Cielo e Tenebra

di _armida
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Figli ***
Capitolo 3: *** Fratelli ***
Capitolo 4: *** Amici ***
Capitolo 5: *** Amanti ***
Capitolo 6: *** Acque mosse, parte I ***
Capitolo 7: *** Acque mosse, parte II ***
Capitolo 8: *** A piccoli passi ***
Capitolo 9: *** La Fuga ***
Capitolo 10: *** Rotta verso l'Ignoto ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Nda
Ehilà! Eccomi finalmente qui con il seguito di L'Altra Gemella. Lo so, tanto per cambiare sono in ritardo di un mese sulla tabella di marcia che avevo promesso, ma spero che con questo primo brevissimo capitolo riuscirete a perdonarmi (anche se, uno volta letto, ho i miei dubbi). Non vi voglio anticipare niente per quanto riguarda la trama, ma solo avvisarvi che per ora ho più o meno una quindicina di capitoli sparsi qua e là (perchè andare con ordine quando si ha il disordine nel sangue?) finiti o in via di scrittura; nonostante questo, fino a quando non avrò messo per iscritto l'intera storia pensavo di pubblicare i capitoli a cadenza mensile, a grandi linee restando sulla prima settimana di ogni mese, per poi passare ad una cadenza settimanale  (vi avviserò quando accadrà, ovviamente). 
Per ora posso solo augurarvi buona lettura e fatemi sapere cosa ne pensate di questo prologo un po' particolare ;)



Prologo 


L’aria era satura dell’odore del sangue e dei rumori dei colpi di spada: ferro contro ferro, una vibrazione che si propagava velocemente nell’etere.  
Era così, dunque, che avrebbe lasciato quel mondo: circondata dai rumori di una battaglia, uccisa dalla sua stessa spada? 
Alzò per un attimo gli occhi sul suo boia, osservandolo con aria di sfida. Francesco Pazzi le rispose con un sorriso trionfale, un’espressione che avrebbe dato sui nervi persino ai suoi più stretti alleati. 
Abbassò il capo, studiando il pavimento nell’attimo in cui vide la spada alzarsi, pronta a calare con violenza e rapidità sul suo capo. La sentì fendere l’aria e, nonostante si fosse ripromessa di non guardare, non potè fare a meno di alzare nuovamente la testa su di lui: ma non era Francesco Pazzi, quello in piedi davanti a lei. Al suo posto, sempre con la sua spada in pugno, vi era Girolamo Riario.  
L’espressione del Conte in quel momento era fredda e distante, ancora più indecifrabile della prima volta che lo aveva incontrato, all’accampamento fuori Firenze. Senza esitare, senza un minimo di compassione nello sguardo, sferrò il colpo fatale. 
Non le mozzò il capo, come si sarebbe aspettata, ma la colpì dritta al cuore, affondando la lama fino all’elsa, penetrando con estrema facilità nella pelle, grattando contro le ossa della gabbia toracica, recidendo tutto ciò che si trovava sul suo cammino. 
Nonostante l’arma che le fuoriusciva dalla schiena per diversi centimetri, riuscì a rimettersi in piedi. Osservò con sguardo smarrito prima il proprio aggressore, poi l’elsa della propria spada.  
Non c’era una scintilla di compassione nello sguardo di quell’uomo. Era una macchina, una macchina creata solo per uccidere, incapace di provare una qualsiasi emozione. 
E lei ci era cascata in pieno: aveva cercato amore in chi amore non era in grado di provarne. 
Piegò il capo, tornando ad osservare la spada ancora conficcata: il sangue sarebbe dovuto scorrere a fiotti e lei non avrebbe nemmeno dovuto avere il tempo o la forza di alzarsi in piedi.  
Perchè il sangue non scorreva? Perchè aveva ancora la forza di muoversi?  
Poi capì: non si può uccidere nuovamente una persona già morta. 
Lei era già morta, il suo cuore si era spezzato nell’istante esatto in cui aveva visto Giuliano morente a terra. 
Lei era già morta, ma il suo corpo si rifiutava di ammetterlo.  
Il suo cuore non batteva più, il sangue non affluiva più al cervello e perfino i polmoni avevano smesso di funzionare, eppure lei poteva ancora muoversi.  
Il suo sguardo corse alle proprie mani, bianche come quelle di un cadavere e bluastre alle estremità. Era diventata anche lei un cadavere.  
Si voltò su se stessa, osservando il corpo di Giuliano, riverso a terra: a differenza sua, il sangue continuava a fuoriuscire dalle innumerevoli ferite inferte dai congiurati e, intorno a lui, una macchia rossastra si allargava a vista d’occhio.  
Percorse alcuni passi in quella direzione e gli si inginocchiò accanto, incurante di essere immersa nel suo sangue, incurante di quella sostanza vischiosa che veniva assorbita velocemente dalla stoffa dei suoi abiti. 
 Portò un braccio sotto alla sua schiena, cercando di metterlo in una posizione semiseduta, facendogli poggiare il capo contro al proprio petto. 
“Giuliano”, mormorò appena, sperando che da un istante con l’altro i suoi occhi si sarebbero aperti, che avrebbe potuto osservarli ancora una volta. 
Non ottenne alcuna risposta, nessun movimento, fatto eccezione il suo capo che scivolò in avanti, in una posizione innaturale che solo un corpo morto avrebbe potuto assumere. 
No, i suoi occhi non si sarebbero aperti. 
Giuliano era morto. E lei con lui. 
Il suo corpo poteva ancora provare a lottare, ma la sua sarebbe stata null’altro che un’agonia. Un’agonia a cui la sua anima si era sottratta fin da subito. 
Inutile combattere. 
Inutile tentare di sopravvivere. 

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Capitolo 2
*** Figli ***


Nda
Ehilà! Rieccomi qui come promesso con il primo capitolo della storia. Buona lettura e ci riaggiorniamo il mese prossimo! 


Capitolo I: Figli 
 

27 aprile 1478, sera del lunedì di Pasqua 


Gentile Becchi camminava avanti e indietro per il proprio studio. Erano ore che percorreva lo stesso medesimo percorso: dieci passi dividevano uno scaffale ricolmo di libri dall’altro e, al centro, la propria scrivania insolitamente in disordine. Appoggiò una mano sulla liscia superficie di legno intarsiato, reggendosi ad essa con tutte le proprie forze quando l’ennesimo capogiro della giornata lo colse all’improvviso. Chiuse per un istante gli occhi, prendendo dei lunghi respiri.  
I capogiri erano iniziati il giorno prima quando, sfumata l’adrenalina della fuga dal Duomo, dopo che la Donati era stata fatta prigioniera da Riario, aveva potuto ragionare a mente lucida sui fatti a cui aveva assisto. 
Aveva quasi avuto un mancamento quando le guardie della notte avevano riportato a palazzo il corpo martoriato di Giuliano. Dragonetti e uno dei servi lo avevano dovuto sorreggere, altrimenti era certo che sarebbe caduto a terra. 
Aveva servito sotto tre diversi signori: prima Cosimo, per cui era stato più un amico che un servitore, poi Piero, che la malattia si era portato via troppo presto, ed infine Lorenzo.  
Li aveva visti crescere, Lorenzo e Giuliano, e si era affezionato a loro come a dei figli. Lorenzo aveva la stoffa per governare, lo aveva da subito capito, ma era Giuliano il suo pupillo, il figlio prediletto.  
E ora glielo avevano portato via.  
Non era stato l’unico figlio che i congiurati gli avevano tolto: Elettra non era ancora stata trovata.  
Aveva esortato le guardie della notte a cercarla in ogni angolo di Firenze, ma niente. Di lei nessuna traccia.  
Non avrebbe dovuto permetterle di accorrere da Lorenzo, il giorno prima, in Duomo. Sarebbe dovuta restare con lui, Clarice e le bambine.  
Si lasciò cadere su una delle poltrone adibite agli ospiti quando si rese conto che le gambe faticavano a reggerlo. Chiuse nuovamente gli occhi. 
Non era la prima volta che si trovava in una situazione del genere. 
Doveva essere forte e non perdere la speranza, proprio come nove anni prima.  
Lo scorrere del tempo però si faceva sentire. Parevano essere passati molti più di nove anni. La forza e l’energia con cui aveva affrontato quegli altri infausti eventi pareva essere sfumata.  
Cercò di concentrarsi su un qualche ricordo il più possibile piacevole: gli pareva di poter ancora udire le loro risate infantili riecheggiare tra quelle quattro mura... 


1465, Palazzo della Signoria 


Alzò il viso dalle carte che stava studiando, osservando per un istante con occhio critico l’operato della bambina che gli stava di fronte, dall’altro lato della scrivania. Elettra, la sua piccola Elettra, aveva appena sei anni e aveva da poco iniziato ad imparare a leggere e scrivere.  
In quei pochi mesi di studio aveva ottenuto buoni risultati, eccezion fatta per la calligrafia. Quella rimaneva sempre un problema.  
Aveva provato ad imporle di scrivere con la mano destra, come ogni buon cristiano faceva, ma ben presto, esortato anche da quel saggio autorevole che era Cosimo de Medici, si era dovuto arrendere all’idea che la bambina utilizzasse la sinistra.  
La osservò mentre, con la fronte corrucciata e l’aria concentrata cercava di riprodurre le lettere ai bordi della pagina. Stava per aprire bocca per correggerla, quando bussarono alla porta. 
“Avanti”, disse con fare autorevole.  
Sullo stipite comparve un giovane servo, uno degli ultimi assunti dalla Signoria.  
“È arrivato l’ospite che attendavate”, balbettò con fare incerto il ragazzo, tenendo lo sguardo basso in un gesto di rispetto.  
Ad udire quella voce, la piccola Elettra si voltò verso il servo, agitando la manina sporca di inchiostro in un gesto di saluto. “Ciao, Fabrizio”, aggiunse. 
“Ossequi, mia signora”, rispose.  
Quella forma di saluto così formale fece ridere la bambina, le cui guance, per l’imbarazzo, si colorarono di rosso.  
Dopo aver osservato questa leggera scenetta con lo sguardo incantato, Gentile Becchi fece un cenno di congedo al servo, che lasciò immediatamente lo studio facendo prima un inchino. 
Tornò a guardare la nipote, tornata concentrata sul compito che le aveva affidato. 
“Torno tra un’oretta, Elettra. Se avessi bisogno di qualcosa non esitare a chiedere alla servitù” 

 

*** 

 

Un’ora più tardi... 


Gentile Becchi aprì con calma la porta del proprio studio, convinto che sua nipote fosse esattamente dove l’aveva lasciata invece... si guardò più volte intorno, ma di lei restava solo un quaderno macchiato d’inchiostro e una piuma d’oca abbandonati sulla scrivania. 
Prese un lungo respiro, dandosi mentalmente dello stupido da solo: non avrebbe dovuto lasciare sola per tutto quel tempo una bambina di sei anni. Specialmente se quella bambina aveva il brutto vizio di cacciarsi nei guai. 
Non gli restava altra scelta che andare a cercarla pregando di arrivare prima che combinasse qualcosa di grave.  
Uscì dal proprio studio a passo di marcia, chiedendo ad ogni persona che incontrava se avesse visto sua nipote in giro. 
Le risposte furono tutte vaghe. 
Passò davanti alla piccola biblioteca privata di Cosimo de Medici, dove l’ormai anziano Signore della città era solito passare le proprie giornate. La porta non era stata completamente socchiusa e da un’apertura di appena un paio di dita si poteva osservare cosa avvenisse all’interno.  
Gentile Becchi inizialmente non fece troppo caso a quel dettaglio, sorpassando con delle lunghe falcate quella stanza e continuando la propria ricerca per i corridoio, ma si fermò poco dopo, non appena delle voci infantili lo riattirarono verso di essa. Si accostò alla porta, aprendola appena un poco di più, lo spazio necessario ad osservare l’interno.  
Ciò che vide gli fece sciogliere il cuore.  
Tre bambini erano seduti a terra, intenti a conversare con un uomo anziano su di una poltrona. 
“E tu, mia cara, cosa vorresti fare da grande?”. La voce di Cosimo de Medici riusciva sempre ad essere paziente, sia che si trattasse di delicate questioni politiche che di tenere a bada i diversi bambini che vagavano per il palazzo.  
La piccola Elettra si morse il labbro e lasciò una risatina, come se all’improvviso tutta la timidezza si fosse concentrata in lei. “Diventerò il Capitano delle Guardie della Notte!”, disse, tornando ad essere in un istante la bambina iperattiva di sempre.  
“Quello è il mio posto”, ribattè prontamente il piccolo Giuliano. “E tu sei una femmina” 
La bimba arricciò le labbra, offesa da quello che aveva appena sentito. Il suo sguardo cadde sulla piccola spada di legno del più giovane de Medici, poggiata sul tappeto tra di loro. La prese tra le mani e si alzò di scatto, puntandola al collo del bambino. “Prenderai ordini da me, che tu lo voglia o meno”, disse con tono sicuro di sè.  
Giuliano fece una smorfia, prima di avventarsi sulla sua compagna di giochi. Caddero entrambi a terra, cominciando ad azzuffarsi. 
Lorenzo, ormai adolescente, guardò i due contrariato, a differenza di Cosimo, che si mise a ridacchiare. 
“Elettra” 
La voce indispettita di Gentile Becchi bloccò all’istante qualsiasi movimento della piccola che, in quel momento in posizione di vantaggio, seduta sulla pancia di Giuliano, fu ben presto ribaltata.  
“Ciao, zio”, disse innocentemente, cercando di soffiare via i lunghi capelli dal viso. Sulla sua guancia una vistosa macchia bianca faceva mostra di sè. 
“Cosa hai combinato?”, chiese Becchi, cercando di mantenere un tono intransigente, ma non potendo fare a meno di una nota di preoccupazione.  
“Ho aiutato il Maestro Andrea”, rispose lei, saltellando dall’entusiasmo nella sua direzione. 
“Oh cielo, ora ti metti pure a perseguitare il povero Verrocchio?”  
“Doveva solo dare una mano di bianco su una parete, Gentile”, ribattè Cosimo, con tranquillità. 
“Dice che ho un’ottima mano”, continuò la bambina.  
Gentile Becchi non potè fare a meno di sorridere di fronte a tutto quell’entusiasmo. Le carezzò il capo con una mano, cercando invano di sistemarle i capelli arruffati. 
Cosimo li osservò per alcuni istanti con il sorriso sulle labbra, prima di decidere di parlare. “Lorenzo, Giuliano, perchè non mostrate ad Elettra quel nuovo gioco dall’oriente?”  
Il bambino più piccolo annuì all’istante, prendendo la sua amica per una mano e correndo via, seguito da un decisamente meno entusiasta fratello maggiore. 
Quando furono lontani, il consigliere della repubblica si lasciò andare ad un sospiro. “Non ho più l’età per stare dietro a quella bambina” 
Cosimo scoppiò a ridere. “Lo hai detto di tutti, da sempre” 
“Diventerà una dama un giorno o l’altro, deve imparare le buone maniere e la disciplina”, borbottò, riferendosi alla piccola azzuffata a cui aveva assistito.  
“Non sono d’accordo”, ribattè in tono deciso l’anziano amico. “Lascia che Elettra diventi ciò che desidera, non ostacolarla mai. Se lo farai...”, le sue labbra si piegarono in un sorriso enigmatico, come spesso accadeva quando parlava del futuro. “Quella bambina è destinata a grandi cose, Gentile”  


“Consigliere?...Becchi? State bene?” 
Gentile Becchi sbattè più volte le palpebre per ritrovare lucidità e cacciare via le lacrime che gli appannavano la vista, prima di voltarsi nella direzione da cui aveva sentito arrivare una voce. 
Clarice Orsini, in piedi sulla soglia della porta in attesa del permesso di entrare, lo osservò a sua volta con uno sguardo ricolmo di compassione. Nonostante il volto pallido e le profonde occhiaie viola, tentò di rivolgergli un sorriso. Gesto che l’anziano consigliere apprezzò molto. 
“Il cerusico ha appena finito di visitare Lorenzo, dice che gli occorrerà molto riposo e...nemmeno lui si capacita come abbia fatto Da Vinci a salvargli la vita”, disse la donna, faticando a contenere tutto il proprio sollievo.  
Becchi avrebbe tanto voluto essere partecipe di quell’entusiasmo, avrebbe voluto viverlo, poterlo fare suo e allontanarsi per un istante dalla dolorosa morsa al cuore che gli rendeva difficoltoso anche il più insignificante movimento, ma non ci riuscì. Provò almeno a sorride alla Madre di Firenze, ma esso apparve stentato e troppo forzato. “Grazie”, riuscì appena a mormorare. 
Non aveva notato prima di quel momento il fazzoletto bianco che Clarice teneva tra le mani.  
Seguì anche lei lo sguardo dell’uomo e la sua espressione si fece cupa. Il consigliere mosse alcuni passi nella sua direzione e lei gli porse il lembo di stoffa, che aveva tutta l’aria di celare qualcosa al suo interno. 
“Dragonetti lo ha trovato in mano ad un rigattiere che tentava di venderlo”, spiegò la Orsini mentre Becchi scostava con attenzione e cura il tessuto. “Ha detto di averlo preso al Duomo”   
Un gemito sfuggì dalle labbra del consigliere quando vide di cosa si trattava.  
“Elettra non se ne sarebbe mai separata”, disse con appena un filo di voce.  
Osservò il bracciale che teneva tra le mani con più attenzione: la catenella di finissimo oro bianco era spezzata in un punto e un paio di acquemarine si erano scheggiate ma non c’erano dubbi, quello era senz’altro il suo. Lo aveva visto comparire così, da un giorno all’altro al polso della nipote e si era sempre chiesto da dove arrivasse. Le malelingue del palazzo parlavano del dono di un amante, ma lui ovviamente non ci credeva.  
Qualcuno aveva tentato di ripulirlo con cura, ma nei punti in cui le pietre erano state incastonate vi erano rimaste delle macchie di colore rosso.  
Sangue.  
Della sua bambina, probabilmente.  
Serrò gli occhi con forza. 
Il non averla vista fare immediatamente ritorno a palazzo, ciò che Da Vinci gli aveva raccontato riguardo alla chiusura delle porte della Sagrestia e ora quel bracciale...le sue speranze di poterla di nuovo stringere tra le braccia diminuivano di ora in ora. 
Clarice gli poggiò una mano sulla sua spalla in un tentativo di conforto. “Mi dispiace molto, Becchi”, disse, sinceramente mortificata. “Dragonetti in questo momento sta interrogando Francesco Pazzi, sono certa che dopo avremo le idee più chiare” 
 “Voglio assistere all’interrogatorio”. Il tono di voce dell’anziano consigliere non ammetteva repliche. “Devo conoscere il destino di mia nipote”  


*** 
 

 

Poco dopo, nelle prigioni del Bargello... 


I tentativi di dissuadere Becchi da quell’idea si erano rivelati tutti inutili: Clarice ora aveva compreso da chi avesse preso Elettra la propria testardaggine.  
Aveva tentato in tutti modi, ma alla fine l’unico compromesso che l’uomo aveva accettato era stato quello di portarsi madonna Orsini con sè come accompagnatrice.  
Mentre venivano scortati da alcune guardie della notte nella sala adibita agli interrogatori, la donna cercò di studiare con più attenzione il volto scavato e fosco dell’uomo al suo fianco: da ottimo consigliere quale era, Becchi riusciva a mascherare bene ciò che provava o che pensava dietro ai propri modi alle volte intransigenti.
Sapeva che si stava facendo male con le proprie mani a voler ascoltare a tutti i costi le parole di un folle: di Pazzi non ci si poteva fidare. Ma lo capiva anche, capiva cosa lo spingeva a voler tentare il tutto e per tutto.  
L’istinto di un genitore portava a fare qualsiasi cosa, anche ai gesti più disperati. E lei lo sapeva bene.  
Una delle guardie aprì una porta, ma parve tentennare a lasciare loro libero il passaggio alla vista di Gentile Becchi. Il consigliere lo oltrepassò a lunghi passi senza nemmeno notarlo. 
Appena oltrepassata la soglia, cercò con lo sguardo quel viscido verme del Pazzi e lo trovò seduto nella penombra al centro della stanza, nascosto dietro all’imponete figura del Capitano Dragonetti.  
“Consigliere”, lo salutò quest’ultimo, non riuscendo però a celare una nota di preoccupazione nel proprio volto. Si girò, facendo alcuni passi nella sua direzione. “Siete certo di voler restare qui? Posso riferivi tutto più tardi”, chiese, cauto, sottovoce per non farsi udire dal prigioniero. 
Becchi scosse la testa. “Voglio assolutamente sapere cosa è accaduto ad  Elettra. E lo voglio sapere direttamente da lui”. Il suo tono di voce non ammetteva repliche. Dragonetti sospirò, impossibilitato a fare altro per dissuaderlo. Il suo sguardo passò dalla figura del fidato consigliere della repubblica a quella di Clarice Orsini: dall’espressione della donna, capì che anche lei aveva inutilmente tentato di farlo desistere. 
“Ha detto qualcosa?”, domandò Becchi. 
Scosse la testa. “Su vostra nipote ancora nulla” 
Gentile Becchi prese un lungo respiro, poi si fece largo tra il cerchio di guardie della notte che si trovava riunito intorno a Francesco Pazzi. Gli si mise proprio di fronte, osservandolo dall’alto verso il basso.  
Si concesse alcuni secondi per godere della vista delle riprovevoli condizioni in cui quel lurido traditore si trovava: gli uomini di Dragonetti non ci erano andati leggeri con lui. Il labbro spaccato, un’occhio nero e diverse altre escoriazione sul viso testimoniavano l’odio che quegli uomini provavano per lui. E quella era solo la parte visibile.  
Gli scappò un sorriso di pura soddisfazione. Il primo da diverse ore. 
“Cosa siete venuto a fare qui, consigliere?”, chiese il Pazzi, con una sfrontatezza che mal si addiceva a quel momento. Sputò a terra un grumo di sangue quando finì di parlare. 
Il Capitano si fece più vicino e Becchi non potè fare a meno di notare il lampo di paura che passò nelle iridi del traditore. 
“Cosa è accaduto a mia nipote?”, chiese senza fare troppi giri di parole. 
Le labbra del Pazzi si piegarono nuovamente in un sorriso di quelli falsi, di cui il consigliere ne aveva visti troppi. E che da sempre aveva mal sopportato.  
“Da dove volete che incomincio il mio racconto? Dal momento in cui ho dato in pasto la piccola ed innocente Elettra all’esercito del Duca Federico o da quello in cui in un gesto di pietà ho deciso di porre fine alla sua vita?”. Proruppe in una inquietante risata che durò per diversi secondi. “La stupida credeva di fare un gesto eroico a sacrificarsi per concedere ancora un po’ di tempo all’artista e al vostro padrone...ha combattuto valorosamente, di questo gliene devo dare atto, ma non ha potuto nulla contro la mia spada” 
Gentile Becchi a quelle parole era impallidito, questo lo avevano notato tutti, ma quando Dragonetti fece per avvicinarsi a lui, lo bloccò con un gesto secco della mano. “L’ho ferita per disarmarla, ma non era una ferita mortale. Volevo decapitarla all’istante, ma poi mi è venuta un’idea migliore”. Il sorrisetto sulle sue labbra si fece più largo. “I soldati del Duca sono letteralmente impazziti quando hanno sentito l’odore di carne fresca. Si sono avventati su di lei come un bravo di lupi si avventa su una pecorella smarrita e...” 
“Ora basta!”, urlò Clarice. Si avvicinò a Gentile Becchi, che a sua volta la osservò con sguardo vuoto. “Ora ce ne andiamo”, aggiunse la Madre di Firenze, prendendo l’anziano a braccetto. 
“Ma non avete ancora sentito la parte migliore, Madonna”, continuò il Pazzi. “Era ancora viva quando i soldati hanno finito di giocarci...è strano come la vita si attacchi così strenuamente a certi individui” 
“La vostra vi verrà tolta domani all’alba”, lo interruppe Dragonetti, minaccioso. Un neanche troppo velato invito a fare silenzio. 
Il Pazzi parve nemmeno notarlo, dal momento che continuò imperterrito il proprio racconto. “Ci ho pensato io a darle il colpo di grazia, infilandole un pugnale nello stomaco. L’ho anche rigirato un paio di volte per essere certo che morisse” 
Nel frattempo, Clarice scortò fuori dalla sala interrogatori Gentile Becchi. 
“Ho dato l’ordine di fare a pezzi il suo corpo e gettarne le parti nell’Arno” 
La porta si stava chiudendo alle loro spalle.  
“Dovevate vedere la disperazione sul volto di Riario quando l’ha sap...” 
La sua voce smise di colpo quando un pesante ferro di metallo colpì la testa di Francesco Pazzi, facendogli perdere i sensi. Dragonetti poggiò a terra l’arnese, seguendo velocemente fuori gli altri due. 
Gentile Becchi nel frattempo era stato fatto sedere su di una panca e gli era stato dato un bicchiere d’acqua. La mano che lo reggeva tremava vistosamente. 
Se non fosse stato per le palpebre che si alzavano ed abbassavano ad intervalli regolari, non lo si sarebbe potuto considerare in vita. 
“Non siamo certi che quello che Pazzi ha detto sia la verità”, disse Clarice. Seppur provata anche lei, cercò di non darlo molto a vedere. 
L’anziano consigliere la osservò nuovamente con quello sguardo vuoto. Gli occhi azzurri spenti. “Perchè un uomo condannato al patibolo dovrebbe mentire?”, chiese con voce flebile. 
Alla sua domanda seguì un lungo silenzio. 
L’uomo sospirò.  
“Datemi carta e penna...devo dare la notizia all’unico nipote che mi è rimasto”. 

 

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Capitolo 3
*** Fratelli ***


Capitolo II: Fratelli 

Roma, una settimana più tardi... 
 
Il cardinale Raffaele Riario Sansoni camminava a passo deciso per i corridoi degli Archivi Segreti Vaticani, ben intenzionato a passarci il minor tempo possibile. Come facevano tutti ad amare quel posto buio e polveroso dall’aria stantia? Diversi metri sopra alla sua testa era un tripudio di marmi policromi e magistrali colpi di pennello, dove i colori e la luce erano i veri protagonisti, mentre lì... gli venne da rabbrividire e decise di aumentare il passo quando la fiamma della torcia che teneva stretta nella mano vacillò, lasciandolo per un istante immerso nelle tenebre più assolute.  
Il suo amato Aramis, suo cugino Girolamo, il Cardinale Mercuri, suo zio... dovevano essere tutti matti per decidere di passare le loro giornate là sotto. A lui pareva di stare come sepolto vivo. 
Ad ogni corridoio, ad ogni svolta gli sembrava che le pareti si chiudessero intono a lui, schiacciandolo.  
Borbottò qualcosa di incomprensibile verso il vescovo Becchi, l’unica ragione che lo spingeva a mettere piede là sotto di proprio spontanea iniziativa. 
Non vedeva Aramis da  Pasqua.  
Il verbo “vedere” in quel momento, però, gli sembrò un’esagerazione: lo aveva appena scorto tra la folla durante le celebrazioni della messa e, a fine funzione, quando aveva provato a raggiungerlo, lui si era già dileguato. 
Non era così che avrebbero dovuto passare le festività. Avevano già organizzato tutto per stare a Firenze, ospiti della sorella di Aramis, quella ragazzina bionda dall’aria simpatica che era riuscita a far ingoiare bile a Girolamo e Sisto per giorni dopo la sua toccata e fuga negli Archivi Segreti.  
Ma Mercuri aveva deciso di rovinare tutto affidando al suo povero assistente la traduzione di uno dei tanti strani manoscritti della biblioteca.  
E così erano due settimane che Aramis viveva barricato nello studio del curatore degli Archivi. La messa della mattina di Pasqua era stata l’unica uscita da allora. 
Da un lato il non essere andati a Firenze era stata una fortuna: il tentativo di congiura dei Pazzi, nonostante il suo fallimento, aveva creato non pochi disordini in città. E parecchi morti. 
Si chiese se Aramis ne fosse stato informato e, sopratutto, se la sua famiglia stesse bene; sapeva che la sorella e lo zio lavoravano entrambi per la famiglia de Medici.
Glielo avrebbe chiesto, non appena lo avesse raggiunto. 
Percorse ancora un altro paio di cunicoli prima di ritrovarsi davanti ad un ampio portale di legno talmente scuro da sembrare color pece. A terra vi erano diversi vassoi ricolmi di cibo. La maggior parte non erano nemmeno stati toccati.  
Sospirò: per Aramis era un amante, un amico e un fratello all’occasione, una spalla su cui sfogarsi... ma mai si sarebbe aspettato di dover pure fare la mamma che controlla che il proprio figlio mangi regolarmente.  
Non si curò di bussare, ma decise di entrare direttamente. 
“Avevo chiaramente detto di non entrare per nessuna ragione!”, urlò una voce da in fondo alla stanza. “Dannazione! Ora mi tocca ricominciare da capo” 
Raffaele si fermò un istante sulla soglia, poi silenziosamente richiuse il pesante portale alle sue spalle. 
“Non muovetevi per nessuna ragione”, continuò il vescovo Becchi. 
Invece di ascoltare le sue parole, il giovane continuò imperterrito fino alla scrivania, rischiarata appena da un tenue braciere.  
Alzò le mani in aria in un gesto di pace non appena l’altro sollevò il capo con un’espressione che avrebbe fatto accapponare la pelle persino a quel cavaliere senza macchia e senza paura che era suo cugino Girolamo. 
“Aramis, sono Raffaele”, disse in tono calmo, prima che quest’ultimo provasse a lanciargli contro il tagliacarte, poggiato al suo fianco. 
Nella semioscurità lo vide sospirare e stropicciare gli occhi, irritati dalle troppe ore passate sui libri.  
“Scusami, Raffaele. Non volevo saltarti addosso in quel modo”, proferì a sua volta, con un tono di voce mortificato, dal quale traspariva anche tutta la propria stanchezza. 
Le labbra del Cardinale Riario Sansoni si distesero, assumendo una piega ironica. “Già, anche io avrei preferito che mi fossi saltato addosso in altro modo” 
Quell’affermazione fece sorridere il suo amante. 
“In effetti è un po’ che non accade”, continuò. Il suo sguardo prese a vagare, fermandosi infine su di una teca di vetro contente una pagina scritta in una lingua sconosciuta; doveva essere molto vecchia a giudicare dalle condizioni in cui si trovava.    Fece qualche passo verso di essa. 
“Raffaele non...”, tentò di dire Aramis, inutilmente. La frase sarebbe terminata con un “non avvicinarti”. 
Le parole cambiarono nuovamente davanti agli occhi increduli del giovane.  
Il suo sguardo passò più volte dalla pagina al vescovo Becchi.  
“Ma come è possibile?”, chiese stupefatto. 
“Non sono certo di potertene parlare”, rispose l’altro. 
“Aramis”, lo supplicò, con tanto di occhioni dolci a cui era impossibile resistere.  
Per certi versi all’uomo ricordò la sua sorellina. Sospirò. “È una pagina del Libro delle Lamine. Mercuri mi ha ordinato di scoprire quale messaggio è celato al suo interno” 
“Quel Libro delle Lamine? Quello di cui parlava tua sorella?” 
Annuì. 
Raffaele fece qualche passo avanti, per poterla osservare meglio. “Ma...che lingua è?”, chiese alcuni secondi più tardi. 
“La lingua e i significati cambiano ogni volta”, rispose Aramis in tono avvilito. “Sfortunatamente non ne conosco la maggioranza...ci vorrebbe Elettra, lei ha una memoria incredibile” 
A sentire quel nome l’espressione di Raffaele si incupì per un istante. “A casa tutto bene?”, chiese cauto. 
Il suo interlocutore si fece per un attimo pensieroso. “Presumo di sì, ma non ho ancora ricevuto alcuna lettera”. Ci pensò ancora un po’. “Oggi è il Lunedì Santo?” 
“No, era una settimana fa” 
Aggrottò la fronte, prima di mettersi a cercare qualcosa tra le varie scartoffie presenti sul tavolo. “Non ho ancora ricevuto i loro auguri di una buona Pasqua”. Fece spallucce. “Elettra sarà stata ancora troppo offesa per averle dato buca e zio Gentile sarà stato troppo occupato con qualche questione di stato per ricordarsi di scrivermi” 
La sua espressione sembrava così tranquilla e il suo tono di voce così convincete che Raffaele si sentì in colpa a volergli per forza raccontare di ciò che era successo a Firenze la domenica di Pasqua; probabilmente lo avrebbe solo fatto preoccupare per nulla. 
“Sarà senz’altro così”, confermò a sua volta, piegando le labbra in un sorriso nervoso. Si guardò in giro a disagio. “Hai bisogno di fare un pasto decente. Vado a prenderti qualcosa da magiare”, disse, prima di uscire a grandi passi dallo studio. 

***      
 
Poco dopo... 

Raffaele percorse lentamente gli ultimi corridoi in superficie prima di immergersi nuovamente in quei bui e polverosi cunicoli che lo avrebbero riportato nel cuore degli Archivi Segreti.  
Si guardò in giro, cercando di fissare nella propria mente l’immagine della luce che oltrepassava le raffinate vetrate in vetro colorato delle finestre. La luce, passandogli attraverso, creava dei magnifici effetti che andavano poi a riflettersi sugli splendidi affreschi del soffitto e delle pareti.  
Sospirò e, sempre con il naso all’insù, svoltò per l’ennesimo corridoio. Non si accorse del servo che veniva dalla parte opposta e inevitabilmente i due uomini si scontrano. 
Le numerose lettere che quest’ultimo teneva tra le mani caddero a terra, spargendosi per il corridoio. 
“Io...sono mortificato”, balbettò Raffaele. Senza nemmeno pensarci un istante si inginocchiò, cominciando ad aiutare a raccogliere fogli di carta.  
“Non ce n’è affatto bisogno, Cardinale. La colpa è mia”, ribattè umilmente il domestico. “Dovreste alzarvi, è inappropriato mettersi allo stesso livello di un semplice servo” 
Sì, probabilmente per la maggior parte degli ecclesiastici e nobili che camminavano per quelle stanze era davvero così, pensò Raffaele. Ma lui non era come loro, era sempre stato insofferente alle regole e quel gesto era stato puramente d’istinto, eppure... se Sisto lo avesse visto, probabilmente lo avrebbe fatto frustare.  
Scosse la testa, sperando che lo schiocco prodotto da una frusta sulla pelle di suo cugino Girolamo si togliesse dalla sua mente.  
Nel tentativo, la sua attenzione si concentrò su una delle lettere ancora rimaste a terra: il sigillo di ceralacca era stato rotto, come tutte le lettere provenienti o dirette nei territori della Repubblica di Firenze, ma nell’angolo destro spiccava uno stemma, tre caproni neri su campo oro.  
Lo stemma della famiglia Becchi.  
Gli sovvenne alla mente una frase che Aramis ripeteva spesso quando si parlava di famiglia: se qualcuno usava quello stemma o erano questioni economiche o era accaduto qualcosa. Non avrebbe mai dimenticato quei caproni che lo osservavano impassibili poco prima di aprire la lettera che dava la notizia della scomparsa della piccola Lucrezia e di sua madre. 
Il servo lo seguì con lo sguardo e la sua espressione si fece cupa.  
“Una tragedia, una tragedia, Vostra Grazia”, mormorò mentre Raffaele la prendeva tra le mani.  
Questa volta era accaduto qualcosa.  
Prese un lungo respiro.  
“Perchè dite così?”, chiese. La mano gli tremava leggermente. 
“La sorella del Vescovo Becchi...non si parla di altro tra la servitù. Si diceva fosse una delle donne più belle di Firenze”. Il servo scosse la testa. “Che brutto modo di morire”, aggiunse.  
Una dolorosa fitta di dolore colpì Raffaele allo stomaco, costringendolo a chiudere gli occhi e prendere un altro lungo respiro.  
“Che cosa...che cosa le è accaduto?”, domandò con voce flebile.  
Il suo interlocutore si guardò in giro per assicurarsi che non ci fossero occhi o orecchie indiscrete, dopodichè fece un passo in direzione del Cardinale. “Voci di corridoio dicono che sia stata data in pasto all’esercito del Duca di Montefeltro. Non è rimasto nemmeno il corpo di lei”, disse a bassa voce, nascondendo la bocca dietro alla propria mano.  
Raffaele impallidì e barcollò leggermente: aveva detto ad Aramis che andava tutto bene a Firenze e lui... lui era molto legato ad Elettra, alla sua sorellina, come teneramente l’apostrofava. Il brillare dei suoi occhi ogni volta che la nominava, il sorriso che compariva sul suo volto quando leggeva una sua lettera... aveva già perso una sorella diversi anni prima e la ferita non si era ancora rimarginata e ora... 
“Quando gli consegnerete questa lettera?”, chiese di getto.  
“Sto facendo il giro di consegne ora, Cardinale”. Il servo sospirò. “Compito ingrato quello di consegnare quella lettera”, aggiunse, con sincero rammarico. 
No, Raffaele non poteva permettere che fosse un estraneo a dare ad Aramis la notizia.  
“Posso consegnarla io al Vescovo Becchi”. Non sarebbe stato affatto semplice compiere quel gesto, ma sapeva che nessun altro sarebbe stato più adatto di lui per svolgere quel compito.  
Il domestico tentennò un istante, prima di annuire. “Ve ne sono infinitamente grato, Vostra Grazia” 

*** 

L’angoscia attanagliava lo stomaco di Raffaele, rendendogli ogni passo per quel corridoio più difficoltoso del precedente. Ogni metro percorso lo avvicinava sempre di più a quella porta di ebano dall’aria austera e severa.  
Lo avvicinava al momento in cui avrebbe dato la notizia ad Aramis. 
Una fitta più acuta alla bocca dello stomaco lo costrinse a fermarsi un istante a prendere alcuni lunghi respiri.  
Strinse la lettera con più decisione, facendo scricchiolare la carta sotto alle dita. 
Doveva essere forte, doveva farlo per lui.  
Era l’unica persona in tutta Roma in quel momento in grado di confortarlo, di dargli una spalla su cui versare tutte le proprie lacrime di dolore. Non poteva permettersi di dimostrarsi debole, specialmente in sua presenza. 
Alzò lo sguardo, incontrando quel portone dall’aria tetra. 
Cercò di darsi un certo contegno e fece gli ultimi passi che lo dividevano da essa. 
Bussò. 
Si sarebbe aspettato un semplice “Avanti”, invece fu Aramis stesso ad aprigli la porta.  
“Ce ne hai messo di tempo”, disse con ironia, piegando le labbra in un sorriso. Appariva così diverso rispetto a poco prima. Forse il vedere finalmente una persona fidata dopo quel lungo isolamento aveva nettamente migliorato il suo umore. “In cucina si erano forse rifiutati di cucinare fuori orario?”, aggiunse. 
Raffaele abbozzò un sorriso forzato. “Invero sono stati tutti molto felici di sapere che il tuo appetito è tornato. La cuoca si è messa ai fornelli come se stesse cucinando per un esercito”, ribattè, cercando di mantenere una sfumatura di sarcasmo non dissimile da quella del Vescovo. “Quella donna ti adora” 
“Come tutta la servitù, in fondo”, ironizzò nuovamente il suo interlocutore. 
“Già”, mormorò appena il Cardinale. Per quanto si stesse sforzando di dissimulare tutto il proprio dolore, la sua voce apparve affranta. Non aveva mai ancora alzato gli occhi su di lui. Non ne era capace. 
Aramis lo osservò con attenzione, aggrottando la fronte, perplesso.  
“Tutto bene?”, chiese, seppur già certo della risposta. 
Raffaele sospirò. “Aramis, siediti, per favore” 
Il Vescovo si fece ancora più confuso, ma non esitò a fare ciò che gli era stato consigliato. Si sedette sulla poltrona solitamente occupata dal Curatore degli Archivi Segreti. 
Il suo amante si sedette dalla parte opposta, in una delle sedute adibite agli ospiti. 
Prese l’ennesimo lungo respiro.  
“Quando... quando ti ho chiesto se a Firenze stessero tutti bene... in realtà c’era un buon motivo per cui l’ho domandato” 
Attese alcuni secondi, aspettando che Aramis domandasse qualcosa, ma il suo interlocutore rimase in silenzio. L’espressione invariata.  
“È... è successa una cosa a Firenze, il giorno di Pasqua...” 
“Che cosa mai potrebbe essere successo a Firenze? La colombina ha forse fatto cilecca questa volta?”, lo interruppe il Vescovo, utilizzando nuovamente l’ironia per cercare di alleggerire un po’ l’atmosfera.  
“In effetti credo che la colombina non sia stata fatta volare...” 
“Oh...”, gli scappò. La sua espressione tornò ad essere perplessa.  
Raffaele chiuse gli occhi un istante: o quel momento o mai più. “C’è stato un tentativo di rovesciare i Medici durante la messa in Duomo. Giuliano de Medici è morto, Lorenzo è vivo per miracolo”, disse di getto, ben consapevole che quello era non era il modo più adatto di dare la notizia, ma anche certo che altrimenti non ci sarebbe mai riuscito.  
Vide Aramis impallidire velocemente mentre cercava di assimilare quelle informazioni. “Elettra e mio zio... loro dovevano trovarsi lì”, mormorò con un filo di voce. 
Il suo sguardo cadde sulla lettera che Raffaele teneva stretta nella mano, poggiata sulla grande scrivania: lo stemma con i tre caproni su campo oro era impossibile da non notare. 
Sapeva fin troppo bene quale era il suo significato.  
“Chi?”, chiese in modo flebile.  
Raffaele distolse lo sguardo, incapace di reggere il dolore che aveva scorto nelle iridi azzurre dell’amato. “La lettera è di Gentile Becchi” 
“Lei no, per favore”, supplicò Aramis, con voce tremante.  
Appena un istante, e le braccia del Cardinale si strinsero attorno al suo corpo, interamente scosso da fremiti nel tentativo di trattenere i singhiozzi che premevano di uscire insieme alle lacrime che già bagnavano la veste color carminio.  
“Mi dispiace tanto, Aramis”, sussurrò ad un orecchio Raffaele. Le sue mani percorsero la schiena dell’uomo lasciando lunghe carezze,  nel tentativo di dargli un minimo di conforto o anche solo di far cessare quei brividi.  
“Passami quella lettera, per favore”, disse il Vescovo.  
Non era lontana, si trovava solo adagiata dalla parte opposta della scrivania, sarebbe bastato semplicemente alzarsi, se solo le gambe in quel momento lo avessero retto.  
“Aramis, forse non...” 
“Passami quella lettera”, lo interruppe. Seppur carico di sofferenza, il suo tono di voce non ammetteva repliche. 
Raffaele sospirò e gliela passò.  
Le sue mani tremavano troppo per poter sorreggere quel foglio di carta, che ricadde nuovamente sulla liscia superficie di legno.  
“Non c’è bisogno di leggerla subito, poi farlo anche più tardi”, tentò di convincerlo il Cardinale, con dolcezza.  
“No, devo farlo immediatamente”. Aramis alzò lo sguardo su di lui, implorandolo con quei due grandi occhi azzurri umidi di lacrime. “Potresti leggerla ad alta voce?” 
Il suo interlocutore tentennò per alcuni secondi sulla risposta, poi annuì con il capo.  
Prese la lettera tra le mani, andandosi a sedere dalla parte opposta.  
Si schiarì la voce, prima di incominciare a fare ciò che gli era stato chiesto.  

“Lunedì 27 aprile 1478 
Mio adorato nipote, 
È con la mor...” 


Raffaele si interruppe un istante, faticando a capire ciò che Gentile Becchi aveva scritto. Aveva visto decine di lettere, ufficiali o dirette ad Aramis, scritte di proprio pugno dal fidato consigliere della Repubblica: la sua calligrafia era sempre stata raffinata e ben chiara, ma in quel momento faticava persino a riconoscerla come appartenente a lui. Doveva essere sconvolto quando aveva scritto quelle righe; l’inchiostro sbavato in alcuni punti e la carta leggermente ondulata, erano il segno di alcune lacrime lasciate cadere sul foglio.  
Prese un lungo respiro, prima di proseguire. 

“È con la morte nel cuore che ti dò l’annuncio che in data domenica 26 aprile 1478, giorno della Santa Pasqua, è venuta a mancare la nostra amatissima Elettra. 
Possa Dio riconoscere quale grande donna Firenze abbia perso, permettendo così alla sua anima la pace eterna. 
Elettra è caduta per mano di Francesco Pazzi, in un tentativo di suddetta famiglia di rovesciare l’ordine costituito, credendo fino all’ultimo nei propri ideali, proteggendo la Repubblica per quale aveva giurato fedeltà; Leonardo Da Vinci, anche lui sul posto in quei tragici momenti, ha affermato che senza il suo volontario sacrificio, Lorenzo de Medici sarebbe senz’altro perito. E con lui Firenze stessa sarebbe morta. 
La repubblica e la famiglia de Medici hanno dichiarato che Elettra sarà seppellita con tutti gli onori che si compiacciono agli eroi fiorentini, con anche una dedica che verrà affissa in modo permanete in uno dei luoghi simbolo della città, ancora da stabilire. 
Per quanto riguarda il suo assassino, posso darti rassicurazioni sul fatto che all’alba il suo corpo senza vita penzolerà inerte sulla pubblica piazza. Un mero conforto per tutti noi, tuttavia. 
Non sono certo che questa lettera possa giungere a destinazione in tempi brevi, ma in ogni caso desidererei la tua immediata presenza a Firenze, non appena prenderai atto di essa, in modo da poter discutere con te tutti i dettagli del caso.  
Cordiali saluti, tuo zio Gentile Becchi, fidato consigliere della Repubblica di Firenze.” 

 Raffaele si asciugò in fretta alcune lacrime che, contro la sua volontà, erano ricadute su di una guancia. Fu un gesto veloce, che, come da intenti, Aramis nemmeno notò. 
Quest’ultimo teneva lo guardo basso, fisso su di un punto indefinito della scrivania. Gli unici segni di vita erano l’abbassarsi e alzarsi regolare delle sue spalle per via della respirazione e lo sbattere delle palpebre. 
Raffaele lasciò cadere la lettera sulla liscia superficie di legno e quel gesto parve in parte riscuotere il Vescovo. “Devo partire per Firenze al più presto”, mormorò con voce flebile. 
“Lo immaginavo”, disse il suo amante. Poggiò una mano sulla sua, non potendo fare a meno di notarne il tremolio. “E io verrò con te” 
Aramis annuì. “Grazie”. Alzò finalmente lo sguardo che, seppur offuscato dalle lacrime e dal dolore, era colmo di riconoscenza. “Devo comunicare le mie intenzioni al Cardinale Mercuri”. Fece per alzarsi, ma dovette immediatamente risedersi dal momento che le sue gambe non riuscivano a reggerlo.  
“Possiamo aspettare ancora un istante”, provò a suggerirgli Raffaele, cautamente. 
“No. Ora”, fu la pronta risposta dell’altro.  
 
*** 

 Il Curatore degli Archivi Segreti Vaticani si trovava nella biblioteca principale del complesso sotterraneo, intento a consultare alcuni antichi documenti. Alzò appena un istante lo sguardo da quelle carte quando avvertì dei passi farsi sempre più vicini.  
Il Vescovo Becchi percorse lentamente quella distanza, con fare incerto, stretto al braccio del Cardinale Riario Sansoni. Probabilmente, se lo avesse lasciato, le gambe non lo avrebbero retto e sarebbe crollato a terra.  
Gli occhi, azzurri, erano arrossati dal pianto e nella mano libera teneva la lettera di Gentile Becchi. 
Tutti indizi, questi, che Lupo Mercuri nemmeno notò. “Avete scoperto qualcosa di nuovo?”, chiese, con ancora il naso tra quei documenti. 
“Invero, Cardinale...”. La voce di Aramis, per quanto cercasse di apparire ferma e decisa, tremava vistosamente. “... io vi chiedo il permesso di partire oggi stesso” 
“Per Firenze?”, domandò con fare annoiato il Curatore degli Archivi Segreti, alzando finalmente lo sguardo per dare un’occhiata più attenta al proprio segretario. 
Quest’ultimo si limitò ad annuire. 
“Avete portato a termine il compito che vi avevo assegnato?” 
Aramis abbassò il capo, osservando un punto indistinto della ricca pavimentazione. “No”, mormorò. 
“Allora non vedo come sia possibile che vi dia il permesso di partire”, tagliò corto Mercuri. Tornò a studiare quelle carte. 
“Cardinale, sua sorella è morta, lasciate che pianga sulla sua tomba”, si intromise Raffaele, parlando con voce leggermente più alta del normale. 
“I morti non scappano, Cardinale Riario Sansoni. La tomba sarà ancora lì quando il Vescovo avrà portato a termine il suo compito”. Mercuri prese dalla pila di documenti una lettera recante il sigillo papale. “E poi Firenze è stata scomunicata, non potete comunque partire” 
“Era mia sorella...”, mormorò di nuovo Aramis. Il suo sguardo, sconvolto, non aveva mai lasciato i marmi policromi della pavimentazione. 
“Solo una ragazzina petulante che non sapeva stare al proprio posto”, ribattè irritato il Curatore degli Archivi Segreti. “E ora tornate al vostro lavoro, Vescovo Becchi, prima che faccia chiamare le guardie” 
“Cardinale, come pensate che possa tornare al lavoro dopo una notizia del genere?”, si intromise di nuovo Raffaele. “Mio zio sarà informato di questo” 
“Intendete informare lo stesso Sisto che ha dato ordine di tenere il vostro compagno di giochi in isolamento fino a quando non avrà portato a termine il proprio compito?”, domandò con tono di sfida Mercuri.  
Sorrise soddisfatto a vedere della confusione sul volto del proprio interlocutore. Mise da parte le carte che stava osservando. 
“Guardie”, chiamò. 
All’istante da una delle entrate arrivarono quattro guardie svizzere armate di tutto punto. 
“Riportate il Vescovo Becchi nel mio studio”, diede ordine. “E che non veda nessuno, sopratutto il Cardinale Riario Sansoni” 


Nda
Eccomi nuovamente qui, questa volta più puntuale del mese precedente. 
Continua la carrellata di impressioni post congiura dei Pazzi.
L'estate si avvicina sempre di più (tranne per noi poveri studenti universitari, la nostra è ancora lontana anni luce), ma io continuerò (quasi) imperterrita anche per i prossimi mesi. Ho deciso che appena terminata la sessione estiva d'esami mi metterò a scrivere il mio primo romanzo, quindi potrebbero esserci dei rallentamenti (anche se mi impegnerò perchè ciò non accada).
Ci si risente ai primi di luglio!
Ps. Fatemi sapere cosa ne pensate ;)
 

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Capitolo 4
*** Amici ***


Capitolo III: Amici 
 

Nel frattempo, a Firenze… 


Leonardo spalancò gli occhi di scatto, risvegliato dall’ennesimo incubo di cui era preda da diversi giorni ormai. Li richiuse di nuovo e prese un lungo respiro con l’idea di riuscire in quel modo a calmarsi, ma il tutto si rivelò un grave errore: non appena le palpebre si abbassarono rivide l’immagine che lo aveva ridestato: il corpo di Elettra disteso sul pavimento del Duomo, con il sangue che colava copioso da una ferita al ventre e gli occhi sbarrati. Due grandi cristalli di ghiaccio privi di vita che nel silenzio della morte lo incolpavano di quell’esistenza spezzata troppo presto.  
Riaprì gli occhi, osservando la flebile luce della candela disposta sul suo tavolo da lavoro languire; poco più in là, le ceneri nel camino acceso stavano rilasciando i loro ultimi bagliori rossastri. Si alzò a fatica dallo sgabello su cui era seduto, indolenzito per tutte le ore passate a dormire in quella scomoda posizione, e si diresse a mettere un legno sulle braci. Mentre le osservava, esse parvero riacquistare nuova vita, assumendo un colore tendente al bianco; alcuni istanti e quel candore si era tramutato in una tinta aranciata che lentamente aveva finito per avvolgere per intero il ceppo. Leonardo osservò le fiamme danzare nell’aria come tanti fantasmi che scomparivano e riapparivano senza alcuna apparente logica. Sospirò pesantemente e, nel tentativo di distrarsi dall’incubo che aveva fatto, si mise ad accendere altre candele con cui illuminare il proprio studio per poter continuare a lavorare alla commissione che gli era stata affidata. Per la prima volta, non desiderava altro che ultimarla quanto prima. Ci lavorava giorno e notte da giorni, ormai. Addormentarsi su quello scomodo sgabello era diventata una consuetudine.  
Si ricordava di aver distrattamente alzato la testa mentre gli ultimi raggi morenti del tramonto si spegnevano tingendo il cielo di tinte che spaziavano dal rosso acceso, al giallo e al rosa. Ora, guardandosi in giro, si rese conto che era ormai notte fonda.  
Osservò i fogli poggiati sul bancone, dove vi era rappresentato il progetto per la commissione: Gentile Becchi gli aveva affidato il compito di forgiare una scultura bronzea da collocare sulla tomba di famiglia. Leonardo si era gettato anima e corpo nel cercare di raffigurare Elettra nella sua vera essenza, in modo che chiunque posasse il suo sguardo sulla sua statua potesse capire di che pasta fosse fatta: sarebbe stata seduta su di un trono, con una lunga e sottile veste, proprio come quelle bianche di lino che era sovente indossare d’estate, quando ancora spensierati si rincorrevano per i prati fuori Firenze; sul suo capo ci sarebbe stata una corona di rose, il suo fiore preferito, e, poggiata sulle ginocchia, avrebbe avuto una lunga spada da combattimento.  
La bozza era pressoché pronta, eccezion fatta per il suo viso, per il suo sguardo: per quanto ci provasse, per quanto si impegnasse, ad esso mancava sempre qualcosa. Nessuno era mai riuscito a mettere su carta il suo sguardo, quel misto di ironia e sensualità grazie a cui, si mormorava per i vicoli, avrebbe preso un giorno il posto di Lucrezia Donati come la Bella di Firenze.  
Nessuno era mai riuscito a catturare quello sguardo. Ma nessuno era Leonardo Da Vinci. Per questo Gentile Becchi aveva affidato la commissione a lui. Leonardo esigeva da sé stesso solo la perfezione. Era il minimo che potesse fare per lei.  
Osservò lo schizzo a cui stava lavorando poco prima di addormentarsi: lo sguardo non andava bene. Quel ritratto non lo stava osservando allo stesso modo in cui lo avrebbe fatto lei se fosse stata lì in carne ed ossa. 
In un gesto di rabbia accartocciò il foglio, lanciandolo con un grido frustrato tra le fiamme.  
Probabilmente nemmeno si accorse di quanto forte fosse stato quell’urlo, ma, a differenza sua, il resto della bottega l’udì. Erano passati appena una manciata di secondi quando Andrea entrò trafelato; il suo sguardo allarmato corse per tutto il laboratorio di Leonardo, fermandosi solo quando incrociò la figura del suo pupillo, immobile davanti al camino, di spalle. Sospirò, liberandosi almeno in parte dell’angoscia che gli attanagliava lo stomaco.  
Studiò Leonardo per alcuni istanti, prima di decidere a muovere alcuni passi nella sua direzione. Gli poggiò una mano sulla spalla, notando solo in quel momento l’impercettibile tremolio del suo corpo. Lo osservò con compassione.  
“È colpa mia, Andrea”, disse il geniale artista, con la voce ridotta ad un tremolante sussurro.    
“Leonardo, no, non darti colpe che non hai”, ribattè prontamente. Lui, Vanessa e tutto il resto della bottega gli ripetevano da giorni quelle stesse identiche parole, sperando di convincerlo una volta per tutte. Da un lato però lo capiva: la perdita di Elettra era stato un duro colpo per tutti. Ma per Leonardo, se ne rendeva conto, il colpo era stato ben peggiore: quei due avevano da sempre avuto un legame speciale, un legame che li rendeva più simile a due fratelli che a due amici. E perdere una sorella doveva essere straziante. Specialmente in quel modo: si era sacrificata davanti agli occhi di Leonardo, senza che lui potesse fare niente per evitarlo. Lo vedeva di giorno in giorno come il senso di colpa lo stesse divorando.  
Sospirò di nuovo, accarezzandogli la spalla. Non aveva mai visto il suo pupillo piangere ed era certo che quella non sarebbe stata quella la prima volta, nonostante in quei giorni lo avesse trovato spesso con gli occhi arrossati di pianto.  
“Non dovevo portarla con me, avrei dovuto lasciarla al molo insieme a Nico e Zo”, riprese a dire Leonardo.  
Il Verrocchio scosse la testa. “Appena capito cosa stava succedendo sarebbe comunque corsa in Duomo”. Sperò di aver chiuso lì la questione, ma non appena osservò Da Vinci tentare di aprire bocca per obbiettare, si convinse a proseguire. “Non eravate solo tu e lei là dentro, Leonardo. C’ero anche io, c’era tuo padre, suo zio e altre decine di persone che avrebbero potuto tentare di fermarla. Ma secondo te c’era qualche speranza di riuscire nell’impresa?” 
Leonardo scosse la testa.  
“Quella ragazza era dannatamente testarda, era più che risaputo”. 
Quel commento di Andrea riuscì a strappare finalmente un debole sorriso al geniale artista. “È vero”, disse, lasciandosi poi andare ad un lungo sospiro. “Anche se… la ricerca del Libro delle Lamine… se non l’avessi coinvolta forse sarebbe andata diversamente”. Scosse la testa, nuovamente sconsolato. “Lei voleva lasciare perdere fin dall’inizio. Avrei dovuto ascoltarla…” 
“Leonardo…”, lo interruppe il Verrocchio, seppur con scarsi risultati.  
“Devo lasciar perdere quella ricerca”. 
Così presi dalla discussione, nessuno dei due si accorse dell’apertura della porta d’entrata e del successivo arrivo nella stanza di una terza persona. 
“Non possiamo farlo”, disse il nuovo arrivato. 
Si voltarono entrambi in quella direzione, stupiti di trovare davanti a loro Zoroastro in carne ed ossa; non ricevevano sue notizie dal giorno della congiura.  
Ci furono diversi momenti di silenzio, nei quali il moro li osservò con il suo solito sorrisetto ironico. Pareva divertito nel vedere le loro espressioni perplesse. 
Fu Leonardo il primo a parlare. “E tu? Sei rimasto a Firenze?”, chiese. 
Zo indugiò per qualche istante sulla risposta. “Non proprio, ma sono riuscito a tornare”. 
Da Vinci non pareva completamente soddisfatto della sua risposta e fece qualche passo in direzione dell’uscita, guardandosi intorno come se si aspettasse di trovare altre persone sulla soglia. Il non trovare nessun altro lo indispettì non poco. “Dove è Nico?”. Nella sua voce si poteva notare una sottile vena di inquietudine.  
Ancora una volta il moro indugiò sulla risposta alla ricerca delle parole giuste da dire. “È... sul Basilisco... insieme a Riario”. Ci fu una pausa di qualche secondo, poi riprese a parlare. “Elettra è con loro”. 
L’espressione di Leonardo mutò velocemente, passando da incollerito alla notizia riguardante Nico ad un misto di sollievo e incredulità a quelle ultime parole. “C-che cosa?”, balbettò.  
“Non arrabbiarti con me ora”, ribattè Zo, certo che, una volta passato quello stupore che considerava anomalo, l’artista se la sarebbe presa con lui. “Non ho esattamente potuto scegliere”. Avrebbe fatto decisamente a meno di salire sul Basilisco nel tentativo di tardarne la partenza se avesse saputo che Riario era a bordo, così come, potendo scegliere, avrebbe evitato di ‘abbandonare’ la nave legato mani e piedi con delle strette e pesanti catene a Lucrezia Donati… no, forse la parte che riguardava la vicinanza con Lucrezia Donati l’avrebbe tenuta, ma sarebbero stati in un luogo più confortevole, con decisamente meno acqua, catene e vestiti. 
“Elettra è viva”, disse Leonardo, più a se stesso che agli altri presenti. Guardò in faccia Zoroastro che, preso dai propri pensieri tutt’altro che innocenti, ci mise diversi secondi prima di confermare con un cenno della testa quelle parole, seppur perplesso. 
Osservò l’artista correre ad indossare la propria giacca e poi, sempre con la stessa fretta, dirigersi verso la porta. “Leonardo, devo dirti una cosa riguardo…”. Se Da Vinci si fosse fermato, la frase sarebbe con un ‘…riguardo ad Elettra’. Sbuffò, per poi girarsi in direzione del Verrocchio: anche lui aveva un’espressione che pareva di immenso sollievo. Corrugò la fronte, sempre più confuso. “Si può sapere che avete tutti oggi?”, domandò. 
Per tutta risposta Andrea gli tirò una vigorosa pacca sulla schiena. “Me lo sentivo che non poteva essere andata in quel modo”, disse con un sincero sorriso sulle labbra. 
Zo lo osservò sempre più perplesso. “Non sono a Firenze da giorni e, fatta eccezione per voi due, sempre che quello con Leonardo si possa chiamare dialogo, non ho parlato con nessuno quindi… cosa mi sono perso?”. Il suo sguardo corse al tavolo da lavoro e alle pareti circostanti, tappezzati da bozze, studi e ritratti per la figura di una giovane donna; era impossibile non riconoscere Elettra nella modella utilizzata. “Ancora?”, chiese sarcastico, prendendo uno di quei fogli in mano, riferendosi al fatto che capitava spesso che Leonardo si servisse di lei per qualche suo progetto.  
Andrea sospirò. “Era per la sua tomba, credevamo che Francesco Pazzi l’avesse uccisa” 
“Pazzi? Elettra saprebbe fargli il culo anche ad occhi chiusi”, ribattè il moro con ironia, scuotendo la testa: il Verrocchio aveva ormai una certa età, era ora che la smettesse con quel bicchierino di vino in più la sera; finché erano imbarazzanti storie su qualcuno dei suoi apprendisti era un conto, ma ipotizzare fatti del genere… Cercando di non dare troppo nell’occhio gli si avvicinò cercando di captare eventuali tracce di alcol, annusando l’aria allo stesso modo in cui avrebbe fatto un segugio. Seppur Andrea avesse un pessimo alito, pareva sobrio. O, almeno, non nelle condizioni di straparlare. Aggrottò la fronte sempre più perplesso. “Perché credevate che Pazzi l’avesse uccisa?” 
“Dopo la congiura in Duomo nessuno l’ha più vista e quando Pazzi è stato catturato ha confessato”, rispose Andrea. 
Zoroastro strabuzzò gli occhi. “Quale congiura?”. Non si poteva stare via qualche giorno da Firenze che accadeva il putiferio. 
“Il giorno di Pasqua. Lorenzo è stato solo ferito, mentre il povero Giuliano è spirato tra le braccia di Elettra. Non avendola vista tornare abbiamo pensato tutti al peggio…”. Il Verrocchio sospirò, ritenendo più saggio cambiare argomento. Accennò un sorriso. “Leonardo credo sia corso ad avvisare Gentile a Palazzo. Sono certo che gli gioverà molto sapere che Elettra sta bene” 
Il viso di Zo, solitamente allegro e spensierato, si rabbuiò improvvisamente: ciò che aveva visto, ora tutto aveva più senso. 
 

 Alcuni giorni prima… 


Osservò attentamente il ponte della nave: i marinai avevano momentaneamente accantonato il proprio compito per non perdersi quell’inconsueto spettacolo. Sì, “spettacolo”, aveva pensato Zoroastro: uno spettacolo appositamente messo in piedi da quel bastardo di Riario.  
Ed eccolo lì, il coglione, fare la propria comparsa con il suo manipolo di guardie. Tra tutti quegli energumeni dagli abiti scuri, le chiome bionde di Nico ed Elettra non passavano inosservate; entrambi erano stati trascinati lì di peso.  
Osservò il giovane Machiavelli dibattersi nell’inutile tentativo di liberarsi non appena si accorse della situazione. Elettra, invece, aveva lo sguardo vuoto, fisso su di un punto indeterminato all’orizzonte, completamente immobile tra due corpulente guardie; i suoi unici movimenti consistevano nell’alzare ed abbassare le palpebre a ritmi regolari. Una vistosa macchia scarlatta faceva mostra di sé su quegli abiti chiaramente non suoi all’altezza dell’avanbraccio: doveva essersi ferita e qualcuno aveva in qualche modo cercato di medicarla. 
Zoroastro tentò inutilmente di resistere dal farsi trascinare insieme con Lucrezia Donati sull’asse di legno da cui poi sarebbero stati gettati in mare. Le pesanti catene che li legavano insieme tintinnavano ad ogni passo. 
Una volta il posizione sul limitare del bordo, si voltò di spalle per osservare Riario in cagnesco: quanto avrebbe voluto aprirgli la gola da parte a parte. Ma, prima di quello, pensò, gli avrebbe fatto ingoiare quegli odiosi occhialini da sole che in quel momento indossava.  
Lo osservò mentre farneticava. Sì, in quel momento più che mai avrebbe tanto desiderato togliergli quel ghigno di trionfo dalla faccia.  
Nico si agitò nuovamente, implorando Riario di concedere loro la grazia ma, nelle stesse parole del giovane, già si intuiva che quella era una battaglia persa in partenza. 
“Ho diritto alle ultime parole”, proruppe a sorpresa Zo. Osservò attentamente i suoi inseparabili compagni di avventure. “Nico, Elettra, appena questo serpente abbassa la guardia infilzatelo e squartatelo dalle palle al cervello” 
Si sarebbe aspettato una reazione da parte della bionda ma nulla, nemmeno un’alzata di testa per guardare nella sua direzione. 
Lo aveva udito parlare? Ne dubitava. 
Sapeva dove si trovava in quel momento? Zoroastro dubitava anche di questo. 
“Un sentimento toccante”, ribattè Riario con pungente sarcasmo, riferendosi alle ultime parole del moro e riportando la sua attenzione su sé stesso. “E sarei immensamente curioso di vederlo tentare”, aggiunse, voltandosi per osservare solamente Nico.  
Si fidava a tal punto di Elettra da credere che non avrebbe tentato di vendicarsi? Oppure la considerava innocua? Osservò nuovamente la ragazza, ancora immobile: poteva anche esserci sotto dell’altro... 
Riario aveva continuato a farneticare ancora un po’, ma non valeva la pena passare gli ultimi istanti della propria vita ad ascoltare quella voce così irritante, troppo simile al sibilo di un serpente. 
“Possa Dio avere pietà delle vostre anime dannate”, lo sentì dire alla fine. E capì che il proprio tempo era finito.  
Riario alzò la mano in quello che avrebbe dovuto essere un cenno a proseguire, ma essa si fermò a mezz’aria: Elettra aveva appena voltato il capo nella sua direzione e lo stava osservando. 
“Ti prego”, disse in un sussurro appena udibile.  
L’Elettra che Zoroastro conosceva non avrebbe mai supplicato: lei avrebbe agito. Ma mai supplicato. Guardò Riario tentennare per un istante e poi distogliere lo sguardo da quello della giovane. Diede il gesto convenuto alle guardie per proseguire con quello spettacolo.  
Un’istante prima che Zo sparisse oltre il parapetto della nave, lei si voltò verso di lui guardandolo dritto negli occhi. 


Quello sguardo, quegli occhi… Zoroastro non riusciva a toglierseli dalla mente: erano sempre lì, davanti a lui. Erano spenti, vuoti, come se la scintilla che li rendeva vivi si fosse improvvisamente spenta. 
“No, Andrea, quello non poteva essere lo sguardo di qualcuno ancora in vita”. Anche in quel momento, anche mentre raccontava ciò che era successo, quelle immagini non lo avevano abbandonato. Aveva quasi pensato più a quello che al bacio attraverso cui Lucrezia gli aveva passato un fermaglio per forzare il lucchetto delle pesanti catene che li legavano. 
Il Verrocchio lo osservò con uno sguardo tornato nuovamente ricolmo di preoccupazione. 


 *** 
 

 

Nel frattempo…  


Leonardo corse a perdifiato fino a Palazzo della Signoria, attraversò il pesante portale ligneo senza fare caso alle Guardie della Notte che lo intimavano a rallentare il passo e percorse i gradini dello scenografico scalone d’ingresso tre alla volta. Non si sarebbe fermato fino a quando non avesse raggiunto la propria meta.  
Era quasi arrivato allo studio di Gentile Becchi, mancava ancora una svolta, quando incrociò sul proprio cammino Clarice Orsini. Ci mancò davvero poco che travolgesse la Signora di Firenze.  
Per non cadere a terra, lei dovette aggrapparsi a lui. 
“Da Vinci”, disse a metà tra lo stupito e il perplesso. 
Leonardo parve non averla udita dal momento che fece per riprendere la propria corsa. Clarice lo trattenne per la manica della giacca. “Da Vinci, che vi prende?”, chiese nuovamente. 
L’artista la guardò con un’espressione stralunata. “È viva”, rispose semplicemente, sperando che ciò bastasse per essere lasciato libero. 
La donna invece si fece ancora più perplessa e, per sicurezza, rafforzò la presa sul suo braccio. “Chi è viva?” 
“Elettra”, rispose, con lo sguardo rivolto però alla porta chiusa dello studio di Becchi. “Vostra Grazia”, aggiunse in un barlume di etichetta, voltandosi verso di lei. 
Clarice diminuì la presa sul suo braccio, osservando Leonardo con gli occhi ricolmi di sorpresa. Fu un istante, poi tornò ad assumere un’aria più controllata, seppur un grande sorriso di sincera felicità fosse rimasto impresso sulle sue labbra. Fece per aprire bocca, ma fu anticipata dall’artista. “Devo dare la notizia a Becchi”, disse, correndo via prima che lei lo bloccasse nuovamente. 
“Non lo troverete nel suo studio, Da Vinci”, gli urlò. 
Leonardo si fermò in mezzo al corridoio, tornando a voltarsi verso di lei. 
“È nella Cappella a pregare per i suoi ragazzi, come fa da diversi giorni ormai”, disse Clarice, con rammarico. “Sono certa che la notizia non potrà fare altro che giovargli. Vi accompagno, Da Vinci” 

Come detto da madonna Orsini, Gentile Becchi si trovava nella cappella della famiglia Medici, chinato su di un inginocchiatoio ed intento a pregare per le anime dei suoi ragazzi.  
Clarice si fermò sulla soglia, facendo cenno a Da Vinci di entrare senza di lei. 
Probabilmente Becchi doveva aver udito i passi dell’artista rimbombare sul ricco pavimento in pietra dal momento che si voltò nella sua direzione.  
“Da Vinci”, disse, stupito di trovarselo davanti proprio in quel luogo. “Avete ultimato i bozzetti preparatori?”. 
A Leonardo l’anziano consigliere della repubblica pareva invecchiato tutto in un colpo mentre, lentamente e a fatica, si rimetteva in piedi; gli porse in braccio per agevolarlo in quei movimenti. Osservò i suoi occhi, dello stesso colore di quelli di Elettra, non potendo fare a meno di notare quanto fossero gonfi ed arrossati. Anche due profonde occhiaie violacee e il viso decisamente più scavato non passavano inosservati.  
Sperò che la notizia che aveva da riferirgli potesse in parte alleviare tutto quel dolore. 
“Non ce ne sarà bisogno, consigliere”, rispose con un sorriso e, a vedere la faccia perplessa del suo interlocutore, aggiunse: “Ho delle splendide notizie da riferirvi, ma prima preferirei che vi sedeste”. 
Lo accompagnò a braccetto fino alla panca più vicina. 
“Vorrei che invece di perdervi nei vostri vagheggiamenti da artista, come vostra abitudine, portiate a termine la commissione il prima possibile”, disse Becchi, mentre lentamente si sedeva. “Per Elettra è il minimo che possiamo fare. Lei teneva così tanto a voi”. Quelle ultime parole furono dette in un sussurro tremolante. 
“Invero, vorrei proprio parlarvi di lei”. Sorride nuovamente in modo rassicurante. 
“Stava diventando una donna fantastica, Da Vinci. Non avrebbe dovuto andarsene così presto. Lascarmi qui, solo”.  
I suoi occhi così tristi, la sua voce sofferente… Leonardo, se prima credeva di arrivare alla verità un po' alla volta, ora si era convinto di dirgli tutto immediatamente. “Lei non vi ha lasciato, consigliere”, disse in tono molto serio. “Persone fidate l’hanno vista. Elettra è viva”. 
Becchi scosse la testa. “Avete idea di quante persone mi abbiano già detto questo? La vedono per le strade affollate del mercato, oppure di notte imboccare qualche vicolo e, quando si avvicinano abbastanza, si rendono conto che era null’altro che un’illusione, un crudele scherzo della mente. È normale dopo una tragedia del genere vedere l’ombra dei propri cari che si è perso nei luoghi che ce li ricordano. Quando scomparvero Lucrezia ed Anna vedevo le loro ombre ovunque per Firenze. Ora evito di uscire per evitare che accada anche con lei”. 
“Vi posso assicurare che era lei in carne ed ossa”, ripetè nuovamente Leonardo. “È su di una nave diretta ad occidente con Nico, il mio assistente, e il Conte Riario” 
L’anziano consigliere sospirò. “Da Vinci…”, mormorò in tono di supplica. Forse credeva che quelle erano solo farneticazioni. 
“Posso assicurarvi che è la verità. Riario era in Duomo quel giorno e deve… deve averla portata in salvo prima che Pazzi…”. Si interruppe, trovando più saggio non proseguire la frase. “Deve essere andata senz’altro così”, concluse semplicemente, euforico. 
Becchi lo guardò negli occhi con apprensione: a giudicare dall’espressione angosciata del suo volto, quelle parole invece di rassicurarlo avevano avuto l’effetto opposto. “Ammesso che sia la verità…”, disse con un filo di voce. “Che cosa vorrebbe Riario dalla mia bambina?”. Aveva appena terminato la frase quando spalancò di scatto gli occhi. “Oddio”, mormorò appena mentre il suo volto perdeva lentamente colore. Dovette chiudere gli occhi ed aggrapparsi alla panca mentre il mondo cominciava a girare intorno a lui. 
“Becchi, Elettra è al sicuro”, proferì Clarice, entrando a passo sostenuto nella Cappella. Si sedette di fianco al consigliere, perdendo le sue mani tra le proprie. “Posso assicurarvi che vostra nipote non ha alcun motivo per temerlo. Quell’uomo sarà anche un viscido verme, ma non oserebbe mai alzare un dito su di lei” 
“Non sono un ingenuo, Vostra Grazia, so cosa le farà” 
Clarice gli sorrise dolcemente. “Riario le è molto affezionato, non le farà del male”, ripetè. 
Leonardo li osservò con un’espressione perplessa, chiedendosi come facesse la Signora di Firenze a sapere di loro due; giunse alla conclusione che probabilmente doveva averli visti assieme. Pensò che fosse il caso di dire quel poco che sapeva sulla coppia di amanti. “Riario ed Elettra hanno una relazione da diversi mesi ormai”, disse. Ma, a vedere la faccia sconvolta di Becchi, si pentì immediatamente delle proprie parole. 
“Nessuno dei due si sarebbe compromesso fino a quel punto se non fosse stato qualcosa di serio”, si affrettò ad aggiungere Clarice. 
Lo osservarono annuire impercettibilmente, seppur il colore della sua pelle non accennava minimante a tornare normale. “Perché…”, provò a dire, ma la sua voce apparve troppo flebile. Si fermò e prese un respiro. “Perché portarla su una nave quando la Rocca di Forlì è inespugnabile?”, domandò con un tono più alto. 
Madonna Orsini questo non lo sapeva e si voltò verso il geniale artista, sperando che lui ne sapesse di più. 
Leonardo indugiò per diversi secondi prima di sospirare, indeciso se dire la verità o meno. Decise che sarebbe stato meglio puntare sulla sincerità. “Riario cerca un antico testo, il Libro delle Lamine”. 
Vide Becchi strabuzzare nuovamente gli occhi. “Quel tomo maledetto…”, mormorò. 
“Anche io ed Elettra lo stavamo cercando per conto…” 
“I Figli di Mitra…”, lo interruppe nuovamente il consigliere. “Anche lei…”, aggiunse scuotendo la testa sconsolato. 
L’artista l’osservò con non poco stupore. “Li conoscete?”, chiese. 
L’anziano sospirò. “Cosimo de Medici me ne parlò molti anni fa, voleva che anche io entrassi in quella setta. Non accettai. Anche mia cognata ne faceva parte”. Chiuse per un istante gli occhi e si massaggiò le tempie. “Non avrei mai pensato che avrebbero coinvolto anche lei in tutto quello” 
Leonardo avrebbe voluto domandargli di più, chiedergli che cosa la figura misteriosa del Mago gli avesse rivelato. Ma capì anche che per Becchi la priorità era tutt’altra. “Io ed Elettra abbiamo localizzato il luogo dove il libro è custodito, Riario si sta dirigendo là”, si limitò a dire. 
“Là dove, Da Vinci?”, domandò Clarice. 
“È una terra inesplorata ad occidente. Intendo raggiungerla al più presto”  
 

*** 
 

 

Nel frattempo, per mare… 


Girolamo Riario uscì dalla propria cabina con lo sguardo torvo, affranto. Davanti a lui, Zita, la sua serva abissina lo osservò con apprensione. “Come sta?”, si azzardò a chiedere, con timore, ben consapevole che una schiava non avrebbe mai dovuto porgere domande al proprio signore. 
Il Conte non alzò gli occhi dalla pavimentazione di legno grezzo e si limitò a scuotere la testa. Emise un lungo sospiro.  
“Si sta lasciando morire”, concluse Zita, per entrambi.


Nda
Ehilà! Rieccomi qui ovviamente in ritardo come mio solito. Mi spiace pubblicare in ritardo, ma la sessione estiva di esami non mi ha lasciato nemmeno un attimo di tempo libero. 
Come sempre buona lettura!
Avviso: il prossimo mese non pubblicherò nessun aggiornamento di questa storia, ma metterò una piccola aggiunta, chiamiamola "integrazione" del prossimo capitolo, sulla raccolta "Se potessi raccontare tutto, farei stupire il mondo". Quindi ci vediamo lì ahahah
 

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Capitolo 5
*** Amanti ***


Capitolo IV: Amanti

Una sottile lama di luce filtrava nella cabina, portando Girolamo ad aprire faticosamente gli occhi. Si guardò in giro, chiedendosi che ora fosse. A Roma o Firenze, dove il tempo era scandito dai rintocchi dei numerosi campanili presenti, era sempre facile saperlo. Ma lì, per mare, gli unici rumori presenti erano il continuo infrangersi delle onde contro lo scafo e le urla della ciurma. 
Sospirò e si voltò sul fianco destro. 
Fece una piccola smorfia quando i capelli di Elettra gli solleticarono il naso, ma un istante più tardi stava già assaporando il loro profumo. 
Le mani corsero a stringere la sua vita, avvicinandola di più al proprio corpo. Scostò di poco la camicia da notte dalla spalla nuda, lasciando poi un bacio su di essa.
In quel momento bussarono alla porta. 
Si staccò da lei controvoglia.
“Avanti”, disse, alzandosi dal letto e prendendo da una sedia lì vicino la propria camicia. 
Zita entrò poco dopo, mentre stava allacciando i primi bottoni. Reggeva tra le mani un vassoio con la colazione per entrambi.
“Buongiorno”, salutò, eseguendo poi un piccolo inchino.
“Ciao, Zita”, rispose Girolamo.
La osservò mentre con apprensione volgeva lo sguardo verso Elettra, immobile, rannicchiata in posizione fetale nella propria parte di letto. 
“Ora la sveglio”, disse il Conte. Anche se, non appena formulato quelle parole, si rese conto che molto probabilmente lei non stava dormendo. 
“Torno più tardi”, mormorò la schiava a bassa voce, per non disturbare la giovane. Poggiò il vassoio su di una cassapanca ai piedi del letto.
L’uomo annuì appena, perso nei propri pensieri. 
Zita fece nuovamente un inchino per poi avviarsi alla porta.
Girolamo tornò a stendersi di fianco ad Elettra. Le scostò delicatamente i capelli dal viso, indugiando più del dovuto sulla pelle soffice della guancia con la punta delle dita. “È ora di alzarsi, mia diletta”, le sussurrò all’orecchio.   
Lei aprì gli occhi e sbattè più volte le palpebre, rimanendo però immobile nella propria posizione. 
“Zita ha portato la colazione: tisana calda e biscotti, proprio come piace a te”, proseguì lui, piegando le labbra in un dolce sorriso. Portò una mano sul suo capo, con l’intento di accarezzarle i biondi capelli ma, non appena lei avvertì quel contatto, si fece immediatamente rigida, rannicchiandosi ancora più stretta in sé stessa. Girolamo si allontanò subito, ritenendo più saggio alzarsi per prendere il vassoio della colazione.
Lo mise al centro del letto.
“La tisana si raffredda”, disse, sperando di sortire qualche effetto su di lei.
Elettra non si mosse.
Prese un lungo respiro e si rimise nuovamente in piedi; fece qualche passo portandosi dalla parte del letto della giovane e si accovacciò di fronte al suo viso.
“Va tutto bene, Elettra”, sussurrò lentamente. “Va tutto bene”, ripetè, come se il tono di voce usato in precedenza non lo convincesse appieno. Nemmeno questa volta lo aveva fatto, però. Chiuse gli occhi e sospirò di nuovo.
Mise le mani poggiate sul letto vicino a lei, con i palmi rivolti verso l’alto ed attese.
Con molta titubanza, dopo diversi tentennamenti, la giovane poggiò le proprie sulle sue. A quel punto per  Girolamo fu facile metterla in posizione seduta.
Prese la sua tisana calda tra le dita e gliela avvicinò. Cercò il suo sguardo, ma esso pareva catturato solamente dalla scrivania ricolma di scartoffie dalla parte opposta della cabina. Fece per alzarsi, ma il Conte la trattenne seduta. “Prima devi provare a mangiare qualcosina, mia diletta” 
Soffiò sulla tisana calda, per cercare così di raffreddarla un pochettino prima di passargliela.
La giovane spostò gli occhi sulla tazza tra le sue mani ed avvicinò ad essa le proprie. 
A quel gesto inaspettato Girolamo non potè fare a meno di sorridere e gliela passò più che volentieri. La vide prenderla tra le proprie dita e concentrarsi sul colore rossastro del liquido all’interno. Elettra l’osservò per alcuni secondi, immobile, poi nelle sue iridi grigiastre passò un lampo di paura e lasciò la presa. 
La tisana bollente cadde sulla candida camicia da notte che indossava, mentre la tazza si infranse contro il pavimento in legno, andando in frantumi. 
La risposta di Girolamo fu fulminea: prese una camicia abbandonata sulla cassapanca ai piedi del letto e la usò per tamponare l’abito. Appena finita quell’operazione lasciò cadere a terra l’improvvisata spugna, portando entrambe le mani al suo viso. Cercò per l’ennesima volta in quella mattinata il suo sguardo, ma esso pareva catturato solamente da quelle macchie rossastre e dalle proprie mani. Dai suoi movimenti e dai lineamenti del volto contratti era come se vedesse qualcosa.
Ma non c’era niente su di esse.
“Ti sei scottata?”, le chiese con apprensione.
Lei alzò appena lo sguardo sui suoi occhi e sbattè un paio di volte le palpebre, per poi tornare ad osservare nuovamente in basso.
Girolamo indugiò ancora un po’ con le mani sul suo viso, carezzandole le guance con i pollici nel tentavo di riattirare la sua attenzione, ma alla fine dovette arrendersi. Sospirò, prima di staccarsi da lei.
Raccolse con cautela i cocci da terra, prestando cura di non lasciare in giro nemmeno la più piccola scheggia. Non voleva rischiare che Elettra si ferisse accidentalmente. Li buttò in secchio vuoto abbandonato in un angolo della cabina, poi prese la bacinella con l’acqua per lavarsi e la poggiò sulla cassapanca. 
Prese le mani della ragazza tra le proprie, aiutandola a mettersi in piedi. Dopodiché le sfilò la camicia da notte macchiata, buttando anch’essa a terra. Osservò il suo corpo completamente esposto trattenendo il fiato, ma la sua espressione mutò in fretta, facendosi nuovamente preoccupata quando si rese conto dell’allarmante velocità con cui lei stava perdendo peso.
“Dovresti provare a mangiare qualcosina in più, mia diletta”, disse con dolcezza, mentre intingeva la spugna nell’acqua, per poi passarla con cura sul suo corpo. Con quel nomignolo era sempre riuscito a strapparle un sorriso, ma ora pareva che nemmeno lo notasse.
Sospirò di nuovo, riabbassando lo sguardo sul proprio lavoro. Passò la spugnetta sul suo petto, tra l’incavo dei seni e su di essi. Sorrise malinconico pensando a tutte le volte che lei si era lamentata del proprio seno, a detta sua troppo piccolo; solitamente in quei casi lui ne prendeva delicatamente uno tra le mani fingendo di studiarlo, per poi scoppiare a ridere e dirle che lo trovava perfetto così come era, aggiungendo che tutto il suo corpo lo trovava perfetto. Una volta le aveva anche detto che con la gravidanza solitamente aumentava; Elettra non gli aveva parlato per giorni, nonostante la marcata ironia della sua voce in quel momento. Aveva ritenuto più saggio non toccare mai più quell’argomento.
Girolamo scosse la testa: quei preziosi momenti con lei gli mancavano, ma dubitava che sarebbero potuti tornare. 
Decise di dedicarsi alle sue braccia. Dovette usare estrema cautela sul braccio sinistro, dove la ferita causata dalla lama di Francesco Pazzi stentava ancora a rimarginarsi. Il medico di bordo l’aveva visitata il giorno prima, affermando che, nonostante la lentezza della guarigione, pareva non essere infetta.
Ripensò a quell’attimo, a quando aveva spalancato il portone del Duomo e aveva visto quella spada calare sul suo capo: nemmeno si era reso conto di aver urlato a Pazzi di fermarsi, così come non si era accorto di aver estratto la propria e averla puntata al collo del suo alleato, o di averlo poi sbattuto con violenza contro le porte serrate della Sagrestia in cui si erano barricati Da Vinci e Lorenzo de Medici. In quel momento il suo unico desiderio era stato quello di ucciderlo. E lo avrebbe fatto, se non fosse stato per il Capitano Grunwald, che lo aveva costretto a ritornare alla realtà di quel momento; aveva indossato nuovamente la propria maschera da sfinge e in tono piatto aveva ordinato alle proprie guardie di rimettere Elettra in piedi e di condurla insieme con la Donati all’accampamento di Montefeltro, dove il Duca di Urbino, alleato dell’ultimo momento di Sisto, attendeva con impazienza di poter invadere la città con le sue truppe di mercenari. Le aveva lanciato giusto una fugace occhiata, senza nemmeno accorgersi che fosse ferita. Uno dei cerusici dell’esercito l’aveva ricucita alla bene e meglio, senza premurarsi di fare attenzione che non le rimanesse il segno una volta guarita. Probabilmente se fosse restato con lei sarebbe andata diversamente. 
Scosse la testa, pensando che ormai quello che era fatto era fatto e proseguì il suo percorso con la spugna su pancia e gambe. Sul ventre e sulle cosce, nei punti dove la tisana calda era caduta, la pelle appariva leggermente arrossata, ma non sembrava nulla di grave. 
Finì e lasciò cadere la spugnetta nella bacinella, poi andò alla cassettiera di fianco alla porta, prendendo da esse una lunga veste color rosa cipria, di un tessuto leggero; quella, insieme ad altre e a qualche paio di pantaloni erano stati reperiti miracolosamente da Zita nei giorni precedenti alla partenza, al porto di Pisa, quando entrambi si erano resi conto che non potevano lasciare Elettra con indosso gli abiti rotti ed insanguinati che aveva in Duomo per tutta la durata del viaggio. 
L’aiutò ad indossarla e poi le mise dietro l’orecchio una ciocca ribelle di capelli che le ricadeva sul viso, indugiando sulla guancia con la punta delle dita. Prese il suo volto tra le mani, lasciandole poi lentamente scivolare sul suo collo, sulle spalle ossute e poi giù, sulle braccia, fino ad arrivare a stringere le sue mani. Cercò per l’ennesima volta il suo sguardo, ma esso era completamente catturato dalla scrivania e dalle carte su di essa; la vide muovere un passo in quella direzione.
Girolamo sospirò, decidendo comunque di accompagnarla fino ad essa, sempre tenendola per mano. Una volta lì, le scostò la sedia per permetterle di sedersi. Osservò i suoi occhi guizzare da una parte all’altra alla ricerca di una matita e di alcuni fogli bianchi. Aprì uno dei cassetti, prendendo tutto l’occorrente e mettendoglielo di fronte. Elettra cominciò a disegnare senza mai alzare lo sguardo su di lui, di fianco a lei, come se nemmeno esistesse. 
La osservò ancora per alcuni istanti con un finto sorriso sulle labbra, in netto contrasto con gli occhi preoccupati, poi ritenne più saggio uscire dalla cabina. 
Chiuse alle proprie spalle la porta con lentezza, evitando accuratamente di produrre anche il più minimo rumore, e si appoggiò alla sottile parete di legno che divideva i vari ambienti della nave con tutto il proprio peso, come se tutte le sue energie si fossero appena prosciugate, nonostante la giornata fosse appena iniziata. Chiuse gli occhi e si massaggiò lentamente le tempie, il volto affranto, per una volta libero da ogni maschera. 
“Come sta?”
La voce di Zita lo colse di sorpresa, forse per la prima volta da quando era al suo servizio. 
Alzare nuovamente le palpebre fu uno sforzo considerevole. Si chiese da quanto tempo la sua fedele serva abissina si trovasse in piedi davanti a lui. Probabilmente era lì da ancora prima che uscisse dalla cabina.
Come risposta si limitò ad abbassare lo sguardo sulle tavole di legno grezzo della pavimentazione e a scuotere la testa, in preda allo sconforto.
Gli scappò un lungo sospiro.
Seguirono alcuni momento di silenzio, che furono però rotti da Zita. “Si sta lasciando morire”, disse in un sussurro. 
Anche Girolamo era arrivato alla stessa conclusione ma, a differenza sua, non aveva avuto il coraggio di ammetterlo a parole.
Ciò che la sua schiava però non avrebbe mai detto era che, se si trovavano in quella situazione, la colpa era solo sua. Il Conte questo lo sapeva e non si dava pace di ciò.
Ancor prima della congiura in Duomo, quando il piano di mettere fine ai Medici cominciava a prendere forma, si era interrogato sulla possibile reazione di Elettra. Più la data fatidica si avvicinava, più lui si preparava ad affrontare la sua collera in caso di successo del piano. Avrebbe sopportato qualsiasi insulto, qualsiasi parola che il dolore e la rabbia l’avrebbero indotta a dire. Avrebbe sopportato perfino un suo tentativo di tagliargli la gola nel sonno o azioni simili. Ma mai si sarebbe aspettato tutto quello: non c’erano state parole maligne, né azioni avventate. Non era successo niente di quello che si sarebbe aspettato: Elettra non parlava e ogni suo singolo movimento, persino il più elementare come alzarsi dal letto doveva essere guidato da qualcuno. L’unico gesto che compiva di propria spontanea volontà era disegnare. Passava le sue giornate a disegnare il volto di Giuliano de Medici. 
Da quel 26 aprile l’unica parola uscita dalla sua bocca era stato un “Ti prego” appena mormorato, poco prima che il moro e la Donati finissero fuori bordo. 
Forse non avrebbe dovuto farla assistere a quella scena. Se solo l’avesse lasciata in cabina a disegnare, probabilmente nemmeno si sarebbe accorta della loro presenza a bordo.
Scosse la testa, ben consapevole che il passato non si poteva cambiare.
Il passato…
Era strano capire di essere stato davvero felice solo quando quella felicità la si era persa: aveva sempre pensato al suo soggiorno a Firenze come ad un peso, un’incombenza irritante a qui non aveva potuto sottrarsi, eppure quello che solo un anno prima avrebbe considerato un inferno, grazie a lei -e solo grazie a lei- si era rivelato il paradiso.
 
1477...

Sentì la porta della camera da letto aprirsi e richiudersi poco dopo, ma si impose di non lasciarsi distrarre e di finire ciò che stava facendo. Con un ginocchio a terra e le mani giunte, strette intorno al proprio rosario d’argento, Girolamo finì di sussurrare quella semplice preghiera in latino, la prima che la sua memoria ricordava di aver imparato, quando si trovava nel monastero a cui suo padre lo aveva dato in affidamento in attesa di poterlo usare come proprio strumento. Era un retaggio di quei tempi anche il consueto rosario mattutino. 
Si fece il segno della croce prima di rimettersi in posizione eretta e voltarsi in direzione della porta.
Elettra era in piedi davanti a lui, con un vassoio con due tazze fumanti tra le mani e lo osservava con un’aria perplessa.
Poteva vedere nelle sue iridi azzurre le emozioni susseguirsi velocemente e mescolarsi tra loro: vi leggeva una punta di genuina curiosità per quei gesti che a lei parevano quasi oscuri e occulti, senz’altro inconsueti. Per un istante gli parve di scorgere un tentativo di comprensione, ma esso lasciò ben presto spazio ad un’espressione di disappunto. Ma anche essa scomparve poco dopo, spazzata via da quella che inizialmente era solamente una scintilla di ironia, ma che alla fine coprì ogni altra emozione, arrivando a contagiare anche le sue labbra vermiglie, che si piegarono in un sarcastico sorriso, di quelli che in Girolamo creavano sempre sentimenti contrastanti: una piacevole irritazione di cui non poteva fare a meno.
“Ci sono modi più proficui di passare il proprio tempo”, la sentì dire con il suo tono di voce impertinente. 
Il Conte se lo aspettava, ma alzò comunque un sopracciglio, osservandola con un’espressione minacciosa. 
Elettra lo sorpassò con passo calmo, come se l’aria intimidatoria di Riario non avesse il minimo effetto su di lei, e poggiò il vassoio su uno dei due comodini.
“Che avresti fatto se non fossi stato Conte?”, gli chiese con genuina curiosità, sedendosi sul bordo del letto a gambe incrociate.
Girolamo indugiò sulla risposta per alcuni istanti: se suo padre lo avesse lasciato al monastero c’erano ben poche strade che avrebbe potuto intraprendere… 
“Il monaco, probabilmente”, rispose.
Osservò la giovane sbuffare e storpiare la propria faccia in un’espressione di disappunto che le dava un’aria buffa, amplificata dalle gocce di vernice dai diversi colori che si trovavano sparse sul suo viso a mo’ di tante piccole lentiggini. 
“Non mi pare tu abbia la stoffa per fare il monaco”, ribattè lei, lasciando correre il proprio sguardo tra le lenzuola sfatte e i cuscini a terra. 
Guardò anche lui in quella direzione: sul suo volto fece la sua comparsa un sorriso malizioso. “Dici di no, mia diletta?” 
“Stanotte non mi pare tu ti sia comportato da monaco”
Girolamo sospirò al ricordo della piacevole nottata che avevano passato assieme. “No, direi proprio di no”, concluse alla fine, guardandola profondamente negli occhi. Se solo il sole non fosse stato sul punto sorgere, facendo così scadere il tempo a loro disposizione per restare assieme, le avrebbe proposto di ripetere l’esperienza. 
Si sedette al suo fianco senza mai interrompere il contatto visivo. “E tu invece che avresti fatto se non ti fossi dedicata all’arte?”, le domandò con voce bassa, ad un soffio dalle sue labbra. 
“Sarei diventata un’esploratrice”, fu la pronta risposta di lei. Si alzò di scatto in piedi sul letto. “Avrei avuto una mia nave, una mia ciurma e avrei scoperto qualche nuovo continente”. Si guardò in giro. “E poi avrei combattuto contro i pirati”. In un gesto fulmineo afferrò il candeliere che vi era sul comodino, puntandoglielo poi addosso come se si fosse trattato di una spada. 
Girolamo rise di cuore. Un altro, quello, dei miracoli che quella ragazza riusciva a compiere su di lui. 
“Le tisane si raffreddano”, disse poco dopo, riferendosi alle due tazze non più fumanti poggiate sul comodino. 
Elettra sbuffò, non soddisfatta della così breve durata di quel momento di ilarità. Si guardò in giro, come se cercasse qualcosa e, quando non parve trovarlo, la sua espressione divenne di disappunto. “Voglio un cappello di quelli a tesa larga, con una lunga lunga piuma sopra”, finse di piagnucolare, imitando in tutto e per tutto il comportamento di un bambino capriccioso. 
Il Conte si lasciò andare nuovamente ad un pieno sorriso ironico, dopodichè le porse una delle due tazze. Fece per portarsi la propria alle labbra, ma lei lo fermò con un gesto della mano: la sua espressione in quel momento non prometteva nulla di buono.
“Prima di mangiare qualcosa bisogna sempre dire un Padre Nostro, ve ne siete forse scordato, Conte Riario?”, lo prese in giro fingendo un’aria angelica. 
Sul viso dell’uomo comparve una smorfia di disappunto. “Finirai per essere essere accusata di stregoneria un giorno o l’altro se continui così”, borbottò.
“Se fossi stata una strega a quest’ora avrei già trasformato Francesco Pazzi in un ratto”, fu la sua pronta risposta. 
Riuscì a strappargli nuovamente un sorriso. Sorriso che restò impresso sul volto di Girolamo anche mentre sorseggiava lentamente la propria tisana al lampone, non distogliendo però mai lo sguardo da lei. 
“Hai dipinto per tutto il resto della notte?”, le chiese, rompendo così il silenzio fatto di lunghi sguardi che si era venuto a creare. Non era la prima volta che lo faceva, accadeva piuttosto spesso.
Elettra annuì.
“A cosa stai lavorando?”
Questa volta scosse la testa. 
Girolamo tentò di farle gli occhioni, ma nemmeno quella tattica parve funzionare.
“Non è ancora finito”, si spiegò meglio lei.
“Posso vederlo?”
“Tu provaci e io ti scaglio addosso un po’ di malocchio per davvero”


“Mi manca”, disse Girolamo in un flebile sussurro. Ciò che vedeva ogni giorno, la donna che lui e Zita tentavano con tutte le loro forze di accudire al meglio non era la stessa che aveva conosciuto a Firenze. Quella ragazza, quella giovane e impertinente fiorentina, aveva lo sguardo attento e brillante e una lingua che nulla gli lasciava perdonato; nessuno prima di quel momento gli aveva parlato come aveva fatto lei. E nessuno prima di lei era riuscito a riportare a galla la sua coscienza. 
Ora, invece, di quella ragazza allegra e spensierata non rimaneva nulla, nemmeno lo sguardo, il colore degli occhi. Tutto ciò che era rimasto era un guscio vuoto, che lui stesso aveva svuotato, e che lentamente si stava consumando anch’esso. 
Lei gli aveva dato tanto, troppo, e lui in cambio la stava uccidendo. 
Girolamo scosse la testa. “Non possiamo permetterglielo, Zita”
La serva annuì alle sue parole. “Come pensate di fare?”
Il suo padrone chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie, in attesa di un’idea. Quando li riaprì, essi si focalizzarono su di una porticina appena visibile sulla destra, in fondo a quel corridoio scarsamente illuminato; essa portava all’ultimo livello della nave, nel punto dove si trovavano le celle.
Zita colse al volo ciò che il Conte aveva in mente. “Pensate che il ragazzo possa riuscire a farla ragionare?”
Udì un pesante sospiro. 
“Lo spero. Lo spero tanto”


Nda 
Eccomi qui finalmente con il nuovo capitolo! Innanzitutto mi scuso per il ritardo - di ben due settimane - con cui lo pubblico, ma ultimamente sono stata molto occupata con l'accademia. 
Bene! Finalmente entrano in scena anche questi due. Siete felici che Elettra sia "tornata" (più o meno)? 
Non lo nego: è stato un parto multigemellare con complicazioni; di questo capitolo avrò almeno quattro differenti versioni ahahah. Non sono nemmeno completamente soddisfatta di questa versione, ma tra tutte era la meno peggio. 
Cercando di essere più puntuale, alla prossima!

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Capitolo 6
*** Acque mosse, parte I ***




Capitolo V: Acque mosse, parte I

La stiva della nave era un ambiente umido e poco illuminato, adatto a conservare gli alimenti. Ma meno adatto ad essere adibito a prigione.
Nico si trovava lì sotto da giorni. O da settimane. Era difficile dirlo dal momento che il giorno e la notte si avvicendavano senza notevoli cambiamenti di luminosità.
La serva abissina di Riario gli portava i pasti con una certa regolarità, a volte fermandosi anche per dire qualche veloce parola. Ma era fin troppo chiaro che anche lei avesse paura a parlare; probabilmente aveva l’ordine di non farlo.
Aveva provato a chiederle qualche informazione sulle condizioni dell’altra prigioniera di Riario, ma ogni volta che accennava ad Elettra l’espressione della donna mutava, si faceva più evasiva, le risposte più vaghe e i suoi occhi guizzavano da una parte all’altra in cerca di una via di fuga. Compiute le poche azioni indispensabili, come cambiare la paglia del giaciglio, svuotare il vaso da notte e consegnargli del cibo, sgattaiolava via alla velocità della luce.
Anche Riario, quel verme schifoso, ogni tanto scendeva nei meandri della nave per assicurarsi che il suo prigioniero fosse ancora vivo. In quei casi restavano ad osservarsi per diversi momenti, in silenzio, poi il Conte iniziava a parlare: discutevano di politica, per di più, di come andava trattato il popolo, di Firenze.
“Meglio essere temuti, che amati”, ripeteva sempre Riario.
Più che semplici discussioni, parevano delle lezioni. Lezioni che, Nico doveva ammettere a malincuore, non gli dispiacevano del tutto: il Conte poteva anche essere cinico e spietato, però era scaltro, dote che in politica era tutt’altro che superflua.
Aveva però visto anche altro negli occhi di quell’uomo all’apparenza imperturbabile: c’era del rammarico, del rimorso, una sincera tristezza di cui Nico non sapeva spigarsi, o di cui non voleva sapere una risposta: sotto sotto temeva già di conoscerla. Aveva avuto davvero pochi momenti per restare con Elettra da quando era salito a bordo di quella nave, ma essi gli erano bastati per intuire che qualcosa di grave l’aveva scossa. Non si capacitava di come lei fosse lì e non al fianco di Leonardo, a salvare Firenze: li aveva visti lasciare insieme il piccolo porto della città diretti al Duomo. E poi l’aveva rivista sul ponte di quella nave: ciò che fosse successo nel mezzo lo ignorava completamente. Avrebbe tanto voluto saperne di più, ma era anche certo che qualsiasi domanda sarebbe rimasta senza risposta.
Sospirò sconfortato, prima di portarsi una mano a schermarsi gli occhi: la piccola porta che portava ai piani superiori era stata aperta e una sottile lama di luce filtrava attraverso lo spiraglio, andando a posarsi proprio sopra il suo viso. In controluce, vide una sagoma scura percorrere la ripida rampa di scale che portava nella stiva.
Intuì che doveva trattarsi di un uomo. Di Riario, senza dubbio.
All’arrivo del Conte nelle vicinanze della cella, non si alzò, né cambiò la propria posizione, limitandosi a sfidarlo silenziosamente con il proprio sguardo, ostile.
Solitamente Riario appariva fin divertito da quei modi, probabilmente nel suo cinico mondo riusciva a trovare dell’ironia in tutta quella resistenza, ma quel giorno, studiandolo attentamente, Nico non vide niente di tutto ciò: il Conte appariva stanco, con l’aria stravolta e le orecchie basse, come quelle di un cucciolo che è appena stato sgridato.
Avrebbe voluto gioirne, deriderlo per rivoltare il coltello nella piaga. Dopo tutto quello che gli aveva fatto se lo sarebbe solo meritato, ma qualcosa glielo impediva. Senso di pietà? Molto probabile.
Riario gli ripeteva spesso che erano simili. Ma non lo erano affatto.
Lo osservò mentre si sedeva esausto su di uno sgabello.
Si studiarono ancora per alcuni secondi nel più rigoroso silenzio. L’unico suono udibile era lo sciabordio delle onde.
Il Conte si umettò le labbra, segno che, anche Nico se ne era reso conto, compiva solamente in momenti di difficoltà, quando le parole da dire venivano meno.
“Ho bisogno del tuo aiuto”, disse alla fine, con estrema serietà.
Il giovane alzò un sopracciglio, scettico. “Prima mi chiudete in una cella nella stiva alla stregua di un animale e poi venite a cercare il mio aiuto”, gli fece notare in modo tutt’altro che amichevole. “È curioso”, aggiunse con pungente sarcasmo.
Riario, che sapesse, non chiedeva mai aiuto. Doveva essere davvero disperato per farlo. E non avere altra scelta.
Finalmente, Nico sentiva di avere il coltello dalla parte del manico.
“La tua già precaria situazione potrebbe peggiorare ulteriormente”
O forse no.
Lo osservò con diffidenza. “E come potrebbe, di grazia?”, chiese con lo stesso tono di voce di poco prima.
Vide l’espressione dell’uomo mutare, farsi più minacciosa e imperscrutabile: Riario aveva indossato nuovamente la sua maschera da sfinge seppur, visibile qua e là, qualche piccola crepa era manifesto dello sforzo che in quel momento stava compiendo.
“Suppongo non sia necessario che io ti spieghi come ciò potrebbe avvenire”, sibilò. Il suo sguardo andò a posarsi sulla mano del giovane, sulla cicatrice circolare sul dorso di essa.
Anche Nico seguì i suoi occhi, nascondendo poi in un gesto d’istinto l’arto dietro la schiena.
“Sono piuttosto bravo a causare dolore”, aggiunse, per poi mutare nuovamente la propria espressione. Sospirò, come se si preparasse ad una difficile confessione. Forse era proprio così. “Da quanto conosci Elettra?”
“Da più tempo di voi certamente”, rispose il giovane, mantenendosi sempre sulla difensiva. “Che le avete fatto?”, aggiunse a voce un po’ più alta, alzandosi in piedi e stringendo tra le mani le sbarre della propria cella.
“Devi solo cercare di farla ragionare… lei non sta passando un bel periodo”
Nico sapeva perfettamente a cosa Riario si riferisse: nelle loro ‘chiacchierate’ avevano parlato anche della morte di Giuliano de Medici, della sorte incerta del fratello e, di conseguenza, dei suoi fedelissimi. Non poteva nemmeno immaginare in quale stato di angoscia potesse trovarsi Elettra a non sapere nulla dei propri cari.
“Voi non vi ascolta, forse?”, chiese, sforzandosi di imprimere alla propria voce tutto il sarcasmo di cui era capace.
Riario doveva aver capito che si trattava soltanto dell’ennesima provocazione, ma invece di prendersela, come il giovane si sarebbe aspettato, sul suo volto fece la comparsa un timido sorriso malinconico. “Invero, non lo ha mai fatto”, disse con dolcezza, per poi farsi nuovamente serio. “Vorrei che tu ci provassi comunque. In quanto suo amico e per l’affetto che provi nei suoi confronti”, si affrettò ad aggiungere, nel vano tentativo di sviare il giovane dall’effettiva richiesta di aiuto con cui aveva esordito.
Peccato che il giovane era tutt’altro che uno sciocco: in quelle settimane per mare aveva imparato molto. “E se accettassi, cosa potrei ottenere in cambio?”, chiese interessato.
Riario si umettò le labbra, nervoso: entrambi sapevano quale sarebbe stato il giusto compenso. Ma il Conte pareva restio a concederlo.
“La tua condizione potrebbe notevolmente migliorare. Ma solo se avrai successo”.
Doveva essergli costato davvero molto dirlo.
Nico annuì, soddisfatto. “Accetto”.
 

***

 

Poco dopo…


Riario non aveva proferito parola da quando aveva aperto la cella di Nico. Il breve tragitto che divideva la stiva dalla cabina in cui Elettra si trovava era stato percorso nel più assoluto silenzio.
Indugiarono entrambi per diversi secondi con lo sguardo rivolto alla porta chiusa, poi il Conte si voltò verso il giovane, osservandolo a lungo con la propria espressione impenetrabile. Forse si trattava di un muto avvertimento.
Tornò a voltarsi verso la porta, bussando poi sulla ruvida superficie di legno. Attesero alcuni secondi ed infine Riario abbassò la maniglia ed entrò.
Ciò che si trovarono davanti, nessuno dei due se lo sarebbe aspettato: Elettra teneva la propria matita in una mano, davanti al viso, con l’affilata punta pericolosamente vicino al proprio occhio; ancora poco ed essa avrebbe sfiorato la pupilla.
Nico rimase inerme sulla soglia, attonito mentre il Conte con gesti fulminei si fiondò in direzione della scrivania, prendendole il polso tra le mani ed allontanandolo dal suo viso. Le sfilò dalle dita la matita, nascondendola poi in una tasca della giacca.
“Elettra, cosa stavi cercando di fare?”, domandò con preoccupazione, senza lasciare la presa sui suoi polsi, saldamente inchiodati sulla scrivania, ai lati del corpo.
La giovane alzò il proprio sguardo nel suo, osservandolo con i propri occhi vuoti. Sbattè un paio di volte le palpebre, prima di voltare la testa in direzione della porta, dove Nico la stava a sua volta osservando.
Riario sospirò prima di lasciare scivolare con lentezza le proprie mani fino a raggiungere le sue guance e carezzandole gli angoli della bocca con i pollici. “Hai visto, mia diletta? Ti ho portato un amico”, disse a voce bassa, molto vicino al suo viso. Le rivolse un largo ma finto sorriso, sperando di contagiarla a piegare le labbra in uno simile.
Non ottenendo alcuna reazione, esortò Nico a fare qualche passo e ad avvicinarsi a loro.
Si staccò da lei, raggiungendolo più o meno a metà strada. “Ricordati il nostro patto”, sibilò all’orecchio del giovane. “La tua già precaria situazione potrebbe sempre peggiorare”
Fece qualche passo verso la porta. “Vi lascio soli, immagino abbiate molte cose da dirvi”, disse con il sorriso sulle labbra.
Nico trovava disorientanti questi improvvisi cambi di espressione di Riario. Attese che il Conte chiudesse alle proprie spalle la porta per avvicinarsi alla giovane.
“Elettra?”, tentò di chiamarla, con la voce che esprimeva incertezza.
Lei rimase immobile, seduta alla scrivania e con lo sguardo fisso sui fogli che aveva davanti.
“Elettra?”, ritentò. Fece alcuni passi avanti, posandole una mano sulla spalla, sperando così di ottenere una qualche reazione.
Niente, come se lui non fosse nemmeno nella cabina.
Il suo sguardo cadde sulla miriade di fogli che erano andati accumulandosi sulla scrivania e a terra: rappresentavano tutti Giuliano de Medici.
Nico ne prese alcuni tra le mani, studiandoli. Uno di essi colpì particolarmente la sua attenzione: rappresentava il giovane de Medici a terra, in un lago di sangue. Una scena troppo cruda perché lei potesse solo immaginarla, poi capì: non era il frutto dell’immaginazione della giovane, lei si trovava lì quando era successo.
Strinse con rabbia il foglio di carta tra le mani: Riario si era dimenticato di dirgli che Elettra aveva assistito alla sua morte; molto probabilmente aveva omesso l’informazione volontariamente.
Avrebbero fatto una lunga chiacchierata una volta uscito di lì.
Tornò ad osservare la bionda, non potendo fare a meno di pensare a quello che le era accaduto quando aveva dieci anni: all’epoca lui non frequentava ancora la bottega di Andrea ma, attraverso i racconti del Maestro, sapeva esattamente come aveva reagito alla scomparsa di madre e sorella. Nemmeno allora erano riusciti a farle dire qualche parola fino a quando Gentile Becchi, in preda allo sconforto, si era confidato con Cosimo de Medici; l’anziano signore di Firenze gli aveva allora consigliato di mettere Elettra a bottega dal Verrocchio. Aveva impiegato diversi mesi per tornare ad esprimersi normalmente mentre, altri disturbi, come incubi, attacchi di panico o i problemi di alimentazione, alle volte tornavano ancora a tormentarla.
E ora questo.
No, non poteva permettere a Riario di farle ancora del male. Non dopo tutto quello che già gliene aveva fatto.
Sempre con il foglietto di carta stretto nel pugno, si diresse a passo di marcia in direzione della porta della cabina. Abbassò con un gesto secco la maniglia ed uscì nel buio e stretto corridoio della nave, dove Riario stava in quel momento dando ordini ad uno degli uomini della ciurma.
“Voi, bastardo!”, disse il giovane, puntandogli il dito contro. Nelle sue intenzioni c’era quella di colpirlo con un pugno se solo il Conte non fosse stato più veloce: Nico si ritrovò con la faccia schiacciata contro una parete e il braccio dolorosamente piegato dietro la schiena. Nonostante ciò, tentò, senza alcuna efficacia, di liberarsi da quella presa.
Il foglio gli cadde dalle mani nel tentativo.
“Come avete potuto farle quello?!”, continuò ad urlare.
Riario lo osservò perplesso e con un gesto secco lo voltò, in modo da poterlo vedere negli occhi. “Fare cosa?”, chiese in tono piatto.
Lo sguardo di Nico si concentrò sul pezzo di carta a terra. Cercò nuovamente di liberarsi e questa volta il Conte lasciò la presa, permettendogli di chinarsi a raccoglierlo.
“Lei era lì quando il de Medici è stato ucciso”, disse il giovane, passandogli in malo modo lo schizzo fatto da Elettra. “Lei si fidava di voi ed è così che ripagate la fiducia altrui?”. Gli lanciò un’occhiata disgustata.
“Era perfettamente a conoscenza della delicata situazione tra Roma e Firenze. I politici si uccidono ogni giorno ed era solo questione di tempo perché accadesse. Lo sapevano tutti: i Medici stessi sapevano del pericolo che correvano e il loro errore è stato quello di abbassare la guardia al momento sbagliato”
Nico scosse la testa. “Elettra forse poteva aspettarsi un colpo basso da Roma. Ma non da voi”
“La mia lealtà va innanzitutto a Roma e al Santo Padre, ero stato chiaro con lei su questo punto”. Glielo aveva fatto presente in diverse occasioni, praticamente ogni qual volta gli interessi del Santo Padre entravano in conflitto con il bene di Firenze. Avrebbe dovuto imparare quella lezione molto tempo prima. “Come la sua va prima di tutto a Firenze”
Il giovane piegò le labbra in un amaro sorriso. “No, lei ha tentato di conciliare i propri sentimenti per voi e il suo ruolo a Firenze. E a volte ha messo voi in primo piano”. Non aveva capito proprio nulla di Elettra. In un certo senso lo compativa. E ciò traspariva dal suo sguardo.
I lineamenti del volto di Riario si fecero più duri. “Credi forse che io non lo abbia mai fatto? Che non abbia mai rischiato di espormi troppo pur di aiutarla?”
“I fatti dimostrano il contrario”, rispose Nico con un’espressione di scherno che replicava piuttosto bene quella tipica del Conte quando si trattava di prendere per i fondelli qualcuno.
Riario non ci vide più dalla pazienza e i gesto secco prese il giovane per la camicia, sbattendolo nuovamente con la schiena contro la parete. “Sai cosa stava per fare Pazzi quel giorno in Duomo quando sono arrivato?”, sibilò, molto vicino alla sua faccia. Girolamo non avrebbe mai dimenticato la scena che gli si era parata davanti. La vedeva di continuo, ogni volta che chiudeva gli occhi. E nei suoi incubi non sempre riusciva ad intervenire in tempo. “Elettra era a terra, in ginocchio, e Francesco Pazzi era in piedi alle sue spalle, con la spada stretta in pugno, che prendeva le misure per mozzarle il capo”. Osservò il ragazzo dritto negli occhi. “Avrei dovuto non intervenire, forse? Il Santo Padre aveva dato l’ordine di uccidere chiunque fosse leale ai Medici. Se, come dici tu, fossi stato ligio al dovere non avrei dovuto fermarlo, eppure mi sono compromesso per lei. E non era la prima volta che accadeva”
“Sapevate che sarebbe stata lì”, ribattè il giovane.
“Mi aveva detto che sarebbe rimasta a casa. Il piano era quello di mandare alcuni uomini fidati a prelevarla per portarla al sicuro a Forlì”
Nico lo osservò ancora un po’ in cagnesco, prima di tentare di liberarsi.
Di fronte a quei tentativi, Riario sospirò, lasciando infine la presa.
Il ragazzo fece alcuni passi in direzione della cabina, prima di voltarsi nuovamente verso il Conte. “Se volete davvero fare qualcosa per lei, allora statele alla larga”, disse in tono duro, prima di rientrare.
Chiuse la porta alle proprie spalle con lentezza, evitando accuratamente di fare il minimo rumore.
Si appoggiò al legno di essa con la fronte e prese un lungo respiro, poi si voltò in direzione della scrivania: Elettra era esattamente dove l’aveva lasciata, immobile nella stessa identica posizione.
Le si avvicinò e il suo sguardo tornò a concentrarsi su uno dei fogli poggiati sulla scrivania, in cerca di un’idea. Osservò il volto sorridente del de Medici in uno di quei ritratti: forse aveva avuto un’idea.
“Lui non lo vorrebbe, non vorrebbe che tu ti buttassi giù in questo modo”, disse, facendo scivolare il pezzo di carta fino sotto il naso di lei.
La vide sbattere le palpebre e poi osservare il ritratto.
“Che cosa direbbe Giuliano se ti vedesse ora, in questo stato?”, le domandò. Girò la sedia su cui era seduta dal proprio lato, in modo che lo guardasse negli occhi mentre parlava. “Io penso si domanderebbe dove è finita l’Elettra che conosceva, quella ragazza sempre con la spada al fianco e la lingua sciolta. Quella che non ha esitato a puntare una spada al collo di Riario per aiutare un amico in difficoltà”. A Nico scappò un accenno di sorriso a pensare a quello di cui la giovane era stata capace di fare all’accampamento romano, la prima volta che avevano incrociato il Conte sul loro cammino. “Rivorrei indietro quell’amica perché ciò che vedo ora non è null’altro che un guscio vuoto che si sta lentamente consumando anch’esso”, disse, ritornando serio. Prese le sue mani tra le proprie. “Non puoi lasciarti morire, abbiamo ancora tanto da fare”, aggiunse in un sussurro. “La morte di una persona cara non è la fine di tutto, è così, è la vita: c’è chi va e c’è chi viene. E noi questo non lo possiamo controllare. Bisogna accettarlo e andare avanti”. Strinse un pochettino la presa sulle sue mani, sperando di darle così l’impulso a rispondere, almeno un pochettino, ma esse rimasero totalmente inermi. “Pensa alla vendetta, dobbiamo vendicarci con Riario. Dobbiamo trovare un modo per renderlo innocuo, poi potremo impossessarci della nave e fare dietrofront fino a Firenze, fino a casa”. Le sorrise, sistemandole poi una ciocca ribelle dietro l’orecchio. “Ti piace l’idea?”. Sospirò. “Ma non posso fare tutto da solo, ho bisogno del tuo aiuto. E per farlo devi stare bene”. La studiò per diversi secondi, in attesa di un qualcosa che gli facesse intuire che lei avesse compreso tutto il discorso. “Elettra dì qualcosa”, mormorò. Osservò i suoi occhi, spenti e vuoti, ed abbassò il capo, scuotendolo. “Per favore”, aggiunse, seppur sentisse dentro di sé che era stato inutile.
Attese ancora alcuni secondi, poi si lasciò andare ad un lungo sospiro. Le diede le spalle, incamminandosi verso la porta, dove Zita lo attendeva per riportarlo nella propria cella.
 

***

 

Alcune ore più tardi…


La notte era già scesa da alcune ore, ma nella cabina un paio di candele ancora accese producevano un tenue bagliore.
Elettra era sola: Zita l’aveva messa a letto diverse ore prima, mentre Riario non si faceva vedere da parecchio.
La giovane era immobile, distesa su di un fianco in posizione fetale nella sua parte di letto e con gli occhi chiusi. Stava dormendo, ma il suo sonno era tutt’altro che tranquillo: l’espressione sofferente del suo volto ed un leggero strato di sudore ne erano la prova.
Aprì di scatto gli occhi, guardandosi attorno con il fiato corto. Strinse le ginocchia al petto, rannicchiandosi ancora di più in quella posizione di difesa.
Si guardò in giro, abituandosi piano piano all’oscurità in cui era immersa.
No, non si trovava più in Duomo.
Poco sotto di lei poteva udire un rumore identico a quello prodotto dalle onde contro lo scafo di una nave, un vago ricordo dei viaggi che faceva con suo padre. Quello, unito ad una sensazione di rollio e all’odore di salsedine la portarono a pensare di trovarsi davvero su di una nave. Eppure un istante prima si trovava nel Duomo di Firenze con il corpo di Giuliano stretto tra le braccia…
Si mise di scatto a sedere quando l’immagine di Girolamo che le trafiggeva il petto con la propria spada le tornò alla mente. Il suo sguardo andò immediatamente a focalizzarsi verso il basso, come se si aspettasse di vederne l’elsa sporgere dal proprio torace.
Non vide nulla.
Eppure quel dolore era ancora così vivo che non sarebbe potuto essere solo un frutto della sua immaginazione. Si tastò il petto per avere la certezza che non ci fosse nulla e, non soddisfatta, cercò in tutti i modi di allargare lo scollo della propria veste. La pelle sotto ad essa era liscia, senza nemmeno un segno o una cicatrice che potesse indicare un qualche genere di ferita; solo le costole erano ben visibili sotto la pallida pelle tesa.
Si osservò le mani: avrebbero dovuto essere blu e sporche di sangue, così come i propri abiti. Abbassò lo sguardo sulle proprie vesti, rendendosi conto di non stare indossando la giacca a fiori, la camicia bianca e i pantaloni di quel giorno, ma una lunga veste color rosa cipria.
Che cosa era successo? Come era possibile tutto quello?
Strisciò fino a ritrovarsi con la schiena premuta contro la testiera del letto e strinse le ginocchia al petto, cercando di prendere dei lunghi respiri, in netto contrasto con la sensazione della propria gola che si restringeva. Le lacrime cominciarono a scivolare sulle sue guance senza quasi rendersene conto.
Perché si trovava su di una nave?
Cercò di concentrarsi sui propri ricordi, ma la propria mente non riusciva ad andare oltre l’immagine di Giuliano morto tra le sue braccia.
Sarebbe dovuta essere morta con lui… La mano corse a tastare il polso in cerca di eventuali pulsazioni: sì, il suo cuore batteva ancora. E quella fastidiosa sensazione di soffocamento le indicava anche che ancora respirava.
Che anche nell’aldilà le funzioni vitali fossero le stesse?
Aldilà…
Elettra nell’aldilà non ci aveva mai creduto… e poi perché proprio una nave?
Delle voci sconosciute provenienti dal corridoio le arrivarono alle orecchie. No, se fosse stata dall’altra parte Giuliano sarebbe stato con lei, non di certo degli sconosciuti.
Fece un movimento brusco con il braccio sinistro, per stringere ancora di più al petto le proprie ginocchia, ma avvertì immediatamente una fitta di dolore. Con l’altra mano sfiorò il punto leso, avvertendo sotto alle proprie dita lo spesso filo utilizzato per ricucirle la ferita.
In un lampo le immagini di quel giorno le passarono davanti agli occhi: il luccichio della lama di Francesco Pazzi che non era stata abbastanza veloce ad evitare, il suono metallico della propria spada che cadeva a terra e il freddo pavimento del Duomo sotto alle propria ginocchia. Avvertì un sibilo fendere l’aria sopra alla propria testa seguito immediatamente da un urlo, ma non seppe spiegarsi nulla di tutto quello: il suo sguardo era fisso sul corpo di Giuliano, immobile nel bel mezzo della navata deserta. Tutto quello che avrebbe voluto fare sarebbe stato raggiungerlo.
I rumori dei colpi di spada si mischiarono al suono delle numerosi voci e lamenti e poi, sopra a tutto quello, fece la sua comparsa un viso a lei famigliare, con gli occhi azzurri e dei riccioli biondi.
Quando è che aveva incontrato Nico?
No, non poteva trovarsi anche lui in Duomo, doveva essere stato più tardi… forse su quella stessa nave. C’era una tazza con del sangue sulla nave, di essa si ricordava bene dal momento che liquido rossastro le era finito sulle mani... ed era tutt’ora lì.
Cercò di rammentare qualcos’altro, ma i suoi ricordi erano troppo confusi, con voci, suoni e frammenti di immagini che si mischiavano tra loro, rendendo il tutto ancora più difficile.

Che cosa direbbe Giuliano se ti vedesse ora, in questo stato?”

Glielo aveva detto Nico, di questo ne era certa.
Giuliano…
Vederla…
Anche lei avrebbe tanto voluto rivederlo, riabbracciarlo e perdersi in quella sensazione di sicurezza che lui le aveva sempre dato.
Avrebbe dovuto trovarsi con lui in quel momento, ma qualcosa o qualcuno glielo aveva impedito. Se solo Pazzi fosse stato più veloce… Ma, forse, poteva ancora porre rimedio.
Sì, poteva farlo.
E dopo avrebbe rivisto Giuliano.
Nella penombra della cabina osservò la porta che la separava dal resto del mondo: il percorso non era difficile, le sarebbe bastato attraversare un corridoio e salire i gradini che portavano sul ponte principale. Non riusciva a spiegarsi come facesse a saperlo, eppure sentiva che quella era la strada giusta. Così come sapeva che a quell’ora le possibilità di incontrare qualche marinaio erano praticamente nulle; forse l’unico che l’avrebbe potuta notare sarebbe stata la vedetta, ma comunque non avrebbe mai fatto in tempo a fermarla.
Si avvicinò al bordo del letto e lentamente mise a terra i piedi. Le assi di legno erano ruvide sotto ad essi.
Chiuse gli occhi e prese un lungo respiro, dopodiché si alzò reggendosi al bordo quando si accorse che la stanza intorno a lei girava vorticosamente. Attese alcuni momenti ed infine mosse i primi incerti passi verso la porta.
Ogni passo era un pochettino più di sicurezza. Ogni passo l’avvicinava sempre più a Giuliano.
Silenziosamente abbassò la maniglia ed uscì nel corridoio deserto.
 

***

 

Nel frattempo…


Girolamo si trovava nella cabina che il Capitano della nave aveva adibito come proprio personale studio e che gli aveva gentilmente concesso di utilizzare, insieme con i propri alloggi. Stava studiando la Pelle dell’Abissino con sopra inciso il codice per interpretare la Mappa rinvenuta nel Libro dell’Ebreo. Per propria sfortuna era anch’essa in codice.
Occorreva decifrarla al più presto, altrimenti a breve si sarebbero ritrovati a navigare alle cieca.
Erano giorni e notti che ci lavorava, ma ancora non era riuscito ad ottenere nemmeno il più esiguo risultato.
Si strofinò gli occhi, arrossati per la stanchezza.
Forse il giovane Nico aveva ragione.
“Siete andato con il Vaticano rischiando l’esecuzione per impossessarvi del Libro delle Lamine. E tutto perché vi darebbe la conoscenza e il potere con cui il mio maestro è nato”, gli aveva detto durante una delle loro conversazioni.
Sì, forse quel ragazzino aveva davvero ragione.
Da Vinci avrebbe decifrato quegli strani disegni in pochi minuti. Mentre lui in giorni e giorni di lavoro non era giunto a nulla.
Sì, questo lo irritava e non poco.
Anche Elettra era certo che ce l’avrebbe fatta in poco tempo, se solo fosse stata bene.
Elettra…
Nico aveva ragione anche su di lei: starle continuamente accanto aveva solo peggiorato la situazione; avrebbe dovuto mantenere le distanze da quel momento in poi, sperando che a poco a poco si sarebbe ripresa.
Lei e le sue condizioni occupavano la sua testa notte e giorno e lo tormentavano anche durante il sonno: persino la sua mente si prendeva gioco di lui, facendogli aprire le porte del Duomo fiorentino con un istante di ritardo, quando la spada di Pazzi era già stata calata. In quei momenti apriva gli occhi di scatto, con la fronte sudata e il fiato corto.
La sua prima azione era quella di cercarla nel buio, riuscendo a calmarsi solo dopo aver osservato per lunghi secondi il suo petto alzarsi ed abbassarsi.
Chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie, cercando di concentrarsi su ciò che stava facendo: non poteva permettere alla propria testa di distrarsi.
Avvicinò a sé le poche informazioni che era riuscito ad appuntare su di un foglio: la propria calligrafia era sempre stata chiara ed elegante, come si conveniva ad un nobile, ma con tutta la stanchezza che aveva in corpo, anch’essa ne risentiva. Stentava quasi a riconoscerla come propria.
Osservò attentamente le lettere sdoppiarsi e distolse immediatamente lo sguardo, concentrandosi sulla parete opposta, sulla porta che portava al corridoio. A differenza degli altri infissi che si affacciavano su di esso, quell’imposta possedeva dei vetri opachi, opportunamente posizionati per far entrare più luce nello studio.
La candela nel corridoio era ancora accesa e la sua tenue luce si riversava in parte nel cabina, illuminata solo dal candelabro appoggiato su di un angolo della scrivania.
Una figura passò nel corridoio, oscurando per un istante il resto dello studio. Girolamo osservò distrattamente la porta, per poi farsi più attento rendendosi conto che non era l’ombra di un marinaio quella che aveva visto: innanzitutto indossava un abito lungo e, poi, era decisamente troppo minuta per appartenere ad un uomo. E non corrispondeva nemmeno a quella di Zita…
Si alzò di scatto dalla propria seduta, andando verso la porta ed aprendola lentamente, senza fare il più piccolo rumore.
Udì il frusciare di una gonna sui ripidi gradini che portavano al ponte principale e con la coda dell’occhio vide il finale di una veste dai colori chiari scomparire nell’oscurità.
“Elettra?”, provò a chiamarla, cercando di mantenere un tono di voce calmo e non allarmato.
Non sentì alcuna risposta.
Decise allora di uscire nel corridoio e da lì proseguire sul ponte, lentamente, per non rischiare di spaventarla: Elettra non si era mai avventurata fino fuori della propria cabina. Che si sentisse finalmente meglio?
Un sorriso fece capolino sul suo volto, ma esso scomparve nell’attimo esatto in cui, arrivato sul ponte, la individuò: la giovane si trovava in piedi sul parapetto della nave, che osserva il mare spumeggiare diversi metri sotto di loro.
“Elettra!”, urlò allarmato. “Ti prego, scendi immediatamente”
Corse verso di lei, ma si fermò a pochi metri, per paura che avvicinarsi troppo l’avrebbe portata a spaventarsi e a fare qualche passo falso.
Lei si voltò verso di lui.
Si guardarono negli occhi per alcuni istanti, dopodiché Elettra si lasciò cadere all’indietro, nelle oscure acque sottostanti.  


Nda
Vi prego non picchiatemi!
A parte gli scherzi, mi scuso per il ritardo con cui aggiorno (come tutte le altre volte). 
E il mistero del prologo è stato svelato! Ormai lo sapete che non lascio nulla al caso ahahah. Diciamo che siamo finalmente arrivati al punto di rottura: ora qualcosa deve pur succedere perchè avanti così non si può più andare. Elettra si salverà? Oppure dobbiamo archiviare il personaggio e pensare a qualcosa di nuovo?
Chiedo nuovamente venia e mi raccomando fatemi sapere le vostre opinioni (tutto è accetto, anche gli insulti).
Alla prossima! 
 

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Capitolo 7
*** Acque mosse, parte II ***


Capitolo V: Acque mosse, parte II

La sensazione che provava in quel momento era strana: avrebbe detto di provare una leggerezza che da troppo tempo non sentiva, eppure, allo stesso tempo, qualcosa in lei non andava.
Aprì gli occhi a fatica, non potendo fare a meno di trattenere una smorfia di fastidio: il torace e la schiena erano come indolenziti, una sensazione non molto diversa da quella che si prova dopo aver compiuto uno sforzo fisico a cui non si è abituati.
Si guardò in giro, rendendosi conto di trovarsi nuovamente nella propria cabina.
Avvertiva un leggero calore intorno alla mano sinistra, un tocco quasi impercettibile, come se qualcuno gliela stesse appena sfiorando: voltò la testa da quel lato, trovando Girolamo osservarla con quella che avrebbe detto essere disperazione. I suoi abiti e i suoi capelli zuppi d’acqua.
Sbattè più volte le palpebre per metterlo meglio a fuoco, eppure la sua figura restò sempre sfocata, evanescente quasi.
Provò ad alzare quella stessa mano verso il suo volto, eppure fu come se essa si sdoppiasse: una parte, anch’essa evanescente, rimase immobile, mentre l’altra arrivò alla guancia dell’uomo, ma le passò attraverso, come se lui fosse nient’altro che un’ombra.
Allarmata, Elettra si mise di scatto in piedi: come poco prima, il suo corpo rimase inerte nel letto. Osservò sé stessa distesa tra le coperte, con il viso mortalmente pallido e le labbra blu leggermente dischiuse.
Avrebbe voluto urlare o piangere, ma qualsiasi suono le si gelò in gola. Portò entrambe le mani alla bocca.
Che cosa aveva fatto?
In quell’istante, sentì la maniglia della porta abbassarsi. Si voltò verso di essa.
Una figura conosciuta si fermò sulla soglia. “Elettra”, la salutò.
“Giuliano…”, riuscì a mormorare.
 

***

Girolamo si voltò non appena sentì lo scatto della maniglia, tenendo però sempre la mano stretta intorno a quella di Elettra, fredda come il ghiaccio.
Nella cabina entrò un uomo sulla sessantina, con i capelli per la maggior parte bianchi e il volto solcato da profonde rughe, rovinato da una vita passa sul ponte di una nave tra il sole cocente e la salsedine.
Doveva trattarsi del medico di bordo.
Dietro di lui, Zita portava tra le mani alcune pesanti coperte e dei vestiti.
Il cerusico si avvicinò al letto, osservando scettico la giovane distesa su di esso. Il Conte lasciò a malincuore la mano di Elettra, alzandosi per cedergli il proprio posto.
Lo guardò mentre avvicinava l’orecchio alle labbra della ragazza; rimase in quella posizione per diversi momenti, poi si sedette, tastandole il polso. Scosse la testa.
“Respirava quando l’avete riportata a bordo?”, chiese.
Nella mente di Girolamo passarono per l’ennesima volta le immagini di quella notte: aveva gridato uomo in mare ancora prima di avvertire il tonfo della caduta di Elettra in acqua, dopodichè si era tolto con gesti fulminei la propria giacca e si era tuffato a sua volta nel buio. L’aveva prima cercata in superficie, poi non appena capito che non c’era aveva osservato sotto di sé, facendo appena in tempo a scorgere un puntino bianco scomparire nell’oscurità; aveva nuotato verso di lei con la sola forza della disperazione, incurante del proprio corpo che gridava a gran voce di aver bisogno d’aria. Non sapeva nemmeno lui come avesse fatto a riportare entrambi a bordo.
Aveva stretto un suo polso tra le mani e poi il ricordo successivo era stato l’averla adagiata sulla scialuppa che nel mentre era stata calata in acqua. Aveva osservato il suo volto con la speranza che da un momento all’altro aprisse gli occhi, per accorgersi solo in un secondo momento che non si udiva il suo cuore battere.
Aveva premuto forte le mani sul suo petto più volte, ritmicamente.
In risposta alla domanda del medico scosse la testa.
“Dovreste dirle addio, Conte Riario”
Lasciò il polso della giovane, che ricadde inerte tra le lenzuola.
 

***
 

“Sono morta?”. La voce di Elettra era ridotta ad un flebile sussurro.
Giuliano si staccò dalla soglia della cabina, provando ad avvicinarsi a lei, ma dovette ben presto fermarsi, non appena la vide indietreggiare spaventata.
“Non ancora. Ma potresti esserlo presto”, si limitò a dirle.
La giovane tornò a guardare sé stessa, distesa in quel letto, immobile: vide il proprio petto alzarsi e riabbassarsi debolmente.
“Allora, se non sono morta, cosa ci faccio qui con te?”, domandò, stringendosi le braccia nervosamente sotto al seno.
“Ti stiamo dando la possibilità di scegliere”, rispose lui.
Elettra lo osservò con un sopracciglio alzato, scettica per il plurale che il giovane de Medici aveva appena usato. “Chi? Tu e l’Altissimo?”. La sua espressione si fece per un attimo pensierosa. “Che poi… esiste per davvero?”
A Giuliano scappò una risata. “Chi può saperlo…”, disse, piegando le labbra in un sorriso enigmatico. “E, comunque, magari sono le persone a te care a volerti sana e salva”.
Lei lo guardò perplessa.
“Anche se, in ultima analisi, devi essere tu a decidere”. Si fece serio. “Il libero arbitrio, Elettra”
Annuì, seppur ancora confusa annuì. “Quindi… ora mi basta dirti un sì o un no?”
Lo vide ridere nuovamente. Doveva trovarla tremendamente divertente. Lei no, invece, non si stava affatto divertendo.
“Conoscendo la tua propensione a prendere decisioni affrettate… no, direi proprio di no”, le rispose. Tornò affianco alla porta, voltandosi verso di lei e porgendole la mano. “Vieni. Prima di prendere la tua decisione devo mostrarti alcune cose”
Elettra fece un passo avanti con la mano tesa verso il giovane, ma poi parve tentennare ed abbassò il braccio. C’era qualcosa in quella scena che le pareva di avere già visto… “Mi farai da guida tipo Beatrice con Dante?”, chiese ironica.
Giuliano piegò le labbra in una smorfia. “Preferisco Virgilio”, disse.
La giovane scosse la testa. “No, no, tu hai proprio la faccia da Beatrice”, ribattè divertita. Gli sorrise, prendendolo poi per mano.
 

***
 

Girolamo osservò il petto di Elettra alzarsi ed abbassarsi debolmente, la mano ancora stretta alla sua. Appena un istante prima gli era parso che lei avesse risposto a quel gesto: era stata questione di un secondo, eppure gli era parso proprio così.
Guardò speranzoso il suo viso, come se si aspettasse da un momento all’altro che i suoi occhi si aprissero, mostrando quell’azzurro così intenso che gli avevano fatto credere più di una volta che le sue iridi fossero costituite da due brillanti lapislazzuli. Avrebbe tanto voluto che esse tornassero a quelle tonalità accese; l’ultima volta che aveva incrociato il suo sguardo esso era apparso di un colore grigio opaco, ogni traccia di luminosità completamente svanita.
Quando l’aveva portata in camera sul suo volto non vi era impressa alcuna espressione, ora, invece, gli pareva che le sue labbra fossero piegate in un accenno di sorriso.
La osservò meglio: il suo viso pareva sereno. La serenità della mor… No. Scosse la testa per scacciare quel pensiero e con l’angoscia alle stelle tornò a guardare il suo petto: esso si alzava ed abbassava ancora. Forse stava sognando. Sì, si convinse che era così, che stava solo facendo un piacevole sogno. Quando quel sogno sarebbe finito, si sarebbe svegliata.
Doveva essere così.
 

***
 

Elettra si guardò in giro. “Dove siamo?”, chiese confusa.
Non si trovavano più nel buio corridoio di legno della nave, stretto e dal soffitto basso, ma in uno più ampio, dalle alte pareti di pietra grigia; sembrava più di stare nell’androne una caverna che in un vero e proprio corridoio. Da entrambi i lati, si aprivano porte dalle svariate forme e dimensioni.
Giuliano non disse nulla, limitandosi a lasciare la sua mano e a dirigersi verso una di esse; si appoggiò allo stipite, attendendo che l’amica lo raggiungesse. Elettra invece si avvicinò incerta alla porta a lei più vicina e con non poca titubanza abbassò la maniglia.
“Io non lo farei se fossi in te….”, tentó di dissuaderla, seppur con poca convinzione nella voce.
Come previsto, la ragazza l’aprì comunque, mettendoci poi dentro il naso.
La porta non dava, come Elettra aveva pensato, in un’altra stanza, ma su di un paesaggio di campagna: c’era una carrozza trainata da un paio di cavalli che si dirigeva a ritmo sostenuto su di una strada sterrata. Poco più in là, su quella stessa strada, dei cavalieri dalle pesanti armature color pece galoppavano veloci; i loro cavalli ad ogni passo alzavano grandi zolle d’erba e di terra. Pareva che inseguissero la carrozza.
Elettra si paralizzò all’istante, riconoscendo il luogo e l’evento che velocemente si stava consumando sotto ai suoi occhi. Nemmeno si accorse che Giuliano le aveva arpionato un braccio e tirata nuovamente nel corridoio. Solo quando la porta fu nuovamente chiusa riuscì finalmente a riprendere a respirare.
Osservò il giovane de Medici negli occhi, lasciandosi guidare da lui nel prendere lunghi respiri.
“Ti avevo detto di non farlo”, commentò l’amico cercando di utilizzare un tono di voce che assomigliasse ad un rimprovero, ma non potè fare altro che addolcirsi alla vista della faccia sconvolta di lei. “Va tutto bene, Elettra, tutto bene”, disse, accarezzandole i capelli e cercando di confortarla come aveva fatto decine e decine di volte in vita.
“Era…”, mormorò lei, non riuscendo però a proseguire. Sapeva cosa stava avvenendo dall’altra parte della porta e sapeva chi c’era a bordo di quella carrozza: sé stessa, Lucrezia e la loro madre. E sapeva che i cavalieri a cavallo erano i loro rapitori. “Come è possibile?”, chiese con ancora un filo di voce.
Giuliano prese un respiro e poggiò le proprie mani sulle sue spalle. “Oltre ogni porta c’è un avvenimento: passato, presente e futuro. Possibilità che si sono avverate, possibilità che non sono avvenute e possibilità che potrebbero avverarsi”
Elettra lo guardò confusa.
“Forse con un esempio pratico potresti capire meglio”, commentò tra sé e sé il de Medici. Sorpassò diverse porte, fermandosi infine davanti ad una dipinta di bianco, con i battenti decorati da sottili disegni floreali. Una porta che entrambi conoscevano molto bene. L’aprì, invitando la ragazza ad entrare.
Era la camera da letto di quando era bambina, nel palazzo di proprietà di suo zio.
Le tende erano stranamente completamente tirate e nella penombra della camera vi erano tre persone: riconobbe all’istante suo zio, in piedi accanto al letto. Di fianco a lui, un prete si stava facendo il segno della croce, mentre una terza persona dalla maschera terminante con un lungo becco, stava coprendo con un lenzuolo bianco qualcosa sul letto. Doveva trattarsi del medico.
Il cerusico si spostò, lasciando così libera la vista ai due amici: sotto alla coperta si poteva chiaramente notare la sagoma di un gracile corpicino, come quello di una bambina.
“Questa possibilità non si è fortunatamente avverata”, sussurrò Giuliano all’orecchio della bionda.
Lei annuì debolmente: si ricordava di quella brutta epidemia di febbre che aveva colpito Firenze nell’estate del 1471; l’aveva presa anche lei e per diversi giorni le sue condizioni avevano tenuto tutti con il fiato sospeso, ma poi era guarita.
Si lasciò prendere per mano da Giuliano e guidare nuovamente nel corridoio di pietra.
“Ora ti è un po’ più chiaro?”, le chiese.
“Io… credo di sì”, rispose, stringendo nervosamente la presa. Sospirò. “Fa uno strano effetto vedersi… morti”, aggiunse con un filo di voce.
l giovane de Medici piegò le labbra in sorriso sarcastico. “Non dirlo a me”, commentò ironico.
Elettra lo guardò per alcuni secondi negli occhi, per poi abbracciarlo di getto.
L’amico, colto completamente alla sprovvista, barcollò all’indietro, per poi ricambiare il gesto una volta riacquistato l’equilibrio.
“Mi sei mancato”, disse lei, con la voce un pochettino tremolante.
Giuliano avrebbe tanto voluto dirle che era lo stesso per lui, ma sapeva che il tutto sarebbe stato controproducente per il compito che doveva svolgere. Si limitò a lasciarle lente carezze sulla schiena.
“C’è una persona che vorrebbe incontrarti, ti andrebbe di rivederla?”  
La sentì annuire contro al proprio petto.
 

***
 

Girolamo avvertì chiaramente il suo corpo irrigidirsi, la sua mano fredda contrarsi in un lieve spasmo. Cercò immediatamente il suo viso, che in un istante si era fatto più teso, la sua espressione più inquieta.
Spostò lo sguardo sul suo petto: esso era completamente immobile.
Uno…
Due…
Stava per scattare come una molla nel disperato tentativo di rianimarla nuovamente, quando questo si alzò, per poi riabbassarsi nuovamente, seguendo il debole ritmo che aveva avuto fino a poco prima.
Girolamo potè tornare a riempire nuovamente i propri polmoni d’aria. Anche i muscoli di Elettra tornarono ad essere rilassati e l’espressione sul suo volto farsi meno tesa.
Il Conte non distolse lo sguardo quando avvertì il cigolio prodotto dall’apertura della porta della cabina: sapeva che si trattava di Zita.
Sospirò: la sua fedele serva abissina pensava sempre a tutto, prendendosi cura di lui al meglio.
L’avvertì fermarsi alle sue spalle, in attesa del permesso del proprio signore per parlare.
Girolamo sapeva che si sarebbe dovuto voltare verso di lei ma se lo avesse fatto, se solo si fosse distratto un attimo per prestare attenzione a Zita, era certo che quel gracile corpo disteso sul letto avrebbe smesso di lottare per la vita. Non poteva distogliere lo sguardo.
 

***
 

La porta davanti a cui ora si trovavano Elettra la conosceva molto bene. Appena intuì che sarebbe stata quella la loro prossima meta, si voltò di scatto verso Giuliano con un sorriso come da tempo non se ne vedevano sul suo volto. Un istante, il tempo che lui le desse il permesso di entrare con un cenno del capo, e si rigirò verso lo stipite con un saltello. Con un gesto velocissimo abbassò la maniglia, correndo poi all’interno.
Una volta attraversata la soglia, però, si bloccò come improvvisamente intimorita.
G
iuliano la osservò per un istante perplesso, ma nonostante questo la superò, proseguendo lungo uno stretto corridoio che correva tra due scaffali ricolmi di libri: la biblioteca del nonno Cosimo de Medici era da sempre stato uno dei suoi luoghi prediletti, seppur lui possedesse ben poca affinità con lo studio e la lettura.
Si fermò dopo pochi passi, facendo cenno ad Elettra di avvicinarsi in silenzio: dove gli scaffali finivano si apriva un piccolo salotto, formato da una vecchia poltrona, un semplice tavolino e un antico tappeto persiano; il fuoco nel camino scoppiettava, rilasciando riflessi rossastri sul resto del mobilio.
Si avvertiva una voce autoritaria parlare: un uomo anziano si trovava seduto sulla poltrona mentre, ai suoi piedi, un bambino e una bambina lo ascoltavano completamente rapiti. Dovette accorgersi dei due nuovi arrivati, dal momento che si rimise in piedi, seguito a ruota dai due piccoli.
“Bene, bambini, per oggi è tutto”, disse l’anziano Cosimo, allungando le mani per accarezzare i capelli di entrambi.
La bambina, dai lunghi capelli biondi, fece un passo avanti, abbracciando l’uomo, dopodichè si voltò, mettendosi a correre verso l’uscita. Imboccò il corridoio in cui Elettra e Giuliano si trovavano e si bloccò davanti alla ragazza.
“Elettra, muoviti!”, urlò il bambino, ormai sullo stipite della porta.
Alla giovane parve che la piccola le sorridesse, ma in un istante più tardi le era già passata attraverso, come se si trattasse di nient’altro che un’ombra, e scomparve insieme al piccolo Giuliano oltre la soglia.
Le ci vollero alcuni istanti per riprendersi dalla strana sensazione di essere entrata in contatto con sé stessa da bambina, ma quando rialzò lo sguardo dal punto in cui era scomparsa, trovò Cosimo de Medici osservarla a meno di un passo da lei. Teneva una mano poggiata allo scaffale più vicino e la guardava con un sorriso dolce, da nonno, proprio come quelli dei suoi ricordi.
Non potè fare a meno che sorridergli a sua volta.
“Sei diventata una splendida donna, Elettra”, lo sentì dire.
La piccola Elettra probabilmente gli avrebbe sorriso e poi, con le guance più rosse delle vesti del Magnifico, sarebbe scoppiata a ridere. Ma di anni tra lei e quella bambina ne erano passati almeno una decina: era cresciuta. E non poteva più comportarsi in modo così infantile.
“Grazie, Vostra Grazia”, mormorò, facendo poi un inchino.
Giuliano, al suo fianco, sbuffò, come se considerasse quei gesti troppo formali.
Cosimo lanciò un’occhiata di ammonimento al nipote, prima di prendere la mano della giovane per aiutarla a rialzarsi. “Seguitemi, ragazzi”, disse, voltandosi in direzione del piccolo salotto.
Si sedettero in automatico ognuno al proprio posto, come se tutti gli anni che dividevano l’ultima volta che avevano compiuto quei gesti non fossero mai passati.
Una volta che Cosimo si fu accomodato sulla propria poltrona e i due giovani a gambe incrociate ai suoi piedi, l’espressione fino ad un istante prima solare dell’uomo si incupì improvvisamente. Osservò Elettra negli occhi. “Bambina mia, cosa hai fatto?”
Lei abbassò immediatamente il proprio sguardo sul tappeto sotto di lei nel timore di scorgere delusione nei suoi occhi: non lo avrebbe mai sopportato. Prese a torturare il cuore d’argento che portava al collo.
“Io…”, mormorò prima di essere costretta a prendere un lungo respiro. Chiuse gli occhi e le immagini di quello che aveva fatto quella stessa notte passarono nuovamente nella sua testa. “Non aveva senso continuare con…”. Scosse la testa. “Quella non era vita, non più”, aggiunse con un filo di voce. Lanciò un timido sguardo a Giuliano.
“Dannazione, Elettra!”, imprecò quest’ultimo balzando in piedi. “Si può sapere che cos’hai in quella testa?!”
Cosimo gli fece cenno di calmarsi, per permettere alla giovane di continuare.
Elettra osservò l’amico smarrita. I grandi occhi azzurri umidi di lacrime tanto simili a quelli di un cucciolo che aveva perso il suo padrone, la persona per lui più importante. Il suo punto di riferimento. Prese un lungo respiro, cercando di controllare la propria voce per non farla apparire tremolante. “Tu sei… morto tra le mie braccia”, disse in un timido sussurro. “E lui… è stata tutta colpa sua”. Questa volta non riuscì a trattenere un singhiozzo. “Non avevo più nessuno da cui tornare”
“E Becchi? E Da Vinci? Loro non contano nulla per te?!”, ribattè il giovane.
Scosse nuovamente il capo. “Leonardo sa cavarsela perfettamente anche da solo e zio Gentile… l’ho deluso. Ho deluso tutti voi e ho tradito Firenze”. Sì, compromettendosi per Riario aveva tradito tutte le persone a lei più care. E la sua amata Firenze. Non meritava più di essere considerata una figlia di quella città.  
Giuliano stava per dire nuovamente qualcosa, ma un gesto brusco di Cosimo lo zittì immediatamente.
“Il fato tuo e del Conte Riario erano destinati ad intrecciarsi da ancora prima che tu nascessi”, disse in tono rassicurante. “Non avresti potuto fare nulla per impedirlo. Così come non avresti potuto nulla per impedire la morte di Giuliano o…”.
Ad Elettra parve che stesse per dire qualcos’altro e lo osservò perplessa mentre scuoteva la testa e cambiava il discorso.
“Giuliano aveva esaurito il proprio compito sulla terra, non c’era più nulla che lo trattenesse lì”
“Ma Vanessa? E il bambino? Loro hanno bisogno di lui”, ribattè lei.
Giuliano, a sentirli nominare si incupì un istante.
“Loro se la sapranno cavare”, disse Cosimo, osservando però con apprensione il nipote.
“Veglierò io, non permetterò che li accada qualcosa, anche se non sarò al loro fianco fisicamente”, aggiunse il giovane de Medici, piegando però le labbra in sorriso stentato.
Giuliano doveva ancora stare elaborando quello che gli era accaduto, pensò Elettra. Nemmeno per lui doveva essere stato facile.
Osservò Cosimo guardare il nipote con un’aria da cui traspariva fierezza e non potè fare a meno di tentare un sorriso sulle labbra.
“Tu hai ancora tanto, tanto da fare, ragazza mia. Verranno momenti difficili, forse anche più difficili di ora, ma non dovrai lasciarti abbattere di nuovo”. Si mise in piedi, tendendole la mano per fare lo stesso e, una volta che fu anche lei in posizione eretta, le prese il viso tra le mani. “Ci sarà anche tanta felicità nel tuo futuro”. Si voltò nuovamente verso il nipote. “Giuliano, dovresti mostrarle quella cosa su cui avevamo concordato”
Sul volto del giovane comparve del disappunto, ma, seppur controvoglia, annuì.
Cosimo tornò ad osservare lei. “Credo sia arrivato il momento di salutarci”, disse, allargando le braccia per reclamare un abbraccio dai due giovani. Gesto che loro compirono subito.
“Vorrei poter restare qui con voi per sempre”, mormorò Elettra.
“Ma non puoi farlo”, ribattè prontamente l’anziano signore di Firenze.
Tentennò per alcuni istanti prima di annuire timidamente.
“Brava ragazza”. Le sorrise, accarezzandole una guancia.
L’abbraccio si sciolse e Giuliano prese Elettra per mano per condurla all’uscita.
Avevano mosso qualche passo in quella direzione quando Cosimo parlò nuovamente. “Un’ultima cosa”, disse, avvicinandosi a grandi passi ad uno degli scaffali che correvano lungo il perimetro della biblioteca. Fece cenno ai due giovani di seguirlo.
Elettra lo osservò premere una delle decorazioni che ne ornavano il legno e poi udì il suono di una serratura che scattava.
L’anziano signore della città spinse appena la parte di mobile, mostrando ciò che si celava nascosto dietro ad esso: un buio cunicolo con una stretta scala che correva tra le due intercapedini dell’edificio.
La giovane non era a conoscenza dell’esistenza di quel passaggio segreto e, a vedere l’espressione perplessa sul viso di Giuliano, neppure lui.
“Porta alle cantine di Messer Strozzi. Lo utilizzavo quando facevo parte dei Figli di Mitra. Nessuno  ne era a conoscenza e il segreto è morto con me”, si spiegò Cosimo. “Potrebbe esserti utile”, aggiunse con un sorriso enigmatico.      
 

***  
 

Tutto era fermo, immobile da troppo tempo. Persino sulla nave, solitamente animata dai rumori della ciurma, era sceso un surreale silenzio.
Girolamo pregava muovendo appena le labbra, ma non producendo alcun suono. Le mani erano congiunte, strette intorno al proprio rosario d’argento, i gomiti poggiati sul letto e le ginocchia premute contro il ruvido pavimento della cabina. Teneva gli occhi serrati, l’espressione concentrata, tesa nello sforzo di farsi udire da quel Dio che fino a quel momento era rimasto cieco e sordo alle sue invocazioni: non poteva reclamare l’anima di Elettra così presto, lei era ancora troppo giovane, si stava appena affacciando alla vita. No, era troppo presto per lei. Troppo presto per lui per dirle addio.
Aprì gli occhi ed osservò il suo viso: in quell’istante una lacrima rigò la guancia pallida della giovane. Girolamo la raccolse con il proprio indice, osservandola assorto mentre procedeva la propria inesorabile corsa sulla sua mano. Alla fine, all’altezza del polso, fu assorbita dalla stoffa della sua camicia scura.
Osservò stupito la sua serva abissina, in piedi vicino al fondo del letto, sul cui volto era impressa la medesima espressione sorpresa. Stava anche lei studiando il volto di Elettra.
“Sembra… rilassata”, disse incerta.
Il Conte annuì: poteva trattarsi di una lacrima di commozione? Se così fosse stato, significava che il sogno che stava facendo era un sogno felice. Ma, nonostante questo, lui la rivoleva indietro. La rivoleva indietro al più presto.
 

***
 

L’ampio portale attraverso cui Giuliano fece passare Elettra appariva austero e cupo per via del pesante legno scuro di cui era fatto. Qualcuno aveva tentato di mitigarne l’aria severa facendo aggiungere dei sottili intagli a motivi vegetali di legno smaltato, ma essi non smorzavano abbastanza quella sensazione.
Camminarono in quello che pareva essere un grande salone, forse l’anticamera dell’appartamento di qualche persona importante, ma Elettra di questo non poteva esserne certa dal momento che il tutto era immerso nella semi oscurità. Solo tra uno spesso tendaggio e l’altro passava qualche timido raggio di luce, troppo poca per poter distinguere con chiarezza ciò che circondava loro.
Raggiunsero un secondo portale, che Giuliano aprì giusto lo spazio indispensabile per passare. Fece cenno alla giovane di entrare per prima, guidandola poi a camminare lungo il perimetro della stanza fino a raggiungere il punto in cui si trovavano le finestre, anch’esse oscurate da delle spesse tende che al tatto parevano fatte di velluto scuro.
Si guardò in giro, riuscendo appena a scorgere un grande letto a baldacchino, anch’esso di un colore molto scuro, blu notte forse: doveva trattarsi di una camera da letto.
Osservò Giuliano mentre con un gesto secco della mano scostò le tende, rischiarando l’ambiente a giorno.
Elettra si voltò verso le finestre, studiando uno scorcio del paesaggio sottostante: si trovavano al secondo o al terzo piano di quella che aveva tutta l’aria di essere una solida fortezza, con tanto di mura difensive e fossato. Il ponte levatoio era però abbassato e vi era un intenso via vai di persone e carri.
Sopra al portale d’accesso svettavano due massicce torri di guardia e sopra di esse tre bandiere sventolavano nell’aria.
Per la giovane non fu difficile riconoscere la prima di esse: una rosa dorata su campo azzurro, il simbolo della famiglia Riario. Di fianco ad essa un’altra dallo sfondo rosso, con impresso uno scudo giallo con un’aquila nera, il tutto incorniciato da una corona d’alloro, lo stemma di Forlì.
La terza, invece, non appena Elettra la mise a fuoco si staccò di scatto dal davanzale, pallida: tre caproni neri su campo oro. L’araldo di famiglia.
Perché il simbolo della sua famiglia svettava sulle mura di quella che si era convinta essere la Rocca di Ravaldino?
Dei mugoli di protesta la portarono a rigirarsi verso il letto, dove una figura ancora non completamente sveglia si muoveva tra le lenzuola sfatte: doveva essere stata disturbata dalla troppa luce e da un raggio di sole che le era finito intenzionalmente proprio sul viso.
Si trattava di una donna i cui lunghi boccoli dorati parevano riflettere la luce solare. Si stropicciò gli occhi e si stiracchiò le braccia prima di decidere di alzare le palpebre. Le sue iridi azzurre vagarono seppur assonnate per tutta la stanza, fermandosi infine proprio su di loro, o almeno così pareva ad Elettra.
“Non può vederci”, le sussurrò ad un orecchio Giuliano.
La giovane annuì a fatica, mantenendo lo sguardo fisso su quella donna… su sé stessa.
Doveva trattarsi senz’altro di lei, anche se nel suo sguardo, nell’espressione del suo viso, vi era qualcosa di diverso: quella che aveva davanti era una donna adulta a tutti gli effetti e questo lo si poteva vedere anche nei suoi occhi, più saggi, che parevano parlare di avventure che lei non aveva ancora vissuto. Ma c’era anche una sfumatura anomala in quello sguardo che scrutava curioso l’esterno: tristezza, forse? O la rinuncia a qualcosa.
Elettra si chiese perché fosse andata a Forlì e non fosse rimasta a Firenze. Stava per chiederlo a  Giuliano, ma l’abbassarsi della maniglia della porta d’entrata la distrasse. Entrò un uomo dalle vesti scure che Elettra non esitò nemmeno un istante a riconoscere: per Girolamo gli anni -“Ma quanti anni con esattezza?”, si chiese- parevano non essere passati; il suo fisico appariva ancora muscoloso e in forma. Solo alcuni fili grigi tra i folti capelli corvini lo tradivano.
“Buongiorno”, disse sé stessa con voce impastata, voltando appena il capo alla propria sinistra. Sulle sue labbra si formò un sorriso radioso che ben presto contagiò anche il Conte.
“Buongiorno a te”, rispose lui. “Speravo che stessi ancora dormendo, ma vedo che non è così”
“La troppa luce mi ha svegliata, ieri notte devo essermi scordata di tirare bene le tende”, rivelò lei.
Girolamo si voltò ad osservare le finestre con aria pensierosa, come se qualcosa non gli tornasse ed Elettra temette che avrebbe potuto vederli dal momento che avvertiva i suoi occhi trapassarla come se fossero uno spillo, ma poi l’uomo tornò ad osservare la sua copia più adulta. Il suo sguardo fisso sull’addome della donna.
Anche Elettra lo seguì: inizialmente aveva pensato che il rigonfiamento intorno al suo ventre  fosse dovuto ad un ammasso di lenzuola, ma ora si rese conto che non era così. Si osservò scostare le coperte, scoprendo una rotondità dal significato inequivocabile.
Il Conte si chinò su di essa, lasciando un bacio all’altezza dell’ombelico.
Elettra potè chiaramente avvertire il calore emanato dalle labbra dell’uomo e l’indugiare di esse sulla pancia della sua versione più adulta. Ma non fu questo a turbarla maggiormente, non quanto l’avvertire qualcosa muoversi dentro di lei… o forse si era mosso nella sua omonima?
“Ovviamente al piccolo conte sono riservate più attenzioni che a me”, commentò la donna con ironia.
“E a modo suo mi sta augurando buongiorno”, ribattè Girolamo in riferimento ai calci che il bambino tirava all’interno della pancia. Accarezzò con sguardo perso il ventre rotondo di lei.
Anche una delle mani della donna finì a lasciare lente carezze poco sotto l’ombelico. Sorrise, reclamando poi con la propria espressione un bacio che non tardò molto ad arrivare.
Elettra li osservò pallida, improvvisamente senza parole. Avrebbe creduto che le rivelazioni traumatizzanti fossero finite per quel giorno, ma dovette ben presto rimangiarsi la parola: un servitore anziano, elegante nella propria livrea blu notte, si affacciò alla porta, facendo sussultare i due amanti, che si staccarono all’istante. Dal suo distogliere lo sguardo dai due si poteva chiaramente intuire il disagio e l’imbarazzo per averli interrotti.
“Le contessine desiderano darvi il buon giorno”, farfugliò.
“C-contessine?”, balbettò Elettra, voltandosi di scatto verso verso Giuliano.
L’amico restò in silenzio, soffocando una risata nel pugno chiuso. Lo sguardo fisso sul servitore che si faceva improvvisamente da parte appiattendosi contro lo stipite della porta, mentre un rumore di passi sempre più concitati si faceva più vicino. Due bambine entrarono nella stanza e, sempre correndo, si diressero ad abbracciare la donna, dopodichè, una dalla parte libera del letto e l’altra seduta sulle ginocchia di Girolamo, le poggiarono l’orecchio sulla pancia.
“Mamma, il nostro fratellino si muove!”, disse quest’ultima.
Elettra dovette appoggiarsi al davanzale dietro di lei a quella rivelazione, le gambe che si erano fatte improvvisamente molli. Cercò di mettere insieme quello che fino ad allora aveva scoperto: in quel futuro lei e Girolamo avevano dei figli, forse era per quello che lei si era trasferita a Forlì. Il Conte doveva averli riconosciuti, visto il titolo con cui il servitore aveva chiamato le bambine. Riguardo a sé stessa, probabilmente era rimasta ad essere la sua amante… ma allora perché l’araldo di famiglia svettava sopra le mura difensive?
“Contessa, il vescovo sarà qui tra mezz’ora per discutere dei nuovi affreschi per la cattedrale”, disse il servo.
Ed Elettra dovette impegnarsi per non cascare a terra: lo aveva sposato, l’altra sé stessa lo aveva sposato… e ora era contessa.
“Ora mi preparo”, rispose la diretta interessata, mettendosi goffamente e a fatica a sedere.
Il servitore fece un inchino ed uscì.
Girolamo le scoccò un’occhiataccia.“Dovresti riposare, non metterti a litigare di nuovo con il vescovo”.
La donna rise, attirando in un abbraccio le figlie. “Prometto che questa volta non volerà alcun libro per il mio studio”
Giuliano prese la mano di Elettra e lei sussultò a quel contatto. “Sarà meglio uscire”, le sussurrò ad un orecchio.
La giovane annuì impercettibilmente e mentre si lasciava docilmente trasportare fuori, il suo sguardo era fisso su quella donna che in quel momento rideva spensierata mentre le sue figlie facevano il solletico al loro padre. Le pareva così lontana nel tempo da lei.
Passarono nuovamente nell’anticamera dell’appartamento padronale, ora immersa nella calda luce del mattino. Di fronte a quelle sconvolgenti rivelazioni, riusciva a vedere quell’ambiente in modo differente, a dare ad esso una diversa interpretazione: quei motivi vegetali, che prima le erano parsi stonare con l’austerità del portale su cui erano stati applicati , le apparivano più dolci. Sapeva come arredare un ambiente, renderlo gradevole all’estetica e alla moda di quegli anni e, senz’altro, la sé stessa di quel futuro aveva più esperienza di lei alle spalle. Ma nella Rocca di Ravaldino non era stato fatto appieno.
Sapeva anche Girolamo aveva un rapporto molto molto stretto con le città che governava; a Firenze le aveva parlato spesso di Imola e Forlì con uno sguardo sognante, un’espressione che vedeva impressa sul suo volto solo in quei momenti. Dalle tante volte che lo aveva udito descriverle quei posti, le pareva di esserci stata anche lei. Senz’altro la sua versione dai capelli che cominciavano ad ingrigirsi doveva avere un rapporto più stretto con i suoi possedimenti.
Come Elettra avrebbe potuto stravolgere la Rocca con affreschi, motivi vegetali e tinte dai colori pastello, il Conte avrebbe potuto costringerla a vivere in un fortino militare dall’aria austera, le tinte scure e privo di ogni singolo decoro. Invece in quel luogo c’era un perfetto connubio di entrambi, un segno di rispetto reciproco, di fiducia e, forse, di sentimenti molto più forti.
Si ritrovarono quasi senza accorgersene nuovamente nel corridoio di pietra.
Mentre Giuliano richiudeva alle proprie spalle il pesante portale ligneo, Elettra gli diede le spalle, allontanandosi di alcuni passi. Si strinse le braccia intorno al corpo, immaginando che a toccarla non fossero le sue mani scheletriche, ma quelle calde e rassicuranti del giovane de Medici.       
“Quello è solo uno dei molteplici futuri a cui potresti andare incontro”, le disse lui avvicinandosi con cautela.
Lei sospirò e, dopo alcuni istanti di indugio, si mise a camminare al suo fianco. “In quel futuro ho lasciato Firenze, l’ho sposato e ci ho fatto dei figli”, ragionò con voce flebile. “Tutte cose che io non voglio assolutamente fare. E poi con…”. Serrò gli occhi e la sua espressione si fece sofferente. “…con il tuo assassino”
Sapeva che non era stata la lama di Girolamo ad ucciderlo, eppure non poteva pensare di passare sopra al fatto che anche lui era tra gli ideatori della congiura.
“Elettra…”, tentò di dire Giuliano, con cautela. Proseguì solo quando ebbe la sua completa attenzione. “Il futuro è un insieme di infinite variabili che non dipendono solo da te, ma è un concatenarsi di scelte ed azioni di differenti persone. Persino l’incontrare per strada uno sconosciuto può causare enormi mutamenti, perciò te lo ripeto: ciò che hai visto non è detto che accadrà”
“E se dovesse accadere?”
“Tu e la donna che hai visto siete la stessa persona, ciò che prova una lo avverte anche l’altra quindi dimmi: che cosa hai sentito?”
“Il feto si è mosso”, fu la sua pronta risposta, l’espressione contrita.
Giuliano non potè fare a meno di ridere, ma tornò presto serio. “Ero certo che l’avresti detto, ma io mi riferivo alle sue sensazioni: come ti sembrava?”
Elettra si fece pensierosa, l’aria assorta di chi è in cerca di una risposta il più completa possibile. “Felice”, disse dopo alcuni istanti. “Felice che… lui… fosse lì con lei. Direi che si sentisse a casa, non vi era nulla che mi faccia pensare che lei si sentisse un’estranea a Forlì”. Il giovane de Medici annuì, il chè la portò a continuare a descrivere le sensazioni che aveva ricavato. “Non ha fatto niente perché costretta, ognuna di quelle scelte era solamente sua. Non ha mai pensato a Firenze, quindi deduco che l’abbia lasciata a cuor leggero, più o meno”
Non c’era bisogno che Giuliano aggiungesse altro, lei aveva già intuito tutto. Il sorriso sulle  labbra del giovane de Medici era un sorriso pieno quando si voltò ad indicarle un’altra porta.
Così presa dai propri ragionamenti, Elettra nemmeno si era accorta di essere ritornati davanti alla porta che conduceva alla cabina della nave.
“Combattere e vivere oppure arrendersi e morire?”, le chiese.
Lo sguardo della giovane si spostò più volte dalla porta a lui.
“Conosco una ragazzina fiorentina dalla lingua lunga e con il vizio di puntare armi alla gola che non avrebbe esitato a rispondermi”, aggiunse ironico.
Lei sospirò. “Vorrei sapere dove è finita”, ribattè azzardando un tentativo di sorriso.
Giuliano le si avvicinò, poggiandole una mano sul cuore. “È sempre qui, solo che ora si nasconde. Chissà, se prendessi la decisione giusta magari potrebbe riemergere”
“Lo vorrei così tanto”
“Quindi?”
Elettra guardò nuovamente la porta e poi lui, annuendo con il capo. La sua espressione però si fece improvvisamente cupa. “È un addio questo?”
“Elettra, io non ti lascerò mai. Magari non sarà al tuo fianco fisicamente, ma sarò sempre qui”. Le indicò nuovamente il cuore. “A tentare di mitigare l’impulsività di una certa ragazzina di mia conoscenza”, aggiunse, facendola ridere. “E a cercare di tenerla fuori dai guai”
“Quella sarebbe un’impresa impossibile”, ribattè lei ironica.
Questa volta la risata che si udì fu quella di Giuliano, ma un istante dopo tornò ad essere serio. “Scegli la vita, per favore”, la implorò.
Elettra a quel punto lo abbracciò, stringendolo a sé con tutte le proprie forze. “Lo farò”, rispose.
 

***
 

Erano passate ormai diverse ore e l’alba era ormai alle porte. Girolamo non aveva mai lasciato il suo posto accanto al letto e se ne stava lì, immobile, in attesa di un qualsiasi mutamento: era da parecchio che tutto era fermo, senza miglioramenti o -questo sperava proprio di no- peggioramenti.
Le teneva sempre la mano, ma la stanchezza e la tensione lo avevano indotto a poggiare il viso sul materasso e a chiudere gli occhi.
Immerso in una sorta di dormiveglia, di primo acchito nemmeno si accorse di un lieve movimento delle dita di lei. Si accorse in un secondo momento che esse si erano appena sollevate tra le lenzuola e per poi ricadere su di esse.
Aprì di scatto gli occhi e il suo sguardo corse immediatamente al suo viso: sotto alle palpebre abbassate, gli pareva di vedere le pupille muoversi. Anch’esse gli sembrarono quasi sollevarsi, ma, pensò, doveva essere solo frutto della sua malevola immaginazione, che lo portava a vedere ciò che era impossibile che accadesse.
Rimase pietrificato quando esse si spalancarono per davvero. Trattenne persino il respiro mentre osservava quegli occhi color cielo in cui si era perso decine e decine di volte.
Elettra osservò per diversi secondi il soffitto ligneo della cabina poi, lentamente e a fatica, voltò il capo alla sua sinistra.
“Girolamo…”, sussurrò con voce rauca, tipica di non emette alcun suono da troppo tempo.
Lui rimase immobile ancora per alcuni istanti, dopodichè si chinò su di lei, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo.
“Grazie al cielo”, mormorò commosso.  


Nda 
Con così tanto anticipo? Eh già, questa volta voglio proprio far venire a nevicare (e dico sul serio, non è possibile che nevichi dovunque tranne che da me!). 
Siete sollevati di sapere Elettra salva (sana non saprei dirlo con esattezza)? A me è venuto un po' di magone a pensare che forse questa è stata l'ultima volta che ho scritto di Elettra e Giuliano insieme. Come coppia mi mancheranno.
Come sempre: buona lettura e fatemi sapere i vostri pareri.

PS. appuntamento il prossimo mese su "
Se io potessi raccontare tutto, farei stupire il mondo"

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Capitolo 8
*** A piccoli passi ***


Capitolo VI: A piccoli passi
 
“Che cosa vedi Elettra quanto ti guardi allo specchio? Vedi una giovane donna che ha perso qualcosa, qualcosa che non può più tornare. Guardi i tuoi occhi e ti chiedi da quando essi sono diventati del colore del ghiaccio, da quando hanno perso la loro sfumatura delle stesse tonalità del cielo terso. Hai ancora tutta la tua bellezza? Forse. O forse gli altri nemmeno si sono accorti della crepa che si sta allargando dentro di te. Della lama che con lentezza ti incide l’anima, che te la fa a pezzi lasciandoti agonizzante. Quella lama ha un corpo. Un volto. Un nome: Girolamo Riario.
Lo ami, non è vero? Hai paura di ammettere la verità perché non dovrebbe essere così, non dopo tutto il dolore che ti ha arrecato. E, quindi, cosa ha intenzione di fare con lui? Mettere fine alle tue sofferenze o proseguire con la tua lenta agonia? A te la scelta”
 
Elettra voltò di scatto il volto alla propria sinistra: tutto pur di non vedere la propria immagine riflessa nella specchiera. Era da quando si era ripresa dalla caduta in mare, diverse settimane prima, che alle volte, osservandosi allo specchio, le pareva che il proprio riflesso si muovesse come se fosse dotato di una vita tutta sua. C’erano casi, come quello di poco prima, che le sembrava che esso parlasse anche: era un suono basso, quasi un sussurro, quello che scaturiva dalla sua bocca.
E tagliente, proprio come le parole che utilizzava: spietate, senza mezzi termini.
Era forse impazzita davvero questa volta? C’erano momenti in cui lo credeva veramente.
Eppure, anche se affermarlo faceva male, doveva ammettere che quel riflesso - la voce della sua coscienza, forse? - diceva il vero: qualcosa dentro lei si era rotto per sempre e un colpevole c’era. Ora stava solo a lei decidere che cosa farne di Girolamo Riario.
Fortunatamente durante il resto della convalescenza il Conte si era fatto vivo ben poche volte: erano sempre state conversazioni brevi, domande di cortesia e vuoti discorsi sul tempo. L’imbarazzo in quei momenti era palpabile, fatto di quelli parevano essere interminabili secondi di silenzio e occhiate nervose. Solitamente terminavano con l’entrata di Zita nella cabina e la conseguente fuga dell’uomo.
C’erano alcune notti in cui Elettra si svegliava e lo trovava seduto allo scrittoio, intento ad osservarla, la sua figura scura che si stagliava contro la luce lunare. In quei casi lei - entrambi, poteva esserne quasi certa - facevano finta che fosse ancora addormentata. Restavano immobili ai lati opposti della cabina, ascoltando i respiri l’uno dell’altra. Una volta Girolamo prima di uscire dalla stanza le aveva lasciato un bacio sui capelli, ma quella era stata l’unica occasione in cui l’aveva sfiorata. Per il resto mantenevano sempre una certa distanza.
Per quanto ancora sarebbe durata quella posizione di stallo? Elettra sperava ancora il più a lungo possibile: non aveva ancora preso una decisione su loro due e, visto la forte indecisione che la contraddistingueva in certe questioni, ciò non sarebbe di certo avvenuto in tempi brevi.
Fu immensamente grata alla maniglia della porta che si abbassò, distogliendola così da quei pensieri. Nella cabina entrò Zita.
Ci fu un momento di smarrimento nello sguardo dell’efficiente serva abissina, che si aspettava di trovare la giovane ancora a letto, come sarebbe convenuto ad un malato, e non seduta allo scrittoio.
“Ma… mia signora, non siete a letto”, balbettò confusa, osservandola poi con apprensione.
Elettra le rivolse un largo sorriso furbetto, identico a quelli che esibiva da bambina quando qualcuno la beccava a fare qualcosa che le era stato proibito. “Deve essere una caratteristica tipica delle governanti quella di chiamarmi a tutti i costi signora”, disse con marcata ironia. Zita era come Maria, la sua cameriera: nonostante avesse ripetuto loro più volte di chiamarla semplicemente Elettra, le due parevano scordarselo sempre.
Aveva sperato che l’abissina prendesse quel commento sul ridere, invece la vide abbassare il capo mortificata, quasi spaventata dalle sue parole. “Non sono una governante ma una schiava”, mormorò. Se fosse stata una governante o anche solo un’umile sguattera Sisto non l’avrebbe trattata come proprio personale giocattolo notturno. “Dovreste punirmi per l’affronto che vi ho arrecato”. Sospirò e chiuse gli occhi, come se si preparasse a ricevere veramente una punizione.
Dal canto suo, Elettra la osservava ad occhi spalancati. “Punirti per l’avermi chiamata mia signora e non Elettra? Non ti punirei nemmeno per cose più gravi, figuriamoci per una sciocchezza del genere”. Lei la schiavitù non la capiva: nella sua Firenze non esisteva. Almeno che non si parlasse degli uomini di Madame Sing, ma quella era tutt’altro tipo di schiavitù…
Distolse lo sguardo dalla schiava, concentrandosi sull’oblò alla sua destra: quella piccola apertura da quando era salita a bordo di quella nave era stata il suo unico contatto con il mondo esterno. Ascoltò l’infrangersi di un’onda contro lo scafo e poco dopo vide alcuni schizzi d’acqua sollevarsi e colpire il vetro. Avrebbe tanto voluto poter aprire quella piccola finestra ovale per permettere all’odore salmastro del mare e al rumore delle onde di entrare, ma così facendo avrebbe allagato la cabina.
Sospirò e tornò ad osservare Zita con aria malinconica.
“Come è il tempo là fuori?”, le chiese.
“Soleggiato, con una piacevole brezza che fa scivolare bene la nave tra le onde”. Lo aveva chiesto di persona al capitano, in modo da poterglielo riferire appena le avesse posto la domanda. Quella era sempre la prima della giornata.
Elettra accennò un sorriso: per navigare erano ottime condizioni… ma anche per un malato che doveva ancora ristabilirsi esse andavano più bene.
Da un sorriso stentato passò ad un sorriso pieno.
“Vorrei fare un giro sul ponte oggi”, disse con aria angelica, in netto contrasto con l’espressione sconvolta sul volto di Zita.
“M-ma… mia sign… Elettra, il cerusico ha detto…”
Elettra si ricordava perfettamente le parole del medico: “Sarebbe consigliabile che restiate a riposo ancora qualche giorno”, aveva detto.
“Mi ha consigliato il riposo, ma non ha specificato dove”, la interruppe con un sorriso furbetto, di chi la sapeva lunga su come eludere eventuali divieti. In fondo lo faceva da che ne aveva memoria.
Osservò la schiava fremere e mordersi la lingua nel tentativo di tacere la propria disapprovazione. Ovviamente Elettra sapeva che si sarebbe controllata e che dalla sua bocca non sarebbe uscita nessun’altra rimostranza: le lanciava frecciatine di ogni genere da giorni ma niente, Zita pareva avere persino più autocontrollo di Riario.
“Vado a prendere i vostri vestiti e il vostro bastone. Il medico dice che dovreste usarlo per aiutarvi a camminare, non lasciarlo immobile di fianco al letto”, disse invece. Però c’era eccome del rimprovero nella sua voce.
Elettra soffocò una risata nel pugno, gesto, quello della risata, che le causò dolore, facendo assumere al suo volto un’espressione sofferente.
I lividi sulla sua pelle erano pressoché scomparsi, ma era all’interno il vero problema: l’impatto della sua schiena con l’acqua, dall’altezza a cui si era buttata, era stato violentissimo. C’era gente che per una caduta del genere era rimasta paralizzata o peggio, lei invece se l’era cavata solo con diverse costole rotte. Era stata fortuna, miracolata avevano detto altri.
I primi giorni erano stati un inferno: costretta a letto, immobile, con ogni parte del corpo che le doleva; persino prendere un piccolo respiro era stato doloroso come uno stiletto in pancia. Poi fortunatamente il male era diminuito, anche se alcuni movimenti erano ancora difficoltosi. Per poter alzarsi dal letto in completa autonomia si era fatta mettere alcune corde collegate a delle carrucole; un progetto degno di Da Vinci in persona, le piaceva pensare.
Il medico le aveva dato un bastone per aiutarsi a camminare e, per mantenere la schiena dritta e il torace compresso, era stata costretta a portare uno stretto corsetto pieno di rigide stecche di ferro. L’arnese infernale in questione era stato reperito in modo fortuito: trovato nascosto in una delle cabine della nave e facente parte di un appariscente abito che qualche ‘brava donna’ aveva lasciato come ricordo di sé sul Basilisco. Elettra non aveva voluto sapere altro, anche se temeva già di sapere a quale categoria quella ‘brava donna’ appartenesse. Comunque le pareva impossibile che qualcuna avesse indossato quel corsetto di propria spontanea volontà e non sotto costrizione come lei.
Sentì Zita alle sue spalle armeggiare con quella diavoleria e sbuffò, preferendo tornare a guardarsi allo specchio.
Il riflesso in esso pareva guardarla dall’alto in basso, arrogante, sfidandola a fare qualcosa. Ma Elettra non sapeva che cosa. Si studiò in silenzio, osservò le fattezze del proprio volto: la pelle di porcellana troppo pallida ma perfetta, le guance troppo scavate, le occhiaie troppo marcate, gli occhi blu ghiaccio che esprimevano comunque una certa vitalità, ma non abbastanza come avrebbe voluto. Osservò i propri capelli, che le ricadevano in lunghi boccoli dorati sul seno e sulle spalle; non si ricordava di averli mai avuti così lunghi come in quel momento.
Il riflesso nello specchio le appariva quello di una moscia e piagnucolosa dama di corte di Clarice; una di quelle donne che lei aveva sempre disprezzato.
Si spostò i capelli tutti su di una spalla, improvvisamente infastidita da essi e distolse lo sguardo focalizzandolo sulla propria spada, poggiata in un angolo buio della cabina; si trovava ancora nel fodero di cuoio che aveva indossato alla cintura il giorno della congiura. Non era un fodero da battaglia quello, ma uno da utilizzare solo per bellezza i giorni di festa; molti uomini portavano le proprie armi predilette come semplice addobbo e lei non era da meno. Il cuoio era stato dipinto a mano con scene di battaglia; unico particolare: una dama che con armi alla mano ed armatura salva il cavaliere. Ora esso era rovinato e un profondo taglio sfregiava il paesaggio collinare che faceva da sfondo alla scena.
“Zita, pare anche a te che ci sia qualcosa di troppo?”, domandò alla serva, tornando a guardarsi allo specchio. Quando vide l’espressione perplessa della donna, spostò i capelli sull’altra spalla in un gesto più che eloquente.
La schiava aggrottò la fronte. “Desiderate che vi acconci i capelli?”, domandò confusa. Era brava a farlo, o almeno così le aveva detto l’altra donna del Conte, quella che c’era stata prima di Elettra.
“Assolutamente no”, fu la pronta risposta della giovane. Dovette trattenersi per non scoppiare a ridere, gesto anche questo tutt’altro che piacevole. “Passami la spada, per favore”, disse quando si fu ripresa.
L’altra tentennò, chiaramente indecisa sul da farsi.
Elettra allora sbuffò e poggiò le mani sui braccioli della sedia con il chiaro intento di provare ad alzarsi. Non appena Zita si rese conto delle sue intenzioni si fiondò a prendere la spada e gliela portò. Per ringraziamento ottenne un cenno del capo e il sorriso tipico di chi aveva architettato tutto alla perfezione.
La giovane osservò l’arma ancora nel fodero che teneva sulle ginocchia. Un tempo avrebbe detto che il suo, tenuto tra le mani, era un peso piacevole, rassicurante. Ma ora non era più così, non dopo quel giorno.
Con la mano più tremante del previsto strinse l’elsa e la estrasse dal fodero. Il suono metallico che essa produsse le fece accapponare la pelle: i rumori, le urla e le immagini di quel giorno per un istante ritornarono a galla, ma lei fece di tutto per ricacciarle da dove erano venute.
Non si guardò nello specchio, sapeva già quale aspetto avesse in quel momento: pallida, se possibile ancora più pallida del solito. Dietro di lei Zita probabilmente la osservava con apprensione, indecisa se intervenire per toglierle l’arma oppure no. Si voltò, sforzandosi di sorriderle, e nel mentre raccolse i propri capelli nel pugno, tenendoli belli tesi. “Sono troppo lunghi per una nave”.
 E detto questo, con un colpo secco di spada, li tagliò di poco sopra alle spalle.
Poggiò i capelli che le erano restati in mano sullo scrittoio e rimise l’arma nel fodero. Tornò a guardare Zita con aria angelica.
L’abissina, dal canto suo, la osservava sconvolta.
“Come mi stanno?”, le chiese, prendendo poi una spazzola e cominciando a lisciarli. Dalle sue spalle giunse solo il silenzio.
Ridacchiò sommessamente. “Ora, Zita, è il caso di vestirsi ed andare sul ponte”
 
***
 
Poco dopo…
 
Il Sole era lì, a pochi passi da lei, caldo e rassicurante, pronto a cullarla con i propri raggi. Quasi non si rese conto di aver salito gli ultimi gradini che la dividevano dal ponte della nave correndo, né della voce di Zita che la intimava di andare più piano e usare il bastone per sorreggersi.
Chiuse gli occhi una volta arrivata in cima, il cuore che le batteva forte in petto e il sorriso sulle labbra. Lasciò che il sole le riscaldasse il viso, che si posasse sulle sue braccia che da troppo tempo lo reclamavano. In un gesto di frenesia arricciò velocemente le maniche della camicia bianca che indossava sotto al corsetto stretto fin sopra ai gomiti.
Prese un lungo respiro, inebriandosi dell’odore del mare, un profumo intenso di salsedine che andava a mischiarsi con quello di resina della nave.
Il dolore all’addome, le costole che lentamente si stavano rinsaldando, erano solo un fastidio di sottofondo: troppo poco importante in quel momento, troppo forte per ignorarlo del tutto.
Sorrise, tornando a guardare il cielo azzurro sopra di lei. Solo qualche nuvola in lontananza spezzava la monotonia di quell’immensa distesa d’acqua e di cielo.
Si voltò verso Zita. I capelli sopra alle sue spalle si muovevano disordinati al ritmo del vento, lambendole e solleticandole il viso.
Camminò a passo svelto fino a trovarsi contro il parapetto della nave. Lo percorse lentamente con le dita, sfiorando quel legno ruvido, segnato dallo sferzare del vento, l’arsura del sole e l’erosione del sale.
Ad un certo punto si fermò, sporgendosi oltre per osservare le onde infrangersi a ritmo regolare contro lo scafo solido.
Forse Zita l’aveva seguita per tutto quel percorso, ma lei così presa dalla propria frenesia non se ne era accorta. Ora poteva avvertire la sua presenza alle spalle, il suo sguardo apprensivo trafiggerle la schiena.
“Questa volta prometto di non fare scherzi”, disse ironica, alzando le braccia in segno di resa. Si sarebbe aspettata di avvertire la risata della serva da un momento all’altro, ma ciò che sentì fu solo il suo nervosismo farsi più tangibile.
Si voltò, poggiandosi con la schiena al parapetto e mise il bastone a terra, sentendo - ora - il bisogno di qualcosa a cui reggersi. Le costole erano tornate a dolerle e respirare a pieni polmoni era una tortura.
Osservò il volto greve della donna, pesando che probabilmente nemmeno Zoroastro o Giuliano avrebbero mai riso alla sua macabra battuta. Si guardò in giro, constatando ad occhio e croce di trovarsi nel punto da cui quella notte si era buttata.
“Avresti dovuto ridere, ma capisco che non è un fatto su cui si possa esattamente scherzare”, disse nuovamente, cercando di apparire più seria.
Zita abbassò il capo, come mortificata. “Era un ordine?”, chiese con incertezza a mezza voce.
Elettra la osservò improvvisamente confusa. “No, no, certo che no”, si affrettò a rispondere. Dentro di sé si chiese quante volte fosse stata costretta a fare qualcosa contro la propria volontà. Di certo ridere a comando sarebbe stato un ordine più sopportabile di altri.
Scrutò il suo volto, leggendo in quegli occhi di ossidiana orrori ben peggiori di quello.
Distolse immediatamente lo sguardo, sentendosi quasi sopraffare da un senso di colpa a cui nemmeno lei sapeva dare un senso.
Zita aveva mai avuto qualcuno con cui condividere le proprie pene, con cui parlare del più e del meno e provare a ridere? Certo, c’era sempre Riario. Sapeva che loro due erano legati da un sincero affetto e dal rispetto l’uno dell’altra, ma sentiva che lui per lei non era abbastanza.
Poggiò il bastone contro il parapetto, facendo poi alcuni  passi nella sua direzione. Le tese entrambe le mani, invitandola a stringere le proprie.
Forse lei non conosceva quel gesto, forse nessuno le aveva mostrato un po’ di calore umano dal momento che rimase immobile e tesa, con l’espressione circospetta.
Elettra fece ancora un passo avanti, prendendole entrambe le mani tra le proprie. “Vorrei che tu mi vedessi più come un’amica che come una padrona da servire e da cui guardarsi le spalle”, le disse, sorridendole in modo rassicurante.
“Io non ho mai avuto un’amica, non da quando…”. Le parole le morirono in gola rammentando un tempo in cui era felice. Libera e non schiava in catene.
“Ora ce l’hai”, ribattè in fretta la giovane, carezzandole con il pollice il dorso della mano.   
Zita piegò le labbra in un timido sorriso, gli occhi ancora velati di incertezza, ma comunque ricolmi di gratitudine.
Entrambe avrebbero voluto dire qualcosa, ma tutte le parole nelle loro menti svanirono nell’esatto istante in cui udirono dei passi avvicinarsi: Girolamo Riario stava venendo verso di loro; doveva essere stato nel cassero di poppa a parlare con il Capitano, intento ad armeggiare con il timone. Forse era stato attirato dalle loro voci.
Elettra strinse istintivamente le mani della serva abissina, ma esse le sgusciarono comunque via mentre lei faceva un passo indietro.
“Buongiorno, Conte Riario”, disse Zita con riverenza, prostrandosi in un inchino.
Il Conte le sorrise, accennando però appena un cenno del capo: tutta la sua attenzione era focalizzata su altro. Elettra potè chiaramente vedere il lampo di sorpresa che passò nelle iridi color nocciola di lui; osservò i suoi occhi soffermarsi sul suo volto. Apprezzava ciò che vedeva? O era in disappunto? Lei questo non lo poteva sapere dal momento che, dopo essersi involontariamente tradito, la sua maschera era tornata a farsi imperscrutabile.
“Conte”, lo salutò a disagio. D’istinto le sarebbe venuto d’abbassare lo sguardo, imbarazzata dal lungo sostare degli occhi di lui sulla sua figura, ma si impose di non farlo. All’Elettra di un tempo quel pensiero non sarebbe mai passato nell’anticamera del cervello.
“Signore”, rispose finalmente lui.
Un istante, uno sguardo d’intesa tra padrone e serva, e Zita si dileguò velocemente.
Ci furono dei momenti di silenzio dei quali Elettra approfittò per voltarsi e tornare a guardare il mare sotto di loro.
Girolamo si umettò le labbra, nervoso per i brutti ricordi che aveva di lei e del parapetto della nave; le si accostò, imitandola. Braccio contro braccio. Un calore che alla giovane pareva tutt’altro che spiacevole e che al suo corpo sembrava non bastare. Per la seconda volta nel giro di pochi minuti doveva imporsi di non mostrarsi bisognosa di lui.
Avvertì sulla propria pelle il suo voltarsi verso di lei per tornare a studiarla.
“Non mi aspettavo di vederti qui, mi hai sorpresa”, le disse.
Si voltò a sua volta ad osservarlo, ma lui era già tornato ad osservare il mare. Ritornò a guardarlo anche lei, non riuscendo però a celare un sorriso.
“Il medico non mi ha detto di averti dato il permesso di lasciare la tua cabina”, continuò lui.
“Me lo darà quando mi vedrà”, ribattè, con il suo solito tono di voce insolente.
Riuscì finalmente ad osservarlo in volto, vedere le sue labbra storcersi in quello che poteva quasi dirsi un’espressione ironica; dalla sua bocca uscì un suono strano, una lontana somiglianza con una risata, la prima dopo molto molto tempo.
Lo vide scuotere la testa divertito, prima di tornare a farsi serio. “Come ti senti?”, le chiese. Nessuno avrebbe mai detto che un istante prima aveva riso con leggerezza.
Come si sentiva? Elettra sapeva esattamente come si sentiva. Ma davvero ne avrebbe parlato a lui?
Si era smarrita, era caduta, caduta, caduta e, quando aveva creduto di aver toccato il fondo, qualcuno le aveva spiegato come fare a risalire. La aveva dato una scelta: restare sul fondo oppure provare a risalire, provare a ritrovare sé stessa. Non sarebbe stata una risalita facile, eppure provarci ne valeva la pena.  
E lo stava facendo, ogni giorno da quando si era risvegliata.
“Bene”, rispose in tono atono.
No, a lui non ne avrebbe parlato.
Lei gli aveva dato piena fiducia troppe volte e puntualmente lui l’aveva tradita. Non sarebbe successo di nuovo.
Girolamo annuì come comprensivo, anche se nel suo sguardo una punta di sconforto era segno di aver capito la menzogna: lei doveva ancora riprendersi, sia a livello fisico che mentale. Provava pena nei suoi confronti. E senso di colpa.
Si inumidì nuovamente le labbra in cerca di qualcosa da dire: se fosse rimasto in silenzio era certo che l’atmosfera di quel momento si sarebbe rotta e lei si sarebbe allontanata.
“Hai tagliato i capelli”
Le si avvicinò ancora di più, portando una mano al suo viso e arricciando una ciocca tra le dita; inavvertitamente le sfiorò con le nocche una guancia.
“Ti danno un’aria più…”. Si fermò, in cerca della parola giusta.
“Marinara?”, gli venne in aiuto lei.
“Marinara”, ripetè piegando le labbra nuovamente in un sorriso.
Si guardarono negli occhi e scoppiarono entrambi a ridere; quanto gli era mancata la sua risata cristallina. Sapeva di vita.
Non si accorse nemmeno che il proprio tocco lieve sul suo viso era diventato una carezza piena. Sotto alla sua mano la pelle pallida della guancia era soffice come velluto.
L’espressione sul volto di Elettra però cambiò in fretta, rabbuiandosi. Fece un passo lontano, sottraendosi così al suo tocco.
Girolamo la osservò mortificato. “Elettra, io…”
“…ti tratterò bene d’ora in poi”, avrebbe voluto dire, aggiungendo che le mancava, che avrebbe fatto di tutto per poterla riavere tra le proprie braccia.
Probabilmente lo avrebbe detto davvero, se lei non lo avesse interrotto.
“No”, disse con voce rotta, evitando accuratamente di guardarlo in viso. Fece ancora alcuni passi indietro, tornando poi ad appoggiarsi al parapetto per guardare il mare.
Il Conte la osservò ancora per lunghi istanti: osservò il suo respiro concitato, il suo premere nervosamente le mani sulle zone ferite e capì che era meglio fermarsi lì.
“Tra pochi giorni saremo in vista delle Canarie”, rivelò in un tono privo di colorito. “Ti auguro una buona giornata, Elettra”. Non attese una sua risposta, preferendo dirigersi a lunghe falcate sottocoperta.    
Solo quando i passi di Riario furono lontani la giovane decise di voltarsi e tornare ad osservare la nave: dalla stretta scala che portava al ponte di mezzana giunse Zita con un vassoio con la colazione e dietro di lei un marinaio portava una sedia di legno.
L’espressione sul volto della serva era di puro disappunto, seppur cercasse con tutte le proprie forze di celarla: doveva aver incontrato il Conte mentre andava da lei e lui le aveva parlato della conversazione di poco prima. Oppure lo aveva semplicemente intuito con un’occhiata; era senz’altro più probabile visto l’orgoglio dell’uomo.
Si lasciò letteralmente cadere sulla sedia ad occhi chiusi, improvvisamente prosciugata delle proprie energie: era stato il troppo tempo in piedi o il discorso con Riario? 
Si mise a sorseggiare lentamente la tisana che Zita le aveva portato, tornando a guardarsi in giro con aria curiosa: era da quando era salita sul ponte che sentiva che qualcosa mancava… studiò con frenesia crescente l’ambiente, soffermandosi su ogni particolare. Quella mancanza era sempre lì, costante nonostante avesse osservato tutto.
Cercò di concentrarsi ancora di più.
Spalancò di scatto gli occhi: non era qualcosa a mancare ma qualcuno: Nico!
 
***
 
Girolamo chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie, grato del silenzio che regnava nel proprio studio.
Un improvviso rumore di passi concitati ruppe però ben presto quella quiete: doveva trattarsi di un marinaio di pessimo umore.
Senz’altro aveva aggravato il suo di umore.
Avrebbe dovuto alzarsi e uscire ad intimargli di fare più piano.
Aveva appena formulato quel pensiero che la porta dello studio si spalancò di colpo con foga, sbattendo contro il muro per poi richiudersi bruscamente alle spalle dell’ospite inaspettato.
Elettra era entrata come una furia, con il volto contratto in una smorfia rabbiosa e gli occhi che lanciavano saette. Avrebbe potuto ucciderlo solo con lo sguardo.
“Voi!”, disse a voce alta, puntandogli un dito contro.
Riario la osservò con perplessità.
“Come avete potuto?”, continuò a voce alta. Senz’altro la stavano udendo fino sul fondo dell’oceano.
Avrebbe dovuto chiederle a cosa si stesse riferendo, ma c’era altro che per lui ora aveva la priorità: osservò il suo volto madido di sudore, il suo colorito troppo pallido e il suo respiro concitato; anche arrabbiarsi, nelle sue condizioni, era uno sforzo non indifferente.
“Elettra, prima di tutto siediti”, disse invece con tono placato, indicandole una delle sedie disposte intorno alla scrivania.
Lei fece per ribattere, ma alla fine si sedette, apparentemente docile. 
Docile come una serpe che aspettava il momento giusto per colpire.
La osservò prendere dei respiri, con il petto che cercava di espandersi e contrarsi all’interno di quel corsetto troppo stretto. Quei tentativi di prendere più aria dovevano farle male visto l’espressione sofferente del suo viso.
L’istinto gli diceva di starle a distanza di sicurezza, ma alla fine le si avvicinò comunque, sedendosi al suo fianco.
“Dovresti provare a stare più tranquilla, mia diletta”, disse a mezza voce, con una sfumatura di dolcezza a lui estranea. Solo con lei riusciva ad utilizzarla.
Si sarebbe aspettato di vederla ammorbidire almeno lo sguardo, come accadeva sempre in passato, ma l’occhiata che lei gli lanciò gli fece quasi temere per la propria incolumità.
“Non osate chiamarmi in quel modo”, sbottò. Si alzò di scatto in piedi senza che Riario avesse il tempo - e il coraggio - di fermarla. “Credete che io sia ancora così ingenua? Che mi lasci abbindolare da qualche modo gentile e un nomignolo? Non accadrà più, potete esserne certo”
Sotto gli occhi di Girolamo si mise a camminare per lo studio. Sulla scrivania, semi sommerso da alcune scartoffie, trovò un tagliacarte. Lo prese tra le mani continuando a camminare, giocherellandoci nel frattempo.
Dava sempre le spalle al Conte, che si era rimesso a sua volta in piedi, attento a qualsiasi sua azione. Era certo che una mossa avventata sarebbe arrivata da un momento all’altro.
“Perché Nico è rinchiuso in una gabbia?”, gli domandò, picchiettandosi l’oggetto acuminato sul palmo della mano.
“Il giovane Nico è apparso fin dal primo istante poco propenso alla collaborazione”
Elettra fermò il passo, voltandosi a guardarlo. “Liberatelo immediatamente”
Il suo sguardo era serio come poche altre volte lo era stato e la sua voce era ferma e decisa. Avrebbe messo in soggezione chiunque con quei modi, forse perfino il Magnifico in persona, ma lui era Girolamo Riario e l’unica persona che era in grado di incutergli timore era il Santo Padre. E lei con quell’arma improvvisata in mano non era nulla in confronto ad una sfuriata di Sisto.
“No”, ribattè con calma, scandendo bene e con lentezza quella semplicissima parola.
Lei lo osservò immobile, indispettita da quella risposta. Aveva anche smesso di battere il tagliacarte sul palmo della mano. Ora stringeva il manico e scrutava la figura di Riario.
Il Conte non riuscì a non farsi sfuggire una risata ironica, ma ebbe almeno il buon senso di voltare il viso e nascondersi la bocca dietro al pugno chiuso. Sapeva cosa stava facendo: lo studiava, valutando le possibilità di riuscita nel tentare a sopraffarlo. Elettra non la considerava una stupida, tutt’altro, quindi doveva essere arrivata anche lei alla conclusione che non sarebbe mai riuscita nel suo intento. Nemmeno in piena forma avrebbe prevalso, ora avrebbe solo rischiato di farsi male.
Ma quanto sarebbe stata disposta a rischiare pur di vedere Nico fuori da quella gabbia?
Le diede le spalle, cominciando a fingere di osservare la cabina solo per il gusto di stuzzicarla.
Avrebbe nuovamente tentato di puntargli un’arma al collo? Un sottile segno su di esso, quasi completamente scomparso, era il retaggio del loro primo incontro. Avrebbe davvero provato ad emulare i vecchi tempi?
Osservò la propria scrivania, stranamente in disordine, zeppa di fogli di carta; sotto ad alcuni di essi, in parte visibile, la Pelle dell’Abissino aspettava di essere decifrata. Un’idea gli passò per la testa ma non riuscì ad esprimerla a parole dal momento che alle sue spalle Elettra si era mossa per tentare di sfruttare l’effetto sorpresa.
Davvero era cascata in quel semplice trucchetto con così tanta facilità? Era sempre stata impulsiva, ma ora era troppo.
Rimase di spalle, lasciando che lei gli arrivasse ad un soffio, e poi agì: Elettra nemmeno si rese conto di essere stata presa per un braccio e lasciata cadere su una delle poltrone. Si accorse di tutto quando fu ormai seduta, con i polsi fermamente bloccati sui braccioli dalle mani di Riario.
Il Conte aumentò la stretta sul sinistro fino a quando lei non lasciò la presa sul tagliacarte, che cadde a terra producendo un rumore metallico.
Le concesse alcuni secondi di silenzio per riprendere fiato - e per riprendersi dal dolore, per quanto avesse provato ad essere il più delicato possibile l’impatto con la poltrona era stato tutt’altro che indolore -, prima di parlare.
Si chinò su di lei, studiando i suoi occhi: erano come fatti di ghiaccio puro e lanciavano saette rabbiose. Era abbastanza vicino al suo volto perché avvertisse il suo fiato solleticargli la pelle, ma anche abbastanza lontano per evitare eventuali tentativi di morso.
“Ho un patto da proporvi, mia diletta”, sussurrò.


Nda 
Sopravvissuta anche al primo esame di questa sessione (per questo ho pubblicato in ritardo)!
Per questo capitolo ho optato per una specie di ritorno ai modi del passato, con un Conte un po' più rude del solito (quanto mi era mancato!) e la nostra Elettra ritornata con la lingua lunga e l'idea di non farsi più mettere i piedi in testa da nessuno. Sentivo proprio il bisogno di un ritorno al passato. Voi cosa ne pensate?
Appuntamento al prossimo mese!  
 

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Capitolo 9
*** La Fuga ***


Nda
Prima di lasciarvi alla lettura di questo capitolo vorrei scusarmi con tutti voi per la mia lunghissima assenza: in questi mesi - in questo anno, anzi -, sono stata molto occupata dall'università e da altri progetti. Sono riuscita a partecipare alla scrittura di una collana di libri di architettura per il Corriere della Sera (😍) e ho vinto il mio primo concorso di scrittura! Credo che tutto ciò mi abbia portato a maturare nel mio modo di scrivere e spero che questo si riesca a sentire in questo e nei prossimi capitoli. 
Detto questo, prima di lasciarvi definitivamente alla lettura, vi invito a lasciare anche solo un piccolo pensiero con le vostre impressioni sul capitolo (e accetto anche insulti per la mia assenza, mi sento di meritarli tutti 🙈). 
E ora posso finalmente dirlo: BUONA LETTURA! 



Capitolo VII: La Fuga
 

Una settimana più tardi...
 

 

Le torce accese correvano lungo ogni molo, andando così a delineare il perimetro del porto per tutte le navi che si apprestavano ad attraccare quella notte. In lontananza, si potevano vedere le luci della città di Fuerteventura. Dalla taverna del porto invece giungeva un fitto chiacchiericcio e una melodia dall'aria famigliare, ma Elettra non seppe dire di cosa si trattava dal momento che si trovava troppo lontana.
Aprì l'oblò della cabina e si mise in punta di piedi, sperando così di riuscire a scorgere e ad ascoltare qualcosina in più, ma, come tutti i tentativi precedenti, non riuscì a vedere nulla di nuovo.
Sbuffò spazientita, ma rimase comunque in quella posizione.
Sul molo di fronte a lei passò una prostituta in cerca di compagnia: ancheggiava vistosamente e alzava spesso la testa lanciando occhiate maliziose ai marinai rimasti di guardia a bordo del Basilisco. Quella donna passava di lì ogni sera, sempre alla stessa ora ed era una presenza costante a scandire la sua giornata insieme a... Le campane della chiesa della città suonarono e, appena un istante più tardi, la porta della cabina si aprì.
Elettra non si voltò nemmeno verso di essa, perfettamente a conoscenza di chi si trattasse.
"Sappiate, Conte Riario, che non muoio certo di fame se entrate anche un attimo dopo"
Era dalla sera in cui Riario le aveva fatto la propria proposta che era stata rinchiusa là dentro. In cosa consisteva la proposta? Decifrare la Pelle dell'Abissino in cambio della libertà di Nico. Ovviamente non aveva accettato, causando l'ira del Conte, che, insieme a Zita, era l'unica persona autorizzata ad avere contatti con lei.
Alle sue spalle, lo avvertì posare un vassoio sopra al tavolo. Colazione, pranzo e cena erano così: costretta a tollerare la presenza di Riario e le sue frecciatine. Non che lei non ribattesse, anzi, tutt'altro.
"Avete passato un piacevole pomeriggio, madonna?", chiese con sarcasmo, osservandola dargli sempre le spalle. Non le lasciò il tempo di rispondere. "Dovreste provare a visitare l'interno dell'isola. O il faro, la vista da lassù è fantastica, per non parlare delle spiaggia, mai vista una sabbia così chiara e fine"
La stava provocando, deliberatamente. Questo Elettra lo sapeva. E non era intenzionata a cedere: aveva un proprio piano da mandare avanti. "Potevate provare l'ebrezza di un salto dal faro, oppure ingoiare quella sabbia che tanto decantate", ribatté innocentemente.
"Vi basterebbe accettare la mia più che generosa proposta e vi farei da guida dell'isola io stesso". Fece un passo avanti verso di lei.
Dal canto suo la giovane si mise a ridere: una risata volta unicamente a deriderlo. Ancora una volta non si voltò nella sua direzione, focalizzando tutta la propria attenzione a ciò che vi era oltre l'oblò aperto.
Riario avanzò ulteriormente, silenzioso come il migliore dei predatori, arrivandole vicinissima. "Riconoscete questa melodia, Elettra?", le chiese all'orecchio con voce bassa, scandendo lentamente il suo nome.
Elettra si irrigidì all'istante per via di quella vicinanza inaspettata. Deglutì prima di negare con il capo. "E' troppo lontana", affermò, per poi aggiungere: "Non che mi interessi".
Mentiva.
E lo sapevano entrambi.
"La notte scorsa ha attraccato al porto una nave con a bordo diversi fiorentini", rivelò Riario, senza allontanarsi di un passo.
Lei sapeva dove voleva andare a parare. Ma no, non gli avrebbe dato quella soddisfazione.
"Non può trattarsi di Leonardo, altrimenti non sareste qui ostentando tutta questa tranquillità", ribatté.
Il Conte ignorò la sua affermazione, proseguendo per la propria strada. "Potrebbe trattarsi dell'Ammiraglia", disse. Le labbra così vicine che pareva quasi le sfiorassero l'orecchio. Un contatto che la lasciava tutt'altro che indifferente. "Vostro padre potrebbe essere qui, forse in questo momento sta cantando alla locanda su queste note". Restò in silenzio per alcuni secondi, facendo finta di ascoltare quella melodia lontana, per poi riprendere a parlare. "Non vi pare frustrante? Così vicino, eppure così lontano". Le sfiorò con il naso il collo, prendendo un respiro e assaporando il suo profumo. "Un sì e potrete riabbracciarlo"
Elettra si voltò di scatto.
E per un istante Riario credette di averla in pugno.
Lo sguardo di lei cadde per un attimo sulle sue labbra, ma subito dopo tornò a guardarlo negli occhi; l'azzurro dei suoi, invece, pareva un mare in tempesta.
"Mi credete così disperata da accettare solamente alla luce di una vostra alquanto improbabile supposizione?", sibilò.
Lo superò, dirigendosi verso il tavolo e alzando il coperchio del vassoio. Prese il proprio piatto, sedendosi poi a tavola. "Siete voi che avete un disperato bisogno che vi decifri quella mappa per riprendere il mare. In quanto a me, tutto ciò che mi occorre è restare qui fino a quando Leonardo non arriverà. Chi è in vantaggio ora?". Prese una forchettata di verdura, portandosela lentamente alle labbra, soddisfatta.
Riario prese posto di fronte a lei: pareva irritato, ma tentava di non darlo troppo a vedere.
"Cosa vi fa credere che Da Vinci intenda proseguire la ricerca del Libro delle Lamine? E soprattutto, cosa vi dà la certezza che farebbe scalo proprio qui?"
"Primo: credo nella cocciutaggine di Leonardo. Secondo: ogni nave che esce o entra nel Mediterraneo fa scalo qui"
Lo vide indurire impercettibilmente la mascella e gli sorrise, raggiante del risultato.
"Non siete mai stata una donna paziente, Elettra", si limitò a farle notare.
Era vero, non lo era mai stata. Ma aveva un proprio piano: le serviva solo la giusta occasione... e i mezzi li aveva già.
 

 

***

 

L'occasione arrivò appena qualche giorno dopo, una sera che il Conte aveva detto che sarebbe stato a cena dall'abate del monastero dell'isola e, quando glielo aveva comunicato, ci aveva tenuto molto a farle notare quanto, persino su quell'isola, cenare con il nipote di Sua Santità fosse considerato un onore. Era stata una chiara frecciatina nei suoi confronti? Elettra si era fatta una grossa risata, per poi augurargli in tono mellifluo che sperava con tutto il cuore che la cena gli andasse di traverso e che morisse soffocato.
Mentre attendeva il cambio guardia ‒ il marinaio che c'era in quel momento era troppo sveglio, ma quello che ci sarebbe stato dopo non lo era affatto ‒ ripassò mentalmente il piano: il grasso di balena, che fortunatamente sull'isola era più economico della cera delle candele e quindi più usato, era già al proprio posto, sparso sulle assi del pavimento vicino alla porta. Ad Elettra venne da ridere pensando al padre e a una delle sue prime regole: mai appiccare incendi in una nave fatta  completamente di legno. Ma era certa che in questo caso avrebbe approvato pure lui.
Tutte le precauzioni del caso le aveva però prese, infatti poco distante immersa in un recipiente d'acqua se ne stava una pesante coperta di lana.
Il piano sarebbe stato questo: avrebbe acceso un piccolo fuoco in modo da attirare l'attenzione della guardia che sarebbe senz'altro entrata in cabina a controllare, a quel punto avrebbe messo in condizioni di non nuocere per un po' il povero malcapitato e gli avrebbe preso le chiavi della cella di Nico, lo avrebbe liberato e insieme sarebbero fuggiti. Un piano semplice. Che cosa mai poteva andare storto?
La cadenza dei passi in corridoio cambiò, facendosi più lenti e strascicati, segno che il marinaio furbo aveva lasciato il posto al mozzo, un uomo anziano, dal pizzetto bianco e la pancia fin troppo allenata alla birra e il vino. Probabilmente doveva già essere sulla via dell'ubriachezza in quel momento.
Il piano poteva avere inizio.
Si sistemò un lembo di stoffa a coprire bocca e naso, per non aspirare fumo ed avvicinò la fiamma della lampada che teneva sopra al comodino alla chiazza di grasso di balena, essa prese fuoco in un istante, dopodiché fece in modo che il fumo si dirigesse verso la porta chiusa, così che esso si spargesse anche per il corridoio della nave.
"Aiuto!", urlò battendo colpi sulla porta. "Aiuto!", ripeté fino a quando non avvertì i passi concitati del mozzo.
Finse alcuni colpi di tosse, seguiti da quelli veri dell'uomo.
"Tutto bene?", chiese quest’ultimo, allarmato. Lo udì togliere la spranga che bloccava la porta e poi cercare la chiave giusta.
"La... la lampada è caduta a terra, qui va tutto a fuoco, vi prego aiutatemi", rispose Elettra, fingendo la voce di una persona nel panico più totale.
Il marinaio imprecò. "Ora vi faccio uscire, signora". Mise la chiave nella toppa ed aprì la porta.
Quello che non si sarebbe mai aspettato una volta dentro era di non trovare immediatamente con lo sguardo la giovane donna del Conte.
Elettra si era infatti nascosta sfruttando il fatto che il battente si sarebbe aperto verso l'interno, lasciando così in ombra una parte della parete della cabina. Lui le dava così le spalle, distratto dal fuocherello che aveva davanti ai piedi, in questo modo poté arrivargli silenziosamente vicino.
Strinse per un istante, esitando, il collo della bottiglia di vetro che aveva tra le mani, poi con forza la calò sulla testa dell'uomo, mandando il vetro in frantumi. Il mozzo stramazzò al suolo, messo momentaneamente al tappeto.
Corse immediatamente a coprire il piccolo incendio con la coperta zuppa d'acqua ed aprì l'oblò, in modo che una volta chiusa la porta, egli non morisse affumicato.
Gli prese dalla cintura il mazzo di chiavi, prima di richiudere alle sue spalle la cabina e dirigersi verso la stiva dove Riario teneva rinchiuso Nico.
Percorse i pochi gradini a scendere di corsa, impaziente di liberare l'amico.
"Nico!", chiamò nel frattempo.
Dalla cella provennero dei lamenti, come quelli di chi viene svegliato in modo troppo brusco. Forse era quello il caso.
"Che c'è? Leonardo non è in bottega, ora", farfugliò il ragazzo, ancora immerso nel sonno.
"Nico, muovi il culo. Dobbiamo andarcene al più presto via da qui", ribatté lei, cercando nel mentre la chiave giusta per aprire.
Lo  vide scattare di colpo e mettersi seduto.
"Elettra!". Sul suo volto comparve un largo sorriso. "Stai bene"
"Per ora, ma non potrei dire lo stesso se Riario ci beccasse fuggire, quindi muoviti"
Finalmente trovò la chiave giusta ed aprì.
Lo aiutò ad uscire dall'angusto spazio che era la sua cella e dopodiché corsero fuori dalla stiva.


Nico stava per proseguire dritto, verso il ponte principale della nave, ma Elettra lo tirò per un braccio all'interno di quello che capì successivamente essere lo studio del Conte. La vide mentre rovistava in giro, probabilmente alla ricerca di qualcosa. "Elettra, cosa stai facendo?", la rimproverò. Prima diceva a lui di muoversi e poi era lei quella a perdere tempo.
"La mia spada, non ho intenzione di lasciarla qui". Aprì un cassetto e ne tirò fuori uno stiletto; sul manico era impresso  su oro il sigillo del Vaticano: doveva trattarsi di uno degli stiletti di riserva di Riario. Lo prese tra le mani, tentando di imitare il gesto tipico del Conte e rigirarselo tra le mani, ma le cadde a terra.
Nico alzò gli occhi al cielo, mordendosi però la lingua per evitare di parlare.
"Potrebbe sempre esserci utile". E detto questo la giovane se lo incastrò nella cintura.
Lo sguardo del giovane Machiavelli intanto vagò per la cabina, soffermandosi sugli oggetti disposti sull'ampio scrittoio: vi era la Pelle dell'Abissino, la copia della Mappa dell'Ebreo fatta da Leonardo e l'Astrolabio. Poco più avanti, gettata a terra vi era la sacca in cui lui stesso aveva messo quei tre preziosi oggetti prima di partire e che poi erano stati requisiti da Riario.
Ora se li sarebbe ripresi.
"Trovata!", fece nel frattempo Elettra, mostrando la sua preziosissima spada. Il suo sguardo però si fece immediatamente perplesso. "Nico, cosa stai facendo?"
Il giovane chiuse la propria sacca e si diresse alla porta. "Mi sono solo ripreso ciò che era nostro"
La ragazza fece un'alzata di spalle, prima di dirigersi anche lei verso l'uscita. E da lì verso la libertà.
Forse.
 

***


Il ponte di mezzana era insolitamente deserto, nemmeno la vedetta era al proprio posto.
“Sarà con l'allegra donnina in abiti succinti che passa sul molo ogni sera”, pensò Elettra, muovendosi comunque con cautela e stringendo l'elsa della propria spada, pronta a sguainarla al minimo pericolo. Nico, alle sue spalle, cercava di replicare i suoi movimenti nonostante non avesse la stessa scioltezza.
Erano quasi nelle vicinanze della scaletta che portava al molo, quando il rumore di numerosi passi e delle voci li portarono ad arrestarsi improvvisamente: conoscevano perfettamente di chi poteva trattarsi.
Elettra prese Nico per un braccio e quest'ultimo si ritrovò senza quasi rendersene conto seduto a terra, nascosto alla vista dei nuovi arrivati dietro ad alcuni barili. Gli scappò un lamento, che la ragazza non riuscì a celare completamente premendogli una mano sulla bocca. Con un'espressione scocciata, gli fece cenno di restare muto come un pesce.
La osservò mentre si sporgeva leggermente per studiare i movimenti del piccolo gruppo sul ponte.
Il Capitano de Noli, alcuni membri della ciurma, il Conte Riario e il suo piccolo manipolo di guardie svizzere si guardavano intorno come se qualcosa non tornasse.
"Sembra la nave di nessuno" fece notare il Capitano.
Riario annuì distrattamente, come se ci fosse qualcos'altro ad occupargli i pensieri. Fece alcuni passi sul ponte, avanti e indietro. "C'è odore di bruciato", proferì in conclusione. Contrasse la mascella e lo sguardo prese a fissare le scale che portavano ai piani inferiori della nave. "Andate a controllare i prigionieri", ordinò alle proprie guardie.
Queste corsero immediatamente in quella direzione. L'elsa della spada stretta in mano, pronti a sguainarla al minimo segnale di pericolo.
Si avvertirono i loro passi sul legno grezzo della scala e l'inconfondibile suono dell'armatura in movimento perdersi tra i suoni del mare.
Nico non aveva mai sentito tante imprecazioni uscire dalla bocca di una persona, in particolar modo da quella di una donna, ma la lunga sfilza che lanciò Elettra era certo che avrebbe fatto impallidire persino i peggiori elementi della ciurma. Pareva che nel tempo passato su quella nave avesse imparato nuovi termini. Finite queste passò ad un'altra lingua dai suoni aspri e pungenti, forse si trattava di tedesco.
Solo una volta esaurite le imprecazione e dopo aver preso un lungo respiro si decise di voltarsi con titubanza per dare una veloce occhiata oltre alla fila di barili: Riario si guardava intorno come se fosse alla ricerca di qualcosa. Di loro, senz'altro.
Il suo sguardo si fermò sulla pila di barili dietro i quali si erano nascosti e un sorriso tutt’altro che rassicurante comparve sul suo volto. Mosse alcuni passi nella loro direzione.
Elettra tornò di scatto nella posizione in cui rimaneva nascosta meglio, con le spalle premute contro i barili.
"Merda", le sfuggì a mezza voce, osservando dritto negli occhi Nico. "Merda", ripeté a mo' di mantra, prendendo poi nuovamente un lungo respiro.
Al ragazzo non passò inosservata la sua mano stretta nervosamente intorno all'elsa della propria spada e la sua posa, simile a quella di una vipera pronta a scattare per mordere il suo predatore.
I passi di Riario però si arrestarono improvvisamente, sostituiti da quelli più concitati delle guardie di ritorno dalla perlustrazione delle celle dei prigionieri.
"Sono fuggiti, Vostra Grazia", disse una di esse.
Dei passi strascicati giunsero per ultimi sul ponte. Doveva trattarsi del povero mozzo che nel frattempo aveva ripreso i sensi.
"La donna ha simulato un incendio e ha stordito il marinaio di guardia che era accorso in suo aiuto e poi ha liberato il ragazzo", spiegò un'altra voce.
"Potrebbero essere scappati ormai da un pezzo, forse dovremmo cominciare a cercarli a terra", fece notare De Noli.
Elettra tornò a voltarsi e vide Riario scuotere la testa e tornare ad osservare il ponte. Non sapeva come fosse possibile, eppure quell’uomo sapeva già tutto.
“Io li distraggo e tu scappi", bisbigliò al suo compagno di fuga.
Nico la osservò ad occhi sgranati. "E poi?", chiese.
"Mi inventerò qualcosa e ti raggiungerò, tu intanto pensa a nasconderti bene"
"Ma..."
"Ascolta, Nico, ho visto parecchie insenature lungo la costa prima di attraccare qui. Cercane una e nasconditi lì". Sorrise. "Io saprò cavarmela, in fondo ho imparato dal migliore", tentò di ironizzare riferendosi a quel 'paraculato' di Leonardo.
Entrambi avrebbero però voluto lì Da Vinci in quel momento: lui avrebbe senz'altro saputo come uscire da quella brutta situazione.
"Il Maestro è un incosciente fortunato", borbottò in risposta il giovane, preparandosi a correre non appena Elettra gli avesse dato il segnale.
"Mi dite tutti che gli assomiglio, è ora di provarlo", ribatté lei, estraendo la spada lentamente, in modo da non produrre rumore. Si alzò in piedi, rivelando così la propria presenza. "Vai!", urlò.
Nico scattò come una lepre mentre le guardie svizzere si muovevano verso Elettra con le spade anche loro sguainate.
Una di esse attaccò e le due lame cozzarono in un clangore metallico. L'ultima volta che lei aveva udito quel suono... i troppo dolorosi ricordi del Duomo le mozzarono il respiro, portandola a non parare il colpo come avrebbe voluto. Cadde a terra in ginocchio.
"Non fatele del male!". La voce di Girolamo appariva allarmata, ma comunque manteneva la propria sfumatura autoritaria.
Tuttavia la guardia che stava incalzando la giovane decise di tentare un ultimo affondo. Elettra fortunatamente fu abbastanza veloce da rimettersi in piedi ed arretrare, evitando così per un soffio il fendente che mirava dritto alla sua pancia.
Il Conte scansò quella guardia da un lato, limitandosi a fulminarla con lo sguardo. Per ora.
"Elettra, posa quella spada", tentò di convincerla.
In risposta, lei tentò un affondo verso di lui, portandolo ad estrarre la propria lama. "Non costringermi a farti del male", la avvisò.
Non voleva ferirla. E dai suoi gesti capì che nemmeno lei voleva fargli del male, seppure pareva pronta a tutto pur di riuscire a fuggire. La incalzò, portandola ad arretrare nuovamente.
In risposta la giovane tentò di contrattaccare, ma il colpo fu abilmente parato senza sforzo.
Un colpo di piatto, precisissimo sulla mano che reggeva la spada scucì dalle labbra di Elettra un gemito di dolore mentre l'arma le sfuggiva di mano. A quel punto lui le fu addosso ma, mentre si trovava stretta nella morsa delle sue braccia muscolose, riuscì comunque a fargli uno sgambetto.
Caddero entrambi a terra.
Lui con tutto il proprio peso sopra a lei.
Un nuovo gemito le sfuggì quando la sua schiena incontrò le dure assi del ponte e dovette chiudere per alcuni istanti gli occhi per cercare di fare scomparire i tanti puntini bianchi che le offuscavano la vista: per via del  brusco atterraggio e per il peso di Riario, le costole erano tornate a dolerle.
Si costrinse a respirare nonostante le fitte, mentre lo avvertiva stringerle e bloccarle i polsi a terra. Voltò il viso di lato pur di non permettergli di vederla in volto e notò che Nico era tenuto fermo da alcuni marinai: il loro piano di fuga era ufficialmente fallito.
"Riportate il ragazzo in cella, a lei ci penso io", disse Riario.

 

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Capitolo 10
*** Rotta verso l'Ignoto ***


Capitolo VIII: Rotta verso l’Ignoto

Elettra tentò di prendere un altro lungo respiro, ad occhi chiusi, tenendo le mani premute contro la gabbia toracica nella vana convinzione che così il dolore diminuisse. Ogni inevitabile espansione e contrazione dei polmoni le provocava delle fitte acute, simili a stilettate.
Lasciò l'impresa e strinse i braccioli della sedia sulla quale era seduta, nello studio di Riario. L'aveva portata lì lui stesso in braccio, una volta che l'aveva malamente fatta alzare dal ponte. Era stato davvero necessario trattarla come uno scaricatore di porto tratterebbe un sacco ricolmo di inutili cianfrusaglie? No, ripensandoci, forse quest’ultimo ci avrebbe messo un po' più cura di Riario.
"Alzati"
La voce autoritaria del Conte le giunse più vicina di quanto si aspettasse. Aprì un occhio, giusto per osservarne la figura avvolta nei soliti abiti scuri ad appena un passo da lei. Non indossava la giacca, abbandonata compostamente su di un angolo della scrivania. Istintivamente strinse ancora di più i braccioli della seduta.
"Elettra, alzati. Ho bisogno di controllare che tu non ti sia fatta nulla di grave"
La giovane sbuffò, irritata o forse troppo orgogliosa di affermare di non essere certa di potersi reggere da sola sulle proprie gambe. Aprì anche l'altro occhio, osservando l'espressione seria sul volto di Riario. Probabilmente o ubbidiva con le buone o si sarebbe replicata la scena di poco prima. Con un moto di irritazione dovette constatare che quando l'unica via possibile era la forza fisica, contro di lui non poteva nulla. Ma non gli avrebbe comunque chiesto aiuto per alzarsi da lì.
Forse questo il Conte lo aveva intuito dal momento che le tese le proprie mani per aiutarla. Si costrinse ad accettarle, guardandosi però bene dal pronunciare un qualche ringraziamento.
Girolamo guidò le sue mani sulle proprie spalle, senza mai staccare per un istante gli occhi da quelli di lei. "Reggiti", mormorò insinuando poi le mani sotto alla sua camicia alla ricerca di eventuali lesioni.
Elettra sussultò per via di quelle mani fredde, portandolo a sorridere. Sorriso che però si spense quasi subito, non appena lei lo fulminò con un'occhiataccia. Una scintilla di ironia restò comunque nei suoi occhi nocciola.
"Trovate tutto questo così divertente, Conte Riario?", gli domandò con pungente sarcasmo. Dovette mordersi la lingua quando lui le tastò una delle costole ancora in via di guarigione. "Avreste dovuto avviarvi alla carriera di medico, vista la vostra delicatezza", rincarò la dose.
In risposta, Girolamo aumentò la pressione sull'osso, osservandola negli occhi con un sorriso sornione.
Elettra tentò a sua volta un sorriso simile a quello dell'uomo, ma esso apparve troppo tirato. Che stavano facendo, stavano... giocando? Una sfida tra teste calde che pareva replicare quelle dei tempi passati a Firenze. Di certo la giovane non lo avrebbe lasciato vincere.
Le sue mani si spostarono lentamente accarezzandogli le spalle e insinuandosi infine nello scollo della camicia. Lo osservò con un'espressione angelica e gli occhi da cerbiatto... mentre affondava le unghie nella tenera carne del suo collo.
Si aspettava una reazione, questo sì, ma forse non quella che gli suscitò.
"Vi credevo più forte, madonna".
Doveva essere destino che quella frase passasse dalla bocca di uno alle labbra dell'altra ogni qual volta uno si trovasse nella condizione di dover medicare l'altro. Per ora erano due a uno per il Conte.
"Davvero l'unico modo per resistere al dolore è martoriare il mio povero collo?", continuò lui.
"Qualche rimostranza al riguardo?", ribatté lei, graffiando leggermente la pelle per rafforzare il concetto.
Osservò con soddisfazione gli occhi di lui dilatarsi mentre, si rese conto, le sue mani avevano abbandonato i modi bruschi di poco prima, lasciando carezze tutt'altro che spiacevoli lungo i suoi fianchi.
"E voi avete qualche rimostranza da farmi?", domandò a sua volta, una scintilla di malizia a percorrergli lo sguardo.
Elettra sorrise, anche lei con malizia. "Invero una ci sarebbe", sussurrò. Risalì con lentezza il suo collo fino a prendergli il viso tra le mani. "Dovreste dimagrire, Conte"
Tornò a sorreggersi alle sue spalle con un'espressione più che soddisfatta, mentre nelle iridi di lui passava una scintilla di disappunto.
"Rimostranza respinta, mia diletta", sussurrò a sua volta. "Il mio... dolce peso non ha causato alcuna lesione al vostro corpo"
Aveva finito di visitarla, quindi tutta quella vicinanza non era più necessaria, almeno, Elettra la pensò così. Era dispiacere quello che avvertiva? Forse era quello il nome più adatto alla sensazione che sentì quando si rese conto che era ora di allontanarsi da lui.
Provò a fare un passo indietro, ma lui la tirò prontamente verso di sè per i fianchi, facendo aderire i loro corpi.
Lei cercò il suo sguardo con la confusione negli occhi, ma esso era focalizzato solo sulle sue labbra.
Girolamo calò su di esse con lentezza ed era quasi sul punto di sfiorarle quando la porta si aprì: Zita entrò nella stanza con la solita discrezione che la contraddistingueva ed abbassò lo sguardo sulla pavimentazione, mortificata non appena mise a fuoco la scena che aveva interrotto.
"Zita", disse il Conte, umettandosi le labbra a disagio.
Elettra ne approfittò per sgusciare via dalla sua presa e poggiarsi con la schiena alla scrivania, poco lontana. Osservò la schiava alzare per un istante la testa nella sua direzione e scoccarle un'occhiata di disapprovazione prima di tornare a concentrarsi sul suo signore.
"Mi avete fatta chiamare?"
Girolamo si umettò di nuovo le labbra. "Ehm... sì", rispose, mentre cercava ancora di rimettere insieme le idee.
La bionda dovette ammettere che la vista del temibile Conte Riario in difficoltà, che si comportava come un ragazzino alla sua prima cotta, non le dispiaceva affatto, anzi. Un punto debole lo doveva avere anche lui...
Lo osservò tornare a sedersi sulla propria poltrona, dal lato opposto della scrivania, e assumere nuovamente l'espressione seria e autoritaria di sempre.
"Niente cibo né acqua al giovane Nico fino a nuovo ordine", disse.
"Che cosa?!". Elettra si voltò di scatto verso di lui, stringendo i bordi dello scrittoio con forza tra le mani.
Riario fece un cenno di congedo a Zita, che uscì velocemente, prima di concentrare la propria attenzione su di lei. "Decifra la Pelle dell'Abissino e Nico non morirà di stenti"
Di tutta la leggerezza di un attimo prima, di quella complicità che tanto ricordava il periodo fiorentino, ora non rimaneva più niente. Una cortina di ghiaccio era tornata a scendere tra di loro.
"Il tempo scorre", le fece notare con un sorriso affilato.
 

***

 

Il giorno dopo...

 

Elettra si strofinò gli occhi, arrossati dalla stanchezza, e tornò ad osservare la Pelle dell'Abissino proprio davanti a lei e poi il foglio bianco e la matita affianco. Sospirò.
Il sole era sorto e calato nuovamente e ormai un giorno intero da quando si trovava in quello studio era passato. Inizialmente aveva pensato di sfruttare un momento di sonno del Conte per provare nuovamente a fuggire, ma quell'uomo pareva non avere bisogno di dormire: non aveva chiuso occhio da quando si trovavano lì, a differenza sua che, esausta, alla fine era crollata. Doveva aver dormicchiato un paio d'ore, non di più, ma tanto bastava a farla sentire in colpa per aver sprecato del tempo che poteva considerarsi prezioso.
La palpebra le calò per un istante, giusto il tempo di far apparire nella sua mente l'immagine di Nico in quella squallida cella. Riaprì gli occhi di scatto, focalizzando la propria attenzione su Riario, intento nella lettura del proprio evangeliario tascabile.
Quanto poteva resistere un uomo senza cibo né acqua? Probabilmente un uomo in perfetta salute come il Conte sarebbe sopravvissuto per una settimana o anche dieci giorni, ma Nico aveva sofferto per tutto il viaggio fino a quel punto delle privazioni della sua condizione di prigioniero. Forse avrebbe resistito tre, quattro giorni al massimo. E uno di questi se ne era già andato.
Sospirò e tornò a guardare i fogli davanti a lei. Scosse la testa, sconfitta.
Rialzò lo sguardo su Riario: si sarebbe aspettata minacce o altre parole sulla sorte che sarebbe toccata al povero Nico, invece in tutto quel tempo non era successo niente di questo: se ne stava là, seduto di fronte a lei a leggere. Lo aveva colto ad osservarla un paio di volte, ma niente di più. Forse nel suo immaginario l’avrebbe indotta a tradurre quella mappa per sfinimento, una tecnica che probabilmente aveva visto praticata dagli inquisitori della Santa Sede. Ma sarebbe rimasta questo: soltanto immaginazione. 
E, poi, come faceva ad essere così certo che lei fosse in grado di decifrare la Pelle dell’Abissino? In effetti non ne conosceva la gran parte dei simboli. Certo, aveva i suoi sospetti, ma se li sarebbe tenuti per sé. Le sue parole sarebbero state solo una mezza bugia.
"Io non ci riesco", mormorò.
Il Conte alzò la testa dal proprio libro dopo diversi secondi di pesante silenzio. Sbattè un paio di volte le palpebre, come a mettere a fuoco la giovane di fronte a lui. "Cosa?" domandò.
Elettra non riuscì a capire all'istante se effettivamente, soprappensiero, lui non aveva capito oppure se con quella domanda le stesse dando la possibilità di ritrattare su ciò che aveva detto. Possibile che avesse nuovamente intuito tutto con uno solo sguardo? Questa volta non le sarebbe importato se lui avesse fiutato la menzogna o meno, avrebbe portato avanti la propria linea di pensiero fino alla fine. Non era solo il futuro di Nico ad essere in gioco: se sfortunatamente il Libro delle Lamine fosse stato trovato - ed era certa che una volta ottenuta la rotta, Riario non si sarebbe fermato fino a quando non lo avesse avuto - e fosse finito nelle mani di Sisto, cose ne sarebbe stato di Firenze? E dell’Italia intera? La furia e la brama di potere di quell’uomo era certa avrebbero spazzato via tutto, sottomesso ogni città. 
Osservò i movimenti di Riario, i tratti del viso tirato e le mani che avevano preso a stringere nervosamente il libretto: tutto quello esprimeva una rabbia trattenuta a stento, una frustrazione che per la prima volta, lo doveva ammettere, le metteva davvero paura. Abbassò gli occhi, incapace di reggere quello sguardo che pareva trafiggerla come un dardo acuminato e scavarle nell’anima alla ricerca dei pensieri più reconditi.
"I-io... io non conosco questa lingua", balbettò.
Lui lasciò cadere il libro sulla liscia superficie di legno, facendo sussultare la giovane, e si alzò poi in piedi, prendendo a camminare per la stanza. Le lanciò più di un'occhiata con la propria espressione imperscrutabile, notando che più le si avvicinava, più lei si rannicchiava contro lo schienale della poltrona sulla quale era seduta. Era un piacere perverso quello che ne ricavava, la piacevole sensazione di tenerla in pugno.
"Come è possibile?", le domandò di nuovo, avvicinandosi. 
"Nico non ne ha colpa se io non so tutto", mormorò lei con voce tremante. 
Non lo aveva mai osservato in volto da quando aveva parlato, le sue erano sempre state solamente occhiate di sottecchi. Che nascondesse qualcosa? La osservò rannicchiata su quella poltrona, chiaramente sulla difensiva, con una posa rigida, le spalle contratte e le mani che nervosamente stringevano la stoffa della propria camicia.
Sì, nascondeva qualcosa.
Un sorriso tutt’altro che rassicurante gli increspò le labbra: voleva salvare il giovane Machiavelli e allo stesso tempo evitare a tutti i modi di riprendere il mare. Ma, come dice un noto detto comune, “Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca”. Il suo non era nient’altro che un goffo tentativo.
Avrebbe detto che messa di fronte alla possibilità di salvare la vita ad un proprio caro amico, Elettra non avrebbe esitato a dargli ciò che voleva, come era accaduto in precedenza a Firenze, quando si era trattato di scagionare Becchi dall’accusa di tradimento, ma si era sbagliato: quella ragazza si era rivelata più testarda e determinata di quanto avrebbe mai pensato. 
Camminò lentamente, a passo cadenzato, con i tacchetti degli stivali che producevano rumore ogni volta che poggiavano sulle assi di legno del pavimento, fino a trovarsi alle sue spalle. Lasciò scivolare le mani con lentezza su di esse, risalendo poi lungo il collo e fermandosi appena sotto alla mascella. “Elettra”, sussurrò al suo orecchio. “Ragiona un istante: pensa al povero Nico, solo soletto in una gabbia, al buio, affamato e assetato. Vuoi davvero condannarlo ad un simile, atroce, destino?”
Lei tentò di liberarsi dalla sua presa, ma quel tentativo si rivelò troppo debole. “Io non so tradurla”, mormorò di nuovo. 
Riario schioccò la lingua contro il palato e la costrinse a negare con la testa. “Sappiamo entrambi che non è così, mia diletta”. Lasciò la presa sulle sue spalle e si portò di fronte a lei. Le mise un paio di dita sotto al mento, costringendola così ad alzare lo sguardo su di lui. “Lo leggo nei tuoi occhi: tu mi nascondi qualcosa”
Negò con la testa, questa volta di propria spontanea volontà.
Le dita di lui si serrarono sul suo mento ed avvicinò il volto al suo. “Potrei far portare qui il giovane Nico”. I suoi occhi vagarono per un istante per la cabina. “Per far parlare una persona non sempre sono necessari strumenti elaborati come la lacrima di vedova”
Osservò gli occhi di lei riempirsi di lacrime. “Per favore, non fatelo”, disse, sbattendo più volte le palpebre per scacciarle via. 
Si allontanò da lei, dirigendosi verso la porta. “Guardie”, chiamò. Il tono di voce troppo basso perché effettivamente lo udissero. L’importante era che lei lo udisse. 
Avvertì una sedia alle sue spalle spostarsi di colpo, segno che lei si era alzata di scatto dalla propria seduta. 
“Non è colpa di Nico se non conosco un antico dialetto abissino!”, urlò la giovane. 
Si voltò verso di lei, osservando il suo petto espandersi e contrarsi a ritmo conciato e le sue mani strette a pugno.
Elettra lo osservò a sua volta, pareva… soddisfatto. 
“Un antico dialetto dell’Abissinia… ne sei sicura?”, le domandò. 
Sì, era proprio soddisfazione. Anche se la giovane non ne capiva il motivo. Non aveva detto niente di che, almeno che… Lo osservò dirigersi alla porta ed aprirla il tanto da mettere fuori il viso.
"Zita!", urlò.
Era abissina, questo lo aveva considerato pure lei, ma non era possibile che lei conoscesse quella lingua. O anche solo che sapesse leggere o scrivere. 
“Zita è una schiava”, gli fece notare.
“Zita non è sempre stata una schiava”, ribattè lui. 
 

***

 

Zita entrò appena una manciata di secondi più tardi e nel mentre Riario era tornato a sedersi al proprio posto, invitando con un galante gesto della mano Elettra a fare lo stesso. Lei in risposta lo aveva fulminato con lo sguardo, accogliendo però quel consiglio. 
Osservò la schiava abissina avvicinarsi alla pelle del suo conterraneo, prendendo a studiarla in silenzio, in una sorta di timore referenziale che non si capiva esattamente se fosse nei confronti della mappa, in quelli di Riario o di entrambi. 
Le sue dita scure ne sfioravano la superficie e la sua bocca si aprì e si chiuse più volte, forse alla ricerca delle giuste parole da dire. 
“Molto di queso è oltre la mia comprensione”, disse, dispiaciuta. 
E a quelle parole Elettra scoccò un’occhiata sorniona a Riario, ma la sua espressione mutò in fretta, non appena la donna riprese la parola. 
 “…ma questi… questi sono scritti nell’antica lingua ge’ez del mio popolo. Sono numeri”. Ne indicò uno con il dito indice. “Tredici. E questo è millesettecentotrentuno  su diecimila”, proseguì, indicandone un altro. 
Questa volta l’espressione sorniona era stampata sul volto di Riario. 
“Tu sai leggere e scrivere?”. La domanda sfuggì spontanea dalle labbra di Elettra, talmente sorpresa che quasi non si rese conto di avere parlato. Si alzò in piedi e si avvicinò alla schiava, non riuscendo a staccare gli occhi dalla mappa. 
Zita le annuì. Un sorriso malinconico aveva fatto capolino sul suo viso. “Non sono sempre stata una schiava, mia signora”. Indicò in fretta altri numeri, quasi volesse cambiare argomento al più presto. “Settantadue”, disse tra gli altri. “E trecentoquarantuno su…”, si fermò un istante a pensare.
“Su seicentoventicinque”, l’anticipò la bionda. 
La serva la osservò con non poco stupore prima di annuire. Anche lo sguardo di Girolamo pareva stupito, senz’altro non si aspettava che lei prendesse dimestichezza con quella lingua così in fretta.
“Sono per lo più frazioni”, si intromise nel discorso. “Gli arabi le usano per rappresentare parti di numeri interi”
Guardò Elettra bloccarsi un istante e poi i suoi occhi correre da un capo all’altro della Pelle dell’Abissino fino a quando non si alzarono su di lui. 
“Girolamo, passami l’astrolabio”
Lui la osservò perplesso e colto alla sprovvista: poteva vedere in quei due pozzi azzurri che erano le sue iridi le emozioni agitarsi  e susseguirsi una all’altra. Era di timore quella sfumatura più scura? E quell’altra leggermente più chiara, che si trattasse di un’intuizione? Ma sopratutto in quello sguardo poteva vedere curiosità: la tentazione della conoscenza aveva vinto, era riuscita in ciò in cui lui aveva fallito. 
“Girolamo, l’astrolabio”
Sbattè un paio di volte le palpebre prima di afferrare il significato delle sue parole. Si chinò per aprire un cassetto ed estrarne il pregiato contenitore in legno e porgerglielo. 
Elettra lo aprì senza indugi, estraendo con delicatezza lo strano oggetto dalla forma circolare. Ruotò le due manopole alle estremità, facendogli così assumere il volume di un globo. 
Tracciò su di un foglio bianco le linee essenziali della mappa e, continuando a far roteare gli spicchi dello strumento, prese a scarabocchiare alcuni appunti. 
Girolamo non riusciva a staccare gli occhi di dosso da lei, dalle sue mani che si muovevano con dimestichezza sull’astrolabio e sui fogli bianchi. 
Avvertì Zita tossicchiare sommessamente, come se in quel modo cercasse di comunicargli di essere ancora lì. Il massimo che riuscì a fare fu mimarle un grazie con le labbra e congedarla. 
Aspettò di sentire lo scatto della porta prima di parlare. “Sembra che tu non abbia mai fatto altro nella tua vita che tracciare mappe usando un astrolabio”, disse ad Elettra, non potendo fare a meno di mostrare la propria ammirazione. Anche lo sguardo diceva lo stesso, tra le altre cose. 
Lei alzò il viso verso di lui, incrociando subito i suoi occhi. “Apparteneva a Cosimo de Medici. Io e Giuliano ci giocavamo spesso, nelle cacce al tesoro era la chiave di lettura delle mappe”, gli rivelò in un sussurro, mutando però la sua espressione in quello che sembrava essere turbamento. 
“Vi stava addestrando”, ragionò il Conte. 
Lei doveva essere arrivata alla stessa conclusione e si limitò ad annuire, per poi tornare a lavorare. 
Il vederla tracciare segni sulla carta, lentamente, con la sua mano che si muoveva decisa ma allo stesso tempo delicata come se stesse accarezzando quel foglio, aveva come un effetto ipnotico su di lui. Sotto al suo sguardo prendevano forma un’infinità di simboli: alcuni erano la perfetta riproduzione dei segni presenti sulla Pelle dell’Abissino, mentre per altri dovevano trattarsi di semplificazioni e traduzioni utili al Capitano. 
Il raschiare della matita sulla carta, unito al suono dei loro respiri, aveva un effetto rilassante, che richiama alla mente ricordi di un tempo felice. 
Si alzò in silenzio e, altrettanto in silenzio, si mise alle spalle di lei per poter osservare meglio il suo operato. Lei, così concentrata, con quegli occhi che, sì, quando aveva incrociato il suo sguardo poco prima avevano brillato, brillato davvero, di quell’azzurro intenso che le aveva sempre visto a Firenze, che credeva di poter rivedere solo nei propri sogni. Aveva quasi dimenticato quell’espressione di puro entusiasmo stampata sul suo volto. Aveva quasi dimenticato la sensazione che essa gli suscitava.
Si chinò con lentezza sui suoi cappelli, affondando con il naso tra quei soffici boccoli biondi e aspirandone il profumo: era inebriante, anche se avevano perso quella sfumatura di vaniglia diventata per lui così famigliare. Forse lei avrebbe apprezzato poter tornare ad utilizzarla, forse sarebbe stato un gesto carino reperirle un po’ di essenza di vaniglia. Fuerteventura era il punto di snodo di ogni possibile merce esotica, non sarebbe stato difficile procurarsene un po’. Sì, sarebbe andato di persona fino al mercato il mattino successivo. 
Lentamente, sfiorandole la pelle con le nocche della mano, le scostò i capelli da un lato, avvicinando le labbra alla candida linea del sul collo. La avvertì trattenere il respiro mentre lasciava un bacio su di esso. 
Un gesto, un no, una qualsiasi parola e si sarebbe allontanato, promise a sé stesso. Ma ci sarebbe davvero riuscito? 
Ne lasciò un secondo… e poi un terzo, continuando fino a quando lei non piegò la testa dalla parte opposta, lasciandogli così più spazio di manovra. Era un consenso a proseguire quello?
Continuò a salire, incontrando il profilo delicato della sua mascella, la guancia, lo zigomo, l’angolo dell’occhio… e poi prese nuovamente a scendere, indugiando un po’ di più sui cerchiolini rossi che erano andati formandosi su quella pelle dal candore latteo.  Arrivò fino al limitare della camicia di lino che indossava e decise di osare ancora un po’: portò le mani ai lacci che chiudevano lo scollo e con mano esperta ne sciolse i nodi. Poteva chiaramente sentire il suo cuore accelerare.
Fece scivolare lentamente la stoffa da parte, arrivando a lasciare nuda la sua spalla e proseguendo con le labbra su quel nuovo percorso. Arrivato anche alla fine di esso, le lasciò un morso, strappandole un sussulto. 
Elettra si alzò improvvisamente, fronteggiandolo. 
Se avesse voluto andarsene, lui lo avrebbe accettato, pensò. Forse era ancora presto.
Osservò il suo viso arrossato e gli occhi lucidi, aspettando una sua mossa, una qualunque. Lei si alzò sulle punte per poter arrivare al suo viso e poggiò le labbra sulle sue, in un contatto che segretamente bramava da settimane, ma che fino a pochi istanti prima aveva cercato di reprimere.
La sua lingua corse subito a cercare la propria compagna, da cui era rimasta lontana per troppo tempo. 
Il Conte la strinse con gesti che si stava sforzando di mantenere contenuti, ma da cui in realtà traspariva una certa foga. Sospirò quando lei gli morse il labbro e la premette di più contro sé stesso, desideroso di annullare ogni possibile distanza tra loro.
Passò le mani dietro alle sue cosce, issandola sul proprio corpo mentre lei gli stringeva le braccia intorno al collo. La adagiò sull’unico angolo libero della scrivania, dopo aver lasciato cadere a terra la giacca fino a poco prima abbandonata in quel punto. 
Elettra portò le mani alla sua camicia grigio scura, cominciando a slacciare in fretta i nodi che la chiudevano. Era quasi arrivata alla fine quando Girolamo le bloccò i polsi, stringendoli delicatamente ma allo stesso tempo in maniera decisa; prese ad accarezzarne l’interno, seguendone distrattamente l’intricato labirinto blu sotto la pelle sottile. Cercò il suo sguardo.
“Ne sei sicura?”, chiese, il volto serio nonostante il respiro pesante e gli occhi languidi. Il suo autocontrollo non avrebbe resistito ancora per molto.
Anche il respiro di lei era concitato e il viso era in fiamme. La osservò indugiare nella risposta, lo sguardo da cui trapelava indecisione. Non gli diede una risposta, ma chiuse gli occhi e lo baciò nuovamente. 
Girolamo sospirò di piacere contro la bocca di lei, arrivando semplicemente alla conclusione che l’avrebbe lasciata fare. 
Le mani di lei corsero a scompigliargli i capelli, per poi scendere sul collo, graffiando leggermente la pelle fino ad arrivare alle spalle, per poi proseguire il lavoro che appena una manciata di istanti prima lui stesso aveva interrotto. 
Nel frattempo anche le mani di lui si intrufolarono nuovamente sotto alla camicia di lei ma, a differenza del giorno precedente, non dovette imporsi di limitare le proprie azioni: le accarezzò i fianchi, salendo poi lentamente fino ad incontrare la linea alta dei suoi seni e riuscendo finalmente a scucire dalle sue labbra un gemito di piacere. 
La sua camicia nera cadde a terra, seguita poco dopo da quella bianca di lei. 
La baciò nuovamente, con foga e una passione che ormai faticava a trattenere. Avvertì gli stivali di lei cadere con un tonfo sordo sulle assi di legno del pavimento e le sue mani corsero velocemente a liberarla dei propri pantaloni, unico indumento che ancora portava. Glieli sfilò con un unico gesto fluido. La prese nuovamente tra le braccia, con le sue gambe sottili strette attorno ai propri fianchi e si avviò verso la parete più vicina. Lei gli lasciò un morso sulla clavicola non appena la sua schiena cozzò contro la paratia delle nave. 
Girolamo si abbassò i pantaloni, unendo finalmente i loro corpi.
C’era sensazione più travolgente che essere dentro di lei, avvertirla stretta contro di sé mentre affondava le unghie nella sua schiena e soffocava i propri gemiti nell’incavo del suo collo? Quella sensazione gli era arrivata inaspettata. Non pensava sarebbe accaduto così presto. Non pensava proprio sarebbe accaduto. 
Anche quando l’amplesso si concluse la tenne ancora un po’ tra le proprie braccia, in attesa che il respiro di entrambi si regolasse e beandosi del calore che quel corpo, così gracile e allo stesso tempo così perfetto per lui, emanava. Sapeva che non ne avrebbe mai avuto abbastanza di lei, ma per quella sera si sarebbe dovuto accontentare: non voleva spossarla più di quanto già non fosse. 
Elettra aveva sempre tenuto la testa nascosta nell’incavo del suo collo, prendendo talvolta dei lunghi respiri con il naso premuto sulla sua pelle, quasi a volerne assaporare il profumo. Lo mantenne anche quando lui la mise delicatamente a terra, reggendola comunque per i fianchi, nel caso in cui le sue gambe fossero state ancora troppo deboli per sostenere il suo peso da sole. 
“Tutto bene?”, le chiese, premuroso. Aveva il timore di averle fatto male, non sempre era riuscito a mantenere il controllo completo del proprio corpo. 
Lei allontanò il proprio viso giusto il necessario per poterlo guardare in volto e Girolamo lo vide: tra i suoi occhi umidi di pianto si annidava il senso di colpa per ciò che avevano fatto. 
Avrebbe voluto dirle che non avevano fatto nulla di male, che niente di così bello poteva essere qualcosa di negativo, ma le parole gli si mozzarono in gola. 
La giovane si staccò da lui, sciogliendo la stretta intorno al suo collo e cercò con lo sguardo i propri vestiti.
“Sono ancora tua prigioniera?”, mormorò. 
Girolamo distolse lo sguardo: avrebbe tanto voluto risponderle di no ma… semplicemente non poteva fidarsi di lei. E quel sentimento doveva essere reciproco. Quando doveva essere brutto avere al proprio fianco una persona che non si fida di te e di cui tu non puoi fidarti? Il Conte di Imola e Forlì comprese in quell’istante ciò che lei invece conosceva da mesi. 
Sospirò. “Ti affiderò una scorta di guardie svizzere per proteggerti”, si limitò a dirle.
“Per controllarmi”, ribattè lei.
Di fronte a quella verità non poté fare altro che allontanarsi e, seguendo il suo esempio, cominciare a rivestirsi.
La osservò rimettere la propria camicia e infilarsi gli stivali per poi andare alla porta. “Vi auguro una buona nottata, Conte Riario”, disse.
Girolamo non riuscì a rispondere nulla e si limitò ad un lieve cenno del capo, prima di guardarla chiudersi la porta dello studio alle proprie spalle.


Nda 
BOOM!
Forse è il caso che vi lasci del tempo per elaborare il tutto, ma prima vorrei farvi notare che per una volta, UNA volta, sono riuscita ad essere puntuale con la pubblicazione.
Come sempre, aspetto i vostri commenti. Al prossimo mese! 

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