Odi et amo - i resti dell'infinito -

di Adele Emmeti
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'abbraccio ***
Capitolo 2: *** "Tutto ebbe inizio quando..." ***
Capitolo 3: *** “Mi spiace, Capitano” ***
Capitolo 4: *** “Il primo incontro” ***
Capitolo 5: *** "Una visita inaspettata" ***
Capitolo 6: *** "Facciamo un patto" ***



Capitolo 1
*** L'abbraccio ***


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Quando i demoni si impossessarono del mondo, riducendolo ad un macabro teatrino di teste penzolanti e ruscelli di plasma fetido, Carey era ancora troppo piccola per decidere. Aveva soltanto cinque anni, infatti, e giocava ancora con due bambola di pezza, alle quali, sedute intorno al tavolino azzurro, serviva il tè in una vecchia caraffa di vino del padre. E aveva ancora i capelli tagliati a caschetto, pettinati alla buona, di quel color castagna, che ogni tanto imbrattava con la terra o le tempere, regalatele dalla madre, prima che morisse. Quando il sole iniziava a calare, dipanando la luce color ambra tra le fessure del paese, e riflettendosi nei vetri sporchi della porta della veranda, Carey si accasciava stanca sul tappeto, nel cortile ricavato tra le lamiere dietro casa, e aspettava che qualcuno le dedicasse un'attenzione spicciola, anche fugace. Sperava che il padre, di ritorno dal porto, la prendesse in spalla per portarla a letto. E quando al padre chiedevano dove stesse Carey, quando se ne andava a sgobbare tra i rimorchi, rispondeva: «C'è una vecchia che pago alla giornata», mentendo.

Quando i demoni si impossessarono del mondo, Carey aveva ancora qualche dentino da latte. Perse l'ultimo al sesto compleanno, quando il padre le tirò una sberla perché l'aveva svegliato, mentre russava sull'amaca nel giardino fittizio. Se ne tornò dentro con due grosse lacrime, agli angoli degli occhi e, guardandosi il dentino perso, se ne andò accanto al suo letto, tra un televisore vecchio e del ciarpame sudicio, per riporlo in una scatola di latta.

Il giorno in cui i demoni si impossessarono del mondo, il padre di Carey era nascosto, tremante, nell'angolo della cucina, sotto il tavolo di plastica, e faceva segno alla piccola di andarsene, perché quel posto era stato già preso. Carey, aveva allungato le manine verso di lui e con gli occhi pieni di terrore aveva elemosinato un briciolo di protezione.

«Lì! Vai a metterti lì, nel mobile, sparisci!»

Allora ritrasse le piccole braccia, e si diresse verso la credenza annichilita. In quel preciso istante, la porta di casa venne schiodata e sbattuta dall'altro lato della stanza, e dall'esterno entrano tre alti individui, che puzzavano di vecchio e nicotina. Erano pallidi in viso, asciutti e ben vestiti. Indossavano scarpe lucide e nere, pantaloni di stoffa scura, gessata e cappotti di pelle umana - a quanto diceva la gente-.

Inizialmente restarono disgustati dal lerciume e dal disordine convulso della bettola: un divano sventrato, un tappeto di lattine e di scarti di cibo, un frigo strisciato di verde e marrone, ammuffito negli angoli, una serie di zampe di animali cacciati illegalmente e imbalsamati, tutti in fila su un ripiano di legno inchiodato male. Uno di loro sputò a terra, l'altro fece cenno di andare ma il terzo li fermò. Aveva sentito l'odore di una paura, tanto denso quanto patetico. Fece allora tre rapidi passi e con un dito scaraventò il tavolo di plastica nel fondo della stanza. Il padre di Carey aveva sporcato di urina la moquette scollata, e piangeva tenendosi le mani sulla testa.

«Puzza di piscio.» Disse quello con i capelli chiari, e lo colpì con la punta della scarpa.

«Prego, è tutto vostro.» Aggiunse il secondo con i capelli scuri, legati dietro la nuca.

«No, dobbiamo spartirlo.» Rispose il terzo, con due occhi rossi e placidi.

«Io non lo tocco. Fate voi». Quello con la coda fece per voltarsi.

«Ti sei beccato la biondina della casa affianco». Lo riprese il biondo.

«L'ho vista per primo, voi due eravate lontani. Cosa dovevo fare? Non sai quanto si dimenava.»

«Beh, siccome ti è andata di lusso prima, potresti sacrificarti per noi altri adesso».

«Ma l'hai visto? Avrà il sangue pieno d'alcool.»

«Ho capito. Mi avete scocciato. Spostati.» Intervenne quello dallo sguardo severo, il quale afferrò l'uomo spaventato e lo scaraventò a terra. Il padre di Carey iniziò a urlare e cercò diverse volte di mettersi in piedi, ma la creatura lo immobilizzò inginocchiandosi sulla sua schiena. Gli prese la testa e dopo avergli scoperto il collo per bene, affondò i canini nella sua carne sudicia. I suoi lamenti arrivarono fin dentro ai campi di grano intorno, spaventando le anatre nello stagno. Rimbombarono nelle lamiere del cortile, sovrastarono il tavolino azzurro e le due bamboline invecchiate, riverse sull'asfalto. Inquietarono i miserabili che, come lui, attendevano la stessa sorte in qualche sfatto meandro della casa.

I suoi lamenti raggiunsero anche Carey, la cui integrità mentale di bambina qual era, si frantumò in schegge e la lasciò sconvolta senza fiato. Sussultò nel suo gracile corpo e si coprì la bocca per trattenere il pianto. Ma il biondo, rimasto ad osservare la scena annoiato, la percepì e si avvicinò al mobile scardinato nel quale si nascondeva. Così, mentre il padre di Carey trapassava risucchiato fin dentro al midollo e abbandonava le membra accasciandosi tra le mani del carnefice, quello spalancò le ante del ripostiglio di legno, e vi trovò la piccola creatura tremante, raggomitolata nelle proprie braccia sottili. Sogghignò e la prese per un braccio.

«Questa è mia.»

La creatura con la coda nera si voltò di scatto, perché invaso dal profumo delizioso di un sangue tanto limpido e pregiato: «Dobbiamo farne un po' ciascuno...». Anche quello che aveva appena smesso di nutrirsi del padre e aveva gettato la carcassa a terra, si mise dritto e si avvicinò a loro pulendosi la bocca con la manica della giacca: «Bell'affare, io il lercio e tu la bambina».

«Tu hai già bevuto. Stai lontano.» Gli rispose divertito.

Intanto Carey era scivolata in profondo stato di oblio. Il terrore e lo sgomento l'avevano spenta come la fiammella di una candela al passare del vento. Si lasciò sollevare senza opporsi o lamentarsi, come se nel corpo non vi fosse rimasto che buio.

«Aspetta, guardala. Non mi sembra del tutto normale.» Intervenne quello con la coda.

«Che vuoi dire?» Chiese il biondo.

«Non la vedi? È immobile, sembra già morta».

Il biondo la guardò bene, sollevandola sulla sua testa. Ne vide gli occhi spenti e l'espressione marmorea. La scosse e poi ne prese il piccolo viso tra le dita ossute.

«Ehi...ci sei?» Ma non ebbe risposta.

«Lasciala andare Gavriel, sarà malata, o qualcosa del genere».

«Ma sentite come profuma...»

«Sì, ma il sangue malato ti fa puzzare, ricordi?»

Gavriel abbassò Carey, e lasciò cadere a terra. Fece uno sbuffo di disapprovazione e poi si aggiustò i capelli.

«Davvero un peccato. Non è facile trovarne di così piccoli.»

Si voltò, scavalcò il corpo dilaniato del padre della bambina e si diresse verso l'uscita.

Gli altri due guardarono l'orologio, si accorsero del poco tempo rimasto e lo seguirono infilando le mani nelle tasche.

Carey era rimasta immobile, accasciata a terra, in silenzio.

Venne l'alba e dissipò le tenebre. Lentamente la linea del sole percorse il pavimento e colse i suoi occhi spenti, il suo viso riverso a terra, la sua canottiera rosa e quei pantaloncini azzurri che la madre le aveva regalato un anno prima.

 

 

***

 

 

Quando i demoni si impossessarono del mondo, e il padre di Carey era morto ormai da una decina di giorni, la piccola si era trovata a rovistare nel cassonetto di un ex fast-food, perché attirata dall'odore di cibo. Era sporca, sudata, aveva camminato per un po', fermandosi ad ogni pozza d'acqua occasionale per dissetarsi. Dopo aver ripreso il senno, infatti, lo schifo di sangue e brandelli rimasti a gemere del padre, in quella bettola, l'avevano inquietata a tal punto da costringerla a fuggire. Nel cassonetto trovò dei resti di pane non del tutto andato a male e, soddisfatta, si mise a mangiare all'ombra di una pila di cassette di legno.

A un tratto, dal fondo della strada, udì una camionetta avvicinarsi a grande velocità. Si sollevò subito e si nascose sotto ad uno scatolone di carta bianco. La camionetta rallentò in prossimità dell'ex fast-food, e frenò strisciando e cigolando per ancora pochi metri. Vi scesero una donna, due uomini e un ragazzino sui sedici anni.

«Voi restate di guardia, io e Logan entriamo.» Disse la donna, indicando ai due uomini di posizionarsi con i loro fucili agli angoli del locale. Nel frattempo, il ragazzo si era avvicinato all'ingresso dell'ex fast-food e con una mazza da baseball aveva iniziato a colpire la parte inferiore della porta di vetro. In breve tempo questa si frantumò e sia lui che la donna si lanciarono all'interno del locale, per saccheggiare tutto ciò che fosse ancora commestibile.

Carey sollevò leggermente il cartone, e allungò la testina spettinata al di fuori. Intravide la donna e il ragazzino riempire dei carrelli con confezioni di pane, formaggio e insaccati, persino di bevande, e il suo stomaco si contorse gemendo. Si avvicinò ancora un po', stando attenta a non farsi vedere, e pensò che quando quelli sarebbero ripartiti, lei sarebbe potuta entrare e raccogliere gli avanzi ignorati, come le patatine annerite nella friggitrice spenta, le pizze ammuffite nel bancone di vetro, un mestolo di salsa riversa su un ripiano impolverato. Presa dalla vista di quel cibo, la bambina non si accorse che uno degli uomini messi a fare la guardia la stava fissando dal fondo della strada, nel difficile tentativo di comprenderne la natura.

L'uomo, infatti, non riusciva a decifrarne la provenienza, né le fattezze, visto lo stato primordiale al quale si era ridotta. Fece segno all'amico di avvicinarsi piano e quando entrambi furono sicuri che fosse una piccola umana, iniziarono ad andarle incontro. Fu allora che Carey si accorse della loro presenza, si voltò ed emise un urlo.

«Tranquilla piccola... non siamo cattivi... non vogliamo farti del male.»

Carey si lanciò tra gli scatoloni e sbatté contro una rete di ferro.

«Non avere paura, siamo amici!» Aggiunse, ma la bambina continuò ad urlare e quando realizzò di essere circondata e di non poter fuggire da nessuno dei due lati, si rannicchiò e inizio a piangere con le mani sulla testa.

«Con chi stai parlando?» La donna entrata nell'ex fast-food sopraggiunse, attratta dalle urla.

«Qui c'è una bambina Sally, è umana.»

«Una bambina?»

La donna indirizzò lo sguardo verso gli scatoloni disposti alla rinfusa e si avvicinò a passi lenti.

«È molto spaventata. Si è rannicchiata lì dietro, non fa che urlare.»

Sally iniziò a distinguerne la figura e rimase sconvolta quando comprese lo stato di degrado nel quale vessava l'inerme creatura.

«Ciao... piccola. Mi senti? Riesci a comprendermi?» Le chiese con tono dolce e amorevole.

«Io mi chiamo Sally. Siamo tutti tuoi amici, non devi avere paura.» Continuò ad avvicinarsi e le arrivò a poco meno di un metro di distanza.

«Tu come ti chiami? Vivi qui?»

Carey stringeva i capelli tra le esili dita e si dondolava per scaricare il terrore.

La donna si inginocchiò e le avvicinò una mano sulla testa. Le accarezzò le dita e i capelli più volte.

«Ti va di parlare?»

La bambina iniziò a frenare il dondolio convulso.

«Hai fame, vero? Ti andrebbe un bel sandwich? O degli orsacchiotti gommosi?»

A tale proposta, Carey si fermò definitivamente e sollevò lo sguardo. Ciò che vide fu qualcosa di inaspettato e inusuale. Due occhi umidi e un dolce sorriso compassionevole l'attendevano sulla soglia. I rossi capelli ricci della donna le ricordarono quelli della madre, mentre le sue mani calde e innocue le parvero tanto accoglienti da non sembrare vere.

«Vuoi venire con me? Ti porto in un bel posto, pieno di amici e di caramelle.»

Sally le porse la mano. Carey sciolse la morsa nel quale si era rifugiata e pian piano si aprì. Continuò a fissare la donna e si chiese se, finalmente, qualcuno avrebbe potuto darle quell'abbraccio che agognava da tanto tempo. Se avrebbe finalmente potuto risentire sulla pelle quell'amore che aveva dovuto elemosinare invano. Allora fece un balzo e le andò incontro, avvolgendole il collo. Gli uomini della scorta sollevarono i fucili spaventati ma Sally fece segno di fermarsi. Poi prese la bambina e pian piano si mise in piedi. La strinse al suo petto e l'avvolse con le sue braccia, lasciando che immergesse il viso nel suo collo, sotto i suoi morbidi capelli.

«Andiamo ragazzi... » sussurrò, dirigendosi verso la camionetta. Salì a bordo e tenne la bambina seduta a cavalcioni, avvinghiata a lei come se dovesse risucchiarne il calore.

Quando le scorte vennero sistemate e tutti furono saliti, la camionetta partì e Carey scostò per un istante gli occhi dal petto della sua nuova madre per mirare, in lontananza, il cammino fatto da innocente anima errabonda. Le parve quasi di intravedere la sua vecchia casa, forse il tetto scrostato o le due bambole compagne di silenzi. E pensò che ne era stata una padrona sconsiderata, a lasciarle sole, nel sangue raggrumato e puzza di carogna.

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Capitolo 2
*** "Tutto ebbe inizio quando..." ***


frammento1-Copia

«E per quanto sia straziante ricordare i caduti, dobbiamo continuare a farlo, perché soltanto così avremo sempre chiari i veri obiettivi della nostra lotta. Saranno i loro volti a spingerci oltre. Che siano i nostri padri, madri o figli: noi dobbiamo urlare il loro nome ogni giorno, perché ogni giorno è guerra

«La prossima volta saremo più compatti.»

«La prossima volta non porteremo in braccio nessuno!»

«Loro sono forti... ma noi siamo uniti!»

«La Luce contro le Tenebre!»

I militanti urlavano all'unisono alle soglie del palco, sistemato nella piazza centrale della città fortificata. Il comandante Duncan  sedeva sul bordo, mentre gli altri lo guardavano dal basso. Aveva il volto stanco e la barba incolta, indossava un'abbondante felpa verde, dei jeans consumati e un cappellino scuro.

A Newborn, le botteghe allestite alla buona erano attive per ventiquattro ore al giorno. I rifornimenti arrivavano soltanto quando i militanti tornavano dalla spedizioni con le camionette piene; ai sopravvissuti era concesso l'acquisto dei prodotti in cambio dei frutti dei loro esigui terreni o di prestazioni professioni. Chi era stato medico forniva soccorso e gestiva gli ambulatori, chi ingegnere o architetto studiava i materiali e gli spazi a disposizione per l'innalzamento di nuove strutture, chi insegnava si occupava di radunare i pochi bambini della cittadina e provvedere a una loro pur minima istruzione. Tutti si rendevano utili e nessuno si estraniava dalle scelte collettive, dalle riunioni settimanali e dai turni di sorveglianza. Per le strade regnava un labile silenzio: i sopravvissuti erano concentrati e attenti, poiché sapevano che bastava abbassare la guardia o distrarsi per un istante e la vita sarebbe stata sfilata loro come un velo leggero sotto una folata di vento.

Quella mattina Carey era rimasta nella stanza delle assemblee a pianificare gli spostamenti della quasi prossima spedizione esplorativa. Sally comparve dalla porta socchiusa.

«Tesoro, l’incontro è quasi iniziato.»

«Arrivo» le rispose e attese che uscisse dalla stanza prima di alzarsi. Il ginocchio destro le faceva ancora male dall'ultima spedizione, ma non voleva che nessuno se ne accorgesse o l'avrebbero tenuta fuori per chi sa quanto tempo.

Ai piedi del palco, dove poco prima inneggiavano i militanti, un gran numero di volti nuovi, ammanettati e legati tra di loro, era stato condotto e lasciato nel centro, sotto stretto controllo. Essi erano stanchi ed emaciati, indeboliti da chi sa quanti mesi di malnutrizione, malattie e da un terrore inevitabile che urlava con forza dagli occhi. Il comandante Duncan, i secondi comandanti Ferguson e Tyler, e i rappresentanti dei diversi gruppi d'accoglienza e addestramento, li attendevano sul suddetto palco.

«Bene, possiamo iniziare. Salve a tutti e ben arrivati a Newborn. Inizio con lo scusarmi per le corde e le manette, ma dovevamo assicurarci che, spaventati e disorientati, non faceste nulla di avventato. Io sono il comandante dei militanti di Newborn, James Duncan e loro sono i miei collaboratori. Questa cittadina è stata messa in piedi dopo i primi grandi scontri tra le fazioni opposte ed è abitata interamente da sopravvissuti come voi. Qui gli umani vengono accolti, o condotti, e trovano riparo e protezione. Trovano case, cibo, calore, amici e compagni con i quali possono provare a ricondurre una vita quantomeno dignitosa.» Il comandante si era fatto avanti e parlava guardandoli negli occhi, uno per uno.

«Venimmo a conoscenza del vostro rifugio per bocca di un viaggiatore che, durante il suo cammino, ebbe modo di sostare per alcuni giorni nel vostro bunker; una volta ripartito, dopo mesi di vagabondaggio, venne trovato durante una spedizione, allo stremo delle forze, quasi moribondo. Portato a Newborn e soccorso dai nostri due medici, Nik si integrò subito e ci raccontò di essersi imbattuto nel vostro covo ben nascosto. Ci chiese di cercarvi e di condurvi qui perché desiderava che vi venisse salvata la vita... e noi abbiamo accolto la sua richiesta.»

Nik era sul palco, poco distante dagli altri, e annuiva col volto basso e gli occhi inumiditi dai ricordi.

«Il motivo per cui all'alba di quest'oggi... siamo irrotti nel vostro covo e vi abbiamo condotti sui nostri mezzi senza troppe spiegazioni è che lì fuori, purtroppo, nessuno di noi è al sicuro e la morte si nasconde dietro ogni angolo. Agire con rapidità è la nostra prima regola, per cui mi scuso ulteriormente se quello che avete subito è potuto sembrarvi un sequestro. Noi non siamo sequestratori e non vogliamo farvi del male. Noi siamo vostri amici e siamo estremamente felici che un gruppo così grande di persone sia sopravvissuto per tutto questo tempo.»

Gli umani sfatti e impauriti fissavano il capitano cercando di comprenderne le reali intenzioni. Molti di loro iniziarono a tranquillizzarsi e alcuni caddero sulle ginocchia, sollevati dal pensiero che quel palco non fosse il loro patibolo.

«Saranno molti i dubbi che vi hanno afflitti in questi anni. Molte sono le domande che avreste voluto porre a chi ci governava, a chi avrebbe dovuto proteggerci o tenerci uniti. Se sono qui, dinnanzi a voi, non è soltanto per accogliervi ufficialmente a Newborn, ma è anche per darvi le risposte che cercate, per raccontarvi cosa è accaduto e perché siamo stati condannati a una vita di stenti e sofferenze. Tutto ha avuto inizio quando un certo Tim Nowak, fanatico satanista e adoratore del diavolo, dopo aver speso gran parte della sua esistenza a studiare i testi esoterici e i vangeli apocrifi, riuscì in qualcosa in cui nessuno era riuscito: fece risalire dagli inferi un demone e lo fece reincarnare nel corpo morto di un pluriomicida, giustiziato in carcere pochi giorni prima. Quello che ne venne fuori fu un essere apparentemente immortale, cieco d'ira, assetato di sangue e di anime; nessun esorcista o sciamano riuscì nell'intento di scacciarlo poiché il demone non aveva occupato un corpo vivo, bensì uno sottratto alla morte, dunque ne era diventato il legittimo possessore. Era nato il primo Succhiatore della storia, il generatore, colui che trasformò successivamente tutti gli altri.

E mentre i primi demoni iniziavano ad impossessarsi del mondo, voi umani continuavate a vivere tranquilli e inconsapevoli, all'ombra dell'oscura minaccia. Entro pochi mesi, decimarono intere contee, spargendo veleno nel sangue dei popoli, trasformando parte delle proprie vittime in fratelli e riducendo a squallido pasto la restante.»

Gli umani, memori delle atrocità vissute, delle urla dei loro cari ammazzati senza pietà e dei feroci teatri di sangue e lacrime ai quali assistettero, iniziarono a piangere, chi silenziosamente, chi in uno sfogo lento e viscerale. Il comandante Duncan si fermò per alcuni secondi, così da lasciar loro il tempo di metabolizzare le informazioni date. Si tolse il cappellino e lo lasciò cadere a terra.

«Vi starete chiedendo come sia possibile che un solo demone abbia potuto infettare un intero mondo. Eppure ho visto eserciti di Succhiatori invadere le scuole e le piazze, le stazioni dei treni e le metropolitane. Li ho visti marciare di notte, come ombre, insinuarsi nelle case, nei cinema e nei teatri, ovunque pullulasse la vita. E... ho visto tanti umani offrirsi a loro, convinti di poter intraprendere una vita più gloriosa.»

Un umano si asciugò il volto e si fece avanti, raccolse le poche energie residue e prese parola: « anche noi abbiamo visto tutto questo. Fuggiamo proprio da loro, da quegli eserciti di belve bastarde. Ma voi come avete fatto a fortificare una cittadina intera? Come avete fatto a tenerli fuori? Nemmeno la polizia e l'esercito con i mitra e gli scudi riuscivano a frenarli. I colpi dei proiettili li trapassavano senza ucciderli, le bombe li sventravano e mutilavano... ma quelli continuavano a correre. Un uomo normale non può nemmeno lontanamente immaginare di poter avere la meglio su di loro.»

Il capitano aspettò che costui finisse di parlare. Poi si tolse la felpa e rimase con il petto e le spalle nude. Scese dal palco con un salto e gli andò vicino. Gli prese una mano e se la pose sul petto. L'uomo notò che la sua pelle era molto calda, quasi ustionante e che nelle iridi mancavano le pupille, così che l'azzurro dei suoi occhi appariva intenso e sgargiante, come fari accesi.

«Infatti noi non siamo uomini, non siamo nemmeno più umani... o almeno in parte.»

Tutti i superstiti sbigottirono e fecero qualche passo indietro.

«Chi pensate che possa contrastare la furia dei diavoli, la loro sete di sangue e la loro potenza ultraterrena, se non... degli angeli

Ancora con la bocca aperta, l'uomo scansò la mano incredulo.

«Il primo angelo mandato tra gli umani, Sert, dovette scegliere una tra le più pure e innocenti creature del mondo per incarnarsi: una bambina dai capelli rossi, morta in seguito a un incidente, insieme ai suoi genitori. La piccola giaceva nella sua bara bianca, quando i suoi occhi si riempirono di calda luce e le sue mani ripresero il colore della vita. Quando videro che sopravviveva ai colpi dei Succhiatori, che sfuggiva ai loro morsi e li tirava fuori dai corpi posseduti, con preghiere in una lingua sconosciuta, allora tutti iniziarono ad adorarla.

Molti umani accettarono di diventarne dei seguaci e si prestarono alla trasformazione in creature semi-divine. Sert poteva incantare solo i migliori di loro, quelli che avevano realmente il desiderio di combattere per il Bene, che avevano coraggio e voglia di risorgere. Raccolte le sue lacrime luminescenti in calici di pietra, essi dovevano berle e lasciare che l'anima se ne nutrisse fino ad ardere come lava incandescente. Il loro corpo moriva e rinasceva sorretto da tale luce, molto più forte e resistente di prima. Tali discepoli presero il nome di Rubini per il rossore che il loro corpo assumeva nei giorni della transizione, e iniziarono a contrastare l'azione sfrenata dei Succhiatori fin da subito. Sono stati loro a mettere in piedi le prime cittadine fortificate, a creare dei sistemi di controllo e di guardia affinché i sopravvissuti potessero rifugiarsi e la razza umana non venisse sterminata del tutto.»

Gli umani erano rimasti a fissarlo increduli. Qualcuno di loro iniziò a guardarsi intorno, a osservare gli altri militanti e i capitani sul palco.

«La maggior parte di noi è semi-divina. Newborn è la cittadina con la concentrazione più alta di Rubini. Siamo una sorta di commando primario che dirige e controlla i gruppi militanti delle altre cittadine.» Intervenne il secondo comandante Ferguson.

«Chi di voi vorrà vivere qui e collaborare al mantenimento comune, restando umano, è libero di farlo e gliene saremo grati per sempre. Chi invece vorrà unirsi a noi e subire la transizione per diventare un soldato del Bene e vendicarsi con le proprie mani di tutto il male e le atrocità subite, allora venga da me in persona e io lo inizierò alla vita del Rubino.» Continuò.

Gli umani lo guardarono con occhi lucidi e colmi di commozione. Dopo tanto tempo, sentivano che forse il peggio era passato, che forse un fragile raggio di speranza li aveva colti, e che, se avessero voluto, sarebbero potuti risorgere dalla ceneri.

Intanto Carey sostava in un angolo e ripensava al giorno in cui Sally, pochi mesi prima di compiere diciotto anni, accettò di aiutarla ad entrare nell'esercito dei Rubini. Tutti i nuovi aggregati come lei si erano presentati nella sala dell'iniziazione, allestita dall'anziano sacerdote Stenson. Con indosso una sola veste di lino sottilissima, si erano disposti uno accanto all'altro, davanti all'altare ottenuto dall'unione di pezzi di altri altari, racimolati durante le spedizioni.

«Come Sert in persona afferma: i Rubini sono angeli che trovano posto nei corpi di voi umani. Sono spiriti divini che si fondono con quelli terrestri e ne potenziano le facoltà fisiche e intellettive. Essi si nutriranno di luce e di meditazione. Non avranno mai paura di affrontare i figli delle tenebre, non si sottrarranno mai ai loro doveri, non tradiranno mai i loro compagni e la loro causa, non smetteranno mai di credere che un giorno tutto l'inferno portato a galla tornerà nei bassifondi del cosmo.» Il sacerdote Stenson aveva continuato a elencare tutti gli obblighi morali dei Rubini e i mutamenti che avrebbero subito proseguendo tale cammino. I nuovi aggregati erano rimasti ad ascoltarlo attentamente, tutti fortemente convinti della scelta fatta. Gli altri Rubini e gli umani sostavano in piedi alle loro spalle; Sally era rimasta indietro ma riusciva a intravedere la sua Carey, quella bambina spaventata che dal giorno del ritrovo, tra i rifiuti di un ex fast-food, era diventata a tutti gli effetti sua figlia, che aveva consolato e tenuto stretta nelle notti di incubi violenti, che aveva educato e addestrato come fosse sangue del suo sangue e che aveva imparato a conoscere così bene da sapere che, prima o poi, le avrebbe chiesto di poter subire la trasformazione.

Conclusi i chiarimenti, il sacerdote si avvicinò all'altare e aprì uno sportellino sigillato da dieci lucchetti, con dieci chiavi diverse. Dal piccolo vano scoperto, aveva portato fuori un grosso calice di pietra. Si era avvicinato lentamente ai dodici iniziati e gliel'aveva porto. Costoro avevano fatto un solo sorso e si erano diretti, uno per volta, all'esterno della sala, da una porta laterale che dava su un cortile in salita. Ivi, illuminati da un sole in tramonto, essi erano crollati a terra, chi in ginocchio, chi con il viso sull'erba, e i loro corpi avevano iniziato a illuminarsi come torce roventi, visibili sotto il lino sottile delle vesti. Urlando a squarciagola, le loro anime si erano fuse con quelle divine. Le loro lacrime erano evaporate al contatto con le guance e gli abiti avevano iniziato a fumare. Sotto gli ultimi raggi rossastri, essi avevano ringraziato il cielo con le braccia alzate e gli occhi traboccanti di luce. Avevano chiesto perdono per tutti gli sbagli e le incertezze che avrebbero avuto. Si erano prostrati al Bene e si erano riempiti di forza ultraterrena.

Al contrario degli altri, Carey non era crollata a terra. Era rimasta in piedi, immobile, con lo sguardo rivolto verso i confini del cielo. Aveva stretto i pugni, contratto il viso e contenuto le lacrime. In quel preciso istante, il comandante Duncan aveva compreso che costei aveva qualcosa di diverso. Decise, allora, di addestrarla e istruirla personalmente, nonché di iniziarla alla strategia di combattimento e alla gestione di gruppi d'assalto. La fece diventare un'esperta di piani tattici, oltre che una silenziosa e letale arma di difesa e d'attacco. In poco meno di cinque anni, Carey era divenuta una delle prime punte dell'esercito e saliva al fianco del comandante in tutte le spedizione, supportandolo e spalleggiandolo come pochi riuscivano a fare.

«Ah, sei qui. Ti sto cercando da ore.» Max apparve alle sue spalle e la distrasse dai suoi ricordi.

«Dove pensavi che fossi?» Gli rispose.

«Dovevamo ispezionare le camere dell'ala nord. Dovevamo farlo adesso, mentre tutti sono qui.»

«L'ho già fatto ieri, mentre erano in riunione. Non tutti avrebbero lasciato le camere per venire a vedere i nuovi arrivati questa mattina.»

Max rimase a fissarla incredulo.

«L'hai fatto di nuovo, cazzo. Hai fatto di testa tua senza avvertirmi.»

«Eri troppo preso dal banchetto augurale.» Carey si scostò dal muro e si incamminò verso l'armeria.

«Come faccio a imparare se mi ignori! Sono stato affidato a te, non a un altro! Non migliorerò mai se continui così!» Il giovane Rubino era alla sua seconda spedizione e se da un lato era profondamente grato al comandante di essere stato affidato a Carey, dall'altro temeva di restare indietro rispetto agli altri, poiché la sua istruttrice era piuttosto difficile da seguire.

«Parte del tuo addestramento consiste proprio nel capire quando è il momento giusto di agire. Invece di prendertela con me, prova a meditare su quanto tu sia stato superficiale.» Gli rispose senza nemmeno fermarsi.

«Vai a cercarmi le cartine del distretto C e portale in sala riunioni. Poi vai a prepararti: domani partiremo molto presto.»

Max non ribatté, fece un sorriso di beffa e si allontanò nella direzione opposta.

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Capitolo 3
*** “Mi spiace, Capitano” ***


 

Il bosco in fondo alla gola della valle, opacizzato dal sottile strato di nebbia mattutina, appariva spento e desolato. Nessun movimento tra le fronde, nessun uccello in volo, nemmeno un vento gelido a lambire i bordi delle foglie. Sembrava tutto immobile. Il capitano Duncan, i secondi Ferguson, Tyler e Carey, si arrampicavano sulla punta della collina, con le loro tute grigie e verdi, seguiti da un gruppo di altri venti Rubini. Avevano saputo che, nel cuore di quel bosco, sorgeva una tenuta settecentesca di commercianti di schiavi, con enormi cantine e scantinati probabilmente popolate da umani superstiti. Il loro obiettivo era di superare la collina, arrivare a valle, inoltrarsi nel bosco e insinuarsi nella tenuta nel più breve tempo possibile. Se avessero trovato degli umani, li avrebbero bendati e legati, come quelli accolti due giorni prima, poi spinti rapidamente su per la collina, verso le camionette nascoste nella sterpaglia alta.

«A valle ci divideremo: io e Carey a destra con sette degli altri, Ferguson e Tyler con altri sette a sinistra. Gli ultimi sei resteranno ai bordi del bosco a pattugliare. Dobbiamo stare molto attenti.» Sussurrò il capitano Duncan, osservando il boschetto dall'alto.

«L'ultima volta ce ne andammo poco prima che irrompessero nel covo.» Aggiunse Tyler stizzito.

«Sapevano perfettamente dove fossimo. Ormai è chiaro che abbiano degli infiltrati.» Continuò Ferguson, sostenendo le insinuazioni dell'amico.

«Impossibile... se ci fosse un infiltrato tra di noi, lo noteremmo subito.» Carey odiava gli allarmismi infondati.

«Allora come fanno a sapere sempre dove siamo? Ad arrivare quasi in contemporanea con noi?» Le rispose Tyler con tono di sfida.

«Tyler, ne parleremo a Newborn. Ora concentratevi.» Concluse il capitano con fermezza.

Carey lo guardò di sottecchi, abbassandosi il passamontagna in viso. I suoi occhi neri brillavano attraverso l'unica apertura, colmi di furente determinazione. Nessuno avrebbe detto che sotto quello strato di stoffa nascondeva un viso ancora acerbo, costellato di sporadiche lentiggini chiare e delle labbra aranciate, in contrasto con la pelle bianco-latte. I passamontagna abbassati fino al collo, i pantaloni e le felpe abbondanti, rendevano i Rubini tutti uguali. Al segnale d'assalto, Carey sollevava il cappuccio sulla testa e la sua figura sottile e scattante si perdeva nella mischia, come un'ombra immateriale.

Al via del capitano, il gruppo si divise e i due sciami laterali avanzarono velocemente, a passi felpati. Erano muniti di sole lame affilate taglia-testa e corde arrotolante in vita, per annodare i Succhiatori destinati alle torture o a spettacolari tornaconti.

Ben presto apparve la tenuta patronale, circondata da alti frassini e salici piangenti. L'intonaco era crollato in più punti, lasciando il legno sottostante scoperto; le finestre erano in parte rotte, piene di frammenti scoperti e il grosso portone centrale era tanto serrato da sembrare calcificato.

I Rubini si avvicinarono sfiorando a malapena la terra, e perlustrarono ogni varco alla ricerca di un'entrata.

Ferguson trovò una botola e con alcuni sibili inudibili all'orecchio umano, chiamò a sé i compagni, che si accostarono a lui con estrema cautela. Con un solo tocco, la botola fu scardinata, e tutti loro si infiltrarono rapidamente, immergendosi in un bagno di buio assoluto. Ivi sfregarono le mani, ed esse si illuminarono di una buona luce, più che sufficiente per orientarsi. Il corridoio delle cantine era piuttosto lungo e diverse stanze si succedevano ai lati, una dopo l'altra. Percorrendolo, sostarono in uno spazio rotondo, umido e gocciolante, tappezzato di muffa e muschio negli angoli. Si respirava un odore di acqua stantia e di feci di topo. Perlustrarono ogni angolo e ogni insospettabile rifugio, ma trovarono soltanto dei grossi bauli pieni di vecchi arnesi agricoli e ferraglie arrugginite. Di insediamento umano nemmeno l'ombra.

A un tratto, alcuni passi pesanti risuonarono dal piano superiore, e tutti loro si immobilizzarono.

I passi aumentarono e crebbero di intensità, fino a diventare numerosi e confusi. Infine, delle voci si aggiunsero al fracasso e i Rubini le riconobbero: appartenevano a un gruppo di Succhiatori arrivati a perlustrare la zona, esattamente come loro.

«Saliamo e uccidiamoli» disse Tylor con impeto.

«Non sappiamo quanti sono... aspettiamo.» Sussurrò Ferguson.

«Se aspettiamo aumenteranno. Salendo adesso, possiamo abbattere questi subito e gli altri man mano che arrivano», gli rispose Tyler.

«Se sono stati avvisati da una talpa è tutto inutile. Sanno perfettamente chi e quanti siamo e hanno aspettato che scendessimo per toglierci tutte le vie di fuga. Potrebbero averci già incastrati... » affermò Carey attirandosi gli sguardi sconcertati dei compagni addosso.

«Se così fosse non avrebbero fatto tutto questo casino! Si sarebbero appostati silenziosamente agli ingressi.» La riprese Tyler.

«La verità è che pensano di essere arrivati per primi. A Newborn ho diffuso la notizia che saremmo partiti in tarda mattinata. La talpa ha comunicato loro l'orario sbagliato. I bastardi pensano di poterci attendere al varco e sterminarci facilmente, ma non sanno che, in realtà, siamo sotto i loro piedi.» Intervenne il capitano.

Carey sorrise: «dunque la situazione si ribalta.»

«Non solo. Ora siamo certi di avere una talpa e che questa non è una dei presenti.» Aggiunse il capitano.

Improvvisamente, le voci dall'alto si placarono e con esse i passi casuali. Poi qualcuno urlò. Ai rubini parve di udire: “fuori di qui! Fuori subito!”. I passi si tramutarono in frenetici e le camminate divennero corse precipitose.

«Che succede?» Chiese Ferguson sgranando gli occhi.

«Stanno fuggendo... » sussurrò piano Tyler.

«Che non ci siano... anche loro.» Suggerì infine Carey e tutti sollevarono i capi terrorizzati.

Il caos si interruppe nuovamente e lasciò il posto al silenzio.

Duncan, come del resto anche gli altri, aveva compreso perfettamente il motivo della fuga dei Succhiatori. Quello che agli umani non avevano ancora detto, e che preferivano rivelare quando costoro avrebbero ritrovato una certa stabilità mentale, era che oltre ai Rubini e ai Succhiatori, esisteva una terza razza, più cinica e violenta delle altre due messe insieme: la razza dei Livellatori.

Essi nacquero quando alcuni Succhiatori, curiosi di conoscere il sapore dei Rubini, ne azzannarono alcuni presi prigionieri e restarono folgorati dalla luce tracotante fuoriuscita dalle lacerazioni. Accanto ai loro corpi fumanti, le creature avvelenate dal loro morso, avevano iniziato un certo tipo di trasformazione. I loro corpi si erano gonfiati e inspessiti, i loro occhi avevano perso colore, diventando di un unico nero profondo, le loro voci erano diventate cupe e gutturali. Era come se avessero assunto la peggiore delle forme demoniache. E invece di rincorrere gli umani, come Rubini e Succhiatori facevano ormai da mesi, essi iniziarono a perseguitare proprio loro, le creature soprannaturali. Il loro scopo divenne quello di cancellarli tutti dalla faccia della Terra, di cercarli e sterminarli così da estinguere le forze del Bene e del Male in egual modo, nonché di restare le uniche vere potenze del creato.

Un ruggito riempì l'aria e si espanse per il bosco circostante e lungo la parete della vallata.

«Sono proprio loro.» Affermò Tyler con il fiato alterato, dopo aver riconosciuto il richiamo del capogruppo.

«Dobbiamo allontanarci il prima possibile» disse Ferguson.

«E da che parte andiamo? Siamo bloccati nelle cantine! Questo è stato il piano più stupido che abbia mai seguito!» Continuò Tyler.

«Proseguiamo lungo il corridoio! Guardiamo nelle stanze! Magari ci sono delle botole o dei passaggi nascosti!» Suggerì con fermezza Carey, e così fecero. Si inoltrarono in tutte le stanze, a passi leggeri e felpati. Sbirciarono in ogni angolo, dietro ogni baule, accanto a ogni scala, fino a raggiungere una grande stanza dall'alto soffitto.

Illuminando a fatica l'aria con le mani iridescenti, uno di loro scovò un'uscita nella parete a destra dell'ingresso. Emise un sibilo e tutti gli altri si fermarono per poi raggiungerlo.

«Sembra che dia su una scala interna. Non so dove porta.» Affermò il giovane Rubino.

«Magari porta alle cucine. Questa doveva essere una cantina dove conservavano le scorte di cibo.» Disse il capitano e in quel preciso istante lo sbattere violento delle botole all'inizio del lungo corridoio sotterraneo, rimbombò nitido e agghiacciante.

«Stanno scendendo. Avranno sentito il nostro odore.» Biascicò Tyler.

«Prendiamo la scala. Non abbiamo alternative!» Carey si lanciò per prima e imboccò lo stesso ingresso. Gradino per gradino, le parve di uscire dal ventre di una balena arenata. L'aria si faceva più tiepida, quasi rovente. I compagni la seguirono, aggrappandosi ai grandini con le mani, mentre dal fondo del corridoio, alcuni passi pesanti e dei respiri rauchi riempivano gli spazi e li raggiungevano fin dentro le ossa.

Quando finalmente riuscì ad emergere con la testa all'esterno, Carey si ritrovò in una stanza che sembrava a tutti gli effetti una cucina dismessa. I suoi occhi neri misero a fuoco un bagliore lontano; uscì con tutto il corpo e percepì un forte odore di fumo. Si scostò dall'uscita del cunicolo di collegamento e si spostò di lato per far passare gli altri. Quando tutti furono fuori, realizzarono che il bagliore era prodotto da alcune fiamme e che in quell'edificio, i Livellatori avevano appena appiccato un incendio.

«Avranno già fatto delle cataste di corpi con i Succhiatori e vogliono carbonizzarli insieme a tutto il resto.» Disse Ferguson.

La puzza di fumo divenne densa e pungente. I Rubini avanzarono verso l'uscita della cucina, decisi a trovare un modo per sgattaiolare all'esterno il prima possibile, da una qualche finestra o porta di servizio. Ma appena svoltarono dentro una sala rivestita di travi di legno, un'ascia possente tagliò l'aria sibilando e la sua lama si conficcò nella povera testa di un anziano Rubino.

Tutti si voltarono di scatto: un Livellatore era apparso senza emettere alcun suono e aveva ammazzato l'ultimo della fila. Allora fu il caos. Con un urlo, il Livellatore attirò altri dei suoi; i Rubini iniziarono a correre uniti, ma le asce massicce ne raggiunsero due e li abbatterono all'istante. Presi dalla paura, immersi nel fumo e circondati dalle fiamme, il gruppo di sgretolò e ognuno seguì una direzione a caso. Carey e il capitano Duncan rimasero insieme e salirono lungo una scala di legno, rivestita di moquette verdastra. Arrivarono al piano superiore e intravidero, dalle finestre, alcuni dei Rubini rimasti a fare da ronda all'esterno, brandire delle funi e attenderli dai rami più alti di alcune querce. Carey fece segno al capitano di raggiungere la stanza più vicina agli alberi, così che prese le funi avrebbero potuto legarle all'interno e su di esse scivolare fuori.

Corsero a perdifiato. Sfondarono una porta a calci e si fiondarono sulle finestre tappezzate di macchie e impronte antiche di bambini. Carey ne spalancò una e vide che da una finestra più in là, due dei loro compagni avevano già attaccato le funi e scorrevano lungo di esse. Se ne rallegrò e iniziò ad agitare le braccia, così che i Rubini sugli alberi la vedessero.

Il capitano si posizionò alle sue spalle, brandendo le sue due lame affilate.

Carey avrebbe voluto urlare, ma temeva che i Livellatori l'avrebbero sentita. Emise alcuni sibili, ma l'attenzione dei Rubini sui superstiti dall'altra ala dell'edificio era troppa perché la notassero. Vide Ferguson e Tyler mettersi in salvo. Emise altri sibili, si sporse sul bordo della finestra e poco prima di scivolare verso il basso, finalmente venne notata. I Rubini si spostarono sui rami più vicini al loro versante e gettarono una fune nella loro direzione. La giovane la colse al volo, si voltò vero l'interno e cercò con foga un appiglio sicuro.

«La stufa!» Suggerì Duncan a mezza bocca.

La ragazza vide l'imponente stufa di ghisa e corse ad avvolgervi la corda intorno. Poi si rivolse verso il capitano e gli fece cenno di andare.

«Vai prima tu.» Le suggerì con fare paterno. Carey annuì ma si accorse d'improvviso che, alle spalle del capitano, un Livellatore dalle braccia pesanti, cosparso di vivide cicatrici intorno alle buie cavità oculari, si stava dirigendo verso di loro a una velocità incalcolabile. Si lanciò, allora, dinnanzi al comandante e sfoderò la sua lama, con la quale batté contro il ferro scagliato dall'altro. Ma la forza di questo era prorompente, e con estremo sforzo lo respinse quel tanto da scostarsi dalla sua traiettoria. Cadde di lato e Duncan le coprì le spalle, inserendosi nello scontro. In un secondo si mise in piedi. Il fuoco aveva raggiunto la loro stanza e il pavimento vibrava, scosso dalle travi in procinto di cedere. I due Rubini si affiancarono e convogliarono tutta la loro forza nelle lame lucenti, facendole vibrare e assestando colpi vigorosi e precisi. Ma il Livellatore caricava come un forsennato, sogghignando e mostrando i denti acuminati, avvezzi al loro sangue benedetto. La lotta-fuga continuò per alcuni minuti. I due Rubini crollavano a terra e si rialzavano trattenendo il fiato per l'ansia e la concentrazione, mentre il Livellatore si divertiva a riabbatterli senza troppa fatica. Provarono ad assalirlo alle spalle, ma quello ribaltò l'agile Carey e scaraventò il capitano verso il fondo della sala. Il battere dei suoi stivali ferrosi sul pavimento in procinto di crollare, divertiva i Livellatori sottostanti, che gratificati, brindavano con teste mozzate di Succhiatori e si godevano la danza, incuranti del fuoco che non poteva scalfire, né scottare la loro pelle refrattaria.

Sembrava che per i due non vi fosse scampo, e che il destino li avrebbe puniti con mano pesante, quando, arrivati ormai allo stremo delle forze, sfatti e sfiniti dalla mancanza di ossigeno, il pavimento cedette e crollò, portandoseli dietro. Crollò anche quello sottostante e finirono con l'atterrare nella stanza buia e umida della cantina, dall'alto soffitto. Il capitano rimase rannicchiato in un angolo mentre Carey rotolò lungo le macerie fino a sbattere contro una parete laterale, immersa nel buio. Sollevò lo sguardo sfatto e vide Duncan illuminato dalla luce del piano superiore sventrato. Vide il Livellatore scendere con un solo balzo al suo fianco, afferrarlo per il collo, sollevarlo e sfilargli dalla testa il passamontagna di lana spessa. Vide la luce brillare riflessa sui suoi capelli castani, madidi di sudore, i suoi occhi accesi di azzurro illuminare le cavità invece vuote delle belva e il suo nobile animo gemere con compostezza, anche in quell'istante di terrore furente. Si mise in piedi e fece qualche passo nelle macerie, quando, senza accorgersene, sentì un vuoto improvviso sotto ai piedi e sprofondò all'interno di un pozzo, nascosto sotto delle fascine di legno arse per il calore. Precipitò per alcuni metri, nel buio assoluto, scalfendo, a tratti, le pareti di pietra con la sua lama, fin quando non atterrò sulle gambe leggere e rotolò in avanti. Rimase immobile per alcuni secondi. Si fece forza e si mise subito in piedi. Poteva ancora udire le voci dei Livellatori dall'alto.

«No! Maledizione! No! Duncan! No!» E una rabbia rutilante la percorse dalla testa ai piedi, mentre alcune lacrime di disperazione cieca le affollarono gli occhi. La sola idea di aver lasciato il capitano nelle mani del Livellatore, la avviliva e dilaniava profondamente. Urlò ancora e colpì la pietra con dei pugni carichi di sconforto. Doveva assolutamente trovare un modo per salire in superficie: sfregò le mani e si fece luce, per poi iniziare ad avanzare sudata e grondante di sgomento.

Man mano che proseguiva, i rumori si attenuavano, diventando flebili e sottili. Iniziò a correre, sempre più velocemente, a tastare i muri, ad annusare l'aria sporca, a vedere gli occhi del capitano smorzarsi, a sentire i colpi ridondanti delle loro lame, a immaginare Newborn senza di lui. A immaginare se stessa e il suo futuro senza la sua guida primaria.

Improvvisamente rimasero lei, il silenzio e il ritmo del suo affanno. Si fermò e cercò di riflettere. Comprese che quello non fosse un pozzo, ma una sorta di canale di scarico dei rifiuti o dei liquami. Che quel tunnel stretto l'avrebbe forse condotta all'esterno, lontano dal bosco e persino dalla tenuta. Cosa fare? Tornare indietro? Come risalire? Continuare a correre e poi tornare indietro? Quali altre possibilità aveva? Quanto tempo ci avrebbe impiegato?

Improvvisamente un tonfo la distolse dai pensieri assillanti.

Rimase impietrita e sgranò gli occhi. Spense le mani e si accostò al muro, dove rimase ad ascoltare.

Il tonfo si ripeté e, questa volta, venne seguito dal rumore di alcuni passi.

Carey insinuò lentamente la mano sulla lama, e la strinse per sfoderarla. Lo fece nel mondo meno rumoroso possibile. Rimase così, in allerta, limitando persino i respiri, e cercando di decelerare  i battiti del cuore, fin troppo assordanti.

I passi si succedevano repentini. I passi si avvicinavano, si intensificavano, si dirigevano proprio nella sua direzione. I passi si interruppero a nemmeno un metro da lei. Carey inspirò, batté le mani, illuminò lo spazio e sfoderò la lama, rivolgendola fulmineamente dinnanzi a sé: apparve un viso le cui iridi si rimpicciolirono per la luce inattesa.

«Chi diavolo sei?» Gli chiese con tono imperioso.

L'individuo indietreggiò abbagliato e sollevò una mano per proteggersi. Carey ebbe così modo di notarne un gran numero di particolari: era giovane, sulla ventina, con i capelli quasi rasati ai lati della testa e folti in cima, di un castano molto chiaro. Superava il metro e ottantacinque, sembrava atletico e prestante, ma non tarchiato e corpulento come i Livellatori. La giacca di tessuto scuro, con gli inserti di pelle sui gomiti e sulle spalle, e la maglietta borchiata sottostante suggerivano un gusto estetico e una poca praticità che non lasciavano dubbi: costui non poteva che essere un Succhiatore.

 

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Capitolo 4
*** “Il primo incontro” ***


frammento2

Approfittando dell'abbaglio provocatogli, Carey abbassò la lama e gli assestò un calcio nel ventre, che lo spinse a terra. Poi avanzò accanto al suo corpo disteso, arrivò all'altezza del cuore e afferrò la spada a mo' di pugnale. La sollevò e si apprestò a piantargliela nel petto, quando quello sussurrò:«come uscirai da qui?»

«Che vuoi dire?» Gli chiese, fermando la mano.

«Qui sotto è un labirinto. È pieno di cunicoli e corridoi che si intersecano senza criterio. Ci metterai giorni a uscire.»

«E tu cosa ne sai?»

«Perché l'abbiamo perlustrato una settimana fa. Eravamo in dieci, muniti di torce, eppure ci sono volute sei ore per tornare fuori.»

«Non preoccuparti, troverò l'uscita senza problemi.» Affermò la giovane e risollevò la lama per piantargliela nella carne.

Il Succhiatore rise. «È possibile. Ma quando ci riuscirai i tuoi amici saranno già morti e seppelliti sotto metri di terra.»

Carey si bloccò nuovamente e digrignò i denti adirata.

«Ascoltami: allontana la lama e ti condurrò fuori.»

«Non ho bisogno del tuo aiuto!» Gli sbraitò con voce alterata dalla collera e dalla consapevolezza che avesse ragione. Permanere in quei cunicoli a lungo le avrebbe tolto, definitivamente, ogni possibilità di soccorrere il capitano.

«...va bene, usiamo le maniere forti...». Il giovane Succhiatore le diede un calcio nel basso ventre e la spinse indietro. Si sollevò con un balzo e le si avventò addosso. Immobilizzò la mano brandente la lama da un lato, e le ficcò il gomito dell'altro braccio sotto il mento.

«Adesso mi ascolti, amico... io so dov'è l'uscita, ma non riesco a orientarmi senza luce. Per cui tu mi farai da torcia e io ti guiderò verso l'esterno nel minor tempo possibile. Una volta fuori pareggeremo i conti.»

Carey sentì tutti i dolori dei colpi della lotta precedente acuirsi. Indolenzita e debole com'era, non sarebbe riuscita ad atterrarlo nemmeno volendo. Inoltre se un Succhiatore le stava chiedendo di scendere a patti, senza sembrare troppo riluttante, poteva voler dire che trovare l'uscita fosse davvero un'impresa ardua. Si limitò ad annuire con la testa.

Il Succhiatore allentò la presa e si scostò lentamente. Fissandola con sguardo severo le fece segno con la mano di avanzare.

«E non capisco perché mai dobbiate portare questi ridicoli passamontagna. Sembrate un raduno di rapinatori falliti.» Carey camminava illuminando il tunnel con le mani sollevate. Il fastidio che il Succhiatore le provocava era quasi superiore ai dolori del corpo provato.

«Sempre meglio che sembrare dei fighetti senza palle». Gli rispose, e il Succhiatore sogghignò.

«Gira a destra. Non lì, a destra!» Le suggerì, stampandole sul sedere l'impronta dell'anfibio di pelle.

«Ora sali lungo quel cunicolo stretto. Aspetta... illumina lì. No, ho sbagliato, torna indietro.» L'afferrò per il cappuccio della felpa e la tirò verso il basso.

Carey perse l'equilibrio ma rimase in piedi. Sbuffò e strinse le labbra per trattenere un insulto.

«Cos'hai amico? Stai tremando? Hai perso la pazienza?» Il Succhiatore trovava estremamente piacevole burlarsi della sua fretta di uscire per correre dai suoi compagni.

«Taci. Non parlare. Limitati a darmi indicazioni.» Gli intimò.

«Pensi davvero di poter salvare ancora qualcuno? Credi che i Livellatori ti stiano aspettando per pareggiare i conti? A quest'ora avranno già brindato con le teste dei tuoi amici.»

«Dopo aver finito con la testa dei tuoi.»

«Ma la vostra carne è più tenera. Vi sfaldate come agnellini da latte. Sei stata furba a nasconderti qui sotto e lasciare gli altri a crepare.»

Carey si fermò di colpo. Si voltò e gli assestò un pugno vigoroso sulla faccia, tanto da farlo sbattere contro il muro. Poi gli andò incontro e lo prese per i baveri della sua giacca pesante.

«Io non mi sono nascosta come hai fatto tu. Qui sotto ci sono finita per sbaglio!»

Poi gli diede una ginocchiata nel basso ventre e quando quello si accartocciò per il male, lo spinse a terra e iniziò a calciarlo, caricando i colpi con foga.

«Hai capito, bastardo?»

Il Succhiatore rotolò su stesso e puntò le mani a terra. Si mise in piedi giusto in tempo per bloccare un altro pugno. La spinse in avanti e sputò a terra il sangue uscitogli dal labbro spaccato. «Siete tutti delle gran teste di cazzo. Facciamo bene a sterminarvi... » affermò con voce cupa.

Dalla feritoia del passamontagna, Carey gli rivolse uno sguardo carico d'odio. Batté le mani e smorzò la luce che queste emanavano. Rimasero al buio. La giovane sfoderò la sua lama e lo caricò con l'intenzione vivida di ammazzarlo. Il Succhiatore schivò i suoi colpi più volte ma incassò diversi fendenti alle braccia e al petto. Si ritirò, allora, in un angolo, e vi rimase in silenzio assoluto. Carey continuò a colpire l'aria, fino a quando non si rese conto che il nemico si era defilato e temette, per un istante, che fosse corso via. Si arrestò e cercò di trattenere il fiato per ascoltare il silenzio e carpire un suo gemito. Entrambi rimasero in una nuvola di inconsistenza, con i cuori palpitanti e un affanno incontenibile. Poi l'immagine del capitano morente le apparve nitida davanti agli occhi e si arrese all'amara consapevolezza che non avrebbe potuto fare più nulla per lui.

Immaginò la sua testa staccata di netto dal corpo, rotolare lungo la collina di macerie. Le salì un moto di pianto e trattenne lo sgomento con la mano sulla bocca. Ansimante e sconvolta, abbassò la lama e inclinò le spalle in segno di arrendevolezza.

Fu proprio in quell'istante che il Succhiatore le apparve da dietro e la immobilizzò stringendole le spalle con un braccio. Con l'altra mano le sfilò la lama e gliela avvicinò al collo.

«Batti quelle fottute mani o ti sgozzo.»

Carey socchiuse gli occhi e sollevò lentamente le braccia. Batté le mani e il cunicolo tornò a illuminarsi di bianco. L'individuo l'avrebbe tenuta bloccata per tutto il tragitto, con la spada puntata alla gola, e una volta fuori l'avrebbe ammazzata e lasciata all'uscita. Camminarono dunque per alcuni metri, fino a quando un forte rimbombo non li inchiodò sul posto. Egli si voltò indietro, continuando a tenerla ferma, e cercò di scrutare il fondo del tunnel.

«Rivolgi una mano da quella parte.»

La ragazza obbedì e rischiarò una tubatura fuoriuscente dal muro. Immaginarono entrambi che quel rumore fosse stato provocato da un topo o qualcosa di simile. Ma Carey finse di trasalire e il Succhiatore indietreggiò di due passi.

«Cos'hai visto?» Ricordava bene che uno dei giochetti preferiti dei Livellatori era quello di inseguire la preda silenziosamente, per poi sbucare all'improvviso e farne scempio.

Nello scostarsi da lei, allentò anche la presa e distanziò la lama dal suo collo. La ragazza, dunque, gli morse le dita e gli fece cadere la spada, che batté a terra risuonando. Poi cercò di divincolarsi, e quello allungò la mano per tirarla nuovamente a sé, ma afferrò giusto il passamontagna dalla punta. Lei continuò a tirare e il Succhiatore finì per sfilarglielo dalla testa.

I capelli di Carey si espansero in aria e le crollarono sulle spalle e sul viso sudato, arrossato e pulsante per l'affanno. Sotto di essi, gli occhi neri e iracondi lo puntavano in attesa della mossa successiva. Il Succhiatore rimase immobile a fissarla, con il panno di lana tra le mani, ansimante e stanco quanto lei.

«Siamo ricoperti di sangue... appena fuori di qui, i Livellatori sentiranno il nostro odore e ci individueranno.» Affermò con tono serioso.

«Sentiranno te. Io non ho perso sangue.»

L'individuo le indicò le ferite che aveva riportato durante lo scontro con il Livellatore nella tenuta, delle quali non aveva ancora sentito il bruciore.

«Procediamo...» si limitò a proferire. Raccolse la lama da terra e le fece segno di andare avanti.

Carey accettò e si rimisero in cammino.

«Quanto è lungo questo casolare?» Gli chiese dopo diversi minuti di silenzio.

«Non siamo più sotto al casolare, gli schiavi scavarono dei tunnel che dalle cantine conducevano direttamente alla spiaggia.»

«È alla spiaggia che stiamo andando?».

«Sì. Proprio lì.»

«E ti sei rintanato da solo? Non ti sei portato alcun compagno dietro? Quanto avrai combattuto con i tuoi fratelli? Due... tre minuti? Sei corso nel rifugio appena sono apparsi i Livellatori, giusto?»

Il Succhiatore non rispose.

«Come si fa a dire che non siete peggio delle bestie? Come si fa a dire che non siete altro che luridi assatanati, senza alcun codice morale?»

Finalmente, in lontananza, dei versi di gabbiano echeggiarono per gli ultimi dieci metri di oscurità. Corsero, allora, con maggior lena, e intravidero uno scorcio di luce calda e dolce. Sbucarono, infine, su una distesa di sabbia bianca e brillante, dove le onde bonarie salivano e scendevano, con pacata costanza.

Si appoggiarono alle ginocchia sfiniti.

Carey si voltò nella sua direzione e si guardarono alla luce del giorno, per la prima volta. Il Succhiatore si sfilò la giacca, accaldato, e alzò la testa verso il cielo. Carey continuò a fissarlo, irritata dalla noncuranza che palesava nei confronti del suo più acerrimo nemico.

«Non può finire così, lo sai?»

«Che avresti intenzione di fare?»

«Non posso lasciarti andare, è la nostra regola. Un Succhiatore imbattuto deve diventare un Succhiatore morto.»

«...Vorresti uccidermi?» Sogghignò. «...non ti reggi in piedi.»

Carey prese fiato e gli si avvicinò a grandi passi. Il Succhiatore sollevò la spada nella sua direzione ed ella si fermò a poco meno di un centimetro dalla sua punta.

«Dì un po', paladina dei pezzenti, te la sei scelta tu?»

«Cosa?»

«La stirpe dei Rubini, te la sei scelta tu? O ti hanno scelti loro?»

«Loro mi hanno salvata dalla morte. Mi hanno raccolta dalla miseria e da una fine scontata... ad ogni modo li avrei scelti lo stesso, se è questo che vuoi sapere.»

Il Succhiatore continuò a fissarla, lasciando defluire l'affanno dalle narici dilatate. Aveva gli occhi di un grigio metallico, argentato. La barbetta chiara e folta, come i capelli, e gli zigomi alti lasciavano intuire una sicura discendenza dai popoli nordici. Attraverso gli strappi della maglietta borchiata, si intravedeva una croce celtica sul petto, tatuata sul lato destro, dalla base del collo fin quasi all'ombelico.

«Io no. Non li ho mai scelti. Mi trovarono in una fattoria a est del confine, mentre mi nascondevo con alcuni superstiti. Li uccisero tutti, uno dopo l'altro, nutrendosi del loro sangue e persino del midollo. Sentii distintamente il rumore delle loro ossa spezzarsi. Avevo afferrato un cacciavite nella fuga e mi ero preparato a ficcarmelo nel petto, se mi avessero scovato. Quando pensai che finalmente se ne fossero andati, uscii dalla stalla lentamente, e senza fare il minimo rumore, mi avvicinai alla casa, ma uno di loro apparve all'improvviso e mi sfilò il cacciavite dalla mano. Altri tre comparvero da retro di un pick-up e ci raggiunsero. Convinto che mi avrebbero ammazzato, decisi di tentare la fuga e iniziai a correre. Dopo una manciata di secondi mi furono addosso e mi atterrarono. Provai a divincolarli e mi dimenai tra le loro mani, lasciandomi strappare la camicia che portavo. Il più grosso dei tre intravide il mio tatuaggio e rimase a fissarmi. Quando gli altri mi immobilizzarono e gli chiesero, con lo sguardo, il consenso di nutrirsi col mio corpo, quello li fermò. Mi prese il mento tra le mani e mi guardò bene, come si fa con un pezzo di carne dal macellaio. Si morse il labbro e disse qualcosa in una lingua a me sconosciuta. Da quel preciso istante sarei diventato... il suo giocattolino

«Perché mi racconti questo? Cosa vuoi che mi interessi?».

«E aveva detto bene: divenni il suo giocattolo. Mi trasformò e mi prese con sé, nel suo bellissimo appartamento, mi ricoprì di abiti e di lusso. Mi viziò».

«Smettila... la tua storia mi disgusta.»

«E mi violentò più e più volte. Ero diventato il suo schiavo... »

«Smettila!» Urlò la ragazza e scostò la lama, colpendola con il dorso della mano.

«Vuoi sapere come è finita?» Le ripuntò la spada alla gola e iniziò a procedere nella sua direzione, costringendola a indietreggiare nella sabbia soffice.

«Che un giorno ci trovammo in una situazione come questa. Eravamo intrappolati in una vecchia fabbrica di scarpe. C'erano dei Livellatori in giro e io ne vidi uno acquattarsi in silenzio in uno sgabuzzino. Andai dal mio padrone... e gli sussurrai che in quella stanzetta c'era una finestra che dava su una scala esterna. Quello vi si fiondò di corsa, impaurito come un maiale, e quando entrò... »

Carey sentiva l'impazienza esploderle nel petto. Avrebbe voluto afferrare la lama con la mano e riprendersela. Tagliargli la testa e correre via.

«Chiusi la porta e mi misi ad ascoltare le sue urla e il fragore che il suo corpo dilaniato emetteva...»

Gli occhi del Succhiatore vibrarono di orgogliosa vendetta.

«Me ne ero liberato, finalmente.»

Carey si abbassò di scatto e si lanciò in avanti, per assestargli una testata nello stomaco. Il succhiatore la schivò, le diede un calcio sulla schiena e la spinse a terra, costringendola ad affondare il viso nella sabbia. Poi si abbassò e la bloccò a terra con un ginocchio.

«E con questo ti ho risposto alla domanda: “non ti sei portato alcun compagno dietro?” A me non interessa degli altri. Non mi interessa di nessuno, né di voi, né di loro. Ho a cuore soltanto la mia sopravvivenza.»

«E questo è il motivo per cui vi estinguerete per mano nostra. Sappilo.» Biascicò lei fissandolo da una fenditura tra i capelli riversi sul volto.

Il Succhiatore accennò un riso di beffa.

«Invidio la tua stupida fedeltà a una stupida causa.» Si mise in piedi e fece roteare la spada. Poi si fece da parte, prese la sua giacca da terra e iniziò a scendere lungo la duna, verso la riva del mare.

«Grazie del regalo.» Le urlò mentre, allontanandosi, sollevava l'acqua salata con la mano e si puliva le ferite dal sangue.

Carey era rimasta riversa a terra come quindici anni prima, sul pavimento della sua casa in città.

Il sole iniziava a nascondersi dietro le montagne lontane, tinteggiando il cielo di un arancio-amaranto. Immaginò che i suoi compagni fossero tornati a Newborn con i superstiti; che l'avessero già data per dispersa e che magari qualcuno di loro si fosse già proposto per tornare a cercarla. Pensò al capitano e un brivido le percorse la schiena. Si mise in piedi e si scrollò la sabbia di dosso. Doveva tornare in base prima che sopraggiungesse la notte. Doveva affrontare l'idea che Duncan fosse morto e che Newborn si sarebbe ritrovata senza il suo angelo migliore.

Si guardò intorno con il cuore appesantito e scelse la direzione che, a istinto, l'avrebbe ricondotta indietro.

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Capitolo 5
*** "Una visita inaspettata" ***


Carey arrivò a Newborn poco prima che il buio ingoiasse del tutto la vegetazione.

Sudata e zoppicante, con un'ansia feroce e gli occhi grondanti di palpitante terrore, giunse ai cancelli di ingresso e batté su di essi con foga. I guardiani nelle torri di controllo la riconobbero subito e la fecero passare. Una volta dentro, vide immediatamente un ammasso di gente intorno al centro di ricovero e soccorso, e una fitta soffocante le divise in due il ventre. Corse col cuore in gola fino al centro, arrivò nei pressi della folla e si fece spazio con le braccia. Entrò nella struttura sotto gli sguardi stupiti di tutti e, mangiando i metri, arrivò in fondo a un corridoio dal quale provenivano le voci più incalzanti. Il cuore le batteva a mille e l'eco dei suoi rimbombi le riempiva la testa. Si infilò tra i presenti, scostò gli ultimi con le mani e finalmente arrivò nel mezzo. Nello spazio circolare, illuminato da una luce bianca, fredda e asettica, Sally giaceva su una sedia e si lasciava andare a un pianto tremulo e doloroso.

«Mamma... » sussurrò la ragazza.

La donna sollevò gli occhi gonfi e arrossati. La riconobbe e sbandò per lo stupore. Scattò in piedi e le andò incontro, per stringerla con forza tra le braccia.

«Oh mio Dio... sei viva... Carey... sei viva.» Farfugliò tra le lacrime.

La ragazza accolse la madre e la rassicurò con poche parole distratte.

«Dove sono gli altri? Dov'è Duncan?» Le chiese scrutando il fondo del corridoio.

Sally si scostò e le prese la testa tra le mani. Carey aveva il respiro alterato, le gambe tremule e un sudore freddo addosso che mai aveva sperimentato prima.

«Duncan …» Sally deglutì, cercando di attirare il suo sguardo su di sé.

«Dov’è?» Le chiese ancora sommessamente. La donna le accarezzò il viso, scostandole i capelli dalla bocca.

«Non ce l'ha fatta.» Le rispose infine, con la voce spezzata.

Carey rimase impietrita. Il suo peggior timore si era appena concretizzato.

«Non... non è possibile.»

«I ragazzi sono riusciti a riportarlo a casa... »

Carey iniziò a piangere. Le lacrime le si affollarono agli angoli degli occhi e poi le colarono lungo il viso smunto e sbiancato.

«Dov'è? Dove l'avete messo?»

La donna le indicò una porta dischiusa alla sua destra, così Carey si liberò lentamente dalla sua presa e si avvicinò ad essa. Afferrò la maniglia e l'aprì.

Un odore pungente di morte le arrivò nitido come un colpo possente nello stomaco, o una ferita lacerante nel petto. Se la sentì accanto, la morte: la percepì viva, come se stesse ansimando affianco al corpo morto, sul letto imbrattato di sangue e terriccio, placida e silenziosa, in attesa di riscuotere il pegno. E l’aveva riscosso, avanzando la scheletrica mano e impugnando il soldo pesante, che avrebbe subito perso in una delle sue tante tasche.

Carey entrò nella stanza debolmente illuminata. Si avvicinò al corpo e sollevò una mano per sfiorare quella livida del suo capitano. Con estrema drammaticità, vide che la testa gli mancava, strappata via da una mano potente.

«Organizzeremo una spedizione per cercare la testa... » le sussurrò Sally avvicinatasi alle sue spalle.

La tristezza per la sua perdita si sommò alla rabbia per non averlo soccorso. Si rivide cadere nei tunnel sotterranei della tenuta, perdersi nei suoi cunicoli e lottare con quel Succhiatore sconosciuto e si sentì profondamente stupida. Se soltanto fosse stata più attenta e avesse evitato quella botola, probabilmente avrebbe salvato Duncan. O sarebbe morta con lui.

I pensieri la percossero così violentemente che non riuscì a permanere oltre in quella stanza. Uscì dalla camera, si precipitò a passi svelti verso l'uscita e si allontanò dal centro, piangendo lacrime dense di amarezza e frustrazione. In vent'anni di vita aveva assistito prima alla morte prematura della madre, poi allo scempio del corpo del padre; ora doveva dire addio al suo maestro, a colui che più di tutti credette nel suo potenziale, nella sua intelligenza e capacità di reagire e sostenere la loro battaglia inumana. Giunta nel mezzo di una piccola pineta, retrostante l'armeria, crollò sulle ginocchia e urlò al silenzio con tutta la forza che le era rimasta.

Insieme al comandante Duncan, altri Rubini persero la vita quel giorno, compreso il secondo comandante Ferguson. I funerali vennero organizzati sotto la piramide di vetro che conservava il corpo della progenitrice dei Rubini: la piccola bambina dai capelli rossi, uccisa dai Livellatori, in uno dei primi scontri rimasti immemori nella storia del nuovo mondo.

Le bare vennero sepolte nel grande cimitero dei caduti. Mentre umani e Rubini riempivano il prato con le teste basse e gli sguardi affranti, il sacerdote si avvicinò alla tomba aperta del comandante Duncan e gettò della terra sulla sua bara di legno.

«Per quanto gli angeli splendenti riescano a rafforzare i nostri corpi, a renderli più resistenti, vigorosi e prestanti, la nostra carne resta umana. Le nostre ossa possono spezzarsi, il nostro sangue può colare e disperdersi, i nostri arti possono essere spezzati o frantumati. Noi possiamo morire, esattamente come tutte le altre creature di Dio. E questo dobbiamo accettarlo. Dobbiamo accettare di non essere della stessa materia del cielo, di non vivere d'aria e preghiera. Dobbiamo renderci conto che non esisteremo per sempre, che lì fuori qualcuno può uccide noi o le persone che amiamo e che dobbiamo essere in grado di sopportarlo. Dobbiamo avere la forza di resistere, di continuare ad alzarci. Di non cedere allo sconforto. Di non lasciare che i nostri nemici prendano il sopravvento e facciano di noi cenere da disperdere al vento.

Il comandante Duncan ci ha istruiti tutti a questo. Ci ha insegnato come risollevarci e tenerci in piedi, più forti di prima. Non trascurate le sue parole, non dimenticate i sui consigli e ammonimenti, perché vi saranno sempre utili. Fidato condottiero: guidaci, ovunque tu sia, e fa che la tua assenza, per quanto straziante e dolorosa, non ci trascini nell'oblio.»

 

***

 

Quella stessa notte, un’assemblea venne organizzata nella sala delle riunioni. A questa parteciparono soltanto i Rubini sopravvissuti, nonché Tyler, Carey e Sally. In passato avevano affrontato diverse perdite e sconfitte, avevano ricevuto molti colpi bassi e si erano ritrovati nelle condizioni di dover reimpostare tutto il loro assetto organico, ma non avevano mai subito un crollo morale di quella portata.

In silenzio, entrarono nella sala e si sedettero, chi al tavolo centrale, chi sugli scanni di legno negli angoli. Carey rimase in piedi, accanto al caminetto acceso.

«Non mi importa di diventare primo capitano. Non mi importa di come deciderete di procedere. Quello che dobbiamo fare, prima di tutto e di ogni altra cosa... è di trovare questa talpa bastarda che ci sta distruggendo. Non avremo più pace e non potremo più muovere un passo al di fuori di Newborn se questa talpa continuerà a mandarci i Succhiatori addosso.» Tyler prese parola, spezzando il pesante silenzio in cui galleggiavano.

«Lo so bene. È per questo che ho convocato solo i sopravvissuti dell'ultima spedizione. Per quanto mi riguarda, gli altri sono tutti sospettabili in egual modo.» Rispose Sally.

«Tu non eri con noi.» Tyler le rivolse uno sguardo carico di sfida.

«Non fare l'idiota, Tyler. Mia madre è meno sospettabile persino di te.» Carey lo aggredì sbraitando.

«Stiamo calmi. Se vuoi che non partecipi alla riunione, mi allontanerò subito.» Rispose Sally a Tyler.

«Non vai da nessuna parte. Tu hai combattuto e combatti per Newborn da quando era soltanto un presidio di cento anime. Se esci tu, allora esco anche io e le decisioni prese in questa riunione varranno meno di zero.»

«Carey stai calma... » le chiese la madre con tono affettuoso.

«Non agitarti. Ho fatto solo una costatazione. I motivi per cui qualcuno decide di tradire la propria bandiera possono essere tanti.» Proseguì Tyler.

Fu allora che Carey gli si scagliò contro e lo prese per l'attaccatura della felpa.

«Perché non l'hanno staccata a te la testa? Eh? Perché sono sempre i peggiori a rimanere?»

Sally le corse incontro e cercò di tirarla a sé. Altri due si avvicinarono e presero Tyler per le braccia. Nel frattempo qualcuno bussò alla porta e subito dopo un Rubino in addestramento apparve affannato.

«Perdonate l'intrusione! Ai cancelli è appena arrivato il comandante Foster con un gruppo dei suoi!»

I Rubini rimasero immobili a fissarlo. Poi smisero di tirarsi e strattonarsi e raggiunsero tutti gli altri ai cancelli. Quando questi vennero aperti, il comandante Foster apparve alla luce aranciata del tramonto, con la felpa e la lama sporche di sangue, gli stivali intrisi di fango e gli occhi pieni di evidente rammarico. Anche i cinque Rubini della sua scorta erano feriti e sanguinanti; dalla loro camionetta pendevano le mani abbandonate di due corpi morti e coperti con un panno scuro.

Costui fece un passo in avanti e si rivolse a Sally, che nel frattempo aveva attraversato la folla accalcatasi.

«Sono ancora sconvolto e costernato... »

«Abbiamo avvertito tutte le cittadine, ma non volevamo che rischiaste la vita per partecipare ai suoi funerali.» Gli rispose la donna con le lacrime agli occhi.

«Non potevo non venire... Duncan è stato più che un fratello per me. Ho radunato i migliori dei miei ma... abbiamo incrociato tre gruppi di Succhiatori, poco prima di entrare nei confini, e ci hanno colpiti duramente. Due dei più giovani hanno perso la vita... i Succhiatori erano insolitamente forti e preparati. Come se ci stessero aspettando.»

Sally chinò il capo e si passò una mano sulla fronte sudata. La talpa infiltratasi sembrava molto più furba di quanto potessero immaginare, e aveva intuito che qualcuno degli alleati si sarebbe recato a Newborn per manifestare il proprio cordoglio. 

«Mi spiace immensamente... ti parlerò di questo più tardi. Ora venite dentro e riposatevi.»

«Vorrei prima passare da lui... e salutarlo per l'ultima volta.»

«Purtroppo... abbiamo dovuto seppellirlo subito... i funerali sono stati celebrati stamattina.»

Foster aggrottò le sopracciglia, dispiaciuto. Poi le prese le mani.

«Non importa. Mi basterà sedere accanto alla sua tomba e pregare per lui...»

Detto questo, Sally condusse gli ospiti verso la casa di accoglienza e Carey rimase a fissarli in disparte. Di Foster aveva soltanto dei vaghi ricordi. Quando arrivò a Newborn da piccola, lui e Duncan gestivano la cittadina insieme e affrontavano le spedizioni spalleggiandosi a vicenda. All'epoca non esisteva una gerarchia militare, per cui non v'erano primi o secondi capitani. I due amici si limitavano a essere i capi del piccolo gruppo di Rubini e dei pochi sopravvissuti raccolti. Quando Newborn crebbe e si espanse, vi fu la necessità di creare degli ulteriori avamposti di controllo oltre i confini, così Foster fu costretto a separarsi da Duncan per presidiare in modo costante un'altra piccola cittadina nascente, ovvero Tomville. Per anni i due continuarono a organizzare spedizioni e assedi insieme, a programmare piani d'attacco e di espansione delle piccole colonie, ma col passare del tempo, sia la distanza, che la tangibile difficoltà di comunicare in tempi brevi, li portò a separarsi e a diventare indipendenti.

Da una decina di anni, ormai, Duncan e Foster si incontravano soltanto alle grandi riunioni tra i capitani delle colonie più vicine o in quelle sporadiche spedizioni massive, dove fosse necessaria la presenza di un gran numero di Rubini.

Improvvisamente una voce la raggiunse da dietro le spalle e la distrasse dalle sue riflessioni.

«Ah, sei qui.»

Carey si voltò e vide Max, scuro in volto.

«Non ti ho visto alla riunione prima.» Disse lei, chiudendosi la cerniera della felpa fino al mento, per il vento freddo che si era appena sollevato.

«Non sono venuto. Non ero nemmeno al funerale. Sono rimasto chiuso in camera.»

Carey gli chiese spiegazioni con lo sguardo.

«Volevo... restare da solo.»

Max aveva partecipato alla spedizione alla tenuta, ed era rimasto tra quelli posti di vedetta all'esterno. Dalla cima degli alberi, aveva visto i suoi compagni morire sventrati dai Livellatori. Le loro urla l'avevano raggelato nelle ossa e gli avevano lasciato un tremore che faticava a placarsi.

«Nessuno avrebbe mai immaginato che potesse finire in quel modo. A volte le spedizioni vanno lisce come l'olio, non si vede un Succhiatore a pagarlo. Altre vanno male... e ci lasciamo la pelle. Bisogna esserne consapevoli e accettarlo.»

«Lo so. Perdona il mio essere ancora tanto debole... »

Carey avrebbe voluto rimproverarlo del fatto che si fosse estraniato e sottratto ai suoi doveri comunitari, ma il dolore che covava nel cuore la rendeva così fragile e sensibile da impedirle di infierire su di lui.

«Non importa... fa' quello pensi ti faccia stare meglio.» Gli sussurrò, e si voltò per andarsene.

«Sarò più forte la prossima volta. Lo prometto.» Le disse di straforo, mentre la vedeva allontanarsi.

La verità era che Max avrebbe dato l'anima per riuscire a impressionarla, a stupirla e a convincerla che anche lui fosse forte, che fosse alla sua altezza. Che fosse degno di starle accanto, in tutti i sensi.

 

In tarda serata, dopo la cena commemorativa con gli abitanti di Newborn, insieme al comandante Foster e ai Rubini della sua scorta, Sally raggiunse Carey nel retro della grande mensa, dove era uscita a prendere aria, e le chiese di recarsi nella sala delle assemblee.

Qui vi trovò Tyler e i Rubini sopravvissuti, compreso Max. Dopo poco, anche Sally e Foster si presentarono e la donna li contò con una rapida occhiata. Poi chiuse la porta.

«Ascoltatemi bene... durante la visita al cimitero e la cena in memoria dei caduti, il comandante Foster mi ha raccontato di alcuni eventi accaduti a Tomville e mi ha fatto riflettere su alcune cose.»

Fatto un passo indietro, lasciò posto al capitano, che si avvicinò al grande tavolo centrale.

«Sally mi ha parlato del grosso problema che vi è piombato addosso, ovvero... della sicura presenza di una talpa all'interno di Newborn. Ecco, in altri contesti non mi sarei intromesso, ma l'enorme attaccamento che ho nei confronti della vostra cittadina, essendone stato uno dei fondatori, non mi permette di soprassedere. Per di più... esco appena da una situazione identica alla vostra. Anche noi abbiamo avuto una talpa nella colonia, che ci tradiva sistematicamente, portandoci a morte sicura ogni volta che uscivamo all'esterno. La sua ricerca e le energie perse per stanarla ci sono costate molto... in termini di risorse e di soldati. Gestire un problema simile senza allarmare i sopravvissuti e creare scompiglio non è cosa da poco... è per questo che sarei molto onorato se mi permetteste di aiutarvi a gestire la situazione.»

«Come avete stanato la vostra talpa?» Chiese Tyler incuriosito.

«Addestrando un gruppo ristretto e fidato dei nostri, che osservasse gli abitanti di Tomville da vicino e segnalasse ogni minimo sospetto.»

«In questo caso il gruppo scelto siamo noi... » Aggiunse Carey.

«Suppongo di sì. Deduco che Duncan avesse avuto la mia stessa pensata. Per essere sicuri che un gruppo di prescelti sia pulito al cento per cento, è necessario portarlo all'estremo. Avrà organizzato quella spedizione quasi esclusivamente per capire se poteva fidarsi di voi... »

Carey abbassò lo sguardo, presa da un forte senso di colpevolezza. Di certo non aveva tradito il suo capitano, ma l'aveva lasciato da solo a morire, e questo l'avrebbe tormentata in eterno.

«E alla fine chi era?» Chiese ancora Tyler

«Era un umano. Uno che raccattammo insieme ad altri superstiti qualche settimana prima che iniziasse a fare la spia. Era stato appositamente addestrato dai Succhiatori a farsi accettare dal gruppo di umani prima, e da noi dopo. La probabilità che sia un umano, anche in questo caso, è molto alta. Un Rubino non avrebbe alcun motivo per favorire i Succhiatori, poiché questi non scenderebbero mai a patti con lui. Mentre un umano è facilmente corruttibile, la paura stessa o la voglia di ottenere un qualche tipo di privilegio li spinge ad accettare l'inaccettabile.»

I Rubini presenti nella stanza iniziarono a parlottare tra di loro. Tyler rimase abbagliato da un'osservazione simile e il volto gli si illuminò di una nuova luce. Carey, invece, si rannicchiò in un angolo con le braccia conserte e rimase a riflettere.

«Domani dovrò ripartire, perché ho lasciato alcune questioni aperte a Tomville, ma appena avrò finito lì, potrò tornare e organizzare un piano ben fatto, che vi permetta di stanare la talpa e riprendere la vita che avete lasciato.»

«Ti saremmo molto grati se tu riuscissi davvero a tornare.» Disse Sally alle sue spalle.

«Ci sarebbe di grandissimo aiuto.» Aggiunse Tyler.

«Anzi... penso di parlare a nome di tutti dicendo che per noi sarebbe un onore se tu accettassi di affiancarci nel comando dell'intera cittadina.»

Carey sobbalzò.

«Di questo dovremmo parlarne in privato, prima. Non credi?» Gli suggerì a denti stretti.

«Perché mai? Foster ha fondato Newborn insieme a Duncan quasi vent'anni fa. È stato al fianco del nostro capitano come mai nessun altro, ragiona e agisce esattamente come avrebbe fatto lui. Nessuno potrebbe essere più adatto di Foster nel sostituirlo. Non lo sono io e non lo sei tu, Carey, che hai ancora la bocca sporca di latte.»

La ragazza si incupì e strinse i pugni per frenare l'impeto di saltargli addosso e picchiarlo.

«Sono passati troppi anni da quando Foster governava Newborn e tante cose sono cambiate. Ad ogni modo, credo che certe scelte vadano prese con calma e non di impulso.» Rispose con tono fermo e controllato.

«La ragazza ha ragione. Apprezzo molto la sua cautela. Sono onorato della proposta avanzatami e non escludo affatto l'ipotesi di accettarla. Ma voglio che ne siate tutti profondamente convinti.» Affermò Foster sorridendo a Carey con dolcezza. I suoi occhi color ghiaccio, sotto i capelli brizzolati, in contrasto con la pelle scurita dal sole, gli conferivano un'aria severa ma a tratti rassicurante.

«Durante la tua assenza ci consulteremo e ti comunicheremo la nostra decisione appena sarai di ritorno.» Gli disse Sally, per porre fine all'incontro.

«Perfetto... adesso, se non vi dispiace, andrei a riposare perché domani mattina vorremmo partire presto.»

«Sarebbe meglio diffondere una notizia erronea, ovvero che partirete in tarda mattinata o addirittura dopodomani, nel caso in cui la talpa facesse la spia.» Aggiunse Tyler.

«Mi sembra un'ottima idea. Torniamo alla mensa e riferiamo ai più che il comandante partirà dopodomani.» Concordò Sally.

«Molto bene. Partiremo prima dell'alba.»

Tutti annuirono concordi. Sally indicò a Foster la porta e Carey intuì che lei non gli avrebbe di certo fatto passare la notte nel dormitorio comune, ma che l'avrebbe ospitato in casa loro.

Nell'uscire, la donna lo fermò per un braccio.

«Dimenticavo che siete a corto di due componenti. Permettimi di prestarti due Rubini, così da ampliare la scorta.»

Il capitano rimase interdetto per la gentile offerta.

«Andremo io e Max.» Affermò Carey con decisione.

«Se la talpa non sarà così furba da prevedere i nostri piani, non dovremmo correre alcun pericolo.»

Sally le rivolse uno sguardo colmo di dissenso. La ragazza la stava palesemente sfidando, contrariata da tutte le particolari attenzioni che lei stava riservando al capitano.

«Io sono già pronto.» Affermò Max, sbucando dalla penombra. I due rimasero a guardare Sally con marcata determinazione.

«Va bene... ma in due siete pochi per tornare da soli. Con voi verranno Grimson, Lopez e Harris.» I tre Rubini, anch'essi sopravvissuti dell'ultima spedizione, dichiararono immediatamente la loro assoluta disponibilità.

A quel punto, Foster e Sally si incamminarono verso casa e tutti gli altri tornarono alla mensa per comunicare gli orari di partenza degli ospiti.

«Grazie per avermi incluso.» Max era rimasto molto colpito dal fatto che avesse scelto proprio la sua compagnia. Carey si strinse nelle spalle e abbassò la testa, soffocata dal peso di quella giornata tanto greve e malinconica. Avrebbe voluto dirgli che in tempi oscuri e sinistri, la cosa più saggia era di farsi degli amici fidati, guadagnarsi il loro incrollabile supporto e assicurarsi il loro perenne rispetto.

«Hai qualche avvertimento o consiglio da darmi?» Le chiese.

«Tieni gli occhi ben aperti e non sottovalutare alcun segnale... la morte è nascosta sotto le foglie più verdi.»

E mentre lo lasciava crogiolarsi in un'ansia crescente, decise che l'indomani sarebbe stato perfetto per fare un qualcosa che aveva in mente. Qualcosa che non l'avrebbe lasciata dormire per chi sa quante notti ancora.

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Capitolo 6
*** "Facciamo un patto" ***


Molto prima che il sole si affacciasse all'orizzonte, mentre l'aria fresca e umida lambiva le strade deserte e i fari delle torrette di veglia, in un nitido silenzio, Carey uscì di casa, senza aver nemmeno preso la sua solita tazza di caffè. Si sollevò la cerniera della felpa fino al naso e il cappuccio sulla testa, infilò le mani in tasca e aspettò, a occhi chiusi, che il comandante Foster e Sally uscissero a loro volta. Da lontano, sotto la luce fioca degli alti lampioni notturni, vide avvicinarsi la figura smilza e poco aggraziata di Max. Anche lui proteggeva la folta chioma castana nel cappuccio; il suo naso bianco, a punta, sbucava dalla felpa, così come i suoi sottili occhi verdi.

«Sei armato?» Le chiese Carey appena le fu a mezzo metro di distanza.

Il ragazzo sfilò un lungo coltello che nascondeva dietro la schiena. Da sinistra, a passi svelti, sopraggiunsero i Rubini Grimson, Lopez e Harris, tutti con i volti scavati per quelle nottate prive di un tranquillo riposo.

Carey li salutò con un cenno del capo. In breve anche i Rubini della scorta di Foster si unirono a loro, con i passamontagna già indossati. Poco dopo, il capitano e Sally apparvero sulla soglia. Scesero lungo i gradini e salutarono tutti con un sorriso.

Ai cancelli principali, i guardiani del turno di notte restarono molto stupiti dal vederli arrivare senza alcun preavviso, ma non fecero domande e si limitarono ad aprire.

«Meditate, allora, su quanto detto. Sarò di ritorno a Newborn tra dieci giorni. Accetterò qualsiasi decisione prendiate, purché vi soddisfi tutti.» Foster salutò così Sally e Tyler, che si era fatto trovare ai cancelli.

«Ci sarà poco da discutere. Il nostro equilibrio è molto precario. Viviamo sotto costante rischio e dobbiamo agire quanto prima, o inizieremo a crollare da dentro.» Rispose Tyler.

«Nessuno saprà che tornerai. Da oggi in poi tutte le decisioni che prenderemo resteranno in questa ristretta cerchia di Rubini, dunque spero che al tuo ritorno nessuna minaccia ostacolerà il tuo cammino.» Aggiunse Sally.

«Lo spero anch'io. Vedrete che le cose si sistemeranno. Non vi lascerò da soli; insieme usciremo da questa assurda situazione.» Tutti i Rubini sollevarono un pugno sul cuore, in segno di rispetto, tranne Carey.

Mentre il gruppo fuoriusciva dalle porte di Newborn, Sally prese il braccio della figlia: «stai molto attenta. Non fare di testa tua, non allontanarti e non andare più veloce degli altri. Metti da parte l'orgoglio e la rabbia che hai dentro. Ora è tempo di ascoltare gli adulti.»

«Mentre eri distratta, io sono cresciuta.» Le disse ritraendo il braccio. Sally era stata la madre perfetta, la madre che tutti i figli sognerebbero: dolce e protettiva a tratti, rigida e intransigente in altri. Ma Carey doveva colpirla. Doveva colpire tutti coloro che avesse intorno, o il dolore che covava le avrebbe ristagnato nell'animo e l'avrebbe fatto marcire.

Senza rivolgerle lo sguardo, indossò il suo passamontagna di lana scuro e si addentrò nella coltre scura, aldilà dei cancelli.

Foster e i suoi Rubini salirono sulla camionetta e imboccarono il sentiero principale, seguiti da quella dei Rubini di Newborn, con Grimson alla guida.

«Cosa si staranno dicendo?» Chiese Max a Carey, osservando Foster e i suoi parlottare.

La ragazza non gli rispose e si limitò a risollevarsi il cappuccio, abbassato per indossare il passamontagna.

Il bosco rischiarato dalla prima luce del sole appariva di un unico verde-bluastro, la terra era fangosa per le recenti piogge, alcuni uccelli notturni scandivano i minuti, prima di rintanarsi, e le due auto procedevano a velocità sostenuta poiché fuori dalle capitali era fondamentale non perdere mai troppo tempo. Con gli occhi ben aperti e le armi alla mano, i Rubini raggiunsero il confine dei territori sotto il controllo di Newborn, in poco meno di un'ora. Una volta lì, rallentarono e Grimson accostò accanto all'auto di Foster.

«Poco più in là ci sono due gruppi dei nostri che ci attendono. Grazie per averci accompagnati fin qui.» Affermò il capitano affacciandosi di lato.

«È stato un onore. Ci rivedremo a Newborn.» Gli rispose Grimson.

Il capitano annuì sorridendo. I Rubini si salutarono con un cenno del capo e la loro camionetta proseguì al di là del confine.

Carey era rimasta poggiata al bordo dello sportello scoperto, e si era limitata a osservare il congedo in silenzio.

«Cosa ne pensi di questa storia? Credi che Foster possa davvero aiutarci?» Max si rivolse nuovamente alla ragazza.

«Foster potrebbe essere la nostra unica salvezza.» Rispose il Rubino Harris, sedutogli di fronte.

«Ma sono anni che manca da Newborn, come potremmo fidarci di lui in battaglia? Lo conosciamo pochissimo.»

«Perderemmo molto meno tempo ad adeguarci a lui che a cercare un simile sostituto di Duncan.» continuò Harris, sfilandosi il passamontagna e liberando i suoi lunghi capelli neri.

«Se Foster prende il controllo di Newborn, tutto il potere primario finirà nelle mani della sua cerchia ristretta di soldati. Noi finiremmo a fare le vedette sulle torri di controllo.» Affermò Carey, senza distogliere lo sguardo dalla fitta vegetazione circostante.

I Rubini rimasero in silenzio.

«Sarà come consegnargli la città e permettergli di annetterla a Tomville. Nel consiglio primario sarebbe il capitano con i confini più ampi dell'intera regione.» Continuò.

«E se anche fosse? Non vedo perché l'unione delle due città possa rappresentare una minaccia. Potremmo diventare una piccola potenza, e iniziare davvero a sperare di poter prevaricare sui Succhiatori.» Aggiunse Harris.

«Beh... questo è vero.» Max concordò a bassa voce.

Improvvisamente Carey bussò sulla parete della cabina frontale e sia Grimson, alla guida, che Lopez, alla destra, si voltarono nella sua direzione.

«Grimson, prosegui lungo quel sentiero oltre il filare di pini.»

«Dove vuoi andare?» Le rispose.

«Con Tyler e Sandy ho concordato in segreto che saremmo ripassati dalla tenuta settecentesca per cercare i resti dei nostri compagni.»

Tutti i Rubini rimasero attoniti.

«Perché noi non sappiamo nulla?» Le chiese Lopez.

«Perché non volevamo che trapelasse la minima informazione e che Foster e il suo gruppo ci udissero. Non ci fidiamo ancora del tutto di loro.»

«Come facciamo a sapere che non sia una tua iniziativa?» Continuò Lopez.

«Perché credi che Sally abbia convocato anche voi tre oltre a me e Max? Pensi che servissero davvero cinque Rubini per accompagnare una camionetta ai confini?» Grimson e Lopez si guardarono dubbiosi.

«Se volete tornare indietro fatelo pure, ma ricordatevi che Tyler è ancora in grado di declassarvi.»

Grimson sbuffò allargando le narici e Lopez si abbassò il passamontagna sul viso, per nascondere il forte dissenso. Max e Harris alle spalle della ragazza erano rimasti immobili e silenziosi.

«Stiamo tornando alla tenuta?» Si limitò a sussurrare Max con gli occhi atterriti. Lo shock per la disastrosa sconfitta di due giorni prima non gli era ancora passato. Il solo pensiero di rimboccare il sentiero che portava alla base della collina gli provocò un tremito viscerale.

La camionetta svoltò verso la direzione indicata da Carey, mentre un sole pallido imbiancava il cielo umido. In pochi minuti arrivarono nello stesso punto in cui avevano lasciato il veicolo la volta precedente. Grimson spense e tutti scesero lentamente.

«Harris e Lopez: restate fuori e pattugliate. Max e Grimson: salite lungo i piani dell'edificio e raccogliete tutto ciò che potrebbe somigliare... »

«Alla testa di Duncan.» Esordì Grimson, rimarcando che fosse ben chiaro a tutti il vero scopo di quella deviazione.

«Al primo fruscio, gemito o rantolo di qualsiasi natura, battete in ritirata e tornate qui. Nessuno deve farsi male oggi. È chiaro?»

I Rubini annuirono con un lieve cenno del capo, poi avanzarono silenziosi come fantasmi. Corsero rapidamente lungo la collina, tutti uguali nelle loro tute verdastre e passamontagna neri.

Carey puntò la cantina sotterranea, senza nemmeno pensarci due volte. Il cuore aveva iniziato a batterle con vigore nel petto e le rimbombava nelle orecchie, tanto da coprire i rumori dei suoi passi. Percorse le scale in pietra consumate e si inoltrò nel cuore buio di quella tomba gocciolante. Batté le mani per farsi luce, prese fiato e procedette a passi svelti lungo quel corridoio che li aveva condotti tutti alla morte. Quando giunse finalmente nell'enorme deposito dove era caduta rovinosamente con Duncan, due giorni prima, il cono di macerie proveniente dal soffitto crollato apparve nitido sotto la luce biancastra del piano superiore. L'immagine del Livellatore brandente il capitano per il collo, su quell'altare di cocci e mattoni, le fermò per un istante il respiro. A passi lenti e cauti, vi si avvicinò, osservando ogni pietra, cavo, trave e frammento di intonaco. Con occhi sgranati, individuò la botola cieca nella quale era caduta, costringendola alla ritirata e forse alla salvezza. Deglutì tremante e procedette ancora. Vide alcuni brandelli di stoffa e si avvicinò con le mani inguantate. Le sollevò, analizzò e studiò uno per uno, senza trovarvi nulla di importante. Poi comprese di dover scavare, di dover smuovere quei detriti grossolani e sporcarsi o non avrebbe ottenuto nulla. Man mano che i frammenti crollavano o saltavano di lato, tutto lo spazio iniziò a sembrarle più chiaro e meno confuso. Scavò con impeto e disperazione. Infine si bloccò quando, sotto un pannello bruciacchiato, intravide qualcosa di tondo, rivestito da quello che poteva sembrare un passamontagna.

Si avvicinò con cautela e allungò la mano per tastarlo. Quando lo sfiorò, si accorse che poteva certamente essere una testa, per la durezza e la pesantezza. Allora prese fiato, l'afferrò e la trascinò a sé; nella penombra e con un'ansia che le offuscava la vista, individuò i lembi inferiori slabbrati e li tirò verso la cima del contenuto.

Quella che ne venne fuori era, sì, una testa, ma dei canini prominenti e sporgenti dalle labbra avvizzite, una peluria del viso rossastra e dei boccoli sudici sulla fronte le gridarono immediatamente che non fosse quella del suo capitano. Così le cadde dalle mani e rotolò via. Ella indietreggiò e scoppiò in un pianto di feroce sconforto. Si sfilò il passamontagna per la mancanza d'aria e crollò sulle ginocchia, sfinita dalla forte emozione.

La deviazione in quel posto infernale, la scelta di ingannare tutti gli altri affinché la seguissero e la stupidità nel credere che il ritrovamento della testa di Duncan potesse fare una pur minima differenza, la gettarono in un moto di sconforto. Si avvolse la testa con le mani e rimase per qualche secondo a dondolarsi, per raccogliere un briciolo di stabilità. Non avrebbe mai immaginato di poter essere così fragile.

Il misto di lacrime, voci interiori e battito frenetico del cuore aveva ormai sovrastato tutto il resto, persino il rumore dei passi di un qualcuno che le si era avvicinato e sostava a poco meno di un metro da lei, immobile, alle sue spalle.

Mentre singhiozzava e stringeva la stoffa dei suoi pantaloni con le dita, la punta gelida di una lama le sfiorò il viso e scostò i capelli dal collo.

Balzò in piedi spaventata e si girò. La luce pallida proveniente dal soffitto scopriva solo in parte una figura alta e longilinea. Nella restante penombra, due occhi adamantini brillavano incuriositi.

«Chi sei?» Gli chiese, sfilando la lama dalla custodia.

La figura avanzò verso la luce; una barbetta e dei capelli color paglia su un volto asciutto e severo, le schiarirono subito le idee.

Il Succhiatore incontrato nei cunicoli sotterranei sostava immobile dinnanzi a lei, come se fosse sempre stato lì.

«Quello è uno dei nostri. Mettono le teste nei sacchi o nei passamontagna e ci giocano a mo' di fionda.» Affermò, indicando il suo previo ritrovamento.

«Perché sei qui?» Le chiese poi, osservando perplesso le lacrime che le rigavano il viso.

Carey non avrebbe mai voluto mostrarsi tanto volubile ed esausta dinnanzi a un nemico.

«In quanti siete?» Gli si rivolse lei con durezza, ignorando la sua domanda.

«E voi? Perché siete tornati?»

La ragazza rimase a fissarlo. Non sapeva quanti dei suoi fossero in zona, se i suoi compagni ne avessero già incontrato qualcuno e fossero tornati alla camionetta, se invece fosse la prima essere stata scovata e avrebbe quindi potuto evitare che costui chiamasse i rinforzi.

«Sono sola. Sono venuta a raccogliere le armi lasciate sul campo.»

Il succhiatore abbassò la sua spada e sogghignò.

«Vuoi farmi credere che siete così a corto di risorse da dover tornare in campo a racimolare qualche ferraglia dai cadaveri?»

Carey strinse i pugni. Poi avanzò nella sua direzione con lo scopo di passargli accanto e proseguire verso l'uscita.

«Sei libero di non crederci.»

«Dove vai?» Le risollevò la spada davanti, onde bloccarle la strada.

«Vuoi combattere? Qui? Adesso?»

«No. Voglio sapere perché sei tornata.»

«Cosa importa?» Gli rivolse uno sguardo colmo di sfida. Rimasero in silenzio per pochi secondi.

«Stai cercando la testa di un certo Duncan, vero?»

Carey sobbalzò.

«In città hanno festeggiato tutti come forsennati quando hanno saputo che i livellatori l'avevano ammazzato. Io non sapevo nemmeno chi fosse... »

«I livellatori hanno ammazzato anche molti dei vostri.»

«Sì... hai ragione. Ma quello non interessa a nessuno. I morti son morti... è per i vivi che l'incubo continua. Bisognerebbe compatire i vivi, piangere per loro e non per quelli che non hanno più pene da soffrire.»

La ragazza avrebbe fatto volentieri a meno della sua filosofia spicciola.

«I vivi piangono i morti quando li hanno amati. Voi non amate nessun altro che voi stessi, dunque non avete motivi per disperarvi.»

«Hai ragione. Noi siamo i cattivi. Voi siete quelli dal cuore grande e luminoso. Quelli che combattono per riportare l'amore nel mondo, che si sacrificano perché il bene e la giustizia trionfino sul marcio di noi altri.»

«Come sai che gli manca la testa?»

«Eh?»

«Prima mi hai chiesto se stessi cercando la testa di Duncan. Come sai che gli è stata staccata?»

«Beh... perché... »

Il succhiatore riabbassò la spada.

«Ce l'abbiamo noi. Gli altri sono riusciti a raccoglierla prima di darsi alla fuga. Dovevano dimostrare agli anziani che il vostro capitano fosse morto.»

Carey sbigottì con una veemenza che non riuscì a camuffare. Il Succhiatore rimase a studiare quella strana figura in cui si era imbattuto per la seconda volta, senza volerlo.

Improvvisamente si udirono dei passi echeggiare dall'ingresso del lungo corridoio. Il Succhiatore si voltò di scatto e poi tornò con lo sguardo sulla ragazza.

«Mi hai mentito. Non sei sola.»

La voce di Max arrivò poco distinguibile.

«Tu perché sei qui?» Gli richiese sottovoce, cosa che lo convinse inconsciamente a risponderle.

«Ci vengo spesso. Ci venivo anche prima della strage.»

La ragazza comprese che fosse da solo. La voce di Max si espanse più chiara di prima, segno che si stava avvicinando.

«Ascoltami... siamo in cinque, non hai speranza di sopravvivere. Ti propongo un patto: se fingo di non averti visto e convinco i miei ad andare via, tu tornerai qui, tra due giorni, e mi porterai la testa di Duncan.»

Il Succhiatore strinse l'impugnatura della sua lama.

«Carey, sei qui?» Max era ormai prossimo all'ingresso del magazzino.

«Tra due giorni. Va bene... accetto.»

Carey gli si era avvicinata tanto da sentirne l'odore della pelle. Con affanno provò a sembrargli il più onesta e sincera possibile.

«Ci vedremo qui, al calare del sole.»

«No, non qui. Vediamoci al lago. Sotto il promontorio. C'è una piccola grotta nella roccia. È un posto sicuro.»

La ragazza annuì. Poi gli passò accanto e corse verso l'ingresso del magazzino, dove Max stava per fare capolino.

«Andiamo via. Non c'è nulla.» Gli disse quasi investendolo.

«Con chi parlavi?» Le chiese stranito.

«Con nessuno. Ero sola lì dentro.» La ragazza adottò un tono fermo e risoluto

«Mi è sembrato di aver udito... »

«Erano rumori sparsi. Tutto rimbomba in questo scheletro di mattoni.»

Il ragazzo allungò lo sguardo verso l'interno dell'ampio e tetro spazio.

«Con Grimson abbiamo ritrovato la spada di Ferguson e pochi altri brandelli degli altri.»

«Bene. Li porteremo alle loro tombe. Adesso andiamo.» Nel superarlo, gli passò teneramente una mano sulla spalla e questo lo riempì di profondo appagamento, in quanto Carey non l'aveva mai sfiorato se non con dei colpi durante i loro allenamenti.

Tornati sulla camionetta, i cinque Rubini percorsero la strada del ritorno in silenzio, ognuno immerso in pensieri diversi. Harris, Lopez e Grimson finirono per convincersi che Carey li avesse raggirati e lanciati in un'iniziativa potenzialmente mortale. Max continuò a concentrarsi sulla sensazione tattile lasciatagli dal tocco della ragazza sulla sua spalla, così da non dimenticarla.

Carey provò una sottile sensazione di sollievo. Forse, in qualche modo, quel patto con il Succhiatore l'avrebbe avvicinata all'accettazione molto più che ore e giorni di preghiere.

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