If it's lovin' that you want

di Anonimadelirante
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ricordi, Elena ***
Capitolo 2: *** bugie, Lily ***
Capitolo 3: *** colpa, Rose ***



Capitolo 1
*** ricordi, Elena ***


Warnings: fluff, angst, slice of life: insomma, è una raccolta di missing moment e tutto ciò che ne consegue.
Disclaimer: Damon non mi appartiene. La verità fa male, lo so. Titolo @Rihanna; per altri credits a fondo di ogni chap.
N/A: a piè pagina, as usual.

 

 

 

 

If it's lovin' that you want

 

 

Elena è nata ricordo. È nata da un sogno, un ideale di perfezione che la Natura ha dovuto compensare. Pura astrazione: geometria.
Damon la incontra per la prima volta una notte ch’è estate, ch’è dejavu (ricorda di essere passato per quella stessa strada, in una notte identica, anni e anni prima – e ricorda di aver baciato la mano della stessa donna e averle sussurrato: Siete qualunque cosa. Esattamente lì) ed ha l’impressione di averla già vista. Le si avvicina e vede lo stesso naso, gli stessi occhi, gli stessi capelli (ha già passato le dita fra quelle ciocche, le ha già accarezzato le guance – ha già morso quello stesso collo, ma-). Ma Elena è un ricordo sfocato dal tempo, distorto dall’agonia: non vede che le sue labbra – se vedesse anche il suo sorriso, svelerebbe l’inganno. Katherinemai, non gli ha sorriso a quel modo neppure una volta. Non ha mai fatto nulla – non con lui – che non fosse macchiato di malizia.
Damon, però, è sempre stato un bravo bugiardo, prendersi gioco di sé stesso è la sua arte: sorride a sua volta e pensa È lei. E pensa È qui.


Elena è lì, ed è viva. Elena non è Katherine. Non per via dei capelli troppo lisci, o degli occhi innocenti o del modo che ha d’inclinare la testa. Non è lei perché sa di lacrime – la prima cosa che Damon assocerà ad Elena, quando il tempo l’avrà resa a buon diritto un ricordo, sarà l’odore delle lacrime. Per quanto si sforzi, un’immagine di una Katherine piangente non ha spazio nella sua testa. Nè di una Katherine che bisbiglia Non so quello che voglio. Che sorride, pianissimo, un po’ tremula, e chiede: E tu? Tu cosa vuoi? — Elena è stata la prima a chiederglielo e la risposta è Morire, come la risposta è Vivere ancora. Così sorride a sua volta e si dice: Almeno lei.
Sorride, in risposta, e le dice: «Voglio che tu riesca a trovare tutto quello che desideri dalla vita.»

 


Elena sarà il ricordo di sé stessa. È la legge del contrappasso: capita a tutti, prima o poi. Damon si chiede (a volte, con un angolo spossato della mente) se non sia il suo destino, semplicemente, quello di amare ricordi. Se così fosse, sarebbe crudele, ma niente di nuovo – è già successo: un ricordo anche questo.

 

 

Il ricordo della felicità non è più felicità;

il ricordo del dolore è ancora dolore

(Marin Faliero doge di Venezia, George Gordon Byron)

 











N/A: ehm. Sì. Ho scritto questa roba tipo secoli fa (ha partecipato all'ultima settimana del #COWT8, per dire – M5: tristezza) e poi mi sono completamente dimenticata di crosspostarla perché boh. Ho decine di altre cosette da crospostare, btw, ma la mia vita non è fatta di costanza. La pubblico ora perché è il mio compleanno e mi seccava non pubblicare niente neanche oggi e la metto come se fosse il primo capitolo di una raccolta perché idealmente lo è. Poi chissà. Ehm. Conoscendomi... però ho già un paio d'altri capitoli, quindi non lo so, vedete voi.
Bacini! (Oggi sono allegra e sdolcinata, ew, vermante OOC.)

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Capitolo 2
*** bugie, Lily ***


N/A: Io non lo so se Lily Salvatore sia canonicmanete francese, a questo punto, o sia solo grazie alle colpa delle fic di @Soqquadro, ma who cares. Se non sapete di cosa sto parlando, andate qui, ecco, prego.  
—Questo chap (più un altro pezzetto che è stato tagliato via e messo da parte per tempi migliori) ha partecipato come sempre, ehm, all'ultima settimana del #COWT8 (lo so, mi recndo conto, è passato più di un anno a questo punto), M5: tristezza. 

 

 

 

If it's lovin' that you want

 

 

Il suo primo ricordo risale ad una vita fa, troppo tempo per una mente che è stata umana, ed è immerso nella luce soffusa di un sogno – c'è sua madre appoggiata al tronco della vecchia quercia al centro del giardino, in controluce, che inclina la testa. Non il suo volto, né il suo sorriso dolcissimo (quello è destinato ad un momento prima di addormentarsi, tutte le sere per anni, labbra morbide sulla sua fronte e Buonanotte, mon bèbè, doux rêves): solo la sua sagoma scura contro l'albero, la luce timida del sole d'autunno a filtrare attraverso le sue dita lunghe da pianista, i capelli bruni scompigliati dalla brezza leggera e poi polpastrelli morbidi sul suo volto, fra le ciocche che gli ricadono disordinate sul collo: «Sei un bravo bambino, mon petite» un bravo bambino, un bravo figliolo, renderai orgoglioso tuo padre «Sarai un bravo fratello.»


Solo questo. La sagoma senza volto di sua madre che inclina il capo e sussurra, il sole pallido di una mezza stagione.

 


Damon aveva chiuso gli occhi, una vita fa, in un tempo che ha il sapore agrodolce dei sogni passati, si era teso contro la mano calda di sua madre e le aveva creduto. (Per questo, poi, aveva fatto così male.) Per anni, più tardi, quando la polmonite l'aveva già strappata dal suo letto da un pezzo, per anni, dopo, quand'era partito per la guerra ed era riuscito a pensare soltanto alle labbra morbide di Katherine incurvarsi e sussurrare Quando tornerete col tono di una promessa, Quando tornerete..., col tono di una donna che non appartiene a nessuno ma che sarebbe potuta appartenere a lui – quand'era partito, aveva serrato le palpebre e aveva ricordato le dita di sua madre giocare coi suoi capelli e si era sentito in qualche modo investito di quella promessa fatta in silenzio anni prima (e già allora gli era sembrato così lontano, quel pomeriggio autunnale di pace e luce morente, così struggente). Allora aveva stretto una spalla di Stefan senza guardarlo – lo sguardo rivolto a Katherine, un sorriso beffardo che diceva Quando ritornerò-- Ma era partito. Era partito. (Aveva desiderato ardentemente rimanere, smontare da cavallo e baciarla davanti a tutti, i domestici e suo padre e Stefan — ma era partito.) E per un po' si era illuso di poter essere un bravo figliolo, un bravo fratello, di poter rendere orgoglioso suo padre.
Mentire a sé stessi è un'arte: Damon possiede una buona dose di talento – ma come tutto pretende impegno e dedizione; e di questo è sempre stato drammaticamente sprovvisto. 
Per tutto il viaggio, da villa Salvatore al campo dove il resto dell'esercito aspettava gloria e onore, gli zoccoli del cavallo avevano calpestato foglie secche, in una parodia del suo passo da bambino, quando sua madre aveva chinato il viso contro il sole d'autunno.

 

 


«Sei un bravo bambino. Sarai un bravo fratello.»
Lily sorride pianissimo, allunga una mano a scostargli ciocche nere dal viso, si china alla sua altezza – questo Damon non lo ricorda, non lo ricorda, ma la sua mente gioca con l'odore del terriccio smosso dai loro passi e il profumo di gelsomino della donna, il rumore di foglie secche che si sbriciolano sotto il frusciare della gonna pesante.


(«Je vous aimerai toujours, mon, mon bébé.»
Questo Damon non lo ricorda, ma ha l'impressione che sia un'altra bugia.)

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Capitolo 3
*** colpa, Rose ***


N/A:  sì, no, boh, questo capitolo non ha un senso. Cioè, meno del solito.

 

 

 

If it's lovin' that you want

 

 

«Mi ricordi molto Trevor» gli dice Rose e Damon si trattiene appena dal chiedere che razza di idiota fosse Trevor: «E che fine ha fatto, Trevor?»

«È morto» ammette lei, senza indietreggiare di un passo, il sorriso appena incrinato di una malinconia imparata cogli anni.

Damon la guarda di traverso e arriccia appena le labbra, nella parodia di un sorriso: «A Trevor, allora.» Alza il bicchiere di bourbon in sua direzione, ma non le offre da bere.

A Rose non sembra importare.

 

Neppure a Damon importerebbe poi molto (no, davvero) se non fosse che—

 

 

Torna casa e non alcuna voglia di vedere Elena dove Elena effettivamente è (ed è una sensazione assolutamente inedita, il desiderio di sentirsi bruciare da soli, senza Elena – giudicante e bellissima e stupidamente pietosa – accanto. Non ha bisogno del perdono di nessuno, lui. Va tutto per il meglio). Solo che Elena è lì e parla e dice cose idiote sull'amicizia – e la verità è che lui non vuole sentirsi dire nulla di tutto questo perché Rose era sua amica e lui l'ha-- ed Elena è altro. Qualcos'altro. Qualcosa di irraggiungibile e doloroso. Basta, basta, stai zitta: «Che cosa vuoi sentire? Che volevo bene a Rose? Che sono arrabbiato? Be’, nessuna delle due.»

«Ecco» risponde lei, sempre sul piede di guerra, sempre sempre sempre, «Cancella tutto, fa' finta di non avere emozioni. Damon. Ci sei così vicino non mollare.»

Vicino a cosa? Fino adesso, provare emozioni non è stato altro che una condanna lenta e perversa, e il solo pensare a Kat o a Enzo o a sua madre, a Stefan e a tutti coloro che, lentamente, in un modo o nell'altro, ha deluso, adesso, ha un sapore diverso, ferroso, come di sangue avvelenato dalla bile: «Ho sentimenti, Elena? Okay. E mi scoccia. Quello che mi secca di più è che doveva toccare a me. Jules stava dando la caccia a me.»

Ed Elena lo guarda. E lo guarda: «Ti senti in colpa» bisbiglia, col tono di una scoperta.

No. Era la cosa giusta da fare. Uccidere Rose, risparmiarle la sofferenza degli ultimi momenti di agonia. Lui non- ma come sempre non riesce a collegare il cervello alla bocca, con Elena: «Sarebbe la mia parte umana, vero? Ma io non sono umano. Sei tu quella che parla di mollare. Tutto ciò che hai fatto è stato mollare» è così stanco «Va' a casa. C'è già stata troppa tristezza e crescita personale, per una notte.»

«Okay» risponde Elena. Lo guarda ed occhi marroni, profondi, bellissimi, che sono balsamo sulle ferite e sale sulle piaghe: «Vado» —e lo abbraccia.

 

«Buonanotte, Damon.»

 

 

—se non fosse per Rose che, qualche sera dopo quel loro primo brindisi a metà: «È una balla lo sai? Non c'è nessun pulsantino per le emozioni. Certo, quando sei un novellino. Ma dopo duecento anni... puoi solo fingere» gli ha detto, pianissimo, come un segreto svelato in punta di labbra. Damon aveva solo sorriso, perché in fondo già lo sapeva. Sapeva a memoria il dolore sordo del proprio cuore spezzato già allora.

Non vede perché adesso, il salotto stupidamente vuoto, il crepitio del camino che riecheggia nella penombra, dovrebbe essere diverso.

(Ma lo è. È come non avere più aria. Amare Elena senza esserne riamato è qualcosa che può sopportare – è giusto, persino, è ovvio: è Stefan il bravo ragazzo, è Stefan, fra i due, quello che merita di essere felice; di essere guardato dagli occhi grandi ed impossibili di Elena come la sola cosa importante al mondo. È sempre stato così. Sta nell'ordine delle cose.

Ma questo. Questo non-)

 

Quando Rose gli aveva detto È una balla, lo sai?, ammiccante dietro un bicchiere di bourbon, Damon aveva sorriso, piccolo, saputo, vago. E forse lo aveva fatto perché aveva creduto di saperlo già, come ci si sentisse trafitti al petto da un paletto

Damon aveva sorriso soltanto, allora, e forse era stato perché non aveva capito... non aveva capito, lui, il dolore di Rose, il lutto inestinguibile di una famiglia perduta con una sola testa rotolata sul pavimento. Ma Rose – lei aveva capito il suo senza margine di errore, aveva riconosciuto al primo colpo il battere sordo di un cuore spezzato, e fatto in briciole e calpestato troppe volte per contarle; e non per questo l'aveva giustificato, ma neanche giudicato ed era stato quello ad essere strano e disarmante, nuovissimo, come imparare a camminare una seconda volta volta.

Solo dopo averne seppellito il corpo, solo dopo aver sorriso un sorriso di plastica a Liz ed essere rimasto solo, con troppo poco bourbon in corpo ed ancora il profumo sottile di Elena nell'aria s'era chiesto come avesse fatto Stefan a perdonalo – se lo avesse perdonato – di aver ammazzato Lexi.

E se l'aveva pensata, ricordata, se aveva preferito sentire le viscere stingersi d'un senso di colpa che capiva solo in quel momento, se aveva passato la notte a pensare a cosa avesse perso Stefan, piuttosto che aprire gli occhi e non vedere Rose, al suo fianco, stringere un bicchiere fra le dita – se l'aveva fatto, ecco, si era detto, era perché dopotutto aveva bevuto abbastanza.

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