Perché tu possa ascoltarmi

di lady igraine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quando Marisa li conobbe ***
Capitolo 2: *** Quando fumarono insieme la prima sigaretta ***
Capitolo 3: *** Quando si guardarono negli occhi per la prima volta ***
Capitolo 4: *** Quando Elena gli aveva parlato ***
Capitolo 5: *** Quando le aveva sorriso ***
Capitolo 6: *** Quando si erano sentiti fragili ***
Capitolo 7: *** Quando l'orgoglio si fece da parte ***
Capitolo 8: *** Quando era come una poesia di Neruda ***
Capitolo 9: *** Quando realizzò la gravità della situazione ***
Capitolo 10: *** Quando, forse, era quello il punto ***
Capitolo 11: *** Quando tutto era ancora puro ***
Capitolo 12: *** Quando aveva scoperto la verità ***
Capitolo 13: *** Quando quel giorno al parco ***
Capitolo 14: *** Quando era tornato da lei ***
Capitolo 15: *** Quando sarebbe stato più grande ***
Capitolo 16: *** Quando era il suo compleanno ***
Capitolo 17: *** Quando avrebbe voluto le sue parole ***
Capitolo 18: *** Quando del tredicenne innocente si era persa ogni traccia ***
Capitolo 19: *** Quando quella prima e unica volta ***
Capitolo 20: *** Quando non lo aveva più guardato ***
Capitolo 21: *** Quando aveva iniziato ad odiarla ***
Capitolo 22: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Quando Marisa li conobbe ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO MARISA LI CONOBBE

 

 

La prima volta che aveva accompagnato maman ad una visita, un’infermiera gentile gli aveva preso la mano e Demian aveva avuto paura. Le aveva appena afferrato la punta delle dita, con un imbarazzo infantile di chi bambino non lo voleva più essere ma non aveva ancora la forza di camminare da solo.

Marisa era indulgente con lui, intenerita da quel suo raccogliersi, stringersi nelle spalle per difendersi dai volti che gli scorrevano accanto e non conosceva. Da quell’infermiera stessa, che pure sembrava tanto gentile ma proprio per questo gli faceva aumentare i battiti cardiaci in ansia compressa tra lo stomaco e il diaframma.

Marisa gli aveva offerto una cioccolata e Demian vi si era aggrappato quasi disperatamente. Le dita pallide e magre tremavano, il liquido minacciava di uscire dal bicchierino, e lui vi appoggiò piano al bordo, con esitazione, le labbra delicate e sottili come buccia d’uva, e bevve lentamente, quasi solo a bagnarsi il palato con tutta quella dolcezza per allungare il momento e goderne più a fondo. La sua leggera oasi di dolcezza era tutta lì, raccolta in quel bicchiere: lo sapeva che finita quella sarebbero arrivate le notizie.

Non sarebbero state belle notizie.

Aveva dieci anni e il suo corpicino rannicchiato e rattrappito su se stesso, quasi cercasse di sparire e fondersi con la parete, era una curva di fragilità e delicatezza, trasmetteva un senso d’impotenza che spaccava il cuore. La linea del collo, così indifesa e sottile, i capelli corti e morbidi e quegli occhi, docili e insicuri che scavavano, che cercavano in Marisa conforto.

La donna non aveva potuto darglielo, non aveva avuto il coraggio di sfiorarlo, aveva quasi allungato una mano verso di lui, come per raccogliere quell’angoscia, ma era inerme e distrutto, così distrutto che il braccio le era ricaduto sul fianco morbido, e lei si era vergognata della viltà che non le aveva permesso di aiutarlo.

Gli occhi di Dami si erano allargati, il nero aveva inghiottito tutto, si era mangiato l’iride gelida che lo faceva apparire distante e aveva mostrato solo un bambino spaventato che nella sua esitazione aveva colto l’abbandono. Davanti al suo sguardo ferito e implorante Marisa aveva piegato la testa e distolto il viso.

«Vuoi andare a giocare con gli altri bambini?» gli aveva chiesto per sciogliere l’imbarazzo che la sua presenza, troppo grande per essere solo un bambino, gli stava causando.

Dem aveva scosso la testolina chinata verso il pavimento.

«Cosa vuoi fare? ci vorrà ancora un po’ di tempo»

Lo osservò mordersi l’interno della guancia, poi appoggiare a terra accanto alla seggiola il bicchiere di plastica, sfilarsi lo zainetto dalle spalle ed estrarre un quadernetto. Senza dirle nulla, quasi senza considerarla, aveva iniziato a disegnare.

Da allora, Demian non le aveva più afferrate, le sue dita.

Aveva abbozzato sorrisi, per tutte le cioccolate che erano seguite a quella, aveva ringraziato e aveva raccolto il suo dolore.

Quando Marisa lo vedeva di schiena, la sua postura sempre un po’ curva, di chi si difende da solo, pensava solo a quanto sembrasse inerme e sguarnito, a come fosse sempre stato delicato, fin dal primo giorno.

Ora che il tempo era trascorso, entrava dritto e sicuro, e i suoi occhioni dal taglio obliquo, nordico -così diverso e particolare, da creatura fatata- si volgevano al vuoto e non si soffermavano su nulla. Allora Marisa avrebbe voluto poter tornare indietro, ad accarezzargli la testa, quel giorno, a stringergli bene la mano, a superare la sua paura, perché forse non avrebbe fatto differenza o forse, ora, Demi non sarebbe apparso ancora più distante, un sogno che camminava, che sfumava nella delicatezza della linea insicura di un corpo etereo e irraggiungibile.

Poi erano arrivati i lividi.

Cerano anche prima, c’erano sempre stati, ma mai così, mai una tale manifestazione di brutalità. La pelle morbida dello zigomo spaccata, il sopracciglio candido strappato, le labbra tinte di violenza triste come una macchia irreparabile sul viso ancora efebico ed elegante, candido. Il rosso della carne e del sangue sulla sua pelle lattea sapeva di sacrilego, sangue sulla neve, come qualcosa d’innocente e puro che veniva corrotto. Un malsano senso di decadenza e rovina. Eppure, c’era della bellezza in questo, anche in questo, e osservarlo faceva solo male, come vedere una statua di marmo bianco modellata nell’incanto e sfregiata dalle intemperie.

Demian era la purezza più degradata e sporca e Marisa poteva solo sorridergli, essere gentile e chiedere perdono a Jenevieve, perché l’amica glielo aveva chiesto, le aveva detto di proteggerlo e stargli vicino, che suo figlio era un’anima persa che si sentiva esclusa dal mondo, era un artista errabondo, un bohémien che nei propri panni non sapeva starci e se fosse rimasto solo, anche per poco, sarebbe stato più che sufficiente perché si sentisse solo sempre.

Marisa era impotente, non poteva aiutarlo.

E allora gli sorrideva e andava avanti.

 

 

«Marisa io ho finito con la camera sette»

La ragazza si stava avvicinando spulciando da una cartelletta la sua personale lista. Elena faceva tenerezza, per l’impegno che ci profondeva nel non restare mai indietro, nel non sbagliare nulla. La seguiva con attenzione e l’inadeguatezza insicura di un pulcino che tampina la mamma chioccia, contraeva le sopracciglia ad ala di gabbiano e annuiva mano a mano che imparava, come se con quel gesto stesse confermando a se stessa che tutto era sotto controllo e ce l’avrebbe fatta senza problemi.

Il suo tirocinio era iniziato solo da una settimana, eppure quella manciata di giorni era bastata per far capire a Marisa che tutta la sua dedizione era in realtà solo un modo per non perdere la bussola. Come se Elena si costringesse a essere metodica non per passione, né per vero desiderio di apprendere, ma perché se avesse smesso di farlo, se avesse fatto vacillare la propria volontà anche un solo istante, tutto le sarebbe crollato addosso e la sua scelta le sarebbe sembrata assurda.

Una volta, durante la pausa caffè, la ragazza aveva fissato fuori dalla porta a vetri con aria distratta, lo chignon si stava lasciando andare e tutto in lei aveva l’aspetto sfatto di una persona alla deriva.

«Tutto bene?»  le aveva domandato, ed Elena aveva annuito.

Poi, aveva fatto una smorfia.

«Perché lo fai?» aveva risposto.

E Marisa non aveva capito.

«Perché hai scelto questo lavoro? Perché lo fai?»

Aveva scrollato le spalle «Non posso fare a meno di sentirmi utile»

Gli occhi grandi di quello che all’epoca era stato un bambino indifeso la annichilirono, lui non lo aveva aiutato. Avrebbe dovuto solo accarezzargli la testa e dirgli che tutto sarebbe andato bene, ma il dolore di Demian era stato troppo forte, l’aveva travolta e sbattuta e Marisa aveva capito che con il tempo anche lei aveva sviluppato quel muro che ogni medico deve erigere fra sé e il paziente, per non restare impantanato e distrutto dal dolore altrui.

«Tu non mi sembri felice» aveva fatto notare alla ragazza, e gli occhi di Elena si erano spalancati per la sorpresa di essere stata smascherata.

Eppure, era una tale ovvietà.

«A volte ho l’impressione che se esiste un destino io l’ho mancato in pieno. Ed ora è troppo tardi, non posso tornare indietro. Che mi vada o meno, sono quasi alla fine, non posso gettare via tutto. È questa la mia strada adesso, e che io odi questo destino o meno non conta molto, no?»

Elena faceva parte di quella generazione che poteva scegliere e aveva davanti a sé così tante scelte da non sapere quale fare. Marisa non poteva capirla davvero, non conosceva il panico delle infinite possibilità, ai suoi tempi avere la possibilità di un solo destino era già fin troppo.

Ma non lo disse, perché ogni generazione aveva la sua croce.

La croce di Elena era Elena stessa, niente dolori, guerre, niente battaglie e lotte per diritti lontani, niente fame e stenti. E allora poteva combattere solo contro se stessa e rivoltarsi e farsi a brandelli.

In quel momento era entrato Demian.

Puntuale come sempre, l’aspetto consumato di sempre, si trascinava e il viso duro e inflessibile non lasciava spazio ad alcuna luce.

Elena lo aveva osservato, seguito con lo sguardo, con una vivace curiosità ad animarle il volto, finché Demian non aveva imboccato le scale ed era sparito.

«Che strano ragazzo» aveva mormorato, e Marisa era stata assalita dalla familiare tenerezza che l’avvolgeva quando guardava quel bambino troppo cresciuto.

«Parlare di destini sbagliati quando hai davanti Demian è talmente meschino da risultare crudele» le disse.

Forse, quel muro non lo aveva costruito abbastanza alto. Forse, non si era difesa abbastanza.

Demian sarebbe sempre rimasto il suo rimpianto.

 

 

ANGOLO AUTRICE

 

Ciao a tutti! Avevo pubblicato questa storia senza mai finirla anni fa, è uno spin-off dell’originale “A’ Demian” a cui tengo molto.

“Perché tu possa ascoltarmi” è un prequel che racconta la storia di Demian e Elena, di come si sono conosciuti e legati. Voleva essere un di più per permettere di conoscere meglio un personaggio sfuggente come Ellie, a cui purtroppo nella storia principale non ho potuto dedicare troppo spazio.

Credo sia comprensibile anche senza aver letto la storia principale, ma ovviamente i numerosi personaggi che contornano il tutto qui non saranno approfonditi, saranno dati un po’ troppo per scontato, forse.

I capitoli saranno sempre molto brevi, frammenti dei ricordi che hanno scandito i momenti più importanti del loro controverso rapporto.

Spero vi piaccia e che sia apprezzabile anche per chi non conosce il mondo di Demian.

Contrariamente alla principale, non la ritoccherò anche se è datata, per valore affettivo e perché non voleva essere una cosa seria, solo un di più.

Se ne avrete voglia, sarei felice di sapere cosa ne pensate!

A presto!

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Quando fumarono insieme la prima sigaretta ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

 

QUANDO FUMARONO INSIEME LA PRIMA SIGARETTA

 

 

Faceva tremendamente caldo e i capelli le si appiccicavano al collo e alla fronte sudata. Con uno sbuffo esasperato Elena si passò la mano sul viso per scostarsi le ciocche ribelli e raccoglierle in un disordinato e arruffato chignon. Poi, facendosi aria con la mano, si diresse all’uscita.

Sperava in una brezza che stemperasse almeno un poco quell’afosa giornata di giugno. In teoria, durante l’orario di lavoro, non avrebbe potuto prendersi una pausa, ma prima di tutto necessitava disperatamente di una sigaretta che rendesse sopportabile quelle ore insostenibili. In quei momenti di sconforto si domandava sempre come facesse sua sorella, come suo padre sopportasse quella vita.

E si odiava, perché lei non ce l’aveva fatta.

Ed odiava tutto, perché lei non avrebbe voluto comunque farcela, avrebbe voluto solo poter scegliere.

Oltrepassò la porta scorrevole e si addossò al muro con la sigaretta appoggiata alle labbra, ancora spenta, e gli occhi chiusi.

Sussultò quando si ritrovò la fiammella di un accendino sospesa davanti al viso, come una richiesta di permesso inespressa. Cercò un volto dietro alla mano pallida e la sigaretta quasi le cadde di bocca nell’incontrare due occhi obliqui ornati da pesanti ciglia bianche, di un rosa ghiacciato come ricoperto di brina, che risaltavano ancora di più perché il destro era contornato da un enorme livido viola intenso. 

La bocca del ragazzo era piena e il labbro inferiore, più grande e carnoso, spaccato al centro da un taglio vermiglio, dava l’impressione di un perenne, costante broncio.

In realtà non stava contraccambiando la sua curiosità, lui, fissava lontano, oltre la siepe del cortile interno dell’ospedale. La sua era una cortesia disinteressata, anzi, l’avrebbe definita pure annoiata. Come se l’avesse preceduta perché lei non gli chiedesse l’accendino, per evitare di doverle rispondere, di doverle parlare.

 «Grazie» disse abbozzando un sorriso.

Il ragazzo scosse le spalle e, dopo averle acceso la sigaretta, se ne portò una alle labbra martoriate e ripeté il medesimo gesto. Poi, si lasciò andare contro il muro, con stanchezza.

Era un ragazzino curioso.

Non fosse stato per il suo fisico ancora infantile -non era troppo alto, le spalle non si erano ancora aperte e il volto efebico e pulito non accennava a nessuna imperfezione che delimitasse nettamente la sua mascolinità- avrebbe pensato che fosse più grande. Almeno quindici, sedici anni.

Probabilmente per la profondità dei suoi occhi.

Erano gelidi e inquietanti, distanti, eppure inghiottivano. Come le stelle che brillavano da lontano di luce debole ma rapivano comunque l’attenzione e l’anima dell’osservatore. Si era incantata a fissarlo, senza neanche troppo pudore, e aveva dimenticato la sua sigaretta, ormai un bastoncino di cenere che si sosteneva per miracolo.

Marisa come aveva detto che si chiamava?

Non riusciva a ricordarlo.

In ogni caso, sotto le sue attenzioni, il ragazzino non era tanto tranquillo quanto voleva manifestare. Ad un tratto sollevò il cappuccio della felpa smanicata che stava indossando e sprofondò le mani nelle tasche. Gridava ostilità, ma Elena riuscì solo a sentire una profonda tenerezza per lui.

Non aveva mai visto un albino da vicino, si chiese a quale ramo appartenesse la sua patologia e se fosse lecito chiederglielo, ma lui fumava indifferente nonostante il volto contuso e, quando finì, gettò a terra il mozzicone, lo pestò con il tacco dell’anfibio, le lanciò una gelida occhiata di disprezzo e rientrò, lasciandola fuori, sola e basita.

Probabilmente non aveva apprezzato le attenzioni che aveva riversato su di lui, ma era difficile non guardarlo, non solo per la sua aura astiosa che causava disagio, o per il suo aspetto delicato e frustrato.

No, c’era di più.

C’era una bellezza appassita prima ancora di venire alla luce che risvegliava in lei il desiderio di parlargli, di vedere un po’ più a fondo.

Di vedere se davvero era morto dentro come sembrava fuori.

 

 

ANGOLO AUTRICE

 

Ripescare questa storia, rileggerla e rileggere i miei vecchi appunti a riguardo, mi sta mettendo di buon umore. Ricordo che una cosa che mi era piaciuta particolarmente, era vedere come fossero i miei cuccioli nel loro passato, perché saperlo non è lo stesso che scriverne e vedere nero su bianco come si sono evoluti nel tempo.

Anche se il mio stile è cambiato, niente, non ci riesco, per me Demian resterà sempre un adorabile senza speranza…! Ma sono la mamma, sono di parteXD

Le mie vecchie note tra l’altro mi informano che la colonna sonora di questa storia nella sua stesura è stata “Phone Call” di Jon Brion, e quindi nulla, mentre rileggo e correggo qualche errore sfuggito, la ascolto, per cercare di ritrovare lo stesso mood.

Sono l’unica psicopatica che fa cose di questo tipo?

Sono giustificata, sono già trascorsi quattro anni!

 

Giuro che non romperò più, a presto!

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Capitolo 3
*** Quando si guardarono negli occhi per la prima volta ***


 

Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO SI GUARDARONO NEGLI OCCHI PER LA PRIMA VOLTA

 

 

A volte pensava davvero che il fato ce l’avesse con lei.

Perché Elena, così sensibile a tutto, o forse vittima di quella sensibilità superficiale per cui basta non vedere il male per convincersi che non esiste, davanti alle brutture della vita si spezzava come un fuscello sotto un temporale fin troppo violento. Cosa poteva esserci di peggio, per lei, che essere assegnata al reparto di oncologia?

In quei primi giorni aveva già visto fin troppo e l’accumulo di sensazioni negative andava in un crescendo nauseante. Si era già chiusa in bagno un paio di volte a vomitare, la prima dopo aver drenato i liquidi dallo stomaco di un uomo che, a causa del tumore, aveva la pancia gonfia come portasse in sé un bambino di nove mesi invece di un ammasso marcio che cresceva e se lo mangiava da dentro; la seconda davanti ad una donna.

Jenevieve Lemaire.

Questo recitava la cartella medica.

Lei sembrava stare bene, anche troppo bene. Elena non ci aveva creduto, quando l’aveva vista sorridente, pronta per la sua sessione di chemio giornaliera. Quella donna stava morendo, questo aveva detto Marisa.

Tumore al seno.

Era stata operata quasi tre anni prima, e i medici l’avevano scavata e avevano portato via tutto, non solo il seno sinistro, anche i linfonodi. Era già fin troppo esteso. Da allora chemio su chemio e la speranza che il male fosse stato debellato, poi la verità crudele, pochi mesi prima: il male era tornato, era peggiore di prima, stavolta probabilmente avrebbero fallito.

Niente di nuovo lì dentro, non fosse stato che Jenevieve, con la sua aria distratta e sognante, sembrava quasi non rendersene conto.

Aveva sorriso anche a lei forse, ma Elena non ne era tanto convinta, quella donna sembrava sorridere in un mondo suo, dove davanti a lei non c’era nessuno.

I suoi occhi da rapace non l’avevano guardata per davvero.

Era incredibilmente bella e in sé aveva qualcosa di familiare che Elena non riusciva ad identificare, forse il taglio degli occhi, obliquo e particolare, quasi nordico, o le labbra, gonfie e imbronciate. O forse era solo la bellezza di quel viso dai tratti morbidi e pieni, fin troppo fanciulleschi e spruzzati di lentiggini, con i capelli appena sotto le orecchie, biondo miele, e l’atteggiamento puerile di una bambina che si aspetta la caramella dopo la puntura.

In ogni caso, Elena invidiava fin troppo Simone, lui almeno era stato assegnato ai comatosi e per quanto noioso e terribile, con risvolti piuttosto scomodi come lavoro – a lei sarebbe montato il vomito all’idea di dover cambiare loro il pannolone un giorno sì e l’altro pure- l’orrore umano a cui doveva assistere le pareva più sopportabile.

Aveva appena contribuito ad iniettarle per endovena il farmaco ed ora voleva solo correre via e rimettere nuovamente il proprio malessere. Chiese il permesso a Marisa e si precipitò verso i servizi pubblici quando, con sua sorpresa, dal bagno degli uomini uscì il ragazzo albino.

L’infermiera che gli era stata assegnata come guida le aveva ripetuto il suo nome, Demian.

Era sempre lì, Demian, tutti i giorni in ospedale. Cosa diavolo ci faceva un ragazzino di tredici anni costantemente in ospedale?

Aveva indagato ed aveva scoperto che era di casa lì, come ci vivesse. Un nome anche troppo noto che incupiva lo sguardo di molti. C’era fin troppa pietà intorno a lui, eppure Demian pareva così orgoglioso… forse per questo aveva l’aria stizzosa con chiunque, probabilmente per il medesimo motivo qualche giorno prima, mentre fumava, le aveva lanciato quell’occhiata colma di disprezzo.

Lo capì in quell’istante Elena, mentre lo guardava uscire dal bagno, più pallido e provato che mai, il viso ed i capelli bagnati -si intuiva benissimo che avesse infilato la testa nel lavandino e avesse lasciato che l’acqua si portasse via il suo malessere- il polso che sfregava sulla bocca in un gesto a lei tristemente conosciuto, un gesto che compiva dopo aver rimesso l’anima, come a scacciare il sapore di bile dalla bocca: Demian non aveva bisogno della pietà.

Aveva bisogno di comprensione.

Non di qualcuno che si ponesse sopra di lui, tantomeno di qualcuno che cercasse di compatirlo o peggio, consolarlo. Non c’era consolazione per il suo male, qualunque fosse.

La nausea le era passata.

Dem le passò accanto come se non esistesse, come se ancora una volta non l’avesse beccata a osservarlo con sfacciataggine ma, proprio all’ultimo, gli occhi rosati saettarono verso di lei, la misero a fuoco per un fugace istante. E a lei bastò questo per sorridere.

Era davvero strano, non guardarlo era impossibile per qualcuno come lei. Non considerarlo bello in modo straziante sarebbe stato impossibile per chiunque. Quanta forza ci vedeva in quella fragilità, quanta debolezza in tutta quella spavalderia.

Come poteva ignorarlo quando, per la prima volta nella sua vita, stava sentendo dentro di sé il desiderio e la necessità di salvare veramente qualcuno?

 

 

 

 

ANGOLO AUTRICE

 

Niente, volevo ringraziare chi si è lanciato nella lettura di questo reperto archeologico! Grazie a tutti, non me lo aspettavo!

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Capitolo 4
*** Quando Elena gli aveva parlato ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO ELENA GLI AVEVA PARLATO

 

 

«Lo zigomo sta facendo infezione»

Rimase sorpreso di quella voce dall’accento marcato, poteva essere romagnolo, o forse no. Non era mai stato bravo con i dialetti italiani. In effetti, non era mai stato bravo con l’italiano e basta.

«E allora?»

«Non ti interessa?»

«Dovrebbe?»

Inarcò un sopracciglio e non alzò gli occhi su di lei.

Stava guardando il muro bianco da mezz’ora e non aveva voglia di interruzioni nella sua quotidiana ascesa all’autodistruzione.

La ragazza ridacchiò, sembrava quasi aspettarselo, come se da lui non potesse ottenere nulla di diverso. Ovviamente la conosceva, anche se non le avrebbe dato questa soddisfazione. Era difficile che qualcosa gli passasse inosservato lì dentro, soprattutto una nuova tirocinante.

Soprattutto una tirocinante come lei.

Era bella, del tipo di bellezza che faceva voltare i ragazzi per strada, che anche lui che di donne non ci capiva niente e davvero di loro non voleva saperne, non poteva non alzare lo sguardo quando passava.

Era bella e Demian amava le cose belle, anche solo per loro stesse, per la soddisfazione personale di seguire la sensuale linea del collo che sfumava nella spalla, di guardare la postura imperiosa e piena di sufficienza, la testa sempre alta, sempre a sfidare il mondo con quei grandi occhi scuri, troppo scuri.

L’opposto dei suoi.

La soddisfazione di sapere di poterla studiare in modo diverso dal resto del mondo, con l’occhio distante e oggettivo dell’artista che apprezza la bellezza fine a se stessa.

Si era concesso di guardarla come si guardano le modelle, di pensare che, se la sua bellezza non fosse stata così banale, forse l’avrebbe disegnata.

Eppure non l’avrebbe mai fatto.

Restava solo un abbellimento della sua giornata, uno sguardo che non sorrideva di pena ma pareva vivacemente curioso, avrebbe quasi giurato interessato. Ma interessato a lui, alla sua persona, non a tutto il resto. Per questo la guardava a volte, perché forse con lei poteva.

«Ti dona. Ti dà l’aria da duro dannato. Non sei un po’ piccolo per avere l’aria da duro dannato?»

Demian chinò appena la testa, sfregò la nuca con le dita lunghe, quel punto vulnerabile e scoperto come si sentiva lui, per contenere la frustrazione. Ecco perché non aveva mai voluto rompere la barriera delle parole con lei. Perché era un bambino, anche se non avrebbe voluto esserlo, e lei era infinitamente più grande e gli avrebbe solo arruffato i capelli e sorriso complice, come si fa quando si vuole conquistare la fiducia di un innocente.

Lui non era innocente.

Non rispose.

Non sapeva che rispondere. Forse, per essere forte, avrebbe dovuto ironizzare.

Forse, se fosse sembrato forte, se ce l’avesse fatta a esserlo, non avrebbe più avuto bisogno di nessuno e il mondo avrebbe smesso di guardarlo come fosse stato l’incarnazione della miseria.

Forse, se fosse stato grande…

Se non fosse stato ciò che era…

Quanti forse. E nessuno aveva realmente senso.

Si concentrò sul pavimento rammaricandosi di non potersi fondere con la parete per poter scomparire, sarebbe stato più semplice. Ma neanche tutto il desiderio della sua buona volontà poteva renderlo invisibile agli altri, né poteva nascondere, e infatti nemmeno ci provava, i segni delle botte che si prendeva ogni giorno.

«L’altro giorno mi hai guardato negli occhi» aveva detto Elena ad un tratto, il tono era serio, aveva smesso di scherzare. Per quell’attimo di debolezza Demian si era maledetto. Che cosa aveva pensato?

Piaceva alle ragazze, ma non gli era mai importato. Come poteva importargli se le stesse che lo prendevano in giro per il suo aspetto da bambino, ora che la pubertà lo stava cambiando sbavavano e lo elogiavano senza ritegno?

Le donne erano ridicole.

«Non è vero» sentiva le guance calde di vergogna.

Ed Elena ridacchiò «Oh, sì che è vero. Hai gli stessi occhi di tua madre, sai? Sono incredibili»

Demian li spalancò quegli occhi, colmi di orrore, e per la prima volta sollevò il volto per incrociare il suo sguardo. Aveva la bocca secca e le labbra schiuse.

Elena gli sorrise, ma di soddisfazione, come se avesse vinto una battaglia personale «Finalmente mi guardi in faccia!» esclamò.

Elena era bella di quella bellezza così convenzionale da sembrare uscita dritta dritta da qualche rivista patinata. Alta e tonica, dall’aria flessuosa ed esotica, con la sua pelle caramellata e la massa di capelli castani portati lunghi e mossi, le ciglia folte arcuate in sbuffi irriverenti, le sopracciglia folte naturalmente disegnate e la bocca grande, turgida e provocante, con le labbra piene e spontaneamente contratte in una linea languida che stuzzicava la mente verso pensieri eccitanti e per lui troppo indefiniti.

Sarebbe potuta sembrare un cliché per chi non l’avesse conosciuta a fondo.

E Demian non la conosceva per niente a fondo, né ci teneva particolarmente. Anche se a volte lei cercava il suo viso non voleva dire nulla, era solo un ragazzino, non poteva interessarle e quindi doveva starle lontano.

Anche se lei non lo faceva sentire pietoso.

Perché era troppo grande per essere guardata con occhi diversi dall’ammirazione. Perché non poteva davvero permettersi di osservarla se non come già si concedeva, con la carezza di una rapida occhiata sempre annoiata, giusto per il piacere di scoprire cosa realmente si potesse provare di fronte ad una donna tanto attraente, nel tedio delle ore sprecate su quelle seggiole di plastica.

Perché a lui quella donna poteva interessare, invece.

Anche se era una donna, non una ragazza.

Perché lei non sembrava volerlo capire a tutti i costi.

Perciò distolse lo sguardo.

 

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Capitolo 5
*** Quando le aveva sorriso ***


 

Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO LE AVEVA SORRISO

 

 

 

Faceva davvero troppo caldo per essere giugno ed Elena si sentiva sempre più insofferente. Ma poi, talvolta, incontrava Demian, e le tornava un po’ di buon umore. Era come avere una scatola cinese tra le mani, o la rompeva per vedere il contenuto o, con passi felpati ed estrema attenzione, cercava la combinazione. Non era brava, ma ci stava mettendo impegno sul serio almeno in questo, perché una cosa per certa l’aveva capita: lui trovava il modo di farsi del male. E permettergli qualcosa di simile era come concedere a un pazzo fanatico di sfigurare la Pietà, una vera idiozia.

Allora aveva deciso che l’avrebbe trattato proprio come se davvero fosse stato una statua preziosa, un David di Michelangelo, puerile a tratti e terribilmente bello, e lei lo avrebbe restaurato.

«Dovresti disinfettare quel sopracciglio»

Era un rituale, appena lo vedeva, e il sorriso che le usciva era sempre divertito, forse per questo lui non la cacciava ma sollevava appena l’angolo destro della bocca, in un accenno di buon umore. Era una finta infermiera, Dem l’aveva capito, una volta glielo aveva detto pure.

«Tu, qui, non ci fai nulla»

«Non è che questa roba mi interessi, non sono autolesionista. Odio questo posto, mi fa impressione stare qui.»

Demian aveva annuito e aveva mormorato «Anche a me» sottovoce.

Rispettare i suoi turni non era più una forzatura, aveva rinunciato alla sua lista quotidiana di doveri imposti ed entrava sempre con un leggero sorriso, lo sapeva che, indipendentemente dall’ora, l’avrebbe incontrato almeno una volta al giorno, e vedere che Demian, anche se timidamente, come se volesse impedirselo ma non potesse farne a meno, ricambiava appena il suo saluto era la sua conquista quotidiana.

Sapere di star penetrando le sue barriere, di essere l’unica per ora a esserci riuscita, le dava un po’ di pace, la faceva sentire più piena e soddisfatta. Anche se non sarebbe mai diventata medico e la sua famiglia l’avrebbe sempre guardata con sufficienza, nessuno dei suoi parenti sarebbe stato in grado di avvicinarsi a quel ragazzino, né sua madre, né suo padre, tantomeno sua sorella. E quindi, almeno umanamente, non era come loro e questa era l’esorcizzazione della sua più grande paura.

Terrore di poter assomigliare alle persone che più disprezzava.

«Ho visto che parli con Dami» le aveva detto Marisa, pareva colpita.

«A volte» e aveva sorriso di nuovo.

Era facile sorridere pensando a lui seduto con le braccia a penzoloni fra le gambe e il suo immancabile broncio da bambino. Quando s’imbronciava sembrava davvero un tredicenne, per una volta, c’era della tenerezza devastante in questo.

«Dami è un bambino, non divertirti a conquistare la sua fiducia per poi abbandonarlo. Lo capisci che significa, avere la fiducia di qualcuno come lui? Se sbagli, lo distruggi. Se non ti senti pronta ad una simile responsabilità, lascia perdere»

Ma lei non voleva distruggerlo, voleva proteggerlo e vederlo sorridere come avrebbe fatto un qualunque normale ragazzo.

«Ti sembra che gli potrei fare del male?» aveva sbottato durante la pausa pranzo. Simone era andato a trovarla per mangiare insieme. Capelli lisci e pettinati alla bravo ragazzo, denti degni della pubblicità di un dentifricio, più alto di lei e forse un po’ troppo massiccio per i suoi gusti. Però le piaceva quando l’abbracciava perché l’avvolgeva completamente, la proteggeva dal mondo, forse per questo lo amava.

«Beh, ti stai facendo coinvolgere. Non dovremmo entrare così tanto in sintonia con i pazienti amore, lo sai»

Elena aveva sbuffato e si era appoggiata sulla sua spalla con un sospiro «Non è un paziente. Sua madre è una paziente»

Simo l’aveva avvolta, come piaceva a lei, e le aveva baciato la tempia. Era fin troppo delicato, lei non era porcellana, non l’avrebbe sfregiata se fosse stato più invasivo. C’erano delle volte in cui avrebbe voluto solo che lui fosse un po’ più forte, avrebbe voluto che la annullasse, con la sua forza, almeno per poco.

Forse era davvero autolesionista, e Simone il più dolce e tenero ragazzo in cui potesse incappare, saggio e tranquillo come un monaco buddista. La faceva uscire di testa, ma non poteva fare meno a di lui.

«Marisa ha ragione. Devi essere responsabile. È bello che tu senta il bisogno di stargli vicino, è questo che dovremmo provare nel nostro mestiere. Il lato, umano secondo me, è il più importante, il desiderio di aiutare qualcuno oltre a noi. Tu non l’hai mai sentito, sono felice che questo ragazzo sia uno stimolo per te ad apprezzare ciò che stai facendo. Ma non puoi usarlo e gettarlo via»

Elena aggrottò le sopracciglia «Non mi ha mai sfiorato il pensiero di gettarlo via»

«Lo sai che il tuo tirocinio non è infinito, vero? Quello è solo un bambino, un giorno sparirai e a soffrirne sarà lui»

Quindi, la soluzione più ovvia era non sparire.

Certo, era ancora in tempo per ritirarsi, Demian al massimo l’aveva salutata, non era ancora coinvolto. Ma lei, lei era coinvolta.

Avrebbe odiato il suo lavoro, se non ci fosse stato lui. Risvegliava il suo istinto da crocerossina, forse, ma non era solo quello.

Loro erano simili.

Avevano qualcosa in comune, avrebbero voluto entrambi essere ovunque meno che dove si trovavano. Si sporse a baciare Simo «Non farò sciocchezze con lui, voglio davvero solo aiutarlo»

Se con lei si apriva, a maggior ragione aveva la responsabilità di non chiudere gli occhi e dargli le spalle, sospettava che in troppi gli avessero fatto una simile cattiveria. La paura di prendersi una tale responsabilità nei suoi confronti, la responsabilità di non tradire la sua fiducia, di non abbandonarlo, doveva aver spinto tutti a fare un passo indietro.

Per questo lei non si sarebbe mai tirata indietro, era solo un cucciolo, ed anche se Elena adulta ancora non lo era, era grande abbastanza per capire che un cucciolo, anche se di leone, abbandonato e senza guida era destinato a morire di stenti.

«Dovremmo disinfettare quel taglio» aveva accennato con la testa al suo braccio e gli aveva sorriso, e Demian aveva alzato le spalle e aveva sollevato l’angolo della bocca. Aveva un canino leggermente storto che gli dava un’aria ferina, proprio come un cucciolo che si credeva un leone.

Si erano seduti per terra a fumare, Elena aveva finito il suo turno e si sentiva inquieta. Sentiva di dover fare di più, ma cosa era di più?

Fin dove aveva il diritto di spingersi?

Quando era con lui, parlava.

Non sapeva nemmeno il perché, parlava e basta, e diceva tutto, e lui ascoltava, a volte annuiva, raramente la guardava in viso, ma talvolta capitava, e allora Elena si accorgeva di come era concentrato, di come le stesse davvero prestando attenzione.

«Per questo sono finita a fare l’infermiera. Ti pare? Per uno stupido test di medicina andato male. Mio padre è un cardiologo, per carità, mia madre ortopedico e quella rompi palle di Serena - Serena è mia sorella- quella strega sta completando gli studi per diventare cardiochirurgo. Naturalmente è la preferita di casa, ed io sono la fallita che non è riuscita a farsi ammettere. Questa cosa è solo un contentino, tipo palliativo per lenire la loro delusione»

Gli si era incupito lo sguardo e Demian aveva iniziato a giocare con le mani, nervoso.

«Che ti prende?»

L’aveva guardata con un tale smarrimento che Elena era rimasta a bocca aperta, lo stomaco accartocciato e con il cervello in apnea: era davvero possibile essere così a pezzi da non riuscire a celare nemmeno volendo la propria sofferenza?

Cosa gli aveva detto di sbagliato?

«Ho una sorellina» aveva mormorato Dami, con quella sua musicale cadenza francese che lei adorava «Non devi essere gelosa di lei…» lo aveva osservato mordersi l’interno della guancia e distogliere il viso per guardare lontano «Non sai cosa può succedere… te ne pentiresti… non essere gelosa di lei» la voce aveva tremato.

Ed Elena aveva capito, aveva capito che parlava di se stesso, per esperienza personale.

Quante cose costellavano il suo mondo, e lei neanche poteva immaginarle. C’era troppa complessità lì, dentro quel corpo pallido e diafano, dietro a quegli occhi freddi. Lei non poteva afferrarla del tutto, non poteva capirlo e aveva deciso di non farlo.

Non aveva bisogno di capirlo per preoccuparsi per lui.

«Dami, quel taglio devo disinfettartelo davvero»

Demian aveva sussultato e di nuovo l’aveva guardata con gli occhi grandi di paura.

«Non puoi»

«Non posso? Guarda che è brutto tanto»

Aveva scosso i capelli bianchi al vento, accennando un sorriso triste «Non puoi chiamarmi Dami»

«Ah. Perché?»

Era quello il nomignolo che usava Jenevieve, a volte, anche se Elena non si era spiegata il motivo.

Era arrossito, aveva chinato il capo, tornando a giocare con le dita lunghe e bianche «Solo le persone che mi conoscono mi chiamano così… le persone che mi vogliono bene»

Le era venuto da ridere per la tenerezza che le aveva smosso dentro e allora si era messa a carponi e aveva abbassato il viso, portandolo vicino al suo per poterlo guardare negli occhi

«Allora è proprio il caso che ti chiami Dami, ti pare?»

Le labbra carnose leggermente dischiuse e il volto appena arrossato, un velo di tristezza negli occhi lucidi, si era morso la guancia e aveva sussurrato «Ok» come se stesse firmando la sua condanna a morte.

«Posso curarti?»

Demian aveva annuito, poi le aveva sorriso.

Aveva sentito qualcosa dentro incrinarsi, voleva abbracciarlo, toccarlo, e invece trattenne il nodo alla gola che le aveva inumidito gli occhi.

Era il primo, vero sorriso che le aveva rivolto.

Un sorriso come quello valeva tutta la sofferenza a cui aveva assistito, a cui avrebbe assistito. Per un sorriso così vivo si poteva fare qualunque cosa.

 

 

 

ANGOLO AUTRICE

 

Ben ritrovati!

Piccola nota: la storia del soprannome può sembrare una scemenza, ma ha un gran senso ed è legata al motivo per cui Demian si chiama così. Il primo nomignolo che viene in mente sarebbe “Demi”, con la “e”, lo so, ed infatti c’è una ragione di fondo che conoscono solo i suoi parenti, per questo solo le persone che gli vogliono bene, che sono strette nella sua cerchia, hanno ancora il vizio di utilizzare quell’abbreviazione. Non è importante, ma nell’originale questa cosa viene raccontata, dovesse interessarvi!

E niente, alla prossima!

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Capitolo 6
*** Quando si erano sentiti fragili ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO SI ERANO SENTITI FRAGILI

 

 

 

Il ronzio della macchinetta tra le mani ed i capelli setosi color miele tra le dita, sui vestiti, sparsi come vittime sul pavimento. Marisa era silenziosa e gentile, Jenevieve era una sua cara amica, questo almeno Elena lo aveva capito.

La chemio era entrata nella sua fase più aggressiva, Jen aveva iniziato a perdere corpose ciocche di capelli e aveva chiesto di farla finire in fretta. Elena era appoggiata con le spalle contro le piastrelle del bagno privato della camera della signora Lamaire, e studiava il volto bello della donna. Quando si incupiva e chinava gli occhi sulle mani contratte, le labbra strette, aveva qualcosa che le ricordava Dami.

Demian che non era voluto entrare e aspettava in corridoio, non voleva vedere. Probabilmente stava male, probabilmente sarebbe dovuta uscire e andare da lui, ma per fare cosa?

Prendergli la mano?

Gli avrebbe mostrato della pena e lui ne avrebbe solo sofferto.

Era rimasta immobile finché Marisa non aveva concluso.

Jenevieve aveva alzato il viso e, sfruttando lo specchio, le aveva guardate senza voltarsi.

«Est-ce que mon fils est dehors ici?»

Poi si era data un buffetto sulla fronte, come a rimproverarsi, si era schiarita la voce e corretta «Dami è qui?»

Elena aveva annuito «Sì»

Jen aveva sorriso con dolcezza e si era accarezzata le testa priva della sua chioma, con la solita aria assorta che Elena ormai associava solo a lei. Una donna fuori dal mondo, da lei Dem doveva aver ereditato la sua infinita vena puerile e quella sua prerogativa da artista incompreso.

«Solo per oggi… digli che sono stanca e mi sono addormentata» fissò gli occhi nei suoi ed Elena si sentì inerme «Puoi mentirgli per me?»

«Credo di sì»

Non riusciva a immaginare quanto male gli avrebbe fatto, vedere sua madre tanto diversa. Era già stato tutto fin troppo brutto per lui, quella mattina. Sua madre era stata ricoverata perché nessuno in casa poteva prendersi cura di lei e suo figlio era troppo piccolo per una tale responsabilità, non avrebbe sopportato anche questo, capiva la decisione di quella donna.

«Ci penso io»

Demian era nell’atrio principale, stranamente fissava il soffitto questa volta, con il capo reclinato all’indietro. Sembrava tremendamente stanco ed Elena sentì che davvero avrebbe solo voluto abbracciarlo. Ma non doveva provare pena per lui, Dem non avrebbe voluto.

Gli sorrise.

«Quel mento è messo male» lo canzonò al solito.

Dem accennò un sorriso di sollievo «Ellie» mormorò, senza ribattere con sarcasmo e senza spazientirsi. Quanto riusciva a sembrare più grande, a volte Elena se ne scordava. Parlare con lui era come parlare con un adulto. Sulla seggiola accanto era appoggiato un libro con la copertina rivolta verso l’alto, una raccolta delle poesie di Neruda.

Lo prese senza pensarci e lesse le prime righe

 

Perché tu possa ascoltarmi
le mie parole
si fanno sottili, a volte,
come impronte di gabbiani sulla spiaggia.

Collana, sonaglio ebbro
per le tue mani dolci come l’uva.

 

Il ragazzo allungò la mano bianca verso di lei e glielo sfilò dalle dita.

I libri erano la sua anima, aveva capito anche questo, e non sempre era disposto a condividere frammenti di sé. Quella poesia doveva significare qualcosa.

«Tua madre si è addormentata. Credo dovresti…» tornare a casa.

Come poteva dire ad un ragazzino che aveva appena salutato sua madre di rientrare in una casa vuota?

«Andrai da tua zia?»

«No»

«Sarà per poco, solo per un mese. Poi tornerà a casa» lo disse con tranquillità, come non ci fosse realmente nulla di cui preoccuparsi e si sentì un mostro, a mostrare tanta lucida freddezza. Era una calma finta, la sua, per non spaventarlo e non spingerlo a respingerla. Demian la accettava solo in questo modo, in cui lei non si sforzava di comprenderlo, in cui lei era quasi insensibile e serviva solo a distrarlo.

«Sarah è da mia zia» aveva sussurrato.

«Sarah?»

Demian si morse la guancia, preda di uno dei suoi momenti di totale e completa fragilità. Com’era difficile stargli vicino a volte, ma Elena sperava che riuscendoci avrebbe riavuto in cambio uno dei suoi sorrisi che sapeva di rivoluzione, che cambiava il mondo o almeno stava cambiando il suo.

Ora, ad ogni paziente a cui prestava le sue cure dedicava se stessa con totale dedizione, e lo faceva nella speranza, calda e costante, di poter scorgere nei sorrisi che le rivolgevano la stessa luce piena che aveva provato nell’avvicinare la sua anima a quella di Demian.

«Ma petite soeur» mormorò ancora lui, e questa volta anche Elena capì le sue parole colme di dolcezza. La bimba a cui era tanto legato si chiamava Sarah.

Doveva essere straziante per lui esserne diviso, respirava per lei e viveva ogni dolore con una profondità sconcertante, ne veniva assorbito. Aveva pensato che forse dentro era morto come sembrava fuori, ma ora Elena sapeva di non aver capito niente di lui. Era fin troppo sensibile, interiorizzava tutto.

«Ti accompagno a casa, posso?»

«No» Scosse la testa e si passò una mano fra i capelli «Non puoi»

Lo sapeva, che l’avrebbe respinta, non le importava. In realtà non lo faceva per lui, lo faceva per se stessa, perché si sentiva incredibilmente fragile, di una fragilità che solo Dami avrebbe saputo cogliere e curare come il più delicato dei fiori.

«Non guardarmi anche tu così»

«Per favore, non voglio restare sola»

La squadrò, la studiò attentamente in viso, vangando la sua anima, alla ricerca della bugia, e non la trovò. Allungò una mano verso di lei e la sorprese con una leggera carezza sulla guancia, una sorta di dolcezza che la lasciò senza parole.

«È stato così brutto?»

Fu lei stavolta a fuggire quegli occhi da adulto bambino «Lo so che non ho il diritto di restarci male, sei tu che ne hai il diritto»

«Non me ne faccio molto di questo diritto» le fece notare con amarezza, poi sorrise appena «Non sei proprio fatta per stare qui» osservò tra sé e sé.

«Forse sono abituata troppo bene, non sopporto nulla… posso restare con te ancora un pochino? Non m’importa se l’adulta sono io, non so farla. Tu sai gestire tutto questo meglio di me e sei solo un ragazzino, vorrei capire cosa devo fare»

«Non ho ancora incontrato un adulto che sappia fare l’adulto» la voce gli tremava «… Ellie… mi accompagni a casa?» gli era sfuggita una lacrima, aveva percorso la guancia livida, una goccia di pioggia su una statua sfregiata. Dem si era sfregato con violenza il viso, senza considerare i graffi, usando il polso «Non voglio stare solo»

Elena si era sporta ad abbracciarlo nascondendo il viso nell’incavo del suo collo, si era sentita una bambina, un passerotto spaurito che cercava rifugio nell’ala della mamma. Si vergognava, la verità era che lo stava solo usando per nascondere la propria inadeguatezza. Un dolore sordo le aveva stretto il petto e chiuso lo stomaco prima, in quel bagno, e la pena e il panico l’avevano soffocata. Se non era stata male, se non era corsa in bagno a vomitare, era stato solo perché c’era Demian da qualche parte, e lui sarebbe stato male davvero e per davvero, al contrario di lei, ne avrebbe avuto motivo.

Non me ne faccio molto di questo diritto.

A volte anche quello serviva, il diritto di soffrire, di stare male, e di sapere che nonostante questo qualcuno sarebbe rimasto per aiutare a raccogliere i cocci di una vita distrutta. Sotto la sua stretta, Demian si accartocciò come un foglio di carta dato alle fiamme, si restrinse.

E pianse.

«Andiamo a casa Dami»

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Capitolo 7
*** Quando l'orgoglio si fece da parte ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO L’ORGOGLIO SI FECE DA PARTE

 

 

«Amore, io per oggi ho finito. Torniamo a casa insieme?»

Elena aveva il cellulare incastrato tra la spalla e l’orecchio e zampettava per la stanza tentando d’infilarsi i jeans.

«Mi spiace cucciolo non posso, devo accompagnare Dami»

Se conosceva Simone abbastanza, e lo conosceva anche fin troppo, adesso aveva arricciato la fronte e stava ponderando la cosa. Quei secondi di silenzio furono una conferma e le permisero di infilare il bottone nell’asola con successo.

«Mi stai trascurando» le fece notare, ma non era annoiato.

Simone non era il tipo che s’indisponeva per davvero, era troppo tranquillo e nutriva per lei una fiducia sconfinata.

«Lo so, mi dispiace.»

«Ma non smetterai di farlo»

Le sfuggì un sorriso «Sarai mica geloso! Ha solo tredici anni»

«Non sono geloso, so che è importante… buona fortuna»

«Ti amo amore»

«Anch’io»

Gettò il cellulare rosso fiammante nella borsa e s’infilò una canottiera larga e leggera.

Aveva corso per raggiungerlo nell’atrio principale, dove lo trovava ogni giorno con un libro in mano o fuori, dove l’aspettava per fumare. Fumava con un ragazzino, avrebbe dovuto chiedergli quando e perché avesse preso quella brutta abitudine, ma non era sua madre e gli piaceva condividere con lui quel momento della giornata.

Stava sorseggiando un caffè alla macchinetta, lo vide ingollare il contenuto tutto in un sol colpo e buttare via il bicchiere con aria schifata. Beveva caffè quando non riusciva a dormire, e in un mese che lo conosceva aveva capito che dormiva veramente molto poco.

Doveva essere l’ansia a privarlo del sonno.

Lo prese di spalle e gli gettò le braccia al collo, per poi stritolarlo come fosse un peluche.

«Ecco il mio Dami preferito» gli scoccò un bacio sulla guancia e lo sentì sospirare «Ellie» con un sorriso leggero. La maggior parte dei ragazzi sarebbe morto per avere un suo bacio, quel moccioso invece si comportava come se lo tollerasse a stento, anche se poi gli sorrideva o stringeva le mani dalle dita lunghe intorno alle sue braccia, come per trattenerla ancora un istante, prima di allontanarla.

«Da tua zia oggi?»

«No»

Sempre un lapidario, rompiscatole monosillabico. Lo liberò dalla sua presa ferrea e scosse la chioma castana, sciolta sulle spalle.

«L’ho sentita, l’abrasione sulla clavicola» lo pungolò sorridendo.

Dami chinò il capo e si grattò la nuca, era in imbarazzo. Nonostante il tempo, cercava ancora di nascondergli le sue ferite, avrebbe davvero voluto capire come si facesse sempre tanto male, ma non ne sarebbe mai venuta a capo probabilmente se lui per primo non avesse deciso di introdurre l’argomento.

Quando i suoi turni erano giornalieri e non notturni, Elena si prendeva del tempo per riaccompagnarlo. Spesso sostavano fuori casa, in macchina per delle ore, perché si perdevano a parlare all’infinito e il tempo volava. Era un ragazzino curioso e ci metteva sempre un po’ di tempo per ingranare, ma poi anche lui iniziava a condividere.

Con il kit di pronto soccorso che aveva allestito praticamente solo per lui, Elena tirava indietro i sedili, per avere più spazio, e lo costringeva a curarsi. Era diventata una routine talmente confortante che Dami stesso non opponeva più resistenza.

Si era sfilato la maglia, anche quella volta, ed era rimasto a petto nudo per mostrarle la clavicola scorticata e già parzialmente ricoperta di crosta molliccia. La pelle tutt’attorno era gonfia e arrossata, ma Elena non si fece sfuggire nemmeno una smorfia di disappunto o disagio, lui l’avrebbe colta.

Era anche troppo attento.

Demian gli aveva dato la schiena e alzato il braccio, per permetterle di fasciarlo, e Elena aveva sentito la morbidezza della sua pelle ancora infantile, corposa come ceramica, i muscoli solidi sotto le dita.

«Stai andando in palestra?»

Dami aveva chinato la testa «Forse» aveva ribattuto laconico.

«Come mai?»

«Devo essere più forte»

La sua ossessione. Essere più forte.

Elena lo aveva capito, cosa pensava. Se fosse stato più forte avrebbe potuto non appoggiarsi più a nessuno, nemmeno a lei. Sarebbe stato triste, come vedere un uccellino che abbandonava il nido. Gli accarezzò i capelli e le dita le scivolarono sul collo fragile, in quel punto indifeso e delicato, ripercorsero la linea della colonna vertebrale e si fermarono fra le scapole.

«Non devi esserlo così tanto»

Si era morso ancora la guancia, a disagio. Aveva la pelle d’oca.

«Non devi essere grande per forza, Dami, non subito»

«Ma tu lo sei»

Mormorava, Dami non parlava. Mormorava, e quando lo faceva lo avrebbe preso tra le braccia. Ora poteva farlo, ora glielo permetteva, forse perché avevano pianto insieme e Demian si era reso conto di quanto anche lei fosse inetta e incapace, troppo presa da se stessa per potersi davvero premurare di tormentarlo con la pietà, ne provava già abbastanza per sé, meglio di chiunque sapeva quanto fosse doloroso il compatimento.

Lo avvolse fra le sue braccia e lo attirò a sé, sentì il suo capo morbido contro il petto, sprofondare fra i suoi seni. I capelli setosi le sfioravano il mento. Non era importante, non c’era malizia né pudore con lui, c’era solo affetto per un ragazzo sconosciuto che amava come fosse stato un fratellino, un membro della sua famiglia appena ritrovato.

«Io non ho rinunciato a niente prima di diventarlo. Perché hai questa fretta?»

Dami si adagiò nel suo abbraccio, rilassato, e piegò il volto all’indietro per poterla guardare in viso. I suoi occhi avevano sempre il dono d’inghiottire, come il primo giorno.

Scosse piano la testa «… Sarah»

Sempre Sarah, era il cuore dei suoi pensieri. La nominava quasi costantemente, anche solo per qualche flash senza attinenza che lo colpiva a tradimento, o per una particolare luce che gli ricordava la sfumatura dei suoi occhi, o per un fiore che associava a lei.

Amava la dedizione con cui riusciva ad amare sua sorella.

Sarah era la sua vita, ogni battito di quel cuore era prima di tutto per lei.

«Ti manca?»

Non rispose.

«Tra poco tua madre verrà dimessa e anche tua sorella tornerà a casa con te»

Ancora silenzio e lui che si rannicchiava.

«I tuoi lividi non c’entrano in tutto questo?»

Lo sentì deglutire pesantemente, a fatica. Era un libro aperto, quel ragazzino, anche se non parlava.

«Posso chiederti come te li fai? Per carità, almeno ho sempre del lavoro, per me è tutto esercizio»

«Tu non vuoi fare l’infermiera» la rimbeccò lui, assottigliando gli occhi.

Gli sorrise «Forse, prima. Ora non sono così certa di non volerlo fare»

Ne rimase sorpreso «E perché?»

Gli passò una mano fra i capelli e si chinò per lasciargli un leggero bacio a fior di labbra sulla fronte

«Perché devo curarti, tu di certo non lo farai da solo!»

Demian chinò la testa, sfuggendo i suoi occhi «Perché sono… così»

«Così come?»

«Così… albino» lo disse con un profondo ringhio di disprezzo. Ed anche se non era stato chiaro, se non si era spiegato, lei aveva imparato a capire le sue mezze risposte, mangiate e criptiche, aveva imparato a leggere i suoi “no”, che per lei faceva valere come un “sì”. E finalmente aveva compreso.

«Sei vittima di bullismo?» chiese scioccata, le braccio le ricaddero malamente sui fianchi per la troppa sorpresa.

«Io non sono vittima di niente!» scattò a sedere, allontanandosi da lei. Riprese la maglietta e se la infilò bruscamente. Aveva spalancato la portiera e si era lanciato fuori dalla macchina. Elena si era costretta ad uscire.

«Domani sono di turno di notte. Se la mattina passi a trovare Jenevieve, ti accompagno io a casa»

«Non passo»

Arrogante e risoluto, il solito finto orgoglio.

«Ti aspetto al solito orario»

Non si salutarono.

Quella mattina, con l’aria altera di chi non perde anche quando ha perso, Dami l’aveva aspettata davanti al parcheggio dell’ospedale.

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Capitolo 8
*** Quando era come una poesia di Neruda ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO ERA COME UNA POESIA DI NERUDA

 

 

 

Elena era come una poesia di Neruda, indefinita e irreale. C’era una delicatezza in lei che filtrava attraverso le parole e gli penetrava nella pelle, diventava parte di lui, di un desiderio che non trovava sfogo e si comprimeva nel petto sempre più a fondo, una spina dolorosa che non riusciva a togliere.

Non capiva cosa fosse, il motivo del disagio che lo attanagliava quando lei era presente, voleva solo toccarla, sprofondare nella sua morbidezza, nel suo essere donna, un mondo troppo distante dal suo. Lo trattava come un bambino, poi come un suo pari, poi come se gli volesse bene davvero.

E Dami non sapeva cosa fare, sapeva solo che era confuso e lei era la sua personale poesia di Neruda incarnata, bellissima e veneta, non romagnola, a confermare che lui e i dialetti non andavano affatto d’accordo.

«È colpa di mio padre, di dialetto non sa nulla, ma ha un accento fortissimo» era arrossita quando gliel’aveva chiesto, e poi aveva aggiunto «Vorrei farti sentire mio nonno, moriresti dal ridere!»

Demian aveva sentito impossibile l’idea di poter conoscere i suoi parenti, anche se lei aveva conosciuto maman: per conoscerli avrebbe dovuto essere qualcuno d’importante per Elena. Mai come in quel momento della sua vita si era sentito un pedante bambino, era persino più basso di lei, anche se non di troppo, e questo lo faceva impazzire.

Quanto ci voleva per diventare adulti?

Odiava avere praticamente otto anni in meno di lei, c’era un mare a dividerli e lui poteva solo guardarla dalla spiaggia opposta e pensare che lo sapeva, maledizione, lo sapeva che sarebbe  finita così, che sarebbe finito con lo sbavarle dietro senza alcuna speranza, che lei sarebbe sempre rimasta irraggiungibile e  più si fosse avvicinata a lui, più quella distanza lo avrebbe scavato e svuotato di tutto, che Ellie si sarebbe presa le sue parole, il suo dolore, ogni cosa che poteva dare, e li avrebbe intrecciati in una collana infinita che avrebbe portato via con sé, lasciandogli il nulla.

Demian non poteva essere normale, no, sarebbe stato troppo semplice. Trovarsi una ragazza della sua età, baciarla per la prima volta e scherzare di sciocchezze e poterle toccare i capelli e abbracciarla senza dover avere scuse, uscire come facevano tutti.

Le cose normali non gli erano mai state concesse.

Lui aveva Elena, una donna, un’adulta, e poteva solo guardarla con oggettività, come si ripeteva sempre, apprezzarla per la sua bellezza fine a se stessa, con l’occhio dell’artista, come sua madre gli aveva insegnato che doveva osservare il mondo, perché il mondo era bello tutto, era bello da soffocare, e Jen lo contemplava sempre e in realtà non contemplava mai davvero nulla. Dem sapeva di doverlo fare a sua volta, per non essere travolto e non dimenticare di respirare. Ma non poteva se Ellie poi gli accarezzava il viso e lo baciava sulla fronte, proprio come fosse un bambino, perché sentiva la morbidezza delle sue labbra soffici e il cuore che singhiozzava ogni volta che lei avvicinava il suo volto. E allora cercava di non guardarla, allontanava gli occhi, e si sentiva infinitesimamente piccolo, un granello di sabbia, un pulviscolo percepibile solo in controluce, come una foto in negativo.

Quelli erano attimi in cui avrebbe voluto dirle tutto, le parole premevano per uscire e solo il buon senso e la paura che lei svilisse il suo sentimento gli impedivano di confessarle ogni cosa. Allora si convinceva sempre di più che Elena era la poesia di Neruda, perché si era presa ogni parola ed ogni parola apparteneva a lei, aveva riempito tutto.

Doveva sforzarsi di relegarla ad una bella distrazione che gli facesse trascorrere piacevolmente il tempo, doveva riuscirci.

C’era una tradizione pessima di luglio, dove abitava lui. Demian l’attribuiva proprio al mese, come ce l’avesse con loro. Puntualmente, in concomitanza con la Festa della Birra del suo paese, pioveva a dirotto.

Di brutto, diceva Jules scazzato, perché voleva solo andare a bere come un ossesso ascoltando pessima musica e rimorchiando qualche ragazza, ed invece si ritrovava il venerdì sera in casa di suo cugino, a giocare alla Play Station.

«Dici che tredici anni sono troppo pochi per bere una birra?»

«Ne ho quasi quattordici» aveva fatto notare, laconico.

Julian aveva tamburellato un dito sul labbro «Scommetto che hai già provato qualcosa» valutò alla fine. Demian aveva scosso la testa. Non aveva mai provato a bere nulla, non era un ragazzo che usciva, non aveva amici, solo compagni odiosi con cui aveva rinunciato ad avere legami.

«Jules… sei mai stato con una ragazza più grande?»

Il cugino aveva sussultato e Dem ne aveva approfittato per stendere Law, il personaggio di Jules, con una combo di capoeira, ponendo fine allo scontro. Lo schermo confermò la sua vittoria con un trionfale “You Win”, almeno con Tekken 3 sapeva sempre cosa fare, e questo gli ricordava che semplicemente era davvero un bambino.

Un ragazzo sfigato come pochi.

«Certo che sì!»

«Davvero?» doveva averlo guardato con occhi grandi e fin troppo fiduciosi, perché Jules non era riuscito a sostenere la sua balla.

«Ehm… ok, non proprio, però è sulla lista delle cose immediate da fare!»

«Ah» non aveva mascherato la delusione «E come faresti?»

Jules tamburellò le dita sul labbro inferiore, all’epoca aveva un’aria molto meno curata e fighetta, teneva i capelli spettinati con ordine, come sosteneva era quello il look che piaceva alle ragazze, e a Dem ricordava Cloud Strife, altrettanto efebico e con una testa da Chocobo.

«Le farei vedere quanto sono maturo!?»

Aveva pianto davanti a lei come il più misero dei mocciosi, si era fatto strapazzare e coccolare come un bambino disperato alla ricerca del minimo affetto. Probabilmente, era impossibile riabilitare la propria immagine.

«Cos’altro?»

«Non saprei, magari cercherei di baciarla. Per farle vedere che ho già esperienza. Alle ragazze devi fargli vedere che sei sicuro di te, devi essere forte, fargli capire che sei indipendente e non sei una piattola lagnosa, è così che le incastri! E dopo le molli»

Dami aveva sussultato, si era distratto e il cugino si era ripreso la sua rivincita.

«Evvai! Visto? Quello era un calcio, foutre, pentiti della tua tracotanza e porta rispetto al maestro indiscusso, ragazzino!»

Ma Demian non lo stava già più ascoltando, pensava solo che era stato un idiota e che Elena avrebbe continuato a guardarla dalla spiaggia opposta, magari con un binocolo, come il peggior Jay Gatsby dei poveri.

 

 

 

 

ANGOLO AUTRICE

La poesia a cui fa riferimento Demian è quella che dà il titolo alla storia.

Lo so, ribadire una cosa tanto ovvia è stupido, ma nel dubbio sempre meglio ribadire!

Alla prossima!

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Capitolo 9
*** Quando realizzò la gravità della situazione ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO REALIZZÒ LA GRAVITÀ DELLA SITUAZIONE

 

 

 

Il cucinino, dove le infermiere si raccoglievano per ciarlare, non era molto grande, per questo il vociare la infastidiva, non riusciva a concentrarsi a sufficienza e lei voleva capire bene la situazione, farsi un’idea precisa di quello che sarebbe potuto accadere nella peggiore delle ipotesi.

I dati che aveva raccolto sul caso di Jenevieve Lemaire erano davanti a lei, cifre, medicinali, dosaggi, terapie.

 

-Carcinoma al seno sinistro

- terzo stadio

-sei centimetri

- linfonodi coinvolti.

 

Un terzo delle donne vittima di un carcinoma in stadio iniziale è statisticamente destinato ad arrivare allo stadio avanzato, erano questi i dati che aveva imparato sui suoi stupidi libri di testo. Delle statistiche non se ne faceva nulla.

Demian aveva dieci anni quando sua madre aveva affrontato un tumore al terzo stadio, ed avevano entrambi avuto la speranza di farcela.

Perché diavolo era tornato?

Dopo tre anni, mancava così poco…

Elena non aveva esperienza, non poteva permettersi davvero di dire con certezza cosa sarebbe accaduto, ma le statistiche erano impietose e parlavano, e dicevano che Jenevieve difficilmente ce l’avrebbe fatta. Se le sue possibilità erano, tre anni prima, del settantacinque percento, ora le cifre erano colate a picco rapidamente e le avevano dato, con la chemioterapia, un’aspettativa di vita che non superava i tre, quattro anni, a essere veramente troppo ottimisti.

Lei aveva potuto solo guardare tutto questo, non era un oncologo, non aveva potuto fare nulla. Se fosse stata un medico comunque, difficilmente la situazione sarebbe stata diversa, probabilmente si sarebbe sentita solo più impotente.

Più si era avvicinata la fine del suo tirocinio più si era innervosita e i tentativi di Simone di placarla erano finiti solo con l’irritarla di più.

«Amore, solo dieci giorni e poi questa storia sarà conclusa. Lo so che sono stati due mesi stressanti per te»

Cosa ne voleva sapere lui?

Stressante non era l’aggettivo giusto, Demian non era stato uno stress, prendersi cura di lui l’aveva fatta sentire viva e completa e le aveva dato un senso, finalmente anche lei aveva avuto uno scopo, non aveva più subito la sua stessa scelta, così detestata.

L’ansia di Elena non era dovuta al desiderio di essere liberata dal destino crudele di una famiglia fatta a brandelli, no, la sua ansia era di doverlo lasciare, di non poter essere presente ogni giorno, per curarlo, per fumare insieme, per non lasciarsi affondare.

Senza di lui sarebbe crollato di nuovo tutto, come avrebbe potuto?

Proprio nel frangente più terribile, negli anni che sarebbero venuti, i più brutti e difficili. Qual era la vera aspettativa di vita di Jenevieve?

Dipendeva dall’effetto della chemio, e lei non sarebbe stata presente per poterlo sapere davvero.

Questo Simone non poteva capirlo.

«Marisa?»

«Dimmi»

«Quando non sarò più qui, potresti farmi un favore?»

Marisa l’aveva studiata cauta «Se posso»

«Vorrei che mi chiamassi, se dovesse succedere qualcosa a Jenevieve o…  a Dami»

«Non sei una loro parente, non è etico»

Era arrossita, non aveva potuto farne a meno, e aveva chinato gli occhi.

«Mi hai detto di non abbandonarlo»

Marisa sorrise «Lo so, ma dovrebbe chiamarti lui, non credi?»

Forse era vero, ma dubitava che Dami l’avrebbe mai chiamata spontaneamente in caso di necessità, era sempre lei che lo rincorreva. E sì che, per lui, avrebbe davvero fatto di tutto.

 

 

 

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Capitolo 10
*** Quando, forse, era quello il punto ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO, FORSE, ERA QUELLO IL PUNTO

 

 

 

Negli ultimi giorni Demian aveva assunto uno strano atteggiamento, era tornato a respingerla come nei primi tempi e a non parlare più di tanto.

Non lo aveva ancora incontrato ed aveva raggiunto la sua macchina con uno strano sconforto a pesarle addosso. Aveva discusso con Simone e lo aveva liquidato malamente. Non aveva voglia di tornare a fare gli esami, quando era con le sue amiche d’università la sua testa era sempre da tutt’altra parte ed ora, a rovinare il suo precario equilibrio interiore, ci si metteva anche il suo ragazzo che iniziava a mal sopportare il tutto.

Si rendeva conto che Simo avesse ragione, che fosse diventata terribile, ma non riusciva comunque ad essere comprensiva. Forse doveva tornare a tenere una lista, ad essere metodica e precisa, a costringersi dentro parametri chiari e definiti… che escludevano quel ragazzino.

Era sovrappensiero, per questo quasi urlò per la sorpresa nel ritrovarsi il suddetto ragazzino accovacciato davanti alla portiera della sua macchina, con un album da disegno fra le mani e una matita dietro l’orecchio.

Dami alzò gli occhi chiari su di lei, una nota di sconforto ad animargli il volto liscio.

Non riuscì a impedirsi di sussultare, anche se si era raccomandata in ogni modo di non farlo mai per non disturbarlo, ma stavolta pareva essersi fatto male davvero, alla mano destra. Il dito medio era gonfio e largo quanto il pollice, ed anche il naso era rosso e sporco di sangue tirato, doveva esserselo pulito con il polso perché anche la pelle bianca delle braccia era segnata da sangue secco.

«Che cazzo hai combinato!» si era chinata su di lui e gli aveva preso il viso tra le mani, girandolo a destra e a sinistra come fosse un pupazzo privo di volontà.

Dami aveva sollevato le spalle, ma aveva una smorfia sulle labbra martoriate dai denti e piene di piccole ferite. Dopo avergli controllato il naso ed essersi assicurata che almeno quello non fosse rotto, l’aveva fatto salire in macchina.

Si era lamentata tutto il viaggio, lui era rimasto zitto, con le spalle un po’ curve, a difendersi dal suo disappunto, lo sguardo lontano. Probabilmente non si stava difendendo da lei, ma dai suoi stessi pensieri.

Stringeva ancora l’album da disegno, non sapeva che disegnasse.

Era entrata in casa sua per la prima volta, aveva bisogno d’improvvisare una steccatura, se il dito non era rotto poco ci mancava a guardarlo. Lo avrebbe costretto ad andare al pronto soccorso, dopo, non ce l’aveva portato subito solo perché aveva capito che la stava aspettando nel parcheggio per non farsi vedere da nessuno.

Dami non aveva bisogno di parlare, sapeva farsi capire quando voleva, anche con il suo serioso silenzio da bambino spaventato.

Si era seduto, aveva sussultato quando gli aveva preso la mano ferita fra le sue, era sembrato smarrito ed Elena aveva sentito il familiare moto di tenerezza che gli stringeva il fiato. Gli aveva sorriso con tranquillità e gli aveva accarezzato il viso, attenta a non sfiorare le abrasioni.

Non ci riusciva, a vedere qualcosa di così bello che si sporcava di fango, era troppo difficile.

«Cos’hai combinato stavolta?» s’inginocchiò davanti alla sua sedia, tenendogli le mani. Demian l’aveva semplicemente incenerita, un’occhiata carica di rancore che la lasciò basita.

«Non trattarmi come un bambino» la scostò malamente.

«Dami… non ti ho mai trattato come un bambino»

«Ma nemmeno come un adulto, giusto?» sembrava accusarla, Elena non riusciva a capire. Ci stava mettendo l’anima, per stargli vicino, ma nulla di ciò che faceva risultava andare bene. Aveva fatto arrabbiare Simone, un’impresa a dir poco titanica, stava esasperando le sue amiche e, nonostante questo, anche con Dami era un disastro. Sembrava odiarla, era stato gelido con lei.

Quasi cattivo, gli occhi affilati e distanti.

Si spalmò la mano sul viso, esasperata «Hai tredici anni»

«Quattordici tra quattro mesi» puntualizzò con stizza.

«E quindi? Non capisco il punto» ammise.

Era troppo complicato e lei troppo sfibrata. Ancora una volta gli occhi affilati di Dami s’ingrandirono e per una frazione di secondo non gli riuscì di celare la sua delusione, come se per l’ennesima volta fosse riuscita a dire la cosa sbagliata.

Diceva solo cose sbagliate, a tutti, e se ci fosse stato chiunque altro davanti a lei in quel momento forse avrebbe dato di matto, avrebbe urlato e avrebbe sfogato la sua frustrazione. Ma con Dami no, con lui mai, già solo vederlo mordersi l’interno della guancia e annuire, quasi teneramente, la soffocava di dolcezza.

«Non c’è un punto» disse con ritrovata sicurezza, sfidandola con lo sguardo.

Elena capì che un punto c’era, e lui non glielo avrebbe detto, perciò a sua volta fece un segno d’assenso e prese il kit medico. Rimasero in un teso silenzio mentre gli steccava la mano con una fasciatura e gli puliva il viso. Avrebbe sempre provato impressione, per il rosso carminio in contrasto con il suo pallore.

«Hai tirato un pugno a qualcuno, vero?»

Era evidente dal tipo di lesione. Forse, aveva risposto ad una provocazione. Trovava difficile credere che la discussione fosse partita da lui, era troppo silenzioso e sulle sue, ma quel suo modo di fare faceva anche saltare i nervi con una certa facilità. In ogni caso, Dami rimase trincerato nel suo silenzio ostile. Elena, con un sospiro, si alzò e si guardò intorno, pensando che per quel giorno fosse meglio andare, sembrava destinata a peggiorare le cose invece che migliorarle e la tensione di quel silenzio denso e soffocante le lasciava i nervi scoperti. Però non si mosse.

I suoi occhi caddero su un pianoforte, nel corridoio che dall’ingresso portava alle camere da letto. Era un pianoforte a muro, di lucido legno nero, il coperchio era abbassato e sulla cassa armonica erano disseminati soprammobili, lettere e fogli stropicciati, monetine e quant’altro. Pareva che nessuno lo avesse suonato per molto tempo.

«Suoni?» gli aveva chiesto.

Dami aveva alzato gli occhi su di lei e aveva deglutito a fatica, poi aveva negato.

«Maman» aveva semplicemente mormorato.

Elena avrebbe voluto sprofondare. Eccola di nuovo, la prova che con lui era troppo facile sbagliare.

«Ma non le piaceva tanto» aveva aggiunto con un sorrisino malinconico a incurvargli le labbra piene «Le piaceva Per Elisa, ha imparato solo per quella.»

«Era brava?»

Dami aveva sollevato le spalle «Non lo so. A me piaceva. Iniziava a fare le pulizie e dopo dieci minuti stava suonando. Si è sempre distratta facilmente» lo diceva come se fosse stato lui l’adulto che doveva rincorrerla. Elena pensò a Jenevieve e capì che doveva essere stato così.

Aveva sollevato il coperchio, accarezzato i tasti, si era soffermata sul Sol e l’aveva premuto con delicatezza, una, due volte, per scivolare al La e toccare il Si.

«Anche tu suoni» lo aveva capito, la sua non era una domanda, l’aveva intuito guardandole le mani.

«Non bene come Serena» l’aveva detto per abitudine, perché con tutti lo diceva sempre, per non doversi subire lo spietato confronto, dopo.

«Suona qualcosa»

E siccome Dami non chiedeva mai niente, Elena non aveva potuto dirgli di no, probabilmente non avrebbe potuto dirgli di no su nulla, si era seduta e aveva suonato l’Aria delle Variazioni di Goldberg, perché le trasmetteva nostalgia ed era calma e pacata, sospesa, come loro. Dami l’aveva raggiunta, silenzioso come un gatto, si era seduto accanto a lei, aveva ascoltato i suoi goffi tentativi, non aveva smesso di guardarla.

Era concentrato sul suo viso.

Elena sbagliò una nota.

«Mi piace» aveva sussurrato lui.

Non ci capiva nulla di pianoforte, era ovvio.

Elena sbagliò di nuovo, s’interruppe. Si sentiva studiata fin nelle ossa e iniziava a provare disagio, perché lui era proprio lì accanto, ed era stranamente spavaldo nel non distogliere gli occhi.

Si era girata per chiedergli se volesse dirle qualcosa, ma Demian non voleva parlare.

Aveva premuto le labbra sulle sue, a tradimento. Le aveva rubato un bacio, il bacio più goffo della sua vita, le ricordò il suo primo tentativo quando aveva dodici anni e un’infinita dolcezza l’aveva invasa.

Non lo aveva allontanato.

Gli aveva passato le dita fra i capelli incredibilmente morbidi, aveva schiuso le labbra e Dami aveva assecondato il suo istinto mentre lo guidava, e con la lingua aveva accarezzato la sua. C’era una sorta di disperata, gradevole urgenza nel suo bacio infantile, un desiderio inespresso che lei non aveva saputo cogliere e che ora era tanto ovvio. C’era qualcosa di sensuale nella sua rudezza, dovuta all’inesperienza: non si curava di farle male, voleva solo lasciare un segno.

Si era scostato per respirare, aveva il fiatone e gli occhi grandi di chi aveva paura delle conseguenze del suo gesto. Elena aveva ancora le braccia intorno al suo collo, poté solo regalargli il suo sorriso più soffice, che nasceva solo con lui, come tirasse fuori il meglio, il buono di lei.

«Forse è questo il punto» aveva mormorato Dami, cercando di allontanarsi.

Tutta la bellezza del ragazzo, ancora acerba eppure fin troppo luminosa, l’aveva travolta e lei aveva capito che non poteva lasciarlo andare, non avrebbe potuto respingerlo, ma soprattutto non avrebbe potuto ferirlo.

Gli aveva lasciato un altro, leggero bacio a fior di labbra

«È un punto molto sensato»

 

 

 

 

ANGOLO AUTRICE

 

Quando ho scritto questo spin off, questa parte era stata per me la più ostica. Mi tormentavo e mi domandavo continuamente come potessi scrivere come i sentimenti di Elena fossero scivolati nell’attrazione. Questo dovrebbe essere il punto di partenza di quell’attrazione, è tutto molto ingenuo, quanta nostalgia che mi viene!

Di solito odio rileggere i miei vecchi racconti, mi sento imbarazzata dalla mia passata inettitudine, ma ammetto che per questo ho un buffo valore affettivo :)

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Capitolo 11
*** Quando tutto era ancora puro ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO TUTTO ERA ANCORA PURO

 

 

 

L’enormità del suo gesto le era crollata addosso solo molte ore, molti baci dopo quel primo, impacciato incontro. Elena non riusciva a concepirlo come un tradimento verso Simone per il semplice fatto che si trattava di Dami, così come non riusciva a vederci niente di sporco, anche se sapeva che avrebbe dovuto provare panico per quel catastrofico errore. Proprio però non le riusciva e sempre per lo stesso motivo: riguardava Dami, e niente che poteva riguardarlo poteva essere infangato. Era solo un ragazzino, non ne era attratta. Non negava la sua bellezza immatura, ma non era attrazione, era affetto in una forma così pura e disinteressata che non pensava si potesse provare, ma che la riempiva distintamente quando i loro occhi s’incrociavano e si sorridevano come due amanti sornioni, come due amici che avevano commesso una marachella e l’avevano fatta franca.

Era diventato spontaneo ora, quando si salutavano, cercare le sue labbra, era diventato piacevole sentire la sua irruenza, non più dovuta all’ansia del rifiuto ma ad una pura forma di desiderio che non sapeva gestire, la sua curiosità per una nuova scoperta con cui iniziava a prendere sempre più confidenza.

Elena lo lasciava fare, si lasciava studiare il viso, accarezzare il collo, baciare le spalle. A volte, Dami la contemplava come fosse un oggetto, e lei aveva capito che in realtà stava solo imparando le sue proporzioni, le sue movenze. Voleva fare l’artistico, aveva detto, e poi le aveva sorriso e le aveva accarezzato con le labbra rotte la pelle morbida sotto l’orecchio e lei era rabbrividita

«Sei come Afrodite»

Non sapeva chi fosse, Afrodite, le sembrava una qualche divinità antica, uno dei suoi tanti racconti mitologici, ma non aveva importanza, lo diceva come una cosa bella e ne era lusingata.

Non lo avrebbe mai pensato, non l’aveva nemmeno mai concepito, ma essere toccata dall’inesperienza curiosa di Dami era bello perché, per lui, lei non era fragile, era l’adulta e non temeva di toccarla per davvero.

«Sei più serena, è successo qualcosa?»

Simone le stava accarezzando i capelli, erano stretti l’uno all’altra, le lenzuola ancora attorcigliate alle gambe. Un vago senso di colpa strisciò in lei, ma Elena lo allontanò con sicurezza: erano solo baci, era solo Dami, non stava facendo niente di male. Alzò il viso su Simone, sui suoi capelli castano chiari, gli occhi nocciola, caldi e confortanti, e seppe con certezza di non starlo tradendo. Lo amava, lo amava davvero.

Si permetteva di litigare con lui, di arrabbiarsi con lui, proprio perché lo amava e lo sapeva con una certezza sconcertante, che Simone avrebbe sopportato e le sarebbe rimasto accanto. Loro due erano questo, due opposti che avevano bisogno l’uno dell’altra per funzionare.

E il sesso, beh quello era l’unico punto non troppo soddisfacente della loro relazione, ma a Elena non importava. A Simone piaceva e lei se lo faceva andare bene, perché era la testa di Simo che amava, la sua calma e la sua rassicurante dolcezza, anche se tra le sue mani si trasformava in fragile porcellana.

«Il ragazzino sta bene?»

Gli aveva sorriso e si era accoccolata contro di lui: forse stava sbagliando peggio di prima o forse no, non poteva averne la certezza, poteva solo andare avanti. Non vedeva scelte giuste, vedeva solo Simone, che amava intensamente, e Demian, quel piccolo disgraziato che era diventato come parte integrante di lei.

«Sì, ora sta meglio»

Era vero, non aveva mentito, sembrava stare meglio. I suoi sorrisi erano sempre fugaci, ma più frequenti e tutto in lui era più onesto e rilassato, come si fosse finalmente tolto un peso e non dovesse più dosarsi. Allora parlava anche lui.

«Questa che roba sarebbe?»

«Questa roba sarebbero i Nirvana» l’aveva apostrofata Dami, sconvolto «Sono della tua generazione mica della mia, dovresti conoscerli!»

Elena li aveva già sentiti da qualche, parte, ma niente.

«Come As You Are è senza dubbio la mia preferita, ma tutti sono banali, preferiscono questa… che è bellissima per carità, ma Dio se l’hanno resa commerciale!»

Dami si era sporto verso il lettore CD della macchina e aveva cambiato canzone, il display segnava il titolo: Smells Like Teen Spirit.

«Ah, questa la conosco!» le era uscito, dandogli così la soddisfazione di avere ragione sulla massa che conosceva sempre e solo la stessa canzone.

«I Nirvana hanno una carica che mi annichilisce» aveva detto Dami e lei si era meravigliata, come ogni volta, del suo italiano. Demian parlava la lingua dei libri, non delle persone, ed era sorprendente per un ragazzino, leggeva troppo e viveva fuori dal mondo.

Si era appoggiato al sedile, reclinando la testa, gli occhi chiusi ed un sorriso che le mostrava il canino sporgente. Stava canticchiando la canzone, accennava il tempo con le mani sulle ginocchia, i capelli bianchi stravolti che non avevano mai conosciuto un pettine, i jeans strappati e la maglietta immensa, nera, con il simbolo dei Red hot Chili Peppers stampato in rosso e arancione fiammante.

«Stanotte è il mio ultimo turno in ospedale» gli aveva accennato, e le labbra di lui si erano piegate in una leggera smorfia «Lo so»

Si era chinata su Demian e l’aveva baciato piano, lentamente, per rassicurarlo. Come un bacio prima della buona notte.

«Devi farmi una promessa»

Dami aveva aperto gli occhi, erano incredibilmente rosati da vicino, ma non facevano paura né l’angosciavano.

«Qualunque cosa succeda, anche se non sarò lì, mi chiamerai, vero?»

«Non ho il tuo numero»

Lo conosceva così bene da sapere che l’avrebbe detto. Aveva aperto la borsa per toglierne un foglietto, ma prima di darglielo lo aveva tenuto sospeso tra di loro.

«Devi giurarmelo. Io non sarò più lì tutti i giorni, devi giurarmi che starai bene e che, se non lo starai, mi permetterai di aiutarti»

Aveva sostenuto il suo sguardo, cauto. Lui non si fidava mai davvero, non del tutto.

Eppure aveva ceduto, le aveva sorriso «Te lo giuro»

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** Quando aveva scoperto la verità ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO AVEVA SCOPERTO LA VERITÀ

 

 

Demian odiava alzarsi presto la mattina fondamentalmente perché soffriva d’insonnia quando dormiva da sua zia, e addormentarsi alle cinque tutte le notti per svegliarsi alle sette lo distruggeva.

Jules se ne era accorto, che più le settimane erano trascorse più Dami si era sciupato, rinchiuso in un malessere che aumentava quando metteva piede in quella casa, per questo lo lasciavano a casa sua, anche se da solo, fino all’ora di cena, ed ogni sera il cugino andava a prenderlo in moto.

Julian aveva anche notato gli infiniti lividi che Dem mascherava come poteva, e li aveva notati anche Claire, ma era impossibile farlo parlare e la tensione e i litigi aumentavano e Sarah piangeva. Per questo ormai Claire, quando lo vedeva rientrare con il volto segnato, serrava la mascella e chinava la testa.

Era una routine strana che fortunatamente non era destinata a durare a lungo.

«È davvero così terribile, per te, vivere con noi? Siamo la tua famiglia» gli aveva chiesto Jules, e sembrava amareggiato. Ma Dami non aveva esitato, aveva annuito.

«Vedervi mi ricorda tutto quello che non ho mai avuto e quello che perderò» e poi «Siete del sale su una ferita aperta»

Jules non aveva più avuto il coraggio di chiedere nulla, doveva esserne rimasto troppo ferito, preferiva argomenti leggeri, prenderlo alla larga e distrarlo, ricordargli che c’era altro, per questo Dami aveva un bisogno disperato anche di lui.

Quella mattina Demian aveva voluto salutare Elena prima che andasse via, aveva chiesto a Julian di accompagnarlo in ospedale e di lasciarlo lì.

Non voleva che il cugino sapesse, era il loro segreto.

Era entrato nell’atrio, c’era baccano ed una ragazza che non aveva mai notato, ma che doveva avere la sua età, stava ridendo rincorsa da suo fratello. L’aveva seguita con lo sguardo, perché era magra da fare impressione e non aveva i capelli, solo un accenno di ricrescita appena visibile sotto la bandana a fiori vivace, e un viso dal sorriso furbo e gli incisivi grandi.

«Presa!» aveva riso il fratello più grande sollevandola da terra «Puffetta vedi di stare un po’ ferma ora!»

La sua risata scrosciante era quasi sguaiata, ma strappava un po’ di buon umore e Dami si sentì rinfrancato, perché anche una ragazzina con la leucemia poteva ridere così e non era la fine del mondo, Elena non sarebbe sparita.

Si era raccolto su una seggiola, in un angolo, dietro ad un libro.

Non glielo aveva ancora detto, che era come la poesia di Neruda, ma forse lo avrebbe fatto quel giorno, forse aveva paura che Ellie sparisse.

Era entrato un ragazzo, capelli castano chiaro, curati alla “bravo ragazzo”, molto alto, sorriso caldo. Aspettava qualcuno, in piedi accanto alla porta, dove c’erano le macchinette.

Elena era spuntata dal corridoio, Dami non aveva fatto in tempo ad alzarsi. Il ragazzo aveva aperto le braccia, lei gli era saltata al collo.

L’aveva baciata.

Si erano sorrisi sulle labbra dell’altro.

Elena aveva un ragazzo.

Che idiota, era bella, era ovvio che avesse un ragazzo.

Le ragazze come Elena avevano sempre un ragazzo, come in ogni cliché che si rispetti e che lui non aveva saputo vedere. Gli era caduto il libro di mano, il tonfo le aveva fatto alzare lo sguardo su di lui. Era impietrita e Dami lo trovò strano, quello colmo di orrore era lui, questa volta il diritto di esserlo lo voleva.

Lo sconosciuto seguì gli occhi di Ellie «È il famoso Damian?»

«Demian» aveva mormorato lui, allibito.

Quel perfetto sconosciuto lo conosceva, lui invece non aveva mai sentito nominare nemmeno il suo nome «Io sono Simone» gli aveva sorriso.

Elena era l’incarnazione della mortificazione, come se solo in quel momento si fosse resa conto che con lui non era stato onesto, che aveva tutelato quel Simone, ma non aveva minimamente pensato a lui. «Stai bene? Sembri pallido»

«Predisposizione naturale» aveva osservato con una punta di cinismo. Aveva raccolto il libro, non aveva salutato.

«Dami»

Elena gli aveva preso un polso, l’aveva guardata con apatia, l’aveva attraversata con gli occhi senza vederla davvero e la mano di lei aveva tremato.

«Io non ti stavo nascondendo niente» era strano sentire come le tremasse anche la voce. Era proprio come la poesia di Neruda, gli aveva rubato ogni parola, ogni cosa, gli restava solo uno strano senso di vuoto, una conferma, l’ennesima, che c’erano cose che lui non poteva avere.

Non aveva diritto a persone che restassero per lui.

Si liberò con un movimento brusco del braccio «Nessuno ti ha chiesto nulla, ti conosco appena. Maman mi aspetta, se te ne puoi andare, avrei cose più importanti di cui occuparmi»
Elena aveva gli occhi lucidi, forse non si era nemmeno resa conto del suo errore fino a quel momento, non per davvero. Demian stesso lo comprendeva solo in quell’istante di totale vuotezza, era stato tutto così precipitoso.

Le diede la schiena e ignorò il richiamo di lei, sussurrato e, così avrebbe pensato se fosse stato ancora l’illuso del giorno prima, anche triste.

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Capitolo 13
*** Quando quel giorno al parco ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO QUEL GIORNO AL PARCO

 

 

 

Le giornate si erano susseguite con inerzia, un giorno caldo dopo l’altro, coperte sudate che si attorcigliavano al corpo di notte e volto nascosto da lenti e occhiali di giorno che, nonostante tutto, non bastavano a proteggere gli occhi chiari.

Era stata una mattina d’agosto che era successo, vicino alla stazione dei treni.

Dami era seduto sulla staccionata di legno che delimitava il prato mal tenuto dall’asfalto, era in una zona d’ombra e aveva potuto togliere gli occhiali.

Quando l’angoscia lo prendeva, cercava sempre luoghi isolati e tranquilli e quella mattina il peso sul suo stomaco si era fatto pressante. Sua madre era tornata ma era ancora vittima della stanchezza tipica delle settimane che seguivano la fine della terapia, le nausee erano cessate però e questo aveva reso più vivibile il clima in casa. La settimana successiva anche Sarah sarebbe tornata a vivere con loro e questo era il suo più grande conforto, ma l’assenza della bimba al momento lo faceva sentire solo.

Non aveva naturalmente più sentito Elena, era tornato a curarsi da solo le sue ferite, o a non curarle, come era meglio dire.

C’erano tre ragazzi seduti sulle panchine vicino alla fontana grande. Ridevano sguaiatamente, uno l’aveva indicato. Dami aveva sentito i peli del collo rizzarsi, ma non aveva distolto lo sguardo dallo stronzo che gli aveva puntato il dito contro e rideva.

Erano parecchio più grandi.

Erano andati da lui, volevano attaccare litigio, era evidente, ed avevano voglia di sfotterlo.

«Scherzo della natura»

«Fai impressione, fai schifo»

«Quanto sei brutto, non ti si può guardare»

«Con che coraggio vai in giro così?»

«Non ti fai senso?»

«Io mi vergognerei»

Niente che non avesse sentito mille e mille volte, niente che non pensasse lui stesso. Eppure, non riusciva ancora a sopportare quelle parole dette da altri, forse non l’avrebbe mai sopportato.

«Con le facce di culo che vi ritrovate ci credo che venite a prendere in giro me, sarebbe stato meglio se vostra madre vi avesse ingoiato quella sera, invece di cagare fuori tre pezzi di merda come voi»

Era una scena già vista, rivissuta all’infinto, con dinamiche ogni volta diverse ma con il medesimo risultato. Quella fu più dolorosa di altre.

L’avevano afferrato, scaraventato a terra con forza, aveva battuto la spalla e la testa e si era sentito stordito, davanti ai suoi occhi solo indefinite macchie rosse, come di chi guarda la luce con troppa intensità. Aveva riso, li aveva mandati a “quel paese” con parole fin troppo colorite e loro lo avevano menato. Quando uno di loro lo aveva afferrato per la collottola, pesto e grondante sangue dalla bocca e non solo, Dami gli aveva sorriso con scherno e si era beccato l’ennesimo pugno nello stomaco.

Lo sapeva, che non doveva parlare. Sarebbe stato tutto più semplice, se avesse smesso di parlare, proprio lui che in genere non parlava mai. Il suo orgoglio ferito però non si ripagava da solo né con il silenzio, e sentiva così tanta rabbia… doveva sfogarla, doveva esplodere, il silenzio lo soffocava e Dami si sentiva annegare in se stesso, in tutte quelle parole che non trovavano suoni e forme e rifiutavano di uscire, restavano sospese come lui, un vaso straripante che quando trasbordava gli fotteva il cervello e basta. Andare a litigare andava bene, lottare per reagire, per sopravvivere, non era nulla di diverso da ciò che faceva tutti i giorni in ogni aspetto della sua vita.

Gli faceva male tutto, l’avevano lasciato a terra e il sapore di ruggine fra i denti lo aveva costretto a sputare un grumo di sangue.

Era ridicolo, ancora non sapeva davvero difendersi.

Una risata di scherno lo aveva raggiunto, ma era pateticamente disteso a terra e non aveva ancora la forza di reagire.

Se mi devi pestare, aveva pensato, fallo in fretta e poi lasciami in pace.

Ma il ragazzo si era chinato su di lui, aveva la bocca grande piagata in un sorriso inquietante, storto. C’era qualcosa di sbagliato in lui, qualcosa di perverso, forse, una vena di crudeltà, una crudeltà strana che non era maligna ma incredibilmente pura, istintiva e innata, come quella dei bambini.

Dami aveva alzato gli occhi su di lui ed era rimasto frastornato dalla sua presenza dominante, si era sentito in soggezione, poi seccato, perché quello restava accovacciato senza muovere un dito.

«Sei forte piccoletto» aveva esclamato e aveva inclinato appena il capo, senza cancellare la sua espressione sadicamente divertita «Te la sei cercata»

Lo sapeva che se l’era cercata, era facile cercarsela quando gli altri gliene davano l’occasione. Dami aveva bisogno di quell’occasione, anche se era debole, inetto, un fottuto albino del cazzo, proprio come dicevano tutti. Tanto a nessuno importava, persino a lui stesso non importava cosa dovesse accadergli, aveva solo bisogno di distrazioni, litigare era anche questo. Quelle ferite, dolorose per giorni, erano questo.

Davanti allo sconosciuto si sentiva umiliato, steso a terra come un verme, se avesse potuto alzarsi gli avrebbe fatto ingoiare i denti, o almeno ci avrebbe provato.

«Che cazzo vuoi?»  la voce era spezzata dal dolore che non riusciva a nascondere nemmeno con la forza di volontà, le parole sbiascicate.

«Mi piace il tuo carattere ragazzino, veramente. Io sono Nicolas, ma chiamami Niko, è decisamente meno da figlio di papà»

Se non gli avesse fatto troppo male, Dami avrebbe riso per quella puntualizzazione fuori luogo. Del nome di Nicolas non gliene poteva fregare di meno, eppure aveva sorriso, mettendo in mostra i denti sporchi di rosso.

«De..mia..n» aveva sussurrato, il sorriso di Niko si era allargato pericolosamente, come se in lui avesse letto qualcosa che a Dami era sfuggito.

Era soddisfatto.

Gli aveva porto la mano e Demian vi si era aggrappato, accettando l’aiuto per alzarsi. Nicolas si era fatto passare il suo braccio sulle spalle e l’aveva caricato di peso su di sé.

Non si era reso conto di quanto ogni parte del corpo gli stesse dolendo fino a quando non si ritrovò in piedi.

«Mi piace il tuo stile, davvero. Vieni con me Dem, la prossima volta vedrò di coprirti io le spalle»

La sorpresa lo aveva sopraffatto ed impietrito, simili parole non se le sarebbe mai aspettate. Nemmeno Elena gliele aveva dette, neanche lei si era sbilanciata ad una simile promessa. Forse questo avrebbe dovuto farlo riflettere, fargli capire la realtà su di lei.

Eppure una parte del suo pensiero rimaneva incagliato tragicamente ad Ellie, era un arpione che aveva scavato troppo in profondità, quando cercava di liberarsi sanguinava il doppio, e allora era meglio che la ferita si cicatrizzasse attorno e quel tormento diventasse parte costante di lui.

A volte credeva di odiarla, ma solo perché gli mancava, e quindi s’impegnava per smetterla di pensare male di lei. Era solo un ragazzino però, il maturo non riusciva a farlo, non voleva vedere che forse era stato lui a metterla in difficoltà, che forse le colpe di lei erano meno grandi e gravi di quelle che le imputava.

«Sei messo male, ti porto da una mia amica. Lys è una maga, a curare le ferite» Nicolas era convinto, ma Demian era sbiancato.

«No»

Nessun’altro l’avrebbe toccato. Solo Ellie l’aveva fatto, ed era stato l’errore più grande della sua vita, la sua più lucente delusione.

Non l’avrebbe sopportato ancora.

«Vuoi andare in ospedale?» si era accigliato Nicolas. Aveva occhi strani, un nocciola che virava ad un singolare grigio a seconda di come la luce s’infrangeva sull’iride.

«No»

«Senti moccioso, decidi che cazzo vuoi fare, io non ho tutto il giorno da perdere con te» aveva borbottato, ma si vedeva che, in realtà, le sue risposte lo avevano stranamente divertito.

Nessuno, era categorico.

Nessun altro.

 

 

 

ANGOLO AUTRICE

 

Scusate il ritardo, impegni improrogabili. Probabilmente sarò latitante fino al 29 marzo ma, se mi sarà possibile, nel mentre qualche capitolo magari riuscirò a pubblicarlo. Certo, non con costanza purtroppo.

Buona giornata!

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Capitolo 14
*** Quando era tornato da lei ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO ERA TORNATO DA LEI

 

 

 

Aveva trattenuto il fiato fino a quando la voce scortese all’altro capo del cellulare non aveva concluso e riattaccato. Anche allora, Elena era rimasta immobile, le dita tremavano impercettibilmente attorno all’apparecchio e il respiro era accelerato.

Era ancora ferma, in mezzo alla stanza, quando Simone l’aveva chiamata e scossa, preoccupato. Povero amore, aveva pensato lei sollevando gli occhi sul volto pulito del suo ragazzo, sempre limpido, sempre pacato, ma stravolto da una vena di esasperazione che lo tormentava da più di un mese ormai e aveva scavato un solco nella sua pelle liscia e perfettamente distesa.

Qualcosa si era incrinato in Elena, da quando lei e Demian si erano allontanati, una crepa all’apparenza sottile, eppure fin troppo profonda, più di quanto Elena stessa non si fosse resa conto in principio. Era scivolata in una monotona apatia verso quasi ogni cosa, a volte persino verso Simone. Lui ci provava a capirla, rispettava i suoi spazzi, tollerava i suoi silenzi e persino gli sguardi colmi di rancore che a volte le sfuggivano, preda del proprio egoismo, quando aveva bisogno d’incolpare qualcuno per il suo infantile errore e non poteva fare a meno di convincersi che, se Simone non fosse andato a prenderla quel giorno, non avrebbe perso quel ragazzino impossibile.

Non c’erano mai stati dubbi, non contemplava minimamente di poter stare senza Simone, ma per avere lui aveva perso una parte di sé ed ora era tutto insensato e inutile.

Il suo ragazzo adesso pareva sorpreso, ed Elena lo sapeva bene il motivo, non la vedeva così presente da quel giorno in ospedale.

«Devi andare a casa» l’aveva detto in tono secco, troppo brusco, Simo aveva aggrottato ancora le sopracciglia.

«Perché?»

Non sapeva che dirgli.

Lui l’aveva studiata più a fondo «Chi era al cellulare?»

Era arrossita, non poteva spiegargli. Forse per questo capì «Dimmi che non era quel ragazzino. Ti prego amore, era una situazione malsana, non ti rendi conto di come ti ha ridotta?»

Aveva assottigliato gli occhi in fessure ostili «Ha bisogno di me»

Simone si era passato una mano sul viso, era preoccupato davvero, forse ne aveva tutte le ragioni, Elena stessa non capiva che incantesimo gli avesse gettato addosso quel ragazzino.

«Amore ascoltami, io capisco che Damien sia fragile, ma ti ha succhiato l’anima. Non sei abbastanza forte per prenderti cura di lui, non c’è nulla di male in questo, la tua non è una colpa. Hai fatto del tuo meglio, non sei responsabile della sua situazione familiare, tantomeno della sua debolezza»

Simone era uno che ragionava, che era razionale, Elena lo capiva in parte. Ma capiva anche che lui poteva parlare in questo modo solo perché non sapeva, non si rendeva conto che tra lei e Demian era lei la debole, che in qualche modo era stata lei ad aggrapparsi ad un ragazzino di tredici anni per trovare il coraggio di affrontare una realtà troppo difficile, e forse era lei l’unica ad aver succhiato l’anima a qualcuno, con la sua finta forza.

Demian soffriva come nessuno e faceva suo il dolore, non aveva la forza di liberarsene, eppure quel dolore trovava il coraggio di affrontarlo a modo suo, lo gestiva, anche quando si faceva del male o permetteva agli altri di fargliene poi alla fine, tutti i giorni, tornava nel posto che più odiava al mondo solo per vedere sua madre.

Questo era un tipo di forza che lei non avrebbe mai avuto, per trovarla si era aggrappata a quella di lui.

«Simo, devi andare. Per favore.»

«Non sono d’accordo»

«Non m’importa, non voglio che ti veda, gli ho già fatto troppo male. Se rimarrai, non ti perdonerò»

Simone aveva abbassato lo sguardo ed Elena si era odiata, ma che scelta aveva?

«Non puoi fomentare questa sua fantasia solo perché è piccolo e non lo vedi come un uomo, anche questo ferirà i suoi sentimenti» le fece notare, ma aveva già afferrato la giacca e si era avvicinato alla porta «Puoi credere che sia solo un’infatuazione, ma per lui non è così semplice. Se davvero non vuoi ferirlo, non illuderlo»

Se ne era andato e lei avrebbe voluto sprofondare, per tutte le bugie, perché per lei Demian era qualcuno, probabilmente era un’infatuazione a cui non riusciva a rinunciare, sicuramente era più di quanto non avesse fatto credere al suo ragazzo. Non voleva ferire Simone, ma non voleva ferire nemmeno Demian e l’aveva già fatto, lo aveva già illuso. Cosa poteva fare ora perché la situazione non peggiorasse ancora? Cosa doveva fare, per non perdere Dami definitivamente?

Avevano suonato al campanello. Il primo viso che si era trovata davanti non era familiare, doveva trattarsi dello scortese ragazzo che le aveva parlato al cellulare, occhi grigi di nuvole e capelli castani portati molto corti, sorriso crudele.

Le fece paura.

Ma il terrore più cieco l’aveva invasa quando gli occhi avevano cercato Dami e lo avevano trovato malconcio come non mai e sporco di sangue e lividi.

Il nome di Demian aveva lasciato le sue labbra con nevrosi, spezzato dal panico, Dami l’aveva guardata… e le aveva sorriso.

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Capitolo 15
*** Quando sarebbe stato più grande ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO SAREBBE STATO PIÙ GRANDE

 

 

 

«Come ti senti?»

Dami aveva mugolato come un gatto che faceva le fusa, e il familiare languore che le riscaldava il petto quando lo guardava era tornato a pungolarle l’anima. C’era un’innocente fragilità nella fiducia con cui gli si affidava totalmente quando era tanto indifeso, come se non dovesse temere nulla da lei nonostante l’avesse ferito.

Ed il languore scivolava rapidamente in un dolore sordo che la annebbiava e a tratti sapeva di muta disperazione, perché proprio non riusciva a gestire quella tensione mista ad attrazione che la portava, alla fine, sempre da lui.

Vedeva solo Dami, sdraiato accanto a lei, sdraiato su quel letto che condivideva con Simone, e non riusciva a vedere un uomo, vedeva un ragazzino delicato che aveva voglia di stringersi al petto e le dita scorrevano sulla sua guancia candida, ripercorrevano la linea morbida della mascella e scivolavano sul collo esile, così sottile e fragile che poteva quasi racchiuderlo in una sola mano, i capelli soffici dietro le orecchie nella quale era terribilmente semplice sprofondare.

Forse di desiderio si poteva morire.

Aveva aggiunto qualche centimetro alla sua altezza, era bastato così poco tempo lontani perché in lui avvenissero cambiamenti che non le era dato conoscere, e quel sentimento da amante che la legava ad un bambino riusciva a trasformarsi, a mischiarsi senza logica, all’affetto materno che l’avvolgeva. Perché come una madre avrebbe voluto riempirlo di tutto l’amore possibile, ma non era sua madre e Dami da lei voleva un altro tipo di amore… che lei era disposta a dargli, se fosse servito a farlo stare bene, se questo le avesse permesso di non perdere tutta l’emozione che provava solo nel guardarlo, infantile e orgoglioso insieme, tanto tenero da lacerarla.

Prima lo aveva curato, come le sembrava di non fare da troppo tempo, e l’aveva sentita, quella sua pelle sempre morbida, troppo morbida e innocente per lei, eppure le sue mani non avevano potuto farne a meno, di accarezzarlo di nascosto mentre lo puliva e bendava. C’era una consistenza da adulto nascosta sotto il velo dell’adolescenza, una sensazione che bruciava la pelle e la innalzava in uno strano stato di eccitazione e angoscia, un’estasi crudele che la sbatteva al suolo con violenza quando si rendeva conto che, maledizione, era solo un ragazzino.

Erano entrambi sdraiati su un fianco e si guardavano, Dami accettava con la remissione di un cucciolo abbandonato le sue carezze, socchiudeva gli occhi, un gatto sornione e ruffiano che stava godendo delle sue attenzioni, le palpebre si rilassavano e sfumavano e sembrava un po’ più giovane, più vicino all’età che doveva avere. Poi però, quei suoi occhi chiari si spalancavano e il taglio obliquo, ironico e pungente, le faceva dimenticare che aveva tredici anni e le torceva semplicemente lo stomaco in uno spasmo di inquietudine e insofferenza.

«Quello là…»

«Simone» aveva puntualizzato lei con un sospiro rassegnato.

Dami aveva esitato «Lui… è il tuo ragazzo» come sempre non domandava, lui affermava, come avesse sempre le risposte in mano, leggeva dentro e non aveva bisogno di chiedere.

«Sì»

«Non capisco» aveva rivelato, un’espressione soffice confusa, una crepa di sofferenza nel volto bianco di marmo. Elena aveva faticato a deglutire. A volte la bellezza poteva essere così devastante da straziare, faceva più male che bene. Dami faceva più male che bene, con quelle sue labbra carnose, il labbro superiore pieno quanto quello inferiore, arricciato in un broncio naturale incredibilmente tenero.

«Nemmeno io» gli aveva detto, si era avvicinata a lui, aveva tentato di lasciargli un bacio sulla fronte, ma Dami si era ritirato, sembrava spaventato, la guardava come una nemica.

«Hai mantenuto la promessa, sei venuto da me»

Era arrossito, aveva allontanato lo sguardo, aveva osservato quella camera troppo in ordine, così poco sua, in cui Elena fatica a riconoscersi perché c’era suo padre tra quelle mura, non lei.

«Non volevo comportarmi male Dami, io non sto nemmeno capendo cosa sia successo.»

«Da quanto state insieme?»

Mormorava leggero, quella sua parlata introversa, quel suo modo francese di accarezzare le lettere, la scioglievano sempre in una dolcezza esasperata.

«Due anni, l’ho conosciuto all’università. È un mio compagno di corso»

Dami annuì, non trovava le parole, ma era ferito, un leoncino che si ritirava per leccarsi da solo le ferite. Avrebbe voluto poterle leccare per lui.

«Io lo amo»

Lo vide chiudere gli occhi, come a trattenere il dolore, e allontanarsi da lei. Elena non poteva sopportare che lui non la guardasse, che l’allontanasse. Forse Dami era davvero una fatata creatura del Nord che l’aveva incantata, c’era una sorta d’incantesimo su di lei, una fitta ragnatela nella quale era rimasta imprigionata.

«Non dovevo venire»

Aveva cercato di alzarsi, di districarsi dalle coperte, Elena lo aveva fermato.

«No! Dovevi, lo sai che dovevi»

«Non ha senso»

«Tu hai bisogno di me, io ho bisogno di te» aveva sussurrato e Dami l’aveva guardata dall’alto, con quei suoi occhi ironici di sole riflesso sul ghiaccio, e il suo volto non era mai stato più triste e sconfitto.

«Nessuno ha bisogno di me… forse nemmeno Sarah ha bisogno di me, piange sempre per me»

«Anche io ho pianto per te»

Dami si era accigliato «Non capisco» ripeté piano «Tu hai lui… io non servo»

Elena lo aveva abbracciato. Era tutto grottesco, loro due seduti sul letto di lei e Simone, abbracciati disperatamente l’uno all’altro, alla ricerca di un conforto che non potevano trovare.

Se solo non ti avessi incontrato, aveva pensato, se solo non avessi incontrato Simone prima di te.

L’età allora non sarebbe stata un problema, semplicemente non le sarebbe importato nulla, lo avrebbe aspettato finché non fosse stato abbastanza grande.

Ma le cose non erano andate nel verso giusto e lei era sospesa fra due affetti troppo grandi da sostenere, troppo importanti perché potesse rinunciare ad uno di essi.

«Avrò sempre bisogno di te Dami, sempre»

L’aveva baciata.

Dami era così, nei suoi sentimenti era infantile e semplice, tragicamente diretto, tragicamente ingenuo. Non aveva potuto fare a meno di ricambiarlo, perché l’aveva desiderato.

Demian aveva le spalle troppo sottili, una struttura fisica da ragazzino che ancora doveva conoscere la sua crescita improvvisa. Elena, in certi momenti, percepiva non quello che Dami era in quel preciso istante, ma ciò che era destinato a essere, come se le fossero concessi brevi frammenti in cui la sua anima filtrava attraverso il suo candido aspetto per proiettare un’immagine di lui già piena e adulta. Era allora, in quegli attimi sospesi, che il languore tra lo stomaco e il basso ventre si trasformava in eccitazione ed Elena comprendeva che, fisicamente, lei e Demian erano così assurdamente compatibili che l’attrazione che sentivano l’uno per l’altra restava sospesa nell’aria come elettricità statica che le faceva formicolare ogni lembo di pelle scoperta.

«Ho qualche speranza?»

«Dami… io Simone lo amo davvero»

«Però posso baciarti lo stesso» la sua mente innocente traduceva ogni emozione in qualcosa di semplice e ovvio, ma la testa di Elena aveva le idee molto meno chiare di così.

«Sì, ma non significa che lo lascerò»

Dami aveva sorriso triste «Non significa nemmeno che non lo farai… forse, quando sarò più grande…» cercava di convincerla a non respingerlo lì, a non spezzare subito le ali della sua flebile speranza, per dargli la possibilità di provare almeno a cambiare le cose.

Elena non poteva negargli nulla, avrebbe fatto tutto per lui, eccetto perdere Simone.

«Forse quando sarai più grande… ma lo sarai tra molto tempo» lo aveva messo in guardia. Demian non sembrava interessato al tempo.

«Ok»

«Va bene?»

«Sì. Sono abituato ad aspettare. Aspetto sempre»

Allora Elena aveva realizzato che lo stava condannando ad un’attesa eterna, ed era stata troppo egoista e spaventata dal pensiero di perderlo per dirgli, in totale onestà, che nemmeno in futuro le cose sarebbero cambiate, che l’avrebbe sempre amato teneramente, ma non di quell’amore che Dami desiderava più di tutto.

Non sarebbe mai stato il primo e, quando l’avesse capito, non l’avrebbe mai perdonata.

 

 

 

ANGOLO AUTRICE

           

Questo era uno dei miei capitoli preferiti, all’epoca. Non so nemmeno il perché!

A presto!

 

 

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Capitolo 16
*** Quando era il suo compleanno ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO ERA IL SUO COMPLEANNO

 

 

 

Demian marinava spesso e parlava poco, così il loro strano rapporto era rimasto sospeso su un pacato equilibrio di cose non dette e gesti trattenuti. A volte accennava alla sua situazione in casa, ma Elena aveva sempre il timore di sbilanciarsi nelle domande, perché la regola era la stessa e non era mutata, ogni volta che il suo tormento per lui sfiorava la compassione, Dami si ritirava e diventava ostile.

Si erano visti poco e toccati meno, ed ogni loro incontro era segnato dalle ferite di Demian e dalla tensione che li spingeva a cercarsi l’un l’altro, anche solo a sfiorarsi, per poi alzare gli occhi, guardarsi e capire che non era stato un caso, non era mai un caso. Avevano bisogno l’uno dell’altra come l’ossigeno e, nonostante questo, non potevano respirarsi.

Forse per questo andava a trovarla raramente, solo quando aveva bisogno, forse quella sospensione uccideva lui quanto lei, forse anche lui sentiva lo spasimo di desiderio troncargli il respiro… anche se era solo un ragazzino.

Il giorno del suo compleanno, Dami aveva saltato la scuola ed era andato da lei.

Aveva meno lividi del solito addosso, recentemente sembrava subire molto meno la violenza altrui, ma la rabbia repressa che si portava dentro, come un pozzo all’apparenza calmo ma fin troppo profondo da cui attingere, increspava ogni suo gesto e permeava ogni sguardo frustrato e scontento, rendendolo più nervoso e scostante.

Sembrava già fin troppo diverso dal ragazzino che le aveva acceso la sigaretta, quell’estate, eppure se scavava nei suoi occhi nivei Elena vedeva ancora la struggente fragilità che aveva imparato ad amare e lo smarrimento puerile che non avrebbe mai perso, la paura era il suo demone, radicato in lui con la solidità di una quercia secolare.

Si era fatto una canna, si era seduto sulla finestra della sua camera da letto, Elena lo aveva imitato.

Era basita perché non lo sapeva, che aveva iniziato a fumare anche l’erba, ed un brivido le aveva percorso la schiena quando si era resa conto che, forse, l’erba poteva non essere il problema più grande.

Gliel’aveva sfilata dalle dita e aveva fatto un paio di tiri, le labbra schiuse mentre lo studiava dalle palpebre leggermente abbassate, per provocarlo.

Dami faticava sempre a deglutire e distoglieva lo sguardo, confuso da quella strana sensazione al basso ventre che ancora non era in grado di capire del tutto. Ecco, quando si confondeva per così poco, tornava ad essere un ragazzino.

«Non sapevo che fumassi»

Non si era voltato, fissava la strada di sampietrini, lontana, le figure delle persone sfocate sotto la pioggia, i colori degli ombrelli, fugaci macchie, come acquerelli leggeri non ancora asciutti che si spandevano indefinitamente sulla carta.

«Vorrei dipingere questo momento» aveva mormorato, poi la bocca si era piegata in un moto d’infelicità «Mi avevano detto che non avrei più pensato, se avessi iniziato»

«Ha funzionato?»

Dami aveva scosso piano la testa, i capelli morbidi erano nascosti da un berretto nero «Se ti guardo vedo lui e non riesco a smettere di pensarci»

Elena aveva abbandonato la canna e gli si era fatta vicina, aveva accarezzato il suo viso con delicatezza e aveva pensato che se la bellezza avesse avuto un volto sarebbe stato quello di Dami e non perché era bello, ma per l’indistinta sensazione di poter afferrare l’infinito e sfiorare l’impossibile solo a sentire la sua pelle sotto le dita.

«Se ti fai del male mi spezzi il cuore»

«Non parlare di cose che non puoi capire, tu non sai cosa vuol dire avere il cuore a pezzi»

Si era sentita una bambina, c’erano sentimenti che, aveva ragione lui, non l’avevano mai sfiorata per davvero, dolori che era stata abbastanza fortunata da non dover vivere. Eppure quando si trattava di Dami le cose non avevano una logica.

«Tu lo sai?» lo provocò, ferita.

Pensava si sarebbe arrabbiato, invece Dami aveva alzato le spalle «Come potrei… sono quelli intorno a me che soffrono per davvero, non io»

Demian le prendeva il cuore e lo stritolava in una morsa, senza pietà, senza accorgersene. E a farle male non era realmente lui, ma la consapevolezza di quanto poco Dami valutasse se stesso, quanto sminuisse il suo malessere, i suoi tormenti. Come non contasse abbastanza. Come se solo il male fisico fosse male. Forse per questo si feriva e permetteva che lo ferissero, per giustificare il dolore sordo che lo dilaniava e che gli pareva così immotivato.

Quel ragazzino testardo poteva pensarla come voleva, ma il cuore spezzato lei lo aveva sperimentato, e lo aveva sperimentato proprio a causa sua.

«Vorrei che potessi vederti davvero, a volte»

Dami si era accigliato.

Lo aveva stretto fra le braccia, lo aveva attirato a sé.

Aveva iniziato a depositare brevi e delicati baci sul suo viso e Dami si era rilassato nella sua stretta, si era aggrappato a lei. Un moto di sollievo le aveva gonfiato il petto, non era ancora così distante, poteva ancora raggiungerlo.

«Promettimi che non ti farai del male, qualunque cosa ti dicano. Se ti offriranno sostanze più forti tu…»

«Hai paura che diventi un drogato?»

«Quel ragazzo che ti ha portato qui da me, quella volta, lo era, vero? Ne portava addosso i segni»

Demian aveva taciuto, aveva sfregato le labbra umide e carnose sulla sua spalla e per un istante Elena aveva perso lucidità, aveva pensato che quella consistenza avrebbe voluto sentirla sul suo corpo, su tutto il suo corpo, scivolare come seta. Avrebbe voluto appartenergli.

Il silenzio era il suo assenso.

«Non so cosa stai facendo Dami, non ho nemmeno il diritto di chiedertelo e non lo farò. Ma non posso non essere sempre in ansia per te, non poterti stare vicino mi da il panico»

Era strano rendersi conto che le loro braccia si erano in qualche modo intrecciate, così come i loro sguardi, e le mani senza che se ne fossero resi conto avevano raggiunto il volto dell’altro e lo studiavano con tormentato desiderio.

«Non sopporto che tu ti faccia del male»

Si era sporto, le aveva baciato il naso con un sorriso a tratti malizioso, da furbo predatore.

«Non farò nulla che ti faccia stare male» aveva sussurrato, e ancora una volta le aveva fatto male senza rendersene conto, perché si stimava così poco!

Le loro labbra si erano scontrate ferocemente, si erano prese con la forza e la disperazione di un contatto troppo a lungo negato, troppo desiderato e doloroso d’incertezza e passione. La bocca di Dami era calda di fumo e d’arancia, i suoi denti le torturavano le labbra con giocosa malizia ed i suoi capelli erano troppo morbidi perché Elena potesse resistere dal gettare lontano il cappello nero per aggrapparsi a loro con la costernazione della resa più completa.

Si erano tolti il fiato e si erano separati con il tormento di sapere che non sarebbe comunque bastato.

Si erano accarezzati con la punta del naso e avevano intrecciato sospiri esasperati.

«Buon compleanno Dami»

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Capitolo 17
*** Quando avrebbe voluto le sue parole ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO AVREBBE VOLUTO LE SUE PAROLE

 

 

 

 

Elena non lo aveva più visto e l’inverno era trascorso nella sua assenza.

A volte, riceveva qualche messaggio, manciate di parole laconiche per ricordarle che non l’aveva scordata.

Che aspettava.

Quell’attesa però la uccideva, ed il tormento permeante della sua mancanza la soffocava. Non ricordava più come vivesse la sua vita prima che arrivasse lui. Cercava conforto in Simone, si accoccolava al suo petto, la sera, gli impediva di tornarsene a casa, eppure nemmeno la presenza soverchiante e tanto cara del suo ragazzo bastava a colmare quel tragico senso di vuoto.

 

Auguri

 

Una sola, semplice parola, un banale messaggio di Natale.

 Era bastato per farle crollare il mondo addosso. Perché lei non lo aveva capito cosa significasse quella separazione, non fino a quel momento. Aveva raggiunto la sua famiglia per le feste con quel senso di sconfitta addosso, una stanchezza nervosa che la rendeva troppo fragile per trovare la forza di reagire.

I suoi genitori avevano dato il colpo di grazia alla sua autostima latente.

«Lo sapevi che tua sorella è tra i migliori del suo corso?»

«Non mi sorprende, Serena è il meglio»

«È molto promettente, ho parlato con alcuni colleghi in università che sono entusiasti di lei»

Suo padre poi le aveva sorriso con indulgenza «Sei una bellissima ragazza, tesoro» le aveva concesso, come se quello fosse il suo unico pregio, la sua unica possibilità. Un bel viso per trovare un buono partito.

Simone non era quel buon partito.

«Spero che tu stia scherzando. Un ragazzo che studia infermieristica? Lo hai conosciuto ai corsi? È evidente che non può essere nulla di serio, non fissarti con lui solo per farci una ripicca»

Nonostante il desiderio, non era riuscita a ribattere, si era portata a casa quella ramanzina e lo svilimento che ne era conseguito.

E così anche l’unico, vero affetto che le era rimasto si tramutava in una ripicca alla famiglia, ancora una volta le veniva ricordato come non avesse volontà, non fosse in grado di scegliere. Simone era stato l’ultima grande delusione di una sfilza che aveva inferto ai suoi perfetti genitori. Un ragazzo che studiava per diventare infermiere era imbarazzante, un fallimento a prescindere, per loro.

Simone l’aveva attirata a sé, a casa, sul divano.

Le aveva baciato la tempia, ma Elena non aveva sentito nulla, era rimasta inerte. La televisione era accesa, ma lei non la vedeva.

«Non ti lascio, amore» le sussurrò all’orecchio a un tratto, un mantra che avrebbe dovuto confortarla e invece le fece solo provare una stretta al petto, la sensazione che i suoi polmoni rarefatti non potessero più incamerare ossigeno.

«Ho mai scelto qualcosa che avesse un senso?»

Simone non le aveva detto nulla, l’aveva solo cullata, perché lo sapeva, che non avrebbe veramente ascoltato, che ogni parola sarebbe andata a vuoto.

Così Elena aveva deglutito a stento, chiuso gli occhi e si era lasciata trascinare. In quel frangente, l’unica cosa che riusciva a pensare era che avrebbe voluto vedere Demian. Avrebbe voluto che fosse la sua innocenza dolorosa a sfiorarla appena, con la stessa delicatezza di quella poesia che una volta aveva iniziato a leggere. Perché Dami lo capiva, cosa significasse essere rifiutati, Dami conosceva quanto quel dolore fosse straziante, anche se era solo un ragazzino.

Voleva fossero le sue parole, a curarla, leggere come impronte di gabbiani sulla sabbia.

 

 

 

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Capitolo 18
*** Quando del tredicenne innocente si era persa ogni traccia ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO DEL TREDICENNE INNOCENTE SI ERA PERSA OGNI TRACCIA

 

 

Con l’anno nuovo, Demian si era presentato alla sua porta. Pioveva nevischio, l’aria era gelida ed Elena era china sull’ennesimo libro che avrebbe voluto solo lanciare contro il muro.

Studiava per non pensare, perché Simone non c’era.

Perché Simone alla fine stava mostrando i primi segni di un cedimento e si era allontanato da lei, le aveva detto di tornare quando fosse stata sicura. Quando avesse smesso di colpevolizzarlo di tutte le cose storte.

«Non so cosa fare. Lo sai che ti amo, ma sembra che non ti basti, niente di ciò che faccio sembra bastare»

Aveva solo potuto chinare la testa, non poteva negare la verità, anche se era dolorosa e tremendamente meschina.

Senza di lui, era un guscio vuoto con un testo sottomano che fingeva di avere un futuro.

Aprì la porta con la certezza di scacciare chiunque avesse cercato di varcare il confine della sua esasperazione e, invece, rimase immobile, senza fiato e senza forze.

Le punte bianche dei suoi capelli, sotto lo zuccotto nero, erano cristallizzate di acqua e neve, e lui sembrava incredibilmente piccolo nel suo giubbino enorme, e candido.

Elena lo fissò a lungo, si prese il suo tempo.

E capì che Demian era davvero una creatura fatata. In sé aveva tutte le sfumature del bianco e raccoglieva la perfezione della neve e la vastità di un cielo azzurro fumo, la gradazione opaca e velata delle nuvole cangianti dopo una nevicata.

Nemmeno la lacerazione sullo zigomo, uno squarcio netto, una spaccatura rosso sangue, riusciva a macchiare quel quadro di perfezione. Lo rendeva solo reale.

Quelle ferite lo rendevano vero, Elena aveva bisogno di vederle quanto Demian aveva bisogno di farsele infliggere, perché solo le imperfezioni gli davano concretezza, solo quel dolore gli permetteva di tornare da lei.

«Ti sei fatto male»

«Ellie» un sospiro e un sorriso lieve. Una tenerezza nuova, più adulta, spezzava le sue labbra. Qualcosa era cambiato ancora in lui. Una tonalità della sua anima che Elena non riconosceva, che la spaventava. Cercava un bambino, ma non lo trovava.

Cercava l’innocenza che aveva amato, impigliata da qualche parte, tra quelle ciglia incredibilmente folte, ma sbatteva contro una consapevolezza che la annichiliva.

«Cosa ti è successo?»

Demian si era stretto nelle spalle, la punta del naso arrossata.

Lo fece entrare, seguì ogni suo passo. Lo aveva osservato sfilarsi la giacca, sedersi sul divano, passarsi le dita lunghe e bianche come rami sbiancati dall’acqua e dal sole tra i capelli umidi, la pelle spaccata in un reticolo di fenditure sanguigne per il freddo.

Non le parlava, ma la guardava dal basso, e gli occhi erano lucidi.

Qualcuno una volta aveva detto che la bellezza nasceva dalla disperazione: Demian era la creatura più spezzata e bella che avesse mai visto, una bellezza luciferina che la tentava, le scioglieva l’anima e la rendeva incapace di raziocinio. Tutto di lui la sdilinquiva e la rendeva debole.

Non c’era ragione con lui e tutta la frustrazione, la rabbia, si assopiva.

Avrebbe voluto urlare tutta la sua collera, invece gli sedette accanto, cercava una calma che non riusciva a raccogliere, un respiro che la rifuggiva.

«Dami, se non parli mi uccidi. Sei sparito» prese fiato per nascondere la voce che tremava d’incertezza «Sei sparito per tanto tempo»

«Ti ho scritto»

«A malapena»

Dami incassò la testa nelle spalle, si era allacciato le mani dietro la nuca e, così raccolto, si mordeva l’interno della guancia, in quel gesto d’abitudine che era il più grande segnale del suo nervosismo. Gli occhi immensi erano grandi di colpa.

«Volevo mancarti»

Il velo di pudore sulle sue guance lo riportò ad una dimensione infantile in cui Elena poteva riconoscerlo. Avrebbe quasi voluto piangere, se il sollievo non fosse stato tanto grande. Gli accarezzò la guancia, lo costrinse a guardarla «Non sono mai stata tanto male» ammise a sua volta.

Demian afferrò cautamente la sua mano, solo per premerla con più forza contro la propria guancia, come il cucciolo di leone smarrito che era sempre stato ai suoi occhi.

«E lui?»

«Lui non c’è» ammetterlo le faceva male.

Demian assottigliò i suoi bellissimi occhi, l’angolo mediale affilato dava l’impressione di un felino indolente ed Elena realizzò che del ragazzino, del tredicenne innocente, si era persa ogni traccia, restava solo la sua incredibile bellezza, oziosa e sensuale come una pantera elegante dal manto lucido e l’aria ruffiana, un’istintiva naturalezza quasi sacrale per la purezza che inspirava.

«Tornerà?»

Mestamente, aveva annuito «Sì»

Le belle labbra si strinsero mentre lo sguardo si abbassava e il corpo di Demian assorbiva l’ennesimo impatto, l’ennesimo colpo a tradimento, rattrappendosi davanti a lei in una raccolta di pelle e ossa indifese.

«Però adesso non c’è» ripeté, e c’era una disperazione tale in quella speranza, che Elena sentì salirle il pianto, finalmente.

«Sì»

Cautamente, come un animaletto insicuro e spaventato, un gatto randagio che cerchi un poco di affetto, Dami si era avvicinato, aveva allungato la mano verso di lei, le aveva sfiorato la guancia e seguito la linea del collo.

Elena si era chinata per baciargli la fronte, per poterlo sentire, ma Demian voleva di più. Come quel primo giorno, le aveva rubato un bacio leggero, l’aveva guardata, sfidata a dirgli che non poteva.

Che c’era Simone.

E lei lo sapeva, quelle parole non avrebbe mai potuto dirgliele, Dami poteva prendersi tutto ciò che era. Lo aveva ricambiato con forza, aveva sentito quel fiato caldo e sconvolto spezzarsi nella sua bocca e aveva pensato che desiderava di più, voleva sentirlo di più.

Era sola e niente aveva senso, ma c’era Demian, ci sarebbe sempre stato Demian.

Era scivolato sul divano, disteso, insicuro come un bambino con gli occhi pieni di adorazione e meraviglia e il fisico che stava attraversando la linea dell’adolescenza.

Allora Elena lo accarezzò a sua volta, con la delicatezza e la dedizione con cui si poteva ammirare solo un’opera d’arte, ne tratteggiò i confini, la tonicità di quel suo corpo sempre più solido e sicuro, un punto fisso a cui aggrapparsi. E quando la mano di Dami era scivolata sulle sue gambe ed era risalita piano, con esitazione, sul suo fianco, sotto la maglietta, finalmente le labbra si erano schiuse nel primo, vero, morbido sorriso.

 Perché non era sparito, perché la voleva ancora.

«Puoi fare ciò che vuoi»

Lo aveva detto con l’inconsapevolezza dell’incoscienza, con l’ingenuità di una ragazzina, non di una donna. Eppure, la tenerezza che provava per lui, per quel tremore sottile, era tanto soverchiante che in sua presenza Elena si sentiva minuscola, fragile.

Mentre gli sfilava la maglietta e ammirava la corposità del candore della sua pelle, anche le sue mani tremarono.

 

 

 

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Capitolo 19
*** Quando quella prima e unica volta ***


 

Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO QUELLA PRIMA E UNICA VOLTA

 

 

Tutta quella tensione, quella disperazione che li aveva legati, che li aveva attirati con la forza di due poli opposti, trovava il suo senso per la prima volta, trovava il suo culmine nelle loro mani che brancolavano, si cercavano, si accarezzavano e divoravano con un desiderio affranto per fare l’amore. Come se fossero esistiti in funzione l’uno dell’altro solo per quel momento.

Bruciare, bruciare per il sacrilegio di toccare un corpo intonso e trasparente come un cristallo, era un sacrificio che valeva la pena, avrebbe potuto consumarsi e tramutarsi in cenere, lo avrebbe accettato, ma solo dopo averlo sentito, solo dopo averlo reso suo.

Sotto di lei, tra le sue mani, Demian tremava, eppure quei suoi occhi di luna la mangiavano febbrili di desiderio e adorazione. Demian la guardava come fosse un sogno di carne e sangue, ed anche se non sapeva cosa fare, come muoversi, le sue dita insicure provavano comunque a toccarla, a scoprirla, con quella rudezza che gli apparteneva, figlia di un languore furente che li stava consumando.

Lo aveva spogliato, aveva baciato quel petto glabro e in una scia di baci aveva raggiunto la gola, quel pomo d’Adamo ancora poco accentuato, teso sotto la pelle tenera, tutto da succhiare, come un nettare. Lo aveva fatto, lo aveva ascoltato trattenere il respiro e poi ansimare, per la sorpresa ed il panico e l’eccitazione più assoluta. Scottava, un calore nuovo sulle labbra, elettrizzante.

Quando si era spogliata a sua volta, a cavallo sui suoi fianchi sottili, Demian era rimasto incantato a fissarle i seni. Aveva allungato la mano, imbarazzato e intraprendente come un bambino, e con quel tremore che non aveva smesso un solo istante di accompagnarlo l’aveva posata sulla sua pelle, con il pollice le aveva sfiorato il capezzolo, meravigliato.

«Sembri fatta di miele» lo disse con assoluta devozione, un mortale che osava toccare l’effigie sacra di una divinità.

Lo aveva baciato, Demian aveva infilato le mani tra i suoi capelli, aveva tirato, si era arpionato a lei e premeva e spingeva, come per ingoiarla e raccogliere in lei ogni oncia di passione e desiderio.

Si era stesa accanto a lui, aveva finito di spogliarsi e, lentamente, per non spaventarlo, per ammansire la fiera ostile e sospettosa che abitava quel corpo fragile, Elena lo aveva spinto a sovrastarla, lo aveva accolto tra le sue cosce. L’emozione e il terrore lo avevano invaso, l’aveva guardata con un panico tale che le venne da sorridere, perché pareva davvero un condannato a morte dal viso sottile e gli occhi grandi di una qualche fiaba nordica ancora da scrivere.

«Vieni qui, Dami» aveva allargato le braccia e Demian si era disteso, si era adagiato tra i suoi seni con una tenerezza infantile e incerta. Poi, li aveva baciati, i suoi seni, aveva assaporato la sua pelle, l’aveva succhiata e ancora aveva cercato il suo sguardo dal basso.

«Sai davvero di un fiore. Mi piace il tuo sapore»

A lei piaceva il gusto salato della sua pelle, le piaceva leccare quel sottile, impalpabile velo di sudore sulle clavicole sottili, sulla gola che fremeva. Le piaceva sentire il pomo d’Adamo che fremeva inquieto sotto la sua lingua e toccare e accarezzare ancora e ancora la linea di congiunzione che tuffava il collo nella spalla, le scapole sporgenti ad ala in cui affondare le unghie era tanto facile per la morbidezza della carne.

Tutto di Demian era una scoperta dei sensi, un brivido di piacere.

Averlo tra le sue cosce era un’eccitazione nuova, sacrilega, pensava ad ogni istante che si sarebbe meritata di essere fulminata, così, senza nemmeno rendersene conto, eppure quel ragazzino insicuro, che a tratti pareva tanto grande e a tratti comunicava solo una struggente tenerezza, la fissava con le pupille dilatate di un piacere asfissiante, irresistibile.

«Perché non puoi essere mia?»

«Voglio essere tua»

almeno ora, almeno adesso, voglio essere tua, Dami

Voleva appartenergli con un desiderio che le seccava la gola e le annebbiava la vista, non esisteva nulla, solo la pressione di quel corpo scattante e fresco, solo la sensazione di quell’eccitazione tra le gambe. Lo aveva guidato, lo aveva aiutato ad entrare in lei e Demian era stato tanto sperso, smarrito, che così sostenuto sopra di lei l’aveva guardata con quella paura da prigioniero costretto, nonostante la voglia, a compiere il suo ruolo. Gli occhioni che ancora si erano dilatati, per la sorpresa immensa. I suoi muscoli si erano contratti e si era teso come una corda di violino, per quell’improvvisa botta di piacere che dall’inguine lo aveva attraversato come una scossa elettrica fino a inarcare quel suo bel collo candido da animale raro.

Tutto il resto l’aveva fatto seguendo l’istinto naturale, non era durato molto prima che le braccia e il ventre squassato da brividi e tremori cedessero e Dami si accasciasse completamente, ed Elena lo accogliesse ancora tra le sue braccia.

Il respiro spezzato che moriva tra il collo e l’orecchio era caldo e piacevole come la sensazione che provava nel suo ventre.

«Ora anche tu sei un po’ mio»

Solo per ora, aveva pensato, ma le bastava, era confortante. Demian aveva sorriso sulla sua pelle.

«Io sono sempre tuo»

Era il contrario a non essere vero. Era stata sua, ma solo per quell’istante in cui le si era concessa. In realtà, Elena sapeva di appartenere a qualcun altro ed odiava essere consapevole di non avere scelta: con il calore di Demian che colava tra le cosce, in quel momento di sublime unione, in lei sentiva subentrare la mancanza di Simone. Eppure Dami era bello e morbido e dolce, incredibilmente dolce e tenero nel baciarle la pelle sotto l’orecchio, ancora e ancora, per assaporare a fondo l’odore di sesso e eccitazione che aveva alterato il profumo del suo sudore.

Era soffice e delicato, la sua nuca fragile sotto le dita, tra i polpastrelli, ancora pervasa dal tremito dell’orgasmo, sembrava un miracolo, Elena si crogiolava nella morbidezza dei suoi capelli per non sentire il buco nero di colpa che si apriva nel suo stomaco.

Poi, Demian si era sollevato, si era staccato e gettato accanto a lei, sporco di umori, stravolto, le labbra tumide, arrossate dai troppi baci, erano chiuse in un sorriso estasiato.

L’aveva cercata ancora, con quei suoi occhi rosati e meravigliosi, e ancora aveva sorriso.

«Sei bellissima» aveva mormorato.

Aveva disegnato la linea del suo seno piano, come a chiederle il permesso «È così morbido»

Lo aveva spogliato della sua infanzia, davanti a lei doveva esserci un uomo, eppure lo stupore sorpreso che lo animava restava quello di un ragazzino. Lo avrebbe baciato, lo avrebbe soffocato nell’affetto di un suo abbraccio, ma non voleva spezzare quel momento, voleva ammirarlo nelle sue scoperte.

Nell’incavo del suo collo, Demian si era rifugiato soffiando ancora «Sei così bella che non trovo le parole»

I suoi sospiri da amante erano appaganti e delicati di un’innocenza che toglieva le forze di resistergli. Le loro carnagioni in contrasto erano bronzo che si fondeva con il marmo.

Gli sfiorò le labbra con l’indice «Mi sono sempre piaciute le tue labbra» gli aveva detto, ma poi si era allontanata, schiacciata da quell’adorazione che era troppo, le comprimeva l’esofago dall’ansia. Aveva recuperato la felpa di Demian, grigia e nera, e con l’aria disinvolta e maliziosa che lo agitava, degna delle migliori attrici di film gialli degli anni ottanta, aveva sbattuto le ciglia e aveva ammiccato «Questo è il mio bottino»

Si era chinata su di lui, gli aveva rubato un bacio, morso le labbra.

Rapito, Dami aveva sgranato gli occhi, le iridi mangiavano tutto, erano infinite e profonde «Sei davvero Afrodite»

 

 

 

ANGOLO AUTRICE

 

Ed ecco il vero dramma del loro rapporto, era palese che si sarebbe arrivati qui, prima o poi, e per i lettori dell’originale era già anche noto. Per me la sfida era rendere in poche righe quanto Elena sia controversa e distorta, di come veda romanticamente qualcosa che di romantico non ha molto. A tratti ne è consapevole, a tratti se lo nega. Beh, in questo mini-racconto, la sfida era proprio entrare in una visione distorta, non ho mai capito se ci sono riuscita, ma di sicuro mi ha aiutato a definire meglio Ellie nella mia testa e spero abbia risolto alcuni quesiti su di lei che mi erano stati posti.

Siamo ovviamente quasi alla fine, nei prossimi giorni pubblicherò gli ultimi capitoli, se non ricordo male sono ancora due più l’epilogo.

A presto

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Capitolo 20
*** Quando non lo aveva più guardato ***


 

Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO NON LO AVEVA PIÙ GUARDATO

 

 

Si erano rotolati nel letto ancora e ancora, Demian diventava più sicuro, e più cresceva la sua consapevolezza più sembrava bello e forte e grande.

Elena lo aveva lasciato fare mentre sussurrava “Ellie” sulla sua bocca come un’invocazione, ed alla fine si era addormentata oziosa sul petto di quel ragazzino.

Si era svegliata che già si era fatta sera, il nevischio si era trasformato in un sottile strato di neve, felci di ghiaccio decoravano il vetro. Faceva freddo, la caldaia doveva essersi impallata di nuovo.

Demian era ancora sveglio e nudo, accanto a lei, con un libro tra le mani e l’aria rapita di un poeta dannato.

Era sempre lo stesso, la raccolta di Neruda.

Accarezzò i pettorali pallidi, appena accentuati sul suo corpo acerbo, vi depositò un altro bacio leggero, per farsi vedere. Demian le dedicò un’occhiata in tralice, abbozzò un sorriso storto, con il canino sporgente in vista, poi tornò a quelle parole scritte, non dette.

«Cosa leggi?»

«Una cosa che parla di te»

Si era sollevata, lo aveva guardato intensamente «Di me?»

Il sorriso si era sciolto in una morsa di vergogna e colpa «Di te. L’ho sempre saputo, tu sei come una poesia di Neruda»

La delicatezza remissiva con cui aveva mormorato quella confessione la uccise di dolcezza, la costrinse ad abbassare gli occhi. Solo un ragazzino poteva dire una cosa simile, solo l’innocenza più pura dei primi affetti era tanto onesta e sincera.

Demian era un bambino che viveva di parole scritte e sapeva parlare solo quella lingua articolata che a lei era tanto sconosciuta.

«Vorrei sapere quale»

Aveva scosso la testa, gli occhi dilatati da quella paura ancestrale che lo travolgeva quando Elena provava ad avvicinarsi, a sfondare un muro di intimità con le sue domande indiscrete.

«Ci terrei davvero»

Era una sciocca, era lei l’ingenua. Non capiva realmente cosa gli stesse chiedendo, la portata di quella rivelazione che Elena per prima non era in grado di sopportare.

La voce aveva tremato, ma una strana determinazione aveva acceso quei suoi occhi d’inverno.

«Perché tu possa ascoltarmi le mie parole si fanno sottili, a volte, come impronte di gabbiani sulla spiaggia»

L’aveva baciata teneramente sulla fronte, aveva posto un braccio attorno alle sue spalle, a proteggerla, come fosse un uomo e non un bambino, l’altro a sostenere la sua raccolta di poesie.

Elena l’aveva riconosciuta, aveva iniziato a leggerla un giorno, tanto tempo prima.

«Cosa vuoi che ascolti?» lo aveva sussurrato con un sorriso divertito, che sciocca era stata, il sorriso di chi non ha capito davvero nulla.

Dami l’aveva osservata cauto, insicuro, come stesse valutando fin dove spingersi, come cercando le parole.

«Le mie parole, più che mie sono tue» aveva risposto in un mormorio soffuso «Prima di te hanno popolato la solitudine che occupi, e più di te sono abituate alla mia tristezza… ora voglio che dicano ciò che voglio dirti, perché tu le ascolti come voglio essere ascoltato»

Si era accigliata. Si era accorta che non la stava leggendo tutta, che aveva saltato delle righe. Che non era semplicemente una poesia, era un messaggio.

«Io ti ascolto»

Dami aveva sospirato, aveva raccolto tutto il coraggio di quel corpo delicato.

Si era esposto.

«Amami, compagna. Non mi lasciare. Seguimi. Seguimi, compagna, su quest’onda d’angoscia»

L’aveva guardata con speranza, accarezzandole la spalla vellutata, come un cucciolo in attesa di una carezza. Una carezza che non era arrivata, che non aveva avuto la forza di donargli.  

Sopraffatta, Elena aveva chiuso gli occhi e voltato il capo.

Aveva sentito il rumore di quel cuore che si rompeva, aveva sentito qualcosa incrinarsi dentro di lei, l’immenso vuoto della colpa crescere.

Non l’aveva più guardato.

 

 

ANGOLO AUTRICE

 

Chiedo scusa per la sparizione, per problemi di natura lavorativa mi sono dimenticata di pubblicare gli ultimi capitoli, nei prossimi giorni provvederò

 

 

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Capitolo 21
*** Quando aveva iniziato ad odiarla ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO AVEVA INIZIATO AD ODIARLA

 

Demian era scappato con la coda tra le gambe e i vestiti gettati addosso alla rinfusa, con la fretta dell’imbarazzo, la maglietta al contrario e il giubbino contro la pelle, perché quella felpa non aveva avuto il coraggio di richiederla. L’aveva lasciata con lei, in quel letto che non gli apparteneva, che era di Simone.

Era scappato con quel libro in mano, il nevischio scendeva, aveva inumidito le pagine, si erano arricciate un poco.

Era andato da Nicolas e dagli altri, non voleva tornare a casa.

Non voleva vedere maman, non voleva sentirla urlargli contro, perché lo faceva sempre ormai, urlava per tutto, incattivita, arrabbiata. Preoccupata.

«Dove sei stato? Dove passi tutto il tuo tempo?»

E poi, ancora, frustrata «Non puoi comportarti così! Hai solo quattordici anni, Dami! Sono tua madre, devi rispondermi!»

Demian, a quelle domande, di rispondere non ne era proprio capace.

Il senso di colpa lo rendeva spavaldo e aggressivo, le ringhiava contro, la feriva, e non voleva. Non voleva perché non stava bene, non voleva perché Sarah era troppo piccola e quelle cattiverie non riusciva a sopportarle, si rintanava nella loro stanza, sul suo letto, aggrappata al suo orsetto di peluche come se quest’ultimo avesse potuto salvarla.

Nicolas gli aveva dato una copia delle chiavi del suo appartamento, un buco ai piedi di una palazzina, un covo dove tutti si riunivano.

C’era Davide, frustrato come non mai perché le Juve aveva pareggiato contro il Parma, una partita mediocre.

«Del Piero quasi mi ci aveva illuso, ma dopo il suo gol non hanno più concluso un cazzo. Se Crespo si fosse fatto i cazzi suoi! Ma figurati se non ci inculavano proprio sul finale. Al novantaduesimo, ti rendi conto? Che partita di merda»

Finiva sempre così, quando giocava la Juve, e Dave beveva di brutto, per festeggiare o per non pensare al fallimento, a seconda del caso.

Demian aveva fatto lo stesso, si era ubriacato.

Davide, ridendo, gli aveva mostrato una pastiglia.

«L’Lsd non l’hai mai provata, vero?»

E lui aveva scosso la testa, provato da una sbronza pesante e da un dolore al petto tanto forte da tradursi in fitte profonde come pugnalate tra le costole.

«C’è sempre una prima volta, moccioso»

Quella era stata la sua prima volta, ma non l’ultima.

La mattina presto, ancora invasato dal bad trip allucinante che aveva avuto e dal troppo alcol in corpo, era strisciato fuori casa, aveva vagato nel buio.

Alla fine, era tornato davanti alla palazzina di Elena. Voleva suonare il campanello, parlarle, non voleva scappare. Aveva paura che se avesse mollato in quel momento, sarebbe crollato tutto il castello di carte che erano loro, che era lui per lei.

Nell’alba, una figura dolorosamente nota uscì dal portoncino.

Un ragazzo, alto, un bravo ragazzo con le spalle larghe e un sorriso tiepido nascosto all’angolo della bocca, sempre in procinto di nascere.

 

Simone

 

Simone era tornato. Elena aveva detto che sarebbe successo, ma non pensava subito.

Non voleva credere che fosse davvero tornata con Simone dopo aver fatto l’amore con lui.

Aveva aspettato che fosse sparito, poi aveva suonato.

Elena lo aveva visto nello schermo del citofono, lo aveva fatto entrare.

Come non fosse successo nulla, e invece Simone era stato lì.

Simone aveva dormito con lei.

Simone l’aveva scopata, sorrideva, era felice.

Simone nemmeno immaginava che lui esistesse.

Elena aprì scompigliata e sorridente, gli occhi stropicciati, ma non di sonno. Era stanca e appagata, portava addosso un odore, quell’odore, di sudore e sesso, di sperma e umori, un aroma avvolgente come una guaina calda e umida.

Demian sentì che qualcosa si spezzava.

Che la odiava.

Che quel sorriso avrebbe voluto distruggerlo, vederlo sgretolarsi lentamente sotto le sue mani. Perché non meritava di sorridere così beatamente, non meritava niente.

Non meritava lui, e non meritava nemmeno Simone.

L’aveva afferrata con una cattiveria che non gli apparteneva, che nasceva con lei, che non conosceva prima di conoscerla, e l’aveva spinta dentro l’appartamento, schiumante di collera, la mano serrata attorno a quel polso fragile, sottile.

«Demian?» l’aveva chiamato, confusa.

E poi aveva urlato, sempre più spaventata «Demian!» mentre la trascinava, nuda contro la sua volontà nella sua camera da letto. Le lenzuola erano sparse, stropicciate, intrise del sudore di una notte trascorsa a fare l’amore.

E Demian l’aveva gettata su quel letto e si era sentito forte, incredibilmente forte.

Elena lo trattava come un bambino, ma era più forte di lei, non era un bambino, non aveva il diritto di prendersi il suo cuore e stritolarlo nella morsa meschina di quelle mani egoiste e capricciose.

Ed anche se stavolta era Ellie a guardarlo con gli occhi immensi di paura, resi bellissimi dalla struggente dolcezza che li ammorbidiva in un’espressione languida e spaventata, Demian non si sentì meglio, si sentì solo più furioso, oltraggiato.

L’aveva spinta, l’aveva costretta a voltarsi, con una mano le bloccava i polsi, con l’altra aveva agguantato i suoi capelli morbidi e setosi e aveva premuto quel viso tanto bello, tanto amato, contro il materasso, perché non voleva sentirla, non voleva vederla.

Non voleva sapere quale fosse la sua espressione mentre piangeva e provava a dimenarsi disperatamente, mentre la ignorava e la prendeva con una cattiveria, un disprezzo che lo distruggevano.

Era stato tutto caotico e veloce, l’orgasmo fulminante.

Ad un tratto, Elena aveva smesso di opporsi, l’aveva assecondato, le unghie che affondavano nel materasso insieme ai gemiti soffocati, e Demian si era sentito in pace, aveva pensato che non era vero niente, che aveva frainteso tutto.

Quando però si era staccato da lei, aveva riconosciuto i segni rossi delle sue dita sui fianchi della ragazza, la gravità di quello che aveva fatto gli era caduta addosso. Frastornato, si era seduto sul bordo del letto, le aveva dato la schiena.

L’ascoltò piangere.

«Perché lo hai fatto?» piangeva come una miserabile, rannicchiata con il lenzuolo che la copriva solo in parte e nemmeno più la dignità di mascherarsi.

Il fiato gli era mancato, tutto era precipitato giù, nello stomaco, come un vuoto d’aria, si era ripiegato su se stesso con il volto affondato nelle mani, le dita affrancate ai capelli.

«Per un attimo mi sono illuso che così saresti stata mia»

 

E tu, tu perché me lo hai permesso?

Perché non mi hai fermato?

 

Non era vero che era più forte, Elena lo aveva lasciato fare, forse aveva sperato che si fermasse da solo e lui non ci era riuscito.

«Non piangere, Dami» si era avvicinata a lui, lo aveva abbracciato e quel corpo caldo e fragile aveva aderito alla sua schiena.

«Ti odio» lo aveva mormorato, era arrabbiato e disperato, ma non era comunque vero: non riusciva ad odiarla.

«Perdonami, Dami, scusami»

Lo aveva trascinato con sé, anche lei piangeva, sommessamente, si era aggrappata al suo corpo inerte, Demian sentiva di non potersi muovere più, che tutto era sbagliato e senza senso.

Lei non lo amava.

Non gli avrebbe permesso di fare quello che aveva fatto, se l’avesse amato. Si era fatta ferire perché si sentiva in colpa, non le era importato come sarebbe stato lui, dopo.

Ellie si era addormentata sul suo petto, le guance umide di pianto.

Demian era scivolato via dal suo corpo, piano, per non svegliarla. Aveva preso il suo libro, quella poesia di Neruda che era Elena, era sempre stata lei, per la delicatezza, la dolcezza che riusciva a ispirargli. La strappò piano, la carta era delicata, si stracciava come il suo cuore, con una facilità così disarmante che quasi avrebbe potuto riderne.

Se ne era andato da quella casa, ma la poesia, quella l’aveva lasciata sul cuscino, accanto a Ellie.

In quel foglio restava tutto ciò che aveva provato di buono per lei.

Tutto ciò che aveva desiderato da lei.

 

Perché tu possa ascoltarmi

 Quanto era stato sciocco, a crederci.

 

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Capitolo 22
*** Epilogo ***


Perché tu possa ascoltarmi

 

EPILOGO

 

 

 

 

La neve si scioglieva, inumidiva i prati, macchiava le grandi mani della statua di Don Bosco, protese verso i bambini nel centro del cortile.

Lo sguardo di Elena si perdeva oltre le vetrate della saletta ristoro, oltre le parole di Chiara che continuava a raccontarle, a spiegarle. Era una ragazza minuta e dalle guance morbide, Chiara, non era cambiata molto dagli anni in università, quando ancora erano compagne di corso. Lavorare all’Hospice però, l’aveva resa più pragmatica, meno spontanea e solare.

A volte, le aveva confidato che si intristiva, era difficile per lei non legarsi.

«Non credo le resti ancora molto, meno di un mese ormai. Ne abbiamo parlato con la sorella, ma non penso lo abbiano detto a suo figlio, è così giovane»

Elena ingurgitò il caffè con una smorfia.

Il caffè insapore delle macchinette le ricordava Demian.

«No, Dami ancora non lo sa. Non dirgli niente»

La sua amica tacque, si rigirò il bicchierino di plastica tra le dita corte e tozze. Le aveva spiegato quanto fosse legata emotivamente alla famiglia Lemaire e che Jenevieve era stata uno dei suoi primi casi medici quando ancora era una tirocinante, un paio di anni prima, per questo Chiara le raccontava tutto, anche se non avrebbe dovuto.

Per questo non si meravigliava che, almeno un paio di volte alla settimana, Elena si presentasse all’Hospice, per osservare quella donna diafana e sfatta da lontano, senza mai avvicinarsi per parlare.

Elena le era grata per tutta la sua discrezione e la sua disponibilità.

Dopo quella fatidica mattina, quando si era svegliata e Demian non era più accanto a lei, qualcosa si era irrimediabilmente rotto nel loro rapporto. Da lì, il crollo era stato lento e inesorabile, il terreno sotto i loro piedi era come la parete scoscesa e friabile di una montagna, sempre sul punto di franare, di perdere un pezzo.

Così erano stati loro.

Non si erano persi, non avrebbero potuto nemmeno volendo, ma tutta la confidenza e la dolcezza che li aveva uniti si era dispersa, scialacquata nell’odio e nell’insofferenza di Demian. Perciò, perfino chiedergli come stesse lui, come stesse Jenevieve, era un diritto che aveva perduto, e non le restava altra scelta che vegliarli da lontano.

«Che rapporto hai con il ragazzo?» osò domandarle Chiara, con incertezza.

Le era sfuggito un sorriso amaro, intriso dei suoi stessi dubbi.

 

Non lo so, che rapporto ho con lui.

Ma ciò che sono, lo devo a lui.

Ogni mia scelta sensata è nata da lui.

 

Era difficile spiegare che se alla fine aveva scelto di specializzarsi in oncologia, era stato per Demian, perché l’impotenza che aveva provato di fronte al suo dolore era stata il più grande fallimento della sua vita. Era difficile spiegare che Jenevieve, con il suo solo esistere, l’aveva messa con le spalle al muro, le aveva donato una consapevolezza che nella leggerezza dei suoi vent’anni non avrebbe mai potuto avere.

Stava valutando cosa risponderle, ma notò la figura di Demian, in lontananza nel corridoio, varcare le porte a vetri dell’ingresso, ed ogni buon proposito le morì in gola. Era meraviglioso, anche ora che i suoi sedici anni li portava come ne avesse vissuti trenta. Era bello di una bellezza bruciata e sbattuta alla James Dean, un poco consumata dagli eccessi ma sempre limpida, eterea come il suo lento incedere da mago, da creatura mitologica.

Elena esitò, si guardò le mani, come a farsi forza, per convincersi ad alzarsi, ad andare da lui.

Negli anni avevano dimenticato come parlare, come volersi bene, eppure Elena desiderava solo quello, avvicinarsi, sincerarsi che stesse bene, proprio ora che il momento peggiore incombeva su di lui ed era sempre tanto triste. Negli ultimi mesi però, la loro distanza si era fatta più grande e profonda, una gola invalicabile, e perfino quel poco che ancora era rimasto sembrava ai suoi occhi perduto in maniera tragica e disperata.

Negli ultimi due anni, una sola certezza l’aveva confortata: nel rancore, Demian le voleva ancora bene, la cercava, aveva bisogno di lei. Anche solo per scopare, con quella rabbia che non era più scemata, che si manifestava solo nel rapporto fisico, una collera aggressiva ed incurante della quale lei per prima si nutriva, come un vampiro. Perché in un mondo dorato che l’aveva viziata e coccolata, la sua rudezza non era mai davvero troppo, non era eccessiva, era solo forte, inebriante.

Un montante spietato, un colpo forte a tradimento che, nel dolore, la faceva sentire viva.

Per Demian non era mai stata di vetro, pronta a spezzarsi, per questo lo aveva amato, amava quel broncio naturale delle sue labbra gonfie mentre camminava assorto, raccolto in riflessioni che non l’avevano mai davvero inclusa.

 

Sei sempre stato una scarica di energia, afferrare il proibito. L’infinito raccolto dietro il velo della mia ipocrisia.

 

Per questo esitava, perché per quella botta di adrenalina, quel brivido intenso, era lui a doverne pagare le conseguenze. Glielo aveva letto negli occhi, alla fine di ogni rapporto consumato in fretta e senza cura, che Demian soffriva, si sentiva in colpa e si sentiva meschino.

Demian non avrebbe voluto vederla, da tempo cercava di recidere quel loro legame malsano, negli ultimi mesi con una rinnovata decisione che l’aveva spaventata, l’aveva resa debole.

Si era alzata senza accorgersene e l’aveva raggiunto in uno slancio quasi disperato.

 

Sono io che non voglio lasciarti andare, sono io che ti provoco, lo so.

Non posso farne a meno

 

«Dami, sei tu»

Demian si era fermato, a pochi metri dagli ascensori.

Si era voltato lentamente, meravigliato, quasi non credesse a se stesso.

Elena lo guardò negli occhi e rimase senza parole, sopraffatta dalla medesima sorpresa. Per la prima volta da chissà quanto tempo, non trovò instillato in quello sguardo sentimenti di odio e rancore, solo una genuina serenità, una pacatezza che scivolava nello sconforto nel trovarsela di fronte, in un appena percettibile nervosismo puerile.

 

È successo qualcosa, è evidente.

Qualcosa di bello.

Qualcosa di bello che non riguarda più me.

 

Il disagio del non sapere esattamente cosa dire la colse impreparata.

Il sesso era stato l’ultimo brandello di legame che li aveva uniti, avevano scopato per allontanare il peso di una mancanza, avevano sfogato in quei rapporti un dolore inesprimibile a parole, un male di cui, in realtà, erano loro stessi la causa, loro che si aggrappavano l’uno all’altro con tutte le forze per non perdersi.

Ora, anche quel desiderio si stava sbrindellando, stava diventando nulla, e questo la spaventava. Eppure, sotto le ceneri di quell’amore morboso, ritrovava il ragazzino inerme e indifeso, tenero come non le sembrava più nemmeno possibile ricordarlo.

«Ellie» aveva sospirato semplicemente, e le aveva sorriso con mestizia, carico di una nostalgia che la prese a tradimento.

 

Avevo dimenticato, quanto fossi tenero quando pronunciavi il mio nome così, in un sospiro, come fosse ovvio, scontato che fosse la mia, la mano che ti sfiorava.

Come dovessi essere io

 

Allungò emozionata una mano verso il suo volto, nel gesto di una carezza che prima era sempre stata scontata, ma che ora non lo era più, perché Dami non le aveva più permesso di concedersi certe dolcezze. Per questo le dita avevano tremato e con amarezza aveva abbassato il braccio.

«Stai bene» sussurrò.

Dami si era sciolto in un’espressione sdilinquita, lo spettro del ragazzino adorante, purificato dall’odio che li aveva inghiottiti e che, nonostante tutto, non era mai riuscito a cancellare l’affetto, lo aveva solo e sempre mascherato.

«Sto bene» aveva sussurrato.

La sua pelle non portava più le tracce dell’ultimo pestaggio che l’aveva portato ad essere ricoverato in ospedale, il suo pallore naturale rifletteva la luce come la più pura delle statue, senza alcuna ombra di sfregio. Quel pestaggio per cui, per la prima volta, non l’aveva chiamata.

Non aveva chiesto aiuto, non a lei, per non fare torto all’altra, perché ora c’era un’altra.

«L’ultima volta non mi hai chiamato. È stata la prima volta. Ho avuto paura… che non avessi più bisogno di me»                                                                      

«Le cose sono cambiate»

Non le aveva più parlato con quell’arrendevolezza, quella tenerezza impietosita.

«Lo immaginavo»

Dami le aveva dato un leggero buffetto sulla guancia, una sorta di carezza affettuosa e indulgente «Come avevi detto una volta? Che avrai sempre bisogno di me, giusto?»

Gli sorrise, anche se era triste «Sì, l’ho detto»

«Vale anche per me, Ellie. Lo sai che vale anche per me, anche quando ti odio»

Le tremò il labbro inferiore, ma lo morse, per contenere il dispiacere.

Era stato terribile per lei, quella chiamata mai avvenuta l’aveva messa davanti alla realtà: non era più il suo punto di riferimento. Guardò i capelli candidi che gli accarezzavano la fronte pallida, la linea pulita del suo viso, e pensò che, nonostante tutto, riusciva a trattarla a volte come fosse ancora la poesia di Neruda che le aveva dedicato, quel foglio che Elena teneva, piegato e sgualcito, dentro il portafoglio, per non dimenticare il proprio errore.

Per non dimenticare che oltre la violenza di quella mattina lontana, non lo aveva mai odiato e lui era sempre tornato da lei.

Per non dimenticare che l’aveva amata e che anche lei lo amava.

Solo, non abbastanza.

«Mi va bene, quando mi odi, basta che non sparisci come hai fatto in questi mesi… me lo avevi promesso»

Nel disagio, Demian l’aveva rifuggita, i suoi occhi erano corsi al corridoio, all’ascensore che lo divideva da sua madre. Ed Elena si era sentita ancora meschina, ancora piccola e immatura e ingrata.

«Se devi andare non farti problemi, Dami, mi basta vederti ogni tanto, almeno per poco…»

Sì sentiva tragicamente esposta, pensò che Demian l’avrebbe presa e schiacciata come un chicco d’uva tra pollice e indice, come faceva a volte quando lei gli mostrava il suo affetto, per ferirla, per pareggiare in qualche modo i conti.

Lo supplicò quasi disperatamente di non farlo.

 

Se deve essere l’ultima volta, permettici di essere quelli che siamo sempre stati prima.

Ti prego

 

«Cosa ci fai qui, Ellie?»

Abbozzò un sorriso mesto «Passo almeno un paio di volte alla settimana. L’infermiera che hai visto prima era una mia compagna di corso, lavora nel reparto di tua madre»

 

È il mio modo di starti vicino, anche quando ti sono lontana

È il mio modo di non perdere tutta la bellezza che rappresenti, che mi doni

 

Vederlo esitante le ricordava che era dolce in realtà, che fare il duro non era il suo mestiere, eppure Demian aveva sempre tentato di calcarsi addosso quella maschera di solidità e forza incrollabile.

Quanto era cambiato in quegli anni, come si era fatto fragile, di cristallo, e lei non lo aveva saputo vedere, non lo aveva aiutato, lo aveva spinto solo nel baratro. Persino la serenità che gli tingeva lo sguardo in quel momento era solo uno specchio per mascherare la debolezza che languiva nella sua anima.

Demian era un vetro incrinato che minacciava di sbriciolarsi, era una richiesta disperata a cui non aveva saputo prestare aiuto. Era un bambino che si era aggrappato a lei ogni volta che il mondo si era fatto troppo grande e troppo ostile. Ormai era una donna, aveva capito cosa voleva, non si sentiva più persa, ma di fronte a Dami, di fronte ai suoi occhi fatati di luna, Elena sentiva riaffiorare l’insicurezza dei suoi vent’anni, quell’istinto morboso di prendersi cura di lui al di là di tutto.

Si sentiva nulla, davanti all’affetto che li aveva uniti.

«Tu, adesso…» ma Dami non trovava le parole.

C’erano cose che non aveva mai saputo chiedere, cose che Elena aveva imparato a capire lo stesso.

Gli sorrise, smossa dalla familiare tenerezza per lui «Non vado via. Resto qui ancora un po’. Vuoi un passaggio per tornare a casa?»

Arrossì come un bambino, chinò piano il capo.

«Devo andare in ospedale, dopo» aveva detto, senza spiegare il perché, era quella verità omessa che lo imbarazzava.

Elena sapeva che andava da lei.

«Ti porto io»

«Non serve» borbottò imbronciato. Voleva fare il duro, risultava solo più tenero e morbido, così se stesso da farla ridere.

Perché quelli erano i “No” che adorava, che in realtà celavano un “Sì”.

«Ti aspetto qui»

Non aspettò una risposta, gli diede la schiena e tornò da Chiara, perché tanto lo sapeva, Demian stava annuendo.

 

 

Ogni volta che incontrava sua madre, Demian ne usciva un poco distrutto e Elena allora sentiva il cuore incrinarsi per il ragazzino che si portava dentro e che soffriva innocentemente la perdita di un genitore. Anche lei ritornava indietro, con lui, ritornava davanti alla camera d’ospedale di Jenevieve, ingenua e impreparata.

«Sto bene» aveva detto subito Dami, per fermarla sul nascere.

E lei aveva finto che fosse vero, non aveva insistito.

Sentirlo accanto a lei, in quella stessa macchina, le ricordava quando lo accompagnava a casa in quei mesi di tirocinio e gli bendava le ferite, una vita prima. La riportava a quel primo bacio rubato, all’errore di averlo ricambiato, di non essersi fermata.

La riportava a quando era l’oggetto della sua adorazione, non del suo disprezzo, non un semplice sfogo ma l’epicentro di un amore innocente.

«Lui come sta?»

Si morse le labbra, prima di rispondere.

«Sta bene. È da tanto che non mi chiedi di lui»

«Non mi è mai stato troppo simpatico» lo diceva con tranquillità, scrollando le spalle.

«E ora sì?»

Demian guardava lontano, i palazzi fuori dal finestrino, assorto, con le palpebre leggermente abbassate, le folte ciglia che mettevano in ombra le iridi chiare, le mostrava solo la nuca fragile e quel pallido riflesso nel finestrino.

«Ora lo capisco»

Aveva parcheggiato la macchina con una sola manovra, un po’ brusca, poi si era fermata, immobile per troppi istanti.

«Ti sei innamorato» constatò, e si sentì tremendamente triste.

«Dovrei esserne felice, ho sempre voluto questo per te, eppure non posso non sentirmi triste. È come vedere una parte di me che se ne va»

«Amore è una parola grande» era in imbarazzo, si sentiva in difetto.

«Eppure non ne trovo un’altra. Con quell’aria sognante hai guardato solo me, è un’espressione che conosco bene»

«Hai intenzione di provare ad allontanare Annie come hai fatto con ogni ragazza che mi si è avvicinata negli ultimi due anni?»

Elena sussultò, si sentì quasi tradita da quell’accusa.

«Ti sbagli» aveva sempre saputo che Demian l’aveva fraintesa, che da quell’unica volta in cui avevano fatto l’amore, era stato tutto distorto e traviato. Sapeva, che pensava lo avesse usato senza affetto, per egocentrismo, perché voleva troppo e pensava solo a se stessa.

Ma non era reale.

A modo suo, in modo malato forse, lo aveva amato tantissimo.

«Forse ho voluto proteggerti troppo, è vero, ma non le ho mai cacciate per possesso. L’ho fatto solo per vergogna, credo. Con la mia leggerezza infantile ti avevo fatto così male, ti avevo tolto la fiducia… non volevo che altre immeritevoli potessero avvicinarsi a te, scavare nuove crepe nella tua purezza»

La guardò confuso, gli occhi immensi erano sempre gli stessi, limpidi di un cielo invernale che incantava e raggelava, per l’immensità che le apriva davanti, senza confini.

I suoi occhi erano come la luna che ispirava i poeti, nello stesso modo le ispiravano la più nobile bellezza.

«Non sono mai stato puro»

Lo bloccò «Non sapevi guardarti. Ti ho rovinato, me ne sono sempre pentita. Sei stato la cosa più bella della mia vita, lo sai quanto vali per me, puoi fingere di non rendertene conto… ma lo sai. Lo sai che non avrei mai tradito Simone, mai con nessuno. Solo con te»

Tre anni di tradimenti, la sua vergogna più grande, l’unica a cui non riusciva a rinunciare, non le importava che lui capisse realmente la portata del suo affetto, le bastava che lo ricordasse, che si ricordasse che anche lui l’aveva amata.

Attraversarono il parcheggio, parlarono del più e del meno, di qualche sciocchezza.

«È stato triste, vederti circondato di un mondo di cui non faccio più parte, ma sono stata così felice, Dami, di sapere che stavi bene. Sembravi stare bene davvero»

Lui le aveva sorriso, arrendevole, soffice, così Elena gli aveva detto tutto, gli aveva detto la verità.

«Simone mi ha chiesto di sposarlo»

«Ah» era quasi inciampato nei suoi stessi piedi, per la sorpresa.

«Quando?» aveva recuperato il pacchetto di sigarette dalla tasca, se ne era messa una in bocca e l’altra gliel’aveva offerta. Si erano seduti, spalla contro spalla, con le volute di fumo a riempire lo spazio che li separava.

«Non è deciso»

«Hai detto di sì?» una domanda strana, che le strappò un sorriso: perché Dami restava ancora la persona che meglio la capiva, a volte.

«No. Ho detto “vediamo”»

Demian corrugò la fronte «Vediamo cosa?»

«Vediamo il momento in cui questo non ti ferirà»

Insieme alla boccata di fumo, Demian liberò il suo nome, un sussurro leggero e già disgregato nell’aria, un rimprovero che sapeva di supplica.

«Ellie»

Spense la sigaretta e si appoggiò a lui: con la testa abbandonata su quella spalla non più sottile, non più infantile, si sentì un poco a casa, un luogo famigliare e sicuro che le era mancato tragicamente.

«Dovremmo lasciarci andare» le disse, con una riluttanza troppo dolce per non commuoverla.

Annuì piano «Forse dovremmo»

Ma già inclinava la testa, quel poco perché potessero guardarsi negli occhi, perché potesse assorbire lo splendore del suo ragazzino, infinitamente vicino eppure destinato a perdersi lontano da lei.

«Tu lo sai, che per me sarai sempre tu. Lo sai, devi saperlo… la tua sola esistenza ha cambiato la mia, non devi dimenticarlo. Io non lo dimenticherò»

Sentiva il suo respiro sulle labbra, quegli occhi chiari che s’infrangevano nei suoi, l’opposto, sempre, dei suoi, fragili come un cristallo di neve in controluce.

Le sorrise, si chinò piano su di lei, le sfiorò le labbra in ultimo, familiare bacio intriso di tutti i forse che, non ci fosse stato Simone, sarebbero stati realtà. Si baciarono come un addio, un ultimo delicato bacio prima di separarsi.

Le sue labbra erano morbide e dolci come succo d’uva.

Demian sarebbe sempre stato il suo “forse” più grande e la sua motivazione più forte.

 

Spero davvero che un giorno potrai perdonarmi di non essere stata abbastanza adulta quando avrei dovuto.

Spero che un poco mi capirai, capirai quanto ti ho voluto bene, quanto mi sono odiata perché quel bene non bastava.

Avrei davvero voluto saperti ascoltare come avresti meritato.

E grazie.

Grazie di avermi aperto gli occhi, ragazzino.

Grazie, di avermi dato un senso.

Ti amerò sempre, per questo.

 

 

 

 

Angolo autrice

 

È così, per la prima volta, ho portato a compimento questa storia su EFP. In passato non ci ero riuscita, per scoramento, perché questa piattaforma è un po’ morta e se non ti crei dei circoletti non combini nulla. Ora però, la soddisfazione di aver messo un punto è più grande di tutto il resto, perciò voglio ringraziare le numerose persone che pur limitandosi a leggere, hanno dedicato tempo a questo racconto.

La storia di Demian ed Elena qui si conclude, altro che li riguarda è scritto altrove, nella storia originale, e non racconta più il loro amore ma, semplicemente, il loro legame.

Sì, le loro strade non si dividono, ma si allontanano, ci sono rapporti che sono destinati a durare nel tempo, a mutare la loro natura, semplicemente. E quando due persone si sono amate molto ma vanno oltre l’amore provato, penso che sia questo che succede, non smettono di amare, semplicemente non sentono più la necessità di essere riamati.

Questo è ciò che avviene in Demian, perlomeno.

La perdonerà solo nel momento in cui non sentirà più la necessità di ricevere da lei ciò che lei non può dargli.

Amo questi due moltissimo, spero vi abbiano tenuto buona compagnia e che l’epilogo non vi abbia delusi troppo. Volevo raccontare un amore che finiva, non il per sempre, e mi piace sperare di esserci riuscita un pochino.

Per quel che vale, mi sono divertita, non mi stancherò mai di scrivere di Dami.

E quindi… niente, scusate per averci messo tanto e grazie di tutto!

 

Ps: i Red House Painters con la loro Have you Forgotten avevano accompagnato la stesura di questo capitolo. Sì, sono retrò, lenti e tragici, ma ehi, sono i padri dello Slowcore, perciò li cito, che magari a qualcuno possono piacere!

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