Vide cor tuum

di padme83
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The heart asks pleasure first ***
Capitolo 2: *** Ascolta come mi batte forte il tuo cuore ***
Capitolo 3: *** Ma nel cuore nessuna croce manca ***
Capitolo 4: *** Cor cordium ***



Capitolo 1
*** The heart asks pleasure first ***


E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse 
una cosa la quale ardesse tutta, 
e pareami che mi dicesse queste parole: 

 
“Vide cor tuum”
 
 
 
 
 

 
 
 
Soltanto la magia e il sogno sono veri – tutto il resto è menzogna.
(Jean Rhys – Il grande mare dei Sargassi)
 
 
 
 
 
 
The heart asks pleasure first ~
 
 
 
 
 
 
“Silent night surrounding me
on the shore of wistful sea.
A kindest heart made me believe
the world as I wish it to be.”
 
 
 
 

 
 
Sta per arrivare, ne sei sicuro.
È un brivido caldo lungo la schiena ad annunciarlo.
Gellert compare all’improvviso, a qualche passo da te, ammantato dal chiarore rosseggiante del crepuscolo. Attorno a voi l’atmosfera si cristallizza, in pacato raccoglimento, e una brezza impalpabile, pregna di sole e salsedine, vi scorre vellutata addosso, gonfiando e increspando la stoffa leggera dei vestiti. Il gorgoglio del mare, quieto e sommesso nella pace immota della sera, ben si accompagna all’eleganza del suo incedere, mentre si avvicina a te con calma apparente, le spalle ritte, un sorriso obliquo e appena accennato a illuminargli i raffinati tratti del viso.
Ci sono sguardi che tagliano quasi fossero lame.
Gemme d’acqua e di terra, i suoi occhi rilucono nella penombra simili a folgori vivide, e ti scrutano feroci, impudichi – sembrano volerti divorare, consumare, rubare l’anima (ma lui lo sa, Dio, lo sa che la tua anima è già sua).
Tende le mani verso di te, nervoso, e le poggia a palmi aperti sul tuo petto; si aggrappa alle pieghe sgualcite della camicia, tentando di celare il tremito che offusca la superbia del suo contegno, e il poco ossigeno che ancora ha l'ardire di interporsi fra di voi comincia a farsi soffocante, a bruciare più del fuoco.
Quanto ti è mancato? Quanto?
Tanto. Troppo. Troppo, troppo, troppo… e tu sei un uomo, dannazione, un uomo, nient’altro che un uomo.
Gli afferri deciso i polsi, attirandolo a te, perché sei consapevole, certo – come lo sei di dover morire, un giorno – di non poter sopportare l’idea di esserti ingannato, e quando le tue dita affondano nella morbida carne invece di chiudersi in un pugno vuoto, il tuo cuore comincia a vibrare incontrollato, scosso dagli spasmi violenti di un'emozione assoluta, terrificante, meravigliosa – sei qui, sei qui, sei davvero qui.
Sono qui, sono qui. Non avere dubbi, amore mio. Non averne mai.
Lo stringi forte tra le braccia – finalmente, finalmente! –, lo avvolgi con tutto te stesso, per rimarcargli il tuo esserci – qui, adessocon lui, per lui. Ti impossessi avido dei suoi lunghi capelli – profumo di zagare, limoni e fiori d’arancio ti inebria i sensi –, li liberi dal nastro di seta che li tiene prigionieri, ne attorcigli ciocche intere tra le falangi. Lo guardi, non riesci a farne a meno, lo contempli estasiato, e, per la frazione di un secondo, ti convinci di trovarti davanti alla delicata tela di un pittore preraffaelita. «Stringimi» sussurra, nascondendo il capo nell’incavo fra il tuo collo e le clavicole «Stringimi ancora. Stringimi di più». Il suo fiato umido è un’onda che si infrange contro la pelle esposta, te lo senti dentro, penetra nella carne, spezza le vene, artiglia le ossa, prosciuga i polmoni. Rimanete così, immobili, avvinghiati, smarriti l'uno nell'altro per un tempo che ti appare infinito.
Nel momento in cui, lentamente, ti scosti, lo fai seguendo un impulso che non sei più in grado di contenere. Ti riappropri del suo volto, lo prendi fra le mani con la premura e l’attenzione che riserveresti ad una reliquia sacra; percorri con i polpastrelli la linea virile del suo profilo, partendo dall'ampia fronte, indugiando sulle tempie e sull'arco perfetto delle sopracciglia, fino a raggiungere con un fremito la curva nobile degli zigomi e della mascella. Gli catturi il mento fra il pollice e l’indice, carezzandogli le labbra – avanti e indietro, avanti e indietro – saggiandone piano il tepore e la consistenza, riscoprendole lisce, docili nel reagire alla tenerezza del tuo tocco, seriche e fragranti come i rossi frutti boschivi ai quali tanto somigliano.
Chino su di lui, ti protendi per annullare le distanze – basterebbe un movimento impercettibile, un piccolo sbilanciamento, e vi ritrovereste avvinti, condannati fatalmente a cercare la salvezza l'uno dentro i respiri dell'altro per poter sopravvivere.
Baciami. Baciami baciami baciami baciami baciami –
Ti abbandoni al suo – al vostro – desiderio, trascinandolo in un bacio ardente, sensuale, intimo, goduto, e la tensione scaturita da quel contatto agognato serpeggia e ribolle fra voi con l’impeto e la potenza travolgente di un pelago squassato da venti tempestosi. La sua lingua ti coinvolge in un duello di cui conosci a memoria tutte le mosse, tutti i trucchi più segreti – eppure, eppure, c’è sempre qualcosa di sconosciuto, eccitante e imprevedibile nel vostro continuo perdervi, ritrovarvi, assaggiarvi, rincorrervi, comprendervi, arrendervi. Anche questa volta, ti lancia una sfida alla quale non hai alcuna intenzione di sottrarti...
 Ma, in realtà, nemmeno aspiri a esserne il solitario vincitore.
Le ginocchia cedono e vi accasciate al suolo, uno addosso all’altro; a dare asilo alla vostra irruenza c’è uno spesso strato di sabbia, soffice e tiepida e bianca, bagnata da raggi di luna perlacei.
Le bluse spariscono in fretta, così come gli stivali e i calzoni, mentre i baci presto si trasformano in morsi e le carezze imprimono stigmati vermiglie sulla pelle nuda e arroventata. Ti insinui languido fra le sue gambe, portando i vostri bacini a collidere, a intrecciarsi in una danza dal ritmo sempre più frenetico e urgente. Lo baci di nuovo, affamato, senza concedergli neanche un istante di tregua; ti allontani soltanto quando l’aria inizia a mancare a entrambi, per avventarti con furia sulla mandibola e sul collo, dove ti soffermi a lungo prima di proseguire ingordo verso l’addome e il ventre, succhiando e marchiando – adorando – ogni singolo lembo di lui che si offre generoso alla tua passione.
Torturato, sopraffatto, si contorce sotto di te, preda di un'agonia struggente, dolcissima, e si lascia sfuggire un gemito, e poi un altro, e un altro più intenso, e nell’udire quei singulti arrochiti il tuo cuore sussulta di sangue[1]. Ne vuoi ancora, ancora e ancora, aneli il suo piacere, lo brami, lo pretendi, lo provochi, lo raccogli, lo fai sgorgare dalla sua gola come lo zampillo purissimo di una cascata di cui tu stesso sei la fonte inesauribile.
Non ti fermare, non ti fermare, non ti fermare –
«Perché?» soffi in risposta, solleticando la sua cresta iliaca. «Che succede se mi fermo?»
Mi uccidi. Se ti fermi mi uccidi, se ti fermi mi uccidi, se ti fermi mi uccidi[2] –
Ti alzi appena e torni a martoriargli la bocca, voracemente, assecondando la sua richiesta – una supplica disperata della quale anche tu sei eterno schiavo. Avverti le sue unghie incunearsi fra le scapole, scavare solchi profondi fino ai reni, mentre inarca con agilità il busto e ti blocca i fianchi in mezzo alle cosce pallide, incastrandoli in una morsa irresistibile, inevitabile, impossibile da sciogliere.
Voi due, insieme. Un’opera d’arte bellissima nella sua sublime imperfezione.
Anneghi nel suo sguardo – in quelle sue iridi così luminose che non basterebbe il firmamento intero a restituirne a pieno lo splendore – e scivoli voluttuoso dentro il suo corpo caldo, disteso, accogliente, che sembra racchiudere in sé tutta la grandezza e il mistero della vita stessa.
Stupiti, tremanti, vi lasciate cullare dal mormorio lieve della risacca, che si unisce, in un gentile controcanto, al battito accelerato dei vostri cuori, intenti a chiamarsi e a scambiarsi promesse e a parlare fra loro nell’unico linguaggio degno del sentimento che vi lega, vi pervade in ogni fibra e vi rammenta, sempre: “in quanto umana, la vostra natura è anche divina”.
L’Amore è il vostro sangue – non altro[3].
 
 
 
 
 
 
“Home inside but lost for life,
human heart longing for love,
slave to the toil this mortal coil
the strife, the suffering, the void.”

 
 
 
 
 
 
Quando l’aurora, sfolgorante d’oro e ambra, si erge magnifica all’orizzonte dell’est, vi sorprende così, vinti dal sonno ma ancora abbracciati.
Un sorriso beato sulle labbra.
Le mani nelle mani.
 
 
 
 
 
 
“Frozen moments in time
little hideaways, the marrow of life.
Little hideaways for a lonely heart.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
{Words Count: 1190}
 
 
 


 

[1] Non so se lo avete notato, ma io mi autocito spessissimo ^^ 
[2] Per chi ha letto Chiamami col tuo nome di André Aciman, potevo forse ignorare questa perla nascosta? No che non potevo.
[3] Parafrasando Cesare Pavese – sì, sempre lui. Non è colpa mia se tutto quello che ha scritto si adatta così bene a questi due. Mi aspetto comunque che prima o poi il suo fantasma venga nottetempo a farmi pagare la mia impudenza sfacciata.





 
 
 
 


Nota:

 
Buon pomeriggio e buona domenica a tutt*! ^^ 
 
Ohibò, ogni tanto anche Albus scende dall’empireo puro e disincarnato nel quale gli piace crogiolarsi e si ricorda di essere un uomo.
 
Ma!
 
Questo incontro appassionato, oserei dire idilliaco, è un sogno? È reale? È *coff coff* un force-bond? (È una supercazzola?) A voi l’ardua sentenza. Tutto può essere. D’altra parte, «Certo che sta succedendo dentro la tua testa, Harry. Ma perché diavolo dovrebbe voler dire che non è vero?» (Gioia mia, come li chiudi tu i capitoli, nessuno). Ovviamente, in questa prospettiva, lo spazio e il tempo della storia hanno un’importanza assai ridimensionata. La spiaggia potrebbe esistere davvero da qualche parte del mondo – Albus viaggia molto – oppure essere semplicemente un “luogo dello spirito”. Anche il momento preciso è volutamente indefinibile, ma possiamo con ragionevolezza presumere che i due colombi siano ancora piuttosto giovincelli, perché dopo una certa età determinate bravate le paghi care, e non in termini di sensi di colpa (l’umidità di una spiaggia di notte ti ammazza, letteralmente. Altro che Avada Kedavra).
 
Come avrete capito, sarei propensa ad iniziare una nuova raccolta, dato che non è che posso intasare la sezione per ogni singola cavolata che mi viene in mente. Come al solito, potrei aggiornare domani oppure fra sei mesi (oddio, mi auguro di no, ma sapete che non posso fare promesse); mi prendo comunque la libertà di gestire questo progetto con maggior scioltezza rispetto a “He’s more myself ecc.”, sia in termini di lunghezza dei capitoli (capirai…) sia riguardo ai contenuti, che spazieranno a seconda dell’ispirazione e della mia voglia di caz*… ehm, sperimentare.
 
MOMENTO SERIO: il titolo, “Ecco il tuo cuore”, riprende le parole che il dio Amore, nel cap. III della “Vita Nuova” di Dante Alighieri, rivolge al Sommo quando questi sogna Beatrice intenta a mangiare il suo cuore in fiamme. È un’immagine molto forte e significativa che, personalmente, a me è forse (forse) rimasta impressa ancor più del V Canto dell’Inferno. Non escludo che potrei lavorarci sopra: mi immagino chiaramente Albus e Gellert che sognano di mangiare ciascuno il cuore dell’altro. Il che, a ben vedere, costituisce già di per sé un potente Patto di Sangue.
 
Comunque. Bando alle ciance.
 
SoundtrackThe heart asks pleasure first, sia nella versione originale di Michael Nyman, che nella rivisitazione dei Nightwish.
 
Grazie a chi vorrà leggere – anche silenziosamente –, recensire, o inserire la storia in una delle liste messe a disposizione di EFP.

 Vi aspetto sempre su Lost Fantasy, eh! (Link nella bio)
 
A presto (spero. È un sacco che non lo dico ma… dipende sempre dal #PiccoloPadawan e dal #PiccoloSith - e dalle fatture elettroniche. MALEDETTE)!

 
Un abbraccio :*

 
 

padme

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Capitolo 2
*** Ascolta come mi batte forte il tuo cuore ***


A volte ho una strana sensazione nei vostri riguardi, 
specialmente quando mi siete vicina come adesso.
È come se avessi un laccio in qualche parte del mio petto, 
vicino al cuore, annodato stretto e in modo indistricabile 
a un laccio eguale situato nella parte corrispondente 
della vostra piccola persona. E se quel tempestoso canale 
e circa duecento miglia di terra si frapporranno fra di noi, 
temo che questo legame che ci unisce si spezzerà; 
e ho l'intima convinzione che comincerò a sanguinare qui dentro.
(Charlotte Brontë – Jane Eyre)
 
 
 
 
 
 
~ Ascolta come mi batte forte il tuo cuore ~
 
 
 
 
 
 
“It hurts to love you,
but I still love you,
it's just the way I feel.”
 
 
 
 

 
 
Wiltshire, 1° maggio 1907


Splendente, come il primo raggio del sole al mattino, Albus esce dal grande Cerchio di Pietre a passi misurati ma decisi.
Si volta rapido verso di te, avvertendo la tua presenza, le spalle ritte e un velo d’incredulità a offuscare l’espressione assorta, quasi distaccata, che gli aleggia sul viso.
Gellert? Cosa ci fai qui?
Il tocco della sua mente è come lo ricordi, delicato e tuttavia inconfondibile, diretto e sincero nel non tentare in alcun modo di nascondere il turbamento – e il fiotto di gioia purissima, impetuosa, travolgente – che prova nel rivederti.
Vorresti rispondergli, ma non un suono si libera dal giogo perverso che ti incolla la lingua al palato, e anche i pensieri, prigionieri di un nodo inestricabile, si affastellano furenti l’uno sull’altro, costringendoti ad alzare una barriera, un muro solido fra te e lui, almeno per qualche istante, pochi secondi soltanto, l’intervallo necessario per permettere ai tuoi polmoni prosciugati di tornare infine a respirare.
Non sai nemmeno da quanto – ore? Giorni? Anni? Secoli? – lo stai aspettando, poggiato all’arenaria gelida di quel dolmen colossale, intirizzito dal freddo pungente di una notte che, nonostante sia primavera inoltrata, nulla ha da invidiare alle sue più rigide sorelle invernali.
Rammenti solo che, nel mezzo di un sonno profondissimo, qualcosa ti ha destato di colpo, lasciandoti tramortito, col fiato mozzato e lo stomaco in gola, preda di un’angoscia indicibile, annichilente, che ti ha spinto a precipitarti fuori dal letto e a vestirti in fretta, senza preoccuparti di infilare un indumento più pesante sopra la camicia e il gilet; hai raggiunto di corsa il cortile della villa, sbattendo il portone d’ingresso, incurante del fragore che avrebbe potuto spaventare i padroni di casa – un’antica famiglia di purosangue della quale attualmente sei riverito ospite –, e hai trovato Fanny[1] che si agitava furiosa fra le siepi di bosso, dimenando le ali, terrorizzata e fuori di sé come non l’avevi mai vista.
No, no, no, tutto, tutto ma non questo, non lui, non lui. No no no no no no… Albus! 
Paura.
Paura violenta, cieca, ferina. Un acido corrosivo nel cervello, un rivolo di lava tossica lungo la spina dorsale, una voragine nera aperta fra le costole, sul margine della quale hai camminato in precario equilibrio, rischiando di cadere a ogni minimo movimento, mentre gli artigli della Fenice ti si conficcavano nella pelle e la sua magia trascinava entrambi dentro una spirale di fumo dorato.
Quando, dopo un tempo che t’è parso infinito, i tuoi piedi si sono posati di nuovo sopra una superficie stabile e, con uno sforzo immane, hai sollevato le palpebre, lo stupore, per un momento, ha preso il sopravvento su qualsiasi altra emozione. Per interminabili minuti sei rimasto immobile, ricolmo di sgomento e meraviglia, rapito dal paesaggio incantato che la luna – una sfera luminosa e argentea sospesa al centro esatto del firmamento – stava offrendo al tuo sguardo smarrito.
Non appena hai realizzato di trovarti in uno dei punti più saturi di potere non solo della Gran Bretagna, ma di tutto il mondo conosciuto, una piccola fiaccola di speranza ha iniziato, a poco a poco, a sciogliere il sangue che, nelle vene, s’era fatto denso come un fiume ghiacciato: forse – forse – la situazione non era tanto grave quanto avevi ipotizzato – ma, per la spada di Siegfried, se ne esce senza danni questa è la volta buona che lo ammazzi sul serio. Non riuscivi a scorgerlo da nessuna parte, eppure la sua presenza era percepibile ovunque – tra i fili d’erba umidi di rugiada, nel vento che faceva fischiare gli interstizi dei megaliti posti uno accanto all’altro, nel profumo di rose bianche che hai avvertito immediatamente e che ti si è infranto addosso come un’onda sospinta da correnti furibonde. Nella tua mano destra, il medaglione bruciava e pulsava simile ad una ferita infetta, segno inequivocabile che Albus era lì ma, allo stesso tempo, per chissà quale inspiegabile motivo legato alla natura ancestrale di quel luogo, era anche altrove.
Fanny ha percorso più volte in volo l’intero perimetro del sito, senza però arrischiarsi a entrare nel cerchio interno, come se quell’area particolare le fosse, in qualche modo, preclusa. Sebbene anche tu ne fossi irresistibilmente attratto, la prudenza, unita a quel briciolo di buon senso che ancora ti ostini a conservare intatto, ti hanno suggerito di stare alla larga dall’anello centrale: nulla ti garantiva che, una volta dentro, saresti stato poi in grado di uscire, con o senza Albus. La prospettiva di vagare per giorni in una dimensione magica parallela e ignota non era di certo allettante, malgrado l’ansia per la sorte di quel pazzo incosciente avesse ricominciato a divorarti i nervi con le sue zanne aguzze e mostruose. Non ti restava che fidarti di lui, consapevole del fatto che, se c’era un uomo capace di tirarsi fuori dalla più avversa e difficile delle circostanze, questi rispondeva senza dubbio al nome di Albus Silente.
Torna da me, dannazione. Mi stai ascoltando, professore dei miei stivali? Torna da me, maledetto, torna da me.
 
 
 
 
 
 
“And I'd be lying
if I kept hiding
the fact that I can't deal.”

 
 
 
 
 
 
«Che cosa ci fai qui?»
Non hai ancora mosso un muscolo, da quando ti è ricomparso davanti. Sembra sereno – e grazie al cielo incolume – mentre accarezza le piume scarlatte di Fanny, anche se un'ombra d’inquietudine – della quale tu sei la causa esclusiva, ne sei sicuro – sporca la trasparenza liquida e cristallina del suo sguardo. Avvolte dalla luce pallida che bagna l’altopiano, le sue iridi, lucide come biglie di vetro, brillano vivaci, penetranti, ardenti, simili a fiamme azzurrine che si riflettono sull’acqua scura di un lago al crepuscolo.
«Potrei farti la stessa domanda» butti fuori alla fine, aggressivo, la voce ridotta ad un sussurro rabbioso. «Cosa – diamine – ci – fai – qui?»
Inarca un sopracciglio e ti guarda fisso negli occhi, senza esitare, con un’intensità sconcertante; la tua irruenza lo indispettisce, ma non è da lui sottrarsi ad una sfida, a maggior ragione se gli viene lanciata con tanta arroganza. «E questo perché mai dovrebbe interessarti?» replica, volutamente sarcastico.
È un attimo.
Ti getti su di lui, incapace di trattenerti oltre. Tutta la tensione che hai accumulato si riversa nell’incantesimo con cui cerchi di colpirlo, e che lui riesce a parare d’istinto, scoccandoti un’occhiata tagliente, inquisitoria, che ti trapassa da parte a parte. Ti scruta quasi ti stesse valutando, indeciso se ritenerti o meno uscito di senno – e forse è cosìrifletti, forse sei davvero ad un soffio dal baratro.
«Non ti ho più sentito!» urli, ritirando la bacchetta e afferrando con entrambe le mani il bavero del suo ampio mantello. «Non ti ho più sentito, grandissimo bastardo che non sei altro!»
Lo percuoti in pieno petto, martellandolo di pugni con l’unica intenzione di procurargli dolore, di fargli il più male possibile – e che capisca, Dio, che capisca che cosa significa sentirsi mutilati, vuoti, spezzati.
«Io ti sento, sempre» continui, scosso da singhiozzi incessanti, il volto premuto contro il suo collo, mentre lui aderisce col corpo al tuo e ti racchiude in una morsa risoluta, ferrea, calda e protettiva come solo la stretta delle sue braccia sa essere – perché adesso ha capito, sì, finalmente ha capito. «Sento il tuo cuore battere accanto al mio, in ogni momento, non importa quanto siamo distanti, io ti sento sempre
Lo so, bredhu[2], lo so, ti sento anch’io.
«Ma stasera sei sparito, mi sono svegliato e non c’eri, e Fanny sembrava impazzita; poi siamo arrivati qui, e sapevo che eri dentro il cerchio ma non riuscivo a vederti, né a raggiungerti. Mi spieghi cosa diavolo è successo?»
Albus ti sfiora le tempie con un bacio lieve, respirando fra i tuoi capelli, massaggiandoti lentamente la schiena, e comincia a parlare piano, con quel suo tono pacato, fermo e rassicurante ad un tempo, che non ha mai mancato di agire come un balsamo lenitivo sul tuo animo in perenne subbuglio. «Calmati ora, non è successo niente, sto bene, vedi che sto bene? Cosa vuoi che ti dica, è Beltane, e siamo a Stonehenge. La magia di questo posto è dirompente, imprevedibile e primordiale, più potente, credo, di qualsiasi sortilegio, tanto da annullarlo, o comunque sospenderne gli effetti… Ti giuro però che non immaginavo una simile conseguenza, io non mi sono accorto di nulla. Non mi chiedere perché, non lo so, posso solo fare supposizioni, e sarebbero una più assurda e improbabile dell’altra. Ho percepito il potere immenso di queste pietre, ammetto di averne subito il fascino, e, per un istante, la sua enormità mi ha sopraffatto, ma tu» conclude, cercando le tue dita per poi intrecciarle con infinita dolcezza alle sue «tu eri sempre con me.»
Poggia la fronte alla tua, e il suo fiato tiepido ti scivola vellutato addosso, morbido e sensuale come un drappo di seta; sussulti, e reagisci a quell’invito discreto con slancio immediato e selvaggio, affondando le unghie nell’epidermide sottile delle sue mani, pizzicandone le nocche, graffiandole fino a farlo rabbrividire, fremere, sibilare tra i denti. 
È solo dolore, che si aggiunge ad altro dolore, e il dolore di uno è il dolore di entrambi, ed è il dolore a ricordarvi di essere vivi, di essere uomini.
Gellert, Gellert, stai tremando…
Perché? Perché fa così male? Dimmelo Albus, perché?
Perché è reale, bredhu. Fa male perché è reale[3].
Annulli le distanze e svanisci in lui, ancorandoti alle sue labbra con la smania e la disperazione di un naufrago in balia di un oceano in tempesta. Lo baci, con tenerezza e ferocia, lo baci perché ne hai bisogno, lo baci perché ti è mancato da morire, lo baci imperioso e supplice, lo baci vinto e trionfante, lo baci e rivedi terra, lo baci e sei a casa, lo baci e sulla sua bocca ritrovi te stesso.
Andiamo via, ti prego. Portami dove vuoi, purché sia lontano da qui.
Non manca molto all’alba, ma i fuochi di Beltane sono ancora accesi. E tu sei gelato, bredhu.
Allora scaldami, che aspetti? Sei tu, sei sempre stato tu il mio fuoco inestinguibile, amore mio.
 
 
 
 
 
 
“And that I've been dying 
for something real.
But I've been dying 

for something real.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
{Words Count: 1610}
 
 
 


 

 
[1] Questa storia è ambientata poco più di un paio d’anni dopo “Quando viene dicembre”, ragion per cui Fanny al momento si trova con Gellert.
[2] Rimando al capitolo 5° di “He’s more myself ecc.” per la spiegazione di questo termine.
[3] Il personaggio di Tauriel ha avuto in effetti poco senso all’interno della trilogia de “Lo Hobbit”, ma questo scambio di battute con Thranduil alla fine de “La battaglia delle cinque armate” ha obbiettivamente il suo perché.





 
 
 
 


Nota:


Ehilà, popolo di EFP. Vi sono mancata? Come no, come il mal di denti.
 
Che dire, dopo Samhain sul Tor e Natale a Tintagel, non gliela facevo fare una gita a Stonehenge per Beltane (1° maggio) a questi due vagabondi?
Albus, al solito suo, non sa resistere al richiamo di certi luoghi, ma stavolta non ha valutato bene tutte le conseguenze – perché, intendiamoci, sarà anche un genio sopraffino, ma l’onniscienza non è di questo mondo, soprattutto quando si ha a che fare con forze ataviche e misteriose. Nulla di grave, a parte l’infarto che ha quasi procurato a Gellert e a Fanny (legata a doppio filo ad entrambi per via del Patto di Sangue). Albus sparisce e Gellert impazzisce, e se poi, vedendo il baldo professore uscire dal Cerchio di Pietre come se niente fosse, s’inc***a anche come una biscia, beh, non ha tutti i torti il nostro giovane Grindelwald.

Comunque, cosa ne pensate di questo secondo racconto? Vi piace l'idea? Fatemi sapere, se vi va. ^^

Il titolo è tratto dall'ultimo verso di una poesia di Wislawa Szymborska, contenuta nella raccolta "Ogni Caso"

 
“Per la spada di Siegfried” sarebbe, nel mio personale immaginario, il corrispettivo germanico dell’inglesissimo e assai più famoso“Per la barba di Merlino” (grazie a Shilyss per il supporto tecnico). Essendo Gellert crucco quel tanto che basta, ritengo che gli venga facile e naturale imprecare facendo diretto riferimento al folklore della sua terra natia, piuttosto che andando a pescare miti e leggende di un altro paese. Se siete curiosi: https://it.wikipedia.org/wiki/Sigfrido
 
Soundtrack13 beachesLana Del Rey.
 
Grazie a chi vorrà leggere – anche silenziosamente –, recensire, o inserire la raccolta in una delle liste messe a disposizione di EFP.

Un bacione e… )O( )O( BLESSED BELTANE TO ALL! )O( )O(

 
 
padme
 
 
N.B: non c’è bisogno di specificare cosa succedeva attorno ai fuochi di Beltane, vero? :D

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Capitolo 3
*** Ma nel cuore nessuna croce manca ***


Ma chi può tollerare di sapere 
quali stelle sono già morte? 
C'è qualcuno al mondo che possa 
sopportare di sapere che lo sono tutte? 
(J.K.Rowling – Il seggio vacante)
 
 
 
 
 
 
~ Ma nel cuore nessuna croce manca ~
 
 
 
 

 
 
And we can stop our whoring and pull the smiles inside, 
and light it up forever and never go to sleep. 
My best unbeaten brother, this isn't all I see. 
Oh, no, I see a darkness. 
Oh, no, I see a darkness. 
Oh, no, I see a darkness. 
Oh, no, I see a darkness.
 
 
 
 

 
 
Ti svegli di colpo, col respiro mozzo, la gola secca, chiusa, ostaggio di un grido strozzato.
Le dita si contraggono, si aggrappano alla stoffa vischiosa delle lenzuola, mentre con uno scatto involontario ti sollevi sul letto, il corpo scosso da brividi isterici. Tenti di ricacciare in fondo all’esofago il rigurgito acido che ti ustiona la bocca 
– invano –, e ti prendi la testa fra le mani, reprimendo un gemito, la mente tesa nello sforzo di tornare presente a se stessa; cerchi di ritrovare, per quanto possibile, una briciola di lucidità, un minimo di autocontrollo.
Illuso. Sei soltanto un povero illuso.
È successo ancora.
Come tutte le notti.
Lo stesso incubo, la stessa follia, la stessa paralizzante morsa allo stomaco.
Rimani per un momento immobile, rigido e muto nella cupa penombra della stanza, spoglia e a malapena rischiarata dal baluginio fioco di una lampada a olio. Ascolti il gocciare ovattato della pioggia che si riversa rabbiosa contro il legno scheggiato delle imposte, toc toc toc. È un suono dal ritmo cadenzato, ipnotico, alienante: rammenta il rantolo di una bestia in agonia, lo stridore di un artiglio che gratta sul vetro. È uno stillicidio beffardo, un pungolo affilato che esaspera i nervi già logori, un’eco spettrale del boato continuo e sordo e furibondo che ti ruggisce nelle orecchie e ti perfora le tempie con un accanimento quasi crudele.
«Albus?»
La sua voce ti scivola carezzevole addosso, morbida e suadente come il manto di una tigre.
«Ti ho svegliato? Non volevo, mi dispiace» sussurri in tono sommesso, piatto – anche se lo sai, lo sai che lui percepisce le tue emozioni con l’istinto immediato di un serpente che saggia gli odori nell’aria, persino durante il sonno.
Lo avverti muoversi alle tue spalle – lento, silenzioso, aggraziato –, quel tanto che basta per portarsi alla tua medesima altezza e inginocchiarsi mollemente accanto a te. Abbassi le palpebre, trattenendo appena il fiato, in attesa. Un istante 
 un battito di ciglia, forse due  e sei fra le sue braccia. Ti stringe con la delicatezza della seta e la forza dell’acciaio. Preme piano la fronte contro la tua schiena, facendo aderire il suo corpo nudo al tuo, i polsi incrociati sopra il ventre, i palmi aperti sui tuoi fianchi, le labbra calde a sfiorarti la pelle.
«Smettila di torturarti. Non è stata colpa tua.»
«È stata solo colpa mia» esali in un soffio, lacerato, tremando fra le sue mani, lottando per bloccare il rapporto mentale che lega inesorabilmente i pensieri di uno alle ferite e ai tormenti dell’altro.
«No, ti prego no, non chiudermi fuori, non ritrarti da me. Lascia che ti aiuti, sai che posso farlo. Lasciami entrare
Non sarebbe giusto, non è giusto, bredhu. Questo è il mio fardello.
È il nostro fardello, amore mio. Non c’è nulla, nulla che non possiamo condividere, ricordi?
Inspiri ed espiri a lungo, incapace di opporti ancora a ciò che il tuo cuore invoca con foga a ogni palpito mancato. Intrecci saldamente le dita alle sue, abbandonandoti contro il suo addome; segui il richiamo della sua mente, schiudendoti in risposta al suo tocco deciso, e alla fine gli permetti di entrare, di riempirti, di sentire e accogliere l’ondata travolgente della tua angoscia.
Dolore, oppressione, oscurità. Il trauma della perdita, della sofferenza patita e inflitta. E soprattutto la colpa, la colpa terribile, bruciante, nei confronti di colei che hai amato – ma non quanto avresti dovuto – e che è morta, svanita nel vento, per sempre…
Tu.
Sei stato tu.
L’hai tradita tu.
L’hai uccisa tu.
Pronuncia il suo nome![1]
Basta.
Fermati, fermati o finirai con l’impazzire. Guardami, guardami amore mio, guardami.
Ti costringe a voltarti verso di lui, a immergerti in una pozza di luce che pennella d’ombre soffuse il fine cesello dei suoi lineamenti e lo trasfigura in una maschera dalle orbite incavate, vuote, abissali; ha uno sguardo selvaggio che lacrima senza saperlo, come il tuo. Alza entrambe le mani e ti accarezza i capelli, il collo, gli zigomi, i contorni delle labbra, le guance, il mento. Ti dice che sei bello, bello come nient’altro è bello al mondo, che vuole fare l’amore con te, che vuole farlo in ogni modo possibile, che ha voglia di baciare i tuoi occhi, la tua bocca, il tuo sesso, che smania per liquefarsi tra le tue cosce, per cullare il tuo rimpianto fino a esserne lui stesso liberato. Ti fa stendere fra i cuscini e tu lo assecondi, docile, arreso, sopraffatto, senza nemmeno provare a resistere; il dolore infine si smorza e un calore nuovo – ma intimo, conosciuto – ti pervade le membra sfinite.
Piangi. Piangi davvero, per il sollievo improvviso, piangi per il desiderio furioso, tanto potente da spezzarti l'anima, piangi per questo amore devastante e salvifico, perfetto e impossibile – questo amore così fragile, così tenero, così disperato, questo amore così bello, così vero, così puro, questo amore così irrisorio, fremente di paura come un bambino quando è buio, così sicuro di sé, come un uomo che cammina tranquillo nelle tenebre, questo amore luminoso quanto il giorno, nero più della notte, questo amore braccato, calpestato, fatto fuori, negato, cancellato, questo amore che atterra e suscita, che affanna e che consola, che dona conforto e promette l’oblio, questo amore che non si può dimenticare, indimenticabile anche quando lo si è dimenticato.[2]
Il suo corpo, sopra il tuo, è tiepido. Ti resta incollato addosso, quieto, disteso, e ti copre, ti avvolge, ti custodisce, dolcemente, per tutto il tempo che occorre. Il tepore diventa comune, gli umori e i profumi si mischiano, l’epidermide inizia a scottare, le bocche si chiamano, le lingue si rincorrono e divorano l'un l'altra. Nelle vene, il sangue ribolle, dilava le sponde, rompe gli argini 
– allaga il cuore.
Gli chiedi se ti ama, e quanto. Vuoi sentirglielo dire, ne hai un viscerale bisogno. «Ti amo al di là delle forze, al di là della vita»[3] risponde e ansima, affondandoti dentro, ma non ti basta, Dio, non ti basta, non ti basta – non mentre le spinte aumentano in accordo ad un piacere sempre più intenso, crudo, graffiante, feroce, incontenibile – quanto, quanto, quanto mi ami?
Lui ti accontenta – come sempre, come sempre –, e lo ripete ancora, ancora e ancora, sulle tue labbra, sul tuo collo, sul tuo petto, dissolvendosi finalmente in te con un ultimo spasmo violento – al di là delle forze, amore mio, al di là della vita.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Did you know how much I love you? 
Is a hope that somehow you, 
can save me from this darkness.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
{Words Count: 1042}
 
 
 


 

 
[1] l’avete letta con la voce di Oberyn Martell? Bravi bambini.
[2] In questo paragrafo ho accostato Jacques Prévert (Questo amore), ad Alessandro Manzoni (Il cinque maggio) e a Marguerite Duras (Occhi blu capelli neri). Spero non si creino problemi di convivenza (tanto lo so che in un’ipotetica riunione di condominio la parte del guastafeste la farebbe esclusivamente lui, l’Alessandrone nazionale).
[3] sempre la Duras, stesso libro.





 
 
 
 


Nota:


Buon pomeriggio!
 
Spero che abbiate trascorso delle serene vacanze (vacanze? Quali vacanze?) di Pasqua.
 
Oggi non ho molto da dire, se non che l’umore in questi giorni è plumbeo – come il meteo – e i risultati direi che sono evidenti. Mi sa che stavolta ho calcato un po’ la mano, soprattutto per quanto riguarda lo stile (ragion per cui non sono proprio sicura sicura sicura che la proverbiale ciambella questa volta sia riuscita col buco), però ogni tanto cambiare non fa male, almeno credo.
 
Il giudizio, come sempre, spetta a voi ^^
 
Il titolo, anche se non penso ci sia bisogno di specificarlo, è tratto dalla poesia S. Martino del Carso, di Giuseppe Ungaretti.
 
Non mi sembra di avere altro da aggiungere (sono talmente sfinita al momento che fatico a mettere una frase sensata dietro l’altra).
 
SoundtrackI see a darkness, Johnny Cash (grazie a – indovinate un po’? – Shilyss, la mia procacciatrice ufficiale di colonne sonore angstosissime)
 
Grazie a chi vorrà leggere – anche silenziosamente –, recensire, o inserire la raccolta in una delle liste messe a disposizione di EFP.


 Un bacione e a presto!
 
:*
 



padme
 
 
N.B: d’accordo, lo avete visto piangere (perché era necessario), ma non fateci l’abitudine. Sono ragionevolmente convinta che non accadrà più, per lo meno da queste parti.

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Capitolo 4
*** Cor cordium ***


voi. È stato un onore avervi accanto in questo bellissimo viaggio.
 
 
 
 
Innanzi a me camminano, quegli Occhi risplendenti,
che un Angelo sapiente certo ha calamitato;
vanno, divini fratelli e miei fratelli a un tempo,
scuotendo nei miei occhi i fuochi diamantati.
 
Salvandomi da ogni grave peccato e inganno
sulla strada del Bello conducono i miei passi;
sono i miei servitori ed io son loro schiavo;
si piega tutto il mio essere a quella viva fiaccola.
 
Begli Occhi, voi brillate con la chiarità mistica 
che hanno i ceri ardenti in pieno giorno; il sole
arrossa ma non spegne la loro fiamma fantastica;
 
quelli la Morte celebrano, voi cantate il Risveglio;
avanzate cantando il risveglio dell’anima,
astri di cui nessun sole può offuscare la fiamma.
 
(Charles Baudelaire – La fiaccola viva, in I fiori del male)
 
 
 

 
 
~ Cor cordium ~
 
 
 
 
 
 
But touch my tears with your lips,
touch my world with your fingertips.
And we can have forever,
and we can love forever.
Forever is our today.

Who wants to live forever?
 
 
 
 

 
 
Il Sole brilla fulgido nel cielo sopra Nurmengard, irrorando l’altopiano con il calore inaspettato di un timido anticipo di primavera. Una brezza vivace, allegra come il gorgheggio di un usignolo, porta con sé il profumo denso dei boschi, dei pascoli verdeggianti, dei torrenti d’acqua cristallina e dei monti maestosi, ricoperti di neve e ghiaccio perenni.
È tardo pomeriggio, l’unico momento in cui ti è permesso passeggiare per qualche minuto – sotto attentissima sorveglianza, naturalmente – nel piccolo chiostro interno al mastio, e in prossimità del quale si sviluppa, con precisione geometrica, l’intera ala del castello adibita a corpo di guardia. Si tratta di un fazzoletto quadrato di pochi metri d’ampiezza che un’aiuola e un paio di vasi fioriti non riescono comunque a rendere meno triste e spoglio, ma camminare all’aperto è pur sempre un’opzione migliore che restare a languire nella tua cella – o, come preferisci definirla, con un’ombra di quel sarcasmo feroce che, persino dopo mezzo secolo di prigionia, non ti ha abbandonato del tutto, la tua suite imperiale privata[1].
Ti muovi cauto lungo il perimetro del patio, per sgranchirti le gambe intorpidite, riempiendoti i polmoni con l’aria tiepida e fragrante della sera; sollevi lentamente lo sguardo e lo getti in alto, al di là delle torri merlate della fortezza, verso un chiarore troppo vivido, troppo crudele, impossibile da sopportare, una luminosità ambrata che perfora e ferisce il nervo ottico, obbligandoti, tuo malgrado, ad abbassare le palpebre.
Quando, seguendo un impulso irresistibile, dischiudi piano gli occhi, lui è già davanti a te.
Etereo eppure così reale, spirito indomito e fiero in un mare di luce.
Ti sorride radioso, in quel suo modo accattivante e pieno di fascino che non ha mai mancato di farti tremare fin dentro l’anima; i suoi capelli sono fili d’oro e rame, e coronano di fiamme il raffinato cesello dei suoi tratti, creando un incantevole contrasto con la pelle rosea del volto, scurita appena, attorno al mento e alle guance, da un accenno di barba perfettamente curata. Ti guarda ancora con la trasparenza sconvolgente di un tempo, con l’estasi intrappolata fra le ciglia, come se per lui, al mondo, non ci fosse nulla di veramente importante all’infuori di te, come se tu, tu e nessun altro, fossi il suo tesoro più caro e prezioso.
Avanza deciso nel cortile e accorcia le distanze, tendendo le mani, entrambe lisce e intatte, prive di rughe o grinze; sono giovani, forti e virili, esattamente come le tue, e, in verità, non ne sei affatto sorpreso. Lo fissi a tua volta, annegando nelle sue iridi splendenti, azzurre e limpide come una promessa d’estate, e il tuo cuore impazzito salta un battito, o forse due, anzi tre, quattro, cinque, sei, sette – ormai hai perso il conto –, e si contrae, sussulta di sangue, esplode, si frantuma in migliaia di schegge abbaglianti.
Adesso non puoi più aspettare.
Un passo, un altro, un altro ancora, e voli fra le sue braccia, ti aggrappi alle sue spalle come se da questo semplice gesto, straordinario e famigliare al contempo, dipendesse la tua stessa salvezza – ed è così, in fondo ne sei sempre stato cosciente. Ti avvolge con un vigore tale che ti si spezza il respiro: sembra volerti inglobare in sé, sino a renderti parte di lui, per non rischiare di vederti strappato alla sua passione ardente, al suo amore traboccante e immenso.
Petto contro petto, avverti il suo cuore cantare di nuovo vicino al tuo; insieme intonano una melodia dolcissima che ti pervade in ogni fibra, e il sollievo che provi è immediato, tanto intenso da non potersi descrivere a parole, perché tu, soltanto tu, conosci il male che ti ha fatto non sentirlo, il tuo secondo cuore, il tuo cuore dei cuori, per quasi un anno intero. Eri con lui in quegli istanti fatali, hai fatto tuo il suo ultimo palpito, hai percepito il tocco della sua mente affievolirsi, oscurarsi, spegnersi e scivolare via da te, inesorabile; tuttavia, il vero volto della Morte non ti è estraneo, ne hai compresa da tempo l’essenza autentica e profonda, e non hai vacillato, né pianto, consapevole – certo – che nemmeno l’Anatema-che-uccide avrebbe davvero potuto dividervi. Albus, morto? NoLibero piuttosto, e impaziente di buttarsi a capofitto in una nuova, emozionante avventura, di correre verso orizzonti sconosciuti e inesplorati, di superare i confini imposti da una natura limitata e mortale, sì, ma non per questo cieca e sorda al richiamo dell’Infinito. Libero di rinascere dalle ceneri, dispiegando le sue magnifiche ali di Fenice, libero infine di tornare, come sempre, da te, con te, per te; in un modo o nell’altro, sapevi che ti avrebbe raggiunto, che non ti avrebbe lasciato solo, che avrebbe attraversato, se necessario, gli oceani del Tempo e dello Spazio pur di ritrovarti ancora.
Avvicini il viso al suo cercando disperato la sua bocca, e nell’attimo esatto in cui le vostre labbra finalmente si sfiorano, l'Universo si tinge, un'ultima volta, di stupita e indicibile meraviglia.
 
Svanisci in lui. In te stesso. Non c’è differenza. 
Lui ti stringe, tu lo stringi, vi tenete stretti, tutto è buio, 
tutto è luce, tutto è orrore, tutto è bellezza, tutto è dolore,
 tutto è sofferenza, tutto è gioia,
 tutto è mai, tutto è per sempre.[2]
 
Credevi che non fosse umanamente possibile amarlo di più 
 più di quanto lo hai amato ogni singolo giorno della tua vita –, ma ora, per Dio, sei pronto a giurare di non averlo mai amato come in questo momento, mentre ti coinvolge – e lo coinvolgi – in un bacio adorante, intimo e travolgente, un bacio che ti toglie il fiato, un bacio che è seta e fuoco, desiderio e tormento, un bacio che sa di casa, di pioggia, di caramello, di ricordi, di maggio, di gelsomino, di intesa, di panna, di erba, di follia, di vento, di limoni, d’inchiostro, di tempesta, di glicine, di cioccolato, di attesa, di grano, di risate, di menta, di accettazione, di novembre, di lavanda, di lacrime, di miele, di rispetto, di pergamena, di tè, di lamponi, di comprensione, di legno, di perdono; un bacio in grado di racchiudere e sublimare tutte le notti che avete trascorso a divorarvi e a consumarvi d’amore, a prendervi e a concedervi l’un l’altro, a possedere e a essere posseduti – senza regole, senza riserve, senza pudore.
«Sei venuto a portarmi via?» soffi sulle sue labbra, la voce ridotta ad un sussurro sommesso.
Sì. È il momento. Presto sarà qui.
«Bene allora. So cosa fare.»
Ti scosti un poco, per poterlo contemplare meglio, con tutta l’urgenza e il trasposto di cui senti il pressante bisogno; gli accarezzi la curva elegante della mascella, teneramente, e lui preme la bocca sul palmo della tua mano, laddove una sottile striscia d’avorio rivela il sigillo – eterno, indissolubile, sacro – del Patto che vi unisce e cui mai, mai siete venuti meno, nonostante tutto.
«Resti con me?» chiedi alla fine, tentando – invano – di celare il fremito che, d’improvviso, avverti serpeggiare, infido e inopportuno, proprio qui, tra lo stomaco e la gola.
Albus si scioglie gentilmente dall’abbraccio e si allontana, circonfuso di luce e grazia, senza però staccare un solo istante lo sguardo dal tuo: una rosa bianca, dalla corolla immacolata e bagnata di rugiada, appare fra le sue dita. Te la porge con un sorriso ed è come se ti stesse donando, per l’ennesima volta, il frammento più puro, segreto e delicato della sua anima.
Sempre, bredhu. Ti amo.
Non vuoi – oh no, no, no che non vuoi! – interrompere il contatto, ma gli occhi cominciano a pizzicare, bruciano i maledetti, e, per la frazione di un secondo, sei costretto a chiuderli.
Non appena li riapri, Albus scompare.
Il Sole è tramontato da un pezzo; oltre il profilo frastagliato dei torrioni, la volta celeste è un drappo di velluto scuro punteggiato da uno sfolgorio di stelle in boccio, e il loro bagliore è vibrante, soffuso, ammantato di quiete.
Tom Riddle è arrivato.
La rosa bianca giace al sicuro, stretta fra le tue mani, nel posto cui appartiene di diritto.

Accanto al tuo cuore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Go slowly now, sands of time,
still have some verses to pour.
This wonder of life has led me back home,
like a poet of Scotland once scribed:

home is the sailor
home from the sea,
and the hunter 

home from the hill.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
{Words Count: 1329}
 
 
 


 

 
[1] Dato che, almeno per il momento, Nurmengard non sembra avere l’aspetto spaventoso che ci è stato mostrato nella prima parte de “I doni della morte”, mi piace pensare che la prigionia di Gellert sia stata più simile all’esilio di Napoleone a Sant’Elena, piuttosto che al soggiorno di Edmond Dantés al Castello d’If. Pur con tutti gli accorgimenti del caso, ovviamente.
[2] D. Kraus, G. Del Toro, La forma dell’acqua.





 
 
 
 


Nota:


Ebbene, eccoci giunti al termine anche di questa piccola avventura.
 
Non farò inutili giri di parole, quello che avete letto è esattamente quello che sembra: un congedo. Spero non definitivo (ragion per cui non cliccherò sulla spunta “completa” per quanto riguarda la serie) ma di sicuro questa volta sarà protratto nel tempo. C’è una personcina speciale che in questo momento ha più che mai bisogno di me e di tutta la mia attenzione. Sono certa che capirete.
 
Considero questo capitolo il mio personale “happy ending”, e mi auguro davvero che vi abbia emozionato leggerlo esattamente come io mi sono emozionata a scriverlo. Se vi va, fatemelo sapere.
 
Per chi ha letto Chiamami col tuo nome, “Cor cordium” (Cuore dei Cuori), ha un significato ben preciso che non starò qui a spiegare; per tutti gli altri (ma non vi siete ancora decisi a leggerlo ‘sto benedetto libro?): https://ditantomondo.com/2018/03/02/cor-cordium-cimitero-acattolico-roma-lerici-shelley/
 
Tutti i richiami alla Saga (e alle altre mie storie) che troverete sparsi nel racconto sono, naturalmente, voluti.
 
In questi mesi ho descritto gli occhi di Albus in ogni modo possibile ed immaginabile: questa volta, con la poesia iniziale, ho lasciato che a farlo fosse qualcuno assai più qualificato di me.
 
E per l’ultima volta…
 
Soundtrack (nell'ordine): Who wants to live forever, Queen; Go slowly now, sands of time, Tuomas Holopainen.
Bonus trackMariage d’amour, Paul de Senneville; A time for us, Nino Rota (dal film "Romeo e Giulietta" di Zeffirelli, 1968 - sempre grazie a Shilyss <3).  

 
"A time for us at last to see
a life worthwhile for you and me.
And with our love through tears and thorns,
we will endure as we pass surely through every storm.
A time for us, someday there'll be
a new world, a world of shining hope for you and me."

 
Grazie a chi vorrà leggere – a voce alta o silenziosamente –, a chi ha recensito\recensirà, o ha inserito\inserirà la raccolta in una delle liste messe a disposizione di EFP.
 
GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE, DAVVERO GRAZIE DI CUORE A TUTTI, TUTTI, TUTTI, TUTTI, NESSUNO ESCLUSO.


Un bacione e un abbraccio grande, grandissimo :*

 
Vostra, sempre
 
 

padme

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