La Spada del Paradiso

di edoardo811
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un risveglio particolare ***
Capitolo 2: *** I semidei ***
Capitolo 3: *** Incubi ***
Capitolo 4: *** Conflitti nel campo ***
Capitolo 5: *** La sfida ha inizio ***
Capitolo 6: *** Edward ha una sorpresa ***
Capitolo 7: *** La figlia di Demetra ***
Capitolo 8: *** La spadaccina migliore ***
Capitolo 9: *** Desideri ***
Capitolo 10: *** Verità e risposte ***
Capitolo 11: *** Il Consiglio ***
Capitolo 12: *** Turbolenze ***
Capitolo 13: *** Un delizioso incontro ***
Capitolo 14: *** Nuova minaccia ***
Capitolo 15: *** L'urlo della natura ***
Capitolo 16: *** I pezzi si uniscono ***
Capitolo 17: *** Milù ***
Capitolo 18: *** La volpe a ''cinque'' code ***
Capitolo 19: *** Fiducia ***
Capitolo 20: *** Braccati ***
Capitolo 21: *** Fujinami ***
Capitolo 22: *** La furia della natura ***
Capitolo 23: *** Un pericolo troppo grande ***
Capitolo 24: *** Scelte ***
Capitolo 25: *** In fuga ***
Capitolo 26: *** Un vero eroe ***
Capitolo 27: *** Di nuovo insieme ***
Capitolo 28: *** Uniti, come una squadra ***
Capitolo 29: *** Sacramento ***
Capitolo 30: *** San Francisco ***
Capitolo 31: *** Promesse ***
Capitolo 32: *** Nessuno viene abbandonato ***
Capitolo 33: *** Questione di coraggio... e di armi segrete ***
Capitolo 34: *** Onore e orgoglio ***
Capitolo 35: *** Scontro finale ***
Capitolo 36: *** Il mondo dell'oscurità ***
Capitolo 37: *** L'ostacolo più grande ***
Capitolo 38: *** Cielo limpido ***
Capitolo 39: *** Ottuso figlio di Ermes ***
Capitolo 40: *** Ritorno a casa ***
Capitolo 41: *** Due facce della stessa medaglia ***
Capitolo 42: *** L'unica festa a cui non è concesso divertirsi ***
Capitolo 43: *** La notte senza fine ***
Capitolo 44: *** Araldo della Luce ***



Capitolo 1
*** Un risveglio particolare ***



 1

Un risveglio particolare

 

 

Correva a perdifiato, in quello che sembrava essere un lungo corridoio nero, al termine del quale nessuna luce lo attendeva. Perle di sudore che scivolavano lungo la sua fronte, il cuore che batteva all’impazzata nel petto, incapace di reggere il ritmo del suo corpo.

Ombre minacciose si muovevano attorno a lui, non poteva vederle, ma riusciva a percepirle, talvolta anche a sentire le loro risatine di scherno, come se trovassero spassoso quel suo ennesimo tentativo di fuga. Come se stessero solo aspettando che le gambe gli cedessero, per potersi avventare su di lui e finirlo una volta per tutte.

Una voce femminile lo chiamava, anzi, sbraitava il suo nome. Gli diceva di continuare a correre, di non fermarsi, di non voltarsi indietro, mai. Il suo obiettivo era uno ed uno soltanto, e quando lo avrebbe raggiunto, sarebbe stato al sicuro, finalmente.

Lacrime cadevano dai suoi occhi, il respiro pesante, affannato, mischiato a sommessi singhiozzii, mentre pensava a tutto ciò che aveva vissuto in quei lunghi ed estenuanti anni. Non gli lasciavano pace. Non gli avrebbero mai lasciato pace. Per quanti potesse abbatterne, loro continuavano a tornare. Lo avrebbero inseguito per sempre, fino a quando non avrebbe esalato il suo ultimo respiro, fino a quando gli occhi non gli si sarebbero chiusi una volta per tutte.

Una luce apparve alla sua visuale come una benedizione. I suoi occhi stanchi, abituati alla penombra, si socchiusero incapaci di sopportare il bagliore improvviso. Un moto di speranza si accese dentro di lui. Mancava poco. Mancava pochissimo. Era quello il luogo del biglietto, ne era sicuro. Era quasi arrivato. Presto sarebbe stato al sicuro, presto avrebbe potuto voltare pagina.

Cento metri, novanta metri, ottanta, settanta. Poteva percepire il calore emanato da quella luce, poteva sentire la libertà, quel sapore che mai era parso così dolce.

C’era quasi, bastava solo…

Un’ombra si genero dal suolo di fronte a lui. Sgranò gli occhi e cercò di fermarsi, ma ormai era troppo tardi: una figura imponente prese vita dall’oscurità, andando ad afferrarlo per il collo con una mano.

Gridò. Fu sollevato in aria come una piuma, la presa che si stringeva attorno alla sua gola. Sul volto della figura apparvero due occhi rossi come il sangue. Gli sorrise, o meglio, ghignò. I denti aguzzi rilucerono in mezzo alla penombra.

«Ladro…» sussurrò, avvicinandosi a lui, inondandogli la faccia con il suo alito pestilenziale. «Non puoi scappare per sempre…»

Gemette. Si dimenò nell’aria, cercando di liberarsi. Avvicinò una mano alla tasca della giacchetta, cercando il suo coltello, ma non trovò nulla. Era disarmato, in piena balia di quell’essere.

«Ladro…» rantolò ancora una volta quello, per poi avventarsi su di lui con le fauci.

 

***

 

Riaprì gli occhi di scatto. La luce lo stava avvolgendo, ma questa era diversa da quella vista poco prima. Questa era luce naturale, che filtrava attraverso una finestra, andando ad illuminare l’ambiente che lo circondava. Una stanza. Era in una stanza. E lui era sdraiato sopra un letto.

«Oh, sei sveglio!»

Si voltò di scatto, sorpreso, trovandosi di fronte una persona. Una persona vera, niente ombre, o mostri. Una ragazza per l’esattezza, seduta su una sedia accanto al letto. Questa gli sorrise accomodante. «Te la sei vista proprio brutta ieri sera, sai? Per fortuna sei riuscito a trascinarti oltre il confine, o ti avrebbero preso.»

«C-Cosa…» mormorò lui. «C-Chi…» Si interruppe, toccandosi una tempia, infastidito da una lieve fitta di dolore che lo afflisse. Si massaggiò tra i capelli castani. «Cos’è successo? Dove mi trovo?»

La ragazza fece un verso sorpreso, portandosi una mano di fronte alla bocca. Si rese conto solo in quel momento del suo aspetto davvero grazioso, dei suoi lunghi capelli corvini raccolti in una coda e degli occhiali da vista dalla montatura nera posati di fronte agli occhi color caffè.

«Dei, hai perso la memoria anche tu?!» esclamò lei, dapprima sembrando sconvolta, in seguito quasi eccitata. Si chinò verso di lui, aggiustandosi gli occhiali quasi come per analizzarlo meglio. «Proprio come quella storia di vent’anni fa! Sei anche tu di un altro campo? Quello romano? O magari ce ne sono altri?»

Smise di esaminarla non appena udì quelle parole che per lui non avevano alcun senso. «E-Eh?»

«Giusto!» La ragazza si sbatté una mano sulla fronte. «Se hai perso la memoria non puoi sapere la risposta a queste domande! A proposito, io sono Steph, o Stephanie se preferisci.»

«No, ascolta…» Si mise a sedere, le coperte che scivolarono via dal busto. Indossava ancora la sua maglietta sgualcita, ma della giacchetta nessuna traccia. «Io non ho perso un bel niente… cioè… a parte la mia giacca, a quanto pare…»

«Laggiù» Steph, gli indicò una sedia riposta nell’angolo della stanza, dov’era riposto il suo indumento. «Ma aspetta…» proseguì lei. «… quindi… non hai perso la memoria? Sai come ti chiami e da dove vieni?»

«Edward» annuì lui. «E vengo da… beh… è una lunga storia. Diciamo da molto lontano da New York.» Edward si appoggiò di nuovo allo schienale del letto. «Molto, molto, lontano…»

«Oh…» Quelle risposte parvero deluderla un poco. Steph si sistemò meglio sulla sedia, incrociando le braccia. «Ma… allora come sai del Campo Mezzosangue?»

«Campo che?» domandò Edward, che cominciava a sentire un lieve mal di testa. Si era svegliato da un incubo, l’ennesimo, e ora questa schizzata lo stava tempestando di domande, usando termini dei quali non riusciva a comprenderne nemmeno la metà.

«Questo posto» Stephanie allargò le braccia. «Il Campo Mezzosangue. Dove vivono quelli come noi.»

Il cervello di Edward stava per esplodere. «Quelli… come noi?» domandò, incapace di formulare frasi migliori.

«Sì, i semidei. Anche se non capisco come mai tu ci abbia messo così tanto per arrivare qui. Avrebbero dovuto riconoscerti già almeno cinque anni fa’…»

«Mi spieghi, per favore, cos’è successo?» Edward si drizzò di nuovo, cominciando a spazientirsi. «Come sono finito qui, in questa stanza?»

L’espressione di Stephanie si addolcì, ora sembrò quasi mortificata. Si posò una mano dietro la testa, ridacchiando. «Scusami, non avrei dovuto bombardarti di domande in quel modo. A dire la verità, avrei dovuto chiamare Chirone non appena tu…»

Accorgendosi di come stesse per divagare un'altra volta, la ragazza si interruppe, schiarendosi la voce.  «… insomma, le nostre sentinelle ti hanno visto sul limitare del campo, privo di sensi e con delle brutte ferite. Ti hanno prelevato e portato qui, dove ti abbiamo curato. In mano…» La ragazza si frugò in tasca, per poi estrarre un oggetto a lui molto familiare. «… avevi questo.»

Edward osservò il coltello nelle mani della ragazza. Nella sua mente rivisse la scena: uomini alti due metri, con denti aguzzi e donne con corpo di serpente che lo aggredivano in massa e lui che li respingeva con tutte le sue forze, proprio con quello stesso coltello. Lo avevano ferito, molto più di quanto avrebbe immaginato, ma era comunque riuscito a liberarsi di loro. A causa delle ferite, però, era stato costretto a strisciare pur di superare quell’albero sulla collina. Aveva perso i sensi poco dopo, credendo ormai di essere spacciato. Invece, qualunque cosa ci fosse stata dietro quell’albero, lo aveva protetto per davvero, proprio come gli aveva detto sua madre.

Prese l’arma che Stephanie gli consegnò. Si rigirò il coltello a farfalla tra le mani, per poi cominciare a rotearlo come solo uno che lo aveva impugnato per anni ed anni avrebbe potuto fare. Estrasse la lama dal colore scuro, osservandola assorto. L’unica arma che avesse mai usato in grado di ferire i suoi aggressori. Tutte le altre li avevano sempre trafitti senza arrecare alcun danno. Coltelli, bastoni, mazze… forse anche i proiettili, se solo avesse avuto modo di testare con un’arma da fuoco.

«Dove l’hai trovato?» domandò Stephanie, anche lei piuttosto presa dall’oggetto.

«Apparteneva a mia madre» replicò Edward, gli occhi castani incollati sul coltello.

«Oh. E… ehm, lei è…»

«Hai detto…» Il ragazzo interruppe Stephanie. «… "semidei", giusto? Che significa?»

«Sì, ecco.» Steph si schiarì ancora una volta la voce. «Beh, sono un po’ di informazioni da digerire tutte in un colpo, ma… in parole povere, gli Dei dell’antica Grecia sono reali e vivono in cima all’Empire State Building, da cui, di tanto in tanto… o meglio, molto spesso, scendono per avere relazioni con le persone comuni, i "mortali", insomma. E dalla loro unione nasciamo noi, i semidei, per metà dei e per metà mortali.»

Edward la scrutò per un breve momento, ponderando su come dirle quanto fuori di testa fosse sembrata nella maniera più gentile possibile. «Hai ragione, è un bel po’ da digerire…»

Stephanie ridacchiò e lui si ritrovò a sorridere senza accorgersene. Cosa strana, perché erano anni che non sorrideva in maniera sincera. La serenità di Stephanie gli sembrava al di fuori dal comune. Qualcosa a cui non era abituato. 

«So che fai fatica a credermi» proseguì Steph. «Ma posso dimostrarti al cento percento che quello che ti ho detto è vero.»

«E come?» le chiese Edward, incurvando un sopracciglio.

La ragazza si fece seria, espressione che cozzò con l’atteggiamento tranquillo di poco prima. Indicò il suo coltello. «Quella lama è di bronzo celeste, l’unico materiale in grado di uccidere i mostri. Come quelli che ti hanno attaccato ieri sera.»

Per la prima volta, Steph riuscì a sconvolgerlo. Edward sgranò gli occhi, osservandola con le labbra socchiuse. «Allora… allora non li vedo solo io… non sono pazzo…»

«No, non lo sei» lo rassicurò la ragazza, tornando a sorridergli. «I mortali non possono vederli, per via della Foschia, che impedisce loro di vedere ciò che non potrebbero comprendere, ma noi che siamo divini per metà sì.»

«La Foschia…» ripeté lui, quasi in trance. Scorci di passato percorsero i pensieri di Edward, tutti riguardanti le sue sventure con i mostri. Da quando aveva iniziato a viaggiare da solo per il paese, saltando da una famiglia affidataria all’altra, ogni volta che si era scontrato con loro aveva sempre finito con il sembrare pazzo agli occhi di tutti. Nessuno vedeva ciò che vedeva lui. In genere lo accusavano di aver aggredito cittadini comuni, talvolta perfino agenti di sicurezza o poliziotti. Anche professori. E una volta, perfino il preside.

C’erano stati momenti in cui aveva creduto davvero di essere pazzo, di avere allucinazioni. Eppure, ogni volta che rischiava del tutto di cedere a questa convinzione, ricordava come sua madre gli avesse sempre creduto. Nemmeno lei riusciva a vedere ciò che vedeva lui, ma non aveva mai pensato per un momento che fosse pazzo. Avevano girato il paese intero, fuggendo anche da loro.

E ora… semidei. Ciò che Stephanie gli aveva raccontato gli era sembrata la cosa più idiota che avesse mai sentito. Eppure… eppure non riusciva del tutto a pensare che si trattasse solo di stupidaggini. In un certo senso… quella storia sarebbe riuscita a spiegare molte delle assurdità che gli erano accadute, nonché l’assenza di suo padre e le continue risposte vaghe di sua madre in merito a lui.

Una storia assurda per spiegare cose assurde, aveva senso in un certo, perverso, modo.

«Ehi.» Stephanie gli posò una mano sul braccio, facendolo trasalire. Era rimasto così concentrato sui suoi pensieri che si era perfino scordato di lei. Non avendo la giacca, poté percepire quanto soffice e calda fosse la sua mano.

«Ora è finita» lo rassicurò, osservandolo negli occhi. Notò che non erano semplicemente marroni, ma anche con alcune striature di verde. Erano davvero incantevoli. «Sei al sicuro qui al Campo.»

Edward riuscì a sorridere di nuovo, annuendo. Al sicuro… non gli sembrava vero.

«Deve essere stata dura per te…» proseguì Steph, accomodandosi di nuovo sulla sedia, con sguardo quasi premuroso. «Quanti anni hai?»

«Diciotto.»

«Diciotto…» ripeté lei, quasi a fatica. «Cinque anni più del limite d’età… è… è incredibile…»

«Perché?» Edward cominciò ad allarmarsi. «Cosa c’è di sbagliato?»

«Più i semidei crescono, più sono forti e numerosi i mostri che riescono a percepirli. Ed è a tredici anni che questo cambiamento inizia a verificarsi. Per quell’età, un semidio deve essere portato al Campo, o la sua vita inizia ad essere seriamente in pericolo. Per questo i nostri satiri, guardiani di semidei, vanno alla loro ricerca per tutto il paese. Ma tu…» Steph si sporse di nuovo verso di lui, riacquistando il sorriso. «… tu sei sopravvissuto per cinque anni in più del normale fuori da qui, senza che nessun satiro ti abbia mai trovato. È incredibile. Devi essere davvero forte come semidio.»

«B-Beh…» Edward distolse lo sguardo da lei. Era sempre stato allergico ai complimenti. Forse perché non era affatto abituato a riceverne. «Grazie…»

In effetti, anche quelle parole tornavano. Da bambino non aveva incontrato molti mostri e i pochi in questione erano sempre stati piuttosto ridicoli. Ma più era cresciuto, più anche loro erano cambiati, diventando più numerosi, più grossi, più pericolosi. Come gli uomini dai denti aguzzi, oppure quelli con un solo occhio, dei colossi alti due metri che avrebbero potuto spezzarlo come un fuscello. 

E poi… loro. Occhi rossi come il sangue, denti aguzzi e corna. Dei diavoli in miniatura, in tutti i sensi. Erano apparsi una sola volta, proprio in una maledetta notte dopo il suo tredicesimo compleanno. E da allora non aveva più smesso di fare incubi su di loro. E ogni volta che li sognava, era come se fossero davvero lì, reali come le poche certezze che ancora aveva. Ladro. Così lo chiamavano. Non aveva mai capito il perché.

«Hai sete?» domandò ancora la ragazza, per poi indicare un bicchiere posato sul comodino accanto al letto. Una bevanda arancione con tanto di cubetti di ghiaccio vi era riposta dentro. Edward la prese incuriosito, per poi sorseggiarne il contenuto. Non appena la bevanda entrò in contatto con il suo palato si sentì rinvigorito, tuttavia rimase sorpreso dal suo sapore.

«Ma… ma sa di waffles» mormorò, sorpreso, suscitando una risatina da Steph.

«Il nettare degli dei ha un sapore diverso per ciascuno di noi, in base a quello che preferiamo.»

Edward la osservò sbigottito. Tra tutte le cose che aveva scoperto quel giorno, quella era di gran lunga la più sorprendente. Una bevanda che sapeva di cibo. Una di quelle cose di cui non sapeva di aver bisogno fino a quando non le provava la prima volta.

«Non esagerare, però. Quella roba è mortale per… i mortali, e noi rimaniamo sempre mortali per metà. Uno o due sorsi possono andare bene, ma non di più, o… beh, potresti prendere fuoco.»

Per qualche strano motivo, la sete passò al ragazzo, che posò il bicchiere di nuovo sul comodino quasi dispiaciuto. Il sapore dei waffles, era pur sempre il sapore dei waffles.

«Ora, però…» continuò Stephanie. «… posso chiederti come facevi a sapere di questo posto? Come ho già detto, nessun satiro sapeva nemmeno della tua esistenza.»

«Non credo di aver ancora capito la questione “satiro”, ma…» Edward estrasse un biglietto dalla tasca, per poi mostrarlo alla ragazza. «… è tutto scritto qua sopra. L’indirizzo di questo posto e di come avrei dovuto superare l’albero in cima alla collina.»

Stephanie prese il biglietto e lo lesse assorta, per poi annuire. «Sì, l’Albero di Talia… dove i confini del campo iniziano. Qui dice che l'ha scritto tua madre. Davvero è stata lei?»

«Sì.»

«Ma come sapeva di questo posto?»

Edward sollevò le spalle. Una risposta più che chiara. Nemmeno lui ne aveva idea.

«E…» La porta della stanza si aprì, interrompendo la frase di Steph. Un uomo su una sedia a rotelle fece capolino. Aveva lunghi capelli ricci e la barba curata, una coperta gli copriva le gambe.

«Vedo che hai iniziato senza di me, Stephanie» disse con tono paziente e un tenue sorriso. Il suo non sembrava un rimprovero, tutt’altro, però la ragazza avvampò comunque.

«Chirone! S-Scusa ma… è stato più forte di me… e poi…» Stephanie osservò Edward, strizzandogli l’occhio. «… non ti ho mica infastidito così tanto, vero?»

Mise parecchia enfasi in quella domanda. Edward soppresse una risatina ed annuì. «Vero.» Stephanie si illuminò, sorridendogli grata per la complicità, dopodiché il ragazzo tornò ad osservare l’uomo sulla carrozzina, il già citato Chirone, che ormai era arrivato accanto a Steph.

 «Io sono Chirone, e assieme al direttore del campo sono il punto di riferimento per tutti i semidei. Per qualsiasi problema, non esitare a rivolgerti a me…» Lasciò la frase a metà, lasciando intuire ad Edward che, per continuare, volesse sapere il suo nome.

«Edward» annunciò il ragazzo, con un cenno del capo.

Chirone annuì. «Bene, Edward. Immagino che Stephanie ti abbia già spiegato tutto quanto.»

«Sì, è così.»

«L’ha presa piuttosto bene» commentò Stephanie. «Non tutti accettano di essere semidei così semplicemente.»

Edward scrollò le spalle. «A dire il vero, non so cosa pensare di tutto questo. L’unica cosa divina che credo di aver mai avuto, penso sia la sfortuna. Ma… se qui sarò davvero al sicuro, allora non mi opporrò certo all’idea di avere un padre divino.»

«Lo sarai, non temere» spiegò Chirone. «L’inizio è un po’ difficile per tutti, ma ti ambienterai presto. Ora che sei nel campo, presto verrai riconosciuto anche tu. Entro sera potremo stabilire dove alloggerai, ma fino ad allora…» L’uomo si rivolse a Stephanie. «… ti spiacerebbe portare il nuovo arrivato a fare un giro del campo?»

Stephanie balzò in piedi con un ampio sorriso. «Certo che no! Lo accompagno subito!»

Il suo entusiasmo contagiò anche Edward e Chirone. «Allora i miei servigi non sono richiesti» annunciò quest’ultimo, per poi consegnare al ragazzo sdraiato una busta di plastica. «Qui c’è la divisa del nostro campo. Spero che non ti dispiaccia indossarla.»

Edward prese la busta. Conteneva un paio di semplicissimi jeans e una maglietta arancione sgargiante, gli stessi abiti che indossava Steph, ora che ci faceva caso. Annuì. Vestiti puliti e soprattutto gratis, come rifiutare? «Va bene.»

«Ti lasciamo un momento per cambiarti» comunicò ancora l’uomo, iniziando a dirigersi verso l’uscita, seguito da Steph, che prima di svanire dietro la porta sollevò entrambi i pollici in direzione di Edward. «Vedrai, ti divertirai un sacco qui!»

«Lo spero» replicò lui, contagiato ancora una volta dall’entusiasmo della ragazza.

La porta della stanza venne chiusa ed Edward tornò a concentrarsi sui suoi nuovi vestiti. Sospirò, per poi tirarli fuori dalla busta.

Ci siamo Edward… questo è il tuo nuovo inizio, pensò mentre cominciava a cambiarsi. Sperò che il suo lungo e tortuoso viaggio ne fosse valsa davvero la pena.

A volte ci pensava. Pensava a come le cose sarebbero state se avesse lasciato che i mostri se lo fossero preso e basta. Niente più fughe, combattimenti, ferite, lividi, niente di niente. Solo pace. E ogni volta, finiva con il ripetersi che arrendersi sarebbe stato come dare uno schiaffo alle persone che, invece, avevano creduto in lui.

E forse, forse era vero. Forse sarebbe davvero stato al sicuro lì. Di una cosa era certo, l’ambiente, già solo dal poco che aveva visto dentro quella stanza, prima in Stephanie e poi in Chirone, era molto più sereno di quello a cui si era abituato lui negli anni. Le premesse, per il momento, sembravano buone.

Finì di indossare la maglietta quando un campanellino d’allarme trillò nella sua testa all’improvviso. Cominciò a sentirsi a disagio, osservato. Drizzò lo sguardo, verso l’armadio sul lato della stanza. Sopra di questo, la statuina di un serpente teneva gli occhietti gialli puntati su di lui. Era sempre stata la sopra?

Edward assottigliò gli occhi, puntandoli proprio sulle iridi giallognole del serpente, questo finché quello non batté le palpebre, facendolo sussultare. Si strofinò gli occhi con forza, pensando di essersi immaginato tutto, e fece per guardarla ancora quando la voce di Stephanie lo riportò alla realtà. «Edward, hai finito?»

«Sì…» mugugnò lui, voltandosi verso la porta. La ragazza rientrò nella stanza, sorridente, per poi notare la sua espressione confusa. «Qualcosa non va?»

«Perché c’è quel serpente la sopra?» domandò lui, indicandole l’armadio.

Non appena pronunciò quella parola, tuttavia, Stephanie saltò come una molla. «UN SERPENTE?!» La ragazza si rannicchiò su sé stessa, sollevando una gamba da terra. «Dov’è? DOV’È?!»

«Calmati!» Edward sollevò le mani, cercando di riportarla alla ragione. «È solo…» Si voltò di nuovo verso l’armadio, ma sulla cima di esso non v’era più alcuna traccia della statuetta. Schiuse le labbra. «Ma… ma cosa…»

«Hai… hai avuto una giornata dura, ieri» mormorò Stephanie, anche se sembrava ancora scossa all’idea che un serpente potesse essere davvero lì. «Sei… sei solo stanco, e… e immagini cose. Tranquillo, è… è normale.»

Edward avrebbe voluto dirle che quello che aveva visto tutto gli era sembrato meno che fittizio, ma per non rischiare di far sbarellare ancora di più la poveretta, decise di non insistere.

«Se ci fosse stato un… serpente…» Stephanie deglutì. «… ti posso assicurare che me ne sarei accorta. Credimi, possono sentirmi fin dall’altra parte del campo se ne vedessi uno.»

Malgrado tutto, quella frase fece tornare un lieve sorriso sul volto di Edward, presto emulato da lei, che gli indicò la porta. «Dai, ti porto a vedere il campo!» La ragazza si avviò verso l'uscita. Edward fece per seguirla, ma quella parola folgorò ancora la sua mente.
 
Ladro. Si morse un labbro. Perché quei mostri lo chiamavano così? Perché sua madre aveva aspettato così tanto per parlargli del campo? Come faceva lei a sapere di tutto quello? E perché nessun... satiro era mai venuto a cercarlo? Cacciò via quei pensieri cupi, uscendo dalla stanza.






N.d.a. (saranno tutte in grassetto così da levare ogni dubbio).

 

Salve a tutti, è la prima volta che scrivo in questa sezione, ma non la prima che scrivo in generale. Questa è una storia che avevo in mente da tanto tempo, potrei dire perfino anni, anche se ovviamente con il tempo ha subito correzioni e quant'altro anche per sposarsi meglio con la sezione e con lo stato attuale dell'universo creato da Riordan. Come avrete modo di capire più avanti, è una storia che si svolge MOLTO tempo dopo l'ultimo libro che è stato scritto da lui (non so quando leggerete questa nota, comunque è per dire che la storia è ambientata nel futuro per evitare di intaccare in alcun modo l'universo creato dallo scrittore). Ci saranno ovviamente citazioni e riferimenti alle vecchie saghe, specialmente riguardanti i personaggi immortali (dei, cacciatrici, Chirone, ecc ecc).

Non ho letto le sfide di Apollo, o Magnus Chase, perciò non ci saranno riferimenti a nessuna di queste due saghe (che spero non abbiano influito molto sull'universo Jacksoniano, sempre collegandomi al discorso del rispetto della continuity). Non so molto bene cosa aspettarmi dai lettori, non so se l'idea dei semidei di nuova generazione sia vista di buon occhio o meno, in ogni caso voglio assicurare tutti quanti che questa storia è pura farina del mio sacco e spero che i miei OC possano piacervi, abbiamo iniziato con Edward e Steph, poi ne arriveranno altri. Diamine, spero che l'intera storia vi piaccia e che questa introduzione abbia catturato la vostra attenzione. E... nulla, spero di fare nuove conoscenze in questo fandom in cui mai mi ero avventurato! Buona giornata a tutti voi! 

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Capitolo 2
*** I semidei ***


2

I semidei

 

 

Non appena Edward si ritrovò a camminare per la stradina del campo, con Stephanie accanto a lui che si lanciava in migliaia o forse milioni di spiegazioni in merito a quel luogo, l’unica cosa a cui lui riusciva a pensare era che “molto spesso” non rendeva abbastanza giustizia al numero di volte che gli dei dovevano aver deciso di scendere dall’Empire State Building, o Olimpo, per spassarsela con i mortali.

Forse non erano a conoscenza delle protezioni, perché c’erano così tanti ragazzi in quel posto che risultava difficile anche solo contarli. Non si sarebbe stupito di scoprire che in totale dovevano esserci almeno un centinaio di semidei, tutti quanti anche piuttosto giovani. Alcuni di loro li osservarono mentre passavano, incuriositi dal nuovo arrivato, altri invece continuarono a badare ai loro affari. C’era chi se ne stava fuori a godersi il sole estivo, chi leggeva, chi faceva esercizio e chi giocava a calcio o basket. E anche chi si allenava con le spade. Questi ultimi lo lasciarono un po’ sorpreso, ma Stephanie parve non prestare loro molta attenzione, come se fosse normale da quelle parti.

Era tutto così… vivace. Variopinto. Era un ambiente a cui non era per niente abituato, e le numerose abitazioni, quasi una ventina, così particolari, sgargianti e diverse tra loro non facevano altro che rendere ancora più colorato quel luogo. 

Si domandò dove fossero i semidei adulti. Magari raggiunta una certa età si diventava così potenti che i mostri non rappresentavano più un problema, ma non poteva esserne certo. Lo avrebbe chiesto a Stephanie, se solo lei non fosse stata così presa dalle sue attuali spiegazioni.

La osservava gesticolare e parlare a raffica, sembrava quasi che avesse preparato quel discorso decine e decine di volte. Quasi gli dispiacque non starla ad ascoltare. Quasi.

«… e poi, quando verrai riconosciuto, potrai alloggiare in una di queste splendide case» comunicò infine la semidea.

«Ancora quella parola, “riconosciuto”» mormorò Edward. «Che significa?»

«Significa che il tuo genitore divino ti “riconoscerà” come suo figlio, tramite un simbolo che si manifesterà sopra la tua testa.» Stephanie gli accennò con la mano alle case circostanti. «Vedi, ognuna di queste case è abbinata ad un diverso dio, i dodici principali più diversi minori, e pertanto sono anche gli alloggi dei loro figli. I figli della casa di Apollo alloggeranno nella casa di Apollo, quelli della casa di Efesto in quella di Efesto e così via. È proibito per un semidio di alloggiare in una casa al di fuori di quella dedicata al genitore, e anche se talvolta è concesso, i semidei non possono restare troppo a lungo in una casa non di loro appartenenza. Qualche minuto, non di più, o gli dei potrebbero… non gradire. L’unica eccezione è per la casa di Ermes, dove alloggiano tutti i semidei in attesa di essere riconosciuti, ma questa è una cosa che non si verifica da molto tempo, visto che il riconoscimento avviene nell’arco di ventiquattr’ore, alla sera, quando ci raduniamo attorno al grande falò.» 

La ragazza lo osservò sorridendo di nuovo. Sorrideva parecchio spesso, ora che ci faceva caso. Non che la cosa fosse spiacevole da vedere. «Non preoccuparti, entro sera sarai pronto a conoscere i tuoi fratelli!»

Fratelli. Edward non ne aveva mai avuti prima. Chissà come sarebbe stato dover vivere assieme a loro. Emozioni contrastanti nacquero in lui. Non era mai stato famoso per il suo carattere gentile, e con gli anni si era abituato alla vita da lupo solitario. Sperò che questo non si rilevasse un ostacolo troppo grosso per la socializzazione, ma se gli altri semidei erano tutti simili a Stephanie, allora poteva stare tranquillo, perché avrebbero fatto loro tutto il lavoro al posto suo.

«L’idea non ti aggrada?»

Quella domanda lo fece trasalire. Stephanie ridacchiò. «Non sembri molto entusiasta.»

«Beh…» Edward si strinse nelle spalle. «Non ho mai avuto una famiglia vera, eccetto mia madre. Non so cosa aspettarmi di preciso da altri… semidei.»

«Andrai alla grande, vedrai!» lo incitò la ragazza, sollevando di nuovo il pollice.

Edward riuscì a sorridere. «Di chi potrei essere figlio, secondo te?»

Stephanie si prese il mento, rallentando la camminata. «Mhh… beh, sei sopravvissuto per tanto tempo contro mostri sempre più forti, perciò significa che sai combattere bene. Potresti essere figlio di Ares, dio della guerra, oppure proprio di Ermes, il dio della strada. Oppure di Atena, la dea della saggezza e della strategi…» La semidea si interruppe. «Oh, giusto, forse è meglio spiegartelo subito per evitare… situazioni imbarazzanti. I semidei possono nascere anche da genitori dello stesso sesso, quindi… sì, anche se hai una madre mortale, potresti comunque essere figlio di una dea. Non capita spesso, in realtà, ma può succedere.»

Edward sollevò un sopracciglio, cercando di trattenere un sorrisetto incuriosito. 

Ripresero a camminare. «Comunque, i semidei presentano spesso tratti in comune con i loro genitori. Tornando a farti l’esempio di Ares, è chiaro che i suoi figli saranno più forti, grossi e portati per il combattimento, mentre i figli di Atena saranno più intelligenti, saggi, oppure quelli di Afrodite, dea dell’amore e della bellezza, saranno molto attraenti e così via.»

«Tu sei una figlia di Afrodite?» domandò Edward, senza pensarci troppo. Tuttavia, non appena Stephanie si fermò ancora una volta, per poi rivolgergli uno strano sorriso, il ragazzo realizzò di essere stato un po’ troppo avventato.

«Cosa te lo fa pensare?» gli domandò, scoccandogli una strana occhiata.

Edward pensò che morire proprio in quel momento non sarebbe stata una brutta cosa. «Ehm… beh…» Distolse lo sguardo, apparendo ancora più stupido di quanto già non sembrasse.

Quando sentì Stephanie ridacchiare, tuttavia, sentì i propri nervi sciogliersi. La vide chinarsi, per poi puntare la mano verso il suolo. Roteò con un gesto delicato il polso e, ad accompagnare quel movimento, un ciuffo d’erba cominciò a spuntare dalla terra. Edward schiuse le labbra, ma il bello doveva ancora arrivare: petali spuntarono fuori dal laccio, che cominciò a tramutarsi in uno stupendo fiore dalle sfumature che dal viola percorrevano la scala di colori fino al giallo.

«Sono una figlia di Demetra, la dea dell’agricoltura e della fertilità» spiegò la ragazza, accarezzando il fiore con delicatezza e osservandolo quasi come una madre amorevole. Guardandola, Edward si sciolse. Era chiaro come il sole quanto Stephanie amasse ciò che faceva, la cura e la passione che metteva nelle cose, dal semplice illustrare il campo ad un nuovo arrivato al far spuntare un fiore, erano qualcosa di davvero lodevole.

«Ehi, Tommy!» Stephanie spostò lo sguardo dietro alle spalle di Edward, rivolgendosi a qualcun altro.

Edward si girò, per poi scorgere un ragazzino basso con un groviglio di capelli rossi e ricci, intento a trasportare un grosso sacco. 

«Sì?» domandò lui, fermandosi di colpo. Si avvicinò a loro, mugugnando infastidito dal peso dell’oggetto che stringeva tra le braccia. «Ciao Steph. Che succede?»

«Questo è Edward» annunciò Steph. «Il nuovo arrivato.»

«Oh, sì» replicò Tommy, per poi porgergli, a fatica, la mano. Lo scrutò veloce con i suoi occhi azzurri, sorridendogli timido. «Ho sentito la storia. Sei arrivato ieri sera. Io sono Thomas Blake, figlio di Ermes, ma puoi chiamarmi anche Tommy. Piacere di conoscerti.»

«Piacere mio, Tommy» disse Edward, stringendogli la mano.

Stephanie si intromise «Allora caro Thomas, il nostro Edward è un po’ titubante all’idea di vivere qui.» Steph strizzò l’occhio al ragazzo, che trasalì ancora una volta. «Che ne diresti di mostrargli l’interno della casa di Ermes? Così per aiutarlo un po' ad ambientarsi.»

«Sì, cer…» Il sacco quasi scivolò dalla presa del ragazzino, che con un grugnito cercò di non farlo cadere. «… ugh… certo. Forza, seguimi.»

Edward lanciò uno sguardo a Stephanie, che fece finta di nulla. Un altro sorrisetto scappò dalle labbra del nuovo arrivato, che si mise a seguire Thomas verso una casa molto diversa dalle altre. Questa non aveva decorazioni sgargianti all’esterno, vista da fuori sembrava una casa normalissima, tolta la tinteggiatura un po’ sporca. Una bandiera logora sventolava appesa ad un’asta sul tetto, raffigurante uno strano bastone con delle ali alle estremità.

«Allora» esordì Tommy, lasciando cadere il sacco a terra non appena varcata la soglia. Un terribile suono metallico provenne da esso, ma lui non ci prestò molta attenzione. «Ecco qua, questa è la casa di Ermes.»

Una decina di letti a castello riempivano la stanza, un grosso televisore si trovava appoggiato alla parete, con una console collegata ad esso. Chissà che modello era. Oltre a quello c’erano anche tablet e computer portatili appoggiati su molti dei materassi. Le pareti erano tappezzate di fotografie, cartoline e mappe varie, mentre per terra era pieno di cianfrusaglie, armi, carte e perfino giocattoli. In un angolo notò perfino un set per i trucchi. Alcune righe e solchi sul pavimento lasciavano intuire che avevano ridisposto i mobili almeno un milione di volte.

«Sì… non badare al disordine» commentò Tommy, calciando via una macchinina. «Ermes è anche il dio dei ladri e i miei fratelli… beh… a loro piace “prelevare cose” in giro per il campo. Quasi nulla di questa roba è nostra.»

Edward si guardò attorno. Il disordine non lo disturbava, e l’idea che così tanti ragazzi vivessero assieme in quel luogo iniziò a piacergli. Poteva immaginarseli radunati davanti il televisore a fare qualche maratona di videogiochi, o a guardare film piratati con i computer, o magari a giocare a carte e a litigare quando qualcuno imbrogliava.

«E i tuoi fratelli?» gli domandò.

Tommy scrollò le spalle. «In giro per il campo, come al solito. Vediamo…» Si girò di nuovo verso la porta, per guardare fuori, e un verso angosciato provenne dalla sua gola: «Oh-oh…»

«Cosa?» Edward osservò il punto dove Tommy stava guardando, per poi accorgersi di alcune ragazze che avevano accerchiato Stephanie. Non poteva udire cosa si stessero dicendo, ma a giudicare da come lei stesse cercando di arretrare, sollevando le braccia quasi in segno di resa, intuì che le cose non stavano andando bene. Poi una di loro, una biondina platinata conciata come una modella, si accorse del giglio e lo calpestò con le sue scarpe all’ultimo grido. Stephanie chinò il capo, affranta. Ed Edward non gradì affatto la cosa.

«Non le vogliono proprio dare pace…» mugugnò Tommy, poco prima che Edward partisse verso la loro direzione. «E-Ehi!» lo chiamò, correndogli dietro. «Che stai facendo?!»

Edward lo ignorò. Avanzò imperterrito verso le ragazze, cercando tuttavia di mantenere la calma. «C’è qualche problema?» domandò, affiancando Steph, posandole una mano sulla spalla. La figlia di Demetra drizzò la testa non appena si accorse di lui. Sgranò gli occhi e sembrò quasi che stesse per parlare, ma la ragazza di prima, quella che aveva calpestato il fiore, la anticipò: «E tu saresti?»

Gliel’aveva chiesto con tono quasi schifato, perfino il suo modo di guardarlo lasciava trasparire la medesima emozione. Tuttavia, Edward sorrise. «Sono Edward, il tizio mezzo morto di ieri sera. Piacere di conoscervi.»

«Non sapevamo di nessun tizio mezzo morto, e la cosa comunque non ci interessa. Sparisci. Questa faccenda non ti riguarda.»

«A dire il vero, Steph è la mia guida nel campo. Quindi… sarebbe meglio che io rimanga qui.»

La ragazza fece un passo avanti, osservandolo truce, ed Edward sfoderò il suo peggior sorriso beffardo, ricambiando lo sguardo. Quella tizia era davvero bella, doveva ammetterlo, ed era vestita e truccata di tutto punto come se stesse andando a un matrimonio. Lei e tutte le sue amiche erano così. Dovevano essere figlie di Afrodite, ma per davvero questa volta.

«Ascolta, verme. Non hai nulla a che fare con noi, qui. Perché non te torni sotto al ponte dal quale provieni?»

Edward corrugò la fronte e si voltò verso Stephanie e Thomas. «Steph, avevi detto che qui vivono i “semidei”, ma non mi avevi parlato delle oche.»

Alcuni squittii indignati si sollevarono dal gruppetto di oche. La figlia di Demetra abbozzò un sorrisetto. Tommy, invece, sembrava solo sconvolto. Forse da Edward, forse dalle ragazze, forse era sconvolto di suo e basta.

«Dì un po’, ti credi simpatico?!» sbottò di nuovo la tizia bionda, piantandosi le unghie nelle braccia, alzando di colpo la voce. 

«Io non mi credo simpatico, io so di essere simpatico» ribatté Edward, tornando a guardarla. «E tu, invece, pulzella? Cosa credi di essere, esattamente?» 

Quella sogghignò. «Una che quelli come te li calpesta. Se davvero pensi che mi lascerò intimidire da un pezzente come te ti sbagli di grosso. Vali meno di zero. Proprio la quattrocchi e il nano» ed indicò Stephanie e Tommy. «E comunque, dovresti farti una doccia. La tua puzza arrivava fin dalla casa di Afrodite.»

Edward piegò il capo. «Ascolta, bella…»

«Che sta succedendo qui?» si intromise una terza voce, prima che le rispondesse per le rime. Un gruppo di ragazzi era sopraggiunto, con tutta probabilità aveva sentito la bionda strillare come una pazza. Grossi, muscolosi, sembrava quasi che tutti loro avessero indossato di proposito delle magliette di una taglia più piccola solo per evidenziare ancora di più le loro corporature. Il capo del gruppo, un armadio con la testa rasata e i piercing alle orecchie, andò a cingere la figlia di Afrodite per le spalle. «Questi sfigati ti stanno importunando, Jane?»

«Non saprei, Buck. Mi state importunando?»

Edward osservò il gruppetto dei nuovi arrivati e capì che le cose stavano per peggiorare. Di nuovo, qualcosa gli suggerì che forse – ma solo forse – si trattasse di figli di Ares. 

«Ehi, sfigato.» Il tizio diede una spintarella ad Edward, facendolo arretrare. «La mia ragazza sta parlando con te.»

«Mh?» Edward finse di trasalire. «Oh, ce l’hai con me? Scusa, ma i ragli dei somari non li capisco.»

«Non capisci?» domandò Buck, con voce cavernosa, per poi sferrargli un cazzotto in piena faccia. Finì a terra, atterrando sul sedere, con il naso che sanguinava.

«E questo l’hai capito, pidocchio?»

«Edward!» Stephanie si chinò accanto a lui, e anche Tommy parve agitarsi.

«Ecco, bravo. Lascia che quelle nullità aiutino la nullità che sei anche tu.» Buck grugnì, mentre le ragazze e i ragazzi di Afrodite ed Ares ridacchiarono. «Dovresti considerare una fortuna enorme il solo fatto che tu possa esistere accanto a questa bellezza.» Afferrò Jane, che appoggiò la testa sulla sua spalla con lo sguardo di una che sapeva di averla vinta.

«Osserva bene, perché questo tu non lo avrai mai.» Come ciliegina sulla torta, Buck iniziò a limonare la ragazza. Non baciare, limonare. Pesantemente, anche. Come se i limoni li stessero gettando a terra e li stessero calpestando con un rullo compressore.

Tuttavia, Edward non si lasciò impressionare. Ignorò l’aiuto di Steph e sputò un grumo di sangue. Osservò la coppietta dal basso, senza più dire o fare nulla. Quando finirono di ispezionarsi gli esofagi, il gorilla calciò ancora della terra verso di lui, costringendolo a chiudere gli occhi. Dopodiché, il gruppetto si allontanò da loro. Edward tenne lo sguardo di loro e scosse la testa con un movimento impercettibile. Che branco di idioti.

«Sarai anche nuovo, ma dovresti già sapere di non fare certe cose» commentò un’altra voce ancora. Uno dei figli di Ares, o almeno, credeva fosse uno di loro perché era nel loro gruppo, era rimasto ad osservarlo. Non era grosso come i suoi fratelli, come corporatura era più nella media, simile ad Edward, ragion per cui non era molto certo di quale fosse la sua casa. Aveva i capelli neri, rasati sulle tempie, e una leggera barba sul volto che cozzava con gli occhi azzurri come il ghiaccio.

«Mh?» mugugnò Edward, con pigrizia. «Oh, scusa anche tu, non ti avevo visto. L’ombra del tuo amico ti stava coprendo.»

«Tsk. Cambia atteggiamento, o non durerai una settimana.» Il tizio gli diede le spalle e sembrò sul punto di allontanarsi, tuttavia si voltò un’ultima volta, lanciando un rapido sguardo verso Stephanie, che lo resse senza però dire nulla. Quello piegò poi la testa e proseguì per la sua strada.

Ancora seduto a terra, Edward sputò un altro grumo. 

«Edward?» Stephanie lo chiamò. «Tutto ok?»

Edward strofinò la mano sotto al naso, per pulire il sangue, poi si voltò verso la ragazza. «L’omicidio è proibito al campo, giusto?»

Steph esitò. Chiaramente, quella era l’ultima cosa che si aspettava di sentire. «Ehm… beh…»

«Dovrò farlo sembrare un incidente, allora…» rantolò lui in conclusione, per poi alzarsi in piedi e spolverarsi.

«Cavolo, amico…» mormorò Tommy, sbalordito.

«Cosa?»

«Cosa? Come “cosa?” Hai dato del somaro a Buck! È stato incredibile!» cominciò ad esultare. 

«Tommy!» esclamò Stephanie. «Si è preso un pugno! Non c’è niente di incredibile!»

«Sto bene, Steph. Non preoccuparti» rassicurò Edward, con un sorriso causato dall’euforia di Thomas.

Steph si morse un labbro. «Sì, beh... mi sento comunque responsabile. Se non fossi finita nei guai, tu…» Si interruppe quando Edward le posò una mano sul braccio. «Tu non centri nulla. Sono io che l’ho provocato. Almeno quelle oche hanno smesso di infastidirti.»

«No invece…» La figlia di Demetra scosse la testa demoralizzata. «Torneranno. Non mi lasceranno mai stare.»

Il sorriso svanì dal volto di Edward. Osservò il giglio calpestato, poi di nuovo Steph. Era quasi come se, in realtà, avessero calpestato proprio lei. E il suo tentativo di aiutarla, forse non aveva fatto altro che peggiorare le cose. Aveva cercato di attirare il loro odio su di lui, per allontanarlo da Stephanie in modo che non potessero accusarla di nulla. Era abituato, del resto, a far arrabbiare le persone. Era abituato a farsi odiare da chiunque, e con il tempo era come se fosse ne diventato immune. Per lui non era un problema. Ma da come lei si stava comportando, era chiaro che non avrebbe funzionato. Sarebbero tornate a infastidirla, forse in modi pure peggiori.

«Grazie comunque per l’aiuto» mormorò ancora Stephanie, per poi guardare Tommy. «Ti… ti va di finire tu il giro del campo con Edward? Io… credo che andrò nella mia cabina.»

«Oh... ok» rispose Tommy. 

Stephanie lo ringraziò con un cenno, poi salutò entrambi e si allontanò, sempre con aria mesta. Edward la seguì con lo sguardo, pensieroso. Era sembrata così allegra, serena, disponibile, come se amasse quel luogo, il campo, più di ogni altra cosa al mondo. Vederla così abbattuta… faceva sentire uno straccio anche lui. E lo stesso doveva valere per Tommy, perché anche lui parlò con voce mogia: «Dai, seguimi. Finiamo il tour. Devo solo finire di sistemare una cosa, però. Ci metto un attimo.» 

Il figlio di Ermes tornò verso la sua casa ed Edward lo seguì, un po’ riluttante. 

«Devo solo…» Cominciò Thomas dopo aver varcato la soglia. Guardò per terra e si interruppe di colpo, sgranando gli occhi. «Dove diamine è finito?!»

«Cosa?»

«Il sacco che avevo prima!» Tommy indicò il punto in cui lo aveva appoggiato. «Non c’è più! Ma che… oh, no! Non dirmelo!»

«Non dire cos…»

«RICK!!!» tuonò Thomas, facendo sobbalzare Edward. «NON DEVI TOCCARE LA MIA ROBA!!!»

Il figlio di Ermes cominciò a mettere a ferro e fuoco la stanza, spalancando armadi, controllando sotto i letti e ribaltando materassi. «Dove ti sei cacciato?!»

Edward seguì la scena in silenzio, non sapendo molto bene cosa pensare. Strano era strano, quello che stava vedendo, non c’erano dubbi a riguardo.

«Dannazione, dove sei?!» sbottò Tommy, una volta controllata l’intera stanza senza risultati. «Non puoi essere sparito nel nulla…» Il suo sguardo cadde su uno zainetto sopra l’unico letto che non aveva controllato, probabilmente il suo. Strinse i pugni. «Maledetto moccioso!» Prese lo zainetto con un moto di rabbia, per poi spalancarlo. «Esci fuori!»

Ci infilò dentro un braccio e cominciò a frugare dentro infastidito. Edward schiuse le labbra. Ora davvero non ci stava più capendo un accidente, a cominciare dal fatto che il braccio di Tommy fosse entrato nella sua interezza nello zainetto nonostante questo fosse grosso a malapena per ospitarlo fino al gomito. E il peggio doveva ancora arrivare.

«Preso!» Tommy estrasse il braccio, grugnendo per lo sforzo, ed Edward noto che stava tirando fuori qualcosa. O meglio, qualcuno.

Un ragazzino biondo, un bambino che non poteva avere più di dieci anni, sbucò fuori dallo zainetto, tenuto per un braccio da Thomas. Stretto al petto, teneva proprio il sacco che Tommy stava cercando. Caddero entrambi a terra dopo quello strattone e il più piccolo scoppiò a ridere di gusto.  

Se la mascella di Edward avrebbe potuto staccarsi, quello sarebbe stato il momento giusto. 

«Sta volta te l’avevo quasi fatta!» trillò proprio il piccoletto, per poi saltare in piedi. Gli occhi verdi brillanti avevano una strana luce dentro di essi, conferendogli un’aria da furfante. Cosa che poteva essere pure vera.

Tommy si mise a sedere, massaggiandosi la testa brontolando. «Rick… la devi… smettere… con questi scherzi! Non sono più divertenti da un pezzo!»

«Per me lo sono!» Rick si buttò a sedere sopra un altro letto, per poi far dondolare le gambe. Sembrava incapace di stare fermo. «Oh, ciao!» salutò, accorgendosi di Edward. «Sei nuovo?»

«Ehm… sì…»

 «Io sono Rick! E quello è quello scemo di mio fratello Thomas!»

«Non darmi dello scemo!» protestò Tommy. 

«Eri… eri nascosto dentro quello zaino?!» domandò Edward, indicando l’oggetto rimasto accanto a Thomas.

«Sì! Ma Tommy mi ha trovato lo stesso! Ormai è un campione a trovarmi!»

Edward si rese conto di sembrare ripetitivo. «Ehm…»

«Non è uno zaino come gli altri» venne in suo soccorso Tommy. «È magico. Un regalo di mio padre. Dentro ha uno spazio infinito, posso metterci tutta la roba che voglio. E tu…» si rivolse di nuovo a Rick, con tono severo. «… devi stare attento! Non è un giocattolo, non puoi usarlo per nasconderti! Se ti perdessi come cavolo faccio poi a tirarti fuori?!»

Rick non parve prestare troppa attenzione al rimprovero quasi paterno del fratello e si stravaccò sul letto, ridacchiando.

Bevande al gusto di waffles, statuette magiche e ora uno zainetto con spazio infinito. Di bene in meglio. Se non voleva rischiare di impazzire, Edward avrebbe fatto meglio a non farsi troppe domande. Almeno lo zainetto non parlava anche. Non sarebbe riuscito ad accettarlo, altrimenti.

Tommy nel frattempo prese il sacco e cominciò a svuotarne il contenuto dentro lo zaino, brontolando qualcosa sottovoce. Uno strano tintinnio metallico riempì la stanza mentre completava quell’azione.

«Che c’è lì dentro?» chiese Edward.

Il figlio di Ermes aprì la bocca per rispondere, ma Rick fu più veloce: «Granate fumogene, granate incendiare, granate appiccicose, granate…»

«Rick!» lo interruppe Tommy, allarmato. «Abbassa la voce! Vuoi gridarlo a tutto il campo con un megafono già che ci sei?!»

«Hai anche un megafono lì dentro??»

Thomas ignorò la domanda, rivolgendosi di nuovo ad Edward. «Ho chiesto a dei figli di Efesto se potevano produrle per me, in cambio di... vari oggetti prelevati. Mi saranno utili per la sfida di quest’anno.»

«Sfida?»

«Sì, con gli scorpioni!» esultò Rick, tornando a molleggiare sopra il materasso. «Sono passati un sacco di anni dall’ultima volta che li hanno usati!»

Edward avrebbe tanto voluto capire cosa diavolo dicesse Rick tutte le volte che apriva bocca. Per fortuna, Tommy era un ottimo traduttore. Mentre finiva di svuotare il sacco, spiegò sintetico: «Ogni anno si tiene una sfida tra semidei, qui al campo, dove il vincitore, o talvolta vincitori, ottengono un premio e, soprattutto, un’opportunità per mettersi in mostra. Caccia al tesoro, cattura la bandiera, e così via. La casa di Ermes non vince una sfida da… beh, da molto, perciò quest’anno voglio provare a vincere quella degli scorpioni, che è da tutti considerata la più difficile.» Tommy completò l’operazione e chiuse lo zainetto, per poi gettare via il sacco di iuta ormai vuoto. «Nessuno prende sul serio la casa di Ermes da una vita, ed io voglio dimostrare a tutti che si sbagliano!»

«Finirai ammazzato…» borbottò Rick, ottenendo un verso adirato come risposta.

«Guarda che ci sei anche tu nella casa di Ermes!»

Rick fece finta di non sentire. Tommy fece un altro verso sconnesso, tendendo le mani verso di lui quasi volesse strangolarlo. Ormai era più rosso dei suoi capelli. Quel piccoletto amava davvero mandarlo su tutti i gangheri. Edward osservò il figlio di Ermes più grande cominciare a sbraitare contro al più piccolo, che per tutta risposta gli rise in faccia, e si ritrovò a sorridere e a ridacchiare a sua volta.

«Ok, ok, basta così…» Tommy inspirò, massaggiandosi le tempie. «Devi ancora finire il giro del campo, Edward. Forza, andiamo. Sei già stato al lago e ai campi di addestramento?»

«No. Per ora ho solamente visto le case.»

«Va bene allora. Andia...»

«Vengo anch’io!» Rick saltò giù dal letto, per poi correre verso la porta. «Andiamo!»

Edward si scansò per far passare il piccoletto. 

«Quella peste mi farà morire» mugugnò Thomas, strappandogli un altro sorriso.

Il trio si allontanò dalla casa di Ermes.

 

***

 

Bulletti da due soldi a parte, quel posto non era così male. Siccome era solo il primo giorno, Edward non avrebbe preso parte ad alcuna attività, perciò niente addestramenti con le spade, con l’arco e niente orientamento sui mostri o lezioni di greco antico. Già, a quanto pareva, doveva tornare a scuola. Brutta storia. Stando a Thomas, i semidei erano tutti portati a parlare il greco già dalla nascita, perciò non sarebbe stato un problema per lui, ma l’idea di sedersi di nuovo ad ascoltare un insegnante non faceva saltare Edward di gioia.

Al di là delle colline, il Campo Mezzosangue appariva agli occhi mortali come una piantagione di fragole qualsiasi, e la grande villa dentro cui si era svegliato come una cascina normalissima, sempre per merito della Foschia. Nessun assistente sociale sarebbe mai arrivato a investigare su dei ragazzi che giocavano con le spade vere.

I semidei – e le oche e i somari – non erano gli unici a vivere al campo. C’erano i già citati satiri, degli strambi mezzi uomini e mezzi capra – come facessero quelli ad essere guardiani di semidei e non il contrario era un mistero – e poi le ninfe, che si dividevano in driadi e naiadi, spiriti della foresta e dell’acqua. Erano fanciulle graziose, ma Thomas gli disse che era meglio non importunarle troppo, perché sapevano essere peggio delle figlie di Afrodite. Edward non voleva sapere come.

Tommy gli spiegò anche che Chirone, l’uomo sulla sedia a rotelle, era un centauro, il direttore del campo era un dio “in castigo” e il capo della sicurezza era un tizio con mille occhi o giù di lì. Tutte informazioni semplici da mandare giù in così poco tempo, non c’era che dire.

Mentre camminavano, Rick correva attorno a loro tenendo le braccia tese a mo’ di ali d’aeroplano, emulandone il suono con la bocca. A quanto pareva, come molti altri semidei, era iperattivo. E il fatto che fosse così piccolo ed energico doveva contribuire alla cosa. Di tanto in tanto ribatteva alle spiegazioni di Tommy, facendolo incavolare, ma perlopiù rimase per le sue.

Dopo un lungo pomeriggio passato a visitare i vari luoghi del campo, il trio si ritrovò sul bordo del lago. Edward e Tommy erano seduti, mentre Rick faceva rimbalzare i sassi sullo specchio d’acqua. Non sembrava preoccupato dall’idea di beccare una naiade sulla fronte e Thomas non gli disse nulla, perciò era probabile che non fosse un rischio. Alcuni semidei si stavano esercitando con le canoe, perciò non badarono molto a loro.

Una volta fermo e con la mente non più impegnata, Edward osservò Tommy. Se ne stava seduto con le braccia tese dietro la schiena, a osservare Rick. Sembrava tranquillo. Forse non avrebbe dovuto tartassarlo con argomenti che non lo riguardavano, ma la curiosità era troppa. «Chi erano quei tizi? Quelli che tormentavano Steph?»

«Mh?» Thomas si voltò e il suo viso da folletto si incupì. «La bionda è Jane Curtis, la capocasa di Afrodite. Una smorfiosa.»

«“Smorfiosa” mi sembra quasi un complimento» borbottò Edward. «E quel mulo del suo ragazzo, invece?»

«Quello è Buck O’Neal, il capocasa di Ares.»

Edward annuì. Steph gli aveva spiegato che ogni cabina aveva un suo “leader”. E se quei due erano i capi delle capanne di Ares e Afrodite, poteva solo immaginare come fossero i loro fratelli e sorelle.

«E perché Jane ce l’aveva con Steph?»

«Beh… perché lei non è una figlia di Afrodite.»

«Che vuoi dire?»

Thomas scrollò le spalle. «L’hai vista Stephanie, no? È più bella dei fiori che fa crescere. Ma solo le ragazze di Afrodite possono essere quelle carine.»

«Perché solo loro?» 

«Lo chiedi a me? Sono sempre loro ad averlo deciso. Secondo loro, un’insulsa figlia di Demetra non può essere più bella di una figlia di Afrodite.»

«Quindi… sono invidiose di lei» concluse Edward. In effetti, Thomas aveva ragione. Stephanie era davvero bella. Anche se non era truccata e pettinata come le figlie di Afrodite, accanto a loro non aveva sfigurato affatto. 

«Lo fanno solo perché lei è la più vulnerabile» proseguì Tommy. «Ci sono altre ragazze carine nel campo, figlie di Atena, Apollo, Iride e così via, ma Stephanie è il loro bersaglio preferito, perché lei… beh, hai visto com'è. Lei è "lei". Una figlia della dea dell’agricoltura. Lei e i suoi fratelli non sono guerrieri, sono persone tranquille, che badano ai fatti loro e che non farebbero del male a una mosca. Jane e le sue amiche sanno che, attaccandola, non rischiano nulla. E si divertono così, a farla sentire insignificante e debole. Proprio come Buck e gli altri figli di Ares fanno con i ragazzi più deboli delle altre case.»

Edward ripensò all’incontro con i figli di Ares e Afrodite. «Ecco perché vanno così d’amore e d’accordo…»

«Già. E poi Ares e Afrodite hanno anche una tresca amorosa, o qualcosa del genere. Penso sia una roba genetica.» Tommy sospirò, per poi osservare di nuovo Rick. «Se la prendono anche con me e i miei fratelli. Secondo loro siamo tutte nullità.»

Edward immaginò quei bulli che se la prendevano con quel bambino e sentì il sangue ribollirgli nelle vene. «Perché lo fanno?»

«Perché nostro padre è il postino degli dei e l’unico figlio di Ermes che abbia mai combinato qualcosa è stato un traditore che poi ha deciso all’ultimo di voler fare la cosa giusta. Chi vuoi che ci prenda sul serio? Siamo solo un branco di ladruncoli. E io sono solo un nano coi capelli rossi.»

«Te l’hanno detto le figlie di Afrodite?»

Thomas si strinse nelle spalle. «Non di persona, ma sì… so che dicono questo di me.» 

Edward tamburellò con le dita sul terreno, pensieroso. «Gli state permettendo di entrare nelle vostre teste. Vogliono solo farvi dubitare di voi e farvi sentire più insicuri. Non dovete ascoltarli.»

«Lo so.» Tommy strinse i pugni. «Lo so che vogliono cercare di spezzare il nostro spirito. Ed è per questo che vincerò la sfida di quest’anno. Sconfiggerò gli scorpioni e dimostrerò a tutti che si sbagliano su di noi!»

Vederlo così determinato fece sorridere Edward. «Questo è parlare.»

Thomas ricambiò il sorriso. Il suono di un corno proveniente in lontananza distolse le loro attenzioni. Edward fece per domandare cosa fosse, ma per una volta quello che disse Rick fu più che chiaro: «SI MANGIA!»

Il piccoletto smise di lanciare sassi e cominciò a correre verso il punto da cui era provenuto il suono. In effetti, il cielo aveva cominciato a scurirsi, la sera stava calando e, Edward doveva ammetterlo, moriva di fame. Non si era portato scorte per il viaggio quando aveva lasciato il suo ponte.

Tommy si rialzò, spolverandosi. «Beh, credo che rimarrai con il tavolo di Ermes a cenare, visto che ancora non sei stato riconosciuto. Se tutto va bene, dopo cena succederà. Altrimenti… spero che ti sia piaciuta la nostra compagnia, perché ti toccherà dormire da noi.»

«No, ancora voi no…» mugugnò Edward. Thomas parve offendersi per un momento, poi si accorse del sorrisetto del ragazzo.

«Ah… ma vai al Tartaro…» sbottò, per poi sussultare. Sembrò davvero spaventato, ma si rilassò quando Edward ridacchiò. 

«Ti prendevo in giro» lo rassicurò. «Tranquillo.»

Non glielo disse, ma l’idea di rimanere con i figli di Ermes non gli dispiaceva. A dire il vero, sperava quasi di essere proprio un figlio del dio della strada. Gli era piaciuta la compagnia di Thomas e Rick, e se anche il resto dei loro fratelli era come loro, pensò che sarebbero andati d’accordo.

Dopotutto... Ermes era anche il dio dei ladri. 

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Capitolo 3
*** Incubi ***


3

Incubi

 

 

Edward si aspettava una mensa, perciò il padiglione a cielo aperto lo lasciò parecchio sorpreso. Una grossa tavola sullo sfondo straripava di cibo, mentre un’altra dozzina di tavoli, uno per ogni casa chiaramente, era disposta in maniera ordinata in tutto lo spazio. Vedere tutti i semidei radunati in un unico punto fece un effetto molto più grande che osservarli sparpagliati per il campo, perché così riuscì a rendersi davvero conto di quanti fossero. Tanti, su questo non c’era dubbio. E non furono pochi quelli a voltarsi verso di lui. Inclusi proprio i figli di Ares e Afrodite, che parvero trovare molto divertente la sua presenza lì.

Thomas guidò Edward verso le pietanze, invitandolo ad ignorare gli sguardi, ma mentre si stavano avviando verso il tavolo imbandito qualcuno li fermò, chiamando il figlio di Ermes per nome. «Thomas!»

I due si fermarono, venendo raggiunti da un ragazzo biondo, con i capelli tirati all’insù.

«Ehi, Paul» lo salutò Tommy. «Qualcosa non va?»

«No, no, anzi…» Il biondo sorrise ad Edward. «Io sono Paul, il capocasa di Demetra.» Non appena disse quella frase, Edward capì dove la conversazione sarebbe andata a parare.

«Steph mi ha detto quello che è successo. Grazie per aver aiutato mia sorella con quelle arpie… cioè, “oche”.» Paul gli strizzò l’occhio. 

«Oh… beh, non c’è di che.» Edward si strinse nelle spalle. «Non credo però che sia servito a molto il mio intervento…»

«Ehi, di solito i pugni in faccia da Buck li prendo io» replicò Paul, dandogli un colpetto al braccio. «Ma questa volta ci ha pensato già qualcun altro. Per me è una vittoria.»

Stava usando un tono scherzoso, ma Edward pensò che di divertente non ci fosse molto. Cercò comunque di sorridergli. 

«Beh, farei meglio a tornare al mio tavolo. Spero che tu possa ambientarti presto, e… sì, insomma, sta lontano dai guai.» 

Edward avrebbe voluto rispondere che erano i guai a cercare lui per primi, ma ormai l’altro si era già allontanato. Guardò in direzione del suo tavolo e notò Stephanie, seduta in un angolo nel tentativo di dare meno nell’occhio possibile. Faceva di tutto per non guardare nessuno. Sembrava ancora piuttosto giù di morale. Paul si sedette accanto a lei, sorridendole, gesto che sembrò scaldarla un poco, perché sorrise a sua volta. Era più bella quando sorrideva.

«Immagino che anche Paul abbia provato a difendere Steph…» commentò Edward.

Tommy annuì. «Già. Non gli è mai finita bene.»

I due ragazzi riempirono i loro piatti, c’era così tanta roba che Edward non sapeva nemmeno da cosa iniziare, e a quanto pareva i bicchieri magici si riempivano con qualsiasi bevanda avessero voluto. Optò per i classici, della pizza con salame piccante e della coca-cola con ghiaccio e limone, la sua preferita. Dovette gettarne un po' in un braciere, come sacrificio per gli dei, ma ad Edward andò bene. Aveva sempre creduto che i sacrifici che volevano gli dei fossero vite umane scaraventate dentro dei vulcani attivi, una fetta di pizza a confronto non sembrava tanto grave.

E poi, poté incontrare il resto della casa di Ermes. Un grosso vociare proveniva dal loro tavolo, dove erano seduti una decina di ragazzi e due ragazze, intenti a discutere ad alta voce e a ridere di gusto, come se l’unica cosa che importasse loro fosse divertirsi. Il più vivace del gruppo era senza ombra di dubbio uno con i capelli castani e la frangia lunga, seduto in mezzo a tutti gli altri.

«Guardate un po’, l’uomo del momento!» esclamò proprio questo, quando si accorse di Edward. «Ormai il pugno che hai ricevuto è entrato nella storia!»

«Quale pugno??» domandò Rick alzandosi in piedi di colpo, sbattendo le mani sul piatto con un tonfo secco.

«E sta attento!» protestò la ragazzina seduta accanto a lui, che a occhio sembrava avere la sua stessa età.

«Dai, è nuovo, lasciatelo stare» borbottò Tommy, sedendosi in uno spazio lasciato libero proprio per loro due. Edward lo affiancò, trovandosi proprio di fronte al ragazzo che lo aveva accolto, che gli porse la mano.

«Io sono Derek, capocasa di Ermes.»

«Edward.»

I due si strinsero la mano, poi Derek sorrise. Anche i suoi occhi marroni brillarono di una strana luce maliziosa. Sembrava un tratto in comune con tutti i figli di Ermes, Tommy a parte. «Ci spiace che tu ti sia sorbito il primo giorno in compagnia di questo essere» e indicò proprio Thomas, che fece un verso offeso mentre mangiava. Abbassò la testa, farfugliando a bassa voce: «Soffocati…»

«Come come?» domandò il capocasa, calmandosi di colpo. «Ho sentito bene? Mi hai appena risposto?»

«Ehm…» Thomas parve agitarsi proprio come successo con Edward al lago, ma suo fratello scoppiò di nuovo a ridere.

«Ma guarda a chi sono spuntati i gioielli! Era ora! Certo, dobbiamo migliorare con gli insulti, ma sei sulla buona strada!»

«Ben fatto Tommy» commentò un altro dei suoi fratelli, sollevando il pollice, imitato da diversi altri, incluso Rick.

«Oh… beh…» Il ragazzo parve ancora più in imbarazzo di prima. Edward intuì che Tommy non doveva essere una cima nel relazionarsi con i suoi fratelli.

«In realtà sa che a volte è meglio rimanere zitti e dare solo l’impressione di essere stupidi, piuttosto che aprire bocca e togliere ogni dubbio» lo punzecchiò un altro dei ragazzi.

«Stiamo parlando di Buck, per caso?» domandò Edward, soccorrendo l’amico e suscitando un’altra risata generale. Diede un colpetto col gomito a Thomas, incitandolo ad aggiungere qualcosa.

Il piccoletto trasalì, ma parve intuire il piano di Edward. «Buck è un caso speciale…» mugugnò. «Uno di quelli che non hanno bisogno di parlare, basta uno sguardo e ogni dubbio scompare…»

Derek rovesciò la testa all’indietro per le risate, imitato da molti altri. Tommy sorrise, mentre Edward sorseggiò la propria bibita. Sollevò appena il pollice in direzione di Thomas, cosicché solo loro due potessero vederlo. Addentò poi la pizza e pensò che avrebbe potuto piangere. Era deliziosa, la cosa migliore che avesse mangiato nelle ultime settimane, forse perfino mesi.

La conversazione proseguì, prendendo le pieghe più svariate. Fecero ad Edward le classiche domande di rito, alle quali rispose in maniera più o meno sincera – non era ancora sicuro di poter raccontare del proprio passato alla leggera, dopotutto aveva appena conosciuto quelle persone. Nessuno insistette troppo a lungo su certi argomenti e a lui andò benissimo così.

Si rese conto che l’altra ragazza seduta a tavola con loro non gli staccò gli occhi di dosso per tutto il tempo. Aveva un viso bello ma severo, incorniciato da delle lunghe ciocche di capelli color rame. I suoi occhi ambrati sembravano scrutarlo attraverso l’anima. A Edward ricordò tutti quegli adulti che, con un solo sguardo, avevano deciso di bollarlo come una seccatura, un problema. Inutile dire che non sembrava averlo preso in simpatia come invece avevano fatto gli altri. 

Forse non tutto il tavolo di Ermes era poi così socievole. 

Dopo cena, si radunarono tutti in una specie di anfiteatro, dove un grosso falò ardeva nel mezzo. Un gruppo di ragazzi cantava canzoni a proposito di satiri ciccioni che ci provavano con delle driadi attorno al fuoco, strimpellando arpe e suonando flauti. Figli di Apollo, aveva detto Tommy. Edward non lo disse ad alta voce, ma gli sembravano un gruppo di pagliacci. Alcuni semidei cantavano assieme a loro, molti altri, invece, sembravano del tutto disinteressati. Il falò era di un colore arancione spento, quasi come se il fuoco non fosse nemmeno caldo.

Chirone se ne stava in disparte, a osservare i semidei con il suo vero aspetto da centauro. Faceva uno strano effetto vederlo con il posteriore di un equino bianco, inoltre era davvero imponente. Si domandò come facesse a tenere nascosta quella parte del suo corpo quando si spostava con la sedia a rotelle, ma forse la sedia funzionava come lo zainetto di Tommy.

Mentre la serata avanzava e il cielo si scuriva sempre di più, Edward cominciò a rendersi conto degli sguardi degli altri. Derek e i suoi fratelli, con i quali era rimasto, lanciavano continue occhiatine furtive sopra la sua testa e lo stesso facevano anche Chirone e altri semidei. Edward avrebbe voluto chiedere cosa diamine volessero, ma poi si ricordò delle parole di Stephanie: sarebbe stato riconosciuto tramite un simbolo sopra la sua testa, qualunque cosa significasse. Tuttavia, la giornata stava finendo e di simboli nessuna traccia.

«Non preoccuparti troppo» lo rassicurò Tommy, intuendo quello che stava pensando. «Sei stato parecchi anni lontano dal campo dopo il limite di età, forse ti ci vorrà anche un po’ più di tempo per essere riconosciuto.»

Edward annuì, anche se non era molto sicuro di cosa pensare.

Quando i figli di Apollo terminarono la loro ultima canzone, un tiepido applauso si sollevò, incitato da Chirone. Il gruppetto di ragazzi non parve molto entusiasta di tutta quell’indifferenza, ma a giudicare da come si comportarono era chiaro fossero abituati a quel trattamento. Il centauro batté gli zoccoli a terra, richiamando l’attenzione su di sé.

«Semidei. Prima di augurarvi la buona notte, volevo avvisarvi che da oggi avremo un nuovo ospite al campo, e pertanto vi chiedo di trattarlo come parte della nostra grande famiglia.» Non indicò Edward, quasi stesse dando per scontato che tutti quanti sapessero già che si trattava di lui, e la cosa lo fece sentire meglio. Era stanco di avere i riflettori puntati addosso.

«La prossima settimana ci sarà la grande sfida di caccia, perciò a tutti quelli a cui interessa partecipare chiedo di dare il massimo, perché non sarà facile. Bene, non ho altro da dire, auguro una buona notte a tutti voi.»

Un brusio cominciò a sollevarsi in aria mentre i semidei si alzavano e cominciavano ad abbandonare l’anfiteatro. Edward fece per imitarli, ma fu raggiunto da Chirone. «Edward, possiamo parlare un momento?»

Di solito essere presi in disparte da qualcuno per parlare in privato non era mai un buon segno, soprattutto se questo qualcuno era una delle forme d’autorità del posto, ma di certo Edward non poteva rifiutare.

«Derek, tu e tuoi fratelli potete tornare alla casa Undici» aggiunse ancora il centauro, notando l’incertezza del capocasa di Ermes e dei suoi fratelli.

Derek scoccò un rapido sguardo ad Edward, poi annuì. «Va bene. Buona notte capo.»

Chirone non parve infastidito dal nomignolo. «Buona notte anche a voi.» 

Il centauro cominciò a trottare in direzione del falò. Edward si scambiò un rapido sguardo con Tommy, che gli fece cenno di non preoccuparsi, poi andò ad affiancare Chirone, che stava guardando assorto le fiamme arancioni che ancora danzavano. 

«Come ti trovi qui, Edward?»

Una domanda prevedibile. «Bene. Mi serve solo un po’ di tempo per ambientarmi» rispose soltanto. Malgrado i bulletti, quel luogo era un milione di volte meglio di una strada pericolosa piena di mostri. Ancora non gli sembrava vero di aver resistito tutto quel tempo senza essere aggredito da nessuno… Buck escluso, ma gli asini non erano mostri. 

«Ho saputo dell’incidente con Buck. Sai, le voci corrono in fretta. Volevo solo scusarmi con te a nome suo. Non è sempre così, qui al Campo Mezzosangue. Qui tutti i semidei nutrono molto rispetto l’uno per l’altro.»

Edward storse la bocca. A giudicare da quello che Paul e Tommy gli avevano detto, le cose sembravano essere l’esatto opposto, ma preferì non ribattere. Si limitò ad annuire. «Capisco.»

Anche Chirone annuì. Il falò si stava affievolendo, ma la poca luce proveniente da esso illuminava l’espressione mesta del centauro. Anche lui doveva sapere che in realtà le sue parole non erano vere.

«Non sei stato riconosciuto» proseguì. «Una cosa piuttosto insolita, ma può succedere. Ti ci vorrà fino a qualche giorno, temo. Penso che abbia a che fare con il fatto che hai superato il limite d’età di così tanto.»

«Anche Tommy mi ha detto che poteva essere per questo. Ma è davvero così raro che un semidio arrivi così tardi al campo?»

«Può succedere anche questo ma… non come nel tuo caso. Non dopo cinque anni. Uno, due, al massimo tre anni. Dopo… diventa molto difficile. Mi sembra impossibile che tu sia riuscito a sopravvivere.»

Edward si strinse nelle spalle. Forse quella frase avrebbe dovuto offenderlo, ma la realtà era che sembrava impossibile anche a lui. Non erano poche, tuttavia, le volte in cui ci aveva quasi rimesso la pelle.

«Non ho voluto interrogarti quando ti sei svegliato per darti il tempo di recuperare le forze, e poi già ci aveva pensato Stephanie. Ma ora che sembra che tu stia meglio, potrei sapere la tua storia? Come hai fatto ad arrivare al campo senza l’aiuto di nessuno? Come sapevi di questo posto?»

«Ho vissuto con mia madre per molto tempo» cominciò a spiegare il semidio, anche se provò una strana fitta allo stomaco quando ripensò al benvenuto che Steph gli aveva dato. «Abbiamo girato per il paese, fuggendo da… i mostri.» Chirone non parve accorgersi di come Edward aveva esitato, per fortuna. Del resto era vero, erano fuggiti anche dai mostri.

«Ma quando avevo quattordici anni, siamo stati costretti a dividerci. Ho vissuto per altri due anni con delle famiglie affidatarie, ma non restavo mai troppo a lungo con loro. I mostri continuavano ad attaccarmi e io finivo sempre con il sembrare pazzo agli occhi di tutti. Poi, quando ho scoperto che volevano mettermi in un ospedale psichiatrico sono scappato.»

Il ragazzo si premette con forza le mani nelle braccia. In realtà, non era andata davvero così, non del tutto almeno, ma la storia più dettagliata preferiva tenerla per sé.

«Il resto del tempo l’ho passato vivendo da solo, rimanendo nascosto in uno dei vecchi alloggi di mia madre. E poi, un giorno, per caso, ho trovato questo tra le sue cose.» Edward estrasse dalla tasca il biglietto di sua madre. «Era per me.»

Lo lesse mentalmente per un istante prima di passarlo a Chirone:

 

 

Edward, mi spiace dovertelo dire così, ma mi ero ripromessa che avresti dovuto sapere di questa cosa solo in caso di emergenza. Purtroppo non potrò rimanere per sempre con te. Quando ci separeremo, dovrai raggiungere queste coordinate, a New York. Qui troverai un grosso pino. Superalo, e sarai al sicuro. Capirai tutto quanto quando sarai là.

Spero che tu possa perdonarmi, un giorno. Sappi che ti voglio bene, te ne vorrò sempre, ovunque sarai e ovunque sarò io. Tra tutti i miei tesori, tu sei sempre stato il più prezioso. Stai attento.

Mamma.

40.712784°-74.005941°

 

 

 

Non aveva mai capito per cosa dovesse perdonarla. Forse per non avergli mai detto la verità su suo padre e sulla sua natura di semidio e per non avergli mai raccontato ciò che sapeva del Campo Mezzosangue, ma come poteva biasimarla? Era una storia folle da raccontare. Forse nemmeno lei era mai riuscita a crederci davvero. E sicuramente non voleva separarsi da lui. Nemmeno lui l’avrebbe mai voluto.

Doveva averlo scritto molti anni prima che Edward lo rinvenisse, perché l’inchiostro era sbiadito e la carta screpolata, quasi come se lei avesse sempre saputo che il fatidico momento sarebbe giunto, prima o poi. E anche il fatto che lo avesse trovato per caso non lo convinceva del tutto. Non credeva alle coincidenze. Era stato quasi come se qualcuno o qualcosa avessero voluto che lui trovasse quel biglietto. Il suo padre divino che aveva deciso di mandargli un segno? Ne dubitava, ma chi poteva dirlo.

Chirone lesse il biglietto, per poi annuire. Lo restituì al ragazzo, dandogli una strana occhiata. Era come se lo vivisezionasse con gli occhi.

«Ci ho messo un paio di mesi per arrivare qui a New York, visto che prima abitavamo in California» proseguì Edward, cercando di non sentirsi a disagio sotto lo sguardo vigile del centauro. «Sembra quasi che… che mia madre volesse tenermi lontano da questo posto. Almeno fino a quando non avrebbe avuto altra scelta. Ma perché? Se me l’avesse detto subito, avrei…» Si fermò, prima di lasciarsi scappare qualche parola di troppo. E anche prima di emozionarsi, troppo.

«Non lo so» ammise Chirone. «Ma ammetto che la tua storia è tanto interessante quanto strana. Gli interrogativi che ti stai ponendo sono gli stessi che mi pongo anche io. Pare che tua madre sapesse molte cose riguardo il Campo Mezzosangue, nonostante noi tutti fossimo ignari della vostra esistenza. Per caso sapeva vedere attraverso la Foschia?» Edward non seppe rispondere. Se lei sapeva farlo, allora non gliel’aveva mai detto.

«Questa faccenda è davvero insolita. E il fatto che tu non sia stato riconosciuto…» Il centauro assunse un’espressione pensierosa. «Forse è vero che non dovresti trovarti qui.»

«Oh, grandioso…» Quelle sì che erano belle parole da sentire.

Tuttavia Chirone sorrise. «Non temere, Edward. Il Campo Mezzosangue è la casa di tutti i mezzosangue, e tu sei un mezzosangue. Fino a quando non faremo più luce sulla faccenda, potrai stare tranquillo e dormire sonni sereni. Ora però si è fatto tardi, faresti meglio ad andare a riposare. È da molto che non lo dicevo, ma: Casa Undici… uhm… credo che il tuo cognome mi sia sfuggito.»

Non gli era sfuggito, nessuno gliel’aveva proprio chiesto, fino a quel momento. «Model» sorrise Edward. Il cognome di sua madre, Kate Model.

«Casa Undici, signor Model» esordì Chirone.

Se non ricordava male, anche a Derek aveva detto di tornare alla Undici. Quindi… sarebbe rimasto con i figli di Ermes, quella sera. La cosa lo fece sentire più tranquillo. Edward annuì. «Va bene, Chirone. Grazie.»

«Buonanotte» lo salutò il centauro.

«Buonanotte.» Edward gli diede le spalle e cominciò ad allontanarsi. Fino a quando non abbandonò l’anfiteatro, tuttavia, poté sentire gli occhi di Chirone puntati proprio sulla sua schiena, e quel senso di tranquillità cominciò ad abbandonarlo.

 

***

 

Edward si guardò attorno, con nuvolette di fiato condensato che uscivano dalla sua bocca. Ancora quel luogo buio. Questa volta però era diverso: non c’erano mostri a inseguirlo. Non c’era nessuno a dire il vero, solo lui.

Cominciò a muoversi, ad addentrarsi nell’oscurità. Era così strano spostarsi lì dentro. Temeva di precipitare nel vuoto ad ogni passo, visto che non c’era nessun pavimento o suolo di qualsiasi tipo. Era come se si spostasse sospeso sopra al nulla. Avanzò per quella che gli parve un’eternità; pure il tempo sembrava avere qualcosa di strano, in quel luogo.

Procedette a stenti, nella speranza di non sbattere o cadere da nessuna parte, finché qualcosa non apparve nella sua visuale. Una luce flebile, come la fiamma di una candela, fece luce su un’ombra tra l’oscurità. All’inizio Edward faticò a vederla, ma man mano che si avvicinava, la figura cominciò a delinearsi. Sembrava un uomo, seduto di spalle con la testa china e una cascata di capelli lunghissimi che gli scendeva sulla schiena. 

Edward si mosse in automatico verso di lui. Sapeva che era una pessima idea, se lo sentiva nelle viscere, ma allo stesso tempo non riuscì a fare nulla per impedire al suo corpo di muoversi.

«Chi sei?» domandò, di getto. Non ricordava di essere mai riuscito a parlare prima d’ora, in quei sogni, ma anche quando lo fece, si sentì come se l’avesse fatto contro il proprio volere.

L’uomo drizzò la testa. Indossava una lunga veste nera e sbrindellata, che lasciva scoperte gambe e braccia magrissime e cadaveriche. 

«Chi sono…» ripeté, con un sussurro, senza voltarsi. La sua voce parve un sibilo. Un sibilo di un serpente. «Questa è un’ottima domanda, piccolo dio. Una domanda a cui nemmeno io saprei ancora rispondere.»

Piccolo dio. Edward sentì il proprio corpo fittizio venire percorso da un brivido.

«Non so bene chi o cosa io sia, in questo momento. Ricordo che i mortali mi temevano e che mi servivano. Ricordo di essere stato il loro padrone. Ricordo di esserlo stato per secoli, fino… fino a quando un dio ficcanaso non si è impicciato. Mi ha sconfitto e… mi ha portato via tutto quanto.»

L’uomo cominciò ad alzarsi in piedi. Un piccolo fuocherello ardeva di fronte a lui, la fonte della scarsa illuminazione. «Ho passato molto tempo così. Stanco, ferito, debole, affamato, rincuorato solo dal pensiero di poter avere un giorno la mia vendetta. Ma prima di tutto, devo riprendere quello che mi appartiene… da te

Qualcosa prese forma nella sua mano, generato dall’oscurità di quel luogo. Una lunga asta, alla cui estremità una lama ricurva cominciò a spuntare. Una falce. La figura si voltò con un lento e straziante movimento ed Edward cominciò a realizzare di essere in pericolo. Cercò di muoversi e di parlare, ma non riuscì in nessuna delle due cose.

«Non sprecare le tue energie, piccolo dio. Risparmiale per il momento in cui ci incontreremo davvero. Mi hai chiesto chi sono, ma hai sbagliato. Avresti dovuto chiedermi: "chi ero."»

L’uomo sollevò la testa ed Edward riuscì a vederlo in faccia, nonostante l’oscurità. La sua pelle era pallida, di un colore verde tendente al blu. All’inizio il ragazzo pensò che fosse raggrinzita, ma poi si rese conto che non era vera pelle, ma… squame. I capelli lunghi e neri cadevano disordinati sul suo volto e le sue spalle. Ma i suoi occhi furono ciò che lo sorpresero di più: due occhi color sangue puntati dritti sui suoi. La figura gli sorrise. Un sorriso che parve più un ringhio famelico. I suoi lineamenti sembravano quelli di un rettile. Di un serpente.

«Ero un mostro. Ero il mostro» sibilò ancora quello, avvicinandosi. «E quando avrò finito con te… il mondo intero si piegherà di nuovo al mio cospetto. E nessun dio, questa volta, riuscirà a fermarmi.»

Impugnò la falce con entrambe le mani. «Non credere di essere al sicuro dove ti trovi ora: nessuno luogo ti terrà mai al sicuro da me.» Sollevò la falce, sopra la sua testa. «Ci vedremo presto, piccolo dio. Dove tutto ha avuto inizio.»

Edward riuscì finalmente a muoversi, ma ormai la falce era già calata su di lui.

 

***

 

Si svegliò di soprassalto. I figli di Ermes che dormivano nei letti accanto a lui furono la prima cosa che vide. Vedere Rick, Derek e gli altri riuscì a tranquillizzarlo un poco. Anche se la tranquillità durò solo fino a quando non realizzò cosa fosse appena successo.

Quello… quello non era stato un sogno normalissimo. Era davvero stato in quel posto, aveva davvero parlato con quella persona, anche se non dal vivo. Era come se il suo spirito lo avesse fatto. Sprofondò con la testa nel cuscino. Si accorse di avere il respiro pesante e si accarezzò il collo, trovandolo intatto. Per un momento, la falce che calava su di lui non gli era sembrata soltanto parte di un sogno.

Ripensò alle parole che aveva udito. Nessun luogo era sicuro. Possedeva qualcosa… che apparteneva a quell’uomo. Gli venne da pensare a quella parola, “ladro”. Che quel tizio fosse in qualche modo collegato a quegli altri mostri con gli occhi rossi? Non poteva essere solo un’altra coincidenza.

Sospirò profondamente e si massaggiò la tempia, facendo scivolare via le lenzuola. Che cosa stava succedendo? Chi era lui, davvero? Perché nessun dio lo aveva ancora riconosciuto? Perché sua madre l’aveva tenuto lontano dal Campo Mezzosangue? 

«Uh, dai, nonna…» mugugnò Thomas nel sonno, rigirandosi tra le coperte del letto sopra al suo. «… non voglio andare a scuola…»

Un sorrisetto scappò dalle labbra di Edward. La voce di Tommy gli ricordò che era in buona compagnia e lo aiutò a tranquillizzarsi. Chiuse gli occhi, cercando di riaddormentarsi, ma quelle parole risuonarono nella sua mente, come se quell’uomo rettile gliele stesse sussurrando nelle orecchie proprio in quel momento:

«Ci vedremo presto, piccolo dio.»

Edward riaprì gli occhi. Si preannunciava una lunga notte.

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Capitolo 4
*** Conflitti nel campo ***


4

Conflitti nel campo 

 

 

Il giorno successivo cominciò la sua nuova vita. Da quel momento in poi, avrebbe dovuto imparare a fare parte di quella grande, grandissima, enorme, famiglia di ragazzi figli di divinità. Dopo un brusco risveglio nella casa di Ermes, dovuto al chiasso causato da Derek e i suoi fratelli, la sua giornata di orientamento poté cominciare.

Scoprì di odiare le lezioni di greco, mentre quelle sui mostri furono più di suo gradimento. Gli piacque imparare qualcosa di più sui propri nemici. Ad esempio le donne serpente si chiamavano Dracene, mentre gli orchi che lo avevano attaccato fuori dal campo si chiamavano Lestrigoni. Non trovò nulla riguardo i mostri con le corna e gli occhi rossi e soprattutto l’uomo serpente che aveva visto nei suoi sogni, però. Non sembrava davvero un buon segno. 

Alla parete di arrampicata se la cavò piuttosto bene, dando filo da torcere a molti dei suoi “fratelli” della casa di Ermes, fino a quando non rischiò di morire bruciato dalla lava, mentre alle lezioni di tiro con l’arco l’istruttore, un figlio di Apollo biondino e lampadato con la spocchia di un attore di Hollywood, ebbe giusto il tempo di spiegargli come impugnare l’arco nel modo giusto, prima che Edward centrasse ogni bersaglio al primo colpo. Per poco a quel tizio non era preso un colpo per la sorpresa, ma del resto Edward aveva sempre avuto una buona mira. A scuola era sempre stato il migliore a buttare verifiche insufficienti accartocciate nel cestino.

Le cose cominciarono a precipitare quando Derek e Tommy lo accompagnarono all’arena dove si allenavano a combattere per davvero.

Quel luogo era proprio come se lo sarebbe aspettato: il pavimento di terra battuta, rastrelliere piene di armi, non solo spade o lance ma anche pistole, fucili e una cosa che assomigliava in tutto e per tutto un lanciafiamme. In un angolo erano accatastati una decina di manichini di legno e paglia, oggetti d’allenamento, tutti quanti mutilati. Un piccolo satiro con un berretto da baseball stava impartendo ordini ad alcuni semidei che stavano facendo delle flessioni e altri che invece li osservavano divertiti. Tra questi, Edward notò alcuni dei ragazzi di Ares, anche se l’assenza di Buck gli parve un buon segno. Forse non gli avrebbero detto niente. Forse.

Un verso sorpreso provenne da Tommy all’improvviso, che distese le braccia per fermare la camminata di Edward e Derek.

«Ma che fai?» sbottò il capocasa. Anche Edward lo osservò confuso, per poi notare il suo sguardo, che pareva calamitato a un punto fisso dell’arena.

Una ragazza si stava allenando in disparte con la spada, abbattendola contro i manichini con un’agilità ed una grazia incredibili, che cozzavano con la forza che metteva nei propri attacchi. Aveva i capelli corti e arruffati che le arrivavano al collo, tinti di arancione anche se alcune ciocche del loro colore naturare, biondo, saltavano ancora all’occhio. La carnagione della pelle era scura, forse era molto abbronzata, oppure era proprio il suo colore naturale. Sicuramente era lei il motivo per cui Tommy sembrava pietrificato.

«Chi è quella?» domandò Edward.

«Rosa Mendez, una figlia di Apollo» spiegò Derek. «Ha una strana ossessione per il combattimento con la spada. E il nostro Tommy è innamorato perso.»

«Ah-ah…» annuì il ragazzo più piccolo, sempre con gli occhi incollati alla figlia di Apollo.

Edward sorrise. Thomas era proprio un Marcantonio, non c’era che dire. «Perché non ti dichiari?»

«Scherzi! Non sa nemmeno che esisto!» protestò Tommy, a bassa voce.

«Suvvia, scommetto che andrai alla grande!» fece eco Derek. «Insomma, potreste tingervi i capelli assieme! Già vi ci vedo!»

«Ehi! I miei capelli sono naturali!» esclamò Thomas, forse con voce un po’ più alta di quanto avrebbe voluto. Il resto dei semidei si voltò verso di loro, pure Rosa smise di macellare manichini per un istante.

«Ma guarda chi si vede…» commentò uno dei figli di Ares, strappando una risatina ai suoi fratelli.

Tommy parve soffocare sotto tutti quegli sguardi ed Edward gli diede qualche pacca di incoraggiamento.

«Siete qui per allenarvi?» domandò il satiro, per poi avanzare verso di loro, osservando soprattutto i due figli di Ermes. «Perché se sì, sappiate che ci sono ancora le duecento flessioni della scorsa volta che vi aspettano, Murphy e Blake. E anche tu, non pensare di prendermi in giro perché caschi male… uhm…» Il satiro si concentrò su Edward, apparendo confuso. «… tu… non credo di averti mai visto prima. Chi caspita sei?»

«Sono Edward Model, il nuovo arrivato.» 

«Hai uno strano odore» bofonchiò ancora il satiro, suscitando una risatina tra i semidei.

«Anche Jane aveva detto che puzzava» esclamò uno dei figli di Ares.

«Silenzio angioletti» zittì l’istruttore, studiando Edward ancora per un istante, per poi emettere uno strano grugnito e tornare indietro. «D’accordo, vi voglio tutti divisi in coppie. Vi sfiderete in una serie di incontri uno contro uno. Mostratemi cosa avete imparato.»

«Perché non fai coppia con Rosa?» borbottò Derek a Tommy, ottenendo un altro gemito spaventato come risposta.

Edward rimase a osservare il satiro, perplesso. Da quello che aveva capito, anche i satiri fiutavano l’odore dei semidei, come i mostri, ma che cosa voleva dire con "strano odore"? La doccia se l’era fatta quella mattina, dopotutto. Dubitava che si riferisse a quel tipo di strano odore, ma era meglio non escludere nessuna ipotesi.

«Voi tre» li rimbeccò il satiro. «Vi allenate oppure no?»

«Oh, n-no, coach Hedge, noi ce ne stavamo giusto andando…» mugugnò Tommy dando una gomitata a Derek che sembrava in procinto di dire qualcosa di stupido. 

Edward fece per unirsi a loro, ma una voce familiare si fece sentire: «Perché invece il nuovo arrivato non ci mostra di cosa è capace?»

Il ragazzo si voltò, per poi vedere il semidio del giorno prima, il figlio di Ares con i capelli neri e gli occhi di ghiaccio, osservarlo. Edward si fermò, sentendo gli sguardi di tutti posarsi su di lui.

«Suvvia, se sei sopravvissuto così tanto là fuori, lontano dal campo, significa che devi essere uno tosto. Il pugno di Buck l’hai incassato bene.»

Altre risate si sollevarono. Il fratello di Buck afferrò una spada da una rastrelliera, per poi lanciargliela. Edward, per non farsi affettare, si scansò facendola cadere a terra con un tonfo metallico. Osservò l’altro come se fosse pazzo, ma quello sorrise. «Come riflessi devi ancora migliorare.»

Edward strinse i pugni. Quel tizio cominciava a dargli sui nervi. E tutti quegli sguardi puntati su di loro non aiutavano di certo. Anche la figlia di Apollo posò la spada a terra e incrociò le braccia, osservando la scena con uno strano sorriso.

La voce incerta di Thomas arrivò alle sue spalle. «Ehm… Edward? Forse dovremmo andar…»

«Va bene» sbottò Edward all’improvviso, raccogliendo la spada. «Ci tieni tanto a essere preso a calci? Ti accontento subito.»

I semidei scoppiarono nuovamente a ridere. Il figlio di Ares sorrise. Si avviò verso un cerchio tracciato nel suolo e gli fece cenno di avvicinarsi.

«Edward…» lo chiamò Derek. «… sei sicuro?»

«No» replicò lui, per poi dirigersi nel cerchio. Non era sicuro per niente. Ma confidava sul fatto che il figlio di Ares non lo uccidesse nei primi dieci secondi, il tempo per ideare il piano che gli era venuto in mente.

Si ritrovò nel cerchio, a reggere una spada per la seconda volta nella sua vita, solo che questa era piuttosto diversa dalla prima, nonché molto più pesante. Il figlio di Ares sembrava a proprio agio e lo studiava quasi come se avesse l’imbarazzo della scelta sui modi da usare per farlo a pezzi di fronte a tutti.

Il satiro si fece avanti. «Va bene angioletti, niente colpi bassi. Vince chi riesce a colpire l’altro per primo, ma senza ucciderlo, o mi arrabbio sul serio.»

Certo, anche Edward si sarebbe arrabbiato se il suo avversario lo avesse ucciso. 

«Fallo a pezzi, Konnor!» gridò uno della casa di Ares. 

Konnor. Almeno adesso Edward sapeva il nome della persona che avrebbe fatto imbestialire.

Il satiro non diede nemmeno un “via” ufficiale che Konnor aveva già cercato di affettarlo. Edward si scansò saltando all’indietro, ma riuscì a percepire comunque lo spostamento d’aria della lama a pochi centimetri dal suo volto. Soffocò un’imprecazione. Non aveva manco iniziato e se l’era già vista brutta. Il figlio di Ares non gli diede nemmeno il tempo di pensare ad un contrattacco, costringendolo a schivare altre tre sferzate.

«Intendi scappare per sempre, novellino?»

L’attacco successivo fu molto più veloce, Edward non sarebbe mai riuscito a schivare anche quello. Sollevò la spada per proteggersi e le due lame cozzarono tra loro. Commise l’errore di tenere la spada con una mano sola, contro Konnor che invece stava usando entrambe. Provò una fitta di dolore al braccio, ma tenne comunque salda la presa. Si ritrasse ed impugno la spada come Konnor, per poi contrattaccare. Con un urlo tracciò una diagonale nell’aria, ma ora toccò a Konnor scansarsi per evitarlo. «Sei troppo lento!»

Edward serrò la mascella. Non era affatto all’altezza del suo avversario. Konnor era addestrato, ed era figlio del dio della guerra, stava solo giocando con lui, come un gatto col topo.

Cominciò a pentirsi della sua decisione: non era affatto abituato a combattere con armi di quel tipo. Preferiva il coltello, che lo rendeva molto più veloce. Inoltre quella spada era molto diversa da quella che aveva usato quattro anni prima: era molto più pesante, gli era venuto male alle braccia dopo averla alzata giusto due volte. 

Un movimento repentino catturò la sua attenzione ed Edward si ricordò di essere nel bel mezzo di un combattimento. La spada di Konnor lo mancò ancora una volta per un soffio.

Con la coda dell’occhio, Edward scorse Tommy e Derek, dall’aria piuttosto preoccupata, e anche Rosa, che invece continuava a esaminare la scena con occhio più critico. 

«Avanti Konnor, basta giocare, finiscilo!» gridò qualcuno in mezzo alla folla, con un susseguirsi di risate.

Le nocche di Edward sbiancarono da quanto strinse l’elsa. Gridò di rabbia e cercò di colpirlo di nuovo, tuttavia tracciò un lento arco nell’aria per farlo; era ora di attuare il piano. Come sperava, Konnor bloccò l’attacco, ridacchiando per l'ennesima volta. «Sembra che tu ti stia muovendo nella melassa!»

Le lame rimasero premute tra loro a mezz’aria. I due semidei cominciarono a far forza, per cercare di avere l’uno la meglio sull’altro. Doveva ammetterlo, fisicamente parlando, quel tizio era molto più forte di lui. Ma Edward aveva combattuto contro i mostri per tutta la vita. Non era forte, non era abile, ma possedeva qualcosa di più: giocare sporco non lo spaventava.

Sollevò la gamba. Fu un attimo. Konnor si accorse di quello che stava succedendo un secondo più tardi. L’unica cosa che poté fare prima che il calcio di Edward lo colpisse allo stomaco, fu sgranare gli occhi. Il figlio di Ares ruzzolò a terra, tenendosi una mano sul punto colpito, la spada che cadeva al suolo accanto a lui. L’intera arena parve paralizzarsi d’un tratto. Un silenzio irreale calò tra i semidei. Edward sorrise. «Ho vinto.»

«Razza di vigliacco!» urlò uno dei figli di Ares, additandolo, seguito dai versi di sdegno e di protesta del resto del gruppo.

Edward sollevò un sopracciglio e rispose con tono innocente: «Ma che state dicendo? Ho vinto io!» 

Cercò l’approvazione dei suoi compagni di casa, ma sia Tommy che Derek parvero piuttosto scossi a loro volta. Non seppe perché, ma Edward si voltò perfino verso di Rosa, che inarcò un sopracciglio con sguardo incuriosito.

«Senti un po’…» rantolò Konnor, mentre si rialzava in piedi. Fu più veloce di lui: lo afferrò per il colletto della maglietta e lo trascinò a sé, puntando i suoi occhi di ghiaccio dritti sui suoi. «… ti credi tanto simpatico?!» Agitò la spada che teneva in mano, che doveva aver raccolto rialzandosi. «Dammi un valido motivo per non sgozzarti proprio ora!»

Il figlio di Ares era furibondo. Il suo sguardo avrebbe quasi fatto paura. Peccato che Edward di paura non ne avesse nemmeno un briciolo. Per tutta risposta, accentuò il suo sorriso arrogante: «Tu provaci, e il prossimo calcio non sarà così in alto.»

«Ehi, ehi, ehi!» tuonò il coach Hedge, frapponendosi tra loro. «Calmatevi, angioletti!»

Angioletti non sembrava una parola molto adatta da usare in quella situazione.

L’istruttore separò i due semidei. Edward sollevò le mani in segno di resa, retrocedendo sempre con quel sorrisetto sul volto, sicuro di star mandando su tutti i gangheri i presenti, Konnor in primis.

«Niente sgozzamenti nella mia arena» proseguì il satiro, per poi voltarsi furibondo verso di Edward. «E tu, avevo detto “niente colpi bassi!”»

«Oh, certo, perché i mostri là fuori ti comprano dei cioccolatini se sei sportivo con loro.»

«Uhm… beh… non hai tutti i torti…»

«Che cosa?!» sbottò Konnor. «Coach Hedge, è impazzito? Qui non stiamo combattendo i mostri!»

«Toglimi una curiosità.» Edward prese di nuovo la parola. Il suo sguardo si indurì. «Se non ti avessi colpito con quel calcio, che cosa sarebbe successo esattamente?»

Il figlio di Ares tacque all’improvviso. Edward proseguì: «Avresti continuato a giocherellare con me fino a quando non ti saresti stancato e non mi avresti fatto qualcosa di stupido tipo, che ne so, tagliarmi i pantaloni e lasciami in mutande?»

Konnor non ripose. La sua espressione si fece incerta. Edward non aveva ancora finito: puntò il dito verso tutti loro. «La realtà è che non siete arrabbiati per il calcio. Siete arrabbiati perché il suo piano è naufragato. Il novellino che impedisce agli altri di prendersi gioco di lui? Inaccettabile, vero? Già, dovrei starmene fermo, impalato, e lasciare che quelli che sono qui da più tempo di me mi facciano tutto ciò che vogliono. La prossima volta combatterò contro di lui con delle bacchette da cibo cinese, va bene?»

Edward gettò la spada a terra con forza, un suono metallico rimbombò nell’arena. «Non siete altro che un branco di bulli da due soldi. Non ho passato la mia maledetta vita a combattere contro i mostri per poi essere costretto ad avere a che fare con gente come voi.»

«Datti una calmata, perdente» si intromise uno dei figli di Ares. «Stiamo solo scherzando un po’. Lo facciamo con tutte le matricole.»

«Oh, non sapevo di essere anch’io una matricola.» Derek si fece avanti, accompagnato da Tommy. Il capocasa di Ermes sorrise in maniera sarcastica. «Dopotutto, io sono qui nel campo solo da cinque anni, e voi della casa di Ares ancora trattate me e i miei fratelli come scarafaggi.»

«E non dimentichiamoci di come le vostre amichette della casa di Afrodite trattano i figli di Demetra» aggiunse Thomas, mostrando un insolito coraggio. «Anche Steph è qui da molti anni, e ancora non le danno pace.»

Non appena pronunciò quel nome, Konnor parve sussultare. Non era la prima volta che si comportava in modo strano quando c’era di mezzo Steph. Edward lo squadrò stringendo le palpebre. «C’è qualche problema, Konnor?»

Il figlio di Ares fece vagare lo sguardo su loro tre. Sembrò ponderare su una possibile risposta da dare, ma alla fine si voltò da un’altra parte. I suoi fratelli non poterono credere a quella sua resa. Edward sorrise e Derek gli diede un colpetto al braccio. «Andiamo Edward. Qui abbiamo finito.»

Il trio diede le spalle a tutti loro.

«Beh, angioletti, la giornata ha preso una piega inaspettata» commentò Hedge, mentre si allontanavano. A Edward parve di cogliere una punta di divertimento nella sua voce. 

«Ma non pensate che sia finita qui! Tutti a terra, forza, cinquanta flessioni!»

Un gruppo di versi di protesta si sollevò in aria, poco prima che i tre ragazzi uscissero dall’arena.

«Accidenti, come avrei voluto avere una macchina fotografica!» esclamò Derek, emozionandosi. «Non ho mai visto quelle espressioni sulle loro facce!»

Tommy annuì, anche se sembrava in procinto di vomitare. Il capocasa se ne accorse. «Thomas, tutto ok?»

«S-Sì… è solo che…» Si mise le mani tra i capelli. «Ho davvero risposto anche io ai figli di Ares?! Quelli mi ammazzeranno alla prima occasione! Ma che mi è preso?!»

Contro ogni pronostico, Derek scoppiò a ridere. «Dì la verità, volevi solo mostrarti coraggioso di fronte a Rosa.»

Tommy avvampò, strappando un sorriso ad Edward. 

«Era da tempo che aspettavamo qualcuno come te!» proseguì Derek, dando di gomito ad Edward.

«Che intendi dire?»

«Qualcuno che avesse il coraggio di rispondere per le rime a quei vermi! Finalmente quei codardi hanno qualcuno che li rimette in riga!»

Edward inarcò un sopracciglio. «Scusa, ma perché nessun’altro prima di me l’ha mai fatto?»

«Oh, credimi, qualcuno ci ha provato.» Il sorriso di Derek si fece amareggiato. «Non è mai finita molto bene. Ti consiglio di guardarti le spalle. Buck non ci metterà molto prima di cercare di vendicarsi.»

«Che venga pure» grugnì Edward. «Le sue palle hanno già la mia scarpa stampata sopra.»

Ancora una volta, Derek scoppiò a ridere, dandogli una pacca sulle spalle. Anche Tommy sorrise, ma sembrava piuttosto turbato dall’idea di una vendetta dei figli di Ares.

«Andiamo gente!» esordì il capocasa. «Tra poco si mangia!»

 

***

 

Una cosa che Edward poté constatare, fu che nella casa di Ermes vi era un delirio continuo. Derek e i suoi fratelli si facevano qualunque tipo di dispetto a vicenda e non era raro che volassero parole grosse tra di loro, ma alla fine si risolveva sempre tutto con una risata di gruppo. Le due ragazze, che Edward scoprì chiamarsi Leyla, la più giovane, e Natalie, quella che l’aveva squadrato, avevano una stanza tutta loro, per fortuna, anche se non era raro vedere la più piccina partecipare al divertimento facendo coppia con Rick.

Natalie invece di solito se ne stava per le sue. Appariva ogni tanto, come un fantasma alle spalle dei suoi fratelli più chiassosi, afferrandoli per le orecchie e ordinando loro di darsi un contegno. Incredibilmente, tutti si ammansivano sempre davanti a lei. Perfino Derek si riguardava dal risponderle. Non era la capocasa, ma tutti la temevano e rispettavano. Doveva essere la parte moderata di quella famiglia. Edward non ci parlò praticamente mai, ma gli bastò vedere l’andazzo generale per capire che era meglio stare buoni in sua presenza. 

Un’altra cosa che poté constatare, con più amarezza, fu che il suo genitore divino non sembrava avere la benché minima intenzione di farsi vedere.

Era al campo da diversi giorni ormai e di simboli sulla sua testa ancora nessuna traccia. Le giornate proseguivano sempre nello stesso modo: sveglia, colazione, lezioni, altre lezioni, pausa pranzo, addestramenti, altri addestramenti e un po’ di tempo libero prima e dopo la cena, per poi chiudere la giornata con il grande falò – a cui purtroppo dovevano andare tutte le sere per assistere agli spettacoli dei buffoni di Apollo. 

Non era una routine che era obbligato a seguire davvero, ma gli consigliarono di farla visto che era nuovo. Una volta passato un po’ di tempo, poi, avrebbe potuto fare un po’ quello che gli pareva, cercando sempre e comunque di dare priorità al suo addestramento visto che era la cosa principale per un semidio.

Gli sguardi omicidi rivolti a lui dai figli di Ares furono un tratto comune di tutti i giorni, uniti a quelli perplessi di altri semidei, e anche di Chirone, dovuti al fatto che ancora non era stato riconosciuto. All’inizio detestava di essere al centro dell’attenzione, ma poi ci fece l’abitudine: del resto, era strano anche per lui non avere ancora un genitore ufficiale. Tuttavia, finché sarebbe potuto stare con i figli di Ermes, la cosa non gli dispiaceva.

Un giorno, fu sfidato da Rick per una partita alla console, uno contro uno. Edward aveva accettato, tuttavia accorgendosi delle strane risatine provenienti dagli altri figli di Ermes. Il motivo per cui tutti loro trovassero divertente la cosa fu presto detto: il bambino lo distrusse totalmente in quel videogioco sparatutto. Ben venti uccisioni a zero. 

A quanto pareva, essere fatti a brandelli dal piccoletto era quasi un rituale nella capanna Undici. Gli raccontarono una storia assurda che narrava di come Tommy, incapace di accettare la sconfitta, era arrivato a sfidare Rick in una partita al meglio delle tre, che poi si era trasformata in una al meglio delle quindici visto che continuava a perdere. E ovviamente aveva perso lo stesso.

Per una volta, dopo tanto tempo, si sentì parte di una vera famiglia. Tutti quei ragazzi cominciarono a sembrare dei veri e propri fratelli per lui. Facevano scherzi stupidi anche a lui, e lui rispondeva al fuoco, tuttavia non c’era mai alcuna traccia di malizia in loro, solo il semplice desiderio di potersi divertire anche con qualcosa di sciocco come quello.

Si sentiva bene, con loro. Si sentiva accettato, tranquillo, protetto. Neppure tutti gli incubi che lo tormentavano notte dopo notte lo preoccupavano, in quei momenti.

Proprio per questo motivo, due giorni dopo, quando rientrò nella casa di Ermes dopo un allenamento di tiro con l’arco, rimase atterrito quando si accorse di quello che era successo a Rick.

Il piccoletto era seduto sul suo letto, con le lacrime agli occhi. Stava singhiozzando mentre accanto a lui Tommy e Natalie gli davano pacche comprensive sulle spalle, cercando di consolarlo mormorando frasi incoraggianti. Anche Leyla era presente, seduta in disparte, con lo sguardo abbattuto.

«Cos’è successo?» domandò, avvicinandosi. Thomas sollevò gli occhi verso di lui, ma non ci fu bisogno di spiegazioni: i tagli, le escoriazioni e i lividi sul corpo del bambino parlavano da loro. Aveva i pantaloncini strappati sulle ginocchia, lasciando in bella vista la pelle graffiata, e anche le maniche della maglietta erano sgualcite.

«L’hanno…» Edward a stento riuscì a formulare la domanda. L’idea che potesse davvero essere successo quello che pensava lo lasciava atterrito. «… l’hanno picchiato?»

Tommy si strinse nelle spalle. «Non lo sappiamo. Rick non vuole dircelo.»

«Sono stati i ragazzi di Ares!» esclamò Leyla, balzando in piedi con le mani strette a pugno. Era livida di rabbia.

«Leyla» l’ammonì Natalie. «Non possiamo esserne certi. Lasciamo che Rick si riprenda e…»

«NO!» protestò la bambina. «Non è giusto che si comportino così! Noi non gli abbiamo fatto niente di male!»

Natalie serrò le labbra. Aveva una strana espressione. 

«Leyla…» mormorò Tommy. «Coraggio, vedrai che Rick presto starà meglio. Derek è andato alla casa di Apollo, presto uno dei loro arriverà e lo aiuterà. Sono i migliori medici del campo, Rick sarà di nuovo in piedi in ben che non si dica.» Più che convincere la bambina, sembrava quasi voler convincere sé stesso.

Tutto quello per Edward fu troppo: strinse le mani a pugno per poi uscire dalla casa come un fulmine. Tommy e Natalie lo chiamarono, ma ormai lui era già lontano, diretto verso la casa di Ares.

 

***

 

Non gli sembrava vero. Non poteva essere vero. Derek gli aveva detto che la vendetta di Buck sarebbe arrivata, e dopo una settimana, Edward ancora non aveva smesso di pensarci. Ma picchiare Rick, solo per vendicarsi di uno stupido calcio dato a Konnor, quello era davvero troppo. Cosa c’entrava Rick in tutto quello? Era solo un bambino. Qualcuno avrebbe pagato. Era tardo pomeriggio, perciò non si stupì di trovare la casa di Ares deserta. Tutti quanti dovevano essere ancora in giro per il campo, o ad allenarsi. Tutti meno uno.

Konnor si trovava accanto ad un albero lì vicino, a braccia conserte, e stava parlando con due ragazze, forse figlie di Afrodite. Edward non seppe dire se la loro fosse una discussione seria o un tentativo di flirt di una delle due parti, e la cosa non gli importò affatto.

Quando afferrò Konnor, sbattendolo con forza contro l’albero e piantandogli un braccio sul collo, le due ragazze gridarono. Perfino il figlio di Ares parve sconvolto. Prima potesse dire qualsiasi cosa, Edward aumentò la pressione sulla sua gola. «Rick? Davvero?!» ringhiò. «Tra tutti quelli con cui potevate prendervela, proprio con lui?!»

«Non so… di che diavolo stai parlando…» mugugnò Konnor, cercando di allentare la presa di Edward. «E se non mi lasci, giuro che ti spezzo il braccio.»

Edward non si lasciò intimidire e spinse ancora di più il gomito sotto il suo mento, facendolo gemere. Aveva tappato la bocca a dei maledetti Lestrigoni, da solo. Konnor non lo spaventava.

«Ma che stai facendo, psicopatico?!» trillò una delle due ragazze. «Lascialo!»

Lui le ignorò. «Per uno stupido calcio, hai mandato i tuoi fratelli a fare la festa ad un bambino indifeso.» Quasi le sputò quelle parole, come se fossero un veleno. «Mi fai schifo.»

«Io non ho mandato nessuno» sibilò Konnor, digrignando i denti. «E se non vuoi che nel campo comincino a girare strani voci sul fatto che a noi due piace restare muso a muso in questo modo, lasciami andare!»

«La cosa ti darebbe fastidio?» gracchiò Edward, con un sorrisetto. 

Konnor non rispose. Serrò le labbra e afferrò il suo braccio, spingendolo via con un gesto secco. Edward grugnì, allontanandosi da lui. Non si era aspettato una simile forza da parte sua. Konnor si massaggiò il collo e raddrizzò la schiena. «Avrei potuto colpirti con un calcio proprio come hai fatto tu all’arena» mugugnò, con voce roca. «Ma non l’ho fatto.»

«E allora?» sbottò Edward.

«E allora…» Lo sguardo di Konnor si indurì. «… forse non sono arrabbiato con te per quella storia.»

Malgrado tutto, Edward sorrise incredulo. «E come mi spieghi quello che avete fatto a Rick?» La voce gli tremolava per il nervoso. Mai come in quel momento avrebbe voluto spaccare la faccia di qualcuno.

«Anche se sapessi di cosa stai parlando, e credimi, non ne ho idea, credi davvero che io avrei mandato i miei fratelli a vendicarsi per quello che hai fatto? Rick è solo un bambino. Non farei mai nulla che possa fargli del male.»

La tensione cominciò ad allentarsi dal corpo di Edward. «Quindi tu non ne sapevi nulla?»

«No.» Konnor sembrava sincero. «Te l’assicuro.»

Edward sciolse i pugni. I due si scrutarono per un momento. Konnor aveva ancora il fiatone. Infine, scosse la testa. «Se pensi davvero che io sia come i miei fratelli, allora ti sbagli di grosso. È vero, quel giorno all’arena volevo darti una lezione, ma come entrambi sappiamo, alla fine ho avuto quello che mi meritavo. E va bene così, ho voltato pagina. Non sono arrabbiato con te.»

«Se quello che dici è vero, se sei davvero così diverso, allora perché non impedisci ai tuoi fratelli… e a queste» indicò le figlie di Afrodite, che squittirono indignate. «… di trattare in questo modo i più deboli?»

«Non è così semplice» mugugnò il figlio di Ares.

«Perché no?»

«Non sono affari tuoi.»

«Direi proprio di sì, invece, visto che…»

«No, invece» replicò Konnor, con tono fermo. «Nulla di tutto questo è mai stato affare tuo. La devi smettere di impicciarti nelle questioni degli altri.»

Edward serrò la mascella. Il suo sguardo cadde sulle figlie di Afrodite, che ancora stavano osservando la scena. Erano bellissime, come sempre. Sentì di nuovo la rabbia montare dentro di lui. «Quindi non vuoi fare nulla per Thomas, Stephanie e tutti gli altri?»

Non appena pronunciò il nome della ragazza, Konnor si irrigidì. Non era la prima volta che lo faceva. La sua espressione cambiò, facendosi quasi imbarazzata. All’inizio Edward non aveva capito quale fosse il problema tra Konnor e Steph, ma in quel momento, finalmente, realizzò: «Lei… lei ti piace…» mormorò.

Un altro strano verso provenne dalle due figlie di Afrodite. Konnor evitò i loro sguardi.

«Allora quella storia è vera…» borbottò una di loro.

«Quella quattrocchi…» fece eco l’altra.

Edward non capì a cosa alludessero quelle due, ma non diede loro importanza, perché una strana sensazione cominciò a prendere vita anche dentro di lui. Cominciò a sospettare di quale sensazione si trattasse, ma prima di ammetterlo ad alta voce avrebbe preferito bere un litro di ambrosia.

«Ascolta» tentò di parlare di nuovo Konnor. «Parlerò con Buck questa sera, dopo la sfida. Cercherò di capire che cosa diamine è successo con Rick. E se scopro che sono stati lui e gli altri a fargli del male, allora ti posso garantire che non me ne starò in disparte. Ma fino ad allora, ti prego» Konnor parve quasi supplicarlo. «Non. Fare. Niente. Lascia in pace me, Buck, Jane, e tutti quelli che pensi possano aver fatto qualcosa di male ai tuoi amici, o finirai solo con il peggiorare le cose. D’accordo?»

L’ultima cosa che Edward avrebbe voluto fare, era quella di dare retta a quel tizio, ma una parte di lui, quella più razionale, o stupida, sapeva che non c’era nient’altro che avrebbe potuto fare. Aveva parlato con Konnor e lui gli aveva detto che avrebbe provato a risolvere la situazione, prima di spaccare la faccia di Buck forse era davvero il caso di aspettare che più luce venisse fatta sulla faccenda.

Alla fine, suo malgrado, decise di annuire. «Va bene, allora… un momento.» Edward sgranò gli occhi, mentre ponderava sulle parole del figlio di Ares. «La sfida è oggi?!» Se n’era completamente scordato. Eppure, era davvero passata una settimana.

Un sorrisetto scappò dalle labbra di Konnor. «Vuoi partecipare, novellino?»

Sapeva che era solo una provocazione, eppure, Edward fece schioccare la lingua, irritato. «Mangerai la mia polvere.» E detto quello, diede le spalle ai tre ragazzi e si allontanò.

Sulla strada del ritorno, milioni di pensieri vorticavano nella sua mente. Tra incubi, problemi tra le case, Rick ferito, rischiava che il cervello gli si fondesse. Nel suo campo visivo scorse un’altra casa. Questa sembrava più rustica, di legno, decorata con ghirlande e vasi di fiori tutt’attorno. Subito accanto, una figura era chinata su un piccolo campo di fiori appassiti, o meglio, Edward pensò che fossero appassiti. In realtà erano stati tutti distrutti o calpestati. E la figura chinata era Stephanie. Teneva la testa bassa, sembrava concentrata solo sui fiori, tentando di risanarli come meglio poteva. E forse, cercava anche di non piangere. Quella vista gli spezzò il cuore.

«Ehi, Steph» la chiamò, avvicinandosi. 

La ragazza trasalì, per poi voltarsi sorpresa verso di lui. «Oh! Edward…» mormorò, cercando di sorridere, anche se il suo parve più un gesto di cortesia che di genuina emozione. «Come… come stai?»

«Io? Ehm, bene, grazie.»

«Mi fa piacere.» Steph distese il sorriso, poi tornò a guardare i fiori senza dire altro, quasi come se pensasse che la conversazione fosse finita lì.

Edward non riuscì a spiegarsi il perché di quel comportamento. Si schiarì la gola, cercando di formulare le parole giuste. «Cosa… cos’è successo qui?»

Stephanie parve rabbuiarsi. «Oh… beh… stavo solo… risistemando questi vecchi fiori avvizziti…» Non sembrava molto convinta delle sue parole. «Insomma, sono qui da molto tempo e ultimamente li ho… trascurati un po’.»

Non era vero, ed entrambi lo sapevano. Tuttavia, l’idea di rivelare la verità sembrava turbare la ragazza.

«Steph, che succede?» domandò lui, cercando di usare un tono di voce più morbido e accomodante. Si chinò accanto a lei. La figlia di Demetra sembrò voler fare di tutto per non guardarlo. Era chiaro che non avesse voglia di parlare con lui. Ma Edward non si sarebbe arreso così presto. «Non sono appassiti, li hanno calpestati. Sono state le figlie di Afrodite, vero?»

«Edward…» mormorò la ragazza. «… per favore… non… non preoccuparti.»

Sembrò esitare. Edward sospettò che in realtà Steph non avrebbe voluto dirgli di non preoccuparsi. Inevitabilmente, ripensò allo strano sguardo che Natalie gli aveva lanciato, e ripensò anche alle parole di Konnor. Non impicciarsi, non farsi gli affari degli altri.

Non peggiorare le cose.

All'improvviso, Edward capì. E si sentì la persona più idiota che avesse mai messo piede sul pianeta. Stephanie… non voleva dirgli la verità, non voleva renderlo partecipe più del dovuto, perché aveva paura che lui facesse qualcosa di stupido. Qualcosa che non avrebbe fatto altro che alimentare ancora di più il desiderio di vendetta di coloro che davano loro il tormento. 

Qualcosa come cercare di soffocare Konnor.

«Steph…» mormorò, incapace di formulare parole migliori. «Io…»

«Si sta facendo tardi, Edward.» La ragazza si alzò, massaggiandosi un braccio. «Dovresti tornare alla casa Undici e prepararti per la cena. Partecipi alla sfida?»

«B-Beh… sì.»

«Allora dovresti prepararti anche per quella.» Steph gli lanciò un’ultima fugace occhiata, abbozzando un altro flebile sorriso. «Ci vediamo.»

La ragazza non gli diede tempo nemmeno di replicare. Si allontanò, lasciandolo da solo con i suoi pensieri, e con il senso di colpa che lo stava uccidendo.

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Capitolo 5
*** La sfida ha inizio ***


 

5

La sfida ha inizio

 

 

Thomas non era mai stato forte. Non era mai stato coraggioso. Non era mai stato scaltro, affascinante, intrigante, non era mai stato… beh, un bel po’ di cose.

Ma voleva bene ai suoi fratelli. Da quando era arrivato al campo e aveva scoperto di essere uno dei più grandi nella casa di Ermes, il terzo dopo Natalie e Derek, aveva deciso che avrebbe dato a loro tutto quello che lui non aveva ricevuto: qualcuno su cui contare, di cui fidarsi e che li amasse.

Per questo voleva bene a Rick. Il moccioso era una peste, era irritante, lo faceva imbestialire come poche cose al mondo, ma sapeva che in realtà era solo desideroso di avere l’attenzione dei suoi fratelli più grandi e di impressionarli. Per questo, quando era tornato alla casa conciato in quel modo, aveva mollato il tablet sul letto, quasi facendolo cadere a terra, ed era corso da lui.

Rick era sembrato scosso. Quasi terrorizzato. Piangeva, forse per il dolore, forse per la paura. Poco dopo anche Derek, Natalie e gli altri erano accorsi. Se c’era una cosa che tutti i figli di Ermes avevano in comune, era l’amore per quella piccola peste. Rick era uno dei ragazzi più giovani del campo, molti semidei pensavano che quello fosse un handicap per la casa Undici, ma la realtà non poteva essere più diversa. Rick era il fulcro di quella casa. Una specie di mascotte, un simbolo, il simbolo di quanto uniti i fratelli del dio dei ladri fossero.

Era il futuro. Un giorno, sarebbe toccato a Rick e ai suoi coetanei prendere il posto di Tommy e Derek e gli altri, e il ragazzo più grande adorava l’idea di essere un mentore per le nuove leve. Certo, se solo non avesse fatto parte della casa più sfigata del campo…

Ma sperava che le cose cambiassero. Da quando era arrivato Edward, in effetti, le cose sembravano aver preso una piega diversa. In meglio o in peggio, però, non gli era ancora ben chiaro.

Doveva comunque essere grato al nuovo arrivato, grazie al quale era riuscito ad integrarsi meglio con i suoi fratelli. Nessuno di loro lo aveva mai visto di cattivo occhio, ma Tommy si era sempre sentito l’escluso nella casa Undici, l’ultima ruota del carro. Forse perché non era mai stato davvero come tutti gli altri, non aveva mai provato gioia o divertimento a fregare cose in giro, seminare trappole per il campo ed eccetera, e la cosa lo aveva sempre fatto sentire a disagio, un inetto. Aveva sempre avuto il terrore di cosa i suoi fratelli potessero pensare di lui, e il fatto che, tra tutti i figli modello di Ermes, suo padre avesse scelto di regalare quegli oggetti così preziosi – tra cui lo zaino magico – proprio a lui, non aveva aiutato. Si sentiva come se non li meritasse.

Era un pensiero che lo aveva ossessionato, fino a quando Edward, con il suo comportamento indifferente e distaccato, non gli aveva fatto capire che il suo modo di prendere le cose era sbagliato. Doveva badare meno al pensiero altrui, meno alle conseguenze che il suo comportamento avrebbe potuto avere, doveva… rilassarsi di più.

E quando Jonathan Shine, il capocasa di Apollo, finì di guarire Rick, Tommy aveva creduto che avrebbe potuto sprofondare nel letto e non uscirne mai più. Tutta la tensione che nemmeno aveva sentito accumularsi dentro di lui si sciolse di colpo, come se gli avessero tolto dalle spalle il peso del mondo.

Sua sorella maggiore ringraziò Jonathan, che sorrise accomodante. Tra tutti gli arroganti figli di Apollo, il capocasa era il meno peggio, anche se, pure in quel momento, sembrava che avesse deciso di aiutarli solo per dimostrare quanto fosse importante.

«Non c’è di che» rispose lui, alzandosi in piedi. Diede un buffetto sul naso di Rick. «Cerca di stare alla larga dai guai, ometto. D’accordo?»

Rick annuì. Aveva ancora gli occhi rossi di pianto, ma le lacrime erano cessate. Nonostante stesse meglio fisicamente, il suo spirito sembrava ancora ferito. Qualunque cosa gli fosse successa, doveva averlo traumatizzato. Tommy si domandò se davvero fossero stati i figli di Ares a conciarlo in quel modo. L’idea, più che farlo arrabbiare lo terrorizzava. Non poteva credere che davvero qualcuno potesse prendersela con un bambino. Non poteva biasimare Edward per come si era comportato quando aveva visto cos’era successo, anche se forse avrebbe fatto meglio a non uscire di casa come un turbine in quel modo. Tuttavia, Tommy non aveva avuto il coraggio di corrergli dietro.

Avrebbe mentito se avesse detto che, a volte, Edward non lo spaventava più di Buck. Lo sguardo nei suoi occhi… lo aveva turbato e non poco.

Accompagnò Jonathan alla porta, ringraziandolo un'altra volta, mentre Natalie si prendeva cura del fratellino. Proprio sull’uscio, incontrarono Edward. Ogni traccia dell’energia avuta fino a poco prima sembrava svanita nel nulla. Pareva il fantasma del sé stesso di cinque minuti prima, per quanto assurdo quel paragone sarebbe potuto sembrare.

«Ah, il nuovo arrivato» commentò Jonathan. Uno strano bagliore luccicò nei suoi occhi chiari. «Giù al campo di tiro con l’arco si fa un gran parlare di te. Mio fratello mi ha detto che non hai mai mancato un bersaglio.»

Edward abbozzò un sorrisetto, ma non sembrava molto interessato al discorso. «Che posso dire. Ho molti talenti.»

«Sì…» Il capocasa di Apollo annuì con un lungo gesto meccanico, squadrandolo quasi come se stesse cercando di prendere le misure della sua bara. «Ce ne siamo accorti.» Si voltò verso Tommy, distendendo quel sorriso freddo. «Buona fortuna per questa sera allora, Thomas. Se ti ferissi, non esitare a chiamarci, mi raccomando!»

Non aggiunse che così almeno avrebbero potuto vantarsi di nuovo di quanto belli e bravi fossero, ma il messaggio era quello.

«Certamente» annuì Tommy, cercando di ricambiare il sorriso. «Ma me la caverò, vedrete. Gli scorpioni non mi spaventano.»

E invece lo terrorizzavano.

Jonathan lanciò un’ultima strana occhiata ad Edward, poi si allontanò. Thomas si voltò verso di lui, notando la sua espressione assente. Fece per domandargli cosa avesse combinato dopo essere uscito in quel modo, quando la voce di Natalie alle sue spalle li chiamò: «Ragazzi, Rick riesce di nuovo a parlare.»

Si radunarono nella stanza. Rick era ancora seduto, con Natalie e adesso Leyla accanto. Derek era accovacciato di fronte a loro, assieme agli altri. Tommy si avvicinò, mentre Edward rimase indietro, vicino alla porta, a sorvegliare il tutto.

«Non… non mi hanno picchiato…» mormorò il bambino. Ancora una volta, Tommy sentì il peso del mondo scivolare via dalle sue spalle. Se non altro i figli di Ares avevano ancora un briciolo di umanità.

«No?» domandò Edward. Più che sollevato, parve quasi sorpreso. Angosciato, perfino. Tommy sollevò un sopracciglio, ma non poté dire nulla, perché Rick riprese la parola.

«No. Stavo… stavo lanciando le pietre nel lago, quando… quando…» Rick strinse i pugni. Sembrava incapace di sollevare lo sguardo dal pavimento. «… ho visto qualcosa nel bosco. Una… una luce bianca. Non l’avevo mai vista prima. Mi sono avvicinato ma la luce ha cominciato a muoversi tra gli alberi, così… l’ho seguita. Credevo che provenisse da una specie di animale.»

«Ti sei addentrato nel bosco?» lo interruppe Derek.

Rick annuì con aria triste, incapace di guardarlo.

Natalie gli avvolse un braccio attorno alle spalle. «Rick… lo sai che è pericoloso.»

Di nuovo, Rick annuì, tirando su con il naso. «Non… non me ne sono accorto che mi stavo allontanando così tanto. Quando la luce è scomparsa, mi sono girato e… e non sapevo più dov’ero. Così sono tornato indietro di corsa, ma mi sono inciampato e mi sono fatto male. Ho cercato di alzarmi e… e…» Rick si interruppe.

Tommy si sentì in colpa a incalzarlo in quel modo, del resto era ancora piuttosto scosso, ma la tensione, mista alla curiosità, era troppa. «E…?»

«D-Davanti a me… era comparso qualcosa.» Il bambino drizzò lo sguardo. Nei suoi occhi rossi dal pianto, lessero la paura. «Era… era… un mostro.»

«A volte alcuni mostri riescono a raggirare i confini del campo.» Natalie lo strinse a sé, cercando di fargli coraggio. «È per questo che non bisogna allontanarsi troppo.»

«Ma… ma lui era diverso… era tutto nero, la faccia però era bianca, aveva i denti affilati, le corna e… gli occhi… rossi…»

«Occhi rossi?» domandò Derek.

Un altro cenno di assenso da parte di Rick. «Mi… mi ha sorriso. Ma… ma non era un sorriso vero… poi… poi quando ha ruggito, io… i-io…» Il ragazzino si prese il volto tra le mani, senza finire la frase.

Sua sorella cercò di stringerlo più forte, poi guardò i fratelli. «Un Lestrigone?»

«Non saprei» mormorò Derek. «Di solito non sono come li ha descritti lui.»

Anche Tommy non sapeva che pesci pigliare. E lui era quello che più di tutti nella casa Undici se la cavava in mostrologia. Del resto, più informazioni aveva sulle bestie che avrebbero potuto ucciderlo – in particolare sui loro modi di agire e punti deboli – meglio era per lui. Ma quella descrizione non gli diceva nulla. E anche il resto dei suoi fratelli pareva della stessa opinione. L’unico che faceva eccezione era Edward. Nessun altro lo vide, ma Tommy sì, perché fu l’unico a voltarsi verso di lui.

Era indietreggiato, quasi appiattendosi contro il muro. Osservava Rick con espressione sconvolta, le dita premute talmente forte nelle braccia che era doloroso anche solo guardarle. Il volto era sbiancato. Ora sembrava davvero un fantasma.

Thomas schiuse le labbra. «Edward? Tutto ok?»

Vi fu un fruscio quando tutti quanti si voltarono verso di lui, facendolo sobbalzare. Tommy si sentì uno stupido per aver attirato in quel modo l’attenzione su di lui. Pensò che Edward si sarebbe arrabbiato, invece si ricompose e schiarì la gola: «Ehm… sì, certo… ero solo… pensieroso…»

«Dovremmo… avvisare Chirone?» Thomas riprese la parola, cercando di riparare al proprio errore. «Insomma… questa sera dovremo avventurarci nei boschi per la sfida, e se magari questa… creatura ricomparisse? Potrebbe essere pericolosa.»

«Più di uno scorpione?» Derek sembrava titubante. «Non saprei… come ha detto Natalie, può capitare che alcuni mostri riescano ad aggirare i confini magici.»

«E poi che cosa vorresti ottenere? Non credo proprio che Chirone sposterebbe la sfida proprio poche ore prima dell’inizio» fece eco Natalie. «Per non parlare del fatto che se noi figli di Ermes provassimo ad avvisarlo…»

«Ci prenderebbero tutti per codardi» concluse Derek. «Possiamo anche aspettare domani, per dirlo a Chirone. Ci basterà stare attenti questa sera... beh, nel tuo caso non servirà, Tommy, ma non temere: ti daremo una sepoltura degna di un eroe. Nel caso in cui rivenissimo il tuo corpo, naturalmente.»

Una tiepida risata si sollevò nella stanza al classico verso offeso che gli scappò. Non poteva farci nulla, quando lo punzecchiavano in quel modo era come se perdesse il dono della parola. Stava per ribattere, ma una mano si posò sulla sua spalla. Edward lo affiancò, volgendogli un cenno del capo. «Partecipo anch’io.»

Quella notizia lo rassicurò un po’. Tuttavia… forse voleva fargliela pagare per lo scherzetto di poco prima. Thomas deglutì. Certe volte era troppo paranoico.

Nel frattempo, Derek scosse le spalle. «Come ti pare amico. Ma se fossi in te… mi guarderei le chiappe. Se Buck e i figli di Ares non c’entrano niente con quello che è successo a Rick, potrebbero…»

Edward lo zittì con un cenno della mano. Ora pareva disinteressato. «Sì, sì, potrebbero ancora farmi la festa nel bosco. Dimmi qualcosa che non so.»

«Tommy sarà una zavorra. Oh, no, quello lo sapevi già.»

Dopo un altro grugnito privo di significato, i presenti risero più caldamente. Perfino Rick riuscì ad abbozzare un sorriso. A quella vista, la rabbia svanì da dentro di Tommy, che intuì il tentativo di Derek di smorzare la tensione.

«Buona fortuna allora, ragazzi» annunciò infatti il capocasa. «Non fatevi ammazzare.»

«Farò del mio meglio» rispose Edward.

«Ce l’hai già un’arma?» gli domandò Tommy.

«Uhm…» Il semidio estrasse un coltellino a farfalla dalla tasca della giacca, per poi osservarlo assorto. «Immagino mi serva qualcosa di più grosso…»

«Possiamo andare a fare un salto in armeria, tanto la cena è tra un’ora.»

«Va bene.»

Tommy arruffò i capelli di Rick, poi salutò il resto della banda e uscì insieme a Edward.

«Aspettate.» Appena fuori dalla casa Undici, Natalie li raggiunse. I lunghi capelli color rame le sventolavano sopra le spalle, arruffati. Anche lei era accorsa in fretta e furia per soccorrere Rick.

Posò gli occhi su Edward, seria in volto. «Non sono stati i figli di Ares, ma non pensare che la cosa ti scagioni.»

«C-Cosa?» domandò Tommy. «Nat, di che stai…»

Natalie lo ignorò, concentrandosi solo su Edward. «Da quanto sei arrivato non hai fatto altro che creare problemi, e forse gli altri non se ne sono accorti, perché ormai ti hanno accettato nella nostra casa, ma io lo vedo cosa stai facendo.» Piazzò l’indice sul petto di Edward, facendolo indietreggiare. Tommy non aveva mai visto Nat comportarsi in quel modo. «Sei un piantagrane. Sarà meglio che tu non abbia fatto stupidaggini quando sei uscito, poco fa. Se dovesse succedere qualcosa ad uno qualsiasi di noi per colpa tua, te la farò pagare cara.»

Edward serrò la mascella. I due ragazzi si osservarono negli occhi per un breve momento. Natalie non sembrava per nulla intimidita da lui. Alla fine, il ragazzo distolse lo sguardo, annuendo. «Non avevo cattive intenzioni. Voi siete la prima famiglia che ho da… da molto tempo. Volevo solo… proteggervi.»

«Non abbiamo bisogno di protezione» tagliò corto lei. «Non della tua, almeno. Non ci serve la balia, e di sicuro non ci servono altri problemi.»

«Va bene.» Edward annuì una seconda volta. «Mi… mi dispiace.»

«Sì.» Natalie lo osservò ancora per un momento. La sua espressione parve ammorbidirsi. «Anche a me.» Diede loro le spalle e tornò in casa.

 

***

 

La brezza tiepida della sera calante accarezzò la pelle di Tommy con delicatezza, trasportandosi dietro l’odore dolce delle piantagioni di fragole in fiore. Adorava quell’atmosfera. Gli ricordava i giorni trascorsi nella casa di campagna dei suoi nonni, quando era ancora più piccolo e tutte le difficoltà che lo avrebbero tormentato negli anni a venire erano ancora distanti.

Quanto tempo era passato…

I semidei non avevano mai vite facili, ma Thomas poteva considerarsi abbastanza fortunato. Tutti i suoi parenti più stretti erano ancora vivi, ad esempio. Certo, tutti quanti ignoravano la sua esistenza, a parte i suoi nonni, ma quella era un’altra storia.

Chissà com’era la storia di Edward. Non aveva mai raccontato molto di sé, la storia generale sulla sua vita era sempre sembrata piuttosto… sintetica. Ma a giudicare da come si comportava certe volte, non era molto difficile immaginare il suo passato. Edward arrivava da così tante battaglie, fisiche e anche mentali, che non poteva esserne uscito tutto d’un pezzo. Essere semidei ed arrivare a diciott’anni senza essere riconosciuti… Thomas non riusciva nemmeno a credere che fosse possibile. Il nuovo arrivato era una brocca piena zeppa d’acqua, ma nessuno sapeva quale sarebbe potuta essere l’ultima goccia.

Ora sembrava più tranquillo rispetto a poco prima, ma la tensione dentro di lui era ancora palpabile. Forse era ancora turbato dalle parole di Natalie.

«Non pensare troppo a Nat» cercò di rassicurarlo. «Fa così con tutti. Ha un mucchio di fratelli scalmanati a cui badare, a stento riesce a tenere a freno Derek, che in teoria dovrebbe essere il più maturo tra tutti noi. È normale che sia un po’ irascibile. Non è davvero colpa tua.»

«Mh… forse hai ragione.»

Non disse altro. Non sembrava che le sue parole avessero avuto particolare effetto. Thomas si mordicchiò l’interno della guancia, decidendo di cambiare argomento. «Tu… tu lo sai quale mostro ha visto Rick, vero?»

Edward parve rimuginare per un po’. Alla fine, si lasciò scappare un sospiro. «Credo di saperlo. Ne ho incontrato qualcuno di simile, una volta. Ma… spero che Rick si sia sbagliato.»

«Perché?»

«Perché se è davvero quello che penso, siamo nei guai.»

Thomas spalancò la bocca come un baccalà. E dopo quella frase carica di positività, Edward non pronunciò più parola fino a quando non giunsero alla loro meta.

All’arena di combattimento non trovarono molte persone, e le poche che c’erano erano indaffarate con i loro allenamenti dell’ultimo minuto. Nessuno badò a loro quando si avvicinarono alle rastrelliere delle armi.

«Dunque…» cominciò Tommy, ancora teso, dando uno sguardo. «… cosa vorresti usare?»

Edward si prese il mento. Il suo sguardo cadde sul lanciafiamme di fuoco greco.

«Meglio di no» commentò Thomas, intuendo cosa gli frullasse per la mente. «Il fuoco greco è un po’… volatile.»

Edward parve deluso. Si illuminò di nuovo poco dopo, tuttavia, quando vide un arco. Era del colore della neve, intatto e pulito, facendo sembrare che fosse fatto di avorio e non di legno. Aveva una forma insolita, simile a una M ondulata, con la parte centrale costituita dall’impugnatura rivestita di cuoio nero. Era piuttosto spesso, l’impugnatura pareva quella di una spada. Una frase di colore nero dai piccoli caratteri era dipinta lungo la parte ricurva. Edward la esaminò e Thomas si avvicinò per vedere meglio.

 

風のように速

 

«È… uhm… cinese?» domandò, un po’ imbarazzato.

«Giapponese» lo corresse Edward, gli occhi incollati sulla scritta quasi come fossero magnetizzati. «Kaze no yō ni hayai» mormorò, come in trance.

Tommy spalancò gli occhi. «Eh?»

Edward trasalì. «Ehm… significa “Veloce come il vento.”»

«E come fai a saperlo? Conosci il giapponese?»

«B-Beh… non proprio. No.» Edward si rabbuiò. Strinse con più forza la presa attorno all’arco. «Non… non lo so come faccio a saperlo. Ho visto la scritta e…»

«Blake!»

Una voce tuonò alle sue spalle, facendolo saltare di un metro. Odiava essere chiamato per cognome. Ma ancora di più, odiava quando lo facevano trasalire in quel modo. Si voltò per vedere in faccia l’autore di quello scherzetto, ma non vide nessuno.

«Ehm-ehm.» La voce proveniva da più in basso. Tommy aggiustò lo sguardo, accorgendosi di una delle poche persone più basse di lui in quel campo, il coach Hedge.

«C-Coach!»

Il satiro lo osservò con la sua classica espressione burbera. Era uno dei satiri più anziani, aveva una moglie e perfino un figlio poco più grande di Tommy, ma anziché ritirarsi aveva continuato a svolgere un ruolo nel campo, abbandonando il più pericoloso compito da protettore e abbracciando quello da addestratore. Probabilmente il coach Hedge avrebbe continuato a urlare ai semidei di fare flessioni fino a quando non avrebbe esalato il suo ultimo respiro.

«Immagino che tu non sia qui per finire quelle flessioni. A proposito, te ne ho aggiunte altre cinquanta. E continueranno ad aumentare fino a quando…» Hedge parve dimenticarsi di lui quando si accorse di Edward. «Uh, ancora tu. Hai messo su un bello spettacolino, l’altra volta.»

«Sì, beh… quegli idioti se lo sono meritato» rispose Edward.

Hedge grugnì, una risposta che poteva voler dire tutto e niente allo stesso tempo. Si accarezzò la barbetta sotto al mento, osservandolo scrupoloso. «Non riesco ancora a inquadrarti.»

«È sempre per via del mio strano odore? Giuro che mi sono fatto la doccia anche oggi, coach.»

Il satiro abbozzò un sorrisetto. «Pare che non abbia funzionato. Continuo a percepire qualcosa di diverso, in te. Ma non so se è qualcosa di buono o di cattivo. E visto che sono in dubbio, non ti farò fuori. Per ora

«Oh, che gentile…»

«Lo so! Sono così gentile che ha volte sembra quasi che gli altri se ne approfittino...»

Edward ignorò il satiro e si concentrò sull’arco. Se lo rigirò tra le mani, accarezzò i pittogrammi, dopodiché prese la sua decisione e se lo infilò a tracolla. Recuperò una faretra piena di frecce con la punta di bronzo celeste, poi indossò anche quella. Si voltò verso di Tommy. «Non mi serve altro.»

«Ne sei sicuro?» domandò Tommy, girando con cautela attorno ad Hedge. «Non pensi sia un po’ poco contro degli scorpioni giganti?»

«Ha ragione!» fece eco Hedge. «Per sconfiggere uno scorpione bisogna colpirlo forte sulla testa! Le frecce gli faranno il solletico!»

Tommy non ricordò al coach che la strategia del colpire alla testa la applicava ad ogni cosa. Non voleva mica che si arrabbiasse e colpisse alla testa pure lui.

«Credimi, basterà» rispose Edward.

Thomas sollevò un sopracciglio. Stava per chiedergli che cosa avesse in mente, ma il corno della cena risuonò in lontananza, distogliendo la sua attenzione.

«Beh, angioletti, direi che qui avete finito. Non appesantitevi troppo, o per gli scorpioni sarà più facile raggiungervi!» 

E con questa seconda nota molto positiva, Thomas ed Edward lasciarono l’armeria.

 

***

 

Una ventina di coppie era radunata attorno a Chirone, ai margini della foresta. Tutti indossavano l’armatura apposita per la sfida: una cotta di maglia, copri ginocchia, parastinchi, proteggi gomiti, tutte protezioni rivestite di bronzo celeste.

Tommy probabilmente si sarebbe scambiato per un Power Ranger se si fosse guardato allo specchio conciato in quel modo, ma dopotutto l’armatura era fatta sì per dare protezione, ma anche velocità nei movimenti. E a lui serviva la velocità, perché avrebbe corso, e anche tanto.

Non aveva armi con sé, solo lo zainetto magico, ben fornito di granate e di uno scudo ed un falcetto di bronzo celeste, anche se sperava di non doverli usare, perché l’idea del corpo a corpo non lo entusiasmava molto. Faceva schifo a combattere.

Diede uno sguardo alle coppie attorno a loro: vide Buck e alcuni suoi fratelli confabulare tra loro, vide Paul, della casa di Demetra, che a quanto pare avrebbe fatto coppia con Derek, alcuni dei suoi fratelli, più una sfilza di tutti i semidei appartenenti a quelle case che, in circostanze come quella, era meglio evitare; figli di Nike, i già citati figli di Ares, figli di Nemesi, figli di Ecate, di Atena, perfino gli arcieri della casa di Apollo sembravano in trepidante attesa di cacciare qualche insetto formato extralarge.

E poi… lei.

Se le brezze tiepide d’estate miste all’odore dolce delle fragole avrebbero potuto avere un aspetto umano, quell’aspetto sarebbe stato il ritratto di Rosa Mendez. La bellissima semidea stringeva la sua spada di argento prediletta, quella con cui aveva macellato centinaia e centinaia di manichini nell’arena. I suoi grandi e meravigliosi occhi verdi brillavano sotto la luce della luna, carichi di determinazione. Il naso piccolo, i lineamenti aggraziati, le labbra sottili tirate all’insù in quel sorrisetto vispo ed entusiasta che mostrava in continuazione, la pelle color caffelatte, i capelli di quella tonalità arancione accesa mista al biondo. L’armatura le calzava a pennello, anche se probabilmente qualsiasi cosa le sarebbe stata bene.

Rimase così incantato da lei che non si accorse nemmeno di chi fosse il suo partner. Ammesso che ne avesse qualcuno. Nemmeno lei era molto popolare tra i semidei, soprattutto perché tutte le volte che maneggiava una spada diventava piuttosto spaventosa.

E Thomas pensava che non ci fosse ragazza più sexy di quella spaventosa. Dei, se era innamorato. Peccato che lei fosse all’oscuro della sua esistenza. Un po’ come tutte le altre ragazze del campo, a parte le sue sorelle e Stephanie.

E tal a proposito, Tommy si sorprese di vedere anche la sua amica prendere parte alla gara. Ma la sorpresa provata nel vedere lei non fu niente se messa a confronto con quella provata nel vedere la persona con cui era in coppia.

E anche Edward parve accorgersi di loro, perché afferrò Tommy per il braccio con forza, stringendo al punto da fargli male. «Che diamine sta facendo?!»

«E-Edward, mi spezzi il braccio!»

«Scusa.» Edward mollò la presa, per poi tornare ad osservare sconvolto Konnor e Steph, messi in disparte, quasi a non voler dare nell’occhio. Peccato che ormai erano finiti nei loro occhi. In quelli di Edward in particolare.

Prima che uno di loro potesse dire ancora qualcosa, Chirone richiamò l’attenzione di tutti a sé. «Semidei» esordì, mostrando un sacchetto di seta rossa. «Era da molto che questa sfida non veniva proposta, quindi sarà meglio spiegare nuovamente le regole: nel bosco sono stati liberati sei esemplari di scorpioni, ciascuno dei quali possiede un sacchetto come questo legato attorno al collo. Tuttavia, solo uno di loro possiede l’alloro della vittoria. La prima coppia che tornerà in suo possesso, sarà dichiarata vincitrice. Sarebbe meglio aggiungere che, di norma, la disposizione delle coppie sarebbe dovuta essere casuale, ma per quest’anno ho deciso di chiudere un occhio. Vedremo se questo ne gioverà alla competizione! Buona fortuna a tutti quanti e che vinca il migliore!»

Il centauro ordinò loro di prepararsi. Poi, quando diede il via, un boato si sollevò tra i semidei, che cominciarono a correre verso il bosco. Tommy fece per avviarsi, ma Edward lo afferrò. «Seguiamoli.»

«C-Cosa?» Tommy lo guardò confuso. «Chi? Oh…»

Lo sguardo di Edward era ancora fissato su Steph e Konnor. Thomas cercò di protestare. «Veramente io avevo altri piani… e speravo che tu avessi deciso di partecipare per aiutarmi. L’onore della casa di Ermes dipende da me!»

Certo, anche Derek partecipava, ma lui e Paul probabilmente avrebbero, come poteva dirlo in modo gentile, cazzeggiato per tutto il tempo. Tommy invece non era lì per distrarsi.

Ed Edward parve capire il suo stato d’animo, perché sospiro. Tuttavia, parve avere un’idea. «Ascolta, Steph è una figlia di Demetra, lei saprà come muoversi nel bosco, mentre Konnor è un figlio di Ares, lui saprà come sconfiggere gli scorpioni. Se li seguiamo potremmo lasciare che facciano tutto il lavoro e…» 

Non finì la frase, incitando Tommy a giungere alla conclusione con un cenno della mano. A Thomas quel piano non piaceva affatto, ma sapeva di non poter convincere Edward a cambiare idea. Così, a malincuore, acconsentì. E insieme si inoltrarono nella vegetazione, al seguito della strana coppia.

 

***

 

Cercarono di tenere una distanza di sicurezza piuttosto elevata, per non farsi notare. Il figlio di Ares e la figlia di Demetra procedevano fianco a fianco, parlottando. Di tanto in tanto Steph si voltava verso Konnor, apparendo piuttosto confusa. Chissà di cosa stavano discutendo. Sicuramente era una domanda che nella testa di Edward doveva risuonare piuttosto forte. Certo, senza ombra di dubbio vedere quei due assieme era strano. Tuttavia, osservandoli, una vecchia storia cominciò a tornargli in mente, una storia che le figlie di Afrodite avevano cercato di affossare in tutti i modi e che riguardava proprio loro due.

«Ohh…» mormorò all’improvviso, quando fu colto dall’illuminazione.

«Che ti prende?» domandò Edward.

«Mi sono ricordato una cosa che avevo sentito» spiegò Tommy. «Circa un anno fa, un paio di anni dopo che Steph era arrivata nel campo, Konnor le aveva chiesto di uscire… beh, “uscire” si fa per dire, nel Campo Mezzosangue non ci sono molti posti dove uscire, ma ci siamo capiti. Però lei aveva rifiutato. E le figlie di Afrodite che andavano pazze di lui non l’hanno presa bene. Unisci questo al fatto che Steph è figlia di Demetra e…»

«Ed ecco perché la odiano» concluse Edward, stringendo i pugni. «Non ha senso, però. Perché mai dovrebbero avercela con lei? Dovrebbero essere felici del fatto che lui sia ancora libero.»

«Immagino che sia perché lui non l’ha mai chiesto a nessuna di loro. E l’unica ragazza a cui l’ha fatto, nemmeno una loro sorella, ha detto di no. Si saranno sentite… prese in giro.»

«Minacciate, vorrai dire…» 

Thomas si strinse nelle spalle. Tutta quella storia non l’aveva mai riguardato e un po’ lo metteva a disagio. Inoltre, lo portava a domandarsi cosa si provasse a piacere così tanto a delle ragazze al punto da spingerle a odiarne altre. Lo portava a domandarsi cosa si provasse a “piacere alle ragazze” e basta.

«Magari ci sta provando di nuovo con lei…» suppose Tommy, mentre lui ed Edward erano nascosti dietro a dei cespugli. L’espressione che apparve sul volto di Edward non fu molto rassicurante, ma rimase in silenzio, e Thomas si riguardò dall’aggiungere altro.

Decise di lasciare ad Edward il compito di tenere sotto controllo quei due. Del resto, l’idea era stata sua. Fece vagare lo sguardo attorno a sé, annoiato. Non era quello che si aspettava di fare in quella sfida, del resto. E anche se sapeva che il piano di Edward non consisteva davvero nel rubare la vittoria sotto al naso di Steph e Konnor, l’idea di farlo lo turbava lo stesso. Steph era sua amica, dopotutto. E Konnor… beh, era un figlio di Ares. E loro non erano simpatici. Stava quasi per dire ad Edward di voler rinunciare, quando qualcosa apparve alla sua visuale.

Sgranò gli occhi. Diede un colpetto al braccio di Edward, chiamandolo. «E-Edward?»

«Che c’è?»

«Guarda.»

Il semidio si voltò con un grugnito, per poi sussultare. Poco distante da loro, nascosta tra gli alberi, una lucina bianca faceva capolino.

«È… è…» A Tommy mancavano le parole. Non poteva essere proprio quella luce. Edward, sfortunatamente, era di altro avviso.

«Sì» mormorò, alzandosi in piedi. Si diresse verso di lei, dimenticandosi di Konnor e Stephanie, cosa che Tommy non seppe dire se fosse buona o cattiva. Seguì il compagno, imitando i suoi stessi movimenti lenti e calmi e arginando rametti e foglie che avrebbero potuto scricchiolare.

Si infilarono tra gli alberi, facendo il giro attorno ad una grossa quercia e la fonte della luce si trovò di fronte a loro. Tommy non riuscì a credere ai propri occhi. Non aveva mai visto niente del genere prima di allora.

La fonte di quella luce… era una piccola creatura vivente, delle dimensioni di un bambino. Il corpo era tutto bianco, le gambe e le braccia erano costituiti da moncherini senza mani, piedi o dita. Qualsiasi tipo di tratto fisico era assente. La testa era tonda, priva di capelli, orecchie, naso. Gli occhi e la bocca, o quelli che credeva fossero gli occhi e la bocca, erano soltanto tre cavità nere.

Era rannicchiato a terra e giocherellava tracciando segni nella terra. La luce bianca proveniva proprio dal suo corpo, riflessa da quella naturale della luna, anche se talvolta pareva avere sfumature verdi.

«Non… non capisco se è carino o inquietante…» mormorò Tommy.

Il piccoletto si voltò di scatto verso di loro, facendolo sussultare. Li scrutò con quel volto che sembrava perennemente sorpreso, piegando la testa.

Thomas si voltò verso Edward. «Che… che cos’è?»

Per la seconda volta nel giro di quelle poche ore, lo vide di nuovo scosso. Non rispose alla domanda.

«Edward?» Tommy lo chiamò nuovamente. «Tu… tu lo sai cos’è?»

Dopo un attimo di esitazione, Edward si strinse nelle spalle. «Non so come si chiamino, ma… sì. Li ho già visti qualche volta, molto tempo fa. Non preoccuparti, sono innocui. Vivono negli alberi.»

«Negli alberi? Come le driadi?»

«Sì.»

Il piccoletto parve intuire di essere chiamato in causa, perché si alzò in piedi. Puntò le orbite vuote proprio su Edward, che, nonostante l’avesse appena definito innocuo, fece un passo indietro. Pareva piuttosto combattuto da quella vista. Come se non riuscisse ad accettare ciò che stava vedendo. E in effetti, anche Tommy faticava a crederci: come avevano fatto a non vedere quegli spiriti degli alberi prima di allora? E perché di loro non c’era nessuna informazione da nessuna parte? 

Ma la scoperta più grande doveva ancora arrivare: Rick aveva detto di aver visto una luce che si muoveva tra gli alberi. Era palese che stesse parlando di quella creaturina. Ma se allora non si era sbagliato su di lei, ciò voleva anche dire…

Il piccoletto sobbalzò di colpo, facendo sobbalzare Thomas a sua volta. In un istante, era già scappato tra gli alberi, smarrendosi in mezzo ad essi. Tommy schiuse le labbra. «Ma… ma cosa…»

«Sì è spaventato» disse Edward.

«Ma noi non abbiamo…»

«Non siamo stati noi» lo zittì l'amico, per poi afferrarlo per un braccio e tirarlo di peso dietro un grosso masso nascosto tra dei cespugli poco lontani.

Prima che Thomas potesse domandare, per l’ennesima volta, cosa diamine stesse succedendo, un parlottare soffuso giunse da lontano. Il figlio di Ermes ammutolì e tese le orecchie. Le parole confuse cominciarono ad assumere significato man mano che le voci si avvicinavano, accompagnate da alcuni passi pesanti.

«… visti passare di qua» disse la prima voce. Tommy la riconobbe: era di uno dei figli di Ares. E questo poteva significare solo una cosa.

Buck grugnì. «Bene. Sbrighiamoci. È ora che quel novellino impari a conoscere il suo posto. E già che ci siamo vediamo di dare una ripassata anche a quel nano.»

Thomas sussultò. Lo sapeva che non doveva rispondere a quei tizi all'arena, lo sapeva!

Il gruppo di ragazzi, forse tre coppie, proseguirono lungo il percorso erboso, allontanandosi dalla zona e continuando a confabulare su come avrebbero fatto loro la festa quando li avrebbero trovati. Tommy riprese a respirare solo quando furono abbastanza lontani e il rumore dei loro passi scomparve del tutto. Sempre accanto a lui, rintanato tra i rametti del cespuglio, Edward non sembrava per niente di buon umore.

«L’unico che ha bisogno di una ripassata è quell’idiota» sbottò, rialzandosi in piedi. «E ora abbiamo anche perso Konnor e Steph…»

«Edward.» Anche Tommy si rialzò. Non gli importava granché del figlio di Ares e della figlia di Demetra, e per quanto non gradisse l’idea di essere pestato, nel cespuglio aveva avuto modo di pensare ad altro. «Se la storia della luce bianca era vera… questo significa che anche il mostro…»

«Lo so.» Edward strinse i pugni. «Lo so.»

«Che cosa facciamo, quindi?»

«Questo non lo so.»

«Oh… ok.»

Edward abbassò la testa. Non disse altro.

«Ehm… andiamo ad avvisare Chirone, o…»

«Tommy» lo interruppe Edward, voltandosi di nuovo verso di lui. La sua espressione era indecifrabile. «Ascolta. Queste creature… gli spiriti degli alberi, il mostro che ha visto Rick… loro…»

Un grido proveniente da lontano lo frenò bruscamente. Un grido di una ragazza.

«Hai… hai sentito?» domandò Thomas.

Edward non rispose nemmeno: cominciò a correre, sfilandosi l’arco dalla tracolla, dirigendosi verso il luogo da cui l’urlo di Stephanie era provenuto.

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Capitolo 6
*** Edward ha una sorpresa ***


 

6

Edward ha una sorpresa

 

 

Tommy credeva di essere veloce. Del resto, se uno come lui non fosse stato veloce sarebbe morto in un istante nel mondo esterno. Tuttavia, stare al passo di Edward fu un’impresa. Nonostante reggesse il pesante arco e avesse la faretra piena di frecce sulle spalle lo stava seminando, saltando cespugli, radici che spuntavano, tronchi caduti e qualsiasi altro ostacolo senza nessuna difficoltà.

«E-Ehi! Aspettami!» gridò, anche se non venne udito udirlo. O forse venne ignorato e basta.

Non sapeva nemmeno cosa stessero facendo. L’urlo di Steph aveva allarmato Edward, ma c’era pur sempre Konnor con lei. A meno che… non fossero entrambi in pericolo. O peggio. A quel pensiero Thomas rabbrividì e seguì Edward con più decisione. Qualunque cosa fosse successa, l’avrebbero scoperta presto.

Alla fine, sbucarono in una piccola radura, dove si trovarono di fronte uno spettacolo che aveva del rassicurante e del raccapricciante al tempo stesso.

Per prima cosa, sia Konnor che Steph stavano bene, il che era positivo. Lo scorpione gigante che girava attorno ai due semidei, inermi, invece era male.

Konnor era a terra in un lato della radura, privo di sensi, mentre Stephanie era accovacciata a terra, ferita e senza occhiali. Tastava il terreno con le mani, forse alla ricerca di essi, ignara del fatto che le tenaglie dello scorpione si facevano sempre più vicine. 

Visti dal vivo, quei cosi erano ancora più raccapriccianti. Oltre ad essere enormi, le loro tenaglie, fauci, la gigantesca coda, le chele e le placche di corazza naturale avrebbero fatto desistere chiunque dal combatterli. Tuttavia, Edward parve essere di altro avviso.

Prima che Tommy potesse pensare qualsiasi cosa, una freccia si era già conficcata in una delle giunture dell’insetto gigante, dove le placche della corazza non lo proteggevano, facendogli emettere un terrificante verso di dolore.

«Aiuta Steph!» gridò Edward, mentre cominciava a correre attorno allo scorpione, incoccando e scoccando frecce mirando ai punti deboli. Più che ferirlo, sembrava che lo stesse facendo arrabbiare e basta, ma se non altro riuscì a distogliere la sua attenzione da Steph.

La ragazza, nel frattempo, udì la sua voce, perché drizzò la testa assottigliando le palpebre: «E-Edward?»

Il diretto interessato rispose con un urlo, mentre si gettava a terra per evitare di essere tranciato a metà dalle chele del mostro. Thomas corse da Stephanie, inginocchiandosi accanto a lei e aiutandola a rimettersi in piedi.

«Tommy?» domandò ancora lei, incerta. Strizzò gli occhi con forza, facendogli capire che non riusciva a vedere a un palmo dal naso.

«In persona. Che è successo?»

«A dopo le spiegazioni, ora mi servono gli occhiali!»

«Ehm…» Tommy li vide subito, nascosti tra alcuni ciuffi d’erba a pochi metri di distanza da loro. Peccato che le lenti fossero distrutte. «Mai pensato alle lenti a contatto?»

«N-Non ho avuto tempo di metterle…» farfugliò imbarazzata.

«Beh…» Thomas recuperò gli occhiali, consegnandoli a Steph. «Forse avresti dovuto…»

«Oh, no!» mormorò Steph, provando ad indossarli, per poi metterli via scoraggiata. «E adesso?»

Tommy osservò Edward affrontare lo scorpione. Stava finendo le frecce e non sarebbe riuscito a schivarlo per sempre. Il figlio di Ermes afferrò lo zainetto ed estrasse una granata. Ordinò a Stephanie di abbassarsi, poi si alzò in piedi e la lanciò contro il mostro. Questa detonò all’impatto, scatenando una coltre di fumo nero che riempì la radura.

«Ma che diamine?! Tommy!» urlò Edward, da un punto imprecisato in mezzo alla nube.

«Accidenti, credevo che fosse incendiaria!» si scusò Thomas, per poi cercare di nuovo nello zainetto, mentre Stephanie tossiva. La realtà colpì Tommy come una sberla. Solo in quel momento si rese conto che tutte le granate erano identiche. Non c’era alcun modo di distinguerle tra di loro. Non le aveva controllate prima della sfida, le aveva messe tutte nello zainetto senza pensarci. Avrebbe potuto lanciarne una sperando che fosse fumogena e scoprire che invece era a frammentazione, rischiando di conseguenza di uccidere tutti i presenti, sé stesso incluso. «Dannazione…» mormorò.

Steph si voltò verso di lui. «Che succede?»

«Dobbiamo scappare da qui» tagliò corto lui, aiutando Steph a rimettersi in piedi.

«E Konnor? Lui dov’è?»

Thomas imprecò sotto voce, ricordandosi solo in quel momento del figlio di Ares. Si guardò attorno per cercarlo, ma la nube di fumo non gli permise di vederlo. I versi infastiditi dello scorpione e le imprecazioni di Edward si mischiarono, smarrite in mezzo alla coltre, rendendogli impossibile capire dove si trovassero e soprattutto come orientarsi in mezzo a quel caos. 

«Tu nasconditi, non appena la nube si dirada cerco di salvare anche lui.»

«O-Ok… ma…»

Qualunque cosa volesse dire, venne interrotta dal grido di dolore di Edward. Udirono un fruscio, poi un tonfo, seguito da alcuni lamentii. Tommy sgranò gli occhi. Steph gli tolse le parole di bocca: «EDWARD!»

In mezzo al fumo, riuscì a scorgere la figura del suo compagno contorcersi a terra, le mani premute sul fianco, mentre lo scorpione torreggiava su di lui. 

«I-Io non vedo niente…» mormorò Steph. Sembrava stesse per piangere. «Non posso aiutarlo!»

Tommy avrebbe voluto sapere come lei avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, ma non aveva tempo per le domande. Stava quasi per lanciare un’altra granata, sperando che questa non uccidesse anche Edward, quando una figura si mosse rapida al fianco del mostro.

Konnor gridò, conficcando la spada nella corazza dello scorpione fino all’elsa. Il mostro si disarcionò, sbraitando per il dolore, ma si riscosse quasi subito. Sbatté la chela contro il figlio di Ares e lo spedì di nuovo a terra. La distrazione permise ad Edward di strisciare via dal pericolo, ma lo scorpione non sembrò gradire. Quando lo vide puntare di nuovo il suo amico, Thomas si riscosse e gli lanciò la prima cosa che trovò nello zainetto.

Un ossicino di gomma per cani rimbalzo con uno SQUEAK sulla sua corazza. L’insetto gigante smise di puntare Edward e si voltò verso di lui. Tommy sbiancò. Come c’era finito un osso per cani del suo zainetto?!

Se non altro, ora lo scorpione ce l’aveva con lui. 

Un momento… ce l’ha con me!

Gridò terrorizzato quando l’insetto lo caricò. Un attimo prima che la punta della coda gli si conficcasse dritta in mezzo agli occhi, estrasse lo scudo dallo zainetto e infilò il braccio nei laccetti. L’impatto lo mandò a terra, ma almeno era ancora vivo. Peccato che lo scorpione non avesse alcuna intenzione di arrendersi al primo tentativo: continuò a colpire lo scudo con la coda, in un susseguirsi di clangori metallici. Thomas gridò, cercando di tenere il braccio sollevato, ma ad ogni impatto sentiva una fitta di dolore attraversargli tutte le ossa.

Lo scorpione non sembrava voler colpire altro che il suo scudo, forse aveva preso la cosa come una sfida: prima di mangiare la testa di Tommy, avrebbe dimostrato a quell’aggeggio chi comandava. 

«E-Ehi! Qualcuno mi aiuta?» chiamò, ormai placcato a terra, con la coda dello scorpione che continuava ad abbattersi su di lui. Lo scudo aveva cominciato a piegarsi, non avrebbe retto ancora a lungo.

«Tommy!» Stephanie sembrava disperata. Aprì le mani, puntandole contro il terreno. «R-Resisti! Provo a…»

Venne interrotta dal grido di Edward, che si fiondò contro il mostro brandendo il coltello, conficcandolo nella coda. Lo scorpione sbraitò per l’ennesima volta, impennandosi, per poi voltarsi di scatto. La coda frustò l’aria, sfrecciando sopra il corpo rimasto sdraiato di Tommy senza causare danni. Purtroppo, accanto a lui c’era qualcuno rimasto in piedi. Si voltò allarmato. «Abbassati Steph!»

La ragazza non riuscì a muoversi in tempo: la coda sbatté contro di lei, scaraventandola violentemente a terra. Non si mosse più.

«STEPH!» gridò Edward.

«Oh, no, no, no, no!» Tommy strisciò verso di lei, mentre l’urlo di battaglia di Edward giungeva alle sue orecchie.

Il figlio di Ermes si chinò sull'amica e si accertò che stesse bene. Respirava ancora, perciò si sentì rassicurato. La cotta di maglia doveva avere attutito il colpo. Con un po’ di ambrosia si sarebbe ripresa. La estrasse dallo zainetto e sollevò lo sguardo per avvisare Edward, ma il suo compagno era piuttosto indaffarato: schivava colpi della coda e delle tenaglie dello scorpione scattando, saltando e rotolando a terra, rispondendo con attacchi mordi e fuggi, tagliando le distanze, ferendolo e poi scartando di nuovo all’indietro per rimettersi al sicuro.

La coda si conficcò a terra, mancandolo, e Edward ne approfittò dell’attimo di vulnerabilità dello scorpione per tranciargli di netto una delle zampe, facendolo sbraitare per l’ennesima volta.

Tommy schiuse le labbra, sconvolto da quanto bene si stesse comportando armato solo di quella piccola lama contro un bestione del genere. Tuttavia, i suoi attacchi altro non erano che punture di zanzara per il mostro. Gli serviva aiuto, e di Konnor non c’era traccia. Toccava a lui.

So già che me ne pentirò…, pensò, mentre estraeva il falcetto dallo zaino, lasciando l’ambrosia accanto a Steph. Non poteva abbandonare Edward. Lui non avrebbe abbandonato Tommy se i ruoli fossero stati invertiti. E comunque, se doveva tirare le cuoia, lo avrebbe fatto con coraggio. Anche se avrebbe preferito vivere.

Il figlio di Ermes strinse con forza la presa attorno all’elsa dell’arma, mentre si alzava in piedi. Gli tremavano le gambe. Le mani erano così sudate che temeva che il falcetto potesse scivolargli. Lo impugnò con entrambe, poi, non appena si rese conto che lo scorpione gli dava le spalle, partì all’attacco.

Edward era finito di nuovo a terra, tracce di sangue che scivolavano dalla sua bocca. Lo scorpione stava per colpirlo di nuovo, ma Thomas fu più veloce: individuò una giuntura e non ci pensò due volte. Sferzò l’aria, gridando più per la paura che per altro, e sentì la lama abbattersi contro qualcosa, per poi attraversarlo da parte a parte.

Mentre la coda si staccava di netto dal corpo dello scorpione, il grido suo disperato dovette riecheggiare per tutta la baia di Long Island.

Prima che Tommy potesse realizzare quanto avesse appena fatto, la chela del mostro infuriato si era già abbattuta su di lui. Non era mai stato investito da un camion, prima di allora, ma ebbe l’impressione che la sensazione dovesse essere molto simile. Si sentì più leggero dell’aria mentre la terra si staccava dai suoi piedi e il mondo attorno a lui roteava. Il corpo esplose di dolore quando si schiantò a terra, accanto a Steph. Accasciò la testa di lato, sentendo il sapore del sangue in bocca. Gli sembrò di galleggiare, come se il suo spirito lo stesse abbandonando. 

Stava morendo? Dopo solo un colpo? Certo che faceva proprio schifo.

«T-Tommy?» 

Steph si stava rialzando a fatica sui gomiti. Per fortuna almeno lei stava bene. Thomas avrebbe voluto risponderle, ma non ci riuscì. Una figura scura torreggiò su di lui. Lo scorpione si stava avvicinando. Edward era stato sconfitto. Konnor era stato sconfitto. Stephanie era inerme tanto quanto lui. 

Ma cosa gli era saltato in mente? Partecipare alla sfida in quel modo. Come se avesse mai davvero avuto una possibilità. Lui era solo uno stupido figlio di Ermes. Non valeva niente. Non sarebbe mai stato un mentore. Un giorno, perfino Rick si sarebbe preso gioco di lui. Se solo avesse avuto le facoltà motorie per farlo, avrebbe pianto.

È questa la mia fine? si domandò. Di nuovo, che schifo.

«Tommy!» Stephanie si avvicinò a lui, prendendogli il volto fra le mani. Cercò di sollevargli la testa e la sentì singhiozzare.

«È colpa mia» mormorò, affranta. «È tutta colpa mia…»

La chela si alzò sopra di loro. Steph si strinse a lui.

In un baleno, un'altra figura comparve, frapponendosi tra loro e la tenaglia dello scorpione. Nonostante la vista appannata, Thomas riuscì comunque a intravedere il loro salvatore, che era illuminato da una strana aura argentata.

«E-Edward?» riuscì a domandare. Anche Steph alzò lo sguardo, spalancando la bocca.

«Ora mi hai rotto…» rantolò Edward, in direzione dello scorpione, mentre stringeva tra le mani una strana spada. Era molto lunga, con la lama che si incurvava, di un metallo così bianco da brillare e da illuminare il suo possessore. Il manico era nero, l’elsa dorata incurvata verso l’alto. Non sembrava fatta di Bronzo Celeste e nemmeno di Oro Imperiale. Edward aveva bloccato la gigantesca chela del mostro impugnandola con solo con una mano.

Il verso prodotto dallo scorpione ora parve essere di sorpresa. Edward gridò e spinse la spada, allontanando la chela e facendo indietreggiare il mostro. Una folata d’aria si sollevò, sferzando su tutti loro, mentre il ragazzo si fiondava contro lo scorpione e iniziava un altro combattimento furibondo.

Tommy tastò il terreno, gemendo per il dolore, fino a quando non trovò l’ambrosia ancora incartata. La sollevò a fatica, porgendola a Stephanie, che parve capire cosa stesse cercando di fare. «Aspetta, lascia fare a me.»

La ragazza lo imboccò come un bebè, ma per quanto la cosa fosse imbarazzante, in quel momento non era in vena di badarci. Il sapore delle fragole coltivate dai suoi nonni esplose nel suo palato, rinvigorendolo. Il dolore terrificante cominciò a trasformarsi in una pulsazione sorda, ancora presente ma distante, meno fastidiosa.

Gli strilli dello scorpione e di Edward nel frattempo continuavano imperterriti. Tommy drizzò la testa, stordito, per poi trovarsi di fronte una scena surreale. Il mostro indietreggiava, barcollando, stordito, le zampette che faticavano a tenerlo in piedi, mentre Edward continuava a incalzarlo. In un ultimo disperato tentativo, lo scorpione cercò di abbattere le chele sul ragazzo, ma prima che lui e anche i semidei potessero realizzare cosa stesse succedendo, se le ritrovò già tranciate entrambe; la spada penetrò la sua corazza come se fosse stata fatta di burro.

Senza più la coda e senza più le chele, lo scorpione lanciò un ultimo grido disperato, per poi crollare a terra esanime. Cominciò a sgretolarsi, a cominciare dal fianco, dove Tommy notò la spada di Konnor ancora conficcata. Se n’era scordato. Il mostro aveva continuato a combattere nonostante la spada conficcata nella sua carne, ma alla fine, mutilato e ferito, aveva ceduto.

«Come… come ha fatto?» mormorò Steph, con voce sbalordita.

«Hai… hai visto anche tu?» le domandò Tommy.

«L’ambrosia ha schiarito un po’ la mia vista» ammise lei. «Ma l’effetto non durerà ancora molto.»

Edward si voltò verso di loro proprio in quel momento. Sorrise, ma c’era qualcosa di strano nel suo sguardo e nella sua espressione. Fece per parlare di nuovo, quando altri strilli si sollevarono nell’aria. I tre ragazzi drizzarono la testa. Con orrore crescente, Thomas vide un altro scorpione apparire nella radura, sibilando furioso. Edward si voltò per fronteggiare la nuova minaccia, la spada che brillava ancora in suo pugno. Prima che potesse fare qualsiasi cosa, tuttavia, dalla vegetazione spuntò fuori un altro scorpione ancora. E poi un altro. E poi un altro ancora.

Tommy non riuscì a credere ai propri occhi: cinque scorpioni giganti erano apparsi all’improvviso da ogni angolo della radura, accerchiandoli. La mente rifiutava di collaborare con il corpo: avrebbe voluto gridare, avrebbe voluto scappare, forse perfino piangere, ma era paralizzato, incapace di muoversi e di pensare, e forse anche di respirare. Accanto a lui, Steph gemette spaventata.

Chirone aveva detto che gli scorpioni erano sei. Uno lo avevano abbattuto, ma lì ce n’erano altri cinque. Ogni singolo scorpione della sfida era radunato lì, nella radura. E ogni mostro stava puntando Edward, ignorando gli altri ragazzi.

«Mh» commentò lui, con una calma irreale. «A quanto pare ci sono un po’ di imbucati alla nostra festicciola.»

Thomas schiuse le labbra. «E-Edward, scapp…»

Non riuscì a finire la frase. Edward gridò e attaccò uno scorpione, muovendosi rapido come un fulmine. Prima che chiunque potesse fare qualsiasi cosa, aveva già conficcato la lama fino all’elsa nel muso del mostro. Lo strillo disperato dello scorpione gigante giunse alle orecchie di Thomas per l’ennesima volta, scuotendogli le ossa per la paura. Non appena Edward si allontanò da lui, questo crollò a terra e cominciò a svanire. Non si dissolse come l’altro, però: iniziò a sciogliersi in una pozzanghera nera.

«Fuori uno» annunciò Edward, neanche con il fiatone. «Sotto a chi tocca!»

Il resto degli scorpioni partì alla carica. Uno di loro provò a infilzare Edward con la coda, ma lui si spostò di lato, per poi tranciare un fendente con la spada: un arco fatto di luce candida si generò dalla punta della lama, dirigendosi contro il mostro e attraversandolo da parte a parte, tagliandolo in due. Con un altro strillo, il secondo scorpione cessò di esistere, le due estremità del suo corpo che si dissolvevano.

«Cinque contro uno, uno scontro troppo impari!» gridò Edward, fiondandosi sul terzo scorpione. «Avreste dovuto essere almeno in dieci!»

Come le prime due, la terza bestia crollò nel giro di un istante, e subito dopo Edward attaccò la quarta.         

Thomas non credeva ai propri occhi. Stephanie sembrava pietrificata. Edward correva, saltava, rotolava, muovendosi con una rapidità incredibile, con l’aria che sembrava plasmarsi attorno a lui secondo la sua volontà, maneggiando la spada come un maestro e non come uno studente alle prime armi. Aveva uno stile anomalo, che Tommy mai aveva visto. Era aggraziato, veloce, ma allo stesso tempo brutale, preciso, quasi calcolatore. Gli ultimi due scorpioni lo attaccarono insieme, ma non avevano nessuna speranza.

Quando anche il quarto fu annientato, di fronte a lui si ritrovò di fronte quello che era senza dubbio il più grosso di tutti, delle dimensioni di un furgone. Erano al centro della radura, uno di fronte all’altro. Lo scorpione emise il proprio verso dalle fauci, una specie di sfrigolio, ed Edward sorrise. «Siamo rimasti tu e io, bello.»

Il mostro ruggì di rabbia e partì all’attacco, ma, ancora una volta, Edward fu più veloce. Saltò in alto, superando con un arco lo scorpione, per poi amputargli la coda mentre era a mezz’aria. Il mostro strillò e si voltò, per poi ritrovarsi entrambe le chele tranciate. Barcollò, e il semidio avrebbe potuto finirlo senza difficoltà, ma non lo fece. Il suo sorrisetto si trasformò in un ghigno malizioso, sadico perfino.

«Spiacente amico, ma questa era una festa privata!» Edward gridò e partì alla carica, menando fendenti come la lama di un tagliaerba. 

Tagliò alcune zampe del mostro, le tenaglie sul suo muso, lo accecò ad un occhio, tranciò via zigomi e placche di corazza, tuttavia senza mai infierire il colpo di grazia. La risata di Edward si sollevò nella radura e Tommy ebbe i brividi. Non c’era alcun divertimento in essa, solo sadica crudeltà.

Lo scorpione era troppo grosso e resistente per poter crollare con le ferite inflitte da Edward, ma privato di qualsiasi arma, poteva solo cercare, invano, di indietreggiare mentre il semidio lo trucidava secondo dopo secondo. Ormai i suoi strilli di dolore erano ridotti a cupi rantolii. Thomas non avrebbe mai potuto pensare di provare pena per un mostro.

Certo, avevano cercato di ucciderli, ma forse Edward stava esagerando. Tuttavia, non aveva fiato per parlare, sia per la sorpresa che per la paura. Rimase immobile, a osservare a occhi sgranati il macabro spettacolo.

Infine, Edward si decise a dare il colpo di grazia.

«Watashi no michi o kizutsukete shinu!» gridò, in quello che Tommy pensò fosse giapponese. Falciò l'aria decine di volte, macellando il mostro, tagliandolo in decine di pezzi. Nel giro di poco tempo, di lui non rimase altro che la misteriosa pozza nera, che cominciò ad essere assorbita dal terreno.

Nella radura non rimase altro, solo i semidei, i sacchetti di seta degli scorpioni – spoglie di battaglia – e i resti dello scorpione ucciso dalla spada di Konnor, uno strato di polvere di un giallo sporco, simile a sabbia.

Edward rimase immobile, con la spada che scivolava lungo il suo fianco, la testa bassa, le spalle che si alzavano e abbassavano a causa del fiatone. Dava la schiena a Tommy e Steph, perciò per loro fu impossibile vedere la sua espressione. Poi, la spada svanì dalle sue mani con un bagliore argentato e il ragazzo crollò in ginocchio, gemendo a sua volta.

«Edward!» lo chiamò Tommy, riuscendo a ritrovare la forza di parlare. Il suo compagno si voltò e, con un profondo sollievo, Thomas constatò che nel suo sguardo non c’era più alcuna malignità. Edward sorrise di nuovo, un sorriso più genuino, e li rassicurò con un cenno della testa. «Beh… direi che è andata piuttosto bene.»

«Bene?» domandò un’altra voce. Konnor si era rialzato, tenendosi un braccio, osservando Edward scioccato. «Cosa… che diavolo… ma che hai fatto?!»

Edward si rialzò, rivolgendo un cenno anche a lui. «Non c’è di che» rispose.

Thomas non sapeva cosa pensare. Accanto a lui, Steph pareva dello stesso avviso. Konnor aveva fatto la domanda che anche loro si erano posti, ma che né lui né lei avevano il coraggio di domandare. In quel momento, Thomas non pensò nemmeno al fatto che l’alloro della vittoria era ad un palmo dal suo naso, in uno di quei sei sacchetti. Dopo quanto aveva appena assistito, vincere la sfida era diventato l’ultimo dei suoi pensieri.

Poi pensò a come Edward sapesse, in qualche modo, parlare giapponese. Pensò alla strana spada ricurva che era apparsa e allo strano materiale di cui era composta. Pensò al suo stile di combattimento, decisamente molto diverso da quello a cui erano abituati nel Campo Mezzosangue. Stava cercando di unire i puntini, quando un fruscio si sollevò di nuovo tra la vegetazione. Tommy temette che non fosse ancora finita, che magari gli scorpioni fossero sette e non sei, ma per fortuna venne smentito. Questa volta nella radura non sbucarono mostri, ma un gruppo di semidei, capitanati da Chirone. Sopra le loro teste, uno stormo di arpie volteggiava nell'aria, agitato.

«Numi del cielo!» esclamò il centauro, accorgendosi dei quattro semidei. «Abbiamo sentito delle grida terribili! Ma cos’è successo qui?»

Thomas non aveva mai visto così tanti semidei riuniti in un unico luogo rimanere in silenzio in quel modo. Tutti quei ragazzi che poco prima della sfida lui aveva definito pericolosi, ora erano stupiti e confusi. Tra di loro c’erano Derek, Paul, Rosa, Jonathan, perfino Buck e i suoi.

Accorgendosi di come nessuno dei suoi compagni interpellati avesse deciso di rispondere, si schiarì la gola con timidezza. Si sentì sepolto da tutti gli sguardi che gli rivolsero. Perfino Rosa teneva gli occhi fissi su di lui. Un tempo avrebbe pagato milioni per essere osservato in quel modo da lei, ma ora che stava succedendo, non era più molto sicuro di questo desiderio.

«B-Beh… tutti… tutti gli scorpioni ci hanno attaccati, e…»

«Li ho uccisi» annunciò Edward.

Un coro di versi di sorpresa si sollevò tra la folla. Ora tutti gli sguardi si posarono su di lui, quello di Chirone in primis. Neppure lui sembrava aver capito bene. «Tu hai… cosa?»

«Li ho uccisi» ripeté Edward, calmo. «Tutti quanti. Tommy mi ha aiutato, ovviamente.»

Alcuni sguardi si posarono di nuovo su di Thomas. Non era del tutto falso il fatto che avesse aiutato, però il suo intervento non era stato nulla rispetto a quello di Edward.

«Stai mentendo!» esclamò qualcuno in mezzo alla folla all’improvviso. Buck avanzò a pugni stretti, per poi indicare la spada di Konnor in mezzo agli unici resti di scorpione rimasti. «Qui ci sono solo i resti di uno scorpione, e quella è la spada di Konnor. È stato lui a ucciderne uno!»

«E gli altri sacchetti come te li spieghi?» domandò Edward, accennando al resto delle spoglie di guerra. «Dici che ce li hanno regalati dopo che glieli abbiamo chiesti gentilmente?»

«Sono sicuro che sia solo un trucco di quello stupido figlio di Ermes» affermò Buck, ora indicando Tommy. «Ci stai imbroglian…»

«Falla finita, Buck» sbottò Konnor all’improvviso, ottenendo un’occhiata sbalordita dal fratello. Konnor zoppicò verso la propria spada, per poi recuperarla. La sciabola nera di Bronzo Celeste, con l’elsa ricavata dai resti delle ossa di un dragone, si trasformò in un portachiavi e scomparve nella sua giacca. Tornò a guardare Buck, serio in volto. «Io ne ho ferito uno, è vero, ma non ho fatto altro. Se non fosse stato per loro due sarei morto.»

«Ha ragione» mormorò anche Steph, aiutando Tommy a rimettersi in piedi. «Siamo vivi grazie a loro.»

Thomas pregò di non essere arrossito. Avrebbe voluto dire che lui in realtà non aveva fatto niente di niente, ma non riuscì ad aprire bocca.

«Suvvia, Buck, non prendertela così» disse Edward con un ghigno. «Per vincere la sfida bisogna trovare l’alloro, mica uccidere tutti gli scorpioni da soli. I sacchetti sono ancora qui, come puoi vedere. Ecco…» Ne raccolse uno, per poi lanciarglielo. Allargò il sorrisetto provocatorio. «… prenditeli pure tutti. Tanto non mi interessa vincere…»

Buck ringhiò di rabbia, stringendo con forza la seta. Chirone, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo, distese un braccio per appianare il diverbio tra loro, ma non poté fare altro. Una fioca luce arancione illuminò la radura e diversi gemiti si sollevarono tra il gruppo di semidei, perfino Buck si diede una calmata.

Thomas spalancò gli occhi, imitato da Stephanie, Konnor e tanti altri. Rendendosi conto di essere osservato da tutti, Edward sospirò. «Cosa? Che c’è ancora?»

«Sopra di te…» mormorò Thomas, indicando il marchio che era apparso sulla sua testa. Edward sollevò lo sguardo, per poi rimanere a bocca aperta.

«Bene, bene…» commentò Jonathan, sorridendo.

Il simbolo di un’arpa volteggiava nell’aria, sopra la testa di Edward. Era stato finalmente riconosciuto.

Chirone abbassò la testa con fare solenne e gli altri semidei, chi più volente e chi meno, lo imitarono.

«Ave Edward Model, figlio di Apollo» esordì il centauro. «Dio del Sole, della medicina, di tutte le arti, della pestilenza e della scienza.»

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Capitolo 7
*** La figlia di Demetra ***


7

La figlia di Demetra

 

 

Quella giornata non era iniziata nel migliore dei modi, per Stephanie.

La prima cosa che aveva notato, una volta uscita da casa, era stato il giardino distrutto. I suoi fiori, i gigli, le orchidee, le rose, le viole, tutti calpestati e fatti a pezzi. La parte peggiore era che non era nemmeno la prima volta che succedeva, eppure fece male come la prima. 

Steph sapeva chi era stato. Loro non si erano mai fatte problemi a rivendicare quel gesto. E lei ancora non aveva capito perché continuava a permetterlo. La terra tremava sotto ai suoi piedi ogni volta che incontrava Jane e le sue maledette sorelle ed era costretta a stringere i denti e ingoiare l’amaro per paura di quello che avrebbe potuto fare loro.

In quei momenti, le tornavano in mente le parole di sua sorella, e le veniva molto difficile non pensare a quanta ragione avesse.

Tuttavia, quella volta non fu come le altre. Perché mentre riparava il giardino, ben due persone al di fuori dei suoi fratelli, o Tommy, andarono a vedere come stava.

Le era dispiaciuto mandare via Edward in quel modo. Sembrava davvero preoccupato per lei, davvero desideroso di dare una mano. Però lei non poteva permettergli di immischiarsi più del dovuto: nessun altro doveva rimanerne coinvolto. Si sentiva già responsabile per quello che era successo a Thomas e i suoi fratelli. Erano finiti sotto al mirino dei bulli solo perché erano suoi amici. Edward si era già preso un pugno, per lei. Era più che sufficiente, soprattutto considerando quante già doveva averne passate.

Poi, arrivò la seconda persona. Dopo cena, poco prima dell’inizio della sfida, Stephanie sfruttò la quiete nel campo per finire di sistemare il giardino, approfittando anche della poca luce del sole ancora presente. 

Mentre stava apportando gli ultimi ritocchi, qualcuno la chiamò: «Steph.»

Stephanie riconobbe subito quel tono di voce baritonale. Si alzò in piedi, voltandosi con cautela. «Konnor…» 

Il figlio di Ares la osservò per un breve istante e, come ogni volta, Steph si sentì come se le stesse leggendo dentro l’anima. Era per via dei suoi occhi, si ripeteva sempre lei, di quel colore così freddo, che gli davano un’aria sempre critica ed esaminatrice.

«Di nuovo il giardino?» domandò poi lui, facendola trasalire. Solo in quel momento si rese conto che aveva spostato lo sguardo, ora studiando i fiori. Erano quasi tutti di nuovo intatti e immacolati, ma entrambi sapevano nel profondo che non sarebbe durato per molto.

«Sì… lo stavo risistemando» spiegò lei, flebile.

Un sospiro provenne dal ragazzo, che tornò a scrutarla, ora quasi con aria di rimprovero. «Non puoi lasciare che continuino a tormentarti in questo modo. Lascia che parli con Jane, per favore. Lei mi ascolterà, sarà costretta a farlo. Le dirò di…»

«No» asserì la figlia di Demetra, ricomponendosi. «Non farlo.»

«Perché?» insistette Konnor, faticando a trattenere la propria postura intatta. Sembrava quasi voler sollevare gli occhi, o sospirare un'altra volta, invece tenne lo sguardo saldo su di lei.

«Perché…» Stephanie inspirò a fondo. Strinse i pugni senza nemmeno accorgersene. «… perché non ne ho bisogno. Non voglio aiuto. Non così. Non posso lasciare che siano gli altri a risolvere i miei problemi per me. Le cose peggiorerebbero soltanto.»

«E quindi vorresti continuare a tenere la testa bassa e subire…» Konnor indicò il giardino. «… questo? Pensi che si stancheranno? Continueranno finché non ti avranno distrutta. E forse nemmeno allora si fermeranno.»

Le labbra di Stephanie tremolarono. Sistemò meglio gli occhiali sopra il naso, poi sospirò. «Non posso fare altro» mentì. Poteva, invece. Ma non voleva.

Konnor mugugnò esausto, passandosi la mano tra i corti capelli. «Ah… lo sapevo che l’avresti detto. Per fortuna, ho un’altra idea. E credo che questa ti piacerà.»

Così, il figlio di Ares l’aveva persuasa a partecipare alla sfida. Con le loro capacità combinate, avrebbero potuto vincerla. E poi, forse, gli altri ragazzi nel campo avrebbero cominciato a rispettarla. Stephanie non saltava di gioia all’idea di partecipare alla sfida e temeva che fare coppia con Konnor avrebbe incasinato tutto ancora di più, ma non se l’era sentita di dirgli di “no” anche la seconda volta in cui le proponeva di fare qualcosa assieme, in più… forse il suo piano poteva davvero funzionare. Se doveva guadagnarsi il rispetto degli altri semidei, allora avrebbe preferito che accadesse in un modo come quello, evitando soluzioni più drastiche.

Erano entrati nel bosco, in perlustrazione, prendendo un sentiero dove il grosso del resto dei semidei non sarebbe passato e dove Steph, grazie alla conoscenza del posto, aveva creduto di poter trovare uno scorpione. Tutto quanto stava procedendo senza intoppi, fino a quando Konnor non le aveva sfiorato il braccio. «Ehi, ascolta…»

«Sì?»

Konnor parve imbarazzarsi, il che era tutto dire. Distolse lo sguardo da lei. «Insomma… a volte mi capita… mi capita di pensare a quella volta.»

«Quella… volta?» Stephanie sollevò un sopracciglio, per poi schiarirsi la gola imbarazzata. «Intendi dire… quando mi hai chiesto di uscire?»

Il figlio di Ares non rispose. Per lei, quello fu un sì. «Quindi… è per questo che mi stai aiutando?» domandò. «Volevi solo… parlarmi di nuovo di questa faccenda?»

«No!» asserì Konnor. «L’ho fatto perché è la cosa giusta. Non mi piace vedere gli altri trattarti in quel modo. Non te lo meriti.»

Steph lo osservò corrucciando la fronte, per poi sospirare. «Konnor…» cominciò, con tono più morbido. Le era dispiaciuto da morire dirgli di no quando le aveva chiesto di uscire. Konnor era carino, gentile, di gran lunga meglio rispetto ai suoi fratelli, tuttavia lei aveva temuto che si fosse trattato solo di qualche piano delle figlie di Afrodite in combutta con quelli di Ares per ferirla ancora, non sarebbero stati una novità dopotutto. Quando aveva scoperto che Konnor, invece, era sincero, non aveva più avuto il coraggio di tornare tra le sue braccia dopo averlo deluso.

«… ascolta, ti sono davvero grata per quello che stai cercando di fare, però… forse sarebbe meglio parlarne dopo la sfida, va bene?»

Scostò alcuni rami, ed entrambi i ragazzi sbucarono in una radura, il luogo di sua conoscenza dove lei credeva che uno scorpione avrebbe potuto trovarsi. Era una zona ampia, dove un bestione del genere avrebbe potuto muoversi in tutta tranquillità. 

Konnor pareva piuttosto cupo dopo le parole della ragazza. «Mi piacerebbe solo… insomma, avere una seconda possibili...»

La ragazza lo zittì, forse con un cenno un po’ troppo brusco, ma aveva appena sentito uno strano fruscio tra i cespugli. Si fermò di colpo, guardandosi attorno. «Hai sentito?»

«Che cos…» Konnor non riuscì a finire la frase. Uno scorpione sbucò fuori dalla vegetazione, emettendo un terribile strillo. Prima che i due semidei potessero reagire, tuttavia, il mostro aveva già colpito il figlio di Ares, scaraventandolo ad un lato della radura.

«Konnor!» gridò lei, un attimo prima che lo stesso trattamento le venisse riservato.

Gli occhiali le erano saltati via e lei si era ritrovata a terra, dolorante. Il mondo si era trasformato in una macchia indistinta. E poi, era successo tutto il resto. L’arrivo di Tommy, di Edward, la spada misteriosa, l’arrivo di Chirone e, per finire, la scoperta che Edward fosse un figlio di Apollo. Il piano di Konnor di vincere la sfida assieme a lei era naufragato, non che la cosa avesse molta importanza, ormai. Quello che era successo con Edward aveva cancellato qualsiasi altro pensiero dalla sua mente e con tutta probabilità anche da quelle di Tommy e dello stesso Konnor.

Ora i semidei avanzavano in un unico grande gruppo capitanato dal centauro, affiancato da Stephanie – a cui alcuni figli di Efesto avevano aggiustato gli occhiali con riluttanza – Konnor, Tommy ed Edward. Chirone aveva sancito il termine della sfida, non esprimendosi in maniera molto chiara su chi l’avesse vinta, e aveva chiesto a loro quattro di andare con lui alla Casa Grande mentre il resto dei semidei sarebbe tornato nelle loro cabine. Era evidente che non si fosse affatto bevuto la faccenda di Thomas ed Edward che da soli eliminavano ben cinque scorpioni e doveva aver capito che c’era qualcosa di più grosso sotto. Stephanie era stata tentata di parlargli della strana spada che era comparsa tra le mani di Edward, tuttavia aveva deciso di non farlo: era la sua spada, dopotutto. 

Konnor zoppicava ancora, lasciandosi scappare numerose smorfie di dolore. Aveva mangiato anche lui un po’ di ambrosia, ma forse non era bastata. In effetti, tra loro quattro, sembrava essere quello in condizioni peggiori, nonostante lo scontro lo avesse coinvolto meno di tutti. E lei non ci mise molto a capire il perché: il figlio di Ares non stava indossando la cotta di maglia. La ragazza schiuse le labbra. Se ne accorse solo in quel momento, dopo la battaglia, quando poté osservarlo meglio grazie agli occhiali nuovi e la tensione per la sfida si era ormai dissipata. Sotto la giacca e la maglietta, il suo compagno non portava alcuna protezione. Avrebbe voluto chiedergli perché, ma con il centauro così vicino a loro temette che potesse metterlo nei guai per non aver seguito l'obbligo di indossare l'armatura. 

Thomas ed Edward erano accanto all’altro fianco di Chirone, divisi da loro due, e Steph non poté capire cosa frullasse nelle loro menti. Tommy sembrava ancora piuttosto scosso da quello che era successo, mentre Edward non aveva più aperto bocca da quando era stato riconosciuto. Il fatto che fosse un figlio di Apollo sembrava aver lasciato di sasso più lui che gli altri.

Infine, giunsero alla casa grande. Qui Chirone fermò la comitiva e prese Jonathan da parte. Mentre il gruppo si sfoltiva, i quattro rimasero di fronte all’ingresso della casa.

«Allora…» cominciò Tommy, a disagio. «… seratina difficile, eh?»

Edward non rispose, lo sguardo smarrito nel nulla, mentre Konnor si limitò a fare un’altra smorfia.

«Già…» mormorò Stephanie, per non lasciare il poveretto senza una risposta. Osservò poi il figlio di Ares. «Dov’è la tua cotta di maglia?»

Konnor trasalì, portandosi d’istinto una mano sopra il petto. «Ecco… non l’ho messa.»

«Perché?»

Il ragazzo si grattò dietro l’orecchio, imbarazzato. «Pensavo… pensavo che non mi sarebbe servita.»

«Co… cosa?» lo interrogò la figlia di Demetra, basita. «E in che modo pensavi che non ti sarebbe servita?»

Lui non risposte, limitandosi a distogliere lo sguardo. 

«Cos’è, cercavi forse di impressionare qualcuno?» si intromise Edward, con un sorrisetto. «Volevi affrontare gli scorpioni senza armatura per dimostrare quanto fossi macho

Il figlio di Ares lo folgorò con lo sguardo, e anche Stephanie lo rimproverò. «Non sei divertente, Edward.»

Il sorriso svanì dal volto del nuovo figlio di Apollo. Stephanie, però, non aveva ancora finito. «E tu» disse, puntando l’indice contro Konnor. «Sei stato un irresponsabile! Lo sai che avresti potuto farti davvero male? C’è un motivo se ci fanno indossare l'armatura, per la miseria!»

«Scusa» mormorò quello, abbassando lo sguardo mortificato. «Hai ragione, ho sbagliato.»

«Bene» annuì lei, soddisfatta, per poi notare come Edward e Thomas si stessero trattenendo a stento dal ridere. «E voi due smettetela di fare gli stupidi!»

I due si ricomposero all'istante, schiarendosi la voce. Si scusarono entrambi e un sorriso soddisfatto nacque sul volto della ragazza. Quando i suoi compagni si comportavano da bambini, allora era giusto che venissero trattati proprio come tali.

«Vi ringrazio per la pazienza» esordì Chirone, raggiungendoli proprio in quel momento. «Prego, seguitemi dentro.»

Il gruppo si ritrovò nel salotto, di fronte al caminetto. Stephanie e Tommy occuparono il divano, mentre Konnor ed Edward si sedettero sulle due poltroncine. Chirone, di nuovo a bordo della sedia a rotelle magica, girovagava per la stanza. La testa vivente del leopardo Seymour, appesa sopra il caminetto, sonnecchiava beata.

«Vi chiedo ancora scusa per avervi trattenuti qui con me, ma prima di lasciarvi andare vorrei farvi alcune domande.»

«Dov’è il signor D?» domandò Thomas all’improvviso. 

In effetti, anche Steph se lo stava chiedendo. Era già da alcune settimane che dal direttore Dioniso non giungeva alcuna parola, non si era nemmeno fatto vivo quando era apparso il nuovo arrivato. Certo, era insolito che il brontolone dio del vino mostrasse interesse verso i semidei, ma era ancora più insolito il fatto che non fosse apparso nemmeno una volta per ricordare a tutti quanto la sua vita fosse miserabile per colpa loro.

«Purtroppo Dioniso è ancora sull’Olimpo, a discutere con gli altri dei a riguardo di qualche faccenda di cui non sono stato messo al corrente, perciò non sarà presente questa sera.» Chirone girovagò ancora un poco per la stanza, soppesando ciascun semidio con lo sguardo. «Tuttavia, la sua presenza non è indispensabile, in questo momento. Posso gestire da solo la situazione.»

«S-Sì, certamente, signore.» Thomas si schiarì la gola. «Non volevo certo insinuare che…»

«Tommy.» Il centauro gli sorrise, paziente. «Chiudi la bocca, per piacere.»

«Sissignore!»

Edward ridacchiò sommessamente. Chirone riprese il discorso: «Grazie. Dunque. Durante la sfida, le arpie di guardia hanno cominciato a dare di matto all’improvviso e i satiri, e anche io, abbiamo percepito un potere immenso provenire dal bosco. Proprio dal luogo dove vi abbiamo trovato.»

Stephanie schiuse le labbra. «Anche… anche gli scorpioni lo hanno percepito, vero? È per questo che sono arrivati tutti insieme.»

«Sì» confermò Chirone. A quel punto, la figlia di Demetra ripensò alle spiegazioni che le avevano dato quando l’avevano accolta al campo il primo giorno, le stesse che lei stessa aveva dato ad Edward.

Sapeva che più un semidio era potente, più mostri attirava attorno a sé, ma non riusciva proprio ad immaginare un potere così grande da poter attrarre ben cinque esemplari di una delle specie più pericolose esistenti. Eppure, avevano assistito in prima persona alla potenza sprigionata da Edward. E anche lui parve giungere alla stessa conclusione, perché si spostò sulla poltrona, sembrando a disagio.

«Perciò, vorrei domandarvi, che cosa è successo con esattezza? Cosa ha sprigionato quel potere? E come avete fatto a uscirne indenni?»

I ragazzi si guardarono tra loro, ma nessuno aprì bocca. «B-Beh…» cominciò Stephanie, incerta.

«Credo… credo di essere stato io» si intromise infine Edward, con voce roca. La stanza scarsamente illuminata dalla sola luce del fuoco gettò cupe ombre sul suo volto. «L’ho… l’ho sprigionato io.»

Una strana espressione comparve sul volto del centauro, mentre si voltava verso il figlio di Apollo. «Come hai fatto?»

«Ehm… beh… ci sarebbe questa… spada che… che posso far comparire e… insomma…»

«Una spada?» Chirone sollevò un sopracciglio. «Scusa, non volevo interromperti. Prego, continua.»

«Non c’è molto altro da aggiungere, a dire il vero… questa è stata solo la seconda volta che sono riuscito a farla apparire. Ma… proprio come la prima, mi ha dato una forza incredibile.» Edward si osservò le mani, con sguardo quasi sognante. Per un istante, Stephanie scorse di nuovo in lui quella scintilla malevola apparsa durante lo scontro con gli scorpioni, e anche qualcos’altro: sembrava quasi… nostalgico. Come se gli mancasse la sensazione che quella spada gli aveva trasmesso.

La figlia di Demetra non si rese conto di essere rimasta a fissarlo finché lui non drizzò la testa. La ragazza distolse subito lo sguardo, sperando di non essere avvampata. Non sapeva ancora molto bene cosa pensare di lui. Gli era sembrato un bravo ragazzo, simpatico, generoso, sempre pronto ad aiutare i bisognosi, ma allo stesso tempo impulsivo, troppo impulsivo, e anche un pizzico arrogante. Come una medaglia a due facce.

Imprevedibile, quello era l’aggettivo che meglio lo descriveva. Nessuno poteva mai davvero aspettarsi quale sarebbe stata la sua prossima mossa.

«E quindi… sì, è andata così» riprese Edward, risistemandosi sulla poltrona. «Non so bene come ma… sapevo che sarebbe apparsa se mi fossi trovato davvero con le spalle al muro. Com’è successo la prima volta. Non appena ho visto Steph…» Edward fece cadere lo sguardo su di lei. Si interruppe per un istante, per poi riprendere quasi subito. «… e Tommy, in pericolo, mi sono frapposto tra loro e lo scorpione, e il resto è venuto da sé.»

Per l’ennesima volta, cambiò posizione, ora accavallando le gambe. «Quindi… credo di essere stato io ad attrarre gli scorpioni.»

«Infatti loro non ci hanno nemmeno considerato…» rifletté Thomas, guardando Stephanie.

La ragazza annuì. Doveva ammetterlo, era felice che ci fosse anche lui con loro. Nelle situazioni di disagio, Thomas riusciva a parlare e a comportarsi senza impacciarsi, a differenza sua. 

Sarà l’abitudine, pensò Steph, con un po’ di macabra ironia. 

Konnor tacque. Sembrava ancora turbato, e non doveva essere solo per via della figuraccia fatta nel bosco. Stephanie ripensò a quando aveva zittito Buck. Konnor era diverso dal resto dei suoi fratelli, era una cosa che si era fatta sempre più chiara negli anni. Non era un bullo, non era arrogante, prepotente, nulla di tutto ciò. Non aveva mai partecipato alle “attività” di Buck e Jane, se n’era sempre stato in disparte, conscio del fatto che il loro comportamento fosse sbagliato.

Di certo, farsi avanti in quel modo, per difendere Edward tra tutte le persone, non doveva aver reso felice Buck. Era sicura che non vedesse l’ora di scambiare due parole con Konnor, una volta finita quella questione nella casa grande.

Chirone, nel frattempo, annuì con espressione indecifrabile. «Potresti descrivermi quella spada?»

Edward sussultò. «Ehm… prego?»

«La spada. Com’era fatta?»

Il figlio di Apollo si grattò la testa. «Beh… aveva la lama che si incurvava, il manico lungo e…»

«Era una katana» sbottò Konnor all’improvviso, osservando Edward con uno strano sguardo. «La lama era bianca, accecante. L’elsa, invece, sembrava fatta d’oro.»

«Una katana?» domandò Chirone, che tuttavia non parve essere sorpreso.

«Ehm… tipo le spade da samurai?» chiese invece Tommy, incerto.

«Sì» chiarì Stephanie, scoccando un’occhiataccia a lui e alla sua mania di fare domande stupide.

«Questo sì che è strano» commentò il centauro. «Anche qui nelle nostre armerie abbiamo armi che richiamano alla cultura orientale, ma sono tutte fatte di Bronzo Celeste. Delle copie, se possiamo dire. Questa qui, invece, è originale, vista la lama bianca di cui mi ha parlato Konnor. Un’autentica katana realizzata in Acciaio Tamahagane

«Tamaha… che?» interrogò ancora Thomas, che questa volta venne risparmiato da una gomitata perché anche Stephanie non era sicura di aver capito molto bene.

«“Tamahagane”» ripeté Chirone, scoccando un’occhiata ad Edward. «Ci puoi dire tu cosa significa questa parola?»

Edward si schiarì la gola, titubante. Osservò Stephanie, con aria imbarazzata, poi Thomas e Konnor. «Beh… significa… prezioso. “Prezioso e ricurvo” per meglio dire. Ma… non chiedetemi come lo so, perché… non lo so.»

Tommy si stravaccò sul divano. «Acciaio Prezioso… beh, carino come nome. Bronzo Celeste, Oro Imperiale e Acciaio Prezioso. Può funzionar-ahi!»

Ora la gomitata non gliela tolse nessuno. Mentre il piccoletto si massaggiava il braccio, Stephanie riprese la parola: «Quindi è un altro metallo in grado di abbattere i mostri, dico bene? Proprio come il Bronzo Celeste, l'Oro Imperiale e il Ferro dello Stige.»

Chirone fece un altro cenno di assenso con la testa.

«Però... queste spade aumentano la forza di chi le usa?» si intromise Konnor. «Com’è successo a Edward?»

«No invece» replicò il centauro, calmo, suscitando alcune reazioni sorprese. «Le armi in Acciaio Prezioso, proprio come le nostre e quelle dei romani, funzionano tutte allo stesso modo.»

«Ma… allora come mai io…»

«Non ne sono molto sicuro» Chirone interruppe il dubbio di Edward. «Avrei bisogno di sapere un’altra cosa. Questa tua spada non ha dissolto i mostri come accade normalmente, vero? Per questo i loro resti non c’erano più.»

Ancora una volta, Edward rimase senza parole. Anche Stephanie sentì la testa girare. Sembrava quasi che Chirone sapesse meglio di loro cosa fosse successo in quella radura. Poi la ragazza ricordò che quello di fronte a loro era un essere immortale che doveva averne viste di cotte e di crude e anche di riscaldate, perciò forse stupirsi in quel modo era esagerato.

«Sì, è vero…» mormorò Edward. «La spada li ha… come sciolti. Non so se mi spiego…»

«Ti spieghi perfettamente, invece» annunciò Chirone, per poi sospirare. Scosse la testa, mostrando un moto di angoscia nel proprio sguardo fino a quel momento rimasto incolore. «Allora è come pensavo» aggiunse, per poi tornare a guardare i semidei.

«Bene, grazie a tutti voi per la collaborazione. Non ho altro da aggiungere. Prima di tornare alle vostre case, però, devo domandarvi di non fare parola con nessuno di cosa avete visto nel bosco e di questa conversazione. Ho visto che avete avuto la premura di mantenere il segreto fino a questo momento, quindi immagino che anche voi abbiate capito che questa è una situazione al di fuori del normale e che, pertanto, va gestita con la massima cura. Ne parlerò personalmente con Dioniso quando farà ritorno, fino ad allora potremo considerare la faccenda chiusa.»

«Ma… come, tutto qui?» domandò Edward, sorpreso. «Ci… mi lasci andare così? Dopo che ho tenuto il segreto per tutto questo tempo?»

«So cosa hai cercato di fare» rispose Chirone, tornando a sorridere con aria paterna. «Temevi di spaventarci e di venire cacciato via. Non posso biasimarti per questo. E ben che meno posso cacciarti da qui. Questa è casa tua tanto quanto mia.»

«Oh…» Edward fece un flebile sorriso. «Beh… allora grazie, Chirone.»

«No, Edward» si intromise Stephanie, sorridendo gentile. «Tu ci hai salvati, nel bosco. Siamo noi che dobbiamo ringraziare te.»

«Vero» annuì Thomas, emulando il sorriso.

«Già» convenne Konnor, per poi schiarirsi la voce. «Insomma, non hai proprio salvato me, però… hai protetto Stephanie, che era in coppia con me. Sei riuscito dove io ho fallito. Quindi… grazie. Se le fosse successo qualcosa io…» Il figlio di Ares si interruppe di scatto, per poi abbassare lo sguardo. La luce arancione del fuoco rese impossibile capire se fosse arrossito o no.

Dopo quella pseudo dichiarazione, un pesante silenzio cadde nella stanza, la tensione che si poteva tagliare con il coltello. Stephanie sentì lo stomaco trasformarsi in un macigno, e avrebbe preferito svanire sotto terra assieme ai germogli delle sue amate piante. Pure Chirone osservò i giovani con aria imbarazzata. Le cottarelle adolescenziali non erano mai state il campo in cui brillava di più come istruttore.

«Oh, suvvia, sei tra amici qui!» esclamò Tommy, sporgendosi dal divano per dare una pacca sul ginocchio del figlio di Ares. «Non c’è niente di male se Steph ti pia…»

Si interruppe di colpo, realizzando che ora i due semidei interpellati lo stavano guardando con aria truce. A rompere il ghiaccio, per la sorpresa generale, fu Edward, che si alzò in piedi sghignazzando.

«Tranquillo, amico, non c’è di che» disse rivolto a Konnor.

«Ho detto a Jonathan di aspettarti per accoglierti» gli comunicò Chirone. «I tuoi fratelli ti hanno preparato un letto alla Casa Sette. Ricorda di passare alla Undici a prendere le tue cose, prima di trasferirti.»

Edward parve ricordare solo in quel momento di essere un figlio di Apollo. E Stephanie non riuscì a capire molto bene se la cosa lo facesse felice o spaventasse.

Poco dopo, i quattro semidei si trovarono fuori dalla casa grande, con Chirone che chiuse la porta alle loro spalle augurando la buona notte. Konnor si congedò subito, lanciando solo una rapida occhiata a Stephanie ed evitando di salutare gli altri due.

Così, proprio come la settimana precedente, rimasero solo loro tre, Stephanie, Thomas ed Edward.

«Che storia pazzesca…» mormorò Tommy, rompendo il silenzio, per poi osservare Edward. Sorrise flebile. «Così… te ne vai dalla Undici, eh?»

Sembrava triste. E anche il figlio di Apollo aveva un'aria mesta. «Temo di sì.»

Thomas annuì, per poi fare qualcosa che la stupì: strinse Edward in un rapido abbraccio, strappandogli un verso sorpreso. Si separò quasi subito. «Mi spiace che sia andata così, ormai era come se fossi uno di noi… ci mancherai. Anche se per poco, è stato bello averti come fratello.»

«Oh, andiamo, non vado mica dall’altra parte del paese. Dormiremo in posti diversi, ma potremo comunque continuare a frequentarci.» Edward provò a sdrammatizzare, ma non sembrava molto sicuro di sé.

Uno strano sguardo passò sul volto di Thomas, che parve quasi sforzarsi di sorridere ed annuire di nuovo. «Sì… hai ragione. Beh… che ne dici di passare tra qualche minuto alla Undici? Dirò agli altri di prepararsi per salutarti come si deve.»

«Oh… ok.»

«Ok!» Tommy rivolse un cenno di intesa ad entrambi, poi corse via.

E rimasero in due. Stephanie aveva osservato in silenzio lo scambio di battute tra i due ragazzi e, doveva ammetterlo, un po’ era dispiaciuto perfino a lei che Edward dovesse lasciare i figli di Ermes. Non conosceva bene la storia, ma era impossibile non notare l’affiatamento tra il nuovo arrivato ed il resto dei figli del dio della strada. Forse era per quello che Edward sembrava spaventato all’idea di lasciarli, aveva paura di ricominciare da zero con un’altra famiglia che non lo conosceva, oltretutto molto diversa da quella precedente.

«Ehi» mormorò, posando una mano sul suo braccio. Edward trasalì, per poi osservarla sorpreso. La figlia di Demetra cercò di rincuorarlo. «Vedrai che andrà tutto bene. Anche io ero spaventata quando hanno annunciato che sarei stata nella casa Quattro, poi però ho conosciuto persone fantastiche. Lo stesso sarà anche per te, ne sono certa.»

Edward cercò di ricambiare il sorriso, anche se non sembrava molto convinto. «Grazie.»

«Figurati.» Steph distolse lo sguardo da lui, schiarendosi la voce, imbarazzata. «Per fortuna tu e Tommy eravate nei paraggi, quando lo scorpione ci ha attaccati…» cambiò argomento, ripensando alla provvidenzialità dell’intervento del figlio di Apollo. In effetti, in quella radura l’aveva salvata per due volte, non solo una. Era tutto confuso, ma ricordava la figura dello scorpione che si avvicinava a lei, poco prima di sentire il grido di Edward e Thomas che la aiutava ad alzarsi.

«Già…» mormorò Edward, con uno strano tono. «Ma… perché eri in coppia con Konnor?»

Stephanie sollevò un sopracciglio. «Ehm… perché me lo chiedi?»

«Beh… lui non è un amico delle figlie di Afrodite?»

«E allora?» ribatté lei. «Non può essermi amico solo perché lo è anche con Jane e le altre?»

Edward schiuse le labbra, per poi scuotere la testa. «Niente, niente. Non importa.»

«Pensi che lui sia proprio come i suoi fratelli, vero?» insistette la figlia di Demetra. «Invece ti sbagli. Voleva solo aiutarmi a vincere. Lui vuole che le figlie di Afrodite smettano di importunarmi tanto quanto lo vuoi tu.»

«Però tu gli piaci.»

Stephanie si fece male alle braccia da quanto si strinse nelle spalle. «E allora?» ripeté, alzando la voce senza rendersene conto.

«Magari in realtà non voleva davvero aiutarti» ribatté Edward, con tono calmo. «Magari voleva solo…»

«Cosa? Che cosa voleva? E a te che importa, poi?!» esclamò Stephanie, adirandosi all’improvviso. Edward sobbalzò, mentre la ragazza gli si avvicinava. «La cosa non ti riguarda! Anche se Konnor mi avesse detto di…» Stephanie sgranò gli occhi, ripensando a cosa era successo nel bosco. La realtà la colpì come uno schiaffo. «Tu… voi… voi non passavate di lì per caso, quando ci avete salvati, vero? Voi… ci stavate seguendo…»

Edward tacque, cercando di distogliere lo sguardo da lei. Quella fu la conferma definitiva. Stephanie sollevò le braccia in cielo, sorridendo in maniera incredula. «Di immortales! Non posso crederci! Ci stavate pedinando! Voi due ci stavate pedinando! Ma cosa vi dice il cervello?!»

Era incredibile. Edward l’aveva pedinata, qualsiasi fosse la ragione, non gliene importava nulla. Non aveva alcun diritto di farlo. Già una volta, difendendola, oltre a prendersi un pugno non aveva fatto altro che attirare più odio su di lei, ma Stephanie aveva deciso di non incolparlo per quel gesto, in quanto in buona fede, cercando solo di tenerlo fuori dalle sue faccende personali per il bene di entrambi. Questo, però, era troppo. Non solo non l’aveva ascoltata, cercando di nuovo di impicciarsi nei suoi affari, ma l’aveva fatto anche nel modo peggiore possibile.

E come se non bastasse, aveva coinvolto pure Thomas, un altro dei pochi di cui lei credeva di potersi davvero fidare. Se fino a quel momento aveva avuto buoni pensieri sul figlio di Apollo, questi svanirono tutti come neve al sole.

«Cos’è, per caso pensavate che ci saremmo messi a pomiciare? E anche se fosse stato così, perché la cosa avrebbe dovuto interessarti? Sei qui da una settimana, per la miseria, nemmeno mi conosci! Che accidenti vuoi da me?!»

Edward indietreggiò quasi intimorito, sollevando le mani. «Steph, ascolta…»

«No, ascoltami tu!» lo interruppe lei, per poi calmarsi con un profondo respiro. Si lisciò i vestiti con un gesto nervoso, cercando di ricomporsi. «Ascolta. Grazie, per avermi salvata. Davvero, grazie. Ma… penso che da ora in poi faresti meglio a lasciarmi in pace.»

Edward sembrava voler ancora parlare, ma alla fine tacque. Si limitò ad abbassare la testa ed annuire mesto. A quel punto, la ragazza annuì a sua volta. «Bene.» 

E, detto quello, gli diede le spalle lasciandolo da solo proprio com’era successo quel pomeriggio. 

«Steph.»

La ragazza si fermò, senza voltarsi.

«Non prendertela con Tommy, ok? L’idea è stata solo mia. Lui non voleva seguirvi.»

Stephanie venne colpita da una fitta allo stomaco. Diede un’ultima occhiata a Edward e annuì, poi proseguì per la sua strada, mentre il pensiero di abbandonarlo e di non parlargli più cominciava a corroderla dall’interno.

 

 

 

 

Salve a tutti, angolo del lettore veloce veloce per chiarire un paio di cose. 

Pensavo di aspettare almeno fino alla prima settimana di gennaio per pubblicare, ma alla fine ho trovato la giusta ispirazione per scrivere questo capitolo ed il prossimo che, vi dico già, non avrà più Stephanie come protagonista. 

Quindi, perché Edward ha ricevuto 4 capitoli, Tommy solo 2 e Steph solo 1? Perché il primo era solo un'introduzione, il secondo e il terzo invece li avevo studiati per essere uno solo che poi ho diviso per la loro eccessiva lunghezza. La mia idea di base sarebbe dare 2 capitoli a ciascun personaggio seguendo l'ordine Edward/Thomas/Stephanie, ma se seguissi questo schema la storia non andrebbe avanti e non inoltre ho abbastanza fantasia da raccontare tre storie principali diverse in contemporanea. La storia principale rimarrà quella di Edward, del suo passato e di tutto il resto, tuttavia verrà raccontata anche dai punti di vista esterni di Thomas e Steph, ed inoltre aggiungerò alcune sottotrame che riguardano anche loro due ed altri personaggi, giusto per non lasciare tutto il focus su Edward (che per inciso all'inizio avevo previsto come unico protagonista, quindi potrete intuire che non posso stravolgere la storia più di tanto).

In futuro, poi, arriveranno momenti in cui sarò obbligato ad avere dei punti di vista esterni ad Edward per comodità di trama, perciò ho creato questo singolo capitolo di Stephanie anche per abituarvi all'idea che presto rivedremo il suo punto di vista. Spero che vi sia piaciuto. Non è stato un capitolo corposo, ma se non altro abbiamo avuto un po' di risposte in più.

Comunque, penso che si sia capito, il protagonista del capitolo potrà essere riconosciuto dal simbolo all'inizio di ciascun capitolo, il corvo per Edward, il caduceo per Thomas e il grano per Stephanie. 

Scusate se vi ho trattenuto, ma un po' di spiegazioni erano dovute. Di nuovo, spero che il capitolo vi sia piaciuto, grazie per aver letto, grazie a Farkas e Beauty_Queen per le importantissime recensioni e nulla, fatemi sapere cosa ne pensate, sia del capitolo che della mia idea di come portare avanti la storia! Buone vacanze e buon anno a tutti!

 

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Capitolo 8
*** La spadaccina migliore ***


8

La spadaccina migliore

                                                                

 

Il suono dei suoi passi riecheggiò sul pavimento di marmo, smarrendosi lungo la grande sala.

Edward si guardò attorno, sorpreso. L’oscurità avvolgeva l’ambiente, ma poteva comunque vederci attraverso, come un’immagine con un filtro.

Attorno a lui notò ceramiche, armature, dipinti, oggetti di uso comune come teiere e posate, tutti esposti dietro delle teche, più alcune statue che raffiguravano figure lui sconosciute, che svettavano tra il resto dell’arredamento.

Avanzò incerto nella sala, facendo vagare lo sguardo in ogni direzione, il fiato che usciva in nuvolette di vapore dalla sua bocca. Doveva essere un altro sogno, tuttavia riuscire dopo così tanto tempo a vedere qualcosa in uno di essi lo spaesò al punto che non riuscì a pensarci su troppo a lungo.

Una strana nebbia nera proveniva da uno stanzino al fondo della sala, all’interno del quale non poteva vedere nulla. Avrebbe potuto rimanersene lì tranquillo, a leggere le targhette delle statue e dei dipinti esposti, magari scattare qualche foto, diamine, avrebbe perfino potuto prendere la porta e andarsene, ma naturalmente il corpo nel sogno si mosse proprio verso quella stanza oscura.

Quanto odiava quei sogni.

Quando si avvicinò alla porta, tuttavia, la nebbia si diradò, rivelando un’altra esposizione, un’armeria per l'esattezza. Sui lati, espositori in vetro racchiudevano diverse armi dall’evidente manifattura orientale, in compagnia di alcune lampade a forma di barre, che in circostanze normali avrebbero dovuto essere accese. Edward, come sempre quando si trattava di cose come quelle, non seppe spiegarsi il perché, ma riuscì a distinguere ciascun tipo di spada, nonostante alcune fossero molto simili tra loro. Spade katana, tachi, wakizashi, tsurugi, e molte altre occupavano quella parte di esposizione, trasmettendo una sorta di affascinante pericolosità, con le loro lame dalle forme sinuose ma affilate.

Di fronte a lui, invece, si trovava una persona che teneva le mani congiunte dietro la schiena. Una persona che stava osservando con insistenza l’esposizione di fronte a sé. Si trattava di una pedana rivestita da un telo rosso e d’oro, con appoggiata sopra una struttura di legno formata dalla base orizzontale e le due estremità formate da due figure verticali, smussate alla cima in modo da formare due piccole conche. Non seppe perché, ma riconobbe quella struttura come una specie di espositore per spade. Tuttavia, senza una spada da esporre.

Sopra la pedana, un dipinto formato da tre parti, un trittico, era stato appeso: raffigurava un uomo intento a combattere contro una terrificante creatura verde con più teste, con un mare in tempesta che si agitava sotto di loro.

«Conosci questo posto, piccolo dio?» domandò la persona, senza voltarsi. La sua voce frusciante, fastidiosa, si insinuò nelle orecchie del ragazzo come il sibilo di una vipera. La riconobbe non appena la udì, ma non riuscì a rispondere.

«Certo che no» continuò l’individuo, la sua attenzione sempre dedicata all’espositore. «Tu non esistevi ancora, al tempo. Ma pensavo che tua madre te ne avesse parlato.»

Non appena la donna venne menzionata, uno scatto d’ira attraversò il suo corpo. Strinse i pugni e serrò la mascella, questa volta di propria volontà. Avrebbe voluto anche dire a quel verme di tapparsi la maledetta bocca e non parlare di lei, ma le parole gli mancarono ancora una volta.

«Una donna affascinante, tua madre, devo ammetterlo.» Il tizio fece schioccare la lingua, scuotendo la testa quasi con aria offesa. «Nonostante fosse una misera mortale, la stessa razza che un tempo io stesso trattavo come pulci, non aveva alcuna paura di cosa le sue azioni potessero comportare. Nonostante fosse fragile quanto un fuscello, così fragile che chiunque come me avrebbe potuto spezzarla senza battere ciglio, per anni e anni ha continuato a commettere enormi crimini nei nostri confronti, incurante. Era stata messa in guardia, più e più volte, ma lei…»

L’uomo strinse i pugni con forza, per poi voltarsi. Indossava sempre la lunga veste nera sbrindellata. Il volto blu e squamoso gli sorrise gelido tra le lunghe ciocche di capelli pece. «… lei pensava che fossero solo "superstizioni". Lei non credeva. Capisci? Lei non credeva!» Il rettile allargò le braccia, avanzando verso il ragazzo. «Lei non credeva a questo! Non credeva a lui…» e indicò il quadro, ma Edward non capì se si riferisse al mostro o all’uomo. «… e non credeva a me

Ormai gli fu vicinissimo. Edward avrebbe voluto muoversi, per fare qualsiasi cosa. Correre, colpirlo, perfino frantumare una teca ed afferrare un’arma, ma era immobile, circondato da un alone di oscurità che sembrava essere apparso dal nulla. 

«Lei, proprio come tutti gli umani, si sono dimenticati. Di me, di quelli come me» toccò il proprio petto. «… si sono dimenticati anche dei tuoi patetici Dei greci. Io stesso avevo dimenticato chi fossi. Ma ora, dopo tanto tempo… finalmente ricordo. Sì, ricordo tutto quanto. Dopo la mia sconfitta… ho passato secoli, millenni, imprigionato in un luogo da cui non potevo fare ritorno, a recuperare le forze, in attesa di potermi riformare… e ora… è giunto il momento che gli umani ricordino. Dovranno ricordare chi sono. Chi siamo tutti noi! Usciremo dalle tenebre. Faremo capire a quegli insetti che noi non siamo solo leggende, superstizioni, favole da raccontare ai marmocchi. No. Noi siamo reali…»

L’uomo posò le mani sulle spalle di Edward, stringendo così forte da fargli male. Un grugnito di dolore scappò dalle labbra del ragazzo, strappando un sorriso più compiaciuto all’essere. «La tua gente… ha vissuto nell’ozio e nella pace per troppo tempo, ormai. Gli Dei si sono rammolliti. Sia quelli che mi hanno fatto questo, sia i tuoi. Loro non hanno la minima idea di come ci si debba far rispettare. Io li spazzerò via, tutti quanti, dal primo all’ultimo, e mi ergerò sopra un trono fatto dei corpi di chiunque si opporrà a me. E a quel punto, gli umani saranno costretti a venerarmi di nuovo.»

Lo lasciò andare. Edward si sforzò di trattenere un sospiro di sollievo quando mollò la presa su di lui. Non voleva apparirgli più vulnerabile di quanto già non fosse. «Ho visto che hai usato la spada» proseguì il rettile, tornando a guardare l’espositore vuoto. «Molto bene, piccolo dio. Molto bene.»

Edward osservò l’espositore a sua volta. Infine, collegò i puntini. Rimase a bocca aperta, prima senza parole, poi anche senza fiato.

«Non manca molto, ormai.» L’uomo serpente sorrise di nuovo, rivolto verso di lui. «Il momento è vicino.»

Un ruggito provenne alle spalle di Edward. Due di quei mostri con gli occhi rossi erano appena usciti dall'oscurità. Il ragazzo cercò di fuggire da loro, ma non riuscì a muoversi. Lo afferrarono per le braccia e lo trascinarono nel buio. 

 

***

 

Edward fece saltare via le coperte dal letto con un grido. Il ragazzo si mise a sedere di scatto, con il fiato grosso, la fronte imperlata di sudore. Si prese il volto tra le mani, quasi stritolandoselo, il respiro pesante che si trasformava in un rantolio.

Questa volta aveva creduto davvero che fosse finita. Le mani che lo trascinavano nell’oscurità, i ruggiti, il sorriso sadico di quel serpente… era sembrato tutto così reale. Nemmeno la sera in cui lo avevano trovato al confine del campo si era sentito così vicino alla morte.

Rimase ad inspirare ed espirare a lungo, come un animale impazzito. Sapeva che avrebbe dovuto fermarsi, darsi un contegno, ma non ci riusciva. Era ancora troppo scosso.

Una tenda venne tirata all’improvviso e un gruppetto di ragazzi apparve accanto al suo letto. Edward sobbalzò e si accorse degli sguardi inquisitori di tutti quei biondini lampadati figli di Apollo.

No… quelli erano i suoi nuovi fratelli.

«Ehi, tutto ok?» domandò Jonathan, in prima linea, sollevando un sopracciglio. «Ti abbiamo sentito gridare.»

Il ragazzo cercò di darsi un contegno, anche se non fu semplice, soprattutto non con quella comitiva di curiosi. «I-Io… sì, sto bene, ho solo avuto un incubo.»

«Sì, capisco» annuì il capocasa. «Capita a tutti i semidei. Non preoccuparti.»

Edward si sentì rasserenato da quelle parole, anche se notò alcuni dei suoi fratelli che sghignazzavano tra i baffi.

«Comunque, come vedi noi siamo già tutti pronti per la colazione» proseguì Jonathan, accennando al gruppo di ragazzi, tutti quanti già vestiti, pettinati e tirati a lucido. «Stavamo aspettando te. Gli altri volevano svegliarti, ma siccome è il tuo primo giorno, e visto anche quello che ti è successo ieri sera, ho detto loro di lasciarti riposare.»

«Oh… va… va bene, mi cambio e vi raggiungo» rispose Edward, sorpreso. Quando era con i figli di Ermes era sempre tra i primi ad alzarsi, visto che Derek, quello che avrebbe dovuto condurre la casa Undici alla colazione, doveva essere tirato giù dal letto di peso da Tommy e Natalie. Non a caso lui e il resto della banda arrivavano in continuazione per ultimi alla mensa. Quel cambio di organizzazione lo scombussolò un poco. Anche se quella non era l’unica cosa ad essere cambiata, rispetto alla casa Undici.

All’inizio non gli era sembrato vero di non essere un figlio di Ermes. Era stato certo che, tra tutti gli dei, Ermes fosse quello con più motivi di interessarsi a sua madre. Tuttavia, riflettendoci su meglio, in effetti anche Apollo poteva aver avuto un valido motivo per farlo. Per quanto assurdo potesse sembrargli, sia Apollo che sua madre avevano in un certo senso l’arte come interesse in comune.

Ma ogni indizio gli aveva lasciato supporre che facesse parte della famiglia del dio della strada, non di quella di Apollo. Si era sentito a proprio agio con Thomas, Derek e gli altri e aveva amato la casa Undici, cosa che invece non era per nulla successa con la Sette.

Quando vi aveva messo piede per la prima volta, aveva creduto di essere finito in un’infermeria. Al posto dei letti c’erano due file di brandine, ognuna delle quali poteva venire isolata da una tendina bianca, per la privacy. Nessuna traccia di televisori, carte, console, tablet o computer per giocare, solo vasi per i fiori appostati davanti alle finestre e qualche strumento ospedaliero.

Niente giocattoli sparsi per terra, niente disordine, niente colore, nulla. E la monotonia e la noia di quella casa si espandeva anche al carattere dei figli di Apollo. Non c’era nessun capocasa irresponsabile, nessun ragazzetto con i capelli rossi che se la prendeva per ogni minima cosa, nessun monello pestifero, nessuna ragazza che prendeva i fratelli per le orecchie per mantenere l’ordine. Era tutto calmo, ordinario. Noioso.

Non appena lui aveva chiesto dove fossero tutte quelle cianfrusaglie che – davvero, ne era convinto al cento percento! – credeva fossero presenti in tutte le case, come il televisore e i videogiochi, quelli lo avevano guardato come se fosse pazzo, per poi affibbiargli un letto al fondo della casa, contro l’angolo, in quella che doveva essere la zona dei reietti perché, oltre al suo, solamente un altro giaciglio pareva occupato da qualcuno, anche se quel mattino era vuoto e la notte prima, invece, aveva le tende tirate.

Erano una decina lì dentro, più o meno come nella Undici, ma c’erano molti più letti di quanti fossero gli ospiti, quindi tra lui e il resto del gruppo sistemato più vicino all’ingresso c’era un bel divario. Non che la cosa gli importasse granché. Qui i sessi erano più pareggiati, con sette ragazzi e cinque ragazze, anche se di solito loro non rimanevano con i fratelli. Non sembravano cattive persone, non dei bulletti come i figli di Ares o delle civette come le figlie di Afrodite, ma comunque sembravano trattare tutti quanti, certe volte perfino lui, con una vaga aria di superiorità.

Durante i pasti, poi, gli facevano domande di tutti i tipi e lui si sforzava di rispondere in maniera gentile, ma la loro insistenza sugli argomenti che preferiva evitare non aiutava di certo. I figli di Ermes si erano mostrati molto più comprensivi con lui, lasciando cadere discorsi che lui non voleva approfondire, mentre la sua nuova famiglia non si arrendeva tanto facilmente.

Il peggio, però, doveva ancora arrivare.

Dopo tre giorni di permanenza, tra molti bassi e pochissimi alti, lo invitarono, per non dire costrinsero, a partecipare alla sua prima lezione di musica. Gli avevano spiegato che i figli di Apollo potevano avere da uno a tre talenti: quello del tiro con l’arco, che già possedeva, quello della medicina e quello della musica.

Siccome nessun semidio era stato portato d’urgenza da loro perché mezzo morto, il talento della medicina poteva aspettare ancora un po’, e pertanto Jonathan volle concentrarsi su quello musicale, anche in vista della loro prossima esibizione di fronte al falò.

Perciò, si ritrovarono seduti tra le file dell’anfiteatro, dove il falò stava scoppiettando in tutta tranquillità. C’era una ragazzina lì, che stava accudendo il fuoco, ma nessuno dei suoi fratelli fece caso a lei ed Edward preferì non fare domande.

«Questa volta li faremo rimanere a bocca aperta!» disse Jonathan, scatenando grida di giubilo tra i fratelli, convinti anche loro di essere in procinto di fare qualcosa di memorabile. Tuttavia a Edward, non per cattiveria, non importava un bel niente del loro spettacolo e del talento musicale, di cui comunque sembrava sprovvisto.

Gli fecero provare diversi strumenti, consigliandoli di lasciarsi andare, di improvvisare, e che il talento sarebbe venuto da sé, ma dopo che ruppe una corda di chitarra, di arpa e anche di violino, decisero di lasciarlo alle percussioni. Peccato che non aveva nemmeno il minimo senso del ritmo.

Durante le prove, mentre Jonathan gestiva la coreografia e faceva da direttore d’orchestra, Edward sbagliò almeno una dozzina di volte la tempistica. Lo declassarono di strumento ancora un paio di volte, ma anche quando rimase solo con un tamburello riuscì a creare problemi, facendo di tanto in tanto accidentalmente rumore con i sonagli e di conseguenza rovinando il resto della performance dei suoi fratelli.

Alla fine, quando giunsero al fondo del barile e gli appiopparono un triangolo, intuì che forse la situazione stava rasentando l’assurdità.

Durante quella che sarebbe stata la sua ultima prova della giornata, desideroso di togliersi dai piedi, sbagliò di proposito a suonare perfino quel maledetto strumento per incapaci, sbattendoci contro la bacchetta con un secondo di ritardo.

Quello che non poteva sapere, tuttavia, era che i suoi fratelli avrebbero reagito in quel modo.

«Ok, ora basta!» tuonò uno di loro, un afroamericano di nome Jericho, lanciando via il suo flauto e alzandosi in piedi, sollevandosi le maniche della maglietta quasi come se volesse fare a botte.

Edward si alzò in piedi, lasciando cadere il triangolo, per poi indietreggiare quando i suoi fratelli si frapposero tra lui e Jericho per cercare di arrestare la sua carica. La cosa più sorprendete era che quel tizio, di solito, era il più rilassato di tutti. Salutava tutti quanti con il gesto della pace, chiamando chiunque "fratello" o "sorella", come uno hippie del secolo precedente. Forse era per questo che, da arrabbiato, sembrava ancora più assurdo. Peccato solo che fosse uno stuzzichino e che Edward avrebbe potuto stenderlo con una craniata.

«Non è possibile che tu faccia così schifo!» ululò Jericho, scalciando per dimenarsi dalla presa degli altri. «Vieni qui, ti faccio a pezzi!»

«Ehi, ehi, ehi!» gridò Jonathan, saltando giù dal palcoscenico, sollevando le braccia per richiamare l’attenzione su di sé. «EHI! Jericho! Che caspita ti salta in mente?!»

«Questo tizio ci sta sabotando!» trillò quello, continuando a dimenarsi come un’anguilla impazzita.

Jonathan lo osservò sconvolto, per poi stringere i pugni. Fece un cenno con una mano, adirato. «Fate calmare questo idiota, per favore» sbottò, mentre si voltava verso di Edward. «Potresti cortesemente seguirmi?»

Mentre i semidei trascinavano via il fratello impazzito, Edward seguì il capocasa lungo la scalinata che conduceva fuori dal teatro, tuttavia continuando a lanciare fugaci occhiatine verso la calca di figli di Apollo che stava circondando lo hippie impazzito. 

«Devi perdonare Jericho» mugugnò Jonathan, quando i due giunsero in cima alla rampa di gradini. «Purtroppo è un po’… particolare. Ha molto a cuore la musica, come potrai ben aver capito, non gli piace quando… insomma, quando qualcuno rovina le prove. Una volta ha rischiato di far scoppiare una rissa con i figli di Efesto, che stavano facendo rumore nella fucina. Ce la siamo vista brutta un po’ tutti.»

«Quindi ho rovinato le prove?» domandò Edward.

«No! No, assolutamente no!» Il capocasa cercò di sorridere, dandogli una pacca sul braccio. «Ehi, la prima volta non è semplice per nessuno! Perfino io non sapevo suonare un accidente il primo giorno, è normale!»

Non sapeva perché, ma qualcosa suggeriva a Edward che gli stesse mentendo giusto per convincerlo a provare ancora. Peccato che non fosse per nulla in vena di prendere in mano un altro strumento per il resto della vita. Sollevò le mani, accomodante. «Sì, forse hai ragione, con la pratica potrei migliorare, ma… non mi interessa.»

«Non… non ti interessa?» ripeté Jonathan, ora apparendo sorpreso.

«No. E poi vedo che ve la cavate bene anche senza di me. Sono certo che riuscirete a trovare un altro triangolista degno di rimpiazzarmi.»

«Non si dice "triangolista"…» 

«Mh? Come?»

«No, niente, niente…» borbottò il capocasa, per poi schiarirsi la gola. «E… e allora che vorresti fare adesso?»

«Beh…» In effetti, non ci aveva ancora pensato. «Potrei… andare a tirare con l’arco.»

«Uhm… ok» convenne il fratello, per poi voltarsi verso l’anfiteatro. «Allora chiedo a qualcuno di accompagnar…»

«No, non è il caso» lo interruppe Edward, sollevando le mani frettoloso. «Vado da solo.»

Jonathan non sembrò molto convinto. Tuttavia un grido proveniente da Jericho lo fece sobbalzare. A quanto pare la situazione non era ancora stata gestita. «O-Ok allora» cominciò a dire, agitandosi. «Va bene, vai pure, ma ritorna almeno un’oretta prima di cena, ok? Dobbiamo dare una sistemata alla capanna.»

Edward non capì cosa intendeva, visto che la Casa Sette era immacolata, ma decise di non indagare, desideroso di levarsi dai piedi al più presto. «Va bene» rispose frettoloso. Jonathan corse giù per le scale, inveendo contro Jericho, ed Edward si allontanò da quella manica di pazzi, sentendo i suoi nervi sciogliersi lentamente.

 

***

 

Il sole splendeva alto nel cielo, scaldando la baia di Long Island con i suoi raggi caldi ed accecanti. L’acqua dell’oceano e del lago, le case e i giardini del Campo Mezzosangue rilucevano sotto la luce dorata. Faceva molto caldo, ma era un caldo tollerabile, condito con qualche piccola, fugace, brezza estiva. Gli uccellini cinguettavano beati, il suono delle risa e delle chiacchiere dei semidei giungeva da ogni direzione, il rumore dei tuffi dei ragazzi nell’acqua del lago arrivava da lontano, come un eco, un fragore rilassante come quello delle onde che si infrangevano contro uno scoglio. 

Era una bella giornata, non solo nel campo, dove i confini impedivano anche al brutto tempo di infastidire i semidei, quel cielo azzurro privo di nuvole copriva anche tutta New York. Sarebbe stato impossibile sentirsi giù di morale, con un tempo come quello. Eppure, Edward ci riuscì ugualmente. Perché, quando raggiunse la zona del tiro al bersaglio, realizzò di essere rimasto solo per la prima volta da quando era entrato a far parte della famiglia di Apollo. E di conseguenza, senza i suoi fratelli a distrarlo con i loro modi irritanti, si ritrovò a pensare all’incubo che aveva avuto e che aveva cercato di dimenticare in tutte le maniere.

L’espositore di quella spada vuoto, il dipinto dell’uomo e del mostro che combattevano, l’uomo serpente che gli sorrideva, che parlava di sua madre come se fosse stata una sua vecchia conoscente, e che gli diceva che il momento stava arrivando. Gli aveva anche parlato della spada. La spada che lui, a quanto pareva, aveva portato via da quell’espositore.

Edward strinse i pugni, teso come una di quelle corde che aveva strappato durante le prove. Non aveva alcun senso. Lui non aveva rubato proprio un bel niente e non era mai stato nel luogo che aveva visto nel sogno, quella spada era comparsa dal nulla nelle sue mani un paio di anni prima. Da quel che ne sapeva lui, probabilmente l’aveva "posseduta" fin da quando era nato. Non l’aveva mai fatto prima di allora, ma in effetti se si concentrava riusciva a percepire una sorta di strana aura attorno a sé, un lieve bagliore del potere che quella spada era in grado di conferirgli e che, con tutta probabilità, era la stessa cosa che il coach Hedge aveva fiutato.

E allora perché lo chiamavano ladro? Ma soprattutto, cosa importava di quella spada a quel mostro? Diceva di voler risorgere, di voler spazzare via gli dei. Intendeva usare il potere della spada per farlo? Edward stentava a crederci. Certo, la spada era potente, ma gli dei erano immortali, non potevano essere uccisi. O almeno, così credeva di aver capito.

Forse la spada era solo il primo passo dell’uomo serpente verso qualcosa di molto di più.

Sinceramente, non sapeva quale teoria lo angosciasse di meno.

Prese la mira, trattenne il respiro, poi lasciò andare: la freccia colpì il bersaglio in pieno centro. Un sorriso soddisfatto nacque sul volto di Edward. Faceva schifo con la musica, ma compensava in maniera molto abbondante con l’arco e le frecce.

Appoggiò Veloce come il Vento sul ripiano pieno di frecce di fronte a sé, per asciugarsi il sudore dalla fronte.

Non era molto sicuro se quello fosse il nome dell’arco, o una semplice incisione lasciata dal suo precedente proprietario, ma non gli importava granché, perché dopotutto era vero, le frecce che scagliava erano davvero veloci come il vento. Il ragazzo ricordava di essersi innamorato di quell’arma al primo sguardo, sia perché amava il tiro con l’arco, sia per via di quella scritta in giapponese.

Ancora non capiva quale fosse il collegamento tra lui e tutto ciò che riguardava la cultura orientale, la lingua, le armi, l’arte, tuttavia si sentiva come se ci fosse una calamita che lo teneva attaccato ad essa. Se avesse dovuto scegliere tra una katana e una spada normale, era certo che avrebbe scelto la prima. Se di fronte a lui si fossero trovati un testo in giapponese ed uno greco antico, avrebbe letto il primo. Se di fronte a lui si fossero trovate un’arma in Acciaio Prezioso ed una in Bronzo Celeste, avrebbe scelto quella d’acciaio.

Era strano. Prima di arrivare al Campo Mezzosangue non era a conoscenza di quel lato di sé, non sapeva di poter leggere e tradurre il giapponese, ma forse era perché non gli era mai capitato di entrare in contatto con oggetti di quella cultura.

Pensare all’arco lo fece, di riflesso, pensare anche a Tommy, presente con lui il giorno che lo aveva scelto come arma. E pensare all’amico, lo portò con la mente anche alla loro, ormai ex, amicizia in comune.

Stephanie.

Edward strinse i pugni.

Quando aveva cambiato casa, aveva perso Thomas e i figli di Ermes. Ricordava come l’avevano salutato, stritolandolo in un abbraccio uno ad uno, eccetto Natalie che gli aveva solo stretto la mano. Da un lato era sembrata sollevata che lui si stesse togliendo dalle scatole, dall’altro… perfino lei sembrava essere un po’ triste, ma naturalmente aveva cercato di non darlo a vedere. Rick, d’altro canto, era quasi in lacrime. E anche Tommy, a dire il vero. Si era quasi sentito in colpa ad abbandonarli, ma lui non poteva farci niente, le regole erano regole, per quanto potesse esservi contrario.

Aveva cercato di rassicurarli, di dire che avrebbero continuato a vedersi e a frequentarsi, ma non era riuscito a mantenere la promessa, perché trattenuto in continuazione dal capocasa di Apollo. Non che ce l’avesse con Jonathan per questo, dopotutto suo fratello doveva istruirlo per bene, abituarlo al loro stile di vita, non poteva certo lasciarlo girovagare da solo per il campo nei suoi primi giorni, anche perché non sarebbe stata una buona immagine per la casa Sette. Da un lato, capiva il punto di vista di Jonathan e, malgrado tutto, il capocasa aveva sempre cercato di farlo sentire accettato e di coinvolgerlo il più possibile per farlo accettare anche dagli altri. Dall’altro, Edward si sentiva frustrato e intrappolato.

Come se non bastasse, aveva perso anche Steph. Era stato uno stupido a parlarle di Konnor in quel modo. Si era… si era ingelosito. E, come un moccioso, aveva cercato di mettere ulteriore zizzania tra loro.

Konnor aveva ragione, Natalie aveva ragione. Non era in grado di farsi gli affari propri. Ma era fatto così: quando si trattava di qualcuno a lui caro agiva di impulso, desiderando solo di poterli aiutare e se non lo faceva sentiva il sangue ribollirgli nelle vene. Peccato solo che Steph avesse ragione. Si conoscevano a malapena, come poteva Edward ritenerla già così importante per lui, e soprattutto cosa pensava di ottenere pedinandola e cercando di combattere le sue battaglie a sua insaputa?

Alla fine, aveva perso la sua amicizia e basta, ammesso che ce ne fosse mai stata una. Del resto, lei lo aveva solamente introdotto al Campo Mezzosangue, cosa che aveva fatto con decine di altri ragazzi. Lui non era speciale, non lo era mai stato e mai avrebbe dovuto sentirsi tale.

Frustrato, sbatté il pugno sul ripiano della sua postazione. E fu così che anche la calma generata dal tiro con l’arco se ne andò a quel paese.

Mise a tracolla Veloce come il Vento e la faretra, che si trasformarono in uno zainetto, e si allontanò dal campo di tiro con l’arco. Non aveva idea di che ora fosse, ma non doveva aver passato molto tempo lì. Probabilmente mancava ancora un bel po’ all’orario che lui e Jonathan si erano prefissati.

L’idea di vagabondare per il Campo Mezzosangue non lo allettava particolarmente, ma non aveva molte alternative. Questo fino a quando non tornò nella zona delle capanne e qualcosa catturò la sua attenzione. Un sorriso nacque sul suo volto senza che nemmeno se ne rendesse conto, poi cominciò a camminare, un’idea che prendeva forma nella sua mente.

Del resto, aveva ancora una promessa da mantenere.

Bussò alla porta della casa Undici, guardandosi attorno quasi con aria furtiva. Ad aprirgli fu Derek, che sgranò gli occhi. Il capocasa aveva un assurdo taglio di capelli sproporzionato e la frangia che lo contraddistingueva assente, lasciando scoperta la fronte che sembrava gigantesca per via di tutto il tempo che aveva passato coperta. «Edward! Che ci fai qui?»

«Vi avevo detto che mi avreste visto di nuovo, quindi eccomi qui» spiegò lui, entrando nella capanna. «Si può?» domandò, anche se ormai era già dentro.

L’interno non era cambiato molto, del resto erano solo passati tre giorni. Proprio per questo motivo, non appena notò il classico disordine della Undici, si sentì di nuovo a casa. Non appena fu dentro, gli altri figli di Ermes, incluso Tommy, sgranarono gli occhi. Edward li salutò con un cenno della mano. «Come va?»

«Edward!» esclamò Rick, con un sorriso a trentadue denti.

«Ehi, Rick. Come stai?»

Rick stava per rispondere entusiasta, quando Derek lo interruppe, piazzandosi di fronte al nuovo arrivato. Sembrava piuttosto angosciato. «Non puoi stare qui. È contro le regole.»

«Oh, andiamo, solo cinque minuti» protestò il ragazzo, incrociando le braccia. «Che c’è, non sei felice di vedermi?»

«No, no, è solo che…» Derek sospirò. «Ascolta, certo che sono felice di vederti! Eri l’unico con cui ero in sintonia, tutti gli altri qui sono delle noie mortali!»

«Ma chiudi il becco!» sbottò uno dei suoi fratelli.

«Tu chiudi il becco!» ribatté Derek, puntandogli contro l’indice. «L’altra sera ti ho messo un calzino sporco in bocca mentre dormivi!»

«E io ti ho messo la gomma tra i capelli!»

Il capocasa sgranò gli occhi, toccandosi d’istinto la fronte scoperta. «Sei stato tu?!»

«Calma, calma!» esclamò Thomas, alzandosi in piedi dal letto e cercando di appianare gli animi.

Incapace di contenersi, Edward scoppiò a ridere. Sì, gli era mancato quel posto. 

«Va bene allora, me ne vado» riprese Edward, una volta tornata la quiete, per poi sorridere beffardo. «Ma prima…» Guardò Rick, poi accennò alla console con il capo. «Voglio la rivincita, piccoletto. Ho scoperto il modo per batterti!»

Derek sollevò un sopracciglio, mentre Tommy e gli altri ragazzi si guardavano perplessi tra loro.

«Ah sì?» domandò invece Rick, balzando in piedi. «E va bene, accetto la sfida!»

Edward annuì soddisfatto, per poi rivolgersi di nuovo a Derek: «Allora, capo? Una partita sola e levo il disturbo, promesso.»

«Mh…» Derek storse la bocca in un’espressione pensierosa, facendo vagare lo sguardo da Edward a Rick, che dal canto suo ora osservava il proprio capocasa con sguardo carico di aspettativa. Alla fine, Derek sorrise. «D’accordo. Solo una. Sono proprio curioso di vedere come sconfiggerai il nostro campione in carica.»

Naturalmente, Edward aveva mentito. Non aveva la minima idea di come sconfiggere Rick. La folla di spettatori alle loro spalle per un po’ grido frasi di incoraggiamento, ma ben presto le risate cominciarono a sollevarsi di fronte alla sua patetica performance.

«Cos’è, speravi di fare così tanto schifo che alla fine Rick ti avrebbe concesso la vittoria per pietà?» lo punzecchiò Derek.

«Col cavolo che mostro pietà!» gridò il piccoletto, agitando il controller tra le mani come un forsennato, strappando un’altra risata al gruppo.

Erano passati solo tre giorni, ma diamine, quanto gli erano mancati quei ragazzi. Quanto gli era mancata quella casa. Quanto avrebbe voluto che quel momento durasse per sempre. Riuscì a dimenticarsi dell’incubo, del fatto che Stephanie lo odiava, del fatto che oramai fosse un figlio di Apollo, dimenticò ogni cosa. Era solo felice di essere lì e di condividere quel momento con loro.

«Se ti può consolare…» disse ancora Derek, quando giunsero a diciannove eliminazioni a zero per Rick. «… questa non è la partita peggiore che ho visto. Quella rimane di gran lunga la maratona al meglio delle quindici tra Tommy e Rick…»

«Ehi!» protestò il diretto interessato. «Almeno io sono riuscito a ucciderlo due volte!»

«Sì, perché ero andato in bagno!» replicò Rick, concentratissimo sullo schermo, e altre risate si sollevarono.

Alla fine, ancora una volta, Rick trionfò sullo sfidante, rimanendo imbattuto. Alla ventesima eliminazione il piccoletto saltò in piedi, sollevando il controller come un trofeo con un grido di trionfo, mentre un boato scoppiava tra i fratelli di Ermes.

Edward si alzò rassegnato, lasciando a terra il suo joystick. «La mia strategia non ha funzionato» commentò con un sorrisetto, beccandosi una spintarella scherzosa da Derek.

Il ragazzo si alzò ed incrociò lo sguardo di Thomas, che gli sorrise. Edward avrebbe voluto dire qualcosa, ma i festeggiamenti vennero interrotti bruscamente, quando una voce estranea alla casa Undici si sollevò.

«Che sta succedendo qui?!»

Il gruppo di ragazzi si voltò di scatto. Edward sgranò gli occhi. Ecco, forse dimenticarsi tutto quanto non era stato proprio un bene. Si domandò come avesse fatto a capire che era lì, ma dopotutto non ci voleva certo un genio per arrivarci.

Jonathan lo osservò basito, allargando le braccia. «Avevamo detto “un’ora prima di cena!” Cioè più di mezz’ora fa!»

«Oh…» Edward schiuse le labbra. Aveva decisamente perso la concezione del tempo.

Il capocasa di Apollo sospirò, scuotendo la testa quasi come un genitore deluso. «Forza, esci da qui. Torniamo a casa nostra.»

Edward osservò i figli di Ermes, con espressione mortificata, poi si avviò verso la porta. Ancora una volta, aveva combinato un bel casino.

«Ehi, Jonathan» lo chiamò Derek, ma il figlio di Apollo lo frenò sul nascere.

«Questa cosa non è mai successa, va bene?» domandò al collega capocasa. «O nei guai ci finiamo sia io che te.»

Il figlio di Ermes annuì, per poi lanciare un’altra occhiata ad Edward, tuttavia la sua espressione era indecifrabile. Il ragazzo avrebbe voluto scusarsi, ma le parole gli morirono in gola. Si voltò e lasciò a testa bassa la casa Undici, senza trovare il coraggio di guardare gli altri, soprattutto Tommy.

Mentre si allontanava, tuttavia, percepì uno sguardo incollato alla sua schiena. Si voltò, giusto in tempo per vedere Natalie che lo osservava da lontano, con aria severa, appoggiata al muro della sua casa. Poco dopo, la ragazza con i capelli ramati svanì nella capanna Undici.

 

***

 

«Ehi, mi dispiace» asserì Edward, mentre lui e Jonathan marciavano verso la casa Sette. «Non volevo tardare, solo che…»

«Non mi interessa se hai fatto tardi!» esclamò il capocasa. «Potevi anche non venire per quello che mi riguarda! Ma non puoi bighellonare nelle case degli altri, c’è una regola da rispettare!»

«Che… che significa che potevo anche non venire?»

Jonathan smise di camminare e si voltò verso di lui. Erano all’ombra di un grosso albero sul limitare del campo. 

«Va bene, Edward, facciamo così. Mi sembra ovvio che la nostra compagnia non ti piace, ma non è un problema per me. Non sei il primo a comportarti così, e sicuramente non sarai l’ultimo. Stringiamo un patto.» Gli puntò contro l’indice. «Tu non infrangi più nessuna regola che possa mettere te e me nei guai…» Jonathan si indicò il petto. «… e noi ti lasciamo in pace. Niente più prove per lo spettacolo, niente più sveglia all’ora stabilita, niente più orari, niente di niente. Baderai ai fatti tuoi e noi ai nostri. Va bene?»

Edward non era molto sicuro di quanto reale fosse quella conversazione. Osservò Jonathan per capire se scherzasse, ma quel tizio era serissimo. A quel punto si schiarì la gola, non sapendo che risposta dare. Da un lato l’idea di non dover più essere costretto a passare del tempo con loro lo stuzzicava, però… però erano pur sempre i suoi fratelli. Fratelli veri, non come i figli di Ermes. Forse avrebbe solo dovuto dare loro più tempo. Magari poteva sfruttare un paio di giorni da solo per stabilire meglio cosa avrebbe preferito fare.

«Se accetto, potrò sempre cambiare idea, giusto?»

«Certo. Sei uno di noi, ormai.» Jonathan gli porse la mano. «Abbiamo un accordo?»

«Sì.» Edward annuì, ricambiando la stretta. «Abbiamo un accordo.»

«Bene.» Jonathan sorrise, sollevato. «Ci vediamo a cena, allora.»

«Non torno a casa con te?»

Il sorriso svanì dal volto del fratello. «Ehm… meglio di no. Jericho ce l’ha ancora con te. E poi dovrò dire agli altri che tu hai preso la tua decisione.»

Titubante, Edward annuì. «Ok…»

Jonathan gli rivolse un cenno del capo, poi si allontanò. Edward rimase a osservarlo, chiedendosi se avesse fatto o meno la scelta giusta. Anche se il capocasa aveva detto il contrario, non era molto sicuro che il resto dei suoi fratelli lo avrebbe accettato di nuovo se avesse cambiato idea. Forse ormai era troppo tardi.

«Ti ha scaricato, eh?»

Edward drizzò la testa, udendo la voce di una ragazza. Si voltò, accorgendosi solo in quel momento della semidea sdraiata lungo un ramo della quercia, la schiena appoggiata al tronco, una punta di divertimento nel tono. Come avevano fatto a non accorgersi della sua presenza? Saltò giù, atterrandogli di fronte con grazia. Edward si era dimenticato di lei. Non l’aveva mai incrociata alla casa Sette. Poi ripensò a quel lettino perennemente sigillato di fronte al suo, al fondo della capanna, e fece due più due.

«Rosa, giusto?» domandò, riconoscendo i suoi capelli color carota, gli occhioni verdi e la pelle abbronzata.

Quella ridacchiò. «Mi conosci anche se non ci siamo mai rivolti la parola? Sembra che la mia fama mi preceda.»

«Beh…» Edward decise di omettere il fatto che il suo amico aveva una cotta gigantesca per lei. Per sua sorella, ora che ci pensava. 

Oh, cavolo…

«Diciamo che… ti ho vista allenarti all’arena.»

«Capisco. Beh, Edward, sembra che anche tu sia diventato piuttosto famoso dopo il tuo numero di magia nella sfida. Alcuni all’arena ne parlano ancora oggi: "Stavo per uccidere il mio scorpione, quando quello si è messo a correre all’impazzata nel bosco!" Un sacco di gente è ancora furibonda con te.»

«Grandioso…» mugugnò lui, strappandole una risatina quasi musicale.

«Anch’io ero incavolata nera, ma poi ho scoperto che eri mio fratello, quindi ho deciso di non venire a conciarti per le feste. Ma come hai fatto a ucciderli tutti?»

«Fortuna, immagino…» rispose vago Edward, per poi cambiare frettolosamente argomento. «Perché non ti sei fatta vedere la sera che sono arrivato?»

Rosa si strinse nelle spalle. «Non sapevo bene che tipo fossi. Ho finito con il detestare tutti quelli che sono arrivati nella Sette da quando sono qui al campo, e ho creduto che con te sarebbe stato lo stesso. Ti ho tenuto d’occhio per un po’, però, e ho visto che nemmeno tu vai molto a genio a loro. Quindi…» Sollevò le braccia, tornando a sorridere. «… benvenuto nel club, immagino.»

In effetti, oltre a starsene isolata nella capanna, Rosa non aveva mai partecipato a nessuna delle attività degli altri figli di Apollo, prove musicali o lezioni di tiro con l’arco che fossero. Perfino le loro sorelle non la consideravano mai. E, adesso che ci pensava, non era quasi mai presente ai pasti con loro, o comunque se c’era se ne stava in un angolo per i fatti suoi.

«E così... hanno scaricato anche te?»

«Beh, non proprio…» chiarì lei. «Sono io che ho scelto di allontanarmi da loro. Mi trattavano come un’aliena solo perché mi piace la scherma e faccio schifo a tirare con l’arco. Perché "una figlia di Apollo non può usare la spada". Noi possiamo solo cantare canzoni, comporre poesie e sparare frecce a quanto pare. Nient’altro.»

«Ma… è assurdo…» osservò Edward.

«Già. Jonathan e gli altri non volevano che la loro casa si trasformasse nello zimbello delle altre solo perché avevano una sorella che aveva deciso di uscire dagli schemi. In effetti per un po’ la casa Sette è stata davvero presa di mira, ma non mi interessava. Volevo solo essere libera di fare ciò che volevo. Ho preso la spada e sono andata all’arena ad allenarmi. Non faccio altro da tre anni.»

Quella storia non gli sembrava vera. Non solo la parte di Rosa che decideva di lasciare i propri fratelli, ma anche quella in cui i figli di Apollo erano davvero diventati gli zimbelli degli altri solo perché lei aveva scelto di essere sé stessa. Tutto ciò non faceva altro che aggiungersi al resto delle assurdità a cui aveva assistito fino a quel giorno.

«Ma che diavolo c’è che non va con questa gente?» sbottò Edward. «I figli di Ermes e Demetra che vengono maltrattati da tutti, quelli di Ares e Afrodite che si comportano come se fossero i padroni e ora questa storia assurda dei nostri fratelli che sono stati derisi dagli altri perché vuoi essere una spadaccina! Che male c’è in questo, poi? Siamo tutti qui per imparare a combattere!»

Rosa sospirò, scuotendo la testa. «Il problema è questo. Non c’è niente da combattere.»

«Che intendi dire?»

«Intendo dire…» la ragazza accennò con le braccia al Campo Mezzosangue, dove decine e decine di semidei parlottavano e giocavano a pallone in tutta tranquillità. «… che non siamo mai stati più in pace di così. Guarda il campo. È tranquillissimo. Ma pensi che lo sia sempre stato? Il coach Hedge durante alcuni allenamenti mi ha raccontato dei semidei che ha addestrato più di vent’anni fa, e di com’era il campo. All’epoca i nostri predecessori combatterono ben due guerre nel giro di un anno. La prima contro il Titano Crono, la seconda contro la Madre Terra, Gea. Sei mesi dopo, poi, ci fu anche la storia di nostro padre e gli Oracoli.»

Edward annuì. Sì, anche lui aveva letto qualcosa in proposito. Due gigantesche profezie che parlavano di morte, sonno eterno, fuoco e fiamme e così via, condite con sette semidei potentissimi – che poi diventarono nove – e poi suo padre Apollo che faceva fuori un serpentone gigantesco o cose del genere.

«Ciascun semidio al tempo era libero di essere ciò che voleva. Viste le grandi minacce di fronte a loro, i nostri predecessori sapevano di dover unire le forze, di comportarsi come un’unica grande famiglia» proseguì Rosa. «Nessuno all’epoca avrebbe negato ad un figlio di Apollo di prendere una spada ed aiutare gli altri in battaglia, perché tutti quanti sapevano che serviva tutto l’aiuto possibile. E i figli di Ares si comportavano da veri guerrieri, non da bulli, le figlie di Afrodite invece si davano da fare per aiutare i feriti nonostante non fossero guaritrici e alcune di loro combatterono pure. Una fece perfino parte dei Sette!»

«Fatico a immaginarmi una come Jane che combatte, a dire il vero…»

«Questo perché Jane e le sue sorelle non hanno mai toccato un’arma in vita loro. Ma in realtà Afrodite non è solo bellezza. È anche amore, amicizia, volersi bene, aiutare, condividere. Ares non è solo forza, invece, ma è anche disciplina, onore, sacrificio. E Apollo non è solo musica e tiro con l’arco.»

Uno strano sguardo prese forma sul volto di Rosa. Era… triste. «Ormai tutti i semidei hanno acquisito l’aspetto peggiore dei propri genitori. Non sto dicendo che vorrei che scoppiasse un’altra guerra come vent’anni fa, perché molte brave persone persero la vita, però… vorrei solo che tutti quanti imparassimo ad andare d’accordo e ad accettarci per ciò che siamo, non per quello che dovremmo essere. Io voglio essere la spadaccina migliore del campo. Perché gli altri non possono apprezzarmi per questo? Perché non possono prenderla come una sfida per diventare meglio di me?»

Sembrava avere davvero a cuore quella faccenda. Ed Edward non poteva biasimarla per questo. Desiderare che tutti loro andassero più d’accordo e diventassero amici non era mica sbagliato. E poi era ammirevole il suo persistere nel cercare di diventare la migliore spadaccina del campo, nonostante avesse tutti contro. Aveva un sogno ed era determinata a realizzarlo a tutti i cosi. Poteva rispettarla per questo.

«Scusa, ti ho accollato la mia storia deprimente» mormorò Rosa. «Penserai anche tu che sono una matta.»

«Cosa? No, certo che no!» esclamò lui. «Al contrario… hai ragione.»

«Davvero?» 

«Certo. E anzi…» Edward ripensò al proprio incubo. Nessun luogo era al sicuro, non poteva scappare. Il momento stava giungendo. Tutte parole per indicare che, alla fine, sarebbero arrivati per lui. Sorrise, osservando la sorella. Aveva appena avuto un’idea. «… ti va di insegnarmi a combattere?»

«Io?» domandò Rosa, sorpresa, anche se un sorriso curioso nacque sul suo volto. «Perché proprio io? Non potresti chiedere a Hedge o…»

Edward sollevò un sopracciglio «Dovrei chiederlo a un vecchio satiro pazzo?»

«Beh…»

«Andiamo, tutti i grandi spadaccini devono avere almeno un allievo. Se vuoi in cambio io posso aiutarti con il tiro con l’arco.»

Rosa piegò il capo, scrutandolo per un momento, pensierosa. Infine, allargò il sorriso. «Facciamo che lasciamo perdere il tiro con l’arco e ti insegno solo a combattere.»

«Per me va anche bene» concordò lui, ricambiando il sorriso.

«Allora è deciso. Direi che possiamo cominciare già domani mattina, fratellino.»

«Fratellino? Sono abbastanza sicuro di essere più grande di te, sorellina.»

«Non ti chiamerò “fratellone”. Toglitelo dalla testa.»

Il corno della cena risuonò nel campo. «Ora della pappa» commentò Rosa, per poi metterlo in guardia: «Ti avverto, hermano, con me non sarà semplice. Farai meglio a non comportarti da femminuccia.»

Edward ridacchiò. «Ci proverò.»

Rosa annuì soddisfatta. «Bene. Scusa, devo andare adesso.»

«Non vieni a cena?»

«Vi raggiungo più tardi. Devo fare una cosa prima. A dopo!» 

La ragazza corse via senza nemmeno dargli il tempo di parlare ancora. Tuttavia, mentre la osservava allontanarsi, Edward sorrise. Per la prima volta in quei giorni, cominciò a non sentirsi più solo.

 

 

 

 

 

 

Dunque, spero che con questo capitolo si sia finalmente chiarito perché i semidei si comportano in questo modo e perché ci sono tutte queste varie faide. Non essendoci nessuna guerra, i semidei hanno perso di vista l'obiettivo principale, essere una famiglia, e perciò si sono frammentati. Vorrei chiarire che non ho scelto i figli di Afrodite ed Ares come tiranni del campo perché io ce l'ho con loro o con i loro genitori in particolare, ma solamente perché i lati peggiori dei loro genitori incarnano il peggio assoluto di questo mondo, ossia la vanità e la violenza. Però, appunto, solo i lati peggiori.

So che sacrificio, onore ed eccetera eccetera sono più il pallino di Marte e non di Ares, ma credo che nel profondo siano tratti anche di Ares. Insomma, da qualche parte Marte dovrà pur aver preso, no?

Grazie per aver letto fino a qui, e vi saluto, alla prossima!

 

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Capitolo 9
*** Desideri ***


9

Desideri

 

 

A Edward sarebbe piaciuto essere informato del fatto che avrebbe dovuto svegliarsi a quell’ora. Erano le cinque del mattino quando Rosa giunse di soppiatto accanto al suo letto per poi svegliarlo con qualche schiaffetto non molto delicato.

«Ehi. Allenamento, ricordi?» bisbigliò, per farsi sentire solo da lui.

«Mh… c-cosa, chi…» Edward aprì gli occhi, per poi osservare sorpreso la sorella, già vestita, che gli sorrideva smagliante.

«Forza alzati, è ora di allenarsi!»

«Ma… ma che ore sono?»

«Le cinque.»

«Cos…» sbottò lui, alzando la voce, tuttavia trovandosi la mano di lei premuta sulla bocca.

«Non gridare! Se li svegli gli altri ci romperanno le scatole! Dobbiamo andarcene senza fare rumore.»

«Ma… ma sono le cinque!» protestò ancora lui, con voce più bassa.

Lei annuì, come se tutto quello fosse la norma. «Sai come si dice, il mattino ha l’oro in bocca. In piedi, su, hop hop!»

Attingendo a tutto il proprio autocontrollo, Edward si sforzò di non esporre in qualche maniera poco carina quanto contrario fosse all’idea di alzarsi così presto, e si mise in piedi.

Soddisfatta, Rosa sorrise, poi tirò di nuovo le tende attorno al letto del ragazzo e si diresse verso l’uscita per lasciarlo cambiare tranquillo. Una volta pronto, Edward la raggiunse fuori dalla casa Sette, con gli occhi che faticavano a rimanere aperti a causa del brusco risveglio.

La brezza del primo mattino era qualcosa a cui decisamente non era abituato, ma non fu così sgradevole, e gli spifferi lo aiutarono a svegliarsi per benino. Essendo giugno il sole era già alto, in un cielo azzurro striato di nuvole bianche e candide. La pace regnava nel Campo Mezzosangue ancora addormentato. Era strano vederlo così deserto, ma forse era proprio quello che Rosa voleva, perché inspirò quell’aria fresca con un ampio sorriso. Senza dire una parola, cominciò a fare un po’ di riscaldamento.

In quel momento, Edward realizzò che aveva indosso solo una canottiera grigia scura e un paio di leggins corti aderenti dello stesso colore, entrambi indumenti che lasciavano poco spazio alla fantasia. Il ragazzo si sforzò di non guardarla, del resto era sua sorella, anche se non si assomigliavano per niente. Si domandò perché mai la ragazza avesse deciso di conciarsi in quel modo quando lei, mentre si inarcava verso destra e verso sinistra, lo avvisò senza neanche voltarsi: «Faresti meglio a scaldarti anche tu, o crollerai al primo giro. E forse non avresti dovuto metterti quei jeans.»

«Eh? Primo giro di cosa? E che c’è che non va con…» Edward si interruppe di colpo, sgranando gli occhi. «… oh…»

«Del campo, no? Al mattino presto non c’è mai nessuno e l’aria è fresca. Il momento ideale per correre! Anche se io avrei evitato i jeans… ma non importa, l’importante è che vadano bene per te.»

«Ma perché dobbiamo correre?!» protestò Edward, scioccato. «Io ti ho solo chiesto di insegnarmi a combattere!»

«Pensi che imparare a combattere sia tutto? A che serve sapere come fare se tanto non ne sei fisicamente in grado? Se vuoi imparare, devi anche allenarti come si deve.»

«Ma…»

«Sbaglio o ti avevo detto di non comportarti come una femminuccia?»

Edward aprì la bocca per rispondere, ma poi tacque, incapace di pensare a una risposta. Con un grugnito si mise accanto a lei e imitò i suoi esercizi, mentre Rosa annuiva soddisfatta. «Bravo ragazzo. Bene, mettiamoci al lavoro!»

 

***

 

Rosa aveva ragione. Correre in jeans era una pessima idea. Ma fare dieci giri del campo fu anche peggio. Alla fine di quella mirabolante avventura, la ragazza era ancora fresca come il fiore di cui aveva il nome, mentre lui stava per morire. Aveva finito i giri solo per dimostrarle di potercela fare, peccato che, una volta fermo, incapace di respirare e con la fronte grondante di sudore freddo, stava quasi per vomitare.

«Beh, non sei andato tanto male. Hai finito tutti i giri» disse Rosa, porgendogli un po’ di ambrosia.

Lui la prese senza dire una parola, sia perché era incapace di parlare, sia perché probabilmente l’avrebbe mandata davvero a quel paese.

«Ora fatti una doccia, che fai schifo. Ci vediamo a colazione.» E, detto quello, se ne andò via stiracchiandosi, come se tutto quello fosse normale per lei. Poi si Edward si ricordò che erano tre anni che Rosa si allenava in quel modo.

«Quella mi ammazzerà…» mugugnò, prima di sedersi a terra esausto.

Fece una doccia e il pieno di energie a colazione, ma nonostante questo continuò a sentirsi come uno straccio. Forse iniziare subito con dieci giri non era stata una buona idea.

Per tutta la durata del pasto, Jonathan si comportò come se Edward non esistesse e lo stesso fecero gli altri, anche se Jericho sembrava ancora arrabbiato con lui. Aveva creduto che comunque un accenno di parola gliel’avrebbero rivolto, e invece nulla: era come se fosse invisibile. Finito di mangiare, si alzarono e si allontanarono a fare chissà cosa, senza coinvolgerlo come da patto. Al tavolo della casa Sette rimasero solo più lui e Rosa, che gli sorrise. «Il lato positivo di non averli più tra i piedi è che puoi fare il bis in tutta tranquillità» disse, mentre si alzava e tornava a riempirsi il piatto.

Edward la osservò con un moto di tristezza. Si domandò come si fosse sentita per così tanti anni da sola, senza i propri fratelli.

La ragazza tornò con il piatto zeppo di frittelle, pancake, uova e pancetta, il tutto condito da un bicchierone di succo d’arancia. Azzannò la colazione come una tigre affamata, senza più preoccuparsi troppo delle formalità ora che il loro tavolo si era svuotato, sporcandosi e riempiendosi di briciole. Quella tipa era un pozzo senza fondo, ma con tutta l’attività che faceva doveva bruciare più calorie di un forno.

Tra una masticata e l’altra, gli disse che avrebbero fatto ancora un po’ di pausa per digerire e poi sarebbero andati all’arena per cominciare l’addestramento vero e proprio. Edward avrebbe quasi voluto dirle che per quel giorno per lui poteva bastare, ma non poteva certo fermarsi prima ancora di fare ciò per cui aveva iniziato ad allenarsi.

Mancava poco alle dieci del mattino quando arrivarono all’arena. Si erano entrambi cambiati di nuovo, lui aveva sostituito i vestiti sudati dopo la corsa, lei si era messa addosso dei pantaloni lunghi e la maglietta arancione. Indossava anche la collana del campo attorno al polso a mo’ di braccialetto, tre perle per indicare i suoi tre anni passati in quel luogo. Edward si domandò se rimanesse al Campo Mezzosangue tutto l’anno o se d’inverno partisse come molti altri.

Accorgendosi del suo sguardo, la ragazza gli sorrise. Sollevò il polso, osservando a sua volta la collana/braccialetto. «Di solito su ciascuna perla si mette un simbolo che rimandi all’evento più importante avvenuto nell’anno, ma da quando sono qui non è successo un accidente, quindi sono tutte con il simbolo della casa di Apollo. Speriamo che almeno quest’anno succeda qualcosa, o tu che sei appena arrivato penserai che qui è proprio un mortorio!»

«Lo pensavo già a dire il vero» borbottò lui, strappandole una risatina.

«Allora cerchiamo di rendere le cose più interessanti» gli suggerì, mentre entravano nell’arena.

Non trovarono molta gente al suo interno, ed Edward ne fu sollevato. Peccato solo che gli unici presenti fossero gli ultimi che avrebbe voluto vedere. Quattro figli di Ares si voltarono all’unisono quando i due fratelli fecero il loro ingresso, tutti armati di spada. Osservarono Edward con espressioni di puro odio, e il ragazzo per un momento pensò che avrebbero cercato di fargli la festa, tuttavia la loro rabbia parve svanire nel nulla quando si accorsero della presenza di Rosa.

«Salve ragazzi» annunciò lei, facendosi avanti con un sorriso smagliante. «Vi spiace se io e mio fratello ci prendiamo un angolino per allenarci?»

I quattro tacquero, scambiandosi alcuni sguardi per diversi momenti. Poi, di colpo, posarono le spade a terra e si diressero verso l’uscita, sempre senza dire una parola. Edward li osservò sconvolti mentre passavano loro accanto, continuando a lanciare rapide occhiatine in direzione di Rosa, che dal canto suo non aveva ancora smesso di sorridere. «Ma dove andate?» incalzò, sollevando le braccia. «Guardate che possiamo starci tutti quanti! Più siamo e meglio è!» fu costretta a gridare l’ultima frase per farsi sentire, visto che i figli di Ares erano già svaniti dietro la porta.

Edward era senza parole. «Ma… ma che cosa…» Si voltò verso la sorella, in cerca di spiegazioni. «Che gli è preso a quelli?»

Lei si limitò a sollevare le spalle. «I ragazzi tendono a girarmi alla larga.»

«Perché?»

Rosa abbozzò un sorrisetto. «Perché è meglio così. Seguimi, forza.»

Confuso, Edward la seguì all’interno di uno dei cerchi tracciati sul suolo. Rosa si fermò di fronte a lui, distendendo il sorriso. «Bene, diamo inizio alle danze. Colpiscimi!»

«Ehm…» Edward sollevò un sopracciglio. «Ma non abbiamo preso le armi…»

«Niente armi nella prima lezione!» Rosa iniziò a saltellare sul posto, scaldandosi. «Devi essere pronto a tutto, anche a combattere disarmato!»

«Ma tu non volevi essere la migliore spadaccina?»

«Sì, e allora?»

«E allora perché…»

Edward non finì mai quella frase. Rosa si fiondò su di lui, sferrandogli una ginocchiata allo stomaco, facendolo piegare e seguendo con una gomitata dritta sul suo naso. Il ragazzo si ritrovò a terra senza nemmeno aver capito cosa fosse successo, con un dolore lancinante allo stomaco e al volto.

Mentre cercava di rimettersi in piedi ignorando le fitte al naso, la osservò furibondo. «Ma sei impazzita?! Non ero pronto!»

«E m’beh?» domandò lei, girandogli attorno. «Un vero mostro non avrebbe mica aspettato i tuoi comodi.»

«Ma tu non sei un vero mostro!»

«Oh, quindi se tu tiri un calcio non ammesso a Konnor Murray sei giustificato, ma io invece non posso colpirti perché non sei pronto?»

Edward ammutolì. Ancora una volta, non riuscì a trovare una risposta adatta. Perché non ne aveva. Si limitò a grugnire e a tirarsi su, sotto lo sguardo divertito di Rosa. «Molto bene, chico.» Rosa si piegò, mettendosi in posizione da combattimento. «Muéstrame lo que tienes!»

Il ragazzo gridò e le sferrò un pugno. Lei lo scansò con facilità, infilò la spalla sotto la sua ascella e lo rovesciò a terra in un secondo, per poi avvolgergli le gambe attorno al braccio e fare pressione. Un dolore terribile percorse tutto l’arto del ragazzo, che emise un grido. Rosa lo lasciò andare, ed Edward si ritrovò a tenersi il braccio, mugugnando per il dolore.

«Avrei potuto spezzartelo» lo derise lei, per poi pungolarlo con la punta del piede. «Andiamo, femminuccia. Alzati. Abbiamo appena iniziato.»

Edward cominciò a perdere la pazienza. Gridò e la attaccò nuovamente, per poi trovarsi a terra per l’ennesima volta, questa volta con il collo circondato dal braccio di lei, la gola serrata in una presa di ferro. «Hai mai guardato il wrestling?» sussurrò al suo orecchio. «Questa si chiama headlock.»

Furibondo ed incapace di muoversi, Edward si limitò a concentrarsi sul suono della sua voce, intuendo la posizione del volto della ragazza. Sferrò una testata in quella direzione, percependo la presa attorno al collo allentarsi di colpo ed un verso di dolore proveniente da Rosa.

Si rimise in piedi a fatica, grugnendo, accorgendosi solo in quel momento della sorella accasciata con la schiena a terra, una mano premuta di fronte al volto. Edward sgranò gli occhi, inorridito. Nonostante lei lo avesse appena trattato come un sacco da boxe, temette di averle fatto sul serio del male. Tuttavia, Rosa si rialzò sulle gambe a sua volta, scoprendosi il viso e mostrandogli due rivoli di sangue che colavano dalle narici. «Non male» commentò, ripulendosi con il pollice.

Sollevato, Edward fece per scusarsi, ma non riuscì neanche aprire bocca che lei gli aveva già sferrato un calcio sulla tempia, spedendolo di nuovo al tappeto. Sentì le orecchie ronzare e la testa piuttosto leggera, il che non doveva essere un buon segno. Rimase a terra supino, non molto certo di sapere dove si trovava o cosa fosse successo, fino a quando non fu aiutato a mettersi a sedere proprio da Rosa, che si inginocchiò di fronte a lui e gli fece mangiare un po’ di ambrosia.

«Ci sono andata un po’ pesante, scusa» gli disse. «Però avevo bisogno di testare le tue capacità, per capire da dove iniziare. Non hai la benché minima tecnica e ti arrabbi facilmente, facendo errori stupidi di conseguenza. Abbiamo… parecchio lavoro da fare. Ma hai del potenziale. I colpi li incassi bene» concluse, con un sorriso.

«Oh… grandioso…» mugugnò lui, mentre il dolce sapore dei waffles riusciva ad addolcire un po’ quella sensazione schifosa. Quindi quel pestaggio era stato solo un test. Grandioso, sì, davvero grandioso. Si domandò in quanti modi diversi sua sorella avrebbe potuto ucciderlo in quel momento, senza armi. E pensò anche che ora sapeva il perché i figli di Ares si tenessero alla larga da lei. Se l’avesse saputo, l’avrebbe fatto anche lui. Ma ormai era nel ballo, e quindi avrebbe ballato. E poi, se Rosa l’avrebbe reso pericoloso almeno la metà di quanto lo era lei, allora sarebbe diventato il secondo semidio più micidiale di quel campo.

«Cominciamo ad allenare la tua guardia. I semidei sono portati al combattimento dalla nascita, i nostri sensi sono più sviluppati del normale, ma questo non significa che sappiamo già sfruttarli al meglio. Forza, in posizione!»

E così l’allenamento vero e proprio poté cominciare. Rosa lo aiutò a perfezionare la guardia e a migliorare i propri riflessi, gli mostrò come dare pugni, gomitate, ginocchiate e calci nel modo migliore, grazie al loro padre facendo pratica su un manichino di paglia e non più su di lui.

Edward era stato in tanti combattimenti con i mostri – aveva creduto di essersela cavata abbastanza bene contro quello scorpione gigante, prima di usare la spada – ma solamente quando vide Rosa all’opera realizzò che tutto quello che sapeva lui era in realtà o inutile o sbagliato. L’unico motivo per cui era riuscito a tenere a bada lo scorpione era perché quella era una bestia non senziente che attaccava alla cieca, guidata dall’istinto e dalla rabbia proprio come lui aveva sempre fatto. Ma forza bruta e istinto non erano tutto. Occorrevano autocontrollo, calma, precisione, e i movimenti non dovevano essere grossolani e violenti, ma rapidi, secchi e aggraziati.

Escluse le due ore di pausa che fecero per il pranzo – dove Rosa costrinse Edward a mangiare cibo sano, cosa che quasi mai aveva fatto prima – si allenarono per tutto il resto del giorno, fino a quando, alla sera, non tornarono alla casa Sette per ripulirsi e andare a cena. Edward era stanco morto e con un paio di lividi addosso, ma comunque felice, perché finalmente dopo tanti anni stava facendo qualcosa di produttivo. Dal canto suo, anche Rosa sembrava soddisfatta dei progressi. Pochi, certo, dopotutto non poteva impartirgli gli insegnamenti di tre anni in solo un pomeriggio, ma comunque presenti.

«E quindi ti sei sempre allenata da sola in questi anni?» le domandò, una volta seduti a tavola, entrambi intenti a spazzare via due pizze giganti con salame piccante, accompagnate da due bicchieroni di aranciata. Non era molto sano tutto quello, ma dovevano entrambi recuperare un bel po’ di energie.

Rosa annuì, trattenendo a stento un rutto. Provò a parlare mentre stava ancora masticando, ma ebbe il buon senso di fermarsi e deglutire. Alcuni dei loro fratelli le lanciarono un’occhiataccia, segno che non era del tutto invisibile ai loro occhi, ma se lei se ne accorse allora fece finta di nulla.

«Praticamente sì. All’inizio mi sono fatta aiutare da Hedge, avevo solo tredici anni, non potevo partire da zero senza l’aiuto di nessuno, ma una volta apprese le basi ho proseguito per la mia strada. E poi, diciamoci la verità, secondo Hedge la soluzione di qualsiasi problema è colpirlo in testa con una mazza. Non è proprio il tipo di insegnamento che stavo cercando.»

Edward sorrise al pensiero di quel nanerottolo pazzo. «Quindi avevi tredici anni quando sei arrivata qui?»

«Sì. Essendo una figlia di Apollo non molto potente ho potuto permettermi di arrivare al campo quando ero al limite massimo di età. I mostri non erano molto interessati a me.» Rosa scrollò le spalle. «Meglio così, no? Ora come ora i mostri non potrebbero nemmeno sfiorarmi. E tu invece? Perché sei arrivato così tardi al campo?»

«Ci sono diversi motivi…» cominciò Edward, sospirando. «Per prima cosa nessun satiro mi ha mai trovato, credo sia perché io e mia madre abbiamo girato per tutto il paese. Lei sapeva del campo, ma non so per quale motivo non me ne abbia mai parlato. Ho scoperto questo posto grazie ad un biglietto che mi ha lasciato prima di… prima che ci separassimo.»

«Quindi… lei non sa che sei qui adesso?»

«No.» Edward non disse altro, e il suo silenzio sembrò mettere Rosa a disagio. Accorgendosene, il ragazzo cercò di rimediare. «Tu invece? Com’è la tua famiglia?»

«Non c’è molto da dire. Dopo aver superato l’abbandono di nostro padre, mia madre si è risposata pochi anni dopo la mia nascita, con un uomo che aveva divorziato e che aveva già due figli, che sono poi diventati mia sorella maggiore e mio fratello minore. Con lui vado abbastanza d’accordo, con lei… non tanto. Vivo con la mia famiglia per tutto l’anno, tranne d’estate, quando vengo qui. Non sanno che sono una semidea, io e mia madre abbiamo tenuto il segreto, il mio patrigno e i suoi figli credono che questo sia un normalissimo campo estivo. Non so per quanto ancora, però, potrò continuare con questa doppia vita. Arriverà il punto che sarò troppo grande per stare nel mondo esterno e tutti i mostri si accorgeranno di me. Sarò costretta a prendere la mia strada fuori da qui, o andare a Nuova Roma. In ogni caso non potrò più restare con loro, o li metterei in pericolo.»

«Sì, capisco.» Edward sapeva di cosa stesse parlando la sorella. Gli avevano parlato sia del Campo Giove che di Nuova Roma. Erano il campo per semidei dove stavano i figli delle controparti romane dei loro genitori greci, e la città in cui i semidei andavano a stabilirsi quando la vita per loro diventava troppo pericolosa. I due campi ormai vivevano l’uno a conoscenza dell’altro e in completa armonia, dopo che la rivalità tra greci e romani era stata sanata durante la guerra contro Gea.

Alcune volte Edward si era chiesto come sarebbe stato vivere laggiù nella Bay Area, o addirittura essere un semidio romano anziché greco, ma Tommy gli aveva detto che là nella costa Ovest vigevano regole molto più rigide e la disciplina era fondamentale. Non a caso alcuni semidei romani, con il tempo, si erano trasferiti in maniera permanente al Campo Mezzosangue. E, sempre non a caso, alcuni greci se n’erano andati laggiù. C’era chi preferiva vivere in un gruppo disciplinato e chi, invece, preferiva essere più libero.

All’improvviso Jonathan si alzò dal tavolo, imitato dai suoi fratelli, anche se la cena non era ancora finita. Il gruppo si allontanò, sotto lo sguardo confuso di Edward. «Dove vanno?»

«A provare per il loro stupido spettacolo, probabilmente» borbottò Rosa, sgranocchiando una crosta. «Ancora non l’hanno capito che a nessuno importa niente delle loro ridicole canzoni.»

Edward ridacchiò. «Sembra che oltre al tiro con l’arco anche la musica non ti vada a genio…»

«Ti sbagli, a me la musica piace.» Rosa sorrise. «Possiedo sia il talento della medicina che quello musicale. So suonare diversi strumenti, e amo cantare. Semplicemente, non voglio farlo assieme a loro. Non voglio che la mia voce venga sprecata per canzoni idiote che parlano di satiri ciccioni con gli ormoni a palla che ci provano con delle driadi. Ma tu lo sapevi che anche i Beatles erano figli di Apollo?»

«Cosa? Davvero?» domandò Edward, sbigottito. 

«Certo» annuì Rosa. «E perché credi abbiano fatto così tanto successo?»

«Uhm… perché…»

«Perché le loro canzoni non parlavano di satiri che ci provano con le driadi, esatto!» esclamò lei. «Perché anche noi non possiamo provare a comporre qualcosa di diverso? Diamine, mi accontenterei perfino se ci mettessimo a fare delle cover! E invece niente!»

«Beh… immagino che ci siano delle tradizioni da portare avanti.»

«E ridicolizzarsi di fronte al falò ti sembra una tradizione che vale la pena di portare avanti? Non so tu, ma io preferirei qualcosa di nuovo. Altrimenti, eviterei volentieri di cantare.»

«E… invece i Queen?»

«Cosa?»

«I Queen…» ripeté Edward. «… anche loro erano figli di Apollo?»

«Che io sappia, no. Erano semplici mortali. Perché?»

«Che cosa?! Mi stai dicendo che dei normalissimi mortali erano più bravi di dei figli del dio della musica?!»

«A quanto pare.» Rosa ridacchiò. «Anche tu sei di quel partito, eh?»

«Tsk. Con tutto il rispetto, solo un sordo penserebbe che i Beatles erano meglio dei Queen.»

«Attento a non dirlo a voce troppo alta.»

«Bah.»

Rosa ridacchiò di nuovo, e anche Edward sorrise.

«Senti… a me non va di guardare lo spettacolo» proseguì lei. «Che ne dici di fare qualcos’altro?»

«Per esempio?»

«Prima preoccupiamoci delle cose importanti» tagliò corto la figlia di Apollo, cacciandosi in bocca la sua ultima fetta di pizza. «Fignamo la shena

 

***

 

Dover camminare ancora dopo tutta l’attività di quel giorno fu tremendo, soprattutto dopo essere rimasti seduti sulle comode panchine della mensa a riempirsi la pancia. Ma quando giunsero in cima alla collina, accanto all’albero di Talia, Edward intuì cosa Rosa intendesse dire.

Erano affacciati proprio sulla valle del Campo Mezzosangue, da lì potevano vederlo in tutta la sua interezza. Le capanne, la Casa Grande, il lago, la parete d’arrampicata e tutti gli altri edifici, tuttavia illuminati dalla luce della luna, delle stelle e delle torce sparpagliate, creavano un panorama stupendo. La statua gigante di Atena, recuperata durante la guerra contro Gea, svettava accanto a loro in tutta la sua imponenza, mentre in mezzo al campo la capanna di Artemide brillava di luce argentea.

Rosa si chinò a terra per accarezzare Peleo, l’anziano drago a guardia del Vello d’Oro, sotto al mento. Questo rispose con uno sbuffo soddisfatto dal naso. La prima volta che l’aveva visto, Edward aveva creduto che Peleo fosse un mostro che aveva aggirato il confine, poi aveva scoperto che in realtà era dalla loro parte, anche se il ragazzo si sentiva a disagio in sua presenza. Temeva che anche il drago potesse fiutare qualcosa di strano in lui, come facevano i satiri, e che lo percepisse come una minaccia. Perciò, mentre sua sorella lo coccolava come se fosse stato un gattino qualsiasi, Edward rimase alla larga.

«Guarda che non ti fa niente» lo canzonò lei, ridacchiando mentre Peleo scodinzolava felice. 

«Preferisco rimanere alla larga, grazie.»

«Come vuoi.»

Il figlio di Apollo rimase in silenzio, lo sguardo che si smarriva lungo il profilo notturno del Campo Mezzosangue. In lontananza riusciva a vedere il falò acceso all’interno dell’anfiteatro. Il colore del fuoco era… rosa. A quanto pareva, l’esibizione dei suoi fratelli non sembrava aver fatto colpo nemmeno questa volta. Per qualche strano motivo la cosa non lo sorprese.

Rosa lo raggiunse, sedendosi accanto a lui ed abbracciandosi le gambe. Sollevò lo sguardo, rivolgendolo alle stelle. «Questo è il punto migliore per guardarle» spiegò, senza nemmeno accorgersi che l’attenzione del fratello era incentrata su altro. Ed Edward si pentì di essere rimasto così concentrato sul campo, perché il cielo era dieci volte meglio. Uno spettacolo di luci su uno sfondo blu scuro, condite da una stupenda mezzaluna e da alcune particolari sfumature violacee.

«La luce viola è un residuo della luce del sole» proseguì Rosa, quasi leggendo nella mente di Edward. «Mi piace pensare che sia opera di papà.»

«È bella» osservò Edward, stupidamente.

«Lo so» annuì Rosa, gli occhi sempre incollati sul cielo. «Ci sono anche un sacco di costellazioni che sono opera di Artemide. Quella è la mia preferita.» Ne indicò una in mezzo al cielo, un gruppo di stelle formate in un modo da sembrare una figura armata di arco. «Si chiama "La Cacciatrice", in onore di una cacciatrice di Artemide defunta, Zoe Nightshade. È stata proprio la zia a crearla in suo onore.»

Edward conosceva la storia delle Cacciatrici di Artemide, un gruppo di ragazze coraggiose che, in cambio di un voto di castità, diventavano guerriere immortali al servizio della dea della caccia. Immortali nel senso che non sarebbero cresciute, ma sarebbero potute comunque morire in battaglia. La loro luogotenente, Talia, era la stessa da cui l’albero prendeva il nome. Una figlia di Zeus che aveva preso parte a tutte le grandi guerre di vent’anni prima. Era una leggenda al pari dei Sette, o forse era più corretto dire dei Nove. Avrebbe dovuto avere più di trent’anni ormai, e invece, grazie al corpo incapace di invecchiare, possedeva ancora l’aspetto da ragazzina. Per questo motivo era una dei pochi semidei della vecchia guardia ancora operativi, e con molta probabilità lo sarebbe rimasta nei decenni a venire.

Non aveva mai visto di persona né lei né le sue sottoposte, era sicuro che mai l’avrebbe fatto, ma quando Derek gli aveva parlato di loro, lo aveva fatto con sguardo sognante. Peccato solo che i tentativi di provarci con loro erano vani tanto quanto quelli del satiro grasso con la driade nelle canzoni dei loro fratelli.

Tuttavia la storia di Zoe gli era sfuggita. Era bello sapere di una dea che teneva così tanto alle sue… beh, non figlie, ma quasi.

«Vorrei conoscerla…» mormorò Rosa all’improvviso. 

«Chi?»

«La zia Artemide. Vorrei incontrarla almeno una volta.» La figlia di Apollo si abbracciò le gambe con più forza, distogliendo lo sguardo dalle stelle e smarrendolo verso l’orizzonte buio. Uno strato di malinconia prese forma nei suoi occhi brillanti. «A volte… a volte mi sento così sola e incompresa che… che temo che perfino papà mi ignori, e mi piace pensare che Artemide, invece, non lo farebbe. Sono certa che lei mi accoglierebbe tra le Cacciatrici senza esitazione, nonostante io sia incapace con il tiro con l’arco. A volte… mi viene semplicemente da pensare di trovarmi nella famiglia sbagliata.»

«Quindi… vorresti diventare una Cacciatrice?» domandò Edward, sentendo le interiora attorcigliarsi. Non conosceva Rosa da molto, ma si era subito affezionato a lei. Sarebbe stato triste vederla partire per unirsi a un gruppo che non passava quasi mai al Campo Mezzosangue.

Rosa sollevò le spalle. «L’anno scorso, quando sono venute qui al campo, ho potuto parlare con Talia. Oltre ad essere stata davvero gentile con me, mi ha lasciato il loro biglietto e mi ha detto di contattarle se fossi interessato a unirmi a loro. Io le ho detto che ci avrei pensato. Un anno dopo, ancora non so cosa voglio fare. Del voto di castità non mi importa granché, se devo essere onesta… ma ogni volta che penso di poter chiamare Talia, c’è qualcosa che mi blocca. Sento che non è la strada che voglio prendere davvero. Però, d’altro canto… se davvero me ne andassi dal campo, per diventare una Cacciatrice, o un’Amazzone o che dir si voglia, a chi mancherei? A nessuno importa di me.»

«Non è vero» sbottò Edward, di scatto.

«Ah no? E a chi mancherei allora?»

«Beh… a me.»

Rosa si voltò sorpresa verso di lui. Il ragazzo distolse lo sguardo, imbarazzato. Si schiarì la gola. «Insomma, se te ne vai chi mi allenerà? Ci siamo appena conosciuti, non puoi mollarmi subito. E non mancheresti solo a me. Chirone vuole bene a tutti i semidei allo stesso modo, anche lui ne sarebbe dispiaciuto. E poi c’è Hedge. Se ha deciso di aiutarti, tre anni fa, significa che ha visto qualcosa in te, o mi sbaglio? Anche a lui mancheresti. E poi c’è Tommy che…» Edward sgranò gli occhi, realizzando di aver detto troppo. Ma ormai il danno era fatto.

«Tommy?» domandò lei, sollevando un sopracciglio. «Vuoi dire Thomas Blake, della casa di Ermes? Perché dovrei mancare proprio a lui?»

«Ahm… beh…» Edward sospirò. Che senso aveva nascondere la verità? «Diciamo che ha una piccola cotta per te…»

Rosa sorrise divertita. «Ma davvero?»

«Che c’è di divertente? Guarda che è un bravo ragazzo» borbottò il figlio di Apollo, in difesa dell’amico.

«Va bene, va bene…» commentò sua sorella, ridacchiando ancora sommessamente, per poi sorridere in maniera più genuina. Batté il pugno sulla sua spalla come la sera prima. «Ehi. Grazie.»

«Per cosa?»

«Non farmelo dire…» si lamentò lei. «Hai capito.»

Edward rise. «Sì, ho capito.» Doveva essere la prima volta che qualcuno faceva sentire la ragazza apprezzata, e lui si domandò il perché. Era simpatica, energica, gentile e non aveva nulla da invidiare dalle figlie di Afrodite. Che fosse proprio perché le piaceva combattere con la spada? Ancora una volta, Edward pensò a quanto sbagliati fossero tutti quei pregiudizi che avevano i semidei.

«Una volta qui ho visto una stella cadente» disse lei, rompendo il silenzio che si era creato. «Ho desiderato che le cose al campo cambiassero, per non sentirmi più da sola. Forse… forse stanno davvero per farlo. Dopotutto, ora non sono più sola» concluse, sorridendogli.

Il ragazzo ricambiò il sorriso, poi, senza dire altro, i due tornarono ad osservare il cielo.

 

***

 

Edward cominciò a pensare che esistessero due Rose. La prima era quella di quella sera, la ragazza più dolce, malinconica e sensibile. La seconda era il dittatore che al mattino lo faceva correre e che per allenarlo lo riempiva di cazzotti.

Dopo soli tre giorni di allenamento, Edward credette di essere arrivato al limite. E invece si era sbagliato, il limite era ancora molto lontano.

Finalmente si allenarono con le armi. Armi in legno, due bastoni per l’esattezza, ma comunque due armi. Inutile dire che la quantità di legnate che si prese quel giorno fu incalcolabile. Tuttavia, cominciò anche ad imparare a maneggiare nella maniera giusta una spada che non fosse la spada, il che era positivo. Alla sera a cena tornava dai propri fratelli sempre con più lividi, ma allo stesso tempo sempre con più nozioni sul combattimento apprese.

Dopo una settimana, riuscì a disarmare Rosa per la prima volta, per la gioia e lo stupore di entrambi. Stava facendo passi da gigante e, ne era certo, il merito era tutto della sua eccellente insegnante. Con tutto il rispetto che poteva avere per il vecchio satiro, dubitava che Hedge avrebbe potuto ottenere gli stessi risultati con lui.

Ormai trascorreva con Rosa gran parte del proprio tempo, per non dire tutto, ma la cosa non gli dispiaceva. Certo, gli mancavano Tommy e i figli di Ermes, e avrebbe tanto voluto riuscire ad aggiustare le cose con Stephanie, ma non trovava mai il coraggio di farlo. Se non altro, grazie alla compagnia della sorella, non era più solo. Erano sulla stessa lunghezza d’onda di molte cose, poteva discuterci in maniera civile di un sacco di argomenti ed era simpatica. Ormai erano amici, non solo fratelli.

Un giorno, stremati dall’allenamento, si sedettero sul pavimento dell’arena per riprendere fiato. Sorseggiarono un po’ di nettare e si asciugarono dal sudore. A un certo punto, Edward si voltò verso di lei. «Perché non canti qualcosa?»

Per poco Rosa non spruzzò il nettare dalle narici. «Eh?!»

«Hai detto che ti piace cantare, no? Perché non ci provi?»

La ragazza si ripulì la bocca. «E perché vorresti che ci provassi?»

«Curiosità» rispose lui. 

Lei assottigliò le labbra, scrutandolo per diversi momenti, poi grugnì. «E va bene. Ma solo perché mi serve l’opinione di qualcuno» asserì, alzandosi in piedi. «Se ti vedo ridere, giuro che ti uccido.»

Edward sollevò le mani in segno di resa, ben consapevole del fatto che, certo, Rosa non l’avrebbe ucciso davvero, ma avrebbe potuto comunque fargli male. Tanto male.

La ragazza recuperò la propria spada, una scimitarra d’argento con l’elsa ed il manico incastonati di rubini, rimasta in una rastrelliera. Sfilò qualcosa dal manico e l’arma si trasformò in una chitarra acustica color ciliegia. Edward sgranò gli occhi. «La tua spada può trasformarsi in una chitarra?!»

«Tecnicamente, è la chitarra che si trasforma in spada quando tocco la cassa con il plettro» spiegò Rosa, mostrandogli l’oggetto che aveva sfilato dal manico. «Non molto pratica da portare in giro, ma è per questo che ho altre spade.» Mise il plettro in tasca, poi si schiarì la gola. «Dunque… ricordi quella sera che ci siamo conosciuti, quando prima di cena sono scappata via? Ecco… era perché stavo preparando questa. È una cover di una delle mie canzoni preferite. Dimmi… dimmi come ti sembra. Ehm-ehm

Cominciò a strimpellare la chitarra, movimenti decisi e precisi, in una serie di accordi che salivano e scendevano dal ritmo incalzante. Quando iniziò a cantare, Edward pensò che avesse una delle voci più belle che avesse mai sentito.

«This captain goes down with the ship, all hands on deck, stand hip-to-hip, i shout the orders, "shoot to kill!" i'm dressed to thrill, i'm dressed to thrill.»

Rosa cominciò a muovere la testa, iniziando a sciogliere il proprio corpo dapprima teso per la tensione. Alzò la voce, acquisendo confidenza, strimpellando la chitarra con più energia, serrando le palpebre e scatenandosi, quasi come se si fosse dimenticata di avere lui di fronte e si fosse del tutto isolata nel suo piccolo mondo musicale. 

«Sail with me into the setting sun! The battle has been won, but war has just begun! And as we grow, emotion starts to die, we need to find a way, just to keep our desire alive!»

La canzone parlava di una battaglia tra pirati, di un capitano che non voleva arrendersi e che avrebbe affrontato tutti i propri nemici, incitando i propri uomini a seguirlo e a farsi onore, dicendo poi che, nonostante avessero vinto una battaglia, ancora molte altre li attendevano. Sostituendo "pirati" con "semidei", probabilmente il testo avrebbe rispecchiato abbastanza bene anche la loro condizione. Forse a Rosa piaceva quella canzone proprio per quel motivo, immaginava di trovarsi lei in quella battaglia, a combattere assieme ai propri compagni e a farsi valere contro dei terribili mostri.

Al termine della performance, Rosa riaprì gli occhi, e parve ricordarsi solo in quel momento di avere uno spettatore. Arrossì appena, mentre abbassava la chitarra. «Com’era?»

Edward la osservò dritta negli occhi, rimanendo in silenzio. Straordinaria, avrebbe dovuto dire. 

«Non c’è male» borbottò invece.

«C-Cosa? Tutto qui? Ma…» Rosa si interruppe, rendendosi conto del sorrisetto del fratello. Si incupì. «Vete al diablo…»

Edward ridacchiò. Quanto Rosa si arrabbiava e si metteva a borbottare un spagnolo era adorabile. «Scherzavo, sei incredibile.»

«B-Beh… grazie…» mormorò lei, per poi sorridere. «Sei il primo che vede una mia esibizione.»

Si sedette accanto a lui, continuando ad esercitarsi con delle scale musicali. Edward la osservò assorto, ammirando le sue dita che si muovevano sulle corde, rapide e precise proprio come lei quando combatteva.

«Mi piacerebbe provare a cantare questa canzone davanti a tutti, ma non così. Al posto di questa chitarra me ne serve una elettrica, e mi servirebbero anche bassista e batterista. E i pyro! Cosa non farei con i pyro! Mi immagino uno spettacolo di luci, fumo e fuochi artificiali, il tutto sotto le grida di giubilo degli altri! Oh, dei, sarebbe stupendo! E la faccia che farebbero i nostri fratelli… già me le immagino!»

«Ma non volevi diventare la spadaccina migliore del campo?» domandò Edward.

La sorella rispose con un verso di scherno. «Pensi che non potrei fare entrambe?»

«Non ho detto questo. Però… vedo che ti piace porti degli obiettivi.»

«Deve essere per questo che non sono ancora diventata una Cacciatrice. Prima voglio dimostrare il mio valore qui al campo. Voglio che tutti accettino che una figlia di Apollo può essere brava con la spada, e voglio che i nostri fratelli rimangano a bocca aperta di fronte al mio spettacolo! Voglio essere la più grande combattente della nostra generazione! Voglio anche io essere ricordata dalle generazioni future, come noi oggi ricordiamo i grandi del passato! Ma te lo immagini? Essere ricordati come un semidio al pari, o addirittura superiore, dei Nove? Io scalpito al solo pensiero!»

«Quanto entusiasmo» commentò Edward, divertito. Sinceramente, a lui non importava granché di essere ricordato o meno. L’unica cosa che voleva era non lasciarci le penne. Tuttavia, l’energia della sorella riusciva sempre a contagiarlo. In effetti, si disse Edward, diventare importante come uno dei Nove non sembrava così male.

Come molte altre volte, fu il corno della cena a distoglierli dalle loro attività. Edward si alzò in piedi e si sgranchì le ossa indolenzite. 

«Tu vai, io ti raggiungo tra poco» gli disse Rosa, rimettendosi a pizzicare le corde della chitarra. «Voglio esercitarmi ancora un po’. È da quando abbiamo iniziato ad allenarci che non lo faccio.»

«Se vuoi ti faccio compagnia, per me non c’è…» Lo stomacò di Edward brontolò, interrompendolo.

«Vai e non pensare a me» ridacchiò Rosa. «Non sei mica costretto a restarmi sempre vicino. Non hai quella figlia di Demetra di cui preoccuparti?»

Edward sperò di non essere arrossito. «Ehm… e tu che ne sai?»

«Por favor hermano, ho visto come la guardi. Sembra che tu sia un morto di fame e lei un hamburger di manzo e cipolle caramellate.» Rosa fece un paio di accordi, con noncuranza. «Ehi, non c’è mica niente di male. È carina.»

Ora era davvero arrossito. Si voltò per non mostrare le guance imporporate alla sorella, grugnendo. «Ma sta zitta…» sbottò.

«Anch’io ti voglio bene, hermano.»

Il figlio di Apollo riuscì di nuovo a sorridere. No, non poteva arrabbiarsi con lei, nemmeno metterle il broncio. «Va bene, ci vediamo a cena allora.» Per qualche strano motivo, gli era appena venuta voglia di hamburger di manzo e cipolle caramellate.

Salutò la sorella mentre stava provando il ritornello della sua canzone e uscì dall’arena.

 

***

 

Mentre mangiava il suo panino, Edward ripensò a come erano stati gli ultimi giorni. Si era divertito, doveva ammetterlo, lividi a parte. Incontrare Rosa era stata una manna dal cielo e non avrebbe potuto chiedere un fratello o una sorella migliori di lei. Dopo sua madre, la figlia di Apollo era l’unica persona che davvero sentiva di poter considerare famiglia. Certo, c’erano almeno altri dieci ragazzi che erano anche suoi fratelli, ma lui non riusciva per niente a pensare a loro come tali. Dormivano sotto lo stesso tetto e basta.

Jonathan e gli altri lo avevano bellamente ignorato in quei giorni, limitandosi solo a lanciargli occhiatine disgustate tutte le volte che lui e Rosa arrivavano in ritardo ai pasti perché rimasti nell’arena ad allenarsi. All’inizio non sopportava quegli sguardi, ma col tempo ci aveva fatto l’abitudine. Anche se comunque era davvero frustrante essere trattati in quel modo dal sangue del loro sangue. Ancora una volta, pensare a come Rosa fosse riuscita a resistere per ben tre anni in quelle condizioni lo lasciò di sasso. Non era stato facile per lei, e quello strato di malinconia che nascondeva sotto i sorrisi e l’entusiasmo ne era la prova.

Rosa aveva sogni, speranze, proprio come tutti gli altri. Voleva solo che tutti andassero d’accordo, voleva che iniziassero a comportarsi da famiglia, non c’era niente di sbagliato in questo. Era buona di cuore, gentile, amichevole e anche bisognosa di affetto. Un affetto che nessuno aveva mai voluto darle. Era ingiusto. Ingiusto nei suoi confronti e ingiusto in generale. La trattavano come un’aliena solo perché… beh, perché voleva essere sé stessa. Ma non sarebbe stato così ancora a lungo. Anche se faceva schifo con la musica, Edward l’avrebbe aiutata a far diventare il suo sogno realtà. L’avrebbe aiutata ad esibirsi di fronte al falò, tutti quanti avrebbero potuto ammirarla in tutto il suo splendore, avrebbero potuto ascoltare la sua voce stupenda e ricredersi su di lei.

L’avrebbe aiutata a diventare la spadaccina migliore, anche se Edward pensava che già lo fosse. Ma tutti quanti avrebbero dovuto vederla in azione. I figli di Ares dovevano smetterla di ignorarla e accettare il fatto che lei fosse più abile di loro.
  
 Insieme, avrebbero riportato quel campo al suo antico splendore. Niente più bulli, niente più oppressi, niente più pregiudizi. Le cose sarebbero cambiate, e il merito sarebbe stato di sua sorella, la quale, con la sua semplice genuinità, gli aveva fatto aprire gli occhi su tutto il marcio che c’era tra i semidei.

Le voleva bene, gliene voleva eccome, ed era certo che anche lei ne volesse a lui.

Un movimento sul limitare del suo campo visivo catturò la sua attenzione. Buck e un gruppo di suoi fratelli si alzarono dal tavolo, per poi lasciare la mensa ben prima del dovuto. Edward sollevò un sopracciglio. Andavano anche loro a provare per uno spettacolo? Ne dubitava. Non si voltarono nemmeno una volta verso di lui o i figli di Apollo, quindi forse non si erano alzati per causa sua. Smise di pensarci quando li vide sparire dalla vista, e tornò a concentrarsi sul suo panino.

Passarono diversi minuti prima che realizzasse che qualcosa non quadrava. Rosa non era ancora tornata. Edward posò l’hamburger, incerto. Si guardò attorno, ma nessuno dei suoi fratelli sembrava turbato dall’assenza della ragazza. E neppure lui avrebbe dovuto esserlo. Magari Rosa non aveva ancora finito di esercitarsi. Il ragazzo proseguì la cena. Dopo un’altra manciata di minuti, finì di mangiare. E Rosa ancora non era tornata.

Il ragazzo tornò con lo sguardo verso il tavolo dei figli di Ares, sempre mezzo vuoto: solamente Konnor, pochissimi dei suoi fratelli e la loro unica sorella erano rimasti. A quel punto, un brutto presentimento prese vita dentro di lui. Si alzò in piedi di scatto, quasi rovesciando il bicchiere pieno, e si allontanò a passo spedito. Arrischiò un’occhiata verso i semidei attorno a lui, e si accorse dello sguardo confuso di Tommy. Edward lo osservò per un breve istante, poi tirò dritto, interrompendo il contatto visivo. Per un attimo aveva pensato di chiedergli di accompagnarlo, ma non era una faccenda che lo riguardava, non voleva renderlo ancora più partecipe dei suoi casini.

Mentre procedeva svelto verso l’arena, pensò al fatto che Buck ancora ce l’aveva con lui, per motivi che ormai aveva perfino dimenticato. Inoltre, pensò anche a come Rosa avesse "scacciato" i figli del dio della guerra quel giorno, all’arena. Forse l’avevano presa come una provocazione. E il fatto che quel giorno Edward avesse assistito di persona a loro scappare con la coda tra le gambe doveva solamente aver peggiorato il loro umore.

Forse, avevano aspettato il momento giusto per prendere Rosa di sorpresa.

Edward si ritrovò a correre senza nemmeno rendersene conto, temendo che volessero farle del male. Rosa era pur sempre Rosa, avrebbe regalato un bel po’ di lividi e occhi neri ai suoi aggressori, ma era comunque da sola. Non sarebbe mai riuscita a resistere. E il pensiero che potessero non solo farle del male, ma anche allungare le mani, gli fece ribollire il sangue nelle vene. Giurò a sé stesso che sei quei porci le avessero torto anche solo un capello, avrebbe raso al suolo la casa Cinque mattone dopo mattone.

Finalmente raggiunse l’arena. Si fiondò dentro, chiamandola a gran voce. Raggiunse la zona dove si erano allenati, dove gran parte delle torce erano state spente. Il grosso spiazzale era avvolto dall’oscurità, ma filtrava ancora abbastanza luce per permettergli di vedere una figura minuta sdraiata a terra, con un braccio piegato in un’angolazione innaturale.

«ROSA!» gridò inorridito, raggiungendola. Si chinò accanto a lei, rabbrividendo alla vista del suo braccio, per poi girarla e prenderle il volto tra le mani. Una chiazza di sangue colava dalle sue labbra. Edward sentì le proprie viscere contorcersi. Era arrivato troppo tardi.

«Rosa…» la chiamò, sentendo la propria voce incrinarsi. Nonostante si fosse detto di tenere così tanto a lei, nonostante la considerasse davvero parte della sua famiglia, l’aveva abbandonata. Aveva lasciato che quei maiali le facessero del male. Ma avrebbero pagato. Avrebbe spezzato un braccio per ogni goccia di sangue che Rosa aveva versato.

Un mugugno provenne dalla ragazza, facendolo sobbalzare. «Mh… Mhh… Mhhhhh…» Rosa riaprì a fatica gli occhi. Aveva lo sguardo spento, e a causa del buio il verde brillante dei suoi occhi pareva un’opaca sfumatura di grigio.

«Rosa» disse Edward, sollevato. «Resisti, ora ti porto…»

«E-Edward…» sussurrò Rosa. «… è una trappola…»

Sentì un fruscio provenire dalle sue spalle. Il ragazzo lasciò andare la sorella e si voltò, giusto in tempo per evitare con un grido sorpreso una mano che aveva cercato di agguantarlo. Edward rotolò a terra, per poi alzarsi in piedi e fronteggiare l’aggressore. Non appena lo vide, sgranò gli occhi.

Era una delle creature dei suoi incubi. Occhi rossi, volto bianco, corna lunghe e denti aguzzi. Un anello d'oro appeso al grosso naso, il corpo nudo e, grazie agli dei, così nero che era impossibile scorgerne i tratti. Aveva le braccia più lunghe delle gambe, motivo per cui era costretta a stare curva su sé stessa. La bestia sorrise, sfoggiando una scia di schifosi denti cagliati ed appuntiti, le dita artigliate delle mani che formicolavano.

«Ben arrivato, piccolo dio.» Una torcia si accese all’improvviso in un angolo dell’arena. Un’altra creatura apparve, illuminata dal fuoco. Questa era diversa dalla prima, era più alta e snella, con indosso pantaloni neri e placche di armatura sul busto e le braccia. Aveva due spade, una più piccola chiusa in un fodero appeso alla cintura attorno alla vita, l'altra, più lunga, nel fodero a tracolla. Il volto incappucciato sembrava avere un colorito più rosato, due piccole corna spuntavano dalla fronte, e quando sorrise mostrò una fila di denti quasi normali, tolti i canini affilati come rasoi. Più che un mostro, sembrava un ragazzo. Una specie di ragazzo-mostro. «Finalmente faccio la tua conoscenza.»

Estrasse la spada dal fodero che portava a tracolla, una lunga katana rossa come il sangue, con la lama seghettata e l’elsa formata da una sfera che assomigliava a un occhio, sempre rosso.

Edward indietreggiò. Quello non era il rettile che aveva visto in sogno. Ma non per questo non sembrava meno pericoloso.

«Chi… chi sei?!» riuscì a domandare, mentre quello si avvicinava e l’altro mostriciattolo lo imitava, emettendo uno strano verso gutturale. 

«Il padrone ha incaricato me di portare a termine la missione» rispose quello, sollevando la spada e puntandola verso di lui. «Devi morire, piccolo dio.»

Il padrone? Che parlasse proprio dell’uomo rettile? Edward strinse i pugni. I due mostri passarono accanto a Rosa, ignorandola, e la cosa lo fece sentire sollevato. Meno attenzione prestavano a lei, meglio era. Così non erano stati i figli di Ares a farle quello. Un lato di Edward sperò che invece fosse stata proprio opera di Buck e i suoi. Se non altro quei somari sarebbero stati meno minacciosi di quei due cosi che si stavano avvicinando a lui.

Il mostro gobbo ruggì e lo caricò, abbassando la testa come un toro. Edward gridò e, accorgendosi di essere finito accanto ad una rastrelliera, afferrò la prima arma che trovò e sferzò l’aria. Colpì la bestia alla tempia con una gigantesca mazza, spedendola a terra. Il mostro si rialzò quasi subito, tuttavia tenendosi la testa nel punto in cui era stato colpito e facendo strani versi di dolore. Edward fece per attaccare di nuovo, ma l’altro lo raggiunse, mulinando la katana e mirando dritto al suo volto. Il ragazzo indietreggiò, sollevando la mazza per difendersi, ma l’impatto con la lama lo spedì a terra, la sua arma di fortuna che gli saltava via dalla mano.

Rotolò sul suolo polveroso, evitando per un soffio la lama che era calata su di lui come una ghigliottina, e si rimise in piedi, allontanandosi con uno scatto per riprendere fiato e raccogliere le idee.

«Vedo che non hai perso l’abitudine di fuggire, piccolo dio» lo schermì il ragazzo.

Edward serrò la mascella. «Si può sapere che volete da me?!»

«Vogliamo la spada. Non ti appartiene.»

La verità lo colpì come una sberla. Lo aveva sempre sospettato, ma averne la conferma lo lasciò di sasso. «Ma io non l’ho rubata!» urlò, sentendo la rabbia crescere dentro di sé. «È sempre stata con me! Da quando sono nato!»

«Per questo motivo la tua esistenza stessa è un errore, piccolo dio. Ed è ora di porre rimedio. Uccidilo!»

La bestia gobba strillò e caricò una seconda volta. Ma mentre quella si avvicinava, la rabbia continuava a crescere dentro di Edward. Quindi la sua esistenza era un errore? Quindi quella era la sua colpa. Il motivo per cui quei mostri lo cercavano, il motivo per cui aveva incubi, il motivo per cui avevano perfino coinvolto Rosa, sua sorella… il motivo per cui… sua madre era scomparsa… era perché lui esisteva?

La rabbia cominciò a trasformarsi. Quando la bestia lo raggiunse, non era più solo rabbia. Era furia.

Edward urlò, sovrastando il grido della bestia, e sferzò l’aria con la mano. Nello stesso momento, la Spada fece la sua apparizione. Il grido di battaglia del mostro si trasformò in un atroce strillo di dolore quando la lama gli squarciò il petto. La creatura crollò in ginocchio, gli occhi rossi spalancati in un’espressione di pura sorpresa. Pochi istanti dopo, il suo corpo si sciolse in una pozza nera.

«Vuoi la mia vita?» rantolò Edward, sollevando la spada e puntandola contro il mostro rimasto. Parlò in giapponese, consapevole che quello l’avrebbe capito: «Vieni a prenderla, bastardo

«Berrò il tuo sangue!» replicò l’altro, partendo all’attacco.

Il ragazzo cercò ancora una volta di aprirgli la faccia, ma questa volta la sua lama rosso sangue cozzò contro quella bianca di Edward. 

«Non ha un buon sapore» sogghignò il figlio di Apollo.

La sicurezza del mostro parve vacillare. Tentò un altro assalto ma Edward, grazie agli insegnamenti di Rosa e alla forza infusa dalla spada, riuscì a parare anche quello.

«Sono stanco di scappare» sibilò Edward, per poi roteare su sé stesso e mirare a sua volta verso il volto della creatura, che dovette scansarsi per non farsi falciare. «Mi volete? Bene, sono qui. Forza, facciamola finita una volta per tutte!»

Gridò ancora una volta, avventandosi contro all’avversario. Il mostro attaccò a sua volta.

Si lanciarono in una lunga serie di affondi, parate, schivate, sferzate, mosse e contromosse. Ogni volta che la lama di Edward cozzava contro quella rossa, una folata di aria si sollevava nella sala, facendo turbinare la polvere sul suolo. A ogni assalto il suo avversario sembrava vacillare, mentre Edward sentiva l’energia scorrere sempre più potente e feroce dentro di sé. Era stanco di scappare, stanco di avere paura. La spada gli infuse forza e coraggio che, uniti alla rabbia, formarono un miscuglio letale.

Le due lame si schiantarono tra di loro con violenza per l’ennesima volta, ma ora la creatura fu spedita all’indietro, lasciando un solco con gli stivali sul terreno. Edward sbraitò in segno di sfida, poi mulinò la spada generando una corrente d’aria proprio come quella che aveva affettato in due quello scorpione. Tuttavia, quando pensò di avere l’avversario in pugno, questo abbatté la spada contro l’arco di luce, frantumandolo prima che arrecasse alcun danno.

«Non male, piccolo dio» annuì il ragazzo, prima di sorridere. «Ma ora tocca a me.»

Un altro grido di battaglia si sollevò in aria. Il mostro lo caricò, brandendo la katana con due mani. Edward sollevò di nuovo la lama per proteggersi, ma l’impatto questa volta per poco non gli ruppe entrambe le braccia. La forza con cui l’aveva appena attaccato era aumentata a dismisura. Quindi quel mostro non stava facendo sul serio, poco prima. Edward non avrebbe mai pensato che qualcuno avrebbe potuto reggere il confronto con la spada, ma stava succedendo. Doveva pensare a una strategia e alla svelta, o sarebbe morto.

La sua mente cominciò ad elaborare, concentrandosi su un unico obiettivo: restare vivo. Poi, ricordò di essersi già trovato in una situazione di stallo come quella. E pensò che c’era una cosa che, nonostante gli insegnamenti di Rosa, ancora non aveva dimenticato.

Sferrò un calcio al basso ventre del mostro, facendogli emettere un grido sorpreso. Edward si allontanò da lui di un passo e mirò al suo volto. Il suo avversario si rese conto di cosa stava succedendo ed evitò l’attacco, ma con un millisecondo di ritardo: la lama raggiunse la sua faccia e il figlio di Apollo sentì di aver colpito qualcosa.

Il ragazzo indietreggiò urlando disperato, tenendosi una mano sul volto. Edward non perse tempo e partì di nuovo all’attacco, convinto di avercela fatta, ma quello mulinò la katana con un grido furibondo e lo disarmò, spedendolo a terra.

Il suo avversario continuò a gridare, poi si scoprì il volto, rivelando un orribile squarcio sul suo occhio destro, dal quale colava una strana sostanza scura e grumosa. Edward cercò di strisciare verso la spada, ma questa si trasformò in luce e svanì. Inorridì. La sua unica possibilità di salvezza era appena sparita da sotto al suo sguardo. Disperato, estrasse il coltello dalla tasca della giacca, ma il mostro lo raggiunse proprio in quel momento, calciandoglielo via di mano. Lo afferrò per il collo e lo sollevò a peso morto, conficcando gli artigli nella sua carne. Edward boccheggiò per il dolore e per il respiro mozzato. La vista cominciò ad offuscarsi. Riuscì a vedere il volto indistinto del mostro, con gli incisivi pericolosamente vicini al suo naso.

«Hai finito di scappare, ladro» rantolò quello. «Ora… muori!» Sollevò la katana. Edward chiuse gli occhi, attendendo la fine.

Udì un altro grido. La presa attorno al suo collo si allentò all’improvviso ed Edward cadde a terra. Si massaggiò il collo, con il respiro pesante, e vide il ragazzo con il volto distorto in un’espressione sorpresa, la katana rossa a terra. Osservò Edward ancora per un istante, digrignando i denti, poi cadde in ginocchio. Si mise una mano sul petto, ansimando, e un istante dopo stava svanendo in una pozzanghera scura. «Non… finisce qui…» rantolò, prima di scomparire nel pavimento.

In piedi, dietro al punto in cui il ragazzo era scomparso, si trovava Rosa con il coltello di Edward stretto in mano. Sua sorella era ingobbita, con il fiato pesante, il braccio rotto che oscillava a peso morto lungo il suo fianco. Posò gli occhi su di Edward, che riuscì a sorriderle, ma nessuna emozione apparve più negli occhi verdi di lei: roteò le pupille e stramazzò a terra priva di sensi.

«Rosa!» la chiamò Edward, avvicinandosi a gattoni verso il suo corpo. Le prese il volto tra le mani e constatò che respirava ancora. Quando la osservò, constatò anche che aveva una piccola emorragia interna, e non ci voleva una scienza per capire che quel braccio andasse steccato al più presto. E aveva anche una costola rotta. Non sapeva come facesse a sapere queste cose, ma forse era il talento della medicina che si faceva sentire.

Le accarezzò il volto, riuscendo ad allargare il sorriso. «Mi hai salvato. Grazie» disse, anche se non poteva sentirlo. Sentiva dolore lungo tutto il corpo, ma non gli importava: doveva portare Rosa dai loro fratelli al più presto. E doveva anche parlare con Chirone. Doveva dirgli tutto quello che era successo. Se quei mostri avevano davvero aggirato il confine del campo, allora occorreva prendere precauzioni.

Avvolse le braccia sotto le gambe e la schiena della sorella e fece per sollevarla, quando sentì qualcosa muoversi sotto i suoi piedi. Abbassò lo sguardo e vide l’oscurità dentro cui il mostro era sparita allargarsi sotto di loro, in un'orribile scena a lui già familiare. Provò ad alzarsi per scappare da lì assieme a Rosa, ma l’oscurità si solidificò attorno al corpo della ragazza, tenendola inchiodata a terra. 

«No, no!» gridò Edward, alzandosi in piedi e cominciando a tirare il corpo di Rosa, che tuttavia rimase inamovibile. 

Con uno strattone, l’oscurità la strappò via dalle sue braccia. Edward cadde all’indietro per il contraccolpo. La pozza nera sussultò quando si schiantò a terra, ma a parte quello non successe altro. Era come se lo ignorasse, concentrandosi esclusivamente sulla ragazza svenuta.

Edward si mise carponi, appena in tempo per poter osservare con i suoi atterriti occhi il corpo della sorella che svaniva dentro quella macchia oscura. 

«NOOOO!» urlò, fiondandosi in mezzo all’oscurità ed afferrando il braccio sano di Rosa. Tirò con tutta la forza che aveva, incurante del fatto che avrebbe potuto rompere anche quello, ma alla fine l’oscurità ebbe la meglio: trascinò Rosa al di sotto del suolo, facendo schiantare Edward di faccia sul pavimento dell’arena.

Cadde con il volto sopra le tenebre e, inorridito, realizzò che sua sorella era appena svanita.

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Capitolo 10
*** Verità e risposte ***


10

Verità e risposte

 

 

«ROSA!» Edward gridò, sentendo le lacrime che scivolavano dai suoi occhi. Cominciò a scavare nella terra per la disperazione, continuando a chiamare il nome della sorella. «No, no, NOOOOOO!»

Si tagliò sotto le unghie e le dita iniziarono a sanguinare, ma non si fermò. Non poteva accettare quello che aveva appena visto. Non poteva essere successo davvero.

Non di nuovo.

Urlò tutta la propria frustrazione e sbatté un pugno sul suolo, per poi piegarsi su sé stesso e cominciare a piangere. Le lacrime rigavano le sue guance, cadendo a terra nel punto in cui Rosa era svanita, mischiandosi con la sabbia e con il sangue.

La seconda persona a cui aveva sinceramente voluto bene… scomparsa di fronte ai suoi stessi occhi. Proprio come era successo quattro anni prima.

Si prese il volto tra le mani, incapace di controllarsi. Aveva resistito da solo per anni, in fuga dai mostri, in fuga da quelli che volevano rinchiuderlo, in fuga da tutto e tutti. Per tutta la vita il mondo era stato contro di lui e sua madre, e dopo la scomparsa di lei, solamente più contro di lui. Ma aveva stretto i denti. Era arrivato fino a lì, al Campo Mezzosangue, convinto di aver finalmente ottenuto la pace. E invece sua sorella, la persona migliore che avrebbe mai potuto incontrare, quella ragazza sempre entusiasta, felice, dolce e piena di obiettivi che sperava di poter realizzare… era stata presa. E lui non aveva fatto nulla per impedirlo.

Nulla poté più impedirgli di lasciarsi cadere in preda allo sconforto. Aveva resistito per tutta la vita a combattere contro orrori e crudeltà che avrebbero fatto sembrare i figli di Ares un gruppo di fenomeni da baraccone, ma quello era troppo anche per lui.

Se non fosse stato per quella spada, per quella maledettissima spada, sia a Rosa che a sua madre non sarebbe successo nulla. 

Perché… l’oscurità aveva preso proprio Rosa? Se era la sua esistenza stessa il problema, perché allora non era toccato a lui? Se solo avesse potuto dare la sua vita in cambio di quella di Rosa, l’avrebbe fatto senza esitazione.

«Che è successo qui?!» sbottò una voce all’improvviso. Edward si voltò, il viso ancora ricoperto di lacrime e sporco di terra. Vide Buck e alcuni dei suoi fratelli sull’ingresso dell’arena osservarlo stupiti. Il capocasa si fece avanti. «Che stai facendo? Perché frigni come una ragazzina?»

Edward batté le palpebre un paio di volte. Vedere quei tizi riuscì finalmente a fargli riacquisire il controllo. Buck, i figli di Ares, i semidei, il Campo Mezzosangue… Chirone!

«Chirone!» gridò Edward alzandosi in piedi. Il centauro poteva aiutarlo. Conosceva l’acciaio della spada, sapeva che la sua arma non aveva lo stesso effetto sui mostri, sapeva che l’aveva reso più forte. All’inizio Edward non ci aveva dato troppo peso, ma, ne era certo, Chirone sapeva cosa stava succedendo. «Dov’è Chirone?!»

«Ma sei stupido? Alla Casa Grande, no?»

Il figlio di Apollo non disse altro. Fece per correre verso la porta, ma Buck lo bloccò, afferrandolo per un braccio. «Ehi! Tu non vai proprio da nessuna...»

«LASCIAMI!» urlò Edward, dando uno strattone e liberandosi con forza. Si fece strada a spintoni corse verso la Casa Grande.

Lungo la strada si rese conto che Buck e i suoi non erano gli unici ad essere arrivati all’arena. «Edward!» lo chiamò Thomas, mentre il figlio di Apollo proseguiva la sua agitata corsa. «Ma che succede?!»

Edward non rispose. Quasi non lo sentì. Gli sfrecciò accanto senza degnarlo di una seconda occhiata.

«Chirone!» gridò, arrivando davanti alla Casa Grande. Cominciò a sbattere con forza il pugno sulla porta, ripetendo il nome del centauro a gran voce. Probabilmente attirò l’attenzione dell’intero Campo Mezzosangue con quelle grida, ma non aveva nessuna importanza.

Alla fine, la porta si aprì. Edward provò un piccolo moto di sollievo. «Chirone» ripeté per l’ennesima volta. «Ascolta, devo…»

«Santi numi, quanto rumore…» borbottò una voce dal tono annoiato. Ad aprire la porta non fu il centauro in sedia a rotelle, ma un uomo trasandato, con la pancia, vestito con bermuda e una camicia leopardata. I capelli erano nerissimi, proprio come la barba incolta. Aveva il naso e gli occhi arrossati. «Oh, sei tu…» mugugnò, semplicemente, come se già lo conoscesse. Peccato solo che Edward non avesse mai visto quel tizio prima di allora. 

«Beh? Che hai da guardare?» borbottò l’uomo. «Entra, forza. Sei in un mare di guai giovanotto.»

 

***

 

La confusione con cui Edward si guardava attorno nel soggiorno della Casa Grande probabilmente era seconda solo a quando si era svegliato in un letto con una strana ragazza con gli occhiali seduta accanto che gli aveva detto di essere un semidio.

Aveva provato a domandare dove fosse Chirone e anche a cercare di spiegare la sua situazione a quello strano individuo, ma l’uomo lo aveva zittito ogni volta, in maniere poco gentili. Continuava a mostrare una calma irreale, sorseggiandosi una Diet Coke seduto sul divano, il mignolo sollevato mentre stringeva la lattina, la testa del leopardo che lo osservava intensamente. Edward sapeva che Seymour era vivo, però non lo aveva mai visto da sveglio. Faceva uno stranissimo effetto.

«Si è fatto un gran parlare di te, lassù» disse infine quello, rompendo il silenzio, facendo ondeggiare la lattina tra le mani. «Hai sollevato un bel dilemma.»

«Ehm… lassù dove?»

«Sull’Olimpo» disse una terza voce. Edward si voltò verso la porta, per poi osservare con enorme sollievo Chirone fare la propria apparizione, a bordo della sedia a rotelle. Poi realizzò cosa avesse appena detto e sgranò gli occhi. Tornò ad osservare l’uomo sul divano, incerto. «Dioniso?»

Quello replicò con un grugnito. «E chi pensavi fossi? Afrodite?»

Edward era incredulo. Quello di fronte a lui… era un dio. Un dio vero, in carne ed ossa. Stava parlando con un dio! Era incredibile. E allo stesso tempo… piuttosto deludente. Sinceramente, quando pensava a un "dio", non gli veniva certo in mente un uomo con la faccia rossa, la pancia e una ridicola camicia.

«Che… che intende per "dilemma"?»

«Che era da diverso tempo che non vedevo Zeus così furibondo» spiegò Dioniso, con noncuranza. «Per un paio di mesi è stato molto teso. Sapeva che stava per succedere qualcosa di spiacevole. E poi, quando hai fatto comparire quella spada, dieci giorni fa, è andato su tutte le furie. Sinceramente, non mi ha stupito scoprire c’era lo zampino di Apollo dietro tutta questa faccenda. Sembra che ci tenga particolarmente a far imbestialire nostro padre almeno una volta ogni decennio. Non solo ha lasciato che tu compissi diciott’anni prima che arrivassi al campo, ma ha anche cercato di nasconderti non riconoscendoti subito. Perché pensi che l’abbia fatto proprio quando hai usato la spada? Zeus non gli ha lasciato altra scelta.»

Edward non ci stava capendo più niente. «Un momento. La… la spada? Che cosa c’entra la spada?»

«C’entra il fatto che tu non dovresti averla. Ma siccome è così, abbiamo dovuto trascorrere tutto questo tempo per cercare di stabilire cosa era meglio farne di te.»

«In… in che senso?» domandò Edward, esitando. Forse non voleva davvero sapere la risposta.

«Dioniso, non credo sia il caso di…» 

Chirone cercò di intromettersi, ma il dio lo ignorò. «Nel senso che mio padre avrebbe voluto fulminarti seduta stante, così da accantonare la faccenda e non pensarci più. Naturalmente, il tuo padre si è opposto. E anche sua sorella ha deciso di assecondarlo. Così abbiamo optato per avere una votazione. Ci sono voluti un po’ di giorni, ma alla fine abbiamo avuto un verdetto: Zeus, Era, Atena e io abbiamo votato per la tua morte. Apollo, Artemide, Ermes, Demetra, Ares e Afrodite invece hanno voluto che tu rimanessi in vita mentre Ade, Efesto e Poseidone si sono astenuti.»

Il figlio di Apollo sentì la testa girare. Quindi… mentre lui trascorreva le giornate ad allenarsi con Rosa, si stava tenendo una discussione tra gli dei per decidere se avesse dovuto vivere o morire? Quindi se… se per caso avesse vinto l’opzione che prevedeva la sua morte, sarebbe stato fulminato su due piedi proprio di fronte alla sorella? 

Edward appoggiò la testa contro lo schienale del divano, non molto certo di sapere cosa pensare. La cosa più sorprendente, però, era sapere chi avesse votato per tenerlo in vita. Probabilmente Ermes doveva aver apprezzato il suo comportamento con il resto dei suoi figli, lo stesso poteva dirsi per Demetra, nonostante il suo litigio con Stephanie. Apollo e Artemide si spiegavano da soli, invece. Ma… Ares e Afrodite? Davvero loro si erano schierati dalla sua parte dopo tutto quello che aveva combinato con i loro figli? Era incredibile. Non che la cosa gli dispiacesse, naturalmente.

«Perciò, eccoti ancora qui. Alla fine si è stabilito che avresti dovuto adempiere al tuo destino, se così possiamo dire. Non che la cosa mi importi granché. Per quello che mi riguarda, questa votazione ha solo posticipato la tua morte, l’unica differenza è che sarai tu a causarla con le tue stesse mani.»

«Dioniso» si intromise di nuovo Chirone, per poi osservare Edward con sguardo premuroso. «Forse prima sarebbe meglio sapere che cosa ha spinto il ragazzo a venire a cercarmi.»

Il dio sollevò le spalle, tornando a bere dalla propria lattina.

«Edward, per favore, raccontami cos’è successo. Perché sei arrivato di corsa in questo modo?»

Al pensiero della sorella, Edward sentì il petto stringersi come in una morsa. Si fece coraggio, poi cominciò a parlare. Spiegò tutto, dal principio. Raccontò degli incubi, dei mostri con gli occhi rossi, dell’uomo serpente, degli spiriti che aveva visto nel bosco assieme a Tommy, di ogni cosa. Quando, poi, raccontò dello scontro nell’arena e dell’oscurità che avvolgeva il corpo di Rosa, la voce gli si incrinò. Si interruppe e riprese lentamente fiato, per non mettersi di nuovo a piangere.

Al termine del racconto, l’espressione incolore di Chirone si era trasformata in una di pura angoscia. «Povera bambina…» sussurrò.

«Non… non è morta, vero?» domandò Edward, di getto. Come prima, non era molto sicuro di voler ricevere una risposta. L’idea che Rosa potesse… no. Non poteva essere. Era impossibile.

Chirone assottigliò le labbra. Sembrò voler rispondere, ma venne nuovamente interrotto da Dioniso. «Non ha nessuna importanza» asserì il dio. «Ormai è andata.»

«Che… che cosa?» domandò Edward, credendo di aver capito male. «Non… non ha importanza…?»

«No. Quello che conta è che, finché rimarrai qui nel campo, loro continueranno ad arrivare. Rosita è stata solo la prima.»

«Non… non è quello il suo nome…»

Dioniso liquidò la faccenda con un cenno della mano. «In ogni caso, finché non riporterai indietro la spada, loro cercheranno di ucciderti per prendersela. Devi partire prima che altri semidei vengano coinvolti, o i loro genitori se la prenderanno con me. E se Zeus e gli altri se la prendono con me, io me la prenderò con te. Sono stato abbastanza chiaro?»

«No!» urlò Edward, perdendo le staffe. «Non sei chiaro per niente! Chi sono questi mostri? Perché vogliono la spada? Come dovrei riportarla indietro se non l’ho nemmeno rubata io? Che cosa dovrei fare?! E perché credi che Rosa non abbia importanza?! Ne ha invece! Ne ha eccome!»

«Edward…» cominciò Chirone, cauto, ma per l’ennesima volta Dioniso gli parlò sopra. 

«Giovanotto» disse, con voce calma. «Ti consiglio di comportarti a modo con me. Non mi importa assolutamente nulla di te e della tua amichetta. Come ho già detto, se fosse dipeso da me, ti avrei già trasformato in un tralcio di vite.»

Edward digrignò i denti. Ora ne aveva davvero abbastanza. Si alzò in piedi di scatto. «E allora fallo, forza!» urlò.

Era sconvolto, aveva rischiato di morire, i mostri lo inseguivano, i semidei erano in pericolo, sua sorella era scomparsa, e ora questo tizio vestito come un clown non solo arrivava e lo trattava a pesci in faccia, ma si metteva pure a minacciarlo? Se si aspettava che Edward sarebbe rimasto in silenzio a subire, allora avrebbe avuto una bella sorpresa.

Dioniso sollevò lo sguardo, apparendo sorpreso per la prima volta. «Come, prego?»

«Ti ho detto di farlo. Avanti. Trasformami! Coraggio!» gridò Edward. 

Seymour cominciò a ringhiare verso di lui, mentre Chirone sollevava una mano. «Ti prego Edward, calmati!»

«NO!» urlò il ragazzo, la rabbia che cresceva dentro di lui. La spada apparve improvvisamente nella sua mano, una sorpresa inaspettata ma assolutamente gradita. Anche se all’arena l’aveva persa, era di nuovo tornata in suo possesso. Non appena videro la katana, sia il centauro che Dioniso trasalirono. Perfino il leopardo smise di ringhiare ed emise uno stranissimo miagolio, ammansendosi di colpo.

«Sono stanco di questi giochetti! Io… io voglio sapere che cosa sta succedendo, e voglio sapere se c’è un modo per salvare Rosa! Io esigo saperlo! E se non vuoi aiutarmi, allora trasformami pure! Qualsiasi cosa sarà comunque meglio che continuare a sorbire questa buffonata!»

Il dio osservò il ragazzo con attenzione, ogni traccia di calma completamente svanita da dentro di lui. Lo scrutò dritto negli occhi, per poi alzarsi in piedi schiacciando la lattina, lo stupore che si trasformava in rabbia. «Piccolo ingrato, ma con chi pensi di avere a che fare?! Io potrei disintegrarti con uno sguar…»

Edward gli puntò contro la spada. Dioniso indietreggiò di scatto, rovesciando il contenuto della lattina. 

«Lo ripeto… per l’ultima volta…» disse il ragazzo, stringendo l’impugnatura della spada fino a sentire male alla mano. «… voglio delle risposte! Cosa sono quei mostri? Perché Zeus voleva uccidermi?!»

Dioniso lo scrutò ancora per diversi istanti, questa volta con espressione incerta. Si scambiò uno sguardo con Chirone, che annuì. A questo punto, il dio sbuffò. «Va bene allora. Non c’è mica bisogno di fare una scenata.» Aveva di nuovo usato un tono apatico, ma Edward giurò di aver captato alcune vene di tensione nella sua voce. Il dio del vino tornò a sedersi sul divano e utilizzò la magia per aggiustare la lattina che aveva distrutto e probabilmente riempirla di nuovo.

«I mostri che ti inseguono sono degli yōkai» cominciò il centauro.

Edward schiuse le labbra, la conoscenza della lingua giapponese che arrivava in suo aiuto. «Cioè… degli spettri?»

«Demoni, per l’esattezza» chiarì Chirone. «Demoni malvagi. Oni, se vogliamo utilizzare il termine specifico, appartenenti alla mitologia giapponese. Non sono un esperto di questo settore, ma le leggende più comuni su di loro le conosco. Siccome la tua spada emana così tanto potere, molte creature, anche quelle che non siamo abituati a conoscere, ne sono attratte. Sia quelle più malvage, come gli oni, sia quelle più mansuete, come i kodama, gli spiriti della foresta che tu e Thomas avete visto. Quello con cui hai combattuto nell’arena, visto l’aspetto più umanoide, deve essere un han’yō, cioè un "mezzo-yōkai." In pratica…»

«Un genitore umano e l’altro demone» concluse Edward, sbigottito. Un mezzosangue, come lui e il resto dei semidei. Si domandò come potesse un demone riuscire ad avere un figlio con un mortale, ma forse anche a questa domanda sarebbe stato meglio non trovare una risposta.

«Sì.» Chirone annuì. «Mentre il mondo oscuro che hai visto nei tuoi sogni… credo che sia lo Yomi, il Mondo dell’Oscurità.»

«La versione che i giapponesi utilizzano per gli Inferi» aggiunse Dioniso. «Un mondo parallelo al nostro, dove vanno tutti gli spiriti una volta che i loro corpi mortali sono deceduti, indipendentemente da come si siano comportati durante la loro vita. Piuttosto triste, non c’è che dire. Ah, valli a capire i nostri colleghi oltreoceano.»

«E… e io come ci sono finito lì?»

«Il tuo spirito è stato richiamato dall’uomo che hai visto nel tuo sogno. Se qualcuno è abbastanza potente, può farlo.»

«Ma chi è?»

«Alcuni misteri devono restare tali» rispose Dioniso. «Non possiamo rispondere a questa domanda. Se ci tieni a saperlo, dovrai scoprirlo da solo. Spera solo di non incontrarlo.»

Quella risposta non accontentò per niente Edward, tuttavia Chirone si affrettò ad aggiungere: «Possiamo dirti però che la tua spada non è una spada normalissima, ma credo che tu l’abbia capito. È un’arma divina giapponese, antica quanto gli dei stessi, che nel corso dei millenni ha avuto molti proprietari. È in grado di conferire enormi poteri a chi la possiede. Si chiama Ama no Murakumo.»

«Spada del Paradiso…» tradusse Edward senza nemmeno rendersene conto.

Chirone annuì, per poi continuare. «I mortali ritengono che la sua esistenza sia una leggenda perché nessuno l’ha mai vista davvero, ma questo accade perché la spada non è un’arma come le altre. Appare e scompare solamente nelle mani del suo proprietario, ma credo che tu l’abbia capito da solo. Negli ultimi secoli, però, la spada non ha avuto nessun proprietario, ed era stata perfino data per scomparsa. Questo fino a quando, quattro anni fa, il suo potere non è di nuovo stato percepito, anche se per poco.»

Edward schiuse le labbra. Quattro anni prima. Quando lui l’aveva utilizzata per la prima volta.

«Dopo, c’è stato un altro periodo di buio, che è durato fino a quando tu, un semidio greco, non l’hai utilizzata all’interno dei confini del Campo Mezzosangue. Prima di oggi, nessun greco aveva mai posseduto la spada. Per questo motivo la tua… esistenza è così scomoda per gli dei.»

«Per questo…» mormorò Edward, la verità che finalmente si faceva nitida di fronte ai suoi occhi. «… mia madre ha cercato di tenermi nascosto. Non voleva che… che gli dei si accorgessero di me. Temeva che mi avrebbero punito. Proprio come stava per succedere» concluse, lanciando un’altra occhiata a Dioniso, che grugnì in assenso. 

«E anche Apollo non mi ha riconosciuto per questo motivo» concluse Edward.

«Sì» convenne Chirone. «Deve essere andata così. Ma ormai sei qui, e purtroppo è successo quello che è successo. Ma io ho fiducia in te. So che riporterai la spada al suo luogo di appartenenza e sistemerai tutto.»

«In caso contrario, ci saranno conseguenze» si intromise nuovamente Dioniso, sempre con un tono che rendeva impossibile capire quanto la cosa gli importasse davvero.  

«Conseguenze?»

«Gli dei dell’Olimpo non sono gli unici arrabbiati per questa faccenda. Se non riporterai indietro la Spada del Paradiso entro il tempo stabilito, accadranno cose spiacevoli. Tutto questo, ovviamente, se prima tu non ti farai ammazzare e la spada non finirà nelle mani dell’uomo che hai visto nei tuoi sogni. In quel caso, moriremo tutti quanti» terminò allegramente Dioniso, sorseggiando di nuovo dalla lattina.

«V-Va bene allora.» Edward si massaggiò una tempia. Gli era venuto un leggero mal di testa, a causa di tutte quelle informazioni. E il fatto che Dioniso avesse usato i termini "moriremo tutti quanti", implicando che anche lui sarebbe morto, lo preoccupò non poco. «E… quanto tempo ho per… per restituire la spada?»

«Una settimana.»

«Che cosa?!»

«E ricorda anche che non ci saranno solo gli oni a cercarti. Tutti i mostri nell’arco di centinaia di chilometri percepiranno la tua presenza tutte le volte che userai la spada. Sicuramente si stanno già radunando fuori dal confine del campo.»

«E che cosa aspettavate a dirmelo?! Come faccio in una settimana a…»

«Giovanotto, sono appena tornato dall’Olimpo e ho avuto giusto il tempo di illustrare la situazione a Chirone. Se tu non fossi arrivato correndo come un disperato, avrei sicuramente mandato lui a cercarti per dirtelo. Ma ora sei qui, e sai tutto quello che c’è da sapere, quindi gradirei che tu la smettessi per un istante di comportarti da moccioso ingrato e ti concentrassi su quello che è importante. Sei un semidio, dimostralo. Nessuno degli Eroi dell’Olimpo si è lamentato come stai facendo tu adesso, e loro hanno avuto incarichi ben peggiori del tuo. Hai un dovere da compiere, perciò basta con le lamentele e datti da fare.»

Edward serrò la mascella. Non si stava comportando da moccioso! E non gli importava un bel niente degli Eroi dell’Olimpo. Lui non era uno di loro e non gli importava assolutamente nulla di diventarlo. L’unica cosa che voleva, era riavere le persone a lui care indietro, qualcosa che “adempiere al suo destino” non gli avrebbe mai dato. Perché doveva partire? Perché doveva combattere quella guerra che nemmeno era sua? Perché avrebbe dovuto importargli qualcosa degli dei? Perché non potevano fulminarlo e basta? Sarebbe stato rapido, indolore, non si sarebbe nemmeno accorto di nulla e ogni sua preoccupazione sarebbe finalmente finita. Era chiedere troppo?

Poi, ripensò a suo padre. La perdita di Rosa era stata tanto di Edward quanto di Apollo, ne era certo. Era pur sempre sua figlia. Forse… forse anche Apollo ne stava soffrendo. Pensò ad Artemide, alla quale Rosa aveva rivolto alcune preghiere. Magari anche lei era dispiaciuta.

Demetra ed Ermes, i genitori dei pochi amici che aveva avuto al campo. E anche ad Ares e Afrodite. Se loro avevano deciso di lasciarlo vivere, forse era perché davvero credevano in lui. Avevano riposto la loro fiducia in lui. E non c’erano solo loro. I loro figli, Tommy, Derek, Rick, Natalie, Stephanie, Paul, anche Konnor, Jonathan, Jericho e gli altri, diamine, perfino l’Asino Buck, tutti quanti dipendevano da lui.

E la stessa Rosa… che cosa avrebbe pensato lei se lui si fosse tirato indietro? Poteva già immaginare la sua reazione.

«Ti ho allenato per questo, hermano. Non fare la femminuccia.»

Il figlio di Apollo strinse i pugni. «Va bene» asserì, drizzando la testa. «Che cosa devo fare allora?»

«Partirai per un’impresa eroica» annunciò Chirone, sorridendo soddisfatto. «Il tuo obiettivo è riportare indietro Ama no Murakumo, ma non puoi andare in Giappone, sarebbe troppo pericoloso. Esiste un compromesso, tuttavia. Dovrai raggiungere il luogo dove la cultura orientale è la più potente nel nostro paese: l’Asian Art Museum di San Francisco. Laggiù la Foschia è molto intensa, pullulerà di mostri e non sarà semplice muoversi, ma non temere: manderò un messaggio Iride al Campo Giove e dirò ai pretori di inviare alcuni centurioni a presidiare l’area, in modo da facilitare il tuo lavoro. Ho molta fiducia in te, Edward. So che tu, e chiunque deciderà di accompagnarti, ce la farete.»

«Funzionerà davvero?» domandò Edward. «Mi basta solo raggiungere il museo? E dopo che devo fare?»

«Non siamo certi che funzionerà» ammise Chirone. «Ma non abbiamo molte alternative. Quando raggiungerai il museo, il resto verrà da sé. Il potere di Ama no Murakumo in tutti questi anni ha influenzato sia il tuo corpo che il tuo spirito. È per questo che conosci il giapponese. Per questo motivo quando arriverai in quel luogo, saprai da solo cosa fare. Questa sera farò in modo di recuperare dei biglietti aerei per San Francisco. Te li consegnerò domani mattina.»

Dopo quella risposta, Edward ancora non sapeva bene cosa pensare, ma se non altro ora sapeva dove doveva andare, il che era un inizio. Inoltre finalmente aveva scoperto perché sapeva il giapponese, e perché la cultura orientale lo attirasse. Chirone aveva ragione, se c’era qualcuno che avrebbe saputo cosa fare una volta arrivato a San Francisco, quello era proprio lui. Inoltre, se avesse preso l’aereo, ci avrebbe messo mezza giornata per arrivare a destinazione. Improvvisamente l’ultimatum di una sola settimana non lo spaventava più molto.

«E… per Rosa, invece?» domandò infine. Il buonumore svanì dal volto di Chirone. Parve invecchiare di cento anni dopo quella domanda. Scosse lentamente la testa. «Temo… temo che i mostri l’abbiano trascinata nello Yomi. Non c’è più niente che si possa fare ormai. Mi dispiace.»

Lo stomaco di Edward si comportò come se avesse appena ricevuto un pugno. Anzi, quello avrebbe fatto meno male. Le labbra gli tremolarono flebilmente. L’aveva persa. L’aveva persa per sempre.

«È colpa mia…» sussurrò. «È tutta colpa mia.»

«Edward, non…»

«Quei mostri volevano me…» proseguì il figlio di Apollo. «… ma se la sono presa con lei. L’ho messa io in quella situazione. Nel sogno me l’avevano detto che qui non era sicuro, ma sono comunque rimasto… e Rosa ne ha pagato le conseguenze. È… stata solo colpa mia.»

«No, invece. Non è stata colpa tua.» Chirone sospirò pesantemente. «La vita che conduciamo purtroppo è questa, Edward. Il male non fa distinzioni, si prende tutto quello che può. È successo oggi con Rosa, è successo in passato e purtroppo potrebbe succedere ancora. Mi dispiace Edward. Sono certo che volevi bene a tua sorella, ma l’unica cosa che possiamo fare è onorare la sua memoria. Tu invece dovrai portare a termine la tua missione, come sono certo lei avrebbe voluto.»

Chirone aveva ragione. Lei avrebbe voluto che non si arrendesse. Tuttavia… non era comunque giusto. Non sarebbe mai riuscito ad accettare cosa le fosse successo. «E… e Jonathan e gli altri? Devono sapere. Non possiamo…»

«Non preoccuparti. Terremo un Consiglio. Spiegheremo a tutti i capocasa della tua impresa e ci organizzeremo per ricordare Rosa a dovere. Era una brava ragazza. Non meritava questa fine. Non la dimenticheremo. Te lo prometto, Edward.»

Edward annuì, ricacciando indietro le lacrime. «Grazie Chirone.»

Il centauro sorrise, anche se con un velo di tristezza negli occhi. Di semidei doveva averne visti andare e venire così tanti che probabilmente era impossibile contarli e ben che meno ricordarli tutti. Eppure, ogni volta doveva straziare il cuore di Chirone come se fosse la prima.

«Mi sembra tutta una gran perdita di tempo, ma non ha importanza…» borbottò Dioniso, alzandosi in piedi, per poi rivolgere un’ultima occhiata ad Edward. «Preparati per la partenza. Se domani mattina sarai ancora qui, ti caccerò personalmente.»

E detto quello, lasciò la stanza. Edward lo seguì con lo sguardo, impassibile, finché non scomparve. Poi scosse lentamente la testa. Che gran direttore che avevano.

«Coraggio, Edward» disse Chirone. «C’è ancora una cosa che devi fare.»

 

***

 

Chirone recuperò uno strano aggeggio di vetro a forma di parallelepipedo e una manciata di monetine. Si posizionò di fronte al fuoco del camino e la luce delle fiamme rimbalzò contro il vetro dell’oggetto, andando a creare un piccolo arcobaleno.

«Devo ammettere che è la prima volta che ci provo» ammise il centauro. «Ma purtroppo il nostro Oracolo non è presente al campo, oggi. Dovremo arrangiarci con quello che abbiamo.» Afferrò una dracma e la lanciò in mezzo all’arcobaleno. «Oh Iride, Dea dell’Arcobaleno, accetta la mia offerta.»

Anziché cadere a terra, la moneta svanì nella luce. L’offerta era stata accettata.

«Rachel Dare» asserì l’uomo.

La luce prese una forma ovoidale, creando una specie di finestra di fronte a loro. Dopo diversi istanti, una persona apparve in mezzo a essa. Una donna con i capelli ricci, rossi e ribelli. Stava agitando con molta voga un grosso pennello sopra una tela.

Chirone si schiarì la gola. «Ehm-ehm

La donna sobbalzò, per poi voltarsi. Sgranò gli occhi verdi quando si accorse di loro. Era bella, con il volto spruzzato di lentiggini, anche se coperto da macchie di inchiostro. «Chirone!» esclamò, sorridendo. «Come stai?»

«Mi piacerebbe dirti che va tutto bene ma… non è così. Sarò lieto di spiegarti tutto a suo tempo, ovviamente, quando ci raggiungerai anche tu qui al campo. Nel frattempo, ti presento Edward.»

Rachel parve accorgersi di lui solo in quel momento. «Oh, ciao! Sei nuovo?»

Edward riuscì ad annuire debolmente, incapace di parlare per via di quanto surreale fosse tutta quella situazione. Sapeva cosa fosse un Messaggio Iride, però non ne aveva mai visto uno in azione. Era incredibile.

«Gli servirebbe una profezia. Sta per partire per un’impresa eroica.»

«Una profezia? In un messaggio Iride?» domandò la donna, strofinandosi la manica del grembiule sopra una macchia sulla fronte. «Non l’ho mai fatto prima.»

«Lo so, ma questa è una situazione un po’… particolare. Non abbiamo tempo per aspettare il tuo arrivo al campo. Edward deve partire domani mattina.»

«Mh. Deve essere davvero urgente allora. Non ricordo nemmeno l’ultima volta che mi avete chiesto una profezia. E va bene allora, posso provarci. Per fortuna qui non c’è nessuno…» commentò, guardandosi brevemente attorno. Poi si schiarì la voce. «Edward, avvicinati per favore.»

Edward obbedì, anche se con un moto di incertezza. Chirone si fece da parte, lasciando che si ritrovasse faccia a faccia con la donna, gli occhi verdi che lo scrutavano in quelli marroni. Gli ricordarono quelli di Rosa e, ancora una volta, una morsa gli stritolò il petto. Era scomparsa da forse un’ora, ma gli sembrava trascorsa già un’eternità.

«Lo Spirito di Delfi è un po’… inquietante, ti avverto. Non spaventarti» lo avvertì Rachel. 

Poco dopo, la donna accasciò la testa, serrando le palpebre. Il figlio di Apollo dischiuse le labbra. Per un attimo pensò che fosse svenuta, quando quella trasalì di scatto, folgorandolo con uno sguardo vitreo. Non sembrava più in lei. E quanto parlò, lo fece con una voce roca, inquietante e cavernosa, che sembrò riecheggiare nella stanza.

 

«Il serpente di Yamata, dalla sua prigionia si è liberato

Del dio delle tempeste, la collera ha subito

Ladro, l'insegna rubata restituirai

Nel luogo in cui la tua storia ha avuto inizio tornerai

E il sangue della vergine, sarà il prezzo da pagare.»

 

Edward era indietreggiato senza nemmeno rendersene conto. Nonostante fosse solo un messaggio Iride, riuscì comunque a percepire l’aura di potere emanato dallo Spirito di Delfi. Rachel, la mortale, era solo una donna qualsiasi, ma ciò che il suo corpo ospitava… era antico e potente tanto quanto Ama no Murakumo.

Rachel accasciò di nuovo la testa, per poi massaggiarsi le tempie, mugugnando. «Scusate ma ora… ora devo riposare un attimo. Non crollerò più come quando ero una ragazzina, ma comunque la fatica continua a farsi sentire. Chirone…» Si voltò verso il centauro, di cui Edward aveva scordato la presenza, troppo preso da ciò che era appena accaduto. «… ci vediamo presto.»

Il centauro annuì. La donna si voltò di nuovo verso Edward, riuscendo a sorridergli. «E tu… io non mi accorgo di cosa dico durante le profezie, ma qualsiasi cosa fosse, non temere: allo Spirito piace far sembrare tutto quanto molto peggio di quanto in realtà sia. Sono certa che la tua impresa andrà bene. Buona fortuna!»

La donna salutò con un ampio cenno della mano. Chirone la imitò, mentre la finestra di luce si affievoliva lentamente. Quando Rachel scomparve dalla visuale, Edward per poco non cadde a terra.

Un verso in particolare di quella profezia era rimasto conficcato nel suo cervello come una scheggia di vetro. Si voltò verso Chirone, che lo stava osservando in silenzio con una espressione quasi compassionevole. Doveva aver capito cosa gli passasse per la mente, tuttavia mantenne i nervi saldi. «Andiamo, Edward. Raduniamo i semidei.»

«C-Chirone…» cominciò Edward, titubante. «Tu… tu hai sentito, vero?»

Il centauro sospirò, annuendo debolmente. «Edward, devi promettermi una cosa.»

«Che… che cosa?»

Chirone lo scrutò intensamente negli occhi. «Devi promettermi che qualunque cosa succeda, tu non ascolterai le parole dell’uomo dei tuoi sogni.»

«Ma…»

«Devi farlo, Edward. Qualunque cosa succeda, tu non cederai ai suoi ricatti. Giuralo sullo Stige.»

«Di che cosa stai parlando? Quali…»

«Giuralo!»

Edward sussultò. Non aveva mai visto il centauro così serio. «Va bene. Non… non cederò ai ricatti. Lo giuro sullo Stige.»

Chirone si voltò di scatto, verso la finestra, come se si aspettasse che succedesse qualcosa. Tuttavia non accadde nulla, e per un attimo il crepitio del fuoco fu l’unico suono che poterono udire nella stanza. Per quanto possibile, il centauro parve sembrare ancora più teso. Sussurrò qualcosa, probabilmente in greco antico, e si rivolse di nuovo al ragazzo. «Forza, andiamo.» 

Incerto, Edward lo seguì mentre spingeva la sedia fuori dalla stanza, il verso riguardante il sangue della vergine che continuava a rimbombare nella sua mente.

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Capitolo 11
*** Il Consiglio ***


 

11

Il Consiglio

 

 

Era successo qualcosa quella sera. Qualcosa di grosso, che riguardava Edward, e Tommy lo aveva capito fin da subito.

Era passato un po’ di tempo dall’ultima volta che si erano parlati. Da quando aveva lasciato la Undici a stento era riuscito anche solo a vederlo. Ultimamente, lo aveva sempre visto in compagnia di Rosa e la cosa, da un lato, lo aveva fatto felice. Felice che Edward fosse riuscito a trovare la sua strada nella casa Sette e felice anche che, forse, ora aveva una possibilità di avvicinarsi a Rosa senza sembrare un povero perdente, grazie alla loro piccola conoscenza in comune.

D’altra parte, però, Edward sembrava essersi scordato di lui e della casa Undici, ma forse era per via di quella piccola visita finita in malora che aveva fatto. Magari aveva preferito non correre più rischi di quel tipo.

Se non altro, grazie a Edward, era riuscito a integrarsi meglio con il resto dei propri fratelli, ma in tutti loro aleggiava un sottile strato di malinconia. L’unica che non sembrava dispiaciuta dell’assenza del figlio di Apollo era, sorpresa sorpresa, Natalie. Anzi, la ragazza sembrava incredibilmente di buon umore, molto più di quanto Tommy l’avesse mai vista.

Doveva proprio detestare Edward con tutto il cuore. Se non l’avesse conosciuta così bene, avrebbe pensato che la sua fosse solo una messa in scena e che in realtà anche lei fosse dispiaciuta.

Già, che idiozia.

E poi, arrivò quella sera, quando Tommy vide Edward correre via dalla mensa. Con la scusa di andare a riempirsi il piatto, si era staccato dai suoi fratelli e l’aveva seguito. Aveva poi visto Buck e i figli di Ares entrare nell’arena, da cui, pochissimi istanti dopo, Edward era uscito di corsa. Aveva cercato di seguirlo, ma lui l’aveva seminato. L’ultima cosa che aveva visto del figlio di Apollo era stata la sua figura sparire nella Casa Grande, sotto lo sguardo severo del signor D, che a quanto pareva aveva fatto il suo glorioso ritorno al campo.

Thomas si era avvicinato incerto alla porta della casa, non sapendo che fare. Non aveva il coraggio di bussare, ben che meno intrufolarsi di nascosto od origliare, ma allo stesso tempo non voleva andarsene. Avrebbe aspettato che Edward uscisse e gli avrebbe chiesto di persona che cosa stesse succedendo.

Qualcuno lo chiamò all’improvviso. «Thomas?»

Il ragazzo si voltò con un sussulto. Stephanie stava camminando verso di lui, con passo incerto. «Ho sentito Edward gridare. Che sta succedendo?»

«Non… non lo so» rispose Tommy, esitando per via della sorpresa. Era dalla notte della sfida che lui e Steph non si parlavano. «L’ho incrociato poco fa, era… sconvolto.»

Stephanie si mordicchiò un labbro. «Spero che vada tutto bene.»

Thomas annuì, rasserenato dal fatto che la figlia di Demetra gli avesse di nuovo rivolto la parola. Per un po’ di tempo aveva temuto che lei avesse capito che l’avevano pedinata e che quindi si fosse arrabbiata con lui. Forse non se n’era accorta.

Altri semidei si radunarono attorno alla casa. Accorgendosi di loro, si guardò attorno confuso. «Che ci fa qui tutta questa gente?»

«Difficile non sentire quel tizio sbraitare come un matto il nome di Chirone» borbottò una terza voce. Konnor si avvicinò a loro due, rivolgendo un cenno ad entrambi. «Tutto il campo l’ha sentito. Buck lo ha anche incrociato all’arena, mentre andava ad allenarsi. Ha detto che era sporco di sangue e che stava piangendo.»

Tommy e Steph si scambiarono uno sguardo preoccupato. «Loro sanno che è successo?» domandò il figlio di Ermes.

Konnor osservò la porta della Casa Grande. «No. Non gliel’ha detto. Non ci resta che aspettare che escano da lì e scoprirlo.»

«Scusate, ma…» cominciò Stephanie, incerta. «… ultimamente non era sempre assieme a Rosa?»

«Sì…» mormorò Thomas.

«E… lei dov’è adesso?»

Il figlio di Ermes sgranò gli occhi inorridito. Konnor aveva appena detto che Buck aveva trovato Edward all’arena, apparentemente da solo, sporco di sangue e che piangeva. «Non… non dirai mica che…»

«Non saltiamo a conclusioni affrettate» disse Konnor, calmo. «Aspettiamo. Chirone ci dirà tutto.»

Thomas avrebbe tanto voluto avere nervi saldi come i suoi. Non credeva che Edward avesse fatto qualcosa di male a Rosa, era impossibile. Tuttavia, qualunque cosa fosse successa, doveva riguardare proprio la ragazza. E se le fosse successo qualcosa, Tommy non sarebbe riuscito ad accettarlo. 

Era così teso e sconvolto che non si rese nemmeno conto del fatto che lui, un figlio di Ermes, stava avendo una conversazione civile con un figlio di Ares, una cosa inaudita di quei tempi. Tra tutti i gruppi di semidei radunati attorno alla casa, il loro trio era l’unico formato da semidei misti, altra cosa che sicuramente avrebbe fatto sollevare un ben po’ di sopracciglia.

Sentiva i nervi a fior di pelle, più i secondi passavano, più gli sembrava difficile anche solo respirare. Accanto a lui, Stephanie si torturava le mani, anche lei chiaramente preoccupata, forse per Edward, forse per tutta quella situazione. Solo Konnor sembrava riuscire a mantenere la calma e ancora una volta Tommy avrebbe voluto essere più come lui.

Attorno a loro, altri semidei attendevano in silenzio. Le figlie di Afrodite, Buck e i suoi fratelli che nel frattempo avevano fatto ritorno, i figli di Atena, Efesto, anche Derek e Natalie erano sopraggiunti, tuttavia non c’era traccia degli altri suoi fratelli e forse era meglio così.

Infine, la porta della Casa Grande si spalancò. Chirone uscì spingendo la sedia a rotelle e osservò la folla di semidei curiosi radunata lì fuori con espressione severa. Thomas pensò che avrebbe ordinato a tutti di sloggiare, invece annunciò: «Semidei. Tra cinque minuti si terrà il Consiglio. Ho bisogno che tutti i capocasa mi raggiungano dentro. Tutti gli altri sono pregati di tornare alle loro case.»

Thomas era stupito. Quand’era stata l’ultima volta che si era tenuto il Consiglio? Neanche se lo ricordava. Probabilmente non era nemmeno ancora arrivato al Campo Mezzosangue. Qualunque cosa fosse successa, era davvero grossa. Peccato solo che il Consiglio riguardava i capocasa. Abbattuto, il ragazzo sospirò pesantemente. 

Stephanie gli posò una mano sulla spalla, intuendo il suo stato d’animo. Così, fecero per allontanarsi, ma Chirone parlò ancora: «Anche voi tre.»

Il trio trasalì. Chirone stava parlando proprio con loro. «Venite anche voi» disse solo, per poi fare retro-front e sparire di nuovo dentro la Casa Grande.

Tommy, Konnor e Stephanie si scambiarono alcuni sguardi incerti, poi si avviarono al seguito degli altri capocasa, sotto le occhiate perplesse di alcuni e quelle adirate e disgustate di altri. Teso all’idea di partecipare a un Consiglio per la prima volta, Tommy venne rassicurato al pensiero di stare per scoprire la verità.

 

***

 

Sapeva come funzionava il Consiglio. I capocasa di tutte le cabine si radunavano nel centro ricreativo della Casa Grande, attorno ad un tavolo da ping-pong. Visto l’ingente numero di capocasa, tuttavia, il tavolo da gioco era stato sostituito da uno più grosso, rotondo, con una ventina di sedie attorno.

Faceva uno strano effetto vedere tutti i capocasa riuniti in un unico luogo. Paul Birch, della casa di Demetra, stava tenendo la mano di Sunrise Dusk – o Sunry – la capocasa di Iride nonché sua fidanzata, una esile ragazza dai capelli rossi.

Il capocasa di Efesto, Kevin Bolt, un ragazzo con i capelli castani corti, un cappello a visiera e una guancia ustionata, tamburellava nervoso le dita sul tavolo mentre masticava rumorosamente una gomma. Era il semidio più anziano del campo, con ventun anni di età, e per questo motivo era l’unico che poteva uscire dal campo regolarmente. Era più iperattivo di tutti loro messi assieme e giravano voci che avesse anche il vizio del fumo. Continuava a lanciare strane occhiate verso Sarah Young, una biondina piuttosto carina con gli occhi celesti, capocasa di Ebe, che dal canto suo faceva di tutto per ignorarlo.

Il capocasa di Nemesi, Seth Mest, appoggiò i piedi sul tavolo, cosa che nessuno gli contestò. Non era un bene infastidire Seth, considerando il suo genitore divino – la dea della vendetta – la sua aria di scappato di casa – i capelli castani lunghi, la barba, i tatuaggi e i vestiti trasandati – e anche le storie sul fatto che fosse finito in un riformatorio. Perfino Buck gli girava alla larga. Accanto a lui, il capocasa di Atena, Simon Miller, un altro biondino con i capelli tirati all’insù e gli occhi color platino, fece una smorfia infastidita.

Xavier Bravo, il capocasa di Ecate, si dondolava sulla sedia senza tuttavia tenersi appoggiato al tavolo, grazie alla magia, mentre il suo ciuffo tinto di rosso tra i capelli neri ondeggiava nell’aria. Accanto a lui Alyssa Fortuny, la capocasa di Tyche, giocherellava con una monetina di argento, la stessa con cui obbligava tutti a giocare a Testa o Croce – gioco in cui, naturalmente, era imbattuta – scostandosi i lunghi capelli color ebano da di fronte al viso ovale e scuro.

Tonya Smith, una ragazzona afroamericana capocasa di Nike, rivale storica del Testa o Croce con Alyssa, diede uno scappellotto a George Roll, il capocasa di Ipno, che seduto accanto a lei si trovava in uno stato di dormiveglia. «I vincenti non dormono, mozzarella!»

«Ahia! Sono sveglio, sono sveglio!» ululò il piccoletto, massaggiandosi tra i capelli nerissimi.

Derek, seduto accanto a Tommy, ridacchiò, mentre Jane osservò il poveraccio disgustata, per poi tornare a rimirarsi di fronte al suo specchietto per il trucco. Buck, seduto accanto a lei e a Konnor, aveva la faccia che sembrava ancora più del solito reduce da una rissa con una smerigliatrice.

«Troppi capocasa maschi per i miei gusti» borbottò all’improvviso Alyssa, posando la monetina.

«Se la cosa non ti sta bene puoi sempre cedere il posto a uno dei tuoi fratelli, Raggio di Luna» la schermì Xavier, mandando una scossa elettrica dal dito e facendole saltare via la monetina dalle mani. 

«Ehi!»

Kevin batté con forza il pugno sul tavolo, adirandosi. «Ma si può sapere che cosa stiamo aspettando?! Stavo lavorando a un progetto, io! Finiamo questa pagliacciata alla svelta!»

«Datti una calmata» lo rimproverò Sarah. «Se credi di sembrare tosto ti sbagli di grosso.»

«A dire il vero, sei tu quello che lo pensa» sogghignò lui, mandandole un bacio, ottenendo un mugugno disgustato in risposta.

«La mozzarella ha ragione» sbottò Tonya. «Chi manca all’appello?»

«Jonathan» rispose Simon, senza nemmeno guardarla. «E tecnicamente dovrebbe esserci anche Talia, come rappresentante della casa di Artemide, ma non credo che sia reperibile al momento.»

«Talia…» sussurrò Derek, con sguardo sognante.

«Bah» grugnì Jane, chiudendo lo specchietto. «Meglio così. Io quella non la posso vedere.»

«Perché non glielo dici in faccia, allora?» sbottò Derek. «Oh, giusto, lo sai che ti farebbe a pezzi.»

«Chiudi la bocca, sfigato» rantolò Buck, alzandosi in piedi. Konnor scosse la testa impercettibilmente, mentre Seth sogghignava divertito.

Paul sollevò una mano «Calmati Buck.»

«Perché? Altrimenti che mi fai?»

Il figlio di Demetra assottigliò le labbra. Sunrise strinse la sua mano con più forza, osservando il capocasa di Ares con rabbia.

«Siediti, scimmione rasato» sbottò un’altra voce, con uno strano accento. Tutti si voltarono verso di Lisa Castella, la capocasa di Dioniso, una ragazza italiana con una cascata di capelli ricci, il naso a patata e il volto lentigginoso. Si appoggiò al tavolo coi gomiti, con fare disinteressato. «Ti stai ridicolizzando.»

Tommy la osservò stupito. C’erano volte in cui si dimenticava perfino dell’esistenza di quella ragazza. La ragione era presto detta: era l’unica ad abitare nella casa del dio del vino, motivo per cui ne era anche a capo. Tecnicamente, non era nemmeno una figlia di Dioniso vera e propria, ma una figlia di Bacco che si era trasferita dal Campo Giove. A Dioniso la cosa non era mai andata molto a genio, ma ovviamente non poteva cacciarla senza motivo, così era stato costretto ad accoglierla. Non sembrava correre buon sangue tra lei e il padre e non era difficile immaginarsi il perché. Non era molto popolare nel campo, per via della sua schiettezza e arroganza. E inoltre… era la figlia del direttore. Evitando lei, si evitavano i problemi.

Lo stesso doveva pensare Buck, perché strinse i pugni con forza e la guardò truce, ma non le rispose.

La porta del centro ricreativo si aprì di colpo, interrompendo quel momento di stallo. Gli occhi di tutti ora piombarono su Edward. Il figlio di Apollo sussultò, sepolto da tutti gli sguardi di quei semidei che, sicuramente, lo accusavano di aver portato via loro la serata libera.

«Ma guarda chi ha smesso di frignare» commentò Buck, riacquistando un odioso sorriso provocatorio. Edward si incupì. I pugni gli si strinsero di colpo, ma fortunatamente non disse o fece nulla che potesse far scoppiare un incendio in quella polveriera. Si avviò in silenzio verso uno dei tre posti rimasti vuoti, accanto ai figli di Ermes, e ignorò il ghigno del capocasa di Ares.

Tommy provò ad incrociare il suo sguardo, ma Edward sembrò volerlo ignorare a tutti i costi. Almeno stava bene, ma il suo strano comportamento non fece altro che accrescere il senso di angoscia dentro di lui. 

La porta si spalancò nuovamente, questa volta con violenza. Jonathan irruppe nella stanza, con una foga ed un’intensità che Tommy mai aveva visto in lui. Il capocasa di Apollo individuò subito il fratello appena sedutosi e gli piombò addosso con rabbia, facendo il giro del tavolo.

«Dov’è Rosa?!» tuonò. Non appena udì quella domanda, Thomas sentì lo stomaco impazzire.

Edward si alzò in piedi, aprendo bocca per parlare, ma Jonathan gli diede uno spintone. Il fratello barcollò, per poi osservare l’altro sconvolto. «Oh, quindi adesso ti importa di lei?» domandò con voce cavernosa.

Jonathan digrignò i denti. I due si guardarono in cagnesco per qualche istante, mentre alcuni semidei al tavolo sorridevano di fronte alla scena e altri, invece, distoglievano lo sguardo.

«Basta così, Jonathan» ordinò Chirone, entrando proprio in quel momento. «Adesso vi spiegheremo tutto. Siediti.»

Il capocasa di Apollo lanciò un’ultima occhiata truce al fratello, per poi prendere posto accanto a Simon.

Chirone fece il giro del tavolo, raggiungendo lo spazio vuoto rimasto tra Edward e Jonathan, piazzandosi in mezzo a loro. «Giù i piedi dal tavolo, Seth.»

Il figlio di Nemesi alzò le mani con un sorriso divertito e tornò a sedersi composto.

«Xavier, non ti dondolare. Buck, siediti. Tonya, lascia stare George. Grazie. Bene, iniziamo.» Chirone si schiarì la voce. «Ho deciso di indire il Consiglio perché ci sono cose importanti di cui dobbiamo discutere. Innanzitutto, alcuni mostri sono riusciti ad arginare i confini del campo e ad aggredire e portare via una semidea.» Il centauro fece una pausa, mentre alcuni versi di sorpresa di sollevavano. Tommy lo ascoltò con il fiato sospeso. Quando disse il nome, il suo cuore saltò di un battito.

«Rosa Mendez.»

Jonathan sgranò gli occhi. Osservò il centauro atterrito, mentre Derek posò una mano sul braccio di Tommy, intuendo il suo stato d’animo. Peccato solo che Thomas a malapena se ne accorse. Si prese il volto tra le mani tremanti, mentre tutta la stanza attorno a lui scompariva e non restavano altro che lui e i suoi pensieri più cupi.

Non conosceva Rosa, non le aveva mai rivolto la parola, probabilmente lei ignorava la sua esistenza, ma non gli importava. Potevano deriderlo quanto volevano, ma la verità era che Rosa era sempre stata nei suoi pensieri, e se tenere a lei nonostante non si conoscessero era un crimine, allora lui era il criminale peggiore di tutti.

Dopo quella terribile notizia, l’aria nella sala ricreativa sembrava essersi gelata all’improvviso. I sorrisi di prima svanirono, tutti rimpiazzati da stupore e angoscia. 

«Che… che significa che l’hanno portata via?» domandò Simon, il figlio di Atena che cercava di rimanere razionale. «Come hanno fatto a entrare?»

Chirone riepilogò tutto quello che era successo quel giorno, spiegando anche che, tutto quanto in realtà aveva origini molto più profonde.

Finalmente fu chiaro il motivo per cui Steph, Konnor e Thomas erano stati invitati a partecipare al Consiglio. Tutti e tre erano già a conoscenza della spada di Edward, che a quanto pareva possedeva un impronunciabile nome giapponese, fortunatamente traducibile con "Spada del Paradiso".

Era un’arma divina in grado di conferire enormi poteri e, in qualche modo, Edward ne era entrato in possesso. I mostri che avevano attaccato lui e Rosa erano delle creature appartenenti alla cultura giapponese – proprio come gli spiriti della foresta che aveva visto. Si chiamavano oni, ed erano sulle sue tracce per prendere la spada e consegnarla a un uomo piuttosto pericoloso che progettava di far cadere il mondo nell’oblio. Rosa si era trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato, ed era stata trascinata in una pozza di oscurità da uno dei mostri e portata in un luogo chiamato Yomi. I mostri erano riusciti ad accedere al campo proprio grazie a questa tecnica, aprendosi un varco tra le tenebre, un po’ come i figli di Ade con i loro salti nell’ombra.

Nel frattempo, se Edward non avesse restituito la spada in tempo, sarebbero successe cose molto brutte, sempre cercando di non farsi ammazzare prima dai mostri. Come se non bastasse, i mostri erano attratti dal potere di quell’arma, ragion per cui tutti gli scorpioni giganti avevano attaccato il figlio di Apollo la sera della sfida, anche se questa era una cosa che Tommy già sapeva.

Non fu semplice digerire così tante informazioni importanti tutte in una volta, soprattutto non mentre Thomas non faceva altro che pensare a quello che era successo a Rosa. 

«Perciò…» stava nel frattempo concludendo Chirone. «… domattina Edward partirà per San Francisco, e restituirà la spada in modo da scongiurare la guerra.»

«Una guerra?» domandò Edward, schiudendo le labbra. «Quale guerra?»

Chirone sgranò gli occhi. Anche il resto dei semidei osservò confuso il centauro, che, evidentemente, si era fatto sfuggire la cosa. L’anziano mentore abbassò lo sguardo, sospirando profondamente. «Non ha senso nasconderlo, ormai. Sì, se la spada non verrà restituita, scoppierà una guerra.»

Simon si sporse verso il centauro. «Ma… una guerra tra chi

«Tra gli dei.»

Tutti si voltarono di scatto. Dioniso era appena entrato nella stanza, una lattina di Diet Coke in mano. I semidei osservarono sorpresi il nuovo arrivato e tra tutti la più scioccata parve essere proprio sua figlia Lisa, che osservò il padre come se fosse stato un mostro pericoloso.

«Oh, non badate a me. Prego, continuate pure la vostra piccola riunione condominiale.» Non appena udirono il dio trattare tutti loro con sufficienza, lo stupore generato dal suo arrivo sfumò immediatamente.

«Ma… perché gli dei dovrebbero farsi la guerra tra di loro?» Simon fu quello a riscuotersi per primo. «Non… non ha alcun senso. Non è mica come quella volta che la Folgore era stata rubata!»

«Nessuno ha mai detto che la guerra sarà tra di noi» sbottò Dioniso, per poi bere un sorso. Con una calma innaturale ed irritante per chi, come loro, soffriva di iperattività, il dio del vino assaporò il contenuto della lattina, lasciando tutti loro in trepida attesa. Infine, con un verso soddisfatto, il dio parlò di nuovo: «Saranno gli dei giapponesi a dichiararci guerra.»

Il tempo sembrò fermarsi. Thomas sentì le orecchie ronzare. Il silenzio scese nella stanza, pesante come un camion, mentre tutti i semidei ponderavano sul significato di quanto appena detto dal direttore. Infine, tutti quanti riuscirono a ritrovare il dono della parola. Contemporaneamente.

Quindici semidei cominciarono a parlare all’unisono, ognuno di loro esprimendo il proprio parere in merito alla faccenda, da chi era arrabbiato, da chi sorpreso, da chi incredulo, da chi, invece, stava semplicemente dando a Edward la colpa di tutto quanto. Tommy osservò la scena atterrito e anche Edward teneva gli occhi incollati sul dio, con un’espressione atterrita.

Di fronte a tutto quel trambusto, Dioniso sollevò un sopracciglio, ma non disse nulla. Fu Chirone a cercare di riportare la calma, ma con scarsi risultati. «Vi prego, ragazzi! Calmatevi!»

Vi fu un tonfo sordo, un rumore secco ed assordante, che riuscì ad attirare l’attenzione di tutti quanti. Seth aveva appena sbattuto il pugno sul tavolo, adirato. «Chiudete il becco, grazie» sbottò il figlio di Nemesi, con la sua voce roca e cavernosa. Accorgendosi di essere riuscito a ripristinare l’ordine, annuì soddisfatto, per poi sedersi di nuovo composto e volgere un cenno della mano al direttore. «Prego Signor D, continui.»

«Grazie.» Dioniso prese un altro lungo sorso, poi proseguì: «Vedete marmocchi, Ama no Murakumo, o Spada del Paradiso, è una delle tre Insegne Imperiali del Giappone, appartenenti alla regina degli dei, giapponesi, sia chiaro, Amaterasu. La spada in particolare ha una grande importanza, perché le venne donata come pegno di pace dal fratello minore, Susanoo, per appianare un antico diverbio tra di loro. Da quel giorno la spada ebbe diversi proprietari. Sovrani, imperatori, nobili guerrieri, discendenti di Amaterasu stessa, e continuò a simboleggiare la ritrovata unione tra i due fratelli. Questo, ovviamente, fino a quando non è stato un greco a metterci le mani sopra.»

Dioniso spostò lo sguardo su Edward, che sussultò. «Amaterasu ritiene un affronto nei suoi confronti il fatto che un semidio greco possieda Ama No Murakumo, e per questo motivo condurrà il resto degli dei giapponesi in guerra contro di noi. E per quanto mi piaccia essere ottimista, credo proprio che ce le suoneranno di santa ragione. Noi dei occidentali siamo troppo abituati a fare affidamento su voi semidei per poter gestire una situazione del genere. Amaterasu, dal canto suo, non ha mai avuto bisogno dei mortali. Lei, suo fratello e il resto della loro combriccola sono molto più bellicosi di noialtri.»

Il dio concluse la spiegazione. Nonostante le sue stesse parole, non sembrava molto turbato dalla faccenda. Lo stesso non poteva dirsi per i semidei. La tensione poteva tagliarsi con un coltello e, se per Thomas era insopportabile, chissà come doveva essere per Edward, colui che, di fatto, era il responsabile di quella situazione, volente o nolente. Il figlio di Apollo era di nuovo seduto e teneva la testa incassata tra le spalle. Stephanie lo osservò angosciata, sembrò voler dire qualcosa, ma non lo fece.

«Quindi…» cominciò proprio Edward, rompendo il silenzio. «… in realtà si tratta ancora una volta di voi dei.» Lo disse con uno strano tono di voce. E anche la sua espressione non era tanto più semplice da interpretare.

Dioniso si voltò verso di lui, con una lentezza straziante. «E con questo che vorresti insinuare?» 

Edward strinse i pugni con forza. «Credevo di dover partire per impedire che altri semidei innocenti come Rosa rimanessero coinvolti. E invece è solo perché devo salvare voi dalla guerra. Ma del resto, di cosa mi sorprendo? Tu stesso mi hai detto che Rosa non aveva nessuna importanza. Nessuno di noi ne ha. Gli unici che contano, qui, siete voi. Ho ragione?»

Il dio del vino si scurì in volto. Tommy sentì il sangue gelare nelle vene osservando quei due. Mai aveva visto qualcuno rivolgersi al signor D in quel modo. Quello era un argomento molto pericoloso, soprattutto se trattato con un dio.

«Piccolo ingrato, devo forse ricordarti che una guerra tra dei avrebbe ripercussioni catastrofiche su tutto il mondo?»

«E questo vi autorizza a credervi migliori di noi?!»

«Certo che siamo migliori! Siamo dei!»

Edward si alzò in piedi con forza, per poco non rovesciando la sedia. «Questa è la cosa più stupida che abbia mai sentito!» urlò. «Se davvero siete migliori, allora perché è sempre toccato ai semidei risolvere i vostri casini? Chi è che ha ucciso Crono? Chi è che ha ucciso Gea? Voi? A me non risulta!»

«Devo ricordarti che questa situazione è tutta colpa tua?» sibilò Dioniso, stritolando la lattina e facendone fuoriuscire il contenuto macchiandosi il polso. «Pensi di farmi la predica quando in realtà sei tu il motivo per cui la guerra sta per scoppiare?!»

Qualcosa sembrò smuoversi dentro di Edward, perché il ragazzo storse le labbra. «Non ho mai detto di non avere colpe. Mi prenderò le mie responsabilità. Ma non lo farò per voi. Lo farò per Rosa. Per mia madre. Per loro» e indicò i semidei riuniti attorno al tavolo, anche se non ne conosceva la metà e odiava l’altra. «E soprattutto, visto che a quanto pare la mia sola esistenza basta a irritare un bel po’ di persone, lo farò per me stesso. Ho intenzione di continuare a irritare gli altri ancora per parecchio tempo. Partirò da solo, oppure con chi vorrà venire con me, non mi interessa. Ma risolverò la situazione, e su questo puoi scommetterci la tua bella pancia da birra.»

Dioniso serrò la mascella udendo quel commento. Edward lo osservò negli occhi, per nulla intimidito. I semidei ascoltarono con il fiato sospeso lo scambio di battute tra di loro. Tutto quel discorso non era sembrato vero a Tommy. Ma Edward, alla fine, era sempre stato così. Non aveva mai avuto paura di nessuno. Aveva fronteggiato Buck, aveva sferrato un colpo basso a Konnor, si era lanciato contro cinque scorpioni completamente da solo. Dioniso, per lui, altro non era che l’ennesimo prepotente a cui dare una lezione, anche se in questo caso il prepotente in questione era un dio immortale. E comunque… in parte aveva ragione. Gli dei non si erano sempre comportati nel migliore dei modi con i loro figli, ma nessuno aveva mai avuto il coraggio di dirlo così apertamente.

E lo stesso sembrarono pensare anche gli altri semidei, perché ora gli sguardi di tutti erano incollati su figlio di Apollo, lo stesso semidio che, malgrado i diverbi avuti in passato con alcuni di loro, aveva comunque esordito di voler partire per proteggere tutti quanti. Forse era quello il motivo per cui rispettava Edward. Aveva fegato da vendere. Diceva le cose come stavano, senza giri di parole, ed era onesto e leale. Tommy sapeva che non lo avrebbe mai tradito. E fu proprio per questo che si alzò in piedi di colpo.

«Io vengo con te» affermò, determinato. Non si stupì degli sguardi che ricevette. Anche lui un po’ era sorpreso delle sue stesse parole, però non gli importava. Edward era suo amico, non lo avrebbe lasciato da solo in quell’impresa. E comunque, proprio come lo stesso figlio di Apollo, lo avrebbe fatto per Rosa. I mostri l’avevano portata via. E per questo avrebbero pagato.

«Tommy…» cominciò Edward. «… non posso chiederti di fare una cosa del genere.»

«Infatti non me l’hai chiesto.» Thomas sorrise. «Sono io che mi offro volontario.»

Un lento sorriso prese forma anche sul volto del figlio di Apollo, che gli rivolse un cenno del capo, colmo di gratitudine. «Grazie amico.»

«Ne sei sicuro Tommy?» domandò invece Derek, osservandolo dal basso. «Natalie non sarà felice…»

«Pensaci tu a lei» replicò il fratello più piccolo, allargando il sorriso, battendo il pugno sulla sua spalla.

Derek annuì. Vide una luce nuova nel suo sguardo. Sembrava quasi… orgoglioso. Probabilmente pensava ancora a lui come il piccoletto codardo che si offendeva facilmente. Beh, allora si sarebbe ricreduto. Tutti quanti si sarebbero ricreduti. Avrebbe aiutato Edward, avrebbero scongiurato la guerra insieme, e avrebbero vendicato Rosa. Insieme avevano iniziato quella storia nel bosco, contro gli scorpioni, e insieme l’avrebbero finita.

«In tal caso…» commentò un’altra persona. Stephanie si alzò a sua volta, sorridendo ai due ragazzi. «… potete contare anche su di me.»

«Steph…» disse Edward, con uno strano tono. «… ne… ne sei davvero sicura?»

Stephanie annuì con decisione. «Ne sono sicura. Mi hai salvato la vita troppe volte, Edward. Adesso devo rendere il favore. Vengo con voi. Così siamo in tre, no? Il numero adatto per partire.»

Sembrava molto sicura di sé. Inoltre, la sua presenza sollevò Tommy. Certo, lui ed Edward sicuramente avrebbero potuto prendere un mucchio di sederi a calci, ma avevano bisogno di qualcuno di razionale come lei in squadra. Stephanie, ne era certo, avrebbe messo loro quel freno di cui avevano bisogno ed impedito loro di fare cose stupide.

«E… che mi dici dell’uomo serpente?»

Stephanie sgranò gli occhi. Il colore candido della pelle del suo viso assunse alcune sfumature verdognole, ma alla fine annuì lentamente. «Non… non sarà un problema. Davvero. Posso farcela.»

«Va bene allora…» mormorò Edward, anche se non sembrava ancora molto convinto. «Grazie, Steph.»

La ragazza sorrise di nuovo, rivolgendo un cenno del capo a Edward e anche a Paul, determinata.

Una risata fredda, tuttavia, spazzò via il buonumore. Buck scosse la testa. «Quindi è questa la squadra in cui riporremo le nostre speranze? Un ladruncolo e una giardiniera assieme a un cantastorie? Che cosa farete una volta a San Francisco? Regalerete ai mostri fiori? Proverete a rubargli le scarpe? Magari gli dedicherete una bella poesia?»

Il figlio di Ares rise più forte, riuscendo a contagiare alcuni dei semidei. Xavier, Tonya e Jane cominciarono a ridere assieme a lui, mentre altri semidei rimasti in disparte come Alyssa, Sarah e Simon osservarono perplessi il trio. Kevin piegò il capo di scatto con un ghigno, anche se il suo sembrò più un tic nervoso che altro.

Se poco prima era gelato, ora Tommy sentì il sangue ribollirgli nelle vene. Raramente si era sentito così arrabbiato con qualcuno. Non era giusto che Buck li sminuisse in quel modo; erano semidei tanto quanto lui, anche loro si erano addestrati, anche loro erano pronti a combattere. 

Edward digrignò i denti, affondandosi le unghie nei palmi. 

«Allora è un bene che vada anch’io, no?»

Tutti quanti ammutolirono quando anche Konnor si alzò in piedi. Perfino Edward rimase paralizzato. Il figlio di Ares rivolse un cenno del capo al trio. «Vengo con voi. Quella sera nel bosco c’ero anche io. La faccenda riguarda tutti e quattro. Se per te non è un problema» aggiunse, ora volgendo uno sguardo eloquente in direzione di Edward.

«Konnor, che stai facendo?!» sibilò Buck. «Vuoi davvero aiutare questi perdenti?!»

«Questi “perdenti” intendono rischiare la vita per proteggere la tua» replicò Konnor. «Deridili quanto vuoi, ma in questo momento stanno mostrando molto più coraggio di quanto mai ne avrai tu.»

La faccia di Buck divenne rossa come un pomodoro. Emise un verso che parve lo stesso dell'animale sacro del padre. Assistere a quella scena fu assurdo e bellissimo allo stesso tempo. Thomas non aveva mai visto Buck venire messo in riga in quel modo e sicuramente mai si sarebbe aspettato di vedere proprio un altro figlio di Ares fare una cosa del genere.

«Vuoi davvero voltarci le spalle?!» domandò Buck, saltando in piedi.

Konnor resse il suo sguardo senza alcuna paura. «Sei tu che le hai voltate a tutti noi. A nostro padre per primo.»

Le mani di Buck formicolarono. Sembrava quasi in procinto di colpire il suo stesso fratello proprio lì, di fronte a tutti, quando le parole di Chirone riportarono l’ordine: «Non potete partire in quattro.»

Come un sol individuo, i semidei si voltarono verso il centauro che, per la prima volta da quando Thomas lo conosceva, sembrò vergognarsi. «Quattro non è un numero sicuro per partire. Abbiamo avuto eccezioni in passato, è vero, ma all’epoca si trattava di semidei molto forti ed esperti. Questa è la prima impresa per tutti voi, invece. Non posso permettervi di partire in quattro» concluse, anche se pareva quasi sentirsi in colpa per quella decisione.

Konnor schiuse le labbra, mentre Buck sorrise soddisfatto, lanciando al fratello un’occhiata carica d’odio. «Io e te dobbiamo fare un discorsetto, più tardi» rantolò. Konnor strinse con forza i pugni, ma chinò la testa, senza dire più nulla.

A Tommy dispiacque vederlo così. Insomma, non erano migliori amici, però Konnor un po’ gli piaceva. Il solo fatto che lui, un figlio del grande Ares, avesse proposto di partire assieme a dei "perdenti" come loro parlava da sé. Stephanie aveva ragione, non era per niente come il resto dei suoi fratelli. E a proposito di Steph, sembrava davvero mortificata per Konnor. Edward invece era stoico, impossibile capire se fosse felice o meno di quel risvolto.

«E in cinque invece?»

Ancora una volta, venti teste di mossero all’unisono, questa volta tutte in direzione dell’ultima persona che Thomas si sarebbe aspettato di sentire. 

«Vengo anch’io» affermò Lisa, per l’incredulità di praticamente chiunque in quella stanza. «Allora, in cinque si può partire?»

Ora tutti si voltarono verso Chirone. «Beh…» cominciò il centauro. «… cinque è un numero meno pericoloso di quat…»

«Assolutamente no» sbottò Dioniso, facendosi avanti. «Tu non vai da nessuna parte.»

«E perché non dovrei?» ribatté Lisa, rivolgendosi al direttore con la stessa freddezza di Edward. «Non è quello che vuoi? Che io mi tolga dai piedi?»

Dioniso assottigliò le labbra. «Ascoltami bene, signorinella, tu non…»

«Non hai fatto altro che pensare a me come una seccatura da quando sono arrivata» continuò lei ignorandolo, stringendo i pugni. «Ce l’hai con me perché ho rovinato il tuo piano perfetto. Progettavi di non fare più figli come Dioniso, così da non avere altri mocciosi di cui occuparti qui al Campo Mezzosangue, e intanto volevi continuare a spassartela con le mortali nei panni di Bacco e poi abbandonarle quando avevano più bisogno di te. Perché è andata così anche con mia madre, vero paparino?»

Il Signor D strinse i pugni, infuriandosi nuovamente. «Ma come ti permetti?! Se credi anche tu di potermi rispondere in questo modo allora ti sbagli di grosso!»

«Non mi pare che tu mi abbia lasciato molta altra scelta» ribatté Lisa, con un soffio. La ragazza indicò la porta. «Lo vedo come mi trattano tutti qui, sai? Si prendono gioco di me, per come parlo, per come mi comporto, per il mio aspetto, ma soprattutto, nessuno mi prende sul serio per via del mio genitore divino. Proprio come hanno fatto adesso con loro» e indicò Thomas e Stephanie. 

Si puntò il pollice al petto. «Beh, io sono stanca di starmene impalata! Dimostrerò a tutti quanti, soprattutto a te, che io non sono solo una mocciosa, una seccatura, e soprattutto non sono solo una stupida ragazza con l’accento buffo che non può aspirare a niente solamente perché è la figlia del dio del vino! Mentre questi pagliacci rimarranno qui prendermi in giro senza fare nulla di concreto, io smuoverò le chiappe dalla sedia e andrò a darmi da fare per salvare quelle di tuttiIncluse le tue.»

Lisa estrasse un pugnale d’Oro Imperiale dalla cintura e lo conficcò con forza nel tavolo, per poi osservare il padre per nulla intimidita. «Io vado con loro. Non puoi impedirmelo. Gli dei non possono intromettersi negli affari dei semidei.»

Tommy non ricordava di aver trattenuto il respiro fino a quando per poco non soffocò. Nel giro di pochissimi minuti aveva assistito ad una scena più surreale dell’altra. Tutta la situazione era surreale, a dire il vero. Padre e figlia rimasero immobili, a osservarsi, mentre il silenzio scendeva nella stanza, proveniente da una folla che, nel profondo, sapeva di aver appena assistito a qualcosa a cui forse non avrebbe dovuto. Lisa doveva portarsi dentro quelle parole da chissà quanto tempo per aver scelto di tirarle fuori proprio lì, di fronte a tutti. Di sicuro, il suo discorso l’aveva fatta sembrare molto più determinata e sicura di sé.

Infine, il signor D distolse lo sguardo con grugnito. «Fai come vuoi, allora. Parti pure. Fatti ammazzare. Non m’importa niente.»

L’espressione seria di Lisa parve vacillare per un’istante. Poi, la ragazza abbassò il capo e strinse i pugni con ancora più forza, per poi mormorare in italiano: «Sai che novità

Dioniso non disse altro. Diede tutti le spalle e uscì dal centro ricreativo. Non sembrava felice. Discutere in maniera accesa con ben due semidei di fila non doveva essere la migliore delle sensazioni per un dio. Thomas pensò che per un bel po’ di tempo sarebbe stato meglio stare alla larga da lui, se non si voleva fare una brutta fine. Non appena il dio svanì, Lisa tornò a sedersi pesantemente, ogni traccia del coraggio e la determinazione di poco prima svaniti completamente. Accorgendosi degli sguardi di tutti puntati su di lei, si adirò. «Beh? Che cavolo avete da guardare?!»

Gli sguardi si spostarono all’unisono verso i punti più disparati della stanza, alla ricerca di qualsiasi cosa che potesse distrarre i semidei dall’imbarazzo. 

«Va bene allora.» Chirone riprese la parola, cercando di riportare la situazione in uno stato di calma. «Lisa verrà assieme a voi. Cinque è un numero adatto. Naturalmente sta a te decidere, Edward.»

La ragazza osservò Edward, che la soppesò per un momento. Infine annuì con un sorriso. «Certo. Potete venire anche voi» concluse, rivolgendosi anche a Konnor.

Soddisfatto, il figlio di Ares si sedette di nuovo, imitato da un ben più riluttante Buck.

«Stavo… stavo pensando…» cominciò Simon, esitando, probabilmente ancora turbato a causa di quanto appena successo. «… se… se i mostri che hanno…» Lanciò uno sguardo di solidarietà a Jonathan. «Se i mostri che hanno attaccato Rosa sono riusciti ad aggirare i confini del campo… forse dovremmo impedire che accada di nuovo. Bisogna migliorare la sicurezza del campo.»

«Servirebbero più turni di guardia» propose Alyssa.

«E un sistema di allarme perfezionato!» esclamò Kevin. «Io e i miei fratelli possiamo crearne uno in ventiquattr’ore!»

«E delle trappole lungo i confini» suggerì Derek, sogghignando. 

Seth annuì, uno strano sorriso anche sul suo volto. «Vi spiace se con le trappole vi aiutiamo anche io e i miei?»

«Ehm… certo, perché no.»

Il figlio di Nemesi allargò il suo ghigno, apparendo assolutamente poco rassicurante. Per fortuna era dalla loro parte e non contro di loro.

«Possiamo collegare le trappole al sistema di allarme!» esordì ancora Kevin, alzandosi in piedi, l’iperattività che faceva il suo corso. Thomas poteva quasi vedere gli ingranaggi del suo cervello in movimento, il ticchettio delle rondelle che giravano e il cigolio delle cinghie. «Ovviamente dovrò tarare i sensori in modo che non scattino se ad attivarle sia un animale o una driade, ma sarà un lavoro da niente.»

«A proposito di driadi» si intromise Paul, serio in volto. «Dovrò parlare con loro. Forse possiamo trovare un modo per comunicare con i kodama che sono venuti a vivere qui. Magari ci sarà utile averli come amici.»

«Mi sembra una buona idea» concordò Simon.

I semidei cominciarono a discutere su come rendere più sicuro il campo, ognuno di loro esponendo la propria idea. Thomas osservò la scena a bocca aperta. Tra tutte le sorprese di quella serata, quella fu sicuramente la migliore.

Tutti quei semidei riuniti in un unico luogo intenti a discutere in maniera civile, proponendo idee, scambiandosi opinioni, concordando perfino tra di loro. Stavano lavorando tutti come una squadra. E sembravano anche emozionati all’idea di mettersi al lavoro per proteggere il Campo Mezzosangue.

Kevin sembrava essere appena stato eletto come capo del progetto, perché stava parlando a proposito di inserire un sistema di sensori e rilevatori di movimento, e tutti quanti lo stavano ascoltando assorti. Per una volta pure Derek sembrava trovarsi sullo stesso piano di tutti i suoi colleghi capocasa, intervenendo senza che nessuno gli desse del perdente o simili. 

Thomas si scambiò uno sguardo con Edward, che era stupito tanto quanto lui. Stephanie guardò entusiasta Paul e Sunry, mentre Konnor e Lisa sorridevano a loro volta. Era tutto così… strano. Ma non per questo non bello. Il pensiero del campo in pericolo aveva spinto i ragazzi a mettere da parte le divergenze e, per una volta, si stavano comportando come quello che in teoria erano davvero, cioè un gruppo unito. Una famiglia. Perfino nello sguardo di Chirone c’era qualcosa di diverso. Era fiero di loro.

«C’è tanto lavoro da fare!» esclamò Sarah, trepidante, per poi avvampare quando Kevin si voltò verso di lei, ma anziché provocarla come poco prima, il figlio di Efesto annuì. «Sì, c’è tanto da fare, ma ce la faremo! Dico bene gente?»

«Per Rosa» affermò Thomas di getto. Si sentì un po’ in imbarazzo quando tutti si voltarono verso di lui, ma tenne i nervi saldi. Annuì determinato. «Facciamolo per Rosa.»

«Per Rosa» affermò Jonathan, alzandosi in piedi, per poi scambiare uno sguardo con Edward, che gli rivolse un cenno del capo. «Per Rosa.»

Stephanie si alzò in piedi. «Per Rosa!»

Derek, Paul, Alyssa, Sunry, Lisa, Xavier, Simon, Konnor, tutti quanti si alzarono ripetendo la medesima frase. Anche il capocasa di Ares e quella di Afrodite si alzarono, tuttavia rimanendo in silenzio.

«Vendichiamo Rosa» sogghignò Seth.

«Sì!» tuonò Tonya, sollevando entrambi i pugni al cielo. «Diamoci dentro!»

Sì, l’avrebbero fatto per Rosa. Era scomparsa, ma non sarebbe stata dimenticata. Il suo sorriso e i suoi occhi meravigliosi sarebbero rimasti per sempre impressi nella mente e nel cuore di Thomas. Sentì gli occhi inumidirsi, ma impose a sé stesso di non piangere. Per una volta, fu lui a essere più forte di Edward, perché il suo amico abbassò la testa e si asciugò una lacrima con il palmo della mano.

Vi fu un profondo ronzio e George accasciò la testa di colpo, affondandola tra le braccia. Si era addormentato. Malgrado tutto, i ragazzi scoppiarono a ridere. Tonya sembrò quasi volergli mollare un altro scappellotto, ma alla fine si trattenne.

«Bene, vedo che c’è molto entusiasmo!» esordì Chirone, la tensione di poco prima ormai sciolta. «Per questa sera, però, direi che avete già fatto tutti abbastanza. Tornate alle vostre case e riposatevi, domani sarà una lunga giornata. Voi cinque, invece…» disse, rivolgendosi naturalmente a Edward e i suoi accompagnatori. «… preparatevi per la partenza. Ci vediamo domani mattina alle sette davanti alla Casa Grande, siate puntuali mi raccomando. Vi consegnerò i biglietti per il viaggio. Anche se ci vorrà solo mezza giornata per arrivare a San Francisco, siate prudenti. I mostri avranno percepito l’energia della spada anche da fuori i confini del campo.»

«Oh, finalmente una buona notizia» commentò sarcastica Lisa, sradicando il pugnale dal tavolo, per poi rotearlo con maestria.

«Saremo pronti» annuì Edward, anche se comunque, Tommy se ne accorse, lanciò un rapido sguardo verso entrambe le ragazze del gruppo.

«Buonanotte ragazzi. Riposate, ne avrete bisogno.»

Il gruppo salutò il centauro. Mentre i semidei lasciavano la casa, Thomas si accorse del battito accelerato del proprio cuore. La sua mente era pronta per partire per quell’impresa, il suo corpo invece… non molto. Sperò che le cose migliorassero se ci avesse dormito su. Anche se per prima cosa avrebbe dovuto spiegare a Nat che stava per partire per aiutare il ragazzo che lei tanto detestava. Non sarebbe stato semplice.

«Grazie per avermi accettato nell’impresa» mormorò Lisa a Edward, una volta che furono tutti fuori e i vari capicasa cominciavano a dividersi per tornare alle loro abitazioni.

«Grazie a te per esserti proposta. Dubito che molti altri avrebbero fatto lo stesso.»

«Sì, beh… non offenderti, ma l’ho fatto solo perché sono stanca di essere considerata una nullità per colpa di mio padre. E soprattutto, ora che è tornato, non avevo alcuna intenzione di dividere il tavolo con lui in mensa.»

Edward ridacchiò. «Penso che andremo d’accordo.»

Lisa gli sorrise. Salutò con la mano il quartetto. «Allora a domani mattina.»

Diede loro le spalle e si allontanò. Thomas non sapeva molto bene cosa pensare di Lisa, però era felice che venisse anche lei. Non la conosceva, vero, però la sua presenza sicuramente avrebbe reso meno pesanti i momenti di tensione tra Konnor, Stephanie ed Edward che, ne era certo, sarebbero arrivati. E poi, più erano e meglio era. I mostri li avrebbero fiutati in ogni caso, per via della Spada del Paradiso – Tommy non avrebbe potuto pronunciare il nome giapponese nemmeno se lo avesse studiato a memoria – quindi era meglio essere il più numerosi e forti possibile.

Stephanie osservò poi Edward, con sguardo angosciato. «Edward?»

«Mh?»

«Che… che ti è preso prima? Perché hai litigato con Dioniso?»

Il figlio di Apollo si irrigidì. Quella reazione sorprese Tommy, e anche Konnor sollevò un sopracciglio.

«Io… non lo so» mormorò Edward, con un sospiro. «Nel momento esatto in cui ho capito che, ancora una volta, i semidei avrebbero dovuto risolvere i problemi degli dei… mi sono sentito divorare dalla rabbia. Non fraintendetemi, lo so che… è colpa mia. Però avrei voluto che Dioniso fosse onesto con me fin da subito. E soprattutto avrei voluto che trattasse la scomparsa di Rosa con il giusto rispetto, invece di infischiarsene. Lei… lei non era meno importante di lui. Non per me almeno.»

Edward abbassò la testa, stringendosi nelle spalle. Steph si avvicinò a lui, posandogli una mano sul braccio. Il ragazzo trasalì, poi incrociò il suo sguardo. La figlia di Demetra gli sorrise timidamente e anche lui riuscì a riacquistare la calma. Konnor fece una smorfia, distogliendo lo sguardo da loro, ma senza dire nulla.

Realizzando di essere di troppo, e ringraziando nuovamente il fatto che non avrebbe dovuto assistere a certe scene da solo durante il viaggio verso San Francisco, Tommy decise di congedarsi. Lasciò soli gli altri tre, e tornò alla capanna Undici assieme a Derek, che era rimasto a parlare con Paul e Sunry.

Mentre tornavano dal resto dei fratelli, il capocasa sembrò piuttosto sereno e Tommy pensò a come entrambi fossero stati considerati dal resto dei semidei poco prima, sentendo un sorriso nascere sul proprio volto. Forse le cose non sarebbero cambiate radicalmente, Buck e Jane sembravano essere ancora molto determinati a mantenere i loro ruoli di dittatori, ma in ogni caso quello era solo l’inizio.

Un figlio di Apollo, uno di Ermes, uno di Ares, una di Demetra ed una di Bacco avrebbero unito le forze e riportato indietro la Spada del Paradiso. Il loro gruppo così diverso avrebbe mostrato a tutti che nessuno era migliore degli altri per via del proprio genitore divino, che tutti erano uguali e che tutti potevano essere amici in quel campo. Avrebbero scongiurato la guerra, avrebbero salvato la loro casa e, soprattutto, avrebbero vendicato Rosa.

Il corpo di Tommy smise di tremare. Distese il sorriso. Non era più lui quello che doveva tremare: erano i mostri che dovevano iniziare a farlo. 

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Capitolo 12
*** Turbolenze ***


 

12

Turbolenze

 

 

Non fu facile essere puntuali quel mattino, soprattutto se considerava che aveva dovuto preparare lo zainetto per la partenza, ma Thomas riuscì comunque a dirigersi verso la Casa Grande entro l’ora prestabilita.

Aveva fatto scorta di nettare, ambrosia e diverse armi. All’inizio aveva creduto di essersi portato dietro troppa roba, dopotutto se le cose sarebbero filate lisce, avrebbero concluso quella storia nel giro di un giorno, il problema però era che le cose non filavano mai lisce per i semidei. E poi lo zaino aveva spazio infinito, quindi perché limitarsi solo al minimo indispensabile? Dovevano essere pronti a tutto, soprattutto perché avrebbero avuto a che fare anche con mostri che non conoscevano.

Per questo motivo, oltre alle granate che nel tempo libero aveva imparato a riconoscere, si era portato dietro anche vestiti puliti e, soprattutto, qualcosa che aveva recuperato all’armeria, da usare in caso di emergenza. Anche se sperava di non dover mai usare davvero quell’oggetto, perché farlo avrebbe significato che le cose stavano andando davvero male.

Inspirò l’aria fresca del mattino e l’odore delle fragole bagnate dalla rugiada a pieni polmoni. La brezza fu un toccasana per lui. Faceva fresco, motivo per cui si era messo quel maglione blu scuro. Il sole illuminava pigramente la valle del Campo Mezzosangue, offuscato di tanto in tanto dalle numerose nuvole grigiastre. Non era una giornata particolarmente stupenda, ma forse era meglio così. Un cielo splendente avrebbe stonato parecchio con quello che era successo appena dodici ore prima.

Dormirci su non aveva aiutato ad alleviare il dolore. Aveva avuto una notte di sonno piuttosto agitata. Aveva anche sognato sua madre, con la quale non era mai riuscito a risanare il suo rapporto. Da una parte, invidiava Edward. Era vero, lui e la madre erano stati divisi da circostanze che non aveva ancora ben capito, ma era palese quanto lui tenesse a lei e, da come ne aveva parlato, il sentimento era reciproco.

La madre di Tommy, invece, non si era mai davvero comportata come tale. Lo aveva sempre odiato e l’aveva perfino abbandonato. Nel sogno lei, e tanti altri, lo avevano deriso, dato del buono a nulla e detto che non sarebbe mai riuscito a portare a termine quella missione. Beh, li avrebbe fatti ricredere tutti.

La Casa Grande apparve alla visuale. Derek si era offerto di accompagnarlo, ma quando, quel mattino, Tommy lo aveva trovato ancora bellamente assopito, aveva deciso di non svegliarlo. Tanto aveva già salutato il resto dei suoi fratelli la sera prima e sarebbe tornato preso, ne era sicuro.

Ad aspettarlo trovò solamente una persona, ossia Edward. Quando Tommy si avvicinò gli sorrise. Aveva lo sguardo pesto, occhiaie, i capelli arruffati e il sorriso sembrava stanco. Nemmeno lui doveva aver trascorso una buona nottata di sonno. Portava a tracolla il suo arco, tramutato in zainetto, e anche il fodero di una spada. Era vestito in maniera simile alla sua, con dei jeans, delle scarpe da ginnastica e la maglietta del Campo Mezzosangue sotto la sua felpa nera.

«Ehi, Tommy.» 

«Ehi.» Thomas si guardò attorno, stupito. «Siamo gli unici puntuali?»

«Manca ancora qualche minuto alle sette» rispose Edward. «Meglio così. Devo darti una cosa.»

Gli consegnò il fodero della spada. Tommy lo prese, incuriosito. Il manico della spada era nero, incastonato di rubini. Affascinato, Thomas la estrasse, scoprendone la lama d’argento.

«Appartiene... apparteneva a Rosa» spiegò Edward, esitando. «Ieri sera sono tornato all’arena e l’ho trovata per terra. Deve… deve aver cercato di difendersi dai mostri che l’hanno attaccata. Immagino che lei… lei avrebbe voluto che la tenessi io. Quindi… io ora vorrei che la tenessi tu. Se non ti dispiace.»

Tommy osservò l’amico sorpreso, per poi saggiare di nuovo con lo sguardo la sciabola. Era una splendida arma, doveva essere sincero, l’argento della lama e i rubini nel manico che rilucevano sotto la flebile luce del mattino. Affascinante e letale, proprio come la sua proprietaria. Tommy non era un esperto di armi, ma era un figlio del dio dei ladri, e sapeva riconoscere qualcosa di prezioso e pregiato quando la vedeva, e quella spada era entrambe le cose. Era un dono troppo grande per uno come lui. «Edward ne… ne sei sicuro? Sono certo che tu ne faresti un uso di gran lunga migliore.»

Edward scosse la testa, continuando a sorridere mesto. «Io ho Veloce come il Vento e Ama No Murakumo. Non mi serve un’altra arma. Non devi usarla, se non lo vuoi. Ti chiedo solo di custodirla tu, magari nel tuo zainetto. Come… come ricordo.»

Il figlio di Ermes accarezzò lentamente la lama affilata, riflettendo sulla proposta. Prendere quella spada non gli sembrava giusto nei confronti di Rosa, ma allo stesso tempo… se Edward gli aveva chiesto di custodirla, era perché lo aveva ritenuto il più adatto per farlo e, soprattutto, perché si fidava di lui. Perciò annuì. «Va bene allora. La terrò con cura.» Richiuse la spada nel fodero e lo infilò nello zainetto, dentro il quale svanì senza difficoltà.

«Grazie Tommy.»

Thomas gli rivolse un cenno. Una figura apparve nel suo campo visivo, distogliendo la sua attenzione. Per un attimo pensò che gli altri li stessero raggiungendo, invece ricevette una sorpresa: a marciare con passo spedito verso di loro c’era Natalie, ordinata come sempre nonostante dovesse essersi alzata anche lei da poco. Quando li raggiunse, Tommy pensò che fosse venuta per salutarlo, invece lei piazzò gli occhi sul suo amico: «Edward.»

«Ehm… ehilà, Natalie» salutò Edward, stupito tanto quanto Thomas.

Nat incrociò le braccia, studiandolo con lo sguardo per diversi secondi, con la sua classica espressione severa. Poi, sospirò. «Mi… mi dispiace per Rosa» disse. «Anche se non la conoscevo molto bene, sapevo che era una brava ragazza. Non meritava ciò che le è successo.»

Edward assottigliò le labbra. Annuì dopo un attimo di incertezza. «Apprezzo le tue parole.»

«Non devi incolparti per quello che le è successo» proseguì Natalie. «Non è stata colpa tua. Gli unici da incolpare sono i mostri.»

Quelle parole però lasciarono di sasso più Thomas che Edward. Nat non si era fatta troppi problemi ad accusare Edward di essere un piantagrane e di aver messo nei guai i loro fratelli, perciò sentirla mentre gli diceva che non doveva sentirsi in colpa, che non doveva accusarsi di nulla, fu davvero bizzarro. Soprattutto perché aveva deciso di alzarsi anche lei presto e raggiungergli solo per poterglielo dire di persona. Significava che ci credeva davvero.

Edward le sorrise. «Grazie Nat.»

«Figurati.» Anche lei gli sorrise. Thomas aveva visto sua sorella sorridere così di rado che era quasi irreale vederla in quel modo. Sembrava un’altra persona. 

«Buona fortuna con la tua impresa» concluse lei. «Non farti ammazzare.»

«Ci proverò» replicò Edward, con un sorrisetto mesto.

«Tommy» proseguì Nat, rivolgendosi infine anche al fratello minore. «Non voglio che tu parta, ma non posso decidere per te. E… penso che sia bello che tu voglia accompagnare Edward. Però…» Ancora una volta sua sorella lo scioccò, perché lo abbracciò con forza. «… stai attento, per favore. Se ti succedesse qualcosa, io…» esitò, con un filo di voce. 

Natalie era sempre stata la sorella modello dei figli della casa di Ermes. Sempre così seria, calma, controllata, posata. Era tanto insolito quanto bello vederla sotto quella diversa luce. Finalmente Tommy ebbe la conferma che anche lei aveva emozioni vere e non era un robot programmato solo per tirare loro le orecchie.

«Sta tranquilla, Nat» rispose, ricambiando l’abbraccio. Forse non aveva mai avuto una vera figura materna, ma non aveva importanza: aveva dei fantastici fratelli, due stupende sorelle, degli ottimi amici, e questo tanto gli bastava. «Ci siamo addestrati per questo, no? Starò bene, vedrai.»

La sorella si staccò da lui, annuendo. Sembrò imbarazzarsi quando realizzò che Edward aveva assistito alla scena, e cercò di ricomporsi. Si schiarì la gola. «Bene» disse, tornando ad usare il suo solito tono più freddo e severo. «Perché se, per qualsiasi motivo, tu dovessi farti del male, allora me la prenderò con te» e indicò Edward. «Sono stata chiara, Model? Occhi aperti.»

Tommy non credette alle proprie orecchie. Natalie aveva appena mostrato un lato più umano e dolce per poi rovinare tutto tornando ad essere la solita, frigida, sorella rompiscatole?

Sorprendentemente, Edward ridacchiò. «Trasparente» rispose, sorridendo un’ultima volta alla ragazza.

Nat annuì di nuovo. Parve sforzarsi di rimanere seria, perché il suo labbro tremolò, poi diede loro le spalle e si allontanò senza dire altro. Tommy osservò i suoi lunghi capelli color rame ondeggiare nell’aria mentre ripercorreva i suoi passi.

«Simpatica tua sorella» commentò Edward, una volta che Natalie fu abbastanza lontana.

«A volte mi chiedo che cosa le passa per la testa…» mugugnò Tommy, per poi massaggiarsi il collo con un sospiro. «Beh… direi che a questo punto potremmo anche partire. Ma dove sono gli altri?»

Quasi come se li stessero ascoltando, in quello stesso istante la porta della Casa Grande si spalancò e Chirone uscì alla luce del giorno, Stephanie, Konnor e Lisa al trotto dietro di lui. Anche loro si erano vestiti da viaggio.
  
 La figlia di Demetra si era messa una felpa sottile bianca sopra una lunga canotta color verde oliva che arrivava fino a sotto la vita, e anziché i jeans come tutti gli altri aveva dei leggings grigi. Konnor indossava invece una giacca di pelle nera sopra la t-shirt grigia scura, mentre Lisa aveva deciso di tenere la maglietta del campo sotto una camicetta a rossa a quadri, e come calzature aveva scelto un paio di stivali color kaki al posto delle scarpe da ginnastica.

«Eccovi finalmente» borbottò Konnor, posando il suo sguardo di ghiaccio sui due ragazzi.

«Finalmente? Ma noi siamo qui da un pezzo!» protestò Tommy.

«E l’accordo era davanti alla Casa Grande. Che ci facevate dentro?» aggiunse Edward.

«Prendevamo una cioccolata calda» disse Lisa, con un’alzata di spalle.

«Cosa?! E perché non ce l’avete detto?!»

«Su, su, non fatene un dramma.» Chirone appianò gli animi, scendendo dalla sedia a rotelle e liberando la sua forma equina dalla sua prigione magica. Con uno scalpiccio di zoccoli scese i gradini, avvicinandosi al figlio di Ermes e quello di Apollo, porgendo loro due biglietti aerei.

«Il volo per San Francisco parte tra tre ore» comunicò. «Anche se alcuni di voi non hanno documenti, grazie alla Foschia potrete prendere l’aereo senza che i mortali vi facciano domande. Kevin vi accompagnerà all’aeroporto. Non… non fate troppo caso a lui. Sapete com’è fatto.»

Thomas ripose il biglietto nello zainetto, annuendo. Sì, lo sapeva. Era sorpreso del fatto che Kevin li avrebbe accompagnati al posto di Argo, ma forse il capo della sicurezza era indaffarato con tutta la faccenda della protezione del campo. In ogni caso era meglio lui di altri, se le cose si fossero messe male sarebbe bastato solo ignorare i suoi deliri.

«Grazie di tutto Chirone» lo salutò Edward, con un cenno del capo.

«Buona fortuna Edward.» Il centauro sorrise paterno, accogliendo i ringraziamenti. «Buona fortuna a tutti voi.»

Tommy salutò a sua volta il centauro, l’altra figura più simile ad un padre che aveva mai avuto, promettendosi che avrebbe fatto in modo di non deludere nemmeno lui. Nessuno sarebbe rimasto deluso. Chirone, Natalie, i suoi fratelli, suo padre, i suoi compagni di viaggio, li avrebbe resi orgogliosi dal primo all’ultimo.

Il gruppo si allontanò dalla Casa Grande, accompagnato dalla brezza gelida del mattino e dal pigro cinguettio degli uccellini appena svegli. Cinque ragazzi diversi, cinque storie diverse, cinque motivazioni diverse che li avevano spinti a partecipare a quell’impresa, ma un obiettivo in comune.

 

***

 

Il loro autista li attendeva ai piedi della Collina Mezzosangue, appoggiato al furgoncino che utilizzavano per commerciare le fragole. Teneva la mano vicino al volto e osservava assorto la strada. Quando Stephanie lo chiamò, Kevin sobbalzò e lanciò per terra qualcosa, tossendo come un pazzo. Calpestò qualunque cosa avesse buttato e si fece aria di fronte alla bocca per scacciare via alcune nuvolette di fumo.

«Oh, eccovi… eccovi qui…» borbottò, con voce roca, per poi schiarirla piuttosto rumorosamente. «Tutti a bordo, forza.»

Thomas sollevò un sopracciglio, decidendo di ignorare ciò che aveva appena visto, e anche gli altri sembrarono arrivare alla stessa conclusione.

«Mostri nei paraggi?» domandò Konnor, prendendo posto sul sedile davanti assieme a Lisa, accanto al figlio di Efesto. Kevin scosse la testa, corrucciato. «No. Niente di niente.»

«Non promette bene…» 

«No, infatti. Secondo me vi terranno un’imboscata. Ma per fortuna, quando succederà io sarò già andato via.»

Quella sì che era una frase ottimistica.

 

***

 

L’aeroporto era gremito di persone. Un viavai costante di famiglie o solitari che partivano o tornavano dalle vacanze, coppie in luna di miele e uomini o donne con cellulari e auricolari premuti alle orecchie, chiaramente in viaggio per lavoro.

Dopo essersi separati da Kevin, i cinque ragazzi avevano eseguito il check-in. Come promesso da Chirone nessuno aveva fatto domande, era bastato solo tirare fuori i biglietti, e anche i metal detector non avevano rilevato le loro armi di bronzo celeste. Una volta sistemata la questione burocratica, avevano mangiato qualcosa nel bar dell’aeroporto e ora erano in attesa del loro aereo, in un angolo indisturbato dell’area di imbarco. Edward era in piedi e dava le spalle a tutti loro, isolato nella propria bolla di pensieri, mentre Tommy, Lisa, Konnor e Stephanie erano seduti su delle sedie di plastica.

Il brusio era intenso, soffocante, l’aria era glaciale per via dei condizionatori accesi al massimo, le litanie delle voci preregistrate che annunciavano gli imbarchi rimbombavano nell’aria e le luci dei tabelloni che indicavano i voli in arrivo e in partenza continuavano ad attrarre lo sguardo del figlio di Ermes.

Mentre Thomas osservava come il volo per Playa de las Américas fosse in ritardo di un’ora, il suo sangue da figlio del dio dei ladri stuzzicò il lato più malevolo del suo cervello. Così tanti mortali tutti riuniti in un solo luogo… ci sarebbe stata la possibilità di mettere su un bel gruzzoletto. Fregare qualche portafoglio qua e là, frugare in qualche valigia di nascosto, mettere le mani su qualche oggetto prezioso tipo rolex, smartphone e tablet. Gli sarebbe bastato buttare tutto nel suo zainetto e nessuno li avrebbe mai più trovati.

Poi, il lato che invece lo differenziava dal resto della sua famiglia semidivina tornò a farsi largo a spintoni nel suo cervello, e il ragazzo tornò a osservare il tabellone dei voli, rallegrandosi del fatto che il ritardo del volo per Playa de las Américas si fosse dimezzato all’improvviso. Una buona notizia per chiunque fosse diretto in quella città che mai aveva sentito nominare.

Ancora nessun mostro nei paraggi, ma sapeva che quella era solo la quiete prima della tempesta. Presto, non avrebbero più avuto modo di sedersi e rilassarsi come stavano facendo in quel momento. Anche il semplice viaggio in aereo si preannunciava lungo e pesante.

«Ragazze…» disse Edward all’improvviso, voltandosi. Spostò lo sguardo su Stephanie e Lisa, per poi esitare. Si strinse con forza le braccia, poi espirò a lungo, come per liberarsi da un grosso peso sullo stomaco. «… siete… siete proprio sicure di voler venire anche voi? Una volta sull’aereo non si può più tornare indietro.»

Le due ragazze in questione si scambiarono un rapido sguardo, poi Lisa osservò Edward come se fosse stato un alieno. «Ma che cavolo dici? Perché dovremmo tirarci indietro proprio ora? Dopo che tu stesso mi hai lasciato venire con te?»

«Perché proprio noi due?» fece eco Stephanie, stupita, con aria perfino offesa.

«Pensi che due donne non possano farcela?» insistette la figlia di Bacco. «Allora forse dovresti chiedere anche a lui se è sicuro di voler venire» sbottò, indicando Thomas, che saltò in piedi.

«Ehi!» esclamò. Dai suoi fratelli commenti stupidi come quelli poteva accettarli, ma non da lei. Nemmeno la conosceva, non poteva permettersi di parlargli in quel modo. Aveva cercato di offenderlo senza alcun motivo. 

Lisa sogghignò. «“Ehi” cosa, piccoletto? Siediti e lascia che siano i grandi a parlare.»

«Basta!» Se Edward non si fosse intromesso alzando la voce, probabilmente Thomas avrebbe risposto per le rime alla ragazza. 

«Non volevo insinuare nulla del genere» proseguì il figlio di Apollo, osservando Stephanie. «È… è la profezia che ho ricevuto. C’è un verso che…»

«Hai ricevuto una profezia?!» domandò la figlia di Demetra, basita. «Perché non ce l’hai detto subito?»

Anche Tommy sentì la rabbia sfumare dal corpo. Si dimenticò totalmente di Lisa e si concentrò sull’amico. «Ma come hai fatto a riceverla? Rachel non c’era al campo!»

«Abbiamo usato un messaggio Iride per chiamarla, ma non questo non ha importanza. Ho aspettato a dirvelo perché… perché prima ho voluto dormirci sopra. Ieri ero ancora troppo sconvolto da quello che era successo e non riuscivo a pensare lucidamente. Avevo bisogno di riflettere bene sui versi. E più ci penso più…» Edward esitò, stringendosi con più forza nelle spalle. Sembrava davvero angosciato e lo sembrava soprattutto per Stephanie, in barba a quell’altra smorfiosa di Lisa. «… più ho paura che qualcosa di brutto debba accadere. E accadrà a una ragazza.»

Lisa schiuse le labbra, ogni traccia della precedente spavalderia completamente svanita.

«Che… che cosa dice la profezia?» domandò ancora Stephanie che, per quanto angosciata, cercò di rimanere razionale. 

«Il serpente di Yamata, dalla sua prigione si è liberato, del dio delle tempeste la collera ha subito. Ladro, l’insegna rubata restituirai, nel luogo in cui la tua storia ha avuto inizio tornerai e…» Edward esitò. «… il sangue della vergine sarà il prezzo da pagare.»

Vi fu un lungo attimo di silenzio. Thomas incrociò lo sguardo di Konnor, mentre le due ragazze tacevano.

Edward si massaggiò dietro al collo, imbarazzato. «Non voglio sapere se siete vergini o no. E non voglio insinuare nulla. Voglio solo che prima di partire voi due facciate le vostre considerazioni.»

Stephanie si mordicchiò il labbro, mentre le dita di Lisa formicolarono. Fu proprio la figlia di Bacco a ridacchiare, rompendo quel piccolo momento di tensione. «Tutto qui?» commentò, tornando a sorridere con arroganza. «Questo verso potrebbe voler dire qualsiasi cosa. Magari si riferisce perfino al segno zodiacale! A questo ci hai pensato?»

Stephanie annuì lentamente, anche se non sembrava rilassata come l’altra ragazza. «E in ogni caso, non possiamo tirarci indietro per via di un verso della profezia. Ormai io e Lisa abbiamo deciso di partire, e partiremo. Cercare di interpretare i versi delle profezie prima del tempo non porta mai a nulla di buono.»

Edward parve imbarazzarsi. «S-Sì, certo, però…»

«Le profezie non hanno mai un significato solo» insistette Lisa. «E comunque, si tratta solo di sangue. Non dice che qualcuno morirà. Secondo me non ci sarà alcun pericolo.» La ragazza scrollò le spalle, tornando a stravaccarsi sulla sedia. «E in ogni caso, la faccenda non mi riguarda.»

Tommy sollevò un sopracciglio. Significava che lei non era vergine? Non che la cosa fosse affare suo. Sinceramente, nemmeno lui era molto sicuro di cosa pensare riguardo quella profezia. 

Stephanie si strinse nelle spalle ed abbassò la testa, senza dire più nulla, chiudendosi in un silenzio impossibile da interpretare. Pure Konnor rimase in silenzio.

«Però… la profezia dice che riuscirai a restituire l’insegna» cercò di sdrammatizzare Tommy. «È una buona cosa, no?»

Edward non sembrava dello stesso avviso, ma annuì. «Può darsi.»

«Il serpente di Yamata…» borbottò Konnor. «Chi è? E che significa che tornerai “dove la tua storia ha avuto inizio”?»

«Credo che il serpente sia l’uomo che ho visto nel mio sogno» spiegò Edward. «Il resto… non ne ho idea.»

«Il dio delle tempeste… che sia Zeus?» domandò Stephanie, riprendendo la parola.

«Forse è un dio giapponese» ipotizzò ancora Konnor. «Questa storia non riguarda i nostri dei, dopotutto.» 

Altro silenzio. Cercare di parlare d’altro non servì a distogliere i pensieri di tutti da quel verso sul sangue della vergine. Il modo in cui era inserito nella profezia, poi… sembrava perfino un verso di troppo, quasi superfluo, che non c’entrava nulla con tutto il resto. Non era nemmeno in rima. Nonostante Lisa e Stephanie avessero detto che non era per forza qualcosa di brutto, era chiaro che avesse impensierito tutti quanti.

«Ragazzini.»

Thomas sobbalzò. Cinque uomini e una donna, del corpo di sicurezza dell’aeroporto, si stavano avvicinando a loro. Quello in centro, probabilmente colui che li aveva chiamati, li stava osservando in un modo a cui il figlio di Ermes era fin troppo abituato: era lo stesso sguardo che gli adulti rivolgevano ai ragazzini che loro consideravano impiastri. Tommy, di quegli sguardi, ne aveva ricevuti milioni.

«Siete in viaggio da soli?» domandò sempre la stessa guardia, fermando la comitiva. Era un uomo molto grosso, alto quasi due metri, e i suoi colleghi non erano da meno. «Dove siete diretti? Posso vedere i vostri documenti?»

Tommy osservò i compagni di viaggio, i quali erano sorpresi tanto quanto lui. Chirone aveva detto che la Foschia avrebbe fatto in modo che nessuno facesse loro domande, eppure, ecco ben sei guardie che stavano facendo loro delle domande. 

«Ehm…» cominciò Stephanie, alzandosi in piedi. Per fortuna c’era lei a fare da ambasciatrice per tutti loro, perché le parole non sembravano essere in grado di fuoriuscire dalle labbra di Thomas. Gli adulti lo facevano sentire a disagio, soprattutto gli adulti alti due metri in divisa che avrebbero potuto arrestarlo e che lo guardavano male, proprio come quelli. La ragazza cominciò a frugare nello zainetto. «… ecco… i documenti… sì…»

«Niente documenti?» incalzò ancora la guardia. «Temo che dovrete venire con noi, allora. Dobbiamo farvi alcune domande.»

«C-Cosa? N-No, ce li abbiamo i documenti, sono…» Stephanie provò a parlare, ma l’uomo la afferrò per il polso, strappandole un grido sorpreso, e cominciò a tirarla con forza. 

«Signore, mi sta facendo male! Mi lasci!» 

Tommy osservò la scena incredulo, accorgendosi di come un’altra guardia si stesse avvicinando anche a lui. Tutti i ragazzi stavano venendo avvicinati. Soltanto la donna rimase in disparte, a guardare confusa i colleghi. Konnor si alzò in piedi stringendo i pugni, lo sguardo puntato sulla guardia che teneva Steph in ostaggio. 

«Che hai nello zaino?» interrogò l'uomo che aveva puntato Edward, il quale non sembrava per niente felice della situazione.

«E tu, ragazzina?» domandò invece quello che se l'era presa con Lisa. «Che cosa nascondi?»

La figlia di Bacco serrò la mascella, osservando l’uomo con odio. Quello si avvicinò a lei e allungò una mano, come avevano fatto con Steph, giusto per ritrovarsela infilzata da parte a parte dal pugnale d’oro della ragazza. La guardia urlò disperata, indietreggiando di colpo.

«Lisa!» gridò Tommy, inorridito. «Ma che diavolo ti prende?!»

Per un attimo pensò che la figlia di Bacco, aggredendo l’uomo, avesse appena condotto l’intera impresa dritta in prigione, quando poi realizzò che i mortali non potevano essere feriti dalle armi semidivine. A quel punto, sgranò gli occhi.

«Non sono vere guardie!» esclamò Lisa, balzando in piedi, mentre i cinque uomini mostravano due file di denti affilati e cominciavano a ringhiare verso i semidei. 

Konnor estrasse il suo spadone nero. «Lestrigoni!»

«Dannazione» sbottò Edward, sfilandosi lo zainetto, che si trasformò in Veloce come il Vento.

Il figlio di Ares attaccò il mostro che stava tenendo Stephanie in ostaggio, mentre Lisa sfilò dalla cintura un altro pugnale d’oro e si lanciò con un grido contro un altro Lestrigone.

Tommy ebbe a malapena il tempo di metabolizzare la situazione che tre di loro erano già caduti, uno centrato in piena fronte da una freccia, il secondo pugnalato ripetutamente al petto e il terzo ritrovandosi prima senza un braccio e poi senza testa.

Il quarto si ritrovò due frecce piantate nel cuore prima che potesse fare nulla, venendo poi finito da Konnor, che abbatté la sciabola su di lui. Poco dopo, l’ultimo mostro ebbe lo stesso destino degli altri, crivellato dalle stilettate di Lisa.

Mentre il quinto Lestrigone abbattuto si dissolveva, la ragazza italiana roteò i pugnali e li ripose nella cintura, con un sorriso soddisfatto. «Pfff. Tutto qui? Questa era la grande trappola che stavate preparando?» domandò, alla sabbia che ormai stava svanendo. La scalciò via, con un ghigno. «Idioti.»

Il figlio di Ermes schiuse le labbra. Era partito per dimostrare di che pasta era fatto, e al primo scontro con i mostri non aveva avuto il tempo di alzare nemmeno un dito: Edward, Konnor e Lisa avevano sistemato la faccenda in un batter di ciglia. La figlia di Bacco si era comportata incredibilmente bene, Thomas doveva ammetterlo. Forse era merito dell’addestramento romano. Perfino Stephanie sembrava sorpresa tanto quanto lui. Anche se, presto Tommy se ne accorse, non era sorpresa per la sua stessa ragione. Gli occhi della figlia di Demetra erano puntati sulla sesta guardia, la donna, che era caduta in ginocchio e ora stava osservando atterrita i cinque ragazzi.

«Oh-oh…» riuscì a borbottare il figlio di Ermes, mentre la donna si alzava in piedi e cominciava a gridare come una disperata. Fuggì via, afferrando una radiolina ed avvicinandosela alla bocca.

«Ehm… quella non era un mostro, giusto?» domandò Edward, accorgendosi di lei.

«Credo di no…» rispose Lisa, altrettanto pietrificata.

Konnor imprecò. «Dannazione! Non avremmo dovuto combattere!»

Edward gli scoccò un’occhiataccia. «Preferivi farti mangiare?»

«No, però…»

Tommy smise di ascoltare. Quella donna aveva appena visto dei semidei uccidere cinque Lestrigoni vestiti da agenti di sicurezza dell’aeroporto, tuttavia con gli occhi appannati dalla Foschia. Qualunque fosse lo spettacolo a cui aveva assistito, dubitava che fosse molto bello. E, ora che ci pensava, lei non era nemmeno l’unica. Erano in un aeroporto pieno di gente e di telecamere. Konnor aveva ragione, combattendo avevano commesso uno sbaglio terribile. Ma anche Edward aveva ragione, non avevano avuto altre alternative. Era quasi come se quei mostri sapessero esattamente quello che sarebbe successo. Affrontandoli, li avevano messi in trappola.

«E ora che facciamo?!» domandò Lisa.

Edward schiuse le labbra, scuotendo lentamente la testa, palesemente spaesato. Anche Tommy sentiva la propria mente buia. Tutto si era aspettato, meno che una situazione del genere.

«Dobbiamo andarcene» ordinò Konnor, mettendo via la spada. La sua voce non ammetteva discussioni. «Ora.»

Un fragoroso rumore di passi li fece voltare tutti. Una decina di agenti di sicurezza raggiunse l’area di imbarco, circondandoli e puntando addosso a loro delle pistole. Non appena vide le armi, Tommy sentì il cuore cessare di battergli nel petto. Alcuni turisti in lontananza si accorsero della scena ed estrassero telefonini e videocamere per riprenderli, mentre altre guardie cominciarono a sbraitare a tutti loro di allontanarsi.

«Fermi! Siete in stato di arresto!» gridò uno di loro, con accanto la donna di poco prima.

«Oh, mamma…» sussurrò Thomas.

Una guardia puntò la pistola contro Edward. «Getta il fucile!»

«Fucile?» sibilò Edward, per poi osservare l’arco tra le sue mani. «Oh…»

Le guardie si avvicinarono. Stephanie gemette spaventata, e anche Lisa sembrò terrorizzata. 

«Non può finire così…» Edward serrò la mascella. Una strana luce balenò nei suoi occhi, che fu ciò che permise a Tommy di riscuotersi. Se Edward avesse fatto comparire la spada, le cose sarebbero solo peggiorate. 

Senza perdere tempo, Thomas infilò un braccio nello zainetto, gesto che, sfortunatamente, allarmò le guardie. «Fermo!» gridarono, ma per fortuna il figlio di Ermes aveva trovato ciò che cercava. Le dita si chiusero attorno ad una superficie liscia e sferica. Un istante dopo, la granata fumogena esplose sul pavimento, creando una nube che accecò tutti i presenti.

«Correte!» sbraitò, infilandosi lo zainetto e partendo a razzo.

Vi furono versi sorpresi, colpi di tosse e spari. Sentì Stephanie gridare spaventata, mentre Edward imprecò piuttosto coloritamente. Anche Lisa esclamò qualcosa in italiano che non doveva essere un complimento rivolto alle guardie. Gli spari dovettero allarmare anche i turisti, perché si udirono altre grida terrorizzate provenire da oltre la nube.

«State giù!» intimò Thomas, correndo accovacciato. «Cercate di non sbattere!»

«La fai facile tu!» urlò Lisa.

Finalmente riuscirono a sbucare fuori dalla nube. Le luci e il rumore dell’aeroporto tornarono a essere vividi mentre il figlio di Ermes ricopriva il ruolo di improbabile leader del gruppo e guidava il resto dei ragazzi verso la salvezza. Percorsero un breve tratto dentro l’aeroporto, mischiandosi assieme ad altri turisti in fuga per nascondere le loro tracce, per poi dividersi da loro e prendere un’uscita di emergenza.

Il rumore del mondo esterno li investì mentre scendevano una scala antincendio che riconduceva verso la strada. Quando raggiunsero il marciapiede cominciarono a muoversi, mischiandosi ad altre comitive di mortali ignari per rimanere nascosti. Nessuno fece caso a loro.

Per strada, una calca di taxi e navette proseguiva indisturbata verso l’aeroporto, i passeggeri completamente ignari di quanto appena accaduto all'interno di esso. Il gruppo si fermò nella zona di ingresso, accanto a un pick-up a nolo parcheggiato vicino al marciapiede. Approfittarono della ressa di persone indaffarate a caricare, scaricare e trasportare bagagli per mascherare la propria presenza. 

Thomas si piegò su sé stesso e riprese fiato dopo la stenuante corsa per la propria vita e tossì a causa del fumo entratogli nei polmoni.

«State tutti bene?» domandò Konnor, la voce confusa tra il brusio della folla di passaggio. «Vi hanno colpiti?»

«No, per fortuna no…» mormorò Stephanie, per poi guardare Thomas. «E per fortuna avevi quella granata… se ci avessero arrestati sarebbe stata la fine.»

Tommy riuscì solo ad annuire. Le orecchie gli fischiavano per via del rumore degli spari e tremava come una foglia a causa della paura e dell’adrenalina. Tuttavia, solamente in quel breve momento di quiete riuscì a pensare in maniera lucida. E la prima cosa che gli venne in mente, fu che avevano appena perso il loro aereo. 

«E… e adesso?» domandò Lisa, facendo vagare lo sguardo tra i compagni di viaggio. «Le guardie… ci volevano arrestare!»

Konnor grugnì. «Abbiamo combattuto contro dei mostri in divisa di fronte a una mortale. Hanno scambiato l’arco di Edward per un fucile e le nostre spade per chissà che altro.» Si passò una mano fra i capelli, sospirando profondamente. «E le telecamere hanno ripreso tutto. Ormai è come se fossimo degli assassini in fuga. Finiremo su tutti i notiziari e per un bel po' non potremo più mettere piede in nessun aeroporto. Temo… temo che dovremo tornare al campo. Dobbiamo far calmare le acque.»

«Non se ne parla» si intromise Edward. «Quanto tempo ci vorrà per far calmare le acque? La scadenza è tra una settimana, ricordi? Non abbiamo tempo. Ci tocca raggiungere San Francisco senza aereo.»

«Vuoi dire in macchina? Ma sei pazzo? Presto qui arriverà la polizia!» Konnor indicò verso la strada. «Meglio tornare al campo che finire in prigione! Forse Chirone potrebbe manipolare la Foschia, ma nemmeno lui riuscirebbe a tirarci fuori da lì in tempo!»

«Oh, no, no, no…» mormorò Stephanie, prendendosi il volto tra le mani. Perfino Lisa abbassò la testa, sconfortata.

Edward strinse i pugni. Urlò frustrato e diede un calcio alla portiera del pick-up, imprecando di nuovo. Osservando la situazione, Thomas si morse un labbro. Si sfilò lo zainetto, per poi mettersi a cercare un altro degli oggetti regalatogli dal padre che, fortunatamente, o sfortunatamente, a seconda dei punti di vista, poteva tornare utile.

Afferrò dallo zaino una chiave di bronzo celeste lunga e sottile, simile al caduceo di Ermes ma senza i serpenti, poi si avvicinò al pick-up vittima della rabbia di Edward e la infilò nella serratura della portiera. La aprì senza alcun problema, per lo stupore di tutti.

«Ma cosa…» domandò Edward, sconvolto. «Che diamine…»

 «Questa…» cominciò Tommy, sollevando la chiave e mostrandola al resto del gruppo. «… è una chiave in grado di aprire tutte le serrature più basilari. Porte, finestre, cancelli, lucchetti… l’importante è che non abbiano qualche sigillo magico sopra. Può anche far partire automobili.»

«Aspetta… stiamo rubando questa macchina?» domandò Stephanie, quasi a fatica.

Quella domanda urtò leggermente il figlio di Ermes. Lui odiava rubare. Era per questo motivo che non aveva mai capito perché Ermes avesse dato quella chiave e quello zainetto proprio a lui. Erano gli strumenti migliori per un ladro, non per lui. «Tecnicamente è una macchina a nolo. Verremo poi a saldare il conto quando tutto questo casino si sarà risolto… spero.»

«Tommy, è fantastico!» esclamò Edward, tornando a sorridere raggiante. «Possiamo usare questa macchina per il viaggio!»

«Aspetta, vuoi davvero andare fino a San Francisco in macchina?!» riprese la parola Konnor, sempre più incredulo. «Ma ci vorrà una vita! Arriveremmo a malapena in tempo!»

«A malapena mi sembra sicuramente meglio che non arrivare affatto» ribatté Edward. «Siamo arrivati fino a qui. Non possiamo tirarci indietro ora. Ma se proprio ci tieni a tornare al campo, allora fa pure. Io non ti fermerò di certo. E anche voi» si voltò, rivolgendosi al resto dei ragazzi. «Se non volete venire, capirò. Ma non intralciatemi. Tommy… tu sei con me?»

Thomas esitò. Nemmeno a lui andava a genio viaggiare in macchina, ma Edward aveva ragione, non avevano altra scelta. Avevano combinato un disastro, le telecamere li avevano ripresi e lui, sfortunatamente, sapeva come funzionavano certe cose. Cinque ragazzi armati che aggredivano delle guardie in un aeroporto. I mortali avrebbero sicuramente finito con l’interpretare quel gesto come l’atto di una cellula terroristica costituita da ragazzini, o qualche assurdità del genere. Quel caso sarebbe diventato un fenomeno mediatico nel giro di un quarto d’ora. Presto si sarebbero ritrovati alle costole polizia, giornalisti, federali e chissà che altro.

Non avrebbero più potuto mettere piede in nessun aeroporto, perché le guardie li avrebbero aspettati tutti a braccia aperte finché la Foschia non avrebbe fatto il suo lavoro, ma per cancellare la memoria di così tanta gente ci sarebbe voluto un bel po’. Viaggiare in auto era l’unica scelta che rimaneva loro, almeno per il momento. E in ogni caso, non si sarebbe mai tirato indietro. Doveva portare a termine quell’impresa, per Rosa e per le persone lui care. Annuì. «Certo che sono con te.» 

«Al diavolo, anch’io ci sto» sbottò Lisa all’improvviso, con un’alzata di spalle. «Se tornassi al campo da mio padre dopo neanche tre ore che razza di figuraccia farei? No, no, non esiste. Dobbiamo portare a termine l’impresa a qualsiasi costo. Anzi, è quasi un bene che sia successo questo bordello. Renderà la storia che racconteremo al ritorno molto più epica!»

Sembrava molto sicura di sé. Se Thomas l’avesse conosciuta meglio, avrebbe quasi pensato che in realtà era terrorizzata tanto quanto lui.

«Konnor…» mormorò Stephanie, osservando il figlio di Ares. «… non possiamo rimanere a discutere qui. Usiamo la macchina per andarcene, raggiungiamo un posto sicuro e mandiamo un messaggio Iride a Chirone. Gli spiegheremo la situazione e sentiremo che cosa ha da dirci. Magari anche lui ci consiglierà di proseguire in macchina, o magari ci dirà di tornare indietro. Potrebbe perfino manipolare la Foschia quanto basta per renderci la vita più semplice. In ogni caso, non possiamo tornare indietro ora, come pensi che ci tratterebbero tutti?»

Sorprendentemente, tra tutti il figlio di Ares sembrava quello più riluttante all’idea di proseguire. Perfino la quieta e calma figlia di Demetra era determinata ad andare avanti. Thomas aveva visto Konnor comportarsi in maniera insolita, rispondendo al fratello, facendo gruppo con loro, i reietti del campo, ma quel suo sguardo… sembrava davvero spaventato all’idea di partire per quel viaggio in macchina, per chissà quale motivo. Non conosceva Konnor molto bene, ma era sicuro che c’erano ben poche cose in grado di spaventarlo. Tuttavia, Thomas sapeva anche che se c’era una cosa in grado smuoverlo, quella era proprio una ragazza di nome Stephanie. E l’idea della figlia di Demetra sembrò andare a genio anche a Lisa ed Edward, perché non ebbero nulla da obbiettare.

Finalmente Konnor annuì, forse perché un trambusto cominciò a provenire dall’ingresso dell’aeroporto. «Va… Va bene. Andiamo.»

Edward si fece consegnare la chiave da Tommy. «Guido io, se non ti spiace.»

«Nessun problema. Tanto io non ho neanche la patente.»

«Sì, beh… neanch’io» sogghignò il figlio di Apollo, mettendosi al volante.

«Cosa?! Ma…»

«Tanto siamo già criminali in fuga, no? Tutti a bordo, forza!» esultò Edward, ignorando la protesta dell’amico.

Prima che Tommy potesse dire altro, Lisa gli passò accanto come un tornado. «Io davanti!»

Thomas la seguì con lo sguardo, incapace di parlare o anche solo di metabolizzare ciò a cui stava assistendo. Konnor si infilò dietro, appoggiando la testa al sedile e sospirando esausto, e Stephanie si mise accanto a lui, lasciando l’ultimo posto libero accanto al finestrino al figlio di Ermes. Massaggiandosi una tempia, Tommy raggiunse gli altri a bordo.

Erano criminali, avevano “rubato” una macchina e al volante avevano un diciottenne senza patente. La giurisdizione americana avrebbe avuto ben poco di cui accusarli se li avessero presi, non c’era che dire.

Edward condusse la macchina in strada con noncuranza, scivolando in mezzo al viavai di taxi e navette. Guidava piuttosto bene per essere senza patente, e nessuno dei mortali indaffarati sui marciapiedi fece caso a loro. Una volta mischiati assieme al resto del traffico, riuscirono a percorrere a malapena cento metri prima che diverse volanti della polizia giungessero nella corsia opposta, divincolandosi verso la direzione da cui loro erano appena provenuti. Fortunatamente, il pick-up con stampato sopra il logo della ditta di auto a nolo non attirò attenzioni indesiderate. Thomas trattenne il fiato finché non furono sufficientemente lontani, sobbalzando ogni qualvolta sentiva una sirena in lontananza, ma, per il momento, il viaggio proseguì liscio. Il miglior nascondiglio, dopotutto, era quello sotto gli occhi di tutti.

Dopo qualche minuto, Konnor, ancora poco convinto, domandò: «Quindi, dove pensi di andare Edward?»

«Per prima cosa, usciamo da New York. Poi sentiremo che cosa ha da dirci Chirone.»

«E come pensi di uscire dalla città ora? Staranno già allestendo posti di blocco ovunque. Non ci lasceranno scappare così facilmente.»

Il figlio di Apollo esitò. «Ehm…»

Konnor scosse il capo, contrariato. «E come pensi di arrivare a San Francisco in macchina se non sai nemmeno come uscire da New York?»

«Se non ricordo male, fino a due minuti fa tu volevi scappare con la coda tra le gambe. Ma visto che tutto a un tratto vuoi fare il saccente, dimmi, tu hai una vaga idea di che cosa fare?»

«Sì.»

Sorpreso da quella risposta, Edward arrischiò uno sguardo sui sedili posteriori, verso il compagno.

«Guarda la strada» lo rimproverò Konnor. «In questo momento la polizia non sa che siamo in macchina. Prendi la prima uscita, verso il ponte di Verrazzano. Abbiamo venti minuti, mezz’ora al massimo prima che lo blocchino.»

«E come sai queste cose?» interrogò Edward, che comunque seguì le indicazioni di Konnor.

Perfino Lisa si voltò verso Konnor con la fronte aggrottata. Il figlio di Ares sprofondò contro il sedile. «Fa’ quello che ti dico e basta.»

I ragazzi si guardarono tra di loro. Alla fine, nessuno ebbe nulla da obiettare, nemmeno Edward.

«Va bene gente» esordì il figlio di Apollo. «Allacciate le cinture!»

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Capitolo 13
*** Un delizioso incontro ***


13

Un delizioso incontro

 

 

Stephanie non pensava che esistesse una "Maledizione della figlia di Demetra", ma dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni cominciò a ricredersi.

Se solo si fosse accorta subito che le guardie erano Lestrigoni camuffati e non veri mortali… forse avrebbe potuto evitare lo scontro in qualche modo, e magari a quell’ora si sarebbero trovati a bordo dell’aereo, anziché di quella macchina sparata sull’autostrada a tutta velocità.

Se non altro, grazie alle indicazioni di Konnor ormai si trovavano quasi al confine della città. Una volta lasciata New York sicuramente si sarebbe sentita più tranquilla. Nel frattempo, però, una sgradevole sensazione continuava ad attanagliarla dentro. Sentiva che le cose non sarebbero filate lisce ancora a lungo. E il fatto che Edward fosse sprovvisto di patente non faceva che alimentare questa sua paura. O meglio, avrebbe anche potuto accettarlo, se solo il figlio di Apollo non avesse guidato come un pazzo.

«Davvero… davvero nessuno ha la patente qui?» domandò a un certo punto, dopo l’ennesimo sorpasso da galera del loro autista. Sperò di non avere utilizzato un tono troppo angosciato, ma dubitava di esserci riuscita.

«Ehm… io non ho ancora iniziato i corsi…» rispose Tommy, un po’ imbarazzato.

«Neanch’io» fece eco Konnor.

«Mi hanno bocciata» concluse Lisa, con un’allegra alzata di spalle.

Il figlio di Apollo sorrise a Steph tramite lo specchietto retrovisore. «Non preoccuparti, Steph. Anche se non ho la patente, so guidare alla perfezione.»

Stephanie avrebbe voluto rispondere che in realtà avrebbe semplicemente preferito che al volante ci fosse qualcuno che non credesse di trovarsi nella NASCAR, ma si morse la lingua. Sperò che Edward fosse solo ansioso di lasciare New York e che una volta uscito dalla città decidesse di staccare il piede dall’acceleratore.

«A proposito…» cominciò Lisa, lanciando un’occhiata a Konnor. «… ne sai parecchie di cose sulla polizia. Come mai?»

Konnor si irrigidì. Quella doveva essere una domanda che non gradiva sentire. «Non mi va di parlarne ora» mugugnò. Utilizzò un tono che non ammetteva obiezioni.

Quelle parole e quella riservatezza non sorpresero Steph. Konnor era sempre stato un ragazzo piuttosto schivo, del resto. Chissà quanti altri segreti possedeva. Ma se fossero tutti quanti serviti per tirarli fuori da situazioni spinose, come quella appena vissuta, allora erano bene accetti.

«Ehm…» proseguì Lisa, incerta. «Ok…»

Per concludere la conversazione, Edward cambiò canale radio. Una terrificante canzone country invase l’automobile, strappando una smorfia alla figlia di Demetra. La musica, tuttavia, non parve turbare lui, perché alzò il volume.

«Ah! Ti dispiace abbassare?!» sbottò Lisa, tappandosi le orecchie.

«Perché?» Edward parve sinceramente stupito. «A me piace!»

«Come può piacerti questo rumore?!»

Edward scrollò le spalle. «Sarà che mio padre è il dio della musica.»

«Appunto! Musica, non rumore

Per tutta risposta, Edward alzò ancora il volume. «Come, scusa? Sai, non riesco a sentirti con tutto il rumore che c’è qui dentro!»

La figlia di Bacco piegò la testa e si premette con ancora più forza le mani sulle orecchie, gridando frustrata. «Agh! Ti odio!»

«Parla più forte!»

«TI ODIO!»

«Cosa? Vuoi che alzo il volume? Ok!»

A Stephanie scappò una risatina e anche Tommy accanto a lei sembrò riuscire a rilassarsi. Non riusciva ancora a inquadrare bene il quinto membro della loro impresa. Non aveva mai parlato con Lisa prima di allora e, a dire il vero, non aveva avuto una vera e propria conversazione con lei nemmeno durante il loro breve viaggio assieme. Forse il motivo era perché la figlia di Bacco era un tantino scostante. Bastava pensare anche solo a come aveva trattato Thomas all’aeroporto. Si era accanito contro di lui senza alcun motivo, l’aveva fatto e basta. E anche con Edward non era stata molto gentile, ma se non altro lui sapeva come darle filo da torcere.

Finalmente il grigiore della metropoli svanì, lasciando spazio alla periferia boschiva del New Jersey. Erano usciti da New York. Per il momento, sarebbero stati al sicuro. Ora dovevano fermarsi e chiamare Chirone per spiegargli la situazione. O meglio, lei avrebbe dovuto chiamare Chirone, visto che a quanto pareva era diventata la portavoce non ufficiale del gruppo, e avrebbe dovuto spiegargli che, accidentalmente, avevano combinato un disastro all’aeroporto, avevano perso l’aereo e con tutta probabilità non sarebbero riusciti a prenderne un altro in tempo. Al pensiero, Stephanie sprofondò contro il sedile.

Sì, sarebbe stato uno spasso.

 

***

 

Accostarono sul ciglio di una stradina tranquilla, smarrita in mezzo alla vegetazione. Quel luogo fece sentire la figlia di Demetra molto più a suo agio. 

Mentre Lisa teneva d’occhio la strada, Edward si allontanò per un attimo, dicendo di dover sbrigare una piccola faccenda importante – alias, doveva fare pipì – e nel frattempo Steph si occupò di contattare Chirone. Si fece prestare tutto il necessario da Tommy e dal suo zainetto magico, poi si distanziò di alcuni metri dalla macchina e lanciò una dracma nell’arcobaleno, facendo il nome del centauro.

Lo trovò nel salone della Casa Grande, di fronte al camino, con espressione corrucciata. Non appena si accorse di lei, le rughe sul suo viso parvero quadruplicare. Il solo fatto che loro l’avessero chiamato dopo neanche quattro ore dalla loro partenza dovette fargli intuire che qualcosa fosse andato storto. Per questo motivo, Stephanie sentì la propria gola inaridirsi ancora di più.

Chirone era sempre stato un mentore per lei, nonché un caro amico, e sicuramente lui l’aveva sempre vista come una figlia. Si era sempre fidato di lei, le aveva permesso di assisterlo molte volte quando c’era stato da presentare il Campo Mezzosangue ai nuovi semidei, un po’ come aveva fatto anche con Edward, ed era sempre stato paziente e comprensivo con lei. Si sentiva quasi in dovere di non deluderlo. 

Per questo motivo non fu facile spiegargli la situazione. E non fu nemmeno gradevole ascoltare il resoconto di quanto appena accaduto proprio dalle sue stesse labbra, perché più parlava, più si rendeva conto di quanto assurda e stupida fosse tutta quella faccenda. Per fortuna Konnor la affiancò, aiutandola a raccontare la storia, mentre Lisa e Thomas non si fecero troppi problemi a starsene in disparte e a fingere che loro non esistessero. Nonostante tutto, la presenza del figlio di Ares riuscì a rassicurarla, così entrambi finirono di narrare la disavventura dell’aeroporto. Chirone ascoltò in silenzio, annuendo di tanto in tanto. La sua espressione non mutò una sola volta, il che poteva essere sia un bene che un male. A racconto concluso, il centauro fece un profondo sospiro.

«Temevo che potesse succedere qualcosa del genere» disse. «Anche se non pensavo che i mortali sarebbero rimasti coinvolti.»

Stephanie sentì le proprie interiora contorcersi. Abbassò la testa, mortificata. «Mi dispiace, Chirone… ho combinato un disastro.»

«"Ho"?» domandò Konnor, voltandosi verso di lei. «"Tu" non hai combinato niente. A dire il vero, siamo stati io, Lisa ed Edward a combattere. Tu e Thomas non avete fatto nulla di male.»

«Sì, ma…»

«Steph…» Il figlio di Ares posò una mano sulla sua spalla, gesto che le fece formicolare la schiena. Come sempre, si sentì trafiggere dagli occhi di ghiaccio del compagno di viaggio, come se lui riuscisse a vedere dentro di lei. «… la situazione è sfuggita di mano. E se non fosse stata Lisa ad attaccare per prima, probabilmente sarei stato io a tagliare la mano del porco che ti stava facendo male.»

Steph schiuse le labbra. Konnor parve rendersi conto di aver parlato un po’ troppo, perché allontanò la mano da lei. Distolse lo sguardo e si schiarì la voce, leggermente imbarazzato. Tornò a fronteggiare Chirone. «Cosa dobbiamo fare, Chirone?» domandò, cercando di cambiare argomento, anche se Steph non si sarebbe dimenticata tanto preso cosa aveva detto. Soffocò un sorriso e rimase in ascolto del centauro, che disse: «Il capo dell’impresa, tecnicamente, è Edward. Le decisioni spettano a lui, non a me. E se lui ha scelto di proseguire in auto, allora voi dovreste seguirlo.»

Quella risposta non parve essere di gradimento a Konnor. «Ma…»

Chirone lo fermò sollevando una mano. «Purtroppo, è la vostra unica opzione, per il momento. Proseguite con ogni mezzo a vostra disposizione. Nel frattempo, io mi metterò subito all’opera. Proverò a manipolare la Foschia e vi prometto che farò qualsiasi cosa in mio potere per riuscire ad aiutarvi. Ma voi non potete fermarvi, in nessun modo.»

«E se usassimo i pegasi?» insistette Konnor. «Non sarebbe più semplice?»

«Ma non sapete cavalcarli» obiettò Chirone.

«Però…»

«E inoltre, sareste bersagli molto più semplici per i Venti e gli altri mostri che si muovono per via aerea. Se vi disarcionassero e vi facessero precipitare, non ci sarebbe nulla in grado di salvarvi. No, proseguite a terra. Sarà un viaggio lungo, ma possibile. Non è la prima volta che dei semidei fanno un viaggio simile, dopotutto.»

Stephanie preferì non ricordare a Chirone che gli altri semidei che avevano fatto viaggi simili erano gli stessi che poi sarebbero diventati i più grandi eroi degli ultimi tempi. Lei era sicurissima di non essere nemmeno nella loro stessa stratosfera. Ma se Chirone si fidava di loro, allora lei avrebbe fatto di tutto per non tradire quella fiducia. Inoltre, tutto sommato, non sembrava abbattuto per la faccenda. O forse non voleva impensierire il gruppo più del dovuto. E ora che aveva appena avuto questo pensiero nefasto, Stephanie era certa che non sarebbe più riuscito a scollarselo di dosso.

Ingoiò la sabbia che le aveva appena riempito la bocca e salutò il centauro, imitata da Konnor. Una volta congedato Chirone, la finestra di luce di dissolse e la ragazza poté finalmente sciogliere le spalle rimaste tese fino a quel momento.

«Allora» iniziò Edward, raggiungendoli proprio in quel momento dopo essere sbucato fuori da in mezzo ad alcuni alberi. Si stava strofinando le mani con una salvietta, grazie al cielo. «Che vi ha detto?»

«Dobbiamo proseguire» tagliò corto Steph. 

Konnor mostrò ancora una volta il suo sdegno per quell’idea facendo una smorfia. Smorfia che si accentuò quando Edward sfoggiò il suo classico sorrisetto. Per fortuna non gli dissero anche che Chirone aveva esordito di dover dare ascolto ad ogni sua parola in quando capo dell’impresa, o probabilmente si sarebbe montato la testa molto di più di quanto già non avesse fatto. «Visto? Che avevo detto? Forza, ripartiamo subito!»

Steph e Konnor si scambiarono uno sguardo, mentre Lisa sospirava pesantemente, scuotendo la testa. «Giuro che se sento ancora un solo secondo di quella schifezza country…» 

Edward ebbe appena il tempo di girare la chiave nel cruscotto. Non appena accese la vettura, il suo sguardo cadde verso il quadro. «Oh-oh…»

«Che succede?» domandò Tommy, allarmandosi.

«La benzina» spiegò Edward, accennando con il mento ad una spia arancione appena accesasi. «Dobbiamo fermarci a fare il pieno. Speriamo solo che ci sia una stazione nei paraggi.»

«Fermarsi a fare benzina con la polizia alle calcagna non mi sembra una buona idea…» mugugnò Konnor. Edward si voltò verso di lui per replicare, ma il figlio di Ares lo fermò. «Sì, lo so che non abbiamo altra scelta. Non sono stupido.»

«E allora smettila di lamentarti» sbottò Edward. «Perché più lo fai, più invece mi dai l’idea di esserlo.»

Konnor serrò la mascella, ma Steph posò una mano sul suo ginocchio. Il ragazzo trasalì, poi la osservò sorpreso. Per fortuna comprese le sue intenzioni, perché dopo averla soppesata un attimo con lo sguardo, annuì flebilmente e sciolse le spalle. 

Edward non si stava comportando in maniera molto leale, con Konnor. Dopotutto aveva scelto di affrontare Buck solo per aiutarli e partecipare a quell’impresa. Si era messo contro il volere del suo capocasa, che probabilmente avrebbe aizzato il resto dei suoi fratelli contro di lui. Tra tutti e quattro gli accompagnatori di Edward, Konnor era senza dubbio quello che aveva compiuto il sacrificio più grande, perché aveva messo a rischio il suo legame con i fratelli. 

Steph era sicura che a Konnor fosse spiaciuto dire a Buck quelle parole. Aveva visto la delusione e la tristezza nei suoi occhi quando lo aveva accusato di aver voltato le spalle a lui e anche a loro padre, ma il capocasa non gli aveva lasciato altra scelta. Chissà che cosa pensava davvero Ares in merito alla faccenda, ammesso e concesso che gliene importasse davvero qualcosa.

Proseguirono in silenzio. Non incrociarono molto traffico, giusto qualche auto, qualche camion che trasportava tronchi d'alberi, e alcuni furgoncini. Più passava il tempo, più Steph si sentiva a disagio. Dopo il disastro dell’aeroporto, si sarebbe aspettata che altri mostri si facessero vivi, prima o poi, e invece nulla. Tutta quella calma non le piaceva per niente. Si sarebbe sentita più tranquilla se un ciclope gigante cannibale li avesse inseguiti a piedi ruggendo, o robe del genere. Qualsiasi cosa, eccetto tutta quella calma.

Fece vagare lo sguardo sul resto dei compagni, e, paradossalmente, si sentì più sicura quando si accorse che anche loro sembravano tesi. Lisa teneva le braccia incrociate e se ne stava girata verso il finestrino, proprio come stava facendo anche Tommy, mentre Konnor aveva la testa appoggiata contro lo schienale e gli occhi socchiusi, le mani premute con forza sulle braccia. Il buonumore sembrava essere svanito da dentro di Edward. Forse, ora che la prospettiva di un viaggio attraverso l’intero paese era diventata realtà, aveva intuito che era meglio rimanere concentrati.

Il tragitto non durò ancora a lungo. Per fortuna una piccola stazione di servizio solitaria comparve sul ciglio della strada, con un boschetto alle sue spalle. «Va bene, gente» cominciò Edward, mettendo la freccia per svoltare. «Scendo solo io. Faccio il pieno e leviamo le tende.» Adocchiò Konnor tramite lo specchietto. «O hai qualcosa in contrario?»

Il figlio di Ares grugnì. «No. Pensaci pure tu.»

«Bene.»

La macchina si fermò accanto alle pompe. Sembravano piuttosto vecchie. Tutta la stazione pareva piuttosto vecchia, a dire il vero. Un piccolo market accanto a loro, e dei servizi in lontananza, entrambi edifici che dovevano reggersi in piedi per miracolo. Oltre a un commesso mezzo addormentato dietro il bancone del negozietto, non c’erano né auto né persone nei paraggi. Ancora una volta, la troppa calma inquietò Steph. Se qualcosa di brutto doveva accadere, quello sembrava il luogo ideale.

Edward aprì la portiera e fece per scendere, ma prima si controllò le tasche. Si fermò di colpo, per poi voltarsi verso gli altri un po’ imbarazzato. «Ehm… qualcuno ha degli spiccioli?»

Lisa sorrise provocatoria a Tommy. «Perché non lo chiedi al nostro ladruncolo d’auto qui presente?»

Il figlio di Ermes si accigliò. «Non sono un...»

«Chirone mi ha dato duecento dollari mortali, per le emergenze» si intromise Stephanie, evitando che un'altra discussione inutile prendesse vita. Afferrò il suo zainetto e controllò tra una mazzetta di banconote, estraendone una da venti e consegnandola al figlio di Apollo. 

«Bene.» Edward scese dall’auto e cominciò ad armeggiare con il distributore, mentre Stephanie lanciò un’occhiataccia a Lisa, che dal canto suo sghignazzò, rimanendo in silenzio.

La figlia di Demetra arrischiò uno sguardo a Thomas, che ora, più che infastidito, sembrava abbattuto. Lei sapeva molto bene che il suo amico non andava fiero delle abitudini del resto dei figli di Ermes, bastava pensare anche solo a quando lei gli aveva chiesto se stavano per rubare quel pick-up. Era chiaro che non gli piacesse rubare o truffare come invece amavano fare Derek o addirittura Ermes, perciò essere chiamato "ladruncolo" per lui doveva essere un’offesa non da poco. Forse Lisa non lo sapeva. O forse lo aveva chiamato così proprio perché, invece, sperava di ferirlo. Ancora una volta, si domandò che cosa frullasse nella mente della figlia di Bacco.

Un potente rombo di motore catturò l’attenzione di tutti loro. Una motocicletta rossa fiammante accostò proprio in quel momento nella stazione, sistemandosi vicino alla pompa di benzina accanto alla macchina. 

Stephanie non se ne intendeva molto di moto, ma era abbastanza sicura che quello fosse un chopper, una di quelle moto da biker, quei tizi poco raccomandabili che giravano di bar in bar a fare risse, ubriacarsi e spaccare cose. Il pilota della moto, del resto, pareva proprio quel tipo di persona, con la giacca di pelle nera, il cinturone con le borchie e un teschio argentato al posto della fibbia, e il fisico molto robusto. Tuttavia, sorprendentemente, non era da solo. Stretta alla sua vita si trovava una donna vestita in maniera tutto sommato elegante, con dei pantaloni color panna e una giacchetta di jeans sottile, una borsa a tracolla e lunghi capelli riccioluti e castani che scivolavano dal casco lungo la sua schiena.

La mente di Stephanie cominciò ad elaborare le informazioni. Un grosso biker vestito di nero, la motocicletta rosso fuoco, i teschi, le borchie, il seggiolino di pelle che sembrava quasi umana, la donna elegante e snella…

«Ma che diavolo…» sbottò Edward mentre posava la pistola della benzina, anche lui con lo sguardo magnetizzato alla coppia. Pure Lisa e Thomas parvero dimenticarsi di quanto accaduto giusto quindici secondi prima. Ma quello che sembrava più sorpreso di tutti sicuramente era Konnor. E Steph ne intuì il motivo da ben prima che il biker spegnesse la moto, togliendosi il casco e rivelando un volto spigoloso con un taglio di capelli a spazzola.

Sorrise, o meglio, ghignò, al gruppo di ragazzi, infilandosi un paio di occhiali da sole per andare a coprire le orbite degli occhi vuote. Accanto a lui, anche la donna si tolse il casco, mostrando un viso così bello da togliere il fiato. Sorrise a sua volta, anche se il suo sorriso, a confronto di quello dell’uomo, parve un raggio di luce in mezzo ad una notte buia e tenebrosa.

«Ma… ma quelli sono…» cominciò Thomas, parlando a fatica.

«Padre…» lo anticipò Konnor, con un sussurro.

 

***

 

Che stava per succedere qualcosa di brutto, Steph l’aveva capito. Ma non così brutto.

I cinque ragazzi si ritrovarono l’uno accanto all’altro, fuori dall’auto, di fronte alla coppia. Incontrare due dei per alcuni poteva essere qualcosa di incredibile, un onore immenso. E anche per Stephanie lo sarebbe stato… se solo non si fosse trattato dei genitori dei bulli più grandi del Campo Mezzosangue. Di fronte a lei, si trovavano il padre del semidio che aveva messo le mani addosso a Edward durante il suo primo giorno al campo, e la madre delle ragazze che amavano tormentarla.

«Divino Ares, Divina Afrodite…» mormorò Stephanie, chinando il capo.

Tommy, Konnor e Lisa la imitarono istantaneamente. Solo Edward rimase ancora per un attimo in piedi, confuso, fino a quando Thomas non gli diede una leggera gomitata, invitandolo a prendere esempio da loro. Con riluttanza, si inchinò anche lui.

«Oh, suvvia, non siate così formali!» disse Afrodite, ridacchiando, con un tono di voce mellifluo, quasi ipnotico. Una brezza d’aria fece sventolare i suoi lunghi capelli, facendo giungere alle narici di tutti loro un dolce profumo di cannella che fece girare leggermente la testa di Stephanie. E se aveva quell’effetto su di lei, una ragazza, poteva solo immaginare come Thomas, Edward o Konnor potessero sentirsi.

E a tal proposito, proprio accanto a lei, Konnor sembrava un palo di cemento. Era rigido come un chiodo e la ragazza cominciò a domandarsi se stesse perfino respirando. Nonostante Afrodite avesse appena dato loro il permesso di alzare la testa, lui rimase esattamente com’era, fino a quando Ares non sghignazzò. «Non hai sentito, ragazzo?»

Konnor trasalì, poi, impacciato, si tirò su. Deglutì e Stephanie si accorse della sua fronte imperlata di sudore. Tra tutti loro, sembrava il più sconvolto dalla situazione. Stephanie dubitava che si sarebbe comportata in quel modo se avesse incontrato sua madre Demetra. Certo, Ares non era famoso per essere un padre affettuoso, ma Steph non avrebbe mai pensato che avrebbe potuto intimorire così tanto un semidio come Konnor. Era perfino più angosciato di Thomas, e per essere più angosciati di Thomas occorreva davvero impegnarsi. 

«Ma che bel gruppetto che hai messo su» proseguì Ares, sempre con quel sorrisetto divertito e provocatorio, rivolgendosi a Edward. Soppesò Thomas e Lisa con lo sguardo per alcuni istanti. Tirò su con il naso ed accentuò il ghigno, poi spostò lo sguardo su Konnor, che, per quanto possibile, sembrò irrigidirsi ancora di più. Anziché farlo tornare serio, la vista del figlio sembrò divertirlo ancora di più. Poi, il dio della guerra posò lo sguardo su di lei. Stephanie sentì il proprio cuore fermarsi. Il tempo stesso parve fermarsi, mentre il dio la sezionava con quegli occhi vuoti nascosti dagli occhiali da sole. Stephanie si sentì come se l’effetto che Konnor le trasmetteva tutte le volte che la scrutava fosse stato moltiplicato per cento. 

Tutto a un tratto, una scarica elettrica percorse il corpo della ragazza, che strinse i pugni con forza. Cominciò a percepire l'energia della terra sotto di lei, mentre le parole di sua sorella cominciavano a rimbombare nella sua mente, proprio come succedeva tutte le volte che Jane e le altre la tormentavano. 

Improvvisamente, Stephanie percepì il desiderio impellente di cancellare quel sorrisetto divertito dal volto del dio. Serrò la mascella e lo squadrò con rabbia, tuttavia, in mezzo a quei pensieri violenti che stavano prendendo posto nella sua mente, riuscì a farsi strada uno più lucido, che le ricordò che lei, in realtà, non era davvero così. Quei pensieri erano colpa proprio dello stesso Ares, o meglio, dell'aura che emanava. Gli dei potevano influenzare ciò che si trovava attorno a loro soltanto con la propria presenza, proprio come stava accadendo in quel momento a lei e forse anche agli altri. 

Intanto, di fronte a lei, Ares piegò la testa, continuando ad osservarla con insistenza. Prima ancora che Steph potesse domandarsi perché ce l’avesse con lei in particolare, il dio riportò l’attenzione su Edward. «Sembra quasi che tu per primo voglia che quest’impresa fallisca miseramente.»

A quella provocazione, Edward strinse i pugni con forza. E anche Lisa e Thomas non parvero felici di quelle parole. Ma prima che il figlio di Apollo potesse ribattere con qualcosa che probabilmente avrebbe infastidito il dio, o peggio, Stephanie si intromise, scongiurando l’ennesima catastrofe. «Ehm… divini Ares ed Afrodite, possiamo domandarvi che cosa vi ha spinti ad allontanarvi dai vostri impegni per venire ad incontrarci?»

«Mh?» mugugnò Ares, tornando a scrutarla.

«Volevamo vedere di persona come procede la vostra impresa» rispose Afrodite, distendendo il suo sorriso dolce. «Dopotutto, è anche grazie a noi se Edward è vivo. Volevamo assicurarci di aver fatto la scelta giusta quando abbiamo votato per la sua salvezza.»

Finalmente, Konnor sembrò riscuotersi. Osservò Edward, sorpreso. «Che significa?» Anche Lisa e Thomas spostarono lo sguardo sul figlio di Apollo. Perfino Stephanie rimase di stucco, e guardò l'amico in cerca di risposte.

«Giusto, al Consiglio non ve l’abbiamo detto» mormorò Edward. «Gli dei… hanno indetto una votazione. Per decidere se uccidermi o no. E… loro due hanno votato per la mia salvezza.»

«Loro due?» domandò Ares, dilatando le narici infastidito. «Intendevi dire "il divino Ares e la divina Afrodite", spero.»

«Su, su…» si intromise la dea dell’amore, picchiettando sulla spalla del suo amante. «Sono certa che non voleva suonare offensivo.» Tornò a sorridere al gruppo di semidei, rimasti sorpresi dall’affermazione di Edward. Perché mai i genitori dei semidei con cui Edward aveva avuto così tante dispute avrebbero scelto di proteggerlo? La faccenda non quadrava e, conoscendo gli dei, era molto probabile che avessero agito per scopi egoistici. Ma prima che potessero chiedere altre spiegazioni, Afrodite aggiunse: «Ora, Stephanie, Thomas, vi spiace venire con me, cari? Dobbiamo scambiare qualche parola in privato.»

Stephanie sgranò gli occhi, sbigottita. E se lei lo era, chissà che cosa doveva provare Tommy. 

«Avanti su, seguitemi» li invitò la dea, con gentilezza, mentre si voltava e si avviava verso i servizi. I due ragazzi interpellati scambiarono uno sguardo con il resto dei loro compagni. Edward sollevò le spalle e Lisa fece una smorfia, distogliendo lo sguardo. Konnor osservò Steph negli occhi e annuì lentamente, invitandola a proseguire. 

La figlia di Demetra raccolse il poco coraggio che aveva e annuì a sua volta. Con Tommy a fianco, si avviò al seguito della dea, sperando che nel frattempo gli altri tre ragazzi e il dio della guerra non combinassero nulla di catastrofico.

 

***

 

«Oh» mormorò Afrodite, una volta messo piede nel prefabbricato dei servizi. Quando Stephanie giunse alle sue spalle, non faticò a capire il perché di quel verso demoralizzato. Le piastrelle luride del pavimento erano bagnate d’acqua, forse uscita dai gabinetti intasati, i muri erano sudici e macchiati da graffiti, gli angoli del soffitto ricoperti da una patina di muffa. Gli specchi erano sporchi e pieni di crepe, nessuno utilizzabile.

«Che… schifo.» Afrodite storse il naso. «E io dovrei rifarmi il trucco in questo posto?» La dea schioccò le dita. Sotto lo sguardo incredulo di Steph e Tommy, tutta la sporcizia, l’acqua e le crepe si ritirarono su sé stesse. Le piastrelle da grigie tornarono bianche, le crepe e i graffiti sui muri e le porte svanirono, l’intera zona venne tirata a lucido, pulita come mai era stata.

A lavoro concluso, Afrodite annuì soddisfatta. «Molto meglio.» 

Si posizionò di fronte allo specchio centrale, poi cominciò a estrarre dalla borsetta alcuni accessori per il trucco. Si tamponò sopra gli occhi con un pennellino, per sistemarsi l’ombretto, anche se Stephanie fu costretta a domandarsi cosa stesse risistemando, perché non c’era proprio niente di fuori luogo sul volto della dea. E anche se ci fossero state imperfezioni, di sicuro anche quelle sarebbero state perfette in qualche assurdo e paradossale modo.

«Allora, Stephanie…» cominciò da lei, mentre spennellava sulla pelle liscia come un pittore su una tela. «… come stai?»

Quella domanda la spiazzò. «Ehm… bene… grazie per l’interesse, divina Afrodite.»

«Mi fa piacere.» La dea le sorrise tramite il riflesso dello specchio, per poi farsi più seria. «Mi dispiace per come si comportano con te le mie ragazze. So che non ti meriti questo trattamento. Ma purtroppo, come immagino tu sappia, noi dei abbiamo molti lati, e i nostri figli spesso possiedono solo uno di questi. Sfortunatamente, la mia Jane e le sue sorelle hanno ereditato il lato… meno gradevole. Spero solo che tu non sia arrabbiata anche con me.»

Steph fu sorpresa da quelle parole. Non credeva che la dea avrebbe davvero tirato fuori quella questione. E soprattutto che le chiedesse, a suo modo, scusa. «Non deve dispiacersi. Non è certo colpa sua.»

Afrodite sorrise di nuovo. «Immaginavo che mi avresti dato una risposta del genere. Ti ho tenuta d'occhio per molto tempo, sai? Vi stavo guardando quando Edward ti ha chiesto se fossi figlia mia.» La dea ridacchiò. «Un vero peccato che purtroppo non sia così.»

«Divina Afrodite... dice sul serio?» domandò la giovane con stupore.

«Ma certo. Sei proprio tutto quello che le mie figlie non sono.» La dea sospirò pesantemente. «Sei così dolce, buona e comprensiva. E anche molto bella. Non mi sorprende affatto che tu sia tanto ambita tra i ragazzi.»

La figlia di Demetra sentì le guance bruciare. «O-Oh…»

«Suvvia, non fingere di essere sorpresa.» Afrodite si posò una mano di fronte alla bocca, mentre un'altra risatina le sfuggiva. «Non mi capitava tra le mani una storia bella come la tua da anni. Ben due ragazzi innamorati di te, pronti a tutto pur di poterti conquistare. Come potevo perdermi un’occasione come questa?»

«O-Occasione? Storia? Due… ragazzi…?» ripeté Stephanie, a stento, cercando di metabolizzare quelle parole. Anche se da metabolizzare non c’era un bel niente, perché purtroppo aveva capito di cosa la dea stesse parlando. «Konnor… ed Edward…» mormorò, più a sé stessa che ad Afrodite. Di piacere a Konnor già lo sapeva da molto tempo, ma Edward… certo, aveva sospettato di piacere anche a lui, ma averne la certezza fu comunque un grosso colpo al petto.

La dea dell’amore annuì soddisfatta. «Proprio così. E la parte migliore? A te piacciono entrambi! Oh, che cosa meravigliosa!»

Attraverso il riflesso dello specchio, Steph poté scorgere le proprie goti diventare più rosse dei capelli di Tommy, che per inciso era rimasto lì tutto il tempo, ad ascoltare imbarazzato la conversazione. Il figlio di Ermes le lanciò uno sguardo compassionevole, probabilmente comprendendo il suo disagio.

«Ma non è solo il fatto che entrambi ti piacciono che mi fa amare la tua storia» proseguì intanto Afrodite, ormai persa nel suo discorso. «È il fatto che sono due ragazzi così diversi tra loro! Non hanno praticamente nulla in comune, eccetto i sentimenti che provano per te. Uno è un nobile guerriero, senza macchia e senza paura, disciplinato, onesto e fedele, l’altro è un ribelle dalla lingua tagliente, cresciuto per strada, segnato da profonde cicatrici e sprezzante del pericolo. E tu, dolce Steph, sei così indecisa! Che cosa preferisci, mia cara, il cuore puro, o il cuore ribelle? Sceglierai l’eroe, perché colpita dai suoi sani principi, dalla sua onestà, dal suo coraggio, oppure sceglierai l’antieroe, perché speri di riportarlo sulla retta via, o ancora meglio, perché nel profondo anche tu sogni di essere come lui? Oh, non sai cosa darei per potermi trovare in una situazione come la tua! Hai così tanto su cui riflettere, così tanto per cui struggerti. Alla fine di quest’impresa un cuore verrà spezzato, e chissà che cosa servirà per poterlo rimettere insieme! Già adesso non vedo l’ora!»

Stephanie si toccò una tempia. Se la dea l’avesse presa a ceffoni, si sarebbe sentita meno stordita. Tutto quel discorso le era sembrato così assurdo. Quanto le sarebbe piaciuto rispondere alla donna che si stava immaginando tutto quanto… peccato solo che quella fosse la dea dell’amore in persona, e che faccende di quel tipo erano il suo pane quotidiano. 

La ragazza abbassò la testa, pizzicandosi un labbro con i denti. Il motivo per cui gli sguardi di Konnor l’avevano sempre messa a disagio, era perché odiava venire sezionata da qualcuno, o anche solo averne l’impressione. Ma Afrodite non l’aveva solo sezionata, le aveva guardato attraverso come se fosse stata una finestra aperta.

Era vero, Konnor le piaceva, nonostante tutto. Aveva rifiutato il suo invito perché aveva avuto paura, ma in parte aveva rimpianto quella decisione. Era sempre stato un bravo ragazzo, molto diverso dai suoi fratelli, e non avrebbe mai smesso di ripeterselo. Ed Edward… lo aveva trovato affascinante sin dal primo sguardo. Quel semidio misterioso, sopravvissuto da solo per così tanti anni, così coraggioso e impulsivo… l’aveva difesa anche se non la conosceva, si era preso un pugno in faccia per lei e, poteva vederla come voleva, ma se non l’avesse pedinata quel giorno, nel bosco, Stephanie non si sarebbe trovata lì, in quel bagno, a discutere con la dea dell’amore in merito a questioni di cuore. Gli doveva la vita. 

Jane e le altre l’avevano sempre fatta sentire come se lei non valesse nulla, come se nessun ragazzo potesse mai interessarsi a lei, ma si erano sbagliate. E anche lei si era sbagliata, perché a un certo punto aveva quasi creduto che loro avessero ragione.

E il peggio doveva ancora arrivare, perché, mentre rifletteva su tutta quella faccenda, realizzò un dettaglio di cruciale importanza. «Quindi… quindi è per questo che ha voluto risparmiare la vita di Edward?» mormorò. «Non voleva rovinare questo… questo triangolo?»

«Suvvia, Stephanie, non dire sciocchezze» ridacchiò la dea. «Per che razza di mostro senza cuore mi hai presa? Non sono mica come il mio caro compagno Ares, che l’ha risparmiato solo perché spera che la vostra impresa fallisca. Io non avrei mai lasciato un povero semidio innocente a perire per i peccati del padre.»

«I… peccati del padre?» domandò la figlia di Demetra, drizzando la testa, ma Afrodite non sembrò sentirla.

«E anche tu, piccolo Thomas, non credere che mi sia dimenticata di te.» 

Dall'espressione che fece il ragazzo, parve proprio che lui invece avrebbe preferito così. La dea strinse le mani e se le avvicinò al volto, sospirando estasiata. «Partito per quest’impresa pericolosa soltanto perché speri che la ragazza che ami sia ancora viva! Come sei romantico!»

Tommy si massaggiò dietro il collo. «B-Beh… i-io…»

«Thomas, Thomas, Thomas…» proseguì nel frattempo la dea, accarezzandogli dolcemente la guancia, gesto che lo pietrificò proprio come se si fosse trovato di fronte Medusa in persona. «… ma come può un cuore così grande esistere dentro questo corpicino?»

L’espressione atterrita di Tommy si tramutò in una di disappunto. Se c’era un’altra cosa che detestava, quelli erano i commenti sulla sua statura. Ovviamente, Afrodite non prestò alcuna attenzione a questo dettaglio. «Non puoi neanche immaginare che cosa ti aspetta!» concluse, per poi rigirarsi alcune delle sue ciocche di capelli rosse tra le dita, esaminandole con attenzione. «Che colore stupendo. Davvero sono naturali?»

«Sì…»

«Come ti invidio!» La dea mollò la presa dal ragazzo, per poi tornare a rimirarsi di fronte allo specchio. Estrasse un lucidalabbra, per poi cominciare ad applicarselo. «Eh, sì. Avrete molto di cui soffrire!»

Steph trasalì. L’idea di soffrire non la faceva molto impazzire, a dire il vero. E Tommy doveva pensare lo stesso. I due ragazzi si scambiarono uno sguardo angosciato, ma nessuno disse nulla. Afrodite mise via il lucidalabbra, per poi sistemarsi i capelli, dando gli ultimi rintocchi al proprio aspetto. «E pensare che tutti i vostri problemi di cuore potrebbero risolversi in un solo istante se voi due decideste di mettervi insieme.»

Ancora una volta, i due semidei sobbalzarono, per poi si guardarsi nuovamente tra loro. 

«Ma così sarebbe troppo semplice, e anche voi due lo sapete, dico bene?» proseguì Afrodite, ridacchiando. «Non preoccupatevi. Ci sto pensando già io a complicare tutto. Potete restare tranquilli.»

Mi sembra un ottimo incentivo per rimanere tranquilli…

«Bene, abbiamo quasi finito. Thomas, tu vai pure avanti, ho bisogno di dire ancora una cosa a Stephanie in privato.»

Tommy esitò per un istante. Stephanie gli fece capire che poteva andare tranquillo e allora lui si congedò con un goffo inchino. Una volta uscito, la dea si avvicinò alla figlia di Demetra, posandole una mano sulla spalla. Sorrise, anche se questa volta non sembrò più il sorriso di una ragazzina del liceo amante di pettegolezzi, ma quello di una madre amorevole, un sorriso che sicuramente non avrebbe pensato di ricevere proprio da lei.

«So che in questi anni per te non è stato facile» cominciò, guardandola apprensiva. «Con le mie figlie, con tutto quello che ti è successo. So che credi di non essere nulla di speciale e che non ti ritieni davvero all’altezza dei grandi semidei del passato. E so anche che, forse, per te sarebbe più opportuno ricevere questo discorso da tua madre, e non da me, ma ti ho tenuta d'occhio perché ti ho presa a cuore, e sarebbe ingiusto salutarti senza darti nemmeno una parola di incoraggiamento. Ciò che voglio che tu sappia è che tu, Stephanie, sei molto più importante per quest’impresa di quanto tu possa immaginare. Non lasciarti abbattere dalle parole degli altri, mai, perché sarai tu a fare la differenza. Io so che renderai Demetra fiera di te.»

Stephanie schiuse le labbra, meravigliata, non sapendo cosa pensare di quelle parole. Rimase sorpresa da quel cambiamento così drastico nella dea. Quando aveva parlato di possedere molti lati, di certo non si era aspettata una cosa del genere. Afrodite distese il sorriso e la invitò a raggiungere i suoi amici. Ancora confusa dalle parole appena ricevute, la figlia di Demetra si allontanò dai servizi al seguito della dea.

Raggiunsero le pompe di benzina, che per fortuna non erano esplose. Konnor, Edward, Lisa e Ares erano ancora tutti lì. Il dio della guerra stava fumando un sigaro, in barba al divieto di fumare nelle stazioni di servizio. Il figlio di Apollo se ne stava appoggiato a braccia conserte al pick-up, con la testa bassa, assorto. Sembrava piuttosto infastidito, e anche lo sguardo di Lisa, seduta sul vano di carico, non era dei migliori. Konnor, invece, pareva semplicemente a disagio.

«Era ora» sbottò la figlia di Bacco, rivolgendosi a lei e Thomas quando raggiunsero il gruppo.

Stephanie non fece caso a lei. Dopo il discorso appena avuto con la dea dell’amore, alla vista di Edward e Konnor cominciò a sentire il suo stomaco fare le capriole.

«Bene, è stato un delizioso incontro» annunciò Afrodite, per poi rivolgere un cenno a tutti i semidei. «Fate buon viaggio!»

Ares sogghignò. «Cercate di non morire. Non troppo presto almeno.»

Edward serrò la mascella, ma non disse nulla. Il dio della guerra saltò in sella alla moto, mettendosi il casco rimasto appeso al manubrio.

«Oh, cielo, mi ero dimenticata di questo aggeggio» si lamentò Afrodite, quando recuperò il suo. «Mi rovinerà i capelli!»

Il dio della guerra ignorò la protesta e accese la moto, mentre la compagna indossava il casco con un sospiro abbattuto. Un altro forte rombo di motore provenne dal mezzo, facendo vibrare i denti di Stephanie, dopodiché la coppia si allontanò dalla stazione, con Afrodite che rivolse loro un ultimo saluto con la mano.

Il ronzio della motocicletta rimase udibile ancora per diversi istanti, prima di svanire nei meandri di quella stradina desolata. E così il loro bizzarro, o delizioso, incontro si concluse.

«Allora…» cominciò Lisa, saltando giù dal pick-up. «… di che avete parlato?»

Anche se si aspettava quella domanda, Steph non si era comunque psicologicamente preparata a rispondere. «Ehm… niente di che…»

«Come “niente di che”? Siete stati una vita là dentro!»

«Beh…»

«Forse dovremmo riprendere la conversazione da un’altra parte…» borbottò Konnor all’improvviso, interrompendole.

«Perché?» domandò Steph, accorgendosi dello sguardo del compagno puntato verso la vetrina del negozietto. La figlia di Demetra lo seguì, per poi sbiancare quando si accorse del commesso, con il cellulare premuto all’orecchio e lo sguardo inchiodato su di loro. Non appena tutti i semidei si voltarono verso di lui, il ragazzino sobbalzò, gettando via il telefonino e abbassandosi dietro il bancone. Alle sue spalle, un televisore acceso mandava alcune immagini impossibili da distinguere da quella distanza, ma non occorreva un genio per capire cosa stessero trasmettendo e con chi stesse parlando quel tizio.

«Per una volta sono d’accordo con te» sussurrò Edward.

Un istante dopo, l’auto lasciò la stazione con uno stridore di gomme, mentre Stephanie guardava come un’ossessa alle sue spalle, temendo che un esercito di poliziotti potesse spuntare da un momento all’altro.

Grata che si fossero allontanati da quel posto, la figlia di Demetra appoggiò la testa al sedile, sospirando esausta. Era sicura che le parole di Afrodite avrebbero riecheggiato ancora per molto tempo nella sua mente, e che non sarebbe più riuscita a guardare né Konnor né Edward allo stesso modo. Si sentì in colpa del fatto che entrambi le piacessero. Non era giusto nei loro confronti. Alla fine di tutta quella faccenda, un cuore sarebbe stato spezzato. Poteva essere il loro, o addirittura il suo, non lo sapeva. E inoltre… avrebbe fatto la differenza. In cosa, non poteva sapere nemmeno questo.

La sua unica certezza, era che avrebbe avuto molto su cui riflettere. Fortunatamente, o sfortunatamente, di fronte a loro si trovava un viaggio di tremila miglia. Per riflettere, avrebbe avuto ancora parecchio tempo.

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Capitolo 14
*** Nuova minaccia ***


14

Nuova minaccia

 

 

Una volta messa una buona quantità di miglia di distanza tra loro e la stazione di servizio, Stephanie raccontò di cosa lei, Thomas ed Afrodite avevano parlato, ovviamente omettendo le parti più imbarazzanti, ossia circa il novanta percento di tutto quel discorso.

«Per prima cosa, abbiamo saputo perché lei e Ares hanno deciso di risparmiare Edward» iniziò a dire, prima di venire interrotta da Konnor.

«Mio padre vuole che l’impresa fallisca, vero?» domandò, con tono di voce incolore. 

La ragazza l’osservò sorpresa. «Ve l’ha detto mentre ci aspettavate?»

«No.» Konnor sospirò pesantemente, stringendosi con forza nelle spalle. «Ma era piuttosto intuibile.»

«Aspettate, cosa?» si intromise Edward. «Perché vorrebbe che l’impresa fallisca? Non ha nessun senso!»

«Per lui ne ha.» Konnor fece una smorfia. «Ti ha risparmiato perché spera che tu non riesca a restituire la spada in tempo. Vuole che gli dei giapponesi dichiarino guerra all’Olimpo.»

«Ma… perché?»

«Perché lui è il dio della guerra» mugugnò Lisa, giungendo alla stessa conclusione. «È ovvio che ne voglia combattere una. E se è tra dei, ancora meglio.»

«Continuo a non capire» obiettò il figlio di Apollo, iniziando a tamburellare le dita sul volante. «Dioniso ha detto che gli dei giapponesi le suonerebbero ai greci. Perché Ares li vorrebbe affrontare?»

Konnor sollevò le spalle. «Pensi davvero che un dio come lui ammetterebbe mai di essere inferiore a un altro? È stata una sorpresa enorme che anche solo il signor D l’abbia fatto… mio padre vuole che scoppi la guerra per dimostrare di essere il più forte. Non mi sorprenderei se cercasse perfino di intralciare il nostro viaggio, in qualche modo.»

«Wow. Questo sì che si chiama ottimismo…» commentò Lisa.

Neppure Konnor sembrava molto entusiasta delle sue stesse parole. Non doveva essere stato semplice per lui parlare del padre in quel modo. E il fatto che il loro incontro non fosse stato certo dei migliori non doveva aver aiutato. Ares si era comportato quasi come se il figlio non fosse stato nemmeno presente. Forse non aveva gradito il fatto che Konnor si fosse schierato contro Buck. O forse non gliene importava niente e basta.

«Sinceramente, sono rimasta più confusa dal motivo di Afrodite» riprese il discorso Stephanie. «Ha... ha detto che non voleva che un semidio innocente venisse giustiziato per i peccati del padre.»

«I peccati del padre?» domandò Konnor, per poi osservare Edward.

«Non guardare me» si difese lui. «Non ho idea di cosa voglia dire. Sapete, forse non ve l’ho mai raccontato, ma mio padre non è che sia stato molto presente nella mia vita.»

Konnor si voltò di nuovo verso di lei, ignorando quel tono sarcastico. «Steph?»

«Anch'io non ho nessuna idea» ammise la figlia di Demetra, scuotendo il capo. «E la profezia non dice niente in merito a questi fantomatici peccati.»

«Sentite, gente» riprese Edward, con un sospiro. «Siamo vicini a Philadelphia. Non credo proprio che quei porci di sbirri abbiano smesso di cercarci. Concentriamoci sul non finire in prigione e basta. Per risolvere gli indovinelli avremo tempo in quantità.»

Cercò di usare un tono sprezzante e disinteressato, ma era palese che in realtà fosse anche più teso di loro. Dopotutto, era la sua impresa, la sua storia personale, e di mezzo c’era il suo di padre. Chiunque al suo posto si sarebbe sentito allo stesso modo. Konnor si irrigidì di nuovo, ma rimase in silenzio.

«Ma è tutto qui?» si ostinò Lisa. «Siete rimasti così a lungo là dentro per discutere solo di questo? E poi perché avrebbe dovuto dirlo proprio a voi?»

Stephanie esitò. «Beh...»

«Perché sapeva che noi l’avremmo ascoltata» la anticipò Thomas, riaprendo bocca per la prima volta da quando erano partiti.

Lo sguardo di Lisa si indurì. «Che cosa vorresti insinuare, nano?»

Tommy strinse i pugni, ma mantenne la calma. «Quello che ho detto. Io e Steph siamo quelli che conoscono Edward meglio di tutti, a parte Rosa. Afrodite non avrebbe mai parlato di una questione simile con te o con Konnor. E se l’avesse fatto con Edward, probabilmente lui avrebbe sollevato un polverone. Senza offesa amico.»

Edward scrollò le spalle, con un sorrisetto. «Eh sì, mi conosci bene.»

Anche Tommy sorrise, sistemandosi meglio contro il sedile. Lisa gli lanciò un’altra occhiataccia, per nulla convinta, ma alla fine distolse lo sguardo con un grugnito, mugugnando qualcosa a bassa voce.

Steph fu colpita da come Tommy mantenne il controllo della situazione. Forse era proprio per via delle parole di Afrodite, sul fatto che fosse partito per Rosa. Pensare a lei era riuscito a fargli mantenere la calma, anche se aveva ricevuto l’insulto che più detestava. Sapeva che, se voleva completare l’impresa, doveva restare concentrato. Sinceramente, Stephanie sperava che anche Lisa, Edward e Konnor lo capissero. Erano una squadra, non dovevano tormentarsi a vicenda di continuo, o quell’impresa sarebbe andata a rotoli.

La figlia di Demetra si strinse nelle spalle, accomodandosi meglio e adagiando il collo lungo il poggiatesta. Tornò a pensare alle parole di Afrodite, sull’importanza che, stando alla dea, lei avrebbe ricoperto in quell'avventura. Che il verso della profezia riguardo il sangue della vergine c’entrasse qualcosa? Prima non ci aveva pensato molto, a causa di tutto quello che era successo all’aeroporto, ma ora che si trovavano in quel momento di tranquillità, in macchina... era possibile. Poteva trattarsi proprio del suo sangue? La ragazza rabbrividì, cercando di non pensarci.

 

***

 

Era passato un po’ dall’ultimo sogno che aveva fatto. A dire il vero, non ricordava nemmeno l’ultima volta che fosse successo. Eppure, eccola lì, a vagare in quella sua forma priva di corpo in quello strano luogo, ad osservare un qualcosa che stava succedendo chissà dove. L’unica cosa che sapeva, era che non prometteva niente di buono.

Ciclopi, arpie, segugi infernali trattenuti a stento con dei guinzagli da dei lestrigoni e... dracene.

Stephanie rabbrividì. Non aveva mai nascosto il suo disgusto e la sua paura per i serpenti, e sinceramente, ancora quel giorno, era sorpresa del fatto che Jane e le sue seguaci non le avessero mai fatto trovare un serpente nel suo letto al Campo Mezzosangue per tormentarla, ma forse era perché nemmeno loro dovevano andarne pazze. 

Non sapeva bene da che cosa provenisse questa sua fobia. Forse era per il fatto che quando era bambina se n’era trovato uno di fronte in mezzo ai fiori di suo padre.

Per questo motivo, la vista delle donne mostruose la lasciò pietrificata per un istante, ma la paura non durò a lungo. Le dracene erano famose per essere impacciate, lente e abbastanza patetiche, se paragonate ad altri mostri, inoltre del serpente avevano solamente due code, al posto delle gambe, perciò non erano così spaventose, nemmeno per lei.

La parte spaventosa, però, doveva ancora arrivare.

Uno dei lestrigoni avanzò in mezzo a quel bizzarro ambiente, sembrava un cantiere edile da poco avviato, visto che il complesso di palazzi in costruzione altro non erano che un ammasso di travi di ferro e pilastri di cemento ancora in bella vista. Camion, furgoni, pick-up, gru e betoniere popolavano la zona poco illuminata da alcuni faretti, assieme ai mostri, su un terreno chiaramente spianato da poco, con il terriccio arancione ricoperto dalle impronte più svariate.

Osservando quel luogo, Steph provò una fitta al cuore. Un tempo lì doveva esserci un bosco, o un giardino, o qualcosa di simile. Ora, invece, non rimaneva altro che la gigantesca, sporca, impronta dell’uomo, che come sempre non poteva accontentarsi di ciò che già aveva e doveva continuare ad estirpare il poco che rimaneva alla natura, gli alberi, le piante, i fiori e la vegetazione, per far posto ai suoi mostri di cemento, ferro e vetro.

Certo, essendo la figlia della dea della fertilità e dell’agricoltura, Stephanie era di parte in quella conversazione. Sapeva come funzionavano le cose, l’uomo avrebbe continuato a espandersi, ma poteva comunque percepire, pure in sogno, il dolore che quel luogo emanava, il grido muto, che nessuno a parte lei poteva udire, della natura che era stata estirpata.

Si rese conto che i mostri erano disposti in una specie di semicerchio, tutti affacciati verso un anfratto buio nascosto sotto lo scheletro di un palazzo, dove le luci dei faretti non riuscivano ad arrivare.

Il gigante cannibale si avvicinò al buio, a disagio. E se lui pareva spaventato, chissà cosa Stephanie avrebbe dovuto pensare. «L-La squadra incaricata di intercettare i semidei all’aeroporto ha fallito. Sono... ehm... tutti morti, capo...»

Una serie di bisbigli e strani versi da far accapponare la pelle provenne dall’ombra. La ragazza non capì cosa volessero significare, ma una terrificante sensazione prese forma dentro di lei. Anche se non poteva esserne certa, non c’erano molte altre lingue oltre al greco, il latino o, nel loro caso, il giapponese, che mostri e simili potevano parlare. Quella era la lingua dei tempi antichi

Il lestrigone era sempre più spaventato. «M-Mi duole molto, capo, ma io non la capisco questa lingua…»

«IDIOTA!» tuonò un’agghiacciante voce femminile, gutturale e cavernosa. Ma non provenne dall’ombra. Provenne da uno dei ciclopi, nonostante quello fosse palesemente un maschio. Ora che ci faceva caso, pure lui e i suoi simili sembravano terrorizzati. E la tensione era palpabile anche sui volti delle arpie e delle dracene. Perfino i segugi infernali si ammansirono all’improvviso quando quella voce orribile sferzò l’aria come una frusta. I sospetti di Stephanie su chi si potesse trovare in mezzo a quel buio cominciarono a diventare certezze. E più lo facevano, più avrebbe voluto svegliarsi per mettersi a piangere e sperare che tutto quello, in realtà, non stesse accadendo davvero.

«Non mi aspettavo che sconfiggessero quei mocciosi» proseguì il ciclope, o meglio, la donna a cui il ciclope faceva da tramite. «Quegli stolti dovevano soltanto intralciarli. Ora che sono costretti a muoversi via terra, per noi sarà più semplice catturarli.»

Stephanie sentì la propria pelle accapponarsi, per quanto impossibile potesse sembrare. Ora, molte più cose si fecero chiare nella sua mente. I lestrigoni all’aeroporto... forse erano ignari delle intenzioni di questo loro "capo", ma lui... o lei, aveva in mente un piano ben preciso fin dall’inizio, un piano che era andato a buon fine. La figlia di Demetra si ricordò delle parole di Dioniso: non solo l’uomo che Edward aveva sognato e i suoi scagnozzi li avrebbero cercati, molti mostri si sarebbero messi sulle loro tracce. Anche quelli più pericolosi.

«Per colpa dei semidei, ho perso la mia casa» continuò la voce. «Per colpa loro, da carceriera, sono diventata carcerata, per colpa loro ho perduto la mia possibilità di rinascere. Ho trascorso tutto questo tempo nel Tartaro ad attendere il momento in cui mi sarei potuta vendicare. Quegli sciocchi ora si stanno dirigendo proprio verso di noi, inconsapevoli del destino che li attende. Non appena avremo messo le mani su di loro...» Il ciclope sogghignò, emettendo un suono gutturale che probabilmente doveva essere una risata, ma a Steph parve più il suono di una pala che affondava nella ghiaia. «... rispolvererò le mie tecniche di tortura.»

La risata divenne più forte, finendo con il contagiare tutti i presenti.

«Che avete da ridere?!» li fulminò ancora una volta la voce. «Mettetevi al lavoro! Trovate i semidei e portatemeli!»

I mostri sobbalzarono, annuirono freneticamente e cominciarono a fuggire in tutte le direzioni.

«Anche tu!» tuonò ancora il ciclope interprete, per poi trasalire e intuire che il capo stesse parlando proprio con lui. Annuì a sua volta e corse via, raggiungendo i suoi simili.

Dall’ombra provennero un’altra serie di inquietanti bisbigli, sicuramente non un elogio rivolto agli sgherri, subito seguito da un potente fruscio d’aria, come se fosse stato generato da un paio di gigantesche ali.

Fu proprio con quest’ultimo rumore che Stephanie si ridestò.

 

***

 

Riaprì gli occhi, e la prima cosa che percepì furono la schiena e il collo intorpiditi. Si era addormentata sul sedile. Accanto a lei, Tommy ronfava sommessamente appoggiato alla portiera, con le mani posizionate sotto la testa a mo’ di cuscino. Davanti, Lisa aveva abbassato un po’ il sedile e non si era fatta troppi problemi a stravaccarsi. Konnor teneva anche gli occhi chiusi, ma la figlia di Demetra era abbastanza sicura che li avrebbe riaperti immediatamente al primo cenno di bisogno. L’unico sveglio era Edward, con un gomito appoggiato contro al finestrino, una mano a sorreggersi la testa e l’altra stretta attorno al volante. Della musica metal fuoriusciva dalle casse della radio a volume moderato, con un cantante che sbraitava appellativi poco gentili a un interlocutore immaginario.

Stephanie si strofinò le mani sulle tempie, mugugnando, attirando l’attenzione dell’autista. In mezzo alle ombre che inondavano la macchina, riuscì a scorgere un sorriso sul suo volto, reso più chiaro dalle luci stradali.

«Ben svegliata» borbottò Edward. «Non è carino guidare di notte mentre tutti i passeggeri sono addormentati, sai? Fa venire un sonno del diavolo.»

Prima di rispondere, Stephanie ebbe bisogno di riepilogare un attimo cosa stesse succedendo. Avevano superato Philadelphia poco dopo l’incontro con Afrodite e Ares e adesso si stavano muovendo in autostrada. Dovevano essere in Illinois, ormai. Complessivamente, erano quasi dodici ore che stavano viaggiando. Dodici ore che Edward non staccava le mani dal volante. Erano solo le dieci di sera, ma quando si viaggiava per così tanto tempo, la stanchezza era quadruplicata.

«Edward, dovresti riposare un po’ anche tu» mormorò lei. Le sembrò strano dirgli proprio quelle parole alla prima occasione che ebbero di parlare da soli, ma si sentì genuinamente preoccupata per le sue condizioni. Con tutto quello che doveva già passargli per la testa, accumulare così tanta spossatezza durante la guida non poteva certo fargli bene. Il suo sguardo stralunato parlava benissimo da sé.

«Non posso riposarmi. Sono l’unico che sa guidare.»

«Sì, beh, non puoi certo pretendere di arrivare a San Francisco senza mai fermarti. È tutto il giorno che guidi. Devi essere a pezzi» insistette lei. «Siamo quasi a Chicago dopo solo un giorno di viaggio, è quasi un quarto di strada, e abbiamo ancora altri sei giorni di tempo! Di questo passo possiamo fermarci per qualche ora ogni sera, e arriveremmo comunque entro la scadenza. Ti prego, Edward. Preferirei che tu non ti addormentassi mentre sei al volante.»

Edward la scrutò tramite lo specchietto retrovisore per qualche istante, poi abbozzò un sorrisetto. «Non credevo tenessi così tanto a me.»

Stephanie sentì le guance bruciare. «Non... non è solo per questo. Devo ricordarti che hai quattro passeggeri a carico?»

«No, non serve. C’è già il rompiscatole accanto a te che se ne occupa.»

«Ti sento» gracchiò Konnor, senza muoversi di un millimetro e continuando a tenere gli occhi sigillati.

«E ti pareva!» 

La ragazza si voltò verso il figlio di Ares. «Tu sei d’accordo con me, vero?»

«Certo. Non possiamo dormire in questa scatola per tutto il tempo, o dovranno amputarci gambe e braccia.»

«Quindi ora fate pure squadra contro di me?» protestò Edward. «Ma allora è una congiura!»

«Non è una congiura» lo sbeffeggiò Stephanie. «Semplicemente, noi due usiamo il cervello di tanto in tanto.»

«Ha-ha. E va bene, miss, dove dovremmo trascorrere la notte? Hai in mente qualche posticino di classe? Io opterei per un bel ponte.»

Stephanie esitò. In effetti, nemmeno lei sapeva cosa fare. Avrebbero potuto accamparsi, ma non avevano nessuna tenda, e dubitava che Tommy ne avesse una nello zainetto magico. Osservando il piccoletto assopito, realizzò che non avevano bisogno di nessuna tenda, perché avevano di meglio: la chiave per qualsiasi stanza di motel esistente nel paese e probabilmente nel mondo.

«Credo di sapere cosa fare» annunciò con un sorriso.

 

***

 

L’idea di dormire abusivamente in un motel non le andava molto a genio, ma purtroppo non potevano andare a prenotare una stanza come se nulla fosse, con tutti i notiziari che sicuramente stavano ancora parlando di loro. Inoltre avevano bisogno dei soldi mortali per benzina e cibo, usandoli per dei motel avrebbero finito con l’esaurirli tutti in tempo record. Sarebbero rimasti solo per qualche ora, si ripeté, nulla di che. Sarebbero entrati e usciti senza che nessuno se ne accorgesse.

Trovarono un complesso di motel solitari sul ciglio dell’autostrada verso Chicago. Optarono per un lungo palazzo orizzontale grigio e nero, alto due piani. La reception, a differenza degli altri motel, era all’interno del palazzo e non fuori, perciò sarebbero riusciti a sgattaiolare dentro una stanza senza dare nell’occhio.

Edward parcheggiò accanto all’edificio e spense il motore. Di fronte a loro, sull’autostrada, macchine e camion proseguivano incuranti i loro tragitti. Alle loro spalle, vegetazione.

Svegliare Thomas fu semplice, Lisa invece si rivelò un avversario più tosto. Quando riuscirono a trascinarli giù dall’auto, spiegarono loro la situazione. Tommy sembrava contrario all’idea, ma non appena si rese conto delle condizioni di Edward decise di ascoltarli. Una volta appurato che la zona fosse libera, i cinque ragazzi sgattaiolarono sulle scale, salendo al secondo piano, e non appena furono sicuri di aver trovato una stanza libera, lasciarono a Tommy il compito di aprirla.

«Fate piano» mormorò, mentre avanzava nella camera semibuia, guidato dalla luce artificiale dei lampioni dell’autostrada e dalla luna. Trovò un interruttore e lo premette, illuminando una classica stanza da motel, un grosso letto matrimoniale di fronte a un televisore e la porta del bagno oltre di esso.

«Va bene allora…» cominciò Stephanie, mentre Konnor si richiudeva la porta alle spalle.

«Io mi prendo il letto» affermò Lisa, buttandosi su di esso con un sospiro esausto. «Buona notte.»

«Aspetta!» protestò Steph. «Ho bisogno di parlarvi!»

La figlia di Bacco si mise a sedere, osservandola confusa. Anche gli altri si voltarono verso di lei. «Che vuoi dirci?»

Stephanie sospirò, ripensando all’incubo che aveva fatto e alla creatura che parlava la lingua dei tempi antichi. «Sediamoci, prima.»

La figlia di Demetra si posizionò sul bordo del letto matrimoniale, con Lisa seduta accanto da una parte, e Tommy dall’altra. Edward rimase seduto su una sedia accanto alla finestra, mentre Konnor rimase in piedi, appoggiato alla parete vicino alla porta. Nessuno disse una parola mentre raccontava quello che aveva visto. A racconto concluso si strinse nelle spalle, osservando i compagni in cerca delle loro reazioni. Il primo a parlare fu Konnor, che come al solito mantenne i nervi saldi. «Era il loro piano fin dall’inizio. Volevano farci perdere l’aereo.»

Steph annuì, senza rispondere.

«Il loro capo…» cominciò Tommy, incerto. «… è…» 

«Niente nomi» lo ammonì Konnor.

Thomas annuì imbarazzato. «Sì, sì, certo... ma pensate anche voi quello che penso io?»

«Sì» sussurrò Stephanie, tutto d’un fiato. Aveva sperato che i compagni la contraddissero, e invece non era successo. E quando ebbe la conferma definitiva dei suoi dubbi, sentì le proprie interiora contorcersi dalla paura. Una mano si posò sulla sua spalla, facendola sussultare. Thomas la guardò apprensivo, rivolgendole un cenno della testa. Steph ricambiò lo sguardo per un momento, grata di quel piccolo gesto di conforto.

«Scusate, ma non vi seguo» disse Edward, massaggiandosi una tempia. «Che significa “niente nomi”?»

«Significa che mostri e dei possono sentirti quando li chiami per nome» spiegò Konnor. «Ad alcuni non importa, come la maggior parte degli dei, ormai sono abituati ad essere nominati da chiunque, ma per i mostri la faccenda è diversa, soprattutto per quelli così desiderosi di farci a pezzi come questo. Se lo chiamassimo per nome, ci troverebbe in un istante.»

«E allora perché ci siamo fermati? Questo tizio… o tizia, o quello che è, è un motivo in più per continuare a muoverci.»

«Perché devi riposare, Edward. Vuoi arrivare vivo a San Francisco o no? Se svieni mentre guidi finiresti solo con l’ammazzarci tutti.»

Edward rispose con un mugugno, distogliendo lo sguardo.

«Non correremo nessun rischio, qui. Ci basterà fare dei turni di guardia» concluse il figlio di Ares.

Stephanie annuì, cercando di rafforzare le sue parole, ma Edward non sembrava ancora molto convinto. Si accasciò contro lo schienale della sedia, con espressione assorta. «Va bene allora. Ma all’alba ripartiamo. Non dimentichiamoci della polizia.»

«Non potrei nemmeno se volessi» mugugnò Konnor, staccandosi dalla parete. Si diresse verso il televisore, sotto gli sguardi confusi di tutti. Lo accese, assicurandosi di tenere il volume basso, e cambiò canale un paio di volte fino a quando non trovò quello che cercava. Un notiziario che stava riportando proprio i fatti dell’aeroporto.

«Non ci posso credere...» mugugnò Lisa. «Ma non hanno ancora finito di parlarne?»

Konnor sorrise amaramente. «Siamo delle star, ormai. Ti consiglio di abituarti all’idea, perché appariremo in televisione ancora per molto tempo.»

I loro cinque volti erano in bella vista sullo schermo, per via di un filmato di una telecamera di sicurezza che li aveva ripresi mentre scappavano dalla zona d’imbarco. L’idea che la sua faccia si trovasse in bella mostra sulla televisione nazionale per quella particolare situazione non fece sentire Stephanie a proprio agio. Sperò con tutto il cuore che al Campo Mezzosangue nessuno guardasse i notiziari, altrimenti avrebbe già potuto immaginare il sorrisetto divertito di Jane e le prese in giro che avrebbe ricevuto in merito. Diventata famosa per aver combinato un disastro all’aeroporto ed essere ricercata dalla polizia. Sì, sicuramente era un repertorio niente male. Si augurò anche che suo padre non stesse guardano la televisione, in quel momento. Conoscendolo, alla vista della figlia nei guai con la legge, gli sarebbe venuto un attacco di cuore per la preoccupazione.

Ma il peggio doveva ancora venire. Non erano accusati solo di aver aggredito delle guardie, stando alle parole della giornalista e le parole in sovrappressione sullo schermo. Una in particolare suscitò una reazione in tutti i presenti.

«Terroristi?!» interrogò Lisa, atterrita. «Ma è assurdo! Che cosa...»

«Questo è quello che succede se attacchi le guardie in un aeroporto» mugugnò Konnor. «Anche se erano mostri, la Foschia li ha comunque fatti sembrare reali. Probabilmente ora tutti credono che noi stavamo trasportando armi e che quelli abbiano solo cercato di fermarci. In poche parole, i mostri sono diventati dei martiri, noi degli assassini. La polizia, e probabilmente anche i federali, non ci molleranno finché non ci troveranno. E guardate.» Indicò lo schermo, su una frase che lasciò sbigottita la figlia di Demetra: "Riconosciuti due dei terroristi responsabili dell’attacco all’aeroporto Kennedy."

«R-Riconosciuti?» ripeté Stephanie, sempre più interdetta. «Ma...»

Konnor si allontanò dal televisore, sospirando pesantemente. «Era per questo che non volevo proseguire il viaggio. Sapevo che sarebbe finita così. Vedete...» Si voltò verso di loro, concentrandosi soprattutto su Stephanie. Ora, quei suoi occhi di ghiaccio sempre critici ed esaminatori, parevano semplicemente demoralizzati. «... la polizia mi ha riconosciuto.»

«Ma... come?!»

«Tua madre è una sbirra» esordì Edward, con tono indecifrabile, alzandosi dalla sedia. Osservò Konnor dritto negli occhi. «Vero?»

Konnor strinse i pugni. «Non è una “sbirra”. È la poliziotta più decorata del suo distretto. Mostra un po’ di rispetto.»

Edward sogghignò. «Non mostrerò mai rispetto per quei porci.»

Il figlio di Ares fece un passo verso di lui, ma Tommy, Stephanie e stranamente perfino Lisa si frapposero tra loro, impedendo la catastrofe.

Da un lato, Stephanie aveva sospettato che il motivo della tensione di Konnor derivasse da qualcosa del genere, ma scoprirlo in quel modo fu davvero sorprendente. Ancora più sorprendente, però, era stato il fatto che proprio Edward lo avesse capito per primo. E soprattutto il suo comportamento dopo averne avuta la conferma. Ecco perché Konnor lo aveva guardato male, in macchina: non aveva gradito le parole di Edward. E, sinceramente, anche Stephanie le trovò irrispettose.

«Konnor, calmati» mormorò, mentre lei e Tommy cercavano di tenerlo lontano da Edward.

«Tu sì che conosci la parola “tatto”» borbottò Lisa al figlio di Apollo, con un braccio alzato di fronte a lui. Edward sogghignò e sollevò le spalle.

Una volta che la situazione sembrò tornare sotto controllo, Konnor si sedette su un’altra sedia, accanto al mobile della televisione, per poi lanciare un’occhiataccia ad Edward. La figlia di Demetra lo osservò angosciata. Chissà cosa stava passando in quel momento. Sua madre era un’agente decorato di polizia... e lui era appena stato accusato di terrorismo, probabilmente infangando non solo sé stesso, ma anche la reputazione della madre, a cui voleva senz’altro bene. Doveva sentirsi malissimo.

«Ma... sbaglio o erano due quelli che erano stati riconosciuti?» domandò Tommy, facendo vagare lo sguardo tra i compagni. «E allora chi è l’altro?»

Quella domanda aleggiò nell’aria per qualche secondo. Poi, con un fruscio, tutti si voltarono verso il televisore, dove purtroppo stavano continuando a mostrare le immagini della loro fuga.

«Io non sono mai stata invischiata con la legge prima di oggi» mormorò Stephanie. «E mio padre è un fioraio, non un poliziotto.»

«Lo stesso vale per me» spiegò Tommy. «Anche se mia madre era una cameriera, e non un...»

«Davvero tu non hai mai avuto problemi con la legge?» gracchiò Lisa, divertita. «Questa è buona!»

«Ma è la verità!» protestò lui, alzando la voce. Stephanie gli intimò di rimanere zitto, spaventata dall’idea che qualcuno potesse averlo sentito. Il ragazzo realizzò cosa aveva appena fatto e arrossì, per poi abbassare la testa imbarazzato. Lisa ridacchiò divertita, ma prima che la figlia di Demetra potesse rimproverarla una volta per tutte, un sospiro profondo provenne alle loro spalle. Si girarono verso di Edward, che si accasciò di nuovo sulla sedia, appoggiandosi una mano sulla tempia. La sua espressione raccontò tutto quello che c’era da sapere.

Il notiziario fece proprio in quel momento un riepilogo veloce. 

I ragazzi riconosciuti erano due: il primo era Konnor Murray, il figlio della decorata agente di polizia Ronda Murray, alla quale si dovevano decine e decine di crimini sventati e casi risolti, una vera eroina di tutti i giorni del suo distretto di New York; il secondo, invece, era proprio Edward Model, figlio di Kate Model, che era una...

Stephanie non riuscì a credere ai suoi occhi. La prima cosa che la lasciò sorpresa, fu la foto della donna, recuperata dal filmato di una telecamera di sicurezza. Era davvero bella, con i lunghi capelli castani legati in una coda di cavallo, la carnagione abbronzata e occhi marroni profondi e penetranti, con un luccichio malizioso dentro di essi, che la figlia di Demetra riuscì a riconoscere all’istante, perché uguali a quelli del figlio. Ma non era tutto.

Kate Model... era una ladra d’arte, responsabile di furti di dipinti, armi antiche, gioielli, perfino vasi e sculture da musei e templi antichi giapponesi, oggetti che poi smerciava in traffici illegali tra Giappone e Stati Uniti. In tutti i suoi anni di attività, era arrivata a sottrarre beni dal valore complessivo di circa, si stimava, venti milioni di dollari. Ritiratasi da quella scena quasi vent’anni prima, ne aveva trascorso in fuga dall’autorità un’altra quindicina, per poi svanire apparentemente nel nulla. Molti dei suoi tesori rubati non furono mai ritrovati, tutto ciò che la polizia trovò di suo fu proprio il figlio, Edward Model, sconvolto e terrorizzato, in una lugubre notte invernale nei pressi di un magazzino abbandonato a Los Angeles.

Il ragazzino era stato prelevato e interrogato dalla polizia. Aveva blaterato cose assurde su dei mostri che avevano portato via la madre, tutte storie alle quali nessuno aveva mai creduto. Alcuni avevano accusato la madre di averlo tenuto in ostaggio e fatto impazzire, altri, invece, erano fermamente convinti che fosse stato proprio lui ad uccidere la genitrice. A causa di prove insufficienti per giustificare entrambe le teorie, tuttavia, il ragazzino era stato lasciato andare e inserito in un programma di affidamento. Dopo aver causato problemi costanti per due anni alle famiglie affidatarie, continuando a mostrare chiari segni di squilibrio mentale e minacciato dalla prospettiva di venire ricoverato in un ospedale psichiatrico, era scappato, nascondendosi dall’autorità per i restanti due anni.

Tutto ciò che si domandavano le autorità ora, era: che cosa ci faceva un ragazzo apparentemente modello come Konnor Murray in compagnia di uno come Edward Model? E chi erano i restanti tre membri di quella cellula terroristica formata da ragazzini?

A servizio concluso, Konnor spense la televisione. Il silenzio calò nella stanza. Nessuno ebbe il coraggio di girarsi di nuovo verso di Edward e, soprattutto, di parlare.

«Bene» sbottò il figlio di Apollo, con voce innaturalmente calma. «Ora sapete la verità su di me. Contenti?»

Konnor si voltò verso di lui. La rabbia di poco prima sembrava sfumata del tutto. Ora, nel suo sguardo, c’era qualcosa di diverso. Qualcosa che Edward non gradì affatto.

«Fatti sparire quello sguardo impietosito dalla faccia, o giuro che ti massacro.» 

Il figlio di Ares si incupì, di fatto obbedendogli, ma non disse o fece nulla.

«Edward...» mormorò Stephanie. I due ragazzi si osservarono per un momento. Che il figlio di Apollo non se la fosse passata bene, questo l’aveva capito. Ma mai avrebbe pensato fino a quel punto. Però, a conti fatti... come altro potevano essere andate le cose? Edward aveva sperimentato sulla propria pelle cosa significasse essere un semidio senza tuttavia sapere di esserlo. Tutti loro erano stati trovati in tenera età dai satiri e portati al Campo Mezzosangue, oppure i loro stessi genitori mortali avevano raccontato loro la verità, ma non lui.

Edward rappresentava l’altra faccia della medaglia, quella di cui nessuno mai parlava. Aveva visto mostri, spiriti, ninfe e chissà che altro, e per tutto il tempo non aveva avuto altro che mortali attorno a sé, mortali che naturalmente non avevano mai creduto a ciò che lui vedeva. E se aggiungeva al tutto il fatto che la polizia era a caccia di lui e sua madre, le cose non facevano altro che peggiorare. Avevano accusato lui di averla uccisa, e accusato lei di aver abusato di lui, facendolo impazzire. Erano cose terribili da dire a qualcuno, ed Edward aveva trascorso gli ultimi anni con quella reputazione tra le famiglie affidatarie e le forze di polizia, saltando dall'una all'altra parte in continuazione, senza una vera casa, senza una vera famiglia, senza più nulla.

Per loro essere semidei era sempre sembrato così... normale. Semplice. E avevano dato per scontato che anche per Edward lo fosse stato, nonostante, per lui, esserlo aveva significato vivere una vita d’inferno, per la strada, in fuga dalla polizia, accusato di essere uno psicopatico. Era sempre stato solo, aveva sempre e solo avuto sua madre Kate dalla sua parte, e alla fine aveva perso anche lei, in maniera non molto ben chiara, ma nessuno aveva il coraggio di domandarglielo proprio in quel momento.

Forse... forse sarebbe stato meglio scoprire cosa fosse successo proprio da lui, non tramite in un servizio di telegiornale. Stephanie si sentì come se avesse appena ficcato il naso in cose che non la riguardavano. Avevano violato la privacy di Edward, scoprendo segreti lugubri del suo passato che sicuramente lui per primo voleva dimenticare e che aveva deciso di tenere nascosti per un motivo.

Non riuscendo a trovare le giuste parole da usare, la ragazza abbassò la testa, sentendosi stupida per questo. Anche Tommy cercava di essere di conforto all’amico, ma pure lui sembrò riscontrare gli stessi problemi della figlia di Demetra. Lisa si strinse nelle spalle, distogliendo lo sguardo, indecifrabile. Fu Konnor, alla fine, quello che ruppe il silenzio: «Edward» lo chiamò, serio in volto. «Ascolta, mi dispiace per quello che ti è successo, ma...»

L’interpellato lo interruppe, sollevando una mano. «Qualsiasi cosa tu voglia dire, lascia prima che ti faccia una domanda. Sei mai stato... tenuto chiuso in una stanza senza finestre per dieci ore di fila, ammanettato ad una sedia subito dopo aver perso tua madre, con una luce accecante puntata sulla faccia e un gruppo di uomini in divisa che ti sbraitavano addosso?»

Konnor serrò le labbra, rimanendo in silenzio. Quello scenario sembrava essere uscito direttamente da un film dell’orrore. 

Edward annuì. «Già, come pensavo.» Fece vagare lo sguardo su tutti i presenti e si alzò in piedi. «Devo dormire. Sono esausto. Se all’alba non sono sveglio, svegliatemi voi. Non restiamo qui un minuto di troppo.»

Non disse altro. Fece il giro della stanza, curandosi di non incrociare lo sguardo di nessuno, nemmeno di Thomas, afferrò un cuscino dall’armadio e lo gettò a terra, per poi sdraiarsi sul tappeto, dall’altro lato del letto, nascondendosi così dagli occhi di tutti. Un silenzio imbarazzato si sollevò tra i restanti quattro ragazzi. Stephanie sentiva i sensi di colpa divorarla dall’interno, ma non c’era nulla che potesse fare. La storia di Edward era così assurda che non aveva idea di come muoversi, non sapeva nemmeno se sarebbe mai più riuscita ad avere una vera conversazione con lui.

«Beh... anch’io sono stanca» annunciò Lisa, rompendo quella parete di silenzio che si era innalzata. Sembrava più a disagio di tutti loro messi insieme, ma grazie al cielo, con le sue parole, era riuscita a spezzare la tensione.

«Sì, dovremmo proprio dormire...» convenne Konnor, alzandosi in piedi, chiaramente desideroso di lasciarsi la conversazione appena avuta alle spalle. «Faccio io il primo turno di guardia. Chi mi dà il cambio?»

«Io» affermò Stephanie. «Svegliami pure quando vuoi. Tanto ho già dormito in macchina.»

«Va bene.» Konnor non perse altro tempo a discutere. Un istante dopo, era già fuori dalla stanza.

«Faccio io il turno dopo di te» mormorò Thomas, con un filo di voce. Sembrava il più mortificato per la situazione, lì dentro. Stephanie ricordò l’abbraccio tra lui ed Edward, quando il figlio di Ermes aveva realizzato che non lo avrebbe più visto alla capanna Undici. Tra tutti loro, lui era quello che conosceva meglio Edward, l’unico che davvero poteva considerarsi suo amico. Se c’era qualcuno che doveva esserci rimasto male per quella storia, quello era lui. Provò una stretta al cuore osservandolo. Gli posò una mano sulla spalla, cercando di essere confortante, e annuì.

Si sdraiò anche lui per terra, dal lato opposto del letto, lasciandole così il posto libero accanto a Lisa.

Stephanie si adagiò sul materasso, osservando il soffitto angosciata. Accanto a lei, Lisa si spogliò della camicia, rimanendo con la t-shirt del campo, e si infilò sotto le coperte. Steph allungò la mano verso l’interruttore della luce, e il buio tornò ad inondare la stanza, facendola scivolare in un sonno inquieto.

 

***

 

Sperare di poter dormire serena forse era un po’ troppo. Dopo il sogno di quei mostri nel cantiere, l’idea di farne un altro subito dopo non era certo delle migliori. Purtroppo, non toccava a lei decidere. Il lato positivo era che non si trovava più in nessun cantiere, ma in uno stupendo giardino. Fiori di ogni genere sorgevano a perdita d’occhio, dai più comuni a quelli più esotici e rari. Stephanie non credeva di aver mai visto una varietà come quella. Li riconobbe tutti, grazie agli studi che aveva fatto assieme al padre, un grande appassionato. Si passava dalle rose iceberg a fiori che i mortali avevano creduto estinti, come i Cosmos del cioccolato, le Scarpette di Venere e le Orchidee fantasma.

Stephanie si guardò attorno meravigliata, chinandosi su alcuni Cosmos per odorarne l’aroma vanillato. L’aria era umida, tiepida, ma non afosa. Il canto dei grilli e delle cicale ronzava nelle sue orecchie, mentre la dolce brezza le carezzava la pelle, una sensazione meravigliosa, che, per qualche strano motivo, le fece pensare alle carezze della madre, anche se lei non poteva ricordare di averne mai ricevute. Quel luogo la riportò con la mente a quando era ancora bambina, ricordandole le giornate trascorse nel giardino del padre, nella sua casa in Kansas, di quando correva spensierata dentro di esso, giocando con il suo cane e con suo padre, al quale aveva sempre voluto, e ancora voleva, un mondo di bene. Riusciva perfettamente ad immaginarlo, anche a distanza di tutto quel tempo, i suoi capelli brizzolati nonostante fosse appena sulla quarantina e gli occhiali da vista incastonati sul suo volto glabro e paffuto.

Ricordava che la sua infanzia era sempre stata felice, anche in assenza della sua vera madre, perché dopotutto aveva sempre avuto lui, Eric Winkler, il padre più buono, dolce e sensibile che sarebbe potuto esistere, il quale l'aveva sempre trattata con la stessa delicatezza che usava per i fiori e le piante che coltivava. All’epoca era felice, non aveva paure, preoccupazioni, non poteva sapere che cosa, invece, il futuro le avrebbe riservato con la sua vita da semidea e tutto il resto. Aveva accettato questo fardello, naturalmente, e si era trasferita a New York per proseguire lì i suoi studi e andare al Campo Mezzosangue, ma, nel profondo, non avrebbe mai voluto essere costretta a lasciare il padre e trascorrere con lui solamente un mese all'anno.

Prima che la nostalgia la assalisse, rischiando di farle versare una lacrima o due, si accorse che il giardino era stato allestito sopra un promontorio, affacciato su una splendida città luminosa e colorata. Era crepuscolo, non notte come al motel. Ovunque fosse, doveva esserci un fuso orario diverso. E non appena si accorse dell’enorme ponte rosso in lontananza stagliato sul mare, realizzò immediatamente dove si trovava. Schiuse le labbra per la sorpresa. Quello era il Golden Gate. La città era San Francisco!

Sentì un suono all’improvviso, una voce femminile calda e melodiosa, che la fece trasalire. Avanzò lungo i sentieri del giardino illuminati da lampade appese su dei tralicci e dalla luce del crepuscolo, seguendo quel canto. Il giardino si spostò in una zona più boschiva, nell’entroterra, dove gli alberi dai fitti rami andavano a formare un confine naturale tra esso e il resto della boscaglia. Infine, giunse alla fonte di quella voce, una donna inginocchiata su alcuni fiori, gli abiti da giardinaggio sporchi di terra.

Non appena la vide, Stephanie pensò che si trattasse di sua madre. Tuttavia, non appena si accorse dei narcisi su cui stava lavorando, realizzò che, sì, forse poteva sembrare Demetra, ma non era lei.

Se la stava sognando, voleva dire che le voleva parlare. E vista la volta precedente, allora non era molto sicura di volerla assecondare, soprattutto dopo aver già parlato con Afrodite. Purtroppo, però, non aveva altra scelta. Si schiarì la voce. La donna smise di canticchiare e si voltò verso di lei. Era molto bella, i capelli dello stesso colore del grano, lunghi e riccioluti, e gli occhi marroni, di una tonalità calda come l’estate. Le sorrise calorosamente, anche se la ragazza non riuscì a capire se fosse un sorriso sincero oppure no. «Ben arrivata, sorella.»

Stephanie sentì la propria bocca inaridirsi all’improvviso. Deglutì. «Ciao Persefone.»

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Capitolo 15
*** L'urlo della natura ***


15

L'urlo della natura

 

 

Ricordava bene il loro primo incontro. Era avvenuto un anno prima, nel giardino di Persefone, negli Inferi. Non era stato molto piacevole realizzare di trovarsi in quel luogo. E sapere che si era ritrovata lì perché proprio Persefone voleva parlarle, l’aveva lasciata di sasso. Certo, sapeva di avere una sorella divina sposata con il re degli Inferi in persona, era probabilmente la scoperta più sconvolgente che aveva fatto dopo quella sulla vera identità di sua madre, ma mai si sarebbe aspettata che decidesse di contattarla, anche perché era convinta che a Persefone non importasse molto dei suoi fratelli al Campo Mezzosangue. A dire il vero, questa sua convinzione ancora non le era passata del tutto.

E quando aveva sentito cosa aveva da dirle... quelle parole ancora la tormentavano.

Dentro di lei si celava un enorme potere. Un potere che avrebbe potuto far pentire di essere nato a chiunque si mettesse sul suo cammino, e lei avrebbe dovuto prepararsi, perché presto avrebbe dovuto usarlo. La natura gridava disperata... e lei avrebbe dovuto ascoltarla. O sarebbe stato peggio per tutti.

«Non sembri molto felice di vedermi» commentò Persefone, alzandosi in piedi, riportandola alla sua attuale conversazione con la sorella. 

«Stavo ripensando al nostro ultimo incontro.»

«Sì, me lo ricordo bene anche io. Eri piuttosto turbata.»

«Chi non lo sarebbe stato? Dopo anni trascorsi a credere di essere una nullità, sei sbucata fuori e mi hai detto di essere la semidea più potente della mia generazione! Come avrei dovuto reagire?»

Persefone si batté le mani sui pantaloni sporchi di terra, per ripulirli, noncurante. «Magari mostrando un po’ di gratitudine?»

«Oh, certo. Sono proprio grata che tu mi abbia regalato così tante notti insonni.»

«Volevo solo prepararti per quello che sarebbe arrivato. Che ti piaccia o no quello che ho detto è vero, sei tu la semidea più potente della tua generazione, e devi accettarlo. Non potrai tenere il tuo potere nascosto dentro di te ancora per molto. Più aspetterai e più sarà difficile sfruttarlo quando verrà il momento.»

Persefone distese le braccia e chinò il capo all’indietro, mentre i suoi vestiti da giardinaggio venivano lentamente rimpiazzati da un lungo abito verde scuro, che sembrò sbocciare su di lei come petali di fiori. Nonostante tutto, Stephanie rimase a osservarla ammirata. Non faticava a capire il perché lei e Afrodite, un tempo, fossero rivali. Anche Persefone era molto affascinante, non a caso aveva attirato l’attenzione del signore degli Inferi in persona. In un certo senso, Persefone e la dea dell’amore ricordavano a Steph il suo rapporto tra lei stessa e le figlie di Afrodite. 

 «E perché proprio tu dovevi parlarmene?» riprese il discorso.

«Perché sei pur sempre mia sorella. Non posso aiutarti a diventare un’eroina?»

«Mi sembra solo strano che tu voglia farlo senza chiedere nulla in cambio. Sei apparsa dal nulla e mi hai sconvolto l’esistenza. È vero, siamo sorelle, ma tu fai parte del ramo divino. Di fratelli e sorelle da parte di nostra madre ne avrai avuti a centinaia, e che io sappia non ti sei mai presa il disturbo di avvicinarti a nessuno di loro. Quindi perché proprio io?»

«Te l’ho già detto, tu sei molto più potente di loro.»

«Non può essere l’unica motivazione. Mi dispiace, ma non ti credo.»

La dea sembrò gettare la spugna, perché sospirò. «E va bene allora, sarò onesta. Ho deciso di entrare in contatto con te perché... perché mi annoio, negli Inferi. Non succede mai nulla di interessante! Non fraintendermi, amo mio marito, e sono felice assieme a lui, ma ogni tanto... vorrei qualcosa di più.»

Forse Stephanie avrebbe dovuto sorprendersi di quella risposta, magari sentirsi perfino offesa, ma la realtà era ben diversa. Il novanta percento delle volte che un dio faceva qualcosa, lo faceva perché si annoiava, del resto. Tuttavia, sentì ugualmente un groppo alla gola. «Quindi... io sarei questo “qualcosa di più”?»

«No, Stephanie, non sei solo questo. Ascolta, sei libera di non credermi, ma io voglio il tuo bene come voglio quello di nostra madre e di me stessa. Tutti noi dipendiamo da te e da questa impresa, e abbiamo bisogno di te al massimo delle tue forze. Ma senza il tuo potere, i tuoi amici non sopravvivranno.» Il tono grave che utilizzò per dare quest’ultima informazione non fu molto rassicurante. «So che hai parlato con Afrodite, non è vero? Io e lei non andiamo molto d’accordo, come saprai, ma su una cosa posso darle ragione: il tuo ruolo per quest’impresa è molto più importante di quanto tu possa credere. E presto sarai costretta a dover dimostrare il tuo valore. Farai meglio ad accettare quello che ti ho detto al più presto, altrimenti potrò incontrare te e i tuoi amici di persona, negli Inferi.»

Stephanie chinò il capo, stringendo i pugni. Si sentì insignificante. Sua sorella, una dea in persona, le stava dicendo di essere così potente, eppure lei si ostinava a non voler accettare la cosa. Si odiava per questo. Odiava essere così spaventata. Odiava il fatto di essere partita per l’impresa sperando che filasse tutto liscio, senza dover incappare in ostacoli, senza dover combattere. Era una semidea, non doveva avere paura. Purtroppo, ripeterselo in continuazione non serviva a farle cambiare idea. Era spaventata, e lo sarebbe rimasta ancora per molto tempo.

Espirò. «Va bene, allora. Mi hai detto quello che volevi dirmi. Mi hai chiamato solo per questo?»

«Purtroppo c’è dell’altro. Guarda.»

Persefone sferzò l’aria con la mano, e le due si ritrovarono immediatamente teletrasportate in un altro luogo. Di fronte a Stephanie apparve un enorme fatiscente palazzo di marmo bianco. Tre stendardi gialli erano appesi di fronte alle grosse finestre del secondo piano, accanto a delle colonne, proprio sopra tre porte d’ingresso. Malgrado la fitta nebbia macchiata dal crepuscolo, su uno di questi la ragazza lesse: Asian Art Museum. Schiuse le labbra sorpresa.

«Questo è il museo...» osservò. Finalmente capì perché Persefone l’aveva portata a San Francisco. «Perché mi hai…»

Si interruppe, quando si accorse della scena che si stagliava di fronte a lei. Mostri. Tanti, tantissimi. Ed erano tutti radunati attorno all’edificio. I turisti uscivano dalle porte con noncuranza, in vista dell’imminente chiusura del museo, senza accorgersi affatto dell’esercito di creature a lei sconosciute che popolava le scale. Dovevano essere gli yōkai. Riconobbe gli oni, grazie alle descrizioni di Edward, ma non c’erano solo loro. C’erano demoni con l’aspetto di donne, uomini, animali, ognuno con un muso più spaventoso dell’altro. E non v’era alcuna traccia dei centurioni romani. Stephanie si augurò con tutto il cuore che si fossero nascosti o ritirati quando avevano visto quell’esercito e che stessero tutti bene. La ragazza temette che le creature potessero accorgersi di lei, malgrado non si trovasse realmente lì, ma per fortuna nessuno di loro sembrò captare la sua presenza e quella della sorella.

Tutto a un tratto, in mezzo al gruppo di mostri ne marciò uno molto diverso, con andatura autoritaria. Non appena notò il suo occhio destro sfregiato e chiuso, Stephanie lo riconobbe immediatamente: era il mezzo-demone che aveva affrontato Edward e che aveva rapito Rosa. E se lui era lì, allora...

«Lui è qui…» bisbigliò angosciata. «… l’uomo che Edward ha visto è già qui. Ci sta aspettando.»

«Sì. Vuole la spada ad ogni costo. E farà di tutto per averla. Ma non nella maniera che credi.»

«Cosa… cosa vuoi dire?»

Persefone si voltò verso di lei, con aria lugubre e severa. Un aspetto che calzava bene con il suo ruolo di Regina degli Inferi. «Tieni d’occhio Edward» rispose con voce grave, minacciosa, perfino. «Quando sarà il momento, dovrà fare una scelta. Dovrete impedirgli di fare quella sbagliata. Lui sarà la nostra salvezza... o la nostra rovina.»

Stephanie lasciò cadere le proprie braccia a peso morto lungo i fianchi. Quelle parole l’avevano colpita come una sberla. «I-Io… non capisco…»

«Capirai, non temere. Ricordati il tuo ruolo, Stephanie. Ricordati del tuo potere. E non fidarti di Edward. Fallo, e salverai tutti noi.»

Fino a pochi attimi prima Stephanie aveva desiderato che la loro conversazione finisse al più presto, ma ora l’unica cosa che avrebbe voluto fare era tempestare Persefone di domande. Prima che potesse dire qualsiasi cosa, tuttavia, la sorella le rivolse un ultimo sorriso. «Rendi me e nostra madre fiere di te, Stephanie. E ricordati che se non vuoi usare i tuoi poteri per dare una lezione a Jane, puoi sempre ricordarle che tuo cognato è il signore degli Inferi. Sono certa che questo funzionerà.»

La dea sferzò di nuovo l’aria con la mano. Stephanie provò a chiamarla, ma la loro conversazione si fermò lì.

 

***

 

Stephanie si mise a sedere di scatto. Due sogni di fila, nel giro di poche ore di distanza l’uno dall’altro, doveva essere un record personale.

Si guardò attorno, alla ricerca dei propri compagni. Accanto a lei Lisa dormiva beata, stravaccata sul materasso in una posizione assurda e con un rivolo di bava che le scivolava dalla bocca. Anche Thomas era assopito, stretto sotto le coperte. E sicuramente anche Edward stava dormendo. Stephanie si augurò che almeno loro stessero riposando sereni. Guardò l’ora sulla radiosveglia sul comodino, constatando che erano le tre del mattino. Konnor doveva ancora essere fuori a fare la guardia, e la figlia di Demetra non volle lasciarlo lì ancora troppo a lungo. Se c’era qualcun altro di esausto in mezzo a loro, doveva essere lui. Lei aveva già dormito in macchina, e le serviva un po’ di tempo in tranquillità per riflettere sul sogno appena fatto.

Scese dal letto, assicurandosi di non calpestare il povero Tommy, e uscì dalla stanza. Trovò il figlio di Ares appoggiato al cornicione, con il capo chinato affacciato sulla strada sottostante. Lo affiancò, tenendo le mani intrecciate dietro la schiena. «Ehi.»

Konnor si voltò verso di lei. «Ehi…» rispose, con voce smorta. «Non ti avevo notata, scusa. Ero sovrappensiero.»

Stephanie annuì, comprensiva. «Pensavi a tua madre?»

«A lei, a mio padre, alla storia di Edward, all’impresa… a tutto quanto.»

«Vuoi parlarne?»

«Beh, che posso dire…» cominciò Konnor. «… mia madre sa che io sono un semidio, e sa anche che mischiare semidei e mortali porta solo guai. Sicuramente saprà che tutto quello che è successo all’aeroporto è un malinteso e che io non ho fatto davvero niente di male, però per colpa mia adesso lei dovrà rispondere a parecchie domande. La poliziotta più decorata del proprio distretto che si ritrova con un criminale come figlio. Chissà come l’avranno presa i suoi superiori.» Il ragazzo chinò il capo, con un lungo sospiro. «Forse non sarei dovuto partire per quest’impresa.»

«Non dire così.» Stephanie cercò di rassicurarlo. «Chirone sistemerà tutto, vedrai. Presto questo incidente verrà cancellato. Nessuno se lo ricorderà e tua madre non avrà più problemi.»

«Non è solo per questo. Prima, quando abbiamo incontrato mio padre… si è comportato come se io non esistessi nemmeno. Mentre tu e Thomas parlavate con Afrodite, lui non mi ha rivolto neanche uno sguardo. Niente di niente. Mi ha ignorato e basta. Credo… credo che non gli sia piaciuto che mi sia schierato contro Buck.»

«E perché? Avevi ragione! Buck è stato crudele con noi!»

«Ma gli ho comunque voltato le spalle. Gli ho detto che è stato lui a farlo, ma la verità è che io ho tradito mio padre e i miei fratelli per primo. Mi sono schierato con la persona che non ha fatto altro che disprezzare Ares e la sua casa da quando è arrivato al campo. Credi che a mio padre sia piaciuto? Quello che ho fatto, giusto o sbagliato che fosse, l’ha comunque infastidito. E anche se l’impresa dovesse andare a buon fine, credi che Buck e gli altri miei fratelli saranno felici di riavermi con loro? Già è stato difficile diventare uno di loro la prima volta. Farlo di nuovo sarà impossibile.»

«Non sapevo che per te fosse stata dura…» commentò Stephanie, sorpresa.

«Perché non l’ho mai detto a nessuno. Ma è vero. Hai idea di quanto sia stato difficile per me essere il più piccolo fisicamente della casa Cinque? Nessuno mi prendeva sul serio. Ho dovuto lavorare sodo per farmi accettare. Per questo... a volte sono stato costretto a comportarmi come loro. Non è mai stata una mia vera scelta.»

Konnor si strinse nelle spalle, facendo un sorriso amaro. «La verità è che… sono troppo orgoglioso per accettare di essere inferiore a qualcuno. Per questo ho voluto a tutti i costi dimostrare di essere degno di far parte della capanna Cinque. Per questo non mi sono messo l'armatura, il giorno della nostra sfida. Per questo ho fatto di tutto per mostrare il mio valore ai miei fratelli e a mio padre. E… forse, in parte, è anche per questo motivo che sono venuto con voi. Per poter completare un'impresa e diventare ufficialmente un eroe.»

Era la primissima volta che Stephanie vedeva Konnor aprirsi in quel modo. Era strano. Ma allo stesso tempo piacevole. Era piacevole poter scoprire qualche sfaccettatura in più del suo carattere. Non parlava spesso di sé e soprattutto non con chiunque. Se aveva scelto proprio lei per farlo, voleva dire che si fidava davvero, che ci teneva. E la cosa la fece sentire onorata, nonché leggermente imbarazzata.

«Ma decidendo di partire ho creato dei problemi a mia madre, ho deluso mio padre e mi sono messo contro la mia famiglia al Campo Mezzosangue.» Il figlio di Ares strinse con forza i pugni, tornando serio all'improvviso. «Con il mio orgoglio... ho rovinato tutto.»

«No invece.» Stephanie gli posò una mano sulla spalla, per incoraggiarlo. Lui si drizzò, e i loro sguardi si incrociarono. La ragazza esitò, come sempre quando quello succedeva, e il figlio di Ares abbozzò un sorriso incuriosito. Aveva davvero a cuore quella faccenda, era evidente. Voleva bene a sua madre e nonostante tutto si sentiva legato ai fratelli e al padre, e la cosa non poteva che fargli onore. 

«Ascolta…» cominciò lei, distogliendo gli occhi dai suoi, incapace di fissarli ancora per timore di arrossire. «… tu… tu non hai commesso nessuno sbaglio. Ti sei schierato dalla parte dei più deboli, che è la cosa più nobile che qualcuno possa fare. Per quanto riguarda tua madre, vedrai che le cose si sistemeranno. Per tuo padre e i tuoi fratelli… beh, se loro non ti vogliono accettare per quello che sei e per quello che hai fatto per me e per noi come squadra, allora è solo peggio per loro. Siamo una famiglia, e non c'è niente di sbagliato nell'aiutarci a vicenda. Sei un bravo ragazzo, sei onesto, leale, sincero. Non hai nulla di cui vergognarti. Per quello che vale… io sono felice che tu sia venuto con noi. E… sappi che su di me, su di noi, potrai sempre contare.»

Si voltò di nuovo verso di lui, cercando la sua reazione a quelle parole che le erano uscite di getto, dal cuore. Per un attimo, trovò ancora quello sguardo perplesso, che tuttavia si trasformò ben presto in uno più sollevato. Konnor annuì, colmo di gratitudine. «Ti ringrazio, Steph.»

Lei ricambiò il sorriso. «Figurati.» Allontanò la mano da lui, per poi schiarirsi la gola, ancora con diverse venature di imbarazzo nella voce. «Ora… che ne dici di riposare un po’ anche tu? Continuo io con il turno di guardia.»

«Ne sei sicura? Io posso resistere ancora un po’. Posso recuperare dormendo in macchina.»

«Non preoccuparti per me. Ho… ho fatto un altro sogno. Non credo che riuscirò ad addormentarmi di nuovo in ogni caso.»

Konnor si fece serio all’improvviso. «Altri guai in arrivo?»

Stephanie si strinse nelle spalle. Ripensò ai mostri stipati attorno al museo a San Francisco, alle parole di Persefone sui suoi poteri, sul fatto che non doveva fidarsi di Edward e che avrebbe dovuto tenerlo d’occhio. «Io… non ne sono molto sicura, a dire il vero. Sarà meglio che ve ne parli domattina, comunque. Ora ho bisogno di riflettere, e…»

Un terrificante rumore la costrinse ad interrompersi di scatto. Konnor sollevò un sopracciglio, mentre lei avvampò leggermente. La figlia di Demetra si portò d’istinto una mano di fronte allo stomaco, che brontolò una seconda volta. 

«Fame?» domandò Konnor, sorridendo.

«Un sacco…» si lamentò lei. Non avevano mangiato molto quel giorno e non avevano avuto molto tempo per fermarsi a far compere in giro, con la polizia che li inseguiva e tutto il resto.

«Ho visto dei distributori automatici nel retro, mentre parcheggiavamo. Magari c'è qualcosa che può piacerti. Io ti aspetto qui. Ti do il cambio quando torni.»

«Ugh. Va bene… tu vuoi qualcosa?»

«Sono a posto, grazie» assicurò lui, con tono divertito.

«Vado e torno» promise lei, avviandosi verso le scale.

Mugugnò infastidita, con lo stomaco che si contorceva, mentre faceva il giro del motel. Aggirò alcuni cassonetti dei rifiuti e trovò una piccola zona ristoro ad attenderla in un angolo, accanto a un’uscita di emergenza: dei distributori automatici e un tavolino di ferro. Stranamente erano ancora intatti, ma non appena si accorse della telecamera di sorveglianza che puntava proprio su di loro ne capì il motivo. La ragazza si sforzò di non guardarla. Non credeva ci fosse una persona a fissare le registrazioni ventiquattrore su ventiquattro, ma preferiva non correre rischi.

Le luci a neon ronzavano e sfrigolavano, dando a quel luogo un tocco ancora più squallido di quanto già non fosse, la boscaglia alle sue spalle frusciava sospinta dalla lieve corrente notturna. Più stava in quel posto maleodorante e più si sentiva a disagio. Avrebbe fatto meglio a darsi una mossa. Infilò qualche moneta e fu costretta a selezionare uno di quegli snack nocivi per l’uomo e per l’ambiente, pregando che fosse ancora commestibile, tuttavia poco prima di cadere questo rimase agganciato alla molla di ferro.

«Oh, andiamo…» mugugnò Steph, dando un colpo al vetro per cercare di farlo scendere. Quello non si mosse di un millimetro. La giovane sospirò esausta, per poi dare altri colpi, infischiandosene della telecamera. «Scendi, scendi!»

La sua mano si bloccò a mezz’aria all’improvviso, quando sentì qualcuno gridare: «KONNOR!»

Stephanie sobbalzò, voltandosi. Non le sembrò vero per un attimo. Quella… quella era la sua voce! Prima che potesse domandarsi cosa stesse succedendo, percepì qualcosa muoversi alle sue spalle. Si scansò un istante prima che qualcosa si schiantasse contro il distributore automatico, distruggendolo. Mentre era a terra, vide la barretta di cioccolato rimasta incastrata precipitare. Sfortunatamente, dubitava che il lestrigone appena apparso di fronte a lei le avrebbe lasciato fare uno spuntino. Il gigante cannibale sogghignò, lustrandosi i denti affilati con la lingua. Stephanie si rimise in piedi e indietreggiò.

«Konnor aiutami!» gridò ancora quella voce. Stephanie commise l’errore di voltarsi di nuovo, e il lestrigone approfittò per attaccare. Riuscì di nuovo a schivarlo per il rotto della cuffia, rotolando a terra per poi rimettersi in ginocchio. Non aveva idea di cosa stesse succedendo, di chi fosse quella voce che chiamava Konnor, ma non prometteva nulla di buono. Doveva tornare da lui al più presto, ma prima doveva liberarsi del mostro che le sbarrava la strada.

Corse verso il bosco, sperando di poter usare le piante per intrappolare il lestrigone, ma pochi metri prima di raggiungerlo, tre segugi infernali sbucarono fuori dai cespugli, ringhiando verso di lei. Tre mastini neri dal pelo lurido, gli occhi rossi come il sangue e i denti gialli e nauseabondi. Steph gridò e si fermò di scatto, ritrovandosi circondata.

«Non puoi scappare» gracchiò il lestrigone, sghignazzando. «Lasciati catturare. La mia padrona sarà molto felice di riceverti.»

A quelle parole, Stephanie sgranò gli occhi. La sua padrona… era la carceriera! Il lestrigone ruggì, caricandola nuovamente, e lei si scansò un’altra volta, costretta a ritornare verso il motel. Si ritrovò con le spalle al muro, con il lestrigone e i segugi che si avvicinavano lentamente verso di lei.

«Sei molto lontana da casa, fioraia» la provocò il mostro.

Stephanie serrò la mascella, adirata. Fioraia?!

«Ti ho fatta arrabbiare?» domandò il lestrigone, notando la sua espressione, per poi sogghignare nuovamente. «Che cosa vuoi farmi, piccola contadina?»

Quello era troppo. Già detestava quando la prendevano in giro al Campo Mezzosangue, non avrebbe mai permesso anche a quello schifoso di prendersi gioco di lei e della sua famiglia. Demetra faceva parte della prima generazione di dei, era antica tanto quanto i Tre Pezzi Grossi, ed era di gran lunga molto più potente di quanto chiunque potesse immaginare. Così come poteva dare vita a milioni di ettari di terreno, così poteva distruggerli. E quegli sbruffoni lo avrebbero imparato sulla loro pelle.

«Prendetela!» ordinò il lestrigone.

I segugi infernali si fiondarono verso di lei a tutta velocità, rivoli di bava disgustosa che colavano dalle fauci. Stephanie sollevò una mano verso di loro. Udì il lestrigone ridere, ma quel rumore le sembrò distante. Percepì il potere del bosco lì vicino, e attinse a esso. Si concentrò, inspirò profondamente, e individuò delle radici proprio sotto di lei. Gridò e liberò la propria energia. Le radici spuntarono dal terreno, sfondando il cemento, e si avvolsero contro i tre segugi infernali, che guairono per la sorpresa. Furono sollevati in aria, di fronte allo sguardo ora stupito del lestrigone. Stephanie strinse la mano a pugno, e i mastini furono stritolati di colpo, esplodendo immediatamente in una nube di polvere dorata. Le radici si ritirarono di nuovo sotto terra, e il lestrigone rimase da solo, sorpreso.

«Allora?» incalzò Stephanie. «Non male per una contadina, non credi?»

Il gigante si fiondò su di lei con un grido rabbioso. Steph sorrise, osservandolo mentre si avvicinava. Quello sferzò l’aria con la sua mano artigliata, ma lei si scansò, attingendo ai suoi riflessi da semidea, mentre una scarica di adrenalina le attraversava il corpo. Il mostro si sbilanciò per la troppa ferocia e lei ne approfittò. Nella sua mano apparve una piccola lama a forma di falce di luna, il simbolo della madre, che conficcò nel collo del lestrigone. Quello sgranò gli occhi sconvolto, emettendo un gorgoglio. Stephanie estrasse la lama e lui cadde in ginocchio, tenendo una mano premuta sulla ferita. Il lestrigone la scrutò un’ultima volta, furioso per la sconfitta, poi chiuse gli occhi e crollò a terra, dissolvendosi.

La ragazza si allontanò di qualche metro, osservando dall’alto il mucchietto di polvere gialla. Trasformò di nuovo la lama in uno dei suoi orecchini di smeraldo, poi si piegò sulle ginocchia per riprendere fiato. Il corpo le tremava leggermente per via dell’adrenalina e della tensione, e si accorse di avere respiro irregolare. Non le sembrava vero di aver appena eliminato da sola tre segugi infernali e un lestrigone, senza nemmeno troppa fatica. Era successo tutto così in fretta, era bastato un attimo e tutti e quattro si erano trasformati in polvere. Si osservò le mani, sorpresa. Era quella la forza di cui Persefone le aveva parlato? 

Non poteva rimanere lì a pensarci, doveva tornare dai suoi compagni. Corse verso la stanza del motel, chiamando Konnor e gli altri a gran voce. Salì le scale e raggiunse la loro camera, trovando la porta accostata. La luce dentro era spenta e non c’era traccia del figlio di Ares né sul pianerottolo né nel parcheggio. Entrò nella stanza, trovandola deserta. Il letto era sfatto, e i giacigli su cui Edward e Tommy si erano addormentati erano stati lasciati tutti in disordine. Sgranò gli occhi, inorridendo. «Oh, no! Ragazzi!»

«S-Stephanie?» domandò una voce, proveniente dal bagno, infondendole un enorme sollievo. Era Tommy. «Sei tu?»

«Tommy! Sì, sì, sono io!» Steph corse verso il bagno. «Cos’è successo?»

«I-Io… non lo so. Ci hanno attaccati… s-sono ferito, aiutami, ti prego!»

Stephanie posò una mano sulla maniglia. «Resisti, ora…» Esitò. Malgrado il sollievo nel sentire la voce del suo amico, una parte della sua mente le suggerì che in quella situazione c’era qualcosa che non quadrava. Ripensò alla voce che aveva chiamato Konnor, e si sentì un'idiota colossale. Si mise sul lato della porta, incupendosi. «Ora entro, va bene? Non preoccuparti» annunciò, cercando di non far trasparire vene di irritazione nella sua voce, poi afferrò la maniglia e spalancò.

Un ciclope sbucò fuori dalla penombra del bagno, allargando le braccia ed urlando a squarciagola, fermandosi quando si rese conto di non avere nessuno di fronte. Fece un verso sorpreso, che durò fino a quando Stephanie non sbucò da dietro la porta e conficcò la lama dietro al suo ginocchio. Il ciclope strillò di dolore e crollò a terra, sgranando atterrito il suo unico occhio. Steph lo spinse con una gamba e lo fece girare sulla schiena, poi si chinò su di lui, piantando con forza la lama nei suoi pettorali e facendolo strillare per il dolore. 

Era stato lui a chiamare Konnor, prima, con la sua capacità di modificare la voce. Avrebbe dovuto pensarci subito, era stata una vera stupida. Puntò la lama contro il suo collo. «Dove sono i miei amici?!»

Il ciclope la osservò sorpreso per un attimo con quell'occhio nero gigantesco, poi sghignazzò, mostrando anche lui dei denti decisamente brutti e trascurati. «Credi forse di farmi paura?» domandò, ora con la sua vera voce baritonale e graffiante.

Ancora una volta, Stephanie sentì la rabbia pervaderle il corpo. Gli conficcò nuovamente la lama nei pettorali, strappandogli un altro muggito. «Parla!»

«Perché dovrei? Se tradisco la padrona mi ucciderà! E se non parlo mi ucciderai tu!»

Stephanie non si lasciò incantare. Rigirò la lama nella ferita, prolungando il suo dolore. Il cuore le batteva nel petto all’impazzata, aveva la fronte madida di sudore e la mano con cui stringeva l’arma tremava come una foglia. L’adrenalina scorreva a mille dentro di lei, non si era mai sentita così prima di allora. Era… una sensazione orribile. Non avrebbe mai pensato di essere capace di qualcosa del genere, ma non aveva avuto altra scelta. Doveva scoprire cosa fosse successo ai suoi amici.

«V-Va bene! Li abbiamo portati dalla padrona!» piagnucolò il ciclope, il petto ormai intriso di sangue grumoso. 

La figlia di Demetra serrò la mascella. Quella risposta non aiutava per niente. «E lei dov’è?!»

«Io non...»

Stephanie premette la lama, facendolo urlare ancora più forte. Non poteva andare per il sottile, c'era la vita dei suoi compagni in gioco.

«A Chicago!» piagnucolò il ciclope, cercando di dimenarsi. «Ora lasciami!»

Stephanie sgranò gli occhi, allentando la presa, ed il mostro boccheggiò disperato.

«Ma… come?» domandò lei. «Io sono stata via solo qualche minuto, come possono…» Si interruppe, realizzando quanto idiota fosse quella domanda. «I segugi infernali…» mormorò, mentre la realtà si faceva nitida di fronte a lei e cominciava a sentirsi terribilmente impotente. Il ciclope aveva usato la sua voce per distrarre Konnor, probabilmente attirandolo in una trappola, i mostri avevano neutralizzato i suoi amici ancora addormentati, e avevano usato i segugi infernali per saltare nell’ombra e teletrasportarsi a Chicago.

«Sì…» confermò il ciclope, con un filo di voce, tornando a sogghignare.

Lo stupore e il timore di Stephanie si trasformarono di nuovo in rabbia nel giro di pochi secondi. «Come facevate a conoscere i nostri nomi e le nostre voci? Come sapevate che sono una figlia di Demetra?!»

«Vi controlliamo da quando avete lasciato il vostro campo. Possiamo sentire il vostro odore dappertutto. Credevate davvero di passare inosservati?» Il mostro ridacchiò. «I tuoi amici sono già morti…»

Stephanie strinse i pugni, ma ignorò la provocazione. Corse fuori, lasciando il ciclope al suo destino.

Non appena si ritrovò sul pianerottolo, si accorse di diversi mortali stipati nel parcheggio, gli sguardi spaventati puntati proprio verso la stanza da cui era uscita. Stephanie sussultò. Le grida del ciclope avevano attirato attenzioni indesiderate. Li ignorò e cominciò a correre, saltando giù dal pianerottolo. Raggiunse il bosco sul retro prima che i mortali potessero fermarla. Chicago era molto lontana da lì, ma forse poteva raggiungerla in tempo, prima che fosse troppo tardi. Non poteva guidare, ma era una figlia di Demetra, poteva spostarsi in modi molto più rapidi.

Poco prima di raggiungere il bosco si fermò, e ripensò a tutto quello che aveva appena fatto a quei mostri. Non ne andava fiera. Certo, erano mostri e loro non avrebbero esitato un solo istante a farle quello che lei aveva fatto loro, ma lei non era così. Lei odiava combattere, odiava uccidere, odiava la violenza. Solo perché era una semidea, solo perché quello era il motivo per cui esistevano, non significava che fosse una cosa che gradiva. Per questo non le piacevano le sfide al Campo Mezzosangue, per questo, in una ipotetica situazione di guerra, lei si era sempre immaginata in una posizione più dietro le linee, ad aiutare i feriti magari. E invece eccola lì. Il suo istinto aveva preso la meglio, aveva agito in automatico, e aveva neutralizzato cinque mostri senza alcuna difficoltà. E ora stava andando a salvare i suoi amici, completamente da sola. Quello era il punto di non ritorno. Il destino dell’impresa, la vita di quattro persone, ora dipendevano da lei. Che fosse quello il momento di cui Persefone le aveva parlato? 

Così presto?

Le grida dei mortali la fecero distogliere da quei pensieri. Si stavano avvicinando. Non aveva più tempo da perdere. Inspirò profondamente, poi corse nel bosco.

 

***

 

Una volta, da bambina, aveva toccato un giacinto nel giardino di suo padre, e in un istante il mondo attorno a lei era scomparso. Il suo corpo era diventato etereo, ogni cosa era divenuta verde, e prima ancora di riuscire a domandarsi cosa fosse successo, si era ritrovata seduta dall’altra parte del prato, in mezzo alle viole. A Eric, che aveva assistito a tutta la scena, per poco non era venuto un colpo. Era stata quella la prima volta che i suoi poteri da semidea si erano manifestati, ed era stato allora che aveva scoperto di potersi teletrasportare grazie alle piante. 

Ovviamente non avveniva tutte le volte che toccava un fiore, altrimenti si sarebbe teletrasportata in continuazione. Da bambina le era successo perché non aveva idea di come utilizzare il potere, ma ora che era cresciuta sapeva come controllarlo. Era una tecnica che solamente le driadi o i figli di Demetra più potenti potevano eseguire – anche suo fratello Paul ne era capace – e a differenza dei salti nell’ombra, lei non poteva trasportare nessuno con sé. Per questo motivo non l’aveva usato per la loro impresa, sarebbe stato inutile. Ma in quel momento, invece, era proprio quello che le serviva.

Posò le mani sul tronco di un albero e chiuse gli occhi, concentrandosi. Milioni e milioni di bisbigli riecheggiarono nella sua testa, uno scrosciare di voci che si sovrapponevano le une sulle altre, in una lingua incomprensibile. Erano le voci di ogni albero, fiore, pianta o ciuffo d’erba di quel bosco, incluse le driadi. La ragazza gemette, le tempie che le pulsavano di dolore a causa di tutto quel rumore nella sua mente, ma mantenne comunque alta la concentrazione. La vegetazione aveva un solo canale di comunicazione, la terra, che lei sfruttò per cercare la zona che aveva bisogno di raggiungere. Realizzò di essere vicina quando le voci di quel bosco cessarono, e tutto ciò che sentì furono solo sporadici bisbigli, della poca vegetazione che si trovava nella zona urbana. Sorrise soddisfatta quando trovò ciò che cercava, e lasciò che lei e quell’albero divenissero un tutt’uno.

Fu questione di un istante: prima era in quel bosco, dopo era sotto una betulla in un parchetto, accanto a un piccolo stagno con un ponte che lo attraversava. Le luci artificiali illuminavano la strada accanto a lei in un turbinio di colori, mentre il rumore del poco traffico che scorreva a quell’ora ronzava nell’aria. La figlia di Demetra lasciò il tronco e cadde a sedere, con il respiro pesante. Si prese la testa tra le mani, cercando di scacciare la sensazione di vertigini. Non aveva usato spesso quel potere, e soprattutto non aveva mai fatto un salto così grande prima di allora. Si sentì prosciugata di ogni forza. Ingoiò un po’ di ambrosia e si rimise in piedi. Aveva ancora un salto da fare. Aveva raggiunto Chicago, o almeno, sperava che quella città attorno a lei fosse Chicago, ora doveva localizzare il cantiere che aveva visto in sogno. 

Un senzatetto accampato sopra una panchina fece un verso sorpreso, osservandola, e lei provò una vena di imbarazzo. Si augurò che la Foschia l’avesse coperta quando era stata eruttata fuori da quel tronco.

Posò di nuovo le mani sulla betulla e inspirò. Sapeva dove andare. Ricordava molto bene la sensazione che aveva provato quando aveva visto quel cantiere nel sogno, non poteva sbagliarsi. Individuò un luogo in cui la natura stava lentamente morendo, soffocata da un terreno spianato di fresco, e si teletrasportò. 

Riapparve su un suolo sabbioso, boccheggiando, sdraiata a terra. Si rimise lentamente in ginocchio, tremando. Si guardò attorno sollevata, e in parte anche intimorita, dalla familiarità che quel luogo le trasmise. Mostri di acciaio, cemento e vetro la circondavano, osservati dall’alto da delle gru. Accanto a lei, la pianta che le aveva permesso di teletrasportarsi lì: un piccolo ciuffo d’erba solitario giallognolo, l’ultimo dei suoi simili sopravvissuto al passaggio dell’uomo. Malgrado non avesse tempo da perdere, la ragazza lo carezzò dolcemente, ammirando la sua tenacia. Grazie a lui, ora aveva una possibilità di trovare i suoi amici in tempo.

Si rimise in piedi a fatica e barcollò in mezzo a quel labirinto di palazzi in costruzione. Un tempo doveva essere stato un parco, perché sentiva ancora i versi di dolore della vegetazione che era stata annientata. Il dolore emanato da quel posto era così forte che contagiò anche lei. Sentì una lacrima scivolarle lungo la guancia, ma si sforzò di ignorarla. 

Notò una luce provenire dalla distanza, e immaginò che si trattasse dei faretti che aveva visto nel sogno. Affrettò il passo, senza nemmeno avere in mente un piano ben preciso. Voleva solo assicurarsi che i suoi compagni stessero bene. Attraversò un palazzo ancora senza muri, aggirando scale, impalcature e sacchi di cemento, e raggiunse quello che stava cercando. Si avvicinò, nascondendosi dietro a un camion, e si sporse per osservare meglio la scena che le si parava di fronte. Una dozzina di mostri se ne stava radunata in semicerchio, illuminati da dei faretti in un piccolo spiazzale, di fronte ad un anfratto più buio, una scena che riconobbe immediatamente e che le suscitò una scarica di brividi. Non c’erano più dubbi, quello era il luogo giusto.

I segugi infernali erano sdraiati a terra, assopiti, probabilmente stanchi dopo aver saltato nell’ombra. In un angolo c’erano gli zainetti che si erano portati per il viaggio, tutti fatti a pezzi. Poi, si accorse dei suoi compagni.

Stephanie inorridì. Lisa, Thomas, Konnor ed Edward erano seduti, appoggiati contro un pick-up, le mani e le caviglie legate da delle catene. La figlia di Bacco e quello di Ermes avevano qualche graffio e livido sul volto, ma nulla di grave. Konnor giaceva invece semisvenuto, anche lui con il volto pesto. Ma quello messo peggio era Edward. Anche se teneva la testa abbassata, la figlia di Demetra poté comunque scorgere le sue labbra e il naso sporchi di sangue ancora fresco, più una miriade di lividi dalle sfumature violacee. Sicuramente non si era arreso senza combattere, e quello era il benservito che gli avevano riservato. Steph provò pena per lui. Aveva assistito al proprio passato venire a galla contro la sua volontà e poi era stato selvaggiamente picchiato. Doveva essere distrutto, sia fisicamente che psicologicamente.

«… e dovrebbero portarci l’ultima a momenti» stava dicendo una delle dracene verso l’ombra, con tono lievemente intimorito. «Sssono certa che…»

«SILENZIO!» tuonò uno dei ciclopi, con quell’orribile voce femminile. «Vi avevo dato un compito!»

Vi fu un forte spostamento d’aria, e il gruppo di mostri indietreggiò di scatto come un tutt’uno. Un’imponente figura uscì dall’oscurità, alta più di due metri, con due gigantesche ali sulla schiena. Non appena la vide, Stephanie sentì il proprio corpo trasformarsi in gelatina per la paura.  

Una donna dalla pelle verde squamosa e i capelli fatti di serpenti vivi, con il corpo di un drago nero dalla vita in giù, teste di animali diversi, leoni, orsi, lupi, che prendevano forma nel punto in cui le sue due metà si univano. Qualcosa di impossibile da descrivere e terrificante da guardare.

CampeL’ex carceriera del Tartaro.

Stephanie non l’aveva mai vista dal vivo, e avrebbe di gran lunga preferito continuare a vivere così. Conosceva le storie su di lei: aveva vissuto ad Alcatraz per qualche tempo, quando faceva parte dell’esercito di Crono, e aveva guidato i mostri che avevano invaso il Campo Mezzosangue passando per il Labirinto di Dedalo, battaglia in cui alla fine era stata uccisa. Non era mai più apparsa da allora, nemmeno durante la guerra contro Gea, e sinceramente in molti si erano dimenticati di lei. E ora eccola lì, in tutta la sua bruttezza. E ce l’aveva proprio con loro.

«Che cosa vi fa credere che non ci intralcerà?!»

«M-Ma è una figlia di Demetra…» cercò di giustificarsi la dracena. «Q-Qui lei non potrà …»

«Ho detto SILENZIO!» tuonò il ciclope, mentre Campe si chinava sulla dracena. La sottoposta ammutolì, emettendo un gemito che parve più uno squittio. Pareva uno scarafaggio se paragonata alla carceriera. «Dovevate portarmeli tutti…» rantolò Campe, sempre tramite il ciclope. «Tutti i semidei dovranno pagare per quello che mi è successo!» La carceriera si voltò verso i ragazzi legati, per poi sogghignare. «Beh… vorrà dire che comincerò da voi.»

Si avvicinò al gruppo di semidei, compiaciuta. Stephanie gemette. Doveva inventarsi qualcosa, alla svelta. Lei era l’unica che poteva salvarli, ma quella dracena aveva ragione: non era in un bosco, in un parco, o nulla di quel genere. Erano in un cantiere, la terra era morta, non poteva usare i suoi poteri in quel luogo e non sarebbe mai riuscita a sconfiggere Campe corpo a corpo. Forse poteva distrarla, prendere tempo, magari fino a quando Edward non sarebbe riuscito a utilizzare la Spada del Paradiso, però il pensiero di uscire allo scoperto la faceva morire di paura. Era pietrificata.

«Molto imprudente da parte vostra uscire dal vostro campo» cominciò Campe, esaminando dall’alto i quattro ragazzi. «Soprattutto quando uno di voi può emanare un potere così grande. L’ho sentito da quaggiù quando eravate ancora a centinaia di chilometri da qui. Pensavate davvero che non vi avremmo trovati?»

Nessuno rispose. Tommy e Lisa, gli unici che parevano coscienti, si scambiarono uno sguardo. Il figlio di Ermes era terrorizzato. Lisa, invece, era impossibile da interpretare. La carceriera sorrise. «Non siete di molte parole? Bene. Vi farò parlare io allora.»

Si chinò sulla ragazza, scrutandola dritta negli occhi. La figlia di Bacco mantenne i nervi saldi, cosa che Stephanie mai sarebbe riuscita a fare, non con quei serpenti che sibilavano estasiati a così pochi centimetri dalla sua faccia.

«Una figlia del dio del vino…» osservò il mostro, emettendo quell’inquietante risata gutturale. «… credo di aver già ucciso un tuo fratello, molti anni fa. Sarà una gran soddisfazione aggiungere anche te alla raccolta.»

Lisa assottigliò le labbra, ma non disse nulla, non cedendo alla paura e non lasciandosi influenzare dalle parole del mostro. La carceriera ridacchiò ancora, poi cambiò bersaglio. Si spostò su Thomas. «Un figlio di Ermes…» mormorò, facendosi seria. «Io li odio i figli di Ermes…» Si abbassò anche su di lui, arrivando all’altezza della sua fronte, ed avvicinò il suo volto orribile. Tommy gemette spaventato, e commise l’errore fatale di distogliere lo sguardo da lei.

«Hai paura» constatò la carceriera, per poi sogghignare crudele. «Perfetto.» Sollevò una mano, sfoderando degli artigli affilati come lame di rasoio. «Sarai un ottimo antipasto.»

Tommy sgranò gli occhi e cercò di indietreggiare, terrorizzato. Campe lo afferrò per la maglietta, Lisa sussultò, il respiro di Stephanie si mozzò.

«Tu non fai paura a nessuno, stronza di un’anguilla parlante» sbottò una voce all’improvviso. Edward drizzò il capo, mostrando una generosa panoramica del mosaico di lividi che aveva sul volto. Osservò la carceriera con odio. «Fai solo pena.»

Campe si voltò lentamente verso di lui. Lasciò andare Thomas e si raddrizzò con una calma inquietante. «Che cosa hai detto?»

«Oh, bene. Oltre a essere disgustosa sei anche sorda» gracchiò il figlio di Apollo. «Ti farei il linguaggio dei segni, ma sai com’è, ho i polsi legati.»

Campe si posizionò di fronte a lui, scrutandolo dall’alto con odio. Il ragazzo sorrise, per nulla intimidito. «Anche se non credo che li capiresti comunq…»

La carceriera si mosse con una rapidità sorprendente e lo afferrò per il collo, sollevandolo come un pupazzo. Edward gemette per la sorpresa quando si ritrovò faccia a faccia con il mostro, ma lo stupore svanì subito, rimpiazzato da un altro sorriso provocatorio. «Ehi, quanta confidenza» rantolò a fatica, a causa della mano attorcigliata attorno alla sua gola. «Ci siamo appena conosciuti, madame.»

«Io non ti farei paura?» ringhiò Campe, aumentando la presa, affondando gli artigli nella carne di Edward, che emise un grido soffocato. Il ragazzo tossì, ma non rispose. Le sputò direttamente in un occhio.

Stephanie si mise una mano di fronte alla bocca. Tutti i mostri presenti sobbalzarono per la sorpresa, gli occhi di Thomas per poco non schizzarono fuori dalle orbite, così come quelli di Lisa.

Campe rimase con la testa girata per un momento, una chiazza di saliva mista a sangue che le scivolava lungo la guancia ed un’espressione indecifrabile sul volto. Si ripulì lentamente con il dorso della mano, mentre Edward allargò il suo ghigno. «Ti basta come risposta, put…»

Non terminò mai quella frase. Campe ululò di rabbia, affondando la mano con cui non stava stringendo Edward nella sua faccia.

L’urlo straziante del figlio di Apollo squarciò l’aria. Fu la cosa più terribile che Stephanie sentì nella sua vita. A quel rumore i segugi infernali si svegliarono all’improvviso, cominciando a latrare come dei dannati, perfino Konnor riprese lentamente conoscenza. I mostri saltellavano sul posto eccitati, entusiasti di quel grido devastante che per loro doveva essere musica per le orecchie. Edward si dimenò, mentre il suo volto si trasformava in una maschera di sangue, che colò lentamente sui suoi vestiti.

Ora con entrambe le mani messe di fronte alla bocca per non gridare disperata il suo nome, Stephanie dovette attingere a tutta la propria forza di volontà per non corrergli incontro e farsi ammazzare dal resto dei mostri come una stupida. Calde lacrime le invasero gli occhi, mentre osservava impotente quella scena orribile.

«EDWARD!» urlò Tommy, dimenandosi, ma prima che potesse fare qualsiasi cosa il ciclope che faceva da traduttore per Campe gli intimò di rimanere fermo con uno sguardo truce. Il figlio di Ermes gemette, gli occhi lucidi, ma rimase immobile. Accanto a lui, Lisa abbassò la testa, coprendosi il viso con le mani legate, singhiozzando.

Infine, Campe lasciò finalmente andare il ragazzo, che accasciò la testa a peso morto. Con enorme sollievo di Stephanie, emise diversi gemiti, quindi se non altro era ancora vivo. Per quanto tempo, però, questo non poteva saperlo.

«Pensavi di sembrare coraggioso, semidio? Perché non ci sei riuscito» sibilò Campe. «Hai solamente prolungato il tuo dolore.»

Lanciò a terra Edward, che atterrò con un tonfo sordo, emettendo un altro grido soffocato. Strisciò lentamente su un fianco e sputò una grossa chiazza scarlatta. Aveva un sopracciglio strappato, l’occhio chiuso, la faccia ricoperta di sangue sotto il quale si potevano scorgere tre grossi, orribili solchi che gli attraversavano il viso dalla fronte al mento.

Campe rivolse un cenno ad alcuni lestrigoni, che corsero verso di Edward. Lo afferrarono da sotto alle ascelle e lo misero in ginocchio, poi uno di loro gli strappò la maglietta del campo, lasciandogli scoperta la schiena. Un ciclope si avvicinò alla carceriera, porgendogli una catena arrugginita ancora attorcigliata. La donna rettile la afferrò e la esaminò con lo sguardo per qualche istate, poi la usò per sferzare l’aria. Sorrise compiaciuta, osservando ora la schiena del figlio di Apollo. «Spero che tu abbia ancora un po’ di fiato. Mi piace di più quando gridano!»

Edward emise un altro gemito, il corpo scosso da un fremito. Drizzò lentamente la testa. «A-Aspetta…» mormorò a fatica. «V-Va bene, hai vinto tu... non… non serve che tu uccida anche loro… puoi… puoi prenderti la mia spada… ma… prima devi lasciarli andare…»

Lisa drizzò di nuovo la testa, osservandolo sconvolta. Konnor parve finalmente realizzare cosa stesse accadendo, perché sgranò gli occhi. E anche Stephanie lo fece.

«E-Edward…» mormorò Tommy. «No…»

Il figlio di Apollo riuscì a sorridere al gruppo. «Mi… mi dispiace ragazzi. Non... non sono riuscito a... a proteggervi. Ma... non lascerò che… vi facciano del male… per colpa mia.»

«Spada?» domandò Campe, nel frattempo. «Quale spada?»

«Edward, non farlo» intimò Konnor. «Non ne vale la pena! Le nostre vite non valgono quelle di tutti!»

«Per me sì» rispose Edward, sputando altro sangue. Konnor schiuse le labbra, così come gli altri. Il figlio di Apollo scosse lentamente la testa. «Non mi sono… comportato bene, con voi. Avrei dovuto essere più… onesto. Su… di me, sul mio… passato. Voi… avete scelto di… venire con me, in questo viaggio. Avrei… dovuto mostrarvi più… gratitudine. Scusatemi…»

Stephanie avrebbe pianto di nuovo. Aveva creduto che Edward fosse arrabbiato con loro per quello che era successo al motel, e invece… invece voleva salvarli. Anche se non erano davvero amici, anche se non si conoscevano da molto, anche se… se avevano ficcanasato nel suo passato contro il suo volere. Nulla di tutto quello che era successo era davvero colpa sua, lui si era solamente stato sballottato dagli eventi. Non aveva scelto di avere la Spada del Paradiso, di essere un semidio, di trovarsi lì. Eppure, aveva accettato ognuna di queste cose, ed ora voleva perfino dare la propria vita per avere salva quella degli altri.

Anzi, di più. Stava anche chiedendo perdono. Perché Persefone le aveva detto di non fidarsi di lui? Come avrebbe mai potuto non fidarsi più di lui dopo un gesto del genere? Per Edward la vita dei compagni valeva di più della propria. Quel singolo pensiero era sufficiente per chiunque per potersi fidare. 

«Se muori la spada rimarrà senza proprietario!» gridò il figlio di Ares. «E non ci sarà nessuna guerra! Ma se la dai a lei allora tutto quanto sarà inutile!»

«Ma di che state parlando?!» urlò la carceriera, agitando la catena. «Quale spada?!»

«Ama… Ama No Murakumo…» ansimò Edward, ignorando le proteste di Konnor. «La… Spada del Paradiso… non puoi… non conoscerla. L’energia… che hai sentito… veniva da me. Dalla… dalla spada.»

Campe storse le labbra. «Non ho idea di cosa tu stia parlando. È vero, tu emani dell’energia, ma quella che ho sentito era molto diversa dalla tua, ed è durata solo per poco.»

«C-Che cosa?»

La carceriera scosse la testa, tornando a sorridere crudele. «Mi credi così stolta?» Strinse con più forza la presa attorno alla catena. «La pagherai per aver cercato di imbrogliarmi. Vi consiglio di prestare molta attenzione, perché dopo toccherà a voi» mugugnò, rivolta ai semidei ancora legati. «Un vero peccato che anche la vostra amica non sia qui ad assistere!»

Konnor digrignò i denti e cercò di alzarsi, ma il ciclope interprete lo spedì a terra con un calcio, facendolo sbattere contro il pick-up. Il figlio di Ares batté la testa e gemette, accasciandosi a terra. Cercò di strisciare e di alzarsi di nuovo, ma il ciclope tornò alla carica, inchiodandolo al suolo con un altro pestone che lo fece urlare.

«Konnor!» lo chiamò Lisa, ricevendo un ceffone. La figlia di Bacco gridò, piegando la testa, un rivolo di sangue che colava dal labbro.

Tommy singhiozzò, e il ciclope lo invitò a non fare mosse azzardate con un altro sguardo truce. Abbassò la testa, il volto ormai invaso dalle lacrime.

In mezzo a tutto quel trambusto, Campe indietreggiò di qualche passo. Distese la sua frusta improvvisata, per poi passarsi la lingua biforcuta tra i denti, gli occhi puntati sulla schiena di Edward. «Quando avrò finito con te, i corvi staccheranno brandelli di carne dalla tua spina dorsale.»

Edward osservò i propri compagni un’ultima volta, in preda allo sconforto. Un’espressione che Stephanie non aveva ancora visto sul suo volto. Poi, il figlio di Apollo chinò il capo, arrendendosi al suo destino. Campe non aveva creduto alla storia della spada, non c’era più nulla che potesse fare. Il suo corpo fu scosso da un singulto quando singhiozzò, e la carceriera sogghignò compiaciuta.

«Sì. Era proprio questo che volevo!» Sollevò la frusta, pronta ad abbattergliela sulla schiena, ma Stephanie aveva visto troppo. I suoi amici erano stati torturati di fronte a lei, e non aveva mosso un dito per aiutarli, perché troppo spaventata. Ma era stanca di avere paura. Nessuno sarebbe morto di fronte a lei, non finché avrebbe potuto fare qualcosa per impedirlo, a costo di sacrificare il proprio stesso corpo lanciandosi tra la frusta ed Edward. Affondò le mani nel terreno, sentendo la rabbia ribollire dentro di lei, non desiderando altro che vedere quel sorriso svanire dal volto di Campe. Serrò la mascella, e percepì qualcosa muoversi sotto terra. Una scarica di elettricità le percorse il sistema nervoso, mentre nella sua mente udiva un grido. Un grido che parve quasi di più un ordine, di una voce possente, autoritaria, ma allo stesso tempo incrinata da vene di disperazione: «Liberami.»

Stephanie trattenne il fiato e chiuse gli occhi. Il tempo sembrò fermarsi. Si concentrò e ripensò alle parole di Persefone. La natura gridava… e lei doveva ascoltarla.

Un istante prima che Campe potesse muovere il polso, una radice nera sbucò dal terreno, immobilizzandoglielo. La carceriera sgranò gli occhi. «Ma cosa…» Cercò di muovere la mano, mugugnando per lo sforzo, ma quella non la lasciò andare. Le strattonò il braccio energicamente, strappandole un grido sorpreso e facendole perdere la frusta. Campe osservò quel rampicante sbucato dal terreno, sbalordita, poi drizzò la testa. «Questa… è questa l’energia che ho sentito…» sussurrò, poco prima che si scatenasse il caos.

Decine e decine di altre radici spuntarono in superficie, avvolgendosi attorno ai mostri, sollevandoli e stritolandoli fino ad ucciderli, in un turbinio di urla di sorpresa e di dolore. I segugi infernali latrarono e cercarono di morderne alcune, ma furono infilzati immediatamente. I lestrigoni che tenevano Edward immobile furono trafitti al petto da parte a parte e catapultati in aria. Di loro rimasero soltanto le grida disperate, e polvere dorata. Il figlio di Apollo crollò a terra con un tonfo sordo e bagnato.

Campe gridò nella sua lingua incomprensibile, ma questa volta non ci fu alcuna traduzione, perché il ciclope interprete era troppo impegnato a gridare spaventato mentre veniva afferrato per le caviglie dalle piante e sbattuto in ogni direzione.

Konnor, ancora a terra, osservò le radici e schiuse le labbra: «Non è possibile…»

«Sì, invece.» Stephanie uscì dal proprio nascondiglio, mostrandosi finalmente a tutti. «Lo è.»

«Steph!» gridò Tommy, con un sorriso che arrivava da orecchio a orecchio.

Lisa rise incredula. 

«Scusate il ritardo» disse la figlia di Demetra, mentre avanzava verso Campe tenendo una mano alzata, guidando l’esercito di rampicanti come una direttrice d’orchestra, indirizzandoli verso tutti i mostri che cercavano di scappare o di combattere. Stephanie fu l’ultima cosa che videro, prima di venire trafitti in pieno petto.

La figlia di Demetra si sentì potente come mai prima di allora. Le radici che comandava erano completamente marce e spolpate, rimasugli di ciò che era rimasto in quel terreno consumato. Ma ora, grazie al potere di Stephanie, stavano rinascendo. Erano furibonde per quello che era successo alla loro casa. E la loro rabbia si stava trasmettendo dentro di lei. Era come se fossero in simbiosi, le radici utilizzavano l’energia della figlia di Demetra per vivere, ma allo stesso tempo era stata la loro rabbia a darle una simile forza.

Nel corso dei millenni la natura era stata imprigionata e oppressa dall’uomo, che ci aveva costruito sopra città, fabbriche, aveva estratto le sue risorse e l'aveva inquinata con i suoi rifiuti, e ora lei era stanca dei soprusi. Non c’era niente, assolutamente niente di più potente di lei, e l’uomo avrebbe dovuto capirlo. In qualunque città Stephanie andasse, se si concentrava poteva sentirla gridare da sotto la sua prigione di cemento. In alcuni luoghi le urla erano più flebili, soprattutto nelle metropoli che esistevano da molto tempo, ma in altri, come in quel cantiere, erano molto più nitide. Non aveva mai capito che cosa volessero dire, però, fino a quel giorno. Ma ora lo sapeva.

Lei voleva salvare i suoi amici. La natura, invece, voleva solo essere liberata, voleva rifiorire e impadronirsi di nuovo di ciò che le apparteneva. Sfruttando l’una i poteri dell’altra, sarebbero state inarrestabili.

«Aiutate Edward» ordinò, mentre altre radici spezzavano le catene di tutti i suoi amici.

Tommy e Lisa si rimisero in piedi, aiutarono Konnor a fare lo stesso e corsero dal figlio di Apollo, che ormai giaceva in una pozza di sangue. Stephanie sentì il proprio cuore stringersi in una morsa quando lo vide in quelle condizioni. Campe avrebbe pagato per quello che aveva fatto. Le piante la stavano lentamente imprigionando, immobilizzandola arto dopo arto, facendola urlare sempre più forte. La donna rettile cercò di spiegare le ali e di alzarsi in volo, ma queste le furono strappate via dal corpo dai rampicanti. Il grido straziante della carceriera fece nascere un sorriso soddisfatto sul volto di Stephanie. A ruoli invertiti era tutto molto più gratificante da vedere.

Mentre camminava, mostri venivano scaraventati via, intrappolati, soffocati o infilzati. Alla fine di tutto quel cataclisma, rimasero in sette in quel posto. Lei, i suoi amici, Campe e il ciclope interprete. La carceriera era stata messa in ginocchio, schiacciata a terra, ed era ormai al livello di Stephanie. La figlia di Demetra le si avvicinò, scrutandola dritta negli occhi. Solo una decina di centimetri le separava, ma starle così vicino ormai non la spaventava più. Non aveva più paura di lei. Non aveva più paura di nessuno.

Campe ruggì furibonda con tutto il fiato che le era rimasto in corpo. Il volto di Stephanie fu travolto dal suo alito caldo e pestilenziale, i suoi capelli sventolarono come sospinti dal vento e i suoi occhiali si appannarono perfino, ma rimase immobile. I serpenti nei capelli del mostro sibilarono e si dimenarono all’impazzata, cercando di morderla, ma erano troppo lontani per raggiungerla.

Quando la carceriera smise di sbraitarle in faccia, Stephanie si passò il pollice sulle lenti degli occhiali per ripulirseli, poi assottigliò le labbra. «Hai finito?»

Le radici si strinsero ulteriormente, strappando un gemito di dolore a Campe, che digrignò i denti aguzzi per la rabbia.

«T-Ti prego…» sussurrò il ciclope, con la sua vera voce, mentre dondolava appeso per la caviglia accanto a Campe. «L-Lasciami andare! Non vi farò più nulla!»

«TRADITORE!» urlò subito dopo, ora con la voce di Campe.

«Non ti sto tradendo! Ci hai obbligati con la forza ad aiutar…»

«SILENZIO!»

«Che ne dite di chiudere la bocca tutti e due?» sbottò Stephanie, stringendo una mano per stritolare di più i rampicanti. Entrambi i mostri mugugnarono di dolore e il ciclope smise di litigare con sé stesso.

«Come hai fatto?» sibilò a quel punto il monocolo, con la voce di Campe. «Questa terra è morta! Come hai fatto a controllare queste piante?!»

Stephanie sorrise compiaciuta. Se le avessero fatto la stessa domanda, quel mattino, non avrebbe saputo rispondere. Ma ora ora, finalmente aveva capito. «La natura non può morire» rispose. Sferzò l’aria con la mano, la lama a forma di falce balenò tra le dita. Campe sgranò gli occhi. Steph allargò il sorriso. «Ma tu sì.» 

La carceriera osservò atterrita la figlia di Demetra ancora per qualche istante, con la gola che sanguinava, poi roteò gli occhi e accasciò il capo. Le radici la lasciarono andare mentre si dissolveva lentamente. E così si concluse la storia di Campe e della sua vendetta verso i semidei. Ben zero vittime aggiunte alla sua raccolta. Un vero successo. Lasciò poi cadere a terra il ciclope, che atterrò molto poco delicatamente sulla propria faccia.

«Torna dai tuoi amici e racconta quello che hai visto» ordinò Stephanie. «Digli che se si faranno vivi, il loro destino sarà ben peggiore di quello di Campe.» 

Il mostro non se lo fece ripetere due volte. Corse via terrorizzato, svanendo nel cantiere.

Stephanie venne raggiunta dai suoi amici e distese il sorriso quando li vide tutti salvi. Konnor e Tommy stavano aiutando Edward a rimanere in piedi e, non appena si accorse delle sue condizioni, Steph si allarmò. Il suo sguardo era vitreo e non sembrava più essere consapevole di quello che stava succedendo attorno a lui. «Edward! Ha bisogno di ambrosia, velo…» Si interruppe. Una fitta di dolore tremenda le colpì la tempia, facendola gridare e cadere in ginocchio.

«Steph!» la chiamò Tommy, ma la ragazza sollevò una mano.

«S-Sto bene, aiutate Edward…» mormorò, a fatica.

Il figlio di Ermes annuì. «Subito.» 

Stephanie si massaggiò le tempie, mugugnando per il dolore. Le radici rimaste nel cantiere cominciarono a ritirarsi, mentre altre voci rimbombavano nella sua testa, questa volta di nuovo incomprensibili.

«Mi dispiace ragazzi, ma la vostra roba è distrutta» mormorò Thomas, stringendo il suo zainetto. Si chinò accanto al figlio di Apollo. «Ma abbiamo ancora la mia.» Estrasse un botticino di nettare, con cui bagnò un panno che usò per pulire il sangue dal volto di Edward. Non appena il liquido entrò in contatto con la ferita sul suo volto, il figlio di Apollo gemette e il suo corpo fu scosso da un fremito. Doveva bruciare terribilmente.

«Perché il tuo zaino è intatto?» domandò Lisa, con tono scettico ma comunque molto diverso da quello che usava con lui di solito.

«Perché è un dono di mio padre. È magico, non può essere distrutto così facilmente» spiegò Tommy, mentre estraeva un pacchetto di ambrosia. «Tenete» disse, porgendola loro. «Prendila anche tu, Steph.»

«G-Grazie…» disse lei, sedendosi accanto agli amici per consumare la sua porzione. La sensazione di potere e di benessere di poco prima stavano cessando. Prima si era sentita in grado di poter spazzare via un esercito di Titani, ora invece stava lentamente ritornando la vecchia sé stessa, la figlia di Demetra che odiava la violenza e i combattimenti. I bisbigli continuavano nella sua mente, incessanti. Avrebbe voluto farli tacere, ma non sapeva come. In genere le bastava ignorarli per farli scomparire, ma quelli non volevano proprio andarsene.

«No, Steph, grazie a te. Ci ha salvati tutti» disse Thomas.

Stephanie riuscì a sorridere. «Non vi avrei mai abbandonati, ragazzi. Mi… dispiace se ci ho messo così tanto. Se avessi fatto prima, forse ora…»

«Davvero ti stai scusando?» la frenò Konnor, scrutandola inespressivo. Il figlio di Ares scosse la testa, per poi sospirare affranto. «Mi sono fatto imbrogliare come uno stupido. Ho lasciato la nostra stanza sguarnita, i mostri vi hanno attaccati mentre dormivate, e io mi sono fatto colpire alle spalle. Abbiamo tutti rischiato di morire per colpa mia. Tu, Steph, non hai niente di cui scusarti.»

«Konnor…» mormorò lei, incrociando il suo sguardo. Tutto quel viaggio, tutta quell’impresa… stavano provando il figlio di Ares ogni istante di più. Erano partiti da appena un giorno e lui pareva già una persona completamente diversa. Stavano succedendo così tante cose attorno a lui, nella sua vita personale, alle persone a cui teneva… e ora la terribile sensazione di colpa che sicuramente stava provando. Doveva sentirsi come una bomba pronta ad esplodere.

Il suo sguardo cadde poi su Edward. Se Konnor era ferito nello spirito, il figlio di Apollo sicuramente era ferito nel fisico. Anche con il volto pulito dal sangue e la ferita che si stava rimarginando, non aveva per niente un bell’aspetto. Tre orribili squarci gli attraversavano diagonalmente la faccia. Per fortuna non avevano intaccato l’occhio o il naso, solo un piccolissimo angolo della bocca, ma formavano comunque un inquietante contrasto con la sua pelle ancora sana. Era svenuto, e non sapeva se fosse una cosa positiva o negativa, in ogni caso respirava ancora e, malgrado tutto, aveva un’aria serena, forse perché aveva visto Stephanie arrivare. La figlia di Demetra dovette resistere all’impulso di accarezzargli una guancia. Non le importava quello che Konnor aveva detto. Se solo avesse agito prima, Edward non si sarebbe trovato in quelle condizioni. Non avrebbe nemmeno dovuto cercare di dare la propria vita per salvare quella degli altri. 

Diamine, se non avesse ceduto come una stupida alla fame, probabilmente non si sarebbero nemmeno trovati in quella situazione. Se pensava che tutto quel disastro era stato scaturito da un semplice brontolio del suo stomaco, le veniva voglia di prendersi a pugni da sola fino a svenire.

«Ma… come hai fatto a trovarci?» chiese ancora Lisa.

«E… tutta quell’energia… ce l’hai sempre avuta?» domandò ora Tommy, squadrandola sorpreso, quasi intimorito.

«Io…» Stephanie si osservò le mani, per poi sospirare pesantemente. «È una storia lunga. Ve la racconterò dopo, adesso…»

Uno dei bisbigli nella sua mente si trasformò in un urlo. Si premette una mano sulla tempia, gemendo con forza, un istante prima che un altro rampicante sbucasse fuori dal terreno. Solo che questa volta lei non l’aveva chiamato. Il suo sguardo sorpreso quando lo vide dovette essere un messaggio piuttosto chiaro per i suoi compagni, perché si alzarono in piedi, allarmati. Altri rampicanti spuntarono dal terreno, mentre il grido proseguiva nella testa di Stephanie. Non aveva idea di cosa stesse succedendo, sapeva solo che non aveva alcun controllo su di quello. E sapeva anche che avrebbero fatto meglio ad andarsene da lì.

«Non possiamo restare qui» asserì, alzandosi in piedi e ignorando il dolore e le grida. I rampicanti continuarono a fiorire e crescere, andando ad attorcigliarsi attorno a qualsiasi cosa incontrassero. Veicoli degli operai, pilastri di cemento, impalcature. Si stavano lentamente impadronendo di quel luogo, in tutti i sensi della parola.

«Ma che succede?» interrogò Thomas.

«Non lo so» sussurrò Stephanie. «Ma non mi piace. Andiamocene, veloci! Parleremo più tardi!»

Usò un tono che non ammetteva obiezioni. Non che fosse molto saggio mettersi ad obiettare in quel momento in ogni caso, con quella selva di radici che stava crescendo e che non sembrava per nulla intenta a fermarsi. E fortunatamente i suoi compagni la pensarono allo stesso modo. Konnor si caricò Edward su una spalla, gemendo per lo sforzo, ma assicurò gli altri con un cenno del capo che ce la poteva fare. Tommy corse a infilare i brandelli dei loro zainetti rimasti nel suo, poi, insieme, fuggirono da quel luogo maledetto, dove la natura sembrava essersi risvegliata per davvero, e questa volta in maniera permanente.

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Capitolo 16
*** I pezzi si uniscono ***


16

I pezzi si uniscono

 

 

Le palpebre di Edward tremolarono. Si svegliò su un pavimento di marmo bianco gelido come l’Artide. Si rimise a fatica in ginocchio, stringendosi nelle spalle per scaldarsi. Notò subito le teche con dietro le armi in esposizione, le statue, il trittico con l’uomo che combatteva con il mostro e l’espositore vuoto di Ama No Murakumo. Era di nuovo in quel museo che aveva visto in sogno.

«Grandioso…» rantolò, alzandosi in piedi. Stava di nuovo sognando quel posto maledetto, e ormai cominciava a credere che si trattasse proprio dell’Asian Art Museum. Del resto, quali altri musei avrebbe potuto sognare?

«Ben svegliato» lo accolse una voce. Edward drizzò il capo. L’uomo serpente gli sorrise dall’alto. «Dormito bene?»

Edward strinse i pugni. Odiava quel ghigno. Odiava quel tizio e basta. Si eresse, desideroso di sferrargli un pugno in faccia, ma il dolore al volto lo frenò, costringendolo a posarci sopra una mano.

«Fa male, vero?» rantolò un’altra voce. 

Il figlio di Apollo si voltò. Alle sue spalle era apparso un volto familiare. Ancora una volta, il dolore impedì a Edward di muoversi, altrimenti si sarebbe fiondato su quel verme. Il mezzo-demone che aveva rapito Rosa era lì, di fronte a lui, brutto come sempre. Tuttavia, Edward notò con una sorta di macabro piacere la cicatrice scura che gli attraversava l’occhio. L’han’yō se la sfiorò, notando il suo sguardo. «Sono felice che quella patetica carceriera non ti abbia accecato. Per me sarà un vero piacere strapparti via entrambi gli occhi personalmente.»

Le sue parole accesero una luce nella mente di Edward. La carceriera… Campe. L’ultima cosa che ricordava con chiarezza, erano i suoi artigli che affondavano nel suo volto. Tutto quello che era successo dopo erano immagini sbiadite e distorte. Credeva di essere arrivato alla fine, ma per fortuna era arrivata Stephanie.

Non ricordava affatto con esattezza quello che era successo, aveva visto qualcosa spuntare dal terreno, i mostri che venivano scaraventati via come giavellotti e sentito Campe che urlava furibonda. Qualunque cosa avesse fatto, Steph lo aveva salvato. Aveva salvato tutti loro. Adesso era lui a doverle la vita. Non appena avrebbe finito con quella pagliacciata di sogno, l’avrebbe ringraziata a dovere.

Edward osservò il demone, per poi sorridergli di nuovo. «Devi solo provarci, fenomeno. Dopo non ci vedrai nemmeno dall’altro.»

Il mostro ringhiò e fece per estrarre la spada. Edward si domandò cosa sarebbe successo se l’avesse colpito lì, visto che dopotutto non si trovava davvero in quel luogo, ma l’uomo serpente sbatté il bastone della falce a terra. «Basta così, Naito. Ricorda quello che ti ho detto.»

L’han’yō scrutò l’uomo, poi Edward ancora per qualche istante, infine allontanò la mano dall’impugnatura della katana. Girò attorno al ragazzo, continuando a guardarlo truce, poi affiancò il padrone. Fece uno strano effetto conoscere il suo vero nome. Lo faceva sembrare quasi più umano, cosa che tuttavia un obbrobrio del genere non sarebbe mai potuto essere.

«Bravo, ascolta il tuo padroncino» lo provocò ancora Edward.

Naito strinse i pugni, mentre l’uomo serpente sorrise nuovamente. «Ne hai di spirito, vero? Proprio come Kate.»

Il sorriso sfumò dal volto di Edward. «Tu non devi parlare di lei, bastardo!» urlò. Questa volta non gli importò niente del dolore al volto e cercò di fiondarsi su di lui, ma si ritrovò immobilizzato. Con il corpo immobile, tentò di nuovo di parlare, ma non gli uscì nulla dalla bocca. Era pietrificato, come negli altri sogni che aveva fatto. Riuscì solo a digrignare i denti e rivolgere al rettile uno sguardo furente.

«Ho toccato un tasto dolente? Domando scusa» disse l’uomo, sollevando le spalle. «Ma ora mi farò perdonare.»

Batté di nuovo l’estremità della falce a terra. Una massa nera e indistinta cominciò a sbucare dal pavimento, una poltiglia grumosa e disgustosa di forma ovale che si eresse verticalmente. Sembrava… sembrava un bozzolo. E a giudicare dalla forma, dentro conteneva qualcosa. Edward deglutì, disgustato e anche intimorito. Quella roba lo metteva a disagio.

«Ho assistito al tuo dibattito con Campe e… ho notato che sei disposto a scambiare la spada per le persone a cui tieni» riprese l’uomo rettile, distendendo il suo freddo sorriso. «Bene, allora. Credo di avere proprio ciò che fa al caso nostro.»

Distese il braccio verso il bozzolo, e l’oscurità cominciò a diradarsi lentamente nel punto dietro al quale avrebbe dovuto trovarsi la testa dell’occupante. Non appena le tenebre si dissiparono, fu proprio una testa ad accasciarsi in avanti. E non appena la vide, Edward sì senti come se in quel bozzolo in realtà ci fosse lui e lo stesse soffocando.

Notando la sua espressione, l’uomo serpente sorrise compiaciuto. Ma il figlio di Apollo a malapena lo notò. Il suo sguardo era fisso su quel viso innaturalmente pallido e quei capelli arancioni sbiaditi.

«Rosa…» sussurrò, incredulo. Poteva di nuovo parlare, ma non gli importava un accidente. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era il fatto che sua sorella si trovasse proprio di fronte a lui. Avvolta in una pozza di tenebre, accanto all’uomo che lo tormentava nei suoi incubi e il demone che l’aveva rapita.

«Ebbene sì. La tua cara sorella è qui con noi, ed è in perfetta salute.» L’uomo serpente si voltò verso di lei, afferrandola per il mento e drizzandole il capo in modo che Edward potesse vederla meglio. Il figlio di Apollo avrebbe voluto gridargli di lasciarla andare, ma la voce gli svanì ancora una volta. Se avesse potuto, avrebbe urlato per la frustrazione.

Naito assottigliò le labbra, mentre l’uomo osservava Rosa con uno sguardo che trapelava viscidume da tutti i pori. «Che splendida vergine» sussurrò, più a sé stesso che agli altri due. «Da quanto tempo non ne vedevo una così.» Le lasciò andare il viso, chinando il capo con un ghigno.

«V-Vergine?» domandò Edward, atterrito. Spostò lo sguardo su Rosa, mentre due pezzi fondamentali del puzzle si univano nella sua mente. "Il sangue della vergine sarà il prezzo da pagare."

La vergine… era Rosa?! Lei?!

«So cosa ti turba» continuò l’uomo, tornando a guardarlo con i suoi occhi rossi come il sangue. «Siamo… come dire… a conoscenza di quella vostra filastrocca. Il dio delle tempeste, il serpente di Yamata, la vergine. Ma… credo che forse, potremmo trovare un accordo, tu ed io.»

«Un… accordo?» chiese ancora il figlio di Apollo, sempre più disorientato. Com’era possibile che quei tizi conoscessero la profezia? Che lo stessero spiando? Dopotutto, se sapevano anche quello che era successo con Campe, le spiegazioni non potevano essere molte. 

Edward serrò la mascella. Stavano succedendo troppe cose attorno a lui, troppe cose al di fuori del suo controllo, e la cosa lo faceva imbestialire. E ora, questo. Rosa era lì, di fronte a lui. Aveva creduto di averla persa, e invece eccola, e a giudicare dalle parole del rettile, stava bene. Ma questo non migliorava le cose, perché ora anche lei era in pericolo.

«Vedi, è da secoli che non mangio. Come potrai ben capire, ho una certa fame» cominciò l’uomo serpente, distendendo il suo sorriso inquietante. «E una vergine come questa… potrebbe davvero saziarmi come non mi succede da tempo indicibile.»

Edward non credette alle proprie orecchie. «Che cosa?!»

«Per riavere Kusanagi-no-tsurugi, o Ama no Murakumo, come la chiamate voi, sono stato costretto a mandare i miei demoni a cercarti, perché io non sono nelle condizioni di farlo. Sono ancora troppo debole, troppo… affamato, per riuscire a strapparti via la spada con le mie sole forze. Ma…» L’uomo si passò la lingua biforcuta tra i denti. «… questo bel regalo che mi ha portato Naito potrebbe risolvere questo mio problema. E potrebbe aiutarmi a tornare ai miei albori.»

Si voltò verso il trittico appeso sopra l’espositore vuoto della spada. Edward lo seguì involontariamente con lo sguardo e i suoi occhi si posarono sulla creatura serpentesca del dipinto. Ancora una volta, i puntini si collegarono nella sua mente. Quel mostro… era proprio l’uomo rettile. Ma com’era possibile? Quella creatura era gigantesca, mostruosa, una specie di enorme drago verde con un groviglio di teste e code, simile ad un Idra. L’uomo invece era grosso appena quanto Naito, rachitico e malaticcio.

«Se riacquistassi il potere di un tempo, potrei venire a cercarti di persona e spazzarti via con un soffio. Mi prenderei la spada e la userei per rovesciare gli dei. Tutti gli dei. Ma… non deve necessariamente finire così. Posso risparmiare la vita di tua sorella, e anche la tua e quella di tutti i tuoi amici. In cambio, però…» L’uomo sibilò. «… tu dovrai restituirmi Kusanagi-no-tsurugi.»

Il figlio di Apollo schiuse le labbra. «C-Che cosa?» ripeté, ora con tono mite.

«Il sangue delle vergini è ciò che mi fortifica» spiegò il rettile. «Per questo, in passato, quando ancora ero potente, in cambio della preservazione del mondo chiedevo vergini in sacrificio. Le persone mi temevano, si prostravano a me chiedendo pietà, ed era meraviglioso. Ma poi… tutto quanto è finito, per colpa di un dio ficcanaso che aveva deciso di innamorarsi proprio di una delle vergini che dovevano essermi date in sacrificio. Mi ha sconfitto, si è preso la mia spada e mi ha esiliato. Adesso, però, posso nutrirmi di nuovo, e non di una vergine qualsiasi, ma di una piccola dea. La forza che il suo sangue semidivino mi trasmetterebbe… sarebbe stravolgente. Non avrei più bisogno di demoni per prendere la spada, perché potrei occuparmene personalmente. Non avresti scampo, nemmeno utilizzando Ama No Murakumo. Ammesso perfino che tu riesca a controllarla per davvero. Non mi pare che fino ad ora tu abbia svolto un buon lavoro.»

Edward strinse i pugni, ma non replicò. Dopotutto, quella era la verità. Non era riuscito a utilizzare la spada nel momento del bisogno, se non fosse stato per Stephanie, sarebbero tutti morti. Doveva proteggere i suoi compagni, e aveva fallito. Per una volta, non poté fare altro che accettare a testa bassa le parole dell’uomo rettile.

«Tuttavia… posso proporti uno scambio. Non divorerò tua sorella. Riacquisterò le mie forze poco per volta, con il passare degli anni. Non farò alcun male né a te, né ai tuoi amici, né al tuo piccolo campo estivo. In cambio, però, tu dovrai restituirmi la spada.» Il serpente distese il sorriso. «Pensaci bene, piccolo dio. Tu, tua sorella, i tuoi amici, avrete tutti salva la vita. Non è quello che vorresti, del resto? Che la tua nuova famiglia sia al sicuro?»

Edward esitò. Non lo sapeva nemmeno lui, a dire il vero, ciò che voleva realmente. L’unica cosa che aveva desiderato, era poter essere libero dai mostri, poter vivere tranquillo, anche da solo se necessario. Credeva di esserci riuscito, arrivando al Campo Mezzosangue. Ma non avrebbe mai immaginato di incontrare persone come Rosa, Tommy, o Steph. Una sorella che non sapeva di avere, un amico sincero e… una ragazza molto speciale, che non lo aveva guardato dall’alto verso il basso schifata come invece era successo nelle famiglie affidatarie o nelle scuole, che non l’aveva giudicato per via del suo difficile passato.

Era quello che voleva, quindi? Che lui… che tutti loro, anche i ragazzi del Campo Mezzosangue, Derek, Nat, Rick, Paul, perfino Jonathan e il resto dei figli di Apollo, fossero al sicuro?

«Sì, è quello che voglio. Ma…» Edward si mordicchiò un labbro. «… credi davvero che io possa scendere a patti con te? Gli dei mi stanno con il fiato sul collo, non appena sapranno che...»

«Oh, ma qui loro non ci possono sentire» gracchiò l’uomo. «Questa conversazione non sta accadendo realmente, piccolo dio. Sarà il nostro piccolo segreto. Nemmeno i tuoi amici dovranno sapere nulla, altrimenti…» Il rettile osservò di nuovo Rosa. «… immagino tu sappia che cosa accadrà.»

Il ragazzo voleva urlare per la frustrazione. Non importava cosa dicesse o facesse, quel verme avrebbe comunque continuato a minacciarlo di uccidere Rosa. Non poteva fare nulla. Poteva solo guadagnare tempo mentre pensava a una soluzione per uscire da quell’impiccio. «Ma che senso avrebbe consegnarti la spada di mia volontà?! Se cominciassi una guerra contro gli dei, il mondo verrebbe devastato in ogni caso!»

Il suo interlocutore si limitò a ridacchiare, scuotendo la testa. «Quante menzogne che ti hanno raccontato, piccolo dio. Il mondo non ha bisogno degli dei. Se io li sterminassi, non cambierebbe assolutamente nulla. E ti dirò di più: consegnami la spada, e non solo risparmierò te e tua sorella, ma anche ogni altro semidio esistente nel mondo. Dopotutto, non è colpa vostra se siete figli degli dei. Io non ho nulla contro voi mezzosangue. Lo stesso Naito è un mezzosangue, ed è il mio più fedele servitore. Potrete tutti vivere serenamente nel regno che creerò. I demoni sotto il mio comando non vi faranno alcun male, e tutti i mostri che non mi giureranno fedeltà verranno spazzati via. Non avrete più motivi per combattere.»

A quelle parole, Naito ringhiò di rabbia. «E sarebbe davvero seccante, per me. Avanti, piccolo dio. Lascia che il padrone si divori tua sorella. Non ho alcuna intenzione di doverti risparmiare.»

«Via, via, Naito, non essere scortese. La decisione spetta solo al ragazzo.»

Le dita di Edward formicolarono. Ormai era con le spalle al muro. Non voleva che Rosa morisse. E nemmeno lui era proprio in vena di crepare. «E se tu stessi bluffando? Se invece, divorando Rosa, non riacquisteresti proprio un bel niente?»

«Ma potrei comunque ucciderla, no?» Il serpente sollevò le spalle. «Come ho già detto, non hai molta scelta. Rivuoi tua sorella? Consegnami Kusanagi-no-tsurugi. Anche la tua profezia lo dice. “L’insegna rubata restituirai”. A me. Se non lo farai, tu, tua sorella e i tuoi amici morirete tutti e la spada arriverà comunque a me. Hai solo due opzioni, piccolo dio.»

«Ti sbagli. Ne ho di più.»

Per la prima volta, l’uomo serpente parve sembrare sorpreso. «Che vuoi dire?»

«Va bene, hai vinto. Ti darò la spada. Ma tu dovrai accettare le mie condizioni.»

L’uomo e Naito rimasero in silenzio per qualche istante, scambiandosi uno sguardo, poi il primo scoppiò a ridere. «Piccolo dio, lo capisci o no che non sei nelle condizioni di…»

«Chiudi la bocca e stammi a sentire» rantolò Edward, interrompendolo. Il rettile serrò le labbra, osservandolo con uno sguardo del tutto nuovo. Perfino Naito parve scioccato. Edward lo indicò. «Per prima cosa, ordina al tuo cagnolino di ritirare tutti i suoi demoni. Non voglio più vedere uno solo di quei porci per tutto il resto del mio viaggio, o l’accordo salta, e l’unica volta in cui vedrai Ama No Murakumo, sarà quando la userò per tagliarti la testa.»

«Ma come osi?!» tuonò Naito, avanzando di un passo. «Con chi credi di parlare, stupido mo…»

«Silenzio» ordinò l’uomo rettile, posando un braccio di fronte al suo vice, gli occhi incollati su di Edward. Un piccolo sorriso divertito nacque sul suo volto. «Continua.»

Il mezzo demone era incredulo, ma non disse nulla. 

«Bene» proseguì Edward. «Poi, devi dirmi chi diavolo sei tu. Sono stanco di essere contattato da un tizio senza nome che mi tratta come se ci conoscessimo da tutta la vita.»

Il tizio distese quel sorriso che manteneva fede alla sua faccia da rettile. «Sei sicuro di volerlo sapere? Non ti hanno mai insegnato l’importanza dei nomi, piccolo dio?»

«Sono abbastanza sicuro che il tuo non ne abbia alcuna» ribatté Edward.

L’uomo ridacchiò, per nulla infastidito dal tono tagliente del ragazzo. «Come vuoi tu. Il mio nome completo è Yamata no Orochi. Ma in questo momento, sono solo Orochi.»

Edward assottigliò le labbra. Un altro pezzo del puzzle andò al suo posto. Il serpente di Yamata era proprio lui, Yamata no Orochi, che significava “serpente a otto teste”. Orochi, invece, significava solo “serpente”.

«Hai spirito, piccolo dio. È una cosa che so apprezzare» disse Orochi. «Accetterò la tua condizione e ritirerò l’esercito. Dopotutto, non c’è alcun motivo per i miei uomini di cercarti se mi porterai la spada di tua volontà. C’è altro?»

Edward esitò. Stava giocando un gioco pericoloso. Se i suoi amici, o peggio ancora, gli dei, avessero scoperto stava tramando… non ci sarebbe stato alcun lieto fine per lui. Doveva stare attento a cosa avrebbe fatto o detto, una volta sveglio. Non doveva farsi scappare nulla, non doveva nemmeno dare l’illusione che Rosa fosse ancora viva, specialmente a Tommy. Sarebbe stato difficile, ma non aveva scelta. Rivoleva sua sorella, e soprattutto non voleva morire. Ma non era abbastanza. Doveva assicurarsi di sistemare ogni singola faccenda, non poteva correre nessun rischio. Se le cose non fossero andate bene… voleva almeno essere certo di andarsene con la coscienza pulita.

Ripensò alle parole di Chirone. A quello, dunque, si era riferito, quella sera maledetta. Quando gli aveva ordinato di non cedere ai ricatti dell’uomo serpente… si riferiva a quello. Probabilmente sapeva che Rosa era ancora viva e che sarebbe stata usata a vantaggio di Orochi. Per quel motivo lo aveva fatto giurare sullo Stige. Chirone… anche lui aveva cercato di usarlo, di manipolarlo quando ancora poteva farlo, per assicurarsi che facesse ciò che tornava comodo alla sua causa. Se fosse dipeso dal centauro, avrebbe dovuto ignorare Rosa, restituire la spada al museo e salvare gli dei dalla distruzione. Gli stessi dei che avevano votato per ucciderlo senza nemmeno dargli una possibilità, che si divertivano a spese dei mortali e che mandavano semidei al macello solo per risolvere i loro impicci. A quel pensiero, Edward strinse i pugni con forza, poi espirò.

«Ti voglio chiedere solo un’ultima cosa» mormorò, osservando il viso pallido di Rosa, la quale era totalmente ignara di ciò che stava accadendo attorno a lei.

«Non pensi di aver già chiesto troppo?» sbottò Naito, irrigidendo la schiena.

«Basta, Naito» intimò Orochi, con tono severo. «Ti sei intromesso anche troppo, per ora. Hai o non hai dei demoni da ritirare?»

«Ma…»

«Non discutere. Ritira l’esercito, nessuno di loro dovrà più muoversi da qui sino all’arrivo del piccolo dio. È un ordine.»

Naito sembrò voler protestare nuovamente, ma alla fine, per una volta, fece funzionare il cervello e rimase in silenzio. Lanciò un ultimo sguardo carico di odio verso Edward, poi uscì dalla stanza.

Orochi tornò a guardare Edward. «Mi dispiace per il comportamento di Naito. Perde sempre la calma quando si parla di dei. Ma torniamo a noi. La tua ultima richiesta?»

Edward assottigliò le labbra. «Se vuoi la spada, dovrai anche restituirmi mia madre.»

«Restituirti… Kate?» domandò il rettile, sorpreso. «E perché mai vorresti che lo facessi?»

Quella domanda lasciò atterrito il ragazzo. «Come "perché?” L’hai rapita di fronte ai miei occhi! Devi restituirmela!»

«Ti sbagli. Io non ho rapito Kate.»

«C-Che cosa? Ma allora…»

«Mi dispiace, piccolo dio, ma non so cosa le sia successo. All’epoca ero ancora troppo debole. Non ricordavo nemmeno il mio nome, come potevo sapere della sua esistenza?»

«Ma allora come sai il suo nome adesso, perché parli di lei come se la conoscessi meglio di me?!»

«Quando ho riacquistato le energie, mi sono messo sulle tracce di Ama No Murakumo, e inevitabilmente sono incappato nelle gesta della ladra d’arte Kate Model.»

Edward assottigliò le labbra. Non gli piaceva molto il termine "ladra" per definire sua madre. Lei era più… una cacciatrice di tesori. Non aveva mai rubato nulla, aveva sempre trovato gli oggetti che poi aveva venduto visitando luoghi chiusi ai civili, come templi, musei o siti di scavi abbandonati, di tanto in tanto anche qualche tomba. Ok, forse non proprio tutti i luoghi che aveva visitato erano abbandonati, ma comunque…

Per questo motivo all’inizio aveva creduto che proprio Ermes fosse suo padre, era quello che aveva più senso. Apollo, invece… perché mai il dio dell’arte avrebbe dovuto interessarsi a una donna che l'arte la rubava e basta? Non aveva alcun senso.

Orochi proseguì: «Non mi è stato difficile raccogliere informazioni e scoprire tutto ciò che aveva fatto. Questo stesso museo, qui in suolo occidentale, è pieno di opere che sono state sottratte proprio da lei.»

Edward schiuse le labbra, guardandosi attorno. Le rastrelliere con le armi, i dipinti, le ceramiche presente nell’altro salone… davvero c’era lo zampino di sua madre in tutto quello? Allora quello era davvero l’Asian Art Museum, non c’era altra spiegazione. In quali altri musei Kate avrebbe potuto vendere i propri tesori? E forse… forse il verso della profezia riguardante il luogo d’inizio della sua storia parlava proprio di quello stesso museo. 

«Ciò che Kate ha fatto è stato un insulto nei confronti di tutti noi» continuò Orochi. «I suoi furti sono stati veri e propri crimini contro la nostra cultura. Ha trasformato la nostra arte, la nostra storia, in meri oggetti da scambio per arricchirsi. Per questo motivo molti altri demoni, al di fuori di me, erano furibondi con lei. E la scomparsa di Ama No Murakumo deve averli spinti a credere che fosse stata lei a rubarla. Ipotesi che poi si è rivelata veritiera. L’hanno rapita perché speravano di potersi impossessare della spada e avere la forza che essa racchiude, ma dopo la scomparsa di Kate, Ama No Murakumo non ha mai fatto ritorno. In molti hanno perso le speranze, dopo questa scoperta, ma non io. Perché io sono stato l'unico a realizzare che quella donna, in realtà…» Orochi sorrise glaciale. «… poteva aver, involontariamente, tramandato la spada al proprio figlio.»

Il respirò di Edward si mozzò. Si sentì come se la sua mente fosse stata una parete di vetro e le parole di Orochi il mattone che l’aveva appena sfondata. «Ma…» provò ancora a domandare, ma Orochi gli diede le spalle.

«Ora basta, piccolo dio. Non approfittarti della mia generosità. Se proprio ci tieni ad avere altre informazioni su Kate, allora dovrai portarmi la spada. Fallo, e parleremo ancora. Potrei anche aiutarti a cercarla, sempre se è ancora viva. Ma fino ad allora, pazienta. Ci vedremo presto.» Orochi si voltò appena, per scrutarlo un’ultima volta con la coda nell’occhio. «È stato un piacere trattare con te. Fai buon viaggio, e non farti uccidere. Mi dispiacerebbe perdere la spada in questo modo così sciocco.»

Edward avrebbe voluto fermarlo, fare altre domande, ma ormai il rettile era già scomparso nell’oscurità che stava inghiottendo tutta la stanza. Ogni cosa diventò sfocata, le pareti, le teche con le armi, il bozzolo di Rosa, tutto quanto iniziò a svanire. L’ultimo dettaglio che notò, fu il trittico riguardante la battaglia tra Orochi e quell’uomo, con quest’ultimo che, per un attimo, sembrò muovere la testa per osservarlo. 

***

 

Riprese poco per volta i sensi, venendo accolto come prima cosa da un rumore sferragliante e da un tremolio alla testa, come se fosse appoggiata a qualcosa che vibrava. Si massaggiò le palpebre e realizzò di trovarsi seduto. Da qualche parte di fronte a lui, una voce parlò: «Edward!»

Era Tommy. Il figlio di Apollo spalancò gli occhi e l’amico apparve di fronte a lui, con un’espressione sollevata sul volto. Si accorse di Konnor e Lisa, seduti accanto a lui sopra un lungo sedile, entrambi che lo guardavano assorti.

Edward diede un’occhiata attorno a sé, accorgendosi di trovarsi seduto su un sedile simile a quello di Tommy. Un paesaggio sfrecciava a tutta velocità al di là di un vetro, alla sua sinistra, mentre stava cominciando lentamente ad albeggiare. Erano sul vagone di un treno. Ecco cos’erano quei tremori e quelle vibrazioni.

«Edward» lo chiamò anche qualcun altro. Edward si voltò, trovando Stephanie al suo fianco. «Grazie agli dei, ti sei ripreso…» mormorò, per poi distogliere lo sguardo con aria imbarazzata.

«E-Ehi…» balbettò lui. «Dove… dove siamo?»

«Su un treno» rispose Konnor, che come al solito adorava intromettersi e soprattutto dare risposte assolutamente inutili.

«Ok, ma come ci siamo saliti qui?» domandò ancora, voltandosi verso il figlio di Ares.

«L’abbiamo preso alla stazione di Chicago. Ci sono treni che partono tutte le ore, in grandi città come quella è tutto automatizzato ormai. Siamo saliti sul primo che era diretto verso ovest. Probabilmente ci ha ripreso qualche telecamera di sicurezza, ma di notte non c’è quasi mai nessuno a controllare. Speriamo che nel nostro caso non ci fosse proprio nessuno.»

«Ma come siete arrivati alla stazione? Io… non mi ricordo molto, ma ero fuori combattimento, come avete…»

«Ci siamo procurati una macchina con la chiave di Tommy e… beh, fortunatamente Lisa non l’ha distrutta.»

La figlia di Bacco sghignazzò. «C’è mancato poco però…»

«Hai guidato tu?!» domandò Edward, atterrito.

La ragazza scrollò le spalle. «E chi altri? Io sono l’unica, oltre a te, che ha una vaga idea di cosa fare al volante.»

«“Vaga” mi sembra un po’ esagerato» brontolò Konnor.

«Bla bla bla» ribatté Lisa, gesticolando con la mano. «Siamo arrivati tutti interi, no? La macchina era ancora intatta e Thomas ha lasciato il suo stupido bigliettino di scuse per averla presa in prestito. Tutti hanno avuto ciò che volevano.»

Thomas non parve felice di quelle parole, ma non disse nulla. Edward non capiva perché Lisa adorasse tanto tormentarlo, ma poteva immaginare che, continuando di quel passo, il figlio di Ermes avrebbe finito con l’impazzire. Tuttavia, con quella situazione arrivava qualcosa di positivo: se Lisa stava perdendo tempo a trovare modi per infastidire il piccoletto, significava che allora il pericolo era davvero passato. Erano al sicuro, su quel treno, diretti verso la loro prossima fermata senza più nessun mostro assetato di sangue alle loro calcagna, per il momento almeno. Erano tornati a essere cinque semplici ragazzi in viaggio. Malgrado tutto, ad Edward venne da sorridere. Era felice che stessero tutti bene. E, ripensando agli avvenimenti di quella stessa sera, gli veniva in mente solo una persona da ringraziare. Si voltò verso di Stephanie. «Ehi… sei stata incredibile, contro Campe. Io… ti devo la vita, Steph. Ti ringrazio. Davvero.»

Con le sue parole sperò di riuscire a rasserenarla, ma invece sembrò ottenere l’effetto opposto. E anche gli altri tre ragazzi si irrigidirono. Edward lo notò e corrucciò la fronte. Stephanie, dal canto suo, abbassò la testa e fece di tutto per non guardarlo. Forse era perché si era appena svegliato, ma non ci stava più capendo un accidente. Il dolore al volto però fu più che sufficiente per dargli una bella svegliata. Gemette, premendosi una mano sul viso, piegandosi in avanti.

«Edward!» si allarmò Stephanie, posandogli le mani sulle spalle e chinandosi accanto a lui.

Il figlio di Apollo serrò la mascella, soffocando un altro gemito e forse anche qualche imprecazione, e si rimise in posizione eretta, osservandosi nel riflesso del finestrino. E lì, li vide.

Tre lunghi graffi gli attraversavano il volto. Erano le ferite che Campe gli aveva inferto. Non erano guarite, si erano solo cicatrizzate, trasformandosi in orrendi sfregi. Il primo partiva dalla fronte e scendeva passando in mezzo agli occhi, accanto al naso e arrivando fino al mento, sfiorando l’angolo della bocca. Gli altri due partivano invece dalla tempia, attraversavano la guancia per poi concludersi allo stesso livello del primo. Nessuno di loro, fortunatamente, aveva intaccato l’occhio, e da questo piccolo ma importante dettaglio poté intuire il significato delle parole di Naito, durante il suo sogno.

Per un istante, Edward rimase pietrificato, a osservare il volto sfregiato e sfigurato che aveva come riflesso, quelle cicatrici profonde e di quel colore rosa così chiaro, della carne viva al di sotto della pelle del volto. Solamente guardarle gli faceva male. Ecco cos’erano quelle fitte allucinanti. Ecco perché si sentiva come se gli avessero iniettato dell’acido nel volto. Ma soprattutto, ora la sua faccia era davvero orripilante. Sfiorò i tagli con l’indice, stringendo i denti quando un’altra fitta di dolore lo assalì solo per quel minuscolo contatto.

«Il… il nettare non ha guarito bene quella ferita…» mormorò ancora Stephanie, con un filo di voce. Edward tornò a osservarla. Sembrava devastata, quasi come se potesse sentire anche lei il dolore che lui provava. «Noi non… non sapevamo cosa fare… ma forse ora che sei sveglio puoi provare con l’ambrosia… magari ti guarirà del tutto…»

Non sembrava molto convinta delle sue parole. Il figlio di Apollo rimase in silenzio per un istante, poi annuì. A prescindere dall’esito finale, il dolore era troppo forte. Forse l’ambrosia lo avrebbe alleviato un po’. Si voltò verso Tommy, ma non ebbe nemmeno bisogno di aprire bocca che il figlio di Ermes ne aveva già estratto un quadratino dallo zainetto. Mentre Edward lo addentava, il suo amico si schiarì la voce con aria imbarazzata. «Ehm… ho anche un’altra cosa…» mormorò, per poi estrarre alcuni moncherini di legno.

Mentre il sapore dei waffles lo rinvigoriva lentamente, il figlio di Apollo afferrò ciò che Tommy gli stava porgendo, per poi realizzare con sgomento che si trattava dei resti di Veloce come il Vento. Il dolore al viso cominciò a placarsi, ma la rabbia continuò a crescere dentro di lui. I mostri avevano fatto a pezzi i loro zaini e le loro cose e Kaze no yō ni hayai era tra queste. Non aveva usato molto quell’arco, e forse era proprio quello il suo rimpianto più grande. Era stata la sua arma, ed era sempre stato prezioso per lui. Vederlo ridotto così gli fece ribollire il sangue nelle vene. E il peggio era che adesso era totalmente disarmato. Aveva perso il coltellino quando Rosa era stata trascinata nello Yomi, e ora Veloce come il Vento era distrutto. Non aveva più niente, a parte una spada magica che compariva solo quando voleva lei.

«Grandioso» sbottò, stringendo il legno fino a farsi male alle dita. «Davvero grandioso.»

«Stiamo tutti bene, è questo l’importante» disse Konnor. Edward drizzò la testa, incrociando il suo sguardo. Il figlio di Ares si chinò leggermente verso di lui, facendosi serio. «Ma che ti è preso prima?»

«Che vuoi dire?»

«Volevi dare la spada a Campe» spiegò Konnor. «Ma che ti dice il cervello?»

Edward batté le palpebre, credendo di aver sentito male. «Come?»

«Ti ho chiesto se sei impazzito» insistette quello.

«No, quello l’avevo capito. Quello che non capisco è il fatto che tu abbia il coraggio di dar fiato alla bocca dopo quello che è successo.» Anche Edward si sporse verso di lui. «Siamo finiti in quel casino per causa tua, ricordi? Non venire a fare la predica a me solo perché ho cercato di salvare le vostre vite.»

Konnor serrò la mascella. Doveva aver toccato un tasto piuttosto dolente, ma era proprio per quello che Edward l’aveva detto.

«E dimmi…» riprese il figlio di Ares, cercando di mantenere la calma. «… consegnare un’arma divina ad un mostro assetato di vendetta appena evaso dal Tartaro, esattamente, quale utilità avrebbe dovuto avere?»

«E quale utilità pensi che abbiano i tuoi piagnistei? Campe non avrebbe fatto un bel niente con Ama No Murakumo, a malapena riesco a controllarla io, e in cambio sarei almeno riuscito a salvare voi tre! Possibile che tu debba…»

«Smettetela!» esclamò Stephanie. Edward si ammansì come un cagnolino, e anche Konnor sobbalzò.

«Volete sapere cos’è davvero inutile? Mettersi a litigare proprio adesso!» proseguì Steph, allargando le braccia. «Quel che è stato è stato. Entrambi avete sbagliato, fine della storia. Io stessa ho sbagliato! Potevo agire prima ed impedire che tu ti facessi quella cicatrice, o potevo non allontanarmi dalla stanza e impedire che Konnor venisse ingannato! Ma indovinate un po’, ormai tutto questo casino è successo e non c’è più niente che si possa fare!»

Quasi gridò quelle ultime frasi. Fino a qualche ora prima, se avesse visto Stephanie comportarsi in quel modo, Edward avrebbe taciuto e le avrebbe dato ascolto perché, dopotutto, era lei quella sveglia del gruppo. Ma dopo aver visto di cosa fosse davvero capace… forse ora stava tacendo più per rispetto, o paura, che per altro. E così doveva essere anche per gli altri, perché nessuno, nemmeno Tommy o Lisa, estranei alla conversazione, ebbero il coraggio di fiatare o anche solo di staccare gli occhi di dosso dalla compagna.

Stephanie sembrò accorgersi di ciò, perché si schiarì la gola. «In ogni caso, ci sono cose più importanti di cui vi devo parlare, e ora che Edward è sveglio posso farlo. Prima che… prima che succedesse quello che è successo, avevo fatto un altro sogno. Ho visto l’Asian Art Museum, e pullulava di yōkai. Ho anche visto il mezzo-demone che… insomma, quello che ha rapito Rosa.»

I semidei, con eccezione di Edward, sussultarono. Il figlio di Apollo annuì, cercando anche lui di apparire sorpreso. Aveva visto sia Orochi che Naito nel suo sogno, al museo. Era ovvio che con loro ci fossero anche i demoni agli ordini dell’uomo rettile. Ciò che lo sorprendeva, tuttavia, era il fatto che anche Stephanie li avesse visti. Però il sogno che aveva fatto lei era stato prima di quello che aveva fatto lui, perciò dubitava che sapesse cosa lui e quei due si fossero detti.

«L’uomo rettile ci sta aspettando» proseguì Stephanie. «Più ci avvicineremo a San Francisco, più dovremo stare attenti. Non ho nemmeno visto i centurioni romani. Forse si sono ritirati… spero che stiano tutti bene.»

«Dei romani che se la danno a gambe?» domandò Lisa, per poi sghignazzare. «Mi piacerebbe proprio sapere chi sono.»

«Anch’io ho fatto un sogno» si intromise Thomas, osservandosi le mani con aria titubante. «Ho… ho visto il Campo Mezzosangue.»

Edward sollevò un sopracciglio. Non sembrava certo una brutta cosa, quella, ma Tommy sembrava di altro avviso.

«E…» lo incalzò Konnor.

«E…» Il figlio di Ermes sospirò. «E a quanto pare hanno scoperto cos’è successo all’aeroporto. Hanno saputo che la polizia ci insegue e che non completeremo l’impresa in un giorno solo. La… la situazione è peggiorata. Abbiamo perso la fiducia di molti capocasa, e ora Buck e Jane vogliono approfittarne per mettere tutti gli uni contro gli altri per tornare a comandare.»

«Non dirai sul serio…» sbottò Edward. Con tutto quello che stava succedendo, l’unica cosa a cui Buck e Jane riuscivano a pensare era mettersi a creare altro scompiglio?

Konnor sospirò, scuotendo la testa. «Quello stupido…» mugugnò, sicuramente riferendosi al fratello e, per una volta, Edward si trovò d’accordo con lui.

Tommy sembrò voler aggiungere altro, ma alla fine si limitò a stringersi nelle spalle.

«La situazione è grave» osservò Stephanie, per poi annuire decisa. «Ma ce la faremo, vedrete. Se completeremo l’impresa, potremo aiutare anche i nostri compagni al campo. Abbiamo ancora cinque giorni di tempo, e questo treno ci ha già risparmiato un mucchio di strada. Andrà tutto bene.»

I ragazzi annuirono. «Beh…» cominciò Lisa, sorridendole. «… sicuramente, dopo quello che hai fatto a Campe, penso proprio di poter dire con certezza che finché rimarrai con noi è ovvio che andrà tutto bene.»

Steph distolse lo sguardo, imbarazzata.

«Hai… hai sempre avuto tutta questa forza?» domandò Tommy, osservandola quasi intimorito.

«Io… credo di sì, ma fino ad oggi non l’avevo mai tirata fuori.»

«Incredibile… per tutto questo tempo avresti potuto dare una lezione a Jane senza nemmeno battere ciglio.»

«I poteri non vanno usati per quello» ribatté Steph, indurendosi. «La differenza tra me e Jane è che io voglio sfruttare le mie doti per fare del bene, non per ferire gli altri. Se li usassi per vendicarmi, non sarei affatto migliore di lei.»

Tommy avvampò, massaggiandosi dietro al collo. Edward non poté biasimarlo, le ramanzine di Steph facevano sempre quell’effetto. «S-Sì, hai ragione… scusa.»

La figlia di Demetra scosse la testa. «No… scusatemi voi. Sono un po’ stanca, e stressata. Vorrei… evitare di dover parlare ancora dei miei poteri. Approfittiamo di questo viaggio per riposare. Poi studieremo la nostra prossima mossa quando arriveremo.»

«Mi sembra una buona idea» mugugnò Edward, sprofondando contro lo schienale soffice del sedile. 

Il suo sguardo cadde sul paesaggio fuori dal finestrino, una lunga distesa verde pianeggiante. Sapeva, in realtà, che ormai non correvano davvero più pericoli sul fronte yōkai. Se Orochi avesse tenuto fede all’accordo, non avrebbero più incontrato i suoi demoni in giro durante il loro viaggio. Si sentiva in colpa per aver macchinato con il nemico alle spalle di tutti quanti, dei suoi amici, degli dei, del suo stesso padre. Se avesse commesso un passo falso, e avessero scoperto cosa stavano tramando… le conseguenze sarebbero state catastrofiche. Allo stesso tempo, però, se non avesse accettato la proposta di Orochi, a rimetterci sarebbe stata Rosa. E lui non aveva alcuna intenzione di perderla subito dopo averla ritrovata. L’avrebbe salvata, in un modo o nell’altro.

Ancora non riusciva a credere che fosse davvero lei la vergine della profezia. Però… in effetti così si spiegava perché il voto di castità per unirsi alle Cacciatrici non l’aveva infastidita. Ma ciò che lo turbava era altro. Lo aveva capito chiaramente, il corso degli eventi non poteva essere modificato. Se la profezia diceva che la vergine avrebbe versato del sangue, allora sarebbe successo, a prescindere da qualsiasi accordo potesse aver stretto con il nemico. Ed era per questo motivo che l’idea che Orochi avrebbe cercato di fregarlo non aveva smesso di stuzzicarlo per nemmeno un istante. Si sentiva come se stesse camminando su un campo minato. Non avrebbe avuto seconde possibilità, se avesse compiuto un passo falso. Doveva stare attento a che cosa avrebbe fatto, e soprattutto detto, da quel momento in poi. 

E per finire… voleva scoprire cosa fosse successo a sua madre. E avrebbe accettato aiuto per poterla ritrovare da chiunque, perfino da Orochi.

Il ragazzo chiuse gli occhi, sospirando esausto. Anche se si era appena svegliato da un sonnellino, era ancora a pezzi. Aveva perso il conto di quante ore aveva guidato il giorno prima. Si appoggiò meglio contro il sedile e scivolò in un breve sonno ristoratore.

 

***

 

Il loro secondo giorno di viaggio ebbe ufficialmente inizio quando il treno si fermò per uno scalo.

I cinque ragazzi scesero sulla banchina della stazione a cielo aperto, guardandosi attorno confusi. Il sole da poco alzatosi illuminava pigramente il luogo, un edificio bianco, probabilmente la stazione, e la banchina affacciata sui due binari. La stazione aveva poi due ingressi, uno che conduceva alla biglietteria, l'altro a un bar. Erano appena le sei del mattino, perciò i pendolari non erano molti, giusto un paio di uomini in viaggio per lavoro con le teste affondate sugli smartphone e qualche anziano, nessuno dei quali fece caso a loro. Al di là dei binari, si trovava una cittadina che a occhio e croce non poteva contenere più di mille abitanti, con casette bianche e rustiche.

«Dove siamo?» domandò Tommy, aguzzando la vista in cerca di qualche indicazione.

«Non lo so» mormorò Stephanie, per poi osservare la stazione. «Non allontanatevi. Vado a dare un’occhiata alla piantina delle linee ferroviarie.»

«Beh, possiamo venire anche…»

«No» replicò la figlia di Demetra, secca. «Vado da sola.»

Tommy schiuse le labbra. «Ma… perché?»

Stephanie strinse i pugni, folgorandolo con un’occhiataccia. «Perché…» cominciò a dire, alzando la voce, per poi interrompersi bruscamente. Si schiarì la voce imbarazzata, soffocata dagli sguardi sorpresi che ricevette. Un’erbaccia sbucò fuori da una crepa sulla banchina, a pochi centimetri di distanza dai piedi della figlia di Demetra, che però non sembrò farci caso. «… perché vorrei rimanere sola per un momento. Ho… ho troppe cose per la testa e… e non vorrei creare problemi. Ecco…» si mise una mano in tasca, per poi estrarre una banconota che consegnò a Konnor. «… prendete qualcosa al bar della stazione, se vi va. Ci vediamo lì.»

«Va bene» convenne il figlio di Ares. «Tu però sta tranquilla, ok? Il peggio è passato, ormai. Non devi preoccuparti.»

La ragazza si mordicchiò un labbro, per poi annuire timidamente. Si prese per un braccio e diede le spalle a tutti loro, allontanandosi verso l’ingresso della stazione.

«Bella mossa, genio…» gracchiò Lisa, rivolta verso Thomas, il quale divenne più rosso dei propri capelli.

«Dacci un taglio, Lisa» mugugnò Konnor, intascandosi la banconota. Per tutta risposta, la figlia di Bacco sghignazzò. Cominciò a incamminarsi verso il bar, con gli altri due al seguito. Edward, invece, osservò un terzo edificio, quello dei bagni. Aveva bisogno di darsi una rinfrescata.

«Voi andate, io vi raggiungo» annunciò.

«Steph ha detto di non allontanarci» ribatté Konnor, voltandosi.

Edward roteò gli occhi, per poi liquidare la faccenda con una mano. «Se fossi stato io a chiedervi di non allontanarvi, tu mi avresti ascoltato?»

Konnor esitò, e al figlio di Apollo non servì altro. «Ecco, appunto. Ci metto solo un minuto.»

Tommy lo raggiunse. «Aspetta, vengo anch’io.»

Edward scosse le spalle. «Come vuoi.»

«Sicuramente c'è anche un bagno nel bar...» disse ancora Konnor, al che Edward perse la pazienza. «Ma la smetti di rompere?!»

«Ehi, ehi, basta, Konnor. Non lo vedi? Ai piccioncini serve privacy» canzonò ancora Lisa, riuscendo a strappare un sorrisetto al figlio di Ares. Tommy le lanciò un’occhiataccia, mentre Edward, per la prima volta dopo un sacco di tempo, rimaneva senza una risposta per le rime da dare. Si limitò a grugnire e a distogliere lo sguardo.

I quattro si separarono. Mentre camminavano, Thomas affiancò Edward. «Ehi…» cominciò, chiaramente a disagio. «… ehm… riguardo… Campe... perché l’hai fatto?»

«Fatto cosa?»

«I-Insomma… tu… quelle cicatrici…»

Edward si sfiorò d’istinto lo sfregio sul volto. Da un lato, poteva solo ringraziare che Campe non gli avesse completamente aperto la faccia, dall’altro… ormai era marchiato a vita, con quelle tre cicatrici che gli attraversavano il volto da parte a parte. Ormai chiunque lo avrebbe notato anche da un chilometro di distanza. E, non che la cosa gli importasse molto, ma adesso era davvero brutto. Ma davvero tanto. Avrebbe fatto fuggire chiunque da lui con quel muso che si ritrovava.

Thomas sospirò pesantemente. «Quando Campe mi ha afferrato, tu… ti sei intromesso. Hai… hai spostato la sua attenzione su di te, proprio come avevi fatto con Jane e Steph al campo. Ma perché l’hai fatto?»

«Beh…» Edward piegò il capo di lato. «… ti aveva puntato. Non potevo lasciare che ti facesse del male, o peggio.»

«Quindi… l’hai fatto per proteggermi?»

«Certo, Tommy. Sei mio amico, no?»

«Però… però se io non mi fossi spaventato, forse ora tu…» Tommy esitò, abbassando lo sguardo. «Mi dispiace, Edward… sono stato uno stupido. Dovrei avere io quella cicatrice, non tu…»

«Ehi, Tommy.» Edward batté il pugno contro la sua spalla. «Lo sai cos’è più spaventoso di Campe?»

Il figlio di Ermes corrucciò la fronte. «Ehm…»

«Tua sorella» rispose Edward, sorridendo. «Se ti avessi riportato al campo con la faccia squartata, o peggio ancora, se non ti avessi riportato affatto, Campe sarebbe stata una gita turistica a confronto di quello che Natalie mi avrebbe fatto.»

«N-Nat?» Tommy lo osservò confuso per un istante, per poi annuire. «Giusto… mi ero dimenticato di lei… però… è questo il punto, tu non dovresti proteggermi… dovrei essere io a badare a me stesso. Non… non ho fatto niente di utile, fino a ora» mormorò, mentre un’altra ombra di incertezza scuriva il suo volto. «All’aeroporto, tu, Lisa e Konnor avete combattuto e annientato quei Lestrigoni, e Steph… lei ha sconfitto Campe da sola. Io, invece… ho solamente rubato delle macchine. Forse… forse Buck aveva ragione, io non…»

Edward si rabbuiò. «Non azzardarti a finire quella frase» sbottò, facendo sussultare il figlio di Ermes. «Vuoi dare ragione a Buck? Ma dici sul serio?»

Tommy esitò. «B-Beh, io…»

«Ti ricordi cosa ci siamo detti al lago, la prima volta che ci siamo incontrati?» disse Edward, spostando lo sguardo verso la cittadina, immaginandosi il Campo Mezzosangue al suo posto, con tutte le sue case variopinte, i semidei che trascorrevano la giornata spensierati, il bosco, i satiri, le driadi. Quel posto magico e frustrante al tempo stesso, dove tra alti e bassi aveva stretto amicizie e conosciuto la sua nuova famiglia. E Tommy faceva parte di entrambe le cose. «Non lasciare che i tuoi detrattori entrino nella tua testa. Tu mi hai detto di voler essere un esempio per Rick, per i tuoi fratelli, che vuoi risollevare il valore della casa di Ermes, dico bene?»

«S-Sì…»

«Bene, allora. Se ti piangi addosso non riuscirai mai in nessuna di queste cose. Scusa amico, ma è la verità. So che sembra una frase fatta, ma… devi solamente avere fiducia in te stesso. All’aeroporto sei stato tu a tirarci fuori dai guai, l’hai dimenticato? E devo ricordarti che cos’hai fatto nel bosco, la sera della sfida? Tutte le volte che la situazione si fa critica, riesci sempre a trovare un modo per risolverla. Credimi, non è affatto cosa da poco. Se lo vuoi, anche tu puoi fare grandi cose. E poi…» Edward tornò a sorridere, piegando il capo. «… rubare macchine ci è stato utile, dopotutto. Anche in quel caso hai contribuito all’impresa, che ti piaccia o meno.»

Finalmente, sembrò riuscire a smuovere il figlio di Ermes, perché questa volta ricambiò il sorriso ed annuì in maniera più convinta.

«Dai, non pensare più a Campe. È vero, ho una cicatrice, e allora? Voi state tutti bene, e il mio piano suicida, fortunatamente, non ha funzionato. È questo quello che conta.»

«Sì… forse hai ragione. Grazie, Edward.»

«Figurati. Ora però devi scusarmi, la natura chiama» rispose Edward, per poi spalancare la porta dei bagni.

«Ok, io aspetto qui…»

Edward si chiuse la porta alle spalle. Una volta rimasto da solo, poté sciogliere i nervi. Non aveva detto tutta la verità a Tommy. Certo, l’aveva fatto per proteggerlo, perché Nat lo spaventava per davvero – non riusciva ad inquadrare quella tipa per niente – però c’era dell’altro. In realtà, aveva sperato che… mettendosi davvero in pericolo, provocando Campe, Ama No Murakumo sarebbe apparsa. E invece non era successo. Insomma, se erano finiti in quella situazione, era stata anche colpa sua. Possedeva un’arma divina in grado di spazzare via qualsiasi nemico, perfino di spaventare Chirone e Dioniso, ma non sapeva come diamine usarla. Se non fosse stato per Steph… non voleva pensarci. Aveva creduto per un attimo che fosse davvero arrivata la fine, per lui. Si era arreso… e un po’ se ne vergognava.

Già, anche lui provava vergogna. In effetti… sembrava quasi che tutti e cinque si vergognassero di qualcosa. Forse, malgrado tutte le loro differenze, non erano poi così diversi.

Mentre si sciacquava per lavare via il tanfo dei mostri e del viaggio in macchina, si osservò nel riflesso dello specchio stranamente pulito di fronte a lui. Quelle maledette cicatrici ancora una volta furono un pugno nell’occhio. Quanto gli sarebbe piaciuto poterle cancellare con un po’ di acqua e sapone.

Il ragazzo scosse la testa. Che pensiero stupido. Tornò a ripulirsi. Avrebbe voluto farsi una doccia, ma purtroppo doveva accontentarsi di quello che aveva. Si osservò di nuovo nel riflesso, sospirando, quando il suo sguardo cadde su un dettaglio che prima aveva notato. Nello specchio, alle sue spalle, sopra uno dei muri che separavano gli stanzini dei gabinetti, era di nuovo apparsa quella statua di serpente, la stessa che aveva visto il suo primo giorno al Campo Mezzosangue. Edward spalancò le palpebre, osservando attraverso il riflesso quei maledetti occhietti gialli puntati proprio sulle sue spalle. Prima non c'era, ne era sicuro al cento percento. Trattenne il respiro, rimanendo immobile per almeno dieci secondi, e nulla accadde.

Quella statua era davvero lì, non c’erano dubbi. Si voltò di scatto. Era ancora lì, appollaiata sopra quel muro. E lo fissava. Poteva fissare qualsiasi altro punto della stanza, ma no, fissava proprio lui. Il figlio di Apollo serrò la mascella. Quindi era con quell’affare che Orochi lo spiava? Anche dopo l’accordo che avevano stretto? Non gliel’avrebbe permesso. Avanzò di scatto verso quel coso, pronto a scaricarlo dritto nel cesso, quando accadde qualcosa che mai si sarebbe aspettato.

Un secondo prima che potesse agguantare la statua, quella non solo mosse gli occhi, ma urlò perfino spaventata: «GAH! Stammi lontano

Edward sobbalzò all’indietro, gridando per la sorpresa. Quella cosa parlava?! Quella cosa era… viva?!

La statua si mosse come un lampo, schizzando verso il pavimento, per poi fiondarsi verso una crepa in un angolo. Edward la seguì con lo sguardo per un istante, immobile per lo shock, credendo di starsi sognando tutto, ma quando la vide svanire dentro la crepa, quella parlò ancora: «Sayonara!»

Quello fu ciò che permise a Edward di sbloccarsi. «Ehi! Ehi, torna qui! EHI!» gridò, fiondandosi verso la crepa, ma ormai era già troppo tardi. Si chinò, per osservarci dentro, ma era troppo stretta, e in ogni caso dentro era buio pesto.

«Maledizione!» esclamò, sbattendo frustrato un pugno sul muro. Che cavolo era quel coso?! Aveva parlato in giapponese... che fosse davvero uno yōkai? Lavorava davvero per Orochi?

«Edward!» Tommy si fiondò nel bagno, allarmato. «Edward, tutto ok?»

Il figlio di Apollo si irrigidì. Tommy lo vide chinato a terra, vicino al buco nel muro, e schiuse le labbra. «Ehm… che… stai facendo?»

«Ahm… ecco… n-niente. Non importa.» Edward si alzò, spolverandosi e schiarendosi la voce come se nulla fosse. «Forza, torniamo dagli altri prima che si preoccupino.»

Finì di lavarsi le mani e uscì dal bagno, cercando di ignorare lo sguardo confuso di Thomas. Si affrettò a raggiungere il bar, pregando che l’amico scordasse quello che aveva visto.

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Capitolo 17
*** Milù ***


17

Milù

 

 

«Siamo sicuri che sia saggio andare a fare colazione al bar dopo quello che è successo all’aeroporto?» domandò Edward.

Tommy spalancò la porta del bar. «Stavo per farti la stessa domanda…» 

Trovarono Konnor e Lisa già seduti a un tavolo, mentre un vecchietto dietro al bancone armeggiava con tazzine, posate e piatti, senza fare caso ai due nuovi arrivati. Era presto, il bar doveva aver appena aperto, il gestore doveva essere ancora nel letto con la testa, e l’età di certo non aiutava, era sicuro che non avrebbero avuto problemi lì dentro. Erano solo quattro, cinque contando Stephanie quando sarebbe arrivata, ragazzi in viaggio. Normalissimi adolescenti. Trasandati, scossi, spossati, con i vestiti strappati, uno di loro con la faccia tagliata in due, adolescenti.

Certo, sarebbe andato tutto bene. Thomas gli aveva dato una t-shirt nuova, del resto. Sarebbe filato tutto liscio.

Konnor stava leggendo un giornale, che a quanto pareva ancora esistevano. E la prima pagina recitava a caratteri cubitali: INCIDENTE ALL’AEROPORTO KENNEDY.

Edward fece una smorfia. Non poteva fare cinque passi senza che qualcuno o qualcosa lo rimandasse a quel maledetto “incidente”.

«Allora? I piccioncini hanno risolto i problemi di coppia?» incalzò Lisa, sogghignando ai due arrivati quando si sedettero.

Edward roteò gli occhi. «Lo scherzo non era divertente la prima volta, pensi che lo sia la seconda?»

Lisa si strofinò le mani sotto agli occhi, fingendo di asciugarsi delle lacrime. «Oh, piccolino, ti ho offeso per caso? Buu huuuh! Non correre a piangere dalla mammina ora!»

Konnor abbassò il giornale non appena udì quelle parole. Tommy schiuse le labbra, voltandosi verso Lisa, che parve realizzare solo in quel momento quanto stupida fosse la frase che aveva appena pronunciato.

«Dalla… mammina?» domandò Edward, stringendo i pugni.

Lisa abbassò le mani. Aprì la bocca, ma non uscì alcun suono. Sembrò pietrificarsi.

«Wow» commentò Thomas. «Bella mossa, genio.»

«I-Io…» mormorò lei. «S-Scusa, ho… parlato senza pensare, m-mi ero dimenticata che…»

«Già, questo è il problema» sbottò Edward, chinandosi sul tavolo per sporgersi verso di lei. «Tu non pensi.»

Lisa abbassò lo sguardo. Per la prima volta parve sembrare mortificata e, soprattutto, senza parole. Non che a Edward importasse granché. C’era un limite a tutto quando si trattava di scherzi, una linea che non andava superata, e Lisa, che l’avesse fatto apposta o meno, l’aveva superata in pieno. Non aveva fatto altro che rompere le scatole fino a quel momento. Era ora che anche lei cominciasse a provare un po’ di rimorso.

Il vecchio barista che portò loro due piatti, uno con uova e pancetta e l’altro con dei pancake, salvò il gruppo di ragazzi da una situazione parecchio sgradevole. «Ora porto anche i caffè» mugugnò, con una vivacità pari a quella di un sasso, per poi svanire.

Konnor allungò la mano verso le uova e la pancetta, ed Edward afferrò senza troppi complimenti i pancake, che con tutta probabilità era stata Lisa ad ordinare.

«Ne vuoi un po’?» domandò a Tommy, il quale scosse la testa. Edward annuì. «Come vuoi.» Chinò la testa sul piatto e cominciò a trangugiare, mentre Lisa osservava senza parole il proprio cibo venire spazzato via da qualcun altro.

Non era un tipo da pancake, preferiva i waffles, ma la fame faceva da padrona, e comunque Lisa meritava una lezione. E poi quelli erano buoni, ma forse era per via della crema al cioccolato e nocciole che avevano dentro. Vennero raggiunti da Stephanie poco dopo che il barista ebbe portato loro i caffè. La tensione nel gruppo sbollì d'un tratto quando si accorsero dell’arrivo della figlia di Demetra, che sorrise. «Ho buone notizie.»

Konnor posò la tazza di caffè, Edward la forchetta, ed entrambi rimasero a osservarla ammaliati, non per via di quello che aveva detto, ma per via del suo aspetto. Si era sciolta i capelli, che ora le cadevano sulle spalle e sulla fronte, e si era tolta gli occhiali. Non era un cambiamento così drastico, ma erano tutti quanti così abituati a vederla con i capelli raccolti ed ordinati e gli occhiali sempre posati sul naso che osservarla con quel nuovo aspetto fu… strano. Non brutto, però. Tutt’altro. Ora aveva un’aria più rilassata e sbarazzina, il tipo che Edward preferiva. Se per lui prima era bella, ora era stupefacente.

«Ehm… che c’è?» domandò Steph, per poi posarsi una mano sul volto. «Ho qualcosa sulla faccia?»

«Ti sei messa le lenti a contatto!» esclamò Tommy, sorridendo, salvando Edward e Konnor. «Finalmente! Stai meglio, così. Almeno non hai più quell’aria da secchiona.»

«Ha-ha. Tu invece hai sempre la stessa aria da baccalà» ribatté lei, afferrando una sedia e sistemandosi al tavolo assieme a loro. Thomas spalancò la bocca, finendo con l’assomigliare ancora di più al pesce a cui Steph l’aveva paragonato. Quel loro scambio permise a Edward di riscuotersi, facendolo ridacchiare.

«Quali buone notizie?» domandò curioso. Buone notizie dopo la valanga di sfortune, per non dire di peggio, che erano capitate? Le avrebbe accettate molto volentieri.

Stephanie tornò a sorridere, fu ovvio ad Edward che i minuti trascorsi da sola per schiarirsi le idee dovevano averle giovato, perché non sembrava più turbata come prima. O forse le buone notizie erano davvero buone.  

«Ho scoperto che città è questa. Siamo a La Plata, nel Missouri.»

Edward corrucciò la fronte. Si scambiò uno sguardo con Tommy, che era confuso tanto quanto lui.

«Ehm… okay, sì, è una splendida notizia, credo…» 

«Non è questa la buona notizia!» esclamò Steph, ridacchiando. «Questa linea ferroviaria è la stessa che porta fino a Kansas City! Ma non capite? È praticamente metà strada, e saremo là per le dieci di oggi! E una volta arrivati possiamo prendere un diretto per San Francisco! E siamo solo al secondo giorno di viaggio!»

Sembrava davvero entusiasta, ed era difficile non lasciarsi condizionare dal suo buonumore e dal suo sorriso. In effetti la prospettiva era allettante, certo viaggiare in treno sarebbe stato più stancante e frustrante che prendere un aereo, ma meno che guidare per tutto il tempo. Rimaneva solo un problema, un problema che quel rompiscatole di Konnor non si sarebbe mai lasciato sfuggire.

«Ma possiamo davvero viaggiare in treno? Con i controllori, le telecamere e tutto il resto?» domandò, tamburellando con il dito sulla prima pagina del giornale. «Siamo arrivati qui da Chicago perché abbiamo preso il treno alle due del mattino, ma prenderne uno a mezzogiorno, alla Union Station di Kansas City di tutti i posti, quanto sicurò potrebbe essere?»

Stephanie osservò il giornale e il sorriso scivolò via dal suo volto. Purtroppo, il figlio di Ares aveva ragione, ed Edward si morse la lingua per averlo pensato, perché odiava dargli ragione.

«Ma non possiamo viaggiare per sempre in auto» replicò, anche se con più incertezza. «È massacrante, e non possiamo nemmeno fermarci a dormire in giro, o rischieremmo di essere raggiunti da altri mostri. Dobbiamo restare sempre in movimento, è l’unico modo. E possiamo farlo solamente con il treno.»

Edward annuì. Anche Stephanie aveva ragione. Non aveva alcuna intenzione di dover guidare ancora per il resto del viaggio, o di farsi squartare anche l’altra metà del volto. Tuttavia, era strano che Stephanie stesse insistendo per fare qualcosa che comunque poteva essere altrettanto dannoso per il loro viaggio, ossia muoversi in pubblico, sotto la luce del giorno e gli sguardi di tutti. Sembrava quasi che il motivo per cui volesse raggiungere Kansas City non fosse solo perché avrebbe giovato all’impresa.

«E se… provassimo a camuffarci?» suggerì Lisa con voce tenue. I quattro si voltarono verso di lei. Lisa parve sentirsi a disagio, soprattutto sotto lo sguardo di Edward, ma tenne i nervi saldi. «Insomma, adesso tu hai un aspetto decisamente diverso da prima» mormorò, rivolta a Stephanie, per poi voltarsi verso di Edward. «E tu… beh… anche tu…»

Distolse lo sguardo, imbarazzata, mentre Edward si sfiorava le cicatrici. «Continua» incalzò, mentre l’idea cominciava a stuzzicarlo.

«Beh, io potrei provare a tagliarmi un po’ i capelli, magari farmi una coda, e Konnor… potrebbe tagliarsi la barba…»

Konnor sussultò. «Cosa?»

«E soprattutto… nei luoghi pubblici dovremmo rimanere separati. La polizia cerca cinque ragazzi, no? Se viaggiassimo insieme, ma divisi in due gruppi, e con i nostri aspetti leggermente diversi, forse daremmo meno nell’occhio. E poi…»

Edward sollevò una mano per fermarla. Lei lo osservò in attesa di un riscontro per un breve istante, poi le sorrise. «Non serve che continui. Mi avevi già convinto quando hai detto che Konnor dovrebbe radersi la barba…»

Lisa riuscì a sorridere e Stephanie annuì. «Sì, devo ammetterlo, potrebbe funzionare.»

«Oh, no. Oh, assolutamente no!» protestò Konnor, puntando il dito contro di lui e contro di Lisa. «Potete scordarvelo! Io non taglio un bel niente! Mi rifiuto!»

«Suvvia, Konnor, è per il bene dell’impresa!» esordì Edward, sollevando le braccia.

«Ma pensate davvero che funzionerà?! Le nostre facce sono sempre le stesse! Non stiamo mica manipolando la Foschia! Ci riconosceranno subito! E comunque…» Konnor sorrise come colto da un’illuminazione improvvisa. «… e comunque non ho mica un rasoio dietro! Non posso tagliare nulla!»

Non appena finì di pronunciare quelle parole, Tommy posò lo zainetto sul tavolo. Non si era ancora pronunciato in merito alla faccenda, ma dal gesto che compì, fu piuttosto chiaro il suo pensiero in merito. Estrasse una lametta dallo zaino, per poi mostrarla a Konnor con un sorriso. «Questa può andare bene?»

Per poco la mascella del figlio di Ares non si staccò dal resto del suo volto. Lisa, Stephanie, Edward e Tommy osservarono il loro compagno di viaggio, sorridendo divertiti.

Konnor rimase con le iridi incastonate sulla lametta per almeno trenta secondi. «… mi prendete in giro, vero?»

Nessuno rispose.

 

***

 

Purtroppo nessuno di loro sapeva manipolare la Foschia, altrimenti sarebbe stato tutto molto più semplice. Tuttavia, potevano aggiustarsi con altri modi.

Con lo zainetto sulle spalle, il berretto a visiera calato sulla testa a nascondere i capelli rossi e la giacchetta diversa, a un occhio distratto Tommy pareva davvero un’altra persona. Edward invece aveva alzato il cappuccio della felpa, e forse, con un po’ di fortuna, nessuno lo avrebbe degnato di un secondo sguardo, stando alle parole del compagno di viaggio.

«Con il cappuccio alzato sembra che tu voglia nascondere la cicatrice» gli aveva spiegato. «Se qualcuno dovesse vederti in faccia, sicuramente la noterebbe, penserebbe che la nascondi perché ti fa sentire a disagio, e allora si volterebbe per farti credere che non l’hanno vista.»

Di fronte a quella spiegazione che aveva quasi dello scientifico, Edward non aveva discusso.

Stephanie si era offerta di aiutare Lisa con il suo cambio di look e Konnor con tutta probabilità stava ancora piangendo in bagno all’idea di perdere la sua amata barba. Il treno sarebbe partito alle sette, dopo quello scalo di un’ora, e ormai non mancava molto.

A dieci minuti dalla partenza, Konnor li raggiunse cupo in volto. Edward dovette trattenersi dallo scoppiare a ridergli in faccia. Proprio come con Stephanie, era così a abituato a vederlo con la barba che senza pareva un bambino di dodici anni. Tuttavia Konnor sembrò intuire il suo stato d’animo perché fece una smorfia. «Giuro che se mi riconoscono anche senza barba io…»

Si interruppe, quando anche Lisa e Stephanie li raggiunsero. I ragazzi, in particolare Thomas, osservarono sbalorditi la figlia di Bacco. Aveva i capelli ricci molto più corti, che ora arrivavano appena all’altezza del collo, raccolti in una coda che le lasciava il viso scoperto. Ancora una volta, erano stati tutti così abituati a vederla con il volto sempre nascosto dai capelli che nessuno di loro si era mai accorto quanto graziosa fosse anche lei, con le lentiggini, la carnagione abbronzata e il naso grosso che però si sposava bene al suo viso. Certo, non era bella come Stephanie, ma si difendeva bene.

Accorgendosi degli sguardi, la figlia di Demetra sorrise, poi indicò la compagna con un cenno della mano. «Ta-daaa! Che ve ne pare?»

Lisa abbassò la testa, avvampando. Tutta quella timidezza sorprese Edward, ma forse era perché si sentiva ancora in colpa per quello che aveva detto nel bar. Non che fosse un problema vederla rimanere tranquilla per un po’ dopo averli infastiditi per tutto il giorno.

«Ehi, stai bene senza barba!» disse Stephanie a Konnor, con un ampio sorriso.

Konnor sembrò colto alla sprovvista. «Oh… grazie.»

Non seppe spiegarsi il motivo, ma a Edward non piacque vedere Stephanie complimentarsi con Konnor. Anzi, sì, il motivo lo sapeva eccome, ma avrebbe fatto meglio a concentrarsi sulle cose importanti. 

«Bene gente» esordì, facendo vagare lo sguardo sul gruppo, per poi sorridere. «Direi che possiamo salire a bordo. Prossima fermata: Kansas City!»

 

***

 

Come al solito, Stephanie aveva avuto ragione. Erano circa le dieci del mattino quando arrivarono a Kansas City. Le tre ore di treno erano state tutto sommato leggere, ed Edward ne aveva approfittato per schiacciare un altro pisolino, ragion per cui non ricordava molto del viaggio.

Non era mai stato alla Union Station, ma ne aveva sentito parlare, e vista dal vivo faceva comunque la sua bella figura. Era un gigantesco e fatiscente edificio bianco, fondato quasi un secolo prima. Quando le porte si spalancarono i pendolari scesero con pigrizia, prossimi ad affrontare l’ennesima routine giornaliera nella grande città, bellamente ignari dei cinque ragazzi che avevano viaggiato assieme a loro da cui, invece, dipendeva il destino del paese e forse del mondo.

«Restiamo separati e non date troppo nell’occhio. Io mi informo sul prossimo treno che dobbiamo prendere» annunciò Stephanie, poco prima di scendere sulla banchina affollata. Edward rimase a bocca aperta quando si accorse di quanto enorme fosse quel luogo, soprattutto se visto da dentro. Il soffitto doveva essere alto almeno cinquanta metri, grosse finestre lasciavano filtrare la luce del sole, che andava a riflettersi sul marmo lucido del pavimento.

I semidei avanzarono tra la folla, dividendosi in mezzo ad essa in due gruppetti, Tommy ed Edward da una parte, Stephanie, Lisa e Konnor dall’altra. Viaggiavano a diversi metri di distanza, cercando comunque di rimanere nei rispettivi campi visivi per non perdersi.

Incontrarono alcune guardie e controllori di quando in quando, ma nessuno badò a loro. Edward realizzò che la gente tendeva davvero a evitare di guardarlo in faccia. Forse Tommy aveva davvero avuto ragione, o forse ai comuni mortali con la testa piena di pensieri non importava un accidente di un ragazzino incappucciato qualsiasi. Raggiunsero l’atrio principale, dove sui lati si trovavano gli sportelli delle biglietterie. Di fronte a loro, un ristorante di due piani.

Stephanie si diresse verso gli sportelli. Con i capelli sciolti e senza gli occhiali, in mezzo alla folla, anche lei pareva davvero un’altra persona. Edward si appoggiò a una parete, incrociando le braccia e tenendo la testa bassa. Tommy rimase accanto a lui, con lo sguardo smarrito tra la gente che camminava, mentre Lisa e Konnor rimanevano accanto alla parete opposta dell’atrio.

Dopo diversi minuti di attesa, Stephanie fece ritorno, invitando gli amici con un cenno della mano a seguirla.

«C’è un treno che parte alle due del pomeriggio» iniziò a spiegare, una volta che furono riuniti in cerchio. «È il più economico che sono riuscita a trovare, ma non è un diretto. Ci vorranno tre giorni di viaggio per arrivare a San Francisco, contando le fermate, gli scali e tutto il resto. Un biglietto costa cinquanta dollari.»

«Aspetta, vuoi prendere i biglietti?» domandò Lisa.

Steph si strinse nelle spalle. «Sarà un viaggio lungo, non possiamo viaggiare senza biglietti per così tanto tempo, qualcuno se ne accorgerebbe. Però… c’è un problema. Non abbiamo abbastanza soldi. Ci servono almeno altri cento dollari, duecento se vogliamo anche mangiare durante il viaggio. Io… potrei chiederli a mio padre, ma lui abita a trenta chilometri da Kansas City. Forse potremmo… prendere un taxi e…»

«Ma non è rischioso?» domandò Tommy. «Insomma… sono certo che lui ci aiuterebbe, però mettersi a gironzolare troppo con i mostri e la polizia che ci cercano… non sarebbe più sicuro non allontanarci troppo da qui?»

«Ma ci servono i soldi» obiettò Stephanie, per poi massaggiarsi dietro il collo. «E poi… vorrei rivedere mio padre solo per fargli sapere che sto bene. Sarà preoccupatissimo ed io… beh…» La ragazza sospirò, scuotendo la testa. «Scusate. Mi sto comportando da egoista… è vero, andare da lui sarebbe solo una perdita di tempo.»

«N-No, non voglio dire questo» si affrettò ad aggiungere Tommy, alzando le mani. «Solo che…»

«Ho paura che non sia possibile» mugugnò Konnor, cupo in volto. «Capisco che tu voglia rivedere tuo padre, ma… temo che la polizia ormai abbia riconosciuto anche le vostre identità. Avranno mandato agenti alle residenze di tutti i nostri parenti. Mi… mi dispiace, Steph.»

Stephanie lo osservò per qualche istante, quasi come se sperasse che aggiungesse qualcos’altro, magari qualche buona notizia, ma alla fine sembrò accettare la realtà, perché abbassò il capo demoralizzata.

Nonostante lui non c’entrasse nulla in quella conversazione, Edward si sentì in colpa. Era per questo che Steph si era mostrata così entusiasta di raggiungere Kansas City, sperava di poter rivedere suo padre. Purtroppo, anche lui aveva sospettato che la polizia avesse localizzato i loro genitori.

«Non preoccuparti, Steph» disse Konnor, rivolgendo un cenno alla ragazza. «Sono sicuro che lui sa che stai bene, e quando completeremo l’impresa passeremo da lui durante il viaggio di ritorno.»

Un piccolo sorriso nacque sul volto di Steph, che annuì. 

Edward cercò di non farci caso. «Rimane comunque il problema dei soldi» riprese a dire, incrociando le braccia. «Davvero ce ne servono altri?»

«Temo di sì» mormorò Steph. «Ne abbiamo solo più un centinaio.»

Edward sospirò. Era un semidio, credeva che i suoi problemi più grandi fossero il non farsi ammazzare dai mostri o arrestare dalla polizia, non il dover racimolare duecento dollari nel giro di quattro ore. E il peggio era che per lui non farsi uccidere, di solito, era semplice; trovare dei soldi invece no.

«E allora come dovremmo fare?»

«Io… io forse ho un’idea» mormorò Tommy, che per una volta non venne punzecchiato da Lisa nonostante l'assist perfetto.

Si sfilò lo zainetto, per poi frugarci dentro. «I miei fratelli negli anni hanno rubato un sacco di cose nel campo, e hanno preso l’orribile abitudine di mettere la roba più preziosa qui dentro. Io volevo restituirla, però… avevo paura che i proprietari se la prendessero anche con me. In ogni caso, potrei… beh, potrei provare a vendere qualcosa in qualche negozio. Se per voi va bene.»

Edward sollevò le spalle. «Non credo ci siano molte altre opzioni.»

Konnor ridacchiò, scuotendo la testa. «Che… situazione bizzarra…» commentò. Per una volta Edward si trovò d’accordo con lui senza odiarsi per quello. Sì, era proprio una situazione bizzarra quella.

«Steph, tu sei già stata a Kansas City, giusto? Conosci un posto che faccia al caso nostro?» domandò il figlio di Ermes, rimettendosi lo zaino sulle spalle.

«Beh… forse possiamo provare al centro commerciale» rispose lei, dopo un attimo di esitazione. «Ma… davvero vuoi provare a vendere qualcosa che non è tuo? Non mi sembra proprio da te…»

«Sono certo che i proprietari capiranno. È… per una buona causa. Credo. Spero.» Tommy sospirò. «In ogni caso, l’alternativa sarebbe borseggiare qualche poveraccio e… e non mi va molto.»

«No, certo che no» convenne Edward, posandogli una mano sulla spalla. «Vada per la tua idea, allora.»

Spostò lo sguardo sul resto dei suoi compagni. «Meglio non rimanere uniti troppo a lungo. Steph, tu vieni con me e Tommy. Konnor e Lisa, voi rimanete qui alla stazione.»

«Ehm, cosa?» domandò Konnor, sollevando un sopracciglio. «E che diavolo dovremmo fare qui?»

«E io che ne so? Fatevi un giro» ribatté Edward. «In ogni caso, non possiamo viaggiare tutti insieme, o desteremmo sospetti.»

«Ma perché proprio noi dobbiamo restare qui?»

«Tommy ha lo zainetto, Stephanie conosce la città e io sono quello che ha la spada divina che dà i superpoteri. Ti basta come risposta?»

Konnor assottigliò le labbra. A dire il vero non parve molto felice, ma non disse altro. Lo stesso fecero gli altri, e così la decisione fu presa.

 

***

 

Il trio procedeva sul marciapiede accanto alla strada, affiancando vetrine di negozi, bar, ristoranti e condomini. Tolta la vista mozzafiato della Union Station dall’esterno, il resto della città non parve così grandioso. Kansas City era la solita grande metropoli, anche se meno affollata di New York.

Stephanie faceva da guida, avanzando per prima e, a differenza di Edward, continuava a guardarsi attorno in preda ai ricordi e alla nostalgia.

«Mio padre mi portava qui ogni settimana quando vivevo con lui» stava raccontando loro, con tono di voce a metà tra l’entusiasta e il triste. «È passato tanto tempo dall’ultima volta, ma ricordo ancora tutto alla perfezione. Non avevo ancora idea di essere una semidea, e anche se non avevo una madre, mi sembrava tutto così… normale. Mi mancano quei giorni.»

«Dev’essere stato bello…» mormorò Tommy. «Anche a me sarebbe piaciuto avere un vero genitore mortale.»

Stephanie si fermò, voltandosi per osservarlo, con espressione mortificata. «Scusa Tommy. Mi ero dimenticata che per te è stato diverso…»

Edward osservò l’amico. Nemmeno lui aveva mai parlato molto di sua madre, ma era chiaro che fosse successo qualcosa di spiacevole tra loro. «Tommy… cos’è successo a tua madre? Se ti va di parlarne.»

Tommy scrollò le spalle. «Non c’è molto da sapere, in realtà.» Sospirò. «Sta bene, di questo non devi preoccuparti. Solo che… diciamo che non tutti i mortali riescono ad accettare il fatto che gli dei esistono davvero. E mia madre è sicuramente uno di questi. Non conosco bene i dettagli, lei non me ne ha mai parlato, ma immagino che avesse progettato una vita con Ermes, magari pensava che lui volesse sposarla, o robe del genere, ma poi ha scoperto che lui non poteva rimanere con lei. E soprattutto ha scoperto che lui era un dio.»

Si strinse nelle spalle. «Lei, una cameriera, una donna qualsiasi, che non aveva nulla e che viveva grazie a un lavoro da poco, aveva attirato l’attenzione di un dio, che le aveva fatto credere di amarla, per poi andarsene, lasciandola sola con un figlio che non faceva altro che ricordarle l’uomo che aveva amato e che l’aveva abbandonata.»

Thomas scosse la testa. «Tutto quello in cui credeva si è rivelato una menzogna, e non potendosela prendere con mio padre, se l’è presa con me. E mia zia, mio zio, il resto della famiglia, nessuno ha voluto intromettersi. Gli unici che invece hanno capito che io non c’entravo nulla sono stati i miei nonni, i suoi genitori. Lei mi lasciava da loro ogni volta che poteva, mi hanno cresciuto più loro che lei, e forse i momenti che ho trascorso con loro sono i pochi in cui ho creduto di avere davvero una famiglia. Fino a quando i satiri non mi hanno portato al campo, almeno.»

«Mi dispiace, Tommy» mormorò Edward. Ora capiva perché l’amico non avesse mai parlato di sua madre. Certo, anche Edward non se l’era passata bene da bambino, ma sua madre era sempre stata con lui, e gli aveva sempre voluto bene. Thomas, invece, non aveva avuto questa fortuna. «Deve essere stata dura.»

Tommy scrollò un’altra volta le spalle. «Sicuramente non come lo è stato per te.»

Edward fece un sorrisetto amaro. «Non è mica una gara.»

«No, certo che no.» Anche Tommy sorrise. «Non volevo dire questo.»

«Essere semidei a volte fa davvero schifo.»

«Già.»

Di fronte a loro, Stephanie si mordicchiò il labbro. «Ecco, ora mi sento da schifo per avervi parlato della mia fantastica infanzia…»

«Ehi, solo perché noi due siamo stati sfortunati non significa che tu non possa avere trascorso dei bei momenti con tuo padre» rispose Tommy, portandosi entrambe le mani dietro al collo, spostando lo sguardo verso il cielo limpido. «Essere semidei farà anche un po’ schifo, ma è quello che siamo, e dobbiamo accettarlo, con i suoi pro, e i suoi contro. Non avrò avuto una madre amorevole, ma ho voi, e ho i miei fratelli al campo. E loro contano su di me per completare questa impresa. E io non li deluderò.»

Thomas scambiò uno sguardo prima con Edward, poi con Stephanie, rivolgendo un sorriso ad entrambi. Erano passate solo poche ore da La Plata, ma pareva tutta un’altra persona. Edward batté il pugno contro la sua spalla. «Ben detto amico. Forza, proseguiamo, non lasciamo che sua maestà Konnor ci aspetti più del dovuto.»

«Poveraccio, rimasto da solo con Lisa» mugugnò Tommy, mentre proseguivano. «Non lo augurerei nemmeno al mio peggior nemico…»

Edward ridacchiò, trovandosi d’accordo con lui. Steph, invece, parve essere di altro avviso. «Non essere così duro con Lisa» lo rimproverò, senza voltarsi. «Prima, mentre la aiutavo con i capelli, sembrava… scossa. Credo che le sia successo qualcosa di brutto.»

«Forse era per quello che ha detto a Edward…»

«Che ha detto a Edward?»

«Niente» sbottò il figlio di Apollo. 

«Ehm… ok» rispose Stephanie. «Comunque, penso che Lisa sia turbata da qualcosa. So che non è stata gentile con te, Tommy, ma forse non lo fa con cattiveria.»

«Resta il fatto che lo fa.» 

Stephanie si strinse nelle spalle, ma non rispose. Edward si grattò la cicatrice. Turbata o meno, Lisa era una testa calda, fine della discussione. E lui lo sapeva bene, perché era proprio come lei. Forse era dovuto al fatto che erano semidei, erano iperattivi e tutto il resto, ma almeno lui sapeva controllarsi. Ogni tanto.

Mentre passavano accanto a un negozio di elettronica, Edward notò una piccola folla radunata di fronte ai televisori esposti in vetrina. Spostò lo sguardo, incuriosito, e sgranò gli occhi. Si fermò, dando un colpo al braccio di Tommy, attirando la sua attenzione. «Mh? Cosa c’è?» 

Edward accennò con il mento ai televisori. A quel punto, Thomas emise un gemito sorpreso. «Steph» chiamò. 

La diretta interessata, che aveva proseguito per qualche metro, si volto. «Sì?»

«Guarda…»

Stephanie affiancò i due ragazzi, e gli sguardi di tutti loro rimasero incollati all’edizione del telegiornale che i televisori stavano trasmettendo. Non potevano sentire l’audio, ma le scritte in sovrimpressione, e soprattutto le immagini, furono più che sufficienti a far capire tutto.

Un cantiere di Chicago era stato interamente ricoperto di vegetazione. Era successo tutto dal nulla, nel giro di una notte. Gli operai che il giorno prima avevano staccato alla sera erano tornati quel mattino trovando il luogo invaso da radici, rampicanti e perfino fiori. La vegetazione continuava a crescere e a svilupparsi a vista d’occhio, e anche se forse la Foschia impediva ai mortali di vederlo, loro tre potevano.

I giornalisti non avevano idea di come spiegare quel fenomeno, così come gli esperti di botanica che avevano contattato. Si parlava di esperimenti fatti nella notte, dell’utilizzo non regolare di qualche fertilizzante sperimentale, si parlava addirittura che fosse opera di – e no, non stavano affatto scherzando – un gruppo di eco terroristi.

Leggendo quelle parole, Edward scosse la testa. I giornalisti erano fissati con quella parola.

«Oh, no…» sussurrò Stephanie, portandosi una mano di fronte alla bocca. «Che… che cosa ho fatto…?»

Uno degli spettatori si voltò verso di loro. Era vestito di stracci, aveva una lunga e incolta barba, capelli neri arruffati e sopra gli occhi un paio di occhiali da sole che parevano essere stati recuperati dritti da un cassonetto. Anche i vestiti parevano usciti da un cassonetto. L'uomo nel suo insieme, pareva essere uscito da un cassonetto.

Quel tizio li scrutò per un istante, ed Edward si irrigidì, temendo che potesse riconoscerli. Una stranissima sensazione cominciò a farsi largo dentro di lui, mentre percepiva lo sguardo di quello sconosciuto analizzarlo. Tuttavia, dopo diversi interminabili attimi, quello sorrise loro, per poi tornarsene a osservare il notiziario. Nessun altro fece caso ai ragazzi.

Atterrito, Edward si voltò verso di Tommy, rimasto anche lui con il respiro mozzato. Stephanie, invece, non sembrava aver fatto alcun caso a quel barbone.

«A-Andiamocene» sussurrò Edward, con il cuore che batteva all’impazzata nel petto. Thomas non se lo fece ripetere. Insieme, riuscirono con un movimento delicato a separare lo sguardo di Steph da quei televisori, e il trio proseguì lungo il marciapiede.

La poveretta era sconvolta. Era impallidita e tremava come un animale impaurito. Edward le strinse il braccio con forza, cercando di rincuorarla, ma la sua mente era altrove. Si voltò di nuovo verso quel tizio vestito di stracci, ma non riuscì più a vederlo in mezzo alla folla di curiosi. Per un attimo pensò di esserselo sognato, ma era sicuro che anche Tommy l'avesse visto. In ogni caso, ora avevano altro di cui preoccuparsi.

Mentre Stephanie si riprendeva dallo shock, i due ragazzi continuarono a scortarla verso i meandri di Kansas City.

 

***

 

Si fermarono un centinaio di metri più avanti e fecero sedere Stephanie su una panchina di fronte a un negozietto. Aveva recuperato un po’ di colore nelle guance, ma sembrava ancora scossa.

«Steph» la chiamò Tommy, schioccando le dita. «Steph, che ti prende?»

«Tommy…» disse Edward, cercando di fargli intuire che era meglio lasciarla stare, ma la ragazza sembrò riscuotersi.

«Quel… cantiere…» mormorò, lo sguardo incollato sul marciapiede. «Sono stata io. Quella vegetazione… è opera mia…»

«Sì, questo l’avevo intuito, ma perché sei così sconvolta? Ci hai salvati, ricordi?»

«S-Sì, però…» Stephanie esitò. «Però… non… non è così semplice. Ho… ho risvegliato la natura in quel luogo e adesso si sta espandendo. Ho paura che non si fermerà solo nel cantiere.» Strinse i pugni con forza. «Potrebbe… potrebbe ricoprire tutta Chicago.»

Edward sgranò gli occhi. Quello… cambiava un bel po’ di cose.

«Non… non puoi dire sul serio» mormorò Tommy. «Vero?»

Stephanie non rispose. Non sembrava affatto che stesse scherzando. Anche perché altrimenti non si sarebbe comportata come se avesse visto un fantasma.

«Chicago… è una grande città» osservò Edward, per una volta cercando di essere lui quello razionale. «Secondo me la vegetazione non la ricoprirà tutta. E anche se invece dovesse farlo, ci metterà un bel po’ di tempo. I mortali si inventeranno qualcosa per fermarla.»

«E se la natura… non lo accettasse? Se si ribellasse? Se qualche mortale si facesse del male, o peggio?» Stephanie scosse la testa, per poi osservarsi le mani. «Sarebbe solo colpa mia… perché non ho saputo usare i miei poteri, mi sono sentita male e… ho perso il controllo su di loro.»

«Nessuno si farà male, vedrai. Dobbiamo solo…»

«Va tutto bene ragazzi?»

I tre sobbalzarono, voltandosi all’unisono verso la persona che aveva appena rivolto loro la parola. Sulla soglia del negozietto di fronte alla panchina era comparsa una donna, che osservava i tre con espressione curiosa e anche vagamente divertita.

Fumava da una sigaretta con il filtro attaccato ad un lungo tubicino di legno, simile a quelle che si vedevano nei film noir.

Indossava strani abiti, una specie di accappatoio rosso con dei fiori stilizzati, chiuso da una cintura, sotto il quale si potevano comunque intravedere i pantaloni bianchi, che si concludevano sui piedi nudi che calzavano in dei sandali di legno. Un bizzarro cappello rotondo e largo, invece, era posato sulla sua testa. All'improvviso, i nomi di quei vestiti si fecero strada tra i suoi pensieri, e a Edward parve di averli sempre conosciuti.

L’accappatoio era un kimono, anche se quello era più semplice da riconoscere, il cappello invece un jingasa. Era fatto di legno intrecciato dipinto di nero, e sia quello che il vestito erano indumenti giapponesi.

Poi, Edward si accorse dell’aspetto vero e proprio della donna. A quel punto, la sua mente andò in tabula rasa.

La pelle era bianca come neve, che cozzava con il colore rosso sangue delle labbra carnose. Gli occhi a mandorla erano marroni, con una sfumatura di ombretto e le ciglia folte. I capelli, neri e luminosi, erano raccolti sotto il jingasa in uno chignon. Aveva visto belle ragazze negli ultimi giorni, le figlie di Afrodite, Stephanie, Natalie, perfino Afrodite in persona, ma quella donna… quella era su un altro livello.

I suoi lineamenti, gli occhi, il naso, le labbra, lo sguardo, perfino quel sorrisetto divertito… ogni cosa non faceva altro che catturare l’attenzione di Edward, rendendo impossibile per lui distogliere lo sguardo. Non aveva idea del perché. Non ricordava l’ultima volta in cui era rimasto così affascinato da qualcuno. Nemmeno Afrodite, con la sua aura da dea, era riuscita ad avere un effetto così forte su di lui.

«S-Sì, va tutto bene, grazie…» riuscì a biascicare come risposta.

«Davvero?» La donna si avvicinò, mentre l’espressione divertita svaniva dal suo volto. «La tua ragazza non sembra molto in forma.»

Per poco Edward non si strozzò con la propria saliva. «L-La mia…» Si voltò verso di Stephanie, che era atterrita tanto quanto lui. Non riuscì a concludere la frase, ma la donna parve intuire cosa volesse dire, perché si portò una mano di fronte alla bocca.

«Oh! Perdonami, devo aver frainteso. Mi era sembrato che foste molto affiatati e… non importa. Ma…» La donna fece un verso sorpreso. «Tesoro, che ti è successo?» domandò apprensiva, posando una mano sulla guancia di Edward e guardandogli le cicatrici. Il ragazzo sentì un brivido percorrerlo da capo a piedi, mentre gli occhi della sconosciuta si posavano su di lui e quella mano fredda e morbida rinvigoriva la sua pelle inaridita dal viaggio con un solo tocco.

«E-Ecco, io…» Edward ingoiò il groppo alla gola. «Sono… caduto in un roseto da bambino…»

Non poté vedere le reazioni dei suoi compagni, ma poteva immaginarsele. Per fortuna, la donna si bevve quella bugia campata all’aria. «Mi dispiace così tanto. Però, guarda il lato positivo. Le cicatrici rendono molto più affascinanti.» Gli strizzò l’occhio, facendolo sussultare. Quello sguardo, quel sorriso, quel viso gentile… Edward pensò di essersi appena innamorato.

«Vi va di entrare per una tazza di thè, cari?» domandò poi la donna, lasciando la guancia di Edward. Non appena lo fece, il mondo gli sembrò un posto peggiore.

«L-La ringrazio, ma non abbiamo soldi…» rispose Stephanie. «Non possiamo fermarci…»

«Non ho mai detto che vi avrei fatti pagare» rispose la donna, ridacchiando. «Suvvia, non fatevi pregare. Sarà un piacere per me aiutare tre bei ragazzi come voi. Entrate, riposatevi un po’. O c’è forse qualcosa che vi turba?»

Li studiò con più attenzione, ed Edward sussultò. A un primo sguardo potevano anche sembrare diversi rispetto alle immagini di loro che erano trapelate tramite i telegiornali, ma se osservati con occhio scrupoloso, nessun cappello, cappuccio o diverso taglio di capelli avrebbe potuto nascondere le loro identità.

«Ora capisco» affermò lei, facendolo trasalire. Si stava già preparando per correre a perdifiato, sperando che i suoi amici lo seguissero, quando la loro interlocutrice tornò a sorridere gentile. «Siete turisti, vero?»

«S-Sì» si affrettò a rispondere, annuendo con più energia di quanto avrebbe voluto usare. «Sì, è così.»

«Sembrate stanchi. È da tanto che viaggiate?»

«Beh…» cominciò Edward, piegando la testa. «Solo da due giorni ma… sono sembrati molti di più…»

«Bene, allora. Fate un salto dentro, magari potreste anche trovare qualcosa di carino da portarvi dietro. Il mio banco dei pegni non è molto grande, ma dopotutto è proprio in posti come questo che si possono trovare tesori nascosti.»

«Banco… dei pegni?» domandò Thomas, aprendo bocca per la prima volta da quando la misteriosa donna era apparsa.

Quella si voltò verso di lui, sorridendo gentile. «Certo caro, banco dei pegni. La cosa ti interessa?»

Edward si accorse solo in quel momento dell’insegna appesa sopra la vetrina scura del negozio. Era una frase in giapponese, con tanto di traduzione dipinta a caratteri più piccoli. A quel punto realizzò che gli sarebbe bastato alzare lo sguardo un attimo prima.

 

ミルの質屋

Banco dei pegni di Milù

 

«È lei Milù?» domandò alla donna, che rispose chinando il capo.

«Sì, sono io. È un piacere incontrarvi.»

Edward scambiò un altro sguardo con Stephanie e Tommy, che sembravano incerti tanto quanto lui sul da farsi. Alla fine, sorrise a Milù.

«Il piacere è tutto nostro. Le dispiace mostrarci l’interno?»

 

***

 

Visto da dentro, il negozietto pareva molto più grande. C’erano cianfrusaglie di ogni tipo, disposte su vari scaffali sulle pareti, da souvenir della città – occhiali da sole, cartoline, palle di vetro – a elettronica – televisori, macchine fotografiche, stereo – a vestiti. C’erano vari ornamenti di manifattura orientale, come alcune lanterne di carta appese e sgargianti stendardi con scritte giapponesi e cinesi – o almeno, Edward pensò che fossero in cinese, visto che non riusciva a capirle. In un angolo notò anche un piccolo acquario con dentro un bizzarro pesce rosso e bianco, una carpa koi in base a quello che recitava la targhetta.

«Quindi vi servono soldi» disse Milù, una volta che finirono di spiegarle la loro situazione. «Allora il nostro incontro è stato provvidenziale, non pensate?»

«Credo proprio di sì» confermò Edward, incrociando le braccia. Il suo sguardo tornò sugli stendardi. «Per caso… le piace la cultura giapponese?»

«Dammi del tu, caro» sorrise la donna, per poi annuire. «E sì, è naturale che mi piaccia. Dopotutto, è da lì che provengo.»

Edward sollevò un sopracciglio, sorpreso. «Intendi dire che vieni dal Giappone?»

«Sì, certo» rispose Milù, allargando il sorriso. «Ora vi dispiace aspettare qui per qualche minuto? Vado a preparare il the» aggiunse, prima che Edward potesse fare altre domande. La donna sparì dietro alla porta al fondo della stanza, oltre il bancone con il registratore di cassa.

«Tutto questo non mi convince per niente» mormorò Stephanie, alcuni istanti dopo la sparizione di Milù. Edward si voltò sorpreso verso di lei. L’espressione della figlia di Demetra era molto diversa. Non pareva più sconvolta come prima, tutt’altro.

«Che vuoi dire?» 

Steph lo squadrò confusa. «Ma come, non sembra anche a te? Insomma… tu possiedi un’arma giapponese, ci sono dei mostri giapponesi che ci inseguono e incappiamo in questa misteriosa donna, giapponese, che, guarda caso, gestisce un banco dei pegni, cioè proprio ciò che cercavamo. Un po’ troppe coincidenze, non credi?»

«Già…» mormorò Tommy, annuendo, anche se pareva avere altre turbe. «Ma… non è solo una questione di coincidenze. Milù… lei… insomma… all’inizio non c’ho fatto molto caso, ma ora... più la osservo, e più mi viene da pensare che lei in realtà non è davvero quello che ci sta mostrando. Però… però non è come se lei fosse un mostro qualsiasi e ci fosse la Foschia a mascherarla, mi spiego? Lei… lei ha qualcosa di diverso, ma non capisco cosa…»

Stephanie annuì. «Me ne sono accorta anche io. C’è qualcosa che non quadra. Non lo pensi anche tu, Edward?»

Edward cominciò a sentirsi in imbarazzo. Entrambi i suoi amici gli stavano dicendo che Milù non la contava giusta, e lui, invece, non aveva scorto proprio nulla di sbagliato in quella donna. Certo, il fatto che il loro incontro fosse stato così fortuito avrebbe fatto sorgere qualche dubbio nella mente di chiunque, ma da quando il viaggio era iniziato erano stati vittime di una sfortuna dietro l’altra. Un briciolo di buona sorte, di tanto in tanto, avrebbero anche potuto averlo. E poi gli aveva detto che era affascinante. Che motivi aveva di dubitare di lei? 

Sospirò. «Sentite, io…»

La porta dietro al bancone si riaprì all’improvviso, e Milù sbucò fuori con un piccolo vassoio di plastica, con sopra quattro tazzine nere contenenti un liquido che ancora emanava del fumo. La donna sorrise di nuovo gentile. «Eccomi, scusate l’attesa.» Posò il vassoio sul bancone, per poi prendere una tazza. «Ho usato un kit istantaneo, quindi la qualità non è certo eccellente, ma spero comunque che possa piacervi.»

Edward tornò a sorridere, afferrando una tazzina. Non era un tipo da thè, anzi, ma non voleva essere scortese. «Non preoccuparti, ti sei disturbata anche troppo.»

Milù gli sorrise calorosa ed Edward fu costretto a distogliere lo sguardo, sperando di non essere arrossito. Bene, oltre agli artigli di mostri rigurgitati dal Tartaro, ora aveva scoperto di avere un’altra terribile debolezza: i sorrisi di quella donna. 

Sì, si era innamorato.

Vide Stephanie prendere una tazza, con espressione ancora poco convinta, per poi annusarne il contenuto.

Edward si avvicinò il the alla bocca, venendo subito inondato dal forte aroma che emanava. Non era un esperto, ma qualunque cosa ci avesse messo dentro, doveva essere parecchio forte. Ebbe appena il tempo di sfiorare il liquido con le labbra, riuscendo comunque a percepirne il sapore davvero intenso, prima che Stephanie apparisse accanto a lui come un miraggio, schiaffeggiandogli la mano con molta poca delicatezza. «Non bere!»

Fece un verso sorpreso, la tazza che cadeva e che andava a frantumarsi sul suolo. Di fronte a loro, Milù sgrano gli occhi. «Ragazzina, che cosa…»

«Non mi prendi in giro» soffiò Stephanie, mostrando un’ostilità mai vista prima, nemmeno contro Campe. Sollevò la tazzina che aveva preso. «So riconoscere l’aroma di un’erba sedativa quando lo sento!»

«C-Cosa? Un… sedativo?» domandò Edward, credendo di aver capito male.

Stephanie annuì. «So riconoscere le erbe velenose, o sedative, e questa era anche più potente del normale. Se ne avessimo anche solo bevuto un sorso noi… Tommy!»

Thomas, con il naso premuto sulla tazza, sobbalzò e fece cadere il recipiente. «Non stavo bevendo!»

Steph gli scoccò un’occhiataccia, poi tornò a fronteggiare Milù. «Chi sei tu? Perché ci hai propinato quella roba?!»

Milù era ancora dall’altra parte del bancone. Non disse nulla, mentre Edward, realizzando una volta per tutte cosa fosse appena successo, faceva cadere l’espressione stupita e si dimenticava all’improvviso della cordialità mostrata poco prima. Si sentì come se fino a quel momento ci fosse stata una bolla attorno a lui, che gli impediva di scorgere i veri colori di Milù, e che Stephanie fosse riuscita a farla scoppiare con le sue parole.

Infine, Milù tornò a sorridere. Ma non era più un sorriso gentile come quelli di prima. Era un sorriso freddo, divertito, ma non in senso buono. Come se trovasse divertente il fatto che i ragazzi avessero svelato il suo inganno. 

«Bene, allora, mocciosa…» cominciò a dire, togliendosi il copricapo e sciogliendosi i capelli, facendoli ricadere sulle spalle, mentre il colore della sua pelle nivea cambiava millimetro dopo millimetro, scurendosi, e i dettagli del suo viso dapprima così stupefacente ora andavano mutando a loro volta, dando lei un aspetto molto diverso rispetto a prima. Il naso si allungò, diventando nero, e quando dischiuse le labbra mostrò dei denti aguzzi, simili a quelli di un animale. Le orecchie sbucarono da sotto i capelli, ingrandendosi verso l’alto, ricoprendosi di peluria bianca all’interno.

Edward non credette ai propri occhi. Il volto della donna ora era coperto di peluria arancione fino al livello del naso nero, che diventava bianca al di sotto di esso. Non era nemmeno più sicuro di poterlo definire volto. Era... era un muso. Il muso di un animale. Milù ora sembrava… sembrava una volpe. O meglio, un ibrido tra una volpe e una donna.

A trasformazione conclusa, Milù tornò a sogghignare, passandosi la lingua color rosa pallido tra i canini affilati. «… vorrà dire che mi occuperò di voi nella maniera tradizionale!»

 

 

 

Nota tecnica per questo capitolo: Milù, come vedrete più avanti, è una creatura particolare, in grado di ingannare le persone. Per questo motivo Edward ha creduto come un povero fesso di potersi fidare di lei, ma verrà spiegato tutto meglio nei prossimi capitoli, non preoccupatevi. Grazie per aver letto. Alla prossima!

 

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Capitolo 18
*** La volpe a ''cinque'' code ***


 

18

La volpe a "cinque" code

 

 

Tommy avrebbe dovuto dare retta al suo istinto più spesso. Il fatto che una donna tanto bella quanto misteriosa fosse comparsa sul loro cammino, per offrire loro proprio ciò di cui avevano più bisogno, avrebbe dovuto fargli capire che stavano per ficcarsi in un guaio, eppure non aveva agito, e come uno stupido aveva lasciato che lui e i suoi amici entrassero nel negozio di quella schizzata assurda donna volpe.

E se non fosse stato per Stephanie, avrebbe perfino bevuto quella brodaglia ipnotica, o quello che era. Qualcuno avrebbe dovuto consegnargli un premio per la stupidità.

E ora eccoli lì, lui, Edward e Stephanie, di fronte a quel mostro ibrido che mai aveva visto. Milù sogghignò, mostrando una generosa panoramica dei suoi canini affilati.

«Che cosa vuoi da noi?!» Stephanie, senza che gli altri se ne rendessero perfino conto, si era messa a capo del gruppo, quasi a fare da scudo ai due ragazzi. Il figlio di Ermes si accorse in quel momento che Edward, più che arrabbiato o intimorito, pareva quasi… stordito. Il suo sguardo passava dal concentrato allo smarrito, mentre osservava la donna-volpe. E anche Tommy cominciava a sentirsi in quel modo. L’unica che pareva immune, era Steph.

Era come se il mostro emanasse un’aura di energia, qualcosa che annebbiava le menti dei due ragazzi, proprio come Afrodite faceva con tutti gli uomini. Erano i suoi poteri? Era per via del suo fascino, per quando particolare? Malgrado l’aspetto animale, alcuni tratti di Milù non erano cambiati rispetto a quando era ancora una semplice donna, gli occhi, i lineamenti e, soprattutto, la voce.

«Che cosa voglio io?» domandò lei, distendendo il sorriso. «Assolutamente nulla. Voglio solo tenervi qui, nel mio bel negozietto e, se tutto va bene, prima o poi troverò un acquirente interessato a due semidei in buona salute come voi due.» E indicò Stephanie e Tommy, ma non Edward.

Quelle parole sembrarono confondere Stephanie al punto che schiuse le labbra, senza però dire una parola, mentre Edward sembrò riuscire a riscuotersi dopo quei minuti interi di trance. «Aspetta… cosa?»

«Oh, proprio così! Questo non è solo un banco dei pegni, miei cari, e ora lo capirete.»

Milù sferzò l’aria con una mano, e ogni cosa in quella stanza cominciò a tremolare. Per un momento Thomas pensò che la donna avesse causato un terremoto, ma in realtà non era così. Realizzò che ogni cosa all’interno di quel negozio non era reale. Le pareti e gli addobbi si dissolsero nell’aria, permettendogli di capire che tutto quello che avevano visto in realtà era un’illusione, e lasciarono posto a qualcosa di molto più angusto da vedere.

Dove prima si trovavano souvenir, ricordini ed elettrodomestici, erano apparse gabbie incavate nel muro e teche di vetro, ognuna contenente animali tra i più disparati.

Vide un gatto nero, grosso almeno quanto un pastore tedesco, che dormiva beato nel suo cubicolo, un cane con il pelo azzurro che emanava scintille, in tutti i sensi della parola, un piccolo tapiro con la proboscide viola, una tartaruga con una stranissima lunga coda che sembrava fatta di alghe, e così via. Tutti gli animali parvero rendersi conto che l’illusione che li nascondeva fosse sparita, perché cominciarono a dare di matto, come il cane, che cominciò a sprizzare elettricità dal pelo e ad abbaiare – o meglio, emettere rumori simili a tuoni – come un forsennato, fino a quando Milù non puntò una mano verso la sua gabbia, facendolo schizzare lontano dalla teca con un guaito.

«A cuccia!» lo ammonì, con un ghigno. Restii a fare la stessa fine del cane, gli altri animali si ammansirono. Il gatto nero sbadigliò, continuando a dormire noncurante.

«Che… che razza di posto è questo?» domandò Stephanie, inorridita.

«Non è ovvio? Questa è la mia collezione di creature preziose. Qui troverete animali provenienti da ogni angolo del mondo e, per una modesta cifra, potrete assicurarvene. E sono certa che due semidei faranno gola a molti dei miei contatti.»

«L’hai già detto prima» gracchiò Edward, gli occhi incollati su una teca contente un serpente marrone dalla forma stravagante, molto corto e con la parte centrale del corpo più larga della testa, quasi come se fosse in sovrappeso. Il figlio di Apollo si voltò verso Milù. «Due semidei. Loro due, ma non me. Perché?»

Milù gettò la testa all’indietro, ridendo di gusto. «Ma quanto sei ottuso, ladro? Non ci arrivi? Tu hai già un acquirente!»

«Io… cosa?» Edward batté le palpebre, confuso. «Ma non ha senso! Credevo che…» si interruppe di scatto, accorgendosi di essere osservato dai suoi due compagni. Serrò i pugni e si ricompose. «Tu… lavori per lui? Per l’uomo serpente?»

«Io? Lavorare per qualcuno?» Milù scoppiò in un'altra risata. «Pensi davvero che io possa prendere ordini da uno come Yamata no Orochi? Ma hai una vaga idea di cosa io sia?»

«Non lo so, e non me ne importa» rantolò Edward. «Facci subito uscire da qui, o giuro che…»

Non riuscì a finire la frase. Milù sollevo la mano ed Edward venne catapultato al fondo della stanza, contro la vetrata del negozio, che però rimase intatta. I pedoni che camminavano sul marciapiede all’esterno non sembrarono nemmeno accorgersi dell’incredibile tonfo che Edward aveva fatto. Tra l’orrore e la preoccupazione per le condizioni dell’amico, Thomas intuì che tutto quel negozio doveva essere avvolto da uno strato di magia, non solo le gabbie. Un’altra cosa che notò, fu la scomparsa della porta d’ingresso. Non c’erano più vie di fuga.

«Edward!» gridò Stephanie, correndo verso di lui. Gli si accovacciò e lo aiutò a rimettersi in ginocchio. Il figlio di Apollo tossì, ma sembrava essere ancora tutto intero.

Tommy tirò un sospiro di sollievo, poi si voltò di nuovo verso Milù, la quale era uscita da dietro il bancone. Potendola vedere dalla vita all’ingiù, si accorse del groviglio di code che spuntavano da sotto la sua schiena. A un tratto, Thomas si ricordò di alcuni cartoni che aveva visto in passato, e l’identità della donna gli fu più chiara.

«Tu sei una volpe a nove code!» esclamò, puntando il dito verso di lei e indietreggiando in contemporanea. Malgrado la sua inesperienza in materia, sapeva che quelle creature non erano affatto da sottovalutare. E ciò che Milù aveva appena fatto ad Edward ne era la dimostrazione.

«Oh, caro!» Milù si posò una mano sulla guancia, distogliendo lo sguardo con fare imbarazzato. «Così mi lusinghi! Mi dispiace deluderti, ma sono ancora troppo giovane per essere una volpe a nove code. Al momento le mie code sono solo cinque. E comunque il termine esatto è kitsune.»

«K-Kitsune» borbottò Thomas, osservando le code come in trance, accorgendosi che, sì, non erano nove. Ma non erano nemmeno cinque. «Ma… ma ne hai solo quattro…» mugugnò. L’espressione di Milù cambiò radicalmente, trasformandosi in pura rabbia. Lo sguardo che lanciò a Thomas fu peggio che essere scaraventato per la stanza, cosa che con tutta probabilità sarebbe accaduta da lì a poco.

«Io. Ho. CINQUE CODE!» urlò la kitsune, afferrando tra le code il moncherino della suddetta quinta coda, per mostrarglielo. L’espressione furiosa di Milù si trasformò in un sorriso da psicopatica. «Una mi è stata tagliata, come puoi vedere. Ma non preoccuparti, i responsabili sono stati puniti a dovere. Occhio per occhio, come si usa dire. E nonostante per una kitsune sia inaccettabile perdere una coda, io ho deciso di fare tesoro di questa esperienza, così da impedire che succeda ancora. Non sono affatto arrabbiata per questo.»

Tommy avrebbe voluto dire che invece sembrava arrabbiata eccome, ma decise di non parlare. Ci pensò Edward a farlo, passandogli accanto proprio in quel momento, zoppicando. «Ora mi hai proprio rotto» gracchiò, per poi sollevare i pugni. «Fai ricomparire la porta e facci uscire, o pagane le conseguenze. A te la scelta.»

Un’altra sonora risata fuoriuscì dalla gola di Milù. «Ladro, sei davvero incredibile! Quanto vorrei non doverti consegnare a Orochi e tenerti tutto per me! Ma ahimè, gli affari sono pur sempre affari, quindi temo di non poterti accontentare.»

Edward sogghignò. «Era quello che speravo di sentire.» E senza perdere altro tempo, si lanciò al combattimento.

«Edward aspetta!» gridò Stephanie, anche lei di nuovo in piedi, ma ormai era troppo tardi.

Senza Veloce come il Vento e senza la Spada del Paradiso, Edward provò a fare l’unica cosa che poteva fare, ossia sferrare un pugno. Purtroppo, non andò molto bene.

Milù lo schivò con facilità e respinse Edward con un colpo della mano, spedendolo a terra.

«Ora vi propongo io una scelta» sibilò Milù, torreggiando su Edward e voltandosi verso Stephanie e Thomas. «Vi infilate tutti e tre in una delle mie celle sul retro senza fare storie, e io non vi torcerò un capello. Non preoccupatevi, mi prenderò buona cura di voi. Avrete da mangiare e da bere quanto ne vorrete, e starete benissimo… fino a quando non verranno a comprarvi. A quel punto come verrete trattati non sarà più affar mio.»

«Non… non succederà…» rantolò Edward, rimettendosi a fatica in piedi. «Stai commettendo un errore, Milù. Tu non sai cosa vuole veramente Orochi. Se ci catturi commetterai uno sbaglio enorme.»

«Vuoi dirmi che invece tu lo sai? E allora illuminami, sono tutt’orecchie!» esclamò la kitsune, appiattendo le orecchie da volpe.

Edward strinse i pugni e abbassò la testa. Ancora una volta, sembrò entrare in conflitto con sé stesso e Tommy non ebbe nessuna idea di che cosa diamine pensare. Quando Edward diceva di conoscere il piano di Orochi, alludeva a quello che tutto loro già sapevano, ossia che voleva rovesciare gli dei? E se davvero era quello, allora perché stava dicendo a Milù che catturarli sarebbe stato un errore? Forse bluffava, magari voleva farle cambiare idea, ma non sembrava per niente che bluffasse. Sembrava sincero. Sembrava davvero che conoscesse qualcosa che loro non conoscevano.

Quando Edward si decise a schiudere le labbra, una potente forza invisibile scaraventò lui, Stephanie ed Edward contro le pareti della stanza, facendoli gridare di dolore. Stephanie sbatté contro la vetrina del negozio, per poi crollare a terra senza più muoversi, mentre Tommy finì contro una gabbia, battendo una craniata sulle sbarre. Non vide la fine che fece Edward, ma non poteva essere migliore della loro.

«Se pensi che mi farò distrarre da te, ti sbagli di grosso, ladro» gongolò Milù, avanzando verso di loro. 

Gli animali nelle gabbie ricominciarono a fare rumore dopo quel frastuono, ma la kitsune si assicurò di zittirli tutti con uno sguardo. Dopodiché, si avvicinò a Stephanie. Si chinò su di lei e l’afferrò per il mento. «Hai rovinato il mio piano, mocciosa. E hai anche rotto le mie tazze. Me la pagherai.» La afferrò per il collo e la sollevò da terra come se fosse stata un pupazzetto. Stephanie gemette e cercò di allentare la presa dalla sua gola, ma non riuscì a fare nulla. Milù ridacchiò, poi la sbatté di nuovo contro la vetrina, strappandole un altro grido.

«Perché dovete sempre opporvi?» si lamentò la kitsune, aumentando la presa fino a quando la figlia di Demetra non smise di dimenarsi. La ragazza accasciò la testa e Thomas temette il peggio. Cercò di rialzarsi per aiutarla, ma qualcosa fu più veloce di lui.

Un fascio di luce bianca si abbatté su Milù. Un attimo prima di essere colpita, però, la kitsune mollò la presa su Stephanie e si voltò, parando il colpo formando una X con le sue braccia.

Sorpreso, Tommy si voltò verso il punto da cui era provenuto, notando Edward, a malapena in piedi, con la Spada del Paradiso stretta in una mano. «Non… toccarla…» rantolò, poco prima che il suo sguardo si incendiasse. «MAI PIÙ!»

Con un urlo così forte da riaccendere gli spiriti degli animali nelle gabbie, il ragazzo si gettò contro la kitsune, che lo attese con un sorriso divertito.

Edward non perse un secondo e cercò di affettarla, ma la donna schivò anche quel colpo. «Finalmente ti sei deciso a usarla!» esclamò soddisfatta. «Vediamo se ora riuscirai a tenermi testa!»

«STA’ ZITTA!»

Il figlio di Apollo si lanciò in una lunga serie di sferzate e affondi, ma nessuno di questi riuscì a connettere sul mostro.

«Troppo lento, semidio, troppo lento!» lo canzonò la donna. «Avere quella spada non serve a niente se non si sa come brandirla!»

«HO DETTO STA’ ZITTA!»

I due continuarono la loro colluttazione. Tommy avrebbe tanto voluto aiutare l’amico, ma se nemmeno lui riusciva a colpirla o ferirla con la Spada del Paradiso, allora non c’era niente che lui avrebbe potuto fare. Non al momento, almeno. Strisciò verso di Stephanie, sperando di riuscire ad aiutarla. Forse, tutti e tre insieme, avrebbero avuto una possibilità. La ragazza giaceva supina quando la raggiunse. Con sollievo, Tommy realizzò che respirava ancora. Ebbe una sensazione di déjà-vu. 

Mentre cercava di svegliare Stephanie con un pezzetto di ambrosia, cominciò a sentirsi osservato. Drizzò la testa, temendo che Milù l’avesse notato, ma la kitsune era ancora indaffarata con Edward, e per l’amico le cose non si stavano mettendo bene. La donna rispondeva agli attacchi di Edward con folate di energia che si era materializzata nelle sue mani, deviando, schivando e anche restituendo i colpi, che la maggior parte delle volte riuscivano a connettere sul figlio di Apollo. Di quel passo, non sarebbe resistito ancora a lungo.

Tommy si affrettò e riuscì a mettere l’ambrosia in bocca a Stephanie, senza, tuttavia, ottenere risultati immediati. Nel frattempo, continuò a sentirsi osservato. Credendo di star impazzendo, drizzò la testa e osservò dritto di fronte a sé, scorgendo una gabbia con dentro tre bizzarri animali. Ed erano proprio loro a fissarlo.

Malgrado non ci fosse alcun istante da perdere, Thomas rimase confuso dal loro aspetto. Erano tre roditori, forse delle donnole, ma come altri degli animali nelle gabbie erano un po’ più grandi delle loro controparti tradizionali. Guardavano con insistenza il ragazzo, sembrando quasi divertite da quella vista.

Quella al centro aveva il manto bianco, ed era di grandezza media, la seconda aveva il pelo beige ed era la più grande delle tre, mentre l’ultima, la più piccola, l’aveva grigio. Tutte e tre avevano delle cicatrici sul volto, la più piccola e la più grande erano cieche da un occhio, e tutte e tre, su tutte e quattro le zampe, avevano tracce di sangue rinsecchito.

Malgrado le loro terribili condizioni, c’era uno strano luccichio nei loro occhi, qualcosa che Tommy aveva già visto nei suoi stessi fratelli alla casa Undici. Si ricordò che le donnole erano considerati animali maliziosi, astuti, disonesti… proprio come i figli di Ermes. La donnola bianca allungò la zampa insanguinata verso di lui, e il ragazzo realizzò che era senza artigli. Forse era quella la causa del sangue secco. La donnola indicò poi la serratura della loro gabbia, come un umano avrebbe fatto, non come un animale.

Il ragazzo schiuse le labbra. Credeva di non vederci bene, eppure i suoi occhi non lo stavano ingannando: quella donnola gli stava indicando di aprire il lucchetto. Ed effettivamente, lui avrebbe davvero potuto aprire quella gabbia, con il passe-partout di Ermes. Era solo una coincidenza il fatto che quell’animale gli stesse chiedendo aiuto? O forse… anche loro avevano notato le loro similitudini? Avevano visto in lui uno spirito affino, qualcuno di cui potersi fidare? Ma anche se fosse stato così, perché avrebbe dovuto liberarle?

La donnola sembrò leggergli nel pensiero, perché, sempre con quell’aria divertita, puntò la zampa verso Edward e Milù, ricordando Tommy le condizioni precarie del suo amico. La kitsune non si accorse di lui, ancora troppo presa dal combattimento. Poi, Tommy si ricordò della quinta coda di Milù, quella che era stata tagliata, e sgranò gli occhi. Si voltò verso la donnola, che ancora una volta sembrò leggergli nel pensiero, perché annuì. A quel punto, gli tornarono in mente le parole di Milù. Occhio per occhio aveva detto. E due di quelle donnole erano cieche da un occhio, oltre a essere tutte senza artigli.

Credendo di essere lungo la strada per la follia, il ragazzo si dimenticò dell’amica e si fiondò contro le sbarre del cubicolo, estraendo il passe-partout dalla tasca della giacca. Lo infilò nella serratura, sperando che la magia della gabbia non intralciasse quella della chiave. Non appena sentì un click, tuttavia, non seppe se considerare la cosa una vittoria oppure no. Quando la porta della gabbia si aprì le tre donnole schizzarono fuori, generando uno spostamento d’aria tale da farlo cadere a terra. Tommy trattenne all’ultimo un grido di sorpresa e sollevò le mani come riflesso incondizionato. La donnola bianca balzò su di lui, mettendosi all’altezza dei suoi occhi e lo scrutò incuriosita con i suoi occhietti azzurri. Tommy deglutì, non sapendo bene come comportarsi, e si accorse delle altre due donnole intente a rovistare nel suo zainetto, caduto in un altro angolo della stanza quando Milù lo aveva sbalzato via.

Avrebbe voluto protestare, ma quando vide i due animali tirare fuori dei coltelli di bronzo celeste che nemmeno ricordava di avere, le parole gli morirono in gola. Nessuno, nessuno, al di fuori dei figli di Ermes poteva usare quello zainetto, perché per loro sarebbe stato come utilizzare uno zaino vuoto. Eppure loro, tre donnole, c’erano riuscite.

La donnola bianca saltò giù dal suo petto e raggiunse le altre due, che già si erano armate a dovere, impugnando i coltelli tra le zampe prive di artigli. Thomas spalancò la bocca oltre il limite consentito, credendo di essere intrappolato in un’allucinazione creata proprio da Milù, ma quando la suddetta riuscì a scaraventare Edward a terra, con una risata, capì che in realtà non c’era nessuna allucinazione.

«Spiacente semidio, ma nemmeno Ama No Murakumo può aiutarti contro un avversario come me. Sei ancora troppo debole e troppo inesperto per maneggiare quella spada. Non fai altro che lanciarti alla cieca, sperando di colpire qualcosa. Non è così che si combatte. Temo proprio che…» 

La kitsune si interruppe di scatto quando si accorse di Tommy e le tre donnole. «Ma… ma che cosa…» domandò, sgranando gli occhi incredula. 

Sembrò dimenticarsi del tutto dei semidei. Non aveva occhi che per le donnole, le quali, erette sulle zampe posteriori, cominciarono a far volteggiare i coltelli in aria. I loro sguardi si incrociarono e l’aria si caricò di elettricità. Le dita di Milù formicolarono, uno dei suoi occhi tremolò, mentre dalla sua gola usciva rantolio che in alcun modo poteva essere catalogabile come parola: «Voi…»

La donnola con il manto beige piegò il capo, sgranchendosi il collo, mentre quella piccola si piegò, pronta ad attaccare. Quella di mezzo si voltò ancora una volta verso di Tommy e gli rivolse un inchino, gesto che il ragazzo non riuscì a comprendere, poi si lanciò all’attacco verso Milù per prima, venendo subito seguita dalle altre due.

Ciò che successe dopo, fu qualcosa che Thomas si ripromise di raccontare ai propri nipoti, se mai ne avesse avuti.

La kitsune urlò con quanto fiato aveva in gola, puntando le mani verso di loro, ma quelle tre erano molto più veloci di lei. Erano perfino più veloci di Edward quando brandiva la Spada del Paradiso, così veloci da generare correnti d’aria che sospinsero i capelli di Tommy. Era perfino difficile riuscire a vederle. Edward, in ginocchio, senza più alcuna traccia della spada tra le mani, osservò incredulo tanto quanto Thomas ciò che stava succedendo.

Le tre donnole attaccavano Milù da ogni direzione, sorprendendola con attacchi mordi e fuggi, infliggendo su di lei sempre più tagli e ferite.

«NO!» urlò, quando una di loro, Tommy non aveva idea di quale fosse, riuscì a sfregiarle il viso. «SMETTETELA!»

Ogni tanto Milù riusciva a colpirne una con i suoi attacchi di energia, ma mai abbastanza forte da metterle fuori combattimento. La donnola grigia venne colpita così forte da sbattere contro una gabbia, emettendo un suono terribile, ma si rialzò quasi subito per poi svanire dalla vista dell’occhio umano in mezzo a un’altra corrente d’aria, regalando un istante dopo una ferita sullo stinco alla kitsune. Era palese che il tempo trascorso in prigionia non aveva fatto altro che rafforzare lo spirito dei tre animali, piuttosto che fiaccarlo. Chissà da quanto tempo aspettavano il momento di rimettere le zampe addosso a colei che aveva strappato loro artigli e occhi.

Osservando la scena, gli animali diedero ancora più di matto, al punto che perfino Stephanie si svegliò con un mugugno. 

«Steph!» esclamò Tommy, soccorrendola. Mentre la ragazza si rimetteva in sesto, Edward li raggiunse, allontanandosi saggiamente dallo scontro tra gli yōkai – ormai non c’erano più dubbi sul fatto che le donnole lo fossero.

«Ma… che le prende?» domandò Stephanie, osservando la kitsune ormai ricoperta di tagli grondanti di sangue, intenta a sferzare l’aria come una forsennata quasi come se stesse combattendo un nemico invisibile, che poi non era poi così diverso dalla realtà.

«Ehm… è un po’ difficile da spiegare…» mormorò Tommy, sempre più convinto di stare assistendo al più grande spettacolo di tutti i tempi.

«Konoyarou!» urlò Milù, allargando le braccia e generando un’altra ondata di energia così forte da spedire di nuovo tutti i presenti a terra, donnole comprese.

La donna-volpe cadde in ginocchio, ansimando e tossendo. Quell’attacco doveva esserle costato molte energie. Di fronte a lei, la donnola beige e quella grigia erano a terra, disarmate. Milù drizzò la testa e si rialzò, emettendo un verso gutturale che ormai di umano aveva ben poco. Aprì le mani e delle fiamme si sprigionarono dai palmi, poi le puntò verso di loro. «Ho commesso… un errore… a lasciarvi vive. Avrei dovuto sapere che tre come voi non sarebbero mai state acquistate. Ma non sono arrabbiata. Farò tesoro di questa… esperienza. E adesso… BRUCIATE!»

Milù sollevò le mani, pronta a colpire, e le donnole rimasero a terra inermi.

«NO!» gridò Tommy. Tuttavia, non passò molto prima che realizzasse qualcosa di molto importante, qualcosa che a Milù era sfuggito.

Un attimo prima che la kitsune potesse colpire, qualcosa si mosse da sotto il suo kimono, all’altezza del petto. La donna sgranò gli occhi e le fiamme nelle sue mani si spensero.

La donnola bianca sbucò fuori dal kimono, stringendo nella bocca uno strano ciondolo formato da una perla gialla, e osservò Milù, la quale si pietrificò. «N-No…» sussurrò.

La bestiolina, per tutta risposta, annuì e saltò fuori dall’indumento per poi svanire in un’altra corrente d’aria assieme al ciondolo e alle sue amiche.

«NOOOO!!!» gridò Milù, cercando di inseguirle, anche se c’era davvero ben poco da inseguire. La donna provò a sferzare l’aria e a lanciare palle di fuoco a caso, ma queste non fecero altro che abbattersi contro le gabbie e contro il muro. Tommy sperò che nessun animale fosse stato colpito.

La follia della donna continuò ancora per qualche istante, fino a quando non sembrò ricordarsi di loro tre. Li osservò con espressione straziata, un misto di rabbia, dolore, tristezza e paura. Sembrava un animale messo all’angolo, ora più che mai. Il genere di animale più pericoloso. Poi emise un altro grido disumano e corse verso di loro.

«È TUTTA COLPA VOSTRA!»

La vista dello yōkai insanguinato e furibondo che correva verso di loro paralizzò Tommy. Lui e Stephanie gridarono spaventati, ma Edward li salvò: si frappose tra loro e la donna e le sferrò un pugno dritto sul muso. Milù ruzzolò a terra con un altro grido. Edward la osservò sorpreso, probabilmente più stupito dal fatto di essere riuscito a colpirla che altro, e poi agitò la mano con una smorfia di dolore. «Dannazione, quanto è dura…» si lamentò, mentre Milù, ormai lo spettro della sé stessa di pochi minuti prima, cercava ancora disperata di rimettersi in piedi.

«N-No…» mormorò, singhiozzando. «N-Non… non voglio… morire…»

Di fronte a lei apparvero di nuovo le tre donnole, con quella bianca che ancora stringeva il ciondolo.

Milù la osservò implorante. «T-Ti prego…» Allungò la mano verso la perla e per un momento la donnola bianca gliela porse. Un sorriso di trionfo apparve sul viso della kitsune quando riuscì quasi a sfiorarla con un dito, ma il roditore la tirò indietro all’ultimo istante, lasciandola con un pugno di mosche.

«NO! NO!! DAMMELA! DAMMELA!!!!» ululò Milù, strisciando verso di lei, ma non riuscendo mai a raggiungerla. «MALEDETTA! MALEDETTA!! TI UCCIDERÒ! VI UCCIDERÒ TUTTI!!! VI UCCID… ero… tutt…»

Non finì la frase. Milù accasciò la testa e il braccio al suolo, e rimase immobile. L’unica cosa che Tommy riuscì a fare mentre la guardava sbriciolarsi poco per volta sul pavimento, fu domandarsi che cosa diavolo fosse successo.

«State… state bene?» domandò Edward, dopo alcuni attimi di silenzio.

«S-Sì…» mormorò Stephanie, ancora scossa.

«Ma... che è successo?» chiese invece Tommy. «Perché… perché è morta?»

«Perché le hanno strappato l’anima» disse una quarta voce, che fece sobbalzare i tre ragazzi e, anche se Tommy avrebbe passato il resto della vita a negarlo, fargli emettere un grido non molto mascolino.

Edward cominciò a guardarsi attorno, alla ricerca di eventuali pericoli. «C-Chi ha parlato?!»

«Qui sotto.»

Il figlio di Apollo smise di guardarsi attorno, dopodiché abbasso lo sguardo, verso le donnole, che dal canto loro scossero la testa e indicarono un’altra gabbia. Chiunque stesse parlando, sembrò approvare. «Esatto, da questa parte.»

Lo sguardo di Tommy scivolò lungo le gabbie finché non si fermò su quella indicata, all’interno della quale il grosso gatto nero aveva appena finito di stiracchiarsi e sbadigliare. «Salve, giovani semidei» salutò loro, mettendosi seduto. «Grazie per esservi sbarazzati di Milù.»

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Capitolo 19
*** Fiducia ***


 

19

Fiducia

 

 

«Q-Quel gatto…» mormorò Stephanie, cadendo a sedere sconvolta. «Q-Quel gatto ha parlato?!»

«“Quel gatto ha parlato?» ripeté il felino in falsetto, leccandosi una zampa. «Come se questa fosse la cosa più strana che voi semidei abbiate mai visto…»

Tommy era troppo sconvolto per dirgli che sì, era una delle cose più strane che avesse mai visto.

Il gatto mi ha mangiato la lingua, pensò. Ecco, ora doveva anche resistere all’impulso di darsi un pugno da solo.

«Digli di liberare anche noi!» esclamò qualcun altro. Thomas si voltò, questa volta verso la teca con dentro il serpente grassoccio, che fece vibrare la lingua tra i denti appuntiti. «Voglio andarmene da qui!»

All’improvviso, il gatto parlante non era più la cosa più strana che Tommy avesse mai visto.

«O-Ok…» proseguì Stephanie, questa volta inorridita. «Ora… ora gradirei delle spiegazioni…»

«Sono degli yōkai» mugugnò Edward. «Come Milù.»

«Esattamente» concordò il gatto. «Io sono un bakeneko, gatto mutaforma, e il mio nome è Shinjiro. Lui invece è Chono, uno tsuchinoko, un serpente parlante.»

Mentre il gatto parlava, la donnola bianca saltò sulla spalla di Tommy, facendolo sussultare per la sorpresa, mentre le altre due si misero ai suoi piedi. 

«Loro tre, invece…» proseguì Shinjiro. «Sono tre kamaitachi, Nagata e Sato, quella marrone e quella grigia, e Kensuke, quella sulla tua spalla.»

Sentendo il proprio nome, la donnola bianca fece un inchino.

«Molto strano che abbiano deciso di aiutarvi» commentò il bakeneko, accucciandosi di nuovo a terra. «Dev’essere perché hanno notato tra di voi uno spirito affino.»

Stephanie ed Edward si voltarono verso di Tommy, che rimase senza parole. «Ehm…» borbottò, mentre Kensuke si arrampicava sulla sua testa e gli annusava i capelli senza troppi complimenti.

«Sì, decisamente è così» osservò Shinjiro, mostrando i denti affilati in quello che doveva essere un sorriso divertito.

«Che cos’è successo tra loro e Milù?» domandò Thomas, mentre Kensuke continuava a zampettargli tra i capelli.

«Milù ha provato a catturarle per aggiungerle alla sua collezione, e la cosa ha portato al combattimento in cui loro le hanno tagliato la coda. Come ci si potrebbe aspettare, lei non l’ha presa molto bene. Le ha imprigionate, sfamandole appena e strappandogli gli artigli uno ad uno.»

Malgrado Tommy avesse già immaginato che quello fosse il motivo, saperlo gli fece ribollire il sangue nelle vene. Si sentiva in debito con loro, e avrebbe voluto riuscire a restituire il favore, in qualche modo. Anche se forse quel favore gliel’aveva già fatto liberandole.

«Oh, io non sarei così dispiaciuto per loro, se fossi in te» disse il gatto, intuendo il suo stato d'animo. «Le kamaitachi sono tra le creature più spietate e sadiche che esistano. Per tua fortuna gli sei simpatico, altrimenti avrebbero affettato te e i tuoi amici nel momento esatto in cui le hai liberate.»

Tommy schiuse le labbra e osservò Nagata e Sato, le quali replicarono con un’alzata di spalle.

«La smettete di blaterare?! Fateci uscire!» protestò Chono, dimenandosi dietro la teca della sua gabbia.

Edward osservò assorto il serpente per alcuni istanti, poi tornò a rivolgersi al felino. «Non sei stato molto chiaro, prima. Hai detto che le kamaitachi hanno strappato l’anima di Milù. Cosa vuol dire? E… che cos'era Milù?»

«Milù era una kitsune, uno degli yōkai più potenti, con sembianze di volpe che però può anche trasformarsi in un essere umano» spiegò Shinjiro. «Ma non è solo quello il loro potere. Possono creare illusioni di qualsiasi genere, così reali da farti credere che siano vere, e hanno molti altri poteri come telecinesi, pirocinesi e invulnerabilità. Non hanno alcun punto debole, a parte uno: la loro anima è racchiusa dentro una sfera, che può prendere le sembianze di gioielli e perle, in questo caso la collana che Milù aveva al collo. Separando l’anima dal corpo per abbastanza tempo, la kitsune muore. Ed è questo quello che le è successo.»

«Capisco…» Edward strinse i pugni, facendo un verso di sdegno. «Se solo l’avessi saputo prima…»

Il felino emise uno strano suono, che forse doveva essere una risata. «Che cosa avresti fatto, semidio? Nemmeno con la Spada del Paradiso sei riuscito a scalfire Milù. Certo, una volpe a cinque code non è un avversario semplice, ma se è davvero Orochi il tuo nemico, allora posso dirti già adesso che non hai speranze. Siamo sicuri che sei davvero tu il famoso ladro di cui tanto ho sentito parlare? Devo dire che sei stato una discreta delusione.»

«Cos’è, prima ci ringrazi per esserci sbarazzati di Milù e poi ti prendi gioco di me?» sbottò il figlio di Apollo, adirandosi.

«Mh, sì, hai ragione. Forse avrei dovuto ringraziare solo il tuo amico per aver liberato le kamaitachi» ribatté il felino. Se voleva stuzzicare il ragazzo, ci stava riuscendo in pieno. Ma prima che Edward potesse replicare, Kensuke fece uno strano squittio, probabilmente il proprio verso, e Shinjiro ridacchiò di nuovo. «Hai proprio ragione.»

«Cosa?» Edward squadrò la donnola. «Che ha detto?»

«Meglio evitare la traduzione letterale…» borbottò Shinjiro, facendo rabbuiare ancora di più Edward. «… comunque, ha detto che non sei riuscito a vedere attraverso l’inganno di Milù.» Shinjiro tirò fuori un artiglio dalla zampa, per poi esaminarselo. «Non proprio una cosa degna di uno che spera di essere un grande eroe.»

Edward lanciò un’occhiataccia a Kensuke, che però non parve affatto preoccupato. Giustamente, tra l’altro. Edward non avrebbe dovuto guardare in quel modo il loro salvatore. Soprattutto non dopo la festa che aveva fatto a Milù. Kensuke, Sato e Nagata avrebbero potuto farli a pezzi in un battito di ciglia.

«Non ho mai detto di voler essere un eroe» borbottò il ragazzo, tornando a osservare il felino. «Voglio solo liberarmi di questa maledetta spada. Il resto non conta.»

Il gatto piegò la testa. «Beh… questo spiega molte cose.»

«I-Inganno?» domandò Stephanie titubante, intromettendosi. «Quale inganno?»

«Lo sai di cosa parlo, mia cara. Milù stava solo fingendo di esservi cordiale. Vi stava ingannando, ma per vostra fortuna le persone oneste possono vedere attraverso la natura subdola della kitsune. Per questo motivo sei riuscita a scoprirla. Non è stato per via del thè.» Shinjiro lanciò un’altra occhiatina a Edward. «Sembra però che tu abbia avuto qualche problemino…»

Stephanie e Tommy osservarono il compagno, confusi. Il figlio di Apollo si incupì ancora di più. «Che… che cosa vorresti dire?»

«Oh, non saprei… che cosa vorrei dire, secondo te?»

Le dita delle mani di Edward formicolarono. Tommy ripensò a poco prima, a cosa l’amico avesse detto a Milù. Edward… stava davvero nascondendo qualcosa?

«Forse… forse si riferisce a quando ci hai tenuto nascosto il tuo passato…» suggerì Stephanie, anche se non sembrava molto convinta. Oltretutto non funzionava molto come ragionamento, perché Edward non era certo stato l’unico ad essere restio sul condividere la propria infanzia. Ma il ragazzo sembrò essere d’accordo, perché annuì. «Può darsi. In ogni caso, qui abbiamo finito. Andiamocene prima che…»

«Ehi, voi tre!» protestò ancora Chono, distraendoli. «Mi liberate o no?!»

«Sì, sì!» esclamò Tommy, esasperato. «Ora ti libero, basta che chiudi la bocca!»

«Io non lo farei se fossi in te» lo fermò Shinjiro, mentre apriva da solo la porta della sua gabbia e usciva con uno sbadiglio. I ragazzi lo osservarono esterrefatti, ma lui non sembrò dare loro alcun peso. «Fallo uscire, e quello correrà da Orochi per spifferargli tutto. Gli tsuchinoko non sono famosi per la loro affidabilità.»

«Non è vero, non lo farei mai! Certo, a meno che Orochi non mi offra un po’ di buon sakè, allora in quel caso potrei anche…»

«As… aspetta, potevi uscire da lì fin dall’inizio?!» domandò Stephanie al gatto, ignorando bellamente il serpente.

«Certo. La magia delle kitsune non è molto diversa da quella di noi bakeneko.»

«E perché non l’hai fatto prima? Anzi, perché non ci hai aiutati?!»

Shinjiro piegò il capo, come se quella domanda lo confondesse per davvero. «E perché avrei dovuto?» 

Si alzò sulle zampe posteriori e il suo aspetto cominciò a mutare, come quello di Milù quando aveva mostrato la sua vera natura. Ma questa volta accadde l’opposto. Dalla forma animale, il bakeneko passò a quella umana. La figura si ingrandì, le zampe posteriori si allungarono, la schiena si distese e il pelo si ritirò, scoprendo chiazze di pelle che man mano andavano ricoprirsi con dei vestiti. Tommy osservò la scena a bocca aperta.

A trasformazione conclusa, il gatto diventò un uomo con capelli corti, neri e ordinati, un filo di barba del medesimo colore sulle guance e occhi verdi e penetranti come smeraldi. Il suo vestito era un completo a tre pezzi, pantaloni e giacca neri con una cravatta rossa e una camicia bianca. Era elegante e di bella presenza, ma con uno sguardo freddo e stoico, di fatto non discostandosi molto rispetto a quando era un felino. 

«Dopotutto, noi gatti viviamo a lungo proprio perché ci facciamo gli affari nostri, no?» disse ancora, mentre dava loro le spalle e si avvicinava al bancone del negozio.

«Comunque, ho sentito cosa avete detto a Milù, prima della sua sgradevole trasformazione.» Shinjiro aprì il registratore di cassa ed estrasse una manciata di banconote mortali. «Questi credo che fossero suoi. Di tanto in tanto faceva affari anche coi i mortali. Non penso che questi soldi le serviranno ancora. Sono cinquecento dollari. Prendeteli pure» e porse la mazzetta ad Edward, che prima di accettare la osservò con scetticismo. 

L’uomo sogghignò, e Tommy constatò che i canini affilati non erano affatto spariti. «Qualche problema?»

«Non saprei…» borbottò Edward. «Hai appena detto che non volevi aiutarci, e ora ci stai dando quello che volevamo. Dov’è la fregatura?»

Shinjiro ridacchiò. «Mi piace come ragioni. Nessuna fregatura, comunque… a parte il fatto che prenderò io possesso del negozio. Non che la cosa vi riguardi.»

«Aspetta, cosa?!» esclamò Stephanie, facendo un passo avanti. «Vuoi dire che non intendi liberare questi animali?!»

«COSA?!» urlò Chono. «TRADITORE! MALEDETTO TRADITORE!»

«Che volete che vi dica, è un mondo difficile, questo. Posso assicurarvi, comunque, che gli animali staranno meglio qui con me, rispetto che li fuori. In ogni caso, ripeto che non sono affari vostri. Avete avuto quello che volevate, ora sparite. Non vorrete mica combattere anche con me…» Shinjiro aprì il palmo della mano, che iniziò a brillare di una luce violacea. Osservò loro con i suoi occhi penetranti. «… vero?»

Edward serrò la mascella. Sembrava volesse fermarlo, ma lo scontro con Milù lo aveva conciato piuttosto male, e nemmeno Stephanie sembrava in forma. Inoltre, il bakeneko aveva detto di non essere molto diverso dalla kitsune, e se questo voleva dire che erano simili anche in quanto a forza, allora c’era poco che loro tre potessero fare. Forse le kamaitachi avrebbero potuto aiutarli, ma nessuna di loro sembrava interessata alla faccenda. Dopotutto, era con Milù la loro disputa, non con Shinjiro.

«Sbaglio, o eravate un po’ di fretta?» Shinjiro indicò l’orologio appeso sul muro dietro al bancone. Non appena i ragazzi si accorsero di essere lì dentro da più di un’ora, sussultarono. Il bakeneko sorrise nuovamente. «Si sta facendo tardi, come potete vedere. Non vorrete rimanere qui tutto il giorno, giusto? Il treno vi aspetta.»

I tre semidei si guardarono tra loro. Stephanie avrebbe voluto fare qualcosa per quegli animali, era evidente, ed Edward… beh, lui sembrava solo desideroso di potersi sfogare su qualcosa, su Shinjiro in particolare. Ma purtroppo, il bakeneko aveva ragione. Avevano avuto quello cercavano, non c’era altro che potessero fare in quel luogo. Tommy si sentì un codardo, ma era più forte di lui. La kitsune, il bakeneko… erano avversari ben oltre la loro portata. E anche Edward sembrò arrivare alla stessa conclusione, perché rivolse un’ultima occhiata carica di odio allo yōkai.

«Non finisce qui» rantolò, stringendo con forza le banconote nella sua mano.

«Io invece credo proprio che sia appena finita, caro il mio ladro bugiardo. Ma comunque, potrete tornare a trovarmi, in futuro. Se sopravvivrete.» Fu con un ultimo sorriso provocatorio che Shinjiro li salutò. 

Un istante più tardi, il gruppo si ritrovò catapultato fuori dal negozio, sul marciapiede, kamaitachi comprese. I tre animaletti precipitarono addosso a Tommy, e per fortuna erano senza artigli, altrimenti avrebbero trasformato la sua faccia in un mosaico di tagli. Si alzò a sedere, massaggiandosi la schiena dolorante. Si augurò di non essere più scaraventato in giro contro il proprio volere, quel giorno, altrimenti avrebbe anche potuto arrabbiarsi. Si rimise in piedi, afferrando lo zainetto che gli era stato lanciato accanto.

Edward aiutò Stephanie a tirarsi su, osservando il banco di pegni di Milù, che ora per qualche bizzarra coincidenza si chiamava “Banco dei pegni di Shinji”. 

«Maledetto» ringhiò, mentre il gatto mutaforma li salutava con un cenno della mano da dietro la vetrina. Dopodiché abbassò le saracinesche, che scesero a coprire la facciata del negozio, mentre il cartello con scritto “Aperto” sulla porta si girava dall’altra parte.

Alcuni pedoni di passaggio lanciarono diverse occhiate perplesse ai tre ragazzi, e fu quello ciò che permise al trio di ridestarsi del tutto. Non potevano rimanere lì, non con tutta quella gente attorno, e soprattutto non con Lisa e Konnor che, ignari di tutto, li stavano ancora aspettando alla stazione. Avevano un treno da prendere, e avrebbero fatto meglio a sparire dalla scena prima che qualcuno chiamasse la polizia. Con i suoi lividi e la cicatrice, Edward non aveva un aspetto molto rassicurante, e Tommy… beh, lui aveva tre animali selvatici aggrappati ai vestiti. Non era certo un bel vedere.

Le tre donnole scesero a terra. Per un momento, Tommy pensò che sarebbero rimaste con loro, e a lui la cosa non sarebbe affatto dispiaciuta, nonostante l’indole sadica di cui Shinjiro aveva parlato. Invece, Kensuke rivolse un altro inchino al ragazzo, il quale, incerto sul da farsi, decise di ricambiare goffamente, ottenendo altre occhiate stralunate dai passanti. Più rosso dei propri capelli, biascicò: «G-Grazie per averci aiutato, ragazzi.»

«Sì, grazie» fece eco Stephanie, chinandosi a sua volta. «Non posso esprimere a parole quanto vi siamo debitori.»

Edward annuì, ma non disse nulla.

Kensuke piegò il capo e strizzò loro l’occhio, facendo di nuovo il suo verso, forse il suo modo di dire: «Non c’è di che.»

Un istante più tardi, tutte e tre le donnole erano scomparse in una folata d’aria. Alcuni passanti fecero dei versi sorpresi, stringendosi nei cappotti o afferrandosi i cappelli prima che volassero via. Thomas rimase a bocca aperta per lo stupore. Non si sarebbe mai abituato alla loro velocità. E, in cuor suo, si augurò di incontrarle di nuovo, un giorno.

Mentre si allontanavano, il peso dell’umiliazione continuò a schiacciare i tre ragazzi. Certo, erano ancora vivi, e avevano i soldi, ma avevano perso su tutti i fronti. Milù li aveva fatti a pezzi, e poi Shinjiro aveva rincarato la dose. Se non fosse stato per Kensuke e i suoi compagni… Tommy non voleva pensarci.

Edward non disse più una parola per tutto il resto del viaggio fino alla stazione. Osservandolo chiuso nel suo silenzio, Tommy ripensò a quello che Shinjiro aveva detto, ma non trovò il coraggio di farne parola con il figlio di Apollo o con Steph. Si limitò soltanto a rivolgere una domanda muta alla figlia di Demetra, la quale annuì. Dal suo sguardo, intuì che la ragazza ne avrebbe parlato con Edward in futuro.

Una volta tornati alla stazione, Konnor non ci mise molto a notare i loro aspetti trasandati, ma qualunque domanda avrebbe voluto fare venne stroncata sul nascere quando Stephanie scosse con forza la testa. Lisa, dal canto suo, rimase in disparte senza dire una parola. Sia lei che il figlio di Ares sembrarono sollevati di rivederli, ma forse era solo perché così almeno non erano più costretti a rimanere da soli. Se non altro, sembravano entrambi stare bene, e soprattutto nessuno li aveva riconosciuti.

Si divisero in due gruppetti sia per prendere i biglietti che per salire sul treno, e questa volta Thomas rimase con Edward. Quando il ragazzo si sedette sul divanetto della loro cabina, si rese conto di essere ancora più esausto di quello che aveva creduto.

Guardò fuori dal finestrino mentre il treno ripartiva e si allontanava dalla Union Station. Non erano rimasti molto a lungo a Kansas City, forse solo un paio di ore, ma era lieto di riprendere il viaggio così presto. Tre giorni di treno si preannunciavano una sfida difficile, ma almeno avrebbero potuto riposarsi e prepararsi meglio per qualunque sfida li attendesse a San Francisco.

Edward si addormentò senza dire una parola. Tommy non sapeva più cosa pensare di lui. Forse Stephanie aveva ragione, forse Edward nascondeva qualcosa del proprio passato, ma rimuginarci sopra in quel momento non aveva senso. Il viaggio sarebbe stato lungo, ci sarebbe stato tempo per ritornare sull’argomento. Thomas chiuse gli occhi, prendendo esempio dall’amico, e lasciò che il sonno lo raggiungesse.

 

***

 

Era tarda sera, ma all’anfiteatro del Campo Mezzosangue il fuoco continuava a brillare, penetrando il buio con le sue fiamme. Un gruppo di ragazzi, malgrado l’ora e le regole sul coprifuoco, si trovava seduto sugli spalti più in basso, intenti a osservarne due che invece si trovavano in piedi. 

Tommy li riconobbe tutti quanti. Paul, Derek, Simon, Xavier, ogni capocasa del campo, con l’eccezione di Jonathan, Seth, Kevin e Sarah, si trovava radunato lì, a osservare Buck e Jane. A giudicare dalla scena, riuscì a immaginare perfettamente di quale argomento stessero discutendo.

Qualcuno scese i gradini dell’anfiteatro, raggiungendo gli altri. Gli sguardi si spostarono sul nuovo arrivato, un ragazzo alto, con i capelli lunghi e vestito come il cattivo di un film dell’orrore, con un’inquietante maschera antigas nera sopra il volto e un machete di bronzo celeste appeso alla cintura. Anziché spaventarsi, i semidei si comportarono come se fosse tutto normale. Dopotutto, quello era il marchio di Seth. Il figlio di Nemesi adottava la tattica che consisteva nell’intimorire i propri avversari durante i combattimenti, tattica che funzionava bene perfino con i mostri.

Si stravaccò sugli spalti e si sfilò la maschera. Non sembrava molto felice. «Sarà meglio che tu abbia un buon motivo per avermi convocato, Buck. Ero di ronda.» 

«Suvvia, Seth.» Buck congiunse le mani sorridendo accomodante, anche se era chiaro come perfino lui si sentisse a disagio in presenza del capocasa di Nemesi, soprattutto se quest’ultimo era di cattivo umore. «Sei rimasto sveglio a pattugliare il campo tutte le sere da quando quei cinque sono partiti, e non si è vista alcuna traccia di quei mostri. Non credo proprio che torneranno.»

Seth grugnì, ma non disse altro. 

«E anche le vostre trappole…» proseguì Buck, ora rivolgendosi a Derek, seduto poco distante. «… hanno mai beccato qualcuno?»

Derek rimase in silenzio per qualche istante, poi sospirò. «No. Nessuno.»

«E quegli strani spiriti della foresta? Dove sono finiti?»

«Sono spariti quando Stephanie e gli altri sono partiti.» Paul incrociò le braccia, osservando cupo il figlio di Ares. «Dove vuoi arrivare, Buck? Perché ci hai convocati tutti qui, di nuovo?»

Buck sorrise, un sorriso che non parve per niente sincero. «Mi sembra ovvio, no? Da quando quel figlio di Apollo se n’è andato, non è successo più nulla da queste parti. Chiaramente, è stata la sua presenza ad attirare i mostri qui. Ma ora che non c’è più, non saranno più necessari tutti i nostri sforzi per proteggere il campo.»

«I nostri?!» domandò una voce. I semidei si voltarono verso Kevin e Sarah, sopraggiunti in quel momento. Il figlio di Efesto era sporco di cenere, trucioli e grasso per motori. Aveva delle occhiaie da far spavento, e pure da sotto il cappello a visiera si notavano i capelli spettinati. «Da quanto ne so, sono io quello che ha passato giorno e notte al Bunker Nove a lavorare! Tu che diamine hai fatto, Buck, oltre che startene qui a blaterare?»

«Datti una calmata, troglodita» sbottò Jane, affiancando il capocasa di Ares. 

«Ha ragione, invece» si oppose Sarah, affiancando Kevin e posandogli una mano sulla spalla. «Ho dovuto minacciarlo per riuscire a farlo uscire dal bunker. Kevin sta lavorando come un disgraziato, e lo stesso stanno facendo gli altri. Voi due, invece, non fate altro che cercare di distrarci. Siamo davvero sicuri che siete dalla nostra parte?»

Jane ignorò la domanda, concentrandosi sulla mano della figlia di Ebe appoggiata al ragazzo. Sorrise provocatoria, indicandola. «E da quando tra voi due c’è così tanta confidenza?»

Sarah avvampò e allontanò la mano, mentre Kevin sogghignò. «Cerchi di cambiare argomento, gallina?»

La figlia di Afrodite squittì indignata, mentre Buck fece scrocchiare le nocche. «Rimangiatelo subito, o ti gonfio come un pallone.»

«Sono terrorizzato» replicò il capocasa di Efesto. Sembrava davvero pronto a fare a botte, e con tutta probabilità sarebbe successo se Simon non fosse intervenuto. 

Il capocasa di Atena si alzò in piedi, schiarendosi con forza la gola, intanto che Sarah cercava di trattenere Kevin dallo scatenare un putiferio. «Vogliamo rimanere qui a litigare tutta la notte, e credetemi, visto l’andazzo delle cose non sarebbe difficile come eventualità, oppure ci sbrighiamo con questa buffonata? Ho di meglio da fare che starmene qui a perdere tempo con voialtri.» 

Alyssa posò la sua monetina e fece schioccare la lingua. «Ma guarda, il figlio di Atena che osserva gli altri dall’alto verso il basso. Questa sì che mi è nuova…»

Prima che Simon potesse rispondere alla capocasa di Tyche, Buck riprese la parola, alzando la voce: «Quello che cerco di dire è che difendere il Campo Mezzosangue non serve più a nulla. Non ha alcun senso piazzare trappole, pattugliare i confini o costruire sistemi di allarme. Quello che ci serve adesso è prepararci per la guerra.»

Ogni traccia di ostilità presente nell’aria cessò di esistere in un istante al suono di quelle parole. Ora gli sguardi rivolti a Buck, da diffidenti o rabbiosi, si tramutarono tutti in stupore. 

«Come scusa?» domandò Simon, sollevando un sopracciglio. 

«La guerra?» fece eco George, riprendendosi proprio in quel momento da una pennichella.

Buck sorrise e annuì soddisfatto, come se avesse appena detto che dovevano prepararsi per un picnic. «Sì, la guerra tra gli dei che sta per arrivare. Ormai non ci rimane molto tempo.»

I capicasa si scambiarono degli sguardi confusi. 

«Cosa vorresti insinuare?» domandò Derek.

«Mi sembra ovvio. Quei cinque non riusciranno mai a riportare la spada, o quello che è, a San Francisco. Hanno perso l’aereo e la polizia li sta inseguendo. Ora sono chissà dove a fare chissà cosa, ammesso e concesso che siano addirittura ancora vivi. Non possiamo più contare su di loro. Quello che occorre, adesso, è assistere i nostri genitori nella guerra contro gli dei orientali.»

Di nuovo, sguardi stupidi passarono tra un semidio all’altro. Le parole di Buck sembravano sempre più irreali. L’unica persona che sembrava essere d’accordo con lui era Jane, che stava annuendo soddisfatta.

«Aspetta, fammi capire bene» disse ancora Simon, massaggiandosi le tempie. «Tu… credi che noi, dei semidei, possiamo combattere una guerra contro degli dei veri e propri?»

«E che ci sarebbe di strano? Abbiamo affrontato Titani e Giganti, perché non Dei?» Si intromise Jane, sorridendo melliflua. «E poi, lo avete sentito il Signor D. Gli dei giapponesi non fanno uso di semidei, a differenza dei nostri genitori. Se noi li aiuteremo, allora avremo un vantaggio non indifferente. Quella che secondo gli dei orientali è la più grande debolezza degli dei occidentali, sarà invece la loro carta vincente. Sarà tutto merito nostro. A nessuno di voi piacerebbe essere considerato un vero Eroe? Perché lo potremo diventare.»

Le parole di Jane sembrarono riuscire ad avere qualche effetto sul gruppo, perché alcuni di loro si grattarono la testa, confusi. 

«Certo» annuì Buck. «Ma questo succederà solo se inizieremo a lavorare come una squadra.» 

A quel punto, i semidei tornarono in sé. 

«Mi prendi in giro?» sbottò Derek. «Non hai fatto altro che intralciarci da quando abbiamo iniziato a lavorare insieme per proteggere il campo! E ora proprio tu vieni a dirci che dobbiamo essere una squadra?»

«Non vi stavo ostacolando» rispose Buck, lanciando uno strano sguardo al figlio di Ermes. Non sembrava felice del fatto che proprio lui avesse avuto da ridire, ma rimase comunque calmo. «Però ho bisogno che capiate che un gruppo non può lavorare come stiamo facendo adesso. Occorre qualcuno che guidi gli altri. Serve un capo.»

Udendo quelle parole, Tonya esplose in una grassa risata. La capocasa di Nike si posò le mani dietro la testa, accavallando le gambe. «E suppongo che quel capo debba essere tu, giusto?»

«Questo starà a voi deciderlo» rispose Buck, con noncuranza. «Ognuno di noi voterà per eleggere un capo. Se sarò io a vincere, sarò ben lieto di ricoprire questo ruolo.»

«Il voto sarà anonimo, ma io personalmente voterò per Buck» aggiunse Jane, volgendo una mano verso di lui. «Come figlio del dio della guerra, mi sembra quello più adatto per il ruolo. Io non voglio mica che a guidarci sia qualcuno che di battaglie non capisce nulla. E voi, invece?» domandò con molta enfasi, lanciando un rapido sguardo verso Paul e Derek. 

«Non state considerando una cosa, però» asserì la capocasa di Iride, Sunry. Non parlava quasi mai, perciò fu strano udirla con quel tono così serio. «State dando per scontato che l’impresa fallirà. Ci sono ancora quattro giorni di tempo.»

«Beh, perché non prepararsi con un po’ di anticipo? Non è forse la cosa più saggia da fare?» insistette Jane, sempre con quell’aria noncurante che stava davvero cominciando ad irritare Tommy. 

Per l’ennesima volta, i semidei sembrarono confusi dalle sue parole. Stava succedendo qualcosa di strano, perfino Tonya e Simon, che anche se per ragioni diverse erano quelli che più di tutti avrebbero avuto da ridire, rimasero in silenzio, a meditare su quelle parole. 

«Perché non fare così, perché non fare colà…» cantilenò Xavier, facendo cambiare colore al falò con la sua magia, per poi osservare adirato la figlia di Afrodite. «Lo scherzo è bello quando dura poco. Che ne dici, raggio di luna, magari ti taglio via quella maledetta lingua ammaliatrice?»

Diversi versi di sorpresa si sollevarono in aria, mentre le espressioni di Buck e Jane cambiarono del tutto, assomigliando a quelle di due bambini scoperti dopo una malefatta. 

Il figlio di Ecate sogghignò, osservando le loro facce sbigottite. «Davvero pensavate che non me ne sarei accorto? La magia non è forse la mia specialità?»

Ora tutti quanti osservarono furibondi i due semidei. Perfino Thomas era sorpreso. Jane non aveva mai usato quel potere, prima. Non che lui sapesse, almeno. Forse aveva cercato di tenerlo nascosto, magari per non farsi scoprire nei momenti in cui ne aveva davvero bisogno. 

«Oh, grandioso!» sbottò Kevin. «Quindi ci stavi pure ipnotizzando. Perfetto! Per quale motivo non vi abbiamo ancora sbattuti fuori dal campo?»

«Non è ipnosi, imbecille» sbottò Jane. 

Sarah fece un passo avanti, e ora un putiferio sembrava davvero stare per scoppiare, ma questa volta fu Seth a riportare l’ordine. 

«Fatela finita!» intimò, alzando la voce. 

Tutti quanti si ammansirono all’improvviso. Il capocasa di Nemesi ora si trovava al centro dell’attenzione. Si alzò in piedi, incrociando le braccia. «Smettetela di litigare. Anche se ci hanno imbrogliati, Buck e Jane hanno sollevato una questione importante. Se l’impresa dovesse fallire, che cosa ci succederà?»

Il silenzio cadde tra i capicasa. Seth lo interpretò come una risposta più che sufficiente, perché annuì. «Bene, allora. Io direi di fare così. Avremo una votazione, ma non sarà per eleggere un capo, sarà per dare la fiducia all’impresa dei nostri compagni. Se la maggioranza darà la fiducia, allora possiamo anche finirla di discutere. Se invece non ci sarà la fiducia, potremo proseguire con l’idea di Buck e Jane e iniziare a prepararci per quello che dovrà arrivare, senza giochetti e senza imbrogli, oppure la faccio pagare a qualcuno. Tutto chiaro?»

Nessuna obiezione. Di nuovo, Seth annuì. «Bene, allora. Per alzata di mano, chi ritiene che l’impresa fallirà?»

Buck e Jane furono i primi ad alzare le mani. Ovviamente. Per un attimo sembrarono essere gli unici a crederlo, per sollievo di Thomas, ma purtroppo aveva cantato vittoria troppo presto. 

Per sua enorme sorpresa, il capocasa di Ipno fu il primo, dopo gli altri due, a esprimere la sua sfiducia. A seguirlo ci furono Tonya e Xavier, con quest’ultimo che tuttavia lanciò un’altra occhiataccia a Jane. Simon fece un pesante sospiro, poi anche lui alzò la mano. «Sono tutti e cinque senza esperienza. Mi dispiace, ma non credo che ce la faranno» cercò di giustificare, più a sé stesso che agli altri.

Nessun altro alzò la mano, al che Seth chiese l’opposto: «Chi dà la fiducia?»

Derek e Paul furono i primi, questa volta, subito seguiti da Sunry, Sarah e Kevin, che nel mentre non si fece scrupoli a fare un gestaccio a Jane. A Tommy venne da pensare che il figlio di Efesto avesse dato loro fiducia giusto per andare contro ai capicasa di Ares ed Afrodite, ma andava benissimo così.

L’ultima ad alzare la mano fu Alyssa. E con anche la capocasa di Tyche dalla loro, la situazione era in parità, sei voti contro sei.

«Ma… siamo pari?» domandò Paul, sorpreso. 

«No, manco io» replicò Seth, che osservò tutti i presenti uno ad uno prima di proseguire. «Io do la mia fiducia.»

Diversi sospiri di sollievo si sollevarono tra i semidei favorevoli all’impresa. Pure Thomas l'avrebbe fatto, se fosse stato presente. E soprattutto, non riusciva a credere che Seth fosse dalla loro parte. Però, ora che ci pensava, anche la sera del Consiglio era stato uno dei pochi a non deridere lui, Stephanie ed Edward quando si era deciso che loro tre sarebbero partiti.

«Dobbiamo anche considerare che Jonathan non è qui, perché sono certo che anche lui sarebbe stato favorevole» aggiunse ancora il capocasa di Nemesi, lanciando un ultimo sguardo a Buck. «Ci hai provato, Buck, ma hai sentito gli altri. Nessuno qui vuole un capo. E di certo non vogliono te.»

Buck ringhiò di rabbia, poi si allontanò da loro, con Jane al seguito. Non sembravano affatto felici dell’esito di quella serata. Thomas ebbe il timore che la loro presunta sconfitta non avrebbe fatto altro che spronarli a rompere ancora di più le scatole, ma per il momento potevano godersi quella piccola vittoria. E soprattutto, ora sapeva che doveva dare ancora di più il massimo per portare a termine quell'impresa. Il campo dipendeva da loro, anzi, il mondo intero dipendeva da loro. Non poteva deluderli. Non poteva deludere nessuno.

«Com’è che anche tu hai votato per la sfiducia?» sbottò Derek, avvicinandosi a George. 

Il figlio di Ipno sussultò. «E-Ehi, i-io pensavo solo che...»

«Basta» esordì Seth. «George ha tutto il diritto di non fidarsi di Edward e gli altri. Dopotutto, a quest’ora sarebbero già dovuti tornare, ma la situazione si è incasinata inutilmente. Tutti noi abbiamo fatto un azzardo a dare la nostra fiducia, se devo essere sincero. Ma tutti si meritano una possibilità.»

«Hai ragione.» Derek si ammansì, tornando a guardare George. «Scusa, amico. Ma sai com’è, c’è anche mio fratello nell’impresa e… George? George!»

Derek scosse il capocasa di Ipno, che trasalì. «Eh? Sì, sono sveglio!» 

«Ma ti sei addormentato mentre ti parlavo?!»

«N-No! Certo che no!»

«E allora che cosa ti ho detto?»

«Eh… ehm…»

Mentre Derek inveiva contro George, Sarah si avvicinò a Seth, sorridendogli. «Pensavo che voi figli di Nemesi sapeste solo covare rancore. Non credevo aveste certe capacità diplomatiche.»

«Già, amico» aggiunse Kevin, dandogli una sonora pacca sulla schiena. «Hai zittito per bene quei due fessi!»

Mai nessuno si sarebbe sognato di fare un gesto del genere a Seth, ma Kevin… beh, lui era diverso. E comunque Seth non sembrò nemmeno accorgersene, perché sorrise. «Nemesi significa anche equilibrio. Ho solo riportato la situazione in ordine.»

«“Ehi Xavier, grazie per esserti accorto della lingua ammaliatrice!”» borbottò Xavier, avvicinandosi e gesticolando come un burattinaio. «“Oh, di nulla ragazzi! È stato un piacere!”»

«Ma certo, Xavier. Grazie mille» convenne Seth. 

«Oh, sì!» esordì Alyssa, stringendo le mani e poggiandole contro la sua guancia. «Ma grazie, mio bel baldo giovane figlio di Ecate! Dove saremmo ora senza di te?»

Gonfio di orgoglio, Xavier aprì bocca per replicare, per poi interrompersi ed osservare confuso la ragazza. «Mi prendi in giro, giusto?»

«E chi lo sa?» rispose lei, ottenendo come risposta un’espressione da pesce lesso di prima classe.

Tonya scoppiò in un’altra delle sue tonanti risate, contagiando un po’ tutti gli altri e per fortuna, almeno per quella sera, tutto quanto sembrò concludersi per il meglio.

La visione di Tommy però non si concluse lì, perché lo scenario cambiò, spostandosi proprio nella casa Undici, più precisamente nella camera delle sue sorelle. Leyla dormiva serena nel suo letto, mentre Natalie era sveglia, seduta sul bordo del materasso, e osservava il cielo stellato dalla finestra. Sospirò, stringendosi nelle spalle, e si mordicchiò un labbro.

Sembrava angosciata. Parecchio angosciata. Tommy non l’aveva mai vista così. Era… preoccupata per lui? Gli sarebbe venuto da pensare di sì, dopotutto anche Derek lo era, però… c’era qualcosa di strano. La sua non sembrava proprio la preoccupazione che una sorella nutrirebbe per un fratello. Sembrava esserci qualcosa di più profondo, e intimo, di quello. Qualcosa che forse Thomas non avrebbe dovuto vedere.

La ragazza si alzò senza fare rumore, e aprì la porta per la camera dei ragazzi. Senza svegliare nessuno, si limitò ad osservare un letto vuoto. Tommy lo riconobbe subito. Era… era il letto di Edward. Nessuno lo aveva più usato da quando se ne era andato dalla casa Undici. Nessuno lo aveva nemmeno rifatto. Lo avevano lasciato lì, come un segno indelebile del passaggio del figlio di Apollo nella loro vita quotidiana. Thomas credeva che sua sorella fosse felice del fatto che Edward se ne fosse andato. E allora perché osservava quel letto con quello sguardo così triste e preoccupato? Che cosa le passava per la mente? Poi pensò a come lui si era comportato quando aveva creduto che Rosa fosse scomparsa, ed ebbe un tuffo al cuore. Poteva... poteva davvero essere che Nat...

La ragazza abbassò lo sguardo, tornandosene in camera sua. La porta che si richiudeva alle sue spalle fu l’ultima cosa che Thomas vide prima di svegliarsi.

 




Per chiarire rapidamente: 

Paul Birch: capocasa di Demetra

Buck O'Neal: capocasa di Ares

Simon Miller: capocasa di Atena

Jonathan Shine (che però non compare): capocasa di Apollo

Kevin Bolt: capocasa di Efesto

Jane Curtis: capocasa di Afrodite

Derek Murphy: capocasa di Ermes

Lisa Castella (su un treno verso San Francisco): capocasa di Dioniso

Sunrise Dusk: capocasa di Iride

George Roll: capocasa di Ipno

Seth Mest: capocasa di Nemesi

Tonya Smith: capocasa di Nike

Sarah Young: capocasa di Ebe

Alyssa Fortuny: capocasa di Tyche

Xavier Bravo: capocasa di Ecate

 

So che sono molti nomi da ricordare, ma in caso di dubbi, potete consultare la lista. Grazie per aver letto, alla prossima!

 


 
 
 
p.s. Un minuto di silenzio per TinyPic. Addio TinyPic. Riposa in pace vecchio distributore di avatar per EFP.

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Capitolo 20
*** Braccati ***


 

20

Braccati

 

 

I tre giorni successivi furono molto più duri di quanto Tommy avrebbe pensato. Raggiungere San Francisco in treno sembrava una grande idea sulla carta, ma metterla in pratica era tutta un’altra questione. Il costante sferragliare delle ruote sui binari, gli scomodi divanetti sui quali dormire, il fatto di dover sempre avere occhi e orecchie puntati verso ogni direzione per paura di essere riconosciuti come gli attentatori dell’aeroporto Kennedy, ognuna di queste cose andava sovrapponendosi alla tensione e alla paura generale riguardo ciò che li attendeva alla fine del loro viaggio.

Era esausto. E non era di certo l’unico. Tutti loro erano stanchi, sia fisicamente che mentalmente. Stephanie era tesa, e lo si poteva vedere da un chilometro di distanza. Perfino Konnor non sembrava voler fare molti sforzi per nascondere la sua angoscia. L’esatto opposto di Lisa, che invece cercava a tutti i costi di non sembrare spaventata, ma il suo bluff non avrebbe mai potuto ingannare Tommy, uno che in fatto di bluff aveva una laurea.

La vera incognita, però, era Edward. Nonostante l’impresa riguardasse lui in particolare, Thomas non riusciva proprio a capire che cosa stesse pensando. Si erano parlati solo una volta dopo Kansas City, ed era stato quando gli aveva chiesto di prestargli un’arma. Tommy gli aveva offerto la spada di Rosa, ancora custodita al sicuro nello zainetto, ma Edward aveva rifiutato, optando invece per un coltello di bronzo celeste simile a quello che aveva perso. Una scelta d’arma singolare, ma il figlio di Ermes non si era opposto.

Osservandolo, Edward non era sembrato teso, o spaventato, o altro, ma solo… arrabbiato. Magari si stava domandando come diamine fosse finito in quell’enorme casino, e Tommy non poteva biasimarlo, dopotutto non era stato lui a scegliere tutto quello. Eppure, era sicuro che c’era dell’altro. E forse aveva proprio a che fare con quello che Shinjiro gli aveva detto. 

Le parole del gatto mutaforma avevano scosso Edward, ma Thomas non riusciva proprio a capire perché. Come se non bastasse, il semplice parlare con chiunque era diventato una faticaccia, visto che ad ogni fermata e scalo i cinque erano costretti a dividersi per non viaggiare troppo a lungo assieme e dare nell’occhio. 

Non aveva ancora raccontato a nessuno del suo sogno, della parte riguardante i capocasa soprattutto. Non voleva aumentare ancora di più il senso di urgenza e di tensione dentro i propri compagni di viaggio, ma dopo aver visto la scena all’anfiteatro, era più chiaro che mai che la situazione stava andando di male in peggio. Certo, per il momento la situazione al Campo era ancora sotto controllo, ma quanto sarebbe passato prima che l’equilibrio si spezzasse di nuovo? 

Non gli sembrò vero quando riuscirono dopo secoli a superare i deserti del Nevada e varcare il confine con la California. Ormai mancava davvero poco alla loro destinazione. 

Dopo l’ennesimo scalo, i cinque si erano divisi un'altra volta, e ora si trovava seduto su un vagone assieme a Konnor e Lisa, mentre Stephanie ed Edward rimasero due vagoni più indietro rispetto a loro.

Osservò i suoi compagni di viaggio. Lisa era stretta nelle spalle, gli occhi chiusi, mentre Konnor osservava il paesaggio fuori dal finestrino. Nessuno dei due sembrava intenzionato a spiccicare l’ombra di una parola. 

Tommy si concentrò sul figlio di Ares. Quando aveva ripensato al sogno che aveva fatto, aveva realizzato che Buck, dando per scontato che l’impresa sarebbe fallita, aveva praticamente detto che anche Konnor non ce l’avrebbe fatta. Derek, Paul, perfino Jonathan, con tutti i problemi avuti con Edward, avevano supportato i loro fratelli nell’impresa, Buck invece si era comportato come se Konnor fosse già morto. 

Se avevano bisogno di un motivo in più per tornare sani e salvi, l’avevano appena trovato: dimostrare ai loro detrattori che si sbagliavano.

Le palpebre di Tommy si appesantirono, e pensò che, dato il silenzio dei suoi compagni, forse poteva concedersi un ultimo pisolino prima dell’arrivo, sperando di riuscire ad addormentarsi nonostante la tensione. Cercò di autoconvincersi che tutto sarebbe andato per il meglio, che quella sera si sarebbero già ritrovati su un treno per il viaggio di ritorno, per scacciare via quella morsa che gli stringeva il petto e potersi assopire in maniera serena.

Osservando il paesaggio, vide il treno aggirare l’ennesima montagna, passando sopra dei binari che si trovavano un po' troppo vicini a un dislivello di una trentina di metri, affacciato su una fitta foresta.

Distolse lo sguardo per l’angoscia. Non soffriva di vertigini, almeno quello, ma le grandi altezze erano comunque sempre minacciose. Chiuse gli occhi, tirando un profondo sospiro, cercando di addormentarsi.

Un tonfo devastante scosse l’intero vagone. Thomas si ritrovò catapultato contro il finestrino, sbattendo con forza il braccio. Urla spaventate giunsero dal corridoio in un tutt’uno, andando a frantumare la quiete e il silenzio che avevano caratterizzato tutto quel viaggio.

Lisa precipitò addosso a lui gridando a sua volta, e anche Konnor venne schiacciato contro il finestrino. Tommy riaprì gli occhi e vide il dislivello proprio al di sotto di lui. Il suo cuore si fermò per il terrore, ma durò solo per un istante, perché poi venne trascinato all’indietro come da una forza invisibile.

Vi fu un altro tonfo tremendo, subito seguito da un sobbalzo. Thomas cadde a terra sulla schiena, con Lisa che gli precipitò addosso.

«State bene?!» udì, in mezzo al frastuono delle urla che giungevano dagli altri vagoni, il fischio delle sue orecchie e il rumore assordante di metallo che sferragliava.

Aprì di nuovo gli occhi e vide Konnor, con un livido viola sulla fronte, aiutare Lisa a rimettersi in piedi, per poi fare lo stesso con Tommy.

«Ma che ca…» protestò Lisa in italiano, reggendosi in piedi a stento, appoggiandosi al divanetto. «Cos’è successo?!» urlò, ora facendosi capire.

«Qualcosa ha colpito il treno!» esclamò Konnor, cercando di farsi sentire sopra il rumore. «Il vagone si è quasi ribaltato!»

Le parole giunsero distanti e ovattate alle orecchie di Tommy.

«Aspetta, cosa?!» domandò Lisa, sconvolta. Nemmeno lei aveva un bell’aspetto, sembrava essere appena uscita da una centrifuga, cosa che per l’altro non era così lontana dalla realtà. «Che vuol dire?!»

Konnor non rispose. Spalancò la porta scorrevole del vagone e uscì nel corridoio. Si guardò attorno e non appena si voltò verso sinistra divenne bianco come un lenzuolo, in tutti i sensi della parola. Mormorò qualcosa di inudibile, poi svanì dalla visuale.

«Konnor!» lo chiamò Lisa, cominciando a seguirlo zoppicando. Tommy cadde a sedere, incapace di sostenere ancora il peso del proprio corpo. Si prese la testa tra le mani e cercò di scacciare via il senso di nausea che lo aveva assalito. Il mondo vorticava attorno a lui e il baccano assordante delle ruote che sfregavano sui binari lo stava facendo impazzire.

Non seppe dire quanto tempo rimase lì, con la schiena appoggiata alla parete sotto il finestrino. Sentì le labbra bagnarsi di una sostanza calda, e intuì che del sangue gli stava uscendo dal naso. Quello fu l’input che gli permise di capire che non doveva rimanere lì. Si rimise in piedi a stento, recuperò lo zainetto e barcollò verso la direzione presa dai suoi compagni. Nel corridoio alla sua destra vide diversi mortali imitare il suo esempio, accalcandosi fuori dai vagoni. Alcuni sembravano feriti, chi in maniera più grave e chi meno, altri invece sembravano solo scossi e spaventati.

Thomas barcollò verso sinistra, dove Konnor e Lisa si erano diretti, e li trovò in piedi di fronte alla porta che dirigeva al vagone successivo. Sembravano paralizzati. Il figlio di Ermes si avvicinò, per poi sgranare gli occhi: il vagone dietro di loro non c’era più, così come non c’erano più tutti gli altri.

Incluso quello di Stephanie ed Edward.

Quello fu il momento in cui Thomas riuscì finalmente a capire cos’era successo: qualcosa aveva colpito il treno, staccando i vagoni dietro di loro. La loro carrozza si doveva essere soltanto inclinata, invece, per poi ritornare sui binari con quel tonfo devastante.

Si erano salvati… ma avevano perso i loro amici. Sentì lo stomaco annodarsi a quel pensiero. Non poteva essere vero. Non potevano… essere morti. Era impossibile. Forse i vagoni si erano soltanto staccati, rimanendo sui binari. Sì, doveva per forza essere così.

«E… e adesso?» domandò Lisa, interrompendo quel silenzio carico di tensione che si era accumulato. «Cosa… cosa facciamo?»

Konnor scosse la testa, con le labbra socchiuse. Nemmeno lui sembrava essere riuscito ad accettare cosa fosse successo. Passarono diversi momenti prima che riuscisse a formulare una risposta. «Stiamo rallentando, forse il treno è danneggiato. Non appena si ferma, scendiamo e andiamo a cercare Edward e Stephanie.» Strinse i pugni con forza. «E speriamo che stiano bene.»

Tommy assottigliò le labbra, rimanendo in silenzio. Certo che stavano bene. Non era nemmeno da mettere in discussione. Se fosse stato il contrario, o peggio… allora non aveva idea di come avrebbe reagito.

Ci volle un’altra manciata di secondi prima che il treno si fermasse, e ognuno di essi parve durare un’eternità. Non appena si arrestarono del tutto, Konnor spalancò la porta, che si staccò di netto dai cardini precipitando sul suolo. Il figlio di Ares non perse nemmeno tempo a guardarla e ci saltò sopra, per poi iniziare a correre, seguito da Thomas e Lisa.

Tommy si voltò, accorgendosi delle ruote distrutte del loro vagone, e intuì che da lì il treno non si sarebbe spostato tanto presto. Non solo avevano perso Edward e Stephanie, ma anche il loro passaggio verso San Francisco. In un solo istante, tutto quanto era andato in fumo.

«DOVE VORRESTE ANDARE?!» tuonò una voce all'improvviso, facendo sussultare il trio. Un’ombra gigantesca apparve sopra di loro, oscurando per un breve istante il sole mattutino.

«Attenti!» urlò Konnor, saltando addosso a Lisa e Thomas e spingendoli all’indietro un attimo prima che un masso gigantesco si schiantasse sul suolo.

Di nuovo a terra, Tommy drizzò il capo e deglutì, osservando dei detriti sparpagliati sulla ferrovia, ciò che era rimasto del masso. C’era mancato davvero poco. Poteva solo ringraziare il figlio di Ares se non si era trasformato in una poltiglia. Lo cercò con lo sguardo e lo vide in piedi, di fronte a lui e Lisa, con la sua spada nera tra le mani e lo sguardo puntato verso l’alto.

Thomas lo imitò e osservò verso la montagna. Non appena lo fece, il suo cuore saltò di un battito.

Un individuo enorme, di almeno cinque metri di altezza, li osservava da un ciglio sulla montagna, stringendo un altro masso enorme con una mano come se fosse stata una palla da bowling. Indossava una toga romana sbrindellata, le gambe erano ricoperte di squame, come le zampe di un rettile, i lunghi capelli viola raccolti in una coda e una incolta barba dello stesso colore.

Assieme a lui, stipati su altri cigli, una dozzina di creature tra lestrigoni e ciclopi.

«Salve, semidei» salutò il gigante, mostrando loro un sorriso sfavillante, che però di sfavillante aveva ben poco. «Avete fatto buon viaggio?»

Nessuno rispose. Thomas era pietrificato dallo stupore e dalla paura. Non gli sembrava vero. Non poteva essere vero! Quello… quello era…

«Efialte» sussurrò Lisa, la voce flebile come la fiamma di una candela.

«Sì, piccola figlia di Bacco.» Il gigante allargò le braccia, rivolgendole un’occhiata che la fece trasalire. La sua espressione mutò all’improvviso, facendosi molto più dura. E rabbiosa. «E ho un piccolo conto in sospeso con tuo padre.»

Lisa non rispose. Rimase immobile, pietrificata. Terrorizzata. Tommy non l’aveva mai vista così, nemmeno quando si era ritrovata Campe a un soffio dal naso. Ma quella non era nemmeno lontanamente la sua preoccupazione più grande.

I Giganti erano stati sconfitti un sacco di anni prima, avrebbero dovuto trovarsi tutti sul fondo del Tartaro, a marcire. Eppure… eppure non c’erano dubbi. Quello era Efialte, la controparte di Dioniso. Come aveva fatto a tornare dopo così poco tempo? Ma soprattutto, era da solo?

Era… era stato lui a colpire il treno?

Thomas sgranò gli occhi. Edward e Stephanie erano rimasti indietro. Anche loro erano in pericolo!

Diversi ringhi provennero dalle loro spalle all’improvviso, interrompendo i suoi pensieri. I ragazzi si voltarono, vedendo una dozzina di lupi dal manto grigio scuro avvicinarsi verso di loro. Alcuni passarono accanto al treno fermo, altri sopra i tetti dei vagoni, altri invece scesero dalla parete scoscesa della montagna. Lo stesso fece il piccolo esercito del gigante, che raggiunse il suolo posandosi di fronte a loro, tagliando la strada verso cui erano diretti poco prima. Li avevano circondati.

La paura cominciò a impadronirsi di Thomas. Nel giro di pochissimi istanti era cambiato tutto. Erano stati divisi da Edward e Stephanie, i mostri li avevano trovati e un gigante in carne ed ossa si era messo sulla loro strada. Proprio come con Campe, ebbe timore non solo per il destino dell’impresa, ma per la sua stessa vita. Era così spaventato che non riuscì nemmeno a estrarre un’arma. Rimase inerme, immobile mentre i mostri si avvicinavano ed Efialte ridacchiava osservandoli dall’alto.

«Certo che le cose sono davvero cambiate in questi anni» commentò divertito. «Voi siete quelli che mandano a salvare il mondo, questa volta? Sono passati da figli di Giove e Poseidone a dei mocciosi spaventati? Incredibile. E io sarei finito nel Tartaro per questo?»

Efialte saltò dal ciglio, atterrando sulla ferrovia con un tonfo da far tremare la terra. Un minuscolo cratere si creò sotto i suoi piedi. «Almeno tu, figlio di Ares, cerca di dare un po’ di spettacolo prima di morire!»

Konnor serrò la mascella, aumentando la presa attorno alla sua spada. Alle loro spalle, i lupi si facevano sempre più vicini. Di fronte a loro, gli sgherri di Efialte stavano accorciando le distanze. 

«Dov’è tuo fratello Oto?» domandò. «Credevo foste inseparabili.»  

«Non devi preoccuparti per lui» rispose Efialte, sollevando il masso. «Non temere, figlio di Ares, posso schiacciarvi tutti e tre anche da solo!»

«E quindi loro sono qui per il supporto morale?» interrogò Konnor, indicando gli altri mostri. 

«Diciamo che sono una specie di polizza. Se fuggirete, loro si faranno un bello spuntino.» Il gigante accennò con il mento ai vagoni fermi, da dove alcuni mortali si erano affacciati. 

Tommy soffocò un'imprecazione. Si era dimenticato dei mortali rimasti nel treno. La loro presenza cambiava tutto quanto, e non faceva altro che rendere le cose ancora più difficili. I lupi cominciarono a ringhiare, file di bava che scendevano dai denti gialli ed affilati, e i passeggeri del treno si allontanarono dai finestrini con delle grida spaventate.

«I mortali non c’entrano niente!» esclamò Konnor.

Efialte scrollò le spalle. «Lo so, ma mi piace tanto quando urlano. Chiedo venia, è più forte di me.»

«Maledizione» sussurrò il figlio di Ares. La mano gli divenne bianca da quanto strinse l’elsa della spada. Abbassò la testa, e parve meditare sulla situazione per qualche istante. 

Tommy osservò la scena con il fiato sospeso. Non potevano combattere contro un Gigante, era un essere che era stato creato per distruggere gli dei, loro erano soltanto tre ragazzi con poca esperienza. Aveva ancora la sua arma segreta nascosta nello zainetto, ma come avrebbe potuto funzionare in quella situazione?

Konnor tornò a osservare i suoi compagni, per poi volgere loro un cenno del capo. «Io guadagno tempo, voi scappate.»

Thomas non credette alle proprie orecchie. 

«Scherzi?!» esclamò Lisa, riacquistando un po’ di energia. «Non ti abbandoneremo qui!»

Konnor serrò la mascella, scuotendo la testa. «Dovete farlo, invece! È l’unico modo per…»

«Ma di che state farneticando?» esclamò Efialte, spazientito. «Ora basta! Avanti miei gladiatori, fatevi una bella scorpacciata di… AHHH!»

L’urlo di sorpresa del gigante scosse il terreno come il suo salto di poco prima. Tommy sgranò gli occhi. Konnor sgranò gli occhi. Lisa sgranò gli occhi. Tutti quanti, mostri e lupi compresi, osservarono sbalorditi la lama rossa che aveva appena attraversato il petto di Efialte. Il gigante rimase a bocca aperta per diversi istanti, prima di cadere in ginocchio con un gemito, perdendo la presa dal masso che si disintegrò al suolo.

Alle sue spalle, un individuo vestito di nero, con un cappuccio sulla testa, estrasse la spada dalla schiena di Efialte, per poi dimenarla ancora una volta, decapitandolo con un taglio netto. Un enorme corpo stramazzò al suolo, mentre la testa che ora non aveva più gli rotolava accanto, l’espressione scioccata ancora presente sul volto. Espressione che riassumeva alla perfezione lo stato d’animo di tutti quanti, Thomas in particolare.

L’uomo in nero passò oltre il corpo, per poi rivolgersi ai tre ragazzi. «Quello era un vostro amico?»

Konnor indietreggiò, incredulo. Tommy si dimenticò perfino come respirare. I mostri urlarono di rabbia per quello che era successo al loro capo e attaccarono tutti insieme il nuovo arrivato, ma questo si sbarazzò di tutti loro con una rapidità disarmante. La sua katana rossa fendette l’aria, falciando ciclopi e lestrigoni come se fossero state erbacce. Caddero tutti quanti, uno dopo l’altro, dissolvendosi in mucchi di sabbia. I lupi lo caricarono in gruppo, ignorando i semidei a cui passarono accanto. Quello che doveva essere il capobranco attaccò per primo con un morso, ma le sue fauci si chiusero a vuoto; l’uomo schivò l’attacco e sferzò l’aria con la katana, uccidendo l’animale nonostante la sua arma non sembrasse fatta di argento.

Il branco di lupi, osservando la fine del capo, arrestò la propria corsa. L’individuo si voltò verso di loro, e gli animali decisero di fare la scelta più saggia e di arrampicarsi di nuovo sulla montagna per fuggire. 

«Tutto qui?» domandò poi quello, accorgendosi di aver fatto piazza pulita. Fece schioccare la lingua, sbattendo via un po’ di polvere gialla dalle placche metalliche di armatura sul suo busto. «Che delusione.»

«Chi sei tu?» domandò Konnor, sollevando la spada. Nonostante a conti fatti quel tizio li avesse appena salvati, il figlio di Ares non abbassò la guardia. E anche Tommy cominciò a sentirsi inquieto. 

«Giusto» cominciò a dire quello. «Noi non ci siamo ancora conosciuti.» 

L'individuo si abbassò il cappuccio, mostrando un volto di un pallore innaturale. Era giovane, sarebbe potuto sembrare un ragazzo della loro stessa età. I capelli erano neri, due piccole corna spuntavano al di sotto di essi, e i suoi canini erano affilati come rasoi. Gli occhi, invece, erano rossi come il sangue. O meglio, l’unico occhio che teneva aperto lo era, visto che l’altro era attraversato da un orribile sfregio. Non appena vide il volto di quel tizio, tutto il sollievo provato da Thomas svanì in un solo istante. Non lo aveva mai visto di persona, ma non avrebbe mai potuto non riconoscerlo. Quello… quello era il demone che aveva portato via Rosa.

«Il mio nome è Naito.» Il demone sorrise freddo. «Ma immagino che il vostro amichetto Edward vi abbia già parlato di me.»

Diverse pozze nere presero forma attorno a loro, dalle quali cominciarono ad uscire altre creature simili a Naito, ma dall’aspetto molto meno umanoide. Erano più grossi, più goffi e più deformi, e molto, molto più brutti. Non aveva nemmeno visto loro prima di quel momento, ma si ricordò di qualche settimana prima, quando un Rick terrorizzato aveva raccontato loro del mostro che aveva visto nel bosco. Corpo nero, volto bianco, corna, occhi rossi. Tutto combaciava. Erano gli oni, i mostri da cui Edward una volta li aveva messi in guardia. In un istante furono di nuovo circondati e Thomas capì che lo scontro non era finito, e soprattutto non erano salvi. 

Konnor serrò la mascella. «E cosa vuoi da noi?»

Naito sogghignò. «Ma non è ovvio? Voglio uccidervi.»

Thomas osservò il demone, o mezzo demone, o quello che era, mentre una rabbia che mai prima d’ora aveva provato iniziava a montare dentro di lui. Quello… quello era il responsabile. Era stato lui. Lui aveva rapito Rosa. Era solo colpa sua.

In un istante estrasse il falcetto dallo zainetto. Senza nemmeno rendersene conto, stava già camminando verso di Naito. Il dolore provato alla testa fino a un attimo prima cessò di esistere. Non c’era più posto per il dolore, o per la paura. La rabbia occupò tutto quanto.

«Thomas» sussurrò Konnor, accorgendosi di cosa stava accadendo. Vedendo Thomas muoversi, i demoni che li circondavano fremettero, alcuni emisero strani versi e le dita delle loro mani formicolarono. Konnor rimase immobile, mantenendo la calma. «Thomas, che stai facendo?!»

Tommy non rispose. Sollevò il falcetto, poi si fiondò contro di Naito. Urlò a perdifiato, e attorno a lui sentì altre decina di grida tutte frapporsi tra loro, ma non diede peso a nessuna di queste. Non gli importava nulla. Voleva solo farla pagare a quel mostro che aveva fatto del male a Rosa.

«Tommy, no!» gridò Konnor, da qualche parte imprecisata dietro di lui, mentre il sorriso divertito di Naito si faceva sempre più vicino.

«Sì, piccolo dio, fatti avanti!» lo canzonò il demone, portandosi l’elsa della spada sopra la spalla, la lama inclinata puntata verso di lui.

Thomas non ci vide più. Dopo tutto quello che aveva fatto, Naito aveva ancora il coraggio di provocarlo? Gliel’avrebbe fatta pagare. Lo raggiunse e mirò subito alla testa con il falcetto. Non era un esperto di combattimenti, ma era stato velocissimo, perfino per i suoi standard. Naito non aveva speranze di schivare quel colpo. «Questo è per Rosa!»

Credeva di aver vinto. Già si immaginava la testa del demone che rotolava a terra. Per questo motivo, quando si ritrovò con il falcetto bloccato a mezz’aria dalla katana rossa del suo avversario, rimase a bocca aperta. Solo in quel momento riuscì a realizzare cosa diamine avesse appena fatto.

«Per Rosa, dici?» domandò Naito, ancora in piedi, allargando il sorriso divertito. Iniziò a fare pressione con la lama, spingendo indietro quella del falcetto. «Hai deciso di suicidarti per quella ragazzina? Che gesto ammirevole!»

Thomas sussultò, schiacciato dal peso della katana. Senti le gambe cedergli, mentre con tutte le sue forze cercava di allontanare la spada di Naito, pericolosamente vicina al suo volto. Il demone lasciò di netto la presa, scansandosi, e il figlio di Ermes si ritrovò sbalzato in avanti. Si girò e vide Naito abbattere la katana su di lui. Sollevò la lama, parando il colpo per il rotto della cuffia, e fu spedito a terra. Gridò per il dolore e il falcetto gli saltò dalla mano. Tossì e cercò di rialzarsi sui gomiti, ma fallì come un povero miserabile quando il braccio gli cedette, incapace di sostenere il peso del corpo.

«Ti arrendi già? Coraggio, piccolo dio» disse Naito, torreggiando su di lui. «Sono certo che puoi fare meglio di così. Non vuoi più vendicare la tua amichetta?»

Tommy digrignò i denti. Sbatté il pugno a terra e si mise in ginocchio, ma un calcio al fianco lo costrinse a rimanere a terra, facendolo girare di schiena mentre urlava per il dolore.

«Per fortuna lei non è qui a vedere questa scena, perché devo dire che è piuttosto patetica. Ma non preoccuparti…» Naito sollevò la katana, pronto a sferrare il colpo di grazia. «… quando si sveglierà, le racconterò io di persona della triste fine che hai fatto!»

La katana scese su di lui. Ma Thomas a malapena registrò quell’azione. La sua mente si era bloccata sull’ultima frase di Naito.

«Quando si sveglierà…» 

Si riscosse quando vide la katana di Naito ad un palmo dal suo naso. Ma qualcosa l’aveva bloccata. Un’altra lama, nera.

«Alzati Tommy!» urlò qualcuno. Thomas fece vagare lo sguardo, e vide Konnor, spada sguainata, sguardo fisso su Naito. Gridò, poi fece pressione e allontanò il demone dal figlio di Ermes, iniziando ad attaccarlo con furia.

Naito indietreggiò, parando gli attacchi con ancora quell’espressione divertita. 

«Sei davvero così ansioso di prendere il posto del tuo amico?» domandò, deviando l’ennesimo fendente e rispondendo a sua volta. Konnor schivò il colpo, poi sferzò l’aria e le due lame tornarono a incrociarsi. Thomas non l’aveva mai visto combattere sul serio, per questo motivo rimase sbalordito. Non solo stava tenendo testa a Naito, ma lo stava pure facendo indietreggiare. 

«Che stai facendo?!» esclamò Lisa, apparendo accanto a lui all’improvviso e afferrandolo per un braccio. «Tirati su!»

Ancora stordito, Thomas venne trascinato in piedi quasi di peso dalla ragazza, mentre il resto degli oni si fiondava su di loro. Lisa lasciò la presa da Tommy, afferrò uno dei suoi pugnali dalla cintura e lo scaraventò contro un demone che si era avvicinato troppo, colpendolo in mezzo agli occhi. Questo emise una specie di strano ululato e cadde in ginocchio. La ragazza afferrò l’arma per il manico e la strappò dal cranio del mostro, poi appoggiò lo stivale al suo petto e lo spinse con forza addosso a un altro demone, facendoli ruzzolare a terra entrambi. Afferrò un altro pugnale e cominciò a combattere contro gli oni, muovendosi come se quelle armi fossero estensioni delle sue braccia.

Un demone attaccò Tommy, ma lui riuscì a riscuotersi e a schivare i suoi artigli rotolando per terra. Afferrò il falcetto e lo trafisse al petto, facendogli emettere un verso straziante. Il mostro cadde a terra, dissolvendosi, ma altri presero il suo posto.

I demoni combattevano a mani nude, senza armi, e per certi versi questo era uno svantaggio per loro. Inoltre erano lenti, goffi, e attaccavano alla cieca senza nessuna strategia a differenza di Naito. Thomas non era un esperto di combattimenti, ma l’addestramento e i riflessi da semidio fecero gran parte del lavoro per lui. Riuscì a rimanere vivo e ad abbatterne diversi, e questo fu di certo un bel traguardo per lui. Ma per ogni mostro eliminato, altri due prendevano il loro posto. Altre pozze di oscurità presero forma nel terreno, e altri oni cominciarono a fuoriuscirne.

Accanto a lui, Lisa guizzava in mezzo ai demoni come un lampo colpendoli dove faceva più male, lacerando tendini, cavando occhi e pugnalando petti, lasciandosi dietro una scia di morti e feriti. Era veloce, precisa e letale. E soprattutto, era incredibile. Ma nonostante i loro sforzi, i ragazzi furono costretti a indietreggiare fino a finire schiena contro schiena. Anche se non poteva vederla, Tommy riusciva comunque a sentire il respiro pesante della figlia di Bacco, più la sua schiena che si alzava ed abbassava. 

Ovunque guardasse attorno a loro, poteva solo scorgere demoni. Erano di nuovo stati circondati da quelle che sembravano decine di oni. E da qualche parte chissà dove, i rumori della colluttazione tra Naito e Konnor stavano proseguendo. La situazione non stava prendendo una bella piega.

Uno dei demoni gridò e corse verso di loro, ma Lisa lo trucidò all’istante. Un altro provò ad attaccare, ma ora fu Thomas a farlo pentire di quel gesto. Fuori due, altri cento in attesa. Per il momento i mostri rimasero fermi, a osservarli facendo formicolare le dita, in attesa di una loro mossa.

«Combatti bene» sussurrò Lisa all’improvviso. Thomas arrischiò un’occhiata verso di lei, sorpreso di averla sentita pronunciare quello che aveva tutta l’aria di essere un complimento. 

«Anche tu» rispose.

«Certo, se non fosse stato per noi Naito ti avrebbe fatto a fette, ma comunque… non male, nanetto.»

Malgrado avesse provocato Thomas, per lui fu impossibile non notare la vena di tensione nella sua voce. Era spaventata, proprio come lui. Ma forse non tutto era perduto. 

Aveva ancora un’arma segreta.

«Ascolta…» cominciò a dire, slacciandosi con cautela lo zainetto. «… ho un piano per le emergenze. So come possiamo vincere. Ma ho bisogno che tu…»

Uno dei mostri attaccò, cogliendolo di sorpresa. Thomas gridò, ma Lisa si parò di fronte a lui, respingendolo con i suoi pugnali. «Qualunque cosa tu abbia in mente…» cominciò, mentre altri demoni si lanciavano verso di loro. La ragazza si voltò verso di lui. Malgrado le ferite a causa del combattimento, malgrado i lividi a causa dell’urto del treno, malgrado la paura al pensiero che quella potesse essere la fine, Tommy notò la determinazione nel suo sguardo. «… falla in fretta!» finì di dire lei, prima di tornare a fronteggiare i demoni. «FATEVI SOTTO

Mentre la osservava combattere i mostri da sola per proteggerlo, Thomas capì che cosa davvero stesse provando Lisa in quel momento. Aveva paura, ma non si sarebbe mai arresa, come una vera guerriera, come una vera semidea desiderosa di mostrare il proprio valore e di far ricredere chiunque avesse dubitato di lei. Esattamente come lui. 

Gettò lo zainetto a terra e si inginocchiò, mettendosi al lavoro. Attorno a lui sentiva le grida di battaglia di Lisa, e le urla di dolore dei mostri. Doveva sbrigarsi, prima che lei venisse sopraffatta. Afferrò ciò che cercava e lo tirò fuori dallo zainetto, ma era ancora incompleto. Mancava qualcosa, qualcosa di parecchio pericoloso e instabile. E non appena estrasse l’oggetto che cercava sorrise di trionfo.

Montò la tanica di fuoco greco sul lanciafiamme, poi si alzò in piedi. «Spostati Lisa!»

La ragazza si voltò e sgranò gli occhi. Si gettò a terra un istante prima che un’ondata di fuoco investisse l’esercito di demoni. Il cielo si illuminò di verde, mentre oni accesi come fiammiferi gridavano e correvano in tutte le direzioni all’impazzata, rotolandosi a terra nel tentativo disperato, e inutile, di togliersi quelle fiamme di dosso.

Lisa strisciò a terra per qualche metro, ancora sconvolta, poi si alzò in piedi e corse dietro di lui per mettersi al riparo. «Questo è il tuo piano per le emergenze?!» domandò, urlando per farsi sentire sopra il rumore.

«Sì!» rispose lui, gridando a sua volta.

«Beh, evviva le emergenze!»

Thomas sorrise. Era da quando aveva visto quel lanciafiamme nell’armeria che aveva provato il desiderio di usarlo. Nel giro di pochi istanti l’esercito di oni venne decimato. Nessun mostro poteva sopravvivere a una quantità così massiccia di fuoco greco, greci o giapponesi che fossero.

Altre pozze di oscurità si generarono, ma chiunque ne fuoriuscì dovette pentirsene amaramente, perché venne subito incenerito. Il verde rimpiazzò tutto quanto.

Il ragazzo tenette il dito premuto sul grilletto, gli occhi socchiusi a causa della luce abbagliante e la fronte madida di sudore per via del calore. Le mani gli bruciavano, ma non si sarebbe fermato fino a quando l’ultimo mostro non si sarebbe dissolto.

Alcuni provarono ad aggirarlo per attaccarlo alle spalle, ma a loro ci pensò Lisa. I demoni che si avvicinavano troppo incontravano l’Oro Imperiale dei pugnali della ragazza, mentre quelli distanti il fuoco del lanciafiamme. I due semidei avevano appena creato una barriera impenetrabile attorno a loro.

Quando anche l’ultimo mostro venne incenerito, Tommy smise di sparare fiamme e rimase in attesa, con i sensi affinati al massimo. Dietro di lui, proprio come quando lo scontro era iniziato, sentiva il respiro pesante di Lisa.

«È… è finita?» domandò lei.

Dopo diversi istanti, Thomas annuì cauto, voltandosi verso di lei. Si asciugò il sudore dalla fronte. «Sembra di sì.»

La ragazza lo osservò per un momento, incapace di metabolizzare la cosa. Dopotutto, fino a pochi minuti prima si erano dati entrambi per spacciati. E invece erano ancora lì, vivi e vegeti. E vittoriosi. Lisa sorrise, un sorriso sincero, molto diverso da quelli a cui Tommy si era abituato. Thomas si ritrovò a sorriderle a sua volta senza rendersene conto, ma la pace durò solo per poco: il grido di Konnor li fece riscuotere entrambi. I due ragazzi sobbalzarono e si voltarono, ricordandosi solo in quel momento che non tutti i nemici erano stati sconfitti: Naito era ancora vivo e vegeto.

Konnor stava ancora combattendo contro il mezzo demone, e lo scontro sembrava lungi dal concludersi. Lo spadone del figlio di Ares cozzò contro la katana di Naito per quella che doveva essere la milionesima volta.

Lisa cominciò a correre verso di loro. «Andiamo!»

Dopo un attimo di stupore, Thomas la seguì. Ora che i demoni erano stati eliminati, potevano occuparsi del loro capo una volta per tutte. Il guercio si accorse di loro e si allontanò da Konnor di una manciata di metri con un salto.

«Così avete ucciso tutti gli altri, eh?» domandò, mentre si stavano avvicinando. Sorrise, non sembrando affatto turbato. «Meglio così. Non sopportavo quegli idioti.»

«Stai bene Konnor?» chiese Tommy, ignorando il demone.

Il figlio di Ares annuì, respirando affannato. Pareva provato dallo scontro, ma a parte quello non sembrava avere ferite o altro. 

«Dobbiamo sbrigarci» sussurrò, in modo che soltanto i suoi compagni potessero sentirlo. «Prima che…»

«Cosa, piccolo dio?» lo interruppe Naito, sogghignando. «Prima che vi uccida tutti?»

Tommy serrò la mascella e sollevò il lanciafiamme. Quel tizio l’aveva stancato. Era ora di dargli la lezione che meritava. Ma prima, c’era una questione rimasta in sospeso da sistemare. «Che cosa avete fatto a Rosa?» iniziò a dire, facendo un passo avanti. «È… è ancora viva?»

«Viva? Sì. Lo è. Dopotutto, ci serviva qualcosa da dare al vostro amico in cambio della spada.»

Thomas schiuse le labbra, incredulo.

«Aspetta, cosa?!» si intromise Konnor. «Che vuol dire?!»

«Oh, Edward non ve l’ha detto?» Naito sollevò le spalle. «Il vostro amico ha deciso di vendersi. Ci consegnerà Ama no Murakumo in cambio della ragazzina. Non che la cosa vi interessi, dopotutto…» Il suo sguardo si indurì. Quando parlò di nuovo, una voce grottesca rimpiazzò quella pacata di poco prima: «… nessuno di voi sopravvivrà

Prima che chiunque di loro potesse rispondere, il mezzo demone partì all’attacco. Questa volta, però, mostrò una rapidità incredibile. Tommy fece un verso sorpreso e sollevò il lanciafiamme, ma Naito fu più veloce e glielo tagliò a metà con un solo fendente di katana. Per lo spostamento d’aria Thomas fu spedito all’indietro, cadendo a terra e ritrovandosi con due moncherini metallici tra le mani. Grazie agli dei il serbatoio non esplose, o tutti loro si sarebbero trasformati in cenere. Cercò di rimettersi in piedi, non potendo fare altro che osservare impotente Naito mentre si fiondava su Lisa.

La ragazza sollevò i pugnali, ma non ebbe il tempo di fare altro: il mezzo demone sferzò l’aria con la katana e la figlia di Bacco gridò di dolore, i pugnali che le saltavano di mano. Anche lei cadde al suolo, inerme. Con una velocità disarmante, il mezzo demone si era sbarazzato di entrambi. Naito si concentrò poi su Konnor, mentre un sorriso diabolico si dipingeva sul suo volto. Si avventò su di lui con un urlo disumano, mosso da un’energia del tutto nuova.

Konnor strinse i denti e sollevò la spada, pronto a combattere, ma Naito attaccò con una furia impossibile da fermare. Il figlio di Ares tentò di parare il suo attacco, ma la spada gli fu scaraventata via dalle mani e venne disarcionato. Barcollò all’indietro, lasciando scoperto l’addome. Naito piegò le ginocchia, allargando il suo sadico sorriso, e affondò la spada. Quando Thomas capì cosa stesse succedendo, ormai era già troppo tardi.

La katana trafisse Konnor da parte a parte. Il ragazzo emise un verso strozzato, un fiotto di sangue fuoriuscì tra i denti.

«Sei in gamba, piccolo dio» sussurrò Naito. Rigirò la katana, strappando un gemito al figlio di Ares. Gli occhi azzurri erano spalancati, le labbra schiuse in un grido muto, forse di dolore, forse di sorpresa, forse di entrambe. Naito estrasse la lama, facendolo cadere in ginocchio. Il colore della katana si mischiò con quello del sangue del semidio. «Ma non abbastanza.»

Konnor si portò le mani all’addome e ben presto entrambe si inzupparono di rosso. La schiena cominciò ad alzarsi ed abbassarsi a causa dei suoi gemiti. 

Naito sfoggiò un ultimo sorriso e sollevò la spada, pronto per il colpo di grazia. Sdraiata a terra, Lisa urlò disperata il nome del figlio di Ares, mentre Tommy rimase immobile, scioccato. 

Avrebbe dovuto fare qualcosa per salvare Konnor, qualsiasi cosa, ma non riuscì a pensare a nulla. Naito li aveva sconfitti tutti in un battito di ciglia. Fu solo quando vide un oggetto scuro schiantarsi contro il cranio del demone che riuscì a riscuotersi. Lo yōkai ululò di dolore e barcollò, portandosi una mano dietro la testa. Thomas spalancò gli occhi, ormai convinto di essere in preda alle allucinazioni.

Un corpo gigantesco senza testa si era eretto da terra, tenendo il palmo di una mano ancora aperto verso di Naito, mentre nell’altra stringeva la suddetta testa mancante.

«Ma… cosa…» biascicò Naito, apparendo per la prima volta sbalordito.

«Piccolo bastardo…» rantolò la testa parlante, mentre il gigante andava ad appoggiarla sopra il collo. Qui tendini e legamenti cominciarono a riformarsi, ricongiungendola con il resto del corpo. Qualcosa di scioccante da vedere, ma allo stesso tempo ipnotico. Tommy avrebbe voluto non guardare per il disgusto, ma non ci riuscì, perché non aveva mai visto nulla del genere. 

Quello… era il potere di un gigante. Senza l’aiuto di un dio, pure tagliargli la testa come aveva fatto Naito non sarebbe servito. Lo aveva solo messo fuori gioco per qualche minuto.

Una volta riformatosi del tutto, Efialte sogghignò, stringendo i pugni. «Lo sai, non è bello essere decapitati, anche se si è immortali. Fa molto male.»

Naito osservò il gigante per diversi istanti, anche lui incapace di accettare cosa avesse appena visto, poi diede la schiena a Konnor. «Che cosa sei tu?» domandò, quasi con disprezzo.

«Cosa sono io? Che cosa sei tu! Sei un umano, o sei un mostro? Quale scherzo del fato ha deciso di dare origine a un obbrobrio come te?»

Il corpo di Naito si irrigidì. Parve non gradire affatto quelle parole. Tuttavia, non passo molto prima che riacquistasse la sua compostezza. Cominciò a ridacchiare. «Capisco. Dunque hai fretta di essere decapitato di nuovo. Ti dispiacerebbe solo aspettare un istante? Devo finire di sistemare questi piccoli dei.»

«Ma è proprio questo il problema» obiettò Efialte, mentre un sorriso crudele tanto quanto quelli del mezzo demone prendeva forma sul suo volto. «Sarò io a farli a pezzetti.»

Naito corrucciò la fronte, voltandosi verso di Thomas, che era rimasto a osservare pietrificato la scena. Gli sorrise glaciale, poi si rivolse di nuovo al gigante: «Io non credo proprio, invece. Sono le mie prede.»

Efialte si sgranchì il collo. «Poco male. Vorrà dire che getterò anche i tuoi resti ai grifoni.»

Il guercio gettò il capo all’indietro, ridacchiando molto più forte.

«Lo trovi divertente?» domandò il gigante, indurendosi. «Ne sono grato. Sono sempre felice di poter intrattenere gli invitati alle mie feste. Ecco…» disse, afferrando un altro detrito da terra, per poi scaraventarglielo addosso. «… un regalo per te!»

Il mezzo demone smise di ridere e dimenò la katana, frantumando il proiettile. Sollevò la spada, puntandola verso Efialte mentre sassolini piovevano dal cielo. «E va bene allora.» Il sorriso diabolico riapparve sul volto dello yōkai, che si lanciò all’attacco. «Anata no shi ni chokumen suru

«Sarò l’ultima cosa che vedrai!» ribatté Efialte, sbattendo i pugni a terra così forte da creare un'altra piccola scossa sismica.

Mentre i due iniziavano il combattimento, Tommy riuscì finalmente a riscuotersi. Vide Konnor a terra, ormai bianco come un lenzuolo, e il suo cuore saltò di un battito. Si alzò in piedi e corse verso di lui, aiutandolo a rimettersi in ginocchio. Cercò Lisa con lo sguardo e la trovò a terra, immobile, gli occhi fissi sullo scontro tra Efialte e Naito. «Lisa!»

La ragazza trasalì come colpita da una scarica elettrica, poi si voltò. Aveva un brutto taglio sulla guancia.

«Aiuta Konnor ad alzarsi, io prendo dell’ambrosia!»

«V-Va bene.» La figlia di Bacco obbedì, mentre Thomas cominciava a frugare nello zainetto. Trovò quello che cercava e aiutò Konnor a morderne un pezzo. Il suo compagno di viaggio ormai non sembrava nemmeno più con loro. Era ancora vivo, ma il suo sguardo era vacuo, spento, e dalle sue labbra non uscivano altro che flebili gemiti. Dopo aver mangiato l’ambrosia riacquisì un po’ di colore, ma a parte questo non sembrò migliorare molto, e la ferita non accennò a smettere di sanguinare. 

Thomas afferrò un panno e una cintura dallo zainetto e li usò per creare una fasciatura di fortuna. Non era un figlio di Apollo come Edward, perciò dovette farsi andare bene il risultato ottenuto, per quanto scadente. Si mise il braccio di Konnor attorno alle spalle, incitando Lisa a fare lo stesso con l’altro. «Dobbiamo andarcene!»

Lisa lo osservò inquieta. «E dove?»

«Ovunque meno che qui.»

Cominciarono a camminare, allontanandosi dallo scontro tra il mezzo demone e il gigante. Alle sue spalle, Thomas poteva ancora udire le grida feroci dei due combattenti, ma non ebbe il coraggio di voltarsi per scoprire come stessero andando le cose. Naito era forte ed abile, ma Efialte era immortale. Poteva solo sperare che la tirassero ancora per le lunghe.

Il treno era deserto. I mortali che si erano affacciati poco prima erano tutti scomparsi. Dovevano essere fuggiti a piedi, visto che il mezzo sembrava impossibilitato a muoversi. Thomas non aveva idea di cosa avessero visto quando i demoni avevano attaccato, ma non doveva essere stato niente di bello. Se non altro almeno loro si erano salvati.

Era certo che nel giro di poco tempo sarebbero arrivate squadre di ricerca, polizia, ambulanze, elicotteri e così via. E se loro tre non volevano farsi riconoscere e finire in prigione, o addirittura essere considerati responsabili anche di quell'incidente, avrebbero fatto meglio a sparire da lì al più presto.

Percorsero un centinaio di metri e trovarono un sentiero che scendeva dal pendio su cui passava la ferrovia, conducendo nel bosco sottostante.

Thomas e Lisa cominciarono a percorrerlo, ormai trasportando Konnor quasi di peso. Alle loro spalle, un altro grido lancinante, questa volta di dolore, sopraggiunse come un fulmine a ciel sereno.

Era di Naito.

I due semidei si fermarono per un istante, scambiandosi uno sguardo angosciato. Poi, senza dire altro, proseguirono la loro disperata fuga in mezzo ai boschi.


 
 
 
 
Ho deciso di fare un altro capitolo con Tommy perché era più funzionale per la storia. Il prossimo sarà su Stephanie. Dopotutto, da bravo scrittore bastardo quale sono dovrò pur tenervi sulle spine, no? Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Malgrado la lunghezza, ci ho messo poco a scriverlo perché mi ha davvero preso, ed ero ansioso di caricarlo al più presto. Naturalmente l'ho riletto ed ho rimosso diversi orrori di scrittura, ma se ne notate altri siate clementi.
  Molti interrogativi sono stati sollevati con la comparsa di Efialte, lo capisco, ma non temete: nulla è lasciato al caso. Tutto verrà spiegato. Bene, grazie di tutto e alla prossima!

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Capitolo 21
*** Fujinami ***


21

Fujinami

 
 

Era da quando era cominciato il viaggio che Stephanie sapeva che le cose non sarebbero andate lisce per sempre. Ma non si sarebbe mai aspettata che la situazione precipitasse in quel modo.

Dopo il primo giorno di viaggio aveva mandato un messaggio Iride a Chirone, spiegandogli la situazione. Aveva raccontato che erano riusciti a prendere un treno e che sarebbero arrivati a San Francisco in pochi giorni, senza scendere troppo nei dettagli riguardo ai mostri che avevano incontrato lungo il tragitto per non farlo preoccupare troppo.

Chirone era sembrato orgoglioso dei loro risultati e aveva detto di riporre ancora enorme fiducia nell'impresa. Il centauro aveva poi aggiunto che stava facendo progressi con la Foschia e che, se tutto sarebbe andato bene, entro la fine della settimana tutti si sarebbero dimenticati dell'incidente all'aeroporto.

Nonostante il "se" grande come una casa, sentire quelle parole aveva giovato allo spirito di Stephanie. Ricevere una buona notizia dopo giorni di supplizio non poteva che essere gradevole, dopotutto. Ma nonostante questo la figlia di Demetra non poteva non sentirsi inquieta all’idea della battaglia che ancora li attendeva.

L’uomo serpente, Orochi, li stava aspettando con il suo esercito. Si preannunciava una sfida durissima per tutti loro. Nonostante le parole di Persefone, nonostante lei stessa con le sue sole forze avesse abbattuto un mostro come Campe, cosa che nessun semidio aveva mai fatto, nonostante la fiducia che adesso i suoi compagni riponevano in lei, non si sentiva ancora all’altezza di quella situazione. 

Non sapeva fino a quanto i suoi poteri avrebbero potuto spingersi prima di creare danni irreversibili, come era successo in quel cantiere dove una foresta intera era sbocciata nel giro di una notte. Non aveva sentito più nulla riguardo la faccenda e come questa si fosse sviluppata. Poteva solo augurarsi che in quel momento non stesse davvero ricoprendo l’intera Chicago.

Lo stesso scontro con Milù era stata una prova più che sufficiente per la sua inadeguatezza. Le aveva dimostrato chiaramente che nessuno di loro era davvero preparato per affrontare avversari di quel genere. La loro unica speranza era la Spada del Paradiso di Edward, ma il semidio non sembrava davvero in grado di usarla al meglio. In due occasioni in cui avrebbe potuto salvare loro la vita, contro Campe e contro Milù, alla fine non era servita a nulla.

Per diverso tempo, dopo aver sognato Persefone, Stephanie aveva cominciato a credere che fosse proprio quello a cui sua sorella si era riferita, quando le aveva detto di non potersi fidare di Edward e che alla fine sarebbe stata lei quella a fare la differenza in quell’impresa. Aveva creduto che Edward non sarebbe riuscito a salvarli nel momento del bisogno e che sarebbe toccato a lei il difficile compito di salvare la situazione.

Ma poi avevano incontrato Shinjiro. Le parole del gatto mutaforma a proposito del figlio di Apollo non avevano più smesso di tormentarla.

Non biasimava Edward perché aveva un segreto, tutti avevano segreti, lei stessa aveva tenuto nascosto a tutti quanti delle sue conversazioni con Persefone. Ma lei aveva visto attraverso l’inganno di Milù. E anche Tommy aveva ammesso di aver percepito qualcosa di strano, quel giorno. 

L’unico che era stato ingannato da Milù era Edward. E la cosa, unita a ciò che Persefone le aveva detto, la stava straziando. 

Edward nascondeva qualcosa, qualcosa di importante. Qualcosa che avrebbe potuto portare al fallimento dell’impresa e a tutte le sue conseguenze.

Il figlio di Apollo non aveva parlato molto da quando avevano lasciato Kansas City, giusto qualche parola quando aveva saputo delle buone notizie di Chirone e poco altro. Sembrava quasi che volesse che lei e Thomas dimenticassero quello che avevano visto e sentito nel banco dei pegni di Milù. Peccato solo che Stephanie non sarebbe mai riuscita a farlo, non finché non avrebbe ottenuto delle spiegazioni.

Erano al terzo giorno di viaggio quando raggiunsero il confine con la California. C’era stata qualche ora di ritardo, ma tutto stava procedendo per il meglio. Dopo uno scalo poco prima del confine, Stephanie e compagni si erano divisi nuovamente, e la figlia di Demetra si era ritrovata in un vagone proprio con Edward. Era stato in quel momento che aveva deciso di riportare in auge la questione.

«Edward» disse, quando il treno uscì da una galleria che li aveva lasciati nella penombra per qualche istante. Il figlio di Apollo, con lo sguardo fisso fuori dal finestrino, si voltò verso di lei. Mentre era di profilo non poteva vederla, ma ora che era girato verso di lei, Stephanie non poté non rimanere in silenzio per qualche istante ad osservare la cicatrice che Campe gli aveva inflitto. Purtroppo, ormai faceva così tutte le volte che lo guardava in faccia. Si sentiva responsabile per quell’orribile sfregio. Se solo non fosse stata così spaventata di combattere, se solo avesse agito prima… forse Edward non si sarebbe trovato in quelle condizioni.

Tuttavia, sapeva anche che Edward odiava quando gli altri fissavano la cicatrice, perciò si riscosse in fretta. Si strinse nelle spalle, schiarendosi la voce. «Ascolta…» iniziò, incerta. «Ormai siamo quasi arrivati. Manca poco allo scontro finale, perciò… se c’è qualcosa che devi dirci, forse questo sarebbe il momento migliore per farlo.»

Il figlio di Apollo sollevò un sopracciglio. «Ehm… ma di che stai parlando? Che ti prende, Steph?»

Dal tono che aveva usato, Edward era sembrato piuttosto confuso di aver sentito quelle parole. Proprio per questo motivo la figlia di Demetra si irrigidì. Sapeva benissimo che in realtà stava solo fingendo di non capire.

«Sto parlando di quello che è successo a Kansas City» spiegò lei rimanendo calma, ma usando un tono di voce più deciso. «Di quello che ci ha detto Shinjiro.»

Edward batté le palpebre un paio di volte, prima di riscuotersi come da un’apparente stato di trance. Si sporse verso di lei. «Aspetta, sul serio? Ancora pensi a quella storia?»

«Voglio solo capire a cosa si riferiva.» Stephanie incrociò le braccia. «Siamo una squadra, Edward, e se vogliamo lavorare al meglio come tale, allora nessuno deve tenere nulla nascosto per sé.»

«Ma non nascondo nulla» rispose lui, per poi abbozzare un sorrisetto incredulo. «Ma davvero ti sei lasciata abbindolare così dalle parole di quel tizio? Shinjiro era solo un truffatore, l’hai visto con i tuoi stessi occhi. Ci ha usati per sbarazzarci di Milù e poi ha preso il suo posto. Ci ha solo presi in giro.»

«E allora perché l’inganno di Milù ha funzionato solo con te?»

«E io che ne so? L’hai detto tu che poteva essere perché vi ho tenuto nascosto il mio passato, ricordi?»

Steph assottigliò le labbra. «Hai ragione, ma ripensandoci meglio ho capito che non può essere quello il motivo.»

«Ah no? E perché?»

Ora fu Stephanie a sporgersi verso di lui, scrutandolo dritto negli occhi quasi sfidandolo a distogliere lo sguardo per primo. «Perché anche io vi ho tenuto nascosto delle cose. Eppure l’inganno di Milù non ha funzionato con me.»

«Oh, davvero?» domandò Edward rimettendosi composto, osservandola di rimando per nulla intimidito. «Come il potere talmente grande da trasformare una città in una foresta?»

Udendo quella frase la ragazza si irrigidì come un chiodo. Se Edward voleva toccare un tasto dolente, allora c’era riuscito. E il fatto che si stava tenendo così tanto sulla difensiva fu una prova più che sufficiente per lei. Stava davvero nascondendo qualcosa.

«Certo, sì» annuì lei, dandogli corda. Dovette trattenersi dall’alzare la voce. «Vi ho mentito anche io. Non vi ho detto la verità sui miei poteri. Ma vuoi sapere una cosa? Non è nemmeno l’unico segreto che ho. Ho parlato diverse volte con mia sorella Persefone, durante i miei sogni. E lei è stata la prima a dirmi che non dovevo fidarmi di te.»

Questa volta Edward parve davvero sorpreso. Steph, però, non aveva ancora finito. «Non l’ho detto a nessuno. Non l’ho detto né a Konnor, né a Thomas, né a Chirone, né nessun altro. Immagino che questo sia un segreto importante, non trovi? Ma Milù non è riuscita ad imbrogliarmi. E ho capito perché.»

Stephanie si avvicinò ancora di più al ragazzo, quasi per sussurrargli il resto della frase in modo che nessun altro oltre a loro potesse sentirla. «L’inganno delle kitsune non funziona su chi ha dei segreti. Funziona su chi è disonesto

Finalmente le sue parole sembrarono avere effetto, perché Edward rimase con la bocca socchiusa, sbigottito. La osservò per diversi istanti, affondando le dita nel divanetto.

«E tu, Edward?» lo incalzò ancora lei. «Sei disonesto?»

Il ragazzo abbassò lo sguardo, sembrando davvero turbato, e Steph si sentì in colpa per questo. Non voleva comportarsi così con Edward, non dopo quello che aveva fatto per lei. Ma il suo comportamento, di recente, era stato al limite dell’insopportabile. E il fatto che avesse appena rigirato contro di lei l’incidente di Chicago non aveva fatto altro che peggiorare le cose. Aveva cercato di scaricare la conversazione su di lei pur di tenersi fuori dai guai.

Forse Edward non era davvero il bravo ragazzo che aveva creduto. Per ogni cosa buona che faceva sembrava farne una altrettanto cattiva. Forse… forse era davvero un piantagrane.

Per un momento Stephanie pensò di essere riuscita a convincerlo, ma non passò molto prima che Edward scuotesse la testa. Tornò ad appoggiare la schiena contro il divanetto. «Non mi importa di quello che ti ha detto tua sorella. Io non nascondo niente. Dammi pure del disonesto, se vuoi. Io so di non esserlo.»

Stephanie strinse i pugni. In un certo senso poteva ammirare la sua bravura nel negare le cose. Sembrava davvero sincero. E la cosa non faceva che farla arrabbiare ancora di più.

«Perché continui a mentire?!» sbottò lei, non riuscendo più a controllarsi. «Siamo una squadra, dobbiamo…»

«No, Steph» la interruppe lui, indurendosi. «Non siamo proprio un bel niente.» Si mise faccia a faccia con lei e la ragazza sentì la propria pelle arricciarsi. Con quella cicatrice Edward sembrava ancora più minaccioso. L’istinto di Steph la portò a localizzare tracce di vegetazione nei paraggi, come se la stesse mettendo in guardia da lui e la stesse preparando a combattere.

«Non vi ho chiesto io di venire con me, l’hai dimenticato?» disse il figlio di Apollo con un filo di voce. «Avete scelto voi di farlo. Nessuno di voi dovrebbe trovarsi qui in ogni caso. La profezia parlava del ladro, di me. Qualsiasi decisione debba essere presa, spetta solo a me. Perciò smettila di farmi il terzo grado. Tu sei l’ultima persona che deve venire a parlarmi di onestà.»

Stephanie non seppe cosa rispondere. Rimase immobile, a ricambiare lo sguardo, affondandosi le unghie nei palmi. Tutta quella situazione le sembrò irreale. Tutto ad un tratto non sembravano nemmeno più compagni di viaggio, ben che meno amici. L’aria era così satura che sarebbe bastata una scintilla per fare scoppiare tutto. Proprio per questo motivo quando vi fu quel boato assurdo Stephanie pensò che fosse colpa loro.

Poi, però, realizzò che ciò non poteva essere possibile.

Si ritrovò catapultata contro il finestrino, sbattendo con forza il braccio. Gridò per una lancinante fitta di dolore alla spalla, poi osservò il precipizio accanto al quale il treno stava viaggiando farsi pericolosamente vicino. Vi fu un assordante rumore metallico, come qualcosa che si incrinava. Un istante dopo, Stephanie si sentì levitare, mentre il mondo vorticava attorno a lei.

Edward scomparve dal suo campo visivo, mentre grida terrorizzate giungevano da ogni dove. La figlia di Demetra non ebbe nemmeno il tempo di pensare. Ancora una volta, il suo istinto la portò a cercare ogni traccia di vegetazione nei paraggi. Gli alberi al fondo del precipizio furono la prima cosa che localizzò. Li raggiunse con la sua mente, gridando a squarciagola. Prima che potesse capire cosa fosse successo, udì un altro tonfo e sbatté di nuovo con la schiena contro una parete del vagone. Sentì la testa leggera e il sapore del sangue nella bocca, ma se non altro il mondo smise di vorticare.

Le grida cessarono ed un silenzio irreale scese su di lei.

Rimase sdraiata su quella fredda superficie metallica per un tempo impossibile da definire. Dopo quelle che sembrarono eternità, si rialzò sui gomiti e vide i divanetti sopra la sua testa. Per un momento pensò di essere impazzita. Si guardò attorno, dolorante e confusa, e si accorse di Edward. Anche lui era a terra, sdraiato su un fianco, con la fronte che sanguinava. Teneva gli occhi sigillati e non dava cenni di vita.

«Edward!» lo chiamò Stephanie, riuscendo a riscuotersi. Gli posò una mano sul braccio e provò a muoverlo, ottenendo in risposta un mugugno infastidito: era ancora tra loro. La figlia di Demetra tirò un sospiro di sollievo. «Edward! Edward, alzati!»

«Mhhh…» rispose lui, avvicinandosi una mano alla testa. Riaprì gli occhi e si sollevò tremolante, emettendo uno strano verso che doveva essere di dolore. Si accorse del sangue che gli imperlava la fronte e del vagone sottosopra. Spalancò gli occhi sorpreso. «Cosa… cos’è successo?»

«N-Non lo so» mormorò Stephanie, per poi osservare il finestrino incrinato. Strisciò verso di esso, udendo orribili rumori metallici provenire da sotto di lei ad ogni minimo movimento. Quando osservò fuori schiuse le labbra sbalordita.

Non c’era più il paesaggio di poco prima all’esterno, il treno non era più in movimento. Una fitta foresta si espandeva di fronte a lei.

«Ma… ma cosa…» mormorò, incapace di capire. Posò una mano contro il vetro e fece pressione, cercando di sfruttare già le numerose crepe per spingerne via un pezzo, ma senza successo. Notò allora alcuni rami appoggiati contro il finestrino ed ordinò loro di aiutarla. Questi si infilarono in mezzo ad alcuni e cominciarono a tirare. Sradicarono via il finestrino con facilità e la ragazza riuscì a sporgersi fuori per vedere meglio.

Rimase senza fiato. Erano a sei o sette metri di altezza, sospesi nell’aria con solamente i rami di un grosso albero, una sequoia, a trattenere il vagone dallo schiantarsi al suolo. E quello non era l’unico: altri tre vagoni erano stati afferrati dalle sequoie, due di fronte e uno dietro il loro. «Oh… dei...» sussurrò.

Controllò i rami per far scendere i vagoni a terra. Non appena toccarono il suolo, la figlia di Demetra liberò gli alberi dal suo controllo, che ritornarono nelle loro posizioni originali. Seguita da un Edward ancora parecchio stordito, strisciò fuori da quella scatola di metallo, poggiando gambe e braccia su un soffice manto d’erba. Malgrado fosse ancora sconvolta ed incapace davvero di metabolizzare l’accaduto, sentirsi di nuovo in mezzo alla natura riuscì ad infonderle un tenue coraggio.

Si alzò in piedi e sollevò lo sguardo, rimanendo di sasso quando si rese conto che la ferrovia su cui stavano viaggiando fino a pochi minuti prima si trovava circa trenta metri più in alto rispetto a loro.

Il treno… era precipitato. Come, non era in grado di saperlo. Doveva essere soltanto grata di essere sopravvissuta a quella caduta. Anzi, no. Se era sopravvissuta era stato merito degli alberi che avevano afferrato i vagoni a mezz’aria. Ed era stata lei, in quell’attimo di panico, a compiere quell’incredibile gesto.

Erano vivi… grazie a lei. Ma non poteva cantare vittoria troppo presto. Il treno era deragliato e lei ed Edward erano precipitati in quella foresta senza nome nascosta tra le montagne californiane. C’erano solo quattro vagoni assieme a loro, il che significava che quello su cui si trovavano Konnor, Thomas e Lisa era rimasto in cima alla rupe. Forse avrebbe potuto farsi aiutare dagli alberi per risalire, ma non sapeva nemmeno se il resto del treno fosse ancora lassù. Poteva essere precipitato altrove, oppure essere addirittura andato avanti senza di loro. In quel caso, la figlia di Demetra non avrebbe avuto nessuna idea su cosa fare.

Per il momento poteva solo concentrarsi su quello che sapeva: erano senza un mezzo di trasporto ed erano stati divisi dai loro compagni. Doveva pensare alla svelta ad una soluzione.

«Steph!»

La voce di Edward la fece sobbalzare. Si voltò verso di lui, trovandolo accovacciato di fronte al finestrino di un altro vagone. Stava aiutando un mortale ad uscire. «Forza, aiutami!»

Stephanie volle darsi dell’idiota. Come aveva fatto a non pensare ai mortali? Si dimenticò delle sue riflessioni e corse verso di loro.

«Aiutali ad uscire, io torno dentro e controllo se c’è una cassetta del pronto soccorso» le ordinò. Steph annuì e si mise al lavoro.

Poco per volta aiutò tutti i passeggeri. Una volta usciti, alcuni si sedettero a terra, altri tirarono fuori i cellulari e cominciarono a girovagare come degli zombie, in cerca di segnale. Diversi di loro non sembravano nemmeno in grado di capire dove si trovassero in quel momento. Una bambina pianse, abbracciando con forza la madre che cercò di mormorare qualche parola di incoraggiamento, altri invece parlottavano su come fosse stato un miracolo il fatto che la caduta non li avesse uccisi tutti. Per fortuna nessuno era ferito gravemente, erano solo molto spaventati. Come biasimarli.

«Forza, si sieda» disse Edward, aiutando un signore anziano ad appoggiarsi contro il tronco di un albero. «Tutto bene?»

L’uomo annuì ringraziandolo. Edward gli sorrise, poi tornò ad occuparsi degli altri. Afferrò la cassetta del pronto soccorso e iniziò a distribuire garze, cerotti e ghiaccio secco a chi ne aveva bisogno.

Mentre osservava Edward assistere a tutte quelle persone, Stephanie rimase sbigottita. Malgrado l’incidente e il litigio che lo aveva preceduto, il suo compagno di viaggio era comunque rimasto lucido. Anziché distrarsi come aveva fatto lei si era concentrato unicamente sul problema immediato, cioè aiutare i mortali.

In quel momento Stephanie pensò che non era stata del tutto corretta con lui, poco prima. Forse era un po’ brusco nei suoi modi, ma cercava sempre di fare la cosa giusta.

Edward gemette all’improvviso, facendola trasalire. Lo vide cadere in ginocchio, portandosi una mano sulla gamba con un’espressione sofferente.

«Edward!» lo chiamò lei, avvicinandosi. Si accovacciò accanto a lui. «Ti sei fatto male?»

«Ah… non è niente» mugugnò lui senza guardarla.

Stephanie assottigliò le labbra. Non solo aveva aiutato i mortali, ma lo aveva perfino fatto senza curarsi delle proprie ferite. Aveva messo la salute degli altri prima della propria. Quello non sembrava per niente il gesto di una persona disonesta. 

«Ho ancora un po’ di ambrosia se vuoi» disse. Si mise una mano in tasca, per poi sentire il sangue gelare nelle vene. Quanto tirò fuori l’incarto dell’ambrosia ne trovò il contenuto spappolato. Doveva averci sbattuto sopra mentre precipitavano. «Oh no…»

«Dannazione…» rantolò Edward, accorgendosene.

«As-aspetta…» Stephanie provò a versarsi ciò che rimaneva dell’ambrosia sul palmo. Posò quello che aveva raccolto nelle mani del figlio di Apollo, che fu costretto ad accontentarsi delle briciole, in tutti i sensi. La ragazza poteva solo sperare che facesse comunque lo stesso effetto. Tuttavia, oltre a quella non avevano più nulla.

Alcuni fruscii tra gli alberi fecero drizzare la testa dei due semidei. Un verso terribile si sollevò in aria, costringendola a tapparsi le orecchie. Una grossa figura nera precipitò dall’alto, fiondandosi su di loro. Stephanie gridò, scansandosi un secondo prima che gli artigli di una creatura alata le perforassero la faccia. Questa guaì frustrata e ritornò in alto, mentre un gruppo dei suoi simili si aggiungeva a lei cominciando a volare in cerchio su di loro.

La semidea osservò atterrita il gruppo di grifoni che stava volando sopra le loro teste. Quella non ci voleva proprio. I grifoni non erano famosi per la loro clemenza: erano tra i mostri più pericolosi e feroci, e non si sarebbero fermati di fronte a nulla. In condizioni normali abbatterne soltanto uno sarebbe stato difficile, e quelli erano in tanti, almeno una ventina. Venti predatori del cielo pronti a fare a brandelli dei mortali indifesi e due semidei feriti. 

Steph strinse i pugni, cercando di pensare al più presto su come uscire da quella situazione. Erano in un bosco, quindi lei aveva un vantaggio, ma doveva tenere in considerazione i mortali. Se qualcosa fosse andato storto, come a Chicago, le conseguenze sarebbero state molto più disastrose. La natura non faceva distinzione su chi fossero i suoi nemici. Grifoni, mostri, mortali, tutti quanti la stavano avvelenando. Se le cose le fossero sfuggite di mano, avrebbe potuto fare del male a quelle persone, o peggio. 

«State dietro di me!» gridò Edward mentre estraeva un coltello di bronzo celeste dalla tasca della giacca, mettendosi di fronte al gruppo di persone. Strinse i denti per il dolore alla gamba, e sollevò l’arma verso i grifoni pronto a combattere. La sua determinazione la fece riscuotere. Poteva affrontare quei grifoni o starsene ferma e lasciarsi ammazzare, la scelta era piuttosto semplice.

«Ragazzo, anche tu sei ferito!» esclamò uno dei mortali, un uomo con folti capelli e barba che prima Stephanie non aveva nemmeno notato. Indossava un giaccone logoro e un paio di occhiali da sole molto spessi sopra gli occhi.

«Non pensate a me, io…» Edward si interruppe quando lo vide. Rimase a bocca aperta sbalordito. «Ma cosa…»

«Vi aiuto anch’io!» proseguì l’uomo affiancando il figlio di Apollo. Stephanie osservò incredula la scena, domandandosi cosa diamine stesse succedendo. Avrebbe voluto avvertire quel tizio del pericolo che stava correndo, ma non ebbe il tempo per farlo: i grifoni emisero uno stridulo strillo all’unisono, poi scesero in picchiata. Stephanie non ebbe scelta. Prego sua madre, sua sorella e perfino suo cognato che tutto quanto andasse bene e che non perdesse il controllo sui propri poteri come a Chicago. 

Il grido della natura si fece nitido nella propria mente mentre attingeva all’energia racchiusa in quel bosco. La rabbia per la costruzione delle ferrovie, per gli scavi nelle montagne, per l’inquinamento nell’aria, ogni cosa divenne un tutt’uno con Stephanie, che si preparò a riversare quella collera sui grifoni.

I volatili furono così vicini da poter vedere il sangue rinsecchito tra i loro artigli. Stephanie si concentrò ed ordinò ai rami di un albero di abbatterne uno, ma un istante prima che questo potesse accadere un lampo grigio attraversò il campo visivo della ragazza e il grifone fu scaraventato contro il tronco di un albero, dissolvendosi all’impatto.

La figlia di Demetra indietreggiò di scatto, cadendo a terra per la sorpresa. Di fronte a lei era appena apparsa dal nulla la creatura più incredibile che avesse mai potuto ammirare.

All’apparenza assomigliava ad un cervo, ma non era così semplice. Il suo corpo sembrava essere ricoperto da squame blu notte, mentre a partire da sotto il collo e a salire lungo tutto il dorso un lungo manto argentato danzava e volteggiava come animato da una volontà propria, guizzando in maniera simile a delle fiamme. Aveva zampe e zoccoli da cavallo, un unico corno incurvato all’indietro spuntava in mezzo alla fronte. Il muso, invece, era come quello di un drago. Bello, maestoso, ma allo stesso tempo intimidatorio.

Non appena notarono cosa fosse successo al loro amico, i grifoni arrestarono la loro carica e retrocedettero, osservando dall’alto e strillando per la frustrazione la creatura appena giunta. Questa soffiò dal naso, scalpitando, ricambiando lo sguardo di tutti quei mostri per nulla intimidita.

I volatili attaccarono tutti insieme e la nuova arrivata rispose con qualcosa di molto tipico di un drago: una lingua di fuoco sputata dritta dalle sue fauci. Le fiamme allarmarono Stephanie per un istante, ma queste si attaccarono solamente ai mostri, ignorando invece la vegetazione. Quelle che toccarono gli alberi o l'erba si spensero senza arrecare danni. 

I grifoni non furono così fortunati. Strillarono di nuovo, questa volta per la sorpresa e per il dolore, e persero il controllo del volo. Alcuni si schiantarono e si dissolsero, altri giunsero a terra già sotto forma di polvere dorata. Coloro che sopravvissero alle fiamme proseguirono il loro attacco, incontrando gli zoccoli della creatura, che si mosse con incredibile velocità. Colpì con forza e precisione tutti i volatili abbastanza coraggiosi o stupidi da attaccarlo, spazzandoli via.

Non passò molto prima che anche l’ultimo grifone venisse distrutto. Rimasta l’ultima in piedi, la creatura portò la propria attenzione su di Stephanie, che sussultò. Quella la scrutò con i suoi occhi grigi brillanti, che rilucevano sotto la luce del sole proprio come il suo pelo. Stephanie non si mosse, in parte ammaliata da quella creatura e in parte intimorita. Non sapeva che animale fosse, né che cosa ci facesse lì. Forse quello era il suo territorio e loro lo avevano invaso. Decise di non fare passi falsi, per non infastidirla.

«Ma… ma è un unicorno…» sussurrò Edward, rimasto anche lui sbalordito. Stephanie non rispose, ma era abbastanza sicura che gli unicorni non avessero il muso di un drago.

Tutto ad un tratto, una voce rimbombò nella mente della ragazza. «Non sono un unicorno.» La figlia di Demetra gridò di spavento, sobbalzando.

«Steph, che hai?» le domandò Edward. Se non fosse stata cosi presa ad osservare incredula gli occhi di quell'animale, Stephanie si sarebbe sentita addirittura toccata dal tono di voce allarmato di Edward.

«Non temere, giovane semidea» disse ancora la voce nella sua mente, mentre la creatura annuiva. Nonostante risuonasse in maniera insolita, come coperta da un filtro, la sua voce era profonda e rassicurante, dal timbro maschile. «Non vi farò del male. Il mio nome è Fujinami. Sono qui per aiutarvi.»

«Tu… tu parli…» mormorò stupidamente Steph, incapace di dire qualsiasi altra frase di senso compiuto. Non voleva dirlo ad alta voce, ma si era stancata degli animali parlanti, buoni o cattivi che fossero. Quel serpente assurdo era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso per lei.

«Aspetta, cosa?» interrogò ancora Edward, affiancandola. «Quel coso parla?»

Fujinami scalpitò nuovamente. «Non sono nemmeno un "coso". Sono un qilin.»

Stephanie annuì come in trance, sempre senza staccare gli occhi dall’animale. «T-Tu non lo senti?»

«No.»

«Solo chi è puro di cuore può sentirmi, giovane semidea.» 

La figlia di Demetra sentì il respiro mancarle. Si voltò verso di Edward, rimanendo ad osservarlo forse per troppo tempo, e forse con un’espressione che tradiva un po’ troppo i suoi sentimenti. Edward sollevò un sopracciglio. «Steph? Che cavolo ti prende?»

«Dice… dice che solo chi è puro di cuore può sentirlo…»

Edward schiuse le labbra rimanendo in silenzio per diversi secondi, osservandola inespressivo. Poi si voltò verso il qilin, stringendo i pugni. «Mi stai prendendo in giro, vero?»

Stephanie abbassò lo sguardo. Avrebbe voluto rispondere di sì, ma i fatti erano lì di fronte a lei chiari come il sole. La creatura stava parlando con lei, non se lo stava immaginando, ed Edward non riusciva a sentirla perché non era “puro di cuore.” 

Proprio in linea a ciò che Persefone e Shinjiro avevano detto. Ancora una volta, si ritrovò senza uno straccio di idea sul suo compagno di viaggio.

«E quindi, che cosa vuoi da noi?» proseguì Edward.

«Ama No Murakumo deve essere restituita ad ogni costo, o molti innocenti perderanno la vita. Creature malvage si annidano nell’oscurità, pronte a tendervi un agguato come hanno fatto queste bestie alate. Io sono qui per proteggervi da loro e assicurarmi che la spada arrivi a destinazione.»

Stephanie ripeté le parole di Fujinami ad Edward, che sembrò rilassarsi. «Oh… beh, un aiuto in più è sempre gradito.»

 «Quindi… sono stati i grifoni a far deragliare il treno?» domandò Stephanie, deglutendo.

«No. Loro erano solo delle marionette. Un pericolo molto più grande trama alle nostre spalle. Dobbiamo sbrigarci.»

L’espressione di Stephanie dovette essere più che sufficiente per permettere ad Edward di capire che no, non erano stati i grifoni.

«Ma… ma i mortali?» chiese ancora la figlia di Demetra, voltandosi verso di loro. Stavano osservando i ragazzi e il qilin confusi, con le palpebre assottigliate. Qualcuno si grattò la testa, qualcun altro domandò cosa stesse succedendo. Non sembrava nemmeno che li stessero vedendo davvero. Era come se si stessero concentrando su delle immagini sfocate. Stephanie sapeva che la Foschia a San Francisco era molto potente, ma non pensava che si estendesse fino al confine dello stato. C'era qualcos'altro tra i mortali e loro, come un muro invisibile.

«Ci penserò io a loro, non temete» disse l’uomo con gli occhiali da sole di poco prima. Incrociò le braccia, sorridendo smagliante. «Andate pure voialtri. Avete ancora molta strada da fare.»

Stephanie ed Edward osservarono quel tizio confusi. Poco prima si era offerto di aiutarli contro i grifoni, come se anche lui riuscisse a vederli per quello che erano davvero, e a quanto pareva sapeva anche che dovevano fare ancora un lungo viaggio. Quell’individuo non poteva essere un mortale come gli altri.

«Io ti ho già visto» disse Edward all’improvviso, rivolgendosi a lui. «Eri a Kansas City, davanti a quel negozio. Come ci sei arrivato qui?»

Quello sollevò le spalle. «Con il treno, no? Che domande!»

«Ma non eri tra i passeggeri che abbiamo aiutato» insistette Edward, per poi mettersi in posizione da combattimento, puntandogli il coltello. «Sei anche tu uno yōkai?!»

L’uomo rise. «Ragazzo mio, se c’è qualcuno che dovrebbe sapere chi sono, quello sei proprio tu.»

Edward corrucciò la fronte. Abbassò il coltello, rimanendo in silenzio, concentrandosi sull'uomo come i mortali stavano facendo su di loro.

«Niente?» incalzò l'individuo, allargando il sorriso. «Non temere, vedrai che ti verrà in mente. Ora, però, vi consiglio di rimanere con lui» ed indicò Fujinami. «Non capita spesso di incontrare un qilin. Sono portatori di buon auspicio, sapete? Se ha deciso di aiutarvi, è perché ha capito che le vostre intenzioni sono nobili. Non abbiate paura, potete fidarvi di lui.»

Fujinami annuì. «Anche i mortali saranno al sicuro, con lui.»

Stephanie fece vagare lo sguardo tra il qilin e il tizio sconosciuto in maniera compulsiva. In altre circostanze tutta quella situazione sarebbe sembrata una trappola organizzata ad hoc, ma il qilin aveva sconfitto i grifoni e se quell’uomo davvero avesse voluto fare qualcosa di male, lo avrebbe già fatto. 

Il motivo per cui i loro nemici li cercavano era la Spada del Paradiso, ma quell'uomo non l'avrebbe potuta ottenere da quelle persone. Stava lasciando andare via Edward e Stephanie senza opporre nessuna resistenza, e non sembrava avere secondi fini. Fujinami aveva anche garantito per lui come se sapesse di chi si trattasse. 

Stephanie incrociò lo sguardo di Edward. Lui non sembrava molto convinto, ma alla fine si limitò a scrollare le spalle. Mise via il coltello, osservando l'uomo misterioso, che rivolse loro un cenno del capo, facendosi serio. «Non siete gli unici a voler scongiurare la guerra, coraggiosi eroi. Sono molte le forze in gioco. So che il viaggio riguarda voi soltanto, ma non siete da soli. Anche noi vi aiuteremo come potremo. Lo giuro sullo Stige.» 

Stephanie schiuse le labbra. Non tutti giuravano sullo Stige. Era qualcosa da non prendere sotto gamba. Se quell'uomo lo aveva fatto, allora era sincero, e quella fu la prova definitiva che non era un mortale. La ragazza lanciò un'ultima occhiata ai passeggeri del treno, poi riportò lo sguardo sull'individuo. «Capisco. Allora la ringrazio.» Quello tornò a sorridere. Anche Edward annuì, rimanendo in silenzio.

ll qilin cominciò a camminare, invitandoli a seguirlo, e i due ragazzi si avviarono dietro di lui. Alle loro spalle, l'uomo senza nome li salutò un'ultima volta.

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Capitolo 22
*** La furia della natura ***


22

La furia della natura

 

 

Per diverso tempo gli unici rumori che udirono furono quelli dei loro passi unito al canto di alcuni uccellini sparpagliati tra gli alberi. Di tanto in tanto potevano perfino sentire qualche picchio che martellava il legno con il becco. Era una bella giornata, con il sole caldo e splendente. In un certo senso Stephanie si sentì meglio in quel luogo, in mezzo alla natura, piuttosto che in treno. La paura per lo scontro con Orochi aveva cominciato ad allentarsi, ma era anche complice il fatto che Fujinami si trovasse insieme a loro.

Il qilin camminava spedito facendo loro da guida, e Stephanie non poté non notare quanto felpati fossero i suoi passi. Si muoveva con così tanta leggerezza da sembrare un gatto, l’erba nemmeno si schiacciava sotto i suoi zoccoli.

Ancora non le sembrava vero di aver incontrato qualcuno che volesse aiutarli. Forse sarebbe riuscita a sconfiggere i grifoni in ogni caso, ma l’arrivo di Fujinami era stato provvidenziale. E anche quel misterioso uomo che si era offerto di occuparsi dei mortali era stato di enorme aiuto. A quanto pareva, Edward avrebbe dovuto sapere di chi si trattasse, ma il figlio di Apollo non aveva più detto nulla in merito. A Stephanie venne da chiedersi se quella fosse l’ennesima informazione che Edward aveva deciso di tenere per sé o se davvero anche lui fosse all’oscuro della sua identità.

Quando aveva chiesto a Fujinami se sapesse chi fosse quell’uomo, lui aveva risposto che sarebbe stato meglio se lo avessero scoperto da soli, ribadendo comunque che fosse dalla loro parte.

Nonostante questo, il pensiero che più l’aveva tenuta occupata era un altro. Fujinami aveva detto che solo chi era puro di cuore poteva sentirlo, e a quanto pare Edward non era tra questi. Persefone aveva detto di non fidarsi di lui, poi era sbucato fuori Shinjiro che aveva pressappoco detto lo stesso, e ora quello. Tutti gli indizi puntavano contro di Edward. E lui doveva aver intuito lo stato d’animo della ragazza, perché per tutto il tempo, da quando erano partiti, non aveva fatto altro che lanciare occhiate fugaci verso di lei senza dire una parola, come se si aspettasse che lo accusasse di nuovo da un momento all’altro.

Ancora una volta quel comportamento non fece altro che rafforzare ancora di più i sospetti che Stephanie nutriva verso di lui. Non aveva il coraggio di usare la parola traditore per definirlo, perfino disonesto le era sembrato troppo, tuttavia ci aveva pensato diverse volte mentre camminavano.

E se Edward avesse voluto tradire l’impresa, in qualche modo? Non aveva idea di come avrebbe potuto farlo, ma le ipotesi le sembravano una peggiore dell’altra. Non poteva fare altro che rimanere attenta e tenere d’occhio eventuali passi falsi.

Alcuni fruscii tra i rami le fecero drizzare la testa. Il trio si fermò di scatto ed Edward estrasse il coltello dalla tasca. «C’è qualcuno qui.»

Stephanie cominciò a sentirsi osservata, anche se attorno a loro non c’erano altro che alberi. La ragazza aguzzò i sensi, osservando in ogni direzione cercando di percepire movimenti sospetti attorno a loro.

«Non abbiate paura» disse Fujinami. Ancora una volta la sua voce fece sussultare la ragazza. Non si sarebbe mai abituata a sentirla rimbombare proprio dentro la sua mente. «Non vi faremo del male.»

La figlia di Demetra osservò confusa il qilin. Volle domandargli cosa volesse dire, ma le parole le morirono in gola quando alcuni bizzarri esserini cominciarono a sbucare fuori con timidezza da dietro gli alberi. Stephanie schiuse le labbra incredula. Era passata dall’ammirare una creatura maestosa come Fujinami ad un gruppo di esseri che potevano essere descritti come tanto carini quanto inquietanti.

Erano antropomorfi, non alti più di mezzo metro. Non avevano mani, piedi, tratti fisici, nulla. Erano dei semplici corpi bianchi che emettevano una flebile luce, con tre cavità nere dove avrebbero dovuto trovarsi gli occhi e la bocca.

«Kodama» constatò Edward, abbassando l’arma.

A Stephanie tornò in mente la sera del Consiglio, quando Edward e Chirone avevano spiegato cosa stava succedendo. Avevano menzionato alcune creature che erano andate a vivere nel bosco del Campo Mezzosangue. Erano quelle, dunque. I kodama, le controparti oltreoceano delle driadi.

Fujinami annuì. «Anche loro sentono la presenza della spada, ma non ci faranno del male. Non tutte le creature che percepiscono il potere di Ama no Murakumo hanno cattive intenzioni.»

Alla figlia di Demetra parve che i kodama fossero interessati di più al qilin stesso che ad Edward. Osservavano la creatura come se per loro fosse un dio, o almeno sembrava che lo stessero facendo. Era difficile intuire le loro emozioni, con quelle loro facce.

Fujinami abbassò la testa di fronte ad una di loro, lasciandosi carezzare. Stephanie sorrise senza nemmeno accorgersene, intenerita. Non era molto sicura, ma il qilin non sembrava affatto il tipo che si lasciava toccare proprio da tutti.

«Anche tu hai percepito Ama no Murakumo» cominciò a dire, attirando l’attenzione di Fujinami. «Per questo ci hai trovati. Giusto?»

 «Sì. Ma non è l’unico motivo.» Fujinami si rialzò e rivolse un cenno del capo alle creature, che tornarono a nascondersi in mezzo agli alberi. Il qilin riprese la marcia e i due ragazzi lo seguirono, mentre la sua voce continuava a risuonare nella mente di Stephanie. «Siamo molto simili, giovane semidea. Il mio compito è proteggere dal male questo mondo e le creature indifese che lo popolano. L’amore che tu provi per la natura che ti circonda è lo stesso che provo anche io. Sei nobile di cuore, e non potevo permettere che ti accadesse qualcosa. C’è bisogno di più persone come te, in questi tempi bui.»

«Oh» mormorò Steph, sentendosi perfino imbarazzata da quelle parole. Ripensò alle fiamme che Fujinami aveva sputato contro i grifoni, le quali non avevano intaccato nulla a parte loro, e a come i suoi passi non rovinassero nemmeno il più sottile dei ciuffi d’erba. Non c’era alcun dubbio che anche lui tenesse davvero a tutto ciò che lo circondava. Aveva ragione, erano davvero simili. Per questo motivo si sentì sempre più convinta che conoscerlo fosse stata la cosa migliore che potesse succedere. Non solo era potente, ma era anche loro alleato.

Tuttavia le fu impossibile non accorgersi del fatto che Edward non fosse stato nemmeno menzionato. Fujinami le aveva praticamente detto di essere accorso soltanto per salvare lei e Ama no Murakumo. Si sentì dispiaciuta per il figlio di Apollo, che malgrado tutto sembrava continuare a non ottenere l’approvazione di nessuno.

«Che ti ha detto?» domandò proprio Edward, interrompendo il filo dei suoi pensieri.

La ragazza esitò. «Beh… che siamo simili. Entrambi teniamo alla natura» rispose, vagheggiando.

Il ragazzo la squadrò per qualche istante, poi grugnì e distolse lo sguardo. «Potresti chiedergli se sa dove sono finiti gli altri?»

«Sì, certo» rispose Stephanie, sentendosi in colpa per non aver più ripensato a Thomas, Lisa e Konnor. Erano successe troppe cose in troppo poco tempo. Sperò con tutta sé stessa che stessero tutti e tre bene. «Ma Fujinami può sentirti, non serve che tu dica a me…»

«Mh mh» mugugnò Edward per tutta risposta. «Allora, lo sa o no?» 

Stephanie si voltò verso il qilin con espressione mortificata. Fujinami tuttavia rispose paziente: «Ho avvertito le presenze dei vostri tre amici allontanarsi molto rapidamente da dove vi trovavate voi due. Si trovano molto lontani da qui, ma per ora stanno bene.»

«Ehm… “per ora”?» domandò Stephanie incerta, mentre una terribile sensazione di angoscia iniziava ad assalirla.

«I mostri potrebbero essere anche sulle loro tracce.» 

«Oh, no!» esclamò la figlia di Demetra. «E non possiamo raggiungerli?»

Era preoccupatissima per loro. Konnor non era più sembrato lo stesso dopo la vicenda con Campe e anche Lisa pareva piuttosto scossa. E non era nemmeno il caso di parlare di Tommy. Le sarebbe piaciuto chiamarli con un messaggio Iride, ma purtroppo aveva restituito a Thomas l’attrezzatura per creare gli arcobaleni. Le rimaneva un pugno di dracme, ma da sole erano inutili.

«So che vorresti salvare i tuoi amici, giovane semidea» disse Fujinami, mentre Edward cominciava a sbracciarsi per far capire che anche a lui sarebbe piaciuto essere reso partecipe della discussione. «Ehm, allora? Si può sapere che vi state dicendo voi due?!»

Il qilin lo ignorò. «Tuttavia Ama no Murakumo in questo momento ha la priorità. Mi dispiace. Se può farti sentire meglio, i loro spiriti sono forti. Sono certo che staranno bene.»

Stephanie si morse un labbro. Sì, Fujinami aveva ragione. Konnor, Lisa e anche Tommy erano in gamba. Potevano cavarsela da soli. Inoltre l’obbiettivo principale dei mostri era la Spada del Paradiso, e quella adesso era con loro. I figli di Ares, Bacco ed Ermes avrebbero attirato di gran lunga meno l’attenzione rispetto a lei ed Edward.

Mentre proseguivano, Stephanie raccontò ad Edward cosa Fujinami le avesse appena detto, e il figlio di Apollo si rabbuiò. «Non mi piace questa storia. Chiunque ha fatto deragliare il treno starà cercando anche loro. Forse dovremmo lasciar perdere Ama no Murakumo per un attimo e andare a cercarli.»

«I vostri amici non saranno gli unici in pericolo se non restituiremo Ama no Murakumo in tempo. Capisco come ti senti, figlio di Apollo, ma in questo momento il tuo compito è un altro. Hai un dovere da adempiere nei confronti della spada, degli dei e anche delle persone a cui tieni. Distogliere lo sguardo dall’obiettivo principale proprio adesso potrebbe costare la vita di tutti noi. Non confondere l’altruismo con l’ingenuità.»

Stephanie ripeté le parole del qilin, esitando sull’ultima frase. Non era molto sicura dell’effetto che avrebbe avuto sul ragazzo.

Edward squadrò Fujinami poco convinto, ma non obiettò. Non sembrava molto desideroso di discutere ancora con lei o con Fujinami. E se Steph credeva davvero di conoscerlo, avrebbe scommesso che nonostante tutto avrebbe continuato a pensare a come salvare gli altri tre ragazzi. Forse era proprio questo il suo problema. Forse il suo desiderio di aiutare sempre gli altri e, come aveva detto Fujinami, il suo costante distogliere lo sguardo dall’obiettivo principale erano la causa di tutti i dubbi che erano stati instillati in Stephanie.

Bastava pensare a ciò che Edward aveva quasi fatto quando era stato catturato da Campe. Per un momento aveva preferito cedere la Spada del Paradiso solo per poter salvare la vita dei suoi compagni. Magari era davvero quella la sua croce; sperava sempre di poter aiutare chiunque ne avesse bisogno, ed era anche disposto a pagare prezzi salatissimi per farlo.

Poteva davvero essere quella la differenza tra loro due. Anche Stephanie voleva aiutare i suoi amici, ma lei non aveva un compito importante come Edward da portare a termine. Le azioni del figlio di Apollo, per quanto giuste potessero sembrare a breve termine, avrebbero potuto comportare conseguenze catastrofiche sul lungo andare. La ragazza sollevò lo sguardo al cielo, realizzando che avrebbe dovuto riflettere ancora a lungo su quelle considerazioni prima di trarre una conclusione.

Proseguirono a lungo, rimanendo in silenzio. Di tanto in tanto Fujinami forniva loro indicazioni su dove si trovavano, ma oltre a quello nulla. A quanto pareva stavano per raggiungere la Valle Centrale di California. La città più vicina era Sacramento, da lì forse avrebbero potuto rimediare un taxi per San Francisco, e forse avrebbe anche potuto mandare un messaggio Iride a Konnor, Thomas e Lisa per avvisarli di raggiungerli là. Durante il viaggio aveva preso uno zainetto nuovo per metterci dentro qualche provvista, ma dopo i due giorni in treno si erano quasi del tutto esaurite. Se non avessero raggiunto la città entro sera, avrebbero rischiato di avere problemi sia di cibo che acqua. A giudicare dal cielo doveva essere appena dopo mezzogiorno, perciò avevano ancora tempo. Potevano farcela, anzi, dovevano farcela.

Fecero una breve sosta per riposare. Secondo Fujinami mancava solo qualche chilometro alla Valle Centrale, poi da lì sarebbe stato più semplice proseguire. Il grosso del lavoro ormai lo avevano fatto. La loro guida si sdraiò a terra, tenendo la testa alta e le orecchie dritte per captare eventuali pericoli. Edward non si fece molti scrupoli e si stravaccò contro il tronco di un albero, mugugnando esausto. 

Stephanie si sedette a gambe incrociate sul lato opposto di quella piccola radura, distanziandosi dal figlio di Apollo. Avrebbe voluto scusarsi con lui per la scaramuccia di qualche ora prima, ma non riusciva a trovare il coraggio per farlo. D’altro canto, nemmeno il suo compagno di viaggio sembrava incline a venirle incontro. Cominciò a credere che sarebbe passato ancora un po’ prima che i due trovassero la forza di parlare di nuovo con scioltezza.

La figlia di Demetra poteva immaginarsi senza troppe difficoltà Afrodite che rideva deliziata della sua incapacità di approcciarsi con i ragazzi. Si domandò come sarebbero andate le cose se in quel momento si fosse trovata con Konnor anziché con Edward. Era certa che tutto quanto non sarebbe mai andato così male. Per prima cosa, con Konnor non avrebbe mai litigato. E lui non avrebbe mai e poi mai usato la storia di Chicago contro di lei. 

Le venne da chiedersi se era quello ciò a cui la dea dell’amore si era riferita, quando le aveva detto che le cose si sarebbero complicate. I suoi pregiudizi e i suoi dubbi verso di Edward l’avevano portata a tirare fuori il peggio da sé stessa, e lui, testardo e sprezzante com’era, non si era fatto alcuno scrupolo a risponderle a modo.

Il figlio di Apollo teneva la testa appoggiata contro il tronco dell’albero, gli occhi smarriti nel nulla. Sembrava parecchio assorto. Come biasimarlo. Non doveva essere semplice dover convivere con il peso di quell’impresa. E scoprire che lei non si fidava di lui di certo aveva peggiorato le cose. Si sentì in colpa per ciò che gli aveva detto, lei voleva fidarsi di lui, con tutta sé stessa, ma c’erano troppi elementi che le impedivano di farlo.

Rimase ad osservare Edward un po’ troppo a lungo, perché lui se ne accorse. Drizzò la testa verso di lei e la ragazza sussultò. I due si osservarono in silenzio per un periodo di tempo incalcolabile. Un brivido percorse tutta la spina dorsale di Stephanie, che affondò le mani nella terra per la tensione. Cominciò a sentirsi proprio come si era sentita sul treno, quando i suoi sensi l’avevano messa in guardia da lui. Questa volta, però, tutto fu amplificato a dismisura.

Il legame che lei aveva con la natura era superiore a quello che i suoi fratelli avevano, lei poteva percepire le emozioni vere e proprie di ciò che la circondava. Aveva percepito la rabbia della natura in quel cantiere a Chicago, così come il suo desiderio di rifiorire, e lo stesso era successo mentre stava per combattere con i grifoni. E in quel momento, ogni singola traccia di vegetazione di quella radura le stava dicendo che Edward era un pericolo.

Forse la natura percepiva il potere di Ama no Murakumo, ma non era mai successo prima. Che stava succedendo?

Fujinami si alzò di scatto, facendo trasalire ancora una volta la figlia di Demetra. «Ci hanno trovati.»

Stephanie non ebbe bisogno di spiegazioni. Un ruggito così forte da farle vibrare i denti la fece saltare in piedi. Tra gli alberi, il profilo di una creatura enorme cominciò a stagliarsi. La ragazza arretrò verso il centro della radura, dove Edward e Fujinami si erano già riuniti per esaminare il mostro appena sbucato tra gli alberi.

Il corpo e la testa erano quelli di un leone con la folta criniera, mentre una lunga coda da scorpione spuntava al fondo del suo dorso: una manticora. Stephanie si irrigidì; prima i grifoni, e ora quello. Sulla loro strada si stavano mettendo creature sempre più pericolose.

Non appena Fujinami vide il mostro scalpitò innervosito ed emise uno strano ringhio. Per tutta risposta la manticora ruggì così forte da far tremare il terreno. Stephanie si preparò a combattere. Nonostante fosse più potente, la manticora poteva essere più semplice da sconfiggere rispetto ai grifoni. Era una creatura terrena, si trovava nell’ambiente naturale di Stephanie e non c’erano mortali che avrebbero potuto rimanere coinvolti. 

«State indietro» ordinò tuttavia Fujinami. «Me ne occupo io.»

«Non… non vorrai affrontarla da solo?» mormorò Stephanie. Udendola, perfino Edward sembrò avere da ridire: «Aspetta, cosa?»

«Non temete. Quella creatura non può farmi nulla.»

«Ma…»

Fujinami non la lasciò finire. Partì all’attacco, sfoggiando ancora una volta la sua incredibile velocità. Era molto lontano dal livello dei kamaitachi, ma era comunque incredibile. La manticora non sembrò preoccupata dalla sfida, perché emise un altro ruggito adirato e caricò a sua volta.

I due quadrupedi si scontrarono con violenza. Fujinami batté con forza il corno sul muso della manticora, che grugnì frustrata. Il mostro sollevò una zampa per respingere il qilin, ma i suoi artigli affilati non raggiunsero il suo avversario, che schivò l’attacco con agilità.

Fujinami aggirò la manticora e saltò all’indietro, evitando la coda da scorpione che tentò di trafiggerlo. Rispose sputando le sue fiamme azzurre dalla bocca, ma questa volta fu la manticora a scansarsi in tempo, per poi tornare alla carica. Fujinami si impennò sulle zampe posteriori e tornò a scontrarsi con la creatura in un groviglio di artigli e zoccoli. Il mostro era più grande del qilin, ma Fujinami era più rapido, e i suoi attacchi sembravano molto più forti ed efficaci. Riuscì a connettere diverse volte con gli zoccoli, regalando ferite non indifferenti al muso della manticora, che dal canto suo non riusciva nemmeno a sfiorare l’avversario.

Stephanie rimase sbalordita dalla forza di Fujinami. Di quel passo avrebbe sicuramente vinto. Mentre lo scontro procedeva, tuttavia, la ragazza scorse diverse altre figure muoversi tra gli alberi. Sgranò gli occhi. «Attento Fujinami!»

Il qilin drizzò la testa, mentre uno stormo di grifoni usciva dalla vegetazione per scendere in picchiata su di lui. Ne allontanò alcuni con le sue fiamme e si liberò degli altri con gli zoccoli, ma distolse l’attenzione dalla manticora. Il mostro ruggì ancora e lo caricò prima che se ne accorgesse, colpendolo al collo con una poderosa zampata.

«Fujinami!» lo chiamò Stephanie, mentre il qilin ruzzolava sul suolo. Non poteva rimanere ferma. Cercò di usare i suoi poteri per controllare gli alberi ed aiutare il qilin, ma un altro grifone apparve dal nulla, aggredendola di lato. Steph gridò e cadde a terra, mentre una fitta di dolore terribile le assaliva il fianco. Il grifone che l’aveva puntata strillò di trionfo e scese di nuovo in picchiata su di lei.

«Steph!» Edward si frappose, sollevando un braccio per proteggersi. Urlò per il dolore quando gli artigli del volatile si conficcarono nella sua carne, ma strinse comunque i denti ed affondò il coltello sotto il collo del mostro, strappandogli un gorgoglio strozzato. Il grifone si dissolse ma Edward crollò in ginocchio con un gemito. Lasciò cadere il coltello e si afferrò il braccio che stava grondando di sangue sotto la manica strappata.

Dall’altra parte della radura, la manticora era riuscita a sovrastare con la sua stazza il qilin, bloccandolo a terra. Sollevò gli artigli un’altra volta per finirlo, ma Fujinami riuscì a salvarsi sputando altre fiamme, che questa volta intaccarono la criniera del suo avversario.

Altri strilli squarciarono i timpani della figlia di Demetra, mentre altre sei di quelle bestiacce alate apparivano dal nulla per prendere il posto di quello eliminato da Edward. Il figlio di Apollo si rimise in piedi, osservandoli dal basso con odio. Strinse il braccio ferito per la rabbia così forte che Stephanie provò dolore soltanto a guardalo. «Maledetti polli…» rantolò. «Se solo avessi il mio arco…»

I grifoni sfoderarono gli artigli, pronti a banchettare dei due semidei. Dall’altra parte della radura, Stephanie scorse Fujinami alle prese con altri grifoni e la manticora. Nonostante fosse potente, quelle creature assieme erano troppo perfino per lui. Le sue squame blu erano imbrattate di una sostanza grigia, forse il suo sangue. Vederlo ridotto in quel modo fu un colpo al cuore per Steph. Era accorso fino a lì per salvarli, per aiutarli a consegnare la spada e scongiurare la guerra, per proteggere i più deboli. Ora, però, era lui ad avere bisogno di aiuto.

La ragazza si concentrò, chiamando a raccolta ogni singolo elemento di quella radura in grado di rispondere ai suoi poteri. Animata dal desiderio di rispedire quei mostri nel Tartaro si sentì rinvigorire da un’energia del tutto nuova. Il dolore al fiancò si spense mentre gli urli nella sua mente crescevano di misura. Quel luogo un tempo immacolato era già stato macchiato dall’uomo, non avrebbe permesso che anche quei mostri continuassero a scorrazzarci dentro in quel modo, e soprattutto non avrebbe lasciato che la nobiltà e l’altruismo di Fujinami venissero puniti con la perdita della sua vita.

Un groviglio di rami e radici prese vita come un unico essere, animata dalla furia della natura e della figlia di Demetra. La manticora fu afferrata per le zampe proprio mentre stava per infierire una volta di troppo su Fujinami, ormai rintanato contro un albero. Ruggì sorpresa, ma fu l’unica cosa che riuscì a fare: le radici si attorcigliarono attorno a lei, avvolgendola come una molla. Il mostro provò a dimenarsi, ma fu una battaglia persa in partenza. Ululò frustrata un’ultima volta, prima di essere stritolata fino alla sua morte. I grifoni accorsero in aiuto del loro alleato, ma i rami degli alberi si allungarono formando una ragnatala invalicabile, afferrando i volatili uno ad uno, anche quelli che furono abbastanza veloci da evitare il primo assalto.

Stephanie sferzò l’aria con una mano e le piante al suo comando si mossero in sincrono con lei, andando a sbattere con forza i mostri che tenevano in ostaggio sul suolo, dissolvendoli all’istante. I sei grifoni rimasti a vegliare sui semidei pensarono di poterla cogliere di sorpresa attaccandoli alle spalle, ma altrettanti rampicanti si eressero dal terreno tagliando loro la strada ed infilzandoli da parte a parte come spiedini, strappando ancora una volta loro quei gorgoglii strozzati e doloranti che la ragazza cominciò ad apprezzare.

Il dolore e la sofferenza erano ciò che quelle creature meritavano per essersi messi sulla loro strada.

La figlia di Demetra trasalì non appena ebbe quel pensiero. No… non era vero. Lei non voleva far soffrire nessuno. Tutto quello che aveva fatto lo aveva fatto per difendersi. La ragazza si massaggiò una tempia facendo un verso impastato, mentre rami e radici si ritiravano e tornavano al loro posto in quella radura in cui ormai era tornata la quiete. Nonostante i mostri fossero stati sconfitti e i suoi amici salvati, ebbe comunque un moto di angoscia.

Per poco non stava per succedere di nuovo. Come contro Campe e i suoi mostri, aveva perso il controllo e aveva cominciato a provare un sadico piacere nell’osservare la natura calpestare tutte quegli esseri a lei inferiori. Non poteva permettere che quella parte celata di lei prendesse il sopravvento. Inspirò ed espirò, calmando il respiro e il battito del cuore irregolari che solo in quel momento si accorse di avere.

«Stephanie» mormorò Edward. «Tutto ok?»

Steph riuscì a riscuotersi. Le scappò una risata nervosa quando udì il tono preoccupato del compagno. Aveva quasi perso un braccio per proteggerla e riusciva comunque ad essere preoccupato per lei. Era pazzesco.

«Mai stata meglio» mentì. «Tu, invece? Ti fa male il braccio?»

Si pentì di aver fatto quella domanda non appena finì di formularla. Il sangue che grondava dalla manica della giacca sarebbe dovuta essere una risposta sufficiente per chiunque.   

«Mi è successo di peggio» borbottò lui sollevando le spalle, sminuendo come al solito la gravità delle sue condizioni. Sorrise come a rafforzare quell’affermazione, ma non solo: una vena di ammirazione si accese nei suoi occhi castani. «Comunque sei stata fantastica. Li hai spazzati via tutti.»

Pregando ogni dio che conoscesse di non essere arrossita, Stephanie distolse lo sguardo per l’imbarazzo. Non sapeva cosa fosse peggio, Edward che si preoccupava per lei oppure che le rivolgeva un complimento. Se non altro l’azione era riuscita a farli unire di nuovo e a mettere da parte il cattivo trascorso sul treno. Lei stessa lo aveva detto: erano una squadra. Quando la situazione lo richiedeva, dovevano mettere da parte le divergenze e comportarsi come un ingranaggio ben oliato. Era anche questo, dopotutto, ciò che avevano insegnato loro al Campo Mezzosangue.

Fujinami si avvicinò, calamitando l’attenzione di Stephanie. Anche lui era conciato piuttosto male, ma malgrado le ferite si muoveva eretto e a testa alta, con quella sua aura autoritaria e regale. In un certo senso sembrò perfino più fastoso del solito. Le sue ferite erano la dimostrazione che il qilin poteva essere scalfito, poteva sanguinare, ma non poteva essere piegato. Come un fulmine a ciel sereno, Fujinami chinò la testa verso la sua direzione, prostrandosi in un gesto quasi di sottomissione. «Ottimo lavoro, giovane semidea.»

Ancora una volta, Stephanie sentì le guance imporporarsi. Non era un’esperta, ma il qilin non sembrava il tipo che si complimentava con chiunque. Ricevere tali parole e un simile segno di rispetto da parte sua fu un grande onore e privilegio per lei. La ragazza ricambiò il gesto, rimanendo in silenzio in segno di rispetto. E anche perché non voleva rovinare quel momento dicendo qualcosa di stupido.

Si ripeté come fosse felice di aver conosciuto Fujinami. Era una creatura speciale, in un certo senso lo percepì come un suo spirito affino, similmente a quello che era accaduto tra Tommy e le kamaitachi. Fu bello sapere che malgrado l’abisso culturale che c’era tra di loro, potevano esistere comunque rapporti di quel genere tra greci e nipponici. Potevano essere diversi all’esterno, ma l’aspetto delle loro anime era il medesimo.

Non aveva davvero bisogno di altri motivi per voler scongiurare la guerra tra gli dei oltre al voler salvare milioni di vite, ma quello andò comunque ad aggiungersi alla lista: se davvero la guerra fosse scoppiata, allora lei e il resto dei semidei si sarebbero trovati schierati dalla parte dei loro genitori divini, mentre Fujinami, i kodama, le kamaitachi e tutti quegli esseri loro simili, buoni o cattivi che fossero, si sarebbero trovati sull’altro piatto della bilancia.

Non voleva che la guerra li trasformasse tutti quanti in nemici. Erano tutti sulla stessa barca, tutte creature di ugual peso che popolavano quel luogo meraviglioso che era il loro mondo, non dovevano combattere, non dovevano farsi la guerra, perché in tal caso gli unici a vincere sarebbero stati quelli come Orochi.

«Ma che state facendo?» domandò Edward. Stephanie saltò di nuovo in piedi. Si era fatta trasportare dall’emozione e aveva scordato che il figlio di Apollo non poteva udire Fujinami. Chissà che aveva pensato quando li aveva visti chinarsi l’uno di fronte all’altra.

«Ehm…» mugugnò Stephanie. La tensione per la battaglia si era sciolta del tutto e di fronte a quella situazione così bizzarra le scappò un sorrisetto divertito. Essere semidei alla fine significava anche quello: inchinarsi a qualche creatura magica e chiacchierare con loro come se nulla fosse.

Non rispose davvero ad Edward, ma il ragazzo sembrò non darci peso perché emulò il sorriso. Anche Fujinami si raddrizzò, rimanendo impassibile come al suo solito. Rivolse un cenno del capo ad entrambi. «Dobbiamo riprendere la marcia. Questo luogo non è più…»

Un fruscio tra gli alberi della radura lo fece interrompere. Qualcosa trapassò d’improvviso il fitto fogliame. Un istante prima che Stephanie potesse capire cosa fosse appena successo, Fujinami emise un altro grido straziante. Stramazzò di lato, una lunga asta sottile conficcata nel suo fianco.

Il cervello di Steph non riuscì a metabolizzare l’accaduto a causa della rapidità con cui tutto era successo. Quando urlò il nome del qilin a perdifiato, la sua stessa voce giunse ovattata alle sue orecchie. Corse verso di lui, chinandosi accanto alla sua figura esanime.

«Devo sempre fare tutto io» borbottò una stanca voce baritonale. Con gli occhi appannati dalle lacrime, Stephanie osservò un uomo imponente mettere piede nella radura. «Non ho voglia di combattere con voi due. Fatevi uccidere subito e facciamola finita.»

L’individuo appena giunto era alto quasi quattro metri. Indossava una toga malridotta e i suoi lunghi capelli verdi e sporchi arrivavano all’altezza della schiena, da dove cominciavano due gambe squamose come le zampe di un rettile. Tra le mani stringeva un’altra di quelle lunghe lance di legno, con una pietra affilata come punta.

Aveva un’aria famigliare. Stephanie era certa che avrebbe dovuto sapere chi era. Ma in quel momento, l’unica cosa a cui poteva prestare attenzione era Fujinami. Il qilin era a terra boccheggiante, con la lingua di fuori, una scia di sangue grigiastro raggrumata dove quella strana lancia lo aveva trafitto. Quella scena era inaccettabile per lei. La sua mente si rifiutava di accettare che Fujinami potesse essere stato ridotto in quelle condizioni.

Lui aveva a cuore la vita di tutte le creature viventi, era il loro protettore dal male, ogni cosa che faceva era a beneficio del mondo che lo circondava. E quel mostro disgustoso lo aveva colpito a morte proprio di fronte a lei, mentre era distratto come se non bastasse. La figlia di Demetra si rimise in piedi senza neanche accorgersene, mentre stringeva i pugni così forte da farsi male alle dita. Si conficcò le unghie nei palmi quasi fino a sanguinare, mentre in ogni fibra del suo essere si accendeva la fiamma di una rabbia che andava perfino a surclassare quella che aveva sentito contro Campe.

Una strana luce verde comparve nella periferia del suo sguardo, mentre richiamava ancora una volta a sé il potere di ogni singola pianta o ciuffo d’erba non solo di quella radura, ma di quel bosco intero. Avrebbe fatto pentire amaramente quell’essere per ciò che aveva fatto. 

«S-Steph?» domandò una voce alle sue spalle, una venatura di paura nel tono. Stephanie si voltò, mentre Edward indietreggiava da lei, l’angoscia che trapelava dal suo volto. «Steph, che stai…»

Stephanie non lo lasciò finire. Mosse la mano, ordinando alla natura di attaccare. I rami degli alberi si animarono al suo comando ed andarono ad afferrare il colosso per le gambe e le braccia. Malgrado gli occhi appannati dalla rabbia, Stephanie si rese conto dell’identità di quel tizio: era Oto, uno dei gemelli. Rimase paralizzata per un istante, non credendo a ciò che stava vedendo. 

«Oh, per la miseria! Figlia di Demetra, ho detto che non volevo combattere!» protestò Oto, tirando con forza per cercare di sciogliere la presa. La stretta dei rampicanti vacillò e Stephanie serrò i denti, concentrandosi per mantenerlo imprigionato. Non aveva importanza come o perché Oto si trovasse lì. Aveva fatto del male a Fujinami e avrebbe pagato.

Stephanie gridò e sollevò anche l’altra mano. Il bosco intero si mosse al suo comando e la vegetazione andò ad afferrare ogni lembo di pelle dell’immenso corpo del gigante, che continuò a lottare e a protestare. Gli alberi si piegavano da quanto forte si dimenava, alcuni rami si strapparono e la ragazza udì le loro grida di dolore, ma non vacillò. Niente, niente, era più forte della natura. La natura era la madre che dava vita ad ogni cosa, e così come creava, così poteva distruggere. Nessun Dio, Titano o Gigante avrebbe potuto resistere alla sua furia alimentata da secoli e secoli di soprusi.

I rami lo intrappolarono al punto da riuscire a sollevarlo da terra di qualche centimetro, ed Oto sgranò gli occhi apparendo genuinamente allarmato.

La ragazza tirò indietro i gomiti e l’esercito di rampicanti che aveva usato per intrappolare il gigante si piegò verso di lei, tendendosi come corde di violino. Il gigante, ormai spaventato per davvero, cercò ancora di dimenarsi. «Fermati subito, mocciosa! Non costringermi a…»

La semidea lo mise a tacere prima che potesse concludere quella pseudo minaccia. Urlò a perdifiato ancora una volta e spinse le mani verso di lui con un gesto secco.

Centinaia di rampicanti si mossero all’unisono trascinando Oto verso l’alto, generando uno spostamento d’aria tale da far svolazzare i capelli della ragazza. Il gigante urlò con tutto il fiato che aveva in corpo mentre i rami mollavano la presa su di lui e veniva scaraventato in cielo da quella forza paragonabile a cento catapulte. Lo vide avvitarsi su sé stesso, sbracciarsi e scalciare fino a quando non fu altro che un puntino minuscolo che sorvolava le montagne della Sierra Nevada. 

Fu solo quando il suo grido terrorizzato si disperse in lontananza che Stephanie sciolse la tensione dentro di lei. Crollò in ginocchio, mentre il suo corpo dapprima animato dalla rabbia veniva assalito da una schiacciante sensazione di stanchezza. 

Respirò affannata, mentre il battito del cuore diminuiva tornando a ritmi regolari. Se non altro si era liberata di Oto. Quel viaggio di sola andata verso la costa Est non lo avrebbe ucciso, ma lo avrebbe messo fuori gioco per un po’ di tempo. Non aveva idea di come un gigante potesse essersi rigenerato dopo solo una ventina di anni dalla sua sconfitta. Avrebbe fatto meglio ad avvertire Chirone al più presto a riguardo.

«Steph!» Edward si chinò accanto a lei, mettendole una mano sulla schiena. La ragazza sussultò per quel contatto, ma questa volta non per l’imbarazzo. Strinse i pugni, mentre l’energia del bosco tornava a rifiorire dentro di lei. Digrignò i denti e piegò la testa, premendosi le mani sulle tempie con forza. Edward sobbalzò e si allontanò da lei di scatto. «C-Che succede?»

«E-Edward…» rantolò lei, mentre grida simili a quelle che aveva sentito a Chicago scoppiavano nella sua mente. Questa volta, però, non riuscì a tenerle a bada. La rabbia che aveva provato quando aveva visto Fujinami ferito l’aveva spinta a sprigionare una forza tale da liberarsi di Oto, ma non senza conseguenze. 

Aveva preteso troppo da sé stessa e dai suoi poteri ed ora era troppo tardi per tornare indietro. Il gigante era stato eliminato, ma c’era ancora una minaccia che la natura voleva estirpare, una minaccia che fino a quel giorno si era sempre trovata accanto a lei. Ogni singola voce che udiva nella sua testa rappresentava la volontà di ogni singola pianta nei paraggi. E tutte quante volevano una sola, semplice cosa: uccidere Edward.

«S-Scappa» riuscì a dire, prima che i poteri prendessero il sopravvento su di lei.

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Capitolo 23
*** Un pericolo troppo grande ***


23

Un pericolo troppo grande

 

 

Era da quando aveva preso quel treno che Edward sentiva di starsi cacciando in un guaio sempre più grande. La pessima figura fatta contro Milù e l’incontro con Shinjiro erano stati l’inizio di una reazione a catena sulla quale non aveva avuto più alcun controllo. Aveva cercato di evitare qualsiasi discussione con Stephanie e con Thomas riguardanti i fatti accaduti al banco dei pegni, ma lui per primo sapeva di non poter evadere per sempre. Da Tommy? Forse. Da Steph? Neanche per sogno.

Aveva tramato nell’ombra con il nemico e anche se Orochi gli aveva detto che nessuno li avrebbe potuti scoprire, Stephanie aveva comunque sentito la puzza di bruciato. Prima Persefone le aveva detto di non fidarsi di lui, poi c’era stata la mirabolante avventura a Kansas City, poi come ciliegina sulla torta era arrivato quel maledetto cervo/unicorno che lo aveva bollato come “non puro di cuore.” Tutti quanti puntavano il dito contro di lui e la cosa lo stava facendo ammattire.

Quando Steph aveva iniziato a fare domande, aveva sentito la pressione salirgli a mille. La curiosità di Steph era la forza inarrestabile, mentre la testardaggine di Edward era l’oggetto inamovibile. Gli era bastato solo scontrarsi a parole con lei per sentire la tensione tra loro crescere così tanto da divenire tangibile. Si era perfino chiesto cosa sarebbe successo se loro due avessero combattuto per davvero. Lui possedeva Ama no Murakumo e anche se non era capace ad usarla, era palese l’influenza che aveva avuto su di lui. Bastava pensare a come fosse sopravvissuto per tanto tempo fuori dal Campo Mezzosangue da solo. La spada in un modo o nell’altro lo aveva reso più forte, ma la potenza della figlia di Demetra non era affatto da sottovalutare.

Quando Campe lo aveva catturato e ferito, Edward non era riuscito ad assistere appieno allo spettacolo di violenza gratuita che la sua amica presunta figlia dei fiori aveva messo su. Questa volta, però, era riuscito ad ammirarla per ben due volte di seguito. Vederla spappolare quella manticora era stato forte, ma osservare quel gigante venire scagliato via come un giavellotto era stato terrificante, in senso sia buono che cattivo. Se i poteri di Stephanie erano davvero capaci di simili cose, allora potevano essere tanto un bene quanto un pericolo.

E in quel momento, la seconda opzione sembrava di gran lunga la più plausibile. Stephanie teneva le mani pressate contro la testa così forte da sembrare un compattatore, mentre gridava a perdifiato. Attorno a lei ciuffi d’erba e fiori stavano crescendo a decine, moltiplicandosi come batteri. Mai Edward avrebbe pensato di poter trovare dei maledetti fiori inquietanti.

«Steph!» Si chinò accanto a lei posandole una mano sulla schiena, ma quel gesto non sembrò far altro che peggiorare le cose. La sentì irrigidirsi e dopo aver mugugnato il suo nome la ragazza gli intimò di fuggire.

«Cosa?» domandò lui. «Ma sei fuori di testa? Non posso lasciarti cos…»

Qualcosa si abbatté sul suo fianco prima che potesse finire la frase. Edward urlò e fu scaraventato a una dozzina di metri di distanza, andando a sbattere duramente contro il tronco di un albero. Gli si mozzò il fiato per la botta. Rimase adagiato con la faccia premuta sul manto erboso, mentre il dolore per l’urto e la difficoltà nel respirare si amalgamavano, paralizzandolo.

Rimettersi soltanto sui gomiti, per giunta dovendo usare il braccio ferito, fu in assoluto la cosa più difficile di quella giornata. Con la testa di nuovo dritta, riuscì a captare con gli occhi appannati una radice che si ritirava nel terreno vicino a Stephanie, ciò che lo aveva colpito. Se era quello ciò a cui i mostri erano andati incontro quando la semidea aveva usato i suoi poteri su di loro, allora Edward provò pena per loro. Avrebbe preferito prendersi altri cento pugni in faccia da Buck piuttosto che farsi colpire ancora da quel rametto.

Le gambe barcollarono per la fatica di reggere il suo peso, ma riuscì comunque a rialzarsi il tanto che bastava per ritrovarsi di fronte altri rampicanti. Li osservò inorridito, trovando la forza di indietreggiare mentre questi continuavano ad alzarsi da terra, circondando Stephanie. Gli alberi tremolarono come se stessero seguendo i suoi movimenti e i rami cominciarono ad agitarsi. Qualunque cosa stesse succedendo, non prometteva bene.

Edward indietreggiò ancora, guardandosi attorno come un disperato mentre quell’intero bosco si animava attorno a lui. Alcuni ciuffi d’erba crebbero sopra le sue scarpe, cercando di intrappolarlo. Il figlio di Apollo fece un verso sorpreso e strattonò per liberarsi. No, non andava bene per niente. 

«Stephanie! Che sta succeden…»

Fu interrotto di nuovo. Un ramo lo colpì allo stomaco, sollevandolo di terra di almeno un metro e scaraventandolo ancora una volta in aria. Cadde sulla schiena con un tonfo sordo e rimase con il naso puntato verso l’alto, a contemplare il cielo mentre le orecchie pulsavano per il dolore. Dopo quel numero poteva aggiungere un paio di costole rotte al braccio dilaniato. Tossì, e fu la cosa peggiore che potesse mai fare. Il dolore al petto fu amplificato di cento volte e diverse chiazze di sangue saltarono dalla bocca, ricadendogli in faccia. Non aveva idea di cosa stesse succedendo. 

Sentì la terra tremare e con la coda dell’occhio riuscì a vedere altri rampicanti spuntare dal terreno. Fu afferrato per gambe e braccia e sollevato a peso morto in posizione verticale. Gemette quando il braccio ferito gli venne strattonato in quel modo. L’idea di dimenarsi non gli sfiorò nemmeno l’anticamera del cervello. Era distrutto.

Tentò di chiamare Stephanie, quando si accorse di lei, di nuovo in piedi, con una mano puntata verso di lui e uno sguardo omicida. Sapeva di suonare come un disco rotto, ma per l’ennesima volta non riuscì a fare altro che pronunciare il nome della ragazza: «S-Steph? Che stai facendo?!»

Lei non rispose. Serrò la mascella, mostrando i denti, e strinse la mano a pugno. Un altro rampicante si sollevò da terra, puntando il cuore del ragazzo.

Edward deglutì. Avrebbe di gran lunga preferito una risposta a parole. «Steph! Non so cosa stia succedendo ma devi fermarti! Devi… devi…» Ripensò a Kansas City, quando aveva scoperto ciò che aveva fatto in quel cantiere. Si era comportata come se tutto quello non fosse stato per suo volere. Forse anche tutto quello era al di fuori del suo controllo. «Devi concentrarti, Steph! Concentrati! Controlla i tuoi poteri!»

Quelle parole aleggiarono nell’aria per qualche momento. Poi Stephanie gemette e piegò la testa di lato, mentre si premeva di nuovo una mano sulla tempia. Chiuse gli occhi con forza e mugugnò, distogliendo lo sguardo da lui per un istante. I rampicanti si abbassarono ed Edward sentì la presa attorno a mani e polsi allentarsi. Forse le sue parole avevano davvero funzionato. Tirò ancora una volta un braccio per liberarsi, ma la figlia di Demetra drizzò la testa come un segugio non appena compì quel gesto. 

Edward sentì ogni rimasuglio di speranza in lui rimasto svanire, mentre Stephanie urlava di nuovo a perdifiato e tornava a puntare le mani verso di lui. Altri rampicanti spuntarono dal terreno, unendosi a quello che voleva trafiggerlo al petto. Una folta scia di irte spine crebbe su di loro, ricoprendoli da cima a fondo. Il semidio sbiancò.

«Non sono i poteri che controllano te, Steph!» ci provò ancora, ormai al limite della disperazione. «Tu controlli loro! TU! Nessun altro! Devi gestirli, solo tu puoi…»

Il figlio di Apollo si interruppe. Come poteva davvero parlare di controllo dei propri poteri, quando lui per primo non aveva la più pallida idea di come la Spada del Paradiso funzionasse? Chi era lui per fare la predica agli altri?

Si era fatto dilaniare la faccia da Campe, si era preso una batosta da una kitsune che poi era stata sconfitta da tre criceti ninja, si era fatto maciullare un braccio da un grifone e aveva permesso che Fujinami venisse brutalizzato da quel gigante. Ognuna di queste cose avrebbe potuto essere evitata, se solo avesse saputo come usare la spada. E ora la stessa persona che gli aveva salvato la vita due volte stava cercando di ucciderlo. Era come se il mondo si stesse facendo beffe di lui. Era sopravvissuto ai mostri per diciott’anni, perciò ad ucciderlo ci avrebbe pensato una persona di cui si fidava.

Si sentì impotente, senza più alcuna forza per combattere. Poteva solo immaginare la reazione che Buck, Jane e quelli come loro avrebbero avuto vedendolo in quello stato.

Quel pensiero lo fece riscuotere. Pensò a tutti i suoi detrattori, agli dei che avevano votato per la sua morte, più quello che lo aveva risparmiato perché sperava di vederlo fallire. Non avrebbe mai e poi permesso che loro avessero l’ultima parola. Inevitabilmente, pensò a chi invece contava su di lui. Il motivo principale per cui aveva deciso di caricarsi quel fardello sulle spalle non erano gli dei, ma i semidei come lui che si erano trovati nel fuoco incrociato. Non voleva che altri innocenti venissero coinvolti, non dopo quello che era successo a Rosa.

Rosa. L’unica vera famiglia che aveva avuto dopo Kate. Sua sorella, sua amica. Se fosse morto, non sarebbe più riuscito a salvarla.

E Steph? Cosa sarebbe accaduto a Stephanie? Non era in sé, era evidente. Lei non gli avrebbe mai fatto del male. Edward era l’unico che poteva ancora fermarla e farla tornare in sé. 

Sentì la cicatrice sul suo volto formicolare. Aveva fallito troppe volte durante quell’impresa e quegli sfregi sul suo volto ne erano la dimostrazione. La posta in gioco era troppo alta per lasciare che tutto finisse alle ortiche in quel modo. Era troppo vicino a San Francisco per mollare, non aveva fatto tutta quella strada per niente. Non avrebbe lasciato che tutti i suoi sforzi fossero vani.

Non poteva arrendersi. Se il destino voleva la sua morte, allora il destino avrebbe avuto una brutta sorpresa.

«Mi dispiace davvero» asserì, mentre si conficcava le unghie nei palmi. Sfoggiò uno dei suoi sorrisi più provocatori, rivolto a tutti quegli esseri più grandi di lui che in quel momento lo stavano tenendo d’occhio, ed era sicuro che non fossero pochi: «Non ho alcuna intenzione di morire.»

Un’energia che ormai sapeva conoscere bene percorse il suo corpo, scorrendo nelle sue vene come adrenalina pura. Il tempo sembrò rallentare e una luce bianca e accecante provenne dalla mano del suo braccio sano.

Toccò a lui urlare, sovrastando la voce di Stephanie, mentre Ama no Murakumo faceva la sua gloriosa apparizione. Finalmente l’espressione furiosa della figlia di Demetra sembrò vacillare, tramutandosi in una di sorpresa. Ciò non bastò a placarla, però. Stephanie si accodò al suo grido e agitò la mano verso di lui, intimando ai rampicanti di finire il lavoro. Questi si fiondarono su di lui ed Edward distese il sorriso quando li vide infrangersi contro la barriera di aria che generò con Ama no Murakumo.

Rinvigorito dall’energia della spada, si liberò dai rampicanti che lo tenevano imprigionato con un forte strattone. Il braccio ferito smise di fargli male, così come il petto. La vista gli si schiarì e il respiro si stabilizzò. Tutti i suoi acciacchi passarono in secondo piano, sbiadendosi come il pensiero della resa. Si sentì un emerito idiota per essersi rassegnato in quel modo.

Arrendersi non era un’opzione; era uno sbaglio.

Ama no Murakumo roteò nel suo palmo, leggera come l’aria, perfettamente bilanciata come ogni volta che l’aveva usata. Incrociò le iridi marroni miste a verde di Stephanie e tornò a sorridere. «Ok, Steph. Se non vuoi tornare in te da sola, allora dovrò darti una mano io. Una botta in testa o due dovrebbero bastare.»

«Fatti avanti, traditore» disse la ragazza con voce roca, molto diversa da cui quella a cui lui era abituato.

Udire quell’appellativo lo fece ridacchiare. «Io sarei il traditore? Sei tu che stai cercando di uccidermi.»

Un’altra decina di rampicanti coperti di spine si sollevò attorno a Stephanie, creando una barriera tra loro due. La luce verde brillò negli occhi della figlia di Demetra. «Non sei il benvenuto, qui. La natura ti schiaccerà.»

Edward sogghignò e piegò le ginocchia. Le fece cenno con le dita di farsi avanti. «Va bene allora. Dōzo

I rampicanti si mossero contro di lui, le spine che bramavano il suo sangue, ma l’unica cosa che incontrarono fu un arco di luce bianca che li tranciò di netto. Ama no Murakumo mulinò nell’aria, respingendoli uno a uno, ma il ragazzo si accorse che ogni volta che li tagliava questi ricrescevano subito, duplicandosi perfino.

Nel giro di poco tempo la radura si riempì di quei rovi e il figlio di Apollo si ritrovò a saltare e rotolare per destreggiarsi in quel labirinto di spine che si era generato attorno a lui. Il sorriso svanì dal suo volto e realizzò che se non avesse preso la faccenda sul serio non sarebbe mai uscito vivo da lì.

Ovunque si girava vedeva rampicanti e come se non bastasse ovunque camminava l’erba si attorcigliava attorno ai suoi piedi per cercare di rallentarlo e farlo inciampare. Stephanie stava sfruttando a pieno potenziale l’ambiente in cui combatteva per attaccarlo da ogni lato con tutto quello che aveva; l’intero bosco stava cercando di ucciderlo.

Mentre si muoveva con l’adrenalina a mille che scorreva nelle vene, giunse alla conclusione che la semidea non era affatto un avversario come gli altri. Sapeva cosa aspettarsi da lui e perciò stava prendendo le giuste precauzioni; conosceva la forza di Ama no Murakumo e per questo motivo se ne teneva alla larga, rimendo nascosta in mezzo a quella giungla di rami, e nel frattempo continuava ad attaccarlo senza dargli tregua, nell’attesa di punire un suo passo falso. 

Andando avanti di quel passo sarebbe stato sopraffatto ed era proprio ciò a cui la figlia di Demetra mirava. Voleva sovrastare la forza della spada con i numeri, portarla al suo limite, e se Edward non avesse studiato una contromossa in tempo si sarebbe fatto un viaggio di sola andata per gli Inferi.

Steph lo mitragliò di attacchi. Un tornado di rovi si abbatté su di lui costringendolo a lanciarsi in una lunga serie di parate e fendenti per proteggersi. Edward si sentì come se stesse tentando di respingere cento fruste tutte in una volta sola. Il mondo attorno a lui divenne una massa indistinta di luci e colori, nei suoi occhi c’era solo quella rete mortale di spine in cui rischiava di rimanere intrappolato. 

Le mani si muovevano in maniera autonoma, i sensi affinati al massimo, gli occhi vigili a captare ogni minimo movimento dei rampicanti. Oltre alla tensione, sentiva qualcos’altro alimentarsi in lui man mano che lo scontro proseguiva. Il piano di Stephanie stava funzionando, sentiva come se il suo limite fosse sempre più vicino. E allo stesso tempo, più il tempo stringeva, più sentiva l’eccitazione della battaglia stuzzicare il suo sistema nervoso. La posta in gioco non era mai stata così alta, la sua vita, quella di Stephanie, quella delle persone che dipendevano dal buon esito dell’impresa, tutto quanto era sul tavolo. E proprio per questo il desiderio di abbattere quell’ostacolo di fronte a lui e vincere iniziò a consumarlo. 

Prima si era chiesto cosa sarebbe successo se loro due avessero combattuto per davvero. Aveva avuto una risposta: sarebbe successo quello. E se davvero Stephanie credeva di poter tenere testa ad Ama no Murakumo con la forza della sua cara natura, si sbagliava.  

Con rinnovata energia cominciò a rispondere agli attacchi con più vigore e ferocia, generando archi di aria dalla spada ogni volta che la lama saettava per abbattere un rampicante. Sfruttò il potere di Ama no Murakumo per dimezzare i propri sforzi, abbattendo i rovi sia con la lama vera e propria che con gli archi, falciando tutto quello che si trovava sul suo percorso. Nonostante i rampicanti ricrescessero ogni volta, Edward notò che ci stavano impiegando sempre più tempo per farlo. 

Forse Stephanie stava rallentando. O forse lui stava diventando più veloce. 

Cominciò a creare spazio importante attorno a sé. Lo spazio era ciò che gli serviva, per muoversi meglio in quel nido di fruste acuminate e localizzare Stephanie. Lei era l’artefice di tutto quello, se avesse trovato e neutralizzato lei, il bosco avrebbe smesso di attaccarlo.

Cominciò a correre in mezzo alla selva, sfruttando le correnti per eliminare qualsiasi ostacolo si parasse di fronte a lui. Poteva percepire il putiferio che si stava scatenando attorno a sé, i rami che si agitavano e la terra che tremava. 

Dubitava che la natura stesse apprezzando le sue mirabolanti gesta.

Riuscì a scorgere la felpa un tempo bianca di Stephanie che svolazzava a causa delle forti sferzate d’aria. Incrociò lo sguardo della ragazza, rimasta in un angolo tranquillo della radura a manovrare i rampicanti, e serrò la mascella. Svuotò i polmoni con un urlo e si avventò verso di lei brandendo la spada.

Per un momento Stephanie sembrò non processare il suo arrivo. Rimase immobile, a osservarlo inespressiva fino a quando non fu ad un passo da lei. Quando la raggiunse, Edward non seppe dire con certezza cosa successe.

Sapeva di aver urlato ancora più forte e sollevato la spada a mo’ di ascia, per poi calarla sulla figlia di Demetra con una forza tale da far scuotere il terreno.

Lo spostamento d’aria generato da Ama no Murakumo a seguito di quell’attacco attraversò il bosco per quelli che potevano essere chilometri, devastando ogni cosa sul suo cammino.

Edward sollevò lo sguardo. Fu travolto da un miscuglio di emozioni contrastanti quando si rese conto della scia di distruzione che aveva appena creato. Il desiderio bruciante di vincere lo scontro andò pian piano a mancare mentre le sue iridi castane si dilungavano lungo quello spettacolo desolante di alberi abbattuti che non sembrava avere fine. Si rese conto, poi, del cratere profondo almeno un metro che aveva creato quando aveva calato la spada. Il suo corpo fu scosso da un sussulto quando intuì la vera entità dei danni. Se quell’attacco fosse andato a segno e avesse colpito Stephanie… non voleva nemmeno immaginare cosa sarebbe successo. L’idea che avrebbe potuto ucciderla gli si conficcò come una spina di ghiaccio nel cuore.

Fu un sollievo enorme vedere che l’aveva mancata. Ma a quello si ricollegava l’altro problema: come aveva fatto a mancarla?  

Sentì un rumore alle sue spalle e si voltò. Stephanie era in piedi dove lui si era trovato un istante prima, circondata di nuovo dalla sua schiera di rovi. Edward si domandò come avesse fatto a muoversi così rapidamente da non riuscire a vederla, poi si dette dell’idiota. Aveva scordato che lei poteva teletrasportarsi. Per fortuna poteva teletrasportarsi, avrebbe dovuto dire. In caso contrario non sarebbe mai riuscita a sopravvivere.

Stephanie sollevò entrambe le mani, osservandolo con lampi di odio puro negli occhi. «Guarda i danni che hai arrecato. La pagherai per questo.»

Edward avrebbe voluto rispondere che non l’aveva fatto apposta, ma non era molto sicuro che quella fosse la verità. Quando aveva colpito lo aveva fatto con l’intenzione di porre fine allo scontro, non importava il come. Abbassò la spada e sollevò una mano verso la figlia di Demetra: «Finiamola qui, Steph. Prima che qualcuno si faccia male sul serio.»

«Forse non hai capito. Io non mi fermerò fino a quando il tuo corpo non cadrà a terra privo di vita.»

«E perché mai vorresti uccidermi?»

«“Perché?” Osserva ciò che hai appena fatto con le tue stesse mani. Credi davvero che la natura voglia qualcuno di potente come te a piede libero? Rappresenti una minaccia troppo grande per lei. In quanto suo araldo, io devo eliminarti qui e ora. Non c’è altro modo.»

Edward pensò che invece c’erano almeno altri milioni di modi per risolvere quella faccenda. E cercare di uccidersi a vicenda con un esercito di mostri sulle loro tracce e una guerra tra dei che rischiava di scoppiare non era uno di questi.

«Non sono una minaccia per la natura» cercò di dire, con voce calma. Non voleva perdere il controllo, anche se tutta quella situazione lo stava mettendo a dura prova. Ama no Murakumo fremeva tra le sue mani, desiderosa di dimostrare la sua superiorità. «Per favore, Steph. Ritorna in te. Lo so che non pensi davvero quelle parole.»

«Basta così, nipponico.»

Edward sollevò un sopracciglio. Nipponico?

«Abbiamo tergiversato anche troppo. È ora di…» Qualcosa sibilò nell’aria. Edward lo notò non appena sbucò fuori, la figlia di Demetra, invece, si accorse di quella specie di dardo grigio soltanto quando se lo ritrovò conficcato nel collo.

Qualunque cosa volesse dire, si concluse con un mugugno simile ad un conato di vomito. Stephanie roteò le iridi e crollò a terra come un sacco di patate. L’intero bosco cadde in un sonno profondo assieme a lei e tutti i rampicanti si afflosciarono.

Edward si accorse di un altro di quegli affari grigi schizzare verso di lui e sollevò Ama no Murakumo, deviandolo. Udì un verso sorpreso provenire dalla boscaglia. 

«Chi c’è lì?» domandò il ragazzo, alzando la voce.

Nessuna risposta. Altri tre dardi bucarono la vegetazione. Con un singolo fluido movimento il figlio di Apollo li deviò tutti e tre, facendo tintinnare l’acciaio della lama. Non potevano colpirlo. La Spada del Paradiso aveva acuito i suoi riflessi, permettendogli di scorgere il più impercettibile dei movimenti.

Altri dardi. Cinque, sei, dieci. Tutti finirono a terra senza scalfirlo. Edward decise che era stanco di farsi prendere in giro. «Bene allora. Se non venite fuori, vi farò uscire io.»

Dimenò Ama no Murakumo e creò un altro arco d’aria che diresse verso il punto da cui gli stavano sparando. La boscaglia esplose, foglie e tronchi di alberi saltarono in aria come coriandoli, ma chiunque si trovasse nascosto lì dentro si spostò in tempo, perché Edward non colpì nessuno.

Un fruscio provenne alle sue spalle, il tenue rumore di uno stivale che calpestava l’erba, ed Edward si voltò appena in tempo per parare la punta di una lancia di Oro Imperiale, che rimase a pochi centimetri dal suo naso. Edward incrociò gli occhi blu spalancati per la sorpresa del suo assalitore, un tizio incappucciato vestito di grigio, con una bandana di fronte al volto. Sogghignò, stringendo la presa sull’elsa di Ama no Murakumo. «Vuoi unirti alla festa, compare?»

Il tizio non rispose. Tentò un altro affondo, che Edward parò con semplicità. Un altro dardo arrivò alle sue spalle e si voltò per deviarlo, giusto in tempo per tornare poi a respingere la lancia. L’avversario armato era chiaramente umano, forse romano a giudicare dall’Oro Imperiale, ed era certo che anche chi gli stava sparando quei dardi lo era. Qualunque fosse la motivazione che li stava spingendo a combattere contro di lui non aveva importanza. Volevano metterlo fuori combattimento, quello era più che sufficiente.

L’individuo emise un mugugno dal timbro un po' troppo acuto e tornò alla carica, incrociando ancora la lancia con Ama no Murakumo. Non aveva affatto idea di in che cosa si stesse cacciando, affrontando a viso aperto la spada in quel modo.

La situazione rimase in stallo per qualche istante, con Edward costretto a svolgere la doppia mansione di non farsi affettare dalla lancia e non farsi colpire dalle decine di dardi che gli stavano lanciando addosso. E, doveva dirlo, la pazienza stava cominciando a diventare un lusso che non poteva più permettersi.

Quando Ama no Murakumo cozzò per l’ennesima volta contro la lama dorata, Edward gridò e fece forza aiutandosi con delle correnti d’aria, sbalzando all’indietro l’avversario. Sollevò la Spada del Paradiso per abbatterla su di lui con la stessa forza che aveva usato poco prima, ma uno scudo si materializzò dal polso dell’individuo.

Il volto di Medusa modellato su di esso colpì il semidio come una scarica elettrica, paralizzando i suoi arti superiori a mezz’aria. Grugnì per la frustrazione e rimase immobile, senza infliggere il colpo finale. Il tizio vestito di grigio approfittò della situazione e ritornò alla carica. Edward riuscì a sbloccarsi e abbassò Ama no Murakumo per respingere l’ennesimo attacco.

Le lame cozzarono ancora per quelle che parvero eternità, senza esclusione di colpi. Il clangore del ferro riempì le orecchie del semidio, l’Oro Imperiale incrociò l’Acciaio Prezioso per decine, centinaia di volte. I dardi cessarono di arrivargli addosso, forse li avevano finiti, il che fu proprio un toccasana per lui: ora poteva concentrarsi solo su quel verme.

Edward era più veloce, più potente, le sue abilità erano state amplificate da Ama no Murakumo, ma a pareggiare la contesa c’era sempre quel maledetto scudo. Aveva studiato la storia di Medusa al Campo Mezzosangue, sapeva di cosa fosse capace quella vera, ma anche quella semplice immagine non scherzava affatto. Ogni volta che la osservava anche solo di sfuggita, il suo corpo si paralizzava contro il suo volere.

E più succedeva, più Edward sentiva la rabbia crescere dentro di lui. Già detestava rimanere paralizzato nei suoi sogni, non avrebbe lasciato che la cosa continuasse anche nella realtà.

Gridò con quanto fiato aveva in corpo, un urlo che parve perfino disumano. Sferrò un fendente con Ama no Murakumo proprio sullo scudo con tutta la forza che ancora possedeva in corpo. Vi fu un rumore simile a quello di una lattina che si accartocciava e il tizio in grigio fu spedito a terra. «AH!»

Edward sgranò gli occhi. Quella era decisamente la voce di una ragazza. Rimase immobile per un istante, mentre la sua mente cominciava a fare due più due. Abiti grigi, lo scudo con la faccia di Medusa, voce di ragazza, dardi soporiferi. Quegli indizi avrebbero dovuto far suonare una campanella nella sua zucca, ma non riusciva proprio a ricordare. 

Si accorse solo in quel breve attimo di riflessione dell’ambiente attorno a loro e dei danni che quello scontro aveva arrecato. L’aria era così satura di elettricità statica da fargli levitare i capelli. Notò a terra almeno altri venti dardi argentati e intuì che non avevano mai smesso di spararglieli: erano tutti stati sbalzati via dalla corrente.

La ragazza con cui aveva combattuto si stava rimettendo sulle ginocchia ed Edward si avvicinò a lei in cerca di spiegazioni. Una voce risuonò tra la boscaglia non appena le fu vicino: «Talia!»

Il semidio sussultò. 

Talia?!

Improvvisamente, ogni pezzo tornò al suo posto. In quello stesso momento la sua avversaria si voltò verso di lui. Il cappuccio le si era abbassato e la bandana era sparita chissà dove. I due si squadrarono per un istante, mentre il cervello di Edward andava in tilt.

I capelli neri e corti, gli occhi blu, il viso da ragazzina più giovane di lui e quell’aria dura e severa. Edward rimase paralizzato, questa volta non per lo scudo. Poi vi fu un altro sibilo e qualcosa lo punse al collo. Gemette, portandosi d’istinto una mano sotto il mento, e trovò uno di quei dardi conficcato nella sua pelle.

«Oh…» mugugnò, mentre la vista gli si appannava e Talia diventava un’immagine sfocata. Lo avevano fregato come un idiota. «Ma vaffan…»

Non terminò quella carineria. Il suolo si trasformò in un ottimo giaciglio su cui schiacciare un pisolino.

 

 


 
 
 
 
 
 
Un capitolo ripieno di azione, devo dire. Era dai tempi della sezione dei TT che non scrivevo cose simili. Spero di non essere arrugginito troppo. Lo so cosa state pensando. Vi sarebbe piaciuto che Edward dicesse "perfettamente bilanciato, come ogni cosa dovrebbe essere" eh? Ammetto di averci pensato mentre lo scrivevo.
 Come immagino si sia notato, Steph non è l'unica che fatica a tenere sotto controllo la forza dentro di sè. Edward ha un problema simile, ma ne parleremo meglio nel prossimo capitolo.
 E sì, Talia. Lo so, l'idea che una semidea esperta come lei rischi di perdere contro di Edward farebbe storcere il naso a chiunque, ma consideriamo pure che Edward è praticamente il tassello mancante tra dio e semidio quando possiede Ama no Murakumo. Fino ad ora ha fatto schifo con quella spada, ma avete tutti potuto assistere di cosa è capace quando entra nel giusto mood. E siamo solo all'inizio.

 Grazie per la lettura, alla prossima!

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Capitolo 24
*** Scelte ***


24

Scelte

 

 

Immagini orribili scorrevano di fronte ad Edward. 

Gli eventi di quella sera maledetta in cui sua madre era stata portata via da lui prima del tempo si stavano ripetendo di fronte ai suoi occhi.

I mostri li stavano inseguendo. Stavano fuggendo in macchina, ma erano rimasti bloccati a causa del traffico. C’era stato un incidente, una fuga di gas, quello che era. Qualcuno si era fatto del male, c’erano ambulanze e volanti della polizia. Il lamentio delle sirene faceva fischiare le orecchie di Edward, mentre rosso e blu si mischiavano con le luci della strada in quella gelida notte senza luna.

La strada era bloccata e non potevano né proseguire né tornare indietro. Avano dunque lasciato l’auto ed erano fuggiti a piedi, infilandosi nei vicoli bui e maleodoranti di Los Angeles, zone che in situazioni normali avrebbero evitato come la peste e che, invece, in quel momento erano sembrate una benedizione.

Edward ricordava di non aver mai lasciato la mano di sua madre mentre correvano. Era un quattordicenne, era grande ormai e non gli era mai piaciuto tenerle la mano, ma in quei momenti sapeva di dover abbandonare la testardaggine e fidarsi di lei.

In qualche modo erano finiti nei pressi di un magazzino abbandonato e avevano commesso l'errore di nascondersi dentro dopo aver trovato una finestra rotta. 

I mostri però li avevano trovati. All’epoca ancora non sapeva che fossero gli oni, per lui erano soltanto sembrate delle bestie uscite dai suoi peggiori incubi. Li avevano circondati e quello che era successo dopo era un miscuglio di immagini, suoni e sensazioni che non avrebbero mai smesso di turbarlo.

Le urla disperate di sua madre che gli intimavano di fuggire, l’oscurità che l’avvolgeva trascinandola sotto terra e lui che invece le gridava di non poterla abbandonare.

Ama no Murakumo che compariva per la prima volta nelle sue mani e il turbinio di eventi che si era verificato dopo. Lui che combatteva con tutta la forza che aveva in corpo, quei mostri che all'improvviso non sembravano più così spaventosi mano a mano che cadevano come formiche, la paura e l’angoscia che mutavano in rabbia e il desiderio di porre fine a tutto quello una volta per tutte.

Aveva spazzato via tutti gli oni da solo e poi era corso in aiuto di sua madre, ma ormai era troppo tardi: l’oscurità se l’era già portata via. 

Ricordava di aver gridato, di aver pianto, di aver preso a pugni il pavimento. 

Una sola domanda aveva risuonato nella sua mente: perché?

Perché i mostri li inseguivano? Perché avevano portato via Kate? 

Perché non era riuscito a salvarla?

In mezzo alle sue grida e al suo pianto si erano poi aggiunte voci indistinte di uomini. Qualcuno gli aveva puntato addosso la luce di una torcia, accecandolo. Individui in divisa lo avevano raggiunto, afferrandolo per le braccia e sbraitandogli in faccia parole di cui non aveva colto il significato. 

La Spada del Paradiso era svanita e sul momento, a causa dello shock, non si era nemmeno domandato da dove fosse sbucata. L’unica cosa che sapeva era che era rimasto solo. Lui avrebbe potuto fare qualcosa per impedire che Kate svanisse, e aveva fallito. Era stata solo colpa sua.

Solamente quattro anni dopo avrebbe scoperto che la causa di tutto quello altro non era che quella stessa spada che l’aveva reso tanto potente.

 

***

 

Riaprì gli occhi e la prima cosa che notò fu uno strano soffitto, non molto alto, di colore grigio. La testa gli faceva male. L’addome gli faceva ancora più male. E il braccio sinistro era peggio di entrambi messi insieme.

Un mugugno sofferto uscì dalla bocca del ragazzo. Memore dell’incubo – o meglio, ricordo – appena avuto, ora doveva anche sopportare il corpo che gridava pietà. Dolore psicologico e dolore fisico, insieme ancora una volta per tormentarlo. E dov’era la novità?

Si tirò a sedere, accorgendosi di trovarsi dentro un sacco a pelo, sempre grigio, con accanto una stufetta portatile. Mentre si massaggiava la testa con il braccio buono, capì che quella era una tenda. Vedere il manto erboso accanto a lui per un attimo lo mandò in paranoia, per timore che quei ciuffi potessero animarsi da un momento all’altro e soffocarlo a morte. Per fortuna, nulla di tutto ciò accadde.

Su una stuoia, grigia tanto per cambiare, si trovavano la maglietta arancione del Campo Mezzosangue e la sua felpa nera. Vedendo la t-shirt posata lì per terra, realizzò di essere a petto nudo. L’addome asciutto gli era stato fasciato, constatò, così come il braccio.

Passò la mano destra sulle parti fasciate con delicatezza, per saggiarne la gravità delle condizioni, e le fitte di dolore lo fecero pentire di averlo fatto. Tutto il benessere generato da Ama no Murakumo era svanito come neve al sole. La spada non lo aveva guarito, lo aveva soltanto avvolto in una bolla, e ora che questa era scoppiata era tornato al punto di partenza. Anzi, forse perfino più in basso.

Ama no Murakumo. Ripensare alla spada lo fece ricordare gli ultimi avvenimenti. La forza straordinaria che gli aveva conferito, l’energia che scorreva a mille nelle sue vene, il fremito della battaglia. Aveva combattuto con Steph, e per poco non si erano uccisi a vicenda, e poi… Talia.

Talia. La Cacciatrice, la leggenda. Poteva… poteva davvero essere stata lei la persona che lo aveva attaccato? Ci aveva visto bene?

Non erano molte le persone che possedevano uno scudo con il volto di Medusa modellato sopra. Inoltre i dardi soporiferi erano strumenti usati proprio dalle cacciatrici di Artemide. Per finire, qualcuno doveva pur avergli bendato le ferite e portato lì. Non c’erano dubbi, aveva davvero incontrato le cacciatrici. E proprio per questo faticava ancora di più a crederci.

Udì un leggero chiacchiericcio provenire da fuori la tenda. Non era solo.

Con molta calma, per evitare altre fitte di dolore, afferrò gli abiti e li indossò, poi uscì. Non aveva idea di dove si trovasse, né di quanto tempo fosse rimasto a dormire, né di dove fosse finita Stephanie e se, soprattutto, si fosse data una calmata. Il parlottare di poco prima cessò non appena mise la testa fuori dalla tenda. La prima cosa che vide una volta uscito furono una decina di archi puntati proprio contro di lui.

Se non altro ebbe la conferma che sì, le dolci fanciulle che lo stavano tenendo sotto tiro erano proprio le cacciatrici.

Erano una dozzina, radunate attorno ad un fuoco, tutte armate fino ai denti. Graziose e pericolose, come Derek gliele aveva descritte. Edward uscì fuori dalla tenda, sollevando le mani. Le ragazze lo scrutarono in silenzio con aria critica, nessuna parlo. Sembrava quasi che si stessero preparando ad un suo passo falso solo per avere una scusa per piantargli una freccia sulla fronte.

In mezzo a loro, Edward notò subito la donna del momento, Talia. Fu sulla figlia di Zeus che il suo sguardo si soffermò. Malgrado la loro scaramuccia, non sembrava ferita. Lei resse lo sguardo, stringendo la lancia tra le mani, ma non disse una parola. A quel punto fu lui a rompere il silenzio: «Mi fasciate le ferite e poi mi puntate addosso le armi?»

Non era proprio quello il modo in cui avrebbe pensato di conoscere le pupille di sua zia, tantomeno le prime parole che sperava di rivolgere loro, ma viste le circostanze poteva fare un’eccezione.

Alcune ragazze sussultarono quando parlò. A rispondergli fu proprio Talia, la cui espressione non mutò di una virgola: «Da svenuto eri innocuo. Da sveglio, invece?»

«Innocuo.»

«Davvero? Oggi pomeriggio avrei detto il contrario.»

Effettivamente, Edward aveva cercato di ucciderle. Si accorse solo in quel momento del cielo ormai quasi del tutto scuro. Si stava facendo sera. Un altro giorno era passato, ne rimaneva solo più uno. A quel pensiero strinse i denti. Non mancava molto alla scadenza e San Francisco era ancora a più di cento chilometri di distanza. Quell’intoppo proprio non ci voleva. «Ascolta, non volevo farti del male…»

«Non mi hai fatto del male» lo interruppe la figlia di Zeus, indurendosi.

 «… ma voi mi avete attaccato per prime. Mi stavo solo difendendo.»

Le sue parole aleggiarono nell’aria per diversi istanti. Alcune cacciatrici continuarono a guardarlo come se volessero soltanto scoccare e farla finita, senza lasciarsi incantare dalle sue parole. Ma la decisione finale spettava a Talia e fu proprio lei, dopo un attimo di riflessione, a fare un cenno alle compagne di abbassare le armi. Chi delusa e chi meno, tutte obbedirono.

«Dov’è Stephanie?» chiese Edward, quando i riflettori – o meglio, le frecce – smisero di essere puntati su di lui.

«Sta ancora dormendo» rispose Talia. «Abbiamo usato dosi piuttosto massicce su entrambi. A dire il vero sono sorpresa che tu ti sia ripreso così presto.»

Edward sollevò le spalle. Sapere che le cacciatrici si erano occupate di Steph lo rasserenò, anche se sperava di poterle parlare al più presto. Guardandosi attorno, intuì che le cacciatrici avevano allestito un accampamento di diverse tende proprio lì nella radura dove lui e Stephanie avevano combattuto. Lo capì dalle scie di devastazione che entrambi i semidei avevano lasciato. Uno spettatore esterno allo scontro avrebbe potuto pensare che lì in mezzo fosse passato un tornado, e forse ciò non si discostava di molto dalla realtà.

«Cos’è successo qui?»

La domanda di Talia lo riportò alla realtà. La squadrò confuso, invitandola ad essere più chiara. Di cose lì ne erano successe parecchie.

«Perché stavi attaccando Stephanie?» spiegò lei.

Edward assottigliò le labbra. Lui non stava attaccando nessuno. Era Steph quella che aveva cercato di farlo fuori. «Non l’ho attaccata, anche in quel caso mi stavo solo difendendo.»

«Davvero?» domandò una voce. Scettico per definire il suo tono sarebbe stato un eufemismo. Una cacciatrice con i capelli grigi si alzò in piedi. Indicò proprio la scia di devastazione creata da Ama no Murakumo. «Tu quello lo chiami "difendersi"?»

Il ragazzo si rabbuiò. «Ha iniziato lei. Si è messa a blaterare frasi sul fatto che io fossi pericoloso, e…»

«E si sbagliava secondo te?»

Il figlio di Apollo strinse i pugni. Fece per spiegare tutto nel dettaglio, ma si accorse di come tutte le cacciatrici lo stessero osservando con lo stesso sguardo di disgusto che era dipinto sul volto di quella con i capelli grigi. Ai loro occhi lui aveva aggredito una ragazza. Poteva dare tutte le spiegazioni del mondo, avrebbe perfino potuto mettersi a piangere, ma non gli avrebbero mai dato retta.

Bastarono quelle poche parole che si scambiarono per fargli capire che perfino le cacciatrici di Artemide lo vedevano proprio come chiunque avesse conosciuto fino a quel giorno, eccetto i suoi pochi amici: come un piantagrane, un bugiardo. Era stanco di ricevere quel trattamento da tutti.

«Non ho voglia di discutere anche con voi» disse infine, chiudendo il discorso.

La cacciatrice con i capelli grigi non sembrò gradire la risposta. Aprì bocca per replicare, ma Talia la frenò: «Basta così, Kowalski. Forza, rimettetevi al lavoro. Perlustrate la zona e assicuratevi che non ci siano mostri nei paraggi.»

Kowalski. Edward riuscì a trattenere a stento un sorriso quando udì quel nome. Quella tipa non aveva per niente l’aria da Kowalski

Brizzolata si alzò in piedi controvoglia, scoccandogli un’altra occhiataccia, poi afferrò la sua arma, una fichissima balestra di ferro carica di frecce d’argento, e si allontanò dal fuoco seguita dalle sue compagne.

L’unica a rimanere fu Talia, che tornò a sedersi sopra il tronco di un albero abbattuto con un sospiro. Infilò il braccio dentro una sacca e tirò fuori una mela, poi la sollevò in direzione di Edward: «Fame?»

Fu solo osservando quel frutto che Edward si rese conto di star morendo per i crampi allo stomaco. Gli sembrava di non bere e mangiare da una vita. Si avvicinò a Talia, sedendosi dall’altro lato del tronco per starle più lontano possibile – Derek lo aveva anche avvertito del pericolo "prossimità" – e afferrò la mela.

Anche se avrebbe preferito qualcosa per calmare il dolore, la fame fece da padrona. Addentò la mela, dolce e farinosa proprio come piacevano lui. Sentì la fame e anche la sete placarsi. Il dolore al braccio non cessò, ma passò in secondo piano.

«Credevo che almeno coi figli di Apollo non foste così dure…» disse ad un tratto, interrompendo la quiete che si era generata.

Sentì le labbra di Talia stirarsi in un sorriso. «Credevi male. Con i figli di Apollo siamo anche peggio. Ci ricordate troppo vostro padre, ma non in senso buono. L’unica eccezione è stata Rosa. A proposito…» Il tono della semidea si ammorbidì, facendosi più comprensivo. «… ci… ci è dispiaciuto sapere quello che le è successo. Meritava molto di più di così.»

Edward percepì un groppo alla gola quando Talia nominò sua sorella. Si limitò ad annuire mesto, senza rispondere.

«Grazie per esserle stato amico.»

Il figlio di Apollo si voltò verso di lei sorpreso. «E voi come…»

«Teniamo sempre d’occhio le ragazze che ci colpiscono» spiegò Talia tornando a sorridere, anche se pareva un sorriso più triste che altro. «I vostri fratelli non sono stati molto gentili con lei. Tu sei stato l’unico oltre a noi a farla sentire parte di una vera famiglia. Per questo hai il mio rispetto, Edward Model. E anche se le altre non te lo diranno mai, hai in parte ottenuto anche il loro.»

A giudicare da come lo avevano trattato poco prima, ad Edward sembrava proprio il contrario, ma decise di non dire nulla a proposito. «Come avete fatto a trovarci?» domandò invece, cambiando argomento.

«Come avremmo fatto a non trovarvi. Avete fatto un trambusto degli inferi.»

«Intendo dire, che facevate da queste parti? Sapevate dell’impresa e volevate aiutarci?»

Talia si strinse nelle spalle. «Non eravamo proprio qui per aiutarvi. Eravamo a caccia, c’è stata una gran movimentazione di mostri pericolosi da queste parti, ma immagino che fossero qui proprio per inseguire voi. Era inevitabile che ci imbattessimo. E sì, sappiamo della tua impresa. Avete perso il vostro aereo e ora cercate di viaggiare con ogni mezzo a disposizione. Artemide ci ha spiegato tutto.»

Artemide. Solo in quel momento il ragazzo realizzò che la dea della caccia non era assieme alle sue pupille. «Dov’è lei adesso?»

«Sull’Olimpo. È stata convocata con urgenza questa mattina.»

Quelle parole ronzarono nelle orecchie di Edward per qualche secondo. L’ultima volta che gli dei si erano riuniti sull’Olimpo era stato per discutere se friggerlo oppure no. Quella notizia non fece molto bene al suo umore. «Vi ha detto perché?»

Talia scosse la testa. «No, ma non fatichiamo ad immaginarlo. Due giganti sono evasi dal Tartaro. Gli dei vorranno capire come hanno fatto, prima che i loro fratelli ed altri mostri li seguano.»

«Due giganti?» Edward schiuse le labbra. Il suo cervello collegò i puntini. «Quindi quello che ci ha attaccati…»

«Già» annuì Talia. «Quello era Oto, uno dei gemelli. Artemide ci ha detto che mio padre lo ha già ucciso. Suo fratello Efialte, però, è ancora a piede libero.»

«Sono stati loro a far deragliare il treno» affermò il ragazzo, con la testa che ormai si trovava ben oltre la loro attuale conversazione. «Non ci sono dubbi. E quindi…» Sgranò gli occhi. Se i giganti erano due, allora dovevano essersi spartiti i compiti. Poteva voler dire solo una cosa. «I nostri amici sono in pericolo! Dobbiamo andare a cercarli, prima che…»

«Calmati» lo frenò la cacciatrice, sollevando una mano. «Sappiamo anche questo. Ho già mandato la mia vice e una squadra a cercare gli altri componenti dell’impresa. Penseranno a tutto loro, non preoccuparti. Quello che devi fare tu adesso è spiegarmi bene cos’è successo qui prima del nostro arrivo.»

Edward non avrebbe smesso di preoccuparsi fino a quando non avrebbe rivisto quei tre sani e salvi con i suoi stessi occhi, ma era ovvio che la cacciatrice non fosse in vena di ulteriori obiezioni. Il semidio sospirò, poi spiegò tutto quanto. Raccontò di come il loro treno fosse deragliato, costringendo il loro gruppo a dividersi contro il loro volere, e di come i grifoni avessero provato ad attaccarli. Quando arrivò alla parte che riguardava Fujinami, sgranò gli occhi. 

«Fujinami?» domandò Talia, quando le chiese di lui. «C’eravate solo voi due qui. Non abbiamo visto nessun… ehm… come hai detto che si dice?»

«Qilin. “Chi-lin”» scandì Edward.

«Quello. No, non l’abbiamo visto, mi dispiace. Forse è riuscito a scappare da solo.»

O forse si è dissolto, avrebbe voluto dire Edward prima di mordersi la lingua. Con tutto quel trambusto aveva perso il qilin di vista e anche se non gli aveva ispirato molta simpatia aveva comunque cercato di aiutarli. Malgrado tutto la sua morte gli sembrò davvero ingiusta. Valutò poi se raccontare a Talia di quel tizio vestito da mendicante che aveva deciso di aiutare i mortali, ma alla fine decise di omettere quella parte.

L’uomo era stato chiaro, se c’era qualcuno che avrebbe dovuto conoscerlo, quello era proprio Edward. Talia non avrebbe potuto essergli di aiuto. Proseguì con la storia e raccontò dell’imboscata che avevano teso a lui, Steph e Fujinami, e parlò della figlia di Demetra che eliminava da sola i mostri e che scaraventava Oto in cielo come un frisbee. Qualcosa che perfino lui faticava a credere, malgrado vi avesse assistito in prima persona.

«Aspetta» fece Talia, ancora più incredula di lui. «Che cosa?!»

Edward intuì che forse Artemide aveva omesso quella parte dalle sue spiegazioni. «È andata davvero così. L’ha intrappolato con dei rampicanti e lanciato in aria. Lo so che sembra assurdo, ma è vero.»

Le labbra di Talia non si chiusero per almeno altri quindici secondi. Si voltò verso una tenda, Edward intuì fosse quella che avevano proprio lasciato a Stephanie, e borbottò qualcosa in greco antico che non riuscì a capire. Il giapponese era la lingua in cui lui andava forte, con il greco era sempre stato un incapace, ma era abbastanza sicuro che la figlia di Zeus avesse espresso la sua ammirazione.

«Ha senso» affermò infine, tornando a guardarlo. «Per sconfiggere un gigante occorre che un semidio ed un dio collaborino. Mio padre non avrebbe potuto ucciderlo da solo, ma lanciando Oto in cielo, nel suo territorio, Stephanie ha fatto in modo che lui potesse finirlo. Non so se fossero davvero quelle le sue intenzioni, ma è stata comunque una mossa astuta.»

Il figlio di Apollo non poté certo ribattere. Anzi, forse poteva, ma solo per dire che “astuta” gli sembrava riduttivo per definire Stephanie. Infine, spiegò come la figlia di Demetra fosse impazzita e lo avesse attaccato. All’inizio pensò che Talia, come Kowalski, non gli avrebbe creduto, ma a racconto concluso la figlia di Zeus annuì.

«Due semidei non dovrebbero mai combattere tra loro» disse semplicemente. «Le conseguenze possono essere disastrose.»

Edward osservò quel bosco semidistrutto. Disastrose, già, se n’era accorto.

«Nemmeno io avrei dovuto attaccarti» proseguì Talia. «Ma ho dovuto agire in fretta dopo che hai deviato i dardi. Non offenderti, ma anche tu sembravi fuori di testa.»

Non poteva davvero biasimarla per averlo pensato. Ogni volta che ritornava con la memoria allo scontro con Steph, Edward non riusciva a scollarsi dalla mente il momento in cui l’aveva quasi uccisa.

«Comunque non è da tutti resistere all’Egida come hai fatto tu. In passato ha fatto scappare mostri grossi il triplo di te con la coda tra le gambe. Mi hai colta alla sprovvista, devo ammetterlo.» Talia schiacciò un tasto sull’orologio che aveva al polso e questo si tramutò nello scudo con il volto di Medusa modellato sopra. Anche se non stavano combattendo, osservare quella faccia suscitò comunque una scarica di brividi lungo la schiena di Edward. Tuttavia sentire Talia rivolgergli quello che aveva proprio l’aria di essere un complimento lo riempì di orgoglio. Non si sarebbe mai aspettato di trovarsi a discutere con la semidea che aveva preso parte a tutte le più importanti battaglie degli ultimi decenni. Era incredibile.

«Beh… credo che sia stato soprattutto merito di Ama no Murakumo» spiegò, consapevole di non meritarsi davvero tutti quei meriti.

«Quello sarebbe il nome dell’arma che avresti rubato, giusto?»

«Sì. Ma non l’ho rubata io.»

Talia fece scomparire lo scudo, poi appoggiò entrambe le mani sul tronco ed allungò le gambe, stirandosi. «Gli dei la pensano diversamente.»

«Beh, gli dei possono…» Edward serrò le labbra prima di dire qualche parolina di troppo.

La cacciatrice passò lo sguardo su di lui e il semidio si aspettò che lo rimproverasse per aver quasi detto qualche blasfemia, invece gli rivolse solo un sorrisetto. «Tu non ti fai troppi problemi a dire quello che ti passa per la testa, vero?»

«Neanche un po’.»

«Ti consiglio di smetterla, allora, prima che tu faccia arrabbiare sul serio qualcuno di importante.»

Edward grugnì. «Ho già fatto arrabbiare Zeus e Amaterasu, re e regina degli dei occidentali e orientali. Chi c’è di più importante?»

«Scoprirlo potrebbe stupirti.»

Il figlio di Apollo sollevò un sopracciglio, ma Talia non disse altro a proposito. «Mi faresti vedere la spada?» gli domandò invece.

A quel punto, Edward si rabbuiò di nuovo. «Lo farei, se potessi, ma ancora non so come farla comparire a piacimento. Diciamo che… arriva lei da me quando davvero mi serve.»

Di solito, avrebbe dovuto aggiungere, ma non voleva dare troppo l’impressione di essere un incapace totale a controllare l’arma. Talia corrucciò la fronte, annuendo. Per un attimo Edward sperò che la ben più potente ed esperta figlia di Zeus avesse dei consigli da dargli su come maneggiare meglio un oggetto del genere, ma quella rimase in silenzio. Rammaricato, il figlio di Apollo abbassò lo sguardo sulla sua mela.

«La tua è una storia molto interessante, Edward. Dei orientali, queste creature che mai avevamo visto che appaiono dal nulla, armi divine… ci hai messi tutti in un bel pasticcio, lo sai?»

Normalmente il figlio di Apollo si sarebbe infastidito udendo quelle parole, stanco com’era di sentirle, ma sapeva che Talia non lo stava davvero accusando. Anzi, sembrava piuttosto tranquilla.

«Almeno ci credi a quello che ti ho raccontato adesso?» le domandò. Quella sì che sarebbe stata una novità. «Non volevo fare del male a Steph.»

La figlia di Zeus scrollò le spalle. «Mi hai dato la tua versione dei fatti. Vedrò se combacerà con quella di Stephanie quando si sveglierà.»

Lo sdegno travolse Edward come un fiume in piena. «Wow» mugugnò. «Grazie tante.»

«Prego. Ora riposati. È stata una giornata dura per tutti. Artemide ci ha detto che sarebbe tornata verso sera, perciò non può mancare ancora molto. Credo proprio che anche lei vorrà parlare con te.»

Edward diede un altro morso alla mela. Se anche Artemide voleva parlare con lui, allora era chiaro che da lì non se ne sarebbe andato molto presto. L’idea di parlare con un’altra dea, anche se si trattava di sua zia, non lo faceva impazzire di gioia, ma forse poteva essere una buona occasione per scoprire più cose sul suo passato. E poi Artemide era l’idolo di Rosa. Se l’avesse conosciuta avrebbe potuto raccontarlo alla sorella, un giorno. E nel frattempo, magari la sua compagna di viaggio avrebbe potuto svegliarsi.

Tornò ad osservare la tenda dove riposava Steph. Ora che il fremito della battaglia era solo un ricordo sbiadito, si sentiva ancora più in colpa per aver combattuto con lei. Avrebbe dovuto ragionarci a parole, quel pomeriggio, non con la forza. Voleva vederla e accertarsi con i suoi stessi occhi che stesse bene. Era il minimo che poteva fare per lei. «Posso andare da Steph?»

«Meglio di no. Se le altre ti vedessero ronzare attorno alla sua tenda potrebbero pensare male di te. Cioè, ancora più male.»

«Voglio solo vedere se sta bene» protestò Edward.

«Sta bene, non devi preoccuparti. Le ragazze si sono prese ottima cura di lei. Le hanno perfino tolto le lenti a contatto.»

Ah, adesso sì che sono tranquillo!

Il semidio assottigliò le labbra, ma decise di lasciar perdere con un sospiro. Conosceva la trafila. Le cacciatrici detestavano quando i ragazzi mostravano qualsiasi tipo di interesse per una ragazza, anche solo preoccupazione. Se non altro lui e Steph erano al sicuro. Non poteva fare altro che augurarsi che anche Tommy, Lisa e Konnor lo fossero.

Malgrado gli alti e i bassi – o meglio, zero alti e molti bassi – avuti con il figlio di Ares e la figlia di Bacco, non voleva che capitasse loro qualcosa di brutto. Non erano amici, ma rispettava entrambi per aver deciso di accompagnarlo nell’impresa. Per Tommy era diverso. Erano amici, aveva perfino creduto di essere suo fratello ad un certo punto, non aveva certo bisogno di altri motivi per sperare che stesse bene.

Escludendo il fatto che Natalie lo avrebbe ucciso in caso contrario.

Ripensando alla figlia di Ermes, il ragazzo si ritrovò a sorridere. Faceva tanto la dura, ma sotto sotto aveva un cuore d'oro, altrimenti non avrebbe salutato lui e Thomas in quel modo il giorno della loro partenza. Un po’ gli dispiacque di non aver approfittato della sua permanenza alla casa Undici per conoscere meglio anche lei.

Poi ripensò ai suoi fratelli della casa Sette, ed intuì perché le cacciatrici non li vedessero proprio di buon occhio. Anche se forse avrebbe dovuto essere più cortese con loro, con Jonathan soprattutto. Il capocasa, alla fine, aveva solo cercato di fare in modo che tutto procedesse senza intoppi. Lo aveva accolto in quella nuova abitazione a braccia aperte, tentato di integrarlo nelle loro vite, e malgrado gli insuccessi era stato paziente.

Nonostante per tutto il tempo Edward non avesse fatto altro che pensare a quanto la vita con i figli di Ermes gli mancasse, suo fratello non si era arreso e aveva cercato di fargli capire che anche la casa di Apollo aveva qualcosa da offrirgli. E poi anche lui voleva bene a Rosa, altrimenti non si sarebbe preoccupato in quel modo per lei, la sera del fattaccio. E quando Edward era partito per l’impresa, Jonathan gli aveva anche dato delle dritte su come tenere il suo arco con cura. 

Certo, l’arco era stato distrutto, ma i buoni consigli di suo fratello rimanevano comunque.

In effetti, da quel punto di vista, il cattivo sembrava proprio Edward, non Jonathan. Forse avevano sbagliato entrambi. Una volta tornato a New York, avrebbe discusso anche con lui.

Il suo sguardo scivolò sulla lancia d’Oro Imperiale di Talia, rimasta a terra dopo che lei si era seduta. Quello era il motivo principale per cui aveva creduto che la cacciatrice fosse una romana, all’inizio. «Mi avevano detto che le cacciatrici usano armi d’argento» disse, accennando alla lancia. «Perché tu hai un’arma d’oro?»

L’espressione di Talia si fece molto diversa. Prese la lancia, rigirandosela tra le mani, scrutandola con sguardo distante e triste. L’Oro Imperiale brillò sotto la luce delle fiamme. Quando parlò utilizzò un tono simile a quello che aveva usato per parlare di Rosa, ma amplificato di dieci volte. «Per ricordo» rispose soltanto, senza entrare troppo nel dettaglio. Ma ad Edward il suo sguardo e la sua voce furono più che sufficienti. Annuì e non disse altro, e immaginò che nel profondo Talia gli fu grata per quello. A nessuno piaceva parlare di certe cose.

Quello era un altro dei tanti svantaggi dell’essere semidei: il costante aleggiare della morte attorno a loro, sempre pronta a prendersi le loro vite o quelle delle persone loro care. Chissà quante persone Talia aveva conosciuto e perduto in tutti gli anni in cui era stata cacciatrice. E chissà quante ancora ne avrebbe viste.

«A proposito, tieni.» Talia abbassò la lancia per infilare la mano in tasca. Sembrò riacquisire un certo vigore, ma forse era solo ansiosa di cambiare argomento. Tirò fuori una piccola botticina di vetro e gliela porse. «Abbiamo fasciato le tue ferite, ma forse faresti meglio a bere anche questa.»

«Che cos’è?» domandò Edward, afferrando l’oggetto.

«Acqua di luna. Cura le ferite come il nettare e l’ambrosia, ma di solito la beviamo solo noi cacciatrici.»

Edward esitò. Gli venne da pensare al thè che Milù aveva provato a servire loro a Kansas City. Non era proprio in vena di scherzi del genere. Fu solo quando vide Talia berne un po’ a sua volta che il ragazzo si convinse di non correre rischi. Sorseggiò il contenuto, che aveva un sapore dolciastro, molto diverso dal caldo e dolce sapore di waffles che avevano il nettare e l’ambrosia. Comunque Talia aveva ragione, il dolore al braccio e al petto cessarono quasi del tutto, limitandosi a flebili pulsazioni. Restituì la botticina alla cacciatrice. Un tenue sorriso trovò spazio sul suo volto. «Chi di voi mi ha bendato le ferite?»

La semidea lo osservò inarcando un sopracciglio, poi abbozzò un sorrisetto divertito a sua volta. «Abbiamo fatto a chi prendeva la pagliuzza più corta.»

«E chi l’ha presa?»

«Kowalski.»

Il sorriso di Edward si distese. Ora tutto era più chiaro.

 

***

 

Artemide non si fece attendere molto. Non doveva essere passata più di un’ora da quando Edward aveva finito di chiacchierare con Talia a quando la dea li raggiunse.

Peccato solo che passarono almeno dieci minuti abbondanti prima che lui se ne accorgesse.

Era rimasto solo accanto al fuoco dopo che Talia era andata in perlustrazione insieme alle sue compagne, a riflettere. Su cosa, non lo sapeva nemmeno lui. C’erano così tante cose su cui avrebbe potuto soffermarsi che avevano finito con il creare un ingorgo nella sua mente.

La principale, comunque, era che rimaneva solo un giorno di tempo. Ed erano divisi. Non andava bene, per niente. 

Quando poi aveva visto quella ragazzina che non poteva avere più di tredici anni arrivare all’accampamento e discutere proprio con Talia non ci aveva dato molto peso, così come non aveva dato peso alle occhiate fugaci che gli avevano lanciato proprio mentre parlavano. Aveva creduto che fosse un’altra cacciatrice che prima non aveva notato, dopotutto il suo abbigliamento non si discostava molto da quello delle altre ragazze: pantaloni neri, un abito argentato che le arrivava alla vita, una tiara che le decorava la fronte, mentre i suoi capelli erano lunghi e castani, divisi in due trecce che le scivolavano dietro la schiena.

Edward aveva quindi tenuto la testa bassa, continuando a rigirarsi tra le mani il coltellino di bronzo celeste che aveva preso in prestito da Tommy; non era affatto come il coltellino a farfalla che gli aveva lasciato Kate, ma come sostituto poteva funzionare.

Non si accorse delle due ragazze quando si avvicinarono a lui. Drizzò lo sguardo solo quando Talia si schiarì la voce. «La divina Artemide vorrebbe discutere con te.»

«È arrivata?» Edward si guardò attorno, incuriosito dall’aspetto che sua zia avrebbe potuto avere ed ignorando bellamente l’altra ragazzina. Dioniso, Ares e Afrodite alla fin fine erano stati tutti delle mezze delusioni, tolta la bellezza di quest’ultima. Si immaginava che Artemide se ne andasse in giro armata di tutto punto, magari vestita con pellicce di animali esotici che aveva ucciso, trofei della caccia appesi alla cintura e cose del genere. Dopotutto se era l’idolo di una tipa tosta come Rosa un motivo doveva pur esserci.

Talia lo osservò come se avesse avuto tre teste. La ragazzina incrociò le braccia e lo scrutò severa con i suoi occhi ambrati, mentre la figlia di Zeus si voltava verso di lei con espressione mortificata. Quello sarebbe dovuto essere il momento in cui il cervello di Edward avrebbe dovuto mettersi in moto, ma ancora niente. Fece vagare lo sguardo tra le due ragazze, confuso, fino a quando la piccoletta non sospirò rumorosamente. Quando parlò, rivelò di avere una voce molto più adulta di quello che il suo aspetto avrebbe lasciato trasparire: «Sì, sei proprio figlio di mio fratello.»

Con uno sbuffo di fumo nero, il motorino nella sua testa cominciò ad azionarsi. «O-Oh…»

«Già» annuì Talia, ora osservandolo come se avesse appena firmato la sua condanna al patibolo.

«Seguimi, Edward Model» ordinò la ragazzina, o meglio, Artemide. Cominciò a camminare senza nemmeno attenderlo. Edward rimase immobile ancora per qualche istante, a cercare di processare quanto appena accaduto, fino a quando Talia non si schiarì di nuovo la voce, incitandolo con un cenno ad obbedire.

Come uno zombie, Edward si alzò dal tronco e si avviò al seguito della dea.

E fu così che il suo incontro con la zia iniziò nel peggiore dei modi.

 

***

 

Seguì Artemide in mezzo alla landa desolata che aveva creato con Ama no Murakumo fino a quando non furono abbastanza lontani dall’accampamento. Ad Edward sarebbe piaciuto sapere in anticipo dell’aspetto che la dea della caccia assumeva. Forse si conciava in quel modo per mettersi sullo stesso piano delle sue pupille – anzi, perfino più in basso visto che non arrivava nemmeno alle spalle di Talia – ma in ogni caso dire che lo aveva stupito era riduttivo.

Era una dea con migliaia di anni, forse di più, e aveva l’aspetto di una ragazzina di cinque anni più piccola di lui. Di certo non si sarebbe mai aspettato una cosa del genere, e qualcosa gli suggeriva che non lo aveva aiutato a fare una buona prima impressione.

Mentre camminava, Edward poté ammirare da vicino tutti quegli alberi abbattuti e il suo cuore si riempì di rammarico. Non era uno a cui importava davvero del mondo che lo circondava, ma sapere di essere diretto responsabile di tutta quella distruzione lo stava consumando dall’interno.

Artemide si sedette sopra un tronco coricato e ne indicò ad Edward un altro fronte a quello. «Siedi. Abbiamo molto di cui discutere.»

Che ottima premessa. Il semidio obbedì, sedendosi di fronte alla zia, e rimase in silenzio mentre lei passava le sue iridi color oro su di lui, esaminandolo minuziosa. Edward si sentì come se stesse sviscerando la sua anima con il solo sguardo, ma tenne i nervi saldi. Non poteva sapere del suo patto con Orochi, era escluso. Magari sentiva che nascondeva qualcosa, ma non poteva sapere cosa. O almeno, se l’augurava.

«Hai creato molto scompiglio, Edward Model» iniziò lei, con tono solenne. «Era da molto tempo che un semidio non creava tante frizioni sull’Olimpo.»

«Ah… sì, me l’hanno detto…» borbottò Edward. Almeno centomila volte, gliel’avevano detto.

«Saprai già che mio padre voleva ucciderti, così come diversi altri, dunque.»

Edward annuì. Oh, lo sapeva eccome.

«E pensi che abbiano davvero sbagliato a volerlo?»

Il ragazzo corrucciò la fronte. Quella era una domanda che non si sarebbe mai aspettato di sentire. Avrebbe pensato che fosse uno scherzo, se solo Artemide non fosse stata così seria. Quello sguardo severo sopra il viso suo viso piccolo e grazioso era davvero un pugno in un occhio. «Beh, morire non è mai stato proprio in cima alla mia lista delle priorità, quindi sì, penso che abbiano sbagliato.»

Forse avrebbe dovuto usare un tono più rispettoso, ma non ne era affatto in vena. Non dopo tutto quello che era successo. E comunque avrebbe preferito che la zia non andasse subito al cuore della faccenda. C’erano tante cose che avrebbe voluto chiederle, a proposito di suo padre, di Kate, di come si fossero conosciuti, di cosa fosse successo tra loro e quali fossero i fantomatici "peccati di Apollo" che Afrodite aveva accennato a Stephanie. A quanto pareva, quelle domande avrebbero dovuto attendere ancora un po’ per una risposta.

«Quindi pensi che mio padre abbia sbagliato» proseguì Artemide, ignorando il suo tono. «E fino ad ora che cos’hai fatto per dimostrarglielo?»

Edward sollevò un sopracciglio. «Che cosa intendi dire?»

«Il motivo per cui gli dei si sono posti il quesito di eliminarti o meno, è perché il peso che le tue azioni potrebbero avere è tale da far credere a molti di noi che la soluzione più semplice da prendere sia porre fine alla tua vita.»

«Aspetta un secondo.» Edward sollevò una mano, indurendosi. «Perché mi dici questo? Credevo che anche tu avessi votato per la mia salvezza.»

«Sì, è così» annuì la dea. «Ma l’ho fatto perché sapevo che possedere Ama no Murakumo non è stata una tua scelta. Punirti con la morte per un’azione che non avevi commesso sarebbe stato ingiusto, e non avrebbe fatto altro che creare ulteriori conflitti tra di noi. Tuttavia, le decisioni che hai deciso di prendere adesso sono tue e tue soltanto, e saranno proprio queste a fare la differenza. Perciò ribadisco la domanda: pensi che le tue decisioni fino ad oggi abbiano dimostrato a Zeus di avere torto, quando ha deciso di eliminarti?»

Edward schiuse le labbra. Avrebbe voluto rispondere di sì, ma qualcosa lo frenò. Certo, aveva stretto un patto con il diavolo alle spalle di tutti, e quella era sicuramente la ragione più grande per cui Edward nel profondo sapeva che Zeus avrebbe fatto meglio ad ucciderlo; aveva approfittato della decisione degli dei di risparmiarlo solo per poi tramare alle loro spalle. Ma quello non era tutto.

Prima ancora del patto, c’erano state altre situazioni in cui le sue decisioni avrebbero potuto avere conseguenze catastrofiche. Non aveva detto la verità sulla Spada del Paradiso quando era arrivato al Campo Mezzosangue, e Rosa era stata portata via per questo. Era successo a lei, ma sarebbe potuto succedere a chiunque altro. Aveva mentito a tutti e dopo, quando aveva ottenuto la sua impresa, aveva quasi dato via la spada a Campe. Certo, non aveva idea di come avrebbe davvero potuto consegnargliela, ma il pensiero di farlo gli aveva comunque attraversato la mente. E anziché dare retta a Konnor, l’unico che aveva trovato il coraggio di dirgli in faccia quanto stupida fosse stata quella decisione, lo aveva accusato di colpe che non aveva davvero.

Edward abbassò la testa. Già, non si era comportato bene. Affatto.

Tuttavia, c’era un motivo dietro ognuna di quelle scelte. Ed era lo stesso per tutte. Aveva lasciato che Kate venisse portata via e da allora non si era dato più pace. Era stato quello il momento in cui aveva giurato a sé stesso che non avrebbe mai più lasciato che qualcosa di simile accadesse. Proprio per questo avrebbe salvato Rosa ad ogni costo.

«Io… non voglio che altri innocenti finiscano in pericolo per causa mia» disse, stringendo le mani a pugno. «Tutte le persone che sono rimaste coinvolte in questa faccenda hanno finito con il farsi male e rischiare la vita, in un modo o nell’altro. Non voglio più che succeda. Se la mia morte è ingiusta, allora la loro lo è ancora di più.»

«Quindi speri di poter salvare tutti quanti» osservò Artemide. «E credi che sia un traguardo raggiungibile?»

Il ragazzo tacque. No, era ciò che realisticamente avrebbe dovuto dire. Sì, era ciò che credeva. Rosa, Stephanie, Thomas, il Campo Mezzosangue. Li avrebbe salvati, tutti. Annuì.

«Non potrai mai davvero salvare tutti quanti, Edward Model.»

Le labbra gli fecero male da quanto forte se le morse. «Devo provarci.»

«E a quale prezzo?» insistette la dea della caccia. Il semidio drizzò il capo, tornando ad osservarla dritta negli occhi. La voce di sua zia risuonò dura e severa: «Pensi davvero che consegnare Ama no Murakumo ad un mostro sia la scelta giusta?»

Un brivido percorse la schiena di Edward. Forse la dea si stava riferendo all’episodio con Campe, tuttavia non poteva esserne certo. Ma se davvero avesse saputo di Orochi, non sarebbe stato ancora vivo tanto per cominciare.

«Pondera bene sulle tue decisioni, figlio di Apollo, perché è da loro che dipende il destino di noi tutti.»

Malgrado tutto, un sorriso amaro scappò dalle labbra del semidio. «Il destino di voi dei, vorrai dire.»

L’espressione di Artemide si fece ancora più grave. «No, Edward, non solo il nostro.»

La tensione cominciò a svanire da dentro il corpo del ragazzo, mentre il suo sorriso si increspava. Quella filastrocca l’aveva già sentita. «Ah no? E dimmi, zia, se voi dei non aveste rischiato di rimanere coinvolti in nessun modo, ti saresti presentata qui da me, oggi, per dirmi queste parole? Anzi, avreste comunque deciso di votare per la mia morte?»

La dea della caccia assottigliò le labbra. «Gli dei operano proprio attraverso i semidei. Non è qualcosa con cui ci si deve trovare per forza d’accordo, ma è così che funziona. È per questo che sono qui ed è per questo che abbiamo scelto se tenerti in vita o no.»

«Quindi mi stai dando la conferma che tutto quello che fate serve per beneficiare voi e voi soltanto» ribatté Edward, adirandosi. Ed eccoli, i veri colori di Artemide che venivano fuori. La dea non era altro che l’ennesima persona che cercava di inculcargli la sua dottrina in testa, dopo Chirone e dopo Dioniso.

«Gli dei influenzano il mondo intero, Edward. Senza di noi non ci sarebbe il mondo stesso.»

Edward si alzò in piedi, torreggiando sulla zia. «E allora se tutto gira intorno a voi perché non potete impedirmi voi stessi di prendere la decisione sbagliata? Dopotutto potete vedere ogni cosa e trovarvi in qualsiasi posto in qualsiasi momento, no?»

«Gli dei non possono intromettersi nelle vite dei semidei» asserì Artemide, alzandosi in piedi a sua volta.

«Ma se volevate uccidermi! Quello non lo chiami interferire

«Quello è stato prima della tua impresa. È proprio tramite le imprese che stabiliamo quale semidio debba compiere il nostro volere.»

Il figlio di Apollo si posò una mano sulla tempia, mentre gesticolava innervosito con l’altra. «Quindi, ricapitoliamo. Operate attraverso di noi, ma se c’è di mezzo un’impresa, qualcosa che serve per compiere il vostro volere, allora non potete interferire. In quale modo, forma o dimensione questo ragionamento dovrebbe avere senso?»

«Per alcuni ne ha. Per altri no. A prescindere da come tu la pensi, funziona così e basta.»

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Edward si piegò in avanti, arrivando quasi a sfiorare la fronte di Artemide. «Così e basta?» ripeté, con un bisbiglio. Un tornado di emozioni contrastanti si stava sollevando dentro di lui. E a giudicare dall’aria che cominciò a sollevarsi attorno a loro, forse si stava sollevando anche al di fuori.

Sapeva di star esagerando, sapeva di dire cose per cui avrebbero potuto farlo pentire, sapeva bene tutto quanto, ma non gli importava. Non ne poteva più. Era stanco dell’ipocrisia, stanco delle persone che cercavano di manipolarlo, era stanco di tutto.

Il mondo intero era contro di lui. Mostri, demoni, dei, mortali. Aveva perso l’unica persona che lo aveva davvero amato ed era rimasto da solo, circondato da un manipolo di esseri senza anima che non avevano fatto altro che bollarlo con qualunque appellativo di quelli peggiori che potessero trovare.

E quando aveva creduto di aver finalmente trovato una casa, in realtà non aveva trovato altro che gli ennesimi egoisti che avevano cercato di usarlo come un pupazzo. Era così che facevano gli dei, non solo con lui ma con tutti i loro figli. Li usavano per sbrigare le loro faccende fino a quando non morivano ammazzati da qualche mostro o tiranno, e poi li rimpiazzavano con qualcun altro. A loro non importava niente dei semidei, bastava vedere in che condizioni avevano lasciato il campo, con gruppi di bulli che giravano impuniti, faide ridicole e la totale assenza di libertà. Nessuno poteva essere quello che voleva, erano tutti costretti ad essere le fotocopie sbiadite dei loro genitori e chiunque cercasse di vivere in maniera diversa diventava un reietto.

Ma se gli dei credevano davvero che lui si sarebbe messo in fila desideroso di trasformarsi nel prossimo giocattolo usa e getta, allora si sbagliavano. E il discorso non si limitava solo a loro.

Gli dei, i semidei, i mostri, perfino Orochi, tutti quanti avrebbero dovuto capire che se esisteva qualcosa di impossibile in quel mondo era proprio quella: cercare di manipolarlo. Avrebbe agito a suo modo, come voleva lui. Avrebbe salvato Rosa e i semidei da quel circolo vizioso e ucciso chiunque avrebbe cercato di opporsi, avrebbe perfino raso al suolo San Francisco mattone dopo mattone se necessario.

«Sono stanco delle vostre storie!» sbottò in faccia alla dea. «Voi dei non fate che prendere e prendere, senza mai dare nulla in cambio! Beh, sapete cosa, io non sarò la vostra marionetta, non mi farò mai ammazzare per voi come altri hanno fatto solo perché “è per il destino del mondo” o quello che è, perciò smettetela di dirmi cosa devo o non devo fare!»

Quando Artemide gli afferrò un braccio, fu come se un secchio di acqua gelata gli fosse appena stato rovesciato addosso. «Controllati, Model» ordinò sua zia, autoritaria.

Il ragazzo sussultò. Tutte le emozioni provate fino a poco prima svanirono, rimpiazzate da una fastidiosa sensazione di nausea e vertigini. Sentì la testa girare e se Artemide non lo avesse aiutato a sedersi sarebbe caduto a terra. Si massaggiò la tempia confuso e si accorse delle mani che gli tremavano. Il cuore pulsava nel petto come se stesse per schizzare fuori. Per un attimo… per un attimo aveva creduto di stare per combattere. «Ma cosa… cos’è successo?»

«È Ama no Murakumo» disse la dea. «La sua forza influisce anche sulle tue emozioni.»

Edward spalancò la bocca incredulo. 

«Amplifica le tue emozioni» specificò Artemide, squadrandolo dall’alto. «Quello che hai tirato fuori è ciò che pensi davvero nel profondo, ma portato al livello più estremo a causa della forza di Ama no Murakumo.»

La mente di Edward si resettò. Rimase in silenzio, a ricambiare lo sguardo della zia, incapace di rispondere o anche solo pensare ad una risposta. Non riusciva a credere alle parole che aveva appena udito.

«Capisco che per te questa sia una situazione difficile» proseguì la dea della caccia, dandogli le spalle e congiungendo le mani dietro la schiena. «Ma se lasci che la spada ti corrompa, non farai altro che peggiorare le cose.»

Il ragazzo osservò la dea quasi con sguardo implorante. Il sé stesso di poco prima era svanito nel nulla, rimpiazzato da quel lato più fragile che nemmeno sapeva di avere. Scoprire la verità sulla spada in quel modo fece crollare tutte le sue convinzioni su sé stesse. Lui… non aveva mai controllato Ama no Murakumo. Ama no Murakumo aveva controllato lui. Per questo appariva quando voleva. Per questo aveva litigato con Dioniso e con Artemide. 

Forse quello era anche il motivo per cui non era apparsa quando aveva cercato di cederla a Campe. Ma soprattutto… quello era il motivo per cui aveva quasi infranto da solo la promessa di proteggere le persone a lui care che aveva fatto. Il suo desiderio di sconfiggere Stephanie era stato ingigantito al punto tale da portarlo a tentare di ucciderla. E se davvero l’avesse fatto… non aveva idea di come avrebbe reagito. Solo in quel momento si rese davvero conto della pericolosità della spada. «Come… come faccio a controllarla?»

Artemide lo scrutò con la coda dell’occhio. «Questo sta a te scoprirlo. Sappi solo che non tutti sono in grado di possedere la spada. Occorre una forza interiore di cui solo pochi individui, mortali o semidivini, sono dotati.»

Edward ponderò su quella frase, abbassando lo sguardo sul suolo coperto di foglie. Quindi lui era forte, altrimenti non sarebbe stato in grado di maneggiare Ama no Murakumo. Ma allo stesso tempo non lo era abbastanza da impedire che Ama no Murakumo incidesse su di lui. Quelle scoperte non fecero altro che far nascere ulteriori quesiti dentro di lui. «Quindi… anche mia madre era abbastanza forte da poterla possedere» mormorò.

«Sì, è così. Kate Model era dotata di una forza incredibile per essere una mortale. Non è un caso che sia riuscita ad attirare l’attenzione di mio fratello.»

«Però… come ha fatto a cederla a me?»

Sua zia scosse la testa. «Non lo so. Posso dirti che non sono molti i modi per cedere Ama no Murakumo. Il primo è restituirla ad Amaterasu in un luogo adatto. Il secondo è donarla a qualcuno che ne sia degno, come un passaggio della torcia. Il terzo, invece, è morire in combattimento per mano di un altro guerriero in grado di possederla. Se ce ne sono altri, allora solamente Amaterasu e Susanoo li conoscono.»

Il figlio di Apollo annuì. Il terzo modo per cedere la spada rimase inciso nella sua testa. Anche se avrebbe voluto fare altre domande, preferì rimanere in silenzio, trovandosi impossibilitato ad intraprendere un’altra discussione con la dea. Si sentiva un verme per come si era appena comportato. Certo, era stata colpa di Ama no Murakumo, ma Artemide era stata chiara: la spada aveva solo amplificato quello che pensava davvero. Non aveva detto nient’altro che la verità.

Tutto quello che aveva tirato fuori sugli dei era ciò che pensava davvero. Odiava come tutto dovesse girare attorno a loro, così come odiava il fatto che volessero che lui si comportasse da bravo soldatino per loro quando avevano discusso se ucciderlo o meno giusto una settimana prima. Odiava la loro ipocrisia, la loro falsità, odiava come pretendessero che tutto gli fosse dato. Ma probabilmente Artemide lo aveva capito da ben prima che i due si parlassero. Tutto quello che aveva fatto Edward era stato darle una conferma.

«Torniamo all’accampamento adesso. Questa notte la trascorrerai insieme a noi. Domattina ripartirai per il tuo viaggio. Le cacciatrici verranno con te.»

Edward scattò come una molla. «Perché anche loro?»

Non gli importava di passare lì la notte. Aveva bisogno di riposare per davvero. Però non voleva le cacciatrici tra i piedi. Poteva tollerare Talia, per il rispetto che aveva nei suoi confronti e perché era stata la più gentile con lui, ma nessun’altra. Tuttavia la risposta di Artemide non ammise altre discussioni. «Lo sai perché.»

Sì, aveva ragione. Lo sapeva perché. Dopotutto, era stato lui stesso ad incitarla a fare una cosa del genere. Se gli dei non potevano controllarlo di persona, avrebbero fatto in modo che altri semidei lo facessero al posto loro. Le cacciatrici non facevano eccezione. Eppure, udirlo gli fece comunque male, così come gli fece male il tono deluso che la donna aveva usato.

Se c’era qualcuno che poteva ancora ritenere parte della sua vera famiglia, quella era proprio Artemide. Era la sorella di suo padre, dopotutto, la sua vera zia. Non avrebbe dovuto dirle quelle parole. «Mi dispiace per quello che ho detto, Artemide. Io non…»

«No» lo interruppe lei, facendosi ancora più severa di prima. Come se il fatto che volesse scusarsi con lei la facesse arrabbiare ancora di più di quando le aveva mancato di rispetto. «Non devi scusarti con me. Quello che devi fare ora è approfittare di questa notte per riflettere sulle tue azioni. Dovrai scegliere la strada che vuoi percorrere. E quando sarai sicuro di aver scelto quella giusta, non voltarti più indietro. Solo così avremo una possibilità di scongiurare la guerra.»

Le labbra di Edward si assottigliarono. Non sapeva davvero cosa volessero dire quelle parole, ma visto che sembravano la prima parvenza di consiglio che riceveva da quando il viaggio era iniziato, annuì.

Artemide gli rivolse un cenno della testa, poi si diresse verso l’accampamento. Mentre osservava le sue code ondeggiarle dietro la schiena, Edward pensò a come quella conversazione non avesse fatto altro che accrescere ancora di più i suoi dubbi.

 

***

 

Alla fine qualcosa di buono accadde anche in quella giornata che non sembrava avere più fine: le cacciatrici, o meglio, Talia, gli diede un bicchiere di cioccolata calda.

Era scesa la notte, cosa che Edward notò quando lui ed Artemide ritornarono all’accampamento. Le ragazze in grigio erano tutte radunate attorno al fuoco, intente a sorseggiare la calda bevanda. Molte di loro si alzarono per salutare Artemide, per poi rivolgere lui un’occhiataccia. 

Visto l’umore generale aveva quasi voluto congedarsi e rintanarsi nella sua tenda per non uscirne più, ma quando Talia gli aveva offerto la cioccolata non aveva potuto rifiutare. Malgrado il periodo dell’anno, quella notte la brezza era fresca e leggera, quindi adatta per quella bevanda. E poi, era sempre cioccolata. Come rifiutare?

Si sedette in un anfratto distante dalle ragazze, che non si fecero troppi scrupoli a mostrare il loro fastidio nell’averlo attorno, e sorseggiò calmo quella delizia. 

Immaginò che Steph stesse ancora dormendo, perché non si vedeva da nessuna parte. Si domandò se con lei le cacciatrici sarebbero state più gentili. 

In circostanze normali avrebbe trovato divertente la situazione; lo sdegno che nutrivano le ragazze nei suoi confronti sarebbe stato ripagato con loro costrette a dover trascorrere ancora più tempo assieme a lui, soprattutto quando avrebbero dovuto accompagnarlo a San Francisco il giorno dopo. Peccato solo che era così occupato a pensare a tutto quello che era successo quel giorno che lo spazio per il divertimento era ormi inesistente.

Le cacciatrici chiacchieravano tra loro, di tanto in tanto perfino alcune risate si sollevavano. Artemide rimase con le sue pupille, seduta accanto a Talia su quel tronco abbattuto. Sembrava tranquilla e serena, nonostante la sua discussione con il semidio.

«Che hai fatto alla faccia?»

Concentrato sulla sua cioccolata, Edward non prestò attenzione a quella domanda, anche se proveniva da una voce familiare. Questo fino a quando la voce non si fece sentire di nuovo. «Parlo con te» asserì altezzosa.

Il ragazzo drizzò la testa e il calore del fuoco fece sussultare gli sfregi sul suo volto. Assottigliò le palpebre per via della luce arancione e notò che Kowalski lo stava fissando, imitata da tutte le altre, Talia ed Artemide comprese.

«Che hai fatto alla faccia?» ripeté Kowalski, indicando le cicatrici.

Edward rimase in silenzio per uno, due, tre secondi. Ricambiò lo sguardo di Brizzolata senza dire nulla, credendo di aver sentito male. Forse lui non era un maestro della buona educazione, ma era abbastanza sicuro che andare a chiedere a qualcuno delle sue cicatrici in quel modo non fosse proprio simbolo di finezza.

Talia si schiarì la gola. «Kowalski, non credo sia il caso di…»

«Un gatto» sbottò Edward, con un’alzata di spalle.

Kowalski batté le palpebre un paio di volte, confusa. «Cosa?»

Il figlio di Apollo posò il bicchiere di cioccolata. «Un gatto mi ha graffiato.»

«Un gatto? Un gatto ti ha fatto quello?»

«Non era un gatto come gli altri» obiettò Edward, adirandosi. «Era un randagio! Ed era almeno… grosso così» e mimò con le mani la dimensione di un gatto normalissimo, forse perfino più piccolo. Sotto le occhiate incredule delle cacciatrici, il ragazzo afferrò di nuovo il suo bicchiere. «Me la sono proprio vista brutta. È una fortuna che io sia ancora vivo anche solo per raccontarlo, ve lo dico io.»

Sorseggiò di nuovo la sua cioccolata, mentre un silenzio irreale cadeva tra le cacciatrici. Kowalski lo osservava come se fosse sceso da un altro pianeta. Poi, a qualcuno scappò un risolino. Una cacciatrice con i capelli rossi si coprì la bocca, per poi cercare di camuffare quella risatina schiarendosi la gola. Talia sorrise divertita, forse dall’idiozia di Edward, forse dall’espressione esilarante di Kowalski, e venne imitata da diverse altre ragazze. Alcune si voltarono per non dare troppo nell’occhio, e perfino Artemide sollevò un sopracciglio.

«Posso avere ancora un po’ di cioccolata?» domandò Edward, sollevando il bicchiere ormai vuoto.

Talia afferrò un termos. «Ma certo.»

Mentre Edward faceva il bis, Kowalski non si scollò più di dosso quell’espressione esterrefatta dal volto. «Bella la balestra, comunque» disse poi il figlio di Apollo mentre tornava a sedersi, indicando l’arma di Kowalski. La ragazza abbassò lo sguardo sulla sua arma, appoggiata a terra accanto a lei. «Grazie… credo…»

Dopo quell’episodio, Brizzolata non gli rivolse più la parola.

 

***

 

Non fu semplice addormentarsi. Per prima cosa perché le cacciatrici rimasero sveglie a discutere ancora per parecchio tempo dopo che lui andò a coricarsi, e poi perché aveva la mente troppo impegnata in altri pensieri per riuscire ad assopirsi. Ne aveva approfittato per udire il disappunto delle ragazze quando Artemide aveva detto loro cosa avrebbero dovuto fare il mattino seguente.

E anche quando riuscì a scivolare nelle fantomatiche Braccia di Morfeo, il suo fu un sonno senza sogni e senza incubi, e quando si svegliò si sentì come se avesse chiuso gli occhi giusto per pochi minuti.

Anche le cacciatrici dovevano essere andate a dormire, perché il silenzio ora regnava sovrano. Non poteva sapere quanto tempo fosse trascorso, ma non doveva essere molto. Il suono del canto dei grilli, dapprima inudibile a causa del chiacchiericcio, andò a riempire le sue orecchie dando lui un meraviglioso effetto calmante.

Era così stanco che avrebbe voluto addormentarsi di nuovo, ma sapeva che non sarebbe successo. Non riusciva a fare altro che ripensare alla sua discussione con Artemide e al fatto che voleva mandare le cacciatrici con lui perché sapeva di non potersi fidare.

Eppure… eppure la zia gli aveva anche detto di riflettere su cosa voleva fare. Prendere una strada e non voltarsi più indietro. Edward si girò e rigirò nel sacco a pelo, pensieroso. Ruminò per quelle che sembrarono eternità. Dissezionò quelle parole come se si fosse trovato in un’aula di biologia. Poi, come un fulmine a ciel sereno, la risposta giunse. E si diede dello stupido per non esserci arrivato prima.

Si alzò in piedi e indossò la felpa e le scarpe che si era tolto prima di dormire, ed uscì a passo felpato dalla tenda.

Si aspettava di trovare qualche ragazza di guardia, invece nei pressi del falò ormai spento non c’era nessuno, così come non c’era nessuno da nessun’altra parte. Le altre tende aleggiavano nel silenzio assoluto delle fanciulle assopite. Fu strano non notare nessuna ragazza di ronda, ma Edward non abbassò la guardia: forse si erano solo allontanate per un po’.

Il suo sguardo scivolò sulla tenda di Steph. Il suo stomaco fece una capriola.

Troppe cose erano successe con lei, troppe cose in troppo poco tempo. L’aveva difesa dai bulli, poi l’aveva fatta infuriare con lui. Si erano riappacificati, poi lei aveva salvato lui. Poi avevano litigato sul treno. Disonesto, così lei lo aveva chiamato. Poteva davvero darle torto? Con tutti quei segreti che aveva?

E per finire, avevano combattuto. Entrambi erano impazziti a causa del troppo potere, ma questo non poteva davvero giustificarli, o almeno lui non poteva giustificare sé stesso. E prima ancora, durante il litigio sul treno, le aveva detto in faccia cose che non avrebbe mai dovuto dire a nessuno. Le aveva detto che l’impresa riguardava soltanto lui, e che la sua presenza non era necessaria. Ancora una volta, si era comportato come un verme con quella ragazza che, alla fine, aveva solo cercato di esprimere la sua preoccupazione per lui. 

Perché erano amici. Perché gli voleva bene.

Edward sospirò. Agli dei piaceva parlare tanto di destino, a quanto pareva. Beh, forse il destino tra lui e Stephanie non era mai esistito davvero. Era stato un emerito idiota con lei. Era una ragazza speciale, e se l’era fatta sfuggire. Aveva rovinato tutto. Avrebbe voluto almeno salutarla come si doveva per un’ultima volta, ma non poteva rischiare di svegliarla. Lei non gli avrebbe mai permesso di fare ciò che stava tramando. O peggio ancora, non lo avrebbe lasciato da solo. Ma se lei fosse rimasta con lui, allora lui non avrebbe più avuto il coraggio di fare ciò che andava fatto.

Artemide gli aveva detto di prendere una decisione e di non voltarsi indietro. Ebbene, quella era la decisione che aveva preso.

Si incamminò nella notte, allontanandosi dall’accampamento percorrendo i meandri di quel bosco.

La profezia riguardava lui e lui soltanto. Tutta quella storia era iniziata quando aveva messo piede nel Campo Mezzosangue. E tutta quella storia sarebbe finita quando avrebbe messo piede nell’Asian Art Museum.

Le cacciatrici non sarebbero riuscite a controllarlo e neppure Stephanie. Il suo unico rimpianto era che non si sarebbe potuto assicurare che Thomas e gli altri stessero bene. Ma aveva fiducia in loro. Detestava Konnor, ma doveva concederglielo, era uno a posto. Era certo che avrebbe protetto Tommy e Lisa.

«Quindi hai deciso?» La voce che forò l’aria fu come una freccia che si abbatté proprio sulla sua schiena. Edward si irrigidì, ma non si voltò. «Sì, ho deciso.»

«Sei davvero sicuro che sia la scelta giusta?»

Edward scrollò le spalle. «Se non sei d’accordo puoi sempre fermarmi.»

«Sai bene che non posso intromettermi.»

Il figlio di Apollo sentiva lo sguardo di Artemide posato sulla sua nuca, ma non si guardò indietro. Proprio come lei gli aveva detto di fare. «E allora direi che non abbiamo altro da dirci, zia. Passa una buona serata.»

E senza dire altro, Edward proseguì per la sua strada. Non attese una risposta da Artemide, e infatti non la ricevette. La dea accolse la sua decisione con totale indifferenza, proprio come lui si era aspettato.

Si addentrò nel bosco, lasciando che la notte lo inghiottisse.

 

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Capitolo 25
*** In fuga ***


25

In fuga

 

 

Erano fuggiti nel bosco per quelle che erano sembrate ore, viaggiando alla cieca, trascinando il povero Konnor di peso.

Tutto quanto era andato a rotoli in così poco tempo che Thomas ancora faticava a crederci. Quanto avrebbe voluto svegliarsi sul treno proprio in quel momento e scoprire che tutto quello non era stato altro che un orribile incubo.

E invece non c’era più nessun treno, Edward e Stephanie erano finiti chissà dove e Konnor sembrava più morto che vivo. E la cosa peggiore era che se non si fossero trovati in mezzo a due fuochi diversi sarebbero morti tutti e tre.

Da quando si erano allontanati dalla ferrovia, Lisa non aveva più detto una parola. Si era chiusa in un silenzio angosciato e aveva lasciato che fosse lui a guidare il trio in mezzo alla foresta. Mai come in quel momento Thomas avrebbe voluto udire la sua voce. Purtroppo, la figlia di Bacco non lo aveva accontentato. Non subito, almeno.

Dopo un’altra quantità di tempo indicibile, Lisa aprì di nuovo bocca, e la sua voce quieta andò in netto contrasto con quella acida con cui lo aveva abituato: «Andiamo di qua.» E accennò con il mento a una direzione alla sua destra.

«P-Perché?» domandò lui. Pensò che magari Lisa fosse già stata da quelle parti, visto che aveva vissuto in California, nel Campo Giove, per qualche tempo. Magari conosceva il posto. Invece la sua risposta lo sorprese: «Vigneti. Li sento. Sono vicini.»

«Puoi sentire… i vigneti?»

Lisa si rabbuiò ancora di più. «Andiamo e basta. Forse troveremo un posto dove fermarci.»

Thomas non se la sentì di obiettare. Sempre meglio che brancolare nel buio. Mentre proseguivano, la terra tremolò al passaggio di alcuni elicotteri sopra di loro. Dovevano essere i soccorsi ferroviari. Thomas si augurò che almeno tutti quei mortali rimasti coinvolti nelle loro faccende da semidei stessero bene.

Dopo quella che parve un’altra eternità di stenuante camminata, uscirono dal bosco e si trovarono di fronte proprio quello che Lisa aveva detto: vigneti. Centinaia e centinaia di filari si estendevano di fronte a loro fino all’orizzonte su quelle colline, intervallati da stradine di terra battuta. Thomas rimase a bocca aperta.

Quella era la Valle Centrale di California. Una lunga distesa di terre coltivate e piantagioni di ogni tipo.

La vista di quell’enorme manto verde, giallo e arancione fece sì che la diga della nostalgia cedesse e venisse inondato dai ricordi. La casa dei suoi nonni, i campi, le fragole. L’odore dell’erba fresca di rugiada, il cielo sereno e il sole che splendeva. Le giornate tranquille, lontane da mostri e da pericoli, solo pace, quiete e tranquillità. Quella semplice immagine idilliaca bastò per ripagare tutti gli sforzi fatti per arrivare fino a lì.

Doveva tutto a Lisa. Se non gli avesse dato le indicazioni esatte, avrebbero continuato a vagare nel bosco fino a quando non sarebbero crollati per la stanchezza. Erano arrivati lì grazie a lei. Quella era stata l’unica volta in cui aveva davvero dimostrato di essere una figlia di Bacco. Si era sempre comportata come una figlia di Ares, sia nel modo di fare che nel modo di parlare, forse non in maniera voluta, ma il paragone era più che azzeccato. Vederla abbracciare il lato del suo vero genitore divino per una volta fu piuttosto insolito.

«Guarda.» L’indice di Lisa si sollevò verso un puntino marrone in mezzo a quella distesa di tralci di vite. «Sembra una casa.»

Thomas la vide e annuì. Già, così pareva. E non sembrava nemmeno molto lontana. Forse lì avrebbero trovato qualcuno disposto ad aiutarli, o un posto dove fermarsi e riposare.

Strinsero i denti ancora per un po’ e attraversarono la scia di filari con passo lento e stanco. Konnor mugugnava a ogni metro percorso, la testa accasciata di lato. Non sarebbe riuscito a resistere ancora a lungo. Ogni suo sussulto era una pugnalata per Tommy, che non riusciva affatto a non sentirsi in parte responsabile per quello che gli era successo.

Per fortuna, arrivarono a quell’edificio in poco tempo. Per sfortuna, non era una casa. Non era nemmeno un vero edificio. Era una catapecchia di legno marcio, ai piedi di una collinetta, con un’insegna sbiadita appesa a una porta sbarrata da una pesante catena:

 

Proprietà di:

UN MONDO DI-VINO

 

Thomas storse le labbra.

Ah!

Il suo sguardo cadde sul pesante lucchetto. Dubitava che qualcuno utilizzasse quel luogo molto spesso. A giudicare dalle condizioni, non poteva che essere stato degradato a magazzino. Ma era comunque un tetto, ed era proprio di un tetto ciò di cui avevano il disperato bisogno.

Con il passe-partout di Ermes sbloccò la serratura e tirò via le catene. Quando spalancarono la porta ed entrarono, un pesante odore di chiuso e di umidità penetrò le sue narici dandogli una leggera sensazione di vertigini. Portarono Konnor dentro e si accorsero di come la differenza tra l’esterno e l’interno fosse come quella tra il giorno e la notte. Fuori c’era il caldo tipico di quel periodo dell’anno, dentro faceva tanto freddo da gelare le ossa.

Fino a qualche ora prima aveva creduto che la loro fuga nei boschi non era servita ad altro che prolungare la loro sofferenza. Ora, invece, mentre erano circondati da quelle quattro mura, sentì come se non tutto fosse perduto. Una piccola goccia di coraggio andò a tuffarsi in quel mare di angoscia che si agitava dentro di lui. Se non altro ora potevano riposare.

Ci aveva visto giusto, quel posto era davvero un magazzino. Botti di vino vuote erano assiepate ovunque ci fosse spazio per loro assieme a casse di plastica e di legno, mentre diversi utensili per la potatura erano buttati alla rinfusa sopra un banco da lavoro: cesoie, pinze, forbici, falcetti e anche del fil di ferro. Viste le loro lame arancioni per la ruggine, era chiaro che non venissero utilizzati almeno da anni. Loro tre erano i primi visitatori che quel luogo doveva aver ricevuto dopo tempi immemori.

«Piano, piano» sussurrò Lisa, mentre aiutava Konnor a sedersi. Il figlio di Ares appoggiò la testa contro la parete, le palpebre serrate. Era bianco come un fantasma e tremava come una foglia. 

Thomas non aveva mai visto nulla del genere e la cosa lo stava mandando in panico. Tutti loro avevano preso altra ambrosia mentre camminavano, ma non sembrava aver avuto alcun effetto su Konnor. La sua ferita si era rimarginata, ma non sembrava più volersi riprendere da quello stato comatoso.

Tommy prese una coperta dallo zainetto e la usò per avvolgere il compagno di viaggio, almeno per cercare di farlo smettere di tremare. Lisa si spostò per fargli spazio e Tommy si mise all’opera. 

«Se solo Edward fosse qui» mormorò, mentre era inginocchiato di fronte a Konnor. «Lui potrebbe…» Si interruppe di scatto. Le parole di Naito risuonarono nella sua mente.

«Il vostro amico ha deciso di vendersi.»

Tommy lasciò la coperta e strinse i pugni. Aveva creduto alle parole del demone per un momento, quando gli aveva detto che Rosa era ancora viva. La sua incapacità di accettare la scomparsa di quella ragazza lo aveva portato ad aggrapparsi a tutti i costi alle chiacchiere vuote di un essere senza cuore. Ma se davvero Rosa fosse stata ancora viva, allora anche la storia su Edward sarebbe stata reale, e Thomas quello non poteva accettarlo.

La scomparsa di Rosa era stato un boccone molto amaro da mandare giù, ma credere che Edward potesse tradirli era ancora peggio. No, Edward non era un traditore. Naito si era inventato quell’idiozia per fargli abbassare la guardia. E aveva funzionato, a giudicare da quello che era successo a Konnor. Si erano fatti fregare. Lui si era fatto fregare.

La voce di Lisa giunse alle sue spalle, incerta. Anche lei stava pensando alla stessa cosa. «Credi… credi che Naito dicesse la verità?»

«No» rispose secco Thomas. Si voltò verso la ragazza. «Edward non farebbe mai nulla del genere.»

Lisa si era spostata vicino alla porta. Si stritolò un braccio per la tensione, poi annuì dopo alcuni attimi di esitazione. A Tommy non importava se lei faticasse a credergli. Se c’era qualcuno che conosceva Edward, quello era proprio lui. Il tempo che avevano trascorso assieme alla casa Undici era stato più che sufficiente per convincerlo che poteva fidarsi del figlio di Apollo. Per questo erano amici.

«Non possiamo mandare un messaggio Iride a Stephanie ed Edward? Potremmo spiegare la situazione e magari farci raggiungere» suggerì allora Lisa.

Thomas scosse la testa con aria afflitta. «Stephanie si è tenuta le dracme. Posso creare un arcobaleno, ma non ho nulla da offrire.»

«Non hai dracme nello zainetto?» chiese a quel punto Lisa, con uno strano tono.

Tommy assottigliò le labbra, infastidito dalla domanda. «No, non ne ho.»

«Ma com’è possibile?» sbottò allora Lisa, utilizzando di nuovo il tono che l’aveva contraddistinta per tutto il viaggio. «Sei un figlio di Ermes! Come fai a non avere…»

«Cosa?!» domandò Thomas, alzandosi in piedi. «Come faccio a non avere cosa?!»

La ragazza spalancò gli occhi, presa alla sprovvista da quella sua reazione così inusuale. Ma Thomas era stanco dei suoi continui commenti e frecciatine. Forse quello non era il momento per litigare, ma aveva raggiunto il punto di ebollizione. Non ne poteva più di essere provocato da lei. Le puntò contro il dito, alzando la voce. «Tu sei una figlia di Bacco, hai del vino in tasca?!»

Lisa ricambiò il suo sguardo. Le labbra si mossero e parve quasi in procinto di rispondere, ma lui la anticipò: «Solo… perché sono un figlio di Ermes…» proseguì abbassando la mano, con la voce che per poco non gli si incrinava a causa di quell’improvviso crollo emotivo. «… non significa che io sia un dispenser di monetine. Così come… non significa che mi piace rubare. O fare dispetti. O… qualunque altra cosa tu possa pensare di me. Io non sono in quel modo. Perciò smettila di tormentarmi una volta per tutte.»

Il silenzio calò in quella stanza. Lisa lo osservò ancora per un momento, mentre il respiro di Tommy si faceva irregolare. Sentì gli occhi inumidirsi dal nulla e gli venne da tirare su con il naso, ma tenne i nervi saldi. Non aveva nessuna intenzione di piangere proprio in quel momento. Infine, la figlia di Bacco abbassò le iridi castane sul pavimento e non disse più nulla.

Thomas rimase sull’attenti, in attesa di una possibile risposta, ma questa non arrivò. Quando Lisa gli diede le spalle e uscì, si sentì come se un macigno gli fosse sceso nello stomaco. Anche se aveva trovato la forza di zittire Lisa, continuava a sentirsi uno schifo. Come avrebbe mai potuto sentirsi bene in quella situazione? Aveva fallito, su tutti i fronti.

Si sedette contro il muro, accanto a Konnor, mentre il resoconto di tutti i suoi fallimenti scivolava di fronte ai suoi occhi.

La ragazza che aveva segretamente amato era stata portata via prima che lui potesse anche solo farle sapere della sua esistenza. Aveva provato a vendicarla facendola pagare al responsabile di tutto ciò, ma quello lo aveva annientato.

Naito aveva detto la verità, era stato patetico. Era fortunato a essere ancora vivo, e non era nemmeno sicuro per quanto tempo ancora avrebbe potuto concedersi quel lusso. Se Efialte li avesse di nuovo raggiunti che cosa sarebbe successo? Gli venivano i brividi solo a pensarci. Ed era proprio quella sua paura a dettare la triste realtà dei fatti.

Non sarebbe mai diventato un eroe. Non sarebbe mai diventato nessuno.

Non era mai stato bravo a combattere, non aveva mai avuto nessun talento in particolare, niente di niente. Perfino Lisa, grazie al suo lato da figlia del dio del vino, era riuscita a condurli in quel luogo dove se non altro avevano potuto sostare. Tutto ciò che aveva lui era una chiave che poteva aprire serrature e uno zaino magico, ed erano entrambi oggetti che qualunque altro figlio di Ermes, e a quanto pare donnole killer, potevano utilizzare. Il fatto che li possedesse proprio lui non lo rendeva speciale, tutt’altro.

Lui era l’ultima persona che la sera del Consiglio avrebbe dovuto alzarsi in piedi per offrirsi volontario per quell’impresa, perché lui era proprio tutto ciò che un eroe non sarebbe mai dovuto essere: un codardo incapace, una zavorra inutile per i propri compagni.

Konnor non avrebbe nemmeno dovuto salvarlo da Naito. Lisa aveva ragione, tutti quanti avevano ragione. Era solo uno stupido figlio di Ermes. Nulla di più, nulla di meno.

Serrò gli occhi, mentre due lacrime gli solcavano le sue guance. Non seppe per quanto tempo rimase ad annegare in quel lago di autocommiserazione. Sapeva solo di credere davvero ad ogni pensiero.

Impiegò parecchio tempo per realizzare che Lisa non era ancora tornata. Quando notò la sua prolungata assenza, decise di riscuotersi da quel piagnisteo. Si alzò in piedi e si domandò dove fosse finita. Forse aveva preferito rimanere da sola dopo che lui le aveva urlato in faccia. Non poteva certo biasimarla per questo, anche lui se ne sarebbe andato se un nano con i capelli rossi avesse cominciato ad inveirgli contro, ma forse avrebbero fatto meglio a rimanere insieme.

Controllò che Konnor fosse ben sistemato, o meglio, che fosse ancora vivo, e uscì dal magazzino. Assottigliò le palpebre a causa degli occhi disabituati alla luce splendente del mondo esterno e cercò la ragazza con lo sguardo, ma senza risultati. La stradina che portava all’edificio era deserta, così come i filari tutt’attorno.

«Lisa?» chiamò incerto. 

Nessuna risposta. Una sgradevole sensazione iniziò a impadronirsi del figlio di Ermes. Fece un giro attorno al magazzino, dove oltre a qualche altra botte marcia e un aratro rotto, non vide altro. Tornò quindi indietro e percorse un breve tratto di strada chiamando la semidea, ottenendo sempre quel silenzio angosciante come risposta. 

Osservò la collinetta accanto al magazzino e pensò che forse era salita lassù. Cominciò a camminare, continuando a chiamarla a gran voce. L’ultima volta che uno di loro si era allontanato dal gruppo, Campe li aveva rapiti e quasi uccisi tutti. Non era affatto desideroso che qualcosa di simile accadesse di nuovo. Doveva trovare la compagna e in fretta. Il pendio si rivelò una sfida molto più ardua di quanto avesse immaginato per le sue gambe stanche e tremolanti, ma con passi lenti e moderati arrivò alla vetta, dove trovò ad attenderlo una grossa quercia, che spuntava dal suolo come una grossa mano che cercava di ghermire il sole. Sul limite della disperazione, Thomas gridò il nome della figlia di Bacco per l’ennesima volta, e proprio da dietro il tronco dell’albero quella sbucò fuori guardandolo truce: «Che c’è?!»

Il sollievo provato nel vederla seduta lassù andò subito a scemare quando udì di nuovo quel tono di voce scorbutico. Si sforzò di non sbottarle di nuovo addosso e si avvicinò. «Perché ti sei allontanata? È pericoloso, sicuramente ci sono altri mostri che…» Il ragazzo si fermò, accorgendosi degli occhi arrossati di lei. «Ma… stavi piangendo?»

Lisa trasalì e distolse all’istante lo sguardo da lui. «NO! Cioè…» La vide passarsi il braccio di fronte agli occhi, con un gesto nervoso, poi si alzò in piedi. «… ho… fissato il sole troppo a lungo» borbottò, senza guardarlo.

Quella, era probabilmente la scusa peggiore che Tommy avesse mai sentito. E di scuse assurde ne aveva sentite parecchie, vivendo con i suoi fratelli. Esaminò la ragazza, domandandosi cosa le fosse preso. Non poteva essersi agitata solo perché lui le aveva risposto, era assurdo. Forse anche lei aveva avuto una crisi di nervi. Con tutto quello che stava succedendo, sarebbe stato strano il contrario. Però… forse la crisi era partita proprio per colpa sua.

La figlia di Bacco scese la collina senza più rivolgergli la parola e Thomas si domandò se avesse fatto male ad arrabbiarsi con lei poco prima. Era stato così impegnato a piangersi addosso che aveva finito col dimenticarsi che in quella situazione non c’era finito solo lui. Forse perfino Lisa pensava che fosse colpa sua se si trovavano in quella situazione, che non fosse degna di essere un’eroina, o entrambe. Mentre combattevano contro i mostri era sta quasi gentile con lui. 

Non solo quello. Se lei non l’avesse protetto dagli oni, non sarebbe mai riuscito a usare il lanciafiamme. Le doveva la vita, in un certo senso. Forse avrebbe dovuto scusarsi con lei. Anche se non era stata gentile con lui per tutto quel viaggio, era la cosa migliore da fare. Non potevano continuare ad andare avanti in quel modo. Thomas voleva che l’ascia di guerra venisse sotterrata una volta per tutte, ed era disposto a fare il primo passo. Osservò un’ultima volta lo splendido panorama multicolore che si stagliava ai piedi della collinetta, poi scese.

Raggiunse di nuovo Lisa dentro il magazzino e gli venne subito da stringersi nelle spalle per il freddo. Non si sarebbe mai abituato al cambio di temperatura. La figlia di Bacco era seduta sopra una botte accanto alla porta, con la schiena appoggiata al muro e lo sguardo smarrito nel nulla. Non si voltò nemmeno quando Thomas entrò. Konnor invece era ancora lì proprio dove lo aveva lasciato, anche se sembrava essersi finalmente calmato. Aveva smesso di gemere e di tremare e sembrava essere scivolato in un quieto sonno. Tommy non sapeva se fosse un bene o un male il fatto che si fosse addormentato, ma scuoterlo per cercare di svegliarlo non avrebbe funzionato in ogni caso.

Si sedette accanto a lui, accertandosi di nuovo che fosse ancora tra loro. Gli posò una mano sulla fronte, che era ancora rovente, e sospirò. Qualunque ferita Naito gli avesse inferto, non poteva essere normale. Una cosa che insegnavano al Campo Mezzosangue, tra le tante, era che le armi di Bronzo Celeste, Oro Imperiale e Ferro dello Stige avevano effetti particolari sui semidei, ma non credeva che la lama di Naito fosse fatta di uno di quei materiali. Era più probabile che fosse di Acciaio Prezioso, come la Spada del Paradiso, e se Thomas ricordava bene, la spada di Edward aveva sciolto i nemici che aveva sconfitto, in tutti i sensi. Si augurò che Konnor non si squagliasse di fronte a loro da un momento all’altro.

L’attenzione del figlio di Ermes tornò poi su Lisa, che era rimasta a osservare in silenzio. Si fece coraggio prima di rivolgersi di nuovo a lei. «Ahm… ascolta…»

Lisa sollevò una mano. «Ho capito, non mi allontano più. Lasciami in pace ora.»

Di nuovo quel tono scontroso ed irritante. Thomas pensò quasi che le scuse che voleva farle poteva ficcarsele da qualche altra parte, ma con un enorme sforzo decise di fare buon viso a cattivo gioco per l’ultima volta. Se dopo di quello Lisa avesse continuato a maltrattarlo, allora si sarebbe arreso e avrebbe accettato il fatto che un’altra persona nel mondo lo detestava senza motivo.

«Non volevo dire quello» spiegò. Esitò, non molto certo sulle parole giuste da usare. Scusarsi con qualcuno non era mai semplice per un figlio di Ermes, soprattutto se quel qualcuno era proprio una persona scorbutica come Lisa. «Volevo solo… ecco… volevo chiederti scusa per aver alzato la voce prima. Non… non avrei dovuto.»

Serrò la bocca e rimase in silenzio, mentre la sua frase finiva di aleggiare nell’aria. Diverse emozioni presero forma sul volto di Lisa. Confusione, stupore, incredulità. L’osservò come se le avesse appena parlato in cinese e Thomas si sentì sezionato da quello sguardo perplesso. Non seppe bene perché, ma ebbe l’impressione di aver appena fatto la figura dell’idiota. Poi, un sorrisetto nacque sul volto della figlia di Bacco. «Ma fai sul serio?»

Ora quello confuso fu lui. Non comprese il perché di quella risposta fino a quando non si accorse del sorriso di lei, ben diverso da quelli a cui lo aveva abituato. Era un sorriso amaro, triste. 

«Non ho fatto altro che trattarti da schifo per tutto il viaggio e quando finalmente trovi il coraggio per zittirmi vieni a scusarti?» Lisa scosse la testa e la sua coda di capelli ricci ondeggiò seguendola nei movimenti. «Ma cosa c’è che non va in te?» mormorò, con voce flebile.

Mentre la sua compagna di viaggio abbassava la testa e si strofinava di nuovo gli occhi con il dorso di una mano, Thomas pensò di essere in preda alle allucinazioni. 

«Cosa c’è che non va in me?» ripeté. Se c’era qualcuno con qualcosa che non andava, quella era proprio Lisa, e ciò a cui stava assistendo non faceva altro che rafforzare la sua tesi.

«Perché non potevi essere anche tu come gli altri figli di Mercurio?» disse allora lei, senza guardarlo. «Sarebbe stato tutto molto più semplice…»

«Ehi.» Thomas batté le mani un paio di volte, facendola sussultare. «Non capisco un accidente di quello che stai dicendo. Cosa c’entrano i figli di Mercurio adesso?»

Lisa tornò a guardarlo. I suoi occhi erano di nuovo arrossati e la spavalderia che l’aveva caratterizzata da quando l’impresa aveva avuto inizio era svanita del tutto, lasciando posto alla stessa ragazza smarrita e terrorizzata che aveva visto quando avevano incontrato Efialte.

«Lisa» disse Tommy, con tono più calmo. Intuì che essere bruschi con lei non sarebbe servito proprio a nulla. «Ci sono… mostri che ci inseguono e che vogliono ucciderci e dei che vogliono dichiararsi guerra a vicenda. Il mondo è sull’orlo del baratro e solo noi possiamo salvarlo, ma per farlo dobbiamo… dobbiamo collaborare. So di non piacerti, per qualsiasi motivo, ma siamo una squadra e… non dobbiamo più discutere tra di noi. Perciò se… se devi dirmi qualcosa, allora ti prego di farlo. Mettiamo fine a questa storia una volta per tutte. Ce… ce l’hai con me per qualche motivo? Ti ho fatto qualcosa di male? Forse sono stati i miei fratelli? Qualunque cosa sia successa, davvero, mi dispiace. Dico sul serio.»

Sperò che le sue parole riuscissero ad avere qualche effetto. Dopotutto non aveva fatto altro che dire la verità. Forse a Lisa mancavano i figli di Mercurio del Campo Giove, magari erano suoi amici, e i figli di Ermes del Campo Mezzosangue le stavano antipatici. Era comprensibile, non era così semplice avere a che fare con Derek e gli altri. Ma lui e Lisa erano una squadra e in quel momento più che mai avevano bisogno l’uno dell’altra. Dovevano proteggere Konnor, ritrovare Edward e Stephanie e soprattutto dovevano restare vivi. 

«Tu… tu non mi hai fatto nulla…» mormorò Lisa, ritrovando la forza per parlare. «Né tu, né i tuoi fratelli. Non… non hai niente per cui scusarti.»

«E allora perché sei arrabbiata con me?»

Un altro triste sorriso apparve sul volto della ragazza. «Non sono arrabbiata con te. Solo… solo che…» Gettò il capo all’indietro, poggiandosi una mano sulla fronte. Tommy rimase ad osservarla con il fiato sospeso, capendoci sempre di meno. Poi, Lisa cominciò a raccontare: «Quando… quando ero al Campo Giove… i figli di Mercurio erano terribili con me. Tutti i giorni… mi dicevano e facevano cose orribili. Mi facevano scherzi, mi facevano male di proposito durante gli allenamenti, insultavano me e la mia famiglia...»

Gemette, scuotendo la testa come per scacciare quei pensieri. «Le cose… le cose che hanno detto su mia madre…» sussurrò, prima che la sua voce si incrinasse.

Mentre ascoltava quelle parole, Thomas sentì il proprio stomaco sussultare. Sentire certe cose a proposito dei suoi fratellastri romani non poté non riempirlo di amarezza. Si erano comportati proprio come i bulli del Campo Mezzosangue. Uno strato di cui non era a conoscenza si era appena aggiunto alla storia che credeva di sapere. Anche Lisa era stata una vittima, proprio come lui. Anzi, a giudicare da quello che aveva appena sentito, a lei era andata anche peggio. Tommy attese che la ragazza riuscisse a calmarsi, poi domandò con voce più morbida: «Perché l’hanno fatto?»

«Non… non lo so» mormorò Lisa di rimando. «Forse perché ero più vulnerabile. Ero arrivata da poco e non conoscevo nessuno. Non avevo amici, non sapevo parlare in inglese… ero… ero il bersaglio perfetto.»

Lisa il bersaglio perfetto dei bulli. Thomas non poteva crederci. Non dopo aver visto di cosa era capace. Aveva osservato Campe negli occhi senza battere ciglio e aveva affrontato a viso aperto un esercito di oni armata solo di due pugnali. 

Ricordò la grinta negli occhi della ragazza quando gli oni li avevano circondati, il modo in cui si era gettata tra di loro brandendo quei pugnali scintillanti, gridando frasi in italiano.

Anche se non le era simpatica, doveva darle del credito, era stata formidabile. Sapere che un tempo anche lei fosse fragile e vulnerabile lo sorprese, ma soprattutto lo aiutò a sentirla più vicina a lui. «Perché nessuno ha mai fatto nulla per aiutarti? Non potevi… non so, rivolgerti ai Centurioni della tua coorte?»

«Ero nella Quinta Coorte, la peggiore di tutte. A nessuno importava nulla di noi. E con il tempo… anche a noi ha smesso di importare di noi. Tutti quanti hanno iniziato solamente a cercare di scavalcare gli altri nella speranza di poter salire in una coorte migliore. I Centurioni non avevano tempo da perdere con una come me. E se mi fossi fatta giustizia da sola, mi sarei solo messa nei guai.»

Le dita di Thomas tamburellarono contro il pavimento. «Ed è per questo che sei venuta al Campo Mezzosangue?»

«Già. Avevo… avevo bisogno di rimanere tranquilla. Dopo un anno al Campo Giove ho imparato a combattere e a parlare bene la vostra lingua. Così ho chiesto di trasferirmi, e una volta a New York ho… beh, ho preferito tenere gli altri alla larga da me. Non volevo che qualcuno mi trattasse di nuovo come al Campo Giove. Il fatto che mio padre fosse il direttore, poi, è stato di grande aiuto.»

Tommy annuì. Sentire del passato di Lisa proprio da lei fu una strana esperienza. Non credeva che gliene avrebbe mai parlato. «Quindi… credevi che anch’io fossi come i figli di Mercurio?»

La domanda fu accolta dal silenzio per alcuni momenti. 

«Per questo ti sei comportata così con me?» insistette lui, ma non più con rabbia od altro. Dubitava che sarebbe riuscito a provare di nuovo rabbia verso di lei, dopo che si era aperta con lui in quel modo. Chissà da quanto tempo teneva quella storia dentro di sé. Non aveva sperato che lui fosse come i figli di Mercurio perché le mancavano, ma per il motivo opposto. Aveva sperato che fosse come loro così da avere un valido motivo per detestarlo.

Lisa lo esaminò a lungo, poi si mordicchiò un labbro. «Io… io…» Espirò a lungo, poi scosse di nuovo la testa. «Io non lo so cosa credevo. Avrei… dovuto capirlo fin da subito che tu non eri affatto come loro. Forse… forse già l’avevo capito la sera del Consiglio, quando sei stato il primo ad offrirti volontario per l’impresa. Però… ero così arrabbiata che… che ho finito con il prendermela con te.»

Una risatina fuoriuscì dalla sua gola. Una risata nervosa, che sembrava quasi stesse per sfociare in un pianto. «L’ironia. Ho deciso di partire per l’impresa perché ero stanca di come gli altri semidei trattavano quelli come me, e ho finito con il comportarmi proprio come loro. Ti ho maltrattato solo perché tuo padre è Ermes, senza considerare affatto tu come persona. Ti sei impegnato tanto per l’impresa, molto più di me. Mi… dispiace per quello che ti ho fatto, Thomas. Non te lo meritavi. Spero… che tu possa perdonarmi. Ma se non lo farai, capirò. In ogni caso, ti prometto che non ti infastidirò più.»

Si torturò le mani, osservandolo in attesa di una risposta. Per Thomas fu impossibile non notare la disperata richiesta di accettazione che trapelava da quegli occhi castani. Conoscere il passato di Lisa lo aiutò a capirla e, di nuovo, la quantità di similitudini che c’erano tra le loro storie era quasi allarmante. Lisa era sempre stata sola. Non aveva mai avuto nessuno, proprio come lui. La differenza principale, però, era che al Campo Mezzosangue Thomas aveva trovato una casa. Malgrado la presenza dei bulli, aveva trovato una nuova famiglia e aveva stretto vere amicizie.

Lisa, invece, al Campo Giove non aveva trovato nessuno, e al Campo Mezzosangue non aveva fratelli. Era arrivata da un paese lontano, in un mondo a lei del tutto nuovo, e anziché qualcuno che le tendesse la mano per aiutarla a salire quella ripida montagna che era la vita da semidio, aveva solo trovato gente che le aveva fatto lo sgambetto. Non aveva mai avuto nessuno che tenesse a lei, qualcuno che la facesse sentire apprezzata, niente di niente. Dioniso non era certo il migliore dei genitori e Thomas non aveva idea di dove fosse sua madre, ma non se la sentiva affatto di chiederglielo proprio in quel momento. Forse era rimasta in Italia. Escludendo lei, Lisa era del tutto sola.

«Certo che ti perdono» disse. 

La ragazza dischiuse le labbra e lui riuscì a sorriderle flebile. Loro quattro, lui, Stephanie, Konnor ed Edward, erano stati i primi a farla sentire parte di qualcosa. E lei, ormai disabituata a quel genere di cose, non aveva saputo come comportarsi. Aveva ricevuto odio per così tanto tempo che aveva finito con il diventare capace solo di distribuire odio. Non era troppo tardi, tuttavia. Tommy poteva ancora aiutarla a ritornare sui binari giusti. E il primo passo era perdonarla. 

«E poi, se non ti perdonassi dopo aver sentito questa storia, sarei proprio un mostro senza cuore» concluse, cercando di sdrammatizzare.

La figlia di Bacco ricambiò timida il sorriso. «Guarda che non devi perdonarmi solo perché ti ho… ehm… oh, dannazione…» Si corrucciò, facendosi severa tutto ad un tratto. Borbottò qualcosa in italiano che Tommy non comprese, poi lo osservò serissima in volto. «Come cavolo si dice quella parola?»

Tommy scrollò la testa, perplesso. «Ehm… quale parola?»

«Oh, dai.» Le mani di Lisa iniziarono a muoversi all’impazzata, l’italiana dentro di lei che si destava dal lungo sonno in cui era caduta. «Sai, no, quando vedi un cucciolo ferito per strada e tu provi quella sensazione di tristezza, però non è proprio tristezza è tipo… tipo…» non concluse la frase, incitando lui a finirla.

«Compassione?» tirò a indovinare Thomas, sollevando un sopracciglio.

«No, non quella. Però è simile, è…» La ragazza si illuminò e schioccò le dita. «Impietosito, ecco! Non devi perdonarmi solo perché ti ho impietosito.»

«Oh…» fece Thomas. 

Lisa abbassò le mani, accorgendosi forse che quella scenetta che aveva appena messo in piedi non aveva davvero reso giustizia al messaggio che aveva cercato di trasmettere. I due ragazzi si scrutarono ancora per qualche istante, poi la ragazza iniziò a ridacchiare. «S-Scusami. Quando sono tesa mi dimentico come si dicono alcune parole.»

«Ma no, davvero?» chiese lui con un sorrisetto, poggiandosi una mano sotto al mento mentre la risata di Lisa si faceva più spontanea. Aveva un bel suono, Tommy doveva ammetterlo. Non l’aveva mai vista ridere in quel modo prima di allora. Non l’aveva mai vista esprimere emozioni di genuina serenità, ora che ci pensava. Si era così abituato ai suoi sorrisetti cinici e le sue risatine fredde che aveva pensato non fosse in grado di fare altro.

«Però alcune delle vostre parole sono davvero complicate» cercò ancora di giustificarsi lei. «E poi voi americani avete anche tutti questi slang e pronunce varie, usate parole totalmente diverse tra loro per indicare la stessa cosa. E poi, si può sapere perché diamine dovete a tutti i costi usare "pollici" o "libbre" come unità di misura? Cos’hanno di male i centimetri e i chili? Per non parlare del vostro modo di scrivere la data. In tutto il resto del mondo il mese viene scritto dopo il giorno, non il contrario!»

«E io che ne so?» ribatté Thomas, non molto sicuro di come si fosse arrivati a quella discussione. «Mica ho scelto io di fare così… aspetta, davvero nel resto del mondo il mese si scrive dopo?»

«Pffffff» Lisa si afferrò lo stomaco e rovesciò la testa all’indietro, scoppiando in una risata ancora più sguaiata. Se doveva essere sincero, Tommy non ci trovava molto di divertente in tutto quello, ma quella risata finì comunque con il contagiarlo, perché il suo sorriso iniziò ad accentuarsi.

«Beh, se è per questo, nemmeno a me piace parlare mezzo italiano tutte le volte che devo ordinare un caffè in uno Starbucks» obiettò, incrociando le gambe e posando le mani sulle ginocchia. «Già sono dislessico e faccio fatica a leggere le parole normali, tutte le volte mi tocca diventare strabico solo per cercare di decifrare il loro menù. "Macchiato, Grande, Cappuccino, Latte, Venti" ma che cavolo significa? Voglio solo un caffè!»

«Per favore, non parlarmi di Starbucks» sbottò lei, riuscendo a calmarsi. «Quello non è caffè, è acqua sporca. Se vuoi bere un vero macchiato devi andare in Italia.»

«Oh, sicuro. Possiamo prendere un aereo subito dopo aver finito con l’impresa, se vuoi. Così mi porti anche a vedere il Colosseo, il Pantheon ed eccetera eccetera.»

Lisa sorrise. «Già, peccato che non si mai stata a Roma.»

«Non ci sei mai stata?» domandò lui, stupito. «Ma non vivevi in Italia?»

La figlia di Bacco alzò gli occhi al cielo ed espirò esausta. «Mi fate sempre tutti la stessa domanda. Sì, vivevo in Italia, ma non significa per forza che abbia visto la sua capitale. Tu vivi negli Stati Uniti, sei mai stato a Washington?»

«Ehm… no.»

«Ecco, appunto.»

I due ragazzi incrociarono lo sguardo, poi un’altra tenue risatina contagiò entrambi.

«Sei… davvero sicuro di volermi perdonare?» domandò lei, tornando seria quando quel piccolo momento di quiete si concluse. «Non ho scuse per come ti ho trattato. Non avrei mai dovuto comportarmi così.»

«L’importante è che tutto si sia chiarito» rispose Thomas. «Non dobbiamo più litigare tra di noi. Abbiamo un compito da portare a termine e possiamo riuscirci solo cooperando. Abbiamo… già rischiato grosso…» Il figlio di Ermes osservò Konnor, e un moto di angoscia si strinse attorno al suo petto. Si domandò cosa sarebbe successo se Naito lo avesse ucciso. Gli venivano i brividi solo a pensarci.

«Konnor è forte» disse Lisa, muovendo la testa determinata. «Si sveglierà presto, vedrai.»

Thomas annuì. Sì, aveva ragione. Ce l’avrebbe sicuramente fatta.

Tornò a osservare Lisa e fu sollevato di vedere che tutto quanto si era risolto tra loro. Poterla vedere come una vera alleata e non più come una bomba ad orologeria pronta a esplodere in qualsiasi momento fu un sollievo incredibile. Forse… forse non tutto era perduto. Prima, durante il suo crollo nervoso, si era sentito solo e impotente, ma ora sapeva di non esserlo. Era ancora vivo, Lisa era ancora viva e Konnor presto si sarebbe svegliato. No, non era ancora finita.

Quello che dovevano fare in quel momento era riposare. Dovevano recuperare le forze e capire come raggiungere i loro amici. Doveva esserci un modo per contattarli anche senza messaggi Iride. Si sarebbero riuniti e sarebbero arrivati a San Francisco in tempo. Anche se avessero impiegato il resto della giornata, avrebbero ancora avuto un giorno di tempo per fare tutto. Potevano, no, dovevano farcela.

Per il Campo Mezzosangue, per le loro case, per gli dei.

Thomas appoggiò la schiena contro il muro e chiuse gli occhi. Voleva solo farli riposare un momento, ma non aveva fatto i conti con la stanchezza accumulata in quelle ore. Scivolò nel sonno prima che potesse accorgersene.

 

***

 

Il Campo Mezzosangue apparve alla sua visuale. Una porzione di esso, perlomeno. La luce del sole arancione rifletteva sull’acqua del laghetto dandole sfumature rosse. Stava quasi per tramontare, per lo stupore di Thomas che credeva fosse solo pomeriggio. Poi si ricordò che ormai lui si trovava nella costa Ovest e che c’era un piccolo fuso orario da tenere in considerazione. A New York dovevano essere già le otto o nove di sera.

Due ragazzi che riconobbe non appena li vide camminavano lungo la sponda del lago.

Derek procedeva a passo spedito, rigido come un palo e con un temporale in viso. Non lo aveva mai visto così serio prima di allora. Dietro di lui, Natalie quasi correva pur di stargli dietro. Rivedere la sorella suscitò una scarica di emozioni contrastanti in Thomas. 

Fu sollevato di notare che almeno stava bene, che entrambi i suoi fratelli stessero bene, anche se erano passati solo due giorni.

«Derek, ascolta» stava cercando di dire, ma fu interrotta dal tono inasprito del fratello, che si voltò verso di lei puntandole contro un indice.

«No, ascolta tu!» 

Nat si fermò e serrò le labbra, ma lo osservò in volto senza timore, nonostante il tono di voce che avesse appena usato. Era furibondo. Ancora una volta, Thomas non l’aveva mai visto in quel modo. Non credeva che fosse possibile, era sempre stato convinto che Derek non potesse nemmeno scollarsi di dosso il suo sorrisetto malizioso per più di cinque minuti di fila. In quel momento invece aveva perfino alzato la voce con Natalie, cosa che non era mai successa prima.

«Sono stanco, chiaro? Stanco!» sbottò, puntando poi l’indice verso la stradina che portava al Campo Mezzosangue. «Da ieri hanno ricominciato tutti a maltrattarci! Non possiamo nemmeno più uscire di casa a momenti! Lo capisci che è assurdo!»

Dopo un attimo di esitazione, Nat annuì. «Sì, lo so, ma…»

«"Ma" cosa?! Che altro c’è da aggiungere? Tu non c’eri ieri, quando Buck ci ha di nuovo convocati tutti quanti. Ha detto che è colpa nostra se l’impresa non è ancora stata completata e se gli dei stanno per dichiararci guerra!»

Tommy rimase esterrefatto. Non aveva più sognato il campo in quei giorni, perciò aveva perso le ultime notizie. Ma da quello che ricordava, credeva che i capicasa si fossero messi d’accordo per non discutere più. Come diamine aveva fatto Buck a convincerli di una cosa così assurda?

Natalie spalancò gli occhi scuri. «Non me l’avevi raccontato… che cosa ha detto?» 

Derek gesticolò nervoso. «Che avremmo dovuto accorgerci noi che Edward fosse pericoloso, visto che è rimasto con noi per un po’ di tempo, e che non avrei dovuto lasciare che Thomas partisse per l’impresa, perché secondo lui un figlio di Ermes non è adatto. Ha detto le stesse cose anche a Paul riguardo a Stephanie, e se l’è perfino presa con Jonathan perché Edward è un suo fratello. Ha aizzato di nuovo gli uni contro gli altri e quella stupida di Jane era lì ad assisterlo.»

«Ma Jane ha la lingua ammaliatrice, forse vi hanno solo…»

«No, lei non ha nemmeno parlato» rantolò il capocasa di Ermes. «Buck ci è riuscito da solo. Lei è rimasta a guardare con quell’odioso sorrisetto sulla faccia. Non potevano accettare che noi "sfigati" venissimo trattati come tutti gli altri. Doveva a tutti i costi tornare a screditare me e Paul. E quando ha messo in mezzo anche Jonathan è scoppiato un putiferio.»

«E… e gli altri capicasa che hanno fatto?» 

«Che dovrebbero fare? L’altro giorno abbiamo votato per dare fiducia all’impresa, ma Buck è comunque tornato ad infastidirci. Non la smetterà mai. Non finché non gli daremo una lezione.»

«Non puoi dire sul serio!» esclamò allora la sorella. «Davvero vuoi lasciare che delle parole ti…»

«Non si tratta solo di quello!» Derek strinse i pugni e si sporse verso di lei. «Non me ne frega niente di quello che dicono. Quello che mi frega è il motivo per cui credono di poterci dire tutto quello che vogliono! Pensano di poterci trattare come zerbini solo perché i nostri genitori non sono importanti come i loro e questa storia mi ha stancato! Sono anni, anni, che gli permettiamo di farlo, ma è tempo che la finiscano. La pagheranno.»

«Noi siamo meglio di così» protestò Natalie. «E tu lo sai.»

Il figlio di Ermes si passò una mano tra i capelli. Quelle parole sembrarono sorbire qualche effetto su di lui, perché sembrò calmarsi. Tuttavia, scosse la testa. «E dimostrare di essere migliori a cosa è servito fino ad ora?»

L’espressione dura di Nat vacillò. Il fratello le poggiò il palmo sulla spalla, fissandola dritta negli occhi. «Lo so, Nat, lo so che tu vuoi solo fare la cosa giusta. Ma noi siamo figli di Ermes, dobbiamo smetterla di fingere che non sia così. È ora che tutti quanti si ricordino perché con noi non si scherza.»

Natalie serrò le labbra, poi abbassò lo sguardo. Vedere quell’espressione di sconforto sul suo volto fu un’altra novità del tutto inaspettata per Thomas. Per una volta, sua sorella maggiore non riuscì ad opporsi al capocasa. 

«Ci conosciamo da tanto, ormai» proseguì Derek, stringendola con più forza. «Siamo qui al campo da quasi nove anni. Siamo sempre stati inseparabili, ricordi?»

Con gli che si inumidivano, Nat annuì. «Insieme contro tutti.»

«Già. È stata dura, vero? Abbiamo visto questo campo deteriorarsi di fronte ai nostri stessi occhi. I nostri fratelli andavano e venivano in continuazione, ma noi due siamo sempre rimasti. Quante botte mi sono preso per proteggerti. E quante te ne sei prese tu per me. E quando il posto di capocasa si è liberato, chi ha insistito tanto perché fossi io a ricoprirlo?» 

«Io.»

Un sorriso nostalgico si accese sul volto di Derek, che annuì. «Era un sogno che si coronava, per tutti e due. Finalmente avevamo l’opportunità di cambiare le cose. Anche se ero io il capo, tu mi hai sempre dato una mano, e ho sempre ascoltato tutto quello che avevi da dirmi. Ora, però, ho bisogno che sia tu ad ascoltare me. Ho bisogno della vera Natalie. Quella che conosco solo io. Quella che strappava capelli e che prendeva i gioielli di famiglia a calci, quella che non aveva paura di mettersi nei guai pur di proteggere quello stupido di suo fratello maggiore. Buck e Jane si meritano una lezione, e noi gliela daremo.»

Dopo altri interminabili istanti, anche la ragazza abbozzò un sorriso. «Credo di avere ancora la collezione di cappelli che ho strappato da qualche parte in camera mia…»

Derek ridacchiò. «Sì, me la ricordo. Allora, sei con me?»

Natalie sorrise, poi batté la mano sulla spalla del fratello. «No.»

Il buonumore sfumò da dentro il capocasa. «Come "no"?! Ma…»

«Fammi finire» lo interruppe lei, decidendo di aver sorriso già per troppo tempo e ritornando seria. «Sei così accecato dalla rabbia che non rifletti nemmeno più. Ti sei dimenticato che una guerra tra dei rischia di scoppiare? Ti sembra proprio questo il momento per attaccarti al dito le offese di quel maiale di Buck?»

Il ragazzo storse la bocca corrucciato, ma non rispose. Natalie proseguì: «Volersi vendicare proprio in questo momento è ingiusto, soprattutto nei confronti di Thomas che ha deciso di rischiare la vita per tutti noi. È partito per l’impresa, volontario, proprio mentre Buck se ne stava seduto a fare niente. Devi avere fiducia in lui. Se l’impresa sarà un successo, non ci sarà più nessun bisogno di farla pagare a nessuno, perché gli stessi ragazzi che Buck ha deriso saranno quelli che avranno salvato le vite di tutti noi. Farà la figura dello stupido e nessuno lo prenderà mai più sul serio. Sarà la sua fine.»

«E se ti sbagliassi?» domandò allora Derek. «Se Buck continuasse a comportarsi così anche dopo l’impresa? O peggio, se l’impresa dovesse fallire?»

Natalie scosse la testa. «L’impresa non fallirà. Vedrai. E se Buck dovesse continuare, allora potremo discuterne ancora. Ma credimi, non lo farà. Quando Thomas e gli altri torneranno gli faremo sotterrare la testa per la vergogna così a fondo che non riuscirà nemmeno più a tirarla fuori.»

Derek rimase in silenzio per riflettere su quelle parole. Natalie abbozzò un altro sorriso per cercare di convincerlo, e alla fine il capocasa sospirò. «Come al solito devo fare quello che vuoi tu» mugugnò, anche se non sembrava davvero arrabbiato. «Aspetteremo Thomas allora. Ma se per caso non dovesse tornare…»

«Non dirlo neanche per scherzo» esclamò Nat, indurendosi. 

«Voglio dire…» Derek sollevò le mani per ammansirla. «… insomma, se l’impresa fallisse, allora mi occuperò di Buck. Tanto se la guerra tra dei scoppierà saremo morti tutti in ogni caso.»

La sorella lo squadrò ancora a lungo, in silenzio. Non sembrava gradire affatto l’idea, ma alla fine rilassò le spalle con un sospiro. «Come vuoi. Ma non aspettarti aiuti da parte mia. Io non sono più così.»

Un sorrisetto si dipinse sul volto di Derek. «Certo, come no. Perché non la smetti con questa farsa e ammetti una volta per tutte di essere anche peggio di me, nel profondo?»

«Non è una farsa. Non sono più una bambina, Derek. Sono cresciuta. E dovresti farlo anche tu.»

Il capocasa le diede le spalle, roteando una mano in aria. «Sì, sì, certo mamma, certo…» brontolò, con quel tono provocatorio che lo caratterizzava e che si sposava decisamente meglio con lui. Natalie lo guardò allontanarsi con la mascella contratta fino a quando non svanì dalla visuale, poi sospirò di nuovo. «Mi sembra di avere a che fare con dei bimbi» gracchiò, stizzita.

Una volta terminata la discussione tra fratelli, Thomas poté ponderare su ciò che aveva assistito e su tutte le incredibili scoperte che aveva appena fatto. Per prima cosa, sapere che Natalie riponeva così tanta fiducia in lui lo rasserenava e angosciava al tempo stesso, perché ora sentiva il peso delle responsabilità farsi ancora più grave – come se già non lo fosse abbastanza.

Sapere poi di come Derek volesse vendicarsi di Buck fu una sorpresa. Di nuovo, Thomas non avrebbe mai creduto che suo fratello potesse provare una simile rabbia, ma era anche vero che lui non lo conosceva tanto quanto Nat. 

E a tal proposito, Tommy sapeva che i suoi fratelli più grandi erano al Campo Mezzosangue da molto più tempo di lui, ma non credeva che avessero un rapporto così stretto. Doveva essere per quello che Natalie si era sempre comportata come una specie di "vice capocasa" senza che Derek avesse mai avuto nulla da ridire.

La cosa più sorprendente però fu scoprire che a sua sorella, che aveva sempre creduto tanto calma e posata, un tempo piacesse strappare capelli e fare a botte . Allora anche dentro di lei il sangue di Ermes scorreva con vigore, solo che cercava di non darlo troppo a vedere. Adesso sapeva perché certe volte sapeva essere tanto intimidatoria.

La seguì fino alla casa Undici, dove entrò con l’ennesimo sospiro esausto. Non c’era nessuno dentro, con l’eccezione dei due componenti più giovani. Leyla e Rick erano seduti su un letto e stavano giocando con un tablet. La connessione ad internet era disabilitata, perciò non c’era il rischio che quei due vi si addentrassero con il rischio di mandare qualche segnale ai mostri nei paraggi. 

«Ehi» salutò Natalie. «Che ci fate qui da soli?»

«Oh, ciao Nat» salutò la bambina sollevando lo sguardo, a differenza di Rick che rimase concentratissimo sullo schermo. «Prima abbiamo visto Derek, sembrava arrabbiato. Ci ha detto di non uscire più da soli. Non vuole che ci mettiamo nei guai.»

Natalie storse la bocca in un’espressione preoccupata. «È perché gli altri hanno ricominciato a comportarsi male con noi?»

La piccoletta annuì. A quel punto la ragazza più grande abbassò la testa, stringendosi nelle spalle. Una reazione che anche Thomas avrebbe avuto se fosse stato presente. Non era giusto che Rick e Leyla, due bambini, venissero coinvolti in quella storia assurda. Loro non avevano fatto nulla di male. 

«È vero quello che dicono su di noi?» mormorò ancora Leyla. «Che la guerra scoppierà per colpa nostra?»

«No» asserì Natalie con tono fermo. «Sono tutte bugie. Noi non abbiamo nessuna colpa.»

Rick batté con forza un dito sullo schermo del tablet, per poi abbassarlo frustrato. «E allora perché non ci lasciano più in pace?!» esclamò infuriato. Quella reazione sorprese tanto Nat quanto Thomas. Rick non si era mai arrabbiato da quando lo conoscevano. Era sempre stato pieno di energia e gioia, come ogni bambino. Non avrebbe dovuto arrabbiarsi, nemmeno avere quegli occhi lucidi. «Perché ci fanno tutti questo se non è colpa nostra?»

La sorella maggiore si sedette in mezzo ai due bambini, per poi avvolgerli entrambi attorno alle spalle. Leyla ricambiò l’abbraccio, appoggiandole la testa sulla spalla, mentre Rick rimase rigido. Malgrado la rabbia, non si dimenticò certo di essere troppo grande ormai per gli abbracci.

Tommy non sapeva cosa stesse pensando Natalie in quel momento, ma poteva immaginarlo. Leyla e Rick, come tutti i bambini che sarebbero ancora arrivati al campo, erano il futuro dei semidei. Quando lei, Thomas, Derek e il resto della loro generazione sarebbero diventati troppo grandi, sarebbe toccato ai loro fratellini più piccoli prendere il loro posto. Per questo motivo non si meritavano tutto quello. Che razza di messaggio voleva lanciare Buck alle generazioni future? Era quasi come se volesse la rovina del Campo Mezzosangue, anziché la sua prosperità. 

«Non dovete preoccuparvi» disse Natalie, accarezzandoli dolcemente. Sorrise rassicurante. «Quando i ragazzi dell’impresa ritorneranno sani e salvi, tutto questo finirà. Vedrete. Costringeremo i prepotenti a chiederci scusa e nessuno ci maltratterà più. Dobbiamo solo avere fiducia in nostro fratello e i suoi amici.»

«Pensi che Tommy ce la farà?» domandò Rick, osservandola carico di aspettative. 

«Certo che ce la farà.»

«E poi c’è Edward con lui» aggiunse Leyla, emozionata. «Lui è coraggiosissimo! Lo proteggerà!»

Il sorriso di Natalie si addolcì. Passò la mano tra i capelli di Leyla, in mezzo alle sue codine. «Sì, hai ragione. Se le cose si metteranno male, lui lo difenderà. Possiamo stare tranquilli.»

«Avanti, dillo che sei innamorata di Edward!» disse Rick, sporgendosi verso di Leyla. 

Lei divenne paonazza. «Non è vero! E poi è troppo grande per me!»

«Leyla è innamorata!»

«Smettila!»

«Rick» si intromise Natalie, afferrando Rick per la collottola. «Lascia in pace tua sorella.» 

«S-Sì Nat!» Rick si ammansì all’improvviso, per il diletto di Leyla. E anche per l’incredulità di Tommy. Quanto gli sarebbe piaciuto avere un simile potere su quella piccola peste.

«A cosa giocavate?» domandò poi Nat. 

Rick si illuminò e prese il tablet. «A un gioco dove uccidi gli zombie con la motosega!»

«Oh… che bello…»

Il bambino rise di gusto. «Sì, tantissimo!»

Prese il tablet e cominciò a spiegare come funzionava il gioco a Nat, che guardò lo schermo con espressione a metà tra la confusione e lo scetticismo. Di sicuro, chiunque avesse fatto provare quel gioco a Rick, se la sarebbe vista con lei. Per fortuna non era stato Tommy.

Osservare i suoi tre fratelli gli scaldò il cuore. Era proprio quello il motivo per cui aveva deciso di partire per l’impresa. Voleva permettere che altri episodi come quello si verificassero nel futuro. Natalie che si prendeva cura dei suoi fratellini, loro che ridevano, che scherzavano e anche che battibeccavano. 

Quella era la sua famiglia. E l’avrebbe difesa, a tutti i costi. Ora aveva un altro motivo per ritornare sano e salvo: far rimangiare a Buck tutte le cose orribili che aveva detto. 

«Thomas!» Una voce lo chiamò all’improvviso, facendolo sussultare. Osservò i suoi tre fratelli, ma loro erano ancora lì, a vivere le loro vite, ignari del fatto che lui li avesse appena sognati. 

«Thomas, svegliati!» insistette la voce. Il ragazzo cominciò a sentire male al braccio. «Thomas! THOMAS!»

 

***

 

«Thomas! Thomas, svegliati!» stava esclamando Lisa, mentre lo scuoteva con vigore per un braccio.

Il ragazzo riaprì gli occhi ancora appannati dal sonno. Si strofinò le palpebre con i palmi delle mani e il volto della figlia di Bacco gli apparve di fronte. «Mh? Che… che succede?»

«Dobbiamo andarcene da qui!»

Il tono allarmato di Lisa lo costrinse a destarsi completamente. Solo in quel momento si rese conto dell’espressione angosciata di lei. 

«A-Andarcene? Perché?» domandò, cominciando ad affannarsi.

«Ci ha trovati» rispose lei, aiutandolo a rimettersi in piedi.

«C-Chi?»

Lisa lo accompagnò verso la parete accanto alla porta e gli indicò una fessura tra le assi di legno. Sempre più angosciato, Thomas sbirciò.

Un’imponente figura marciava con lentezza straziante sulla stradina che loro aveva percorso per arrivare fino a lì. Non appena vide quei capelli e quella barba viola, sentì il suo corpo tramutarsi in purè.

«MOCCIOSIIIII» urlò Efialte. La sua grassa risata riecheggiò in tutta la valle. «AVETE FINITO DI SCAPPARE!»


 
 
 
 
Salve cari lettori. Andrò al sodo, questo capitolo ed il prossimo saranno molto importanti per la storia, per quella di Thomas in particolare, ragion per cui sia questo che il prossimo sono piuttosto lunghi. C'è davvero tanto da dire. Poi, abbiamo scoperto tutti quanti il passato di Lisa. So che fa un po' cliché, ma se consideriamo il mondo in cui la storia è ambientata, sarebbe stato più strano il contrario. Il mio obiettivo era quello di far radunare cinque "reietti" in quest'impresa e raccontare le storie di ognuno di loro. Questa era la storia di Lisa, una parte, almeno. E sì, anche Konnor è un reietto, a suo modo, ma ci arriveremo. Questo è solo l'inizio, comunque, nel prossimo capitolo ci saranno sviluppi molto importanti sia per Tommy che per Lisa, ma immagino si possa intuire dal caro cliffhanger che ho lasciato.
 Poi, due note tecniche per dimostrare che ho fatto i miei compitini. Il gioco di parole "di-vino" in inglese si potrebbe tradurre con "Di-wine", quindi funziona anche così, invece quando Lisa si dimentica la parola che voleva dire, possiamo dire che lei stava pensando a "pity" cioè pietà, mentre Thomas le ha suggerito "compassion" cioè compassione. Proprio come dice lei, sono parole diverse tra loro che però alla fine vogliono dire la stessa cosa. Grazie per l'attenzione.
 Vi saluto, alla prossima!
 

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Capitolo 26
*** Un vero eroe ***


26

Un vero eroe

 

 

Lisa afferrò Thomas per le spalle con un gesto secco, facendolo voltare verso di lei. 

«Porta Konnor fuori da qui» ordinò. «Allontanatevi il più possibile!»

«E tu?» domandò Thomas, inorridendo. Bastarono quelle semplici parole per fargli capire cosa le frullasse nella mente. «Non vorrai mica rimanere qui da sola?!»

Le labbra di Lisa si ridussero ad una sottilissima riga. «Lui è qui per me. Vuole vendicarsi per quello che mio padre gli ha fatto vent’anni fa. Non voglio che tu e Konnor veniate coinvolti.»

Il figlio di Ermes conosceva la storia. Durante la guerra contro Gea, Bacco aveva ucciso Efialte e Oto a Roma, infliggendo loro una pesante umiliazione. Forse Lisa aveva ragione, forse Efialte era davvero infuriato per quella faccenda, ma rimaneva comunque un gigante immortale. «Ma non puoi affrontarlo da sola! È un gigante, non puoi ucciderlo!»

«Guadagnerò solo un po’ di tempo. Vi raggiungerò al più presto, ve lo prometto.»

Sempre più domande prendevano forma nella testa di Thomas. Come sperava Lisa di poterli raggiungere se nemmeno sapeva dove sarebbero scappati? Come sperava di sopravvivere tanto per cominciare? Scosse la testa. «Non posso lasciartelo fare.»

Vide Lisa irrigidirsi come un chiodo. «Stiamo solo perdendo tempo, Thomas. Andate. Non pensare a me.»

«No!» esclamò a quel punto lui, staccandosi le mani della ragazza di dosso. «Dopo tutto il discorso che ho fatto sul fatto di essere una squadra pensi davvero che io possa…»

«Tommy.» Sentirla chiamarlo con il suo soprannome lo lasciò di sasso. Lisa posò di nuovo le mani sulle sue spalle, osservandolo con uno sguardo del tutto nuovo. Sembrava quasi che lo stesse implorando di lasciarla andare. Gli occhi le si inumidirono, ma mantenne i nervi saldi. «Non… non ho fatto niente di buono da quando l’impresa è cominciata. Non ho fatto niente di niente per dimostrare di tenere davvero a voi. Lasciami fare almeno questo. Lascia… lascia almeno che aiuti voi due a mettervi al sicuro. Ti prego.»

Così era quello che voleva. Buttarsi contro Efialte in quel gesto a dir poco suicida era il suo modo per dire che le dispiaceva, per riscattarsi. Proprio lei, la stessa ragazza che si era lanciata addosso a un esercito di oni per proteggerlo mentre preparava la sua arma segreta, combattendo con il fuoco nelle vene. Non era stata inutile, affatto. Nessuno di loro cinque lo era stato.

In piccole dosi, tutti avevano contribuito al fiorire dell’impresa. E Lisa gli aveva dimostrato di possedere una scintilla di cordialità dentro di sé, prima che lui si addormentasse. Quando si erano messi a parlare di Starbucks e quelle scemenze, era stato come se si fossero avvicinati. Non avrebbe lasciato che tutto si concludesse in quel modo. Non avrebbe lasciato che si facesse ammazzare.

Afferrò Lisa per le braccia, stringendola a sua volta. Il cuore gli batté nel petto con forza. «E allora vengo anch’io con te.»

«C-Cosa?»

«Lo affronteremo insieme» asserì lui, determinato. «Se scappiamo lui continuerà ad inseguirci. Non la smetterà mai. Dobbiamo fermarlo, qui e ora. Insieme.»

«Ma… ma non possiamo ucciderlo. Cosa pensi di…»

«Ho un piano. Fidati di me.» Thomas cercò di mostrarsi sicuro, per nascondere il fatto che stesse mentendo. Non aveva nessuna idea, ma era stanco di fuggire. Scappare non lo avrebbe portato da nessuna parte ed Efialte sarebbe rimasto alle loro calcagna fino ai confini del mondo. L’unico modo per sbarazzarsi di lui era sconfiggerlo.

L’espressione di Lisa cambiò. Sembrò rivalutarlo, proprio come lui aveva fatto con lei. Sembrò anche rasserenarsi un poco. «Va bene allora. Insieme.»

Thomas annuì. Si voltò poi verso di Konnor, ancora addormentato. Se Efialte li avesse sconfitti, nessuno avrebbe più potuto proteggere il loro compagno, ma Tommy scacciò presto quel pensiero. Non si sarebbero fatti battere da lui.

Se davvero voleva diventare un eroe e risollevare l’onore della sua casa, doveva superare i suoi blocchi mentali. Anche lui era un semidio; era ora di dimostrarlo.

 

***

 

Attraversarono la stradina, andando incontro al gigante. Lisa estrasse i pugnali dalla cintura, marciando con aria quasi autoritaria per mascherare la paura. Tommy la imitò, afferrando il falcetto e lo scudo, percependo la tensione consumarlo dall’interno. 

Si fermarono ad una decina di metri di distanza da Efialte, ma il sorrisetto divertito del colosso fu comunque ben visibile a entrambi, assieme a diversi sfregi sul suo volto e sulla toga: «Così alla fine avete scelto di venire voi da me, eh? Ottimo! Mi rallegra sapere che avete ancora un briciolo di spirito. Vi siete fatti perdonare per esservela data a gambe mentre ero impegnato con quello sgorbio.»

«Sembra proprio che lo sgorbio ti abbia dato filo da torcere, grassone» osservò Lisa, indicandogli le cicatrici sul muso, che dovevano proprio essere dei regalini da parte di Naito.

Efialte osservò truce la semidea, per poi far sfumare l’ira in un ghigno. «Prova a chiedere a lui quanto filo da torcere mi ha dato, se riesci a trovarlo» gracchiò, mentre le sue dita sporche e appuntite formicolavano. «Piuttosto, sono felice che tu abbia scelto il territorio di tuo padre per farti ammazzare da me. Renderà tutto più poetico.»

Lisa si incupì. «Che intendi dire?»

«Ma come, non lo sai che è proprio tuo padre a rendere queste terre così fertili?» spiegò Efialte, sollevando le braccia. «Quest’intera zona appartiene proprio a lui.»

Il nome della ditta che possedeva quel magazzino riapparve nella mente di Thomas. “Mondo Divino.” Si dette dello stupido per non averlo capito prima. Forse allora una chance davvero esisteva. Erano nel territorio di Bacco, se lui fosse apparso per aiutarli avrebbero potuto uccidere Efialte.

«Piuttosto, dov’è il vostro amichetto figlio di Ares? Credevo fossero tre i mocciosi da sistemare, non due.»

«Noi siamo più che sufficienti per rispedire il tuo podex flaccido nel Tartaro» ribatté Lisa, flettendo le ginocchia e puntandogli contro i pugnali.

Un’altra risata si sollevò dalla gola del gigante. «E come sperate di battermi voi due da soli? Credi davvero che tuo padre si farà vivo solo perché stiamo giocando nel suo giardino? A lui non importa niente di te, mocciosa.»

Lisa digrignò i denti. Quelle parole non fecero altro che farla imbestialire. «Come speri tu di batterci, circense da due soldi?»

Ogni traccia di divertimento svanì dal faccione di Efialte. «Molto bene allora. Farò in modo che la vostra morte sia uno spettacolo memorabile!»

Partì alla carica senza perdersi in altri giri di parole. Thomas pensò che forse chiacchierare ancora un po’ non sarebbe stata un’idea molto cattiva, ma Lisa parve essere di altro avviso. La ragazza si lanciò all’attacco da sola con un grido di sfida, dimenticandosi dell’accordo di affrontarlo assieme.

Efialte abbatté un pugno su di lei, ma la semidea lo evitò rotolando di lato. Le nocche del colosso si schiantarono sul suolo aprendo un piccolo cratere. Alle sue spalle, Lisa si rialzò in piedi e gli conficcò un pugnale dietro al ginocchio, facendolo grugnire di dolore. Efialte roteò il busto per colpirla con una bracciata, ma ancora una volta Lisa si ritrasse con agilità, portandosi a distanza di sicurezza.

Mentre il gigante era girato, Thomas sollevò il falcetto e iniziò a correre. Lisa aveva evitato l’ennesimo attacco e risposto con l’ennesima pugnalata ed Efialte sembrava sempre più frustrato. Sollevò i pugni per l’ennesima volta, ma Thomas giunse alle sue spalle, conficcando il falcetto nel polpaccio del gigante.

«Ah! Maledetto moccioso!» esclamò. Una delle sue mani luride si avvicinò a lui per afferrarlo, ma Tommy tirò via il falcetto e saltò all’indietro, scansandosi in tempo.

«Ma dove guardi?!» canzonò Lisa, lacerandogli uno stinco.

«AGH! FATELA FINITA!» Il gigante cominciò a sferrare pugni all’impazzata, sperando di poter colpire qualcosa. Ad ogni suo attacco, Lisa rispondeva con una pugnalata, e lo stesso faceva Thomas. Il cuore del figlio di Ermes sembrava stesse per schizzargli via dal petto, la tensione lo stava uccidendo, il minimo passo falso avrebbe potuto costargli la vita e lo sapeva, ma allo stesso tempo sapeva di non potersi più tirare indietro. Quello era il punto di non ritorno. Avrebbero sconfitto Efialte, o sarebbero morti provandoci. Non esistevano più compromessi.

Le ferite sulle gambe del gigante si moltiplicarono. Decine, forse centinaia di tagli si erano aperti sulle squame, ovunque i pugnali di Lisa e il falcetto di Tommy fossero entrati in contatto. La situazione rimase in stallo. I semidei non si fecero colpire e restituirono uno squarcio al gigante per ogni suo pugno andato a vuoto per minuti interi, ma Efialte non demorse. Per lui quelle ferite erano poco più che graffi e la stanchezza cominciava a farsi sentire, almeno per Thomas. Era certo che Lisa stesse attendendo che mettesse in atto il suo piano. Quanto gli sarebbe piaciuto non averle detto una bugia.

All’ennesimo affondo che ricevette, Efialte gridò per la frustrazione e sbatté un piede sul terreno così forte da farlo vibrare. Thomas, appena rialzatosi da una capriola, perse l’equilibrio e cadde in avanti. L’ombra di un pugno diretto verso di lui oscurò il sole. Sgranò gli occhi. Sollevò lo scudo di fronte a sé, ma non poté fare altro.

Ricordava ancora molto bene la volta che quello scorpione lo aveva cilindrato al petto con la sua coda: si era sentito come se un camion lo avesse investito in pieno. Il pugno di Efialte fu cento volte peggio. Mentre si staccava da terra e volava all’indietro per quelli che gli sembravano chilometri, si sentì come se una montagna intera gli fosse crollata addosso. Udì la voce di Lisa che lo chiamava in lontananza, ovattata e offuscata.

Thomas ruzzolò sulla stradina sterrata e un dolore lancinante alla gabbia toracica lo inchiodò al suolo. Non sentì più il falcetto nella sua mano destra, mentre lungo tutto il braccio sinistro non avvertì più alcuna sensibilità. 

La risata di Efialte risuonò da lontano, subito seguita da un altro grido battagliero di Lisa. Thomas rimase con il naso all’aria, mentre il dolore al petto lo corrodeva dall’interno. Pregò di non avere nulla di rotto, ma sapeva che era impossibile. 

Il rumore dello scontro tra Lisa ed Efialte proseguì. La figlia di Bacco non sarebbe mai riuscita a resistere ancora a lungo. Efialte era immortale ed era instancabile. Loro erano divini solo per metà, invece. Doveva rialzarsi. Doveva combattere. Doveva, e basta.

Provò a muovere le dita della mano destra e riuscì ad avvertirle mentre affondavano nel terreno. Non era ancora finita. Si rigirò su un fianco e tossì alcune gocce di sangue. I polmoni bruciarono nel suo petto, come se fossero in fiamme. Mugugnò e roteò ancora, appoggiandosi sul gomito del braccio destro. Provò a muovere il sinistro e dopo alcuni sforzi cominciò a sentirlo di nuovo rispondere ai comandi. Si girò a fatica e vide il falcetto a terra accanto a lui. Serrò la mascella e allungò la mano per afferrarlo. Lo piantò nel suolo e si rimise in ginocchio facendo leva su di esso.

Un grido lacerò l’aria, facendolo trasalire. Sollevò lo sguardo e vide Lisa cadere a terra, con Efialte che ancora tendeva un braccio verso di lei. L’aveva colpita. Le iridi di Thomas rimasero incastonate su quella scena orribile, mentre il gigante scoppiava nell’ennesima risata.

«Deboli, deboli, deboli» gongolò, sollevando le mani al cielo. Gettò la testa all’indietro e la sua risata crebbe di intensità. «Osservate, Bacco, Ermes. Osservate! Questa è la vostra progenie! Questi sono i semidei con cui avete rimpiazzato gli eroi del passato! Guardate come sono patetici! Ammiratemi mentre li uccido di fronte ai vostri occhi! AMMIRATEMI!»

«Chiudi… la bocca…» rantolò Lisa, rimettendosi in ginocchio. Batté un pugno a terra e lo guardò dal basso con uno sguardo carico di rabbia. «Tu… tu sei solo… un gigante di seconda categoria. Vali… vali meno di niente. Tu e Oto… siete così deboli che dovete essere in due per abbattere un solo dio.» 

Sorrise beffarda. «Non siete altro che gli zimbelli dei vostri fratelli più grandi. Dimmi, Efi, come ci si sente a essere i buffoni di corte della propria razza?»

Il sorriso svanì dal volto del gigante, tramutandosi in un tic nervoso. Le sferrò un ceffone, facendola gridare.

«FA SILENZIO!» tuonò. «Da che pulpito vieni a parlarmi! Proprio tu, che sei la più stupida e patetica figlia del dio più stupido e patetico dell’Olimpo. Se io non valgo niente tu quanto vali, piccola bastardella?»

Lisa singhiozzò, riversa a terra dopo lo schiaffo. «Z-Zitto…»

«Sei solo una nullità!» proseguì Efialte, colpendola di nuovo. Lisa rotolò sul suolo, insozzandosi polvere. Rimase girata su un fianco, con le braccia strette attorno all’addome. Boccheggiò, il corpo in preda a degli spasmi.

«Guardati. A terra con così poco, a piangerti addosso. Cosa speravi di ottenere affrontandomi? Credevi davvero di potermi battere? Credevi davvero che Bacco ti avrebbe salvata? AH!» Il gigante si avvicinò a lei, sollevando un piede. Voleva schiacciarla come un insetto. «Non disperare, bastarda, della tua morte non piangerà nessuno!»

La figlia di Bacco non rispose più. La spavalderia svanì. Lo sconforto trapelò dal suo volto rigato dalle lacrime e impregnato di sangue.

«Ehi, bastardo.»

Efialte si immobilizzò. Thomas si rimise a fatica in piedi, il braccio sinistro che pendeva accanto al suo fianco, lo scudo a terra, ridotto ad un ammasso di bronzo accartocciato, la mano destra appoggiata sul manico del falcetto. Sentiva il sangue colargli dalle narici e dagli angoli della bocca, ma non diede peso a nulla di ciò. Ignorò il dolore. Ignorò la fatica. Ignorò la paura. Ignorò tutto. Aveva visto troppo. 

«Non… non parlarle così» disse, serio come mai era stato prima d’ora, mentre Efialte tornava a scrutarlo. «Lisa… non è come dici tu. Lei non è stupida, e non è patetica. Lei… è forte, coraggiosa, è una brava persona e… ed è anche mia amica. Perciò devi lasciarla stare.»

Lisa osservò Tommy incredula. «T-Thomas…» mormorò. 

Il ragazzo incrociò il suo sguardo e le sorrise rassicurante. Nessuno le aveva mai voluto bene, nessuno le aveva mai detto parole di conforto, nessuno l’aveva mai fatta sentire speciale, niente di niente. Per questo motivo Thomas non avrebbe permesso ad Efialte di infierire ancora di più su di lei. Nessuno avrebbe più dovuto infierire su di lei.

Lo sguardo di Efialte rimase calamitato su di lui e la sua bocca si mosse di nuovo in maniera anomala. «Tu… dai ordini a me?»

Thomas sogghignò. Sentì dolore al volto per questo, ma non ci diede peso. «Ordini? No, no, no… sei così stupido che nemmeno li capiresti. Diciamo più che il mio è un consiglio. Tu lasci in pace Lisa e io non ti faccio male. Che ne dici?»

«PHUAHAHAHAHAHA» 

Il gigante si allontanò da Lisa e l’espressione di lei si fece spaventata. «Thomas, no! Non…»

Efialte le lanciò un’occhiataccia per zittirla e la ragazza sussultò. La vista non piacque per niente a Tommy. Dopodiché l’ammasso di immondizia parlante si rivolse di nuovo a lui, agitando le mani in aria: «Quindi tu vorresti fare del male a me, mh? E come speri di farlo, moscerino? Mi vuoi scagliare addosso un fulmine? Vuoi scatenare una tempesta su di me? Giusto, tu non puoi fare nulla di queste cose, avevo scordato che tuo padre è quella nullità di Ermes!»

Efialte eruppe nuovamente in quell’odiosa risata. «Il tuo caro genitore è così irrilevante che per contrastarlo basta un tardo come mio fratello Ippolito! E guardati. Non sai nemmeno maneggiare un’arma, sei perfino più piccolo della media umana, sei uno sgorbio tra gli sgorbi. Potrei spremerti come un foruncolo con una mano sola.»

Thomas serrò la presa attorno al falcetto. Sì, Efialte aveva ragione. Era solo un figlio di Ermes. E non aveva per niente le fattezze di un eroe. Tutti quanti gliel’avevano detto, nelle maniere più disparate.

Tutti quanti lo avevano giudicato ancora prima di conoscerlo, basandosi solo su chi fosse suo padre e sul suo aspetto. E tutti quanti non avevano fatto altro che ripetergli le stesse parole. Non sarebbe mai stato un eroe. Perché era un figlio di Ermes. Perché era piccolo di statura. Perché era un incapace, un codardo, un fallito, qualsiasi cosa avrebbero potuto dirgli, lui già l’aveva sentita. Ed era esausto di sentire quella filastrocca.

Lo avevano convinto di non valere niente, ma era ora di finirla una volta per tutte. Lui valeva e l’intera Casa Undici valeva. Derek, Natalie, Rick, Leyla e tutti i suoi fratelli erano persone magnifiche, che non avevano nulla da invidiare agli altri. E non solo loro. Anche Lisa valeva. Tutti quelli come loro valevano.

Forse fino a quel giorno aveva osservato il problema dalla prospettiva sbagliata. Forse il suo “problema” in realtà non era mai stato davvero un problema. 

Forse, aveva solo bisogno di accettare la realtà una volta per tutte.

«Hai ragione» disse. Con le gambe tremanti per lo sforzò, fece alcuni passi, venendo sovrastato in altezza da Efialte. In confronto a lui era piccolo e insignificante ed entrambi lo sapevano. Lui meglio di chiunque altro lo sapeva. «Sono… sono solo un figlio di Ermes. Non… non ho poteri. Non scaglio saette, non controllo cascate, non sparo palle di fuoco, non ho una mente brillante, non posso… trasformarmi in un drago, né controllare il suolo, o manipolare la Foschia, o… o… qualsiasi altra cosa tu credi che un eroe possa fare. Non sono affascinante, non sono forte, non sono bravo a combattere, niente di niente. Ma… ma vuoi sapere una cosa?»

Un sorrisetto prese forma sul suo volto. Non poteva vedersi ad uno specchio, ma era abbastanza sicuro di essere riuscito ad ottenere il risultato che voleva. Quello fu il più perfido sorriso da figlio di Ermes che avrebbe mai potuto fare. Derek sarebbe stato orgoglioso di lui, ne era certo. Puntò il falcetto verso Efialte. «Non ho bisogno di esserlo.»

Prima che Efialte potesse dire qualsiasi altra cosa, Tommy mosse il braccio sinistro, lanciandogli addosso ciò che aveva stretto in mano fino a quel momento.

«Perché sono un figlio di Ermes!»

Efialte osservò l’oggetto di bronzo avvicinarsi a lui come un’idiota. La granata incendiaria gli esplose addosso e il gigante cominciò a dimenarsi e a gridare come un disperato mentre le fiamme arancioni si attaccavano alla sua pelle putrida. Thomas lasciò il falcetto e afferrò lo zainetto per prendere altre granate.

Non gli serviva la forza, non gli serviva la tecnica, non gli servivano poteri magici. Era un figlio di Ermes. E avrebbe combattuto come solo un figlio di Ermes sapeva fare. Lo stesso Edward, un semidio molto più forte e coraggioso di lui, gli aveva dimostrato che non sempre la via dell’eroe senza macchia e senza paura era quella più adatta a tutti.

Le urla di Efialte proseguirono, mentre Thomas lo bombardava di ogni granata incendiaria che ancora aveva nello zainetto. Una vera sfortuna che Efialte fosse immortale e che perciò non potesse morire sotto il peso di tutta quell’artiglieria. Doveva fare davvero male bruciare vivi. Sicuramente, il gigante in fiamme impazzito era uno spettacolo pirotecnico niente male.

«Non mi servono poteri!» urlò Thomas, più a sé stesso che al gigante. «Non mi serve niente di niente!»

La voce di Rick risuonò nella sua mente. «Pensi che Tommy ce la farà?»

«Certo che ce la farà» rispose Natalie.

Thomas sorrise. Certo che ce l’avrebbe fatta.

«Il mio nome è Thomas Blake!» sbraitò, rivolto al cielo, rivolto ai ragazzi del Campo Mezzosangue, rivolto al mondo intero. «E SONO UN FIGLIO DI ERMES!»

Il fuoco smise di bruciare. Il gigante ansimò, il respiro simile ad un rantolio, flotti di sangue color oro che scivolavano lungo il suo corpo ustionato. «La… la pagherai, piccolo schifoso di un…»

«Ma sta zitto» sbottò Thomas, agitando il vasetto di fuoco greco che aveva appena tirato fuori dallo zainetto, facendo ondeggiare la sostanza volatile verde accesa. «Tieni, ho un altro regalo per te!»

Gli lanciò il vaso, che detonò al contatto. Se il fuoco normale doveva avergli fatto male, allora quello greco dovette trucidare ogni singolo nervo del corpo di Efialte. E fu così che il gigante in fiamme impazzito parte seconda cominciò.

Efialte si strappò i capelli per la disperazione mentre le fiamme lo divoravano. Si gettò a terra e provò a rotolare per scollarsele di dosso, ma il fuoco greco non era così semplice da estinguere. Avrebbe continuato a bruciare fino a quando tutta la sua essenza non si sarebbe esaurita. Urla strazianti risuonarono in tutta la vale con il fragore di un tuono, mentre il verde ricopriva l’imponente figura del colosso.

Aveva proprio fatto bene a portarsi anche quel vasetto.

E non aveva ancora finito. Non aveva più granate incendiarie, ma aveva ancora quelle fumogene. Ne lanciò una sotto le gambe di Efialte, creando una nube sotto di lui mentre le fiamme cominciavano a spegnersi. Corse in mezzo al fumo e iniziò ad affettare le gambe del gigante con tutta la forza che ancora gli rimaneva in corpo. Stava ancora accusando i sintomi della botta di poco prima, ma avrebbe combattuto anche se avesse avuto tutte le ossa rotte. Avrebbe combattuto fino a quando non avrebbe zittito il mostro una volta per tutte. Per Lisa, per sé stesso e tutti quelli come loro.

Conficcò il falcetto dietro il ginocchio del gigante fino all’elsa, strappandogli l’ennesimo grido disperato. Le gambe gli cedettero e si chinò in avanti per riprendere fiato. Thomas scivolò sotto la sua vita, per poi spuntargli di fronte e trafiggerlo sotto al mento con un salto. Neppure la bassa statura lo avrebbe fermato.

Un gorgoglio strozzato uscì dalle fauci di Efialte, come se stesse affogando. Thomas ritirò il falcetto e pensò di tagliargli quella stupida testa che aveva, ma il gigante riuscì a riscuotersi, respingendolo con una bracciata. Tommy fu di nuovo sbalzato via e il falcetto finì chissà dove. Tutte le sue ferite si riaccesero all’unisono, paralizzandolo.

«Uhhhhh» mugugnò, provando a muoversi ma senza risultato. Riuscì solo a sollevare lo sguardo, in tempo per vedere Efialte inginocchiato con la mano premuta sul collo, la pelle nera per le bruciature e una miriade di tagli da cui sgorgava sangue color oro.

«Maledetto… male… detto…» rantolò il gigante, osservandolo con sguardo omicida, come se volesse infliggergli lo stesso dolore che aveva subito con solamente quell’occhiata. «La… la pagherai… soffrirai… così tanto… che desidererai di morire. Ma io… io non sarò così gentile. Continuerò a…»

«Ma falla finita» sbottò Thomas, osservandolo dal basso. Il suo sorrisetto si distese. «Guarda come questo miserabile figlio di Ermes ti ha ridotto. E tu saresti un gigante?»

Un altro tic nervoso attraverso il volto di Efialte. «Però… io sono quello in piedi, come vedi. Tu invece sei a terra. Ho vinto i…»

«Sì, sì» lo interruppe Tommy. Efialte aveva ragione, era in piedi, mentre lui era a terra. Doveva guadagnare tempo. Per fortuna, sapeva come intrattenere un pazzoide con manie di protagonismo come Efialte. «Piuttosto, come hai fatto a uscire dal Tartaro dopo solo vent’anni? Credevo che il passaggio fosse stato chiuso.»

Efialte lo squadrò sorpreso. «Cosa? Mi fai domande del genere in questo momento?»

«E quando se no? Se proprio devi uccidermi, almeno rispondimi. Prima del gran finale. Come hai fatto a tornare? Come sapevi dove trovarci? Come sapevi della nostra impresa?»

Il gigante si prese il mento, riflettendo, mentre dai suoi capelli e dalla sua pelle uscivano ancora nugoli di fumo. Poi sorrise sadico. «E va bene. Prima del gran finale. Ma per aumentare la suspense, non ti darò una risposta chiara. Ti posso dire che in questo momento sto solo eseguendo degli ordini. Ci è stato detto che ostacolando voi cinque sarebbe scoppiata una bella guerra tra dei, e questo mi è bastato.»

«Vi… è stato detto? A te e a chi altro?»

«A me e Oto, no? Io ho inseguito voi tre, lui si è occupato dei vostri amici.»

Thomas spalancò gli occhi. Edward e Stephanie… anche loro avrebbero potuto essere in pericolo. Però Oto era meno pericoloso di Efialte, e sia Edward che Stephanie erano molto più potenti di loro tre. Per loro affrontare il gigante sarebbe stato molto più semplice. Si augurò che stessero bene, ma era sicuro di sì. 

In quel momento, l’unica cosa che poteva fare era continuare a scucirgli informazioni. «E chi vi ha dato l’ordine?»

Efialte sollevò le spalle. «La persona che ci ha fatto uscire dal Tartaro, no?»

«E chi vi ha fatti uscire?»

Il gigante ciondolò, con falsa aria noncurante. «Se lo dicessi sarebbe un’anticipazione troppo grande per lo show, non trovi?»

Il figlio di Ermes serrò la mascella. Efialte non era così stupido da dirgli tutto, allora. Ma chi poteva averlo liberato? Qualcuno che voleva che la guerra tra dei scoppiasse, quello era chiaro. Non poteva essere stato l’uomo serpente, perché i loro obiettivi erano molto diversi, e poi Orochi con il Tartaro non aveva nulla a che vedere. Ma allora… chi? 

«Bene, figlio di Ermes» gracchiò Efialte, sgranchendosi le nocche. Solo in quel momento Thomas si accorse delle ferite del gigante, ormai quasi tutte rimarginate. Non andava bene, affatto. Aveva guadagnato un po’ di tempo, sentiva meno dolore al corpo ed era abbastanza sicuro di potersi muovere di nuovo, ma non sarebbe riuscito a combattere ancora in maniera sostenuta. «Le tue ultime parole?»

Tommy non rispose. Doveva pensare e alla svelta. Era un figlio di Ermes. Se esisteva uno in grado di uscire da quella situazione, quello doveva proprio essere lui. Eppure… nulla. Aveva usato le granate e il fuoco greco, aveva perfino sgozzato Efialte, ma non era servito a niente. Per sconfiggere un gigante occorrevano un dio e un semidio e di Bacco non c’era traccia. Restava solo più una cosa da fare.

Papà, pensò, mentre Efialte torreggiava su di lui. Ecco… so di non essere stato il migliore, ultimamente, ma se ci sei… insomma… mi farebbe piacere il tuo aiuto.

«Non dici nulla?» canzonò ancora Efialte. «Peccato. Vorrà dire che allora sarò io a farti implorare di…»

Una figura sbucò da dietro le spalle di Efialte. Due lame d’oro scintillarono sotto il sole. Thomas spalancò la bocca mentre Lisa precipitava addosso al gigante gridando furibonda. «SARAI TU A IMPLORARE!»

«Ma che cos… AAAGGHHHH

Con un salto, Lisa conficcò i pugnali nel collo di Efialte fino all’elsa. Il gigante cominciò a dimenarsi, cercando di scrollarsela di dosso, ma la ragazza rimase aggrappata ai coltelli, nascosta dietro la sua schiena in un punto dove non poteva afferrarla.

«Sta alla larga da Tommy!» ululò Lisa, sradicando un pugnale dal collo del gigante e conficcandolo dentro al suo cranio. Efialte urlò disperato, ma Lisa non aveva ancora finito. Fece leva sul pugnale e si arrampicò, arrivando alla testa del colosso. A quel punto fu il pandemonio.

Gli tempestò la testa di pugnalate, tenendo le gambe strette al suo collo per non cadere. «Vediamo se fai il furbo ora, schifoso figlio di…» 

Conficcò i pugnali nel volto del gigante, nelle guance, nelle orecchie, perfino negli occhi. Lisa rovesciò la testa all’indietro e sbraitò così forte da far invidia alle urla del gigante. La faccia di Efialte si tramutò in un mosaico di tagli e icore, mentre si dimenava ormai piangendo per il dolore. Essere pugnalato nel cervello non doveva affatto essere gradevole. Le orecchie gli grondavano di sangue grumoso, così come gli occhi che ormai era costretto a tenere sigillati. Continuò a provare ad afferrare Lisa con le mani, ma nemmeno una gru sarebbe riuscita a sradicargliela dalla testa.

«Hai ancora voglia di darmi della bastarda, Efi?!»

Osservare la grinta della ragazza fece riscuotere Thomas. Si rimise in piedi e afferrò lo zainetto. Estrasse la prima arma che trovò, la spada d’argento di Rosa, e un sorriso prese forma sul suo volto. Sì, quella sarebbe andata bene. Si lanciò contro il gigante, puntandogli le gambe. Mentre Lisa crivellava il volto di Efialte, che ormai nemmeno reagiva più, Tommy gli tranciò via le dita dei piedi, riuscendo a strappargli un altro urlo. Se sbattere l’alluce faceva male, farselo affettare doveva essere la cosa più agonizzante che potesse succedere.

Efialte barcollò e Lisa saltò giù dalla testa. Cadde dietro di lui, all’altezza del suo interno coscia. Osservò la vita del gigante, poi Thomas. Un sorriso agghiacciante prese forma sul viso della ragazza, che ormai sembrava essere stata posseduta dall’Ade in persona. Thomas capì che cosa avesse in mente e sgranò gli occhi. Distolse lo sguardo un attimo prima che Lisa cancellasse la virilità del colosso con un affondo.

«AAHHIIIIIIIIIIII» Il grido di Efialte si alzò di diverse ottave, mentre con le mani andava a coprirsi la zona sacra in mezzo alle gambe.

La figlia di Bacco puntò il suo ginocchio, lacerandolo da dietro, e Thomas lo colpì da davanti, conficcando la sciabola tra le squame fino a sentire un’orribile CRACK

Con un ultimo mugugno e la gamba piegata in posizione innaturale, Efialte si sbilanciò in avanti. Tommy si tolse di mezzo prima che mille chili di carne lo appiattissero come una sottiletta. La terra tremò quando il colosso stramazzò a peso morto, ma i semidei non avevano ancora finito. Affondarono le lame in ogni lembo di pelle ancora intatto, gambe, braccia, schiena. Non avevano nessuna intenzione di lasciare che si rialzasse tanto presto.

Thomas conficcò la spada nel collo di Efialte un’altra ventina di volte, giusto per fargli capire chi comandava. Avrebbe potuto provare anche lui a decapitarlo, ma la pelle del mostro era molto più dura di quanto potesse immaginare; non sarebbe mai riuscito a fare lo stesso che Naito aveva fatto. Tutto ciò non fece altro che fargli domandare quanto il mezzo demone fosse stato potente in realtà. Si augurò davvero che Efialte lo avesse ucciso, ma ne dubitava.

A lavoro concluso, i due semidei si allontanarono per riprendere fiato. Osservarono la loro opera d’arte. Efialte era immobile e teneva la testa a fondo nel terreno, con più squarci sul corpo di quanti se ne potessero contare. Da lì non si sarebbe alzato molto presto, potevano starne certi. Tommy annuì, impressionato. Non male per due nullità come loro.

Accanto a lui, Lisa aveva il fiatone, la fronte madida di sudore, la bocca intrisa di sangue e il corpo ricoperto di terra. Era assolutamente molto poco femminile. Eppure a Thomas sembrò molto più bella di quanto non fosse mai stata.

Lei si accorse che la stava guardando e si voltò verso di lui, sorridendogli. Il bianco dei suoi denti cozzò con gli aloni rossastri sulla sua pelle. 

«Così avevi un piano, eh?» domandò sarcastica, per poi scuotere la testa. «Maledetto nano…»

«Ah, ma finiscila» ribatté lui, con un sorrisetto. «Ammetti per una volta che sono stato fantastico.»

Lisa ridacchiò, imitata da lui. «Così… io sarei tua amica?» gli domandò, con voce più morbida.

Il cuore di Thomas sussultò. Strinse con forza la presa attorno alla spada di Rosa senza accorgersene mentre osservava la compagna. «Ehm… beh…» I loro sguardi si incrociarono e Lisa distese il sorriso. Sembrava… serena. Felice. E soprattutto, sembrava davvero grata a quel piccoletto con i capelli rossi che aveva deciso di farla sentire importante almeno per una volta. Un po’ intimidito, Thomas ricambiò il sorriso. Poi, in maniera del tutto inaspettata, Lisa mise via i pugnali e lo abbracciò.

«Grazie, Tommy. Grazie» sussurrò, avvolgendolo con delicatezza. Fu un gesto un po’ goffo e impacciato, proveniente da una persona disabituata a quel genere di cose. Singhiozzò, e Thomas sentì il cuore sussultargli di nuovo. Si rese conto che Lisa tremava come una foglia. Come non avrebbe potuto, dopo tutto quello che era successo. Malgrado la sporcizia di terra, il sudore e il sangue, Lisa emanava un odore davvero gradevole, un po’ aspro, ma anche dolce. 

Thomas pensò a come non si fosse mai trovato così vicino, in quel modo, a una ragazza. Avvolse il braccio libero attorno alla sua schiena, per infonderle un po’ di coraggio. Lisa… era una persona particolare e lui avrebbe dovuto capirlo prima. Non era cattiva, non l’era mai stata. Forse aveva delle reazioni un po’ infantili, ma era perché aveva passato tanto tempo senza ricevere o dare genuine emozioni.

Avrebbe voluto ricambiare l’abbraccio per bene, però per farlo avrebbe dovuto lasciar cadere a terra la spada di Rosa che stringeva nell’altra mano. La lasciò scivolare verso terra, ma prima di mollarla del tutto esitò. Non seppe perché, ma tenne l’arma stretta in mano. Lisa si separò da lui con delicatezza, per asciugarsi di nuovo alcune lacrime. Thomas la prese per mano, strappandole un’espressione di stupore. Sentì il cuore in gola, ma si sforzò di ignorarlo. «Non sei più sola, Lisa» disse. «Siamo una squadra. Puoi contare su di me.»

Lisa posò l’altra mano su quella di Tommy, stringendola con forza. Era caldissima. «Adesso lo so.»

I due compagni di squadra, i due amici, si sorrisero. Quello significava essere semidei. Combattere, soffrire, affrontare e superare le proprie paure, versare sangue, sudore e lacrime, insieme, come una squadra, come una famiglia. Al Campo Mezzosangue questa mentalità era andata perduta, ma Thomas si sarebbe assicurato che tornasse.

Da soli, erano vulnerabili. Insieme, erano inarrestabili.

«Hai… hai un po’ di sangue…» disse Lisa, toccandosi un angolo della bocca. «Lì, vicino alla bocca…»

Un po’ imbarazzato, Thomas si strofinò sulla faccia la manica del braccio che ancora reggeva la spada, per ripulirsi. Non sapeva come fosse conciato, ma non doveva essere un granché. Dopotutto si sentiva proprio come se fosse uscito da un frullatore. 

«Ehm… anche… anche tu…» mormorò, accennando le labbra spaccate della ragazza, che si affrettò a ripulirsele a sua volta. Mentre lo faceva, Thomas notò le lentiggini sul volto di Lisa. Si era perfino dimenticato della loro esistenza. Erano… carine.

Quanto entrambi furono di nuovo presentabili, una tenue risatina li contagiò. Tommy ne aveva proprio bisogno.

Efialte mugugnò all’improvviso, facendoli voltare verso di lui. Sollevò la testa, mentre le sue ferite si rimarginavano ancora una volta. Ci aveva messo molto meno tempo di quanto avrebbero creduto. I due semidei lasciarono andare le mani rimaste unite fino a quel momento e fronteggiarono insieme il colosso.

«Non possiamo fare nulla per fermarlo» mormorò Lisa, leggendogli nel pensiero. Thomas annuì. Potevano rompergli tutte le ossa, tagliargli testa, gambe e braccia, ma quello avrebbe continuato a rialzarsi. Doveva esserci un limite che un gigante poteva raggiungere, un modo per neutralizzarlo anche se era immortale, ma il figlio di Ermes ormai non aveva né le energie né la testa per mettersi a pensarlo. Era sfinito.

Il gigante muggì per lo sforzo, mentre disgustosi rumori di articolazioni che si rimettevano a posto risuonavano nell’aria, e si mise in ginocchio. Ansimò per quelli che parvero minuti interi, fissando il suolo con espressione vacua, poi scrollò la testa. 

«Sapete… sapete una cosa…» biascicò, per poi alzare la testa verso di loro con gli occhi iniettati di sangue. «Penso… penso che vi ucciderò e basta. Niente torture. Niente di niente. Vi… vi spezzerò l’osso del collo e poi porterò la giornata a casa. Sì, sì, credo che farò così. Anzi…»

Lisa sfoderò i pugnali e Tommy sollevò la spada. Non potevano combattere ancora, sarebbero crollati per la fatica, ma che scelta avevano? Non potevano fuggire, Efialte li avrebbe inseguiti ancora. Ma non potevano nemmeno combattere in eterno.

Di fronte a loro il gigante affondò le mani nel terreno e, con un verso simile a quelli che faceva Derek quando si chiudeva in bagno dopo aver mangiato pesante, staccò dalla stradina una zolla di terra grande quanto lui. La portò sopra la propria testa e sorrise folle. «Vi trasformerò in un paté!»

«Pronto?» domandò Lisa. 

Thomas mentì, perché fece un cenno di assenso. Neppure Lisa sembrava davvero in grado di continuare, ma cercò di non darlo a vedere. Si mise di nuovo in posizione da combattimento, incrociando i pugnali. «E allora andia…»

Alcune foglie frusciarono accanto a loro, interrompendola. Tommy le osservò mentre compivano diverse capovolte in aria, accompagnate da una leggera brezza che accarezzò la sua pelle corrosa dal caldo e dal sudore. Subito dopo, il petto di Efialte si ricoprì di squarci, facendolo esclamare per la sorpresa. «AH! Ma che cosa…»

Le braccia gli tremolarono e persero la presa sulla zolla di terra, che gli crollò addosso. Il gigante urlò di frustrazione mentre veniva sotterrato dalla sua stessa arma. Di fronte a quella scena così assurda ed inaspettata, Lisa spalancò gli occhi: «Ma che è successo?!»

Thomas avrebbe voluto rispondere, ma gli mancavano le parole. Tuttavia, una strana sensazione di déjà-vu cominciò a prendere forma dentro di lui.

«Ehi, Tommy!»

Il ragazzo sobbalzò. Quella voce… quella voce la conosceva. Lui e Lisa si voltarono, per poi osservare una persona all’apparenza sbucata dal nulla che camminava verso di loro lungo la stradina tra i vigneti: un uomo vestito con una tuta da ginnastica beige. Li salutò con un ampio gesto della mano e Thomas sentì il proprio respiro mozzarsi.

«Vedo che hai ancora il mio zainetto! Ben fatto, figliolo.»

La mente di Tommy tardò a far arrivare le parole alla sua bocca. Per fortuna ci pensò Lisa a dire quello che lui stava pensando: «D-Divino Ermes!»

L’uomo si fermò, passandosi una mano tra i capelli ricci e distendendo il suo sorrisetto. «In persona.»

Tommy non era mai stato un gran chiacchierone, però rimanere senza parole in quel modo sembrò assurdo perfino per i suoi standard. Aveva visto suo padre solo una volta prima di allora, da bambino, ma all’epoca ancora non sapeva che fosse proprio il dio dei ladri, della strada e dell’astuzia. Nemmeno quando gli aveva regalato lo zainetto e la chiave magici si era fatto vivo, aveva giusto fatto comparire un pacco con scritto il suo nome davanti alla casa Undici. Eppure, non c’erano dubbi, era proprio lui. Ermes, suo padre. Era lì. Aveva ascoltato la sua preghiera.

«A proposito.» Ermes sollevò un indice, come se si fosse appena ricordato di qualcosa di importante. «Ho portato degli amici. Spero non vi dispiaccia» e indicò verso il gigante.

Sempre più convinto di star sognando tutto quanto, Thomas osservò Efialte, per poi quasi avere un infarto. Il suo cuore non poteva continuare a reggere certi scossoni per sempre.

Tre animaletti stavano torturando la testa del gigante, l’unica cosa che sbucava dalla tonnellata di terra che gli era caduta addosso. Lo tiravano per i capelli, lo prendevano a schiaffi e gli scalciavano della polvere addosso sghignazzando di gusto. O almeno, sembrava che stessero sghignazzando. Era difficile interpretare i versi di quelle tre donnole.

«PUAH! Basta! BASTA! FATELA FINITA, STUPIDI TOPI!» ululò Efialte, prima che la donnola bianca gli tirasse un’altra sberla, squittendogli in faccia.

«E quelli che cavolo sono?!» domandò Lisa, a metà strada tra la stupita e l’inorridita.

Ma Tommy a malapena registrò il suo tono. Un sorriso a trentadue denti nacque sul suo volto. 

«Ragazzi!» urlò, per poco non saltando di gioia. Le tre kamaitachi si voltarono verso di lui e in un altro turbinio di polvere se li ritrovò addosso. Barcollò all’indietro mentre i tre roditori si aggrappavano al suo petto. «Nagata! Sato!» disse, ridendo. «Kensuke!» Si stupì di ricordarsi i loro nomi, ma dopotutto come avrebbe potuto scordare quelle tre forze della natura?

«Li conosci?!» interrogò la figlia di Bacco, atterrita.

Mentre le tre donnole zampettavano sulle sue spalle e tra i suoi capelli, Thomas la osservò imbarazzato. Avevano deciso di non parlare di Kansas City a Lisa e Konnor per nessun motivo, dopo il fiasco con Shinjiro. «Ehm… beh, è una lunga storia…» Si voltò poi verso di Ermes, di certo non scordandosi che tutto quello fosse opera sua.

Suo padre ridacchiò alla sua reazione. «Sono felice che la sorpresa ti sia piaciuta.»

Piaciuta era riduttivo. Tommy sorrise all’uomo. Se quello non era il padre più fico dell’Olimpo, allora non aveva idea di chi altro potesse esserlo. Potevano dire tutto quello che volevano su di Ermes e i suoi fratelli, ma non gli interessava. Li amava, tutti quanti, dal primo all’ultimo, e non li avrebbe cambiati per niente al mondo.

Thomas si accorse poi che sia Nagata che Sato tenevano entrambi gli occhi aperti, e tutte e tre le donnole avevano di nuovo gli artigli. Ma non erano semplici artigli: oltre alle unghie affilate, delle vere e proprie lame ricurve spuntavano all’indietro dai loro polsi e dalle loro code, come delle falci. Si domandò come non avessero fatto a squartarlo per sbaglio quando si erano lanciate addosso a lui. E comprese anche perché le kamaitachi non fossero proprio i migliori degli animali da compagnia.

«Bene, ora torniamo a noi» proseguì Ermes, passando accanto ai due semidei e avviandosi verso Efialte. «Vi ringrazio per averlo ammorbidito, ragazzi. Da qui ci penso io, se non vi dispiace.»

«È tutto tuo, papà» lo invitò Thomas con un gesto della mano, mentre Kensuke, Nagata e Sato scendevano da lui. La donnola bianca poi, da marcantonio qual era, puntò subito Lisa. Le annusò le gambe e la ragazza saltò all’indietro con un gridolino. Tommy si sforzò di non scoppiare a riderle in faccia, anche se fu dura. Non poteva credere a tutto quello. Suo padre era arrivato ad aiutarli, e aveva perfino portato la cavalleria. Era incredibile. Ma essere semidei non doveva per forza voler dire solo cose brutte. Ogni tanto, potevano anche assistere a scene incredibilmente belle.

Ermes fece comparire il suo caduceo tra le mani e torreggiò su Efialte, ancora ferito e sepolto da cento tonnellate di terra. 

«Oh, no…» mugugnò il gigante, osservando il dio armato di bastone dal basso. «… non posso morire di nuovo così…»

Il dio sollevò le spalle, noncurante. «Non avresti dovuto prendertela con mio figlio, Efialte. Mi spiace davvero» e sbatté il caduceo sulla sua testa. 

Efialte muggì per la botta e si accasciò una volta per tutte. Non appena si dissolse in quella nube di vapore dorato, Thomas si sentì libero come non mai.

Ermes ritornò verso di loro, allargando quel sorrisetto sul volto che Tommy aveva già visto sui suoi fratelli. Appoggiò il caduceo a terra, tenendolo con entrambe le mani. «E anche questa rogna è sistemata. Tommy?» Il dio gli si mise accanto, avvolgendogli le spalle con un braccio. «Facciamo due passi, ti va?»

«Oh. S-Sì, certo…» mormorò lui, sorpreso. Un flashback della sua conversazione con Afrodite prese vita nella sua mente. Si augurò che suo padre non volesse fare discorsi simili.

«Tranquilla, te lo riporto subito» disse Ermes a Lisa, ammiccandole. Le guance di Lisa si tinsero di porpora, mentre Thomas scrollò il capo, non molto sicuro di aver capito bene. Padre e figlio si allontanarono dalla figlia di Bacco, mentre le tre kamaitachi continuavano a ronzarle attorno.

Passarono accanto alla buca lasciata da Efialte e proseguirono sullo sterrato, mentre i postumi della battaglia di Thomas si dissolvevano poco per volta. I muscoli contratti si rilassarono e il respiro si stabilizzò. 

«Sei stato bravo, Thomas» cominciò Ermes fermandosi una decina di metri più avanti, unendo le mani dietro la schiena. Esaminò il figlio con i suoi occhi marroni, nei quali risiedeva la stessa maliziosità malcelata di tutti i suoi discendenti. Tuttavia, Tommy non notò nulla di malvagio nel suo sguardo. Sembrava davvero entusiasta. «Non hai perso la speranza e sei rimasto concentrato. Hai messo i tuoi problemi con Lisa da parte e avete lavorato come una squadra per abbattere Efialte. Ben fatto.»

Nulla poté impedire a Thomas di sorridere come uno stupido. Era ufficiale, quello era diventato il giorno migliore della sua vita. Sì, anche se aveva rischiato di morire un paio di volte.

«Anche se hai litigato con lei, hai comunque difeso la tua compagna quando era in difficoltà. Hai fatto della sua vita una tua priorità. E osservala adesso.» Ermes accennò con il mento a Lisa.

Thomas obbedì. Vide la ragazza stretta nelle spalle, con lo sguardo incollato su Kensuke, Nagata e Sato. La donnola beige e quella bianca si stavano azzuffando per qualche motivo, mentre quella grigia saltellava sul posto incitandoli. Tommy notò il sorriso divertito e rilassato sul volto di Lisa e si ritrovò a sorridere senza nemmeno accorgersene. La figlia di Bacco avrebbe dovuto sorridere più spesso. Si accorse poi che loro due la stavano guardando e li salutò con un cenno della mano. Incerto, Thomas ricambiò.

La voce di Ermes risuonò ancora alle sue spalle, facendolo voltare. «Hai visto Tommy? Non sembra nemmeno più la stessa persona che hai conosciuto.» Suo padre appoggiò ancora una volta una mano sulla sua spalla. Punte di orgoglio risuonarono nella sua voce: «Ti sei comportato da vero eroe.»

Vero eroe. Quelle parole risuonarono nelle orecchie di Thomas per diversi istanti. Credeva di aver sentito male. «Da… vero eroe?» domandò, confuso. «Ma… non ho fatto niente di speciale. Ho solo…»

«Difeso una persona in difficoltà?» lo interruppe Ermes, sempre con quel sorriso orgoglioso. «Non è forse quello che fanno gli eroi?»

Tommy rimase in silenzio. Osservò di nuovo Lisa, che ora se ne stava inginocchiata ad accarezzare la testolina grigia di Sato. Pensò a quando gli aveva raccontato il suo passato. Pensò alle lacrime nei suoi occhi, al suo sorriso felice dopo che l’aveva ascoltata e perdonata. 

E poi, pensò all’abbraccio che gli aveva dato dopo che aveva detto che erano amici.

A quel punto, Thomas capì. Essere eroi non significava saper solo sconfiggere mostri. Chiunque poteva essere un eroe, nel giusto momento, nel giusto contesto. Un eroe era una persona a cui appoggiarsi durante i momenti più duri, qualcuno in grado di lenire il dolore delle persone. E Tommy… lui aveva fatto proprio quello con Lisa.

La risposta era sempre stata lì, sotto al suo naso, ma lui era stato così ossessionato dall’idea di essere forte e coraggioso che si era dimenticato l’importanza dei piccoli gesti. Ascoltare, comprendere, perdonare. Era quello che lui aveva fatto. Per un momento, un piccolo breve momento, era stato l’eroe di una persona in difficoltà. Era quello che Ermes intendeva. Tuttavia, sentì di non meritare davvero certi complimenti proprio da lui. Non era stato proprio il migliore dei figli, di recente.

«Papà…» mormorò Thomas, abbassando lo sguardo. «Mi… mi dispiace per come mi sono comportato. Ho deciso di partire per l’impresa perché mi vergognavo di come tutti vedessero me, Derek e gli altri. Tutti… tutti ci giudicavano perché siamo figli tuoi. Volevo… dimostrare che si sbagliavano, che anche noi possiamo essere coraggiosi, ma ho cercato di farlo nel modo sbagliato. Ho provato a essere qualcun altro, ma ho solo imbrogliato me stesso. Ti… ti ho voltato le spalle. Se… se sei arrabbiato, io…»

«Arrabbiato?» Ermes rise. «Tommy, perché credi che abbia regalato proprio a te lo zainetto e la chiave?»

Ancora una volta, Thomas rimase in silenzio per qualche istante. Se l’era già chiesto tante volte, e non l’aveva mai capito.

«Proprio perché tu, Thomas, sei diverso.» Suo padre fece scomparire il caduceo, così da appoggiare entrambe le mani sulle sue spalle. «Sapevo che tu avresti fatto il giusto uso di quegli oggetti. Sapevo che non avresti abusato del loro potere. Hai deciso di partire per questo viaggio per difendere l’onore della tua casa. Hai salvato Lisa perché era la cosa giusta da fare. Ogni decisione che hai preso è sempre stata per beneficiare gli altri e mai te stesso.»

Ermes si chinò, per osservarlo meglio nei suoi occhi cristallini. «È vero, Tommy, non sei come i tuoi fratelli. Ma non sei nemmeno quello che gli altri vogliono che tu sia. Tu… sei solo tu. Sei Thomas Blake, e sei mio figlio. Il mio sangue scorre in te, ma questo non ti deve rendere come me. Non vergognarti di chi sei, di ciò che sei. Il fatto che tu provi paura non ti rende debole, ti rende umano. Ti rende un uomoE nonostante la paura, tu sei sempre rimasto ad aiutare i tuoi amici. Hai cuore, sei molto più forte di quanto tu voglia dartene credito, e sei un eroe, un vero eroe. E io… sono molto orgoglioso di te.»

Thomas aveva quasi diciassette anni. Era grande, per la miseria. Eppure, non appena finì di udire ciò che il padre gli disse ebbe il desiderio irrefrenabile di mettersi a piangere come un bebè. Abbracciò Ermes di getto, senza nemmeno rifletterci sopra due volte.

«Ehi, ehi» ridacchiò lui, ricambiando la stretta. Gli diede diverse pacche sulla schiena. «Non è il caso di essere così melodrammatici.»

«S-Scusa…» mugugnò Tommy, con gli occhi zuppi di lacrime e il naso che colava. Non proprio una faccia da vero eroe, la sua. Si passò la manica della maglietta sul volto per ripulirsi alla bell’e meglio. «Sniff… scusa…»

Ermes rise di nuovo, dandogli un’altra pacca. «Non preoccuparti. A proposito…» L’espressione del dio si ammorbidì. «Hai più parlato con… lei?»

Thomas si riscosse. Capì subito a chi il dio si riferisse. «No. Non la vedo da quando mi sono trasferito al Campo Mezzosangue.»

Sei anni. Sei anni senza vedere sua madre Michelle Blake. A Edward e Stephanie aveva detto che stava bene, ma aveva mentito solo per non farli preoccupare più del dovuto. La verità era che Thomas non sapeva nemmeno se viveva ancora a New York o no. Non sapeva nemmeno se fosse ancora viva.

Il dio annuì, con espressione mesta. «Mi dispiace che si sia comportata così con te. Non è stata colpa tua.»

«Sì, lo so. Non preoccuparti» rispose Tommy, con l’apatia tipica che usava per parlare di sua madre. Passare in così poco tempo dalla commozione a quella rabbia repressa non doveva essere salutare per l’organismo, ma era più forte di lui. Non poteva sentirsi in maniera diversa, non dopo tutto quello che sua madre gli aveva fatto.

Ermes non sembrava molto convinto, ma non disse altro a proposito. «Forza, torniamo dalla tua amica.»

«Stavo pensando…» disse Thomas, mentre ripercorrevano i loro passi. «… anche Natalie avrebbe potuto usare responsabilmente lo zainetto e la chiave. Non hai proprio mai considerato di darli a lei?»

Suo padre ridacchiò. «Oh, la mia cara e dolce Nattie. Tu non vuoi sapere cosa avrebbe fatto lei con uno zaino in grado di contenere qualsiasi cosa. Credimi.»

La mascella di Tommy scese senza che lui vi avesse alcun controllo sopra. Ok, ora esigeva davvero delle spiegazioni. Purtroppo, suo padre non lo accontentò.

A quanto pareva le kamaitachi potevano ritirare gli artigli a piacimento, perché nessuna delle tre li aveva più quando tornarono da loro. Sato se ne stava accoccolato sulla spalla di Lisa, che a quanto pareva doveva averlo preso in simpatia, mentre Kensuke osservava la scena frustrato. Nagata se ne stava in disparte, a ispezionarsi il manto beige. Né lui né il suo amico – o forse erano fratelli? – sembravano feriti dopo la loro scaramuccia. Forse Kensuke lo aveva solo infastidito un po’ troppo cercando di impressionare Lisa. Quando li raggiunsero la donnola grigia saltò giù e assieme alle sue compagne si radunò attorno ai piedi di Ermes.

Il dio si fregò le mani, sospirando compiaciuto. «Mi ha fatto bene passare a trovarvi. Le mie giornate sono sempre piene e trascorrere un po’ di tempo con voi mi ha proprio rallegrato.»

Senza ombra di dubbio, anche Thomas era rallegrato del fatto che suo padre fosse apparso. Li aveva aiutati a sconfiggere Efialte, ma non solo. Grazie a lui aveva capito cose molto importanti. Avrebbe custodito ciò che aveva appreso come il più prezioso dei tesori.

«Lisa» disse poi il dio. 

La ragazza sussultò. Non doveva essere semplice per lei parlare proprio con il padre dei suoi bulli al Campo Giove. Tommy si era sentito allo stesso modo parlando con Afrodite. 

L’uomo le sorrise. «Sei una ragazza forte. Non lasciare che delle semplici parole ti impediscano di diventare ciò che desideri. Farai grandi cose, vedrai.»

Lisa assottigliò le labbra. Chissà se prima di allora aveva mai desiderato di incontrare Ermes o Mercurio. Chissà se lo aveva odiato per ciò che i suoi figli le avevano fatto. Thomas non poteva saperlo, ma non si sarebbe stupito se fosse stata quella la verità. Tuttavia, la ragazza sorrise tenuamente, e chinò la testa in segno di rispetto. «La ringrazio, divino Ermes.»

Sembrava davvero felice. Sapere che non c’erano rancori tra lei e suo padre rincuorò Thomas. Ermes le rivolse un inchino, gesto che lo fece sembrare parecchio ridicolo, ma Thomas si riguardò dal farglielo notare. 

«Papà» lo chiamò invece, intuendo che il momento dei saluti stava per avvicinarsi. «Devo dirti una cosa. Efialte prima… ha detto che qualcuno ha fatto evadere lui e Oto dal Tartaro. Qualcuno che voleva che gli dei si facessero la guerra.»

Il dio chiuse le palpebre, come se si aspettasse che quella conversazione giungesse prima o poi. «Sì, sull’Olimpo siamo giunti ad una conclusione simile.»

«Quindi… lo sapevate già? E allora chi li ha fatti uscire? Chi vorrebbe che la guerra scoppiasse? A meno che…» Thomas sgranò gli occhi. Una persona c’era e loro l’avevano incontrata. «La… la divina Afrodite ci ha detto che il divino Ar…»

«Tommy.» Ermes lo fermò con un gesto della mano, serissimo in volto. Per un attimo parve quasi angosciato. «Non saltare mai a conclusioni così affrettate. Nessuno degli Olimpi ha un simile potere sul Tartaro, nemmeno mio padre e mio zio. Là vigono regole e leggi molto diverse da quelle a cui siamo abituati, ma voi di questo non dovete preoccuparvi. Sia Efialte che Oto sono stati eliminati, è questo ciò che conta. Concentratevi solo sull’arrivare a San Francisco sani e salvi. Il resto lasciatelo a noi.»

Utilizzò un tono che non ammetteva obiezioni. Ermes severo era qualcosa che Thomas non si sarebbe mai aspettato di vedere, tuttavia c’erano anche state vene di tensione nella sua voce. Tommy non disse nulla, realizzando di essere davvero stato troppo affrettato poco prima. Se avesse accusato Ares di quanto accaduto, il dio della guerra non l’avrebbe presa affatto bene. Ermes lo aveva appena salvato.

Aveva anche detto che Oto era stato sconfitto e la cosa lo rasserenò, ma del resto non avrebbe mai dovuto dubitarne. Edward e Stephanie erano tosti. Si domandò quale dio potesse averli aiutati. Forse proprio Demetra, o Apollo. Oppure Bacco, che magari si era perso sulla strada per andare ad aiutare lui e Lisa. Sarebbe stato divertente… e irritante. Più irritante che divertente.

Era chiaro, comunque, che stava succedendo qualcosa di grosso. Efialte e Oto non avevano niente a che vedere con Orochi e gli dei orientali. Facevano parte di tutto un altro disegno. Tommy sperò davvero che gli dei se ne occupassero, ma aveva un’orribile sensazione. 

«Divino Ermes, non può fare nulla per Konnor?» domandò ancora Lisa. «Ha perso i sensi e non sappiamo che cosa gli sia preso. Temiamo… temiamo che possa…»

«Primo, dammi del tu» disse Ermes, ritornando a sorridere, anche se questa volta parve un sorriso più forzato. «Secondo, per il vostro amico io non posso fare nulla. L’arma con cui è stato ferito… non rientra nel nostro campo di competenza. Ma non preoccupatevi, Konnor è forte. Dategli qualche ora e si riprenderà da solo. Ve lo posso assicurare.»

Thomas e Lisa si scambiarono uno sguardo. Ermes gliel’aveva appena promesso, eppure entrambi non sarebbero riusciti a smettere di preoccuparsi per il loro compagno. 

Ermes sollevò la manica della giacchetta da jogging per osservare l’ora su un Rolex che doveva costare quanto una macchina. Era vestito come un poveraccio e girava con quell’orologio al polso. Per qualche motivo, la cosa non sorprese Tommy. «Dunque, direi che mi sono trattenuto anche troppo. Prima di andare, però, lasciate che vi faccia un ultimo regalo.» Si schiarì la gola. «Kensuke?»

La donnola bianca saltò sull’attenti, squittendo.

«Ti va di assicurarti che questi due facciano i bravi?» domandò Ermes indicando Lisa e Thomas con il pollice, le labbra stirate in un altro di quei sorrisetti da far invidia a quelli dei suoi figli.

Di nuovo, Lisa avvampò, mentre Thomas gli lanciò la peggior occhiata in stile “Ma fai sul serio?” 

Kensuke balzò sulla sua spalla, squittendo un’altra volta in segno di assenso, mentre Sato fece lo stesso con Lisa, che fece un verso sorpreso. Nagata si mise ai piedi di Tommy, stiracchiandosi, e il semidio osservò le tre kamaitachi riuscendo a sorridere di nuovo. Le tre migliori guardie del corpo che potesse chiedere avevano appena deciso di rimanere assieme a lui durante l’impresa. C’era bisogno d’altro?

«Splendido» affermò Ermes, battendo le mani entusiasta. «Allora la mia presenza qui non è più richiesta. Buona fortuna, ragazzi. Rendeteci ancora orgogliosi di voi!»

Li salutò un’ultima volta con un ampio gesto della mano, mentre il suo corpo iniziava a brillare. I due semidei distolsero lo sguardo quando la vera essenza del dio venne sprigionata. Una leggera brezza accompagnò la scomparsa di Ermes, seguita da un silenzio irreale. Thomas e Lisa si osservarono. Emozioni contrastanti nacquero dentro di lui, che avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma senza riuscirci. Con un sorriso, tuttavia, Lisa gli fece capire che non serviva dire nulla. I fatti parlavano chiaro. Era finita. Ce l’avevano fatta… insieme.

 

***

 

Rivedere Konnor nel punto esatto dove lo avevano lasciato, ignaro della battaglia appena avvenuta, fece nascere un sorriso amaro sul volto di Tommy. Fuori da quella catapecchia era scoppiato il pandemonio e il loro compagno non era mutato di una virgola. Avevano tanto da raccontargli quando si sarebbe svegliato.

«Ragazzi» disse Tommy, rivolto alle tre kamaitachi. «Restate di guardia, ok? Se vedete qualcuno di sospetto avvicinarsi, avvisateci.»

Kensuke fece un saluto militare, poi lui e compagni schizzarono fuori dal magazzino.

I due ragazzi si sedettero dentro. Tommy tirò fuori dallo zainetto alcune lattine di Pepsi, pacchetti di patatine, noccioline e soprattutto ambrosia. 

Nei minuti successivi, mentre mangiavano, raccontò a Lisa di come lui, Edward e Stephanie avevano incontrato Kensuke, Nagata e Sato. Il modo in cui la ragazza reagì alle vicende che le narrò riassunsero alla perfezione come lui si era sentito assistendo a tutto quanto in prima persona. Preferì comunque sorvolare su quello che Shinjiro aveva fatto dopo che avevano sconfitto Milù. Dovevano ancora mettere una pezza su quella parte della storia. Il gatto mutaforma non l’avrebbe passata liscia, poco ma sicuro.

«Wow» disse Lisa quando finì di spiegarle tutto. «Mi sono persa un bello spettacolino, allora.»

«Già. A te e Konnor com’è andata, invece?»

Lisa sollevò le spalle. «Silenzio imbarazzato. Per tutto il tempo.»

Un sorrisetto scappò dalle labbra di Tommy. «Mi dispiace.»

Anche Lisa riuscì a sorridere. «Non è stato poi così male... tolte le parti in cui avrei voluto morire, quindi praticamente tutto il tempo.»

Il figlio di Ermes ridacchiò, imitato da lei. Se si fosse trovato in una situazione del genere con Lisa quel mattino, allora anche lui si sarebbe sentito in maniera simile, ma dopo aver scoperto di andarci d’accordo, l’idea non lo intimoriva più. Passarono diversi minuti, in cui lui rimase accasciato contro il muro in maniera non proprio elegante a divorarsi cibo spazzatura, finché un’altra domanda non gli fece drizzare la testa: «Di cosa sa l’ambrosia, per te?»

Thomas rimase colpito dalla questione. L’ambrosia aveva un sapore diverso per ciascun semidio, perché legato al suo ricordo più caro e, in certi casi, intimo. Non era sempre una domanda semplice a cui rispondere, quella, ma il figlio di Ermes decise comunque di sedersi in maniera più composta. «Per me sa di fragole. Le coltivavano i miei nonni, quando vivevo con loro fuori città, nel New Jersey.»

Lisa schiuse le labbra. Quella risposta sembrò folgorarla come una scarica. «Vivevi… con i tuoi nonni?»

Thomas non capì il perché della sua reazione, ma annuì. «Sì, però… ecco, vedi…» 

Spiegò sinteticamente la sua storia. Ermes gli aveva chiesto di sua madre poco prima, quindi tutto ciò che la donna gli aveva fatto era ancora piuttosto vivido nella sua mente. Tommy provò a non lasciar trasparire vene di irritazione dalla sua voce, ma sapeva di non poterci davvero riuscire. Sua madre l’aveva odiato e l’aveva fatto crescere dai suoi genitori, almeno fino a quando non lo avevano accolto nel Campo Mezzosangue. Ogni tanto, però, sentiva ancora i nonni. Erano l’unica famiglia mortale che gli era rimasta, dopotutto, e voleva bene tanto a loro quanto ai ragazzi della casa Undici.

«Oh…» mormorò Lisa, quando finì di parlarle. «Allora… lei sta bene. Tua madre, intendo.»

«Sì… cioè, credo di sì» specificò Thomas, sollevando le spalle. «Non lo so dov’è adesso. E non mi interessa.»

Una strana espressione marciò sul volto della ragazza. Tommy sospirò. Ecco, un’altra persona a cui aveva accollato la sua patetica infanzia. Anche se era stata lei a chiederglielo, non doveva certo sentirsi in colpa o dispiaciuta per lui. Non voleva che... s’impietosisse. 

«Per te, invece?» le domandò, per cambiare argomento. «Che sapore ha l’ambrosia?»

«Per me? Beh…» Lisa distese le gambe, sospirando mentre il suo sguardo si smarriva nel nulla. «Per me sa di gelato alla nocciola. Quando… quando ancora vivevo in Italia, c’era un posto, una gelateria, nella città vicina al paese dove abitavo. D’estate, quando aprivano, mia madre mi portava là tutte le volte che glielo chiedevo, e io prendevo sempre quel gusto. Era il mio preferito. E in nessun’altro posto ne ho trovato uno più buono. Quando mi sono trasferita qui… temevo che non avrei mai più potuto mangiarlo, ma sapere che l’ambrosia ha il suo stesso sapore mi ha resa molto felice, perché così ogni volta… ogni volta mi sembra di rivivere quei giorni. Mi sembra… di avere mia madre accanto.»

Thomas ascoltò quella storia con un sorriso. La nostalgia di Lisa fu quasi contagiosa. Anche lei, proprio come lui, ricordava con affetto i giorni in cui ancora non sapevano di essere semidei. Le case che avevano lasciato e le persone a cui avevano voluto bene. 

«Tua madre dov’è adesso?» chiese allora, senza pensarci troppo.

Lisa non disse nulla. Si limitò soltanto a rivolgergli un enigmatico sorriso mentre lo scrutava con gli occhi scuri. Quel lungo silenzio, unito all’espressione agrodolce della ragazza, iniziarono a turbarlo. Poi, lentamente, molto lentamente, Thomas iniziò a realizzare. Ripensò alle parole che Lisa aveva urlato in faccia a Dioniso la sera del Consiglio. E pensò anche a quando, per poco, non s’era messa a piangere mentre gli parlava dei figli di Mercurio. E per finire, a lei che si sentiva come se avesse la madre accanto ogni volta che sentiva il sapore del gelato alla nocciola. Quando la vide strofinarsi di nuovo una mano sopra le palpebre, capì di essere stato il più grande idiota della razza umana.

Si alzò in piedi. Ecco perché Lisa aveva avuto quella reazione quando le aveva detto di non vivere con sua madre. Avrebbe dovuto capirlo prima. «Lisa, scusami. Non… non avevo capito che…»

«Tommy» lo fermò lei, osservandolo di nuovo dal basso, con gli occhi lucidi. Le labbra le tremolarono, ma si fece forza ancora una volta. Un’ultima volta. «Promettimi una cosa. Ti va?»

«Certo, Lisa. Dimmi.»

«Quando… quando torneremo a New York e tutto sarà finito… promettimi che cercherai di nuovo tua madre. Fai… fai pace con lei. Trascorrete del tempo assieme. Fallo… fallo tu, che ancora puoi.»

Ancora una volta, i loro sguardi si incrociarono. Il resoconto di tutto quello che era successo passò di fronte agli occhi Thomas, mentre le iridi di Lisa, piene di dolore malgrado il loro colore caldo e rassicurante, esaminavano la sua esile figura.

Un passato di sofferenza, angoscia e solitudine li aveva accumunati, ma per Lisa era stato diverso. Lei non aveva più nessuno, nemmeno la madre. O meglio… non aveva avuto nessuno fino a quel giorno: il giorno in cui qualcuno, lui, le aveva mostrato di tenere a lei. E lui ora lo sapeva.

Per questo motivo avrebbe a tutti i costi onorato la richiesta di quella ragazza che aveva creduto di conoscere a malapena, e che invece nel giro di un giorno gli aveva dimostrato di essergli più simile di quanto potesse immaginare.

Si sedette accanto a lei e le posò una mano sul braccio. Il suo cuore batté all’impazzata, ma non gli diede peso. Per tutto il tempo, non staccò lo sguardo dalla ragazza. Avrebbe cercato Michelle. Avrebbero parlato, da adulti. Avrebbero chiarito. Loro, che ancora potevano farlo. E lo avrebbe fatto per Lisa. «Lo farò. Te lo prometto.»

Lisa non disse altro. Si strinse a lui, poggiando la testa sul suo petto, e si lasciò andare in un umido pianto, dal quale tutte quelle emozioni che aveva soppresso per chissà quanti anni cominciarono a riversarsi. Forse era per quello che aveva messo in mezzo il discorso sull’ambrosia. Forse… forse non era più in grado di tenersi dentro tutto quel dolore. 

Forse le era di nuovo servito un eroe. Il suo eroe. Tommy l’avvolse con le braccia, passandole le dita tra i capelli. Avrebbe voluto farle altre domande, ma sapeva che quello non era il momento. Accarezzò il corpo morbido e tremolante di Lisa, per infonderle coraggio. Furono di nuovo vicini, questa volta non solo fisicamente, ma anche emotivamente.

Soli, abbandonati, incompresi. Due reietti, due perdenti.

Due amici. Due semidei.

 

***

 

Lisa piombò nel sonno poco dopo il suo crollo emotivo, accusando la stanchezza e la spossatezza accumulate in quella dura giornata.

Tommy avvolse anche lei in una coperta, per proteggerla dall’aria fredda e dal pavimento sporco, e rimase a vegliare sui suoi amici. Preferì non addormentarsi di nuovo, anche se era esausto, nella speranza che Konnor si riprendesse, ma quando il cielo cominciò a scurirsi dal figlio di Ares non era giunto ancora alcun cenno.

Passò un po’ di tempo in compagnia di Kensuke, Nagata e Sato, ancora fuori dal magazzino. Per fortuna loro non potevano parlare. Non credeva che sarebbe riuscito ad intrattenere un’altra conversazione di senso compiuto con qualcuno, quella sera.

Nagata stava schiacciando un pisolino sotto ad un filare, in barba all’ordine di vegliare sul magazzino, mentre Sato e Kensuke facevano pratica con i loro artigli nuovi di zecca, che dovevano essere un regalo di Ermes. Thomas non sarebbe mai riuscito a smettere di meravigliarsi di fronte all’abilità delle kamaitachi. Approfittò anche del momento per andare a cercare il suo falcetto, che era rimasto conficcato nel terreno vicino alla zona di guerra di quel pomeriggio.

Alla fine, esausto pure lui e con la mente in subbuglio per tutto quello che era successo, tornò a sdraiarsi accanto a Lisa. Appoggiò la testa su un braccio e osservò l’espressione rilassata sul viso addormentato di lei. Piangere le aveva fatto bene, perché l’aveva aiutata a tirare fuori tutto quello che si era tenuta dentro. Scoprire la verità su sua madre era stato un duro colpo. Si domandò cosa le fosse successo, se fosse stata colpa dei mostri, o se invece fosse spirata per cause naturali. 

Sapere che i figli di Mercurio avessero calunniato la donna lo riempì ancora una volta di amarezza e anche rabbia. Avrebbe tanto voluto incontrare quei tizi e riempirli di sberle per quello che avevano fatto a Lisa. Beh, peggio per loro. Avevano trattato la ragazza come spazzatura, quando in realtà era sempre stata una gemma nascosta. La loro perdita era stato il guadagno del Campo Mezzosangue, dell’impresa e, soprattutto, di lui. Grazie a lei, aveva trovato il coraggio di affrontare Efialte. E grazie a lui, Lisa non si sentiva più sola.

Ora, finalmente poteva riposare consapevole di aver trovato qualcuno che l’accettasse. Finalmente anche lei aveva trovato una casa.

Furono delle grida a svegliarlo. Tommy si drizzò a sedere come un lampo, mentre delle urla spaventate dal timbro acuto provenivano da fuori il magazzino.

«C-Che succede?» mugugnò Lisa, rialzandosi sui gomiti. Fece un verso sorpreso quando si accorse di avere la coperta addosso. 

«Non lo so» rispose Thomas, mentre la ragazza si scostava dal suo giaciglio. Fuori era ancora notte. Forse qualche curioso che si era avvicinato troppo era finito tra le grinfie delle kamaitachi.

Si alzò in piedi, afferrando il falcetto, e si diresse verso l’uscita. Lisa lo seguì, i pugnali stretti in entrambe le mani. La scena che li attendeva all’esterno aveva del tragicomico.

«Ma che sta succedendo?» stava urlando una ragazza vestita di grigio, mentre un turbinio d’aria circondava lei e altre quattro giovani abbigliate in maniera simile.

«Restate unite!» ordinò un’altra, con stretto tra le mani un gladio romano d’Oro Imperiale, una lunga coda di capelli scuri che si dimenava attorno a lei all’impazzata per via della forte corrente.

Tommy non riuscì a crederci. Quelle… quelle erano cacciatrici di Artemide! Realizzando cosa stesse accadendo, cominciò a sbracciarsi come un disperato, per scongiurare una possibile catastrofe. «Kensuke, no!»

Le cinque ragazze sembrarono accorgersi di lui solo in quel momento. L’aria smise di vorticare e le tre kamaitachi apparvero ai loro piedi. Grazie agli dei avevano deciso di non estrarre gli artigli e limitarsi solo a rallentare le loro ospiti. Kensuke cominciò a squittire indignato e a indicare le armi che le fanciulle bracciavano, mentre loro osservavano esterrefatte i tre animaletti.

«No» lo ammonì Tommy, puntandogli contro l’indice. «Non sono nemici.»

«REEEEEET» protestò Kensuke.

«Ho detto di no!»

La donnola lasciò scivolare le zampe lungo i fianchi, poi roteò gli occhi, squittendo delusa. «Skreeet» Nagata e Sato gli diedero qualche pacca di consolazione, per qualsiasi motivo. Forse erano tristi di non essere riusciti ad affettare qualche umano.

«Ma… ma che cosa…» sussurrò la cacciatrice con la coda, osservando ora le kamaitachi, ora Thomas.

Il ragazzo avvampò. «Ehm…» 

«Io… io ti conosco» affermò Lisa, passando accanto a Tommy prima che lui potesse parlare. Sembrava intimidita e affascinata al tempo stesso da quella cacciatrice armata di gladio. «Tu… tu sei…»

«Ehi…» Un rantolio proveniente dal magazzino fece sussultare tutti loro. 

Quando Tommy si voltò, gli sembrò che un altro peso di un milione di chili gli fosse stato tolto dalle spalle. 

Konnor se ne stava appoggiato contro il bordo della porta, cupo in volto, la spada nera chiusa nella mano.

«Allora…» biascicò, per poi drizzare lo sguardo. «… che mi sono perso?»

 

 

 

 

 

 

 

Salve lettori. Mi spiace dovervi trattenere ancora dopo questo mega maxi capitolo, ma ci tengo a dire alcune cose. 

Per primo, spero che la lunghezza del capitolo non sia stata un problema. Avrei potuto dividerlo in due (anche in tre, quattro...) parti, ma mi sembrava giusto lasciarlo tutto assieme. L'arco narrativo di Thomas è giunto al suo picco. Questo è praticamente il capolinea della storia di Tommy. Nel senso che la sua battaglia interiore ormai è conclusa, ha capito cos'è davvero importante e ha capito che, nel suo piccolo, anche lui può fare la differenza. Ci saranno ancora capitoli con il suo pov, sempre seguendo la formula 2/2/2 (quando possibile, perlomeno), però il grosso della sua storia si è concluso qui, insomma. Ora tocca solo più sopravvivere e tornare a New York.

Possiamo anche dire che pure il piccolo arco che riguardava Lisa si è chiuso. La parte finale forse è stata un po' improvvisa, lo ammetto, ma come ho detto, non mi andava di dividere il capitolo in due. Sappiamo perché Lisa ha provato tanta rabbia e tanto dolore e ora che le cacciatrici hanno raggiunto questi tre, potranno ricongiungersi con Stephanie e, se tutto va bene, magari raggiungere Edward prima che lui faccia qualche casino. 

Questo è in assoluto uno dei miei capitoli preferiti di sempre, di tutte le storie che ho scritto. C'era tanto in ballo, tante questioni, diversi personaggi, intrecci e quant'altro e sono molto soddisfatto del risultato (il che è una rarità). Mi piacerebbe, ovviamente, sentire il vostro parere amici miei. 

E a tal proposito, voglio ringraziare Farkas per il continuo supporto e per le sue opinioni sempre molto oneste e dirette. Un po' mi spiace sapere di non essere riuscito a coinvolgere molta gente con la mia storia. Apprezzo anche molto chi ha messo il mio lavoro tra le storie seguite/preferite/ricordate, ma le recensioni sono, almeno per me, ciò che conta davvero, perché sono quelle che mi permettono di capire dove ho fatto bene e dove ho fatto male, se si può migliorare oppure no. Alla fine, noi autori scriviamo per noi stessi, ma sapere di essere riusciti a coinvolgere altre persone, averle fatte ridere, riflettere, commuovere, o comunque intrattenute, è sempre un grande traguardo (o almeno, lo è per me). 

Quindi, grazie Farkas per le recensioni. In ogni caso, il mio lavoro non finisce certo qui. Nel prossimo capitolo si tornerà a Steph e vedremo di fare luce su un altro paio di aspetti rimasti in sospeso. Non voglio fare grosse anticipazioni, ma ci stiamo lentamente avvicinando alle fasi finali della storia, ma immagino si fosse capito da come tutti i personaggi stanno iniziando ad entrare nel cuore dei loro problemi. 

Ah e poi sono tornate le kamaitachi perché io le adoro e volevo farle tornare. Comunque sì, sono tre fratelli, e sì, Nagata ha ripassato Kensuke perché lui l'ha stuzzicato cercando di impressionare Lisa. Kensuke è il capo, ma Nagata non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, mentre Sato è il più mansueto. 

Grazie per aver letto e alla prossima!

p.s. Gli eventi di questo capitolo si svolgono nel pomeriggio dopo la sconfitta di Oto per mano di Steph, mentre lei ed Edward sono ancora sotto l'effetto dei narcotizzanti delle cacciatrici, per l'esattezza. La squadra che incontra Thomas è quella mandata da Talia, capitanata dalla vice, che sarebbe la ragazza con la coda lunga (alcuni avranno già capito chi è costei) e l'incontro avviene, appunto, di notte, poco prima che Edward abbandoni l'accampamento delle cacciatrici. Spero sia tutto chiaro. In caso di domande, io sono sempre qui.

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Capitolo 27
*** Di nuovo insieme ***


27

Di nuovo insieme
  
  

Stephanie stava facendo un sogno stupendo. Aveva otto anni ed era seduta a tavola assieme a suo padre, nella loro modesta casa nel Kansas. L’aria era impregnata del dolce odore di torta di mele appena sfornata e il sole filtrava pigramente tra le tende tirate. 

Stavano catalogando assieme alcune specie di fiori e piante che l’indomani suo padre avrebbe dovuto piantare per lavoro, un passatempo che per molti bambini sarebbe potuto sembrare noioso, ma che Steph, invece, adorava. Adorava conoscere tutti quegli esemplari e adorava lo sguardo orgoglioso che Eric le rivolgeva tutte le volte che indovinava il nome giusto, ossia sempre. Era un uomo semplice, suo padre. Non aveva mai preteso nulla da lei e Stephanie era certa che lui le avrebbe voluto bene in ogni caso, ma rimanergli accanto e mostrare tanto interesse per quella professione ormai considerata di nicchia per lui era la più grande gioia del mondo.  

Ogni volta che i suoi due più grandi amori della vita, sua figlia Stephanie e il giardinaggio, si univano, il fragile cuore di Eric sembrava non riuscire più a reggere il ritmo. Col senno di poi, la semidea non faticava affatto a capire perché Demetra si fosse infatuata di lui. Non aveva mai visto sua madre di persona, sapeva che era una dea piuttosto riservata, ma riusciva ad immaginarsela mentre si lasciava affascinare dall’enorme sapere di suo padre in fatto di fiori.

Le sarebbe piaciuto vivere per sempre in quel modo, come una ragazza normale e non come una semidea. Con suo padre, il loro cane Aster, un pastore tedesco grande grosso e giuggiolone, la loro casa e il loro giardinaggio. 

Purtroppo, Stephanie si svegliò. La dura realtà si manifestò di fronte ai suoi occhi come un muro di cemento contro il quale andò rovinosamente a sbattere. E fu così che venne strappata dal dolce mondo dei sogni e catapultata di nuovo nel mondo vero, con il quale non voleva più avere nulla a che fare.

Si accorse di trovarsi dentro una tenda, chiusa in un sacco a pelo. Realizzò di essere senza le lenti a contatto, per qualsiasi motivo, mentre i suoi capelli neri sciolti le ricadevano sulle spalle in maniera disordinata. Si sentiva da schifo e non solo perché era stata costretta a separarsi dal caldo e accogliente sogno di poco prima. La testa le pulsava e sentiva gambe e braccia intorpiditi, come se avesse dormito per quasi un giorno intero. E a tal proposito, non ricordava affatto di essere andata a dormire. Ben che meno di averlo fatto in una tenda.

Ciò che ricordava era un insieme di immagini orribili, che avrebbe di gran lunga preferito scordare. I grifoni, la manticora, Fujinami, Oto… ed Edward.

Stephanie represse un gemito spaventato all’idea di ciò che aveva fatto e si tirò fuori a fatica dal sacco a pelo. Non sapeva dove di trovava, né come ci fosse arrivata. Avrebbe perfino potuto essere in territorio ostile. Prima di lasciarsi sopraffare dall’angoscia per quello che era successo quel giorno, doveva riorganizzarsi, uscire da lì, scoprire dove l’avevano portata e soprattutto chi ce l’avesse portata.

Con sorpresa, trovò la custodia dei suoi occhiali accanto al suo giaciglio. Il pensiero che quello fosse un territorio ostile cominciò a diluirsi. Difficile che chiunque l’avesse portata lì avesse avuto la premura di rimuoverle le lenti a contatto e lasciarle anche gli occhiali a portata di mano. Sicuramente era qualcuno che conosceva i suoi problemi di vista. Forse… forse era stato proprio Edward. Rincuorata da quel pensiero, afferrò gli occhiali e li mise sopra il naso. Un sospiro soddisfatto sfuggì dalle sue labbra quando il mondo riapparve di nuovo nitido di fronte a lei. In quei giorni si era abituata a portare le lenti, perciò indossare di nuovo gli occhiali fu piuttosto fastidioso, ma se non altro riusciva a vedere di nuovo bene.

La sua felpa sporca di terra era posata sulla stessa stuoia su cui aveva trovato gli occhiali, assieme allo zainetto che aveva comprato durante il viaggio. Tutto quanto era stato tenuto in buone condizioni. Afferrò tutti i suoi averi e, a causa del corpo ancora rigido e dolorante, si trascinò a fatica fuori dalla tenda.

La soffusa luce del sole la costrinse ad assottigliare le palpebre, mentre esaminava con lo sguardo quello che aveva tutta l’aria di essere un accampamento formato da una decina di tende simili alla sua.

Un gruppetto di ragazze assiepate attorno alle braci di un falò spento stava parlando fittamente. Non sembrarono fare caso a lei. Non appena le vide, a Stephanie sfuggì un verso sorpreso. Cacciatrici di Artemide. Dunque erano state loro a occuparsi di lei. Dovevano essere arrivate mentre lei ed Edward stavano combattendo. Ora che ci pensava, ricordava una specie di puntura al collo, prima che tutto diventasse buio. Forse avevano usato i loro dardi per acquietarla.

Grazie agli dei.

Quando la udirono, quelle si voltarono verso di lei. Stephanie avrebbe voluto parlare, ma non riuscì a dire nulla. Una di loro disse qualcosa alle altre, che si allontanarono, e poi le si avvicinò. Era Talia.

«Stephanie» cominciò. Sembrava piuttosto tesa. «Per fortuna ti sei svegliata. Ci stavamo preoccupando.»

La figlia di Demetra aveva già conosciuto Talia quando era venuta a trovarli al Campo Mezzosangue un paio di anni prima. La luogotenente aveva discusso con parecchie semidee, cercando potenziali nuove reclute, e Stephanie era finita nell’elenco. La figlia di Demetra tuttavia aveva denegato l’offerta di unirsi alla caccia; la prospettiva di un’intera vita passata a combattere, senza nemmeno potersi innamorare, non l’aveva per niente allettata. Non era una molto sentimentale, ma credeva che prima o poi tutti quanti avrebbero dovuto sistemarsi, in qualche modo. E poi odiava combattere.

Rivedere la figlia di Zeus fu piuttosto sconvolgente, in senso buono. Ammirava molto quella ragazza, come buona parte dei semidei del resto. Sapere che anche lei era lì le infuse un profondo senso di sicurezza. Si massaggiò dietro il collo, imbarazzata. Non sapeva quanto avesse dormito, ma a giudicare dalle parole della cacciatrice, non sembrava poco. «Tranquilla, sto… sto bene. Ehm… cos’è successo?»

«Speravo che tu lo dicessi a noi, a dire la verità.»

«È… una storia lunga. Diciamo che…»

Il suo sguardo cadde inevitabilmente sul bosco distrutto tutt’attorno a loro. E a quel punto sentì di nuovo il cuore stretto in una morsa. Passò accanto a Talia, dimenticandosi di lei, mentre con l’animo pieno di rammarico osservava tutta la morte che era stata disseminata in quel luogo. Gli alberi mozzati, la terra squarciata, le piante sradicate. Stephanie si concentrò e sentì il dolore ancora forte e nitido che la natura in quel momento stava provando, così forte da farle scendere una lacrima.

Strinse i pugni per la rabbia. Tutto quello non sarebbe dovuto succedere. Aveva combattuto con tutta sé stessa per difendere quella zona immacolata, ma non era servito a niente. Fujinami era stato ferito, forse perfino ucciso, e poi aveva permesso che quel bosco venisse distrutto. Si osservò le mani e mai come in quel momento provò un simile odio verso sé stessa, verso i suoi poteri e perfino verso Persefone. Sua sorella per tutto il tempo non aveva fatto altro che mettere zizzania tra lei ed Edward, portandola a combattere contro di lui mentre era alimentata dalla forza della natura. E morte e sofferenza erano stati il risultato.

«Stephanie» mormorò Talia alle sue spalle, comprensiva. “Anziana” ed esperta com’era, sicuramente aveva intuito come quella vista avesse ferito la figlia di Demetra. «Va tutto bene?»

Stephanie non rispose. Espirò a fondo e si inginocchiò a terra, poggiando entrambi i palmi sul suolo morbido. Strinse i denti e lasciò che la sua energia si liberasse nel terreno. Il suo corpo ancora stanco e martoriato sussultò per lo sforzo, ma non gli permise di cedere. Doveva porre rimedio ai suoi errori, fare qualcosa di giusto, almeno per una volta.

La terra tremolò. Alcune cacciatrici fecero dei versi sorpresi mentre la vegetazione incominciava lentamente a ricostruirsi ovunque fosse stata distrutta. L’erba ricrebbe, così come i cespugli, e alcuni rampicanti spuntarono dal terreno per raccogliere i tronchi degli alberi abbattuti. Ettaro dopo ettaro, con l’aiuto dei suoi poteri, riparò tutti i danni che lei ed Edward avevano causato. Piantò gli alberi che ancora avevano radici a terra, restituendo loro la vita, mentre ricostruì quelli che erano stati mozzati a metà, ricongiungendo i tronchi ancora piantati a terra con le loro metà mancanti.

Fiori cominciarono a sbocciare, foglie che erano cadute ricrebbero rigogliose, di color verde nitido, i ginepri generarono i loro frutti, le sequoie si riersero in tutta la loro imponente statura. I danni che avevano generato erano molti di più e molto più gravi di quanto avesse potuto immaginare. Stephanie sentì la testa pulsare per la fatica e un rivolo di sangue caldo scivolò dal suo naso, ma si sforzò di proseguire. Quella era la casa di molte creature indifese che non avevano fatto niente di male, non era giusto che per colpa della sua inettitudine si ritrovassero senza un tetto. Aveva deciso di restituire a quel luogo ciò che gli aveva portato via e lo avrebbe fatto, a costo di svenire di nuovo.

Dopo diversi minuti, pesanti come ore, quel piccolo agglomerato di terra ritornò agli albori in cui lo avevano trovato quando vi si erano avventurati. Anzi, era perfino più bello. Fiori che prima non esistevano erano sbocciati, trasformando la terra su cui camminavano in un variopinto mosaico. Non solo aveva restituito la vita a quel luogo, l’aveva perfino migliorata.

Con la fronte madida di sudore e il corpo che tremava, Stephanie accarezzò un giglio multicolore che aveva fatto sbocciare accanto a lei. Sorrise soddisfatta del suo operato. Il mondo non meritava tutte le angherie che aveva ricevuto nel corso dei secoli. L’ultima cosa che voleva, era esserne in parte responsabile. Ovunque avrebbe potuto fare qualcosa per risanare tutto il male che era stato arrecato a ciò che, in fin dei conti, era anche la loro casa, allora l’avrebbe fatto. I suoi poteri non esistevano solo per mandarla in berserk tutte le volte che doveva eliminare un mostro troppo potente; poteva anche fare del bene con essi.

Le cacciatrici osservarono ammaliate i cambiamenti apportati al loro accampamento, che ormai non sembrava nemmeno più essere stato messo in piedi nello stesso posto di prima.

«Wow…» mormorò Talia, stupefatta. Vedere le loro reazioni fece allargare il sorriso sul volto di Stephanie. Aveva commesso uno sbaglio, anzi, molti sbagli, ma era felice di essere riuscita a porvi rimedio.

Si asciugò il sangue dal naso e cercò di rialzarsi, ma il corpo cedette per la fatica. Le scappò un gemito e per poco non crollò a terra. 

«Aspetta» le disse Talia, chinandosi accanto a lei. Si mise un braccio attorno alle spalle e la aiutò a rimettersi in piedi. Stephanie si sentiva come se avesse le gambe fatte di gelatina. Per fortuna Talia era abbastanza forte da sorreggerla quasi totalmente da sola.

«Incredibile» commentò, gli occhi blu che guizzavano su quel quadro che Stephanie era riuscita a creare. Le rivolse un sorriso, che sembrò stemperare la tensione di poco prima. «Davvero non vuoi essere una cacciatrice? Ci farebbe comodo qualcuno come te.»

«Mi… mi spiace…» replicò lei, cercando di sorriderle, anche se perfino quel piccolo gesto le costò enorme fatica. «Non fa per me…» Avrebbe voluto anche dirle che al momento si trovava leggerissimamente ficcata fino al collo dentro un triangolo amoroso, o una cosa del genere, però preferì sorvolare.

Talia scrollò le spalle, come se già si fosse aspettata quella risposta. «Se cambi idea sai dove trovarci.»

«Ben fatto, giovane semidea.»

«C-Chi ha parlato?!» esclamò Talia, guardandosi attorno allarmata. Le altre cacciatrici si avvicinarono a loro. Alcune sollevarono le armi, altre invece le osservarono confuse. Stephanie, invece, non poteva credere alle sue orecchie. O meglio, alla sua mente.

Da dietro un cespuglio sbucò fuori con passo felpato un animale coperto di squame blu. Un sorriso enorme prese vita sul viso di Steph. «Fujinami!»

Si separò da Talia e barcollò verso di lui, gettandogli le braccia attorno al collo. «Stai bene!» esclamò, stupidamente. 

La tenue risata di Fujinami risuonò nella sua mente. «Sì, sto bene. Mi rincuora sapere che per te è lo stesso.»

Quando la ragazza lo lasciò, si accorse che non sembrava affatto ferito. Perfino l’orribile taglio sul suo fianco era svanito. «Come hai fatto a salvarti?»

«Grazie a loro.» Fujinami indietreggiò e rivolse un cenno del capo al cespuglio, dal quale alcuni kodama marciarono timidamente fuori. Altri versi sorpresi nacquero tra le cacciatrici. «Mi hanno visto ferito e mi hanno soccorso. Hanno estratto la lancia e mi hanno aiutato ad allontanarmi per curare le mie ferite. Posso guarire in fretta, ma non sono immortale. Se non fosse stato per loro, sarei perito.»

Il sorriso di Stephanie crebbe. Chi l’avrebbe mai detto che quei piccoletti potessero nascondere tanto coraggio. Si accovacciò di fronte a loro. I kodama indietreggiarono, ma Stephanie assunse un’espressione confortevole. «Vi ringrazio per aver aiutato il mio amico. Siete dei piccoli eroi.»

Tese una mano verso di loro, ma quelli piegarono la testa. Sembravano confusi… davvero confusi, non solo per via delle loro espressioni statiche.

«La mia amica vi è grata per avermi soccorso» disse Fujinami e a quel punto i kodama saltarono sull’attenti. Tutti assieme si chinarono di fronte alla figlia di Demetra, in un gesto che sembrava quasi coreografato. A Stephanie scappò una risatina. Quei piccoli spiriti degli alberi erano adorabili. Ricambiò l’inchino, poi si rialzò in piedi.

«Pensavo che mi avrebbero capito» disse. Si rivolse a Fujinami. «Non parliamo forse la stessa lingua?»

Fujinami scosse la testa. «Chi può sentirmi è in grado di comprendere ciò che dico a prescindere dalla lingua che conosce. Io non parlo né la tua lingua, né quella dei kodama. Io parlo ai vostri cuori.»

Stephanie annuì. Quello sì che sembrava un bel modo per comunicare. Si rese conto poi della piccola folla che si era radunata attorno a loro. Le cacciatrici osservavano lei e Fujinami come in trance.

«Ma… ma parla…» bisbigliò una di loro.

«E quelli cosa sono?» domandò un’altra, stringendo una lancia mentre osservava nervosamente i kodama.

Stephanie sollevò le mani, frapponendosi tra loro e le creature orientali. «State tranquille. Non sono malvagi. Lui è Fujinami, è un qilin, e sì, può parlare, ma solo chi è puro di cuore può sentirlo.»

Le fanciulle vestite di grigio si scambiarono alcuni sguardi. Alcune sembrarono non credere alle parole di Steph, mentre altre sembrarono più che altro sorprese. Fu strano per lei vedere che non tutte potevano sentire Fujinami. Credeva che le Cacciatrici di Artemide fossero tutte pure di cuore di default. Sicuramente Talia lo era, a giudicare da come aveva reagito poco prima.

«Loro invece sono dei kodama» proseguì, indicando le creaturine. «Sono spiriti degli alberi.»

«Come… le driadi?»

«Sì, come le driadi» borbottò Steph. Non seppe perché, ma ebbe l’impressione che quella non fosse la prima volta che qualcuno faceva una domanda del genere.

Talia fece un passo avanti, la sua attenzione unicamente focalizzata su Fujinami. «Quindi sei tu Fujinami. Edward mi ha parlato di te. Pensava che fossi morto.»

«Dov’è lui adesso?» chiese Fujinami. 

Anche a Steph sarebbe piaciuto saperlo. Doveva parlare con lui. Voleva scusarsi per quello che aveva fatto. E poi… poi non sapeva nemmeno che altro avrebbe voluto fare. Si era ripromessa di mantenere la calma, e invece si era lasciata andare come una stupida e per poco non avevano commesso un errore irreparabile. Oltre che quel bosco, anche lei ed Edward avevano rischiato la vita. Una parte di lei le stava ordinando di non usare mai più quei poteri maledetti.

«Ecco… era qui, ieri sera» rispose Talia nel frattempo, esitando. «Questa mattina non c’era, però. E non c’è nemmeno la divina Artemide. Forse stanno di nuovo discutendo da qualche parte.»

«Che… che cosa?» domandò Stephanie, credendo di aver sentito male. Non fu la parte in cui Talia le aveva detto che Edward era sparito a sconvolgerla maggiormente, né il fatto che anche Artemide fosse stata nominata. Ciò che la scosse di più fu sapere quando tempo fosse trascorso. «Ma… ma quanto ho dormito?!»

Le cacciatrici si guardarono tra di loro, scambiandosi alcune occhiate che a Steph non piacquero per nulla. «Un bel po’» concluse Talia, quasi con tono imbarazzato.

La figlia di Demetra boccheggiò. Un miliardo di domande presero vita nella sua testa. Voleva aggiungere altro, chiedere cosa fosse successo nel frattempo, ma un’altra voce chiamò la luogotenente. «Talia!»

I presenti si voltarono. Un gruppetto di persone entrò nell’accampamento proprio in quel momento, capitanato da una cacciatrice con i capelli neri racchiusi in una coda. 

«Li avete trovati. Ottimo lavoro, Reyna» si complimentò Talia.

Udendo quel nome, Steph dischiuse le labbra. La cacciatrice con la coda nel frattempo sorrise. «Avevi forse dei dubbi?»

«Non saprei. Ultimamente mi sembravi un po’ rammollita.» 

«Ma davvero? Devo forse ricordarti il giorno in cui ci siamo incontrate per la prima volta, quando ti sei ritrovata con un coltello alla gola?»

«Quello è successo tanto tempo fa, Arellano. Ti assicuro che se ci riprovassi ora le cose andrebbero molto diversamente.»

«Vuoi mettermi alla prova, Grace?»

«A-Aspetta…» mormorò Stephanie, interrompendo il loro piccolo battibecco. «Tu sei… Reyna? Quella Reyna? Ramirez-Arellano? L’ex pretore romano? Quella che ha riconsegnato l’Athena Parthenos?»

«“Reyna” era più sufficiente» commentò lei, ridacchiando. «Comunque sì, sono proprio io. Lieta di conoscerti.» Le tese una mano e Steph la strinse come in trance. Due autentiche leggende si trovavano di fronte a lei in quel momento, una del Campo Mezzosangue, l’altra del Campo Giove. Non poteva crederci. E soprattutto non aveva idea che anche Reyna fosse diventata una cacciatrice. Doveva essere successo dopo la guerra contro Gea.

Lo sguardo di Reyna cadde su Fujinami e anche lei ebbe la stessa reazione sbigottita che avevano avuto le sue compagne. «Talia? Che cos’è questa creatura?»

La figlia di Zeus ridacchiò. «Ci sono un po’ di cose che devi sapere.»

«Solo un po’?»

«Steph!» esclamò qualcuno con voce entusiasta. 

Stephanie distolse lo sguardo da Reyna, accorgendosi del resto del gruppetto appena arrivato. C’erano altre quattro cacciatrici e…

Rimase a bocca aperta. Tutto quello non le sembrò reale. Ma non appena incrociò lo sguardo di Thomas e quello le sorrise a trentadue denti, realizzò che invece era reale come non mai.

«Tommy!» esclamò, incredula, mentre l’amico si staccava dal resto del gruppo per correrle incontro.

La stritolò in un abbraccio, stringendola con molta più forza di quanto lei lo credesse capace. Ricambiò la stretta ridacchiando, mentre Konnor e Lisa li raggiungevano. Com’era felice di vedere che stavano bene. Non poteva negare di aver temuto il peggio, quando erano stati separati in quel modo terribile. Capire di essersi sbagliata fu il sollievo più grande che poté provare. Il suo sguardo cadde su Konnor e non appena incrociò i suoi occhi chiari, la ragazza sentì lo stomaco sussultare. Rivederlo dopo tutto quello che era successo tra lei ed Edward le provocò una strana sensazione di sollievo.

«Sapevo che ve la sareste cavata, lo sapevo!» esultò Thomas distogliendola dai suoi pensieri, staccandosi da lei con l’energia di un tornado. 

Non l’aveva mai visto così attivo, nemmeno al Campo Mezzosangue. Fu difficile per lei rimanere impassibile alla sua euforia. Un’altra tenue risata le sfuggì dalla gola, mentre faceva vagare lo sguardo su tutti loro. Anche se i loro aspetti erano un po’ trasandati e vissuti, come le labbra erose di Lisa, sembravano tutti stare bene.

«Sì, è… ahm… bello rivederti» mormorò proprio la figlia di Bacco, offrendole anche lei una stretta di mano. Sembrava piuttosto imbarazzata, nonostante le stesse porgendo solo la mano. 

Stephanie sorrise. Malgrado il suo comportamento un po’ scostante, era felice di rivedere sana e salva l’altra ragazza. Le scostò la mano e l’abbracciò, strappandole un verso sorpreso. All’inizio la sentì irrigidirsi, ma dopo qualche istante sembrò riuscire a mettersi a proprio agio. Steph le diede qualche pacca sulla schiena, mentre anche lei ricambiava un po’ goffamente l’abbraccio.

«Anch’io sono felice di rivederti» disse quando si separarono. 

Leggermente rossa in volto, Lisa annuì e distolse lo sguardo da lei come se avesse visto Medusa in persona. Stephanie trattenne una risatina. Aveva inavvertitamente appena scoperto il punto debole di Lisa: un po’ di care e sane effusioni.

«Per fortuna siamo di nuovo tutti assieme» concluse, osservando di nuovo tutti e tre i suoi amici. Tommy incrociò le braccia e distese il suo sorrisetto. Lisa si avvicinò a lui, abbozzando un sorriso a sua volta. Vederli così vicini lasciò Stephanie leggermente confusa. Entrambi si stavano comportando in maniera piuttosto insolita, ora che ci rifletteva meglio.

L’unico che invece non mutò di una virgola fu Konnor, che si fece avanti guardandosi attorno come un segugio che aveva fiutato qualcosa. La felicità dovuta all’essersi tutti riuniti non sembrò affatto contagiarlo, anzi, sembrava tutto fuorché entusiasta. 

«Non ci siamo proprio tutti. Dov’è Edward?» chiese, con tono duro. Stephanie corrucciò la fronte. Comprese il perché della domanda, ma non riuscì affatto a comprendere l’astio nella sua voce. Perfino Thomas e Lisa lanciarono una strana occhiata al loro compagno.

«Non… non lo sappiamo» mormorò Stephanie, osservando Talia, che nel frattempo si era messa a parlottare con Reyna. «Forse è con Artemide.»

Konnor scrutò severo la figlia di Zeus. «Allora?» interrogò brusco.

Alcune cacciatrici non sembrarono gradire il suo comportamento, ma lui le ignorò bellamente. Non sembrava per niente intimidito da loro, o dal fatto che non si sarebbero fatte alcuno scrupolo a fare un ragazzo a fettine. Dal canto suo, Talia sollevò le spalle. «O magari doveva sbrigare qualche bisogno. Che ne so. Sono certa che tornerà presto.»

Lo disse con indifferenza, ma a Steph parve di captare alcune vene di tensione nella sua voce. Le labbra di Konnor si stirarono, lasciando fuoriuscire un mugugno per nulla convinto, ma non disse altro. Le cacciatrici gli lanciarono diversi sguardi omicidi e Stephanie si affrettò ad intromettersi prima che l’umore generale venisse guastato del tutto: «Ma che è successo? Insomma, dopo che il treno è deragliato… credevo che non ci saremmo più rivisti. Dove siete stati?»

Thomas passò una mano tra i capelli, chiudendo le palpebre con un altro sorrisetto. «Ecco… è… una storia lunga. Forse sarà meglio se…» Si interruppe, quando si accorse di Fujinami. Spalancò la bocca in maniera disumana. Stephanie non poté biasimarlo per quella reazione, la sua era stata molto simile, del resto. Si voltò verso il qilin pronta per fare le dovute presentazioni, ma non appena lo fece rimase esterrefatta tanto quanto il suo amico.

Tre animaletti si erano piazzati di fronte a Fujinami, ringhiando e soffiando, con il pelo irto e gli artigli spianati verso di lui. D’altro canto, anche il qilin stava emettendo uno strano mugugno gutturale. Era chino sulle zampe anteriori, con i kodama nascosti dietro quelle posteriori, pronto a scattare all’attacco al primo passo falso delle tre donnole.

«Kensuke, fermo!» esclamò Thomas, tendendo una mano verso di loro.

«K-Kensuke?» domandò Steph, per poi essere colta da un’illuminazione. Quelle erano le kamaitachi che avevano incontrato a Kansas City! 

«Fujinami, aspetta!» fece eco, parandosi di fronte al qilin. Si voltò di nuovo verso le tre donnole, sempre più incredula. Quella bianca dovette riconoscerla, perché non appena la vide squittì di gioia e le rivolse un piccolo inchino.

«Quelle sono delle kamaitachi!» affermò Fujinami, pestando gli zoccoli a terra. «Sono esseri infidi e spregevoli!»

Kensuke emise un verso stridulo e il qilin scalpitò nuovamente. «Che cos’hai detto?! Come osi, vile creatura?!»

«Ehi, ehi, ehi» si intromise Thomas, sollevando entrambe le mani mentre si piazzava di fronte alle donnole. «Steph, che cos’è quello?»

«"Quello"?! Io sono un qilin!»

«Si chiama Fujinami, anche lui è una creatura giapponese» spiegò Stephanie, cercando di rimanere seria nonostante il tono inviperito del qilin. Era sempre stato così calmo e regale che vederlo sbottare in quel modo era quasi comico. «State tranquilli, è dalla nostra parte. Voleva aiutarci a restituire Ama no Murakumo. E anche loro sono dalla nostra parte» disse a Fujinami, accennando alle kamaitachi. «Ci hanno salvati da una kitsune, qualche giorno fa. Sono… nostre amiche.»

«Amiche?! Loro?! Quelle uccidono per divertimento! Sono spietate!»

Kensuke squittì nuovamente, voltandosi verso i suoi due compagni e gesticolando con le zampe. Gli altri due, Nagata e Sato, se non ricordava male, emisero dei versi che sembrarono delle risate. A giudicare dalla reazione infastidita di Fujinami, parve proprio che si stesse ancora prendendo gioco di lui.

«Ehi, Kensuke.» Thomas lo osservò severo, come poche volte lei lo aveva visto. «Dacci un taglio, ok? Smettila di… di farti riconoscere ogni volta. Se Steph dice che lui è nostro amico, allora io le credo.»

La donnola bianca squadrò Tommy dal basso per qualche istante, mentre le altre due si ammansivano. Thomas incrociò le braccia, senza mostrare alcun timore. Alla fine, Kensuke cedette alla contesa di sguardi e si voltò da un’altra parte squittendo di nuovo, anche se questa volta parve deluso. Il figlio di Ermes sorrise soddisfatto. «Visto? Anche tu puoi essere gentile, se lo vuoi.»

«Tommy» lo chiamò Stephanie, non riuscendo più ad accettare quell’assurdo teatrino. Anche se le fu impossibile non notare la sua sicurezza nel tono e nel comportamento. «Mi spieghi cosa diamine è successo? Da dove saltano fuori le kamaitachi?»

Thomas si grattò dietro al collo, con fare imbarazzato. «Ehm… beh, l’avevo detto che è una storia lunga.»

 

***

 

Nei minuti successivi, Thomas raccontò quello che era successo a lui, Lisa e Konnor. Si sedettero attorno al fuoco spento, in compagnia delle creature orientali. Fujinami si sdraiò dietro di Stephanie per vegliare su di loro, mentre le tre kamaitachi si accomodarono ciascuna con un diverso semidio. Nagata rimase sulle spalle di Konnor, Sato sulle gambe di Lisa e Kensuke accanto a Tommy. Nonostante li avesse rassicurati riguardo a lui, i suoi tre amici e le kamaitachi sembrarono continuare a provare una sorta di timore riverenziale nei confronti del qilin e Fujinami, dal canto suo, continuò a squadrare severo tutti loro.

Talia e Reyna rimase in disparte a discutere fittamente, mentre le altre cacciatrici andavano e venivano per l’accampamento, mosse da un’urgenza che lasciò Stephanie perplessa. Non riusciva a capire il perché di tanta agitazione. Si augurò che non riguardasse proprio Edward, ma aveva un terribile presentimento. Perfino Konnor sembrava della sua stessa idea, perché prestò più attenzione alle ragazze che alle parole di Tommy.

Non appena Efialte venne menzionato, però, l’attenzione di Steph ritornò su Thomas. «C-Che cosa? Voi… avete incontrato Efialte?»

«Già» rispose lui, annuendo, per poi sorriderle rassicurante. «Non preoccuparti. Lo abbiamo rispedito dritto nel Tartaro. Non credo che lo rivedremo tanto presto.»

Stephanie schiuse le labbra, osservando istintivamente Konnor. Per sua enorme sorpresa, il figlio di Ares le sorrise. «Non guardare me, Steph. Hanno fatto tutto loro due.» 

Lisa e Tommy si scambiarono uno sguardo, sorridendosi. A giudicare dalle loro espressioni determinate, quella era la verità. Stephanie faticò a crederci e un po’ si sentì in colpa per questo. Forse poteva chiudere un occhio riguardo a Lisa, perché non la conosceva tanto bene, ma il Thomas che aveva conosciuto al Campo Mezzosangue non le era certo mai sembrato il tipo da combattere contro un gigante. Tuttavia, ripensò al comportamento di Tommy di poco prima. Era sembrato più deciso, sicuro di sé. Sempre prendendo il Thomas che lei credeva di conoscere come punto di riferimento, si sarebbe aspettata una sua reazione intimidita alla vista di Fujinami, o anche che si sentisse a disagio in presenza delle cacciatrici, e invece non aveva battuto ciglio per nessuna delle due cose.

Poi la figlia di Demetra capì. Non era solo sembrato, lui era più sicuro di sé. Poteva vederlo dal suo sguardo, dalla sua postura, dal suo sorriso. Qualunque cosa fosse successa durante il giorno in cui erano stati divisi lo aveva cambiato. E anche Lisa sembrava diversa. Non c’era più quel sorriso provocatorio sul suo volto, o quella scintilla di arroganza nel suo sguardo. Anzi, tutt’altro. Mentre accarezzava Sato, bellamente accoccolato sul suo grembo, la ragazza sorrideva serena, come se fosse davvero felice.

«Quindi… avete sconfitto Efialte?» domandò.

«Sconfitto? Gli abbiamo rifatto il podex!» esclamò Thomas spalancando le braccia, strappando una risatina a Lisa. 

Tommy cominciò a spiegare e più parlava più quella storia sembrava assurda a Stephanie. Un sorriso nacque sul suo volto mentre l’amico le raccontava di come Lisa lo avesse coraggiosamente salvato da Efialte, e si allargò ancora di più quando Lisa si oppose, dicendo che il vero eroe era stato lui. A un certo punto il discorso sembrò sviare su chi dei due fosse stato il più eroico. Vederli discutere così, su chi avesse salvato chi, sorridendosi e perfino ridendo assieme scaldò il cuore di Stephanie. Qualunque cosa fosse successa, li aveva fatti avvicinare.

Con un po’ di rammarico, Steph pensò che in un certo senso a loro era successo l’esatto opposto di quello che era accaduto a lei ed Edward.

Alla fine della spiegazione, Steph sorrise di nuovo. «Dev’essere stato bello vedere tuo padre.»

«Beh…» Tommy gonfiò il petto orgoglioso. «Diciamo che è stata una sorpresa piacevole, sì. E poi ci ha portato Kensuke e i suoi amici» disse, battendo una mano sul dorso della donnola bianca, che squittì in assenso.

«Già…» commentò Lisa abbassando lo sguardo, con un tono che non si addiceva per nulla al suo entusiasmo di poco prima. «… almeno a qualcuno dei nostri genitori importa davvero qualcosa di noi.»

Stephanie assottigliò le labbra. In effetti, Tommy avevano detto che erano finiti nel territorio di Bacco. Forse avrebbe avuto più senso la sua comparsa, piuttosto che quella di Ermes. 

«Ehi» disse Thomas, posandole una mano sulla spalla. «Il fatto che Bacco non sia apparso, non significa che a lui non importi di te. Sono sicuro che invece gli importa. Forse… forse sapeva che ci avrebbe già pensato mio padre e ha deciso di lasciar fare a lui.»

Lisa non sembrò molto convinta. Strofinò assorta le dita dietro l’orecchio di Sato, che si rigirò sbuffando soddisfatto, poi convenne: «Già… forse…»

Tommy le lanciò uno sguardo angosciato, ma non disse altro. Stephanie non se la sentì di biasimare Lisa. Neppure Demetra si era mai presa la premura di mostrarsi a lei, nemmeno una sola volta. Non era semplice convivere con certe situazioni. Certo, Stephanie era sicura che ai loro genitori importasse qualcosa di loro, anche solo un minimo, però, a volte… a volte era davvero difficile crederci. L’unico punto di rifermento che Stephanie aveva avuto era stata Persefone, e quella per poco non l’aveva portata ad uccidere Edward. 

Famiglie divine, un vero spasso. 

«E… tu, Konnor?» domandò, per cambiare argomento. «Non hai combattuto contro Efialte?»

Per quanto possibile, il figlio di Ares sembrò incupirsi ancora di più. «Purtroppo no. Ero… ero fuori gioco.»

«In… che senso?»

Konnor osservò prima Tommy e poi Lisa. Aveva un’aria quasi triste, dispiaciuta. Sbottonò la giacca di pelle che aveva chiuso, mostrandole la t-shirt che teneva sotto, sulla quale era aperto uno squarcio con grosse chiazze rossastre tutt’attorno. La mente di Steph non ci mise molto a farle capire che quello fosse sangue rinsecchito. Inorridì. «Che ti è successo?!»

«Efialte non era l’unico che ci inseguiva» mugugnò il ragazzo, richiudendo la giacca.

Spiegò di come, poco dopo la loro discesa dal treno, Efialte fosse stato colpito alle spalle e messo fuori combattimento da Naito, il mezzo-demone che aveva rapito Rosa. Anche lui li aveva raggiunti, approfittando del deragliamento per attaccarli con un piccolo esercito di oni. Quando Konnor arrivò alla parte in cui Naito lo aveva trafitto all’addome, Steph si portò entrambe le mani di fronte alla bocca e lo osservò terrorizzata, come se potesse svanire da di fronte ai suoi occhi da un momento all’altro. La sua reazione preoccupata, tuttavia, sembrò solo peggiorare l’umore di Konnor, perché fece una smorfia e distolse lo sguardo da tutti loro. 

«Vi ho soltanto fatto preoccupare» mugugnò. «E vi ho anche abbandonati nel momento del bisogno. Sono stato un idiota.»

«Konnor, ne abbiamo già parlato» disse Tommy. «Non è stata colpa tua. Anzi, mi hai perfino salvato da Naito! Ti devo la vita, amico. L’importante… è che tu stia bene.»

Lisa annuì per rafforzare quelle parole. Konnor si strinse nelle spalle, e Steph intuì che sarebbe stato difficile riuscire a convincerlo. Era d’accordo con Tommy, l’importante era che stesse bene, ma sapeva bene che Konnor era di tutt’altro avviso. Conoscendolo, era probabile che stesse pensando di essere stato inutile, di aver deluso suo padre e chissà che altro.

Ripensò a quella sera in cui si erano parlati fuori dal motel. Già allora era sembrato piuttosto turbato dall’opinione che Ares avrebbe potuto avere di lui; in quel momento non poteva che sentirsi ancora peggio.

«Konnor» mormorò, poggiandogli una mano sul ginocchio. Non sopportava di vederlo in quelle condizioni. «Capisco come ti senti, ma non ti devi abbattere. Stai bene, e il viaggio non è ancora finito. Sono certa che il tuo aiuto sarà indispensabile per tutti noi.»

Konnor drizzò la testa, osservandola intensamente. Questa volta, Steph non si ritrasse, né si senti a disagio. Resse lo sguardo, cercando di mostrarsi forte e convincente, per lui. Credeva davvero a quelle parole e voleva mostraglielo. Sorrise rassicurante, stringendo con più forza. Konnor la esaminò a lungo, poi spostò lo sguardo sia su Tommy che su Lisa, i quali sorrisero e annuirono a loro volta. Anche loro pensavano lo stesso. Forse Konnor non era stato d’aiuto contro Efialte, ma tutti loro sapevano che per la battaglia finale la sua presenza sarebbe stata fondamentale.

Con un po’ di titubanza, l’espressione di Konnor si ammorbidì. Riuscì anche lui a sorridere. Posò la mano su quella di Steph, che sentì il cuore schizzarle in gola, poi scosse la testa. «Non posso credere che al Campo Mezzosangue definivano voi dei perdenti. L’unico vero perdente qui sono io.»

L’imbarazzo per le loro mani intrecciate sfumò quando Stephanie udì quelle parole. «Konnor…» cercò di dire, ma il ragazzo la interruppe.

«Avevate tutti contro, e avete comunque deciso di combattere per il bene comune. Non vi siete mai lasciati abbattere e non avete mai chiesto aiuto a nessuno. E anche se i miei fratelli sono stati spietati con alcuni di voi, mi avete comunque accettato. Ho… ho imparato davvero molto, da voi. Dico sul serio.» Lasciò la mano di Steph e diede una pacca a Tommy, per poi rivolgere anche un cenno del capo a Lisa. «Possono dire quello che vogliono su di voi, ma per me non siete dei perdenti. Siete l’esatto opposto. Vi ringrazio per quello che avete fatto.»

Stephanie pensò che quel sorriso sincero rendesse Konnor ancora più affascinante. E non appena si rese conto di quel pensiero, si portò una mano di fronte alla bocca pregando di non essere arrossita. E soprattutto, sentì le parole del suo amico toccarla nel profondo. Si era già aperto con lei una volta e vederlo fare lo stesso anche con Thomas e Lisa fu stupendo.

«L’avevo detto già quella sera alla Casa Grande» disse Tommy, sollevando il pugno. «Sei tra amici, qui. Puoi sempre contare su di noi.»

Ancora sulla spalla di Konnor, Nagata batté una zampa tra i suoi capelli, squittendo in segno di assenso. Il ragazzo batté il pungo contro quello di Tommy. «Ora lo so.»

«Ehi, essere una “perdente” mi ha permesso di conoscervi» aggiunse Lisa, facendo le virgolette. «Quindi sì, chissenefrega. Che dicano quello che vogliono, io sono felice di essere qui.» Passò ancora la mano sul corpicino grigio di Sato, che sembrò molto felice di ciò.

Kensuke, l’unico escluso, si alzo in piedi squittendo e Thomas ridacchiò, accarezzando anche lui. Stephanie si sciolse osservando la scena. Lisa aveva ragione, non aveva importanza come li chiamavano. Se rimanere in compagnia di persone genuine come loro la rendeva una perdente, allora era felice di esserlo.

«E a te com’è andata, Steph?» chiese Tommy, spostando lo sguardo su Fujinami. Il qilin lo sezionò a lungo con i suoi occhi argentati e il figlio di Ermes si schiarì la voce. «Come hai conosciuto… ehm…»

«Fujinami» lo aiutò Konnor. 

«Sì, lui.»

Al pensiero di dover raccontare quello che era successo tra lei ed Edward, la ragazza sentì il buonumore scivolare via. Si sistemò meglio sul manto erboso, preparandosi a quel difficile racconto. Per prima cosa introdusse Fujinami e spiegò la sua capacità di parlare con chi fosse puro di cuore. 

Per suo enorme stupore, l'unico che poteva sentirlo era Tommy. Non aveva dubbi su di lui, era un ragazzo con un cuore enorme, come anche Afrodite lo aveva definito, un grande amico, un bravo fratello, ed era sincero e onesto. Tuttavia, Stephanie era convinta che tra tutti loro fosse proprio Konnor quello con più possibilità di rientrare tra i “puri di cuore”. Non era così incredula riguardo Lisa, invece. Non che avesse qualcosa contro di lei, assolutamente, ma il suo carattere non rientrava proprio nella definizione di “puro di cuore”.

In ogni caso, Stephanie era sicurissima che loro due non fossero malvagi, bugiardi o chissà che altro, perciò sapere che anche loro si trovavano nella stessa condizione di Edward la aiutò a rivalutare il figlio di Apollo. Se delle cacciatrici e i suoi stessi compagni di viaggio non potevano sentire Fujinami, allora essere “non puri di cuore” non doveva significare per forza qualcosa di cattivo. Tutto ciò riaccese una piccola fiammella di speranza dentro di lei.

Una volta concluse le presentazioni, Fujinami non sembrava proprio entusiasta del fatto che l'unico semidio che poteva udirlo era quello che era anche amico delle kamaitachi, ma non disse nulla a riguardo. Steph fece per raccontare la parte più dolorosa della sua avventura con Edward e il qilin, quando un gran trambusto alle loro spalle fece voltare tutti loro.

Una ragazzina marciò in mezzo all’accampamento osservandosi attorno con aria autoritaria, concentrata in particolare su tutta la vegetazione che Steph aveva ricostruito poco prima. Le cacciatrici si avvicinarono a lei, con Talia e Reyna in prima fila. Si dissero qualcosa che i quattro semidei non riuscirono a sentire e a giudicare dalle reazioni sconvolte delle due luogotenenti, non doveva essere nulla di buono. Poi la ragazzina spostò i suoi occhi color ambra su di loro. Fujinami si alzò e la fissò di rimando, mentre le tre kamaitachi cominciarono a ringhiare, sfoderando gli artigli.

«D-Divina Artemide!» esclamò Thomas, balzando in piedi. Le rivolse un goffo inchino e i suoi amici lo imitarono.

Ok, forse il vecchio Tommy non era scomparso del tutto.

Anche se avrebbe dovuto aspettarsi di vedere la dea della caccia, Steph rimase comunque sorpresa. Non aveva mai visto nemmeno lei dal vivo, del resto. Però se Talia le aveva chiesto di entrare nelle cacciatrici, era probabile che invece Artemide la conoscesse piuttosto bene.

Una cosa impossibile da non notare, era che la dea fosse da sola: di Edward non c’era alcuna traccia.

«Dunque state tutti bene» affermò lei. Si avvicinò a loro e Fujinami si frappose tra lei e Stephanie. La sua postura era rigida, il suo sguardo severo, anche più severo di quello della dea per quanto possibile. Anche le kamaitachi erano scese a terra, tese tanto quanto Fujinami. Tutte e quattro le creature sembravano pronte a combattere. Accorgendosi delle loro reazioni, le cacciatrici affiancarono la loro mentore bracciando le armi.

«Non temere, qilin. Non ti farò del male» disse ancora Artemide, alleggerendo la tensione che si stava cominciando a creare. «E non farò del male nemmeno a voi tre.»

Kensuke emise uno strano verso gutturale, ma non ritirò gli artigli, e nemmeno i suoi compagni lo fecero. Avevano incontrato dei semidei, ma chiaramente per i giapponesi non doveva essere semplice incontrare una dea vera e propria della fazione opposta, soprattutto con tutta l’aria di guerra che tirava.

«Divina Artemide» iniziò Fujinami, raschiando lo zoccolo sul prato senza lasciare alcun segno. «Quale onore incontrarvi.»

«L’onore è mio, nobile qilin.»

Nessuno dei due sembrava sincero.

«Divina Artemide» asserì Konnor, facendosi avanti. «Dov’è Edward?» 

Alcuni sussulti si sollevarono tra le cacciatrici, mentre l’espressione incolore della dea non mutò di una virgola. Quando parlò, lo fece con una calma irreale: «Edward Model non è più qui. In questo momento si sta dirigendo da solo verso San Francisco.»

«Che cosa?!» esclamò Konnor, alzando la voce.

«Che cosa?!» fece eco Fujinami, ammansendosi all’improvviso. «Vuole restituire la spada da solo?!»

La sua osservazione fece sgranare gli occhi di Stephanie. No, non poteva essere vero. Edward non poteva davvero aver pensato ad una cosa del genere! Eppure… eppure, quello invece era esattamente il tipo di comportamento che avrebbe dovuto aspettarsi da lui. Stava cercando di salvare tutti… di nuovo. Voleva arrivare da solo a San Francisco senza più coinvolgere nessun altro. 

Lui stesso gliel'aveva detto: l'impresa non riguardava lei, Thomas, Konnor e Lisa. L'impresa riguardava solamente lui.

«Perché l’avete lasciato andare?!» protestò ancora Konnor.

«Modera il tono, troglodita!» ribatté una cacciatrice con i capelli grigi, bracciando una balestra. Sembrava davvero adirata e come lei molte delle sue compagne. «Non rivolgerti in questo modo alla divina Artemide!»

«K-Konnor, calmati» sussurrò Thomas, mentre Lisa lo guardava angosciata. Se Konnor avesse continuato di quel passo, le cose non sarebbero affatto finite bene. «Forse… forse…»

Qualunque cosa il figlio di Ermes avesse voluto dire, venne troncata sul nascere da Konnor: «Basta così, Tommy! Gli abbiamo dato il beneficio del dubbio, ma ora è innegabile. Edward ci ha traditi.»

Avrebbe potuto dire un mucchio di cose diverse. Eppure utilizzò proprio quella parola. Tradire. Non appena lo fece, Stephanie sentì un brivido percorrerle tutta la schiena. «A-Aspetta, che… che vuoi dire?» 

Konnor era furibondo. Così furibondo che quando si voltò verso di lei, per un momento pensò che avrebbe potuto urlare in faccia. Invece rimase calmo, tuttavia con la voce intrisa di tensione. 

«Rosa è ancora viva» disse, causando un turbinio di versi sorpresi tra tutti loro. Ciò che disse dopo, però, fu talmente sconvolgente da scatenare un boato: «E lui vuole consegnare la spada a Orochi per salvarla.»

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Capitolo 28
*** Uniti, come una squadra ***


28

Uniti, come una squadra

 

 

Se Konnor voleva creare un pandemonio, allora c’era riuscito.

Stephanie non riuscì a registrare nessun suono mentre i suoi occhi osservavano smarriti le cacciatrici che parlavano una sopra l’altra, confuse, spaesate e arrabbiate. Per un momento pensò ad uno scherzo. Sì, un semplice scherzo di cattivo gusto. Anche se sapeva che era una cosa che Konnor non avrebbe mai fatto, ci sperò comunque fino alla fine. Sperò che Lisa e Tommy iniziassero a ridere, dicendo di averli fregati tutti quanti da un momento all’altro.

E invece niente. Thomas teneva la bocca serrata, lo sguardo basso e, per quanto possibile, sembrava perfino più scosso di Steph. Lo stesso valeva per Lisa, che invece squadrava i suoi amici angosciata. A giudicare dal loro comportamento, era chiaro che tutti e tre sapessero la cosa da prima della loro riunione.

Tra tutti, Fujinami sembrava di gran lunga il più adirato. La sua voce risuonava nella mente di Stephanie, stava definendo Edward un incosciente, un pazzo, un egoista, qualsiasi cosa entro i limiti della volgarità, come se dovesse mantenere un certo contegno pure in una situazione come quella.

In mezzo a tutto quel trambusto si sentì sola e schiacciata. Tutto quanto andò al proprio posto. Le parole di sua sorella, quelle di Shinjiro, il fatto che Edward non fosse puro di cuore e il fatto che, pur di salvare le persone a cui teneva, fosse disposto a tutto.

Da quando aveva discusso con Persefone la prima volta per lei era stato un costante tira e molla sul fatto di potersi fidare o meno di Edward. Le parole di Konnor la fecero sentire come se un peso le fosse stato tolto dallo stomaco. 

Finalmente sapeva la verità, anche se purtroppo era troppo tardi. Se solo non fosse stata così titubante, se solo fosse stata più determinata, se solo avesse prestato più attenzione alle parole di Persefone, forse sarebbe riuscita a prevenire tutto quello. Come se non bastasse, aveva cercato di ucciderlo il giorno prima. Per quello che lei ne sapeva, Edward poteva aver deciso di andarsene proprio per quel motivo, forse era stata la sua ultima goccia.

Era stata tutta colpa sua, questa volta per davvero. Lei aveva avuto la possibilità di impedire ad Edward di commettere un errore irreparabile e non l’aveva sfruttata. Era colpevole tanto quanto lui.

Lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi e strinse i denti per la rabbia. Era arrabbiata con Edward, con sé stessa, con i mostri, con tutti. Quando percepì la vegetazione agitarsi in risposta al suo stato d’animo, si impose di calmarsi, per quanto possibile. L’ultima cosa che voleva era creare qualche altro danno con i suoi poteri.

Talia iniziò a sbracciarsi e ad alzare la voce per intimare alle cacciatrici di acquietarsi. Ci volle un po’ di tempo, ma alla fine riuscì a ripristinare l’ordine. Si fece avanti, puntando lo sguardo su Konnor. «Come fai a sapere che Edward ha queste intenzioni?»

Konnor serrò la mascella. «Abbiamo incontrato uno dei seguaci di Orochi, Naito. È stato lui a dircelo.»

«E perché avrebbe dovuto svelarvi una cosa simile?» insistette Talia, cercando di rimanere razionale. «Non ti pare un segreto troppo importante per i piani di Orochi?»

«Naito ha cercato di ucciderci» spiegò il figlio di Ares, mentre si carezzava di riflesso l’addome. «E ci è quasi riuscito. Forse credeva che non l’avremmo mai detto a nessuno.»

«Ma come ha fatto a parlare con Orochi? Questo lo sapete?»

«Lo avrà sognato» rispose Konnor con un’alzata di spalle. «Tutti noi facciamo sogni, del resto.»

La luogotenente non sembrava ancora disposta a credere a quelle parole. Si voltò verso Artemide e la fissò quasi implorante. «Divina Artemide, tu lo sapevi? Sapevi che Rosa era ancora viva? Sapevi che… Edward avrebbe fatto tutto questo?»

La dea fino a quel momento era sembrata l’unica ad aver colto con indifferenza la scioccante notizia. Chiuse le palpebre, ponderando su quella domanda per qualche istante. «No, non lo sapevo. Però ora molte cose mi sono più chiare.»

«Che… che intendi dire?»

«Orochi ha fatto leva sulla più grande debolezza di Edward. Lui vuole salvare le persone a cui tiene, in questo caso Rosa, e per farlo è disposto a tutto. Anche lasciare che Orochi distrugga gli dei.»

Lo disse con una calma innaturale. Stephanie avrebbe tanto voluto sapere come riuscisse a rimanere così impassibile mentre parlava del possibile sterminio della sua gente.

«Orochi lo sta imbrogliando» si intromise Fujinami, battendo gli zoccoli a terra per la frustrazione. «Non gli darà ciò che ha promesso. Berrà il sangue della vergine e si impossesserà della spada per distruggerci tutti.»

A quelle parole, alcuni gemiti sconvolti scapparono dalle cacciatrici, Talia e Reyna incluse.

«Un… un momento» riuscì a dire Stephanie, anche lei in preda allo sgomento. Il verso della profezia risuonò nella sua mente, grottesco come la prima volta in cui l’aveva udito.

“Il sangue della vergine sarà il prezzo da pagare.”

«Il sangue… della vergine?»

Il qilin abbassò la testa, accortosi di aver perso il temperamento. «Orochi è un mostro millenario che per rimanere in forza deve nutrirsi di sangue di vergine. Se quello che dite è vero e lui ha catturato una fanciulla, allora è perché intende ucciderla e cibarsene. Non si separerà da lei in cambio di niente, nemmeno della spada.»

«Quindi… quindi Rosa è davvero ancora viva?» domandò Thomas. Gli occhi azzurri del suo amico erano cerchiati di rosso. Era devastato. Il qilin lo osservò in silenzio, senza dire nulla. Tommy insistette: «Se davvero lo è, allora non possiamo abbandonarla!»

Come Fujinami, nessuno disse nulla. E soprattutto, nessuno sembrò concordare con lui. Stephanie si vergognò per questo, ma dovevano guardare in faccia la realtà: se Rosa era prigioniera di Orochi, allora non c’era niente che loro potessero fare. Avrebbe potuto ucciderla in qualsiasi momento, perfino mentre stavano parlando. Non conoscevano le sue vere intenzioni, brancolavano nel buio. Inoltre la profezia aveva parlato chiaro. Del sangue sarebbe stato versato, in un modo o nell’altro. E forse era proprio quello di Rosa. 

Thomas tuttavia sembrava essere lungi dall’arrendersi, perché chiuse i pugni e si accese di rabbia. «Mi prendete in giro?! Possibile che nessuno di voi stia pensando anche a lei?!»

Artemide non disse nulla, ma le sue cacciatrici lo squadrarono con freddezza. Konnor gli posò una mano sulla spalla, ora trovandosi lui a dover impedire all’amico di litigare con le ragazze. «Tommy, ascolta…»

«Io non ti ascolto!» protestò Thomas, scostando la mano. Puntò l’indice contro di lui. «Tu devi ascoltare me. Forse non vedevi l’ora di accusare Edward di essere un traditore, ma io non sono così! Io conosco Edward. Sta facendo quello che tutti noi dovremmo fare, ossia cercando di salvare una persona in difficoltà!» Tommy abbassò la mano, fissando prima Konnor, poi le cacciatrici dritte negli occhi senza nessuna paura. «Io sto con Edward. Nessuno viene abbandonato.»

«Ma… se consegnerà la spada ad Orochi, sarà la fine per tutti noi» mormorò Stephanie.

Tommy scosse la testa. «Lui non consegnerà proprio un bel niente, Steph. Edward non è stupido, dovresti saperlo. L’uomo serpente crede di poterlo fregare, ma in realtà è Edward che sta fregando lui. Gli ha promesso la spada solo per guadagnare tempo, ne sono sicuro.»

Steph schiuse le labbra. «Quindi… quindi credi che lui…»

«Ha fatto in modo che l’uomo serpente tenesse Rosa in vita fino al suo arrivo a San Francisco. E quando sarà là cercherà di salvare sia lei che tutti noi.»

Sembrava davvero sicuro di sé. Davvero sicuro. Inoltre, stava chiamando Orochi "uomo serpente" mentre discuteva di come Edward progettasse di tradirlo. Una sottigliezza che a molti sarebbe sfuggita, ma non a lei. Stava pensando e agendo da vero figlio di Ermes. A quel pensiero, un piccolo sorriso nacque sul volto di Steph. Non sapeva se fosse stato lo scontro con Efialte a renderlo in quel modo, o se fosse stato qualcosa che suo padre gli aveva detto, ma non aveva importanza: in quel momento il piccoletto timido con i capelli rossi che aveva conosciuto diversi anni prima sembrava tutto fuorché quello. Tommy si accorse che gli stava sorridendo e abbozzò un sorriso a sua volta, condito da un cenno del capo.

«Sei davvero sicuro che la tua fiducia sia ben riposta, giovane semidio?» domandò Fujinami.

Thomas abbassò le labbra. «O lo è, o siamo tutti morti. Io preferisco la prima opzione.»

Il qilin assottigliò le palpebre, esaminandolo con attenzione chirurgica. Thomas mantenne i nervi saldi, ricambiando lo sguardo di quella creatura sovrumana senza alcun timore. Kensuke, Nagata e Sato balzarono sulle spalle del semidio dal nulla, accompagnate da una piccola brezza d’aria, e ringhiarono contro Fujinami. Il loro pensiero in merito fu più che chiaro, avrebbero seguito Thomas in capo al mondo.   

Lisa affiancò il figlio di Ermes e incrociò le braccia, anche lei squadrando severa il qilin. Konnor e Steph, rimasti esclusi, si scambiarono uno sguardo. Il figlio di Ares non sembrava davvero convinto e nonostante lei riuscisse a capirlo almeno in parte, preferiva non deludere Thomas. Non sapeva davvero se credere o meno alla teoria del figlio di Ermes, sapeva però che preferiva aggrapparsi alla possibilità che potesse avere ragione piuttosto che cedere all’idea che Edward li avesse traditi. 

«Va bene, Tommy» disse lei. «Voglio crederti.»

Il sorriso riapparve sul volto di Thomas. «Grazie Steph.»

I tre semidei dell’impresa finirono tutti con il cercare una risposta anche da Konnor. Il poveraccio sussultò quando si ritrovò ad essere quello con i riflettori puntati contro. Sembrò voler opporre ancora un po’ di resistenza, ma alla fine sciolse le spalle rimaste rigide con un grugnito. «In ogni caso, lui da solo non potrà fare molto. Dobbiamo andare a San Francisco anche noi. E poi ho ancora un piccolo conto in sospeso con Naito.»

«È bello che anche tu ti fidi di lui» commentò sarcastico Tommy, per poi fare un passo avanti, verso Artemide. «Dov’è Edward adesso? Possiamo ancora raggiungerlo?»

Non usò il più cortese dei toni e per questo alcune cacciatrici si irrigidirono. La dea osservò il semidio intensamente, costretta a sollevare lo sguardo in quanto più bassa persino di lui. 

«Thomas Blake» iniziò, scandendo le parole. Sembrava quasi che stesse per rimproverarlo e nonostante questo, Tommy non esitò, non arretrò e non distolse lo sguardo. «La tua amicizia è lodevole» disse, unendo le mani dietro la schiena. «Per quale motivo nutri tanta fiducia in Edward?»

L’espressione di Tommy rimase la stessa. Impassibile e determinata. «Perché lui farebbe lo stesso per me.»

Artemide annuì. Sembrava proprio aspettarsi quel tipo di risposta. Alzò gli occhi al cielo soleggiato, osservando proprio in direzione della stella luminosa. Una strana sfumatura nostalgica attraversò i suoi occhi. Forse pensava a suo fratello, colui che di fatto aveva dato il via a tutta quell’assurda storia. «Edward Model si trova a Sacramento. Ha un vantaggio di diverse ore su di voi, ma se farete abbastanza in fretta potrete raggiungerlo a San Francisco. Inoltre, questo sarà il vostro ultimo giorno di tempo, dopodiché l’ultimatum di Amaterasu scadrà. Il tempo a vostra disposizione è sempre più scarso.»

Se Steph non ricordava male, quasi tutte le grandi imprese si erano concluse in quel modo, sul filo del rasoio. Ad essere sinceri, loro sembravano perfino in netto anticipo rispetto agli altri. Ciò che la preoccupava di più era altro, ossia un certo esercito di yōkai stipato attorno all’Asian Art Museum. Si domandò se Edward lo avesse tenuto in considerazione, quando si era imbarcato in quel viaggio solitario per San Francisco, ma era probabile che ne fosse a conoscenza da ben prima di lei.

Fujinami si fece avanti, ora scalpitando quasi impaziente. «In tal caso, sarà meglio sbrigarsi.» 

La figlia di Demetra spostò lo sguardo su di lui. Era giunto sino a lì proprio per quel motivo, per accompagnarli. Era chiaro che non li avrebbe lasciati andare da soli, soprattutto in quel momento.

«Veniamo anche noi» affermò Talia incrociando le braccia. «Orochi non sarà da solo. Vi servirà tutto l’aiuto possibile.» 

Accanto a lei, Reyna annuì, strofinando la mano sul manico del suo gladio, e il resto delle cacciatrici non ebbe nulla da obiettare. Anche in questo caso, Stephanie avrebbe dovuto immaginarlo che le cacciatrici non li avrebbero abbandonati. Ormai anche loro erano in ballo e sapere di poter contare su guerriere del calibro di Talia e Reyna la riempì di felicità.

Kensuke saltò giù dalle spalle di Tommy, imitato dai suoi amici. La donnola bianca emise uno dei suoi classici versi e il suo musetto si contorse in un’espressione maliziosa. Stephanie dedusse che quello fosse il suo modo per dire che anche quei tre piccoli killer di kitsune fossero con loro.

«Preparatevi» ordinò Artemide alle cacciatrici. «Se partite adesso potrete raggiungere Sacramento entro mezzogiorno.»

«Tu cosa farai?» le domandò Talia.

«Devo tornare sull’Olimpo. Dobbiamo prepararci per la guerra.»

«Ma l’ultimatum scade domani» protestò Reyna, mentre la conversazione attirava anche i semidei e Fujinami. 

La dea denegò con la testa. «Non possiamo rischiare di trovarci impreparati. Tutti gli Olimpi dovevano fare ritorno entro oggi. Io mi sono trattenuta anche troppo.» Il suo sguardo era severo, il suo tono serio, proprio come sempre, ma questa volta Stephanie percepì anche un pizzico di apprensione nelle sue parole. «Conto su di voi. Prevenite la guerra.»

Le due cacciatrici annuirono. «Ti renderemo orgogliosa di noi, divina Artemide» affermò Talia, stringendo una mano a pugno con determinazione.

La reazione di Artemide fu qualcosa che Steph mai si sarebbe aspettata di vedere: sorrise, appoggiando le mani sulle spalle delle sue luogotenenti, ora con fare quasi materno. «Lo avete già fatto.»

Nemmeno Talia e Reyna, due potenti guerriere che nelle loro vite ne avevano viste di cotte e di crude, che avevano combattuto mostri, Titani e Giganti, rimasero indifferenti di fronte a quelle parole. 

Artemide si voltò poi verso i semidei, esaminandoli uno per uno, ma non fu così bonaria da sorridere anche a loro. Quello era un privilegio che doveva dare solo alle cacciatrici. «Tutti voi avete dimostrato grande coraggio, unendovi all’impresa, ma ora dovrete concludere quello che avete iniziato. Thomas Blake, Konnor Murray, Lisa Castella, Stephanie Winkler: vi auguro buona fortuna. Che le stelle veglino su di voi.»

I quattro compagni si osservarono tra di loro e quattro sorrisi nacquero sui loro volti. Stephanie fece vagare lo sguardo su tutti i presenti, mentre una strana sensazione di torpore le scaldava il corpo. C’erano tre greci, una romana, una ventina di cacciatrici, tre kamaitachi ed un qilin. Non era l’inizio di una barzelletta: quello era il gruppo di eroi che avrebbe sconfitto Orochi.

«Mi auguro che nessuna di voi sia una vergine» disse Fujinami, il muso già rivolto verso l’orizzonte ove Sacramento li attendeva. «Altrimenti la vostra presenza potrebbe solo rendere la situazione ancora più precaria.»

Una decina di cacciatrici, con Talia e Reyna in testa, osservarono il qilin come se fosse stato la preda più succosa che vedessero da mesi. Perfino Stephanie si unì a loro, trovando quel commento davvero inappropriato. Accorgendosi di essere la star del gruppo, e non per il più positivo dei motivi, Fujinami sembrò per la prima volta provare genuino imbarazzo. 

«Cosa?» domandò. «Che ho detto?»

Le labbra di Artemide furono colte da un fremito. Distolse lo sguardo dal qilin riportandolo verso il cielo prima che un altro sorriso le sfuggisse.

«Ehm… che succede? Perché lo fissano tutti così?» sussurrò Lisa a Thomas, il quale si grattò imbarazzato dietro l’orecchio. 

«Lascia perdere.»

 

***

 

Dopo averli salutati un’ultima volta, Artemide si ritirò di nuovo nella boscaglia, da dove poi provenne un’accecante luce dorata. Stephanie poteva solo immaginare quale aria tirasse sull’Olimpo in quel momento, con tutti gli dei riuniti in un unico luogo con lo scopo di prepararsi a combattere degli avversari a loro del tutto nuovi. Chissà cosa intendesse Artemide, poi, con “prepararsi per la guerra.”

Se doveva essere sincera, faceva fatica ad immaginarsi Dioniso, sua madre Demetra o perfino Afrodite in assetto da battaglia.

D’altro canto, non sapeva se Amaterasu, Susanoo e tutti i loro fratelli e sorelle fossero davvero desiderosi di combattere quella guerra. Dovevano pur sapere anche loro quali catastrofiche conseguenze un scontro del genere avrebbe potuto avere.

«Forza, mettiamoci in marcia» ordinò Talia mentre si avviava per prima assieme a Reyna. 

Fujinami si ritrovò per presto di fronte a loro, muovendo con la sua classica delicatezza gli zoccoli sopra il manto erboso del bosco. «Aspettate.»

La figlia di Zeus si fermò. «Che stai facendo?» sbuffò adirata. «Se è per quella storia delle vergini, sappi che…»

«No, di quello preferirei non parlare più» rispose Fujinami, con una vena di imbarazzo nel tono. «Anzi, vorrei scusarmi per essere stato indelicato. Non posso decidere per voi, se volete combattere nonostante i rischi che sapete di correre, allora vi rendo onore.» Fujinami chinò il capo in segno di rispetto.

«Oh. Grazie» rispose Talia, sorpresa.

«Comunque, io posso correre molto velocemente, senza stancarmi. Se vado avanti per primo, potrò raggiungere il figlio di Apollo in meno tempo.»

«Davvero?» si intromise Tommy. «Ma allora perché non porti qualcuno di noi in groppa?»

Fujinami sbuffò dalle narici come un toro infastidito. «Non sono un animale da soma. Non permetterò a nessuno di salirmi in groppa.»

Non appena finì di dirlo, Kensuke, Nagata e Sato apparvero sulla sua schiena, saltellando e squittendo gioiose. «Che state facendo?! Scendete subito!» protestò il qilin, iniziando a dimenarsi e a scalciare l’aria.

Kensuke ribatté qualcosa che fece inviperire il qilin e ancora una volta le quattro creature sembrarono trovarsi sul piede di guerra. Thomas si strofinò le dita sugli occhi, sospirando demoralizzato, e Lisa ridacchiò. Stephanie pensò che in effetti Fujinami non era l’unico che poteva raggiungere Edward in poco tempo. Anche lei avrebbe potuto farlo, usando il teletrasporto con le piante. Tuttavia, qualcosa la frenava dal prendere quella decisione, e quel qualcosa era la paura di come Edward avrebbe potuto reagire rivedendola, o di come i suoi poteri avrebbero reagito vedendo lui.

Non aveva il coraggio di incontrarlo da sola, e comunque trovarlo era più semplice a dirsi che a farsi. Per arrivare a Chicago aveva seguito delle indicazioni e aveva già sognato il luogo che cercava, trovare Edward invece sarebbe stato come trovare un ago in un pagliaio. Fujinami invece era avvantaggiato, perché era in grado di percepire l’energia di Ama no Murakumo. Rimaneva comunque un problema. «Edward non può sentirti, però» disse lei.

Liberatosi delle kamaitachi, Fujinami emise un mugugno di assenso. «Non intendo mostrarmi a lui. Lo seguirò solo per tenerlo d’occhio.»

Stephanie pensò che poteva funzionare. Anche se forse Tommy aveva ragione ed Edward non intendeva tradirli per davvero, sapere che il qilin sarebbe rimasto con lui la tranquillizzò. Nessun altro ebbe da obiettare, tranne Tommy che storse le labbra. «Non riesci proprio a fidarti di lui, vero?»

«Il destino del mondo è in bilico, giovane semidio. Perdonami, ma preferisco agire con le dovute precauzioni. In ogni caso, non mi aspettavo il vostro consenso. Ormai la mia decisione è presa. Volevo solo salutarvi.»

Thomas non sembrava molto convinto, ma non disse altro. «Fate attenzione, giovani eroi» disse ancora Fujinami.

«Anche tu» si raccomandò Stephanie.

«Non temere. Ci rivedremo a San Francisco.» E senza dire altro, il qilin corse in mezzo alla boscaglia. 

«Ehm… se n’è andato?» domandò Lisa. Thomas annuì, cupo in volto. «Ha deciso di andare avanti per primo.»

«Oh.»

Stephanie si domandò cosa stesse pensando il figlio di Ermes. Sembrava davvero avere a cuore la faccenda. Artemide aveva detto bene, era un grande amico. Forse… forse persino troppo.

«Non perdiamo altro tempo» ordinò Talia, attirando l’attenzione di tutti sollevando un braccio. «Kowalski, tu chiudi la fila. Reyna, con me. Muoviamoci.»

«Perché tocca sempre a me chiudere la fila…» gracchiò la cacciatrice con i capelli grigi e la balestra mentre obbediva.

Senza perdersi in ulteriori chiacchiere, il gruppo iniziò la propria marcia.

 

***

 

Inevitabilmente, i quattro semidei finirono con il ritrovarsi isolati in mezzo al resto delle cacciatrici. Le ragazze di tanto in tanto lanciavano strane occhiate verso di loro, ma rimasero perlopiù in disparte, a chiacchierare tra loro. Steph poteva capire perché avessero deciso di emarginarli, era sicura che non gradissero la presenza dei due ragazzi, e nemmeno quella di due ragazze loro amiche.

Con rammarico, la figlia di Demetra pensò che i semidei nel Campo Mezzosangue non erano certo gli unici ad essersi radicalizzati.

«Hanno chiesto anche a te se volevi diventare una di loro?» le bisbigliò Lisa, affiancandola, mentre ricambiava gli sguardi velenosi delle cacciatrici senza farsi troppi scrupoli.

«Sì» rispose Steph, sorpresa del fatto che avesse iniziato lei per prima una discussione. «Anche a te?»

«Ah-ah. Hai detto di no?»

«Già. Essere una cacciatrice non… non fa proprio per me. Anche tu hai rifiutato?»

«Certo, a me piacciono i ragazzi.» Lisa le sorrise maliziosa. «Anche se purtroppo non ho Konnor ed Edward che mi sbavano dietro come te...»

«L-Lisa!» esclamò Stephanie, sentendo le guance bruciare. 

Udendo la sua voce un po’ troppo acuta e allarmata, Konnor e Tommy, poco avanti a loro, si voltarono confusi. La figlia di Demetra fece ogni cosa in suo potere per non guardare verso la loro direzione, mentre Lisa si metteva con voga di fronte a lei. «Ehi, questa è una conversazione privata. Fatevi gli affari vostri.»

Tommy stirò le labbra, scuotendo la testa. «Mh. Ragazze…» borbottò, per poi ottenere almeno una ventina di diversi sguardi di ghiaccio dalle cacciatrici. «Ehm… cioè…» Alzò le mani, sulla difensiva. «I-Insomma…»

Mentre il poveretto cercava di uscire da quel bosco senza una freccia piantata in fronte, Lisa tornò alla carica: «Per questo non vuoi essere una cacciatrice, vero?»

Stephanie, credendo di essere ormai più rossa dei capelli di Tommy, si coprì il volto con le mani. «N-Non voglio parlarne…»

«Mi domando chi sceglierai» insistette Lisa, per poi avvolgerle un braccio attorno alle spalle. «Sono due poli opposti, eppure hanno entrambi un certo fascino. È una scelta difficile, ti capisco. Per fortuna non tocca a me. O sfortuna, dipende dai punti di vista.»

«Sì, beh… magari non sceglierò nessuno» mugugnò Steph.

Lisa ridacchiò, lasciandola andare. «Già… non credo proprio che lo farai.»

Steph mise il muso lungo. Parlare di quell’argomento non era semplice, e non solo perché lei era una frana con i ragazzi, ma anche per via di quello che era successo con Edward.

Rivide la scena con lui che guizzava di fronte a lei evitando i suoi attacchi mentre brandiva la Spada del Paradiso; lui che le intimava di smettere di combattere e lei che invece asseriva di volere la sua morte. Una scarica di brividi le fece accapponare la pelle.

«Ehi» la chiamò Lisa, dandole di gomito con voce più comprensiva. «Sto solo scherzando un po’, lo sai. Non confondermi per una figlia di Afrodite o cose del genere.»

Le sorrise e Stephanie riuscì a ricambiare. Poteva apprezzare che Lisa stesse cercando di socializzare con lei. Era rimasta in disparte per tutta l’impresa, era bello vederla sciogliersi un po’. «Tranquilla, non potrei mai pensare così male di te.»

Lisa ridacchiò. «Non preoccuparti troppo per Jane e le altre. Se ti danno di nuovo fastidio, fammi un fischio.» Tirò fuori un pugnale dalla cintura, roteandolo con maestria tra le dita, e sogghignò. «Ci penserò io a loro.»

Stephanie ripensò a quello che Tommy le aveva raccontato, Lisa che si arrampicava su Efialte per crivellargli la faccia con quegli stessi pugnali. Non poteva certo fare la stessa cosa con Jane. 

Forse.

Proseguirono a lungo, parlottando del più e del meno, mentre le kamaitachi guizzavano in mezzo alle cacciatrici sollevando gridolini indignati. Tommy era riuscito a non farsi uccidere e ora lui e Lisa marciavano l’uno accanto all’altra, molto più vicini di quanto Stephanie avrebbe mai pensato di vederli. Il sole era alto, l’aria era fresca e gli uccellini cinguettavano beati. Anche se la situazione era calma e sotto controllo, Steph sapeva che quella era solo la quiete prima della tempesta. Quando sarebbero arrivati a San Francisco non avrebbero più avuto modo di rimanere così sereni. Si preannunciava una battaglia molto dura.

Senza accorgersene nemmeno, finì con l’osservarsi di nuovo le mani mentre ripensava a Naito e tutti i mostri che aveva visto nel suo sogno. Affrontarne così tanti avrebbe richiesto un grande sforzo, proprio come contro Campe ed Oto. E in entrambi i casi aveva perso il controllo, con conseguenze e danni quasi irreparabili. Il pensiero che potesse succedere di nuovo le metteva i brividi.

La prossima volta potrebbe essere l’ultima, pensò con un moto di angoscia. Nulla le diceva che non avrebbe potuto fare del male a Konnor, Lisa o Tommy, o addirittura a Fujinami e le kamaitachi. Aveva definito Edward "nipponico" del resto, probabilmente per via dell’energia che Ama no Murakumo emanava. Non voleva rischiare di mettersi ad attaccare tutte le creature orientali sul suo percorso senza distinzioni. Non voleva fare del male o addirittura uccidere un innocente. Non voleva nemmeno correre il rischio.

Non voleva combattere. Non più. Tutto quello che era successo era stato troppo. Sulle sue spalle era stato messo un fardello troppo grande da reggere. Non era mai stata violenta, non aveva mai avuto sete di potere o fama, niente del genere. Tutto quello che aveva sempre chiesto era stata un’esistenza tranquilla. Il suo passatempo preferito era il giardinaggio, per la miseria. Non riusciva a credere di essere passata dal raccogliere fragole e curare fiori al Campo Mezzosangue all’uccidere mostri millenari e lanciare giganti in cielo. Tutto quello era assurdo!

Una mano si posò sulla sua spalla, riportandola al mondo comune. Era Konnor. «Steph, tutto ok?»

La semidea si voltò, sussultando. «S-Sì, sì, certo…»

Konnor inarcò un sopracciglio. «Sicura? Questa volta sembravi davvero assorta.»

«Tranquillo, va tutto be… aspetta, che vuol dire “questa volta?”» domandò, per poi sentire le guance pizzicare quando lui le sorrise divertito.

«Beh, non è certo la prima volta che ti vedo rimuginare così intensamente» spiegò lui, grattandosi vicino al mento. «In effetti è… più o meno da quando abbiamo incontrato mio padre ed Afrodite che ti capitano momenti del genere.»   

Stephanie pregò con ogni fibra del proprio essere che Konnor non avesse intuito di cosa lei e la dea dell’amore si fossero parlate. «Ehi» disse ancora lui, lasciando la presa. Il suo sguardo si fece apprensivo. «Se c’è qualcosa che ti turba puoi parlarmene, lo sai.»  

La figlia di Demetra emise uno strano mugugno che poteva voler dire tutto e niente in contemporanea, mentre si smarriva negli occhi di Konnor per quella che ormai doveva essere la miliardesima volta da quando lo aveva conosciuto. Fece un timido cenno di assenso con la testa, incapace di trovare le parole esatte e sentendosi un’emerita idiota per questo. 

Konnor era sempre così gentile, con lei. Nonostante lo avesse rifiutato, non l’aveva mai abbandonata. Le era rimasto accanto e aveva sempre cercato di esserle di aiuto, in qualche modo. Non capitava di rado che lei ripensasse a quel momento, domandandosi cosa sarebbe successo se invece avesse accettato di uscire con lui, se gli avesse dato una chance.

«Steph? Ti sta succedendo di nuovo?»

«No, certo che no!» trasalì lei, come folgorata da un fulmine. Poté udire la risata deliziata di Afrodite giungere alle sue orecchie sin dall’Olimpo. Sì, era certa che avesse trovato il modo di sbrogliarsi dagli “impicci” della guerra per poterla osservare almeno in quel momento. Riportò la sua attenzione su Konnor. In effetti, forse era proprio quello ciò che le serviva: parlare con qualcuno. Qualcuno di cui poteva fidarsi, non qualcuno che l’avrebbe solamente spinta a fare quello che ritenessero giusto per lei.

«A dire la verità, ci sarebbe qualcosa di cui dovrei parlarvi» mormorò. 

Lisa e Tommy smisero di prestare attenzione alle kamaitachi e anche Konnor assottigliò lo sguardo. «Di che si tratta?»

Stephanie sospirò. Aveva detto ad Edward che erano una squadra, eppure lei per prima non aveva fatto altro che avere segreti da quando quel viaggio era iniziato. Era stanca di tenersi tutto dentro. Raccontò tutto quanto. Parlò dei suoi sogni su Persefone, delle cose che lei le aveva detto riguardo l’impresa, dei suoi poteri e di come avesse sconfitto Oto.

«Davvero… davvero l’hai fatto?» le domandò Lisa, con uno strano tono di voce, per poi farsi entusiasta di punto in bianco: «Hai davvero lanciato Oto in cielo come un giavellotto?!»

«Ehm… sì, ma non è questo il pun…»

«Porca vacca!» esclamò Lisa, alzando la voce senza accorgersene. «Sei incredibile, Steph!»

«G-Grazie…» rispose Stephanie, imbarazzata. Malgrado apprezzasse i complimenti, non era di quello che voleva parlare con loro.

«Falla finire, Lisa» la rimproverò Konnor.

«Scusa» borbottò Lisa, imbarazzata.

Stephanie proseguì con le spiegazioni e arrivò alla parte dolorosa. I suoi poteri erano forti, ma i rischi che aveva corso usandoli erano stati sempre più grossi. Sfruttavano la rabbia repressa della natura per essere così potenti, ma la natura cercava di sfruttare lei a sua volta per poter rifiorire. Bastava pensare a quello che era successo a Chicago, con la vegetazione che aveva cominciato a ricrescere in quel cantiere e che poteva star continuando in quello stesso momento.

Quando giunse alla parte in cui aveva attaccato e cercato di uccidere Edward, le venne un groppo alla gola. Abbassò la testa mentre la vista le si appannava. Dire a parole a tutto quello che era successo fu molto più difficile di quanto avesse immaginato.

Non aveva importanza come la rigirava: aveva cercato di uccidere Edward. «Non… non posso rischiare che succeda ancora» bisbigliò, con la voce che rischiava di incrinarsi. Non trovò nemmeno il coraggio di guardarli in faccia mentre lo diceva. Era certa di aver deluso tutti loro. «Mi dispiace, ragazzi. Avrei… avrei dovuto imparare a usare meglio i miei poteri, prima di partecipare all’impresa. Sono stata una stupida.»

Quando finì di parlare, i suoi amici rimasero in silenzio. Durante quel breve momento in cui nessuno parlò, Stephanie temette i loro giudizi, temette di perdere la loro fiducia, fino a quando la mano di Konnor, che ormai poteva riconoscere tra mille per via di quante volte l’aveva fatto, si riadagiò sulla sua spalla.

«Steph» iniziò lui, con voce morbida. «Perché non ce ne hai parlato prima?»

«Perché… perché non credevo che sarebbe successo tutto questo» rispose lei, confusa da quella domanda. Si accorse poi che nessuno di loro sembrava affatto arrabbiato. «Un momento. Non… non siete arrabbiati con me?»

Questa volta Konnor parve davvero confuso. «E perché dovremmo?»

«Ho cercato di uccidere Edward!» esclamò lei. «Per quanto ne sappiamo potrebbe aver deciso di andarsene per causa mia!»

«Non eri in te, Steph. Non è stata colpa tua» disse Thomas, anche lui posandole una mano sul braccio. «State bene tutti e due. È questo l’importante.»

«E poi Edward non se ne sarebbe mai andato per questo motivo» aggiunse Konnor. «Non credo che sia arrabbiato con te. Anche lui…» Il figlio di Ares esitò. «Insomma, dovresti saperlo anche tu che in altre circostanze non ti avrebbe abbandonata. Credo… credo che volesse solo proteggerti. Sia te che tutti noi.»

«Già» convenne Lisa. Sembrava mortificata, forse per via di quello che avevano discusso prima. «Tu non c’entri niente.»

Stephanie non riusciva a crederci. Nonostante tutti i danni di cui lei si credeva responsabile, loro erano comunque disposti a perdonarla. Nemmeno quello, le stavano dicendo che in realtà non aveva colpe. Si mordicchiò un’unghia senza neanche accorgersene. «Però… però per la battaglia vi servirà anche il mio aiuto. Se non uso i poteri, sarò inutile…»

«No invece» affermò Konnor. «Non lo sarai. I tuoi poteri sono solo una parte di te, Steph. Tu sei molto di più.»

Thomas annuì. «Sei divina solo per metà, proprio come noi. Non sei infallibile e nemmeno noi lo siamo. Non devi vergognarti se hai paura di perdere il controllo. Se provi paura è solo perché… sei anche umana. E comunque siamo una squadra, l’hai dimenticato? Non penserai mica che tu debba sempre fare tutto da sola. Cos’è, hai perso la fiducia in noi?»

Stephanie voleva rispondere che non era ciò che intendeva, tuttavia notò i sorrisi rilassati dei suoi amici. Inevitabilmente, anche lei sorrise. Non aveva proprio idea di che cosa avesse fatto per meritarsi dei compagni come loro.

«Sì, però lasciate qualche frase motivazionale anche per me» si lamentò Lisa, portandosi una mano dietro al collo. «Così sembra che io non abbia mai niente di carino da dire…»

Una risatina uscì dalla gola di Steph. Ciò che le mancava era quello, una risata che le facesse smorzare la tensione. «Tranquilla, Lisa. Va bene così.» Osservò tutti loro, felice come poche volte era mai stata. «Grazie ragazzi. Davvero.»

Parlare con loro aveva davvero funzionato, ora stava molto meglio. Forse avrebbe dovuto usare lo stesso approccio anche con Edward. Magari le cose sarebbero andate in maniera diversa. Tuttavia non poteva ripensare in continuazioni agli errori che aveva fatto e domandarsi cosa sarebbe successo se avesse agito in maniera diversa. Thomas aveva ragione, loro erano divini solo per metà, ed errare faceva parte del loro lato mortale. E dagli errori si poteva imparare, così da non ripeterne altri in futuro. E quello era ciò che avrebbe fatto.

Stephanie ripensò alla scena che aveva visto tra Artemide, Talia e Reyna e sollevò la testa, osservando l’orizzonte.

Madre, sorella. Anch’io vi renderò fiere di me. 

Inspirò a pieni polmoni quell’aria mattutina pulita e fresca, scacciando via tutte le tossine che si erano accumulate in lei a causa degli ultimi duri avvenimenti.

«Visto che siamo in tema, anche io dovrei parlarvi di una cosa» disse Konnor, facendosi di nuovo serio. «Mentre ero svenuto, ho fatto uno strano sogno.» Sollevò entrambe le mani, guardando Tommy e Lisa. «Da una parte vedevo voi che cercavate di portarmi al sicuro» accompagnò la frase alzando la mano sinistra. «Dall’altra, invece…» Alzò la mano destra. «… vedevo lo stesso luogo in cui ci trovavamo, ma era… buio. Come se fosse notte, ma senza luna e stelle. Come se la luce non esistesse. Gli alberi erano morti e la terra arida. E io… io mi sentivo in bilico tra i due mondi.»

Stephanie dischiuse le labbra. Non aveva mai sentito niente del genere prima di allora. E anche Konnor doveva sapere che tutto quello era qualcosa di inaudito. «Dal mondo oscuro proveniva una voce» proseguì lui, abbassando le mani, mentre la bocca gli si contorceva in un’espressione quasi di malessere. «Sembrava una donna. E parlava giapponese.»

Tommy, Lisa e Steph si guardarono tra loro, sbigottiti.

«Non capivo cosa dicesse. Ma allo stesso tempo sono convinto che volesse che io andassi verso di lei. Però ho resistito. In qualche modo, sapevo che se mi fossi lasciato abbindolare, non mi sarei mai più svegliato.»

«Non… non ce l’avevi detto ieri sera…» mormorò Thomas. 

Un’ombra scivolò sul volto del figlio di Ares. «Volevo aspettare ancora un po’, nel frattempo cercare di ricordare qualcos’altro. Però ricordo solo questo.»

Ci furono altri attimi di silenzio. Non avevano studiato niente del genere al Campo Mezzosangue. Del resto, al Campo Mezzosangue non avevano nemmeno studiato yōkai, oni, Spada del Paradiso e quant’altro.

«Un mondo oscuro…» commentò Lisa, assorta. «Chirone ed Edward avevano parlato di qualcosa del genere, la sera del Consiglio.»

Stephanie fu colta da un’illuminazione. «Lo Yomi» ricordò. Un brivido gelato le percorse la schiena. «Però… avevano detto che è la versione orientale degli Inferi...»

Konnor batté le palpebre. Giunse alla stessa conclusione a cui anche lei era giunta. «Quindi… ho visto il regno dei morti?»

Altro silenzio. A giudicare dai fatti, sembrava proprio quello ad essere successo. Stephanie pensò che sarebbe stato bello se Fujinami non fosse andato via, magari avrebbero potuto parlarne con lui.

«Forse è per via dell’arma di Naito» suggerì Tommy. «Mio padre ci ha detto che l’arma con cui ti ha ferito non era di nostra competenza. Magari era di Acciaio Prezioso.»

«L’Acciaio Prezioso mi ha fatto vedere lo Yomi?» domandò allora il figlio di Ares, riluttante.

Thomas sollevò le spalle. «Se il Bronzo Celeste e l’Oro Imperiale dissolvono i mostri e li rimandano nel Tartaro, allora non vedo perché l’Acciaio Prezioso non possa fare qualcosa di simile con lo Yomi.»

L’espressione dura di Konnor svanì, rimpiazzata da una più pensierosa. Stephanie non aveva idea di cosa gli stesse passando per la mente. Lui stesso aveva detto di essere consapevole del fatto che avrebbe potuto non svegliarsi, ma forse averne la conferma in quel modo, sapere di essere scampato allo Yomi di un soffio, doveva averlo sconvolto molto più di quanto non stesse dando a vedere.

«Tutto ok, Konnor?» gli chiese, ora lei ad appoggiare una mano sul suo braccio. O meglio, sul suo bicipite, che era molto più muscoloso di quanto avrebbe pensato. Non appena ebbe quel pensiero, Steph si sentì di nuovo avvampare.

«Sì, sì, tutto ok» mugugnò distrattamente lui. Stephanie intuì che non volesse più discutere di quell’argomento, così allontanò la mano.

Lisa e Tommy si scambiarono uno sguardo angosciato, ma non dissero altro. 

Proseguirono il resto del viaggio in silenzio, fino a quando non si fermarono per una breve sosta. Stando alle parole di Talia, non doveva mancare molto alla strada principale. Una volta lì, avrebbero potuto rimediare un mezzo per proseguire verso Sacramento o, se fossero stati fortunati, arrivare con un solo viaggio a San Francisco. Non era nemmeno mezzogiorno, quindi avevano ancora tempo.

Mentre se ne rimaneva seduta in disparte, a riposare le gambe, Konnor apparve di fronte a lei. «Possiamo parlare in privato per un secondo?»

Stephanie sentì la bocca riempirsi di sabbia. «Ehm… perché?»

«Preferirei che nessun’altro sentisse. Non ci metteremo molto, lo prometto.» Konnor le tese una mano per aiutarla ad alzarsi, un gesto da Galateo che la lasciò ancora più confusa. Titubante, accettò l'aiuto e si fece assistere per rimettersi in piedi. La sua mano era calda, constatò, e la tirò su come se fosse stata uno scricciolo.

Si allontanarono dal gruppo senza dare troppo nell’occhio, nascondendosi dietro una fitta rete di ginepri e sequoie. Rimasero abbastanza vicini da poter sentire la voce di Talia se per caso avesse ordinato di riprendere la marcia, ma comunque abbastanza distanti da poter parlare a bassa voce senza essere uditi.

Una vena di incertezza attraversò il viso di Konnor, mentre la scrutava ponderando su qualsiasi cosa volesse dirle. Stephanie si ricordò la sera della sfida al Campo Mezzosangue, quando si erano trovati solo loro due, da soli, nel bosco. Non seppe perché, ma sentì il cuore iniziare a batterle all’impazzata nel petto. Forse era per via della reazione che le cacciatrici avrebbero potuto avere se si fossero accorte che proprio loro due mancavano all’appello. O forse perché, nel profondo, immaginava di sapere di cosa Konnor volesse parlarle.

«Ascolta, Steph. So che… che forse questo non è il momento più adatto per parlarne, ma so anche che questa potrebbe essere la nostra ultima occasione per farlo» cominciò lui, mentre spostava il peso del corpo da una gamba all’altra. Steph si pizzicò un labbro, rimanendo in silenzio.

«Ho rischiato di morire, è inutile negarlo» proseguì Konnor, con un profondo sospiro. «E questa cosa… mi ha fatto capire che il nostro tempo non è molto. Stiamo per partecipare a una battaglia da cui non potremmo uscirne vivi e… e so che non dovrei parlare così, perché dopotutto mio padre è Ares, ma non mi interessa.»

Konnor abbassò la testa. Le sue mani rigide e tese fino a quel momento si sciolsero, lasciando penzolare le dita verso il suolo. «Fino ad oggi non… non ho fatto altro che recitare. Cercavo di impressionare i miei fratelli, mio padre, perfino me stesso. Ho provato a convincermi di essere un degno figlio di Ares, ma la verità è che non lo sono. Non voglio più mentire. Voglio essere reale, per una volta. E… e voglio esserlo con te.» 

Tornò a osservarla e Stephanie sentì il cuore saltare un battito. Nello sguardo di Konnor… c’era genuina paura. 

«Ho paura di… di deludervi di nuovo» mormorò lui. «Ho paura di non farcela. Prima ho detto che ho un conto in sospeso con Naito, ma ogni volta che ripenso a lui, io…» Esitò, strofinandosi di nuovo l’addome. Gli occhi gli si inumidirono. «Non posso affrontarlo di nuovo. Ha solo giocato con me. Sono vivo per miracolo.» 

«Konnor…» sussurrò Stephanie, avvicinando una mano al suo volto. 

Gli carezzò una guancia, non curandosi dell’imbarazzo che stava provando. Non appena lo sfiorò Konnor sussultò, distogliendo di nuovo lo sguardo da lei. Aveva già visto il lato più sensibile di Konnor, ma mai fino a quel punto. Non stava mentendo, era davvero spaventato. Forse anche più di lei. Steph provò un po’ di vergogna. Aveva creduto che lui volesse di nuovo parlare di quel giorno al Campo Mezzosangue, invece no. Ciò che le aveva detto era qualcosa di molto più profondo, qualcosa che mai aveva detto a nessun altro.

«Mi dispiace» disse Konnor, con un filo di voce. Riaprì gli occhi, che erano venati di rosso, e la osservò intensamente. «Sono solo un fallimento. Come figlio di Ares, come guerriero, come tutto.»

Vederlo così fu una pugnalata al cuore per Steph. Scosse con delicatezza la testa, ricambiando lo sguardo con la stessa intensità. 

«Non lo sei.» Senza nemmeno pensarci, prese il volto di Konnor tra le sue mani e appoggiò la fronte contro la sua. Il ragazzo chiuse gli occhi, irrigidendosi, ma non la fermò, né l’allontanò. Sentì le sue mani calde scivolare timide sopra le sue, stringendole con forza.

Strofinò i pollici sotto i suoi occhi, beandosi di quel dolce contatto, della sua pelle che aveva sempre creduto dura e fredda e che invece era l’esatto opposto. Ci voleva del vero coraggio per mostrare emozioni genuine come quelle. Stephanie era sicura che nessun altro della casa di Ares avrebbe mai fatto niente del genere. Ed era per questo motivo che Konnor era molto meglio di tutti loro. Non aveva avuto paura di mostrarsi fragile, non aveva avuto paura di ammettere di aver paura. 

Ogni aspetto di Konnor, il suo modo di fare, di parlare, di agire, era sincero. Lui non avrebbe mai fatto nulla per ferirla, o per deluderla. Credeva davvero in lei. Stava dimostrando per davvero che essere figli di Ares non significava comportarsi come facevano suo padre o i suoi fratelli. Anche loro provavano paura, anche loro, talvolta, avevano bisogno dell’aiuto di qualcun altro.

«Non sei un fallimento» disse Stephanie, determinata. «Sei la persona più coraggiosa e onesta che abbia mai conosciuto. Hai detto che quando avevamo tutti contro, noi siamo comunque andati avanti, ma in realtà se siamo arrivati fino a qui è stato anche merito tuo, perché hai deciso di difenderci. Te l’ho già detto e non mi stancherò mai di ripeterlo: sei un bravo… anzi, un fantastico ragazzo. Sono felice che tu sia qui con noi. Se proprio non vuoi credere in te, allora credi in me: tu ce la farai. Anzi… noi ce la faremo. Supereremo questa battaglia e sconfiggeremo Naito, Orochi e tutti quelli che si metteranno in mezzo. Potrai sempre contare su di me. Posso… contare anch’io su di te?»

Non sapeva cosa fosse, ma ogni volta che parlava con lui, sentiva come se qualcosa in lei cambiasse. Essergli amico tirava fuori il meglio da lei. E anche le sue parole sembrarono riuscire a tirare fuori il meglio da lui, perché riuscì a sorriderle di nuovo. «Certo… certo che puoi contare su di me. Grazie… grazie per avermi ascoltato Steph.»

La figlia di Demetra gli sorrise, carezzandolo di nuovo. «Grazie a te per avermene parlato. Mi hai… fatto sentire importante.»

Konnor posò la mano su quella di lei. «Tu sei importante.»

Stephanie sentì lo stomaco in subbuglio. Erano così vicini che poteva sentire il respiro caldo di lui sul proprio viso. Il suo corpo era avvolto da un dolce torpore e per una volta non si sentì in imbarazzo assieme a lui. Si godette il suo sorriso sincero, il suo sguardo rilassato, conscia del fatto che entrambi erano merito suo, e si lasciò cullare dal calore e dalla dolcezza di quel momento tanto surreale quanto gradevole.

Entrambi si fidavano l’uno dell’altra ed entrambi avevano trascorso momenti per niente semplici, in quei giorni. Avevano molto per la testa, angosce, preoccupazioni, paura. Condividere quel momento, insieme, per una volta fece apparire Konnor agli occhi di Steph come qualcosa di più che un semplice amico. Era qualcuno che lei avrebbe voluto avere accanto nei momenti difficili, qualcuno su cui contare, qualcuno che la facesse sentire protetta, accettata. Amata.

Non aveva idea di che cosa sarebbe potuto succedere se fossero rimasti ancora lì in quel modo, con le labbra così pericolosamente protese le une verso le altre. La voce di Thomas che li chiamava fu come una grandinata gelata che li trascinò di peso via da quel tepore: «Steph! Konnor! Ma dove cavolo…»

Lisa e il figlio di Ermes sbucarono da dietro i cespugli. Non appena scorsero le loro figure, i due compagni fecero un verso sorpreso. Konnor e Steph si separarono con così tanta velocità da far invidia alle kamaitachi e questa volta lei sapeva che nessuna preghiera rivolta a nessun dio le avrebbe impedito di mostrare la sua faccia paonazza.

«Ma… ma che cavolo stavate…» biascicò Tommy, che indietreggiando era finito proprio addosso a Lisa e ora si trovava tra le sue braccia. La figlia di Bacco, però, era troppo sconvolta per badare a lui. Teneva lo sguardo fisso su Stephanie e la sua espressione tradiva ogni sua emozione.

«N-Niente» tentò di rispondere Stephanie, perdendo all’improvviso il dono di formulare un discorso sensato. «N-Noi non, cioè, insomma, e-ecco…»

Un sorriso a trentadue denti prese forma sul volto di Lisa, che stritolò Thomas senza accorgersene, avvolgendogli un braccio sotto al collo ed uno attorno alle spalle. Osservandola, Stephanie provò l’insolito, ma neanche tanto, desiderio di teletrasportarsi con una pianta e sbucare da qualche parte in Cina. 

Konnor si schiarì la voce, marciando verso i due compagni. «Allora, che succede? Stiamo ripartendo?» domandò, con il suo classico tono di voce serio e duro. Il suo tentativo di mantenere un contegno fu lodevole, peccato solo per gli aloni rosa vivaci presenti anche sulle sue guance.

«Sì» ripose Lisa, con quello stupido sorrisetto. «Stiamo proprio per ripartire. Però se volete dico a Talia di aspettare ancora un po’.»

«Meglio non perdere altro tempo. Forza, sbrighiamoci» ribatté Konnor deciso, lanciando un’ultima occhiatina verso Steph prima di ritornare sui suoi passi. 

«L-Lisa, lasciami…» implorò Thomas, soffocato dalla presa di ferro della figlia di Bacco, che sembrò accorgersi solo in quel momento di averlo intrappolato. 

«Ops» disse, prima di lasciarlo andare.

Tommy barcollò in avanti, prendendo grosse boccate di prezioso ossigeno, e lanciò un altro sguardo esterrefatto prima verso di Steph, poi verso la direzione da cui Konnor era svanito. Tra tutti, sembrava essere il più imbarazzato. 

«S-Sì, meglio andare…» commentò, avviandosi a sua volta. 

Se Stephanie lo conosceva bene, avrebbe scommesso che stesse desiderando di non aver mai visto quella scena. E anche lei lo stava sperando. Ancora ardente di vergogna, seguì i due ragazzi. 

«E brava Steph» gracchiò Lisa quando le passò accanto, squadrandola sorniona.

Con un impeto di coraggio, la figlia di Demetra si voltò verso di lei e le puntò contro un indice. 

«Non un’altra parola» la avvisò con il tono più minaccioso che riuscì ad utilizzare e che, ne era certa, più che renderla intimidatoria l’aveva resa solo più ridicola.

Lisa sollevò le mani, il sorrisetto ancora lungi dallo sparirle dalla faccia, però le obbedì. E così Steph ritornò dalle cacciatrici con la faccia in fiamme e lo stomaco sottosopra, mentre Lisa alle sue spalle se ne andava in giro impettita come un pavone che sventolava orgoglioso la sua coda a forma di ruota.

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Capitolo 29
*** Sacramento ***


29

Sacramento

 

 

Edward era davvero stanco di quei sogni. 

La prima cosa che notò era che faceva così freddo da far gelare le ossa. La seconda cosa che notò, fu l’ammasso di oscurità che galleggiava in mezzo alla stanza grigia. Aveva già visto quel bozzolo, nel suo sogno precedente. Era lì dentro che Orochi aveva rinchiuso Rosa. 

Non sapeva perché si trovasse lì, ad osservare la prigione di sua sorella. Sapeva solo che più passavano i secondi più sentiva la rabbia crescere dentro di lui. Se era uno scherzo di cattivo gusto di qualche dio che voleva sbattergli in faccia i suoi fallimenti, allora non faceva ridere. 

Si aspettò che Orochi parlasse da un momento all’altro, iniziando con uno dei suoi inutili discorsi di cui non gliene importava nulla, invece nessuno parlò. Edward realizzò si essere libero di muoversi come voleva. E realizzò anche di non essere solo nella stanza. Non c’era Orochi assieme a lui, ma Naito. 

L’han’yō, proprio come lui, osservava il bozzolo. Non fece caso al semidio. La cosa non convinse Edward, troppo abituato a essere notato durante i suoi sogni. Attese che Naito gli dicesse qualcosa, ma passarono altri minuti senza che lui aprisse bocca. A quel punto, Edward ne ebbe la conferma: non aveva idea che fosse lì. Sapeva che i semidei potevano anche fare sogni di quel genere, in cui erano solo spettatori invisibili, ma non gli era mai successo prima. 

Notò alcune abrasioni sul muso di Naito che prima di allora non aveva mai visto. Oltre alla cicatrice che lui gli aveva lasciato aveva diversi graffi e un corno spezzato. Non aveva idea di cosa gli fosse successo, ma doveva ammetterlo, quell’aspetto gli donava davvero. Gli mancavano giusto un altro paio di lividi e magari qualche dente spaccato.

Il mezzo demone si avvicinò al bozzolo e ci affondò le mani dentro, schiudendolo con una smorfia infastidita. Il volto smorto di Rosa penzolò in avanti quando Naito lo liberò. Il cuore di Edward ebbe un sussulto non appena rivide la sorella. 

Naito si fermò e osservò il viso della ragazza per un lasso di tempo che Edward trovò fastidiosamente troppo lungo. Stirò le labbra, dal suo unico occhio rosso non trapelò alcuna emozione, poi con un ultimo strattone liberò del tutto Rosa. Il bozzolo si dissolse nell’aria e il corpo della figlia di Apollo cadde in avanti, finendo dritto tra le braccia di Naito, che la sollevò a mo’ di damigella senza nessuno sforzo, tenendola sotto le ginocchia e sotto la schiena con incredibile delicatezza.

Di fronte a quella scena, Edward rimase sconvolto. Il ricordo che aveva di Rosa era quello di una ragazza tosta che non aveva paura di niente e nessuno, che avrebbe potuto fare a pezzi qualsiasi mostro con una mano legata dietro la schiena. Vederla in quel modo, inerme, tra le braccia di colui che l’aveva ficcata in quella situazione, gli fece ribollire il sangue nelle vene. Avrebbe voluto gridargli di lasciarla andare, di non toccarla, tuttavia il pensiero che Naito la stesse liberando gli attraversò la mente, giusto in tempo per essere frantumato quando lo vide marciare verso un letto sul lato di quella stanza spoglia di qualsiasi altro mobile. A quel punto, il desiderio di fargli ingoiare tutti i denti tornò a bruciare dentro di lui. 

Rosa venne adagiata sopra il materasso e il braccio rotto di lei le cadde lungo il fianco, sempre piegato in quell’angolazione innaturale. Naito lo notò e gli passò una mano sopra, sempre con quel tocco delicato che Edward cominciò a trovare disturbante. Un mugugno pensieroso gli scappò dalle labbra sigillate.

«Nanishiteruno, Naito-kun?» domandò una voce dal timbro femminile. 

L’han’yō sembrò irrigidirsi. Si voltò verso la porta della stanza, da cui due figure erano appena entrate. Edward le osservò atterrito. Una di loro era donna, sicuramente quella che aveva parlato. Era bellissima, il viso niveo, le labbra color ciliegia carnose, i capelli rossi raccolti in una crocchia intrecciata con uno spillo d’oro massiccio. Indossava un kimono rosso, dei pantaloncini corti che arrivavano appena alle ginocchia e che proseguivano poi in delle calze a rete fino ai piedi nudi indossati in dei sandali di legno. 

Edward c’era già cascato una volta, non si sarebbe lasciato fregare di nuovo dall’aspetto mozzafiato di una kitsune. Anche se questa era perfino più bella di Milù. E se Edward aveva capito qualcosa, doveva significare che era anche più potente. 

L’individuo entrato assieme a lei, invece, a primo impatto sembrò indescrivibile. La prima definizione che saltò alla mente di Edward fu "uomo-uccello". Ammesso che fosse davvero un uomo.

Aveva l’aspetto umanoide, ma era ricoperto di piume blu su tutto il corpo, ad eccezione di mani, piedi e faccia, che per inciso erano di un terrificante color verde acido. Il suo naso era la cosa più esilarante e allo stesso tempo orribile che Edward avesse mai visto: era lungo almeno trenta centimetri e sembrava uno di quei palloncini lunghi e sottili che i pagliacci nei circhi trasformavano in animaletti. I pochi capelli che aveva sulla testa erano sempre verdi, e un paio di ali dal piumaggio blu gli spuntavano dalle tempie, arrivando fino all’altezza della vita. Indosso portava una canotta e dei calzoni larghi, mentre i piedi irti e muniti di artigli erano nudi. Se ne stava gobbo, sorridendo come un ebete, le dita affilate che formicolavano.

Naito sembrò provare lo stesso disgusto che stava provando Edward quando lo guardò. Si rivolse poi alla kitsune. «Orochi mi ha detto di preparare la ragazza» rispose, sempre in giapponese.  

La kitsune lo squadrò esaminatrice, sempre con quel sorriso da femme fatale dipinto sul viso. Sembrava che stesse studiando il modo più veloce per scuoiarlo vivo. A Edward la scena sarebbe piaciuta. Inoltre, non aveva idea di cosa volesse dire "preparare" Rosa, ma ciò che stava vedendo prometteva davvero male. 

«Non capisco proprio come possa fidarsi ancora di te» disse un’altra voce. Uno tsuchinoko apparve sulla spalla della donna, frustando l’aria con la lingua biforcuta. Non appena lo vide, Edward non ebbe alcun dubbio: era lo stesso che aveva visto al Campo Mezzosangue e a La Plata. «Hai disobbedito ai suoi ordini e ti sei quasi fatto uccidere da un porco greco. L’ho sempre detto che Orochi non avrebbe mai dovuto darti quella seconda possibilità.»

«E io ho sempre detto che hai la lingua troppo lunga, Chioiji» replicò Naito, ringhiando di rabbia. «Forse è ora che te la strappi. Che ne dici?»

Lo tsuchinoko ritirò la lingua e indietreggiò con la testa intimorito.

«Calmati, meticcio» gracchiò l’uomo uccello, emettendo un irritante suono gutturale che probabilmente doveva essere una risata. La sua voce era nasale e fastidiosa, come quella di un clown che però non faceva ridere nessuno. «Solo perché Orochi ha deciso di lasciarti in vita non significa che tu sia al sicuro. Impara a stare al tuo posto, altrimenti potrebbe succederti qualcosa di davvero spiacevole.»

Naito sogghignò. Il suo sorrisetto assomigliò in maniera piuttosto inquietante a quelli di Edward. «Ti ho già rotto un braccio una volta, Bunzo. Non costringermi a farlo di nuovo.»

Bunzo strinse i pugni, mentre Naito distendeva il suo sorriso provocatorio. Per Edward fu impossibile non scorgere la tensione tra di loro, e non sembrava limitarsi solo a quella conversazione. Da quello che aveva capito durante i sogni che aveva fatto, Naito era uno dei seguaci migliori di Orochi, e forse quei tre facevano parte della stessa categoria.

«Su, su, calmiamoci tutti quanti» si intromise la kitsune, allontanando lo tsuchinoko dalla sua spalla con un gesto non molto delicato. Chioiji cadde a terra con un verso di protesta. La donna si avvicinò al mezzo demone sorridendo accomodante. «Siamo solo passati a trovarti. Continua pure con il lavoro che ti è stato affidato. Così sarebbe questa la ragazza?» 

I suoi occhi si accesero d’interesse quando esaminò Rosa. «È davvero graziosa» mormorò, con uno strano tono di voce. E sguardo, anche. «È quasi uno spreco doverla uccidere. Non trovi anche tu, Naito-kun?»

«Non chiamarmi così» sibilò Naito. «Lo detesto. E comunque non la uccideremo. Orochi ha stretto un patto con il ladro.»

L’uomo uccello si unì a loro due, ridacchiando di nuovo. Dal suo sorriso e dal suo sguardo trasudavano viscidume puro.

«Giusto, il patto…» gracchiò, per poi avvicinare la sua mano lurida al volto di Rosa. 

Edward avrebbe voluto urlare per la frustrazione. Si sentì impotente come non mai. Era stato costretto a vedere Naito toccare Rosa, e ora quello sgorbio stava per fare lo stesso di fronte a lui, senza che potesse impedirglielo. Era come se l’universo si prendesse gioco di lui, mostrandogli le persone che avrebbe voluto proteggere in piena balia dei suoi nemici.

Naito afferrò il polso di Bunzo all’improvviso, per stupore di Bunzo stesso e, soprattutto, di Edward.

«Che stai facendo?» domandò, fissandolo truce.

«Tu che stai facendo?!» protestò l’uccello. «Lasciami, schifoso mezzosan…»

Non terminò la frase: le nocche di Naito che affondavano contro il suo naso stroncarono ogni sua protesta. Bunzo rotolò a terra, afferrandosi quell’oggetto contundente che aveva come naso e gridando a perdifiato. Fiotti di sangue marrone grumoso gli scivolarono tra le dita. «Mrutto Mastardo! Bi hai rotto il vaso!»

«Orochi è stato chiaro» ribatté Naito, impassibile. «La ragazza non va toccata.»

«Sono tutte dazzate! Tu la stavi toccando!»

Il mezzosangue non lo degnò di un’ulteriore occhiata. «Io sto obbedendo a degli ordini. Tu no.»

«Bunzo! Tutto bene?» domandò lo tsuchinoko, risalendo sulla spalla dell’uomo uccello mentre si rimetteva a sedere. 

«Secondo te ba tutto vene?!» urlò l’altro. «La bagherai, mezzosangue! Ti farò bentire avaravente!»

Naito estrasse una katana wakizashi dal fodero che teneva dietro la vita, poco al di sotto della sua spada scarlatta. «Sono terrorizzato.» 

Edward si augurò che volesse sgozzare Bunzo, invece Naito riportò l’attenzione su Rosa. Le afferrò la mano e avvicinò la lama al palmo. Il figlio di Apollo inorridì.

«Aspetta» disse la kitsune all’improvviso, sollevando un braccio di fronte a lui. Il suo sorriso freddo era svanito, ora sembrava seria. 

«Che succede?» domandò Naito.

«Non siamo soli.»

La donna cominciò a guardarsi attorno, mentre un brutto presentimento si faceva strada dentro di Edward. Non appena la kitsune si voltò verso la sua direzione, sentì accapponarsi la pelle che non aveva. Si girò, credendo che qualcuno fosse apparso alle sue spalle, ma non c’era nessuno. La donna stava fissando proprio lui. 

«Non è cortese spiare, sai?» disse lei, non utilizzando più il giapponese. 

Sogghignò di nuovo, mentre una fitta peluria bianca come la neve iniziava a ricoprirle il viso. La sua mascella si allungò, il naso si fece nero, le orecchie crebbero. Assunse il suo aspetto volpino, dal manto niveo, gli occhi color ocra e i denti affilati. Appena sotto la schiena, Edward vide le sue code crescere poco per volta. Le contò: erano nove. 

La volpe a nove code si passò la lingua rosa tra i denti, famelica. «Credo tu sia finito qui per errore. Questa era una conversazione privata. Ecco…» Si avventò su di lui. «… lascia che ti mostri l’uscita!»

Edward cercò di scansarsi, ma il suo corpo rimase immobile. Le fauci spalancate della donna furono l’ultima cosa che riuscì a vedere. 

 

***

 

Edward riaprì gli occhi. Come prima cosa venne accecato dalla luce del giorno, che gli trafisse bruciante come una fornace le palpebre ancora stanche ed assonnate. L’intero corpo gli faceva un male cane, ma non per via delle ferite che aveva subito, quelle erano quasi del tutto guarite; sentiva dolore per via del pessimo giaciglio su cui aveva scelto di riposare, una fantastica panchina di ghisa.

Drizzarsi fu un’agonia per via della schiena che, ne era certo, dopo essere rimasta così a lungo su quella superficie non sarebbe mai più stata la stessa. Con dei mugugni degni da paziente dell’ospizio riuscì a mettersi seduto e una scia di fitte di dolore gli attraversarono l’intero organismo, a partire dalle spalle dure come il marmo fino alle gambe atrofizzate. Aveva tenuto la testa appoggiata su un braccio, perciò ora se lo sentiva completamente addormentato. Si appoggiò contro lo schienale della panchina e un lungo grugnito infastidito gli scappò dalla bocca. Pessima idea dormire lì. Pessima, pessima idea.

Fece scivolare lo sguardo sul luogo dove aveva scelto di pernottare. Era un normalissimo parco, con alberi, panchine, giostre per bambini, una fontana e un campetto da basket occupato da un paio di ragazzi. Al di là di esso, si trovava la strada affollata di Sacramento. Dopo aver corso e camminato tutta la notte era riuscito ad arrivare alla città attorno sei del mattino, con le gambe a pezzi e lo spirito messo anche peggio, quindi aveva poeticamente deciso di dormire all’aperto, su quella panchina. Non era la prima volta che faceva una cosa del genere, dopotutto. Poteva ringraziare gli allenamenti con Rosa se era riuscito a viaggiare così a lungo senza rimanerci secco.

A giudicare dal numero di persone che affollavano il parco e dalla posizione del sole, ormai doveva essere mattino inoltrato. Due ragazzi passarono accanto alla sua panchina proprio in quel momento. Erano una coppietta, si tenevano per mano, e a giudicare da come si stessero sforzando di non guardarlo dovevano credere che lui fosse un barbone o cose del genere.

«Scusate» mugugnò, con voce impastata. «Sapete l’ora?»

I due tirarono dritti. Edward pensò che non fosse affatto carino ignorare i più bisognosi. 

«Ehi» rantolò, alzandosi in piedi. Barcollò come un ubriaco, ma riuscì a non cadere a terra. «Avete l’ora, sì o no?» 

Quei poveracci si voltarono spaventati a morte. Il figlio di Apollo non poteva davvero biasimarli, non si vedeva allo specchio da un bel po’ di giorni ed era scampato alla morte un paio di volte per un pelo, in più con la cicatrice sulla faccia non doveva avere il più rassicurante degli aspetti, però aveva solo chiesto l’ora. Non era il caso di guardarlo in quel modo.

«Le undici» rispose il ragazzo, teso come una corda di violino, mentre la sua fidanzata stringeva più forte la sua mano.

Edward fece una riverenza. «Grazie.»

Diede le spalle a quei due e si allontanò prima che chiamassero la polizia.

Il giorno prima era stato troppo impegnato a non farsi uccidere per pensarci, ma respirare di nuovo l’aria californiana, lo stato in cui era nato e cresciuto, fece sorgere un misto di nostalgia e tristezza dentro di lui.

Ricordava Sacramento, c’era stato un paio di volte quando ancora viveva in California. Aveva girato molte città assieme a sua madre, anche se la maggior parte delle volte non l’avevano fatto proprio come turisti. Quella era la capitale, un grande centro economico, maggior esportatrice dei prodotti della Valle Centrale. E a lui di tutto quello non poteva fregargliene di meno.  

Camminò sul marciapiede a testa bassa, evitando occhiate indiscrete. Un espositore di occhiali da sole fuori da un negozietto di souvenir si ritrovò, misteriosamente, senza un paio di Ray-Ban fasulli quando gli passò accanto. Non lo chiamavano “ladro” per niente, del resto.

Proseguì il suo viaggio verso non sapeva bene dove con gli occhi celati e il cappuccio sulla testa, guizzando con lo sguardo verso qualsiasi dettaglio che gli sembrasse fuori posto. Era solo, dopotutto, e l’energia di Ama no Murakumo era ancora lì ad accompagnarlo. I mostri avrebbero fiutato il suo buon odore da miglia e miglia di distanza come una grigliata del quarto di luglio. Inoltre ormai era di nuovo un latitante, anche le cacciatrici e i suoi amici lo avrebbero cercato. Doveva sbrigarsi ad arrivare a San Francisco.

Ma prima doveva fare colazione.  

Mentre cercava un luogo adatto, Edward rimuginò sul suo sogno. Come sempre, non aveva la più pallida idea di che cosa pensarne. Naito stava per fare qualcosa con quella spada, prima che la kitsune lo fermasse. Non credeva volesse uccidere Rosa, visto che lui stesso aveva detto che non l’avrebbero fatto, però la vista di quella lama lo aveva comunque allarmato. Giurò a sé stesso che se al momento dello scambio avesse trovato Rosa con anche solo un graffio, allora qualcuno si sarebbe fatto male. 

Come se non bastasse, aveva scoperto che le file di Orochi potevano contare non solo sugli oni ma anche su creature molto più potenti, come quella kitsune. Milù era stata un’avversaria temibile, e lei aveva solo cinque code. Quella tizia ne aveva nove, era una kitsune completa, di gran lunga più pericolosa di un mostro comune. Sembrava che non ci fosse un limite al peggio.

Il suo stomaco gorgogliò non appena individuò una tavola calda sull’angolo della strada, un edificio squadrato con ampie finestre e una grossa insegna al neon spenta. Le sue preoccupazioni potevano attendere: era ora di mettere qualcosa sotto i denti.

L’odore di caffè, uova e pancetta lo inebriò non appena mise piede dentro il bar. Non c’era molta gente dentro, due persone sedute al bancone e altre tre sedute ai tavoli, tutti mortali troppo impegnati a farsi i fatti loro per notarlo. Andò a sedersi al tavolo contro l’angolo, dove sarebbe rimasto lontano da occhi indiscreti, e attese la cameriera. Il suo sguardo scivolò su un giornale che qualcuno aveva lasciato lì sopra, dove alcune inserzioni catturarono il suo interesse.

La prima parlava del cantiere di Chicago, dove l’incredibile fenomeno della vegetazione risorta all’improvviso aveva scaturito l’interesse di centinaia e centinaia di diversi enti, tra televisioni, giornali, scienziati, politici e perfino autorità. Anche se le piante avevano smesso di crescere, i lavori di bonifica, e soprattutto quelli edili, sarebbero rimasti in sospeso fino a tempo indeterminato, mentre ulteriori accertamenti venivano effettuati.

Leggere quella notizia lo fece pensare a Steph. Lo stomaco gli andò di nuovo in subbuglio, ma non per la fame. Scacciò via quella sensazione. Doveva smetterla di tormentarsi, tra loro non avrebbe mai funzionato in ogni caso. Era ora che si mettesse il cuore in pace una volta per tutte. Si fece forza e continuò a leggere.

Dovette litigare un po’ con la dislessia, ma riuscì a decifrare un’altra inserzione: “Gli rubano l’auto e poi si scusano con lui: la bizzarra storia di un cittadino di Chicago.”

Edward sorrise senza nemmeno accorgersene. Quella storia aveva un che di famigliare. Chissà come stava Tommy. Bene, si augurava. Assieme a Steph, era la persona migliore che avrebbe potuto conoscere. Non aveva mai avuto amici veri, il figlio di Ermes era stato il primo. Un motivo in più per salvare Rosa era anche quello, avrebbe dato a Thomas la chance di farsi avanti. Anche se Rosa con tutta probabilità lo avrebbe fatto esaurire nel giro di due giorni, visto che con Edward aveva quasi fatto lo stesso. Il pensiero lo fece sorridere ancora di più.

«Vuole ordinare?»

Il ragazzo trasalì. La cameriera era apparsa dal nulla accanto a lui, con uno di quegli affari digitali per prendere le ordinazioni in mano. Era giovane e graziosa, vestita con la divisa rosa e bianca del ristorante. 

«Ha già deciso cosa vuole?» chiese, formale. Non sembrava così spaventata di lui, forse lavorando in un locale all’angolo di una strada aveva visto di peggio.

Edward si accorse del menù sul tavolo, accanto al giornale, e fece un verso incerto. Non l’aveva nemmeno letto. «Ehm… qui li fate i waffles?» 

La cameriera corrucciò la fronte. «No, mi dispiace. Possiamo farle dei pancake se vuole.»

«Ah.» Un’espressione lugubre marciò sul volto di Edward. «Allora prendo i pancake.»

La cameriera annotò l’ordinazione e si allontanò. 

«Stupidi pancake» borbottò Edward, riportando la testa sul giornale. 

Sfogliò distrattamente le pagine. Trovò notizie sul deragliamento del treno, che era avvenuto solo il giorno prima ed eppure ad Edward sembravano passati già secoli. Per fortuna non c’erano state vittime di alcun genere, nessun passeggero era rimasto ferito gravemente e soprattutto nessuno era smarrito. 

Si accorse che non avevano considerato lui e Stephanie, ma forse era proprio per merito di quel tizio misterioso che avevano incontrato. Se non altro i mortali stavano tutti bene.

Un’altra inserzione che catturò la sua attenzione fu quella riguardante la loro sventura all’aeroporto. Ciò che lesse lo lasciò senza parole: i responsabili non erano più ritenuti loro cinque. A quanto sembrava, c’erano stati degli errori di riconoscimento, qualsiasi cosa significasse, e quindi sia lui che Konnor non erano più ritenuti colpevoli di quegli avvenimenti, così come il resto dei loro compagni. Scosse la testa, non sapendo se dovesse essere incredulo o meno. La Foschia era proprio una strana belva. Doveva dar credito a Chirone, era davvero riuscito a sistemare le cose. Peccato solo che fosse in ritardo di sei giorni.

«Posso sedermi?» domandò un’altra voce. 

Edward drizzò di nuovo la testa. Avrebbe dovuto provare stupore osservando quel tizio apparso dal nulla di fronte a lui. Eppure, non accadde. L’unica cosa che provò fu un moto di rabbia.

«Ti stai divertendo?» domandò infastidito.

Il mendicante di Kansas City sfoggiò i denti giallognoli in un sorriso e si sistemò meglio gli spessi occhiali da sole sopra il naso. «Molto più di quanto non dovrei.»

Si sedette senza nemmeno attendere il permesso per farlo. Il figlio di Apollo grugnì infastidito e scansò il giornale. «Si può sapere chi sei?»

«Non ci sei ancora arrivato?» rispose lui, sempre senza smettere di sorridergli. Avvicinò le dita grinzose al menù e cominciò a leggerlo.

Edward si appoggiò contro lo schienale, incrociando le braccia. Aveva alcune idee su chi potesse essere quell’uomo, in primis che fosse proprio suo padre Apollo. Tuttavia aveva sentito alcune ragazze del Campo Mezzosangue parlare di suoi padre in maniera che avrebbe preferito non sentire mai, e le descrizioni di lui che aveva udito non combaciavano per niente con l’individuo barbuto trasandato e malvestito che aveva di fronte e che pareva più interessato al menù che a lui. «Mh. Non so proprio cosa scegliere. Ci sono un sacco di cibi che non ho mai provato. Tu che mi consigli?»

«Tarantole grigliate.»

Il barbone corrucciò la fronte, esaminando il menù meticolosamente. «E dove sarebbero?»

«Ascolta, dimmi cosa vuoi e facciamola finita» sbottò Edward. «Sono stanco delle prese in giro.»

Il barbone mollò finalmente il foglietto plastificato e lo squadrò con un sorriso enigmatico. «Per essere uno che ha deciso di perdere tempo in un ristorante, sei piuttosto impaziente.»

Quella frase lo punse sul vivo. Distolse lo sguardo, non sopportando l’idea di non avere una risposta per le rime già pronta. «Avevo fame» si giustificò.

«E in questo non c’è niente di sbagliato. Tutti hanno fame.» Il barbone tornò a esaminare il menù. «Lascia mangiare anche me, poi discuteremo.»

Edward ormai non aveva più dubbi, lo stavano davvero prendendo in giro. 

Mentre l’uomo teneva il naso incollato sul menù, Edward cominciò all’improvviso a sentirsi osservato. Guardò fuori dalla finestra, concentrandosi sulle persone che passeggiavano, le macchine che passavano, i vicoletti, ma non vide nulla di fuori posto. Storse il naso per nulla convinto di quella quiete apparente. Non credeva affatto di aver preso un abbaglio. C’era qualcosa là fuori, lo sentiva nelle interiora.  

Dopo alcuni minuti intrisi di silenzio imbarazzato, la cameriera fece ritorno con i pancake. Per lui sarebbero per sempre stati gli eterni secondi dopo i waffles, ma doveva ammetterlo, erano davvero invitanti. Erano impilati uno sopra l’altro, conditi con sciroppo d’acero, panna e ribes. Il suo stomaco andò in subbuglio non appena li vide.

Nel frattempo la cameriera non sembrò badare al fatto che il barbone seduto assieme a lui fosse apparso dal nulla, così come non sembrò nemmeno badare al fatto che, appunto, fosse un barbone. 

«Qual è il piatto del giorno, mia cara?» domandò quello con garbo. «Possibilmente qualcosa di salutare, se non è troppo chiedere.»

«La nostra torta salata è una vera prelibatezza, signore» rispose la cameriera, sorridendo estasiata.

L’uomo unì le mani e le rivolse un piccolo inchino. «Vada per la torta, allora.»

La giovane annuì e si allontanò come se le fosse successa la cosa migliore della sua vita. Rimasto ad osservare la scena in silenzio, Edward scosse contrariato la testa. Prese la forchetta e azzannò i pancake di gusto. Erano deliziosi, un vero toccasana per il suo stomaco arido.

«A proposito» mugugnò mentre masticava quella poltiglia così dolce da cariare i denti. «Pensavo di scappare senza pagare, ma visto che ci sei anche tu non ti dispiace offrire, vero?»

Per una volta, fu l’uomo a rimanere senza parole.

 

***

 

«Non sei stato cortese a lasciarmi da solo con il conto» si lamentò il barbone quando furono fuori dalla tavola calda.

Soddisfatto per la gustosa mangiata, Edward si stiracchiò, sciogliendo i nervi ancora rigidi dopo la pessima dormita. «E tu non sei cortese a non dirmi chi sei. Siamo pari.»

Si avviò lungo il marciapiede. Doveva essere mezzogiorno ormai. Aveva già perso fin troppo tempo.

«Dove stai andando?» gli domandò l’individuo.

Edward sollevò una mano. «A San Francisco.»

Se lo ritrovò accanto, a camminare insieme a lui. «Vuoi andarci da solo?»

«Quello è il piano. Vuoi venire anche tu?»

Il barbone assottigliò le labbra. «Ragazzo, dovresti prendere la faccenda più seriamente. Non puoi andare ad affrontare Orochi da solo.»

«E chi ha parlato di affrontare?» ribatté Edward, sbattendo contro un pedone che non si era scansato in tempo. Gli urlò qualcosa dietro, ma lui nemmeno lo sentì.

«E allora che intendi fare?» proseguì il barbone.

«Non sono affari tuoi.»

Percorsero un altro centinaio di metri senza che nessuno aprisse più bocca. Edward sperò che decidesse di lasciarlo in pace, ma come al solito quando chiedeva qualcosa otteneva l’esito opposto. 

«Quindi hai deciso» disse quello, ignorando i vari segnali che gli chiedevano non molto gentilmente ti cucirsi le labbra. «Vuoi davvero consegnargli la spada.»

Edward rimase in silenzio. Non aveva idea di come quel tizio facesse a sapere la verità, ma non ne fu così sorpreso. Orochi gli aveva detto che nessuno avrebbe scoperto il loro patto, ma forse non era al corrente del fatto che tutti sapessero sempre tutto di tutti in quello schifo di mondo. Inoltre il mendicante di Kansas City non era un uomo comune. Era chiaro che anche lui fosse un dio sotto mentite spoglie e se non l’aveva ancora ucciso nonostante sapesse la verità su di lui, allora non lo avrebbe fatto nemmeno in futuro.  

«Ascolta, ragazzo. Forse credi di conoscere le intenzioni di Orochi, ma ti sbagli. Quando avrà finito con gli dei, lui non si fermerà. Cancellerà ogni traccia di loro. Monumenti, artefatti, templi, perfino i loro figli. Non vuole rischiare che qualcun altro possa ostacolarlo. Di lui non ci si può fidare.»

«Fico» rispose Edward senza neanche guardarlo. «Hai finito ora?»

Venne afferrato per il braccio all’improvviso. Si voltò e vide il mendicante scrutarlo severo, malgrado gli occhiali da sole. Cercò di dimenarsi, ma fu come tentare di liberarsi da una pressa industriale. 

«Lo so cosa speri di fare» disse l’uomo. «Però non puoi consegnare la spada a Orochi. Se lo farai, sarà la fine per tutti noi.»

Sempre la stessa storia. Cos’era, la milionesima volta che la sentiva? Lo credevano così stupido da non sapere già quelle cose?

«Orochi è stato già sconfitto» ribatté Edward. «Me l’ha detto lui stesso. Mi vuoi dire che tutti gli dei insieme non possono batterlo se cercherà di ucciderli?»

«Non se avrà Kusanagi-no-tsurugi.» Il mendicante sembrò invecchiare all’improvviso di mille anni. «Per sconfiggerlo la prima volta ci sono volute molte ore di battaglia ininterrotta, e per di più lui era ubriaco. Immagino che tu conosca ormai il potere della spada, e quello che può fare. Se Orochi sarà al massimo delle sue forze, per di più alimentato dall’energia di Kusanagi-no-tsurugi, allora non ci sarà dio in grado di fermarlo. Figliolo, c’è un motivo se gli dei hanno continuato a governare per tutto questo tempo.»

«Già, il motivo è che hanno obbligato i loro figli a risolvere i loro problemi!» gridò Edward frustrato. Altri mortali si voltarono verso di loro perplessi, ma decisero saggiamente di continuare a farsi i fatti propri. Magari li avevano scambiati per due senzatetto che stavano litigando.

«No, ragazzo, non è solo questo» rispose il mendicante, rimanendo calmo anche se per la prima volta cominciò ad apparire quasi angosciato. Posò le mani sulle sue spalle, chinandosi verso di lui. Edward si aspettava che avesse un alito terribile, invece era inodore. «Che tu ci creda o meno, gli dei sono importanti per il funzionamento del mondo. Conosci la storia della tua gente, dico bene? Dimmi, che cosa c’era prima degli dei? Chi governava prima di tutti loro?»

Edward assottigliò le labbra. Non aveva mai prestato particolare attenzione alle lezioni che gli avevano dato al Campo Mezzosangue, eppure conosceva la risposta a quella domanda. 

«Chaos» disse, irrigidendosi subito dopo. Un lungo brivido gli attraversò l’intera colonna vertebrale non appena pronunciò quel nome. La terra stessa sembrò scuotersi leggermente.

Il potere dei nomi, pensò Edward. 

Anche l’uomo sembrò provare una sensazione di sconforto, ma annuì. «Credi che sia solo una coincidenza il fatto che la parola "Caos" derivi da quel nome? Senza gli dei, questo accadrebbe. Caos. Senza nessuno a governare i mari, il cielo, il clima, l’aria che respiri, sarebbe la fine del mondo come lo conosci. Per questo gli dei devono continuare a regnare.»

Il semidio lo scrutò per alcuni istanti. Non gli aveva detto nulla che già non sapesse. Notizia straordinaria: gli dei erano importanti. Loro controllavano questo, quello e quell’altro. Però mancava ancora una parte, quella più importante. 

«Salvare gli dei non mi restituirà Rosa» affermò, conficcandosi le unghie nei palmi per la rabbia. «Lei non sarà l’unica vittima di questo gioco malato di mostri e dei. Mi rifiuto di accettarlo.»

«Ragazzo, ascolta…»

«No. Ho ascoltato abbastanza.» Edward riuscì finalmente a scostarsi quelle mani di dosso. Fece un passo indietro. «Se non consegno la spada, gli dei si dichiareranno guerra. Ma se la consegno, mia sorella morirà. Mi state chiedendo di scegliere tra qualcosa di cui non mi importa niente e quella di cui invece mi importa più di ogni altra.»

«E cosa speri di fare una volta salvata tua sorella?» domandò allora l’uomo, con voce più morbida. «Credi che Orochi davvero vi risparmierà?»

«Se non la lascerà andare allora sarà peggio per lui.» Edward si avvicinò all’uomo, togliendosi gli occhiali da sole per osservarlo senza filtri. L’aria si caricò di elettricità. «Salverò Rosa. E se non sei d’accordo con me, allora dovrai fermarmi con le cattive. E anche in quel caso, ti garantisco che non ci riuscirai.»

Si squadrarono a lungo, occhiali da sole nelle iridi castane. I pedoni passavano accanto a loro due senza nemmeno vederli. A un palmo dai loro nasi, Edward era pronto a sguainare Ama no Murakumo e affrontare quell’individuo, chiunque egli fosse, ed era sicuro che avrebbe scatenato un putiferio. 

Il barbone lo guardò a lungo senza dire o fare nulla. A causa degli occhiali da sole, Edward non poteva vedere la sua reale espressione, ma per tutto il tempo sembrò scrutarlo dritto nell’anima. Tutto a un tratto, per sua enorme sorpresa, gli rivolse un piccolo sorriso divertito. Quella era l’ultima cosa che il semidio si aspettava di vedere. 

«Che c’è di divertente?»

L’uomo denegò con la testa, senza far sparire quel sorrisetto. «Niente, niente. È solo che mi ricordi com’ero un tempo.»

Edward schiuse le labbra, atterrito al pensiero di assomigliare in qualsivoglia modo a quello straccione. 

«Non ti fermerò» proseguì quello, distogliendo lo sguardo da lui, indirizzandolo verso chissà dove. «Sei libero di proseguire.»

«Oh.» La notizia lo lasciò genuinamente sorpreso. Credeva che avrebbe dovuto lottare molto più duramente per liberarsi di lui.

Il tizio sollevò un indice, per frenare qualsiasi entusiasmo. «Ma visto che vuoi proseguire da solo, ci sono un paio di informazioni importanti che vorrei darti.»

«Del tipo?» domandò il ragazzo riluttante.

Quello sorrise ed iniziò a parlare. Edward, man mano che sentiva quelle parole, spalancò gli occhi sempre più incredulo.

L’uomo gli parlò di Orochi, spiegandogli come funzionavano i suoi poteri e raccontandogli che un tempo, quando ancora era un mostro gigantesco, Ama no Murakumo venne ritrovata nel suo corpo, dopo la sua sconfitta. Ecco perché Orochi continuava a ripetere che la spada appartenesse a lui. Era stata letteralmente dentro di lui, millenni e millenni prima.

Il mendicante gli parlò anche di Naito. Al figlio di Apollo non importava nulla dell’han’yō, ma ricevere quelle informazioni su di lui lo lasciò di sasso al punto che abbassò la testa sulle mattonelle del marciapiede. Detestava ancora quell’essere per ciò che aveva fatto a Rosa, però… sentire quella storia assurda gli rese quel compito molto più arduo. Capì perché Naito stesse lavorando per Orochi, intuì da dove arrivasse l’astio che c’era tra lui e gli altri mostri e realizzò perché Orochi lo avesse assoldato tanto per cominciare. In effetti, ciò che aveva scoperto avrebbe potuto essergli davvero utile.

Ma soprattutto, il sogno che aveva fatto quello stesso giorno gli fu finalmente chiaro. Ora sapeva che cosa stavano facendo con Rosa e, la cosa più importante, sapeva cosa volesse fare Orochi per davvero. Sospettava già di saperlo, grazie a quello che Artemide gli aveva detto, ma quel tizio gli diede la conferma di tutte le sue teorie.

Alcuni sospetti sulla vera identità di quel barbone presero forma nella sua mente. Iniziava a credere di sapere davvero chi fosse quel tizio, ma allo stesso tempo era convinto di sbagliarsi. In ogni caso, tutte quelle informazioni non fecero altro che renderlo ancora più determinato ad arrivare fino in fondo a quella faccenda.

«Bene, siamo arrivati» disse infine il barbone, fermandosi. 

Edward inarcò il sopracciglio. «Arrivati dove?» Poi si accorse della fermata dell’autobus sul bordo della strada.

«Il prossimo autobus porta a San Francisco» spiegò l’uomo. «Non è quello che cercavi?»

Edward s’era perfino dimenticato il motivo per cui si era messo a girovagare per la città come uno zombie. «Sì, sì, certo» rispose, stupito.

«Allora le nostre strade si dividono ancora, figlio di Apollo.»

«Aspetta, quindi… volevi solo dirmi quello? Mi vuoi davvero lasciare andare? Anche se pensi che la mia è la scelta sbagliata?»

«Ragazzo mio, non esistono né scelte sbagliate, né giuste» rispose quello, sorridendogli di nuovo. «La scelta che hai preso è quella che tu ritieni giusta per te, mentre per qualcun altro è quella sbagliata. È tutta una questione di punti di vista. Comunque andranno le cose, io so che le azioni che ti spingono a proseguire sono le più sincere. Non ti sei mai fatto problemi ad ammettere di non voler essere un eroe, né di non volerti trovare qui, ma hai comunque perseverato, e la cosa ti rende onore. Non ti ho mentito prima, mi ricordi davvero com’ero io molti anni orsono. Sia tu che Kate me lo ricordate, in un certo senso. Siete davvero… persone interessanti.»

«Un attimo…» sussurrò Edward, scosso da un sussulto. «… tu la conoscevi? Conoscevi mia madre?»

Il sorriso dell’uomo si addolcì. «Buona fortuna, figliolo. Spero di rivederti.»

Gli rivolse lo stesso inchino che aveva rivolto alla cameriera nel ristorante e gli diede le spalle. Edward lo seguì con lo sguardo fino a quando non girò l’angolo, sentendo le orecchie ronzare. «N-No! Fermati!» 

Gli corse dietro, ma non appena svoltò non vide quel tizio da nessuna parte. Si era volatilizzato nell’aria, quasi come se non fosse mai stato lì, come se fosse stato tutto frutto della sua mente. Ma lui sapeva che in realtà non aveva immaginato un bel niente.

Edward strinse i pugni e alzò lo sguardo al cielo, proprio verso il sole. Non era sorpreso del fatto che Apollo non avesse fatto parte dell’elenco di dei che aveva incontrato, ma si augurò che quel codardo lo stesse guardando almeno in quel momento, visto che il suo stesso figlio stava andando a risolvere i casini che lui aveva combinato. 

Avrebbe potuto portarlo al Campo Mezzosangue quando era ancora bambino, avrebbe potuto dire al resto degli dei che Edward aveva la Spada del Paradiso, ma non l’aveva fatto. Aveva preferito nascondersi e lasciare che Kate venisse portata via, aveva lasciato che l’Olimpo si fosse trovato sull’orlo di una guerra e per finire aveva abbandonato Rosa, lasciandola in una casa che lei non aveva mai sentito sua, lasciandola senza una guida e senza nessuno su cui contare davvero. Edward giurò a sé stesso che se mai l’avesse incontrato allora niente gli avrebbe impedito di sferrargli un pugno in faccia.

Ritornò verso la fermata dell’autobus e si sedette ad aspettare. Sapeva molto bene che cosa avrebbe fatto una volta a San Francisco, una volta entrato in quel museo, e forse anche quell’uomo l’aveva capito, per questo lo aveva lasciato andare. In effetti, il mendicante di Kansas City era stato l’unico individuo che gli era stato davvero di aiuto durante quel viaggio.

Tutto ormai sembrava essere stato deciso. Orochi era pronto a cantar vittoria, mentre gli dei stavano per dichiararsi guerra. Tutti quanti erano convinti di sapere che cosa stava per succedere: beh, allora tutti quanti avrebbero ricevuto una bella sorpresa.

Edward era stato sballottolato dagli eventi per troppo tempo: ora sarebbe stato lui a sballottolare loro.

 

***

 

Per fortuna si era fatto offrire la colazione, così aveva potuto usare gli ultimi spiccioli che aveva in tasca per pagarsi il biglietto del bus. Si era accomodato in un sedile accanto al finestrino e aveva immediatamente chiuso gli occhi. Ci sarebbero volute due ore di viaggio, suppergiù, perciò poteva sfruttarle per riposare ancora un po’.

Il pullman aveva continuato a muoversi e fermarsi, passando di fermata in fermata, destreggiandosi in mezzo al lento traffico di Sacramento. La testa di Edward aveva continuato ad ondeggiare in avanti e indietro, facendogli rischiare di sbatterla contro il finestrino un paio di volte. Alla fine, irritato, aveva riaperto gli occhi e aveva escluso l’opzione “riposo”. 

Rimase a osservare assorto gli enormi palazzi di acciaio, cemento e vetro di Sacramento. In loro non notò alcuna differenza rispetto a quelli che aveva visto a New York, o Kansas City, o qualsiasi altra grande città in cui fosse stato. In un certo senso era buffo: aveva fatto due viaggi costa a costa nel giro di quegli anni, eppure non ricordava una sola cosa in particolare di tutte le città che aveva visitato. L’unica che gli saltava alla mente probabilmente era la Union Station di Kansas City. Il suo obiettivo non era mai stato fare il turista, però diamine, qualche sosta di piacere qua e là avrebbe anche potuto concedersela di tanto in tanto. Un sorriso amaro nacque sul suo volto a quel pensiero.

«È occupato?» domandò una voce aggraziata all’improvviso. 

Edward si voltò. Un gruppetto di persone era appena salito sul pullman e stavano tutti quanti prendendo posto, inclusa la stupenda ragazza che si era rivolta a lui. Il semidio si tolse gli occhiali da sole per assicurarsi di vedere bene. Quella distese il suo sorriso gentile. Aveva le labbra lucide, sensuali, lunghi capelli neri e setosi intervallati da mèches viola, occhi azzurri come pozze d’acqua cristalline e un’efelide poco sopra la guancia. Indossava un top nero che le lasciava le spalle e l’ombelico scoperti, dei leggins corti sempre neri che la facevano sembrare ancora più snella di quanto già non fosse e una borsetta a tracolla. Dal fisico ben definito e dall’abbigliamento sembrava una ginnasta.

«Ehi?» incalzò lei facendogli un cenno con la mano, ridacchiando. «Allora, ti spiace se mi siedo qui?»

Edward si riscosse e le sorrise. Nessuna ragazza gli aveva mai sorriso in quel modo, prima di quel giorno. E soprattutto nessuna di così bella. Il fetore di quella trappola era tale da farlo svenire. «Certo che no. Siediti pure.»

Quella obbedì, accomodandosi accanto a lui, scuotendo le anche in maniera così cinematografica da far ridere. Un palo di legno sarebbe stato più convincente di lei. 

«Grazie. Pensavo che…» s’interruppe, osservandolo meglio in faccia. Gli rivolse un’espressione di sconforto. «Ehi, ma… che ti è successo?»

Edward si sfiorò la cicatrice d’impulso. Sollevò le spalle. «Una donnona di tre metri ha provato a baciarmi, ma le cose sono finite male.»

Sorprendentemente, una risata scappò dalle labbra di lei. Edward corrucciò la fronte. Ok, quella era una reazione che lui non s’era aspettato.

«Sei simpatico» trillò quella con entusiasmo, per poi porgergli una mano. «Io sono Courtney. Lieta di conoscerti.»

Allibito, Edward guardò prima la mano, poi lei. Per l’ennesima volta in quella mattinata senza fine, pensò ad uno scherzo. 

«Edward» mugugnò, ricambiando la stretta. Come se quella tizia già non lo sapesse chi fosse lui. Aveva la pelle morbida e una presa parecchio salda, constatò.

«Di dove sei, Edward?» domandò Courtney dopo avergli lasciato la mano.

«Arrivo da New York, ma un tempo vivevo qui in California.»

La ragazza sorrise eccitata. «Da New York? Pazzesco! Io sono di Philly!»

«Wow» fu l’unica cosa che riuscì a replicare lui, mentre pensava a quanto stupido fosse quel soprannome. «Ma che coincidenza.»

Courtney annuì, per nulla turbata dal suo tono sarcastico. «Quindi vivevi qui? E come ti trovavi?»

«Faceva abbastanza schifo. Ho rischiato di morire un mucchio di volte.»

L’entusiasmo della ragazza si smorzò. Cercò di ridacchiare di nuovo, ma questa volta sembrò fare più fatica. «E quindi… vai anche tu a San Francisco?»

Edward rispose con un mugugno, infilandosi la mano nella tasca della felpa, dove teneva nascosto il coltello di bronzo celeste.

«E cosa ti porta alla città più ventosa d’America?»

«Vado a trovare un amico» rispose lui, irritato. Quella tipa era davvero determinata a spacciarsi per una mortale curiosa, poteva concederglielo.

«Davvero? È un amico con cui avevi perso i contatti?»

«È un serpente con otto teste che mangia vergini e che vuole distruggere il mondo.» Edward sorrise freddamente. «Dimmi, per quanto ancora vuoi continuare con questa pagliacciata?»

Courtney batté le palpebre un paio di volte, basita. «C-Cosa?»

«Cosa, cosa, cosa» ripeté lui, quasi cantilenando, per poi estrarre il coltello e affondarglielo nella gola. «Ora ne ho abbastanza!»

La ragazza gridò mentre il coltello affondava sotto il suo mento… e lo penetrava senza nemmeno scalfirla. Courtney si alzò in piedi di scatto, arretrando da lui tenendosi le mani sopra il petto e guardandolo sgomenta. Edward spalancò gli occhi. Sentì l’adrenalina calargli drasticamente. Lei lo fissò spaventata ancora per diversi istanti, coprendosi il petto come se lui avesse mirato a quello e non al collo. Quella tizia… era davvero una mortale. Una mortale graziosa che si era messa a parlare con lui. E lui aveva appena cercato di accoltellarla.

Edward pensò di essere il più grande idiota che fosse mai esistito. Se c’era un record che riguardava tutte le idiozie che aveva fatto, allora lo aveva appena stracciato. Mise via il coltello, anche se non credeva che lei potesse vederlo davvero per quello che era, poi alzò le mani per mostrare di essere innocuo. 

«O-Ok» cominciò a dire, con tono calmo. «Ora… ora ascoltami…»

Ma Courtney non l’ascoltò. Lo scrutò come se fosse un mostro per altri lunghi e strazianti secondi, durante i quali Edward si maledisse con tutto sé stesso con ogni vocabolo di sua conoscenza, poi si allontanò quasi di corsa da lui. Rimase da solo, a soffocare sotto gli sguardi di alcuni mortali curiosi che si erano girati verso di loro, attirati dal grido della ragazza.

Edward si rimise a sedere composto, morendo di vergogna, e provò ad osservare di nuovo fuori dal finestrino come se nulla fosse, ma gli fu impossibile. Non aveva idea di che cosa Courtney avesse visto quando l’aveva assalita. Forse credeva che avesse cercato di toccarla, o comunque di fare altre cose da degenerato. Per fortuna il bronzo celeste non funzionava sui mortali, altrimenti l’avrebbe uccisa. Questo però non giustificava le sue azioni. Si era comportato come una bestia. Il cuore rischiava di saltargli fuori dal petto per quanto forte stava battendo. Si passò una mano sopra gli occhi, resistendo di poco all’impulso di darsi un pugno da solo.

Ripensò a come si era comportato con Stephanie e con Artemide. Poteva aggiungere anche quella povera mortale alla lista delle vittime dei suoi sfoghi di rabbia. Quel viaggio, quell’impresa, la stessa Ama no Murakumo, lo stavano trasformando in un mostro. Affondò il volto tra le mani, sospirando con forza. Avrebbe dovuto scusarsi con quella mortale, più tardi. Non poteva farlo in quel momento, non voleva spaventarla di nuovo. Tornò a fissare l’esterno e non ebbe idea di quanto tempo passò ancora in quel modo.

Forse era quello il motivo per cui era sempre stato solo. Forse non era mai stata davvero colpa dei pregiudizi che avevano di lui. O forse i pregiudizi non erano mai stati infondati. Da quando aveva perso Kate era sempre stato arrabbiato, scontroso, cinico, la pecora nera di qualsiasi luogo in cui fosse andato, incluso il Campo Mezzosangue. Non era mai stato capace di tenere le persone vicine a sé, in compenso era un campione nell’allontanarle. Forse si meritava davvero tutto quello che gli era successo.

Appoggiò la testa contro il finestrino. La sua unica consolazione era che tutto stava per finire una volta per tutte.


 
 

 


 
 
Due note tecniche. Nella parte riguardante il sogno, i dialoghi tra Naito e i mostri non erano in corsivo perché in giapponese, però siccome Edward può capirlo e siccome noi ora vediamo la storia sotto il suo punto di vista, erano comprensibili anche per noi. Quando la kitsune smette di usare il giapponese, infatti, il testo è tornato in corsivo.
 Ero un po' incerto sulla parte finale del capitolo, quella riguardante Courtney, diciamo che comunque è servita più che altro come punto esclamativo per mostrare il carattere sempre più esplosivo ed instabile di Edward. Può sembrare una scena da nulla, ma avrà ripercussioni importanti per il suo arco.
 Il dialogo tra il mendicante di Kansas City ed Edward, invece, forse potrebbe sembrare poco chiaro ora, ma anche quello avrà sviluppi molto importanti, specialmente per il prossimo capitolo di cui non voglio fare spoiler ma... sì, penso che sia piuttosto chiaro cosa accadrà.
 Questo è stato l'ultimo capitolo "tecnico", lo prometto. Nel prossimo ci saranno sviluppi importanti. Grazie per essere riusciti a resistere fino a questo momento, dico sul serio. Grazie Roland e Farkas per le recensioni, mi fate una persona felice. Alla prossima!

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Capitolo 30
*** San Francisco ***


Inserisco qui la mia nota dell'autore perché al fondo del capitolo potrebbe rovinare un po' l'atmosfera. Allora, parto con il dire che il prossimo capitolo sarà sempre su di Edward, perché si tratta della seconda parte di questo capitolo qui. Sì, alla fine ho deciso di dividere di nuovo un capitolo in due, non per la lunghezza eccessiva (perché sì, questo è anche più lungo di quello di Tommy), ma perché la seconda parte richiede ancora un po' di revisione, e non volevo far passare ancora un'altra settimana o di più.

Volevo poi anche ringraziare RLandH di cuore per il bellissimo disegno su Tommy (e Kensuke, Nagata e Sato). Non ho parole, davvero. Meraviglioso. 



 

Grazie e buona lettura!

 

 

 

 30

San Francisco

 

 

Rimase in quello stato di dormiveglia durante tutto il resto del viaggio, a recuperare le energie e ad annegare nell’oceano delle sue colpe. Due ore più tardi, il pullman attraversò il Golden Gate.

Mentre attraversavano il ponte, Edward osservò il mare inquieto, le onde che si infrangevano sulla costa con decisione, e alcune barche più e meno grandi che navigavano. L’acqua azzurra e pulita brillava sotto la luce del sole pomeridiano. 

E poi, entrarono in città.

Dopo sei giorni di straziante viaggio, era arrivato. San Francisco era proprio lì, così vicina da poterla toccare. Al sollievo e alla soddisfazione di essere finalmente giunto alla fine del suo viaggio, tra molti bassi e pochissimi alti, si unirono anche lo stupore e la sorpresa. Era già stato anche lì da bambino, però era passato così tanto tempo che molte delle cose che vide lo ammaliarono come se fosse stata la prima volta.

Il pullman si districò nel traffico della grande metropoli, passando accanto a fatiscenti palazzi, negozi di abiti da sera, ristoranti lussuosi, concessionari di auto sportive, e marciapiedi gremiti di persone in vacanza che si godevano il clima estivo californiano, gustandosi gelati, bevendo bibite fresche e scattando foto verso qualsiasi cosa.

In lontananza, aldilà delle colline che circondavano San Francisco, svettava il Monte Tamalpais come un pugno in un occhio. Vegliava imponente sulla città, mentre spesse nuvole grigie scure convergevano unite come in un mulinello sulla sua cima, andando in contrasto con il cielo cristallino che si trovava tutt’attorno. Edward sapeva che quella era la casa del Titano esiliato Atlante. Se solo non avesse avuto altro per la mente, sarebbe quasi andato a vederlo di persona per fare amicizia.

Non aveva la più pallida idea di dove fosse il museo, perciò anziché aspettare di arrivare al capolinea preferì scendere alla prima fermata per potersi organizzare con più calma. Il pullman si fermò ai piedi di diversi grattaceli per far scendere i passeggeri. Mentre Edward si avviava all’uscita facendosi largo tra mortali che afferravano bagagli vari, cercò con lo sguardo Courtney, sperando che non fuggisse via terrorizzata da lui, ma non la vide da nessuna parte.

Saltò fuori dal pullman e osservò meglio le persone che stavano scendendo e che erano già scese, ma ancora una volta non individuò le sue mèche viola. Forse era scesa prima. Realizzando di non essere riuscito nel suo intento, Edward si sentì un emerito idiota. Abbassò la testa dispiaciuto. Courtney era stata gentile con lui e in cambio aveva ricevuto quel trattamento. 

Il ragazzo si levò gli occhiali da sole, stringendoli così forte da piegarli a metà. La cosa che lo faceva imbestialire di più era proprio quella, il fatto che lei fosse stata così cortese e che lui avesse preso la sua cortesia e ci avesse sputato sopra. Gettò a terra gli occhiali ormai inutilizzabili e cominciò a camminare. Se solo non fosse stato così arrabbiato con tutto e tutti, così scontroso, così scettico, forse non si sarebbe trovato davvero in quella situazione. Ormai era troppo tardi.

Con l’umore diametralmente opposto allo splendido clima di quella giornata, Edward si avviò con le mani in tasca nei meandri di San Francisco.

 

***

 

Avrebbe dovuto dirigersi subito al museo, eppure stabilì di non avere alcuna fretta. Ormai era arrivato e aveva ancora un giorno di tempo per fare tutto, poteva dedicare ancora un’ora o due a girovagare per quella metropoli mentre ripensava a tutti gli errori che aveva fatto e si malediceva per ognuno di essi.

Non gli avevano mentito sulla Foschia. Ovunque si voltasse vedeva qualcosa di insolito. Famiglie di ciclopi che prendevano il gelato, driadi sedute accanto ai loro alberi, arpie appollaiate sui cornicioni dei palazzi, vide passare perfino un centauro in mezzo alla strada come se nulla fosse. Non ricordava di aver visto una simile movimentazione la prima volta che era stato a San Francisco. Era anche vero che all’epoca era troppo impegnato a fuggire per la propria vita. La cosa più sorprendente, però, era che nessuno di loro sembrò fare caso a lui. Forse erano abituati ai semidei, dopotutto non doveva essere molto lontano da lì che si trovava il Campo Giove.

Il Campo Giove. Chissà com’era quel posto. Tommy gli aveva accennato qualcosa, ma era certo che le parole non potessero davvero rendere giustizia a quel luogo, o a nuova Roma. Gli sarebbe piaciuto molto visitarli, un giorno. Purtroppo quella non era la situazione ideale per pensare alle sue prossime mete turistiche.

Proseguì senza una destinazione ben precisa in mente, riflettendo su quella montagna russa che era stata la sua esistenza fino a quel giorno. I momenti trascorsi con Kate, la madre più fantastica che avrebbe potuto avere. Non gli importava ciò che aveva fatto, era sempre stata una brava donna, lo aveva sempre amato e non gli aveva mai fatto mancare nulla. Era grazie soprattutto a lei se era sopravvissuto così tanto. Il pensiero che forse un giorno avrebbe potuto rivederla era praticamente l’unica cosa che gli era rimasta a spronarlo a proseguire, oltre anche al voler salvare Rosa.

Gli anni trascorsi con le famiglie affidatarie, nei quali era stato praticamente forzato contro il suo volere a reintegrarsi in una società che in realtà mai lo aveva voluto. La coppia con cui aveva vissuto più tempo in assoluto aveva resistito due mesi prima di scaricarlo, proprio come avevano fatto tutte le altre. Della scuola, poi, era meglio non parlarne, tra bulli con cui si era azzuffato, professori a cui aveva risposto in malo modo, presidi che in realtà erano mostri camuffati dalla Foschia. Quel poco di cultura che aveva era sempre stato merito di Kate, che gli aveva insegnato tutto quello che sapeva.

Per finire, gli ultimi mesi che aveva trascorso in fuga, nascondendosi da mostri, autorità, chiunque, e che lo avevano condotto proprio a New York, sotto l’albero di Talia con una ferita quasi mortale al fianco, inflitta da un lestrigone piuttosto determinato ad ucciderlo che però era stato rispedito nel Tartaro per cortesia del coltellino che, ancora una volta, sua madre gli aveva regalato.

Anche se Kate era sparita, in realtà non se n’era mai andata davvero. I suoi insegnamenti, i suoi regali, i ricordi che aveva di lei, lui aveva custodito ogni cosa con estrema gelosia.

E poi, il Campo Mezzosangue. La sua nuova famiglia. O almeno, così gli avevano detto. Tutti nutrivano molto rispetto gli uni per gli altri, secondo Chirone. Che razza di bugia. Non c’era alcun rispetto in quel luogo, nessuna famiglia, niente di niente. C’era voluto il rapimento di una ragazza innocente per far sì che quegli idioti tirassero fuori la testa dalle chiappe e anche in quel caso Edward era certo che le cose non sarebbero durate. Forse una guerra era proprio quello che ci voleva, proprio come aveva detto Rosa: sarebbe servita a rimettere tutti quanti sullo stesso piano.

Passeggiò sulla passerella di legno del lungomare. Non sapeva nemmeno come fosse arrivato fino a lì, ma la vista non gli dispiacque affatto. Si affacciò al cornicione, inebriandosi dell’odore di salsedine, calmando la mente con il rumore delle onde che si infrangevano sulle sponde. Si beò della vista stupenda della skyline di San Francisco. Di notte doveva essere ancora più bella, ne era sicuro. Il sole batté su di lui, infondendogli una strana sensazione di pace e benessere.

Notò alcune naiadi sedute sott’acqua, intente a svolgere l’attività più consona per chi vive sott’acqua, ossia lavorare a maglia.

Certo, perché no? 

In lontananza alcuni ippocampi saltarono fuori dalla cresta delle onde, sollevando alcuni versi sorpresi da dei turisti di passaggio, che dovettero scambiarli per dei delfini. Un sorriso scappò dalle labbra di Edward. Se avesse potuto congelare il tempo proprio in quel momento, lo avrebbe fatto. Sarebbe rimasto lì a godersi la pace di quel luogo, ad osservare le creature greche e i mortali che vivevano le loro vite in pace. Il sorriso gli scomparve quando pensò che tutto quello avrebbe rischiato di non esistere più se la guerra tra dei fosse scoppiata, o se Orochi avesse ottenuto il potere di Ama no Murakumo.

Un battito d’ali gli fece drizzare la testa. Un corvo volò proprio sopra di lui, andando a posarsi sopra un lampione spento lì vicino. Era nero come la pece con sfumature rossicce, a partire dalla coda squadrata fino al becco ricurvo. Appoggiò le zampe artigliate sulla superficie tonda del lampione e lo scrutò severo con i suoi occhietti violacei, come se avesse appena trovato una carogna succosa da cui fare uno spuntino.

La cosa che sorprese di più Edward, però, fu il numero delle zampe del corvo: non due, ma tre. Sembrava una specie di cavia mutata fuggita da qualche laboratorio. Edward era certo di non aver mai visto niente del genere prima di allora, eppure sentì di aver già incrociato quel bizzarro animale da qualche parte. Ricambiò lo sguardo incuriosito del volatile, mentre una strana sensazione di inquietudine gli paralizzava le gambe. Strinse con più forza la ringhiera e avvicinò la mano al coltello. Sapeva che dopo quanto successo con quella mortale avrebbe dovuto comportarsi in maniera meno impulsiva, però c’era qualcosa in quella bestiaccia che lo stava mandando in paranoia.

L’acqua del mare esplose in quel momento, sollevando alcune grida stupite tra i pedoni. Una pioggerellina di schizzi invase il lungomare, mentre una massa indistinta atterrava proprio alle spalle di Edward con il fragore di un’onda. Il figlio di Apollo distolse l’attenzione dal corvo e la portò sull’aberrante creatura che era appena comparsa di fronte a lui.

Dopo l’uomo uccello del sogno di quella mattina credeva di averle viste tutte, ma diamine se si era sbagliato. Quello sembrava a tutti gli effetti un “uomo tartaruga.” 

L’aspetto era umanoide, ma aveva la pelle azzurra squamosa, con una corazza naturale sulla schiena e lungo tutto il busto. Aveva le mani e i piedi palmati e un becco proprio da tartaruga al posto del naso e della bocca, dentro il quale poteva scorgere i denti piccoli ma affilati. Sembrava che sulla sua testa ci fosse una specie di nido, ma osservandolo più attentamente Edward realizzò che quelli erano i suoi capelli, che crescevano attorno a una specie di piccola conca con dentro dell’acqua.

La creatura si passò uno dei ferri che le naiadi stavano usando per lavorare tra i denti, squadrandolo con un sorrisetto sadico. Non appena Edward vide quell’oggetto sgranò gli occhi. Si accorse che le due ragazze non erano più sott’acqua e un brivido gli percorse la schiena.

Il mostro buttò a terra il ferro, poi le sue dita formicolarono. 

«Ho sentito molto parlare di te» gracchiò con voce grottesca, parlando in giapponese. «Tu sei il ladro. Finalmente ti ho trovato.»

Edward indietreggiò, assottigliando le labbra. «Sei uno yōkai?» domandò calmo, alzando la guardia. 

«Sono desolato, ma non capisco.»

«Sei uno yōkai?»

Quello si illuminò. «Parli giapponese? Davvero eccezionale. Sì, sono uno yōkai. Sono un Kappa, per l’esattezza. E l’acqua è il mio regno.»

«Me ne sono accorto» rispose Edward, tornando ad osservare lo specchio d’acqua. «Hai fatto del male a quelle ninfe?»

«Purtroppo sono scappate appena mi hanno visto. Peccato, sembravano deliziose.» La creatura distese il suo sorrisetto. 

Edward non credeva che l’avrebbe mai detto, ma le tartarughe che sorridevano erano davvero inquietanti. 

«Comunque non importa. Mi farò uno spuntino con…» 

«Craaa

Il kappa si interruppe all’improvviso, quando il corvo a tre zampe, rimasto appollaiato sul lampione, gracchiò. La sua espressione maliziosa svanì come una bolla di sapone, rimpiazzata da una di timore. «N-Nani?!»

«Craaaaa

Il corvo scese in picchiata verso di loro. Edward sussultò per la sorpresa; il kappa, d’altro canto, non si fece molti scrupoli a gridare terrorizzato e a ributtarsi in acqua come se avesse visto il diavolo in persona.

«Ma che cosa…» sussurrò il semidio, mentre osservava la bestia svanire sotto la cresta delle onde veloce com’era arrivato. 

Quando sentì il corvo trillare nuovamente, il figlio di Apollo estrasse il coltello, temendo un attacco. Invece, il pennuto svolazzò per un po’ lungo il lungomare e poi se ne ritornò sul lampione, dove incominciò a lisciarsi le piume con il becco, incurante.

Una voce risuonò nella mente di Edward facendolo sobbalzare di nuovo. Era la voce di una donna, possente ed autoritaria, che riecheggiò nella sua testa come amplificata da un megafono. «Basta perdere tempo, figlio di Apollo.»

Le gambe di Edward tremarono contro il suo volere. Fu come se quella voce gli avesse appena scosso l’intero organismo. Tornò a guardare il corvo. 

«Sei… sei tu che hai parlato?» domandò, esitando. 

Cominciò a temere di essere impazzito. Era così che si era sentita Steph quando aveva sentito Fujinami parlare? Certo che… faceva abbastanza schifo. La sua mente era sua e sua soltanto, non gli piaceva affatto che altri potessero scorrazzarci dentro liberamente.

Ancora una volta, il corvo non fece caso a lui, trovando più interessante il suo piumaggio. 

«Raggiungi il museo» proseguì la voce nella sua testa. «La mia creatura ti guiderà.»

L’uccello lasciò andare le piume e trillò di nuovo. Edward capì dunque che non era stato lui a parlare. 

«Chi… chi parla?» chiese allora, senza ottenere nessuna risposta. Nella sua mente tutto tacque. 

Rimase immobile con le orecchie che ronzavano, domandandosi cosa diamine fosse appena successo, chiedendosi perfino se non si fosse immaginato tutto quanto, fino a quando non riportò l’attenzione sul corvo. Era ancora lì, ad osservarlo impassibile dall’alto. Era sicuramente lui la creatura.

«Ok allora…» mugugnò. 

Ricapitolando, una voce nella sua testa che non aveva mai sentito prima gli aveva detto di seguire un pennuto mutante che aveva spaventato un mostro al punto da farlo fuggire terrorizzato. 

«Certo, perché no?» concluse Edward, con un’alzata di spalle. «Tanto fare il turista non è divertente come pensavo.»

Il corvo gracchiò di nuovo, poi cominciò a volare sopra la passerella di legno, sorvolando i mortali ignari che per tutto il tempo avevano continuato ad andare e venire senza accorgersi di nulla.

Beati loro, pensò Edward con una smorfia.

Lanciò un ultimo sguardo verso la skyline di San Francisco e con un sorriso amaro si domandò se avrebbe mai rivisto qualcosa di simile. Abbassò la testa, mordendosi un labbro, poi con un profondo sospiro cominciò a seguire il corvo.

 

***

 

Il corvo lo guidò per le strade della città, gracchiando con vigore ogni qualvolta Edward si voltava da qualche altra parte. Ormai era questione di minuti e sarebbe arrivato al museo, al punto di non ritorno.

Dubbi, ripensamenti, paura, la sua mente era come un enorme frullatore in cui tutto quanto girava ai mille all’ora. Più si avvicinava, più aveva voglia di scappare con la coda tra le gambe, magari buttarsi in mare assieme a quel kappa e svanire per sempre dalla faccia della terra. Purtroppo, sapeva che le cose non funzionavano davvero così. Aveva detto che sarebbe arrivato fino in fondo e l’avrebbe fatto. A differenza di suo padre e degli dei, non sarebbe fuggito, ma avrebbe mantenuto la promessa.

Avrebbe salvato Rosa, la sua famiglia, e i suoi amici. E per finire, se tutto sarebbe andato come sperava, forse avrebbe anche ritrovato Kate.

L’Asian Art Museum apparve finalmente alla sua visuale, spiccando come un gigante di marmo bianco in mezzo ai blocchi di appartamenti lì vicino. Era un palazzo enorme, occupava da solo l’intero angolo di quello spoglio quartiere, con finestre gigantesche, stendardi intervallati da pilastri che raffiguravano le mostre che aveva da offrire e tre grosse aste sul tetto da cui le bandiere del Paese del Sol Levante sventolavano orgogliose.

Le scalinate che conducevano all’ingresso erano gremite di turisti armati di fotocamere. Il corvo gracchiò un’altra volta, ottenendo la sua attenzione. Si fece scudo agli occhi con una mano causa del sole che gli picchiava in faccia e sollevò lo sguardo, vedendolo compiere un paio di cerchi nell’aria sopra di lui. Trillò ancora con forza e malgrado Edward non parlasse la sua lingua, intuì che gli stava dicendo che erano arrivati. 

«Ho capito, grazie» disse, sorpreso che il viaggio fosse filato liscio. 

Il corvo trillò ancora, agitandosi e voltandosi verso il museo, sbattendo le ali in sua direzione. Doveva essere il suo modo per dire “Muovi le chiappe.”

«Tu non vieni con me?» domandò Edward, quasi sperando che il pennuto rimanesse con lui. Magari avrebbe fatto fuggire perfino Orochi. Sarebbe stato bello.

Quello gracchiò ancora e si alzò in volo, dirigendosi in direzione proprio del sole. Edward ebbe la stupida idea di seguirlo ancora con lo sguardo. 

«Ah! Razza di…» esclamò, quando venne abbagliato. Era un figlio di Apollo, per la miseria, possibile che non avesse una specie di resistenza naturale contro quel genere di cose? 

Batté le palpebre un paio di volte per scacciare le macchioline multicolore causate dalla forte luce, poi riportò lo sguardo verso il cielo. Del corvo non c’era più nessuna traccia. Sembrava essersi dissolto nel nulla. Non doveva nemmeno più sorprendersi di quel genere di cose, a quel punto.

«Beh… è ora di vedere un po’ di arte asiatica.»

Avanzò verso il museo, che aveva le scale gremite di turisti. Erano tutti intenti a godersi la giornata e a chiacchierare tra loro. Semplici mortali che facevano cose da mortali, pensò. Non appena fu abbastanza vicino, però, tutti loro smisero di fare quello che stavano facendo e si voltarono verso di lui. 

Edward pietrificò. Quelli non erano mortali.

Decine e decine si sorrisetti sadici si dipinsero sui volti di tutti quei turisti, mentre i loro aspetti sfarfallavano, in tutti i sensi della parola, come in un video di bassa qualità. A tratti sembravano mortali, a tratti creature che non aveva mai visto e che avrebbe di gran lunga preferito continuare a non vedere.

Dagli oni che già aveva visto, a persone con occhi giganteschi, lingue sporgenti, nasi deformi. Donne con strani segni attorno al collo, come se le loro teste vi fossero state ricucite alla bell’è meglio, altre che invece avevano il corpo mortale e il volto da mollusco, con tentacoli e quant’altro, qualcosa di davvero disgustoso da guardare.

Notò altri kappa e altri uomini uccello, persone con le braccia spropositatamente lunghe ma con le gambe corte, e poi l’esatto opposto di loro, con gambe lunghe ma braccia corte. Vide una donna nuda come un verme, con la pelle bianca che a tratti sembrava perfino trasparente, che lo squadrò piegando il capo di lato, e accanto a lei ne vide un’altra che di donna aveva solo il volto, attaccato ad un corpo da serpente.

«Dorobō» disse qualcuno, ridendo maniacalmente. Mugugni di assenso si sollevarono, mentre gli occhi di tutti quegli esseri spaventosi erano incollati proprio su di lui. 

«Dorobō» dissero ancora. Iniziarono a ridere tutti assieme, avvicinandosi a lui. «Dorobō. Dorobō. Dorobō

Ladro. Ladro. Ladro.

La paura di Edward cominciò a lasciar posto alla rabbia. Le creature lo circondarono, continuando a ridere in maniera inquietante e a chiamarlo in quel modo. Il semidio sentì un’energia ormai famigliare salirgli lungo il petto. La tentazione di estrarre Ama no Murakumo e troncare le teste di tutti quei fenomeni da circo si fece piuttosto insistente.

«Yameru!» tuonò una voce. Molte delle creature si ammansirono di colpo, altre invece digrignarono i denti infastidite. Tutti quanti si voltarono verso la cima delle scale, incluso Edward, dove vide un volto famigliare in mezzo a quella selva di bestie.

Naito scese lentamente i gradini, fissando i mostri con lo stesso disgusto presente sul volto del figlio di Apollo. Il disgusto maggiore che provò, però, fu proprio quanto piantò il suo unico occhio su di Edward. Fece una vistosa smorfia, che malgrado tutto strappò un sorrisetto al semidio.

«Tornate ai vostri posti» ordinò Naito. «Mi occupo io del ladro.»

Gli yōkai non sembrarono molto entusiasti, ma tutti obbedirono. Sembrava che i mostri che detestavano Naito non fossero solo quelli che Edward aveva visto nel suo sogno. Se ripensava a ciò che il mendicante di Kansas City gli aveva detto, allora tutto aveva senso.

«Seguimi» gli ordinò, per poi voltarsi senza nemmeno attendere una risposta.

Edward si voltò di nuovo verso i mostri, che stavano nel frattempo rioccupando i posti di poco prima, e sfoderò uno dei suoi sorrisetti migliori. Distese le braccia e rivolse un inchino parecchio cinematografico a tutti loro. «Sayōnara, min'na arigatō.»

Iniziò a salire le scale sotto gli sguardi truci di tutti loro, senza smettere di ghignare come un idiota. 

«Baka» aggiunse.

Poco prima di entrare nel museo provò di nuovo quella sensazione di essere osservato come a Sacramento. Si voltò verso la città; una macchiolina azzurra si mosse nel parco al di là della strada, catturando la sua attenzione. Edward assottigliò le labbra, poi seguì Naito dentro l’edificio.

 

***

 

Un ampio atrio di marmo lo accolse una volta all’interno. Piastrelle lucide, illuminate dalle finestre da cui filtrava la luce del giorno, il soffitto alto sorretto da lunghissime travi, una biglietteria sulla destra e un negozio di souvenir sulla sinistra, entrambi chiusi. Di fronte a lui una grossa scala conduceva ad un’area chiusa al pubblico, mentre alcuni corridoi si snodavano dall’atrio nei meandri del palazzo, conducendo alle varie mostre. Cartelloni appesi al soffitto o appoggiati a terra indicavano le varie attrazioni. Uno di loro recitava:

 

AMA NO MURAKUMO

Visitate oggi la replica della leggendaria spada dell’Imperatore!

 

Certo, l’originale ce l’ho io…

«Non mi aspettavo che saresti venuto» disse Naito, voltandosi verso di lui. La sua voce riecheggiò nell’atrio, rimbalzando contro le pareti lisce. Il semidio realizzò che c’erano solamente loro due lì dentro. Il museo intero sembrava deserto. «Non ti credevo così egoista.»

«Egoista? Perché? Perché non mi importa degli dei?» replicò Edward. «Vuoi farmi la morale? Tu, che sei il cagnolino di Orochi?»

Naito ringhiò sommessamente, sfiorando il manico della sua wakizashi. «Non c’è bisogno di andare da Orochi. Possiamo chiudere i conti proprio adesso se vuoi.»

Edward sollevò le mani. «Senti, capisco che tu non mi veda di buon occhio, però…» 

Si interruppe quando il mezzo demone sguainò la spada corta, lanciandogli un’occhiata carica di odio. Represse un sorrisetto divertito. Era stato più forte di lui. 

Il mezzo demone si avvicinò e si trovarono faccia a faccia. Malgrado le corna e altri dettagli più “demoniaci” come alcune vene sporgenti sul collo e sul volto, sembrava davvero un ragazzo proprio come lui, in tutto e per tutto. Aveva i capelli spettinati, ciuffi ribelli che cercavano di evadere dal cappuccio, erano alti uguali e i loro fisici erano molti simili. Edward non aveva idea di quanti anni avesse, non sapeva se i mezzi demoni invecchiassero come i mortali oppure no, ma di certo non poteva nemmeno essere tanto vecchio. 

Se lo avesse incrociato di sfuggita al Campo Mezzosangue avrebbe perfino potuto scambiarlo per un semidio qualsiasi. Dopotutto lui non era così diverso dai semidei, l’unica differenza era che uno dei suoi genitori era un demone anziché un dio.

Diamine, poteva perfino quasi immaginare loro due che si trovavano proprio in quel luogo, in quel momento, ma a ruoli invertiti. Tutte quelle similitudini unite a quello che aveva scoperto su di lui lo mettevano a disagio, perché lo aiutavano a mettersi sul suo stesso piano, e lui di mettersi sul suo stesso piano non voleva affatto saperne.

«Per te è tutto uno scherzo, vero?» sibilò Naito, fissandolo con odio.

«Ringrazia che lo sia.» Edward lo fissò dritto nella sua unica iride iniettata di sangue. «Se avessi preso la faccenda seriamente, a quest’ora saresti già morto.»

Rimasero entrambi in silenzio. Naito rinfoderò con calma la wakizashi ed avvicinò la mano alla sua katana vera e propria, mentre Edward percepiva ancora una volta l’energia di Ama no Murakumo formicolare dentro di lui. Da quando l’aveva usata per affrontare Steph, riusciva a sentirla molto meglio. Era abbastanza certo che sarebbe riuscito a usarla contro di Naito, tuttavia sapeva che era una cosa stupida da fare. Non era l’han’yō il suo vero nemico, dopotutto. 

«Dovresti trattare meglio gli ospiti, Naito-kun» cantilenò divertita una vocetta acuta. «Dove sono finite le tue buone maniere?»

Edward si voltò verso le scale, dove la stessa donna che aveva visto nel sogno stava scendendo i gradini con passo aggraziato. 

«Finalmente ho anch’io l’opportunità di vederti di persona, piccolo dio» annunciò, con un ampio sorriso malizioso. «Il mio nome è Hikaru. È un vero piacere conoscerti.»

Edward avrebbe potuto dire che per lui era lo stesso, ma non era in vena di dire bugie. 

Vista di persona, Hikaru sembrava ancora più bella. Più di Milù, più di Afrodite, più di chiunque altra. Ma nonostante questo, non si lasciò fregare. C’era già cascato una volta in quella trappola acchiappa stupidi. Doveva fare attenzione a quella tizia. Milù era stata un’avversaria molto pericolosa, e lei era una kitsune con solo cinque code.

Hikaru indicò la rampa di scale con un gesto del braccio. «Da questa parte, piccolo dio. Meglio non far aspettare Lord Orochi ulteriormente.»

Lord. Edward per poco non ebbe un conato di vomito. Avendo perso la sua forma mastodontica di drago ad otto teste, Orochi cercava di compensare con l’ego. Hikaru salì le scale ed Edward si avviò dietro di lei. Doveva trovare Rosa, ma non poteva mettersi a cercarla da solo. Avrebbe fatto meglio ad assecondare i mostri, almeno per il momento. Naito li seguì rimanendo a debita distanza, probabilmente ancora irritato dalla battuta sull’occhio.

Mentre percorreva la lunga scalinata, Edward notò i lampadari di cristallo appesi al soffitto ricoperto di ghirigori color oro, più le colonne di marmo che si ergevano ai lati dei gradini fino a toccarlo. Pensò che la salita conducesse a qualche mostra importante, invece per sua sorpresa sbucarono in un enorme salone cerimoniale, un posto così sfarzoso che Edward era certo non gli sarebbe bastato lavorare tutta la vita per poterlo affittare. 

Altre lunghe colonne partivano dal suolo fino a raggiungere il soffitto di marmo color ocra, decorato con gli stessi lampadari e ghirigori. Come nell’ingresso, delle finestre gigantesche permettevano alla luce del giorno di filtrare e rimbalzare sul pavimento tirato a lucido. L’intero luogo risplendeva, come a sottolineare l’importanza degli eventi che venivano svolti al suo interno. Una strana sensazione lo scosse dall’interno mentre muoveva i primi incerti passi dentro il salone.

Tuttavia, ogni cosa passò in secondo piano quando si accorse del trono e dell’altare che si trovavano al fondo di esso. Non appena notò l’individuo seduto sul trono fu come se un esercitò di scorpioni si fosse arrampicato sulla sua schiena. 

Quello si alzò in piedi, per poi sorridergli con insistente aria di cordialità. «Ben arrivato, piccolo dio.»

Eccolo. Lord Orochi. Per un attimo Edward faticò perfino a riconoscerlo: era coperto da testa a piedi da un’armatura da samurai. Corazza, cotta di maglia, spalliere, schinieri e bracciali di cuoio rossi rivestiti da strati e strati di lamine di ferro grigio scuro, quasi nero. In una mano stringeva l’impugnatura della sua lunga falce, in testa indossava un elmetto di ferro da cui spuntavano due protuberanze a forma di ali di drago, simili a corna.  

Nonostante l’avesse già visto nei suoi sogni, vederlo di persona ebbe tutto un altro effetto su Edward. Era gracile e malaticcio, nemmeno la spessa armatura che indossava poteva mascherare la cosa, ma non appena lo vide ebbe comunque una reazione di attacco o fuga. Quel tizio emanava un’aura di potere immenso, perfino da quel corpo rinsecchito.  

«Finalmente ci incontriamo di persona» asserì, marciando verso di lui usando il manico della falce come appoggio per camminare. Sollevò il braccio libero, accennando all’immenso salone, e la sua voce rimbombò: «Attendevo trepidante questo momento. Come puoi vedere…»

«No, no, ascolta, time-out» lo frenò Edward, facendo il segno della T con le mani. «Sono sicuro che tu muoia dalla voglia di fare qualche monologo da super cattivo o cose del genere, ma la verità è che non me ne frega un accidente di quello che vuoi dirmi.» Fece un passo avanti, stringendo i pugni. «Andiamo subito al sodo. Dimmi dov’è Rosa.»

Per un momento, il sorriso svanì dalla faccia viscida di Orochi. Forse Naito aveva ragione, forse ogni tanto gli piaceva scherzare, ma quando c’era da essere seri, allora Edward era il primo a diventarlo. Orochi poteva essere potente quanto voleva, ma lui non lo temeva. Solo una cosa aveva importanza in quel momento, ed era Rosa. 

Alle sue spalle, Hikaru ridacchiò deliziata, e l’odioso sorriso riapparve sul brutto muso di Orochi. Sembrava provare genuino divertimento, come un gatto che giocherellava con il topo, facendogli credere di poter fuggire da lui, di dargli quello che voleva, per poi privarlo di quella gioia subito dopo. Mai come in quel momento Edward ebbe il desiderio di fargli del male. 

«Ma come, piccolo dio, i tuoi occhi non funzionano più?» Orochi allungò il braccio verso l’altare, dove si trovava un lenzuolo bianco stropicciato. O meglio, Edward aveva creduto che fosse stropicciato. Ma quando l’uomo ne scoprì una parte, il ragazzo si dimenticò perfino come si chiamava. Temette che fosse tutta un’illusione, un inganno della sua mente, o perfino di Hikaru, ma no, più osservava quel viso pallido e smorto, più poteva accertarsi che tutto quello era reale come non mai. Sdraiata sull’altare, sotto il lenzuolo… c’era Rosa. 

«Ecco qua, piccolo dio. Come promesso.»

Edward nemmeno lo sentì. Rimase concentrato unicamente su di Rosa, sul suo volto, sui suoi capelli, i suoi occhi e le sue labbra serrate. Da quando l’aveva vista svanire in quella pozza di oscurità era rimasto tormentato dal pensiero di non poterla mai più vedere di nuovo. I suoi occhi verdi, il suo sorriso, la sua voce, tutti ricordi che aveva temuto che questo sarebbero rimasti per sempre, ricordi. Invece eccola lì proprio ad un palmo dal suo naso, nella stessa stanza in cui si trovavano una kitsune a nove code, un mostro millenario divora vergini e un mezzo demone con complessi di inferiorità. Quel pensiero smorzò non di poco il suo entusiasmo. 

Fece un passo avanti, per raggiungerla, ma Naito tese un braccio di fronte a lui, bloccandolo. Si era mosso silenzioso come una bara, così tanto che lo aveva affiancato senza che Edward se ne accorgesse. Con un’occhiata severa gli fece capire che la sua non era una buona idea, ma il figlio di Apollo non era per niente in vena di farsi dire cosa doveva o non doveva fare. 

«Lascialo passare, Naito» disse Orochi. «È giusto che il piccolo dio riveda la sua tanto adorata sorella.»

Naito non sembrava felice di obbedire. Il suo braccio rimase sollevato ancora per diversi istanti prima che si decidesse di abbassarlo, anche se con riluttanza. Edward gli lanciò un’occhiata truce, mordendosi la lingua prima di fare qualche commento di troppo, e si avvicinò all’altare. 

Ancora una volta, più passi muoveva verso di Rosa, più credeva che il mondo di sarebbe sgretolato sotto ai suoi occhi. Non riusciva a crederci. Aveva fatto tutta quella strada solo per lei, sapeva che l’avrebbe rivista se fosse arrivato fino a lì, eppure ancora non riusciva a capacitarsene. Purtroppo, però, non era ancora la fine. Aveva trovato Rosa, quella era la parte più semplice. Ora veniva il difficile.

Si ritrovò a pochi metri di distanza da lei e Orochi. L’uomo si trovava ancora troppo vicino all’altare, per i suoi gusti. Posò lo sguardo sugli occhi sigillati di lei e si augurò che stesse solo dormendo. 

Orochi sembrò leggergli nel pensiero. «Non temere, piccolo dio, sta bene. È rimasta nello Yomi per molto tempo, ora il suo corpo e la sua mente hanno bisogno di riposo. Rimarrà in quello stato di incoscienza ancora per un paio di ore.» 

Edward serrò i pugni. Lo esaminò inquisitorio, fiutando la puzza di bruciato da lontano un miglio. Si immaginava qualcosa di spiacevole una volta arrivato in quel luogo, ma mai qualcosa che lo avrebbe inquietato in quel modo. «Perché l’avete messa lì sopra? Cosa credevi di fare?»

L’uomo serpente sollevò le spalle, come se per lui quella situazione fosse qualcosa di normale. E forse davvero era così. «Stavi tardando ad arrivare, piccolo dio. Dovevo prepararmi all’eventualità che tu non riuscissi a mantenere la tua parola.»

Il sogno che Edward aveva fatto balenò nella sua mente. Naito stava “preparando” Rosa, e ora lei si trovava su quell’altare, in quel salone che sembrava essere stato progettato apposta per celebrare grandi evenienze. Quando collegò i puntini, un lungo brivido gli attraversò la schiena. Orochi si stava preparando a sacrificare Rosa. Proprio come il mendicante di Kansas City gli aveva detto. Le vergini venivano sacrificate in qualche assurda cerimonia, che poi si concludevano tutte allo stesso modo: la morte del sacrificio e il successivo banchetto di Orochi. 

Pensare che lo stesso destino sarebbe potuto accadere anche a Rosa gli fece ribollire il sangue nelle vene. Tutta quella storia malata lo faceva. Mostri, demoni, dei, non c’era nessuna distinzione tra nessuno di loro; erano tutti delle belve prive di anima che miravano solo al loro tornaconto personale.

«Ma visto che ora sei qui…» proseguì Orochi, porgendo una mano verso di lui. «… possiamo concludere il nostro accordo. Restituiscimi Kusanagi-no-tsurugi, e tu e tua sorella sarete liberi di andarvene.»

Edward osservò la mano grinzosa, assorto. Quella era la fine del viaggio. Aveva raggiunto il suo obiettivo, Rosa. Doveva solo più rispettare la sua parte dell’accordo. Sfortunatamente, però, c’era un piccolo problema. 

«Come intendi garantirmi che manterrai la tua promessa?» domandò, scettico. «Sai, non hai certo una bella reputazione, in giro. Come posso davvero fidarmi di te?»

«Hai ragione» convenne Orochi, per enorme stupore di Edward. L’uomo batté il manico della falce a terra con un gesto secco, sempre senza staccargli gli occhi di dosso. «Chioiji, ti dispiacerebbe venire qui?»

Una piccola testa spuntò fuori da dietro il trono su cui era seduto Orochi poco prima. Timidamente, lo tsuchinoko che aveva spiato Edward si avvicinò a loro due. «S-Sì, padrone?»

Fece di tutto per non guardare Edward. Il ragazzo non aveva scordato il loro spiacevole incontro a La Plata ed era sicuro che anche Chioiji lo ricordasse. 

«Vedi, piccolo dio, ho chiesto al mio fedele servitore, il qui presente Chioiji, di spiarti in questi ultimi giorni, ma immagino che tu te ne fossi già accorto.»

«Sì» rispose Edward, incerto su dove Orochi volesse andare a parare.

«Ammetto che è stato rude da parte mia, soprattutto vista la collaborazione che hai mostrato. Per questo vorrei scusarmi con te, e vorrei che anche Chioiji lo facesse.»

Quello fu davvero inaspettato. Edward schiuse le labbra per la sorpresa, mentre Chioiji faceva vibrare la lingua tra i denti, apparendo alquanto frustrato. «Sì, certo… scusa… quello che è…» borbottò.

Non sembrava molto sincero. E anche Orochi sembrò accorgersene, perché il suo sorriso svanì nel nulla. Si mosse come un lampo, con una velocità che lasciò Edward atterrito, e afferrò Chioiji. Lo tsuchinoko gridò per la sorpresa, ma non poté fare altro: sotto lo sguardo inorridito del semidio, Orochi spalancò la bocca e troncò la testa di Chioiji con un unico, secco morso. 

Edward non riuscì a trattenere un grido sorpreso. Fece perfino un passo indietro, mentre disgustosi scricchiolii provenivano dalla mandibola dell’uomo. Orochi masticò un pezzo del proprio servitore come se nulla fosse, fissandolo dritto negli occhi con un sorriso malato. Uno schifoso liquame verdognolo colava dalle sue labbra, mentre l’estremità di Chioiji che ancora teneva in mano fremeva e si dimenava come se avesse una vita propria. 

L’uomo gettò la coda dello tsuchinoko a terra, che si schiantò sul suolo con un osceno rumore bagnato. Tremolò ancora un paio di volte, poi, con un ultimo sussulto, rimase immobile a sguazzare in una piccola pozza di quella sostanza verdognola. Orochi deglutì, poi si passò il braccio sopra la bocca, pulendosi dal sangue di Chioiji. «Sono davvero desolato per il suo comportamento. Ora non mancherà più di rispetto a nessuno.»

La coda cominciò a sciogliersi in una poltiglia nera. Edward rimase a osservarla senza rispondere. Lanciò uno sguardo verso Naito e Hikaru, per vedere come loro due avevano reagito, e non fu sorpreso di notare l’espressione disinteressata di lui e il sorriso divertito di lei. 

«Ora torniamo a noi» proseguì Orochi, come se nulla fosse. Edward si domandò se altri mostri avessero già fatto la stessa fine di Chioiji. 

«Spero di averti convinto a poterti fidare di me. Inoltre, non mi sono dimenticato della mia altra promessa. Ho fatto… alcune ricerche, in questi giorni. Quelle informazioni tanto importanti su Kate che cercavi? Io ce le ho. Sarò lieto di raccontarti tutto, una volta che mi avrai dato Kusanagi-no-tsurugi.»

Paradossalmente, Edward stesso se l’era dimenticato. Non poteva sapere se Orochi stesse dicendo la verità oppure no. Il pensiero che avesse davvero scoperto qualcosa su di lei gli forò la mente, instillando il seme del dubbio in lui per la prima volta. Poteva essere la sua unica possibilità per sapere la verità, o quantomeno avvicinarsi ad essa. Tuttavia… 

Edward riportò lo sguardo su Rosa. Pensò ai suoi amici, i suoi fratelli, perfino Artemide e le cacciatrici, tutti i semidei che aveva incontrato a New York. Abbassò la testa. Era o lui o loro. Delle informazioni che per quello che ne sapeva potevano essere false, o inesistenti, oppure tante, troppe, vite innocenti che rischiavano di spegnersi se Orochi avesse avuto la spada. 

Lui non era un eroe. Non aveva mai voluto esserlo, né progettava di diventarlo tanto presto. Ripensò a quello che Chirone gli aveva detto, quando si erano parlati la sua prima sera al Campo Mezzosangue. Forse non avrebbe mai davvero dovuto trovarsi lì. E ripensò a quello che Naito gli aveva detto la sera in cui Rosa era stata rapita da lui. La nascita di Edward era stata un errore. Quando lo aveva sentito si era imbestialito, ma poi, a mente fredda, ci aveva riflettuto con più calma. Non era d’accordo, ovviamente, ma se davvero l’errore era lui, allora sarebbe sempre stato lui la soluzione.

«Ho già provato una volta a consegnare la spada» disse dunque, avvicinandosi di nuovo. «E non ha funzionato. Cosa cambierebbe questa volta?»

«Ovvio che non abbia funzionato. Per consegnare la spada, occorrono le parole giuste.» Orochi distese le braccia e sollevò la testa, parlando con aria solenne: «Per cedere Kusanagi-no-tsurugi, dovrai semplicemente dire che tu, Edward Model, in quanto suo attuale possessore, rinunci alla sua proprietà per consegnarla a me, Yamata no Orochi.»

«Non devo farla apparire, prima?»

«Non sarà necessario. Farà tutto la spada.»

Edward stirò le labbra. Sembrava troppo semplice. Si guardò attorno, facendo scorrere lo sguardo lungo l’ampio salone, e provò di nuovo la strana sensazione che aveva avuto entrando. Vide Naito rigido come un chiodo, mentre Hikaru, accanto a lui, continuava a sorridere in maniera divertita, anche se di tanto in tanto le sue mani fremevano. 

«Quindi basta solo una frase» commentò Edward, tornando ad osservare Orochi, sorridendo freddo. «Grazie per la nozione. Allora io, Edward Model, attuale possessore di Ama no Murakumo, cedo la proprietà della spada a…»

L’uomo distese il sorriso, carezzando la sua falce. Anche Edward distese il sorriso. Come aveva detto ad Artemide: nessuno poteva controllarlo. E Orochi stava per capirlo nel modo peggiore di tutti. Allungò il braccio, spalancando la mano, saggiando l’aria, calcolando mentalmente i centimetri che distanziavano il suo palmo dalla testa di Orochi. 

Qual era la cosa più stupida che Edward avrebbe potuto fare in quel momento? Attaccare un mostro millenario divora vergini in grado di affrontare dei. E quindi, fu proprio quello che fece. Sferzò l’aria con il braccio, concentrandosi su quell’energia che dal primo momento in cui aveva messo piede nel museo aveva cominciato a crescere dentro di lui. Ama no Murakumo comparve nella sua mano un istante prima che potesse abbatterla sull’uomo serpente. Allo stesso tempo, però, la lama ricurva della falce di Orochi cozzò contro di lei, arrestando la sua corsa. 

Vi fu un clangore metallico così forte da far scuotere le pareti. Edward soppresse una sonora imprecazione, mentre Orochi lo fissava enigmatico con i suoi occhi rosso sangue, il sorriso svanito nel nulla. «Piccolo dio, cosa stai cercando di fare?»

Malgrado tutto, Edward sogghignò. «Ti sto tradendo, stupido idiota.» 

Allontanò la lama e la mulinò di nuovo verso di lui, mirando al suo fianco, generando una corrente d’aria che ancora una volta fece tremare l’intero salone. Orochi ringhiò di rabbia e abbassò la falce, parando anche questo attacco. «Quindi è così che ripaghi la mia generosità?!»

«Oh, ti prego!» ribatté Edward, saltando all’indietro, distanziandosi da lui. Roteò Ama no Murakumo, come sempre più leggera l’aria, e lanciò un’occhiata ai tre mostri. «Ho incontrato mia zia Artemide, venendo qui. Mi ha detto che per ottenere la spada si può anche uccidere il suo attuale proprietario. Vuoi farmi credere che mi hai fatto salire quassù, con Naito, una kitsune e un quadrilione di mostri là fuori pronto a darti manforte solo per farti cedere con cortesia la spada? Ma quanto idiota pensi che io sia?»

L’espressione furibonda svanì dal volto di Orochi, lasciando posto ad una di sorpresa. Ma non durò molto, perché venne presto sostituita da un altro irritante sorriso divertito. «Quindi sapevi che esisteva un altro modo per prendere la spada. E hai anche imparato a farla apparire, vedo.» 

Edward sollevò le spalle. Artemide gli aveva anche detto che la spada amplificava le sue emozioni. Se ci rifletteva su, tutte le volte che era riuscito a farla apparire, era perché si era concentrato unicamente sull’emozione più forte che aveva provato in quel momento. E ultimamente, c’era solo un’emozione che riusciva a provare piuttosto bene: la rabbia. 

Aveva provato rabbia per la sparizione di Kate, rabbia per quello che Naito gli aveva detto, rabbia per quello che Stephanie aveva cercato di fargli, rabbia per quello che Dioniso aveva detto su di Rosa e rabbia nel vedere gli scorpioni che cercavano di uccidere Tommy e Steph. E trovarsi lì, in quel museo, circondato da mostri che lo vedevano come carne da macello, che cercavano di manipolarlo e di truffarlo e che soprattutto avevano rapito sua sorella, lo stava facendo imbestialire come rare volte gli era successo. 

«Non capisco, piccolo dio, credevo davvero che volessi riavere tua sorella sana e salva» disse l’uomo serpente. «Perché tradirmi? Che cosa ti ha fatto cambiare idea così all’improvviso?»

«Non ho mai cambiato idea» rantolò Edward. «Ho pensato a come tradirti dal momento esatto in cui abbiamo stretto il nostro patto. Ho scelto di assecondarti solo perché sapevo che così avresti tenuto Rosa in vita fino ad oggi, e visto che sapevo che mi spiavi, non ho mai parlato a nessuno delle mie vere intenzioni.»

Orochi piegò la testa, esaminandolo critico. «Allora anche tu sei dalla parte degli dei, dunque.»

Edward sogghignò una seconda volta. «Ma non dire scemenze. Di loro non mi importa un accidente. Potrebbero scomparire domani stesso e non batterei nemmeno ciglio. Ma ai miei amici, a loro importa eccome. Hanno rischiato la vita per quest’impresa, perché davvero speravano di poterli aiutare, perché davvero credono in loro. Anche se a me non importa, questo è il mondo che i miei amici e mia sorella hanno scelto di proteggere. E perciò non lascerò che un parassita come te lo distrugga.» 

Stephanie, Tommy, Rosa, perfino Lisa, Konnor e le cacciatrici. Non avrebbe lasciato che tutti i loro sforzi e i loro sacrifici fossero vani. Era vero, c’era un motivo se intere generazioni di semidei erano state addestrate per affrontare il male, così come c’era un motivo se tutti quelli che avevano provato a ribellarsi al sistema avevano sempre finito con il fallire. Il fatto che Edward fosse indifferente alla cosa non significava che non riconoscesse il coraggio – o ingenuità, ma coraggio suonava meglio – dei suoi amici e di tutti quelli come loro.

E comunque, Orochi non era tanto migliore degli dei. Promesse a vuoto, menzogne, mania di protagonismo così grande da spingerlo a voler governare su tutto e tutti… sì, le corrispondenze c’erano ed erano anche parecchie. Aveva perfino istruito un mezzosangue a combattere per lui. 

Per un lasso di tempo che Edward trovò idilliaco, Orochi rimase in silenzio. Avrebbe quasi potuto abituarsi a quella dolcissima sensazione. Purtroppo, non durò a lungo. 

«Davvero notevole, piccolo dio. Sei riuscito ad ingannarci tutti, devo essere sincero» cominciò Orochi, stringendo la presa sulla falce. «Gli dei, i miei seguaci, io stesso, eravamo tutti convinti che mi avresti davvero consegnato la spada. Purtroppo per te, però, anche io ho pensato che avresti cercato di tradirmi. Hikaru!» 

La kitsune non aveva ancora mosso un muscolo, proprio come Naito. Come se fossero già preparati a tutto quello. «Sì Lord Orochi?»

Sempre senza staccare gli occhi da Edward, l’uomo distese il suo sorriso. «Fai cadere l’illusione.»

Hikaru fissò prima lui poi il semidio per un momento. Un lento sorriso inquietante marciò anche sul suo volto. «Molto bene, Lord Orochi.» 

Sferzò l’aria con entrambe le mani e ancora una volta le pareti tremolarono. Proprio come nel negozio di Milù, i muri iniziarono a dissolversi lentamente nell’aria, mostrando ciò che avevano tenuto nascosto dietro di loro fino a quel momento. Edward ripensò alla strana sensazione che aveva percepito entrando in quel luogo e si dette dell’idiota. Aveva percepito l’illusione della kitsune, ma ormai era troppo tardi.

Un nutrito gruppo di mostri, simile a quello che aveva trovato all’ingresso, si fece avanti nel salone. A capo di tutti loro, l’uomo uccello che aveva visto nel suo sogno, Bunzo. Sorrise fregandosi le mani. «Ciao piccolo dio. È ora di morire!» 

Edward rimase a fissarli, commettendo l’errore più grave di un combattimento. Se non fosse stato per i riflessi acuiti che Ama no Murakumo gli conferiva, non si sarebbe mai accorto dell’attacco a tradimento di Orochi. Si voltò giusto in tempo per parare la falce. Per poco non si ruppe entrambe le braccia per lo sforzo. Il suo avversario era forte. Molto forte. E soprattutto non era da solo. 

Una palla di fuoco piombò in direzione di Edward e il semidio si scansò con un grido. Le mani di Hikaru erano avvolte dalle fiamme, mentre la donna assumeva poco per volta il suo vero aspetto volpino. «Quindi sapevi che ero una kitsune, mh?» Lo attaccò di nuovo. «Che fossi tu la presenza che ho percepito stamani?»

Il semidio respinse la seconda sfera incandescente con Ama no Murakumo, giusto in tempo per ritrovarsi Naito ad un palmo dal naso, la katana protesa verso di lui. Evitò anche il suo affondo saltando all’indietro. L’han’yō sogghignò, sfiorandosi la cicatrice sull’occhio. «Occhio per occhio, piccolo dio. È ora della mia vendetta.»

I mostri lo circondarono, guidati dai servitori più forti di Orochi e Orochi stesso. Non andava bene. Per niente. Fletté le gambe, facendo vagare lo sguardo su tutti quei mostri, mentre si arrovellava per trovare il modo di uscire da quella situazione. Sapeva che le cose si sarebbero messe male nel primo momento in cui avrebbe cercato di affettare Orochi, ma non così male. Il suo cuore batteva all’impazzata, sembrava stesse per schizzare via dal suo petto. 

«Se davvero progettavi di ribellarti fin dal principio, allora forse non saresti dovuto venire da solo, piccolo dio» lo incalzò ancora Orochi, mentre gli dava le spalle per dirigersi verso il suo trono. Gli altri mostri rimasero in attesa di un suo prossimo cenno per attaccarlo in massa. Si sedette, posando la falce accanto a lui, e sollevò una mano per mostrargli il suo esercito. «Come puoi vedere, il tuo piano ti si è ritorto contro.»

Nonostante la tragica situazione, Edward fu travolto da un’ondata di ira. Orochi era così convinto di avere la situazione in pugno che nemmeno voleva combattere di persona, voleva lasciar fare tutto ai suoi leccapiedi. Beh, peggio per lui. Più in alto le sue aspettative, più rovinosa sarebbe stata la sua caduta. 

«Ti va di fare una scommessa?» biascicò, percependo l’energia di Ama no Murakumo scuoterlo nelle interiora. «Alla fine di questa giornata, io avrò sia salvato Rosa che restituito Ama no Murakumo. Tutti voiinvece, sarete solo una poltiglia sul pavimento.»

Orochi rise, gettando la testa all’indietro, imitato da molti dei suoi soldati. Appoggiò la testa su una mano, gesticolando con l’altra. «Occupatevi del piccolo dio, ma non uccidetelo. Dovrò essere io a sferrare il colpo di grazia.»

Edward serrò la presa attorno al manico di Ama no Murakumo fino a farsi male alle mani. Avrebbe fatto sparire quel sorriso dalla faccia di Orochi, fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto. 

I mostri ruggirono, poi caricarono all’unisono.

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Capitolo 31
*** Promesse ***


31

Promesse

 

 

Edward sapeva di aver commesso un azzardo a proseguire da solo. Anche se aveva capito come usare Ama no Murakumo, i nemici erano molti, e alcuni di loro erano davvero potenti. Ma la paura che provava in quel momento non era niente in confronto alla rabbia e al desiderio di eliminare ogni singolo avversario. 

Orochi credeva di avere vinto, credeva di averlo in pugno, ma si sbagliava. Tutti si sbagliavano. E lo avrebbero capito. 

I mostri si fecero più vicini ed Edward sollevò Ama no Murakumo, pronto a scatenare una tempesta.

All’improvviso, una macchia azzurra piombò dal nulla accanto a lui, e una coltre di fiamme bluastre si sollevò in direzione dei mostri. Edward sgranò gli occhi. Aveva visto quella macchia nel parco prima di entrare nel museo, ma non avrebbe mai pensato che fosse davvero quello che credeva. 

«Un qilin? Come ha fatto ad entrare?» domandò Orochi mentre i mostri arretravano per riorganizzarsi. Si alzò dal trono, puntandogli la falce. «Un amico tuo, piccolo dio?»

Edward non rispose, troppo stupito da ciò che stava osservando. Quello era Fujinami! Aveva temuto che fosse morto, ma forse per una volta poteva ringraziare gli dei per essersi sbagliato. Non era molto sicuro di poter definire Fujinami suo amico, ma comunque, in quel momento, rivedere una faccia conosciuta fu un grande sollievo. 

Fujinami osservò Orochi dritto negli occhi, pestando con forza gli zoccoli a terra, un gesto che valse più di mille parole. L’uomo serpente sorrise di nuovo, emettendo una roca risata. «Un qilin mi ha degnato della sua presenza. Quale onore.»

«Devi aiutarmi, Fujinami» borbottò Edward. «Dobbiamo portare Rosa fuori da qui.»

Fujinami scalpitò nervoso, lanciandogli un’occhiata furibonda. Non sembrava affatto felice. Purtroppo per lui, Edward non poteva sentire le sue parole, quindi decise di interpretare il suo scalpitare per un “d’accordo.”

«Grazie Fujinami. Sapevo che potevo contare su di te.»

Il qilin sbuffò irritato dal naso.

«Non importa.» Orochi liquidò la faccenda con un gesto della mano. «Quello potete ucciderlo.» 

Ancora una volta, i mostri ruggirono esaltati e si lanciarono all’attacco. Fujinami abbassò la testa pronto a caricare, mentre Edward attese che fossero abbastanza vicini. Mulinò Ama no Murakumo e tagliò di netto la testa di una di quelle donne serpenti e falciò con un arco di energia un gruppetto di oni. Si voltò, troncando le braccia di uno degli umanoidi che provarono ad afferrarlo, e sferrò un calcio nelle parti basse ad un altro yōkai non meglio specificato che aveva tentato di colpirlo alle spalle. 

Accanto a lui Fujinami avanzò distribuendo incornate, colpi di zoccoli e sputando fiamme a tutti i malcapitati che gli capitavano a tiro. 

Le grida battagliere dei mostri si tramutavano in sbraiti di dolore ogni volta che la Spada del Paradiso si prendeva le loro vite adorate. Sempre più creature si sciolsero sotto i suoi colpi, sempre di meno lo separavano dal trono di Orochi. Proprio come gli scorpioni che aveva ucciso al Campo Mezzosangue, quegli yōkai erano tanti, grossi e spaventosi, ma non avevano la più pallida idea di contro che cosa stessero combattendo.

Sentì un calore improvviso avvicinarsi alla sua schiena e si voltò giusto in tempo per respingere un’altra sfera di fuoco di Hikaru. La kitsune scattò in mezzo ai mostri, con le mani infuocate ed un’espressione famelica sul volto. «Vediamo come te la cavi con un avversario del tuo livello!»

Saltò addosso a lui scaraventandogli altre fiamme ed Edward serrò la mascella, scansandole e deviandole. I pesci piccoli non erano un problema per lui, ma sapeva che Hikaru sarebbe stata ben più difficile da sconfiggere. 

La donna rise, incalzandolo con i suoi ripetuti attacchi, incurante del fatto che molte volte finivano proprio con lo schiantarsi contro i suoi stessi alleati. Edward si fece largo tra gli yōkai, sgusciando in mezzo a loro come una sanguisuga, tagliando, infilzando e affettando chiunque gli si parasse di fronte. In mezzo a tutto quel caos vide anche Fujinami alle prese con Naito e un altro nutrito gruppo di mostri. Fu un solo istante, poi il qilin svanì di nuovo dalla sua visuale. 

Si ritrovò Hikaru ad un palmo dal naso, il suo brutto muso volpino proteso verso di lui, le fauci spalancate. Edward si scansò ancora una volta, rispondendo con un fendente della spada. Hikaru lo respinse con un gesto del braccio e sogghignò. «Tutto qui?»

Il semidio serrò la mascella, sferrando altri fendenti che vennero respinti dalla kitsune. Il suo sorriso divertito si distese, urtando il sistema nervoso di Edward. Proprio come Milù, combatteva disarmata, usando la sua magia per creare una corazza naturale attorno a sé, permettendole di deviare attacchi diretti di Ama no Murakumo con solo le mani senza alcuna difficoltà. 

«Molto male piccolo dio, molto male» lo provocò, all’ennesimo affondo a vuoto. Forse era un tratto in comune delle kitsune, non riuscivano a tenere la loro maledetta bocca chiusa. 

Edward si avventò su Hikaru con un grido e quella rise di nuovo. Unì le mani ed un’esplosione di fiamme si scaturì da esse, travolgendolo. Il ragazzo dimenò la spada per generare una corrente d’aria che le respingesse, ma la distrazione permise ad Hikaru di piombare su di lui, gli artigli diretti al suo cuore. Si mosse con un secondo di ritardo, non riuscendo a scansarsi in tempo. Hikaru gli strappò la maglia, aprendogli uno squarcio sul petto, ed Edward urlò barcollando all’indietro. 

«Hai commesso un grosso errore, piccolo dio!» esclamò la donna, attaccandolo ancora. 

Il ragazzo indietreggiò, attanagliato dal dolore al petto. Tentò di difendersi da tutti quegli attacchi, ma altri lo raggiunsero, graffiandogli le braccia, il volto e l’addome. Era molto più forte di Milù. Inoltre, Milù voleva catturarlo in buone condizioni, Hikaru invece non sembrava affatto di quell’avviso. La sentì ridere mentre continuava ad infierire su di lui. Sembrava essere l’unica che continuava ad attaccarlo. 

Edward saltò all’indietro, ansimante e sanguinante, e si accorse che il resto dei mostri si erano radunati tutti attorno a loro per godersi la scena. Rumori di lotta continuavano a provenire oltre di loro, chiaramente Fujinami e Naito erano ancora impegnati, ma per quanto tempo questo non poteva saperlo. 

Sapeva solo che Hikaru non aveva nemmeno un graffio e lui invece, con così poco, già era quasi allo stremo. 

«Non avresti dovuto ribellarti» gli disse, sollevando gli artigli ancora macchiati del suo sangue. «Avresti dovuto consegnare la spada a Lord Orochi e lasciare che ti uccidesse con essa, mentre eri convinto di poter scappare assieme a tua sorella. Almeno saresti morto con un bel ricordo. Invece ora sarai costretto a morire soffrendo.» Mostrò i denti affilati in un ghigno. «Se non altro, non vivrai abbastanza a lungo da vedere anche i tuoi amici morire.»

Le ferite di Edward bruciavano e aveva male dappertutto. Hikaru non era un avversario facile, per niente. E inoltre stava combattendo da sola, gli altri mostri avevano deciso di farsi da parte per lasciarla finire il lavoro indisturbata, certi che lei avrebbe vinto. Anche Orochi sembrava certo della cosa, perché un altro di quei sorrisetti compiaciuti gli era apparso in faccia. Doveva star proprio adorando quella scena. 

E ad Edward tutto quello non andò affatto giù. Sentì i denti incrinarsi da quanto li strinse. Non se ne sarebbe andato così, neanche per sogno. Il suo intero corpo formicolò, mentre quella sensazione ormai familiare che Ama no Murakumo gli trasmetteva si faceva sentire con più insistenza. Sarebbe uscito da lì, avrebbe salvato Rosa, avrebbe ucciso Orochi, avrebbe fatto tutto quello che aveva promesso di fare. 

Fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto.

Urlò a perdifiato, concentrandosi su quanto volesse salvare Rosa, su quanto volesse eliminare quei mostri, cancellare i loro sorrisi dalla faccia, insegnare loro con le cattive che non avrebbero mai dovuto mettersi sulla sua strada. 

Lui era il ladro, il figlio di Apollo, il proprietario di Ama no Murakumo. C’era un motivo se gli dei stessi avevano votato per ucciderlo o meno. Lui era l’ago della bilancia. E Hikaru, Orochi e tutti quei pagliacci l’avrebbero capito. 

Una corrente d’aria lo investì, circondandolo come un’aura. Il pavimento attorno a lui si crepò, alcuni mostri vennero sbalzati via. Osservò la donna dritta negli occhi e, per un momento, l’espressione divertita di lei sembrò vacillare. Edward sogghignò, rinvigorito da quell'ondata di energia, poi attaccò. 

Hikaru aveva sbagliato a provocarlo. Ma era un errore che non avrebbe mai più fatto. Percorse tutti i metri di distanza che li separavano in un battito di ciglia e menò un fendente con Ama no Murakumo verso di lei, creando uno spostamento d'aria che mandò scosse sismiche in tutto il salone. Hikaru spalancò gli occhi, tentando di difendersi in un ultimo inutile tentativo. Sollevò le mani, creando una coltre di fuoco tra loro due, ma l’aria la cancellò non appena apparve. La spada si abbatté su di lei e la scaraventò come un proiettile verso una parete del salone, distruggendola completamente. La kitsune urlò di dolore, prima di venire sepolta viva da una pioggia di detriti. Perfino un lampadario si staccò dal soffitto per andare a schiantarsi a terra, centrando in pieno qualche altro mostro.

E una era sistemata. Edward osservò gli altri mostri con l’aria che sferzava attorno a lui, facendo svolazzare la sua felpa come un mantello, e distese il suo ghigno. C’erano ancora una ventina di creature, tra oni, donne rettili e altre strane bestie mezze umanoidi e mezze animali. 

«Venti contro uno» commentò, roteando la spada e distendendo il suo sorrisetto. «Uno scontro troppo impari!» 

Sfrecciò verso di loro senza dargli un altro secondo per riorganizzarsi. Nemmeno la sera in cui aveva lottato per salvare Kate la sua spada aveva mietuto tante vittime. Uno dopo l’altro, i mostri crollarono a terra senza arti, o testa, o tutt’e due le cose. Alcuni tentarono di attaccarlo, forse per stupidità, forse perché pensavano di non avere altra scelta, ma il risultato non cambiò. Si mosse in mezzo a loro come un lampo, trucidando qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. Le ferite smisero di fargli male, la stanchezza lo abbandonò, la paura pure: rimaneva solo l’obiettivo che si era prefissato. 

Non ebbe alcuna idea di quanto tempo passò in quel modo, mulinando la Spada del Paradiso e annientando mostri. Sapeva solo che quello che all’inizio era sembrato un oceano di mostri pericolosi, ora pareva di più un piccolo stagno. Edward rimase immobile a riprendere fiato, mentre i pochi yōkai rimasti lo osservavano basiti, quasi intimoriti. Non sembravano più molto sicuri di quello che volevano fare con lui. Il figlio di Apollo li squadrò uno per uno, poi scrollò le spalle e finì anche loro. Una volta fatta piazza pulita, il salone sembrò molto più grande e silenzioso di quanto lo ricordasse. 

L’unico scontro che stava proseguendo era quello tra Naito e Fujinami, con quest'ultimo che sembrava essere riuscito a liberarsi della sua buona dose di mostri. L’han’yō fu il primo a realizzare cosa Edward avesse fatto. Sgranò il suo unico occhio quando vide la scia di desolazione lasciata dal figlio di Apollo, ma Fujinami non gli concesse il lusso di distrarsi. Continuò ad incalzarlo, saltandogli attorno sputando le sue fiamme, e Naito fu costretto a continuare a difendersi e a contrattaccare. 

Con anche il mezzo demone fuori dalle scatole, Edward fu libero di marciare verso il trono di Orochi, su cui il “lord” era ancora seduto indisturbato, ora anche lui con un’espressione basita dipinta sul suo orrido muso. Edward sogghignò, stringendo la presa attorno ad Ama no Murakumo. Era ora del boss finale. 

«Muori, piccolo di…» Bunzo apparve dal nulla alle sue spalle, ma Edward scatenò una corrente d’aria dalla spada senza nemmeno voltarsi, scaraventandolo via. Udì il rumore di qualcosa che si schiantava, seguito da un lamento di dolore, e proseguì il suo cammino verso l’uomo serpente.

Orochi si alzò dal trono, brandendo la falce. Gli rivolse un altro sorriso, ma questa volta sembrò ostentare sicurezza senza davvero provarla. «Notevole, piccolo dio. Hai fatto un buon uso della spada, ma ora vediamo se…»

Edward non lo lasciò finire. Saltò e, sospinto da un’altra potente sferzata d’aria, si precipitò addosso ad Orochi. Gli atterrò di fronte ed abbatté la Spada del Paradiso sulla sua stupida testa. Orochi parò l’attacco all’ultimo secondo, digrignando i denti. Un assordante clangore di metallo si sollevò quando le loro armi cozzarono. Il suolo si crepò sotto ai piedi del rettile e un mugugno di sorpresa misto a dolore gli sfuggì. 

Il semidio roteò su sé stesso, mirando al fianco di Orochi, e ancora una volta l’uomo riuscì a proteggersi, anche se per il rotto della cuffia. Barcollò all’indietro, mentre un’altra corrente proveniente della spada faceva tremare la stanza, mandando tutte le finestre in frantumi. Dopo un terribile boato, una pioggia di vetri rotti si riversò nel salone. E avevano appena iniziato. 

Tempestò Orochi di attacchi, senza lasciargli nessuna tregua. Quel tizio aveva chiesto Ama no Murakumo, beh, avrebbe avuto Ama no Murakumo. Lo incalzò facendolo indietreggiare, sempre più veloce, sempre più fulmineo; Orochi era un buon combattente, aveva riflessi acuti ed era molto più veloce di quanto si potesse immaginare, ma la sua arma stava giocando contro di lui. La falce era un’arma a lungo raggio per attacchi potenti e brutali, ma in un combattimento come quello la forza bruta era inutile.

In più di un’occasione Orochi fu costretto ad evitare di parare gli attacchi e scansarsi per non farsi affettare, e in altrettanti casi sembrò semplicemente voler battere in ritirata, ma Edward non gliel’avrebbe mai permesso. Ormai era una faccenda personale.

Veder svanire quell’espressione divertita che lo aveva tormentato durante i suoi sogni, perfino mentre era sveglio, fu una soddisfazione enorme. I suoi attacchi divennero più forti e cruenti man mano che il tempo passava e riuscì ad infliggere le prime ferite sul suo avversario. Vederlo sanguinare quella strana sostanza bluastra non fece altro che spronarlo ancora di più a concludere quella faccenda. Sapeva che stava esagerando, che Ama no Murakumo stava tirando fuori il lato più brutale e violento di lui, ma non gli importava; avrebbe continuato fino a quando non avrebbe messo Orochi in ginocchio di fronte a lui e non gli avrebbe tagliato la testa.

Edward urlò, menando un fendente da far invidia a quello che aveva eliminato Hikaru, facendo scuotere ancora una volta il terreno. Orochi sollevò la falce e parò l’attacco, ma questa volta nemmeno la sua notevole forza gli fu di aiuto. Con un sonoro stridio, la lama della falce si spaccò a metà. Orochi gridò e fu spedito a terra, perdendo la presa sul manico. Cercò di rialzarsi sulle braccia tremolanti e gli lanciò uno sguardo dal basso, in cui Edward, per la prima volta, notò una vena di vera paura. 

Avanzò verso di lui con tutta la calma dell’universo, consapevole del fatto di averlo in pugno, mentre Orochi strisciava come un vero serpente per allontanarsi, facendo agitati versi che per il semidio furono musica per le orecchie. In quel momento Edward si sentì intoccabile, invincibile. Aveva fatto a pezzi tutti quei mostri, Hikaru inclusa, e ora il grande e potente Yamata no Orochi si trovava ai suoi piedi. Tutto grazie a quell’arma che stringeva in mano. Ecco perché gli dei avevano avuto timore di lui, ed ecco perché il serpente aveva desiderato così tanto quella spada. 

Incrociò lo sguardo di Orochi e sorrise un’ultima volta. «Te l’avevo detto, Lord Orochi.» Sollevò Ama no Murakumo. «Una poltiglia sul pavimento.»

Orochi strinse i denti. «Bunzo! Porta via il sacrificio!»

Edward spalancò gli occhi. Si voltò e si accorse del pennuto che si stava rimettendo in piedi. Lo yōkai scrollò la testa, poi si alzò in volo: «Sì padrone!»

Piombò verso l’altare per afferrare Rosa e il figlio di Apollo protese un braccio verso di lui. «Fermati!» urlò, dimenticandosi stupidamente per un momento del suo vero avversario. 

Sollevò Ama no Murakumo e nello stesso istante riuscì a percepire un movimento alle sue spalle. Cercò di girarsi, ma un dolore lancinante gli forò la schiena, facendolo sbraitare come un animale ferito. Barcollò e un’orribile sensazione di freddo gli percorse tutto il corpo, mentre una gelida sostanza bagnata gli inzuppava la felpa. Si voltò furibondo, riuscendo per un istante ad osservare il sorriso di trionfo di Orochi. Dimenò Ama no Murakumo con un grido, raggiungendo il volto dell’uomo, il cui sorriso svanì per l’ultima volta. 

Vi fu un altro disgustoso rumore, come quello di un pomodoro marcio che veniva calpestato. Orochi fu scaraventato a qualche metro di distanza da lui e rotolò sul suolo a peso morto, perdendo la presa da un pezzo di falce. Schizzi del suo sangue bluastro piovvero in ogni direzione e l’uomo serpente giacque immobile con gli occhi sigillati e la faccia squartata. 

Edward ansimò, rimanendo per un attimo immobile ad osservare quel corpo esanime, non credendo davvero ai propri occhi. Lo aveva… lo aveva ucciso?! 

Gli starnazzi di Bunzo gli ricordarono che non aveva più tempo. Con la coda dell’occhio individuò il pennuto mentre volava rasente al soffitto, le mani avvinghiate sotto le ascelle di Rosa. Si stava dirigendo verso le scale e non sembrava essersi accorto di quello che era successo ad Orochi. Edward digrignò i denti. Non gli avrebbe mai permesso di scappare. Dimenò ancora una volta la Spada del Paradiso verso di lui, generando un altro arco di aria che gli precipitò addosso. Lo centrò in pieno, riuscendo nel suo intento, e fu solo allora che si rese conto di aver commesso un’idiozia. Non aveva agito con buonsenso, aveva agito e basta, come faceva sempre, e quello era stato il risultato.

Bunzo gridò, disarcionandosi e perdendo la presa da Rosa, che cominciò a precipitare da una decina di metri di altezza. 

«NO!» urlò Edward, cercando di correre, fallendo miseramente a causa del dolore alla schiena. Fece due passi e quasi cadde a terra, riuscendo a reggersi a malapena su un ginocchio. Affondò la mano nel pavimento e drizzò lo sguardo giusto per osservare impotente sua sorella che precipitava verso la sua fine. 

Fece per gridare a squarciagola il suo nome, disperato, quando un’ombra nera si mosse rapida come una freccia, saltando verso una colonna, rimbalzando su di essa e dirigendosi verso la ragazza, afferrandola al volo. 

Per la seconda volta, Edward non riuscì a credere ai suoi occhi. Naito atterrò con sicurezza su un ginocchio, stringendo Rosa come già lo aveva visto fare nel suo sogno. L’aveva appena salvata. Non solo, aveva perfino smesso di combattere contro di Fujinami pur di farlo. Il sollievo nel vedere sua sorella ancora tutta intera sorpassò qualsiasi altra sua emozione. Non durò a lungo, però: era ancora tra le mani del nemico. Edward si alzò barcollando a causa del dolore, mentre Naito drizzava la testa verso di lui, Rosa immobile tra le sue braccia. 

Bunzo atterrò accanto al mezzo demone, massaggiandosi il fondoschiena e mugugnando di dolore. Osservò truce Edward per quello che gli aveva fatto, ma mise su una faccia molto diversa quando si accorse di Orochi. 

«Padrone!» urlò disperato, per poi lanciare un altro sguardo incendiario al semidio. «Che cos’hai fatto?!» Si precipitò addosso a lui, sfoderando gli artigli e mostrandogli i denti affilati. «La pagherai, bastardo!»

Edward sollevò Ama no Murakumo, ma Fujinami gli apparve di fronte, intercettando l’uomo uccello un attimo prima che potesse colpirlo. Gli sferrò una poderosa cornata, scaraventandolo contro una delle colonne nella stanza e mandandolo al tappeto una volta per tutte. Il qilin sbuffò dalle narici, scuotendo la testa. Era un po’ malconcio dallo scontro con Naito, ma sembrava ancora avere le forze per combattere. 

Incrociò lo sguardo di Edward e per un istante sembrò genuinamente angosciato. Un gesto che non promise nulla di buono. Anche lui era convinto di non essere uno spettacolo in quel momento, tra le ferite che Hikaru gli aveva inferto prima e quella alla schiena. Ma non poteva fermarsi, non fino a quando non avrebbe portato Rosa fuori da lì.

Gli indicò Naito, ancora immobile di fronte alle scale, con Rosa in braccio. «Aiuta Rosa… ti prego…» 

Fujinami sbuffò di nuovo dal naso, fissando prima lui e poi Naito. Batté lo zoccolo sul pavimento un paio di volte, poi annuì. Abbassò la testa e sembrò in procinto di caricare, ma l’han’yō fu più veloce di lui. Estrasse la wakizashi, puntandola al collo di Rosa. «Fermo dove sei.»

Edward sgranò gli occhi. «Non farlo!» 

Provò di nuovo a correre ma cadde carponi per colpa delle ferite. Sbatté un pugno sul suolo per la rabbia. «Lascia andare Rosa…» rantolò. Sentì la vista appannarsi e drizzò la testa. «Questa storia non la riguarda. Non l’ha mai fatto.»

Naito non rispose. Rimase immobile, inespressivo, la lama ad un soffio dal volto della semidea. 

«Non lo vedi che è finita, razza di idiota!» gridò ancora Edward, accendendosi come un incendio. «Orochi è morto! Ho fatto a pezzi tutto il vostro patetico esercito! Avete perso! Perso! Uccidere Rosa non ti servirà a niente di niente!»

Altro silenzio. L’han’yō mostrò i denti in un ringhio ed avvicinò ulteriormente la lama al collo della figlia di Apollo, mozzando il respiro di Edward. Avrebbe voluto gridare, avrebbe voluto correre, distruggere tutto con Ama no Murakumo, ma non riuscì in nessuna di queste cose. Si limitò solo a stringere i pugni, emettendo un suono gutturale come quello di un animale messo all’angolo. Per questo l’aveva salvata, per prenderla in ostaggio. Avrebbe dovuto capirlo fin dall’inizio. 

«Ascoltami bene, Naito.» Si rimise in piedi a fatica, ignorando le fitte di dolore e il sangue che colava sotto la sua felpa ormai fradicia. «So perché stai facendo tutto questo. So perché sei arrabbiato con gli dei, perché hai scelto di unirti ad Orochi. So tutto quanto.»

Le sue parole sembrarono scuotere il mezzo demone, perché spalancò l’occhio, irrigidendosi. «Tu… lo sai?»

«Ho conosciuto una persona che me l’ha detto.» 

Edward fece per camminare di nuovo, ma le forze gli mancarono alle gambe, facendolo sbilanciare in avanti. Se Fujinami non lo avesse affiancato, fornendogli un appoggio con il suo dorso, sarebbe caduto di nuovo a terra. Rivolse un cenno di gratitudine al qilin, poi i due mossero un passo in direzione di Naito.

«Fermi ho detto!» urlò lui, serrando la presa attorno al manico della spada. «Se vi avvicinate ancora la uccido!»

Il figlio di Apollo pietrificò, bloccandosi assieme a Fujinami. Sollevò una mano verso di lui. «Va bene, va bene.»

«Che cosa sai di me?! Chi era quella persona?!» 

«Non lo so chi fosse, ma mi ha detto tutto, ogni cosa.»

Naito scosse la testa un paio di volte. «No… no, stai mentendo. Mi prendi per uno stupido?!»

Edward si morse la lingua, prima di rispondere quello che pensava davvero. «Gli dei ti hanno portato via la tua vita» disse invece, calmo. «Hai perso tutto per colpa loro. Sei rimasto senza una casa, una famiglia, un luogo dove appartenere.»

«Sta’ zitto…»

«Eri disprezzato da tutti. Né mortali né mostri volevano avere nulla a che fare con te. Sei sempre stato solo.»

«Zitto!» gridò Naito, avvicinando ancora di più la lama a Rosa. «Tu non sai niente di me! NIENTE!»

«Vuoi soltanto vivere in pace, ma credi che per colpa degli dei questo non accadrà mai. So come ti senti, devi creder…»

«Tu non lo sai invece!» sbraitò il mezzo demone. Lasciò andare Rosa, mettendosi in piedi, puntandogli contro la wakizashi. «Tu non hai la più pallida idea di che cosa io abbia trascorso! Essere un rifiuto del mondo, uno scherzo del fato, un bastardo senza un passato, un presente o un futuro. Tu non sai niente.»

«Si che lo so invece!» urlò Edward. «Tutto quello che a te hanno fatto gli dei a me l’hanno fatto i mostri! Ho perso tutto per colpa loro! Non ho mai avuto una vita normale, non ho più una madre, e ho dovuto lasciare l’unica casa che credevo di aver trovato per restituire questa stupida spada!» Sollevò Ama no Murakumo, che mandò bagliori argentati verso tutto il salone. «La mia vita è solo un gioco, sono solo un burattino nelle mani degli dei e lo sarò fino a quando non si saranno stancati di me, o fino a quando non mi farò ammazzare da qualche belva feroce!»

«Pensi davvero che sia lo stesso?!» Naito si indicò l’occhio buono, digrignando i denti. «Ho visto casa mia bruciare con questi stessi occhi. Ho visto mia madre venire giustiziata solamente perché aveva cercato di nascondermi! Avrebbe potuto abbandonarmi, dimenticarsi di me, trattarmi come immondizia come tutti gli altri hanno fatto, ma ha deciso di non farlo. È morta solamente perché ha deciso di proteggermi! Credi davvero che sia lo stesso che hai passato tu?!» urlò tanto da far appiattire le orecchie di Fujinami, mentre il cuore di Edward avvertiva un sussulto. 

Il mendicante gli aveva parlato di quella storia. La madre di Naito era stata una sacerdotessa devota a un dio giapponese, una giovane miko di cui un demone si era invaghito. Dopo averla ingannata era riuscito a possederla, e dalla loro relazione era nato Naito. Naturalmente gli dei non avrebbero mai potuto accettare qualcosa di simile, soprattutto da una delle loro sacerdotesse, ma erano disposti a perdonare la donna, visto che era stata raggirata. Tuttavia, per avere salva la vita, lei avrebbe dovuto consegnare il nascituro affinché venisse giustiziato.

E lei aveva deciso di non farlo. Aveva abbandonato la vita da sacerdotessa ed era fuggita tra le montagne, dove aveva cresciuto Naito come una madre amorevole. Questo, però, fino a quando non erano stati trovati. La loro casa era stata data alle fiamme, la donna era stata catturata, ma Naito non era stato più trovato. Almeno, non fino a quando era riapparso nell’esercito di Orochi.

La voce di Naito echeggiò amareggiata e malinconica nell’ampio salone: «Tutto quello che ho visto, quello che ho subito, ogni taglio, ogni ferita, ogni cicatrice… voi piccoli dei non avete idea di che cosa quelli come me sono costretti a subire giorno dopo giorno, per mano di mortali, di dei o perfino di altri mostri. Molti di noi nemmeno vogliono combattere davvero, ma siamo costretti a farlo per sopravvivere. Non abbiamo chiesto noi di nascere. Non abbiamo scelto noi di avere un genitore mortale e uno demone, ma gli dei hanno comunque deciso di farcene una colpa. Per loro siamo solo degli errori, degli abomini che camminano, degli sporchi incroci frutto di una relazione proibita. Ma Orochi mi ha promesso che se lo avessi servito, le cose sarebbero cambiate. Mi ha promesso vendetta. E ha promesso che la mia specie sarebbe stata al sicuro.»

Edward assottigliò le labbra. «E uccidere un’innocente cosa centra in tutto questo?»

Quella domanda sembrò smuovere Naito, perché la sua espressione arrabbiata vacillò.

«Vuoi che il mondo rispetti i tuoi simili. Stai facendo quello che ritieni più giusto per te e per quelli come te. Mi sta bene» proseguì Edward, parlando sempre più a fatica. 

Come il mendicante di Kansas City gli aveva detto, le loro decisioni non erano giuste o sbagliate, era solo una questione di chi le compiva e di chi ne era a subire le conseguenze. Naito era solamente stato una vittima dei capricci degli dei, una vittima come tante, tantissime altre. Quanti mostri, quante ninfe, quanti semidei, umani, figli di Titani, perfino Giganti, quante persone avevano avuto destini simili al suo, o peggiori, solamente perché avevano fatto arrabbiare gli dei per qualche motivo, anche per i più futili? 

Tuttavia, Edward non era lì per consolare Naito, mettersi sul suo stesso piano, fargli un po’ di terapia. La verità era che non gli importava niente di niente del mezzo demone, e non lo pensava con cattiveria. Semplicemente, lui non era lì per quello. Non era lì per aiutarlo. Era lì per salvare Rosa.

«Comprendo come ti senti, perché anch’io so cosa significhi voler combattere una battaglia di cui non importa niente a nessuno a parte te. Non c’è niente di male se tu vuoi che la tua specie sia al sicuro. Ma è proprio questo il punto. Uccidere Rosa non ti aiuterà con la tua battaglia. Non ti aiuterà a niente di niente. Questa…» Edward sollevò di nuovo la spada. «… ti aiuterà. Lascia andare Rosa. Orochi era quello che voleva ucciderla, non tu, e sono certo che lo sai bene, altrimenti non l’avresti appena salvata, e non l’avresti protetta da Bunzo, questa mattina.» 

Naito si irrigidì come un chiodo. Edward preferì ignorare quel suo comportamento e tutti i significati che poteva avere. 

«Quindi eri davvero tu la presenza che Hikaru ha sentito…»

«Sì, e allora? Questo non cambia nulla. Rosa è innocente, non ha niente a che vedere con il tuo piano. Se davvero vuoi vendicarti degli dei, o quantomeno provarci, allora combatti contro di me, uno contro uno. Tanto sono ferito, come puoi ben vedere. Per te sarebbe una passeggiata. Se vincerai e mi ucciderai, allora Ama no Murakumo sarà tua e dopo potrai fare qualsiasi folle idiozia tu abbia in mente. Se perderai, invece… beh, che te lo dico a fare?» 

Edward sogghignò, e perfino quel piccolo gesto gli provocò una fitta di dolore. «Se non sei nemmeno in grado di battere un avversario già mezzo morto, allora sarebbe meglio rinunciare in toto a vendette varie, non credi?»

Fujinami si agitò a quelle parole, osservandolo di nuovo, ma Edward lo ignorò, rimanendo concentrato su Naito. Il mezzo demone sembrò essersi abituato all’idea di farlo rabbrividire, perché abbassò lo sguardo su Rosa, scrutandola con una minuziosità che ancora una volta non gli piacque affatto. Strinse i pugni e chinò la testa, in modo che il cappuccio celasse qualunque fosse la sua espressione. «Facciamo uno scambio, allora. La spada per…»

«Te lo puoi scordare» lo interruppe Edward, facendolo drizzare all’istante. 

Il semidio era stanco di tutti quegli stupidi giochetti, stanco morto. «Ora sei tu quello che non è in posizione di negoziare. Hai due possibilità: accettare la mia proposta e lasciare andare Rosa, oppure ucciderla per davvero, e io so che non lo farai, e affrontare sia me che Fujinami. E te l’assicuro, se Rosa dovesse morire, allora tutto quello che ti è successo fino ad oggi non sarà nulla in confronto a quello che ti farò io. Anche se sono ferito, anche se sono ad un passo dall’andarmene, ti posso garantire che non mi fermerò finché non ti avrò squartato pezzo dopo pezzo.»

Di nuovo, il qilin sembrò non trovarsi d’accordo, ma sfortunatamente Edward non poteva sentirlo. Forse era proprio quel suo modo di pensare così deviato a renderlo non puro di cuore. E in quel momento era davvero felice di non esserlo.  

Naito sembrò riflettere ancora per qualche momento, su che cosa Edward non ne aveva idea, visto che i patti ormai erano chiari. Osservò il semidio dritto negli occhi e lui ricambiò lo sguardo determinato. Naito era il figlio di un demone, Edward di un dio. E nonostante questo, entrambi potevano dire di aver avuto madri che li avevano amati più di ogni altra cosa. 

Erano in due fazioni diverse, ma questo non significava che non fossero simili. Avevano i loro scopi, le loro ambizioni, più o meno folli, ed erano proprio quelle a renderli ciò che erano. Naito avrebbe dovuto sapere che se c’era qualcuno che non gli avrebbe mentito, quello era proprio Edward, perché Edward era proprio come lui. Non si credeva migliore degli altri, come gli dei o come Orochi, ma nemmeno si credeva inferiore a loro. Era solo un tizio qualsiasi, con i suoi problemi, i suoi sogni e i suoi ideali. Erano della stessa pasta, solo… erano cresciuti in luoghi e ambienti diversi.

«Va bene allora» asserì Naito annuendo, rinfoderando la wakizashi. «Finiamo questa storia.»

Anche Edward annuì. 

«Porta Rosa fuori da qui» disse a Fujinami, ottenendo in risposta un’altra energica negazione del capo. Questa volta non gli fu difficile intuire che il qilin era assolutamente contrario a quella decisione. 

Edward non poteva biasimare il suo scetticismo. Il suo obiettivo era sempre stato uno ed uno soltanto, assicurarsi che Ama no Murakumo venisse restituita. E il figlio di Apollo di certo non se n’era dimenticato. Avrebbe affrontato Naito, lo avrebbe sconfitto e dopo avrebbe restituito la spada. Ma sarebbe riuscito a farlo solo se fosse stato certo che Rosa fosse al sicuro.

«Sono io quello che non può sentirti, Fujinami, non tu. Porta Rosa via da qui. Ti prego» disse, con voce più morbida. «Non preoccuparti, restituirò Ama no Murakumo non appena avrò finito qui.»

Fujinami scosse di nuovo la testa, per poi sbuffare in direzione delle sue ferite. Sembrava davvero preoccupato per le sue condizioni. La cosa riuscì a strappare un sorriso al semidio. Era sempre stato convinto che al qilin importasse di lui giusto perché era il proprietario della spada, ma sapere che invece non era davvero così lo rincuorò. «Non devi pensare a me. Occupati solo di Rosa. Per caso… sai se Stephanie sta bene?»

Con un lento movimento del capo, Fujinami annuì. 

«E gli altri? Tommy, Konnor, Lisa?»

Al secondo cenno di assenso, Edward sentì il cuore colmarsi di sollievo e felicità. Si sentiva in colpa per essersene andato senza nemmeno assicurarsi che i suoi compagni stessero bene, ma ora poteva stare tranquillo. Tutto era tornato al suo posto, grazie a qualcuno sopra la sua testa, non era molto sicuro chi. Poteva proseguire in pace con sé stesso e con un sorriso stampato in faccia. «Porta Rosa da loro, va bene? E salutameli tanto. Digli che… che mi dispiace di essermene andato da solo.»

Di nuovo, Fujinami annuì. Edward distese il sorriso e allontanò la mano dal suo dorso per rimettersi in piedi con le sue sole forze. Le sue gambe tremolarono per un istante, ma riuscì a non crollare come un sacco di patate. Il qilin avanzò guardingo verso Naito, rimanendo sull’attenti per timore di qualche suo passo falso, ma il mezzo demone rimase di parola. Prese di nuovo Rosa tra le sue braccia e la adagiò sulla sua groppa. Per tutto il tempo Fujinami non gli staccò gli occhi di dosso. Fu solo quando Naito si allontanò da lui che sembrò rilassarsi.

Con la figlia di Apollo adagiata sulla sua schiena, le braccia attorno al suo collo, Fujinami lanciò un’ultima occhiata verso di Edward e gli rivolse lo stesso inchino che aveva dedicato a Stephanie, che un po’ gli ricordò anche il saluto del mendicante di Kansas City. Doveva essere il suo modo per salutarlo. Edward sollevò il pollice, poi Fujinami corse giù per le scale, portando Rosa fuori da quel luogo maledetto una volta per tutte.  

Naito rimase girato verso le scale per diversi momenti, prima di voltarsi di nuovo verso di Edward, e il semidio capì da quel suo gesto che se n’erano andati per davvero. A quel punto, provò un sollievo che mai aveva provato. Era finita. Dopo tutti quei giorni atroci, era finita. Rosa era con Fujinami, ed erano fuori da lì. L’avrebbe portata da Stephanie e gli altri, loro si sarebbero occupati del resto, ne era certo. Ora restava solo più una faccenda da concludere. 

«Non pensare che ci andrò piano con te solo perché sei ferito.» La voce di Naito frantumò il suo buonumore un po’ come lui aveva frantumato le finestre. Il mezzo demone sguainò di nuovo la katana dal fodero sulla schiena, tracciando un lento arco nell’aria sopra la sua testa. «Se hai deciso di affrontarmi in quelle condizioni, è perché stai tramando qualcosa. Ma se pensi di fregarmi, allora ti sbagli. I tuoi colpi bassi non funzioneranno con me questa volta.»

Edward riuscì a sorridere di nuovo. Non aveva dubbi a riguardo. Naito era stato vittima già una volta delle sue tattiche sporche, non ci sarebbe mai cascato di nuovo. Proprio per quel motivo, unito alle sue ferite, non era assolutamente intenzionato ad incrociare la spada con lui tanto per cominciare. «Kore o owara semashou, Naito.»

Naito annuì. L’ombra di un sorriso attraversò anche il suo volto, forse perché Edward aveva usato il giapponese. «Facciamola finita» ripeté. 

Con un urlo che aveva molto di demoniaco e molto poco di umano, il mezzo demone si lanciò verso di lui, la katana puntata in direzione del suo naso, il colore scarlatto che riluceva sotto la luce del salone. Edward gemette per il dolore, ma distese il braccio, saldando la presa attorno ad Ama no Murakumo. Attese che Naito fosse abbastanza vicino, consapevole del fatto di avere un solo tentativo: se avesse fallito, allora sarebbe morto. 

Tuttavia, la parola fallimento al momento non faceva ancora parte del suo vocabolario. Si concentrò, inspirò profondamente, e quando la spada di Naito fu a soli pochi centimetri dall’assaggiare il suo sangue, urlò a perdifiato a sua volta. Un tornado in miniatura si scaturì dalla Spada del Paradiso, circondandolo come una barriera, piombando addosso all’han’yō e arrestando la sua corsa. Naito venne sbalzato all’indietro facendo un verso sorpreso. Sollevò le braccia di fronte alla testa per farsi scudo dall’aria, mugugnando per lo sforzo. «Ma che cosa…»

«Ah… scusa, Naito» borbottò Edward parlando a fatica, ma riuscendo comunque ad abbozzare un altro sorriso. «Ma questa spada non ti appartiene.»

Vide il mezzo demone sfoggiare i denti per la frustrazione, mentre la barriera d’aria tra loro diventava sempre più spessa. «N-No…» rantolò, lanciandogli un’altra occhiataccia. «Maledetto! Malede…» 

Edward gli puntò contro Ama no Murakumo, direzionando il tornado verso di lui, e Naito riuscì solo a sgranare il suo unico occhio prima di essere scaraventato dall’altra parte del salone. Il suo urlò si disperse quando andò a schiantarsi contro la parete al fondo della stanza. Senza perdere nemmeno un secondo, il figlio di Apollo barcollò verso le scale. Il suo giochetto non avrebbe messo fuori gioco Naito per molto tempo, ed era sicuro che l’avesse fatto arrabbiare per davvero.

Scese i gradini aggrappandosi al cornicione, le ferite che bruciavano e mandavano fitte terribili lungo tutto il suo corpo. Dovevano essere molto più gravi di quanto credesse, ma non poteva fermarsi in quel momento. Doveva restituire la spada e lo avrebbe fatto. Ritornò nel salone d’ingresso e si guardò attorno, verso i corridoi che conducevano alle mostre del museo. Chirone gli aveva detto che una volta arrivato lì avrebbe saputo da solo cosa fare, ma non aveva idea di che cosa avesse voluto dire. Pensò che la cosa migliore da fare fosse raggiungere la mostra con la replica di Ama no Murakumo. Dopotutto, lui aveva l’originale. 

Si avviò nel corridoio con accanto il cartellone che aveva letto quando era entrato, mugugnando ad ogni passo e stringendo con forza l’impugnatura della spada. Se non era ancora crollato a terra per le ferite, lo doveva all’energia che la spada gli stava trasmettendo. Il che lo portava ad una domanda: cosa sarebbe successo se davvero si sarebbe separato dall’arma? Non era sicuro di volerlo sapere davvero. Ormai era troppo tardi per i ripensamenti. 

Avanzò in stanze avvolte nella penombra, accanto a teche, piedistalli ed espositori di statue, dipinti e artefatti appartenenti alla cultura orientale, illuminati da flebili luci installate nel pavimento e sul soffitto. Non perse alcun istante ad osservare le esposizioni, ma si domandò comunque quanti di quegli oggetti fossero davvero giunti lì per mano di sua madre, come aveva detto Orochi. Pensare che fosse davvero così, in un certo senso, lo aiutò a sentire Kate più vicina a lui. 

Improvvisamente ebbe un sussulto. Si fermò di scatto, voltandosi verso una porta che conduceva ad un’altra stanza, provando l’irresistibile tentazione di andare da quella parte. Osservò Ama no Murakumo, che rilucette di nuovo, e pensò di aver appena scoperto che cosa Chirone intendesse. Proseguì verso la stanza ed entrò in un altro ampio spazio, dove ebbe un altro tuffo al cuore: quella era la stessa sala che aveva visto nel suo sogno. E proprio come nel sogno, al fondo di essa, vide un’altra stanza, più piccola, il cui passaggio era ostruito da uno spesso cordone rosso. Quella era l’armeria con il piedistallo di Ama no Murakumo. 

Man mano che avanzava, sentiva l’inquietudine aumentare dentro di lui. Un’energia arcana, misteriosa, diversa, proveniva da quel luogo. Anche in quel caso, si ricordò ciò che aveva detto Chirone: l’Asian Art Museum era il luogo in cui la cultura orientale era la più potente sul suolo americano. E Ama no Murakumo stava rispondendo ad essa, coinvolgendo lui di conseguenza.

Entrò nell’armeria dopo aver scostato il cordone e si avvicinò all’espositore, il quale era già occupato da un’altra katana, che non aveva nulla in comune con Ama no Murakumo. Era bella, certo, ma come replica faceva acqua da tutte le parti. L’afferrò e la spostò, poi avvicinò la vera Ama no Murakumo all’espositore. Non sapeva bene cosa fare, se bastava posarla solo lì sopra oppure no, ma tentare non nuoceva. Non che avesse molte altre possibilità. 

Prima di posare la spada, però, il suo sguardo venne catturato dal trittico raffigurante l’uomo barbuto che combatteva contro il drago gigante appeso sopra l’espositore. La targhetta sotto di esso recitava: “Susanoo affronta Yamata no Orochi.”

Edward schiuse le labbra, gli occhi incollati sopra l’uomo barbuto e armato di spada, che torreggiava sopra le molteplici teste di Orochi. Aveva un’aria parecchio familiare. 

«Fermo dove sei» sbottò una voce adirata, riportandolo alla realtà. Edward si voltò, osservando un Naito piuttosto infuriato che avanzava nell’armeria. «Consegnami la spada.»

Il figlio di Apollo stirò le labbra. «Sai bene che non lo farò. Devo aggiustare le cose, e posso farlo solo restituendo Ama no Murakumo alla sua legittima proprietaria.» 

Naito non pareva d’accordo. «E quindi, che cosa pensi di fare? Credi davvero che posarla lì sopra servirà a qualcosa?!»

Edward sorrise di nuovo, notando la tensione nella voce del demone. «C’è solo un modo per scoprirlo.» Si voltò e avvicinò la spada all’espositore. 

«No!» urlò Naito, fiondandosi verso di lui con la katana sguainata. Nemmeno la sua incredibile rapidità fu sufficiente: Edward adagiò la spada sull’espositore, un attimo prima che l’han’yō lo raggiungesse. 

Per un attimo non accadde nulla e Ama no Murakumo rimase sopra l’espositore. Edward realizzò di non averla mai lasciata andare dalla propria mano fino a quel momento. Di solito scompariva tutte le volte che pensava di non averne più bisogno. 

Fu scaraventato di lato all’improvviso, finendo a terra, e tutte le sue ferite si animarono in un tutt’uno, esplodendo in molteplici fitte agonizzanti. Naito, ora da solo davanti all’espositore, tentò di afferrare Ama no Murakumo, ma un accecante bagliore bianco provenne dalla spada costringendolo a indietreggiare. Subito dopo vi fu un’altra folata d’aria così forte da mandare a terra anche lui, strappandogli un altro grido frustrato. 

Edward chiuse gli occhi, accecato, mentre l'aria soffiava sfregiante su di lui. Udì uno strano rumore, una specie di risucchio seguito da un altro potente getto d’aria, poi vi fu il silenzio. Riaprì gli occhi tremolanti e trovò l’espositore con di nuovo la replica di Ama no Murakumo appoggiata sopra. Della spada vera non v’era più alcuna traccia. 

Per un momento, Edward rimase immobile, ponendosi l’ovvia domanda sul fatto se avesse davvero funzionato o meno. Tentò di concentrarsi, per sentire di nuovo l’energia di Ama no Murakumo celata dentro di lui, ma per quanto si sforzasse, non poteva più percepirla. Aveva… aveva funzionato. 

Un sorriso prese forma sul suo volto, mentre tutta la stanchezza e la tensione accumulati in quei lunghi e interminabili giorni si dissolvevano nell’aria proprio come la spada, alleggerendo le sue spalle ormai incapaci di sostenere ulteriore peso. Anche se l’aveva promesso a sé stesso, essere comunque riuscito in ogni suo intento gli sembrò incredibile. 

Ora, veramente, tutto era tornato al suo posto. I suoi amici stavano bene, Orochi era morto, Rosa era salva, Ama no Murakumo era stata restituita. Aveva fatto una promessa e l’aveva mantenuta. Ce l’aveva fatta. Aveva finito ciò che aveva iniziato. Sentì gli occhi appesantirsi, il collo che faticava a reggere ancora la testa, il suo corpo intero che, malgrado il dolore incessante, si rilassava lentamente. Buttò fuori una grossa boccata d’aria e chinò la testa, rimanendo seduto, continuando a sorridere tra sé e sé. Fu solo quando udì un rumore secco che si districò da quei pensieri. Inginocchiato a terra, Naito aveva appena sbattuto un pugno sul pavimento. 

«Perché… perché l’hai fatto…» disse, con un soffio di voce per la rabbia. Gli lanciò un’occhiata carica di odio, qualcosa che ormai non aveva nemmeno più effetto su di lui, talmente tante ne aveva ricevute. «Perché l’hai fatto?!»

Quando provò a rispondere, Edward sentì di nuovo il proprio corpo gridare per il dolore. Come aveva temuto, senza più Ama no Murakumo a rimandarlo, era arrivato il conto. Tutti gli acciacchi accumulati tornarono indietro come un boomerang. Aveva preteso troppo dal suo corpo, aveva continuato a lottare nonostante le ferite ed ora ne stava pagando le conseguenze. Prese una grossa boccata d’aria, poi si mise a sedere e rispose lentamente: «Quella spada ha… ha solo causato problemi. Credimi, è… è la cosa migliore per tutti…»

«Per tutti?! Vuoi dire per la tua gente e basta!» sbraitò il mezzo demone, alzandosi in piedi e puntandogli contro la katana. «Mi hai ingannato, di nuovo! Non mi hai affrontato, sei scappato come un codardo e mi hai portato via la mia unica occasione per vendicarmi degli dei una volta per tutte!»

«Ma davvero… davvero credevi che gli dei… ti avrebbero permesso di marciare contro di loro?» biascicò Edward. «Li avresti solamente fatti infuriare. Non saresti mai riuscito a vendicarti, nemmeno con… con Ama no Murakumo. Ti avrebbero ucciso, e poi… poi avrebbero fatto piazza pulita di tutti gli altri come te. Ti ho… solo fatto un favore, restituendola.»

«Quindi mi stai dicendo che dovrei ringraziarti?!»

Edward scosse la testa, ormai perfino movimenti lievi come quelli gli costavano un’enorme fatica. «No… non mi interessa… che cosa ne pensi tu. Odiami… ringraziami… fai quello che ti pare. Ormai… ormai è finita. È tutto finito.» 

Ebbe un colpo di tosse e fu come se i polmoni gli andassero a fuoco. Schizzi di sangue fuoriuscirono dalla bocca, macchiando il pavimento, e a causa degli scossoni il dolore alla schiena si fece ancora più intenso. Quando riuscì a placarsi, rovesciò la testa all’indietro, osservando il soffitto, mentre il dolore continuava a tormentarlo con delle sorde pulsazioni. Era come se tutta l’energia vitale che ancora gli rimaneva gli stesse venendo drenata dal corpo. Ogni respiro era un’agonia, aveva i nervi in fiamme, la schiena devastata, perfino rimanere seduto gli stava costando uno sforzo incredibile.

«Guarda come ti sei ridotto» gracidò ancora Naito. «Pur di consegnare la spada sei arrivato al tuo limite. Ne è valsa davvero la pena?» 

Nonostante lo sforzo che gli costò, Edward sollevò le spalle. «Ho raggiunto il mio obiettivo. Volevo aggiustare le cose… e l’ho fatto. Non… rimpiango niente.» Riuscì di nuovo a guardarlo e sollevò debolmente una mano, accennando al proprio occhio. «Mi… mi spiace per… per l’occhio, comunque… per quello che vale… non avrei voluto accecarti. Ma Rosa… era in pericolo. Ho… agito di fretta.»

Naito si sfiorò di riflesso la cicatrice e lo scrutò silenziosamente, forse per capire se lo stesse prendendo in giro oppure no. «Non me ne faccio niente delle tue scuse. L’unica cosa che mi consola, è che se non altro ora non potrai più scappare.» Si avvicinò a lui, sollevando la spada. «Per causa tua ho perso Ama no Murakumo, ma non mi toglierai anche la soddisfazione di darti il colpo di grazia.»

Edward non fece nulla, ben consapevole di non essersi mai trovato così tanto vicino alla fine. Se non lo avesse ucciso Naito, sarebbe morto per le ferite in ogni caso. Già… quella era davvero la fine. Ma come già aveva detto, poteva andarsene con il cuore in pace. 

Osservò dal basso Naito, il suo carnefice, e la lama scarlatta pronta a prendersi la sua vita in cambio dell’occhio che gli aveva strappato. I loro sguardi si incrociarono ed Edward abbozzò un altro sorriso, il suo modo di fargli capire che non aveva paura. «Le cose… non vanno sempre come vogliamo noi, Naito. Dovresti… saperlo, ormai. Voi… avete iniziato questa battaglia. Avete… rapito Rosa. Avete… cercato di uccidermi. Io… vi ho solo dato la… lezione che vi meritavate. Non è mai stata una… faccenda di mostri e dei… era solo tra me e voi. Dimmi… al mio posto tu che avresti fatto? Se avessero rapito… una persona a cui tenevi?»

Naito serrò la mascella. Distolse lo sguardo da lui, forse per non mostrargli di aver colpito nel segno. «Non volevo che si arrivasse a tanto. Credevo che avremmo usato Rosa come ostaggio. Quando ho saputo che Orochi voleva ucciderla…» Esitò. Una strana espressione marciò sul suo volto, poi scosse la testa. «Non importa. Forse hai ragione, forse al tuo posto avrei fatto lo stesso, ma tu avresti fatto lo stesso se ti fossi trovato al mio.»

Edward alzò di nuovo le spalle. Aveva ragione, lo avrebbe fatto. Certo, di sicuro non si sarebbe lasciato abbindolare come uno stupido, ma decise di non dirlo ad alta voce. «Immagino che… non lo scopriremo mai.»

L’han’yō annuì. «Già. Lo immagino anch’io.» Sollevò la katana sopra la testa di Edward, scrutandolo impassibile. «Hai combattuto bene, ma ora per te è la fine. Yasuraka ni nemuru.» 

Il figlio di Apollo non aveva la più pallida idea di che cosa avesse detto. Senza la spada, anche la sua capacità di parlare giapponese sembrava essere svanita. Tuttavia decise di sorridere un’ultima volta. 

«Arigatō» replicò, certo al cento percento di aver appena macellato la pronuncia.

Naito ringhiò tra i denti, poi abbassò la lama con un grido. Edward chiuse gli occhi e attese un colpo secco, un dolore atroce, un buio perenne, ma niente di tutto questo arrivò mai. Riaprì tremolante le palpebre e notò la katana ferma a mezz’aria, a pochi centimetri dalla sua testa, la mano di Naito stretta con così tanta forza attorno all’impugnatura da essere scomodo perfino da guardare. Un’espressione di conflitto, quasi di dolore, aveva preso vita sul volto del mezzo demone. Edward smise di sorridere, ora sorpreso anche lui da quel suo comportamento. Realizzò solo in quel momento di avere il cuore che batteva a mille nel petto e le gambe che sembravano fatte di gelatina. Gli si era gelato il sangue nelle vene, nonostante la sicurezza che aveva cercato di mostrare. 

Con un pesante sospiro, Naito allontanò la spada da lui e la rinfoderò, sempre sotto lo sguardo incredulo del semidio. 

«Non c’è alcuna soddisfazione nell’uccidere un avversario che non può difendersi» spiegò a fatica, quasi come se per tirare fuori quelle parole avesse dovuto usare delle pinze. 

«Oh… grazie…» mormorò Edward. 

«Non ringraziarmi. Con quelle ferite non sopravvivrai in ogni caso. Aspetterò che la natura segua il suo corso.»

Lo stomaco di Edward fece un’altra capriola. Fu come se un macigno intero vi fosse appena sceso. Avrebbe dovuto immaginarlo. Un altro sorriso, molto più amaro, si dipinse sul suo volto. «Oppure… in realtà non l’hai fatto perché sei un tenerone…»

Naito grugnì. «Perché devi fare battute perfino in un momento come questo?»

Dalla gola di Edward uscì quella che sarebbe dovuta essere una risata nervosa, e che in realtà di rivelò essere una serie di versi di dolore e mugugni sconnessi vari. Sentì gli occhi inzupparsi di lacrime. «Perché… me la sto facendo addosso, ecco perché.»

Anche se sapeva che non ce l’avrebbe fatta, anche se aveva detto che poteva andarsene senza rimpianti, non voleva davvero morire. Aveva paura, come avrebbe potuto non averne. C’erano tantissime cose che ancora voleva fare, e che soprattutto avrebbe potuto fare ora che si era liberato di Ama no Murakumo. Voleva rivedere i suoi amici, parlare di nuovo con Rosa, tornare al Campo Mezzosangue e fare pace con Jonathan e Natalie e tutti quelli a cui credeva di avere fatto un torto. Voleva spettinare di nuovo i capelli di Rick, andare a tirare con l’arco, abbuffarsi di cibo nella mensa. Non era quella la sua ora, non poteva esserlo. Rifiutava di accettarlo.

Tirò su con il naso, distendendo il sorriso mentre la vista gli si appannava. «Non voglio… andarmene. Non… non ora… non così…»

Naito lo osservò di nuovo impassibile, rimanendo in silenzio per qualche istante. Edward si aspettò una reazione di indifferenza, o che al massimo lo deridesse giusto per avere una sorta di piccola rivincita personale. Invece, per sua enorme sorpresa, il mezzo demone annuì. «Sei stato un abile avversario.» 

I loro sguardi si incrociarono ed Edward notò nel suo unico occhio qualcosa di del tutto nuovo rispetto a prima. Sembrava quasi che lo stesse rivalutando. «Hai combattuto per quello che credevi, senza mai arrenderti. E alla fine… sei davvero riuscito a proteggere i tuoi cari. Sei riuscito dove io ho fallito. Non mi dimenticherò di te, Edward.»

Edward schiuse le labbra, sorpreso dal fatto che lo avesse chiamato per nome per una volta, anziché con quello stupido nomignolo che gli avevano affibbiato. Forse… forse era il suo modo di mostrargli rispetto. 

Sentì le palpebre farsi di nuovo pesanti e chinò la testa, mugugnando per l'ennesima volta. Scorse con la coda dell’occhio un’ombra vicino alla porta dell’armeria e si voltò, per poi rimanere a bocca aperta. Stephanie, Konnor, Lisa e Tommy entrarono nella stanza proprio in quel momento, sorridendogli. 

«Ragazzi…» mormorò, incredulo, mentre un altro ampio sorriso nasceva sul suo volto. «Siete… siete venuti…»

«Mh? Che cosa?» domandò Naito, voltandosi verso la sua stessa direzione. «Ma che stai dicendo?»

Edward non lo sentì, talmente occupato era a sorridere mentre la felicità rimpiazzava ogni cosa dentro di lui. 

«Che bello… che bello rivedervi…» disse ancora, provando una strana sensazione di vertigini. 

Per un momento gli sembrò che gli aspetti dei suoi amici sfarfallassero, ma immaginò che fosse solamente dovuto alla stanchezza. Infatti erano ancora lì, e ancora gli stavano sorridendo. Tommy alzò il pollice verso di lui, imitato da Stephanie e anche dagli altri. Edward cercò di ricambiare il gesto, ma quando sollevò il braccio le forze gli mancarono all’improvviso. Fu come se il suo intero corpo si fosse addormentato di colpo. Crollò all’indietro, finendo a terra supino, un braccio posato sul petto, l’altro disteso accanto a lui. 

«R-Ragazzi…» mormorò ancora, fissando il soffitto mentre la sua vista si oscurava poco per volta. Espirò, chiudendo gli occhi. «Vi… vi voglio bene…» 

Nella sua mente, i suoi amici gli sorrisero di nuovo. Assieme a loro apparvero anche Rosa, i ragazzi della casa Undici, perfino Kate. Erano tutti assieme, a rivolgergli sguardi carichi di gratitudine. 

Edward riuscì a sorridere un’ultima volta, questa volta per davvero. Poi, il buio occupò tutto quanto.

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Capitolo 32
*** Nessuno viene abbandonato ***


32

Nessuno viene abbandonato

 

 

Tommy aveva un brutto presentimento.

Era da quando avevano lasciato l’accampamento delle Cacciatrici che non riusciva a scrollarsi di dosso quell’angusta sensazione. Temeva che non sarebbero arrivati a San Francisco in tempo, che non sarebbero riusciti a raggiungere Edward e poi, la parte più nascosta di lui che cercava di silenziare, temeva che Konnor e Naito avessero ragione, che Edward davvero li avrebbe traditi. Era convinto che non fosse così, che Edward avesse un piano, ma rimaneva sempre quel "e se" a ronzargli nella testa. E se invece si fosse sbagliato? Se invece Edward volesse davvero consegnare la spada ad Orochi? 

La profezia l’aveva detto che Edward avrebbe restituito la spada. Però non aveva specificato a chi.

La tensione lo stava consumando dall’interno. E non aveva fatto altro che peggiorare mentre, durante la strada, aveva parlato a Stephanie e alle cacciatrici di ciò che Ermes aveva detto a lui e Lisa, riguardo i giganti evasi dal Tartaro. Forze oscure al di fuori di Orochi e degli yōkai si stavano muovendo alle loro spalle, ma purtroppo non potevano fare nulla fino a quando la Spada del Paradiso non sarebbe stata restituita. 

Era una situazione abbastanza schifosa, ma non tutto era perduto: avevano ancora un’ultima possibilità per sistemare tutto.

Per fortuna erano usciti dal bosco in poche ore ed avevano raggiunto la strada principale, dove avevano rimediato un passaggio su un pullman. E con rimediato intendeva dire che Talia e le altre cacciatrici in grado di farlo avevano manipolato la Foschia per far scendere tutti i passeggeri e convincere l’autista a portarli direttamente a San Francisco. E pensare che lui si era sentito in colpa solo per aver preso in prestito delle macchine…

Così erano in viaggio già da diverso tempo, non sapeva bene quanto, però Sacramento era molto vicina ormai. Un pesante silenzio era sceso nel mezzo, frammentato solo dal borbottio di alcune cacciatrici che discutevano tra loro. Seduta accanto a lui, Lisa aveva tenuto lo sguardo incollato sul finestrino, mentre Konnor e Stephanie si trovavano un paio di sedili più indietro. Non sapeva bene cosa pensare di loro, di ciò che li aveva visti fare per l’esattezza. 

In quei giorni aveva visto troppe cose che non lo riguardavano, tra Afrodite che sbandierava le faccende di cuore di Steph di fronte a lui, la cotta segreta di Nat, il crollo emotivo di Lisa e poi i suoi amici abbracciati. Forse avevano cercato di confortarsi a vicenda per la tensione, non poteva certo biasimarli per questo, e non si sarebbe sorpreso scoprendo che tutta quella faccenda li aveva aiutati ad avvicinarsi. L’attrazione tra loro c’era sempre stata, magari avevano solo avuto bisogno di una leggera spintarella… certo, sì, la “leggera spintarella” in questione era stato un viaggio quasi mortale, ma se era stato d’aiuto, allora buon per loro. 

E poi era successo lo stesso a lui e Lisa. Se non avessero rischiato di farsi ammazzare da un gigante e da Naito, forse non si sarebbero mai chiariti e non avrebbero mai stretto quella specie di pseudo-amicizia. 

Si voltò verso di lei. Non aveva più parlato molto da quando avevano ripreso il viaggio e non ci voleva molto a capire il perché. Aveva immaginato che Lisa non se la fosse passata bene, ma scoprire che sua madre non fosse più tra loro era stato davvero un duro colpo. E se lo era per lui, non poteva nemmeno immaginare cosa significasse per lei. 

«Tutto ok?» le domandò rompendo il silenzio, un po’ perché davvero aveva bisogno di fare un po’ di conversazione, un po’ perché voleva davvero accertarsi che stesse bene. Anche se, conoscendola, era certo che se avesse avuto qualche problema non lo avrebbe ammesso per apparire forte. 

Lisa annuì, distogliendo lo sguardo dal finestrino. «Sono solo un po’ stanca. Ieri è stata… una giornata lunga. E oggi si preannuncia pure peggio.»

«Andrà tutto bene, vedrai. Questa sera saremo già sul viaggio di ritorno per casa.»

La ragazza lo soppesò in silenzio con lo sguardo, pizzicandosi un labbro, per poi annuire. Vi fu un altro attimo di silenzio, durante il quale la figlia di Bacco abbassò lo sguardo. Tommy pensò che forse avrebbe dovuto lasciarla tranquilla. «Beh, allora…» 

«Ascolta…»

I due compagni si guardarono tra di loro, imbarazzati per aver parlato l’uno sopra l’altra. 

«Sì?»

«Dimmi» dissero di nuovo all’unisono. Questa volta Lisa piegò la testa, osservandolo corrucciata.

A Thomas scappò un sorrisetto, che venne presto imitato da lei. Sollevò le mani per frenarla dal dire qualsiasi altra cosa. «Parla prima tu.» 

Lisa si raddrizzò, stringendosi nelle spalle. «Ecco… volevo solo…» Si fermò per esaminarlo di nuovo con il suo sguardo. Sembrava imbarazzata. Doveva avere davvero a cuore qualunque cosa volesse dirgli. «Insomma, volevo solo ringraziarti ancora per… per ieri sera. Grazie per essermi rimasto vicino. Non… non eri tenuto a farlo, però… però l’hai fatto. Te ne sono grata. Non… non sai cosa significhi per me. Davvero.»

Si scostò una ciocca di ricciolini dietro l’orecchio, imbarazzata, però tenne comunque gli occhi saldi sui suoi. Tommy schiuse le labbra, sorpreso dal fatto che anche lei stesse ancora pensando a quella conversazione. E soprattutto, sorpreso dal fatto che davvero lo stesse ringraziando. «Non devi ringraziarmi. Era il minimo che potessi fare. Siamo… una squadra. Dobbiamo supportarci a vicenda.»

«Una squadra…» ripeté lei, con voce un po’ tremolante. 

A Tommy sembrò che l’aria si fosse fatta molto più tesa tutto a un tratto. Lisa annuì un’altra volta e un piccolo sorriso le increspò le labbra, anche se la sua espressione triste e nostalgica non sembrò cambiare. «Sì… hai ragione. In ogni caso, grazie.»

«Figurati» rispose lui, sorridendo a sua volta. 

Vi fu un altro attimo di silenzio, durante il quale Lisa sospirò di nuovo, distogliendo lo sguardo da lui. Sprofondò contro il sedile e abbassò la testa. «Mi… mi manca così tanto…»

Tommy non ci mise molto per capire che stava parlando di sua madre. La cosa però lo sorprese. Lisa non aveva mai mostrato il suo lato più fragile durante quel viaggio, solo dopo essersi aperta con lui aveva iniziato a tirare fuori le sue vere emozioni. Era un segno che lei davvero si fidava di lui e Thomas, nonostante si sentisse onorato di ciò, ne era anche un po’ spaventato. Aveva paura di dire o fare la cosa sbagliata e di allontanarla di nuovo, e non voleva che ciò accadesse.  

«Lei… lei com’era?» chiese, certo che fosse stata davvero una brava donna.

Lisa sorrise di nuovo. «Era fantastica. La madre migliore che potessi chiedere. Mi portava a prendere il gelato tutte le volte che glielo chiedevo, in estate, in inverno, a gennaio o ad agosto, non aveva importanza. Era… buona, divertente, gentile, eravamo… eravamo molto legate. Ha… ha fatto così tanto per me. Ad esempio una volta…»

Cominciò a snocciolare storie su di lei a velocità stratosferica, come se tutti quei ricordi fossero sempre rimasti lì, alla porta della sua mente pronti a uscire da un momento all’altro. Thomas non credeva che Lisa gli avrebbe davvero raccontato tutta quella storia, ma fu davvero felice di vederla così entusiasta per una volta. Gli raccontò una semplicissima storia, di una semplicissima donna mortale di nome Sara Castella, con una vita normale, un lavoro normale, anche lei di umili origini, e la fece sembrare la cosa più incredibile che fosse mai esistita. 

Bacco era solito ad andare in Italia, un po' perché era lì che gli dei un tempo abitavano, un po' perché gli piaceva assaporare anche i vini europei di tanto in tanto. In Italia, poi, in alcune zone bere vino era una vera e propria cultura. Era stato in uno di questi paesi tra le colline che Bacco aveva incontrato Sara, più precisamente a una grossa fiera che veniva organizzata ogni anno, dove buon vino e buon cibo scorrevano a fiumi.

Qui, anche se non con pochi sforzi, il dio era riuscito a far breccia nel cuore della donna. Quando Lisa aveva compiuto dieci anni, Sara le aveva raccontato che era una semidea, cosa che non succedeva sovente. Di solito i semidei scoprivano le loro vere origini solamente poco prima di andare al Campo Mezzosangue o Giove, ma era anche vero che Lisa era un caso particolare, visto che era nata al di fuori del territorio degli dei. E anche se sapevano che era una semidea, la cosa non aveva mai in nessun modo ostacolato le loro vite. Sapevano bene che prima o poi avrebbero dovuto lasciare l’Italia, Lisa doveva andare al Campo Giove, sapevano che presto o tardi avrebbero dovuto abbandonare le loro vite, ma avevano comunque vissuto fingendo che quel giorno non sarebbe mai arrivato. 

E in un certo senso, per Sara quel giorno non era mai davvero arrivato. Quando Lisa arrivò a quella parte della storia si fermò di scatto. Il treno dei ricordi l’aveva portata in un luogo idilliaco dal quale aveva sperato di non fare più ritorno, ma purtroppo non era così che funzionava. La scintilla che si era accesa nei suoi occhi si spense all’improvviso, mentre abbassava di nuovo la testa.  

«È bastato un giorno, un solo giorno per cambiare tutto» bisbigliò, mentre il suo sguardo scivolava di nuovo verso il finestrino, il paesaggio che scorreva accanto a loro, i boschi, le praterie e i campi della Valle Centrale. «Eravamo felici, tutto andava bene. E poi… poi lei si è ammalata. È successo un anno prima che mi trasferissi, quando avevo undici anni. Ha… ha lottato così tanto, per vincere quella battaglia.» 

Le scappò un gemito. «Non ha mai perso la speranza. Aveva paura, ma si mostrava forte, per me. Anche se le cadevano i capelli, anche se la sua pelle si raggrinziva, anche se diventava sempre più debole, lei… lei continuava a sorridermi, a dire che avremmo superato anche quello e che in California avremmo di nuovo rincominciato da capo. Anche quando ormai era in ospedale ed era chiaro che… che non ce l’avrebbe fatta… ha continuato a sorridere. Io piangevo, ma lei sorrideva. Poi… lei ha chiuso gli occhi. Io ho iniziato a chiamarla. Ho iniziato ad urlare. Mi sono arrampicata sul suo letto, l’ho presa per le spalle, e degli infermieri mi hanno portata via. E dopo… dopo…» 

Strinse le palpebre con forza, da cui scivolò una lacrima. «Non… non lo so. Ero triste, ero arrabbiata, ce l’avevo con tutto e tutti. Non… non riuscivo ad accettare che… che lei avesse avuto un destino così crudele. Poi… poi al funerale… ho incontrato Bacco.» Affondò le mani nelle braccia fino far sbiancare le nocche. «Non avevo idea di che aspetto avesse, non l’avevo mai visto, e lui non si era mai fatto vivo, nemmeno durante l’intero anno in cui mia madre è stata malata. Quando si è presentato a me… quando mi ha detto che era lui mio padre e che era lì per portarmi al Campo Giove… sono esplosa. Non ricordo nemmeno che cosa gli ho detto. So solo che non mi pento di niente. Un mese dopo, mi sono trasferita in America. Questo… questo è tutto.»

Buttò fuori una grossa boccata d’aria. Sembrava a un passo dal crollare. Raccontare quella storia le aveva costato uno sforzo enorme. Tommy non aveva idea di come comportarsi, una volta udito quelle parole. Sapere quello che aveva trascorso, in quel modo, faceva attorcigliare il suo stomaco. La storia di una ragazzina di dodici anni che osservava la propria madre spegnersi in ospedale avrebbe fatto rabbrividire chiunque. Lui almeno a dodici anni era già al Campo Mezzosangue, con la sua nuova famiglia. Lisa, invece, nello stesso periodo aveva perso sua madre, poi si era ritrovata catapultata in un mondo a lei totalmente nuovo, il Campo Giove. E lì era successo tutto il resto. 

La scoperta che aveva fatto il giorno prima, riguardo i figli di Mercurio, ora aveva un sapore molto più amaro di quanto già non lo avesse. Inoltre ora sapeva da dove arrivava il risentimento di Lisa nei confronti del padre. Non si era mai fatto vedere. Secondo lei, lui le aveva abbandonate e basta, ed era impossibile non darle torto. 

«Mi… mi dispiace…» mormorò, incapace di trovare altre parole più intelligenti da dire. 

Lisa scosse la testa. «Non devi. Tu non… non c’entri niente.»

Tommy si mordicchiò un labbro. Incerto, avvicinò un braccio a lei, per stringerla un po’ come aveva fatto la sera prima. Non appena lo vide avvicinarsi a lei, però, Lisa si voltò di scatto verso di lui, scoccandogli un’occhiata sorpresa. Tommy si arrestò, facendo un mugugno di stupore misto ad imbarazzo.  

«Che… che fai?» domandò Lisa con titubanza. 

«E-Ehm…»

I due ora si osservarono con aria imbarazzata. Thomas temette di aver appena commesso uno degli errori fatidici che tanto lo preoccupavano, fino a quando Lisa riuscì a sorridere di nuovo. «Grazie per il pensiero, ma non mi serve un altro abbraccio.»

«S-Sì, certo! Scusami…» borbottò Tommy, certo di essere diventato più rosso dei propri capelli. Lisa ridacchiò, un suono che riuscì ad infondergli un po’ di sollievo. 

«Tranquillo. Grazie… di nuovo… per avermi ascoltata.» Lisa tornò a sedersi in posizione composta. Sembrava provata dal racconto, ma cercò comunque di cambiare argomento: «Sono davvero sorpresa di essere riuscita a parlare così tanto senza incepparmi, a dire il vero. A volte mi capita sul serio di… ahm…» Si interruppe, corrucciando la fronte, concentrandosi all’improvviso. «V-Vabbè, ci siamo capiti…» 

Ora toccò a Tommy sorridere divertito. «Ehi, guarda che parli davvero bene. Anche la tua pronuncia è davvero buona, per essere un’italiana che parla in inglese.»

«E una semidea romana che capisce il latino ma che vive in un luogo dove viene usato solamente il greco antico» aggiunse lei, con una smorfia. «Te lo giuro, certe volte mi sembra di avere il cervello che va in pappa…»

A Tommy scappò una piccola risata, forse un po’ troppo forte a giudicare dalle teste che si voltarono verso di loro, ma lui decise di ignorarle. In effetti Lisa aveva ragione, la sua mente era portata per capire il latino, non il greco. Inoltre aveva imparato una lingua totalmente nuova, nonostante la dislessia e il deficit dell’attenzione presenti in tutti i semidei. Sicuramente gli anni trascorsi in America l’avevano aiutata ad affinare meglio la lingua, ma comunque il fatto che avesse imparato tutto quanto dal nulla nonostante gli ostacoli lasciava intendere quanto davvero intelligente fosse. Erano piccole cose come quelle a renderla davvero speciale.

Però c’era ancora una cosa che voleva sapere. Una domanda che voleva farle, che non aveva smesso di ronzargli nella testa da quando aveva scoperto la storia di sua madre. 

«Perché… perché hai detto ad Edward quella cosa, a La Plata?» 

Lisa si voltò di scatto verso di lui. Un moto di vergogna sembrò assalirla. «Perché… perché sono un’idiota, ecco perché…» mormorò, scuotendo la testa. «Quello era il tipo di cosa che sentivo tutti i giorni al Campo Giove e… e ho finito anch’io con il rigurgitargliela addosso.»

«Non… non è stata colpa tua…» disse Tommy, strappandole una risata nervosa. 

«Invece sì, Tommy. È stata solo colpa mia. Non importa se gli altri si sono comportati così con me, non è una giustificazione. Ho scelto io di dirgli quella… cosa, non loro. Io più di chiunque altro avrei dovuto capire come Edward si sentiva, e mi sono comunque comportata da stronza, così come ho anche fatto con te. Non ho scuse.» Un altro sorriso amaro le decorò il volto. «Sicuramente mi odia, e non lo biasimo. Anch’io mi odierei.»

«Non ti odia, invece» ribatté Thomas, fermo. «L’hai fatto arrabbiare, è vero, ma credimi, è molto più semplice non farlo arrabbiare. Deve solo conoscerti meglio. Secondo me potreste diventare amici.»

«Tu dici?»

«Certo.» Thomas annuì energico. «Sei divertente, non hai paura di dire quello che pensi e con te si può parlare di qualsiasi cosa. È il tipo di personalità che lui apprezza di più. Anzi…» Si girò con verso di lei, posando una mano sopra il sedile. «… quando questa storia sarà finita, gli parlerò e gli dirò di fare pace con te.»

Lisa schiuse le labbra. «Lo faresti davvero? Solo… solo per me?»

«Perché no? Siete entrambi miei amici, dopotutto. È giusto che anche voi due lo diventiate.»

La figlia di Bacco fece un altro tenue sorriso, posando una mano su quella di Tommy. Questa volta, quel piccolo contatto sembrò avere un significato molto diverso da quelli che avevano avuto fino a quel momento. Sembrava molto più personale, più… intimo. I loro sguardi si incrociarono e il ragazzo sentì il petto sussultare. Lisa distese il sorriso. «Un giorno mi sdebiterò per tutto quello che hai fatto per me. Te lo prometto.» 

Thomas riuscì a sorridere a sua volta, girando la mano ed intrecciando le dita con quelle di lei. «Non serve che tu lo faccia, davve...»

Lei lo interruppe, avvicinandosi e stampandogli un bacio sulla guancia. 

«Così va bene?» gli domandò, con un alone color porpora sopra le guance. 

«A-Ahm…» mugugnò Thomas, con la guancia ancora calda, dimentico di come pronunciare qualsiasi parola di senso compiuto. 

Lisa ridacchiò. «Sì, direi che va bene.» Si allontanò di nuovo da lui, tornando a guardare fuori dal finestrino, tuttavia senza lasciargli la mano. 

Malgrado fosse stato solo un bacio sulla guancia, Tommy si ritrovò a sorridere come un idiota. Un po’ patetico, forse, essere così entusiasti per qualcosa di così semplice, ma se considerava il tipo di persona che gliel’aveva dato e se considerava in che razza di rapporto fossero stati fino ad un giorno prima, allora quel semplicissimo gesto si trasformava in qualcosa di molto, molto più grande per lui. 

Strinse le dita di Lisa tra le sue, con il cuore che batteva con forza nel petto, poi tornò a osservare il nulla di fronte a sé. Non dissero più una parola durante il resto del viaggio. Le loro mani strette furono l’unica cosa che accompagnò i due semidei nel restante tragitto verso San Francisco.

 

***

 

Thomas non era mai stato a San Francisco, ma immaginava di sapere cosa aspettarsi da quella città. Le sue aspettative, tuttavia, furono scaraventate fuori dal finestrino non appena arrivarono. Nessuna fotografia avrebbe mai potuto rendere giustizia alla metropoli vista dal vivo.

Dagli alti palazzi, alle colline, al Golden Gate, al mare azzurro, gli edifici colorati e i monumenti, San Francisco pareva un’opera d’arte fatta a città. In qualche maniera, Tommy trovava ironico pensare quella cosa mentre erano diretti proprio ad un museo d’arte. 

Mentre procedevano nella città, si accorse della postura di Lisa, diventata rigida all’improvviso. Il ritorno a San Francisco per lei aveva tutto un altro significato. Promise a sé stesso che se mai avesse incrociato i semidei che l’avevano maltrattata, allora avrebbe fatto cose. Non sapeva nemmeno bene che cosa di preciso, ma qualcosa lo avrebbe fatto. Possibilmente cercando di evitare vittime.

Si erano lasciati le mani diverso tempo prima, quando Cacciatrice Kowalski – sì, quello era il suo nome, ma Tommy si era riguardato dal fare commenti a proposito – li aveva folgorati con un’occhiataccia. Grazie agli dei non avevano notato quel bacetto, altrimenti Ermes soltanto sapeva cosa avrebbero potuto fare quelle psicopatiche. 

Talia passò nel corridoio proprio in quel momento, radunando le truppe e ordinando a tutti di prepararsi. Scesero alla prima fermata che trovarono e si allontanarono alla svelta, prima che la Foschia terminasse il proprio effetto e l’autista si rendesse conto di essere stato tenuto in ostaggio. 

Un gruppo nutrito come il loro non poté non attirare di tanto in tanto occhiate incuriosite dei passanti, ma per il resto passarono indisturbati. Kensuke, Nagata e Sato li seguirono con la loro grande velocità, accompagnati dalle classiche correnti d’aria. Li aveva persi di vista durante il viaggio in pullman, ma sapeva che i suoi nuovi amici erano ancora assieme a loro. Di nuovo, la loro presenza lo sollevò. Sarebbero stati di grande aiuto nella battaglia che stava per arrivare.

Mentre proseguivano, il figlio di Ermes si guardò attorno. Trovò davvero insolito notare creature come ciclopi ed arpie che girovagavano liberamente per la città, tuttavia, a giudicare da come non badarono a loro, immaginò che fossero dalla parte dei “buoni”. 

O che fossero già sazi. 

Il suo sguardo scivolò sul cielo limpido sopra le loro teste, che però si scuriva man mano che si avvicinava ai monti al di là della città. La prigione di Atlante si trovava lassù, sopra il monte Tam. Pensò ai giganti che erano evasi dal Tartaro, e non poté fare altro che domandarsi se qualcosa del genere sarebbe potuta succedere anche con Atlante. O addirittura con Crono. Rabbrividì al solo pensiero. Avevano già troppo di cui preoccuparsi, l’idea di una seconda ascesa dei Titani non lo entusiasmava per niente. 

Le cacciatrici si fermarono per riorganizzarsi e i quattro dell’impresa fecero lo stesso. La tensione era palpabile sui volti di tutti loro, ma non si sarebbero tirati mai indietro. Non lo avevano fatto quando ancora si trovavano a più di mille miglia di distanza da lì, non lo avrebbero mai fatto proprio a San Francisco. 

Non era stato un viaggio così lungo, il loro, eppure in qualche modo aveva cambiato tutti loro. Sembravano tutti molto più vicini. Ma mancava ancora un pezzo a quel puzzle, e quel pezzo era Edward. Sarebbero tornati al Campo Mezzosangue tutti insieme, fosse stata l’ultima cosa che avrebbero fatto. Nessuno veniva abbandonato.

«Siete pronti?» domandò Konnor, facendo scorrere lo sguardo su tutti loro. Pareva quasi un generale che radunava i suoi soldati. Nonostante ormai avesse capito che poteva fidarsi di loro, il suo lato da figlio del dio della guerra continuava ad avere la meglio su di lui. 

«Sì» affermò Stephanie con sicurezza, mentre Thomas e Lisa annuivano. 

Anche Konnor fece un cenno di assenso. «E allora chiudiamo questa faccenda.»

«Da questa parte» annunciò Talia, mentre stringeva tra le mani una cartina della città prelevata da chissà dove. «Sbrighiamoci!»

Proseguirono il viaggio mentre il sole picchiava con insistenza su di loro. Tommy non aveva idea di che ora fosse, probabilmente le due del pomeriggio. Artemide aveva detto che Edward aveva un vantaggio su di loro, ma anche che avrebbero potuto raggiungerlo se si fossero mossi in fretta. Si augurò che davvero fosse così.

«Thomas» lo chiamò Konnor dopo che percorsero un altro tratto di strada, affiancandolo. 

Non si erano più scambiati una parola a quattr’occhi da quando avevano lasciato l’accampamento delle cacciatrici. Konnor aveva accusato Edward, mentre Thomas lo aveva difeso, ovviamente la cosa non era piaciuta a nessuno dei due. Tuttavia, giusto un attimo prima di quella conversazione, Thomas aveva detto al figlio di Ares che erano tra amici, e ancora lo pensava. Non era molto sicuro di quello che passava nella testa di Konnor, però.    

«Ascolta» cominciò quello, mentre sembrava ponderare su cosa dire. «So che Edward è tuo amico, che ti fidi di lui, e che non gli avresti mai voltato le spalle. Non volevo davvero accusarlo, prima. Se credi che lo abbia fatto a cuor leggero, allora ti sbagli. Spero davvero che tu abbia ragione, su di lui. Devi credermi. È solo che… la posta in gioco è troppo alta. Dobbiamo considerare ogni possibilità, anche quelle che non ci piacciono.»

«Lo so.» Thomas abbassò lo sguardo. «Spero anch’io di avere ragione.»

Sentì Konnor battere il pugno contro la sua spalla, facendolo raddrizzare. Gli rivolse un cenno del capo. «I miei fratelli si sbagliavano sul tuo conto, Thomas. Hai fatto cose durante questo viaggio che sono sicuro nessuno di loro avrebbe mai fatto. Comunque andrà a finire questa storia, sarà un onore per me combattere al tuo fianco in quest’ultima battaglia.»

Tommy schiuse le labbra, per poi abbozzare un sorriso. Malgrado trovasse buffo il modo di parlare di Konnor, come se fosse un soldato veterano di mille guerre, apprezzò ugualmente le sue parole. «L’onore è tutto mio, Konnor.» 

I ragazzi batterono di nuovo il pugno. Sapere che erano ancora sulla stessa pagina rincuorò Tommy. Non credeva che una volta tornati al Campo Mezzosangue sarebbero stati grandi amiconi, ma rispettava Konnor. Forse loro due sarebbero riusciti a far riappacificare le loro case. Sarebbe stato bello.

Infine, una volta girato l’ennesimo angolo, si ritrovarono di fronte un enorme parco, oltre il quale un edificio di marmo bianco si ergeva. Aveva sentito la descrizione che Steph aveva dato di quel posto, dopo che l’aveva sognato, ma anche senza quelle informazioni avrebbe capito che quello aveva decisamente l’aria di essere un edificio importante. E a giudicare dalle bandiere giapponesi che sventolavano sul tetto, era piuttosto palese che fosse la loro destinazione. 

Di Edward, però, non c’era nessuna traccia. Poteva essere una cosa tanto buona quanto cattiva.

Si avvicinarono al parco, ma non appena iniziarono ad attraversarlo Tommy notò tre figure accovacciate dietro dei cespugli. E anche i suoi compagni sembrarono notarle.

Erano tre ragazzi, uno di loro stringeva in mano in binocolo e osservava il museo mentre scambiava spinte e schiaffi con gli altri due. Sembrava stessero discutendo piuttosto animatamente. La cosa principale di loro, però, era l’abbigliamento: avevano tutti indosso delle magliette viola. 

«Romani!» esclamò una delle cacciatrici, Thomas non sapeva quale.

«Oh, grandioso…» borbottò Lisa.

I tre si voltarono verso di loro, quasi gridando per la sorpresa. Quando li vide meglio, Tommy realizzò che uno di loro non era nemmeno un ragazzo, ma un fauno. 

«Cacciatrici!» esclamò proprio quello, balzando sugli zoccoli. «E greci!» aggiunse, notando Thomas e i suoi compagni. 

Thomas li osservò incuriosito, anche se forse deluso era un termine più appropriato. Quei tre non avevano esattamente l’aspetto del gruppo di coraggiosi eroi romani che si sarebbe aspettato di incontrare. Certo, lui era l’ultimo che poteva giudicare un libro dalla copertina, nemmeno lui aveva l’aspetto di chissà che grande eroe, però quei tre lo facevano sembrare esattamente quello.

Quello che stringeva il binocolo era un ragazzino gracile con i capelli castani e corti, un piercing all’orecchio, il naso piccolo e le ciglia folte. Quello che stava litigando con lui per il possesso dell’oggetto era un altro ragazzino con una matassa di capelli neri spettinati, il fauno invece aveva dei dread che spuntavano dal berretto da baseball calato sulla testa e degli spessi occhiali da vista. 

«Siete… siete qui per il museo, giusto?» disse quello con l’orecchino. «Io sono David, molto… ehm… piacere.»

«Io sono Travis!» esclamò quello con i capelli neri, con voce molto più entusiasta del suo compare, per poi strappargli il binocolo dalle mani. «Questo lo prendo io, grazie!» Si voltò di nuovo verso il museo, portandosi l’oggetto agli occhi. «Il super spionaggio continua!»

«Sta giù, o ti vedranno!» protestò David, rimettendosi a litigare con il compare.

«I-Io sono Gus…» concluse il fauno, mordicchiandosi un’unghia agitato, forse mangiandosela perfino. «E-Ehm… ora che siete arrivati noi possiamo andarcene, giusto…?»

Cacciatrici e greci si scambiarono diversi sguardi tra loro, perplessi. Un unico pensiero sembrò attraversare le menti di tutti loro. 

«Ci… ci siete solo voi tre?» domandò Talia, avvicinandosi a loro assieme a Reyna e Konnor.

«Ehm… sì, ecco…» cominciò David stringendosi nelle spalle e distogliendo lo sguardo da tutti loro. Osservandolo, a giudicare da come cercasse di non guardare nessuno in faccia e da come si stesse tormentando le mani, Thomas riconobbe all’istante i sintomi di una brutta malattia chiamata “timidezza”. Capitava spesso anche lui di venirne contagiato. 

«So che… non siamo esattamente ciò che vi aspettavate, ma… ci sono stati un po’ di problemi. Molti membri del Senato non volevano che anche i romani venissero coinvolti in questa faccenda e quando l'augure è riuscito a convincerli nessuno si è offerto volontario, quindi…»

«Quindi hanno scaricato tutto a voi tre» concluse Lisa, incrociando le braccia. «Siete della Quinta Coorte, giusto?»

David trasalì, osservandola sorpreso. Non sembrava conoscerla, così come lei non sembrava conoscere loro. Magari erano stati assieme nella Quinta Coorte senza nemmeno notarsi. «S-Sì, hai indovinato... a parte Gus, lui è un fauno…»

«Credo che se ne siano già accorti, amico» lo rimbeccò Travis, senza staccare gli occhi dal binocolo. Sembrava essere l’unico a sentirsi proprio agio in quella bizzarra situazione.

«Ovviamente» borbottò ancora Lisa. «Il Senato pensa alla Quinta Coorte solo quando ha bisogno di capri espiatori.»

Thomas sapeva bene da dove provenisse tutto il veleno che Lisa stava rigettando in quel momento, ma ancora una volta sentire certe parole lo riempì di tristezza. Osservò Reyna, consapevole del fatto che la questione toccasse anche lei, forse più di Lisa, e non si sorprese nel scorgere la tristezza anche nel suo volto scuro. Tuttavia la sua voce rimase ferma ed autoritaria. «Non parliamo ora di queste cose. Abbiamo compiti più importanti. David, per caso avete visto passare da queste parti un altro greco?»

Il romano sembrò realizzare solo in quel momento di con chi stava parlando. «B-Beh… non sappiamo se fosse un greco o no, però sì, un po’ di tempo fa un ragazzo è entrato nel museo.»

Tommy spalancò gli occhi, voltandosi di scatto verso il museo. Sentì Konnor domandare, anche lui allarmato: «Quanto tempo fa?!»

«N-Non lo so, un po’ di tempo fa!»

«Ra… ragazzi…» mormorò il figlio di Ermes, mentre osservava incredulo i gradini che conducevano al grosso edificio. «Ma… ma non doveva esserci un esercito, là fuori?»

Di fronte al museo, tutto taceva. Non c’era alcuna traccia delle creature mostruose che Stephanie aveva visto nel suo sogno. 

«Non… non capisco…» mormorò proprio la figlia di Demetra, mettendosi accanto a lui. «Li avevo visti con i miei occhi! Erano lì davanti!»

«I-Infatti c’erano!» protestò Gus. «Ma sono spariti quando quel ragazzo è entrato! È apparso quella specie di tristo mietitore con un occhio solo che lo ha fatto entrare e poi tutti gli altri si sono ritirati nel pavimento!»

L’orribile presentimento tornò a farsi sentire dentro di Thomas. Edward era arrivato prima di loro e tutti i mostri erano svaniti. Sentiva odore di trappola da lontano un miglio. Steph lanciò uno sguardo al figlio di Ermes, ma se si aspettava che lui sapesse cosa dire, allora si sbagliava. L’unica cosa di cui era certo era che, a giudicare dalla descrizione che Gus aveva fornito, Naito era ancora vivo e vegeto. Ed era assieme ad Edward. 

«Andiamo» ordinò Talia, vene di tensione anche nella sua voce. E se perfino lei era tesa, allora la situazione era davvero critica. «Dobbiamo entrare là dentro.»

«C-Che cosa?! Ma vi si è capovolto il cerebrum?!» uggiolò Gus. «Dobbiamo restare più alla larga possibile da là!»

La cacciatrice lo ignorò e cominciò a impartire ordini alle sue compagne, mentre Lisa, Stephanie, Konnor e Thomas si scambiavano altre occhiate angosciate. Le kamaitachi piombarono proprio in quel momento sulle spalle dei semidei, facendo gridare terrorizzato il fauno, un verso che sicuramente venne udito in tutta San Francisco. 

«Gus! Vuoi darci un taglio?!» lo rimproverò David, strattonandolo mentre quello osservava le donnole farfugliando frasi sconnesse. I tre yōkai sfoderarono i denti affilati in dei ghigni divertiti, mentre il fauno li indicava. «E quelli che cosa sono?!»

Tommy non seppe nemmeno perché cercò di rispondergli. «S-Sono…»

«Uhm, ragazzi? Sta arrivando qualcosa» lo interruppe Travis, il binocolo ancora puntato verso il museo. «Proprio verso di noi.»

L’intero gruppo si animò e Gus gridò ancora una volta di terrore. Le cacciatrici sguainarono le armi, così come i greci. Perfino David estrasse uno strano cilindro dalla tasca che si trasformò in un gladio. 

Vi fu un fruscio e poi qualcosa scavalcò i cespugli con un salto, sollevando diverse grida di sorpresa. Travis finì a gambe all’aria, perdendo il binocolo dalle mani. I ragazzi indietreggiarono, mentre in mezzo a tutti loro atterrava una grossa creatura, che grazie agli dei riuscirono a riconoscere immediatamente. 

«Siete qui!» esclamò Fujinami, sembrando piuttosto sorpreso. Per la prima volta da quando aveva messo piede dentro quel parco, Tommy riuscì a tirare un sospiro di sollievo. 

«Fujinami!» dissero praticamente tutti all’unisono, mentre i tre romani l’osservavano allibiti.

«Woah!» esclamò Travis ancora seduto a terra. David sollevò il gladio, mentre Gus, dopo aver farfugliato altre parole senza senso, decise di fare un favore a tutti quanti e svenire, cadendo addosso ai suoi amici.

Mentre il qilin esaminava i tre, Thomas si accorse che stava trasportando qualcosa sul dorso. E quando vide che cosa, spalancò gli occhi. Fu Talia, però, a parlare per prima: «Ma quella è Rosa!»

Fujinami si sdraiò a terra e inclinò il dorso, facendo scivolare la figlia di Apollo sopra l’erba. Per un istante, Thomas riuscì a vedere di nuovo il suo volto, lo stesso volto che aveva creduto non avrebbe visto mai più, ma fu solo un istante, dopodiché le cacciatrici si piazzarono di fronte a lui, circondandola in un turbinio di bisbigli e mormorii. 

«Lasciatele un po’ di spazio!» esclamò Talia, districandosi in mezzo al gruppo. 

Quello fu il momento in cui lui riuscì a riscuotersi. 

«Fatemi passare!» gridò, facendosi largo tra le ragazze e attirandosi addosso diversi appellativi non molto gentili. 

Riuscì a raggiungere Rosa e gli sembrò che tutto quello fosse solo un’illusione. S’inginocchiò accanto a lei e Talia, accovacciata per controllare le sue condizioni, drizzò la testa verso di lui. Tommy però non fece caso a lei, rimanendo unicamente concentrato sulla figlia di Apollo, mentre tutte quelle emozioni rimaste represse dentro di lui riemergevano dal nulla. 

Il fatto che Rosa fosse lì significava così tante cose che nemmeno aveva idea di dove iniziare. 

«Fujinami, cos’è successo?» domandò Talia, mentre il qilin riportava la sua attenzione su di loro. 

«Avevi ragione, sul figlio di Apollo» disse lui, rivolto a Thomas. «Ha affrontato Orochi per salvare la vergine.»

Il figlio di Ermes schiuse le labbra. Stephanie emise un verso sorpreso, così come molti altri. 

«Ehm… ma che succede?» si intromise David, abbassando il gladio mentre Travis si levava di dosso il corpo del fauno. «Quello è vostro amico?»

Reyna gli spiegò la situazione e più parlava e più i due romani sgranavano gli occhi sbalorditi. Erano molte informazioni da digerire, ma a Thomas non importava un accidente di cosa quei due stessero pensando.

«Edward ha ucciso Orochi e i suoi soldati» disse ancora Fujinami, scatenando un’altra marea di versi sorpresi. «Mi ha chiesto di portare la ragazza al sicuro, ed è quello che ho fatto.»

Stephanie ripeté a fatica quelle parole a Lisa e Konnor, ma Thomas non riuscì a vedere le loro reazioni, così concentrato com’era su Rosa e sul qilin. Afferrò la mano della figlia di Apollo senza rendersene conto. Era gelata. Non sembrava nemmeno ancora viva. Non fosse stato per il suo petto che si alzava e abbassava molto faticosamente, avrebbe pensato che fosse addirittura morta. Fu scosso da un’altra scarica di brividi. 

«Dov’è Edward adesso?» domandò Konnor, facendosi largo tra le cacciatrici assieme a Steph e Lisa. La figlia di Bacco s’inginocchiò accanto a Thomas, posandogli una mano sulla spalla e facendolo trasalire. Incrociò il suo sguardo, che pareva angosciato tanto quanto il suo. Poi lei abbassò la testa verso di Rosa e si accorse di lui che la teneva per mano. Assottigliò le labbra. 

«Ha detto che avrebbe restituito la spada» stava proseguendo Fujinami. «Ma non può riuscirci da solo. Dobbiamo…»

La terra tremolò proprio in quel momento, interrompendolo. Fu come una leggera scossa di terremoto. Dopodiché un forte rumore provenne proprio dal museo, da cui era appena emerso un grosso bagliore di luce bianca. Una forte brezza d’aria si sollevò, costringendo Thomas a ripararsi il volto. Non durò molto, giusto una manciata di secondi. Quando la luce bianca svanì, la terra si calmò e anche l’aria smise di soffiargli addosso.

La voce di Fujinami tornò a risuonare nella sua testa, questa volta perfino lui sembrava incredulo: «Ce… ce l’ha fatta. L’ha davvero restituita.» 

Quelli che potevano sentirlo gemettero per la sorpresa. E quando riuscirono a ripetere quelle parole anche agli altri, l’emozione raddoppiò.

Ancora una volta, Thomas rimase immobile, incapace di pensare. Allora aveva avuto ragione su Edward. Aveva sempre avuto ragione. Non li aveva mai voluti tradire. L’esatto opposto. Aveva affrontato Orochi, lo aveva sconfitto, aveva sconfitto tutti i suoi mostri, aveva salvato Rosa, consegnato la spada, tutto da solo. Erano tutti quanti stati dubbiosi su di lui, Thomas stesso, nonostante lo avesse difeso, lo era stato. Si erano sbagliati. Anche se era impulsivo, anche se amava mettersi nei guai, ed era un testone, aveva comunque salvato la situazione. Aveva agito da eroe. Non ci sarebbe più stata una guerra tra dei, Orochi era morto, il mondo era salvo, ed era tutto merito suo.

E lo stesso sembravano pensare tutti gli altri. Le cacciatrici in particolare sembravano incredule. In particolare Kowalski, la cui espressione tradiva qualsiasi emozione.  

«E… e quindi adesso?» domandò proprio lei, con voce molto più flebile di quanto li avesse abituati. 

Fujinami scosse la testa, sbuffando rumorosamente. «Adesso… è tutto finito. Possiamo andarcene.»

«Un momento, ed Edward?» protestò Thomas, alzandosi in piedi. 

Il qilin spostò lo sguardo su di lui e, incredibilmente, per una volta sembrò perfino triste. «Il figlio di Apollo… era ferito gravemente. Era vivo solo grazie all’energia di Ama no Murakumo. Ma ora che l’ha restituita… non c’è più niente da fare.»

«C-Che cosa?» domandò Stephanie, avvicinandosi le mani al petto. «Stai scherzando, vero?!»

Nessuna risposta. Fujinami abbassò il muso verso il suolo. 

A quel punto, Thomas sentì il sangue ribollirgli nelle vene. «Davvero?!» sbottò. «Non ti bastava dubitare di lui? Ora vuoi anche lasciarlo morire?!»

«Certo che no.» Fujinami incrociò lo sguardo del figlio di Ermes, sbattendo lo zoccolo a terra. «Ma entrambi sapevamo che lui non ce l’avrebbe fatta. Mi ha chiesto di salvare la ragazza come sua ultima volontà, ed è quello che ho fatto. Il mio lavoro è finito.» 

«Bene, allora vattene!» urlò Thomas, sguainando il falcetto ed indicando il museo. «Ci penso io ad Edward!»

Si incamminò con il fuoco nelle vene. Non gli sembrava vero che Fujinami volesse davvero abbandonare Edward, proprio come gli altri prima volevano abbandonare Rosa. Era assurdo! Era quello il ringraziamento che volevano dare al figlio di Apollo per essersi messo sulle spalle tutto quanto, per averli salvati e aver rischiato di morire?! 

Qualcuno lo afferrò per un braccio. «Thomas.»

Si voltò, trovandosi di fronte il volto di Stephanie, che annuì determinata. «Vengo anch’io.»

Thomas sorrise. Era certo che lei non lo avrebbe abbandonato. Così come era certo che nemmeno Konnor e Lisa lo avrebbero fatto. Il figlio di Ares fu subito al seguito della semidea e Tommy si aspettò anche di vedere la figlia di Bacco, invece non la trovò. La cercò dov’era poco prima e la vide ancora lì, accovacciata accanto a Rosa. Le stava esaminando la mano insistentemente. «Lisa, ma cosa…»

«Cos’è questo segno sulla mano?» domandò proprio lei, anticipandolo, e sollevando la mano di Rosa. La girò e sopra il palmo Tommy vide un grosso sfregio rosso. 

«Non ha nessuna ferita sul volto e sulle braccia, solo questo» proseguì Lisa, rivolgendosi a Fujinami. «Sembra una ferita fresca. Tu ne sai qualcosa?» 

La reazione del qilin fu del tutto imprevista. Si raddrizzò di colpo, le sue pupille si dilatarono mentre osservava quel taglio, come se fosse in procinto di prendere fuoco. 

«Oh, no!» Si voltò verso il museo e cominciò a correre come se avesse Tartaro alle calcagna senza dare ulteriori spiegazioni. Un lieve attimo di smarrimento si sollevò nell'aria, mentre tutti rimanevano immobili per lo stupore.

«Ma… ma che ho detto?» interrogò nervosamente Lisa.  

«Sbrighiamoci» fu la conclusione decisa di Talia. Si rivolse a un gruppo di cacciatrici. «Stabilite un perimetro attorno al museo, niente entra od esce a meno che non lo vogliamo noi. Kowalski, lascio a te il comando qua fuori. Te la senti?»

La cacciatrice caricò un dardo nella balestra, annuendo. «Contaci.»

«Ottimo.» Talia mandò un cenno del capo ad una cacciatrice con i capelli rossi e alcune sue compagne. «Voialtre rimanete con Rosa. E tenete anche lontani i mortali» aggiunse, indicando i vari turisti che girovagavano con il naso per aria e la testa dietro le loro costosissime fotocamere. «Non fateli avvicinare troppo.»

«Sì!»

Anche Thomas avrebbe voluto rimanere lì, per vegliare su Rosa, ma Edward aveva la priorità. Tuttavia sapeva cosa fare. «Kensuke» disse alla donnola, ancora accovacciata sulla sua spalla. «Rimanete anche voi. Proteggete Rosa ad ogni costo. Va bene?»

La kamaitachi sfoggiò di nuovo i suoi dentini e annuì, saltando giù dalla spalla e venendo raggiunta dai suoi fratelli, o compagni, o quello che erano. Sfoderarono le lame ed iniziarono a ronzare attorno alla figlia di Apollo. Osservando i tre piccoli killer così vicini alla ragazza svenuta, Thomas cominciò ad avere dubbi su quella decisione. 

«Rimaniamo indietro anche noi» mormorò David, rinfoderando il gladio, mentre Travis dava degli schiaffetti sul volto di Gus. «Immagino lo abbiate capito, noi non… siamo proprio dei combattenti.»

«Non preoccupatevi.» Konnor gli rivolse un cenno. «Avete già fatto molto di più di quanto sperassimo.»

David incrociò il suo sguardo e sussultò. Abbassò la testa imbarazzato e Tommy giurò che fosse perfino arrossito. «E-Ehm… grazie…» 

«Sbrighiamoci!» Talia cominciò a correre assieme a Reyna e ad altre tre cacciatrici verso il museo, seguite da Tommy e compagni.

 

***

 

«Da che parte?»

La voce di Talia riecheggiò contro le pareti di marmo del grosso salone di ingresso. C’era una grossa scala che saliva e diversi corridoi che si districavano in varie direzioni. Da dentro quel posto sembrava ancora più grande. Fujinami non c’era, doveva essere andato avanti da solo. Qualunque fosse il motivo di quella sua reazione quasi spaventata non piaceva affatto a Thomas. 

«Probabilmente sopra c’è qualcosa di importante» suggerì Lisa, avvicinandosi alle scale. 

«Oppure dalla mostra di Ama no Murakumo» ribatté Konnor, indicando un cartellone appeso che invitava i turisti ad andare a visitare la replica della spada. 

«Oppure negli altri mille corridoi» concluse Talia, con un sospiro pesante. «Dividiamoci. Stephanie e Konnor, venite alla mostra insieme a me, Reyna tu vai di sopra con Lisa e Thomas, voi tre invece controllate quei corridoi. Occhi aperti. Se trovate qualcosa, mandate un segnale.» 

Le cacciatrici annuirono. Thomas non credeva che dividersi fosse davvero una buona idea, ma purtroppo non avevano molta scelta. Se davvero Edward era ferito, dovevano coprire più terreno possibile pur di ritrovarlo prima che fosse troppo tardi. 

«Buona fortuna» affermò Konnor, sguainando la spada opaca. 

I gruppi si sparpagliarono e Lisa, Tommy e Reyna cominciarono a correre lungo le scale. Il fatto che una guerriera esperta come Reyna fosse assieme a loro lo rincuorò, anche se ormai sapeva molto bene che poteva contare anche su di Lisa. E comunque, con Rosa salva, non si sarebbe fermato di fronte a niente e nessuno pur di riportare anche Edward indietro. 

Arrivarono in cima e si trovarono in un salone che pareva grande quanto un campo da football – non che Thomas sapesse davvero quale fosse la dimensione esatta di uno di quei campi. Lo spettacolo che trovarono fu qualcosa che non si sarebbe mai aspettato. C’erano enormi finestre distrutte, crepe e chiazze di sangue sul pavimento. Una parete era totalmente distrutta e un corpo svenuto, forse addirittura morto, di una strana creatura umanoide, sicuramente uno yōkai, giaceva ai piedi di una colonna mezza demolita. 

«Ma cos’è successo qui?» mormorò Lisa, le sue parole che si smarrivano nella vastità di quel posto.

«Edward e la Spada del Paradiso» rispose Thomas, riconoscendo il salone come il luogo di chissà che razza di battaglia furibonda. «Credo proprio che siano passati di qui.»

Osservare tutta quella devastazione lasciò un senso di inquietudine dentro di Thomas. Ripensò alla sera in cui il figlio di Apollo aveva affrontato quegli scorpioni, quando era stato come se uno spirito maligno lo avesse posseduto e lo avesse spinto a quasi torturare quelle creature. Poteva solo immaginare cosa fosse successo davvero lì dentro. 

Tuttavia, di Edward non c’era nessuna traccia. Al suo posto, però, c’era Fujinami, immobile come una statua al centro della sala. 

«Fujinami» lo chiamò, correndo verso di lui. Il qilin non si voltò. Fissava il pavimento come in trance. «Fujinami, che stai facendo?»

La creatura sembrò accorgersi di loro solo in quel momento. Si voltò e i suoi zoccoli strascicarono sopra una strana sostanza bluastra. Un’intera scia di quella roba si disperdeva nel salone.

«Non… non è possibile…» cominciò Fujinami, ignorando la domanda. «Il suo corpo era qui! Ne ero sicuro!»

Prima che Thomas potesse interrogarlo su cosa stesse blaterando, un rumore attirò la loro attenzione. Si voltarono verso la parete distrutta, dove alcuni detriti avevano cominciato a cadere e rotolare verso terra. Una mano spuntò fuori da essi, facendolo sussultare. Rimase pietrificato, ad osservare quella scena che sembrava essere uscita da un film dell’orrore. Una figura spuntò fuori dalle macerie con un gesto secco, gridando a perdifiato. Barcollò fuori dalla sua prigione di detriti, scrollando la testa, sbuffando infastidita. Borbottò qualcosa di incomprendibile, Tommy riuscì solamente a capire che era giapponese, visto che aveva sentito Edward e Naito parlarlo diverse volte.

Scese dalla pila di detriti, massaggiandosi la fronte, e da dietro la sua schiena sbucò qualcosa, una grossa matassa bianca. Thomas spalancò gli occhi. Non vide la faccia di quel tizio. Il suo sguardo rimase unicamente incastonato sul quel groviglio di code che spuntava dal suo fondoschiena. 

«Ma quella…» cominciò Lisa, con un sussurro. 

«Dannazione…» sbottò Fujinami, raschiando il suolo con gli zoccoli. 

Reyna sguainò il suo gladio, rimanendo in silenzio. 

La kitsune si voltò verso di loro di scatto, fissandoli sorpresa per diversi istanti prima che un lento sorriso inquietante si estendesse sul suo volto animalesco. 

«Oh…» iniziò, spolverandosi e ricomponendosi. 

Si passò una mano sulla testa, lisciandosi il pelo in mezzo alle orecchie, piegò la testa per sgranchirsi l’osso del collo e si passò la lingua rosa tra i canini affilati. «… ora sì che le cose si fanno interessanti.» 

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Capitolo 33
*** Questione di coraggio... e di armi segrete ***


33

Questione di coraggio... e di armi segrete

 

 

«Scusate davvero per il disordine, non ci aspettavamo altri ospiti» cominciò la kitsune, cominciando a muoversi lungo il salone, senza staccargli gli occhi di dosso nemmeno per un istante. 

Thomas sentì quello sguardo scavargli dentro l’anima. 

«Siete gli amici del ladro, giusto? Il mio nome è Hikaru. È un onore incontrarvi.» Hikaru sogghignò. «Capitate proprio al momento giusto.»

Il figlio di Ermes indietreggiò, deglutendo. Aveva contato le code di quella tizia, erano nove. Il che significava che era molto più potente di Milù e di qualsiasi altro mostro avessero incontrato sul loro tragitto, magari perfino di Campe, o addirittura di Efialte. Tuttavia, non gli fu difficile individuare la collana che aveva al collo. 

«La sua anima è rimasta intatta nonostante l’impatto con Ama no Murakumo» commentò Fujinami. Sembrava nervoso. E a giudicare da quelle parole, ebbe la conferma che Edward era già passato da lì e aveva già incontrato la kitsune. «Questa non ci voleva affatto. Dobbiamo sconfiggerla al più presto!»

«Potete provarci, qilin» disse Hikaru, facendo sussultare Thomas. 

La donna incrociò proprio il suo sguardo e rise di gusto notando la sua espressione sbalordita. «Sì, anch’io posso sentirlo.»

Un mucchio di domande nacquero dentro di Tommy. Quella tizia non poteva essere pura di cuore. Forse erano i suoi poteri a permetterle di sentire Fujinami.

«Comunque…» Hikaru riprese a camminare, avvicinandosi all’altra figura umanoide che giaceva a terra, una specie di bizzarro uomo uccello con delle ali che spuntavano dalle tempie. «… se avevate altri piani, allora vi consiglio di scordarveli. Al momento, la vostra unica preoccupazione siamo noi due.» Girò con un piede l’uomo, rivoltandolo sopra la pancia. «Alzati, Bunzo. Non abbiamo ancora finito.»

«UUUUGHHHH» fu la protesta dell’individuo, una specie di lungo rantolio semi morente. Quello cominciò a dare segni di vita, facendo leva sui gomiti. «H-Hikaru? Sei ancora viva?!» domandò dal basso.

«Tu che ne pensi?»

Bunzo si mise in piedi barcollando, massaggiandosi la testa e continuando a mugugnare. «Orochi…» borbottò, prima di sobbalzare. Si voltò verso la donna e cominciò a strattonarla. «Hikaru! Il ladro ha ucciso Orochi!»

«Non toccarmi!» squittì lei, scostandosi le mani di dosso con un gesto secco. Sembrava disgustata. «Credi davvero che mi importi qualcosa di lui? Orochi era solo un povero illuso, una marionetta. Il suo fallimento è arrivato un po’ prima, ma era comunque inevitabile.»

«C-Che cosa?» domandò l’uomo uccello, sembrando più sbalordito perfino di Thomas e i suoi compagni.

Una… marionetta?

«Ma di quello possiamo parlare più tardi» proseguì Hikaru. «Ora aiutami ad accogliere gli ospiti.»

«Mh?» Bunzo parve accorgersi del gruppetto solo in quel momento. Un sorriso inquietante prese vita anche sulla sua faccia ridicola. «Oh… bene, bene, bene… altra carne fresca…» La sua espressione si indurì non appena notò Fujinami. «E tu sei ancora qui, vedo… me la pagherai cara.»

Fujinami fletté le zampe, mentre Reyna e Lisa sollevavano le armi. «Occupatevi del tengu. Alla kitsune ci penso io.» 

Hikaru ridacchiò, le dita delle mani che formicolavano. «Dicono che uccidere un qilin porti enorme sventura. Oggi scoprirò se è vero.»

«Mi sarebbe piaciuto chiudere i conti con lui personalmente…» mugugnò l’uomo uccello, per poi sogghignare in direzione dei semidei. «Ma non importa. Mi sfogherò su di voi.»

Thomas bracciò il proprio falcetto, serrando le labbra. Non avevano trovato Edward, ma in compenso avevano trovato due yōkai che chiaramente erano al servizio di Orochi. E con tutta probabilità loro non erano gli unici rimasti. Forse c’era perfino Naito da qualche parte. Si augurò che per Konnor, Steph, Talia e le altre cacciatrici filasse tutto liscio.

Bunzo non concesse loro il lusso di rilassarsi ancora: si precipitò addosso a loro strillando come un’aquila, gli artigli protesi e le fauci spalancate. Nello stesso momento Fujinami caricò la kitsune, che rise di nuovo di gusto mentre si circondava di fiamme.

L’uomo uccello, o tengu, quello che era, puntò verso Thomas. «Tu mi sembri il più debole!»

Thomas si abbassò, evitando un’artigliata che gli avrebbe strappato via il naso di netto. Subito dopo, le zampe del mostro erano di nuovo pronte ad infierire su di lui. Tommy gridò, indietreggiando come poteva, cercando di allontanarsi dallo yōkai che continuava ad incalzarlo. Era molto più rapido di quanto avrebbe potuto immaginare. 

Se non fosse stato per Lisa, le cose sarebbero finite male. La figlia di Bacco si frappose tra di loro con i pugnali alle mani e Bunzo sogghignò. Scansò una pugnalata e sferrò un colpo a Lisa con il palmo della mano, strappandole un grido sorpreso. Prima che Tommy potesse allarmarsi, però, la ragazza era di nuovo in piedi, anche se con una lieve abrasione sulla guancia.

I due semidei indietreggiarono, trovandosi l’uno accanto all’altra a riprendere fiato. Era bastato così poco per metterli alle strette.

«Davvero sperate di potermi affrontare? Il mio nome è Bunzo da Kurama, sono il terrore del monte Kurama, i mortali non sono altro che prede per me, perfino il potente re dei tengu mi teme! Non sono secondo a nessuno, nemmeno a…»

La punta di una lancia lo trapassò allo stomaco, facendolo interrompere con un singulto. Alle sue spalle, Reyna storse il naso. «Parli troppo.»

Bunzo boccheggiò, osservandola sbigottito con la coda dell’occhio. Lo aveva aggirato senza che nemmeno se ne rendessero conto. La cacciatrice estrasse la lancia, facendolo cadere in ginocchio mentre si portava una mano all’addome ferito. Non fu sufficiente per ucciderlo, perché si trasformò in un uccello all’improvviso, rimpicciolendosi così rapidamente che gli occhi di Thomas nemmeno riuscirono a processare l’accaduto. Si allontanò in volo di diversi metri ed atterrò, riacquisendo forma umanoide. 

«Maledetta…» ansimò, premendosi la mano sulla ferita. «Non avresti dovuto farlo…»

«State bene?» domandò Reyna ai due semidei, che annuirono. 

Tommy si raddrizzò, calmando il proprio respiro. Quel tizio non scherzava, era davvero pericoloso.

Bunzo allontanò la mano dallo stomaco con un gemito, ma nonostante la ferita sogghignò. «Non starete bene ancora per molto.»

Thomas serrò la mascella. I tre semidei si scambiarono un cenno, poi attaccarono. Bunzo piombò in mezzo a loro dimenando gli artigli e sghignazzando irritante. Tommy non era bravo nei combattimenti e non avrebbe mai smesso di ripeterlo, ma per fortuna le due semidee romane colmavano le sue mancanze. In un uno contro uno Bunzo lo avrebbe fatto a brandelli, ma la sinergia naturale che aveva sviluppato assieme a Lisa e l’enorme esperienza di Reyna furono degli ottimi salvachiappe per lui.

Oro Imperiale e Bronzo Celeste cozzarono contro gli artigli del tengu, che parevano duri come diamanti.

Nella periferia del suo campo visivo, Thomas notò Fujinami ed Hikaru muoversi rapidi come lampi seguiti da delle scie di fiamme blu e rosse. La donna rideva, circondata da focolai che fluttuavano attorno a lei, mentre Fujinami assomigliava a un lampo blu a quattro zampe. 

La risata irritante di Bunzo lo riportò al suo scontro attuale: non c’era tempo per le distrazioni. Il tengu provò ancora una volta ad attaccare lui, forse ancora convinto della sua tattica di sbarazzarsi dell’anello debole per primo. Non sapeva, però, che i tempi in cui Thomas era considerabile l’anello debole erano finiti.

Schivò l’attacco con un gesto rapido e deciso, contrasse la mascella e dimenò il falcetto, impattando contro qualcosa. Bunzo indietreggiò urlando disperato, afferrandosi il braccio da cui la mano era appena stata troncata di netto.

«Maledetto… omuncolo…» si lamentò il mostro, osservandolo con l’odio negli occhi.

Lisa sorrise, ammirata. «Bel colpo Tommy!»

Un piccolo sorrisetto scappò anche dalle labbra del figlio di Ermes. La voce di Reyna, però, li riportò sui binari giusti: «Non è ancora finita.»

Bunzo sembrò prendere la frase come un invito, perché urlò a squarciagola prima di ripartire all’attacco. Tommy alzò il falcetto, ma poco prima che il pennuto piombasse su di loro tutto quanto si fece buio attorno a lui. Sgranò gli occhi, guardandosi attorno con i sensi affinati al massimo. Non riusciva più a vedere niente di niente, il salone era svanito, così come Lisa, Reyna e perfino Bunzo. Ebbe un tuffo al cuore.

«Lisa, dove…» La sua richiesta si trasformò in un urlo di dolore quando qualcosa impattò contro di lui con violenza, spedendolo a terra. Ancora una volta, la risata malefica di Bunzo si levò nell’aria circostante, questa volta però sembrò arrivare da ogni direzione.

«Mi avete costretto voi, piccoli dei. Di solito non mi piace creare queste illusioni.»

Mentre cercava di mettersi in ginocchio, Thomas sgranò gli occhi. Illusioni?!

Qualcosa lo colpì di nuovo alla guancia, rispedendolo a terra e facendogli sentire il sapore orribile del sangue in bocca. «Non puoi scappare, piccolo dio!» lo schernì di nuovo la voce di Bunzo.

Milioni di domande vorticavano nella mente del semidio. La più importante però era solo una: dov’erano finite Lisa e Reyna? Erano bloccate anche loro in quell’illusione? Perché non riusciva a sentirle?

Tommy strinse i denti. Il fatto che perfino i tengu sapessero creare illusioni non ci voleva proprio. Se non fosse riuscito a liberarsi da lì in qualche modo, lo avrebbe ucciso.

Un altro colpo. Il figlio di Ermes gridò, afferrandosi il braccio che si era inumidito. Le dita gli si bagnarono di sangue. Serrò i denti, la mente che viaggiava come una locomotiva per trovare il modo di uscire da lì, ma a qualsiasi cosa pensasse, non vedeva altro che un buio cupo come quello che lo circondava. Non era come un sogno, da cui un pizzicotto lo avrebbe svegliato, altrimenti i pizzicotti di Bunzo sarebbero stati sufficienti per svegliare l’intera casa Undici.

Pensare ai fratelli lo fece sussultare. Non sarebbe morto lì, poteva scordarselo. Si rimise in piedi, stringendo il falcetto. Non poteva vedere Bunzo, ma non significava che non ci fosse. Forse se lo avesse colpito sarebbe riuscito a tornare indietro.

Improvvisamente, la voce di Reyna giunse alle sue orecchie, facendogli sgranare gli occhi. «Non arrendetevi!»

Nella propria mente, Thomas sentì come il rumore di uno strappo. Il suo corpo, invece, si sentì come rinvigorito da una scarica di adrenalina, come se di punto in bianco avesse potuto farsi tutta la parete di arrampicata del Campo Mezzosangue senza riprendere fiato. L’oscurità si dissipò attorno a lui, restituendo alla sua vista il salone del museo, nel quale vide anche, per fortuna, Lisa e Reyna, ancora intatte ma altrettanto malconce come lui. La figlia di Bacco era a terra, sui gomiti, con il fiato grosso e l’espressione stralunata. Sembrava solo scossa. La cacciatrice di Artemide invece era in piedi, con una guancia sanguinante ma lo sguardo carico di determinazione.

Il sorriso svanì dal volto del tengu. Un lungo mugugno gli scappò dalla bocca mentre analizzava la ragazza. «Ti sei liberata dall’illusione. Devi avere uno spirito molto forte…» Osservò poi Thomas e Lisa. «E hai liberato anche loro, in qualche modo… chi sei tu?»

Reyna assottigliò le labbra. «Il mio nome è Reyna Ramirez Arellano. Figlia di Bellona, dea romana della guerra, ex pretore romano del Campo Giove e cacciatrice di Artemide. Sono stata incaricata di aiutare questi semidei a finire il loro viaggio, ed è quello che farò. Non mi farò sconfiggere da te.»

Bunzo ridacchiò di nuovo, ma questa sembrò una risata nervosa. Il fatto che Reyna si fosse liberata dall’illusione l’aveva preoccupato. Thomas aveva sentito cose incredibili su di lei, ma solo dopo averla vista in azione dal vivo riuscì davvero a capacitarsene. Era una guerriera incredibile.

Un colpo di tosse proveniente da Lisa distolse la sua attenzione. Si dimenticò del tengu e corse dalla compagna, per aiutarla a rimettersi in piedi.

«Allora, come hai fatto a liberarli dalla mia illusione?!» domandò Bunzo, piegando le zampe per scattare di nuovo all’attacco.

«Mi è bastato solo un po’ di coraggio» ribatté Reyna pacata. «Lo stesso, però, non potremo dirlo anche per te.»

«Ah sì?! E allora…»

Un tonfo sordo lo costrinse ad interrompersi. Fujinami precipitò a terra a poca distanza da loro, con molteplici abrasioni sopra le scaglie. Thomas sentì il fiato mancargli. Il qilin respirava ancora, ma a fatica, e da lui non giunse nessuna parola. Tutti i presenti si voltarono verso di Hikaru, che aveva appena finito di spolverarsi il kimono. Si voltò verso di loro, distendendo il sorriso, mentre i tre fuochi fatui rossi sangue roteavano attorno a lei. «Credevo mi avresti offerto una sfida più grande, qilin. Un vero peccato.»

Thomas e Lisa indietreggiarono, bracciando le armi. Il figlio di Ermes avrebbe voluto soccorrere Fujinami, ma non trovò il coraggio di distogliere lo sguardo da Hikaru, che ora avanzava verso di loro con aria estremamente confidente. Anche Reyna la osservò assottigliando le labbra. Thomas riuscì a scorgere a malapena Bunzo scattare verso di lei.

Si voltò e provò a chiamarla per avvertirla, ma un urlo lancinante lo anticipò: Reyna lo aveva trafitto con la lancia, muovendosi come un lampo, intercettando il suo volo. 

«N… Nani…?» boccheggiò il pennuto, sbalordito, con un rivolo di sangue marrognolo che colava dalla bocca.

«Requiescet in pace» rispose Reyna, estraendo la lama e lasciandolo cadere a peso morto a terra. 

Lisa e Thomas rimasero in silenzio, stupiti tanto quanto il tengu, e perfino Hikaru cambiò espressione ora apparendo quasi affascinata. «Ripetimi chi sei» le disse, con una scintilla maliziosa negli occhi.

«Reyna Ramirez Arellano, figlia di Bellona, cacciatrice di Artemide» rispose la romana con fierezza, mentre il tengu si liquefaceva in una pozza nera.

«Molto bene, figlia di Bellona.» Hikaru si passò la lingua sui canini. «Lascia che mi liberi del resto dei pesi morti, e poi potremo affrontarci tu ed io.»

Prima che Reyna potesse rispondere, Hikaru era già scattata verso di Tommy e Lisa. In pochi istanti si ritrovò di fronte a loro, circondata da fiamme e con un sorriso degno del luogo infernale da cui doveva essere uscita. Thomas pietrificò, incapace di agire, colto alla sprovvista da tutta quella rapidità. La voce di Reyna lo riportò ancora una volta con i piedi per terra: «Attenti!»

Più che un avvertimento, sembrò una minaccia. Ma fu proprio grazie ad essa che Thomas riuscì a riscuotersi, evitando un fendente di fiamme che lasciò un cratere sul pavimento proprio dove si era trovato lui un istante prima. Hikaru non si arrese e si voltò, rivolgendo lo stesso trattamento a Lisa, ma anche la figlia di Bacco riuscì a schivare l’attacco.

«Non abbiate paura!» gridò ancora una volta Reyna, piombando sulla kitsune con la lancia rivolta verso di lei. 

Di nuovo, il corpo di Tommy venne avvolto da una scarica di adrenalina e si sentì pronto per affrontare qualsiasi minaccia. Non aveva idea di cosa stesse succedendo ma non aveva importanza, non sarebbe rimasto a guardare mentre Reyna combatteva per loro in quel modo.

Strinse il falcetto e assieme a Lisa corse a dare manforte alla cacciatrice.

«Molto interessante» sghignazzò Hikaru, mentre deviava, parava e schivava l’assalto dei tre semidei. 

Fiamme e scintille si sollevavano ogni volta che le lame cozzavano con le sue mani. Thomas aveva già visto Milù all’opera, sapeva che le armi convenzionali non potevano davvero ucciderla. Dovevano strapparle di dosso quella collana. Un po’ si rammaricò di non avere Kensuke, Sato e Nagata al suo fianco in quel momento, con la loro velocità sarebbero state di grande aiuto.

«Non datele alcuna tregua!» continuava ad ordinare Reyna. «Non riuscirà a resistere ancora a lungo!»

«Ne sei davvero sicura, figlia di Bellona?» incalzò Hikaru, afferrando a mezz’aria la lancia di lei con una mano, immobilizzandola, e respingendo Lisa e Thomas con una coltre di fiamme. I due semidei gridarono e vennero sbalzati a terra.

Mentre Tommy tentava di rimettersi in piedi, osservò impotente Reyna che affrontava da sola ma a testa alta un’avversaria che era chiaramente al di sopra di tutti loro, perfino di lei. Schivò un fendente e rispose con un colpo della lancia, che venne deviato con il solo ausilio del palmo. Hikaru allungò l’altro palmo verso di lei, da cui una lingua di fuoco si sprigionò, e Reyna rotolò a terra per scansarlo. 

«Alzatevi!» gridò ancora la romana, senza distogliere lo sguardo dalla kitsune. 

La scarica di adrenalina si liberò di nuovo nel corpo di Thomas. Era come se Reyna possedesse una specie di lingua ammaliatrice in grado di spingerlo a combattere fino allo stremo. Afferrò il falcetto e si rimise in piedi stringendo i denti, ma un grido atroce lo pietrificò: Hikaru aveva appena colpito Reyna.

«Non male figlia di Bellona» disse, il pugno ancora rivolto verso la ragazza che giaceva a terra, con la bocca sanguinante. «Usi la magia per infondere forza nei tuoi alleati. Efficiente, devo ammetterlo. Forse troppo

«M-Magia…?» domandò Lisa, tenendosi un braccio mentre si rimetteva in ginocchio.

Hikaru si voltò verso di loro, spalancando il suo sorriso. «Già. La forza che sentivate prima proveniva unicamente dalla vostra amica. Per questo avevate una chance di farcela contro di noi. Ora però voglio vedere come ve la caverete senza di lei…» 

Tese una mano verso il corpo esanime di Reyna, ma prima che potesse fare qualsiasi cosa delle fiamme azzurre la travolsero. Hikaru emise un verso infastidito, barcollando all’indietro ed allontanandosi da Reyna. Fujinami balzò addosso alla donna, dandole un’incornata sul volto e strappandole un grido.

«Kemono no yarō!» ululò lei, con un livido sulla guancia. 

Il qilin la osservò con aria severa, malgrado le molteplici ferite.

«Andate via da qui» ordinò a Thomas. «Non potete sconfiggerla.»

«E tu?» domandò Tommy preoccupato.

Il qilin pestò lo zoccolo a terra. Era nervoso, spaventato. Sapeva di non poter affrontare nemmeno lui la kitsune, ma aveva comunque deciso di far guadagnare loro del tempo. Tommy si sentì un vero idiota per essersi arrabbiato con lui poco prima. «Non pensate a me, giovani eroi. Portate Reyna al sicuro.»

«Nessuno di voi scapperà, invece…» rantolò Hikaru, circondandosi da decine e decine di fuochi fatui che iniziarono a roteare attorno a lei come satelliti impazziti. «… la pagherai per avermi ferita, porco di un qilin!»

Caricò Fujinami, il quale balzò in aria sputandole addosso altre fiamme. Thomas osservò le due creature combattere per qualche istante come in trance, prima di riprendersi. Sapere che tutta la sua forza di poco prima era provenuta da Reyna lo fece sentire come uno straccio. Se era ancora vivo era solo merito della romana. Se non ci fosse stata lei, Bunzo lo avrebbe ucciso con la sua illusione.

«T-Tommy…» Lisa si inginocchiò accanto a lui, posandogli una mano sulla spalla, preoccupata. «Stai bene?»

Con un po’ di fatica, il figlio di Ermes annuì. «Sì… sto bene. Dobbiamo portare Reyna via da qui.»

Lisa osservò lo scontro tra i due nipponici. «Io posso sconfiggerla.»

«C-Che cosa?» domandò lui. «Come?»

La figlia di Bacco abbozzò un sorrisetto. «Ricordi quando mi hai chiesto se… se avevo del vino in tasca?»

Thomas schiuse le labbra, basito.

«Ecco… non ce l’avevo in tasca.» Dalla cintura, Lisa estrasse una fialetta trasparente con dentro del liquido rossastro. Notando la sua espressione, lei sorrise divertita. «Tranquillo, figlio di Ermes senza dracme. È nomale essere sorpresi.»

«Ma… ma… a che ti serve quello?!» domandò lui, non riuscendo a staccare gli occhi.

La ragazza non rispose. Stappò la fialetta e mandò giù il vino tutto d’un fiato, per poi fare una smorfia disgustata. «Bleah

Una figlia di Bacco disgustata dal vino. Ora sì che Thomas le aveva viste tutte. Un altro boato distolse la loro attenzione. Fujinami era di nuovo caduto a terra, colpito da un’altra vampata. Hikaru torreggiò su di lui, con i palmi e lo sguardo fiammeggianti.

«Proteggi Reyna e Fujinami. A lei ci penso io» affermò Lisa alzandosi in piedi, sguainando i pugnali.

Thomas era troppo sconvolto per parlare.

«Ehi, stronza» sbottò Lisa in italiano, attirando l’attenzione di Hikaru.

«Mh? Che cos…»

Lisa non la lasciò finire. Le corse addosso gridando con quanto fiato aveva nei polmoni, con una rinnovata grinta e una ferocia simile a quella che aveva usato contro Efialte. Un pugnale d’oro Imperiale si ritrovò ad un palmo dal naso di Hikaru, bloccato per il rotto della cuffia dalla sua mano.

«Ora te la devi vedere con me» sogghignò la figlia di Bacco.

Hikaru ringhiò e si circondò da altre fiamme, costringendola ad allontanarsi. «Ma chi ti credi di essere?!»

Una lingua di fuoco si abbatté su Lisa, che si scansò senza difficoltà. «Sono quella che ti ripasserà per bene!»

«Da dove ti esce tanta energia?!» protestò Hikaru, continuando ad incalzarla senza successo.

«Magari sei tu che ti stai rammollendo» ribatté Lisa, evitando l’ennesima lingua di fuoco per poi passare all’offensiva.

«Non capisco, un attimo fa a malapena riuscivi a combattere!» 

«Lo sai perché ai figli di Bacco è meglio non dare vino?» interrogò Lisa, con uno strano tono di voce. Era passato un niente da quando aveva bevuto da quella fialetta e ora pareva tutta un’altra persona. Era rossa in faccia, sorrideva inebetita e aveva uno sguardo folle, spiritato perfino. Era… ubriaca?! 

«Perché poi rischiamo – hic – di perdere il controllo!»

Attaccò con più forza, con più rapidità, con più furia. Era così rapida che riuscì a scalfirla diverse volte con i pugnali. La attaccava di fronte, di lato, alle spalle, senza mai dare tempo all’altra di reagire. Era come se la kitsune si stesse muovendo nella melassa. Thomas non riusciva a credere ai propri occhi.

Hikaru grugnì infastidita dopo l’ennesimo colpo a vuoto. «Ti stai forse divertendo?!»

«Hic! Tu no??»

Quella risposta non sembrò piacerle. Hikaru sbraitò di rabbia e le sferrò una gomitata non appena si ritrovò di nuovo alle sue spalle, colpendola in pieno naso. Thomas gridò sorpreso mentre Lisa barcollava all’indietro con la testa rivolta verso l’alto. Poi, Lisa abbassò lo sguardo e sorrise di nuovo, mostrando le perle bianche dei denti tra i rivoli di sangue che scendevano dal naso. «Tutto qui?»

L’espressione di trionfo di Hikaru sfumò nel nulla e si trasformò in una di odio puro. Le puntò contro la mano ed una cortina di fiamme invase l’intera sala. Lisa la schivò rotolando di lato e ripartì all’attacco. Hikaru le sferrò un altro pugno e la ragazza piegò appena la testa per evitarlo. Conficcò un pugnale nel polso della kitsune, trafiggendolo da parte a parte e strappandole un altro urlo disumano, questa volta di dolore, così forte e straziante che Thomas sentì la propria pelle accapponarsi. Si riprese all’istante quando si accorse dell’attimo di vulnerabilità della kitsune. «La collana, Lisa! Prendile la collana!»

«Ma proprio ora devi interessarti di gioielli?!» sbottò lei, arrischiando un’occhiata verso di lui.

«Non è solo una collana!» protestò Tommy. «Se vuoi ucciderla devi…»

Hikaru puntò una mano verso di Lisa e Thomas si interruppe. «Attenta!» 

Il sorriso svanì dal volto di Lisa. Si voltò nel momento esatto in cui le fiamme la travolsero, scaraventandola a terra. Hikaru serrò la mascella, il respiro pesante che pareva il rantolio di un animale messo in gabbia. «Non avrei voluto fare sul serio… ma vedo che non mi lasciate altra scelta.»

«LISA!» urlò Thomas, correndole incontro e dimenticandosi di Reyna e Fujinami. 

«Questa… l’ho sentita…» biascicò Lisa mentre si rimetteva in ginocchio, tossendo. Era un po’ bruciacchiata ma a parte quello sembrava stare bene. 

Thomas le si inginocchiò accanto, avvolgendole un braccio attorno alle spalle. «Ce la fai ad alzarti?»

«Sì, sì…» mugugnò lei. «Hic!»

Non sembrava promettere nulla di buono, ma Tommy decise di rimangiarsi le proprie preoccupazioni. Osservò Hikaru mentre torreggiava su di loro, con la ferita nella mano che si rimarginava poco per volta. 

«Dobbiamo toglierle quella collana» disse a bassa voce, accennando con il mento al gioiello. «Possiamo ucciderla solo così.»

«E che ci vuole? Torno subito» borbottò Lisa, scansandosi da lui e alzandosi di nuovo. Avanzò verso la kitsune sgranchendosi il collo. «D’accordo, stronza. È ora del secondo round!»

Hikaru si passò la manica del kimono sopra le labbra, ringhiando. «Meinu notatakai!»

«Sì, come dici tu» sbottò Lisa, partendo di nuovo all’attacco. 

«Lisa, aspettami!» protestò Thomas, cominciando forse a capire il vero motivo per cui ai figli di Bacco non era concesso bere vino. 

A giudicare da come Lisa cominciò a combattere questa volta, era chiaro che fosse passata dalla “sbronza felice” a quella “arrabbiata.” Purtroppo Tommy ne sapeva qualcosa. 

Mentre le due ricominciavano ad accapigliarsi, Thomas scorse Reyna rialzarsi a fatica su un fianco. Perfino Fujinami barcollò di nuovo sulle proprie zampe, anche le sue ferite stavano guarendo a vista d’occhio. Un barlume di speranza si riaccese dentro di lui quando vide che stavano bene.

Osservò Hikaru e Lisa che si affrontavano con grida disumane tra colpi di lame e fiamme e cominciò a riflettere. Per quanto la sbronza di Lisa potesse renderla più forte, era chiaro che contro una volpe a nove code non poteva farcela da sola. Diverse ferite erano apparse sul suo volto, e stava perdendo il ritmo a confronto con Hikaru, la quale invece pareva instancabile.

Avrebbe voluto correre ad aiutare l’amica, ma sapeva che avvicinarsi ad Hikaru sarebbe stato un errore. Lo aveva imparato sulla propria pelle, dopotutto: era inutile cercare di combattere come uno dei Sette. Era un figlio di Ermes e come tale doveva agire.

Cercò nello zainetto qualcosa che potesse essergli d’aiuto: purtroppo aveva usato tutta l’artiglieria più pesante contro Efialte, incluso il barattolo di fuoco greco; gli rimanevano soltanto più una granata fumogena ed un paio di armi da lancio con cui era un incapace totale. Thomas si maledisse per non aver portato più roba, quando poi le sue dita sfiorarono qualcosa di totalmente nuovo per lui. Dallo zaino tirò fuori una matassa di filo dorato e per poco non gli venne un colpo.

Quello era il filo di Arianna! 

«Rick…» gracchiò tra sé e sé, per poi riscuotersi. Al marmocchio ci avrebbe pensato più tardi, aveva appena avuto un’idea. Afferrò il filo e cominciò a trafficare con esso, mentre le grida dello scontro proseguivano. 

«Tieni duro Lisa» mugugnò, mentre concludeva il lavoro. «Padre, fa che funzioni…»

Aggirò Hikaru, troppo presa dallo scontro con Lisa, e si diede da fare. Essere un piccolo figlio di Ermes, per una volta, gli fornì un aiuto non indifferente. Era un ladro, dopotutto. E i ladri dovevano essere silenziosi.

Lo scontro tra le due guerriere proseguì, finché la figlia di Bacco non venne catapultata di nuovo a terra, gridando di dolore. Hikaru sollevò le braccia ricoperte di fiamme, con un sorriso folle dipinto sul volto. Ma prima che potesse finirla, Thomas sogghignò. Tirò il filo, che si attorcigliò tra le gambe di Hikaru, strappandole un grido sorpreso e facendola inciampare rovinosamente a terra. 

«NANI?!» tuonò la donna, mentre tentava di strapparsi le corde di dosso. Si mise accovacciata e lanciò uno sguardo furioso verso di Thomas, che ancora reggeva la sua estremità del cavo.

«Ma dove guardi?!» ululò Lisa, piombandole alle spalle e conficcandole un pugnale nel collo, immobilizzandola. Hikaru rovesciò la testa all’indietro, sbraitando per il dolore. La collana fu ben visibile e Tommy si avventò su di lei. Sradicò il gioiello, strappandole anche un urlo agonizzante. «Che stai facendo?!» Diede una testata a Lisa, riuscendo a togliersela di dosso, e gli scagliò una palla di fuoco. «RESTITUISCIMELA!» 

Colto alla sprovvista, Tommy indietreggiò di scatto per evitarla ed inciampò a terra. Hikaru si rimise in piedi con le caviglie ancora legate dal filo di Arianna e saltellò verso di lui. Quella scena avrebbe quasi avuto del comico se solo non avesse raffigurato un mostro pericolosissimo che voleva mangiargli l'anima. Qualcosa la intercettò, colpendola al fianco prima che potesse trucidarlo. Fujinami apparve di fronte a lui, piegando il muso in sua direzione. «Dammi la collana, figlio di Ermes!»

Il semidio non se lo fece ripetere due volte: lanciò il gioiello al qilin, che lo afferrò al volo con le fauci. 

Hikaru si rimise in piedi e si accorse di lui. «TORNA QUI!» tuonò, mentre il suo corpo intero veniva investito dalle fiamme. Rovesciò la testa all’indietro e urlò con quanto fiato avesse in corpo. Esplose, in tutti i sensi della parola. Un’onda di energia rovente si manifestò da lei, sbalzando via tutti i presenti e distruggendo la corda alla caviglia.

Si avventò su Fujinami, rimasto a terra dopo il boato. Lo raggiunse con la sua velocità disumana, circondata dalle fiamme, ma ancora una volta si ritrovò con una corda addosso, questa volta un lazo attorno al collo. 

«Fujinami!» gridò Tommy, mentre cercava di trattenere con le sue braccia di spaghetti una creatura millenaria in grado di carbonizzarlo a mani nude. «Scappa!»

Fujinami riuscì a rialzarsi e fuggì dalla kitsune, che ormai non sembrava essere capace di fare altro fuorché strillare. Smise di lottare con il lazo e puntò i palmi verso Fujinami.

«TI UCCIDER-AH!» Non terminò la frase, perché Reyna le conficcò la lancia nel fianco, facendola sbraitare per la miliardesima volta.

Hikaru barcollò, ma non demorse. Thomas poteva quasi ammirare la sua tenacia. Mentre la kitsune spostava la sua attenzione su Reyna, il figlio di Ermes continuò a tirare per intralciarla, finché non si ritrovò la corda strappata dalle mani. Spalancò gli occhi per la sorpresa, per poi accorgersi di Lisa che si fiondava di nuovo su Hikaru, stringendo il filo di Arianna tra le dita. 

Mentre la kitsune allontanava Reyna con altre fiamme, Lisa le saltò addosso, avvolgendole la corda attorno al collo e trascinandola a terra. «Sta giù!» 

Si ritrovarono sul pavimento, imbrogliate tra loro. Lisa si mise cavalcioni sulla sua schiena per non farsi colpire, soffocando la donna con il lazo mentre questa continuava ad inveire. «Credete davvero di potermi uccidere così?! Io sono una volpe a nove code! Sono la più potente, la più antica, la più…»

«Chiudi la bocca!» tuonò Lisa, facendole sbattere la testa contro il pavimento. 

Thomas gesticolò in direzione di Fujinami. «Dalla a me!»

Il qilin roteò il collo e aprì la bocca, lanciandogli la collana con forza. Non appena la ricevette, Thomas la infilò nello zainetto, facendola svanire negli infiniti meandri al suo interno, in un luogo dove Hikaru non avrebbe mai più potuto trovarla. 

«NO!!» gridò Hikaru ancora una volta, tendendo una mano verso di lui mentre Lisa rimaneva sopra di lei. Questa volta, una vena di tensione le sporcò il tono severo, mentre dai suoi occhi trapelò un velo di paura. «IO NON MORIRÒ COSÌ! RIDAMMI LA MIA COLLANA! RID… amme… la…» La voce le si affievolì d’improvviso, finché non uscì più alcun suono. Come un fulmine a ciel sereno, Hikaru accasciò la testa e crollò a terra, smettendo di lottare. Un silenzio irreale si sollevò, intervallato solo dal rumore del respiro pesante dei semidei. 

«È… morta?» domandò Reyna con un tremolio nella voce, mentre la kitsune cominciava a dissolversi poco per volta. 

Thomas annuì. Ci aveva messo di più di Milù, ma alla fine la separazione dall’anima aveva ucciso anche lei. Un lungo sospiro di sollievo gli scappò dalle labbra. Era stata dura, ma ce l’avevano fatta. Lisa si alzò dai rimasugli di polvere della kitsune e cominciò a ripulirsi il volto alla bell’e meglio. Anche Reyna e Fujinami erano sanguinanti, ma se non altro erano ancora vivi. 

«Anche ferire un qilin porta sfortuna, kitsune. Spero tu abbia imparato la lezione» disse Fujinami, rivolto a quei pochi rimasugli di polvere rimasti.

«Ottimo lavoro» si complimentò Reyna con Thomas e Lisa, prima che un velo di imbarazzo le coprisse il volto. «Mi… dispiace di aver usato in quel modo i miei poteri su di voi. Temevo che… non foste abbastanza forti per lei. Ma mi avete fatto ricredere. Siete stati bravi.»

Lisa fece schioccare la lingua. Era ancora leggermente rossa in volto e con un pizzico di follia nello sguardo. «Non è stato niente di che.»

Thomas si chiese per quanto tempo ancora gli effetti del vino sarebbero durati. Un sorriso gli scappò dalle labbra. «Così… avevi anche tu un’arma segreta.»

La figlia di Bacco fece un sorrisetto e gli strizzò l’occhio. Gli lanciò la matassa rimasta del filo di Arianna. «Lanciafiamme, granate e ora il filo di Arianna. Hai anche un carro armato lì dentro?»

Thomas ridacchiò. «No, però…»

S’interruppe, colpito da un’illuminazione. Aprì lo zainetto e cercò al proprio interno l’amuleto di Hikaru, ritrovandolo subito. Lo estrasse e lo esaminò meglio: era una collana non di argento, ma di oro bianco con una gemma azzurra rotonda incastonata al proprio interno. Un cimelio di semplice fattura, tutto sommato, ma di incredibile bellezza. Era come se l’essenza della kitsune fosse stata impressa su quell’oggetto. Si domandò se Hikaru fosse ancora lì dentro, in qualche bizzarro modo. Magari stava ancora sbraitando all’interno di quella pietra, ordinando loro di farla uscire. Al pensiero gli scappò un altro sorrisetto divertito.

«Tieni» disse a Lisa, porgendole la collana. «Questa direi che è tua di diritto.»

Lisa spalancò le labbra in un sorriso enorme. «Sei un amore» disse, afferrando la collana e indossandola assieme alle perle del Campo Mezzosangue. «Come mi sta? Ehi, Tommy? Come mi sta?»

Prima di rispondere, il semidio dovette riprendersi dallo shock. «S-Scusa, che hai detto che sono?»

«Hic! Che vuoi dire?» chiese lei confusa, per poi spalancare gli occhi. «O-Oh… beh…» 

I due compagni si fissarono negli occhi per qualche istante, carichi di imbarazzo. 

«Ehm-ehm.» Con un sobbalzo, i ragazzi si voltarono e osservarono l’espressione critica, ma con una nota di divertimento, di Reyna. «Non sarò rigida come le mie sorelle, ma sono pur sempre anch’io un’ancella di Artemide. Mostrate un po’ di contegno.»

Thomas era sicuro di essere più rosso dei suoi capelli. 

«Non cantate vittoria troppo presto» li ammonì Fujinami. «Siamo ancora tutti in grave pericolo.»

I presenti si voltarono verso di lui, tutta la leggerezza di quel momento sfumata nell’aria.

«Che… che intendi dire, scusa?» domandò Tommy, incerto.

Il qilin pestò lo zoccolo a terra, gesto che ormai parlava da sé. «Il corpo di Orochi è scomparso. Temo… temo che sia ancora vivo.»





Vorrei ringraziare di cuore Roland per il disegno di Lisa (che guarda caso era la star del capitolo, guarda caso!):



Grazie mille davvero! Lo adoro, così come adoro anche gli altri due (sì, ce n'è un altro, ma lo vedremo nel prossimo capitolo perché devo tenere alta la suspance... e perché sono orribile). Bene, ho finito di annoiarvi, spero di sentire i vostri pareri e vi ringrazio per aver letto fino a qui! Alla prossima, amici di EFP!

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Capitolo 34
*** Onore e orgoglio ***


34

Onore e orgoglio 

 

 

Un giorno, si augurò Stephanie, avrebbero potuto ripensare a tutto quello che era successo quella settimana e farsi sopra una grossa risata. Certo, prima sarebbe dovuta arrivare alla fine, della suddetta settimana.

Una cosa era certa però: se fosse tornata al Campo Mezzosangue, avrebbe posato armi e armature e si sarebbe dedicata alla coltivazione dei fiori per il resto della sua vita.

Sentiva il cuore in gola per la tensione, e non era solo perché stavano per affrontare chissà quali pericoli. Quel luogo… emanava un’energia insolita, qualcosa di strano, di oscuro, di incomprensibile. La stessa energia che emanava Edward quando maneggiava la Spada del Paradiso, quella che giusto un giorno prima aveva fatto impazzire i suoi sensi e l’aveva portata a combattere contro di lui. Come aveva detto Chirone, quello era il luogo in cui la cultura orientale era più marcata. Loro, semidei greci, erano estranei lì dentro. 

Lei era estranea. Ogni erbaccia, ogni radice rimasta sotto quel pavimento di marmo stava cercando di comunicare con lei per farsi liberare e radere al suolo quel luogo. Doveva uscire da lì e al più presto. 

Konnor e Talia non avevano più detto una parola da quando si erano separati da Tommy e gli altri. Marciavano con cautela tra le esposizioni nella penombra, coi sensi affinati al massimo. Erano tesi anche loro e Steph si domandò se fosse per gli stessi motivi.

Procedettero in relativa calma per un paio di mostre, fino a quando non misero piede in quel grosso salone con sculture e quadri di personaggi a lei sconosciuti. Si domando se tra qualcuno di quelli vi fossero anche gli dei orientali. 

Una porta sbatté dall’altro lato del salone, facendola sussultare. Qualcuno entrò, ritrovandosi sul lato opposto rispetto al loro. Non appena Steph notò le corna che spuntavano da sotto un cappuccio nero si irrigidì: quello era il mezzo demone, Naito.

Quello spalancò l’occhio quando li vide. «E voi chi diamine siete?!»

Konnor fece un passo avanti, come a volersi frapporre tra il demone e Steph. «Dov’è Edward?»

«Hm? Ma tu…» Naito sogghignò. «… ma tu sei il piccolo dio del treno! Non pensavo che ti avrei mai rivisto… o perlomeno, non in piedi.»

«Rispondi» disse Konnor, impassibile. «Dov’è Edward?»

Naito posò lo sguardo sui tre semidei, studiandoli uno ad uno. Stephanie sentì il sangue gelarle nelle vene. Quel tizio sembrava uno zombie. 

«Voi sareste i suoi rinforzi? Due piccoli dei…» Naito studiò Talia con scrupolo. «… e una servetta? Non mi sorprende che siate arrivati solo ora.»

Talia attivò l’Egida. «Dicci dov’è Edward e arrenditi, o verrai spazzato via.»

Il mezzo demone posò lo sguardo sullo scudo e fece una smorfia. Non sembrava intimorito dall’arma, solo infastidito. «Il vostro amico non ce l’ha fatta. Siete arrivati tardi.»

Stephanie si portò le mani di fronte alla bocca, inorridita. Si augurò che Naito stesse solo mentendo. Il solo pensiero di aver lasciato Edward da solo a morire dopo che aveva salvato tutti loro… non poteva accettarlo.

«Non preoccuparti, ragazzina» gracchiò Naito, volgendole un cenno del capo prima di rivolgerle un inquietante sorriso. «Lo rivedrete molto presto.»  

Sguainò una spada scarlatta e si avvicinò a loro. Stephanie capì immediatamente che la via del dialogo era appena stata sbarrata. Talia bracciò lancia e scudo e si preparò.

«Steph…» sussurrò Konnor, afferrandole un braccio. «… noi lo tratteniamo. Tu va avanti e cerca Edward.»

«Ma… ma ha detto che…»

«Naito ha detto tante cose» tagliò corto Konnor. «Ed erano tutte menzogne. Però Fujinami ha detto che Edward era ferito, quindi non c’è molto tempo. Trovalo.»

Stephanie esitò. Non voleva lasciare Konnor e Talia soli ad affrontare Naito, tuttavia sapeva anche che il tempo che avevano non era più molto. «Va bene. Però… fai attenzione.» Ripensò a ciò che Naito aveva fatto a Konnor già una volta. «Non… non voglio che…»

Konnor le posò una mano sulla spalla, rivolgendole uno dei suoi rari sorrisi. Sembrava davvero determinato. «Non preoccuparti per me. Trova Edward. E…» Qualunque cosa volesse dirle, parve ripensarci. 

«Che state confabulando?» domandò Naito, puntando la spada verso di loro. «Vi state dicendo addio? Allora forse dovrei…»

Talia lo interruppe urlando a perdifiato, buttandosi su di lui con la lancia sguainata. Il sorriso divertito di Naito svanì quando le loro lame si incrociarono. 

«Vai. Ci pensiamo noi» concluse Konnor, piazzandosi di nuovo di fronte a lei. 

Steph era sicura che il figlio di Ares non aspettasse altro che pareggiare i conti con il mezzo demone, ma ancora provò un moto di angoscia. Il pensiero che potesse succedergli qualcosa di brutto divenne insopportabile. 

«Fa attenzione» ripeté.

«Anche tu. Ci vediamo dopo.»  

E detto quello, Konnor estrasse la spada e si lanciò nella battaglia. Stephanie lo osservò sferrare potenti attacchi contro il mezzo demone, che fu costretto ad arretrare sotto la pressione dei suoi colpi e di quelli di Talia, in aggiunta al potere dell’Egida che, malgrado Naito non fosse un mostro comune, sembrava comunque riuscire a rallentarlo. 

«Dove vai?!» protestò il mezzo demone quando si accorse del suo tentativo di sgusciargli alle spalle. «Torna qu…» 

S’interruppe quando Konnor schiantò la spada sulla sua. Naito digrignò i denti e indietreggiò, mentre Talia lo attaccava di lato con la lancia. Steph ne approfittò per lasciare la stanza. Konnor stava correndo un grosso rischio per lei, non l’avrebbe deluso.

Procedette per il museo di corsa, cercando in ogni direzione. Quel posto era un labirinto, credeva che ogni suo passo la stesse conducendo in una trappola. Cultura orientale e greca, una pessima combinazione. 

Entrò nell’ennesima stanza, una mostra di antiche lance, balestre e armature e notò una zona ristretta al pubblico, con il cordone tagliato a metà. Qualcuno era passato di lì e quel qualcuno non era felice. Forse Naito, o forse…

Non perse tempo e corse verso lo stanzino. Non appena vi entrò, sentì il sangue raggelarsi nelle sue vene: «Edward!»

Lo aveva trovato. A terra, ferito, immobile. 

«No, no, no!» 

Stephanie si chinò accanto a lui, con le lacrime agli occhi. Controllò il suo battito, il suo respiro, lo chiamò a squarciagola. Nessuna risposta, nessun segno vitale. Prese una delle fialette di Acqua di Luna che le cacciatrici le avevano dato e ne versò tutto il contenuto tra le labbra di Edward, pregando che sortisse qualche effetto, ma non c’era niente da fare. Non c’era più. Era troppo tardi. 

«Edward…» mormorò, singhiozzando. «No…»  

Sapevano tutti a cosa andavano incontro vivendo quel tipo di vita, ma era la prima volta che le capitava di trovarsi in quella situazione. E per lei fu una volta di troppo. Ripensò al giorno in cui aveva incontrato quel ragazzo diffidente e scontroso al quale aveva illustrato il campo. Sembrava passata un’eternità. Di tutte le cose che sarebbero potute accadere da allora, quella era l’ultima che si sarebbe aspettata, e sicuramente ciò di più lontano possibile da quello che avrebbe voluto. 

Si vergognò di aver dubitato di lui. Se solo Edward avesse detto la verità, se solo non avesse deciso di fare tutto da solo... ma purtroppo lui era fatto così. Quando decideva che una cosa andava fatta in un modo, non c’era verso di fargli cambiare idea.

«Sei sempre stato un testone…» bisbigliò, accarezzandogli la guancia. «Ma hai sempre voluto il bene di tutti noi… grazie, Edward.» 

Venne colpita da un altro scossone e le lacrime scesero col doppio dell’intensità. Si chinò sul suo petto freddo, piangendo a dirotto. «G-Grazie…»

Non aveva idea di come sarebbe riuscita a dire agli altri la verità. Edward aveva portato a termine la sua impresa, però loro avevano fallito. Avevano fallito come compagni, come amici. 

«… agi… o… urugi…»

Una voce roca provenne alle sue spalle. Stephanie trasalì e si voltò. Un uomo in armatura barcollò dentro la stanza, tenendo premuta una mano sopra il volto ricoperto di un liquame blu. Tra le fessure delle dita, Stephanie notò un’iride rossa come il sangue. 

«… anagi… o… urugi…»

Una strana sensazione avvolse il corpo della ragazza. Proprio come gli dei, quell’individuo emanava un’aura dal proprio corpo. Per quanto malconcio sembrasse, per quanto in trance, Stephanie provò comunque un terrore viscerale nei suoi confronti. 

«Ah… ahhh…» L’uomo staccò la mano dal volto, rivelando una ferita orripilante che arrivava da fronte a mento, come se fosse spaccato a metà. La sua pelle era bluastra e squamosa, i denti affilati e sporchi. «Kusagio…»

Avanzò verso di lei. Stephanie si alzò in piedi. Sentì il bisogno impellente di fuggire da lì e non voltarsi più indietro, ma allo stesso tempo le sembrò di avere le gambe paralizzate. Notò chiazze scarlatte sparpagliate sull’armatura di quell’essere, spaventosamente simili a sangue. Anche i denti ne erano impregnati. 

«…ore wa… oko… i… aru?» Incrociò lo sguardo di Steph e fu come se una mano le avesse appena stretto la gola. «Dov’è… la spada?»

Quella domanda riuscì a farla riscuotere. Si mosse di un passo indietro, allontanando le mani dal corpo e mostrando i palmi vuoti. «I-Io non…» 

All’improvviso, Stephanie realizzò. A causa della paura era andata in blocco totale, ma ora che riusciva a ragionare di nuovo in maniera lucida non ebbe dubbi: quello… quello era Orochi. 

«Dov’è…» L’uomo serpente fece un altro passo, accorgendosi di Edward. Gli rivolse un’espressione di puro odio. «Kono yarou…» 

Stephanie assottigliò le labbra e si frappose tra loro due, ignorando la sensazione di paura. Non avrebbe permesso a quel mostro di avvicinarsi al suo amico. «La spada non c’è più.»

«Co… cosa?»

«La spada è stata restituita» disse Stephanie, stringendo i pugni. «Non c’è più.»

Orochi rimase in silenzio per qualche secondo, impassibile. Osservò lei, poi Edward, poi un punto alle spalle della ragazza, dove si trovava un espositore con una katana. La targhetta recitava che si trattava proprio della Spada del Paradiso, ma Steph aveva visto l’originale, e quella non ci assomigliava per niente. E Orochi sembrò pensare lo stesso, perché spalancò gli occhi. «Īe…»

Disse qualcosa che Stephanie non comprese e rimase immobile, come in trance. Steph non aveva idea di come agire. Orochi era ancora vivo. Certo, era ferito, ma era vivo. 

Improvvisamente, Orochi tornò ad osservarla, per poi rivolgerle un freddo sorriso. «Quindi ho perso la mia spada… non importa. Mi serviva per rovesciare gli dei, ma per uccidere voi cuccioli non è necessaria.»

Scattò verso di lei. Se non fosse stato per i suoi riflessi da semidea, Stephanie non sarebbe mai riuscita a schivare la sua mano artigliata puntata verso il suo volto. Si gettò di lato, rotolando a terra e rimettendosi in ginocchio. L’uomo serpente non le diede nemmeno tempo di riprendere fiato. La attaccò ancora, e ancora, muovendosi con una rapidità disarmante. Non c’era più nessuna traccia dell’individuo ferito e barcollante, si muoveva come se quell’enorme squarcio sul volto non esistesse nemmeno. 

Si gettò di lato un’altra volta e la mano di Orochi sfondò una teca piena di armi. L’uomo si scrollò via le schegge di vetro come se fossero state briciole di pane e sogghignò. «Se davvero speravate di sconfiggermi non sareste dovuti arrivare con un esercito di vergini. Vi ringrazio comunque per il dono, il loro sangue era delizioso.»

La figlia di Demetra spalancò le palpebre. Le vergini… erano le cacciatrici! Il suo sguardo scivolò sul sangue di cui la sua armatura era imbrattata e sbiancò.

«E anche tu, piccola dea…» Orochi ruppe un altro vetro e afferrò una lunga katana dall’espositore. «… anche tu odori come una vergine.»

Stephanie sentì la propria pelle accapponarsi. Quel mostro aveva ucciso delle cacciatrici. Aveva bevuto il loro sangue. Nemmeno in un incubo la sua mente avrebbe potuto raffigurare una scena raccapricciante come quella. 

«Sì… sì, è quello sguardo ciò che voglio…» Orochi distese il suo sorriso malato. «Quella paura… quel terrore nei miei confronti… presto tutti si ricorderanno cosa sono in grado di fare… con o senza Kusanagi-no-Tsurugi, vi ucciderò tutti. E dopo toccherà agli dei.»

La profezia aveva parlato di sangue di vergine. Steph non poteva sapere se era il suo, quello delle cacciatrici, o perfino quello di Rosa. E non era affatto intenzionata a scoprirlo. Si alzò in piedi e fronteggiò Orochi. Aprì le mani, puntandole verso il pavimento. Aveva detto agli altri che non voleva più combattere, ma non poteva rimanere immobile di fronte a quel mostro, non dopo quello che aveva fatto, non con tutto quello che avrebbe potuto fare se lei non lo avesse fermato. Aveva paura, ma vedere quell’essere sorridere soddisfatto in quel modo, dopo aver ammesso le atrocità che aveva appena commesso le stava facendo ribollire il sangue nelle vene. 

Percepì erbacce e radici nascoste sotto il pavimento di marmo, furibonde tanto quanto lei, braccate anche loro da un mostro, ma di cemento. Le chiamò e quelle risposero al suo comando.

Orochi tornò all’attacco, questa volta brandendo la spada. Le radici sfondarono le piastrelle, afferrandolo per le braccia e le caviglie. L’espressione beffarda del rettile svanì quando si ritrovò immobilizzato, con la katana che gli cadeva di mano. 

Stephanie digrignò i denti e scaraventò Orochi contro la parete opposta alla loro, distruggendo altre teche, in un inferno di vetri in frantumi e armi che cadevano. 

«Uh…» Orochi barcollò in avanti e cadde in ginocchio, con la schiena coperta di schegge di legno e vetro. «… ammetto che non me l’aspettavo...»

Altre radici ruppero le piastrelle, muovendosi come una sola entità. Si avvolsero attorno alla vita di Orochi e lo scaraventarono fuori dalla stanza, contro altri espositori. Stephanie tutte quelle teche andare in frantumi e si sentì in colpa. Era sicura che gli dei orientali non avrebbero affatto gradito tutto quel disastro in casa loro. Sperò che la comprendessero.

Diversi colpi di tosse roca provennero da Orochi, mentre cercava di rialzarsi sui gomiti sul pavimento coperto di vetri rotti. Si voltò verso la semidea e la osservò con odio mentre si avvicinava a lui, accompagnata da altri centinaia di rampicanti che spuntavano dal terreno sfondando il pavimento. Nel giro di poco tempo, venne circondato. 

«Non ti permetterò di fare altro male» asserì Stephanie. 

Gli puntò contro la mano e ordinò alle piante di colpire. 

Pezzi dell’armatura di Orochi si ruppero sotto il peso di quella punizione. Di tanto in tanto il rettile riusciva ad afferrare qualche radice e a strapparla via dal suolo, ma stava comunque venendo sopraffatto. A seguito dell’ennesima frustata l’uomo crollò carponi, col respiro pesante, ma le piante non gli diedero tregua, abbattendosi sulla sua schiena con forza tale da crepare il pavimento. Lo flagellarono finché non rimase completamente immobile, con il volto premuto sul suolo. La sua armatura era ridotta a un ammasso di ferro ammaccato, il corpo ricoperto di segni e striature bluastre. 

Steph ordinò ai rampicanti di sollevarlo. Lo afferrarono sotto le ascelle e lo tirarono su a peso morto. Teneva la testa accasciata verso il basso, senza dare segni di vita. La ragazza si tenne a debita distanza, incerta. Non credeva che fosse morto, anzi era impossibile. Ed era certa che non fosse nemmeno svenuto. Altri rampicanti lo afferrarono per le gambe e le braccia, immobilizzandolo.  

Solamente in quel momento Stephanie riuscì ad allentare la tensione. Si accorse di avere il cuore che batteva all’impazzata e il respiro pesante. Ma soprattutto si sentiva esausta. Mai aveva provato una simile spossatezza dopo aver usato i suoi poteri. Doveva aver dato il tutto per tutto senza nemmeno accorgersene. 

Orochi drizzò la testa all’improvviso, scrutandola con odio. Steph sgranò gli occhi. Puntò le mani e altre radici piombarono su di lui, ma quello liberò un braccio con uno strattone, bloccandole a mezz’aria. Con un altro strattone liberò anche l’altro braccio, strappando via i rampicanti dal terreno. 

Avanzò verso la semidea, liberandosi di ogni pianta che tentava di arrestarlo. Tutto ad un tratto, sembravano rimbalzare su di lui senza nemmeno scalfirlo. La figlia di Demetra lo attaccò con tutto quello che aveva, ma Orochi sembrava ignorare tutti i suoi attacchi.

«Tutto qui, piccola dea?» asserì, afferrando un altro rampicante che puntava dritto al suo volto, strappandolo come erbaccia.  

Realizzando quanto futili fossero i suoi sforzi, Stephanie fece apparire altri rampicanti, che si frapposero tra lei ed Orochi come un muro nel tentativo di rallentarlo, anche se quel gesto le costò caro, perché sentì le proprie energie venire risucchiate via. 

Non capiva cosa stesse succedendo, ma non voleva rimanere lì per scoprirlo. Corse via dalla stanza, sollevando altri rampicanti per ostruire il passaggio. Tornò indietro, non sapendo nemmeno cosa fare. Non poteva affrontare Orochi, era come se tutto ad un tratto fosse diventato immune ai suoi attacchi. Inoltre, le sembrava di essere oppressa da una forza invisibile, come se una mano gigante la stesse schiacciando a terra. 

Si guardò attorno. Che fosse l'energia che emanava quel luogo? Lei aveva attaccato Edward perché lo aveva visto come una minaccia troppo grande. Che... che quel luogo stesse vedendo lei allo stesso modo? Dopotutto, avrebbe potuto raderlo al suolo come niente, se lo avesse voluto. Sembrava una spiegazione assurda, ma non sarebbe stata la prima volta nella loro storia che qualcosa di simile accadeva. 

Esistevano molti luoghi in grado di influire sulle persone che ospitavano. Quello non faceva eccezione. Era un rifugio della cultura orientale in territorio occidentale e lei era un'occidentale che avrebbe potuto distruggerlo. Anche se quella in pericolo era lei, quel posto vedeva lei come il pericolo. La semidea strinse i denti. Non ci voleva, per niente.

Cercò di controllare i rampicanti per più tempo possibile, ma dopo poco tempo divenne insostenibile. Si nascose dietro il piedistallo di una grossa statua di una specie di leone per riprendere fiato e lasciò che le piante si ritirassero sotto terra. Sentiva il corpo pesante e la mente annebbiata. Prese una fialetta di acqua di luna e se la portò alle labbra, ma prima che potesse berne il contenuto udì dei passi alle sue spalle. La statua venne rovesciata a terra e Stephanie si scansò un attimo prima di essere schiacciata, perdendo la fiala. 

La voce di Orochi seguì il frastuono della ceramica in frantumi: «Non puoi nasconderti, piccola dea.»

La ragazza tentò di rialzarsi, ma venne afferrata dietro al collo e scaraventata a terra. Sbatté la testa e sobbalzò per il contraccolpo. La vista le si appannò, mentre un dolore lancinante la assaliva alla nuca. 

Orochi torreggiò su di lei. Le serrò la gola con una mano e la sollevò a peso morto, sogghignando. Steph cercò di dimenarsi, ma fu tutto inutile. Non riusciva più a respirare e neanche a vedere. L’uomo avvicinò il volto a lei, per sussurrare: «Ora tocca a me.»

Scagliò Stephanie contro un’altra teca, distruggendola. Stephanie urlò mentre sentiva i cocci di vetro conficcarsi nella sua schiena, brucianti come una frustata. Stramazzò a terra e tossì, con il corpo che andava a fuoco. Sentì i passi di Orochi farsi sempre più vicini e pur di allontanarsi da lui si mise a strisciare. Doveva pensare a qualcosa e in fretta, o non sarebbe uscita viva da lì.

«Dove pensi di andare?» gracchiò Orochi, quasi con tono di rimprovero. 

Abbatté lo stivale sulla schiena di Stephanie, facendola urlare a squarciagola, schiacciandola contro i cocci di vetro che erano caduti a terra, che si conficcarono nella sua pelle come aghi sottili e affilati.

Orochi l’afferrò per i capelli e le tirò su la testa. «Cosa speravate di fare voi piccoli dei contro di me, mh? Non siete affatto alla mia altezza.»

Sangue caldo scivolò lungo la fronte di Stephanie, impregnandole le sopracciglia. Orochi ci passò sopra un dito, per poi portarselo alle labbra. Venne scosso da un fremito. «Meraviglioso. Davvero meraviglioso.»

Lasciò andare Steph, che crollò esanime, e le sferrò un calcio al fianco. Stephanie urlò di nuovo, portandosi una mano sopra quelle che sicuramente dovevano essere le sue costole rotte. Si girò sulla schiena, annaspando. Lo stivale di Orochi le schiacciò il collo. «Nessuno mi fermerà, né gli dei, né voi stupidi meticci!»

Stephanie sapeva di non avere molto tempo. Ma non si sarebbe arresa. Mentre Orochi le schiacciava la trachea, i rampicanti spuntarono di nuovo dal terreno, dietro di lui. Steph riuscì a sorridere tra i gemiti di dolore e a boccheggiare: «Attento alle spalle…»

«Credi forse che…» Orochi non riuscì a finire: la statua che aveva rovesciato poco prima gli si schiantò sulla testa, scaraventandolo contro la parete e sfondandola. Il suo urlo si smarrì nel fragore del muro che gli crollava addosso.

Stringendo i denti per il dolore arrecato da ogni minimo movimento, Stephanie riuscì a rialzarsi e a barcollare via. Afferrò un’altra fiala di acqua di luna, l’ultima che le era rimasta, e la trangugiò. Le sue condizioni non migliorarono di molto, ma se non altro il dolore al collo, alla schiena e alle costole cominciò ad attenuarsi.

Riuscì appena ad uscire da quella stanza che sentì il frastuono dei detriti che cadevano, seguiti da un urlo furibondo. Steph accelerò il passo. Usare i poteri poco prima le era costato caro e l’acqua di luna poteva aiutarla solo fino ad un certo punto. Se avesse combattuto ancora le poche forze che le rimanevano l’avrebbero abbandonata del tutto. Dover scappare in quel modo era umiliante, ma che scelta aveva? Non poteva rimanere indietro a morire.

Non seppe per quanto tempo corse, parve un’eternità. Non era nemmeno sicura che quella fosse la strada che aveva fatto per entrare, non se la ricordava così lunga. Quando rientrò nel salone dove si era separata con gli altri, sentì le gambe cederle. Barcollò ancora per qualche passo, prima di cadere. 

Sentì Konnor chiamarla preoccupato: «Steph!»

Stephanie sollevò lo sguardo, sentendosi così grata di aver udito quella voce. Tuttavia non appena vide Konnor in ginocchio, ferito, ogni traccia di sollievo svanì. Aveva un labbro sanguinante e un sopracciglio spaccato. Talia stava ancora combattendo con Naito, ma anche lei sembrava molto provata. E soprattutto era senza l’Egida, che era finita in un angolo della sala. 

«Trovato il tuo amico?» gracchiò il mezzo demone, mentre allontanava la cacciatrice con un calcio. 

Talia ruzzolò a terra, portandosi una mano sull’addome. Si rimise in ginocchio a stento, reggendosi sulla lancia con mano tremolante. 

Naito roteò la katana e si voltò versò di Stephanie. «Sei tornata appena in tempo, piccola dea. Stavo giusto per…»

«Naito.»

Il mezzo demone tacque all’improvviso. Stephanie si voltò, appena in tempo per osservare Orochi che entrava nella stanza, l’armatura rotta che scricchiolava ad ogni suo passo. Non fece caso né a lei, né agli altri due semidei: la sua attenzione era unicamente incentrata su Naito. 

«Perché non mi hai cercato se eri ancora vivo, Naito?» domandò con voce sottile, mentre marciava verso di lui. 

Tra tutti quanti, Naito sembrava il più sconvolto. «Credevo… credevo che fossi morto…»

«Pensavi davvero che il piccolo dio mi avesse ucciso?!» tuonò l’uomo serpente, facendo sussultare Stephanie e trasalire Naito. 

«Ti aveva colpito con Ama no Murakumo, ho pensato che…»

«Che cosa? Hai pensato cosa?!»

Naito tacque. Del suo sorriso divertito, della sua arroganza e della sua spavalderia non rimase altro che il ricordo.

«Sei al corrente del fatto che il piccolo dio ha restituito la spada mentre ero ferito?» proseguì Orochi, rantolando di rabbia. 

Naito abbassò la testa, annuendo.

«E il sacrificio, Naito? Dov’è?»

Altro silenzio. La mano di Orochi si avventò attorno al suo collo. Naito gridò di sorpresa e cercò di allontanarla, ma senza risultato. 

«Dammi una ragione per non ucciderti proprio in questo momento» sibilò Orochi.

Naito strinse i denti. Sollevò la katana con la mano libera, quasi come se volesse usarla contro il suo padrone. Anche Orochi se ne accorse, perché emise una risatina roca. «Che cosa credi di fare, stupido moccioso?»

Aumentò la presa, strappando un altro grido al mezzo demone. «Sono stanco di essere deluso da te, Naito. Questa sarà la tua ultima occasione. Se mi deluderai ancora, ti ucciderò con le mie mani. Hai capito?» 

Il mezzo demone serrò le palpebre. Abbassò la spada e annuì a fatica. 

Orochi lo lasciò andare. Naito indietreggiò, massaggiandosi la gola, e strinse la presa sulla spada. Quando riaprì gli occhi, Stephanie scorse in lui un’emozione di pura rabbia. Non sembrava felice, per niente. 

«Tu… tu sei Orochi?» mormorò Talia, rimettendosi in piedi a fatica. 

L’uomo serpente si dimenticò di Naito e squadrò Talia con le sue iridi scarlatte. «Il tuo abbigliamento… sei una di loro?»

«Loro? Loro chi?» 

«Una di quelle vergini che ho sterminato poco fa.» 

Talia spalancò gli occhi. Strinse la lancia fino a far sbiancare la mano. «Stai mentendo! Non possono essere state sconfitte da un essere come te!» 

Orochi sorrise di nuovo glaciale, mostrando le macchie rosse sui suoi denti. «Ho ancora il loro sangue tra i denti, come puoi vedere. Davvero delizioso.»

Stephanie non poteva sapere cosa stesse provando Talia in quel momento. Se aveva fatto male a lei udire quelle parole, per la comandante delle cacciatrici doveva essere cento volte peggio. Era stata poco con loro, ma aveva visto quanto erano affiatate. Erano una famiglia, proprio come i semidei.

«Le famose serve della dea Artemide» continuò Orochi, passandosi la lingua sulle labbra. «Un buffet di splendide vergini, tutte giunte qui per me. Ma come sono fortunato.»

La figlia di Zeus abbassò la testa. «Sta zitto…» 

«Che succede, cucciola di dea? Ho ferito i tuoi sentimenti? Erano forse tue amiche?»

«Sta zitto!» tuonò Talia, fiondandosi su di lui.

«Talia no!» 

Stephanie cercò di fermarla, ma fu tutto inutile: la semidea si avventò sull’uomo, puntando la lancia alla sua gola. Orochi la afferrò a mezz’aria, a pochi centimetri da lui, distendendo il suo ghigno. «Patetica.» 

Talia spalancò gli occhi. Orochi la disarmò con uno strattone e le sferrò un colpo col palmo della mano, scaraventandola via. Talia rotolò a terra, gemendo per il dolore. Konnor barcollò verso di lei. «Talia!»

Orochi scrutò il figlio di Ares che si chinava accanto alla cacciatrice con disgusto. 

«Vado a riprendermi il mio sacrificio. Tu finisci questi moscerini» ordinò a Naito, per poi puntare l’indice verso di Stephanie. «Ma non lei. Lei la voglio viva. Sarà il mio prossimo pasto.» 

La figlia di Demetra sentì la pelle accapponarsi. 

«Ricorda, Naito. Deludimi di nuovo e non avrò pietà di te.»

Il mezzo demone abbassò la testa. «Hai, Orochi kyo.»  

Orochi sorrise di nuovo a Stephanie. «Ci rivedremo presto.» E detto quello, abbandonò la stanza. 

Talia grugnì, cercando di rialzarsi. «Torna qua… brutto… schifoso…» Si rimise in ginocchio, ma le gambe le cedettero. 

«Basta così, Talia. Non puoi continuare» mormorò Konnor.

«Vuoi lasciarlo andare via così?!»

Il figlio di Ares non rispose. Per Stephanie fu impossibile capire cosa pensasse.

«È inutile che ti sforzi, piccola dea» affermò Naito, puntandole contro la katana. «Ormai avete perso. Arrendetevi ora e vi prometto che vi ucciderò in fretta.»

«Naito…» lo chiamò Stephanie, distogliendo la sua attenzione dai semidei feriti. «Ho visto… il tuo sguardo, prima. Perché lo stai facendo? Perché obbedisci a quel mostro?»

Naito la soppesò per qualche istante, probabilmente domandandosi se risponderle o meno. «Perché è l’unico modo per avere quello che voglio.»

«E cosa vuoi?»

«Qualcosa che non potrà mai accadere finché gli dei esisteranno.»

Stephanie si morse un labbro. Certo che così non le era molto di aiuto. «Naito, ascolt…»

«Smettila di chiamarmi per nome. Non sei mia amica, nemmeno ti conosco. Chiudi la bocca e arrenditi. Orochi ti vuole viva, ma non ha specificato in che condizioni, perciò ti consiglio di non farmi perdere la pazienza.»

La figlia di Demetra abbassò la testa, sconfortata. Se Naito non voleva ascoltarla, l’unica opzione che rimaneva era combattere. E quell'opzione era assolutamente terribile. Sentiva ancora dolore alle costole e chissà quanti cocci di vetro le erano rimasti conficcati nella schiena. L’acqua di luna la stava aiutando a sopportare, ma da ferite così gravi occorreva tempo per guarire. Era sicura che il mezzo demone non fosse forte come Orochi, ma non poteva combattere anche contro di lui, non in quelle condizioni e soprattutto non lì dentro, dove i suoi poteri sembravano limitati. 

«Steph…» Konnor la affiancò, posandole una mano sulla spalla. «Rimani con Talia. A lui ci penso io.»

«Ma… sei ferito, Konn…»

«Non preoccuparti per me. Me la caverò.» Il figlio di Ares le rivolse un cenno del capo e un tenue sorriso. Malgrado fossero feriti e la situazione fosse critica, quel piccolo gesto riuscì ad infonderle coraggio. «Stai indietro. Non gli permetterò di portarti da Orochi.»

Stephanie esitò. Non voleva lasciarlo solo. Erano una squadra, erano più forti se erano insieme. Eppure, sapeva che se Konnor le stava chiedendo una cosa del genere, era perché aveva un piano. O almeno, lo sperava. Posò una mano sopra quella callosa di Konnor e lo osservò negli occhi. 

«Fidati di me, Steph.» Il suo amico annuì con un gesto calmo. Stephanie vide nel suo sguardo e nella sua espressione il desiderio ardente di riscattarsi. Conosceva Konnor, sapeva che non si sarebbe dato pace fino a quando non avrebbe sconfitto Naito. 

O finché non sarebbe morto provandoci.

Stephanie serrò le labbra e lo guardò con la sua stessa intensità. La stanchezza svanì dal suo corpo all’improvviso. «Ti avverto Murray, se fai qualcosa di stupido giuro che te la vedrai anche con me.»

Mai avrebbe pensato di dover dire una cosa del genere a Konnor. Sembrava più un discorso da fare con Thomas, o Edward. Al pensiero del figlio di Apollo, il cuore di Steph si strinse in una morsa. Avrebbe dovuto dire cosa gli era successo anche a Konnor, ma non poteva farlo in quel momento. Lo avrebbe fatto quando avrebbero sconfitto Orochi. 

Perché l’avrebbero fatto. 

Konnor ridacchiò. «Tranquilla, quello non rientra nei miei programmi.»

Si scambiarono un ultimo sguardo. Stephanie sentiva che c’era qualcos’altro che Konnor avrebbe voluto dirle. Anche lei in verità avrebbe voluto dirgli ancora qualcosa. Ma entrambi sapevano che non c’era più tempo. 

Il figlio di Ares si voltò e sguainò la spada, avanzando verso il mezzo demone, che era rimasto a guardarli con espressione incolore.

«Cosa speri di fare adesso, piccolo dio?» domandò a Konnor. «Mi hai già affrontato due volte e ti è andata male in entrambe. Pensi che adesso cambierà qualcosa?»

«Se credi che getterò la spugna solo perché mi hai già sconfitto, allora non hai la più pallida idea di con chi hai a che fare.» Konnor si mise in posizione da combattimento. «Non importa quante volte tu mi abbia battuto, non mi fermerò finché avrò le forze per combattere.»

«Non preoccuparti, piccolo dio. Presto non ne avrai più nemmeno per parlare!» Naito scattò verso il figlio di Ares, che parò l’affondo con un grugnito. Le armi si incrociarono e i loro sguardi pure. E così iniziò il loro scontro. 

Stephanie non era un’esperta di combattimenti, ma aveva visto i semidei allenarsi al campo Mezzosangue, ed era certa che Naito non stesse combattendo nella maniera tradizionale. I suoi movimenti, il modo in cui impugnava la katana, erano molto diversi da quelli di Konnor. Inoltre Naito non sembrava per niente provato, a differenza del semidio. Eppure, il figlio di Ares rimase comunque al suo passo.

Stoccate, parate, schivate e affondi. Nessuno dei due si risparmiò in quello che divenne in tutto e per tutto un duello all’ultimo sangue. Stephanie pensò diverse volte che avrebbe voluto aiutare l’amico, ma sapeva che lui non lo avrebbe accettato. Si ripromise, comunque, che sarebbe intervenuta se le cose si fossero messe male, non le importava quanto caro le sarebbe costato. Non era sicura di poter battere Naito, ma forse con l’aiuto di Konnor ci sarebbe riuscita. 

Mentre il duello proseguiva, corse verso di Talia, chinandosi accanto a lei. «Stai bene Talia?» 

La figlia di Zeus annuì. «Sì, sto bene… mi serve solo un momento…» Tentò di raddrizzarsi di nuovo, ma senza successo. Gemette infastidita, premendosi una mano sul fianco. 

«Ma sei ferita!»

«Non è niente… solo un graffio…»

«Fammi vedere.»

A malavoglia, Talia allontanò la mano, mostrando uno squarcio sulla tuta grigia, ancora macchiata di sangue fresco. Il taglio sembrava essersi rimarginato. 

«Hai bevuto l’acqua di luna?» le domandò. 

«Sì, ma mi fa comunque male. Non capisco perché.»

Stephanie osservò la katana scarlatta di Naito mentre veniva deviata dallo spadone di Konnor. Non era forgiata con un materiale che loro conoscevano. L’Acciaio Prezioso aveva effetti diversi su di loro. Nettare e ambrosia non erano efficaci contro le ferite che quelle armi infliggevano, o meglio, lo erano ma solo in superficie. Per guarire ci voleva molto più tempo. Reiterò l’informazione a Talia, che imprecò in greco antico. «Ci mancava solo questa…»

Un verso di dolore la fece sobbalzare. Vide Konnor cadere in ginocchio e Naito sopra di lui in procinto a calare la katana. 

«Konnor!» urlò Stephanie terrorizzata, un istante prima che il figlio di Ares si riscuotesse, parando quell’assalto dal basso. La katana rossa si fermò a pochi centimetri dal suo naso. 

Naito sghignazzò. «Speravo che almeno questa volta facessi di meglio, piccolo dio. Sono deluso.»

Konnor digrignò i denti. Spinse la spada verso l’alto con un urlo e allontanò Naito, facendolo indietreggiare di qualche passo, e riprese l’assalto. Ogni attacco andò a vuoto; Naito era veloce, aveva riflessi fulminei e soprattutto sembrava instancabile. Parò, deviò e schivò la spada di Konnor quasi senza sforzo. Il figlio di Ares sferzò l’aria, mirando di lato verso la testa di Naito e il mezzo demone lo neutralizzò ancora una volta, colpendolo con un calcio allo stomaco prima che potesse connettere.

Ancora una volta, Konnor si ritrovò piegato e boccheggiante, alla mercé del mezzo demone, che lo schernì: «Saresti dovuto fuggire finché eri in tempo, piccolo dio.»

«Un figlio di Ares… non fugge di fronte al pericolo» ansimò Konnor, raddrizzandosi. «Non importa quanto grande sia.»

«Coraggioso, devo dire» commentò Naito, roteando la katana. «E anche molto stupido.»

«Chiamalo coraggio, chiamala stupidità, io lo chiamo onore.» Konnor si passò una mano sopra il labbro spaccato. «E il mio onore mi impone di affrontarti. Se fuggissi da te, o se mi arrendessi, non sarei degno del mio genitore divino. Non sarei degno nemmeno di essere un semidio.»

«Onore. Ridicolo.» Naito scattò di nuovo verso di Konnor, muovendosi con una rapidità straordinaria. «Tu non sai niente sull’onore!»

Le lame cozzarono di nuovo tra di loro. Konnor strinse i denti, tentennando, mentre Naito allargò il ghigno. «Lascia che ti dica una cosa, piccolo dio. Non c’è nessun onore nel portare avanti le battaglie di qualcun altro. Tu non combatti per te, combatti per i tuoi dei. Non sei mosso da nulla, sei un semplice burattino!»

«Ti… sbagli» gemette Konnor, mentre la katana di Naito premeva sempre più forte come la sua. «Io non combatto solo per gli dei, io combatto per quello in cui credo. Combatto perché voglio aiutare i miei amici, perché voglio salvare il Campo Mezzosangue, perché voglio mostrare ai miei fratelli che possiamo essere persone migliori!» 

Konnor fece più forza, stringendo i denti, il sangue che scivolava dalla bocca ferita e dal taglio sulla guancia. «Io combatto per proteggere i più deboli, per mostrare a tutti che il cambiamento è possibile, per dimostrare che la mia famiglia non è quello che tutti credono che sia!» 

La sua spada cominciò a spingere via quella di Naito mano a mano che parlava, causando un ribaltamento delle parti. Naito iniziò a perdere il vantaggio sul semidio e il suo sorriso cominciò ben presto a trasformarsi in una smorfia di fatica. 

«Un vero figlio di Ares non si arrende solo perché è stato già battuto! Un vero figlio di Ares combatte finché non vince, o finché non viene vinto! Onore, gloria, sacrificio, vita e morte! Ognuno di questi aspetti fa parte della mia, della nostra vita!» 

Ora stava quasi schiacciando la spada contro il volto di Naito, il quale sembrava fare sempre più fatica a reggere il confronto. Le braccia gli stavano tremando, mentre Konnor sembrava aver acquisito una forza e una passione del tutto nuove. 

«Combatterò per proteggere quello in cui credo. Morirò pur di veder salvo ciò che i nostri avi hanno faticato per costruire. Non lascerò che tutto venga raso al suolo per causa vostra. Nessuno dimenticherà le lacrime, il sangue e il sudore versati dai semidei, nessuno dimenticherà le vite che sono state strappate prima del tempo, non finché io potrò fare qualcosa per impedirlo. Non finché noi potremo!» 

Konnor respinse la lama del mezzo demone, poi non perse un istante e si avventò su di lui. Naito non poté fare altro che arretrare di fronte all’assalto del figlio di Ares. Konnor non riuscì a ferirlo, ma per la prima volta da quando era iniziato il loro combattimento Naito apparve chiaramente come quello in posizione di svantaggio. 

«Io, i miei fratelli, mio padre, noi tutti siamo guerrieri, noi tutti lottiamo per ciò in cui crediamo, lo scontro fa parte della nostra vita e non ci vergogniamo di ammetterlo! Perciò no, Naito, non sono un burattino e non scapperò da te!» 

Gridando a perdifiato, Konnor tentò di colpirlo alla testa, un attacco che avrebbe decapitato Naito se fosse andato a segno. Il mezzo demone riuscì a schivarlo con un verso sorpreso, saltando all’indietro. Digrignò i denti e riprese fiato, osservando Konnor con odio, finché la sua espressione non mutò in una di stupore. «Ma… ma cosa…»

Konnor stava risplendendo, letteralmente, di fronte agli occhi increduli di tutti i presenti. Il suo corpo emanava un bagliore rosso, qualcosa che Stephanie non aveva mai visto prima.

«Incredibile…» sentì Talia mormorare. 

«Avanti, affrontami!» tuonò Konnor, battendosi il pugno sul petto. «Anche tu hai qualcosa per cui combattere! Vinci per la tua causa, o soccombi provandoci come un vero guerriero!»

L’espressione stupita di Naito tornò ben presto ad assumere le fattezze di una di rabbia pura. 

«Ne rimarrà solo uno…» rantolò, cavernoso, per poi lanciarsi all’attacco con un urlo disumano. 

E il figlio di Ares non lo fece attendere. Le pareti sembrarono tremare quando le spade cozzarono per l’ennesima volta. 

«Non m’importa quanti trucchetti avete intenzione di usare!» sbraitò Naito in mezzo al clangore del metallo. «Né tu né nessuno dei tuoi pidocchiosi compagni mi fermerà!»

Konnor non gli diede tregua. Stava combattendo come se il destino del mondo dipendesse da lui, con una forza ed una determinazione che mai aveva visto in nessuno, nemmeno in Edward quando utilizzava la spada. E anche Naito, dapprima spaesato dall’ondata di forza improvvisa del figlio di Ares, ora stava al suo passo, ringhiando e mugugnando come un animale furibondo. 

«Distruggerò gli dei!» bramì, quando la spada di Konnor si schiantò per l’ennesima volta contro la sua. «Vendicherò mia madre e renderò giustizia alla mia specie!»

Deviò lo spadone di Konnor con la katana, disarcionandolo. Non appena lo vide vulnerabile, Naito sollevò la lama e il suo unico occhio rosso brillò. «Dare mo watashi o tomemasen!»

Konnor lo osservò dal basso. La lama scese su di lui come a rallentatore. Stephanie fece per chiamarlo a squarciagola. Ma il figlio di Ares fu più veloce sia di lei che di Naito. Si mosse come un lampo, schivando l’attacco saltando di lato e ritrovandosi di fronte il fianco scoperto del mezzo demone. Quando Naito se ne accorse, ormai era troppo tardi. Gridò di dolore quando venne trafitto tra le placche dell’armatura. La spada gli cadde di mano, schiantandosi al suolo. Osservò atterrito il semidio. «N-No…»

«Per te è la fine.» Konnor conficcò la spada più in profondità, strappandogli un altro grido, poi la estrasse. Naito cadde in ginocchio, premendosi una mano sulla ferita.

«Non… è possibile…» boccheggiò, come in trance. «Non… posso perdere…»

Konnor rimase fermo, col fiato pesante, osservandolo severo dall’alto.

«Come… come ho potuto… farmi battere da uno come te…» rantolò il mezzo demone, raschiando le dita sul pavimento.

Il figlio di Ares storse la bocca. «Quando mi hai sconfitto la prima volta, Naito, ho capito una cosa. L’orgoglio precede la caduta.» Sembrò quasi usare un tono di rimprovero, qualcosa che Stephanie mai si sarebbe aspettata. «Sei forte, è vero, ma sei anche arrogante.»

Naito gemette, abbassando la testa e stringendo la mano libera a pugno. «Smetti di farmi la predica e finiscimi…»

Konnor rimase in silenzio, studiandolo ancora per qualche secondo, mentre la sua aura rossa si spegneva lentamente. Infine, trasformò di nuovo la spada nel portachiavi e se lo rimise in tasca. Accorgendosene, Naito sollevò la testa confuso. «Ma cosa…»

«Ti ho sconfitto. Non ho nessun bisogno di ucciderti.» Konnor si voltò. «Tu non mi hai ucciso, dopotutto. Per quello che mi riguarda siamo pari.»

Cominciò ad allontanarsi, sotto lo sguardo sempre più incredulo del mezzo demone. «Ma che stai dicendo?! Non voglio la tua misericordia!»

«Non è misericordia.» Konnor si fermò. «Capisco che il tuo orgoglio ti impedisce di accettarlo, ma ti sto dando una seconda possibilità. Non sei uno di quei mostri senza cervello, Naito. Sei per metà umano, proprio come noi. Hai più cose in comune con noi che con Orochi.» 

Il semidio lo osservò con la coda dell’occhio. «Puoi essere meglio di così. Sta solo a te riuscire a capirlo. Rifletti sulle tue azioni e se mai deciderai di volermi ancora uccidere, allora vieni pure a cercarmi. Vorrà dire che la finiremo una volta per tutte.»

Naito rimase in silenzio, con le labbra schiuse. Non sembrò riuscire a processare cosa Konnor stesse intendendo, nemmeno Stephanie stava capendo, in realtà. Tuttavia non aveva bisogno di farlo; se il suo amico voleva risparmiarlo, non sarebbe certo stata lei a tentare di fargli cambiare idea. E comunque, ferito in quel modo Naito non rappresentava più una minaccia. 

Mentre tornava verso di lei, Stephanie rimase a guardarlo paralizzata. Non aveva idea di cosa fosse successo, da dove fosse uscita quell'aura rossa, ma non aveva importanza. Era vivo e stava bene. E soprattutto aveva sconfitto Naito. 

«Va tutto bene?» domandò Konnor, raggiungendo le due ragazze. 

Stephanie trasalì quando la guardò. «Sì, va tutto bene… tu piuttosto, stai bene?»

«Mai stato meglio» affermò lui, sorridendole. «Te l’ho detto che ce l’avrei fatta.»

Stephanie incrociò i suoi occhi e ricambiò il sorriso. Sentiva, percepiva, che c’era qualcosa di diverso in lui. Ripensò a quella sera al motel, quando lui aveva ammesso per la prima volta i suoi dubbi, le sue incertezze, quando aveva detto di essere troppo orgoglioso e di aver paura che il suo orgoglio rovinasse tutto. Ora, dopo averlo visto affrontare Naito, aveva capito che ormai era tutto passato. Aveva superato i suoi blocchi. E Stephanie non poteva essere più felice. 

«Beh, ero stata chiara dopotutto» disse, avvicinandosi a lui con una mano sul fianco. «Non potevi certo fallire dopo che ti avevo minacciato.»

Konnor ridacchiò. «Assolutamente no.» 

I due semidei si osservarono ancora per qualche istante, distendendo i sorrisi. 

«Allora, hai… hai trovato Edward?» domandò Konnor, tornando serio. 

Il sorriso svanì dal volto di Stephanie. Non poteva vedere l’espressione che aveva fatto, ma a giudicare dalla reazione di Konnor fu molto ovvia.

«Mi dispiace…» mormorò lui, abbassando la testa. «Sono stato un idiota a dubitare di lui…»

«Non potevi saperlo, Konnor. Nessuno poteva» sussurrò Steph, cercando di ricacciare le lacrime, per poi stringere i pugni. Purtroppo, non era il momento per piangere un amico. Non finché il mostro responsabile di tutto quello era ancora a piede libero.  

«Dobbiamo fermare Orochi» asserì, determinata. Konnor annuì. 

Aiutarono Talia a rialzarsi, la quale, dopo qualche borbottio, affermò di riuscire a farcela da sola. 

Mentre uscivano dalla stanza, sentirono ancora la voce di Naito provenire alle loro spalle. «Non finisce qui…» 

Stephanie pensò che Konnor avrebbe risposto, ma il figlio di Ares non gli disse nulla. 

«Muoviamoci» affermò invece alle due ragazze. 

Senza perdere altro tempo, i tre ripresero a correre.

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Capitolo 35
*** Scontro finale ***



35

Scontro finale

 

 

«Credi davvero che sia stata una buona idea non uccidere quel demone?» domandò Talia, mentre proseguivano. La cacciatrice poco per volta sembrava essere riuscita a muoversi di nuovo, anche se le sue smorfie di dolore non cessarono.

Konnor sollevò le spalle. «Ha perso, ed è ferito. Non credo proprio che lo rivedremo molto presto. Anzi, non credo che lo rivedremo più.» 

«Perché lo pensi?»

«Non lo so. Dopo la sconfitta sembrava aver perso ogni volontà. Ma potrebbe essere solo una mia sensazione.»

«Da quando i figli di Ares sentono queste cose?» domandò Talia, perplessa.

Il semidio grugnì. «So solo leggere il linguaggio del corpo. Credo che in una battaglia saper leggere il proprio avversario sia fondamentale. E Naito mi ha dato l’impressione che non ci stesse più credendo veramente.» 

«Beh, mi auguro tu abbia ragione, figlio di Ares» concluse Talia.

Stephanie a malapena li sentì. La sua mente era altrove, per essere più precisi era sullo scontro con Orochi che li attendeva. Orochi stava cercando Rosa, che si trovava fuori dal museo. Se la sua teoria era esatta, una volta uscita sarebbe riuscita ad usare i suoi poteri correttamente. Strinse i pugni. Quel mostro non aveva scampo.

Quando lo avrebbero sconfitto, avrebbero potuto considerare conclusa una volta per tutte quella faccenda. Edward aveva scongiurato la guerra, ora toccava a loro finire il resto.

Il cuore di Steph si strinse in una morsa ancora una volta al pensiero dell’amico. Una volta finito tutto, sarebbero tornati a prendere il suo corpo e lo avrebbero riportato al Campo Mezzosangue. Edward non voleva essere un eroe, non agiva per la gloria o per l’approvazione degli altri e forse non gli sarebbe importato di essere ricordato o meno, ma lei lo avrebbe fatto lo stesso, perché era la cosa giusta.

Quando raggiunsero l’ingresso, Talia si fermò, osservando angosciata il corridoio che avevano preso le altre cacciatrici quando si erano separati. «Devo trovare le altre. Voi continuate, vi raggiungo appena possibile.»

Sembrò quasi implorarli di lasciarla fare. Forse pensava, o sperava, che Orochi le avesse mentito. O forse, che qualcuna di loro fosse riuscita a sopravvivere.

Konnor e Steph si scambiarono uno sguardo, senza bisogno di dire nulla. Annuirono e la cacciatrice si congedò di corsa, entrando in quell’altra ala del museo. 

«Pronta?» domandò Konnor, quando lui e Steph si trovarono di fronte all’ingresso. 

Stephanie annuì. «Pronta.»

Il figlio di Ares la soppesò con lo sguardo un’ultima volta. Nonostante l’aura rossa fosse scomparsa, la passione e il coraggio nei suoi occhi ancora ardevano. A Stephanie bastò guardarli per quel breve istante per capire che non avrebbero fallito. 

«Allora andiamo» disse Konnor.

I due compagni corsero fuori.

 

 

***

 

Stephanie si aspettava che le cacciatrici rimaste a guardia di Rosa stessero già affrontando Orochi. Ciò che si ritrovò di fronte, invece, fu molto diverso.

Una vera e propria guerra stava svolgendosi di fronte al museo, con le cacciatrici e i romani accerchiati da decine e decine di mostri orripilanti, che convergevano tutti verso il parco dove Rosa era stata lasciata. I mortali presenti stavano scappando terrorizzati, forse scambiando il tutto per una guerra tra bande o chissà cosa. Di Orochi, però, non c’era nessuna traccia. 

«Ripiegate!» urlò la cacciatrice rimasta al comando, Kowalski, mentre conficcava un dardo nella fronte di uno strano mostro anfibio. Una donna senza testa la attaccò alle spalle, ma la giovane si voltò in tempo, conficcandole un pugnale argentato nel petto. «Ma che razza di creature sono queste?!»

«Dannazione!» esclamò Konnor, sguainando la spada e correndo giù dalle scale per dare manforte. «Andiamo!»

Stephane non si fece attendere. Mentre correva percepì le proprie forze ripristinarsi, segno che la sua teoria sul museo era esatta. 

«Va da Rosa, io aiuto le altre!» esclamò Konnor, con la sua migliore interpretazione di generale di battaglia. Si separò da lei e si gettò nella mischia, spazzando via i mostri a fendenti di spada, affiancando le cacciatrici di Artemide rimaste braccate.

La figlia di Demetra corse verso il parco, schivando le cacciatrici intente a respingere donne con il corpo di serpente, mostri anfibi, oni e una miriade di altre creature che non sarebbe nemmeno riuscita a descrivere, tra le moltitudini di tentacoli, occhi giganti e quant’altro. Chiamò la vegetazione del parco a comando. I ciuffi d’erba esplosero in una foresta, afferrando ogni mostro che si trovava in quel momento su quel suolo e scaraventandolo via o schiacciandolo. In mezzo a quel trambusto, Stephanie riuscì a scorgere i due romani. 

«Ma da dove sono sbucati questi?!» sbraitò David, eliminando un mostro con il gladio, mentre il suo compare Travis ne stendeva un altro sbattendogli uno scudo in testa. «Qui si mette male amico!»

«Ragazzi!» esclamò raggiungendoli. «Dov’è Rosa?»

«La bella addormentata?» domandò Travis, indicando poi il suo corpo immobile a qualche metro di distanza da loro. 

Le tre kamaitachi le saltellavano attorno, mutilando, dilaniando e squartando accompagnate da una folata di vento ogni mostro che tentava di avvicinarsi. Una specie di strano essere con le gambe corte e le braccia lunghe si ritrovò prima senza le braccia e poi senza le gambe quando tentò di afferrare la ragazza. 

David si infervorì. «Quei tre mostri per poco non facevano fuori pure noi! Siete davvero sicuri che siano dalla nostra parte?!»

Stephanie non fu molto sicura di cosa rispondere. Se non altro non doveva preoccuparsi di Rosa.

All’improvviso, delle pozze nere si formarono tutto attorno a loro, dalle quali altri oni sbucarono con denti e artigli sguainati, circondandoli. 

«Continuano ad arrivare!» ululò il fauno, Gus, che se ne stava rintanato dietro il cespuglio con le mani sopra la testa. 

Stephanie strinse i denti. Tutto quello non aveva alcun senso, credeva che Edward li avesse già uccisi tutti!

Mentre gli oni si avvicinavano a loro, Steph puntò le mani per respingerli, ma una coltre di fiamme blu li investì prima che potesse fare niente. 

«Resisti giovane semidea!» 

Non appena sentì quella voce nella sua testa, Steph sentì il cuore riempirsi di gioia. Fujinami arrivò come un lampo, incenerendo i mostri e atterrando accanto a lei. 

«Fujinami!» esclamò sollevata. «Dove sono gli altri?»

«Ci siamo persi di vista in questa confusione, ma stavano tutti bene. Voi invece?»

Stephanie si rabbuiò. «Stiamo bene, ma abbiamo incontrato Orochi. È ancora vivo.»

Il qilin pestò lo zoccolo a terra, reazione che ormai Stephanie conosceva bene. «Come temevo. Bevendo il sangue della vergine è diventato più potente, la ferita che Edward gli ha inflitto non è bastata. Ma se non berrà altro sangue possiamo ancora fermarlo.» 

«E… nel caso in cui invece abbia bevuto altro sangue?»

Fujinami si voltò di scatto verso di lei, vivisezionandola con gli occhi. Se solo la situazione non fosse stata così caotica, Steph avrebbe perfino provato vergogna. «Se ha bevuto altro sangue allora è diventato ancora più potente, ma finché non completerà il sacrificio abbiamo una possibilità di sconfiggerlo. Dobbiamo proteggere la vergine ad ogni costo, in caso contrario non ci sarà più nulla che potremo fare.»

Stephanie fece un cenno di assenso. Non aveva idea di quanto potente fosse Orochi in quel momento, ma se avessero combattuto tutti insieme era convinta che avrebbero potuto sconfiggerlo.

Altre pozze nere comparvero lungo il campo di battaglia, dalle quali altri mostri sbucarono fuori, dando manforte ai loro compagni. Alcuni di loro si avventarono anche su di lei e Fujinami. Nonostante fossero tanti, i mostri erano goffi, lenti, impacciati e attaccavano con rozzi movimenti meccanici. Lei e Fujinami se ne sbarazzarono con facilità, ma il vantaggio numerico su di loro era comunque troppo; guardandosi attorno, Steph notò decine e decine di cacciatrici ferite e circondate.  

«Fujinami, dobbiamo aiutarle!»

Il qilin capì subito cosa voleva dire e annuì, scattando verso di loro, facendosi strada con le sue fiamme. 

Stephanie si voltò verso di David. «Rimanete con Rosa, noi aiutiamo le cacciatrici!»

David annuì. «Bonam fortunam.»

La semidea corse in mezzo alla battaglia, eliminando ogni mostro che capitava a tiro con i suoi rampicanti. Tuttavia erano troppi e la stanchezza per l’utilizzo così prolungato dei suoi poteri cominciava a farsi sentire. Una voce sovrastò il rumore della battaglia, potente come un tuono. «Non vi arrendete!» 

Un mostro cadde a terra con uno squarcio sul petto. Steph vide Reyna torreggiare su di lui, brandendo la sua lancia. «Respingiamoli!»

Tutte le cacciatrici sembrarono animarsi all’unisono. Perfino Stephanie sentì una scarica di energia percorrerle il corpo. Piantò una mano a terra e gridò. Decine di radici spaccarono l’asfalto, afferrando ogni mostro che capitò a tiro e stritolandolo fino alla morte. 

«Porca vacca, Steph!»

Stephanie si voltò verso la persona che aveva appena parlato e vide Thomas, armato del suo falcetto, che la osservava incredulo in mezzo ad un gruppetto di yōkai uccisi dalle radici. Le sorrise smagliante, sollevando il pollice. «Bel colpo!»

La ragazza ricambiò il sorriso, mostrando il pollice a sua volta, accorgendosi però di una specie di mostro tartaruga che lo attaccò alle spalle. Sgranò gli occhi. «Girati Tommy!» 

Prima che Thomas riuscisse a reagire, Lisa si frappose tra lui e il mostro, conficcandogli un pugnale nel collo e spingendolo via con un calcio. Si voltò verso il compagno adirata. «Quante volte dovrò ancora salvarti la pelle, tonto figlio di Ermes?»

«Ehm… scusa…»

Stephanie corse verso di loro. «Ragazzi!» 

«Steph!» Lisa sorrise. Aveva gli occhi e le guance arrossate e uno sguardo spiritato. «Come butta?»

La figlia di Demetra schiuse le labbra. Era... ubriaca? Scambiò uno sguardo con Thomas, che le fece cenno di rimandare la conversazione a più tardi. Altri mostri li attaccarono e i tre semidei si voltarono, mettendosi schiena contro schiena per eliminarli. 

«Si può sapere che sta succedendo qua?!» protestò Thomas, sbarazzandosi di una terrificante donna con la testa di mollusco. «Da dove saltano fuori tutti questi mostri?!»

«Non lo so, ma non possiamo fermarci!»

Lisa sgozzò un oni, spingendolo addosso ad altre creature che si stavano avvicinando. «Più facile a dirsi che a farsi!» 

I mostri cominciarono a farsi troppi, perfino per loro tre. Stephanie cominciò a credere di essere finita in trappola, quando un tornado improvviso si sollevò in aria, circondando lei e i suoi amici, ed ogni mostro che tentò di avvicinarsi fu fatto a brandelli. Le tre kamaitachi apparvero sulle spalle di Lisa e Tommy, battendosi le zampe. Non importava quante volte li avesse visti in azione: Steph non sarebbe mai riuscita ad abituarsi alle loro abilità.

«Ben fatto, ragazzi!» si complimentò Tommy, per poi indicare il resto dei mostri. «Forza, diamogli una bella lezione!»

Le kamaitachi svanirono in un’altra corrente d’aria, che si lasciò dietro una pila di corpi al proprio passaggio. Per fortuna, al loro passaggio risparmiarono le cacciatrici. Atterrarono accanto a Fujinami, che aveva appena finito di incenerire un altro nutrito gruppo di creature. 

«Che onore averci degnati della vostra presenza» li schernì, ottenendo dei versacci in risposta.

Le quattro creature orientali corsero in mezzo ai mostri, spazzandoli via come foglie al vento. Nonostante le antipatie, erano una combinazione parecchio letale.

Un urlo di guerra si levò in mezzo alla battaglia. Con un lungo salto, Konnor si avventò su un oni dilaniandolo. Si voltò e altri tre mostri vennero affettati, più un quarto che venne decapitato. 

«Forza!» tuonò il figlio di Ares, prima di trucidare le altre malcapitate creature che gli capitarono a tiro. «Per Ares! Per gli dei!»

Per un momento, Stephanie rimase paralizzata ad osservarlo. Era incredibile. Il modo in cui si muoveva, evitava gli attacchi, parava e schivava, ogni cosa era immacolata. Nonostante fosse uno spettacolo da vedere, però, non poteva distrarsi. Riportò la sua attenzione sui mostri e continuò a respingerli.

I loro sforzi cominciarono a dare i loro frutti e i mostri cominciarono a sfoltirsi. Dapprima divisi e circondati, i semidei ripristinarono l’ordine, e gli yōkai smisero di comparire. Quando l’ultimo gruppetto venne eliminato, le orecchie di Stephanie ormai abituate al baccano di prima faticarono ad accettare tutto quel silenzio. Molti di loro continuarono a guardarsi attorno, ansiosi, ma non appena fu chiaro che nessun mostro sarebbe più apparso, riuscirono a tranquillizzarsi. 

La cacciatrice Kowalski si passò una mano sulla fronte, tirando un grosso sospiro di sollievo. «C’è mancato poco…»

«State tutti bene?» domandò Reyna, marciando tra la folla senza un graffio e senza tracce di stanchezza. 

A Stephanie sarebbe piaciuto sapere come facesse ad essere sempre così impeccabile. Reyna ordinò ad un gruppo di ragazze di occuparsi dei feriti, e ad un altro di far allontanare tutti i mortali che ancora si aggiravano ignari. 

Mentre le cacciatrici si sparpagliavano, chi mettendosi a tamponare ferite e chi correndo verso mortali armati di fotocamera che si avvicinavano, Reyna si voltò verso Stephanie. «Dov’è Talia?» 

«È rimasta nel museo, a cercare le altre cacciatrici.» 

«Ci sta mettendo troppo» mugugnò Reyna con tono nervoso. 

Anche Stephanie cominciò ad agitarsi. Non solo Talia era rimasta indietro, ma Orochi era ancora vivo. Quella faccenda non era ancora finita. I mostri non erano altro che l’inizio.

«Ma che bel lavoro che avete fatto.» Una voce si alzò all’improvviso. Stephanie sentì la schiena formicolarle. Si voltarono tutti verso le scale del museo, dove si trovava proprio Orochi, armato di una katana. Inginocchiata accanto a lui, tenuta per i capelli, c’era Talia. 

Versi sorpresi si sollevarono tra le cacciatrici. Alcune sollevarono le armi, ma Orochi tirò Talia per i capelli, strappandole un gemito, e avvicinò la katana alla sua gola. «Ah-ah-ah. Niente scherzi, fanciulle. Non vorrete mica che la vostra amichetta si faccia del male.»

«Maledizione…» disse Fujinami, irrigidendosi. 

Lisa serrò le labbra, mentre Thomas impallidì. «Q-Quello è…»

«Lasciala andare!» ordinò Reyna muovendosi in prima fila, ritrovandosi a valle delle scale mentre Orochi continuava a scendere gradino dopo gradino, trascinandosi dietro Talia. La figlia di Zeus aveva il volto insanguinato, coperto di tagli e lividi. Mai Stephanie avrebbe pensato di vederla ridotta così. Nessuno di loro lo avrebbe mai pensato. 

«Posate le armi» ordinò Orochi, facendosi serio. Sollevò Talia, e la strinse a sé trattenendola con un braccio attorno al collo. «Obbedite.»

Reyna strinse i pugni. Avevano tutti le mani legate. Fece un cenno della testa a Kowalski, che teneva la balestra puntata sull’uomo. Con molta riluttanza, la ragazza abbassò l’arma e lo stesso fecero tutte le altre. 

«Brave. Obbedite, servette» sibilò Orochi, continuando ad avanzare. 

Si ritrovò faccia a faccia con Reyna, che mantenne i nervi saldi. 

«Yamata no Orochi» mormorò la cacciatrice. «Vero?»

Orochi sogghignò. «Sono solo Orochi, al momento.»

«Che intenzioni hai?»

L’uomo serpente fece scivolare lo sguardo su tutti i presenti, soffermandosi in particolare su Stephanie, distendendo il ghigno. Riportò l’attenzione su Reyna. «Il mio sacrificio. Lo rivoglio.»

Reyna si voltò indietro, verso il parco, dove David, Travis e Gus se ne stavano nascosti dietro il cespuglio. 

«Non ti consegneremo Rosa» affermò con decisione, tornando a guardarlo. 

«Allora la vostra amica morirà.» Orochi strinse la presa attorno alla gola di Talia, strappandole un altro gemito. Era sveglia, ma immobile.

«Non… pensare a me Reyna…» mugugnò la figlia di Zeus. «È tutta colpa mia… uccidetelo…» 

«Talia…» sussurrò Reyna.

«Spostatevi» ordinò Orochi, cominciando a camminare. Passò accanto a Reyna, che rimase immobile, impotente.

Le cacciatrici non poterono fare nulla mentre si dirigeva verso il parco, non con Talia come suo ostaggio. 

«Voi» gracidò Orochi, quando raggiunse i greci. Si accorse di Stephanie e Konnor e ridacchiò. «Naito mi ha deluso di nuovo, a quanto pare. Tuttavia, questa volta la sua incompetenza…» Strinse la presa su Talia, facendola gemere. «… mi è stata di grande aiuto.»

La figlia di Demetra sentì la terra tremolare sotto di lei, mentre osservava l’uomo con furia crescente. Orochi tornò serio, reggendo il suo sguardo. «So cosa sei in grado di fare, cucciola di dea. Non provarci, altrimenti…» Avvicinò la punta della katana al volto di Talia, graffiandola. 

La cacciatrice gemette di nuovo, ma strinse i denti ed osservò Steph mentre il sangue fresco colava lungo la sua guancia. «Uccidilo Steph… uccidilo…» 

Steph si irrigidì, ma non rispose. Si limitò a squadrarlo con quanto odio aveva in corpo. Orochi ridacchiò, studiando gli altri semidei. Thomas non si mosse, reggendo lo sguardo con lui. Konnor fece lo stesso, stringendo la presa sullo spadone. Lisa tirò su con il naso, ma non batté ciglio. 

Toccò a Fujinami, che sbuffò sonoramente dalle narici. 

«Ci rincontriamo, qilin» commentò Orochi, ridacchiando ancora una volta. Gli disse qualcosa in giapponese e il qilin non sembrò prenderla bene. 

«Uccidetelo… uccidetelo…» continuò a mugugnare Talia, come in trance, mentre Orochi proseguiva verso di Rosa.

Stephanie era certa che tutti sapevano cosa sarebbe successo. Sapevano che avrebbe ucciso Talia non appena avrebbe avuto quello che voleva. Eppure, nessuno sembrava in grado di trovare il coraggio per fare qualcosa. Erano tutti immobili, paralizzati, aggrappati alla vana speranza che davvero Orochi la risparmiasse, troppo spaventati per intervenire e causare la potenziale morte di una semidea tanto importante.

Quando Orochi camminò sul prato, Stephanie percepì una scarica elettrica pervaderle il corpo. Era nel suo territorio, ora. Doveva essere veloce e precisa.

David, Travis e Gus si spostarono immediatamente, con il fauno che gemette spaventato, nascondendosi dietro gli altri due.

«Patetici» fu l’unico commento di Orochi. David abbassò la testa, cupo in volto.

Infine, l’ultimo baluardo di resistenza: Kensuke, Nagata e Sato, che erano ritornate proprio a proteggere Rosa. 

«Questo è il motivo per cui non ho kamaitachi nel mio esercito» gracchiò Orochi, mentre Kensuke sibilava contro di lui, le zampine che formicolavano. 

«Siete solo delle sporche mercenarie.» Orochi calciò Kensuke, che fu scaraventato via. Sato e Nagata strillarono furibondi e si avventarono su di lui. 

«NO!» urlò Thomas, tendendo una mano verso di loro. 

Con un veloce movimento del braccio Orochi le scacciò entrambe, scaraventandole a terra, tramortendole. Stephanie sgranò gli occhi. Era la prima volta che vedeva qualcuno reagire in quel modo alle kamaitachi. 

«Molto bene, cuccioli di dei.» Orochi si voltò, dando le spalle a Rosa, osservando tutti i presenti distendendo il proprio ghigno. «È stato un vero piacere arrivare fino a qui insieme a tutti voi. Ora, però, dovete scusarmi. Ho degli dei da...»

«Davvero… pensi sia la cosa più saggia?» domandò David all’improvviso, sollevando le mani. 

Tutti quanti, nessuno escluso, osservarono il semidio. Perfino Orochi, che ormai li aveva abituati a quella sua espressione beffarda, lo squadrò sbigottito. «Come prego?»

«David… David che diamine fai?!» protestò Gus, prima che Travis gli posasse una mano sulla bocca. 

«Insomma… affrontare gli dei… da solo… disarmato, da quanto ho capito…» David proseguì, cercando di sorridere accomodante, anche se la sua sembrò più una smorfia di dolore. «I-Insomma… sembra un po’… avventato, no?»

L’uomo serpente rimase con le labbra schiuse. «Ma parli seriamente?»

«E-Ehi, io cerco di essere razionale… forse… forse dovresti… ecco… ritirarti ancora per un po’… riposarti…» David accenno allo squarcio sul suo volto. «I-Insomma, n-non è che hai una bella cera, ecco…»

Orochi piegò la testa. Sbatté le palpebre un paio di volte. Era come se non riuscisse a mettere il semidio a fuoco. Ma soprattutto, incredibilmente, sembrava perfino che stesse valutando le sue parole.

«I-Insomma, certo, sì, ora sei molto potente, sei potentissimo, certo, però… però magari tra qualche annetto… sei ancora più in forma e… e magari a quel punto puoi uccidere gli dei senza problemi, no?»

«Ha la lingua ammaliatrice…» mormorò Konnor, incredulo. Tutto quello pareva perfino più surreale di tutto ciò che era accaduto fino ad allora.

«M-Magari… lasci andare Talia… così almeno… nessuno… ehm…» Il figlio di Venere si interruppe, faticando a continuare.

«No, no, non ti inceppare…» mugugnò Lisa.

«A-Ahm… ehm…» David sollevò le spalle, sorridendo come un ebete. Il resto delle frasi che pronunciò furono dei mugugni sconnessi. «E-Ehm… e… eh?»

Orochi sbatté le palpebre ancora una volta, poi scrollò la testa, riscuotendosi. Si massaggiò la fronte, poi trafisse David con un’occhiata più tagliente di un coltello. «Va bene. Adesso ti ammazzo.»

«AGH!» 

Il romano sembrò in procinto di svenire. Ciò che non poteva sapere, però, era quanto fosse importante il tempo che aveva appena fatto guadagnare a tutti loro, a Steph in particolare. Prima che Orochi potesse muoversi, i ciuffi d’erba crebbero a dismisura e lo afferrarono per braccia, gambe, busto e collo, facendogli perdere la presa su Talia e sulla spada, immobilizzandolo. L’uomo fece un verso sorpreso e cominciò a dimenarsi, per poco non strappandosi tutti gli steli di dosso. Stephanie strinse i denti, puntandogli contro entrambe le mani per tenere il controllo sull’erba. Non sarebbe riuscita a trattenerlo ancora a lungo. «Attaccate ora!» 

Fortunatamente Konnor e Lisa colsero subito l’opportunità, partendo all’attacco. L’uomo serpente urlò furibondo, liberandosi dagli steli con uno strattone. Rotolò a terra e afferrò la spada, parando l’attacco di Konnor. 

«Fuori dai piedi!» urlò, allontanando il semidio facendo pressione sulla lama, per poi colpire Lisa con il dorso della mano libera, ricacciandola indietro. 

Qualcosa forò l’aria, e l’uomo serpente afferrò una freccia al volo, un istante prima che gli affondasse in un occhio. Altre frecce volarono verso di lui. Orochi ne schivò alcune, altre rimbalzarono contro l’armatura, altre ancora invece riuscirono a penetrarlo dove Stephanie aveva distrutto le placche metalliche. Gridò di dolore e se le strappò via con gesti decisi, incurante della carne che si lacerava.

Fujinami passò accanto a Stephanie come un proiettile, seguito da Reyna e altre cacciatrici. Tutti si gettarono contro quell’essere disumano, che ruggì con maggiore ferocia. Stephanie continuò ad intralciarlo con i suoi poteri, mentre colpi di lancia, gladio, frecce e fuoco si abbattevano su di lui, in un turbinio di urla, clangori metallici e fiamme. 

Reyna conficcò la punta della lancia nel fianco di Orochi, in un punto in cui l’armatura si era rotta. Alle sue spalle, Lisa gli conficcò un pugnale nella schiena e subito dopo venne travolto dalle fiamme di Fujinami.

Orochi urlò, destreggiandosi come meglio poteva in mezzo a quella zona sismica di cacciatrici, semidei e qilin furibondi. Konnor tentò di mozzargli la testa, ma Orochi parò ancora una volta l’attacco a mezz’aria, beccandosi lo stivale del figlio di Ares contro il ginocchio, seguito da una gomitata che gli riaprì la ferita sul volto. 

«Porco schifoso!» tuonò Lisa, ferendolo alla gola con i pugnali, mentre Kowalski lo caricava di lato, trafiggendolo all’altro fianco. 

«Che succede, “solo Orochi”, non ridi più ora?!» 

L’uomo barcollò all’indietro e fu travolto in pieno da Fujinami, che gli schiantò il corno sullo stomaco, spedendolo a terra. Cercò di rialzarsi, ma Konnor gli fece cambiare idea sferrandogli un calcio sul volto, ribaltandolo. Stephanie lo immobilizzò, dando l’occasione a Reyna di finirlo, ma Orochi si dimenò, strappandosi l’erba di dosso e rotolando di lato, evitando la lancia di Reyna che mirava al suo cuore, sempre se ne aveva uno. 

Si rimise in piedi, in tempo per essere accolto da altre frecce. Le cacciatrici armate di arco lo bombardarono ogni volta che riusciva ad allontanarsi o a respingere uno dei combattenti a distanza ravvicinata. L’uomo serpente muggì furibondo, staccandosi anche quelle di dosso, prima di essere di nuovo circondato da Reyna, Fujinami, Lisa, Konnor, Kowalski e un’altra mezza dozzina di cacciatrici. Orochi era potente, era veloce, era resistente, ma stava venendo schiacciato sotto il peso incessante di quegli attacchi. 

In mezzo allo scontro, David, Travis e anche Tommy si occuparono di portare in salvo Rosa, Talia e le kamaitachi, pericolosamente vicine alla battaglia che infuriava. Per quanto goffi fossero i due romani, Stephanie doveva ammettere che ce la stavano comunque mettendo tutta. Riuscirono a portale dietro di lei, dove le adagiarono a terra.

«Siete solo esseri inferiori!» gridò Orochi, così forte che la terra sembrò tremare. Si alzò in piedi in mezzo alla calca di guerrieri e saltò in aria, fuori da quella cerchia, atterrando ad una ventina di metri di distanza da tutti loro. 

Cadde in ginocchio, tenendosi una mano su una ferita al petto mentre rantolava di fatica. Non solo l’avevano ferito, ma gli avevano anche rimosso quell’aura di invulnerabilità che aveva attorno. Orochi non era un dio, non era immortale, era un mostro come un altro e la consapevolezza di esserlo lo stava spaventando. Si rimise in piedi barcollando e serrò la mascella. «Non verrò sconfitto da dei parassiti! Koko ni kite!»

Con enorme sgomento, Stephanie osservò altre pozze nere apparire sul suolo. Un altro esercito di mostri apparve di fronte a loro, almeno un centinaio di esseri orribili che circondarono Orochi, il quale tornò a sorridere trionfante. «Pensavate davvero che non mi fossi preparato?!»

Thomas estrasse il falcetto dallo zaino. «Accidenti…»

«Ancora?!» sibilò Lisa, sollevando i pugnali. «Ma quanti ce ne sono?!»

Orochi indicò il gruppetto, distendendo il ghigno. «Mina o korosu!»

Non occorreva sapere il giapponese per capire cosa avesse detto. I mostri attaccarono e Stephanie utilizzò i suoi poteri per intralciarli. Alcuni di loro rimasero intrappolati nei rami, altri riuscirono a passare, venendo eliminati con facilità. Proprio come prima, i loro movimenti erano lenti e grossolani, rendendoli semplici avversari. Tuttavia, non appena i loro corpi si dissolvevano nel terreno, altre pozzanghere di oscurità apparivano, rigettandoli fuori. 

Nel giro di pochissimi istanti i mostri riuscirono a rompere le loro righe, facendosi largo tra i combattenti, morendo sotto i colpi delle loro armi ma continuando a riapparire subito dopo, di fatto rendendo inutili tutti i loro sforzi.

Stephanie perse di vista tutti i suoi compagni, rimanendo da sola a proteggere i corpi privi di sensi di Rosa, Talia e le kamaitachi. Sentì tutte le sue forze abbandonarla mentre evocava la natura per difendere i suoi compagni. Da sola riuscì ad arrestare la carica di buona parte dei mostri, ma erano troppi perfino per lei, e tenerli a bada la costrinse a restare immobile mentre una battaglia su cui non poteva avere alcun controllo infuriava ovunque guardasse.

«Ma che sta succedendo?!» gridò una cacciatrice, quando l’ennesima creatura si rigenerò di fronte a loro.

La voce di Fujinami risuonò nella mente di Stephanie all’improvviso. «Come ho fatto a non pensarci prima? Deve essere opera di un nekomata!»

«Un… cosa?!» domandò Stephanie, afferrando con un rampicante una specie di uomo uccello con il naso enorme e scaraventandolo via.

«Non c’è tempo per le spiegazioni! Dobbiamo trovare un gatto con due code e ucciderlo, altrimenti i mostri continueranno a tornare!»

Stephanie era così abituata al suo linguaggio aulico e criptico che sentirlo arrivare dritto al punto per una volta la colse di sorpresa. Se non altro era stato chiaro. Purtroppo però, cercare la creatura menzionata dal qilin non sarebbe stato facile in mezzo a quella battaglia.

«Morite cuccioli di dei!» gridò Orochi, avanzando insieme al suo esercito, scagliandosi contro ogni cacciatrice che capitava a tiro. Le ragazze non poterono nulla contro di lui. Alcune cercarono di difendersi, cavandosela con qualche ferita, altre non si rialzarono più dopo essere state colpite dalla sua katana. Guerriere con secoli e secoli di esperienza di battaglie caddero sotto i suoi colpi, alimentando il suo sorriso sadico. «Non sareste dovute venire qui, servette!»

Una cacciatrice in ginocchio tentò di barcollare via da lui, venendo trafitta alla schiena. Orochi si passò la mano sporca del sangue della giovane sul petto, ridendo. Reyna si avventò su di lui, urlando furibonda. L’uomo parò la lancia della figlia di Bellona e roteò la lama, disarcionandola. Sferzò l’aria e Reyna indietreggiò, ma la katana raggiunse comunque il suo volto. La ragazza cadde a terra tenendosi una mano sulla ferita, gridando di dolore. Orochi sorrise, sollevando la katana imbrattata del suo sangue scarlatto. «Muori!»

Kowalski si frappose tra di loro all’improvviso, parando la katana con la sua spada. Strinse i denti, le braccia che le tremavano per la fatica. «Sta’ lontano da lei!»

Orochi rise e la respinse con un calcio allo stomaco. Kowalski indietreggiò, piegata in due. Strinse i denti e gridò furibonda, raddrizzandosi e sollevando la spada, ma l’uomo fu più veloce: con un gesto secco conficcò la katana nello stomaco della cacciatrice, che spalancò la bocca in un urlo di dolore muto. Del sangue le scivolò dalle labbra, mentre osservava Orochi con occhi vitrei. 

«Sparite dalla mia vista.» L’uomo ritirò la katana e le sferrò uno schiaffo, scaraventandola a terra. 

Stephanie inorridì. Era successo tutto così in fretta, non aveva nemmeno avuto il tempo di pensare. Kowalski era morta di fronte a lei, perché aveva cercato di difendere la sua amica. Si era sacrificata pur di salvare Reyna. 

Vide Orochi avvicinarsi alla figlia di Bellona, ancora a terra, prima che una decina di mostri si parasse di fronte a lei, oscurandole la visuale.

«Toglietevi di mezzo!» Una selva di rampicanti li immobilizzò, trafiggendoli e scagliandoli via, ma altri continuavano a prendere il loro posto. Stephanie faticava sempre di più a tenere a bada tutte quelle creature. Ne aveva immobilizzati a decine, ma molti altri erano ancora liberi, e stavano schiacciando i suoi compagni. 

In un angolo della sua mente, sentiva il grido della natura ordinarle di liberarla, ma fu costretta a stringere i denti e ignorarlo. Non poteva perdere il controllo, non lì, non con tutti i suoi amici attorno a lei e una città intera che la circondava. 

Sempre più affannata, cercò Reyna con lo sguardo e si accorse di Konnor intento ad affrontare Orochi. Le loro spade si incrociarono più e più volte, ma lo scontro stava volgendo in favore dell’uomo serpente. 

Konnor indietreggiò, schiacciato dai violenti attacchi di Orochi, parando e schivando la katana al meglio delle sue capacità. Anche Lisa giunse all’improvviso in aiuto del semidio, ma nemmeno i loro sforzi combinati furono sufficienti. 

«Non potete uccidermi, piccoli dei!» esclamò Orochi, colpendo Lisa con l’elsa della spada e scaraventandola a terra. Konnor gridò e dimenò lo spadone, ma Orochi lo schivò e lo afferrò per il collo, sollevandolo da terra. 

«Lascialo andare!» Nella periferia del suo campo visivo, Stephanie scorse Thomas che si avventava su di Orochi, falcetto alla mano. 

«Volentieri!» rispose l’uomo, scaraventandogli addosso Konnor. Tommy fu investito in pieno. I due semidei rotolarono a terra e il falcetto di Thomas schizzò in aria e precipitò a pochi metri di distanza da Stephanie. Orochi rise torreggiando su entrambi, roteando la katana.

Stephanie inorridì al pensiero dei suoi amici che cadevano per mano di quell’essere. Nonostante la fatica, puntò una mano verso Orochi per evocare altre piante, ma qualcosa la colpi di fianco, facendola ruzzolare sulla strada. Un oni era riuscito ad avvicinarsi a lei e la stava osservando con un sorriso maniacale. Agitò le dita e strillò così forte da farle male alle orecchie, per poi attaccarla. La figlia di Demetra cercò di evocare altri rampicanti, ma qualcuno si mosse più rapidamente. Una figura sottile si frappose tra di loro, amputando un braccio all’oni con il falcetto di Tommy. 

La semidea schiuse le labbra, non credendo ai suoi occhi. «Rosa!»

Rosa si voltò verso di lei. Era pallida come un lenzuolo e aveva uno strano sguardo, ma era sveglia, e stava bene. Le rivolse un cenno della testa, poi si avventò contro l’oni con un grido furibondo, ricacciandolo indietro. Combatté come una furia, ogni fendente era di precisione millimetrica, come se non fosse mai stata fuori combattimento. Si unì alla battaglia falcidiando mostri a destra e manca, aiutando le cacciatrici in disperato bisogno di rinforzi. 

Nonostante si rigenerassero, i mostri non avevano alcuna speranza contro di lei. Stephanie non l’aveva mai vista combattere, ma aveva sentito alcune storie su di lei e sul fatto che all’arena del Campo Mezzosangue tutti ne fossero intimoriti, e ora riusciva a capirne il motivo. Si muoveva come un fulmine, ogni suo colpo andava a segno con precisione, senza lasciare nessuno scampo. 

Un urlo terrificante provenne da Orochi. Stephanie si voltò, accorgendosi di un turbinio d’aria che si era sollevato attorno a lui, così forte da far crepare l’asfalto. Una miriade di tagli e ferite composero un mosaico sul suo volto già deturpato. Si coprì con le braccia, procurandosi altri tagli nei punti dove l’armatura non lo copriva. Non appena la corrente cessò, Kensuke, Nagata e Sato apparvero di fronte a lui, tutte e tre con il pelo arricciato, le lame sguainate e un’aria davvero, davvero, arrabbiata. 

Orochi si ripulì il sangue che scivolava dalle labbra, digrignando i denti. Le kamaitachi svanirono di nuovo nell’aria, così veloci da essere invisibili. Le urla di Orochi seguirono quello scontro furibondo tra orientali. Decine e decine di altri tagli si aprirono sul suo corpo, ma ancora una volta Orochi riuscì a respingerle con un gesto del braccio, scaraventandole via. 

Una coltre di fiamme blu lo investì, facendolo muggire infastidito. Anche Fujinami giunse in aiuto, correndogli attorno e circondandolo con un muro di fuoco. Le kamaitachi tornarono ancora una volta, alternandosi con in qilin in una scarica letale di lame e fiamme. Ma per quanto si sforzassero, nemmeno loro sembravano in grado di fermare Orochi. E in tutto il resto del campo di battaglia, le cose non si stavano mettendo affatto bene. 

Reyna, Lisa, Konnor e Thomas si stavano rialzando a fatica, mentre le cacciatrici e i romani, nonostante l’arrivo di Rosa, erano comunque in estrema difficoltà. 

Ancora a terra, Stephanie strinse i denti. Tutti quanti stavano combattendo allo stremo delle loro forze, le cacciatrici in inferiorità numerica, i romani inesperti, i suoi amici che fronteggiavano un mostro millenario in grado di spazzarli via tutti, Rosa appena svegliatasi da un coma. Tutti stavano dando del loro meglio, e lei non sarebbe stata da meno. 

Si rimise in piedi a fatica, con le gambe che tremavano. Strinse i pugni e chiuse gli occhi, concentrandosi profondamente. Era esausta, ma non si sarebbe fermata. A costo di morire per la fatica, lei avrebbe aiutato i suoi compagni. Avrebbe sconfitto Orochi. 

Sentì il grido della natura e sussultò.

Madre, sorella… vi prego, aiutatemi a controllarlo.

Aprì gli occhi e spalancò le braccia. Urlò a perdifiato, attingendo a tutte le sue forze, richiamando ogni ciuffo d’erba di quel parco, ogni radice rimasta sepolta, ogni traccia di vegetazione nei paraggi in grado di rispondere ai suoi comandi. Sentì il proprio corpo in fiamme, come se il sangue si fosse trasformato in fuoco liquido, la schiena che formicolava, la testa che friggeva. Le sembrava di essere in guerra con sé stessa, ma non avrebbe ceduto, non finché Orochi non sarebbe morto. E soprattutto, non finché non avrebbe rivisto i suoi amici sani e salvi.

La strada si spaccò, mentre una selva di rampicanti si faceva largo tra il cemento, aggiungendosi a quelli già presenti. Il parco esplose, mentre ogni ciuffo d’erba cresceva a dismisura. Visto che uccidere i mostri non serviva, Stephanie usò le piante per intrappolarli uno ad uno e per sollevarli da terra, in modo che non fossero d’intralcio per i suoi compagni. 

Le cacciatrici gridarono di sorpresa mentre i rampicanti apparivano di fronte a loro all’improvviso, portandosi via le creature con cui erano alle prese. Nel giro di pochi istanti, almeno metà dell’esercito di mostri si ritrovò immobilizzato in dei grovigli di radici e spine da cui non potevano più fuggire.

La figlia di Demetra si sentì potente come mai prima di allora. Nemmeno quando aveva sconfitto Campe o scagliato Oto in cielo si era sentita così. Perché questa volta, a differenza delle altre, percepì il pieno controllo su tutto quello che stava succedendo. 

L’urlo della natura si era affievolito. Era ancora presente, ma era più debole. La ragazza sentì un tuffo al cuore. Era contraria a tutto ciò che gli uomini avevano fatto alla natura, era contraria a come avessero cercato di schiacciarla, di schiavizzarla perfino, e adesso lei stava facendo lo stesso. Tuttavia, non aveva altra scelta: se non avesse fatto così, allora il mondo intero sarebbe stato perduto. 

Mi dispiace…, pensò, mentre il dolore della natura soffocata dal peso dell’uomo scorreva dentro di lei. Sentì una lacrima scenderle lungo la guancia, ma non perse la concentrazione.

All’improvviso, in mezzo a quella bolgia di piante, mostri e cacciatrici, una strana creatura si fece largo. Un grosso gatto bianco con chiazze marroni, con due code, come Fujinami lo aveva descritto. Saltava in mezzo ai rampicanti schivandoli con incredibile rapidità. 

«Eccolo là!» gridò Stephanie, indicandolo.

«Ci penso io!» esclamò Thomas, rialzandosi in piedi, per poi bloccarsi quando si accorse di Rosa. La sua espressione da baccalà batté tutte quelle che aveva fatto fino a quel giorno. 

«Tommy!» urlò Stephanie, infervorandosi. «Tienilo nei pantaloni e uccidi quello stramaledetto gatto!»

«S-Scusa!» Il figlio di Ermes si defilò. 

I rampicanti tentarono di afferrare anche Orochi, ma quello saltò all’indietro, tranciandoli con la katana. Si accorse di tutto quello che stava succedendo, del suo intero esercito che stava venendo sopraffatto, e osservò Stephanie, capendo che si trattava di opera sua. Strinse la presa sulla katana, adirato. «Avrei dovuto ucciderti quando ne ho avuto l’occasione!» 

Fece per avventarsi su di lei, ma le kamaitachi lo intralciarono, tempestandolo con i loro attacchi. «Maledetti parassiti!»

Sferzò l’aria con la katana, riuscendo a respingerle, per poi schivare un’altra coltre di fiamme blu. Si fiondò su Fujinami, ma Konnor e Lisa si pararono di nuovo di fronte a lui, con quest’ultima che pareva piuttosto accesa. «Tu non vai da nessuna parte!» 

Orochi indietreggiò, scansando e parando gli attacchi di tutti e tre, ignorando le ferite e i colpi che andavano a segno. Sullo sfondo, Stephanie vide Thomas armato dell’ennesima spada recuperata dallo zainetto, i due romani e altre cacciatrici intenti a cercare di uccidere il nekomata, ma quello era troppo veloce, perfino per loro. Evitava le frecce e correva in mezzo a loro come un lampo. All’ennesimo attacco andato a vuoto, Tommy si animò: «Accidenti!»

Stephanie serrò la mascella. Non era arrivata fino a quel punto per fallire proprio alla fine. Con un ultimo sforzo, fece compare un ultimo rampicante, che spaccò il suolo proprio al di sotto del nekomata. Lo yōkai spalancò gli occhi, ma fu l’unica cosa che riuscì a fare. Il rampicante lo trafisse, facendogli emettere un verso straziante.

Tutt’un tratto, i mostri cominciarono a gridare insieme a lui e chi di loro ancora poteva muovere le braccia si prese la testa tra le mani, dimenandosi. Poi, uno dopo l’altro, si sciolsero di nuovo in cumuli di oscurità assieme al nekomata, che svanì lasciandosi dietro un lamento simile a quello di un gatto reale che era stato ferito. Per fortuna, Stephanie preferiva di gran lunga i cani.

«No…» mugugnò Orochi, accorgendosi dei mostri che svanivano uno dopo l'altro. «NO!»

Si fece largo tra i suoi avversari, sollevando la katana e fiondandosi su di Stephanie. «Me la pagherai!»

La figlia di Demetra lo osservò impassibile. Avrebbe potuto fermarlo, ma sapeva che non ce ne sarebbe stato il bisogno.

«VETE AL DEMONIO!»

Rosa apparve dal nulla, affondandogli il falcetto nel fianco e arrestando la sua corsa. Orochi rovesciò la testa all’indietro, gridando di dolore, per poi fissarla con odio. «Tu?!»  

La figlia di Apollo digrignò i denti ed estrasse la lama, assalendo l’uomo serpente con una raffica di sferzate, mulinando il falcetto come un tornado. Gridò furibonda, tentando di decapitarlo. Orochi riuscì a proteggersi a malapena, procurandosi decine di altre ferite. Indietreggiò, osservandola come se volesse incenerirla con lo sguardo. Poi, sorprendentemente, sorrise di nuovo. «Non dovresti combattere, cucciola di dea. La tua vita è molto preziosa, lo sai?»

Rosa serrò la mascella. «Non me ne starò ferma a guardare altri che combattono per me. Meglio morta che damigella in pericolo.» 

Orochi ridacchiò, ripulendosi dal sangue sul volto. «Che frase azzeccata!»

Si avventò su di lei con incredibile rapidità, ma Rosa bloccò comunque il suo affondo e gli sferrò una gomitata sul volto, allontanandolo. Orochi mugugnò di dolore, premendosi una mano sul volto, e tornò ad osservare la semidea. 

Reyna affiancò Rosa, assieme ad altre cacciatrici. Alle sue spalle, invece, si trovavano Konnor, Lisa e Fujinami. Orochi non sembrò curarsi del fatto che fosse circondato, nonché ferito gravemente. 

«Che splendido buffet di vergini» gracchiò. «Sono certo che sarete un pasto meraviglioso!»

Con un altro urlo disumano, si fiondò su di loro, ignorando l’inferiorità numerica e le decine, centinaia, forse migliaia di ferite che aveva accumulato fino a quel momento. Questa volta, però, non gli andò bene. Le cacciatrici lo fecero a brandelli. Si ritrovò con tagli ovunque, frecce conficcate nella schiena e sangue che colava a fiumi dalle ferite. 

«Questo è per Kowalski!» tuonò Reyna, tagliandogli una guancia con la lancia. «E per Talia! E Zoey! E Cristina!» Cominciò a nominare tutte le cacciatrici cadute vittima di Orochi, donandogli un taglio per ogni nome.

«Hai ancora fame, cabrón!?» domandò Rosa, aprendogli uno squarcio sul petto, spingendolo verso le braccia poco accoglienti delle altre ragazze. 

Orochi barcollò in mezzo a quel cerchio di fuoco, perdendo la presa dalla katana. Ricevette un taglio, una ferita, un calcio o un pugno da ogni direzione. Ormai era quasi irriconoscibile a causa di tutte le ferite. 

Stephanie affiancò Lisa e Konnor, venendo presto raggiunta da Thomas. Nessuno di loro intervenne, quella ormai era una faccenda personale tra le cacciatrici e Orochi. Timidamente, anche i due semidei romani si fecero avanti, assieme a Gus, che era riapparso da chissà dove. Quel fauno era un ninja, non c'erano altre spiegazioni. In ogni caso, Stephanie si sentì sollevata di vedere che stavano bene. 

«Tutto qua…? L’ho sentito appena…» mugugnò Orochi, crollando in ginocchio, con tutto il corpo coperto di orribili sfregi. Sputò un enorme grumo di sangue a terra, ma non smise di sorridere. «Patetiche servette… non valete niente…» Sollevò lo sguardo, osservando tutti loro, anche i greci. «Nessuno di voi servi di dei vale niente…»

«Non siamo servi degli dei» asserì Rosa, torreggiando su di lui. «Siamo la loro famiglia.»

Orochi rovesciò la testa all’indietro, scoppiando in una roca risata, alternata da dei gemiti di dolore. Rosa non ci vide più. Gridò e sollevò la spada.

«Si fermi, signorina!»

Tutti quanti si voltarono. Un uomo stava camminando verso la loro direzione, agitando un braccio. Era vestito come un barbone, con un grosso cappotto logoro, barba e capelli incolti e spessi occhiali da sole sopra gli occhi. Non appena lo vide, Stephanie schiuse le labbra. Quello era il mendicante che aveva aiutato lei ed Edward! 

E il bello era che non era nemmeno da solo. Con lui c’era una ragazzina. 

«Divina Artemide!» esclamò Reyna, sbalordita. La sua reazione fu la stessa di tutti gli altri. Tra tutte le persone che Stephanie avrebbe pensato di rivedere, quei due, soprattutto assieme, erano al fondo della lista.

Artemide e il mendicante avanzarono verso di Orochi, sotto gli sguardi interrogativi di tutti i presenti. 

«Orochi, da quanto tempo! Hai un aspetto orribile» esordì il mendicante.

«Sempre meglio del tuo» mugugnò Orochi, mentre il sorriso svaniva finalmente dal suo volto.

«Basta così, Rosa» affermò Artemide, avvicinandosi alla nipote. La semidea ancora teneva la lama sopra la testa di Orochi, pronta ad abbatterla. Era come stregata dalla presenza della dea. Artemide posò una mano sul suo braccio, invitandola ad abbassare l’arma. «Ce ne occupiamo noi adesso.»

Rosa rimase immobile ancora per diversi attimi, con la bocca spalancata, incapace di processare cosa stava succedendo. Infine, titubante, rilassò il proprio corpo. Annuì e indietreggiò, raggiungendo le cacciatrici. 

Il mendicante e Artemide fronteggiarono Orochi, che sogghignò alla dea. «Oh sì, verginella, occupati di me…» Tirò fuori la lingua, facendola sibilare. «Sono tutto tuo…»

«Non parlarle così» lo ammonì il mendicante, incrociando le braccia. «Mostra un po’ di rispetto per la divina Artemide.»

Il rettile li squadrò per qualche istante, ispezionandoli con espressione disgustata. «Che significa tutto questo? Siete diventati amici adesso?»

L’uomo e la dea si scambiarono uno sguardo, poi lui sollevò le spalle. «Così sembrerebbe. La cosa ti turba?»

Orochi distese il ghigno. «Affatto. Vi sterminerò tutti in ogni caso.» Tornò ad osservare Artemide, passandosi la lingua sulle labbra. «E mi divorerò il tuo corpo.»

Artemide non sembrò scalfita da quelle parole. Il barbone invece ridacchiò tra i baffi. Disse qualcosa in giapponese, alla quale Orochi rispose, sembrando mettere parecchio veleno nelle parole. Infine, l’uomo abbassò la mano di fronte al volto del rettile e gli tirò un buffetto sul naso. Un gesto che sarebbe stato ridicolo, se solo Orochi non fosse esploso, in tutti i sensi del termine, in un cumulo di polvere bianca. 

Decine di versi sorpresi si sollevarono in aria. Stephanie schiuse le labbra, atterrita. Il mendicante si voltò poi verso di loro, sorridendo smagliante. 

«Vi ringrazio di cuore per quello che avete fatto.» Unì le mani e chinò la testa verso ognuno di loro. La chinò verso Stephanie e i suoi compagni, verso le cacciatrici, verso i tre romani e anche verso Fujinami e le kamaitachi. «Greci, cacciatrici, romani e anche giapponesi, avete unito le forze e avete sventato una terribile minaccia. A nome degli dei, ve ne siamo profondamente grati.»

I semidei si osservarono tra di loro, confusi. Era evidente ormai che quell’uomo fosse un dio, ma Stephanie non riusciva proprio a capire di chi si trattasse. Anche se, a giudicare dalla vicinanza con Artemide, forse la risposta era sotto il suo naso. «Divino Apollo?» 

Il mendicante ridacchiò. «Suvvia, non essere ingenua. Io sono molto più bello di Apollo.»

Si tolse gli occhiali, rivelando un paio di occhi a mandorla che spiccavano tra le rughe. «Io sono Susanoo, dio del mare, delle tempeste e degli uragani. Piacere di conoscervi.»


 
 
 
 
 
Bene, grazie per essere arrivati fino in fondo. Questo capitolo è stato terribilmente difficile, un po’ perché è la prima volta che descrivo una battaglia, un po’ perché sono praticamente due capitoli condensati in uno. Sì, in realtà il mio piano iniziale era quello di dare un po’ più di spazio al nekomata, magari dedicare un capitolo incentrato sulla sua uccisione, ma alla fine ho preferito stringere un po’ i tempi e questa creatura ha giusto fatto un cameo. In sintesi, i nekomata possono riportare in auge gli spiriti dei morti e manovrarli come burattini, esattamente come ha fatto il nekomata in questo capitolo. Da non confondere con il bakeneko, che sarebbe il gatto apparso tanti capitoli fa, il caro Shinjiro. Diciamo che i bakeneko e i nekomata sono cugini.
 
 Un’altra cosa che mi ha fatto davvero girare le scatole è stato il pov fisso. Per raccontare una battaglia sicuramente un pov variabile mi sarebbe stato molto più comodo, specialmente perché ho voluto raccontare diverse storie, ma per farlo tramite il punto di vista di Stephanie ho dovuto trovare un sacco di stratagemmi per tenerla immobile durante la battaglia, scelta che sinceramente non mi fa impazzire molto. Ho paura di aver reso Steph un po’ troppo inutile, nonostante le fasi finali in cui intrappola tutti.
 
 Spero che possiate dirmi voi cosa ne pensate.
 
 Non manca molto alla fine, ma ho ancora in serbo qualche sorpresa e qualche altro cameo importante provenienti dalla cultura orientale. Anzi, più che camei oserei dire.
 
 Grazie per aver letto e grazie a Ronald e Farkas per le recensioni nello scorso capitolo. Alla prossima!

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Capitolo 36
*** Il mondo dell'oscurità ***


36

Il mondo dell’oscurità

 

 

«Davvero credevi che sarebbe andato tutto bene?»

Scorci del suo passato, immagini sbiadite di ricordi dimenticati, appesi come fotografie sulle pareti di una stanza che vorticava attorno a lui. Era nell’occhio del ciclone. Suoni, voci, paesaggi, luoghi che aveva visto, persone che aveva conosciuto e che aveva sentito, ogni cosa era mischiata in composto caotico che schizzava di fronte ai suoi occhi. 

«Come speravi di farcela da solo?»

Un ufficio. Diverse persone. Un ragazzino con un occhio nero, nascosto dietro ad un uomo vestito elegante che sbraitava contro un altro uomo. Il padre di quel moccioso, infuriato con il preside per quello che era successo al suo adorato figlio. Gli sguardi carichi di rabbia che gli rivolsero, misti al sorrisetto divertito del ragazzino che lo osservava beffardo, conscio di aver vinto. 

«Avevano ragione ad essere infuriati con te. Sei sempre stato un problema.»

Agenti di polizia che lo interrogavano, luci puntate sulla sua faccia. Urla che si accallavano, mani che lo afferravano strattonandolo. 

«Avrebbero dovuto rinchiuderti quel giorno stesso e buttare via la chiave.»

La pioggia battente che gli tagliava il volto mentre avanzava da solo, ferito, in una gelida notte senza luna dopo essere stato attaccato per l’ennesima volta da mostri orribili ed essere sopravvissuto per miracolo. 

«Esattamente come gli scarafaggi. Nessuno ti voleva, eppure riuscivi sempre a salvarti.»

Sua madre che svaniva di fronte ai suoi occhi. Sua sorella che veniva trascinata nel terreno. 

«La loro unica colpa è stata quella di volerti bene.» 

Courtney che lo osservava terrorizzata, fuggendo da lui. Una povera mortale che non aveva fatto niente di male, eccetto essere cortese.

«Ovunque sei andato, non hai fatto altro che creare problemi.»

Thomas, Derek Natalie e i figli di Ermes, Jonathan, Rosa e i figli di Apollo, Konnor, Lisa, Chirone. 

«Non sei mai stato in grado di tenerti vicino nessuno.»

Stephanie che urlava verso di lui, mentre una selva di rami cercava di afferrarlo per squartarlo in due. La foresta intera che veniva distrutta da uno scontro furibondo tra due persone che credevano di essere amiche.

«La tua unica bravura era nel fare terra bruciata attorno a te.»

Orochi che sogghignava, puntandoli contro la falce. Sempre Orochi, ora a terra in una pozza di sangue. 

Una folata di vento, una luce accecante, un piedistallo con sopra una spada. Naito che lo osservava dall’alto con sguardo impietosito.

«Hai portato a termine il tuo lavoro. Hai salvato centinaia, migliaia di vite. Ma avresti potuto fare lo stesso se fossi morto prima di arrivare al Campo Mezzosangue. La spada sarebbe rimasta senza proprietario, non ci sarebbe stata nessuna guerra. Tutto questo si sarebbe potuto evitare.» 

«Basta…» 

«Eppure hai voluto insistere, hai voluto lottare, hai voluto a tutti i costi rimanere aggrappato alla vita, rovinando decine di altre esistenze nel processo. Quante persone sono state ferite da te? Quante sono state allontanate? E alla fine, cos’è cambiato? Sei morto comunque, da solo, esattamente come hai vissuto.»

«BASTA!»

Il mondo smise di vorticare attorno a lui. Le immagini svanirono, la stanza scomparve. Precipitò all’improvviso, scivolando in un baratro di oscurità. Urlò, ma non uscì nemmeno un suono dalla sua bocca. 

L’abisso lo inghiottì.

 

***

 

Edward aprì gli occhi. Si mise a sedere, massaggiandosi la testa. Sentiva dolore dappertutto. Le braccia e le gambe erano come spaghetti, la schiena invece era un tronco di legno in fiamme. Mugugnò rumorosamente, strofinandosi le dita sugli occhi. 

Drizzò la testa. Non appena notò le teche di vetro con dentro le armi, più il piedistallo di Ama no Murakumo, realizzò di essere ancora dentro il museo. Tuttavia sembrava che qualcuno avesse staccato la corrente, perché era buio pesto lì dentro. L’intera stanza era avvolta nella penombra. 

Sì massaggiò una tempia, sforzandosi di ricordare cosa fosse successo. Era come se ci fosse uno strato di nebbia attorno alla sua mente. Ricordava quella stanza, il museo, Ama no Murakumo, di essere andato a San Francisco per un motivo, ma non ricordava quale e soprattutto non ricordava perché si trovasse proprio lì. 

Un brivido gelato lo percorse, mentre nuvole di fiato condensato uscivano dalla sua bocca ad ogni suo respiro. Oltre alla luce doveva anche mancare il riscaldamento, perché stava gelando. Si mise in piedi per scrollarsi il freddo di dosso e decise di uscire, visto che restare lì non lo avrebbe di certo aiutato a capire che diamine stava succedendo.

Si avviò verso la porta, ma prima di varcarla si voltò, verso la spada sopra l’espositore. Assottigliò le labbra, poi tornò indietro e la prese. Non era in vena di andarsene in giro disarmato.

Barcollò attraverso le esposizioni del museo, stringendo i denti per il dolore alla schiena e per le fitte alla testa. L’intero edificio sembrava essere spento e soprattutto non c’era anima viva in giro. Era da solo, accompagnato solo dal suono dei suoi passi sopra il pavimento di marmo. Aumentò la presa sul manico della katana. 

Qualcosa non quadrava.

Una sensazione sgradevole cominciò ad insinuarsi dentro di lui. Un gigantesco, pesante macigno che scivolava lentamente, partendo dalla gola e arrivando dritto allo stomaco. 

Uscì dal museo. San Francisco si stagliò di fronte a lui. Ma non era la stessa città che aveva visto quando era arrivato lì. Il parco, la strada, i palazzi, ogni cosa era avvolta dalla stessa penombra che aveva trovato nel museo. Il cielo era grigio, coperto da fitte nubi. E le strade erano deserte. Nessun pedone, nessuna macchina, nessun rumoroso gruppo di turisti. 

Il macigno nel suo stomaco si fece dieci volte più pesante all’improvviso. Cominciò a provare puro e semplice sgomento. Era forse un’allucinazione? 

Si strofinò gli occhi, sbatté le palpebre, scrollò la testa e si diede dei colpetti sulle guance. Nulla cambiò. Il paesaggio continuò ad essere grigio e triste.

«Ok…» mormorò, sentendo la gola improvvisamente arida. Deglutì, poi scese i gradini e si avviò verso il parco.

I negozi erano vuoti, neanche una luce proveniva dai palazzi, i bar sul bordo della strada erano deserti. Sarebbe stato il momento perfetto per vedere una pagliuzza rotolare da qualche parte, ma non arrivò nemmeno quello. Tutto era spento, tutto era silenzioso. C’era solo lui.

San Francisco era una città fantasma.

«Non è possibile…» mormorò al vuoto. Il suo cervello rifiutava di credere a tutto quello. «C’è nessuno?» domandò, incerto, mentre si guardava attorno. «C’è nessuno? Ehi! Venite fuori! EHI!»

Cominciò a gridare. Qualcuno doveva esserci, era impossibile che tutti si fossero volatilizzati. Eppure, la sua voce riecheggiò nelle strade deserte, rimbalzando tra i palazzi, svanendo nell’etere senza ottenere nessuna risposta. 

Edward sentì la propria fronte imperlarsi di sudore. Era sbagliato. Era tutto sbagliato. Tentò di nuovo di darsi un pizzicotto per svegliarsi, questa volta così forte da lasciarsi il segno. Non cambiò nulla, in compenso però si fece un male cane.

Si massaggiò il polso, infastidito. Osservò la strada vuota e grugnì. Non si sarebbe arreso così facilmente. Iniziò a correre, urlando a squarciagola, schiamazzando come un banditore. 

Non seppe per quanto tempo andò avanti in quel modo, procedendo nel cuore della città. Si sentì soffocato da tutti quei palazzi imponenti che svettavano su di lui, al cospetto di quel cielo innaturale. In qualunque direzione guardasse, non vedeva altro che corridoi di palazzi tetri che si smarrivano nei meandri di San Francisco. 

Continuò a correre, finendo con l’arrivare al lungo mare. Nessuno nemmeno lì.

Camminò verso la passerella di legno e diede un’occhiata al mare. L’acqua era calma, con pochissime onde, e il suo colore rispecchiava quello cupo del cielo. Perfino il mare non sembrava lo stesso. Non c’era nessuna barca, non c’era nemmeno rumore dei gabbiani. 

Che tutti avessero lasciato la città? Questo avrebbe spiegato anche l’assenza delle macchine. Forse c’era stata una fuga di gas, o cose del genere. A quel punto era disposto ad accettare qualsiasi spiegazione che la sua mente era in grado di fornirgli. 

Magari lasciando San Francisco avrebbe trovato qualcuno. Chiunque, amico o nemico, non gli importava. Strinse la presa sul cornicione della passerella. Doveva esserci qualcuno.

Tutto quel silenzio, tutta quella desolazione, lo stavano facendo ammattire. Sollevò lo sguardo al cielo. Al Campo Mezzosangue gli avevano ripetuto in tutte le lingue di non chiamare gli dei per nome, o quantomeno di farlo con rispetto, perché loro li avrebbero sentiti in qualsiasi momento. 

«Zeus? Poseidone? Artemide? Qualcuno?» Sperò che la terra tremasse o cose del genere, questo almeno avrebbe significato che lo stavano ascoltando. Invece niente. 

«Siete tutti degli idioti!» gridò, ritrovandosi a sperare che un fulmine lo colpisse. Ancora niente. E se gli dei non sentivano nemmeno i suoi insulti, allora stava succedendo qualcosa di veramente terribile. 

«A… Apollo?» domandò, con più incertezza. «Papà? Almeno tu… ci sei?»

Silenzio. Edward si sentì un emerito idiota. 

«Nanishiteruno?»

Per poco non cadde in mare dallo spavento. Si era troppo abituato al silenzio di quell’intera città. Si voltò di scatto e per una seconda volta rischiò di cadere di sotto.

Una donna era comparsa all’improvviso alle sue spalle. Non aveva fatto nessun rumore, nemmeno un sibilo. Era sbucata fuori dal nulla e lo osservava fittamente con i suoi occhi parzialmente nascosti da una cascata di lunghi capelli neri, che scendevano ai lati del suo viso ovale. Era poco più alta di lui, pallida come un lenzuolo, con indosso una veste bianca e rossa strappata al di sotto delle ginocchia, lasciando scoperti i piedi scalzi. Per tenere raccolti i capelli utilizzava una specie di tiara su cui spiccava un grosso stemma a forma di ventaglio.

A giudicare dal vestito e dalla lingua, doveva sicuramente essere giapponese. Edward la esaminò in silenzio, non sapendo come comportarsi. Malgrado l’aspetto palesemente trascurato, era bella. E ormai aveva imparato a diffidare della bellezza. 

«Che… che sta succedendo qui?» domandò, incerto. «Dove sono tutti? Chi sei tu?»

Quella piegò la testa, squadrandolo. Edward sentì una scarica di brividi percorrergli il corpo. Strinse con forza la presa attorno alla katana. Cominciò a rimpiangere il desiderio di incontrare qualcuno. La donna fece un passo in avanti, parlando ancora in giapponese. Aveva un tono di voce basso e malinconico. Purtroppo, il figlio di Apollo non capì cosa disse. 

«Non… non ti capisco.»

«Mh… sì, certo che non puoi capire…» disse lei all’improvviso con un forte accento. Sentirla parlare la sua lingua gli fece uno stranissimo effetto. 

«Oh… parli la mia lingua» mormorò, allontanandosi dal cornicione e camminando lentamente in semicerchio, in modo da non trovarsi più tra di lei e il mare. «Allora… puoi dirmi che cosa sta succedendo? Dove sono finiti tutti?»

«Edward… Model…» disse lei. 

Non appena pronunciò il suo nome, Edward sentì un altro brivido percorrerlo. Non era nuovo a sconosciuti che lo conoscevano. Tuttavia… sentire il proprio nome da lei fece tutto un altro effetto. Sentiva che quella non era una sconosciuta qualsiasi. «Come… come sai il mio nome?»

La donna proseguì verso il cornicione, distogliendo lo sguardo da lui. Poggiò le mani sulla ringhiera e osservò assorta il mare, dandogli le spalle. «Ti aspettavo.»

Edward si passò una mano sulla fronte. Tutto quello non era affatto di aiuto. «Ehm… che intendi dire?»

«Sei fuggito da questo luogo. Ma non succederà di nuovo.»

Il semidio assottigliò le labbra. 

«Ok, ascolta…» Si avvicinò a lei, pronto a usare la katana se necessario. «… io non ho tempo da perdere. Se sei in grado di aiutarmi, bene, sono tutto orecchi, ma se sei qui solo per borbottare frasi senza senso allora…»

La sconosciuta si voltò di colpo verso di lui e questa volta Edward gridò terrorizzato, inciampandosi e cadendo all’indietro. Il suo volto era mutato drasticamente. Dapprima liscio e perfetto, ora era dilaniato a metà. Aveva squarci così profondi da mostrare il cranio, la pelle putrefatta e ricoperta di scarafaggi che fuoriuscivano dalle ferite senza che lei nemmeno battesse ciglio. Edward pensò che avrebbe potuto vomitare, ma non nel senso metaforico.

«Pensavi di poter fuggire dal tuo destino, ma non puoi rimandare l’inevitabile» disse lei, con quel tono di voce triste. «Questo è il mondo a cui hai sempre dovuto appartenere.»

Sollevò una mano verso di lui. Edward gridò e si coprì d’istinto, ma non successe nulla. Quando abbassò il braccio, notò con sgomento che il lungomare era svanito. Era inspiegabilmente di nuovo in piedi e di fronte a lui non si stagliava altro che oscurità. 

La donna gli apparve di fianco all’improvviso. «È stata colpa sua…»

Edward sobbalzò, indietreggiando di scatto. Fece per sollevare la sua spada, ma era svanita anche quella. Spalancò gli occhi, osservandosi le mani vuote. Poi si accorse che la donna non lo stava neanche guardando. Era concentrata su un punto indefinito di fronte a lei. Non era ostile. Perlomeno, non lo sembrava. Il semidio deglutì, poi spostò lo sguardo nella stessa direzione.

Un’altra donna era apparsa all’improvviso di fronte a loro, emanando un bagliore dal proprio corpo che faceva breccia in mezzo all’oscurità. Non appena la vide, Edward rimase senza fiato.

«Mamma!»

Fece per correre verso di lei, ma la sconosciuta gli mise un braccio di fronte. «Non è davvero qui.»

Edward si voltò, accorgendosi che il suo viso era tornato normale. La donna lo osservò di nuovo. Anche il suo sguardo sembrava triste. Era come… spenta.

«Lei ha cominciato tutto» disse, osservando Kate. Edward la imitò. Sua madre stava afferrando in mezzo all’oscurità degli oggetti e li stava osservando attentamente. Vasi, gioielli, dipinti, armi. 

«La nostra storia… la nostra vita… completamente degradate.» La sconosciuta cantilenò in sottofondo, mentre Edward si smarriva nei ricordi osservando quella donna che lo aveva cresciuto e che lo aveva amato. 

«Le avevano detto di non farlo. Le avevano detto che era sbagliato depredarci in questo modo. Ma lei ha continuato. Finché non ha oltrepassato il limite.»

La scena cambiò. Kate svanì, inghiottita dalle tenebre. Al suo posto, apparve all’improvviso una stanza, come se si trovassero ad un teatro e le luci si fossero appena accese sopra lo stage. In mezzo ad essa si trovava un piedistallo con sopra una spada dalla lama bianca. Edward la riconobbe immediatamente: era Ama no Murakumo. 

Kate spuntò fuori dall’oscurità all’improvviso e si avvicinò alla spada, afferrandola ed esaminandola minuziosamente. Edward cominciò a capire cosa stava succedendo. In qualche modo, quella donna gli stava mostrando il passato. Gli stava mostrando sua madre, il giorno in cui aveva trovato Ama no Murakumo.

L’oscurità ricoprì di nuovo ogni cosa. Quando Kate riapparve non era più da sola; assieme a lei c’era un uomo. Era alto, con la pelle abbronzata, i capelli lunghi biondi e una barba corta. Lui la strinse attorno alla vita e lei gli accarezzò una guancia. Sembravano entrambi sereni. Felici, perfino.

«Lui sapeva che cosa lei aveva fatto. Avrebbe dovuto solamente metterla in guardia. Invece se ne innamorò.» 

Edward osservò incredulo quell’uomo e Kate mentre si baciavano. Quello… quello era Apollo.

«L’amore tra un dio e un mortale non può durare in eterno. Lei lo sapeva, e l’aveva accettato. Prima che lui se ne andasse, però, gli aveva chiesto un ultimo dono, affinché una parte di lui potesse rimanere per sempre con lei.»

I due si separarono, poi lui appoggiò la mano sul ventre di lei. Mosse le labbra e disse qualcosa che Edward non riuscì ad udire. Kate rise, poi lo baciò di nuovo. 

Un ultimo dono. Edward sentì le proprie orecchie fischiare.

«Non potevamo permettere tutto ciò. Non dopo tutto quello che lei ci aveva fatto. Avrebbe dovuto pagare per i suoi crimini. E lo avrebbe fatto al prezzo più caro di tutti.»

La scena cambiò ancora una volta. Ora Kate si trovava in un letto, il pancione che spiccava da sotto le coperte. Aveva un’aria tremendamente sofferente. Era madida di sudore, con il volto paonazzo. 

«Lei aveva portato via la nostra cultura. Noi avremmo portato via il nascituro.»

Tutta la tensione accumulata fino a quel momento esplose all’unisono. Edward sentì la propria testa girare. Il nascituro. Lui. 

Kate spalancò la bocca in un urlo muto. La sua espressione era straziante. 

«La vita lasciò il corpo dell’infante. Il suo spirito arrivò fino a qui, dove sarebbe dovuto rimanere per sempre. Ma lui si intromise di nuovo.»

Improvvisamente, Apollo apparve al fianco di Kate. Il dio le posò una mano sulla fronte e recitò alcune parole. Kate smise di urlare, perdendo i sensi. 

«Non sarebbe dovuto succedere. Non avrebbe dovuto farlo.»

Apollo prese il neonato tra le braccia e sorrise, porgendolo a Kate, che lo strinse in un forte abbraccio mentre lacrime di felicità le scivolavano lungo le guance. 

«Non avremmo mai potuto accettare un simile affronto.»

Edward sentiva il cuore battergli con forza nel petto. Indietreggiò, scuotendo la testa. Non era possibile. Non aveva nessun senso. Kate e Apollo svanirono di nuovo nell’oscurità, lasciandolo da solo con la sconosciuta.

«Saresti dovuto morire quel giorno, Edward Model. Il tuo spirito sarebbe dovuto rimanere qui.»

La donna camminò lentamente, osservandolo con quello sguardo vacuo, triste. «Il figlio di un dio e di una mortale che era entrata in possesso di Ama no Murakumo. Il frutto di due eretici. Un terribile errore, uno sbaglio che non avrebbe mai dovuto verificarsi.»

Il semidio non riusciva a credere ai suoi occhi e alle sue orecchie. Non riusciva a credere a niente di niente. Avrebbe voluto parlare, ma non aveva parole. Avrebbe voluto gridare, ma non aveva voce. Avrebbe voluto fuggire, ma non c’era nessuna parte in cui andare. Era da solo, completamente da solo, schiacciato dal peso della verità agghiacciante che si celava sul suo passato.

«Adesso, però, l’errore è stato corretto. Sei finalmente qui, dove la tua vita era finita prima ancora di cominciare.»

Una fitta di dolore colpì Edward alla tempia, facendolo cadere in ginocchio. 

Ladro, dove la tua storia è iniziata dovrai ritornare

Che cos’era quella frase? Perché se la stava ricordando tutto ad un tratto? La mente di Edward venne travolta da un fiume di ricordi. Il Campo Mezzosangue, i suoi amici, Ama no Murakumo, Dioniso, Chirone, la profezia.

Artemide, San Francisco, il museo, Orochi, Naito.

Doveva restituire Ama no Murakumo per impedire una guerra tra gli dei orientali e occidentali. Aveva abbandonato i suoi amici, andando avanti da solo. Aveva affrontato Orochi, aveva salvato Rosa, aveva restituito la spada. Aveva portato a termine il suo dovere e poi… poi…

Edward spalancò gli occhi e si ritrovò di nuovo sul lungomare. L’oscurità era svanita, lasciando di nuovo posto alla città. 

«Mi hai chiesto che posto è questo e chi sono io. Scoprirai che ad alcune domande è meglio non ricevere mai una risposta.»

La sconosciuta avanzò verso di lui. Il suo volto mutò nuovamente, tornando ad essere cadaverico. Edward si rese conto che le striature rosse del suo vestito non erano un semplice colore: era sangue. 

«Io sono Izanami, la dea della morte. E questo è lo Yomi.»

 

 

 

 

 

Ehi, salve. Il capitolo è piuttosto breve, per i miei standard, ma devo ammettere che è una delle rare volte in cui mi sento realmente soddisfatto di un capitolo. E comunque, capitolo più breve, aggiornamento più rapido, vincono tutti! 

In ogni caso, era da tanto che volevo mostrare questa parte di storia, forse è anche per questo che sono stato più rapido del solito. Nel prossimo capitolo naturalmente approfondiremo di più lo Yomi e Izanami, sperando di chiarire alcune cose. Comunque lo Yomi viene descritto come il nostro mondo ma più oscuro, un po' come il Sottosopra di Stranger Things (prima stagione bellissima, la seconda meh, la terza ew), perciò mi sono immaginato semplicemente che tutto fosse rimasto uguale, tranne che... beh, è tutto più scuro. 

Izanami invece sarebbe la dea della creazione, assieme al marito Izanagi, deceduta dopo aver dato alla luce il loro ultimo figlio. Furibonda con Izanagi per averla abbandonata nello Yomi, decide di portare la morte nel mondo, motivo per cui ritengo giusto che si sia autoproclamata la dea della morte nella mia storia. Un altro suo soprannome, poi, è "colei che invita". 

E... niente. Finalmente è tornato il pov di Edward e abbiamo potuto vedere come se la sta passando. Diciamo che ha visto giorni migliori. Spoiler, le cose andranno peggio. 

Ok, grazie per aver letto, ci vediamo al prossimo aggiornamento!

 

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Capitolo 37
*** L'ostacolo più grande ***


37

L'ostacolo più grande

 

 

Passarono diversi istanti prima che la sua mente riuscisse ad elaborare quelle informazioni. Non gli aveva affatto mentito riguardo le risposte che era meglio non ricevere. Si sentì come se gli avesse appena ficcato un ago rovente in un occhio. 

«C-Che cosa?!» riuscì a domandare, sentendo la gola secca. 

Izanami piegò il capo, continuando a scrutarlo criptica. Quel volto divorato dagli insetti si impresse nel suo cervello. Era sicuro che non sarebbe mai riuscito a dimenticarselo. 

«Questo è lo Yomi» ripeté. «Qui è dove gli spiriti dei defunti vengono a trascorrere l’eternità.»

Edward ricordò la sera in cui Rosa era stata rapita. Anche Dioniso gli aveva parlato dello Yomi e aveva detto le stesse cose. E Izanami aveva detto di essere la dea della morte. Per quanto si sforzasse di negarlo, non potevano esserci molti significati dietro tutto quello. 

La verità si abbatté su di lui come una meteora. Era… morto. Morto.

Sentì la testa girargli e il mondo per un secondo apparve sbiadito attorno a lui. Come se scoprire cos’era successo il giorno della sua nascita non fosse stato uno smacco abbastanza grande da distruggere chiunque. Ora doveva pure convivere con l’idea che… che non c’era più. Era uno spirito. Orochi l’aveva ucciso, ferendolo mortalmente alla schiena. 

Non ce l’aveva fatta. L’aveva spuntata per diciotto anni… e alla fine era arrivato il suo momento. La profezia lo aveva detto. Tutti quanti, in realtà, gliel’avevano detto.

La sua vita era uno sbaglio.

Il mondo ne sarebbe stato felice, suppose. Ce l’avevano fatta. Poliziotti, genitori affidatari, compagni di scuola odiosi, mostri, tutti avevano avuto quello che avevano sempre desiderato. Era svanito. E non sarebbe mancato a nessuno, non dopo aver tradito le poche persone che avevano dimostrato di volergli una parvenza di bene.

In compenso, aveva restituito la spada e salvato Rosa. Avrebbe potuto consolarsi con il pensiero di essersene andato facendo del bene, per una sola singola volta. 

Sentì gli occhi inumidirsi. Come fosse possibile, non ne aveva idea.

«La morte accomuna tutti noi, Edward Model» disse all’improvviso Izanami, rompendo il silenzio. Si passò una mano sulle ferite che le deturpavano il volto. «Nemmeno noi dei ne siamo immuni.»

«Anche tu sei morta?» domandò lui, rimettendosi a fatica in piedi. «Come? Credevo che gli dei fossero immortali.»

Izanami distolse lo sguardo e chiuse gli occhi. «Lo siamo. Ma non significa che le nostre vite non finiscano, in un modo o nell’altro. Il mio corpo è deceduto quando ho dato alla luce al mio ultimo figlio. Il mio spirito è rimasto intrappolato nello Yomi quando mi sono cibata di un frutto che ho trovato qui.» Si passò una mano sulle ferite. «Mi sono trasformata in un demone. Non posso più andarmene. E quando mio marito Izanagi mi ha abbandonata, ho deciso di farmi carico di custodire gli spiriti qui.»

Edward si guardò attorno. Izanami continuava a parlare di spiriti, ma lì non c’era nessuno a parte loro. «E dove sono tutti gli altri?»

«Lo Yomi è lo specchio del mondo intero. In quanto sovrano di questo luogo, io posso spostarmi a mio piacimento ovunque io voglia, ma gli spiriti rimangono ancorati al luogo in cui muoiono. E da questa parte del mondo, non sono molti a terminare nello Yomi.» 

Izanami riaprì gli occhi, tornando a squadrarlo con freddezza. «Il sangue divino che scorre dentro di te ti rende più forte, Edward Model. In questo momento riesci a mantenere un legame con la tua vita passata. Possiedi ancora tutti i tuoi ricordi e il tuo libero arbitrio. Tuttavia non durerà ancora a lungo. Presto la tua essenza si sbriciolerà e anche tu diverrai parte di questo luogo, privo di ogni consapevolezza. Vagherai in queste terre senza una meta, senza provare fame, sete o stanchezza. Diventerai uno spirito come tutti gli altri e non avrai più alcun ricordo del tuo passato.»

Quando disse quelle parole, Edward sussultò. Aveva sofferto, aveva pianto, aveva provato dolori inimmaginabili… eppure l’idea che ogni traccia del suo passato venisse cancellata dalla sua mente lo fece sentire peggio di quanto non si fosse mai sentito. Non aveva vissuto una vita fantastica, però non voleva che tutto svanisse. Non voleva… scomparire.

«È inutile provare rimorsi» disse ancora Izanami. Per tutto il tempo, la sua voce non era mutata di una virgola. Sembrava la straziante melodia di un violino. «La morte è una realtà che fa parte della vita di tutti noi. Devi accettarla.»

Malgrado tutto, Edward riuscì a sorridere amareggiato. «Mi risulta difficile accettare qualcosa che avete cercato di impormi dal giorno della mia nascita.»

L’espressione di Izanami subì un leggero mutamento quando lui pronunciò quella frase. I suoi occhi si assottigliarono e anche la sua voce tradì vene di irritazione. «Tua madre doveva pagare per i suoi crimini contro di noi.»

«Ma io non ho commesso nessun crimine» ribatté lui, fissandola dritta negli occhi. Il suo aspetto era terrificante, ma non gli interessava. Era morto, dopotutto. Concetti come la paura erano piuttosto superflui per lui ormai. «Mi avete coinvolto nei vostri stupidi drammi senza motivo.»

«Bada a come parli, Edward Model. Solo perché sei morto non significa che io non possa infliggerti altro dolore.»

Era certo che Izanami volesse sembrare minacciosa. Purtroppo, ottenne l’effetto opposto. Edward emise una tiepida risata, non sapeva se per il nervoso o la paura, e per un momento l’intera San Francisco sembrò sussultare. Di sicuro le risate non erano molto frequenti in quel luogo. «E che cosa vorresti farmi? Vuoi uccidermi ancora di più? Prego, fatti avanti!» 

Sollevò le braccia, accennando al lungo mare e a San Francisco. Era stanco delle minacce. Era stanco di subire e basta. «Tanto sono intrappolato qui, no? In questo schifo di posto con un cadavere ambulante parlante! Che altro può succedermi di peggio?!» Si ritrovò ad urlare senza nemmeno rendersene conto. «Mi sono fatto ammazzare per salvare quegli stupidi degli dei, e cosa ho ottenuto in cambio? Sono morto! E poi, come se non bastasse, ho scoperto avrei sempre dovuto esserlo! Pensi che me ne importi qualcosa di quello che puoi farmi adesso?!»

Izanami assottigliò le labbra. «Ogni cosa ha un prezzo. E tua madre…»

«Questo non riguarda lei!» tuonò Edward, puntandosi l’indice al petto. «Riguarda me! ME! Ho mai avuto voce in capitolo, io?! No, certo che no. Perché secondo voi la mia vita è stata uno sbaglio.»

Cominciò solo in quel momento a capire davvero il peso delle parole che Izanami gli aveva rivolto. Non sarebbe mai dovuto nascere. La sua vita era un errore. Ripensò al giorno in cui era arrivato al Campo Mezzosangue, quando Chirone aveva detto che forse non avrebbe dovuto trovarsi là. Ripensò a tutte le volte che gli avevano detto qualcosa di simile in passato. Ora tutto aveva un peso diverso. Ogni frase, ogni frecciatina, ogni insulto ora aveva un nuovo significato. 

Nessuno l’aveva mai voluto. Nemmeno gli dei. E i pochi che invece lo avevano accettato, erano stati puniti in un modo o nell’altro. Kate era scomparsa, Apollo aveva fatto infuriare gli dei, Rosa era stata rapita e i suoi amici erano rimasti coinvolti in quella maledetta storia. 

Strinse i pugni per la rabbia. Non ricordava di essersi mai sentito così infuriato. Nemmeno quando aveva litigato con Artemide. Sapeva di non essere sempre stato un angioletto. Sapeva di aver sbagliato diverse volte, ma aveva sempre cercato di andare avanti e di fare del bene, ignorando tutto il resto. Si era sempre tenuto tutto dentro, ma ogni cosa aveva un limite. E il suo limite era appena stato superato.

Era morto. Eppure, anche da morto, dovevano continuare a provocarlo, a ricordargli che non sarebbe dovuto esistere, che la sua volontà non contava un accidente. Beh, le cose stavano per cambiare.

«Riportami indietro» ordinò, avanzando verso Izanami. 

Per la prima volta, la dea sembrò provare genuina sorpresa. «Che cosa?»

«Sei tu che comandi qui, no? Bene, riportami in vita. Recita qualche formula magica o cose del genere, non mi interessa. Ma riportami indietro.»

«Non funziona così, Edward Model» sibilò la dea, irritata. «Non esiste alcun modo di andarsene da qui.»

Edward si ritrovò di fronte alla dea. Non appena udì quelle parole, sorrise. «Forse non mi sono spiegato bene.» Afferrò la dea, tirandola a sé e ritrovandosi faccia a faccia con il suo orrendo viso. «Ho detto riportami indietro!» 

La mano affusolata della dea si serrò all'improvviso attorno al suo collo. Edward spalancò gli occhi per la sorpresa. 

«Pensi di poter dare ordini alla morte?» sussurrò Izanami, sibilando di rabbia. 

Il semidio boccheggiò a causa della morsa alla sua gola. Afferrò la mano della dea e se la staccò di dosso, tremando per lo sforzo. «Rimandami… indietro!»

«Non fuggirai ancora da questo luogo, Edward Model. Tu mi appartieni.»

Edward serrò la mascella. Lui non apparteneva proprio a nessuno. Allungò un braccio, affondando le sue dita negli squarci sul volto della donna. 

La dea fece un urlo straziante, mentre Edward scavava nella sua carne umida e putrefatta. Era una sensazione disgustosa, ma non gli importava. Avrebbe fatto rimpiangere Izanami di desiderarlo così ardentemente.

Izanami mollò la presa dal suo collo e lo afferrò per il polso, tentando di allontanargli la mano dal volto grondante di sangue. Lo osservò tra i rivoli rossi che colavano e urlò a squarciagola. La sua bocca si allargò in maniera innaturale, mentre gli scarafaggi sulle sue guance si infilavano nella manica di Edward, che si ritirò di scatto, imprecando. Indietreggiò e si tolse la felpa di dosso, gettandola a terra, poi riportò l’attenzione sulla dea. Izanami abbassò la testa, coprendosi il volto e barcollando all’indietro. Gemette un paio di volte, poi lo trafisse con un’occhiata truce. «Come… hai osato?!»

«Proviamo di nuovo» gracchiò Edward, avvicinandosi a lei e scrollando la mano dal sangue rancido della dea. «Rimandami indietro. Altrimenti…» 

Izanami spalancò le braccia e urlò a squarciagola, così forte da fargli accapponare la pelle. 

Un lago di sangue cominciò ad uscire dalla veste della dea, circondandola, sotto lo sguardo inorridito di Edward. Il marciapiede venne corroso, emettendo un rumore simile ad uno sfrigolio. Dal lago vermiglio, come a crescere dal terreno, cominciò a spuntare qualcosa. Prima la testa di un grosso serpente, che uscì fuori frustando l’aria con la lingua. Poi un teschio umano. Poi un altro. Poi una colonna vertebrale. Poi altre ossa. Poi gambe, braccia, busti e pezzi di muscoli putrefatti. 

Il volto di Izanami si aprì. La pelle si staccò, mostrando la carne viva e parte del teschio. I brandelli del suo viso caddero a terra assieme agli scarafaggi, finendo in quella pozza rossa che stava inglobando ogni cosa e che stava aumentando di volume. Il suo intero corpo cominciò a venirne ricoperto, mentre la montagna sotto di lei continuava ad alzarsi. Edward indietreggiò, atterrito, la propria mente incapace di metabolizzare cosa stava osservando. 

Sentì sempre più forte ed insistente quella sensazione che credeva di non poter più provare dopo la morte: paura.

Izanami raggiunse due metri di altezza, poi tre, poi quattro, poi cinque, e non si fermò. Arrivò ad almeno quindici, sovrastando del tutto non solo Edward, ma anche alcuni palazzi vicini. Il sangue si seccò, saldando tra loro i brandelli di carne, le ossa, i serpenti e i teschi. Decine e decine di tentacoli formati dai brandelli di cadaveri spuntarono dalla massa, dimenandosi in aria come fruste. 

La massa si amalgamò, creando una gigantesca figura. Il semidio non aveva idea di cosa stava guardando. Era come un enorme ragno che si reggeva su due zampe, mentre dal resto del corpo spuntavano decine e decine di gigantesche braccia e tentacoli di carne rancida e ossa. In cima alla mastodontica figura si trovava il busto di Izanami, l’unica cosa assieme alle sue braccia ad essere rimasta invariata.

Capì ben presto che quello non era qualcosa che l’occhio mortale avrebbe potuto, o dovuto, comprendere. Quella era la morte, se la morte avesse avuto un aspetto

«LA TUA SOFFERENZA SARÀ ETERNA!» urlò la dea, con una voce molto diversa da quella flebile e triste di poco prima. Ora era molto più roca e possente, come il ruggito di un drago. 

Edward rimase immobile, incapace di pensare, paralizzato di fronte a quella mostruosità. Vi fu un sibilo. Una delle zampe lo colpì in pieno, scaraventandolo via. Il mondo si capovolse, un dente gli saltò via dalla bocca e la sua guancia bruciò come se gli avessero iniettato dentro dell’acido. Si schiantò a terra e il suo urlo sovrastò il rumore delle ossa che scricchiolavano. Sentì la testa leggera e il sapore della bile in bocca. 

La terra tremò, mentre Izanami si avvicinava a lui, schiantando le zampe sul suolo ad ogni passo. 

Uno dei tentacoli lo afferrò, stringendolo così forte da farlo gridare di nuovo. Venne sollevato come una bambola di pezza e portato all’altezza del volto di Izanami, che ormai era ridotto a un cranio con pochi pezzi di carne ancora attaccati. «Pensavi di poter sconfiggere la morte?!»

Lo stritolò prima che potesse rispondere, strappandogli un altro urlo straziante. Una scarica elettrica attraversò entrambe le sue braccia, prima che perdesse la sensibilità di entrambe. Sentì del sangue scivolare dalla guancia e accasciò la testa. Gemette. «Riportami… indietro…»

Izanami urlò con una forza tale da fargli male alle orecchie. Strinse le palpebre, cercando di sopportare il dolore. Poi la forza di gravità fece il suo corso e si ritrovò schiantato al suolo. Fu come se ogni singolo osso gli fosse esploso nel corpo. Urlò ancora, più forte di quanto mai aveva gridato in vita sua. 

Poi, venne sollevato di nuovo. 

Izanami lo schiantò ancora, e ancora, e ancora, finché non sentì più nulla. Non sentì più dolore, né il proprio corpo. Venne scaraventato sulla strada, dove rotolò incontrollabile, fino a ritrovarsi con la schiena a terra e lo sguardo rivolto verso il cielo. Non riusciva a vedere nulla, solo una massa indistinta di nero e grigio. La figura mastodontica di Izanami comparve nella periferia del suo campo visivo, come una gigantesca macchia sfocata. La sua voce tuonò lungo la strada: «Ti pentirai della tua insolenza!»

Un tentacolo sferzò l’aria, schiantandosi su di lui. Edward gridò di nuovo, mentre sentiva il proprio petto venire lacerato. Tentò di mettersi carponi, facendo versi sconnessi a causa del dolore. Vi fu un altro sibilo e questa volta fu la sua schiena ad essere frustata. Il tentacolo lo schiacciò contro l’asfalto. Ormai Edward non riusciva nemmeno più a gridare.

La punizione continuò. Non seppe per quanto. I tentacoli si abbatterono su di lui, con forza tale da crepare il cemento. Se fosse stato vivo, non sarebbe mai sopravvissuto. Ma siccome era già morto, non poté fare altro che rimanere immobile mentre il suo corpo veniva dilaniato, ricevendo ferite da cui sarebbe stato impossibile guarire, provando dolori così forti da fargli supplicare di essere morto. Purtroppo quel desiderio non si sarebbe mai potuto esaudire.

All’ennesimo scossone del suo corpo, ogni cosa si fece buia. Tutto svanì, rimase solo l’oscurità. 

 

***

 

Prima di quel giorno – ammesso che in quel luogo esistessero ancora concetti come tempo, minuti, giorni eccetera – Edward non aveva idea di cosa fosse la morte. Nessuno, al di fuori degli dei probabilmente, lo sapeva.

Dopo tutto quello, era sicuro di poterla descrivere alla perfezione, al punto che avrebbe potuto comporre una poesia o un sonetto o quello che era giusto per dar fede alla sua discendenza divina.

Ma per motivi di tempo, l’avrebbe solo definita “un dolore incredibile, un veleno che corrodeva il suo corpo dall’interno, bruciando ogni singola cellula una per una, mentre la sua mente delirante proiettava flash su flash del suo passato”.

Si era smarrito spesso nei propri ricordi, durante quell'impresa. Questa volta, però, ogni cosa ebbe un peso diverso, perché sapeva che non avrebbe mai più potuto rivivere quei momenti che gli erano sembrati tanto inutili ed insignificanti. Che stupido che era stato. Come aveva potuto sottovalutarli? In quel momento, non desiderava altro che tornare indietro e riviverli tutti quanti.

Quanto avrebbe dato per tornare al giorno in cui era arrivato al Campo Mezzosangue e incontrare di nuovo quella bizzarra figlia di Demetra che lo aveva riempito di chiacchiere e che con tanto entusiasmo lo aveva portato a fare un tour del posto. Ancora in quel momento ne era convinto al cento percento, Stephanie era la ragazza più bella che avesse mai visto, un fiore estivo senza tempo e senza età. Quanto gli sarebbe piaciuto riuscire a dirglielo. 

Quanto avrebbe dato per essere di nuovo colpito in faccia da Buck ed essere deriso dalle figlie di Afrodite. Sarebbe stato fantastico avere di nuovo problemi stupidi come quelli. 

Quanto avrebbe dato per trascorrere un altro giorno al lago insieme a Thomas, a far rimbalzare le pietre sull’acqua, mentre discutevano di come avrebbero fatto a pezzi gli altri semidei nella partita di caccia al tesoro. Sedersi di nuovo a tavola con lui e gli altri figli di Ermes, mentre Derek raccontava storie assurde e inventate e Natalie obbligava tutti loro ad ingurgitare verdure.

Quanto avrebbe dato per dire a Konnor che gli dispiaceva di essere stato testardo come un mulo. E quanto avrebbe voluto dire a Lisa che, nonostante fosse stata più impulsiva di lui, non c’erano rancori e che le era grato per aver deciso di accompagnarlo in quel viaggio.

Quanto avrebbe voluto riabbracciare Rosa, sentirla cantare di nuovo e farsi massacrare da qualche altra sua sessione di allenamenti. 

Quanto avrebbe voluto fare pace con i suoi fratelli alla casa Sette. Quanto avrebbe voluto conoscere Apollo, nel profondo. 

Aveva iniziato a rimpiangere la vita da semidio e tutti i problemi che ne conseguivano. Ma in quel momento, quanto avrebbe voluto tornare a viverla. 

Solo una possibilità. Se solo avesse avuto un’altra possibilità. 

Quando Izanami lo afferrò nuovamente, sollevandolo, si riscosse dalla trance. Il mantello di oscurità attorno a lui venne strappato, al suo posto riapparve il volto ripugnante della dea. Edward gemette, vedendoci a malapena. Non aveva idea di in che condizioni fosse il suo corpo e non era nemmeno sicuro di volerlo sapere. Uno dei serpenti che formavano le braccia di Izanami si protese verso di lui, spalancando le fauci a pochi centimetri dal suo orecchio. Sollevò la testa, osservando Izanami dritta nei suoi occhi vitrei, fatti soltanto di sclera nera. Stava guardando la morte in faccia, nel vero senso della parola.

«Finalmente taci, Edward Model? Che la sanità abbia prevalso dentro di te?»

Malgrado tutto, ad Edward venne da sorridere divertito. Era chiaro ormai che sano non era mai stata la parola più adatta per descriverlo. 

Una sola possibilità. Soltanto una. Non si sarebbe arreso. Avrebbe lottato finché il suo spirito non sarebbe stato fatto a brandelli tanto quanto il suo corpo. A qualsiasi costo, sarebbe tornato indietro. 

Era immobilizzato. Non poteva muovere nemmeno un muscolo. A parte la testa. La sua fronte si stampò contro il naso di Izanami. «Tu che dici?!»

Izanami muggì di dolore, coprendosi il volto. Il tentacolo gigante lo lasciò andare ed Edward precipitò.

Quando arrivò a terra attutì la caduta facendo una capriola, per poi rimettersi carponi. Mugugnò di dolore, ma riuscì a rialzarsi. Era abbastanza sicuro che se non fosse stato per il suo lato semidivino non sarebbe mai riuscito a continuare a combattere dopo tutto quello che aveva subito. Alle sue spalle, Izanami tuonò: «DIVORERÒ LA TUA ANIMA!»

Edward si voltò, appena in tempo per schivare un tentacolo che stava per staccargli la testa di netto. «Non hai niente di più originale da dire?»

Dall’urlo furibondo che ricevette in risposta, intuì che no, non ce l’aveva. Izanami abbatté la sua furia su di lui. Edward, disarmato, non poté fare altro che schivare gli attacchi. Il suono delle ossa che si frantumavano sul suolo ad ogni colpo a vuoto riempì la strada, assieme all’ululato dell’aria che veniva sferzata dai rampicanti e le grida furiose della dea. 

Il ragazzo indietreggiò finché non si ritrovò di nuovo nei pressi del lungomare. Un altro pugno di Izanami lo mancò, finendo per distruggere un chioschetto di souvenir. Edward osservò le macerie e strinse i denti. Se avessero continuato di quel passo, avrebbe fatto la stessa fine. Non poteva schivare per sempre; gli servivano delle armi.

Purtroppo, le uniche armi che poteva trovare erano al museo d’arte, che si trovava da tutt’altra parte della città.

«Perché non vuoi lasciarmi andare?!» gridò, tentando di guadagnare tempo. «Io non ho fatto niente di male!»

«Ti ostini a non capire, Edward Model» replicò Izanami, con quella voce possente e cavernosa, mentre si trascinava sul suo corpo inumano verso di lui. «Tu non saresti mai dovuto esistere. Io ho soltanto corretto l'errore che è stato commesso.»

Ancora una volta, quella frase. Edward strinse i pugni, ribollendo di rabbia. Non ne poteva più. Era stanco di sentirlo. Stanco. Finalmente, dopo esserselo tenuto dentro per diciotto anni di vita, lo urlò a pieni polmoni: «IO. NON SONO. UN ERRORE!» 

Non aveva idea di quanto avesse voluto dirlo. Non appena lo fece, sentì un’incredibile sensazione pervaderlo. Un dolce torpore che avvolse il suo corpo come un abbraccio. Una leggerezza che mai aveva provato, come se quel male fosse appena stato estirpato.

A furia di sentirselo dire, aveva quasi finito con il crederci davvero. Lui stesso se l’era ripetuto tante volte, durante i periodi più grigi della sua vita. Ma era questo quello che provocavano la tristezza e la disperazione. Ed era stanco di provarle.

Izanami, gli dei, tutti quelli che l’avevano creduto, tutti quanti dovevano sentirlo. Lui non era un errore. 

«Non sono un errore! Mi riprenderò ciò che è mio di diritto! E se vuoi provare a fermarmi, bene, fatti avanti! Sconfiggerò anche te, Izanami! SCONFIGGERÒ LA MORTE!»

Osservò la dea furente, con il fiato pesante, le mani che formicolavano, pronte a fare a pezzi quel corpo mastodontico. Izanami, d’altro canto, si abbassò con una calma straziante, per squadrarlo meglio. Tutta la sua furia sembrava essere svanita nel nulla. «Dunque credi davvero di poter sconfiggere la morte, Edward Model?»

«Ne sono certo.»

Un inquietantissimo sorriso apparve sul volto cadaverico della donna. «Molto bene, figlio di Apollo. Se saprai sconfiggermi, avrai ciò che desideri. Ti riporterò indietro.»

Edward spalancò gli occhi per l’incredulità. Tuttavia, sapeva che non poteva essere così semplice. «E se dovessi perdere?»

Izanami distese il suo ghigno, come se stesse aspettando proprio quella domanda. «Rimarrai per sempre nello Yomi, conservando tutti i tuoi ricordi. Ogni giorno rimpiangerai il tuo passato. Ogni giorno proverai la stessa agonia che provo tutt’ora io. Ogni giorno ti sveglierai in lacrime. E ogni giorno verrai torturato da me, per l’eternità. Ti farò provare dolori che neanche puoi immaginare. E quando penserai di essere arrivato al limite, guarirò le tue ferite, così da poterti torturare ancora. Sarai il mio passatempo, il mio animale da compagnia nella solitudine di questo luogo. E poi…» Si passò la lingua sulle labbra che non aveva più. Qualcosa che Edward preferì non avere mai, mai, mai e poi mai visto. «… sei degno della nomea di tuo padre, figlio di Apollo. Sono certa che troverò molti altri usi per te…»

Mai come in quel momento Edward pensò che la storia delle domande a cui non ricevere risposta fosse azzeccata. Adesso sì che avrebbe avuto materiale per gli incubi per il resto della sua triste esistenza. 

«Affare fatto?» domandò Izanami, avvicinandosi ancora di più, ritrovandosi faccia a faccia con lui.

Il semidio deglutì, ancora inorridito da ciò che aveva sentito. Poi si riscosse, concentrandosi sul suo lato dell’accordo. Una seconda chance. Non se la sarebbe lasciata sfuggire, non gli importava chi o cosa avrebbe dovuto affrontare. Avrebbe sconfitto la morte. Sarebbe tornato indietro. Avrebbe corretto i suoi errori.

Osservò la morte dritta negli occhi ed annuì. «Affare fatto.»

Izanami rise. Fu un suono orribile, come un coltello che sfregava su una lavagna. Poi uno dei suoi tentacoli si abbatté su di lui. Edward lo schivò per un soffio e la passerella di legno venne distrutta al suo posto. Corse lungo il lungomare, mentre Izanami cercava di farlo a pezzi. 

«Coraggio, non essere timido, vedrai che ti piacerà stare qui!» esclamò Stephanie nella sua mente all’improvviso, mentre lo accompagnava in giro per il Campo Mezzosangue, il giorno in cui era arrivato là. 

Altre urla furiose. I tentacoli calarono, distruggendo tutto quello che incontravano. Nell’occhio del ciclone, Edward strinse i denti e si coprì il volto dalle schegge di legno che saltavano da tutte le parti.

«Io sono Thomas Blake, figlio di Ermes, ma puoi anche chiamarmi Tommy» si presentò il ragazzo con i capelli rossi, stringendogli la mano e rivolgendogli un sorriso gentile. «Piacere di conoscerti.»

Edward saltò, evitando un altro devastante pugno. Afferrò un pezzo di legno spaccato e lo conficcò in una delle braccia di Izanami, senza nessun risultato se non quello di farla infuriare ancora di più. 

«Se davvero pensi che mi lascerò intimidire da un pezzente come te ti sbagli di grosso. Vali meno di zero. Proprio la quattrocchi e il nano» ghignò Jane, indicando lui, Stephanie e Thomas.

Una scheggia gli finì in un fianco, mozzandogli il respiro. Se la staccò, sanguinando come una fontana. Imprecò, ma non si arrese. 

«Cambia atteggiamento, o non durerai una settimana» gracchiò Konnor, la prima volta che si erano incontrati, fissandolo dall’alto. 

Corse fra i tentacoli di Izanami, destreggiandosi in mezzo a quella selva mortale, saltando e rotolando, avvicinandosi al suo mastodontico corpo. 

«Mi piacerebbe provare a cantare questa canzone davanti a tutti, ma non così. Al posto di questa chitarra me ne serve una elettrica, e mi servirebbero anche bassista e batterista. E i pyro! Cosa non farei con i pyro!» esclamò Rosa, con sguardo sognante. «Mi immagino uno spettacolo di luci, fumo e fuochi artificiali, il tutto sotto le grida di giubilo degli altri! Oh, dei, sarebbe stupendo! E le facce che farebbero i nostri fratelli… già riesco a vederle!» 

Edward non si sarebbe fermato. Aveva superato decine, centinaia di ostacoli durante la sua vita. Avrebbe superato anche quello. Sarebbe tornato indietro. Si sarebbe preso la sua seconda possibilità. Per essere migliore. Per apprezzare di più quello che aveva. 

«Per quello che mi riguarda, questa votazione ha solo posticipato la tua morte, l’unica differenza è che sarai tu a causarla con le tue stesse mani» borbottò Dioniso con voce svogliata, mentre sorseggiava da una lattina di Diet Coke.

Un altro braccio si schiantò accanto a lui, sfondando il legno. Quando Izanami lo ritirò, Edward ci saltò sopra e sfruttò lo slancio per raggiungere di nuovo il volto della dea. Urlò, avventandosi su di lei. Quando fu abbastanza vicino, però, un tentacolo frustò l’aria, colpendolo in pieno. 

«Che cosa farete una volta a San Francisco? Regalerete ai mostri fiori? Proverete a rubargli le scarpe? Magari gli dedicherete una bella poesia?» domandò Buck con un ghigno divertito, la sera del Consiglio. 

Edward gridò ancora, questa volta per il dolore, e si ritrovò catapultato a terra. Si scorticò lungo il suolo, sentendo la pelle delle braccia in fiamme. 

«Mentre questi pagliacci rimarranno qui a prendermi in giro senza fare nulla di concreto, io smuoverò le chiappe dalla sedia e andrò a darmi da fare per salvare quelle di tutti!» esclamò Lisa.

Il figlio di Apollo sputò un grosso grumo di sangue e tentò a fatica di tirarsi su sui gomiti. L’ombra di Izanami lo sovrastò e un altro tentacolo scese su di lui. Edward rotolò di lato, evitandolo per un soffio mentre la passerella veniva sfondata. Il rumore fu assordante e venne investito da una pioggia di polvere e detriti. 

«Ebbene sì. La tua cara sorella è qui con noi, ed è in perfetta salute» affermò Orochi, sorridendo divertito mentre gli mostrava Rosa intrappolata in un bozzolo di tenebre.

Tossì, rimettendosi di nuovo in piedi. Il dolore era insostenibile. Era un figlio di Apollo, sapeva riconoscere la gravità delle proprie ferite, e le sue erano così gravi che non era nemmeno il caso di preoccuparsene, perché tanto sarebbe stato inutile cercare di guarirle. 

«Troppo lento, semidio, troppo lento! Avere quella spada non serve a niente se non si sa come brandirla!» lo provocò Milù, evitando i suoi attacchi per l’ennesima volta senza nessuna fatica. 

Un altro tentacolo si schiantò su di lui. Edward sollevò le braccia, tentando di arrestarlo. Venne schiacciato a terra e altre schegge gli si conficcarono nella schiena, facendolo sbraitare per il dolore.

«Le persone oneste possono vedere attraverso la natura subdola di una kitsune. Sembra però che tu abbia avuto qualche problemino…» commentò Shinjiro, sogghignando dentro la sua gabbietta.

Lasciò la presa, stramazzando a terra. Izanami lo afferrò per le gambe e le braccia, sollevandolo. I serpenti sibilarono contro di lui, mentre un quinto tentacolo appariva dal nulla, trafiggendolo all’addome. Edward rovesciò la testa all’indietro, gridando con quanto fiato aveva ancora in corpo. 

«Non devi scusarti con me. Quello che devi fare ora è approfittare di questa notte per riflettere sulle tue azioni» lo rimproverò Artemide, la sera in cui aveva deciso di proseguire da solo. «Dovrai scegliere la strada che vuoi percorrere. E quando sarai sicuro di aver scelto quella giusta, non voltarti più indietro. Solo così avremo una possibilità di scongiurare la guerra.» 

Sangue scivolò dalla sua bocca. Gemette, il suo corpo venne colpito da uno spasmo.

«Sei stato un abile avversario. Hai combattuto per quello che credevi, senza mai arrenderti. E alla fine… sei davvero riuscito a proteggere i tuoi cari. Non mi dimenticherò di te, Edward» disse infine Naito, poco prima che tutto si facesse buio.

Amici, nemici. Momenti belli, momenti brutti. Non avrebbe rinunciato né agli uni né agli altri. Era diventato ciò che era diventato grazie ad entrambi i mondi. Le persone che tenevano a lui l’avevano spronato a fare del bene, quelle che l’avevano odiato lo avevano spronato a diventare migliore. Chi l’aveva guarito l’aveva aiutato a fidarsi, chi lo aveva ferito l’aveva aiutato a temprarsi. Chi si era fidato di lui, lo aveva convinto che valeva la pena di combattere per loro. E chi aveva dubitato di lui, gli aveva insegnato che era maledettamente divertente smentirli.

«Nessuno può sfuggire alla morte, Edward Model» gracchiò Izanami, rigirando il tentacolo nel suo stomaco, facendolo gridare ancora più forte. «Ma non temere: sono certa che sarai un ottimo animale da compagnia.»

Edward aprì gli occhi e la osservò. Sentì il proprio petto incendiarsi. Il dolore passò in secondo piano, diventando una pulsazione sorda. Non aveva idea di come facesse ad andare avanti in quelle condizioni e non gli interessava saperlo. In quel momento, l’unica cosa a cui riusciva a pensare era quanto si sarebbe divertito a prendere a calci nel sedere la dea. 

«Ti sbagli, Izanami.» Edward sogghignò, sentendo i propri denti impregnati di sangue. Stava sorridendo alla morte. Sì, ormai era impazzito del tutto. «Io non sarò l’animale di nessuno!»

Con un impeto di forza, si liberò dai tentacoli che gli imprigionavano le mani e afferrò quello che lo aveva trafitto. Vi fu un rumore disgustoso, tipo di qualcosa di bagnato che veniva calpestato, poi Edward riuscì ad allontanare il rampicante dal proprio stomaco, sotto lo sguardo ora atterrito di Izanami. 

Sentì la grinta nelle vene, la determinazione nelle ossa, la passione nel cuore e i fulmini nello sguardo. Non era quella la sua ora. Non sarebbe svanito lì.

Gridò, spingendo via il tentacolo, per poi liberarsi anche di quelli che lo tenevano imprigionato alle caviglie. Per un momento, Izanami rimase immobile, stordita. Il figlio di Apollo si strappò la t-shirt ormai ridotta a brandelli di dosso, rimanendo a petto nudo. Ferite orripilanti gli attraversavano la pelle dal collo alla vita, per non parlare del buco all’altezza dello stomaco, che stava grondando. 

Fissò Izanami dritta negli occhi. «Vuoi ancora sapere se penso di poter sconfiggere la morte?» 

Corse di nuovo verso di lei, rapido come non lo era mai stato. Afferrò un asse di legno spaccato mentre avanzava, con i tentacoli che di nuovo precipitavano su di lui. Per quanto impossibile da credere, Izanami sembrava ancora più furiosa di prima. Ma nemmeno la sua furia sarebbe bastata per fermarlo.

Saltò tra i tentacoli, usandoli quasi come delle liane per saltare sul corpo della dea, scalandolo come una montagna. Utilizzò ossa, teschi e quant’altro come appigli, muovendosi con l’asse di legno stretto tra i denti. Le schegge gli forarono le guance, sentiva la lingua a brandelli, ma non si fermò. Niente, niente, lo avrebbe fermato. Nemmeno la morte.

«Che stai facendo?! Scendi immediatamente!» tuonò la dea, tentando di levarselo di dosso, fallendo come una miserabile. 

Tentò di afferrarlo con una delle sue braccia, ma Edward saltò prima che la gigantesca mano potesse stringersi attorno a lui. Atterrò su un altro braccio e lo afferrò, roteando su di esso, utilizzandolo per ottenere lo slancio necessario per saltare ancora più in alto, per raggiungere il volto della dea. 

«La risposta è SÌ!» gridò, mentre l’incendio divampava dentro di lui. Dimenò l’asse spezzato, che a mezz’aria cominciò a brillare di un’accecante luce bianca. 

Quando raggiunse il volto di Izanami non aveva più un pezzo di legno tra le mani: aveva una katana dalla lama bianca scintillante. Izanami spalancò gli occhi, un attimo prima che la lama glieli strappasse via entrambi. 

Il verso più terrificante che Edward avesse mai sentito provenne dalla dea: il grido della morte che veniva ferita.

Izanami barcollò all’indietro, coprendosi gli occhi sanguinanti. Gridò verso il cielo, così forte da far scuotere le ossa di Edward. Le sue zampe collassarono, non riuscendo più a reggere il peso del suo corpo. Cominciò a tremare, mentre si sgretolava poco per volta. Brandelli di carne si staccarono dal corpo, il sangue colò come pioggia, inondando il lungo mare. 

Edward cadde a terra, atterrando in piedi, con la katana ancora stretta nella mano. Osservò il gigantesco corpo della dea ripiegarsi su sé stesso, sprofondando nel terreno dal quale era spuntato. La voce lacerante di Izanami si abbassò sempre di più, facendosi più roca e baritonale. La dea distese un braccio verso il cielo, mentre con l’altro continuava a coprirsi gli occhi. Diminuì di volume sempre di più, finché non si ritrovò anche lei a terra, all’altezza di Edward. Il sangue si ritirò di nuovo sotto la sua veste, assieme a tutta quella poltiglia di carne ed ossa. 

Ben presto, la sua terrificante figura rimase solo un ricordo, anche se le tracce indelebili del suo passaggio sarebbero rimaste nella devastazione che aveva arrecato a quel luogo.

Edward osservò la dea in silenzio, con il fiato grosso. Il suo sguardo cadde sulla katana. Non c’erano dubbi: quella era Ama no Murakumo. Non sapeva come, ma era tornata da lui. E non avrebbe mai pensato di sentirsi così felice di rivederla.

«Non… è possibile…» sussurrò Izanami all’improvviso. Era in ginocchio, riversa a terra, gli occhi sigillati e ancora imbrattati di sangue. «Come… perché…?» 

«Hai perso, Izanami» esclamò Edward. Strinse la presa attorno ad Ama no Murakumo, percependo quella sensazione di familiarità e sicurezza che solo lei riusciva a dargli. Solo in quel momento realizzò quanto gli era mancata. «Onora la tua parte del patto e rimandami indietro!»

Izanami si voltò, fissandolo con quanto odio aveva ancora in corpo. O meglio, tenendo gli occhi serrati puntati verso di lui mentre digrignava i denti rabbiosa. «Non c’è nessun patto» sibilò, con un filo di voce, per poi urlare a squarciagola e correre verso di lui. 

Edward sollevò Ama no Murakumo. Non lo avrebbe più chiesto con gentilezza: se Izanami intendeva rompere l’accordo, le avrebbe fatto cambiare idea con le cattive.

Prima che Izanami si avventasse su di lui, una luce accecante apparve all’improvviso tra di loro, accompagnata da una forte corrente d’aria. Izanami venne scaraventata a terra, mentre Edward si copri il volto, il vento che sferzava su di lui. Quando la luce si diradò, Edward schiuse le labbra sbigottito.

Un corvo era apparso dal nulla, fra lui e la dea della morte. Volteggiava a mezz’aria, battendo ritmicamente le ali dal piumaggio nero. La cosa più sorprendete, però, erano le sue zampe. Tre zampe, proprio come il corvo che aveva visto in quello stesso lungomare, ma nel mondo dei vivi.

Izanami gemette, rimettendosi in piedi tremolante. Pareva una mummia rinsecchita. Si accorse del corvo – come, Edward non poteva saperlo visto che era cieca – e si corrucciò. Parlò di nuovo in giapponese, ma questa volta Edward riuscì a capirla. 

«Perché sei qui? Che cosa significa?»

Il corvo non disse nulla. Certo, era un solo un corvo, mica parlava. Edward pensò che la dea ormai avesse perso del tutto la testa, ma tutto a un tratto un’autoritaria voce di donna risuonò nella sua mente e forse anche in quella di Izanami, a giudicare dalla sua espressione. Era la stessa che aveva udito quando aveva visto quel corvo la prima volta.

«Il semidio ha dimostrato il suo valore. Rispetta la tua parte dell’accordo e acconsenti a restituirgli la sua vita.»

«Come osi venire qui, nel mio regno, e darmi ordini?! Non hai alcuna autorità su di me!»

«E tu non hai nessuna autorità sulla vita del ragazzo. Lo hai portato qui contro il suo volere e lo hai costretto a combattere per riavere qualcosa di cui non avresti mai dovuto privarlo.»

Edward ascoltò la conversazione incredulo. Era chiaro che chiunque fosse la donna che stava parlando conosceva bene Izanami. Però sembrava essere giunta in suo aiuto, cosa che mai si sarebbe aspettato, soprattutto viste le circostanze. 

«Intendi forse prendere le sue parti?  Dopo quello che la sua famiglia ci ha fatto?!» domandò la dea della morte, con la voce carica di veleno.

«La sua famiglia. Non lui.»

Le dita di Izanami formicolarono. Sembrava in procinto di afferrare quel corvo per spennarlo. Invece, sorprendentemente, rovesciò la testa all’indietro, smarrendosi in una risata maniacale. Un suono che finì con l’aggiungersi dritto dritto alla lista già molto lunga dei carburanti per incubi di Edward.

«Guardati, figlia mia. Ridotta a darti tante pene per questi miseri mortali. Che cosa ci vedrai di tanto speciale in loro, mi domando?»

«Qualcosa che non vale la pena di spiegarti, perché tanto non la comprenderesti, madre.»

Edward batté le palpebre un paio di volte. Quindi un cadavere parlante era la madre di un pennuto? Certo perché no. Aveva sentito cose peggiori. 

«Sappi che le cose stanno per cambiare, figlia mia» disse ancora Izanami, mentre le sue ferite si rimarginavano. Il sangue si ritirò, gli occhi si riaprirono e la pelle ritornò al suo posto. Ritornò ad essere la donna avvenente e trascurata che Edward aveva conosciuto all’inizio. Il lato più seducente e misterioso della morte, che sorrise gelida verso il corvo. «Il tuo regno non durerà ancora per molto. Presto un successore degno di rappresentarci prenderà il tuo posto.» Spostò lo sguardo su di Edward, famelica. «E tutta la feccia umana verrà spazzata via.»

Il semidio assottigliò le labbra. «Non credo proprio» disse, in giapponese. Sollevò Ama no Murakumo, che brillò con intensità. «Finché avrò questa, non ci torcerete un capello.»

Izanami rise ancora, ignorando il tono determinato del semidio. «Non hai idea di cosa ti aspetta, Edward Model. Potrai anche aver sconfitto la morte, ma non credere che tutto quello che mi hai fatto non avrà conseguenze. Quanto tornerai nel mondo dei vivi, ti renderai conto che la tua sofferenza è lungi dal finire.»

«Hm. Sai che novità» gracchiò Edward, cercando di non mostrarsi intimidito, anche se in realtà si sentì davvero turbato da quelle parole. Per qualche motivo, la Izanami umana e con il corpo intatto sembrava ancora più minacciosa della sua controparte mostruosa.

La dea della morte sogghignò un’ultima volta, poi allargò le braccia, cominciando a dissolversi nel terreno. «Saluta tuo padre da parte mia, cara figlia. Digli che attendo trepidante il giorno in cui ci rivedremo.»

La voce nella mente di Edward non disse nulla. Il corvo rimase a mezz’aria, incurante. Poi, Izanami svanì nel terreno. Un silenzio irreale scese nel lungomare, interrotto solo dal rumore delle onde calme e dal battito delle ali del corvo.

«E... E adesso?» domandò, incerto. «Come torno indietro?»

Il corvo si voltò di nuovo verso di lui. Brillò di nuovo di una luce accecante all’improvviso, cogliendolo di sorpresa. Edward strinse gli occhi e si coprì con le mani, infastidito. «Ehi! Potevi avvertire prima di farlo!»

La luce filtro tra le dita, mandando sfumature rosse tra le sue palpebre serrate. Andò avanti per un tempo interminabile, cominciando a bruciargli gli occhi. Cercò di guardare da un’altra parte, ma la luce sembrava seguirlo ovunque virasse, tormentandolo. 

Poi, svanì. Edward tirò un sospiro di sollievo, sbattendo le palpebre un paio di volte per scacciare via le macchioline nei suoi occhi. Quando si guardò attorno, rimase paralizzato. Il lungomare era svanito. San Francisco era svanita. Si trovava ancora in riva al mare, ma questa volta su una spiaggia dalla sabbia nera, con le onde che la incalzavano delicate. Al posto della metropoli, di fronte a lui, si trovava una fitta foresta, con un sentiero che conduceva al suo interno. 

«Questo è Yomotsu Hirasaka, nella provincia di Izumo, in Giappone» annunciò la voce nella sua mente, mentre il corvo continuava a volteggiare attorno a lui. 

«C-Che cosa?» domandò Edward. «Ma… ma un attimo fa eravamo…»

«Mio padre sigillò l’ingresso dello Yomi con un masso proprio qui, alla cima di quel sentiero, in modo che Izanami non potesse fuggire» lo zittì la voce. «Va, Edward Model. Percorri il sentiero, raggiungi il passaggio e sposta il masso per tornare nel mondo dei vivi.»

«Aspetta… quindi…» Il ragazzo osservò la foresta e avvertì un tuffo al cuore. 

«Sì, Edward Model. Hai dimostrato il tuo valore. Sei libero di tornare dai tuoi cari.»

Edward era senza parole. Nonostante avesse ordinato a Izanami di lasciarlo andare, sapere di poterlo fare, sapere di poter tornare indietro, fu una sensazione indescrivibile.

«Grazie…» sussurrò, sentendo gli occhi inumidirsi. 

Il corvo volteggiò nell’aria. «Non ringraziarmi. Te lo sei guadagnato. Adesso vai. Quando avrai spostato il masso e sarai entrato nel passaggio, è imperativo che tu sigilli di nuovo il percorso alle tue spalle prima di continuare. Se mia madre dovesse trovarlo aperto evaderebbe, e sarebbe il caos.»

Il figlio di Apollo ripensò a quel mostro di ossa, carne e serpenti contro cui aveva combattuto. Sì, sarebbe stato davvero un problema avere quel coso che scorrazzava libero nel mondo mortale. Tuttavia, fu proprio il pensiero della dea che lo fece dubitare. «Sei… sei sicura che potrò spostarlo? Se non c’è riuscita Izanami, perché io…»

«Questo dipende da te, Edward Model. Per uscire, dovrai tirare fuori ancora una volta la forza necessaria.»

Il corvo cominciò a volare verso il cielo, ma Edward allungò la mano verso di lui. «Aspetta! Ma tu chi sei? Perché mi stai aiutando?»

«Ogni cosa ti verrà spiegata quando tornerai nel mondo dei vivi, Edward Model. Buona fortuna.»

Il pennuto volò verso l’orizzonte, diventando una minuscola macchia nel cielo grigio. Edward riportò la sua attenzione sul sentiero e tirò un profondo sospiro. Aumentò la presa attorno ad Ama no Murakumo, determinato a non lasciarla più andare. Se non era ancora crollato per tutte le ferite ricevute, dopotutto, era merito della spada. In effetti, era ancora ricoperto da capo a piedi da sangue fresco. Avrebbe fatto meglio ad andarsene da lì il prima possibile. 

«Ok…» borbottò, cominciando a camminare. «Sentiero, masso, percorso… tutto chiaro…»

Avanzò nell’entroterra, smarrendosi con la vista in quel luogo così incantevole malgrado il grigiore che avvolgeva tutto quanto. Piccoli alberi, dei bonsai, decoravano il bordo del sentiero, mentre una miriade di altri alberi multicolore dipingevano il paesaggio, svettando in riva a piccoli laghetti e calmi ruscelli. Immaginò che Stephanie avrebbe adorato quel posto. Quello nel mondo dei vivi, certo. Dopo la sua splendida esperienza nello Yomi, era abbastanza sicuro che non l’avrebbe consigliato a nessuno come meta turistica.

Beh, forse a Buck e Jane. E magari Dioniso.

Oltrepassò due colonne di pietra, disposte parallelamente ai lati del sentiero e unite da una corda sospesa, da cui pendevano tre nodi. Una strana decorazione. Oltre le colonne trovò un piedistallo tirato su con mattonelle, sul quale era posizionata una lastra nera, con delle incisioni sopra. Erano molto vecchie e sbiadite, quindi non riuscì a decifrarle, ma intuì di essere nella direzione giusta.

Continuò, salendo il pendio. Arrivò ad un piccolo spiazzale, su cui svettava un’alta montagna. Vi trovò tre massi, due in disparte in un angolo ed un altro, molto più grosso, di fronte a un arco naturale scavato nella roccia. Fu molto chiaro quale doveva spostare. Edward si avvicinò e posò il palmo su quella superficie calda. Provò a spingere, ma realizzò che era tutto inutile: quel coso era troppo grande per lui.

Si fermò a riflettere. Il corvo gli aveva detto di usare la forza necessaria, ma non aveva senso. Non aveva usato già abbastanza forza per affrontare Izanami? Che altro occorreva, ancora?

Poi, capì. La forza che aveva tirato fuori per sconfiggere la morte era dovuta ad una cosa ed una soltanto: il suo desiderio di rivedere i suoi amici e di correggere i suoi errori. Pensò a tutto quello, sentendo di nuovo il proprio petto scaldarsi. Il masso diventò come di carta all’improvviso. Riuscì a spingerlo via senza nessuna difficoltà, sorridendo trionfale. Lo oltrepassò, entrando nella galleria buia. Fece luce con Ama no Murakumo, poi, come detto dal corvo, si voltò e spostò di nuovo il masso alle sue spalle, piombando nel buio totale. Un penetrante odore di chiuso e muffa invase le sue narici, facendogli arricciare il naso. «Bleah.»

Avanzò a tentoni, il rumore dei suoi passi che riecheggiava nella caverna. A giudicare da come il suono si propagava, sembrava un tunnel interminabile. 

Non seppe per quanto andò avanti. Mano a mano che proseguiva, però, trovò sempre più faticoso camminare. Il suo corpo sembrava pesare sempre di più ad ogni passo, la gravità si faceva sempre più forte. Gemette, cadendo all’improvviso in ginocchio. La luce di Ama no Murakumo si affievolì, prima di svanire dalle sue mani. 

«No, no!» si lamentò, mentre la sua unica fonte di luce lo abbandonava, facendolo piombare nel buio completo. Quel buio, però, era molto diverso da quello che conosceva. Era un buio che non lasciava alcuno scampo. Era impossibile capire dove si trovava, a causa dell’irregolarità del terreno.

Poi, ogni ferita nel suo corpo si rianimò all’improvviso, lacerandolo dall’interno. Gridò per il dolore, stramazzando a terra, mentre ogni taglio, ogni graffio, ogni sfregio che Izanami gli aveva inflitto si accendeva come un falò dentro di lui. 

«N-No…» mormorò, stringendo la mano a pugno. A fatica, strappò un lembo di t-shirt che era rimasto incollato al suo corpo e se lo infilò in bocca, mordendolo così forte da farsi male ai denti. 

Poi, cominciò a strisciare. Ogni centimetro era un’agonia, ogni millimetro era causa di un dolore insostenibile. Eppure, non si fermò. Strisciò sulla superficie spigolosa e tagliente della caverna, graffiandosi, provocandosi tagli sopra i tagli, mordendo quel cencio con quanta forza aveva in corpo pur di ignorare il dolore. Ancora una volta, gli sembrò di andare avanti per eternità. Non perse mai di vista l’obiettivo. Lo avrebbe portato a termine, ad ogni costo.

Il più impercettibile dei movimenti divenne insostenibile. Dopo aver portato il proprio corpo allo stremo per non sapeva quanto, la sua testa crollò a terra esanime. Gemette, non sentendo più nulla. Chiuse gli occhi, rifiutandosi di fermarsi proprio lì. Sarebbe uscito da lì, non gli importava come. Se su entrambe le gambe, se sui gomiti, se sulle dita, si sarebbe trascinato anche con i denti se necessario. Ma non si sarebbe fermato.

Una corrente d’aria gli accarezzò il volto all’improvviso. Sollevò la testa, stordito, e fu costretto ad assottigliare le palpebre per via di una luce improvvisa che aveva penetrato l’oscurità. Udì rumore di passi. Qualcuno camminò verso di lui, chinandosi di fronte al suo corpo distrutto. Non riuscì a vederlo, a causa della vista appannata. Avrebbe voluto chiedergli aiuto, ma non uscì un solo sibilo dalla sua bocca.

Quello, però, non ebbe bisogno di sentire nulla. Gli tese una mano. «Forza Edward. Ci sei quasi.»

Aveva una voce famigliare. Eppure, era convinto di non averla mai sentita prima. Con un ultimo sforzo, allungò la mano verso la sua, riuscendo a stringerla. Bastò quel semplice contatto per trasmettergli un’insolita sensazione di famigliarità. Provò nostalgia di momenti che era certo di non aver mai vissuto, giorni felici, trascorsi assieme a sua madre e suo padre come in una famiglia normale, ordinaria.

«Sei stato bravo. Sono fiero di te.»

Edward cercò di metterlo a fuoco. Quel tizio stava brillando, in tutti i sensi. La sua pelle emanava una calda luce gialla. Individuò un sorriso sul suo volto e dei capelli biondi. La luce crebbe di intensità, ricoprendo ogni cosa.

Sentì il suo corpo levitare all’improvviso. E poi, tutto si fece bianco.

 

 

 

 

 

 

Ed eccoci, siete sopravvissuti a questo mattone, bene! Sarò sincero, non è stato difficile riuscire a scriverlo, anzi ci ho messo abbastanza poco in realtà, specialmente considerata la lunghezza. La parte difficile è stata riuscire a renderlo bene. Penso di esserci riuscito, ma sarete liberi di giudicare voi stessi.

Una cosa importante che è meglio chiarire è che, come anche detto nel capitolo, Edward non è uno spirito comune, ma possiede ancora legami col suo passato, che lo rendono in un certo senso meno… “morto” rispetto ad altri. Lol. Non so come spiegarlo. Questo, comunque, è il motivo per cui riesce ancora a provare emozioni, sentire dolore e, soprattutto, tirare un pugno in faccia ad Izanami senza che la sua mano la attraversi tipo Mirtilla Malcontenta. E allo stesso tempo, siccome è morto, non può perire per le ferite che ha subito. Può comunque sentire un male cane (che penso sia un eufemismo), un dolore così atroce da far desistere qualsiasi persona comune. Ma per sua fortuna, lui non è una persona comune. E questo è anche il motivo per cui è riuscito ad utilizzare di nuovo Ama no Murakumo.

Il fatto che la spada sia riapparsa in contemporanea con il corvo a tre zampe non è del tutto casuale, comunque, ma capirete più avanti (mi rendo conto che dico spesso questa cosa… spero che effettivamente siate riusciti a capire qualcosa fino a questo momento, kek)

Riguardo la trasformazione Lovecraftiana di Izanami, avevo in mente fin dall’inizio di creare qualche abominio del genere, ispirandomi soprattutto a dei boss del videogioco Bloodborne, principalmente il Rinato e Amygdala. Poi, navigando un po’, ho visto che comunque esistono già rappresentazioni di lei che non si discostano molto da questa cosa, quindi ho deciso di unire tutti gli elementi. Spero vi sia piaciuta. 

Anche se il cattivo principale era Orochi, Izanami possiamo definirla una specie di “boss segreto”, che serviva per saziare la mia sete di creare qualche mostro gigantesco e brutto che però fosse confinato in un luogo dove non avrebbe potuto creare disastri per il mondo mortale. 

Infine, la parte finale. Beh… questa è davvero libera all’interpretazione. Io mi cucio la bocca. ZIP.

Grazie per aver letto, questo capitolo mi è piaciuto molto, volevo rendere Edward un protagonista unico, molto diverso da quelli delle saghe Riordiane, e credo di esserci riuscito. Naturalmente, spetta a voi trarre le vostre conclusioni.

Bene, ho detto tutto. Grazie ancora infinite, soprattutto a Farkas e Roland per le recensioni nello scorso capitolo, e alla prossima!

 

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Capitolo 38
*** Cielo limpido ***


Questo capitolo avrebbe potuto essere lungo almeno la metà di quello che è, o anche meno, ma dato che siamo alle battute finali ho deciso di svagarmi un po' e di scrivere un po' quello che mi passava per la testa senza curarmi troppo del resto. Il pov è quello di Thomas come si può evincere dal caduceo, ma come potrete vedere, Rosa la farà abbastanza da padrona. Ho poco tempo ancora con questo personaggio, voglio sbizzarrirmi. 

Buona lettura!



 

38

Cielo limpido

 

 

Thomas non riusciva a credere che tutto fosse finito. Era troppo abituato a vedere ogni cosa finire male per cantare vittoria. Si aspettava che altri mostri apparissero, che un meteorite precipitasse, o cose così. 

Invece, nulla. Sembrava impossibile da credere, ma era così. Avevano sconfitto Orochi e non solo: ben due dei erano arrivati per occuparsi di loro. 

Quando realizzò di star entrando nella storia come uno dei primi ad aver incontrato una divinità giapponese di persona, rimase senza parole. Susanoo sorrise gioviale a tutti loro, inchinandosi ancora. 

«Quella brontolona di mia sorella Amaterasu ha fatto un po’ la difficile in questi giorni, vi voglio chiedere scusa a nome suo. In realtà nel profondo è molto affascinata da voi semidei. E la capisco.» Susanoo si raddrizzò, per poi stringere l’occhio proprio verso di lui. «Siete ragazzi eccezionali.»

Tommy si irrigidì, imbarazzato. Gli sembrò assurdo che un dio che nemmeno li conosceva e che non aveva nessuna parentela con loro fosse più gentile rispetto al novanta percento delle divinità greche. Qualcuno batté il pugno contro il suo braccio. Era Lisa, che sorrise calorosa. Anche se aveva ancora un’aria stralunata, sembrava che la sbornia le fosse passata. «Per essere un nanerottolo figlio di Ermes, sei stato piuttosto bravo.»

Il figlio di Ermes ricambiò il sorriso. «Tu invece sei stata eccezionale.»

Lisa arrossì di colpo, distogliendo lo sguardo imbarazzata. «C-Così non vale però!»

Thomas rise. Sì, era finita. Avevano vinto. E non credeva che avrebbe mai potuto sentirsi meglio di così. Gli tornarono in mente i sogni che aveva fatto, sul Campo Mezzosangue e gli altri capicasa. Non stava più nella pelle all’idea di tornare da loro. Non perché volesse sbattere in faccia il proprio successo ai suoi detrattori, ma perché quell’esperienza lo aveva cambiato. Aveva cambiato tutti loro. Sapeva che da quel giorno in poi, ogni cosa sarebbe stata diversa. E non vedeva l’ora di ricominciare sotto questa nuova luce.

Incrociò di nuovo lo sguardo di Lisa, che mai sembrava essere stata così felice. Il suo sorriso svanì lentamente, mentre si perdeva nei suoi occhi. Sentì qualcosa di strano al petto, come un sussulto. Prima che potesse soffermarcisi, udì alcuni versi e grida di giubilo. Si voltò e vide David e Travis esultare, dandosi il cinque ed abbracciandosi. 

«Ce l’abbiamo fatta amico!» esclamò Travis. 

«Ce la siamo vista brutta però…»

«Smettila di essere così negativo!»

Tommy riuscì ad abbozzare un sorriso osservandoli. Era felice che stessero entrambi bene. Non erano guerrieri formidabili, ma avevano comunque dimostrato di avere fegato.

Poi, si accorse di Artemide che si allontanava da tutti loro senza dire una parola, avvicinandosi al corpo privo di vita di Kowalski, e realizzò che non tutti erano stati così fortunati. La dea si chinò accanto a lei e l’espressione sul suo volto raccontò tutto quello che c’era bisogno di sapere. La felicità sfumò da dentro di lui. Avevano vinto, ma non senza perdite. Si sentì mortificato per le ragazze. Avevano solo cercato di aiutarli. Non sarebbero dovute morire. 

Reyna raggiunse la dea, a testa bassa. «È morta per salvarmi» mormorò, con gli occhi lucidi. «Non ho saputo proteggere le mie sorelle…»

Artemide posò una mano sul corpo di Kowalski, che si dissolse in una nuvola di polvere bianca. Si raccolse nella mano della dea. 

«Purtroppo le perdite sono inevitabili» disse, volgendo il palmo verso il cielo. La polvere si sollevò, svanendo nell’aria. «Kowalski conosceva i rischi che correva. Era una ragazza coraggiosa. Vivrà per sempre nelle stelle, insieme a Zoe e tutte le vostre sorelle. Non hai nulla di cui incolparti, Reyna.»

La figlia di Bellona annuì, anche se era chiaro che ci avrebbe messo molto prima di superare quella brutta esperienza. Anche le altre cacciatrici abbassarono la testa, chi non riuscendo a trattenere le lacrime e chi invece mantenendo i nervi saldi.

«Sarei dovuto intervenire prima…» mormorò Susanoo, anche lui turbato dalle ragazze in lutto. «Mi dispiace Artemide.»

«Mi auguro solo che questa nostra tregua possa prevenire altri spargimenti di sangue come questo» rispose Artemide, con tono neutro. 

«Me lo auguro anch’io.»

«Tregua?» domandò Konnor al dio.

Susanoo si strinse nelle spalle. «Mia sorella e Zeus sono giunti ad un accordo di non belligeranza, almeno per l’immediato futuro. Temiamo che qualcuno si stia muovendo alle spalle di tutti noi. Dobbiamo essere uniti, nell’eventualità in cui altre minacce come Orochi si palesino.»

Tommy ripensò al suo scontro con Efialte e a ciò che Ermes gli aveva detto. Qualcuno aveva fatto evadere i gemelli, approfittando del caos tra gli dei e della minaccia di Orochi. Sembrava più chiaro che mai che qualcos’altro stava succedendo sotto tutti i loro nasi. Qualcosa di brutto.

«Ma… che ne è stato di Orochi? È morto?» domandò Stephanie, osservando le tracce di polvere rimaste. 

Il dio piegò la testa. «Orochi non è il tipo di creatura che si può uccidere tanto facilmente. No, non è morto, ma è stato esiliato in un luogo da cui non potrà più evadere. Non dovrete più preoccuparvi di lui, vi do la mia parola.»

Stephanie non sembrò molto convinta. Nemmeno a Thomas piacque l’idea che Orochi fosse ancora vivo. Tuttavia, non sapevano come funzionassero le cose nel mondo orientale e non avevano alcun diritto di discutere la decisione di Susanoo. 

Nei minuti successivi, le cacciatrici di Artemide continuarono ad occuparsi delle loro compagne cadute, mentre Reyna ed un altro gruppetto si prendevano cura di Talia, versandole gocce di acqua di luna tra le labbra e medicando le sue ferite. Comunque volevano metterla, quel giorno le cacciatrici avevano subito uno smacco non indifferente. Anche se avevano vinto, la profonda ferita che Orochi aveva inflitto loro non sarebbe svanita molto presto. 

Come prevedibile, quando la figlia di Zeus si svegliò diede di matto. Per prima cosa, domandò dove fosse Orochi così da poterlo uccidere con le proprie mani, sfoderando tutto il proprio vocabolario di insulti e imprecazioni nei suoi confronti. Quando riuscirono a spiegarle che ormai era tutto finito e soprattutto quando si accorse di Artemide, si diede un contegno. E quando realizzò che alcune sue compagne erano morte, proprio come Reyna abbassò la testa abbattuta, sentendosi responsabile. 

Osservando le loro reazioni, Tommy si domandò che cosa avrebbe potuto provare se avesse perso uno dei suoi fratelli della Capanna Undici. Non voleva nemmeno pensarci. Gli bastò solo quello per comprendere il dolore delle ragazze. Tuttavia, non voleva che quel momento venisse incrinato dal dolore. 

«Per quello che vale…» cominciò a dire, ottenendo l’attenzione di tutte loro su di sé. Avvampò, imbarazzato, poi chinò la testa. «… vi ringrazio per averci aiutati. Non ce l’avremmo fatta senza di voi.»

Non udendo nessuna risposta, tirò di nuovo su la testa. Le cacciatrici lo osservavano immobili, così come Artemide. Anche Rosa lo guardò. Solo in quel momento si rese conto che lei era lì, a un palmo di distanza. Quando incrociò il suo sguardo, lei gli sorrise, facendolo sussultare. 

Improvvisamente, anche Lisa abbassò la testa. «Ha ragione. Vi siamo grati dell’aiuto.»

«È stato un onore combattere al vostro fianco» affermò Konnor imitandoli. «La vostra fama è meritata. Siete guerriere incredibili.»

«Grazie infinite» concluse Stephanie. «Se non fosse stato per voi, io…» Esitò, interrompendosi. «Non voglio neanche pensarci. Grazie, davvero.»

Artemide li esaminò rimanendo in silenzio. Tommy pensò di aver appena coinvolto i suoi compagni in qualche follia, invece la dea della caccia ricambiò l’inchino, imitata da Reyna, poi Talia, poi tutte le altre. «Avete combattuto con coraggio. L’onore è nostro.»

Per la prima volta da quando aveva incontrato quelle ragazze, riuscì a scorgere un barlume di rispetto nei loro occhi. E soprattutto, la tristezza che aleggiava nell’aria finalmente si stemperò.

«Divina Artemide!» gridò qualcuno, con voce agitata. 

Tutti quanti si voltarono verso le scale del museo, dove alcune cacciatrici entrate per recuperare le altre vittime di Orochi stavano scendendo affannate, trasportando un corpo per le braccia e le caviglie. Non appena lo vide, Thomas sgranò gli occhi atterrito. 

Era Edward.

Un convoglio di persone si ammassò attorno a loro quando li raggiunsero. Tommy fu costretto a sgattaiolare in mezzo alle ragazze per riuscire ad avvicinarsi. Quando riuscì a passare e a vedere meglio l’amico, sentì il petto stringersi in una morsa. Edward era pallido come un lenzuolo, occhi chiusi, labbra sigillate, immobile, con uno sfregio rosa che si intravedeva sotto la maglietta strappata.

«No…» disse, mentre la vista gli si appannava. Si chinò accanto a lui, osservandolo come in trance. «No…»

Non riusciva a crederci. Non poteva essere vero. Sentì alcuni gemiti e mosse la testa in automatico, senza nemmeno avere controllo dei suoi movimenti. Vide Stephanie con gli occhi arrossati e le mani di fronte al volto, scossa tanto quanto lui. «M-Mi dispiace Tommy… dovevo… dovevo dirvelo prima…»

Thomas batté le palpebre, confuso. Non riuscì a capire cosa volesse dirgli l’amica. Non riusciva nemmeno a pensare. Ogni suono, ogni rumore attorno a lui cominciò ad affievolirsi, rimpiazzato unicamente da quello del suo cuore che batteva all’impazzata, pulsandogli nelle orecchie, e il suo respiro profondo. 

Una mano si posò sulla sua spalla, facendolo sussultare. Lisa si era chinata accanto a lui, con sguardo apprensivo. Tommy la guardò, ma non riuscì a vederla davvero. Stephanie pianse, affondando il volto contro il petto di Konnor, che la abbracciò con sguardo triste. 

Fu proprio quel pianto a farlo sbloccare. Furono i gemiti di un’amica in lacrime a fargli capire che cos'era successo. Edward non ce l'aveva fatta. A quel punto, le lacrime caddero anche dai suoi occhi. Cominciarono piano, una alla volta. Poi, non riuscì più a contenersi. Abbassò la testa, portandosi una mano sopra gli occhi, e si lasciò andare. Il braccio di Lisa lo avvolse e la sua testa si appoggiò sulla sua spalla per confortarlo, ma lui a stento riuscì ad accorgersene. Così come a stento sentì la voce di Artemide che suggeriva alle cacciatrici di lasciare spazio ai semidei. 

Non poteva credere che fosse finita così. Non dopo tutto quello che avevano passato. Non dopo aver visto Edward combattere. Non poteva accettare che l’amico non ci fosse più. Non poteva. 

Non avrebbe mai più smesso di sentirsi in colpa per quello che era successo. Sapeva che Edward gli avrebbe detto di non farlo, sapeva che Edward non avrebbe nemmeno voluto che lui lo piangesse, ma era proprio per questo che lo stava facendo. 

Riuscì a scorgere Rosa chinarsi accanto al fratello, dal lato opposto rispetto al suo. Anche lei sembrava devastata e non c’era nessun bisogno di domandarsi perché. Accarezzò le cicatrici sul volto di Edward, con gli occhi verdi brillanti per le lacrime. 

«Hermano…» bisbigliò, prima che la voce le si incrinasse.

E poi, vi fu un gemito. Fu come uno schiocco di dita che ridestava qualcuno da un dormiveglia. Tommy trasalì, allontanando la mano dal volto. Anche Rosa spalancò gli occhi, mentre Steph si staccava da Konnor, altrettanto scioccata.

Le dita di Edward formicolarono, suscitando alcuni versi sorpresi. Poi, le sue spalle vennero colpite da uno scossone, seguite da un altro gemito. Cominciò a tremare e la fronte gli si imperlò di sudore. Riacquisì un po’ di colore e gemette ancora, venendo colpito da un altro spasmo. Tommy guardò Edward scioccato. Aveva già visto una cosa simile, quando Konnor era stato ferito da Naito. 

Thomas riuscì a sollevare lo sguardo, accorgendosi dell’espressione rilassata di Susanoo. Quando il dio si accorse di lui, gli sorrise di nuovo e gli strizzò l’occhio. 

Infine, Edward riaprì gli occhi. Nel suo sguardo balenarono confusione, sorpresa e stupore tutti in una volta sola. Si mise a sedere, mentre una folla di venti persone teneva il fiato sospeso. 

«C-Cosa…» cominciò a dire, con voce impastata. «Che… che è successo?»

Purtroppo per lui, l’unica risposta che ottenne fu un piccoletto coi capelli rossi che si fiondò su di lui. «EDWARD!»

Era passato dall'incredulità alla tristezza a di nuovo incredulità e poi immensa felicità. Non credeva che il suo cervello fosse in grado di processare emozioni così differenti tra loro così rapidamente, eppure era successo. 

Non aveva idea di cosa fosse successo, come avesse fatto Edward a svegliarsi, a riprendere a respirare, ma non importava. Aveva creduto di averlo perso, ma si era sbagliato, e per una volta non poté sentirsi più felice di ciò.

Fujinami aveva detto che era ferito, perciò non si sorprese dei versi di dolore del figlio di Apollo quando per poco non gli ruppe la schiena. 

«AH! Vacci piano amico» si lamentò, riuscendo comunque a ridacchiare. «Così mi fai fuori.»

«Scusa» disse Tommy, anche se era troppo eccitato per smettere di sorridere. «Ma che cavolo ti è successo? Ti hanno portato qua fuori e sembravi… beh…»

«Lascia perdere, tanto non mi crederesti.»

«Addirittura?»

Edward ridacchiò ancora, facendo di nuovo quell’espressione divertita che aveva imparato a caratterizzarlo, anche se gemette un paio di volte di dolore, posandosi una mano sullo stomaco. «Avreste un po’ di ambrosia? Mi servirebbe proprio…»

«Certo, aspetta.»

Lo aiutò a rialzarsi. Edward si accorse della marea di persone attorno a loro. «Ragazzi…» mormorò, rivolto a Lisa, Steph e Konnor. 

La figlia di Bacco lo salutò timida con la mano, mentre Konnor rimase immobile, in silenzio. Steph sembrava paralizzata. 

«Edward…» sussurrò, con voce mite. Thomas non poteva sapere cosa stava pensando con certezza, ma non faticava ad immaginarlo. Aveva raccontato a tutti loro cos’era successo in quel bosco maledetto.

«Ehi, Steph…» disse lui, titubante. Non sembravano sentirsi affatto a proprio agio. Thomas non avrebbe mai pensato di vederli così. Sembravano quasi due estranei nonostante tutto quello che avevano passato.

«Credevo… credevo che fossi…» cominciò Stephanie, parlando a fatica. Si torturò le mani, portandosele di fronte al grembo. «Ti avevo… ti avevo visto a terra e… e… non respiravi più, e…»

«Sto bene, Steph. Puoi stare tranquilla.»

Invece, la figlia di Demetra fece l’opposto. Gli occhi le si inumidirono, poi si gettò tra le sue braccia, iniziando a piangere a dirotto. Tommy si scostò con delicatezza, per non essere d’intralcio. 

«Mi… mi dispiace» pianse lei, con le spalle che sobbalzavano. «Mi dispiace di non essermi fidata, mi dispiace di… di averti aggredito… non volevo…»

Edward ricambiò l’abbraccio con forza, consolandola con voce calma: «Va tutto bene, Steph. Ho sbagliato anch’io.»

Rimasero stretti ancora per diversi istanti. Stephanie sembrava parecchio scossa, Edward invece triste. Thomas sperò che il loro rapporto non si fosse incrinato per sempre. Voleva bene ad entrambi, non sarebbe stato facile nemmeno per lui vederli prendere strade separate.

«Edward.» 

Artemide chiamò il semidio, portandosi le mani dietro la schiena. Una strana luce balenò nei suoi occhi mentre fissava i semidei abbracciati.

«Z-Zia?» domandò lui, spalancando la bocca. Si separò da Stephanie, Tommy non seppe se per paura o per rispetto o per entrambe le cose. Poi, Edward si accorse anche di Susanoo. La sua reazione mutò drasticamente. «Ancora tu?!»

Il mendicante sorrise di nuovo smagliante. «Figliolo! È un piacere rivederti!»

«Lo conosci?» domandò Tommy, sorpreso.

Edward scosse la testa con energia, indicandolo. «Continuo a ritrovarmelo tra i piedi ovunque vada! Questo tizio mi perseguita!»

Susanoo rovesciò la testa all’indietro, in una fragorosa risata. Edward sembrò alterarsi ancora di più. «Che c’è di divertente?!»

«Edward!» lo chiamò Stephanie, agitata. «Cerca di essere più rispettoso, è il divino Susanoo!»

«Chi?!» Poi, il figlio di Apollo spalancò le palpebre. «O-Oh…»

Il dio continuò a ridere, incurante. Tommy cominciò a prenderlo in simpatia. Se fossero stati tutti affabili come lui, gli dei non avrebbero mai litigato tra di loro. Artemide, d’altro canto, non sembrò lasciarsi influenzare dal buonumore del dio nipponico. La sua espressione seria rimase immutata.

«E… come mai c'è tutta questa gente qui?» chiese a quel punto Edward. Si grattò una guancia distrattamente e Tommy colse il suo disagio.

«Ci sono un po’ di cose che dobbiamo raccontarti» spiegò il figlio di Ermes, prima che Rosa si parasse di fronte a loro, scrutando il fratello con aria grave.

«Rosa…» disse Edward, con un filo di voce, per poi illuminarsi. «Stai bene!» Tese le braccia verso di lei per abbracciarla. 

Thomas sorrise, felice di rivedere i due fratelli riuniti dopo tutto quello che era successo, ma ciò che fece Rosa scioccò lui e tutti i presenti. 

Quando Edward le fu vicino, lei gli sferrò un pugno allo stomaco, facendogli emettere un verso strozzato. Edward cadde in ginocchio, premendosi le mani sull’addome, e si accasciò a terra mugugnando come uno zombie. Con la testa rivolta verso il basso e con voce incrinata, si lamentò a fatica: «Ma… perché…»

«Cosa diavolo ti è saltato in testa, razza di idiota?!» esclamò Rosa, furibonda. «Hai stretto un patto con Orochi!»

«Posso… spiegare…» si giustificò il figlio di Apollo, ancora accasciato a terra. Allungò una mano verso la caviglia di lei, facendo altri versi sconnessi. 

Rosa sollevò gli occhi al cielo, sospirando esausta. «Finiscila di fare il melodrammatico. Tirati su, forza.» 

«Rosa! Sei impazzita?!» esclamò Thomas, atterrito, prima di chinarsi di nuovo accanto a lui, posandogli una mano sulla schiena. 

«Sta bene, gli piace solo fare un po’ di scena» ribatté Rosa, per nulla impressionata. «Al Campo Mezzosangue lo faceva di continuo.»

A Tommy, però, non sembrava affatto che stesse fingendo. Con molta fatica, riuscì ad aiutarlo ad alzarsi una seconda volta. Il volto di Edward era un’unica espressione sofferente. Sembrava davvero distrutto, al punto che pure Rosa parve realizzare che, forse, aveva esagerato un po’. Le sue guance si tinsero di rosso quando si accorse che tutti la stavano osservando allibiti. «D-Dategli dell’ambrosia, su…» farfugliò imbarazzata. 

Tommy si sfilò lo zainetto, ancora scioccato da quanto appena successo. Cercò tra il miliardo di oggetti ammassati lì dentro, poi trovò quello che cercava. Ne era rimasta poca, ma era sicuro che sarebbe stata sufficiente per rimettere in sesto l’amico. La scartò e la diede ad Edward, quasi imboccandolo.

Il figlio di Apollo mandò giù, poi prese una gran boccata d’aria e annuì. «Grazie, va un po’ meglio ora…» 

In realtà non sembrava cambiato molto, ma se non altro ora riusciva a muoversi senza alcun aiuto. Si staccò da Thomas, poi tornò a guardare tutti i presenti, dei inclusi. «Immagino… di avere anch’io un po’ di cose da raccontare.»

 

***

 

In poco tempo, le cacciatrici riuscirono ad allestire un piccolo accampamento di fortuna in quel parco. I mortali avevano ripreso a camminare attorno a loro e di fronte al museo come se non fosse successo nulla. Nessuno si accorse di quella ventina di persone raggruppate sotto gli occhi di tutti.

La foschia di San Francisco era molto potente, ma sicuramente anche la presenza di Artemide e Susanoo li stava aiutando a rimanere schermati. E a proposito delle due divinità, rimasero in disparte insieme a Fujinami ancora per qualche minuto, a discutere tra loro, lanciando evidenti occhiate in direzione di Edward. 

Mentre le cacciatrici si rifocillavano e si occupavano delle ferite, i semidei crearono un semicerchio attorno ad Edward, che si appoggiò al tronco dell’albero con la schiena, mordicchiando uno dei panini confezionati che le cacciatrici avevano offerto a tutti loro. Tommy non si era reso conto di avere fame finché non ne aveva addentato anche lui uno. Erano deliziosi e ce n’era per tutti i gusti. Perfino le kamaitachi sembrarono apprezzare, dividendosene uno tra di loro in un angolino indisturbato dell'accampamento.

«Pensavo che i figli di Demetra fossero tutti vegetariani» commentò Rosa osservando Steph che, senza troppi complimenti, si stava sbranando un panino con il roast beef. 

La suddetta figlia di Demetra smise di massacrare il suo pasto e arrossì appena. «Alcuni lo sono, sì. Però… la carne mi piace troppo…»

«Siamo in due» concordò Rosa, dando un morso che avrebbe fatto impallidire uno squalo al proprio panino di bacon e insalata. Era almeno il terzo che si mangiava. Quella tizia sembrava senza fondo, perfino peggio dei fratelli di Tommy, e non era cosa da poco. Tuttavia, vederla così affamata ed energica era un segno che stava bene nonostante tutto quello che aveva passato, il che era una splendida cosa.

Sapere che Rosa era viva, insieme a loro, riempiva il cuore del semidio di gioia. E allo stesso tempo, l’idea di poterle rivolgere la parola, l’idea che si trovasse così vicina a lui lo stava mandando al manicomio. 

Aveva affrontato mostri, demoni, perfino Giganti e Orochi. Eppure, il pensiero parlarle sembrava più terrificante di tutto quello messo assieme. Forse avrebbe dovuto chiedere qualche consiglio a suo padre quando ne aveva avuto l’occasione, visto che lui era riuscito a conquistare perfino Afrodite un paio di volte.

Un colpo di singhiozzo lo fece voltare verso di Lisa, che si coprì la bocca imbarazzata. 

«Forse ho mangiato troppo in fretta…» si giustificò. Le sue labbra intrise di salsa testimoniavano a favore di quella tesi. Tommy gliele fece notare e lei si ripulì alla bell’e meglio, con le guance imporporate. Il semidio ridacchiò, beccandosi una spintarella dalla figlia di Bacco.

«Ho visto Orochi in sogno» cominciò a spiegare Edward con calma, una volta che tutti furono a loro agio. «È stato lì che abbiamo stretto l'accordo. La spada in cambio di Rosa.»

Raccontò ogni cosa. Non solo riguardo l’accordo, ma anche riguardo la spada. Spiegò che sua madre l’aveva rubata e che in qualche modo l’aveva tramandata a lui, raccontò i sogni che aveva fatto, il suo incontro con Susanoo e spiegò cos’era successo quando era andato avanti da solo. Raccontò di come avesse tradito Orochi, affrontandolo e uccidendo tutti – o quasi, ma a quello ci sarebbero arrivati dopo – i suoi scagnozzi. Per concludere, disse di essere svenuto dopo aver restituito la spada, forse per via di “qualche strano potere divino o cose così”. Tommy non avrebbe saputo trovare un termine migliore per spiegare il novanta percento delle loro vite.

Edward fece vagare lo sguardo su tutti loro, soprattutto sulla sorella, con cui si fece apprensivo. «Non ho mai creduto per un momento che lui avrebbe tenuto fede alla sua parola. Ma ero certo che se gli avessi promesso la spada, lui ti avrebbe risparmiato la vita fino al nostro incontro. Sapeva perfettamente che se ti avesse uccisa io non gli avrei mai consegnato Ama no Murakumo. Dovevo fargli credere che ero disposto ad accettare l’accordo per guadagnare tempo. Il mio piano è sempre stato quello di salvarti e poi restituire la spada.»

Rosa ricambiò lo sguardo con il fratello. Le sue labbra si assottigliarono, divenendo una linea. «Sei comunque stato un irresponsabile.»

Edward sorrise. «Mi conosci, no?»

La semidea sospirò, apparendo per la prima volta davvero provata. «Sì… ti conosco.» 

Si alzò in piedi. Lo raggiunse e gli tese una mano, aiutandolo ad alzarsi. Lo fissò negli occhi, poi le sue labbra tremolarono. Lo abbracciò di getto, posando la fronte sulla sua spalla. Un gemito le sfuggì dalla bocca. «Grazie… per avermi salvata…»

«Se ti avessi persa non me lo sarei mai perdonato» disse Edward, accarezzandole la schiena per poi sorridere. «Anche Jonathan e gli altri erano sconvolti, sai? Saranno felici di rivederti.»

Tommy pensò che avrebbe potuto piangere per la commozione. Non c’erano parole per descrivere quanto fosse felice di vedere che entrambi stavano bene ed erano di nuovo insieme. Ricordava bene quanto fossero diventati inseparabili al Campo Mezzosangue. Sembrava passata un’eternità da allora. 

Quando i due fratelli si separarono e si accorsero di avere gli sguardi di tutti puntati su di loro non ne sembrarono molto entusiasti. Per essere figli del dio più vanitoso e affamato di attenzioni di tutti, erano due ragazzi molto riservati.

«Ma… perché non ce ne hai mai parlato?» domandò Stephanie, mentre Edward si sedeva di nuovo. «Avremmo potuto aiutarti…»

«Orochi mi spiava. Sapeva i nostri movimenti, sapeva della profezia, dell’impresa, del museo, ogni cosa. Se ve ne avessi parlato avrebbe potuto uccidere Rosa. Mi dispiace di non avervi coinvolti, ma non potevo rischiare.»

Stephanie annuì, mesta. Dal canto suo, Tommy non aveva bisogno di sentire altro. Aveva sempre saputo che poteva fidarsi di Edward. Fin dal giorno in cui l’aveva conosciuto, aveva capito che Edward non era mosso da altro che buone intenzioni. A volte era stato un po’ impulsivo, ma non era stupido. Quando prendeva una decisione, sapeva sempre come comportarsi.

«Se sapevi che ti avrebbe tradito, perché non l’hai fatto giurare sullo Stige?» domandò Konnor, inarcando un sopracciglio.

Per un istante, tutti poterono vedere il vuoto che aleggiava nella mente di Edward, mentre annaspava per una risposta. «Ehm… non… credo di averci pensato…» ammise. 

«Dios mio» mugugnò Rosa, sollevando gli occhi al cielo. «Mi hermano es un tonto.»

Lisa sghignazzò, coprendosi la bocca. «Un tonto enorme.»

Anche Rosa ridacchiò. Accorgendosi degli sguardi confusi di tutti, le due risero ancora più forte. 

«Cosa? Che avete da ridere?!» protestò Edward, ottenendo risa ancora più forti in risposta.

«Ma… parli anche spagnolo?» bisbigliò Tommy a Lisa.

Lei lo folgorò con lo sguardo. «Era italiano quello. Tonto americano.»

Thomas batté le palpebre, non capendoci più niente. 

«Però un po’ mi sarebbe piaciuto vedere questa spada» disse Rosa, osservando il fratello contrariata. «Al campo non me ne hai mai parlato…»

Ancora una volta, Edward si grattò la guancia imbarazzato. «Beh… non sapevo ancora come farla apparire a piacimento, in realtà. E comunque, dopo quella volta che l’ho usata contro gli scorpioni durante la sfida, Chirone mi ha fatto promettere di non parlarne con nessuno. Gli unici oltre a me a sapere qualcosa erano Steph, Tommy e Konnor.» 

Rosa assottigliò le palpebre. «Quindi è così che hai ucciso tutti quegli scorpioni, maledetto imbroglione!»

«Ancora pensi a quella storia? Impara ad accettare la sconfitta, hermana

«Aspetta di tornare al campo. Ti massacrerò.»

Vi furono altre risate. Tommy doveva ammetterlo, quei due erano contagiosi. Avrebbero potuto risollevare il morale di chiunque assieme. E allo stesso tempo, Konnor era bravo tanto quanto loro a fare l'esatto opposto. Le risa calarono quando si alzò in piedi, osservando Edward dall'alto con sguardo severo. «E se il tuo piano fosse fallito, Edward? Ci hai pensato?»

Sembrava quasi un pretesto per litigare. Tommy sospirò, temendo per la piega che la conversazione avrebbe potuto prendere. «Konnor…» 

«Hai mai realmente pensato a quello che stavi facendo? Oppure stavi agendo e basta, come quando ti sei inimicato mezzo campo dopo due giorni? O come quando volevi cedere la spada a Campe?» proseguì Konnor, ignorando Tommy e fissando Edward dritto negli occhi. 

Edward si incupì. Thomas aveva già visto quell’espressione sul suo volto. Non prometteva altro che guai. 

«So perché l’hai fatto» proseguì Konnor, alzando una mano per fermarlo prima che potesse replicare. Si voltò verso di Rosa, per poi riportare l’attenzione su di lui. «Sono felice che tu sia riuscito a salvare Rosa. Davvero. Io avrei fatto lo stesso per uno qualsiasi dei miei fratelli.»

«E allora che vuoi?» domandò Edward. Si alzò anche lui, facendo una smorfia di fatica, e si ritrovò faccia a faccia con l’altro ragazzo.

«E se fossi morto?» domandò Konnor, schietto. Una domanda più che plausibile, dopotutto. Eppure, sembrò colpire Edward come una secchiata di acqua gelata. «Se Orochi avesse avuto la spada? Se non fossi riuscito a salvare Rosa? Cosa sarebbe successo dopo?»

Dopo un attimo di riflessione, Edward abbassò la testa. «Non lo so.» 

«Orochi ti ha costretto ad andare avanti da solo?»

«No.»

«E allora perché l’hai fatto?»

Il figlio di Apollo assottigliò le labbra. «Perché… non volevo più coinvolgervi.»

«Perché?»

«Perché… perché l’impresa riguardava me. Ero stanco di trascinare gli altri nel fango. Erano i miei problemi, le mie battaglie, non le vostre.»

«Ti sbagli, Edward. La profezia riguardava te. L’impresa, invece, riguardava tutti noi.» Konnor indicò con un braccio tutti i presenti, romani e cacciatrici inclusi, per poi toccarsi il petto con l’indice. «Siamo semidei. Ci addestriamo per questo genere di cose. Ci addestriamo per combattere. Nel momento esatto in cui abbiamo deciso di partecipare, le tue battaglie sono diventate tanto tue quanto nostre. Qualsiasi faccenda che riguardi gli dei riguarda tutti noi, Edward. Non so se te ne sei accorto ma… insomma, nel mondo non ci vivi solo tu. Se qualcosa dovesse andare storto e il mondo dovesse finire solo perché hai deciso di agire di testa tua, un bel po’ di gente si ritroverebbe sfollata, non credi?»

Lo disse con tono estremamente calmo. Non sembrava nemmeno un tono di rimprovero, o provocatorio, ma paterno. Buffo, perché se Tommy non ricordava male Edward era perfino più grande di lui. Si aspettò che il figlio di Apollo lo mandasse a quel paese, invece, per sua enorme sorpresa, rimase in silenzio, in ascolto.

«So che avevi buone intenzioni, Edward. Posso capire perché tu abbia scelto di fare quello che hai fatto, ma devi cominciare ad accettare che non sei più solo. Hai trasformato quest’impresa nella tua crociata personale e hai voluto a tutti i costi tagliare fuori tutti noi. Non devi sempre farti carico di tutto. Devi fidarti di noi. Non siamo qui per intralciarti, ma per aiutarti.» 

Konnor si guardò attorno, facendo vagare lo sguardo sui presenti. «Il Campo Mezzosangue esiste anche per questo, per aiutarci a coesistere e a renderci uniti. Ma non possiamo coesistere se tra te e tutti noi metti un muro invalicabile. Io non penso di essere “tuo amico”, ma qui ci sono persone che davvero tengono a te, per… qualche strano motivo. Perché tenerle fuori?»

Le sue parole aleggiarono nell’aria per diversi istanti. Edward lo osservò con un’espressione che Tommy non gli aveva mai visto fare. Quando parlò, uscì un filo di voce incrinata. «Mi dispiace…»

L’aveva detto anche prima, ma questa volta suonò molto diverso. E il fatto che fosse stato Konnor tra tutti a farglielo sputare fuori, era tutto dire. E fu proprio Konnor a sorridere e a porgergli la mano. «Allora, pensi di riuscire ad abbattere quel muro una volta per tutte?»

Edward osservò la mano, poi il figlio di Ares, e abbozzò un sorriso. «Ci proverò.» Strinse energeticamente la mano. «Grazie Konnor.»

Il figlio di Ares gli rivolse un cenno. Per la prima volta da quando Tommy li conosceva, notò uno scorcio di rispetto reciproco in entrambi i loro sguardi. 

«Aw, come siete carini!» esclamò Rosa all’improvviso, unendo le mani sopra il cuore e osservandoli ammaliata. 

«Bacio, bacio, bacio!» fece eco Lisa battendo le mani a ritmo, prima che entrambe scoppiassero di nuovo a ridere. I due ragazzi si fissarono atterriti, poi si allontanarono all'istante.

«Davvero sciocco da parte mia pensare di essere in un gruppo di gente matura» mugugnò Konnor, mentre tornava vicino a Stephanie, che a sua volta stentava a trattenere una risatina. 

«Perché ridete? Non c’è niente da ridere!» fece eco Edward, alterandosi con le due ragazze e, ancora una volta, alimentandole. 

«Va bene, va bene!» protestò Edward, ansioso di cambiare argomento. «Possiamo tornare seri un momento? Potreste dirmi che è successo mentre ero impegnato a tradire la razza umana?» 

Tommy, Stephanie e di tanto in tanto Lisa gli spiegarono quello che era successo dopo il deragliamento del treno. Raccontarono di Naito e di Efialte ed Edward non sembrò affatto prenderla bene. «Quel bastardo! Aveva detto che non ci avrebbe più intralciati!»

«Penso che tu abbia imparato la lezione, hermano: mai, mai, stringere patti con i mostri» borbottò Rosa.

Edward grugnì. Il suo malumore non durò molto, però, perché quando Lisa e Tommy raccontarono quello che avevano fatto a Efialte, un sorriso entusiasta riapparve sul suo volto. «Quanto avrei voluto vederlo!»

Konnor non disse nulla riguardo quello che era successo tra lui e Naito. Tommy non seppe spiegarsi il perché, ma decise di rispettare la sua scelta di rimanere in silenzio. E poi, naturalmente, quando Edward scoprì che Orochi in realtà era sopravvissuto diede di matto. Sembrò sentirsi in colpa, ma poi sembrò anche ripensare alle parole di Konnor. Non era più da solo, non doveva occuparsi di tutto lui.

Erano tutti consapevoli del fatto che Edward fosse molto forte, non solo grazie alla spada, ma non potevano sempre e solo affidarsi a lui. E anche lui sembrò arrivare a quella conclusione, soprattutto dopo che gli raccontarono di come avevano ripassato Orochi. Quando poi spiegarono come anche Rosa si fosse unita allo scontro, il ragazzo sorrise alla sorella. «Non potevi proprio starne fuori, vero hermana?»

«Mi conosci, no?» ribatté lei, senza nemmeno curarsi di mandare giù il boccone di panino. Nessuno ebbe il fegato di dirle di mangiare con un po’ più di grazia.

«Ma… quindi tu come sapevi del mio patto con Orochi?» le domandò poi Edward, esitante. 

«Mentre ero svenuta… era come se fossi ancora cosciente.» Rosa sollevò una mano, osservandosela e muovendosela quasi come se credesse di essere ancora addormentata. «Di tanto in tanto vedevo sprazzi della realtà. Non so come spiegarlo, era come se mi trovassi in una specie di limbo tra questo mondo e… qualunque cosa ci sia dall’altra parte.»

«Ne so qualcosa…» brontolò Konnor a bassa voce.

«È stato così che ti ho visto mentre stringevi il patto con Orochi. Quando hai accettato, avrei voluto svegliarmi e prenderti a sberle.»

Malgrado tutto, Edward ridacchiò. «Mentre che c’eri potevi conciare anche lui per le feste.»

«L’avrei fatto più che volentieri…» Rosa si corrucciò. «Comunque… c’era molto movimento. Oltre a Orochi ho visto anche i suoi mostri. Ho visto quel ragazzo, Naito, una donna, quella creatura col naso lungo e poi… un uomo.» La figlia di Apollo si fece pensierosa, con la stessa concentrazione di qualcuno che cerca di ricordare un sogno. «Non l’ho visto bene, ma sembrava che conoscesse Orochi. Li ho visti parlare, ma purtroppo era in giapponese. Non so cosa si siano detti.»

Nessuno ebbe idea di cosa pensare. Tommy si mordicchiò un labbro, assorto. Forse Orochi non aveva agito da solo. E ripensando a cosa i vari dei che avevano incontrato avevano detto, non era una teoria del tutto improbabile.

«Scusate se disturbiamo» esordì Susanoo, avvicinandosi al gruppetto in compagnia di Artemide e Fujinami. Sorrise verso Edward. «Figliolo, ti dispiacerebbe venire un momento con me e la divina Artemide? Ci sono alcune domande che vogliamo farti.»

«Oh. Sì, certo…» mormorò Edward. Si rimise in piedi e camminò verso i due dei con aria confusa. Mentre si allontanavano, Fujinami prese il posto di Edward nel gruppetto, sdraiandosi sotto l’ombra dell’albero.

«Ma… quello è con noi, giusto?» domandò Rosa mentre indicava il qilin. 

Fujinami sbuffò dal naso. «Sono stato io a portarti fuori da quel museo.»

«Oh cavolo, ma tu parli!» Rosa si tiro su di scatto, colpita da un’ondata di energia improvvisa. Corse verso il qilin e gli prese il muso tra le mani, studiandolo e rimirandolo. «Wooow, sei troppo fico! E che dentoni! Sembri il fratellino più giovane di Peleo!»

«Ma che stai facendo?! Lasciami subito!» protestò il qilin, con una rara vena di imbarazzo nella voce.

Un'altra risata si sollevò nel gruppo. Tommy osservò la figlia di Apollo mentre stropicciava Fujinami, con lui che cercava di spingerla via con le zampe, e gli scappò un grosso sorriso. Rimase come stregato da lei. 

Vennero raggiunti anche da Talia e Reyna, che si misero a parlare con la figlia di Apollo. Rosa salutò la figlia di Zeus con un caldo abbraccio. Tommy sapeva che le cacciatrici avevano cercato di reclutarla diverse volte e si domandò se quel giorno non sarebbe successo proprio quello. Il pensiero gli provocò un piccolo nodo allo stomaco. 

Lisa gli posò una mano sulla spalla. «Tommy?» 

«Sì?» domandò lui, riscuotendosi dalla trance.

La figlia di Bacco lo guardò preoccupata. «Stai bene? Sembri… strano.»

I loro sguardi si incrociarono e Tommy rimase in silenzio, non trovando le parole da dire. «Io…» cominciò, incerto. Non sapeva perché, ma si sentiva come se ogni volta che la guardava tutto il resto non contava più. Il pensiero che Rosa potesse unirsi alle cacciatrici passò improvvisamente in secondo piano. Sorrise, posando la sua mano su quella di Lisa. «Certo. Mai stato meglio.»

Lisa ricambiò il suo sorriso. Si osservarono rimanendo in silenzio, senza più dire nulla. Le loro mani scesero verso terra, rimanendo intrecciate. 

«Ehm… scusate se vi disturbo.»

Entrambi sussultarono. Thomas pensò che qualche cacciatrice fosse venuta a rompere le scatole, invece di fronte a loro c’era proprio Rosa, che sorrise accomodante. Sollevò il falcetto di Thomas. «L’ho trovato prima, durante la battaglia. Reyna mi ha detto che è tuo.»

Tommy schiuse le labbra. Si era scordato di averlo perso in mezzo a quel caos... dopo che si era coraggiosamente gettato addosso a Orochi e quello lo aveva scaraventato via come un insetto, tra l'altro. Sì, ora sapeva perché si era scordato tutto quello. 

«Sì, è mio.» Prese il falcetto, sfiorandole le mani. Quel piccolo contatto lo fece rabbrividire. Si augurò che non se ne fosse accorta. «G-Grazie.»

«Di niente.» 

Rosa distese il sorriso e Tommy si paralizzò. Era bella come un raggio di sole. 

«Sei Thomas Blake, giusto? Quello che scappava dalle flessioni del coach Hedge.» 

«Ah, sì…» Tommy si massaggiò dietro la testa, imbarazzato. «Colpevole.»

Rosa ridacchiò. Fu un suono meraviglioso. «Scappavi dalle flessioni, ma sei venuto fin qua per combattere con Orochi. Come mai?»

«B-Beh…» Dire che l’aveva fatto per lei forse sarebbe stato dire un po' troppo. Optò per una mezza verità. «Edward stava per partire da solo… ho voluto accompagnarlo.»

La figlia di Apollo annuì, addolcendosi. «Sono felice di sapere che quel tontolone ha un buon amico su cui contare. Mi ha parlato di te, sai? Ha detto che tu e i tuoi fratelli siete stati molto gentili con lui.»

Tommy non riuscì a reggere il suo sguardo. Abbassò la testa pregando di non essere arrossito e soprattutto pregando che Edward non le avesse detto proprio tutto. 

«S-Sì…» farfugliò. Gli sembrò di avere la mente che si squagliava.  

«Ehi, tutto ok?»

Lisa sbatté la mano sulla schiena di Tommy, facendo un terrificante rumore sordo. Il semidio fu costretto a trattenere il respiro per non gridare dal dolore. 

«Tommy è un timidone» esclamò la ragazza, sorridendo verso di Rosa, anche se il suo parve un sorriso diverso dal solito, molto più freddo. «Sono sicura che apprezza molto quello che dici.»

«Oh… certo» convenne Rosa, con un sorriso di cortesia. «Tu sei Lisa Castella, giusto? La capocasa di Dioniso.»

«Come fai a conoscermi?» domandò a quel punto Lisa, sorpresa.

«Ti ho vista qualche volta nell’arena. Sei brava con i pugnali. Potremmo allenarci insieme ogni tanto. Mi farebbe piacere.» 

Lisa schiuse le labbra, sembrando davvero stupita. Anche se per poco non lo aveva spezzato in due, Tommy le sorrise, invitandola ad accettare. Un timido sorriso prese forma sul volto della figlia di Bacco. «Piacerebbe anche a me.» 

Rosa annuì, sembrandone felice. Poi osservò di nuovo Tommy e Lisa, facendosi beffarda. Disse qualcosa in spagnolo e la figlia di Bacco si imbronciò. «No. È troppo tonto.»

Rosa ridacchiò un'altra volta. «Que bonita pareja hacéis.»

«Ehm… questa non l’ho capita…» mormorò Lisa, ottenendo una risata ancora più grande. 

«Non preoccuparti chica. Capirai.»

Tommy decise di non provare nemmeno a chiedere cosa si fossero dette. Quando vide Rosa in procinto di congedarsi, tuttavia, la fermò. «Aspetta, ho una cosa per te.» Cercò nel suo zainetto, trovando la spada di argento di Rosa. «Questa è tua.»

«Oh!» La ragazza la prese e se la rigirò tra le mani, con un sorriso meravigliato. «Ma come fai ad averla?»

«Me l’ha data Edward, il giorno in cui siamo partiti per l’impresa.»

Rosa si voltò verso il fratello, che ancora stava parlando con gli dei, e sorrise. «Che sdolcinato.» Strizzò l’occhio a Tommy. «Grazie Thomas.»

«P-Prego» bisbigliò lui, sentendosi di nuovo le guance in fiamme. Si beccò un pugno sulla spalla da Lisa, facendogli fare un verso di dolore. «Ah! Ma che ti prende?!» protestò, massaggiandosi il braccio. Per tutta risposa, la ragazza lo incenerì con lo sguardo. 

Rosa sorrise di nuovo, poi tornò a sedersi accanto alle cacciatrici. Sfilò qualcosa dall’elsa della spada e questa si trasformò in una chitarra, sotto lo sguardo sorpreso di tutti. Poi la ragazza avvicinò le dita alle corde senza più sollevare la testa verso gli altri. Cominciò lentamente, pizzicando le stringhe più alte, generando note più gravi. Ripeté il suo piccolo riff per diversi istanti, muovendo la testa a ritmo, concentrata sulle corde. Tutti quanti smisero di parlare tra loro, inclusi gli dei, per voltarsi verso di lei e prestare attenzione. 

Le note cambiarono e Rosa cominciò a cantare.

«I’ve lost all of my pride, I’ve been to paradise and out the other side...»

Cambiò posizione delle dita, generando nuove note, senza fermarsi. 

«With no one to guide me, torn apart by a fire wheel inside me…»

Rosa arrivò al ritornello, facendo scivolare le dita sulle corde con incredibile maestria, fluida come l’acqua. 

«I wont hurt you… I wont hurt you… I wont hurt you… I wont hurt you…»

Tommy non aveva idea di cosa parlasse quella canzone, ma non voleva che Rosa si fermasse. Avrebbe potuto ascoltarla per ore, così come tutti gli altri. Mise più dita sulla stessa corda, dando alcune strimpellate, sorridendo. La melodia sembrò accendersi, ma durò poco, fu solo un semplice preludio per il resto della canzone, che si mantenne su quell’onda agrodolce, di suoni lievi e bassi, condita dalla voce candida di Rosa.

«My pale blue star, my rainbow how good it is, to know you are like me, strike me with you lightning, ring me down and bury me with ashes… I wont hurt you… I wont hurt you…»

Continuò con il ritornello, prima di concludere ripetendo di nuovo il riff iniziale, scemando verso il silenzio. 

Quando terminò la canzone, nessuno disse una parola. Rimasero ad osservare increduli. Non era un silenzio imbarazzato, però. Era come se tutti quanti stessero ancora cercando di tenere rinchiusa quella melodia dentro le loro menti.

E poi vi fu un applauso. Susanoo batté le mani sorridendo come suo solito, meravigliato. «Magnifico! Che voce stupenda, degna della stirpe del divino Apollo!»

Edward sorrise verso la sorella. Perfino Artemide sembrò sciogliersi un pochettino. Tutti quanti applaudirono e Rosa, nonostante tutto, sembrò piuttosto imbarazzata. Tommy si chiese perché la sera di fronte al falò non avrebbero potuto sentire musica come quella anziché le ballate del cavolo sui satiri e le driadi. 

Spostò lo sguardo verso il cielo limpido. Era una giornata favolosa e il sole stava ancora splendendo, anche se aveva cominciato a spostarsi verso occidente. Prima o poi avrebbero dovuto mettersi in viaggio per tornare a casa, ma non c’era nessuna fretta. 

Avevano cibo delizioso e anche musica. Non c’era nessun motivo per andarsene da lì tanto presto. Tommy sorrise, guardando i suoi amici. Dopo quella settimana da incubo, tutti loro meritavano di godersi un po' di sano riposo.






Questa è la scena che mi sono immaginato quando Lisa e Rosa hanno riso di Konnor ed Edward:



E poi c'è un'altra immagine importante che siccome sono una persona brutta ho dimenticato di mostrare prima, un altro fantastico disegno realizzato dalla impareggiabile Roland, questa volta di Naito:



Non vi trattengo oltre. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, grazie per aver letto, grazie di cuore a Roland per il disegno e grazie ancora una volta a lei e Farkas per aver recensito lo scorso capitolo. Apprezzo tantissimo. Alla prossima!

p.s. Credo che alcuni abbiano già riconosciuto la canzone cantata da Rosa, in ogni caso, questo è il link:

https://youtu.be/KRW97QbuZ6A

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Capitolo 39
*** Ottuso figlio di Ermes ***


Ehi, salve gente. Ricordate quando vi ho parlato di quel capitolo lunghissimo? Se non erro era proprio lo scorso. Ecco, questo è ancora più lungo, non si sa come, non si sa perché, ma è così! Hurrà! Non ho idea di come siate potuti arrivare fino a qui, ma sappiate che le mie parole non saranno mai abbastanza per ringraziarvi. Non vi trattengo oltre, buona lettura! 



 

39

Ottuso figlio di Ermes

 

 

Quando il sole cominciò infine a calare, le cacciatrici iniziarono a smontare il campo. Edward era tornato dagli amici, senza accennare a quello di cui aveva discusso con gli dei.

«Forza, è ora di riprendere la nostra marcia» esordì Artemide, mentre le ragazze si raggruppavano attorno a lei. Si avvicinò poi a Rosa. «Vuoi venire con noi, Rosa?» 

La ragazza trasalì, quasi paralizzandosi di fronte alla dea. 

«I-Io…» cominciò a dire, incerta. Osservò il resto dei semidei – Konnor, Lisa, Stephanie, Thomas e ovviamente Edward. Si morse un labbro pensierosa.

Se avesse deciso di rimanere con le cacciatrici Tommy non l’avrebbe biasimata. Rosa era una bomba di carisma, era divertente, simpatica, piacevole da avere attorno, ma al Campo Mezzosangue nessuno l’aveva mai considerata davvero, nemmeno lui a dire la verità. Non aveva mai avuto il coraggio di parlarle nonostante la sua cotta. Gli unici ad essersi avvicinati a lei erano stati Edward e le cacciatrici e queste ultime in particolare l’avevano sempre trattata come una di loro. Inoltre, Artemide era sua zia. La loro unione sembrava scritta nelle stelle.

Invece, Rosa sospirò. «Io credo che… per il momento preferisca tornare al Campo Mezzosangue, divina Artemide. Ho… bisogno di rivedere i miei fratelli e raccogliere le idee. Ho anche ancora una… specie di famiglia mortale. Dovrei discuterne anche con mia madre.»

Thomas schiuse le labbra, sorpreso non solo dalla sua decisione, ma anche dal fatto che avesse ancora dei legami con la sua famiglia mortale. Non era un privilegio di molti semidei.

«Capisco.» Artemide annuì, non sembrando turbata. In realtà non sembrava mai niente. Era difficile interpretare il volto inespressivo di quella ragazzina perfino più bassa di lui. Le posò una mano sul braccio. «Sei una ragazza straordinaria, Rosa. Finché la tua mente rimarrà casta e ci sarà ancora tempo, avrai sempre un posto al mio fianco.»

Gli occhioni di Rosa luccicarono per un breve momento. Chinò la testa come una forsennata. «V-Vi ringrazio, divina Artemide. La vostra approvazione significa molto per me.»

La dea abbozzò un sorriso. Talia salutò Stephanie e Konnor stringendo loro la mano e anche scambiandosi un cenno con il figlio di Ares. Reyna, che nel frattempo era andata a dire qualcosa ai romani, salutò i greci con un ampio gesto del braccio. «Cercherò di convincere le altre a venirvi a trovare più spesso. Siete bravi ragazzi, dopotutto. Forse il Campo Mezzosangue non è così spacciato come pensavamo.» 

«Oh… grazie?» domandò Thomas, non sapendo bene come prendere quelle parole. La cacciatrice sorrise, salutò di nuovo Rosa con un abbraccio e poi raggiunse le altre. 

Artemide e le sue ragazze si allontanarono con gli zaini sulle spalle, dirette verso la loro prossima meta, o bestiaccia da fare fuori.

«Credo che a questo punto possiamo andarcene anche noi…» mormorò David, intromettendosi imbarazzato. «Ci… ci dispiace di non aver potuto fare di più…»

Edward squadrò i tre romani con aria perplessa. «Scusate ma loro tre c’erano anche prima?»

Tommy si sentì in colpa per aver sghignazzato, soprattutto accorgendosi dell’espressione offesa del figlio di Venere. Travis, invece, non sembrò prenderla male. «Noi siamo la squadra supersegreta di supporto romana!» spiegò, mentre faceva – male – alcune mosse di kung-fu. 

«Ah. Giusto, Chirone aveva detto che ci sareste stati anche voi. Beh, grazie dell’aiuto, credo…»

«Non c’è di che!» esordì Gus, gonfiando il petto con orgoglio. «Ora però dobbiamo proprio andare, sento il bisogno impellente di nascondermi per sempre e non uscire mai più.»

Travis gli posò una mano sulla spalla. «E dove sarebbe la novità?» 

«È… è stato un piacere conoscervi» mormorò David, chinando la testa. 

Konnor si avvicinò, tendendogli la mano. «Anche per noi.»

Ancora una volta, David arrossì vistosamente guardandolo. Ricambiò timido la stretta. «Ehm… g-grazie…» 

«Pst. Hermano, quello vuole rubarti il ragazzo» bisbigliò Rosa ad Edward, dandogli una gomitata.

Edward roteò gli occhi. «Ti stai divertendo?»

«Tantissimo.»

Lisa fece un passo avanti, sorridendo ai due romani. «Per essere due tontoloni della Quinta Coorte siete stati bravi. Spero che i vostri sforzi vengano riconosciuti.»

«Grazie!» dissero i due in coro, anche se la voce squillante di Travis sovrastò quella mite di David. 

«Anche tu sei stata brava. È bello vedere qualcuno della Quinta Coorte che è diventato così forte!»

La figlia di Bacco avvampò un po' come David poco prima. Non era proprio in grado di accettare dei complimenti. «E tu come sai che ero nella quinta?»

«Perché usi armi d’Oro Imperiale e perché hai subito capito che noi due eravamo della quinta. Tra membri della stessa coorte è facile riconoscersi.» Travis si fece più serio all’improvviso, un lato che Tommy non si aspettava di vedere, visto che li aveva abituati con quei sorrisetti e quell’atteggiamento sprezzante. «Mi dispiace che la nostra reputazione sia calata. Ci sono brave persone anche nella Quinta Coorte. Ci aiutiamo a vicenda. Vorrei che anche i miei fratelli più grandi lo capiscano…»

Tommy schiuse le labbra. Quella frase lo aiutò a mettere luce su alcuni dubbi che si era posto. «Sei un figlio di Mercurio?»

Travis annuì. «E tu sei un figlio di Ermes, vero? Mi sembra di vedermi allo specchio… beh, a parte il fatto che i miei capelli non sono favolosi come i tuoi» ridacchiò.

Thomas a malapena lo sentì. Il suo unico pensiero andò a Lisa, che si era irrigidita come un chiodo. La semidea osservò Travis come se avesse avuto due teste. Sicuramente non si sarebbe mai dimenticata quello che i figli di Mercurio le avevano fatto. La vide contrarre i pugni e Tommy temette che potesse fare qualcosa di avventato. Invece, Lisa rilassò le spalle, chiudendo gli occhi. «Sono certa che… che le cose andranno meglio, Travis. Sei un bravo ragazzo. Entrambi lo siete.» La figlia di Bacco si portò la mano sul petto, con un tenue sorriso. «Senatus Populusque Romanus.»

«Senatus Populusque Romanus» ripeterono Travis e David con due ampi sorrisi.

«Fate buon viaggio di ritorno.» 

«Buon viaggio anche a voi!» concluse Travis sbracciandosi con gioia.

I tre romani si congedarono, con Gus che continuava a mettergli fretta, David che gli intimava di stare zitto e Travis che rideva beato. Lisa rimase immobile, ad osservarli. Tommy non sapeva che cosa stesse pensando, ma si sentì felice del fatto che, nonostante tutto, avesse capito che Travis non era come i bulli che l’avevano perseguitata. Forse il figlio di Mercurio l’aveva aiutata a rivalutare il Campo Giove e la Quinta Coorte.

«Sei stata gentile con loro» disse, sorridendole. 

La sua voce sembrò riportarla alla realtà. Si voltò verso di lui lanciandogli uno sguardo indifferente che lo colse in contropiede. «Mh. Già.»

«Ehi, stai bene?»

«Certo. Mai stata meglio» mugugnò lei, dandogli le spalle e tornando vicina a Steph e Konnor. Tommy la seguì con lo sguardo, stranito. Era da prima che aveva cominciato a comportarsi in quel modo con lui. Non aveva idea del perché, ma era una sensazione abbastanza sgradevole.

Si voltò quando Susanoo batté le mani. «Molto bene! Credo che sia giunto il momento che anch’io mi rimetta in marcia. Signori, conoscervi è stato un vero privilegio! Ecco, permettetemi di farvi un piccolo dono in segno della mia riconoscenza…» Mugugnò assorto mentre si frugava nei numerosi tasconi del cappotto logoro. «Ma dove li ho messi… ah! Trovati!» Tirò fuori un plico e cominciò a sfogliarlo con le dita. «Mentre venivo qua, sono curiosamente incappato in…» Osservò i semidei uno per uno. «… sei, biglietti aerei per New York, di partenza questa sera! Pare proprio che le Sette Divinità della Fortuna mi abbiano sorriso, vero?»

Li passò a Tommy, abbassandosi gli occhiali per strizzargli l’occhio. 

«Grazie» mormorò il figlio di Ermes, stupito. Il volo sarebbe partito alle dieci di quella sera, dall’aeroporto di San Francisco. In effetti, prima non avevano nessun mezzo per tornare a casa. Susanoo aveva risparmiato loro una bella gatta da pelare. Ora che ci pensava, avrebbero anche dovuto contattare Chirone per avvisarlo di aver completato l’impresa.

«Dunque, dunque…» proseguì Susanoo, alzando di nuovo le lenti scure sopra gli occhi. «Voi venite con me?» chiese a Fujinami e le kamaitachi. Il qilin si avvicinò a lui e si inchinò al suo cospetto, prima di affiancarlo. 

«Sono lieto di aver fatto la vostra conoscenza, giovani semidei» annunciò. «Possano i Quattro Guardiani vegliare su di voi.»

«Ci mancherai Fujinami» disse Stephanie, con un sorriso. 

«Anche voi mi mancherete. Ho imparato molto in vostra compagnia. Mi avete insegnato che la mia fiducia può essere riposta anche in chi non può udire la mia voce» disse, guardando Edward, Konnor e Lisa.

«Hai proprio ragione!» affermò Edward, sollevando il pollice. Si voltò verso gli altri. «Ha detto che sono il migliore, vero?»

Mentre Stephanie ripeteva le parole del qilin, le tre kamaitachi apparvero di fronte a Tommy. Tutte e tre si inchinarono, sempre con quelle loro espressioni vispe e gli occhietti che luccicavano maliziosi. Dopodiché, anche loro affiancarono Susanoo.

«Ammetto che l’amicizia tra un umano e delle kamaitachi era qualcosa che non avevo ancora visto» osservò Susanoo, grattandosi il mento. «Devi essere un semidio molto speciale.»

Il figlio di Ermes avvampò. In realtà non si sentiva così “speciale”, però era gradevole che qualcuno lo pensasse. Quando realizzò, però, che anche Kensuke, Nagata e Sato stavano per lasciarli, provò un moto di tristezza. Gli sarebbe piaciuto che quei tre rimanessero con lui, tuttavia non era sicuro di come sarebbe andata con loro al Campo Mezzosangue. L’idea che avrebbero potuto fare a fette qualcuno era un deterrente più che sufficiente per lasciarli percorrere la loro strada. Erano kamaitachi, dopotutto, spiriti liberi, ed era meglio che rimanessero tali. Sorrise, convinto comunque del fatto che si sarebbero rincontrati. «Grazie per l’aiuto, ragazzi. Mi mancherete. Cercate di comportarvi bene, ok?»

Kensuke squittì, mostrando il suo classico ghigno di dentini affilati. Thomas si augurò che avesse detto che ci avrebbero provato. 

«Sono così carini…» mormorò Rosa, stregata da loro. Nagata e Sato furono costretti a tenere fermo Kensuke prima che cambiasse idea e decidesse di rimanere per sempre con la figlia di Apollo. Sato poi salutò Lisa, che ricambiò con un sorriso. 

Anche Fujinami si inchinò di nuovo, questa volta senza più dire nulla. Lasciò che fosse quel gesto che tutti potevano comprendere a parlare. 

«Scusa se prima mi sono arrabbiato» mormorò Thomas, imbarazzato. «In realtà ti sono molto grato per l’aiuto che ci hai dato. Senza di te non ce l’avremmo fatta.»

«Non dispiacerti, giovane semidio. È proprio perché hai continuato ad avere fiducia nel tuo amico che puoi sentirmi, dopotutto. Non avere mai alcun timore di combattere per quello in cui credi.» 

Tommy sorrise, annuendo. 

«Fate buon viaggio!» salutò Susanoo un’ultima volta, prima che lui, Fujinami e le kamaitachi iniziassero a brillare. Vi fu una luce intensa, che i semidei evitarono di guardare per timore di essere incendiati, seguita da una forte folata di vento. E fu così che anche loro cinque scomparvero, lasciando solo il gruppetto originario, assieme a Rosa.

«Immagino che ora faremmo meglio a raggiungere l’aeroporto» concluse Edward, osservando i propri compagni. 

«Speriamo che questa vol…» 

Edward frenò Konnor con un gesto secco della mano, folgorandolo con lo sguardo. «Chetati una volta ogni tanto, maledetto uccellaccio del malaugurio!»

Konnor tacque, imbarazzato, suscitando altre risa tra i semidei. Steph lo consolò dandogli alcune pacche sulla schiena. Il figlio di Ares le lanciò un rapido sguardo e sorrise, gesto che fu subito ricambiato da lei. Vederli così affiatati scaldò il cuore di Thomas. Finalmente Steph era riuscita a sbloccarsi con lui. Doveva ammetterlo, facevano una bella coppia. Lui era premuroso con lei, si vedeva da lontano un chilometro che ci teneva davvero. E anche lei era sempre al suo fianco, come se ci fosse una forza invisibile a tenerli uniti.  

Una forza invisibile governata da una donna che amava spettegolare di faccende di cuore semidivine. Poteva immaginarsi Afrodite che osservava quei due dall’alto, sorridendo estasiata. E in contemporanea a tutto ciò, si stava anche beando dell’espressione cupa di Edward mentre si accorgeva dell’intesa crescente tra Steph e Konnor.

Ricordava benissimo il suo incontro con la dea e quello che aveva detto a proposito di Stephanie: alla fine di quella faccenda, un cuore si sarebbe spezzato.

Poteva sempre sbagliarsi, forse non era così che sarebbe davvero finita, ma ormai era abbastanza convinto che Stephanie avesse preso la sua decisione – anche se con tutta probabilità in maniera inconsapevole. Conosceva Steph, era una ragazza intelligente, ma aveva decisamente la testa tra le nuvole. Doveva essere l’unica persona a non aver ancora capito quello che stava succedendo.

Afrodite in realtà aveva menzionato anche qualcosa a proposito di Thomas e di come anche lui avrebbe avuto motivo di cui struggersi. Ancora non credeva di aver capito di che cosa stesse parlando, ma non gli piaceva per niente.

«Il volo è alle dieci, giusto?» domandò Edward, affiancandolo. Stava cercando di ignorare Konnor e Steph, ma era palese che la cosa lo stesse infastidendo parecchio. 

Tommy si riscosse. Afferrò i biglietti e cominciò a distribuirli agli altri. «Sì.»

«Significa che arriveremo circa alle quattro del mattino…» rimuginò Edward.

«Appena in tempo per andare a morire nel letto» concluse Lisa.

«Beh, suppongo che faremmo meglio ad incamminarci» suggerì Stephanie, osservando il cielo. «Sta per farsi sera.»

Nessuno ebbe nulla da obbiettare. Per quanto gradevole fosse San Francisco, Thomas era convinto di non essere l’unico a voler levare le tende al più presto. I sei ragazzi si avviarono verso l’aeroporto.

 

***

 

Edward sospirò esausto, stravaccandosi sulle sedie di plastica. «Quanto manca ancora?»

Non ci avevano messo molto per arrivare all’aeroporto. Dopo aver lasciato il parco, avevano mandato un messaggio Iride a Chirone, aggiornandolo sulla situazione, e lui era sembrato al settimo cielo, soprattutto dopo aver scoperto che Rosa era ancora viva. Quando gli dissero che sarebbero tornati con un volo, li rassicurò che la Foschia avrebbe fatto di nuovo il suo lavoro, ma li invitò comunque a fare attenzione.

Un’ora dopo, avevano raggiunto l’area di imbarco del San Francisco International Airpor. Nessuno li aveva degnati di una seconda occhiata, i metal detector non avevano individuato le loro armi, tutto era filato liscio proprio come Chirone aveva promesso. E quindi, Tommy si stava innervosendo. E non era l’unico. Lisa, Konnor e Steph sembravano altrettanto tesi, mentre Edward continuava ad alzarsi e a sedersi ad intermittenza, non riuscendo a stare fermo per più di trenta secondi. Dopo il fattaccio di New York nessuno di loro sarebbe più riuscito a rimanere tranquillo in un aeroporto.

«Sono passati solo cinque minuti da quando l’hai chiesto l’ultima volta» rispose Rosa, mentre continuava a pizzicare le corde della chitarra. Sembrava l’unica a riuscire a mantenere uno stato di apparente tranquillità. «Fai due ore meno cinque minuti.»

Suo fratello si accasciò come colpito da un proiettile. «Di questo passo ci rimango secco qua dentro.»

«So io cosa fare.» Rosa cominciò a strimpellare. «He was a boy, she was a girl… Can I make it anymore obv…»

«No» la frenò Edward, posando una mano sulle corde per interromperla. «Niente Skater Boy

«Perché? È una canzone così bella! Profonda, romantica…»

Edward finse di avere un conato di vomito. 

«Non capisci proprio niente dell’amore…» 

Tommy non capiva se Rosa fosse sarcastica o meno. La semidea li guardò. «Allora che volete sentire? Vi farò da jukebox!»

«Che?» chiese Thomas, stranito.

«Il jukebox, come fai a non… lasciamo stare.»

«Conosci… Don’t fear the reaper?» domandò Stephanie, curiosa. 

Il volto di Rosa si illuminò. «Vuoi fare un duetto, figlia dei fiori?»

«Ehm… beh…»

«Io ci sto!» esclamò Lisa balzando sull’attenti. Cominciò a muoversi a ritmo di una musica inesistente, scimmiottando quello che doveva essere una specie di ballo. «Come on baby, don’t fear the reaper, come on baby, don’t fear the reaper! Laaa laaa laaa…»

Era più scoordinata di un funambolo ubriaco e stonata come una campana. Forse fu proprio per quello che Tommy non riuscì a staccarle gli occhi di dosso.

«Ah, chissenefrega, ci sto anch’io» sorrise Stephanie, affiancando Lisa. La afferrò per le mani e ballò una sorta di pseudo-swing insieme a lei.

«Baby take my hand…» cantò Lisa.

«Don't fear the reaper…» proseguì Steph facendo una piroetta.

«We'll be able to fly…»

«Don't fear the reaper…»

Rosa le incalzò con la chitarra, anche se per una volta parve avere difficoltà a concentrarsi sulla musica. Sembrava in procinto di scoppiare a ridere. «Oh sì, state andando alla grande!»

Ovviamente, i mortali si voltarono verso di loro. Decine e decine di persone confuse che le osservarono con reazioni che andavano dal divertito, all’imbarazzato, al colpito. 

Di riflesso, anche i tre ragazzi furono sepolti dagli sguardi. Edward si alzò in piedi, cercando di coprirsi il volto. «Io quelle non le conosco. Sono solo una vittima.»

Si allontanò con passo spedito e Konnor lo seguì. «Aspetta.»

«Tranquillo, non mi allontano troppo.»

«No, intendevo dire “aspetta, vengo con te.” Qua non ci rimango neanche morto.»

Edward sghignazzò, poi entrambi guardarono Tommy, aspettandosi la sua risposta. Il figlio di Ermes fece vagare incerto lo sguardo tra loro e le tre ragazze, realizzando ben presto in quale gruppo sarebbe stato ben voluto e in quale invece sarebbe stato un pesce fuor d’acqua, per non dire di peggio. «… vengo anch’io.» 

«Torniamo subito, mi raccomando fate…» Konnor si interruppe, realizzando che ormai Rosa, Lisa e Stephanie erano finite del tutto in un’altra dimensione. Stavano cantando assieme, formando un improbabile trio, accompagnate dal suono della chitarra. «… attenzione…»

«Siamo sicuri che sia una buona idea dividerci?» domandò Tommy, mentre si dirigevano al bar della zona d’imbarco con ancora le voci delle tre ragazze che giungevano da lontano. 

«Amico, quando vedi che le ragazze iniziano a fare squadra è meglio levarsi di torno» gli spiegò Edward, gesticolando con una mano. «Altrimenti per te potrebbe finire male.»

«Sei un esperto di ragazze?» domandò Tommy, scettico. 

Edward si fermò sorridendo smagliante, posandosi una mano sul petto. «Beh… no. Ma…» Si batté l’indice contro la tempia. «… buonsenso amico mio, buonsenso.»

Thomas sollevò un sopracciglio. Cominciava a pensare che da quel punto di vista loro due erano molto simili: due sfigatelli senza uno straccio di ragazza. La differenza sostanziale però era che Edward piaceva, anche se non sembrava rendersene conto.

Konnor abbozzò un sorrisetto, ma non disse niente. Probabilmente preferì risparmiarli da qualche spiegazione che due sempliciotti come loro non avrebbero mai potuto comprendere. 

Entrarono nel bar e si sedettero al bancone. L’arredamento era post moderno, le pareti dipinte di rosso, le luci soffuse che davano un’aria quasi intima a quel luogo. Pochi tavoli di vetro sparpagliati qua e là, sotto a poster di bevande alcoliche appesi e mensole piene di bottiglie scure. Non c’era molta gente dentro, anche perché i bar dell’aeroporto erano costosissimi. Per fortuna, i soldi non erano un problema per loro, dato che avevano ancora un centinaio di dollari. Non appena pensò ai soldi, Tommy si rabbuiò. «Dobbiamo ancora passare a trovare Shinjiro…»

«Giusto» borbottò Edward. «Me l’ero dimenticato.»

«Il gatto parlante di Kansas City?» intuì Konnor. «Me ne hanno parlato Steph e Tommy» spiegò, allo sguardo interrogativo di Edward. Poi fece un altro sorrisetto. «Tranquilli. Ho fatto… una soffiata a Talia. Mi ha detto che andranno a dare un’occhiata a questo misterioso banco dei pegni.»

Il figlio di Apollo gli lanciò un’occhiata complice. «Bella mossa. Degna del figlio della poliziotta più decorata di Vattelappesca.»

Konnor fece una riverenza. 

Quando il barman li raggiunse, Edward provò a chiedere un drink, ma l’uomo non si fece fregare. Così, con riluttanza, ordinò una coca-cola con ghiaccio e limone, imitato da Thomas, mentre Konnor prese del succo d’uva. 

«Che c’è?» domandò quando lo guardarono perplessi. «Non mi piace la roba gasata.»

«Come i bimbi» mormorò Tommy, con tono intenerito. «Che carino!»

Il figlio di Ares serrò le labbra, poi cambiò il proprio ordine e prese anche lui lo stesso che avevano preso loro.

Per il poco tempo che passarono insieme, chiacchierarono del più e del meno su cosa avrebbero fatto al Campo Mezzosangue e anche al di fuori di esso. Konnor per esempio studiava, e sarebbe andato al college a Nuova Roma nel giro di qualche anno, Tommy invece calcolava di finire con la scuola pubblica e poi dedicarsi soltanto alla vita da semidio, dimenticandosi del mondo mortale. Edward, dal canto suo, disse che sarebbe tornato al campo e non avrebbe più “smosso le chiappe da lì per almeno un lustro o due.”

A Tommy tornò in mente la discussione che aveva avuto con Lisa il giorno prima e serrò le labbra. Le aveva promesso che avrebbe cercato di ricucire il rapporto con sua madre. Dopo che lei aveva perso la testa e lo aveva abbandonato. Il figlio di Ermes abbassò lo sguardo sul bicchiere di soda, smarrendosi in mezzo alle bollicine. 

Con la mente a freddo e lontana dal pericolo, quel pensiero non lo entusiasmava affatto. Come poteva cercare di passare sopra tutto quello che gli aveva fatto? Eppure, allo stesso tempo, sentiva di doverlo a Lisa e anche ad Edward. Lui era fortunato ad avere ancora un genitore mortale. 

«Di cosa hai parlato con Artemide e Susanoo?» domandò poi Konnor ad Edward, facendo drizzare lo sguardo di entrambi. In effetti il figlio di Apollo non aveva più menzionato la cosa. 

Edward si strinse nelle spalle, facendo ondeggiare il ghiaccio nel bicchiere. «Volevano sapere bene cos’era successo con Orochi. Ho ripetuto le stesse cose che ho detto a voi. Anche se…» Si interruppe, lasciandosi scappare un altro sospiro. «… in realtà non vi ho raccontato tutto. Però… preferisco aspettare prima di dirvi il resto. Devo… raccogliere le idee. Non riguarda il destino del mondo, state tranquilli. È solo una cosa mia.» 

Osservò Tommy alla sua destra e Konnor alla sua sinistra. Il figlio di Ermes notò la riluttanza dell’amico a trattare quella cosa e annuì, anche se ora era davvero curioso. Per la sorpresa di tutti, anche Konnor acconsentì. «Almeno questa volta sei stato sincero» sogghignò, ottenendo un’alzata di occhi da parte di Edward. 

«Sei insopportabile.»

«Anche tu.»

«Scusate ma… che né stato di Naito, poi? Qualcuno l’ha più visto?» domandò Thomas. Aveva trovato davvero strano il non aver incrociato di nuovo il brutto muso del mezzo demone durante lo scontro con Orochi. Credeva che sarebbe rimasto fino all’ultimo al fianco del suo sovrano o padrone o quello che era. 

Edward esitò. «L’ho… l’ho visto per l’ultima volta quando ho restituito la spada. Non ho idea di dove sia finito. Ricordo solo che era ancora vivo.» 

«È ancora vivo» precisò Konnor. «L’abbiamo incontrato io, Steph e Talia mentre ti cercavamo.»

Tommy alzò la voce senza rendersene conto. «Che cosa?!» 

Quando alcune teste mortali si sollevarono verso la sua direzione, il semidio si imbarazzò. «Che cosa?» ripeté, con voce più calma. «È riuscito a scappare?»

«No. L’ho lasciato andare io.»

Quella risposta lo lasciò atterrito. Stava per gridare di nuovo, ma riuscì a contenersi. «E perché mai avresti fatto una cosa del genere?!»

Konnor assottigliò le labbra, fissandolo severo. La poca luce gioviale nei suoi occhi svanì del tutto, rimpiazzata di nuovo da quella dura e fredda del figlio di Ares che aveva imparato a conoscere. «Se non ci arrivi da solo non serve che te lo spieghi.»

Mai come in quel momento Tommy sentì cosa provava Edward in presenza di Konnor. Avrebbe voluto strangolarlo per quella sua arroganza. Certo, poi Konnor lo avrebbe usato come straccio per pulire il pavimento, ma il sentimento rimaneva lo stesso. «Ma si può sapere che ti è passato per la testa!? Ti ha quasi ucciso!» si lasciò scappare.

«Che cosa?» domandò Edward, guardando atterrito il figlio di Ares. 

«Ora sei tu che guardi me impietosito?» domandò Konnor con un sorriso amaro, per poi riportare l’attenzione su Tommy. «Hai ragione, mi ha quasi ucciso. Quasi. E poi ho pareggiato i conti con lui. Per quello che mi riguarda la faccenda è chiusa.»

«Ma come puoi dire una cosa del genere?! Dopo tutto quello che ci ha fatto! È responsabile tanto quanto Orochi di tutto quello che è successo! Anzi peggio, perché era lui che mandava a fare il lavoro sporco! Ha rapito Rosa! Ci ha attaccati! Ha…»

Konnor lo fermò con cenno della mano. «Per quale motivo pensi che Naito abbia fatto tutto questo? Solo perché è un mostro spietato che vuole distruggere il mondo?»

Tommy si bloccò, confuso da quella domanda. «Che vuoi dire?»

«Le azioni di Naito non erano quelle di un mostro, o di qualcuno di malvagio» proseguì Konnor, tornando a guardare il bicchiere con dentro il ghiaccio ormai quasi sciolto e la fetta di limone che galleggiava solitaria. «Erano quelle di un disperato.»

«Non… non capisco…» mormorò Tommy, confuso.

Konnor si voltò verso di Edward. «Tu hai capito?»

Dopo un altro attimo di riflessione, Edward annuì e Tommy si adirò: «Ma mi state prendendo in giro? Ora andate d’accordo pur di darmi contro?!»

«Tommy…» cominciò a spiegare Edward, guardandolo serio negli occhi. «… se qualcuno uccidesse una persona a cui tieni, come ti comporteresti?»

Il figlio di Ermes serrò la mascella. «Perché mi fai questa domanda?»

«Rispondi.»

Thomas abbassò la testa. Voleva quasi mentire, ma sapeva che non sarebbe servito a niente. «Il mio primo pensiero sarebbe la vendetta.»

«Bene. Adesso immagina di essere un mezzosangue a cui gli dei hanno ucciso la madre e portato via ogni cosa. Non giureresti vendetta verso gli dei? Non cercheresti di uccidere chi è schierato dalla loro parte?»

«E… e tu come lo sai?» mormorò Thomas, allibito. 

Edward si strinse di nuovo nelle spalle. «Me l’ha raccontato Susanoo, quando l’ho incontrato a Sacramento. Naito è un mezzosangue come noi, ma è nato dall’unione tra un demone ed una sacerdotessa. Gli dei hanno voluto ucciderlo, ma lei lo ha salvato. E quindi, loro hanno ucciso lei.»

Tommy tacque, sconvolto dalla scoperta. Tutta la rabbia di poco prima svanì come se non fosse mai esistita, rimpiazzata da una sensazione di vuoto e sconforto. Quella storia gettò tutta un’altra luce sopra il sempre sorridente Susanoo. Si augurò che il dio delle tempeste non avesse avuto niente a che fare con tutto quello, ma non si sarebbe sorpreso di scoprire il contrario. I loro stessi genitori avevano fatto cose terribili, dopotutto, eppure ancora combattevano per loro.

«Se avessi ucciso Naito non sarei stato diverso dai mostri, o dagli dei che l’hanno ridotto così» concluse Konnor, sollevando il bicchiere. «Il fatto che io sia divino per metà implica che sia anche per metà umano, proprio come lui. Avrà anche sbagliato, ma non possiamo biasimarlo per le sue decisioni. Quello che possiamo fare è perdonarlo e dargli un’altra occasione. Starà a lui decidere come sfruttarla.» Bevve l’ultimo sorso della bevanda. Si separò dal bicchiere con un sospiro. «Se deciderà di tornare a causare altri problemi, ci occuperemo di lui una volta per tutte.»

Tommy rimase in silenzio, a riflettere sulle sue parole. Avrebbe potuto immaginare una storia del genere, ad essere sincero. Era sempre la stessa solfa che si ripeteva con soggetti diversi, da mortali, a driadi, a ninfe e così via: creature innocenti rovinate dai capricci di un dio. Tuttavia, era stato così accecato dalla rabbia nei confronti di Naito da vederlo soltanto per quello che gli era sembrato ai suoi occhi, senza mai andare oltre l’apparenza. Ma ora che sapeva la verità, non poteva non dare ragione a Konnor. 

Ognuno era l’eroe della propria storia, e la storia di Naito era quella di un mezzosangue che cercava vendetta per ciò che era successo alla sua povera madre. Sarebbe potuta finire con la sua morte, invece Konnor, proprio perché era un eroe nel vero senso della parola, gli aveva concesso un’altra possibilità. «Ma… tu come l’avevi capito quello che gli è successo?» mormorò Tommy, imbarazzato. 

«Sono riuscito a farglielo sputare fuori. Avevo capito fin da subito che stava nascondendo qualcosa di più profondo.» Konnor sorrise di nuovo, battendo la mano sulla spalla di Edward. «Dopotutto sono il figlio di una poliziotta Vattelappesca, come ha detto il nostro Ladro Bugiardo Traditore qui presente.»

Edward alzò le spalle. «Ma ho anche dei difetti.»

I tre ridacchiarono e la tensione nata dopo quella piccola parentesi si affievolì. Poco dopo, Konnor si congedò per andare in bagno, lasciandoli da soli. Thomas si concentrò su Edward, che nel frattempo rimase in silenzio, a leggere le etichette delle bottiglie sulle mensole con un sorrisetto rilassato. Da quando si erano riuniti a San Francisco, quell’espressione non l’aveva più abbandonato, nonostante le piccole parentesi con Stephanie e Konnor. Sembrava tranquillo, sereno, e mostrava la cicatrice sul volto senza provare il minimo segno di fastidio. Giusto un paio di giorni prima avrebbe folgorato con lo sguardo chiunque si fosse soffermato anche solo a darle una sbirciata.

Era come se finalmente, per la prima volta da quando lo conosceva, si sentisse davvero in pace con il mondo. Forse era perché Rosa era ancora viva, o perché aveva completato l’impresa, o forse era felice di essere di nuovo insieme a loro. Tommy non lo sapeva, ma non aveva importanza: l’unica cosa che contava, era poterlo vedere felice. 

Tutto ad un tratto, Lisa li raggiunse di corsa nel bar, affiancandoli e attirando l’attenzione del barman. Sembrava un po’ affannata, ma a giudicare dal suo sorriso non era successo nulla di grave in loro assenza. «Prendo qualcosa da bere per le ragazze» spiegò, notando i loro sguardi confusi. 

Thomas non disse nulla, rimanendo stregato dal suo aspetto. Si era tolta la camicia, rimanendo solo con la t-shirt che aveva sollevato, scoprendo l’ombelico e mostrando la pancia piatta e abbronzata. Si era anche slegata la treccia, lasciandosi cadere i riccioli ribelli sopra la fronte. Lisa era una bella ragazza, ma Tommy non la ricordava così bella. Forse era per via del look sbarazzino, della pelle scoperta o di quel bellissimo sorriso, fatto stava che gli stava mozzando il respiro.

Quando la figlia di Bacco notò il suo sguardo, il suo sorriso svanì e si voltò verso di Edward, comportandosi come se Thomas nemmeno esistesse. 

«Offrite voi, vero?» gli domandò, posandogli una mano sulla gamba. Tommy osservò quel palmo che carezzava il ginocchio di Edward allibito.

Il figlio di Apollo abbozzò un sorrisetto. «Dipende, se ti offro da bere cosa ci guadagno?»

«Non saprei. Cosa ti piacerebbe?»

Strane vibrazioni circolarono nell’aria mentre i due ragazzi si fissavano negli occhi per quelle che a Tommy parvero lunghe, atroci, interminabili eternità. Poi, Lisa ritirò la mano ridacchiando, imitata da Edward. «Certo, prendi quello che ti pare.»

«Un thè al limone, uno alla pesca e un succo d’uva» ordinò Lisa, per poi sorridere di nuovo verso di Edward. «Il succo non è per me, è per Steph. Quella ragazza ha gusti particolari.»

«Mh. Già…» mugugnò Edward, rabbuiandosi.

«Percepisco del risentimento» ridacchiò Lisa, per poi addolcirsi. «Qualcosa non va?»

Edward sospirò. «Beh… è complicato.»

«Vuoi parlarne?» domandò lei, posandogli di nuovo una mano sul ginocchio e sorridendogli un’altra volta in maniera più spontanea. 

Edward ricambiò il sorriso. Poi, però, notò lo sguardo allibito di Tommy e tornò serio. «Magari più tardi. Torna dalle altre, non farle aspettare troppo.» Ridacchiò, massaggiandosi lo stomaco. «Rosa non è una molto paziente.»

Il sorriso scivolò via dal volto di Lisa. Sembrò voler dire qualcosa, ma alla fine annuì. Quando il barista tornò con le bibite, la ragazza se le mise sotto braccio. Prima di andare via, però, si voltò di nuovo verso di Edward. «Ascolta… per… quella storia di La Plata… volevo dirti che mi disp…»

Si fermò quando Edward sollevò una mano, rivolgendole un altro sorriso. «Non preoccuparti. Quel giorno eravamo tutti tesi, abbiamo detto e fatto tutti quanti cose di cui ci siamo pentiti. Non sono arrabbiato con te, davvero… e poi mi hai offerto una buona colazione» concluse. «Anche se erano pancake e non waffles…»

«Ehi, i waffles sono solo pancake con gli addominali» ribatté Lisa, facendolo ridere. 

Thomas percepì ancora una volta una strana tensione provenire da quei due. Poi la ragazza sembrò ricordarsi della sua esistenza e lo scrutò di nuovo più glaciale dell'Artide. Se ne andò premurandosi di salutare solo Edward. 

Tommy la seguì con gli occhi finché non uscì dal locale. A quel punto la voce di Edward lo folgorò come una scarica: «Che diamine hai combinato, Tommy?»

«E-Eh?»

Edward indicò con un braccio la direzione dove Lisa era svanita. «Ma non hai visto come cercava di ingelosirti? Che cavolo le hai fatto?»

«I-Ingelosirmi?!»

Il figlio di Apollo sollevò gli occhi al cielo. «A volte non capisco proprio se ci sei o ci fai.»

Thomas continuò a fissarlo senza capirci nulla. A quel punto, Edward annuì. «Ok, non ci fai, ci sei e basta. Allora, te lo spiego con parole semplici…» Puntò l’indice verso di lui. «Tu. Piaci a…» Indicò fuori dalla porta. «… Lisa. E mi sento anche di aggiungere un bell’“idiota” in fondo.»

«I-Io… piaccio a… Lisa?!» riuscì a formulare Tommy, atterrito. «Ma… come?!»

«Lo chiedi a me? Sei tu che c’hai passato assieme tutto questo tempo, no?» Edward sorrise incredulo, scuotendo la testa. «Se non sai tu come, chi altro dovrebbe saperlo? Beh… lei, suppongo. Ma non credo proprio che verrà a spiegartelo.»

Il cervello di Tommy si rifiutava di collaborare con lui. Senza ombra di dubbio il suo rapporto con Lisa si era rafforzato, al punto da poterla definire sua amica. Ma non più di quello. Non aveva senso, perché a Lisa sarebbe dovuto interessare lui? Certo, sì, avevano fatto pace. E sì, l’aveva protetta da Efialte. E si erano abbracciati. E poi aveva ascoltato la sua storia, rimanendole vicino in quel momento di difficoltà. E poi lei aveva preso le sue parti in ogni situazione, assecondandolo e fidandosi ciecamente di lui.

E poi l’aveva baciato sulla guancia. E poi, quando si era messo a parlare con Rosa, lei aveva cambiato atteggiamento. Si era fatta più fredda e distaccata, non l’aveva più considerato e si era perfino messa a flirtare con Edward di fronte a lui. E lui non l’aveva presa affatto bene. 

Si era abituato alla vicinanza di Lisa. In un certo senso era diventata confortante. Era felice quando parlava con lei, era felice quando la vedeva sorridere. Ogni volta che la vedeva si smarriva nei suoi occhi, dimenticandosi dei suoi problemi. Quando aveva creduto che Rosa avrebbe potuto unirsi alle cacciatrici, gli era bastato guardare Lisa per smettere di pensarci. 

Ogni volta che la vedeva sentiva un sussulto al cuore. La sua carnagione abbronzata, le labbra carnose, le lentiggini, i ricciolini ribelli, che fossero raccolti nella coda oppure lasciati liberi non aveva importanza, i suoi occhi scuri e caldi.

Il suo sguardo, il suo sorriso, la sua ironia, la sua grinta, il suo coraggio.

E poi, la voce di Afrodite risuonò nella sua mente: «Non puoi neanche immaginare che cosa ti aspetta!» 

Quando Konnor li raggiunse di nuovo, la sua voce sembrò distante ed ovattata. «Allora, torniamo dalle ragaz…»

«Shhhhh» lo zittì Edward, per poi indicare la testa di Tommy. «Guarda. Se osservi attentamente, puoi notare gli ingranaggi arrugginiti nella sua zucca che cominciano a mettersi in moto.»

Il figlio di Ares si fermò accanto a loro e fece un’espressione confusa, poi fissò meglio Thomas. «Sì… non credo di averlo mai visto così pensieroso…» convenne. «Che razza di crisi esistenziale gli hai fatto venire?»

«Io non c’entro niente! Ha fatto tutto da solo!»

«Che facciamo? Proviamo a farlo rinsavire?»

«Diamogli ancora un minuto o due.»

Thomas sbatté le palpebre e abbassò la testa, sconvolto, scioccato, senza parole. Come aveva fatto a non capirlo prima? Come aveva fatto ad essere così stupido? Come aveva fatto ad essere un così grande ottuso figlio di Ermes

«Ho fatto un casino» bisbigliò, per poi mettersi le mani nei capelli. «Ho fatto un casino!»

Konnor sussultò. «Ehm… qualcuno mi spiega che sta succedendo?»

Edward si alzò in piedi, stiracchiandosi. «Tommy piace a Lisa, ma lui è un idiota e non l’aveva ancora capito.»

«Com’è possibile che non l’avesse ancora capito? L’avevano capito tutti!»

Il figlio di Apollo lo guardò sottecchi, con un sorrisetto beffardo. «Proprio tu parli, Konnor?»

«Che vorresti dire?»

«Niente, niente. Forza, torniamo dalle altre.» Lasciò una banconota da venti dollari sul bancone e sorrise al barista. «Tenga pure il resto.»

«Quale resto? Mi devi ancora tre dollari, ragazzino.»

«Ah.» Edward pagò quello che doveva poi se ne andò borbottando qualcosa contro i bar degli aeroporti. 

«N-No, aspetta!» protestò Tommy correndogli dietro. «E adesso che cavolo faccio io?!»

«E io che ne so, mica sono un figlio di Afrodite. Chiedi alla persona sbagliata.» Edward fece ancora qualche passo e si voltò verso di lui, prima che un sorrisetto molto diverso dal solito prendesse forma sul suo volto, che gli ricordò i ghigni di Derek quando stava per fargli uno scherzo di pessimo gusto. «Comunque, sappi che se non sistemi le cose entro domani, con Lisa ci proverò io.»

«Che cosa?! Non puoi farlo!»

«Che succede, sei geloso Tommy?» Edward sollevò le spalle, sogghignando. «Dovevi pensarci prima di rovinare tutto.»

Tommy lo afferrò per la maglietta strappata, trovando da non sapeva nemmeno lui dove la forza di farlo e costringendolo a guardarlo negli occhi. «Prova soltanto ad avvicinarti a lei e…» 

S’interruppe quando Edward ridacchiò. 

«Vedi? Anche tu tieni a lei» gli disse, con un sorriso più sincero.

Thomas schiuse le labbra, riuscendo a comprendere le sue reali intenzioni. Del resto, non appena Edward aveva capito cosa stava succedendo aveva subito stroncato la conversazione con Lisa. Non gli avrebbe mai e poi mai tirato un tiro mancino come quello. Il tonto figlio di Ermes abbassò il braccio, ancora scosso e sconvolto. Tutti i pensieri che aveva rivolto a Rosa, la sua cotta per lei, ogni cosa stava svanendo emozione dopo emozione da dentro di lui. Ora, al posto della ragazza ispanica dai capelli sgargianti e gli occhi luminosi, al centro della sua mente si trovava quella figlia di Bacco scorbutica, con la quale si era aperto, di cui aveva scoperto il lato più dolce e con cui aveva condiviso momenti che li avevano indelebilmente uniti. 

E a cui aveva spezzato il cuore facendo il cascamorto come uno stupido con un’altra di fronte a lei. 

Ora, dopo tutto quel tempo, le parole di Afrodite avevano un senso. E quanto avrebbe preferito che non l’avessero mai avuto.

I tre ragazzi tornarono dalle altre. Sia Rosa che Stephanie parvero notare qualcosa di strano in lui, ma Edward e Konnor fecero capire loro che era meglio non indagare. Lisa, invece, lo ignorò e basta. 

Il resto di quella giornata fu quasi una sorta di sogno lucido per Tommy. Salì sull’aereo come uno zombie, non riuscendo più a concentrarsi su niente che non fosse la figlia di Bacco. Come nell’aeroporto, i ragazzi e le ragazze rimasero divisi, soprattutto per volere di Edward che impedì a Konnor di mettersi vicino a Steph. Forse per gelosia, o forse perché davvero non voleva rischiare di far avvicinare Lisa o Rosa a Tommy in qualche modo. 

Stando vicino al figlio di Apollo che sonnecchiava e all’oblò che mostrava il cielo notturno ricoperto di stelle, Tommy riuscì a scivolare in un piccolo dormiveglia. Non aveva nemmeno più paura che qualcosa potesse andare storto durante il viaggio o cose del genere. Non aveva paura di niente, eccetto della possibilità di perdere Lisa.

Sei ore più tardi, i semidei barcollarono fuori dall’aeroporto JFK dopo il check-out, mentre il sole cominciava a mandare i primi segnali del proprio arrivo lungo l’orizzonte. Chi più chi meno, tutti loro erano stravolti. Dal viaggio di ritorno, dall’impresa, da ogni cosa. Rimettere piede sui marciapiedi di New York fu surreale per lui, soprattutto se considerava che era stato proprio lì che tutto quanto aveva avuto inizio. Sembravano passati… due anni almeno da quando era accaduto tutto quello.

E altrettanto tempo sembrava passato da quando Kevin li aveva accompagnati lì con il minivan del campo. 

«Porca di quella gran bagascia di Gea!» urlò il figlio di Efesto quando li vide uscire dall’aeroporto, non curandosi minimante dei pochi mortali di passaggio che lo fissarono perplessi. Corse verso di loro come un forsennato. «Ce l’avete fatta!»

Rise come uno psicopatico, tirando pacche a Edward, Konnor, Tommy e perfino a Lisa e Steph. Le sue mani callose da fabbro funzionarono come ottime sveglie per i loro corpi ancora assopiti. Quando quell’esagitato si accorse anche di Rosa, poi, si paralizzò proprio come se avesse visto la già citata Gea in persona. 

«Sei viva!» gridò di nuovo, stritolandola in un abbraccio. «Oh, porca miseria! Ma come diavolo è possibile? Dovete raccontarci tutto! TUTTO!»

«A-Aiuto…» bisbigliò Rosa, mentre Kevin la soffocava. 

Per Kevin non dovevano essere le cinque del mattino, perché durante il viaggio di ritorno verso il campo non chiuse un attimo la bocca, aggiornandoli su cos’era successo durante la loro assenza. Sarebbe stato quasi un gesto carino se solo non si fosse premurato così tanto di aggiungere dettagli assolutamente falsi. 

«… e poi Jane ha cercato di ipnotizzarci con la lingua ammaliatrice, ma io mi sono alzato in piedi e ho detto “no! Tu non ci ipnotizzerai!” e a quel punto Buck si è infuriato ma io l’ho steso con un cazzotto. Non chiedete agli altri se è vero, perché tanto non vi risponderanno. E poi…»

In circostanze normali Tommy avrebbe dato di matto con quella voce che continuava a ronzare in sottofondo. In quel momento, invece, ogni distrazione era ben accetta. Qualunque cosa pur di non lasciarlo da solo con i suoi pensieri. 

«… e a quel punto abbiamo testato il mio sistema difensivo e per poco una driade non si è beccata una scarica di centomila volt…» mentre parlava, Kevin afferrò una sigaretta dalla tasca e se la portò alla bocca. Annaspò con la mano in cerca dell’accendisigari e poi se l’accese, sotto lo sguardo basito di tutti. «… e a quel punto sono diventato il loro nemico numero uno, ma forse se…» Si interruppe, realizzando lui stesso quello che stava facendo. Facendo finta di niente, abbassò il finestrino e gettò via la sigaretta, per poi tossire e schiarirsi la voce. «… sì, insomma. È stato uno spasso.»

Accese la radio e si mise a fischiettare, senza accennare affatto a ciò che era appena successo. Realizzando che perlomeno si fosse zittito, nessuno di loro ebbe il coraggio di riaprire la discussione.

 

***

 

Superarono la collina e raggiunsero l’albero di Talia, una sfida che si rivelò più ardua del previsto per le loro gambe stanche. Poi, quando iniziarono a scendere e il Campo Mezzosangue si stagliò di fronte a loro, Thomas pensò che ogni sforzo fatto era valso la pena. Non aveva idea di quanto quel luogo gli fosse mancato. Le capanne, il padiglione della mensa, l’arena, la Casa Grande, il laghetto, l’Athena Parthenos, ogni cosa era proprio come la ricordava, bellissima come sempre, con quell’aura nostalgica ad avvolgerla. 

Entrare in quel luogo era come entrare nella pellicola di un film. Il mondo esterno non esisteva più, il Campo Mezzosangue, la loro casa, avrebbe avvolto tutti loro con il suo manto protettivo, isolandoli dai problemi di tutti i giorni. 

Kevin aveva detto che oltre a lui gli unici a sapere che stavano tornando erano Chirone e Dioniso. E quindi, ovviamente, ad aspettarli trovarono oltre al centauro tutti i capicasa più decine e decine di altri semidei curiosi che avevano resistito alla stanchezza pur di vederli. 

Tommy si sentì sepolto da tutti quegli sguardi sbalorditi. Per sua fortuna, Rosa fu la principale attrazione. La ragazza che tutti avevano creduto scomparsa e per cui tutti avevano deciso di unire le forze per migliorare il campo era ancora viva, stava bene e si trovava di fronte a tutti loro. Versi sorpresi, mormorii, frasi e parole si alzarono tra i semidei man mano che il gruppo partito per l’impresa si avvicinava. 

«Ma che… che è questo casino?!» protestò Kevin, prendendosela con una ragazza bionda in mezzo al gruppo. «Sarah! Ti avevo detto di non dirlo a nessuno!»

La capocasa di Ebe arrossì. «L’ho solamente detto a Derek e Paul!»

«Io l’ho detto a Sunrise…» ammise Paul, con un sorrisetto colpevole. 

«Io l’ho detto a tutti» concluse Derek con un ghigno, prima di sbracciarsi in direzione del fratello. «Tommy!»

Non appena lo vide, Thomas sorrise, dimenticandosi per poco della morsa che gli stringeva il cuore. «Derek!» Corse verso di lui, ignorando tutti gli altri. Abbracciò il fratello, che ricambiò dandogli alcune rumorose schicchere sulla schiena. 

«Non ti sei fatto ammazzare! Bravo!»

«Beh, ho imparato dal…» Thomas osservò Derek, per poi interrompersi. «No, scherzavo, da te non ho imparato proprio nulla.»

Derek scoppiò a ridere, stritolandolo di nuovo. 

«Thomas!» gridarono altre voci. Il semidio si separò dal fratello maggiore, per poi venire accolto da Rick e Leyla, che si strinsero attorno alla sua vita. 

«Ciao piccole pesti!» salutò Tommy, arruffando i capelli di entrambi. Iperattivi com’erano, non era sorpreso di vederli svegli a quell’ora. «Vi sono mancato?»

«Sì! Finalmente ho di nuovo qualcuno a cui fare gli scherzi!» esultò Rick, saltellando sul posto. 

Thomas ridacchiò, spettinandolo di nuovo. Quanto era sollevato di rivederli. Quanto gli erano mancati. E soprattutto, quanto era felice di vedere quei sorrisi sui loro volti. Ce l’aveva fatta. Aveva completato l’impresa ed era tornato a casa, dalla sua famiglia. 

Natalie seguì i due bambini, accogliendolo con un ampio sorriso. 

«Sapevo che ce l’avresti fatta» gli disse, abbracciandolo.  

Tommy la strinse la sorella maggiore con forza. 

«Se vi avessi delusi non me lo sarei mai perdonato» ammise quando si separò da lei, scostandole alcune ciocche di capelli da di fronte al volto.   

Il resto dei suoi fratelli la seguirono, complimentandosi con lui con strette di mano, pacche sulle spalle, abbracci e battute. Thomas percepì qualcosa di diverso in tutti loro, un legame molto più forte che li univa. 

Si accorse che anche i suoi amici stavano ricevendo un’accoglienza simile alla sua. Stephanie sembrava quasi in lacrime mentre stritolava Paul, circondata dagli altri quattro figli di Demetra, tre sorelle e un altro fratello.

Al contrario, Rosa ed Edward erano quelli sereni della famiglia, mentre i loro fratelli parevano tutti in procinto di scoppiare a piangere come fontane. Jonathan strinse la sorella, mormorandole un milione di scuse, mentre gli altri notarono le cicatrici di Edward e le indicarono, domandandogli cosa fosse successo. Edward iniziò a blaterare di uno scoiattolo che aveva cercato di rubargli delle noccioline o cose del genere, in mezzo a quel brusio era un po’ difficile capire cosa stesse dicendo con esattezza.

Anche Konnor venne accolto da alcuni dei suoi fratelli. Gli strinsero la mano, dando qualche pacca anche a lui, sorridenti. Il ragazzo ricambiò i loro sorrisi, sembrando a proprio agio in mezzo a loro. Non c’erano tutti, però, visto che mancavano quelli che di solito si schieravano dalla parte di Buck. E a proposito del capocasa, di lui non c’era alcuna traccia. E anche Jane non sembrava presente. Alcune figlie di Afrodite erano lì, Tommy le riconobbe per i loro aspetti impeccabili anche alle quattro del mattino, ma non erano quelle che facevano parte dell’entourage dei due fidanzatini. Dovevano essere le poche ragazze di quella famiglia che come hobby non avevano l’andarsene in giro a trattare tutto e tutti come spazzatura. 

Vedere che anche alcuni figli di Ares e di Afrodite erano venuti a congratularsi con loro accese una piccola scintilla di fiducia in lui. Non erano obbligati a farlo, forse erano perfino andati contro alle direttive dei loro capicasa per raggiungerli, eppure erano lì. Tommy distese il proprio sorriso, accorgendosi, infine, di Lisa. L’unica rimasta in disparte, nelle retrovie. Se ne stava a braccia conserte, da sola, ma con un tenue sorriso dipinto sulle labbra.

Nonostante nessuno fosse venuto per lei, pareva comunque felice per tutti loro. Di nuovo, Thomas sentì il cuore stringersi in una morsa. Rimase ad osservarla, incapace di guardare da un’altra parte. Inevitabilmente, anche lei si accorse di lui. I loro sguardi si incrociarono e questa volta la figlia di Bacco non lo distolse. Il suo sorriso si affievolì, lasciando posto ad un’espressione vuota, triste. L’emozione che quegli occhi scuri stavano trasmettendo era ben chiara. 

Thomas assottigliò le labbra, poi camminò verso di lei. Derek lo chiamò, ma lui lo ignorò. Per tutto il tempo, gli occhi di Lisa rimasero posati su di lui, mentre diverse emozioni sembravano passarle sul viso. Dalla confusione, allo stupore, all’incredulità. Quando la raggiunse, le sorrise di nuovo, tendendole una mano. «Non vorrai mica startene qui da sola, vero?»

Lisa schiuse le labbra, apparendo spaesata per un secondo. Poi, si strinse nelle spalle, distogliendo lo sguardo da lui. «E a te che importa?»

«Mi importa» ribatté lui, afferrandola per la mano e facendole scappare un gridolino indispettito. «T-Tommy!» 

«Non ti lascerò passare inosservata anche questa volta!» esclamò il figlio di Ermes, trascinandola quasi di peso verso i suoi amici. «Ehi, gente! Che ne dite di dare una bella accoglienza anche a Lisa? Senza di lei non ce l’avremmo mai fatta!»

«T-Tommy…» farfugliò ancora Lisa, mentre tutti quanti si voltavano verso di loro. 

«Sono d’accordo» fece eco Edward, avvicinandosi a loro e affiancando Tommy. Anche Konnor e Stephanie li raggiunsero, piazzandosi dall’altro lato e lasciando che la figlia di Bacco rimanesse in centro. I cinque semidei dell’impresa si ritrovarono di fronte alla folla, che li investì con uno scrosciante applauso. 

I vari capicasa si fecero avanti. Seth, Alyssa, Tonya, Simon, Xavier, tutti quanti le strinsero la mano, congratulandosi con lei. Lisa sembrava voler sprofondare dalla vergogna, ma il sorriso di pura e genuina felicità che aveva stampato sul viso raccontava tutta un’altra storia.  

Anche Rosa si fece avanti, dandole un grosso abbraccio. «Grazie di tutto, chica» affermò, causando un applauso ancora più forte. 

In mezzo a tutto il giubileo, gli sguardi di Lisa e Tommy si incrociarono di nuovo e, questa volta, la ragazza sembrò provare un moto di gratitudine verso di lui. 

«Mi sembra ovvio che quest’impresa non sia stata poi così difficile, se ce l’avete fatta» disse qualcuno all’improvviso, alzando il tono per farsi sentire sopra la folla.

Quella voce fu come una mano che afferrò Tommy per trascinarlo fuori da un letto caldo e gettarlo in mezzo ad una notte di pioggia. 

Tutti si voltarono verso di Buck, Jane e il loro entourage mentre si facevano largo tra la folla. Il figlio di Ares fece vagare lo sguardo sui semidei dell’impresa, Rosa inclusa, mentre la sua ragazza sogghignava divertita. «Insomma, se questi cinque ce l’hanno fatta, allora avrebbe potuto farcela chiunque. Anzi, sono sicuro che chiunque altro ci avrebbe messo molto meno tempo di loro.»

Tommy strinse i pugni, sentendo la rabbia montargli nel corpo. Non riusciva a credere che quel beota avesse davvero avuto il coraggio di dire una cosa del genere. 

Una risata sguaiata si sollevò in aria all’improvviso, facendolo calmare. Edward rovesciò la testa all’indietro, coprendosi la faccia. 

«Sei un vero spasso, lo sai amico?» disse, tornando ad osservare il figlio di Ares con un sorrisetto. 

«Facciamo così…» camminò verso di lui, sollevando le braccia con fare innocuo. «… troviamoci nell’arena, domani.» Si piazzò di fronte a quello scimmione, facendosi serio all’improvviso, come poche volte Tommy lo aveva visto. «Scopriremo se hai ragione o no.»

«E perché non farlo adesso?» rantolò il figlio di Ares, stringendo i pugni. 

Prima che Edward potesse replicare, Konnor si fece avanti. Poso un braccio sulla spalla di Edward, cercando di farlo allontanare dal fratello. «Dateci un taglio. Questo non è né il luogo né il momento per litigare.»

«E tu che vuoi, Konnor? Non sei altro che un disonore per la nostra casa» gracchiò Buck, tagliente come un coltello. Tommy sentì l’irrefrenabile bisogno di tirargli un pugno sul naso. Se Konnor era un disonore, lui che cos’era? 

«Su, su, calmatevi tutti» si intromise Chirone, sollevando le braccia per appianare gli animi. «L’impresa è stata un successo, la guerra è stata scongiurata e Rosa è sana e salva, questo è un momento di cui gioire! Domani lezioni e allenamenti saranno sospesi: festeggeremo la buona riuscita dell’impresa!»

Grida di giubilo si sollevarono tra la folla, così forti che sicuramente finirono con lo svegliare l’intera capanna di Ipno, l’unica che mancava all’appello. Nonostante la botta di buonumore che Chirone riuscì ad iniettare in tutti loro, le espressioni dure di Edward e Konnor, soprattutto di quest’ultimo, non mutarono. Per tutta risposta, Buck sogghignò, congedandosi con una piccola riverenza insieme a Jane, che lanciò un’ultima occhiata divertita ai semidei dell’impresa. 

I cinque ragazzi non sembravano gli unici a non aver gradito il loro comportamento. Anche Rosa, Natalie, Derek e molti altri li osservarono adirati mentre si allontanavano. 

«Forza, tornate tutti nelle vostre cabine» li invitò Chirone. «E lasciate riposare i vostri fratelli. Hanno avuto una settimana lunga e sono sicuro che nessuno di loro sia in vena di essere tempestato di domande. In tarda mattinata terrò un altro Consiglio, così potranno raccontare tutto quello che è successo ai capicasa.» Si voltò verso i cinque ragazzi, sorridendo paterno. «Siete stati bravi. Sono davvero orgoglioso di voi.»

Dei piccoli sorrisi apparvero sui loro volti. Detto da Chirone, significava davvero molto. 

I semidei cominciarono a sparpagliarsi, dirigendosi alle loro cabine. I cinque furono tra gli ultimi a rimanere lì, insieme a Rosa e ad alcuni dei loro fratelli. Derek si fermò per dire qualcosa a Tommy, ma sembrò ripensarci all’ultimo secondo, limitandosi a dirgli di raggiungerlo alla cabina quando avrebbe finito lì. Thomas era abbastanza sicuro che nonostante l’ammonimento di Chirone, Derek e gli altri non lo avrebbero lasciato dormire finché non avrebbe raccontato ogni cosa per filo e per segno.

«Beh… buonanotte gente» salutò Rosa, con un sorriso. Si avvicinò ed abbracciò tutti loro, uno per uno, incluso Thomas, ringraziandoli ancora per l’aiuto. Il figlio di Ermes la strinse un po’ imbarazzato, ma questa volta fu diverso: non fu più imbarazzo causato dalla sua cotta per lei, più un disagio provato nell’avere contatti con lei di fronte a Lisa.

«Ci vediamo domani» concluse, agitando la mano, imitata da Edward. I due fratelli si allontanarono insieme a Jonathan e diversi altri, diretti verso la capanna sette. Tommy li seguì con lo sguardo, sorridendo, felice di rivederli insieme, felice che stessero entrambi bene e soprattutto felice che fossero entrati nella sua vita.

«È stato un onore combattere con voi» disse Konnor, ottenendo alcune risatine dagli altri tre. Si imbarazzò. «Che c’è di divertente?»

«Riposo, soldato!» gli fece il verso Stephanie.

Konnor alzò gli occhi al cielo, anche se il sorriso di Steph sembrò contagiarlo un po’.

«Pensi di farcela con Buck nella tua stessa cabina?» domandò Thomas, incupendosi. Non poteva nemmeno immaginare che cosa avrebbe fatto quello scimmione a Konnor da quel giorno in poi.

«Non preoccuparti per me» rispose lui, strizzandogli l’occhio. «Me la caverò.»

Tommy riuscì a sorridere. Quando quell’impresa era iniziata, non sapeva bene come definire il figlio di Ares. Ora, dopo tutto quello che era successo, era abbastanza sicuro di poter chiamare “amico” anche lui. Ed era molto felice di poterlo fare. Il suo sguardo passò poi a Steph. Aveva sempre pensato che fosse solo una sapientona, invece era una ragazza forte, coraggiosa ed altruista. Era sempre stata una dei suoi pochi amici e non avrebbe potuto desiderare di meglio. 

Anche se ancora non ha capito che lei e Konnor sono una coppia perfetta. 

Da quel punto di vista, lei era perfino più tonta di lui, ma si ripromise di non dirglielo mai ad alta voce. 

«Sei stata brava Steph» disse, sorridendole. 

La figlia di Demetra ricambiò il suo sguardo. «Anche tu Tommy.»

Tommy distese il sorriso, poi l’abbracciò. Le voleva bene e si sarebbe sempre schierato dalla sua parte, soprattutto dopo quello che avevano condiviso in quell'impresa. 

I due ragazzi salutarono Lisa, poi si congedarono anche loro, lasciandolo da solo con lei. Si passò la mano dietro al collo, imbarazzato. Fece per parlare, ma Lisa lo liquidò con un veloce: «Buonanotte Thomas.»

La vide allontanarsi e si sentì morire dall’interno. Le gambe gli si tramutarono in gelatina e il cuore cominciò a schizzargli all’impazzata nel petto. «A-Aspetta!»

Riuscì a trovare il coraggio di correrle dietro. Non aveva idea di che cosa stesse facendo, né di che cosa avrebbe potuto dirle: sapeva solo che non poteva lasciarla andare così.

Lisa si fermò, senza voltarsi. La vide abbassare la testa. «Thomas, ascolta…»

«Mi dispiace» disse lui, di getto. «Io… io non avevo idea che tu… cioè, che io… che noi due… cioè…»

Un lungo sospiro provenne dalla ragazza. Le sue spalle si alzarono, per poi abbassarsi lentamente. «Non preoccuparti. È stata colpa mia.»

«C-Che cosa?»

Lisa si voltò, guardandolo sottecchi. Il suo sguardo era spento, triste. «Sono stata una stupida a pensare che… che dopo tutto quello che ti ho fatto…» Fece schioccare la lingua, sorridendo amareggiata. «Non ho fatto altro che tormentarti e poi ho pure avuto la faccia tosta di credere di piacerti. Sono proprio un’idiota.» 

«No…» Thomas tese una mano verso di lei. Non poteva reggere il dolore nei suoi occhi. «No, aspetta… i-io…» Abbassò il braccio, sentendosi un gigantesco Idiota con la I maiuscola. «Io… non credevo di… di piacerti. Non pensavo di… di valere così tanto, per te…»

La voce di Lisa si indurì. «Perché non lo pensavi?» 

Tommy sussultò, colto alla sprovvista dal suo cambio di tono. Lisa si avvicinò. «Come puoi pensare anche solo per un momento di non valere abbastanza?» Si fermò di fronte a lui e la sua voce si ammorbidì. Abbassò la testa, sopra il ciondolo che Tommy le aveva regalato e se lo rigirò tra le dita quasi con fare protettivo. «Dopo tutto quello che hai fatto per me, per tutti noi… come puoi non accorgerti del tuo valore?»

Thomas incrociò di nuovo il suo sguardo. Ancora una volta, si smarrì nei suoi occhi. «Perché… perché sono solo un ottuso figlio di Ermes…» mormorò, abbassando la testa.

«No, Tommy, non sei solo un ottuso figlio di Ermes. Sei un gigantesco ottuso figlio di Ermes.» La mano di Lisa si posò sulla sua spalla, facendolo sussultare. Si raddrizzò, accorgendosi del piccolo sorriso che era di nuovo nato sul volto di lei. Era bellissima quando sorrideva. Era bellissima quando sorrideva a lui. 

«Ma sei anche buono, dolce, altruista» ammise, con le guance che si tingevano di rosso. «Mi hai difesa quando pensavo che nessuno l’avrebbe mai fatto. Mi hai perdonata e mi hai ascoltata. Hai affrontato Efialte solo per me. Mi sei stato vicino e mi hai aiutata ad uscire da quel baratro senza fondo in cui mi stavo cacciando.»

La mano di Tommy si posò sulla sua senza che nemmeno se ne rendesse conto. «Chiunque l’avrebbe fatto, Lisa.»

«Non chiunque, Tommy. Tu.»

Thomas schiuse le labbra. La sua reazione fece ridacchiare Lisa, che sollevò gli occhi al cielo. «È tutto inutile, rimarrai sempre un ottuso figlio di Ermes.» La sua mano scivolò dalla spalla alla sua guancia, accarezzandolo. «Ma mi piaci anche per questo.»

L’ottuso figlio di Ermes avrebbe voluto rispondere, avrebbe voluto dirle che anche lei gli piaceva, che anche lei aveva un valore inestimabile per lui. Tuttavia, quando le labbra di Lisa si adagiarono sulle sue, si dimenticò perfino come si chiamava.

Spalancò gli occhi, osservando il volto di Lisa così vicino al suo, le sue palpebre serrate, mentre il suo respiro caldo soffiava sulla sua pelle facendolo sussultare. Rimase immobile, incapace di compiere il minimo dei movimenti, incapace di pensare, mentre sempre più incredulo percepiva le labbra tremolanti ed impacciate di Lisa contro le sue. Il calore nel suo petto, il cuore che gli batteva all’impazzata, le labbra inumidite, il tocco morbido di Lisa… quello era il suo primo bacio. 

Chiuse gli occhi, avvicinando anche lui la mano al volto di Lisa per carezzarlo, mentre entrambi schiudevano le labbra per cercarsi con più insistenza. Non aveva idea di che cosa stesse facendo, né perché, ma non aveva importanza: si lasciò guidare dall’istinto, e fu la scelta migliore che avrebbe mai potuto prendere. 

Quando si separarono, lo fecero solamente perché entrambi avevano bisogno di riprendere fiato. I loro sguardi si incrociarono e Thomas pensò che avrebbe potuto sconfiggere Crono, Gea, gli Imperatori e Orochi da solo e a mani nude.  

«Tonto figlio di Ermes» ripeté Lisa, con un bellissimo sorriso dolce.

Tommy strofinò il pollice sulle sue guance ancora più rosse di quando aveva bevuto il vino e sorrise. «Stupenda figlia di Bacco.»

«S-Smettila di giocare sporco!» protestò lei, facendolo ridere. Le prese il volto tra le mani e la baciò di nuovo, sentendosi come se stesse toccando il cielo con un dito.

Avevano litigato, avevano fatto pace, erano diventati amici e poi… quello. Non avrebbe mai immaginato che le cose sarebbero potute finire così. Se avesse potuto, avrebbe congelato il tempo in quello stesso istante, rimanendo per sempre stretto a lei. 

Lei, Lisa. La persona migliore che avrebbe potuto incontrare.

Qualcuno si schiarì la voce e per poco Tommy non morì sul colpo per un attacco di cuore. Si separarono, accorgendosi di Dioniso che li osservava svogliato. 

«S-Signor D» bisbigliò Thomas, con un filo di voce. Un flash del suo funerale balenò nella sua mente, con Derek che recitava un discorso in sua memoria farcendolo di tutti i momenti imbarazzanti della sua vita.

«Non preoccuparti, Timothy, non ti trasformerò in concime per i campi solo perché hai baciato mia figlia» lo rassicurò il dio, sollevando una mano. Dopodiché, spostò lo sguardo su di Lisa. «Ho bisogno di parlarti.»

Lisa assottigliò le labbra, stringendo la mano di Thomas. «Tommy rimane» affermò, facendo perdere un battito al cuore del figlio di Ermes. Una parte di lui avrebbe voluto dire che non era il caso. L’altra, sapeva bene cosa provasse Lisa nei confronti del padre. E se lei aveva bisogno di lui, lui non l’avrebbe mai abbandonata.

Il signor D non sembrò entusiasta della cosa, ma acconsentì. Osservò la figlia con lo sguardo severo che lo aveva caratterizzato negli anni in cui aveva vissuto nel campo e lei lo ricambiò, aumentando la presa sulla mano di Thomas. Poi, il dio abbassò gli occhi, sospirando. «Mi dispiace per quello che ti ho detto quando hai deciso di partire per l’impresa. Non è vero che non mi importa di te.»

Era forse… una scusa, quella appena uscita dalle labbra del dio? Tommy spalancò la bocca per lo stupore. E se lui era stupito, poteva solo immaginare come dovesse essere Lisa. 

«Ho… ho solo avuto paura di perderti» proseguì il dio, avvicinandosi a lei. Le posò le mani sulle spalle. «Ho già perso tua madre. Se dovessi perdere anche te non riuscirei ad accettarlo.»

Lisa schiuse le labbra. Una lacrima le scivolò dall’occhio, percorrendo la guancia. Dioniso l’asciugò con il pollice e la sua espressione si addolcì. «Hai i suoi stessi occhi

Altre lacrime scivolarono lungo le guance di Lisa. Poi, la ragazza lasciò la mano di Tommy e abbracciò il padre, affondando il volto sul suo petto e cominciando singhiozzare. Dioniso la strinse con forza, appoggiando il mento sulla sua testa, in un abbraccio molto più sentito.

«Mi… mi manca così tanto…» sussurrò Lisa, con voce incrinata. 

«Anche a me.» 

Padre e figlia rimasero abbracciati a lungo. Thomas osservò quel rapporto che aveva creduto incrinato ricostruirsi lentamente di fronte ai suoi occhi e sorrise di pura gioia. 

«Sei la cosa migliore che abbia mai fatto» affermò Dioniso, quando si sciolse dall’abbraccio. Sorrise orgoglioso, asciugandole le altre lacrime. Le scostò una ciocca di capelli, spostandogliela dietro l’orecchio. «Ti voglio bene Lisa. Sono fiero di te.»

Lisa sorrise. In quel sorriso, Thomas vide ogni traccia di dolore svanire da dentro di lei una volta per tutte. Finalmente, ogni cosa nella sua vita era tornata al suo posto. Non avrebbe potuto essere più felice per lei.

«Mi dispiace di non essere venuto ad aiutarti contro Efialte. Quel pallone gonfiato di Ermes ha voluto prendersi tutti i meriti…» borbottò poi Dioniso, lanciando un’occhiatina a Thomas, che fece svanire il suo sorriso alla rapidità della luce. «… sappi che ti tengo d’occhio, Timmy. Ferisci mia figlia e ti ritroverai ad osservare i miei vigneti crescere dal lato delle radici.»

Il cuore del poveretto perse un altro battito. 

«Dai, papà!» si lamentò Lisa, tornando ad afferrare Tommy per la mano e sorridendogli. «È un tonto figlio di Ermes, ma non è così male.»

«Mh. Beh, del resto…» Si interruppe, scuotendo la testa. «In ogni caso, avete cinque minuti per filare nelle vostre cabine, o vi metterò entrambi in punizione per sei mesi.»

La ragazza roteò gli occhi. «Essere un padre fico per più di trenta secondi è una cosa troppo difficile per te, vero?»

«Potrei fare la stessa domanda al mio di padre» ribatté il signor D, alzando anche lui gli occhi al cielo. «Allora? Che hai da rispondere?»

Un tuono improvviso fece scuotere le ossa di Tommy, colpendolo alla sprovvista. 

«Tsk. Tipico» mugugnò Dioniso impassibile. «Cinque minuti, non di più» stabilì, prima di dirigersi verso la Casa Grande. 

Thomas e Lisa rimasero da soli, ancora con le mani intrecciate. Nonostante le minacce del signor D, niente avrebbe potuto guastare l’umore del figlio di Ermes, che incrociò di nuovo lo sguardo della ragazza. Si sorrisero di nuovo, entrambi felici come mai lo erano stati. 

Avevano cinque minuti per tornare nelle cabine: c’era tutto il tempo per scambiarsi ancora uno o due baci.

 

 

 

 

E così i nostri eroi sono tornati a casa, finalmente. E sì, gente, sono passati due anni da quando ho scritto il capitolo della partenza. Non so nemmeno io come sia possibile, davvero. Non ho mai scritto una storia durata così tanto, sono sorpreso. Mi dispiace di averci messo così tanto. Ma sono felice di essere riuscito ad arrivare fino a qui. E soprattutto sono felice di vedere che ancora ci sono persone che leggono, sono sicuro che tra le visualizzazioni che ricevo ci siano persone che stanno leggendo dal day one, dal lontano novembre 2018 (spero di finire prima di compiere il terzo anniversario). 

Devo un ringraziamento in particolare ad una persona, ossia Farkas, che non solo legge dal day one ma recensisce anche dal day one. Non ha mai mancato un capitolo e mentirei se dicessi che poter contare sulla sua presenza non mi abbia aiutato a scrivere. Apprezzo i lettori, apprezzo chi legge silenziosamente, ma poter discutere della storia con uno di voi è sempre un piacere per me. Scambiarsi opinioni, sentire pareri, complimenti o anche critiche, è un vero onore e soprattutto è di grande aiuto per un autore. 

E allo stesso modo devo ringraziare Roland, che si è unita a metà strada e da quel momento non è più scesa da questo treno pazzo. Di solito questi sono ringraziamenti che lascio alla fine della storia, ma mi sembrava giusto dare un piccolo anticipo. 

Grazie ad entrambi di cuore, grazie anche a Beauty Queen che è rimasta con me durante la prima metà della storia e allo stesso modo ringrazio volarefinoatoccareilcielo, Lady_Maria e Lady White Witch, che spero davvero stiano ancora leggendo, così da sapere che i miei ringraziamenti sono arrivati anche a loro. 

Ringrazio poi anche camillavaalmare, Lydia_Swan_Prior, Pase200585, Cossiopea, Mareena, Alohomora, Calathea, NonLoSo_18, ancora una volta Beauty_Queen, Farkas, Roland e per finire la mia cara amica IRL Nanamin, per aver seguito, ricordato e preferito la storia. Se qualcuno di voi ha piacere di farmi sapere perchè ha deciso di salvarsi la mia storia, mi renderebbe molto felice scoprirlo.

(SÌ LO SO CHE IL CAPITOLO AVEVA 10K PAROLE E VI STO TRATTENENDO MA CI TENEVO ECCO)

Grazie a tutti carissimi  

Al prossimo capitolo!


 
 

p.s. La canzone cantata da Rosa, Lisa e Steph: https://www.youtube.com/watch?v=NxAQC2hqat4

 

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Capitolo 40
*** Ritorno a casa ***


40

Ritorno a casa

 

 

A svegliarla fu il suono di suo fratello che rideva. Stephanie allungò la mano verso il comodino, cercando gli occhiali mentre i raggi del sole picchiavano sul suo volto, riscaldandoglielo. Le coperte scivolarono via quando si sedette. Indossò gli occhiali e sbadigliò in maniera molto più rumorosa di quanto avrebbe voluto. Si coprì la bocca per l’imbarazzo, anche se non poteva farci nulla, era una settimana che non dormiva così bene. Quanto era piacevole potersi di nuovo svegliare nel suo letto, nella capanna Quattro, accanto al grosso albero maestro che reggeva il soffitto e l’edera sulle pareti. Le era mancato potersi sdraiare sopra un letto vero.

Per fortuna, nessuno parve accorgersi del suo piccolo verso da cucciolo di dinosauro. Anche perché oltre a lei nella cabina c’era soltanto Paul, girato di spalle ed affacciato alla finestra. Stava parlando con qualcuno e non sembrò accorgersi che si era svegliata.

La ragazza scese dal letto e si stiracchiò. Poi, con un sorrisetto, si avvicinò al fratello. Stava per dargli un pizzicotto e farlo sobbalzare, ma quello si voltò verso di lei fulmineo. «Non ci provare.» 

Stephanie indietreggiò e alzò le mani. «Scusa.»

Paul assottigliò le palpebre, mentre il sole filtrava dalla finestra illuminandogli il viso. Fuori, una ragazza con la pelle verde stava ridacchiando con la mano di fronte alla bocca. Il capocasa di Demetra era un grande amico delle driadi, venivano spesso a trovarlo per parlare con lui. Doveva essere per via del fatto che fosse un figlio della dea della natura, oltre che un bel ragazzo. Di sicuro per loro era meglio avere intorno lui piuttosto che qualche vecchio satiro eccitato che amava tormentarle.

«Come ti senti?» chiese Paul, sorridendole di nuovo. «Dormito bene?»

Steph non riuscì a trattenere un altro sbadiglio. Annuì. Per fortuna, i suoi fratelli l’avevano lasciata realmente riposare quando era tornata al campo. Avrebbe voluto raccontare cos’era successo durante l’impresa, ma era distrutta. Tuttavia ricordava molto bene il calore con cui l’avevano accolta e come l’avevano trattata. Non erano in molti nella casa Quattro, ma erano sempre stati un gruppo molto affiatato. «Di che parlavate?» domandò.

La driade ridacchiò di nuovo. Steph conosceva quelle espressioni divertite sui loro volti: le facevano tutte le volte che avevano quale scoop interessante riguardo i ragazzi del campo. Da quel punto di vista, le driadi erano perfino peggio delle figlie di Afrodite. 

«A quanto pare mentre tornavamo a dormire i tuoi amici Lisa e Thomas si sono… come dire, “avvicinati”» spiegò Paul, guardando complice la driade. 

«Non si staccavano più» ridacchiò ancora la ragazza.

Forse era per via della stanchezza, ma Stephanie impiegò più di quanto avrebbe voluto per capire che cosa le stavano dicendo. E quando capì, sentì le guance pizzicare. «Oh…»

Dopo lo stupore per quella scoperta, arrivò la felicità. Aveva visto Lisa e Thomas fare degli ovvi progressi in quei giorni, le era spiaciuto vedere che all’inizio non andavano d’accordo. Aveva subito capito che Lisa in realtà era una brava ragazza, mentre Tommy era suo amico da anni ormai, lo conosceva bene, era sempre stato sincero, leale e premuroso, inoltre lo aveva visto trasformarsi sotto i suoi occhi durante quell’impresa. Non era più il ragazzino timido e impacciato che aveva conosciuto anni prima: era un uomo, un guerriero coraggioso con il cuore di un leone.   

Sapere che quei due si fossero trovati le scaldò il petto. Forse era proprio quello a cui Afrodite si stava riferendo, quando si erano incontrati. Ripensare alla dea dell’amore le provocò una fitta allo stomaco, perché le fece ricordare quello che aveva detto anche a lei. Ma non c’era solo la parte riguardante le sue faccende di cuore che ancora la tormentava, c’era anche quella in cui le aveva detto di essere una parte fondamentale dell’impresa. E non solo lei, anche Persefone le aveva detto la stessa cosa. E alla luce di tutto quanto, Stephanie ancora non era sicura di aver capito cosa volessero dire. 

Era innegabile il fatto che fosse stata di aiuto per i suoi compagni, specialmente quando Campe li aveva rapiti. Oltre a quello, però, non credeva affatto di aver fatto molto. Aveva litigato con Edward, Orochi l’aveva quasi uccisa e a San Francisco aveva impiegato troppo tempo per respingere i mostri. Era stata quasi un intralcio per tutti loro. Non si meritava davvero di venire celebrata. 

«Steph? Ci sei?»

La voce di Paul la riportò alla realtà. Sussultò, osservando il fratello. «S-Sì. Scusa, stavo…»

«Pensando. Come sempre» concluse lui lanciandole un’occhiatina divertita. 

Steph sentì le guance pizzicare un’altra volta. Distolse lo sguardo, mentre il suo stomaco brontolava. Il pensiero di poter fare di nuovo colazione nella mensa del campo riuscì a farle tornare il buonumore. Aveva proprio bisogno di rimpinzarsi per bene. Oltre ai deliziosi panini delle cacciatrici, non aveva mangiato molto in quei giorni. «Sai dirmi che ore sono?»

«Sono quasi le undici.»

«Cosa?! E perché non mi avete svegliata prima?»

«Rilassati sorellina. Nemmeno i tuoi amici si sono ancora fatti vivi. A parte Konnor.» 

Non appena quel nome venne menzionato, la driade ridacchiò per l’ennesima volta e osservò Stephanie con quel luccichio malizioso negli occhi, facendole subito capire che non aspettava altro che il loro scoop. Paul si grattò dietro l’orecchio con aria imbarazzata, anche se sembrava che perfino lui stesse trattenendo a stento un sorrisetto.

Stephanie si sforzò di ignorarli entrambi e se ne tornò nel suo angolo della casa per cambiarsi il pigiama, tuttavia ora che era stato menzionato, non riuscì più a togliersi Konnor dalla testa. 

Forse… forse Tommy e Lisa non erano gli unici ad essersi avvicinati.

 

***

 

Avanzò per il Campo Mezzosangue con indosso una giacchetta sottile e dei leggins scuri. Come sempre il tempo era fantastico, il sole era alto, l’aria era fresca e tutti sembravano di buon umore. Un sacco di gente la salutò mentre camminava, tra cui molti che di rado l’avevano degnata di una seconda occhiata. Non tutti i loro sguardi sembravano positivi. Alcuni sembravano infastiditi, o scettici, ma la stragrande maggioranza pareva davvero sorpresa e felice. Era bello vedere quegli sguardi di novizio stupore nei loro occhi, era bello ricevere quel tipo di attenzioni da parte loro, ma era anche… strano. Non ne era affatto abituata.

Paul aveva detto che Chirone avrebbe aspettato che tutti e cinque i semidei dell’impresa si fossero svegliati prima di iniziare il Consiglio. Aveva tempo per fare colazione e riordinare meglio le idee. O almeno, così credeva. Quando vide Konnor nel padiglione della mensa, il buon proposito di riordinare le idee finì fuori dalla finestra. 

Era seduto al tavolo della sua capanna, con pochi dei suoi fratelli e la sua unica sorella, intento a buttare giù un piatto di uova e pancetta. Naturalmente si accorse subito di lei. La salutò con un sorriso e un cenno della mano, che Steph ricambiò impacciata. 

Mentre mangiava la sua abbondante porzione di muesli e yogurt, osservò i figli di Apollo, Atena, Iride, delle driadi e perfino alcune ragazze di Afrodite intenti a decorare il padiglione in vista della festa di quella sera. In mezzo al gruppetto, vide anche Sarah che spintonava quasi a forza Kevin verso una driade che lo osservava inviperita, ordinandogli di scusarsi con lei. 

Tutta quella pace e quella quiete riuscirono a toglierle quel macigno che sentiva dentro lo stomaco, anche se sapeva che sarebbe stata solo una cosa momentanea. Presto o tardi si sarebbe di nuovo trovata in compagnia sia di Konnor che di Edward e non avrebbe più potuto continuare ad ignorare quello che stava provando. 

Un cuore si sarebbe spezzato. Il pensiero di ferire qualcuno la stava consumando dall'interno. Ancora peggio, era il pensiero che forse avrebbe dovuto rinunciare per sempre all'amicizia con uno di loro.

Dopo essersi congedato dai suoi fratelli, Konnor la raggiunse, salutandola più calorosamente. Si ritrovarono seduti fuori dal padiglione della mensa, sopra il prato rigoglioso, a osservare i semidei che andavano e venivano dalle loro cabine. 

«Dormito bene?» le domandò Konnor. 

«Abbastanza. Mi ci voleva proprio un letto come si deve» rispose Stephanie, sentendo dolore alla schiena mentre ripensava agli scomodissimi sedili del treno. «Tu invece?»

Konnor si strinse nelle spalle. «Ero così stanco che avrei potuto addormentarmi anche su un letto di spine.» 

Stephanie sollevò un sopracciglio. «Significa che hai dormito bene o male?»

«Significa che… l’aria era un po’ testa. Ma mi sono svegliato ancora tutto intero, quindi suppongo che sia andato tutto bene» concluse lui, incerto. 

La figlia di Demetra contorse le labbra in un’espressione angosciata. «Mi dispiace… non è giusto il modo in cui Buck ti ha trattato ieri sera.»

«Non preoccuparti per me, Steph. Lo sai che posso cavarmela.»

Un timido sorriso nacque sul volto di Stephanie. Era vero, Konnor era un osso duro. Rimaneva comunque sbagliato il modo in cui Buck si era comportato con lui. Chiamarlo un disonore per i figli di Ares era stato davvero un colpo basso. Konnor non aveva fatto niente di male.

«Ho ricevuto… parecchi sguardi, oggi» cambiò argomento Stephanie. «Non sono affatto abituata a stare sotto i riflettori…»

Konnor ridacchiò. «Sei un’eroina adesso. Farai meglio ad abituartici.»

Stephanie fece una smorfia poco convinta. «Non ho fatto niente di che…»

«Che cosa?» domandò il figlio di Ares, con tono sorpreso. «Stai scherzando, vero?»

La semidea non rispose, colta alla sprovvista dalla domanda. Konnor ridacchiò di nuovo, scuotendo la testa. Cominciò ad elencare tutte le sue gesta: «Allora, ci hai salvati tutti da Campe, ci hai aiutati a trovare il percorso più veloce per San Francisco, hai scaraventato Oto in cielo come un razzo, Fujinami è rimasto con noi soprattutto per merito tuo e per finire hai spazzato via da sola l’intero esercito di Orochi. In che modo non avresti fatto niente di che?»

Steph sentì le guance imporporarsi. Erano le stesse cose che era consapevole di aver fatto, eppure sentirle dalla sua bocca le fece sembrare cento volte più importanti. «I-Io… i-insomma, mia sorella Persefone e anche Afrodite mi hanno detto che avrei reso mia madre orgogliosa, che sarei stata indispensabile, che…»

«E non pensi di averlo fatto?» domandò lui, guardandola con un sorriso molto più sincero.

Stephanie si zittì. Per una volta, la sua mente rimase ferma, senza viaggiare a mille all’ora per cercare possibili soluzioni o significati alternativi rispetto a quello che stava succedendo. 

«Se non vuoi credere a te stessa, credi a me, Steph. Sei stata fantastica.» Konnor le posò una mano sulla spalla. «Non ce l’avremmo mai fatta senza di te. E sono sicuro che Demetra sia orgogliosa di tutto quello che hai fatto.»

I loro sguardi si incrociarono. Come sempre, Stephanie rimase paralizzata. Quegli occhi azzurri erano la sua debolezza più grande. In realtà, Konnor lo era. Non c’era volta in cui lui non riuscisse a farla stare meglio. Era strano e bellissimo allo stesso tempo. Annuì con timidezza, sentendosi un po’ imbarazzata per essere di nuovo partita con la mente altrove. «Grazie Konnor.»

«Sempre a tua disposizione… a proposito, mi dispiace che non siamo riusciti a passare a trovare tuo padre.» 

Steph corrucciò la fronte. «Che cosa?»

«Ricordi quando eravamo alla Union Station? Ti avevo detto che saremmo potuti passare a trovarlo durante il viaggio di ritorno.»

Un altro sorriso nacque sul volto di Stephanie. Dopo tutto quello che era successo se l’era totalmente dimenticato. Vedere che invece Konnor ancora lo ricordava la diceva lunga su di lui. Credeva che gliel’avesse detto per farla stare meglio, invece sembrava davvero convinto che avrebbero potuto fare una deviazione così grande solo per lei. Significava che teneva davvero a farla stare meglio. A quel pensiero, sentì lo stomaco fare una capovolta. «Non preoccuparti. Penso che andrò a trovarlo prima della fine dell’estate, ma grazie comunque per il pensiero.»

Si sorrisero ancora una volta.

«Ehi, ragazzi…» disse qualcuno all’improvviso, attirando la loro attenzione. Tommy li stava osservando con fare circospetto, come se stesse nascondendo qualcosa. Sembrava essere sceso dal letto di corsa senza nemmeno degnarsi di darsi una pettinata. «Avete… visto… Lisa?»

A Stephanie servì tutta la sua forza di volontà per non sorridere come una figlia di Afrodite. «Ma come Tommy, non ci saluti nemmeno come si deve?» 

Il piccoletto sussultò. «S-Sì, scusate. Ciao ragazzi, come state? Questa notte vi hanno tartassati di domande come hanno fatto con me?» Si rabbuiò. «Spero per voi di no. Mi hanno tenuto sveglio fino alle sei.»

Entrambi denegarono e, malgrado avesse augurato il contrario, parve rabbuiarsi ancora di più. «Come no?! Ma perché tutte a me?!»

I due ragazzi ridacchiarono.

«No Tommy, non l’abbiamo vista» rispose infine Steph. «Forse starà ancora dormendo… ricordo che svegliarla era sempre un dramma.»

«Mh… sì, immagino di sì… beh, io vado a mettere qualcosa sotto i denti. Ci… ci vediamo dopo?»

«Certo.»

Thomas si congedò, allontanandosi di fretta. Steph si domandò se davvero non fosse riuscito a dormire per colpa dei suoi fratelli o se perché non aveva fatto altro che pensare a Lisa. Era più probabile che fosse un misto di entrambe. 

«Hai saputo che si sono baciati, ieri notte?» domandò Konnor, quando Tommy fu abbastanza lontano. 

Stephanie schiuse le labbra. «Com’è possibile che anche tu lo sappia?»

«Me l’hanno detto alcune figlie di Afrodite. Delle driadi li hanno visti e… sai com’è, le voci corrono in fretta qui» spiegò lui, con un sorrisetto divertito. 

Tuttavia, Stephanie non ci trovava nulla di divertente. Non dopo aver sentito chi gliel’aveva detto. 

«Non fare quella faccia, Steph. Non sono tutte come Jane» disse Konnor, prima ancora che lei potesse aprir bocca. «Alcune di loro sono brave ragazze. Basta pensare a come siano venute anche loro ad accoglierci, ieri sera.»

Alla figlia di Demetra sarebbe piaciuto un segnale d’allarme o una cosa del genere che la avvertisse quando lui stava per leggerla come un libro aperto. Avrebbe reso tutto molto più semplice e molto meno imbarazzante. Avvampò e cercò di non guardarlo. «N-Non volevo dire quello…» farfugliò, ottenendo una risatina. 

«Ah no? E che cosa allora?»

Stephanie annaspò in cerca di una risposta credibile. Purtroppo, non ne trovò neanche una. Non sapeva nemmeno, in realtà, perché avesse provato quel risentimento quando Konnor aveva ammesso di aver parlato con alcune delle ragazze della Capanna Dieci. O forse sì, lo sapeva. Si accorse che Konnor ancora la stava fissando, ancora in attesa, e la cosa la fece arrossire ancora di più. «N-Non importa…» farfugliò, prima che il sorriso sul volto di Konnor si allargasse. «Ah no, non ti salverai così cara mia. Ora me lo dici.»

Afrodite si stava divertendo come una pazza, ne era certa. 

«B-Beh… ecco…» cominciò lei, facendo di tutto per non guardarlo. «È solo che… è… bello che si siano baciati, no? Sono carini insieme…» sparò fuori, sperando di riuscire a salvarsi per il rotto della cuffia.

Konnor non sembrò convinto. Sollevò un sopracciglio, ma qualunque cosa stesse per dire, venne interrotto da una voce che li chiamava.

«Konnor, Stephanie!» 

Il rumore degli zoccoli di Chirone che sbattevano sul suolo attirò la loro attenzione. Il centauro arrivò di corsa, fermandosi accanto a loro. «Buongiorno ragazzi, vi stavo proprio cercando. Tra dieci minuti cominceremo il Consiglio, vi dispiacerebbe avvisare anche i vostri amici se li incontrate?»

La figlia di Demetra annuì come una forsennata, ringraziandolo mentalmente per averle appena salvato la vita. «C-Certo! Abbiamo visto Tommy prima, lo diremo anche a lui.»

«Molte grazie! Ci vediamo alla Casa Grande.» Chirone sorrise, poi galoppò via.

Stephanie si alzò in piedi di corsa, ricomponendosi. «Forza, sbrighiamoci.»

Sentì Konnor ridacchiare mentre la imitava. «Sappi che non mi hai convinto per niente Steph.» 

Alla ragazza venne l’impellente desiderio di svanire dentro un albero insieme a qualche altra driade pettegola.

 

***

 

Entrarono nella sala ricreativa, trovando già buona parte dei capicasa ad attenderli. Come al solito, George stava dormendo, Tonya e Xavier gli facevano disegnini sul volto, Alyssa sghignazzava e Simon li osservava tutti quanti disgustato.

Seth li salutò con un cenno ed un tiepido sorriso, suscitando un brivido dentro di lei. Quel tizio la inquietava.

Paul e Derek erano già presenti e stavano chiacchierando tra di loro, con Sunry che come al solito teneva la mano del capocasa di Demetra. Non parlava molto la capocasa di Iride, in compenso era molto gelosa. Però era una brava ragazza, Steph ci aveva parlato diverse volte sempre con toni molto amichevoli. 

«Figlia dei fiori!» la salutò Rosa, seduta accanto a Jonathan ed Edward, con un ampio sorriso. 

Stephanie ricambiò con gioia il saluto, accorgendosi poi dell'occhiata che Edward lanciò a lei e Konnor. Deglutì per l’imbarazzo, salutando timidamente anche lui. Il ragazzo sorrise come suo solito, facendo una piccola riverenza. 

Quando anche Thomas li seguì nella stanza, per un attimo divenne l’attrazione principale. Molti dei ragazzi smisero di fare quello che stavano facendo per osservarlo, chi divertito, chi invece sorpreso. Il poveretto sembrò soffocare sotto tutti quegli sguardi. Era chiaro che anche lui avesse scoperto che la voce si era sparsa in fretta. 

«Ehi amico! Qui c’è un posto per te» lo accolse Edward, indicando la sedia vuota tra lui e Derek. 

Tommy li raggiunse con passo incerto, venendo subito accolto con delle sonore pacche sulle spalle dal capocasa di Ermes. 

«Quindi ieri non ci hai raccontato tutto…» gracchiò divertito, mentre il fratello minore si grattava imbarazzato dietro al collo, farfugliando qualche risposta vaga.

Stephanie provò un moto di compassione per lui. Si ripromise di parlare con le driadi, più tardi. Dovevano smetterla di ficcanasare negli affari degli altri. 

Konnor si sedette su una delle sedie vuote destinate a lui e suo fratello, rimanendo vicino a Simon, mentre lei raggiunse Paul, finendo in mezzo a lui e Derek. 

Li raggiunsero poi Kevin e Sarah, che occuparono i due posti vuoti accanto a Seth. Nessuno sembrava fare quasi più caso al fatto che fossero sempre insieme. Quello scoop doveva essersi già esaurito. Buck e Jane li seguirono poco dopo, lanciando come loro solito un’occhiatina divertita ai semidei dell’impresa. Il capocasa di Ares si sedette vicino a Konnor senza neanche guardarlo. Steph vide le labbra dell’amico storcersi in una smorfia infastidita e provò un moto di angoscia. 

Infine, entrarono altre quattro persone. Altro silenzio scese nella stanza quando Lisa apparve dalla porta, seguita da Dioniso. Tuttavia, a differenza di quanto successo con Thomas, tutti quanti si riguardarono dal lanciarle strani sguardi o cose simili per via della presenza del Signor D, che sembrava quasi stesse aspettando un loro passo falso solo per mandarli a pulire le stalle dei pegasi con un pacchetto di fazzoletti e una boccetta di acqua di colonia.

La semidea ignorò tutti i presenti, illuminandosi solo alla vista di Tommy. Lo salutò con un veloce cenno della mano, che lui ricambiò goffamente. Stephanie pensò che fosse la cosa più adorabile che avesse mai visto. La figlia di Bacco si sedette sull’ultima sedia rimasta libera, accanto a Jane e allo spazio vuoto che avrebbero occupato Chirone e la donna dai capelli rossi che lo stava accompagnando. 

Erano passati almeno degli anni dall’ultima volta che i ragazzi del campo avevano visto il loro oracolo, Rachel. Era bello sapere che stava bene, e a giudicare dai vestiti ancora sporchi di vernice era chiaro che si stesse divertendo da matti nella sua vita da mortale. Li salutò tutti con un ampio sorriso, sedendosi accanto a Chirone, che nel frattempo si era di nuovo infilato nella sedia a rotelle magica. Dioniso si infrattò in un angolo della stanza, dove rimase a sorseggiare Diet Coke e a fissare tutti quanti come se fossero la ragione del suo dolore, quindi come suo solito.

«Suvvia ragazzi, ogni volta è la stessa storia» mormorò Chirone con un sospiro, osservando Tonya e Xavier. «A voi piacerebbe se vi disegnassero falli sul viso mentre dormite?»

Doveva essere un ammonimento, ma purtroppo per lui erano tutti bambini nel corpo di adolescenti in quella stanza. Il centauro parve imbarazzarsi mentre tutti scoppiavano a ridere. Perfino Rachel incrinò le labbra. 

Ci volle qualche momento, ma l’ordine venne ripristinato. Xavier fece sparire i disegnini dal volto di George con la magia, dopodiché Chirone invitò i ragazzi dell’impresa a raccontare cosa fosse successo in quei giorni. 

Vi fu un momento di indecisione su chi di loro avrebbe dovuto prendere la parola. Tutti fissarono Edward, che dal canto suo abbozzò un sorrisetto e batté la mano sulla spalla di Tommy. «Forza Tommy, racconta tutto.»

«Eh? Perché io? Sei tu che…»

«Dai, dai, Tommy. So che vuoi farlo.»

«Sì, forza Tommy!» fece eco Derek, sghignazzando. 

I due cominciarono a riempirlo di pacche, per la somma gioia di sempre loro due e lo sdegno del piccoletto. Per fortuna non erano davvero fratelli, altrimenti Edward e Derek avrebbero costituito una minaccia inarrestabile. 

«Sei tutti noi Tommy!» concluse Edward. 

Thomas lo fissò con aria adirata, poi si voltò verso gli altri. «Va bene, va bene… allora. Quando siamo arrivati all’aeroport…»

«Forza Tommy!» lo interruppe di nuovo Derek, ottenendo un’occhiata carica d’odio in cambio. 

«Dopo noi tre facciamo un bel discorsetto» si lamentò Thomas, indicando sia Edward che il fratello. Si schiarì la voce, poi riprese il discorso. 

Raccontò dell’incidente all’aeroporto, del motel e di Campe. Molti sguardi finirono sulla cicatrice di Edward durante questa parte, gesto a cui lui rispose con un’alzata di spalle. 

«Che volete che sia? Mi è capitato di peggio» gracchiò semplicemente. Stephanie non aveva idea di come facesse sempre a sminuire in quel modo ogni cosa che lo riguardava.

Quando Tommy raccontò di come Steph li avesse salvati, tutti si voltarono verso di lei allibiti. Vedere quelle espressioni incredule sui volti di Buck e Jane le suscitò una maliziosa felicità. Era davvero soddisfacente ammutolirli in quel modo. Anche Paul la squadrò sorpreso. 

«L’urlo della natura» sussurrò appena, più a sé stesso che agli altri.

Tommy raccontò poi del banco dei pegni e non appena arrivò a Milù molti di loro fecero dei versi sorpresi. 

«Una volpe a nove code?!» esclamò Xavier, balzando in piedi.

«Ne aveva quattr… cinque. Cinque code» si ricordò Thomas, con un brivido. «Comunque sì, era una kitsune.»

«Quindi… esistono davvero…» bisbigliò il capocasa di Ecate, incredulo. 

«Woooow» fece eco Alyssa, smettendola di giocare con il suo quarto di dollaro per una volta.

Parlò poi delle kamaitachi, che riscossero un’altra notevole reazione, e poi di Shinjiro. 

«Quel tizio vorrei conoscerlo…» ghignò Derek. «Sembra uno in gamba.»

Nessuno parve sorpreso dal fatto che solo lui avrebbe potuto pensare una cosa del genere. La storia arrivò poi al momento più difficile. Spiegare che Efialte ed Oto erano evasi dal Tartaro si rivelò un’impresa molto più ardua del previsto. E altrettanto complicato fu raccontare ciò che era successo quando il treno era deragliato e si erano divisi, ritrovandosi ad affrontare mostri, grifoni, manticore e demoni tra cui Naito. Konnor non menzionò quanto accaduto con il mezzo demone e, anche questa volta, tutti loro rispettarono la sua decisione.

Stephanie dovette raccontare di Fujinami e si sentì come una bambina che cercava di spiegare un film che non aveva capito ai genitori. Parlare di una specie di drago/unicorno in grado di parlare con la mente a chi era puro di cuore ad un gruppetto di semidei iperattivi e scettici non fu proprio un’impresa da poco, specie se il suddetto drago/unicorno non era presente assieme a loro. 

Per sua fortuna, Chirone disse di crederle e la cosa aiutò anche diversi altri a farlo. Mentre parlava, scambiò uno sguardo con Edward. Lui denegò con un cenno impercettibile della testa e lei sentì i nervi sciogliersi. Bastò quel semplice gesto per farle capire che non era il caso di raccontare del loro scontro. Parlò quindi del loro incontro con Oto e con le cacciatrici, suscitando altri versi di sorpresa quando spiegò di come si era sbarazzata del gigante. Avvampò sotto tutte le occhiate incredule che ricevette.

Tommy e Lisa parlarono di quello che era successo con Efialte ed Ermes. Una storia che Steph non si sarebbe mai stancata di ascoltare e che, di nuovo, fece risaltare entrambi sotto una luce diversa agli occhi di tutti. 

«Fantastico» affermò Seth con un ghigno.

Tonya annuì. «Concordo con il becchino.»

«Com’è possibile che siano evasi…» mormorò Simon, prendendosi il mento. «Chi è stato a farli uscire…?»

Infine, parlarono dello scontro con Orochi. Edward raccontò per primo di quando aveva deciso di andare avanti da solo, cosa che gli fece ottenere diverse occhiatine stranite, per non dire peggio. 

Le tensioni sembrarono appianarsi quando raccontò di essere comunque riuscito a salvare Rosa e a restituire la spada. Non era stato un lavoro “pulito”, ma per fortuna era riuscito nel suo intento. Il fatto che sua sorella fosse lì, con tutti loro, e stava bene era una dimostrazione più che sufficiente che qualunque cosa avesse fatto, aveva funzionato. Molti di loro ancora sembravano faticare a crederci che fosse ancora viva. Anche Stephanie, in realtà, aveva faticato all’inizio. Tuttavia, specie dopo averla conosciuta meglio, non avrebbe potuto essere più felice di ciò. Era una ragazza straordinaria, bastava solo pensare a come avesse afferrato un’arma e avesse affrontato l’esercito di Orochi appena dopo essersi svegliata.

E a tal proposito, il racconto si chiuse con greci, romani, orientali e cacciatrici che univano le forze per abbattere l’esercito dell’uomo serpente una volta per tutte. Tommy e Lisa avevano sconfitto Hikaru, la volpe a nove code, Konnor aveva sconfitto Naito, il braccio destro, e tutti insieme avevano sconfitto Orochi. 

Quando Stephanie raccontò dell’arrivo di Susanoo e la tregua tra Amaterasu e Zeus, tutti si voltarono verso Dioniso in cerca di una conferma. Il Signor D sorseggiò ancora dalla lattina, per poi staccarsi dal muro e avvicinarsi. «Sono al corrente della tregua, ma non sono stato informato dei dettagli, purtroppo. A quell’incontro hanno partecipato i Pezzi Grossi e Apollo in rappresentanza degli occidentali, Amaterasu, Susanoo e loro padre Izanagi in rappresentanza degli orientali. Tutti gli altri sono rimasti fuori dal palazzo di Amaterasu ad osservarsi imbarazzati.»

Stephanie doveva ammettere che l’idea di una ventina di dei che si fissavano in silenzio imbarazzato suonava divertente. Tuttavia, rimase più colpita dal fatto che Zeus avesse deciso di coinvolgere anche Apollo durante l’incontro con la regina degli dei orientali. Doveva essere per via di Edward.

«E… direi che questo è quanto» concluse Thomas. «Siamo tornati con i biglietti che Susanoo ci ha regalato.»

Il silenzio aleggiò per la stanza ancora per qualche istante. Chiaramente erano molte informazioni da digerire e Stephanie si augurò che gli altri ci credessero. Il fatto che Dioniso avesse confermato la parte finale era di grande aiuto, ma con i semidei non potevano essere mai certi di niente.

«Che storia incredibile!» esclamò Rachel, mentre sgranocchiava alcune tortillas dalla ciotola sul tavolo. «Erano anni che non sentivo qualcosa di simile!»

«Concordo» esordì Chirone, con un ampio sorriso. «Avete affrontato una minaccia temibile, avete prevenuto la guerra e avete anche riportato al campo qualcuno che credevamo di aver perso.» 

Gli sguardi caddero su Rosa, che abbassò la testa imbarazzata. Jonathan le avvolse un braccio attorno alle spalle e la strinse a sé con un sorriso. 

«Sono fiero di voi ragazzi» concluse Chirone. Lo aveva già detto, ma sentirlo di nuovo scaldò il cuore di Steph. 

Gli altri capicasa annuirono, sorridenti. Ancora una volta, i cinque ragazzi ottennero sguardi d’approvazione da tutti loro. Quasi tutti, in realtà. Buck continuò a mantenere un’espressione incolore, scettica perfino. Jane, invece, faceva vagare lo sguardo con insistenza tra Steph, Edward e Thomas, come in trance. 

«È vero, è una storia incredibile» affermò Derek, alzandosi in piedi con un sorriso. Osservò Tommy con uno strano luccichio negli occhi. «Ed è proprio per questo motivo che in qualità di capocasa di Ermes, cedo umilmente il mio posto a te, Thomas.»

Tommy spalancò gli occhi, abbassando le braccia che aveva tenuto incrociate fino a quel momento. «Dici… dici sul serio?»

«Sì Tommy. Sono serissimo.» L'espressione di Derek si addolcì. «Te lo sei meritato, fratellino.»

«I-Io…» Thomas guardò i suoi compagni. Stephanie lo invitò ad accettare, lo stesso fecero Edward e Konnor. Lisa annuì come una forsennata, con un sorriso smagliante. 

«Accetto» disse Tommy, il piccolo, grande, figlio di Ermes, alzandosi in piedi ed abbracciando Derek. «Non ti deluderò, te lo prometto.»

«So che non lo farai» convenne Derek, battendogli il pugno sul petto. 

Prima che gli altri potessero celebrare il nuovo capocasa, anche Paul si alzò in piedi, anche lui osservando Stephanie con un sorriso. La stessa luce brillò nei suoi occhi e il respiro di Stephanie si mozzò. «Anch’io cedo il mio posto. Sarai una capocasa straordinaria, Steph.»

Le tese una mano. Stephanie la strinse credendo di essere in un sogno. Affiancò il fratello, sentendo gli occhi inumidirsi per la commozione. Prima che quella storia maledetta finisse, aveva creduto di non volere più combattere. Ma dopo aver raccontato ciò che avevano fatto, dopo aver vissuto quei momenti insieme ai suoi amici, dopo essersi legata a loro, aveva capito che in realtà l'unica cosa che contava davvero era proteggerli tutti. Aveva un potere immenso dentro di lei e lo avrebbe usato ancora, per fare del bene, per salvare delle vite. 

«Accetto anch’io» mormorò, prima di gettarsi tra le sue braccia. 

Sentì gli occhi di loro madre puntati su di loro e ripensò a quello che Konnor aveva detto. Demetra era orgogliosa di lei, ne era certa. Anzi, di loro. Di tutta la Capanna Quattro.  

«Quindi… sta succedendo veramente» disse un’altra voce. Jonathan imitò gli altri due ormai ex capicasa, spostando lo sguardo su di Edward. 

«Jonathan…» provò a dire quest’ultimo, ma venne subito interrotto dal fratello. 

«Non sono stato un bravo capocasa. Il mio compito doveva essere quello di prendermi cura di voi, tenerci uniti, e invece ho finito con il comportarmi da egoista.» Jonathan esitò, mentre tornava a guardare rosa. «Credevo di avervi persi entrambi per sempre. Mi… mi dispiace, Rosa. Non avrei dovuto vergognarmi delle tue decisioni. Avrei… avrei dovuto supportarti. Che male c’è se vuoi essere una spadaccina? Chiunque può e deve essere quello che vuole, qui. Il fatto che tu abbia continuato da sola, con tutto e tutti contro… e che tu abbia perfino affrontato Orochi… mi lascia senza parole. E tu, Edward…» 

Riportò l’attenzione sul fratello, con gli occhi colmi di gratitudine. «… non hai salvato solo lei. Hai salvato tutta la Capanna Sette. Ti ringrazio per averci riportato nostra sorella. Ti ringrazio per… per averci fatto capire che le cose possono cambiare. Grazie. Ti cedo il mio posto di capocasa.» Sorrise, un sorriso degno da figlio del dio del sole, e gli porse la mano. «È il minimo che possa fare.»

Edward scambiò uno sguardo con Rosa, che gli sorrise calorosa. Dopodiché, si alzò in piedi, osservando Jonathan con espressione grave. Il capocasa sembrò sentirsi a disagio. Stephanie, invece, sapeva benissimo cosa stava per succedere. 

«Dai, vieni qua!» esclamò Edward con un sorrisone, stritolandolo in un abbraccio. «Sei sempre così rigido, fratellino!»

«AH! A-Aspetta!» protestò Jonathan, cercando di dimenarsi senza alcun successo. 

«Va bene, Jonathan. Accetto il posto. Però…» disse Edward, una volta lasciato andare quel poveretto. Posò una mano sulla spalla di Rosa, sorridendole in maniera più genuina. «… voglio che anche tu sia trattata da capocasa, da adesso in poi. La tua parola varrà tanto quanto la mia.»

Rosa lo osservò sorpresa. «Io… non credo che si possa far…»

«Perché no?» la interruppe Chirone, piegando la testa. «Edward è da poco al campo, dopotutto. Una semidea più esperta che lo aiuti con i suoi doveri non può che fargli del bene.» 

Anche il viso di Rosa si illuminò. Balzò in piedi e stritolò Edward. «Oh, hermano! Grazie!»

Edward ridacchiò, dandole alcune pacche sulla schiena. «Anche tu te lo meriti, hermana.» 

«Significa che posso gestire gli allenamenti di tutta la Capanna Sette adesso?»

Il sorriso svanì dal volto del nuovo capocasa, proprio com'era successo a Jonathan. A qualsiasi cosa Rosa si stesse riferendo, non sembrava promettere niente di buono. «Ehm…» 

«Lo prenderò per un sì!» stabilì Rosa.

Edward cercò disperato l'aiuto di Jonathan, che alzò le mani. «È inutile che mi guardi, non comando più io.»

Rosa saltò in mezzo a loro due e avvolse le braccia dietro alle loro spalle, con un sorrisetto che non prometteva niente di buono. «Sarà un vero spasso, ve l’assicuro!»

Edward diventò bianco come un lenzuolo. Rosa rise, imitata da Jonathan e diversi altri. Quella ragazza sembrava essere l’unica in grado di tenergli testa.  

«Che forza!» esclamò poi Thomas, una volta che le acque si calmarono. Diede il cinque ad Edward e osservò Stephanie e, naturalmente, Lisa con un gigantesco sorriso. «Siamo tutti colleghi adesso!»

Steph sorrise, per la felicità, per l’emozione e anche perché quando faceva così Thomas era piuttosto contagioso. Il buonumore durò poco, però. Non ci mise molto a realizzare che in realtà non erano tutti colleghi. E non sembrò l’unica a rendersene conto. 

Venti teste si voltarono verso Buck e Konnor, con quest’ultimo che ancora non aveva fiatato, nemmeno si era mosso dalla sedia. Era rimasto a braccia conserte, a fissare il tavolo, senza dare alcun cenno di vita.

«Che avete da guardare?» sbottò il capocasa di Ares, per poi sogghignare. «Cos’è, vi aspettate davvero che io ceda il mio posto solo perché hanno raccontato una bella storiella inventata? Di sicuro l’ha scritta lui» aggiunse, indicando Edward, distendendo il ghigno. «Il piccolo cantastorie. Dimmi, la cicatrice finta come te la sei fatta?»

Edward assottigliò le labbra. Incredibilmente, non disse nulla. Si limitò soltanto a scuotere la testa con aria contrariata, delusa addirittura. 

«Ho ragione?» proseguì Buck, incalzando Jane, che proprio come Konnor non aveva più aperto bocca. 

La figlia di Afrodite sussultò, osservando prima lui, poi i semidei dell’impresa: guardò Lisa, accanto a lei, poi Konnor, poi Thomas, Edward e infine Stephanie, soffermandosi proprio su quest’ultima. La figlia di Demetra ricambiò lo sguardo, severa. Negli occhi di Jane lesse confusione, stupore, perfino paura. Non l’aveva mai vista così. Aveva le braccia strette attorno alla vita, le mani che si contraevano. Pareva sull’orlo di una crisi di nervi. 

«B-Buck… forse…» cominciò a dire, con un filo di voce. 

«Che cosa?» ringhiò Buck. «Forse cosa?»

Jane non replicò. Per la prima volta da quando Steph la conosceva, sembrava senza parole.

«Non c’è problema, Buck.» Konnor si alzò in piedi all’improvviso, ottenendo le attenzioni di tutti. Appoggiò le mani sul tavolo. 

Quando drizzò la testa, Stephanie sussultò: aveva già visto quell’espressione sul suo volto. 

«Non serve che tu mi ceda il posto» proseguì Konnor, osservando il fratello. «Perché sarò io a prendermelo. Ti sfido.»

 




Ringrazio Roland di cuore per il disegno di Edward con Ama no Murakumo, che è bellissimo e lo adoro un sacco:






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Capitolo 41
*** Due facce della stessa medaglia ***


41

Due facce della stessa medaglia

 

 

Un fortissimo brusio si sollevò dopo quell’affermazione. I capicasa si guardarono tra di loro per la sorpresa, ognuno mormorando la propria, mentre Buck rimase in silenzio a trucidare Konnor con lo sguardo. Jane sussultò di nuovo, stringendosi nelle spalle e facendo di tutto per non voltarsi verso la sua direzione. 

«Tu… mi sfidi?!» rantolò Buck. 

Si alzò in piedi, torreggiando sul fratello. Konnor non era certo mingherlino, ma Buck era uno dei ragazzi più grossi del campo, lo superava in altezza di almeno dieci centimetri. Ma non contavano le dimensioni del corpo, contavano quelle del cuore. 

Konnor non batté ciglio, tenendo lo sguardo fisso sul fratello per nulla intimidito. «Scegli pure tu quando e dove.» 

«Konnor, Buck, per favore…» cercò di intromettersi Chirone con sguardo affranto. «… non litigate proprio ora. È un giorno di feste questo, non potete…»

«Chirone, con il dovuto rispetto…» lo interruppe Konnor, senza nemmeno guardarlo. «… questa storia è durata per troppo tempo. Buck è stato uno dei peggiori capicasa che si siano mai visti. Per i festeggiamenti ci sarà tempo quando l’avrò sconfitto.»

Una risatina fredda gorgheggiò fuori dalla gola di Buck, mentre si passava la mano sopra la testa rada. «Sapevo che non eri uno di noi, Konnor. L’ho sempre saputo. Ma non credevo che avresti mai trovato il coraggio di uscire allo scoperto.» Sogghignò e abbassò la testa, per bisbigliare il resto delle sue parole: «Mi assicurerò che d’ora in poi tu tenga la testa bassa. Tra un’ora, all’arena. Risolveremo questa faccenda una volta per tutte.»

Il capocasa di Ares non attese nemmeno una risposta. Si voltò, ringhiò a Jane di seguirlo e lei trasalì ancora una volta. Si allontanò con lui senza dire una parola. Nel suo volto, Stephanie scorse ancora una volta un’espressione impaurita che mai prima di allora le aveva visto fare.

Un silenzio imbarazzato scese nella stanza quando quei due se ne andarono. Konnor rimase in piedi, lo sguardo smarrito verso la porta e un viso indecifrabile. 

La risata della capocasa di Nike spezzò la tensione. «Finalmente un po’ di botte!» esclamò sfregandosi le mani.

Alyssa balzò in piedi, con un sorrisetto sghembo. «Si accettano scommesse! Konnor o Buck? Su chi volete puntare?»

«Ti sembra il momento di dire una cosa del genere?» la rimproverò Simon, scuotendo la testa con disappunto. 

«Forza Konnor!» gridò Kevin, stringendo i pugni. «Dagli una lezione!»

Tutti quanti cominciarono a parlarsi sopra. In mezzo al casino di semidei eccitati all’idea di vedere uno scontro tra fratelli, Stephanie rimase in silenzio a osservare Konnor angosciata, imitata dai suoi compagni dell’impresa. Chirone alzò la voce per farsi sentire: «Ragazzi, calmatevi adesso.» 

I capicasa rioccuparono i loro posti, sotto lo sguardo severo del centauro. 

«È passato molto tempo dall’ultima volta che una sfida di questo tipo è stata lanciata. Spero che tu ti renda conto di quanto importante sia questo momento, Konnor» disse Chirone.

Konnor resse lo sguardo del loro anziano mentore e annuì, senza rispondere. Quello era lo stesso ragazzo che aveva affrontato Orochi e sconfitto Naito. Se c’era qualcuno che si rendeva conto di cosa significasse tutto quello, era proprio lui.

Chirone annuì di rimando. «Molto bene. A tutti i capicasa, date il benvenuto ai vostri nuovi compagni: Stephanie Winkler, Thomas Blake, Edward Model e Rosa Mendez.» 

Applaudì, venendo seguito da tutti gli altri. Malgrado tutto, i quattro ragazzi riuscirono ad abbozzare dei tenui sorrisi. 

«Se nessun’altro ha nulla da dire, il Consiglio può aggiornarsi qui. Konnor ha una sfida a cui prepararsi.»

Nessuna risposta. Era chiaro che ora l’attenzione di tutti era incentrata sullo scontro che stava per arrivare. Stephanie avrebbe voluto intromettersi, avrebbe voluto dire che un’ora era troppo poco per permettere a Konnor di prepararsi. Erano appena tornati, aveva rischiato di morire, non era giusto che fosse gettato di nuovo in mezzo ai lupi in quel modo. Allo stesso tempo, però, sapeva che lui non si sarebbe mai e poi mai tirato indietro, nemmeno se Buck gli avesse dato solo cinque minuti.

I ragazzi cominciarono ad uscire dalla stanza. Mentre era sulla porta, Stephanie vide Chirone chiamare Seth e Konnor da parte, per dirgli qualcosa in privato che però non riuscì a udire. Nel corridoio, accanto a lei, i semidei ancora parlottavano tra loro, scambiandosi opinioni sull’imminente incontro.

«Tu su chi punti?» domandò Tonya ad Alyssa. La figlia di Tyche le lanciò uno sguardo di sufficienza. «Certo, e tu pensi che te lo dica così che possa copiarmi.»

«N-Non è così! So per certo di avere ragione io!»

«Come no.» 

«… sono sicuro che non farà una bella fine» stava dicendo invece Simon a Xavier, che sogghignò senza rispondere.

Stephanie sentì il cuore stringersi in una morsa. Accelerò il passo per uscire da lì al più presto. Si ritrovò con i suoi compagni dell’impresa e i loro fratelli fuori dalla Casa Grande.

«Non ho mai assistito ad una sfida di questo tipo» ammise Derek, massaggiandosi il mento pensieroso. «Chissà come funziona.»

«Da quanto ne so, dovrebbero affrontarsi come in uno scontro vero e proprio» spiegò Jonathan. «Senza uccidersi a vicenda, se possibile…»

Non appena disse quella frase, Stephanie sussultò.

«Tutto ok Steph?»

La figlia di Demetra avrebbe voluto rispondere. Purtroppo, quella domanda gliel’aveva fatta Edward. Rimase immobile ad osservarlo senza trovare parole da dire. Era preoccupata per Konnor, era evidente. Chiunque l’avrebbe capito. Incluso lui. 

«Konnor ha sconfitto Naito» le disse. «Pensi davvero che Buck possa essere una minaccia per lui?»

Stephanie non rispose. Non avrebbe dovuto essere sorpresa dal fatto che stesse cercando di rincuorarla. Edward non era malvagio, sapeva cosa stava pensando e stava cercando di essere gentile nonostante tutto. Si sentì in colpa per il suo comportamento. Scosse la testa. «Sono… sono solo preoccupata per quello che potrebbe pensare in questo momento… mi… mi ha parlato del suo rapporto con i suoi fratelli. Sfidare Buck non deve essere stata una scelta facile per lui.»

«Anche accompagnarmi nell’impresa non deve essere stata una scelta facile» proseguì Edward. «Eppure l’ha fatto. Se la caverà, vedrai. E noi tutti saremo lì a fare il tifo per lui. Vero?»

Stephanie spostò lo sguardo sui suoi amici. Lisa, Tommy, anche Rosa, Derek, Paul e Jonathan sorrisero, annuendo. Era ormai chiaro anche a loro che Konnor fosse un bravo ragazzo.

«Dai, figlia dei fiori.» Rosa la affiancò, avvolgendole un braccio attorno alle spalle. «Faccelo un sorriso, su.» 

Timidamente, Stephanie obbedì. 

«Puoi fare di meglio di così» si oppose Lisa, piazzandosi al suo altro fianco. Mise le dita sul bordo delle sue labbra e gliele tirò all’insù. «Ecco, perfetto!»

Steph si dimenò, lanciandole un’occhiataccia. Lisa alzò le mani con un ghigno divertito, mentre agli altri ragazzi scappava una piccola risata, che finì con il contagiarla. 

La vista di Konnor che usciva dalla Casa Grande per ultimo, insieme a Seth, li riportò alla realtà. Si avvicinarono a loro, ma prima che Stephanie potesse parlare il figlio di Nemesi sorrise. 

«Konnor ha bisogno di prepararsi per la sfida» disse soltanto. Eppure riuscì ad incutere comunque timore con la sua voce grave. «Se volete dirgli qualcosa, fatelo adesso. Per la prossima ora non sarà più reperibile.»

Edward inarcò un sopracciglio. «E tu cosa c’entri in questa storia?» 

«Chirone mi ha chiesto di tenerlo d’occhio e di assicurarmi che né lui né Buck provino a fare strani scherzi prima della sfida.» Seth sogghignò. «Ha detto che preferiva che fosse qualcuno con cui non ha dei legami stretti a farlo e siccome mia madre è anche la dea dell’equilibrio, la scelta è caduta su di me. Non preoccupatevi, non torcerò un capello al vostro amico… se si comporterà bene.»

Konnor storse le labbra in una smorfia, ma non disse niente. 

«Ehi, amico» disse Tommy, avvicinandosi a lui. Gli sorrise, porgendogli la mano. «Buona fortuna. Dagli una lezione anche da parte mia.»

Il figlio di Ares ricambiò il sorriso e la stretta di mano. «Contaci.»

Lisa gli diede un rapido abbraccio e alcune parole di incoraggiamento, per poi mettersi di nuovo accanto a Thomas, intrecciando le dita con le sue. Anche Edward gli porse la mano. 

«A San Francisco mi hai fatto a pezzi verbalmente» disse, per poi sorridere beffardo. «Ora vedi di farlo anche con Buck, fisicamente però.»

«Non credo di poterlo fare a pezzi nel vero senso della parola, ma penso che un’alternativa valida riuscirò a trovarla.»

I due ragazzi sghignazzarono, scambiandosi un cenno d’intesa. Vederli più vicini tra loro riuscì a tranquillizzare Steph, almeno in parte. Lo sguardo di Konnor scivolò su di lei. Bastarono solo i suoi occhi per comunicarle che, qualunque cosa sarebbe successa, era pronto. Con quello sguardo aveva affrontato Naito, aveva affrontato l’esercito di Orochi e infine Orochi stesso. Non avrebbe fallito, ne era certa. Tuttavia, la sua paura più grande andava verso cosa la capanna Cinque sarebbe potuta diventare se lui avesse vinto. Aveva paura che i figli di Ares si spaccassero a metà ed era certa che anche Konnor temesse lo stesso. Si avvicinò a lui, sentendo tutti gli sguardi puntati su di lei. Una strana aria aleggiò mentre osservava l’amico. 

«Konnor…» cominciò lei, prima che lui la fermasse con un cenno della mano.

«Ho bisogno che tu mi prometta una cosa, Steph.»

La ragazza sussultò, sorpresa dalla quella frase e dal suo tono serio. «Certo… dimmi.»  

L’espressione di Konnor si ammorbidì. «Quando vincerò… uscirai con me.»

Stephanie sentì le guance bruciare all’improvviso. Riuscì a sentire il lungo “uhhhhh” che Lisa e Rosa fecero alle sue spalle. Non trovò il coraggio di voltarsi verso di loro. Incrociò di nuovo lo sguardo di Konnor e tutto quello che avevano passato insieme balenò nella sua mente. 

La sera della caccia al tesoro, la sera al motel, l’Union Station, i viaggi in treno, il loro abbraccio nel bosco e per finire quando aveva affrontato Naito. Fece un lento sorriso, molto più sincero. Poi, ridacchiò, posandosi una mano sul fianco. Non aveva detto “se”. «Quando vincerai? Sei confidente, mh?»

Konnor alzò le spalle, con un sorrisetto divertito. Stephanie lo guardò negli occhi, smarrendosi nelle sue iridi cristalline.

«Va bene, Murray. Quando vincerai…» lo pungolò sul petto. «… e se non farai sciocchezze… usciremo insieme.»

Poté giurare di aver sentito, in un angolino della sua mente, Afrodite che faceva un verso estasiato. O forse erano di nuovo i versi di Lisa e Rosa – anche di Derek e Tommy.

«Che carini che siete» gracchiò Seth con quel sorrisetto da psicopatico. E se quella era l’espressione che faceva di fronte a qualcosa di carino, Steph non voleva sapere cosa avrebbe fatto di fronte a qualcosa che non lo era. 

«Scusate, ma il tempo è poco. Potrete parlargli di nuovo dopo la sfida.» Il figlio di Nemesi afferrò Konnor per il braccio e lo trascinò via di peso, senza nemmeno dargli il tempo di dire la propria. 

«Ci vediamo dopo» riuscì soltanto a dire, mentre veniva scortato verso la cabina di Nemesi, che assomigliava a una prigione con torce sulle pareti e il simbolo della dea appeso sopra la porta. 

«Siamo sicuri che là dentro non lo mangeranno vivo?» domandò Derek perplesso.

«Ragazzi, scusate.» Un’altra voce si sollevò, attirando le loro attenzioni. Rachel si avvicinò a loro, affiancata da Chirone. Sorrise verso di Edward. «Avremmo bisogno di chiederti alcune cose riguardo la profezia che hai ricevuto. Ti dispiace seguirci di nuovo nella Casa Grande?»

«Déjà-vu» borbottò Edward, incrociando le braccia. Annuì. «Certo. Ci vediamo all’arena, tenetemi un posto in prima fila» disse agli altri, battendo una mano sulla spalla di Tommy. 

Poco prima di andarsene, incrociò ancora lo sguardo con Stephanie. Bastò solo quell’istante per farle capire cosa stava pensando. Di nuovo, le sembrò di sentire la risatina divertita di Afrodite nella sua mente. Nessuno dei due disse nulla. Edward si allontanò con Rachel e Chirone, mentre un pesantissimo macigno scendeva inesorabile nello stomaco di Steph. 

 

***

 

Nell’arena c’era stata sì e no una decina di volte, al massimo, in tutti gli anni che aveva trascorso al campo. Era il luogo dove i semidei combattevano, versando sudore, saliva, perfino sangue alle volte, perciò non era proprio la sua attrazione del campo preferita. I campi di fragole erano molto più gradevoli di quel cubicolo di legno, sabbia e cemento pieno zeppo di armi e manichini di paglia. 

O il lago. Perché non combattere in riva al lago, con l’aria fresca e il cinguettio degli uccellini? 

La voce dello scontro si era sparsa in fretta, in quel luogo in cui perfino un bacio alle quattro del mattino non passava inosservato. Almeno metà del campo si era stipata nell’arena per assistere, ammucchiandosi sugli spalti. Tutti i capicasa avrebbero occupato le prime file, quindi anche lei e i suoi amici. I meravigliosi vantaggi di chi comandava, poter assistere meglio a due che avrebbero cercato di farsi del male a vicenda. Si sedette con Lisa e Tommy alla sua destra, che si stavano ancora tenendo per mano – aveva già detto che erano adorabili? – e Rosa alla sua sinistra.

«Ho visto sia Buck che Konnor allenarsi nell’arena» le stava dicendo la co-capocasa di Apollo. «Buck è grosso, punta molto sulla forza fisica e la brutalità. Konnor, d’altra parte, ha il vantaggio della rapidità. Sarà uno scontro interessante. Ovviamente farò il tifo per tu novio, figlia dei fiori.»

Alyssa continuava felice e serena ad accettare scommesse su chi avrebbe vinto, sempre rifiutandosi di dire chi fosse la sua scelta per non influenzare gli altri, e gli altri capicasa sghignazzavano e facevano battute sullo scontro. Stephanie sentiva i nervi a fior di pelle. Si fidava di Konnor, sapeva che avrebbe vinto, ma questo non la esonerava dall’avere paura che Buck facesse qualcosa di pericoloso. Giurò a sé stessa che se gli avesse torto anche solo un capello di troppo, sarebbe scesa dagli spalti e lo avrebbe sepolto vivo. 

Doveva mancare ormai poco all’incontro quando Edward li raggiunse, sedendosi accanto a Rosa con un sospiro pesante. «Continuo a subire interrogatori, non ne posso più» scherzò con un sorrisetto, anche se sembrava che qualcosa lo turbasse. 

Steph avrebbe voluto chiedergli di cosa avesse parlato con Rachel e Chirone, ma l’arrivo di Buck, accompagnato da Jane, catturò l’attenzione di tutti. 

La figlia di Afrodite teneva la testa bassa e sembrava non voler incrociare lo sguardo di nessuno, un altro comportamento anomalo da parte sua. Di solito amava essere al centro dell'attenzione. Al contrario, Buck avanzò con fierezza, agghindato di tutto punto per l’occasione: indossava una panoplia completa di bronzo celeste, con tanto di elmetto che lasciava a malapena intravedere i suoi occhi piccoli e incattiviti e il suo ghigno divertito, con un alto pennacchio rosso fuoco. 

In una mano stringeva con forza l’impugnatura della sua arma, una grossa scure con la lama di un’ascia da una parte e la testa di un martello dall’altra, un esemplare che i figli di Efesto avevano forgiato decenni prima come replica della stessa arma appartenuta ad un antico guerriero greco. 

Un’arma perfetta per uno che prediligeva la forza bruta, proprio come aveva detto Rosa.

Poi, entrò Konnor accompagnato da Seth. Si era messo indosso lo stesso equipaggiamento che aveva snobbato quella sera, la sera in cui la loro avventura aveva avuto inizio: la cotta di maglia e le protezioni per le braccia, gomiti e ginocchia. Anche lui aveva un elmetto, anche se non era sfarzoso come quello di Buck, e stringeva il manico della sua spada di bronzo nera come il carbone. 

La folla cominciò a scaldarsi, tifando e fischiando chi gradivano di più e di meno. Stephanie si accorse che tra i figli di Ares presenti non tutti stavano tifando per Buck: alcuni stavano incitando il capocasa, altri invece erano in silenzio, a studiare Konnor.

Un piccolo satiro camminò in mezzo all’arena, frapponendosi tra i due sfidanti che nel frattempo si erano messi ai lati opposti del cerchio di terra battuta. 

«Va bene, va bene angioletti, datevi tutti una calmata.» Il coach Hedge alzò le mani, cercando di placare il pubblico ma senza successo. Ci pensò Seth a farsi avanti, schiarendosi la voce. Come per magia, tutti tacquero. 

«Prego coach Hedge, a lei gli onori» lo invitò il figlio di Nemesi, con un inchino. 

Naturalmente, il satiro pensò di essere stato lui a far scendere il silenzio, perché gonfiò il petto inorgoglito. «Bravi angioletti, rispettate i vostri veterani. Dunque, oggi assisteremo allo scontro tra questi due figli di Ares per decretare il posto di capocasa. Da una parte abbiamo lo sfidante, Konnor Murray!»

Konnor rimase immobile, mentre veniva inondato dalla reazione mista del pubblico. Alcuni lo stavano tifando, come i suoi amici, molti altri invece gli stavano gridando di essere spacciato. 

«E poi, il detentore dell’attuale titolo di capocasa, Buck O’Neale!» 

Un’altra reazione mista, questa volta molto più rumorosa. Il capocasa sogghignò, tendendo l’orecchio verso il pubblico per incitarlo a fare di meglio, ottenendo grida molto più forti, sia di sdegno, che di approvazione. Cominciò a flettere i muscoli delle braccia e a gridare. Si indicò il petto, sollevando l’ascia/martello. «Lo vedete questo?! Questo è quello che nessuno di voi perdenti sarà mai!»

Ci volle un po’ prima che il pubblico la smettesse di lanciargli insulti – forse il trovarsi tutti assieme in un gruppo così grande aveva aiutato molti pavidi a trovare il coraggio di dire quello che davvero pensavano di lui. 

«Allora, voglio uno scontro pulito» disse il coach, una volta ritornata la calma. Sollevò le braccia, facendo da barriera tra i due semidei. 

Buck cominciò ad avvicinarsi al fratello all’improvviso, per lanciargli alcune frecciatine: «Sei ancora in tempo per ritirarti, Konnor, non serve che ti umili da solo in questo modo!»

Konnor non rispose, mentre il satiro si sbracciava in mezzo a loro per cercare di allontanare il capocasa. Era chiaro come il sole che Buck non stesse affatto prendendo sul serio la faccenda, forse perché davvero non credeva che Konnor rappresentasse una minaccia. 

Camminò in avanti e indietro, putandogli contro la punta dell’ascia. «Quando avrò finito con te, le arpie dovranno scrostarti dal pavimento! Nemmeno tua madre ti riconoscerà più! Ti converrà andartene al Campo Giove, o ancora meglio, mollare tutto e ritirarti per sempre, perché questa batosta te la ricorderai a vita!»

L’espressione di Konnor non mutò di una virgola. Rimase concentrato al cento percento, come in rare occasioni Steph l’aveva visto. Osservare quei due era come osservare due lati di Ares confrontarsi tra loro: da una parte c’erano l’orgoglio, la fierezza, la freddezza, dall’altra il caos, la sete di gloria e la smania di potere. 

«Stavo dicendo…» proseguì Hedge infastidito, quando il gorilla decise di darsi una regolata. «… voglio uno scontro pulito. Potrete usare tutte le armi che vorrete, ma è proibito mutilare, dilaniare e uccidere.»

«Eh, ci mancherebbe…» mugugnò Thomas, strappando una risatina a Lisa.

«Il vincitore sarà colui che riuscirà a neutralizzare l’avversario, lo farà arrendere o lo renderà in condizione di non poter più continuare.»

Stephanie non capì la differenza tra le tre cose, ma sorvolò. 

«Tenete bene a mente la parte di scontro pulito» concluse Seth, con il suo sorrisetto sadico preconfezionato. «Non mi interessa chi siete, che cosa rappresentate o quante imprese avete completato» lanciò occhiate piuttosto eloquenti a entrambi i semidei. «Se colpirete per uccidere, vi spedirò fuori da questo campo a suon di calci e mi assicurerò che non possiate più rimetterci piede. Tutto chiaro?»

Konnor annuì. Una smorfia attraversò il volto di Buck – Seth riusciva ad intimidire perfino lui – e annuì a sua volta.

Hedge alzò un braccio per quelle che parvero eternità, durante le quali tutti i semidei tennero il fiato sospeso. Sembrò quasi gongolarsi di quella situazione di temporaneo potere su di loro, come se non fosse abituato ad esercitare un simile controllo durante quegli allenamenti a cui nessuno partecipava mai. Infine, abbassò il braccio, dando il via.

I due fratelli camminarono in cerchio, scrutandosi in silenzio, mentre Jane, Seth e Hedge raggiungevano gli spalti. La figlia di Afrodite continuò a tenere la testa bassa e a usare l’imponente statura di Seth come riparo per non farsi vedere troppo. 

Buck sogghignò. «Ultima possibilità, Konnor. Ritirati, scusati per averci voltato le spalle, svolgi per un mese tutti i lavori della capanna Cinque e forse sarai perdonato.»

«Facciamo che invece la do io a te, l’ultima possibilità» ribatté Konnor, riaprendo la bocca dopo minuti interi di silenzio. «Rinuncia al posto di capocasa e chiedi tu scusa a tutti quelli che hai calpestato in questi anni.»

La risposta di Buck fu una risata sguaiata. «Fammi capire bene, Konnor…» Si avventò su di lui, brandendo la scure. «… quando schiacci uno scarafaggio ti fermi a chiedere scusa?!»

Konnor scartò di lato, evitando l’ascia. Rispose dimenando lo spadone, che Buck parò con il piatto della lama. Si fermarono per un istante, per studiarsi. Poi, Konnor saltò all’indietro, roteando la spada e Buck muggì a gran voce, alzando di nuovo l’ascia: lo scontro era iniziato. 

Buck gridò, calando l’ascia come un boia. Konnor saltò, rotolò e schivò, tenendosi il più lontano possibile da quella micidiale arma. Approfittò della sua velocità per correre attorno al fratello, incalzandolo con rapidi attacchi, ma sembrarono tutti inutili. Buck riuscì a pararli od evitarli, e i pochi che andarono segno sbatterono contro l’armatura senza nemmeno scalfirlo. 

La scure scese di nuovo, cozzando contro la spada di Konnor, che strinse i denti. Buck sogghignò, facendo forza, schiacciandolo a terra. Le gambe del ragazzo più piccolo si piegarono, cedendo sotto il peso di quello più grosso. Konnor saltò all’indietro, liberandosi da quella scomoda situazione, e l’ascia di Buck si schiantò al suolo, affondando nel terreno di un paio di centimetri. 

Konnor ne approfittò per attaccare, sferzando la spada. Buck indietreggiò con un grugnito, schivandola all’ultimo istante e allontanandosi dall’ascia. Venne incalzato ancora e afferrò il polso di Konnor a mezz’aria, immobilizzandolo. Vi fu una breve situazione di stallo, in cui i due fratelli si scrutarono di nuovo, poi Konnor sferrò una gomitata a Buck colpendogli il naso, unica parte del suo volto che era ben visibile da sotto l’elmo. 

Il capocasa di Ares indietreggiò, stordito, mentre sangue scarlatto cominciava a zampillargli dalle narici. Si riscosse quasi subito, tornando a sogghignare. Si strofinò il polso sopra il naso, ripulendosi. «Tutto qui?»

Konnor assottigliò le labbra. Indietreggiò, accennando con la testa all’ascia del fratello, ancora conficcata a terra. Buck capì le sue intenzioni e andò a recuperarla, mentre il ghigno sul suo volto si accentuava. «Avresti dovuto approfittarne, Konnor. Sei proprio uno stupido.»

Afferrò l’ascia e tornò a fronteggiarlo. Konnor non attese un istante di più e si fiondò su di lui, continuando ad incalzarlo. Le lame cozzarono ancora e ancora. Il suono del metallo che tintinnava riempì l’arena, accompagnato dalle grida di incitamento dei semidei sugli spalti. 

Stephanie si accorse solo in quel momento di avere le mani strette di fronte al petto, mentre osservava speranzosa Konnor. I due fratelli mostrarono le loro abilità: conosceva bene quelle di Konnor, aveva assistito al suo scontro con Naito, invece Buck la sorprese, mostrando molti più riflessi e molta più agilità di quanto la sua grossa stazza avrebbe dato a vedere. Senza ombra di dubbio, di fronte a loro si trovavano due tra i combattenti migliori del campo. Due fratelli, figli di Ares, poli opposti: le due facce della stessa medaglia.

«Sei solo un debole» biascicò Buck, quando i due fratelli si trovarono di nuovo faccia a faccia, le lame premute tra loro. Sferrò un calcio nello stomaco a Konnor, facendolo piegare. Roteò l’ascia e lo colpì alla schiena con la parte del martello, schiantandolo a terra. 

Konnor gridò, ritrovandosi steso sul pavimento. Si rimise a fatica sui gomiti, mentre Buck girava attorno a lui osservandolo divertito. Sollevò di nuovo l'ascia dal lato del martello e per un istante l’aria venne risucchiata via da quel luogo. Se l’avesse abbattuta non lo avrebbe ucciso, ma gli avrebbe spezzato la schiena. Stephanie si portò le mani alla bocca inorridita, alzandosi in piedi senza nemmeno rendersene conto. Konnor si riscosse, sferrando al fratello un calcio agli stinchi, facendogli emettere un verso straziante. Si accovacciò per massaggiarsi, mentre il ragazzo più piccolo si girava sulla schiena e gli sferrava un altro calcio, questa volta al petto. Buck indietreggiò e Konnor si rialzò, stringendo le dita sull’elsa della spada. 

Avanzò verso di Buck, che era caduto in ginocchio, stordito. Stephanie vide la sua mano stringersi a pugno, scavando nella terra. Quando fu abbastanza vicino, Konnor sollevò la spada, venendo subito dopo investito dalla manciata di terra che Buck gli gettò in faccia. I semidei esplosero in un boato di versi di protesta, mentre Konnor indietreggiava, cercando di ripulirsi gli occhi. 

«Coach! Quello lo chiama scontro pulito?!» protestò Lisa. 

Il piccolo satiro rispose con un’alzata di spalle. «Non l’ha né dilaniato, né mutilato, né ucciso.»

«COSA?!»

Buck si alzò in piedi, colpendolo allo stomaco con la parte del martello e scaraventandolo di nuovo a terra. Konnor gridò, perdendo la presa dalla spada, e si accasciò coprendosi l’addome. Sputò una chiazza di sangue e fu chiaro che gli avesse appena rotto delle costole nonostante la cotta di maglia.

«Allora, ti arrendi?» domandò Buck, alzando di nuovo l’ascia sopra di lui. 

Konnor non rispose, cercando di strofinarsi la manica sopra gli occhi per pulire i granelli di terra. Buck gli schiacciò l’addome con lo stivale, premendo con forza. Altro sangue scivolò dalle labbra di Konnor, mentre rovesciava la testa all’indietro in un grido lancinante. 

«Coach! Deve fermarli!» gridò Simon alzandosi in piedi. 

Hedge serrò le labbra, sembrando combattuto.

«Provi a intervenire e questa sera ci sarà stufato di capra» sbottò Edward, alzandosi in piedi a sua volta e fissando truce sia Simon che il satiro. I due lo squadrarono atterriti, poi il capocasa di Apollo si portò le mani a cono di fronte alla bocca, in un urlo che sovrastò totalmente il brusio della folla acclamante. «Ehi, Konnor! La finisci o no di giocare?! Puoi fare meglio di così!»

Buck si voltò verso di lui, sogghignando ancora una volta. «Cos’è, stupido cantastorie, per caso ne vuoi un po’ anche t…»

Konnor gli afferrò lo stivale, allontanandolo con un urlo furibondo. Buck spalancò gli occhi, saltellando su una gamba sola mentre Konnor gli teneva fermo il piede, rimettendosi in ginocchio. 

«Chiedi… scusa…» rantolò il più piccolo, il sangue che colava dalla sua bocca.

Buck si dimenò, liberando lo stivale dalla sua presa. Brandì l’ascia e si avventò su di lui. Konnor fu più veloce: roteò, sgusciando dietro al fratello e strinse le braccia attorno alla sua vita, strappandogli un verso sorpreso. 

Urlò con quanta voce aveva in corpo, poi inarcò la schiena; sotto lo sguardo atterrito di tutti, i piedi di Buck si staccarono dal suolo. Konnor sollevò da terra quel ragazzo di almeno trenta chili in più di lui e lo scaraventò all’indietro, oltre la sua testa. Buck gridò a perdifiato, schiantandosi sulla parte più alta della schiena e perdendo la presa dall’ascia. 

«Ma… era un german suplex quello?!» bisbigliò Rosa, atterrita.

Konnor rimase in ginocchio, scrollando la testa e riprendendo fiato. Buck si contorse, mugugnando per il dolore, tendendo le mani verso il soffitto. 

«Chiedi… scusa!» urlò Konnor, mettendosi cavalcioni su di lui. Gli sfilò l’elmetto e gli sferrò un pugno sul naso, facendolo grugnire di dolore. «Chiedi scusa a tutti quelli che hai maltrattato!»

Un altro pugno. «Chiedi scusa ai tuoi fratelli!»

Un altro. «Chiedi scusa a nostro padre!»

Un altro ancora. «Chiedi scusa a me

Le sue nocche affondarono nel volto del fratello per decine di volte, mentre continuava a ripetere quella frase. «Chiedi scusa.»

Afferrò Buck, che gemette, e lo fissò con rabbia e tristezza al tempo stesso, con gli occhi imperlati di lacrime. «Chiedi scusa…»

Buck gli sputò addosso. «Vattene… al Tartaro.»

Il grumo di saliva rossa scivolò lungo la guancia di Konnor, che assottigliò le labbra tremolanti. Quel gesto sembrò fargli molto più male delle costole rotte o della sabbia negli occhi. Sollevò il pugno ormai imbrattato del sangue del capocasa, pronto per il colpo di grazia. 

Gli sguardi dei due fratelli, sporchi, feriti e sanguinanti, si incrociarono di nuovo. 

«Avanti… fallo…» rantolò ancora Buck, con un ultimo ghigno. «Mi odi… no? Fallo. Finiscimi adesso, perché se dovessi rialzarmi… non avrò nessuna pietà.»

Konnor strinse i denti. Lacrime gli solcarono le guance. Poi abbatté il pugno. Vi fu un suono orribile, seguito da un grugnito di Buck. Il capocasa stramazzò a terra, la testa rimbalzò sul pavimento, gli occhi serrati e il naso gonfio. Aveva il volto tumefatto dopo la scarica di pugni di Konnor, una maschera di sangue e lividi viola, neri e blu. Osservandolo, un’espressione di puro dolore attraversò il viso del fratello più piccolo. Serrò le palpebre, scuotendo il capo. «Mi dispiace, Buck. Mi hai costretto a farlo.»

Nessuna risposta. Buck rimase a terra, immobile. Non sembrava nemmeno più cosciente. Non poteva più proseguire.

Konnor aveva vinto.

La folla cominciò ad esultare, alzandosi in piedi sugli spalti. Alcuni si arrabbiarono con Alyssa, che disse di aver puntato proprio su Konnor, mentre il coach Hedge si avviava zampettando di buona leva verso il semidio per proclamarlo vincitore. Sollevò, a fatica per via della statura, il braccio di Konnor. «Buck O’Neal non è più in grado di proseguire! Accogliete tutti il vincitore e nuovo capocasa di Ares, Konnor Murray!»

Gli applausi aumentarono. Le reazioni dapprima miste per lui ora erano quasi tutte positive. Aveva combattuto bene, vendendo cara la pelle, ottenendo l’approvazione del pubblico e oltretutto dando una bella lezione al più grosso bullo del campo. Sarebbe dovuto essere un momento per cui essere felici. Ma Stephanie poté benissimo scorgere la tristezza nello sguardo di Konnor. Le bastò vedere quegli occhi spenti per farle capire che non c’era nulla di cui essere felici, perché non sarebbero mai dovuti arrivare a tanto. 

Da qualche parte, nel corso degli anni, il Campo Mezzosangue aveva preso una piega completamente sbagliata. Si era spaccato a metà, i semidei si erano frammentati e ogni cosa era retrocessa. Anni e anni di duro lavoro fatto dalle generazioni precedenti per unirli tutti erano stati spazzati via, come foglie al vento.

Stephanie osservò Konnor. Lui per primo sapeva che il comportamento di Buck era sbagliato e aveva lavorato duro per cercare di sistemare le cose. E anche dopo avergli dato la lezione che si meritava, era comunque dispiaciuto per colui che, non importava cosa, era comunque suo fratello. I loro sguardi si incrociarono e solo in quel momento lui sembrò trovare di nuovo la forza di sorridere. Un piccolo sorriso nacque anche sul volto di lei. 

Per riportare le cose nel modo in cui sarebbero dovute essere ci sarebbe voluto ancora tempo, ancora molta fatica, ma forse, forse, stavano di nuovo imboccando la strada giusta. Avere Konnor come nuovo capocasa di Ares era un ottimo primo passo verso quella direzione.

Scese dagli spalti, avvicinandosi a lui. Sentiva gli sguardi di tutti puntati su di lei, ma non le importò: quando lo raggiunse, prese il volto di Konnor tra le sue mani e gli sfilò con delicatezza l’elmetto, lasciando che il suo bel viso venisse di nuovo accarezzato dalla luce. Si osservarono negli occhi, senza dire una parola. Il sorriso di Konnor si addolcì e Steph sentì la sua mano avvicinarsi con timidezza alla sua, stringendogliela. 

Aveva vinto, quindi aveva una promessa da mantenere. Tuttavia, Steph decise di aggiungere una postilla al loro accordo. Gettò a terra l’elmetto e gli accarezzò il viso, strofinando il pollice sulle sue labbra per ripulirgliele. Poi, chiuse gli occhi e si avvicinò. Un boato di versi si sollevò alle sue spalle quando le sue labbra catturarono quelle di Konnor.

Stephanie sentì i propri nervi e anche quelli di Konnor sciogliersi in quel bacio che, forse, sarebbe potuto arrivare molto tempo prima. Le braccia del figlio di Ares la avvolsero, tirandola a sé. Schiusero le labbra, stringendosi con più passione. Steph massaggiò il suo volto ruvido per via della barba che stava ricominciando a crescere e le labbra le si arricciarono verso l’alto in un sorriso di pura felicità. Soltanto in quel momento realizzò quanto lo avesse desiderato, nel profondo.

Quando si separarono, i loro sguardi si incrociarono di nuovo. Steph si addolcì, mentre lo accarezzava di nuovo. Konnor l’aveva migliorata, l’aveva spronata, aveva tirato fuori il meglio di lei e non solo. Tutti quanti miglioravano attorno a lui. Era un guerriero, un amico leale, sincero, fedele e non voleva altro che il bene di tutti gli altri. Non aveva nemmeno gioito della sconfitta di Buck, proprio come un vero fratello avrebbe dovuto fare. Tutte le qualità di Ares erano racchiuse in lui. 

E con lui, le cose al campo sarebbero migliorate.

Vi furono applausi e grida di giubilo. I semidei acclamarono il vincitore e la neonata coppia. I due ragazzi osservano la folla, imbarazzati ma sorridenti. Steph vide Lisa e Rosa sollevare il pollice verso di lei e anche Tommy le rivolse un enorme sorriso.

Infine, lo sguardo di Stephanie catturò quello di Edward, l’unico che rimase seduto con un’espressione incolore. Per un momento, il tempo sembrò fermarsi. Osservò quegli occhi castani a lungo, mentre il sorriso svaniva dal suo volto. 

«Un cuore verrà spezzato.»

Quelle erano state le parole di Afrodite. E quello sembrava lo stato d’animo di Edward. Sentì il braccio di Konnor stringerla attorno alle spalle. Anche lui osservò il figlio di Apollo con espressione indecifrabile. L’aria sembrò farsi molto più pesante all’improvviso.

Poi, Edward fece un sorrisetto. Si alzò anche lui e si inchinò in maniera piuttosto teatrale, portandosi una mano al petto e tendendo l’altro braccio verso l’esterno. Si raddrizzò e Stephanie notò il suo sguardo più rilassato e il suo sorriso molto più sincero. A quel punto, anche lei riuscì a sorridere di nuovo, avvolgendo il braccio attorno alla vita di Konnor e stringendosi a lui, sentendosi pervasa da una sensazione di calore e sicurezza che rare volte aveva provato. Osservò di nuovo il figlio di Ares e fece un ampio sorriso, gesto che lui ricambiò.

«Sarai un fantastico capocasa» gli sussurrò, circondandolo con le braccia. 

«Con te al mio fianco non posso fallire» rispose lui, chinandosi di nuovo sul suo viso. 

Stavano per baciarsi ancora una volta, quando il coach Hedge si frappose tra loro. «Basta così, angioletti. Datevi una calmata adesso.»

Entrambi fecero un verso indispettito mentre il piccoletto si faceva largo a tentoni per tenerli separati. «Non siete abbastanza maturi per questo genere di cose. Aspettate ancora un anno o due.»

Fu una delle rare volte in cui Stephanie avrebbe voluto strangolare qualcuno del campo con una radice. Erano abbastanza maturi per rischiare di farsi uccidere dai mostri ma non per baciarsi?!

La sua rabbia sfumò quando si accorse di Edward, Lisa e Thomas che si stavano avvicinando. Konnor sorrise, abbracciando la figlia di Bacco e battendo il pugno con Tommy ed Edward.

«Visto? Un gioco da ragazzi, e non ho neanche un graffio» disse al figlio di Apollo, per poi piegarsi e tossire, stringendosi con forza l’addome per via delle costole rotte. 

Edward lo affiancò, dandogli alcune pacche sulla schiena. «Oh sì amico, sei il ritratto della salute.»

Entrambi ridacchiarono e osservandoli Stephanie si sentì più tranquilla. Era felice di vedere che avevano iniziato ad andare d’accordo nonostante ci fosse lei di mezzo. O forse, avevano iniziato ad andare d’accordo proprio perché lei aveva finalmente smesso di tenere tutti sulle spine prendendo la sua decisione. 

Voleva bene ad Edward, era un bravo ragazzo, ma sapeva che non era lui la persona giusta per lei. E forse anche lui lo aveva capito, perché sembrava aver accettato di buon grado la sua decisione. Si voltò verso di Steph mentre consolava Konnor e le sorrise un’altra volta, strizzandole l’occhio. 

«Lasciatemi!» muggì Buck all’improvviso, rivolto verso alcuni ragazzi della capanna Sette che stavano cercando di aiutarlo ad alzarsi. Li allontanò con degli spintoni e uno di loro, un esile ragazzino afroamericano di cui Steph non ricordava il nome, ruzzolò a terra come un sacco di patate. 

«Tirati su Jericho» sbottò Jonathan, per poi osservare Buck adirato. «Sei ferito, Buck. Dobbiamo medicarti.»

«Sparisci dalla mia vista, stupido cantastorie» rantolò quell’altro, alzandosi in piedi e barcollandogli accanto, dandogli una spallata. 

Jonathan assottigliò le labbra, senza rispondere. Buck si voltò verso i cinque semidei dell’impresa, lanciando occhiate cariche di veleno verso tutti loro e anche verso i ragazzi negli spalti, che nel frattempo avevano cominciato un piccolo coro: «Na na na na, hey hey, goodbye

Buck ringhiò di rabbia. Jane cercò di avvicinarsi a lui, ma quello allontanò anche lei con una spinta, un gesto che fece sussultare perfino Stephanie. L’unica persona che Buck aveva sempre trattato con una parvenza di rispetto era sempre stata proprio lei, Jane. Vederlo trattarla in quel modo fu molto più sconvolgente di quanto avrebbe potuto pensare. La figlia di Afrodite indietreggiò, sembrando altrettanto scioccata. L’ex capocasa di Ares si allontanò dall’arena con passo spedito, senza più voltarsi. 

Dopo un attimo di incertezza, Jane mosse alcuni timidi passi verso la sua direzione, ma Konnor la chiamò: «Jane.»

Lei si voltò verso di loro, osservandoli come se fossero stati dei miraggi. Non sembrava nemmeno sul loro stesso piano della realtà. Konnor scosse la testa, facendole capire che non doveva seguire Buck, non in quel momento almeno. Jane si massaggiò il braccio con aria afflitta, poi, mentre i figli di Apollo raccattavano Jericho da terra, si avvicinò a Konnor e Stephanie. Non guardò nessuno in faccia. Quando parlò, la sua voce uscì come un soffio di vento: «Quella… quella storia che avete raccontato… quel… quel figlio di Venere… era tutto vero?»

«Sì» rispose subito Konnor. 

La figlia di Afrodite alzò la testa, incrociando lo sguardo di Stephanie. «E tu hai… hai sempre avuto quei poteri?»

Stephanie annuì con un gesto deciso. Cercò la mano di Konnor, che gliela strinse con forza, riuscendo a rassicurarla.

«Perché… perché non ti sei mai difesa, allora?»

«Perché tu non avresti dovuto trattarmi male tanto per cominciare» rispose Stephanie, dura. Jane sembrava sconvolta, forse avrebbe potuto usare un tono più gentile, ma dopo tutto quello che aveva subito per causa sua, non riuscì a cancellare la vena di irritazione nella sua voce. «Avreste dovuto rispettare me e i miei fratelli da sempre, per una vostra decisione, non solo perché avrei potuto zittirvi. Della vostra paura non me ne faccio niente.»

Jane distolse lo sguardo, incassando le parole. Osservò Thomas, quello che lei si era sempre divertita a chiamare nano. La stessa persona che aveva affrontato e sconfitto un gigante, che aveva mostrato un coraggio ineguagliabile, che aveva superato le sue paure e che adesso aveva anche una splendida ragazza al suo fianco. Lisa gli posò una mano sulla spalla, squadrando Jane con astio. La figlia di Afrodite distolse gli occhi anche da loro, spostandoli infine su di Edward, colui che l’aveva fronteggiata senza alcun timore. 

Fece alcuni passi avanti proprio verso di lui, concentrandosi sullo sfregio sul suo volto. «È… è stata davvero Campe?» 

Edward serrò le labbra e annuì. Jane alzò una mano con aria quasi intimorita, avvicinandola alle cicatrici. «P-Posso?» 

Dopo un attimo di esitazione, Edward annuì un’altra volta. La figlia di Afrodite passò le dita sugli sfregi, facendolo irrigidire. Passò con delicatezza il pollice su tutte e tre le lunghe linee rosa, sfiorandogli le labbra. 

«Hai… hai rischiato di morire…» sussurrò, come in trance. Si allontanò da lui, spostando di nuovo lo sguardo su tutti loro. «Tutti voi… tutti voi… avete rischiato di morire…»

«Beh… credo sia quello che succede quando vai ad affrontare mostri millenari divoravergini» gracchiò Edward, con un’alzata di spalle. 

Jane non sembrò cogliere il sarcasmo. «Avete… rischiato la vita…» ripeté, come cantilenando. 

I cinque si guardarono tra di loro, perplessi. Era come se Jane si fosse appena resa conto che in effetti i semidei andavano al Campo Mezzosangue per prepararsi a quel genere di cose e non per specchiarsi e comportarsi da bulletti.

«Io… io… vi ho… trattati da schifo…» bisbigliò lei. «… e voi… voi avete… rischiato la vita…»

«Ehi.» Edward schioccò le dita di fronte a lei, facendole scappare un grido spaventato. Il figlio di Apollo abbozzò un sorrisetto. «Non sei una che chiede scusa spesso, vero?»

La figlia di Afrodite avvampò e distolse lo sguardo. «N-Non è così… è… è solo che…»

«Tranquilla, ti capisco. Nemmeno per me è facile. Comunque apprezzo lo sforzo. Ti perdono.»

«D-Dici sul serio?» mormorò lei tornando a guardarlo. 

Edward fece di nuovo spallucce. «Hanno perdonato me dopo tutti i casini che ho combinato, sarebbe ipocrita da parte mia non perdonare quattro insulti.»

Jane lo esaminò ancora per qualche istante, in silenzio, il suo piccolo cervello che cercava di capire se Edward la stesse prendendo in giro oppure no. Poi, gli occhi le si riempirono di lacrime e si gettò su di lui. Edward spalancò gli occhi, rimanendo con le braccia spalancate, mentre lei lo stritolava in un abbraccio. 

«Mi… mi dispiaaaaaaaaaaaaaaaaceeeeeee» gridò, affondando la testa contro il suo petto. Scoppiò in quello che avrebbe dovuto essere un pianto, ma a Stephanie ricordò di più il verso di un cervo che veniva investito sulla statale. «BUAAAAAAAAA-HAAAAAAAAAAAAA»

Il figlio di Apollo guardò i propri compagni stralunato. «Che-sta-succedendo?» mimò con le labbra.

Thomas scosse la testa, sconvolto quanto lui. «Non-lo-so.»

Jane pianse. E pianse. E pianse ancora. E ancora, continuando con quel verso che assolutamente poco si addiceva a quella che doveva essere la ragazza più bella e immacolata del campo. Per essere la figlia della dea dell’amore, della bellezza e quant’altro, il suono del suo pianto pareva proprio l’opposto di tutto quello.

Stephanie scartò subito l’ipotesi che fosse finto, comunque: se avesse voluto recitare, Jane non avrebbe mai fatto quel verso da gabbiano strozzato per cui tutti avrebbero potuto prenderla in giro per i mesi a venire. Era sincera. E la cosa la lasciò ancora più di sasso.

«Mi disp.i.a.ce-eee…» dattilografò, staccandosi da Edward, la cui maglietta sembrava essere appena uscita dalla lavanderia, per poi osservare gli altri. 

Si avvicinò a Thomas, ma Lisa si mise di fronte a lui, scuotendo con voga la testa. Un briciolo di sanità Jane ancora doveva averla, perché obbedì. Infine, incrociò lo sguardo di Stephanie. Di nuovo, non l’aveva mai vista così. Aveva associato quel viso a quel ghigno divertito, quell’aria di sprezzante superiorità e battute taglienti. In quel momento, invece, Jane sembrava l’ombra di sé stessa, una ragazza sola, triste, smarrita e spezzata. E soprattutto, sembrava che la stesse implorando con lo sguardo.

La figlia di Demetra roteò gli occhi e un lungo sospiro quasi infastidito le scappò dalla bocca, poi le fece cenno di avvicinarsi. «Dai, vieni qui.»

Jane divenne più luminosa di un raggio di sole. Si avventò su di lei e la stritolò come aveva fatto con Edward. Per essere una il cui sforzo fisico più grande consisteva nel passarsi un pennellino del trucco sopra il volto, aveva una presa di ferro. «Grazie, grazie, grazie quattrocc…» Si interruppe, coprendosi la bocca e guardandola allarmata.

Steph serrò le labbra. «Strike uno» mugugnò, anche se l’espressione spaventata di Jane rischiava di farle scappare un sorrisetto divertito.

La figlia di Afrodite si illuminò di nuovo, abbracciandola ancora. Stephanie si rese conto che profumava di rose e vaniglia. Le diede qualche pacca di incoraggiamento alla schiena, mentre quella continuava a ripetere “grazie” come una mitragliatrice. Infine si staccò da lei, dandole un ultimo grazie, condito da un bacio a stampo sulla bocca.

Non appena Jane posò le labbra sulle sue, Stephanie strabuzzò gli occhi, atterrita. Edward e Thomas spalancarono la bocca, con Lisa che sferrò una gomitata a quest’ultimo. Anche Konnor batté le palpebre un paio di volte, come se stesse cercando di mettere a fuoco. 

Jane si staccò da lei come se non fosse successo nulla, lasciandola con il sapore del suo rossetto sulle labbra, e unì le mani di fronte al petto. Osservò tutti loro con un sorriso smagliante, molto diverso da quelli a cui aveva abituato tutto il campo. «Vi prometto che da oggi in poi sarò una persona migliore! Userò la lingua ammaliatrice per fare anch’io del bene, come quel figlio di Venere! Verrò agli allenamenti, alle lezioni di tiro con l’arco, alle esercitazioni, a…»

«Non serve che tu lo faccia» si riprese Stephanie, agitando le mani, colpita da un flash di Jane che si mozzava un braccio da sola mentre provava a maneggiare una spada. «Basta solo che… che ti comporti meglio con gli altri. Ok?»

«Sai, no, la storia di tua madre che è anche la dea dell’amore, dell’amicizia e tutto il resto» fece eco Edward, gesticolando. «Cerca di includere un po' di quella roba lì. Vedrai che andrai alla grande.»

Jane fece un’espressione da pesce lesso degne di quelle di Tommy. Scrutò il figlio di Apollo rimanendo in silenzio, molto intensamente, quasi come se lo stesse osservando davvero per la prima volta. Le guance le si imporporarono di nuovo. «O-Ok…» sussurrò.

«Beh… che dire…» mormorò Konnor, grattandosi una tempia mentre osservava quel bizzarro quadretto. «Suppongo che… tutto è bene quel che finisce bene?»

Stephanie si voltò verso di lui, con un caldo sorriso. «Suppongo di sì.»

I due ragazzi si scambiarono ancora uno di quei sorrisi che durante l’impresa erano diventati il loro punto di riferimento. Stephanie spostò lo sguardo verso i semidei sugli spalti che stavano uscendo dall’arena. Tra di loro vide i suoi fratelli, che la salutarono. Alcuni figli di Ares si avvicinarono per congratularsi con il loro nuovo capocasa e diversi di loro scambiarono anche qualche chiacchera con Tommy ed Edward, che risposero con stupore ma anche con felicità. Seth si aggregò, complimentandosi con Konnor, il cui sorriso svanì alla rapidità della luce. Bastò quel piccolo gesto per farle capire che passare un'ora con il figlio di Nemesi doveva averlo segnato a vita.

L’ultima ad arrivare fu Rosa, che afferrò Konnor per le spalle e cominciò a strattonarlo, gridando quanto fosse stata “cazzuta” la sua “german suplex”. 

«Devi insegnarmela!» Quella di Rosa non sembrò davvero una richiesta, ma un ordine. Konnor rispose con una risata e con la promessa che ne avrebbero riparlato.

Steph ammirò i suoi compagni, uno ad uno, distendendo il suo sorriso. Konnor, Edward, Tommy, Lisa, anche Rosa, Jonathan, Derek e tutti gli altri. Forse il loro campo non era più lo stesso che aveva ospitato gli stessi semidei che avevano affrontato Gea, ma non significava che non avrebbe potuto diventarlo, in futuro. 

C’era tanto lavoro da fare, ma quell’impresa, quei cinque, avevano gettato delle ottime fondamenta. E forse i pericoli non erano ancora finiti, ma non aveva importanza: sarebbero stati pronti.

Dopo la festa promessa da Chirone, naturalmente.


 
 
 
 
 
 
 
Ehilà, amici. Ho passato un bel sabato sera all'insegna della scrittura. Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
 
 Voglio solo puntualizzare brevemente alcune cose: non credo che nei libri sia mai stata descritta una sfida tra fratelli per il posto di capocasa, ma magari mi sbaglio. Fatto che sta che io, non avendo nessuna idea di come sarebbe potuta essere, mi sono semplicemente basato sull'istinto e ho proposto uno scenario che sarebbe potuto essere verosimile. Anche se a tratti ho voluto "sporcarlo" un po', mettendoci il pubblico, le entrate e le presentazioni come se fosse stato un incontro di wrestling o MMA hahahaha (non mi ero reso conto di desiderare di scriverne uno finché non l'ho fatto oggi. La scena della (o del) german suplex me la salvo e la metto in una hall of fame o cose del genere). Comunque, sì, al di là delle mie aggiunte, è così che mi immagino una sfida di questo tipo, ma fatemi sapere voi.
 
 Apro una parentesi su Jane per dire che la parte finale l'ho trovata esilarante da scrivere. Non avrei mai pensato di dirlo, ma credo che Jane diventerà la mia prossima bimba. E devo dire che in questi capitoli, anche grazie alla recensione che mi ha lasciato Nanamin, ho imparato ad apprezzare di più Steph. Questo capitolo mi è piaciuto molto da scrivere (sicuramente anche il bacio con Konnor ha aiutato, ora loro due sono i miei nuovi patati).
 
 Ultima nota, per l'arma di Buck ho fatto un po' di ricerche e ho trovato questa Ascia di San Sosti che mi è piaciuta tantissimo. A quanto pare è un'arma che esiste veramente e quindi ho pensato che al campo potessero esserci delle repliche di bronzo celeste.
 
 Ok, ho finito, grazie mille per aver letto, grazie a Roland, Farkas e Nanamin per le recensioni e niente, alla prossima amici!

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Capitolo 42
*** L'unica festa a cui non è concesso divertirsi ***


42

L'unica festa a cui non è concesso divertirsi

 

 

Erano successe troppe cose in troppo poco tempo. Era appena tornato e aveva a malapena avuto il tempo di dormire – male – per un paio di ore prima di essere svegliato da Rosa, che gli aveva sbraitato che si stava facendo tardi.

Naturalmente lui se n’era sbattuto alla grande e si era girato dall’altra parte, ragion per cui lei lo aveva trascinato giù dal letto senza troppi complimenti. 

Avrebbe potuto almeno fare colazione, invece neanche quello: la sorella lo aveva spedito a farsi una doccia e a prepararsi in vista del Consiglio. Così, con l’umore di una gomma da masticare schiacciata da uno stivale, si era ritrovato con l’acqua che gli scorreva addosso nel tentativo di ridestarsi e di scacciare via il sonno che ancora lo avvolgeva nel suo abbraccio.

Le mani gli scivolarono sul petto e sullo stomaco. Fece una smorfia di dolore mentre con le dita accarezzava le profonde cicatrici che Izanami gli aveva lasciato. 

All’inizio, aveva creduto che fosse stata tutta un’illusione. Era finito nello Yomi, aveva affrontato la dea della morte, era tornato indietro, era assurdo! Come cavolo c’era riuscito, se era uno spettro? Non ne aveva idea. Eppure, ricordava molto bene il volto di Izanami, i suoi occhi fatti di sclera nera, il suo sorriso sadico, la sua voce graffiante. E soprattutto, ricordava quei tentacoli che si schiantavano su di lui, arrecandogli dolori a cui nemmeno riusciva a pensare. 

E a quanto pareva, i segni che gli aveva lasciato si erano mantenuti anche nel mondo dei vivi. Soprattutto la ferita all’altezza dello stomaco, un cratere grosso quanto il suo pugno, profondo almeno due centimetri, che si era cicatrizzato male. La sua pelle sembrava la buccia di un’arancia spappolata.

L'acqua calda scivolò anche lungo la sua schiena, facendogli sfuggire un mugugno. Non poteva vedere le cicatrici che erano rimaste lì, ma era sicuro che nemmeno quelle fossero un bello spettacolo. Se non altro non sentiva dolore. Di solito. C’erano momenti in cui alcune fitte lo coglievano alla sprovvista, facendolo sussultare. Si era svegliato diverse volte quella notte, con la fronte imperlata di sudore, il corpo che faceva male e il sorriso di Izanami ad un palmo dal suo naso. 

Quel corpo mostruoso, tutto quel sangue che emergeva dal suo abito, i suoi versi agghiaccianti... non sarebbe riuscito a dimenticarseli tanto presto.

E meno pensava a lei che si leccava le labbra bramosa di lui e meglio era.

Dopo la doccia si era ritrovato nella sala creativa, accontentandosi di alcune tortillas per colazione. Aveva sperato di finire quella riunione al più presto per andarsene al padiglione della mensa a riempirsi il piatto di waffles, ma ovviamente era troppo sperare pure in qualcosa di così semplice.

Vedere gli altri capicasa cedere il posto lo aveva sorpreso, ma lo aveva anche fatto felice. Tommy e Stephanie se l’erano davvero meritata una promozione. Senza di loro non sarebbe mai arrivato a San Francisco. Senza di loro e di Rosa, forse avrebbe davvero regalato la spada ad Orochi dicendogli di ammazzare tutti gli dei anche da parte sua e poi se ne sarebbe felicemente andato a quel paese. 

Era grato di averli conosciuti. Tommy, Steph, Rosa, anche Konnor e Lisa, era felice di averli attorno. Era la prima volta che si sentiva davvero parte di qualcosa, dopo tanti anni. Erano amici, erano famiglia, e non avrebbe potuto desiderare di meglio.

Poi, anche lui era diventato capocasa. La cosa lo aveva sorpreso in realtà, e per un momento aveva perfino pensato di rifiutare. Tuttavia… sapeva che presto o tardi gli dei lo avrebbero cercato di nuovo. Ne aveva parlato con Artemide e Susanoo a San Francisco. Non aveva soltanto raccontato loro cos’era successo con Orochi, aveva parlato dello Yomi, del corvo a tre zampe, di Izanami, e loro due – guarda caso – avevano detto di essere al corrente di tutto. 

A quanto pareva, la donna del corvo a tre zampe aveva parlato con loro. Cominciava ad avere il sospetto di chi si trattasse in realtà. In effetti era piuttosto palese. Non avevano detto altro, ma gli era bastato quello per capire che non era ancora finita. Inoltre, era certo di essere lui il motivo per cui Zeus aveva coinvolto anche Apollo nel suo incontro con Amaterasu. Per questo motivo aveva accettato il posto. Sia gli dei orientali che quelli occidentali gli stavano con il fiato sul collo e lui, volente o nolente, avrebbe dovuto dimostrarsi pronto a tutto, anche a guidare la sua cabina.

C’era solo una cosa che aveva omesso ai due dei, la parte riguardante l’uomo che credeva di aver visto poco prima di svegliarsi di nuovo nel mondo dei vivi. Non sapeva come, ma era certo di sapere chi fosse.

Era certo che fosse Apollo.

Infine, dopo che Konnor aveva sfidato Buck e aveva chiesto a Stephanie di uscire di fronte a lui – perché le belle notizie non erano mai troppe – era stato di nuovo portato nella Casa Grande per essere interrogato ancora un po’, giusto per buona misura.

Si ritrovò di nuovo nella stanza col camino, seduto sulla poltrona. Rachel prese posto sul divano, Chirone invece rimase sulla sedia a rotelle. Dioniso non si fece vedere, invece. Meglio così, non era in vena dei suoi stupidi commenti. Non riusciva a credere che un fantoccio come quello fosse il padre di una ragazza come Lisa. In realtà, il padre era Bacco, ma da quanto aveva capito non c’era molta differenza tra i due. Quella fondamentale era che uno beveva Diet Coke, l’altro Diet Pepsi. 

Il leopardo, Seymour, non sembrava essersi dimenticato di lui e del teatrino che aveva messo in piedi una settimana prima, quando aveva minacciato il Signor D con la spada. Per tutto il tempo lo fissò ringhiando tra i baffi. 

«Allora…» Edward si spostò sulla poltrona, ignorando i crampi allo stomaco per la fame. «Che volete chiedermi?»

Rachel si sporse verso di lui con un sorriso accomodante. «Abbiamo solo bisogno di sapere se la profezia che hai ricevuto si è compiuta o no. Non ci vorrà molto, non preoccuparti. Ricordi i versi?»

Per sua enorme sorpresa, Edward lì ricordava. Forse era per via del fatto che suo padre fosse il dio degli Oracoli o una cosa del genere. Si spostò di nuovo, questa volta a disagio. Cominciò a capire dove la conversazione sarebbe andata a parare. «“Il Serpente di Yamata, dalla sua prigione si è liberato, del dio delle tempeste la collera ha subito”» cominciò a dire, mentre posava lo sguardo sul caminetto spento. «Il serpente è Yamata no Orochi, il dio invece è Susanoo. Susanoo sconfisse Orochi molto tempo fa e gli portò via Ama no Murakumo, per poi consegnarla a sua sorella Amaterasu.»

«Dei orientali…» mormorò Rachel, picchiettandosi sulla guancia. «È la prima volta che ne sento parlare. Non credevo che avremmo mai avuto a che fare con loro.»

«Continua Edward» lo invitò Chirone.

«“Ladro, l’insegna rubata restituirai. Dove la tua storia ha avuto inizio… tornerai.”» Quello era un verso difficile da spiegare. Cercò di evitare i loro sguardi. «Il luogo dove la mia storia ha avuto inizio… non è un luogo fisico. È… qualcos’altro. L’ho scoperto mentre ero da solo.»

«Cos’hai scoperto?» domandò il centauro con voce morbida, ma facendogli comunque capire che purtroppo non avrebbe potuto nascondere la verità. Non era nemmeno sicuro che ci sarebbe riuscito.

«Si… si tratta dello Yomi» mormorò titubante. «La mia vita… è cominciata nello Yomi. La dea della morte, Iza… insomma, la dea della morte, reclamò la mia anima il giorno della mia nascita.»

Raccontò cos’era successo, ottenendo sguardi allibiti in ritorno. Perfino per lui che aveva vissuto tutto sulla propria pelle era una storia assurda. Quando concluse il racconto, mostrò anche la cicatrice sulla pancia per dissipare ogni dubbio. I due adulti si osservarono mentre un pesante silenzio scendeva nella stanza. Chirone doveva averne viste di cotte e di crude, eppure perfino lui non sembrava trovare parole da dire.

«L’importante è che ora tu stia bene» concluse Rachel infine con un altro sorriso, anche se sembrò molto più incerto. Chirone, d’altro canto, lo squadrò come se fosse appena morto un’altra volta. Proprio il tipo di sguardo di cui aveva bisogno, non c’era dubbio.

«“Il sangue della vergine sarà il prezzo da pagare”» concluse desideroso di cambiare argomento. Si corrucciò. «Ammetto che… questo verso non mi è molto chiaro. I ragazzi mi hanno detto che alcune cacciatrici di Artemide sono morte affrontando Orochi. Anche Talia e Reyna hanno perso molto sangue.»

«Parla di una vergine al singolare, però» osservò Rachel, altrettanto confusa. 

Edward si strinse nelle spalle. «So che Orochi ha anche bevuto un po’ del sangue di Rosa, mentre era svenuta… potrebbe trattarsi di quello.»

Chirone si grattò la barba pensieroso. Non sembrava molto convinto, e nemmeno Edward lo era.

Il sangue della vergine sarà il prezzo da pagare. Quel verso sapeva di morte. Una vergine sarebbe dovuta morire. E forse poteva davvero essere qualcuna delle cacciatrici, ma non riusciva a crederci fino in fondo. Orochi voleva una vergine in particolare, per potersi trasformare di nuovo, e quella vergine era il sacrificio, Rosa. 

Orochi era scomparso, ma il rituale era comunque stato completato. Rosa rimaneva ancora il sacrificio. 

Rosa… poteva ancora essere in pericolo.

«Può… può succedere che una profezia rimanga incompiuta?» domandò allora a Chirone, speranzoso. 

«Che io sappia, no. Possono durare mesi, anni, secoli se non di più. Ma è anche vero che non era mai successo che un greco entrasse in possesso della spada di Amaterasu, o che una profezia riguardasse dei e mostri di un’altra cultura» concluse il centauro, con un sospiro. «Il tuo giuramento sullo Stige nemmeno ha funzionato, quando ti ho chiesto di farlo mentre eri in possesso della spada. Nel mondo orientale vigono leggi e regole diverse dalle nostre. Non possiamo applicare il nostro sistema al loro.»

«I… versi dell’oracolo sono molto criptici» proseguì Rachel, con voce ferma. «Possono voler dire tutto e niente allo stesso tempo. Non preoccuparti, Edward. Sono sicura che adesso non hai più niente da temere.»

Stavano cercando entrambi di tranquillizzarlo, era palese. E per quanto potesse trovare gentile il tentativo, se davvero non ci fosse stato nulla di cui preoccuparsi non avrebbero fatto tanti sforzi. Annuì, senza dire altro in merito, sprofondando sulla poltrona. Ne aveva abbastanza di quella discussione. «Posso… posso andare adesso? Vorrei andare a vedere Konnor che le suona a Buck.»

Chirone annuì, con un altro sorriso gentile. «Certo, torna pure dai tuoi amici. Grazie per la tua collaborazione.»

«Mi ha fatto piacere incontrarti di persona» concluse Rachel, salutandolo con la mano.

Malgrado tutto, Edward riuscì a sorridere. «Il piacere è stato mio.»

 

***

 

Dopo quella parentesi arrivò tutto il resto: Konnor sconfisse Buck, diventando nuovo capocasa, Stephanie lo baciò – di fronte a lui, ovviamente – e per finire Jane lo annaffiò di lacrime come uno sprinkler. 

Un vero spasso.

Era felice per Steph. Era evidente a tutti che lei avesse sempre provato qualcosa per Konnor, mentre il nuovo capocasa di Ares non ne aveva mai fatto davvero un segreto. Forse era meglio così. Edward si era comportato da emerito idiota con lei, dal causare quello scenario inutile quando l’aveva difesa da Jane, al pedinarla nel bosco, al litigarci sul treno. Il loro scontro non era da considerare, dopotutto entrambi erano fuori controllo. Tuttavia, una parte di lui non riusciva a non pensare al fatto che se Konnor si fosse trovato al posto suo, la situazione non sarebbe mai degenerata in quel modo. 

Stephanie era una splendida ragazza, non si meritava una causa persa come lui, si meritava qualcuno che sapesse valorizzarla, qualcuno che tenesse a lei e la proteggesse, e quel qualcuno era Konnor. Il figlio di Ares era ok, forse non potevano andare sempre d’accordo, ma lo aveva perdonato e lo aveva aiutato ad aprire gli occhi. Per quello che lo riguardava, nutriva rispetto per lui.

In realtà, era stato quasi un sollievo vederla prendere la sua decisione. Aveva fatto capire a tutti cosa pensava, levando ogni dubbio, ogni se e ogni ma. Certo, gli faceva male vederli insieme. Avrebbe mentito se avesse detto il contrario e ci avrebbe messo un po’ per superarla, ma se non altro adesso poteva voltare pagina una volta per tutte e poteva guardare Konnor non più come un rivale da scavalcare ma come un compagno, un amico perfino.

E senza ombra di dubbio, era felice per Tommy e Lisa. Purtroppo era stato troppo impegnato ad odiare il mondo per accorgersi di come si fossero avvicinati nonostante i problemi iniziali. Ed era stato separato da loro dal deragliamento, quindi non avrebbe potuto accorgersene comunque. In ogni caso, era indubbia la crescita di quel piccoletto coi capelli rossi timido che aveva conosciuto qualche settimana prima. C’era una nuova luce nei suoi occhi, una nuova aura di forza e sicurezza. L’impresa lo aveva cambiato, in meglio. Era come una persona nuova.

Riguardo Lisa, l’aveva sempre trovata una tipetta interessante. Ironica, sarcastica, sempre con la battuta pronta e, ancora una volta, tutta un’altra cosa rispetto a quel babbuino di suo padre. In un mondo alternativo, forse sarebbe finito assieme a lei. Ma quello non era un mondo alternativo, lei aveva scelto Tommy e a lui andava bene così. Erano carini assieme ed era bello vedere Thomas con qualcuno al proprio fianco.

Quando arrivò in mensa era ormai ora di pranzo, quindi i waffles erano andati a farsi benedire. Era ufficiale, le cose peggiori capitavano sempre alle persone migliori. Si accontentò di rimpinzarsi per bene di carne grigliata, patatine e succo di mela, chiudendo il tutto con una bellissima fetta di cheesecake. Quanto gli era mancato il cibo della mensa. Fu un toccasana per il suo stomaco vuoto e le sue papille disabituate a quel tipo di sapore.

Accanto a lui, Rosa parlava con Jonathan riguardo cosa avrebbero potuto suonare quella sera e un sorriso nacque sul suo volto: era felice di vederla andare d’accordo anche con gli altri ragazzi della capanna Sette. 

Il verso della profezia sul sangue della vergine balenò nella sua mente mentre guardava la sorella. Assottigliò le labbra, stringendo i pugni sotto al tavolo: niente, niente, le avrebbe più torto un capello. Tartaro in persona avrebbe potuto reclamare l’anima di Rosa e lui lo avrebbe rispedito sotto terra a suon di calci e a mani vuote.

Per il resto della giornata i cinque semidei dell’impresa rimasero divisi, per ovvi motivi. Le due coppiette trascorsero il pomeriggio assieme, felici e beate, e lui invece rimase solo. Beh, non proprio, ci fu Rosa a fargli compagnia. O meglio, fu lui a fare compagnia a lei mentre si allenava nell’arena. Non c’era stato verso di convincerla a prendersi una giornata libera – e allo stesso tempo non aveva alcuna intenzione di allenarsi con lei tanto presto – perciò rimase seduto sugli spalti a guardarla mentre affettava manichini. 

Non erano soli nell’arena però, questa volta. Alcuni figli delle altre case rimasero nei paraggi e diversi di loro parlarono perfino con lei, cosa che non aveva mai visto prima. Forse avevano capito che in realtà Rosa non era un mostro pericoloso. Alcune ragazze che frequentavano l’arena – figlie di Nike e Atena perlopiù – passarono perfino per parlare con lui, facendogli domande sull’impresa e domandandogli se fosse tutto vero. Diede le solite risposte di rito, cercando di sorvolare sulle questioni troppo lunghe da spiegare. Alcune di loro gli chiesero anche con chi sarebbe andato alla festa e lui rispose che con tutta probabilità sarebbe andato con i suoi compagni dell’impresa. A quella risposta loro avevano riso divertite, congedandosi subito dopo e lasciandolo di sasso.

Infine, arrivò la sera. I semidei raggiunsero il padiglione dove si sarebbe svolta la festa ed Edward notò con sommo stupore che in molti si erano perfino agghindati per benino, a differenza sua che, come uno stupido, si era tenuto i vestiti del campo e la sua fidata felpa ormai logora. Rosa era andata via prima di lui, per preparare gli strumenti e il palcoscenico assieme a Jonathan e gli altri. Alla fine, il suo desiderio di esibirsi si era avverato. Edward era davvero curioso di scoprire che cosa avrebbe suonato. Dubitava che si trattasse di roba spinta, alla fine doveva essere una serata tranquilla, ma era comunque felice per lei.

Quando arrivò al padiglione incontrò decine e decine di ragazzi stipati fuori, in gruppetti, a parlare tra di loro. In disparte, appoggiato ad una delle colonne dell’antica struttura, vide Thomas. Lo salutò, avvicinandosi a lui. Perfino il figlio di Ermes si era tirato a lucido: si era messo dei jeans nuovi di zecca, una camicia blu e scarpe firmate. Aveva perfino messo il gel ai capelli, riuscendo per una volta a domare quei riccioli ribelli.

«Che eleganza» commentò Edward.

«G-Grazie…» Tommy si grattò imbarazzato dietro l’orecchio. «Ehm, Edward?»

«Dimmi.»

«Ti… ti devo ringraziare per… la faccenda di Lisa» disse timido. «Se non ci fossi stato tu probabilmente non me ne sarei mai accorto.»

Edward sorrise. «Sono sicuro che invece lo avresti capito comunque. Ma prego, non c’è di che.»

Anche Tommy fece un tenue sorriso. «E pensare che all’inizio io…» Si interruppe, scuotendo la testa e ridacchiando. «Non riesco a credere a come siano finite le cose.»

«Già, nemmeno io» ammise Edward, per poi alzare le spalle. «Immagino che renda tutto più divertente, no?»

«Immagino di sì.»

I due amici si scambiarono un cenno. Se ripensava solo ad una settimana prima, ogni cosa pareva diversa. Non c’era quell’atmosfera al campo, i semidei erano frammentati, Tommy era ancora più timido e soprattutto aveva una cotta enorme per Rosa. Era felice che alla fine l’avesse superata e si fosse messo con Lisa. Conosceva Rosa e non credeva che Thomas fosse davvero il suo tipo. Probabilmente non avrebbe mai funzionato tra di loro ed era certo che all’hermana sarebbe dispiaciuto spezzargli il cuoricino. 

«E mi raccomando Tommy, non fare come i nostri genitori. Usa sempre le protezioni» concluse Edward con un ghigno, dandogli una pacca sul braccio. 

Il poveretto diventò più rosso dei suoi capelli. «N-Non credo che siano discorsi da fare, qui al campo» farfugliò osservando il cielo, nervoso. 

Edward sollevò un sopracciglio. Che diamine significava che non era un discorso da fare? Erano quasi tutti adolescenti, iperattivi, e c’erano almeno un milione di altre coppie lì in mezzo – e quella sera ne sarebbero nate e morte altrettante – voleva forse fargli credere che nessuno in quel luogo era mai andato oltre i bacetti da scuola media? 

Smise di pensarci quando vide l’espressione sbalordita di Thomas. Si voltò e si accorse di Lisa, che avanzava con passo incerto in mezzo ai semidei. Si era messa una giacchetta di jeans sopra la camicetta a quadri e aveva i capelli sciolti, tenendo fermi alcuni dei ciuffi più lunghi con dei fermagli. Edward notò anche un leggero filo di trucco. Non era molto, giusto un alone di rossetto e un po’ di ombretto, ma sembrava comunque abbastanza per farla avanzare a disagio – e anche per farle ricevere occhiatine incuriosite da altri ragazzi. 

Stava davvero bene così. E Thomas sembrava essere d’accordo con lui, perché la sua espressione da pesce lesso fu un’altra da record. La figlia di Bacco si accorse di loro e sorrise, avvicinandosi a passo spedito. Salutò Tommy con un ampio bacio sulle labbra, sporcandolo un po’ con il rossetto, e diede un abbraccio ad Edward, avvolgendolo con un odore di shampoo alla pesca.

«Wow…» mormorò Thomas, osservandola come se si trovasse di fronte ad uno splendido diamante. «Sei… sei incantevole...»

Lisa arrossì imbarazzata. «G-Grazie… anche tu.»

I due semidei si guardarono un po’ impacciati, al che Edward si lasciò scappare uno sbuffo divertito. «Ma che bellissima coppia di androidi!»

Entrambi si voltarono indispettiti verso di lui, strappandogli un altro sorrisetto. 

Konnor e Stephanie arrivarono insieme – di nuovo, ovviamente. E non appena Edward vide la figlia di Demetra, pensò che forse avrebbe fatto meglio a non andarci a quella festa. Perfino Lisa e Thomas spalancarono gli occhi.

Stephanie si era messa un abito da sera verde scuro, che le arrivava fino ai piedi nudi infilati in un paio di scarpe con il tacco basso, combinato con due orecchini di smeraldi. Aveva i capelli sciolti, pettinati in modo che le scivolassero soltanto sopra una spalla e le lenti a contatto che lasciavano in bella mostra i suoi occhi marroni dalle sfumature verdi. Anche lei si era truccata, in maniera molto più approfondita rispetto a Lisa, con un rossetto dello stesso colore dell’abito, cipria, ombretto, eyeliner e anche smalto per le unghie. Era stupenda, da far impallidire perfino le ragazze di Afrodite che erano nei paraggi. 

Teneva Konnor per mano, il quale si era messo un elegante completo a tre pezzi grigio fumo, che sembrava essere stato tirato fuori dalla custodia proprio per quell’occasione.

Inutile dire che quei due catturarono l’attenzione di tutti. La coppia nata quella mattina, quella di cui non si parlava d’altro. Il nuovo capocasa di Ares con la nuova capocasa di Demetra, il guerriero dal cuore nobile e l’umile dama, i due semidei che avevano combattuto fianco a fianco durante l’impresa, coprendosi le spalle, innamorandosi alla follia. 

Edward avrebbe voluto distogliere lo sguardo da loro, forse per invidia, forse per timore di mostrare la sua espressione, ma non ci riuscì. Rimase stregato non solo da Stephanie, ma dalla sensazione di armonia e perfezione che quei due insieme trasmettevano. Nemmeno se si fosse messo d’impegno sarebbe riuscito ad immaginarsi al posto di Konnor, con indosso quell’abito, a reggere con fierezza tutti gli sguardi sbalorditi che stava ricevendo. Sembrava essere nato per quello. Edward, invece, coi suoi vestiti trasandati, il suo aspetto sfigurato e il suo caratteraccio sembrava nato più per starsene in un angolo a osservare gli altri che si divertivano.

Raggiunsero loro tre, salutandoli con calore. Stephanie li abbracciò uno ad uno, incluso Edward. Ricambiò un po’ impacciato, ma lei non sembrò farci molto caso. Odorava di campi di fiori in primavera. Sembrava un po’ imbarazzata dal suo vestito, forse per via delle spalle scoperte – le scollature dovevano essere un altro tabù da quelle parti, perché Edward, purtroppo, non ne aveva ancora vista nemmeno una – ma comunque felice e serena come mai l’aveva vista. 

Gli bastò vederla così tranquilla per smussarsi un po’. Provare invidia non era giusto, non era giusto nei confronti di loro due e anche nei confronti di sé stesso. Avvelenarsi da solo il dente non sarebbe servito a nulla, avrebbe solo reso le cose più difficili e avrebbe rischiato di creare tensioni inutili.

Konnor lo salutò ed Edward si complimentò per l’abito. Il figlio di Ares sorrise. «Grazie. Anche il tuo… non è male.»

Il figlio di Apollo tirò il colletto della felpa, compiaciuto. «Che posso dire, in fatto di moda non mi batte nessuno.» 

I ragazzi ridacchiarono e un piccolo sorriso nacque sul suo volto. Non seppe bene spiegarsi il perché. Forse perché quella pace, quella quiete, gli erano mancati. Forse perché era felice di essere lì, a godersi quel momento con loro nonostante tutto. 

Il volto di Izanami balenò ancora una volta nella sua mente. Questa volta però, Edward distese il sorriso. Nemmeno lei, nemmeno la morte lo aveva fermato. La sua serata non si sarebbe guastata solo perché Stephanie e Konnor l’avrebbero trascorsa limonando da qualche parte.

Non appena ebbe quel pensiero, il sorriso svanì dal suo volto. 

Ok, facciamo che cerco di non pensarci e basta.

 

***

 

Il padiglione era stato decorato con allori, ghirlande e anche delle piccole sfere luminose che fluttuavano sopra le loro teste, cambiando colore ad intermittenza. Non aveva la più pallida idea di cosa fossero, forse qualche diavoleria dei figli di Ecate, ma erano bellissime. 

Non appena i cinque entrarono, tutte le attenzioni andarono su di loro. I semidei applaudirono e li acclamarono mentre avanzavano tra la folla. Del resto, quella festa era in loro onore. Edward sorrise, facendo vagare lo sguardo lungo il padiglione. Doveva ammetterlo, era gradevole essere celebrato in quel modo.

I tavoli erano stati imbanditi di cibo degno del catering più costoso del mondo, mentre sullo sfondo era stato allestito un piccolo palcoscenico, dove i fratelli di Edward stavano preparando gli strumenti. 

Il ragazzo si avvicinò, attirando l’attenzione di Rosa, che stava accordando la sua chitarra. Purtroppo per lei, chitarre elettriche, amplificatori, luci stroboscopiche e quant’altro non erano molto consoni all’ambiente, quindi aveva dovuto accontentarsi di strumenti più tranquilli. Tuttavia Rosa non sembrava turbata, vista l’ampia scelta che avevano: c’erano violini, contrabbassi, sassofoni, chitarre e batteria acustiche e anche un pianoforte verticale. Quando lo vide si avvicinò sporgendosi dal bordo del palco. A differenza di tutti gli altri, lei e il resto dei figli di Apollo si erano vestiti abbinati, con una camicia bianca dalle maniche tirate all'insù, panciotto e pantaloni neri. «Hola hermano.» 

«Ehi.» Edward sorrise. «Allora? Pronta per la tua grande esibizione?»

«Sono un po’ nervosa» ammise lei. «È la prima volta che facciamo qualcosa del genere. Per tutta la sera avrò io le redini, Jonathan e gli altri mi accompagneranno solamente. Spero di non combinare disastri…»

«Fingi di essere durante uno dei tuoi allenamenti» replicò il fratello, strizzandole l’occhio. «E pensa al pubblico come se fossi io dopo che ti ho fatta imbestialire.»

«Devo intrattenerli, non ucciderli tutti» ribatté Rosa con una risatina. 

«Basta che ci metti la stessa passione. Andrai bene, vedrai.»

Rosa gli rivolse un cenno del capo, colma di gratitudine. «Se sono qua è tutto merito tuo, hermano. Grazie.»

Edward scosse la testa. Per quanto potesse apprezzare quelle parole, sapeva che non era vero. «No, Rosa, se sei qui è solo merito tuo. Non ti sei mai arresa, hai combattuto con le unghie e con i denti per quello in cui credevi e hai resistito fino alla fine con il mondo che ti remava contro. Mi hai addestrato, mi hai spronato, sei stata l’unica amica che ho avuto nella capanna Sette. Senza di te non sarei mai diventato quello che sono. Senza di te, tutto questo…» Accennò con il braccio ai semidei riuniti, i sorrisi, le risate e l’aria festiva che aleggiava nell’ambiente. «… non sarebbe successo. Hai reso il campo un posto migliore, hermana. Sono io che devo ringraziare te.» 

Il cosiddetto effetto farfalla. Se Edward non avesse mai incontrato Rosa, non gliene sarebbe importato nulla della capanna Sette o del campo in generale. Non gliene sarebbe importato nulla di affrontare Orochi. Doveva tutto a lei, ogni cosa. Era bastata la sua compagnia, la sua amicizia, per spingerlo a desiderare anche lui un futuro migliore per quel posto. Un semplice gesto, che lo aveva portato ad accettare il fardello che aveva addosso e a combattere per il bene di tutti, portandoli a quel giorno.

Sorrise alla sorella, che lo stava guardando sbigottita. I suoi occhioni si appannarono. 

«Stai per piangere, hermana?» 

Lei distolse lo sguardo. «N-No! Sono… sono solo allergica agli allori che hanno appeso…»

«Ah, brutta faccenda. Ce la fai comunque a suonare?»

«Claro que sí.»

Edward ridacchiò. «Allora stendili tutti.»

«Contaci. E grazie… di nuovo» concluse lei, ammorbidendosi. 

«Di nulla» rispose lui, facendo un inchino plateale. Stava per andarsene, ma la voce della sorella lo chiamò ancora. 

«Ah, Edward…» Rosa si abbassò, così che potesse origliare solo a lui quello che aveva da dire. «… questa sera cerca di non fare il lupo solitario come al solito. Esci un po’ dalla tua comfort zone, prova a conoscere gente nuova. Potresti rimanere sorpreso.»

L’idea carezzò la mente di Edward per qualche istante. In effetti, una volta iniziata la festa, gli altri quattro lo avrebbero piantato da solo senza alcuna ombra di dubbio. Già in quel momento non sembravano nemmeno fare caso a lui o a Rosa. Quei quattro piccioni non avevano occhi per nessuno che non fosse la loro rispettiva metà. Il figlio di Apollo serrò le labbra, poi tornò a guardare la sorella. «Ci proverò.»

Rosa sorrise, battendo il pugno sulla sua spalla. Si raddrizzò e tornò a controllare la chitarra, mentre Jonathan impartiva ordini a destra e manca al resto dei loro fratelli. 

Edward ritornò dai suoi amici, che nemmeno si erano accorti del fatto che si era allontanato. Trattenne un sospiro esausto. Era chiaro che avrebbe dovuto seguire presto il consiglio di Rosa.

 

***

 

Non passò molto in realtà prima che lo bidonassero. Anzi, accadde non appena il concerto cominciò, giusto una manciata di minuti dopo. 

Rosa cominciò a pizzicare le corde della chitarra. Il palcoscenico doveva essere stato allestito dai sapientoni della casa Sette, e forse anche dai figli di Atena, perché per com’era messo l’acustica risuonò bene in tutto il padiglione senza l’utilizzo di casse od amplificatori. Jericho, al piano verticale, premette alcuni dei tasti, lasciando una sinfonia in sottofondo. Rosa non aveva nemmeno un microfono, ma quando parlò la sua voce suonò forte e nitida, alzandosi sopra il brusio della folla. Doveva essere una dote dei figli di Apollo.

«Prima di iniziare, vorrei solo ringraziare tutti voi per essere qui, ringraziare i miei fratelli per avermi dato questa possibilità e soprattutto voglio ringraziare quelle quattro povere anime pie che hanno sopportato quel testone di mio fratello durante il suo folle viaggio per venire a salvarmi… e suppongo di dover ringraziare anche lui, credo.»

Vi furono alcune risa, applausi e versi di incoraggiamento. Edward scosse la testa, con un sorriso. 

«Dacci dentro ragazza!» gridò Lisa battendo le mani. Rosa puntò l’indice verso di lei, anche lei con un sorriso smagliante. 

«Mettetevi comodi e tenete pronti drink e spuntini, perché andremo avanti per tutta la sera qui!» concluse la figlia di Apollo, cominciando a pizzicare le corde con più energia, accompagnata dai fratelli. Ripeté la stessa strofa introduttiva due volte, seguita dal piano e dalle note gravi del contrabbassoPoi anche la batteria attaccò, accompagnandola mentre incalzava i primi accordi, in una melodia molto orecchiabile.

Quando cantò, la sua voce risuonò cristallina, limpida e orgogliosa come ogni altra volta. 

«I'll be the roundabout, the words will make you out 'n' out! I I spent the day your waaaay! Call it morning driving through the sound of In and out the valley!»

La melodia rallentò progressivamente man mano che finiva di cantare la strofa, per poi riprendere subito dopo, incalzante, allegra. Edward non conosceva la canzone, i suoi fratelli invece sì, perché non sembrarono avere nessuna difficoltà a seguirla. Non sembrava per niente facile, il ritmo cambiava, c’erano molti strumenti, eppure funzionarono alla meraviglia, come un meccanismo ben oliato. 

Molti semidei, forse aspettandosi un’altra esibizione tipo quelle di fronte al falò, non avevano prestato molta attenzione ai figli di Apollo, ma quando si resero conto di quello che stava succedendo gravitarono tutti verso il palco, attratti dalla stupenda voce di Rosa e dalla bravura di tutti i ragazzi. Il talento vero ce l’avevano, dopotutto, solo che non l’avevano mai sfruttato davvero. 

Al ritornello, Rosa cominciò a battere le mani a ritmo, venendo subito seguita da tutto il pubblico, mentre Jonathan dava strimpellate decise alla chitarra con un sorriso divertito. Non c’era voluto molto prima che Rosa acquisisse quella sicurezza e compostezza che la caratterizzavano. Era così in ogni cosa che faceva, che si trattasse di suonare la chitarra o di maneggiare una spada; quando entrava nel giusto mood, niente poteva batterla.

«In and around the lake, mountains come out of the sky and they stand there!»

«Woooow!» esclamò Rick, passando accanto ad Edward proprio in quel momento. Leyla gli corse dietro, seguita da Natalie, che si fermò a pochi metri di distanza da lui. La figlia di Ermes osservava il palco con un sorriso rilassato, muovendo la testa a ritmo. 

Edward rimase incantato a guardarla senza neanche accorgersene. Era vestita casual, con i capelli lunghi tirati all’indietro, assicurati da una treccia a corona. Quando notò la sua espressione serena, si ritrovò a sorridere senza rendersene conto. Era davvero incantevole. 

Natalie si accorse del suo sguardo e si voltò verso di lui, incrociando i suoi occhi. Si osservarono ed Edward per un momento temette che lo avrebbe strigliato – per qualsivoglia motivo – invece la sua espressione si addolcì e lo salutò con un cenno della mano. 

«Twenty four before my love you'll see, I'll be there with yooouuu!»

Edward sorrise, ricambiando il saluto. Sapeva in realtà che era una brava ragazza. Gli bastava pensare a come fosse venuta a salutarlo il giorno della sua partenza. Era solo molto protettiva verso i suoi fratelli, cosa per cui poteva davvero ammirarla. Avrebbe voluto avvicinarsi per parlarle, ma Leyla arrivò di corsa, tirandola per la maglietta e dicendole qualcosa. Natalie rise e la sollevò sulle sue spalle, per aiutarla a vedere meglio il palco. 

Il figlio di Apollo si portò le mani sopra il cuore facendo un verso intenerito e Nat lo liquidò con un’alzata di occhi, tuttavia senza smettere di sorridere. Le lasciò a godersi il concerto, allontanandosi mentre la voce di Rosa continuava a riecheggiare.

Dei suoi quattro compagni di avventure sembravano essersi perse le tracce, al punto da poter attaccare le loro foto dietro i cartoni del latte. E in una festa senza alcol e senza amici, l’unica cosa che gli rimaneva da fare era una: attaccarsi al tavolo del cibo e rimpinzarsi fino a che non avrebbe dovuto rotolare per muoversi. 

La canzone successiva di Rosa e compagnia sembrava quasi essere una presa in giro apposta per lui. Un blues incalzante, il cui ritornello recitava: «Everybody needs somebody! Everybody needs somebody to love!»

Con la bocca piena di stuzzichini ed un bicchiere pieno fino all’orlo in mano, Edward grugnì infastidito. Mentre la serata proseguiva, vagò in mezzo alla folla di ragazzi che parlavano e coppiette che limonavano, non molto sicuro di come approcciarsi a loro. Vide Alyssa che si sbaciucchiava beata con un’altra ragazza, forse una figlia di Iride a giudicare dalle mèche color arcobaleno, e vide anche due ragazzi tenersi per mano. Era ovvio che ce ne fosse per tutti i gusti, da quelle parti. 

La cosa che lo sorprese di più, però, furono le occhiatine che ricevette da parte delle altre ragazze. All’inizio non c’aveva fatto molto caso, ma più il tempo passava, più notava gli sguardi incuriositi delle donzelle che finivano su di lui. In effetti, anche all’arena delle ragazze erano venute a parlargli, con quello stesso luccichio negli occhi. 

Molte si voltavano non appena si girava verso di loro, altre invece lo salutavano con quell’aria divertita senza farsi troppi problemi. Si domandò se fissassero lui, le cicatrici o se avesse il volto sporco di avanzi di cibo. Nel dubbio, si strofinò la manica sopra la bocca.

Alcuni ragazzi lo chiamarono: erano Xavier, Simon, Seth e Kevin, rimasti a formare un quartetto in disparte nel padiglione. Forse si erano accorti della sua aria da anima in pena e smarrita, o forse volevano sondare un po’ il loro nuovo collega capocasa. 

«I tuoi amici ti hanno abbandonato, eh?» sghignazzò il capocasa di Ecate.

Edward sollevò le spalle. «Rischiare di morire fa innamorare le persone, suppongo.» 

Gli altri ridacchiarono. Rimase a scambiare qualche parola con loro e gli fecero assaggiare uno strano intruglio distillato dal figlio di Efesto, che stava decantando di essere riuscito ad arginare i blocchi contro l’alcol del campo. Peccato solo che quella roba non fosse alcolica, non aveva idea di cosa fosse, sembrava un minestrone di catrame e vetro fuso. Quando glielo fece notare, tutti scoppiarono a ridere e Kevin si indispettì.

«Potresti chiedere a Lisa di aiutarti» suggerì Edward, restituendogli il thermos mentre cercava di allontanarsi quel saporaccio dalla bocca. «Credo che lei sia la più adatta a questo genere di cose.»

«L’ultima volta che le ho parlato, quella mi ha minacciato che se mi fossi avvicinato ancora mi avrebbe ficcato un pugnale nel podex» ribatté Kevin afferrando il contenitore. «Non ho idea di cosa sia un podex, ma non ci tengo a scoprirlo.»

Gli fecero altre domande sull’impresa, soffermandosi su quei dettagli che i suoi compagni di viaggio non avevano spiegato con molta chiarezza. Edward rispose come meglio poteva, senza menzionare cosa fosse successo tra lui e Steph e soprattutto evitando il discorso Yomi e Izanami.

Ancora una volta, il viso della dea della morte balenò nella sua mente, strappandogli una smorfia infastidita. 

«Se Campe e due giganti sono evasi, che cosa ci garantisce che non l’abbiano fatto anche altri mostri più pericolosi?» disse poi Simon, scambiandosi un’occhiata con i colleghi. 

«Tsk. Hai sentito che fine hanno fatto, no? Se ce ne sono altri, hanno solo da farsi avanti» gracchiò Xavier sollevando una mano; un fuoco fatuo verde si accese nel suo palmo. «Li rispediremo in quel buco da cui provengono.»

Kevin si prese il mento, facendo un verso pensieroso. 

«Qualcosa non va, Kev?» domandò Seth, mentre Xavier faceva svanire le fiamme. 

«Stavo pensando… nel Bunker Nove ci sono un sacco di cianfrusaglie che i miei fratelli hanno usato in passato, durante la guerra contro Gea. Li abbiamo chiamati “Progetti di Valdez.” Varrebbe la pena di dare un’occhiata e vedere se possiamo trovare qualcosa di utile.»

«Valdez? Leo Valdez?» domandò Simon. 

«Ah-ah. Il più grande figlio di Efesto della storia… dopo di mua, ovvio.» 

«Sì, credici amico, credici» ribatté Xavier. 

«Non saprei, ragazzi…» mugugnò Edward, grattandosi una guancia. «… direi che per questa sera potremmo anche evitare di pensare a guerre o cose così. Preferirei rilassarmi.»

«Non dobbiamo farlo ora, no» lo rassicurò Simon. «Ma è ovvio che qualunque cosa stia accadendo, c’è il rischio che sia solo l’inizio. Dovremo essere pronti.»

«Lo so, lo so» convenne Edward, alzando le mani con un sospiro. Ecco un’altra sfiga dell’essere solo quella sera: era costretto a sorbirsi meeting di guerra durante quella che doveva essere una festa tranquilla.

«Scusate.» Una ragazza si intromise, afferrando Kevin per il braccio. Era Sarah, la biondina a capo della casa di Ebe. Sorrise gentile ai ragazzi. «Ve lo rubo solo un secondo.» Lo trascinò via e il figlio di Efesto sogghignò, puntando l’indice e il pollice a mo’ di pistola verso di loro. «Ci si becca belli.»

I due svanirono in mezzo alla folla. 

«Ma come cavolo fa quello ad avere la ragazza…» mugugnò Xavier, fissandoli con sdegno. Seth ridacchiò, dandogli qualche pacca sulla schiena. Un sorriso scappò dalle labbra di Edward: sapere di non essere l’unico perdente quella sera lo fece sentire parecchio meglio.

«Suppongo che dovremmo prendere esempio da lui e divertirci anche noi» suggerì Seth, per poi tendere la mano verso di Edward. «Non vedo l’ora di lavorare con te, Edward. Mi ha fatto piacere conoscerti.»

Edward strinse la mano e per poco quello non gliela spezzò. Erano sicuri che quel tizio fosse umano? 

Beh, finché è dalla nostra parte andrà tutto bene… forse.

Salutò anche Simon e Xavier, che ricambiarono nonostante tutto con una certa freddezza – dovevano aver fiutato che stava nascondendo qualcosa – e si allontanò da loro.

Man mano che la serata proseguiva e sua sorella snocciolava cover di canzoni famose e non assieme alla band di fratelli, Edward incontrò altri volti familiari. Alcune delle sue sorelle della casa Sette vennero a parlargli, presentandosi. La cosa lo sorprese, ma gli fece anche piacere: a parte Rosa, le figlie di Apollo erano sempre state molto schive, forse perché si erano sentite minacciate da Jonathan e gli altri. Ripromise a sé stesso di ricordarsi tutti quei nomi e volti ma dubitava che ci sarebbe riuscito. Forse però avrebbe dovuto impegnarsi un po’, visto che era il nuovo capocasa.

Vide anche Chirone, Rachel e il signor D seduti ad uno dei tavoli, intenti a chiacchierare. Perfino il Coach Hedge era seduto con loro, sembrando in tutti i sensi il bambino che cerca di fare il grande stando al tavolo degli adulti.

Non vide Buck e Jane da nessuna parte, invece. Forse erano dispersi in mezzo alla folla, o forse davvero non c’erano. Non che gli importasse granché, in realtà.

Continuò a ricevere altri sguardi da altre ragazze, sempre conditi da espressioni divertite susseguite da bisbigli nelle orecchie. Perfino le figlie di Afrodite si soffermavano su di lui quando passava accanto a loro. Decise di parlarne con Rosa, quando lei e gli altri si fermarono per una piccola pausa di dieci minuti.

«Beh, è normale hermano» rispose lei mentre si abbuffava di tartine ad uno dei tavoli. Si voltò verso di lui mentre masticava. «Sei single, hai completato un’impresa e per finire sei pur sempre un figlio del dio del Sole. Hai anche le cicatrici di battaglia. È naturale che in un modo o nell’altro tu risulti interessante.»

«Sarà…» mugugnò lui, stringendosi nelle spalle. Le ragazze lo guardavano interessate, avrebbe dovuto esserne felice, ma non ci riusciva. Per quanto si sforzasse di non pensarci, l’unica ragazza di cui gli importava era tra le braccia di un altro, a fare chissà cosa chissà dove.

«Mi dispiace che Stephanie e Konnor si siano messi insieme» disse Rosa, come leggendogli nel pensiero. Mandò giù le tartine. «Eravate carini assieme.»

Edward schiuse le labbra, sorpreso da quell’affermazione. Poi, però, si ricordò con chi stava parlando e si rabbuiò. «Ti riferisci a me e Konnor, vero?»

«E a chi shennò?» replicò lei, con la bocca di nuovo piena.

Lo annaffiò con alcune briciole ed Edward si ripulì infastidito. «Potresti almeno deglutire» la rimproverò. 

Per tutta risposta, lei spalancò la bocca e gli mostrò una generosa panoramica di quel ben di dio. 

«Sei proprio una bambina.»

«Una bambina carina, però» rispose lei, facendolo ridacchiare. Se non altro riusciva sempre a tirarlo su di morale. 

Edward si appoggiò al tavolo, incrociando le braccia. «E tu invece? Niente ragazzi?»

Le guance di Rosa si colorarono lievemente, mentre distoglieva lo sguardo. «Beh… è… complicato…»

«Che significa?» 

Per una volta, per suo enorme stupore, Rosa non sembrava trovare il coraggio di guardarlo. «Diciamo che… al Campo Mezzosangue non c’è nessuno che mi interessa…»

Edward sollevò un sopracciglio. Avrebbe voluto insistere, ma notò l’imbarazzo di lei. E siccome lui era un bravo fratello, a differenza sua, decise di non tormentarla. 

«Comunque stai andando alla grande» cambiò argomento. «La folla ti adora.»

Un timido sorriso nacque sul volto di Rosa. «Già. Non mi sembra vero…»

«Te lo sei meritato, hermana.» 

Rosa lo guardò di nuovo, distendendo il sorriso. «Grazie hermano» disse, anche se sembrava diventata assente all’improvviso. Aveva perfino smesso di colpo di rimpinzarsi, cosa che non era mai un buon segno con lei. 

Avrebbe voluto chiederle cosa c’era che non andava, quando una fitta di dolore allo stomaco lo fece piegare all’improvviso, strappandogli un grugnito. Si posò una mano sul ventre e sentì la voce di Rosa chiamarlo allarmata. 

Tuttavia, quando drizzò la testa non vide la sorella: vide Izanami.

La dea della morte gli sorrise sadica, mentre il suo volto si deturpava e veniva ricoperto da scarafaggi.

«La feccia mortale verrà spazzata via.»

Le mani di Rosa posate sulle sue spalle lo fecero sussultare. Sbatté le palpebre, vedendo di nuovo sua sorella in mezzo ad una miriade di puntini neri. 

«Edward, tutto ok?» 

Il ragazzo si sforzò di annuire e di tirarsi di nuovo in piedi. «S-Sì… credo di aver mangiato troppo» borbottò, cercando di ridacchiare e massaggiandosi la pancia. 

Rosa non sembrò bersela nemmeno per un secondo. «Ricordi cos’è successo quando mi hai tenuto nascosta la spada, hermano?» domandò, dura. «Se hai qualcosa da dire, per favore, fallo. Basta segreti. Ti scongiuro.»

Il sorriso svanì dal volto di Edward. Incrociò lo sguardo della sorella, serrando le labbra. Quegli occhioni non transigevano obiezioni. 

«Ehi, Rosa! Stiamo per ricominciare» la chiamò Jonathan in quel momento da sopra il palco, salvandogli la vita. 

«Vai, forza» la incoraggiò Edward. «Ne riparliamo dopo la festa. Va bene?»

Rosa lo scrutò in silenzio ancora per qualche istante, per poi chiudere le palpebre con un pesante sospiro. «Va bene. Ma devi dirmi tutto.»

«Tranquilla.» Edward sorrise, battendo il pugno contro la sua spalla. «Ora va su quel palco e fai la tua magia.»

La ragazza non sembrava ancora molto convinta, ma non discusse più. Si separarono ed Edward attese che salisse di nuovo sul palco prima di volatilizzarsi in mezzo alla folla, stringendo i denti per il dolore mentre la fronte gli si imperlava di sudore. Avanzò tra i semidei, cercando di darsi un contegno e non mostrarsi troppo sofferente. Uscì dal padiglione e si mosse rapido verso il bagno, dove avrebbe potuto controllare la cicatrice e buttarsi un po’ di acqua gelata in faccia. Per fortuna non incrociò nessuno sul percorso.

Arrivò alla porta ormai quasi barcollando, piegato su sé stesso. La aprì con una spallata e avanzò di corsa, paralizzandosi non appena si accorse che qualcuno lo aveva anticipato.

Kevin e Sarah, appoggiati contro i lavabi, smisero di pomiciare non appena varcò la soglia e lo osservarono sbalorditi. Pure lui spalancò gli occhi. Nessuno disse nulla ed Edward indietreggiò, uscendo fuori e richiudendosi la porta alle spalle, sperando che tutti e tre dimenticassero al più presto quello che era appena successo. 

Grugnì per il dolore, colpito da un’altra fitta lancinante. Un formicolio fastidiosissimo si levò dal punto in cui era stato ferito, dissipandosi lungo tutto il corpo e mandandogli una scarica di brividi. Deglutì con gocce di sudore freddo che scivolavano dalla sua fronte e si guardò attorno. In lontananza, individuò la Capanna Sette. Là dentro avrebbe sicuramente trovato un po’ di ambrosia o robe del genere per aiutarlo a lenire il dolore.

Con molta fatica, raggiunse la sua casa. L’odore di ospedale e disinfettante gli pungolò il naso non appena entrò dentro. Si mise a frugare negli armadietti medicinali accanto all’ingresso, trovandoli tutti chiusi a chiave. A quel punto una sonora imprecazione gli uscì dalla bocca. 

Se uno sta morendo cosa deve fare, andare a chiedere la chiave?!

Cominciò a prenderli a pugni e a sforzarli, finché non riuscì a scoperchiarne uno come una scatoletta di tonno. Trovò subito un pacchetto di ambrosia e ne mandò giù un quadratino. Un mugugno di sollievo gli sfuggì dalle labbra mentre il sapore dei waffles lo calmava e il dolore si affievoliva. Abbassò lo sguardo e alzò la maglietta. La cicatrice non era cambiata di una virgola, il che poteva essere tanto un bene quanto un male. Mollò la t-shirt e appoggiò il gomito all’armadietto. Ispirò ed espirò a lungo, per calmare i nervi rimasti tesi come le corde dei violini dei suoi fratelli.

Tutto ad un tratto, alle sue spalle udì un fruscio. Qualcosa lo pungolò alla schiena prima che potesse muoversi, costringendolo a rimanere fermo.

«Vedo che ucciderti non è per niente facile, piccolo dio» biascicò una voce. Una voce che riconobbe non appena la udì. «Alza le mani e voltati, lentamente

Edward strinse la mascella. Non poteva credere a quello che stava succedendo. Bidonato, sbeffeggiato, angosciato, colpito da fitte di dolore atroci e ora quello. Avrebbe davvero fatto meglio a non andarci mai a quella stupida festa. Alzò le mani e cominciò a girarsi. «Cos’è, sei tornato a finire il lavoro…» 

Si voltò, trovandosi una katana scarlatta puntata alla gola. Osservò con insistenza il tizio sbucato fuori dal nulla che gli si trovava di fronte, scrutando il suo ghigno divertito e i suoi occhi – o meglio occhio – rosso sangue. 

«… Naito?»

 

 

 

 

 

 

Salve amici, come va? Scusate per il titolo del capitolo un po' insolito, è che l'idea mi è venuta mentre pensavo a quanto sia sfigato Edward in questa storia. Eh sì, Ed, gli dei ti odiano... proprio gli dei, sì sì.

Comunque, spero che il capitolo vi sia piaciuto. So che Riordan nei libri ha palesemente sorvolato sulla questione delle coppie che “consumano” o dei ragazzi che fumano o bevono alcolici perché voleva fare un prodotto family friendly, ma sinceramente io a questo punto ho deciso di sviluppare un po’ la mia “fan theory” (uddio, magari è canonica) e pensare che nel campo queste tre cose siano proprio proibite per… motivi vari. Non proibite nel senso che se qualcuno lo fa viene fulminato seduta stante, proibite magari più da un punto di vista… morale? Lol, non so se mi sono spiegato.

Tipo, abbiamo avuto una coppia come Buck e Jane, pensare che non abbiano mai consumato sarebbe un po’ folle come cosa. E potete star certi che Kevin fa fuori pacchetti e pacchetti di sigarette quando è solo al Bunker Nove a costruire diavolerie. Quindi sì, è proibito da un punto di vista “morale” e di “decoro” (un po’ come la questione delle scollature, ma tanto Steph rimane gnocca lo stesso), però “infrangere” le regole non comporta nulla di grave, ecco, magari una strigliata da Chirone se si viene sgamati e basta.

E... niente, sul capitolo non c'è altro da dire, diciamo che è stato abbastanza tranquillo e ho cercato di riempirlo un po' come potevo in vista del gran finale. Eh sì, gente. Siamo agli sgoccioli. Lo so, è un momento triste e un po' mi angoscia pensarci. Questi ultimi capitoli sono stati davvero divertenti da scrivere, ho visto i miei personaggi crescere di fronte ai miei occhi e boh, penso che mi mancheranno un po'. Comunque ne parlerò meglio alla fine, quando farò i dovuti saluti e ringraziamenti.

Per il momento, grazie a Farkas e Roland per aver recensito lo scorso capitolo e nulla, spero che la lettura sia stata di vostro gradimento e alla prossima!

p.s. Queste sono le due canzoni menzionate nel capitolo, la prima: https://www.youtube.com/watch?v=DwPWGUhEtP0

La seconda: https://www.youtube.com/watch?v=wDvIGZ-_au4

 

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Capitolo 43
*** La notte senza fine ***


43

La notte senza fine

 

 

La punta della katana si avvicinò alla sua gola, costringendolo ad alzare la testa. Osservò il mezzo demone con rabbia, mentre quello continuava a sogghignare in quel modo irritante. «Che fine ha fatto il discorso dell’uccidere qualcuno che non può difendersi, Naito? Hai cambiato idea? Ti sei reso conto che se non facessi così non avresti nessuna possibilità contro di me?»

Naito non rispose, limitandosi a girare la lama, pungendogli il pomo d’Adamo e strappandogli un sussulto. Deglutì e si ritrovò la katana premuta con ancora più forza contro il collo, graffiandolo. Cominciò di nuovo a sudare, questa volta per la paura. Non aveva nessun modo di liberarsi da lì. Era con le spalle al muro, in tutti i sensi, ed era disarmato. Conosceva il mezzo demone, sapeva quanto fosse veloce, se avesse provato a scansare la spada per attaccarlo si sarebbe ritrovato con le mani mozzate in un batter di ciglia. 

«Quindi è questo che hai deciso?» domandò, quasi sputandogli in faccia quelle parole. «Dopo che Konnor ti ha risparmiato, hai comunque deciso di tornare qui per farci tutti fuori?»

Altro silenzio. L’espressione divertita di Naito non mutò di una virgola. Spinse ancora più forte la katana, facendolo indietreggiare, costringendolo a premersi contro gli armadietti. I loro sguardi si incrociarono di nuovo e Naito fece scomparire il ghigno, ma non smise di sorridere.

«Se vuoi uccidermi, ti consiglio di sbrigarti» sibilò infine Edward. «Non avrai occasione migliore.»

«Quanto parli» mugugnò infine Naito, allontanando di colpo la katana. «Non ti ricordavo così impavido, Edward. Al museo stavi per metterti a piangere come un neonato.» Indietreggiò, per poi rinfoderare l’arma sotto lo sguardo stupito del figlio di Apollo.

«Che… che significa?» domandò lui, massaggiandosi la gola. Non notò tracce di sangue.

Naito ridacchiò. «Non sono qui per combattere. Rilassati.» 

Edward sbatté le palpebre un paio di volte. Poi esplose. «Rilassarmi?! Mi hai puntato una spada alla gola!»

«Che noia che sei» borbottò Naito, mentre liquidava la faccenda con un gesto della mano. «Stavo solo giocando un po’. Smettila di piagnucolare.» 

Cominciò a camminare verso la porta e il figlio di Apollo continuò a seguirlo incredulo con gli occhi. Si fermò sull’uscio e tirò fuori la testa, guardandosi attorno circospetto, per poi voltarsi di nuovo verso di lui ed accennare con il mento all’uscita. «Vieni?»

Di nuovo, Edward sbatté le palpebre. «Ma… è uno scherzo, vero?»

«No, nessuno scherzo.»

«Allora è una trappola.»

«Hai solo un modo per scoprirlo.»

Il figlio di Apollo rimase immobile, non capendoci nulla e soprattutto domandandosi in che modo Naito credeva di poter arrivare lì, puntargli addosso un’arma e poi chiedergli di seguirlo senza aspettarsi che lui lo mandasse a quel paese. Doveva proprio essere fiducioso, od incredibilmente stupido. Tuttavia, se davvero avesse voluto fargli del male, lo avrebbe già fatto. Avrebbe potuto farlo prima, o addirittura mentre era impegnato a cercare l’ambrosia. E invece nulla. Forse davvero non voleva affrontare un avversario disarmato, o forse davvero non aveva cattive intenzioni. Edward assottigliò le labbra, indicando le sue spade. «Quelle devi per forza portartele dietro?»

«Sì.»

Chiaro e conciso. Edward rilassò le spalle. «Sappi che io sono disarmato, quindi se mi uccidessi sarebbe un gigantesco disonore, Naito.» Si staccò dal muro e lo seguì. «Ma proprio enorme disonore.»

«Sì, sì, ho capito. Ora muoviti.»

Camminò oltre la capanna Sette, avviandosi verso il bosco. Edward spense le luci e chiuse la porta, poi lo seguì con riluttanza. 

«Mi fa piacere scoprire che questa sera c’è ancora qualcuno che pensa a me» mugugnò mentre lo affiancava. «Credevo che si fossero tutti dimenticati della mia esistenza.»

Naito rispose con un sorrisetto. Il fruscio dell’erba schiacciata dai loro passi fu l’unico suono che li accompagnò, per quella manciata di metri durante la loro romantica camminata al chiaro di luna.

«Che cosa vuoi, Naito? Perché sei qui?» interrogò Edward, stanco del silenzio.

Il mezzo demone si fermò, incrociando le braccia mentre osservava il cielo. «Avevo bisogno di parlarti.» 

«Parlarmi? Parlarmi di cosa?» domandò Edward, cominciando davvero a credere che stesse per fargli una dichiarazione d’amore.

L’han’yō tornò ad osservarlo. Non c’era più alcuna traccia di divertimento nel suo sguardo. «Orochi. Non lavorava da solo. Un dio lo ha aiutato.»

«Aspetta, aspetta…» Edward lo frenò con un gesto della mano, confuso. «Che cosa?»

«Quando Orochi venne sconfitto, fu fatto a pezzi ed esiliato in un’altra dimensione, una prigione da cui non avrebbe più dovuto fare ritorno. Ma è comunque riuscito a tornare. Solo un dio può aver fatto ciò.»

«N-No, aspetta…» Il figlio di Apollo agitò entrambe le mani, con le orecchie che ronzavano. Quel tizio era passato da zero a cento in un lampo. «Perché mi stai dicendo questo?»

Naito abbassò lo sguardo, con un lungo sospiro. Fissò il suolo per quelle che parvero eternità, scuotendo lentamente la testa. «Ho… commesso degli errori, Edward. Ci ho riflettuto e… non ne vado fiero. Voglio riscattarmi.» Tornò ad osservarlo. «So che non è molto, ma nel mio piccolo, voglio cercare di essere di aiuto.»

«Ma… perché?» bisbigliò Edward, sempre più incredulo.

Un sorrisetto amaro nacque sul volto del mezzo demone. «Nessuno ha mai detto al tuo amico Konnor che potrebbe convincere un mostro a dedicarsi al lavoro nei campi?»

Edward abbassò le braccia. Un tiepido sorriso accarezzò anche il suo volto. Tipico Konnor con i suoi stupidi discorsetti motivazionali. Gli ritornò in mente la discussione che aveva avuto con lui e Thomas nel bar dell’aeroporto. Aveva lasciato andare Naito proprio per quel motivo, perché aveva capito che in lui c’era di più di quello che mostrava. Ancora una volta, quel maledetto ci aveva visto giusto.

«Quindi… vuoi aiutarci?» 

«Ti dirò quello che so. Di più non posso fare.»

Edward annuì. «D’accordo.»

Naito accennò con il braccio al sentiero di fronte a loro. «Camminiamo?»

«Sei fissato con questa storia. Vuoi anche che ci teniamo per mano?»

«Tenermi per mano? Perché?» domandò Naito, mentre riprendevano la marcia.

«Stavo solo scherzan… non importa. Ti ascolto.»

«Ho visto Orochi che parlava con qualcuno» riprese a dire Naito. «Era un uomo. Mortale di aspetto, ma sapevo che non era così. Emanava un potere diverso. Sono sicuro che fosse un dio.»

«Hai idea di chi fosse?»

«Ho una teoria.» Naito fissò di nuovo il cielo e serrò i pugni. «Non posso fare il suo nome. Mi sentirebbe. Ma se la regina degli dei è rappresentata dal sole, cosa credi che rappresenti il suo rivale più grande?»

Edward faticò a capirlo, un po’ perché l’inglese di Naito faceva alquanto schifo, un po’ perché era davvero confuso. Seguì il suo sguardo, realizzando quello che lui stava guardando. «La… la luna?»

«Già. Sole e luna. Giorno e notte. Sorella e fratello.»

Il figlio di Apollo schiuse le labbra. Non credeva affatto che Naito stesse parlando di suo padre e di Artemide, anche perché aveva menzionato la regina degli dei, che era Amaterasu, e poi aveva detto “sorella e fratello” riferendosi al sole e la luna, e Amaterasu era una donna. Da quello che Edward credeva di aver capito, il fratello di Amaterasu era Susanoo, e lui era il dio del mare e delle tempeste, non della luna. Ma forse… forse c’era un altro fratello. Uno che non era stato menzionato.

«Una volta ho sentito Hikaru che ne parlava con Bunzo. Lei conosceva qualcosa che noi non conoscevamo, diceva a tutti che Orochi era solo una marionetta in mezzo alla guerra tra gli dei. Chiunque fosse questo dio, ha liberato Orochi dalla sua prigione perché voleva che lo aiutasse. Voleva che si trasformasse e che lo aiutasse a rovesciare la regina. Ma Orochi non l’ha ascoltato e ha creato il suo esercito, mettendosi alla ricerca di Ama no Murakumo. Tutti gli dei dovevano morire per lui, incluso quello che lo aveva aiutato.»

Per un momento Edward sghignazzò. Quel tizio doveva essere un vero genio a pensare di potersi affidare ad uno come Orochi. Poteva soltanto immaginare la sua faccia dopo essere stato bidonato, per giunta dopo averlo aiutato. Oltre al danno la beffa.

«È tornato ancora qualche volta, per convincerlo a cambiare idea, ma Orochi non l’ha voluto ascoltare. Il suo aspetto era sempre diverso, ma era chiaro che fosse sempre lui. L’ultima volta che l’ho visto era a San Francisco, nel museo.»

«Anche Rosa ha detto di aver visto Orochi parlare con qualcuno» commentò Edward.

Non appena menzionò la ragazza, Naito si irrigidì. Si voltò verso di lui quasi allarmato. «Lei come sta?»

«Sta bene, non preoccuparti. Continua a camminare» gracchiò Edward, infastidito dal suo interesse.

Naito distolse lo sguardo, sembrando perfino imbarazzato. Fecero ancora qualche altro passo. «Comunque, dopo l’ultima volta non l’abbiamo più visto. Deve aver rinunciato a volere Orochi come alleato.» 

«Beh… allora il problema è risolto, no? Si è arreso dopo che il suo piano è naufragato ed è sparito per sempre» disse Edward fiducioso, sperando che Naito rispondesse: «Sì, certo, sicuramente quel tizio non lo vedremo mai più!»

Purtroppo, quello non era il mondo fatto di sogni e zucchero filato che avrebbe sperato. 

«Tornerà» rispose Naito, grave. «Vuole rovesciare la regina e sedersi al suo posto sul trono. Il suo piano di convincere Orochi è fallito, ma temo che fosse solo l’inizio. Non so cosa farà, ma non credo che sarà piacevole.»

«Grandioso. Davvero grandioso.»

«C’è dell’altro.» Naito gli lanciò un’occhiatina veloce. «Riguarda Kate Model.»

Edward si fermò di scatto, squadrandolo basito. «Mia… mia madre?»

Naito annuì. «Orochi non ti ha mentito su tutto. Ha davvero fatto ricerche su di lei. Ho sentito Hikaru che ne parlava con gli altri.»

«Perché c’è sempre lei di mezzo?» domandò Edward, titubante.

Il mezzo demone si strinse nelle spalle. «A me non dicevano mai nulla. Forse non si fidavano.» Fece un sorrisetto divertito. «Purtroppo per loro, ho sempre avuto un buon udito. In ogni caso, Kate Model è ancora viva. È da qualche parte in Giappone, tenuta prigioniera.»

Il tempo si fermò attorno ad Edward. Rimase a fissare Naito, paralizzato. In cuor suo aveva sempre sperato che Kate fosse viva. Come avrebbe non potuto? Un lato di lui, invece, era sempre stato convinto di averla persa per sempre. Scoprire la verità fu come svegliarsi sotto una pioggia di sassi. Era felice, sollevato e sconvolto tutto insieme.

«Da chi?» domandò con voce roca, pronto ad andare in Giappone anche a piedi se necessario e soprattutto pronto a fare a pezzi qualunque ostacolo sul suo percorso.

«Mi dispiace, ma non lo so» rispose Naito, scuotendo la testa. «Potrebbe sempre essere lo stesso dio, o qualcun altro che lavora per lui. Magari speravano di ottenere Ama no Murakumo da lei. Avrebbe senso.»

Calò il silenzio, mentre Edward abbassava la testa, assimilando le informazioni. Sciolse i pugni che non si era nemmeno reso conto di aver stretto. 

«Ti ho detto tutto quello che sapevo» concluse Naito, guardandolo con uno sguardo quasi apprensivo. «Ma se in Giappone scoprirò altro, verrò a riferirtelo.»

«Che vuoi dire?» domandò Edward, stupito.

L’han’yō fece uno strano sorriso. «Sto per partire. Ritorno a casa.»

«Intendi dire… in Giappone? Tra le montagne?»

Naito annuì ancora una volta. Il suo sorriso si smorzò. «Non torno là dal… dal giorno dell’incendio» ammise con voce flebile. Abbassò la testa. «Sembra passato così tanto tempo…»

Edward sentì una fitta allo stomaco. Naito aveva già mostrato il suo lato più umano, in quella conversazione e anche prima, in altre occasioni. Ma in quel momento, con quella frase, con lo sguardo basso e quell’espressione amara e triste lo sembrò molto di più. 

«Parti subito?» domandò Edward. 

Naito sollevò le spalle. «Non mi resta molto da fare qui, nei Gloriosi Stati dell’America Unita.»

Edward cercò di non ridere per quel nome assurdo. La cosa ancora più divertente era che sembrava convinto che fosse un nome reale. «Beh… potresti rimanere qui per qualche giorno.»

Il mezzo demone lo squadrò sorpreso. «Intendi qui… nel vostro campo?!»

«Ehi, si chiama Campo Mezzosangue, non Campo Semidei. Sono sicuro che se ne parlassi con Chirone lui capirebbe.»

Naito lo squadrò per alcuni lunghi, interminabili attimi, forse per capire se lo stava prendendo in giro o no. Edward non poteva davvero biasimarlo in realtà, farsi beffe di lui era diventato uno dei suoi hobby preferiti durante quei giorni di follia. Infine, l’han’yō sorrise di nuovo, in maniera più sincera. Scosse la testa. «Apprezzo l’offerta, ma questo posto… non mi appartiene. O meglio, io non appartengo a questo posto. Sono giapponese, non greco, devo rimanere nella mia fetta del mondo, con la mia gente e i miei simili. Ma… grazie per avermelo chiesto.» 

Si chinò, in segno di gratitudine. Edward abbozzò un sorrisetto. Quando si raddrizzò, Naito si fece di nuovo imbarazzato, distogliendo lo sguardo da lui. «Riguardo… riguardo quello che è successo con… con Rosa… potresti chiederle scusa da parte mia? Non volevo… non volevo farle del male. Non volevo metterla in pericolo. Mi dispiace…»

Edward assottigliò le labbra. «Perché non glielo dici di persona? Dì a lei e anche a tutti gli altri le stesse cose che hai detto a me. Saranno felici di sapere che non sei più contro di noi.» 

Naito fece un altro sorriso amaro, scuotendo la testa. «Non… non ho il coraggio di farmi di nuovo vedere, dopo tutto quello che ho fatto. Chiedi solo scusa a Rosa… a tutti quanti, da parte mia. Di loro che… che mi dispiace e che non devono più preoccuparsi di me. Non mi vedranno più. E… ringrazia anche Konnor per avermi risparmiato.»

L’idea che Naito vedesse ancora Rosa non faceva davvero impazzire Edward, ma sapeva che sarebbe stato più giusto se si fosse scusato di persona. Tuttavia, ormai pareva proprio che avesse preso la sua decisione e non fosse disposto a cambiarla. Poteva comprenderlo in realtà, dopotutto erano simili loro due: due giganteschi, cocciuti testoni inamovibili. 

Fin quando non arrivava Konnor a sgridarli. O finché Rosa non si trovava in pericolo.

«Va bene Naito, lo farò. Se…» Si interruppe, colpito da un’altra fitta di dolore allo stomaco. Si piegò di colpo, gemendo rumorosamente.

Izanami sogghignò di fronte a lui. «Ti renderai conto che la tua sofferenza è lungi dall’avere fine.» 

La sua risata si levò nelle sue orecchie, facendogli formicolare la spina dorsale. Cominciò a sentire il sangue che sgorgava dalle cicatrici, provocandogli un brivido gelato.

«Edward.» 

La voce ferma di Naito lo riportò alla realtà. L’han’yō gli posò una mano sulla spalla, facendolo sussultare. «Stai bene?»

Edward si raddrizzò, ansimante, toccandosi la pancia. Neanche una traccia di sangue. Inspirò ed espirò a lungo, poi osservò il mezzo demone. «Ti… ti devo chiedere una cosa.»

«Oh… va bene.»

Quando Edward gli mostrò la cicatrice sullo stomaco, l’espressione di Naito si fece atterrita. «E quella chi te l’ha fatta?»

Il semidio assottigliò le labbra. «Izanami.»

La terra sembrò sussultare non appena pronunciò quel nome. Per quanto possibile, Naito si fece ancora più incredulo. «Quindi… quindi sei morto davvero…»

Edward lasciò andare l’orlo della t-shirt, che scese di nuovo a coprire l’orripilante buco. Come aveva sospettato, Naito sapeva di cosa si trattava. 

«Sai come posso farla smettere di farmi male?» 

Naito non rispose subito. Fece vagare lo sguardo da lui al punto della maglietta sotto cui si trovava la cicatrice, ad intermittenza. «Come… come hai fatto a salvarti?»

«Quello non ha importanza. Dimmi solo se c’è qualcosa che posso fare per fermare il dolore.»

Dopo diversi attimi di esitazione, Naito scosse la testa. «Mi dispiace, ma Izanami si è presa un pezzo di te.»

«Sì, me ne sono accorto» rantolò Edward. «Mi mancano due centimetri di pelle…»

«Intendevo un pezzo della tua anima. Non… so cosa potresti fare. L’unica cosa che posso dirti è di sopportare. Non lasciarti piegare dal dolore, o potresti sprofondare di nuovo nello Yomi. Se riuscissi a resistere abbastanza a lungo, dovresti superarlo.»

Proprio il tipo di risposta di cui non aveva bisogno, sapere di essere ancora ad un passo dallo scivolare in quell’oblio. E soprattutto, Naito aveva usato il condizionale, quindi forse nemmeno resistere sarebbe bastato. Ora sì che l’espressione impietosita che Chirone gli aveva rivolto quella mattina aveva senso. Abbassò lo sguardo sconfortato. Forse era quello a cui Izanami si era riferita, quando gli aveva detto che avrebbe sofferto ancora. La profonda amarezza se non altro riuscì a fargli dimenticare il dolore.

«Sei forte, Edward. Molto più forte di quanto tu possa credere.»

Il figlio di Apollo drizzò la testa. Naito gli sorrise, rivolgendogli un cenno del capo. «Hai sconfitto da solo l’intero esercito di Orochi e Orochi stesso, sei morto e sei comunque riuscito a tornare indietro. Supererai anche questo.»

Un piccolo sorriso nacque anche sul volto di Edward, non solo perché Naito aveva cercato di rincuorarlo, ma perché era proprio lui ad averlo fatto. Aveva ragione. Aveva sconfitto la morte, non poteva aspettarsi che tutto fosse filato liscio. Ma avrebbe resistito e avrebbe prevalso, come sempre. «Grazie Naito, per le informazioni e per tutto il resto.» 

Gli tese una mano e Naito la guardò incuriosito. Incerto, gliela prese. «Dalle mie parti non si usa stringere la mano» spiegò, un po’ imbarazzato. «Di solito ci si inchina.»

«Sei a casa mia, quindi fai quello che decido io» ribatté Edward. «Guarda, è facile. Su e giù, così» disse, stringendogli la mano.

«Ok…» mormorò l’altro, mentre si faceva guidare come un bimbo. Edward si dispiacque di essere l’unico che poté vederlo così mansueto. 

«Suppongo che sia ora che vada, prima che mi notino e scoppi un putiferio» concluse Naito, quando si separarono. 

«Che cosa farai?» gli domandò Edward. 

Naito sollevò le spalle. «Non ne ho idea. Credo che abbandonerò l’idea di vendicarmi, comunque. Ho capito che tanto è tutto inutile.»

Ancora una volta, Edward sentì il petto stringersi in una morsa. Non era giusto. Non era giusto che i responsabili del suo male rimanessero impuniti, dei o mostri che fossero. «Forse… forse possiamo rendere giustizia a tua madre in altri modi. Se vuoi posso provare a parlare con il direttore del campo, magari lui può parlare con gli dei e…» 

«Edward.» Naito gli lanciò un ultimo, triste, sorriso. «Sono un mezzo demone. Nessun dio si batterà mai per uno come me, è escluso. Ma non importa. Mi… mi nasconderò e cercherò di ricominciare, in qualche modo. Non preoccuparti per me. Pensa a te stesso. Non lasciare che Izanami abbia la meglio. I tuoi amici e tua sorella hanno bisogno di te.»

Edward tacque. Avrebbe voluto rispondergli, dirgli che si sbagliava, ma in profondo, sapeva che purtroppo non c’era nulla che potesse fare. Susanoo gli aveva spiegato la storia di Naito. Nonostante fosse al corrente di quello che gli era successo, non aveva mai mosso un dito per aiutarlo. Nessuno aveva fatto niente di niente per lui.

Perché non sarebbe mai dovuto esistere. A quel pensiero, il figlio di Apollo strinse i pugni. «Forse gli dei non possono fare niente per te, Naito, ma tu… tu puoi ancora fare qualcosa. Continua a combattere per la giusta causa e dimostra a tutti, dei inclusi, che anche la tua specie vale. Se le parole non bastano, lascia che siano le azioni a parlare. Sei un guerriero formidabile, non ti devi arrendere così.»

Dopotutto, Naito era un mezzo demone, odiato e ripudiato da tutti, eppure Orochi aveva comunque visto abbastanza in lui da prenderlo nel suo esercito, e non solo, gli aveva perfino dato un ruolo al di sopra degli altri. Naito si era fatto temere e rispettare nonostante non piacesse e non era certo una cosa da poco. Rivolse un cenno all’han’yō, che lo scrutò sorpreso. Infine, Naito sorrise di nuovo, annuendo. «Dōmo arigatō.»

Anche Edward sorrise. Dopo quei lunghi giorni, Naito cominciò a brillare sotto una luce diversa di fronte ai suoi occhi. Non era più un mezzo demone: era un mezzo umano. E forse… poteva anche essere un alleato, o addirittura un amico. «Buona fortuna, Naito.»

«Ganbatte, chīsana eiyū.»

Il figlio di Apollo non capì una sola parola, ma immaginò che fosse il suo saluto.

Naito svanì nel bosco, mischiandosi con la notte, lasciandolo da solo con il suono dei grilli, della musica che arrivava in lontananza, del fruscio del vento tra le foglie i suoi tantissimi, rumorosissimi, pensieri.

 

***

 

Tornò indietro, passando di nuovo in mezzo alle capanne mentre il suo povero cervello continuava ad elaborare le informazioni che aveva ricevuto. 

Sua madre, Kate… era viva. Ed era in Giappone. Edward storse le labbra, fissando il suolo mentre camminava. Era una bella notizia, certo… ma a mente fredda che diamine poteva farsene? In Giappone non ci poteva arrivare con uno schiocco di dita. I mostri lo avrebbero assalito non appena avrebbe messo piede fuori dal campo. E da quanto ne sapeva, ciò che si trovava oltre i confini americani era pure più pericoloso di quello che avevano lì.

Allo stesso tempo, sapeva di doverci provare. In qualche modo, nei giorni, mesi a venire, avrebbe dovuto studiare qualcosa. Naito gli aveva detto che sarebbe tornato se avesse scoperto qualcosa in più. Lo avrebbe atteso. E se non si fosse più fatto vedere, avrebbe pensato a qualcos’altro. In ogni caso, non sarebbe rimasto con le mani in mano.

Riguardo la faccenda del dio misterioso… non sapeva cosa pensare. La teoria di Naito sembrava sensata, ma conosceva troppo poco degli dei orientali per poter dire se era fattibile oppure no. Non era nemmeno sicuro se la cosa poteva davvero riguardare loro. Se qualcuno voleva spodestare Amaterasu dal suo trono, perché la questione avrebbe dovuto intaccare anche i greci? Gli orientali se la sarebbero dovuta risolvere tra loro… no?

Era anche vero che c’era un accordo tra greci e orientali, ed Edward era il motivo per cui i due mondi erano entrati in contatto tanto per cominciare. Quindi probabilmente i problemi di Amaterasu sarebbero stati ancora una volta anche problemi loro.

Concluse che era inutile arrovellarsi in quel modo proprio in quel momento. L’indomani ne avrebbe parlato con gli altri e avrebbe sentito le loro opinioni. Per quella sera, ne aveva sul serio le scatole piene. Ormai non mancava molto alla fine della festa, voleva godersi le poche canzoni rimanenti in santa pace, senza rotture.

Mentre attraversava il campo, notò una capanna con la luce accesa. Per un momento pensò che si trattasse della Sette, ma era convinto di aver spento le luci e chiuso la porta. Poi realizzò che si trattava della Dieci. La casa di Afrodite.

Edward schiuse le labbra. Tutte le altre case erano spente, deserte, solo quella era illuminata. Non se n’era accorto prima, visto che stava quasi per crollare dal dolore, ma ora che era lucido osservò la capanna confuso. Non ci mise molto a fare due più due. Jane non si era vista da nessuna parte alla festa e la casa di cui era a capo aveva le luci accese. Si fermò lì davanti. Si guardò attorno e ancora una volta non notò anima viva, tutti quanti erano stipati sulla collina del padiglione della mensa. L’aria festiva che emanava quel luogo pareva quasi appartenente ad un’altra dimensione se vista da lì, in mezzo alle case deserte e silenziose.

Il figlio di Apollo riportò l’attenzione sulle pareti rosa shocking della capanna Dieci, le tendine bianche e i ghirigori a forma di cuoricini. Pensava che la casa/ospedale in cui abitava con i fratelli fosse brutta, ma avrebbe preferito quella cento volte rispetto a quella casetta per le bambole formato extralarge. Ci credeva che le figlie di Afrodite erano tutte fulminate di cervello, bastava vedere in che razza di posto alloggiavano. 

Sospirò pesantemente, sapendo in cuor suo di stare facendo un’idiozia, e andò a bussare alla porta. Ci volle qualche istante, e qualche altro colpetto deciso, ma alla fine qualcuno abbassò la maniglia. Come aveva immaginato, Jane apparve da uno spiraglio. 

«Oh… sei tu» mormorò, sembrando stupita di vederlo.

«Ehm… sì. Aspettavi qualcun altro?»

«No…» Jane spalancò la porta, mostrandogli per un momento l’interno della casa – confermando la sua teoria di casa per le bambole gigante – e soprattutto mostrandogli lo stupendo abito da sera rosso che aveva indosso e che dava davvero poco spazio alla fantasia, mostrando le linee sinuose del suo petto, delle sue gambe e dei suoi fianchi. Anche lei si era truccata ed era impeccabile, ovviamente. Doveva aver passato ore ed ore di fronte allo specchio. Aveva la pelle bianca e candida come neve, un filo di rossetto rosso sangue sopra le labbra sottili. I capelli biondo platino erano raccolti in una lunga treccia che scendeva lungo la sua spalla facendola sembrare la principessa di qualche fiaba. Per un secondo, osservandola, Edward si dimenticò perfino perché era andato lì. Poi, accorgendosi dello sguardo confuso di lei, si riscosse e si schiarì la voce.

«Non… non vieni alla festa?» domandò, titubante.

Una smorfia triste attraversò il volto della capocasa di Afrodite. «Non credo di essere la benvenuta, là.»

«Ma… e allora perché ti sei vestita elegante?»

«Elegante?» Jane abbassò lo sguardo sul suo abito, per poi ridacchiare tiepida. «Ma se questo è uno dei miei vestiti peggiori. E non mi sono neanche truccata per bene…» commentò poi, afferrandosi la treccia e iniziando a lisciarsela con fare nervoso. «… cosa ne sai tu dell’eleganza…»

Edward decise di ignorare la provocazione. Le abitudini erano dure a morire, lo sapeva bene. E comunque, Jane aveva ragione; la sua felpa distrutta e rattoppata alla bell’e meglio dalle driadi non era proprio l’ultimo grido in fatto di moda. Si appoggiò contro la porta, incrociando le braccia. La osservò meglio e sì, era assolutamente perfetta, a discapito di qualunque cosa avrebbe potuto dirgli. Non una perfezione come quella di Steph, però. Entrambe erano bellissime ragazze, ma la bellezza della figlia di Demetra era molto più spontanea e naturale; quella di Jane invece sembrava perlopiù dovuta alla maniacale ricerca della perfezione delle figlie di Afrodite. 

Rendendosi conto di stare di nuovo pensando a Steph, Edward serrò le labbra. «E allora che ci fai ancora sveglia?» domandò. Non poteva essere per via del concerto, la musica arrivava fino a lì, vero, ma era ovattata, distante, quasi rilassante da ascoltare.

Jane non rispose. Sembrò fare di tutto per evitare il suo sguardo. Edward la osservò meglio e notò i suoi occhi cerchiati di rosso. «Ehi, va tutto bene?»

La ragazza continuò a fissare per terra, torturandosi la treccia. Poi si raddrizzò e incrociò il suo sguardo. Sembrava avesse pianto. «Ho… ho litigato con Buck, dopo che ha perso oggi…» ammise, con voce flebile. «Non… non l’avevo mai visto così, prima. Era… era furioso.»

«Che è successo?»

«Voleva… voleva affrontare di nuovo Konnor. Voleva fare del male a lui, a te, a Thomas, a tutti quanti. Voleva anche che usassi la lingua ammaliatrice per convincere tutti che l’impresa è stata una farsa.»

Ne aveva sentite di cose folli, ma quella le batteva tutte. Edward non poteva crederci. «E tu hai rifiutato, suppongo.»

La figlia di Afrodite abbassò di nuovo lo sguardo e annuì. «Si è arrabbiato tantissimo. Mi… mi ha fatto paura…» sussurrò. «Gli… gli ho detto che se non si fosse calmato lo avrei mollato e lui… lui…»

Esitò, stringendosi con forza nelle braccia ed abbassando la testa. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Non come all’arena, però. Non erano lacrime di tristezza, erano lacrime di paura. «Mi… mi ha presa per il collo e… e…»

Si interruppe, gemendo spaventata. Edward si staccò dallo stipite di scatto, sentendosi pervadere da pura e semplice rabbia. «Dov’è quello stronzo?» rantolò, voltandosi verso la capanna numero Cinque. «Anche lui è a casa?»

La mano di Jane si strinse attorno al suo braccio. «Fermo.» 

Edward si voltò verso di lei, notando il suo sguardo implorante. La ragazza scosse la testa con forza. «Ti prego, non… non fare nulla. Non dirlo a nessuno. Ti prego.»

«Ti ha messo le mani addosso, Jane. Non puoi…»

«Peggioreresti solo le cose» lo fermò lei, stringendolo con forza. Altre lacrime solcarono le sue guance, guastando l’eyeliner. «Ti prego, Edward… non fare niente…»

Il figlio di Apollo posò una mano sopra quella di lei. Era morbida e fredda, liscia come seta. La allontanò con un gesto calmo dal suo braccio, osservandola dritta negli occhi. 

«E allora cosa vorresti fare?» domandò, con voce più morbida.

«Non… non lo so…» Jane abbandonò le braccia lungo i fianchi. «Ma… voglio occuparmene da sola. Sono… sono una semidea. Non devo avere paura.»

«Non si tratta di essere semidei, Jane» disse Edward, posandole una mano sulla spalla. La osservò dritta nei suoi occhi che ricordava azzurri, ma che in quel momento parevano di un altro colore. Forse erano verdi, forse marroni, a tratti parevano perfino viola. «Il fatto che tu sia una semidea significa che tu sia anche umana. Buck è… era il tuo ragazzo, ti fidavi di lui e lui ha tradito la tua fiducia. È normale che tu abbia paura. È normale che… che sia una situazione difficile, per te. Non significa che tu debba affrontarla da sola. Non sei da sola

Jane rimase in silenzio, a guardarlo. Le sue labbra fremettero, poi si avvicinò a lui e lo abbracciò con forza. Appoggiò la fronte contro il suo petto ed Edward ricambiò la stretta, avvolgendo il suo corpo magro e tremolante. Sembrava davvero scossa. 

«Lascia… lascia che ci provi» mormorò Jane, con voce incrinata. «Lascia che provi a… a parlare di nuovo con lui e a lasciarlo con le mie forze. Sono… sono stanca di nascondermi dietro gli altri.»

Edward le accarezzò la schiena. Non avrebbe voluto lasciarglielo fare. Dopo aver perso il posto di capocasa, da quando erano tornati dall’impresa in realtà, Buck era diventato decisamente instabile e fuori controllo. Però sapeva anche che non era la sua battaglia, quella. Se Jane voleva risolvere il problema da sola, gliel’avrebbe lasciato fare. Non avrebbe commesso lo stesso errore che aveva commesso il primo giorno al campo, non l’avrebbe fatta finire nei guai con la sua impulsività. «Va bene. Ma se dovesse farti ancora del male, la pagherà cara.»

La figlia di Afrodite annuì, senza rispondere. Rimasero stretti a lungo ed Edward continuò ad accarezzarle la schiena e i capelli. Era soffice come una nuvola e il suo profumo di vaniglia era quasi ipnotico. Quando si separarono, Jane gli sorrise tra le lacrime. Edward ricambiò, asciugandogliele con il pollice. Quella ragazza aveva commesso degli errori, ma chi non ne commetteva? Tutti quanti meritavano una seconda possibilità, lei inclusa. Anche Buck avrebbe potuto averla, prima di mettere le mani addosso ad una donna. Dopo un simile gesto, quell’essere poteva marcirsene nel Tartaro fino all’alba dei tempi. 

«Allora, vuoi venire alla festa o no?» domandò di nuovo, distendendo il sorriso. «Non preoccuparti per gli altri. Garantisco io per te.»

«Lo faresti davvero? Solo per me?» chiese lei, stupita.

Edward sollevò le spalle. «Non credo che qualcuno verrà a contestarmelo. Sono il grande eroe, ricordi?»

Jane ridacchiò. Gli prese entrambe le mani e strofinò i pollici sui suoi palmi, assorta. Rimasero così ancora per diversi istanti, durante i quali Edward cominciò ad avvertire una strana sensazione al proprio petto. 

Infine, Jane scosse la testa. «Ho passato l’ultima settimana a cercare di convincere il campo intero che avreste fallito. Non… non ho alcun diritto di presentarmi alla festa. È per voi. Voi che ci avete salvati. Ma… grazie per essere venuto a controllare come stessi. Sei… sei un bravo ragazzo, Edward. Grazie.» Le sue labbra si posarono contro l’angolo della sua bocca, in un rapido bacio che lo fece trasalire. Si separò da lui, veloce come si era avvicinata, rivolgendogli un sorriso così caloroso che Edward sentì un’altra fitta al petto. 

Il fatto che stesse pensando quello di sé stessa, di loro, gli fece capire che Jane stava davvero maturando. Si augurò che si ricordasse quello che le aveva detto: non era da sola. Poteva contare su di lui se ne avesse avuto bisogno. 

«Divertiti» disse infine Jane, lasciandogli andare le mani. 

Edward fu colpito da un altro strano formicolio alla schiena. Jane chiuse la porta prima che potesse dire altro. Rimase immobile, come una statua, a fissare la porta rosa della Capanna Dieci. Si sfiorò il punto in cui lei l’aveva baciato e fece un sorrisetto idiota. Scosse la testa con un sospiro, poi se ne tornò verso il padiglione.

 

***

 

«Edward!»

Thomas gli corse incontro non appena passò oltre le colonne della mensa, agitato. «Ma dov’eri finito?! Tua sorella stava dando di matto!»

Edward sollevò un sopracciglio. Si voltò verso il palco, dove Rosa stava continuando a suonare imperterrita una cover di Basket Case. Agitò un braccio, facendosi notare da lei. L’hermana lo individuò immediatamente e gli lanciò un’occhiataccia, senza smettere di cantare o di suonare, non mutando di una virgola la qualità della sua performance. Era davvero buffa da guardare.

«Ha fatto andare avanti Jonathan da solo per qualche minuto ed è venuta a chiederci se ti avevamo visto» spiegò di fretta Tommy. «Ha detto che sei corso via, che eri strano… va tutto bene Edward?»

Malgrado tutto, ad Edward venne da sorridere. Quella tenerona di Rosa si preoccupava per lui. L’avrebbe presa in giro per bene alla fine del concerto. Batté il pugno contro la spalla di Thomas, annuendo. 

«Bene? Sto alla grande, amico» disse con il suo classico sorrisetto, cercando di sembrare convincente. Non voleva caricare lui o gli altri di pensieri inutili, loro che almeno sembravano divertirsi in quella festa del cavolo.

Tommy si grattò dietro il collo imbarazzato. «Sei… sei sicuro?» 

Sembrava angosciato per lui. Edward si domandò da dove tutta quella preoccupazione improvvisa fosse arrivata. Era sparito per cinque minuti, mica per un’ora. Lo avevano ignorato tutta la sera e adesso che voleva solo starsene in santa pace dovevano tartassarlo?

«Amico mio, da qualche parte in questo padiglione ci sono due bellissime labbra italiane che aspettano solo te. Vuoi farle attendere ancora di più?»

Il figlio di Ermes avvampò. «B-Beh, no, però… se stai male non voglio lasciarti sol…»

«Sto bene. Sul serio.» Edward sorrise più sincero, rivolgendogli un cenno del capo. «Tranquillo. Dillo anche agli altri se li vedi.» 

Thomas storse le labbra. Anche lui, quello che sicuramente era il più semplice da convincere, non sembrò cascarci. Tuttavia, a differenza degli altri, sapeva anche quando era inutile insistere con lui. Gli diede un colpetto al braccio. «Se hai bisogno di qualcosa, non esitare a chiedere, ok?»

«Certo.»

Titubante, il piccoletto si dileguò. Esausto da quella notte che non sembrava avere fine, Edward si voltò verso il tavolo con gli stuzzichini e mugugnò: «Per fortuna ci sei tu.»

«Con chi ce l’hai?»

Edward sobbalzò, colto alla sprovvista da quella voce che arrivò all’improvviso alle sue spalle. Dopo la parentesi con Naito, non era per niente in vena di altri scherzi simili. Si voltò pronto ad incenerire il suo interlocutore, ma si ammansì all'istante quando notò lo sguardo divertito da figlia del dio dei ladri di Natalie.

«N-Natalie» disse, imbarazzato. Si augurò che non avesse sentito la sua dichiarazione di affetto verso il cibo. «Come va? Non badi più ai due marmocchi?»

«Sono riuscita a sbolognarli a Derek. Facciamo un po’ per uno, tipo coppietta divorziata» rispose lei, facendolo ridacchiare.

«Ehi, è carino il modo in cui ti prendi cura di loro» disse Edward, con un sorriso. «Si vede da lontano un chilometro che gli vuoi bene.»

«Non sono l’unica che vuole bene ai propri fratelli.» Natalie si postò una mano sul fianco e lo squadrò con un sorriso enigmatico. «Tommy mi ha raccontato le follie che hai fatto solo per salvare Rosa. Per non parlare poi di quando credevi di essere uno di noi e ti ficcavi nei guai solo per proteggerci.»

Edward si grattò la cicatrice sulla guancia, imbarazzato. Sì, ricordava bene quel periodo. Si era beccato una bella strigliata proprio da lei per quel motivo. «Eh già…» 

Natalie si avvicinò a lui. Edward incrociò il suo sguardo e sussultò leggermente. Non aveva idea del perché, ma quella ragazza gli faceva uno strano effetto. 

«Tommy mi ha raccontato tutto quello che è successo con Campe» disse la figlia di Ermes, avvicinando la mano alle sue cicatrici. Gliele sfiorò con delicatezza, un gesto che, proprio com’era accaduto con Jane quando gliele aveva accarezzate, gli infuse un piacevole sollievo. 

«Mi ha detto che l’hai fatto per proteggerlo. Grazie, Edward» sussurrò Natalie, prima di dargli un bacio sull’altra guancia. 

Edward sentì il viso andare a fuoco mentre le labbra carnose di Nat lasciavano il segno sulla sua pelle. L’avevano baciato due volte nel giro di cinque minuti. Doveva star sognando, o forse era il preambolo per qualcosa di terribile. Forse stava per essere inghiottito di nuovo nello Yomi. Sì, non c'erano altre spiegazioni.

Nat si staccò da lui e sorrise divertita, forse dalla sua espressione. Edward sentì le guance bruciare ancora più forte e distolse lo sguardo. Aveva abbracciato Jane poco prima, la semidea che a detta di chiunque era la più bella del campo, gli aveva perfino dato un bacio, eppure non aveva sentito nulla di vagamente simile a quello che stava sentendo in quel momento. Poi, rifletté per bene sulle parole di Nat e, per quanto possibile, si sentì ancora più in imbarazzo. «Un… un momento… Tommy… ti ha detto proprio tutto

Natalie si posò di nuovo una mano sul fianco, lanciandogli uno sguardo di sufficienza. «Ti riferisci alla parte in cui io ti faccio più paura di Campe? Sì, me l’ha detto.»

Edward temette che il suo volto potesse andare in combustione spontanea. Quel piccoletto con la lingua lunga gliel’avrebbe pagata, poteva starne certo. Natalie ridacchiò, facendolo ammansire. Non l’aveva mai sentita ridere. Era… davvero un bel suono. Si avvicinò di nuovo a lui. 

«Non preoccuparti, Edward…» cominciò a dire, per poi avvicinare la bocca al suo orecchio. «… fai bene a pensarla così» bisbigliò, suscitandogli una lunghissima scarica di brividi lungo la schiena. Quello era un esempio perfetto di “risposta sensoriale meridiana autonoma”. No, non aveva alcuna idea di come facesse a saperlo. Forse era il sangue di Apollo nelle sue vene a parlare.

Natalie si distanziò da lui e gli diede un buffetto sul naso, sempre con quel sorrisetto divertito. Si voltò e i suoi capelli gli sfiorarono il volto. Ancora intontito da quanto appena accaduto, Edward si riscosse.

«A-Aspetta» la fermò, afferrandole una mano. Ancora una volta sentì le guance bruciare mentre lei si voltava incuriosita. 

«Sì?»

«Ehm… ti va… di bere qualcosa assieme?» buttò fuori a fatica. Gli sembrò pazzesco come afferrare Izanami per il collo gli fosse sembrato molto, molto più semplice di quello. 

Per un momento, Natalie lo scrutò senza dire nulla. Ed Edward li trovò i secondi più agonizzanti della sua vita. E poi, la ragazza sorrise di nuovo. «Pensavo che non me l’avresti mai chiesto.»

Il cuore di Edward saltò di un battito per lo stupore. Subito dopo, Natalie lo trascinò in mezzo alla folla e lui si lasciò trasportare come una barchetta a vela in mezzo ad un mare tempestoso.

 

***

 

Rimasero seduti sulla panchina di un tavolo, a sorseggiare dai loro bicchieri che si riempivano da soli. Edward non aveva idea di cosa stesse succedendo, ma non voleva che finisse. Quella serata maledetta stava diventando la serata migliore della sua vita. 

Parlarono a lungo, nemmeno lui sapeva di cosa in realtà, sapeva solo che le parole uscivano dalla sua bocca, lei rispondeva, poi qualcuno faceva una battuta e ridevano insieme. Avrebbe potuto ascoltare il suono della sua risata per tutta la notte. Non aveva idea da dove gli stessero uscendo tutte quelle emozioni, ma non aveva importanza. Si lasciò trasportare dal momento, incurante, felice della sua compagnia. 

Nat non raccontò molto della sua vita privata, ma nemmeno indagò su quella di Edward, e a lui andò bene così. Si limitarono a raccontarsi cos’era successo in quei giorni, Edward parlò dell’impresa, dei mostri che aveva affrontato, dell’assurdo scontro tra Milù e le tre kamaitachi, di Fujinami, e Natalie rimase ad ascoltare incantata, sempre con quel sorriso rilassato sul suo volto. 

D’altra parte, lei raccontò quello che era successo durante la loro assenza, parlò dei momenti più divertenti vissuti nella capanna Undici e anche di come i semidei del campo avessero cercato di unire le forze nonostante le differenze. Fu piacevole sentire quelle storielle della bocca di qualcuno che le aveva vissute.

«E adesso che sei tornato, che programmi hai?» domandò lei.

Edward si strinse nelle spalle. «Non saprei… penso che mi concentrerò a diventare un bravo capocasa. Continuerò ad allenarmi, magari a tirare un po’ con l’arco. E soprattutto, voglio riposarmi…» mugugnò.

«Direi che te lo sei meritato» convenne Nat, sorridendogli di nuovo. «Rimarrai al campo tutto l’anno?»

«Non ho molta scelta» rispose Edward. Ripensò a quello che gli aveva detto Naito e posò il bicchiere, stringendo con forza il bordo della panchina con la mano libera.

«Tutto ok?»

La voce con vene di preoccupazione di Natalie lo fece voltare verso di lei. «Sembri… angosciato» gli spiegò. «Qualcosa non va?»

Edward cercò di non guardarla. «Sono… sono solo un po’ sovrappensiero. Sono successe tante cose, in questi giorni.»

La mano calda di Nat si posò sulla sua, facendogli venire un brivido. Tornò ad osservarla stupito, notando il suo sorriso gentile. «Se hai bisogno di parlare, io sono qui.»

Un piccolo sorriso apparve anche sul volto di Edward, mentre osservava le sue iridi scure. L’aveva vista sorridere così di rado quando aveva vissuto nella capanna Undici. Sembrava un’altra persona. Era… bello vederla sorridere. Stava per rispondere, ma una terza voce li fece voltare entrambi. «Ehi, pezzente.»

Buck era apparso dal nulla di fronte a loro, ringhiando come un rottweiler, contraendo i pugni. Naturalmente la sua presenza non passò inosservata. Una piccola folla di curiosi si radunò attorno a loro. Edward si diede dell’idiota per aver pensato che le cose stessero andando così tanto bene. Era ovvio, ovvio, che sarebbe successo qualcosa del genere.

«Che diamine vuoi, Buck?» sbottò Natalie prima che Edward potesse fare qualsiasi cosa. «Hai ancora il coraggio di farti vedere in giro dopo la batosta di oggi?»

«Chiudi la bocca, racchia» ribatté Buck, osservandola truce. Nat assottigliò le labbra. Fece ondeggiare il bicchiere che aveva ancora in mano, che si riempì di una strana sostanza non meglio identificata – gialla. 

«Non parlarle così» si oppose Edward, alzandosi per fronteggiarlo. Fece cenno a Natalie di non preoccuparsi e osservò Buck dritto negli occhi, senza nessun timore. «Che cosa vuoi?»

Per tutta risposta, quello lo afferrò per la maglietta, tirandolo verso di sé e offrendo una generosa panoramica del suo volto ancora coperto di lividi. «Credevi davvero che non me ne sarei accorto?!» sussurrò, mostrando i denti rovinati e inondandolo con un alito pestilenziale che sapeva di pneumatici bruciati. 

«Lascialo andare!» protestò Natalie, balzando in piedi.

Il figlio di Apollo storse il naso, afferrando la mano di Buck per cercare di allentare la presa. «Non ho idea di cosa tu stia parlando.»

«Ti ho visto mentre ci provavi con la mia ragazza» spiegò il figlio di Ares, stringendolo con ancora più forza. Edward spalancò gli occhi.

La voce di Natalie, atterrita, lo folgorò come una scarica da centomila volt: «Che cosa?»

«No, ascolta, è solo un malinteso» cercò di spiegare Edward, facendo vagare lo sguardo dall’uno all’altra. «Ero solo andato a controllare se stava bene, tutto qua. È stata lei ad abbracciarmi per prima. Non credevo che sarebbe successo.»

«Non lo credevi?» domandò Buck, con finta voce calma, per poi digrignare i denti all’improvviso. La sua mano chiusa a pugno si avvicinò al suo volto. Natalie gridò. 

E anche Buck grugnì per il dolore.

Edward si era divincolato, bloccandogli il pugno a mezz’aria e torcendogli il braccio dietro la schiena, costringendolo a rimanere piegato in ginocchio. Poteva ringraziare Rosa per avergli insegnato quel piccolo trucchetto di autodifesa. Osservò il semidio con rabbia, non riuscendo a credere alla sua sfortuna e al suo tempismo davvero schifoso. Poteva sorvolare il fatto che stesse chiaramente spiando Jane – no, in realtà non poteva, faceva accapponare la pelle – ma anche l’arrivare lì, guastare quel momento, insultare Nat, quello non lo avrebbe mai e poi mai tollerato.

«Stammi bene a sentire, stupido scimmione dopato» biascicò all’orecchio di Buck, mentre quello cercava di liberarsi dalla sua presa. Edward gli strinse il braccio e il figlio di Ares muggì di dolore ancora più forte. 

«Sono quasi morto prima di entrare nel campo, sono stato aggredito da sei scorpioni, mia sorella è stata rapita di fronte ai miei occhi, la mia faccia è stata dilaniata da Campe, una maledetta kitsune per poco non mi rinchiudeva in una gabbia, sono precipitato in un dirupo dentro ad un treno, quasi stato ucciso da dei grifoni, poi da un gigante e poi sono stato pugnalato alla schiena da un mostro millenario divora vergini che voleva uccidere mia sorella distruggere il mondo» sbottò, tutto d’un fiato, quasi espellendo quelle parole come una tossina dal proprio corpo. La sua voce si alzò senza che nemmeno se ne rendesse conto.

«E non vuoi sapere quello che mi è successo dopo. Credevo che durante questa festa avrei potuto rilassarmi, ma a quanto pare non mi è concesso nemmeno questo, perché tu dovevi mostrare la tua brutta faccia e attaccare briga con me proprio mentre ero assieme ad una bella ragazza. Beh, sai che c’è, Buck, sono stanco. Sono stanco di farmi mettere i piedi in testa in continuazione. Sono stanco di te e di quelli come te. Hai due opzioni ora, amigo, ti levi di torno prima che le cose prendano sul serio una brutta piega, oppure rimani, e lasci che ti faccia male per davvero. Io non sono Konnor, non sei mio fratello, quindi non ho nessun motivo di andarci piano con te. Ti posso garantire che quello che ti ha fatto lui non sarà nulla, nulla, in confronto a quello che ti farò io. Ci siamo capiti?»

Buck grugnì, rosso come un peperone mentre Edward faceva pressione sul suo braccio, ormai piegato in posizione innaturale. Se avesse continuato così, glielo avrebbe spezzato. 

«Ci siamo capiti?!» 

«S-Sì…»

«Non ho sentito, Buck. Parla più forte.»

«S-Sì! Ci siamo capiti!»

«Bravo ragazzo. Adesso chiedi scusa a Nat» proseguì, torcendogli ancora un po’ il braccio per incentivarlo.

«M-Mi dispiace!»

«Perfetto. Hai visto, non era così difficile.» Edward lo lasciò andare, spingendolo via. Buck cadde carponi con un grugnito.

«E per la cronaca, non c’ho provato con Jane. Ero preoccupato per lei e sono andato a controllare se stava bene. Aveva solo bisogno di qualcuno che la aiutasse in un momento difficile» spiegò Edward, duro. Avrebbe voluto aggiungere altro, ma la figlia di Afrodite gli aveva chiesto di non parlare con nessuno di quello che aveva scoperto, quindi tacque. Ma era sicuro che Buck aveva capito. 

«Ma visto che hai deciso di tirare in ballo la questione, lascia che metta le cose in chiaro: se ferisci o offendi ancora una volta me, Natalie, Thomas, Stephanie, Lisa, Konnor, Jane, Derek e chiunque altro, ti spezzerò tutte le ossa che hai nel corpo. Hai capito?»

Il figlio di Ares si rimise a fatica in piedi, tenendosi il braccio e fissandolo con odio. Si guardò attorno, notando gli sguardi di tutti i semidei che erano rimasti a godersi la scena e per una volta il suo cervello parve funzionare come avrebbe dovuto, perché intuì di essere non gradito, lì. 

Si fece largo tra la folla a spintoni e spallate, mugugnando come un animale ferito, e svanì dalla visuale. Vi fu un momento di silenzio, in cui tutti quanti osservarono Edward sbigottiti. Poi cominciarono ad applaudirlo e ad esultare. Il figlio di Apollo osservò quel gruppetto di semidei confuso. Se davvero erano felici per la lezione che aveva dato a Buck, perché se n’erano stati fermi a guardare? 

Decise di lasciar perdere. Non aveva più voglia di discutere con nessuno. Si voltò di nuovo verso di Natalie per scusarsi dell’inconveniente, ma le parole gli morirono in gola. Natalie se ne stava a braccia conserte, fissandolo con quello sguardo che già una volta aveva ricevuto da lei. Deglutì.

Oh-oh…

«Vieni con me» ordinò severa, cominciando a camminare senza nemmeno attenderlo. 

«A-Aspetta!» protestò Edward, incredulo, mentre i semidei si facevano da parte per lasciarli passare. Sapeva cosa stava per succedere. Sapeva che voleva strigliarlo, ma le corse comunque dietro, cercando di giustificarsi. «Andiamo, Nat! Quel tizio voleva tirarmi un pugno! Che cavolo dovevo fare secondo te?»

Natalie non rispose. Continuò a scendere la collina, dirigendosi verso le case. Voleva proprio fargli una lavata di capo da record se aveva bisogno di allontanarsi così tanto. Stava quasi pensando di smettere di seguirla e scappare via, ma sapeva che sarebbe stato inutile. E poi, non voleva fuggire. Se farsi strigliare da lei sarebbe stato il modo per poter ancora godere della sua compagnia in futuro, lo avrebbe fatto.

Quando si ritrovarono sul limitare del campo, Natalie si fermò e si voltò. Gli occhi della ragazza si piantarono su di lui, così penetranti da poter oltrepassare i suoi vestiti. Un formicolio pervase il suo corpo, scuotendolo dalla testa ai piedi.

Edward sollevò le mani in difesa. «Ok, senti, mi dispiace. Forse avrei potuto risolvere la cosa in maniera diversa. Sono stato impulsivo, ma…»

Le labbra di Natalie si premettero con forza sulle sue, rendendo il resto della frase solo un mugugno sorpreso. La ragazza lo afferrò per la felpa e lo tirò verso di sé, facendo aderire i loro corpi.

Edward spalancò gli occhi, sentendo la lingua di Nat che gli accarezzava le labbra e il suo respiro caldo che gli soffiava sul volto. Le dita di lei lo cinsero dietro la schiena, conficcandogli le unghie nella pelle, strappandogli un sussulto.

Gli morse un labbro e si separò da lui all’improvviso. Edward rimase immobile, troppo scosso per pensare. Lei gli sorrise di nuovo. Questa volta, però, non fu un sorriso come gli altri. Lo guardò con sicurezza, squadrandolo come una leonessa affamata di fronte alla sua preda. Si ributtò su di lui, afferrandolo dietro la nuca e tirandolo a sé senza troppi complimenti, dandogli un morso di cortesia prima di insinuare di nuovo la lingua tra le sue labbra, avida.

Edward poteva solo sentire il sapore delizioso di lei e le sue mani ferme sulla nuca che lo intrappolavano in una morsa da cui non voleva più liberarsi. Avvolse le braccia dietro la sua schiena, ricambiando la stretta e avvicinandola ancora di più, al punto che i loro denti sbatterono tra loro.

Nat si staccò di nuovo, i capelli scomposti e la bocca semiaperta. Quegli occhi carichi di desiderio lo trafissero come una lancia, paralizzandolo. La ragazza accennò con la testa alla capanna Undici, situata proprio accanto a loro. «Entra.»

«Ma… non posso entrare in una casa che…» 

Natalie affondò le dita nei suoi glutei, facendolo sobbalzare. Si spostò dietro di lui e si protese con le labbra al suo orecchio. «Ho detto entra.»

Il tono di voce di Edward salì di un paio di ottave, mentre un altro lungo brivido gli percorreva tutta la schiena. «… o-okay.»

Natalie sorrise di nuovo e lo prese per il polso, trascinandolo dentro.

«Woah!» riuscì a esclamare Edward, prima di ritrovarsi catapultato in quella casa dove pensava di non rimettere mai più piede.

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Capitolo 44
*** Araldo della Luce ***


44

Araldo della Luce 

 

 

Edward sprofondò con la schiena sul materasso, con il respiro pesante e la fronte imperlata di sudore. Il braccio di Natalie gli scivolò lungo il petto, mentre appoggiava la fronte nell’incavo tra il suo collo e la sua spalla, sospirando soddisfatta. 

Il suono dei loro fiati ancora affannati riempì la stanza, mentre Edward fissava il soffitto con le labbra schiuse. Avvolse il braccio attorno al fianco di Nat, stringendo a sé quel corpo sottile e rovente. Quello stesso corpo che aveva esplorato in maniera molto più approfondita di quanto mai avrebbe pensato di fare. Un sorriso prese forma sul suo volto. «Non… non mi aspettavo che…»

«Stai per dire qualcosa di stupido, Model?» lo interruppe lei, con un filo di voce delicata, senza muoversi di un millimetro. 

Edward ci rifletté per un secondo. «Probabile.»

Nat strofinò la fronte contro la sua spalla, con un altro mugugno compiaciuto. «E allora non dire nulla.»

«Okay.»

Rimasero in silenzio, mentre i loro respiri si regolavano. Il figlio di Apollo abbassò lo sguardo, accorgendosi dell’espressione rilassata di Nat, gli occhi chiusi, la bocca sigillata in un sorriso appagato. Non sembrava neanche vagamente la stessa ragazza che l’aveva sbattuto su quel letto con forza, quella che per poco non gli aveva staccato le labbra con i suoi baci voraci. Le sue dita sfiorarono le cicatrici sul petto di Edward, suscitandogli un brivido gelato, che stonò con il torpore dei loro corpi spogli avvolti sotto le coperte.

Quando gli aveva tolto la maglietta – strappata via forse era un termine che si addiceva di più – Natalie era rimasta paralizzata alla vista di tutte le cicatrici che lo deturpavano. Era durato poco, però: dopo aver detto di trovarle sexy si era fiondata su di lui, i denti che gli affondavano nel collo, le dita che gli tiravano i capelli e le unghie conficcate nella sua schiena. 

Per un momento Edward aveva temuto che alla fine di quella serata si sarebbe ritrovato più sanguinante che quando si era trascinato via dallo Yomi, invece Natalie era stata molto attenta ad aggirare le cicatrici, in particolare quella sullo stomaco, premurandosi per bene di lasciare i segni dei suoi denti e dei suoi graffi soltanto dove la sua pelle era ancora immacolata, giusto per finire l’opera iniziata da Izanami.

Una pantera, ecco cos’era quella ragazza. Anche se non poteva davvero biasimarla; le aveva chiesto lui di mordere più forte, dopotutto. Cominciò a credere di essere un po’ masochista, nel profondo. Avrebbe spiegato molte cose.

La mano di Natalie accarezzò con delicatezza il bordo della cicatrice sullo stomaco e facendolo sussultare di nuovo. 

«È stata Campe?» gli domandò.

Edward denegò incerto. «Non… non mi va di parlarne…» 

Natalie allontanò la mano e la portò all’altezza del suo volto, strofinando con delicatezza il pollice sulla sua guancia. «Hai sofferto molto, vero?» 

Quella domanda lo colse alla sprovvista. Si voltò verso di lei, sorpreso.

«Non parlo delle cicatrici» chiarì subito lei, continuando ad accarezzarlo. «Parlo della tua vita. Lo vedo nel tuo sguardo, nel tuo modo di fare, di parlare. Sei sempre stato… assente, pensieroso. E hai sempre avuto paura di parlare di te con gli altri.» 

Edward assottigliò le labbra, senza rispondere. L’aveva letto come un libro aperto.

«Ehi…» Natalie si avvicinò, dandogli un bacio sulla guancia, facendolo sussultare di nuovo. Gli sorrise affettuosa. «… so che per te è difficile aprirti, ma con me puoi farlo, Edward. Davvero. Sono qui per aiutarti.»

Edward spostò lo sguardo su di lei, notando il suo sorriso apprensivo. Aveva i capelli spettinati, il volto sudato, le guance arrossate e anche diversi segni sul collo – non era stata di certo l’unica a mordere – e lui la trovò assolutamente bellissima.

«Grazie Nat» mormorò alzandosi a sedere, prendendo il suo volto tra le mani e baciandolo ancora, in maniera molto più sentita. Natalie si sedette accanto a lui, accarezzandogli il petto, mentre le braccia di Edward la cingevano dietro la schiena, tirandola a sé. Le coperte scivolarono via, lasciandoli in balia dell’aria fredda della stanza.

Quando si separarono, Edward si grattò la guancia imbarazzato. «Ehm… vuoi che parliamo adesso, o…»

Venne interrotto da un profondo sospiro. «Quando vuoi tu, Model. Basta che parli e la smetti di tenerti tutto dentro. Testone». 

Edward ridacchiò e anche lei sorrise. L’espressione della figlia di Ermes subì poi un lieve cambiamento. Distolse lo sguardo, sembrando per la prima volta da quando l’aveva conosciuta mortificata. 

«A proposito, non… non ti ho mai chiesto scusa per quella volta che mi sono arrabbiata con te» disse. «Mi… mi dispiace, Edward. Sapevo che avevi buone intenzioni, non avrei dovuto darti del piantagrane, però ho visto Rick ferito e… ho dato di matto.»

«Beh…» Edward abbassò lo sguardo, facendolo scorrere sul suo corpo privo di filtri. Abbozzò un sorrisetto. «… direi che ti sei fatta perdonare.»

Natalie avvampò e afferrò la coperta, per coprirsi il petto. Si voltò per non mostrare la sua espressione di raro imbarazzo ad Edward. «Attento, Model. Non alzare troppo la cresta con me, o questa potrebbe diventare solo l’avventura di una notte.»

Il sorriso divertito svanì all’istante dal volto di Edward. Non credeva che facesse sul serio. Eppure non trovò il coraggio di sfidarla. Accorgendosi di come si fosse ammansito, Nat annuì soddisfatta, posando l’indice sulle sue labbra. «Così mi piaci.»

Fece un altro sorrisetto, che venne ricambiato da Edward. Il figlio di Apollo si sdraiò di nuovo sul materasso, sentendo tutti i suoi nervi sciogliersi uno dopo l’altro. Non avrebbe mai pensato che sarebbe successo tutto quello che era successo. E soprattutto, non aveva mai avuto nemmeno la vaga idea di quanto ne avesse bisogno. La compagnia di Natalie gli aveva giovato in tutti i sensi. Il suo tocco morbido ma deciso, i suoi baci voraci, il suo sguardo carico di desiderio che sapeva alternarsi con uno molto più premuroso, aveva adorato ogni singola cosa di lei, di quello che avevano fatto.

Era come se gli avesse levato il peso del mondo dalle spalle, ma per davvero questa volta. Nessuna persona era mai riuscita a convincerlo ad aprirsi, nessuna persona lo aveva mai davvero fatto sentire in quel modo. L’aveva fatto sentire in pace totale con sé stesso e con il mondo intero. 

Sentì le palpebre appesantirsi e pensò quasi che avrebbe potuto schiacciare un pisolino, quando si accorse di Nat che si metteva a sedere sul bordo del letto, raccogliendo da terra i vestiti che erano volati un po’ dappertutto. Quando la maglietta di Edward finì sulla sua faccia, coprendo la bellissima visuale dei glutei sodi di lei, si ricordò che in quella casa non ci viveva da sola. 

«Ho parlato con uno dei tuoi fratelli, prima» spiegò la figlia di Ermes mentre si rivestiva. «Mi ha detto che avrebbero suonato ancora per un’ora.»

«E da quanto tempo siamo qui?» domandò Edward, rimettendosi con svogliatezza la t-shirt. 

«Cinquanta minuti» ribatté Nat, lanciandogli anche pantaloni e intimo. «Quindi meglio se ti dai una mossa.»

Edward prese i vestiti, sorpreso di aver passato lì già tutto quel tempo. Scese dal letto e l’aria punse di nuovo la sua pelle ancora calda, facendo sussultare le sue cicatrici e i segni dei morsi di Nat. Non appena finì di rivestirsi, si voltò verso di lei, ritrovandosela di nuovo tra le braccia, le labbra premute contro le sue in un bacio veloce, umido e salato per via del sudore. 

«Giusto… per essere sicuri…» domandò dopo Edward, titubante, mentre stringeva le sue mani. «Non… non è stata solo l’avventura di una notte, giusto?»

Natalie sollevò un sopracciglio. «Ma sbaglio, o prima ti ho detto di non dire cose stupide?»

«Ehm… è un sì o un…»

Natalie gli afferrò la mano e lo strattonò verso la porta. «Dai, sbrighiamoci, siamo in tempo per il gran finale!»

Ancora una volta, Edward si lasciò guidare come un bambolotto di pezza.

 

***

 

Arrivarono nel padiglione di corsa, trovando l’intero Campo Mezzosangue radunato sotto il palcoscenico, intento a battere le mani a ritmo di musica, mentre Rosa cantava una canzone in spagnolo, accompagnata da un lento piano, dolci pizzicate di chitarra e una soffice base di batteria.

«Despertaaar, junto a tiii, es besaaar un ronco invierno …»

Edward non capì le parole, ma non fu necessario. Bastò quella melodia, la voce di Rosa soave che si alzava, caricandosi di emozione, per raccontare tutto quello c’era bisogno di sentire. Sembrava una canzone agrodolce, che raccontava qualcosa di bellissimo, ma che allo stesso tempo nascondeva dentro di sé una profonda malinconia.

La mano di Natalie si strinse alla sua, cogliendolo di sorpresa. Gli sorrise di nuovo e lo trascinò in mezzo alla folla, avvicinandosi al palcoscenico, con la voce di Rosa che continuava a cantare quella stupenda canzone. 

Anche Edward sorrise, godendosi quel momento assieme a quella ragazza che l’aveva fatto stare bene, che lo aveva compreso e che gli aveva fatto battere il cuore con una sola risata. Raggiunsero la prima fila, ritrovandosi di fronte i ragazzi di Apollo. Rosa si accorse di lui e si illuminò. Riportò l’attenzione sulla folla, strimpellando la sua chitarra, ondeggiando a ritmo di musica, accompagnata dal fragore delle mani che battevano. 

In prima fila, Edward vide anche gli altri. Tommy e Lisa che applaudivano con vigore, incitando Rosa, e anche Konnor e Steph, stretti l’una nelle braccia dell’altro, eleganti, bellissimi e perfetti proprio come li ricordava. Ma andava bene così. Che si godessero quel momento, assieme.

Edward si voltò verso di Nat, che appoggiò la testa sulla sua spalla, sospirando soddisfatta. Lui la strinse a sé, scoccandole un bacio tra i capelli dal sapore di balsamo, e non volle più lasciarla andare. 

«Tengo todo no tenendo nada» cantò Rosa a pieni polmoni. «Junto a tiiiiiii, junto a tiiiiiii, junto a tiiiiiii…»

La melodia rallentò, mentre continuava a ripetere quella frase, finché la sua voce non divenne solo un sussulto, seguita dal lento smorzarsi di tutti gli strumenti. Quando la voce si spense, uno scrosciante applauso investì i figli di Apollo e Rosa fece un enorme sorriso. Vederla così felice gli scaldò il cuore. Poi, la sorella incrociò di nuovo il suo sguardo e gli rivolse un cenno del capo. Attese che la folla si calmasse e si schiarì la voce.

«Vi… vi ringrazio tutti di cuore» mormorò, ottenendo altre grida di incitazione. «Siete stati meravigliosi. Questa sarà l’ultima canzone…»

Vi furono alcuni versi dispiaciuti e Rosa parve imbarazzarsi. «Scusate, io continuerei anche tutta la notte, ma i poteri forti me lo impediscono. Non che io abbia qualcosa in contrario, evviva i poteri forti!» aggiunse, lanciando un’occhiatina verso il cielo e suscitando alcune risate. «Questa… è una canzone molto importante, per me. E… devo ringraziare una persona soprattutto, se sono qui a poterla cantare. Mio fratello Edward, che vorrei salisse sul palco.»

Non appena finì di dirlo, Edward spalancò gli occhi. Un miliardo e mezzo di persone si voltarono all’unisono verso di lui. Cominciò a sentire la mancanza dello Yomi e di Izanami. Nat lo incitò, dandogli una pacca sul sedere, facendolo trasalire di nuovo. 

«Che aspetti? Muoviti» gli disse, divertita. 

Edward sperò di non essere arrossito. Conscio di non avere altra scelta, si arrampicò sul palco come se stesse andando al patibolo, incitato dagli applausi della folla. Si voltò, trovandosi tutti quanti di fronte in un’immagine piuttosto suggestiva. Non se la cavava bene di fronte alle folle. Folle di mostri? Quelle erano una camminata nel parco. Folle di persone? Non proprio. 

Notò i suoi compagni dell’impresa: Tommy, Lisa, Konnor e anche Steph gli stavano sorridendo, applaudendolo ed incitandolo. Edward cercò di nuovo lo sguardo di Natalie, trovando conforto nella sua espressione felice, anche se sporcata un po’ da quel sorrisetto divertito che spesso aveva anche visto sul volto di Derek e gli altri figli di Ermes.

Rosa lo abbracciò, ottenendo altri applausi. «Ricordi il testo della canzone che ti ho cantato quella volta?»

Non disse altro, ma Edward capì immediatamente di cosa stesse parlando. Credeva di ricordare solo che lei gliel’avesse cantata nell’arena, invece con stupore realizzò di ricordare anche le parole. Tutte quante. Annuì incerto e lei sorrise soddisfatta. «Proprio come un vero figlio di Apollo.» 

Gli posò una mano sulla spalla. «Sai, hermano, ho… quasi finito la voce» disse con fare innocuo. «Credo che… mi servirà qualcuno che mi aiuti.»

Edward pensò di aver capito male. «C-Che cosa?» 

«Hai sentito, hermano. Voglio che canti con me.»

«Ma… ma io faccio schifo con la musica» cercò di giustificarsi lui. Lanciò un’occhiata a Jonathan, che si stava godendo la scena con un sorriso sornione. «Diglielo! Mi avete perfino cacciato dalle prove!» 

Il vecchio capocasa annuì. «È vero. Ma non hai mai cantato.» Si scambiò uno sguardo complice con Rosa. «Tutti i figli di Apollo sanno cantare. Dico bene?»

«Dici bene» convenne Rosa. 

«N-No, forse tutti tranne me. Io non so cantare.»

«Come puoi dirlo? Hai mai provato?»

«Beh… oh, andiamo, non potete dire sul serio!»

Sua sorella gli puntò l’indice al petto. «Ehi, è la tua co-capocasa che te lo ordina!» 

«Ma… ma…»

«Ok gente! Edward canterà per noi!» esclamò Rosa, sollevando le braccia in segno di vittoria. 

La folla applaudì di nuovo e vi furono altri schiamazzi, questa volta però sembravano divertiti. Edward fece ogni cosa in suo potere per non guardare verso di Natalie o i suoi amici. Mai come in quel momento desiderò che gli dei indicessero un’altra votazione per farlo fuori. 

«Dai, comincio io, tu seguimi» bisbigliò ancora Rosa. Quando cominciò a pizzicare le corde, Edward si rese conto che tutto quello non era un sogno: stava davvero per mettersi a cantare. 

«V-Va bene…» mugugnò, mentre si guardava attorno alla ricerca della via di fuga più rapida. 

«This captain goes down with his ship, all hands on deck, stand hip to hip…» cominciò Rosa, trafiggendolo con lo sguardo. «I shout the order “shoot to kill!” I’m dressed to thrill, I’m dressed to thrill!»

«And all my enemies, I want their eyes to see…» la seguì Edward a bassa voce, ottenendo in risposta un sorriso gigantesco dalla sorella.

«Their captain walk the plank, destoy them rank by rank!»

I ragazzi attaccarono con il ritornello e Rosa si voltò verso il pubblico, strimpellando con decisione. «Sail with me, into the setting sun, the battle has been won, but war has just begun!»

«And as we grow, emotions starts to die…» proseguì Edward facendole eco, anche lui cominciando a sorridere. «… we need to find a way, just to keep our desire alive!»  

«Now set the sail to quarter mast, we’ll jump their ship, we’ll sink ‘em fast!»

«Men follow me to victory!»

«Red as the sea, red as the sea!»

«And to the cannons roars…»

I due fratelli cantarono in sincrono, mentre il pubblico gioiva per loro. Edward non aveva la più pallida idea di come stesse andando, ma non gli importò. Si ritrovò trasportato nel flow di Rosa, del pubblico che li acclamava e dei loro fratelli che suonavano tutti assieme, ragazzi diversi, con storie diverse, ma uniti dalla loro passione per la musica. Si godette il momento, che sapeva essere molto speciale per Rosa, e forse, in realtà, era speciale anche per lui.

«Sail with me, into the setting sun, the battle has been won, but war has just begun!» cantarono assieme, fianco a fianco, con Rosa che suonava decisa e i loro fratelli che li seguivano, facendo eco sulle parole finali di ogni strofa, creando un bellissimo effetto. 

«And as we grow, emotions starts to die, we need to find a way, just to keep our desire alive!»

Vi furono dei boati all’improvviso, che fecero sobbalzare Edward. Rosa invece proseguì incurante mentre alcuni fuochi d’artificio illuminavano il cielo, creando ghirigori rossi, verdi, blu e gialli. Il figlio di Apollo li osservò incredulo, anche il pubblico sembrò colto alla sprovvista, ma lo stupore durò poco, venendo ben presto rimpiazzato da un’altra tempesta di applausi.

Riprendendosi dallo stupore, Edward accompagnò Rosa per il resto della canzone, finché non la concluse con delle ultime, decise, strimpellate, seguite da altri fuochi d’artificio. 

«Ma… ci sono anche i fuochi?» domandò proprio lei, sorpresa, per poi sorridere smagliante. «Oh cavolo! Non me n’ero mica accorta!»

Edward la scrutò atterrito. Come diavolo aveva fatto a non accorgersene?!

Il pubblico applaudì ancora, investendoli completamente. Rosa cominciò a sbracciarsi, a salutare, ad inchinarsi e a mandare baci a tutti. «Grazie! Gracias a todos! Grazie a tutti!»

Anche Edward salutò la folla un po' impacciato. Se stavano reagendo così, significava che forse non aveva fatto così schifo. Il resto dei loro fratelli li circondò, applaudendo assieme al pubblico.

«Dai! Salite anche voi!» gridò Rosa verso gli altri ragazzi dell’impresa. 

Lisa e Thomas salirono sul palco e si presero per mano. Konnor li seguì, assistendo Stephanie, che fece un po’ di fatica per via dell’abito. La figlia di Demetra sorrise estasiata, prendendo il fidanzato a braccetto e tutti e quattro si ritrovarono accanto ad Edward e Rosa, che nel frattempo andò a dare il cinque a tutti loro. Abbracciò anche Stephanie e Lisa, per poi stringerle entrambe per le spalle e saltellare come un'isterica, blaterando un sacco di frasi mezze in inglese e mezze in spagnolo. «Lo ves? Ha sido increíble! È stato fantastico! No puedo esperar de hacerlo otra vez!»

E meno male che stava finendo la voce.

Edward fece vagare di nuovo lo sguardo sulla folla, incrociando quello di Natalie. Ancora una volta lei fece quel sorriso, quello famelico, mordendosi un labbro, e lui sentì il cuore saltare un battito. Cominciò a provare caldo nonostante l’aria fresca della notte, poi un tornado forza cinque di nome Rosa Valdez lo travolse in pieno, stritolandolo così forte da mozzargli il respiro. 

«Hermano! Hai una voce stupenda lo sai?» si complimentò lei. «Dobbiamo fare i duetti più spesso!»

«Ehm… m-magari li teniamo per le occasioni speciali» cercò un compromesso lui, mentre lei saltellava premendo la guancia contro la sua. 

«Ma… i fuochi erano una tua idea?» le domandò, quando finalmente sembrò tranquillizzarsi. 

Lei si corrucciò. «No… in realtà no. Avrei voluto che ci fossero, ma credevo non si potesse fare.» Si voltò verso Jonathan e gli altri. «Voi ne sapete niente?»

I loro fratelli denegarono. «Hanno sorpreso anche noi» ammise Jonathan, con un’alzata di spalle.

I figli di Apollo si guardarono tra di loro, perplessi. Poi, Edward tornò ad osservare il cielo, mordendosi l’interno della guancia. «Che… che sia stato un regalo di nostro padre?»

Riportò lo sguardo su di Rosa, che cominciò a sorridere, presto imitata da tutto il resto della capanna Sette. Nessuno di loro contestò la teoria di Edward. Il pensiero che Apollo li stesse guardando, orgoglioso di loro, li riempì tutti di gioia.

I ragazzi della casa Sette si voltarono ancora verso il pubblico esultante, afferrandosi per le mani e sollevandole verso le stelle, ottenendo un’ovazione ancora più grande. 

Edward scorse anche il tavolo degli adulti, dove Chirone e Rachel li osservavano sorridenti, Dioniso invece stoico come al solito. Seduta accanto a loro, ignorata da tutti, c’era anche Izanami. 

Il sorriso svanì dal volto di Edward, mentre la dea della morte sogghignava verso la sua direzione. La sua immagine sfarfallò e svanì di fronte ai suoi occhi. Edward batté le palpebre, stordito, per poi ritornare con la mente al presente, in quel padiglione festivo, pieno di sorrisi. Sorrisi per lui, per Rosa, per i suoi fratelli e per i suoi amici. 

Qualcuno gli posò una mano sulla spalla. Si voltò, accorgendosi di Konnor e gli altri, che si posizionarono attorno a lui. 

«Perché non ci hai detto che sapevi cantare?» lo interrogò Lisa, con un sorrisetto idiota. «Avresti potuto fare qualche serenata durante il viaggio!»

«Preferirei farmi pugnalare di nuovo alla schiena» ribatté Edward con tutta la sincerità di quell’universo, facendo ridere i propri compagni. 

Edward poi spostò lo sguardo su Konnor e Steph, che naturalmente erano ancora a braccetto. Sorrise e fece un inchino di fronte a loro. Per finire, avvolse il braccio attorno alle spalle di Tommy e si strinse a lui, a quello che, a conti fatti, era stato il suo primo vero amico. 

«Sai amico… credo che mi vedrai spesso nella capanna Undici…» disse, accorgendosi di come Natalie lo stesse ancora guardando.

«Davvero? Come mai?»

Il figlio di Apollo ridacchiò e gli diede qualche pacca sulla schiena. Decise di risparmiare il povero, ingenuo, puro Thomas da una spiegazione che lo avrebbe fatto diventare più rosso dei suoi capelli. 

I semidei lasciarono il padiglione, mentre satiri, driadi e altri spiriti invisibili – le aurore boreali qualcosa, non aveva fatto molta attenzione – ripulivano il disastro del dopo festa. Chirone invitò tutti quanti a tornare nelle loro capanne, augurando la buonanotte e, soprattutto, sforzandosi di ignorare le varie coppiette che continuavano a sbaciucchiarsi senza troppo pudore – tra cui anche Tommy e Lisa.

Mentre i ragazzi si sparpagliavano e Rosa veniva investita da ondate di gente che si complimentavano con lei, Edward si beccò un’altra manata sul didietro, più le labbra di Nat che si posavano sul suo collo, suscitandogli un lungo brivido lungo la schiena. Quella ragazza sapeva proprio cosa fare per farlo impazzire davvero. 

«Allora… ci… ci vediamo domani?» domandò Edward con imbarazzo.

Lei si piazzò di fronte a lui. «Tu che pensi?» 

Edward esitò. Non sapeva perché l’idea che potesse davvero bidonarlo dopo quella sera lo terrorizzasse così tanto. Forse aveva paura di rimanere solo. O forse aveva davvero capito che di fronte a lui c’era qualcuno di davvero speciale. Una ragazza che lo aveva compreso, accettato per quello che era e, soprattutto, che aveva il potere di zittirlo con un solo sguardo. Dove altro avrebbe potuto trovarne una così? 

Accorgendosi di come stesse ancora annaspando per trovare una risposta, Natalie si portò una mano sul fianco e sospirò. «Sì, Model. Ci vediamo domani.»

Gli gettò le braccia al collo e lo baciò un’altra volta. Edward ricambiò la stretta, con il cuore che gli martellava nel petto. Non poteva credere a quello che era successo quella sera. Era partita come la giornata più triste di sempre e si era conclusa nel modo migliore che avrebbe potuto chiedere. Avvolse Nat tra le braccia, baciandola con passione. Non credeva che sarebbe più riuscito a fare a meno di quelle labbra. 

Lei lo aveva fatto stare bene. E lui sentiva di avere bisogno di lei, di avere bisogno della sua compagnia, della sua dolcezza, perfino della sua autorità. E anche delle sue unghie che lo graffiavano e dei suoi denti che lo mordevano. 

Una volta divisi, Natalie gli diede un altro buffetto sul naso e si allontanò per raggiungere i suoi fratelli. Edward seguì con lo sguardo quei fianchi che ondeggiavano e pensò che la madre di Alyssa lo avesse appena baciato sulla fronte. 

Ovviamente Thomas non si accorse di quello che era appena successo con sua sorella e il suo migliore amico, visto che pareva ancora piuttosto preso con Lisa. Quando l’avrebbe scoperto sarebbe stato divertente.

Qualcuno che invece si era accorto di tutto quello, era Rosa. 

«Ou la-là» commentò, dandogli di gomito. «Vedo che hai seguito il mio consiglio di conoscere gente nuova, hermano.» 

Edward roteò gli occhi, ma si lasciò scappare un sorrisetto. In realtà, non era stata l’unica a dargli un consiglio, quella sera. Spostò lo sguardo verso la Capanna Dieci. Si augurò che Jane stesse meglio e ripensò anche al suo “divertiti”. Poteva dire con abbastanza certezza di aver ascoltato pure lei.

«Ma tanto io continuerò a sperare in te e Konnor» concluse Rosa, strappandogli un sospiro esausto. Era davvero carino il fatto che si fosse districata da tutti i suoi nuovi fan solo per andare a punzecchiarlo. Davvero adorabile.

Quella sera, percepì qualcosa di diverso nella capanna Sette. Per prima cosa, nessuno lo sgridò per aver distrutto uno degli armadietti, ma forse era per via del fatto che ora comandava lui. Come scusa disse che una delle cicatrici di Campe aveva iniziato a fargli male e nessuno ebbe nulla da obbiettare. O meglio, quasi nessuno, perché Rosa invece sembrò ricordarsi della promessa che le aveva fatto di parlarle di nuovo dopo la festa. 

Edward avrebbe voluto farlo, davvero, ma era proprio esausto dopo quella lunga nottata – e anche dopo i cinquanta minuti di attività extracurriculare. Le avrebbe parlato, comunque. Avrebbe anche parlato con Natalie e avrebbe raccontato ai suoi amici quello che era successo con Naito. Era stanco di avere segreti. 

Per sua enorme sorpresa, Rosa accettò di aspettare almeno fino al giorno dopo per parlare di nuovo, forse perché era di buon umore dopo il concerto, e lo stesso valeva per tutti gli altri.

I figli di Apollo erano tutti allegri, non come li ricordava una settimana prima, divisi in gruppetti, con quei sorrisetti di superiorità. Erano uniti, chiacchieravano tra di loro, coinvolgendo pure lui e Rosa, che venne investita di complimenti anche dalle loro sorelle. 

Era bello vederli tutti assieme, felici. Durante il suo viaggio verso San Francisco, Edward aveva pensato spesso a loro e a come si era comportato. Avevano decisamente iniziato con il piede sbagliato, ma era grato di essere riuscito a correggere i suoi errori. Erano la sua famiglia, dopotutto, fratelli e sorelle che mai avrebbe pensato di avere. E li avrebbe protetti. 

Per tanto tempo aveva creduto di essere solo, perduto, indesiderato. Adesso aveva di nuovo una casa, aveva fratelli, amici e anche una fantastica ragazza da cui voleva farsi mordere ancora. E non avrebbe rinunciato a nessuno di loro per niente al mondo.

Non appena le luci si spensero, Edward sprofondò nel materasso. Tutte le sue angosce, le sue preoccupazioni e le sue paure si stemperarono poco per volta, donandogli una sensazione di dolce benessere, e scivolò in un profondo sonno ristoratore.

 

***

 

Si svegliò con il sole che picchiava con insistenza sopra il suo volto. Mugugnò infastidito per via della luce accecante. Strofinò la manica sopra le palpebre, per ridestarsi, e si guardò attorno confuso. 

Era sulla riva pietrosa di un fiumiciattolo, appoggiato contro il tronco di un albero. Gli alberi frusciavano per via del vento leggero che tirava, accompagnati dallo scrosciare dell’acqua. Alcuni uccellini cinguettavano beati, dispersi nella boscaglia che copriva entrambi i lati di quel sottile ruscello incastrato tra le pietre. 

Sembrava una piccola valle, nascosta tra le colline. Un angolino celato dal resto del mondo, dove non sembrava esistere alcuna traccia del passaggio degli esseri umani. 

«Figliolo, ben svegliato!»

Edward si accorse di non essere da solo; un uomo trasandato con lunghi capelli disordinati era seduto a pochi metri di distanza da lui, con un sorriso gentile che spiccava in mezzo alla barba incolta.

«Divino… Susanoo?» 

«Ti ricordi di me! Quale onore!»

Il figlio di Apollo non capì se fosse ironico oppure no. «Cosa… che sta succedendo? Dove mi trovo?»

«Siamo vicini al santuario di Amano Iwato» rispose il dio con voce tranquilla, come se si aspettasse che Edward avesse idea di cosa diamine si trattasse. «Allora figliolo, com’è andato il rientro?»

«Dipende quale rientro intendi. Quello a casa, quello nel mondo dei vivi, oppure quello in questi sogni del cavolo?»

«Uhm… lasciamo stare» concluse saggiamente Susanoo dopo essersi grattato la barba. Si alzò in piedi e gli tese una mano. «Forza, alzati. Meglio non farla aspettare troppo!»

Edward dischiuse le labbra, confuso. «Ehm… chi?»

Non appena fece quella domanda, udì uno strano verso. Sollevò la testa e riconobbe all’istante la macchiolina nera che svolazzava nel cielo sopra di loro: il corvo a tre zampe. «Oh…»

«Ti sta aspettando. È da molto che vuole conoscerti di persona» proseguì Susanoo, agitando la mano. «Avanti, seguimi!»

Lo guidò lungo la riva del fiume, mentre il corvo li seguiva a debita distanza. Malgrado fosse molto lontano, Edward poteva sentire i suoi occhietti puntati su di lui proprio come quella volta a San Francisco. 

Una cosa che il semidio poteva ammettere, era che era davvero una giornata meravigliosa. Il sole brillava con forza, la natura era verde e rigogliosa e l’aria era fresca. Sapeva che durante i sogni poteva scorgere cose che stavano accadendo in quel momento, o trovarsi in altri luoghi contemporaneamente. La festa si era conclusa dopo mezzanotte, ma lì sembrava essere pieno pomeriggio, come minimo. Susanoo aveva menzionato un nome, Amata-qualcosa. Non ci mise molto a capire di essere di nuovo in Giappone. 

Proseguirono lungo il percorso finché alla loro sinistra Edward non scorse un paesaggio diverso: un sentiero che saliva, conducendo verso l’entroterra, che veniva inghiottito da una gigantesca caverna che sembrava essere stata scavata nella collina, alta almeno quindici metri e larga perfino di più, con la bocca circondata dalla vegetazione. 

«Ci siamo quasi» esordì Susanoo.

Edward lo seguì per il sentiero, mentre si guardava attorno meravigliato. Accanto al sentiero, da entrambi i lati, si trovavano centinaia, forse migliaia di pietre, da grossi massi a sassolini, molti dei quali disposti in modo da formare piccole statuine. Nulla di troppo elaborato, ma la loro quantità ingente, la precisione con cui erano stati disposti, lo lasciò sorpreso. 

Il sentiero conduceva attraverso alcuni paletti di legno, disposti ad arco. Si concludeva, infine, di fronte ad una casetta rustica, accanto alla quale si trovava un piccolo altare da cui proveniva una luce molto intensa, al punto che pure guardarla da quella distanza gli arrecava fastidio agli occhi. Edward non capì se si trattasse di un faro che illuminava tutto, o se fosse soltanto un riflesso della luce del sole che filtrava nella caverna, fatto stava che, man mano che si avvicinava, gli era sempre più difficile tenere gli occhi aperti. Fu costretto a camminare dietro la schiena di Susanoo – che proseguiva come se nulla fosse – per non rimanere accecato.

Il corvo a tre zampe gracchiò di nuovo, superandoli e dirigendosi proprio verso la luce. Edward dovette fare attenzione a dove camminava, per non rischiare di sbattere contro il dio. 

La luce si fece più intensa all’improvviso. Edward gemette e serrò gli occhi. Una miriade di macchioline arancioni e viola balenarono di fronte a lui, ma poi cominciarono a diradarsi. Riaprì incerto le palpebre e si accorse che la luce accecante era svanita. Anche Susanoo non era più di fronte a lui, ma si era spostato a qualche metro di distanza. Gli sorrise ancora una volta e accennò con un braccio verso l’altarino accanto alla casa. 

Edward spostò lo sguardo. 

Una donna stava fissando il proprio riflesso su uno specchio rotondo, con il bordo d’oro massiccio, appeso sopra l’altare. Indossava un maestoso abito niveo, dagli orli scarlatti, con raffigurato il simbolo del sol levante su entrambe le larghe maniche. Arrivava fino a terra, coprendole le gambe, quasi affondando nel suolo. I suoi capelli erano neri come la pece, tanto lunghi da scenderle fino alla schiena, lisci e ordinati. In testa indossava una tiara d’oro, decorata con rubini e altre gemme preziose.

Si voltò verso di lui, mostrando un viso di una bellezza mozzafiato, con gli occhi a mandorla, il naso piccolo, le labbra sottili, la pelle olivastra e gli zigomi delicati, perfetti, impeccabili. Non era la stessa bellezza che Edward aveva visto in Afrodite, o nelle kitsune, però: era una bellezza regale, severa, intangibile ed irraggiungibile. Quella donna non era bella perché curava il suo aspetto, o per via di qualche sortilegio, lo era perché non poteva essere altrimenti. Una bellezza che gli impediva di staccare lo sguardo da lei.

Due lunghi orecchini sempre d’oro erano appesi ai suoi lobi, una collana con cinque strane perle scarlatte le circondava il collo; avevano la forma di virgole, con un foro al centro della parte rotonda. La parte dell’abito sotto al suo petto era formata da un drappo che scendeva fino alla vita, con raffigurato il simbolo stilizzato del sole, arancione. 

Era radiosa. Il suo corpo emanava luce, che andava a riflettersi sullo specchio, causando quei bagliori accecanti.

Per un momento, per un solo momento, quando la vide Edward pensò ad Izanami. Il vestito, i capelli, il viso, perfino la tiara, ogni dettaglio pareva copiato a piè pari dalla dea della morte e poi migliorato di dieci, cento, mille volte. 

«Finalmente ci incontriamo, Edward Model» esordì lei con voce severa, che gli fece scuotere le ossa: era la stessa che aveva udito nello Yomi e anche a San Francisco. «Tu sai chi sono io, vero?»

Edward assottigliò le labbra, prima di annuire. «Tu sei… sei la regina degli dei, Amaterasu.»

Amaterasu annuì con un singolo cenno del capo. Il corvo a tre zampe gracchiò e scese in quel momento, posandosi sulla sua spalla. 

«Immagino che tu conosca anche il mio Yatagarasu» proseguì lei mentre il corvo, sotto lo sguardo atterrito di Edward, cominciava a sciogliersi nel verso senso della parola e a fondersi con il suo abito. 

«Yata…» Edward non ci provò nemmeno a ripetere il nome. Quindi era davvero il suo animale. Quindi… era stata davvero la dea del sole a raggiungerlo nello Yomi tramite di esso. 

«Ti ringrazio per avermi riportato Ama no Murakumo» disse ancora Amaterasu. Sollevò una mano e vi fu un lampo di luce: la Spada del Paradiso fece la sua apparizione, il manico stretto nel suo pugno. «Hai svolto un buon lavoro.»

«G-Grazie…» mormorò Edward, a fatica. Non riusciva quasi più a parlare. Amaterasu fu la prima dea a trasmettergli davvero la sensazione di stare parlando con un’entità superiore a lui, la prima che riuscì ad incutergli nelle viscere una sorta di timore riverenziale. 

La dea osservò la spada, che brillò di luce riflessa, senza dire nient’altro.

«Sorellina, forse dovresti spiegargli perché l’hai fatto venire qui» suggerì Susanoo. Solo quando parlò Edward si ricordò che c’era anche lui. Era davvero difficile concentrarsi su qualcosa che non fosse Amaterasu. 

«Isogaba maware, fratello» rispose lei piccata, strappando una risatina al dio delle tempeste. 

Amaterasu fece scomparire la spada e riportò la sua attenzione su di Edward, facendolo sussultare con un solo sguardo. «Suppongo che mio fratello abbia ragione, per una volta.»

«Come sarebbe a dire “per una volta?”»

«Ti starai chiedendo perché sei qui» proseguì lei ignorando bellamente Susanoo, che fece un verso di protesta. 

Incerto, Edward rispose di sì. Dubitava che volesse soltanto conoscerlo di persona. 

«Come ben saprai, una tregua è stata indetta tra di me e il signore della tua gente.» Amaterasu portò le mani dietro la schiena e fece alcuni passi verso di lui. «E il motivo principale, Edward Model, sei proprio tu.»

Il figlio di Apollo sentì la bocca seccarsi. «I-Io?» 

Amaterasu annuì nuovamente. «La tua esistenza è il solo motivo per cui i nostri mondi sono entrati in conflitto, Edward Model. Il figlio di un dio greco, entrato in possesso di una delle insegne imperiali del Giappone. È stata una situazione senza precedenti.»

Edward avrebbe voluto rispondere che non aveva bisogno di sentire ancora una volta quelle parole. Per fortuna, si ricordò delle sagge parole di Natalie e tenne la bocca chiusa.

«Gli dei più irascibili di me hanno voluto che ti giustiziassi all'istante» continuò la dea. «Avrei potuto riprendermi la spada come e quando volevo, una volta scoperta la sua posizione, anni fa quando la usasti la prima volta. Ma ho deciso di non farlo. Ho voluto darti la possibilità di riportarmela con le tue forze. Prima di tutto questo, però, occorreva che tu scoprissi le tue origini. Per questo motivo ho fatto sì che tu rinvenissi l’avviso che Kate Model lasciò per te.»

Quelle parole avrebbero dovuto sorprenderlo, ma in realtà non lo fecero affatto. Aveva sempre sospettato che non fosse stata solo una coincidenza. L’idea di essere una marionetta nelle mani di forze esterne lo aveva sempre disgustato, ma allo stesso tempo poteva essere grato ad Amaterasu per avergli fatto scoprire il Campo Mezzosangue. 

«I miei compagni chiedevano la guerra. Così ho lanciato l’ultimatum ai tuoi dei. Avevo bisogno di sollecitarli. Ma non è mai rientrato nei miei piani, quello di combattere. L’unica cosa che desideravo, era vederti messo alla prova. Volevo che dimostrassi le tue capacità, Edward Model. Volevo scoprire cosa ti rendesse degno di maneggiare la mia spada. Quello che non sapevo, però, era che anche Yamata no Orochi fosse alla sua ricerca. L’evasione dalla sua prigione è passata inosservata agli occhi di noi tutti. Il fatto che abbia sfruttato lo Yomi, il regno di mia madre, per rimanere nascosto, lo ha aiutato a mascherare le sue tracce. Ma voi semidei, Edward Model, lo avete sconfitto, e avete permesso a mio fratello di rinchiuderlo nuovamente.»

Susanoo unì le mani e chinò la testa in segno di gratitudine.

«E questo ci porta al motivo per cui ti ho condotto qui. Ama no Murakumo non sarebbe mai dovuta essere rubata e Yamata no Orochi non sarebbe mai dovuto evadere. Eppure sono successe entrambe le cose. Non condono ciò che tua madre ha fatto al mio popolo, Edward Model. Non condono nemmeno ciò che ha fatto tuo padre, colui che domina il mio stesso elemento, per averle permesso di compiere così tanti crimini. Ma nutro rispetto nei suoi confronti, per aver scelto di salvare la vita di un innocente, ignorando le conseguenze che le sue azioni avrebbero potuto avere. Per questo motivo, quando abbiamo discusso i termini della tregua, ho voluto che fosse incluso anche lui. Per questo motivo, finché tu avrai vita, Edward Model, i nostri mondi potranno coesistere senza più alcuna difficoltà.»

«Che… che cosa?» 

«Tu, Edward Model, sarai il ponte tra i nostri mondi. Tu, figlio di Apollo, dio del sole, rappresenterai me, Amaterasu, dea del sole. Sarai un faro per la tua gente, la guida del tuo popolo, e lo farai nei panni di semidio, figlio di tuo padre, e di mio campione. Per questo motivo, io, Amaterasu-ō-mi-kami, in qualità di sovrana del Sole, del cielo e divinità da cui discendono tutte le cose, ti cedo la proprietà della mia spada, Ama no Murakumo, affinché tu possa brandirla per difendere il tuo popolo e il mio.»

Non appena finì di dirlo, una scarica di energia attraversò il corpo di Edward, strappandogli un grido spaventato. Una fortissima corrente d’aria si generò attorno a lui, mentre i suoi palmi cominciavano a bruciare terribilmente e a brillare. Ama no Murakumo gli apparve tra le mani, con un ultimo soffio d’aria che sferzò contro i suoi capelli. La osservò sbalordito, mentre quella sensazione di familiarità tornava ad avvolgerlo come una calda coperta.

«Combatterai per me, Edward Model. Solleverai quella spada in mio onore, in qualità di araldo del Sole. Da oggi in poi, renderai conto a me delle tue azioni, adempiendo allo stesso tempo alle tue mansioni da semidio greco. Come la spada ha simboleggiato l’unione tra me e mio fratello, da questo momento in poi simboleggerà l’unione dei nostri mondi. Questa è un’opportunità che ti sto dando per ripagare i danni che tua madre ha arrecato al mio popolo, e per dimostrare davvero che la tua identità può scindere dallo stigma che i tuoi genitori hanno lasciato su di essa. Sfruttala bene. Se dovessi deludermi, il tuo possesso della spada verrà revocato e le conseguenze saranno gravi.»

Lo stupore di Edward si smorzò all'improvviso. Quello fu il record assoluto di tempo più breve tra una bella notizia e una catastrofica. Non gli sembrava vero. Dopo tutto quello che aveva fatto, ancora non aveva dimostrato di meritare la sua vita? 

«Dunque, qual è la tua decisione, Edward Model? Accetti questo ruolo?»

Edward esitò. Sapeva che non aveva davvero scelta. Se avesse rifiutato, sicuramente lo avrebbe incenerito. Allo stesso tempo, sapeva anche che finché sarebbe stato in vita, i crimini di sua madre avrebbero continuato a perseguitarlo. Tuttavia… sentiva che c’era dell’altro. Non poteva credere davvero che Amaterasu volesse sbolognare in quel modo la spada a lui, impulsivo e inesperto com’era. Non aveva senso.

Quello che gli aveva detto Naito gli ritornò in mente proprio in quel momento. Il fatto che un dio stesse tramando alle spalle di Amaterasu, il fatto che Orochi fosse evaso da una prigione – lei stessa l’aveva menzionato – e anche il fatto che Izanami avesse detto alla figlia che presto un suo degno successore si sarebbe fatto avanti. 

Aveva smesso di credere alle coincidenze, ormai. Amaterasu sapeva che stava succedendo qualcosa di brutto alle sue spalle. Per questo aveva deciso di tenersi alleati i greci. E forse era per questo aveva ceduto la spada a lui. Forse non voleva che la spada rimanesse in Giappone. Forse… forse non si fidava della sua gente.

Edward spostò lo sguardo su Susanoo, che sorrise smagliante come suo solito. «Coraggio figliolo, accetta!»

Il figlio di Apollo lo scrutò in silenzio. Orochi era stato sconfitto da lui, da Susanoo. Lui lo aveva esiliato in quella prigione. Lui lo aveva seguito durante quell’impresa, dicendogli che non esistevano scelte sbagliate. E sempre lui aveva di nuovo fatto svanire l’uomo serpente.

Naito aveva menzionato un altro dio, invece. Il terzo fratello, il dio della luna, colui che governava l’elemento opposto a quello di Amaterasu, che per qualche motivo era come se non esistesse nemmeno. Non era mai stato menzionato da nessuno, non era nemmeno stato incluso nel meeting tra gli dei. Chiunque fosse, non doveva avere affatto un buon rapporto con Amaterasu.

E dopo, Izanami. La madre della dea del sole, colei che un tempo ricopriva proprio quel ruolo, il ruolo di regina, ormai caduta in rovina. Dimenticata nello Yomi, abbandonata, furiosa con coloro che l’avevano lasciata indietro e che aveva permesso a Orochi di scorrazzare liberamente nel suo regno assieme ai suoi demoni, prima di dire alla figlia che presto le cose sarebbero cambiate.

Edward riportò lo sguardo su Amaterasu, la dea così bella, magnifica e radiosa da essere il fulcro della sua gente, da essere definita la “divinità da cui discendono tutte le cose”. Non sarebbe certo stato strano essere invidiosi di una come lei. Soprattutto se si era delle prime donne come gli dei. 

E anche lei doveva saperlo. 

«Vi… vi ringrazio, divina Amaterasu» mormorò, chinando la testa. «Accetto… accetto il ruolo che mi avete assegnato. Non vi deluderò.»

Un luccichio soddisfatto balenò nello sguardo della dea. «So che non lo farai, Edward Model. Puoi andare, Araldo della Luce. Discuteremo ancora, in futuro.»

Cominciò a brillare, costringendolo ad assottigliare le palpebre. In mezzo alla luce, scorse Susanoo che lo salutava con un ampio gesto della mano e un altro sorriso. 

 

***

 

Edward riaprì gli occhi. Si mise a sedere e osservò fuori dalla finestra. Era ancora notte. Inspirò profondamente e tese la mano di fronte a lui. Per un secondo non accadde nulla. Poi, una luce.

Ama no Murakumo apparve nel suo palmo. La fece svanire rapida com’era comparsa, sperando di non avere svegliato nessuno, e si sdraiò di nuovo. Fissò il soffitto a lungo, mentre rifletteva su quello che aveva appena appreso. 

Araldo della Luce. Ecco quali erano i piani per lui, quindi. 

La potente Amaterasu… aveva paura che qualcuno potesse tradirla. Aveva bisogno degli dei greci, anzi, dei semidei. Doveva aver capito che i suoi colleghi in quel lato del globo avevano trovato la formula vincente per risolvere i loro problemi. 

Ed Edward era il mediano perfetto. L’ago della bilancia tra i due mondi. Figlio di Apollo, dio greco del Sole, araldo di Amaterasu, dea giapponese del Sole. Rappresentando entrambe le parti, nessun dio avrebbe potuto sbilanciarsi su di lui, altrimenti la tregua avrebbe potuto infrangersi ed era sicuro che nessuna delle due fazioni lo volesse.

I greci avrebbero potuto temere una rappresaglia da parte degli orientali, d’altra parte Amaterasu temeva che, senza il loro aiuto, il suo regno sarebbe potuto finire. E qualcosa gli suggeriva che se fosse successo sarebbero accadute cose molto spiacevoli. 

Si girò su un fianco, pensieroso. E infine si abbandonò ad un altro profondo sospiro, consapevole del fatto che non avrebbe più chiuso occhio e che quindi avrebbe dormito da schifo per l’ennesima volta.

 

***

 

Alla fine si era addormentato di nuovo. Era stato un sonno inquieto, veloce, ma pur sempre sonno. E ovviamente, abbastanza da farlo svegliare per ultimo e fargli fare l’ennesima bella figura. Tuttavia era il capo adesso, quindi questa volta tutti lo aspettarono senza rompergli le scatole. Perfino Rosa lo lasciò tranquillo.

«Quando vuoi Edward» disse Jonathan con un sorriso, mentre Edward finiva di mettersi i calzini. Non sembrava infastidito. Forse per timore del capo, o forse perché davvero la cosa non lo infastidiva. In effetti, anche gli altri ragazzi non sembravano avere fretta. Chiacchieravano tra di loro, tranquilli, mostrando ancora quell’affiatamento che aveva notato la sera prima.

Edward si infilò le scarpe e afferrò la sua fidata felpa compagna di mille battaglie – che per chissà quale concessione divina ancora si reggeva assieme – e la indossò quasi come se fosse stata la sua uniforme da alto ufficiale. 

«Possiamo andare» affermò.

La capanna Sette lo seguì verso il padiglione della mensa. Sulla strada incrociò le altre cabine, dirette verso la sua stessa meta. 

Si sorprese di vedere che la Undici era già fuori. Tutti i componenti erano vestiti e ordinati, capitanati da un sorridente Thomas, affiancato da un’altrettanta serena Lisa, che lo salutarono non appena lo videro. Edward ricambiò il saluto, trovando buffo come da un lato la capanna Sette si fosse fatta meno perfettina, mentre la Undici si era data una raddrizzata. Tommy non fu l’unico a salutarlo, anche i suoi fratelli agitarono le mani. I due piccoletti, Derek, tutti quanti mostrarono il loro calore verso il semidio che avevano creduto loro fratello. Tra di loro individuò anche Nat, che gli mandò un bacetto con la mano. I morsi e i graffi che quella ragazza gli aveva lasciato si riaccesero in un tutt’uno, facendogli sentire caldo all’improvviso e soprattutto facendo affluire il sangue in zone in cui di prima mattina sarebbe dovuto affluire in ogni caso. 

Incrociò poi la Quattro, guidata da Stephanie, che sorrise e lo salutò, imitata da Paul. Accanto a loro – ovviamente – c’era la Cinque, con Konnor in vetta, che imitò il saluto dei due figli di Demetra. Edward salutò tutti loro, godendosi la scena di fronte ai suoi occhi: i ragazzi più pacifici del campo che camminavano fianco a fianco con quelli più bellicosi. Era assurdo da vedere, e bellissimo allo stesso tempo. In mezzo a loro c’era anche Buck, che chiudeva la fila con espressione buia. Edward si augurò che davvero avesse recepito il messaggio, la sera prima. Non aveva molta voglia di rompergli tutte le ossa. Avrebbe preferito che non si incrociassero proprio più.

Vide anche la cabina Dieci. Jane si illuminò non appena lo notò. Lo salutò con un sorriso smagliante, ottenendo alcune occhiatine perplesse dalle sue sorelle. Divertito, Edward salutò anche lei. 

Anche Seth lo salutò, mentre apriva le fila della capanna di Nemesi. Un po’ inquietato, Edward ricambiò pure a lui.

«Edward» disse Simon, passandogli accanto in quel momento. «Buongiorno.»

«Buongiorno» lo salutò lui, sorpreso.

«Ehi amico.» Kevin apparve sul suo altro fianco e gli puntò la mano a mo’ di pistola, come la sera prima. «Ieri notte non hai visto niente, vero?»

«No, no…»

Un sonoro sbadiglio lo fece voltare. Xavier affiancò Simon e si stiracchiò. «Buongiorno, buongiorno…»

Edward cominciò a non capirci più nulla. Notò che un sacco di gente che nemmeno conosceva gli stava rivolgendo saluti e riverenze, con sguardi carichi di rispetto. Anche le altre capocasa, con cui non aveva mai parlato, mandarono dei brevi cenni verso la sua direzione. Alyssa, Tonya, Sarah – era probabile che lei volesse chiedergli lo stesso che gli aveva chiesto Kevin – e Sunry, tutte loro lo salutarono. 

Perfino quel tizio che dormiva sempre, George, sollevò a fatica la mano, mentre zoppicava come uno zombie.

Il capocasa di Apollo sorrise, cominciando a capire quello che stava succedendo.

Nella mensa c’era un’atmosfera diversa. C’erano molte più risate, molta più felicità e tranquillità. Vide moltissimi ragazzi di case diverse alzarsi dai tavoli per parlare tra di loro, oppure che ridevano mentre si riempivano i piatti di cibo. Nell’angolo della mensa dove si trovava il loro tavolo, vide perfino Lisa che rideva in compagnia di suo padre, che incredibilmente stava sorridendo alla figlia.

Quel posto… era cambiato. Chiunque avrebbe potuto accorgersene. Ed era cambiato in meglio.

«Allora hermano, più tardi vuoi venire ad allenarti un po’ o preferisci spassartela con tu novia?» gli domandò Rosa, accanto a lui. 

«Penso che potrei fare entrambe» concluse Edward con un’alzata di spalle. «Perché dovrei dedicarmi soltanto a una di voi?»

«Perché potresti stancarti troppo con una prima di andare con l’altra» suggerì Rosa, dandogli alcune pacche sulle spalle e facendolo ridere.  

Più tardi le avrebbe sicuramente parlato. Le avrebbe fatto le scuse di Naito, le avrebbe detto di Izanami, ogni cosa, e avrebbe fatto lo stesso anche con i suoi amici e Natalie. Avrebbe poi chiesto a tutti loro di accompagnarlo da Chirone, a cui avrebbe raccontato del sogno su Amaterasu. 

Si preannunciava una giornata lunga e stancante, con tante spiegazioni da fare, ma non era un problema. Non doveva andare da nessuna parte, tanto. 

Senza ombra di dubbio, i loro problemi non erano finiti. Chiunque stesse tramando alle spalle di Amaterasu, chiunque avesse fatto evadere i mostri dal Tartaro, non si sarebbero fermati. Sarebbero tornati, ne era certo. Ma non era un problema, perché quel luogo, il Campo Mezzosangue, non era più diviso e frammentato. Erano tutti sulla stessa pagina, con nuovi capicasa, nuovi volti, nuove amicizie e nuovi amori. 

Non solo lì. Anche in Giappone avevano un amico. Un mezzosangue, uguale a loro per metà. In cuor suo, Edward sperava di avere anche sue notizie.

I giorni, le settimane, i mesi successivi si preannunciavano impegnativi, ma ad Edward non importava. Era pronto. Come semidio, come araldo di Amaterasu, Araldo della Luce, avrebbe combattuto.

Ma prima, avrebbe fatto meglio a finire i suoi waffles finché erano caldi.

 

 

 

 

 

 

Ebbene... this is it, folks. Scrivo queste righe con il cuore che piange, davvero. Ho iniziato questa storia senza avere nessuna reale pretesta, senza conoscere i miei personaggi, senza avere una reale direzione, ho cambiato un miliardo di cose in corso d'opera, ho aggiunto cose, tolto delle altre, in un certo senso il finale è come me lo sono sempre immaginato, ma è innegabile il fatto che molte cose siano cambiate in questi due quasi tre anni, i miei personaggi sono cresciuti di fronte a me, hanno trovato un'identità, uno scopo, e... niente, sono felice. Sono molto, molto, molto felice per come le cose siano andate e non cambierei una sola virgola (metaforicamente parlando, perché in realtà dovrò fare dei ritocchi in post-produzione, ma ora ci arrivo).

Quindi... sì, questa è la fine. Di... di questa storia, insomma. Non sarà l'ultima volta che mi vedrete, però. Intendo tornare e aggiungere dei pezzi, mettere scene inedite e cose del genere, in una raccolta che creerò nei prossimi giorni (o settimane, devo capire come organizzarmi). Sarà una raccolta di missing moment, one shot e drabble su La Spada del Paradiso, e anche scene che si svolgeranno dopo la storia, con pov inediti, giusto per gettare un po' di luce in più sul nuovo Campo Mezzosangue e i suoi componenti (sì Roland, ti vedo, lo so che vuoi Seth, tu Nanamin, lo so che vuoi Kevin, ci proverò, ok? Im only human).

Poi, come ho menzionato prima, la storia entrerà in una fase di revisione. Alcuni se ne saranno accorti, Farkas la volpe in primis, alcuni dettagli sono cambiati nel corso della storia. Konnor aveva una spada di Ferro dello Stige che poi è tornata in bronzo celeste e cose di questo tipo, intendo tornare indietro e sistemare alcuni dettagli inutili e/o fuori posto, sfoltirò un po' i mattoni di pare inutili dei personaggi, correggerò eventuali sviste, aggettivi, errori, insomma, cercherò di dare un po' una pennellata su tutto in modo da rendere la storia simile a com'era diventata in questi ultimi capitoli, anche perché ripartendo dall'inizio non sembra nemmeno la stessa persona a scrivere. Gli "sprazzi" di me ci sono sempre, quello sì, ma per come tutto è gestito, anche esteticamente, non è tutto consistente. Devo anche correggere i font, l'html su alcune parti e cose simili, comunque nella descrizione della storia troverete la scritta "[In revisione]", che scomparirà quando avrò finito tutto quanto. Quindi a quel punto, se vorrete, potrete rileggere e giudicare voi (naturalmente non cambierà nulla della storia o dei dialoghi, solo le descrizioni e cose del genere).  

Ah, suppongo che alla fine di questo capitolo sia chiaro perché Edward ha sempre avuto un'immagine dello Yatagarasu e non di un corvo normale (mammamia che long term story telling, quasi meglio di Edward che finalmente riesce a mangiare dei waffles dopo due anni e mezzo). Adesso mi compro una medaglia per me stesso.

Ok, gente, ci siamo tolti la roba burocratica, ora mi dispiace, ma vi tocca sorbirvi i ringraziamenti. Se siete lettori "fantasma" potete anche chiudere qui, vi ringrazio di cuore per aver letto, per avermi seguito fino a qui, ringrazio chi tra di voi mi ha seguito dal day one e anche chi si è aggiunto dopo, spero che vi siate divertiti, spero che la storia vi sia piaciuta e spero che possiate, magari, prendere in considerazione l'idea di lasciare una recensione, se vorrete. Comunque sia, grazie di cuore a tutti voi.

Ora passo a chi mi ha supportato, per prima cosa Farkas, che ha recensito ogni singolo capitolo e che spero di prenda un fracco di punti, perché se li merita. Grazie mille per le recensioni, per le tue opinioni, i tuoi pareri, per avermi fatto notare alcune incongruenze (occhio di lince) e sopratutto grazie per avermi seguito dal day one, spero che la storia ti sia piaciuta. 

Ringrazio poi Roland, per avermi supportato nell'ultimo anno e mezzo o giù di lì, per i suoi bellissimi disegni (non ne avevo mai ricevuti prima, sono estasiato davvero) che hanno reso i miei personaggi più "veri" e più vicini a me, grazie per le recensioni, anche i messaggi, le battute, gli scambi, le opinioni, le risate e grazie anche per aver scritto il tuo Crepuscolo degli Idoli che mentirei se dicessi che non mi ha aiutato a trovare ispirazione in più di un'occasione. Quindi sì, grazie di cuore. E sì, proverò a portarti Seth (e a finire di leggere la tua storia magari che son qua che mi rincorro la coda da un anno e mezzo).

Ringrazio Nanamin per avermi dato consigli, pareri e opinioni nel privato, aiutandomi anche con la realizzazione di questo ultimo capitolo. Quindi se vi è piaciuto è anche merito suo, personalmente l'ho trovato bellissimo e sapevo di aver bisogno di qualcun altro che mi aiutasse a smussarlo per benino. Grazie anche per le recensioni, il supporto e per avermi convinto alla fine a dare una gioia ad Edward (penso che dovrebbe essere lui a ringraziarti, però vabbé, io ne faccio le veci). 

Ringrazio Beauty Queen, Lady Maria, Lady White Witch, volarefinoatoccareilcielo per le loro recensioni, spero che siate arrivate fino a questo punto anche voi, ringrazio tutti quelli che hanno preferito, ricordato e seguito, che sono i già citati Farkas, Nanamin, Roland, Beauty Queen e poi NonLoSo_18, Alohomora__, Calathea, Cossiopea, Mareena, camillavaalmare, Lydia_Swan_Prior e Pase200585, spero di averli scritti tutti giusti. 

Grazie mille a tutti quanti, spero che anche voi siate tutti arrivati alla fine, se dovessi avervi ispirati, divertiti, intrattenuti e quant'altro, sappiate che per me è un gigantesco onore. 

Allora, qua ci sono le due canzoni nel capitolo, una già l'avevo messa, ma la rimetto per dovere di cronaca:

Ronco invierno, la canzone in spagnolo (quella acustica, ma vi consiglio anche l'originale): https://youtu.be/XxTp7dwu3pQ

Rum is for drinking, not for burning, la canzone di Rosa e Edward (ci sono due versioni, io metto quella che mi ha ispirato ma vi consiglio di cercare anche l'altra because why not): https://youtu.be/wdl5GwMIDxA

 

Nota conclusiva solo per fare un po' di sano fanboysmo verso Amaterasu che è stata bellissima da scrivere, mi sono innamorato di lei e magari racconterò anche qualcosa in più sul suo conto. In realtà introdurre nuove divinità è stato davvero divertente ed un esperimento interessante. Susanoo, Amaterasu e Izanami sono carini (specialmente Izanami, lei è carinissima). Niente, scusate la parentesi inutile, sto farfugliando cose perché non voglio andare via ma mi sa che tocca. 

Comunque sì, lettori, recensori, amici, spero di tornare presto. Per il momento è tutto, vi mando un abbraccio, un bacio sulla guancia, bocca, con lingua o senza, quello che vi pare, tanto è virtuale quindi non serve nemmeno preoccuparsi del distanziamento. 

SIGNORI E SIGNORE. Alla prossima, statemi bene! 

 

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