Il tuo cuore nel buio

di Harriet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Otherside ***
Capitolo 2: *** Tear in your hand ***
Capitolo 3: *** Tear down your walls ***
Capitolo 4: *** Something good ***



Capitolo 1
*** Otherside ***


Questa storia è nata da un desiderio di Flatwhat: leggere qualcosa dove i personaggi incontrassero la versione bambina del loro partner, non con il classico cliché del ringiovanimento, ma qualcosa di più "metafisico" - o così ho capito io, e spero di aver capito bene e di aver fatto un lavoro decente! Lei shippa il TodoBakuDeku, io non sono capace di scriverlo e quindi le regalo del TodoDeku + una dose di Bakugou cresciuto e con un rapporto decente con gli altri due (Mari, se poi vuoi vedere questa storia come un preludio al TodoBakuDeku, non sarò io a fermarti. Lo stesso vale per tutti gli altri lettori.)
Il titolo del capitolo è rubato a una canzone dei Red Hot Chili Peppers. La storia si comporrà di 7 brevi capitoli, 6 incontri e un epilogo. Spero possa essere per voi un'esperienza di lettura piacevole. La storia è già scritta, quindi penso che sarò abbastanza regolare e serrata negli aggiornamenti.
Ovviamente è dedicata a Mari e alle mie due beta impagabili, che ringrazio di cuore: Lillabulleryu e Wren.



 
Il tuo cuore nel buio
 
I
Otherside
 
 Correva lungo la strada, le grida della gente sovrastate dal battito furioso del suo cuore. L’aveva vista in mezzo al caos dell’incidente, oltre il bus rovesciato e l’auto in fiamme. La causa di tutto. La persona che avrebbe dovuto salvare. Intravista per un istante, poi perduta di nuovo, ma non per questo poteva rinunciare a cercare di raggiungerla. Il suo potere, il suo allenamento e la sua disperazione erano sempre un ottimo propellente per correre.
 «Deku, ma che cazzo fai? Non lo vedi dove stai andando?» La voce di Kacchan lo raggiunse, distraendolo per un attimo dal suo obiettivo. Perché gli diceva così?
 «No, aspetta, non…» Questo era Shouto, ma il suo grido si spezzò all’improvviso. Si voltò per individuarlo e capire cosa stesse succedendo, ma non lo vide.
 Non vide più niente, se non un buio denso e profondissimo.
 
 
Due giorni prima
 
 «Non siamo sicuri della reale entità del suo quirk, ma quello che è certo è che qualcuno ha sperimentato su di lei, aumentando la portata del suo potere.» Yaoyorozu mostrò loro alcuni video che la sua agenzia aveva raccolto. «So che sembra impossibile che una ragazzina da sola abbia creato tutto questo scompiglio, eppure è così. Non riusciamo a capire se qualcuno la stia portando in giro per creare caos o se sia soltanto in fuga e disperata.»
 «Abbiamo visto cosa sta succedendo» disse Shouto. «Un’unione di agenzie è l’unica soluzione. Spiegaci che cosa avete scoperto sul suo quirk.»
 «Crediamo che sia in grado di entrare nei ricordi delle persone e di proiettarli all’esterno, in qualche modo. Nei recenti attacchi sembra che sia stata addirittura in grado di creare un vero e proprio mondo a partire dalla mente delle sue vittime. Chi è stato colpito dal suo quirk racconta di essersi ritrovato immerso nel proprio passato o in quello di qualcun altro. L’unico modo per ritornare in sé è trovare una via d’uscita da questo mondo, superando gli ostacoli senza mai fermarsi. Chi si lascia sopraffare sviene e riporta traumi fisici e mentali, oppure nei casi peggiori perde totalmente il controllo di sé.»
 «Ha provocato incidenti di tutti i tipi» continuò Shouto. «Com’è possibile?»
 «Il suo potere si aziona all’improvviso e colpisce la mente di persone ignare. Quelle che perdono il controllo spesso compiono azioni distruttive, arrivando persino a fare del male agli altri o a se stessi. Più persone rimangono impigliate nei suoi mondi, più complesso è uscirne. L’ultima volta ha bloccato una famiglia di tre persone, e quando sono stati soccorsi avevano completamente devastato la casa.»
 «Si può sapere perché cazzo serviamo noi tre, invece che qualcuno con un quirk legato alla mente?» sbottò Kacchan.
 «Ci saranno altri hero con voi. Io, Kendou, Shinso e Hagakure. Se sarà tornata da un’altra missione, dovrebbe unirsi perfino Midnight. Ma voi siete in grado di gestire le crisi come nessun altro.» Tacque per qualche istante, fissando lo schermo su quale era ferma l’immagine dell’ultimo incidente provocato dalla ragazzina. «Non è del tutto consapevole di cosa sta facendo e non sa come fermarsi. Chi riuscirà a trovarla per primo, dovrà cercare di parlarle.»
 «Allora sarà bene che la trovi Deku.»
 
 L’oscurità iniziò a dissolversi lentamente. I brandelli di buio si ricomponevano, creando forme riconoscibili attorno a lui. Alberi. Fronde scure si intrecciavano sulla sua testa. Un cielo d’argento liquido gocciolava sopra quel mondo pervaso da una caligine che sfocava il panorama.
 Izuku si guardò attorno: la vista era disturbata dalla sensazione che tutto stesse leggermente ondeggiando. Aveva la sensazione di essere solo al centro di un universo infinito. Un terrore sottile e tagliente gli stringeva il petto.
Se non mi faccio prendere dal panico, posso sperimentare questo quirk e scoprire qualcosa di utile.
 Gli alberi tutt’intorno avevano forme distorte e scintillavano di una luminescenza argentea. Izuku proseguiva e gli sembrava che lo scenario cambiasse costantemente.
Non c’è alcun motivo di avere paura. È un’illusione temporanea. Presto ne sarò uscito.
 Eppure aveva la tentazione di gettarsi a terra e mettersi a chiedere aiuto finché avesse avuto voce. Più girava in tondo senza orientamento, più era sicuro che sarebbe rimasto intrappolato lì per sempre.
Deve essere l’effetto del quirk. Non devo perdere il controllo.
 Ma le fronde degli alberi su di lui sembravano volersi serrare sempre di più, togliendogli luce e respiro. Contro la sua volontà, sentì le gambe che aumentavano la velocità.
 «Ti sei perso, eh?»
 Si voltò, cercando la voce infantile che gli aveva detto quella frase. Il mondo ebbe uno scossone e tutto mutò. Non sapeva più dove fosse né che cos’avesse attorno. Ma lì, in mezzo al caos di ombre e colori, c’era un bambino.
 «Ehi! Tutto bene? Come sei finito qui?» Gli corse incontro e gli si inginocchiò davanti. Quando lo vide bene, però, gli mancò il respiro per un istante.
 «Che cosa vuoi da me?» Il bambino incrociò le braccia sul petto. «Vai via.»
Questo quirk crea un mondo mentale a partire dai ricordi di chi viene colpito, ricordò a se stesso. Non è così strano che lui sia qui, no?
 «Vai via!» insisté il bambino.
 «Senti, Kacchan, non vuoi trovare insieme a me una strada per uscire da qui?»
 «Non mi chiamare in quel modo!»
 Il piccolo Kacchan avrà avuto forse quattro o cinque anni ed era in tutto e per tutto come Izuku lo ricordava. I capelli scompigliati in maniera impossibile, la posa di sfida, l’espressione di chi è pronto a farti esplodere se solo lo contrari.
 Insomma, non troppo diverso da come era sempre stato. Izuku sorrise e si sentì invadere da un’ondata di tenerezza. (Gli dicevano spesso che era l’unica persona al mondo a provare tenerezza al pensiero di Kacchan.)
 «Che hai da sorridere in quel modo stupido?» gli gridò il bambino, riportandolo alla realtà (se così si poteva dire): era imprigionato in un mondo mentale creato dai suoi ricordi e… Probabilmente da quelli di Kacchan e di Shouto, a giudicare dal fatto che erano vicini a lui, quando erano stati inglobati dal formidabile quirk della ragazzina. Chi sa se c’erano anche frammenti di qualcun altro, in quell’universo distorto in cui si ritrovavano.
 «Tu sai dove siamo?» domandò al bambino. Lui incrociò le braccia e lo guardò con disprezzo.
 «Certo che lo so!»
 «Puoi aiutarmi a trovare una strada per uscire da qui?»
 «No, perché sei stupido!»
 «D’accordo. Io vado, eh, Kacchan?» Si alzò e mosse qualche passo, chiedendosi come ci si doveva comportare con gli incontri che si facevano dentro quel mondo. Il bimbo non era che una proiezione – sua o di Kacchan stesso? Non lo sapeva. Ma non era reale, per quanto fosse immensamente carino.
 Si era allontanato di poco quando all’improvviso se lo ritrovò davanti. Non solo il bambino, ma tutto il panorama di prima: gli alberi soffocanti e il triangolo di cielo argenteo che filtrava tra le loro fronde minacciose. Izuku provò a correre in un’altra direzione e di nuovo tutto il mondo girò insieme a lui, e Kacchan era sempre davanti ai suoi occhi.
 Yaoyorozu ha detto che per non perdere il controllo bisogna trovare una via d’uscita a tutti i costi. Ma che senso ha, che io continui a incontrarlo?
 Si fermò a guardare il bambino, che per tutta risposta gli mostrò la lingua, e subito dopo gli fece un gesto volgare. Izuku rimase sconcertato: davvero aveva imparato a fare gestacci così piccolo? Ripescò nella sua mente il Kacchan di una ventina d’anni prima: i ricordi erano confusi e ricoperti di quella patina di dolcezza che Shouto lo accusava sempre di versare sul passato.
 Non è il momento di perdermi in questi pensieri! Ci sono persone in pericolo, là fuori, e probabilmente ci sono Shouto e Kacchan qui dentro, e potrebbero essere nei guai. Devo rimanere concentrato.
 «Senti, piccolo, mi dispiace, ma io devo andare.»
 «Ma chi ti vuole? Vattene via! Io me la cavo da solo!»
 A malincuore Izuku si voltò di nuovo e cercò di andarsene da lì. Il panico che aveva minacciato di invaderlo poco prima stava ritornando. Non poteva fermarsi. Eppure, non appena si fu allontanato, ecco che tutto cambiò di nuovo. Kacchan era lì davanti a lui, con il faccino infuriato e i pugni stretti.
 «Vuoi andartene o no?»
 Izuku sorrise e si chinò di fronte a lui.
 «Forse il mio ostacolo da superare sei tu.»
 «Ma che cavolo dici, deficiente?»
 «Se non ti porto con me, non ne uscirò mai. Va bene, Kacchan, troviamo insieme una strada.»
 Cercò di prenderlo in braccio e quello gli rispose strillando e scalciando. Izuku però non si lasciò intimidire e seppe cogliere il momento giusto per raccoglierlo e tirarlo su.
 «Lasciami andare! Non ho bisogno d’aiuto!»
 «Certo, certo. Come sempre, eh, Kacchan? Dai, stai tranquillo.»
 No, non stava tranquillo per niente. Era un’esplosione di energia rabbiosa e continuava a cercare di saltare giù dalle sue braccia. Poi cominciò a tirargli i capelli e a dargli pizzicotti. Izuku lo ignorò e cercò di orientarsi. Adesso che aveva il piccolo tra le braccia il mondo aveva smesso di girare, e lui aveva l’impressione di avanzare, anche se la foresta intorno a loro si infittiva. A un certo punto si accorse che stava avanzando nell’acqua.
 «Non ho ancora capito se questi sono i miei ricordi o i tuoi» momorò. Si rese conto che il bambino si era calmato. Izuku gli passò una mano tra i capelli scompigliati. «Non ti preoccupare. Ne usciremo presto.»
 «Io non sono preoccupato, scemo!»
 Strinse più forte il bimbo e corse, mentre l’acqua si faceva turbinosa e gelida. A testa bassa, con gli occhi semichiusi per evitare gli schizzi che si sollevavano tutt’intorno, corse fino a raggiungere l’altra riva. Lì si fermò, ansimante.
 «Sei davvero cresciuto, Kacchan. Questa volta ti sei fatto aiutare.»
 Il bambino non disse nulla. Era sempre imbronciato, ma c’era qualcosa di diverso nella sua espressione. Izuku gli sorrise e lo posò a terra.
 In quel momento il mondo scomparve, e anche il piccolo Kacchan.
 «Ce l’ho fatta! Sono…»
 I colori e le ombre si ricomposero, formando uno scenario completamente diverso. Bianco. Questa volta era tutto bianco.

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Capitolo 2
*** Tear in your hand ***


II
Tear in your hand
 
 Shouto non riusciva assolutamente a capire dove si trovasse. Sapeva solo che era corso dietro a Izuku prima che sparisse nella nebbia creata dal quirk della ragazzina, ma prima di riuscire a raggiungerlo era stato inglobato anche lui nel mondo irreale creato da quel potere soprendente. Un mondo mentale, aveva spiegato Yaoyorozu, formato da brandelli di ricordi di quelli che ci finivano dentro. Per uscirne bisognava andare sempre avanti senza cedere, superando ogni ostacolo, oppure si sarebbe perso il controllo.
 Se avesse capito cos’era, quel posto, forse avrebbe potuto elaborare un piano per uscirne. Gli sembrava nient’altro che un’oscurità senza contorni, con una vaga luce distante che si allontanava o si spostava ogni volta che lui cercava di raggiungerla. Dopo un tempo interminabile passato a girare in tondo, il luogo assunse contorni più definiti: era una stanza immersa nel buio. Le pareti diventarono più concrete, mentre la luce assumeva una forma precisa: un rettangolo. Adesso nella stanza c’erano anche dei mobili: un letto, un armadio e… Una scrivania, sopra la quale stava lo schermo di un computer: era quella, la fonte della luce. C’erano delle immagini in movimento, anche se non si sentiva alcun suono. Shouto si fermò a osservarle e riconobbe un vecchio, famosissimo video della prima di All Might.
 Shouto camminò lentamente fino allo schermo, e di fronte al suo sguardo si materializzò qualcos’altro. Una sedia dallo schienale alto, proprio davanti alla scrivania. Sembrava che non ci fosse seduto nessuno. Shouto fece ancora qualche passo avanti e notò che la sedia si stava muovendo. Guardingo, cercò di avanzare senza emettere alcun rumore e si sporse per osservare l’occupante della sedia.
 Il ciuffo spettinato di capelli verdi gli aumentò il battito del cuore. Sulla sedia c’era una versione piccola di Izuku. Lo aveva visto solo nelle foto di cui Inko Midoriya lo aveva inondato, quando il figlio le aveva fatto conoscere il fidanzato, ma avrebbe saputo riconoscere quel bambino ovunque. I capelli mossi, le lentiggini, gli occhi grandi e lo sguardo fiducioso erano rimasti sempre gli stessi.
 Questi sono i tuoi ricordi, allora. Ma perché li sto vedendo? E cosa devo fare? Proseguire oltre o fermarmi con te? E se fosse solo una trappola per bloccarmi qui?
 Convinto da quell’ultimo pensiero, avrebbe ignorato il piccolo Izuku, se un secondo sguardo non gli avesse rivelato che stava piangendo. Ebbe un attimo di esitazione e il bambino si accorse di lui. Grandi occhi colmi di lacrime si fissarono nei suoi. Shouto rimase immobile, con la bocca arida di parole, a guardare il bimbo (che non era reale e probabilmente era lì solo per ingannarlo.) Izuku però piangeva e si sforzava di sorridergli, ed era una così tanto familiare, così vera, che Shouto non riusciva a staccarsi da lì.
 «Ehi» gli disse, incerto.
 «Lo conosci All Might?» gli domandò il bimbo, indicando lo schermo.
 «Certo.» Anche in questo non c’era niente di nuovo: Izuku aveva sempre lo stesso argomento preferito.
 «Io vorrei diventare come lui, da grande. Però non ho un quirk.»
 Le immagini sullo schermo cambiarono: ora si vedeva Inko Midoriya, giovanissima, che abbracciava suo figlio. Erano in lacrime tutti e due. Poi una scuola, un asilo forse, e Izuku che veniva accerchiato da un gruppo di bambini, tra cui uno che somigliava tantissimo a Bakugou.
 Shouto taceva, sempre più confuso. Perché stava vedendo quelle cose? Cosa doveva fare? Interagire con il bimbo aveva senso? Cercò di distogliere lo sguardo dalle scene sullo schermo, che intanto continuavano a ripetersi, mischiandosi con altre simili. Non voleva guardare. Conosceva la storia di Izuku, ma quelli erano i suoi ricordi, e non credeva di avere alcun diritto di vederli in quel modo. Eppure lo schermo attirava irrimediabilmente il suo sguardo. Quando su di esso passò l’ennesima scena di Izuku preso di mira dagli altri bambini, Shouto voltò le spalle alla scrivania e cercò di allontanarsi. Ma le pareti della stanza gli si serrarono attorno e lo spazio si fece strettissimo, appena capace di contenere lui, la scrivania e il piccolo Izuku. Allungò una mano e toccò il muro davanti a sé: era solido, nonostante si trovasse in un posto inesistente. Si spostò in vari punti, toccando e cercando un’apertura, ma non c’era.
 Si voltò, per trovare un’altra soluzione, e vide Izuku ancora perso a guardare lo schermo. Ora c’era di nuovo All Might. Ora Inko che piangeva. Ora il bimbo che tornava a casa sporco di fango e con le ginocchia sbucciate.
Devo andarmene da qui, prima di perdere il controllo, si disse. Quel bambino è sicuramente una trappola. Non mi posso fermare.
 A quel pensiero la stanza si restrinse ancora. Shouto si posò una mano sul petto, come per accertarsi di stare ancora respirando, perché una morsa di angoscia gli stava rendendo difficile quella semplice operazione. Era imprigionato dentro ai ricordi di Izuku, insieme a quel frammento di lui. Non poteva uscire, ma doveva trovare un modo per sbloccare la situazione.
 «Tutti dicono che non posso diventare come lui» gli disse il bambino, indicando All Might, appena ricomparso sullo schermo. «Ma io penso che se mi impegno… Se ci provo…»
 «Ehi, senti» iniziò Shouto, posando timorosamente una mano sulla spalla del bambino. Una lacrima scivolò fino a bagnargli le dita e lui rabbrividì. «Senti, tu lo sai che questo non è… Insomma, tu sei un ricordo. Non sei reale. Adesso sei grande.»
 Izuku sollevò gli occhi verdi e confusi su di lui, scuotendo la testa.
 «Sì, sei adulto, e sei diventato un pro hero.»
 «Ma io sono piccolo.»
     «No, sei adulto. Tutto questo non è reale. Sto parlando con un ricordo.»
     Non ottenne niente, se non di spaventare il bambino e farlo piangere ancora di più. Ottimo lavoro. Se c’era una cosa che non aveva mai davvero imparato era che con i bambini la verità brutale non funziona granché. Shouto sospirò e si soffermò qualche istante sulle immagini che adesso scorrevano sempre più velocemente sullo schermo, mostrandogli volti di adulti e bambini che non conosceva, in frammenti troppo brevi perché potesse capire cosa stava succedendo.
     «Ascoltami bene» riprese, tentando una nuova strategia. «Io vengo dal futuro.»
     «E come fai a essere qui?»
     «È un segreto. Non te lo posso dire. Però io ti conosco, da grande. Tu diventerai un grandissimo hero. Proprio come All Might.»
     «Anche se non ho un quirk?»
     «Lo avrai. Devi solo aspettare un po’. E frequenterai la UA, la miglior scuola per eroi di tutto il Giappone. La conosci? Hai mai visto in televisione il festival sportivo?» Izuku annuì. Sembrava davvero incantato da quel racconto. «Ecco, noi andremo a quella scuola insieme, e…»
     Sullo schermo passò rapidamente l’immagine del liceo.
Sono stato io?, si chiese Shouto. Provò a fissarsi su quel ricordo della loro scuola. Ci riuscì: l’ingresso della UA era proprio lì davanti a loro, con il suo sciame di ragazzi che si apprestavano a entrare.
     «Davvero vado lì?» chiese il bimbo. Shouto cercò di evocare un ricordo più preciso, dove si vedesse anche Izuku. Sullo schermo passò l’immagine di un giorno come tanti a mensa: Izuku era seduto tra lui e Uraraka, davanti a loro c’erano Iida e Tsuyu, e tutti ridevano.
     «Vedi? Quello sei tu, da grande, e ci sono anch’io. E quelli sono i nostri amici.»
     Il bambino allungò le piccole dita verso lo schermo. Aveva smesso di piangere e sul viso aveva un’espressione di puro stupore.
     «Abbiamo fatto così tante cose, negli anni di scuola» proseguì Shouto, regalando al bambino qualche altro frammento del loro passato: una mattinata di allenamenti, la loro aula, una notte passata a guardare un film tutti insieme nel dormitorio… Poi, a un certo punto, ecco comparire una scena sfuggita al controllo di Shouto.
     «Ma perché stiamo combattendo?» gli domandò il bambino.
     «Quello è il festival sportivo del nostro primo anno.»
     «Oooh, tu sei fortissimo!»
     «Anche tu. E in quel momento mi hai salvato.»
     «Come?»
     Shouto gli scompigliò i capelli e sorrise.
     «Capirai quando sarà il momento. Devi solo avere pazienza. Diventerai un grandissimo eroe, e soprattutto…» Si bloccò, come sempre, quando si trattava di sentimenti. Faceva fatica a parlare con l’Izuku reale, a dirgli cosa provava per lui, figuriamoci con quella strana proiezione della psiche di Izuku che gli confondeva le idee. «Diventerai la persona migliore che io abbia mai conosciuto. La persona più importante per me. Quindi non ti preoccupare. Andrà tutto bene.»
     Il bambino gli regalò uno dei suoi sorrisi sconfinati. Lo schermo mostrò per un istante un’immagine di loro due, adulti, per mano, ma Shouto era sicuro che non fosse uscita dalla sua mente. Aprì la bocca per chiamare Izuku – non il bimbo, ma il suo, quello adulto, certo che fosse lì, da qualche parte, ma tutto si fece completamente nero.
     Quando piccole scintille di luce riapparvero intorno a lui, non era più nella stanza ed era solo.
 

***
Grazie di essere qui! Grazie a chi ha letto, commentato e seguito la storia. Grazie ancora alle mie beta a Mari per l'idea. Il titolo di questo capitolo è rubato a una canzone di Tori Amos (decontestualizzato, come tutti i titoli dei prossimi capitoli.)
Dovrei riuscire ad aggiornare 1-2 volte a settimana.
Vi abbraccio, a presto!

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Capitolo 3
*** Tear down your walls ***


III
 
Tear down your walls
 


     Gli anni passavano ma la mania di Deku di mettersi nella merda correndo verso il pericolo rimaneva sempre la stessa.
     E io, perché cazzo gli sono corso dietro?
     Mentre si inabissava nell’oscurità, lo sfiorò il pensiero che forse Deku non aveva realizzato che stava andando diretto tra le braccia del quirk della ragazzina. Anche a lui c’era voluto qualche istante, prima di realizzare che Deku correva verso il buio come uno stupido.
     Comunque fossero andate le cose, non cambiava il fatto che adesso fosse immerso in una nebbia fittissima e probabilmente irreale. Il quirk di cui erano rimasti vittime creava mondi partendo dai ricordi di chi ci finiva dentro, o così aveva capito lui.
     Andiamo bene. Sono in mezzo ai ricordi di Deku e di Todoroki. Sempre che non ci sia finito dentro anche qualche altro.
     Tutt’intorno a lui l’oscurità ebbe un guizzo e si ricompose all’improvviso in un luogo ben preciso. C’erano pareti e pavimenti, adesso, e spazi ampi e vuoti. Era tutto in penombra, come se ci fosse stata una fonte di luce naturale, da qualche parte, ma lui non riuscisse a vederla. Gli sembrava di essere in un lungo corridoio, in una casa in stile giapponese tradizionale. Quel posto non gli diceva niente, quindi era un ricordo di uno degli altri. Non era la vecchia casa di Deku, né quella in cui i due vivevano adesso. E conoscendo qualcosa della famiglia di Todoroki, l’opzione più sensata era che si trattasse di casa sua.
     D’accordo, era in piena memoria di Todoroki. In che modo quel fatto poteva diventare pericoloso? Gli sembrava un’enorme stronzata, ma non era così stupido da sottovalutare l’avvertimento ricevuto.
     Continuava a correre e il corridoio sembrava non finire mai. C’erano alcune porte ma lui le aveva ignorate tutte. A un certo punto si fermò, realizzando che anche se era in un mondo irreale, sentiva davvero la fatica. Si domandò come apparissero, nella realtà, coloro che rimanevano imprigionati in quel quirk. Erano privi di sensi? Si muovevano nello stesso esatto modo, come dei sonnambuli? Lasciò da parte le domande e aprì la porta alla sua destra. Oltre la soglia c’era una grande stanza completamente vuota. Uscì da lì e tentò la porta a sinistra: stessa cosa. Provò a tornare indietro ed esplorare ancora oltre qualche altra porta, ma non trovò altro che quel panorama deprimente di stanze vuote. Seccato e sempre più in allarme, ricominciò a correre lungo il corridoio, questa volta nella direzione opposta a quella da cui gli era sembrato di essere arrivato.
     «Ma non ha una cazzo di uscita, questo posto?» sbottò, fermandosi, quando ormai aveva capito che correre era inutile.
     No.
     Si irrigidì, cercando di capire l’origine di quella voce. L’aveva sentita benissimo. O gli era sembrato? Forse era stata una percezione mentale, invece. Non cambiava il messaggio, comunque.
     «Che significa?» chiese. Se davvero qualcuno (la ragazzina, o forse Todoroki stesso) aveva voglia di chiacchierare, forse gli avrebbe risposto.
     Invece quest volta ci fu silenzio. Katsuki reagì con un pugno contro la parete del corridoio. La casa attorno a lui ebbe un tremito, come una scossa di terremoto che lo fece vacillare. Riuscì a malapena a mantenere l’equilibrio.
     «Che cos’è, questo?» urlò. Un alito freddo gli transitò vicino, facendolo rabbrividire.
     Casa mia.
     «Chi sei? Dove sei? Fatti vedere!»
     La porta davanti a lui si aprì. Katsuki fece un balzo all’indietro e si mise sulla difensiva. Ma sulla soglia comparve solo un bambino. Un bambino facilmente riconoscibile. Capelli metà bianchi e metà rossi, occhi di colori diversi. Era davvero piccolo: avrà avuto non più di quattro o cinque anni. Lo guardava con la solita aria distante che aveva conservato anche da grande, quella che sfoggiava sempre quando si erano conosciuti.
     «Come si esce di qui?» chiese al piccolo Todoroki. Erano i suoi ricordi: almeno lui avrebbe dovuto sapere come venirne fuori!
     «Non si può uscire» rispose il bambino.
     «Che stai dicendo? È una casa. Ci sarà una porta, no?»
     Todoroki scosse la testa.
     «Io sono sempre qui dentro.»
     «Senti, io devo andarmene, capito? Dimmi dov’è la porta, prima che faccia saltare in aria ogni cosa!»
     Nessuna risposta. Katsuki aveva sulle labbra un’altra frase rabbiosa da dirgli, quando realizzò una cosa: il bambino non aveva l’ustione sul lato sinistro della faccia. Preoccupato com’era di farsi dire la strada per uscire, non se n’era accorto fino a quel momento. Quel particolare lo distrasse. Non che gliene fregasse davvero qualcosa. Però… Non sapeva perché, ma non riusciva a staccare gli occhi dal viso del bambino.
     Fece qualche passo e poi si voltò indietro: il bambino non si era mosso da lì. Katsuki ricominciò a correre. Dopo un po’ fu costretto a fermarsi di nuovo, ansimante. La testa aveva preso a girargli e la vista non era del tutto lucida. La cosa lo faceva profondamente incazzare. Avvertì anche una fastidiosa tachicardia. Era quello, l’effetto del quirk? Stava davvero perdendo il controllo del proprio corpo, senza riuscire a fare niente per difendersi?
     All’improvviso una delle porte del corridoio si aprì e ne uscì di nuovo il piccolo Todoroki. Lo guardò con i suoi occhi seri, con la sua faccia integra, e Katsuki fu colto dalla rabbia. Quel posto non aveva senso e…
     Sono nei suoi ricordi, no? Questo casino è colpa sua. Deve sapere come uscirne!
     «Ehi, Todoroki, adesso tu mi aiuti a trovare un modo per andarmene!»
     «Io non posso andarmene» rispose il bambino.
     «Senti, torna in te, eh? Non sei un moccioso di cinque anni, sei un adulto, e questa è la tua psiche. Quindi datti da fare e trovami un’uscita.»
     «Mio padre mi fa stare sempre qui.»
     «Hai ventiquattro anni. Tuo padre è…» Si bloccò, pienamente consapevole solo in quel momento di ciò che il bambino aveva detto.
     Questi sono i suoi ricordi. Quello che vedi è una parte della sua mente.
     Tacque, studiando il bambino, mentre qualcosa di simile alla curiosità mitigava la sua esasperazione.
     «Cos’è questa storia di tuo padre?»
     «Io devo rimanere qui.»
     «E perché?»
     «Devo allenarmi.»
     «Sì, va bene, non è che puoi allenarti e basta. Andrai all’asilo, no?»
     Il bambino scosse la testa.
     «Ci sono tante cose che devo imparare.»
     «E infatti dovresti impararle in una scuola.»
     Nessuna risposta. Katsuki non era proprio molto bravo a decifrare i sentimenti altrui, ma ebbe l’impressione che l’espressione vuota di Todoroki avesse virato verso la tristezza.
     Non è il momento di stare a pensare a questo bambino! Se non esci in fretta da qui…
     La testa aveva preso a girargli vorticosamente. Doveva davvero spezzare la presa che il quirk della ragazza aveva su di lui, oppure avrebbe perso i sensi, o chissà cos’altro. Non aveva tempo per le chiacchiere.
     «Mi cercherò la via d’uscita da solo.»
     Ma era chiaro che non sarebbe riuscito a correre ancora a lungo. Infatti si fermò un attimo dopo essere ripartito, e proprio in quel momento, ecco che un’altra porta si aprì, e Todoroki era di nuovo davanti a lui.
     «Non si può uscire» gli ripeté, con la testa bassa e un abisso di desolazione nella voce.
     E allora avrebbero fatto a modo suo.
     «E chi lo dice?»
     «Mio padre.»
     «Tuo padre è uno stronzo.» Si avvicinò al bambino, lo acchiappò e se lo buttò sulla spalla sinistra. «Se non c’è una porta, ce la creeremo noi. Non si può uscire, eh?» Il bambino, a testa in giù, sgambettava e cercava di aggrapparsi alla stoffa del suo costume. «Vedremo!» disse Katsuki, prima di lanciare un’esplosione contro il muro. Non aveva idea se il suo quirk avrebbe funzionato o meno, ma se quello era un posto mentale, forse poteva provare a usare la mente per manipolarlo in qualche modo.
     Quando il fumo dell’esplosione si fu diradato, c’era un’apertura nel muro.
 «Te l’avevo detto!» disse al bambino, che in quell’istante si dissolse insieme a tutto il resto.




***
Grazie davvero di essere qui! Se questa storia vi sta regalando del tempo piacevole, ne sono felice.
Il titolo del capitolo stavolta è rubato agli Epica. Le mie beta sono sempre le stesse meravigliose donne (che tra l'altro sabato hanno condiviso con me l'avventura del cosplay di MHA. Casomai foste curiosi... La sottoscritta è questa qui...)

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Capitolo 4
*** Something good ***


IV
 
Something good
 
Il bianco accecante costrinse Izuku a chiudere gli occhi. Quando li riaprì, fu colto da una vertigine. Gli girava la testa. La permanenza all’interno di quel mondo lo stava sfiancando. Si guardò attorno, cercando un punto di riferimento nel candore, e ben presto cominciò a distinguere pareti e pavimenti.
Voci, rumori, odori. Pian piano tutto acquistò un senso. Era in un ospedale, gli ci volle poco a capirlo. Del resto, era un posto di cui aveva una certa esperienza. Ma perché si trovava lì? Era una sua memoria, il ricordo di una delle mille volte in cui l’avevano recuperato dopo qualche scontro o alleanamento e avevano dovuto rimetterlo in sesto?
La parete davanti a lui era decorata: c’era il disegno di un grande albero fiorito, pieno di graziosi animaletti. Ebbe subito l’impressione che si trattasse di un reparto destinato ai bambini. No, non era un suo ricordo e forse poteva anche indovinare dove si trovava.
Camminò lungo l’ampio spazio, ancora troppo luminoso, tenendo gli occhi socchiusi e resistendo alla lieve nausea che lo stava assalendo. Superò una sala d’attesa e un corridoio e si ritrovò in una lunghissima stanza piena di letti vuoti. A un certo punto cominciarono ad apparire delle figure, ma erano bianche e vaghe, prive di volti e tratti precisi. Come se il ricordo fosse stato appanato, come se il protagonista di quella memoria non avesse davvero fissato nella sua mente ciò che gli succedeva.
Poi lo vide, nascosto sotto un letto. Notò il rosso dei capelli, per prima cosa. Subito si lanciò verso di lui, gettandosi a terra e strisciando sul pavimento per raggiungerlo.
Il piccolo Shouto era raggomitolato a terra e aveva un’enorme fasciatura a coprirgli il lato sinistro del viso. Indossava un pigiama bianco troppo grande ed era scalzo. L’occhio grigio era spalancato e vacuo. Per qualche momento sembrò che non si fosse nemmeno accorto della presenza di Izuku. Poi il bambino si riscosse e incontrò lo sguardo dell’altro. Izuku iniziò a vedere il mondo attraverso il filtro tremolante delle proprie lacrime.
«Ehi» mormorò, allungano una mano per raggiungere il piccolo. Shouto però si ritrasse e si allontanò, affondando ancora di più nella penombra del suo rifugio. Izuku si accorse di quanto grande fosse diventato improvvisamente il letto: una tettoia immensa che li inglobava. Anche lo spazio tra lui e il bambino sembrava essersi dilatato. Un alito freddo prese ad aleggiare intorno a loro.
«Shouto» chiamò Izuku, piano, tendendo ancora la sua mano. Il bimbo non rispose ma almeno non fuggì di nuovo. «Posso avvicinarmi? Non avere paura. Voglio solo…»
Cosa voleva, esattamente? La sua concentrazione e la sua determinazione si erano sbriciolate di fronte a quell’immagine. Sapeva benissimo che era un ricordo, conosceva la storia di Shouto. Persino prima che potesse chiamarlo amico, Shouto era entrato nei dettagli più dolorosi della propria infanzia con lui. Eppure quell’immagine era così reale che gli spezzava il cuore.
«Shouto, stai tranquillo» sussurrò.
  «Come fai a sapere come mi chiamo?»
«Io ti conosco. Che cosa ci fai qui sotto?»
Nessuna risposta. Izuku strisciò sotto il letto, ma il pavimento si fece morbido e ondeggiante, riducendo la sua capacità di movimento, mentre il piccolo Shouto sembrava sempre più lontano e il freddo si faceva più intenso.
«Shouto, voglio solo aiuarti!»
Il bambino disteso per terra lo guardò, dubbioso, poi distolse lo sguardo.
«Voglio la mia mamma. Tu sai dov’è?»
«Ora non è qui, ma la potrai vedere tra un po’.»
«Ma se poi non ci vedo più dall’occhio sinistro?»
«Non ti preoccupare: ci vedrai benissimo. Ci vorrà un po’, ma andrà tutto bene. Mi credi?»
Sembrava che tutte le parole gentili di Izuku andassero perdute nell’abisso tra lui e il bambino. A momenti gli sembrava di averlo lì a un soffio di distanza, subito dopo era lontanissimo. Izuku si sentì riempire di quella rabbia impotente che avvertiva ogni volta in cui tendeva la mano, ma non era abbastanza per raggiungere chi aveva bisogno di lui.
La luce intorno a loro iniziò ad affievolirsi. Il letto si abbassò quasi fino a schiacciarli, rendendoli prigionieri di una strettoia dove all’improvviso mancava l’aria. Izuku inspirò a fondo e quando rilasciò il respiro, una nuvola bianca uscì dalle sue labbra. Cercò di nuovo di avanzare ma il bambino si ritrasse ancora con un movimento brusco. In quello stesso istante Izuku si accorse della sottile patina di ghiacchio che si stava formando sul pavimento.
«Andrà tutto bene. Presto tornerai a casa.»
Il viso del bambino fu deformato da un lampo di rabbia.
«Sei venuto per riportarmi a casa?»
«Cosa? No, io… Io voglio solo farti uscire da qui.»
«Vattene. Non ci torno, a casa.»
«Shouto, non puoi restare qui.»
«Io da lui non ci voglio andare.»
«Non sono qui per portarti da tuo padre. Voglio…»
Non riuscì a dire altro: alla menzione del padre, si ritrovò ricoperto di cristalli di ghiaccio: scintillavano lungo le sue braccia, se li sentiva gelidi sul viso. Cercò lo sguardo del bambino, e l’occhio grigio gli rimandò un chiaro messaggio di rifiuto.
«Shouto, per favore, vieni da me.»
«È colpa sua se la mamma…»
Non concluse la frase, ma in compenso raggelò totalmente l’ambiente. Izuku strinse i pugni, sentendosi totalmente inutile e frustrato: niente aveva senso, perché avevano già superato tutto quello che stava succedendo! Stava cercando forzare una difesa che in realtà non esisteva più, perché quel bimbo non era che una proiezione passata, un ricordo ferito. Com’era possibile che non riuscisse a trovare un modo per andargli incontro?
«È colpa sua» ripeté il piccolo Shouto, ma qualcosa si era incrinato, nella sua voce. «È colpa
sua.» Si raggomitolò su se stesso e distolse lo sguardo da Izuku. «È colpa mia.»
«Cosa?»
«È colpa mia. Non voglio tornare a casa. Saranno tutti arrabbiati con me.»
«Con te? E per quale motivo?»
«È colpa mia, vero? Se la mamma si è arrabbiata. È colpa mia.»
«No, no, no, Shouto, non pensarci nemmeno!»
«I miei genitori sono tristi o arrabbiati, quando mi guardano.»
Tutto intorno a loro era perso in un turbine gelido. Il pavimento prese a pulsare, divenendo sempre più instabile e minacciando di inghiottirli da un momento all’altro. Izuku si sforzò di muoversi, nonostante ogni cosa cercasse di frenarlo.
«Non è così, Shouto. Tu sei amato. Le cose cambieranno. Mi devi credere.»
Il freddo era così intenso da spezzare le parole di Izuku e il vento che si era levato le sommergeva con il suo rumore, ma lui continuava a ripetere il suo messaggio al bambino, gridandogli quanto si ritenesse fortunato ad averlo incontrato, quanto la sua esistenza fosse importante. Forse almeno qualcosa gli sarebbe arrivatio. Lottò contro il ghiaccio, contro l’instabilità di ogni cosa, contro lo spazio che sembrava allargarsi, e con un ultimo sforzo riusì a colmare la distanza tra sé e il bambino. Lo prese delicamente tra le braccia, e il bambino non oppose nessuna resistenza. Nascose il viso contro il suo petto e Izuku lo strinse, mormorandogli parole confortanti all’orecchio. Intorno a loro ogni cosa aveva preso a vorticare.
Il mondo ebbe un ultimo, potente scossone e poi il candore accecante si trasformò in una fiammata rossa. Il bambino si dissolse tra le sue braccia. Il suolo si fece improvvisamente solido e attorno a lui l’odore dell’ospedale era sparito, lasciando posto a quello acre di bruciato.
Izuku era disteso per terra in mezzo alla strada, ma era nel mondo reale, e a pochi passi da lui c’era una ragazzina dai capelli arancioni, accoccolata sull’asfalto.


***

Titolo rubato agli Alt-j. Grazie di essere qui e grazie alle mie beta che si sono dovute beccare due versioni di questo capitolo dalla lunga
genesi.

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