L'oro del Reno

di shilyss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fortuna e gloria ***
Capitolo 2: *** L'oro del Reno ***
Capitolo 3: *** La città degli dèi ***



Capitolo 1
*** Fortuna e gloria ***


L’oro del Reno

 

Capitolo 1

Fortuna e gloria

 

 

 

 

Ora l’oro ti è stato pagato (disse Loki),

ti è dato come riscatto ingente per la mia testa.

Non porterà gioia a tuo figlio:

la morte porterà a voi due

(Edda Poetica, Canzone di Reginn, v. 6)

 

 

Londra, 1983

 

Mancavano un paio d’ore al tramonto e la luce solare filtrava, fioca e sbiadita, attraverso le finestre della biblioteca. Claudette[1] allungò la schiena, stiracchiandosi sulla poltrona. La stanchezza per l’infinito lavoro di catalogazione iniziava a farsi irrimediabilmente sentire. I libri che doveva visionare, del resto, erano centinaia: volumi di storia, di mitologia, di arte e di letteratura, ma qua e là spuntavano anche cataloghi di mostre, atti dei convegni, riviste specializzate, miscellanee, appunti. Registrò con un sospiro l’ennesimo testo, riportando, con quanta più perizia possibile, il nome dell’autore, la casa editrice, l’anno, ma una certa impazienza faceva sì che la mano corresse più rapidamente sul foglio. Il compito che aveva abbracciato con una nota di entusiasmo stava diventando sempre più oneroso e difficile da portare a termine, pensò. La data della mostra si avvicinava e non era ancora a metà dell’opera: avrebbe dovuto telefonare e disdire il cinema che aveva in programma per quella sera, constatò con una smorfia, o non avrebbe mai finito in tempo.

Claudette sfiorò, con le dita su cui spiccava un vivace smalto rosso, la copertina in pelle dell’ennesimo volume che avrebbe catalogato per quel giorno. Lo aprì con delicatezza, cercò il frontespizio, trattenne il respiro. Un foglio ripiegato di giornale, datato più di sessant’anni prima, riportava un breve trafiletto e una fotografia quasi totalmente sbiadita, corrosa dal tempo. Un uomo alto e magro, dall’aria severa, la fissava accanto a una donna bionda e minuta, con la chioma raccolta e un volume ingombrante tra le braccia. Si rese conto di non aver mai visto quella foto e rimase colpita dal modo in cui l’uomo, seduto su quelli che, presumibilmente, dovevano essere i tavolini esterni di un bar, fissava il fotografo quasi con dispetto. Ne seguì la linea elegante del braccio che si allungava possessivo sullo schienale dov’era seduta lei, che guardava da un’altra parte e rideva portandosi con grazia le mani alle labbra. Il profilo delicato e la corona d’oro dei capelli della donna illuminava l’istantanea e creava un contrasto con quelli scuri dell’uomo e con il suo sguardo pungente, che pareva attraversare la pellicola. Si soffermò su ogni dettaglio della fotografia, cercando di capire dalla siepe dietro la coppia dove fosse situato il presunto bar o ristorante, domandandosi con chi stesse ridendo lei, cosa pensasse lui, concentrandosi così tanto su quell’immagine catturata decenni prima, da non accorgersi del leggero movimento della porta.

“Che ci fai tu qui? Cos’è questo disordine?”

La voce allarmata riscosse Claudette. La ragazza sollevò il capo, trovandosi di fronte lo sguardo spaesato e vacuo di sua nonna, avvolta in un maglione di lana nonostante ormai fosse primavera. L’anziana avanzò fissando ansiosa gli scatoloni in cui erano già stati riposti con cura documenti e volumi e appunti.

“Questi sono i libri di tuo nonno! Ci sono tutte le sue ricerche, qui!” boccheggiò, prendendo con le dita sottili e rovinate dalla vecchiaia e dall’artrite un testo che sembrava provenire direttamente da una biblioteca dell’Ottocento e stringendoselo con forza al petto. Claudette si alzò rapida e raggiunse l’altra, osservando il titolo sbiadito del testo che la donna proteggeva; La canzone di Reginn, lesse.

“Nonnina, è per l’Università, ti ricordi? È venuto qui il Rettore in persona, dopo che ci aveva scritto,” spiegò con dolcezza, carezzando la spalla minuta e fragile dell’anziana. Gli occhi grigi dell’altra la scrutarono dubbiosi.

“È il centenario della nascita del nonno: ci hanno chiesto i suoi appunti, i suoi libri – ricordi? – per allestire una mostra. Istituiranno un fondo in suo onore, in vostro onore: si chiamerà Laufeyson-Van der Vanir. Mi hai chiesto di aiutarti a selezionare cosa donare, cosa far vedere alla gente.”

Un altro sguardo smarrito. Non lo ricordava affatto.

“Sarebbe un’idea meravigliosa. L’avrebbe adorata,” mormorò la donna con un tremito. “Ho perso la mia bussola,” annunciò senza posare il libro. “Hai visto da qualche parte la mia bussola?”

Claudette scosse la testa in segno di diniego, paziente. “No, ma adesso ti aiuterò a cercarla. L’avrai messa in un altro cassetto,” ipotizzò, ma prima di cimentarsi nell’operazione di recupero, mostrò all’altra la fotografia che aveva ammirato fino a pochi minuti prima. “Guarda cos’ho trovato: com’eravate belli, nonna.”

Sigyn Van der Vanir inforcò i sottili occhiali da vicino che portava perennemente appesi al collo, facendo tintinnare la catenina d’oro che li reggeva, assottigliando gli occhi, per mettere meglio a fuoco la vecchia istantanea. La sua mente sfilacciata si smarriva nel passato recente, rimanendo, invece, ben ancorata agli anni, ormai lontanissimi, della sua giovinezza. Con un gesto istintivo che la nipote le aveva visto fare tante volte, si sfiorò la fede nuziale ormai larga, che non s’era mai tolta dalla mano sinistra e tormentava ogni volta che una nube si affacciava all’orizzonte.

“Avevo la tua età quando mi prese come sua assistente,” ricordò accennando un sorriso leggero.

Claudette rimase in silenzio, in attesa. Aveva sentito tante, tantissime storie su suo nonno, perché Loki Laufeyson non era stato solamente uno storico e un archeologo di fama, ma anche un eroe di guerra fucilato dal regime mentre gridava Viva la libertà[2].

Una fine tragica, da romanzo, che aveva velato per sempre di dolore gli occhi grigi di sua nonna, togliendole luce persino quando, dopo anni di articoli pubblicati sotto uno pseudonimo maschile, era riuscita a ottenere proprio la cattedra che era stata dell’indimenticato e amatissimo marito e a curarne le opere postume.

In ogni casa ci sono storie che vengono raccontate e altre che, invece, vengono taciute. In ognuna delle fotografie che ritraevano il professor Laufeyson, questi appariva carico del fascino stropicciato dell’avventuriero e con uno sguardo glaciale e, allo stesso tempo, fiero. Sembrava un principe invincibile. Sigyn accarezzò il ritratto, perché il dolore e la nostalgia le laceravano il cuore da quarant’anni, senza sosta, né lei aveva mai voluto né cercato di calmare quel dolore.

“Me la regalò lui, la bussola. Era sua.”

 

 

 

 

 Sigyn Van der Vanir avrebbe collocato l’inizio della sua tragica e romantica storia d’amore quando, in un freddo pomeriggio del Quattordici, il giovane e arrogante professor Laufeyson le allungò la sua relazione finalmente corretta; era piena zeppa di punti interrogativi e chiose a margine scritte con una malcelata nota beffarda che la indispettirono per una serie di ragioni, prima tra tutte che nelle frasi del brillante archeologo c’era un fondo di verità lampante. Si maledisse mentalmente, perché, trovandole impresse sul foglio di carta opaco, le intuizioni di Laufeyson erano pungenti, argute; in un’altra parola, esatte. Ma lui era questo: uno studioso di fama, un pioniere, celebre per aver partecipato a degli importantissimi studi in Egitto quand’era solamente un ragazzo. Solo che, con gli anni e con la fama, il suo interesse era deviato per un punto della storia che non interessava nessuno e per una leggenda più fioca e inverosimile di quella che aveva portato alla scoperta della città della perduta Troia, la tanto cantata Ilio[3]. Sigyn, i capelli biondi tenuti a stento da un fermaglio di tartaruga, gli occhiali poggiati sulla punta del naso grazioso, gettò un’occhiata al complicato disordine che regnava nello studio. Nonostante fosse mattina, una bottiglia di crema di whisky campeggiava sulla scrivania ingombra di carte, appunti, libri, altre relazioni. Accanto, una tazza di caffè probabilmente già vuotata.

Il professor Laufeyson appoggiò le spalle alla bella sedia in pelle, increspò le labbra ironiche e sottili in un sorriso affilato come una lama. Sigyn sentì un brivido scorrerle lungo la schiena, perché c’era qualcosa, nell’archeologo, che la metteva a disagio. La sua voce era calda, avvolgente, appena arrochita, ma il suo sguardo aveva la freddezza dei ghiacci eterni. Colpa della trasparenza delle sue iridi glauche.

“Un lavoro discreto, signorina Van Der Vanir,” fu il suo commento asciutto, accompagnato da un movimento elegante delle mani. Aveva il dono d’irretire chi lo ascoltasse, di trascinarlo nel suo mondo fatto di tesori perduti, sepolti in qualche parte dimenticata del mondo. Le sue lezioni erano brillanti e finivano sempre troppo presto e Sigyn si era ritrovata più volte, alla fine dell’ora, col cuore che batteva e la voglia di porre domande, il timore di non farne di abbastanza intelligenti. Si era firmata col solo cognome, limitando il resto a una esse puntata che avrebbe dovuto, nella sua testa, far nascere nel professore un giudizio più oggettivo e severo. Lui aveva compreso tutto, ovviamente. Quando lei si era presentata, aveva alzato un sopracciglio a metà tra l’incuriosito e il divertito. Non si era pronunciato sul suo desiderio di essere equiparata a uno studente di sesso maschile, né aveva commentato le sue velleità da suffragetta, come certo avrebbero fatto altri accademici più rigorosi di lui. Aveva assottigliato gli occhi, però, scrutandola con l’attenzione che dedicava ad alcuni dei reperti che, talvolta, mostrava loro durante le sue spiegazioni.

“La sua analisi delle fibule è molto appassionata,” continuò Loki, allungandosi per riprendere la relazione che lei, quasi meccanicamente, gli porse e sfogliando le pagine dattiloscritte, zeppe di correzioni, “i disegni notevoli.”

Discreto. Appassionata. Notevoli. Sigyn, dalla sua posizione oltre la scrivania, tentò di interpretare quelle parole. La stava lodando? Aveva la bocca drammaticamente secca e una richiesta sulla punta della lingua; una che era assurdo fare e che, certamente, il professor Laufeyson non avrebbe mai accettato, ma che lei doveva ugualmente arrischiarsi a porre. Mosse un passo in avanti, avvicinandosi ancora di più alla scrivania caotica, agli occhi dell’uomo ora verdi, ora azzurri – dipendeva, probabilmente, dal modo in cui li colpiva la luce – e parlò con una voce sicura, decisa.

“Vorrei diventare la vostra assistente. So che ne state cercando uno.”

L’archeologo inclinò leggermente la testa bruna, come per guardarla meglio. “Cerco un assistente,” confermò, scandendo ogni parola con lentezza, “ma non sono sicuro che voi possiate ricoprire il ruolo, miss Van der Vanir.[4]

“È perché sono una donna?”

“Anche.” Un guizzo negli occhi chiari e indagatori dell’altro la fece sobbalzare. “Sarebbe ipocrita dire il contrario. Ma non è solo questo. È una questione di… come dire? Reputazione.” Loki si mise più comodo sulla sedia, inumidendosi le labbra sottili. “Immagino conosciate ciò che si dice su di me, nell’ambiente. Quello di cui mi hanno accusato…”

“Lo so.” Sigyn rispose in fretta, interrompendolo. “Dicono che siate un ladro di tombe, ma questo si dice di buona parte degli archeologi,” sostenne fiera, alzando il mento quasi volesse sfidarlo. “Non mi importa di quello che è successo. Siete uno studioso brillante, mi basta questo,” aggiunse.

Il professor Laufeyson prese una penna e la fece roteare tra le belle dita lunghe ed eleganti. “Si dice anche altro,” ghignò. “Vuole davvero essere la mia fedele assistente, miss Sigyn?” Il suo sorriso aveva un che di feroce e crudele. “Pensa di avere le qualità necessarie?”

 

 

Fu l’inizio di un legame destinato a durare, con fasi alterne, per tutta la vita. Nel tempo mutò forma e finì per chiamarsi con una serie di altri nomi, ma la sostanza rimase inalterata: lei gli aveva donato la sua fedeltà incondizionata e l’archeologo, da parte sua, si era ripromesso di trattarla come la studiosa che aspirava a essere, senza risparmiarle nulla.

Nei primi mesi della loro collaborazione, Sigyn lo chiamava professor Laufeyson indugiando leggermente sul titolo e guardandolo da sotto le ciglia scure. Non poteva dire di essere immune al suo fascino; quando Loki le si avvicinava, si ritrovava a trattenere il respiro per non lasciare che il suo profumo di cuoio e pelle e tabacco la scuotesse facendole accelerare il battito cardiaco. La bellezza dell’archeologo era sfacciata, esibita, tagliente come le sue frasi spesso troppo crudeli, perennemente venate da una nota di divertito sarcasmo. Sulla carta, i compiti di Sigyn dovevano essere quelli di aiutare Loki a preparare le lezioni, correggere gli elaborati degli altri studenti, gestire la sua agenda universitaria e fare per lui altri piccoli lavori utili alle sue ricerche, ma nel giro di poche settimane le sue mansioni aumentarono di numero e d’importanza. L’archeologo era entrato nella sua vita portandosi dietro tutta l’impetuosità e la sregolatezza che lo contraddistinguevano, pretendendo da lei una devozione assoluta alla sua causa e ai suoi molti, ambiziosi, progetti. Di fronte alla voce graffiata e roca di quell’avventuriero con i modi di un Lord, allettata dalla possibilità di pubblicare le sue ricerche, anche se sotto falso nome, Sigyn si lasciò trascinare in quel mondo d’ombra, illuminato dal sorriso di fiera di Loki Laufeyson e dalle sue ricerche più segrete e quasi folli, perché, come la ragazza si accorse ben presto, la soddisfazione non era nella sua natura.

 

 

 

 

“Professor Laufeyson, Lord Borson.”

Sigyn porse due tazze di tè fumante allo studioso e al suo ospite e fece per allontanarsi, ma un’occhiataccia del primo la inchiodò dov’era.

“Tu non bevi il tè? Siediti, riguarda anche te. Sei la mia assistente, no?” la rimproverò caustico.

La ragazza avvampò. La settimana prima, Loki l’aveva mandata fuori dallo studio senza tante cerimonie per parlare di chissà che losche questioni con un tizio barbuto che giungeva da Ankara e ora, invece, la voleva lì.

Presa in contropiede, lo rimbeccò piccata. “Siete terribilmente volubile, sapete?”

Non era la prima volta che l’accusava di cambiare idea troppo in fretta e di essere scostante; i miei piani variano di minuto in minuto, sosteneva Laufeyson, e lei incrociava le braccia e scuoteva la testa, carica di disappunto, perché Loki si comportava come un principe e pretendeva da lei una fedeltà assoluta, totale, terribile.

Aveva accettato che ricoprisse un ruolo di prestigio che altri le avevano negato, ma il prezzo da pagare si era rivelato essere un tributo alto da versare, forse troppo. Desiderava stargli accanto il più possibile. Cercava di far parte della sua vita.

Lui la ripagava con certe occhiate troppo lunghe e una serie di sorrisi sbiechi e affascinanti che le facevano scorrere troppo spesso un brivido lungo la schiena, mettendola a parte dei segreti di quella disciplina nuova che l’aveva stregata, correggendo con spietata severità i suoi appunti. Certo, da studentessa si era lasciata incantare mille volte dallo sguardo quasi trasparente del bell’archeologo e, nei primi tempi della loro relazione lavorativa, il respiro le si era mozzato nel petto ogni volta che lui si chinato verso di lei per mostrarle il dettaglio di un reperto, suggerirle il significato secondario di un termine latino o greco, sincerarsi della correttezza del suo operato. Bugia, era accaduto ogni volta che Loki le si era avvicinato.

 

 

Molti anni dopo, nella solitudine di una casa ormai vuota, Sigyn Van der Vanir si sarebbe domandata con un sospiro quale era stato il momento esatto in cui il groviglio di emozioni e sensazioni che le scatenava Loki Laufeyson si era trasformato nella consapevolezza di esserne disperatamente innamorata. Ritta in piedi, nello studio troppo ordinato che si era ritrovata ad abitare dopo che la guerra che glielo aveva strappato via senza darle nemmeno la consolazione di una tomba dove poterlo piangere, il ricordo di lui avrebbe avuto il colore delle cose perdute e mai dimenticate. Sarebbe stato bianco come la ciocca di capelli che si attorcigliava attorno al dito, come le ossa mescolate ad altre dell’uomo con cui aveva diviso la giovinezza, ma che non era vissuto abbastanza per vederla sfiorire. Le parole di Loki le sarebbero uscite dalle labbra pallide come una nenia triste, cariche del disincanto di colui che le aveva pronunciate quando l’Europa già tremava sotto i colpi di tensioni antiche, ma ancora inesplose. Una sepoltura degna è ciò che l’uomo ha sempre desiderato per se stesso, diceva, solo che, per ironia della sorte, lui non ce l’aveva avuta, una tomba che uomini nati secoli dopo di lui avrebbero trattato con rispetto. Gli era toccata la triste fine dei guerrieri e dei pirati – le sue spoglie si erano perse. Sì, l’ormai rinomata archeologa conosceva esattamente il punto della sua vita dove doveva scavare per recuperare il ricordo che le serviva, in verità mai dimenticato. Aveva capito d’essersi innamorata nel pomeriggio lontano in cui portò un tè a Lord Borson e a Loki, per sedersi poi assieme a loro con un certo malcelato disagio. Questa consapevolezza le avrebbe fatto spuntare sulle labbra il principio di un sorriso dolce e nostalgico, ma un’altra le avrebbe velato il cuore: nello stesso momento in cui lei si era innamorata, Loki Laufeyson, con quei suoi occhi brillanti e il sorriso astuto dipinto sulle labbra sottili, aveva firmato la sua condanna a morte. Solo, non lo sapeva ancora. Non lo sapeva nessuno.

 

 

“Sei in cerca di fortuna e gloria, Odino?” Loki si era messo ancora più a suo agio sulla poltrona, facendo aderire perfettamente le spalle allo schienale, ma c’era, in lui, il disordine che avrebbe avuto il principe dei furfanti assiso sul proprio trono.

Un guizzo divertito illuminò l’unico occhio di Lord Borson, mentore dell’archeologo. Li accomunava la medesima passione per la retorica: entrambi erano soliti usare nei loro discorsi frasi complesse e sottintesi incredibilmente pungenti – persino troppo – e adoravano invischiarsi in intrighi e piani e ricerche assurde, che spesso traevano la loro origine dai miti e dalle leggende. E, in quel preciso istante, proprio un testo che parlava delle antiche storie dei vichinghi troneggiava sul tavolo, accanto alle tazze di tè. Sigyn abbassò gli occhi sul dorso in pelle consunto, sulle macchie giallastre che si intravedevano sulle pagine.

“Deve essere qui. La leggenda parla di un tesoro enorme nascosto sotto una cascata e sorvegliato da un mostro terribile, forse un drago,” spiegò Odino puntando il dito nodoso sul foglio. “Si tratterà della sepoltura di un capo guerriero, di un re leggendario.”

“L’oro di Asgard,” mormorò Loki e gli occhi verdi s’illuminarono di una luce terribile. “La canzone di Reginn parla di un tesoro maledetto che causò la morte di due fratelli e di una guerra che coinvolse addirittura otto re,” ricordò asciutto. “Ne parla anche Beda il Venerabile[5].”

Durante le sue lezioni, era solito spiegare che l’archeologia, nonostante Ilio dissepolta e strappata dalle nebbie del mito, non era una scienza che studiava le fiabe, né si occupava di andare a caccia di tesori. Era un lavoro fatto d’indagini e pazienza, che si basava su prove e fatti, null’altro. Occorreva scavare necropoli e studiare le sepolture e, da lì, con rispetto e metodo, carpire le testimonianze di un passato remoto, svanito, di cui talvolta non restava che qualche fibbia, l’elsa di una spada con la sua lama ormai rovinata e cocci sparsi di ceramica.

Protetto dalle quattro pareti del suo caotico studio, però, Loki Laufeyson abbandonava definitivamente la maschera del compassato e preciso studioso per rivelare la sua parte più selvaggia e, forse, sincera: ascoltandolo nella penombra di un pomeriggio inglese, Sigyn si ritrovò a pensare con un brivido che il confine tra un archeologo e un predatore di tesori per l’uomo fosse decisamente labile, forse persino troppo.

I volti di Loki e Lord Borson erano solo parzialmente illuminati e ciò rendeva la scena degna d’un quadro fiammingo. Le vennero in mente certe fotografie raffiguranti gli splendidi gioielli trovati in alcuni scavi in Asia Minore[6], ripensò alle parole severe di suo padre quando aveva deciso di dedicarsi all’archeologia: che era una scienza nuova e strana; che assomigliava troppo al latrocinio immondo perpetrato dai profanatori di tombe; che i morti non andavano disturbati. Ma Sigyn aveva letto i lavori di Schliemann[7] e di Flinders Petrie e si era messa in testa di iscriversi proprio nella facoltà di archeologia perché desiderava squarciare il velo tra passato e presente e conoscere ciò che era stato, toccarlo con mano, instaurando un circolo capace di connettere passato e futuro.

A lezione e nelle conferenze, sia Loki Laufeyson che Lord Borson proclamavano a gran voce e con decisione che la loro professione non era andare a scavare tesori, ma rintracciare reperti e studiarli: capire il passato, attraverso la storia particolare di uomini e donne che l’avevano costruito, per rintracciare le proprie origini. Solo la sera prima, entrambi gli studiosi avevano partecipato a un animato dibattito che si era tenuto in un circolo ristretto, per poi discorrere con altri insigni colleghi della novità rappresentata dalla possibilità di eseguire degli scavi stratigrafici: un metodo sperimentale, che offriva la possibilità di compiere ricerche sempre più metodiche e accurate. Il giorno dopo, invece, i due uomini erano lì, di fronte a lei, a raccontarsi una fiaba vecchia di secoli, a cercare un modo per renderla reale, sorridendo alla maledizione che l’oro di Asgard si tirava appresso, incuranti e sfrontati com’erano.

Lord Borson mascherava con più abilità l’espressione del predatore sotto la pelle abbronzata dal sole dell’Egitto e dell’Asia Minore. Merito di un modo di fare che lo rendeva ancora affascinante nonostante gli anni, ma chi lo guardava da vicino poteva cogliere la durezza del suo sguardo celeste e intuire cosa si nascondesse nel suo spirito inquieto.

Loki, animato dalla stessa febbre, aggiungeva nozioni a nozioni, connettendo tra loro gli antichi scritti di monaci che avevano consumato la vista alla luce delle candele di qualche scriptorium altomedievale, ripercorrendo, con la sua bella voce d’incantatore, le epopee di quanti avevano cercato invano l’oro del Reno. Fu lì, mentre l’archeologo si appassionava a quella storia antica e progettava di trovare la tomba di Reginn, che Sigyn s’innamorò definitivamente del suo profilo affilato e bello, della trasparenza degli occhi verdi, delle labbra sottili perennemente arcuate in un mezzo sorriso sghembo, della voce leggermente roca. Con i gomiti poggiati sul tavolo ingombro di carte e mappe di quella parte dell’Europa che, di lì a qualche mese, sarebbe stata sconvolta da una guerra lunga e logorante, muoveva le mani eleganti da prestigiatore per illustrare al proprio mentore e a lei dove e come trovare i finanziamenti necessari per approntare la spedizione, quale fosse il punto in cui era più ragionevole iniziare la caccia a un tesoro maledetto, sepolto, come non se ne erano mai visti, colorato del fascino di un mito noto a pochi. Si rese conto di essersi innamorata di lui mentre la fioca luce che li circondava rendeva anche lei, incantata ad ascoltarli, parte della scena ritratta da un pittore ispirato.

Erano elementi della storia anche loro: i mille anni che li separavano dal gruppo di re guerrieri divenuti leggenda che si erano combattuti fino alla morte, ammirati come fossero dèi e messi sul loro stesso piano, si annullarono improvvisamente.

 

Loki parlava, spiegava, ipotizzava. Afferrata una penna, si era messo a tracciare segni sulla cartina sotto lo sguardo compiaciuto di Lord Odino Borson e Sigyn, col cuore che batteva al ritmo di una consapevolezza che la rendeva leggera e cupa assieme, avrebbe ricordato quel momento fino al giorno lontano in cui sarebbe morta. Gli ultimi pensieri nitidi della sua vita, già corrosi dall’inesorabile perdita di lucidità cui la malattia, alla fine, l’aveva costretta, le avrebbero concesso di rivivere, per un solo momento, quella strana serata, facendole ritrovare la bellezza elegante di Loki Laufeyson e il suo sguardo di lupo. Subito appresso, il pensiero sarebbe volato irrimediabilmente allo spiazzo dietro un edificio grigio dove il nemico di una vita intera si era vendicato di un torto antico, dando l’ordine di sparare al petto dell’archeologo. Luogo dell’esecuzione che lei, alla fine, aveva visitato mentre il figlio la teneva sottobraccio, la figlia si asciugava orgogliosa una lacrima traditrice. Del suo brillante marito dal sorriso laterale e lo sguardo chiaro non era rimasto niente, tranne quegli occhi verdi accanto a lei che scrutavano furiosi la terra battuta, il broncio fiero che, poco distante, soffocava un singhiozzo represso. Ma questa è un’altra storia[8].

 

 

Claudette non aveva idea di dove sua nonna avesse riposto l’indispensabile bussola. Ricordava a malapena l’oggetto, ma era abbastanza convinta che si trovasse nella consolle in camera da letto, magari insieme ai gioielli e ai documenti che l’anziana teneva nella stanza. Fino a pochi anni prima, la mente dell’illustre professoressa Sigyn Van der Vanir era stata pronta e vigile, ma negli ultimi anni le dimenticanze e le leggere distrazioni erano diventate sempre più profonde. Claudette ricordava ancora quando, bambina, talvolta andava a trovare sua nonna nello studio che occupava con fierezza all’università. Adorava sedersi sulla poltrona in pelle color cuoio che troneggiava dietro la scrivania e sfogliare alcuni degli stessi libri che ora stava inscatolando per la mostra in onore di suo nonno. Sigyn allora le sorrideva, energica e vitale, affascinandola con storie di popoli perduti e di città nascoste che dormivano sotto la sabbia e degli uomini e delle donne che, animati da una passione incontrollabile, avevano riportato alla luce case e sepolture, vie e piazze. Quando lei si meravigliava della sua bravura e si mostrava entusiasta, l’altra increspava le labbra in un sorriso leggero e, abbassando il tono della voce, aggiungeva che, se ci fosse stato ancora il nonno con loro, ogni spiegazione o leggenda sarebbe apparsa ancora più bella, perché lui aveva il dono, con la sua lingua d’argento, d’incantare chi lo ascoltasse. Forse, immaginò Claudette, era allora che aveva visto per la prima volta sua nonna sfiorare con un tocco leggero la bussola dal coperchio intarsiato che teneva sulla scrivania. Un moto di tenerezza la invase vedendo la figura sottile dell’anziana archeologa che s’affannava nella ricerca dell’oggetto.

“Proviamo a vedere se è in questo cassetto, nonnina?”

 

 

Il piano per rintracciare il favoloso oro del Reno rimase su carta, destinato a non trovare compimento, per lungo tempo. Era come se la maledizione scritta nell’alfabeto runico, che Sigyn aveva finito per apprendere, avesse impregnato i loro cuori, macchiandone persino le anime. Poche settimane dopo l’incontro serale tra Loki e Lord Borson, scoppiò un conflitto che si sarebbe combattuto nelle trincee scavate nella terra, tra il fango che inzaccherava il filo spinato. Anche il professor Laufeyson vi prese parte. Partì col grado di ufficiale che gli spettava per rango, privo dell’illusione che si trattasse di una guerra giusta, ammantato del disincanto cinico che contraddistingueva molte delle sue idee politiche e del dispetto per essere stato costretto ad abbandonare le sue ricerche in un momento fondamentale: quello in cui, assieme al suo mentore e amico, che considerava alla stregua d’un padre e che ammirava sopra ogni cosa, stava iniziando a raccogliere fondi per preparare l’ambiziosa spedizione. Un’idea folle che si era tramutata in ossessione, perché Loki non era capace di accontentarsi di niente: la soddisfazione non era nella sua natura e Sigyn lo sapeva, lo aveva capito fin dai primi, tumultuosi, giorni in cui era iniziato il loro sodalizio professionale, in cui si consumava gli occhi per sottoporgli precisissime riproduzioni fatte a matita dei corredi funebri che l’archeologo aveva scavato in qualche remoto villaggio del Cumberland da allegare alle sue ricerche e, contemporaneamente, con uno sbuffo, gli sistemava una delle giacche eleganti che gli calzavano comunque a pennello[9].

Il primo conflitto mondiale spazzò via la routine di un continente intero e anche di più, ma, soprattutto, incrinò definitivamente buona parte dei rapporti personali di Loki o, perlomeno, i più importanti, creando una profonda frattura persino nei confronti di Sigyn, che col duro lavoro e la sua intelligenza viva e pungente era riuscita faticosamente a guadagnarsi la sua stima.

Dalla guerra l’uomo tornò spezzato, furioso, arrabbiato.

 

La brama di scoprire l’ignoto, che l’aveva sempre caratterizzato, si era unita a qualcosa di spiacevole, che gli orrori dei campi di battaglia potevano spiegare, sì, ma solo in parte. Era una sete, un’arsura, che poteva essere letta come il bisogno di vendicarsi del mondo intero consegnando il proprio nome alla gloria non solo – o non più – per il bisogno di donare agli uomini il fuoco della conoscenza, ma per un crudele tornaconto personale, per pareggiare dei torti che aveva subìto. Nessuna ferita visibile gli deturpava il fisico asciutto e nervoso, ma i suoi occhi chiari e quasi trasparenti mostravano una traccia evidente d’inquietudine.

Colpa del tradimento che gli era stato inflitto, lungo una vita intera, iniziato nel momento in cui, ancora in fasce, aveva gridato il suo disappunto per essere venuto al mondo.

Sigyn scoprì il mutamento nel peggiore dei modi, nel periodo di una breve licenza dell’archeologo, quando, dopo quasi due anni passata ad attenderlo – a sognarlo – se lo ritrovò finalmente davanti con un bicchiere di whisky in mano e la divisa da ufficiale ancora indosso. Sarebbe falso dire che quella vista la colse impreparata: l’aveva cercato. Alcuni compiaciuti colleghi che mal tolleravano le intemperanze di Laufeyson, all’università, si erano messi a raccontare di come Loki fosse tornato dal fronte furioso e avesse deciso di mostrare il suo disappunto all’intera Londra nel più plateale e scenico dei modi, così come si confaceva al suo animo altero e orgoglioso: aveva raggiunto Lord Borson al circolo, gli si era parato davanti e, puntandogli una pistola, si era messo a gridare che sapeva tutto. Si trattava, come presto avrebbe scoperto a sue spese anche Sigyn, di un segreto noto a troppi, che solo il diretto interessato ignorava ancora. Stando ai racconti dei presenti, Odino Borson stava leggendo un quotidiano con un sigaro che gli pendeva dalle labbra. A quella vista, l’anziano studioso aveva abbassato leggermente il giornale fissandolo con quel suo unico occhio che Sigyn immaginò terribile eppure triste. Pare che non disse nulla, né si mostrò sorpreso di fronte all’arma.

Forse se lo aspettava, se lo era aspettato per una vita intera, che quel momento giungesse. Alcuni raccontarono di come Lord Borson si fosse alzato in piedi, altri che aveva preferito rimanere lì, sulla poltrona rivestita in pelle, in attesa di un colpo che non sarebbe arrivato mai.

Era stato Loki a parlare per primo. “Cosa sono?”

Domanda secca, fatta a bruciapelo, con gli occhi lucidi.

Odino si era concesso un sospiro e aveva parlato con lentezza, come quando, durante le lezioni che teneva all’università tra un’esplorazione e l’altra, voleva assicurarsi che i suoi ragionamenti si sedimentassero nelle menti degli allievi di fronte a lui. “Il mio miglior studente, il mio socio.” Aveva sospirato di fronte all’altro che scuoteva la testa. “Un brillante archeologo.”

“E cosa più di questo? Sir Thor non è l’unico bastardo che hai avuto, vero?”

Loki incalzava, furioso, furibondo.

Odino aveva continuato a sostenere lo sguardo spaventoso che gli era di fronte. “Lasciai sua madre per la tua. Fu una storia breve anche quella,” aveva ammesso.

“Perché? L’hai sempre saputo. Perché?”

“La famiglia di tua madre non gradiva la mia presenza.”

“No, no.” La risposta non era stata giudicata abbastanza esaustiva dal brillante professor Laufeyson, che doveva certi colpi di fortuna proprio all’interessamento e alla raccomandazione dell’uomo di fronte a lui. Il braccio non si era abbassato, né la mano aveva tremato. “Tu mi hai mentito fino a ora per un motivo. Qual è? Dimmelo!”

Lo aveva detto gridando, a denti stretti, carico di un’esasperazione per una scoperta atroce, emersa, del tutto casualmente, una sera, al fronte. E, dinanzi a quell’ira cocente, Lord Odino, alla fine, aveva ammesso il ragionamento fatto quando, dopo anni di disinteresse, aveva preso sotto la sua ala protettrice quel ragazzo dagli occhi verdi e la risposta sempre pronta che aveva il suo stesso sangue nelle vene.

“Pensavo che avresti rifiutato di aiutarmi nelle mie ricerche se avessi saputo la verità, ma le mie preoccupazioni, ora, non hanno più importanza.”

Era calato il silenzio, nella sala. E, forse, qualcuno aveva chiamato la polizia per evitare che Loki sparasse.

“Allora non sono altro che questo: un mezzo, utile per raggiungere cosa? Fortuna e gloria?”

“Perché deformi le mie parole?” Una domanda pronunciata con voce stanca, disincantata, destinata a scontrarsi, ancora, con una furia impossibile da domare.

“Avresti potuto rivelarmi chi ero dall’inizio. Perché non l’hai fatto?”

“Tu sei mio figlio. Ho solo cercato di proteggerti dalla verità.”

Alla fine, Odino Borson l’aveva detto: Loki era suo figlio, come Thor.

 

 

Sigyn venne a sapere tutto questo e mascherò il disagio per quella rivelazione più abilmente che poté, in pubblico, ma si avviò a passo svelto a casa del professor Laufeyson per mille ragioni e nessuna. Il rumore dei suoi stivaletti sul marciapiede accompagnò il ricordo di tutte le volte in cui i due studiosi si erano ritrovati insieme, complici l’uno delle scoperte dell’altro. Ragionavano allo stesso modo, agivano seguendo i medesimi schemi e si stimavano in maniera feroce e orgogliosa. L’oro del Reno era l’ultimo dei loro grandiosi progetti, ma non il primo, né il solo: sarebbe stato l’unico irrealizzato, però. Stringendosi nel semplice paltò di lana per proteggersi dal severo inverno londinese, Sigyn pensò che l’antica maledizione del tesoro vichingo si fosse abbattuta, a distanza di secoli, anche su di loro che avevano solo osato ipotizzare di riportarlo alla luce.

 La cosa peggiore nel trovarsi di fronte Loki non fu capire cosa gli fosse successo cercando di interpretare le ombre scure dietro le sue pupille mobili e inquiete, chiare e sempre acutissime, né sopportare il cinico sarcasmo che le riversò addosso con una smorfia sghemba delle sue labbra sottili, segnate da una cicatrice nuova. Lui era caos e lei se ne era accorta dal giorno in cui si era proposta come sua assistente. Loki si sentiva tradito e pareva un animale in gabbia. Era vissuto dentro un inganno, si era illuso di essere stato scelto per merito, invece il vecchio Lord Borson si era semplicemente pentito di aver abbandonato l’ennesimo frutto delle sue relazioni amorose, anzi, peggio: aveva fatto del proprio figlio bastardo l’assistente perfetto, sfruttando l’ammirazione accademica che il più giovane provava per lui, negandogli una verità dovuta, perché, in fondo, tutti meritiamo di sapere chi siamo e da dove veniamo. È un desiderio legittimo[10].

 

Loki l’accolse squadrandola dall’alto in basso e piegando le labbra in una smorfia tirata, perché lei sapeva – come tutta Londra, del resto. Non l’invitò a restare, ma Sigyn osservò la bottiglia di whisky e il bicchiere con due dita di liquore dentro e disse che bere non sarebbe servito.

“E cosa mi servirebbe, invece miss Van der Vanir?” chiese ironico. La chiamò per nome assaporandone le sillabe sulle labbra sottili e lei tremò sentendo il tono roco e freddamente divertito dell’archeologo, perché quel modo di pronunciare il suo nome era troppo, troppo simile a una carezza fatta sulla pelle. Non parlarono mai di quello che aveva significato, per Loki, scoprire le circostanze della sua nascita e la paternità di Odino. Il professor Laufeyson era bravo a custodire i propri segreti e non li avrebbe condivisi con nessuno, nemmeno con lei, neppure mentre le posava davvero le labbra sulla pelle. Le sue certezze si erano infrante, la sua esistenza e parte della sua carriera si era rivelata una menzogna, una truffa, e allora tanto valeva prendersi ciò che aveva desiderato, ma fino a quel momento aveva scelto di non prendere.

Nello studio avvolto dalla penombra, Sigyn si ritrovò con le spalle contro la libreria che aveva messo in ordine mille volte e la bocca dell’archeologo che sfiorava con infinita lentezza il suo collo, come se volesse assaggiarla, respirando il suo profumo. La strinse per la vita e lei lasciò che lo facesse, perché aveva sognato e sperato che una cosa simile avvenisse, vergognandosi per un simile desiderio. Si morse le labbra, sperando che l’esplorazione sempre più rapace non terminasse, odiandolo, perché le sue carezze audaci la scuotevano, ma lui continuava a negarle il piacere di un bacio sulla bocca. Allora Sigyn gli accarezzò i capelli scuri, ghermì le spalle larghe e robuste, si tese contro il corpo asciutto e tonico dell’uomo per cui lavorava e che le era mancato ogni giorno di quella guerra vicina eppure troppo lontana.

Finirono per fare l’amore sul divano di quello stesso studio dove, un paio d’anni prima, avevano ipotizzato insieme di trovare il tumulo sotto cui era custodito l’oro del Reno. Loki le sciolse i capelli, le tolse dal naso gli occhiali dalla montatura rotonda, le disse che era bella, ma Sigyn non commise l’errore di chiedergli che cosa significasse quel momento di passione non trattenuta, né cedette al medesimo impulso dopo, quando la convinse a spogliarsi del tutto e a rifarlo nel suo letto. Sfiorò le cicatrici leggere che aveva sulle spalle, si addormentò cingendogli la schiena, ascoltando il battito del suo cuore, domandandosi se quell’amore l’avrebbe consumata. Non si pentì di aver scelto di unirsi a lui, quella notte e le altre, troppo brevi, della licenza, ma non gli diede la soddisfazione di farglielo sapere, mai, così come si rifiutò di versare anche una sola lacrima davanti a lui quando Loki dovette tornare al fronte. Immobile alla scrivania della sua casa natale ormai vuota, con la famiglia decimata dal conflitto e un padre troppo malato per poterne vedere la fine, lo maledisse per tutte le lettere cui lui non si degnò mai di rispondere. Sentì di essersi spezzata. L’oro del Reno li aveva maledetti prima ancora che la sua ricerca divenisse realtà.

 

La bussola non le apparteneva ancora: era di Loki, che l’aveva comprata qualche anno prima in una vecchia bottega d’antiquariato. Sigyn l’aveva notata molte volte, mentre era nel suo studio, ma non l’aveva mai nemmeno sfiorata. Una sera, vestita solo di una sua camicia che le copriva interamente i fianchi, si era avvicinata per osservarla meglio: splendeva dentro a una vetrina e pareva un gioiello. Aveva aperto il mobiletto guardandola ammirata, certa che Loki non la stesse osservando, ma lui, invece, l’aveva notata.



[1] Volevo un nome moderno, per questo personaggio la cui funzione è quella di traghettare il lettore verso la narrazione. Molti hanno scelto espedienti simili per raccontare una storia. È solo un personaggio e non mi veniva proprio un altro nome in mente.

[2] La figura di Loki in questa umile minilong AU è fortemente ispirata alla personalità dello storico medievista e padre della moderna Storia Medievale Marc Bloch (1886-1944). Vi invito a leggere la sua biografia e a perdonare la leggerezza di voler accostare, sia pur marginalmente, il dio degli inganni all’autore de L’apologia della storia.

[3] La storia e, soprattutto, l’archeologia medievale, che sarebbe esplosa decenni più tardi.

[4] Loki e Sigyn si danno del voi. Loki sta dicendo che è orientato verso “un assistente” di sesso maschile anziché “un’assistente donna”.

[5] Storico inglese, monaco del VII secolo. Questa è una licenza poetica, Beda non ne parla.

[6] Mi riferisco agli scavi di Ilio, la città di Troia.

 

[7] L’archeologo che scoprì la sopracitata. Il secondo nome menzionato è quello di un importante archeologo inglese del primo Novecento.

[8] Il figlio e la figlia richiamano una mia serie, Tutte le tue bugie/La tela degli inganni: si tratta di Vali e Sonje.

[9] Il Cumberland è un easter egg, visto che siamo in tema: è la zona dove è situata Crimson Peak.

[10] Odino farfallone? Ebbene sì, almeno nel mito. Thor lo ebbe da Gea, non da Frigga. Figlio di quest’ultima è solo Balder il Buono.

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Capitolo 2
*** L'oro del Reno ***


Capitolo 2

L’Oro del Reno

 

 

I couldn't find quiet

I went out in the rain

I was just soakin' my head to unrattle my brain

Somebody said you disappeared in a crowd

I didn't understand then

I don't understand now

[..] And everybody was gone

I was standing in the street 'cause I was trying not to crack

I was solid gold

I was in the fight

I was coming back from what seemed like a ruin

I couldn't see you coming so far

I just turn around and there you are

(The National, Pink rabbit)

 

 

Claudette si soffermava sempre sulle fotografie che decoravano la stanza di sua nonna. Sigyn era una donna sottile, con la schiena leggermente curva e l’ovale del viso segnato inesorabilmente dal tempo; la sua figura ispirava un senso di fragilità sempre maggiore, aumentato dalla facilità con cui il passato più recente le sfuggiva dalla mente. A volte era difficile e strano, per Claudette come per gli altri membri della sua famiglia, ricordare che l’anziana era stata una ragazza vivace e coraggiosa e bella, trasformatasi in una donna vitale e forte, capace persino di imporsi e brillare in un ambito accademico che aveva sempre favorito gli uomini e sopportare una vedovanza lunga decenni. A testimoniare il tempo lontano della giovinezza smarrita, c’erano molte fotografie in bianco e nero. Claudette ne amava una in particolare: nello scatto, sua nonna era a cavallo con i capelli raccolti in una lunga treccia spessa che le scendeva fin sul seno. Indossava stivali da cavallerizza e un paio di pantaloni su una camicia chiara. Accanto a lei, abbigliato praticamente nello stesso identico modo a eccezione delle calzature, c’era suo nonno. Loki Laufeyson portava un cappello a coprirgli parzialmente il viso, mentre una bandoliera tenuta ad armacollo spiccava sul torace ampio e largo. Non sorrideva all’obiettivo, anzi: fissava Sigyn con aria guardinga e il movimento del suo braccio pareva suggerire che stesse dando all’animale l’ordine di partire perlomeno al trotto.

La ragazza rivolse alla fotografia un sorriso dolce, di commiato, e tornò ad aprire cassetti, in cerca del regalo antico che la nonna aveva ricevuto dal nonno, sì, ma quando? Increspò le labbra in un’espressione di disappunto, perché era strano parlare di Loki Laufeyson in quei termini. Era e sarebbe stato sempre l’astuto membro della Resistenza fucilato in un piazzale, che aveva lasciato troppo presto la famiglia, eternamente giovane negli scatti in bianco e nero che lo ritraevano fiero e avevano catturato, ma solo in parte, lo spirito indomito e insolente del cacciatore di tesori.

Sovrappensiero, Claudette aprì un cassetto e vide una catenella spuntare da sotto dei foulard di seta ben impilati.

“Nonna, è questa?” domandò tirando fuori il grazioso oggetto.

Vedendo la bussola, Sigyn sgranò gli occhi e l’afferrò come fosse la più preziosa delle reliquie. La prese in mano tremando, attribuendo all’oggetto più valore di quanto non sembrava dimostrarne, tanto che la ragazza fu tentata di chiederle se fosse fatta d’oro.

“Quando te l’ha regalata?”

L’anziana studiosa si sistemò meglio gli occhiali sul naso, accarezzò l’incisione che ne impreziosiva il coperchio – un lupo e un drago marino stretti insieme – e rispose alla nipote senza guardarla, gli occhi persi in un passato senza nome, ma indimenticato, scolpito nella sua anima con a una tale profondità che, forse, nessuna malattia l’avrebbe privata di quel ricordo.  “Quando uscì da Asgard,” soffiò.

“Asgard? Tu e il nonno non avete mai trovato Asgard.”

“Io non l’ho mai vista, ma lui sì.”

 

 

 

 

Strasburgo, 1919

 

Assistente, amica, amante. No, quello no, non lo sarebbe tornata a essere mai più. Respiravano la stessa aria e le loro labbra, nella penombra, erano troppo vicine. Presto si sarebbero sfiorate lambendosi appena, per poi cercarsi con urgenza, cariche di un desiderio che settimane, mesi e anni di studio e di lontananza avevano solo acuito. Sentì il braccio di Loki cingerle la vita per avvicinarla al suo torace asciutto, al suo odore di cuoio e pelle. Lo detestava. Gli aveva scritto decine di lettere, dopo che lui era tornato a combattere al fronte – dopo che la loro relazione si era confusa e complicata tra le soffici lenzuola di un letto, ma l’archeologo aveva pensato bene di non risponderle mai. Era arrivata a pensare che fosse morto, e allora un brivido gelido le era corso lungo la schiena e lo stomaco le si era stretto in una morsa glaciale, perché gli occhi chiari di Loki, spalancati e fissi verso un cielo cieco e lontano, erano qualcosa che non riusciva a immaginare, così come era troppo doloroso pensare che il suo corpo scattante e forte potesse essersi irrigidito nel gelido abbraccio della morte in una terra straniera e lontana.

 Sì, Sigyn lo odiava anche in quel momento, mentre una mano audace le carezzava la vita per poi ghermirle la stoffa della giacca, saggiandole la pelle tesa sotta di essa. Per un momento, si lasciò trascinare dal caos di quella situazione. Per un istante, uno solo, dimenticò il tesoro e, soprattutto, che lui si era spezzato nei campi di battaglia invasi dal filo spinato che avevano diviso in due l’Europa in fiamme. Gli sfiorò la guancia affilata, leggermente ispida, desiderando abbandonarsi a un bacio, uno soltanto, ma poi pensò al giorno successivo e a quello dopo ancora: cosa sarebbe stato di loro e delle ricerche che stavano portando avanti, se avessero di nuovo oltrepassato il confine tra rapporto professionale e amore, di qualunque natura fosse?  

Professor Laufeyson, non dovremmo,” gli sussurrò sulle labbra e immaginò di non dirlo e di baciarlo, invece, perché era innamorata di lui da quando ancora sedeva sui banchi dell’università e rimaneva incantata ad ascoltarlo, anche se lo aveva capito più tardi, davanti a una tazza di tè[1].

Lui si sorprese per quella frase, perché era da prima della Grande Guerra che aveva iniziato a chiamarlo per nome. Lo ricordavano perfettamente entrambi.

“Non dovremmo perché, quando sei sobrio, non vuoi avere legami,” aggiunse decisa, posandogli le mani sul petto per allontanarlo. Un gesto delicato, lieve, cui non seguì alcuna spinta. L’altro rispose con una smorfia del bel viso affilato e la liberò immediatamente, spezzando così l’incanto. Le regalò uno sguardo ardente, quasi crudele, perché, probabilmente, non aveva bevuto poi così tanto e doveva essersi accorto, nonostante la penombra, di come il viso di lei fosse rosso dall’emozione.

Sigyn si lisciò le pieghe inesistenti della gonna. La guerra le aveva portato via troppe cose, anche l’amore.

“Ho appena accettato di tornare a essere la tua assistente solo per un motivo, lo sai. Non abbiamo tempo.”

 

Implacabile, altera, offesa. Una principessa. Che aveva cercato di essere indifferente alla corte insistente di un cacciatore di tesori bugiardo, venuto a cercarla non perché se l’era portata a letto nelle brevi settimane di una licenza invernale, né per premiare la fedeltà che lei gli aveva tributato occupandosi, in sua vece, di certi affari personali e scrivendogli lettere argute e mai sdolcinate in attesa che tornasse. No, Loki si era presentato poche settimane prima alla sua porta, con ancora la divisa militare addosso, di nuovo, cercando non la donna, ma la studiosa esperta di rune, l’assistente su cui lui aveva scommesso.

Quando se l’era ritrovato davanti, a pochi passi dal portico della casa di campagna che era stata dei suoi genitori, il primo impulso di Sigyn era stato quello di afferrare il fucile appeso all’ingresso e sparargli. Vedendola con l’arma in mano, Loki aveva aggrottato le sopracciglia e, lesto come un gatto, si era gettato di lato, in mezzo a una siepe. Lei aveva premuto il grilletto davvero e l’archeologo, rialzandosi, aveva commentato che sì, forse avevano ancora qualche conto in sospeso, ma l’aveva fatto regalandole il più tetro e affascinante dei suoi ghigni, perché adorava vederla infuriata.

“Sono qui per proporti di partecipare alla più grande caccia al tesoro del secolo,” aveva spiegato, “non per farti finire quello che i crucchi hanno iniziato. So dov’è l’oro del Reno e… Asgard.”

 

Così l’aveva convinta: stuzzicando la sua sete di conoscenza e allettandola con la prospettiva di porre anche il suo nome in calce a una scoperta come non ce ne sarebbero state altre; solo che Sigyn non era riuscita né aveva voluto dargli immediatamente il suo assenso, perché il ricordo delle notti in cui le labbra beffarde dell’archeologo si erano posate sulle sue per poi scoprirle con infinita lentezza il collo e il seno – prendendosi lei, cuore e corpo e mente – erano dolci e dolorose insieme. Parlavano di un amore non corrisposto o non inteso alla stessa maniera. Eppure, la spedizione diveniva ogni giorno più reale. Merito del coinvolgimento di Thor Stormbreaker[2], alleato, amico, fratello ritrovato su un campo di battaglia. Si era ritagliato il ruolo di finanziatore non perché gli interessasse particolarmente infilarsi in qualche caverna o scavare un sito archeologico, ma per dare lustro al suo casato, riportandolo ai vecchi fasti di qualche generazione prima e perché amava l’avventura – anzi, ne aveva bisogno.

 

“Dobbiamo arrivare prima di Odino. Batterlo sul tempo è la nostra unica possibilità. I suoi corvi sono già sulle nostre tracce, così hai detto,” gli ricordò caustica, spostando lo sguardo grigio sulla mappa aperta sopra il tavolo dello studio. Aveva le labbra gonfie per i baci che si erano scambiati, il cuore in tumulto.

Il termine ironico che aveva usato per indicare i nuovi seguaci di Lord Borson strappò a Loki un ghigno divertito. Era stato lui ad affibbiare con malcelato disprezzo quell’epiteto ai signori Huginn e Muninn, questi i loro nomi. Colpa degli abiti perennemente cupi che indossavano e dell’aria lugubre che si tiravano dietro, aveva spiegato cattivo.

“E così, alla fine, ti ho convinta.”

Loki Laufeyson lo disse arricciando le labbra in un sorriso trionfante, perché lei aveva ceduto alla sua richiesta. Detestava chiedere poiché aveva l’animo di un principe, ma era bravo a convincere e a irretire il prossimo; sapeva scovare i punti deboli dei suoi ascoltatori e conosceva il modo per far leva su di essi in modo tale da piegarli senza che questi se ne accorgessero. Sigyn, che conosceva benissimo questa sua abilità, aveva tentato di opporsi alla sua corte serrata, ma alla fine aveva deciso di capitolare in nome della possibilità di essere trattata da uno studioso della levatura di Loki come una pari. Qualsiasi altro professore universitario l’avrebbe relegata a fare la dattilografa o la segretaria, invitandola a sposarsi e a mettere su famiglia com’era giusto che facesse una donna, assegnandole mansioni blande e poco interessanti, oppure avrebbe criticato il suo interessamento alla questione del voto, mentre Loki le aveva sempre concesso una parità tagliente.

“Voglio partecipare a una spedizione archeologica riguardo un sito su cui sono preparata. Molto preparata,” sospirò lei.

Lui inclinò appena il capo da un lato, fissandola ammirato. “Ambiziosa. Ero sicuro che avresti accettato.”

“Sei arrogante e superbo. L’hai chiesto a me perché non ti fidi di nessun altro, anzi: non ritieni che ci possano essere altri studiosi in grado di farti da assistente senza una formazione adeguata e non hai tempo di addestrarne di nuovi.”

Loki, colpito dall’acutezza del suo ragionamento, rise brevemente. “Sei l’unica, è vero. Non ne sei lusingata? O dovrei trattarti come una dolce dama da proteggere per quello che è successo tra noi?”

Erano di nuovo lì, nell’appartamento elegante tappezzato di libri dell’archeologo, nelle stanze che avevano visto consumarsi la loro relazione. Il tramonto coperto di nubi regalava una luce fredda e giallastra allo studio – quella notte sarebbe scoppiato un temporale.

 

L’oro del Reno era una leggenda, un mito racchiuso nei polverosi libri di mitologia che occupavano gli scaffali della biblioteca di famiglia. Un’ossessione che il giovane professor Laufeyson aveva inseguito invano, senza mai trovare, corroso da una febbre che ricordava quella di certe figure dei poemi, che sacrificavano ogni cosa in loro possesso, anche la più preziosa, per correre dietro a una chimera o per il gusto di sfidare a testa alta i propri avversari. Le scoperte che lo avrebbero reso celebre sarebbero state altre – quelle fatte nella penisola scandinava, in Gran Bretagna e in Francia più tardi, verso la fine degli Anni Venti – ma la gara per scovare ciò che restava della favolosa Asgard coinvolgeva la sfera personale: era la stoccata che il brillante studioso desiderava infliggere a Odino Borson. Una faida familiare, dunque, che si mescolava alla carriera e metteva in mezzo persino il desiderio e la passione.

Sigyn lo sapeva, lo ricordava, ed era stata la testimone della frattura avvenuta tra l’archeologo e il suo mentore. L’affascinante professor Laufeyson, capace di incantare qualunque interlocutore grazie al potere della sua voce roca e ironica, era imprigionato in una solitudine nera, che pesava sulle sue spalle come una cappa. Chi sapeva osservare con la dovuta attenzione lo studioso, avrebbe potuto scorgere il contrasto tra il tono di voce sempre ironico e sicuro e la ferocia dello sguardo verde e aguzzo, che si posava rapido su ogni cosa analizzandola fin nella sua essenza. Nella profondità degli occhi chiari di Loki, Sigyn aveva letto il bisogno di trovare il tesoro per vendicarsi dell’inganno supremo, per infrangere il vincolo che ancora lo legava a Odino Borson sottraendogli l’unica cosa che condividevano e che per lui aveva importanza. Loki era cambiato. La scintilla di una follia insana, che sapeva di vendetta, brillava nel suo sguardo, spaventandola e attraendola insieme. Non poteva permettere che andasse da solo – aveva ancora il sapore delle sue labbra beffarde sulla bocca – ma non doveva cadere di nuovo nella rete di una relazione che, Sigyn lo ricordava, l’aveva già spezzata, distrutta.

 

 

 

Da qualche parte lungo il corso del fiume Reno, in Germania, 1920

“Mio fratello nutre per voi un interesse particolare, anche se a volte non si comporta esattamente come un gentiluomo.” Sir Thor aveva perso un occhio ad Arras[3], in un incidente aereo durante la controffensiva britannica in territorio francese. Tale circostanza, lo rendeva incredibilmente simile al padre suo e di Loki, Lord Borson. Questo, assieme ai capelli corti e biondi e al viso abbronzato dal sole, gli regalavano un’aria fiera, da combattente, che contrastava con i lineamenti affilati e virili, ma eleganti, di Loki.

Erano in viaggio da diversi giorni verso quel punto della Germania ancora sconfitta dove, secondo Laufeyson, era ragionevole che ci fossero tracce della tomba che si diceva essere stata d’un mostro, di un re guerriero, di entrambi. La spedizione si era trasformata in una lotta contro il tempo, perché anche Lord Odino aveva deciso di raggiungere il presunto sito dell’oro del Reno e, purtroppo, non era l’unico. Qualcun altro si era gettato sulle tracce del mitico tesoro: un magnate o un capo di Stato si era messo in testa di foraggiare uno studioso tedesco, Malekith Von Svarthelfheim, affinché scovasse per primo la sepoltura, rivendicandone in tal modo la scoperta. La squadra di Loki aveva un vantaggio sulle altre, ma solo momentaneo; merito del libro d’appunti che quest’ultimo aveva trafugato a Odino e che conteneva la copia, ricalcata con cura in un vecchio monastero italiano, della mappa oscura contenuta in un antico codice.

Il vecchio Lord era convinto che il sito della fantastica sepoltura fosse oltre una valle, nei pressi di Colonia, mentre Loki riteneva che si trovasse molto più a nord, in quella che era nota come la Gola del Reno[4]. La frase che indicava esattamente il punto dove iniziare l’esplorazione assomigliava, tanto da sembrarne un calco perfetto, al verso di un antico poema d’amore, che indicava, appunto, un luogo differente da quello individuato da Borson. Sigyn e Loki si erano confrontati – o, per meglio dire, scontrati – a lungo sul distico troppo simile per essere una coincidenza.

Raccogliere dati e osservare erano i compiti principali di uno studioso che si rispetti, ma non i soli. Interrogare uomini e donne morti in un altro tempo attraverso ciò che era rimasto di loro, saper scorgere oltre le righe di un verso o di una ceramica riportata agli antichi fasti dopo aver tolto dalla sua superficie terra e polvere, era un’abilità che necessitava di rispetto, calma, pazienza e curiosità. L’indizio che Odino si era rifiutato di guardare o, semplicemente, di interpretare nel corretto modo, su cui si era lambiccato per una vita intera, si era rivelato, quasi casualmente, al professor Laufeyson e alla sua assistente, solo in virtù della lettura sensibile di quest’ultima, che si era ricordata della somiglianza con una nenia d’amore antica e quasi dimenticata.

La spedizione volta a scoprire l’ultima e unica traccia terrena di Asgard era iniziata nell’alba ancora fumosa di un nuovo decennio in cui l’Europa sarebbe stata ancora corrosa e lacerata dalle numerosissime tensioni irrisolte che gli anni trascorsi in trincea non avevano sedato, ma amplificato. Alcuni, come Loki e Thor, avrebbero tentato di incanalare il loro bisogno di superare l’esperienza della Grande Guerra e tutte le considerazioni e le scoperte, che quest’ultima aveva inciso sulla loro pelle, nella ricerca di tesori perduti, nel desiderio di sentirsi vivi andando a caccia di miti. Altri avrebbero rivolto lo sguardo altrove – alle promesse di una vita migliore, alle condizioni sempre uguali a se stesse, alle richieste fatte ai governi rimaste inascoltate, alle vendette e alle sconfitte.

 

Era sera. I due fratelli avevano parlato a lungo, a cena in una piccola locanda, del costo delle riparazioni di guerra stabilito dalla Società delle Nazioni; Thor sosteneva che fosse una decisione legittima e giusta e aveva ricordato l’occhio perso in una missione. Loki l’aveva fissato con una smorfia tirata e, con voce lenta, bagnandosi appena le labbra sottili con un boccale di birra, aveva sentenziato che molte cose erano giuste, ma non tutte potevano trovare applicazione nella realtà. A suo parere, la Società delle Nazioni aveva esagerato, richiedendo un prezzo troppo alto alla nazione sconfitta. Era seguita una discussione animata, in cui nessuno dei due uomini aveva ceduto sulla propria posizione[5]; poi, Loki era andato a controllare se fosse arrivato qualche telegramma circa la posizione di Odino o di Von Svarthelfheim, mentre lei era rimasta lì, assieme a Thor, che li aveva visti la sera prima scambiarsi un bacio fuggevole e intenso, dato perché si erano giurati che non doveva più capitare, di cedere all’amore. Solo che i lunghi mesi trascorsi tra la fine della guerra e la messa a punto di quella spedizione, a cui lei doveva partecipare a ogni costo, l’avevano portata a vivere troppo tempo assieme all’archeologo.

C’era ricaduta un’altra volta.

Lo aveva fatto e non riusciva a pentirsene, anche se il suo cuore era lacerato dalla consapevolezza di chi fosse, Loki Laufeyson.

 

La domanda del ricco inglese la distolse dai suoi pensieri.

“Mio fratello nutre per voi un interesse particolare, anche se, a volte, non si comporta esattamente come un gentiluomo.[6]

La donna apprezzava l’atteggiamento schietto e sincero del fratellastro del professor Laufeyson, ma in quel momento non riuscì a impedirsi di arrossire visibilmente di fronte alla battuta franca dell’altro.

“Vostro fratello nutre un interesse particolare per le sue ricerche e io l’aiuto, tutto qui,” si schermì, ma sapeva bene a cosa l’altro si riferisse.

“Ne siete innamorata.”

Voce sicura, che non ammetteva repliche e scandagliava, allo stesso tempo, il suo cuore.

Thor lo disse convinto, dando voce a un sentimento che Sigyn non era in grado di occultare né di nascondere. Non riusciva a fare a meno di lui. Ci aveva provato, ma era una guerra da cui sceglieva sempre di uscire sconfitta, che instillava nel suo cuore un desiderio contrario, fiero e allo stesso tempo folle: quello di amare Loki nonostante tutto – nonostante lui. L’attrazione che aveva provato per il suo brillante professore d’archeologia si era trasformata, col tempo, in un amore più maturo e consapevole, certo, ma altrettanto doloroso, che spezzava le vene, soffocava il respiro, non aveva soluzione.

“Subisco il suo fascino. Come molti,” insinuò guardandolo da sotto le ciglia nere.

Thor si rese conto di dove lei volesse andare a parare e si strinse nelle spalle. “Entrambi siamo capaci di riconoscere i suoi pregi e di bilanciarli con i difetti. In qualche modo, credo che siamo vittime della sua sete di conoscenza,” ammise con semplicità.

Era un uomo solido, nato per vivere e morire con la divisa addosso, che si annoiava terribilmente all’idea di dover trascorrere le sue giornate a curare i numerosi possedimenti fondiari della sua famiglia. Per questo aveva colto al volo l’occasione di partecipare a un’avventura di cui capiva solo in parte la valenza storica. L’oro del Reno per lui non era nemmeno una leggenda, ma solamente l’ossessione di un fratello ritrovato al fronte che si era rivelato, in brevissimo tempo, un alleato di cui non era capace di fare a meno. Ignorava che la sepoltura di cui tutti avevano dimenticato l’ubicazione fosse un luogo mitico, così come non gli interessava affatto che generazioni di monaci avessero perso la vista copiando, alla luce fioca di una candela, le descrizioni fantastiche che avrebbero arricchito le trascrizioni di poemi epici, di bestiari medievali, di cronache relative a un tempo perduto e dimenticato.

“Siete innamorata,” sentenziò Thor di nuovo accennando un breve sorriso. “Non vergognatevene. Vi prometto riserbo,” concesse.

“Lo chiamate fratello, avete finanziato quest’avventura,” esordì Sigyn lentamente, sforzandosi di cambiare argomento. “Da quando è finita la guerra, siete inseparabili. Eppure, a guardarvi dall’esterno, sembra che non vi accomuni nulla.”

Thor si sporse verso di lei. “Loki non vi ha raccontato proprio niente?”

Sigyn abbassò lo sguardo. “Ha detto che vi siete picchiati per una sciocchezza; che vi ha salvato la vita. Che Lord Borson era promesso a vostra madre. Nient’altro.”

Thor buttò il capo all’indietro e scoppiò in una risata scrosciante, allegra.

“Conoscendolo, si è esposto persino troppo,” constatò. Si indicò l’occhio cieco, tagliato da una cicatrice che gli segnava la guancia. “Questa ferita me l’ha fatta la scheggia di una granata che mi ha colpito ad Arras. Loki mi ha visto e mi ha salvato la vita e io l’ho salvata a lui.” Arricciò le labbra, perso nel ricordo del conflitto, la mente volta ai compagni che non ce l’avevano fatta, ombre pallide che tormentavano i suoi sogni.

 

Il legame tra quei due fratelli che avevano scoperto troppo tardi di essere tali era complicato, intenso, robustissimo, eppure, allo stesso tempo, basato su un precario equilibrio. Negli anni, entrambi si sarebbero lasciati andare a maggiori confidenze, rivelando, rigorosamente di fronte a un bicchiere di vino e con gli occhi arrossati dall’alcool, alcuni dei dettagli e delle imprese che avevano contribuito ad aumentare i gradi sul loro petto, ma nei primissimi Anni Venti, il ricordo era ancora troppo vicino per essere affrontato col giusto distacco. Nell’attesa che Loki tornasse, Thor continuò a raccontare di quel rapporto fatto di sfida e ammirazione e competizione. Insieme erano una squadra formidabile, come se il sangue che condividevano rendesse più robusta la loro intesa. Sebbene fossero diversi tra loro per indole e inclinazione, studi e interessi, talvolta riuscivano a capirsi solo con uno sguardo, un’occhiata. Un simile affiatamento non poteva essere imputato alle sporadiche occasioni in cui i due avevano parlato del più e del meno a casa di Odino Borson, l’uno in veste di collega giovane e promettente e l’altra di figlio naturale[7], ma aveva radici più profonde: era uno scegliersi, un’elezione particolare che si sarebbe rivelata essere la beffa della natura in persona.

Gli occhi di Sigyn erano orgogliosi e tristi, le sue guance rosse d’emozione: ascoltare le gesta del professor Laufeyson le faceva battere più veloce il cuore nel petto.

 

Loki, spiegò Thor Stormbreaker, al fronte era esattamente come appariva nella vita di tutti i giorni: un uomo superbo arrogante, assertivo, con la lingua troppo lunga, che riteneva di essere più intelligente del suo prossimo, tutto. E sapeva farlo pesare. Ma la cosa peggiore, quella che più aveva fatto innervosire Thor, era stata la pretesa, sfoggiata da Loki in più d’una occasione, di essersi fatto da solo e di dovere la sua fortuna e il suo ruolo al fatto di esserne, semplicemente, degno.

“Io e Loki siamo fratelli due volte. Di sangue e per scelta. I tedeschi ci catturarono assieme ad altri dei nostri e noi fuggimmo prima che ci portassero in qualche campo di prigionia in Germania o in Austria. Rischiammo di morire infinite volte e una notte, quando eravamo quasi certi di non farcela, mi raccontò un paio di aneddoti su sua madre e allora capii chi fosse e glielo dissi. Non mi volle credere e allora lo afferrai per il bavero del cappotto e glielo ripetei ancora e ancora, finché non si convinse. Il giorno dopo, persi l’occhio e lui mi salvò la vita.”

Lord Stormbreaker aveva parlato schiettamente, ma un guizzo inquieto animò il suo unico occhio d’un blu intenso, a quel ricordo. Sigyn se ne accorse, ma non disse nulla. La rivelazione amara aveva afferrato la mente dell’ex ufficiale riportandolo a quella notte terribile in cui aveva creduto di morire, mentre la pioggia si trasformava in una neve leggera che, per fortuna, non avrebbe attecchito.

“Non ti sei accorto, tenente Laufeyson,” gli aveva detto stringendo la stoffa, “che Lord Borson, il tuo mentore e amico, mio padre, ti assomiglia non solo nel carattere, ma anche nell’aspetto? Lasciò mia madre, incinta, sull’altare, per scappare con la tua. Siamo fratelli. Sei suo figlio anche tu! Ti ha spianato la carriera perché vinto dal senso di colpa, come ha fatto con me.”

Questo gli aveva detto e Loki si era liberato per poi indietreggiare, colpito da quella scoperta che aveva il sapore amaro di una maledizione, incapace di sopportare il peso della menzogna, di leggere in una chiave nuova il rapporto strettissimo che aveva instaurato con Thor.

 

 

 

La ricerca del tesoro della perduta e mitica Asgard, che riempiva i poemi scaldici ricchi di figure retoriche e di kennings, rappresentava un modo, per Thor e Loki, di superare gli strascichi indimenticabili della guerra e provare a dare un nuovo corso alle loro vite. Niente, nessuna cosa avrebbe mai potuto essere come prima e allora tanto valeva rendere reali desideri, sogni e speranze, piegare al proprio volere il destino. Attività superba, quest’ultima, soprattutto se l’oggetto delle ricerche in cui si erano gettati i due uomini scomodava miti antichi e divinità perdute. Il nome di Asgard raschiava le loro gole, carico di tutta la potenza del mito e l’oscurità che si tirava dietro una città d’oro che, si diceva, fosse stata eretta dal dio delle forche e della poesia in persona.

Loki tornò al tavolo e ordinò dell’altra birra; la mascella contratta e lo sguardo mobile e nervoso non lasciavano presagire nulla di buono o consolante.

“Cattive notizie?” domandò Thor, sistemandosi meglio sulla sedia.

“Peggio, nessuna. Avevo supposto che Odino si trovasse ormai nei pressi di Colonia, invece nessuno dei miei contatti lo ha ancora intercettato,” s’innervosì.

“Forse ha tardato,” fu la replica asciutta dell’altro.

Loki gli rivolse un’occhiata feroce. “Tuo padre non tarda, Thor. Arriva in anticipo, piuttosto.”

“Temi che possa aver già trovato il tesoro?”

“No,” replicò l’archeologo con lentezza. “E se anche fosse riuscito a raggiungere la Gola del Reno prima di noi, non entrerebbe immediatamente.”

“Perché?” domandò Thor, “per via della maledizione? Ci credete davvero?” rise, guardando ora il fratello ora la sua assistente.

Sigyn tirò fuori dalla borsa una cartella in cuoio che conteneva diversi taccuini e ne aprì alcuni: contenevano, scritti a matita e a penna con grafie ora lente e curate, ora frettolose, una lunga serie di appunti.

Loki le gettò un’occhiata distratta solo all’apparenza e prese a spiegare. “I ladri di tombe esistono da sempre, Thor: le maledizioni sono semplicemente un modo comodo per spaventare i più deboli tra loro, un tentativo di dissuadere e allontanare i predoni. L’oro del Reno non fa eccezione, ma la sua particolarità è che si trattava di una leggenda quando ancora non era nemmeno stato sepolto,” spiegò.

Un sorriso furbo gli illuminava il viso affilato; prese a raccontare i dettagli più curiosi che aveva appreso leggendo e studiando i manoscritti di Iordane, di Paolo Diacono, di Beda il Venerabile, di Snorri Sturloson e di altri monaci dai nomi oscuri, inghiottiti dal tempo[8]. Il tesoro era ciò che rimaneva di una città perduta che, si diceva, fosse abitata dagli dèi Æsir in persona – un popolo guerriero che si era stanziato in quelle terre, le cui storie si erano confuse con le canzoni dei poeti e dei bardi – aggiunse Loki con un’alzata di spalle[9]. La storia, tuttavia, aveva assunto i contorni del mito: tre Asi avevano ucciso, per errore, un essere magico tramutato in lontra. Da lì, si dipanava una storia fatta di promesse e di magie, di vendette, di amore e, infine, di morte[10]. La conclusione di quella che, alle orecchie di Thor, suonò come una fiaba per bambini, era una leggenda nella leggenda, ancora più cupa della prima: i favolosi e potenti dèi degli Æsir, dopo aver consegnato agli uomini un tesoro maledetto che aveva provocato infiniti lutti e sanguinose guerre, erano stati sconfitti, a loro volta, da un destino amaro e terribile.

“Quella che inseguiamo noi, è una variante della ben nota trama del Crepuscolo degli dèi, quello di Wagner,” concluse Loki.

“Mi hai parlato di una sepoltura piena di tesori, ora mi racconti un’opera lirica crucca.”

“Se avessi iniziato dall’opera lirica crucca, temo non mi avresti mai dato ascolto, né finanziato, fratello,” ghignò l’archeologo.

“Secondo un’antica versione de La Canzone di Reginn,” spiegò Sigyn, “un grande tesoro venne sepolto in una cascata qui, nella Gola. Pare che derivasse dalle ultime vestigia di Asgard, la città d’oro degli Æsir: gli dèi vichinghi avevano qualità particolari, molto umane,” spiegò la ragazza, lanciando di tanto in tanto uno sguardo irrimediabilmente dolce a Loki. “Erano predoni,” continuò la ragazza, “dediti spesso all’imbroglio, all’inganno, in perenne lotta con i loro vicini, i Giganti. Nonostante la loro immensa potenza militare, però, le Norne, le divinità che filano il destino di tutti, avevano deciso che, un giorno, anche a loro sarebbe toccato morire. Così, Asgard venne distrutta da Surtur, un Gigante di Fuoco. Più probabilmente, la popolazione nota come Æsir fu sterminata dopo una rovinosa campagna militare e la loro favolosa città data alle fiamme. Parte del tesoro, però, pare che seguì il corso del Reno fino a… questo punto. Ecco perché è tanto importante trovare la sepoltura. È la traccia di una civiltà scomparsa,” terminò semplicemente la ragazza.

“Dovresti riordinare i tuoi appunti e pubblicarli,” sentenziò Loki alzandosi. La serata era terminata, l’ultima tappa del loro viaggio li aspettava. Sigyn pensò che fosse bello e che forse Thor aveva ragione: amare Loki era qualcosa che non poteva fare a meno di fare, cui non desiderava affatto rinunciare, anche se il suo spirito inquieto e caotico lo avrebbe spinto sempre all’inseguimento di ciò che nessun altro uomo osava cercare né scoprire. Una vita vissuta al limite, trascorsa alla ricerca di qualcosa che lo facesse sentire vivo e cancellasse il trauma nascosto, ma senz’altro presente, della guerra. Al ricordo delle notti insonni che aveva trascorso negli anni, passate a chiedersi se il professor Laufeyson fosse vivo o morto, le si strinse lo stomaco: non era pronta a immaginarlo di nuovo in pericolo e persino quella spedizione ambiziosa era coperta da una cappa tetra che la maledizione antica degli avidi e feroci Æsir poteva spiegare solo in parte.

Non sarebbe riuscita ad accettare di nuovo che Loki fosse sotto il tiro di un nemico, neppure quando, molti anni dopo di allora, in un’altra guerra, una pallottola avrebbe finito davvero per strappare la vita all’astuto archeologo. A partire da quel giorno, un’ombra scura le avrebbe per sempre velato lo sguardo grigio.

Ma questa è un’altra storia o, forse, no, è la stessa, perché le vite degli uomini seguono percorsi inauditi e strani e fantasiosi, tali che la letteratura e l’immaginazione dello scrittore non sono spesso in grado di inventarne di simili e altrettanto fantastici. Di questo, Sigyn un giorno ne avrebbe avuto un’amara prova, ma durante il viaggio verso quell’Europa sconvolta, impegnata a leccarsi le ferite scavate dalle trincee che l’avevano attraversata per tre lunghi anni e a ricostruire quello che era stato distrutto, ignorò i presagi che la ricerca del tesoro maledetto portò, inevitabilmente, con sé.

 



[1] Come spiegato nel precedente capitolo.

[2] Qui Loki e Thor sono figli naturali di Odino e, quindi, hanno cognomi diversi. Spero possiate apprezzare la fantasia.

[3] Controffensiva inglese in territorio francese contro i tedeschi.

[4] È nota veramente per chiamarsi così, esiste https://it.wikipedia.org/wiki/Gola_del_Reno e qui è ambientato il Crepuscolo degli dèi di Wagner, che si ispira, ma va’, all’Edda. ^^

[5] La Società delle Nazioni è l’antesignana dell’attuale ONU. Alla fine della Prima Guerra Mondiale in questa sede si quantificò il costo ingentissimo delle riparazioni di guerra della Germania, paese che risultò sconfitto (riparazioni che furono finite di pagare non troppo tempo fa). Tale debito generà una crisi che creò – tra le altre cose e insieme ad altri fattori – le basi per l’instaurazione di un regime totalitario ben noto. Si tratta di una spiegazione semplicistica, ma questa è una fanfiction, non un libro di storia!

[6] Thor parla con Sigyn dandole del voi. Con questo escamotage si rende più formale un dialogo ambientato nel 1919. Loki e Sigyn si sono dati del voi nel capitolo 1 del racconto, quando non erano in confidenza, ma del “tu” dopo aver iniziato una relazione amorosa, seppur breve.

[7] Col termine “figlio naturale” si indicano/indicavano quelli avuti al di fuori del contratto di matrimonio. Un modo più elegante di dire “bastardo,” insomma.

[8] Tutti nomi veri: Beda il Venerabile fu uno storico vissuto in Bretagna del VII secolo d.C., Paolo Diacono è l’autore dell’Historia Langobardorum, Iordane De origine actibusque Getarum, Snorri Sturloson è il monaco islandese che trascrisse l’Edda in prosa.

[9] Volutamente discorso indiretto.

[10] La storia in questione è quella legata alle vicende di Sigurd e Brunilde, ambientate proprio nella gola del Reno. Tali vicende sono narrate nell’Edda poetica e vedono Loki come protagonista, assieme a Odino.

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Capitolo 3
*** La città degli dèi ***


Capitolo 3

La città degli dèi

 

 

Io non sono cambiato,

il cuore ed i pensieri son gli stessi,

sul tappeto magnifico dei versi

voglio dirvi qualcosa che vi tocchi.

Buona notte alla falce della luna

sì cheta mentre l'aria si fa bruna,

dalla finestra mia voglio gridare

contro il disco della luna.

La notte è così tersa,

qui forse anche morire non fa male,

che importa se il mio spirito è perverso

e dal mio dorso penzola un fanale.

(Confessioni di un malandrino, Angelo Branduardi)

 

 

 

Londra, 1983

 

Scovare un tesoro maledetto vecchio di secoli, rubare il segreto di una città morta la cui unica traccia ancora esistente è racchiusa in una sepoltura dimenticata, sono atti di superbia che meritano di essere puniti: rappresentano la sfida di un uomo che vuole annullare l’oblio provocato dal tempo, riportando alla luce un luogo favoloso che, si diceva, fosse stato eretto dagli dèi in persona. Tormentando il coperchio della bella bussola con le dita sottili ormai nodose, l’anziana professoressa Van der Vanir si domandò, per l’ennesima volta nella sua lunga e intensa vita, se i prodromi della tragica e coraggiosa morte di Loki fossero stati davvero ravvisabili nella spedizione volta a ritrovare l’Oro del Reno. L’archeologo aveva commesso l’errore di credersi superiore agli avvertimenti di una maledizione antica, come tutti loro, ma era stato il solo a pagare; perché? Era per via di ciò che aveva fatto quando, entrando nella cripta antica, ancora sorvegliata da un essere senza tempo, si era azzardato a parlare, discorrere, contrattare, rubare, forse?

Sigyn, che aveva sempre creduto di avere la risposta a quella domanda crudele, si accorse, improvvisamente, di non essere più certa di niente. Persino il passato che, fino ad allora, le era sembrato nitido e privo di macchie, iniziò a vacillare. Da quella prospettiva aliena, era ugualmente doloroso interpretare la morte di Loki come la fredda vendetta di una serie di divinità rancorose quali il dio delle forche, del tuono e quello degli inganni; Loki e Thor avevano varcato le soglie della tomba perduta perché costretti, spinti dalle canne dei fucili di Von Svarthelfheim puntati contro le loro schiene. In gioco, ricordò, c’erano la sua vita e quella di Lord Odino. Era stato lui, involontariamente, ad attirare nella Gola del Reno Malekith Von Svarthelfheim. Non aveva reputato il tedesco un avversario pericoloso e aveva finito per sottovalutarlo, lasciandosi corrodere da un’ira che, alla fine, si era dimostrata fatale.

 

Claudette la riportò al presente. “Nonna, non eri con lui?”

La voce dell’archeologa assunse un tono sognante, lo stesso che aveva usato per raccontare ai suoi bambini le fiabe, quando li metteva a letto. Si sedette e la ragazza l’aiutò avvicinandole la poltrona.

“Ero con lui, ma non entrai, no. Lo fece Thor. Noi arrivammo per primi lì dov’era il sito,” mormorò decisa, “ma fummo raggiunti dalle altre spedizioni che cercavano, come noi, l’Oro del Reno. Prima venne il tuo bisnonno, poi Von Svarthelfheim e i suoi.”

L’ultimo nome suscitò in Claudette un brivido; lo conosceva, l’aveva già sentito nominare più volte, ma in un contesto altro, diverso. Le parve un riferimento estraneo e sbagliato, credette che sua nonna si fosse confusa, come ormai sempre più spesso le capitava.

“Ma se nonno e zio Thor trovarono davvero l’Oro del Reno, perché non risulta tra le vostre scoperte, perché tutti credono che non lo abbiate fatto davvero?”

Claudette era curiosa, ma l’espressione dell’anziana la fece pentire per aver posto quella domanda che, era evidente, le provocava una qualche sofferenza. Vedendola più pallida del solito, le chiese se desiderasse bere, si accertò che avesse preso le sue medicine, ma Sigyn, con ancora la bussola stretta tra le dita, insistette affinché la ragazza rimanesse lì, con lei.

“Sono un po’ stanca, ninì,[1]” ammise, “ma prima devo farti vedere una cosa,” aggiunse e aprì la bussola, mostrandola a Claudette.

“Tuo nonno entrò nella tomba maledetta e vide il tesoro e disse che era magnifico. Solo, non poté portare con sé nulla.”

“Perché?” boccheggiò la ragazza.

 

 

La Gola del Reno, 1920, la notte della scoperta

 

 

Il fuoco danzava al centro dell’accampamento posto sulle placide rive del fiume. Sigyn aveva i polsi legati dietro la schiena e la corda segnava irrimediabilmente la sua pelle candida.

“Ve l’avevo detto, che ci avrebbe traditi.”

Dietro di lei, la voce di Lord Odino risuonò distaccata e amara, perché lo studioso si fregiava di conoscere meglio di tutti loro lo spirito arguto e inquieto del suo figlio cadetto. Si assomigliavano troppo, del resto. Thor gli lanciò un’occhiata furente, perché del genitore non condivideva certe posizioni che, in vecchiaia, si erano sclerotizzate. Al contrario di Loki, era riuscito a far pace già da tempo con il temperamento volitivo del loro padre, ma questa circostanza era dovuta anche al fatto che, tutto sommato, era stato più fortunato dell’archeologo. Odino Borson gli si era sempre presentato per quello che era – un padre dedito allo studio e da esso corroso e Lady Frigga, sua madre, lo aveva allevato in seno a una famiglia serena, trattandolo come il giovane e glorioso erede di un patrimonio incredibilmente ingente.

“Sei davvero il peggiore dei fratelli,” mormorò con tono di rimprovero in direzione di Loki. Quello, libero e in piedi di fronte a loro, ma con le armi puntate addosso, gli rivolse un sorriso affilato.

“È la scoperta del secolo, Thor,” ironizzò bieco. “La mia scelta è tra morire in nome di un principio discutibile, o approfittarne e salire sulla barca del vincitore.”

Thor si divincolò, accusandolo, mentre Kurse, fratello di Malekith, lo trascinava verso l’entrata della grotta. Un drago marino era inciso sulla sua pietra. Vedendolo, Lord Borson aveva pronunciato un solo nome: Fafnir.

“Abbiamo combattuto insieme, viaggiato insieme, deciso ogni dettaglio di questa spedizione insieme,” gridò Stormbreaker rivolgendosi al professor Laufeyson. “Tutto questo non significa niente, per te?”

Una smorfia si delineò sul viso affilato dell’altro.

“Una scoperta fatta all’ombra della tua grandezza, dei tuoi soldi” constatò freddamente, valutando il peso della loro alleanza come fosse un mercante. “Non è questo, ciò che voglio. Von Svarthelfheim mi ha appena concesso dei vantaggi migliori,” gli ricordò.

“Il tesoro del Reno dovrebbe stare in un museo, col nostro nome accanto! Loro lo venderanno a qualche collezionista, lo smembreranno,” insistette Thor, furente, maledicendolo ad alta voce per la sua doppiezza bieca, crudele.

“È davvero questo, quello che desideri, Loki? Vuoi distruggere l’ultima traccia della tua Asgard?”

Alla luce delle fiamme, gli occhi chiari dell’archeologo parevano quasi lucidi. “È troppo tardi. È comunque troppo tardi,” mormorò tra i denti.

 

Sigyn non entrò mai nella sepoltura proibita che, come si racconta, custodiva addirittura l’ultima traccia dell’immenso tesoro dei perduti Æsir: furono Loki e Thor, a farlo, perché Malekith Von Svarthelfheim li aveva catturati, piombando su di loro con una squadra armata che era riuscita a sovrastarli per numero, ma era stata la presenza di Lord Borson prigioniero, a bloccare i due ex ufficiali britannici, costringendoli ad alzare le mani in segno di resa. Odino era stato senz’altro crudele e spietato con loro, anteponendo all’amore, che avrebbe dovuto dimostrare nei loro confronti, la sfrontata ricerca della conoscenza. Era troppo impegnato a interessarsi al destino di popoli morti millenni prima, che a occuparsi dei suoi figli o delle loro madri[2]. Nonostante tale consapevolezza, però, persino Loki si arrese. Il tradimento bruciava ancora nel suo petto fiero, lo diceva la piega severa delle labbra sottili e altrimenti ironiche, le sopracciglia scure aggrottate, ma che Odino morisse per mano di Von Svarthelfheim era qualcosa che nemmeno l’enorme menzogna in cui era vissuto, poteva giustificare. Perdonarlo no, non gli sarebbe stato possibile, neanche quella notte, ma un giorno avrebbe accettato che suo padre era tale pur con i suoi limiti, vizi, debolezze, meschinità, peccati, difetti.

 

Sì, Sigyn non entrò mai nella sepoltura proibita: rimase all’esterno, con Odino. La sua vita, assieme a quella del vecchio studioso, costitutiva l’accordo su cui si era basata la pericolosa alleanza tra Loki e Malekith. “La salvezza del vecchio e della ragazza in cambio del mio aiuto,” si era sbilanciato, ignorando del tutto la volontà del suo commilitone, amico, fratello, che gli gridava di non cedere a nessun compromesso e lo accusava a gran voce di essere un traditore con quanto fiato aveva in gola.

Le canne metalliche dei fucili erano a pochi centimetri dai loro volti pallidi, fiocamente illuminati dalla luce dei falò che Malekith aveva ordinato di accendere. Le fiamme guizzanti, però, non facevano altro che rendere ancora più spaventose le ombre già terrificanti che circondavano l’accesso alla sepoltura. Era come lei e Loki avevano ipotizzato: c’era un’apertura quasi invisibile nella grotta, che si trasformava in un cunicolo che scendeva giù, nelle cavità della roccia. L’archeologo e sir Stormbreaker furono costretti ad avvicinarsi al buio corridoio di pietra, incontro alla maledizione, pena l’immediata fucilazione.

“Vi concedo l’onore di aprirci la strada, professor Laufeyson,” esordì Malekith, ma il suo dono era tale solo all’apparenza: non aveva avuto accesso alle stesse informazioni dell’archeologo e temeva, forse a ragione, la presenza di trabocchetti o trappole sparse. Oppure, l’avvertimento contro i ladri di tombe faceva più effetto sul suo spirito. Non si fidava palesemente di Loki e continuava a tenerlo sotto tiro e quest’ultimo, dal canto suo, non aveva smesso di sfoggiare la consueta aria spavalda e fiera. A bilanciare la situazione, c’era Thor: la reazione di sir Stormbreaker era stata troppo scomposta e sincera perché si trattasse di una qualche trappola; nessuno avrebbe saputo recitare una parte con altrettanta bravura.

“Von Svarthelfeim, sei più generoso di quanto pensassi, con i tuoi amici e con i tuoi prigionieri,” constatò Loki sfoggiando un sorriso di lupo.

“Per questo credo che non vi dispiacerà, professore, se anche vostro fratello ci accompagnerà nella nostra allegra gita. È una precauzione in più.”

Loki non batté ciglio. In questo modo, l’ira dei rancorosi Æsir avrebbe colpito loro, per primi, perché questo avviene, quando fiaba e mito e storia si mescolano assieme. Sigyn cercò lo sguardo quasi trasparente dell’archeologo, riuscendo a intercettarlo, sì, ma per un solo istante. Vi lesse una determinazione gelida che la spaventò, suo malgrado, quasi facendole ignorare l’ammonimento criptico che Odino lanciò ai figli quando quelli erano già oltre la spaventosa soglia.

Perché fare l’angelo quando puoi fare Dio?”

Malekith si incupì. Il buio della caverna già li inghiottiva e un cattivo presagio gli scivolò lungo la schiena. “Che significa?” si stizzì, impaziente.

L’archeologo inglese piegò le labbra sottili in una smorfia. “Davvero lo ignori? Allora è vero quello che si dice sul vero motivo per cui ti hanno affidato la cattedra,” gli soffiò contro, mellifluo e crudele e sfrontato. “Gli Æsir credevano, o meglio facevano credere agli altri, di essere delle vere e proprie divinità invincibili. Ne erano così convinti, che le popolazioni da loro conquistate offrivano loro ingenti tributi. Anche così si formò il tesoro,” spiegò, ma forse era una menzogna, la sua.

Quello che avvenne dopo, Sigyn non lo seppe mai con assoluta certezza. Sentì più volte la versione di Loki e, quando lui era ormai morto, udì anche quella di Thor: i due racconti combaciavano quasi alla perfezione, ma la donna avrebbe avuto per sempre la sensazione che qualcosa le fosse stato volutamente nascosto. Non scoprì mai, invece, che la strana frase sarebbe stata mormorata all’orecchio del professor Laufeyson poco più di vent’anni dopo, quando il plotone di esecuzione comandato da Kurse Von Svarthelfheim era pronto a porre fine alla sua vita sfrontata e colma d’avventura.

 

 

 

 

Loki e Thor raccontarono a Sigyn e a Odino una strana storia, quando uscirono dal cunicolo. Erano riusciti a salvarsi per un soffio, ma l’oro del Reno era rimasto lì, nel cuore della terra, protetto dalla roccia e dal tempo. Con esso, erano sparite per sempre anche le ultime vestigia della perduta città degli dèi. Malekith si era sopravvalutato: non si era accorto che i due fratellastri erano in combutta tra loro. La loro recita carica d’improvvisazione fu condotta, da ambo le parti, con maestria e abilità e acume, perché era vero ciò che sir Stormbreaker aveva gridato a gran voce all’archeologo: prima di essere fratelli di sangue, erano amici, alleati, compagni d’avventura sopravvissuti a mille orrori. Eppure, dove trovare le parole per spiegare ciò che avvenne in fondo alla sepoltura di Reginn, un re che si diceva fosse stato ucciso dal suo congiunto Fafnir che, compiuto l’insano gesto, aveva mutato il proprio aspetto in quello d’un drago? Si inoltrarono lungo il corridoio di pietra, osservando i disegni e le rune del tempo che era stato, incantandosi di fronte alla vastità del sepolcro del re, posto sotto un’immensa volta naturale d’inimmaginabile perfezione. La nave che lo aveva ospitato, contro ogni logica e previsione, si era perfettamente conservata e, sulla sua sommità, riposava un corpo, ma nessuna gemma o pietra o manufatto rischiarava la sepoltura.

“Dov’è l’oro del Reno?” gridò Malekith voltandosi verso Loki e Thor. Il primo forse avrebbe sorriso e si sarebbe dilettato in una delle sue battute facete e pungenti, ma il suo volto scolorì, fissando un punto dietro Von Svarthelfheim.

“Temo che siamo arrivati comunque tardi,” deglutì, sgranando gli occhi.

Gli uomini di Von Svarthelfheim indietreggiarono, uno sparò nonostante non ne avesse ricevuto l’ordine. Il proiettile colpì la strana e imponente figura, provocando un frastuono che echeggiò tetro tra le pareti di pietra, ma l’ombra continuò a emergere dall’oscurità rivelandosi per quello che era. Un guerriero d’altri tempi con la pelle scurissima e un’armatura antica addosso. Nelle sue mani, stringeva una lama affilata dall’elsa finemente decorata.

“Vi ho aspettati per tempo lunghissimo, quindi sì, siete arrivati tardi,” constatò. I suoi occhi di brace si posarono brevemente su Malekith, per poi tornare a soffermarsi sui due britannici.

“Chi sei tu? Dov’è il resto del tesoro?”

“Io sono il Guardiano di Asgard, Heimdall,” spiegò la figura impassibile e severa. “Per mille anni ho aspettato che qualcuno varcasse la Porta di Fafnir. Se vi dimostrerete degni, potrete avere tutto ciò che desiderate.” La meravigliosa arma continuava a rilucere tra le sue mani, né il misterioso straniero mostrava l’intenzione di abbassarla.

“E cosa dobbiamo fare, per dimostrarci degni?” s’interessò Loki guardingo, cercando di capire se l’uomo di fronte a lui fosse un folle o un incubo sbucato dal passato.

“Rispondere alla mia domanda.  Posso leggere nel tuo cuore come in quello dei tuoi compagni, quindi siate sinceri,” spiegò sicuro Heimdall.

I due ex ufficiali si scambiarono un’occhiata sorpresa. Non c’era scritto in nessun codice antico, né in alcuna poesia, che il tesoro di Asgard fosse protetto da un guardiano imponente. Malekith diede ordine che fosse ucciso e una pioggia di piombo si riversò sulla figura ammantata d’oro e armata, ma Heimdall non solo sopravvisse ai proiettili, ma usò la sua spada contro gli uomini, uccidendo quanti gli si opposero. I sopravvissuti imboccarono la via d’uscita; alcuni si persero, inoltrandosi nel cunicolo sbagliato, altri si misero in salvo e fuggirono. Solo Von Svarthelfheim, Loki e Thor rimasero al cospetto del Guardiano.

“Dimmi,” disse Heimdall rivolgendosi a Malekith, “Perché desideri il tesoro maledetto di Reginn?”

Von Svarthelfheim spostò lo sguardo su Loki e Thor.

Fu l’archeologo a parlare. “È la frase che ha detto Lord Borson, ricordi? Perché fare l’angelo quando puoi fare Dio. Gli Æsir consideravano se stessi delle vere… divinità scese in terra. Vuole sapere se sei degno, l’ha detto.”

“Il mio nome deve legarsi ad Asgard in eterno. Il tesoro mi spetta,” proferì sicuro Malekith, “perché io l’ho trovato.”

Il Guardiano non parlò, limitandosi ad annuire. La risposta era stata sicura e superba e senz’altro adatta a un popolo di predoni e feroci combattenti che aveva messo a ferro e a fuoco il mondo intero.

“Il tuo cuore è gonfio d’arroganza e la tua risposta è sbagliata,” decise dopo un tempo che parve a tutti infinito e lo uccise con un fendente secco della sua spada. Mentre la lama era ancora infilata nel cadavere dello studioso, si rivolse a Loki e a Thor. “Lo avete consigliato molto, molto male. E voi, perché siete qui, cosa volete dal tesoro di Reginn?”

“Qual è la risposta giusta?” chiese a denti stretti Thor, fissando il corpo ormai inerte ai suoi piedi.

Loki scosse la testa: non la conosceva. La sicurezza che aveva sfoggiato fino a quel momento era frutto dell’improvvisazione e della sua natura istrionica e astuta, capace di adattarsi a ogni situazione, ma la verità era che l’archeologo non aveva la più pallida idea di cosa fosse giusto dire. C’erano state, tra lui e Lord Borson, numerose teorie e illazioni su cosa potesse avvenire una volta varcate le Porte di Fafnir, ma nessuna riguardava indovinelli mortali. Improvvisamente, gli tornò in mente la criptica frase che gli aveva suggerito Odino. Perché fare l’angelo quando puoi fare Dio? Il riferimento era strano e l’interpretazione tronfia che aveva dato, buona solo a metà. Nei poemi scaldici e nelle canzoni, gli Æsir erano un popolo fierissimo e arrogante che si vantava di avere ascendenze addirittura divine. I riferimenti in tal senso erano numerosissimi, ma gli angeli? Cosa c’entravano quelle figure che appartenevano a tutt’altra religione, con l’oro del Reno? Perché fare l’angelo quando puoi fare Dio?

Un guizzo, un ragionamento gli illuminò la mente sempre scaltra. Gli angeli. Beda il Venerabile. Snorri Sturloson, che era stato, allo stesso tempo, un monaco e un capo del Thing[3], unendo le due culture – quella cristiana e quella vichinga – mettendo per iscritto l’Edda e pregando, allo stesso tempo, gli angeli. Era lui che rappresentava il punto di unione tra il mito e ciò che era reale. Odino gli aveva dato la soluzione senza nominarla davvero, affidandosi alla sua intelligenza, ma anche a un’illazione fantasiosa e forse fallace, a una profezia vecchia mille anni. Un guizzo di nero orgoglio gli gonfiò il petto.

Sorrise, sfoggiando una sicurezza che, forse, non possedeva del tutto. “Siamo qui perché la Voluspa dice che, anche se il destino degli Æsir era quello di morire nonostante il loro grande potere, un giorno sarebbero comunque tornati.”

Si fermò, stupito improvvisamente da una consapevolezza che si dipanava nella sua testa. “Asgard non è solamente un luogo o un tesoro, ma la memoria di un popolo. Noi non siamo qui come fossimo dei messaggeri alati, ma per portare agli uomini la vera vista di un tesoro favoloso e per raccogliere l’eredità di genti scomparse.”

“Allora la tua Lingua d’Argento non si è improvvisamente seccata,” mormorò il Guardiano. “Sei stato saggio, e io ho aspettato che tornaste qui per molto, molto tempo,” gli disse e mostrò a lui e a sir Stormbreaker ciò che era rimasto del tesoro perduto nascosto nella Gola del Reno e raccontò loro una storia di anime cui era stata data la possibilità di avere altre occasioni e, assieme a queste fiabe, altri miti e leggende e canzoni che erano state dimenticate.

 

 

 

Sigyn e Odino ascoltarono il racconto e se lo fecero ripetere più volte. Non riuscivano a credere a una storia così fantasiosa, non potevano farlo, eppure, nei loro cuori, sapevano in qualche modo che Loki e Thor avevano ragione ed erano sinceri. Intuirono anche che una parte del dialogo con il Guardiano sarebbe stato loro precluso per sempre, ma questo non aveva importanza. Certe cose devono rimanere sepolte, come Heimdall, che si lasciò soffocare dalla caverna che gli cadde sulla testa quando Loki e Thor uscirono di corsa dalla sepoltura di Reginn, perché così diceva la Voluspa. Kurse Von Svarthelfheim, vedendo uscire dalla caverna i due inglesi senza il fratello, giurò vendetta e tentò di ucciderli, ma, poiché era rimasto pressoché solo, finì per essere sopraffatto dai suoi avversari e fuggì.

L’archeologo rimediò un graffio lieve alla spalla e fu allora, mentre Sigyn medicava la ferita leggera con gli scarsi mezzi che aveva, che tirò fuori dalla camicia imbrattata di polvere la bussola.

“Ti sei quasi fatto uccidere,” lo rimproverò lei. “E adesso, professor Laufeyson? A quale altro tesoro vorrai dare la caccia?”

Un lampo divertito illuminò lo sguardo verde dell’archeologo. “Troverò qualcosa, non preoccuparti,” ghignò.

“Immagino: qualcosa di pericoloso, potenzialmente mortale, che mi farà vivere in una preoccupazione costante.”

“È la mia natura, Sigyn.” Loki parlò con lentezza, osservando i bei capelli d’oro stretti in una treccia morbida e leggera, fissando gli occhi grigi e dolci della donna dietro le lenti degli occhiali. “Andrò sempre in cerca di qualcos’altro; la soddisfazione non è nella mia natura. Non posso rimanere seduto dietro a una scrivania a fare lezione. Sono nato per lasciare un segno nel mondo,” disse fiero.

“Amo di te, Loki Laufeyson, che anche se qualcosa ti spezza, tu non ti arrendi mai,” rispose Sigyn continuando a medicarlo con infinita dolcezza. “Per questo sono qui, sono spezzata anch’io; forse tu puoi ripararmi, e io riparerò te, se me lo lascerai fare.” Lo guardò alla luce fioca della lampada e trattenne il respiro, perché sapeva di essersi esposta eccessivamente, ma quando Loki era entrato con Thor nella caverna aveva temuto che non tornasse più da lei.

“Credevo fossero l’ambizione e la voglia di diventare un’importante studiosa, a muoverti,” ironizzò.

“Oh, Loki!” rise lei, “sei acuto nell’indovinare i pensieri degli altri, ma terribilmente cieco per il resto.”

“Hai un pessimo senso dell’orientamento e la x non è mai il punto dove scavare. Ti serviranno le coordinate giuste,” decise spiccio lo studioso, sorvolando sull’allusione di lei e su molte, troppe cose.

Sigyn guardò la bussola dal coperchio intarsiato che le ricordava sempre troppe cose – notti d’amore lontane, eppure vicine. “Ti consoli del tesoro perduto facendomi un regalo?”

“Abbiamo trovato l’oro del Reno, eppure non ci è rimasto niente. Anche se, forse, non tutto è andato perduto.” Un sorriso lento e sbieco, di lupo, si disegnò sulle labbra sottili del professore. Premette un pulsante e la bussola si aprì, rivelando il segreto di un doppiofondo.

“Loki Laufeyson, mi stai dando un anello?”

“Un anello che viene da un tesoro maledetto, per la precisione. Ma non preoccuparti, nessuna sventura toccherà la persona cui è stato donato. Me l’ha assicurato il Guardiano. Un tipo pedante, ma non male, dopotutto.”

“Perché?” boccheggiò Sigyn.

L’uomo rispose faceto e ironico, come sempre. “Conosci le mie abitudini, i miei ritmi…sarebbe seccante ricominciare daccapo, ma ormai sei una studiosa a tutti gli effetti e la ricerca che stai scrivendo è buona. Non puoi essere la mia assistente in eterno, ma nemmeno andartene in giro liberamente, con tutti i miei segreti,” chiosò furbo.

“Che mi sta proponendo, professor Laufeyson?”

“Pare che debba chiederti di diventare mia moglie. Ovviamente, come garanzia.”

 

 

Londra, 1983

 

“Non ci rimase nulla, a parte questo.” L’archeologa aprì la bussola dal coperchio intarsiato e mostrò alla ragazza un cerchio d’oro antico, un anello formato da due fili che si univano. Il sorriso di Sigyn era vacuo e dolcissimo.

“Nella canzone di Reginn c’era scritto che il tesoro era maledetto, tutto tranne questo anello. Così è stato. La sua più grande scoperta l’ha condotto alla morte. Kurse ebbe la sua vendetta, alla fine.” Un sospiro carico di nostalgia le uscì dal petto.

“Ora sono davvero stanca, ninì. È ora che riposi.”

Le dita ormai segnate dagli anni strinsero la bussola come fosse una cosa cara, preziosa.

Sigyn chiuse gli occhi, mentre la pioggia, lentamente, la cullava col suo ritmo cadenzato e sempre uguale, incessante come i giorni che sarebbero passati scorrendo gli uni uguali agli altri. Claudette si era già addormentata nella sua stanza e il sonno flebile colse anche l’anziana studiosa, trasportandola in quella dimensione a metà strada tra il sogno e il ricordo, tra il pensiero e la realtà. Fu lì che rimase sospesa finché il cuore non cessò di battere, il respiro di uscirle dal petto. Fu una morte dolce, arrivata prima che l’alba si affacciasse oltre la finestra, che l’accolse mentre lei era avvolta tra coperte candide. Un sorriso lieve e leggero le increspava le labbra. La presa sulla bussola si allentò appena, ma la catenella che la reggeva rimase a cingerle l’anulare e il polso come fosse un fantastico gioiello. Nei dolci sogni misti alla memoria che la condussero lentamente verso l’aldilà, Sigyn si ritrovò a vagare finché ogni cosa, anche se stessa, perse di significato. Così il sonno eterno l’avvolse.

 

 

Gola del Reno, Germania, 1920, la lunga notte della scoperta

 

Un rumore improvviso, forse un tuono, la riscosse. Sigyn aprì gli occhi sollevandosi appena dal letto, la coperta di lana ruvida stretta sulla camicia di raso sottile, strappandola al calore delle coltri su cui, poche ore prima, aveva sospirato e amato e perso il controllo. Nella penombra non notò nulla. Si passò una mano tra le ciocche bionde che le ricadevano, caotiche, sulle spalle esili e sottili e poi si adagiò di nuovo sul materasso cigolante, cercando il conforto di Loki, steso accanto a lei.

L’archeologo aprì un occhio, mugugnando appena. La cinse con un braccio e l’attirò contro il suo corpo asciutto e tonico, carezzando il raso liscio e piacevole al tatto che le fasciava la pelle calda, ghermendole la vita. Sigyn si crogiolò in quell’abbraccio e gli diede un bacio sul collo, uno sulla mascella affilata e leggermente ispida, un altro, più lento e intenso, sulle labbra ironiche e sottili – assaggio accorato, dolce, profondo.

“Cos’hai sognato, di così terribile?” le ghignò lui perfido sulla bocca, facendo scorrere le dita sul tessuto liscio, carezzandole la linea arcuata della schiena, i fianchi sodi e rotondi.

“Asgard,” disse lei, ma non era sicura di averla ricreata davvero nella propria testa, perché si era trattato uno di quei sogni vividi che svaniscono non appena si aprono gli occhi.

“L’abbiamo trovata, Asgard,” rispose Loki e chiuse di nuovo gli occhi mentre lei respirava il suo profumo, si consolava col suo tepore, si stringeva contro il suo corpo, godendo della prima di molte notti che avrebbero trascorso l’uno tra le braccia dell’altra.

“Ti amo,” gli disse, ma il respiro lento e regolare dell’uomo la convinse che non l’avesse udita e così si lasciò cullare dal suo respiro. Glielo avrebbe detto ogni volta, per tutto il tempo che le sarebbe stato dato da vivere, ma questo, ancora, non lo sapeva.

Dopo un minuto che le parve lunghissimo, lo sentì respirare con più forza. “Lo so,” le rispose, e cominciò a carezzarle le ciocche bionde senza aggiungere nient’altro finché il sonno non li avvolse.

 

 

…A time for us at last to see

A life worthwhile for you and me

And with our love through tears and thorns

We will endure as we pass surely through every storm

(Nino Rota, “A time for us”, Romeo e Giulietta OST, regia di F. Zeffirelli, 1969)

 

 

 

 

Note Autrice:

 

Nome (EFP e Forum):  shilyss/Shilyss

Titolo: L’oro del Reno

Genere:

Rating: arancione

Pacchetto scelto + eventuale bonus: Niobe e Latona, completo VICENDA: Il protagonista subisce la perdita di qualcuno di importante;

FRASE: "Perché fare l’angelo quando puoi fare Dio?"

SENTIMENTO: Superbia;

 

Fandom: Thor

Note (facoltative): presenti a fine testo.

 

 

Autore: shilyss/Shilyss

Titolo della storia: L’oro del Reno

Pacchetto utilizzato: Archeologo

Elementi utilizzati: pacchetto completo [

 

Cari Lettori,

 

C’è chi questa storia la attende da quasi un anno, chi ha chiesto che fosse inserita questa o quella scena, chi mi ha supportato ascoltando le mie paturnie sulla trama. Beh, questa storia è per voi ♥, ve la dedico, ma lo è anche per quelli che inizieranno a leggere e (spero) la ameranno. Scriverla non è stato semplice: ho scelto un periodo problematico che va dal 1914-1920 con accenni al 1944 e al 1983 e ho ribaltato per l’occasione il canone. Il tentativo è sempre quello di scrivere e proporre storie sempre nuove, un po’ perché sono una lettrice che si annoia facilmente, un po’ perché amo sperimentare.

 

La storia partecipa a ben due contest: nel primo, Lavoratori allo sbaraglio, dovevo inserire una relazione di lunga data tra i personaggi protagonisti, una bussola, e la frase «Per questo sono qui, sono spezzata anch’io; forse tu puoi ripararmi, e io riparerò te,» (Aviators – Angels and Demons). Il rapporto di lunga data è duplice ed è quello tra il professor Loki Laufeyson e la sua bionda assistente Sigyn, poi moglie e, infine, curatrice delle sue opere. Un legame lungo una vita. La bussola è l’oggetto dentro cui Loki nasconde ciò che resta di Asgard (l’anello) e che dona a Sigyn, che lo conserverà per tutta la vita. La frase è quella che trovate nel capitolo 3, anche se il concetto di “spezzato” domina l’intera minilong.

 

L’altro contest è “L’Antica Grecia al giorno d’oggi: vizi e virtù” qui un personaggio doveva subire una perdita (Sigyn rimane vedova di Loki e ripercorre il tempo della sua giovinezza, ma anche Loki perde il suo mentore a seguito di una rivelazione tremenda). La vicenda doveva svolgersi in età moderna e contemporanea, quindi abbracciare un periodo che va dal 1492 a oggi ed è ambientata nel 1914, nel 1917-20 e nel 1983. La frase è presente nel secondo capitolo e nel terzo, in riferimento alla necessità di violare un luogo maledetto (il luogo dov’è situato L’oro del Reno) e come battuta volta a dannare Malekith, anche lui vittima della propria superbia. La superbia è un atteggiamento che caratterizza naturalmente il personaggio di Loki e gli Æsir, ma qui è intesa anche come la sfida di uno studioso che desidera violare un tesoro, svelare un segreto, non comprendendo realmente il significato della Voluspa. Il discorso finale su Snorri è reale.

 

Come sempre, anche in questa mia storia c’è tantissimo mito: in particolare, tutta la leggenda legata al mito delle Canzoni di Reginn e di Fafinir (Edda poetica); rispetto al MCU Loki e Thor qui sono davvero fratelli. Credo di aver messo note nel testo per altri passaggi. Augurandomi che la lettura vi sia stata piacevole (se così è stato ricordatevi che ci sono le liste), vi ringrazio per essere arrivati fino a qui. ♥

 

Shilyss



[1] Ni è un abbreviativo che sta per “nipotina.” Immagino che anche le vostre nonne/zie abbiano usato dei vezzeggiativi nei vostri confronti. Ecco.

[2] Un riferimento al bellissimo Indiana Jones e l’ultima crociata era d’obbligo, ma sicuri che sia uno solo?

[3] Assemblea vichinga.

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