nella sua comfort zone. Era l'atteggiamento che le aveva permesso di arrivare ai venticinque anni senza grandi sobbalzi emotivi e di certo non l'avrebbe abbandonato tanto facilmente.

Sempre ammesso che Michael abbia la decenza di presentarsi: sono le nove e cinque e lui ancora non si vede. Non si è nemmeno degnato di mandarmi un messaggio per avvisarmi.

Per ingannare il tempo, Caterina aprì Facebook e diede un'occhiata alle ultime notizie pubblicate da amici e parenti. Aveva appena letto le prime righe di una filippica che una sua conoscente aveva dedicato a Trenord e ai suoi perenni ritardi, quando avvertì una presenza davanti a sé.

«Disturbo?»

Sollevando rapidamente lo sguardo dallo smartphone, la ragazza incontrò gli occhi chiari di Michael. «Oh, ciao» lo accolse con un mezzo sorriso, sperando che l'irritazione provata pochi istanti prima non trapelasse dalla sua espressione. «No, figurati, stavo solo... be', ti stavo aspettando.»

Il ragazzo la guardò con aria leggermente dispiaciuta. «Sono in ritardo, vero?» le chiese, estraendo il cellulare dalla tasca dei jeans e lanciando un'occhiata allo schermo. «Scusami, ho fatto un pezzo di strada a piedi e non mi sono accorto di quanto fosse tardi. Sei qui da molto?»

Alzandosi in piedi per trovarsi alla sua altezza – non era abituata a guardare le persone da sotto in su e quella prospettiva le piaceva poco – Caterina scosse il capo. «No, sono arrivata giusto cinque minuti fa» mentì. Diciamo pure quaranta minuti fa, si corresse mentalmente, ma poi riconobbe che non era corretto incolpare Michael per il tempo che aveva perso. Non gliel'aveva certo chiesto lui, di arrivare tanto presto.

«Oh, meno male!» annuì sollevato il giovane, prima di posare a terra la tracolla di cuoio che portava in equilibrio su una spalla. Chinandosi appena, pescò un voluminoso plico di fogli rilegati con una grossa spirale di plastica rossa. «Be', allora: ecco qui la dispensa che ti avevo promesso. Dacci un'occhiata con calma e fammi sapere se ti sembra che sia abbastanza approfondita. Se hai bisogno che ti spieghi qualche punto, non farti problemi a domandare.»

Caterina lo guardò, un po' in imbarazzo. «Ma no, non vorrei approfittarne...» mormorò, prendendo la dispensa dalle mani del ragazzo.

Michael scoppiò a ridere. «Ma che approfittarne! Non prometto di essere disponibile ventiquattr'ore al giorno, ma se non capisci qualcosa, fammi un colpo di telefono o scrivimi su Whatsapp: non per tirarmela, ma 'ste cose sono delle scemate, per me. So praticamente a memoria tutto quello che c'è scritto lì dentro.»

La ragazza annuì riconoscente. «Ah, be', se le cose stanno così, allora potrei anche farci un pensierino.» E magari l'avrebbe fatto davvero, chissà: il tempo per preparare l'esame era poco e ogni aiuto era più che gradito.

Tra di loro calò il silenzio e Caterina sostenne lo sguardo del giovane per qualche secondo, poi chinò il capo e mise mano alla borsetta, stringendosi nel contempo la dispensa al petto. «Quanto ti devo?» chiese, estraendo il malconcio portafoglio Eastpack di cui non smetteva mai di vergognarsi, ma che era troppo pigra per sostituire.

Michael la guardò con gli occhi sgranati, poi scosse con vigore il capo, posando una mano su quella di lei e spingendola a rimettere via il portafoglio. «Ma che, scherzi? Ho detto che te la presto, non che te la vendo!»

Caterina storse le labbra, poco convinta. Non che le dispiacesse risparmiare qualche euro, ma non voleva avere l'impressione di essere in debito con lui. «Eh, ho capito, ma comunque...»

Il ragazzo scosse di nuovo il capo, categorico. «Non voglio nemmeno sentirne parlare. Devo ricordarti com'è nata questa storia? Devo farmi perdonare per l'atteggiamento da stronzo che ho avuto quella sera al Dream: è davvero il minimo che posso fare. Ah, per tua informazione: continuo comunque a sentirmi in colpa.»

Davanti a quella spiegazione, la giovane si strinse nelle spalle. «E va bene» si arrese. «Prometto che non ci farò nemmeno una piega. E starò attenta a non mangiarci sopra, ok?»

«Perfetto» annuì Michael. «Magari evita anche bevande corrosive o dal colore scuro, quando la stai leggendo.»

Caterina arricciò il naso, fingendosi offesa dalla sua precisazione. «Farò del mio meglio» lo rassicurò.

Lui la guardò sorridendo, poi si voltò verso la strada che si estendeva alla sua sinistra, sempre più affollata di turisti e di studenti. «Sei ancora dell'idea di fare colazione insieme?» indagò. «Perché io non mangio niente da ieri sera e tra poco mi ritroverò con una voragine al posto dello stomaco.»

Consultando di soppiatto il telefono, Caterina constatò che il ronzio che aveva avvertito poco prima era un messaggio inviatole da Halima. A che ora pensi di arrivare? Le aveva scritto la sua amica.

Ti raggiungo tra una mezz'oretta, digitò velocemente, prima di tornare a rivolgersi a Michael. «Sì, va bene» concesse. «Un caffè lo bevo volentieri anch'io.»

***

Alla fine non aveva affatto preso un caffè, ma uno schiumoso cappuccino spolverato di cacao e un poderoso cornetto alla crema. Sulle prime era stata tentata di ordinare una più sobria brioche alla marmellata – o magari liscia – ma vedendo che Michael non si era fatto alcuna remora a farsi portare un krapfen, aveva subito corretto il tiro.

La mezz'ora che aveva preannunciato ad Halima era ampiamente trascorsa e, all'ennesimo posticipo, la loro chat di WhatsApp era stata avvolta da un silenzio che non preannunciava nulla di buono. Penserà che le abbia tirato un bidone, pensò Caterina con una punta di apprensione. Sarà offesa a morte!

La verità era che quella colazione con Michael si stava rivelando assai più gradevole del previsto e lei non aveva alcuna fretta di andarsene.

Notando lo sguardo cupo che aveva appena lanciato allo schermo del cellulare, il ragazzo si sporse verso di lei, posando i gomiti sul tavolino di legno rovinato e un po' appiccicoso, «Adesso ti lascio andare, altrimenti la tua amica mi ammazza.»

«Ma no» lo tranquillizzò Caterina. «C'è tempo.»

Il ragazzo la fissò reclinando un poco il capo su una spalla. «Sei sicura?» insistette. «Non avevate mica un appuntamento?»

La giovane avvertì un lieve rossore solleticarle le guance. «Sì, è vero, ma non si tratta di nulla di troppo importante» ammise. «Dobbiamo solo trovarci per studiare insieme. Anzi, per la precisione, non studiamo nemmeno insieme nel vero senso della parola. A casa tendiamo a distrarci, quindi preferiamo trovarci qui... però può benissimo iniziare senza di me, dal momento che ci occupiamo di cose diverse.»

«Niente esame di marketing, per lei?» indagò Michael.

Caterina storse le labbra, trovandole leggermente appiccicose per la colazione appena consumata. «La mia amica l'ha già passato l'anno scorso. L'ha fatto da frequentate, il che gliel'ha reso decisamente più facile da superare.» Tirando un colpetto con il ginocchio alla tracolla contenente la dispensa del giovane, la ragazza sorrise. «Comunque oggi non ho alcuna intenzione di dedicarmi a quella roba lì: oggi intendo almeno imbastire il secondo capitolo della tesi. Conto di laurearmi a marzo e il tempo non è poi così tanto...»

Michael si lasciò sfuggire un sibilo divertito. «Punti di vista: a me nove o dieci mesi non sembrano poi così pochi.»

Lei si strinse nelle spalle. «Dipende da un sacco di fattori. Innanzitutto, io ho come relatrice la Boschi, che è brava e buona, ma è anche una rompicoglioni di proporzioni epiche – e scusa il francesismo» borbottò. «Ho perso il conto di quante volte mi ha fatto riscrivere porzioni del primo capitolo, e si trattava solo di roba teorica, dove non c'era proprio niente da inventarsi. Tremo al pensiero di quello che potrebbe dirmi a proposito dei capitoli successivi!»

Il ragazzo le lanciò uno sguardo incuriosito. «Boschi, hai detto? Mai sentita nominare. Cosa insegna?»

«Filologia germanica» scandì Caterina.

Michael corrugò la fronte. «Eh?»

«E pure linguistica germanica» precisò lei. «È tipo lo studio della storia delle lingue germaniche, del modo in cui si sono differenziate da quelle romanze e come si sono evolute dall'indoeuropeo e... be', roba del genere. Io, però, ho deciso di presentare una traduzione.»

«Una traduzione dal tedesco?»

Caterina scosse la testa. «Non esattamente. Traduco un testo da una variante del tedesco antico: la cosa divertente è che è una specie di formula magica.» Notando l'espressione scettica del giovane, la ragazza si sporse verso di lui, aggrottando la fronte con aria minacciosa. «Oh, non fare quella faccia! Non studiamo filastrocche e non facciamo nemmeno riti satanici: in realtà, è una cosa estremamente affascinante. È una specie di misto tra un incantesimo, una preghiera e una ricetta medica. È interessante notare come tutte queste cose sono state praticamente la stessa cosa, fino a un certo punto della nostra storia. E poi è una cosa che ti fa riflettere su come certi elementi siano ancora vivi nella nostra società.»

«Ti riferisci ai creduloni che si fanno fregare da cure miracolose e da santoni improvvisati?» chiese Michael, cercando di indovinare dove volesse andare a parare.

La ragazza si strinse nelle spalle. «Più che altro, pensavo a certi piccoli rituali a cui mi capitava di assistere quand'ero bambina. Sai, certi “trucchetti” che si usavano nei campi e che non avevano nessun fondamento scientifico, ma a cui non si voleva comunque rinunciare. O anche certe filastrocche che mia zia mi cantava per far passare il dolore di una caduta sull'asfalto, o certe credenze legate alle corna delle capre e a ipotetici vermi che le facevano ammalare... ormai sappiamo perfettamente come funziona il mondo, ma certe superstizioni sono dure a morire.»

Michael la guardò in silenzio per qualche istante. «Non ci avevo mai pensato» disse, poi. «Sei cresciuta in campagna?»

«Io ho sempre vissuto in Brianza», spiegò la ragazza, «ma la famiglia di mia madre è originaria della provincia di Sondrio. Vengono da un paesino microscopico sul confine con la Svizzera. Da bambina ho passato tutte le mie estati lì e tante cose mi sono rimaste impresse.»

Appena ebbe pronunciato quelle parole, Caterina si interruppe, lo sguardo perso nel vuoto e un dettaglio stonato improvvisamente al centro dei suoi pensieri.

«Che c'è?» le chiese Michael, notando la sua espressione che si era fatta d'un tratto grave.

La giovane scosse lentamente il capo, cercando di dar forma alle proprie riflessioni. «Stavo pensando che, in effetti, è strano: le mie estati a San Giorgio sono state tutte magnifiche. Mi divertivo sempre un mondo, non vedevo l'ora di lasciare Merate per andare in montagna e a settembre mi veniva il mal di pancia al solo pensiero di tornare in pianura. Però... come dire: è come se facessi fatica a focalizzarmi sui singoli episodi di quel periodo.»

«Forse perché le tue estati si assomigliavano un po' tutte?» suggerì Michael. «Non so come sia questo posto in cui passavi le vacanze, ma dubito che ci siano mai stati grandi eventi mondani che possano esserti rimasti particolarmente impressi...»

Caterina, però, scosse il capo con decisione. «No, non è quello» mormorò. «Non riesco a spiegarmi bene. Ovviamente ho dei ricordi di alcuni eventi particolari: mi ricordo certi miei compleanni, mi ricordo di una volta che sono caduta nel fiume e di un'altra volta che mi sono conficcata un chiodo in una gamba. Mi ricordo il gattino che mi hanno regalato e le serate passate a saltare i cumuli di fieno con gli altri bambini, però... ci sono anche tanti vuoti.»

Il giovane corrugò la fronte. «Non credo di capire.»

La ragazza sospirò e si mordicchiò le labbra in preda alla frustrazione. «Hai presente quando hai l'impressione di avere una parola sulla punta della lingua, ma non riesci a pronunciarla? Oppure quella sensazione di non riuscire a ricordare un nome o un termine che dovresti conoscere benissimo, ma che non riesci proprio a farti venire in mente?» Quando Michael annuì, gli rivolse un sorrisetto tirato. «Ecco, sento più o meno la stessa cosa: ho come l'impressione che ci siano delle cose che non riesco più a ricordare, ma che sono ancora presenti nel mio subconscio. Sono lì, galleggiano da qualche parte nella mia testa, ma non riesco ad afferrarle.»

Michael abbassò lo sguardo, un'ombra di imbarazzo nei suoi occhi. «Forse non dovrei permettermi di chiedertelo, ma... soffri di disturbi della memoria? O forse... ecco, di ansia o depressione?»

Caterina si lasciò sfuggire una risatina secca, stupita da quella domanda tanto diretta e personale. «Io... no, certo che no. Ok, in questo periodo sono un po' sotto stress, ma la mia memoria è nella norma, credo. E poi questi “vuoti”, se vogliamo chiamarli così, ce li ho solo se provo a ripensare a quelle estati.»

Il ragazzo cercò il suo sguardo. «Ricordi tutto quello che hai fatto alle elementari e alle medie?»

Caterina esitò. «Be'... no, ovviamente no. Ricordo solo i momenti salienti.»

«E sapresti elencarmi tutti i regali che hai ricevuto a Natale negli ultimi cinque anni?»

«Non ricordo nemmeno quelli che ho ricevuto l'anno scorso» sbuffò lei. «Ma cosa diavolo centra?»

Michael si strinse nelle spalle. «Era solo per dire che, secondo me, non dovresti focalizzarti troppo su questa cosa. Non puoi pretendere di ricordarti ogni singola cosa che facevi quando eri bambina. Ora che mi ci fai pensare, pure io ho rimosso un sacco di cose: cose terribilmente noiose, suppongo.»

Lei lo guardò poco convinta. «Mah... forse hai ragione tu» bofonchiò. In realtà, però, non lo credeva affatto. Non era la prima volta che notava quegli strani buchi nei suoi ricordi di bambina, ma li aveva sempre archiviati come qualcosa di poco importante. Eppure quel giorno quell'anomalia si era piazzata con prepotenza al centro dei suoi pensieri. Chissà perché, poi, si chiese la ragazza, senza riuscire a capire che cosa le avesse provocato quella piccola ossessione. Forse sono davvero un po' troppo stressata.

Notando la sua perplessità, Michael si sporse verso di lei. «Se però la cosa ti disturba, se vuoi possiamo parlarne un po', la prossima volta che ci vediamo. Magari chiacchierando riesci a ricordarti qualche dettaglio che credevi di avere dimenticato.»

«Oh... perché no?» annuì la giovane. In verità, però, era bastato che Michael accennasse alla possibilità di incontrarsi di nuovo in futuro perché ogni pensiero rivolto al passato evaporasse dalla sua mente. Il ragazzo voleva rivederla, e tanto bastava per riempirle lo stomaco di bollicine di felicità. E al diavolo tutte le mie buone intenzioni di non avere reazioni da adolescente in preda all'ormone, sospirò mentalmente Caterina, senza riuscire però a essere veramente in collera con se stessa.

«Del resto, non hai mica detto che abiti a Merate?» la interrogò lui.

«Esatto» confermò la ragazza.

«Ma lo sai che io abito a Cernusco?»

«Ma va là!» scoppiò a ridere lei, non credendo affatto che Michael abitasse nel paese accanto a quello in cui viveva lei. Si conoscevano praticamente tutti, da quelle parti, e di certo si sarebbe accorta se uno come il ragazzo avesse frequentato gli stessi luoghi che era solita frequentare anche lei.

Michael si spinse contro lo schienale della sedia, incrociando le braccia davanti al petto con aria offesa. «Non mi credi?»

«Nemmeno un po'!»

«Guarda un po' qui!» la sfidò lui, estraendo la propria carta d'identità dal portafoglio e facendola slittare sul tavolo e approdare davanti alle mani giunte della ragazza.

Mettendo mano al documento, Caterina vide che il ragazzo non aveva mentito e che risultava effettivamente residente a Cernusco Lombardone. «Michael Pellegrino» lesse. «Sei nato a Torino?»

«Eh, già!» confermò lui.

La ragazza lo guardò incuriosita. «E come ci è arrivato al ridente paesino di Cernusco Lombardone, uno che è nato a Torino?»

Michael le rivolse un sorriso sarcastico. «Oh, è facile. I miei hanno divorziato quando avevo quindici anni e mio padre ha pensato bene di sparire dalla circolazione e di crearsi una nuova vita a Biella. Mia madre si è stancata di essere sempre sola e un bel giorno ha preso me e mio fratello, ci ha caricati in macchina e ha raggiunto sua sorella che, guarda caso, aveva sposato proprio un tizio di Cernusco.»

Caterina lo guardò dispiaciuta. «Non dev'essere stato facile cambiare vita in piena adolescenza.»

Lui scosse appena il capo. «Sono sopravvissuto» la tranquillizzò. «Per assurdo, il trasloco è pesato di più a mio fratello, che aveva già diciannove anni e che, infatti, è tornato quasi subito a Torino. Io, invece, qui ci sto bene. Mi piace: è un posto tranquillo.»

«Di certo è tranquillo» concordò lei. Sentendo di essere giunta alla fine di quella conversazione, Caterina lasciò scivolare nuovamente lo sguardo sullo schermo del cellulare e rabbrividì nel rendersi conto che erano già passate le dieci e mezza.

Michael ridacchiò. «Dai, adesso ti lascio veramente andare» decise, spingendo indietro la sedia e alzandosi in piedi per dare maggiore forza alla propria affermazione. «Non voglio causarti problemi.»

La ragazza lo guardò un po' dispiaciuta, ma si impose di non protestare e di mantenere la propria dignità. Magari lui ha da fare e io gli sto facendo perdere tempo: meglio non dargli l'impressione di essere troppo appiccicosa.

«Va bene» disse, allora. «Ci sentiamo prossimamente: visto che ti sei offerto, mi farò viva, se avrò problemi a capire quello che c'è scritto sulla tua dispensa.»

«D'accordo» concordò lui. Poi esitò brevemente, prima di fermarsi a pochi passi dalla cassa. «Sei venuta in macchina?» indagò.

«No, in treno» lo corresse lei.

«Se vuoi, ti do poi un passaggio, quando devi tornare a casa. So che gli orari del treno fanno schifo» si offrì il ragazzo. Lo disse con voce un poco incerta, come se si aspettasse un rifiuto da parte della giovane.

«Ah...» Caterina lo fissò per qualche istante, incerta su come interpretare quell'offerta. «Mi farebbe comodo, ma io adesso devo raggiungere Halima. Mi ci vorranno un paio d'ore, almeno: tu nel frattempo cosa fai?»

Michael le rivolse un sorriso smagliante, apertamente rinfrancato dalla sua risposta. «Innanzitutto vado a pranzo con te – e anche con la tua amica, se te la vuoi portare. E poi ho comunque un paio di faccende da sbrigare: non sono venuto fino a Bergamo solo per portarti la dispensa.»

Davanti alla sfacciataggine del giovane, Caterina non poté che scoppiare a ridere.

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Capitolo 11
*** 10. Solo un amico ***


Oggi

«Oddio, un'altra canzone di 'sto tizio?»

Erano ormai tre settimane che Michael e Caterina facevano insieme la strada da Bergamo alle rispettive abitazioni e ancora Caterina non si era abituata alla musica che il ragazzo sparava a tutto volume all'interno dell'abitacolo della sua Golf.

«Miyavi non si tocca!» la rimbeccò lui. « È un classico!»

«Un classico? È imbarazzante, dai!» si lamentò la ragazza, guardando con astio l'autoradio.

Michael le scoccò un'occhiata di sufficienza con la coda dell'occhio. «Senza offesa, eh, ma non ho nessuna intenzione di farmi dare lezioni di musica da una che ascolta i... come diavolo si chiamavano quei mentecatti che mi hai fatto sentire l'altro giorno?»

«Suppongo tu ti stia riferendo ai Nanowar» ribatté lei con sussiego. «Ho solo un paio di canzoni salvate, e comunque sono un ottimo gruppo satirico. E non ascolto mica solo loro: i miei gusti sono estremamente variegati. Il problema è che le mie orecchie si ribellano al suono di certe cinesate

«Al di là del fatto che Miyavi è giapponese e non cinese, francamente i tuoi gusti musicali non mi sembrano poi così variegati: mi risulta che spazi dall'industrial metal al folk metal, con certe coraggiose puntate fino all'epic metal» la provocò il giovane. «Un po' monotono, non trovi?»

«E il raggaeton? Quello dove lo lasciamo?»

«Ah, giusto» sospirò Michael. «Non dimentichiamoci del raggaeton. Devi essere un po' bipolare, bella mia.»

Davanti a quell'affermazione, la ragazza si limitò a scuotere la testa e a sorridere divertita, guardando fuori dal finestrino. Le scuole erano ormai finite e buona parte delle famiglie con bambini piccoli avevano lasciato la città, fuggendo verso il mare lontano per sfruttare appieno le lunghe giornate di giugno. Chi, come Caterina, si apprestava a rinunciare alla vacanza al mare per il secondo anno consecutivo, poteva se non altro consolarsi nel trovare le strade molto meno trafficate del solito.

Dieci minuti più tardi, Michael imboccò la via secondaria che conduceva al gruppo di villette a schiera in cui la giovane viveva con i propri genitori. Fermandosi di fronte al vecchio cancello un po' scrostato, il ragazzo spense il motore e si voltò verso Caterina. «Allora ci sentiamo domenica sera?» le chiese. «Così mi dici che giorni pensi di essere a Bergamo e vediamo se riusciamo a organizzare di fare la strada insieme almeno qualche volta.»

La ragazza annuì. «Va bene, però ti pago la benzina: non mi va di andare sempre a scrocco.» Sapeva che, in attesa di terminare il master che stava seguendo, Michael stava cercando di trovare un impiego o uno stage retribuito. Sosteneva tutti i colloqui a cui riusciva ad avere accesso, ma fino a quel momento la fortuna non era stata dalla sua parte e il ragazzo non navigava certo nell'oro.

Lui sventolò una mano in aria. «Va be', poi vediamo. Tanto io a Bergamo ci devo andare comunque.»

Non era la prima volta che affrontavano quell'argomento e, considerato che era quasi ora di cena, Caterina non insistette. «Va bene, va bene» tagliò corto, spalancando lo sportello e ruotando sul sedile per posare i piedi a terra. «Ti faccio sapere qualcosa entro domenica sera, ok?» Davanti al cenno di assenso del giovane, la ragazza sbloccò la cintura di sicurezza e fece per scendere dalla Golf, quando un ripensamento improvviso la fece voltare nuovamente verso Michael. «Senti, ma hai qualcosa da fare, questa sera?» gli chiese d'impulso. «Se ti va, puoi venire con me al Dream: c'è di nuovo una mia amica che ci suona con il suo gruppo e io non ho molta voglia di andarci da sola...»

Michael la guardò per qualche secondo in silenzio, poi scosse la testa. «Mi spiace, ma questa sera ho già degli impegni» disse, telegrafico.

Caterina si costrinse a sorridere, mascherando così la delusione. «Oh... come non detto, allora: restiamo per settimana prossima!» La sua voce suonava forse un po' più acuta del solito, ma la giovane giudicò di essere riuscita a mantenere un tono ragionevolmente normale.

L'uomo parve sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi cambiò idea e distolse rapidamente lo sguardo, spostando gli occhi sul pannello elettronico posto dietro il volante, dove l'orologio digitale segnava le 18:45. «Perfetto» si limitò a dire.

La ragazza ebbe l'impressione che Michael avesse tutto d'un tratto fretta di andarsene. L'improvvisa freddezza del giovane e il suo atteggiamento quasi sfuggente le lasciarono in bocca un retrogusto amaro,  ma si impose di far finta di nulla. Con un ultimo cenno di saluto, girò sui tacchi e chiuse la portiera con un tonfo secco, avvertendo subito dopo il rombo del motore che veniva rimesso in moto e il lieve stridio degli pneumatici sull'asfalto.

Mentre frugava all'interno della tracolla alla ricerca delle chiavi di casa, Caterina si mordicchiò pensosamente le labbra. Be', non è stato carino, si disse, un po' delusa dal modo in cui Michael aveva reagito alla sua proposta. Ha tutti i diritti di avere già dei programmi per la serata, ci mancherebbe, però avrebbe potuto essere un po' meno sintetico, nel rifiutare.

Per quanto si sforzasse di non dare troppo peso alla cosa, aveva la netta sensazione che Michael avesse volutamente evitato di fornirle ulteriori spiegazioni circa quello che aveva intenzione di fare, quella sera. Mi ha semplicemente detto che aveva “altri impegni”, senza specificare quali fossero... praticamente è come se mi avesse detto di farmi i fatti miei e di non essere troppo appiccicosa!

Superato con qualche difficoltà il vecchio cancello dalla serratura difettosa, la ragazza raggiunse la porta d'ingresso e aprì anche quella, venendo immediatamente investita dal profumo invitante delle patate al forno che sua madre aveva deciso di cucinare per cena. «Ciao!» urlò, annunciando il proprio ritorno.

Dalla cucina, situata al di là della sala da pranzo che si apriva alla sinistra della ragazza, giunse la voce della signora Elena. «Venti minuti ed è pronto»  la informò, a mo' di saluto. «Stasera c'è la riunione di condominio e questa volta ci spedisco il papà: si mangia presto!»

Con un pensiero di compassione rivolto al povero genitore, Caterina calciò le scarpe da ginnastica in direzione della scarpiera e, a piedi nudi, risalì la scala di granito che conduceva al piano superiore e, quindi, alla sua camera da letto. Liberandosi di jeans e maglietta per indossare un vestitino scolorito e un po' sformato, ma comunque leggero e meravigliosamente comodo, la ragazza si avvicinò alla finestra, osservando distrattamente il piccolo giardino che sua madre coltivava con tanta cura.

Va be', si consolò, tornando a pensare alla fuga di Michael, affari suoi: è lui quello che ha fatto la figura del maleducato, non certo io. E, comunque, magari non è sceso nei particolari perché deve fare qualcosa di imbarazzante e non gli andava di parlarmene...

Subito dopo, però, un'ombra scura attraversò la sua mente. O magari deve vedersi con qualcuna e ha pensato bene di non dirmelo. Il semplice pensiero fu sufficiente per farle contrarre sgradevolmente lo stomaco. Inspirando a fondo, Caterina cercò di allentare la morsa amara della gelosia. Ma tanto, a me, cosa me ne frega? Può uscire con chi gli pare, non mi deve certo delle spiegazioni.

Razionalmente sapeva che era così: tra lei e Michael non c'era proprio nulla, se non, forse, un'amicizia ancora un po' traballante. Nessuno dei due aveva espresso interesse nei confronti dell'altro, se si escludevano un paio di episodi in cui Michael aveva scherzosamente flirtato con lei. E lei, dal canto suo, lo trovava indubbiamente carino e anche divertente, ma si era ripromessa di non lasciarsi sfuggire le cose di mano e di mantenere le giuste distanze tra se stessa e il giovane.

Eppure... eppure, se solo si azzardava a pensare a una donna sconosciuta che rideva alle battute del ragazzo, che si avvicinava a lui, gli toccava i capelli scuri e lucenti e si lasciava stringere dalle sue braccia forti, sentiva un'ondata di nausea sollevarsi dallo stomaco e mozzarle il fiato, serrandole la gola in una morsa di rabbia corrosiva.

«Bah!» esclamò, disgustata dalle proprie reazioni. Al diavolo Michael: non aveva certo intenzione di lasciarsi rovinare l'estate – o anche solo la serata – da lui. In fin dei conti, l'incontro con il giovane era stato provvidenziale, dal momento che due giorni prima aveva finalmente superato l'esame di marketing: con un diciannove che trasudava compassione, ma l'aveva comunque passato e doveva ammettere che, senza l'aiuto del ragazzo, non ce l'avrebbe fatta. È brutto da dire, ma adesso non mi serve più: se inizia ad avere atteggiamenti strani, ognuno va per la sua strada e tanti saluti.

Caterina annuì decisa, soddisfatta della propria decisione, e recuperò un elastico dal comodino, legandosi i capelli ramati in una coda alta. E non sentì per niente la fitta acuta che le trapassò il petto da parte a parte.

***

Quando quella sera arrivò al Dream, Alessandra era già seduta a un tavolino un po' in disparte e la stava aspettando in compagnia di Francesca, una ragazza mora che Caterina conosceva dai tempi del liceo, e una biondina amica di Alessandra di cui non riusciva a ricordare il nome.

Quando la vide avvicinarsi a loro, Francesca si alzò in piedi e le si fece incontro per accoglierla. «Cate!» esclamò, gettandole le braccia al collo e stordendola con il suo intenso profumo agrumato. «Sarà almeno un anno che non ci vediamo! Come va?»

«Non male» borbottò Caterina. «Ho finalmente passato l'ultimo esame che mi mancava. Adesso devo solo scrivere la tesi e poi ho finito, se Dio vuole.»

Francesca ridacchiò, guardandola con i suoi splendidi occhi verdi pesantemente truccati. A vederla, non si sarebbe mai detto che fosse infermiera in un reparto di pediatria, ma, a dispetto del look appariscente che amava sfoggiare, era una ragazza estremamente dolce. «Cavolo, è un vero peccato che tu non sia venuta a cena: avremmo potuto chiacchierare un po' prima che iniziasse il concerto... senza contare che qui fanno dei panini spettacolari!»

Caterina si strinse nelle spalle. «Lo so. Però pranzo con un panino praticamente tutti i giorni: per cena preferisco mangiare qualcosa di un po' più consistente.» Così dicendo, la giovane si avvicinò al tavolo alla ricerca di un posto in cui sedersi e subito la ragazza bionda si addossò al muro, liberando un po' di spazio sulla panchina di plastica bianca ricoperta da un sottile cuscino viola.

«Voi due vi siete già conosciute, vero?» chiese Alessandra, facendo danzare lo sguardo tra le sue due amiche.

Caterina annuì un po' incerta. «Sì, ci siamo viste un paio di volte... Silvia, giusto?»

«Sara» la corresse la ragazza bionda, sistemandosi gli occhiali che le erano scivolati lungo il naso.

«Ah. Giusto. Sara.» Caterina le rivolse uno sguardo dispiaciuto. Non aveva una buona memoria per i nomi, soprattutto se appartenevano a persone verso le quali non nutriva un grande interesse.

Alessandra si schiarì la voce, disperdendo rapidamente la vaga sensazione di imbarazzo che era calata attorno al tavolo. «Suppongo che tu non sia riuscita a convincere Halima a venire con noi, eh?» chiese, guardandosi attorno.

Caterina le rivolse un sorriso sarcastico. «Ovviamente no» confermò. «Non ho nemmeno insistito più di tanto, a dire il vero: sai che a lei queste cose non piacciono.»

«Già» sbuffò Alessandra, con espressione cupa. «Non si fa mai viva. L'ultima volta che l'ho vista era ancora inverno.»

Caterina le lanciò uno sguardo scettico. «Be', non si può dire che sia proprio tutta colpa di Halima: se tu ti degnassi di mettere piede in università, una volta ogni tanto, ti potrebbe perfino capitare di incrociarla.»

Alessandra sbuffò alzando gli occhi al cielo e Sara nascose un sorriso dietro le mani. «Ahi, ahi, tasto dolente» ridacchiò.

«Fai proprio schifo» dichiarò serafica Francesca, alludendo al fatto ben noto che Alessandra si era iscritta alla laurea specialistica, ma non aveva sostenuto nemmeno la metà degli esami del primo anno, preferendo dedicarsi ad attività ben diverse dallo studio.

«Oh, e che palle!» sbottò la ragazza riccia, incrociando le braccia davanti al petto generoso. «In questo periodo ho avuto un sacco da fare e mi sono accorta che una laurea in turismo non è fondamentale per quello che voglio fare da grande, ma non stressatemi: finirò questa pallosissima università. Con i miei tempi, ma la finirò.»

Caterina la soppesò con lo sguardo e non credette a una sola parola pronunciata dall'amica, ma evitò di esternare le proprie perplessità. «Ok, ok» sospirò, cambiando argomento. «Piuttosto, Matteo non c'è?» chiese, non vedendo da nessuna parte il fidanzato di Alessandra.

Quella scosse il capo con aria rammaricata. «No: è andato un paio di giorni al mare con i suoi, nella loro casa in Liguria. Mi aveva chiesto di andare con lui, ma ho gentilmente rifiutato: non siamo ancora abbastanza intimi da sentirmi in dovere di trascorrere una vacanza con i suoceri

Il tono con cui aveva pronunciato quell'ultima parola era talmente orripilato che le altre tre ragazze scoppiarono a ridere, poi Alessandra puntò gli occhi scuri in quelli di Caterina. «A proposito», scandì lentamente, «mi aspettavo che portassi il tuo bello. Come mai non c'è?»

Le guance pallide della ragazza si fecero subito scarlatte. «E chi sarebbe “il mio bello”?» chiese Caterina, sgranando gli occhi nell'espressione più innocente che le riuscisse.

Sara incrociò educatamente le mani in grembo, mentre Francesca si sporgeva verso di lei con gli occhi accesi dall'interesse. «Hai un nuovo ragazzo?»

Lanciando ad Alessandra uno sguardo carico d'accusa, Caterina scosse con forza il capo. «Proprio per niente!» negò, prima di rivolgersi alla ragazza riccia: «Se ti stai riferendo a Michael, credo di averti detto almeno un miliardo di volte che siamo solo amici, e forse nemmeno quello. Non è il mio ragazzo, non siamo mai usciti insieme nel senso che intendi tu, né mai lo faremo!»

Alessandra sgranò gli occhioni da cerbiatta, esibendo un'aria offesa che di genuino aveva ben poco. «Oh, come ci scaldiamo facilmente!» la punzecchiò. «Sicura che non ci sia sotto niente?»

«Sicurissima» confermò Caterina. Qualcosa nella sua voce doveva però avere tradito una punta di incertezza, perché le altre ragazze si scambiarono uno sguardo in tralice.

«Almeno è carino?» si informò educatamente Francesca.

«Molto» risposa pronta Alessandra, impedendo a Caterina di parlare per prima.

La ragazza mora si rivolse direttamente alla giovane riccia. «Tu l'hai visto? Ci hai parlato? Di solito la Cate se li tiene ben nascosti, i suoi uomini.»

«Ho visto la sua foto su WhatsApp» sorrise Alessandra.

Rassegnata, Caterina indovinò la richiesta di Francesca ancor prima che la ragazza la esprimesse ad alta voce. «Fa un po' vedere!» le ordinò, allungando una mano imperiosa in direzione della borsa della giovane dai capelli rossi.

«Giù le zampe!» la rimbeccò, pur impugnando il proprio smartphone e sbloccandone lo schermo. «Lo tengo io, che ho ricordi poco piacevoli dell'ultima volta che ti ho lasciato tenere in mano un mio cellulare.»

Francesca ridacchiò, ricordando l'episodio in cui aveva lasciato partire una chiamata in direzione del ragazzo per cui Caterina aveva una cotta pazzesca, poi si sporse per vedere meglio la fotografia che la ragazza le stava mostrando. «Porca vacca, ma è un figo della Madonna!» esclamò con aria scioccata. «Sara, guarda!» aggiunse poi, afferrando a due mani il polso di Caterina e obbligandola a orientare lo schermo del telefono in direzione della ragazza bionda.

«Sì, è decisamente carino» osservò quella, assai più pacata di Francesca.

Con uno strattone deciso, Caterina riprese possesso del proprio arto e osservò a sua volta l'immagine che riempiva il display. Alla vista del sorriso rilassato di Michael, qualcosa di morbido e caldo le si smosse all'altezza dello stomaco. «Sì, va be'» borbottò vaga, senza però riuscire a sopprimere il sorriso trasognato che per una frazione di secondo le piegò le labbra.

«Un figo della Madonna che però non ci ha degnate della sua divina presenza» puntualizzò Alessandra, senza lasciarsi distrarre. «Come mai non è venuto? Gliel'hai chiesto, almeno?»

Caterina sbuffò e lasciò ricadere il cellulare in borsa. «Sì, certo che gliel'ho chiesto. Però aveva da fare e non è potuto venire.»

La ragazza riccia inarcò un sopracciglio curato. «E cosa doveva fare di tanto importante? Se la ragazza con cui ti vedi ti chiede un appuntamento, tu scatti sull'attenti, non le dai buca.»

Caterina le puntò addosso uno sguardo esasperato. «Ti ho già detto che non non ci “vediamo”, facciamo solo la strada insieme per ottimizzare i tempi. E non volevo un appuntamento, gli ho semplicemente chiesto se questa sera sarebbe venuto al Dream, visto che sembra venirci spesso. E, per finire, non so cosa dovesse fare: non gliel'ho chiesto e lui non me l'ha detto.»

«Ahi, ahi» commentò di nuovo Sara con aria lugubre e Caterina la trovò immediatamente meno simpatica di quanto l'avesse trovata un istante prima.

«Speriamo che non avesse un appuntamento galante!» rincarò la dose Francesca, prima di rivolgerle un sorriso furbo e tuffarsi in ciò che restava del suo margarita.

Caterina fece scorrere lo sguardo sulle sue amiche e fu seriamente tentata di piantarle in asso e tornarsene in macchina.

***

Un'ora e mezza più tardi, Alessandra era nel pieno della sua esibizione. Davanti al palchetto su cui suonavano lei e il suo gruppo si era radunata una discreta folla e Caterina e le sue amiche dovevano starsene ben dritte sui loro sedili, se volevano sperare di vedere qualcosa.

«Non so, vogliamo provare a spostarci un po' più avanti?» chiese Francesca, scrutando con aria critica il poco spazio disponibile davanti a loro.

Caterina scrollò il capo. «Non credo che cambierebbe qualcosa. Non so come mai ci sia così tanta gente, oggi: è sempre un posto affollato, ma mai a questi livelli.»

«Magari piacciono» azzardò Sara. «Se suonano spesso qui, magari si sono guadagnati qualche fan.»

Caterina stava per replicare che sperava proprio che fosse così, quando un'ombra scura offuscò la luce del faretto più vicino. Alzando lo sguardo, la ragazza si trovò a fissare gli occhi neri di Hasim. Porca vacca! Pensò con il cuore che batteva a mille e uno strano tremore nelle dita. Non l'aveva sentito avvicinarsi e c'era qualcosa nella sua espressione che le causava uno spiacevole dolorino all'altezza dello stomaco.

«Oh... ciao» lo salutò, chiedendosi se la sua voce fosse davvero così incerta come suonava alla sue orecchie.

L'uomo le rivolse un sorriso gentile che fece scomparire qualsiasi cosa Caterina avesse letto nei suoi lineamenti fino a qualche istante prima. «Ti ho spaventata?» le chiese.

La giovane arrossì, rendendosi conto che il buttafuori aveva interpretato correttamente il suo turbamento. «No, no» si affrettò però a rassicurarlo. «È solo che non ti ho sentito arrivare e non mi aspettavo nemmeno di trovarti qui: le ultime volte che sono venuta a sentire Alessandra non ti ho visto.»

«Si vede che non ero di turno» replicò semplicemente l'uomo. «A volte faccio degli orari un po' strani.»

Caterina si limitò a chinare il capo in un cenno d'assenso e poi lo fissò in silenzio, chiedendosi quale fosse il motivo che l'aveva spinto a raggiungerla al tavolo e temendo in cuor suo di conoscere già la risposta. Non essere paranoica! Si esortò, senza però riuscire a evitare che i palmi delle mani le si imperlassero di un sudore nervoso.

Dopo una manciata di secondi che alla giovane parvero infiniti, Hasim parlò di nuovo. «Hai un minuto?» le chiese, puntandole addosso quei suoi occhi così seri. «Avrei bisogno di parlarti un attimo in privato.»

Caterina sentì il sangue defluirle dal volto, mentre il mondo si faceva per un attimo distante e ovattato. Perché voleva parlarle in privato?

Francesca, che aveva seguito tutto lo scambio con estrema attenzione, si rabbuiò. «Ma vi conoscete?» chiese con voce brusca, prima di puntare i suoi occhi verdi e affilati in quelli dell'uomo. «Perché vuoi portarla via? Non vedi che sta seguendo il concerto? Se devi dirle qualcosa, puoi dirglielo qui!»

Pur intuendo che la ragazza voleva semplicemente metterla al riparo da eventuali brutte esperienze, il tono con cui Francesca si era rivolta a Hasim fece arrossire di vergogna Caterina. Per nulla turbato dalle parole della giovane, però, l'uomo si limitò ad annuire. «Sì, ci conosciamo» la informò, prima di rivolgere la propria attenzione alla ragazza dai capelli rossi. «Caterina?»

Lei esitò. Avrebbe potuto rifiutarsi di seguirlo. Avrebbe potuto dire che Francesca aveva ragione, che lei era venuta lì per sostenere Alessandra e che, se proprio avesse voluto parlarle, avrebbe potuto farlo dopo, quando l'esibizione della sua amica sarebbe finita. O magari addirittura un altro giorno, tanto che fretta c'era? C'era però qualcosa, nella profondità del suo animo, in quel punto recondito che spesso arrivava a sfiorare, ma mai ad afferrare del tutto, che le ordinava di alzarsi e di seguire il buttafuori ovunque lui avesse voluto portarla. Era una voce che le chiedeva di fidarsi, di non avere paura, di ascoltarlo. Ma a chi appartenevano quelle parole?

Combattuta, Caterina tamburellò brevemente con le dita sul tavolo, poi si rassegnò ad alzarsi. «Va bene» concesse in un sussurro. «Però facciamo in fretta: non voglio che Alessandra si accorga che sono sparita.» 

Con un cenno d'assenso e senza dire una parola, Hasim le fece segno di seguirlo attraverso il locale e la scortò sino alla porta d'ingresso. Anziché uscire nel parcheggio, però, fece scattare la serratura di una porticina bianca e quasi invisibile che si apriva nella parete e conduceva a una sorta di minuscolo spogliatoio. Non c'era praticamente nulla, lì, fatta eccezione per una singola sedia e un paio di carrelli porta abiti dai quali pendevano poche paia di pantaloni e qualche maglietta, forse i vestiti che i membri dello staff indossavano prima di infilarsi nelle loro divise. Era un locale piccolissimo e Hasim sembrava riempirlo tutto con la sua presenza.

«Cosa volevi dirmi?» chiese in fretta Caterina, resistendo a stento alla tentazione di portarsi una mano alla gola e allentare la semplice stringa di caucciù che la cingeva. Anche il modesto ciondolo che portava appeso a quella corda, una piccola chiave nera che aveva sin dall'infanzia, le pareva adesso troppo pesante: era come se Hasim avesse assorbito tutto l'ossigeno disponibile e ora lei si sentiva debole, boccheggiante.

L'uomo si appoggiò alla parete più vicina e per un istante sembrò quasi a disagio. «So che probabilmente dovrei farmi i fatti miei, ma Alessandra mi ha detto che stai vedendo un ragazzo.»

Sebbene avesse già intuito che l'uomo sarebbe andato a parare proprio lì, quella domanda così personale la  lasciò comunque senza parole. Senza curarsi di specificare per l'ennesima volta nel giro di poche ore che lei non si stava vedendo proprio con nessuno, Caterina si sforzò di assumere un'espressione fredda e adulta. «E...?»

Hasim increspò la fronte, ma gli angoli della sua bocca si piegarono impercettibilmente verso l'alto, come se trovasse divertente il cipiglio della ragazza. Poi si fece di nuovo serio. «Mi ha detto che è lo stesso tipo del parcheggio. Da quanto tempo lo stai vedendo?»

Caterina fu sul punto di giustificarsi, ma di punto in bianco qualcosa scattò nella sua testa. La ragazza raddrizzò la schiena e si rese conto di non essere poi tanto più bassa dell'uomo che le stava davanti e quella consapevolezza le diede una nuova forza. «Da un po'» ammise con voce sicura. «Ma a te cosa importa, scusa? In effetti, non sono davvero affari tuoi.»

Hasim incrociò le braccia e a Caterina parve ancora più grosso del solito. «Non sono affari miei, ma tu mi sembri una brava ragazza. Sono invece piuttosto certo che quello lì non sia affatto una brava persona, quindi non mi piace saperti in giro con lui. Se finissi nei guai, mi sentirei in colpa.»

Quella risposta la mise in allarme, ma la giovane si rifiutò di lasciarsi intimidire. «Come fai a dire che non è una brava persona?» lo interrogò. «Lo conosci?» Quando l'uomo rimase in silenzio per un istante di troppo, la ragazza ripartì all'attacco. «No, perché anche l'ultima volta che ci siamo incontrati ho avuto l'impressione che tu mi stessi mettendo in guardia nei suoi confronti: questa cosa è ridicola. O sai qualcosa di concreto sul suo conto, oppure ti devo chiedere di lasciarmi stare. Michael è soltanto un amico, una persona gentile che mi ha aiutato in una situazione difficile: non mi sono dimenticata del modo in cui si è comportato quella sera nel parcheggio, ma  non mi sento di condannarlo solo per questo. Può capitare a tutti di sbagliare.»

«E cosa avrebbe fatto, per aiutarti?» indagò Hasim.

Lei si strinse nelle spalle. «Ha scoperto per caso che ero nei guai con un esame di marketing e si è offerto di aiutarmi: mi ha prestato i suoi appunti e grazie a lui sono riuscita a passarlo.»

L'uomo si lasciò sfuggire un fischio stizzito. «Che figlio di puttana!» ringhiò.

«Come, scusa?» sibilò Caterina, scandalizzata.

Hasim scosse con foga il capo, come se stesse cercando le parole migliori per spiegarsi. «Ascoltami, Caterina: quell'uomo è furbo. Non è quello che credi tu. Devi smetterla di frequentarlo. Giragli al largo e, se lui continua a cercarti, vieni subito da me.»

La giovane lo guardò con gli occhi sgranati, senza riuscire a credere alle proprie orecchie. «Ma tu sei pazzo» mormorò. Poi riprese, più forte: «Se credi di riuscire a farmi paura con queste mezze frasi, ti sbagli di grosso. Se sai qualcosa su di lui, se sai che è un criminale o un pazzo drogato, dimmelo e basta. Se invece non puoi fare altro che illazioni sul suo conto, allora non ho altro da dirti. Sappi, però, che tra voi due  quello più pericoloso in questo momento mi sembri tu.»

Hasim parve accusare il colpo e si premette per un istante una mano sugli occhi, come per calmarsi e riordinare le idee. «Va bene», sospirò poi, «va bene. Mi sono lasciato prendere la mano, scusami. Non avrei dovuto.» Caterina si strinse le braccia attorno al busto e aspettò che continuasse. «Purtroppo, non posso ancora accusare di nulla il tuo amico. Però io li conosco, quelli come lui: ne ho visti tanti, di... sbandati del suo genere. Portano solo guai, Caterina. Tanti, tanti guai. È per questo che ti chiedo di stare attenta a quello che fai.» 

La ragazza soppesò per qualche secondo le sue parole, poi sciolse il nodo delle braccia e assunse una posa più rilassata. «D'accordo» disse, dopo qualche altro istante di silenzio. «Starò in guardia e al primo segnale che mi faccia pensare che ci sia qualcosa che non va lo allontanerò da me. Ma se dovessi scoprire che... che è un maniaco, che so io, o che ha in casa una scorta di cocaina, allora avvertirò la polizia. Non te. Spero che tu capisca.»

Hasim la guardò con un'espressione strana, quasi malinconica, ma poi annuì. «Capisco» mormorò.

Seguendo la traiettoria dei suoi occhi neri, Caterina ebbe l'impressione che questi fossero puntanti sui suoi seni, ma poi si rese conto che l'uomo stava osservando il pendente a forma di chiave che portava appeso al collo. Per qualche ragione, quella consapevolezza la fece sussultare e la ragazza si affrettò a far scivolare il ciondolo all'interno della scollatura del vestito che indossava e che la copriva fino alle clavicole. Hasim incontrò subito i suoi occhi, ma lei si affrettò a dargli le spalle. «Se non c'è altro, io me ne vado» annunciò.

Senza lasciargli il tempo di replicare, la ragazza raggiunse la porta e la varcò quasi correndo, dirigendosi a grandi passi verso il tavolo a cui aveva lasciato Sara e Francesca. Quanto tempo è passato? Si chiese, scoprendosi incapace di calcolare quanto a lungo l'avesse tenuta impegnata la conversazione surreale che aveva appena avuto con Hasim.

Gli occhi allarmati di Francesca le fecero capire che dovevano essere passati ben più di una manciata di minuti. «Cate, è tutto a posto?» le chiese la giovane, con tono allarmato.

Caterina annuì e tornò a sedersi accanto a Sara, gettandosi dietro alle spalle i lunghi capelli ramati e respirando profondamente nel tentativo di scacciare quella sensazione pesante e appiccicosa che il confronto con il buttafuori le aveva lasciato addosso. «È tutto a posto» confermò, senza riuscire a nascondere la sfumatura tagliente che le deformò la voce. «Quando finisce di cantare, però, devo dire due paroline ad Alessandra: la deve smettere di andarsene in giro a raccontare i fatti miei al primo che passa!»

Le altre due ragazze le lanciarono un'occhiata confusa e lei si sentì in dovere di spiegare. «Ha raccontato a quel tipo che è venuto a cercarmi che sto frequentando Michael e, a quanto pare, a Hasim questa cosa non piace. Deve aver avuto da ridire con lui, in passato, o qualcosa del genere: sta di fatto che mi sono beccata una mezza scenata.»

Francesca parve sconvolta. «Ma stai scherzando?» sbottò. «Ma non esiste proprio! Vai a dirlo al... vai a dirlo al padrone di questo posto! Quello lì non deve permettersi di fare queste cose!»

Caterina sventolò una mano come per allontanare un pensiero sgradevole. «Ma no, non ce n'è bisogno» esalò, sentendosi già stanca. «Hasim non è cattivo e penso che sia seriamente preoccupato per me: il fatto è che non ne ha motivo, perché Michael è sempre stato gentile e, comunque, io so badare a me stessa. Però vorrei che l'Ale si desse una regolata e badasse un po' di più ai fatti suoi.»

Francesca e Sara borbottarono il proprio assenso, ma Caterina fu distratta dal ronzio del cellulare. Controllando le notifiche, non riuscì a reprimere un sorriso sarcastico. Ah! Lupus in fabula, pensò, stupendosi della coincidenza. Michael le aveva appena scritto e la ragazza represse un brivido al pensiero di quello che sarebbe potuto accadere se, invece di darle buca, il ragazzo avesse accettato di accompagnarla al Dream. Ci mancava solo di assistere a una scazzottata, pensò, senza osare nemmeno immaginare come sarebbe emerso Michael da uno scontro diretto con il ben più imponente Hasim.

Meno male che non è venuto, a 'sto punto, ragionò la giovane. E poi, se mi ha scritto a quest'ora, significa che non era in compagnia di una tipa!

Con una punta di trepidazione, Caterina scorse rapidamente il corposo messaggio che il ragazzo le aveva inviato. “Sei ancora al Dream? Scusa se non sono venuto, oggi, ma avevo la testa altrove. Visto però che si è tutto risolto per il meglio (poi ti spiego), che ne dici di una gita fuori porta, domani? Con un paio di amici  abbiamo organizzato una grigliata sul lago in zona Lecco... ti va di venire? Non devi prendere la macchina, guido io.”

La ragazza sfiorò più volte lo schermo, indecisa su cosa rispondere. Fino a poche ore prima non avrebbe avuto dubbi, ma adesso? Doveva prendere sul serio gli avvertimenti di Hasim? Il volto sorridente di Michael la fissava da un angolino dello schermo e la giovane provò un impeto di ribellione.

“Sicuro, ci vengo volentieri! Che cosa devo portare?”

Senza darsi la possibilità di ripensarci, Caterina inviò il messaggio e provò immediatamente un gran senso di sollievo e di ritrovata normalità.

E 'fanculo anche a Hasim, pensò, rivolgendo un invisibile dito medio all'uomo che, ne era certa, la stava ancora tenendo d'occhio da lontano.

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Capitolo 12
*** 11. Un pomeriggio al lago ***


Oggi

Caterina allungò i piedi nudi sull'erba tenera e mosse le dita, avvertendo sotto di esse la consistenza calda e asciutta del terreno intiepidito dal sole di giugno. Dal lago spirava una brezza leggera, troppo debole per infastidire le persone distese a prendere il sole, ma comunque sufficiente per mitigare la calura estiva.

La ragazza sospirò felice, osservando un gruppetto di adolescenti intenti a disputare una partita di beach volley sulla spiaggetta sabbiosa immediatamente antistante al lago. Con un sorriso, ricordò quando anche lei aveva pensato di poter intraprendere una carriera nel campo della pallavolo, prima di rendersi conto di essere troppo scoordinata per praticare uno sport del genere.

«Non si sta male, vero?» le chiese Michael, sollevando gli occhiali da sole scuri che gli celavano gli occhi.

La ragazza scosse i capelli all'indietro, sentendosi decisamente rilassata. «No, non si sta affatto male» concordò. Certo, non era il mare, ma il lago le parlava comunque di estate, vacanze e intere giornate passate a oziare: era un piacevole diversivo dalla temperatura sempre più rovente che abbracciava la pianura, stringendola in una morsa umida e opaca che si appiccicava alla pelle.

Seguendo con gli occhi una piccola barca a vela che sfrecciava al largo stagliandosi bianca contro le enormi placche di roccia nera che emergevano ripide dall'altra sponda del lago, Caterina spinse lo sguardo più a nord, fino al promontorio di Bellagio, lì dove il Lario si divideva in due rami distinti, e poi ancora più in là, verso le prime montagne dell’Alto Lago, rese azzurrine e sfumate dalla lieve foschia sospesa a mezz'aria. Quando i suoi occhi sfiorarono quei rilievi fatti di speroni rocciosi, boschi di abeti e pascoli verdeggianti, qualcosa in lei si contrasse e la ragazza si sentì improvvisamente annegare in un'ondata di nostalgia. Non erano quelli, i monti tra i quali era cresciuta, ma sapeva che San Giorgio della Valle, il paese natale di sua madre, si trovava in quella direzione. Non ci tornava da troppo tempo, ma i giorni che vi aveva vissuto da bambina erano ancora ben impressi nel suo cuore.

«Tutto a posto?» le chiese Michael, accorgendosi forse del velo di tristezza che era scivolato sul suo volto.

Caterina si riscosse e annuì. «Sì, certo» disse, rivolgendogli un piccolo sorriso. «Stavo solo pensando che è da un sacco di tempo che non vado più nel paese in cui è nata mia madre» spiegò, indicando con un cenno del capo il ramo del lago che puntava verso nord. «Un po' mi manca, quel posto.»

Il ragazzo la studiò con gli occhi socchiusi, poi si mosse sulla coperta di pile su cui era seduto, avvicinandosi un po' di più a lei. «È lo stesso paesino di cui mi parlavi quel giorno che abbiamo fatto colazione insieme in Città Alta? Quello di cui hai dei ricordi un po' confusi?»

Lei inclinò la testa di lato. «Il paese me lo ricordo perfettamente: ho solo qualche vuoto di memoria qui e là. Fatico a ricordare le azioni, non i luoghi.»

Il giovane la guardò come se si aspettasse che elaborasse ulteriormente il suo pensiero, ma Caterina lasciò cadere il discorso e si allungò fino ad afferrare una bottiglia d'acqua mezza vuota. Non aveva voglia di discutere di quell’argomento. Non lì, con gli amici di Michael a pochi metri di distanza: erano persone strane e Caterina gradiva poco la loro presenza.

Le due ragazze, una francese di nome Manon e una giovane milanese che si faceva chiamare Coco, ma che rispondeva in realtà al nome di Carlotta, avevano passato tutto il tempo a digitare furiosamente sui loro cellulari e Caterina aveva avuto la netta impressione che non fossero minimamente interessate a fare amicizia.

Dei tre ragazzi, invece, l’unico che si fosse dimostrato interessato a lei era Lorenzo, un giovane bruno e con le spalle larghe, che le aveva illustrato con somma dovizia di particolari le meraviglie della barca a vela, offrendosi addirittura di portarla a fare un giro, se avesse voluto. Gli altri due, Giorgio e Mirco, l’avevano a malapena degnata di un’occhiata e di una stretta di mano frettolosa.

Non che Caterina se ne dispiacesse, comunque. Le erano bastati cinque minuti per capire che gli amici di Michael appartenevano al genere di persone che aveva sempre cercato di evitare, i ricchi figli di papà eternamente convinti di essere un gradino al di sopra della volgare plebaglia. Schifosissimi fighetti, pensò la giovane, lanciando un’occhiata disgustata alle due ragazze chine sullo smartphone. Manon, la francese bruna, indicava qualcosa con un’unghia laccata di rosso, mentre la bionda Carlotta annuiva piano, le labbra piegate in un sorrisino di scherno.

Caterina non riuscì a reprimere un brivido di repulsione.

«Hai freddo?» chiese Michael, che si era accorto del tremore che le aveva scosso le spalle.

La ragazza fece un segno di diniego, evitando però di spiegare quale fosse la reale causa di quel brivido. «No, ma credo che andrò a fare due passi: inizio a essere stanca di stare seduta.»

Così dicendo, la ragazza si alzò e infilò i piedi scalzi nei sandali di cuoio, chinandosi poi per allacciare il cinturino usurato dall’utilizzo. Semisdraiato sulla coperta scozzese, il giovane la guardò dal basso in alto e poi si mise a sedere. «Hai ragione, farei pure io due passi» fece, stiracchiandosi. «Ti accompagno… se non ti dispiace, ovviamente.»

Caterina, che aveva segretamente sperato che Michael le facesse un’offerta del genere – se non altro per non gironzolare da sola – sorrise. «Ma figurati: vieni pure!»

Quando il ragazzo balzò in piedi rivolgendole un sorriso radioso, l’istinto spinse la giovane a lanciare un’occhiata veloce in direzione di Carlotta e Manon: se la ragazza bionda era completamente assorbita dal piccolo schermo che aveva davanti agli occhi, la francese aveva abbandonato il cellulare e ora stava seguendo i movimenti di Michael. Nei suoi occhi verdi, Caterina credette di scorgere un’ombra gelosa e la cosa la mise immediatamente di buonumore.

«Andiamo da questa parte?» propose Michael, indicando con una mano il sentierino curato che correva serpeggiando tra salici e ontani. «Se non ricordo male, a una decina di minuti da qui c’è un punto panoramico che guarda verso nord: è un posto carino.»

Allettata dalla prospettiva di camminare tra le ombre danzanti che i rami dei salici proiettavano a terra, la ragazza annuì. Quando ebbero percorso poche decine di metri, però, Caterina divenne consapevole dello sguardo di Michael, puntato su di lei. Scostandosi i capelli dagli occhi, gli rivolse uno sguardo cauto. «Sì?»

Lui sorrise di nuovo, ma sul suo volto alla giovane parve di intravedere un moto di incertezza. «Sei silenziosa, oggi» esordì Michael, dopo qualche istante. «Non mi hai detto cosa ne pensi dei miei amici.»

Caterina volse lo sguardo al lago che brillava alla sua sinistra, solo in parte oscurato dagli alberi. «Be’, non mi pareva carino fare commenti su di loro… non in loro presenza, almeno.»

«Ah.» Michael la guardò con fare eloquente. «Quindi suppongo che non ti abbiano fatto una gran bella impressione, eh?»

La ragazza avvampò. «No, be’… Lorenzo sembra simpatico» si affrettò a precisare, con la lingua che inciampava un po’ nelle parole. Quando il giovane non commentò, ma sorrise ironico, Caterina sospirò platealmente e allargò le braccia in segno di resa. «Non sono la gente che frequento di solito, ok? I due… Mirco e Giorgio, se non sbaglio, non mi hanno nemmeno guardata in faccia, quando mi hanno stretto la mano, e comunque mi hanno ignorata per tutto il tempo. E le due ragazze non hanno praticamente alzato gli occhi dal cellulare. Non mi sembrano esattamente la quintessenza della simpatia, ecco.»

Michael parve sul punto di ribattere, ma poi scrollò le spalle. «Non posso darti tutti i torti, in effetti. Ma non sono cattivi, sai? È solo che siamo un gruppo molto unito e per un nuovo arrivato può essere difficile entrarne a far parte.»

Caterina fu sul punto di dire che lei non aveva proprio nessuna intenzione di entrare a far parte della cricca degli amici di Michael – a lei interessava lui, non gli individui che lo circondavano – ma si morse la lingua prima che le parole potessero lasciare la sua bocca. Non essere asociale, si rimproverò mentalmente. ­«Diciamo che la prima accoglienza è stata piuttosto freddina» disse, invece. «Magari la prossima volta che mi vedranno si scalderanno un po’ e smetteranno di fingere che io sia del tutto inesistente?»

Gli occhi del giovane parvero brillare. «Oh, questo vuol dire che ci sarà una prossima volta? L’esperienza odierna non ti ha fatto venire voglia di fuggire a gambe levate?»

Quelle parole solleticarono qualcosa nella sua mente e Caterina si chiese se quello fosse il momento giusto per affrontare una questione che l’aveva angustiata per tutta la giornata. «No, direi di no» disse, cercando di capire quale fosse il modo migliore per introdurre l’argomento. «Anche se, in effetti, ci sarebbe un po’ di gente che sarebbe ben felice, se lo facessi.»

Sul volto del giovane passò un’espressione che la ragazza non seppe interpretare. «Per esempio?» indagò Michael.

Caterina si strinse appena nelle spalle. «Manon. Quando ha visto che siamo andati via insieme, aveva l’aria tutt’altro che soddisfatta.» Non appena ebbe pronunciato quelle parole, la ragazza arrossì, temendo che Michael vi leggesse qualcosa di più di quello che lei aveva voluto intendere. E se adesso pensasse che ho accettato di rimanere da sola con lui perché speravo che succedesse qualcosa? Si chiese, mentre l’imbarazzo le stringeva la gola. Magari pensa che io voglia entrare in competizione con Manon o qualcosa del genere…

Mordicchiandosi nervosamente le labbra, la ragazza cercò di allontanare quei pensieri. Dopotutto, lei e Michael erano rimasti da soli innumerevoli volte, nelle ultime settimane, e mai l’aveva sfiorata il pensiero che il giovane potesse credere che lei avesse un doppio fine. Anche se, in realtà, un fondo di verità potrebbe anche esserci, in quel pensiero.

Con la coda dell’occhio, Caterina studiò la reazione di Michael. Quando questo scoppiò a ridere, però, si voltò verso di lui e lo guardò confusa. «Beh?» chiese, senza capire il perché di quella risata improvvisa.

«Sono più che sicuro che Manon sia più interessata a te, che a me» sghignazzò. «In ogni caso, però, c’è un’altra deliziosa francesina che l’aspetta trepidante dalle parti di Grenoble e non mi risulta che sia attualmente in cerca di un’avventura estiva.»

Caterina rimase in silenzio per qualche istante, sorpresa dalla risposta del giovane. Che strano, pensò. Da come lo guardava, non avrei mai detto che fosse lesbica. Comunque si vede che non sono proprio il suo tipo, perché mi ha schifata alla grande.

«Ah», abbozzò, dopo qualche istante, ­«allora avrò interpretato male la situazione.»

«Direi proprio di sì!» annuì Michael con vigore. Poi il suo sguardo si fece di nuovo acuto. «C’è qualcun altro che vorrebbe opporsi alla nostra fruttuosa e promettente amicizia?»

La ragazza esitò, distratta anche dal tono vagamente insinuante con cui il giovane aveva pronunciato la parola “promettente”. «Ah… Hasim» esalò, poi, provando un inspiegabile senso di vergogna nel pronunciare il nome del buttafuori al cospetto di Michael.

Il ragazzo corrugò la fronte. «Chi?» chiese, gli occhi socchiusi come se si stesse sforzando di ricollegare quel nome a un volto.

«Hasim» ripeté Caterina in un sospiro. «Il buttafuori del Dream. Quello che hai incontrato la sera in cui… ehm, la sera in cui ci siamo conosciuti.»

Michael smise improvvisamente di camminare e sul suo volto passò un lampo di comprensione. «Oh… quel tizio» mormorò, in un tono che alla ragazza parve quasi irritato. «L’hai visto ancora?»

Sentendosi improvvisamente sotto accusa, Caterina incrociò le braccia davanti al petto e si piantò davanti a Michael, le gambe leggermente divaricate come per guadagnare maggiore stabilità. «Be’, ovviamente sì: per quanto poco mi piaccia, ultimamente al Dream ci vado spesso, visto che ci suona la mia migliore amica. Hasim lavora lì, quindi mi è capitato di incontrarlo in un paio di occasioni.»

Michael sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso ironico. «Va bene», concesse, «ma perché dici che quel tipo ha qualcosa contro il fatto che noi due ci frequentiamo?»

La giovane fu tentata di mentire, di dire che Hasim non l’aveva mai interrogata in proposito e che si trattava solamente di sue supposizioni, ma poi decise che era giunto il momento di andare in fondo a quella faccenda. Anche a distanza di parecchie ore, le parole che l’uomo le aveva rivolto la sera prima risuonavano sinistramente nella sua testa e Caterina sentiva che esse avevano creato una microscopica crepa nella fiducia che aveva deciso di concedere a Michael. E questa cosa non va bene, decise, risoluta. Prima sgombriamo il campo da dubbi ed equivoci e meglio è!

Sospirando, la ragazza si passò una mano tra i capelli. «Ieri sera, mentre ero al Dream con un paio di amiche, mi ha chiesto di potermi parlare in privato» confessò. «Per farla breve, Alessandra, la ragazza che suona al locale e che lui conosce bene, gli ha detto che ci stiamo frequentando, per così dire. E Hasim… ecco, mi ha detto che non dovrei farlo. Non so perché, ma sembra convinto che tu non sia esattamente una persona affidabile: non ricordo le testuali parole, ma mi ha praticamente fatto capire che, secondo lui, saresti un poco di buono.»

«Ma si può essere così bastardi?» sibilò Michael.

Quando si rese conto che il giovane non sembrava intenzionato ad aggiungere altro, Caterina gli si avvicinò di qualche passo, arrivando a sfiorargli il torace con le braccia. «Ma io non ho capito una cosa: vi conoscete?»

Il volto del ragazzo si contrasse in una smorfia di frustrazione. «No!» gemette. «Non l’avevo mai visto prima di quella sera al parcheggio e, grazie a Dio, non l’ho più rivisto nemmeno in seguito.»

«E allora perché ce l’ha tanto con te?» insistette la giovane, pur essendo consapevole che difficilmente Michael avrebbe avuto una risposta a quel quesito.

Il ragazzo si strinse infatti nelle spalle. «E che cazzo ne so? Si vede che ha deciso di avercela con me per un qualche motivo!»

«Forse…», azzardò lei, «forse non gli hai fatto una gran bella impressione quella sera nel parcheggio. Se davvero non ti conosce, magari pensa che tu sia uno sbandato o uno che passa le giornate a bere. Non vedo davvero nessun’altra spiegazione.»

Michael sbuffò. «Sì, va be’, è uno che lavora in un locale notturno: hai idea di quanta gente ubriaca incontra, quello, in una settimana? Non so perché abbia deciso di ricordarsi proprio di me.» Il giovane tacque tutto d’un tratto, poi sgranò gli occhi. «A meno che… lo conoscevi già, la sera che ci siamo incontrati?»

Caterina scrollò le spalle. «Solo di vista: ci avevo giusto parlato un paio di volte. Me l’ha presentato Alessandra tempo fa.»

Sul volto di Michael comparve un sorriso tagliente. «Secondo me, quello si è preso una cotta per te.»

L’idea le parve talmente ridicola che Caterina non riuscì a trattenere una risatina. «Eh? Non credo proprio!»

«E io invece ne sono praticamente convinto!» ribatté il giovane, appassionandosi all’idea. «È una spiegazione perfetta, se ci pensi: è venuto a salvarti quando eravamo nel parcheggio, perfetta reincarnazione dell’indomito cavaliere che trae d’impiccio la donzella in difficoltà…»

«… stava semplicemente facendo il suo lavoro» lo contraddisse lei.

Il ragazzo non l’ascoltò nemmeno. «Probabilmente pensava di aver fatto colpo e di certo non si aspettava che noi due ci incontrassimo ancora. Poi ha scoperto che abbiamo continuato a vederci e…» Michael si interruppe, come se il flusso dei suoi pensieri l’avesse condotto in un luogo inaspettato. «Suppongo», riprese, parlando più lentamente, «che abbia equivocato la natura del nostro rapporto e si sia fatto chissà quali film mentali. Credendo di doversi disfare di un fidanzato indesiderato, avrà ben pensato di fare un po’ di insinuazioni sul mio conto. Così, giusto per spaventarti un po’ e spingerti ad allontanarti da me.»

Caterina boccheggiò per qualche istante. «Ma io gli ho spiegato come stanno le cose» si difese, cercando di formulare le parole con una lingua che si era fatta d’un tratto secca. «Gli ho detto che mi hai aiutata a passare un esame…»

«E lui ti ha creduto?» la interrogò Michael, inarcando le sopracciglia.

«Non so» replicò lei. «Suppongo di sì, però. Non ha insistito per sapere se tra di noi ci fosse… ecco, qualcosa.» Nel pronunciare quelle parole, la ragazza sentì il ben noto rossore farsi nuovamente strada sulle sue guance. Odiava arrossire in quel modo: la faceva sentire una ragazzina alle prime armi. La sua pelle terribilmente pallida, però, si comportava come una cartina al tornasole e traduceva in sfumature di colore tutte le sue emozioni. E adesso Michael capirà perfettamente che l’idea di noi due insieme mi fa un certo effetto! Pensò la giovane, lanciando un’occhiata di soppiatto al ragazzo.

In effetti, Michael la fissava come se stesse analizzando il rossore che le macchiava il viso e faceva scolorire le lentiggini che le coprivano guance e zigomi. Le sue labbra si piegarono in un sorriso appena accennato. «Forse, allora», riprese dopo qualche secondo, «si preoccupa di quello che potrebbe accadere in futuro: magari vuole disfarsi di un possibile rivale.»

Caterina ebbe l’impressione di trovarsi su un terreno ripido e scivoloso. La discesa conduceva in un luogo in cui desiderava fortemente arrivare, eppure quel primo passo, lo slancio verso il vuoto a cui non sarebbe poi più stato possibile porre rimedio, la spaventava. In imbarazzo, cercò una risposta che dirottasse la conversazione dalla direzione che Michael aveva voluto darle. «In ogni caso», disse, con voce un po’ strozzata, «è un bene che tu non sia venuto, ieri sera. Non avevo nessuna voglia di assistere a uno scontro diretto!»

Il ragazzo sobbalzò, improvvisamente distratto. «Oh, già! Che cretino: non ti ho più detto perché ieri ho deciso di non venire!»

Con un’esalazione che era per metà di sollievo e per metà di delusione, Caterina sorrise. «In effetti me le devi, delle spiegazioni: ieri mi hai praticamente sbattuta fuori dalla macchina…» disse, cercando di imprimere alla propria voce un tono e un’intonazione normali.

Lui le rivolse uno sguardo dispiaciuto. «Scusami» gemette, giungendo le mani davanti al viso in un cenno di preghiera. «È che sono superstizioso e non mi andava di sbottonarmi troppo. “Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”… cose del genere, sai.»

Incuriosita, Caterina inclinò il capo verso una spalla. «Cosa vorrebbe dire?»

Michael sorrise e si lisciò la maglietta con aria di sussiego. «Ebbene, ieri sera ho preferito restare in casa perché stavo aspettando una telefonata importante.»

«Ovvero?» gli resse il gioco lei, che già credeva di aver capire dove sarebbe andato a parare.

«Ho ottenuto uno stage di sei mesi alla Brembo!» annunciò con orgoglio il ragazzo. «I dettagli non sono ancora definiti, ma dovrei riuscire a occuparmi proprio di marketing, il che sarebbe semplicemente perfetto. Non è un lavoro vero, è chiaro, ed è solo per sei mesi, ma è un’azienda talmente importante che anche un semplice stage fa curriculum.»

«Oh, bene!» sorrise Caterina, sinceramente felice per il successo del giovane. «Da qualche parte bisogna pur iniziare, giusto? E poi, finito lo stage, potrebbero sempre tenerti, no?»

Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Non so se in questo periodo stiano assumendo, ma uno può sempre sperarci. Per adesso, però, mi va bene così.»

Così dicendo, Michael riprese a camminare lentamente, dirigendosi verso il punto panoramico che aveva menzionato poco prima. Caterina lo seguì, senza riuscire però a scacciare l’impressione che ci fosse qualcosa in sospeso, tra di loro. Il silenzio intervallato dal frusciare delle foglie e dalle grida dei bagnanti era denso d’attesa, e la ragazza sentì montare dentro di sé il bisogno fisico di dire qualcosa.

«Te la sei presa?» la precedette però Michael.

Lei lo guardò, senza capire a cosa si stesse riferendo. «Eh?»

«Ieri pomeriggio, quando ti ho detto che non potevo accompagnarti al Dream: te la sei presa per il fatto che ti ho scaricata senza spiegarti quello che stava succedendo?»

Certo che sì! Pensò Caterina. Tuttavia, ingoiò quella risposta: non aveva il coraggio di parlargli della gelosia che l’aveva colta quando se l’era immaginato in compagnia di un’altra donna. «Ammetto di esserci rimasta un po’ male» confessò invece. «Ho pensato di aver fatto qualcosa di male, magari di essere risultata troppo invadente…»

Michael si voltò verso di lei e i suoi occhi parvero accendersi di una luce calda, quasi in contrasto con il blu profondo delle sue iridi. «Non risulteresti mai molesta, tu» le disse, e Caterina seppe che era assolutamente sincero.

Sentendosi quasi timida, abbassò gli occhi, combattuta tra il desiderio di ristabilire la distanza tra sé stessa e il ragazzo e il bisogno di avvicinarsi ulteriormente a lui. Sospesa in quella sorta di limbo, Caterina non mosse un muscolo fino a quando non sentì le dita di Michael sfiorarle il viso. Il giovane le percorse la guancia in una carezza leggera, scivolando dalla curva dello zigomo fino alla rotondità del mento, e la ragazza sentì qualcosa cedere all’altezza delle ginocchia e un calore liquido raccogliersi al centro del petto.

Quasi per caso, Caterina alzò lo sguardo e inciampò in quello di Michael. C’era qualcosa nel suo volto, nell’essenza stessa del suo essere, che la attirava con una forza ineluttabile, e la giovane ebbe l’impressione che la gola le si facesse più stretta per l’emozione.

«Dici?» chiese in un sussurro involontario.

Michael non replicò, ma mosse il capo in un piccolissimo cenno d’assenso. Quasi come se la voce della ragazza l’avesse spinto ad agire, il giovane fece scorrere un braccio attorno alla vita di lei e l’attirò dolcemente a sé. Caterina quasi incespicò e si sbilanciò in avanti. Le sue mani volarono istintivamente sul petto di Michael e lì rimasero, stregate dal tepore solido che riuscivano ad avvertire attraverso il sottile strato di cotono azzurro della maglietta.

Alla fine, siamo davvero alti uguali, notò in maniera del tutto estemporanea la ragazza, ricordando il dubbio che l’aveva assalita quando il giovane le si era parato davanti nel parcheggio.

Ma le circostanze ora erano mutate e, senza che lei se ne accorgesse, Michael si era fatto più vicino. Caterina fece appena in tempo a risucchiare un mezzo respiro tremulo che le labbra del giovane si posarono sulle sue, morbide e calde. Per uno o due secondi, tutti i pensieri parvero evaporare dalla testa della ragazza, che rimase sospesa in uno stato di deliziata sorpresa. Poi si rese conto di quello che stava accadendo e un gemito leggero si levò dalla sua gola. Istintivamente, Caterina socchiuse la bocca e i denti di Michael si strinsero delicatamente sul suo labbro, facendola rabbrividire.

Proprio mentre le dita della ragazza affondavano nella stoffa della maglietta del giovane, quello si allontanò dalle sue labbra e retrocedette di mezzo passo. C’era un’ombra di incertezza, nei suoi occhi, e Caterina provò un profondo moto d’affetto nei suoi confronti.

Non era mai stata una persona che amava fare il primo passo, ma, giunti a quel punto, non vedeva il senso di prolungare oltre l’attesa e di prestare orecchio ai dubbi che la stringevano con tentacoli sottili e taglienti.

Michael socchiuse la bocca, forse avrebbe voluto dire qualcosa, ma le mani della ragazza si strinsero sulle sue spalle e la giovane lo attirò a sé, baciandolo di nuovo. Lo sentì sorridere contro le sue labbra e poi il braccio che ancora le circondava la vita si fece più forte, mentre l’altra mano di lui saliva tra i suoi capelli, arrivando poi a posarsi sulla sua nuca. Quando il ragazzo approfondì il bacio, Caterina si sentì leggera e al tempo stesso incredibilmente pesante: si spinse verso di lui, unendo il petto con quello del giovane, come se solo quel contatto caldo fosse in grado di tenerla ancorata alla realtà.

La mano di Michael si strinse sulla sua vita, quasi possessiva, e, per tutta risposta, Caterina gli morse le labbra, facendolo sussultare per la sorpresa. Michael si staccò da lei e rimase per qualche istante con la fronte appoggiata a quella della giovane, gli occhi scintillanti e sulle labbra un sorriso che gli illuminava il volto.

Anche Caterina sorrise, sentendosi stordita e incredibilmente fortunata a essere lì, con un ragazzo così bello che, per qualche oscura ragione, ricambiava il suo interesse. Michael le accarezzò di nuovo il viso e strofinò il naso contro quello di lei, strappandole una risatina.

«Allora», sussurrò il ragazzo, con voce leggermente roca, «hai visto che Hasim faceva bene a preoccuparsi?»

Ancora sconvolta da quel bacio tanto desiderato quanto insperato, Caterina riuscì solo a scuotere il capo con aria di finto rimprovero.

 

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Capitolo 13
*** 12. Incontri ***


Quasi cent’anni prima

Con le maniche rimboccate fino ai gomiti, Margherita immerge nell’acqua fredda del lavatoio un paio di pesanti pantaloni neri che appartengono a suo padre. Si sforza di non alzare lo sguardo dall’acqua che, da trasparente che era, ha ormai assunto una lattiginosa sfumatura azzurrina a causa di tutta la schiuma di sapone che vi è disciolta. Agnese, intenta a lavare i panni sul lato opposto del lavatoio, le ha chiesto di non guardare a destra e lei, per accontentare la sua imprevedibile amica, non guarda.

«Eccolo!» sussurra ad un tratto la ragazza bionda, con la voce che trema dall’emozione. «È lui!»

A sedici anni, Agnese ha iniziato a interessarsi ai ragazzi. E non a un ragazzo solo, ma a ogni giovane uomo che si fermi a studiarla un po’ più a lungo di quanto non sia strettamente necessario. Reprimendo un sorriso accondiscendente, Margherita interrompe i movimenti metodici con cui sta insaponando una gamba dei pantaloni. «Posso guardare, adesso?» chiede.

«Ma sì, ma sì» annuisce freneticamente la sua amica.

Fingendo indifferenza, la ragazza bruna volta il capo e scruta la strada che, da qualche anno a quella parte, ha preso a riempirsi di automobili, motorini e agili biciclette. Ed è proprio lì, in sella a una bicicletta nuova fiammante, ma con un piede a terra, che vede l’uomo che ha catturato l’interesse di Agnese: l’Aldo Pépp, miracolosamente tornato in patria quando ormai tutti lo davano per morto.

Al termine della guerra, l’Aldo si trovava in Albania ed era stato quindi rimpatriato a bordo di una nave che era sventuratamente naufragata nel cuore del Mediterraneo. Le voci che correvano per il paese raccontavano che il ragazzo, che non sapeva nuotare, aveva creduto di morire e si era rassegnato ad andare a fondo insieme al bastimento. Per sua fortuna, quel giorno si era trovato accanto una sorta di angelo custode: un suo commilitone, tale Raffaele da Otranto, l’aveva convinto ad affidarsi a lui. Che l’Aldo si tuffasse, aveva detto, ci avrebbe poi pensato lui a tenerlo a galla. E così aveva fatto.

Una volta che si era trovato nuovamente con i piedi saldamente piantati sulla terra ferma, l’Aldo aveva insistito per recarsi personalmente in Puglia e per incontrare la famiglia del ragazzo che gli aveva salvato la vita, così da far comprendere ai suoi genitori che razza di figlio eroico avessero. Sfortunatamente, l’Aldo non aveva mai pensato di far avere notizie di sé ai propri, di genitori. Questi, una volta appreso che la nave su cui viaggiava il figlio era colata a picco, l’avevano dato per morto: del resto, l’Aldo e l’acqua non erano mai andati particolarmente d’accordo, e se il giovanotto non aveva mandato nemmeno una lettera, significava che si trovava ormai sul fondo del mare. Si era dunque celebrato un funerale a cui aveva presenziato pure il sindaco e durante il quale una bara tristemente vuota era stata interrata nel cimitero del paese tra la commozione generale.

Nel frattempo, l’Aldo se l’era presa comoda. Si vociferava che le bellezze della Puglia l’avessero stregato, o forse a stregarlo era stata solo una certa Annina, una contadina che il ragazzo menzionava con una certa frequenza. Ciononostante, dopo un paio di mesi aveva sentito la nostalgia di casa e così, senza particolare fretta e senza sospettare che i suoi cari avessero già celebrato il suo funerale, s’era avviato verso nord. In una sera di maggio, aveva fatto un’ultima tappa sul lago per rifocillarsi a forza di polenta e agoni ed era stato lì, in quella Varenna arroccata sul fianco della montagna, che l’aveva trovato la signora Pina Rogantini. La Pina, che era scesa in pianura per far visita a una figlia che lì s’era sposata, se l’era trovato davanti sul lungo lago, l’aveva riconosciuto e per poco non aveva avuto un infarto, credendo di essersi imbattuta in un fantasma.

Rassicurata la comare e appreso quanto era accaduto, l’Aldo era ritornato in valle in pompa magna: per i primi tempi, era stato una sorta di eroe di paese e non poteva mettere il naso fuori di casa senza che qualche suo compaesano si fiondasse su di lui e gli chiedesse di raccontargli i dettagli del suo viaggio di ritorno dall’Albania. Il giovanotto era stato addirittura intervistato da un giornaletto locale, ma poi la sua notorietà era andata scemando.

Ora, al principio dell’estate, l’Aldo è tornato a essere un ragazzo come tanti, ma la sua presenza continua a destare un certo interesse in una determinata categoria di persone: le ragazze nubili.

Non me lo ricordavo così, pensa Margherita, spiandolo da dietro la colonna che sorregge il tetto del lavatoio. Prima di partire per la guerra, l’Aldo era stato un ragazzetto mingherlino e con un viso tormentato dall’acne, mentre adesso, a qualche anno di distanza, è un giovane uomo alto e robusto, con le spalle larghe, la mascella squadrata e un lucente ciuffo di capelli biondi.

La ragazza lo osserva con lo stesso distaccato interesse con cui osserva i dipinti in chiesa. A differenza di Agnese, che si è fatta tutta rossa e si sta già rassettando gli abiti, sistemandosi la camicetta così che questa metta in risalto il seno, lei non prova che una blanda ammirazione nei confronti del ragazzotto. Non è il tipo d’uomo che le interessa. In tutta onestà, non ha ancora capito quale sia il tipo di uomo che le interessa. Forse non le dispiace il fratello maggiore di Agnese, Alberto, che con la sua pelle abbronzata e i suoi tratti mediterranei le fa venire in mente pensieri esotici. Peccato che sia già sposato, si dice. E peccato che il fratello mediano, Giovanni, detto Schvann di Zecch a causa della sua professione di pastore di capre, non gli assomigli più di tanto, né nei colori né nella propensione all’igiene personale.

All’oscuro dei pensieri che stanno passando per la testa dell'amica, Agnese si sporge un po’ al di sopra della vasca del lavatoio e fissa apertamente l’Aldo, sperando forse di attirare la sua attenzione con la mera forza del pensiero. E, caso curioso, la tattica pare funzionare. Sentendosi osservato, il ragazzo si volta verso di loro. Per un istante, i suoi occhi indugiano sulla figura sottile Margherita: sono solo pochi secondi, ma tanto basta perché lei irrigidisca la schiena e pieghi le labbra in una smorfia sdegnosa, un’espressione volta a scoraggiare qualsiasi approccio.

Non lo vede, ma sa che l’Aldo adesso sta sorridendo e, forse, sta scuotendo la testa. Sa cosa pensano di lei, i ragazzotti del paese. Dicono che è bella, ma altezzosa. La Signora, la chiamano: un titolo derisorio, assegnatole solo per canzonarla. Margherita però non se la prende e, anzi, se ne fa un vanto: che la considerino pure una che non è buona per essere corteggiata e sposata, a lei sta solo bene. Non vuole fastidi e non desidera avere attenzioni non richieste.

Davanti al suo atteggiamento ostile, Agnese le rivolge una lunga occhiata di rimprovero che però si dissolve come neve al sole nel momento in cui l'Aldo smonta dalla bicicletta e, afferrandola per il manubrio, si avvicina a loro, gli occhi fissi sulla ragazza bionda.

«Buongiorno, Agnese» le dice con voce suadente e un sorriso che mette in mostra due file di denti sorprendentemente dritti.

«Buondì, Aldo» replica lei, gli occhi bassi come per modestia o timidezza.

Dall'altra parte del lavatoio, Margherita non riesce a nascondere un'espressione scettica. Anche se l'età ha attenuato l'esuberanza infantile di Agnese, sa bene che la ragazza è tutt'altro che timida o modesta: l'atteggiamento pudico che sta esibendo è in realtà civetteria, e Margherita si chiede se l'Aldo se ne renda conto o no.

«Pensavo di venire a trovare tuo fratello Giovanni, un giorno di questi» riprende il ragazzo, senza staccare gli occhi dai riccioli biondi di Agnese. «È da tanto che non lo vedo. Vivete ancora tutti e due con la mamma, vero?»

Agnese annuisce. «Sì. Mio fratello però lo trovi solo di sera, perché di giorno sta dietro alle capre.»

L'Aldo sorride. «Allora vorrà dire che verrò dopo cena» dice, con una strana luce negli occhi chiari. «Adesso che andiamo verso la bella stagione, si possono anche fare delle belle passeggiate prima che faccia notte.»

Nell'udire quelle parole, la ragazza gli rivolge un sorriso che rivela la sua vera personalità. «Mi pare una bellissima idea» approva, incontrando lo sguardo di lui.

Il giovanotto annuisce. «Allora è deciso: ci vediamo una sera di queste. Buona giornata, Agnese.» Il ragazzo fa come per sollevare un cappello che non ha in un cenno di saluto, poi monta nuovamente sulla bicicletta e rivolge un cenno del capo a Margherita. «Signora» le dice, in un tono deferente che sa tanto di sarcasmo.

Quando si è allontanato a sufficienza, Agnese lancia un gridolino e fa un saltello sul posto, stringendosi al petto il pezzo di sapone viscido e scivoloso che ancora ha tra le mani. «È tanto bello, vero?» chiede, cercando l'approvazione di Margherita.

La ragazza mora si stringe nelle spalle. «Immagino di sì» replica con scarso entusiasmo. Per essere bello, l'Aldo è bello, ma Margherita lo trova anche tanto banale, nonostante quel suo rientro in patria così avventuroso.

Sulle ali dell'entusiasmo, Agnese ignora la scarsa partecipazione dimostrata dall'amica, la testa senza dubbio piena di sogni e fantasticherie romantiche. Per i successivi dieci minuti, le due lavano i panni in silenzio, ognuna immersa nei propri pensieri. Margherita è intenta a risciacquare un paio di spesse calze di lana, quando si accorge che Agnese si è immobilizzata e guarda la strada con il sapone ancora stretto nella mano destra.

Sarà tornato l'Aldo? Si chiede la ragazza bruna con una punta di irritazione, ma quando alza il capo e segue lo sguardo dell'amica, si rende conto che l'attenzione di Agnese non è stata attirata dal ragazzo di cui è invaghita. Lì dove prima c'era il giovanotto in sella alla bicicletta, è ora parcheggiata una Fiat rossa fiammante.

Non se ne vedono spesso di automobili così, lì da quelle parti, e lo stomaco della ragazza si contrae in una morsa improvvisa. C'è qualcosa che la pungola all'altezza dello sterno, un vago presentimento che le stringe la gola, ma, sulle prime, Margherita non riesce a dare un nome a quelle ombre. Guarda invece Agnese e vede che la sua fronte liscia è increspata da tre piccole rughe di concentrazione.

Prima che le due ragazze riescano a scambiarsi una sola parola, però, uno degli sportelli dell'automobile si apre e dal veicolo scende quella che alla giovane bruna pare la personificazione di un ricordo. È la Zingara, riconosce Margherita, e per un istante il mondo pare perdere la propria nitidezza.

Sono passati molti anni dall'ultima volta che l'ha vista. Durante uno dei loro ultimi incontri, la donna le ha donato la piccola chiave d'ambra che la fanciulla porta sempre appesa sopra al seno, e poi è svanita nel nulla. È scappata lontano per dare alla luce la sua bambina, ricorda la ragazza, ma i conti non tornano. Perché la Zingara non è sola, ma porta al collo una figuretta scura e ricciuta, un bebè che non può avere più di un anno. La bambina indossa un vestitino di pizzo bianco e rosa che l'identifica come appartenente al sesso femminile, ma Margherita pensa che quella non può essere la creatura che stava per nascere quand'era lei stessa una bimba, perché è troppo piccola. Dovrebbe avere nove o dieci anni, mentre questa ancora non cammina. Con un brivido d'apprensione, la ragazza si chiede se qualcosa sia andato storto: è stata forse una tragedia a tenere lontana quella donna che un tempo l'era stata amica?

Gli occhi della Signora Mursciù – che, a conti fatti, deve chiamarsi Madame Mourchou, come direbbe la sua insegnante di francese – incontrano quelli delle due ragazze, e solo in quell'istante Margherita si rende conto che non sembra invecchiata d'un giorno.

Ma ha l’aria triste. Tanto, tanto triste, e questo nonostante la bambina che si stringe al petto. Margherita vorrebbe dire qualcosa, ma ogni parola che le nasce nella mente pare morirle in gola. Anche Agnese sembra essere diventata improvvisamente muta, solo che il suo volto mostra ancora l'espressione contratta e confusa di poco prima. Nei suoi occhi verdi brilla uno sguardo quasi ostile e la ragazza bruna si rende conto che l'amica non sembra felice di rivedere la Zingara. È tesa, guardinga, e Margherita si chiede il perché. Non le mancavano le loro chiacchierate, quel brivido di fantastico che ora non si sa più spiegare, ma che a sei anni le sembrava così normale?

Chissà poi se quelle cose che ricordo sono successe davvero? Con Agnese non ne parliamo da anni, ormai, e adesso non so più dire se la magia fosse vera, o se ci fosse un trucco e una spiegazione dietro a ogni cosa apparentemente priva di senso.

Non avrebbe dovuto lasciarsi scivolare tra le dita ciò che aveva vissuto da bambina, ma con l'arrivo della guerra il loro mondo era cambiato: avevano dovuto crescere in fretta e non c'era più stato tempo per le fantasticherie. E adesso, forse, è tardi.

La Zingara si passa la bambina da un braccio all'altro e poi si avvicina alle due ragazze. «Margherita» le dice, con la stessa voce morbida che la fanciulla serba ancora nei propri ricordi. «Mi dispiace essere stata via così tanto.» C'è una nota tremula dietro a quelle parole, ma la donna sembra voler fare il possibile per mantenere un tono saldo, senza cedimenti.

Anche se tutta la sua attenzione è concentrata sulla Francesa, con la coda dell'occhio la ragazza bruna nota che Agnese si è irrigidita. Deve averlo notato anche la Signora Mourchou, perché distoglie gli occhi neri da quelli azzurri di Margherita e si rivolge alla giovane bionda. «E Agnese!» esclama, rivolgendole un sorriso amichevole. «Come stai?»

«Non c'è male, grazie» replica Agnese, gelida, e Margherita comprende che l'amica non ha mai veramente accettato la disparità di trattamento che la Zingara ha riservato loro.

La bimba che la donna regge tra le braccia sgambetta impaziente e la madre si china per posarla sulla striscia d'erba selvatica che cresce accanto al lavatoio. La piccola vi atterra con gioia e subito afferra un ciuffetto di parietaria, osservando affascinata le foglie che le rimangono appiccicate alle dita grassocce.

La Signora Mursciù la osserva per qualche istante con gli occhi pieni di tenerezza, poi si avvicina al lavatoio e sfiora con i polpastrelli il legno ruvido delle assi che corrono tutt’attorno alla vasca più bassa. C’è imbarazzo, nel silenzio che per qualche istante regna tra loro, e Margherita si schiarisce la voce. «Come si chiama?» chiede, indicando la bambina che razzola ai loro piedi.

La donna si china appena per spettinare i riccioli scuri della sua creatura. «Flora. Il suo nome è Flora.» Lo pronuncia alla francese, florà, in quella che sembra quasi una capriola lessicale.

Ed è la tua unica figlia? Vorrebbe chiedere Margherita. Che ne è stato dell’altra, quella che stava per nascere quando sei scappata via prima della guerra? «È una bella bambina» dice invece, non osando porre quella domanda.

È solo uno scambio di cortesia che non porta a niente se non ad altro silenzio e la ragazza bruna inizia a sentirsi a disagio. Se ci fosse chiunque altro, davanti a lei, l’avrebbe già invitato ad andarsene e a lasciarle lavorare in pace, ma con la Signora Mursciù – Madame Mourchou! – non può essere sgarbata.

C’è però Agnese, che sembra non farsi remore ad affrontare la questione di petto. «Perché è qui?» chiede, lasciando che la camicia che aveva in mano cada sull’asse con uno sciàf che sembra un colpo di frusta. Per un istante, Margherita crede che l’amica si stia rivolgendo a lei, poi si sente stupida comprendendo che la giovane ha invece usato il lei di cortesia che da bambine ignoravano.

Negli occhi della Zingara passa un lampo smarrito, poi la donna china il capo e il suo volto sembra piegarsi in una maschera di dolore. «Mio marito è morto» dice in un sussurro spezzato.

Agnese la guarda senza mutare espressione, perché lei non l’ha mai conosciuto, il Signor Mursciù, ma Margherita si sente vacillare. Non sa nemmeno lei perché le sembri tanto importante la morte di un uomo con il quale non ha scambiato che poche parole scompagnate: il dolore che prova le pare quasi ingiusto, perché negli anni passati ne sono morte tante, di persone (compreso il papà di Agnese), e non capisce perché quella morte debba essere diversa. Però lo è. Perché il marito della Francesa era grande, scuro e imponente e, ai suoi occhi di bambina, non di questo mondo; e il fatto che sia morto la lascia come spaesata: se uno come lui può morire, chi mai può dirsi al sicuro?

«Mi dispiace» mormora, ma è una frase quasi senza senso, pronunciata da una voce che non le sembra nemmeno la sua.

«Quindi adesso ha intenzione di restare qui?» chiede ancora Agnese, attirandosi l’occhiata perplessa di Margherita. Se prima, mentre civettava con l’Aldo, il suo atteggiamento era simile a quello di una tortorella in amore, adesso c’è un che di volpesco nella piega sottile dei suoi occhi verde pallido.

La Zingara fa il gesto di asciugarsi una lacrima che forse c’è e forse no, poi scuote il capo. «No, non posso» dice. «Devo andare via. Devo portare al sicuro la mia bambina.»

Margherita si chiede se loro l’avessero trovata, quelle persone di cui serba soltanto una memoria indistinta, quegli individui senza volto che l’avevano costretta a scappare dalla Francia e a lasciarsi alle spalle tutte le cose belle che aveva costruito in quel paese al di là delle Alpi. E poi si chiede anche perché sia venuta a cercarle al lavatoio.

«Dove… andrà?» chiede, per un attimo indecisa tra il vecchio tu e il nuovo e più cortese lei. Se da un lato sente che non c’è bisogno di tante formalità tra loro due, dall’altro non vuole offendere Agnese, che invece sembra intenzionata a mantenere le distanze.

Gli occhi della Zingara sembrano farsi ancora più scuri. «Via, lontano» sospira, con la voce che trema ancora un po’. «Non posso rivelarvi il luogo, è meglio che voi non sappiate. Sono passata solo per dirvi addio e per accertarmi che sia tutto a posto.»

La donna non aggiunge altro, ma Margherita capisce benissimo a cosa si sta riferendo. Solleva una mano quasi inconsciamente e posa le dita all’altezza del proprio sterno. I suoi polpastrelli sfiorano la sagoma famigliare della chiave d’ambra e tanto basta perché la Francesa le rivolga un piccolo sorriso di gratitudine. Quasi non si vede, ma la ragazza si sente riempire d’orgoglio. Sì, è stata brava: per dieci anni ha conservato quel piccolo oggetto apparentemente privo di valore. Non ne ha mai fatto parola con nessuno (se non con Agnese, tanti anni prima) e non l’ha mai mostrato a nessuno. Non ha capito perché sia tanto importante, perché la Zingara gliel’abbia affidato e si sia tanto raccomandata, e cionondimeno l’ha conservato come il più prezioso dei tesori.

Ha la sensazione di avere addosso lo sguardo di Agnese, ma quando alza gli occhi vede che l’amica sta fissando la Zingara, una mano sul fianco e l’altra sull’asse per lavare i panni. La conosce bene, l’espressione disegnata sul volto della ragazza: sta pensando che la Francesa si sia trattenuta fin troppo a lungo e che adesso possa anche andarsene.

Perché la odio tanto? Si chiede Margherita, infastidita. È davvero per la storia della chiave, oppure c’è dell’altro?

Come in cerca di risposte, la giovane lascia che il suo sguardo corra verso l’automobile dalla quale è scesa la donna e sussulta. C’è qualcun altro, lì, un conducente che fino a quel momento aveva ignorato. L’uomo incrocia i suoi occhi e Margherita sente il cuore accelerare i battiti.

Quasi fosse stato richiamato dall’occhiata della ragazza, l’uomo apre la portiera e scende dalla Fiat rossa, avvicinandosi a loro a grandi passi. Margherita lo riconosce subito, anche perché non è che ne abbia visti molti, di uomini come lui: è l’amico della Zingara, quello dalla pelle scura che tanti anni prima aveva preso un fazzoletto grigio e l’aveva trasformato in un medaglione. Lei è cresciuta, ma per qualche motivo le sembra ancora più imponente di quanto non le sembrasse da bambina: si scopre a fissarlo a bocca aperta e a notare che nemmeno lui, al pari della Signora Mursciù, sembra invecchiato. Solo i suoi abiti sono cambiati e sembrano essersi fatti un po’ meno eleganti di quelli che ricordava.

Quando raggiunge il lavatoio, la Zingara allunga una mano e gli stringe brevemente un braccio. “Vi ricordate di lui, vero?” chiede, rivolta alle due ragazze.

Quelle annuiscono in silenzio e sul volto dell’uomo compare un sorriso gentile. “State bene?” chiede. Si rivolge a entrambe, ma per qualche motivo il suo sguardo sembra indugiare su Margherita.

Vuole sapere anche lui se la chiave è al sicuro, pensa la ragazza, portandosi nuovamente una mano allo sterno e premendo il palmo contro l’oggetto che porta appeso al collo. I loro occhi si incontrano ancora e quelli di lui sembrano farsi più caldi, quasi nascondessero un sorriso che solo lei può vedere. La giovane china il capo, mentre sulle sue gote compare un rossore che spera che nessuno noti. Le piace, quello sguardo.

L’uomo cinge con un braccio le spalle della Zingara e la attira contro il suo fianco. Margherita si ritrova in mano il sapone senza nemmeno rendersi conto di averlo afferrato, mentre una sensazione mai provata prima le morde lo stomaco e la costringe a fissare l’acqua lattiginosa. Non le piace che tocchi così la Francesa. Non le piace che la Francesa si lasci toccare così da lui. C’è qualcosa tra di loro? L’idea non l’ha mai sfiorata prima, perché lei era troppo piccola per badare a quelle cose e perché comunque l’aveva vista insieme a suo marito, ma adesso… adesso

“Vi ha spiegato che lei e Flora dovranno andare via, giusto?” chiede l’uomo, spostando i suoi occhi caldi sulla donna al suo fianco.

“Sì, ce l’ha detto.” È Agnese a rispondere e Margherita non riesce a rammaricarsi del tono distaccato con cui la sua amica ha parlato.

L’uomo fa un piccolo cenno d’assenso. “Io le accompagnerò nella loro nuova casa”, dice, “ma poi tornerò qui, così che, se avrete bisogno di me, io potrò aiutarvi.”

“Non darai un po’ troppo nell’occhio?” chiede ancora la ragazza bionda. Ha usato il ‘lei’ per rivolgersi alla Zingara, ma a lui dà del ‘tu’, nota Margherita. La cosa la disturba un po’, anche se non sa spiegarsi il perché.

L’uomo sorride, ma il suo sorriso sembra un po’ tirato, come se non fosse del tutto sincero. Forse Agnese non gli è molto simpatica. “Ho imparato da tempo a non dare troppo nell’occhio” ribatte. “Non devi preoccuparti per me.”

Margherita lo guarda di sottecchi e non riesce a soffocare la domanda che le si affaccia sulla punta della lingua. “Come la dobbiamo chiamare?”

L’uomo si volta appena verso di lei. “Il mio nome è Hasim” dice. “Puoi chiamarmi così.”

“Hasim” ripete la giovane bruna. È un nome strano, che però le sembra tanto semplice da pronunciare.

Uno sciabordio improvviso la costringe a riscuotersi dai suoi pensieri. Agnese sta ritirando i panni che aveva drappeggiato sul lungo bastone di legno lasciato in ammollo nella vasca superiore del lavatoio. Senza nemmeno strizzarli, li getta nel catino, fradici e pesanti per l’acqua che li inzuppa. Margherita la guarda con gli occhi sgranati. “Cosa stai facendo?”

La ragazza bionda le punta addosso quei suoi occhi che adesso sembrano di pietra verde. “Si sta facendo tardi. Dovremmo tornare a casa. O, se non altro, io devo farlo: c’è il pranzo da preparare.” Una stoccatina, quest’ultima, fatta apposta per ricordare a Margherita che i suoi compiti a casa non si esauriscono con l’occasionale puntata al lavatoio.

“Scusate” sussurra la Zingara, liberandosi dalla stretta dell’uomo e piegandosi per prendere in braccio la bambina che adesso le sta strattonando la gonna. “Vi stiamo facendo far tardi?”

No, vorrebbe dire Margherita, ma l’espressione che passa sul volto della sua amica le fa morire le parole in gola. Agnese non sembra solo infastidita, ora, sembra quasi… preoccupata? È una reazione strana, che non sa spiegarsi e che la fa sentire come in sospeso tra due lealtà: deve stare dalla parte di Agnese o da quella della Signora Mursciù? Una volta non c’era differenza, pensa con rammarico. Una volta stavano tutte e due dalla stessa parte.

La ragazza non dice nulla, ma i due adulti sembrano capire. La Francesa annuisce con espressione grave e poi posa una mano sul braccio di Agnese. Sul suo volto passa un’ombra di tristezza e per una frazione di secondo Margherita pensa che la donna stia per dire qualcosa di importante. Ma è solo un attimo e le labbra della Zingara, che per un istante si erano schiuse, tornano a serrarsi. “Buona fortuna, piccola mia” mormora, prima di girare attorno al lavatoio e raggiungere Margherita.

La giovane bruna abbassa il capo. C’è qualcosa che le stringe la gola impedendole di respirare e di parlare liberamente, di pronunciare quelle parole che nemmeno lei conosce, ma che sente che dovrebbe davvero dire perché, se non lo fa ora, non ci sarà una seconda occasione. La donna la abbraccia e, quando la stringe a sé, Margherita respira il suo profumo buono, che la fa tornare con la mente a quand’era bambina. Quella vera, di bambina, stacca una manina dal collo della madre e la porta sul capo della ragazza, accarezzandola quasi con indulgenza.

Sorpresa da quel contatto, Margherita reclina il capo all’indietro e incontra gli occhi di Flora, seri e profondi. Con due dita sfiora la guancia vellutata della bimba. «Buona fortuna» le dice con la voce che trema un po’.

«Anche a te, Margherita» risponde la Zingara, stringendole brevemente un braccio. «Fai attenzione e, se avrai bisogno di aiuto, fidati di Hasim.»

La ragazza annuisce, ma una punta di irritazione le punge lo stomaco. Perché dovrei aver bisogno di aiuto? Vorrebbe chiederle. A che cosa devo fare attenzione? Si rende conto che la donna non ha mai risposto a quelle domande. Anni prima, quando le aveva affidato la chiave, le aveva detto che a tempo debito tutto si sarebbe chiarito, ma sono ormai passati dieci anni e non si è chiarito proprio niente. Però capisce che non è quello il momento giusto per insistere: la Signora Mursciù ha fretta di andare via, adesso, e poi c’è Agnese. Che, chissà perché, non deve sapere niente.

La giovane sposta lo sguardo sull’uomo e gli rivolge un piccolo sorriso. Bene, vorrà dire che chiederà spiegazioni a lui, quando tornerà in paese. Quella prospettiva la riempie il petto di un calorino curioso.

«Addio, bambine» fa ancora la Zingara, allontanandosi di qualche passo. «No… ragazze. Margherita, Agnese.»

La giovane bionda annuisce seccamente e con la mano le rivolge un cenno di saluto, prima di sollevare il pesante catino che dovrà riportare a casa. Ha il capo chino e i riccioli chiari le schermano il volto, impedendo a Margherita di scorgere la sua espressione.

«Addio, Signora…» la ragazza bruna esita. «Madame…»

«Nalowen» pronuncia lentamente la Zingara. «Mi chiamo così.»

«Addio, Nalowen» ripete Margherita con una stretta al cuore.

 

PS. La vicenda di Aldo non me la sono inventata: ricalca, almeno a grandi linee, quella vissuta da un vecchietto del mio paese.

 

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