Perché tu possa ascoltarmi di lady igraine (/viewuser.php?uid=188055)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quando Marisa li conobbe ***
Capitolo 2: *** Quando fumarono insieme la prima sigaretta ***
Capitolo 3: *** Quando si guardarono negli occhi per la prima volta ***
Capitolo 4: *** Quando Elena gli aveva parlato ***
Capitolo 5: *** Quando le aveva sorriso ***
Capitolo 6: *** Quando si erano sentiti fragili ***
Capitolo 7: *** Quando l'orgoglio si fece da parte ***
Capitolo 8: *** Quando era come una poesia di Neruda ***
Capitolo 9: *** Quando realizzò la gravità della situazione ***
Capitolo 10: *** Quando, forse, era quello il punto ***
Capitolo 11: *** Quando tutto era ancora puro ***
Capitolo 12: *** Quando aveva scoperto la verità ***
Capitolo 13: *** Quando quel giorno al parco ***
Capitolo 14: *** Quando era tornato da lei ***
Capitolo 15: *** Quando sarebbe stato più grande ***
Capitolo 16: *** Quando era il suo compleanno ***
Capitolo 17: *** Quando avrebbe voluto le sue parole ***
Capitolo 18: *** Quando del tredicenne innocente si era persa ogni traccia ***
Capitolo 19: *** Quando quella prima e unica volta ***
Capitolo 20: *** Quando non lo aveva più guardato ***
Capitolo 21: *** Quando aveva iniziato ad odiarla ***
Capitolo 22: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Quando Marisa li conobbe ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
MARISA LI CONOBBE
La
prima volta che aveva accompagnato maman
ad una visita, un’infermiera gentile gli aveva preso la mano
e Demian aveva
avuto paura. Le aveva appena afferrato la punta delle dita, con un
imbarazzo
infantile di chi bambino non lo voleva più essere ma non
aveva ancora la forza
di camminare da solo.
Marisa
era indulgente con lui, intenerita
da quel suo raccogliersi, stringersi nelle spalle per difendersi dai
volti che
gli scorrevano accanto e non conosceva. Da quell’infermiera
stessa, che pure
sembrava tanto gentile ma proprio per questo gli faceva aumentare i
battiti
cardiaci in ansia compressa tra lo stomaco e il diaframma.
Marisa
gli aveva offerto una cioccolata e
Demian vi si era aggrappato quasi disperatamente. Le dita pallide e
magre
tremavano, il liquido minacciava di uscire dal bicchierino, e lui vi
appoggiò
piano al bordo, con esitazione, le labbra delicate e sottili come
buccia d’uva,
e bevve lentamente, quasi solo a bagnarsi il palato con tutta quella
dolcezza
per allungare il momento e goderne più a fondo. La sua
leggera oasi di dolcezza
era tutta lì, raccolta in quel bicchiere: lo sapeva che
finita quella sarebbero
arrivate le notizie.
Non
sarebbero state belle notizie.
Aveva
dieci anni e il suo corpicino
rannicchiato e rattrappito su se stesso, quasi cercasse di sparire e
fondersi
con la parete, era una curva di fragilità e delicatezza,
trasmetteva un senso
d’impotenza che spaccava il cuore. La linea del collo,
così indifesa e sottile,
i capelli corti e morbidi e quegli occhi, docili e insicuri che
scavavano, che
cercavano in Marisa conforto.
La
donna non aveva potuto darglielo, non
aveva avuto il coraggio di sfiorarlo, aveva quasi allungato una mano
verso di
lui, come per raccogliere quell’angoscia, ma era inerme e
distrutto, così
distrutto che il braccio le era ricaduto sul fianco morbido, e lei si
era
vergognata della viltà che non le aveva permesso di aiutarlo.
Gli
occhi di Dami si erano allargati, il
nero aveva inghiottito tutto, si era mangiato l’iride gelida
che lo faceva
apparire distante e aveva mostrato solo un bambino spaventato che nella
sua
esitazione aveva colto l’abbandono. Davanti al suo sguardo
ferito e implorante
Marisa aveva piegato la testa e distolto il viso.
«Vuoi
andare a giocare con gli altri
bambini?» gli aveva chiesto per sciogliere
l’imbarazzo che la sua presenza,
troppo grande per essere solo un bambino, gli stava causando.
Dem
aveva scosso la testolina chinata verso
il pavimento.
«Cosa
vuoi fare? ci vorrà ancora un po’ di
tempo»
Lo
osservò mordersi l’interno della
guancia, poi appoggiare a terra accanto alla seggiola il bicchiere di
plastica,
sfilarsi lo zainetto dalle spalle ed estrarre un quadernetto. Senza
dirle
nulla, quasi senza considerarla, aveva iniziato a disegnare.
Da
allora, Demian non le aveva più
afferrate, le sue dita.
Aveva
abbozzato sorrisi, per tutte le
cioccolate che erano seguite a quella, aveva ringraziato e aveva
raccolto il
suo dolore.
Quando
Marisa lo vedeva di schiena, la sua
postura sempre un po’ curva, di chi si difende da solo,
pensava solo a quanto
sembrasse inerme e sguarnito, a come fosse sempre stato delicato, fin
dal primo
giorno.
Ora
che il tempo era trascorso, entrava
dritto e sicuro, e i suoi occhioni dal taglio obliquo, nordico
-così diverso e
particolare, da creatura fatata- si volgevano al vuoto e non si
soffermavano su
nulla. Allora Marisa avrebbe voluto poter tornare indietro, ad
accarezzargli la
testa, quel giorno, a stringergli bene la mano, a superare la sua
paura, perché
forse non avrebbe fatto differenza o forse, ora, Demi non sarebbe
apparso
ancora più distante, un sogno che camminava, che sfumava
nella delicatezza della
linea insicura di un corpo etereo e irraggiungibile.
Poi
erano arrivati i lividi.
Cerano
anche prima, c’erano sempre stati,
ma mai così, mai una tale manifestazione di
brutalità. La pelle morbida dello
zigomo spaccata, il sopracciglio candido strappato, le labbra tinte di
violenza
triste come una macchia irreparabile sul viso ancora efebico ed
elegante,
candido. Il rosso della carne e del sangue sulla sua pelle lattea
sapeva di
sacrilego, sangue sulla neve, come qualcosa d’innocente e
puro che veniva
corrotto. Un malsano senso di decadenza e rovina. Eppure,
c’era della bellezza
in questo, anche in questo, e osservarlo faceva solo male, come vedere
una
statua di marmo bianco modellata nell’incanto e sfregiata
dalle intemperie.
Demian
era la purezza più degradata e sporca
e Marisa poteva solo sorridergli, essere gentile e chiedere perdono a
Jenevieve,
perché l’amica glielo aveva chiesto, le aveva
detto di proteggerlo e stargli
vicino, che suo figlio era un’anima persa che si sentiva
esclusa dal mondo, era
un artista errabondo, un bohémien che nei propri panni non
sapeva starci e se
fosse rimasto solo, anche per poco, sarebbe stato più che
sufficiente perché si
sentisse solo sempre.
Marisa
era impotente, non poteva aiutarlo.
E
allora gli sorrideva e andava avanti.
«Marisa
io ho finito con la camera sette»
La
ragazza si stava avvicinando spulciando
da una cartelletta la sua personale lista. Elena faceva tenerezza, per
l’impegno che ci profondeva nel non restare mai indietro, nel
non sbagliare
nulla. La seguiva con attenzione e l’inadeguatezza insicura
di un pulcino che
tampina la mamma chioccia, contraeva le sopracciglia ad ala di gabbiano
e
annuiva mano a mano che imparava, come se con quel gesto stesse
confermando a
se stessa che tutto era sotto controllo e ce l’avrebbe fatta
senza problemi.
Il
suo tirocinio era iniziato solo da una
settimana, eppure quella manciata di giorni era bastata per far capire
a Marisa
che tutta la sua dedizione era in realtà solo un modo per
non perdere la
bussola. Come se Elena si costringesse a essere metodica non per
passione, né
per vero desiderio di apprendere, ma perché se avesse smesso
di farlo, se
avesse fatto vacillare la propria volontà anche un solo
istante, tutto le
sarebbe crollato addosso e la sua scelta le sarebbe sembrata assurda.
Una
volta, durante la pausa caffè, la
ragazza aveva fissato fuori dalla porta a vetri con aria distratta, lo
chignon
si stava lasciando andare e tutto in lei aveva l’aspetto
sfatto di una persona
alla deriva.
«Tutto
bene?» le
aveva domandato, ed Elena aveva annuito.
Poi,
aveva fatto una smorfia.
«Perché
lo fai?» aveva risposto.
E
Marisa non aveva capito.
«Perché
hai scelto questo lavoro? Perché lo
fai?»
Aveva
scrollato le spalle «Non posso fare a
meno di sentirmi utile»
Gli
occhi grandi di quello che all’epoca
era stato un bambino indifeso la annichilirono, lui non lo aveva
aiutato.
Avrebbe dovuto solo accarezzargli la testa e dirgli che tutto sarebbe
andato
bene, ma il dolore di Demian era stato troppo forte, l’aveva
travolta e
sbattuta e Marisa aveva capito che con il tempo anche lei aveva
sviluppato quel
muro che ogni medico deve erigere fra sé e il paziente, per
non restare
impantanato e distrutto dal dolore altrui.
«Tu
non mi sembri felice» aveva fatto
notare alla ragazza, e gli occhi di Elena si erano spalancati per la
sorpresa
di essere stata smascherata.
Eppure,
era una tale ovvietà.
«A
volte ho l’impressione che se esiste un
destino io l’ho mancato in pieno. Ed ora è troppo
tardi, non posso tornare
indietro. Che mi vada o meno, sono quasi alla fine, non posso gettare
via
tutto. È questa la mia strada adesso, e che io odi questo
destino o meno non conta
molto, no?»
Elena
faceva parte di quella generazione
che poteva scegliere e aveva davanti a sé così
tante scelte da non sapere quale
fare. Marisa non poteva capirla davvero, non conosceva il panico delle
infinite
possibilità, ai suoi tempi avere la possibilità
di un solo destino era già fin
troppo.
Ma
non lo disse, perché ogni generazione
aveva la sua croce.
La
croce di Elena era Elena stessa, niente
dolori, guerre, niente battaglie e lotte per diritti lontani, niente
fame e
stenti. E allora poteva combattere solo contro se stessa e rivoltarsi e
farsi a
brandelli.
In
quel momento era entrato Demian.
Puntuale
come sempre, l’aspetto consumato
di sempre, si trascinava e il viso duro e inflessibile non lasciava
spazio ad
alcuna luce.
Elena
lo aveva osservato, seguito con lo
sguardo, con una vivace curiosità ad animarle il volto,
finché Demian non aveva
imboccato le scale ed era sparito.
«Che
strano ragazzo» aveva mormorato, e
Marisa era stata assalita dalla familiare tenerezza che
l’avvolgeva quando
guardava quel bambino troppo cresciuto.
«Parlare
di destini sbagliati quando hai
davanti Demian è talmente meschino da risultare
crudele» le disse.
Forse,
quel muro non lo aveva costruito
abbastanza alto. Forse, non si era difesa abbastanza.
Demian
sarebbe sempre rimasto il suo
rimpianto.
ANGOLO AUTRICE
Ciao a tutti! Avevo
pubblicato questa storia senza mai finirla anni fa, è uno
spin-off dell’originale
“A’ Demian” a cui tengo molto.
“Perché tu
possa ascoltarmi” è un prequel che racconta la
storia di Demian e Elena, di
come si sono conosciuti e legati. Voleva essere un di più
per permettere di conoscere
meglio un personaggio sfuggente come Ellie, a cui purtroppo nella
storia
principale non ho potuto dedicare troppo spazio.
Credo sia comprensibile
anche senza aver letto la storia principale, ma ovviamente i numerosi
personaggi che contornano il tutto qui non saranno approfonditi,
saranno dati
un po’ troppo per scontato, forse.
I capitoli
saranno sempre molto brevi, frammenti dei ricordi che hanno scandito i
momenti
più importanti del loro controverso rapporto.
Spero vi
piaccia e che sia apprezzabile anche per chi non conosce il mondo di
Demian.
Contrariamente
alla principale, non la ritoccherò anche se è
datata, per valore affettivo e perché
non voleva essere una cosa seria, solo un di più.
Se ne avrete voglia,
sarei felice di sapere cosa ne pensate!
A presto!
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Capitolo 2 *** Quando fumarono insieme la prima sigaretta ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
FUMARONO INSIEME LA
PRIMA SIGARETTA
Faceva
tremendamente caldo e i capelli le
si appiccicavano al collo e alla fronte sudata. Con uno sbuffo
esasperato Elena
si passò la mano sul viso per scostarsi le ciocche ribelli e
raccoglierle in un
disordinato e arruffato chignon. Poi, facendosi aria con la mano, si
diresse
all’uscita.
Sperava
in una brezza che stemperasse
almeno un poco quell’afosa giornata di giugno. In teoria,
durante l’orario di
lavoro, non avrebbe potuto prendersi una pausa, ma prima di tutto
necessitava
disperatamente di una sigaretta che rendesse sopportabile quelle ore
insostenibili. In quei momenti di sconforto si domandava sempre come
facesse
sua sorella, come suo padre sopportasse quella vita.
E
si odiava, perché lei non ce l’aveva fatta.
Ed
odiava tutto, perché lei non avrebbe
voluto comunque farcela, avrebbe voluto solo poter scegliere.
Oltrepassò
la porta scorrevole e si addossò
al muro con la sigaretta appoggiata alle labbra, ancora spenta, e gli
occhi
chiusi.
Sussultò
quando si ritrovò la fiammella di
un accendino sospesa davanti al viso, come una richiesta di permesso
inespressa. Cercò un volto dietro alla mano pallida e la
sigaretta quasi le
cadde di bocca nell’incontrare due occhi obliqui ornati da
pesanti ciglia
bianche, di un rosa ghiacciato come ricoperto di brina, che risaltavano
ancora
di più perché il destro era contornato da un
enorme livido viola intenso.
La
bocca del ragazzo era piena e il labbro
inferiore, più grande e carnoso, spaccato al centro da un
taglio vermiglio,
dava l’impressione di un perenne, costante broncio.
In
realtà non stava contraccambiando la sua
curiosità, lui, fissava lontano, oltre
la siepe del cortile interno dell’ospedale. La sua era una
cortesia
disinteressata, anzi, l’avrebbe definita pure annoiata. Come
se l’avesse preceduta
perché lei non gli chiedesse l’accendino, per
evitare di doverle rispondere, di
doverle parlare.
«Grazie»
disse abbozzando un sorriso.
Il
ragazzo scosse le spalle e, dopo averle acceso la sigaretta, se ne
portò una
alle labbra martoriate e ripeté il medesimo gesto. Poi, si
lasciò andare contro
il muro, con stanchezza.
Era
un ragazzino curioso.
Non
fosse stato per il suo fisico ancora infantile -non era troppo alto, le
spalle
non si erano ancora aperte e il volto efebico e pulito non accennava a
nessuna
imperfezione che delimitasse nettamente la sua mascolinità-
avrebbe pensato che
fosse più grande. Almeno quindici, sedici anni.
Probabilmente
per la profondità dei suoi occhi.
Erano
gelidi e inquietanti, distanti, eppure inghiottivano. Come le stelle
che
brillavano da lontano di luce debole ma rapivano comunque
l’attenzione e
l’anima dell’osservatore. Si era incantata a
fissarlo, senza neanche troppo
pudore, e aveva dimenticato la sua sigaretta, ormai un bastoncino di
cenere che
si sosteneva per miracolo.
Marisa
come aveva detto che si chiamava?
Non
riusciva a ricordarlo.
In
ogni caso, sotto le sue attenzioni, il ragazzino non era tanto
tranquillo
quanto voleva manifestare. Ad un tratto sollevò il cappuccio
della felpa
smanicata che stava indossando e sprofondò le mani nelle
tasche. Gridava
ostilità, ma Elena riuscì solo a sentire una
profonda tenerezza per lui.
Non
aveva mai visto un albino da vicino, si chiese a quale ramo
appartenesse la sua
patologia e se fosse lecito chiederglielo, ma lui fumava indifferente
nonostante il volto contuso e, quando finì, gettò
a terra il mozzicone, lo
pestò con il tacco dell’anfibio, le
lanciò una gelida occhiata di disprezzo e
rientrò, lasciandola fuori, sola e basita.
Probabilmente
non aveva apprezzato le attenzioni che aveva riversato su di lui, ma
era
difficile non guardarlo, non solo per la sua aura astiosa che causava
disagio,
o per il suo aspetto delicato e frustrato.
No,
c’era di più.
C’era
una bellezza appassita prima ancora di venire alla luce che risvegliava
in lei
il desiderio di parlargli, di vedere un po’ più a
fondo.
Di
vedere se davvero era morto dentro come sembrava fuori.
ANGOLO
AUTRICE
Ripescare
questa storia,
rileggerla e rileggere i miei vecchi appunti a riguardo, mi sta
mettendo di buon
umore. Ricordo che una cosa che mi era piaciuta particolarmente, era
vedere
come fossero i miei cuccioli nel loro passato, perché
saperlo non è lo stesso
che scriverne e vedere nero su bianco come si sono evoluti nel tempo.
Anche
se il mio stile è cambiato,
niente, non ci riesco, per me Demian resterà sempre un
adorabile senza speranza…!
Ma sono la mamma, sono di parteXD
Le
mie vecchie note tra l’altro
mi informano che la colonna sonora di questa storia nella sua stesura
è stata “Phone
Call” di Jon Brion, e quindi nulla, mentre rileggo e correggo
qualche errore sfuggito,
la ascolto, per cercare di ritrovare lo stesso mood.
Sono
l’unica psicopatica
che fa cose di questo tipo?
Sono
giustificata, sono
già trascorsi quattro anni!
Giuro
che non romperò più,
a presto!
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Capitolo 3 *** Quando si guardarono negli occhi per la prima volta ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO SI
GUARDARONO NEGLI
OCCHI PER LA PRIMA VOLTA
A
volte pensava davvero che il fato ce
l’avesse con lei.
Perché
Elena, così sensibile a tutto, o
forse vittima di quella sensibilità superficiale per cui
basta non vedere il
male per convincersi che non esiste, davanti alle brutture della vita
si
spezzava come un fuscello sotto un temporale fin troppo violento. Cosa
poteva
esserci di peggio, per lei, che essere assegnata al reparto di
oncologia?
In
quei primi giorni aveva già visto fin
troppo e l’accumulo di sensazioni negative andava in un
crescendo nauseante. Si
era già chiusa in bagno un paio di volte a vomitare, la
prima dopo aver drenato
i liquidi dallo stomaco di un uomo che, a causa del tumore, aveva la
pancia
gonfia come portasse in sé un bambino di nove mesi invece di
un ammasso marcio
che cresceva e se lo mangiava da dentro; la seconda davanti ad una
donna.
Jenevieve
Lemaire.
Questo
recitava la cartella medica.
Lei
sembrava stare bene, anche troppo bene.
Elena non ci aveva creduto, quando l’aveva vista sorridente,
pronta per la sua
sessione di chemio giornaliera. Quella donna stava morendo, questo
aveva detto
Marisa.
Tumore
al seno.
Era
stata operata quasi tre anni prima, e i
medici l’avevano scavata e avevano portato via tutto, non
solo il seno
sinistro, anche i linfonodi. Era già fin troppo esteso. Da
allora chemio su
chemio e la speranza che il male fosse stato debellato, poi la
verità crudele,
pochi mesi prima: il male era tornato, era peggiore di prima, stavolta
probabilmente avrebbero fallito.
Niente
di nuovo lì dentro, non fosse stato
che Jenevieve, con la sua aria distratta e sognante, sembrava quasi non
rendersene conto.
Aveva
sorriso anche a lei forse, ma Elena
non ne era tanto convinta, quella donna sembrava sorridere in un mondo
suo, dove
davanti a lei non c’era nessuno.
I
suoi occhi da rapace non l’avevano
guardata per davvero.
Era
incredibilmente bella e in sé aveva
qualcosa di familiare che Elena non riusciva ad identificare, forse il
taglio
degli occhi, obliquo e particolare, quasi nordico, o le labbra, gonfie
e
imbronciate. O forse era solo la bellezza di quel viso dai tratti
morbidi e
pieni, fin troppo fanciulleschi e spruzzati di lentiggini, con i
capelli appena
sotto le orecchie, biondo miele, e l’atteggiamento puerile di
una bambina che
si aspetta la caramella dopo la puntura.
In
ogni caso, Elena invidiava fin troppo
Simone, lui almeno era stato assegnato ai comatosi e per quanto noioso
e
terribile, con risvolti piuttosto scomodi come lavoro – a lei
sarebbe montato
il vomito all’idea di dover cambiare loro il pannolone un
giorno sì e l’altro
pure- l’orrore umano a cui doveva assistere le pareva
più sopportabile.
Aveva
appena contribuito ad iniettarle per
endovena il farmaco ed ora voleva solo correre via e rimettere
nuovamente il proprio
malessere. Chiese il permesso a Marisa e si precipitò verso
i servizi pubblici
quando, con sua sorpresa, dal bagno degli uomini uscì il
ragazzo albino.
L’infermiera
che gli era stata assegnata
come guida le aveva ripetuto il suo nome, Demian.
Era
sempre lì, Demian, tutti i giorni in
ospedale. Cosa diavolo ci faceva un ragazzino di tredici anni
costantemente in
ospedale?
Aveva
indagato ed aveva scoperto che era di
casa lì, come ci vivesse. Un nome anche troppo noto che
incupiva lo sguardo di
molti. C’era fin troppa pietà intorno a lui,
eppure Demian pareva così
orgoglioso… forse per questo aveva l’aria stizzosa
con chiunque, probabilmente
per il medesimo motivo qualche giorno prima, mentre fumava, le aveva
lanciato
quell’occhiata colma di disprezzo.
Lo
capì in quell’istante Elena, mentre lo
guardava uscire dal bagno, più pallido e provato che mai, il
viso ed i capelli
bagnati -si intuiva benissimo che avesse infilato la testa nel
lavandino e avesse
lasciato che l’acqua si portasse via il suo malessere- il
polso che sfregava
sulla bocca in un gesto a lei tristemente conosciuto, un gesto che
compiva dopo
aver rimesso l’anima, come a scacciare il sapore di bile
dalla bocca: Demian
non aveva bisogno della pietà.
Aveva
bisogno di comprensione.
Non
di qualcuno che si ponesse sopra di
lui, tantomeno di qualcuno che cercasse di compatirlo o peggio,
consolarlo. Non
c’era consolazione per il suo male, qualunque fosse.
La
nausea le era passata.
Dem
le passò accanto come se non esistesse,
come se ancora una volta non l’avesse beccata a osservarlo
con sfacciataggine
ma, proprio all’ultimo, gli occhi rosati saettarono verso di
lei, la misero a
fuoco per un fugace istante. E a lei bastò questo per
sorridere.
Era
davvero strano, non guardarlo era
impossibile per qualcuno come lei. Non considerarlo bello in modo
straziante
sarebbe stato impossibile per chiunque. Quanta forza ci vedeva in
quella
fragilità, quanta debolezza in tutta quella spavalderia.
Come
poteva ignorarlo quando, per la prima
volta nella sua vita, stava sentendo dentro di sé il
desiderio e la necessità
di salvare veramente qualcuno?
ANGOLO
AUTRICE
Niente,
volevo ringraziare chi si è lanciato
nella lettura di questo reperto archeologico! Grazie a tutti, non me lo
aspettavo!
|
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Capitolo 4 *** Quando Elena gli aveva parlato ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
ELENA GLI AVEVA
PARLATO
«Lo
zigomo sta facendo infezione»
Rimase
sorpreso di quella voce dall’accento
marcato, poteva essere romagnolo, o forse no. Non era mai stato bravo
con i
dialetti italiani. In effetti, non era mai stato bravo con
l’italiano e basta.
«E
allora?»
«Non
ti interessa?»
«Dovrebbe?»
Inarcò
un sopracciglio e non alzò gli occhi
su di lei.
Stava
guardando il muro bianco da mezz’ora
e non aveva voglia di interruzioni nella sua quotidiana ascesa
all’autodistruzione.
La
ragazza ridacchiò, sembrava quasi
aspettarselo, come se da lui non potesse ottenere nulla di diverso.
Ovviamente
la conosceva, anche se non le avrebbe dato questa soddisfazione. Era
difficile
che qualcosa gli passasse inosservato lì dentro, soprattutto
una nuova
tirocinante.
Soprattutto
una tirocinante come lei.
Era
bella, del tipo di bellezza che faceva
voltare i ragazzi per strada, che anche lui che di donne non ci capiva
niente e
davvero di loro non voleva saperne, non poteva non alzare lo sguardo
quando
passava.
Era
bella e Demian amava le cose belle,
anche solo per loro stesse, per la soddisfazione personale di seguire
la
sensuale linea del collo che sfumava nella spalla, di guardare la
postura
imperiosa e piena di sufficienza, la testa sempre alta, sempre a
sfidare il
mondo con quei grandi occhi scuri, troppo scuri.
L’opposto
dei suoi.
La
soddisfazione di sapere di poterla
studiare in modo diverso dal resto del mondo, con l’occhio
distante e oggettivo
dell’artista che apprezza la bellezza fine a se stessa.
Si
era concesso di guardarla come si
guardano le modelle, di pensare che, se la sua bellezza non fosse stata
così
banale, forse l’avrebbe disegnata.
Eppure
non l’avrebbe mai fatto.
Restava
solo un abbellimento della sua
giornata, uno sguardo che non sorrideva di pena ma pareva vivacemente
curioso,
avrebbe quasi giurato interessato. Ma interessato a lui, alla sua
persona, non a
tutto il resto. Per questo la guardava a volte, perché forse
con lei poteva.
«Ti
dona. Ti dà l’aria da duro dannato. Non
sei un po’ piccolo per avere l’aria da duro
dannato?»
Demian
chinò appena la testa, sfregò la nuca
con le dita lunghe, quel punto vulnerabile e scoperto come si sentiva
lui, per
contenere la frustrazione. Ecco perché non aveva mai voluto
rompere la barriera
delle parole con lei. Perché era un bambino, anche se non
avrebbe voluto
esserlo, e lei era infinitamente più grande e gli avrebbe
solo arruffato i
capelli e sorriso complice, come si fa quando si vuole conquistare la
fiducia
di un innocente.
Lui
non era innocente.
Non
rispose.
Non
sapeva che rispondere. Forse, per
essere forte, avrebbe dovuto ironizzare.
Forse,
se fosse sembrato forte, se ce
l’avesse fatta a esserlo, non avrebbe più avuto
bisogno di nessuno e il mondo
avrebbe smesso di guardarlo come fosse stato l’incarnazione
della miseria.
Forse,
se fosse stato grande…
Se
non fosse stato ciò che era…
Quanti
forse. E nessuno aveva realmente
senso.
Si
concentrò sul pavimento rammaricandosi
di non potersi fondere con la parete per poter scomparire, sarebbe
stato più
semplice. Ma neanche tutto il desiderio della sua buona
volontà poteva renderlo
invisibile agli altri, né poteva nascondere, e infatti
nemmeno ci provava, i
segni delle botte che si prendeva ogni giorno.
«L’altro
giorno mi hai guardato negli occhi»
aveva detto Elena ad un tratto, il tono era serio, aveva smesso di
scherzare.
Per quell’attimo di debolezza Demian si era maledetto. Che
cosa aveva pensato?
Piaceva
alle ragazze, ma non gli era mai
importato. Come poteva importargli se le stesse che lo prendevano in
giro per
il suo aspetto da bambino, ora che la pubertà lo stava
cambiando sbavavano e lo
elogiavano senza ritegno?
Le
donne erano ridicole.
«Non
è vero» sentiva le guance calde di
vergogna.
Ed
Elena ridacchiò «Oh, sì che
è vero. Hai
gli stessi occhi di tua madre, sai? Sono incredibili»
Demian
li spalancò quegli occhi, colmi di
orrore, e per la prima volta sollevò il volto per incrociare
il suo sguardo.
Aveva la bocca secca e le labbra schiuse.
Elena
gli sorrise, ma di soddisfazione,
come se avesse vinto una battaglia personale «Finalmente mi
guardi in faccia!»
esclamò.
Elena
era bella di quella bellezza così
convenzionale da sembrare uscita dritta dritta da qualche rivista
patinata.
Alta e tonica, dall’aria flessuosa ed esotica, con la sua
pelle caramellata e
la massa di capelli castani portati lunghi e mossi, le ciglia folte
arcuate in
sbuffi irriverenti, le sopracciglia folte naturalmente disegnate e la
bocca
grande, turgida e provocante, con le labbra piene e spontaneamente
contratte in
una linea languida che stuzzicava la mente verso pensieri eccitanti e
per lui
troppo indefiniti.
Sarebbe
potuta sembrare un cliché per chi
non l’avesse conosciuta a fondo.
E
Demian non la conosceva per niente a
fondo, né ci teneva particolarmente. Anche se a volte lei
cercava il suo viso
non voleva dire nulla, era solo un ragazzino, non poteva interessarle e
quindi doveva
starle lontano.
Anche
se lei non lo faceva sentire pietoso.
Perché
era troppo grande per essere guardata
con occhi diversi dall’ammirazione. Perché non
poteva davvero permettersi di
osservarla se non come già si concedeva, con la carezza di
una rapida occhiata
sempre annoiata, giusto per il piacere di scoprire cosa realmente si
potesse
provare di fronte ad una donna tanto attraente, nel tedio delle ore
sprecate su
quelle seggiole di plastica.
Perché
a lui quella donna poteva
interessare, invece.
Anche
se era una donna, non una ragazza.
Perché
lei non sembrava volerlo capire a
tutti i costi.
Perciò
distolse lo sguardo.
|
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Capitolo 5 *** Quando le aveva sorriso ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
LE AVEVA SORRISO
Faceva
davvero troppo caldo per essere
giugno ed Elena si sentiva sempre più insofferente. Ma poi,
talvolta,
incontrava Demian, e le tornava un po’ di buon umore. Era
come avere una
scatola cinese tra le mani, o la rompeva per vedere il contenuto o, con
passi
felpati ed estrema attenzione, cercava la combinazione. Non era brava,
ma ci
stava mettendo impegno sul serio almeno in questo, perché
una cosa per certa
l’aveva capita: lui trovava il modo di farsi del male. E
permettergli qualcosa
di simile era come concedere a un pazzo fanatico di sfigurare la
Pietà, una
vera idiozia.
Allora
aveva deciso che l’avrebbe trattato
proprio come se davvero fosse stato una statua preziosa, un David di
Michelangelo, puerile a tratti e terribilmente bello, e lei lo avrebbe
restaurato.
«Dovresti
disinfettare quel sopracciglio»
Era
un rituale, appena lo vedeva, e il
sorriso che le usciva era sempre divertito, forse per questo lui non la
cacciava ma sollevava appena l’angolo destro della bocca, in
un accenno di buon
umore. Era una finta infermiera, Dem l’aveva capito, una
volta glielo aveva
detto pure.
«Tu,
qui, non ci fai nulla»
«Non
è che questa roba mi interessi, non
sono autolesionista. Odio questo posto, mi fa impressione stare
qui.»
Demian
aveva annuito e aveva mormorato «Anche
a me» sottovoce.
Rispettare
i suoi turni non era più una
forzatura, aveva rinunciato alla sua lista quotidiana di doveri imposti
ed
entrava sempre con un leggero sorriso, lo sapeva che, indipendentemente
dall’ora,
l’avrebbe incontrato almeno una volta al giorno, e vedere che
Demian, anche se
timidamente, come se volesse impedirselo ma non potesse farne a meno,
ricambiava appena il suo saluto era la sua conquista quotidiana.
Sapere
di star penetrando le sue barriere,
di essere l’unica per ora a esserci riuscita, le dava un
po’ di pace, la faceva
sentire più piena e soddisfatta. Anche se non sarebbe mai
diventata medico e la
sua famiglia l’avrebbe sempre guardata con sufficienza,
nessuno dei suoi parenti
sarebbe stato in grado di avvicinarsi a quel ragazzino, né
sua madre, né suo
padre, tantomeno sua sorella. E quindi, almeno umanamente, non era come
loro e
questa era l’esorcizzazione della sua più grande
paura.
Terrore
di poter assomigliare alle persone
che più disprezzava.
«Ho
visto che parli con Dami» le aveva
detto Marisa, pareva colpita.
«A
volte» e aveva sorriso di nuovo.
Era
facile sorridere pensando a lui seduto
con le braccia a penzoloni fra le gambe e il suo immancabile broncio da
bambino. Quando s’imbronciava sembrava davvero un tredicenne,
per una volta,
c’era della tenerezza devastante in questo.
«Dami
è un bambino, non divertirti a
conquistare la sua fiducia per poi abbandonarlo. Lo capisci che
significa,
avere la fiducia di qualcuno come lui? Se sbagli, lo distruggi. Se non
ti senti
pronta ad una simile responsabilità, lascia
perdere»
Ma
lei non voleva distruggerlo, voleva
proteggerlo e vederlo sorridere come avrebbe fatto un qualunque normale
ragazzo.
«Ti
sembra che gli potrei fare del male?»
aveva sbottato durante la pausa pranzo. Simone era andato a trovarla
per
mangiare insieme. Capelli lisci e pettinati alla bravo ragazzo, denti
degni
della pubblicità di un dentifricio, più alto di
lei e forse un po’ troppo
massiccio per i suoi gusti. Però le piaceva quando
l’abbracciava perché
l’avvolgeva completamente, la proteggeva dal mondo, forse per
questo lo amava.
«Beh,
ti stai facendo coinvolgere. Non
dovremmo entrare così tanto in sintonia con i pazienti
amore, lo sai»
Elena
aveva sbuffato e si era appoggiata sulla
sua spalla con un sospiro «Non è un paziente. Sua
madre è una paziente»
Simo
l’aveva avvolta, come piaceva a lei, e
le aveva baciato la tempia. Era fin troppo delicato, lei non era
porcellana,
non l’avrebbe sfregiata se fosse stato più
invasivo. C’erano delle volte in cui
avrebbe voluto solo che lui fosse un po’ più
forte, avrebbe voluto che la
annullasse, con la sua forza, almeno per poco.
Forse
era davvero autolesionista, e Simone
il più dolce e tenero ragazzo in cui potesse incappare,
saggio e tranquillo
come un monaco buddista. La faceva uscire di testa, ma non poteva fare
meno a
di lui.
«Marisa
ha ragione. Devi essere
responsabile. È bello che tu senta il bisogno di stargli
vicino, è questo che
dovremmo provare nel nostro mestiere. Il lato, umano secondo me,
è il più
importante, il desiderio di aiutare qualcuno oltre a noi. Tu non
l’hai mai sentito,
sono felice che questo ragazzo sia uno stimolo per te ad apprezzare
ciò che
stai facendo. Ma non puoi usarlo e gettarlo via»
Elena
aggrottò le sopracciglia «Non mi ha
mai sfiorato il pensiero di gettarlo via»
«Lo
sai che il tuo tirocinio non è
infinito, vero? Quello è solo un bambino, un giorno sparirai
e a soffrirne sarà
lui»
Quindi,
la soluzione più ovvia era non
sparire.
Certo,
era ancora in tempo per ritirarsi,
Demian al massimo l’aveva salutata, non era ancora coinvolto.
Ma lei, lei era
coinvolta.
Avrebbe
odiato il suo lavoro, se non ci
fosse stato lui. Risvegliava il suo istinto da crocerossina, forse, ma
non era
solo quello.
Loro
erano simili.
Avevano
qualcosa in comune, avrebbero
voluto entrambi essere ovunque meno che dove si trovavano. Si sporse a
baciare
Simo «Non farò sciocchezze con lui, voglio davvero
solo aiutarlo»
Se
con lei si apriva, a maggior ragione
aveva la responsabilità di non chiudere gli occhi e dargli
le spalle,
sospettava che in troppi gli avessero fatto una simile cattiveria. La
paura di
prendersi una tale responsabilità nei suoi confronti, la
responsabilità di non
tradire la sua fiducia, di non abbandonarlo, doveva aver spinto tutti a
fare un
passo indietro.
Per
questo lei non si sarebbe mai tirata
indietro, era solo un cucciolo, ed anche se Elena adulta ancora non lo
era, era
grande abbastanza per capire che un cucciolo, anche se di leone,
abbandonato e
senza guida era destinato a morire di stenti.
«Dovremmo
disinfettare quel taglio» aveva
accennato con la testa al suo braccio e gli aveva sorriso, e Demian
aveva
alzato le spalle e aveva sollevato l’angolo della bocca.
Aveva un canino
leggermente storto che gli dava un’aria ferina, proprio come
un cucciolo che si
credeva un leone.
Si
erano seduti per terra a fumare, Elena
aveva finito il suo turno e si sentiva inquieta. Sentiva di dover fare
di più,
ma cosa era di più?
Fin
dove aveva il diritto di spingersi?
Quando
era con lui, parlava.
Non
sapeva nemmeno il perché, parlava e
basta, e diceva tutto, e lui ascoltava, a volte annuiva, raramente la
guardava
in viso, ma talvolta capitava, e allora Elena si accorgeva di come era
concentrato, di come le stesse davvero prestando attenzione.
«Per
questo sono finita a fare
l’infermiera. Ti pare? Per uno stupido test di medicina
andato male. Mio padre
è un cardiologo, per carità, mia madre ortopedico
e quella rompi palle di
Serena - Serena è mia sorella- quella strega sta completando
gli studi per
diventare cardiochirurgo. Naturalmente è la preferita di
casa, ed io sono la
fallita che non è riuscita a farsi ammettere. Questa cosa
è solo un contentino,
tipo palliativo per lenire la loro delusione»
Gli
si era incupito lo sguardo e Demian
aveva iniziato a giocare con le mani, nervoso.
«Che
ti prende?»
L’aveva
guardata con un tale smarrimento
che Elena era rimasta a bocca aperta, lo stomaco accartocciato e con il
cervello in apnea: era davvero possibile essere così a pezzi
da non riuscire a
celare nemmeno volendo la propria sofferenza?
Cosa
gli aveva detto di sbagliato?
«Ho
una sorellina» aveva mormorato Dami,
con quella sua musicale cadenza francese che lei adorava «Non
devi essere
gelosa di lei…» lo aveva osservato mordersi
l’interno della guancia e distogliere
il viso per guardare lontano «Non sai cosa può
succedere… te ne pentiresti… non
essere gelosa di lei» la voce aveva tremato.
Ed
Elena aveva capito, aveva capito che
parlava di se stesso, per esperienza personale.
Quante
cose costellavano il suo mondo, e
lei neanche poteva immaginarle. C’era troppa
complessità lì, dentro quel corpo
pallido e diafano, dietro a quegli occhi freddi. Lei non poteva
afferrarla del
tutto, non poteva capirlo e aveva deciso di non farlo.
Non
aveva bisogno di capirlo per preoccuparsi
per lui.
«Dami,
quel taglio devo disinfettartelo
davvero»
Demian
aveva sussultato e di nuovo l’aveva
guardata con gli occhi grandi di paura.
«Non
puoi»
«Non
posso? Guarda che è brutto tanto»
Aveva
scosso i capelli bianchi al vento,
accennando un sorriso triste «Non puoi chiamarmi
Dami»
«Ah.
Perché?»
Era
quello il nomignolo che usava Jenevieve,
a volte, anche se Elena non si era spiegata il motivo.
Era
arrossito, aveva chinato il capo,
tornando a giocare con le dita lunghe e bianche «Solo le
persone che mi
conoscono mi chiamano così… le persone che mi
vogliono bene»
Le
era venuto da ridere per la tenerezza
che le aveva smosso dentro e allora si era messa a carponi e aveva
abbassato il
viso, portandolo vicino al suo per poterlo guardare negli occhi
«Allora
è proprio il caso che ti chiami
Dami, ti pare?»
Le
labbra carnose leggermente dischiuse e il
volto appena arrossato, un velo di tristezza negli occhi lucidi, si era
morso
la guancia e aveva sussurrato «Ok» come se stesse
firmando la sua condanna a
morte.
«Posso
curarti?»
Demian
aveva annuito, poi le aveva sorriso.
Aveva
sentito qualcosa dentro incrinarsi,
voleva abbracciarlo, toccarlo, e invece trattenne il nodo alla gola che
le
aveva inumidito gli occhi.
Era
il primo, vero sorriso che le aveva
rivolto.
Un
sorriso come quello valeva tutta la
sofferenza a cui aveva assistito, a cui avrebbe assistito. Per un
sorriso così
vivo si poteva fare qualunque cosa.
ANGOLO
AUTRICE
Ben
ritrovati!
Piccola
nota: la storia del soprannome può
sembrare una scemenza, ma ha un gran senso ed è legata al
motivo per cui Demian
si chiama così. Il primo nomignolo che viene in mente
sarebbe “Demi”, con la “e”,
lo so, ed infatti c’è una ragione di fondo che
conoscono solo i suoi parenti,
per questo solo le persone che gli vogliono bene, che sono strette
nella sua
cerchia, hanno ancora il vizio di utilizzare
quell’abbreviazione. Non è
importante, ma nell’originale questa cosa viene raccontata,
dovesse interessarvi!
E
niente, alla prossima!
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Capitolo 6 *** Quando si erano sentiti fragili ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
SI ERANO SENTITI FRAGILI
Il
ronzio della macchinetta tra le mani ed
i capelli setosi color miele tra le dita, sui vestiti, sparsi come
vittime sul
pavimento. Marisa era silenziosa e gentile, Jenevieve era una sua cara
amica,
questo almeno Elena lo aveva capito.
La
chemio era entrata nella sua fase più
aggressiva, Jen aveva iniziato a perdere corpose ciocche di capelli e
aveva
chiesto di farla finire in fretta. Elena era appoggiata con le spalle
contro le
piastrelle del bagno privato della camera della signora Lamaire, e
studiava il
volto bello della donna. Quando si incupiva e chinava gli occhi sulle
mani
contratte, le labbra strette, aveva qualcosa che le ricordava Dami.
Demian
che non era voluto entrare e
aspettava in corridoio, non voleva vedere. Probabilmente stava male,
probabilmente sarebbe dovuta uscire e andare da lui, ma per fare cosa?
Prendergli
la mano?
Gli
avrebbe mostrato della pena e lui ne
avrebbe solo sofferto.
Era
rimasta immobile finché Marisa non
aveva concluso.
Jenevieve
aveva alzato il viso e,
sfruttando lo specchio, le aveva guardate senza voltarsi.
«Est-ce
que mon fils est
dehors ici?»
Poi
si era data un buffetto sulla fronte,
come a rimproverarsi, si era schiarita la voce e corretta
«Dami è qui?»
Elena
aveva annuito «Sì»
Jen
aveva sorriso con dolcezza e si era
accarezzata le testa priva della sua chioma, con la solita aria assorta
che
Elena ormai associava solo a lei. Una donna fuori dal mondo, da lei Dem
doveva
aver ereditato la sua infinita vena puerile e quella sua prerogativa da
artista
incompreso.
«Solo
per oggi… digli che sono stanca e mi
sono addormentata» fissò gli occhi nei suoi ed
Elena si sentì inerme «Puoi
mentirgli per me?»
«Credo
di sì»
Non
riusciva a immaginare quanto male gli
avrebbe fatto, vedere sua madre tanto diversa. Era già stato
tutto fin troppo
brutto per lui, quella mattina. Sua madre era stata ricoverata
perché nessuno
in casa poteva prendersi cura di lei e suo figlio era troppo piccolo
per una
tale responsabilità, non avrebbe sopportato anche questo,
capiva la decisione
di quella donna.
«Ci
penso io»
Demian
era nell’atrio principale,
stranamente fissava il soffitto questa volta, con il capo reclinato
all’indietro. Sembrava tremendamente stanco ed Elena
sentì che davvero avrebbe
solo voluto abbracciarlo. Ma non doveva provare pena per lui, Dem non
avrebbe
voluto.
Gli
sorrise.
«Quel
mento è messo male» lo canzonò al
solito.
Dem
accennò un sorriso di sollievo «Ellie»
mormorò, senza ribattere con sarcasmo e senza spazientirsi.
Quanto riusciva a
sembrare più grande, a volte Elena se ne scordava. Parlare
con lui era come
parlare con un adulto. Sulla seggiola accanto era appoggiato un libro
con la
copertina rivolta verso l’alto, una raccolta delle poesie di
Neruda.
Lo
prese senza pensarci e lesse le prime
righe
Perché
tu possa ascoltarmi
le mie parole
si fanno sottili, a volte,
come impronte di gabbiani sulla spiaggia.
Collana,
sonaglio ebbro
per le tue mani dolci come l’uva.
Il
ragazzo allungò la mano bianca verso di
lei e glielo sfilò dalle dita.
I
libri erano la sua anima, aveva capito
anche questo, e non sempre era disposto a condividere frammenti di
sé. Quella
poesia doveva significare qualcosa.
«Tua
madre si è addormentata. Credo
dovresti…» tornare a
casa.
Come
poteva dire ad un ragazzino che aveva
appena salutato sua madre di rientrare in una casa vuota?
«Andrai
da tua zia?»
«No»
«Sarà
per poco, solo per un mese. Poi
tornerà a casa» lo disse con
tranquillità, come non ci fosse realmente nulla di
cui preoccuparsi e si sentì un mostro, a mostrare tanta
lucida freddezza. Era
una calma finta, la sua, per non spaventarlo e non spingerlo a
respingerla.
Demian la accettava solo in questo modo, in cui lei non si sforzava di
comprenderlo, in cui lei era quasi insensibile e serviva solo a
distrarlo.
«Sarah
è da mia zia» aveva sussurrato.
«Sarah?»
Demian
si morse la guancia, preda di uno
dei suoi momenti di totale e completa fragilità.
Com’era difficile stargli
vicino a volte, ma Elena sperava che riuscendoci avrebbe riavuto in
cambio uno
dei suoi sorrisi che sapeva di rivoluzione, che cambiava il mondo o
almeno
stava cambiando il suo.
Ora,
ad ogni paziente a cui prestava le sue
cure dedicava se stessa con totale dedizione, e lo faceva nella
speranza, calda
e costante, di poter scorgere nei sorrisi che le rivolgevano la stessa
luce
piena che aveva provato nell’avvicinare la sua anima a quella
di Demian.
«Ma
petite soeur» mormorò ancora lui, e
questa volta anche Elena capì le sue parole colme di
dolcezza. La bimba a cui
era tanto legato si chiamava Sarah.
Doveva
essere straziante per lui esserne
diviso, respirava per lei e viveva ogni dolore con una
profondità sconcertante,
ne veniva assorbito. Aveva pensato che forse dentro era morto come
sembrava
fuori, ma ora Elena sapeva di non aver capito niente di lui. Era fin
troppo
sensibile, interiorizzava tutto.
«Ti
accompagno a casa, posso?»
«No»
Scosse la testa e si passò una mano
fra i capelli «Non puoi»
Lo
sapeva, che l’avrebbe respinta, non le
importava. In realtà non lo faceva per lui, lo faceva per se
stessa, perché si
sentiva incredibilmente fragile, di una fragilità che solo
Dami avrebbe saputo
cogliere e curare come il più delicato dei fiori.
«Non
guardarmi anche tu così»
«Per
favore, non voglio restare sola»
La
squadrò, la studiò attentamente in viso,
vangando la sua anima, alla ricerca della bugia, e non la
trovò. Allungò una
mano verso di lei e la sorprese con una leggera carezza sulla guancia,
una
sorta di dolcezza che la lasciò senza parole.
«È
stato così brutto?»
Fu
lei stavolta a fuggire quegli occhi da
adulto bambino «Lo so che non ho il diritto di restarci male,
sei tu che ne hai
il diritto»
«Non
me ne faccio molto di questo diritto»
le fece notare con amarezza, poi sorrise appena «Non sei
proprio fatta per
stare qui» osservò tra sé e
sé.
«Forse
sono abituata troppo bene, non
sopporto nulla… posso restare con te ancora un pochino? Non
m’importa se
l’adulta sono io, non so farla. Tu sai gestire tutto questo
meglio di me e sei
solo un ragazzino, vorrei capire cosa devo fare»
«Non
ho ancora incontrato un adulto che sappia
fare l’adulto» la voce gli tremava
«… Ellie… mi accompagni a
casa?» gli era
sfuggita una lacrima, aveva percorso la guancia livida, una goccia di
pioggia
su una statua sfregiata. Dem si era sfregato con violenza il viso,
senza
considerare i graffi, usando il polso «Non voglio stare
solo»
Elena
si era sporta ad abbracciarlo
nascondendo il viso nell’incavo del suo collo, si era sentita
una bambina, un
passerotto spaurito che cercava rifugio nell’ala della mamma.
Si vergognava, la
verità era che lo stava solo usando per nascondere la
propria inadeguatezza. Un
dolore sordo le aveva stretto il petto e chiuso lo stomaco prima, in
quel
bagno, e la pena e il panico l’avevano soffocata. Se non era
stata male, se non
era corsa in bagno a vomitare, era stato solo perché
c’era Demian da qualche
parte, e lui sarebbe stato male davvero e per davvero, al contrario di
lei, ne
avrebbe avuto motivo.
Non
me ne faccio molto di questo diritto.
A
volte anche quello serviva, il diritto di
soffrire, di stare male, e di sapere che nonostante questo qualcuno
sarebbe
rimasto per aiutare a raccogliere i cocci di una vita distrutta. Sotto
la sua
stretta, Demian si accartocciò come un foglio di carta dato
alle fiamme, si
restrinse.
E
pianse.
«Andiamo a casa Dami»
|
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Capitolo 7 *** Quando l'orgoglio si fece da parte ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
L’ORGOGLIO SI FECE
DA PARTE
«Amore,
io per oggi ho finito. Torniamo a
casa insieme?»
Elena
aveva il cellulare incastrato tra la
spalla e l’orecchio e zampettava per la stanza tentando
d’infilarsi i jeans.
«Mi
spiace cucciolo non posso, devo accompagnare
Dami»
Se
conosceva Simone abbastanza, e lo
conosceva anche fin troppo, adesso aveva arricciato la fronte e stava
ponderando la cosa. Quei secondi di silenzio furono una conferma e le
permisero
di infilare il bottone nell’asola con successo.
«Mi
stai trascurando» le fece notare, ma
non era annoiato.
Simone
non era il tipo che s’indisponeva
per davvero, era troppo tranquillo e nutriva per lei una fiducia
sconfinata.
«Lo
so, mi dispiace.»
«Ma
non smetterai di farlo»
Le
sfuggì un sorriso «Sarai mica geloso! Ha
solo tredici anni»
«Non
sono geloso, so che è importante…
buona fortuna»
«Ti
amo amore»
«Anch’io»
Gettò
il cellulare rosso fiammante nella
borsa e s’infilò una canottiera larga e leggera.
Aveva
corso per raggiungerlo nell’atrio
principale, dove lo trovava ogni giorno con un libro in mano o fuori,
dove
l’aspettava per fumare. Fumava con un ragazzino, avrebbe
dovuto chiedergli
quando e perché avesse preso quella brutta abitudine, ma non
era sua madre e
gli piaceva condividere con lui quel momento della giornata.
Stava
sorseggiando un caffè alla
macchinetta, lo vide ingollare il contenuto tutto in un sol colpo e
buttare via
il bicchiere con aria schifata. Beveva caffè quando non
riusciva a dormire, e
in un mese che lo conosceva aveva capito che dormiva veramente molto
poco.
Doveva
essere l’ansia a privarlo del sonno.
Lo
prese di spalle e gli gettò le braccia
al collo, per poi stritolarlo come fosse un peluche.
«Ecco
il mio Dami preferito» gli scoccò un
bacio sulla guancia e lo sentì sospirare
«Ellie» con un sorriso leggero. La
maggior parte dei ragazzi sarebbe morto per avere un suo bacio, quel
moccioso
invece si comportava come se lo tollerasse a stento, anche se poi gli
sorrideva
o stringeva le mani dalle dita lunghe intorno alle sue braccia, come
per trattenerla
ancora un istante, prima di allontanarla.
«Da
tua zia oggi?»
«No»
Sempre
un lapidario, rompiscatole
monosillabico. Lo liberò dalla sua presa ferrea e scosse la
chioma castana,
sciolta sulle spalle.
«L’ho
sentita, l’abrasione sulla clavicola»
lo pungolò sorridendo.
Dami
chinò il capo e si grattò la nuca, era
in imbarazzo. Nonostante il tempo, cercava ancora di nascondergli le
sue
ferite, avrebbe davvero voluto capire come si facesse sempre tanto
male, ma non
ne sarebbe mai venuta a capo probabilmente se lui per primo non avesse
deciso
di introdurre l’argomento.
Quando
i suoi turni erano giornalieri e non
notturni, Elena si prendeva del tempo per riaccompagnarlo. Spesso
sostavano
fuori casa, in macchina per delle ore, perché si perdevano a
parlare all’infinito
e il tempo volava. Era un ragazzino curioso e ci metteva sempre un
po’ di tempo
per ingranare, ma poi anche lui iniziava a condividere.
Con
il kit di pronto soccorso che aveva
allestito praticamente solo per lui, Elena tirava indietro i sedili,
per avere
più spazio, e lo costringeva a curarsi. Era diventata una
routine talmente
confortante che Dami stesso non opponeva più resistenza.
Si
era sfilato la maglia, anche quella
volta, ed era rimasto a petto nudo per mostrarle la clavicola
scorticata e già
parzialmente ricoperta di crosta molliccia. La pelle
tutt’attorno era gonfia e
arrossata, ma Elena non si fece sfuggire nemmeno una smorfia di
disappunto o
disagio, lui l’avrebbe colta.
Era
anche troppo attento.
Demian
gli aveva dato la schiena e alzato
il braccio, per permetterle di fasciarlo, e Elena aveva sentito la
morbidezza
della sua pelle ancora infantile, corposa come ceramica, i muscoli
solidi sotto
le dita.
«Stai
andando in palestra?»
Dami
aveva chinato la testa «Forse» aveva
ribattuto laconico.
«Come
mai?»
«Devo
essere più forte»
La
sua ossessione. Essere più forte.
Elena
lo aveva capito, cosa pensava. Se
fosse stato più forte avrebbe potuto non appoggiarsi
più a nessuno, nemmeno a
lei. Sarebbe stato triste, come vedere un uccellino che abbandonava il
nido.
Gli accarezzò i capelli e le dita le scivolarono sul collo
fragile, in quel
punto indifeso e delicato, ripercorsero la linea della colonna
vertebrale e si
fermarono fra le scapole.
«Non
devi esserlo così tanto»
Si
era morso ancora la guancia, a disagio.
Aveva la pelle d’oca.
«Non
devi essere grande per forza, Dami,
non subito»
«Ma
tu lo sei»
Mormorava,
Dami non parlava. Mormorava, e
quando lo faceva lo avrebbe preso tra le braccia. Ora poteva farlo, ora
glielo
permetteva, forse perché avevano pianto insieme e Demian si
era reso conto di
quanto anche lei fosse inetta e incapace, troppo presa da se stessa per
potersi
davvero premurare di tormentarlo con la pietà, ne provava
già abbastanza per sé,
meglio di chiunque sapeva quanto fosse doloroso il compatimento.
Lo
avvolse fra le sue braccia e lo attirò a
sé, sentì il suo capo morbido contro il petto,
sprofondare fra i suoi seni. I
capelli setosi le sfioravano il mento. Non era importante, non
c’era malizia né
pudore con lui, c’era solo affetto per un ragazzo sconosciuto
che amava come
fosse stato un fratellino, un membro della sua famiglia appena
ritrovato.
«Io
non ho rinunciato a niente prima di
diventarlo. Perché hai questa fretta?»
Dami
si adagiò nel suo abbraccio, rilassato,
e piegò il volto all’indietro per poterla guardare
in viso. I suoi occhi
avevano sempre il dono d’inghiottire, come il primo giorno.
Scosse
piano la testa «… Sarah»
Sempre
Sarah, era il cuore dei suoi
pensieri. La nominava quasi costantemente, anche solo per qualche flash
senza
attinenza che lo colpiva a tradimento, o per una particolare luce che
gli
ricordava la sfumatura dei suoi occhi, o per un fiore che associava a
lei.
Amava
la dedizione con cui riusciva ad
amare sua sorella.
Sarah
era la sua vita, ogni battito di quel
cuore era prima di tutto per lei.
«Ti
manca?»
Non
rispose.
«Tra
poco tua madre verrà dimessa e anche
tua sorella tornerà a casa con te»
Ancora
silenzio e lui che si rannicchiava.
«I
tuoi lividi non c’entrano in tutto
questo?»
Lo
sentì deglutire pesantemente, a fatica.
Era un libro aperto, quel ragazzino, anche se non parlava.
«Posso
chiederti come te li fai? Per
carità, almeno ho sempre del lavoro, per me è
tutto esercizio»
«Tu
non vuoi fare l’infermiera» la rimbeccò
lui, assottigliando gli occhi.
Gli
sorrise «Forse, prima. Ora non sono
così certa di non volerlo fare»
Ne
rimase sorpreso «E perché?»
Gli
passò una mano fra i capelli e si chinò
per lasciargli un leggero bacio a fior di labbra sulla fronte
«Perché
devo curarti, tu di certo non lo
farai da solo!»
Demian
chinò la testa, sfuggendo i suoi
occhi «Perché sono…
così»
«Così
come?»
«Così…
albino» lo disse con un profondo
ringhio di disprezzo. Ed anche se non era stato chiaro, se non si era
spiegato,
lei aveva imparato a capire le sue mezze risposte, mangiate e
criptiche, aveva
imparato a leggere i suoi “no”, che per lei faceva
valere come un “sì”. E
finalmente aveva compreso.
«Sei
vittima di bullismo?» chiese
scioccata, le braccio le ricaddero malamente sui fianchi per la troppa
sorpresa.
«Io
non sono vittima di niente!» scattò a
sedere, allontanandosi da lei. Riprese la maglietta e se la
infilò bruscamente.
Aveva spalancato la portiera e si era lanciato fuori dalla macchina.
Elena si
era costretta ad uscire.
«Domani
sono di turno di notte. Se la
mattina passi a trovare Jenevieve, ti accompagno io a casa»
«Non
passo»
Arrogante
e risoluto, il solito finto
orgoglio.
«Ti
aspetto al solito orario»
Non
si salutarono.
Quella
mattina, con l’aria altera di chi
non perde anche quando ha perso, Dami l’aveva aspettata
davanti al parcheggio
dell’ospedale.
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Capitolo 8 *** Quando era come una poesia di Neruda ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
ERA COME UNA POESIA
DI NERUDA
Elena
era come una poesia di Neruda,
indefinita e irreale. C’era una delicatezza in lei che
filtrava attraverso le
parole e gli penetrava nella pelle, diventava parte di lui, di un
desiderio che
non trovava sfogo e si comprimeva nel petto sempre più a
fondo, una spina
dolorosa che non riusciva a togliere.
Non
capiva cosa fosse, il motivo del
disagio che lo attanagliava quando lei era presente, voleva solo
toccarla,
sprofondare nella sua morbidezza, nel suo essere donna, un mondo troppo
distante dal suo. Lo trattava come un bambino, poi come un suo pari,
poi come
se gli volesse bene davvero.
E
Dami non sapeva cosa fare, sapeva solo
che era confuso e lei era la sua personale poesia di Neruda incarnata,
bellissima e veneta, non romagnola, a confermare che lui e i dialetti
non
andavano affatto d’accordo.
«È
colpa di mio padre, di dialetto non sa
nulla, ma ha un accento fortissimo» era arrossita quando
gliel’aveva chiesto, e
poi aveva aggiunto «Vorrei farti sentire mio nonno, moriresti
dal ridere!»
Demian
aveva sentito impossibile l’idea di
poter conoscere i suoi parenti, anche se lei aveva conosciuto maman:
per
conoscerli avrebbe dovuto essere qualcuno d’importante per
Elena. Mai come in
quel momento della sua vita si era sentito un pedante bambino, era
persino più
basso di lei, anche se non di troppo, e questo lo faceva impazzire.
Quanto
ci voleva per diventare adulti?
Odiava
avere praticamente otto anni in meno
di lei, c’era un mare a dividerli e lui poteva solo guardarla
dalla spiaggia
opposta e pensare che lo sapeva, maledizione, lo sapeva che sarebbe finita così,
che sarebbe finito con lo
sbavarle dietro senza alcuna speranza, che lei sarebbe sempre rimasta
irraggiungibile e più
si fosse
avvicinata a lui, più quella distanza lo avrebbe scavato e
svuotato di tutto,
che Ellie si sarebbe presa le sue parole, il suo dolore, ogni cosa che
poteva
dare, e li avrebbe intrecciati in una collana infinita che avrebbe
portato via
con sé, lasciandogli il nulla.
Demian
non poteva essere normale, no,
sarebbe stato troppo semplice. Trovarsi una ragazza della sua
età, baciarla per
la prima volta e scherzare di sciocchezze e poterle toccare i capelli e
abbracciarla senza dover avere scuse, uscire come facevano tutti.
Le
cose normali non gli erano mai state
concesse.
Lui
aveva Elena, una donna, un’adulta, e
poteva solo guardarla con oggettività, come si ripeteva
sempre, apprezzarla per
la sua bellezza fine a se stessa, con l’occhio
dell’artista, come sua madre gli
aveva insegnato che doveva osservare il mondo, perché il
mondo era bello tutto,
era bello da soffocare, e Jen lo contemplava sempre e in
realtà non contemplava
mai davvero nulla. Dem sapeva di doverlo fare a sua volta, per non
essere travolto
e non dimenticare di respirare. Ma non poteva se Ellie poi gli
accarezzava il
viso e lo baciava sulla fronte, proprio come fosse un bambino,
perché sentiva
la morbidezza delle sue labbra soffici e il cuore che singhiozzava ogni
volta
che lei avvicinava il suo volto. E allora cercava di non guardarla,
allontanava
gli occhi, e si sentiva infinitesimamente piccolo, un granello di
sabbia, un
pulviscolo percepibile solo in controluce, come una foto in negativo.
Quelli
erano attimi in cui avrebbe voluto
dirle tutto, le parole premevano per uscire e solo il buon senso e la
paura che
lei svilisse il suo sentimento gli impedivano di confessarle ogni cosa.
Allora
si convinceva sempre di più che Elena era la poesia di
Neruda, perché si era
presa ogni parola ed ogni parola apparteneva a lei, aveva riempito
tutto.
Doveva
sforzarsi di
relegarla ad
una bella distrazione che gli facesse trascorrere piacevolmente il
tempo,
doveva riuscirci.
C’era
una tradizione pessima di luglio,
dove abitava lui. Demian l’attribuiva proprio al mese, come
ce l’avesse con
loro. Puntualmente, in concomitanza con la Festa della Birra del suo
paese,
pioveva a dirotto.
Di
brutto, diceva Jules scazzato, perché
voleva solo andare a bere come un ossesso ascoltando pessima musica e
rimorchiando qualche ragazza, ed invece si ritrovava il
venerdì sera in casa di
suo cugino, a giocare alla Play Station.
«Dici
che tredici anni sono troppo pochi
per bere una birra?»
«Ne
ho quasi quattordici» aveva fatto
notare, laconico.
Julian
aveva tamburellato un dito sul
labbro «Scommetto che hai già provato
qualcosa» valutò alla fine. Demian aveva
scosso la testa. Non aveva mai provato a bere nulla, non era un ragazzo
che
usciva, non aveva amici, solo compagni odiosi con cui aveva rinunciato
ad avere
legami.
«Jules…
sei mai stato con una ragazza più
grande?»
Il
cugino aveva sussultato e Dem ne aveva
approfittato per stendere Law, il personaggio di Jules, con una combo
di
capoeira, ponendo fine allo scontro. Lo schermo confermò la
sua vittoria con un
trionfale “You Win”, almeno con Tekken 3 sapeva
sempre cosa fare, e questo gli
ricordava che semplicemente era davvero un bambino.
Un
ragazzo sfigato come pochi.
«Certo
che sì!»
«Davvero?»
doveva averlo guardato con occhi
grandi e fin troppo fiduciosi, perché Jules non era riuscito
a sostenere la sua
balla.
«Ehm…
ok, non proprio, però è sulla lista
delle cose immediate da fare!»
«Ah»
non aveva mascherato la delusione «E
come faresti?»
Jules
tamburellò le dita sul labbro
inferiore, all’epoca aveva un’aria molto meno
curata e fighetta, teneva i
capelli spettinati con ordine, come sosteneva era quello il look che
piaceva
alle ragazze, e a Dem ricordava Cloud Strife, altrettanto efebico e con
una
testa da Chocobo.
«Le
farei vedere quanto sono maturo!?»
Aveva
pianto davanti a lei come il più
misero dei mocciosi, si era fatto strapazzare e coccolare come un
bambino
disperato alla ricerca del minimo affetto. Probabilmente, era
impossibile
riabilitare la propria immagine.
«Cos’altro?»
«Non
saprei, magari cercherei di baciarla.
Per farle vedere che ho già esperienza. Alle ragazze devi
fargli vedere che sei
sicuro di te, devi essere forte, fargli capire che sei indipendente e
non sei
una piattola lagnosa, è così che le incastri! E
dopo le molli»
Dami
aveva sussultato, si era distratto e
il cugino si era ripreso la sua rivincita.
«Evvai!
Visto? Quello era un calcio, foutre, pentiti
della tua tracotanza e
porta rispetto al maestro indiscusso, ragazzino!»
Ma
Demian non lo stava già più ascoltando,
pensava solo che era stato un idiota e che Elena avrebbe continuato a
guardarla
dalla spiaggia opposta, magari con un binocolo, come il peggior Jay
Gatsby dei
poveri.
ANGOLO
AUTRICE
La
poesia a cui fa riferimento
Demian è quella che dà il titolo alla storia.
Lo
so, ribadire una cosa
tanto ovvia è stupido, ma nel dubbio sempre meglio ribadire!
Alla
prossima!
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Capitolo 9 *** Quando realizzò la gravità della situazione ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
REALIZZÒ LA GRAVITÀ
DELLA SITUAZIONE
Il
cucinino, dove le infermiere si
raccoglievano per ciarlare, non era molto grande, per questo il vociare
la
infastidiva, non riusciva a concentrarsi a sufficienza e lei voleva
capire bene
la situazione, farsi un’idea precisa di quello che sarebbe
potuto accadere
nella peggiore delle ipotesi.
I
dati che aveva raccolto sul caso di
Jenevieve Lemaire erano davanti a lei, cifre, medicinali, dosaggi,
terapie.
-Carcinoma
al seno sinistro
-
terzo
stadio
-sei
centimetri
-
linfonodi coinvolti.
Un
terzo delle donne vittima di un
carcinoma in stadio iniziale è statisticamente destinato ad
arrivare allo
stadio avanzato, erano questi i dati che aveva imparato sui suoi
stupidi libri
di testo. Delle statistiche non se ne faceva nulla.
Demian
aveva dieci anni quando sua madre
aveva affrontato un tumore al terzo stadio, ed avevano entrambi avuto
la
speranza di farcela.
Perché
diavolo era tornato?
Dopo
tre anni, mancava così poco…
Elena
non aveva esperienza, non poteva
permettersi davvero di dire con certezza cosa sarebbe accaduto, ma le
statistiche erano impietose e parlavano, e dicevano che Jenevieve
difficilmente
ce l’avrebbe fatta. Se le sue possibilità erano,
tre anni prima, del
settantacinque percento, ora le cifre erano colate a picco rapidamente
e le
avevano dato, con la chemioterapia, un’aspettativa di vita
che non superava i
tre, quattro anni, a essere veramente troppo ottimisti.
Lei
aveva potuto solo guardare tutto
questo, non era un oncologo, non aveva potuto fare nulla. Se fosse
stata un
medico comunque, difficilmente la situazione sarebbe stata diversa,
probabilmente si sarebbe sentita solo più impotente.
Più
si era avvicinata la fine del suo
tirocinio più si era innervosita e i tentativi di Simone di
placarla erano
finiti solo con l’irritarla di più.
«Amore,
solo dieci giorni e poi questa
storia sarà conclusa. Lo so che sono stati due mesi
stressanti per te»
Cosa
ne voleva sapere lui?
Stressante
non era l’aggettivo giusto,
Demian non era stato uno stress, prendersi cura di lui
l’aveva fatta sentire
viva e completa e le aveva dato un senso, finalmente anche lei aveva
avuto uno
scopo, non aveva più subito la sua stessa scelta,
così detestata.
L’ansia
di Elena non era dovuta al
desiderio di essere liberata dal destino crudele di una famiglia fatta
a
brandelli, no, la sua ansia era di doverlo lasciare, di non poter
essere
presente ogni giorno, per curarlo, per fumare insieme, per non
lasciarsi
affondare.
Senza
di lui sarebbe crollato di nuovo
tutto, come avrebbe potuto?
Proprio
nel frangente più terribile, negli
anni che sarebbero venuti, i più brutti e difficili. Qual
era la vera
aspettativa di vita di Jenevieve?
Dipendeva
dall’effetto della chemio, e lei
non sarebbe stata presente per poterlo sapere davvero.
Questo
Simone non poteva capirlo.
«Marisa?»
«Dimmi»
«Quando
non sarò più qui, potresti farmi un
favore?»
Marisa
l’aveva studiata cauta «Se posso»
«Vorrei
che mi chiamassi, se dovesse
succedere qualcosa a Jenevieve o…
a
Dami»
«Non
sei una loro parente, non è etico»
Era
arrossita, non aveva potuto farne a
meno, e aveva chinato gli occhi.
«Mi
hai detto di non abbandonarlo»
Marisa
sorrise «Lo so, ma dovrebbe
chiamarti lui, non credi?»
Forse
era vero, ma dubitava che Dami
l’avrebbe mai chiamata spontaneamente in caso di
necessità, era sempre lei che
lo rincorreva. E sì che, per lui, avrebbe davvero fatto di
tutto.
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Capitolo 10 *** Quando, forse, era quello il punto ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO,
FORSE, ERA QUELLO
IL PUNTO
Negli
ultimi giorni Demian aveva assunto
uno strano atteggiamento, era tornato a respingerla come nei primi
tempi e a
non parlare più di tanto.
Non
lo aveva ancora incontrato ed aveva
raggiunto la sua macchina con uno strano sconforto a pesarle addosso.
Aveva
discusso con Simone e lo aveva liquidato malamente. Non aveva voglia di
tornare
a fare gli esami, quando era con le sue amiche
d’università la sua testa era
sempre da tutt’altra parte ed ora, a rovinare il suo precario
equilibrio
interiore, ci si metteva anche il suo ragazzo che iniziava a mal
sopportare il
tutto.
Si
rendeva conto che Simo avesse ragione,
che fosse diventata terribile, ma non riusciva comunque ad essere
comprensiva.
Forse doveva tornare a tenere una lista, ad essere metodica e precisa,
a
costringersi dentro parametri chiari e definiti… che
escludevano quel
ragazzino.
Era
sovrappensiero, per questo quasi urlò
per la sorpresa nel ritrovarsi il suddetto ragazzino accovacciato
davanti alla
portiera della sua macchina, con un album da disegno fra le mani e una
matita
dietro l’orecchio.
Dami
alzò gli occhi chiari su di lei, una
nota di sconforto ad animargli il volto liscio.
Non
riuscì a impedirsi di sussultare, anche
se si era raccomandata in ogni modo di non farlo mai per non
disturbarlo, ma
stavolta pareva essersi fatto male davvero, alla mano destra. Il dito
medio era
gonfio e largo quanto il pollice, ed anche il naso era rosso e sporco
di sangue
tirato, doveva esserselo pulito con il polso perché anche la
pelle bianca delle
braccia era segnata da sangue secco.
«Che
cazzo hai combinato!» si era chinata
su di lui e gli aveva preso il viso tra le mani, girandolo a destra e a
sinistra come fosse un pupazzo privo di volontà.
Dami
aveva sollevato le spalle, ma aveva
una smorfia sulle labbra martoriate dai denti e piene di piccole
ferite. Dopo
avergli controllato il naso ed essersi assicurata che almeno quello non
fosse
rotto, l’aveva fatto salire in macchina.
Si
era lamentata tutto il viaggio, lui era
rimasto zitto, con le spalle un po’ curve, a difendersi dal
suo disappunto, lo
sguardo lontano. Probabilmente non si stava difendendo da lei, ma dai
suoi
stessi pensieri.
Stringeva
ancora l’album da disegno, non
sapeva che disegnasse.
Era
entrata in casa sua per la prima volta,
aveva bisogno d’improvvisare una steccatura, se il dito non
era rotto poco ci
mancava a guardarlo. Lo avrebbe costretto ad andare al pronto soccorso,
dopo,
non ce l’aveva portato subito solo perché aveva
capito che la stava aspettando
nel parcheggio per non farsi vedere da nessuno.
Dami
non aveva bisogno di parlare, sapeva
farsi capire quando voleva, anche con il suo serioso silenzio da
bambino
spaventato.
Si
era seduto, aveva sussultato quando gli
aveva preso la mano ferita fra le sue, era sembrato smarrito ed Elena
aveva
sentito il familiare moto di tenerezza che gli stringeva il fiato. Gli
aveva
sorriso con tranquillità e gli aveva accarezzato il viso,
attenta a non
sfiorare le abrasioni.
Non
ci riusciva, a vedere qualcosa di così
bello che si sporcava di fango, era troppo difficile.
«Cos’hai
combinato stavolta?» s’inginocchiò
davanti alla sua sedia, tenendogli le mani. Demian l’aveva
semplicemente
incenerita, un’occhiata carica di rancore che la
lasciò basita.
«Non
trattarmi come un bambino» la scostò
malamente.
«Dami…
non ti ho mai trattato come un
bambino»
«Ma
nemmeno come un adulto, giusto?»
sembrava accusarla, Elena non riusciva a capire. Ci stava mettendo
l’anima, per
stargli vicino, ma nulla di ciò che faceva risultava andare
bene. Aveva fatto
arrabbiare Simone, un’impresa a dir poco titanica, stava
esasperando le sue
amiche e, nonostante questo, anche con Dami era un disastro. Sembrava
odiarla,
era stato gelido con lei.
Quasi
cattivo, gli occhi affilati e
distanti.
Si
spalmò la mano sul viso, esasperata «Hai
tredici anni»
«Quattordici
tra quattro mesi» puntualizzò
con stizza.
«E
quindi? Non capisco il punto» ammise.
Era
troppo complicato e lei troppo
sfibrata. Ancora una volta gli occhi affilati di Dami
s’ingrandirono e per una
frazione di secondo non gli riuscì di celare la sua
delusione, come se per
l’ennesima volta fosse riuscita a dire la cosa sbagliata.
Diceva
solo cose sbagliate, a tutti, e se
ci fosse stato chiunque altro davanti a lei in quel momento forse
avrebbe dato
di matto, avrebbe urlato e avrebbe sfogato la sua frustrazione. Ma con
Dami no,
con lui mai, già solo vederlo mordersi l’interno
della guancia e annuire, quasi
teneramente, la soffocava di dolcezza.
«Non
c’è un punto» disse con ritrovata
sicurezza, sfidandola con lo sguardo.
Elena
capì che un punto c’era, e lui non
glielo avrebbe detto, perciò a sua volta fece un segno
d’assenso e prese il kit
medico. Rimasero in un teso silenzio mentre gli steccava la mano con
una
fasciatura e gli puliva il viso. Avrebbe sempre provato impressione,
per il
rosso carminio in contrasto con il suo pallore.
«Hai
tirato un pugno a qualcuno, vero?»
Era
evidente dal tipo di lesione. Forse,
aveva risposto ad una provocazione. Trovava difficile credere che la
discussione fosse partita da lui, era troppo silenzioso e sulle sue, ma
quel
suo modo di fare faceva anche saltare i nervi con una certa
facilità. In ogni
caso, Dami rimase trincerato nel suo silenzio ostile. Elena, con un
sospiro, si
alzò e si guardò intorno, pensando che per quel
giorno fosse meglio andare,
sembrava destinata a peggiorare le cose invece che migliorarle e la
tensione di
quel silenzio denso e soffocante le lasciava i nervi scoperti.
Però non si
mosse.
I
suoi occhi caddero su un pianoforte, nel
corridoio che dall’ingresso portava alle camere da letto. Era
un pianoforte a
muro, di lucido legno nero, il coperchio era abbassato e sulla cassa
armonica
erano disseminati soprammobili, lettere e fogli stropicciati, monetine
e
quant’altro. Pareva che nessuno lo avesse suonato per molto
tempo.
«Suoni?»
gli aveva chiesto.
Dami
aveva alzato gli occhi su di lei e
aveva deglutito a fatica, poi aveva negato.
«Maman»
aveva semplicemente mormorato.
Elena
avrebbe voluto sprofondare. Eccola di
nuovo, la prova che con lui era troppo facile sbagliare.
«Ma
non le piaceva tanto» aveva aggiunto
con un sorrisino malinconico a incurvargli le labbra piene
«Le piaceva Per Elisa, ha
imparato solo per quella.»
«Era
brava?»
Dami
aveva sollevato le spalle «Non lo so.
A me piaceva. Iniziava a fare le pulizie e dopo dieci minuti stava
suonando. Si
è sempre distratta facilmente» lo diceva come se
fosse stato lui l’adulto che
doveva rincorrerla. Elena pensò a Jenevieve e
capì che doveva essere stato
così.
Aveva
sollevato il coperchio, accarezzato i
tasti, si era soffermata sul Sol e l’aveva premuto con
delicatezza, una, due
volte, per scivolare al La e toccare il Si.
«Anche
tu suoni» lo aveva capito, la sua
non era una domanda, l’aveva intuito guardandole le mani.
«Non
bene come Serena» l’aveva detto per
abitudine, perché con tutti lo diceva sempre, per non
doversi subire lo
spietato confronto, dopo.
«Suona
qualcosa»
E
siccome Dami non chiedeva mai niente,
Elena non aveva potuto dirgli di no, probabilmente non avrebbe potuto
dirgli di
no su nulla, si era seduta e aveva suonato l’Aria delle Variazioni di Goldberg, perché
le trasmetteva nostalgia ed era
calma e pacata, sospesa, come loro. Dami l’aveva raggiunta,
silenzioso come un
gatto, si era seduto accanto a lei, aveva ascoltato i suoi goffi
tentativi, non
aveva smesso di guardarla.
Era
concentrato sul suo viso.
Elena
sbagliò una nota.
«Mi
piace» aveva sussurrato lui.
Non
ci capiva nulla di pianoforte, era
ovvio.
Elena
sbagliò di nuovo, s’interruppe. Si
sentiva studiata fin nelle ossa e iniziava a provare disagio,
perché lui era
proprio lì accanto, ed era stranamente spavaldo nel non
distogliere gli occhi.
Si
era girata per chiedergli se volesse
dirle qualcosa, ma Demian non voleva parlare.
Aveva
premuto le labbra sulle sue, a
tradimento. Le aveva rubato un bacio, il bacio più goffo
della sua vita, le
ricordò il suo primo tentativo quando aveva dodici anni e
un’infinita dolcezza
l’aveva invasa.
Non
lo aveva allontanato.
Gli
aveva passato le dita fra i capelli
incredibilmente morbidi, aveva schiuso le labbra e Dami aveva
assecondato il
suo istinto mentre lo guidava, e con la lingua aveva accarezzato la
sua. C’era
una sorta di disperata, gradevole urgenza nel suo bacio infantile, un
desiderio
inespresso che lei non aveva saputo cogliere e che ora era tanto ovvio.
C’era
qualcosa di sensuale nella sua rudezza, dovuta
all’inesperienza: non si curava
di farle male, voleva solo lasciare un segno.
Si
era scostato per respirare, aveva il
fiatone e gli occhi grandi di chi aveva paura delle conseguenze del suo
gesto.
Elena aveva ancora le braccia intorno al suo collo, poté
solo regalargli il suo
sorriso più soffice, che nasceva solo con lui, come tirasse
fuori il meglio, il
buono di lei.
«Forse
è questo il punto» aveva mormorato
Dami, cercando di allontanarsi.
Tutta
la bellezza del ragazzo, ancora
acerba eppure fin troppo luminosa, l’aveva travolta e lei
aveva capito che non
poteva lasciarlo andare, non avrebbe potuto respingerlo, ma soprattutto
non
avrebbe potuto ferirlo.
Gli
aveva lasciato un altro, leggero bacio
a fior di labbra
«È
un punto molto sensato»
ANGOLO
AUTRICE
Quando
ho scritto questo
spin off, questa parte era stata per me la più ostica. Mi
tormentavo e mi
domandavo continuamente come potessi scrivere come i sentimenti di
Elena
fossero scivolati nell’attrazione. Questo dovrebbe essere il
punto di partenza
di quell’attrazione, è tutto molto ingenuo, quanta
nostalgia che mi viene!
Di
solito odio rileggere i
miei vecchi racconti, mi sento imbarazzata dalla mia passata
inettitudine, ma
ammetto che per questo ho un buffo valore affettivo :)
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Capitolo 11 *** Quando tutto era ancora puro ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
TUTTO ERA ANCORA PURO
L’enormità
del suo gesto le era crollata
addosso solo molte ore, molti baci dopo quel primo, impacciato
incontro. Elena
non riusciva a concepirlo come un tradimento verso Simone per il
semplice fatto
che si trattava di Dami, così come non riusciva a vederci
niente di sporco,
anche se sapeva che avrebbe dovuto provare panico per quel catastrofico
errore.
Proprio però non le riusciva e sempre per lo stesso motivo:
riguardava Dami, e
niente che poteva riguardarlo poteva essere infangato. Era solo un
ragazzino,
non ne era attratta. Non negava la sua bellezza immatura, ma non era
attrazione, era affetto in una forma così pura e
disinteressata che non pensava
si potesse provare, ma che la riempiva distintamente quando i loro
occhi s’incrociavano
e si sorridevano come due amanti sornioni, come due amici che avevano
commesso
una marachella e l’avevano fatta franca.
Era
diventato spontaneo ora, quando si
salutavano, cercare le sue labbra, era diventato piacevole sentire la
sua
irruenza, non più dovuta all’ansia del rifiuto ma
ad una pura forma di
desiderio che non sapeva gestire, la sua curiosità per una
nuova scoperta con
cui iniziava a prendere sempre più confidenza.
Elena
lo lasciava fare, si lasciava
studiare il viso, accarezzare il collo, baciare le spalle. A volte,
Dami la
contemplava come fosse un oggetto, e lei aveva capito che in
realtà stava solo
imparando le sue proporzioni, le sue movenze. Voleva fare
l’artistico, aveva
detto, e poi le aveva sorriso e le aveva accarezzato con le labbra
rotte la
pelle morbida sotto l’orecchio e lei era rabbrividita
«Sei
come Afrodite»
Non
sapeva chi fosse, Afrodite, le sembrava
una qualche divinità antica, uno dei suoi tanti racconti
mitologici, ma non
aveva importanza, lo diceva come una cosa bella e ne era lusingata.
Non
lo avrebbe mai pensato, non l’aveva
nemmeno mai concepito, ma essere toccata dall’inesperienza
curiosa di Dami era
bello perché, per lui, lei non era fragile, era
l’adulta e non temeva di
toccarla per davvero.
«Sei
più serena, è successo qualcosa?»
Simone
le stava accarezzando i capelli,
erano stretti l’uno all’altra, le lenzuola ancora
attorcigliate alle gambe. Un
vago senso di colpa strisciò in lei, ma Elena lo
allontanò con sicurezza: erano
solo baci, era solo Dami, non stava facendo niente di male.
Alzò il viso su
Simone, sui suoi capelli castano chiari, gli occhi nocciola, caldi e
confortanti, e seppe con certezza di non starlo tradendo. Lo amava, lo
amava
davvero.
Si
permetteva di litigare con lui, di
arrabbiarsi con lui, proprio perché lo amava e lo sapeva con
una certezza
sconcertante, che Simone avrebbe sopportato e le sarebbe rimasto
accanto. Loro
due erano questo, due opposti che avevano bisogno l’uno
dell’altra per
funzionare.
E
il sesso, beh quello era l’unico punto
non troppo soddisfacente della loro relazione, ma a Elena non
importava. A
Simone piaceva e lei se lo faceva andare bene, perché era la
testa di Simo che
amava, la sua calma e la sua rassicurante dolcezza, anche se tra le sue
mani si
trasformava in fragile porcellana.
«Il
ragazzino sta bene?»
Gli
aveva sorriso e si era accoccolata
contro di lui: forse stava sbagliando peggio di prima o forse no, non
poteva
averne la certezza, poteva solo andare avanti. Non vedeva scelte
giuste, vedeva
solo Simone, che amava intensamente, e Demian, quel piccolo disgraziato
che era
diventato come parte integrante di lei.
«Sì,
ora sta meglio»
Era
vero, non aveva mentito, sembrava stare
meglio. I suoi sorrisi erano sempre fugaci, ma più frequenti
e tutto in lui era
più onesto e rilassato, come si fosse finalmente tolto un
peso e non dovesse
più dosarsi. Allora parlava anche lui.
«Questa
che roba sarebbe?»
«Questa
roba sarebbero i Nirvana» l’aveva
apostrofata Dami, sconvolto «Sono della tua generazione mica
della mia,
dovresti conoscerli!»
Elena
li aveva già sentiti da qualche,
parte, ma niente.
«Come
As You Are è senza dubbio la mia preferita, ma
tutti sono banali,
preferiscono questa… che è bellissima per
carità, ma Dio se l’hanno resa
commerciale!»
Dami
si era sporto verso il lettore CD
della macchina e aveva cambiato canzone, il display segnava il titolo:
Smells
Like Teen Spirit.
«Ah,
questa la conosco!» le era uscito,
dandogli così la soddisfazione di avere ragione sulla massa
che conosceva
sempre e solo la stessa canzone.
«I
Nirvana hanno una carica che mi
annichilisce» aveva detto Dami e lei si era meravigliata,
come ogni volta, del
suo italiano. Demian parlava la lingua dei libri, non delle persone, ed
era
sorprendente per un ragazzino, leggeva troppo e viveva fuori dal mondo.
Si
era appoggiato al sedile, reclinando la
testa, gli occhi chiusi ed un sorriso che le mostrava il canino
sporgente.
Stava canticchiando la canzone, accennava il tempo con le mani sulle
ginocchia,
i capelli bianchi stravolti che non avevano mai conosciuto un pettine,
i jeans
strappati e la maglietta immensa, nera, con il simbolo dei Red hot
Chili Peppers
stampato in rosso e arancione fiammante.
«Stanotte
è il mio ultimo turno in
ospedale» gli aveva accennato, e le labbra di lui si erano
piegate in una
leggera smorfia «Lo so»
Si
era chinata su Demian e l’aveva baciato
piano, lentamente, per rassicurarlo. Come un bacio prima della buona
notte.
«Devi
farmi una promessa»
Dami
aveva aperto gli occhi, erano
incredibilmente rosati da vicino, ma non facevano paura né
l’angosciavano.
«Qualunque
cosa succeda, anche se non sarò
lì, mi chiamerai, vero?»
«Non
ho il tuo numero»
Lo
conosceva così bene da sapere che
l’avrebbe detto. Aveva aperto la borsa per toglierne un
foglietto, ma prima di
darglielo lo aveva tenuto sospeso tra di loro.
«Devi
giurarmelo. Io non sarò più lì tutti
i giorni, devi giurarmi che starai bene e che, se non lo starai, mi
permetterai
di aiutarti»
Aveva
sostenuto il suo sguardo, cauto. Lui
non si fidava mai davvero, non del tutto.
Eppure
aveva ceduto, le aveva sorriso «Te
lo giuro»
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Capitolo 12 *** Quando aveva scoperto la verità ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
AVEVA SCOPERTO LA
VERITÀ
Demian
odiava alzarsi presto la mattina
fondamentalmente perché soffriva d’insonnia quando
dormiva da sua zia, e
addormentarsi alle cinque tutte le notti per svegliarsi alle sette lo
distruggeva.
Jules
se ne era accorto, che più le
settimane erano trascorse più Dami si era sciupato,
rinchiuso in un malessere
che aumentava quando metteva piede in quella casa, per questo lo
lasciavano a
casa sua, anche se da solo, fino all’ora di cena, ed ogni
sera il cugino andava
a prenderlo in moto.
Julian
aveva anche notato gli infiniti
lividi che Dem mascherava come poteva, e li aveva notati anche Claire,
ma era
impossibile farlo parlare e la tensione e i litigi aumentavano e Sarah
piangeva. Per questo ormai Claire, quando lo vedeva rientrare con il
volto
segnato, serrava la mascella e chinava la testa.
Era
una routine strana che fortunatamente
non era destinata a durare a lungo.
«È
davvero così terribile, per te, vivere
con noi? Siamo la tua famiglia» gli aveva chiesto Jules, e
sembrava amareggiato.
Ma Dami non aveva esitato, aveva annuito.
«Vedervi
mi ricorda tutto quello che non ho
mai avuto e quello che perderò» e poi
«Siete del sale su una ferita aperta»
Jules
non aveva più avuto il coraggio di
chiedere nulla, doveva esserne rimasto troppo ferito, preferiva
argomenti
leggeri, prenderlo alla larga e distrarlo, ricordargli che
c’era altro, per
questo Dami aveva un bisogno disperato anche di lui.
Quella
mattina Demian aveva voluto salutare
Elena prima che andasse via, aveva chiesto a Julian di accompagnarlo in
ospedale e di lasciarlo lì.
Non
voleva che il cugino sapesse, era il
loro segreto.
Era
entrato nell’atrio, c’era baccano ed
una ragazza che non aveva mai notato, ma che doveva avere la sua
età, stava
ridendo rincorsa da suo fratello. L’aveva seguita con lo
sguardo, perché era
magra da fare impressione e non aveva i capelli, solo un accenno di
ricrescita
appena visibile sotto la bandana a fiori vivace, e un viso dal sorriso
furbo e
gli incisivi grandi.
«Presa!»
aveva riso il fratello più grande
sollevandola da terra «Puffetta vedi di stare un
po’ ferma ora!»
La
sua risata scrosciante era quasi
sguaiata, ma strappava un po’ di buon umore e Dami si
sentì rinfrancato, perché
anche una ragazzina con la leucemia poteva ridere così e non
era la fine del
mondo, Elena non sarebbe sparita.
Si
era raccolto su una seggiola, in un
angolo, dietro ad un libro.
Non
glielo aveva ancora detto, che era come
la poesia di Neruda, ma forse lo avrebbe fatto quel giorno, forse aveva
paura
che Ellie sparisse.
Era
entrato un ragazzo, capelli castano
chiaro, curati alla “bravo ragazzo”, molto alto,
sorriso caldo. Aspettava
qualcuno, in piedi accanto alla porta, dove c’erano le
macchinette.
Elena
era spuntata dal corridoio, Dami non
aveva fatto in tempo ad alzarsi. Il ragazzo aveva aperto le braccia,
lei gli
era saltata al collo.
L’aveva
baciata.
Si
erano sorrisi sulle labbra dell’altro.
Elena
aveva un ragazzo.
Che
idiota, era bella, era ovvio che avesse
un ragazzo.
Le
ragazze come Elena avevano sempre un
ragazzo, come in ogni cliché che si rispetti e che lui non
aveva saputo vedere.
Gli era caduto il libro di mano, il tonfo le aveva fatto alzare lo
sguardo su
di lui. Era impietrita e Dami lo trovò strano, quello colmo
di orrore era lui,
questa volta il diritto di esserlo lo voleva.
Lo
sconosciuto seguì gli occhi di Ellie «È
il famoso Damian?»
«Demian»
aveva mormorato lui, allibito.
Quel
perfetto sconosciuto lo conosceva, lui
invece non aveva mai sentito nominare nemmeno il suo nome «Io
sono Simone» gli
aveva sorriso.
Elena
era l’incarnazione della
mortificazione, come se solo in quel momento si fosse resa conto che
con lui
non era stato onesto, che aveva tutelato quel Simone, ma non aveva
minimamente
pensato a lui. «Stai bene? Sembri pallido»
«Predisposizione
naturale» aveva osservato
con una punta di cinismo. Aveva raccolto il libro, non aveva salutato.
«Dami»
Elena
gli aveva preso un polso, l’aveva
guardata con apatia, l’aveva attraversata con gli occhi senza
vederla davvero e
la mano di lei aveva tremato.
«Io
non ti stavo nascondendo niente» era
strano sentire come le tremasse anche la voce. Era proprio come la
poesia di
Neruda, gli aveva rubato ogni parola, ogni cosa, gli restava solo uno
strano
senso di vuoto, una conferma, l’ennesima, che
c’erano cose che lui non poteva
avere.
Non
aveva diritto a persone che restassero
per lui.
Si
liberò con un movimento brusco del
braccio «Nessuno ti ha chiesto nulla, ti conosco appena.
Maman mi aspetta, se
te ne puoi andare, avrei cose più importanti di cui
occuparmi»
Elena aveva gli occhi lucidi, forse non si era nemmeno resa conto del
suo
errore fino a quel momento, non per davvero. Demian stesso lo
comprendeva solo
in quell’istante di totale vuotezza, era stato tutto
così precipitoso.
Le
diede la schiena e ignorò il richiamo di
lei, sussurrato e, così avrebbe pensato se fosse stato
ancora l’illuso del
giorno prima, anche triste.
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Capitolo 13 *** Quando quel giorno al parco ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
QUEL GIORNO AL PARCO
Le
giornate si erano susseguite con
inerzia, un giorno caldo dopo l’altro, coperte sudate che si
attorcigliavano al
corpo di notte e volto nascosto da lenti e occhiali di giorno che,
nonostante tutto,
non bastavano a proteggere gli occhi chiari.
Era
stata una mattina d’agosto che era
successo, vicino alla stazione dei treni.
Dami
era seduto sulla staccionata di legno
che delimitava il prato mal tenuto dall’asfalto, era in una
zona d’ombra e
aveva potuto togliere gli occhiali.
Quando
l’angoscia lo prendeva, cercava
sempre luoghi isolati e tranquilli e quella mattina il peso sul suo
stomaco si
era fatto pressante. Sua madre era tornata ma era ancora vittima della
stanchezza tipica delle settimane che seguivano la fine della terapia,
le
nausee erano cessate però e questo aveva reso più
vivibile il clima in casa. La
settimana successiva anche Sarah sarebbe tornata a vivere con loro e
questo era
il suo più grande conforto, ma l’assenza della
bimba al momento lo faceva
sentire solo.
Non
aveva naturalmente più sentito Elena,
era tornato a curarsi da solo le sue ferite, o a non curarle, come era
meglio
dire.
C’erano
tre ragazzi seduti sulle panchine
vicino alla fontana grande. Ridevano sguaiatamente, uno
l’aveva indicato. Dami
aveva sentito i peli del collo rizzarsi, ma non aveva distolto lo
sguardo dallo
stronzo che gli aveva puntato il dito contro e rideva.
Erano
parecchio più grandi.
Erano
andati da lui, volevano attaccare
litigio, era evidente, ed avevano voglia di sfotterlo.
«Scherzo
della natura»
«Fai
impressione, fai schifo»
«Quanto
sei brutto, non ti si può guardare»
«Con
che coraggio vai in giro così?»
«Non
ti fai senso?»
«Io
mi vergognerei»
Niente
che non avesse sentito mille e mille
volte, niente che non pensasse lui stesso. Eppure, non riusciva ancora
a
sopportare quelle parole dette da altri, forse non l’avrebbe
mai sopportato.
«Con
le facce di culo che vi ritrovate ci
credo che venite a prendere in giro me, sarebbe stato meglio se vostra
madre vi
avesse ingoiato quella sera, invece di cagare fuori tre pezzi di merda
come
voi»
Era
una scena già vista, rivissuta
all’infinto, con dinamiche ogni volta diverse ma con il
medesimo risultato.
Quella fu più dolorosa di altre.
L’avevano
afferrato, scaraventato a terra
con forza, aveva battuto la spalla e la testa e si era sentito
stordito,
davanti ai suoi occhi solo indefinite macchie rosse, come di chi guarda
la luce
con troppa intensità. Aveva riso, li aveva mandati a
“quel paese” con parole
fin troppo colorite e loro lo avevano menato. Quando uno di loro lo
aveva
afferrato per la collottola, pesto e grondante sangue dalla bocca e non
solo,
Dami gli aveva sorriso con scherno e si era beccato
l’ennesimo pugno nello
stomaco.
Lo
sapeva, che non doveva parlare. Sarebbe
stato tutto più semplice, se avesse smesso di parlare,
proprio lui che in
genere non parlava mai. Il suo orgoglio ferito però non si
ripagava da solo né con
il silenzio, e sentiva così tanta rabbia… doveva
sfogarla, doveva esplodere, il
silenzio lo soffocava e Dami si sentiva annegare in se stesso, in tutte
quelle
parole che non trovavano suoni e forme e rifiutavano di uscire,
restavano
sospese come lui, un vaso straripante che quando trasbordava gli
fotteva il
cervello e basta. Andare a litigare andava bene, lottare per reagire,
per
sopravvivere, non era nulla di diverso da ciò che faceva
tutti i giorni in ogni
aspetto della sua vita.
Gli
faceva male tutto, l’avevano lasciato a
terra e il sapore di ruggine fra i denti lo aveva costretto a sputare
un grumo
di sangue.
Era
ridicolo, ancora non sapeva davvero
difendersi.
Una
risata di scherno lo aveva raggiunto,
ma era pateticamente disteso a terra e non aveva ancora la forza di
reagire.
Se
mi devi pestare, aveva
pensato, fallo in
fretta e poi lasciami in pace.
Ma
il ragazzo si era chinato su di lui,
aveva la bocca grande piagata in un sorriso inquietante, storto.
C’era qualcosa
di sbagliato in lui, qualcosa di perverso, forse, una vena di
crudeltà, una
crudeltà strana che non era maligna ma incredibilmente pura,
istintiva e
innata, come quella dei bambini.
Dami
aveva alzato gli occhi su di lui ed
era rimasto frastornato dalla sua presenza dominante, si era sentito in
soggezione, poi seccato, perché quello restava accovacciato
senza muovere un
dito.
«Sei
forte piccoletto» aveva esclamato e
aveva inclinato appena il capo, senza cancellare la sua espressione
sadicamente
divertita «Te la sei cercata»
Lo
sapeva che se l’era cercata, era facile
cercarsela quando gli altri gliene davano l’occasione. Dami
aveva bisogno di
quell’occasione, anche se era debole, inetto, un fottuto
albino del cazzo,
proprio come dicevano tutti. Tanto a nessuno importava, persino a lui
stesso
non importava cosa dovesse accadergli, aveva solo bisogno di
distrazioni,
litigare era anche questo. Quelle ferite, dolorose per giorni, erano
questo.
Davanti
allo sconosciuto si sentiva
umiliato, steso a terra come un verme, se avesse potuto alzarsi gli
avrebbe
fatto ingoiare i denti, o almeno ci avrebbe provato.
«Che
cazzo vuoi?» la
voce era spezzata dal dolore che non
riusciva a nascondere nemmeno con la forza di volontà, le
parole sbiascicate.
«Mi
piace il tuo carattere ragazzino,
veramente. Io sono Nicolas, ma chiamami Niko, è decisamente
meno da figlio di
papà»
Se non gli avesse fatto troppo male, Dami avrebbe
riso per quella
puntualizzazione fuori luogo. Del nome di Nicolas non gliene poteva
fregare di
meno, eppure aveva sorriso, mettendo in mostra i denti sporchi di rosso.
«De..mia..n» aveva sussurrato,
il sorriso di Niko si era allargato
pericolosamente, come se in lui avesse letto qualcosa che a Dami era
sfuggito.
Era soddisfatto.
Gli aveva porto la mano e Demian vi si era
aggrappato, accettando
l’aiuto per alzarsi. Nicolas si era fatto passare il suo
braccio sulle spalle e
l’aveva caricato di peso su di sé.
Non si era reso conto di quanto ogni parte del
corpo gli stesse dolendo
fino a quando non si ritrovò in piedi.
«Mi piace il tuo stile, davvero. Vieni
con me Dem, la prossima volta
vedrò di coprirti io le spalle»
La sorpresa lo aveva sopraffatto ed impietrito,
simili parole non se le
sarebbe mai aspettate. Nemmeno Elena gliele aveva dette, neanche lei si
era
sbilanciata ad una simile promessa. Forse questo avrebbe dovuto farlo
riflettere, fargli capire la realtà su di lei.
Eppure una parte del suo pensiero rimaneva
incagliato tragicamente ad
Ellie, era un arpione che aveva scavato troppo in
profondità, quando cercava di
liberarsi sanguinava il doppio, e allora era meglio che la ferita si
cicatrizzasse attorno e quel tormento diventasse parte costante di lui.
A volte credeva di odiarla, ma solo
perché gli mancava, e quindi
s’impegnava per smetterla di pensare male di lei. Era solo un
ragazzino però,
il maturo non riusciva a farlo, non voleva vedere che forse era stato
lui a
metterla in difficoltà, che forse le colpe di lei erano meno
grandi e gravi di
quelle che le imputava.
«Sei messo male, ti porto da una mia
amica. Lys è una maga, a curare le
ferite» Nicolas era convinto, ma Demian era sbiancato.
«No»
Nessun’altro l’avrebbe
toccato. Solo Ellie l’aveva fatto, ed era stato
l’errore più grande della sua vita, la sua
più lucente delusione.
Non l’avrebbe sopportato ancora.
«Vuoi andare in ospedale?» si
era accigliato Nicolas. Aveva occhi
strani, un nocciola che virava ad un singolare grigio a seconda di come
la luce
s’infrangeva sull’iride.
«No»
«Senti moccioso, decidi che cazzo vuoi
fare, io non ho tutto il giorno
da perdere con te» aveva borbottato, ma si vedeva che, in
realtà, le sue
risposte lo avevano stranamente divertito.
Nessuno, era categorico.
Nessun altro.
ANGOLO
AUTRICE
Scusate
il ritardo, impegni improrogabili. Probabilmente sarò
latitante fino al 29 marzo
ma, se mi sarà possibile, nel mentre qualche capitolo magari
riuscirò a pubblicarlo.
Certo, non con costanza purtroppo.
Buona
giornata!
|
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Capitolo 14 *** Quando era tornato da lei ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
ERA TORNATO DA LEI
Aveva trattenuto il fiato fino a quando la voce
scortese all’altro capo
del cellulare non aveva concluso e riattaccato. Anche allora, Elena era
rimasta
immobile, le dita tremavano impercettibilmente attorno
all’apparecchio e il respiro
era accelerato.
Era ancora ferma, in mezzo alla stanza, quando
Simone l’aveva chiamata
e scossa, preoccupato. Povero amore, aveva pensato
lei sollevando gli
occhi sul volto pulito del suo ragazzo, sempre limpido, sempre pacato,
ma
stravolto da una vena di esasperazione che lo tormentava da
più di un mese
ormai e aveva scavato un solco nella sua pelle liscia e perfettamente
distesa.
Qualcosa si era incrinato in Elena, da quando lei
e Demian si erano
allontanati, una crepa all’apparenza sottile, eppure fin
troppo profonda, più
di quanto Elena stessa non si fosse resa conto in principio. Era
scivolata in
una monotona apatia verso quasi ogni cosa, a volte persino verso
Simone. Lui ci
provava a capirla, rispettava i suoi spazzi, tollerava i suoi silenzi e
persino
gli sguardi colmi di rancore che a volte le sfuggivano, preda del
proprio
egoismo, quando aveva bisogno d’incolpare qualcuno per il suo
infantile errore
e non poteva fare a meno di convincersi che, se Simone non fosse andato
a prenderla
quel giorno, non avrebbe perso quel ragazzino impossibile.
Non c’erano mai stati dubbi, non
contemplava minimamente di poter stare
senza Simone, ma per avere lui aveva perso una parte di sé
ed ora era tutto
insensato e inutile.
Il suo ragazzo adesso pareva sorpreso, ed Elena lo
sapeva bene il
motivo, non la vedeva così presente da quel giorno in
ospedale.
«Devi andare a casa»
l’aveva detto in tono secco, troppo brusco, Simo
aveva aggrottato ancora le sopracciglia.
«Perché?»
Non sapeva che dirgli.
Lui l’aveva studiata più a
fondo «Chi era al cellulare?»
Era arrossita, non poteva spiegargli. Forse per
questo capì «Dimmi che
non era quel ragazzino. Ti prego amore, era una situazione malsana, non
ti
rendi conto di come ti ha ridotta?»
Aveva assottigliato gli occhi in fessure ostili
«Ha bisogno di me»
Simone si era passato una mano sul viso, era
preoccupato davvero, forse
ne aveva tutte le ragioni, Elena stessa non capiva che incantesimo gli
avesse
gettato addosso quel ragazzino.
«Amore ascoltami, io capisco che Damien
sia fragile, ma ti ha succhiato
l’anima. Non sei abbastanza forte per prenderti cura di lui,
non c’è nulla di
male in questo, la tua non è una colpa. Hai fatto del tuo
meglio, non sei
responsabile della sua situazione familiare, tantomeno della sua
debolezza»
Simone era uno che ragionava, che era razionale,
Elena lo capiva in parte.
Ma capiva anche che lui poteva parlare in questo modo solo
perché non sapeva,
non si rendeva conto che tra lei e Demian era lei la debole, che in
qualche
modo era stata lei ad aggrapparsi ad un ragazzino di tredici anni per
trovare
il coraggio di affrontare una realtà troppo difficile, e
forse era lei l’unica ad
aver succhiato l’anima a qualcuno, con la sua finta forza.
Demian soffriva come nessuno e faceva suo il
dolore, non aveva la forza
di liberarsene, eppure quel dolore trovava il coraggio di affrontarlo a
modo
suo, lo gestiva, anche quando si faceva del male o permetteva agli
altri di
fargliene poi alla fine, tutti i giorni, tornava nel posto che
più odiava al
mondo solo per vedere sua madre.
Questo era un tipo di forza che lei non avrebbe
mai avuto, per trovarla
si era aggrappata a quella di lui.
«Simo, devi andare. Per
favore.»
«Non sono d’accordo»
«Non m’importa, non voglio che
ti veda, gli ho già fatto troppo male.
Se rimarrai, non ti perdonerò»
Simone aveva abbassato lo sguardo ed Elena si era
odiata, ma che scelta
aveva?
«Non puoi fomentare questa sua fantasia
solo perché è piccolo e non lo
vedi come un uomo, anche questo ferirà i suoi
sentimenti» le fece notare, ma
aveva già afferrato la giacca e si era avvicinato alla porta
«Puoi credere che
sia solo un’infatuazione, ma per lui non è
così semplice. Se davvero non vuoi
ferirlo, non illuderlo»
Se ne era andato e lei avrebbe voluto sprofondare,
per tutte le bugie,
perché per lei Demian era qualcuno, probabilmente era
un’infatuazione a cui non
riusciva a rinunciare, sicuramente era più di quanto non
avesse fatto credere
al suo ragazzo. Non voleva ferire Simone, ma non voleva ferire nemmeno
Demian e
l’aveva già fatto, lo aveva già illuso.
Cosa poteva fare ora perché la
situazione non peggiorasse ancora? Cosa doveva fare, per non perdere
Dami
definitivamente?
Avevano suonato al campanello. Il primo viso che
si era trovata davanti
non era familiare, doveva trattarsi dello scortese ragazzo che le aveva
parlato
al cellulare, occhi grigi di nuvole e capelli castani portati molto
corti,
sorriso crudele.
Le fece paura.
Ma il terrore più cieco
l’aveva invasa quando gli occhi avevano cercato
Dami e lo avevano trovato malconcio come non mai e sporco di sangue e
lividi.
Il nome di Demian aveva lasciato le sue labbra con
nevrosi, spezzato
dal panico, Dami l’aveva guardata… e le aveva
sorriso.
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Capitolo 15 *** Quando sarebbe stato più grande ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
SAREBBE STATO PIÙ GRANDE
«Come ti senti?»
Dami aveva mugolato come un gatto che faceva le
fusa, e il familiare
languore che le riscaldava il petto quando lo guardava era tornato a
pungolarle
l’anima. C’era un’innocente
fragilità nella fiducia con cui gli si affidava
totalmente quando era tanto indifeso, come se non dovesse temere nulla
da lei
nonostante l’avesse ferito.
Ed il languore scivolava rapidamente in un dolore
sordo che la
annebbiava e a tratti sapeva di muta disperazione, perché
proprio non riusciva
a gestire quella tensione mista ad attrazione che la portava, alla
fine, sempre
da lui.
Vedeva solo Dami, sdraiato accanto a lei, sdraiato
su quel letto che
condivideva con Simone, e non riusciva a vedere un uomo, vedeva un
ragazzino
delicato che aveva voglia di stringersi al petto e le dita scorrevano
sulla sua
guancia candida, ripercorrevano la linea morbida della mascella e
scivolavano
sul collo esile, così sottile e fragile che poteva quasi
racchiuderlo in una sola
mano, i capelli soffici dietro le orecchie nella quale era
terribilmente
semplice sprofondare.
Forse di desiderio si poteva morire.
Aveva aggiunto qualche centimetro alla sua
altezza, era bastato così
poco tempo lontani perché in lui avvenissero cambiamenti che
non le era dato conoscere,
e quel sentimento da amante che la legava ad un bambino riusciva a
trasformarsi, a mischiarsi senza logica, all’affetto materno
che l’avvolgeva.
Perché come una madre avrebbe voluto riempirlo di tutto
l’amore possibile, ma
non era sua madre e Dami da lei voleva un altro tipo di
amore… che lei era
disposta a dargli, se fosse servito a farlo stare bene, se questo le
avesse
permesso di non perdere tutta l’emozione che provava solo nel
guardarlo,
infantile e orgoglioso insieme, tanto tenero da lacerarla.
Prima lo aveva curato, come le sembrava di non
fare da troppo tempo, e
l’aveva sentita, quella sua pelle sempre morbida, troppo
morbida e innocente
per lei, eppure le sue mani non avevano potuto farne a meno, di
accarezzarlo di
nascosto mentre lo puliva e bendava. C’era una consistenza da
adulto nascosta
sotto il velo dell’adolescenza, una sensazione che bruciava
la pelle e la
innalzava in uno strano stato di eccitazione e angoscia,
un’estasi crudele che
la sbatteva al suolo con violenza quando si rendeva conto che,
maledizione, era
solo un ragazzino.
Erano entrambi sdraiati su un fianco e si
guardavano, Dami accettava
con la remissione di un cucciolo abbandonato le sue carezze,
socchiudeva gli
occhi, un gatto sornione e ruffiano che stava godendo delle sue
attenzioni, le
palpebre si rilassavano e sfumavano e sembrava un po’
più giovane, più vicino
all’età che doveva avere. Poi però,
quei suoi occhi chiari si spalancavano e il
taglio obliquo, ironico e pungente, le faceva dimenticare che aveva
tredici
anni e le torceva semplicemente lo stomaco in uno spasmo di
inquietudine e
insofferenza.
«Quello
là…»
«Simone» aveva puntualizzato
lei con un sospiro rassegnato.
Dami aveva esitato «Lui…
è il tuo ragazzo» come sempre non domandava, lui
affermava, come avesse sempre le risposte in mano, leggeva dentro e non
aveva
bisogno di chiedere.
«Sì»
«Non capisco» aveva rivelato,
un’espressione soffice confusa, una crepa
di sofferenza nel volto bianco di marmo. Elena aveva faticato a
deglutire. A
volte la bellezza poteva essere così devastante da
straziare, faceva più male
che bene. Dami faceva più male che bene, con quelle sue
labbra carnose, il
labbro superiore pieno quanto quello inferiore, arricciato in un
broncio
naturale incredibilmente tenero.
«Nemmeno io» gli aveva detto,
si era avvicinata a lui, aveva tentato di
lasciargli un bacio sulla fronte, ma Dami si era ritirato, sembrava
spaventato,
la guardava come una nemica.
«Hai mantenuto la promessa, sei venuto
da me»
Era arrossito, aveva allontanato lo sguardo, aveva
osservato quella
camera troppo in ordine, così poco sua, in cui Elena fatica
a riconoscersi
perché c’era suo padre tra quelle mura, non lei.
«Non volevo comportarmi male Dami, io
non sto nemmeno capendo cosa sia
successo.»
«Da quanto state insieme?»
Mormorava leggero, quella sua parlata introversa,
quel suo modo
francese di accarezzare le lettere, la scioglievano sempre in una
dolcezza
esasperata.
«Due anni, l’ho conosciuto
all’università. È un mio compagno di
corso»
Dami annuì, non trovava le parole, ma
era ferito, un leoncino che si
ritirava per leccarsi da solo le ferite. Avrebbe voluto poterle leccare
per
lui.
«Io lo amo»
Lo vide chiudere gli occhi, come a trattenere il
dolore, e allontanarsi
da lei. Elena non poteva sopportare che lui non la guardasse, che
l’allontanasse.
Forse Dami era davvero una fatata creatura del Nord che
l’aveva incantata,
c’era una sorta d’incantesimo su di lei, una fitta
ragnatela nella quale era
rimasta imprigionata.
«Non dovevo venire»
Aveva cercato di alzarsi, di districarsi dalle
coperte, Elena lo aveva
fermato.
«No! Dovevi, lo sai che dovevi»
«Non ha senso»
«Tu hai bisogno di me, io ho bisogno di
te» aveva sussurrato e Dami
l’aveva guardata dall’alto, con quei suoi occhi
ironici di sole riflesso sul
ghiaccio, e il suo volto non era mai stato più triste e
sconfitto.
«Nessuno ha bisogno di me…
forse nemmeno Sarah ha bisogno di me, piange
sempre per me»
«Anche io ho pianto per te»
Dami si era accigliato «Non
capisco» ripeté piano «Tu hai
lui… io non
servo»
Elena lo aveva abbracciato. Era tutto grottesco,
loro due seduti sul
letto di lei e Simone, abbracciati disperatamente l’uno
all’altro, alla ricerca
di un conforto che non potevano trovare.
Se solo non ti avessi incontrato, aveva pensato, se solo non avessi
incontrato Simone prima di te.
L’età allora non sarebbe
stata un problema, semplicemente non le
sarebbe importato nulla, lo avrebbe aspettato finché non
fosse stato abbastanza
grande.
Ma le cose non erano andate nel verso giusto e lei
era sospesa fra due
affetti troppo grandi da sostenere, troppo importanti perché
potesse rinunciare
ad uno di essi.
«Avrò sempre bisogno di te
Dami, sempre»
L’aveva baciata.
Dami era così, nei suoi sentimenti era
infantile e semplice,
tragicamente diretto, tragicamente ingenuo. Non aveva potuto fare a
meno di
ricambiarlo, perché l’aveva desiderato.
Demian aveva le spalle troppo sottili, una
struttura fisica da
ragazzino che ancora doveva conoscere la sua crescita improvvisa.
Elena, in
certi momenti, percepiva non quello che Dami era in quel preciso
istante, ma
ciò che era destinato a essere, come se le fossero concessi
brevi frammenti in
cui la sua anima filtrava attraverso il suo candido aspetto per
proiettare
un’immagine di lui già piena e adulta. Era allora,
in quegli attimi sospesi,
che il languore tra lo stomaco e il basso ventre si trasformava in
eccitazione
ed Elena comprendeva che, fisicamente, lei e Demian erano
così assurdamente
compatibili che l’attrazione che sentivano l’uno
per l’altra restava sospesa
nell’aria come elettricità statica che le faceva
formicolare ogni lembo di
pelle scoperta.
«Ho qualche speranza?»
«Dami… io Simone lo amo
davvero»
«Però posso baciarti lo
stesso» la sua mente innocente traduceva ogni
emozione in qualcosa di semplice e ovvio, ma la testa di Elena aveva le
idee
molto meno chiare di così.
«Sì, ma non significa che lo
lascerò»
Dami aveva sorriso triste «Non significa
nemmeno che non lo farai…
forse, quando sarò più
grande…» cercava di convincerla a non respingerlo
lì, a
non spezzare subito le ali della sua flebile speranza, per dargli la
possibilità di provare almeno a cambiare le cose.
Elena non poteva negargli nulla, avrebbe fatto
tutto per lui, eccetto
perdere Simone.
«Forse quando sarai più
grande… ma lo sarai tra molto tempo» lo aveva
messo in guardia. Demian non sembrava interessato al tempo.
«Ok»
«Va bene?»
«Sì. Sono abituato ad
aspettare. Aspetto sempre»
Allora Elena aveva realizzato che lo stava
condannando ad un’attesa
eterna, ed era stata troppo egoista e spaventata dal pensiero di
perderlo per
dirgli, in totale onestà, che nemmeno in futuro le cose
sarebbero cambiate, che
l’avrebbe sempre amato teneramente, ma non di
quell’amore che Dami desiderava
più di tutto.
Non sarebbe mai stato il primo e, quando
l’avesse capito, non l’avrebbe
mai perdonata.
ANGOLO AUTRICE
Questo era uno dei miei capitoli preferiti,
all’epoca. Non so nemmeno il perché!
A presto!
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Capitolo 16 *** Quando era il suo compleanno ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
ERA IL SUO
COMPLEANNO
Demian marinava spesso e parlava poco,
così il loro strano rapporto era
rimasto sospeso su un pacato equilibrio di cose non dette e gesti
trattenuti. A
volte accennava alla sua situazione in casa, ma Elena aveva sempre il
timore di
sbilanciarsi nelle domande, perché la regola era la stessa e
non era mutata,
ogni volta che il suo tormento per lui sfiorava la compassione, Dami si
ritirava e diventava ostile.
Si erano visti poco e toccati meno, ed ogni loro
incontro era segnato
dalle ferite di Demian e dalla tensione che li spingeva a cercarsi
l’un
l’altro, anche solo a sfiorarsi, per poi alzare gli occhi,
guardarsi e capire
che non era stato un caso, non era mai un caso. Avevano bisogno
l’uno dell’altra
come l’ossigeno e, nonostante questo, non potevano respirarsi.
Forse per questo andava a trovarla raramente, solo
quando aveva
bisogno, forse quella sospensione uccideva lui quanto lei, forse anche
lui
sentiva lo spasimo di desiderio troncargli il respiro… anche
se era solo un
ragazzino.
Il giorno del suo compleanno, Dami aveva saltato
la scuola ed era
andato da lei.
Aveva meno lividi del solito addosso, recentemente
sembrava subire
molto meno la violenza altrui, ma la rabbia repressa che si portava
dentro,
come un pozzo all’apparenza calmo ma fin troppo profondo da
cui attingere,
increspava ogni suo gesto e permeava ogni sguardo frustrato e
scontento,
rendendolo più nervoso e scostante.
Sembrava già fin troppo diverso dal
ragazzino che le aveva acceso la
sigaretta, quell’estate, eppure se scavava nei suoi occhi
nivei Elena vedeva
ancora la struggente fragilità che aveva imparato ad amare e
lo smarrimento
puerile che non avrebbe mai perso, la paura era il suo demone, radicato
in lui
con la solidità di una quercia secolare.
Si era fatto una canna, si era seduto sulla
finestra della sua camera
da letto, Elena lo aveva imitato.
Era basita perché non lo sapeva, che
aveva iniziato a fumare anche
l’erba, ed un brivido le aveva percorso la schiena quando si
era resa conto
che, forse, l’erba poteva non essere il problema
più grande.
Gliel’aveva sfilata dalle dita e aveva
fatto un paio di tiri, le labbra
schiuse mentre lo studiava dalle palpebre leggermente abbassate, per
provocarlo.
Dami faticava sempre a deglutire e distoglieva lo
sguardo, confuso da
quella strana sensazione al basso ventre che ancora non era in grado di
capire
del tutto. Ecco, quando si confondeva per così poco, tornava
ad essere un
ragazzino.
«Non sapevo che fumassi»
Non si era voltato, fissava la strada di
sampietrini, lontana, le
figure delle persone sfocate sotto la pioggia, i colori degli ombrelli,
fugaci
macchie, come acquerelli leggeri non ancora asciutti che si spandevano
indefinitamente sulla carta.
«Vorrei dipingere questo
momento» aveva mormorato, poi la bocca si era
piegata in un moto d’infelicità «Mi
avevano detto che non avrei più pensato, se
avessi iniziato»
«Ha funzionato?»
Dami aveva scosso piano la testa, i capelli
morbidi erano nascosti da
un berretto nero «Se ti guardo vedo lui e non riesco a
smettere di pensarci»
Elena aveva abbandonato la canna e gli si era
fatta vicina, aveva
accarezzato il suo viso con delicatezza e aveva pensato che se la
bellezza
avesse avuto un volto sarebbe stato quello di Dami e non
perché era bello, ma per
l’indistinta sensazione di poter afferrare
l’infinito e sfiorare l’impossibile
solo a sentire la sua pelle sotto le dita.
«Se ti fai del male mi spezzi il
cuore»
«Non parlare di cose che non puoi
capire, tu non sai cosa vuol dire
avere il cuore a pezzi»
Si era sentita una bambina, c’erano
sentimenti che, aveva ragione lui,
non l’avevano mai sfiorata per davvero, dolori che era stata
abbastanza
fortunata da non dover vivere. Eppure quando si trattava di Dami le
cose non
avevano una logica.
«Tu lo sai?» lo
provocò, ferita.
Pensava si sarebbe arrabbiato, invece Dami aveva
alzato le spalle «Come
potrei… sono quelli intorno a me che soffrono per davvero,
non io»
Demian le prendeva il cuore e lo stritolava in una
morsa, senza pietà,
senza accorgersene. E a farle male non era realmente lui, ma la
consapevolezza
di quanto poco Dami valutasse se stesso, quanto sminuisse il suo
malessere, i
suoi tormenti. Come non contasse abbastanza. Come se solo il male
fisico fosse
male. Forse per questo si feriva e permetteva che lo ferissero, per
giustificare
il dolore sordo che lo dilaniava e che gli pareva così
immotivato.
Quel ragazzino testardo poteva pensarla come
voleva, ma il cuore
spezzato lei lo aveva sperimentato, e lo aveva sperimentato proprio a
causa
sua.
«Vorrei che potessi vederti davvero, a
volte»
Dami si era accigliato.
Lo aveva stretto fra le braccia, lo aveva attirato
a sé.
Aveva iniziato a depositare brevi e delicati baci
sul suo viso e Dami
si era rilassato nella sua stretta, si era aggrappato a lei. Un moto di
sollievo le aveva gonfiato il petto, non era ancora così
distante, poteva
ancora raggiungerlo.
«Promettimi che non ti farai del male,
qualunque cosa ti dicano. Se ti
offriranno sostanze più forti tu…»
«Hai paura che diventi un
drogato?»
«Quel ragazzo che ti ha portato qui da
me, quella volta, lo era, vero?
Ne portava addosso i segni»
Demian aveva taciuto, aveva sfregato le labbra
umide e carnose sulla
sua spalla e per un istante Elena aveva perso lucidità,
aveva pensato che
quella consistenza avrebbe voluto sentirla sul suo corpo, su tutto il
suo
corpo, scivolare come seta. Avrebbe voluto appartenergli.
Il silenzio era il suo assenso.
«Non so cosa stai facendo Dami, non ho
nemmeno il diritto di
chiedertelo e non lo farò. Ma non posso non essere sempre in
ansia per te, non
poterti stare vicino mi da il panico»
Era strano rendersi conto che le loro braccia si
erano in qualche modo
intrecciate, così come i loro sguardi, e le mani senza che
se ne fossero resi
conto avevano raggiunto il volto dell’altro e lo studiavano
con tormentato
desiderio.
«Non sopporto che tu ti faccia del
male»
Si era sporto, le aveva baciato il naso con un
sorriso a tratti
malizioso, da furbo predatore.
«Non farò nulla che ti faccia
stare male» aveva sussurrato, e ancora
una volta le aveva fatto male senza rendersene conto, perché
si stimava così
poco!
Le loro labbra si erano scontrate ferocemente, si
erano prese con la
forza e la disperazione di un contatto troppo a lungo negato, troppo
desiderato
e doloroso d’incertezza e passione. La bocca di Dami era
calda di fumo e
d’arancia, i suoi denti le torturavano le labbra con giocosa
malizia ed i suoi
capelli erano troppo morbidi perché Elena potesse resistere
dal gettare lontano
il cappello nero per aggrapparsi a loro con la costernazione della resa
più
completa.
Si erano tolti il fiato e si erano separati con il
tormento di sapere
che non sarebbe comunque bastato.
Si erano accarezzati con la punta del naso e
avevano intrecciato
sospiri esasperati.
«Buon compleanno Dami»
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Capitolo 17 *** Quando avrebbe voluto le sue parole ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
AVREBBE VOLUTO LE
SUE PAROLE
Elena non lo aveva più visto e
l’inverno era trascorso nella sua
assenza.
A volte, riceveva qualche messaggio, manciate di
parole laconiche per
ricordarle che non l’aveva scordata.
Che aspettava.
Quell’attesa però la
uccideva, ed il tormento permeante della sua mancanza
la soffocava. Non ricordava più come vivesse la sua vita
prima che arrivasse
lui. Cercava conforto in Simone, si accoccolava al suo petto, la sera,
gli
impediva di tornarsene a casa, eppure nemmeno la presenza soverchiante
e tanto
cara del suo ragazzo bastava a colmare quel tragico senso di vuoto.
Auguri
Una sola, semplice parola, un banale messaggio di
Natale.
Era
bastato per farle crollare
il mondo addosso. Perché lei non lo aveva capito cosa
significasse quella separazione,
non fino a quel momento. Aveva raggiunto la sua famiglia per le feste
con quel
senso di sconfitta addosso, una stanchezza nervosa che la rendeva
troppo
fragile per trovare la forza di reagire.
I suoi genitori avevano dato il colpo di grazia
alla sua autostima
latente.
«Lo sapevi che tua sorella è
tra i migliori del suo corso?»
«Non mi sorprende, Serena è
il meglio»
«È molto promettente, ho
parlato con alcuni colleghi in università che
sono entusiasti di lei»
Suo padre poi le aveva sorriso con indulgenza
«Sei una bellissima
ragazza, tesoro» le aveva concesso, come se quello fosse il
suo unico pregio,
la sua unica possibilità. Un bel viso per trovare un buono
partito.
Simone non era quel buon partito.
«Spero che tu stia scherzando. Un
ragazzo che studia infermieristica? Lo
hai conosciuto ai corsi? È evidente che non può
essere nulla di serio, non
fissarti con lui solo per farci una ripicca»
Nonostante il desiderio, non era riuscita a
ribattere, si era portata a
casa quella ramanzina e lo svilimento che ne era conseguito.
E così anche l’unico, vero
affetto che le era rimasto si tramutava in
una ripicca alla famiglia, ancora una volta le veniva ricordato come
non avesse
volontà, non fosse in grado di scegliere. Simone era stato
l’ultima grande
delusione di una sfilza che aveva inferto ai suoi perfetti genitori. Un
ragazzo
che studiava per diventare infermiere era imbarazzante, un fallimento a
prescindere, per loro.
Simone l’aveva attirata a sé,
a casa, sul divano.
Le aveva baciato la tempia, ma Elena non aveva
sentito nulla, era
rimasta inerte. La televisione era accesa, ma lei non la vedeva.
«Non ti lascio, amore» le
sussurrò all’orecchio a un tratto, un mantra
che avrebbe dovuto confortarla e invece le fece solo provare una
stretta al
petto, la sensazione che i suoi polmoni rarefatti non potessero
più incamerare
ossigeno.
«Ho mai scelto qualcosa che avesse un
senso?»
Simone non le aveva detto nulla, l’aveva
solo cullata, perché lo
sapeva, che non avrebbe veramente ascoltato, che ogni parola sarebbe
andata a
vuoto.
Così Elena aveva deglutito a stento,
chiuso gli occhi e si era lasciata
trascinare. In quel frangente, l’unica cosa che riusciva a
pensare era che avrebbe
voluto vedere Demian. Avrebbe voluto che fosse la sua innocenza
dolorosa a
sfiorarla appena, con la stessa delicatezza di quella poesia che una
volta
aveva iniziato a leggere. Perché Dami lo capiva, cosa
significasse essere
rifiutati, Dami conosceva quanto quel dolore fosse straziante, anche se
era
solo un ragazzino.
Voleva fossero le sue parole, a curarla, leggere
come impronte di gabbiani
sulla sabbia.
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Capitolo 18 *** Quando del tredicenne innocente si era persa ogni traccia ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
DEL TREDICENNE
INNOCENTE SI ERA PERSA OGNI TRACCIA
Con l’anno nuovo, Demian si era
presentato alla sua porta. Pioveva
nevischio, l’aria era gelida ed Elena era china
sull’ennesimo libro che avrebbe
voluto solo lanciare contro il muro.
Studiava per non pensare, perché Simone
non c’era.
Perché Simone alla fine stava mostrando
i primi segni di un cedimento e
si era allontanato da lei, le aveva detto di tornare quando fosse stata
sicura.
Quando avesse smesso di colpevolizzarlo di tutte le cose storte.
«Non so cosa fare. Lo sai che ti amo, ma
sembra che non ti basti,
niente di ciò che faccio sembra bastare»
Aveva solo potuto chinare la testa, non poteva
negare la verità, anche
se era dolorosa e tremendamente meschina.
Senza di lui, era un guscio vuoto con un testo
sottomano che fingeva di
avere un futuro.
Aprì la porta con la certezza di
scacciare chiunque avesse cercato di
varcare il confine della sua esasperazione e, invece, rimase immobile,
senza
fiato e senza forze.
Le punte bianche dei suoi capelli, sotto lo
zuccotto nero, erano
cristallizzate di acqua e neve, e lui sembrava incredibilmente piccolo
nel suo giubbino
enorme, e candido.
Elena lo fissò a lungo, si prese il suo
tempo.
E capì che Demian era davvero una
creatura fatata. In sé aveva tutte le
sfumature del bianco e raccoglieva la perfezione della neve e la
vastità di un
cielo azzurro fumo, la gradazione opaca e velata delle nuvole cangianti
dopo
una nevicata.
Nemmeno la lacerazione sullo zigomo, uno squarcio
netto, una spaccatura
rosso sangue, riusciva a macchiare quel quadro di perfezione. Lo
rendeva solo
reale.
Quelle ferite lo rendevano vero, Elena aveva
bisogno di vederle quanto
Demian aveva bisogno di farsele infliggere, perché solo le
imperfezioni gli
davano concretezza, solo quel dolore gli permetteva di tornare da lei.
«Ti sei fatto male»
«Ellie» un sospiro e un
sorriso lieve. Una tenerezza nuova, più adulta,
spezzava le sue labbra. Qualcosa era cambiato ancora in lui. Una
tonalità della
sua anima che Elena non riconosceva, che la spaventava. Cercava un
bambino, ma
non lo trovava.
Cercava l’innocenza che aveva amato,
impigliata da qualche parte, tra quelle
ciglia incredibilmente folte, ma sbatteva contro una consapevolezza che
la
annichiliva.
«Cosa ti è
successo?»
Demian si era stretto nelle spalle, la punta del
naso arrossata.
Lo fece entrare, seguì ogni suo passo.
Lo aveva osservato sfilarsi la
giacca, sedersi sul divano, passarsi le dita lunghe e bianche come rami
sbiancati dall’acqua e dal sole tra i capelli umidi, la pelle
spaccata in un reticolo
di fenditure sanguigne per il freddo.
Non le parlava, ma la guardava dal basso, e gli
occhi erano lucidi.
Qualcuno una volta aveva detto che la bellezza
nasceva dalla
disperazione: Demian era la creatura più spezzata e bella
che avesse mai visto,
una bellezza luciferina che la tentava, le scioglieva l’anima
e la rendeva
incapace di raziocinio. Tutto di lui la sdilinquiva e la rendeva debole.
Non c’era ragione con lui e tutta la
frustrazione, la rabbia, si
assopiva.
Avrebbe voluto urlare tutta la sua collera, invece
gli sedette accanto,
cercava una calma che non riusciva a raccogliere, un respiro che la
rifuggiva.
«Dami, se non parli mi uccidi. Sei
sparito» prese fiato per nascondere
la voce che tremava d’incertezza «Sei sparito per
tanto tempo»
«Ti ho scritto»
«A malapena»
Dami incassò la testa nelle spalle, si
era allacciato le mani dietro la
nuca e, così raccolto, si mordeva l’interno della
guancia, in quel gesto d’abitudine
che era il più grande segnale del suo nervosismo. Gli occhi
immensi erano grandi
di colpa.
«Volevo mancarti»
Il velo di pudore sulle sue guance lo
riportò ad una dimensione infantile
in cui Elena poteva riconoscerlo. Avrebbe quasi voluto piangere, se il
sollievo
non fosse stato tanto grande. Gli accarezzò la guancia, lo
costrinse a guardarla
«Non sono mai stata tanto male» ammise a sua volta.
Demian afferrò cautamente la sua mano,
solo per premerla con più forza
contro la propria guancia, come il cucciolo di leone smarrito che era
sempre
stato ai suoi occhi.
«E lui?»
«Lui non
c’è» ammetterlo le faceva male.
Demian assottigliò i suoi bellissimi
occhi, l’angolo mediale affilato
dava l’impressione di un felino indolente ed Elena
realizzò che del ragazzino,
del tredicenne innocente, si era persa ogni traccia, restava solo la
sua
incredibile bellezza, oziosa e sensuale come una pantera elegante dal
manto
lucido e l’aria ruffiana, un’istintiva naturalezza
quasi sacrale per la purezza
che inspirava.
«Tornerà?»
Mestamente, aveva annuito
«Sì»
Le belle labbra si strinsero mentre lo sguardo si
abbassava e il corpo
di Demian assorbiva l’ennesimo impatto, l’ennesimo
colpo a tradimento, rattrappendosi
davanti a lei in una raccolta di pelle e ossa indifese.
«Però adesso non
c’è» ripeté, e
c’era una disperazione tale in quella
speranza, che Elena sentì salirle il pianto, finalmente.
«Sì»
Cautamente, come un animaletto insicuro e
spaventato, un gatto randagio
che cerchi un poco di affetto, Dami si era avvicinato, aveva allungato
la mano
verso di lei, le aveva sfiorato la guancia e seguito la linea del
collo.
Elena si era chinata per baciargli la fronte, per
poterlo sentire, ma Demian
voleva di più. Come quel primo giorno, le aveva rubato un
bacio leggero, l’aveva
guardata, sfidata a dirgli che non poteva.
Che c’era Simone.
E lei lo sapeva, quelle parole non avrebbe mai
potuto dirgliele, Dami
poteva prendersi tutto ciò che era. Lo aveva ricambiato con
forza, aveva sentito
quel fiato caldo e sconvolto spezzarsi nella sua bocca e aveva pensato
che
desiderava di più, voleva sentirlo di più.
Era sola e niente aveva senso, ma c’era
Demian, ci sarebbe sempre stato
Demian.
Era scivolato sul divano, disteso, insicuro come
un bambino con gli
occhi pieni di adorazione e meraviglia e il fisico che stava
attraversando la
linea dell’adolescenza.
Allora Elena lo accarezzò a sua volta,
con la delicatezza e la
dedizione con cui si poteva ammirare solo un’opera
d’arte, ne tratteggiò i
confini, la tonicità di quel suo corpo sempre più
solido e sicuro, un punto
fisso a cui aggrapparsi. E quando la mano di Dami era scivolata sulle
sue gambe
ed era risalita piano, con esitazione, sul suo fianco, sotto la
maglietta, finalmente
le labbra si erano schiuse nel primo, vero, morbido sorriso.
Perché
non era sparito, perché la
voleva ancora.
«Puoi fare ciò che
vuoi»
Lo aveva detto con l’inconsapevolezza
dell’incoscienza, con l’ingenuità
di una ragazzina, non di una donna. Eppure, la tenerezza che provava
per lui,
per quel tremore sottile, era tanto soverchiante che in sua presenza
Elena si
sentiva minuscola, fragile.
Mentre gli sfilava la maglietta e ammirava la
corposità del candore
della sua pelle, anche le sue mani tremarono.
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Capitolo 19 *** Quando quella prima e unica volta ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
QUELLA PRIMA E UNICA VOLTA
Tutta quella tensione,
quella disperazione che li aveva legati, che li aveva attirati con la
forza di
due poli opposti, trovava il suo senso per la prima volta, trovava il
suo culmine
nelle loro mani che brancolavano, si cercavano, si accarezzavano e
divoravano
con un desiderio affranto per fare l’amore. Come se fossero
esistiti in funzione
l’uno dell’altro solo per quel momento.
Bruciare, bruciare
per il sacrilegio di toccare un corpo intonso e trasparente come un
cristallo,
era un sacrificio che valeva la pena, avrebbe potuto consumarsi e
tramutarsi in
cenere, lo avrebbe accettato, ma solo dopo averlo sentito, solo dopo
averlo
reso suo.
Sotto di lei, tra
le sue mani, Demian tremava, eppure quei suoi occhi di luna la
mangiavano febbrili
di desiderio e adorazione. Demian la guardava come fosse un sogno di
carne e
sangue, ed anche se non sapeva cosa fare, come muoversi, le sue dita
insicure
provavano comunque a toccarla, a scoprirla, con quella rudezza che gli
apparteneva, figlia di un languore furente che li stava consumando.
Lo aveva spogliato,
aveva baciato quel petto glabro e in una scia di baci aveva raggiunto
la gola,
quel pomo d’Adamo ancora poco accentuato, teso sotto la pelle
tenera, tutto da
succhiare, come un nettare. Lo aveva fatto, lo aveva ascoltato
trattenere il respiro
e poi ansimare, per la sorpresa ed il panico e l’eccitazione
più assoluta. Scottava,
un calore nuovo sulle labbra, elettrizzante.
Quando si era
spogliata a sua volta, a cavallo sui suoi fianchi sottili, Demian era
rimasto
incantato a fissarle i seni. Aveva allungato la mano, imbarazzato e
intraprendente come un bambino, e con quel tremore che non aveva smesso
un solo
istante di accompagnarlo l’aveva posata sulla sua pelle, con
il pollice le
aveva sfiorato il capezzolo, meravigliato.
«Sembri fatta di
miele» lo disse con assoluta devozione, un mortale che osava
toccare l’effigie
sacra di una divinità.
Lo aveva baciato, Demian
aveva infilato le mani tra i suoi capelli, aveva tirato, si era
arpionato a lei
e premeva e spingeva, come per ingoiarla e raccogliere in lei ogni
oncia di passione
e desiderio.
Si era stesa accanto
a lui, aveva finito di spogliarsi e, lentamente, per non spaventarlo,
per
ammansire la fiera ostile e sospettosa che abitava quel corpo fragile,
Elena lo
aveva spinto a sovrastarla, lo aveva accolto tra le sue cosce.
L’emozione e il
terrore lo avevano invaso, l’aveva guardata con un panico
tale che le venne da
sorridere, perché pareva davvero un condannato a morte dal
viso sottile e gli
occhi grandi di una qualche fiaba nordica ancora da scrivere.
«Vieni qui, Dami» aveva
allargato le braccia e Demian si era disteso, si era adagiato tra i
suoi seni
con una tenerezza infantile e incerta. Poi, li aveva baciati, i suoi
seni, aveva
assaporato la sua pelle, l’aveva succhiata e ancora aveva
cercato il suo
sguardo dal basso.
«Sai davvero di un
fiore. Mi piace il tuo sapore»
A lei piaceva il
gusto salato della sua pelle, le piaceva leccare quel sottile,
impalpabile velo
di sudore sulle clavicole sottili, sulla gola che fremeva. Le piaceva
sentire
il pomo d’Adamo che fremeva inquieto sotto la sua lingua e
toccare e accarezzare
ancora e ancora la linea di congiunzione che tuffava il collo nella
spalla, le
scapole sporgenti ad ala in cui affondare le unghie era tanto facile
per la morbidezza
della carne.
Tutto di Demian era
una scoperta dei sensi, un brivido di piacere.
Averlo tra le sue
cosce era un’eccitazione nuova, sacrilega, pensava ad ogni
istante che si
sarebbe meritata di essere fulminata, così, senza nemmeno
rendersene conto,
eppure quel ragazzino insicuro, che a tratti pareva tanto grande e a
tratti
comunicava solo una struggente tenerezza, la fissava con le pupille
dilatate di
un piacere asfissiante, irresistibile.
«Perché non puoi
essere mia?»
«Voglio essere tua»
almeno ora, almeno adesso, voglio essere
tua, Dami
Voleva appartenergli
con un desiderio che le seccava la gola e le annebbiava la vista, non
esisteva
nulla, solo la pressione di quel corpo scattante e fresco, solo la
sensazione
di quell’eccitazione tra le gambe. Lo aveva guidato, lo aveva
aiutato ad entrare
in lei e Demian era stato tanto sperso, smarrito, che così
sostenuto sopra di
lei l’aveva guardata con quella paura da prigioniero
costretto, nonostante la
voglia, a compiere il suo ruolo. Gli occhioni che ancora si erano
dilatati, per
la sorpresa immensa. I suoi muscoli si erano contratti e si era teso
come una
corda di violino, per quell’improvvisa botta di piacere che
dall’inguine lo aveva
attraversato come una scossa elettrica fino a inarcare quel suo bel
collo
candido da animale raro.
Tutto il resto l’aveva
fatto seguendo l’istinto naturale, non era durato molto prima
che le braccia e
il ventre squassato da brividi e tremori cedessero e Dami si
accasciasse completamente,
ed Elena lo accogliesse ancora tra le sue braccia.
Il respiro spezzato
che moriva tra il collo e l’orecchio era caldo e piacevole
come la sensazione
che provava nel suo ventre.
«Ora anche tu sei
un po’ mio»
Solo per ora, aveva
pensato, ma le bastava, era confortante. Demian aveva sorriso sulla sua
pelle.
«Io sono sempre tuo»
Era il contrario a
non essere vero. Era stata sua, ma solo per quell’istante in
cui le si era
concessa. In realtà, Elena sapeva di appartenere a qualcun
altro ed odiava
essere consapevole di non avere scelta: con il calore di Demian che
colava tra
le cosce, in quel momento di sublime unione, in lei sentiva subentrare
la
mancanza di Simone. Eppure Dami era bello e morbido e dolce,
incredibilmente
dolce e tenero nel baciarle la pelle sotto l’orecchio, ancora
e ancora, per
assaporare a fondo l’odore di sesso e eccitazione che aveva
alterato il profumo
del suo sudore.
Era soffice e delicato, la sua nuca fragile
sotto le dita, tra i polpastrelli, ancora pervasa dal tremito
dell’orgasmo,
sembrava un miracolo, Elena si crogiolava nella morbidezza dei suoi
capelli per
non sentire il buco nero di colpa che si apriva nel suo stomaco.
Poi, Demian si era sollevato, si era staccato
e gettato accanto a lei, sporco di umori, stravolto, le labbra tumide,
arrossate dai troppi baci, erano chiuse in un sorriso estasiato.
L’aveva cercata ancora, con quei suoi
occhi
rosati e meravigliosi, e ancora aveva sorriso.
«Sei bellissima» aveva
mormorato.
Aveva disegnato la linea del suo seno piano,
come a chiederle il permesso «È così
morbido»
Lo aveva spogliato della sua infanzia,
davanti a lei doveva esserci un uomo, eppure lo stupore sorpreso che lo
animava
restava quello di un ragazzino. Lo avrebbe baciato, lo avrebbe
soffocato nell’affetto
di un suo abbraccio, ma non voleva spezzare quel momento, voleva
ammirarlo nelle
sue scoperte.
Nell’incavo del suo collo, Demian si era
rifugiato soffiando ancora «Sei così bella che non
trovo le parole»
I suoi sospiri da amante erano appaganti e
delicati di un’innocenza che toglieva le forze di
resistergli. Le loro carnagioni
in contrasto erano bronzo che si fondeva con il marmo.
Gli sfiorò le labbra con
l’indice «Mi sono
sempre piaciute le tue labbra» gli aveva detto, ma poi si era
allontanata,
schiacciata da quell’adorazione che era troppo, le comprimeva
l’esofago dall’ansia.
Aveva recuperato la felpa di Demian, grigia e nera, e con
l’aria disinvolta e
maliziosa che lo agitava, degna delle migliori attrici di film gialli
degli
anni ottanta, aveva sbattuto le ciglia e aveva ammiccato
«Questo è il mio bottino»
Si era chinata su di lui, gli aveva rubato un
bacio, morso le labbra.
Rapito, Dami aveva sgranato gli occhi, le
iridi mangiavano tutto, erano infinite e profonde «Sei
davvero Afrodite»
ANGOLO
AUTRICE
Ed ecco
il vero dramma del loro rapporto, era palese che si sarebbe arrivati
qui, prima
o poi, e per i lettori dell’originale era già
anche noto. Per me la sfida era
rendere in poche righe quanto Elena sia controversa e distorta, di come
veda
romanticamente qualcosa che di romantico non ha molto. A tratti ne
è consapevole,
a tratti se lo nega. Beh, in questo mini-racconto, la sfida era proprio
entrare
in una visione distorta, non ho mai capito se ci sono riuscita, ma di
sicuro mi
ha aiutato a definire meglio Ellie nella mia testa e spero abbia
risolto alcuni
quesiti su di lei che mi erano stati posti.
Siamo
ovviamente quasi alla fine, nei prossimi giorni pubblicherò
gli ultimi
capitoli, se non ricordo male sono ancora due più
l’epilogo.
A presto
|
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Capitolo 20 *** Quando non lo aveva più guardato ***
Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
NON LO AVEVA PIÙ GUARDATO
Si erano rotolati nel letto ancora e ancora,
Demian diventava più sicuro, e più cresceva la
sua consapevolezza più sembrava
bello e forte e grande.
Elena lo aveva lasciato fare mentre sussurrava
“Ellie” sulla sua bocca come
un’invocazione, ed alla fine si era addormentata
oziosa sul petto di quel ragazzino.
Si era svegliata che già si era fatta
sera,
il nevischio si era trasformato in un sottile strato di neve, felci di
ghiaccio
decoravano il vetro. Faceva freddo, la caldaia doveva essersi impallata
di
nuovo.
Demian era ancora sveglio e nudo, accanto a
lei, con un libro tra le mani e l’aria rapita di un poeta
dannato.
Era sempre lo stesso, la raccolta di Neruda.
Accarezzò i pettorali pallidi, appena
accentuati sul suo corpo acerbo, vi depositò un altro bacio
leggero, per farsi
vedere. Demian le dedicò un’occhiata in tralice,
abbozzò un sorriso storto, con
il canino sporgente in vista, poi tornò a quelle parole
scritte, non dette.
«Cosa leggi?»
«Una cosa che parla di te»
Si era sollevata, lo aveva guardato intensamente
«Di me?»
Il sorriso si era sciolto in una morsa di
vergogna e colpa «Di te. L’ho sempre saputo, tu sei
come una poesia di Neruda»
La delicatezza remissiva con cui aveva mormorato
quella confessione la uccise di dolcezza, la costrinse ad abbassare gli
occhi. Solo
un ragazzino poteva dire una cosa simile, solo l’innocenza
più pura dei primi
affetti era tanto onesta e sincera.
Demian era un bambino che viveva di parole
scritte e sapeva parlare solo quella lingua articolata che a lei era
tanto
sconosciuta.
«Vorrei sapere quale»
Aveva scosso la testa, gli occhi dilatati da
quella paura ancestrale che lo travolgeva quando Elena provava ad
avvicinarsi,
a sfondare un muro di intimità con le sue domande indiscrete.
«Ci terrei davvero»
Era una sciocca, era lei l’ingenua. Non
capiva
realmente cosa gli stesse chiedendo, la portata di quella rivelazione
che Elena
per prima non era in grado di sopportare.
La voce aveva tremato, ma una strana
determinazione aveva acceso quei suoi occhi d’inverno.
«Perché tu possa ascoltarmi
le mie parole si fanno sottili, a volte,
come impronte di gabbiani sulla spiaggia»
L’aveva baciata teneramente sulla
fronte, aveva posto un braccio attorno
alle sue spalle, a proteggerla, come fosse un uomo e non un bambino,
l’altro a
sostenere la sua raccolta di poesie.
Elena l’aveva riconosciuta, aveva
iniziato a leggerla un giorno, tanto
tempo prima.
«Cosa vuoi che ascolti?» lo
aveva sussurrato con un sorriso divertito,
che sciocca era stata, il sorriso di chi non ha capito davvero nulla.
Dami l’aveva osservata cauto, insicuro,
come stesse valutando fin dove
spingersi, come cercando le parole.
«Le mie parole, più che mie
sono tue» aveva risposto in un mormorio
soffuso «Prima di te hanno popolato la solitudine che occupi,
e più di te sono
abituate alla mia tristezza… ora voglio che dicano
ciò che voglio dirti, perché
tu le ascolti come voglio essere ascoltato»
Si era accigliata. Si era accorta che non la stava
leggendo tutta, che
aveva saltato delle righe. Che non era semplicemente una poesia, era un
messaggio.
«Io ti ascolto»
Dami aveva sospirato, aveva raccolto tutto il
coraggio di quel corpo delicato.
Si era esposto.
«Amami, compagna. Non mi lasciare.
Seguimi. Seguimi, compagna, su
quest’onda d’angoscia»
L’aveva guardata con speranza,
accarezzandole la spalla vellutata, come
un cucciolo in attesa di una carezza. Una carezza che non era arrivata,
che non
aveva avuto la forza di donargli.
Sopraffatta, Elena aveva chiuso gli occhi e
voltato il capo.
Aveva sentito il rumore di quel cuore che si
rompeva, aveva sentito
qualcosa incrinarsi dentro di lei, l’immenso vuoto della
colpa crescere.
Non l’aveva più guardato.
ANGOLO AUTRICE
Chiedo scusa per la sparizione, per problemi
di natura lavorativa mi sono dimenticata di pubblicare gli ultimi
capitoli, nei
prossimi giorni provvederò
|
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Capitolo 21 *** Quando aveva iniziato ad odiarla ***
Perché tu possa ascoltarmi
QUANDO AVEVA INIZIATO AD ODIARLA
Demian era scappato con la coda tra le gambe e i
vestiti gettati addosso
alla rinfusa, con la fretta dell’imbarazzo, la maglietta al
contrario e il
giubbino contro la pelle, perché quella felpa non aveva
avuto il coraggio di richiederla.
L’aveva lasciata con lei, in quel letto che non gli
apparteneva, che era di
Simone.
Era scappato con quel libro in mano, il nevischio
scendeva, aveva inumidito
le pagine, si erano arricciate un poco.
Era andato da Nicolas e dagli altri, non voleva
tornare a casa.
Non voleva vedere maman, non voleva sentirla
urlargli contro, perché lo
faceva sempre ormai, urlava per tutto, incattivita, arrabbiata.
Preoccupata.
«Dove sei stato? Dove passi tutto il tuo
tempo?»
E poi, ancora, frustrata «Non puoi
comportarti così! Hai solo quattordici
anni, Dami! Sono tua madre, devi rispondermi!»
Demian, a quelle domande, di rispondere non ne era
proprio capace.
Il senso di colpa lo rendeva spavaldo e
aggressivo, le ringhiava
contro, la feriva, e non voleva. Non voleva perché non stava
bene, non voleva perché
Sarah era troppo piccola e quelle cattiverie non riusciva a
sopportarle, si
rintanava nella loro stanza, sul suo letto, aggrappata al suo orsetto
di
peluche come se quest’ultimo avesse potuto salvarla.
Nicolas gli aveva dato una copia delle chiavi del
suo appartamento, un
buco ai piedi di una palazzina, un covo dove tutti si riunivano.
C’era Davide, frustrato come non mai
perché le Juve aveva pareggiato
contro il Parma, una partita mediocre.
«Del Piero quasi mi ci aveva illuso, ma
dopo il suo gol non hanno più
concluso un cazzo. Se Crespo si fosse fatto i cazzi suoi! Ma figurati
se non ci
inculavano proprio sul finale. Al novantaduesimo, ti rendi conto? Che
partita di
merda»
Finiva sempre così, quando giocava la
Juve, e Dave beveva di brutto,
per festeggiare o per non pensare al fallimento, a seconda del caso.
Demian aveva fatto lo stesso, si era ubriacato.
Davide, ridendo, gli aveva mostrato una pastiglia.
«L’Lsd non l’hai mai
provata, vero?»
E lui aveva scosso la testa, provato da una
sbronza pesante e da un
dolore al petto tanto forte da tradursi in fitte profonde come
pugnalate tra le
costole.
«C’è sempre una
prima volta, moccioso»
Quella era stata la sua prima volta, ma non
l’ultima.
La mattina presto, ancora invasato dal bad trip
allucinante che aveva
avuto e dal troppo alcol in corpo, era strisciato fuori casa, aveva
vagato nel
buio.
Alla fine, era tornato davanti alla palazzina di
Elena. Voleva suonare
il campanello, parlarle, non voleva scappare. Aveva paura che se avesse
mollato
in quel momento, sarebbe crollato tutto il castello di carte che erano
loro,
che era lui per lei.
Nell’alba, una figura dolorosamente nota
uscì dal portoncino.
Un ragazzo, alto, un bravo ragazzo con le spalle
larghe e un sorriso
tiepido nascosto all’angolo della bocca, sempre in procinto
di nascere.
Simone
Simone era tornato. Elena aveva detto che sarebbe
successo, ma non pensava
subito.
Non voleva credere che fosse davvero tornata con
Simone dopo aver fatto
l’amore con lui.
Aveva aspettato che fosse sparito, poi aveva
suonato.
Elena lo aveva visto nello schermo del citofono,
lo aveva fatto
entrare.
Come non fosse successo nulla, e invece Simone era
stato lì.
Simone aveva dormito con lei.
Simone l’aveva scopata, sorrideva, era
felice.
Simone nemmeno immaginava che lui esistesse.
Elena aprì scompigliata e sorridente,
gli occhi stropicciati, ma non di
sonno. Era stanca e appagata, portava addosso un odore, quell’odore,
di
sudore e sesso, di sperma e umori, un aroma avvolgente come una guaina
calda e
umida.
Demian sentì che qualcosa si spezzava.
Che la odiava.
Che quel sorriso avrebbe voluto distruggerlo,
vederlo sgretolarsi lentamente
sotto le sue mani. Perché non meritava di sorridere
così beatamente, non
meritava niente.
Non meritava lui, e non meritava nemmeno Simone.
L’aveva afferrata con una cattiveria che
non gli apparteneva, che
nasceva con lei, che non conosceva prima di conoscerla, e
l’aveva spinta dentro
l’appartamento, schiumante di collera, la mano serrata
attorno a quel polso
fragile, sottile.
«Demian?» l’aveva
chiamato, confusa.
E poi aveva urlato, sempre più
spaventata «Demian!» mentre la
trascinava, nuda contro la sua volontà nella sua camera da
letto. Le lenzuola
erano sparse, stropicciate, intrise del sudore di una notte trascorsa a
fare l’amore.
E Demian l’aveva gettata su quel letto e
si era sentito forte,
incredibilmente forte.
Elena lo trattava come un bambino, ma era
più forte di lei, non era un
bambino, non aveva il diritto di prendersi il suo cuore e stritolarlo
nella morsa
meschina di quelle mani egoiste e capricciose.
Ed anche se stavolta era Ellie a guardarlo con gli
occhi immensi di
paura, resi bellissimi dalla struggente dolcezza che li ammorbidiva in
un’espressione
languida e spaventata, Demian non si sentì meglio, si
sentì solo più furioso,
oltraggiato.
L’aveva spinta, l’aveva
costretta a voltarsi, con una mano le bloccava
i polsi, con l’altra aveva agguantato i suoi capelli morbidi
e setosi e aveva
premuto quel viso tanto bello, tanto amato, contro il materasso,
perché non
voleva sentirla, non voleva vederla.
Non voleva sapere quale fosse la sua espressione
mentre piangeva e
provava a dimenarsi disperatamente, mentre la ignorava e la prendeva
con una
cattiveria, un disprezzo che lo distruggevano.
Era stato tutto caotico e veloce,
l’orgasmo fulminante.
Ad un tratto, Elena aveva smesso di opporsi,
l’aveva assecondato, le
unghie che affondavano nel materasso insieme ai gemiti soffocati, e
Demian si
era sentito in pace, aveva pensato che non era vero niente, che aveva
frainteso
tutto.
Quando però si era staccato da lei,
aveva riconosciuto i segni rossi
delle sue dita sui fianchi della ragazza, la gravità di
quello che aveva fatto
gli era caduta addosso. Frastornato, si era seduto sul bordo del letto,
le
aveva dato la schiena.
L’ascoltò piangere.
«Perché lo hai
fatto?» piangeva come una miserabile, rannicchiata con
il lenzuolo che la copriva solo in parte e nemmeno più la
dignità di
mascherarsi.
Il fiato gli era mancato, tutto era precipitato
giù, nello stomaco, come
un vuoto d’aria, si era ripiegato su se stesso con il volto
affondato nelle
mani, le dita affrancate ai capelli.
«Per un attimo mi sono illuso che
così saresti stata mia»
E tu,
tu perché me lo hai permesso?
Perché
non mi hai fermato?
Non era vero che era più forte, Elena
lo aveva lasciato fare, forse
aveva sperato che si fermasse da solo e lui non ci era riuscito.
«Non piangere, Dami» si era
avvicinata a lui, lo aveva abbracciato e
quel corpo caldo e fragile aveva aderito alla sua schiena.
«Ti odio» lo aveva mormorato,
era arrabbiato e disperato, ma non era
comunque vero: non riusciva ad odiarla.
«Perdonami, Dami, scusami»
Lo aveva trascinato con sé, anche lei
piangeva, sommessamente, si era
aggrappata al suo corpo inerte, Demian sentiva di non potersi muovere
più, che
tutto era sbagliato e senza senso.
Lei non lo amava.
Non gli avrebbe permesso di fare quello che aveva
fatto, se l’avesse
amato. Si era fatta ferire perché si sentiva in colpa, non
le era importato
come sarebbe stato lui, dopo.
Ellie si era addormentata sul suo petto, le guance
umide di pianto.
Demian era scivolato via dal suo corpo, piano, per
non svegliarla. Aveva
preso il suo libro, quella poesia di Neruda che era Elena, era sempre
stata lei,
per la delicatezza, la dolcezza che riusciva a ispirargli. La
strappò piano, la
carta era delicata, si stracciava come il suo cuore, con una
facilità così
disarmante che quasi avrebbe potuto riderne.
Se ne era andato da quella casa, ma la poesia,
quella l’aveva lasciata
sul cuscino, accanto a Ellie.
In quel foglio restava tutto ciò che
aveva provato di buono per lei.
Tutto ciò che aveva desiderato da lei.
Perché
tu possa ascoltarmi
Quanto
era stato sciocco, a
crederci.
|
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Capitolo 22 *** Epilogo ***
Perché
tu possa ascoltarmi
EPILOGO
La
neve
si scioglieva, inumidiva i prati, macchiava le grandi mani della statua
di Don
Bosco, protese verso i bambini nel centro del cortile.
Lo
sguardo
di Elena si perdeva oltre le vetrate della saletta ristoro, oltre le
parole di
Chiara che continuava a raccontarle, a spiegarle. Era una ragazza
minuta e
dalle guance morbide, Chiara, non era cambiata molto dagli anni in
università,
quando ancora erano compagne di corso. Lavorare all’Hospice
però, l’aveva resa
più pragmatica, meno spontanea e solare.
A
volte,
le aveva confidato che si intristiva, era difficile per lei non legarsi.
«Non
credo le resti ancora molto, meno di un mese ormai. Ne abbiamo parlato
con la sorella,
ma non penso lo abbiano detto a suo figlio, è
così giovane»
Elena
ingurgitò il caffè con una smorfia.
Il
caffè
insapore delle macchinette le ricordava Demian.
«No,
Dami ancora non lo sa. Non dirgli niente»
La
sua
amica tacque, si rigirò il bicchierino di plastica tra le
dita corte e tozze. Le
aveva spiegato quanto fosse legata emotivamente alla famiglia Lemaire e
che Jenevieve
era stata uno dei suoi primi casi medici quando ancora era una
tirocinante, un
paio di anni prima, per questo Chiara le raccontava tutto, anche se non
avrebbe
dovuto.
Per
questo
non si meravigliava che, almeno un paio di volte alla settimana, Elena
si presentasse
all’Hospice, per osservare quella donna diafana e sfatta da
lontano, senza mai
avvicinarsi per parlare.
Elena
le era grata per tutta la sua discrezione e la sua
disponibilità.
Dopo
quella
fatidica mattina, quando si era svegliata e Demian non era
più accanto a lei,
qualcosa si era irrimediabilmente rotto nel loro rapporto. Da
lì, il crollo era
stato lento e inesorabile, il terreno sotto i loro piedi era come la
parete scoscesa
e friabile di una montagna, sempre sul punto di franare, di perdere un
pezzo.
Così
erano
stati loro.
Non
si
erano persi, non avrebbero potuto nemmeno volendo, ma tutta la
confidenza e la
dolcezza che li aveva uniti si era dispersa, scialacquata
nell’odio e nell’insofferenza
di Demian. Perciò, perfino chiedergli come stesse lui, come
stesse Jenevieve,
era un diritto che aveva perduto, e non le restava altra scelta che
vegliarli
da lontano.
«Che
rapporto
hai con il ragazzo?» osò domandarle Chiara, con
incertezza.
Le
era sfuggito un sorriso amaro, intriso dei suoi stessi dubbi.
Non
lo
so, che rapporto ho con lui.
Ma
ciò
che sono, lo devo a lui.
Ogni
mia scelta sensata è nata da lui.
Era
difficile spiegare che se alla fine
aveva scelto di specializzarsi in oncologia, era stato per Demian,
perché l’impotenza
che aveva provato di fronte al suo dolore era stata il più
grande fallimento
della sua vita. Era difficile spiegare che Jenevieve, con il suo solo
esistere,
l’aveva messa con le spalle al muro, le aveva donato una
consapevolezza che
nella leggerezza dei suoi vent’anni non avrebbe mai potuto
avere.
Stava
valutando cosa risponderle, ma notò
la figura di Demian, in lontananza nel corridoio, varcare le porte a
vetri dell’ingresso,
ed ogni buon proposito le morì in gola. Era meraviglioso,
anche ora che i suoi
sedici anni li portava come ne avesse vissuti trenta. Era bello di una
bellezza
bruciata e sbattuta alla James Dean, un poco consumata dagli eccessi ma
sempre
limpida, eterea come il suo lento incedere da mago, da creatura
mitologica.
Elena
esitò, si guardò le mani, come a
farsi forza, per convincersi ad alzarsi, ad andare da lui.
Negli
anni avevano dimenticato come
parlare, come volersi bene, eppure Elena desiderava solo quello,
avvicinarsi,
sincerarsi che stesse bene, proprio ora che il momento peggiore
incombeva su di
lui ed era sempre tanto triste. Negli ultimi mesi però, la
loro distanza si era
fatta più grande e profonda, una gola invalicabile, e
perfino quel poco che ancora
era rimasto sembrava ai suoi occhi perduto in maniera tragica e
disperata.
Negli
ultimi due anni, una sola certezza l’aveva
confortata: nel rancore, Demian le voleva ancora bene, la cercava,
aveva bisogno
di lei. Anche solo per scopare, con quella rabbia che non era
più scemata, che
si manifestava solo nel rapporto fisico, una collera aggressiva ed
incurante
della quale lei per prima si nutriva, come un vampiro.
Perché in un mondo
dorato che l’aveva viziata e coccolata, la sua rudezza non
era mai davvero
troppo, non era eccessiva, era solo forte, inebriante.
Un
montante spietato, un colpo forte a
tradimento che, nel dolore, la faceva sentire viva.
Per
Demian non era mai stata di vetro,
pronta a spezzarsi, per questo lo aveva amato, amava quel broncio
naturale
delle sue labbra gonfie mentre camminava assorto, raccolto in
riflessioni che non
l’avevano mai davvero inclusa.
Sei
sempre
stato una scarica di energia, afferrare il proibito.
L’infinito raccolto dietro
il velo della mia ipocrisia.
Per
questo esitava, perché per quella botta
di adrenalina, quel brivido intenso, era lui a doverne pagare le
conseguenze. Glielo
aveva letto negli occhi, alla fine di ogni rapporto consumato in fretta
e senza
cura, che Demian soffriva, si sentiva in colpa e si sentiva meschino.
Demian
non avrebbe voluto vederla, da tempo
cercava di recidere quel loro legame malsano, negli ultimi mesi con una
rinnovata decisione che l’aveva spaventata, l’aveva
resa debole.
Si
era alzata senza accorgersene e l’aveva
raggiunto in uno slancio quasi disperato.
Sono
io che non voglio lasciarti andare, sono io che ti provoco, lo so.
Non
posso
farne a meno
«Dami,
sei tu»
Demian
si era fermato, a pochi metri dagli
ascensori.
Si
era voltato lentamente, meravigliato,
quasi non credesse a se stesso.
Elena
lo guardò negli occhi e rimase senza
parole, sopraffatta dalla medesima sorpresa. Per la prima volta da
chissà
quanto tempo, non trovò instillato in quello sguardo
sentimenti di odio e
rancore, solo una genuina serenità, una pacatezza che
scivolava nello sconforto
nel trovarsela di fronte, in un appena percettibile nervosismo puerile.
È
successo
qualcosa, è evidente.
Qualcosa
di bello.
Qualcosa
di bello che non riguarda più me.
Il
disagio del non sapere esattamente cosa dire la colse impreparata.
Il
sesso era stato l’ultimo brandello di legame che li aveva
uniti, avevano
scopato per allontanare il peso di una mancanza, avevano sfogato in
quei
rapporti un dolore inesprimibile a parole, un male di cui, in
realtà, erano
loro stessi la causa, loro che si aggrappavano l’uno
all’altro con tutte le
forze per non perdersi.
Ora,
anche quel desiderio si stava sbrindellando, stava diventando nulla, e
questo
la spaventava. Eppure, sotto le ceneri di quell’amore
morboso, ritrovava il
ragazzino inerme e indifeso, tenero come non le sembrava più
nemmeno possibile
ricordarlo.
«Ellie»
aveva sospirato semplicemente, e le aveva sorriso con mestizia, carico
di una
nostalgia che la prese a tradimento.
Avevo
dimenticato, quanto fossi tenero quando pronunciavi il mio nome
così, in un sospiro,
come fosse ovvio, scontato che fosse la mia, la mano che ti sfiorava.
Come
dovessi essere io
Allungò
emozionata una mano verso il suo volto, nel gesto di
una carezza che prima era sempre stata scontata, ma che ora non lo era
più, perché
Dami non le aveva più permesso di concedersi certe dolcezze.
Per questo le dita
avevano tremato e con amarezza aveva abbassato il braccio.
«Stai
bene» sussurrò.
Dami
si era sciolto in un’espressione sdilinquita, lo spettro
del ragazzino adorante, purificato dall’odio che li aveva
inghiottiti e che,
nonostante tutto, non era mai riuscito a cancellare
l’affetto, lo aveva solo e
sempre mascherato.
«Sto
bene» aveva sussurrato.
La
sua pelle non portava più le tracce dell’ultimo
pestaggio
che l’aveva portato ad essere ricoverato in ospedale, il suo
pallore naturale
rifletteva la luce come la più pura delle statue, senza
alcuna ombra di sfregio.
Quel pestaggio per cui, per la prima volta, non l’aveva
chiamata.
Non
aveva chiesto aiuto, non a lei, per non fare torto all’altra,
perché ora c’era un’altra.
«L’ultima
volta non mi hai chiamato. È stata la prima volta. Ho
avuto paura… che non avessi più bisogno di
me»
«Le
cose sono cambiate»
Non
le aveva più parlato con quell’arrendevolezza,
quella
tenerezza impietosita.
«Lo
immaginavo»
Dami
le aveva dato un leggero buffetto sulla guancia, una
sorta di carezza affettuosa e indulgente «Come avevi detto
una volta? Che avrai
sempre bisogno di me, giusto?»
Gli
sorrise, anche se era triste «Sì, l’ho
detto»
«Vale
anche per me, Ellie. Lo sai che vale anche per me, anche
quando ti odio»
Le
tremò il labbro inferiore, ma lo morse, per contenere il
dispiacere.
Era
stato terribile per lei, quella chiamata mai avvenuta l’aveva
messa davanti alla realtà: non era più il suo
punto di riferimento. Guardò i
capelli candidi che gli accarezzavano la fronte pallida, la linea
pulita del
suo viso, e pensò che, nonostante tutto, riusciva a
trattarla a volte come
fosse ancora la poesia di Neruda che le aveva dedicato, quel foglio che
Elena
teneva, piegato e sgualcito, dentro il portafoglio, per non dimenticare
il proprio
errore.
Per
non dimenticare che oltre la violenza di quella mattina
lontana, non lo aveva mai odiato e lui era sempre tornato da lei.
Per
non dimenticare che l’aveva amata e che anche lei lo
amava.
Solo,
non abbastanza.
«Mi
va bene, quando mi odi, basta che non sparisci come hai
fatto in questi mesi… me lo avevi promesso»
Nel
disagio, Demian l’aveva rifuggita, i suoi occhi erano
corsi al corridoio, all’ascensore che lo divideva da sua
madre. Ed Elena si era
sentita ancora meschina, ancora piccola e immatura e ingrata.
«Se
devi andare non farti problemi, Dami, mi basta vederti
ogni tanto, almeno per poco…»
Sì
sentiva tragicamente esposta, pensò che Demian
l’avrebbe
presa e schiacciata come un chicco d’uva tra pollice e
indice, come faceva a
volte quando lei gli mostrava il suo affetto, per ferirla, per
pareggiare in
qualche modo i conti.
Lo
supplicò quasi disperatamente di non farlo.
Se
deve essere l’ultima
volta, permettici di essere quelli che siamo sempre stati prima.
Ti
prego
«Cosa
ci fai qui, Ellie?»
Abbozzò
un sorriso mesto «Passo almeno un paio di volte alla
settimana. L’infermiera che hai visto prima era una mia
compagna di corso,
lavora nel reparto di tua madre»
È
il mio modo di starti vicino, anche
quando ti sono lontana
È
il mio modo di non perdere tutta la
bellezza che rappresenti, che mi doni
Vederlo
esitante le ricordava che era dolce
in realtà, che fare il duro non era il suo mestiere, eppure
Demian aveva sempre
tentato di calcarsi addosso quella maschera di solidità e
forza incrollabile.
Quanto
era cambiato in quegli anni, come si era fatto fragile, di cristallo, e
lei non
lo aveva saputo vedere, non lo aveva aiutato, lo aveva spinto solo nel
baratro.
Persino la serenità che gli tingeva lo sguardo in quel
momento era solo uno
specchio per mascherare la debolezza che languiva nella sua anima.
Demian
era un vetro incrinato che minacciava di sbriciolarsi, era una
richiesta disperata
a cui non aveva saputo prestare aiuto. Era un bambino che si era
aggrappato a
lei ogni volta che il mondo si era fatto troppo grande e troppo ostile.
Ormai
era una donna, aveva capito cosa voleva, non si sentiva più
persa, ma di fronte
a Dami, di fronte ai suoi occhi fatati di luna, Elena sentiva
riaffiorare l’insicurezza
dei suoi vent’anni, quell’istinto morboso di
prendersi cura di lui al di là di
tutto.
Si
sentiva
nulla, davanti all’affetto che li aveva uniti.
«Tu,
adesso…» ma Dami non trovava le parole.
C’erano
cose che non aveva mai saputo chiedere, cose che Elena aveva imparato a
capire
lo stesso.
Gli
sorrise,
smossa dalla familiare tenerezza per lui «Non vado via. Resto
qui ancora un po’.
Vuoi un passaggio per tornare a casa?»
Arrossì
come un bambino, chinò piano il capo.
«Devo
andare in ospedale, dopo» aveva detto, senza spiegare il
perché, era quella
verità omessa che lo imbarazzava.
Elena
sapeva che andava da lei.
«Ti
porto io»
«Non
serve» borbottò imbronciato. Voleva fare il duro,
risultava solo più tenero e morbido,
così se stesso da farla ridere.
Perché
quelli erano i “No” che adorava, che in
realtà celavano un “Sì”.
«Ti
aspetto
qui»
Non
aspettò
una risposta, gli diede la schiena e tornò da Chiara,
perché tanto lo sapeva,
Demian stava annuendo.
Ogni
volta che incontrava sua madre, Demian ne usciva un poco distrutto e
Elena
allora sentiva il cuore incrinarsi per il ragazzino che si portava
dentro e che
soffriva innocentemente la perdita di un genitore. Anche lei ritornava
indietro,
con lui, ritornava davanti alla camera d’ospedale di
Jenevieve, ingenua e
impreparata.
«Sto
bene» aveva detto subito Dami, per fermarla sul nascere.
E
lei
aveva finto che fosse vero, non aveva insistito.
Sentirlo
accanto a lei, in quella stessa macchina, le ricordava quando lo
accompagnava a
casa in quei mesi di tirocinio e gli bendava le ferite, una vita prima.
La riportava
a quel primo bacio rubato, all’errore di averlo ricambiato,
di non essersi
fermata.
La
riportava
a quando era l’oggetto della sua adorazione, non del suo
disprezzo, non un
semplice sfogo ma l’epicentro di un amore innocente.
«Lui
come sta?»
Si
morse
le labbra, prima di rispondere.
«Sta
bene. È da tanto che non mi chiedi di lui»
«Non
mi è mai stato troppo simpatico» lo diceva con
tranquillità, scrollando le
spalle.
«E
ora sì?»
Demian
guardava lontano, i palazzi fuori dal finestrino, assorto, con le
palpebre
leggermente abbassate, le folte ciglia che mettevano in ombra le iridi
chiare,
le mostrava solo la nuca fragile e quel pallido riflesso nel finestrino.
«Ora
lo capisco»
Aveva
parcheggiato la macchina con una sola manovra, un po’ brusca,
poi si era
fermata, immobile per troppi istanti.
«Ti
sei innamorato» constatò, e si sentì
tremendamente triste.
«Dovrei
esserne felice, ho sempre voluto questo per te, eppure non posso non
sentirmi
triste. È come vedere una parte di me che se ne va»
«Amore
è una parola grande» era in imbarazzo, si sentiva
in difetto.
«Eppure
non ne trovo un’altra. Con quell’aria sognante hai
guardato solo me, è un’espressione
che conosco bene»
«Hai
intenzione di provare ad allontanare Annie come hai fatto con ogni
ragazza che
mi si è avvicinata negli ultimi due anni?»
Elena
sussultò, si sentì quasi tradita da
quell’accusa.
«Ti
sbagli» aveva sempre saputo che Demian l’aveva
fraintesa, che da quell’unica volta
in cui avevano fatto l’amore, era stato tutto distorto e
traviato. Sapeva, che
pensava lo avesse usato senza affetto, per egocentrismo,
perché voleva troppo e
pensava solo a se stessa.
Ma
non
era reale.
A
modo
suo, in modo malato forse, lo aveva amato tantissimo.
«Forse
ho voluto proteggerti troppo, è vero, ma non le ho mai
cacciate per possesso. L’ho
fatto solo per vergogna, credo. Con la mia leggerezza infantile ti
avevo fatto
così male, ti avevo tolto la fiducia… non volevo
che altre immeritevoli potessero
avvicinarsi a te, scavare nuove crepe nella tua purezza»
La
guardò confuso, gli occhi immensi erano sempre gli stessi,
limpidi di un cielo
invernale che incantava e raggelava, per
l’immensità che le apriva davanti,
senza confini.
I
suoi
occhi erano come la luna che ispirava i poeti, nello stesso modo le
ispiravano
la più nobile bellezza.
«Non
sono mai stato puro»
Lo
bloccò
«Non sapevi guardarti. Ti ho rovinato, me ne sono sempre
pentita. Sei stato la
cosa più bella della mia vita, lo sai quanto vali per me,
puoi fingere di non
rendertene conto… ma lo sai. Lo sai che non avrei mai
tradito Simone, mai con
nessuno. Solo con te»
Tre
anni
di tradimenti, la sua vergogna più grande, l’unica
a cui non riusciva a
rinunciare, non le importava che lui capisse realmente la portata del
suo
affetto, le bastava che lo ricordasse, che si ricordasse che anche lui
l’aveva
amata.
Attraversarono
il parcheggio, parlarono del più e del meno, di qualche
sciocchezza.
«È
stato triste, vederti circondato di un mondo di cui non faccio
più parte, ma sono
stata così felice, Dami, di sapere che stavi bene. Sembravi
stare bene davvero»
Lui
le
aveva sorriso, arrendevole, soffice, così Elena gli aveva
detto tutto, gli
aveva detto la verità.
«Simone
mi ha chiesto di sposarlo»
«Ah»
era quasi inciampato nei suoi stessi piedi, per la sorpresa.
«Quando?»
aveva recuperato il pacchetto di sigarette dalla tasca, se ne era messa
una in
bocca e l’altra gliel’aveva offerta. Si erano
seduti, spalla contro spalla, con
le volute di fumo a riempire lo spazio che li separava.
«Non
è deciso»
«Hai
detto di sì?» una domanda strana, che le
strappò un sorriso: perché Dami restava
ancora la persona che meglio la capiva, a volte.
«No.
Ho
detto “vediamo”»
Demian
corrugò la fronte «Vediamo cosa?»
«Vediamo
il momento in cui questo non ti ferirà»
Insieme
alla boccata di fumo, Demian liberò il suo nome, un sussurro
leggero e già
disgregato nell’aria, un rimprovero che sapeva di supplica.
«Ellie»
Spense
la sigaretta e si appoggiò a lui: con la testa abbandonata
su quella spalla non
più sottile, non più infantile, si
sentì un poco a casa, un luogo famigliare e
sicuro che le era mancato tragicamente.
«Dovremmo
lasciarci andare» le disse, con una riluttanza troppo dolce
per non
commuoverla.
Annuì
piano «Forse dovremmo»
Ma
già
inclinava la testa, quel poco perché potessero guardarsi
negli occhi, perché potesse
assorbire lo splendore del suo ragazzino, infinitamente vicino eppure
destinato
a perdersi lontano da lei.
«Tu
lo
sai, che per me sarai sempre tu. Lo sai, devi saperlo… la
tua sola esistenza ha
cambiato la mia, non devi dimenticarlo. Io non lo
dimenticherò»
Sentiva
il suo respiro sulle labbra, quegli occhi chiari che
s’infrangevano nei suoi, l’opposto,
sempre, dei suoi, fragili come un cristallo di neve in controluce.
Le
sorrise,
si chinò piano su di lei, le sfiorò le labbra in
ultimo, familiare bacio intriso
di tutti i forse che, non ci fosse stato Simone, sarebbero stati
realtà. Si baciarono
come un addio, un ultimo delicato bacio prima di separarsi.
Le
sue
labbra erano morbide e dolci come succo d’uva.
Demian
sarebbe sempre stato il suo “forse” più
grande e la sua motivazione più forte.
Spero
davvero che un giorno potrai
perdonarmi di non essere stata abbastanza adulta quando avrei dovuto.
Spero
che un poco mi capirai, capirai quanto
ti ho voluto bene, quanto mi sono odiata perché quel bene
non bastava.
Avrei
davvero voluto saperti ascoltare come
avresti meritato.
E
grazie.
Grazie
di avermi aperto gli occhi,
ragazzino.
Grazie,
di avermi dato un senso.
Ti
amerò sempre, per questo.
Angolo
autrice
È
così, per la prima volta, ho portato a compimento questa
storia su EFP. In passato
non ci ero riuscita, per scoramento, perché questa
piattaforma è un po’ morta e
se non ti crei dei circoletti non combini nulla. Ora però,
la soddisfazione di
aver messo un punto è più grande di tutto il
resto, perciò voglio ringraziare
le numerose persone che pur limitandosi a leggere, hanno dedicato tempo
a questo
racconto.
La
storia di Demian ed Elena qui si conclude, altro che li riguarda
è scritto
altrove, nella storia originale, e non racconta più il loro
amore ma,
semplicemente, il loro legame.
Sì,
le loro strade non si dividono, ma si allontanano, ci sono rapporti che
sono
destinati a durare nel tempo, a mutare la loro natura, semplicemente. E
quando
due persone si sono amate molto ma vanno oltre l’amore
provato, penso che sia questo
che succede, non smettono di amare, semplicemente non sentono
più la necessità
di essere riamati.
Questo
è ciò che avviene in Demian, perlomeno.
La
perdonerà solo nel momento in cui non sentirà
più la necessità di ricevere da
lei ciò che lei non può dargli.
Amo
questi due moltissimo, spero vi abbiano tenuto buona compagnia e che
l’epilogo
non vi abbia delusi troppo. Volevo raccontare un amore che finiva, non
il per
sempre, e mi piace sperare di esserci riuscita un pochino.
Per
quel che vale, mi sono divertita, non mi stancherò mai di
scrivere di Dami.
E
quindi… niente, scusate per averci messo tanto e grazie di tutto!
Ps:
i Red House Painters con la loro Have you
Forgotten avevano accompagnato la stesura di questo
capitolo. Sì, sono
retrò, lenti e tragici, ma ehi, sono i padri dello Slowcore,
perciò li cito,
che magari a qualcuno possono piacere!
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