War of Hearts

di VALE__97
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Escape ***
Capitolo 2: *** Till the end of the line ***
Capitolo 3: *** I will miss you ***
Capitolo 4: *** A long day ***
Capitolo 5: *** Nomad ***
Capitolo 6: *** I found you ***
Capitolo 7: *** You’re a terrible liar ***



Capitolo 1
*** Escape ***


CAPITOLO 1

Escape

Wanda

Il silenzio assordante mi colmava la testa di pensieri, gli unici a farmi compagnia in quella cella di isolamento.

Non avevo opposto nessuna resistenza quando una squadra di agenti del governo mi aveva bloccata e scortata lì dopo lo scontro in aeroporto.

Mi doleva ancora ogni singolo muscolo e a causa delle onde ad alta frequenza che mi avevano poche ore fa stordita, sentivo ogni rumore attutito. Rumore?

Solo in quel momento mi accorsi che all’esterno della cella proveniva un fragore sommesso, come se le guardie avessero ingaggiato una lotta per conquistarsi l’ultima ciambella.

Ci fu un breve silenzio seguito dall'avviso sonoro che precede l’apertura delle porte. Il cuore mi sussultò quando dietro alle sbarre scorrevoli comparve finalmente un volto amico: Steve Rogers.

~~<><><><>~~

Quando mi vide rannicchiata contro l’angolo delle pareti vidi una scintilla di rabbia nei suoi occhi. «Che ti hanno fatto? » disse contraendo la mascella e scattando nella mia direzione.

«Sto bene » sospirai. Si inginocchiò davanti a me e cominciò a sciogliermi dalla prigione di cinghie che mi avvolgeva dal collo alla vita. Quando fui libera mi avvicinò al collo una sorta di telecomando per liberarmi dall’anello di ferro che avevo al collo.

La luce a intermittenza rossa si spense e potei togliermi quell’affare di dosso.

«Fin troppo facile » disse lui, che ammiccò e gettò il telecomando dietro di sé. Sorrisi involontariamente e allo stesso tempo sentii gli occhi imperlarsi di lacrime. Pensavo che avrei riavuto la mia libertà dopo mesi o forse anni ma avevo sperato con tutte le mie forze che qualcuno mi sottraesse da quello spazio grigio e triste in cui mi trovavo.

«Wanda...ce la fai ad alzarti?» non dissi nulla, mi limitai ad annuire. Steve afferrò il mio braccio e lo mise attorno al suo collo per sostenermi e rialzarmi dal mio giaciglio.

Mi trascinò lungo il corridoio e percorremmo qualche decina di metri, superando guardie distese a terra e allarmi che rimbombavano tra le pareti grigie.

Dopo qualche minuto arrestammo la nostra corsa dinanzi a un portone metallico che indicava essere l’uscita di emergenza. Barcollai quando Steve mi lasciò il braccio e si avvicinò alla soglia. Esaminò per qualche secondo la parete alla ricerca di un appiglio, il sistema elettronico in allarme non permetteva l’apertura automatica delle uscite.

Lo avrei aiutato volentieri ma mi accorsi che avevo ancora in circolo qualche traccia di sedativo e non avrei avuto la forza per spostare nemmeno un foglio di carta.

Finalmente Cap riuscì a far leva sfruttando la fessura che si creava tra il passaggio e la parete iniziando poi a tirare con forza. La porta continuò a scorrere lungo i cardini stridendo fastidiosamente fino a quando un colpo secco non segnò la fine della sua corsa.

«Prima le signore. » disse riprendendo fiato e indicando la scala a chiocciola avvolta nella penombra. Raccolsi le forze, lo superai e iniziai a risalire le scale, quasi incespicando ad ogni gradino. Sentii le mani calde di Steve cingermi le spalle.

«Salta, ti porto sulle spalle.» mi imbarazzai a tal punto che sentii le guance avvampare quando si girò per farmi montare sulla sua schiena. Iniziò a salire i gradini correndo e d’istinto strinsi forte le gambe attorno alla sua vita fino a che non si arrestò una volta raggiunta la fine della scalinata e mi posò a terra delicatamente.

Sferrò un calcio ben assestato alla porta di fronte a noi e mi prese la mano trascinandomi all’esterno. Avvistai davanti a noi il Quinjet che ci attendeva avvolto dal vento che sferzava dal roteare delle turbine. Il portellone posteriore era abbassato per permetterci di entrare e le ali erano spiegate e pronte alla partenza in volo, tutto lasciava intendere che vi era l’urgenza di dileguarsi al più presto da quel luogo.

«Finalmente siete qui» riconobbi la sua voce ancor prima di vederla, era Natasha, che a grandi passi ci raggiunse. «...pensavo ti fossi perso.» continuò lei, rivolgendo a Steve un sorriso beffardo.

«Era a due livelli più sotto degli altri, scusa se non ho avvisato.» disse lui con tono di sfida.

Percorsi gli ultimi metri costringendomi a fatica a mettere un piede davanti all’altro e mi sedetti sul primo sedile che trovai. Nat andò al posto di guida del Quinjet e vidi che Sam era accanto a lei, vicino a me rimase Steve e poco distante riconobbi James Barnes. Quest’ultimo stava premendo un panno bianco sul braccio sinistro ormai mancante e dal quale usciva una sostanza nera piuttosto densa, somigliante a del sangue. Non potei fare a meno di domandarmi che cosa lo avesse privato del suo braccio bionico e mi immaginavo uno scontro violento ingaggiato poche ore prima.

Natasha avviò i motori di volo e poco dopo la chiusura del portellone l’aereo si liberò in aria lasciandosi dietro il Raft.

Steve si sedette di fronte a me senza dire una parola.

«Grazie.» Azzardai.

«Non devi ringraziarmi»ci fu una breve pausa «...piuttosto sono io che dovrei ringraziarti.» continuò. Il suo volto per un attimo si rilassò e le sue labbra si incurvarono formando un luminoso sorriso.

Sapevo che fosse mirato a farmi sentire più tranquilla, ma era comunque una magnifica finestra sul suo viso.

«Dovrei ringraziarvi tutti. Non so se mi merito tutto questo.» disse infine, strascicando le ultima parole, quasi sussurrandole a se stesso.

«Taci Steve!» lo ammonì Natasha.

La crepa che si era spalancata all’interno degli Avengers era apparentemente insanabile e Steve Rogers cercava di raccogliere i cocci. Era a pezzi, lo eravamo tutti… Non c’erano né vincitori né vinti, avevamo tutti perso e ne eravamo ben consapevoli. Che cosa avremmo fatto da quel momento in poi nessuno lo sapeva, non mi serviva leggere le loro menti perché lo potevo benissimo intuire dalle loro facce affrante e pensierose.

«Che cosa facciamo capitano?» disse Sam rompendo il silenzio.

«Non chiamatemi più così...»

Ebbi un tuffo al cuore e alzai lo sguardo verso di lui, era corrucciato e scuro in volto, pieno di rimorsi.

Lo avevo conosciuto qualche anno fa come Captain America, ma non l'avevo mai visto solo come un simbolo di una nazione, piuttosto come un uomo che portava avanti i suoi ideali di libertà e di giustizia essendo per noi tutti un grande leader.

Ma da tempo sentivo che in lui qualcosa era cambiato, stava affrontando una continua lotta con se stesso con la consapevolezza che non avrebbe mai vinto.

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Capitolo 2
*** Till the end of the line ***


CAPITOLO 2

Till the end of the line

Steve

Il sole stava già facendo capolino tra le nuvole rosate dell’alba quando atterrammo in Wakanda.

Non calpestavo il suolo africano da quando due anni prima avevamo affrontato Ultron in una vecchia petroliera presa dai pirati. Non potei fare a meno di pensare che in quell’occasione gli Avengers erano uniti.

Quando uscii dal Quinjet l’aria del mattino era fresca e pungente, rimasi affascinato dalla mescolanza dell’azzurro, e del color giallo del timido sole del crepuscolo. Alle mie spalle Nat e Bucky mi seguivano ammirando i moderni palazzi che si ergevano verso il cielo, custoditi da verdi montagne a farne da cinta.

Ad accoglierci vi era T’Challa, il principe di quella fiorente nazione, affiancato da due donne vestite con una armatura in pelle dai motivi etnici e bracciali di metallo. T’Challa era avvolto in un completo color vino e un sorriso bianchissimo faceva contrasto con la sua carnagione scura. «Sono lieto di accogliervi in Wakanda.» disse stringendomi la mano.

«Grazie per aver ascoltato il nostro messaggio.»

«Sono in debito con voi.» disse facendo un cenno col capo a Bucky.

Rimasi sorpreso da come mi trovavo a mio agio con T’Challa, non si atteggiava a re e non usava un tono di superiorità come credevo fosse consono a qualcuno del suo rango.

~~<><><><>~~

Seguimmo T’Challa all’interno di quello che immaginavo essere la residenza reale, non era il palazzo più alto ma era sicuramente il più imponente. All’ingresso due uomini in camice bianco si avvicinarono a Bucky con quella che sembrava una barella sospesa a mezz’aria. T’Challa soffocò una risata nel vederci tutti sbigottiti dalla particolarità di quella portantina.

Bucky rifiutò di farsi trasportare e non capii se la ragione fosse la sua ostinatezza nel voler farcela da solo, oppure il non voler coricarsi su quel mezzo.

~~<><><><>~~

Pochi minuti dopo raggiungemmo il laboratorio e le due donne, che ci avevano scortati, si arrestarono all’ingresso con un colpo di lancia contro il pavimento.

Il laboratorio era spazioso con una serie di schermi che andavano a coprire gran parte delle pareti nella stanza. Poco distanti da noi notai che un gruppo di uomini e donne erano raccolti davanti a una scrivania, assorti a svolgere il loro lavoro.

Una ragazza esile si scostò dal gruppo e ci raggiunse guizzando.

Aveva i capelli neri raccolti in uno chignon e notai all’istante la sua giovane età. «Lei è mia sorella, la principessa Shuri.» la presentò T’Challa.

Inchinammo il capo simultaneamente e quando rialzai lo sguardo vidi il sorriso compiaciuto della ragazza.

«Hai visto fratello!» affermò Shuri indicandoci con un cenno «Prendi esempio dalla loro cortesia.»

«Ma smettila...» bofonchiò lui.

«Quando mio fratello mi ha illustrato la situazione ho subito avvertito i migliori medici del paese...» Iniziò a spiegarci Shuri mentre ci conduceva nel laboratorio accanto. «Ammetto che non abbiamo mai affrontato un caso simile, ma sono sicura che troveremo la migliore soluzione. »

La ragazza fece sedere Bucky sul lettino posto al centro del laboratorio e ci raccogliemmo tutti attorno a lui.

«E’ un piacere averla qui Generale Barnes.» disse Shuri in tono amichevole.

«In realtà sono Sergente...» affermò Bucky con misurato imbarazzo «Sergente Barnes. Ma...»

«Scusa non conosco i gradi dell’esercito americano. » Lo interruppe lei stringendo i denti in un timido sorriso.

Con un tocco attivò il bracciale che portava al polso e da una perla di esso fuoriuscì una linea di luce. Poi la ragazza fece scorrere quella sorta di scanner ottico lungo il corpo di Bucky il quale, d’istinto chiuse gli occhi per qualche secondo. Ricevuti i dati, gli schermi attorno a noi mostrarono lo schema del corpo del nostro compagno, illustrando un articolato sistema di vasi sanguigni e arterie.

«Notevole.» dichiarò Bucky sorpreso, volgendosi in direzione dello schermo accanto a lui.

Un uomo si avvicinò a Shuri e le sussurrò qualcosa all’orecchio. Decisi di non ascoltare quella conversazione ma notai il volto della ragazza cambiare espressione e diventare più composto.

La ragazza si schiarì la voce. «Purtroppo devo chiedervi di uscire. I nostri medici provvederanno a illustrare al paziente tutte le possibili soluzioni. » capii che vi era urgenza di stabilizzarlo, sia a livello fisico che psicologico e mi sforzai per non ribattere.

Prima di seguire gli altri all’esterno della stanza appoggiai la mano sul ginocchio di Bucky, aveva i muscoli tesi e lo sguardo deciso.

«Andrà tutto bene Steve.» mormorò lui.

«Lo so.» gli dissi sorridendo.

Mentre mi allontanai pensai a come avevo perso tutto per difenderlo, per salvarlo, ma non potevo pentirmi per come erano andate le cose; lui era ancora vivo. Bucky era l’unica persona che ormai mi era rimasta del mio passato, lo conoscevo da quando avevo memoria e mi aveva salvato da così tante risse che avevo perso il conto. Non lo avrei mai dimenticato.

Forse mi ero lasciato dietro qualche pezzo di me stesso ma ripensai a quella frase che suonava nella mia testa come una promessa. Io sarò con te fino alla fine.

Wanda

Mi sembrava di aver appena chiuso gli occhi quando udii una voce pronunciare il mio nome. Aprii a fatica le palpebre e riconobbi Steve. Era accomodato su di una sedia poco distante da me e si teneva la testa tra le mani, appoggiando i gomiti sulle sua ginocchia. Aveva un’aria assente.

Scattò in piedi e si avvicinò al letto sul quale ero distesa.

«Non ero sicuro che ti stessi svegliando.» disse sussurrando come se stessi ancora dormendo.

Cercai di alzarmi facendo leva sul materasso con i gomiti e riuscii a sollevare completamente la schiena.

«Che ore sono?» chiesi biascicando involontariamente le parole.

«Circa le cinque del pomeriggio...»

«Stai dicendo che ho dormito tutto il tempo?» dissi cercando di non apparire troppo agitata.

«Dormivi così profondamente che nessuno ha voluto svegliarti.» disse, e gli angoli della sua bocca si incurvarono in un sorriso. «Ne avevi bisogno.»

Mi rigirai con fare nervoso una ciocca di capelli tra le dita chiedendomi come potessi, in un momento come quello, riuscire a dormire. Mi guardai intorno, era un posto in cui non ero mai stata prima. «Dove ci troviamo.»

Steve esitò evitando il mio sguardo. «Siamo...in Wakanda.» disse, trattenendo il fiato e aspettando la mia reazione.

Scossi la testa e mi piombò addosso, come una doccia fredda, il ricordo di ciò che qualche settimana prima era successo a Lagos. Ero stata precipitosa, i miei sentimenti avevano prevalso e, per salvare Cap da una bomba, avevo deviato l’esplosione altrove. A causa mia cittadini wakandiani avevano perso la vita.

Steve appoggiò la sua mano sulla mia, cercando il mio sguardo. «Wanda...ascoltami...ne abbiamo già parlato...» disse con voce rotta. «Sanno come sono andate le cose realmente.»

Mi prese il viso tra le mani con un tocco leggero, delicato, ma deciso.

«Se tu non fossi intervenuta sarebbero morte molte più persone...» Il suo viso era a pochi centimetri dal mio, i suoi occhi azzurri erano limpidi come il cielo estivo e potevo sentire il suo respiro solleticarmi le guance. «E io non sarei qui a farti questa conversazione.» disse infine sussurrando.

Sentii il calore diffondersi sul mio volto facendomi lacrimare gli occhi. Lui mi passò i pollici sulle guance senza dire nulla, limitandosi a sorridermi.

Qualche secondo dopo si scostò e si avvicinò alla finestra. Quel vetro che separava noi dall’esterno era così spazioso da riempire con i colori del tramonto tutta la stanza.

«Il tramonto qui è uno spettacolo.» disse tra sé e sé diventando scuro in volto, travolto da mille pensieri.

«Dove sono gli altri?» domandai per distrarlo.

«Sam è rimasto sul Quinjet per supervisionare le riparazioni, Natasha è nella stanza qui a fianco e....» si interruppe di colpo. «Bucky...lui...» vidi il suo sguardo spostarsi sul pavimento e poi al soffitto. «è con i medici da questa mattina.»

Non conoscevo molto su Barnes ma sapevo con certezza che lui e Steve si conoscevano da tutta la vita, che avevano combattuto fianco a fianco, erano molto più che amici; erano fratelli. Un giorno poi James cadde da un dirupo e Steve credeva di averlo perso per sempre. Quello che successe al sergente Barnes in seguito fu una serie di avvenimenti da dimenticare; era infatti stato catturato dall’Hydra e usato come pedina di un progetto più grande.

Steve scossò la testa come a voler allontanare quei brutti pensieri e si passò una mano fra i capelli. Percepivo la sua angoscia, il suo senso di impotenza, quel pensiero fisso di non aver fatto abbastanza. La stessa idea che affliggeva anche me da molto tempo.

Steve fece qualche passo girando attorno al mio lettino e si avvicinò a un tavolo alle mie spalle. Lo seguii con lo sguardo, lo vidi afferrare una pila di vestiti piegati che depose poi sopra alle mie gambe.

«Shuri, la sorella di T’Challa, ti ha lasciato dei vestiti puliti.» disse lui sorridendomi. Con quella osservazione mi resi conto di indossare ancora l’uniforme blu del Raft.

Steve si voltò e io indossai un paio di jeans chiari, una maglietta nera e un cardigan grigio di cotone morbido. Finalmente mi sentivo a mio agio.

«Puoi girarti.» dissi a Steve quando ebbi finito.

Lui obbedii e mi scrutò da testa a piedi con la fronte corrucciata «Trovo che ti donasse di più la divisa da carcerata.» sentenziò.

«Sta zitto!» esclamai io dandogli una gomitata. Steve scoppiò a ridere, per qualche secondo mi sembrò finalmente sereno ma fummo interrotti dal l'aprirsi di scatto della porta.

Natasha si affacciò e diresse il suo sguardo in direzione di Steve. «Shuri vorrebbe parlare con te. » disse la rossa con un sorriso rassicurante.

Steve annuii tornando di colpo serio e Nat ci lasciò, chiudendo la porta alle sue spalle. Lo sguardo dell’uomo cadde sul pavimento, perdendosi.

«Magari è una notizia positiva.» azzardai io.

Cap incrociò le braccia al petto rimanendo in silenzio.

«Steve?» lo chiamai più volte

«70 anni fa non ho mantenuto un giuramento, ci eravamo ripromessi che ci saremmo sempre stati l’uno per l’altro...» disse sospirando e riferendosi a Bucky. «ma l’ho abbandonato quando aveva più bisogno di me.» Ebbi l’impressione che i suoi occhi fossero diventati grigi.

«Però ora sei qui.» gli sussurrai cingendogli il braccio.

«Fino alla fine.» Respirò a fondo come se dovesse tuffarsi e svanire tra le onde. Prima di andarsene mi guardò, lasciando delicatamente la mia presa e io lo seguii con lo sguardo finché non lo vidi sparire dietro la porta.

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Capitolo 3
*** I will miss you ***


CAPITOLO 3

I will miss you

Steve

Percorsi a gran passi il corridoio mentre il tempo sembrava diventare più lento ad ogni metro che percorrevo. Ogni rumore echeggiava lungo le pareti ornate da disegni tribali, e faceva apparire tutto quasi irreale.

Qualche minuto dopo arrivai davanti al laboratorio. Natasha e Shuri mi stavano aspettando, parlando fra loro in tono sommesso. Quando si voltarono nella mia direzione cessarono di colpo di parlare, rivolgendomi uno sguardo amareggiato.

«Qualche novità?» chiesi rivolgendomi a Shuri, cercando di arrivare dritto alle conclusioni.

«E’ complicato da spiegare.» sospirò la ragazza. «Abbiamo sondato due ipotesi che riguardano la soppressione della traccia originale dei ricordi oppure la riscrittura della stessa traccia, attraverso l’associazione con un ricordo differente. In entrambi i modi potremmo cancellare ogni manipolazione da parte dell’Hydra sul soggetto.» disse Shuri rivolgendomi uno sguardo condiscendente.

Anche se non compresi a fondo il discorso che mi fece mi sentii finalmente sollevato. «Però...» fece la ragazza, mentre il sorriso si trasformava rapidamente in una smorfia. «...purtroppo non sappiamo ancora esattamente come funzioni la conservazione di informazioni nei neuroni. La stessa popolazione di neuroni potrebbe essere coinvolta sia nella conservazione dei ricordi felici, sia nella conservazione dei ricordi traumatici. Perciò è un procedimento lungo e molto delicato.»

Mi limitai ad annuire mentre lo sconforto si insinuava dentro di me.

Quando avevo chiesto aiuto a T’Challa non ero sicuro che avrebbe accolto la mia richiesta ma, a discapito di ogni mio pronostico, il Wakanda aveva offerto asilo a me e ai miei compagni. Eravamo soli, in fuga, perciò aggrapparmi a quella fugace possibilità era tutto ciò che possedevo.

«Posso parlargli?»

«C’è un’ultima cosa che dovresti sapere.» disse Shuri portandosi una mano al petto.

«Barnes ha deciso di riprendere la crioterapia finchè non avremo portato a termine la procedura. »

Quella notizia mi piovve addosso come un macigno. Strinsi forte i pugni per cercare di alleviare la tensione che provavo e ripresi fiato.

Forse quello che mi preoccupava veramente era che, a pochi metri di distanza, non c’era il Soldato d’Inverno ma un uomo che combatteva contro una parte di sé che non gli apparteneva. Per questa ragione sapevo che sarebbe stato più difficile lasciarglielo fare. Per mesi o forse anni avrei dovuto rinunciare a lui, il mio migliore amico, la persona che mi conosceva da quasi un secolo.

Ma comprendevo che eliminare tutto ciò che l’Hydra gli aveva instillato nella mente era la massima priorità.

~~<><><><>~~

Entrai riluttante nel laboratorio e notai all’istante la cabina di refrigerazione in quanto che era l’unica cosa ad essere variata da quando, quella mattina, mi ero recato nella stessa stanza. Proprio innanzi ad essa vi era Bucky, seduto su di un lettino, in attesa di addormentarsi tra cristalli di ghiaccio. Era vestito di bianco, pronto per la procedura, e una benda gli copriva ciò che restava del suo braccio sinistro.

«Sei sicuro di farlo?» domandai.

«Non posso fidarmi della mia mente...» rispose lui accennando un sorriso. «...perciò fino a quando non trovano il modo di togliermi questa cosa dalla testa, rifarmi congelare è la cosa migliore...» distolse lo sguardo e guardò davanti a sé, quasi senza espressione. «...per tutti quanti.» aggiunse infine.

Mi limitai ad annuire, ogni tentativo di farlo ravvedere dalla sua decisione sarebbe stato in ogni caso vano.

«Ti aspetterò.»

«Non fare nulla di stupido mentre non ci sono.» disse Bucky alzando un dito nella mia direzione.

«Come potrei? La stupidità...»

«...te la porti tutta con te.» dicemmo all’unisono. Scoppiammo a ridere, non riuscivo a ricordare l’ultima volta che avevamo riso insieme in quel modo. Innumerevoli volte Buck mi aveva rialzato da terra, letteralmente, e mi aveva incoraggiato ad andare avanti, non mi ero mai arreso. Improvvisamente il suo sorriso svanì e divenne scuro in volto.

«Mi mancherai.» disse con voce rotta.

Lo strinsi in un abbraccio affondando il viso nei suoi capelli scuri. Sospirai, respirando un’ultima volta il suo profumo, quel profumo che mi riportava a casa, che mi faceva sentire ancora un bambino che giocava per le strade di Brooklyn negli anni ‘30. Sperai che quei ricordi potessero fare compagnia a Bucky durante la mia assenza.

Ci eravamo persi e ritrovati per molti anni e in fondo sapevo che anche questa volta non sarebbe stato diverso.

Ci saremmo ritrovati ancora.

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Capitolo 4
*** A long day ***


CAPITOLO 4

A long day

Wanda

~Qualche giorno dopo.~

L’auto sfrecciava in una strada che sembrava non avere fine e dopo solo mezz’ora iniziai ad avere le gambe intorpidite.

Steve era alla guida, rispettava tutti i limiti, si fermava ad ogni incrocio e non dimenticava una freccia. Il ché era assolutamente noioso.

Abbassai il finestrino posteriore e misi una mano fuori. L’aria che mi passava tra le dita era fresca e in quel giorno di metà maggio si sentiva già profumo di estate.

Chiusi gli occhi mentre l’aria mi sferzava sul viso facendomi volare i capelli. Poteva sembrare un viaggio tra quattro amici e lo sarebbe stato se la situazione fosse stata diversa.

Quei giorni erano stati in realtà interminabili, avevamo alloggiato in motel e mangiato cibo da fast food in quanto era tutto ciò che potevamo permetterci. Ma nonostante tutto in quel momento mi sentivo bene.

Quel pomeriggio avevamo lasciato il Quinjet in un vecchio garage dismesso, lontano da occhi indiscreti e in seguito prendemmo un’auto in ‘prestito’ per raggiungere la cittadina più vicina.

Guardai il tramonto, il sole era già basso e, anche se ancora non toccava l’orizzonte, indicava che il giorno stava per concludersi.

Il tramonto mi aveva sempre trasmesso una grande pace e quella consapevolezza che il giorno seguente sarebbe risorto ancora con altrettanto fascino.

In futuro, ne ero sicura, sarebbero risorti anche gli Avengers come una fenice che rinasce dalle sue ceneri.

(1) «It's been a long day without you, my friend.» Cantò la radio

«And I'll tell you all about it when I see you again.» Sam la seguì portando il pugno vicino alla bocca come a mimare un microfono. Soffocai una risata.

«We've come a long way from where we began.» Con mio grande stupore cominciò a canticchiare persino Natasha.

«Oh I'll tell you all about it when I see you again.»

«WHEN I SEE YOU AGAIN !» intonammo all’unisono.

In quell’istante Steve spense la radio.

«Steve!» urlò Sam con tono di disapprovazione.

«Lascialo in pace Sam.» aggiunse Nat.

Steve alzò gli occhi al cielo. «Ci fermiamo alla prossima stazione di rifornimento.»

Percepii la sua nostalgia provocata da quella canzone. Come avevo fatto a non rendermene conto prima?

«Vi vedrete presto ne sono sicura.» dissi a Steve.

Lui alzò lo sguardo verso lo specchietto retrovisore, vidi i suoi occhi riflessi e la sua bocca distendersi in un sorriso con quella struggente malinconia di chi aveva perso il suo migliore amico. Di nuovo.

~~<><><><>~~

Qualche minuto dopo ci fermammo in una stazione di servizio per fare rifornimento. Steve scese dall’auto e si sgranchì la schiena.

«Se non guidassi come un vecchietto saremmo già arrivati da tempo.» disse Natasha chiudendo lo sportello dell'auto con un calcio.

«Si dice ‘guidare con prudenza’ e occhio a non rovinare la carrozzeria!»

Lei si strinse nelle spalle sfoggiando un sorriso malizioso. Mi fece un cenno col capo e la seguii all’interno del negozietto accanto.

Il luogo era deserto e con tutta probabilità eravamo gli unici clienti. Entrate dalla porta scorrevole Nat rovistò nelle tasche dei pantaloni e mi diede due banconote stropicciate. «Prendi quello che vuoi.»

Presi un cestino per la spesa e iniziai a camminare tra gli scaffali. Il negozio non offriva una gran varietà di articoli, così mi limitai a riempire il cestino di pacchetti di biscotti, barrette al cioccolato e bibite.

Qualche minuto dopo qualcuno irruppe di colpo nel negozio a passi pesanti.

«Metti l’incasso dentro la borsa!» gridò una voce.

D’istinto io e Natasha ci nascondemmo dietro a un mobile.

«C’è qualcuno oltre a te?» ruggì un’altra voce.

«Ci sono io!» urlò Natasha sbucando fuori dal retro del suo nascondiglio.

I due uomini si voltarono di soprassalto e puntarono le pistole contro la rossa, la quale alzò le mani al cielo. Erano entrambi a viso scoperto e uno dei due indossava un cappellino con la visiera.

«Manteniamo tutti la calma e nessuno si farà del male.» disse Natasha senza riuscire nascondere una nota di divertimento nella sua voce.

Con uno scatto felino Nat afferrò un sacchetto di farina dallo scaffale accanto a lei e colpì in pieno volto il rapinatore alla sua sinistra. Fece poi qualche passo di corsa e, facendosi leva con una mensola, saltò addosso all’uomo davanti a lei disarmandolo. Lo colpì infine in pieno naso con il caricatore e questi cadde a terra con un tonfo.

Nel frattempo il suo compagno si ripulì il viso dalla farina, e impugnò la pistola. Dovevo fare qualcosa.

Sgusciai fuori dal retro dello scaffale e con un gesto bloccai la mano armata dell’uomo. Sparò un colpo che finì sul pavimento.

La Vedova si voltò di scatto colpendolo con un pugno ben assestato e facendogli perdere i sensi.

«Non potevi farlo prima?» disse Natasha riprendendo fiato.

«Non volevo rubarti la scena.» risposi stringendomi nelle spalle.

Mi avvicinai alla cassa e, scavalcando uno dei rapinatori, appoggiai sul bancone gli articoli che volevo acquistare.

«C-che cosa racconterò alla polizia?» chiese il commesso guardando esterrefatto guardando i due rapitori stesi a terra, con il telefono già all’orecchio. Mi girai verso Nat senza parole.

«Digli che eri sul retro e non hai visto assolutamente nulla.» disse la rossa facendo l’occhiolino.

~~<><><><>~~

~Quella stessa sera.~

«Non posso credere di essermi perso la scena.» fece Sam mentre entravamo nel motel. A cena non avevamo parlato d’altro, o quasi, di ciò che era successo qualche ora prima alla stazione di servizio.

«Quei due hanno avuto una bella sfortuna a ritrovarsi noi come clienti.» disse Nat ridendo.

«Quando si dice ‘rapinare il posto sbagliato al momento sbagliato’.» aggiunsi.

Pochi passi più tardi ci ritrovammo nella hall con tutti gli occhi puntati addosso. I clienti al bar avevano infatti sospeso improvvisamente il loro chiacchierare e ci scrutarono dalla testa ai piedi prima di riprendere ciò che avevano interrotto. Era evidente che in quella cittadina non ricevevano spesso visitatori di passaggio e comprendevo perfettamente quale fosse la ragione.

«E’ il posto più squallido che abbia mai visto.» sussurrai all’orecchio di Natasha.

«Ci credi se ti dico che ho visto di peggio?» rispose lei.

Sul soffitto galleggiava una nuvola di fumo e alcuni uomini al bar sorseggiavano calici di birra.

Ci avvicinammo al bancone dove una donna ci guardava in attesa di servirci.

«Come posso aiutarvi.» chiese lei con lo stesso tono di una voce registrata. Aveva le unghie e le labbra dipinte di un rosso rubino ed era avvolta in un vestito di paillettes nero. Pareva essere appena uscita da uno strip.

«Vorremmo una camera per una notte.» fece Steve.

La donna alzò un sopracciglio stupita di quella richiesta. «E’ un motel per coppie, abbiamo solo camere doppie.»

«S-Si certo, volevo dire due camere.» rimediò lui. Mi cinse le spalle con un braccio e io divenni rossa per l’imbarazzo.

~~<><><><>~~


La stanza era piccola, la moquette e le pareti erano colorate di un rosso tenue e un letto matrimoniale era posto al centro. Vi erano anche un piccolo armadio, un comodino, e una porta che si affacciava sul bagno.

«Perchè non sei andato a dormire con Sam?» mi lamentai io.

«Ho dovuto improvvisare.» rispose Steve chiudendo la porta della stanza alle sue spalle e appoggiando lo zaino a terra.

L’orologio segnava solo le 22 ma io ero stanca morta: era stato un lungo giorno. Steve sparì in bagno, io aprii lo zaino e indossai una maglietta e un paio di pantaloncini prima di buttarmi sul letto.

Quando Steve riapparve afferrò un cuscino e una coperta sistemandoli sul pavimento.

Lo guardai perplessa «Che stai facendo?»

«Sto andando a dormire.»

«Sul pavimento?»

«Non è un problema.»

«Non ti mangio.» dissi io indicando il posto vuoto accanto a me. Steve sorrise e si coricò accanto a me.

«Buonanotte.» sussurrò spegnendo la luce.

Posai la testa sul cuscino e respirai a fondo cercando di rilassarmi.

Il letto era scomodo, estraneo, completamente diverso da quello accogliente della mia camera a New York ma nonostante tutto era l'unico posto in cui avrei voluto essere. «Per quanto tempo la nostra vita sarà...un casino?» chiesi.

«Non lo so.» rispose piano. Persino al buio mi accorsi del suo volto afflitto.

«Ehi» gli toccai il braccio. «Ho scelto io di stare dalla tua parte.»

«Perchè?»

Sapevo che raccontare la storia su come mi ero ribellata alla ‘’prigionia’’ imposta da Tony non l'avrebbe più convinto. Così decisi di giocare a carte scoperte.

«Ho visto la Sokovia autodistruggersi ancor prima di Ultron. Proteste contro il Governo erano all’ordine del giorno e nessuno era dalla nostra parte … pareva essere una guerra persa in partenza.» presi fiato «Gli Avengers … noi …»

«Dobbiamo essere dalla parte di tutti, indipendentemente dalle priorità politiche.»

«Odio quando mi completi le frasi.» brontolai. Scoppiammo a ridere e pochi secondi dopo calò nuovamente il silenzio.

Lo guardai a lungo. lui si agitò sotto le coperte e infine si voltò nella mia direzione. «Ti fidi di me?» chiese

«Si perché?»

«Vieni qui.» disse attirandomi a sé. Mi appoggiai al suo petto irrigidita dall'imbarazzo. Qualunque cosa provasse aveva bisogno di qualcuno che gli stesse vicino e non avrei saputo oppormi. In quel momento stargli vicino mi sembrava la cosa più giusta da fare.


(1)Wiz Khalifa - See You Again ft. Charlie Puth

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Capitolo 5
*** Nomad ***


CAPITOLO 5

Nomad

Steve

Tutto in quel posto mi urlava che ero dove non dovevo essere. Il pavimento era malandato, e l’aria puzzava di fumo, alcool e sangue. Ero stipato tra una folla di uomini senza scrupoli pronti a combattere per la vincita di pochi dollari. Fare a pugni per guadagnare denaro di certo non mi rendeva onore, ma avrebbe potuto garantire a me e ai miei compagni un biglietto di sola andata per una vita migliore.

Il rischio di essere trovati aumentava di giorno in giorno e sapevo che l’unica soluzione era lasciare gli Stati Uniti. Forse per sempre.

Avrei voluto un riavvicinamento e sapevo di averci provato; avevo scritto una lettera a Tony e speravo davvero che mi contattasse, ma con il passare delle settimane quella speranza si affievoliva sempre di più.

Spazzai via quei pensieri e mi avvicinai al banco delle iscrizioni dove una donna stava aggiungendo nomi su di un foglio. Si protese scrutandomi al di là degli ingombranti occhiali dalla montatura nera. «Nome?»

Indugiai qualche secondo. «Non ti ho fatto una domanda difficile.» disse lei spazientita. «E non ti ho chiesto la carta d’identità. Hai un nome d’arte?»

Captain America era ormai un capitolo che mi ero lasciato alle spalle, il simbolo di una nazione nella quale non mi riconoscevo più, e in ogni caso era un nome noto che non avrei potuto usare. Da quando avevo abbandonato il mio scudo mi sentivo un uomo senza una patria, un fuggitivo.

Improvvisamente una parola mi arrivò alla bocca, bruciandomi la gola. Avevo scelto.

Mi schiarii la voce. «Nomad.»

 

~~<><><><>~~

 

L’atmosfera intorno si fece confusa quando gli spettatori iniziarono a gridare nomi e cifre, ad agitare le braccia, e a scambiarsi denaro.

Un fischio squarciò l’aria fumosa e una voce amplificata da un microfono iniziò a parlare. «Un’attimo di silenzio signori e signore!»

Mi voltai di scatto e riuscii a individuare la fonte. Un uomo era in piedi su una sedia e teneva un mazzo di banconote in una mano e il microfono nell’altra. «Vi do il benvenuto al Bloodbath! Io sono Matt. Sono io che stabilisco le regole! Le scommesse si chiudono tra poco e nel frattempo vi ricordo che è proibito toccare i lottatori, prestare loro soccorso, invadere il ring o cambiare la posta in gioco. In caso contrario verrete sbattuti fuori a calci. Ai partecipanti: vi ricordo di usare solamente le braccia! E’ vietato dare calci e mettere le dita negli occhi all’avversario!» Il presentatore proseguì chiamando in campo ‘The Red’.

Quando entrò urla e spintoni aumentano a dismisura. Red era infatti il campione in carica, imbattuto da oltre un anno. Anno in cui non si era fatto scrupoli a mandare in ospedale decine di sfidanti.

La folla si divise quando anche io entrai nel cerchio e si ricompattò alle mie spalle. Davanti a me il mio avversario prese a saltellare sul posto per scaricare la tensione e incominciò a schernirmi per cercare di individuare almeno un mio punto debole. Ma rimasi fermo sulla mia posizione. Era sicuro di sé, ben allenato e in altezza mi sovrastava di almeno una decina di centimetri. Nonostante la sua mole sembrava essere molto agile e veloce.

Un avviso sonoro sovrastò le grida dei presenti e segnò l’inizio dell’incontro. Lui contrasse la mascella e nei suoi occhi comparve uno sguardo di rabbia, in un attimo mi attaccò con furia. Barcollai all’indietro prima di mettermi in guardia, pronto per contrattaccare. A un certo punto però schivò un colpo e mi sferrò un gancio destro. Era aggressivo e non era di certo un dilettante; mi riportò a brooklyn, quando da ragazzo ogni lite degenerava in una rissa, e io mi ritrovavo spesso con un occhio pesto.

Riuscii a colpirlo, in quel momento la rabbia che avevo dentro aveva un’utilità e ogni volta che mi colpiva a sua volta sentivo una scarica di adrenalina che mi rendeva ancora più forte. Gli assestai vari colpi sul viso e il cerotto che mi avvolgeva le nocche diventò rosso ma non avvertivo dolore: provai un senso di liberazione che mi spaventò. Mi focalizzai sull'obiettivo e mi ricordai che non era questo il modo in cui volevo vivere la mia vita.

Preso dai miei pensieri Red riuscì a colpirmi una, poi due volte. Sentii aprirsi una ferita sul sopracciglio e il calore del sangue attraversarmi il viso. Bloccai il terzo colpo, deciso a concludere l’incontro. Mi scostai schivando un pugno e mi girai dandogli una gomitata in pieno naso. Lui reclinò di colpo la testa e crollò a terra con un tonfo.

Il fragore della folla era assordante e Matt andò a controllare il mio avversario prima di sollevarmi il braccio dichiarandomi il vincitore dell’incontro.

 

Incassai la vincita e mi allontanai in fretta dalla calca cercando di raggiungere l’uscita del locale. Un uomo mi bloccò e si interpose fra me e la porta, impedendomi di proseguire. «Complimenti ragazzo!» fece lui sorridendomi.

«Hai steso il mio campione in dieci minuti!» Era piuttosto alto e tarchiato, e i suoi abiti eleganti lo distinguevano dal resto dei presenti.

«Grazie.»

«Sono Brock e vorrei proporti di prendere il suo posto nei prossimi incontri.» disse allungandomi la mano.

«No grazie, lavoro da solo.» ribattei con cortesia.

«Ragazzo, ti sto proponendo di guadagnare non più qualche centinaia di dollari, bensì migliaia.» la sua voce si abbassò progressivamente. «Con un incontro al mese.» aggiunse.

Sapevo che era un’offerta alla quale non avrei potuto rinunciare; da solo avrei impiegato mesi a raggiungere livelli tali da avere vincite più consistenti. E il tempo era mio nemico.

Avevo però bisogno di garanzie. «Solo per combattere... e posso mollare quando voglio.»

«Certo! Anche se sono sicuro che non avverrà in tempi brevi.»

Indugiai qualche secondo e infine gli strinsi la mano.

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Capitolo 6
*** I found you ***


CAPITOLO 6

I found you

Wanda

Quando mi svegliai il sole inondava già di luce gli edifici fuori dalla finestra e per qualche secondo mi domandai dove mi trovassi.

Già da qualche settimana ci eravamo stabiliti in un appartamento posto in una zona limitrofa alla città, ma non riuscivo a chiamare quel luogo casa. Era organizzato in tre piani e la sua estetica era molto più gradevole di un motel. Il terzo piano, che era in realtà un sottotetto, diventò la mia camera.

Fissai per qualche minuto le travi in legno sul soffitto e poi decisi di scendere al piano di sotto per fare una doccia.

L’acqua calda vaporizzata riempì il bagno, ricreando un ambiente accogliente. Per tenere la mente occupata ripensai a quando ero bambina, a quando abitavo in Sokovia e Pietro era ancora vivo. Avevo ricordi felici legati a lui ma quello che provai fu un senso di vuoto.

I miei pensieri furono interrotti quando Natasha entrò nel bagno. «Noi andiamo ad allenarci, sarai dei nostri?» chiese lei avvicinandosi al lavello.

«Questa notte non ho dormito molto bene, penso che mi riposerò. Se non è un problema.»

«Nessun problema.» rispose mentre si passava lo spazzolino tra i denti.

Mi infilai sotto il getto per sciacquarmi. Sentii che Nat fece firale la manopola del rubinetto e gridai quando improvvisamente l’acqua della doccia divenne gelida.

Pochi secondi dopo Steve irruppe nella stanza «Wanda stai bene?» chiese.

Mi avvolsi nella tenta. «Esci!» urlai, e in quell'istante la porta si richiuse alle spalle di Steve.

«Sarebbe troppo chiedere una serratura?» sospirai.

«Colpa mia!» esclamò Nat ridendo.

~~<><><><>~~

Nel pomeriggio decisi di uscire a prendere una boccata d’aria. Mi spazzolai i capelli e indossai un vestitino rosso a mezze maniche.

In qualche minuto raggiunsi il parco e individuai una panchina libera. Il terreno era coperto da erba, cespugli secchi e il cemento grigio dei marciapiedi faceva contrasto con il cielo terso di mezza estate. In lontananza un bambino giocava a pallone, un gruppo di ragazze chiacchieravano animatamente e una coppia si teneva per mano.

Improvvisamente mi sentii sola. Dopo la morte di mio fratello ero diventata diffidente verso tutti, risultavo antipatica a molte persone e ne ero consapevole, ma la paura di perdere nuovamente una persona a cui tenevo aveva preso il sopravvento. Avevo chiuso il mio cuore.

«Wanda?» Una voce risuonò alle mie spalle e mi girai di soprassalto.

Un uomo vestito di scuro dai capelli biondi mi sorrideva. Era un volto familiare ed estraneo allo stesso tempo. Lo scrutai per qualche secondo.

Le sue iridi cristalline riflettevano il cielo azzurro trasmettendo un senso di pace. Avevo già visto quegli occhi.

«Visione?» lui si limitò ad annuire «Non ti avevo riconosciuto, sei … diverso.» dissi cercando di nascondere lo stupore nella mia voce.

«Si, questa forma umana stranisce anche me.»

Mi alzai lentamente dalla panchina guardandomi attorno. «Sei solo?»

«Volevo vederti.» disse avvicinandosi.

«Come faccio a sapere che non rivelerai tutto a Stark?» Mi pentii all’istante di aver pronunciato quella frase. Immaginavo che anche lui non avesse fatto altro che riflettere su quella battaglia che aveva diviso gli Avengers e che probabilmente anche lui sentiva la mancanza di quella che pochi mesi prima considerava una famiglia.

Mi prese la mano e la accostò alla sua fronte. «Verifica tu stessa.»

«No.» Mi liberai dalla presa «Io...mi fido.» ribattei offesa.

Avevo così tante domande da porgli: cosa aveva fatto da quando le nostre strade si erano divise, cosa era successo dopo la nostra fuga e come aveva fatto a trovarmi. Ma infondo non mi importava, contava solo che l’avesse fatto.

«Mi piacciono i tuoi capelli.» disse spostandomi una ciocca dietro all’orecchio. Da qualche giorno avevo infatti colorato i capelli di un rosso ramato, faceva parte della copertura ma apprezzai quel suo complimento.

«Mi sei mancato.»

~~<><><><>~~

Due ore e tre tazze di caffè dopo eravamo ancora seduti al tavolino di un bar. Visione non aveva parlato molto, la maggior parte del tempo si era limitato ad ascoltarmi. Gli raccontai delle ore passate in viaggio tra una città e un’altra, cercando un luogo sicuro, del modesto appartamento nel quale ci eravamo trasferiti e di come cercavamo di vivere una vita normale. Per quanto fosse possibile.

Posai il cucchiaino sul tavolo e mi avvicinai la tazza alla bocca.

«Non dovresti assumere così tanta caffeina.»

Mi arrestai stupita di quella osservazione. «Lo so.»

«Hai passato una notte insonne?»

Alzai lo sguardo incrociando il suo. Per lui ero un libro aperto, non gli avrei mai nascosto nulla, neanche volendolo.

«Si» dissi abbassando la voce «a volte tornano gli incubi.»

Visione appoggiò la sua mano sulla mia. Il suo tocco era caldo, delicato e protettivo. «Non dovrai più preoccuparti di nulla ora che ti ho trovata.»

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Capitolo 7
*** You’re a terrible liar ***


CAPITOLO 7

You’re a terrible liar

Natasha

Mi voltai scrutando scettica il mio riflesso nello specchio e mi passai una ciocca di capelli tra le dita. Mi sarei dovuta abituare in fretta a quel nuovo colore ma i capelli rossi mi mancavano terribilmente. Anni fa questo genere di coperture erano una consuetudine, ma ora mi sembrava di non avere più il controllo della mia vita.

«Ti stanno molto bene.»

Mi voltai di soprassalto e vidi Steve appoggiato allo stipite della porta che mi fissava assorto.

«Sei un pessimo bugiardo Rogers!» dissi infastidita da quel complimento.

Fece qualche passo e si accostò a me. «Sono serio.» replicò lanciandomi uno sguardo fermo. Diceva la verità.

«A te invece non dona per niente la barba.» dissi con tono di sfida, indicando la barba ispida che gli ricopriva il volto. «Ti invecchia.» Non riuscii a trattenere un sorriso.

«In effetti...ho quasi 100 anni.» rispose lui ricambiando il sorriso. «Comunque sono qui per dirti che esco.» aggiunse in tono sommesso. Lo studiai per qualche secondo e capii che stava nascondendo qualcosa. Da qualche settimana si comportava in modo strano; riceveva molte telefonate e ogni volta lasciava la stanza per rispondere in solitudine, altre volte invece rientrava tardi, senza dire una parola.  

«Va bene.» feci.

Steve mi lanciò un’occhiata sorpresa. Si aspettava che - come sempre - gli chiedessi dove sarebbe andato ma non lo feci. Ogni volta mi rispondeva che andava a fare la spesa o ad allenarsi perciò decisi che l'avrei scoperto da sola.

 

~~<><><><>~~

 

Lo seguii per due isolati quando lo vidi guardarsi intorno ed addentrarsi in un locale. Non potei fare a meno di soffocare una risata notando il suo atteggiamento da ‘spia goffa’; non era tagliato per questo nuovo stile di vita. Guardarsi le spalle era più nel mio stile.

Aspettai qualche minuto ed entrai.

 

La voce amplificata degli annunciatori tuonò dagli altoparlanti posti agli angoli del locale. La sala, probabilmente adibita a concerti di vario tipo, era così ampia che poteva ospitare tranquillamente un centinaio di persone.

Cercai di trovare spazio tra la folla senza riuscire ad avvicinarmi. Da un lato della sala uno degli annunciatori dava il benvenuto al pubblico. «Stasera abbiamo un nuovo sfidante! Un vero e proprio astro nascente della lotta che, in pochi giorni si è classificato per la finale di oggi...» un riflettore illuminò l’ingresso e catturò lo sguardo dei presenti. «...vi presento...Nomad!»

Dalla soglia comparve Steve che, misurando la stanza a grandi passi, si fece largo tra la folla e raggiunse il suo avversario. Mentre gli spettatori applaudivano provai una sensazione di vertigini provocata dal mescolarsi della rabbia e della sorpresa nel trovarlo lì.

Quando la campana segnalò l’inizio dell’incontro mi voltai cercando l’uscita; non avevo intenzione di restare lì un secondo di più.

 

~~<><><><>~~

 

Sopraffatta dalla noia iniziai a calciare una lattina. Ero appoggiata al muro sul retro del locale da quasi un’ora, aspettando di veder uscire Steve. Il vicolo era umido e i cassonetti colmi di immondizia emanavano uno sgradevole odore. Qualche minuto dopo uno scatto accompagnò l’aprirsi della porta e Steve comparve sulla soglia. Lo raggiunsi a gran passi.

«Avevamo detto niente segreti fra noi! Io non ti chiedo dove vai e tu non fai cose stupide.»

Steve alzò gli occhi al cielo. «Mi hai seguito. Avrei dovuto aspettarmelo.»

«Ti comporti in modo strano da settimane.» dissi giustificandomi.

«Mi comporto come se qualcuno mi stesse dando la caccia ricordi? Questa non è una vacanza!» ribatté lui alzando il tono di voce.

«Quello che fai qui non è onesto!» esclamai.

«E’ difficile trovare un lavoro onesto se vai in giro con dei documenti falsi.»

«Potevi almeno provarci!»

«E cosa potrei fare secondo te? Il lavapiatti? Il cameriere?» sbottò lui.

«Perché no!?»

«Poi proprio tu mi vieni a parlare di onestà.» disse con tono offeso. Non capii perché improvvisamente stava accusando me e cercai di spostare il discorso nuovamente su di lui.

«Che vuoi fare con quei soldi?» mi guardò perplesso. «So che sono previsti dei compensi.» spiegai.

«Voglio mettere da parte i soldi necessari per andarcene da qui, e non impiegarci anni sarebbe gradito.» la sua rabbia svanì lasciando posto ad un tono più disteso.

«Andare dove?» chiesi sorpresa.

«Non lo so.» rispose lui con lo so sguardo vago.

«Bugiardo.» Rogers non aveva mai saputo mentire e, anche se non avessi mai ricevuto un addestramento da spie - che includeva saper individuare alcuni segnali involontari del corpo per capire se il soggetto dicesse il vero - avrei capito che ciò che stava dicendo era il contrario di ciò che pensava. Aveva un piano preciso.   

Si strinse nelle spalle «Io pensavo di trasferirci in inghilterra.» disse lui rassegnato. «Una volta lì potremmo finalmente riappropriarci di una vita normale. Ci faremo dei documenti falsi in modo da poter affittare una bella casa e ricominciare.»

«Quando pensavi di dirmelo? Se hai un piano che prevede di trasferirci in un altro paese abbiamo il diritto di saperlo e di dire la nostra.» dissi trattenendo il fiato.

«Non me lo avresti permesso. Sono stato io a mettervi in questo guaio e volevo trovare una soluzione da solo.»

Feci per rispondere ma per la prima volta mi ritrovai senza parole; non riuscii a trovare argomenti per continuare quella discussione, e forse non volevo nemmeno che proseguisse. Sospirai sconfitta e mi riappropriai della calma.

«Possiamo andarcene da questo posto? Non voglio puzzare di immondizia.» Cercai di mantenere un tono serio ma non riuscii a nascondere un sorriso.

Steve scoppiò a ridere e mi cinse le spalle con un braccio. «Andiamo.»

 

Spazio autrice

Inizialmente avevo deciso di raccontare la storia dal punto di vista di Steve e quello di Wanda ma dopo Endgame ho sentito il bisogno di dare più spazio all’amicizia di Natasha e Steve. Da qui l’idea di scrivere il capitolo dal suo punto di vista.

Fatemi sapere cosa ne pensate di questa scelta. :)

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