I can fly

di Napee
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Impatto ***
Capitolo 3: *** 2. Assenza ***
Capitolo 4: *** 3. Solitudine ***
Capitolo 5: *** 4. Piume ***
Capitolo 6: *** 5. Piccolo corvo ***
Capitolo 7: *** 6. Sulla strada del ritorno ***



Capitolo 1
*** 0. Prologo ***



0.        Prologo





La fredda lama della scure gli sfiorava la pelle fremente coperta dalle piume color pece.
Le ginocchia iniziarono a dolere a causa della posizione scomoda, mentre il boia lo costringeva con il petto premuto sulla piccola tavola in legno per le esecuzioni.
Un brivido lo scosse nel profondo, mentre il Grande Corvo gli leggeva tutti i diritti e tutti i privilegi a cui stava rinunciando solo per seguire uno sciocco umano.
Amici, famiglia, le sue ali.
Sorrise amaramente fra sé e sé. Per lui si sarebbe strappato da solo le ali, a mani nude, se solo glielo avesse chiesto.
Ma Tobio non l’avrebbe mai fatto.
Non gli avrebbe mai chiesto di rinunciare ad una parte così importante di sé, non avrebbe mai osato tanto egoismo.
Tobio amava le sue ali e amava la sua natura mistica che li rendeva così simili, ma profondamente diversi.
Se solo gli fosse stato concesso più tempo, forse tutto si sarebbe aggiustato e magari sarebbero stati felici insieme.
Ma il tempo non era mai stato loro amico in fondo.
La scure venne alzata e Shoyo non riuscì a trattene un singhiozzo spaventato.
Era per amore che rinunciava a sé stesso.
Era per un futuro con Tobio che rinunciava alle sue ali.
Aprì gli occhi osservando tutti i Tengu dinanzi a lui. Lo sguardo fiero e ligio costellato di lacrime.
Infine i suoi occhi lo incontrarono. Aveva ancora addosso la felpa della nazionale e si faceva strada fra i Tengu spintonandoli concitato per avvicinarsi al luogo dell’esecuzione.
In quel momento, sulle sue ali si drizzarono tutte le piume.

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Capitolo 2
*** 1. Impatto ***





          Impatto





La luce accecante di quel pomeriggio filtrava limpida attraverso le grandi vetrate delle finestre. Nella palestra si udivano soltanto il rimbalzare ritmico della palla, qualche stridio di scarpe sul parquet lucido ed il fischio squillante del coach ogni volta che veniva segnato un punto.
Asahi alla battuta dall’altra parte della rete.
Lanciò il pallone in aria, scambiandosi un’occhiata di sfida con Nishinoya nel campo opposto al suo. La loro personale sfida silenziosa fatta di attacchi portentosi e difese strabilianti era appena iniziata.
Tre passi, un salto e poi l’impatto violento della mano sulla palla.
Il servizio poderoso dell’ace volò lesto nell’altro campo, verso l’angolo destro in fondo, ma un attimo prima che la palla toccasse il pavimento, le braccia del libero si frapposero alla traiettoria.
Il servizio era stato ricevuto egregiamente dal difensore che, con una strizzata d’occhio all’ace nell’altro campo, aveva vinto quella loro battaglia silenziosa.
La palla eseguì un arco perfetto, ricadendo nel punto esatto dove vi era già Kageyama pronto ad alzare per gli attaccanti.
L’alzatore si guardò intorno, pensando e studiando a chi gli convenisse alzare la palla prima che il muro invalicabile di Tsukishima dall’altro lato della rete invadesse la traiettoria dell’attacco.
La palla sfiorò le sue dita delicatamente e le sue mani, quasi come se fosse un gesto naturale, si modellarono attorno ad essa accogliendola sui palmi.
In quel momento, una chioma rossa gli sfilò davanti agli occhi, mentre si dirigeva a gran velocità alle sue spalle.
Un ghigno gli increspò le labbra: sapeva già a chi alzare.
Fece leva sulle gambe e saltò in sincrono ad Hinata, mentre le sue mani rilasciavano il pallone come una molla.
Un’alzata veloce e tesa, a filo della rete che stette in aria soltanto pochi istanti, prima che il palmo del centrale la colpisse con forza.
Il boato del colpo che s’infrangeva sul parquet si espanse nella palestra, sostituito subito dopo dal fischio acuto del coach.
Un altro punto era stato segnato. Ne restavano altri ventiquattro.
Esultarono felici, i primini, dandosi il cinque come incoraggiamento.
Tornarono veloci in formazione, mentre stavolta era il turno di Kageyama alla battuta.
L’alzatore prese posto in fondo alla palestra poggiando le spalle al muro e rigirandosi la palla fra le mani.
Respirò a lungo cercando di calmarsi, poi alzò lo sguardo sui suoi avversari per quella partita d’allenamento.
Sugawara era in seconda linea dietro Daichi. La difesa del capitano era portentosa, ma avrebbe resistito anche ad uno dei suoi servizi killer mentre l’alzatore gli passava davanti per raggiungere la sua posizione?
Sorrise malefico. Già pregustava il prossimo punto.
Lanciò la palla in aria affinché formasse una parabola perfetta.
Saltò, caricò il braccio e colpì con forza.
Come sospettato, Daichi non riuscì a controllare la traiettoria della ricezione e la palla tornò lesta nel campo avversario.
Kageyama si diresse subito verso di essa, pronto ad un’alzata di primo tocco, ma con la coda dell’occhio vide Hinata precipitarsi verso di lui.
“Mia!” Gridarono allora, con enfasi fino a grattarsi la gola.
Ma né Hinata né Kageyama desistettero.
L’impatto fu inevitabile.
Hinata riuscì a ricevere la palla allungando il braccio, ma finì per cadere addosso all’alzatore che si ritrovò schiacciato contro il pavimento.
Il braccio teso di Kageyama era finito esattamente sotto ad Hinata ed un’inquietante scricchiolio gli fece gelare il sangue nelle vene.
Poi il dolore, devastante e lancinante, localizzato al polso.
Gemette, Kageyama, raggomitolandosi a terra e portandosi l’arto al petto come se volesse proteggerlo.
“Kageyama, tutto bene?” La voce preoccupata di Nishinoya gli giunse prontamente alle orecchie.
“No… cazzo!” Rispose a denti stretti Kageyama mettendosi seduto e squadrando Hinata con occhi di fuoco.
“Ho chiamato io la palla, razza di idiota!” Berciò irato, mentre il dolore al polso gli impediva persino di respirare con regolarità.
“A-anche io l’ho chiamata…” balbettò il centrale a disagio.
Il suo sguardo guizzava lesto fra gli occhi dardeggianti del compagno di squadra all’arto ingiuriato che si teneva stretto al petto.
Il senso di colpa corse velocemente a chiudergli la gola.
Aveva davvero ferito Kageyama?
“Oi! Oi! Buoni voi due!” Si frappose loro il coach Yukai, prendendo posto al fianco dell’alzatore ancora a terra.
“Fai vedere.”ordinò lesto, iniziando a rigirarsi l’arto del ragazzo fra le dita e studiando attentamente ogni smorfia di dolore che gli si dipingeva sul viso.
“Credo che sia lussato, ma sarebbe meglio sentire l’infermiera della scuo-…”
“Ce lo accompagno io!” Si offrì lesto Hinata, interrompendolo.
Il coach lo squadrò scettico prima di tornare a guardare l’alzatore con aria preoccupata.
“Vedete di non ammazzarvi durante il tragitto, non ho voglia di lavare via dal pavimento le macchie del vostro sangue.” Li ammonì severo, prima di rialzarsi ed ordinare agli studenti restanti di risistemare la palestra.
Kageyama si alzò dal parquet con uno sguardo irato stampato sul viso e si diresse a grandi passi verso l’uscita della palestra.
Al suo fianco, Hinata lo seguiva a grandi passi tenendo la testa bassa.
S’immersero nei silenziosi corridoi della scuola.
Quel pomeriggio erano rimasti soltanto gli studenti che partecipavano ai club e l’infermiera di turno.
Fu verso il terzo piano, dove spiccavano i manifesti al muro di qualche strana iniziativa studentesca, che Hinata ruppe il silenzio.
“Il tuo è il secondo tocco.”
Kageyama aggrottò le sopracciglia irritato e rispose a quelle parole soltanto con un verso stizzito.
“E ho chiamato anche io la palla. Eri tu quello che doveva farsi da parte.”
Non ci volle molto, questione di pochi secondi, poi Kageyama si avventò su Hinata spintonandolo verso il muro con violenza usando il braccio non ferito.
Hinata gridò addolorato quando la sua schiena impattò con impeto contro la fredda e dura parete.
Qualche lacrima si formò fra le sue ciglia lunghe, ma cercò di ricacciarla indietro velocemente mordendosi il labbro inferiore.
“Non osare dirmi queste stronzate.” Sibilò Kageyama a denti stretti.
I suoi occhi cerulei dardeggiavano di rabbia specchiandosi in quelli castani di Hinata.
“Ho io la priorità. Sono l’alzatore e se decido di fare un’alzata di primo tocco, tu devi solo startene pronto per attaccare!” Concluse berciando a pochi centimetri dal suo viso.
Per un attimo, gli parve che Hinata stesse facendo una smorfia di dolore, ma non vi badò poi molto.
In tal caso, sarebbero stati pari.
Lo lasciò lì, senza curarsi più di lui, dirigendosi verso l’infermeria senza guardarsi indietro e fregandosene se Hinata non lo stava seguendo.
Il rosso si accasciò a terra singhiozzando silenziosamente. Il dolore dietro alla schiena era insopportabile.
Allungò una mano fra le sue scapole e non si stupì di sentire qualcosa di bagnato fra le piume.
Quell’idiota di Kageyama gli aveva appena spezzato un’ala e neppure se ne era reso conto.







Buona sera :)
Inizia così questa long che sarà piena di folclore giapponese e un pizzico di mitologia ^^ non so dirvi quanti capitoli conterà, posso solo dire che sono già al quarto finito e la fine è ancora lontana :D
Parlando di cose pratiche invece, volevo precisare che è ambientata più o meno dopo la seconda stagione nonostante sia evidentemente una ff AU. Non sarà importante collocare i fatti in un momento decisivo dell’anime, però per correttezza mi pare giusto darvi qualche dritta.
Per farla breve, il mio bimbo speciale è un tenero Tengu! *^* quanto amo quel carotino!
Scleri da fangirl a parte ^^”…Grazie per aver letto questo primo capitolo, spero sia stato di vostro gradimento :)
Per chi fosse interessato, potete trovarmi su Facebook!

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Capitolo 3
*** 2. Assenza ***


•2            Assenza




Distorsione articolare era stata la diagnosi definitiva.
Niente di grave, niente di particolarmente doloroso, niente che non potesse sopportare. La cura prescritta era stato tanto riposo e un antinfiammatorio preso ogni mattino.
Il polso fasciato gli sembrava strano, sbagliato. Continuava a guardarlo con diffidenza e rabbia, mentre il suo cervello proiettava in continuazione la loro caduta e quell’idiota di Hinata che gli cadeva proprio sul polso.
Al sol pensarci già sentiva la rabbia montargli di nuovo.
Quel cretino avrebbe dovuto pensare a schiacciare e basta!
Lui, l’alzatore, l’aveva chiamata! Aveva una strategia in mente e quel piccoletto aveva mandato tutto a monte!
La sveglia suonò fastidiosa e Kageyama la spense subito con la mano non senza sentire una piccola fitta di dolore al polso.
Fantastico. Aveva passato la notte in bianco.
Si trascinò fino a scuola pigramente, strusciando i piedi sul marciapiede con svogliatezza.
Persino la colazione con sua madre era stata uno strazio e, ovviamente, non aveva perso tempo a fargli notare la pessima cera che aveva.
Fanculo. Come se si fosse mai preoccupato dell’aspetto che avesse!
I libri ciottolavano nella tracolla, quel giorno non aveva la tuta per gli allenamenti del club dopo scuola.
E per un bel po’ non li avrebbe avuti dato che il “riposo assoluto” era stato considerato uno dei fattori determinanti per la sua guarigione.
Al sol pensarci gli ribolliva il sangue nelle vene.
Sarebbe stato fermo. Lontano dalla palestra, lontano dal campo.
La squadra avrebbe fatto progressi, sarebbero andati avanti senza di lui, non sarebbe risultato un elemento poi così determinante e sarebbe stato bypassato.
L’unica sua consolazione era l’assenza di partite in quel periodo fra le Regionali.
Almeno non avrebbe perso partite di campionato, ma solo qualche amichevole che il professor Takeda avrebbe organizzato per loro. 
Grugnì qualche impropero scontroso. Erano comunque occasioni perse per migliorarsi e crescere e per far imparare a schiacciare qualche alzata nuova a Hinata.
Fanculo Hinata.
Era per colpa sua e della sua mania di voler essere sempre da per tutto in ogni momento, se ora si ritrovava così.
Raggiunse la scuola avvolto da uno strano silenzio e, così preso dalla stanchezza e dalla rabbia, neppure aveva fatto caso alla mancanza della causa di tutti i suoi problemi.
Si cambiò le scarpe senza salutare nessuno. E nessuno lo salutò, forse a causa della pessima faccia che andava rivolgendo a chiunque avesse la sfortuna di capitargli davanti quella mattina.
Entrò in classe, si lasciò cadere sulla sedia stancamente e prese a guardare fuori dalla finestra.
Le nuvole erano particolarmente interessanti quel giorno.
Evidentemente più di qualsiasi insegnante che aveva avuto lo sventurato incarico di provare ad insegnargli qualcosa.
Il dolore al polso non lo aveva molestato troppo quella mattina. La fasciatura era ben fatta e gli limitava i movimento evitando provvidenzialmente che si facesse male.
L’ora di pranzo arrivò in un baleno. Tobio tirò fuori il suo bento, mangiucchiò svogliatamente quello che sua madre gli aveva preparato ed uscì dalla classe per andare a prendersi il solito cartoncino di latte.
Solitamente Hinata lo raggiungeva subito. Anzi, veniva proprio a cercarlo in classe per convincerlo ad uscire e mangiare insieme fuori al sole.
Mentre beveva, con lo sguardo rivolto all’orizzonte, non riusciva a non sentirsi strano in quel momento. Come se gli stesse mancando qualcosa di essenziale per potersi godere a pieno la pausa pranzo.
Avrebbe preferito dare la colpa all’assenza dei tamagoyaki nel bento di quel giorno, ma doveva guardare in faccia la realtà dei fatti e riconoscere che quel cretino tutto pepe gli mancava da matti.
Fanculo, non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce. Già faticava ad ammetterlo con sé stesso in verità…
Succhiò avidamente il latte e gettò via il cartone con rabbia.
Girovagò nel cortile senza una reale meta finché non giunse davanti alla palestra. La porta era stata lasciata aperta e la tentazione di andare dentro, prendere un pallone e fare due passaggi era forte.
Ma il riposo assoluto era un’imposizione alla quale non poteva ribellarsi, quindi girò i tacchi e tornò dritto in classe.
Che poi, a dirla tutta, con chi mai avrebbe potuto palleggiare?
Ogni giorno approfittava della pausa pranzo per allenarsi un pochino con Hinata, per testare il suo controllo della palla nelle difese e anche per svagarsi un po’ perché le lezioni erano di una noia mortale.
Ma adesso, senza quel fastidioso nanerottolo fra i piedi, si sentiva completamente perso. Fuori posto.
Senza neppure la pallavolo, quasi non sapeva più chi fosse realmente. Dopotutto, quando mai aveva passato un po’ di tempo con sé stesso senza una palla in mano?
La fine delle lezioni arrivò con estrema lentezza.
Le lezioni pomeridiane erano un vero supplizio. Interminabili. Erano l’unica cosa che lo separava dagli allenamenti e dal campo.
Quel giorno però, Kageyama si sforzò di non guardare nella tracolla, altrimenti i libri e quello spazio vuoto gli avrebbero ricordato che per lui la pallavolo era vietata.
Momentaneamente vietata, certo, ma era comunque una tortura per lui.
Inforcò la porta e andò dritto a cambiarsi le scarpe.
I senpai lo salutarono affettuosamente mentre si dirigevano in palestra. Tsukishima gli rivolse qualche frase dal tono saccente quasi offensivo che Kageyama detestava. Yamaguchi lo seguì a ruota rivolgendogli però un sorriso gentile di scuse.
Ripose le scarpe nell’armadietto ed uscì dalla scuola.
Il sole era ancora alto, il giorno non era ancora finito.
Non era abituato a tornare a casa così presto. Sentiva di avere un sacco di tempo libero, ma non aveva idea di come poterlo impiegare. O forse non aveva semplicemente voglia di passare il resto della giornata in totale solitudine a far niente.
Senza porsi altre domande, inforcò la strada opposta rispetto a casa sua.
Non sapeva di preciso dove abitasse Hinata, ma ricordava vagamente di averlo sentito parlare di casa sua, che fosse abbastanza lontano verso le campagne.
Tirò fuori il telefono e controllò l’ora. Era dannatamente presto. Avrebbe avuto anche il tempo di perdersi e ritrovare la strada.

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Capitolo 4
*** 3. Solitudine ***


•          3. Solitudine






Trovare la casa di Hinata non fu difficile. Anzi, fu provvidenziale quando, arrivato quasi al limitare di quel paesino fatto di case isolate quanto diradate, il professor Takeda uscì da una di queste con un’espressione preoccupata sul volto.
Lesse sul campanello il cognome Hinata e attese che il professore lo notasse tornando verso la sua auto nel vialetto.
“K-Kageyama! Che… che ci fai da queste parti? Tu non abiti qui.” Gracchiò il professore preso alla sprovvista. Il suo sguardo correva lesto dall’alunno alla porta di casa.
Pareva incredibilmente nervoso e inconsciamente Tobio se ne chiese il motivo.
“No, infatti… sono passato a salutare Hinata, oggi non era a scuola.” Confessò semplicemente. Oscillò il peso del corpo da un piede all’altro. Si sentiva a disagio, sotto allo sguardo allarmato del professore.
“C-capisco, ma vedi, Hinata è molto malato, sarebbe meglio se non lo incontrassi, così eviteresti di ammalarti anche tu!” Rispose il professore concitato, ostentando un sorriso tirato e pregno di una tensione che Kageyama non riusciva a spiegarsi.
Lo stava spingendo ad andarsene o era una sua impressione?
“E lei invece?” Chiese curioso Kageyama corrugando le sopracciglia.
Se lui non poteva vedere Hinata, perché il professore invece sì?
“I-io?”
“Perché era a casa di Hinata?”
“Gli ho portato I compiti! Sì, I compiti!” Rispose il professore di getto, cingendolo con un braccio ed esortandolo ad andarsene.
Raggiunsero l’auto del professore e Kageyama si voltò indietro, verso la casa di Hinata.
Si sentiva osservato e, con lo sguardo, iniziò a cercare qualcuno alle finestre, ma senza risultato.
Un brivido gli corse comunque lungo la schiena e quella sensazione non se ne andò.
“Hai bisogno di un passaggio? Vieni, ti porto a casa.” Si propose solare il professor Takeda, ostentando un sorriso sereno ed amichevole.
Con un senso di disagio a contorcergli le viscere, Kageyama accettò l’offerta, ma qualcosa dentro di lui gli diceva che era esattamente quello che voleva il professore.
Si sedette sul sedile e guardò verso la casa di Hinata. Un senso di sconfitta crebbe nel suo petto e, scocciato, sbuffò un sospiro.
Tanta strada per vederlo e poi finiva tutto così, in una nuvola di fumo…
Se Hinata era così malato, perché non aveva detto niente?
Perché non gli aveva detto niente?
E perché lui non riusciva a levarselo dalla testa?
Era come un tarlo nella mente, Hinata, anche se non ci pensava, anche se Kageyama riusciva a distrarsi, presto o tardi lui sarebbe tornato protagonista dei suoi pensieri.
Ultimamente non passava giorno che non trascorressero assieme. Si vedevano prima delle lezioni, durante la pausa pranzo, agli allenamenti del club e anche dopo, quando tornavano a casa, facevano consapevolmente la strada più lunga per poter stare più insieme. Ovviamente nessuno dei due lo aveva mai ammesso a parole. O meglio, per Kageyama era così, non sapeva se per Hinata valesse la stessa cosa. Semplicemente una sera gli aveva proposto di passare da una via diversa dal solito e così era divenuta consuetudine. Sicuramente Hinata aveva notato quei dieci minuti buoni in più di cammino, ma non aveva protestato e – ancora meglio – non aveva chiesto spiegazioni che sicuramente Kageyama non gli avrebbe saputo fornire.
Poter percorrere con lui anche solo un metro in più lo rendeva estremamente tranquillo. E sarebbe stato alquanto imbarazzante ammetterlo ad alta voce.
Non riusciva a spiegarsene il motivo, ma quel chiacchierone inarrestabile aveva un effetto calmante su di lui.
Gli argomenti con cui lo investiva erano dai più svariati e spesso convogliavano tutti sulla pallavolo. Kageyama non apportava un grande contributo alla conversazione, ma gli piaceva ascoltare Hinata e cosa pensasse.
Forse si sentiva così inquieto quel giorno solo perché non lo aveva visto… magari, in una strana e contorta realtà, era perfino preoccupato per lui.
Neppure si era reso conto che il professore aveva messo in moto ed era partito.
La strada che aveva fatto a piedi per tutto il pomeriggio, gli si parava davanti come nuovo panorama ammantato dall’imbrunire della sera.
Volse ancora lo sguardo verso la casa di Hinata. Solo la luce al piano superiore era accesa.
La voglia di scendere e andare a urlare qualcosa a quel cretino era tanta e aveva accarezzato la sua mente con fin troppa enfasi.
Non vederlo tutto il giorno si era rivelato inspiegabilmente spiacevole.
Pensava che, una volta liberato di lui, sarebbe stato meglio, i suoi allenamenti ne avrebbero giovato così come la sua concentrazione dato che non doveva più stare dietro a qualcuno che non giocava al suo livello.
Invece si era sentito solo. Dannatamente solo.
Non aveva mai avuto amici all’infuori dei compagni di squadra. E forse nemmeno loro lo erano davvero dato che erano costretti ad allenarsi con lui se volevano giocare, ma fuori dal campo facevano di tutto per evitarlo.
Solo Hinata gli stava appiccicato e Kageyama si era abituato talmente tanto a quella sensazione di perenne compagnia, che gli pareva strano non averlo intorno.
Piombare a casa sua era stata la sua prima idea.
Ma era da maleducati, se ci pensava bene.
Avrebbe dovuto chiamare ed avvisarlo, magari chiedere il permesso a sua madre…
Prese il cellulare dalla tasca e digitò velocemente un messaggio.

Domani posso venire a trovarti?

Niente fronzoli, niente preamboli, niente saluti. Diretto come una freccia appena scoccata da un arciere.
La macchina si arrestò proprio davanti al cancelletto del suo condominio. Kageyama neppure ci aveva fatto troppo caso, era stato il professore ad avvisarlo con un sospirato “siamo arrivati” che sapeva tanto di sollievo. 
Kageyama notò solo il quel momento che il professor Takeda aveva taciuto per tutto il tragitto. E adesso che stava per andarsene, gli sembrava estremamente sereno e soddisfatto. Quasi come se si stesse liberando di lui.
Scacciò quella strana impressione e bofonchiando un “grazie” striminzito uscì dall’auto.
Entrò in casa e la voce di sua madre che cantava una nuova canzone pop mentre cucinava lo accolse in modo decisamente singolare.
Si affacciò per salutarla e la vide intenta a prendere una nota alta con un braccio spalancato ed il mestolo da cucina nell’altra a farle da microfono.
“Mamma, hai finito?” Le chiese raggiungendo lo stereo solo per abbassare il volume ad un livello più consono.
“Ma no! Tobio, questa canzone mi piace un sacco!” Si lamentò lei squadrandolo con i suoi occhioni azzurrissimi gemelli di quelli del figlio.
“L’avevo capito.”
“Piuttosto dimmi…” iniziò lei assaggiando il brodo che stava cucinando e tenendosi i lunghi capelli scuri con l’altra mano affinché non cadessero nella pentola
“Hai una vaga idea dell’orario a cui stai rincasando? Non avevi neppure gli allenamenti, dove sei stato?”
“Da un amico.” Rispose semplicemente Kageyama alzando le spalle con innocenza.
Sua madre si voltò a guardarlo stupita. Suo figlio non era mai stato a casa di un amico… anzi, suo figlio non aveva mai avuto un amico!
“Oh… ok…” pigolò sconcertata in risposta.
“Fra poco si cena, vai a lavarti.” Liquidò la questione cercando di non farne un caso di stato.
Ma lo era! Cavoli se lo era!
Suo figlio Tobio aveva fatto amicizia con qualcuno!
Internamente gioiva come una pazza per quella scoperta inaspettata ed era curiosa da impazzire. Chissà chi era il povero martire che aveva scovato una sorta di simpatia in suo figlio?

Cenarono guardando la tv. La stupida telenovela che appassionava tanto sua madre, andava in onda proprio all’ora di cena e Kageyama non riusciva mai a sottrarsi a tale supplizio.
“Papà non torna nemmeno questa settimana?” Chiese a bruciapelo senza alzare gli occhi dalla sua ciotola di ramen.
“No… veramente no…” iniziò sua madre schiarendosi la voce. Una mano volò a sistemarsi i capelli nervosamente.
“Dov’è stavolta?” Sospirò Kageyama, stanco di quella situazione che ormai era divenuta una costante nella sua vita.
“In Scandinavia. Mi ha mandato delle foto stupende, vuoi vederle?”
“No, io…” sono stanco di questa situazione.
Non me ne frega niente, voglio mio padre!
“Vado a dormire.” Aggiunse infine dopo qualche secondo di silenzio.
Sua madre lo guardò con occhi tristi mentre si alzava dal suo posto e s’indirizzava verso la porta con sguardo vuoto e sconsolato.
Si sentiva impotente e sola in quei momenti. Cos’avrebbe potuto fare per suo figlio?
Cos’avrebbe potuto fare per fargli sentire meno la mancanza del padre?
“Fammi indovinare…” iniziò Kageyama soffermandosi sulla soglia della cucina.
“Prossima settimana?” Chiese con scherno. Il sorriso più triste che avesse mai visto si dipinse sulle labbra di suo figlio mentre pronunciava le solite parole con cui suo marito li salutava sempre quando chiamava a casa.
Trattenendo le lacrime, annuì e vide il ragazzo allontanarsi e dirigersi verso la sua camera.
Solo quando sentì la porta chiudersi, liberò le lacrime che a stento riusciva ancora a trattenere.

Kageyama si infilò pigramente sotto alle coperte. Il viso sconsolato e senza aspettative era divenuto la consuetudine ormai per lui ogni sera.
Mise il cellulare sotto carica sul comodino e gettò l’occhio alla casella dei messaggi.
In quel momento in cui si sentiva più solo che mai, persino Hinata gli voltava le spalle.

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Capitolo 5
*** 4. Piume ***


•         Piume 
 
 






Il mattino seguente, Kageyama fu svegliato dai raggi del sole che filtravano dalla finestra ben prima che la sveglia suonasse. Pigramente si stropicciò gli occhi e si mise seduto sul letto.
La giornata era già iniziata con il piede sbagliato.
Un leggero mal di testa aveva appena iniziato a torturarlo, succedeva sempre così quando suo padre non tornava e lui riceveva la notizia da sua madre.
Niente per cui valesse la pena perdere il sonno, tuttavia a forza di reprimere quella rabbia e quel senso di abbandono che ormai si portava dietro da anni, aveva preso la spiacevole abitudine di svegliarsi con un mal di testa appena alla base del collo che si sarebbe trasportato per tutto il giorno.
Gettò un’occhiata allo schermo del cellulare. La batteria era carica, la sveglia sarebbe suonata fra meno di tre minuti, ma Hinata non gli aveva ancora risposto al messaggio.
Una smorfia di disapprovazione gli si dipinse sul viso.
Non gli piaceva che Hinata lo ignorasse a quella maniera, non gli piaceva non averlo intorno ad infastidirlo per tutto il tempo come ormai si era abituato ad avere.
Era strano… insolito.
Non che tutti i giorni si messaggiassero con regolarità per chissà quante ore, ma solitamente almeno un sms dopo che si erano congedati dopo gli allenamenti se lo scambiavano.
Niente di trascendentale, per lo più erano offese scherzose che Kageyama aveva sempre classificato come una seccatura inutile e gratuita non richiesta.
Adesso però quel silenzio iniziava a pesargli e non poco.
Certo, l’ultima volta che si erano visti non si erano propriamente lasciati in buoni rapporti. Kageyama aveva praticamente perso le staffe incazzato com’era e lo aveva spintonato al muro senza troppa gentilezza. Poi aveva girato i tacchi incurante di avergli fatto male o meno e aveva tirato dritto verso l’infermeria affinché gli visitassero il polso.
In pratica aveva tenuto un comportamento pressoché di merda e ora si aspettava pure che Hinata lo considerasse come se niente fosse.
Non sapeva neppure se ce l’aveva con lui o meno… non gli aveva chiesto niente, nemmeno lo aveva cercato una volta uscito dall’infermeria, semplicemente aveva tirato dritto accompagnato dalla sua rabbia accecante.
Dopotutto era colpa di quel nanerottolo se non poteva allenarsi. Era colpa sua e di quel suo bisogno spasmodico di prendere ogni palla che venisse ributtata nel loro campo.
Lo sguardo gli cadde sulla fasciatura del suo polso. Andava cambiata e probabilmente avrebbe dovuto indossare un tutore per tenere il polso fermo il più possibile.
Tutto per colpa di Hinata che neppure si preoccupava di sapere come stesse.
Fanculo. La giornata era iniziata davvero male.
Scese dal letto come una furia e si diresse in bagno per una doccia veloce. Dalla cucina, la voce di sua madre che canticchiava l’ennesima canzone pop del momento gli arrivò forte e chiara sul suo sistema nervoso.
Si lavò velocemente, indossò la divisa scolastica e scese per fare colazione.
Sua madre aveva abbondato quella mattina, preparandogli un sacco di pietanze e il bento completo di tamagoyaki.
Si sedette al tavolo e attese che sua madre prendesse posto dopo che gli aveva rifilato il bento stracolmo di cibo sotto al naso.
“A cosa devo tanto impegno?” chiese scettico iniziando a piluccare un po’ di riso.
“Non posso fare qualcosa per mio figlio?” chiese retoricamente la donna, sorridendo con aria fintamente innocente.
Come se Kgeyama non la conoscesse affatto… e un po’ le fece quasi tenerezza. Davvero quell’adolescente mai cresciuta credeva di farla franca con suo figlio?
La conosceva da tutta la vita e sapeva bene che quando doveva dargli una notizia poco gradita, prima lo coccolava con attenzioni e premure e poi gli dava la mazzata.
“Di solito mi dici anche qualcosa che non mi piacerebbe sentire quando fai qualcosa per me.” Gettò lì Kgeyama, guardandola di sottecchi mentre continuava a mangiare.
Sua madre sorrise colpevole e sviò lo sguardo velocemente. Troppo velocemente per i suoi gusti.
“Sai, tuo padre mi ha scritto un messaggio stamattina presto chiedendo se volevamo raggiungerlo noi in Scandinavia.”
Appunto. Quella giornata si stava pian piano trasformando in un vero e proprio inferno.
Kageyama fu attraversato da un variopinto arcobaleno di sentimenti, ma tutti al suo passaggio non lasciarono alcuna sensazione positiva dentro di lui.
Dapprima c’era stato un sentimento di forte impazienza e voglia di rivedere quel genitore che da anni ormai non si palesava più a casa loro. Se non fosse stato per le foto che mandava – e che sua madre aveva appeso alle mura un po’ ovunque – neppure si ricordava la sua faccia.
Poi c’era stata la rabbia. Ma quella vera. Quella che gli aveva fatto sbattere la ciotola del riso sul tavolo e lanciare le bacchette a terra.
Fanculo!
Quell’uomo a stento si ricordava di avere una famiglia dall’altra parte del mondo e ora gli chiedeva di raggiungerlo?!
Per condividere cosa di preciso insieme? Una bella vacanza dove lui e sua madre sarebbero stati per i fatti loro mentre lui sarebbe andato in esplorazione con i colleghi?
“Che vada al diavolo quello stronzo!” non si era risparmiato. Aveva gettato fuori quello che pensava con un’unica forte espressione che era arrivata forte e chiara alle orecchie di sua madre.
“Tobio, non ti permettere-…”
“Cosa?! Di dire la verità?” la interruppe bruscamente spalancando le braccia con enfasi ed esasperazione.
“Non ho intenzione di raggiungerlo dall’altra parte del mondo solo perché te lo ha chiesto! Quante volte gli ho chiesto io di tornare e non è mai tornato?”
“è diverso, lui sta lavorando!”
“Non gli ho chiesto io di lasciarci qui da soli!”
Lo schiaffo di sua madre gli arrivò forte e chiaro. Lo fece ammutolire all’istante, ma la rabbia ancora gli ribolliva nelle vene alimentando tutto il suo essere.
La guardò con occhi di fuoco. Riversò in quello sguardo tutto il rancore che sentiva nei confronti suoi e di suo padre, tutto quello che aveva accumulato nel corso di anni e anni di assenze e ritardi.
Sua madre trasalì, ma mantenne il punto fermo.
“Sei in punizione. Dopo la scuola filerai dritto a casa a fare i compiti per un mese.” Sibilò con calma. Come la lama che lenta fende la carne.
Forse una ferita gli avrebbe fatto meno male dopotutto. Credeva che lui e sua madre fossero una squadra, credeva che lei fosse dalla sua parte, credeva che lei stesse male quanto lui quando suo padre tirava loro l’ennesimo bidone.
Kageyama si alzò dal suo posto in silenzio e si diresse nella sua stanza per prendere la tracolla con i libri ed il cellulare ancora abbandonato sul comodino.
Uscì di casa nel più totale silenzio.
Lasciò il bento sul tavolo.
Non salutò sua madre e lei non lo salutò.
Camminò spedito per circa metà strada. La rabbia aveva lasciato il posto ad un senso di abbandono e tradimento che mal sopportava sentire.
Ma dopotutto la sua vita non era fatta di abbandoni costanti?
Prima suo padre, poi la squadra delle medie e infine Hinata.
“fanculo.” Ringhiò fra i denti cercando di trattenere le lacrime che premevano per uscire fuori.
Non sopportava sentirsi così, non sopportava quei sentimenti che non lo facevano ragionare con lucidità, ma che, anzi, gli occupavano gran parte dei pensieri e gli sconvolgevano l’animo.
Tirò su con il naso e alzò lo sguardo al cielo terso. Le nuvole scure preannunciavano pioggia, ma gliene fregava poco e niente in fondo.
Il classico dolore sordo allo stomaco non tardò ad arrivare. Funzionava così: il suo corpo incamerava il dolore e glielo restituiva con dei forti mal di pancia o, talvolta, mal di testa.
Era frustrante tutto ciò. Già stava male emotivamente, la rabbia guidava i suoi passi e in più ci si mettevano pure quei piccoli malori psicosomatici.
Non riusciva davvero ad immaginare una giornata peggiore di quella.
Giunse davanti alla scuola che nemmeno se ne era accorto. I piedi lo avevano guidato mentre la sua mente era presa ad arrovellarsi in mille e più modi.
Si fermò al centro del cortile guardando il grande orologio che segnava l’imminente inizio delle lezioni.
Gli studenti intorno a lui si affrettavano ad entrare veloci per non prendersi una punizione per il ritardo. Li guardò senza vederli davvero.
Sembravano un po’ preoccupati, alcuni ridevano con gli amici, altri tenevano il libro aperto mentre, camminando, ripetevano la lezione del giorno come fosse una preghiera.
Era come se lui non fosse realmente lì. Come se non appartenesse a quella scolaresca e ci si fosse ritrovato per caso.
Si sentiva un vero e proprio estraneo. Un intruso. Guardava i suoi coetanei come se fossero la cosa più distante al mondo da lui.
La campana suonò infine.
Gli studenti erano tutti entrati, solo lui era rimasto nel cortile a guardarsi intorno.
C’era voluto il suono della campana per farlo destare e fargli capire che stava facendo la figura del deficiente.
Guardò il grande orologio un’ultima volta.
Le lezioni erano appena iniziate.
“Fanculo.” Sibilò fra i denti sprezzante prima di girare i tacchi ed uscire dal cortile.
 
Non aveva mai marinato la scuola, quella era la prima volta in assoluto.
Non che fosse uno studente particolarmente volenteroso, semplicemente andava a scuola per poter frequentare il club di pallavolo.
Ma adesso che non aveva più neppure quello, cosa ci andava a fare?
In più, quel gesto ribelle e sconsiderato, aveva assunto tutto un altro sapore quando aveva pensato a sua madre.
Era stupido, sciocco e infantile, ma sentiva come se avesse appena compiuto una piccola vendetta nei suoi confronti. E questo aiutò a farlo stare irrazionalmente meglio.
Sapeva di aver appena agito come un marmocchio di pochi anni che fa le bizze, ma gli importava poco e niente onestamente.
Gli sarebbe piaciuto se marinare la scuola fosse servito anche per risollevargli il morale anche per quanto riguardava suo padre e quella proposta del cazzo.
Ma sapeva che non gliene importava niente e quindi, anche quella piccola bravata, gli sarebbe scivolata a dosso come l’olio sull’acqua.
La verità era che a suo padre non gli era mai importato particolarmente del suo rendimento scolastico o di lui in generale.
Non aveva fatto una piega neppure quando sua madre, tutta contenta, gli raccontò di come fosse bravissimo a giocare a pallavolo e di come avesse vinto innumerevoli partite. O di come avesse ottenuto lodi e riconoscimenti per il suo talento nonostante la giovane età.
Si era reso conto, con il tempo, che lui e sua madre altro non erano che il perfetto contorno per suo padre: il grande archeologo.
Cos’altro sarebbe stato meglio per lui se non una bella famigliola oltre oceano con cui infiocchettare il quadretto dell’uomo perfetto che aveva dipinto?
E Kageyama non aveva mai accettato di buon grado il fatto di essere trattato dal suo stesso padre come un mero soprammobile da sfoggiare nelle giuste occasioni e poi riporre nell’armadio fino a data da destinarsi.
Sibilò un’altra imprecazione fra i denti e guardò il cellulare.
Erano appena le nove e non aveva idea di dove poter andare a perdere il suo tempo. Il cielo prometteva acqua da un momento all’altro e di Hinata nemmeno l’ombra di una risposta stracciata.
Forse era tutto il trambusto di quella mattina, forse era già incazzato nero dalla sera precedente e essere ignorato ancora da lui lo aveva fatto dare di matto più del necessario. Poi quel senso di solitudine costante che non lo aveva abbandonato un secondo e in men che non si dica era già sulla strada verso casa di Hinata.
Gli sarebbe piombato lì con una scusa del cazzo e lui se lo sarebbe fatto andare bene.
Fanculo. Fanculo a tutto!
Non poteva continuare ad evitarlo, Kageyama non glielo avrebbe permesso.
Era arrabbiato con lui? Bene, gli stava per dare l’occasione di sfogarsi e prenderlo a male parole.
 
Il viaggio verso casa di Hinata fu più veloce del giorno precedente. Stavolta non aveva dovuto cercare sui campanelli di ogni edificio il suo cognome e, anzi, era andato dritto e spedito come se avesse avuto il diavolo alle calcagna.
La pioggia che minacciava di inondarlo aveva resistito quasi per tutti il tempo. Solo quando aveva finalmente intravisto la casa del compagno di squadra, i tuoni si erano fatti più grossi e rimbombanti.
Suonò al campanello con una certa ansia a scombussolargli le viscere. Non aveva pensato ad una scusa da rifilare alla madre di Hinata… quasi mezz’ora di tragitto e non aveva fatto altro che pensare ai cavoli suoi e non ad elaborare un piano che reggesse anche soltanto in apparenza alle domande che sicuramente la donna gli avrebbe posto.
Prima fra tutte, perché non era a scuola per esempio.
Non riuscì a pensare a niente di soddisfacente neppure quando sentì dei passi dall’altra parte della porta avvicinarsi a lui.
Sentiva come un vuoto allo stomaco, una specie di respiro mozzato che lo faceva stare talmente male da impedirgli di ragionare con lucidità. Mentalmente ringraziò i suoi genitori per quel dolce e premuroso regalo mattutino.
La serratura scattò dall’interno.
Kageyama trattenne il respiro pronto ad affrontare la madre di Hinata, ma quando la porta si aprì leggermente, un ciuffetto di capelli color carota fece timidamente capolino dal piccolo spiraglio.
Abbassò lo sguardo stupito, tuffando gli occhi in quelli del suo compagno di squadra che lo fissava stralunato.
“K-Kageyama?! C-Cosa ci fai qui?” gracchiò Hinata facendo per chiudere maggiormente la porta, ma il moro frappose il piede impedendogli di compiere quel gesto.
“Perché mi ignori? Ti ho scritto ieri e non mi hai degnato di nessuna risposta!” lo aggredì Kageyama spingendosi in avanti, verso di lui, per poterlo affrontare davvero e magari riversare su di lui inconsciamente tutta la rabbia che aveva accumulato da quando si era svegliato.
Solo in quel momento però, l’occhio gli cadde sul torace scoperto e nudo del rosso. La mente ricordò all’istante le parole del professor Takeda con cui lo ammoniva di non avvicinarsi troppo perché Hinata era molto malato.
Digrignò i denti appena realizzò di essere stato preso in giro. Quale malato se ne va a giro per la casa a petto nudo e con soltanto un paio di pantaloncini a coprirlo in pieno autunno?
“Non l’ho letto, mi spiace…” bofonchiò Hinata cercando di chiuderlo fuori senza esporsi troppo, ma il compagno di squadra adesso spingeva pure con le mani sulla porta per tenerla aperta e la differenza di forza fra i due era notevole purtroppo.
“Non prendermi per il culo ancora! Lo so che non sei malato, il professore ti ha coperto e voglio sapere perché!” gli urlò contro con astio. Forse caricandosi la voce con tutto quel cumulo di sentimenti repressi che ingoiava e nascondeva da anni.
Forse non aveva nemmeno alcun diritto di trattarlo in quel modo e sfogarsi con lui come se fosse un pungiball.
Forse stava soltanto cercando una vittima con cui sfogarsi e riversargli addosso tutto quello che ancora non era riuscito a urlare ai suoi genitori. E dopotutto Hinata era la causa di una delle sue disgrazie.
Strinse i denti, ignorò la fitta lancinante al polso che lo fece gemere di dolore e spinse la porta aprendola del tutto.
Hinata rovinò a terra, sbatté la schiena e gridò il suo dolore per essere atterrato proprio sulle sue ali malandate.
Kageyama restò invece pietrificato sulla soglia, osservando le ali corvine che uscivano dalle scapole del rosso e quel tripudio di piume sparse sul pavimento.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** 5. Piccolo corvo ***



5.      Piccolo corvo.







"Non dare di matto!” Gli aveva berciato Hinata contro. Sul viso una smorfia di preoccupazione e qualche lacrima a rigargli le guance. Lo sguardo gli cadde sulla porta spalancata.
Fuori non c’era nessuno quella mattina, ma qualcuno avrebbe potuto vederlo.
Vedere le piume.
Le sue ali.
Scattò in piedi facendo sussultare il moro. Una fitta di dolore all’ala ingiuriata lo fece gemere.
“C-cos..?!” Balbettò Kageyama sconvolto, sobbalzando indietro appena se lo vide venire incontro sparato come un treno.
Le ali corvine dalle lunghe piume guizzarono improvvise e una di queste gli sfiorò il braccio.
Quindi erano vere. Non se le stava immaginando!
Quelle erano ali?
Ali corvine?
Sbatté gli occhi due o tre volte. Le ali erano ancora al loro posto e le piume a terra pure.
Stava sognando, vero?
Non era possibile una cosa del genere…
Hinata corse a chiudere la porta lasciata aperta fino a quel momento, mentre Kageyama rabbrividì appena il compagno di squadra gli si accostò vicino.
Erano ali!
Ali vere!
Si spalmò contro il muro terrorizzato.
“Che cazzo…?!” Berciò spaventato.
La testa completamente nel panico e il cuore a corrergli nel petto.
Si aspettava di vederlo moribondo per la febbre, grondante muco da ogni poro o che ne sapeva! Ma sicuramente non avrebbe mai pensato a delle ali!
“Sono io, Shoyo Hinata…” provò il rosso con voce calma e melodiosa.
Ormai il danno era fatto, Kageyama aveva scoperto il suo segreto. Fingere non serviva a niente.
Almeno poteva provare a parlarci e cercare di farlo calmare.
Di questo passo, se avesse continuato ad urlare impazzito, sicuramente avrebbe attirato l’attenzione di quei pochi vicini che si ritrovava.
Gli si avvicinò leggermente, con piccoli passi e cercando di non spaventarlo ulteriormente.
“Stai tranquillo, non voglio farti del male se tu non ne farai a me.” Ripeteva continuamente, come una litania noiosa ma rassicurante.
Ed era vero. Non voleva e non poteva fargli del male. Era già ferito all’ala e ad ogni movimento inaspettato questa lo faceva sobbalzare dal dolore.
Kageyama però si schiacciò maggiormente contro al muro alzando le braccia come a volersi arrendere, continuando a farneticare in continuo cose senza senso.
“Guarda che non ti voglio sparare, cretino.” Lo canzonò Shoyo ridendo divertito. Non l’aveva mai visto così spaventato. Era estremamente divertente vedere il Re del campo contro il muro che lo pregava di non mangiarlo.
Kageyama lo guardò male per un secondo. In quel secondo Hinata riconobbe il solito Kageyama di sempre che amava prendere in giro.
Forse c’era una possibilità dopotutto.
“Ti manderei a fanculo se solo dopo tu non mi mangiassi il fegato!” Borbottò piano. Hinata lo sentì ugualmente e scoppiò a ridere di gusto, gemendo in seguito per via dei sussulti alle ali.
Dunque era così che avrebbero sistemato le cose e dissipato quel momento di tensione?
Si sarebbero presi in giro e avrebbero continuato i loro soliti battibecchi finché questi non li avrebbero trascinati nella normalità?
Perfetto! Hinata non chiedeva altro.
“Non ho intenzione di farti del male, Kageyama.” Lo rassicurò sorridendo amichevole.
“Anche perché la tua carnaccia marcia mi farebbe schifo!” E poi Lo canzonò con una pernacchia annessa. Il moro lo guardò storto e imbronciò le labbra come quando non sapeva come controbattere, ma non gli piaceva dover tacere.
Abbassò le braccia, ma non si mosse dal muro di mezzo millimetro. Mantenne comunque una sorta di distanza fra loro e non oso neppure per sbaglio guardare le ali.
Santi numi del cielo, gli facevano venire la pelle d’oca!
“Come posso esserne sicuro?” Chiese scettico, guardandolo storto come se stesse cercando di studiarlo.
E in effetti era proprio così. Quella cosa somigliava in tutto e per tutto a Hinata, ma con le ali!
Come poteva essere certo che non lo avrebbe mangiato vivo?
Cos’era poi?
Un demone?
Un mostro?
Di quante persone si nutriva al giorno?
Come era arrivato a Sendai?
Hinata gonfiò le guance stufo e incrociò le braccia al petto.
“Tanto ormai sai il mio segreto, che senso avrebbe farti del male adesso?”
“Per impedirmi di parlare, ovvio!”
“Ma guardati! Sei due volte me e in più ho ancora l’ala malandata per colpa tua, come potrei farti del male?” Sbottò stanco incamminandosi verso il piccolo e scarno salotto.
Kageyama lo seguì con lo sguardo finché non lo vide girare e cambiare stanza.
“Quando avrai finito di fare lo scemo attaccato al muro, ti preparo un the così parliamo.”  La voce di Hinata un po’ scocciato lo raggiunse dall’altra stanza.
Kageyama bofonchiò qualcosa contrariato. Non gli piaceva essere trattato così, tantomeno da Hinata!
Però era indubbio che questo loro modo di stuzzicarsi e deridersi a vicenda, lo aveva aiutato a sentirsi piano piano sempre più a suo agio.
Da lì a dire che stava bene ce ne sarebbe voluto! Ma almeno era un gradino sotto alla crisi di panico di poco prima.
Ci vollero diversi minuti prima che Kageyama si convincesse che Hinata fosse realmente inoffensivo.
In tutto e per tutto era il suo insopportabile compagno di squadra con l’aggiunta in più delle ali, ma c’era comunque voluta un’osservazione intensiva in cui lo aveva seguito e tenuto d’occhio per un sacco di tempo, sobbalzando ogni volta che si voltava.
Ufficialmente si era persino quasi convinto che non fosse un demone divoratore di persone.
Piano piano aveva disteso i nervi e si era convinto a cercare un dialogo con Hinata.
Così, dopo quasi un’ora di tentennamenti vari, Kageyama si era lasciato convincere e si era seduto al piccolo tavolo tradizionale che svettava in soggiorno.
Aveva osservato Hinata con attenzione mentre gli versava il the e non era riuscito a staccare gli occhi dalle sue ali scure nemmeno per un momento.
Aveva le piume lunghe e lucide, di un nero talmente intenso che a momenti sembrava cangiante sul blu.
Le ali non erano molto grandi però, a stento gli rivavano fino alla vita e il piumaggio copriva solo le scapole e un pochino le spalle.
Una aveva del sangue raffermo in mezzo alle piume scure, proprio sulla sommità dove l’ala si piegava.
Gli tornarono in mente le parole di Hinata in cui lo accusava di averlo ferito. Si sentì in colpa.
Non ricordava neppure come fosse successo… forse aprendo la porta con così tanta enfasi lo aveva spinto a terra e lo aveva ferito in quel modo.
O forse quando lo aveva spintonato al muro qualche giorno prima, quando lui invece si era premurato di accompagnarlo in infermeria.
Avrebbe dovuto scusarsi. Si erano feriti a vicenda, però Hinata si era preoccupato per lui almeno. Quantomeno aveva avuto la decenza di interessarsi alla sua lesione.
Lo guardò mentre prendeva posto dinanzi a lui. Con il tavolo a dividerli si sentiva più sicuro.
Almeno le ali erano lontane da lui il più possibile! Anche vederle lo faceva rabbrividire!
Non doveva essere stato difficile per lui nasconderle per tutto quel tempo.
Bastava una maglia un po’ più larga e magari un po’ di attenzione e il gioco era fatto.
Infatti, proprio a pensarci bene, Kageyama poteva giurare di non averlo mai visto con dei vestiti aderenti o della taglia giusta per lui. Anche la divisa della squadra l’aveva chiesta più grande. Ricordava che si era giustificato tirando in ballo la questione della comodità e della libertà nei movimenti.
Lui invece lo aveva preso in giro dicendogli che in realtà fosse nella vana speranza di crescere un po’ di più.
Ovviamente dopo si erano picchiati e Daichi li aveva puniti facendogli pulire la palestra e riordinare i palloni.
Ma a pensarci bene, non aveva mai pensato che Hinata potesse nascondere qualcosa sulla schiena.
Non ci aveva fatto caso sicuramente, non era mica che si mettesse a guardare la schiena dei suoi compagni in campo! Aveva altro a cui pensare come per esempio alzare la palla.
Forse proprio per questo nessuno si era accorto di niente…
Nessuno aveva mai messo in dubbio la non umanità di Hinata.
Perché farlo dopotutto?
Chi mai avrebbe immaginato che possedesse in realtà delle ali nere come quelle di un corvo!
Hinata gli si sedette di fronte e sorseggiò il suo the soffiandoci prima sopra.
Kageyama lo imitò senza staccare gli occhi da lui.
Visto frontalmente, da quella posizione, neppure riusciva a scorgere le ali. Era come chiacchiere con il suo compagno di squadra.
Almeno era quello di cui volle convincersi.
“Chiedimi quello che vuoi.” Aveva esordito infine il rosso, sorridendogli sincero e con affetto.
Kageyama si sentì un verme. Aveva pensato che fosse un mostro orribile, invece era il solito Hinata di sempre.
“Mi dispiace di averti ferito…” iniziò incassando la testa fra le spalle e sviando lo sguardo subito dopo.
Hinata gli sorrise grato.
“Anche a me dispiace di averti fatto male. A proposito, come sta il polso?”
“Devo tenerlo a riposo, quindi niente club.” Rispose guardandosi l’arto fasciato in causa.
Aveva così tante domande in testa, ma la voce pareva non volergli uscire fuori.
“E la tua ala invece?” Osò chiedere sbirciandolo furtivamente.
Hinata si rattristì ed abbassò lo sguardo.
“È rotta… ho bisogno di un po’ di tempo per guarire, quindi non tornerò a scuola tanto presto.” Confessò infine e Kageyama non poté che sentirsi ancora di più un verme.
“I-io…” non lo sapevo
Mi dispiace
Posso fare qualcosa?
“Tranquillo, so che non l’hai fatto di proposito.” Gli sorrise e Kageyama sentì il petto leggero.
Hinata era così dolce con lui che nemmeno se lo meritava quel trattamento.
Si sentì un verme ancora di più.
Annuì serio e sorseggiò ancora il suo the.
“Vuoi sapere delle ali?” Lo imboccò Hinata, conscio del fatto che Tobio non l’avrebbe chiesto mai da solo.
Un po’ riusciva a capirlo dopotutto. Non doveva essere facile scoprire delle ali sulla schiena di una persona che si frequenta ogni giorno in amicizia.
Si sentiva un po’ in colpa. Da un certo punto di vista, non era stato poi così sincero con Kageyama nonostante l’amichevole rivalità che intercorreva tra loro.
Non sapeva se Kageyama gli avesse o meno nascosto qualcosa sul suo conto, ma sicuramente non si trattava di qualcosa di sconvolgente come un paio di ali.
“Va bene.” Annuì ancora il moro e poggiò la tazza di the sul tavolo pronto per ascoltare. Una strana impazienza gli contorse le viscere.
Era curioso. Era spaventato. Ma anche attratto.
Non sapeva nemmeno lui cosa stesse provando in quel momento, ma certamente la paura di poco prima era dissipata.
“Non sono umano, come avrai capito…” iniziò Hinata guardandolo di sottecchi.
Kageyama alzò le sopracciglia in attesa e si rigirò fra le mani la tazzina di the.
“Cosa sei?” Chiese il moro con una certa ansia. Forse apprensione. Curiosità.
“Appartengo ad una specie diversa. Siamo pochi rispetto a voi umani, ma esistiamo da altrettanto tempo.
Qui in Giappone ci chiamate Tengu, ma in altri paesi siamo conosciuti con altri nomi. Nell’antichità ci avete scambiato per Dei o demoni e ci avete persino combattuto per alcuni anni.” Spiegò Hinata cercando di essere più chiaro possibile.
Sorseggiò ancora la sua bevanda e infine poggiò la tazza vuota sul tavolo.
“L’esistenza della mia specie è un segreto e dovrebbe restare tale… non so se mi spiego…” Azzardò infine, schiarendosi la voce.
Kageyama annuì cercando di assimilare quelle parole, mentre altre domande si affacciavano alla sua mente.
“Perché è un segreto?” Chiese ancora.
Hinata abbassò lo sguardo sul legno ruvido, seguì una venatura più marcata delle altre con le dita e sospirò un po’ a disagio nell’affrontare quell’argomento così complicato per lui.
Kageyama se ne accorse, ma non ritirò la domanda.
“È il nostro meccanismo di difesa: se gli umani non pensano che esistiamo, non ci danno la caccia.” Spiegò brevemente un po’ troppo frettoloso, ma Kageyama si accontentò di quella risposta.
“Ma vivete in mezzo a noi? Qui a Sendai?” Chiese ancora e Hinata negò con la testa.
“Dopo le ultime guerre, i capi tribù hanno stabilito regole ferree che vietano severamente ogni contatto con gli umani.”
“Perché sei qui allora?”
Gli occhi di Hinata si illuminarono di luce propria ed un sorriso sfavillante gli disegnò le labbra.
“Per la pallavolo.” Confessò arrossendo leggermente.
“Sono sempre stato curioso delle cose del vostro mondo e quando ho conosciuto questo sport, me ne sono innamorato al punto che ho chiesto di poter studiare alla Karasuno e imparare a giocare.”
“Perché proprio qui a Sendai?” Chiese ancora, ma Hinata sobbalzò come punto sul vivo.
“È complicato da spiegare…” sviò il discorso e si versò un altro sorso di the lasciando cadere l’argomento.
Kageyama lo imitò ancora una volta e rimase in silenzio in attesa che il rosso continuasse.
“Puoi chiedermi altro se vuoi.” Propose tornando a sorridergli sereno. Kageyama ghignò divertito.
“Di cosa vi cibate?” Chiese a bruciapelo, ma Hinata percepì la presa in giro ad un chilometro di distanza.
“Non di carne umana se è quello che ti preoccupa!”
“Non mi preoccupo! Mi sarei difeso a dovere e ti avrei messo in fuga!”
“Sì certo, come no!”
La tensione si sciolse pian piano, parola dopo parola, presa in giro dopo presa in giro.
Kageyama riconobbe finalmente Hinata, le sue idiozie e il suo modo di fare e questo lo aiutò a lasciarsi andare.
“La scuola invece?” Chiese Kageyama ancora, incentivando il rosso a parlargli delle sue origini con mille e più domande.
Pendeva letteralmente dalle labbra sorridenti di Hinata che pareva ben contento di metterlo al corrente di quella sua parte di vita.
“La scuola è come la vostra, più o meno.” Ci pensò su il rosso, portandosi un dito sul mento completamente assorto.
“Non abbiamo molte classi perché ci sono pochi bambini e delle volte gli studenti più grandi tengono delle lezioni ai più piccoli. I capi pensano che sia più facile conoscersi e fare amicizia con i membri della propria tribù, ma è solo più imbarazzante.” Spiegò ridendo leggermente e Kageyama si riempì lo sguardo di quel sorriso sereno e felice che gli era mancato da morire.
Non lo avrebbe ammesso mai ad alta voce, ma se era lì quel giorno, se si era trascinato in quella campagna sperduta anche il giorno prima, era solo per Hinata e quanto gli mancasse passare il tempo con lui.
Non che fossero grandi amici o cose così. Anzi, i primi tempi si odiavano proprio e non ne facevano mistero.
Con il tempo, grazie alla pallavolo, si era creata una carta intesa fra loro che poi era sfociata in una sorta di pacifica convivenza.
Stavano bene insieme. Riuscivano a trovare il tempo di allenarsi il più possibile anche da soli e questo, più che un dovere, era scoperto essere un piacevole modo per impiegare il tempo.
Non parlavano mai della loro vita privata, delle loro famiglie o questioni più serie. Le loro conversazioni vertevano sempre intorno allo sport, alla pallavolo e alla squadra, donandogli la leggerezza e la spensieratezza di cui avevano entrambi bisogno.
Il loro era un rapporto che era mutato velocemente con il tempo senza che nemmeno se ne accorgessero.
Si erano trovati bene l’uno con l’altro e quando Hinata era sparito, Kageyama aveva compreso quanto importante per lui fosse quel rapporto.
Quanto gli riempisse la giornata e la mente, svuotandola da altre questioni più ostiche.
“È un po’ come se i senpai del club ci facessero lezione. Ce li vedresti?” Rise Hinata, stavolta.
Kageyama si unì a lui con un sorriso.
No, in effetti non ce li vedeva proprio quelli del terzo anno a fare lezione ai primini. Immaginò per un secondo i senpai Tanaka e Nishinoya tenere una qualsiasi lezione… in effetti sarebbe stata un vero delirio!
Concordava con lui, sarebbe stato solo molto imbarazzante. E spaventoso. Non osava immaginare Daichi a tenere buona una classe scalmanata.
 “Non avete qualche sport? Una specie di pallavolo volante o che so io?” Chiese più per cambiare argomento.
Hinata gli sorrise un po’ a disagio e Kageyama notò subito quella sua espressione strana sul viso e non riusciva a capirne il motivo.
“No, non ne abbiamo… o meglio, è complicato anche questo da spiegare.” Si arrovellò intorno alle parole grattandosi la testa come a volersi concentrare.
Il fatto era che voleva davvero condividere la sua cultura con Kageyama, ma c’erano cose difficili da spiegare per qualcuno che non era della sua gente.
Tante tradizioni arcaiche, tante regole e tanti doveri da rispettare che per un umano possono non avere molto senso.
Il problema però era che si sentiva tremendamente esposto.
Stava letteralmente condividendo con lui la parte più intima di sé stesso: le sue origini. Un segreto che stava custodendo da talmente tanto tempo che ormai era diventato parte di sé.
E neppure era certo che Kageyama stesse realmente comprendendo la profondità di quel momento.
Forse non si era neppure accorto di quanto bene gli stesse facendo lasciandolo parlare di sé. Poter finalmente parlare chiaro a qualcuno, non doversi più nascondere piegando le ali sulla schiena per farle più piatte in modo che non si vedessero dalla maglietta.
Era così bello, così liberatorio poter finalmente essere il vero sé stesso che a stento riusciva a nascondere quel sorriso raggiante sulle labbra.
“Perché?” Chiese Kageyama curioso, accomodandosi meglio con la testa sul tavolo.
“Ecco… ci sono solo le gare di volo che possono essere considerate uno sport, ma in realtà non lo sono veramente… è complicato da spiegare, lascia perdere!” Sbottò infine Hinata alzando le mani come per arrendersi.
Non poteva affrontare quell’argomento con così tanta leggerezza. Quello stesso argomento che lo aveva portato lontano da casa sua.
Quello stesso argomento che aveva portato suo fratello a fuggire dal monte sacro.
Era complicato. Davvero.
Amava la sua gente e amava il villaggio, ma c’erano cose difficili da digerire. La società arcaica, retrograda e bigotta che opprimeva i giovani corvi per esempio.
Molti di loro erano stati costretti alla fuga. Altri avevano preferito chinare la testa e lasciarsi soggiogare.
“Prova a spiegare!” Insistette Kageyama confuso. Fino a poco fa Hinata non faceva altro che parlare e parlare della sua casa, della sua vita e della sua gente. Perché quello sport era divenuto improvvisamente un tabù?
“Non capiresti!” Si arrabbiò. Forse si offese. Forse semplicemente si sentiva soffocare e aveva bisogno di non essere messo alla gogna e pressato.
Si alzò di scatto prendendo dal tavolo le tazze ormai vuote e la teiera.
Si diresse a grandi falcate in cucina e mollò il tutto nell’acquaio.
Ma che stava facendo?
Non doveva aprirsi con lui?
“Stai dicendo che sono stupido?” La voce di Kageyama lo raggiunse alle spalle. Hinata si voltò di scatto.
Sembrava arrabbiato. Forse offeso.
“Sei molto stupido.” Lo offese. Non sapeva nemmeno perché, ma aveva bisogno di tenerlo lontano da quella parte difficile della sua vita.
Kageyama ghignò strafottente e si poggiò con la schiena al muro incrociando le braccia al petto.
“Abbiamo gli stessi voti, quindi sei stupido quanto me.” Gli bisbigliò in risposta, con le labbra imbronciate.
Hinata sbuffò una risatina in risposta e lo guardò divertito.
Le guance un po’ rosse che facevano concorrenza ai suoi capelli spettinati.
Un tuono scosse le mura della casa, facendola vibrare dall’interno.
I due si guardarono preoccupati.
“Sta per venire un temporale.” Notò Hinata e Kageyama concordò.
Si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Le nuvole scure non lasciavano buon presagire.
“Meglio che vada.” Dichiarò il moro infine, tornando in salotto per prendere le sue cose.
Il silenzio e la tensione fra loro si tagliava con il coltello.
Nemmeno i primi giorni di scuola, quando si odiavano e non ne facevano mistero, c’era stata quella tensione. 
“Hai saltato la scuola?” Chiese poi Hinata d’un tratto cambiando discorso. Kageyama annuì serio sospirando.
Con una sola domanda, Hinata aveva scombussolato il suo animo quasi sereno.
Aveva totalmente accantonato la storia dei suoi genitori e tutta la rabbia che si portava appresso quella mattina.
La notizia delle ali di Hinata era stata una piacevole e divertente distrazione.
“Non so se riuscirai a tornare a casa in tempo prima che piova.” Cambiò discorso Hinata, conscio di aver appena toccato un tasto sconveniente.
Non l’aveva mai visto così serio. Pareva quasi sofferente.
Gli dispiacque per lui. Non sapeva cosa era accaduto, ma non voleva che Kageyama stesse così male.
“Se vuoi, puoi restare qui, prometto di non divorarti!” Propose il rosso prendendolo in giro bonariamente e Kageyama gli restituì un ghigno in risposta.
“Grazie, ma non posso. Sono in punizione e appena mia mamma saprà che ho marinato la scuola, chissà per quanto ancora lo sarò.” Si lamentò il moro recuperando lo zaino inutilizzato dal pavimento.
Hinata gli porse un’ombrello che se ne stava abbandonato nell’angolo dell’ingresso.
“Evita di prenderti un raffreddore, saresti così scemo da farlo.” Lo canzonò salutandolo con la mano mentre il moro usciva dal portone mostrandogli il dito medio.
“Ti scrivo stasera, vedi di leggerlo stavolta il messaggio, idiota.” Aggiunse infine, poco prima che la porta di Hinata si richiudesse.
Fece in tempo a vedere il suo sorriso divertito fare capolino poco prima che venisse oscurato dal legno dell’infisso chiuso.
Aprì l’ombrello e s’incamminò verso casa. Aveva appena iniziato a piovere, ma prometteva pioggia per tutto il giorno.
Kageyama allungò il passo. Si sentiva leggero.
Si sentiva bene.
Ripensando al sorriso di Hinata, osava quasi definirsi felice.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 7
*** 6. Sulla strada del ritorno ***


6.      Sulla strada del ritorno.





Come già preannunciato dal cielo plumbeo che quella mattina lo aveva accompagnato, il temporale scrosciò fragrante sulla sua testa zuppandolo da capo a piedi.
L’ombrello che Hinata gli aveva prestato era stato utile quanto un alito di vento per estinguere un incendio: dopo nemmeno venti metri si era ripiegato al contrario facendolo zuppare d’acqua completamente. Kageyama non si era risparmiato in maledizioni e imprecazioni a bassa voce che di fatto non erano servite a niente, ma lo avevano aiutare a sfogarsi un po’.
Non anelava affatto una corsa perdifiato per le vie di Sendai sotto a quel diluvio, ma dinanzi a lui non si prospettarono tante altre alternative in effetti.
Sbuffó annoiato maledicendo la sfortuna che pareva volerlo perseguitare, si mise l’ombrello rotto e inutilizzabile sotto all’ascella ed iniziò a correre come un pazzo.
Si appuntò mentalmente di tirarlo in faccia a Hinata il giorno seguente quando si sarebbero rivisti. Quel dannato ombrello non era servito ad un accidente! Era stato inutile quanto il proprietario.
Arrestò la sua corsa dopo qualche metro quando la potenza del suo pensiero lo colpì dritto come uno schiaffo in faccia.
Si sarebbero rivisti il giorno dopo?
Non lo sapeva, non avevano deciso niente… si erano congedati con la promessa di sentirsi con qualche sms e nulla di più.
Ma lui voleva rivederlo… sotto a quel temporale scosciante, carezzato dagli sguardi curiosi dei passanti, Kageyama realizzò di volerlo rivedere ancora e ancora, di passare del tempo insieme come avevano fatto quella mattina e di sentirlo parlare all’infinito del suo mondo.
Non per la mera curiosità, quella era stata dissipata quasi subito in effetti. Bensì era la pura voglia di passare del tempo con qualcuno che gli sembrasse vero e genuino a smuoverlo.
Sentì lo stomaco accartocciarsi su sé stesso ripensando alle ali di Shoyo. Non gli piacevano poi così tanto… non erano belle, grandi e possenti, ma piccole e timide. Si ripiegavano appena sulla sua schiena quasi come due braccia che lo abbracciavano da dietro. Le piume invece avevano attirato la sua attenzione fin da subito. Erano nere, lisce e lucide. Un nero intenso e oscuro che cangiava quando sul viola e quando sul blu cobalto a seconda della luce che le colpiva. Erano… intriganti.
Se non si muovessero quasi di continuo, Tobio sarebbe stato quasi tentato di toccarle per saggiarne la consistenza. Sembravano piccole lame ed era quasi curioso di scoprire se lo avrebbero ferito o se invece gli avrebbero scaldato il palmo della mano come se l’avesse affondata nel soffice cotone.
Poi ripensò alla sua ala sinistra, dove sulla sommità faceva bella mostra di sé una ferita davvero brutta e quel sangue rappreso che aveva fatto perdere la lucentezza alle piume. Si sentì un verme e niente di meno. Anche se si era scusato, anche se non avesse mai potuto immaginarlo che sulla schiena quel piccoletto potesse nascondere un paio d’ali corvine, sentiva che non era abbastanza.
Si erano feriti a vicenda, sia fisicamente che emotivamente. Almeno, Kageyama aveva fatto di tutto quel pomeriggio a scuola pur di farlo soffrire. Con cognizione di causa. Certo, era arrabbiato da impazzire, furioso per certi versi e quel martellante dolore al polso non faceva che impensierirlo ogni secondo che passavano nel corridoio. Aveva lasciato che fossero i suoi sentimenti a parlare, aveva lasciato la lingua a briglia sciolta e poi aveva affondato il fendente. In quel momento non voleva Hinata intorno a sé perché la sua sola presenza lo infastidiva. Ma adesso, a giorni di distanza, con un polso fasciato per qualche settimana a confronto con un’ala spezzata, il suo carattere burbero non ne reggeva il confronto.
Non voleva fargli del male. Non in quel modo, non così tanto. Lo aveva voluto per qualche secondo quel pomeriggio, non poteva negarlo. Ma era indubbio che adesso se ne stesse pentendo come il più miserabile dei peccatori.
Riprese a camminare che il diluvio altro non era che una fitta pioggerella. Era zuppo dalla testa ai piedi ma gliene importava poco in effetti.
Aveva acquisito una nuova consapevolezza di sé e dei suoi sentimenti. Aveva scoperto un nuovo specchio di essi che non sapeva di possedere. Ed era uno specchio ricco, cromatico, pieno zeppo di colori sfavillanti che si accostavano al buio che da sempre gli era familiare.
Era vero, c’era dolore, rabbia, e senso di colpa, ma scomparivano dinanzi alla sfavillante luce della vera amicizia.
Sentiva di aver trovato qualcosa di completamente a lui in Shoyo. Una creatura così diversa, sia fisicamente che caratterialmente. Così opposta a lui, così solare e luminosa che le sue tenebre rifuggivano da lui e i suoi demoni lo abbandonavano quando era con Shoyo.
Un sorriso tremolante fece capolino sulle sue labbra timide e sempre imbronciate.
Percepì le guance scaldarsi e qualche lacrima formarsi sulle ciglia scure e restarvi impigliata.
Le asciugò lesto con il braccio e filò dritto a casa a testa bassa. Non sapeva perché gli fosse venuta voglia di piangere, ma sapeva che tutto quel turbinio di emozioni nuove che provava erano dovute tutte a Shoyo.
Imboccò il vialetto di casa con il cellulare in mano.
Aprì la casella dei messaggi senza sapere davvero cosa scrivere. Forse il contenuto non era poi così importante… era la voglia di sentirlo ancora, la voglia di azzerare di nuovo quella distanza che si era esaurita quel pomeriggio a muoverlo. Alzò lo sguardo verso il portone di casa sua e sua madre svettava lì davanti minacciosa. Sembrava furiosa come mai l’aveva vista e solo in quel momento si ricordò di aver marinato la scuola. 
“Vieni dentro, non voglio disturbare i vicini.” Sibilò spregevole, con un tono talmente intimidatorio che Tobio si ritrovò a rabbrividire.
Era in guai davvero seri e ci si era ficcato solo per il gusto di poterlo fare e farla incavolare di più. Proprio come un marmocchio infantile. Forse Hinata aveva ragione quando gli diceva che era uno scemo.
Digitò lesto sulla tastiera prima che sua madre lo folgorasse ancora con i suoi occhi ardenti.
 
Il tuo ombrello è una merda.
 
Inviò il messaggio e inserì il silenzioso prima di entrare definitivamente in casa, dove il suo personalissimo inferno lo attendeva.
 
La sfuriata di sua madre fu terribile esattamente quanto aveva preannunciato sulla soglia di casa. Aveva passato venti minuti ad urlargli contro su quanto fosse sconcertata e delusa dal suo comportamento riprovevole. Poi si era dovuto sorbire altri 15 minuti di urla da parte di suo padre via Skype e infine i suoi avevano concordato una punizione estesa fino a data da destinarsi. E considerato che di lì a breve ci sarebbero stati gli esami che sarebbero andati male come sempre, praticamente la punizione era stata estesa ad un simbolico per sempre.
Tobio non proferì parola riguardo al suo comportamento. Dopotutto sua madre aveva ragione: aveva sbagliato a marinare la scuola solo per dispetto.
Quello che lo infiammava e lo infastidiva oltre ogni dire era però il fatto che avesse scomodato persino suo padre per fargli la ramanzina.
Questo era inaccettabile. Quell’uomo non sapeva niente di lui, era certo che a stento ricordasse il suo nome! Come si permetteva di sgridarlo e arrabbiarsi? Per cosa poi? Non era nemmeno in casa per poter dire la sua sul suo comportamento.
Si faceva vivo solo per tirargli i bidoni, rimandare incontri e quando sua madre lo chiamava per essere spalleggiata.
Sdraiato sul suo letto, Tobio portò le braccia dietro alla testa e sospirò cercando di calmarsi.
Non sopportava suo padre, qualsiasi cosa lo riguardasse lo mandava in bestia. Se solo avesse potuto, lo avrebbe cancellato dalla sua vita con un colpo di spugna senza pensarci due volte.
Odiava quella situazione tanto quanto odiava la sua presenza autoritaria in casa anche se non c’era davvero.
E non solo per lui, ma bensì per tutto!
Lui e sua madre dovevano essere una squadra e per la maggior parte delle volte lo erano. Si supportavano e si aiutavano per tirare aventi. C’erano sempre l’uno per l’altra, ma quando lui si rifaceva vivo per rimandare l’ennesimo incontro, ecco che sua madre cambiava squadra e lo abbandonava.
Con questa volta, sembrava schierata completamente dalla parte di quell’uomo che aveva lasciato un fantasma in casa. E Tobio poteva trattenersi quanto volesse, poteva ingoiare quel boccone amaro di rabbia e risentimento con indifferenza, ma non poteva mentire a sé stesso e lasciar correre.
Si sentiva uno schifo e il senso di tradimento e abbandono erano solo la punta di quell’iceberg di brutte emozioni.
Prese il telefono dal comodino al suo fianco solo per controllare l’ora e si stupì non poco di trovarci un messaggio di Hinata.
Drizzò seduto sul letto e si catapultò a leggere con il cuore in gola.
Chiedeva cosa ne era stato del suo ombrello e se stesse bene. Un timido sorriso gli increspò le labbra e quella sensazione di leggerezza che aveva provato con lui quella mattina, tornò a sollevarlo dal malumore.
Possibile che Hinata avesse anche qualche strano potere oltre alle ali?
Digitò la risposta lesto, spiegando di come il suo ombrellaccio maledetto avesse deciso di fare la capoeira e di come aveva dovuto correre sotto l’acquazzone e inzupparsi da capo a piedi.
Inviò sentendo il malumore correre via da lui sempre di più.
Arrivò un altro messaggio di Hinata dove lo scherniva giocosamente  e gli dava dello scemo.
Si sentì quasi felice di sentirsi offendere. Non era mai stato così sereno nel parlare con Hinata e gongolando di sciocchezze varie, le prime cose che gli passavano per la testa, la pallavvolo ovviamente, i suo polso, le sue ali, la sfuriata di sua madre e chi più ne ha più ne metta.
E Tobio scoprì incredibilmente facile aprirsi con Hinata, sfogarsi e parlargli liberamente. Anche se non erano insieme di persona, poco importava. Era un mero filtro il cellulare, solo uno strumento, ma la sensazione di benessere e leggere che Hinata riusciva a trasmettergli era vera e autentica.
Fu costretto ad interrompere quella sequenza infinita di sms solo quando sua madre lo chiamò avvisandolo che la cena era pronta.
Mise il cellulare in carica e salutò Hinata con la promessa di risentirsi più tardi.
Scese in cucina e l’aiutò ad apparecchiare. La donna lo osservò incuriosita dal suo comportamento così leggero e incurante. Si sarebbe aspettata di trovarlo ancora scontroso e irato, invece quello che aveva davanti era un Tobio che rare volte aveva avuto la fortuna di vedere.
Si sedettero a tavola consumando la cena quasi in silenzio: solo le voci provenienti dalla tv riempivano la stanza con un ronzio di sottofondo.
Tobio non si accorse dello sguardo attendo di sua madre con la quale lo andava studiando con discrezione.
“Non avevi mai marinato la scuola prima.” Iniziò la donna testando il terreno e cercando di instaurare un dialogo con suo figlio ora che gli sembrava quantomeno bendisposto.
Lo vide irrigidire la schiena e le spalle all’istante. Le sue sopracciglia si aggrottarono leste e il suo sguardo volò alla televisione posta sul mobile nell’angolo.
Ecco la sua reazione di difesa… fuggiva invece che affrontare la questione in modo civile. La donna percepì il nervosismo pungerle le mani, ma cercò di lasciarlo da parte.
“C’è un motivo particolare dietro?”
“No.”
“Posso sapere dov’eri allora?”
“Da nessuna parte.” Rispose Tobio senza nemmeno guardarla. Ad ogni domanda che lei poneva, il figlio faceva muro.
Sospirò arrendendosi. Che senso aveva provare a cavare sangue da una rapa?
Avrebbe anche potuto provarci per mesi o anni, ma Tobio non avrebbe mai aperto una breccia nella sua muraglia protettiva.
“Tesoro mio…” iniziò la donna con tono greve.
“Mi sono preoccupata tantissimo quando la scuola mi ha chiamata. Vorrei solo sapere se eri al sicuro.”
Tobio spostò lo sguardo su di lei per un secondo soppesando se risponderle con la verità o meno. Indubbiamente si era preoccupata un sacco, poteva anche aver fatto finta di niente, ma aveva visto subito i suoi occhi gonfi di pianto quando era tornato a casa.
“Ero da… un amico.” Rispose vago, forse troppo vago. Vide sul viso di sua madre formarsi tutti i filmini mentali più tragici e drammatici del caso.
“Un compagno di squadra malato, niente di che.” Aggiunse allora e vide subito i suoi lineamenti rilassarsi e le sue spalle scendere verso il basso insieme ad un sospiro di sollievo.
“Va bene se vuoi andare a trovarlo, ma avvisami la prossima volta. Così se chiama la scuola posso inventarmi una scusa qualsiasi.” Rispose lei e Tobio si aprì nella sua espressione più sorpresa.
Davvero gli stava dicendo una cosa del genere? Praticamente lo stava autorizzando a marinare la scuola e se lei ne era al corrente andava bene?
“Davvero?” Si sforzò di chiedere una conferma, anche se sapeva benissimo che lei non avrebbe mai smascherato una trappola con così tanta facilità.
Era troppo astuta purtroppo per lui.
“Sì dai… infondo siamo stati tutti innamorati! Però ora dimmi come si chiama lei che sono curiosa!”
Tobio avvampò di  vergogna al sol udire quelle parole.
Balbettò sconclusionato che si trattava davvero di un ragazzo, che non c’era nessuna ragazza e che non era innamorato. Asserì un sacco di altre cose e il ghigno di sua madre si ampliò sempre di più, dopo ogni sua parola.
Si alzò dal tavolo e se ne andò in camera sua conscio di essersi rovinato con le sue stesse mani.
Adesso sua madre sospettava che avesse una ragazza quando a lui le ragazze non erano proprio mai interessate.
Perfetto. Bel lavoro.
 
Tornò ai suoi messaggi con Hinata e prima che potesse rendersene conto si erano fatte le ventitré.
Dal salone non proveniva più alcun rumore e nessuna canzone pop rock che sua madre amava cantare a squarciagola. Chissà da quanto era andata a letto senza che lui se ne accorgesse.
Come quel pomeriggio, Hinata e i suoi sms lo avevano assorbito completamente facendogli dimenticare del resto del mondo.
Si ritrovava così, steso sul letto con un sorriso da ebete stampato sul viso e il telefono poggiato sul petto dove, al suo interno, il suo cuore batteva sfrenato.
Il groviglio di emozioni che provava era talmente fitto e difficile da sciogliere che nemmeno aveva intenzione di provarci. Ma gli piacevano, quelle sensazioni. Gli piaceva un sacco sentirsi così strano e felice e confuso allo stesso tempo.
Era bello, per una volta, distrarsi e non essere sempre dominato dalla rabbia e dal rancore.
Era come stendersi al sole d lasciarsi scaldare dai suoi raggi. E in effetti Hinata era un po’ come un piccolo sole personale. Sempre così allegro, sempre così vivo e energico che non stava fermo nemmeno per un secondo.
Il telefono vibrò sul suo petto ancora una volta.
Tobio aprì il messaggio di Hinata e un sorriso ancor più ebete si formò sulle sue labbra.
 
Sono stato bene con te oggi. Torna a trovarmi quando vuoi, sono sempre solo a casa e mi annoio a morte.
 
Il cuore gli galoppò nel petto sfrenato, tanto che Tobio temette che potesse sfondargli la cassa toracica e uscire via.
Non aveva mai avuto un amico, ma se era quello ciò che si provava ad averlo, allora gli piaceva un sacco!
Digitò la risposta lesto, con le dita che tremavano d’impazienza.
 
Dovrei essere in punizione, ma posso chiedere a mia mamma il permesso di tornare.
 
Inviò il messaggio e si rimise il telefono sul petto.
Non era certo che sua madre gli avrebbe concesso un altro giorno di assenza da scuola, ma poteva sempre provare chiedendole qualche ora del pomeriggio invece.
Come quando aveva il club di pallavolo.
Anche l’altra volta si era mostrata molto interessata quando gli aveva accennato del suo amico che, in effetti, alle sue orecchie doveva suonare quasi utopistico che suo figlio avesse finalmente trovato qualcuno che lo sopportasse. Magari la fortuna si sarebbe mostrata al suo fianco in quell’ardua impresa e lei gli avrebbe concesso una tanto sospirata concessione.
Sperava davvero tanto di sì… gli piaceva un sacco parlare con Hinata e sentirsi così leggero e spensierato, come se la rabbia ed il rancore fossero sfumati via da lui come un un’ombra scura che fugge via dalla luce.
Il vibrare del telefono lo riportò al presente.
 
Posso chiedere al Professor Takeda se ti incarica di portarmi i compiti se può esserti più comodo.
 
Lesse e rilesse il messaggio trovandola un’idea davvero geniale. Shoyo non era scemo come pensava allora… o forse lo era ma ogni tanto aveva degli sprazzi di intelligenza.
 
Sarebbe meglio in effetti… già pensa che abbia una fidanzata, altrimenti mi darà il tormento!
 
Le parole gli stonavano mentre le scriveva ma inviò il messa ugualmente.
Non era mai stato interessato alle ragazze e non perché non le trovasse attraenti, ma bensì perché non erano la pallavolo. E tutto quello che gli interessava in effetti verteva proprio sulla pallavolo o nei dintorni di essa.
Non aveva mai pensato sul serio a trovarsi una ragazza e corteggiarla. Persino Shimizu senpai che faceva strage di cuori, ai suoi occhi, appariva priva di interesse.
Vedeva in lei una bellezza quasi regale, avvalorata soprattutto dal suo carattere taciturno e quieto e dal portamento elegante, ma niente di tutto quello lo attraeva. Né sentimentalmente, né fisicamente e né in nessun altro modo in cui si possa essere attratti da una ragazza.
E a dirla tutta, non ci si era neppure mai visto al fianco di una ragazza. Non aveva immaginato il suo futuro o la persona che avrebbe voluto al suo fianco.
Dopotutto la solitudine era l’unica entità che conosceva ed era difficile immaginarsi senza essa.
Tuttavia si ritrovò a pensare che quello che condivideva con Hinata non gli sarebbe dispiaciuto che continuasse a lungo.
Si addormentò con il cellulare sul petto e la testa piena di un futuro radioso dove lui e Hinata erano così amici da dividere la stessa casa e passare ogni momento insieme giocando a pallavolo.
 

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