L'ultimo olocausto

di Surya_Asu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Human fuel - Anno corrente 2060 ***
Capitolo 2: *** I demoni di Elio ***
Capitolo 3: *** Yuna - Anno corrente 2065 ***
Capitolo 4: *** In bilico ***
Capitolo 5: *** L'inferno di Yuna ***
Capitolo 6: *** Centrale nucleare ***
Capitolo 7: *** Non solo smantellamento ***
Capitolo 8: *** Prigionia ***
Capitolo 9: *** Loop ***



Capitolo 1
*** Human fuel - Anno corrente 2060 ***


Avrebbe dovuto attaccare alle sette in punto. 
Uscì in sella alla sua bici Cannondale senza aver fatto colazione. Ci andò piano sui pedali, come se in quel modo potesse distorcere il tempo prolungandolo all'infinito. Ma alle sette meno quindici era già davanti alla Philadelphia UFP n° 4, nella Red Lion Industrial Park.
«Universal Fuel Plant» mormorò Elio a denti stretti, osservando la targa in cima all'edificio che riportava tre soli caratteri: 'UFP'.
Non era il primo arrivato: il parcheggio antistante l'edificio era già invaso dalle auto.
Famiglie intere sostavano nel piazzale di fronte all'imponente struttura che, vista dall'esterno, sembrava un comune stabilimento industriale. La parte centrale, un gigantesco cubo, superava in altezza i due capannoni che le poggiavano ai lati.
Una riga di agenti delle HRSS, acronimo di Human Resources Special Squad, stazionava di fianco alla porta automatica che introduceva al cubo. Riparati dietro scudi antisommossa e coi volti nascosti da caschi di ordinanza, se ne stavano immoti, come il tempo che sembrava essersi congelato.
Nel piazzale, tra abbracci inzuppati di lacrime, gli anziani salutavano i propri cari e si apprestavano a seguire le indicazioni di altri agenti della temuta HRSS.
Nelle loro divise bombate, nei loro giubbotti antiproiettile, sotto il peso di dotazioni da guerra, quei moderni dèi della morte se ne andavano in giro a richiamare i poveretti che cercavano di trattenersi il più possibile con i propri cari. Interrompendo i commiati, li invitavano a mettersi in coda all'ingresso dello stabilimento.
Molti dei trasformandi avevano indosso abiti buoni e salutavano i propri cari con la dignità e l'orgoglio di chi si sacrifica per un bene superiore.
Altri non accettavano così placidamente quel destino.
Elio spostò gli occhi verso la direzione da cui qualcuno stava urlando un lungo straziante no. Due poliziotti stavano trascinando con la forza un uomo attempato. Delle grida giunsero simultaneamente da un'altra parte: altri due poliziotti stavano trasportando di peso una signora anziana, uno tenendola sotto le ascelle, uno per i piedi. Tutto ciò tra le proteste dei relativi parenti, che ora sfidavano l'avanzata degli uomini in antisommossa.
I ribelli ebbero la fortuna di saltare la fila formata da chi s'era allineato più o meno spontaneamente.
Elio si chinò sulla ruota anteriore, passò la catena tra i raggi e assicurò la bici alla rastrelliera. Anche lui tentava di rimandare il più possibile l'ingresso.
«Buongiorno signore. Posso aiutarla?»
Sollevò lo sguardo e vide una donna dell'HRSS con la brutta copia di un sorriso di cortesia stampata sul volto.
«Oh, no grazie, penso di riuscire a trovare la strada da solo» rispose e accennò col capo alla lunga fila.
«Sembra giovane» disse la poliziotta.
«Infatti sono qui per lavoro.»
La donna sciolse i muscoli del volto. Ora sembrava quasi un essere umano.
«Oh, molto bene» disse. Aspettò che si raddrizzasse e gli strinse la mano con fare decisamente più amichevole.
«Le auguro una buona giornata.»
Elio attraversò il parcheggio con addosso la sensazione di sprofondare ogni passo un po' di più. Sotto l'obiettivo di numerose telecamere di sorveglianza, costeggiò la fila di uomini e donne canuti. Dai loro occhi trasudava terrore. Alcuni non osavano sollevarli da terra, altri li tenevano fissi davanti a sé e abbracciavano con lo sguardo l'intero complesso industriale verso il quale erano diretti: l'ultima tappa della loro vita.
Si portò in testa e nessuno protestò per il fatto che non avesse rispettato la coda.
La porta scorrevole si aprì su un atrio rettangolare adornato da piante di ficus. In fondo si stagliavano delle postazioni numerate per diligenti impiegati che si impegnavano ad accogliere i poveretti, ancora in fila, sotto la severa sorveglianza dell'HRSS. 
Si recò presso lo sportello informazioni e spiegò che era il suo primo giorno di lavoro. L'addetta gli chiese un documento d'identità e inserì i suoi dati nel terminale, quindi gli indicò la strada per l'ufficio del Responsabile del Personale, al terzo piano.
Elio seguì le indicazioni e trovò l'ufficio. Il Responsabile si limitò a consegnargli un tesserino identificativo, due divise dell'UFP e le chiavi di un armadietto.
«Vada negli spogliatoi a cambiarsi, al piano terra, e torni all'accettazione. Manderò un membro dello staff.»


Qualche minuto dopo, aveva indosso la divisa ufficiale: un'uniforme interamente bianca fatta eccezione per un'unica nota di colore sul taschino della giacca, la sigla 'UFP' ricamata in blu.
Ron Madison, il membro dello staff inviato per lui, lo accompagnava per lo stabilimento.
«Mi è stato dato il compito di affiancarla nei suoi primi giorni di lavoro. Come prima cosa le mostrerò il cuore pulsante dell'UFP: il reparto di trasformazione».
Mentre parlava, la sua stempiatura si muoveva insieme a tutte le pieghe della fronte.
Ogni muscolo della sua faccia in realtà lavorava sodo, scavando solchi intorno alla bocca, formando pieghe vicino agli occhi, spianando e infossando ad alternanza il punto in cui avrebbero dovuto esserci delle guance ancora toniche, vista la giovane età: sul cartellino identificativo che aveva al petto, la data di nascita riportava l'anno duemilaventitré.
Ron però, sembrava un vecchio pupazzo da ventriloquo.
«I trasformandi vengono suddivisi in gruppi e messi in attesa in locali differenti. Un gruppo per volta viene scortato dall'HRSS agli spogliatoi e poi al reparto di trasformazione.»
Quel pupazzo ora gli spiegava della trasformazione come se gli stesse dando la ricetta dei biscotti della nonna. Si teneva sempre un passo avanti e ogni tanto voltava a scatto la testa, come a controllare che fosse sempre lì.
Arrivarono a una porta d'acciaio. Bianca, asettica. Ron passò una tessera magnetica in un lettore e la porta scorrevole sparì nel controtelaio.
«Qui è dove avviene la prima fase del processo» disse.
Davanti agli occhi, Elio si trovò una distesa di cabine di vetro simili a box docce. Dovevano essercene almeno un centinaio, rilucenti e disposte in file ordinate. Intorno a esse si affaccendavano uomini dalle divise bianche tutte uguali. Come la sua, come quella di Ron.
Dal soffitto, coperto da pannelli bianchi, partiva un groviglio di tubature zincate che terminavano nei tetti dei box.
Ron gli spiegò che quelle tubature erano i condotti attraverso i quali scorrevano le sostanze necessarie per il processo.
«I condotti più larghi immettono il gas soporifero, quelli più piccoli sono per le sostanze enzimatiche che decompongono la materia organica. Il fluido ricavato viene espulso mediante uno scarico interno ai box. Ci sono due scarichi: uno per il prodotto della decomposizione, l'altro per l'acqua purificata mista a disinfettante che usiamo per la pulitura tra un ciclo e l'altro» disse.
Elio sentì le ginocchia liquefarsi. Aveva sperato che lo avrebbero assegnato a un reparto 'pulito', magari quello della raffineria o quello della distillazione. Invece doveva fare ancora i conti con la cattiva sorte e adesso si sentiva mancare in quell'ambiente asettico che odorava di disinfettante.
Intorno alle cabine era un bianco assoluto di pareti interamente rivestite di lastroni in ceramica che non staccavano di un tono col colore del soffitto.
L'unica cosa che spezzava quel bianco totalizzante erano grossi rettangoli di vetro specchiato in alto, su tre facce del locale, come suprema forma di crudeltà: quella di impedire ai trasformandi di vedere gli ultimi squarci di cielo.
Ma i trasformandi invece, da qualcuno potevano essere visti al di fuori di lì poiché fissate alle pareti, in ogni angolo, accanto a diffusori acustici c'erano delle telecamere.
«Lei, signor Elio, dovrà occuparsi prima di tutto di verificare ogni giorno lo stato dei box, delle tubature di erogazione e di quelle di espulsione. Fatto ciò si trasferirà in postazione di monitoraggio. Mi segua, gliela mostro».
Lo accompagnò fuori da quel luogo mediante un passaggio che conduceva a una tromba di scale. Lo scortò al secondo piano, dove la rampa sfociava in una lunga corsia su cui si affacciavano delle porte numerate da targhe adesive.
Ron si fermò al numero nove.
«Questa sarà la sua postazione» disse e aprì.
Elio lo seguì nella piccola stanza con l'andatura che avrebbe avuto nell'esplorare una giungla insidiosa. Si avvicinò al tavolo dietro al quale si stagliava un'ampia finestra. Si avvicinò e posò le mani allo schienale di una poltroncina a rotelle.
Un quadro di controllo, fatto di una tastiera qwerty e innumerevoli altri pulsanti disposti intorno a un display, era incassato nel tavolo stesso. Da un lato si trovavano un microfono, un ricevitore telefonico e un telecomando. Di fronte, due monitor, di dimensioni differenti.
Ron premette il pulsante più lontano dal qwerty: un tasto verde con sopra il simbolo dell'accensione.
Non appena si avviò il sistema, sullo schermo più grande comparvero quattro sezioni video che mostravano il reparto di trasformazione tramite angolature di ripresa differenti. 
Gli operatori erano equamente distribuiti tra i box e se ne stavano composti accanto a dei carrelli di acciaio.
Elio si chiese a cosa servissero quei carrelli che poco prima non c'erano, ma pensò anche che forse non gli sarebbe piaciuto saperlo e si tenne la domanda per sé.
«Abbiamo una postazione di monitoraggio ogni dieci box. A lei sono stati assegnati i box dal numero sessantuno al settanta. Avrà il compito di seguire il corretto svolgimento del processo. Dovrà verificare la congruità dei valori registrati durante le operazioni di trasformazione e intervenire eventualmente a effettuare modifiche nell'erogazione di gas ed enzimi. Soprattutto, dovrà segnalare ogni anomalia che dovesse riscontrare.»
Elio ormai non ascoltava più.
Monitoraggio degli impianti di trasformazione, si ripeté più volte nella testa e si scoprì a indietreggiare.
«Signor De Leo si sente bene?»
«Sì, sto bene.»
Ron strinse gli occhi a fessura e delle vistose zampe di gallina si marcarono alle loro estremità. Erano così profonde che Elio le immaginò come ottimi canali di scolo in caso di pianto. Finì col chiedersi però, se quell'uomo la capacità di piangere ce l'avesse ancora o se invece l'avesse perduta nel meccanismo infernale di cui era un ingranaggio.
«Spero non sia deluso a causa dell'incarico che le è stato assegnato. Probabilmente auspicava una posizione più importante, ma alle UFP si inizia tutti così, dal basso.»
Elio fece del suo meglio per nascondere quella cosa, molto peggiore di una semplice delusione, che lo stava divorando.
«Non sono deluso anzi, sono grato di questa opportunità» rispose, rabbrividendo al pensiero dello spettacolo a cui avrebbe dovuto assistere. Solamente poco dopo, quando sarebbe stata avviata la prima trasformazione della giornata, avrebbe capito se poteva farcela davvero.
Non lasciarti sopraffare dalle emozioni, devi pensare a Noe.
Quando suo figlio era venuto al mondo, aveva giurato a sua moglie che lo avrebbe protetto a qualunque costo, che avrebbe anteposto il suo benessere a ogni altra cosa. E stava mantenendo la promessa, scambiando la vita di Noe con quella di persone innocenti.
Leucemia linfoblastica acuta. Tre parole che avevano trasformato la sua vita, che l'avevano minata, corrotta, distrutta. Che l'avevano portato lì dov'era, in una UFP nel ruolo di boia. Non avrebbe mai potuto sostenere la spesa che comportava una simile malattia, se non accettando un impiego ben pagato come quello.
«Ora osservi il ciclo nel monitor, poi le mostrerò le procedure che dovrà seguire» disse Ron e occupò la poltroncina a rotelle.
Elio guardò lo schermo, più o meno un quaranta pollici. Quattro sezioni per quattro angolature.
trasformandi, uomini e donne sotto shock, erano avvolti in vestaglie bianche.
Gli operatori li aiutavano a disporsi accanto alle cabine. Si facevano consegnare le vestaglie e le gettavano nei carrelli d'acciaio. Poi forzavano i poveretti, rimasti completamente nudi, a entrare ognuno dentro un box.
Ecco a che servivano quei carrelli.
Uno si aggrappò a un fianchetto della cabina rifiutando di andare dentro. L'operatore più vicino tirò fuori qualcosa dalla tasca e glielo puntò su un fianco. Il trasformando si inarcò di lato e si accasciò.
«Ma ha usato un taser quello lì?»
Ron stava digitando qualcosa sulla tastiera.
«Non stavo guardando, ma può essere. Gli addetti alle risorse umane hanno a disposizione un taser per le emergenze.»
Prese il telecomando e alzò il volume portando l'indicatore da zero a un quarto di barra.
Le voci e i rumori del reparto di trasformazione invasero con prepotenza la stanza numero nove.
Le minacce degli operatori, i pianti e le bestemmie dei trasformandi, il cigolio dei carrelli e lo schiocco dei sistemi di bloccaggio dei box. Tutta quella roba si fondeva in una suprema sinfonia di morte.
Quando tutti i box furono occupati, i suoni metallici cessarono e una voce si propagò tramite i diffusori acustici.
«Il mondo rende grazie a tutti voi, signori e signore. Il vostro sacrificio sarà per sempre ricordato dai posteri. Tra non molto un gas soporifero verrà erogato nelle cabine. Vi addormenterete dolcemente e non sentirete nulla quando, in seconda fase, saranno diffusi gli enzimi. Ora vi lasciamo a disposizione un minuto per volgere un ultimo pensiero ai vostri cari. Poi procederemo. Non abbiate timore, vi ricordo che il processo è del tutto indolore. Grazie ancora».
Tra gli uomini e le donne rinchiusi nei box, alcuni picchiavano le mani contro il vetro e le loro urla trapassavano ovattate le pareti delle cabine. Altri le avevano giunte in preghiera e muovevano rapidamente le labbra.
 Elio pensò alla tanto ostentata laicità degli USS, ora più che mai gli sembrava una barzelletta.
Si udì un sibilo.
«I diffusori di gas sono entrati in funzione» disse Ron.
In quei loculi trasparenti, le persone presero a piegarsi su se stesse strusciando contro le pareti. Si accasciavano nel poco spazio di cui disponevano, i volti premuti contro il vetro e gli occhi sbarrati di chi sperimentava il terrore.
Elio iniziò a vedere costellazioni di puntini bianchi. Le gambe gli si fecero molli e un senso di nausea peggiorò la sua condizione.
Poggiò la schiena al muro. Ron, che fino a quel momento l'aveva sempre guardato di sfuggita, adesso lo fissava intensamente.
Non sembrava preoccupato, ciò che aveva dipinto in faccia era niente più che scherno. Come se si fosse talmente allontanato dal sentimento di umana compassione, da non riuscire più nemmeno a comprenderlo.
«Signor De Leo», disse applicando una certa severità al tono della voce malgrado le sue labbra disegnassero un sorriso, «sicuro di sentirsi all'altezza di ricoprire quest'incarico?»
Elio udì a malapena quelle parole che sembravano giungere da un'altra dimensione. 
Cercando di scacciare la miriade di puntini che gli offuscavano la vista, pensò a Noe.
«Sì, ne sono sicuro» si sentì rispondere.
Vennero erogati gli enzimi che avrebbero causato la fluidificazione dei corpi. Lo spettacolo si fece agghiacciante: carni che si scioglievano come cera, scoprendo prima i muscoli e poi le ossa, fino a che anche queste ultime non si consumavano completamente.
In pochi minuti, quelli che erano stati degli esseri umani divennero un liquame di colore vermiglio.
Ron adesso teneva gli occhi sul secondo monitor, quello che mostrava l'avanzamento del processo, corredato di valori relativi a molteplici voci: densità, fluidità, purezza, peso specifico... Alcuni valori oscillavano, ma alla fine si stabilizzarono tutti.
Iniziò un concerto di risucchi. Elio tornò a guardare il monitor che mostrava il reparto di produzione. Il livello del fluido nei box stava scendendo.
«Abbiamo azionato il sistema di espulsione» disse Ron. «Il fluido viene convogliato in cisterne. Poi viene sottoposto a filtraggio e infine travasato nei serbatoi di fermentazione, dove rimane per due settimane prima di subire ulteriori trattamenti.»
I box si svuotarono completamente di quello che appariva come un frullato di carne, sangue e grasso.
«Adesso bisogna impostare la pulitura delle cabine.»
Ron si industriò ancora poco sul pannello di controllo. Le sue dita erano sicure nel correre sui tasti.
«Ecco fatto» disse. Schiacciò un pulsante esterno alla qwerty.
Nelle cabine, dall'alto, si diffuse del vapore che prese a nettare i vetri dai residui di fluido umano.
«Non rimane che controllare il riepilogo dell'operazione. In questa fase bisogna segnalare eventuali anomalie, poi si può archiviare.»
Elio cercò di assorbire un poco della freddezza di quell'uomo. Avrebbe dovuto acquisirla per forza, oppure avrebbe dovuto rinunciare allo stipendio generoso che gli avrebbe permesso di continuare a sostenere le cure mediche di suo figlio.

 

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Capitolo 2
*** I demoni di Elio ***


Arrivò il primo stipendio, poi arrivarono il secondo e il terzo. Quei soldi e il potere che avevano di salvare la vita di suo figlio erano tutto ciò a cui Elio si aggrappava quando era a lavoro. Quando usciva dalla UFP invece la priorità era cancellare l'orrore che ogni giorno si perpetrava davantiai suoi occhi, attraverso di lui, e  dimenticare l'incubo della malattia diNoe.
Era alla Locanda del vecchio Jim, al sesto whisky senza ghiaccio. Finestre oscurate e dipinti astratti alle pareti, quelli erano i confini del mondo in cui si rifugiava dopo ogni turno.
Mentre muoveva la testa a ritmo della musica folk diffusa nel locale, rimuginava sulla sua scelta di divenire membro operativo del sistema che imponeva il sacrificio delle persone anziane.
 
Settantacinque anni. Quello era il tempo che era consentito di vivere, al cui scoccare si finiva nelle sue mani o in quelle di altri uomini come lui, miserabili che avevano accettato di portare un peso simile sulla coscienza.
La luce fioca ombreggiava le macchie che in realtà erano volti.
Tra i tavoli di legno massello, le scene di raccoglimento superavano quelle di convivialità. Uomini e donne di età apparentemente prossima a quella trasformabile costituivano la stragrande maggioranza della clientela. Mandavano giù di tutto, purché fosse alcolico.
«Un altro giro, per favore» disse Elio.
Il barman riempì i bicchieri a lui e ai suoi compagni di sbronza.
«Ci si poteva concentrare sul biodiesel» disse uno con la voce impastata.
«Sì come no, siamo dieci miliardi su questo pianeta, non si possono sottrarre i terreni alle colture alimentari» rispose un altro.
«E gli animali allora? Si potrebbero trasformare gli animali!»
«Ma finiscila con questa storia. Come potremmo nutrire tutti gli animali che ci servirebbero? E l'acqua? Quanta acqua occorrerebbe? Siamo dieci miliardi su questo fottuto pianeta, dieci miliardi! A malapena riusciamo a produrre cibo per noi.»
Quello che puntava su biodiesel e trasformazione di animali indicò l'altro con un dito. «Ehi, guardate tutti qui!» strillò. «Ecco uno di quelli che si è bevuto la storia dei campi coltivabili e dell'acqua che non bastano. O nutriamo le persone o gli animali... come no!»
Elio ingoiò la sua dose etilica senza sentirne il sapore.
«Chiacchiere, solo chiacchiere» disse e chiese il conto.
Barcollò fuori dal locale e si accorse di non essere in grado di issarsi sulla bici, così la lasciò dov'era e andò a piedi fino a casa. Quando fu nell'ascensore e pigiò per il piano credette che gli ultimi passi per arrivare nel suo appartamento non sarebbe riuscito a compierli, tanto era sfatto.
Impiegò qualche minuto per inserire le chiavi nella toppa, ma riuscì ad aprire. Si trascinò fino al divano e si lasciò cadere. Noe indossava un caschetto di realtà virtuale e sparava a chissà cosa con una pistola controller.
«Spegni la consolle, amore. È ora di andare a dormire» gli disse Maria bussando sul caschetto.
Noe se lo sfilò dalla testa calva.
«Ah, ciao pa', scusa, non mi ero accorto che fossi rientrato» disse allegro, ma dopo averlo guardato meglio passò a un tono di rimprovero: «Ma papà, perché non cambi lavoro, se quello che fai adesso non ti piace?»
Per quanto fosse ubriaco, Elio capì che non poteva permettersi la sincerità e che nemmeno avrebbe potuto cavarsela con un "Va tutto bene".
Ehi, ammazzo gente ogni giorno, è faticoso, ma va tutto bene, tranquillo. Decisamente non ci stava.
Noe però aspettava una risposta e lui riusciva solo a pensare che non importasse quanto alcol avesse in circolo: nulla poteva attenuare la botta di vedere l'effetto della chemio su suo figlio.
Maria provò ad aiutarlo:
«Tuo padre ce la sta mettendo tutta amore. Ha inviato decine di curriculum, ma è difficile trovare un impiego ben pagato come quelli nelle UFP. E noi abbiamo bisogno di parecchi soldi.»
«Per colpa mia vero?»
Il volto di Maria si fece pallido. «Non è colpa di nessuno, è chiaro scoiattolino?»
«Ho tredici anni, smettila di chiamarmi così!» sbraitò Noe. Gettò a terra la pistola controller e corse verso la sua cameretta.
«Non volevo parlare in quel modo.»
«Lo so, tranquilla, vedrai che gli passerà.»
Elio si tirò su dal divano con l'intenzione di raggiungerla, ma come le fu vicino si sbilanciò e le si accasciò addosso.
Si scusò e, ritrovato l'equilibrio, trascinò i piedi fino alla cucina. Si mise a sedere e scoperchiò la pentola al centro del tavolo. Dentro c'era una poltiglia verde.
«Noi abbiamo già cenato» disse Maria sostenendosi allo stipite.
Elio mise a fuoco la sostanza collosa in cui si era trasformata quella che probabilmente era una zuppa e pensò che non avessero sbagliato a mangiare senza aspettarlo. Guardò l'orologio a parete per capire quanto avesse tardato.
Erano le nove e trenta e lui era un rottame che non offriva alcun sostegno alla sua famiglia, a parte quello economico. Promise a se stesso che avrebbe fatto di meglio, ma gli vennero in mente tutte le volte che aveva già formulato e poi disatteso quel proposito.
 

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Capitolo 3
*** Yuna - Anno corrente 2065 ***


Nel suo disegno il prato era verde smeraldo, le siepi erano rigogliose e gli alberi di cedro carichi di frutti. Così Yuna continuava a immaginarsi il giardino davanti casa, che da quando suo padre era morto, si trovava in uno stato di totale abbandono.
Terminò di sfumare il cielo e scrisse il suo nome in alto.
Sollevò gli occhi dal disegno e ripiombò nella tristezza.
Non c'era angolo in cui la vista potesse scampare alla memoria dei nonni trasformati e di suo padre che li aveva raggiunti per una malattia. Ovunque c'erano foto incorniciate che raccontavano di una famiglia felice, una volta. Le pareti e i mobili erano tutti assegnati a ospitare una mostra permanente che in nessun modo dava conforto.
«Si sta preparando una tempesta» disse sua madre, col viso talmente vicino alla finestra da lasciare sul vetro la condensa del suo respiro. 
Pigiò un pulsante e una tenda a rullo calò tra lei e l'oscurità. Rimase immobile davanti a quel tessuto oscurante, come se vi potesse vedere attraverso. 
Fu riscossa dalla suoneria dello shifterphone e si guardò intorno disorientata.
«Dove diavolo l'ho messo?» si domandò.
Si mise a perlustrare il soggiorno cercando prima sui mobili e poi sui divani, sempre più agitata, squillo dopo squillo. Spostò vestiti e giochi, poi scansò i cuscini farfugliando qualcosa riguardo 'la sua dannata iattura'.
Yuna seguì la suoneria con le orecchie e si diresse verso il punto da cui le sembrava provenire. Scandagliò con gli occhi la mensola della credenza e trovò, in bella vista, il tubetto polimerico lungo il quale scorrevano fasci iridescenti. Lo portò a sua madre.
«Mamma, tieni.»
Il viso di sua madre mosse a tale espressione di gratitudine che sembrava fosse appena stata salvata da chissà quale catastrofe.
Le strappò lo shifter dalle mani e ne estrasse l’auricolare, finta ametista che rendeva fashion l’accessorio insieme ad altri brillanti fasulli. Lo inserì in un orecchio e si scoccò su un polso il tubetto facendolo chiudere a scatto come un bracciale.
Sul suo avambraccio comparve la proiezione del display. Sfiorò il simbolo verde per accettare la chiamata e si scansò i capelli dal volto.
«Pronto… Sì, aspetti un momento» disse e corse al piano superiore.
Yuna si arrampicò per le scale e stette in silenzio, in ascolto.
«Sì, possiamo vederci tra un'ora... al Bounty Motel... Ok.»
Yuna scattò di sotto prima che sua madre ricomparisse e si fece trovare a ritoccare il disegno con un pastello.
«Che bello, tesoro.»
«Te lo regalo se ti piace.»
«Ma certo, lo adoro, grazie. Lo appenderò nel mio ufficio insieme agli altri.»
Non esiste nessun ufficio, pensò Yuna. Avrebbe voluto gridarglielo e farle confessare dove andava tutto il giorno e spesso anche la sera. Ma finse di crederle.
«Stasera c'è il Karaoke in Tv» disse.
«Sì, amore, lo so. Io però ho una riunione.»
«Non rimani con me?»
«Non posso, tesoro. Ma tornerò prestissimo, promesso. Ora va' a lavarti le mani, la cena è quasi pronta.»
Il vento fuori urlava, scuoteva gli alberi, attaccava le imposte.
Yuna andò nel bagno al piano superiore. Si sollevò sulle punte per guardarsi nello specchio al di sopra del lavabo e aprì l'acqua.
«I wanna fly to the sky, high, so high» cantava.
Con la mente trasformava i rumori della cucina in una base musicale. Un cucchiaio che urtava contro un recipiente, un coltello che batteva su un tagliere, pentole, posate, piatti. Ogni cosa era uno strumento suonato da sua madre.
Il trillo del forno le ispirò un crescendo.
Aumentò il volume della voce impegnandosi a non steccare, ma sul più bello, mentre attaccava il ritornello, dal piano di sotto giunse un urlo.
In contemporanea uno schianto di qualcosa di pesante, probabilmente una pentola.
Smise di cantare.
«Mamma!» chiamò, ma non ci fu risposta e allora più forte: «Mammaaa». Nessuna risposta ancora. Uscì dal bagno. L'acqua tiepida le gocciolava dalle mani.
Forse sua madre s'era fatta male, ma perché non le rispondeva? Avanzò per il corridoio affilando lentamente un passo dietro l'altro, in un silenzio che si faceva insopportabile.
Si affacciò sulle scale e iniziò a scendere. Il suo respiro ora le risuonava nelle orecchie. Era a circa metà della rampa quando i suoi occhi incontrarono quelli di uno sconosciuto. Un uomo massiccio, con la faccia butterata.
Cacciò un urlo con tutto il fiato che aveva in gola e quello le si lanciò contro salendo a due a due i gradini. La prese come un sacco e se la caricò in spalla. Dalla cucina sbucò un altro tizio, in braccio aveva sua madre. La teneva sollevata nel modo in cui il principe azzurro faceva con la sua bella nel lieto fine di una delle sue favole preferite. Ma la scena che aveva davanti agli occhi era molto diversa: quell'energumeno non sembrava felice, né innamorato, e sua madre era ancora addormentata. Le sue braccia oscillavano molli e al polso sinistro non c’era più lo shifterphone.
Se lo toglieva sempre pur sapendo che poi, quando squillava, non riusciva a trovarlo in tempo per rispondere. Ma Yuna intuì che forse stavolta non se lo era tolto da sola, poiché ce l'aveva in pugno quel brutto ceffo che reggeva il corpo inanimato della sua mamma. 
 Lo lasciò cadere a terra e lo pestò con un piede.
«Tanto non le servirà più» disse.
Furono trasportate fuori.
Nel vialetto, oltre il giardino velato di foglie secche che correvano spinte dal vento, era parcheggiata un'autoambulanza.
«Siete dottori?» domandò con appena nata speranza, mentre penzolava a testa in giù. Cercava di aggrapparsi alla schiena di quell'omone: se l'avesse lasciata all'improvviso, sarebbe precipitata sul lastricato di pietre che attraversava il cortile.
«Certo. Ora stai buona, così tua madre potrà riposare finché non arriviamo in ospedale, ha preso una bella botta.»
La fece sobbalzare con quel genere di scossoni che prendono alle persone quando ridono. Li aveva avvertiti mille volte in braccio a suo padre quando si sganasciavano giocando alla lotta insieme, ma la risata che udiva adesso non era dolce come quella del suo papà.
L'omone la scaricò nell'area medicalizzata dell'ambulanza. L'altro gettò sua madre sulla barella. Ma come era possibile che i paramedici fossero arrivati così presto da quando sua madre aveva gridato? Manco se fossero stati dietro l'angolo. E poi, chi li aveva chiamati?
Mentre le sorgevano in testa domande su domande, il portello si chiuse. Uno era rimasto con lei e la mamma, l'altro ricomparve alla finestrella retata che dava sulla cabina del conducente.
«Tutto ok lì dentro?» urlò.
«Benissimo, vai a sirene spiegate» disse quello nell'area medica.
Yuna si accostò alla barella. «Che cosa è successo alla mamma?»
«Ha avuto un improvviso mal di testa!» rispose l'omone. Dal vano guida giunse una risata che era più un verso di animale.
Yuna accarezzò il viso di sua madre, gonfio e arrossato da un lato. Le prese la mano e attese per un tempo che le sembrava infinito.
L'ospedale di Pottsville era a pochi minuti da casa. Lo sapeva perché la mamma ce l'aveva portata già una volta, quando era caduta dall'altalena e avevano dovuto metterle i punti a un ginocchio. Ma di tempo ne era trascorso molto di più da quando erano partiti, ne era certa anche se non aveva modo di consultare l’ora. Provò a svegliare sua madre. La scosse e la chiamò ancora e ancora, ma non riuscì a farle aprire gli occhi.
L'omone seduto sul sedile alla testa della barella sbuffò.
«Mi stai scocciando davvero, vedrai cosa ti succede se non la pianti» disse con una voce che sembrava quella di un orco.
Yuna indietreggiò e si accasciò sul sedile accanto al portello laterale. Sentì le lacrime colarle sulle guance. Scesero ininterrottamente, calde e salate fino a che il mezzo si fermò.
L'omone si alzò e si sgranchì. Con tutta calma aprì il portello posteriore lasciando entrare il fischio del vento e un odore ferroso.
«Scendi» disse l'omone mentre armeggiava intorno al lettino.
Terrorizzata, Yuna obbedì. Lo guardò sganciare la barella e farsi aiutare da quello che aveva guidato a portarla giù, in un piazzale illuminato da alcuni fari con grossi fabbricati tutt'intorno.
Nell'edificio più vicino, accanto all'ingresso campeggiavano due targhe blu. Sulla prima c'era scritto 'Archivio', sulla seconda 'Infermeria'.
Quello che aveva davanti però, non era l'ospedale dov'era stata con la mamma: quello lì aveva centinaia di vetrate lucenti, mentre questo non aveva nemmeno un quarto di tutte quelle finestre. Non c'erano alberi davanti e nemmeno il giardino fiorito.
Dall'edificio uscì un uomo, le andò incontro e la acchiappò per un polso. L'autista si rimise alla guida dell'ambulanza, mentre il tizio con la voce da orco prese a spingere la barella verso l'ingresso. Mentre veniva trascinata dentro, Yuna rilesse la targa che riportava la scritta 'Infermeria' per sincerarsi di avere visto giusto.
L'interno dello stabile era un reticolato di corridoi deserti in cui regnava il silenzio più assoluto. Giunsero a un ascensore.
Sua madre schiuse gli occhi e uno degli uomini estrasse subito una pistola dalla cintola per puntargliela contro.
Lei sussultò alla vista dell'arma, ma si sollevò sul lettino.
«Mamma!»
«Amore mio...» Allungò una mano, ma non riuscì a raggiungerla perché la lettiga venne spinta dentro l'ascensore.
Anche Yuna venne ficcata dentro.
«Chi siete? Dove ci avete portate?» strepitò sua madre sporgendosi.
«Ti conviene stare calma» la minacciò il barelliere con una faccia scura di carnagione e anche di umore.
Scesero di un piano e la porta si aprì. La barella virò a destra, mentre Yuna venne trascinata in direzione opposta.
«Perché ci avete portate qui?» urlò sua madre.
Si spostò sul bordo e mise giù i piedi, ma rovinò a terra. «Mio Dio, mi avete drogata?»
Il barelliere la sollevò e la sbatté sulla lettiga urlandole che, se solo avesse provato ancora a muoversi, non avrebbe esitato a spezzarle braccia e gambe.
Ma sua madre non ne voleva sapere di stare ferma e si dibatteva mentre quell'uomo le teneva fermi polsi con una sola mano e con l'altra, chiusa a pugno, la colpiva in volto.
Yuna si scagliò in loro direzione, ma non poté nulla contro la forza dell'energumeno che, messa via l'arma, ora la costringeva a camminare tirandola per un braccio.
Sentì sua madre gridare ancora e ancora, finché le grida non si persero in lontananza. La paura ora la divorava insieme a un nuovo sentimento, un sentimento che, quando sua madre glielo spiegava, lei riusciva a capirlo solo fino a un certo punto, ma che adesso invece comprendeva benissimo: l'odio.
L'omone la trascinò per corridoi spogli, illuminati di sola luce artificiale e si arrestò di fronte a un portone d'acciaio rosso, una nota stonata in quel posto in cui le uniche tonalità erano il bianco delle pareti, l'argento dell'acciaio e il giallo di alcuni cartelli. Una porta tutta rossa poi non l'aveva mai vista prima se non sui libri di fiabe. Per un istante immaginò che fosse un accesso per un mondo incantato, ma rimosse subito il pensiero perché le era chiaro che si trattava una speranza vana.
Cancellò dalla memoria tutte le favole e si preparò alla realtà.
Fu introdotta in una camera claustrofobica, senza finestre, al centro della quale c'era una poltroncina reclinabile che sembrava quella del dentista.
Accanto ad essa, un uomo corpulento con degli spessi occhiali da vista sistemava dei ferri su un tavolino.
«Chi abbiamo qui?»
«Soggetto femmina, dieci anni, prelevata con la madre alla periferia di Pottsville. Nessun famigliare prossimo.»
«Bene, issiamola sul lettino.»
Yuna urlò e scalciò, tentò di mordere, ma venne sopraffatta e sbattuta sulla poltroncina. L'uomo con gli occhiali la accecò con un faro, poi oscurò parzialmente la luce col testone. Le controllò le pupille e la bocca. L'altro le premeva una mano sul petto ricordandole in quel modo che sarebbe stato inutile tentare di muoversi.
L'occhialuto si girò di spalle a trafficare con i suoi attrezzi e, quando si voltò, aveva una sorta di siringa senza stantuffo. Senza spiegarle nulla, si accanì sul suo braccio. Le bucò una vena e infilò una provetta nella siringa. La provetta si riempì di sangue e lui la sostituì con un'altra vuota, e poi ancora una e ancora un'altra, fino a farle perdere il conto.
«In piedi» disse dopo che le sfilò l'ago.
Lei non si mosse e ci pensarono loro a tirarla su.
Maneggiandola come se fosse un oggetto, la misero su una bilancia. Le misurarono il peso e poi l'altezza.
E lei, senza più forze, smise di ribellarsi.
Non fece un fiato nemmeno quando la denudarono e le levarono anche l'orologio e la collanina d'argento che le erano stati regalati da sua madre.
Le diedero un nuovo abito: una tunica logora di colore grigio che sembrava un sacco con dei buchi per braccia, testa e gambe.
«Portala via» disse l'occhialuto. L'altro la prese per un braccio ricordandole il modo in cui, quando era più piccola, si trascinava dietro il suo orsacchiotto di pezza.
Giunsero a una zona permeata da suoni infantili: vagiti e singhiozzi.
L'uomo, con una chiave lunga e spessa, aprì una porta di metallo. Le piantò una mano sulla schiena e la lanciò dentro.
La forza della spinta fu tanta che Yuna si ritrovò per terra, con i palmi delle mani e le ginocchia che bruciavano. Alle sue spalle il portone rimbombò.
Si portò il pollice alla bocca, non lo faceva più dai tempi dell'asilo, da quando un bambino le aveva detto che mettersi il dito in bocca era da fifoni.
Si raccolse lì dov'era, con le gambe strette al petto. Girò lo sguardo intorno per la cella angusta. La sola fonte di luce era un debole fanale fissato sul soffitto.
Incontrò dei volti. Tanti e spaventosi, tutti fissi su di lei. Appartenevano a una quindicina di persone almeno, la maggior parte calve. Come il suo papà quando si era ammalato.
Tra loro, rannicchiati su teli sporchi, c'erano due bambini molto piccoli, più di lei.
Si chiese se davvero non fosse finita in un ospedale, ma allora quello avrebbe dovuto essere un reparto oncologico. Aveva forse un tumore?
Ne contò solo quattro di persone con i capelli, tutte donne.
Tutti quanti lì indossavano tuniche come la sua, di un color grigio spento. A qualcuno la tunica arrivava alle caviglie, ad altri nascondeva anche i piedi.
Le quattro capellute avevano lunghe chiome spettinate. Unte come se non le lavassero da un'eternità, crespe e intricate che sarebbe stato impossibile farci scorrere in mezzo le dita fino alla fine, come faceva con i suoi riccioli neri e con i capelli morbidi di sua madre.
Ma erano i calvi ad avere la testa nelle condizioni peggiori: nella zona dove a occhio e croce avrebbe dovuto trovarsi l'attaccatura dei capelli, in mezzo a un livido violaceo, tutti avevano un oggettino metallizzato dalla forma allungata, tipo un fermaglio particolarmente spesso e brutto. Ma i capelli non li avevano, perciò non aveva senso. Tra l'altro, non riusciva a spiegarsi come facessero quei cosi a reggersi su superfici glabre.
Uno dei calvi emise un verso, tipo il gridolino di un bambino, e si mise ad agitare i pugni chiusi in maniera infantile. Un altro mugugnò, cacciò un rigurgito dalla bocca e cominciò a frignare. Coi singhiozzi contagiò un altro, poi un altro ancora.
Tutto era così assurdo: ragazzi grandi e grossi che si comportavano come neonati.
Come in risposta a quei pianti disperati, anche da fuori presero a giungere urla e vagiti.
Le gambe le si piegarono. Sentì come se gli occhi le stessero per straripare.
Il terrore le calò addosso come una pioggia acida, tanto intenso da impedirle di decifrare le prime parole che una delle donne con i capelli le rivolse.
La donna si teneva una mano sul pancione, così grosso che sicuramente doveva esserci un bimbo dentro. Aveva detto qualcosa, ma non le era arrivato alcun significato.
Forse lei se ne accorse, perché le si avvicinò e le si inginocchiò di fronte.
Le sfiorò lievemente la mano, quella di cui aveva ancora in bocca il pollice.
«Mi ha sentito? Non è di noi che devi avere paura» disse. Srotolò una delle maniche della tunica facendole vedere che ci aveva nascosto un pezzo di carta appallottolato. Lo utilizzò per asciugarle le lacrime.
«Mi chiamo Mary e quella è Lisa, la mia bambina.»
Indicò un fagotto rannicchiato in un angolo, nessun capello in testa e i lineamenti androgini tipici dei bambini piccoli. Non l'avrebbe mai detto che fosse una femmina e soprattutto che fosse una bambina: era almeno tre volte più grossa di lei e a vederla, se non una persona adulta, sembrava almeno una ragazza, anzi un ragazzo.
«Ti va di fare la sua conoscenza?»
Yuna non disse nulla, era come se fosse diventata di pietra, ma si lasciò accompagnare.
Appena fu accanto a Lisa, si mise a fissare lo strano oggetto metallico che aveva in testa. Mai aveva visto niente del genere. Guardandolo più da vicino, si accorse che da un'estremità ne spuntava un filo sottile che sembrava di nylon. Quel filo terminava appena al di sopra del naso di Lisa, tra gli occhi, infilandosi nella carne. Delle minuscole palline argentee correvano per tutta la sua lunghezza. Partivano dall'alto, dall'aggeggio di metallo fissato sul capo e procedevano in direzione del punto in cui il filo spariva nella carne in mezzo agli occhi.
«Ti fa male?» le chiese.
Lisa inclinò il testone da un lato e, invece di rispondere, le prese un braccio e la tirò a sé. Se la strinse al petto come fosse un pupazzo e crollò addormentata.
 

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Capitolo 4
*** In bilico ***


Elio fece per bere da una lattina, ma in bocca gli finì solo qualche goccia sgasata. 
Erano trascorsi cinque anni da quando aveva messo piede nella UFP numero 4 di Philadelphia. Da allora ogni singolo giorno era una piccola tappa di un viaggio negli inferi in cui, per una sorta di distorsione temporale che avveniva nella sua mente, i minuti parevano ore e la sera non arrivava mai. Eppure gli sembrava ieri l’ultima volta in cui, guardandosi allo specchio, aveva visto un uomo di cui andava fiero. 
 Schiacciò il tasto 'pausa' sul telecomando e si alzò dal divano. 
Rastrellò i barattoli vuoti dal tavolino, ormai solo forme schiacciate, e se li caricò su un avambraccio, teso a mo' di mensola appena sotto al petto.
Si diresse ciondolando alla cucina.
«Pa', ma hai cambiato la combinazione della cassaforte?» strillò Noe. 
Come una freccia guizzò dal corridoio, la sua voce era stata lo scocco.
Elio saltò in aria e la composizione di lattine si sfaldò. Di sette che ne erano, ne salvò con destrezza due; le altre schizzarono via.
«Quante birre ti sei bevuto?» domandò Noe osservandolo con un'espressione che avrebbe potuto essere quella di un padre che sorprendesse un figlio ubriaco di domenica mattina.
Tuttavia era il figlio ad avere sorpreso il padre: Elio che, nel tentativo di raccogliere le latte da terra, riuscì a far cadere anche quelle che aveva preservato.
Cercò di dissimulare la sbronza, o almeno di farla sembrare meno grave di quello che era.
Noe incrociò le braccia. I suoi occhi nero ebano esprimevano riprovazione. Gli anelli d'acciaio inseriti nella sua carne, uno per sopracciglio, contribuivano a incattivirne lo sguardo.
«Sono le dieci di mattina...» disse con un tono che era una punizione.
«Lo so già che ore sono» disse Elio. «Beh? Perché te ne stai impalato a guardarmi?» aggiunse.
«Perché ti ho fatto una domanda, poco fa.»
Elio rimase muto, in mano un'unica lattina che aveva appena raccolto. Noe dovette ripetersi: «Hai cambiato la combinazione della cassaforte?»
«Perché avrei dovuto farlo?»
«Non lo so, forse ci hai nascosto qualche bottiglia...»
«Come ti permetti?» Elio si erse dritto sul busto a far valere la sua autorità genitoriale, ma erano lontani i tempi in cui, quando lo faceva, si trovava davanti un ragazzino intimorito. Ora di fronte aveva un quasi uomo di diciotto anni, che lo superava in altezza, in forza e anche in buon senso. Soprattutto, quello che vedeva era un ragazzo sano, completamente guarito da quel male che aveva trasformato le loro vite in un inferno.
«State calmi voi due, ho cambiato io la combinazione» disse Maria arrivando dal corridoio col mocio e un secchio che doveva essere pieno d'acqua, visto come il peso la tirava da un lato.
Si fermò vicino al mobile a credenza. Lasciò gli attrezzi per pulire e prese la penna a sfera che stava sul ripiano accanto a un taccuino. Scrisse qualcosa sul primo foglio e lo staccò.
Lo consegnò a Noe.
«Ecco la nuova combinazione» disse. «Quando l'avrai imparata a memoria, straccia il foglio.»
Noe si allontanò senza aggiungere nulla alla precedente discussione.
Elio udì il cigolio della porta della camera matrimoniale e ricordò che avrebbe dovuto oliarla.
Sentì lo scatto della specchiera che si sganciava da un lato per poter essere girata come uno sportello e scoprire la cassaforte a muro. Qualche altro clack e Noe ricomparve con la sua valigetta porta pistola.
«Vado al poligono, torno per pranzo» disse. Baciò Maria e, rivoltosi a lui, si limitò ad arcuare un sopracciglio, con fare superiore, come se lo disdegnasse.
«Che diavolo vuoi? Vuoi farmi vedere come riesci a tirare su quello stupido anello con quel dannato sopracciglio? Perché non ci appendi dei pesi a quei piercing da idiota eh?»  sbraitò Elio, ma Noe gli voltò le spalle e se ne andò. 
 «Dopo tutto quello che ho fatto per lui!» strillò allora rivolgendosi a Maria.
Maria sbatté il mocio a terra e gli schizzi le bagnarono le scarpe.
«Adesso basta, non ce la faccio più ad andare avanti così!»
«Tu non ce la fai, ma davvero?» la voce gli uscì come una grattata d'unghie su una lavagna. Nella mente gli vorticò tutta la serie di cose che era pronto a vomitarle addosso, ma lei lo anticipò: «Non c'è bisogno che me lo rinfacci, lo so che sei tu che porti il peso più grande in questa famiglia, che fai un lavoro schifoso per mantenerci e per finire di pagare le terapie di Noe, ma noi abbiamo bisogno anche di te, non solo di soldi!»
Rossa in faccia, si mise a strusciare il pavimento con tanta foga che sembrava chissà che razza di sporcizia dovesse pulire.
«Noe è guarito, ora devi guarire anche tu» aggiunse. Fino a un momento prima si sgolava, ma quelle ultime parole le aveva dette piano, con un tono che suonava come un ultimatum.
Elio controllò un conato di vomito e sbuffò aria dallo stomaco.
«Ah sì? Ci andrai tu a uccidere della gente al posto mio?»
Maria si fermò. Il mocio divenne il bastone che la aiutava a stare in piedi.
«Lo capisco quello che stai passando, sul serio. Non vuoi sapere perché ho cambiato la combinazione della cassaforte? Beh, l'ho fatto perché tu non potessi aprirla e non avessi più accesso alla pistola che custodiamo lì dentro. Ti è chiaro così o devo spiegarmi meglio?»
Elio percepì quelle parole come un calcio alla bocca dello stomaco e riuscì solo a biascicare alcune sillabe in risposta: «Ma cos...»
«Sto dicendo che temo tu possa usarla per farti del male! Oh, diavolo. Tu, tu devi farti aiutare. Altrimenti questa famiglia non ha più motivo di esistere. »
«Cosa vorresti dire, che vuoi lasciarmi?»
«Non voglio farlo, ma lo sto considerando.»
Sbattuto al muro da quel macigno, Elio percepì un profondo senso di abbandono, un vuoto incolmabile e doloroso. 
Era faccia a faccia con la disperazione e credeva di avere ormai perso la sfida, quando un fievole barlume di motivazione si accese in lui salvandolo dal buio assoluto di quel momento.

 

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Capitolo 5
*** L'inferno di Yuna ***


Dei clangori metallici si diffusero insieme a profusioni di pianti e urla.
Yuna aprì gli occhi. Nella cella angusta in cui si era svegliata, non solo i piccoli, ma anche quelli che le sembravano 'grandi' singhiozzavano e si comportavano come bambini. Solo le donne capellute non piangevano e scappavano per la stanza sussurrando 'sss' e regalando carezze qua e là.
«È meglio che tu faccia i bisogni prima che arrivino» disse Mary, ma lei non capì, non fiatò e non si mosse.
«La pipì o altro... Loro vanno su tutte le furie quando qualcuno se la fa sotto.»
Le indicò il vaso alla turca in fondo alla stanza. A vista, in un angolo.
«Davanti a tutti?»
«Sì, qui funziona così.»
Yuna si alzò in piedi e cercò coraggio negli occhi vacui degli altri poveretti, ma non lo trovò. Arrivò al piatto di ceramica schizzato di escrementi. Mise i piedi sulle basi antiscivolo e si abbassò le mutandine. Reggendo la tunica in modo da non schizzarla, si accovacciò e si sforzò di tirare fuori qualche goccia.
Poi liberò il posto per il prossimo: un ragazzo calvo, o forse una ragazza, che faticava a stare in equilibrio.
Mary lo guidava tenendolo per mano.
Lo aiutò a posizionarsi e gli resse la veste sopra la vita; era una femmina. Fu sempre Mary a pulirla, con uno strappo della carta igienica che si trovava per terra, vicino a un lavandino incrostato di sudiciume. Poi le lavò le mani nel lavabo.
Nel frattempo, un'altra capelluta aveva condotto un altro calvo alla latrina e lo aiutava a tenersi in posizione raccolta, mentre l'aria si appestava per via degli escrementi che il foro di scarico faticava a lasciar defluire.
Yuna si premette le mano sulla bocca e sul naso, ma funzionò solo fino a quando non fu costretta a prendere il respiro. Allora dovette arrendersi alla puzza e sopportarne la botta fino a che l'olfatto non ci si abituò.
Uno dopo l'altro, come in una catena di montaggio, tutti salirono sulla turca e lasciarono il proprio contributo all'olezzo di quel luogo. Qualcuno lo fece senza smettere di partecipare al piagnisteo che regnava dentro e fuori dalla cella.
Non appena si ripristinò una certa quiete, un rimbombare di passi precedette un nuovo scompiglio: serrature che si sbloccavano e cigolii come di cardini arrugginiti, tra urla infantili e voci di uomini che strillavano di tacere e lanciavano improperi.
La porta metallica si spalancò stridendo.
Un uomo entrò nella cella agitando uno sfollagente. Un altro comparve sulla soglia spingendo una sorta di carrello. Una gabbia più che altro, senza tetto e con le ruote. Quello con lo sfollagente si caricò in braccio il più piccolo dei calvi, un fagottino com'era lei nelle foto di quando aveva due o tre anni. Lo depose nel carrello con le sbarre e prese un altro piccolo, che era più o meno come lei quando faceva la prima elementare.
Anche quello finì dentro al carrello seguito poi da altri due che, sebbene fossero grandi come ragazzi delle scuole medie, non sapevano camminare. Gli energumeni li presero uno per ciascuno abbracciandoli per la vita e facendosi venire il fiatone nel trasportarli. Ne caricarono altri due allo stesso modo, fregandosene del fatto che piangevano e si agitavano disperati. Accompagnarono l'atto di sollevarli ulteriormente per gettarli nella gabbia con delle urla da sforzo. Quindi se ne andarono lasciando la porta aperta.
Subito irruppero altri due brutti ceffi.
Le donne capellute si tenevano inchiodate al muro. Erano rimasti solo i ragazzi più grandi. Sgambettarono impauriti verso il corridoio, come se già sapessero cosa dovevano fare, ma uno di loro non si mosse.
«Andiamo idiota! Non hai ancora imparato niente? Sei proprio stupido!» urlò uno dei carcerieri e lo picchiò col manganello. Quello si mise a strillare e il carceriere gli prese la faccia con una mano. Puntò gli occhi sulla testa senza capelli.
«Guarda qui, è tutto infiammato. Quante volte vi devo dire di controllare che non si grattino vicino all'erogatore?» strillò rivolto alle capellute.
Lanciò il povero calvo verso la porta.
«Ci stiamo attente, davvero, forse lo fanno mentre dormiamo» disse Mary.
L'uomo le piantò uno sguardo che le fece abbassare la testa e fece una mossa come se volesse tirarle uno schiaffo. Ma glielo risparmiò e se ne andò.
Yuna aspettò che uscisse anche l'altro uomo, ma invece quello rimase lì e le andò incontro mostrandole un sorriso sdentato e marcio.
«Tu invece vieni con me» disse.
La prese in braccio e lei, visto com'era andata agli altri, non provò a ribellarsi.
«Ci vuole un nuovo taglio di capelli non trovi? Questi ricci così lunghi sono scomodi, ti darò una bella spuntata.»
La trasportò fuori dalla cella e poi per corridoi chiazzati di muffa. Macchie scure come quelle che le aveva fatto interpretare una psicologa dopo la morte di suo padre.
«Eccoci al salone di bellezza» disse l'uomo spingendola in una stanza dove non c'era nemmeno uno specchio. C'erano solo una sedia e un tavolino con sopra forbici e rasoio elettrico. Poi, in un angolo, scopa e paletta.
Tutti quei ragazzi di prima non erano calvi, ma rasati. E adesso le avrebbero ridotto la testa a un uovo liscio come la loro. Ma ciò che davvero la terrorizzava non era quella presa di coscienza, era ben altro: anche a lei avrebbero messo uno di quegli aggeggi orrendi in testa?
L'uomo la fece sedere e cominciò a infierire con le forbici senza neanche coprirle le spalle con una mantellina. Ciocca dopo ciocca, Yuna guardò i suoi amati riccioli cadere sul pavimento e poi sopportò il supplizio del rasoio elettrico.
Quando l'uomo le disse che aveva finito, non osò toccarsi la testa.
Il parrucchiere la scortò fino a un'altra stanza e la mollò nelle mani di un altro tizio.
Anche se lei era diventata ubbidiente ed era salita senza fare storie sulla barella che quello le aveva indicato, non appena si mise supina lui le allacciò delle cinghie di cuoio intorno ai polsi, alla vita e alle caviglie.
Una lampada le scagliò in faccia una luce accecante. Girò la testa di lato per sfuggire a quella tortura degli occhi e scoprì, sul carrello d'acciaio che aveva di fianco, pinze, lozioni e garze accanto a oggetti che sembravano provenire da un'officina, tipo uno sparachiodi e un trapano.
Voltò la testa dall'altra parte e osservò il muro formato da più unità modulari collegate da un'inestricabile rete di cavi elettrici, con ben tre monitor fissati a una struttura d'acciaio.
Si immaginò di essere finita nel laboratorio del dottor Ventura, lo scienziato pazzo e combina guai del suo cartone preferito.
Ma il carceriere, che ora armeggiava con quella strumentazione, nel suo camice sporco di un rosso che sembrava sangue, non aveva niente a che vedere col dottor Ventura: non era simpatico e nemmeno allegro.
Voluminosi baffi grigi gli nascondevano il labbro superiore e quasi gli finivano in bocca mentre sbuffava vicino ai monitor.
Si sentì una musichetta, tipo un jingle, e una tastiera laser si accese di colore rosso vivo vicino al tavolo dei ferri.
Il dottore sfiorò con le dita alcune lettere e fece comparire una pagina di inserimento dati in uno dei monitor.
Si fermò qualche momento a osservarla e tornò a digitare sulla proiezione laser.
Riempì i campi del form e si allontanò.
Ricomparve con una confezione di cartone del McDonald's.
«La mia colazione» disse e tirò fuori una ciambella glassata al cioccolato. La addentò e si mise a masticare rumorosamente, anche se la ciambella sembrava morbida. Infilò una mano nella scatola e ne estrasse un bicchiere di plastica con sopra la scritta 'Cafè mocha'. Tolse il coperchio e vi immerse i baffi.
Sbatté un poco le labbra e cominciò ad alternare un morso e un sorso, un morso e un sorso.
Un secondo uomo arrivò.
«Tempismo perfetto» disse il baffuto. Si cacciò in bocca l'ultimo pezzo di ciambella e si pulì il muso con uno strappo di carta mani.
«Forza, diamoci una mossa» disse con la bocca ancora piena «così ce ne andiamo dritti al campo da golf. Oggi provo il mio nuovo ferro».
Gli lanciò un paio di guanti in lattice.
«Ok, preparo il Soggetto» disse il nuovo arrivato. Indossò i guanti e aprì un armadietto. Prese un tubetto di plastica e le andò vicino. Glielo strizzò sul capo e iniziò a spalmarle quella cosa fredda, che sulla pelle aveva la consistenza un gel.
Imbevve un batuffolo di cotone con una sostanza rossa e le unse il punto situato tra gli occhi, al centro della fronte.
Intanto la testa le diventava fredda come un iceberg e lei non poteva passarci le mani per scaldarsela, perché ce le aveva bloccate.
«Ci siamo» disse l'alter ego del dottor Ventura. Adesso aveva tra le mani una strana cuffia costituita da un intrico di filamenti di un materiale d'aspetto simile al silicone. Gliela infilò in testa e si armò di una sorta di spatolina.
«Regola le radiazioni termiche» disse al collega, che subito si affaccendò sulla strumentazione vicino ai monitor.
Lui intanto, con la spatola e una pinzetta, prese ad armeggiare sulla cuffia.
Yuna la sentì scaldarsi e poi appiccicarsi alla pelle come per un effetto ventosa che si innescava sotto il tocco della spatola. La sentì aderire sempre più forte, anche sulla fronte, fino a sfiorarle le palpebre e la cima del naso.
Vide dei puntini luminosi accendersi di vari colori sul volto del dottore.
L'uomo depose i suoi arnesi e avvicinò l'indice alla cuffia.
Yuna sentì il tocco come una leggera pressione e contemporaneamente vide uno dei puntini sul viso del dottore oscurarsi.
Lui le spostò il dito sulla testa. Il puntino oscurato ricomparve, ma ne sparì un altro.
Levò il dito. «Il collegamento è buono, tutti i chip sono attivi.»
Si allontanò dalla barella e andò a controllare i monitor.
Due di essi mostravano dei grafici indecifrabili, mentre l'ultimo, il più grande, mostrava chiaramente un cervello umano le cui aree erano distinte in diverse sfumature cromatiche.
La versione cattiva del dottor Ventura indossò degli spessi occhiali a mascherina e prese un arnese che sembrava un trapano senza punta.
Si avvicinò facendo sibilare l'orribile strumento. Glielo puntò tra gli occhi, appena al di sopra del naso, dove la cuffia le tirava la pelle.
«Aumenta la funzione ingrandimento delle lenti, non riesco ancora a vedere bene la micro cannula» disse al collega. «Ok ancora un po', non riesco a centrare il foro d'accesso. Bene, ora ci siamo.»
Tirò fuori un pezzo di lingua e spinse di colpo il trapano.
Il sibilo mutò in ronzio e si accompagnò a una fitta lancinante. La carne e la scatola cranica le sembrarono infuocarsi mentre venivano trapassate da qualcosa che doveva essere sottile come un ago, ma che le infliggeva un dolore indicibile. Rimase paralizzata, impossibilitata a muovere anche il più piccolo dei muscoli, come se tutte le sue energie si fossero concentrate nel resistere allo strazio. Non riuscì a dare forma alle grida che le si formarono in gola, riuscì solo a pensare che sarebbe morta.
«Piano... sì così. Punta un poco verso destra...»
Adesso era quello piazzato vicino alla strumentazione a parlare, mentre il dottore si impegnava sulla sua testa. «Ancora un po'... stop!»
Si udì un clic, e il dolore cessò. Il dottore mise via il suo attrezzo e si affiancò al collega davanti ai monitor.
Come si spostò per andare a digitare qualcosa sulla tastiera, Yuna osservò nel monitor un filamento che terminava in un piccolo pallino colorato di verde.
«Invio!» disse il dottore.
Yuna sentì un formicolio al di sopra del naso. Incrociò gli occhi per cercare di vedere cosa stesse accadendo là sopra, ma vide solo il bordo della cuffia. Dopo poco però, vide un filamento argenteo calarle sul viso allungandosi come se avesse vita propria. Un sottilissimo vermicello, che cresceva rapidissimo, le scivolò sul naso e ricadde penzolando di lato.
Il dottore tornò accanto a lei. Osservò il vermicello e si lisciò i baffi. Prese a staccarle i bordi della cuffia dalla carne.
«Lasciamo entrare un po' d'aria» disse.
«Ed ecco fatto!» esclamò sfilandole la cuffia.
La gettò sul tavolino e afferrò un attrezzo che sembrava uno sparachiodi. Con l'altra mano prese un oggettino di forma allungata: il temuto fermaglio per calvi.
Yuna iniziò a immaginare la tortura successiva, ma ebbe poco tempo per la fantasia: si trovò subito quella roba puntata sul capo.
Sentì uno sparo, poi un altro e ancora numerosi altri.
Stavolta riuscì a urlare e la violenza delle grida le graffiò la gola.
Sentì le lacrime sgorgare copiose dagli occhi che, per il troppo dolore, non riusciva più nemmeno a strizzare.
Vide il dottore agganciare il vermicello con una pinza.
«Questo lo inseriamo qui» disse mentre armeggiava sopra la sua testa. «Adesso qualche punto di nanosaldatura.»
Yuna sussultò.
Il collega passò al dottore una specie di pistola dalla canna sottile e le fermò la testa con le mani.
Il dottore iniziò a strusciarle la pistola sul cranio. Bruciava, oh se bruciava.
«Passami lo stimolante» disse il dottore. Il collega si riprese la pistola e gli allungò una siringa piena di un liquido giallognolo.
Yuna strinse i denti anche se pensò che dopo ciò che le era stato fatto, un'iniezione non doveva essere nulla. Ma, contrariamente a quanto si sarebbe aspettata, non si sentì pungere quando il dottore scaricò il liquido in un punto sopra la sua testa che non riusciva a vedere.
«Ecco fatto.»
Il dottore si sfilò i guanti e li lanciò verso il secchio dei rifiuti mancando la mira.
«Completa la registrazione del soggetto nel database e riportalo in cella. Io ti aspetto al campo» disse al collega, le sciolse le cinghie e se ne uscì fischiettando.
Yuna si portò una mano alla testa e sfiorò il metallo di cui era fatto l'aggeggio che avevano anche gli altri bambini. Sopportò il dolore che quel piccolo tocco le aveva ripercosso nella zona sottostante e studiò la conformazione allungata di quella cosa di cui non capiva la funzione. Individuò il filamento, sottile come un capello, che lo collegava con il centro della sua fronte.
«Che diavolo stai facendo?» le urlò il tizio che era rimasto con lei. «Quello è il serbatoio delle tue medicine. Non devi toccarlo mai, capito?»
Yuna ritrasse la mano.
«Sono malata?» domandò.
L'uomo fece un mezzo sorriso. «Sei piccola.»
 

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Capitolo 6
*** Centrale nucleare ***


In un grigio fine settimana, mentre la pioggia batteva contro le finestre suonando come una cascata perpetua di sassolini, Elio se ne stava sprofondato in poltrona col suo Rollbook sulle gambe. Le tempie gli pulsavano e si sentiva nauseato, anche se era sobrio.

Ironico come stare lontano dall'alcol sia la cosa più difficile che abbia mai fatto, pensò.

Scacciò con le dita l’immagine olografica di una ragazza in bikini che agitava una bottiglia di un noto marchio di champagne facendone spruzzare la schiuma.

«Pubblicità, pubblicità ovunque» disse.

Fu tentato di riavvolgere il sottile display nel tubo polimerico, sede dell’hardware, da cui lo aveva estratto diverse ore prima. Ma senza la distrazione di quel mondo virtuale, in cui trascorreva gran parte del tempo libero, sarebbe stato in totale balia della sua frustrazione.

Afferrò il pannello flessibile, sopra il quale adesso si librava una motocicletta, e lo scosse con due rapidi colpetti. Il software rispose al comando insito in quel gesto, tornando alla schermata iniziale in 2D.

Con un tocco, Elio aprì la casella di posta elettronica.

Fece scorrere l'indice sulle solite e-mail pubblicitarie fino a fermarlo su un mittente inatteso: Tahimàd.Dnpp.

Oggetto dell'e-mail: Accoglimento candidatura.

Si stropicciò gli occhi più volte per sincerarsi di non trovarsi di fronte a un'allucinazione, ma la legenda rimaneva sempre uguale.

«Maria corri!» gridò.

Lei si precipitò.

«Che succede, stai bene?» domandò affannata.

«Mai stato meglio. La Tahimàd DNPP mi ha mandato un'email» disse Elio e aprì il messaggio.

Maria si portò le mani alla bocca come per ricacciare dentro un urlo di felicità.

«La Decommissioning Nuclear Power Plant? L'impresa che ha in appalto lo smantellamento della Susquehanna Steam Electric Station?» domandò.

«Sì, proprio quella. Ho inviato il Curriculum talmente tanto tempo fa che non ci speravo più. È un invito per un colloquio di lavoro!»

Gli occhi di Maria si inumidirono.

«Non è un sogno vero?» disse e si fiondò commossa tra le sue braccia.

Elio la sollevò e si gettò con lei sul divano.

«No, è tutto reale.»

Mentre si abbracciavano distesi sui cuscini di finta pelle, l'euforia prese il posto della commozione. Cominciarono a ridere e a baciarsi senza freni, tra gridolini entusiastici, come una coppietta di primo pelo.

Noe si affacciò nel soggiorno grattandosi la testa e scombinandosi la chioma scolpita dal gel, cosa che non permetteva a nessuno, adesso che era quasi un uomo, guidava la macchina e rimorchiava le ragazze.

«Ma che vi è preso?» domandò.

«Noe, è successa una cosa fantastica» disse Maria. «Tuo padre ha ricevuto una proposta di lavoro.»

«Per ora sono solo stato invitato per un colloquio» precisò Elio levandosi di dosso a sua moglie, «ma sono sicuro che andrà tutto bene. Lo sento nel profondo del mio cuore, perché ce lo meritiamo tutti e tre».

*DNPP: Decommissioning Nuclear Power Plants - trad. Smantellamento Centrale Nucleari

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Capitolo 7
*** Non solo smantellamento ***


03 marzo 2065
Erano le 7 del mattino di un giorno che apparteneva a una nuova vita.
La famiglia De Leo si era trasferita a Salem Township, nella contea di Luzerne.
Noe arrivò trafelato in cucina, dribblò alcuni scatoloni impiegati per il trasloco, non ancora vuotati, e si fiondò su un sandwich al burro di arachidi.
«Ehi campione, sei pronto per il compito di matematica?»
«Sì, pa'. Ho studiato» rispose.
Tenendo il sandwich tra i denti, si chinò ad allacciarsi le scarpe.
«Sbrigati, che si sta facendo tardi» lo rimproverò Maria.
Noe si spinse l'intero sandwich in bocca, inforcò lo zaino e corse via facendo ciao con la mano.
Elio terminò il suo caffè e si allacciò un marsupio alla vita. Schioccò un bacio a sua moglie e si lasciò alle spalle l'odore della colazione per affacciarsi nel bel quartiere residenziale di Salem, interamente percorso da piste ciclabili costeggiate da olmi. Ancora non si capacitava di come la sua vita fosse così profondamente cambiata: l'addio alla UFP, il nuovo impiego alla centrale nucleare e il trasloco; tutto in appena due settimane da ché aveva sostenuto con successo il colloquio con Youssef Tahimàd.
Raggiunse il garage e aprì il basculante.
Andò spedito al calendario appeso a un chiodo. Prese una penna dal marsupio e fece una croce sulla data presente. Spostò il foglio del mese corrente, marzo, e tornò a febbraio per contare tutte le croci. Dieci giorni. Da tanto era che al mattino, sabato e domenica a parte, si recava alla centrale nucleare anziché alla UFP. Tuttavia, dopo l'euforia del cambiamento, ogni suo pensiero era tornato a velarsi di ombre e d'angoscia.
Entrò in macchina e mise in moto. L'autoradio si avviò insieme al motore. La spense mollando un pugno sul cruscotto e ingranò la marcia.
Si accorse che la spia del carburante era accesa e si fermò al primo distributore.
Scese dall'auto e consegnò la tessera carburante a un addetto.
Questi la inserì in un lettore portatile e glielo porse.
Elio schiacciò l'indice contro il quadratino di vetro che si trovava in alto a destra.
Seguì un bip.
«Impronta riconosciuta, può digitare l'importo.»
«Deve essere complicato gestire l'impianto con le nuove norme» disse Elio mentre sfiorava il numero venti sul touch screen.
L'uomo scosse la testa. «È semplicissimo invece. Il sistema informatico è collegato all'anagrafe del carburante umano e ogni transazione viene riportata in automatico.»
«Non scappa una goccia...»
«Già, ma è giusto così.»
Elio ripose la tessera carburante nel portafogli, fece rifornimento e ripartì.
Guidò fino alla centrale seguendo con lo sguardo il profilo delle torri di raffreddamento.
Sentì pulsare il labbro inferiore e si rese conto che se lo stava masticando.
Arrivato ai cancelli, abbassò il finestrino. Strisciò il badge nel lettore magnetico offertogli da una guardia e aspettò che la barra di sicurezza si sollevasse per lasciarlo passare. In ogni angolo della struttura c'erano addetti alla sorveglianza.
Si accorse che mentre procedeva verso il parcheggio aveva almeno una dozzina di paia d'occhi puntati addosso.
Trovò un posto libero e ci infilò l'auto. Mentre scendeva ebbe un capogiro, ma strinse i denti e tirò dritto verso l'ingresso.
Una guardia gli si parò davanti. Elio mostrò ancora una volta il tesserino e, come da regolamento, consegnò le chiavi dell'auto e il telefono cellulare.
Una approfondita perquisizione corporale completò la trafila quotidiana. Lisciandosi i pantaloni stropicciati dalle mani irriverenti della guardia, Elio si congedò e fece per andarsene, ma questi glielo impedì.
«Si accomodi nella sala d'attesa, signor De Leo» disse e gli indicò un ampio gabbiotto prefabbricato.
Elio obbedì e andò nel gabbiotto, il cui interno aveva l'aspetto di un area picnic, con alcuni tavoli e numerose panche di legno. Era decisamente affollato: c'era almeno una cinquantina di persone lì dentro. Si sedette su una panca e si consultò con gli altri.
«Avete idea del motivo per cui siamo qui?»
«No, io ho chiesto alle guardie, ma mi hanno detto che ci avrebbero spiegato dopo» rispose un uomo dai capelli rossicci.
«Boh, forse vogliono fare un briefing» disse un altro tizio.
Nei minuti che seguirono, arrivarono altri uomini, una decina forse. Anch'essi con l'aria di chi non aveva alcuna idea della ragione per cui fossero stati mandati lì.
D'un tratto, nella cabina si diffuse un suono orribile, come di unghie trascinate lungo una lavagna. Elio lo sentì penetrargli nel cervello, tramutato in una miriade di aghi che gli trapassavano la scatola cranica.
Scivolò dalla panca e si ritrovò in ginocchio a premersi le tempie più forte che poteva, come se volesse farsi esplodere il cranio e far schizzare fuori la materia grigia. Avrebbe fatto qualunque cosa purché quella tortura cessasse.
Roteando gli occhi tutt'intorno, si accorse che anche gli altri erano contratti, sofferenti e spaventati. Poco dopo però, il dolore iniziò a scemare.
Quello che seguì fu ancora peggio.
La mente di Elio iniziò a comportarsi come un'entità estranea che proiettava scene terribili di morte e sofferenza.
Le immagini si fecero man mano più vivide e il loro significato fu improvvisamente chiaro: non erano allucinazioni, ma ricordi.
Iniziò ad ansimare. Cercava disperatamente di ingoiare aria per non soffocare mentre combatteva per assimilare la realtà, cioè che quanto era appena accaduto succedeva ogni mattina e ogni sera alla centrale nucleare.
Quando tutti si furono ricomposti, due guardie aprirono la porta del gabbiotto. Quelli che vi erano stati rinchiusi presero a sciamarne fuori ordinatamente, come schiavi che temono le fruste di aguzzini. Uno però perse il controllo e si mise a correre in direzione del parcheggio. Urlava come un ossesso e le sue gambe avevano una spinta da runner professionista.
Il suono di uno sparo e, quasi in contemporanea, il tizio virò di novanta gradi con un braccio slanciato in avanti. Smise di urlare, cadde a terra e cominciò a frignare.
«Guardate bene quell'uomo» disse una delle guardie, gesticolando con una pistola.
«Oggi è stato fortunato, ma se ci riprova lo sistemeremo definitivamente.»
Raggiunse il tizio a terra: «Mi hai sentito?» strillò.
L'uomo, rannicchiato su un fianco, si teneva stretto il braccio ferito. Annuì.
«Bene. Adesso ognuno raggiunga la sua postazione di lavoro.»
Un'altra guardia parlava al telefono: «Abbiamo di nuovo fermato un eversivo, manda il personale medico.»
Tutto tornò in ordine.
«Se continuano così verranno scoperti» disse sottovoce uno di quelli che erano stati liberati dal gabbiotto. Nei suoi occhi c'era una tenue speranza.
«Come no, vedrai che lo cuciranno per bene e gli ficcheranno in testa la memoria di un incidente sul lavoro» disse un altro.
Elio affrettò il passo e quasi si scontrò con un sorvegliante. Costui gli rivolse qualche parola in arabo, che non gli servì tradurre per capire fosse un insulto.
Si scusò e scappò via.
Da quando era lì non aveva mai incontrato una guardia che non fosse mediorientale e non aveva mai visto un mediorientale subire ciò a cui si veniva sottoposti dentro al gabbiotto. Era palese che, al contrario suo e di tanti suoi colleghi, loro erano lì volontariamente, cagnolini devoti che non avrebbero mai tradito il proprio padrone.
Formulando mentalmente alcune ipotesi riguardo lo scopo di quell'assurda macchinazione, camminò fino agli uffici. Chiese a un impiegato il piano di produzione giornaliero. L'impiegato aveva i tratti mediorientali, come tutti quelli che lì svolgevano mansioni che non richiedevano titoli di studio particolari.
Hanno bisogno di particolari competenze, per questo hanno coinvolto gente come me, rifletté.
L'impiegato gli allungò un foglio.
Elio vi lesse sopra e scoprì che avrebbe dovuto occuparsi di quindici persone: due comuni e tredici trattate. Poi avrebbe dovuto fare manutenzione all'impianto di trasformazione e infine avrebbe potuto montare servizio al reattore numero 2.
«Speriamo di finire in fretta» disse a se stesso.
Camminò come un automa guardando sempre e solo dritto davanti a sé. Raggiunse la prima postazione e iniziò a impostare dei parametri su un computer. Già si udivano delle grida disperate.
«Maledizione! Quante volte devo dirlo che sono io a chiamare quando è tutto pronto?» urlò a un giovane collega.
«Ehi, i tuoi problemi personali tieniteli a casa!» gli rispose quello. «Credi che io mi diverta a sentire quei poveracci? Sbrigati piuttosto, così li buttiamo dentro e non ci pensiamo più.»
Elio si gelò a fissare con disprezzo quel ragazzo insolente. Lo avrebbe preso a sberle, ma poi concluse che quello stronzetto aveva ragione: meglio sbrigarsi.
Le urla furono presto vicine a stuzzicare quella parte di coscienza che si sforzava quotidianamente di sopire per salvaguardare se stesso e la sua famiglia.
Fece del suo meglio per fare prima possibile a concludere le operazioni preliminari.
«È tutto pronto» comunicò appena ebbe finito, urlando, per riuscire a farsi sentire in mezzo a quel coro straziante. Il collega aprì gli sportelli vetrati che davano su una grossa cabina rettangolare. La parte inferiore della cabina era composta da una vasca d'acciaio profonda circa un metro, la parte superiore era costituita da una struttura vetrata attraverso la quale si poteva vedere quello che accadeva all'interno. Alcuni tubi metallici di diametro differente erano collegati alla struttura nella parte superiore.
Elio si fermò a guardare quelle persone disperate. Erano maschi e femmine, tutti nudi.
Solo due avevano i capelli in testa, due donne, soggetti comuni. Tutti gli altri erano trattati e ciondolavano disorientati come creature di un altro mondo con le loro teste rasate a zero marchiate tutte dalla stesso identico segno: un taglio fresco sul lato sinistro che partiva grossomodo dalla zona dove avrebbe dovuto esserci l'attaccatura dei capelli e si estendeva per circa cinque centimetri verso la sommità del capo.
I trattati si limitavano a piangere e urlare; le comuni, coprendosi con imbarazzo le parti intime, recitavano preghiere soffocate nel pianto, intercalando di tanto in tanto imprecazioni contro i carnefici.
Era sempre così, una scena che si ripeteva ogni volta identica. Elio non riusciva ad abituarsi alla vista di quei bambini portati chimicamente ad assumere la massa fisica di persone adulte e a quelle donne, rapite appositamente per sfornarli, che terminata la fase di prolificità ne condividevano il destino.
«Forza, entrate!» urlò il suo collega e iniziò a spingerli uno alla volta dentro la cabina di vetro sufficientemente grande per contenere tutti quanti.
Quando fu dentro anche l'ultimo dei disgraziati, l'uomo serrò il portellone.
«Ok, procediamo» disse.
Elio annuì e abbassò una leva d'acciaio. Il gas soporifero si diffuse rapidamente dentro la cabina avvolgendo in una nuvola densa le vittime. I corpi nudi si accasciarono uno dopo l'altro, alcuni schiantandosi contro le vetrate, altri rovinando direttamente sul fondo metallico.
La vista di Elio fu offuscata da una pioggia di puntini bianchi.
Si appoggiò al pannello di controllo e premette un piccolo pulsante.
Il gas si diradò e un liquame rossastro penetrò nella camera della morte.
La fluidificazione dei corpi richiedeva circa quindici minuti.
Mentre il liquido enzimatico faceva il suo dovere, pensò di approfittarne per andare in bagno a sciacquarsi il viso.
Procedette annaspando per i lunghi e contorti corridoi, sperando di non dare nell'occhio.
Doveva assolutamente tenere nascoste le sue inquietudini per non rischiare di essere eliminato come accadeva agli operatori troppo sensibili.
Incespicò quando incontrò un uomo che trainava un carrello con dentro dei Soggetti che pur avendo una certa mole dovevano essere degli infanti. «Tutto bene, collega? Mi sembri un po' pallido.»
«Sì, sto bene.»
Elio si allontanò rapido, seguito dagli occhi spauriti dei bimbi.
Non ce la faccio più a guardare in faccia questa gente, rimuginò mentre si gettava acqua fredda in faccia.
«Non ce la faccio più neanche a sostenere la mia stessa vista» disse a mezza bocca, guardando il suo riflesso nello specchio della toilette.
Alla fine del giorno dieci, prima di rincasare, prese sotto braccio il vecchio mostro dell'alcol e si apprestò a scegliere un bar.
Scartò quelli dove si servivano allegri aperitivi a una vivace gioventù e scelse il più rozzo di Salem Township.
Ordinò un whisky liscio, lo buttò giù in un colpo e ne chiese un altro. Mentre se ne stava in un angolo del bancone, solo col suo mostro, prese a rivivere come in un film il suo primo giorno di lavoro alla centrale nucleare.
Era emozionato come uno scolaretto al primo giorno di scuola: stava uscendo dall'incubo della UFP e avrebbe guadagnato abbastanza da poter continuare a pagare le cure di Noe. L'ingresso era presidiato da guardie armate.
Aveva superato il cancello principale e si era fermato con l'auto davanti a una sbarra di sicurezza. Aveva porto a una guardia un documento d'identità.
L'uomo gli aveva chiesto di attendere e aveva fatto una telefonata con un cellulare.
Dopo una decina di minuti, dalla Centrale era giunto un fuoristrada con due persone a bordo. La barra di sicurezza si era sollevata, ma il fuoristrada non aveva attraversato il passo. Si era arrestato invece e ne era sceso un uomo che gli era andato incontro.
«Ben arrivato, signor De Leo!»
Elio, rimanendo nell'abitacolo della sua Dodge Canyon, aveva cacciato un braccio fuori dal finestrino per stringergli la mano. Subito dopo, il tizio aveva girato intorno all'auto e aveva aperto la portiera dal lato del passeggero. Si era infilato dentro, e aveva tirato indietro il sedile per allungare le gambe.
«La prego di seguire il mio collega, le mostrerà la strada per il parcheggio dei dipendenti.»
Basito, Elio aveva obbedito guidando in silenzio fino al parcheggio.
«Può lasciare a me le chiavi della sua auto» gli aveva detto l'uomo che era andato in macchina con lui non appena si furono fermati. «Da adesso in poi la accompagnerà Rahim Nafisi, il Responsabile della Sicurezza» aveva aggiunto indicandogli l'individuo non tanto alto, ma robusto, che avanzava a passo svelto nel parcheggio con fucile mitragliatore a tracolla.
Dopo le presentazioni, aveva potuto passeggiare per la prima volta tra gli edifici della Centrale. Aveva visitato i due reattori, le sale di controllo e l'edificio del combustibile, aveva camminato tra i depositi e accanto alle torri di raffreddamento. Man mano però, aveva iniziato a palpare delle vibrazioni negative. Non ne comprendeva la ragione, ma c'era come un'aura cattiva in quel posto.
Il Responsabile della Sicurezza lo aveva invitato nell'area relax dell'Edificio Salvaguardia numero 1 per un caffè.
L'area relax era una camera spoglia e fredda.
Oltre alla macchina del caffè, due panche di legno e un cestino portarifiuti, il suo arredamento consisteva in alcune sedie rivolte verso un monitor fissato alla parete. Nafisi lo aveva invitato ad accomodarsi per visionare un video.
Ma c'era qualche interferenza e lo schermo aveva proiettato solo una fitta pioggia di puntini viola. Sembravano scagliarglisi addosso, come una violenta pioggia che picchiava in orizzontale.
«Ci scusi, signor De Leo, ci deve essere un disturbo» aveva detto Rahim Nafisi impeccabile nella sua divisa pulita. Mitragliatore in bella vista, una mano dietro la schiena e l'altra che reggeva il telecomando.
Fermo e imperturbabile aveva avviato nuovamente la riproduzione.
Youssef Tahimàd era comparso nel monitor. Un sorriso brillante, reso ancor più bianco dal contrasto con la sua pelle bruna e levigata.
«Buongiorno, signor De Leo e benvenuto. Mi preme ringraziarla di aver accettato di mettere le sue competenze al servizio di questa Impresa. Sono lieto di averla qui con noi e spero che si troverà bene. Buon lavoro.»
Dopo il breve videomessaggio, Nafisi aveva preso un cellulare e aveva composto un numero.
«Il signor De Leo è pronto» aveva detto parlando nell'apparecchio. Aveva congedato l'interlocutore per poi rivolgersi di nuovo a lui: «Il Responsabile della Disattivazione è arrivato. La accompagno a conoscerlo, d'ora in avanti sarà il suo Capo» aveva spiegato riponendo il telefono nel taschino della camicia verde militare.
Al cospetto di Jaffar Aref, Responsabile della Disattivazione, Elio si era sentito a disagio.
Dall'alto della sua statura fisica, Aref lo aveva puntato in malo modo, con occhi che sembravano schizzare fuori dalle orbite tanto erano sporgenti. Gli zigomi pronunciati, guance infossate, mento sottile e naso aquilino, tutto nel suo viso era spigoloso come lo erano anche i suoi modi.
Quando si erano dati la mano, Jaffar gliel'aveva tenuta appena per un istante, senza stringere. Aveva frettolosamente lasciato scivolare via la presa, quasi che quel breve contatto gli avesse provocato fastidio. Tuttavia alla fine della giornata si era lasciato andare a una valutazione positiva e si era complimentato con lui per la sua capacità di adattamento.

 

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Capitolo 8
*** Prigionia ***


16 giugno 2065
Gli 'ambulatori'. Era così che i carcerieri chiamavano le stanze nelle quali i prigionieri venivano sottoposti a pratiche barbare e dolorose. Come gli altri bambini, Yuna veniva trascinata negli ambulatori una volta alla settimana.
Come prima cosa le venivano misurati peso e altezza.
Non sapeva perché lo facessero, ma aveva capito che non erano soddisfatti. Dicevano che cresceva poco, eppure lei si vedeva normale: era un metro e cinquantacinque e frequentava ancora la scuola primaria quando era stata rapita.
Un uomo, con evidente insoddisfazione, consultava un fascicolo.
«16 giugno 2065. Il Soggetto è qui da sei mesi e non ha fatto alcun progresso, la risposta ipofisaria al farmaco stimolatore è quasi nulla.»
«Sarà perché abbiamo iniziato i trattamenti che aveva già compiuto dieci anni» ipotizzò Moshen, colui che Yuna odiava più di tutti in quel posto.
Seduta sul lettino, ascoltava confusa gli uomini che si erano occupati di lei fin dalla sua prima volta in ambulatorio e che l'avevano torturata impiantandole quell'oggetto assurdo che aveva in testa. Si chiese se avessero una famiglia, dei bambini, e se anche ai loro figli facessero le cose che facevano a lei e agli altri bimbi lì dentro. Non sapeva nulla di loro, a parte che andavano spesso a giocare a golf. Li odiava con tutta sé stessa e, segretamente, sognava vendetta mentre quelli discutevano animatamente del suo stato fisico.
«Per me potremmo anche prepararla subito per la trasformazione, la sua crescita è così lenta. È una perdita di tempo e denaro aspettare» disse il tizio di cui non conosceva il nome pur avendolo già incontrato varie volte.
«Sono d'accordo con te, ma lo sai come la pensa il capo.»
«Quel che conta non è il costo, ma il risultato!» dissero insieme e risero. Poi Moshen tornò serio.
«Ogni goccia che possiamo ricavarne è preziosa. Dobbiamo continuare con le terapie ipofisarie finché il Soggetto non completa la crescita corporea, anche se dovesse volerci molto più tempo del dovuto» disse.
Le si avvicinò e armeggiò con un piccolo punteruolo sull'aggeggio impiantato sulla sua testa.
«Vediamo di ricaricare questo coso.»
Si sentì un click.
Riempì una siringa col contenuto cristallino di un flacone senza etichetta e ce la vuotò dentro.
«Fatto, questo basterà per un'altra settimana.»
Fece un cenno al collega e quello uscì nel corridoio.
«Avanti un altro» disse e subito un tizio entrò in ambulatorio spingendo dentro un'altra persona calva.
Il tizio si rivolse a Yuna: «Scendi da quel dannato lettino, con te hanno finito per oggi. Adesso è il turno di questo qui».
Scambiò il ragazzino con lei: la prese per un polso e la trascinò fuori di lì.
La  scagliò addosso a un gruppo di poveretti ammassati in  fondo al corridoio. Per Yuna era tutto così surreale e terribile: tra quei ragazzi dalle teste rasate non c'era nessuno con cui poter parlare, nessuno che capisse alcunché.
C'erano solo paura e dolore a unirli in quell'assurda esperienza mentre, sotto la sorveglianza di un uomo che non mostrava alcuna empatia, si avvicendavano nell'ambulatorio.
Quando tutti furono passati tra le mani di Moshen, il sorvegliante li riaccompagnò attraverso corridoi sinistri sui cui lati si succedevano le porte metalliche di quelle che, ormai le era chiaro, erano nient'altro che celle di prigionia. Vocii lamentosi, sospiri e pianti ne provenivano, come nei gironi infernali di cui aveva sentito parlare a scuola.
Lo aveva pensato di essere finita all'inferno, ma Mary le aveva spiegato che non era così, che erano ancora vive e che dovevano avere speranza.
Quando fu riportata in cella, corse da lei in cerca dell'unico conforto che riusciva ad avere in quella prigione. Una presenza rassicurante, tra tutti quegli indifesi e tra le altre donne con i capelli, troppo sconvolte per poterle dare sostegno.
Mary l'accolse, ma le sue braccia erano molli, incapaci di farle sentire quel calore che tante volte le avevano offerto.
Yuna sollevò il viso dal suo petto, e si staccò un poco dal suo ventre pieno in cui qualcosa s'era appena mosso. La guardò in faccia e si accorse degli occhi gonfi, del naso arrossato.
«Cosa c'è?» domandò.
«Lisa...» disse Mary, e qualcos'altro le morì in gola tra i singhiozzi.
Si guardò intorno, Lisa non era lì. «Dov'è?»
Una non modificata parlò: «Quei bastardi non l'hanno riaccompagnata in cella.»
«Cosa?»
«Non la rivedremo più, come i miei figli, come quelli di Ginger e delle altre.»
«Siamo come conigli» disse Ginger rannicchiata in un angolo, con tre bimbi enormi che le dormivano accucciati addosso.
«Siamo qui per figliare e quando i nostri piccoli sono grandi ce li portano via.»
Rise in modo isterico. «Sono riusciti a farci avere anche gli stessi tempi di gestazione dei conigli. Stronzi maledetti...»
«Smettila adesso!» strillò Mary. Alcuni bimbi si misero a frignare, tra essi anche Sam e Mark, i suoi neo-nati gemellini. Tre mesi di vita e già alti quasi quanto lei.
Li raggiunse dov'erano accovacciati e si sedette tra loro a coccolarli.
Yuna pensò alle cucciolate degli animali, e fece delle similitudini con ciò che vedeva lì dentro: più cuccioli per ogni mamma, e quando diventavano abbastanza grandi venivano dati via. Lisa era stata l'unica eccezione, l'unica a non avere almeno un gemello, ma era stata portata via lo stesso.
Pensò a sua madre, non aveva più saputo nulla di lei. Si chiese se anche lei avesse avuto figli dopo che le avevano separate.
 

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Capitolo 9
*** Loop ***


Quel lunedì era l'undicesimo giorno di servizio alla centrale nucleare.
Nella cabina di attesa, che tra colleghi chiamavano 'cabina di formattazione', le attività quotidiane si espansero come un fluido viscoso nella memoria di Elio.
Terminato lo strazio del reset cerebrale, Elio si accinse a compiere il solito percorso.
Mentre procedeva tra gli edifici del grande complesso, la sua mente prese ad andare a ritroso nel rievocare tutto ciò che era accaduto realmente la prima volta che aveva messo piede lì, nella Susqueanna Steam Electric Station. Ma ciò che ricordava in quel momento era assai diverso da ciò che ricordava quando era lontano da quel posto.

Backward
Era stato introdotto in una camera spoglia. Nafisi gli aveva requisito lo shifterphone modello gummy sfilandoglielo direttamente dal taschino della camicia. Si era passato più volte quella mini pergamena polimerica da una mano all'altra, poi l'aveva srotolata.
«Adoro come risulta al tatto questa versione, sembra di avere uno slime gel sotto i polpastrelli» aveva detto, continuando a giocherellarci. 
Poi lo aveva fatto accomodare di fronte a un monitor e invitato a guardare un video, ma c'erano delle interferenze e per un bel po' lo schermo aveva riprodotto solo una fitta pioggia di puntini viola. La qualità del video si era sistemata da sé e Youssef Tahimàd era comparso nel monitor.
«Buongiorno, signor De Leo. Ho registrato questo videomessaggio per spiegarle le ragioni della sua convocazione.»
Tahimàd aveva giunto le mani e incrociato le dita davanti alla faccia, quindi si era sporto in avanti.
«Signor De Leo, le esperienze annoverate nel suo curriculum soddisfano tutti i bisogni della mia Impresa. Qui alla Susquehanna Steam Electric Station, parallelamente allo smantellamento dei componenti radioattivi, svolgiamo altre attività.»
Nello schermo, al primo piano di Tahimàd si erano sostituite delle immagini sconvolgenti: disumane scene di detenzione e, a seguire, ammassi di cadaveri in fase di decomposizione dentro una grossa cabina vetrata.
«Ecco,» aveva proseguito la voce di Tahimàd commentando le immagini «all'interno della struttura alleviamo delle persone che vengono impiegate per una piccola produzione di Carburante Umano. Probabilmente lei non capirà le ragioni profonde che mi spingono a questo, ma le posso garantire che lo faccio per una giusta causa.»
Le parole dell'impresario arabo erano state lame affilate e lui se ne era rimasto impietrito pensando a un brutto scherzo, o un brutto sogno.
«Naturalmente lo smantellamento della centrale nucleare, cioè la funzione ufficiale della mia Impresa, deve andare avanti in maniera impeccabile. Quindi le saranno assegnati dei compiti in più sensi.»
Tahimàd era andato avanti spedito a spiegare come avrebbe dovuto gestire il duplice impegno e lui aveva mandato giù ciò che sentiva come fosse acido travasatogli in gola con un imbuto.
Era tutto così irreale e impalpabile, come la nebbia che era calata davanti ai suoi occhi.
Alla fine della registrazione, due uomini con indosso dei camici bianchi erano entrati nella stanza. Uno di loro spingeva una barella dalle ruote cigolanti. Lui era saltato in piedi rovesciando la sedia. Con uno scatto aveva provato a schivarli e fuggire, pur intuendo che la guardia armata preposta alla sorveglianza sarebbe sicuramente riuscita a fermarlo, magari persino sparandogli.
Ma l'uomo invece era rimasto tranquillo al suo posto. Nemmeno i tizi incamiciati avevano cercato di bloccarlo.
Era uscito nel corridoio e aveva corso per un'altra decina di metri, senza che nessuno si fosse preso la briga di inseguirlo. Passo dopo passo, i suoi movimenti si erano fatti gradualmente incerti. La sua vista si era annebbiata fino a oscurarsi del tutto. Non c'era più nulla intorno e nemmeno lui era più lì. Il suo corpo non aveva più sensibilità, era come se fosse svanito e non esistesse più. Si era fermato e aveva compiuto una lenta rotazione su se stesso, come una trottola all'esaurimento del suo moto di rotazione, poi doveva aver perso i sensi.
Quando si era svegliato, era disteso su un lettino, legato con cinghie di cuoio. Aveva un affare, probabilmente uno strumento di scansione, puntato sopra la testa. Erano entrati due uomini parlando di un biochip che interagiva con l'ippocampo e che era stato impiantato con successo senza lasciare segni visibili nel cuoio capelluto. Dicevano che rimaneva solo da provarne il corretto funzionamento.
Avevano trascinato il lettino in un'altra camera. Lo avevano chiuso dentro, da solo, ed erano rimasti a osservarlo attraverso un vetro mentre subiva delle scosse che avrebbe detto elettriche, anche se non riusciva a capire come gli fossero indotte, e la sua mente agiva come una palla che rimbalzava da un mondo a un altro.
Col tempo aveva capito che, tramite quel biochip, gli veniva formattato ogni giorno l'encefalo e che le sue memorie venivano riprogrammate ogni volta che entrava e usciva dalla centrale nucleare.

 

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