Primavera dentro

di Dark Sider
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Primavera dentro

 

 

1.

 

Ethan fece tintinnare i pezzi di ghiaccio che galleggiavano nella sua birra Pale ale e sospirò. Seduto al bancone, annoiato, si domandò per quale diavolo di motivo si fosse lasciato trascinare in quel pub da Jason: lanciò un’occhiata laconica all’amico, impegnato a pavoneggiarsi con una bella bionda, e scosse la testa. «Tanto non te la dà» borbottò tra sé e sé, tornando a fissare il liquido chiaro della sua bevanda. La birra non gli piaceva, come testimoniava la pinta ancora piena: l’aveva ordinata solo per non sentirsi fuori posto, con il risultato che si sentiva fuori posto comunque.

«Ehi, Lurch, perché non ti schiodi un po’ da quello sgabello?» L’allegra voce di Jason, comparso all’improvviso al suo fianco, lo fece sussultare.

«Non sei spiritoso» brontolò Ethan, ritraendosi un poco.

«E dai, non fare lo scazzato» lo rimbeccò l’amico. «Quella la bevi?» domandò poi, indicando la birra intoccata. Con un grugnito, Ethan la spinse verso di lui.

«Hai appena pagato da bere ad una bionda strafiga» ridacchiò Jason, agguantando la pinta.

«Ho notato.»

«Questa non mi scappa» sentenziò l’amico, sparendo nello stesso modo in cui era arrivato. Senza più il suo boccale di birra a fargli da disimpegno, Ethan si trovò improvvisamente spaesato: si guardò intorno confuso, stordito dalla musica sparata a tutto volume e dalle luci cangianti del locale. Con un sospiro, tornò a fissare il bancone.

«Il tuo amico ti ha lasciato da solo?» Una voce sconosciuta, calda e pacata, gli fece sollevare la testa con stupore. Si voltò verso la fonte di quel suono e si trovò dinanzi un ragazzo che gli stava sorridendo: aveva i capelli di un improbabile color rame, ma le sopracciglia della stessa tinta suggerivano che fossero naturali; gli occhi azzurri rilucevano di gioviale allegria. Misteriosamente, riusciva ad essere bello ed attraente anche con i semplici jeans e la polo che indossava.

«Ha trovato un bel passatempo» rispose Ethan, con un mezzo sorriso.

«Anche i miei amici hanno trovato il loro bel passatempo e mi hanno lasciato qui» ridacchiò l’altro in risposta, appoggiandosi al bancone. Ethan si domandò se quello strano tipo fosse semplicemente annoiato ed avesse voglia di fare conversazione, oppure se avesse un fine differente; in ogni caso, non era molto propenso ad approfondire la questione: detestava parlare con gli sconosciuti.

Grugnendo, tornò a guardare il bancone, sperando che l’atteggiamento scontroso fosse sufficiente a troncare sul nascere quel tentativo di conversazione non richiesto.

«Aiden» sentì dire all’altro; voltandosi, lo trovò che gli stava tendendo la mano, con ancora stampato in faccia quel serafico sorriso di chi della vita ha visto solo il lato migliore.

Ethan non seppe se essere infastidito o divertito dalla tenacia mostrata dal proprio interlocutore; avrebbe voluto chiedergli cosa volesse da lui, esattamente, ma si limitò a stringergli la mano e a presentarsi a sua volta: si sentì meno a disagio di quanto avesse previsto, fatto che lo lasciò alquanto perplesso.

«Non mi sembra che ti stia divertendo molto» osservò Aiden: pareva tranquillo e sicuro di sé, per nulla intimorito dal muro di ghiaccio che l’altro si ostinava ad erigergli davanti.

Ethan grugnì di nuovo, ma Aiden non demorse: smise di parlare e si sedette accanto a lui, animato da chissà quale testarda volontà. «Sei sempre così loquace?» domandò, dopo qualche minuto di silenzio.

Ethan alzò gli occhi al cielo. «Si può sapere cosa vuoi?!» ringhiò, stranito.

Aiden sogghignò con una certa malizia e ad Ethan venne da chiedersi se le sue inclinazioni sessuali fossero così evidenti, oppure se l’altro fosse andato a tentoni ed avesse avuto semplicemente una fortuna sfacciata.

«Ti ho visto mortalmente annoiato e sono venuto in tuo soccorso» spiegò Aiden, senza abbandonare il suo ghigno. «E, dato che mi è venuta una certa fame, pensavo di farlo invitandoti ad andare a mangiare qualcosa» aggiunse, prima che l’interlocutore potesse dirgli che del suo aiuto non se ne faceva proprio un bel niente.

Ethan lo fissò stranito; c’erano così tante cose che avrebbe voluto dirgli, e così poche cortesi, ma alla fine optò per quella più neutra e sciocca: «Sono le due di notte, non ti sembra un po’ tardi per mangiare?»

«Non devi per forza prendere qualcosa: puoi anche solo accompagnarmi.»

«Ci conosciamo da nemmeno dieci minuti» osservò Ethan, tagliente. La parte di lui che odiava l’umanità desiderava ardentemente che l’altro se ne andasse e lo lasciasse in pace, ma una parte più recondita voleva che rimanesse.

«A volte sono più che sufficienti, non trovi?» domandò Aiden, inclinando leggermente la testa di lato, come un bambino curioso. No, Ethan non trovava affatto: non gli sembravano sufficienti nemmeno i quindici anni di amicizia con Jason, figurarsi dieci minuti; per questo, si ritrovò alquanto sorpreso quando sentì se stesso dire: «D’accordo, però facciamo una cosa veloce».

La cosa veloce consistette nel recarsi nella gelateria più vicina e nell’osservare Aiden ordinare una coppa grande di gelato con lo stupore che un biologo riserverebbe ad una scimmia che si spidocchia.

Mentre uscivano dalla gelateria, Ethan si rese conto di sentirsi bene. Non era qualcosa che gli capitava spesso; non c’era motivo per cui dovesse essere così: aveva una vita ordinaria, dove nulla andava a meraviglia, ma nemmeno male, eppure aveva costantemente addosso un velo di melanconico malcontento che non sapeva spiegarsi. Jason gli diceva sempre che fosse perché era nato stronzo, ed in fondo non si sentiva di potergli dare torto.

Si domandò come fosse possibile che il suo benessere dipendesse dalla presenza di una persona praticamente sconosciuta, ma non volle soffermarsi troppo a darsi una risposta.

«Che fai nella vita?» gli chiese Aiden, tra una cucchiaiata di gelato e l’altra. Avevano iniziato a camminare dalla parte esattamente opposta a dove avrebbero dovuto tornare, con consapevole e serena indifferenza. Ethan si voltò a guardarlo e rimase in silenzio per alcuni istanti: voleva davvero permettergli di conoscerlo?

«Studio legge. Sono al primo anno» rispose, prima ancora di aver deciso se volesse farglielo sapere: cominciava ad odiare il fatto che stesse perdendo il controllo su se stesso.

«Ci avrei scommesso» ridacchiò Aiden. «Io invece sono al quarto anno di medicina. Vorrei diventare chirurgo neurologo.»

Ethan sgranò gli occhi, non riuscendo a nascondere la sorpresa, rendendo forse troppo evidenti i suoi pensieri, perché l’altro chiese: «Sei sorpreso che uno come me voglia fare il medico? Sono troppo superficiale?» Lo disse con un sorriso, ma il divertimento che fino a quel momento aveva illuminato i suoi occhi sembrava scomparso.

«No, non penso assolutamente questo» s’affrettò a rispondere Ethan, a disagio; in realtà, era esattamente quello che pensava, ma non voleva oltraggiarlo. Il perché ci tenesse a non ferirlo era un mistero, come tutto quello che era accaduto da quando l’aveva conosciuto.

«Non mi sono offeso» precisò Aiden, ritrovando la giovialità. «Io sembro un idiota e a te pare che abbiano infilato una scopa su per il culo. Così va il mondo» aggiunse, allegramente, ed Ethan comprese che invece s’era offeso eccome, tuttavia preferì lasciar correre.

Rimasero in silenzio per un po’, poi si ritrovarono a parlare, con incredibile naturalezza, dei più svariati argomenti ed Ethan scoprì di avere in comune con Aiden molte più cose di quanto avrebbe mai immaginato, soprattutto la passione per il cinema e per i libri. Comprese che dietro la sua maschera di ostentata leggerezza, Aiden nascondeva in realtà un animo sensibile e profondo, che lo rendeva una persona piacevole ed interessante, cosa che Ethan non pensava praticamente di nessuno.

Quando tornarono al locale, erano oramai le quattro, anche se ad entrambi pareva trascorso molto meno tempo. «Devo tornare dal mio amico: siamo venuti con la sua macchina» sospirò Ethan, con una malcelata amarezza nella voce, in parte perché non voleva scontrarsi con l’idiozia di Jason dopo ore di piacevole conversazione, ed in parte perché avrebbe voluto passare ancora del tempo con Aiden, fatti che si potevano racchiudere in un unico grande concetto: quell’esuberante ragazzo dai capelli color rame gli piaceva, sia fuori che dentro.

«Posso riportarti a casa io» s’affrettò a dire Aiden.

Ethan lo guardò di sottecchi: non voleva che si facesse strane idee, o che pensasse che lui fosse disposto a concedersi in qualche modo, tuttavia l’idea di trascorrere con lui ancora qualche momento lo rendeva quasi euforico. Tentennante, rispose con la frase più diplomatica che gli venne in mente: «Non vorrei disturbare.»

«Nessun disturbo, davvero.»

Ethan si strinse nelle spalle e si rese conto di star di nuovo perdendo il controllo di se stesso: accettò l’offerta di Aiden ancor prima di aver ponderato se farlo o meno, e non si premurò neppure di cercare Jason; mandò un messaggio all’amico per avvisarlo, dopodiché seguì l’altro con trepidazione ed un certo imbarazzo, entrambe emozioni che solitamente non gli capitava di provare.

Quando aprì la portiera della macchina, lato passeggero, Ethan non si stupì affatto del caos che vi trovò dentro: non avrebbe mai detto che Aiden fosse una persona ordinata, ed infatti non lo era. Quattro tomi pericolosamente spessi e due oggetti - che avrebbe in seguito appreso dallo stesso Aiden chiamarsi fonendoscopio e sfigmomanometro – erano confusamente abbandonati sul sedile sul quale avrebbe dovuto accomodarsi.

«Scusa per il casino» borbottò Aiden, sporgendosi dal lato guidatore per afferrare quell’ammasso di oggetti e depositarlo con insolita grazia sui sedili posteriori, dove altri libri languivano da chissà quanto tempo.

“Ma come cazzo si fa ad essere così disordinati?!” pensò stizzosamente Ethan, lasciandosi cadere pesantemente al suo posto e chiudendo la portiera con particolare ferocia, a sottolineare il suo fastidio. Aiden lo guardò con un sopracciglio inarcato, tra il perplesso e il divertito, poi mise in moto senza dire nulla.

 I venti minuti seguenti, Ethan li passò a dare indicazioni stradali ad Aiden, il quale si limitò a guidare in silenzio: pareva immerso in chissà quale personale riflessione, che lo straniava da ciò che aveva intorno.

Quando giunsero a destinazione, Ethan esitò nello scendere: non sapeva bene se desiderasse semplicemente ringraziare l’altro ed andarsene, oppure se volesse dire qualcosa di diverso. Alla fine, decise di non proferire parola: aprì la portiera e fece per scendere, ma Aiden gli afferrò prontamente un braccio, fermandolo. Ethan si voltò di scatto, con un cipiglio rabbioso: aveva sospettato fin da subito che l’altro avesse dei secondi fini che lui non era assolutamente intenzionato ad esaudire, perciò s’era messo sulla difensiva, serrando la mascella e preparando una serie di improperi ed invettive.

Aiden aveva il suo solito sguardo placido e sornione, come se nulla del mondo potesse in qualche modo toccarlo e scalfire quella sua ridente serenità. Con ancora la mano gentilmente serrata intorno al braccio del recalcitrante passeggero, mormorò: «Mi daresti il tuo numero?» Lo domandò con imbarazzato garbo, lasciando Ethan di stucco: non l’aveva trattenuto perché voleva avere un rapporto con lui, non aveva neppure tentato di baciarlo; gli aveva solamente chiesto il suo numero. Il suo stramaledettissimo numero che in quel momento, con la testa completamente svuotata e la bocca spalancata in un moto di meraviglia, non riusciva nemmeno a ricordare.

Ancora stralunato e vergognandosi per averlo giudicato male, Ethan annuì lentamente, come un cacciatore che cautamente studia una preda alquanto imprevedibile; si sentiva sciocco e impotente, sprovvisto di qualunque arma di difesa anche solo lontanamente efficace.

Ethan Numero Uno non aveva la benché minima intenzione di dare i suoi contatti ad alcun chi, ma Ethan Numero Due, che a quanto pareva aveva preso a esistere e assumere il controllo da quando aveva visto Aiden, ne era particolarmente desideroso, per cui dettò senza esitazioni il recapito che la sua controparte rimbambita aveva misteriosamente dimenticato in preda allo stupore.

«Grazie per il passaggio» borbottò quindi, sbrigandosi poi a scendere dalla macchina cercando di non dare l’impressione di averne fretta, con pessimi risultati. Sentì Aiden sbuffare divertito, prima di richiudere lo sportello e percorrere i pochi metri che lo separavano dal portone di casa; benché desiderasse farlo, non si voltò a guardare indietro, ma si concentrò a cercare le chiavi che poi infilò malamente nella toppa con goffa precipitazione: si sentiva come uno di quegli sciocchi protagonisti da film horror che sta cercando di scappare dal mostro di turno ed improvvisamente diviene affetto da disprassia.

Quando si trovò tra le mura domestiche, si lasciò sfuggire un sospiro liberatorio e si rese conto che Ethan Numero Due era scomparso, così come la sensazione di quieto benessere che lo aveva pervaso fino a quel momento: per un istante ne fu tremendamente turbato, poi scosse la testa, obbligandosi a rinsavire. Si costrinse ad andare a letto benché non avesse affatto sonno e si sentisse euforico ed elettrizzato; prima di coricarsi, controllò il cellulare con la puerile speranza che Aiden gli avesse scritto qualcosa. Fu infastidito dal moto di delusione che lo invase quando vide che aveva solamente un messaggio da parte di Jason.

Sbuffando, si tirò le coperte fin sopra la testa e, contro ogni aspettativa, s’addormentò all’istante.

Fu il suo cellulare che squillava insistentemente a svegliarlo. Con uno sbuffo, Ethan allungò una mano sul comodino e a tentoni cercò la fonte di quel baccano. Ancora assonnato, rispose senza nemmeno controllare chi fosse a chiamarlo.

Quando sentì la voce di Aiden che gli augurava il buongiorno, dall’altra parte della cornetta, sgranò gli occhi dalla sorpresa; avvertì distintamente Ethan Numero Due fare di nuovo la sua comparsa trionfale, mentre un piacevole calore s’irradiava dal suo petto. «Ma che ore sono?» biascicò, mettendosi seduto.

«Le otto» rispose candidamente Aiden.

«Cosa?! Potrei ucciderti.»

Aiden rise di una risata bella e cristallina, senza ombre dentro, che fece immediatamente passare il malcontento ad Ethan con disarmante semplicità, poi lo informò di averlo chiamato solamente per chiedergli se avesse voglia di andare a vedere un film al cinema con lui, quella sera.

«Volentieri» s’affrettò a rispondere Ethan Numero Due.

“Ma volentieri cosa?! Tu non fai volentieri nemmeno quello che ti piace fare!” sbraitò Ethan Numero Uno, contrariato.

«Ti passo a prendere alle nove, allora» annunciò Aiden, chiudendo la chiamata prima che l’altro potesse anche solamente domandargli quali film fossero in proiezione o in quale cinema sarebbero andati.

Sbuffando, Ethan si lasciò ricadere pesantemente sul letto, pensando che Aiden fosse un ragazzo davvero bizzarro, quasi che vivesse in un universo tutto suo nel quale ciò che accadeva nel mondo reale non aveva alcuna rilevanza. Come il fatto che chiamare alle otto di mattina qualcuno che era andato a letto appena tre ore prima potesse essere alquanto sconveniente, ad esempio.

Il resto della giornata, Ethan lo passò ignorando i continui messaggi di Jason e benedicendo il fatto che l’assenza di corsi universitari di Venerdì gli permettesse di non doverlo incontrare: l’amico non faceva che domandargli con chi fosse tornato a casa la sera prima e continuava ad incitarlo a raccontargli tutto ciò che fosse successo, mentre lui non ne aveva la benché minima intenzione. Sentiva che ciò che era accaduto tra lui ed Aiden, per quanto ordinario, fosse qualcosa di profondamente intimo e non aveva voglia di condividerlo con nessuno, perché aveva l’impressione che così facendo avrebbe rotto la sacralità di quel legame che si stava creando contro ogni aspettativa e volontà.

Alle nove in punto, Aiden chiamò Ethan per  informalo che era arrivato e che lo stava aspettando in macchina, notizia che gli risvegliò un’eccitata impazienza di rivederlo.

Quando Ethan lo raggiunse, poté constatare che l’altro non s’era in alcun modo premurato di mettere in ordine la sua auto e che, anzi, quasi con fare beffeggiatorio, aveva ricollocato quegli aggeggi per prendere la pressione - di cui lui non conosceva il nome - sul sedile passeggero: per un attimo, pensò di scaraventarli a terra, ma si limitò diplomaticamente a lanciarli con veemenza sul cruscotto, per poi accomodarsi compito.

«Guarda che costano parecchio» gli fece notare Aiden, tra lo stupito ed il mortificato.

«Allora la prossima volta tienili lontani da dove devo sedermi io» ringhiò Ethan, allacciandosi rabbiosamente la cintura.

«Sembri la mia ex nei giorni in cui aveva il ciclo» osservò divertito Aiden, per poi mettere in moto e partire.

Ethan si voltò a guardarlo stranito: serpeggiò in lui il panico di aver frainteso ogni cosa e di essersi illuso. «La tua ex?» domandò e la sua voce risuonò stentorea.

«Già. È l’unica relazione seria che ho avuto, poi lei ha scelto un’università parecchio distante da qui, si è trasferita e ha iniziato ad allontanarsi da me. In quel periodo, io ho avuto problemi familiari, quindi non avevo proprio voglia di cercare di salvare il rapporto. Abbiamo chiuso di comune accordo» spiegò Aiden, con la sua solita tranquillità.

Ethan avrebbe potuto apprezzare che l’altro avesse deciso di confidargli un fatto così personale, ed invece domandò amareggiato: «Ma quindi a te interessano… Insomma, ti piacciono le donne?» Era consapevole che fosse una domanda alquanto fuori luogo, ma aveva constatato che non voleva essere amico di Aiden: per quanto assurdo potesse sembrargli, si era fatto delle aspettative parecchio differenti; Ethan Numero Due e la sensazione di benessere che lo accompagnava quando era in compagnia dell’altro parlavano chiaro sulla natura di quelle aspettative, e l’idea che fosse stata tutta una sua costruzione mentale gli faceva inspiegabilmente male.

Aiden rise di quella sua risata senza ombre dentro. «Diciamo che non faccio distinzioni tra uomini e donne» rispose allegramente. «Prendo il meglio dei due mondi» aggiunse, voltandosi per un istante a guardare Ethan, come a voler sottolineare che lui facesse parte di quel meglio.

Ethan non poté fare a meno di sospirare: si rilassò contro lo schienale del sedile e sentì che tutto ciò che, fino ad un istante prima, aveva rischiato di crollare era tornato al suo posto.

Quando giunsero al cinema più vicino, Aiden confessò di non avere la benché minima idea di quali film fossero in proiezione ed Ethan non se ne stupì: cominciava a capire che persona avesse davanti e iniziava a sospettare che a lui, maniaco del controllo e dell’ordine, potesse solo far bene avere intorno qualcuno che, invece, era esattamente l’opposto.

Scelsero una proiezione casuale tra quelle non ancora iniziate e non furono nemmeno troppo sfortunati: era un film d’azione, leggero ma non troppo noioso. Quando uscirono dalla sala, lo commentarono brevemente e l’ironia di Aiden su determinate scene ebbe il potere di far ridere Ethan.

Se Ethan Numero Uno trovava tutta quella situazione alquanto scomoda e melensa, non lo stava facendo sapere, oppure Ethan Numero Due lo stava ignorando, completamente assorbito da colui che aveva davanti, dalle sue parole e dal suo modo di porsi. Quando le persone parlavano d’amore, di quel sentimento che per lui era stato così lungamente incompreso, doveva essere quello a cui si riferivano: quel benessere dell’anima, quel suo rifiorire rigogliosa da un lungo torpore.

Quando Ethan si ritrovò davanti casa sua, nella macchina di Aiden, quasi ne rimase stupito, come se fosse giunto da un altro luogo, un altro universo dove il tempo scorreva diversamente ed i contorni della realtà si facevano vaghi e sfocati, fino a perdere consistenza.

“Forza, scendi dalla macchina e levati dalle palle” borbottò Ethan Numero Uno, che era assonnato e voleva solo rimettere piede in casa.

“Non fare lo stronzo” lo rimproverò Ethan Numero Due.

«Se domattina non avessi tirocinio, potremmo anche restare qui dentro tutta la notte, però credo che sia meglio che tu vada, o domani non riuscirò proprio a svegliarmi» intervenne dolcemente Aiden, riportando Ethan alla realtà: solo in quel momento si rese conto che era stato in silenzio per ben cinque minuti, assorto nella constatazione di quanto fosse stata perfetta quella serata, nella sua assoluta semplicità.

«Oh, scusami. Se me l’avessi detto prima, non avremmo fatto così tardi.»

«Nessun problema.» Ethan si domandò se per Aiden esistesse qualcosa che rappresentava un problema, ma prima che potesse darsi una risposta s’accorse che l’altro s’era accostato a lui; si voltò a guardarlo quasi sorpreso e questo gli posò un bacio sulle labbra: fu breve, quasi inconsistente, eppure ebbe il potere di fargli esplodere dentro un miscuglio di sensazioni positive così intenso da minacciare di soverchiarlo.

Aiden si ritrasse e gli sorrise; Ethan lo guardò interrogativo e desideroso di approfondire quel contatto.

«L’ho capito, sai, che sei uno che vuole i suoi spazi ed i suoi tempi, quindi te li lascio. Sono una persona molto paziente, quando vale la pena di aspettare» disse Aiden, e lo fece con la stessa tranquillità con cui si constata un fatto ovvio.

Ethan sentì il cuore saltare un battito e appurò che Numero Uno e Numero Due si trovassero per la prima volta d’accordo sul da farsi, quindi si avventò sulle labbra di Aiden con la stessa foga con cui un assetato si getterebbe in un lago.

Non era la prima volta che Ethan baciava qualcuno, eppure mai gli era capitato di sentirsi come in quel momento: fu come respirare davvero per la prima volta; si sentiva come se, fino a quell’istante, avesse guardato la vita da attraverso un velo che gli impediva una visione chiara, mentre ora quel velo era stato sollevato ed i suoi sensi s’erano acuiti, facendogli apparire tutto più nitido. Qualcosa, dentro di lui, andò in frantumi, qualcosa che lo divideva dal resto del mondo, che lo teneva prigioniero.

Si costrinse a staccarsi dalle labbra di Aiden solo perché non voleva fargli fare ulteriormente tardi; si accorse di star sorridendo mentre fissava i suoi occhi azzurri e brillanti d’emozione.

“Digli che vuoi rivederlo, proponigli di fare qualcosa. Non startene lì impalato: sembri un cretino” suggerì Ethan Numero Due.

“Ma non penso proprio: non dirai nulla, già ti sei reso abbastanza ridicolo così” l’aggredì Ethan Numero Uno.

«Che ne dici se domani sera andiamo a cena da qualche parte?» borbottò Ethan, mettendo a tacere la lotta nella sua testa e guardando altrove.

«Possiamo ordinare una pizza e stare da me: ho casa libera» rispose Aiden: se non fosse stato lui, Ethan avrebbe pensato che in quella frase fossero nascosti dei sottintesi, ma iniziava a conoscerlo abbastanza da poter asserire con una certa sicurezza che non fosse così.

 

La sera seguente, Ethan si presentò con due pizze all’indirizzo che Aiden gli aveva lasciato e suonò il campanello piuttosto titubante. L’altro venne ad aprire con aria piuttosto assonata, ma quando vide di chi si trattava sorrise e si riscosse, scostandosi per lasciarlo passare: Ethan s’era aspettato che l’avrebbe baciato, e s’accigliò quando non accadde, sentendo la propria trepidante aspettativa delusa.

Tra l’imbronciato e il confuso, si lasciò guidare nella sala da pranzo e si sorprese nel constatare, guardandosi attorno, quanto quella casa fosse molto poco da Aiden: tutto era minuziosamente ordinato ed al proprio posto, e stonava terribilmente con la personalità del ragazzo che… stava frequentando? Poteva dire così?

Inizialmente, i due mangiarono in silenzio: Ethan avrebbe voluto dire qualcosa, ma non sapeva da che parte cominciare; non era mai stato bravo ad intrattenere conversazioni. Alla fine, fu Aiden a rompere il silenzio, chiedendogli come fosse andata la giornata, una domanda banale, che Ethan si maledisse di non aver posto per primo.

«Il tuo tirocinio è andato bene, invece?» fece Ethan, dopo aver illustrato il suo poco interessante pomeriggio di studio. Gli occhi di Aiden s’animarono di una luce gioiosa che li risvegliò dal loro assonnato languore: annuendo, cominciò a raccontargli animatamente la sua mattinata; era evidente che amasse profondamente ciò che faceva, cosa che Ethan non poteva dire del percorso di studi che aveva intrapreso, scelto perché, sostanzialmente, Jason glielo aveva proposto e lui non aveva passioni particolari da seguire. Provò un tiepido benessere nell’ascoltare Aiden: si ritrovò a fargli molte domande su parecchi aspetti medici e fu in quell’occasione che apprese che gli oggetti che aveva lanciato sul cruscotto di malagrazia il giorno precedente si chiamavano fonendoscopio e sfigmomanometro.

Apprese anche molte altre cose quella sera, cose della vita di Aiden che quest’ultimo gli rivelò quasi distrattamente, mentre guardavano un film sul grande divano del salotto. Rannicchiato su se stesso come un bambino, con gli occhi azzurri socchiusi per la stanchezza, gli disse di avere casa libera perché suo zio, che era un poliziotto, aveva il turno di notte; gli disse anche che suo zio era il gemello di sua madre, suicidatasi qualche anno prima, a causa di una profonda depressione nella quale era caduta dopo la scomparsa del padre di Aiden, morto di malattia quando lui era talmente piccolo da non poterlo ricordare.

Ethan si sentì profondamente in colpa ed ingrato per essere scontento della sua vita, dinanzi a quella derelitta di Aiden che, pure, riusciva a essere ugualmente sereno o, per lo meno, ci provava.

Quando gli chiese dove trovasse tutta quella gioia nonostante il dolore del suo passato, Aiden gli sorrise e gli rispose: «Bisogna sempre trovare la forza di rinascere, un po’ come fa la natura in primavera; non diresti mai, guardando com’è spoglia d’inverno, che possa riuscire a rifiorire, eppure è così: una mattina ti svegli, ed i rami scheletrici degli alberi si sono ricoperti di foglie, i fiori sono sbocciati nei prati, dove non avresti mai pensato di vederli, e il mondo si riempie di nuovo di tutti i colori e i profumi che l'inverno aveva fatto sbiadire. È stato così anche per me: ho fatto tornare la primavera dove prima c’era l’inverno.»

Ethan reclinò la testa di lato e si rese conto, nell’ascoltare quelle parole, che anche a lui era accaduta la stessa cosa: la sua anima era sempre stata arida e spenta, come morta, incapace di sentire; da quando aveva visto Aiden, tuttavia, qualcosa in lui s’era come risvegliato da un profondo torpore: il mondo aveva acquistato sfumature che prima non possedeva e le cose avevano assunto una bellezza diversa, quasi misteriosa. Lui stesso era divenuto meno intrattabile e cominciava a non comprendere per quale motivo dovesse essere costantemente arrabbiato e scontento.

Non sapendo cosa rispondere e temendo di dire qualcosa di inappropriato, Ethan si limitò ad avvicinarsi ad Aiden e baciarlo, stupendosi di quanto l’avesse desiderato; percepì le labbra dell’altro contrarsi in un sorriso contro le sue, prima di percorrerle con la lingua in una carezza che gli fece correre un violento brivido di piacere lungo la schiena.

Un’ultima cosa apprese Ethan quella sera da Aiden, che non si ritrasse alle sue mute richieste di approfondire quel contatto fisico che si faceva sempre più concitato e quel desiderio che diveniva sempre più impellente: apprese che non era vero che odiava essere toccato, non da tutti almeno; apprese che le mani di Aiden sulla sua pelle accaldata erano come palpiti leggeri, che lo facevano tremare d’impazienza, e i suoi ansiti nelle orecchie il suono più sensuale che avesse mai udito; apprese che sentirlo dentro di sé era forse ciò che più s’avvicinava alla beatitudine: fece male, all’inizio, benché Aiden avesse cercato di essere il più attento e delicato possibile, ma poi il piacere aveva iniziato a subentrare lentamente, in un crescendo che gli avviluppò la mente e gli acuì i sensi.

Con le unghie artigliate alla schiena di Aiden, a gemere il suo piacere, Ethan apprese questo: che essere con lui era come avere la primavera dentro.

 

Nei mesi successivi, Ethan e Aiden consolidarono il loro rapporto in una relazione.

Ethan divenne una persona serena, nonostante la sua ombrosità di fondo rimanesse: Ethan Numero Uno ed Ethan Numero Due si erano fusi in un’unica personalità acida e irascibile, ma sorridente per la maggior parte del tempo. Aiden, che era la sua primavera, la sua rinascita personale, aveva imparato ad essere più ordinato, o quantomeno non aveva fatto trovare più nulla ad Ethan sul sedile passeggero; ad un certo punto, gli aveva fatto conoscere suo zio, Aaron: non gli aveva presentato Ethan come suo fidanzato, ma probabilmente l’aveva capito comunque.

In quel microcosmo che si era creato, in quella bolla di perfetto equilibrio, come un luogo assolutamente rigoglioso e idilliaco, Ethan trascorreva la sua esistenza nella perfetta convinzione che nulla, assolutamente nulla, sarebbe più potuto andare storto da quel momento in avanti. Con Aiden, con la sua risata senza ombre dentro e coi suoi occhi ridenti quando lo guardava, era certo che niente avrebbe potuto scalfire quel guscio di felicità che amorevolmente lo avvolgeva.

Fu per questo che venne completamente colto di sorpresa quel pomeriggio, mentre cercava di seguire una noiosissima lezione, chiedendosi vagamente per quale motivo Aiden non si facesse sentire da un po’, dopo averlo informato di star tornando a casa, finite le sue ore di tirocinio.

Venne completamente colto di sorpresa quando sentì, insistente, la vibrazione del suo cellulare e, afferratolo, vide che era Aiden a chiamarlo: si domandò per quale motivo lo stesse facendo, sapendo che si trovava all’università, e fu quello l’istante in cui il panico cominciò ad impadronirsi di lui.

Recandosi rapidamente fuori dall’aula, con il battito accelerato dall’ansia ed il passo affrettato dall’urgenza, cominciò ad ipotizzare i motivi per i quali Aiden lo stesse chiamando, ma non gliene vennero in mente altri se non che lui volesse lasciarlo.

Non l’aveva visto forse più stanco ed assente nell’ultimo periodo? Lui diceva che era colpa degli esami e delle ore di tirocinio, ma probabilmente, invece, non era affatto così.

Raggiunto il corridoio, rispose con un groppo in gola che minacciò di fargli morire le parole sulle labbra. Dall’altra parte della cornetta, la persona che parlò non era Aiden. In un certo senso, Ethan sapeva di conoscerla, ma non fu in grado di identificarla in un primo momento, poiché la voce era incrinata e distorta da una profonda sofferenza.

«Ethan?» chiese la voce familiare eppure irriconoscibile.

«Sì» fu tutto ciò che riuscì a dire Ethan, mentre il panico si tramutava in terrore, poiché il suo inconscio aveva già compreso ciò che alla ragione sfuggiva.

«Sono Aaron. Scusami, non sapevo come altro fartelo sapere: Aiden ha avuto un incidente.»

All’inizio, ad Ethan venne da ridere: doveva essere uno scherzo, e alquanto di pessimo gusto. A volte, Aiden esagerava davvero col suo senso dell’umorismo, ma arrivare a prendersi gioco di lui in quel modo era veramente troppo.

Gli venne da ridere, eppure non rise. Gli venne da pensare che fosse uno scherzo, eppure non ci credette davvero neppure per un istante. «Come…? Cosa…? Non capisco» balbettò, mentre si sentiva sprofondare in un baratro, come se il terreno fosse venuto a mancargli sotto i piedi e una voragine si fosse aperta ad inghiottirlo.

«Aiden ha avuto un incidente» ripeté Aaron, come se fosse stanco di dirlo. Come se lo nauseasse.

Ethan inspirò a fondo; s’accorse solo in quel momento di essersi appoggiato alla parete per sorreggersi. «Come sta?» domandò precipitosamente: incidente poteva significare qualsiasi cosa, anche una sciocchezza di poco conto. Anche nulla di grave. Era così. Doveva essere così.

«Lo stanno operando» rispose Aaron, inquietantemente vago.

Ethan portò lo sguardo spiritato dinanzi a sé, ad incontrare il paesaggio che si intravedeva al di là della finestra. Fuori, la primavera lussureggiava coi suoi colori sgargianti e vividi. Dentro di lui, invece, era appena calato il più gelido e fetido degli inverni.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


2.

 

 

Jason, che era andato a cercare Ethan dopo averlo visto uscire precipitosamente e non tornare, insistette per accompagnarlo in ospedale, giudicandolo assolutamente non in grado di mettersi alla guida e facendo probabilmente la prima azione saggia di tutta la sua vita.

Ethan non si oppose né protestò: dopo aver spiegato brevemente all’amico cos’era accaduto, quasi mosso da una forza esterna che parlava a posto suo, s’era chiuso in un rassegnato silenzio e se ne stava immobile e rigido, incapace di comprendere cosa gli stesse succedendo intorno, avvertendo solamente una sorda sofferenza all’altezza del petto, una pugnalata intensa e continua, che gli rendeva difficile persino respirare. Avrebbe voluto gridare, oppure piangere, ma non ci riusciva, come se fosse cristallizzato nel suo stesso dolore e non fosse in grado di fare nulla.

Non si rese conto di cosa accadde dal tragitto dall’università all’ospedale, né come effettivamente ci arrivò. La sua mente era come bloccata, incapace di pensare.

Giunto a destinazione, si limitò a scendere dalla macchina di Jason senza nemmeno ringraziarlo o chiudere lo sportello; raggiunse trasognato l’enorme struttura in muratura bianca che si stagliava dinanzi ai suoi occhi e seguì le indicazioni che lo zio di Aiden gli aveva fornito per raggiungerlo. Lo trovò seduto su una scomoda sedia di plastica blu, in un corridoio impregnato dell’odore di disinfettante e prodotti antisettici, dove alcune volte passavano infermieri e medici, altre persone dalle espressioni tirate e stanche.

«Cos’è successo?» domandò Ethan, avvicinandosi all’uomo che si teneva la testa tra le mani, come per paura che si staccasse e rotolasse via. Lo chiese senza inflessioni, con la voce atona e spenta, piena di stanchezza.

«Non è stata colpa di Aiden. Non è stata colpa sua, ma dell’altro: non gli ha dato la precedenza, capisci? Non ha nemmeno rallentato e gli è finito addosso» rispose Aaron, senza nemmeno guardarlo.

Al dolore, si aggiunse rabbia cieca: chiunque fosse l’altro in questione, Ethan voleva trovarlo e riempirlo di pugni fino a rompergli ogni osso che aveva in corpo, fino a farlo scomparire. Prese a camminare lungo il corridoio, con il respiro accelerato e i pugni serrati, in preda ad una profonda collera.

Continuò a camminare per molto tempo, finché non sentì le dita delle mani dolergli per la contrazione a cui erano costrette e le tempie pulsargli. Solo allora si riavvicinò allo zio di Aiden, che pareva cristallizzato in quella posa da disperato, immobile come morto; rimase a fissarlo per alcuni minuti e vide la sua figura appannarsi e sfocarsi a causa del velo di lacrime che era salito ad annebbiargli gli occhi stanchi.

«Li hai recuperati, fonendoscopio e sfigmomanometro? Lui ci tiene tanto: li hai presi dalla sua macchina?» mormorò Ethan, con la voce che iniziava a tremare e incrinarsi.

«Cosa?» chiese Aaron, sollevando finalmente la testa a fissare perplesso il proprio interlocutore, poi la comprensione giunse ad illuminarlo. «Ethan, la sua macchina era completamente distrutta: hanno dovuto estrarlo i vigili del fuoco. Non c’era nulla da recuperare, lì. Il suo cellulare, con cui ti ho chiamato, non si è rotto solo perché lo aveva in tasca.»

«Lui ci tiene tanto» ripeté Ethan, sentendo di essere sull’orlo delle lacrime, ma non riuscendo a piangere. S’immaginò Aiden che diceva: «Nessun problema», con quel suo sorriso di chi della vita ha visto solo il lato migliore, e lo stomaco ebbe una contrazione talmente dolorosa da minacciare di farlo vomitare.

«Ethan, siediti» gli intimò Aaron, forse perché l’aveva visto sbiancare.

«Ci rimarrà malissimo, quando saprà che li ha persi. Lui dirà: “Nessun problema”, ma non sarà vero. Non sarà vero proprio per niente.»

«Glieli ricomprerò, va bene? Glieli ricomprerò, ma adesso smettila!» gridò Aaron, mentre calde lacrime prendevano a rotolargli lungo il viso contratto dal dolore. «Per amor del cielo, siediti e smettila» esalò, riassumendo poi quella sua posizione da disperato, con la testa tra le mani ed il corpo scosso da singhiozzi silenziosi.

In quell’istante, Ethan comprese che forse non avrebbe mai più rivisto Aiden vivo e quella terribile prospettiva gli strappò via dall’anima qualsiasi capacità di provare emozioni, lasciandogli un denso vuoto. Si lasciò cadere sulla sedia accanto ad Aaron e non parlò più; avvertiva sempre quell’impellente esigenza di urlare e piangere, senza però riuscirci. Rimase a fissare la parete dinanzi a sé, nonostante quel bianco intenso gli facesse dolere la testa; rimase così, immobile, anche se le ore si susseguivano e lui sentiva il suo cellulare vibrare in continuazione: probabilmente sua madre lo stava chiamando per sapere che fine avesse fatto. Una parte di lui pensò che avrebbe dovuto rispondere, o avvertire qualcuno, ad un certo punto, ma un’altra parte, quella disperata e perduta, voleva solamente rimanere su quella sedia fino alla morte.

Fu Aaron a riscuoterlo, posandogli una mano sulla spalla. «Credo che qui ne avranno ancora per molto. È meglio che tu vada a casa e riposi» suggerì: aveva smesso di piangere da molto tempo e aveva riacquistato quella compostezza acquisita con anni di lavoro. «Ti avviserò quando ci saranno novità.»

Ethan scosse debolmente la testa ed artigliò i bordi della sedia, come a voler sottolineare che non aveva alcuna intenzione di muoversi da lì. Aaron abbandonò il suo blando tentativo di convincerlo ad andarsene e tornò a fissare il pavimento. In quel momento, a nessuno dei due interessava davvero qualcosa che non fossero le sorti di Aiden.

Il cellulare di Ethan vibrò di nuovo e lui lo afferrò più per esasperazione che per altro. Vide che Jason lo stava chiamando e rispose: in fondo glielo doveva.

«Tua madre mi ha chiamato per sapere dove fossi finito, era preoccupata. Sta venendo lì. Scusami, ma non sapevo davvero cosa inventarmi, quindi le ho detto la verità» borbottò Jason.

«Va bene» si limitò a rispondere Ethan. Non aveva mai detto ai suoi genitori di avere una relazione con Aiden. Non aveva mai detto loro nemmeno di essere gay. Il fatto che fossero venuti a sapere tutto avrebbe dovuto innervosirlo, ma scoprì che in realtà non gliene importava proprio nulla.

«Novità?» domandò Jason, titubante.

«No.» Ethan chiuse la chiamata, ed attese l’arrivo di sua madre.

La vide giungere qualche minuto dopo, incedendo lungo il corridoio in un miscuglio di preoccupazione, confusione e rabbia. Non gl’importò neppure di quello. Probabilmente s’era preparata un pomposo discorso da genitore modello che deve insegnare al figlio come stare al mondo, glielo lesse negli occhi colmi di animosità, ma tutto si spense nell’attimo in cui anche lei incrociò il suo sguardo.

«Ethan, andiamo a casa» fece sua madre, titubante, lasciando saettare lo sguardo dal figlio ad Aaron, che ancora fissava il pavimento. «Andiamo a casa» ripeté, addolcendo il tono. «È inutile rimanere qui. Vieni a riposarti e domani tornerai.»

Ethan apprezzò vagamente la diplomazia di sua madre; la sentì tirarlo in piedi di peso e si rese conto di non volersene andare, ma di non aver nemmeno voglia di rimanere e rischiare di vedere un medico uscire dalla sala operatoria per annunciare che, gli dispiaceva davvero tanto, ma Aiden non ce l’aveva fatta.

Si voltò a guardare Aaron e lui annuì, per poi fargli capire a gesti che l’avrebbe chiamato non appena avesse saputo qualcosa.

«Mi dispiace per l’accaduto» borbottò la donna, rivolta allo zio di Aiden, non sapendo bene cos’altro dire, poi cinse amorevolmente le spalle del figlio con un braccio e lo condusse fuori dall’ospedale.

Per tutto il viaggio di ritorno, nessuno dei due parlò; Ethan vedeva sua madre lanciargli, di tanto in tanto, occhiate cariche di disagio e apprensione. Più volte lei parve sul punto di dire qualcosa, ma poi vi rinunciava sempre.

«Domani ti accompagno a riprendere la tua macchina. Oggi non mi pare proprio il caso» si risolse a dire infine lei, quando furono in vista della loro casa: una frase come un’altra per riempire il vuoto di un silenzio prolungato. «È da tanto che ti frequenti con questa persona?» domandò poi, così precipitosamente da mangiarsi le parole.

«Si chiama Aiden e non ci frequentiamo. Noi stiamo insieme» ringhiò Ethan: ora che era lontano dall’ospedale, si sentiva ancora più irrequieto e rabbioso. Forse sua madre intuì il suo stato d’animo, perché non disse più nulla. 

Ethan si diresse immediatamente in camera sua. Non volle mangiare né parlare con nessuno. Lanciando continue occhiate apprensive al cellulare, camminava per la stanza per scaricare la tensione, oppure si distendeva sul letto nel tentativo di dormire, senza riuscirci. Ogni volta che chiudeva gli occhi, vedeva Aiden ricoperto di sangue che gli diceva: «Nessun problema», ed il fobico terrore di perderlo gli stringeva il cuore in una morsa dolorosa.

Ad un certo punto della notte, mentre le lancette dell’orologio scorrevano pigramente dalle due alle tre, si domandò quali potessero essere i danni riportati da una persona la cui estrazione dall’abitacolo dell’auto aveva richiesto l’intervento dei vigili del fuoco, ed inorridendo s’accorse di non riuscire a pensare ad altro che alla morte.

Non poteva immaginare una vita senza Aiden, senza la sua risata priva di ombre, senza la sua anima luminosa ad irradiare la sua esistenza fatta altrimenti di oscurità. Una vita senza di lui che gli raccontava degli interventi a cui assisteva, dell’ultimo libro che stava leggendo. Una vita senza di lui che era primavera, la rinascita di tutto ciò che di bello c’era al mondo.

Prese a pugni il cuscino e di nuovo si sentì sull’orlo delle lacrime e della disperazione, senza riuscire a rompere gli argini. Non poté fare altro che abbandonarsi all’impotenza e all’attesa, mentre la sofferenza gli dilaniava lentamente l’anima, divorandone i brandelli.

Aaron chiamò alle sette di mattina, sorprendendo Ethan ancora sveglio, con gli occhi arrossati puntati al soffitto e la mano destra a tormentare la sinistra. Il ragazzo si avventò sul cellulare al primo squillo, afferrandolo con mani tremanti e rispondendo con voce stentorea.

Aaron informò Ethan che l’operazione, secondo i medici, era andata bene e che Aiden si trovava in rianimazione, in coma farmacologico.

Fu una notizia bella e dolorosa  allo stesso tempo, che donò ad Ethan un momentaneo sollievo subito soffocato da una nuova ondata di disperata preoccupazione alle parole rianimazione e coma farmacologico. Si rese conto di non sapere ancora le esatte condizioni di Aiden, né il motivo per cui fosse stato operato o perché si trovasse in terapia intensiva. Decise che preferiva constatare di persona come stavano le cose.

«Posso vederlo?» si limitò a chiedere, chinando la testa.

«Solo in determinati orari e per poco tempo, ma sì.»

Ethan sospirò. Poco tempo era sufficiente. Sarebbe stato sufficiente anche un solo secondo.

 

Ethan si presentò in rianimazione al primo determinato orario disponibile. S’irritò per tutte le procedure alle quali fu costretto a sottoporsi: lavarsi le mani ed indossare camice, cuffia chirurgica e mascherina, come se dovesse eseguire un’operazione. Sentiva di star perdendo tempo, ma fece tutto il necessario per il bene di Aiden.

Quando lo vide, il suo cuore saltò un battito: sentì a malapena l’infermiera che gli diceva qualcosa relativo a traumi cranici, arti amputati e la necessità di non trattenersi troppo. L’immagine di Aiden, disteso sul letto come addormentato, attaccato ad innumerevoli fili e macchinari, catturò completamente la sua attenzione; quella era una scena che gli era capitato di vedere solamente nei film, e gli era difficile metabolizzare che ciò che stava vedendo era la persona che amava e non il fotogramma di una pellicola.

Si avvicinò lentamente, senza riuscire a staccare gli occhi da Aiden nonostante ciò che vedesse lo raccapricciasse e lo facesse star male. Lo sguardo guizzava senza posa dalla testa fasciata, alla macchina che monitorava i parametri, al braccio destro che non c’era più. Quell’ultima visione gli strappò un singulto strozzato e gli occhi s’inumidirono. La cosa peggiore, tuttavia, non era il moncherino con cui terminava la spalla; la cosa peggiore erano la sonda e il drenaggio - era abbastanza sicuro che si trattasse di un drenaggio, Aiden gliene aveva parlato, una volta - che uscivano da qualche parte della sua testa. Sì, quella fu la cosa peggiore, senza alcun dubbio.

«Ciao» mormorò Ethan, accostandosi al letto con il desiderio di toccare Aiden, di assicurarsi che fosse vivo, ma con il terrore di farlo. Rimase a guardarlo per un po’, lo contemplò mentre dormiva di quel suo profondo sonno indotto, e si rese conto di quanto gli mancasse. Aiden non era davvero lì: quello era solamente il suo corpo, ma lui si trovava altrove, in un posto che Ethan non poteva raggiungere, e la sua assenza era pesante come piombo.

Aiden non c’era e gli mancava come l’aria, il cuore o qualcosa di similmente essenziale per la vita.

«Lo sai che io non sono mai stato bravo a fare conversazione. Di solito sei tu quello che inizia a parlare» cominciò Ethan. «Da quando è successo questo casino mi sembra tutto così surreale. Continuo a ripetermi che tu non puoi essere davvero qui, che sei dalla parte sbagliata della stanza, e non riesco a pensare a nient’altro.»

S’interruppe e percepì una lacrima rotolargli pigramente lungo la guancia. Una sola, dolorosa lacrima.

«Il fonendoscopio e lo sfigmomanometro sono andati persi, però non devi preoccuparti, perché tuo zio ha detto che te li ricomprerà quando uscirai di qui. Perché tu uscirai di qui, non è vero?»

Un’altra lacrima seguì la prima. E poi un’altra e un’altra ancora.

«Non so dove sei, Aiden. Non so davvero dove sei finito, né come raggiungerti, e questo mi fa incazzare. Mi fa tornare la persona che ero quando mi hai conosciuto. Ti ricordi quando sei venuto a parlarmi quella sera? Ti rispondevo a grugniti e ringhi, come una specie di bestia. Ecco, è esattamente così che mi sento in questo momento: sono di malumore, triste e nervoso. E sai perché? Perché tu sei sparito, te ne sei andato chissà dove e mi hai lasciato qui. Mi manchi così tanto che non riesco quasi a respirare, quindi devi tornare indietro, perché senza di te fa tutto schifo. Io faccio schifo.»

Le ultime parole uscirono frammentate e singhiozzate, travolte dalle lacrime che avevano iniziato a scendere copiose, alimentate dalla sofferenza che, infine, era traboccata all’esterno, come un bicchiere troppo colmo che, silenziosamente, lascia fuoriuscire il suo contenuto.

Un’infermiera, forse la stessa che l’aveva condotto lì, venne ad informarlo che il suo tempo era scaduto. Ethan si asciugò gli occhi e, prima di andarsene, sussurrò ad Aiden: «Cerca di rimetterti presto, oppure dovrai passare il resto della tua vita a farti perdonare per avermi fatto piangere.» Sorrise lievemente, ma il suo non era un sorriso senza ombre dentro, e gli riempì l’anima di amara tristezza.  

 

Aiden non si rimise presto. Lo tennero sedato per ancora tre settimane, prima di decidere che le sue condizioni fossero sufficientemente buone da poterlo svegliare.

In tutto quel tempo, la vita di Ethan trascorse in una densa sospensione fatta di sofferenza e apprensione. Usciva di casa solamente per andare a far visita ad Aiden: per il resto, se ne rimaneva chiuso in camera per la maggior parte del tempo, rifiutando di parlare più del necessario con chiunque. I suoi genitori, forse mossi da preoccupazione, forse da comprensione, o da entrambe, iniziarono a informarsi giornalmente sulle condizioni di Aiden e cercavano di rassicurare Ethan con parole che per lui erano vuote e prive di significato. Anche Jason aveva cercato di fare il possibile per riportarlo ad una parvenza di normalità, ma si era scontrato solamente con un muro di apatia e tristezza impossibile da valicare.

Ethan ebbe anche modo di apprendere le reali condizioni di Aiden, anche se non aveva mai voluto chiederle esplicitamente, come se questo potesse proteggerlo dalla realtà: oltre all’evidente amputazione del braccio destro e a svariate ecchimosi e contusioni, il grave trauma cranico subito era sicuramente l’aspetto più preoccupante di tutto il quadro clinico.

Ethan si chiese spesso come sarebbe stato Aiden una volta sveglio, se si sarebbe mai ripreso del tutto, o se non sarebbe più stato lo stesso; al terrore di perderlo si sostituì gradualmente la paura di non essere in grado di gestire tutto ciò che sarebbe seguito.

Aiden gli mancava terribilmente, la sua vita senza di lui era un vuoto nulla fatto di negatività e tristezza, un lungo inverno pieno di gelo e morte; voleva solamente che si svegliasse e stesse bene. Tuttavia, temeva di trovarsi davanti uno sconosciuto, qualcuno che non era più la persona che amava.

Per questo, quando Aaron lo informò che Aiden si era svegliato, una settimana dopo la decisione dei medici di sospendere il coma farmacologico, Ethan si precipitò in ospedale con trepidante gioia ed impazienza, ma anche con un groppo in gola dettato dall’inconsapevolezza, dall’ignoranza su ciò che si sarebbe ritrovato davanti.

Aiden era stato traferito in reparto, la maggior parte dei tubi e dei fili che lo aiutavano a rimanere in vita era scomparsa, così come la sonda e il drenaggio. Ethan si sentì sollevato nel vederlo più vicino a qualcuno in via di guarigione, piuttosto che a un moribondo, e sorrise, avvicinandosi al letto.

«Ciao» mormorò, esattamente come quattro settimane prima, settimane che avevano avuto la consistenza degli anni e il sapore della tragedia.

Aiden ruotò gli occhi verso di lui: erano vitrei e lucidi, appannati dall’intorpidimento dovuto alla morfina e al mese di sonno indotto; per un attimo, quello sguardo affaticato rimase vacuo, come incapace di mettere a fuoco la realtà che stava cercando di vedere, poi si fissò su Ethan, e un lieve barlume di consapevolezza, sottile e distante, s’accese.

Fu allora che Ethan avvertì il macigno che aveva gravato sulla sua anima sollevarsi e scomparire, donandogli una sensazione di leggerezza che non provava da molto tempo. Fu come aver ricominciato a respirare davvero solo in quel momento. Per un attimo, ebbe l’istintivo impeto di abbracciarlo e stringerlo a sé, di baciarlo fino ad intorpidirsi le labbra, ma poi si trattenne, limitandosi a posargli una carezza lieve sulla guancia pallida e scarna.

«Vedrai che adesso andrà tutto bene» disse, continuando a far scorrere le dita sul viso di Aiden: probabilmente lo stava dicendo più a se stesso che all’altro.

«Quando ti sarai rimesso, i miei genitori vogliono conoscerti» proseguì, fissando lo sguardo sull’azzurro di quegli occhi che lo guardavano confusi e quasi inconsapevoli. «Hanno detto che vogliono complimentarsi con te per il coraggio nel sopportarmi.»

Aiden non disse nulla: i medici avevano avvertito che non ne sarebbe ancora stato in grado, eppure Ethan non poté comunque fare a meno di provare un profondo malessere. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter sentire di nuovo la sua voce. Vedere la sua totale mancanza di reazioni, inoltre, lo lasciava spaesato ed impaurito: solo allora si rese realmente conto di quanto essenziale quella persona fosse per la sua esistenza. Probabilmente, inconsciamente, l’aveva sempre saputo, sin dal primo istante in cui s’era girato a guardarlo; sin da quella sera al pub aveva compreso che loro due erano sempre stati destinati ad incontrarsi, per completarsi nell’incastro perfetto che solo due opposti riescono a creare. L’aveva capito subito e sempre l’aveva saputo, ma solo in quel momento l’aveva davvero realizzato.

«Ne usciremo» asserì Ethan, esibendo quello che, con grande sforzo, cercò di far somigliare ad un sorriso; dopodiché, quasi con reverenziale terrore, posò un lieve bacio sulle labbra secche e screpolate di Aiden: questo non ebbe alcuna reazione, ma in quel momento fu un dettaglio di scarsa rilevanza. «Faremo tornare la primavera nel nostro inverno.»

 

Dagli esami emerse che Aiden aveva riportato danni piuttosto seri e, probabilmente, permanenti: era previsto un miglioramento, col tempo e la riabilitazione, ma non la guarigione completa; per tutta la vita, avrebbe avuto problemi di memoria e alcune difficoltà nel parlare. Per contro, le capacità motorie non parevano intaccate.

Ethan impiegò molto per metabolizzare la notizia e numerose domande su ciò che sarebbe accaduto di lì in avanti iniziarono ad affollare la sua mente, ma nemmeno per un istante pensò di abbandonare la persona che amava. Vedere l’altro migliorare di giorno in giorno contribuì a risollevargli l’umore e a fargli riprendere quella quotidianità che fino a quel momento aveva sospeso in un limbo.

Ad Aiden occorse parecchio tempo per ricominciare a parlare: inizialmente, Ethan non riusciva a capire cosa gli dicesse, perché le parole erano un miscuglio confuso e stentato di versi incomprensibili. Col tempo, quel farfugliare indistinto iniziò a prendere la consistenza di frasi di senso più o meno compiuto: più i giorni passavano, più Ethan si rendeva conto di avere sempre meno difficoltà a comunicare con Aiden e di riuscire a comprendere cosa questo volesse dirgli senza troppo sforzo, nonostante avesse la tendenza a strascicare alcune parole in un biascichio indistinto e spesso dovesse soffermarsi a pensare al concetto da esprimere o al vocabolo da pronunciare.

Quando Aiden iniziò a rendersi conto delle sue condizioni,  cominciò a divenire irascibile e di malumore. Ethan non ricordava di aver mai visto Aiden arrabbiato, mai nemmeno una volta, ma poteva comprendere per quale motivo ora lo fosse. Anche lui si sarebbe innervosito al pensiero che la sua vita fosse stata mandata in frantumi da uno stronzo che non gli aveva dato la precedenza. Non poteva negare di sentirsi ferito ogni qualvolta Aiden aveva degli ingiustificati scatti d’ira e gli dava contro, ma continuava a ripetersi che i problemi di gestione dell’umore facevano parte delle conseguenze del trauma cranico e che sarebbero passati.

Una settimana prima delle dimissioni di Aiden, Ethan trovò quest’ultimo più incupito del solito, quando entrò nella sua stanza d’ospedale, ormai così familiare, con un libro in mano.

Lo salutò con un bacio, ignorando la sua espressione imbronciata. «Ti ho portato questo, così puoi esercitarti a leggere, come ha detto la logopedista» gli spiegò, posando il libro sul comodino. Aiden grugnì in risposta, lo sguardo basso e corrucciato.

«Come ti senti?» domandò Ethan, stoico.

«Mi fa male tutto» borbottò Aiden: probabilmente, non era proprio così, ma preferiva condensare i concetti in frasi brevi, per evitare di incespicare nelle sue stesse parole o pensieri.

«Vuoi che chiami qualcuno?»

Aiden scosse rabbiosamente la testa.

«D’accordo. Allora dimmi almeno perché sei così arrabbiato.»

Aiden rimase in silenzio per alcuni minuti: forse stava cercando di ricordare cosa dire, oppure si stava sforzando di mettere insieme le parole per formare il concetto che voleva esprimere. «Io e te stiamo insieme, giusto?» domandò, poi: a volte ancora gli capitava di dimenticarsene. Ethan annuì. «Allora dovremmo lasciarci» asserì o, per lo meno, fu quello che Ethan interpretò, perché l’ultima parola uscì come un groviglio strascicato di vocali.

«Lasciarci?» domandò comunque, per chiedere conferma, perché non gli pareva possibile d’aver capito bene.

«Lasciarci» ripeté Aiden, lentamente ed annuendo, continuando a non guardare in faccia il proprio interlocutore.

«Ma cosa stai dicendo?!» balbettò Ethan, mentre un denso panico iniziava a calare su di lui come la ghigliottina sul collo di un condannato a morte.

Aiden si voltò finalmente a guardarlo, gli occhi azzurri accesi di uno strano miscuglio di sofferenza e fermezza. «Tu sei giovane» cominciò a dire, imponendosi di parlare lentamente nonostante il fervore che lo animava. «Tu non sai cosa significa tutto questo» aggiunse, indicandosi con l’unica mano che ancora possedeva. Fece poi una pausa, per riordinare le idee, ed Ethan rimase in silenzio, in attesa: aveva iniziato a tremare per la tensione e gli costò un’enorme fatica rimanere fermo, senza dire o fare nulla.

«La mia vita è rovinata: avrei voluto diventare un medico, e questo non potrà accadere. Ci sono molte altre cose che avrei voluto fare, e che invece non potrò realizzare. Una di queste è renderti felice. Non puoi essere felice se stai con un… uno…» Aiden s’interruppe, in cerca di quella parola così difficile che proprio non riusciva a ricordare; batté un pugno sul letto per la frustrazione. «Non voglio rovinare anche la tua vita» concluse, infine, rassegnato.

Ethan sbarrò gli occhi, basito; una parte di lui, un residuo di Ethan Numero Uno, sapeva che Aiden aveva ragione: se fosse rimasto accanto a lui, non avrebbe mai avuto una vita normale. Mai più. Eppure, la persona che era diventato, la persona che Aiden l’aveva fatto diventare, sapeva che non avrebbe mai potuto dire: «Va bene, ognuno per la sua strada», andarsene da quella stanza e riprendere la sua esistenza come se nulla fosse accaduto. Nemmeno in quel caso avrebbe avuto una vita normale. Né tantomeno felice.

Guardò Aiden, coi suoi occhi azzurri ed i capelli color rame che stavano cominciando a ricrescere; guardò quel corpo gracile ed indebolito, senza più un braccio; guardò quella persona a cui capitava di scordare delle cose, più o meno importanti, ma che gli ripeteva sempre: «Non mi sono mai dimenticato che sei Ethan e che ti amo»; guardò quel ragazzo che, quasi un anno prima, si era seduto accanto a lui, in un pub, senza lasciarsi intimorire dalla sua scontrosità e dagli ostacoli che gli aveva posto davanti.

Se Aiden non l’avesse capito subito, che loro erano fatti per stare insieme, se non avesse insistito con tanta caparbietà, la sua vita sarebbe rimasta fredda e buia, priva di senso, senza la forza di risplendere, di spaccare la sua scorza di rabbia e solitudine e rifiorire, come un germoglio che spunta d’improvviso dove un istante prima non v’era che arida desolazione.

«Hai ragione» cominciò a dire Ethan, fattosi improvvisamente calmo. «Io non so cosa significa tutto questo: sei tu l’esperto di medicina, io posso solo citarti a memoria la Costituzione americana, e nemmeno tutta. Hai ragione anche sul fatto che sono giovane: ho appena vent’anni e della vita devo capire ancora molto. Però una cosa la so bene: so cosa significa quando dico che ti amo, e per questo il mio posto è esattamente dove mi trovo in questo istante.»

Aiden lo fissò in silenzio, con uno sguardo che non sapeva bene che espressione assumere.

«Mi hai insegnato due cose molto importanti» proseguì Ethan. «La prima è che a volte dieci minuti sono più che sufficienti. Credo che a me ne siano bastati molti meno, anche se non lo avevo capito: mi è stato sufficiente l’istante in cui ti ho visto per la prima volta per intuire che eri tu la persona che volevo accanto per tutta la mia vita. La seconda è che bisogna sempre trovare la forza di rinascere, come fa la natura a primavera; adesso ti sembra tutto terribile, come un tunnel senza via d’uscita, ma non è così: troveremo il modo di convivere con quello che ti è successo, ed allora sarà tutto automatico e semplice. Non ho passato questo periodo qui solo per andarmene perché ogni tanto ti dimentichi qualcosa o perché dici “osso” al posto di “posso”. Sei ancora la persona che amo, e questo è tutto ciò che riesco a vedere, perciò smettila di dire stronzate che mi fanno incazzare e di piangerti addosso. Io resto qui, con te. Fine della storia.»

Aiden boccheggiò: era chiaramente contrariato, ma non riusciva a dire nulla. Scosse la testa, come a voler sottolineare che Ethan non sapesse ciò che stava dicendo, ed invece Ethan lo sapeva fin troppo bene. Si chinò su Aiden e lo baciò quasi rabbiosamente, poi si sedette accanto a lui e gli schiaffò in grembo il libro che gli aveva portato.

«Adesso leggi, imbecille» ringhiò, assumendo un cipiglio severo. Aiden lo fissò per un istante, poi scoppiò a ridere di quella sua risata senza ombre dentro, che per molto tempo era scomparsa. Rise ed illuminò la stanza con la sua gioia radiosa e la sua personalità splendente.

«Stare con te è come avere la primavera dentro» gli sussurrò Ethan, dando voce ad un pensiero che aveva formulato molto tempo prima, una sera in cui la persona che amava gli aveva insegnato molte cose.

«Come avere la primavera dentro» ripeté Aiden, con un sorriso che esprimeva tutto il sollievo che provava nell’aver avuto conferma che Ethan aveva deciso di rimanere al suo fianco nonostante le difficoltà. Lo strinse a sé e lo baciò e fu come rinascere.

Come avere la primavera dentro.

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