You know that I'm in love with the mess

di Lost In Donbass
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** There's a voice in my head says I'm better off dead ***
Capitolo 2: *** Problems love me ***
Capitolo 3: *** I haven't chosen you, but my heart has ***
Capitolo 4: *** Why have I such a void inside? ***
Capitolo 5: *** The body lives, the mind dies ***
Capitolo 6: *** I'm your only one (are you sure?) ***
Capitolo 7: *** I'll fight for you, until the day I die ***
Capitolo 8: *** I'll stand up for you ***
Capitolo 9: *** Hold onto me ***
Capitolo 10: *** Salvation&Damnation ***
Capitolo 11: *** Goodbye ***
Capitolo 12: *** Broken Heart ***
Capitolo 13: *** I can't take this anymore ***
Capitolo 14: *** I'll never leave you ***



Capitolo 1
*** There's a voice in my head says I'm better off dead ***


YOU KNOW THAT I'M IN LOVE WITH THE MESS
 
CAPITOLO PRIMO: THERE’S A VOICE IN MY HEAD SAYS I’M BETTER OFF DEAD

She said she wants to end it all
When she’s all alone in her room
She cries, the way she feels inside is too much for her
[Sleeping With Sirens – Better Off Dead]
 
Stava bene.
Stava bene.
Stava … oh, ‘fanculo.
Non stava bene per niente.
Come al solito, c’era una voce nella sua testa che gli diceva che sarebbe stato meglio da morto.
Oliver diede una craniata contro al muro, cercando di non piangere. Ma come faceva a non piangere quando la sua vita era andata completamente a rotoli?
Seduto per terra, con la testa tra le mani tatuate, con addosso solo un vecchio paio di boxer molli, Oliver singhiozzava senza riuscire a calmarsi. Quanto era che era in quella condizione, ormai? Minuti, ore, giorni, secondi? Non lo sapeva, e forse non voleva nemmeno saperlo: era solo dannatamente stanco, stanco di una stanchezza metafisica da essere quasi paradossale. Qual’era stata l’ultima volta che aveva sorriso davvero? Forse quando aveva dieci anni e aveva ricevuto la sua prima chitarra. Ma adesso ne aveva diciotto ed erano otto fottuti anni che aveva smesso di ridere. Era normale? No, cazzo, non era normale. Era mai stato normale, lui, Oliver Griffiths, il ragazzo emo? No, cazzo, non lo era mai stato.
Prese un profondo respiro e si arrischiò a togliere le mani dal viso, guardandosi con orrore gli avambracci. Tagli, lunghi, sottili, rossi, tagli che gli percorrevano sistematicamente la pelle semi tatuata e che facevano così male a guardarli.
-Perché lo stai facendo, Oli?- si disse, arrischiando a sfiorarsi quelle ferite autoinflitte.
Provo un lampo subitaneo di dolore, e di nuovo gli venne da piangere. Erano passati due maledetti anni dalla prima volta in cui aveva timidamente posato la lametta contro il polso, ed erano due anni che andava avanti così. Un paio di forbici, una lametta, un coltellino, un temperino: tutte le armi che il ragazzo stava usando nella sua guerra contro sé stesso. Una guerra dolorsa e sfilacciante, che si trascinava avanti da anni e che lo stava lentamente portando all’autodistruzione.
Oliver riversava su sé stesso tutta la sua rabbia, il suo dolore, le sue paure, incapace di affrontare il mondo di petto, si richiudeva contro l’unica persona che poteva urtare senza che ci fossero conseguenze. E una volta erano tagli, una volta erano lacrime, un’altra era vomito, l’altra ancora un pensiero che non dovrebbe mai essere pensato. Una devastazione oscena si stava pian pianino facendo strada dentro quel ragazzo alto e troppo magro, allampanato, con quegli occhi più grigi del ferro e quel taglio emo passato di moda da secoli. Oliver sapeva perfettamente cosa volesse dire soffrire, credere di essere solo al mondo, sapeva il significato di depressione, ma quella vera, quella travolgente, quella che ti porta a sognare di essere morto quando esprimi un desiderio il giorno del tuo compleanno. Aveva la sofferenza dipinta sul viso affilato, dagli inconfondibili tratti britannici, aveva il dolore vero pronto a sgorgare dagli occhi di quel colore così melanconico.
Si accasciò contro il muro, lanciando la lametta lontano da sé e dai suoi polsi martoriati, prendendo un profondo respiro.
Devo farcela, si disse.
Ma quanto era che si ripeteva quel mantra senza mai riuscire ad uscirne fuori?
Si passò una mano tra i capelli, scostandosi il vistoso ciuffo dal viso. Aveva diciotto anni, cristo, aveva appena finito la scuola. Avrebbe dovuto pensare al college. Avrebbe dovuto essere in giro a fare graffiti illegali. A limonare con un ragazzo. A leggere libri in biblioteca. A passeggiare insieme a Jenna. A fare qualunque fottutissima cosa che non fosse starsene in camera a piangere e a tagliarsi.
Devo calmarmi.
Si alzò, tremante sulle gambe lunghe e scheletriche, e spense lo stereo che sparava a tutto volume una delle prime canzoni dei Bring Me The Horizon. Quelle che si metteva in cuffia a un volume così forte da danneggiarsi i timpani solo per il piacere di sfondarsi le orecchie con la musica che amava e che lo faceva sentire a casa. Perché sì, Oliver era quel tipo di ragazzo: musica metalcore che soffocava i suoi pensieri suicidi, magliette extralarge di band dimenticate per nascondere i tagli e la magrezza eccessiva, testi delle canzoni da usare quando non gli venivano le parole. Cioè sempre. Imbranato, squinternato, imbarazzante e imbarazzato, Oliver Griffiths sarebbe stato bello come solo certi ragazzi della mid class possono esserlo. Aveva dentro di sé il fascino dei perduti, l’espressione da cantante maledetto, il poeta dannato che si nascondeva dietro a un ciuffo e a un paio di Vans lise, l’eroe generazionale che non deve combattere contro Joker, ma contro la depressione, le tendenze suicide e l’anoressia. Perché anche i ragazzi possono essere anoressici, non solo le ragazze. Oliver era un eroe, dal basso dei suoi diciotto anni sprecati, era l’eroe goffo che avrebbe salvato delle vite anche se prima di tutto doveva imparare a salvare la sua. Sì, era un triste, strambo, allampanato eroe con poco più che un paio di cuffe e una macchina fotografica che non lo abbandonava mai.
Si guardò in giro per la stanza e prese una felpa, quella degli Asking Alexandria autografata per la quale aveva dovuto lottare contro tre giganti metallari, infilandosela e tirando il più possibile le maniche. Non aveva voglia che i suoi amici vedessero i tagli freschi, non voleva che ripartisse la predica, non voleva semplicemente deluderli di nuovo dopo che aveva promesso che non l’avrebbe mai più fatto. Ma ne aveva fatte miliardi di promesse così, senza mai mantenerne una. Avrebbe tanto voluto poter smettere, ma non riusciva a farlo.
Raccolse da terra la lametta e la chiuse in un cassetto. Per un secondo, come ogni dannata volta, si illuse che non l’avrebbe mai più tirata fuori, ma il secondo dopo si disse che presto sarebbe ritornato ad impugnarla, tra le lacrime e l’odio. Cercava di ripromettersi che sarebbe guarito dall’autolesionismo, ma ci ricadeva sempre, come una droga. Oliver era ossessionato e perseguitato dal dolore, se ne era assuefatto così tanto da non sapere più come fare senza. Una parte malata di lui aveva bisogno di vedere i tagli sulle braccia, di sentire il dolore della stoffa che li sfregava, di impugnare quelle lame e premersele contro la pelle.
Sbattè con forza il cassetto e si infilò le vecchie Vans, mettendosi le cuffie sulle orecchie e facendo ripartire quella canzone dei Bring Me The Horizon che gli piaceva tanto e che in qualche modo gli stampava quel sorriso storto sul viso.
Corse fuori, evitando con grazia il richiamo di sua madre, le mani affondate nelle tasche e gli occhi rivolti al cielo nuvoloso di Liverpool.
Avrebbe corso, quel giorno, corso così tanto da sentirsi male. Avrebbe corso per non sentire il dolore sulle braccia, per convincersi di stare bene, per combattere la sua dannata depressione, per sentire il vento sul viso e dirsi “cazzo, Oli, non mollare, ci sono ancora così tante cose che devi fare nella vita”.
In fondo, aveva solo diciotto anni.
Doveva ancora dare alla sua squinternata band la chance di sfondare, doveva usare la sua nuova macchina fotografica, doveva ubriacarsi e farsi di ketamina per la prima volta, doveva vedere ancora il sorriso di Jenna, doveva trovare l’amore.
Già, trovare l’amore, che lui non aveva mai creduto esistesse.
Non poteva nemmeno pensare che qualcuno avesse veramente voluto mettersi con lui, Oliver, depresso, anoressico e autolesionista, quello emo che fotografa i corvi e si bombarda di musica metalcore, quello sfigato con troppi tatuaggi e il ciuffo moscio.
Anche se, dentro di lui, ci sperava disperatamente. Ci sperava, nel trovare il ragazzo che lo abbracciasse, che gli dicesse “va tutto bene”, che gli baciasse gli avambracci e che lo facesse ridere di cuore. Ci sperava con occhi bassi e un sorriso appena accennato dipinto sul viso magro. Ci sperava e ci sognava sopra la notte, perché aveva ancora il cuore romantico. Sperava ancora, sotto tutti gli strati di dolore e di devastazione interiore. C’era ancora qualcosa che lo faceva stare attaccato alla vita, la speranza di cambiare, di salvarsi, di cominciare a vivere l’adolescenza che gli era stata negata.
Cominciò a correre, la musica a tutto volume, a correre verso il parco sulla collina da dove si dominava tutta Liverpool, e sentì qualche lacrima cominciare a rigargli le guance. Avrebbe pianto ancora, perché era così che andava avanti. Avrebbe urlato tutto il suo dolore al cielo obnubilato di quella città che odiava con tutte le sue forze. Sarebbe caduto in ginocchio e avrebbe maledetto quegli dei ai quali non credeva più da anni, perché era così che funzionava la vita di Oliver.
Pianti, corse, fotografie. Pianti, tagli, battute caustiche all’indirizzo della vita. Pianti, vomito, insulti a un mondo che non lo comprendeva.
Pianti, soprattutto, per una vita che vivere si era fatta insopportabile.


***
Grazie di essere arrivati fin qui. Volevo dirvi qualche cosina: uno, questa storia l'avevo pubblicata ieri ma non mi piaceva quindi l'ho riaggiustata ed eccovela qua.
Due, si parla e si parlerà di argomenti molto delicati ed è qui che vi dico: non giudicate. So benissimo di cosa sto parlando, quindi se dovete recensire (beh spero lo farete ahah) non venitemi a dire "cosa scrivi non sai cosa stai dicendo", perché no, gente, so perfettamente di cosa scrivo. Quindi, recensioni negative certo visto che scrivo da cani ahah ma non giudicate l'argomento o come lo tratto - se non vi piace, potete cambiare storia. Basta che non mi diciate che non so cosa sto dicendo perchè vi giuro su dio che lo so.
Detto questo, spero che la storia vi sia piaciuta :DD recensite e baci baci :D
Il titolo è preso dalla mia canzone preferita dei Bring Me The Horizon, "Doomed".

Charlie xx

 

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Capitolo 2
*** Problems love me ***


CAPITOLO SECONDO: PROBLEMS LOVE ME

Cause I’m feeling nervous,
Trying to be so perfect
Cause I know you’re worth it, you’re worth it
[Avril Lavigne – Things I’ll Never Say]
 
-Stai mangiando un po’ di più, vedo.
James gli sorrise, posandogli affettuosamente una mano sulla spalla. Oliver scrollò la testa e lasciò che un pallido sorriso gli illuminasse il viso. Non che stesse davvero guarendo, ma c’erano dei giorni in cui stava meglio, si arrischiava a mangiare qualcosina e riusciva a ridere un po’ di più del normale. Quel giorno, era uno di quelli. Certo, il terrore che i suoi amici vedessero i tagli era ingombrante e fastidioso, ma almeno quella corsa sembrava avergli fatto bene. E in quel momento, seduto nel vecchia sala da the insieme ai compagni di una vita, era riuscito persino a tirare fuori una delle sue battutine caustiche che facevano ridere solo Jenna.
-Forse sto un po’ meglio.- mentì, giocando distrattamente col lampone che decorava il tortino al cioccolato di Kellin.
Sto meglio – la più grande bugia che Oliver continuava a raccontare imperterrito a chiunque gli chiedesse come stava. Ormai non lo faceva nemmeno più apposta, era un riflesso incondizionato. Lui, per gli altri, doveva stare bene, non c’era altro modo per dirlo. Non voleva farli entrare nel suo inferno personale, non voleva che si preoccupassero per lui: che di problemi ne avevano in abbondanza anche loro.
-Cosa facciamo quest’estate?- chiese Kellin, attaccando il dolcetto – Se ci prendessimo una settimana di vacanza?
Jenna sorrise, e si passò una mano tra i capelli biondi con le ciocche verdi.
-Non sarebbe male. Potremmo andare in Irlanda del Nord. Oppure a Dublino. O anche a Londra.
-Ma non ti stancherai troppo, Jen?
La ragazza si scostò il ciuffo mal tagliato dalla fronte e si strinse nelle spalle. Tasto dolente, per Jenna O’Connell. Lei, obbiettivamente, era sempre stanca. Contro la sua volontà, certo, ma sicuramente sempre stanca. Ma non della stanchezza mentale e depressa di Oliver, no: la sua era quella che derivava dalla leucemia che si trascinava dietro da anni. Da che aveva memoria, era sempre stata minata del fisico ma non per questo si era lasciata abbattere. Perché lei era forte, più forte di quanto volesse ammettere e rideva, suonava, giocava, ballava contro una vita che si consumava con la rapidità di un tiro di sigaretta. Tutti i ricoveri in ospedale non avevano rovinato quel sorriso storto con quel dente scheggiato, tutte le medicine non avevano spento la luce sbarazzina in quegli occhi scuri, tutta la consapevolezza che sarebbe morta giovane non le aveva vietato di essere una fonte di energia e divertimento inesauribile. Quanto Oliver piangeva, quanto lei rideva, lottava, combatteva, urlava per vivere a tutto volume quel poco che le rimaneva. Jenna non sperava in una sua guarigione, ma credeva ciecamente nella sua adolescenza. Voleva vivere, e nessuno l’avrebbe mai fermata. Voleva viaggiare, suonare, andare a vedere i Green Day in concerto e non sarebbe stata una stupida leucemia a metterle il veto.
-Non lo so, Jimmy. Forse. Però se facessimo un weekend a Londra sono sicura di poterlo reggere.- disse, con ottimismo.
-Se andiamo a Londra, allora cerchiamo della ketamina.- intervenne Oliver – Non esiste che muoia senza averla provata.
-Dio, questo dolce è troppo buono. Se ne ordino un altro lo mangiate con me?
-Kells, fai schifo! Ma quanti ne hai già mangiati? Hai il ciclo, per caso?
Kellin spalancò i grandi occhi di un verde così chiaro da sembrare liquido, sfarfallò le ciglia scure e sorrise, agitando la mano alla ricerca di un cameriere che venisse a soddisfare la sua voglia di dolci. Ovviamente, non aveva il ciclo, ma il suo bisogno di roba dolce era tutto consequenziale al fatto che fosse innamorato. Farfalle nello stomaco, occhiate rubate, una storia clandestina, erano tutti gli elementi che stavano costellando l’estate di Kellin Hills, che, all’insaputa dei suoi amici, si stava coltivando una relazione troppo pericolosa per non eccitarlo oltre misura. Aveva scelto di non dirlo a nessuno non tanto per paura quanto per il gusto del pericolo – gli era sempre piaciuto giocare col fuoco e adesso che si era presentata l’occasione non se la sarebbe lasciata scappare. Si passò una mano tra i capelli corvini e fece uno dei suoi sorrisetti saputi. Perché forse lui, quell’anno, avrebbe potuto avere la storia perfetta che sognava da anni. Forse lui, il macilento, un filo isterico, artistoide Kellin sarebbe potuto scappare negli Stati Uniti con l’uomo che gli avrebbe aperto le porte a una vita felice. Ci credeva? Oh sì, con tutto sé stesso. Il ragazzo perso con gli occhi troppo chiari e la voce troppo acuta avrebbe avuto la sua rivincita americana.
-Volete qualcos’altro?
Quando Oliver percepì l’arrivo del cameriere, non avrebbe sicuramente alzato lo sguardo, timidamente nascosto sotto il vistoso ciuffone scuro, troppo interessato a fissare i lacci slacciati delle Vans. Ma poi sentì quella voce. Melodiosa, fresca, appesantita da un buffo accento russo, una voce allegra e frizzante, e alzò la testa. Non seppe nemmeno perché lo fece, ma quel movimento fu meccanico. Voleva vedere il padrone di quella voce così angelica e ben modulata, come se ne andasse della sua stessa vita. Quindi prese tutto il coraggio che aveva e si scostò il ciuffo dagli occhi, osservando il ragazzo che era venuto a servirli. E il cuore perse un battito.
-Una torta di pistacchio.- stava cinguettando Kellin – Con della panna, se è possibile. Voi volete qualcosa?
Ma Oliver non lo sentiva già più, troppo impegnato a fissare con la bocca semiaperta il giovanissimo cameriere, che con quel sorriso luminoso avrebbe illuminato l’inferno. I calcati tratti slavi, il naso largo e schiacciato, la massa scompigliata di capelli scuri, i tatuaggi che spuntavano dalla divisa, tutto di quel ragazzo urlava bellezza assassina, fascino mortale, sensualità esagerata. E poi c’erano quegli occhi. Grandi, di taglio femminile, ombreggiati da lunghe ciglia ricurve, del colore dell’ambra più pura. Occhi sinceri, limpidi, occhi meravigliosi di un ragazzo bello come le stelle. Occhi che calamitarono immediatamente Oliver e gli scaldarono, per un secondo, il cuore. Non aveva mai visto un ragazzo del genere. Non aveva mai provato un’attrazione così disperata per uno sguardo così conturbante.
-Hai bisogno di qualcosa?- ripeté il ragazzo slavo, sorridendogli.
Oliver si rese conto di starlo fissando con gli occhi da pesce e un sorriso ebete stampato sul volto. Sperò almeno di non aver cominciato a sbavare.
Si riscosse, e scosse freneticamente la testa, tornando a nascondersi dietro al ciuffo.
-Magari portagli un bicchiere d’acqua.- rise James, dandogli un’altra pacca sulla spalla gracile, e Oliver arrossì selvaggiamente balbettando
-Eh … sì … no … un the … sì, un the alla menta.
Si rese solamente conto dopo di aver ordinato il tipo di the che più odiava in assoluto. Il ragazzo sorrise, scribacchiò tutto su un taccuino, e scivolò con via con movenze degne di una pantera. Oliver si ritrovò a fissare quel corpo alto e slanciato ancheggiare verso le cucine e sbatté appena le ciglia. Era … stupendo. Bellissimo. Meraviglioso.
-Ho capito che ti piace, Oli, ma non fare quella faccia da morto di sesso.- lo rimbeccò Jenna, dandogli un pizzicotto.
-Ma è tipo … wow.- si limitò a brontolare il ragazzo.
Kellin fece qualche commento ma Oliver non lo ascoltava già più, troppo impegnato ad osservare il ragazzo, che avrà avuto suppergiù la loro età, correre in giro per il pub con pinte di birra e panini. Voleva fotografarlo. Un bisogno quasi impellente di metterlo in posa e scattargli milioni di fotografie, di vederlo contemporaneamente nelle pose più oscene e più pudiche. Rose tra i capelli e margherite tra le dita, collane sul petto nudo e gambe spalancate, camicia bianca e cravatta attorno al collo, al ragazzo stavano venendo in mente mille idee diverse da sottoporre al giovane cameriere slavo ma nessuna gli sembrava abbastanza bella per idealizzare quel fascino quasi tossico. Se non avesse avuto l’ansia sociale, se avesse avuto solo un quarto della faccia tosta di Kellin gli avrebbe immediatamente chiesto di posare per lui – quanto ci voleva a proporgli un servizio in amicizia? Niente, in realtà, ma per Oliver sarebbe stato un ostacolo insuperabile. Per lui qualunque cosa era insormontabile, fosse colpa della sua misantropia, dei suoi problemi di ansia e di autostima. “Ti blocchi da solo, tesoro”, gli ricordava sempre sua madre e lui sbuffava. Non voleva certo essere così, ma cosa ci poteva fare se per lui rapportarsi con un altro coetaneo, per di più bello come il cameriere, rappresentava una missione suicida? Si mordicchiò nervosamente le unghie, guardandolo correre per i tavoli
-Vuoi fotografarlo, dimmi la verità.- disse James, spettinandogli i capelli.
Oliver si voltò e incontrò i piccoli occhi celesti dell’amico di sempre. A volte pensava che anche James era perfetto per una foto, con i suoi corti capelli biondissimi, il viso sincero e pulito, le braccia muscolose, il sorriso buono eppure appesantito da una malinconia di fondo che solo in pochi potevano cogliere.
-Sì.- ammise, grattandosi l’incavo del braccio – E’ un soggetto interessante.
Perché Oliver poteva avere dei problemi a socializzare, ma aveva l’occhio speciale per trovare le persone giuste. Gli occhi, il sorriso, il modo di arrossire o di porsi, tutto questo attirava il ragazzo emo come una calamita. Lui non voleva fotografare le persone per spogliarle di loro stesse, per confrontarcisi meglio, per mettere a nudo i loro demoni e loro segreti più intimi. Lo faceva anche con sé stesso: aveva album interi di suoi autoscatti, tutti tristi, tutti solitari, tutti che rappresentavano l’oscurità che covava dentro al cuore.
-Ecco la vostra ordinazione.
Il ragazzo era tornato con the, dolcetto e sorriso smagliante, e di nuovo Oliver si dovette trattenere dal mettersi a fissarlo con la bava alla bocca.
-Grazie, caro, grazie.- trillò Kellin, attaccando con cupidigia la sua torta al pistacchio e panna – Ma sei nuovo? Non ti abbiamo mai visto da queste parti.
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli e arrossì appena.
-Sono appena arrivato dall’Ucraina. Ma mi piace l’Inghilterra. È … diversa. Ma bella.
Ucraino, registrò Oliver. Una pura principessa del Mar Nero sbarcata in quel triste quartiere residenziale di Liverpool. Lo guardò e pensò che forse avrebbe dovuto sorridergli. Magari dirgli qualcosa di intelligente. Un commento lascivo. Una strizzata d’occhio. Un cenno di interessamento. Ma non lo fece, perché la sua ansia sociale glielo stava fieramente impedendo. Non sia mai che il giovane Griffiths riesca a fare qualcosa che implichi un contatto umano. Si passò nervosamente una mano tra i capelli mentre Kellin continuava a sproloquiare, mettendo palesemente in imbarazzo il ragazzo. Forse doveva salvarlo dalle chiacchiere di Kellin. Forse invitarlo a sedersi accanto a lui. Forse chiedergli se voleva un sorso di the. Forse … non si rese veramente conto di come successe, ma l’attimo dopo sentì lo strillo del cameriere ucraino e vide tutto il suo the bollente rovesciato addosso al ragazzo. Sbiancò. Era veramente successo?
Rimase per un attimo instupidito a fissare la camicia bianca fradicia cominciare ad aderire alla pelle del giovane, cominciando a processare il fatto che il colpevole di quel disastro era stato lui e solo lui. Come volevasi dimostrare, aveva combinato un pasticcio di somme dimensioni. Ovviamente, con l’elemento più affascinante e fotogenico che poteva trovare in tutta la città. Sbatté per un attimo gli occhi e poi si alzò, rosso dall’imbarazzo, barcollando sulle lunghe gambe magre e si precipitò fuori dalla sala da the, cercando di non guardare l’ucraino appena sbigottito. Corse fuori come una freccia, senza chiedere scusa, senza voltarsi, senza salutare, semplicemente con gli occhi fuori dalla testa e la macchina fotografica che gli sbattacchiava al collo. Bravo Oli, come al solito ti sei distinto per la tua idiozia congenita, si disse, inciampando nei lacci delle Vans. Come aveva potuto essere così imbranato da rovesciargli addosso il the. Anzi, no, lo sapeva come aveva potuto: era un disastro umano. Vittima delle sue paure, delle sue insicurezze, della sua naturale goffaggine, Oliver non era mai stato in grado di rapportarsi col prossimo. Avrebbe potuto chiedere scusa e tutto sarebbe finito lì, invece no, era scappato, quasi in lacrime perché di nuovo non era riuscito ad affrontare una normalissima situazione sociale. Tutto quello che avrebbe voluto fare, chiacchierare con quel ragazzo, proporgli qualche foto, sapere qualcosa di più sul suo Paese d’origine, tutto gli era stato vietato da nient’altro che sé stesso. Doveva darsi una regolata. Magari tornare dentro al pub e scusarsi. Magari non mettersi a piangere. Magari non scappare di nuovo. Magari …
-Oliver! Ma si può sapere che combini?
Jenna gli era arrivata alle spalle e gli aveva appena mollato un sonoro coppino.
-Ragazzo, ma ci sei?- James gli schioccò le dita davanti al naso lungo – Ti senti bene?
Oliver scosse la testa, balbettando qualche parola scordinata
-Io … il the … lui … e io …
-Succede a tutti di rovesciare il the, giraffa scoordinata.- lo rimbeccò Jenna, dandogli un pizzocotto – La gente comune però si scusa, non scappa piangendo.
Oliver avrebbe voluto dirle che non era un ragazzo comune, era un povero depresso anoressico con grossi problemi a relazionarsi, ma stette zitto.
-Sei patetico, Oli.- James scosse la testa – Il ragazzo è dispiaciutissimo che tu sia scappato, pensa che sia colpa sua. Muovi il culo e vatti a scusare.
-Mi vergogno.- piagnucolò Oliver, aggrappandosi disperatamente alla macchina fotografica.
-Vuoi davvero farti scappare la possibilità di scambiare qualche parola con quella bambola che sembra un modello? Dai, che c’è Kellin dentro che gli sta facendo il lavaggio del cervello, fai l’eroe e vallo a salvare.- Jenna gli diede una spinta amichevole dentro alla sala da the e Oliver capitombolò dentro, indeciso se tentare di nuovo la fuga o provare a fare la persona civile.
Il ragazzo era là, subissato dalle chiacchiere incessanti di Kellin, dotato di quella bellezza violenta e verace che sono certi ucraini possono avere, e Oliver arrossì ancora più disperatamente. Non era difficile. Doveva solo chiedere scusa, possibilmente senza balbettare.
Si avvicinò impacciato, con Jenna da una parte e James dall’altra e si scostò il ciuffo dagli occhi
-Ahem … io … scusami. Per il the. Per averlo rovesciato. Per essermene andato. Per … scusami.
Arrossì selvaggiamente, sotto lo sguardo perfettamente ambrato del ragazzo ucraino. Ma lui non sembrava offeso, o divertito. Era semplicemente tranquillo, con quel sorriso meraviglioso. Oliver pensò di non aver mai visto un sorriso così bello, così puro, così splendidamente innocente. Non aveva niente a che fare con la devastazione, la malinconica, la tossicità, il dolore che Oliver conosceva. Era qualcosa di selvaggio, di libero, un sorriso che alzava il medio al cielo, che ballava nudo sotto le stelle, che baciava altri uomini in  chiesa, era un sorriso che sapeva di Mar Nero, di estero, di avventure impossibili da vivere, di lingue sconosciute e corse in bici negli infinti campi di grano ucraini. Era il sorriso perfetto che Oliver avrebbe tanto volentieri fotografato e messo nei suoi album, per guardarlo nei momenti bui.
-Tranquillo, non è nulla, succede a tutti.- il ragazzo gli sorrise e chinò il capo su una spalla. Lo studiò per qualche secondo e poi gli porse la mano – Mi chiamo Denis, piacere.
-O … Oliver. Ma tutti mi chiamano Oli.
Si strinsero la mano, una lunga e tatuata e l’altra con le unghie mangiucchiate.
-E’ un piacere, Oliver.
Dio, aveva un modo di pronunciare il suo nome che era quasi tossico, con quel pesante accento russo, e quella voce morbida, e quel modo che aveva di abbassare le ciglia quando parlava. Era tutto troppo per il fotografo che era in Oliver.
-Per scusarci di avergli sporcato la camicia, l’ho invitato stasera al pub con noi!- si intromise Kellin.
Mentre Jenna e James si professarono entusiasti, Oliver sentì il terreno cedergli sotto i piedi. Non ce l’avrebbe mai potuta fare. Kellin non poteva pensare che lui riuscisse ad imbastire qualcosa con Denis, non potevano concepire quanto potesse essere complicato per lui rapportarsi con uno sconosciuto, affascinante, per di più, non potevano …
-Verrò molto volentieri, non mi sono ancora ambientato qui a Liverpool.- disse Denis.
Poi si voltò e fece per tornare in cucina a lavorare, salutandoli con uno di quei sorrisi incredibili. Giusto prima di scomparire però rivolse un sorriso speciale a Oliver
-Ci vediamo stasera allora, Oli.
A Oliver parve di svenire. Sì, i problemi erano decisamente innamorati di lui.

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Capitolo 3
*** I haven't chosen you, but my heart has ***


CAPITOLO TERZO: NON TI HO SCELTO IO, MA IL MIO CUORE

I feel bright when you stand near
I know what I am when you are here
My place become so clear
[Lights – Drive My Soul]
 
E così, alla fine, erano tutti e quattro impalati di fronte alla porta del vecchio pub, più o meno ben vestiti, più o meno esaltati, in attesa dell’arrivo di Denis. Oliver continuava a tormentarsi l’orlo della felpa, giocando distrattamente con l’obbiettivo della macchina fotografica: poteva farcela. Doveva solo sorridere, con quel suo sorriso storto e magari scambiare qualche parola. Sarebbe andato tutto bene, se non si fosse lasciato soffocare dalla sua ansia. Sperò ardentemente che tutti gli ansiolitici di cui si era imbottito prima di uscire facessero effetto – non che andasse fiero di vivere sotto psicofarmaci, ma si era reso conto che erano diventati l’unica cosa che gli permetteva di tirare avanti. Xanax a bottigliette per tenere a freno l’ansia, antidepressivi ogni sera, erano tutti diventati i suoi migliori amici. Servivano? Forse come palliativo. Forse no. Forse sì. Non lo sapeva, ma in compenso sapeva che non sarebbe potuto andare avanti tutta la vita così.
Si scostò il ciuffo dagli occhi, guardandosi stancamente attorno. Odiava Liverpool? Sì, la odiava, per tutto quello che aveva significato per lui, per tutte le volte che era sceso al porto pensando di annegarsi, per tutti i momenti in cui aveva maledetto il suo cielo stellato, per tutte le peregrinazioni nel negozio di dischi, per tutte le sigarette fumate, i pestaggi subiti, i tagli sulle braccia, il vomito forzato, per le corse sfiancanti, per l’autobus che non arrivava mai, per le cantate sotto le stelle, per le scarpe slacciate e per il suo taglio di capelli passato di moda.
Voleva andarsene? Disperatamente, ma non sapeva dove. Forse avrebbe dovuto solamente prendere la prima corriera e vedere dove sarebbe finito. Un treno verso la Scozia, magari. Un traghetto per l’Irlanda e poi per l’America. Qualunque posto che non fosse la sua maledetta città.
-Ciao ragazzi, scusate il ritardo.
Oliver si voltò solo per vedere Denis arrivare di corsa, i capelli appena arruffati e la giacca di pelle sbottonata. Era ancora più bello di quel pomeriggio, ancora più selvaggio, sbarazzino, follemente affascinante.
Sperò di riuscire a salutarlo festosamente come i suoi amici ma riuscì solamente a balbettare un triste “c… ciao”. Nonostante tutto, vinse un sorriso aperto e sincero che lo fece arrossire selvaggiamente.
Perché quando Denis aveva visto Oliver, vi aveva visto dentro il dolore che voleva esservici letto. Aveva visto lo sguardo spezzato di chi ha perso la speranza, la magrezza eccessiva, l’aria abbattuta di un ragazzo che non sa più da che parte girarsi e per un attimo si era sentito vicino a lui. Il grigio degli occhi gli aveva ricordato i conturbanti cieli ucraini dai quali era fuggito, le mani tatuate erano fredde come il Mar Nero quando andava a fare il bagno a Naberezhne, la sua tristezza sembrava quella che lo coglieva nelle notti d’inverno, nella vecchia casa di Kharkiv. Era segretamente contento di essere stato invitato da quei ragazzi, e lo era ancora di più quando aveva visto di nuovo Oliver, con il suo ciuffone e la sua felpa degli Asking Alexandria.
-Così sei arrivato qui dall’Ucraina. È un bel cambiamento.- commentò James, una volta che si furono seduti a un tavolo nell’angolo e che ebbero davanti le pinte di birra.
-E’ tutto molto diverso, ma in qualche modo vedrò di ambientarmi.- ammise Denis, con un sorriso – Voi vi conoscete da tanto?
-Da quando siamo nati.- trillò Jenna – Veniamo tutti dalla stessa, triste strada. Siamo praticamente cresciuti insieme.
-Allora non riuscirò mai a diventare il quinto elemento.- Denis sorrideva, ma dentro di sé no. Fondamentalmente, a lui era sempre mancato un amico. Circondato da cinque sorelle maggiori, era sempre stato solo. Solo a Kharkiv, dove passava le sue giornate a suonare la chitarra e a sognare di una vita diversa, lontana dalla triste periferia ucraina. Solo a Naberezhne, impegnato ad andare in bici sulla rena per sentire il sapore del mare sulla pelle, abbandonato con le sue cuffie e i suoi sogni impossibili. Solo a Liverpool, appena sbarcato da una terra di confine, senza amici e senza destinazione. Denis era un ragazzo che navigava senza nessuno, che galleggiava da solo e sperava disperatamente di trovare qualcuno che gli tenesse compagnia, che lo prendesse per mano e lo portasse a correre in mezzo ai papaveri e ai campi di grano di casa sua, che gli dicesse che sarebbe andato tutto bene, che gli insegnasse a vivere, che cantasse sopra la sua chitarra, che gli pettinasse i capelli sempre arruffati, che gli dicesse che era bello, che lo strappasse da quel passato che avrebbe tanto voluto dimenticare. Denis aveva bisogno di qualcuno che lo tenesse aggrappato alla terra, che gli desse un motivo in più per sorridere al sole, che lo amasse di un amore puro e incondizionato. Voleva qualcuno a cui importasse di lui, del suo naso schiacciato e della sua chitarra.
-Perché no.- Kellin gli strizzò l’occhio – Mai dire mai, ragazzo ucraino.
Parlarono, quella sera. Parlarono di Liverpool, dei bulli, della scuola, dell’Ucraina, del tempo atmosferico, di Audrey Hepburn e dei Tokio Hotel. Parlò Kellin, che non stava mai zitto, parlò Jenna, solo per contraddirlo, parlò James, per metterli a tacere, parlò Denis, per raccontare della sua vita, disse qualcosa addirittura Oliver, che con tutto lo Xanax che aveva preso stava cominciando a rilassarsi. Più guardava Denis, più lo trovava perfetto. Il modo in cui parlava, in cui sorrideva, in cui beveva, in cui li guardava tutti negli occhi, c’era un fascino esotico e straniero che non poteva lasciare indifferenti. Parlarono un sacco, tra una pinta e l’altra, ridendo, scherzando, conoscendosi, cominciando a tastare il terreno e Denis poté dire di non essere mai stato bene come con quegli strani ragazzi inglesi. Avevano tutti e quattro gli occhi spezzati da un dolore senza nome, ma avevano i sorrisi più belli che avesse mai visto. Avevano un’amicizia e una fede incrollabile uno nell’altro, avevano la gioia di vivere che solo i perduti possono avere e quello a Denis piaceva da morire. Li guardava ridere, spintonarsi e darsi schiaffetti affettuosi e non poteva non trovarli stupendi nella loro semplicità. Chissà, si chiese pigramente, se anche io potrò comportarmi così con qualcuno, prima o poi.
-Guarda, Jen, c’è Taylor!- esclamò a un certo punto Kellin, alzandosi e indicando un punto non ben precisato della sala.
Jenna rimase un secondo instupidita, prima di seguirlo a ruota, strillando qualcosa di indefinito su una certa Taylor. Per un attimo, Denis tentò di individuare chi stessero cercando, ma non gli parve di vedere nessun nuovo arrivo nel pub.
James ci mise veramente poco poi a guardare l’orologio e ad esclamare
-Guardate, mi sa che devo andare. Devo controllare che mia sorella prenda le sue medicine. È stato un piacere, Denis. Oli, non bere più che ti si annebbiano gli occhi.
E anche lui si alzò, dileguandosi nel buio calato fuori, facendo rimanere soli Denis e Oliver. Il ragazzo ucraino, poi, ebbe da credere che tutte quelle furono strane manovre ordite dai tre per lasciarli soli, ma nel momento non ci fece molto caso, troppo impegnato a fissare i meravigliosi occhi grigio ferro di Oliver. Gli sorrise ancora, avvicinandosi impercettibilmente
-Hai degli occhi bellissimi.- disse, e rise quando Oliver arrossì selvaggiamente.
-Non è vero.- tentò di schernirsi, passandosi una mano tra i capelli.
Ma, segretamente, il suo cuore si scaldò un pochino quando sentì quel complimento. Nessuno gli aveva mai detto che avesse dei begli occhi, tutti troppo spaventati dal dolore che covavano.
Poi, forse complice l’alcol, o forse il sorriso accecante di Denis, o forse il calore di quell’angolo del pub, si arrischiò a prendere la macchina fotografica.
-Volevo chiederti se avessi voglia di posare per me.- disse, tutto d’un fiato.
-Come, scusa?
-No! Aspetta, non intendevo offenderti, io …
-Oli, tranquillo. Va benissimo, sono solo stupito. Nessuno mi aveva mai chiesto di posare.- Denis gli prese una  mano tra le sue, sentendo il calore estremo e il gelo più terribile fondersi gli uno con gli altri. Un passionale cuore ucraino e un gelido animo inglese che insieme, forse, avrebbero fatto faville.
Oliver prese un profondo respiro, si aggiustò il ciuffo e cercò di mettere ordine nei suoi pensieri. Bene, glielo aveva chiesto. Nessuno era impazzito. Deglutì rumorosamente e prese timidamente la macchina fotografica.
-Come avrai notato, amo fare foto. E mi chiedevo se volessi farmi da modello. Così, senza impegno.
Oliver sorrise appena. In quel momento, avrebbe voluto disperatamente fotografarlo, un po’ rosso in faccia, sorridente, con i capelli arruffati e gli occhi brillanti, nelle soffuse luci del pub. Era bellissimo, Denis, così tanto bello da fare male. Non lo aveva scelto lui, ma il suo cuore.
Si guardarono un po’ negli occhi, le ciglia abbassate e dei sorrisi timidi, come se si fossero appena raccontati un segreto preziosissimo. Uno di quei segreti che entrambi covavano dentro e che avevano troppa paura di ammettere nel terrore di essere rifiutati ancora da un mondo che li voleva morti. Uno di quei segreti che avevano urlato al mare, e che fosse il Mare d’Irlanda o il Mar Nero non cambiava poi molto, che avevano pianto nelle notti d’estate, che avevano affidato a diari che avevano poi incendiato nelle mattine d’autunno.
Erano uguali, Denis e Oliver, sotto canzoni metalcore e nazioni diverse, erano soli, arrabbiati, devastati, erano due fuochi fatui che si inseguivano nel buio, erano due selkie che cercavano la loro pelle di foca, erano due ragazzi persi che volevano solamente tornare a casa. Erano uguali, in quel pub, a pensare alle loro vite distrutte, tenendosi ancora la mano, davanti a pinte vuote, insieme a una strappalacrime canzone tradizionale.
-Sono un po’ stanco, vorrei tornare a casa.- disse Denis, spezzando il loro silenzio un po’ malinconico, forse anche un po’ dolce.
Oliver annuì, e si chiese cosa lo stesse trattenendo dal dirgli “ti accompagno io”. Voleva farlo, obiettivamente. Voleva prenderlo per mano e portarlo al porto, a guardare le foche, voleva correre con lui per le strade deserte, voleva fargli vedere la crudele luna inglese, voleva farlo ballare nel silenzio della notte, voleva fargli fotografie e raccontargli della sua vita disastrata. Voleva farlo, voleva stare tutta la notte con lui, a parlare, a danzare, a correre, a guardare le stelle, a cantare, a suonare la chitarra. Voleva, ma sapeva che non l’avrebbe mai fatto perché la sua ansia lo avrebbe bloccato, lo avrebbe divorato vivo. Lo guardò, e per un attimo ebbe voglia di piangere. Così, senza un perché, scoppiare in lacrime tra le sue braccia e farsi consolare da quella sommessa voce pesantemente accentata.
-Mi potresti accompagnare? Sai, è buio, ho paura di perdermi.- disse invece Denis, alzandosi e invitandolo a fare lo stesso.
-Sì, certo, non c’è problema.- balbettò Oliver, e la voglia di piangere passò tutt’a un tratto. – Vieni, andiamo.
Uscirono, e fuori faceva freddo, sotto la luna impietosa ma Oliver non lo sentiva, non quando poteva guardare nel profondo degli occhi ambrati di Denis che sapevano di fuoco e di calore. Si guardono un secondo imbarazzati e poi si misero a camminare, fianco a fianco, nella strada silenziosa e vuota, lasciandosi alle spalle il caotico pub.
-Un po’ mi manca Kharkiv, sai.- commentò Denis, fissando il cielo – Mi manca il cielo ucraino.
Oliver annuì, poi si fece coraggio e gli si avvicinò, facendo scontrare le loro braccia
-Raccontami ancora dell’Ucraina allora. Forse ti farà sentire più a casa.
Denis lo guardò e sorrise, prendendolo a braccetto di slancio e cominciò a raccontare di grandi città sovietiche, di palazzi di periferia, di babke calde, di piogge violente e di lingue sconosciute.
Oliver non lo disse, ma, per arrivare all’indirizzo di Denis, gli fece fare il giro più lungo possibile.

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Capitolo 4
*** Why have I such a void inside? ***


CAPITOLO QUARTO: WHY HAVE I SUCH A VOID INSIDE?

Even though I’m on my own, I know I’m not alone
Cause I know that someone, somewhere
Praying that I make it home
[Asking Alexandria – Someone, Somewhere]
 
James strinse i denti mentre si fasciava il polso dolorante. Quella volta lo avevano massacrato per bene. Sospirò rumorosamente, appoggiandosi alla parete del bagno e chiuse gli occhi. Per un attimo, sperò che fosse tutto un incubo. Che si fosse fatto male cadendo dalla moto. Che non sapesse cosa volesse dire “steroide anabolizzante”. Che quella notte sarebbe andato da un ipotetico ragazzo a scopare e non in quel posto sporco e sabbioso. Ma tutto quello per un attimo, visto che il dolore al polso lo costrinse a ripiombare tristemente nella dura realtà: ovvero, quella dove lui partecipava a incontri di boxe clandestini per mantenere la sua famiglia disastrata. A volte James si chiedeva cosa sarebbe successo se avesse avuto una famiglia normale. Forse sarebbe stato felice. Si sarebbe dedicato a cose normali, si sarebbe iscritto al college, avrebbe pensato a come cercare di salvare Jenna, e invece lui era lì, ad agonizzare per portare a casa dei soldi, disperato, sempre a rischio, sempre insicuro, mentre continuava a mentire ai suoi amici su quello che faceva. Come avrebbero reagito Oliver, Kellin e Jenna se avesse detto loro quello che faceva la notte, quando tutti dormivano? Si sarebbero opposti, senza capire quanto gli servisse farlo. Non era contento di riempirsi di anabolizzanti, di andare a massacrare altri uomini tra scommesse e urla, di rovinarsi così un’adolescenza promettente, ma era quello che gli rimaneva per cercare di campare lui, la sua madre malata e le sue sorelle piccole. Sbuffò e si legò più stretto il polso, soffocando una bestemmia. In casa c’era quel fastidioso silenzio su quello che faceva, quell’ipocrisia di fondo di tutti che sapevano ma nessuno che faceva nulla per aiutarlo. E James soffriva, soffriva come un cane ma non sapeva come uscirne. Terrorizzato dal dirlo ai suoi amici, troppo giovane e scapestrato per uscirne da solo, il ragazzo si dibatteva impotente nella rete dove era caduto con le sue stesse mani.
Non aveva paura come all’inizio, aveva imparato a farci l’abitudine, aveva imparato a lottare contro sé stesso e contro un mondo che lo voleva morto. Aveva imparato che James Arthur McCandles era sinonimo di “resistenza”.
Si appoggiò al muro, e pensò ad Oliver, e alla sua depressione. Pensò a Jenna, e alla sua leucemia. Pensò a Kellin, e alla sua tarpata gioia di vivere. Pensò a sé stesso, e ai suoi segreti. Erano un gruppetto disparato di amici che non avevano niente in comune ma che stavano insieme per sopportare insieme le proprie disgrazie e per combattere contro la sfortuna e il dolore che macchiavano la loro adolescenza. Erano amici per scelta, combattenti per definizione e James sapeva, da qualche parte dentro di sé, che forse ne sarebbero usciti. Era ottimista, in fondo, era sempre stato quello che sorrideva alle avversità, quello che credeva profondamente che ce l’avrebbero fatta a superare l’inferno. Nonostante quello che era costretto a fare. Nonostante la sua situazione.
Si alzò e uscì dal bagno, l’occhio gonfio e il polso fasciato. L’unica nota positiva era che almeno era riuscito a raggranellare abbastanza soldi da poter comprare un regalo di compleanno per la piccola Emily. Sorrise, al pensiero di quanto sarebbe stata felice sua sorella di avere la casa delle bambole come tutte le sue amichette, e uscì per andare sulla collina che sovrastava il porto. Avrebbe guardato il mare, e sognato una vita diversa. Avrebbe ascolato musica metal sperando che un giorno sarebbe fuggito da Liverpool e da tutto quello che significava per lui.
Quando arrivò in cima alla collina e si sedette sulla panchina vuota dove andava sempre con Oliver a guardare le stelle, fissò il mare che si estendeva sotto di lui e sospirò rumorosamente, accendendosi una sigaretta. James era incatenato a quella città quando l’unica cosa che voleva fare era prendere una corriera e scappare a Londra, lontano dal dolore e dalla povertà che caratterizzavano la sua vita.
Si passò una mano tra i corti capelli biondi e sorrise al cielo limpido – si sarebbe salvato, lo sapeva. Non sapeva ancora come, ma lo avrebbe fatto. Si sarebbe lasciato alle spalle tutta la sua vecchia esistenza e se ne sarebbe ricostruita una dalle basi. Sperava, James, sperava con tutta la forza del suo cuore adolescente, combatteva come una bestia in trappola, sperava e credeva ciecamente in un futuro migliore. Lui non era come Oliver, oh no, era radicalmente diverso: lui rideva al cielo, sorrideva a una vita che lo odiava, si era convinto che si sarebbe salvato.
E in quel momento, seduto su quella panchina, stava sorridendo al nulla, col suo inguaribile ottimismo dipinto sul viso bello e pulito.
-Jimmy! Jimmy, aiuto!
Si voltò, giusto per vedere Oliver arrivare di corsa sulle lunghe gambe scheletriche, inciampando nei lacci delle Vans. Il ragazzo emo gli collassò affianco con il viso stravolto dalla sforzo e James gli sorrise
-Cosa c’è, Oli? Tutto bene?
-Non so cosa fare.
-Che novità. Cos’è successo sta volta?
I due amici si guardarono e Oliver si scostò il ciuffo dalla fronte, mettendosi a sedere diritto sulla panchina
-Voglio provarci con Denis.- disse, tutto veloce, arrossendo selvaggiamente.
-Quanti tranquillanti hai ingoiato prima di venire qua, ragazzo?- James alzò un sopracciglio.
-Nessuno!
-Oliver.
-Oh, okay, solo un pochino di Xanax. Ma ti giuro che era poco. E adesso sto pensando a lui. È da ieri notte che non faccio altro. È così bello. E lo voglio per me. Ma non so come fare. E …
-Solo un goccino di Xanax, eh? Oli, di cosa ti sei fatto? Lo sai che quelle medicine contro l’ipersonnia ti fanno agitare, ne prendi sempre troppe … - James lo guardò come un padre potrebbe guardare lo stupido figlio adolescente e Oliver arrossì ancora. A volte faceva casino con le medicine, non lo nascondeva. Ma in quel momento le medicine erano l’ultimo dei suoi problemi: c’era Denis, adesso. Denis con il suo naso schiacciato e i suoi passionali occhi slavi.
James gli fece un sorriso e gli passò un braccio attorno alle spalle, stringendolo a sé. A volte si chiedeva come erano riusciti a finire insieme, loro quattro. Depressi, malati, persi, sfortunati di natura eppure sempre insieme, contro la tempesta che era diventata la loro vita. Si spalleggiavano come fratelli, combattevano i propri demoni, non si abbandonavano perché avevano sperimentato sulla pelle cosa volesse dire il vero dolore, la vera depressione, la vera disperazione. Erano stati bistrattati, lasciati, feriti, usati, ma poi avevano trovato gli altri. Ed era stato così che avevano deciso che avrebbero lottato per la loro amicizia, per un sorriso in più, per una canzone, per una risata spezzata alle due del pomeriggio.
-Allora, ragazzo emo, cosa hai intenzione di fare? Provarci?
Oliver annuì, mordicchiandosi nervosamente le unghie.
-Allora oggi vallo a prendere fuori dalla sala da the, quando finisce il turno. Fagli una sorpresa, sono sicuro che sarà contento.
I due ragazzi si guardarono e Oliver fece una smorfia sconvolta.
-Ma non ce la farò mai, Jimmy!
-Se non ti dai una mossa, bello, qualcuno te lo fregherà. E tu non vuoi che qualcuno si impossessi del bell’ucraino prima di te.- James gli diede una spinta affettuosa – Oli, guardami: non è difficile. Denis non ti rifiuterà mai.
Oliver si morse il labbro, perché mentre da un lato voleva disperatamente essere normale e fare quello che qualunque ragazzo normale avrebbe fatto, dall’altro aveva la sua ansia sociale che lo divorava vivo e che lo voleva tenere chiuso nella sicurezza della sua cameretta azzurra. E poi c’era l’inguaribile depressione che gli ricordava che nessuno si sarebbe mai innamorato di un caso perso come era lui.
-Amico, veramente.- James lo strinse a sé – Sei bellissimo, sei intelligente, canti bene e quando vuoi sei pure quasi simpatico, tolto il tuo terribile umorismo. Non hai niente che non vada. E se Denis ti dovesse rifiutare, beh, cazzi suoi. È lui che ci perde.
Oliver fece un sorrisino nervoso, appoggiandosi all’amico storico. Erano anni che James gli ripeteva quel mantra, ed erano anni che lui tentava di convincersi che avessse ragione, senza però mai riuscirci del tutto. C’erano stati degli attimi in cui era riuscito a convincersi di andare bene così com’era, ma era subito ricaduto indietro nella sua depressione morbosa e avvilente, tornando ad agonizzare.
-Quindi ora mi prometti che ti dai una pettinata, prendi quel poco di coraggio che hai e vai ad aspettarlo fuori dalla sala da the, possibilmente con un bel sorriso e senza esserti imbottito di ansiolitici.
-Va bene, Jimmy. Ci proverò. Ci proverò.- Oliver annuì, deglutendo rumorosamente. Poi guardò il polso dell’altro e aggrottò le sopracciglia – Cosa ti sei fatto al polso?
James scosse la testa, nascondendolo istintivamente
-Niente, sono solo scivolato in casa. Niente di grave.
-Scivoli un po’ troppo spesso in casa, in questo periodo.
Silenzio.
I due amici si guardono a lungo negli occhi, un paio azzurri e battaglieri, l’altro paio grigi e malinconici, e James si chiese perché. Perché dovesse fare quello che faceva, perché dovesse continuare a mentire ai suoi amici sulla sua vita al limite, perché dovesse rischiare così tanto, per cosa, poi, non lo sapeva davvero.
Per un attimo, pensò di rivelare ad Oliver il vero motivo di quella fasciatura. Di farsi aiutare. Di farsi salvare. Invece si limitò a dargli un affettuoso buffetto sulla testa
-E vedi di mangiare, Oli. Ti controllo.
Oliver annuì, distrattamente. Poi abbracciò James, affondandogli il viso nella spalla.
-E tu vedi di non scivolare più in casa.
James sospirò, stringendo con forza il corpo magrissimo dell’amico storico, accarezzandogli i capelli scuri. L’aveva sentita eccome la consapevolezza nella voce di Oliver, sapeva che sapeva, eppure non riusciva ancora ad ammettere niente di quello che faceva quando calava la notte.
-Jimmy …
-Sì, Oli?
-Ne usciremo in qualche modo.
James non voleva ammetterlo, ma cominciò a piangere silenziosamente. Perché avevano dentro un tale vuoto?
 
 

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Capitolo 5
*** The body lives, the mind dies ***


CAPITOLO CINQUE: THE BODY LIVES, THE MIND DIES

Let me photograph you in this light,
In case it is the last time
That we might be exactly like we were before we realized
 [Andy Black & Juliet Simms – When We Were Young]
 
Quando Denis uscì dalla sala da the, col chiodo su una spalla e i capelli spettinati, vide Oliver impalato sulla porta che lo aspettava e non poté nascondere un sorriso luminoso come il cielo ucraino d’estate. Oliver. Gli piaceva così tanto quel ragazzo distrutto.
-Oli! Che bella sorpresa!- trillò, e lo abbracciò di slancio.
Oliver rimase rigido come un bastone, arrossendo selvaggiamente. Non si sarebbe aspettato un colpo di affetto così esagerato. Barcollò appena, ricambiando timidamente l’abbraccio. Non che non fosse contento di quella manifestazione d’amicizia, ma quel profumo di fumo e colonia, quegli occhi luccicanti erano troppo per lui. Troppo per i suoi ormoni impazziti. Troppo per il povero ragazzo depresso al quale non gliene andava mai dritta una.
-Che cosa carina venirmi a prendere.- continuò Denis, passandosi una mano tra i capelli arruffati ad arte.
-Ah, sì, io, beh, sì.- balbettò Oliver, e prese un profondo respiro. Aveva prestato fede alla promessa fatta a James, non si era imbottito di ansiolitici. Anche se, secondo lui, in quel momento ne avrebbe avuto tanto bisogno – Mi chiedevo … ecco … se … volessi fare un giro.
Denis non lo lasciò nemmeno finire di parlare che già stava strillando “sicuro!” e Oliver si chiese se, forse, qualcosa stesse finalmente prendendo la giusta direzione nella sua vita scombinata. Fondamentalmente, lui era sempre stato quello solo. Denigrato. Preso in giro. Odiato per qualche motivo non ben specificato. Ma adesso era arrivato quel ragazzo ucraino con gli occhi d’ambra che lo cercava, che lo voleva, che lo abbracciava e gli sorrideva e a Oliver sembrava che improvvisamente un timido raggio di sole stesse fendendo la sua storica depressione. Un appiglio? Forse. Un aiuto divino? Magari. Non che ci volesse davvero credere, nella sua misantropia cosmica, ma non poteva fare a meno di sentire un angolo di cuore sorridere e dio solo sapeva quando il ragazzo avrebbe avuto bisogno di un vero sorriso.
-E’ arrivato il giorno delle foto?- chiese dolcemente Denis.
Ad Oliver brillarono gli occhi e strinse la vecchia macchina fotografica
-Se sei disposto, assolutamente.
Perché, in fondo, Oliver viveva per le sue foto. Per la sua Canon. Per catturare quei momenti che considerava irripetibili. Per provare a tenere duro in un mondo che lo voleva morto a tutti i costi.
Si avviarono verso il breve fiordo di mare che fendeva Liverpool, e Oliver era impegnato ad osservare il naso schiacciato di Denis, i suoi occhi lucenti, l’andatura arrogante e sicura di sé. Gli piaceva da morire quel ragazzo ucraino, gli piaceva come parlava, come sorrideva, come lo facesse stare così bene con sé stesso.
Gli scattò una fotografia, così, a freddo, mentre camminavano e Denis rise
-Ma non mi ero nemmeno messo in posa!
-A volte le foto più belle sono quelle fatte a caso.- rispose Oliver, e fece un breve sorriso.
-Mi faresti vedere i tuoi scatti, un giorno? Sono curioso.- Denis si passò una mano tra i capelli e gli diede una spinta leggera – Sono sicuro che sei un grande fotografo.
Oliver si ritrovò ad arrossire selvaggiamente e tossì per prendere tempo
-Oh, no, non sono niente di speciale. Comunque sì, se ti fa piacere ti porto l’album.
Non aveva mai fatto vedere le sue foto a nessuno che non fossero Kellin, James e Jenna. Non aveva mai osato aprire quegli album in presenza di alcuno. Ma era arrivato Denis l’Ucraino, e tutte le difese di Oliver sembravano star cadendo miseramente a pezzi. Era arrivato un sorriso nuovo, un accento russo, un paio di occhi d’ambra e lui non si era mai sentito così a suo agio con qualcuno come con Denis. Non aveva senso, per la sua mente malata e stanca, ma finchè era così … beh, andava bene. Aveva voglia di sentire il suo parere sulle foto, era curioso di sapere cosa avrebbero detto i suoi occhi quando avrebbero visto quelle immagini di corvi, di cimiteri, di lune nebulose, ma anche di ragazzi qualunque, di insegne storiche e di pub abbandonati a loro stessi. Erano le foto che raccontavano e seguivano passo passo la depressione di Oliver. Devastanti, abbattute, dolorose come il loro fotografo, raffiguravano tutto quello che lui riconduceva a sé stesso, tutti i posti e le persone che urlavano disperate come lui. Non voleva essere solo, e quelle foto gli tenevano quotidianamente compagnia, gli ricordavano che in qualche modo era sopravvissuto, gli dicevano “bravo, Oli”. Ma poi c’erano quelle oscure, quelle che nemmeno i suoi amici avevano mai visto. La foto dei tagli sanguinanti che si scattava ogni volta che la lama premeva selvaggia. La foto della finestra della scuola da dove aveva tentato di buttarsi giù, salvato da James appena in tempo. La foto del cappio che una volta aveva appeso al soffitto, pronto a usarlo, se non fosse stato per un ultimo, disperato, urlo alla vita. Erano le foto segrete che Oliver non era pronto a mostrare al mondo, era quello che lo aveva più segnato nel profondo.
Voleva davvero farle vedere a Denis? Beh, quelle normali senz’altro. Quelle altre … avrebbe accuratamente aspettato di vedere come sarebbero andate le cose tra loro. Magari un giorno o l’altro le avrebbero guardate insieme e lui lo avrebbe abbracciato, dicendogli “ti amo, Oli, non lasciarmi andare”. Avrebbe ricambiato l’abbraccio e forse avrebbe pianto un pochino.
Oliver aspettava solamente che qualcuno arrivasse a salvarlo da sé stesso, non chiedeva molto di più.
-Ecco, questo potrebbe essere un buon posto per una foto.- disse, quando arrivarono sul lungo fiordo.
Era nuvoloso, quel giorno, e le nuvole grigie si riflettevano nel canale. Oliver adorava quel tipo di giornate meste come il suo animo, gli piaceva fissare il mare di perla che scorreva lento sotto di loro e sentire l’odore di sale portato dai venti del nord.
-E’ tutto così diverso da Kharkiv, o da Naberezhne.- commentò Denis, appoggiandosi alla balaustra – La senti la malinconia nell’aria, Oli?
Oliver avrebbe voluto dirgli che sì, eccome se la sentiva. Quella malinconia era quella che l’aveva trascinato all’inferno, era quella che non lo lasciava respirare, era quella città maledetta che lo stava lentamente uccidendo ma si limitò a stringersi nelle spalle ossute.
-A volte non puoi fare a meno di essere triste.- commentò, abbassando lo sguardo.
Già, a volte non puoi fare a meno di soffrire di depressione e cercare una via di fuga nel modo più crudele possibile, pensò.
-Ma a volte puoi anche sperare che le cose cambino.- soggiunse Denis, prendendolo per un braccio e posandogli la testa sulla spalla, con un sorriso meraviglioso rivolto al cielo – Ti porterò in Ucraina con me, un giorno. Vedrai i suoi colori, sentirai la mia lingua, conoscerai la mia gente. Ti porterò a Kharkiv, nella mia periferia a fare graffiti sui muri, e poi a Naberezhne, da mia nonna, a mangiare babke calde la mattina. Ci divertiremo un mondo, Oli. L’Ucraina è meravigliosa.
Se è meravigliosa almeno un quarto di quanto sei meraviglioso tu, allora direi che possiamo partire anche subito, pensò Oliver, ma era troppo imbarazzato per dirlo.
-Mi piacerebbe moltissimo, sì.- mormorò invece, scostandosi il ciuffone dagli occhi.
Denis rise e lo abbracciò di nuovo, spettinandogli i capelli scuri. Era così fisico. Così passionale. Così affettuoso. Così diverso da tutto quello che Oliver aveva mai conosciuto nei suoi diciotto anni di vita.
-Allora, me la fai una foto? Bella sensuale, però.- rise Denis, appoggiandosi con aria lasciva alla balaustra, il labbro tra i denti e i capelli opportunamente spettinati.
Oliver l’avrebbe fatto molto volentieri. Gli avrebbe detto spogliati. Gli avrebbe fatto aprire le gambe. Gli avrebbe slacciato personalmente la camicia. Tutto quello se, come al solito, la sua ansia sociale non stesse cercando di intervenire per rovinargli la vita. Arrossì, per l’ennesima volta, cercando di calmarsi. Non ci voleva niente a dirgli sì, a ridere, a provarci. Lo facevano tutti. Ma lui non era tutti, lui era Oliver Griffiths, il ragazzo emo che non riusciva a fare niente che non fosse piangersi addosso.
-Ah, eh, io, no, cioè, tu … - iniziò a balbettare. Perché aveva dato retta a James e aveva lasciato a casa lo Xanax?
-Oli, tranquillo. Scusami, non volevo suonare sgarbato.- Denis spalancò gli occhioni e lo prese delicatamente per mano – Lo dicevo per ridere, non intendevo …
-Va bene.- Oliver prese un profondo respiro – Va benissimo. Slacciati i primi bottoni della camicia. Labbro tra i denti. Spettinati i capelli. Indossa il chiodo. Testa piegata da un lato.
Non sapeva nemmeno lui da dove gli fosse uscita tutta quella improvvisa sicurezza. Spalancò gli occhi in modo vagamente maniacale e sperò che Denis non lo prendesse per pazzo. Cosa che evidentemente non successe perché il ragazzo rise ancora e si mise in posa come gli era stato richiesto. Fosse stato per lui, avrebbe volentieri chiesto ad Oliver di slacciargli i bottoni della camicia, ovviamente, ma … beh, forse non sarebbe stata la mossa più adatta. Sembrava già abbastanza in crisi così, mentre armeggiava con la macchina fotografica, stupendo e devastato.
Denis si chiese quali demoni lo perseguitassero, quali incubi stesse vivendo sulla pelle tatuata, quali orrori avesse sperimentato per essere così. Si ripromise che l’avrebbe scoperto, un giorno o l’altro, che avrebbe scavato dietro a quegli occhi grigi, a quegli skinny jeans e a quelle felpe oversize di band metal.
-Ci sono. Stai pronto che scatto.
Click.
Prima foto, e Oliver sentì dentro di sé una scarica di eccitazione. Stava veramente fotografando quel ragazzo meraviglioso, stava davvero aggiungendo ai suoi album le sue immagini. Per un secondo si illuse che qualcosa nella sua vita sarebbe finalmente andato per il verso giusto, come faceva ogni volta che trovava il soggetto perfetto per una fotografia.
Click.
Un’altra foto, e un mezzo sorriso sul viso affilato.
Click.
La terza, e una luce quasi felice negli occhi più grigi del metallo.
Click.
La quarta e un sorriso vero.
Denis si stiracchiò un po’ e si riallacciò la camicia, lanciando un’occhiata malinconica al mare grigio del breve fiordo. Pensò al Mar Nero e al suo azzurro cristallino. Pensò che forse gli mancava casa più di quanto volesse ammettere.
-Oli, hai voglia di venire a casa mia?- disse, tutt’a un tratto.
Oliver deglutì rumorosamente.
Sì, aveva voglia di andare a casa sua. Aveva voglia di toccarlo. Aveva voglia di sentirlo parlare con quel ridicolo accento russo. Aveva voglia di conoscerlo meglio. Ma. C’era sempre un ma per il ragazzo. Come avrebbe fatto se fosse andato in crisi? Se si fosse agitato? O se, peggio ancora, avesse avuto una delle sue crisi depressive, dove piangeva e singhiozzava senza motivo? Cosa avrebbe pensato Denis di lui?
Si morse il labbro quasi a sangue. Non voleva perdere un’occasione simile, non voleva abbandonare quel ragazzo così speciale ma aveva così tanta paura di quello che sarebbe potuto succedere, aveva paura di sé stesso e delle sue abnormi reazioni a qualunque cosa. Non voleva essere così, non aveva chiesto lui di essere malato, ma non poteva fare a meno di soffrire. Per lui la depressione rappresentava quello: un corpo che vive in una mente che vuole morire. Le sue paure, le sue insicurezze, le sue crisi, non era in grado di gestirle. Aspettava sempre che fossero i suoi amici a salvarlo, non era in grado di farlo da solo. Si chiese pigramente se prima o poi anche Denis si sarebbe aggiunto alla lista di persone che lo salvavano da sé stesso. Segretamente, sperava di sì.
-Ah, io, sì, ma, forse.- si impappinò, le mani tremanti. Oli, datti una cazzo di calmata. Digli sì, cazzo, digli sì. – Va bene, vengo … vengo volentieri.
Cercò di sorridere timidamente, fiero di essere riuscito a dire sì, in barba alle conseguenze, e Denis lo abbracciò di nuovo di slancio, facendogli perdere l’equilibrio. Perse per un attimo l’equilibrio e si appoggiò alla balaustra per non cadere. Per non cadere, sì.
-Cosa ti sei fatto al braccio?
Oliver raggelò e constatò con orrore che gli si era tirata su la manica della felpa.
E loro erano lì, rossi, precisi, dolorosi, luccicanti.
Stai calmo. Va tutto bene. Stai calmo. Respira.
-E’ stato il gatto di mia zia.- mentì, come mentiva sempre ai suoi amici. – Gli ho schiacciato la coda per sbaglio e si è innervosito.
Denis annuì, lentamente. Eppure, Oliver lo aveva capito immediatamente, non era convinto. Fanculo, Oli, perché sei un disastro umano?
-Okay.- si limitò a dire Denis, annuendo ancora. Poi, di scatto, lo prese per mano e intrecciò le loro dita – Okay.
Oliver impallidì, e fece quasi per togliere la mano ma Denis aumentò la stretta ancora di più e lo trascinò verso l’attraversamento.
Oliver sperò che non avesse capito.
Sperò molto ardentemente che non avesse capito.

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Capitolo 6
*** I'm your only one (are you sure?) ***


CAPITOLO SEI:  I’M YOUR ONLY ONE (ARE YOU SURE?)

You are my god, you are my soul
You’re my saviour, in a devil’s world
And I can’t exist without you
[In This Moment – Bones]
 
Victor Fernandez De La Mora non poteva esattamente considerarsi un adone, ma era sicuramente un uomo affascinante, con la pelle olivastra, i calcati tratti latino americani, i lunghi capelli bruni e i profondi e derisori occhi color nocciola. Piccolo e minuto, aveva un sarcasmo salace e una malizia vagamente perfida. Da molti era odiato, da altrettanti era amato. Ma soprattutto, era disperatamente idolatrato da Kellin che aveva trovato nel suo ex professore di spagnolo l’uomo della sua vita.
Proprio in quel momento erano sdraiati nel letto della casa di Victor, ancora semi nudi, nella penombra pomeridiana, fumo nell’aria e una bottiglia di succo di mela posata sul comodino. Kellin giocava distrattamente con il crocefisso d’oro appeso al collo di Victor, l’oro luccicante sulla pelle abbronzata. Era appagato, felice e un poco stanco, come ogni volta che finivano un amplesso. Ma era più di sesso tra loro, il ragazzo se lo sentiva dentro. Era un amore tenero che doveva ancora sbocciare del tutto, era il rapporto di due giovani che nonostante i vent’anni di differenza avrebbe perfettamente potuto essere la storia di una vita. Da qualche parte, Kellin lo desiderava follemente perché dio solo sapeva quanto avesse bisogno di qualcuno al suo fianco. Kellin era quel tipo di persona che non poteva reggere lo stare da soli, che voleva avere un uomo che lo trattasse come una principessa, che lo desiderasse e lo riverisse. Non era capace di affrontare il mondo senza nessuno ed era pronto a darsi al primo che gli avesse ispirato abbastanza fiducia. Ma il prof di spagnolo, che dall’anno scorso era entrato prepotentemente nella sua vita, prima scolastica e poi personale, gli aveva aperto un mondo. Avevano iniziato che lui andava ancora a scuola ma ora che era pronto per il college si sentiva libero di poter tirare fuori la loro relazione alla luce del sole. Voleva la sua storia perfetta, voleva tenerlo per mano per strada, voleva che lo portasse con sé in Messico, nella terra dei suoi padri, a scottarsi la pelle e mangiare tacos bollenti sotto il sole del meriggio. Anche in quel momento, in quel monolocale nel centro di Liverpool pensava a come sarebbe stato andare in Messico, mentre si faceva accarezzare i capelli e massaggiare le spalle
-A cosa pensi, querido?
La voce acuta di Vic ruppe il silenzio calato nella stanza.
-A tutto e a niente.- miagolò Kellin, baciandogli la guancia – Quando mi porterai in Messico?
Vic rise appena, e scosse la testa, baciando la fronte pallida del ragazzo
-Devo lavorare, Kells. Ma poi un giorno ci andrai, te lo prometto.
Non disse “ci andremo”, ma quello Kellin non lo registrò, troppo trasognato dal profumo di colonia di Vic e dalle sue labbra morbide che gli disseminavano baci sul viso. Gli pareva che nulla potesse andare male nella sua vita con quell’uomo al suo fianco. Una storia d’amore perfetta come un romanzo di Remarque, come una poesia dell’Achmatova, la storia che l’avrebbe finalmente salvato da sé stesso, che l’avrebbe portato lontano dalla stagnante Liverpool, lontano dal suo canale, dai suoi amici disperati, dalle torte al pistacchio della sala da the. Lontano semplicemente da tutto, per ricostruirsi un’adolescenza nuova, una nuova identità, un nuovo essere. Si era stufato di essere Kellin Hills, il ragazzo con la voce da donna troppo curioso e sempre scartato da tutti. No, lui voleva diventare Kellin Fernandez, vivere al fianco dell’affascinante professore di spagnolo, andare in America ed essere riverito da tutti. Punto e basta. Avrebbe abbandonato qualunque cosa per avere una storia come quelle delle principesse.
-Dici che possiamo uscire? Magari fare una passeggiata.- chiese, mettendosi a sedere e tentando di darsi una pettinata ai capelli corvini.
-Claro, mi amor.- Vic saltò giù dal letto e cominciò a vestirsi, e Kellin non poté fare a meno di pensare quanto stesse bene con la camicia bianca che metteva in evidenza la pelle scura.
Gli piacevano i colori di Victor, gli piacevano i tratti ispanici, gli piaceva il suo accento spagnolo, il suo modo di sorridere con gli occhi, la sua fermezza e contemporaneamente la sua focosità. Era così convinto di aver trovato l’uomo perfetto per lui.
Si vestirono in silenzio, lanciandosi ogni tanto delle occhiate affettuose e Kellin si chiese cosa lo frenasse dal raccontare ai suoi amici della sua relazione. Di cosa aveva paura? Della reazione di un depresso, di un disperato e di una malata terminale? Di quello che avrebbero potuto pensare? Erano i suoi migliori amici, dannazione. E forse era proprio quello il problema: non avrebbe retto un loro rifiuto. Non ce la poteva fare, senza gli altri tre lui non era più niente. Ma non sarebbe stato niente anche se Vic se ne fosse andato. Kellin non poteva rimanere da solo, perché chi era quando rimaneva senza nessuno? Niente. Un perfetto, bellissimo, dolcissimo niente. Non esisteva, senza una spalla su cui piangere, non era in grado di lottare, di farsi valere. Si lasciava trascinare dalla marea e aspettava che qualcuno lo salvasse. Se se ne fossero andati, lui sarebbe affogato e non sarebbe stato in grado di fare nemmeno un piccolo sforzo per mantenersi a galla.
Uscirono, nel pallido pomeriggio inglese, sotto le nuvole che si rincorrevano nel cielo grigio e Kellin pensò a quando sarebbe sbarcato in Messico, sotto nuovi cirri e nuovi soli. Immaginava distese celesti illuminate da un disco dorato che scottava la pelle della gente e la sabbia del deserto, immaginava notti stellate così immense da far sentire male, immaginava un mondo completamente diverso dalla sua realtà. Avrebbe tanto voluto ustionarsi sotto il sole messicano, sentire la sabbia rossa tra le dita, parlare spagnolo con la gente, correre per le strade assolate di Santa Rosalia, mano nella mano con Victor.
-Ti manca il Messico, Vic?- chiese, esitando a prenderlo per mano.
L’uomo si strinse nelle spalle ma gli sorrise, con quel suo sorriso splendente che avrebbe accecato.
-Da un certo punto di vista sì. Santa Rosalia è un bel posto, Kells. Mi mancano i suoi viali fioriti, le sue spiagge dorate, il suo mare cristallino. Mi manca la mia gente, mi manca il vento caldo e le case basse e bianche. Ti piacerebbe tanto, Santa Rosalia. Il mare d’inverno è del colore dei tuoi occhi.
Kellin arrossì e sorrise, nascondendosi dietro il ciuffo di capelli. Sperava di poter sbarcare in Messico il prima possibile, di poter finalmente vedere il mare della Baja California, mano nella mano con Victor. Voleva volare, il giovane Kellin, voleva scappare, voleva fuggire in America per non dover più tornare indietro. E l’avrebbe fatto con l’uomo che amava, a tutti i costi.
-Ci andremo, e faremo insieme il bagno nell’oceano.- Kellin sfarfallò le lunghe ciglia – E’ estate, adesso. Non possiamo fuggire?
Victor rise e gli passò un braccio attorno alle spalle, baciandogli la tempia e facendo arrossire selvaggiamente il ragazzo.
-Sogni troppo, querido. Devo ancora lavorare e tu devi prepararti per il college.
-Io sognerò troppo, ma tu sei oltremodo vecchio.- lo rimproverò Kellin, dandogli una spinta affettuosa – Non ti ispira una fuga d’amore?
Vic non disse niente, si limitò a scuotere i lunghi capelli scuri e a fare un mezzo sorrisetto derisorio. Ma Kellin non se ne accorse, come d’altronde non si accorgeva mai del sarcasmo e della malizia a stento dissimulata nei sorrisi e negli sguardi del giovane professore di spagnolo. Ci credeva, Kellin. Ci credeva ciecamente nell’amore di Victor nei suoi confronti, ci credeva che sarebbero scappati in Messico, ci credeva che si sarebbero sposati e avrebbero vissuto tutta la loro vita fianco a fianco. Ci credeva, ma non si rendeva conto di starsi terribilmente illudendo.
-Dove vuoi andare, mi amor? Al pub?
Kellin annuì e si avviarono verso il vecchio pub, quando una voce che ben conoscevano non li distrasse.
-Hey, Kells!
Il ragazzo si girò solo per rendersi conto con disperazione di aver davanti James col passeggino e la sua sorellina dentro che lo fissava con curiosità.
I due ragazzi si guardarono per un attimo pieni di imbarazzo, e mentre Kellin cercava di articolare qualcosa, James si voltò verso il loro ex professore.
-Ah … oh, buongiorno mr. Fernandez.- borbottò il biondo, passandosi nervosamente una mano tra i capelli.
-Ciao, James. È tanto che non ci vediamo, come stai?- rispose tranquillo Vic, sorridendogli.
-Bene, grazie.- James continuava a lanciare occhiate dubbiose a Kellin, mentre tormentava i manici del passegino con la piccola, bionda, Hannah dentro. – Io …
Vic sorrise e guardò con aria di sufficienza i suoi due ex alunni, prima di scostarsi i capelli dal viso con un movimento del capo e indicare il pub
-Kellin, ti aspetto dentro. Vi lascio due minuti.
E si voltò, lasciando i due ragazzi e la piccola Hannah da soli a fronteggiarsi. Fu proprio in quel momento che Kellin avrebbe voluto sprofondare, esattamente quando sentì lo sguardo terribilmente azzurro di James fisso addosso
-Kells, che cazzo sta succedendo.- sbottò infatti il ragazzo, spalancando gli occhi – Cosa ci fai in atteggiamenti dubbi con mr. Fernandez?
Kellin arrossì e si tormentò l’orlo della maglietta. E adesso come spiegava all’amico di una vita che aveva una relazione segreta col prof di spagnolo?
-Jimmy, posso spiegare, io …
-Te la fai col prof?!- James spalancò gli occhi, afferrandolo per le spalle – Dimmi di no, Kellin, ti prego …
-No! Cioè sì! Cioè … no, Jimmy, ti prego non ti arrabbiare, io non sapevo come dirvelo, non …
James lo mollò e lo fissò trasecolato, e Kellin avrebbe voluto sprofondare dieci metri sotto terra.
-Stai scherzando, vero? Perché diavolo non ce l’hai detto? Kellin, ma sei impazzito?!
-Oh gesù, James, non mi sembra adesso il momento più adatto per farmi la predica. Senti … io … - Kellin non sapeva bene cosa dire, o come comportarsi in quel frangente.
-Non dire niente.- James gli lanciò un’occhiataccia – Ne parliamo stasera, insieme agli altri.
-Non vorrai dirlo anche a Jenna e a Oli!
-Certo che glielo dico! Riunione ufficiale del gruppo, Hills, e non te la scampi.- James scosse la testa, e per un attimo a Kellin sembrò deluso, molto deluso. Sperò con tutto il cuore che non fosse così.
Lo guardò voltarsi, col passeggino e fece per richiamarlo indietro. Per dirgli cosa, non lo sapeva. Forse scusa, forse dove vai. Forse parliamone, forse accetta la mia felicità. Ma non lo fece. Lo guardò incamminarsi con Hannah verso la curva della strada, lasciandolo da solo, in mezzo alla via, con un terrore crescente negli occhi acquamarina.

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Capitolo 7
*** I'll fight for you, until the day I die ***


CAPITOLO SETTE: I’LL FIGHT FOR YOU, UNTIL THE DAY I DIE

Have you ever took a blade to your wrists?
Have you been skipping meals?
We’re gonna try something new today
How does it make you feel?
[Bring Me The Horizon – Hospital For Souls]
 
Accolto calorosamente da tutto il clan Shostakovich, formato rigorosamente da sole donne, a Oliver girava quasi la testa. Avevano tentato di nutrirlo (cibo che lui aveva elegantemente rifiutato, troppo terrorizzato da quelle strane marmellate ucraine), lo avevano spupazzato senza pietà e adesso era finalmente stravaccato sul letto di Denis, un po’ spettinato ma quasi sorridente. Denis stava divorando un panino farcito e blaterava qualcosa, ma Oliver non lo stava ascoltando troppo impegnato a guardare quella cameretta gialla con i poster dei Bring Me The Horizon e dei Children Of Bodom alle pareti, con due chitarre posate in un angolo, con una pial di libri in russo sulla scrivania. Era riuscito ad entrare in camera dell’amico senza problemi. Forse ce la poteva fare. Forse poteva vincere l’ansia.
Sorrise tra sé e sé, pensando a quanto fosse bello Denis, a quanto fosse contento di averlo conosciuto, a quanto stava bene con sé stesso ogni volta che il ragazzo ucraino lo guardava e gli sorrideva. Pensava e basta, a quanto potesse essere stato fortunato, lui, il povero, solitario, Oliver Griffiths. Anche sentire Denis sproloquiare di dischi metal, di cantanti russi, di marmellate e delle sue vecchie prozie aveva un che di magico per le orecchie di Oliver, abituate a lunghi silenzi, al ronzare delle macchine dove era attaccata Jenna, ai rimproveri di sua madre e agli sbuffi stanchi di James.
Denis gli sorrise, finendo il grosso panino, e andò a sedersi accanto a lui, facendolo arrossire selvaggiamente. Erano così vicini in quel momento … un minimo movimento della testa, e avrebbero potuto baciarsi. Non che Oliver avesse il fegato di farlo, sia ben chiaro, ma il solo sentire il calore dell’altro accanto a sé gli scaldava il cuore freddo.
-Oli. Dovrei chiederti una cosa.- Denis gli prese delicatamente la mano e per la prima volta in vita sua ad Oliver non venne la tachicardia. O meglio, gli venne, ma era una tachicardia positiva, dolce, eccitata all’idea di star tenendo ancora la mano callosa dell’altro giovane. – C’è qualcosa che non quadra.
Con lo sguardo, Oliver lo incitò a continuare.
Denis si morse forte il labbro, prima di intrecciare le loro dita e posargli l’altra mano sull’avambraccio.
-Oli, non so come dirtelo ma … non credo che sia stato il gatto.
Crack.
Oliver sbiancò del tutto, sentendo un fastidioso groppo pesargli immediatamente in gola. Il gatto, sì, come no. Denis non poteva cascare in una bugia simile. Eppure non era nemmeno pronto a dire “sì, mi taglio”, di affrontare la cosa di petto. Sino adesso era stato un segreto di Pulcinella con i suoi amici. Lo sapevano tutti ma erano tutti talmente presi dai loro problemi da non essere mai davvero riusciti a convincerlo a non farlo. Ci avevano provato, avevano tentato di buttargli via le lamette, ma non ci avevano messo abbastanza convinzione e uno come Oliver aveva bisogno di qualcuno che gli strappasse le forbici di mano, che gli baciasse i tagli, piuttosto che gli urlasse in faccia qualcosa. Ma non aveva voglia di colpevolizzare nessuno dei tre. Era tutta colpa sua, che aveva trovato nell’autolesionismo la fuga dal suo dolore interiore, un dolore così forte che aveva bisogno di essere esternato a tutti i costi. Ma di nuovo, non aveva ancora la maturità di venire a patti con la sua malattia.
-Io … Denis … no … - balbettò ma il ragazzo lo zittì con un cenno del capo.
-Non dire niente. Senti, va bene.- Denis si morse il labbro e gli strinse più forte la mano – Penso di aver capito e … non lo so, non voglio dirti di sapere cosa provi perché sarebbe una menzogna, ma ti posso dire che va bene. Non c’è niente di cui vergognarsi. Se stai soffrendo così tanto da essere portato a farti qualcosa di simile, vuol dire che hai bisogno di essere aiutato. Io voglio aiutarti, per esempio. Non posso pensare che mentre io e mia mamma prepariamo i blinij con la marmellata tu sei in camera tua a … tagliarti.
Oliver sentì le lacrime cominciare a premere contro gli occhi. Nessuno gliel’aveva mai messa giù con così tanta franchezza. Ti tagli. Punto. Senza se e senza ma.
Fece per liberare la mano ma Denis aumentò la stretta, e lo costrinse a fissarlo negli occhi. Aveva dentro una tale serietà da sembrare molto più adulto dei suoi diciotto anni.
-Lo so che sono schietto, e non vorrei ferirti ma se le cose stanno come credo che stiano, bisogna combattere. Oli, non puoi farlo, okay? Non so cosa ti possa aver portato a concepire anche solo il pensiero di autofarti del male ma non ci sto. Non esiste che un mio amico soffra una cosa simile. Quindi, per favore, cerca di fidarti di me. Chiamami, quando stai per farlo, e io correrò da te, dovunque io sia. Correrò più veloce del vento e verrò ad abbracciarti, a consolarti. Ti porterò a fare una passeggiata, e questo finché non avrai più voglia di fare quelle brutte cose. Sono veramente pronto ad aiutarti, nel mio piccolo. Per favore, guardami. Non è tagliandoti che la situazione migliorerà. È combattendo che cambieranno le cose. Ti prego, Oli. Ti voglio bene.
Lo abbracciò di slancio e lo strinse a sé con tutta la forza possibile, mentre Oliver scoppiò in lacrime. Tutto quello che gli aveva detto Denis era troppo da sopportare. Le parole, quelle benedette parole che aspettava da così tanto tempo ma che né James, né Jenna, né Kellin erano mai stati capaci di dirgli. Nemmeno sua madre, che gli aveva urlato addosso e basta, facendolo disperare ancora di più.
Stretto tra quelle braccia, Oliver non sapeva più cosa fare. Ci voleva veramente un ragazzo appena sbarcato dall’Ucraina per aprirgli finalmente la mente? Ci era voluto veramente solo Denis per sbattergli in faccia la dura realtà?
Combatterò per te.
Quante volte Oliver aveva sognato di trovare il ragazzo che gliele dicesse in faccia, invece di sentirsele dire solo dai vari cantanti, così vicini eppure così dannatamente lontani? Troppe, ma adesso che l’aveva trovato non poteva fare altro che piangere. Aveva sempre voluto che qualcuno facesse come i vari Oli Sykes, come i vari Kellin Quinn, i Danny Worsnop, i Vic Fuentes che popolavano le sue casse, qualcuno che gli dicesse chiaro e tondo che quello che stava facendo era sbagliato e che bisognava combattere per salvarsi dall’autolesionismo. E adesso, finalmente, quel qualcuno era arrivato. Naso schiacciato, accento russo, occhi da ragazza e giacca di pelle, Denis Alexandrovich Shostakovich era caduto come una meteora nella sua vita, col suo sorriso salvifico e la sua forza d’animo. Il ragazzo di cui Oli aveva sempre avuto bisogno era arrivato, direttamente dalla periferia dell’impero, con una chitarra imbracciata e un grembiule della sala da the.
-Non piangere, Oli, va tutto bene … stai tranquillo … - mormorò Denis, accarezzandogli dolcemente la schiena – Ne uscirai, te lo prometto … magari ci metteremo del tempo ma ce la faremo …
-Perché usi il “noi”?.- piagnucolò Oliver, alzando appena la testa e scostandosi il ciuffone dagli occhi – E’ la mia battaglia, Den, non ti posso costringere a …
-E’ la nostra battaglia, tovarish.- Denis gli sorrise, il sorriso più bello di sempre – Combatterò per te fino alla fine. Quando tu cadrai, io ti recupererò. Te lo giuro sul mio onore. Sono ucraino, Oli: combattenti per definizione.
Si guardarono un po’ negli occhi e fu lì che, delicatamente, Denis posò le sue labbra su quelle di Oliver. Così, senza impegno, senza passione, un bacino casto e appena accennato, quasi infantile, eppure così carico di significato. Carico di lotterò per te. Non sei solo in questa guerra. Non ti abbandonerò. Combatteremo fianco a fianco. Siamo compagni d’armi, ragazzo inglese.
Oliver arrossì selvaggiamente e boccheggiò appena.
No.
Un bacio.
No.
Cosa.
-Aehm … io … no … ah …
Denis si ritrasse da lui di colpo, spalancando gli occhi.
-Oddio, ho frainteso?! Non eri interessato? Oli, scusami, oh blin, bozhe moy, non volevo …
-No!- strillò Oliver.
Era in panico. Cosa doveva fare? Denis lo aveva baciato. Non era quello che desiderava? Certo, dannazione. Ma era in crisi lo stesso. Cosa doveva fare? Oddio. Oli, ragiona. Cazzo, Griffiths, fai qualcosa!
Lo baciò di nuovo, afferrandolo malamente per la collottola e trascinandolo in un bacio appiccicoso, facendo scontrare i nasi e le fronti, un bacio da quattordicenni impacciati eppure così tenero, così vero, così reale da fare male.
-Okay, questo è davvero imbarazzante.- commentò ridendo Denis quando si furono staccati, coi menti sbavati e i capelli arruffati .
-Scusami. Sono un disastro.- balbettò Oliver, affondando il viso tra le mani – Non sono nemmeno capace di … oh, al diavolo …
-Oli, non è così. Va benissimo.- Denis gli accarezzò la schiena e gli poggiò la testa su una spalla – E’ stato tutto così tenero. Come nei film.
-Nei film non ci sono ragazzi autolesionisti imbranati come me.
-Nei film non ci sono ragazzi speciali come te.
Si guardarono, e Denis rise di nuovo, forte, gettando indietro la testa e stringendo ancora Oliver a sé. Oliver, dal canto suo, non sapeva come sentirsi. Troppe emozioni concentrate in troppo poco tempo, troppe scoperte, troppo Denis, troppo tutto. Però si sentiva vivo, vivo come non si era mai sentito in vita sua. Vivo da morire perché aveva baciato il ragazzo più bello che avesse mai visto, vivo perché non aveva ancora preso lo Xanax, vivo perché stava parlando senza balbettare, vivo perché qualcuno gli aveva promesso che non sarebbe collassato da solo nella lotta contro le lamette che lo aspettavano a casa. Vivo e basta, e dio solo sapeva quanto era che non si sentiva così bene con sé stesso.
-Ci riproviamo?
-Va bene.
Si sorrisero, e si baciarono per la terza volta. Con calma, delicatezza, dolcezza, finalmente senza sbavare, posarono di nuovo le labbra le une sulle altre. Fu un bacio lungo, tenero, affettuoso e Oliver sentì di nuovo le lacrime premere per uscire. Ma questa volta le soffocò, stringendo la maglietta di Denis tra le mani. Doveva solamente aggrapparsi disperatamente a quel ragazzo e forse, forse ne sarebbe uscito vivo.
Doveva imparare a lottare.
Doveva imparare a vivere.
E finché avrebbe avuto Denis al suo fianco, sapeva di essere pronto a farlo.
 

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Capitolo 8
*** I'll stand up for you ***


CAPITOLO OTTO: I’LL STAND UP FOR YOU

I will never let you fall,
I’ll stand up with you forever,
I’ll be there for you through it all
Even if saving you send me to heaven
[The Red Jumpsuit Apparatus – Your Guardian Angel]
 
Jenna viveva. Non c’era altro modo per dirlo. Viveva così tanto da farsi male, lei, la ragazza con la leucemia galoppante che stava per morire. Lei, che rideva al cielo, sorrideva alla vita, che urlava e saltava in preda a una frenesia assurda. Jenna era sole, era elettricità, era fuoco greco: era tutto quello che si chiamava “speranza”. Perché, in fondo, ancora lei sperava. Sapeva di non poter guarire, ma sapeva quanto importante fosse vivere a tutto volume quel poco tempo che le rimaneva. Cercava di sollevarsi da sola dal suo dolore. Rideva, ballava, suonava e urlava al cielo per sconfiggere la morte che da sempre le pesava addosso. Non avrebbe lasciato che una stupida malattia la uccidesse. Non si sarebbe lasciata sconfiggere da nulla. Non lei. Non Jenna Samantha O’Connell.
Frenò la bicicletta davanti alla casa della sua ragazza e sorrise, passandosi una mano tra i capelli biondi con le ciocche verdi fatte in casa. Era una bellissima giornata, e allora perché non sorridere, perché non ridere come dei pazzi correndo per la città? Mollò la bici fuori dal cancello della splendida casa dei McFarland e saltellò dentro, appendendosi al campanello con il suo sorriso migliore stampato in faccia. Quel giorno, non sapeva come mai, era carica come non lo era da tempo. Magari era il tempo insolitamente bello, magari era la maglietta nuova degli All Time Low, magari era l’aria fresca che veniva dal mare, ma Jenna si sentiva felice come non mai. Felice quando la grassa governante filippina le aprì la porta  e la fece entrare con un sorriso stanco, felice quando sgattaiolò su per le scale, felice quando notò con piacere che i McFarland non erano in casa, felice quando spalancò la porta della camera principesca dove era diretta. E felice, soprattutto, quando finalmente vide lei: Anastasia McFarland, la sua adorata ragazza, adagiata tra le coperte del suo letto rosa a baldacchino.
-Ana!- urlò, per annunciare la sua presenza – Cosa ci fai lì a letto?! È estate!
Anastasia aprì gli occhi e voltò lentamente la testa verso Jenna. Sorrideva, col suo sorriso stanco e dolcissimo, così adulto nonostante avesse appena diciotto anni, e Jenna pensò di non aver mai visto una ragazza più bella. Più delicata. Più … speciale.
-Tesoro, sei arrivata.- mormorò Anastasia, con voce soffocata e dolente, l’accento scozzese incancellabile – Scusa se sono ancora a letto …
Jenna rise e le si sedette accanto, baciandole la fronte. Era fredda, freddissima.
Anastasia era malata, esattamente come lei, ma mentre Jenna sapeva che per lei forse ci sarebbe stata almeno una speranza di salvarsi, per la ragazza scozzese non ve ne erano più. Jenna non ci pensava volentieri, che più prima che poi l’avrebbe persa, così faceva finta che andasse tutto bene, la sosteneva, la faceva vivere, cercava di comunicarle con tutta sé stessa la speranza di cui aveva bisogno. Erano una coppia sofferente, provata dalla malattia, uccisa prima ancora di nascere, ma covavano dentro di loro un amore così forte che dava loro forza per resistere sempre un giorno in più. Per vedere il sorriso dell’altra, per raccontarsi ancora qualche aneddoto, per sentire quell’ultima canzone appena uscita e commentarla insieme. Si amavano di un amore tenero, affettuoso e sincero, anche se venato dal dolore e dalla consapevolezza che probabilmente non avrebbero mai compiuto vent’anni.
-Vuoi che ti porto un po’ fuori?- disse Jenna, aprendo le grosse finestre – Se sei stanca possiamo usare la sedia a rotelle.
Anastasia annuì appena e si tirò un po’ su. Era ancora più pallida di come l’aveva lasciata due giorni prima. Bella, bellissima, con quei capelli scarlatti che incorniciavano un visino eburneo, nel quale splendevano enormi occhi verdi da cerbiatta ormai annebbiati dalla malattia galoppante. Splendida da fare male, Anastasia sembrava una rosa pronta a sfiorire con l’arrivo dell’autunno, un fiore di pesco caduto sul selciato, una bambola riposta per troppi anni in un cassetto: la sua bellezza sfioriva insieme alla sua anima, ma continuava a sprigionare un lumicino che avrebbe scaldato il più duro dei cuori. E Jenna si era sempre fatta riscaldare da questo lumicino, ci si era aggrappata disperatamente per non collassare lei stessa nel turbine della sua leucemia.
Aiutò la rossa ad alzarsi, le mise addosso una vestaglietta arancione e l’accompagnò al piano di sotto, tenendola saldamente a braccetto. Entrambe malate, entrambe sul punto di morire, delle due Jenna era quella che non si arrendeva, quella che lottava, mentre Anastasia, più debole, più stanca, si appoggiava alla fede incrollabile della bionda.
Uscirono all’aperto, nella frescura pomeridiana e Anastasia si sedette sulla sedia a rotelle, spingendosi lentamente verso il grosso dondolo dove lei e Jenna passavano spesso i loro pomeriggi, fantasticando di una vita insieme che non avrebbero mai avuto. Anche quel giorno fecero lo stesso, intente a dondolarsi lentamente, tra il profumo dei fiori e il venticello fresco che veniva dal mare. Jenna sorrise al cielo e passò un braccio attorno alle spalle gracili della rossa, baciandole i capelli
-Hai visto che bella giornata?
-Sì.- Anastasia abbassò le lunghe ciglia – Peccato che ne potremmo vedere ancora poche.
-Non dire così, Ana. Guariremo. Te lo prometto.- Jenna le prese il viso tra le mani e la baciò delicatamente. Lo sapeva che non sarebbero mai guarite, ma le faceva male venire a patti con quella certezza così pesante. Avevano solo diciotto anni per poter pensare al giorno in cui si sarebbero addormentate per sempre.
-Mi piacerebbe tanto, Jen. Poter andare con te in Scozia, lasciarci Liverpool alle spalle e tornare nelle Highlands.
Ad Anastasia mancava la Scozia. Le mancavano le selvagge Highlands che l’avevano messo al mondo, le mancava il vento del nord, le brughiere dove correre, le pecore dappertutto. Le mancava parlare gaelico con i vecchietti del pub. Le mancava tutto, dal mare selvaggio, alle spiagge grigie, al vento che rende folli. Avrebbe tanto voluto morire nella sua terra, mano nella mano con Jenna, invece che in un’Inghilterra che non sentiva sua.
-Ci andremo, Ana.- Jenna le passò una mano tra i lunghi capelli rossi – Vedrai di nuovo le Highlands, te lo prometto, e io sarò lì al tuo fianco. Poi ci sposeremo.
E moriremo insieme, pensò, ma non lo disse.
Anastasia sospirò rumorosamente le poggiò la testa sulla spalla.
-E’ bello pensarlo. Ma non ce la faremo mai. Siamo destinate, ormai. È un destino così crudele, Jen, non ne posso più!
Jenna scosse la testa e la strinse a sé, baciandole i capelli. Anche lei ci pensava, la notte, a quanto il destino fosse infame. Anche lei piangeva, e andava a dormire nel letto con sua mamma. Anche lei soffriva disperatamente, ma in qualche modo riusciva ancora a sperare che forse qualcosa nelle loro vite si sarebbe aggiustato. Non riusciva a essere negativa, dentro di lei la speranza era così forte da fare male.
-Non pensarci adesso.- disse – Pensa a quanto sia bello il sole. Il mare. La vita. Pensa a vivere come puoi quello che ci rimane. Vivi, Ana, ama e non pensare. Ti prego, fallo per me: sorridi.
Le afferrò il viso e fece incontrare i loro occhi malati, dove brillava ancora amore, ancora dolcezza. Voleva che Anastasia non soffrisse, era la cosa che le interessava di più al mondo. Vederla felice, vederla tranquilla.
Anastasia le baciò appena le labbra e sorrise, un sorriso stanco, tirato, e dolente, ma pur sempre un sorriso bellissimo, così puro, così sincero come le Highlands.
 
-E così te la fai con mr. Fernandez.
Jenna non riusciva ancora a crederci del tutto. Chiamata in tutta fretta da James per una “riunione d’urgenza”, si era ritrovata a dover salutare Anastasia in fretta e furia per correre dai suoi amici, al parco, dove erano soliti riunirsi.
Li aveva trovati tutti e tre lì, seduti sulla panchina, impacciati e straniti e si era subito resa conto che doveva essere successo qualcosa di strano. Nessuno la disturbava quando sapevano che era da Anastasia. Niente l’avrebbe strappata via dalla sua ragazza. Tranne quel fatto che di normale aveva poco.
-No. Cioè sì.- balbettò Kellin, arrossendo sotto gli arruffati capelli neri. – Dio, la piantate di guardarmi come se avessi ucciso qualcuno!?
-Stai col prof di spagnolo che ha vent’anni più di noi, dimmi te!.- sbottò James, lanciandogli un’occhiataccia.
-E’ … tipo … innaturale?- borbottò Oliver, tormentandosi i cordini della felpa. Lui aveva sicuramente altro a cui pensare che non fosse Kellin e il professore. Denis. Lui doveva pensare a Denis.
-Tu stai zitto!- strillò Kellin – Non è affatto innaturale, mi sono innamorato di lui, punto e basta.
-Ma ti usa, Kellin!- sbuffò Jenna – Mr. Fernandez è viscido come un serpente. Cosa potrebbe mai volere da un suo studente se non divertirsi e basta?
-Lui non mi usa affatto, Jenna! Mi ama e me l’ha dimostrato.- si impuntò Kellin, spalancando i grandi occhi verdi – Siete voi tre che non potete capire.
-Ma capire cosa, idiota!- abbaiò James, dando un pugno sulla panchina – Ti fai lo stramaledetto professore di spagnolo, che ha quarant’anni e finge di volerti bene quando invece non vorrà altro che divertirsi prima di tornare in Messico. Apri gli occhi, deficiente!
Kellin fece un giro su sé stesso, con le lacrime agli occhi
-Invece lui mi ama! Siete voi che siete chiusi e non potete accettare questo tipo di relazione.
Oliver era sull’orlo delle lacrime, quindi non parlò, ma si limitò a balbettare
-Ma … Ma … Kells … io … non so … non credo … non …
-Stai facendo agitare Oli!- urlò Jenna, dando uno spintone a Kellin – Te e le tue relazioni malate!
-Ci sono un sacco di ragazzi che farebbero follie per te senza usarti, Kellin.- disse gelido James prima di alzarsi – Comunque direi che la conversazione finisce qui.
E se ne andò, mani in tasca e sguardo torvo, prontamente inseguito da Jenna, che lanciò un’ultima occhiataccia a Kellin.
La ragazza corse rapidamente dietro all’amico e lo afferrò per un braccio
-Jimmy. Jimmy ascoltami.
-Mr. Fernandez. Mr Fernandez. Ma ci siamo o scherziamo?!- urlò il biondo.
Jenna si morse il labbro inferiore e lo abbracciò, stringendolo con forza.
-Lo so che ci sei rimasto male, Jim. Però le carte possono sempre cambiare. Possono sempre rompere. Possono …
-E secondo te lui mi guarderà?- James si passò una mano sulla faccia, sbuffando, ma ricambiò goffamente l’abbraccio – Non gli piacerò mai, Jen. La mia è sempre stata una battaglia persa in partenza.
-Non è detto, ragazzo.- Jenna lo afferrò per le spalle e incatenò i loro occhi distrutti – Kellin è un idiota, lo sai meglio di me. È sempre alla ricerca di qualcosa di troppo, ma quando si deciderà a crescere, capirà che voi siete fatti per stare insieme. Devi solo dargli tempo.
-Vorrei poterti credere, amica mia … - borbottò James, passandosi una mano tra i capelli – Spero solo che la storia col professore finisca in fretta e furia.
-Ma certo che finirà subito! Cosa vuoi che duri? Dai, Jimmy, accompagnami da Anastasia. Stasera le avevo promesso che la portavo al cinema. E non pensarci. Vedrai che andrà tutto bene.- Jenna sorrise, il più incoraggiante possibile e prese James a braccetto.
Lui annuì, limitandosi a fare un breve sorriso.
Non ci credeva, però. Lo sapeva che il suo era e sarebbe rimasto per sempre un amore a senso unico.

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Capitolo 9
*** Hold onto me ***


CAPITOLO NOVE: HOLD ONTO ME

So don’t say you love me, fala amo
Just let your heart speak up, and I’ll know
No amount of words can ever find a way to make sense of this
So I wanna hear your mother tongue
[Bring Me The Horizon – Mother Tongue]
 
Erano sdraiati sul letto. Così, senza motivo, senza parlare, senza fare niente. Semplicemente abbracciati, le mani intrecciate e gli occhi fissi sul soffitto. Oliver non avrebbe saputo dire da quanto erano in quella posizione, ma non gli importava perché stava bene, anche senza Xanax, anche senza antidepressivi. C’era Denis a fargli da tampone per qualunque cosa e lui non poteva che essergliene grato. Girò la testa, e si rese conto che il ragazzo ucraino aveva gli occhi chiusi. Forse dormiva. Forse sognava. Ma era bellissimo, ed era suo. Oliver non avrebbe mai potuto credere vera una cosa simile: era riuscito a vincere le sue barriere e a stare con quell’angelo. Forse anche lui stava imparando a vivere, forse sarebbe stato in grado di affrontare la vita di petto per la prima volta in vita sua. Guardò il viso disteso di Denis, gli occhioni chiusi, il ciuffo arruffato, la bocca appena piegata in un sorriso e gli baciò la fronte. Non l’avrebbe mai fatto se non fosse che Denis gli faceva venire voglia di fare tutto quello da cui si era sempre trattenuto.
-Uhm … Oli …
Denis aprì appena gli occhi, sfregandogli il viso nel collo e Oliver sorrise, stringendolo a sé
-Ti sei addormentato, Den.
-Scusa, ma sei così comodo …
Risero appena e si baciarono, lentamente, dolcemente. Per Oliver, non poteva esserci cura migliore di Denis, che lo faceva sentire normale, che curava le sue ferite, che gli faceva fare tutte le cose da ragazzo comune. E dio solo sapeva quanto Oliver avesse bisogno di sentirsi normale.
-Oli, sei così tenero … - mugolò Denis, e lo baciò di più, schiacciandolo contro il materasso.
Oliver arrossì, ma gli avvolse le braccia attorno al collo, lasciandosi baciare, lasciandosi abbracciare, lasciandosi coccolare. Aveva già fatto sesso con altri ragazzi prima di Denis, ma ogni volta era stata ansia, pianti, crisi di nervi successive. Invece con lui sembrava tutto molto più tranquillo. Si sentiva meglio, più rilassato, più a posto con sé stesso, più pronto a tutto, bastava che avesse la mano callosa di Denis stretta nella sua e quegli occhioni scuri fissi su di sé. Gli accarezzò i capelli spettinati e gli sollevò l’orlo della maglietta, per toccare quella pelle pallida ma bollente, per sentire la vita sotto le dita. E Denis era così dannatamente vivo da fare male. Oliver aveva così tanto bisogno di sentire vita vicino a lui, dopo tutto quello che aveva dovuto passare, dopo i tentati suicidi, dopo la leucemia di Jenna, dopo un’esistenza che scorreva limacciosa come il Tamigi, Oliver si era stancato di vedere la morte dovunque posasse lo sguardo. Ma adesso aveva trovato il ragazzo ucraino che sprizzava energia da tutti i pori, che urlava “vivi” a tutto volume, che era una continua primavera, un’estate bollente e piena di fiori. Tutto il contrario di Oliver, con i suoi inverni, le sue foglie cadute e le sue zucche bucherellate.
Finì che alla fine fecero l’amore su quel letto, alle quattro del pomeriggio, nel silenzio totale del pomeriggio inglese. Furono baci, tanti baci, e furono carezze, furono sorrisi, così vivaci quelli di Denis e così stanchi quelli di Oliver, furono due ragazzi avvolti uno all’altro per non lasciarsi andare. Fu qualcosa di strano, perché era più di sesso, era più di amore: erano due ragazzi che non volevano perdersi nella devastazione delle loro esistenze. Oliver non si agitò, quella volta, al sicuro tra le braccia di Denis. Lasciò che lo prendesse senza lacrime, senza ansiti terrorizzati, lo invitò lui stesso a sprofondargli dentro, a dargli di più, incatenando i loro occhi così diversi. Lo fecero un po’ così, in bilico sul letto, ma Denis pensava di non aver mai provato così tanto piacere quanto quel pomeriggio, avvinghiato al suo Oliver, vittima dei suoi baci, dei suoi occhi tristi, vittima di quel corpo magro che seguiva i suoi movimenti, vittima di quell’apica del piacere che conseguirono insieme, in un abbraccio tenero e affettuoso. Rimasero stretti uno all’altro per minuti interminabili e Oliver si sentiva così pieno, per la prima volta in vita sua. Non stava pensando a tagliarsi. Non stava pensando alla morte. Non stava piangendo. Era lì, a letto col suo ragazzo, come qualsiasi persona normale. Anche il respiro non era accelerato. Forse, per la prima volta in vita sua, poteva stare tranquillo.
-Oli … mi fai vedere le tue foto?- ronfò Denis, sedendosi sul letto, ancora nudo, sporco e sudato ma così allegro, così positivo.
-Ma non dovremmo tipo … farci … farci una doccia? O vestirci? O …- chiese Oliver arrossendo.
Perché ora cominciava a rendersi conto e dentro di sé si vergognava della loro nudità, di quello che avevano appena fatto, di … tutto. Perché fondamentalmente Oliver era fatto per vergognarsi di qualunque cosa.
-E’ più divertente così. Siamo bellissimi, che problema abbiamo a girare nudi?- Denis rise e si chinò a baciarlo, facendo sfregare i rispettivi nasi – Sei perfetto, Oli. Non ti agitare. Adoro il tuo corpo. Adoro le tue insicurezze. Adoro tutto di te. Baciami.
Lo baciò ancora e ancora, e Oliver si ritrovò ad arrossire selvaggiamente. Sentiva già qualche lacrima cominciare a premere per uscire. Nessuno gli aveva mai detto “adoro il tuo corpo”. “Adoro le tue insicurezze”. Nessuno si era mai premurato di farlo sentire amato a un livello così intimo. Si rilassò tra le braccia di Denis finché non si staccò e non lo fece alzare, tenendolo per mano.
-Guardiamo le foto, Den?
-Oddio, sì!
Prese i grossi album e li mise sulla scrivania. Poi Denis gli si sedette in braccio e cominciò a sfogliarli. I loro corpi nudi a contatto, senza sensualità, senza niente, solo un tenero abbraccio di due amici, due amanti, due eroi, era tanto per uno come Oliver. Strinse Denis a sé, baciandogli la spalla, accarezzandogli i fianchi, mentre il ragazzo sfogliava delicatamente e commentava ogni foto. Oliver si sentiva così sereno in quel momento, così a posto con sé stesso da stupirsene quasi.
-Sono foto bellissime, ljubov.- commentò Denis dopo un po’ – Però sono così tristi … Oli, perché? Perché non riesci ad essere felice?
Si voltò e gli accarezzò il viso ma Oliver non rispose, si limitò a stringerlo più forte e ad affondargli il viso nel collo. Voleva dire tante cose quel gesto. “Mi stai insegnando a combattere.” “Adesso ho te.” “Sono triste ma forse con te imparerò a sorridere”.
-Stai con me, Den.- si limitò a dire, baciandogli la spalla.
-Non vado da nessuna parte, Oli.- ribatté il ragazzo ucraino, afferrandogli il viso con le mani e baciandolo con passione. – Ti voglio così tanto bene.
Rimasero per qualche minuto abbracciati sulla poltroncina, prima che Denis indicasse l’ultimo, piccolo, album nero.
-Quello non posso guardarlo?
-No … non … non ancora.- mormorò Oliver, arrossendo. – E’ molto … troppo personale.
Denis gli sorrise e gli spettinò i capelli, alzandosi.
-Non ti metto fretta. Quando sarai pronto, me lo farai vedere. Perché un giorno lo vedrò, vero, Oli?
Oliver annuì, ma dentro di sé sapeva che non sarebbe mai arrivato il giorno giusto per mostrare foto di tagli freschi, di cappi e di finestre. Nemmeno con Denis sarebbero stati al sicuro.
-Oli, posso chiederti una cosa?
-Ce … certo. È … è successo qualcosa?
Denis si voltò e lo fronteggiò, con una serietà nuova dipinta sul viso bellissimo.
-Se un giorno arriverà mio padre, mi prometti che mi proteggerai da lui?
Oliver alzò un sopracciglio. Lui, che salvava qualcuno?  Lui che combatteva?
-Io … beh, certo.- balbettò, preso in contropiede – Ma perché, Den? Cosa ti ha fatto?
Denis si strinse nelle spalle e si lasciò cadere sul letto, drappeggiandosi il piumone addosso.
-E’ un generale dell’esercito ucraino, e vuole a tutti i costi che io segua la carriera militare. Ma io non voglio, Oli! Io voglio avere un negozio di dischi, voglio suonare, voglio cantare, piuttosto preferisco fare il cameriere ma non il soldato! Non sono tagliato per fare quello che lui vuole. E lo odio, Oli, lo odio così tanto. Nonostante lui e mamma si siano lasciati, potrebbe sempre venire qua per reclamarmi indietro. È pur sempre mio padre. No, Oli, non  hai idea di quanto io sia terrorizzato da lui e dal futuro che mi si prospetta se riuscisse a mettermi le mani addosso.
Oliver sbatté un po’ i grandi occhi grigi e gli si sedette accanto, abbracciandolo.
-Non ti preoccupare, Den. Ci siamo io e i ragazzi adesso, non permetteremo che ti portino nell’esercito. Promesso. Ti … ti … - si impappinò, perché non aveva mai detto “ti amo” a nessuno. Si impappinò ma Denis rise e lo prese per mano
-Ti amo?- gli suggerì.
-Sì … sì. Quello. Ti … ti … amo. Ti amo. Ti amo.
Denis scoppiò a ridere e lo abbracciò con forza spingendolo sul letto e Oliver arrossì ma rise, rise un pochino anche lui, come se un peso gli si fosse sollevato dal cuore, come se per un attimo si fosse convinto di stare bene anche lui. E tutto quello, grazie a Denis. Denis, che era piombato lì dall’Ucraina come un tuono a ciel sereno, Denis che era bellissimo, che lo aveva preso per mano, che lo aveva abbracciato, che gli aveva baciato i tagli, che gli aveva promesso che non l’avrebbe abbandonato, che si era fatto carico del suo dolore e che non l’aveva lasciato andare. Denis, che non si era spaventato della sua depressione e dei suoi problemi, ma che anzi, li aveva fatti propri e si era subito aggrappato a lui per non farlo cadere nel baratro. Denis, che se ne meritava mille di quei “ti amo” appena balbettati da un ragazzo malato che non sapeva come uscire dai suoi incubi mostruosi. Denis, che stava diventando tutto per lui, insieme ai suoi occhi d’ambra e al suo sorriso celestiale.
-Anche io ti amo, Oli. Sei stupendo.- Denis gli baciò l’angolo del labbro – Lotteremo uno per l’altro e sono sicuro che prima o poi scapperemo lontano dai nostri mostri. Andremo lontano, un giorno.
-Lontano dove?
-Non serve tanto. Possiamo anche restare nelle nostre camere da letto, ma saremo andati lontano se nel frattempo saremmo riusciti a vincere contro i nostri demoni. Ti salverai dalla depressione, Oli, te lo giuro. Arriveranno giorni migliori dove le forbici serviranno solo per tagliare la carta, e le lamette per raderti la mattina. Arriveranno giorni dove lo Xanax esisterà solo nei film, dove sorriderai appena sveglio e i balbettii li lascerai solamente a un doposbornia epocale. Arriveranno giorni dove io non avrò paura di mio padre, dove andremo avanti a indietro dall’Ucraina e dove potrò essere quello che realmente sono, senza avere sulle spalle il peso di essere figlio di uno stupido generale. Arriveranno questi giorni, Oli, e quando sarà il momento canteremo e balleremo sotto le stelle. Faremo l’amore sul divano e questa volta starò sotto io, andremo in giro tenendoci per mano, ci vedremo con James, Kellin e Jenna per andare ai concerti dei Bad Omens e suoneremo la chitarra fino a farci sanguinare la dita. Quando saranno arrivati, ci ricorderemo di tutto il dolore che abbiamo dovuto patire da giovani e rideremo, perché finalmente saremo liberi da noi stessi. E saremo insieme, Oli, stretti uno all’altro come adesso.
Oliver non se ne rese conto ma stava piangendo.
-No, Oli, non piangere … cosa ho detto?- Denis spalancò gli occhioni. – Ti ho ferito? Non intendevo, io, Oli …
-Sei un angelo, Den.- mormorò Oliver, baciando delicatamente il viso del ragazzo ucraino – Sei veramente un angelo.
Avrebbe tanto voluto che Denis avesse ragione, lo avrebbe voluto così tanto.
-E tu sei il mio angelo custode, Oli.
-Come si dice ti amo nella tua lingua?
-Я тебя люблю.
-Come?
-Я тебя люблю! Dai Oli, prova a dirlo, non è difficile!
-Я  …te … no, Den, non ce la faccio.
-Allora ripeti piano con me: Я … тебя … люблю.
Rise forte, Denis, e un po’ rise anche Oliver. Risero, perché erano insieme, perché si amavano, perché volevano lottare contro un mondo che li odiava. Risero e basta, perché quella era una guerra, e loro volevano vincerla a tutti i costi.

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Capitolo 10
*** Salvation&Damnation ***


 CAPITOLO DIECI: SALVATION&DAMNATION

*trigger warning: self-harm*

But you don’t know what it’s like
To wake up in the middle of the night
Scaring the thought of kissing razors,
This blood evacuation is telling me to cave in
[Pierce The Veil – Stay Away From My Friends]
 
James era in crisi profonda. Anzi, profondissima. Era uscito molto male dall’ultimo round di combattimento clandestino al quale aveva partecipato, ed era terrorizzato che a quel punto i suoi amici cominciassero a tempestarlo di domande. Avrebbe tanto voluto parlarne con qualcuno, ma con chi? Oliver avrebbe pianto, Jenna lo avrebbe picchiato, Kellin sarebbe impazzito, Anastasia non contava e Denis … già, Denis. Che potesse essere l’unico a capirlo, lui, che veniva da un paese dove i pestaggi erano all’ordine del giorno? Che si ritrovassero a combattere insieme non solo per difendere Oliver da sé stesso, ma anche per salvarsi a vicenda? Non lo sapeva, ma in quel momento l’unica spiaggia possibile gli sembrava quel ragazzo ucraino con gli occhi da ragazza. Non era ancora abbastanza dentro al giro per tradirlo, magari avrebbe potuto spalleggiarlo, forse avrebbe compreso il perché lo faceva, forse … forse cosa, Jimmy. Lo avrebbero messo con le spalle al muro. Lo avrebbero costretto a non farlo più. E lui come avrebbe potuto aiutare la sua famiglia? Aveva troppe sorelle e troppo bisogno di denaro, e con quei round clandestini ne guadagnava un sacco e subito. Vallo a trovare un lavoro per un diciottenne che deve andare al college che gli desse così tanto denaro in un colpo.
Si passò una mano tra i capelli biondi e grugnì dal dolore. Doveva stare pronto: affrontarli. Chiedere aiuto a Denis. Fare qualcosa per salvarsi da quell’incubo.
Già.
Chiamare Denis e dirgli di vedersi.
Aveva senso? No.
Lo stava facendo? Sì.
Oh, al diavolo.
Compose il numero.
 
-Grazie per essere venuto.- James bevve un sorso di the e guardò il nuovo amico di sottecchi, non sapendo bene come prendere il discorso.
-Figurati.- Denis gli sorrise e mangiò un biscotto – Dimmi, che problema c’è?
James si morse il labbro inferiore. Come fare a dirglielo? Come rivelare così il suo più grande segreto? Come … dannazione, non sapeva proprio come fare. Aveva paura, una paura folle e si stava pentendo di aver chiamato l’altro ragazzo.
-Posso permettermi?- Denis mangiò un altro biscotto e lo guardò con i suoi penetranti occhi slavi che avrebbero spogliato il demonio – Come mai sei così malconcio? Un incidente?
Appunto.
-E’ proprio di questo che ti volevo parlare.- James si schiarì la voce, cercando di darsi un tono, ma in quel momento aveva così paura che avrebbe avuto bisogno solo di un abbraccio e di qualcuno che gli dicesse che andava tutto bene – Vedi … queste ferite … non so come dirtelo ma …
-Rissa?- lo aiutò Denis – Diciamo che mi sembrano familiari, anche io in Ucraina tornavo sempre a casa conciato per le feste, ma non è un …
-Combattimenti clandestini.- toh, l’aveva detto. Ora poteva anche morire.
-Come, scusa?- Denis fece per mettere in bocca un altro biscotto ma lo posò, spalancando gli occhi – Hai detto combattimenti clandestini?
James annuì e sentì qualcosa che assomigliavano a lacrime premergli dietro agli occhi.
-Okay. Okay, questa è grave.- Denis deglutì e gli prese istintivamente la mano. James non faceva fatica a capire come Oliver si fosse follemente innamorato di lui. Era così … dolce. Franco. Sincero. Bello. Salvifico. Il ragazzo biondo desiderò ardentemente che Oliver riuscisse a tenerselo stretto. – Spiegati meglio, cosa vorrebbe dire?
-C’è un giro, qua a Liverpool, di combattimenti clandestini, tipo incontri di pugilato in nero dove girano soldi sporchi. E io ci sono finito dentro alla grande.- sbuffò James, fissando gli occhioni sgranati di Denis.
-Ma perché l’hai fatto? È pericolosissimo!
-Avevo bisogno di soldi.- mai come in quel momento James si era sentito così stupido – Per le mie sorelle, per mia madre, non bastava il suo stipendio. E così sono finito nel circolo. Guadagno tanto, ma …
-Ma rischi la vita. James, no. Non è possibile.- Denis gli strinse la mano con più forza – Ci deve essere un altro modo.
-Era quello più semplice. Ormai non so se posso uscirne, ci sono dentro fino al collo. Denis, cosa faccio adesso?- James spalancò i piccoli occhi celesti, lasciando che qualche lacrima gli sporcasse il viso.
-No, non piangere.- Denis gli asciugò le lacrime con un fazzoletto – Ne uscirai, te lo prometto. Troveremo un modo per farti uscire dal giro, però devi dirlo agli altri.
-No! E’ fuori discussione, non …
-James. Stammi a sentire. È un casino enorme questo, e se non siamo tutti uniti non riusciremo più a tirarti fuori.- Denis gli strinse con forze entrambe le mani con le nocche sbucciate – Sei in pericolo. E noi ti aiuteremo. Non ti preoccupare, malchik, non sei solo.
James sospirò rumorosamente e annuì, stringendo a sua volta le mani del ragazzo ucraino.
-Grazie, Den. Ti sono debitore … ma come fai?
-A fare cosa?
-A salvarci così. Sei sbarcato dall’Ucraina tre mesi fa e di colpo ti sei fatto in quattro per aiutarci. Ma come fai?
Denis sorrise e scosse la testa, lasciando che il ciuffo gli coprisse un occhio.
-Perché mi sono affezionato a voi. Perché per la prima volta mi sono sentito accettato, apprezzato, mentre a casa non ero altro che un povero ragazzetto qualunque vittima dei bulli e delle malelingue. Voi mi avete accolto, mi avete reso vostro amico, mi avete fatto sentire bene per la prima volta. Quindi sono in debito con voi.- poi ingoiò un altro biscotto – Andiamo, Jimmy. Questa volta ne uscirai, ne sono sicuro. Ne usciremo tutti insieme.
 
Un paio di cuffie. Una canzone dei Motionless In White a tutto volume. Un letto ancora mezzo sfatto. La macchina fotografica posata sul comodino. E poi Oliver, stravaccato sul letto, con gli occhi già umidi e le lunghe dita che tamburellavano sul petto seguendo il ritmo di Voices. Non sapeva perché, ma stava già sentendo gli artigli della depressione afferrarlo e cominciare a soffocarlo. Funzionava così, per il ragazzo emo. Anche quando sembrava che tutto stesse andando bene, si ritrovava da solo con sé stesso e allora i suoi demoni arrivavano subito a bussare alla porta. Perché stesse così male, non lo sapeva, ma sapeva perfettamente che la sua malattia lo stava divorando vivo tanto quanto la leucemia si stava mangiando Jenna e Anastasia.
Oliver era un caso perso, un maledetto caso perso. Soffocato da un dolore inimmaginabile, non viveva più, ma sopravviveva stancamente in un’esistenza che lo voleva morto. Sputava sangue per poter cercare di svegliarsi la mattina, e ogni giorno era una guerra, una fottuta guerra contro sé stesso, contro la sua ansia, contro la sua depressione.
Si passò una mano tra i capelli, e chiuse gli occhi per un attimo. La depressione era arrivata come un’onda di marea, pesante, ossessiva, lo stava schiacciando con tutta la sua forza contro il letto, togliendogli il respiro, succhiandogli via la linfa vitale, soffocandolo con tutte le sue forze. Si sentiva senza ossigeno, senza vita, abbandonato come un guscio vuoto sul letto, senza riuscire a muoversi. Avrebbe tanto avuto bisogno di Denis in quel momento, ma … ma, appunto. Se lo meritava? Si meritava davvero un ragazzo buono come lui, che gli stesse dietro, che lo accudisse, che lo coccolasse come faceva? No, secondo lui no. Magari Denis era stato semplicemente attratto dalla novità, dal fascino del ragazzo disturbato, ma quando si sarebbe reso davvero conto di quello che era, lo avrebbe lasciato, lo avrebbe distrutto. E senza Denis, lui cosa sarebbe rimasto? Un relitto e basta. Lui aveva disperatamente bisogno del ragazzo ucraino, ma sapeva anche di non poterlo costringere a prendersi cura di lui. Si stava uccidendo con le sue stesse mani.
Aprì i grandi occhi grigi e si rese conto di stare piangendo. In silenzio, grosse lacrime gli bagnavano il viso magro. Non avrebbe dovuto piangere, ma pensare di perdere Denis lo stava distruggendo. Voleva la sua bellissima storia d’amore, però non si sentiva in grado di poterla reggere. Lui cosa avrebbe potuto dare a Denis? Niente, se non le sue foto, la sua depressione e i suoi problemi di timidezza.
Si alzò e prese l’album nero, cominciando a sfogliarlo lentamente.
La finestra della scuola da dove aveva tentato di lanciarsi.
Il cappio in bagno.
I tagli.
Il mare dove aveva pensato di annegarsi.
Sfiorò delicatamente quelle fotografie distruttive, e si chiese perché non fosse morto quelle volte. Perché alla fine qualcosa lo avesse sempre trattenuto. Prima James, che lo aveva afferrato per la vita, durante l’ultimo anno di scuola. Poi lo squillo del telefono con Kellin che gli raccontava qualche aneddoto e che lo aveva fatto uscire dal bagno in lacrime. La prospettiva del concerto dei Bring Me The Horizon che lo aveva trattenuto dal gettarsi in mare. E adesso, cosa aveva che lo salvasse? Denis, ovviamente. Ma poteva l’amore di un ragazzo salvarlo dalla sua depressione devastante? Poteva semplicemente amandolo trascinarlo fuori dal pozzo nel quale era sprofondato da quando aveva appena quattordici anni e i capelli dritti in testa?
Non lo sapeva, e non sapeva nemmeno come comportarsi. Voleva salvarsi, dannazione, voleva riuscire a vivere ma proprio non ce la faceva. Viveva in uno stato di ansia perenne, un’ansia così tremenda da impedirgli proprio di vivere come una persona normale. E così andava avanti a Xanax e antidepressivi che non lo aiutavano ma lo rimbecillivano ancora di più. Dormiva, piangeva, ascoltava musica e piangeva ancora: Oliver non ce la faceva più ad andare avanti così, in quella sua disperazione congenita. Era così disperato, così disperato.
Come un automa, aprì il cassetto e tirò fuori la lametta. Intanto, ormai era così abituato a tagliarsi da non pensarci nemmeno più. Si lasciò cadere per terra come un sacco di patate, le cuffie che sparavano qualche canzone metalcore delle più deprimenti, si guardò gli avambracci con tutte le loro cicatrici e cominciò a tagliarsi. Incominciò piano, premendo la lama sulla pelle e tirando giù, con una lentezza quasi metodica, ma poi, nemmeno stesse seguendo il violento riff di chitarra, cominciò a ferirsi con molta più forza, con molta più rabbia, lacrime selvagge a bagnargli il viso. Si tagliò, come era abituato a fare, riversando tutta la sua rabbia, tutto il suo dolore, tutta la sua disperazione sulla sua povera pelle pallida e maltrattata. Continuò, sempre con più forza, con più orrore di sé stesso nel vedere il sangue che cominciava a uscire dalle ferite. Piangeva Oliver, perché non voleva farlo, non voleva essere il ragazzo autolesionista depresso con l’ansia sociale e i pensieri suicidi, non voleva essere quel tipo di persona, ma guarda un po’, lo era, e non sapeva come uscirne, non sapeva come salvarsi, non sapeva come fare a farsi aiutare da Denis, non sapeva …
-Oli, Oli, amore! Scusa se ci ho messo così tanto, ma mi aveva chiamato James e … Oliver.
Oliver strabuzzò gli occhi e si voltò con lentezza verso il vano della porta. Porta dove era appena apparso Denis, che lo guardava trasecolato. Il ragazzo si sentì svenire. Denis. Denis, al quale aveva promesso che non si sarebbe più tagliato. Denis, che aveva tentato di salvarlo da sé stesso. Denis, che lo stava vedendo con lametta in mano e lacrime sul viso.
-Oliver, che cosa diavolo stai facendo?!- urlò il ragazzo ucraino. – Smettila!
Fu un attimo prima che gli si scaraventasse addosso e gli strappasse di mano la lametta, scagliandola fuori dalla finestra aperta. Oliver non disse nulla, continuando a piangere in silenzio, le braccia sanguinanti e gli occhi gonfi.
Denis lo fissò, e stava per mettersi a piangere anche lui.
-Perché lo fai. Perché. Perché?!- strillò, afferrandolo per le spalle e scuotendolo. Poi gli guardò gli avambracci e scosse freneticamente la testa – Bisogna disinfettarli. Ce l’hai l’acqua ossigenata? Del cotone? Aspetta, vado a prenderli, dio, Oliver, sei …
-Un disastro? Non merito di vivere? Uno scarto generazionale? Un depresso?- sussurrò Oliver, fissandolo da dietro il velo di pianto. – Vuoi che muoia? Mi odi? Non mi vuoi più? Mi vuoi lasciare? Ti sei stufato di me?
-Piantala!
Denis gli mollò un sonoro ceffone sulla guancia e Oliver si mise a piangere ancora più forte, lasciandosi cadere sul letto.
-Oliver, io ti amo. Te l’ho già detto in mille modi, ti amo, e odio il fatto che tu continui a non capirlo!- urlò Denis, girando nevrastenicamente per la camera – E odio me stesso perché evidentemente il mio amore per te non è abbastanza per aiutarti. In cosa sto sbagliando?
-Il problema non sei tu, sono io, sono io, sono sempre stato io.- singhiozzò Oliver, nascondendo il viso tra le mani. – Denis, lasciami perdere, ti prego, lasciami andare.
-Io non ti lascio andare.- Denis si piantò di fronte a lui e gli prese il viso tra le mani – Tu sei mio, io sono tuo, e non esisterà cosa o persona che mi porterà via da te. Non sarà una stramaledetta lametta a portarti via. Non sarà la depressione a strapparti da me. Non me ne frega niente di niente, Oliver, a me importa solo che tu un giorno stia bene. Perché non vuoi capirlo? Perché non lasci che ti aiuti?
-Vai via … ti prego, vai via …
-Io non me ne vado finché non mi giuri su dio che butti via tutte le lamette che hai e cerchi di capire che ti amo.
-Ti ho detto di andare via! Vai via, Denis, vai via!
Oliver si era alzato di scatto e aveva spinto l’altro ragazzo verso la porta, accecato dal pianto e dal dolore.
Denis inciampò fuori dalla porta, sgomento.
-Oli. Oli, perché? Ti prego, non mandarmi via, voglio solo aiutarti, ti amo, Oli, ti amo, per favore … - sproloquiò ma ormai Oliver gli aveva sbattuto la porta della camera in faccia.
Denis fissò stupefatto la porta e poi corse fuori dalla casa, in lacrime. Lui voleva solo aiutare Oliver. Voleva solo salvarlo. Lo amava troppo, dannazione, troppo per lasciarlo andare. Avrebbe combattuto per lui. Avrebbe combattuto.

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Capitolo 11
*** Goodbye ***


CAPITOLO UNDICI: GOODBYE

And all I can hope is that you have found peace
While I journey on, your flame I’ll carry
I feel it, I feel you everywhere
[Tonight Alive – Everywhere]
 
Non mollare, Jen.
Andrà tutto bene.
Non piangere, ragazza, ci siamo noi con te.
Ti prego, resisti, ti prego.
Solo alcune delle frasi che la ragazza bionda stava udendo senza veramente sentirle. C’era solamente una cosa che in quel momento le rimbombava in testa e metteva a tacere tutto il resto: Anastasia è morta. Tre parole. Anastasia è morta. Non riusciva nemmeno a capacitarsene, da quando, quella mattina, le era arrivata la notizia che lei non ce l’aveva fatta. Era rimasta zitta, instupidita, per almeno un’ora, prima di scoppiare finalmente a piangere di un pianto liberatorio, folle, scatenato, distrutto, il pianto di una ragazza che si reggeva disperatamente all’altra, il pianto di un amore spezzato brutalmente dalla malattia. Aveva cominciato a correre per le strade in lacrime, la disperazione a trasfigurarle il viso, era corsa dai suoi amici perché sapeva che sarebbero stati gli unici a difenderla dal dolore sconvolgente che le aveva afferrato il cuore in una morsa assassina. Era scappata da loro perché la difendessero da quello shock.
Aveva perso Anastasia, la ragazza che le illuminava le giornate con i suoi capelli rossi e gli occhi malati. Aveva perso una persona che amava di un amore tenero e affettuoso, aveva perso quel sorriso pallido eppure luccicante, era rimasta da sola a combattere contro un mondo che non comprendeva, sola con la sua malattia, sola con degli amici disperati, sola e basta.
-Jen … Jen, ascoltami. Non piangere.- mormorò James, accarezzandole i capelli spettinati.
Jenna tirò su col naso e fece per respirare ma scoppiò irrimediabilmente in un pianto dirotto
-Ma … ma … perché … perché se n’è andata?- ansimò, cercando di asciugarsi gli occhi. – Io … io l’amavo ….
-Lo sappiamo, Jen.- Kellin le prese delicatamente la mano nella propria – Ed è per questo che non se ne andrà mai totalmente da te. Rimarrà ancorata al tuo, al nostro cuore.
Jenna singhiozzò forte e nascose il viso tra le mani. Rivoleva indietro la sua ragazza, rivoleva i suoi baci delicati, rivoleva le sue risatine appena accennate, rivoleva i suoi racconti e la sua mano bianca nella propria.
-Le avevo promesso che l’avrei riportata nelle Highlands, invece è morta qui, in una terra che non sentiva sua, senza di me al fianco, non le ho nemmeno potuto dire addio …
-Se … secondo … secondo me ora …  ora … - Oliver stava cercando di non mettersi a piangere anche lui, balbettando come non mai – E’ … è nelle High …. Highlands … come … come …
-Oli, non ti sforzare. Vuol dire che forse adesso si sarà involata di nuovo in Scozia, a casa sua.- tentò James, stringendo le spalle dell’amica in un abbraccio – Lo sappiamo che stai soffrendo, Jen, ma non ti abbattere, non lasciare che questo …
-Mi manca, ragazzi. Non voglio vivere senza di lei. Voglio morire subito, così andrò da lei e voleremo insieme nelle Highlands e …
-Non dirlo nemmeno per scherzo.- Denis era entrato nella stanza con un grosso vassoio pieno di babke alle fragole bollenti – Jenna, per favore. Possiamo immaginare la tua sofferenza, ma non devi arrenderti. Cosa direbbe Anastasia se ti sentisse dire queste cose? Non vorrebbe, perché anche lei ti amava e sono sicuro che vorrebbe che tu cercassi di vivere a tutto volume la tua vita. Vieni, prendi una babka, le ho appena fatte.
Jenna lo guardò con le lacrime agli occhi ma annuì e prese una babka, mordendola con circospezione, prontamente imitata da Kellin e James. Oliver lo guardò con gli occhi spalancati ma non si arrischiò a fare nulla che non fosse fissare Denis. Il ragazzo ucraino sospirò rumorosamente e gli allungò una babka.
-Mangia, Oliver.
-Ma …
-Mangia.
Al che Oliver prese timidamente uno dei dolcetti ucraini e lo morse con fare mogio. Era buono, constatò, sapeva di fragole, panna, un po’ come Denis. Caldo, dolce, mielato esattamente come il corpo del suo ragazzo. Era ancora il suo ragazzo, però?
Si ritrovarono tutti e cinque con aria lacrimevole a mangiare babke appena sfornate, guardandosi a stento negli occhi.
Chissà cosa avrebbe detto Anastasia di quei dolci, pensava Jenna, smangiucchiando svogliatamente. Chissà cosa avrebbe detto di quella situazione in generale. Ma adesso la rossa se n’era andata e lei era rimasta sola a combattere la sua malattia. Voleva vivere, Jenna, voleva vivere ma adesso che le era stato inferto un colpo così basso non poteva che provare un dolore estenuante al petto. Non voleva rimanere senza nessuno, non voleva vivere quel poco che le restava senza avere al fianco la sua fata coi capelli scarlatti.
-Sono buonissime, Den, sei da sposare.- disse Kellin, finendo di divorare la babka.
Tutti sorrisero, con i loro sorrisi spenti e provati, e Oliver si chiese se sarebbe mai stato lui a sposare il ragazzo che cucinava dolci su dolci. Ora come ora, non ne era più così sicuro, non dopo che lo aveva cacciato di casa. Eppure sapeva che in qualche modo avrebbe dovuto farsi perdonare. Smetterla di ferirlo. Fargli vedere che anche lui sarebbe stato in grado di lottare, di vivere, di superare le sue battaglie.
-Io e Ana avevamo deciso di sposarci e trasferirci in Scozia.- mormorò Jenna, stringendo tra la sua la mano di Kellin.  
-Potremmo andare nelle Highlands tutti insieme.- propose James – Cosa ne dite? Per ricordare Anastasia.
-E’ … è … una b … be … bella id … idea.
-Perché no? Andiamo in camper! Cucino io.
-Oddio sì, è un’idea carinissima!
Jenna sorrise appena, cercando di fermare le lacrime che volevano di nuovo prendere a scorrere. Era una bella idea, effettivamente. Andare nelle Highlands per fare un tributo alla sua adorata ragazza, con i suoi migliori amici, su un camper, come avevano progettato di fare con Anastasia. Avrebbero voluto fuggire insieme e scappare in Scozia, lasciarsi alle spalle Liverpool e l’ospedale e morire insieme sulle infinite spiagge del nord. Ma adesso che lei se n’era andata, era compito suo portare l’ultimo saluto alle Highlands, andare lì a baciare la sabbia candida, a bagnarsi i piedi nell’oceano, a sentire le canzoni in gaelico nei pub sperduti. Sì, l’avrebbe fatto, avrebbe preso quel camper, avrebbe rinchiuso una sua foto in un medaglione e l’avrebbe affidato all’oceano una volta che fosse sbarcata a Mallaig, il paesino di Anastasia.
-Lo facciamo, ragazzi? Ana aveva ancora un conto in sospeso con la Scozia.- gemette, chiudendo gli occhi scuri.
-Lo facciamo.
-Promesso.
-Parola di ucraino.
-S … sì … ci … ci sto. Ma … ma … fa … f… freddo lassù?
 
Oliver aveva deciso.
Sì, insomma, più o meno.
Ci voleva provare.
Un po’ per tirare su di morale Jenna, un po’ perché voleva riprendersi Denis in grande stile, era giunto alla conclusione che solo la musica lo poteva aiutare. E in particolare il cantare una canzone al pub quella sera stessa.
In quel momento se ne stava impacciato sul palco a fissare ossessivamente i suoi quattro amici seduti in un tavolino. Jenna lo guardava con un sorriso triste, e Oliver pensò che non si meritava una cosa del genere. Jenna era sempre stata vita, era stata gioia, e Oliver non poteva sopportare il fatto di vederla triste, spenta. Era lui quello triste e spento, non Jenna. Non Jenna.
Fece scivolare lo sguardo su Denis, bellissimo come al solito, che lo ignorava e sentì un piccolo dolore al cuore. Doveva riprenderselo indietro, a tutti i costi, doveva fargli capire che sì era un caso perso, ma non del tutto. Doveva … doveva lottare.
Forza, Oli, si disse, fai vedere al mondo chi sei. Fai vedere a Denis che ha scelto il ragazzo giusto.
Prese con mani tremanti il microfono, e si rese conto che quella bruttissima camicia a righe forse non era esattamente la scelta più adeguata per riconquistare il proprio ragazzo, ma doveva fregarsene anche di quello. Era lì per cantare. Era lì per chiedergli scusa. Era lì per convincere Jenna che non avrebbe dovuto mollare. Quindi al diavolo la camicia. Datti una mossa, Griffiths, si disse, imponendosi di calmarsi.
E poi, cominciò a cantare quella canzone di Christina Aguilera che lui odiava ma che sapeva che Denis adorava. Lo vide voltarsi, immediatamente e incontrò i suoi occhi ambrati che lo fissavano con aria interrogativa. Sentì le gambe tremare furiosamente e l’ansia cominciare a salire rapidamente, ma qualcosa dentro di lui gli urlò che non avrebbe dovuto cedere in quel momento.
-I’m sorry for blaming you, for everything I just couldn’t do …
Cantò, e aveva la voce tremante, mentre fissava le reazioni di Denis. Lo vide girarsi e guardarlo con un’espressione indecifrabile dipinta sul viso angoloso. Guardò i suoi amici, e li vide fargli non molto discreti gesti di incoraggiamento. Gli sembrò che Jenna sorridesse, e questo gli scaldò il cuore.
Prese un po’ più di coraggio e cantò con più decisione quelle parole che lui non aveva mai considerato ma che sembravano adattarsi perfettamente a lui e a Denis.
-You told me how proud you were, but I walked away …
Per la prima volta in vita sua, i tagli sulle braccia non sembravano più bruciare contro il tessuto della felpa, e lui non si sentiva il solito Oli disperato e solo, che balbettava, si impappinava e piangeva per un nonnulla. No, adesso si sentiva come un Oli più forte, più coraggioso, pronto a imporsi, a lottare per un qualcosa che ormai un nome ce l’aveva, e se era per quello anche un viso, un odore, e una voce.
Ingoiò le lacrime già pronte a sgorgare e continuò a cantare, lasciandosi trasportare dalla musica di quella canzone che fino a quel giorno aveva odiato ma che adesso stava adorando.
Guardava Denis, e nelle luci soffuse del locale gli parve che sorridesse, e questo gli diede la forza di concludere la canzone senza andare in crisi.
-And I’ve hurt myself, by hurting you …
La sala del pub rimase per un momento zitta, prima che un applauso scrosciante non rimbombò nel silenzio. Oliver si ritrovò ad arrossire selvaggiamente, ancora appeso all’asta del microfono. Gli girava la testa per quello che aveva appena fatto, per quella specie di dichiarazione cantata come nelle peggiori sitcom americane. Sentì le lacrime bruciargli gli occhi e lasciò che qualcuna scendesse mentre si arrischiava a dire un’ultima cosa.
-Qu… questa … ca … canzone è … è … per … per te, Den. È per te. Scu … scusami per … per quello che … per quello che ti ho fa … fatto.
Si rese però conto con un certo orrore che Denis si era alzato e lo aveva raggiunto sul palco, senza un sorriso, senza un’ombra di indulgenza nei grandi occhi slavi. Oliver spalancò gli occhi. E adesso cosa sarebbe successo? Lo avrebbe preso a schiaffi? Lo avrebbe lasciato? Lo avrebbe …
-Oli.- la voce di Denis suonava molto determinata e il ragazzo inglese si nascose istintivamente sotto il ciuffo. – Oli, guardami.
Oliver si arrischiò a lanciargli un’occhiata terrorizzata da sotto i capelli.
-Non provare più a scusarti per una cosa del genere.
Poi, come se nulla fosse, lo afferrò per la collottola di quell’orrenda camicia e righe e lo baciò, così, di fronte a tutti e Oliver pensò che quel bacio fosse stato il migliore di tutti. Si aggrappò a Denis e lo strinse a sé, mentre la sala fischiava e applaudiva, ma per la prima volta in vita sua Oliver non ebbe vergogna. Perché era con Denis, era tra le sue braccia, e tutto sarebbe andato per il verso giusto.

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Capitolo 12
*** Broken Heart ***


CAPITOLO DODICI: BROKEN HEART

How does he sleep at night?
Mama, the nerve of this guy to leave so easy
Am I gonna be alright? I wanna kick myself for falling so hard
[Maddie&Tae – Die From A Broken Heart]


Quando Kellin si accorse per la prima volta che Vic lo tradiva, sperimentò veramente cosa volesse dire avere il cuore spezzato. Non aveva mai davvero capito come si potessero sentire le persone usate e sfruttate, ma quella sera lo scoprì nel modo più duro e violento possibile.
Stravaccato a letto, giocherellava distrattamente con il lenzuolo, sentendo Vic fischiettare sotto la doccia e sognava ad occhi aperti di potersene andare finalmente via da Liverpool e da tutto il dolore che vi era covato dentro. Magari scappare in Messico con Vic, perché no. Intanto il suo spagnolo ormai era praticamente perfetto. Andare a Santa Rosalìa a prendersi un po’ di caldo, fiori, oceano, sole e affetto. Gli piaceva quell’idea, da morire. Sorrise da solo e si alzò, stiracchiandosi, cominciando a rivestirsi indolentemente, con molta calma, guardandosi intorno nella stanza sempre disordinata, che profumava di sandalo. Chissà come sarebbe stata la loro camera da letto nella villetta a schiera di Santa Rosalìa. Magari avrebbero anche avuto una piccola piscina, e un giardino completamente fiorito. E avrebbero comprato un gatto nero e bianco. Avrebbero avuto lenzuola bianche, e una parete di vetro che avrebbe dato direttamente sull’oceano. Ci sarebbe anche stato un dondolo dove dondolarsi nella brezza serale.
Sì, avrebbero avuto la vita perfetta. Kellin si passò una mano tra i capelli corvini e aprì un cassetto, senza farci nemmeno troppo caso, per guardare le camicie di Vic e sentire il suo odore fresco. Ne prese una, per provarla, per sentire i vestiti dell’uomo che amava a contatto con la pelle, che qualcosa scivolò fuori  da una delle camicie e si depositò sul pavimento. Incuriosito, Kellin si chinò per raccogliere la fotografia.
E rimase di sasso.
C’era Vic, abbracciato a una bella donna messicana, con in braccio due bambini che avranno avuto sei, sette anni.
Cosa significa.
Kellin spalancò la bocca, e girò la foto “Io, Guadalupe, Pepe e Victoria – los amo”.
No, ti prego, no.
Il ragazzo strinse la foto tra le mani e sentì le lacrime cominciare a premere dietro agli occhi. Guadalupe, Pepe e Victoria. Los amo. Los amo!
Sentì qualcosa dentro di sé fare un rumoroso crack. Quella … quella era la famiglia di Victor? Moglie e figli? E lui allora cos’era? Cosa stava succedendo alla sua vita? Quella foto, quelle persone, ma allora … erano tutte bugie quelle che Victor gli aveva rifilato?
-Allora, Kells, cosa …
Vic era entrato tranquillamente nella stanza.
-Cosa significa questa foto. Cosa significa!?- urlò Kellin, scagliandogli addosso la fotografia – Victor, mi devi delle spiegazioni!
Vic raccolse la foto, la guardò, e poi fece quello che Kellin non si sarebbe mai aspettato: sorrise. Ma non col suo solito sorriso affascinante e misterioso, ma con uno crudele, malvagio, approfittatore.
-Allora l’hai trovata.- disse, semplicemente, stringendosi nelle spalle.
-Chi sono quelle persone? Cosa vuol dire quel los amo? 
Kellin stava strillando, calde lacrime di rabbia e di disperazione a rigargli le guance pallide. Non voleva davvero credere all’evidenza, non poteva nemmeno pensare che Vic gli avesse mentito tutto quel tempo, che tutte le fantasie sulle quali aveva creato le sue basi per resistere in quella Liverpool maledetta non erano altro che, appunto, mere fantasie.
-Sono mia moglie e i miei due figli, querido.- rispose derisorio Vic, lanciandogli un’occhiata canzonatoria.
-Sei sposato? Hai dei figli? Ma … maledetto bastardo, e io cosa sono stato per tutto questo tempo?!- Kellin scoppiò in lacrime, e gli si scagliò addosso, ma si bloccò prima di prenderlo a pugni, cadendo semplicemente sul pavimento in ginocchio, singhiozzando come non aveva mai singhiozzato in vita sua.
-Andiamo, Kellin: hai veramente creduto tutto questo tempo che io fossi innamorato di te? Che ti avrei portato in Messico con me? Sogni troppo, ragazzino.- Vic lo prese per un braccio e lo tirò su, facendolo sedere sul letto.
-Ma … ma io … mi avevi promesso … credevo mi amassi … io … ti odio!
Kellin si alzò di scatto, e fece per mollargli un ceffone ma Vic gli fermò il polso e lo spinse verso la porta.
-La tua innocenza ti rovinerà prima o poi, Kellin. Adesso vattene e non tornare mai più. Parto per il Messico la settimana prossima, scomparirò dalla tua vita e tu dalla mia. È stato carino, ragazzino, ma adesso basta.
-Ma io ti amo, ti amo, non puoi lasciarmi così, non dopo tutto quello che abbiamo avuto!
-“Tutto quello che abbiamo avuto”? Per favore, smettila di fare queste scene. Sei stato solo un giocattolo per me, lo capisci? Non ti ho mai amato, Kellin, e prima te lo metti in testa meglio è.- Victor aprì la porta di casa e lo spinse fuori – Cerca di essere più accorto la prossima volta.
-No! No, bastardo, non puoi lasciarmi così, non puoi …
La porta si era rumorosamente chiusa e a Kellin non restò che scoppiare in lacrime, lì, sull’uscio della casa di un uomo che lo aveva tradito e usato. Subito pensò di prendere a pugni la porta finché non gli avesse riaperto, ma poi pensò che sarebbe stato ancora più patetico e cominciò a correre per le strade, urlando tutto il suo dolore. Non riusciva ancora totalmente a credere a quello che gli era successo: Victor non lo amava. Era sposato. Aveva dei bambini che lo aspettavano in Messico. Di colpo, tutti i suoi sogni caddero rumorosamente al suolo. Niente casa a Santa Rosalìa, niente gatto, niente lenzuola bianche, niente vetrata sull’Oceano della Baja California. Niente di niente per Kellin Hills, che si era fatto così brutalmente ingannare da un uomo che, avevano ragione i suoi amici, lo aveva usato e basta.
Corse per le strade piangendo, il cuore dolente. Stava sperimentando il famoso cuore spezzato, ed era molto peggio di quanto avesse mai potuto immaginare. Faceva male, come se avesse mille pezzi di vetro conficcati nel petto. Anzi, come se il cuore stesso si fosse distrutto in tantissimi pezzettini affilatissimi che lo ferivano lo dissanguavano a morte. Sentiva l’avvilimento del tradimento, delle bugie su cui aveva costruito tutta la sua falsa storia d’amore. E adesso di lui cosa ne sarebbe rimasto? Solo uno stupido ragazzino che si era illuso fino alla fine di essere l’unico amore di un uomo che invece non aveva fatto altro che usarlo come un giocattolo per tutto quel tempo. 
Ma come aveva fatto ad essere così stupido? Come aveva potuto non dare retta ai suoi amici quando gli avevano detto che Victor lo stava usando e basta?
Pianse più forte e rischiò di farsi investire da una macchina nella sua corsa folle verso casa di James. Sì, in quel momento il suo biondo amico sarebbe stato l’unico in grado di consolarlo dal suo dolore. Non voleva caricare Jenna e Oliver, e di Denis si vergognava. Ma invece James sarebbe stato pronto a sostenerlo, ad asciugargli il pianto, lo avrebbe convinto che non era sua la colpa. Anche se Kellin sapeva benissimo che la colpa era tutta della sua cecità e della sua presunzione di poter essere l’unico e il solo per Victor. Ma non voleva ancora del tutto crederci. Non voleva pensare che tutti i suoi sogni si fossero infranti così platealmente, non voleva realizzare che l’uomo che aveva amato di un amroe sincero e puto lo avesse solamente usato come un giocattolo per poi buttarlo via senza un rimpianto.
Corse lontano, Kellin, cercando di calmare le lacrime che gli ustionavano gli occhi d’acquamarina e riuscì a calmare un pochino il respiro solamente quando arrivò nella via di James. Anche se, si chiese aggrottando le sopracciglia, cosa ci facevano Oliver, Denis e Jenna davanti alla porta della villetta del loro amico?
Si avvicinò di corsa, il respiro pesante e venne subito aggredito da Jenna
-Kells! Perché non rispondevi al telefono?!
-Jen, non è il momento.- singhiozzò il ragazzo – Ma cos’è successo? Perché siete tutti davanti alla porta di Jimmy? Lui dov’è?
-Non lo sappiamo.- rispose Denis, passandosi una mano tra i capelli – O meglio, lo sappiamo per metà.
-Potete spiegarvi meglio?
E così anche Kellin venne dolorosamente messo a parte del fatto che James combattesse in giri di boxe clandestini, del pericolo che correva, e di tutto il resto. Il ragazzo si sentì morire e sbiancò completamente. Perché, perché sembrava che a loro dovesse andare tutto male? Perché la sfortuna li perseguitava così crudelmente? In quel momento, la storia di Victor non gli sembrava nemmeno poi così importante. Voleva solamente riavere indietro James. Voleva saperlo al sicuro. Non voleva che gli succedesse qualcosa.
-Cosa abbiamo intenzione di fare?- disse, asciugandosi gli occhi con la mano.
-Do … dovremmo a … andare a … sal … salvarlo.- balbettò disperato Oliver, aggrappato al braccio di Denis come una patella allo scoglio durante un uragano.
-Ma cosa possiamo fare noi quattro?- sospirò Kellin.
-Non lo sappiamo ancora, ma qualcosa ci inventeremo.- sbottò determinato Denis, stringendo a sé Oliver come a volerlo difendere dalla paura e dal dolore. – La prima cosa da fare è capire dove si tengono questi incontri.
-Secondo voi qualcuno in casa lo sa?- chiese Jenna, tirando su col naso.
-Non … non … pe … penso, perché … glielo … glielo … lascerebbero … fare?- piagnucolò Oliver, nascondendo il viso nella spalla del suo ragazzo.
-Magari una delle sorelle. Katherine, la più grande, forse potrebbe sapere qualcosina.- tentò Kellin. In quel momento, il cuore spezzato e sanguinante si stava facendo forza per battere ancora, per combattere in nome della decennale amicizia con James. Il ragazzo si sentì forte: doveva continuare a lottare, indiscriminatamente. Non poteva lasciare che quel bastardo di Victor si portasse via non solo il suo amore, ma anche il suo orgoglio e il suo onore. Si sarebbe fatto forza, per James e per i suoi amici. Forza, Hills, fai vedere che non sei una donnicciola.
-Vado dentro a forzare Kate.- decise Jenna, asciugandosi gli occhi arrossati dalla tensione – Stanotte è la notte giusta per salvarlo. Non possiamo lasciarlo in quel giro maledetto che lo distruggerà e basta.
-Fai presto, non so quanto tempo ci possa restare.
Jenna annuì e si diresse verso la porta di casa McCandles.

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Capitolo 13
*** I can't take this anymore ***


CAPITOLO TREDICI: I CAN’T TAKE THIS ANYMORE

I’m drowning in an ocean of the tears that I’ve cried
I’ve tried do drown my sorrows …
Instead they’re all drowning me       
[Motionless In White – Creatures]
 
La macchina correva veloce verso la campagna poco fuori Liverpool, e dentro i quattro ragazzi avevano il fiato sospeso.
-Siete del tutto sicuri che intendesse il vecchio porto?- disse Denis, prendendo una curva troppo stretta e facendo di conseguenza sbandare la macchina.
-Quasi.- rispose Jenna da dietro – Kate non sapeva bene dove si tengono questi incontri clandestini, ma le sembrava che James parlasse di un posto lì vicino. Non è stato facile convincerla a parlare, James le aveva fatto giurare di non raccontare niente a nessuno.
Oliver piagnucolava in silenzio e Kellin si mangiava nervosamente le unghie. Improvvisamente, tutta la storia di Victor sembrava essere passata in secondo piano. Non poteva pensare alle sue stupide beghe sentimentali quando uno dei suoi migliori amici rischiava la vita. Non ci poteva ancora veramente credere. James, quello che li salvava, quello forte, quello coraggioso, coinvolto in un giro che lo avrebbe ucciso. Era tutto così sbagliato, così dannatamente sbagliato.
-Cosa troveremo quando arriveremo lì?- balbettò, reggendosi a Jenna quando la macchina sbandò per l’ennesima volta. Dio, Denis al volante era un pericolo pubblico. Soprattutto con l’acceleratore a tavoletta nelle strette e infide stradine inglesi al buio.
-E … e se … se … lo … lo hanno … u … ucciso?- pianse Oliver, soffocando un singhiozzo nel fazzoletto.
-No, amore, stai tranquillo. Jimmy sarà vivo e vegeto.- Denis superò una macchina in curva senza preoccuparsi di mettere la freccia né di frenare.
-Propongo un piano di azione.- disse Jenna, aggrappata disperatamente al sedile ma determinata. – Kells sta dalla macchina a fare il palo, pronto a partire quando noi arriveremo con Jimmy. Sì, Kellin, guidi tu al ritorno e non fare storie. Oli va avanti con la torcia e ci fa da palo dalla porta del magazzino. Io e Den ci infiliamo dentro e lo andiamo a salvare. Come sei a pestare, ragazzo ucraino?
-Ero il migliore sulla piazza, a Kharkiv.
-Ci avrei scommesso. Bisogna essere efficienti e rapidi. E soprattutto convinti. Vogliamo salvare il nostro amico?
-Sì!
-Ottimo, così vi voglio.
-Dovresti fare la coach, Jen.
-Ci stavo pensando, Kells.
 
Sentirono i suoi delle sirene ben prima di arrivare al vecchio porto, e un terrore atavico li assalì tutti e quattro mentre Denis frenava con una sgommata che bruciò completamente la frizione. Fu lì che le videro: le volanti della polizia erano tutte sistemate davanti a dei grossi magazzini in disuso. I quattro ragazzi si guardono con orrore sempre crescente mentre correvano verso la porta del magazzino. In quel momento, provavano gli stessi sentimenti: paura, una paura folle per il loro amico, senso di inadeguatezza per non essere riusciti ad arrivare prima, una marea di sensazioni contrastanti che li stavano soffocando come onde assassine del Mare del Nord.
-E adesso che facciamo?- balbettò Oliver, grosse lacrime a colargli dagli occhi gonfi.
-Magari è riuscito a scappare. Magari … - iniziò Kellin, cercando di non mettersi a piangere a sua volta.
-James!- l’urlo di Jenna li fece tutti voltare.
E lo videro.
Il loro amico, pestato e ammanettato che veniva trascinato verso una delle macchine della polizia. Fu un attimo prima che Oliver scoppiasse in lacrime, Kellin strillasse a pieni polmoni e Jenna e Denis si slanciassero verso di lui.
-Lasciatelo andare, bastardi!- abbaiò Denis.
-Lui non ha fatto niente!- rincarò Jenna.
Quando James, dietro un occhio nero ormai quasi accecato, vide i suoi amici correre verso di lui, sentì le gambe cedere.
-Jen! Denis!- urlò con voce rauca.
Con un ultimo slancio cercò di liberarsi ma venne brutalmente spinto verso la macchina. Gli girò la testa e rischiò di cadere per terra.
Quando aveva sentito arrivare la polizia, aveva capito di essere ufficialmente spacciato. Non aveva nemmeno tentato di fuggire, annichilito dalla sua stessa stupidità. Aveva veramente pensato di potersela cavare? Ma adesso, che vedeva i suoi amici che sicuramente erano arrivati fin lì per salvarlo, avrebbe voluto solamente piangere tutte le sue lacrime e fuggire tra le loro braccia. Lui, James, che era sempre stato quello forte, quello coraggioso, quello stoico, in quel momento più che mai avrebbe avuto bisogno di una carezza, di un abbraccio, di un “va tutto bene ragazzo”.
-Vi ho detto di lasciarlo andare!- strillò Denis.
-No, Den, lascia stare.- ansimò James.
-Ragazzini, levatevi di qui prima che vi mettiamo dentro col vostro amico.- grugnì uno dei polizitotti.
-Pagheremo la cauzione, Jimmy, non ti preoccupare.- disse Jenna, cercando di non mettersi a piangere.
E poi, James venne infilato in una delle macchine della polizia che partì sgommando.
Il ragazzo chiuse gli occhi gonfi e si morse il labbro inferiore. Fregato. A vita. Si era giocato tutta la sua vita per degli stupidi soldi. Spalancò gli occhi di colpo e si voltò, vedendo i suoi amici correre dietro la macchina, inciampando e urlando. Si maledisse in silenzio per il casino in cui si era cacciato da solo – adesso, dove sarebbe finito? In carcere, senza poter vivere quello che qualunque diciottenne dovrebbe vivere. Niente università, niente amici, niente regali alle sue sorelline, niente storie d’amore. Non sarebbe potuto stare al fianco di Jenna proprio adesso che avrebbe avuto bisogno di qualcuno, non avrebbe potuto controllare che Oliver smettesse effettivamente di tagliarsi, non sarebbe potuto andare ai concerti metal con Denis, e, soprattutto, non avrebbe potuto dichiarare a Kellin il suo amore. Quello, quello gli faceva malissimo. Aveva sempre sognato di iniziare il college insieme all’amico di una vita, di tenerlo pubblicamente per mano, di andare con lui a mangiare i dolci che tanto gli piacevano. Magari portarlo a un concerto di Lights che tanto adorava. Aveva tanti progetti, James, ma nessuno di quelli sarebbe mai andato in porto perché, dannazione, si era mandato al macero con le sue stesse mani.
Cominciò a piangere, in silenzio, cercando di non mettersi a singhiozzare. Voleva Kellin, in quel momento. Voleva Oliver, Jenna e Denis, voleva i loro sorrisi e i loro abbracci, non voleva finire in prigione solo per aver tentato di aiutare la sua famiglia distrutta. Non si meritava una fine del genere. No, dannazione, non se la meritava per niente. Non lui, che si era sempre fatto in quattro per le persone a lui vicine. Non lui. Non lui, maledizione.
James si era reso conto di essere ormai scoppiato in lacrime, senza potersi trattenere ma non gli importava. Stava soffrendo e voleva esternare quella sua sofferenza infinita nella speranza che qualcuno lassù, magari, ascoltasse le sue preghiere.
Ne dubitava.
 
Già innervosito dalla mancata riuscita del suo piano di salvataggio, Denis guidava come un pazzo per le strade, dimenticandosi il lato giusto dove guidare, superando in curva, strombazzando a caso e accelerando a tavoletta.
-Denis, potresti rallentare per piacere?- sbottò stizzito Kellin. – Non ci tengo a morire, grazie.
Denis biascicò qualcosa in russo, molto probabilmente qualche insulto, ma rallentò un pochino.
-Ragazzi, non dobbiamo abbatterci.- cercò di dire Jenna – La polizia capirà che c’è stato un malinteso, lo rilasceranno e poi …
-Poi niente, Jen.- ribatté Denis – L’hanno incastrato e noi ce lo siamo lasciati portare via da sotto il naso. Non andrà tutto bene perché non è una dannata fanfiction, è la vita vera e le cose vanno male per definizione.
Per un attimo il silenzio calò nell’abitacolo della macchina e poi si sentì il pianto di Oliver.
-Io … io … non ne posso più … ci … ci … ci va tutto male … non … non ce la faccio …
-No, amore, non dire così. Vedrai che aggiusteremo le cose.- Denis gli strinse affettuosamente un ginocchio ossuto.
-La vita non è una fanfiction, Denis.- gli fece il verso  da dietro Kellin. – Quindi, come ti sei premurato di farci notare, le cose non si aggiusteranno per niente, anzi, andranno ancora peggio di così. E vedi di guidare a sinistra, non siamo nel tuo Paese di selvaggi qui!
-Non mi sembra il caso di tirare in ballo casa mia, Kellin, e se non te ne fossi accorto stavo cercando di consolare Oli, non è il caso che si agiti!
-E tu che ne sai, scusa? Sei arrivato da tre mesi e pretendi di conoscere Oliver meglio di noi che ci stiamo insieme da diciotto fottuti anni, pretendi di salvarci tutti quando non sei altro che un coglione qualunque che parla con un accento idiota e vuol fare il duro quando non è altro che un idiota testosteronico sfigato come pochi che si sente forte solamente perché è finito in mezzo a dei poveri deboli che …
Il sordo schiaffo di Jenna rimbombò e Kellin guaì di dolore.
-Piantala qui, Kellin Hills.- sibilò la ragazza – Non stai facilitando le cose col tuo essere così indisponente. Chiedi scusa a Denis.
-Non c’è bisogno. Siamo tutti nervosi, è successo un casino, non …
-Fammi scendere.- strillò Kellin di nuovo – Denis, ti giuro che mi stai veramente sui nervi, fammi scendere immediatamente. “Siamo tutti nervosi”, sì, come no, come se a te importasse qualcosa!
-Piantala Kellin!- Oliver si mise a urlare, con le mani tra i capelli – Stai zitto, io non ce la faccio più, se ti ci metti anche tu io impazzisco, vado fuori di testa! Denis, accelera, voglio andare a casa, ho paura, sono stanco, basta!
Pianse forte, Oliver, pianse come un disperato e Kellin tacque, raggomitolandosi sul sedile.
Jenna aprì il finestrino e lasciò che il vento gelido della sera le scompigliasse i capelli, mentre Denis guidava in silenzio, le labbra strette in una linea sottile.
Non l’avrebbero mai ammesso, ma stavano tutti piangendo.

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Capitolo 14
*** I'll never leave you ***


CAPITOLO QUATTORDICI: I’LL NEVER LEAVE YOU

That little kiss you stole
It held my heart and soul
And like a deer in the headlights I meet my fate
Don't try to fight the storm
You'll tumble overboard
Tides will bring me back to you

[Bring Me The Horizon – Deathbeds]
 
-Kellin ti ha chiesto scusa?
-Sì, certo. Ma non sono arrabbiato: era nervoso, non lo biasimo. Tu come stai, Oli?
Oliver e Denis si guardarono, sdraiati sul pavimento della camera di Oliver, e si presero per mano, intrecciando le loro lunghe dita. Erano così tanto stanchi, così tanto stanchi di quella vita.
-Den, mi di … dispiace averti trascinato in que … questo casino. Se non mi avessi conosciuto magari ora … ora … vivresti una vita no … normale, serena, invece guarda dove sei fi … finito … - Oliver si scostò il grosso ciuffo emo dal viso e sospirò rumorosamente.
-Non dirlo nemmeno, amore. Conoscere te e i ragazzi è stata la cosa migliore della mia vita. Vedrai che si aggiusterà tutto, te lo prometto.- Denis si voltò verso di lui e gli baciò la guancia. – E poi come farei senza di te, cucciolo?
Oliver sfoderò uno dei suoi sorrisi un po’ mogi ed un po’ ebeti e si accoccolò al fianco dell’altro ragazzo, beandosi del suo calore e delle sue carezze affettuose. Stava crollando tutto, intorno a loro, ma forse il loro amore sarebbe rimasto, forse loro due insieme sarebbero riusciti a uscire dalle macerie, forse non sarebbe andato tutto completamente a catafascio. Oliver lo sperava così tanto ma contemporaneamente non riusciva a togliersi dalla testa la sensazione che sarebbe successo qualcosa di brutto. Di molto brutto, qualcosa che gli avrebbe strappato via Denis e la sua felicità. Non voleva.
-Oli … perché non mi hai ancora fatto vedere l’album nero?
Oliver aprì gli occhi sentendo la voce di Denis e una smorfe gli si dipinse sul viso magro.
-Io … non sono ancora pronto, Den.
-E quando mai lo sarai, Oli?- Denis si voltò e lo abbracciò, scostandogli i capelli dagli occhi – Perché non ti fidi di me?
-Io mi fido di te, è solo che … no, ti prego, non mi forzare. Quell’album è un segreto. Un segreto che non sono pronto a rivelare perché intanto adesso non vale più. Mi sono già salvato.- sorrise appena, poggiando la testa sul petto di Denis.
Sì, lui si era già salvato, insieme al suo perfetto ragazzo ucraino era riuscito a trovare la famosa via di fuga da quell’inferno che a suo tempo lo aveva inghiottito.
-Allora brucialo.- Denis si mise seduto e piegò la testa su una spalla – Andiamo fuori e diamogli fuoco.
Oliver fece tanto d’occhi e scosse freneticamente la testa. No, per lui quell’album era troppo. Era lui, era il suo dolore, erano le sue battaglie perse, era tutta la sua adolescenza scompaginata passata tra pensieri suicidi e lamette. Non poteva bruciarlo, non poteva dare fuoco alla sua giovinezza.
-No, Den, non posso bruciarlo. Ci sono io, lì dentro. Ci sono le mie guerre, quelle vinte e quelle perse. Ci sono i miei ricordi, le mie debolezze, quel quaderno mi ricorderà di quanto in basso ero finito e di come mi sono salvato. Non toccarlo, per favore: ci sono troppe cose che appartengono al mio passato per poterlo dare alle fiamme come se nulla fosse.
-Oli …
-Sì, Den?
-Non hai balbettato nemmeno una volta.
-Oh.
I due ragazzi si guardarono in silenzio prima che Denis lo abbracciasse di slancio e quasi lo sollevasse da terra.
-Amore, ce l’hai fatta! Ce l’hai fatta, non hai balbettato! Bravissimo, sono così fiero di te!
-Io … io … io … - Oliver scoppiò a piangere e si aggrappò disperatamente alle spalle di Denis, per poi baciarlo quasi con furia.
Già. Era riuscito a fare un discorso completo senza balbettare, impappinarsi o andare in crisi. Era forse segno che stava maturando? Che stava crescendo? Che stava finalmente vincendo la sua battaglia secolare con i demoni che infestavano il suo cervello? Non lo sapeva, ma si sentiva pieno di una felicità mai sentita prima. Stava combattendo, e per una vota sembrava che lo stesse facendo con raziocinio e con quel coraggio che gli era sempre venuto meno.
Si baciarono a lungo, cadendo lunghi distesi sul letto e finalmente Denis vide Oliver sorridere di cuore, con le lacrime agli occhi, mentre lo stringeva e lo tempestava di baci umidicci. Rimasero stretti in un abbraccio affettuoso per quelle che parvero ore, baciandosi, toccandosi, sorridendosi con quei sorrisi distrutti da adolescenti freak che non avevano niente altro che i loro segreti e il loro dolore. Ma erano insieme, Denis e Oliver, erano insieme finalmente e niente avrebbe potuto spezzarli adesso che erano forti. Niente.
-Grazie di avermi salvato, Den.- ronfò Oliver, accarezzando il petto dell’altro.
-Grazie di esistere, cucciolo.- rispose Denis, sfoderando il suo meraviglioso sorriso del sud. – Cosa ne dici? Posso restare a dormire?
-Non chiederlo nemmeno.
-Anche se non so quanto dormiremo …
-Smettila, mi fai … fai arrossire.
-Sei adorabile quando arrossisci.
I due ragazzi risero e Denis strinse forte Oliver a sé. Non avrebbe lasciato che glielo portassero via, anche se aveva un brutto sentore. Anche se non era in grado di spiegarselo, era come se sapesse già che gli avrebbero strappato Oliver dalle mani e lui sapeva che non l’avrebbe mai permesso. Non poteva nemmeno realizzare il fatto di stare senza quel buffo ragazzo emo, che l’aveva accolto tra le sue braccia magre e aveva fatto in modo di farsi salvare. Denis non l’avrebbe abbandonato. Era ucraino, dannazione, avrebbe lottato fino all’ultimo giorno della sua vita. E per Oliver, anche dopo.
-Tesoro, stai bene?- Oliver lo guardava con i suoi grandi occhi grigi sempre così tristi.
-Sì, sì … è solo che … non so … ho un brutto presentimento.- disse a voce bassa Denis, guardando le stelle che cominciavano ad affacciarsi nel cielo inglese.
-Di … di che genere?
-Del genere che dovremmo andarcene prima che sia troppo tardi.- Denis aveva gli occhi infiammati dalla passione avventurosa che da sempre lo aveva arso. – Io e te, Oli, sulla prima traghetto per l’Irlanda. E poi via, in America, lontano da questa Europa maledetta che ci sta uccidendo.
-No … no! Den, tutto questo è troppo.- Oliver si mise seduto sul letto e scosse il capo – Non possiamo andarcene. Cosa diranno le nostre mamme? E Jenna? E Kellin? E …
-E noi come potremmo vivere ancora qui dopo tutto quello che è successo?- ribatté Denis – James è in prigione, Jenna sta morendo come è morta Anastasia, e tu sei ancora troppo ancorato a questo mondo. Sei legato a quel quaderno nero che posso immaginare benissimo cosa contenga, hai paura di staccarti senza renderti conto che sarà solo scappando che riuscirai a prendere in mano la tua vita. Oli, qui a Liverpool hai vissuto i tuoi anni peggiori: i tentati suicidi, l’autolesionismo, l’anoressia, tutte queste sono cose che ti devi lasciare alle spalle.
-Ma non sono ancora pronto!- Oliver si passò una mano tra i capelli, sentendo il cuore esplodergli nel petto gracile.
Era vero? No, probabilmente era solo la paura folle a parlare. Oliver era terrorizzato dal cambiamento, terrorizzato di non farcela lontano dal suo ambiente strettamente familiare, terrorizzato semplicemente da sé stesso.
-Pensaci, amore.- Denis gli afferrò le mani tra le sue e se le portò alle labbra – Ti lascio solo, torno a casa mia. Ma tu pensaci. Sono sicuro, me lo sento, che dovremmo scappare insieme. Organizzare una fuga lontano da Liverpool, prendere la prima corriera, la prima nave e lasciarci alle spalle il passato per costruirci un nuovo presente. Ho bisogno di te per farlo, Oli: ti amo.
Oliver si morse a sangue il labbro inferiore e cominciò a piangere, nascondendo il viso tra le mani.
-E ora perché piangi? No, amore, ti prego, non fare così …
-Non lo so, Den, non lo so … sono così stanco …
-Lo so, cucciolo. È per questo che ti dico “scappiamo”. Voglio guarirti dalla tua depressione. Voglio vederti sorridere veramente e questo non succederà se rimarremo incastrati in questa città dannata. Ripeto, pensaci. Potrebbe essere la mossa giusta, per una volta.
Denis si alzò e lo baciò dolcemente, infilandosi il chiodo di pelle.
-Ti amo tanto, Oli. Ricordatelo sempre.
-Anche io ti amo, Den.- Oliver si alzò e lo baciò di nuovo, stringendolo a sé – Ci penserò.
Denis gli sorrise e gli scompigliò i capelli, baciandogli la punta del naso prima di saltellare giù per le scale.
Oliver si affacciò alla finestra e lo guardò scendere in strada, voltarsi, salutarlo ancora una volta, prendere la bicicletta e avviarsi a rotta di collo giù per la strada. Oliver sorrise e rimase a fissare la sua sagoma finché non scomparve dietro alla curva.
 
Oliver aveva deciso.
Sì, di nuovo.
Sarebbe scappato con Denis. Non importava dove né per quanto tempo, ma avrebbe fatto uno zaino e l’avrebbe seguito dovunque l’avesse portato. Non era stata una decisione presa a cuor leggero: aveva pianto tanto, non aveva mangiato e nemmeno dormito, logorato dal dover compiere una scelta così ardua ma alla fine era giunto alla conclusione che Denis avesse ragione. Scappare sarebbe stato l’unico modo per fuggire dall’inferno e rifarsi una vita sopra le macerie della prima. Mano nella mano, sigarette e sguardi fieri, lui e Denis sarebbe andati lontano. Lo sapeva. Ci sperava, almeno. Avrebbe detto addio a Jenna e a Kellin e poi via, col primo treno, lontani dagli occhi e lontani dal cuore. Sarebbero stati insieme, magari si sarebbero sposati in America, lui avrebbe finalmente sconfitto la sua maledetta depressione e sarebbero stati felici. Felicità, aveva dimenticato il significato di quella parola.
Corse veloce per le strade, le braccia che non facevano più male a contatto col cotone della felpa, con le lacrime di gioia agli occhi. Quella volta ce l’avrebbe fatta: avrebbe preso finalmente in mano la sua vita e sarebbe scappato con il suo Denisoch’ka. Bravo Oli, lotta per te stesso e per il ragazzo che ami, si disse.
Arrivò davanti alla casa di Denis con un sorriso stampato sul viso affilato e si accinse a suonare il campanello. Ma quando Nadya, una delle sorelle maggiori del ragazzo, gli aprì la porta, Oliver capì immediatamente che qualcosa non andava, perché la ragazza stava facendo una fatica incredibile per non piangere.
-Ciao Nadya, sono qui per v… vedere D … Denis.- disse, cercando di sorridere appena.
Nadya soffocò un singhiozzo e Oliver si chiese che diavolo potesse essere successo.
-Non … non ha avuto tempo di chiamarti?- singhiozzò la ragazza.
-Chiamarmi? Per cosa? È … è successo qualcosa?
Oliver cominciò a sentire il terrore attanagliarlo. Cosa poteva essere successo?
-Io … lui … nostro padre è venuto a prenderselo per portarlo in Ucraina.- Nadya cercò di soffocare il pianto.
-Co… cosa?
Oliver sentì le lacrime cominciare ad accecarlo. Il padre generale, sì, Denis gliene aveva parlato con terrore, molte settimane prima. E lui aveva promesso che l’avrebbe protetto. Invece … invece non ce l’aveva fatta e ora Denis … Denis …
-Non c’è più, Oliver. L’hanno portato via. Ce l’hanno portato via!
Mentre Nadya scoppiava in un pianto dirotto, Oliver sentì la vista annebbiarsi e le gambe cominciare a tremare violentemente. Denis. Il suo Denis. Quello che gli aveva tolto la lametta, che lo aveva fatto sentire amato, che lo aveva preso per mano, che gli aveva detto “adoro il tuo corpo e le tue insicurezze”, che lo aveva fatto smettere di balbettare, che gli aveva dato la forza di stare vivo, Denis era stato trascinato di nuovo in Ucraina. Lontano da lui e dai loro piani di fuga.
Oliver si rese conto di star urlando come un pazzo molto dopo, quando ormai era tornato a casa sua, i polmoni doloranti, gli occhi gonfi dal tanto piangere, il cuore impazzito.
Era solo. Era dannatamente solo adesso che Denis se n’era andato. Era dannatamente solo perché non aveva avuto il coraggio di dirgli “scappiamo” quando ne avrebbe avuto l’occasione. Era solo e basta, senza il suo angelo custode che lo proteggeva dai mali del mondo. Era solo con sé stesso, con le sue lamette e la sua depressione. Era solo perché non era stato capace di tenersi Denis stretto al petto.
Spalancò la finestra e si affacciò, guardando il cielo che si stava rapidamente annuvolando.
-Denis, verrò a prenderti! Non ti lascerò, ti amo, Denis!
Piangeva disperato mentre cadeva al suolo in ginocchio, il viso tra le mani e il pianto spezzato da tutto quel dolore. Ma c’era una cosa che Denis gli aveva insegnato, ed era quella di non arrendersi. Avrebbe lottato per il ragazzo che amava. Sarebbe andato fino in Ucraina per salvarlo. Non l’avrebbe abbandonato.
-Ti amo, Denis. Non ti abbandonerò. Mai, angelo mio.- sussurrò al cielo, inginocchiato per terra, guardando la pioggia che cominciava a cadere.

 
THE END



 
Grazie a tutti quelli che hanno letto e soprattuto un grazie specialissimo va alla mia cara AlexEire che mi ha supportato durante la stesura di sto delirio.
Baci baci

Charlie

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