Legacy

di BeaterNightFury
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Immagini Nel Cielo ***
Capitolo 2: *** Nubi all'Orizzonte ***
Capitolo 3: *** Il Tempo e le Persone ***
Capitolo 4: *** Chi Guarda le Guardie ***
Capitolo 5: *** Destino in Movimento ***
Capitolo 6: *** La Cosa Giusta ***
Capitolo 7: *** Tredici ***
Capitolo 8: *** Giorni di Sole ***
Capitolo 9: *** Mai Mi Legherai ***
Capitolo 10: *** Quando Saremo Grandi ***



Capitolo 1
*** Immagini Nel Cielo ***


Capitolo 1
Immagini Nel Cielo
 
 
“Questa è la mia famiglia.
L’ho trovata per conto mio.
È piccola e disastrata, ma bella.
Sì, molto bella.”
 
Il rumore assordante di un vetro in frantumi echeggiò per il salone, immediatamente seguito dal pianto disperato di una bambina molto piccola.
«L’hai fatta grossa, Terra.» Il ragazzino impegnato fino a quel momento in un acceso duello con il colpevole si strinse nelle spalle, e dismise la propria arma con un movimento del polso.
Si chiamava Ventus e con i suoi sedici anni non dimostrati era il più giovane degli studenti, pur non essendo la persona più giovane all’interno del castello. Normalmente Terra, il suo interlocutore, di quattro anni più anziano, in risposta ad una simile accusa lo avrebbe preso per le spalle, sollevato per aria, e gli avrebbe grattugiato per bene i capelli biondi con le nocche, ma in quel momento il pianto dell’ultima arrivata aveva lasciato il ragazzo più grande in preda alla preoccupazione.
«Shiro…» Terra sibilò tra i denti, schiaffeggiandosi la fronte con la mano che non stringeva il Keyblade.
In un angolo della stanza, delimitato da un box per bambini, una bambina di poco più di un anno con gli occhi azzurri e i capelli inusualmente bianchi si era aggrappata al recinto e piangeva, cercando con lo sguardo gli occupanti della stanza. Terra corse da lei e la prese immediatamente in braccio.
«Mi dispiace, piccina, papà non voleva fare rumore…»
«No, volevi soltanto sparare me contro la parete.» Ventus ridacchiò raggiungendo l’amico. «Guarda che però avrebbe pianto lo stesso.»
Ventus adorava Shiro, e il suo status di zio in tutto tranne che il sangue, ma non era stato sempre così ben disposto verso di lei. Pur avendo effettivamente compiuto sedici anni (soffriva di amnesia, e l’altra studentessa del castello, Aqua, aveva arbitrariamente deciso la data del suo dodicesimo compleanno come il 27 Novembre di quattro anni prima, il giorno in cui era arrivato da loro), non dimostrava la sua età né fisicamente, in quanto nettamente basso ed esile e con lo stesso viso rotondo di quando era arrivato là, né mentalmente, e quando aveva scoperto, quasi due anni prima, che i suoi compagni di scuola, i suoi amici Terra e Aqua, avevano pur inconsapevolmente dato vita ad una bambina, aveva erroneamente ritenuto che sarebbe stato allontanato dal castello, o escluso, a causa della nuova arrivata.
C’erano voluti alcuni giorni di convincimento da parte di Terra e Aqua, e un piccolo, inconsapevole intervento di Shiro, perché Ventus comprendesse che poco o niente sarebbe davvero cambiato.
Shiro voltò lo sguardo verso il ragazzino e tese una manina verso di lui, squittendo: «Tio!»
«Eh no gattina, così non vale, sai?» Terra, fingendosi offeso, abbassò Shiro verso il pavimento, tenendola con le gambe all’aria, poi la rimise dritta, le fece fare un volo in aria e la riprese, stringendola forte. La piccola prese a ridere.
«Sai, Terra, che non hai affatto ragione di essere geloso?» Ventus fece un sorrisetto. «Alla fine preferisce sempre la tua spalla per rigurgitarci sopra.»
Shiro smise di ridere e fissò un punto alle spalle di Terra e Ventus, per poi sorridere di nuovo e indicare qualcuno con la manina.
«Mamma! Nonno!» esclamò allegra.
Aqua prese Shiro dalle braccia di Terra e controllò che stesse bene, poi fissò la vetrata che Terra aveva mandato in frantumi con un Aerocolpo mirato male.
«Che cosa è successo?» chiese ai due ragazzi.
«Papà BUM!» Shiro intervenne prima che uno dei due avesse tempo di spiegare. Aqua stava visibilmente cercando di lanciare un’occhiataccia a Terra e Ventus, ma il commento di Shiro fece sciogliere la sua espressione in un sorriso.
Ventus si morse il labbro. Shiro a malapena era in grado di dire una dozzina di parole e una frase (“volio bene!”), ma era perfettamente capace di vuotare il sacco quando le veniva chiesto.
Il ragazzino non immaginava nemmeno cosa sarebbe stata capace di spifferare Shiro nei prossimi due, forse tre o quattro anni, che ci avrebbe messo lui ad arrivare al suo esame.
L’uomo che era arrivato assieme ad Aqua, vestito in un ampio mantello bianco e con capelli, barba, e baffi neri punteggiati di grigio, si fermò davanti a Terra e lo guardò negli occhi.
«Sei nervoso, ragazzo. Cerca di stare calmo.» Lo raccomandò.
«Mi dispiace, Maestro.» Terra accennò ad un inchino.
La formalità nelle parole di Terra era soltanto una facciata: l’uomo anziano che il giovane aveva chiamato Maestro, Eraqus, era la persona più prossima che i tre ragazzi avessero ad un padre. Aveva cresciuto Terra e Aqua fin da quando erano troppo piccoli per poter scrivere il loro nome, e Ventus da quando un suo vecchio amico e antico rivale lo aveva lasciato lì, asserendo che fosse stato gravemente ferito nel corpo e nel cuore.
«È stato un incidente…» Ventus fece per difendere il suo amico.
«So benissimo cosa è stato, Ventus, non ti agitare.» Il Maestro Eraqus alzò una mano a calmare lo studente più giovane. «Tuttavia, credo che per la vostra sicurezza e soprattutto la vostra tranquillità credo sia meglio se terminiate tutti la sessione di studio di oggi in biblioteca.»
Niente avrebbe davvero abbattuto Ventus di spirito, neanche la prospettiva di passare il resto del pomeriggio su libri di magia, ma sapeva che per Terra non sarebbe stato lo stesso, quindi fece un sorriso da un orecchio all’altro per l’amico e iniziò ad incedere con il passo più largo che gli consentissero le gambe corte. Terra tirò un sospiro, si costrinse a sorridere, lo seguì e lo superò arruffandogli spietatamente i capelli.
«Uhm, Terra?» Aqua lo raggiunse, con un sorriso a metà tra l’imbarazzato e il vendicativo. Gli passò Shiro, che stava inconfutabilmente iniziando a puzzare. «Chi rompe paga
Terra impallidì visibilmente, ma prese in braccio la bambina e la portò verso i bagni del castello.
Camminando verso il corridoio che portava alla biblioteca, Ventus fece in tempo a notare con la coda dell’occhio che Aqua era rimasta indietro, e si era fermata davanti alla vetrata in frantumi.
Prima di girare l’angolo, la vide chinarsi e raccogliere i pezzi di vetro.
 
 
«Aspetta! Fammi provare un’altra volta!» Zack si stese nella sabbionaia e guardò la sua ragazza con un sorriso.
«Va bene… ma solo un altro tentativo!» Aerith, tredici anni, un sorriso innocente e addosso la divisa di una delle scuole medie della città, gli impartì l’ordine.
Zack calciò le gambe verso l’alto e fu in piedi in un singolo, fluido movimento. «Aha!»
Aprì le braccia e fece un sorriso fino alle orecchie, poi si sedette su una panchina del parco giochi di Radiant Garden.
«Ti trattano bene nella guardia cittadina?» La ragazza si sedette accanto a lui, senza smettere di sorridere.
Zack annuì. Avendo soltanto sedici anni, il lavoro assegnatogli non era a tempo pieno – era ancora obbligato a frequentare il liceo locale – ma era stato immediatamente additato come quello figo da quando nei pomeriggi seguiva uno dei tre capitani delle guardie con addosso una divisa blu.
Persino i due combinaguai della sua classe lo avevano tirato da parte e gli avevano proposto di dividere gli utili dei loro affari in cambio di collaborazione.
«Per il momento l’atto più eroico che mi è stato assegnato è stato di rintracciare un bambino disperso in mezzo al mercato cittadino. Angeal dice che devo fare cose alla mia misura.»
Aerith si fece seria.
«Zack, lo so che hai vinto la scommessa, ma ti devo comunque chiedere un favore. C’è un mio compagno di classe…»
«Compagno?» Zack sobbalzò, preoccupato. «Cosa… chi…?»
Sperava non fossero brutte notizie… Aerith stava con lui… certo, era più plausibile che magari uscisse con un coetaneo
«Ha cercato di entrare nelle guardie come hai fatto tu.» Aerith abbassò lo sguardo. «Credo che qualcuno lo abbia allontanato in pubblico ridicolo, una delle sentinelle del re, e lui adesso è con il morale a terra.»
«Non c’è molto da fare quando alle guardie qualcuno non piace…» Zack fece una smorfia. «Poi, tredici anni… a quanto pare il ragazzino avrà più sogni che cervello se ha cercato di farlo già da adesso.»
Aerith gli diede uno schiaffetto su un orecchio.
«Dai!»
«Tu pensi ci possa riuscire?» Zack la guardò perplesso.
«Non lo so.» Aerith sostenne il suo sguardo. «Ma gli serve un amico. Qualcuno come te
Gli prese una mano nelle sue, poi sorrise di nuovo.
«Dici di voler diventare un eroe. Questo sarebbe un po’ da eroi.»
Zack sorrise di rimando, e prese a sua volta le mani della sua ragazza.
Sì, era una cosa che poteva fare. L’amico di scuola di Aerith non era la minaccia che aveva immaginato. Era soltanto… un amico. Un suo futuro amico peraltro, se le cose fossero andate come…
«ZACK E AERITH, SEDUTI SOTTO A UN PINO, SI GUARDANO NEGLI OCCHI E SI SCAMBIANO UN BACINO!»
Una voce tuonò dietro di loro, e Zack girò la testa per vedere un ragazzo della sua età, con irti capelli rossi, una giacca arancione e una bandana a scacchi gialli e marroni sopra una maglietta bianca e un paio di calzoni beige, un sorriso divertito e un megafono di fortuna nelle mani.
«Quello sopra di loro è un larice, scemo.» Accanto a lui, un altro ragazzo, con i capelli azzurri pettinati all’indietro, una giacca blu e i pantaloni bianchi, guardò l’amico che reggeva il megafono con aria di superiorità e lo corresse.
Zack rimase a guardare i due per un momento, poi sbuffò rumorosamente.
«Figurarsi se non dovevate essere voi.» Li apostrofò, poi li indicò ad Aerith. «Miccia…» Segnò a dito il ragazzo rosso… «… e Moccio.» … per poi portare il dito verso il suo compagno.
La menzione di quei soprannomi sortì l’effetto desiderato, e il ragazzo con il megafono di carta scagliò il suo utensile al suolo, alzando al cielo gli occhi verdi.
«Zack, sul serio? Lo sai come mi chiamo!»
Zack scoppiò a ridere. «Per questo è divertente!»
Il ragazzo scrollò le spalle e guardò il suo amico come se cercasse supporto.
«No, dico, Isa, l’hai sentito? Ha insultato anche te!»
«Ti rendi conto che potresti essertela cercata, vero?» Isa non fece una piega.
«Chi è il più folle, il folle o il folle che lo segue?» Il ragazzo del megafono riprese il sogghigno e il megafono e fece un passo verso la panchina. «Aerith, giusto?» Tese la mano ad Aerith. «Zack non fa che parlare di te. Il folle che mi segue si chiama Isa, e io mi chiamo Lea.»
«Piacere di conoscervi.» Aerith si girò verso Lea e gli strinse la mano.
«Piacere mio.» Lea spostò il peso dalle punte dei piedi ai talloni, poi si portò una mano alla fronte. «Mi raccomando. L-e-a. Lo hai memorizzato?»
«Sai, non credo lo scorderà mai. Assieme alla cattiva impressione.» Isa raggiunse Lea. «Piacere, comunque. Siamo in classe con Zack.»
«Purtroppo.» Zack si abbandonò sullo schienale della panchina e lasciò che il suo sedere strisciasse in avanti. «Mai, mai, mai fare ora di scienze allo stesso tavolo di Lea.»
«Oh, andiamo, è successo solo una volta!» Lea iniziò a fare l’offeso. Isa lo guardò con nonchalance e gli alzò tre dita.
«Diciamo che sa essere alquanto esplosivo…» Isa stava iniziando a dire, ma Zack non gli prestò attenzione. Nella tasca dei pantaloni, il suo cellulare aveva iniziato a vibrare ed emettere suoni.
«Pronto?» Portò il dispositivo all’orecchio e premette il tasto di ricezione.
«Zack?» La voce di Angeal, uno degli ufficiali di guardia, arrivò dal telefonino. «Sto chiamando per conto di Lord Ansem. Vuole che tu ti sottoponga ad addestramento aggiuntivo durante le vacanze estive.»
«Oh…» Zack annuì. Le vacanze estive sarebbero iniziate a giorni. Per certi versi, la notizia di ulteriore addestramento era sia buona che cattiva.
«Domani dopo la scuola farai immediatamente rapporto al castello. Dilan sa del tuo arrivo, quindi non preoccuparti di venire messo alla porta.»
Zack si coprì l’orecchio libero con la mano, si alzò e fece un paio di passi più in là.
«D’accordo. Domani.»
«Non ho ancora i dettagli chiari, ma Lord Ansem è convinto tu debba imparare a usare un’arm…»
Poco lontano, Lea aveva ripreso in mano il megafono.
«ZAAACK! NON FINIRTI QUELLA BIRRA, INGORDO!» urlò, mentre Aerith si alzava e faceva per toglierlo.
«Ma sei scemo? Chiudi subito quel becco!» Zack gli ribatté istintivamente, ma si rese rapidamente conto che Angeal avrebbe potuto sentire e pensare che fosse rivolto a lui. «Scusa, Angeal… un mio compagno di scuola. Con un megafono.»
Non appena Zack ebbe detto “Angeal”, fu il turno di Lea di sbiancare come un lenzuolo.
«Puoi attivare l’altoparlante?» Angeal chiese dall’altra parte del telefono.
Zack si allontanò il telefono dall’orecchio e premette il comando del vivavoce.
«Mi vorresti dire, ragazzino, che c’è un negozio in città che vende alcool ai ragazzi delle scuole
Lea barcollò sul posto e rimase zitto.
A quanto pare Angeal aveva interpretato il silenzio di Lea esattamente come quello che era, perché parlò di nuovo.
«Domani, dopo la scuola, ti voglio vedere al castello di Lord Ansem assieme a Zack, e mi aspetto che tu mi riferisca per filo e per segno chi ha infranto la legge.»
 
 
C’erano parecchie cose della sua infanzia che Ventus non ricordava affatto.
Non ricordava dove fosse cresciuto, né i nomi dei suoi genitori, o se avesse mai davvero avuto una famiglia.
Ricordava però il suo nome. Ricordava che aveva già imparato a leggere e scrivere, come si teneva un’arma in mano, che aveva sempre amato i gatti, e che aveva sentito da qualche parte che vedere una stella cadente in cielo era un pessimo presagio – l’avvertimento di una imminente sciagura, o di una guerra.
Per certi versi, non ci voleva credere.
Negli ultimi quattro anni gli era stato insegnato a non credere alla prima cretinata che gli venisse raccontata – ad osservare, ascoltare, ed essere certo di qualcosa prima di iniziare a preoccuparsi. Era una delle tante cose per le quali si sentiva grato verso il Maestro Eraqus.
Terra e Aqua, seduti vicino a lui, uno a sinistra e l’altra a destra, sulla panchina in pietra in cima alla montagna del castello, sembravano anche loro abbastanza preoccupati, anche se sicuramente era per altri motivi: un po’ di tempo prima, il giorno precedente all’incidente della finestra, il Maestro aveva annunciato loro che sarebbero stati sottoposti all’Esame del Simbolo della Maestria, e l’esame sarebbe stato la mattina dopo.
Persino Shiro sembrava agitata: quella sera aveva fatto i capricci e rifiutato il cibo, e tutti e tre avevano convenuto che probabilmente una passeggiata l’avrebbe perlomeno spinta ad accettare il biberon.
Enfasi sul probabilmente.
Al momento sembrava più una battaglia persa.
«Ehi, Aqua…» Forse Ventus sapeva come iniziare il discorso, senza citare il vecchio adagio della disgrazia imminente. «Ti sei mai chiesta cosa sono le stelle… e da dove viene la luce?»
Aqua smise per un momento di lottare contro i capricci di Shiro e lo guardò negli occhi.
«Ecco, pare che…»
«Ogni stella lassù è un mondo a sé.» Terra intercettò la risposta, approfittando della distrazione per arruffare i capelli di Ventus. «La luce è il loro cuore, che splende su di noi come mille lanterne.»
Non era proprio la migliore delle notizie, ma Ventus non voleva caricare i suoi amici con altre preoccupazioni, quindi cercò di ottenere altre notizie con tutta la nonchalance che potesse mantenere.
«Non capisco…» Il ragazzo si strinse nelle spalle.
«In altre parole, sono come te e Shiro, Ven.»
«Cosa vuoi dire?» Ventus sobbalzò sul posto. Il discorso di Terra si faceva sempre più enigmatico.
«Un giorno lo scoprirai, ne sono certo.»
«Ma voglio saperlo ora
«Sei piccolo per saperlo ora!» Terra prese Ventus per le spalle con un braccio e con l’altro gli strofinò i capelli con le nocche.
«Piantala di trattarmi come un bambino!» Ventus si finse offeso e cercò di dimenarsi dalla presa dell’amico, ma non resistette a lungo. Non lo aveva mai detto ad alta voce e non ce n’era neanche bisogno, ma adorava i momenti in cui Terra e Aqua lo lasciavano sedere accanto a loro, lo abbracciavano e persino gli facevano il solletico.
C’erano parecchie cose della sua vita che Ventus non ricordava affatto, ma se c’era qualcosa che il suo cuore non scordava, era la sensazione di essere stato per lungo tempo terribilmente solo.
Ogni piccola attenzione della sua famiglia improvvisata gli ricordava che loro c’erano, gli volevano bene, e non se ne sarebbero andati.
Si era già appoggiato contro la spalla di Terra con uno sbadiglio quando Ventus sentì Aqua dire: «Voi due sareste proprio due strani fratelli…». La ragazza stava abbassando la voce, come se ritenesse che Ventus fosse sul punto di crollare.
In effetti, il ragazzino non riusciva quasi più a tenere gli occhi aperti… sentiva ancora Shiro che si lamentava, sentiva che Terra cercava in qualche modo di sistemare la sua posizione, ma gli era venuto molto sonno…
«Ho paura, Terra…» Aqua stava dicendo. «Temo che qualcosa possa cambiarci domani.»
«Persino Shiro ha notato che sei agitata…» Terra stava ridacchiando, ma qualcosa nel suo tono tradiva preoccupazione. «Andrà tutto bene, dai…»
Ventus si sforzò di non cedere al sonno. Probabilmente, se le sue domande non erano servite ad altro che ad ottenere un po’ di coccole, avrebbe trovato le risposte che cercava ora che i più grandi erano convinti che non stesse ascoltando.
«E se…?»
«Ssshhhhh… domani saremo uno di fronte all’altra, ma comunque vada tra noi non cambierà niente.» Terra si fermò per prendere un respiro. «E poi siamo fratelli ad honorem di questo vecchio bambino qui, e abbiamo una bambina bellissima…»
«Terra… grazie… grazie di tutto questo.»
Erano momenti come quello, Ventus ne era sicuro, in cui tutto nei mondi andava bene.
Poi Shiro, che durante tutto quel tempo aveva continuato a fare i capricci ed emettere versi lamentosi, iniziò a lamentarsi più forte e a piangere.
Ventus aprì gli occhi e si mise su dritto, pronto ad aiutare se si fosse giunti al punto in cui era difficile calmarla (gli era sempre più o meno facile farla ridere), ma Terra sembrava già essere all’opera: si era fatto passare Shiro, l’aveva fatta sedere sulle sue ginocchia e, tenendola con un braccio, aveva iniziato a carezzarle la testa.
«… ma i patti erano chiari, un coccodrillo a te, e tu dovevi dare un gatto nero a me… volevo un gatto nero, nero, nero, mi hai dato un gatto bianco ed io non ci sto più…»
Terra era stonato come una campana, e in certi punti della canzone recitava anziché cantare, come se fosse stata una filastrocca anziché una canzoncina, ma cantare quelle parole davanti a Shiro era come recitare una formula magica – la piccolina si metteva immediatamente a ridere.
Dopo un po’ Ventus si unì alla canzone, se non altro per sovrastare le stecche di Terra e salvarsi i timpani, e prima che finissero Shiro aveva scordato le lacrime e stava battendo le mani allegramente.
«Ah, sì, quasi dimenticavo.» Aqua iniziò a prendere qualcosa dalla scarsella che portava sotto ai vestiti. «Ho fatto dei portafortuna per domani.»
Estrasse quelle che sembravano tre piccole stelle colorate, tutte e tre in vetro piombato con un laccio di cuoio che pendeva da ognuna. D’un tratto, Ventus capì dove erano finiti i cocci della vetrata che Terra aveva fatto in mille pezzi.
Aqua passò il primo, arancione, a Terra, poi ne mise un secondo, di un magnifico verde brillante, nelle mani di Ventus.
«Uno anche per me?» commentò il ragazzino, sorpreso. Non avrebbe affrontato l’esame l’indomani, e si sarebbe aspettato di dover aspettare prima di ottenere il suo.
«Certo! Ce n’è uno per ognuno!» Aqua mostrò nella mano l’ultimo rimasto, di un bel color celeste.
«Conoscendoti, lo hai fatto anche per la nostra gattina, eh?» Terra fece rimbalzare Shiro sulle ginocchia.
Aqua sorrise.
«Beh, sì, ma dovrà aspettare per averlo. Diciamo… fino a quando non capirà che cosa va o non va in bocca!» Passò una mano tra i capelli della piccola, che intanto stava cercando di togliere il portafortuna arancione dalle mani del padre.
Non avevano ancora scordato cosa era successo il Natale precedente, che per combinazione era anche stato il primo compleanno di Shiro. Terra le aveva intagliato un Keyblade giocattolo e la prima cosa che Shiro ci aveva fatto era stato intaccarlo con i primi dentini.
«Da qualche parte là fuori c’è un albero con frutti a forma di stella,» Aqua spiegò, rivolgendo lo sguardo al cielo. «E quei frutti rappresentano un legame indissolubile. Perciò, finché porteremo dei portafortuna con questa forma, niente ci potrà separare. Troveremo sempre il modo di riunirci.»
Guardò di nuovo i due ragazzi.
«Tecnicamente… avrei dovuto farli con delle conchiglie… ma ho fatto del mio meglio con quello che avevo.»
«A volte ti comporti proprio da ragazzina!» Terra abbozzò un sorrisetto complice.
«Hey!» Aqua ribatté immediatamente. «Che vuoi dire con “a volte”?»
Sembrava che stessero per discutere ancora su quella frecciatina quando Shiro iniziò a farfugliare, alzare le braccia e gesticolare verso il biberon, rompendo quell’accenno di tensione.
«Ci pensa zio.» Ventus si strinse nelle spalle, si fece dare il biberon da Aqua e la bambina da Terra, e iniziò a porgere a Shiro il latte.
Quando la bambina, ormai calmatasi, fu interamente concentrata sulla sua cena, Ventus cercò di fugare un altro dei suoi dubbi.
«Quindi non sono davvero dei portafortuna?» Era un po’ triste pensarci, ma i pezzi salvati dalla vetrata non erano esattamente un ottimo surrogato per delle conchiglie.
«Beh, questo è ancora da vedere.» Aqua gli passò una mano tra i capelli, poi fece la stessa cosa a Shiro. «Però ci ho messo un piccolo incantesimo.»
«Davvero? Quale?» Ventus sorrise.
Aqua sorrise a sua volta e alzò il suo portafortuna.
«Un legame indissolubile.»
Ventus non era in grado di dire per quanto ancora rimasero nel parco del castello, su quella panchina a guardare le stelle. Shiro fu la prima ad iniziare a sbadigliare, e immediatamente dopo anche lui sentì le palpebre farglisi pesanti, e prima che potesse pensare a quanto sonno aveva, la mano di Terra lo scosse per una spalla e la voce del suo amico gli disse che era ora di tornare a letto.
Aqua gli prese Shiro dalle braccia e Terra lo prese per mano, e tutti e quattro presero il sentiero di montagna che li avrebbe riportati al castello e alle loro stanze.
Non si sentiva nulla attorno, solo il rumore dei loro passi e di qualche vecchio grillo con l’insonnia.
Le uniche luci nella notte provenivano dalle finestre del castello e dalle stelle.
Stavano per arrivare alla scalinata che portava al portone quando Terra li fece fermare, la mano di Ventus ancora stretta nella sua (Ventus era abbastanza sicuro di aver fatto qualche passo ad occhi chiusi durante la strada), e tirò un respiro.
Quella volta sarebbe stata l’ultima che avrebbero varcato la porta come tre apprendisti. Ventus provò ad immaginare quanti anni ci sarebbero voluti prima del suo turno, se i suoi amici lo avrebbero aiutato, se gli sarebbe stato permesso di bruciare le tappe con più di un maestro nel castello, se fosse cambiato molto da quando il suo ex maestro lo aveva lasciato, e se l’uomo lo avrebbe notato.
Fu in quel momento che Terra si schiarì la gola.
«Voi…» Il giovane mormorò. «Siete… le persone più importanti della mia vita.»
Teneva la testa e le spalle basse, come se si vergognasse a confessarlo.
«Domani… cambieranno un sacco di cose…» Guardò Aqua. «Tu diverrai Maestra di certo, sei più brava di me. Io farò del mio meglio… in fondo è il nostro sogno. E prima o poi toccherà a questo dinosauro e a questa gattina qui. Ma per quanto le cose possano cambiare… ricordate che quello che ho detto non cambierà mai.»

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Capitolo 2
*** Nubi all'Orizzonte ***


Ho visto che qualcuno ha ripreso a leggere! Bentornati, ehe!
Ora, quella che apparirà in questo capitolo è un’headcanon che ho in testa da mesi, e a cui ho sempre adorato pensare. La mia beta (sempre Miraha, che per chi non lo sapesse già, ha creato il personaggio di Shiro e me la lascia usare) e gli altri lettori del primo minuto – i ragazzi che mi hanno dato l’ispirazione per la storia – sono d’accordissimo, quindi avanti tutta…
 
E niente, buona lettura!
(I colori diversi nella parte finale stanno ad indicare diverse calligrafie. Non avendo molta scelta di caratteri con l'editor del sito, sarà un trucco che userò abbastanza spesso. Penso vi sarà abbastanza facile capire chi sta scrivendo cosa.) 

 
Legacy – Capitolo 2
Nubi All’Orizzonte
 
«No! Nooo, nooooooo
Riconoscendo la voce, Ventus affrettò il passo verso la stanzetta di Shiro.
Come c’era da aspettarsi, Aqua era lì, visibilmente pronta e in ordine, e fin là era tutto normale.
Decisamente meno plausibile era il fatto che Shiro fosse scalza e con niente addosso a parte il pannolino, e stesse nascosta sotto il comodino continuando ad urlare a monosillabi il suo disappunto.
«Non sei molto contenta del vestito nuovo, giusto cucciola?» Ventus si affacciò alla porta solo per ridere alla vista di Shiro e della sua battaglia di principio.
«E non vuole uscire da lì.» Aqua sospirò in tono rassegnato, poi guardò Ventus. «Senti un po’ chi parla.» Commentò. «Non vedo né camicia… né cravattino… né giacca. Perché ti sei messo i tuoi soliti vestiti, Ven?»
«Beeeh…» Ventus incrociò le braccia dietro la testa. «L’esame lo fate voi, ma comunque io sarò nella stanza. E se schizza una fiammata? E se Terra rompe un’altra finestra? Almeno così non me li rovino. Poi quando festeggiamo mi cambio anche io.»
«Terra è ancora alle docce?» Aqua gli chiese in tono un po’ più calmo.
«Sì, ed è un fascio di nervi. E non ha finito la frittata né il formaggio a colazione, lo hai visto anche tu…»
«Beh, tu ti sei dimenticato la marmellata e te ne sei accorto soltanto quando avevi già la bocca piena di pane e burro di arachidi, Ven…»
Shiro approfittò del momento di distrazione di Aqua per trotterellare attraverso la stanza e guadagnare la porta, e uscì in corridoio.
«Furbetta…» Ventus commentò, per poi infilare la porta e partire all’inseguimento.
Gli ci vollero pochi passi per raggiungere e afferrare la bambina, ma andò quasi a sbattere contro qualcuno.
L’uomo davanti a lui non era affatto uno sconosciuto: il cappotto nero, l’incedere ingobbito, il volto segnato dal tempo, gli occhi incavati, il pizzetto e la testa glabra… Ventus non lo vedeva da quattro anni, ma il nuovo arrivato non poteva essere che il Maestro Xehanort, l’uomo che lo aveva accompagnato e lasciato lì.
«Ma guarda…» L’anziano maestro scrutò la bambina e il ragazzo con i suoi occhi gialli, simili a fari. «Ventus. Quanto tempo…»
«Buon giorno, Maestro.» Ventus accennò a un inchino il meglio che poteva con una bambina in pannolino in braccio. «Shiro, ricordi che dice il nonno quando si incontrano le persone? Devi dire ciao...»
Per tutta risposta, Shiro nascose la faccia contro la spalla di Ventus.
«Cucciola, andiamo, le buone maniere? Fallo per zio.»
Shiro girò leggermente e fece la testa per sbirciare.
«Di’ ciao…»
«Ciao… pelato
Se Ventus avesse potuto sprofondare nel pavimento, lo avrebbe fatto. Se non fosse stato davanti ad un Maestro del Keyblade, si sarebbe messo a ridere forte. L’unica cosa che poteva fare era mordersi il labbro e sperare che qualcuno lo salvasse da quella situazione… non gli piaceva affatto lo sguardo di disapprovazione di quel vecchio. Se davvero gli aveva insegnato prima di lasciarlo al castello, era più che contento di non avere più niente a che fare con lui.
Schizzò via di soppiatto, rientrò nella stanza di Shiro, e si richiuse la porta alle spalle.
«Qualcosa non va, Ven? Sembra tu abbia visto un fantasma.» Aqua gli chiese non appena Ventus ebbe lasciato Shiro nella culla.
«Il Maestro Xehanort.» Ventus rispose con un filo di voce. «Shiro ha preso in giro il Maestro Xehanort
 
Alcuni minuti dopo, i tre ragazzi erano nel salone, tutti e tre con i loro abiti quotidiani, e Aqua aveva infilato Shiro in una tuta da gattino che la bambina adorava.
Terra era ancora pallido e nervoso mentre era in piedi sull’attenti davanti ai due Maestri, con Aqua accanto a lui.
Ventus era alla loro sinistra, con la schiena rivolta verso il muro, unico vero spettatore della prova, mentre i due Maestri esaminatori occupavano due dei tre troni sulla predella del salone. Il terzo trono, quello centrale, era occupato dal seggiolino di Shiro, che il Maestro aveva deciso di tenere lì, lontana dagli esaminandi, per ragioni di sicurezza.
La piccolina, che fino ad attimi prima era stata a ridere e borbottare in braccio al padre, era l’unica ignara della solennità del momento, ed era tutta presa a giocare con un piccolo Keyblade giocattolo che portava il suo nome inciso sull’elsa e a cercare di recitare per quanto meglio poteva la filastrocca delle novantanove scimmie.
Il Maestro Xehanort di tanto in tanto le lanciava sguardi con la coda dell’occhio, e sembrava quasi disgustato dalla situazione. A un certo punto Shiro se ne accorse.
«Pelato!» pigolò, indicandolo con il Keyblade.
Ventus si dovette nuovamente mordere il labbro per non scoppiare a ridere, e fu certo di aver sentito Terra emettere un colpo di tosse.
Il Maestro Eraqus invece non fece una piega e guardò Terra e Aqua.
«Oggi affronterete l’Esame per ottenere il Simbolo della Maestria. Non uno, ma due dei Prescelti del Keyblade sono qui davanti a noi come candidati. Tuttavia questa non è una competizione, o una battaglia per la supremazia. Non una prova di volontà, ma una prova di cuore. Entrambi potreste prevalere, o nessuno dei due.»
Il discorso venne interrotto dall’inconfondibile tonfo di legno su pietra quando Shiro si lasciò sfuggire di mano il giocattolo. Ventus fu tentato di andare a riprenderglielo, ma rimase fermo al suo posto.
«Ma sono sicuro che il nostro ospite, il Maestro Xehanort, non ha viaggiato fino a qui per assistere al fallimento delle nostre promesse più giovani.» Il Maestro Eraqus continuò. «Confido che siate pronti.»
«Sì!» Terra e Aqua esclamarono all’unisono.
Il Maestro portò alla mano il suo Keyblade e si mise in guardia.
«Allora che la prova abbia inizio!»
 
«Che la partita abbia inizio!»
L’altoparlante in cima al campo da baseball della Radiant Junior High tuonò nel momento preciso in cui Zack e i suoi amici riuscirono a trovare dei posti a sedere.
Isa stava ancora borbottando tra sé e sé con gli occhi al cielo, mentre Aerith, che portava sopra al suo vestito una felpa con i colori della sua scuola, cercava con lo sguardo qualcuno tra i membri della squadra che giocava in casa.
«Senti, Isa, non cominciamo. Se proprio dobbiamo parlare di ritardi vogliamo proprio parlare del fatto che tu ci hai fatto aspettare tutti per portare Bolt a passeggio?» Lea quella mattina era di umore decisamente nero, e si vedeva lontano un chilometro.
«Doveva fare quella grossa!» Isa ribatté immediatamente. «Tu ci hai trattenuti fuori per prendere un palloncino a tua sorella!»
La sorellina di Lea, una bambina sui quattro anni con i suoi stessi capelli rosso fiamma, se pur molto più ordinati, un vestitino bianco, e un palloncino rosso legato ad uno dei polsi, fissò Isa e gli mostrò la lingua.
«Grazie tante, Kairi.» Lea si abbandonò su un sedile e tirò un sospiro.
«Allora, chi è il tuo compagno di cui parlavi?» Zack chiede ad Aerith sedendosi accanto a lei.
«Dovrebbe scendere in campo a momenti.» Aerith continuava a scrutare la squadra. «Ha i capelli biondi, molto irti, e porta il 7 come numero di maglia.»
«Quella è una ragazza?» Lea li interruppe, indicando il giocatore in posizione di battuta, che aveva visibilmente lunghi capelli neri e un accenno di seno sotto la maglietta.
«Quella è Tifa. E se fossi in te non metterei in dubbio la sua capacità di giocare se ci tieni ai denti.» Aerith puntualizzò.
Vicino a loro, Lea si era preso Kairi sulle ginocchia e stava iniziando a spiegarle le posizioni. Soltanto un’ora prima, usciti di casa, si era mostrato decisamente annoiato quando sua nonna gli aveva incaricato di badare a sua sorella per la giornata, ma da come si comportava con lei sembrava volerle davvero bene.
Era un lato del ragazzo che Zack, avendolo conosciuto soltanto a scuola, non aveva mai conosciuto né immaginato. Come pure, gli riusciva difficile anche immaginare che Isa fosse un amante dei cani, eppure davanti al suo pastore tedesco bianco, il ragazzo era un’altra persona. Zack non lo aveva mai visto ridere tanto.
Zack aveva iniziato a frequentare Lea e Isa da quando Angeal aveva “convocato” Lea al castello per interrogarlo. Dopo che Lea aveva giurato e spergiurato che nessun negozio in cui si fosse mai recato vendesse alcol ai ragazzini, Angeal aveva comunicato a Zack che sarebbe partito in alcuni giorni per venire addestrato a dovere, e Zack si era ritrovato con una promessa fatta ad Aerith che sarebbe stato incapace di mantenere.
Poi Lea si era offerto di pensarci in sua vece, e nei giorni successivi si erano visti più volte nei pochi stralci di tempo che Zack aveva a disposizione.
Non erano mai riusciti però a trovare libero Cloud, il compagno di classe che Aerith aveva menzionato, un ragazzino riservato che, a quanto pareva, viveva solo con la mamma e si occupava di portare avanti la casa assieme a lei, e avevano deciso di aspettare la partita conclusiva di baseball dell’anno scolastico per sorprenderlo all’uscita.
Dopo Tifa, passarono alla battuta altri ragazzi. Zack sentì Aerith fare i loro nomi, uno per uno.
Cecil. Claire. Bart. Wedge.
Poi finalmente…
«Eccolo, lui è Cloud!»
Un giocatore minuto con irti capelli biondi emerse dalla panchina e si infilò in testa il caschetto. Aveva un brutto colorito verdastro, e se Aerith non lo avesse immediatamente indicato come il suo compagno di classe, Zack lo avrebbe preso per un ragazzino di prima media anziché di terza.
«Non mi sorprende che le guardie lo abbiano rifiutato.» Zack bisbigliò ad Aerith. «Non gli avrei mai dato tredici anni.»
Stava tremando un po’ quando si mise in posizione sulla casa base.
Il lanciatore avversario scagliò la palla, strike uno. Cloud si rimise in posizione e attese il secondo tiro, strike due.
Al terzo tentativo, il ragazzino riuscì a guadagnare tre basi, ma immediatamente dopo che l’arbitro lo ebbe dichiarato salvo, Cloud si piegò in due, si chinò verso terra e vomitò sul piatto della base.
«Rieccolo con lo scherzetto dei nervi…» Aerith alzò gli occhi al cielo. «Ha l’ansia da prestazione.»
«Non invidio i corridori…» commentò Lea.
Quasi a confermare quello che Lea aveva detto, l’arbitro fischiò un timeout e fece gesto ad alcuni inservienti di raggiungere il campo, per poi mettere un braccio attorno alle spalle di Cloud e portarlo fuori dal diamante.
«Non è comunque male, come battitore.» Isa commentò indicando il tabellone, dove alla squadra della Radiant Junior erano stati appena aggiunti due punti per le tre basi guadagnate da Cloud.
«Già, era un gran bel tiro. Hai visto che tremava? Non lo avesse fatto, forse sarebbe stato fuoricampo.» Lea aggiunse.
Zack notò che parecchi della squadra ospite, i Western Woods, stavano ridendo mentre lasciavano il campo, e si chiese se avrebbero riso altrettanto se Cloud anziché vomitare in terza base lo avesse fatto in casa base, addosso al loro ricevitore.
«Stanno ripulendo il campo.» Aerith fece loro notare. «Direi che sia la nostra occasione. Andiamo da lui.»
Si mise in piedi e li condusse giù per gli spalti, fino ai bordi recintati del campo.
Cloud era seduto sulla panchina e si guardava le scarpe, con un sacchetto di carta appoggiato sulla panca vicino a lui. La ragazza che aveva battuto per prima, Tifa, era seduta poco lontano da lui e lo fissava senza avvicinarsi.
Aerith fece per avvicinarsi ai giocatori e attirare l’attenzione del ragazzo, ma Kairi fu più rapida. Si avvicinò a Cloud, si sfilò il palloncino dal polso e glielo porse.
«Sei triste?» gli chiese.
Cloud la ignorò per un momento. Zack fece per avvicinarsi, ma Lea lo trattenne.
«Mio fratello dice che quello era un gran bel tiro.» Kairi continuò, porgendo di nuovo il palloncino a Cloud. «È quello lì dietro. Quello con la bandana e la faccia da salame.»
Cloud alzò lo sguardo.
«Beh… grazie…» rispose, con la voce rauca di chi ha la gola che brucia.
«Beh, grazie.» Lea alzò gli occhi al cielo, facendo ridere Aerith.
Zack decise che quello era il momento, e fece due passi in avanti, fino a fermarsi davanti al battitore biondo.
«Non è che me lo fai rivedere?» Gli chiese.
«Come scusa?» Cloud alzò lo sguardo, perplesso. Non sembrava aver capito chi aveva davanti, ma d’altra parte, Zack aveva addosso abiti civili.
«Riprovi quel tiro. Dove nessuno ti vede.» Zack gli fece un sorrisetto. «Soltanto io, te, Aerith, Kairi, e i qui presenti Moccio e Miccia.»
«Mi chiamo Lea, zuccone!»
Cloud guardò Zack negli occhi per un momento, senza dubbio chiedendosi dove fosse l’imbroglio. Zack rimase a guardarlo con la mano tesa, senza dire nulla.
Un momento dopo, Cloud restituì il palloncino a Kairi, poi si infilò in testa il caschetto, prese mazza, guantone e una palla, ed esclamò: «Va bene.»
«Woo! Andiamo, Cloud, unisciti ai grandi!» Lea gli diede una pacca sulla schiena.
Zack gli scartò immediatamente accanto, pronto a fargli scudo dal suo esuberante compagno, e guidò il gruppetto nella piazza centrale, per poi fermarsi nella zona centrale, il quadrato delimitato dalle quattro aiole.
Fece piazzare Cloud con la schiena contro l’angolo delimitato da un’aiola e gli prese la palla dalle mani, per poi indietreggiare verso il centro.
«Lea e Isa sono la mia difesa, io sono il lanciatore, e se supera i pini nelle aiole dietro di me, è fuoricampo. Pronto?» Zack tirò fuori il suo vecchio guanto da una tasca, e Lea e Isa fecero lo stesso con i loro.
Cloud sembrava essere troppo concentrato sulla palla nelle mani di Zack per capire che tutto il piano fosse premeditato da giorni.
«Allora vai!» Zack scagliò la palla verso di lui.
Lontano dagli sguardi di decine di sconosciuti, nella piazza deserta, Cloud sembrava molto più capace di tenere gli occhi sulla palla e la mente nel gioco.
Zack udì quasi subito il tonfo di legno sul morbido, e la palla schizzò via in alto, oltre i pini.
«Corri, Cloud, corri!» Aerith urlò immediatamente, e il ragazzino, dopo un breve momento di confusione, buttò la mazza a terra e fece il giro della parte interna delle aiole, alzando un pugno in aria con un urlo di gioia quando ebbe completato il giro.
Isa e Lea avevano lasciato il centro della piazza, probabilmente alla ricerca della palla, ma se fosse stata una partita vera, Cloud avrebbe segnato un punto.
«Bel lavoro, porcospino!» Zack corse da Cloud, gli tolse il casco e gli strinse le spalle con un braccio.
«Oh, sì, bel lavoro davvero
Una delle guardie reali – le guardie del corpo di Lord Ansem – era entrato nel quadrato delimitato dalle aiole, spingendo Isa e Lea davanti a sé.
Sotto il braccio di Zack, Cloud parve quasi sgonfiarsi quando lo vide. Sgranò gli occhi e chinò il capo, quasi a volersi proteggere.
«Cosa c’è, Braig? Adesso è proibito giocare nella piazza?» Zack tenne Cloud con una mano, come a dirgli di restare dritto, e guardò la guardia con aria di sfida.
Si accorse solo allora che un bernoccolo si stava gonfiando sulla fronte del cecchino. Cloud lo aveva colpito in testa con la palla.
«No, sto solo dicendo che sarebbe un vero peccato,» Braig sogghignò. «se il Capitano Sephiroth venisse a sapere che uno dei suoi uomini ha colpito una guardia reale!»
Cloud fece un passo in avanti.
«Non è stato lui, sono stato io!» quasi gridò.
Braig si avvicinò a lui e lo squadrò dall’alto in basso.
«Oh, guarda un po’ chi è tornato a fare lo spaccone.» Gli premette una mano sulla testa. «Non ti è bastata l’ultima volta, pannolino?»
«Ridammi la palla. È mia!» Cloud ribatté di nuovo. «C’è scritto il mio nome lì!»
Persino Isa, normalmente impassibile, sembrava abbastanza sorpreso davanti all’improvvisa presa di coraggio da parte del ragazzino.
«Credo proprio che me la terrò, invece.» Braig si infilò la palla in tasca. «Assieme all’autografo del campione. Ciao a tutti, marmocchi!»
Si allontanò così rapidamente che sembrava fosse svanito nel nulla.
«Cloud, mi dispiace per la tua palla.» Zack disse immediatamente, ripromettendosi di regalargli la sua prima di partire per dovunque Lord Ansem volesse mandarlo.
«Se la può tenere.» Cloud sbuffò. Sembrava un’altra persona rispetto al bambino che aveva vomitato in terza base.
«Era lui, vero?» Aerith lo raggiunse tenendo Kairi per mano. «Il guardiano del re che ti ha insultato quando hai cercato di parlare con le guardie cittadine?»
«Già, in persona.» Stavolta era Cloud a sogghignare. «E gli ho fatto vedere le stelle e sa che sono stato io
Riprese la mazza e il casco, e c’era una nuova determinazione nel suo sguardo.
«Oh, e comunque… hai parlato con una guardia cittadina, Porcospino.» Zack si strinse nelle spalle. «Non mi sono ancora presentato. Io… io sono Zack.»
 
Terra si sedette sullo scalino più basso del cortile e rimase a guardare l’orizzonte.
Si era svegliato agitato quella mattina, con il cuore invaso dalla paura di fallire, ma non aveva davvero creduto che il fallimento sarebbe stato una possibilità, finché il Maestro, l’uomo che aveva sempre considerato un padre e che lo aveva cresciuto da quando lui aveva ancora tutti i denti da latte, non lo aveva guardato negli occhi per dirgli che no, lui non aveva passato l’esame.
Ma c’è sempre la prossima volta”, aveva detto. Ma Terra non si sentiva di riprovare.
Si sentiva come se qualcuno lo avesse preso a botte, e gli avesse levato di colpo tutto l’entusiasmo e la motivazione.
«Papà!»
La voce di Shiro gli fece girare la testa. Sua figlia era seduta sullo scalino più alto, e lo fissava con una certa aria trionfale.
La bambina si rimise in piedi, poi si sedette sullo scalino dove aveva appoggiato i piedi, e sporse le gambe su quello sottostante. Si mise in piedi di nuovo. Si sedette, sporse i piedi, e poi decise che era molto più rapido scivolare direttamente con il sedere da uno scalino all’altro.
«Che combini, gattina?» Terra scattò in piedi e la raggiunse. «Vuoi imparare a fare le scale?»
Shiro fece sì con la testa ed emise un «Hm!» che avrebbe potuto essere sia un sì che un no.
«Vuoi che ti insegno io?» Terra le prese le mani.
Per tutta risposta, Shiro cercò di prenderlo per le braccia e fece gesto di farsi abbracciare.
«Che cosa c’è?» Il giovane sollevò la bambina e la prese in braccio.
Shiro lo guardò negli occhi.
«Bua, papà?»
Terra scosse la testa. «No, gattina… non mi sono fatto male. Papà è solo un po’ triste, tutto qui.»
«Papà no tlitte. Papà bbavo. Papà…» Il volto della bambina si contorse, quasi a voler cercare di ricordare una parola. «Papà eloe
Sembrava abbastanza soddisfatta di quel che era appena riuscita a dire, ma Terra era abbastanza convinto che quel vocabolo nuovo le fosse stato insegnato di proposito. Restava da capire da chi.
«Non devi aver paura dell’oscurità.»
La voce del Maestro Xehanort emerse dal portone del castello, immediatamente seguita dal suo padrone.
L’anziano Custode procedeva lentamente, con la schiena leggermente curva e uno sguardo che sembrava voler scrutare l’anima, e mentre si avvicinava a loro, Terra notò che Shiro nascondeva lo sguardo.
«Ed è frustrante che Eraqus rifiuti il suo potere. Potresti allenarti con lui per sempre, e tuttavia ai suoi occhi non saresti mai un maestro.» Xehanort continuò.
Terra cercò di calmare Shiro facendola balzellare in braccio, ma rimase serio.
«Non capisco, Maestro. Cos’è che non riesco a imparare?»
«Vai bene così come sei,» Xehanort disse allontanandosi. «L’oscurità non può essere distrutta, soltanto controllata.»
Terra stava per pensare ad una possibile risposta, probabilmente un ringraziamento, ma un rumore venne da dietro di lui – le campane del castello avevano preso a suonare.
Non era certo di sapere cosa volesse dire, non quella volta, ma gli era stato insegnato che era per comunicazioni importanti, se non addirittura emergenze, e fece la cosa più logica che gli venisse in mente.
Girò i tacchi e tornò dentro.
 
Ventus corse in camera sua e si buttò sul letto, senza neanche pensare a togliersi le scarpe.
Si era immaginato un miliardo di volte quel giorno, ma non si aspettava che sarebbe finito così.
Senza nemmeno alzarsi, prese il Keyblade di legno dal punto in cui lo aveva appoggiato alla sedia accanto al letto e prese a sventolarlo in aria.
Non sarebbero affatto guastate quelle sfere corrotte che avevano iniziato ad attaccare anche lui in quel momento, se non altro per dargli qualcosa a cui non pensare. Un tempo, quel “giocattolo” era stato talmente pesante che agitarlo per qualche minuto gli aveva fatto salire dolori su per i muscoli delle braccia…
Prima di scendere aveva rigato il muro vicino alla porta dove Aqua aveva insistito per misurare la sua statura da quando era arrivato.
La parete era immacolata fino ad un metro e trentacinque dal pavimento, con la semplice scritta “12 ANNI” marcata da un pennarello nero appena vicino.
 
«Quanti anni avrà quindi? Nove?» Terra chiese in un tono di voce che rasentava il bisbiglio.
«Xehanort non mi ha saputo dire il giorno del suo compleanno,» Il Maestro Eraqus disse a voce più alta. «Non c’è bisogno di bisbigliare, Terra, Ven può sentirti. E secondo me può anche dirci quanti anni ha senza problemi.»
«Eh?» Ventus si lasciò scappare. Non sapeva la risposta a quella domanda – non la ricordava.
Il Maestro si avvicinò a lui e lo fece alzare.
«Ora, Ventus, fa’ il bravo e di’ AAAAAAH.»
Ventus fece quanto gli era stato ordinato. Il Maestro gli tenne aperta la bocca con un dito e si chinò per guardare all’interno. Fece un sorrisetto.
«Premolari che spuntano. E sta già cambiando voce. Sapete, ragazzi, credo sia un dodici.»
 
Più in alto c’erano altre righe, altri momenti della sua vita. Quando aveva richiamato Evocavento alla mano, quando aveva imparato a lanciare alcune magie, il giorno in cui Terra gli aveva insegnato a fare la verticale e quello in cui gli aveva regalato il Keyblade giocattolo, le quattro ricorrenze della data che Aqua aveva deciso come il suo compleanno, la nascita di Shiro, la notte in cui si era svegliato e si era ricordato che da piccolo aveva avuto un gatto.
Quella mattina aveva scritto “Esame di Terra e Aqua” sulla tacca più in alto, ma adesso la scritta era cancellata da un enorme scarabocchio nero.
Si chiese quando sarebbe arrivata Aqua a bussargli alla porta e dirgli di cambiarsi.
Si chiese cosa le avrebbe dovuto rispondere, perché non gli andava di cambiarsi.
Non gli sembrava giusto.
Non pensava che ci fosse nulla da festeggiare, non quando Terra non aveva passato l’esame ed aveva lasciato la sala per uscire in giardino.
Rimase a fissare il soffitto ancora un po’, fino a quando fu la campana del castello a farlo scattare in piedi. Dubitava che Aqua o qualsiasi altro occupante del castello gli avrebbe dato la motivazione per muoversi, ma se la campana stava suonando, era perché qualcosa di importante era successo – magari persino un’emergenza – e al suono della campana tutti erano convocati nel salone.
A Ventus non era mai capitato un allarme vero, soltanto delle esercitazioni, e dubitava questa lo fosse.
Era quasi nel corridoio quando sentì una voce dietro di lui.
«Farai meglio a muoverti, Ventus, o non rivedrai mai più Terra.»
Ventus si girò sul posto. C’era qualcuno appoggiato contro la sua scrivania. Una figura umana, interamente ricoperta da degli strani abiti in apparente cuoio che gli aderivano al corpo quasi fossero una seconda pelle. Il suo viso era celato da una maschera e non un solo millimetro della sua faccia era visibile.
«Cosa? Posso vedere Terra ogni volta che voglio!» Ventus ribatté subito, avvicinandosi allo sconosciuto. Non poteva essere un adulto – era alto quanto lui, e lui era basso per la sua età.
Aveva qualcosa a che fare con l’allarme? Non lo aveva mai visto prima.
«Come adesso? Ti sta lasciando indietro.» Ribatté lo sconosciuto. Anche la sua voce era quella acerba di un ragazzo che cresceva ancora. «E quando lo raggiungerai, sarà una persona diversa.»
Anche senza che parlasse, la sola presenza del ragazzo in nero metteva Ventus a disagio. Ma le parole che pronunciava erano anche peggio. Ventus si sentiva un pugno di gelo colpirgli l’addome ed espandersi nelle viscere ad ogni frase che lo sconosciuto gli diceva.
«Guarda, chiunque tu sia, tu non sai nulla di Terra!» Ventus cercò di mettere insieme il suo miglior tono intimidatorio e ribattere. «Io e lui saremo sempre una squadra… stai cercando di litigare o cosa?»
Si mise in guardia, noncurante di avere per le mani soltanto un giocattolo.
Magari il suo interlocutore non sapeva nemmeno che lo fosse.
E comunque quel giocattolo pesava. Probabilmente non abbastanza da ferire gravemente – e quello era stato il motivo per cui era stato costruito – ma se fosse arrivato in qualche punto critico, avrebbe quantomeno lasciato lividi o bernoccoli.
«Oh, cresci un po’.» Lo sconosciuto lasciò la scrivania e attraversò la stanza a passi. «È questo ciò che chiami amicizia?» Si girò di nuovo verso di lui, fissando su Ventus uno sguardo senza occhi. «Non conoscerai mai la verità se non esci là fuori a cercarla da solo. Andiamo, cosa potresti mai sapere se resti fermo nel tuo piccolo mondo, senza cercare nulla?»
Un’ombra si allungò sul muro davanti allo sconosciuto, e il ragazzo ci passò attraverso… per poi sparire all’interno di essa.
Dove era finito?
RAPPORTO SEGRETO N°1
 
1 Dicembre. Cinque giorni che Ventus è con noi.
Prima di lasciarlo qui, il Maestro Xehanort non ci ha detto nulla di lui. Non sappiamo nemmeno quanti anni ha, o non lo sapevamo, perlomeno, finché il Maestro Eraqus non ha esaminato la sua statura, la sua voce, e i suoi denti, e ha concluso che deve avere dodici anni.
Non sembra abbia dodici anni, affatto. Va bene che io ne ho sedici e sono alto per la mia età, ma gliene avrei dati nove, come minimo. Anche meno per come si comporta. Sembra una pagina bianca. Se già è un perfetto sconosciuto in questo momento, è ancora più difficile capire qualcosa su di lui dato che non parla con noi.
Il Maestro Eraqus mi ha suggerito di prendere nota di tutto quello che vedo Ventus fare, e di cercare di capire che persona è dalle mie osservazioni.
Non è facile. Non con un bambino che fissa il muro, a stento parla, e si ritrae se viene minimamente toccato.

 
Sei giorni.
Ventus non ha molti vestiti di ricambio, quindi gli ho lasciato un vecchio pigiama che non mi va più. Gli arriva quasi alle ginocchia e gli ho dovuto rimboccare i pantaloni, ma si è QUASI messo a ridere quando ha visto il dinosauro e la frase stampati sul davanti.
Non so a cosa sia dovuta la cicatrice che ha appena a sinistra dello sterno, ma deve aver fatto davvero male, anche se non sembra profonda. E non è l’unica che ha addosso. Ho intravisto segni di unghiate, vecchie sbucciature su gomiti e ginocchia che fanno pensare a un sacco di cadute. Mi chiedo cosa gli abbiano fatto per ridurlo così.
Ieri notte siamo stati svegliati dalle sue urla.

 
Due settimane.
Ha paura delle forbici. Seriamente?
Deve fare qualcosa a quei capelli, stanno diventando decisamente folti sul davanti e se non li taglia gli impediranno di vedere. Aqua ha cercato di tagliarglieli.
Ventus si è nascosto sotto il letto.

 
Quindici giorni.
Terra, sinceramente, vuoi perdere un po’ meno tempo ad a prendere nota
e un po’ più di tempo a cercare di capire di cosa ha bisogno Ven? GRAZIE.

Ventus continua a soffiarsi via i capelli dalla faccia. Mi sono assentato con la scusa di andare in bagno, sono tornato nel salone con le mani piene di gel, e gli ho passato entrambe le mani tra i capelli.
Il piccoletto ha protestato, ma almeno ora ci vede... E si è lasciato toccare, non appena ha capito che lo stavo aiutando.

 
Venti giorni.
Aqua ha iniziato a chiamarlo Ven. Ven APPREZZA.

 
Un mese.
Abbiamo festeggiato l’anno nuovo con una specie di torneo in cima alla montagna. Armi finte, ovviamente.
Ventus ha fatto del suo meglio, ma… beh, è un bambino e si muove come un bambino.
Ha bisogno di farsi un po’ più di forza nelle braccia. Gli ho lasciato la mia vecchia spada da allenamento. A stento riesce a tenerla sollevata… ma serve più a lui che a me.
Non so se ho fatto la cosa giusta.

Secondo me sì.
 
Un mese e mezzo.
Ma quanto burro di arachidi si fa fuori Ventus? Credo che potrebbe VIVERE di pane, burro di arachidi e marmellata.
Se stai leggendo questa pagina, Aqua, smettila di assecondarlo, il Maestro potrebbe dare la colpa ad entrambi!

OH, LEGGI CHI SCRIVE.
 
Un mese e mezzo.
Ventus è diventato un chiacchierone.
Non riesco a stare nella stessa stanza con lui senza che decida di parlare di qualcosa. È un miglioramento enorme rispetto a solo due settimane fa.
Ha anche iniziato a chiedermi consigli per quanto riguarda la magia. Lo avevo già visto provarci con Terra, ma non credo sia andata molto bene a giudicare da come mi si è attaccato al braccio dopo che gli ho mostrato il Fire.

Scusa tanto, ma vi siete messi contro di me voi due?
 
Tre mesi
Chi ha detto a Ven che è socialmente accettabile buttarsi addosso alle persone senza alcun tipo di preavviso?

Tu quando ti sei messo a RIDERE.
 
Tre mesi e mezzo
Ven soffre ancora di incubi. A volte riesce ancora a svegliarci. L’altra notte ho attraversato il corridoio per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa, e anche Terra ha avuto la stessa idea.

Ed è finita con tutti e tre a dormire nello stesso letto. Ahi, la schiena.
 
Un anno e cinque mesi
(Ha, vi ho beccati!)
C’è qualcosa che non va con quei due. Terra è pallido come se avesse visto un fantasma, e stamattina gli ho visto lasciare la presa sul suo bicchiere e fare una bella frittata sul pavimento. Frittata di VETRI, si intende. E succo di pompelmo. Aqua… non ne parliamo. Ho perso il conto delle mattine che la vedo correre in bagno dopo la colazione.
C’è qualcosa che non mi dicono. Qualcosa che non mi VOGLIONO dire.
Ragazzi, se c’è qualcosa che non va… notizia dell’ultimo minuto. Ho quattordici anni (tredici e mezzo, ma dettagli) e sono vostro amico. Mi volete parlare oppure no?

 

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Capitolo 3
*** Il Tempo e le Persone ***


Legacy – Capitolo 3
Il Tempo e le Persone
 
«Sono a casa!» Lea si chiuse la porta alle spalle e si abbandonò sul vecchio divano del soggiorno.
Era stata una giornata a dir poco caotica in città, e il ragazzo ci avrebbe scommesso, se il dolore che provava al fondoschiena era segnale di qualcosa, prima della mattina dopo avrebbe avuto il sedere blu.
«Lea, Lea, ci sono i cavalieri in città!» Kairi emerse dal corridoio e saltò sul divano vicino a lui.
«Oooh, i cavalieri! Davvero?» Lea non aveva neanche bisogno di fingersi interessato.
Era dal giorno del fuoricampo di Cloud che succedevano cose strane. Nei vicoli bui della città erano comparsi mostri, e la guardia cittadina aveva il suo bel da fare a tenere i civili al sicuro. Proprio quel giorno, Isa aveva iniziato a considerare di andare in giro con la pesante vanga da giardinaggio di suo padre, se non altro per evitare di venire aggrediti e feriti.
Che fosse tornato Zack a casa? No, non poteva essere. Sarebbe rimasto via per l’intera estate.
«Hai visto Genesis? Angeal?» Lea cercò di inquisire meglio sul racconto della sorellina.
«No, era un cavaliere femmina.» Kairi fece una smorfia di concentrazione. «Una signora. Con i capelli blu e una spada. Ah e poi c’era un altro. Basso basso con delle orecchie grandi così!” Fece un gesto con le mani, come ad indicare dei cerchi sulla cima della testa. «Hanno sconfitto i mostri al castello. Poi è arrivata la nonna e mi ha accompagnata qui a casa.»
«Dov’è nonna adesso? Ancora al lavoro?» Lea le chiese mentre Kairi si accoccolava contro di lui. La bambina fece sì con la testa.
«La signora Fair era qui fino a poco fa. Non voleva andare via, ma le ho detto che tornavi.»
Lea si morse il labbro per reprimere il disappunto. Era nei guai. Non aveva nulla in contrario che la madre di Zack avesse preso l’abitudine di tenere Kairi d’occhio – la nonna lavorava ancora alla biblioteca del castello, ed era lei che si prendeva cura di loro due. Un aiuto in più era una mano dal cielo…
… ma la signora Fair avrebbe detto alla nonna che Kairi era rimasta da sola.
«Perché sei in ritardo?» Kairi gli chiese, quasi a leggergli i pensieri.
A volte Lea era dispiaciuto per sua sorella. Dopo l’assurdo incidente che aveva portato via i loro genitori tre anni prima, Kairi ne aveva a malapena memoria, ed era stata spinta a crescere e maturare più dei suoi quattro anni. Non si poteva avere il concetto di “essere in ritardo” a quattro anni, non per cose meno triviali dell’asilo.
«Ho conosciuto un cavaliere anche io.» Lea decise di raccontare la storia con tutta la fantasia che poteva metterci, anche se qualcosa in fondo al suo cuore gli stava dicendo che forse quella favola aveva la verità in sé. «Un ragazzo, come me.»
«Ti ha salvato dai mostri, non è vero?» Kairi si rizzò su.
«Eeeeeeh no, ho salvato io lui.» Lea le picchiettò il naso con un dito. «Era aggredito spietatamente… dalla tristezza!»
Kairi lo guardò con aria perplessa, ma Lea non smise di raccontare.
«Mogio in un angolo, solo con la sua spada. Anche gli eroi hanno bisogno di aiuto a volte.»
«E che cosa hai fatto allora?» Kairi aggrottò le sopracciglia e gli chiese in tono inquisitorio.
«Quello che c’era da fare.» Lea annuì. «Sono diventato suo amico.»
 
Memorie – Pagina 1
Ho letto da qualche parte che anche la persona più piccola può cambiare il corso del tempo.
Nessuno ha MAI detto se in meglio… o in peggio.
Ho imparato dal Maestro Eraqus che il mondo attorno a noi è la conseguenza delle nostre azioni. Forse è stata una delle prime cose che mi ha spiegato non appena sono stato abbastanza lucido per capirlo.

 
«Questa è la tua stanza, Ventus. Ne sei responsabile.» Il Maestro fece gesto a Ventus di sedersi sul letto e gli mostrò la stanzetta attorno a loro.
Era spoglia come soltanto un posto inutilizzato da tempo poteva essere. Le pareti erano vuote, la scrivania e gli scaffali erano occupati soltanto dalla polvere, e il letto disfatto era l’unica cosa che desse l’impressione che qualcuno ci vivesse – perché Ventus ci si era svegliato alcune ore prima.
«Questo castello ha i suoi modi di restare pulito nel tempo, ma sarai tu a doverti assicurare che il letto sia rifatto e i tuoi effetti personali restino in ordine. Troverai le lenzuola pulite in lavanderia, dove dovrai portare i tuoi abiti quando saranno sporchi. I primi giorni potrebbe essere difficile prendere l’abitudine, ma non avere timore di chiedere aiuto.» Il Maestro sorrise. «Prendersi cura dei mondi comincia sempre da sé stessi e dai propri spazi.»
Ventus si costrinse ad alzare lo sguardo.
«Che cosa vuol dire?» chiese al suo nuovo maestro.
«Beh, Ventus, tu sei nuovo qui. Vuol dire che io e i tuoi nuovi compagni dobbiamo adattarci a te come tu devi adattarti a noi.» Il Maestro si sedette sul letto accanto a lui. «Il modo in cui Terra e Aqua si comporteranno con te dipende da come tu ti comporti con loro, e viceversa. E sarà così con ogni persona che incontrerai sul tuo cammino.»
Ventus non disse nulla, ma si limitò a guardare il Maestro con aria interrogativa. Non ci aveva capito molto.
«I mondi attorno a noi sono la conseguenza delle azioni di ognuno.» Il Maestro gli appoggiò una mano su una spalla. Per un momento, Ventus temette di venire afferrato, o picchiato, o qualsiasi altra cosa, ma non accadde. «Le persone si comportano in una certa maniera per una certa ragione, che può essere dovuta al comportamento di un’altra persona, o a qualcos’altro che è appena accaduto, e l’accaduto precedente ha a sua volta una causa. Anche la persona più insignificante, persino un bambino che piange, può cambiare in modo radicale quello che accadrà nel futuro immediato e remoto.»
«E che cosa vuol dire?» Stavolta Ventus trovò il coraggio di chiedere.
«Vuol dire che per quanto possibile, come Custode del Keyblade, ti sto chiedendo di essere una causa di ordine e non di disordine.» Il Maestro si mise in piedi e gli sorrise di nuovo. «Benvenuto tra noi, Ventus. Questa era la lezione numero uno.»
 
Non è facile capire quando quello che stai facendo sta causando ordine o disordine.
Pensavo che inseguire Terra per impedirgli di partire fosse un modo per impedire il disordine – per salvare il mio amico… per preservare l’ordine che era la nostra amicizia.
Non avrei potuto immaginare che il discorso di Vanitas fosse stato per trattenermi in camera fino a quando non fosse stato troppo tardi per impedire a Terra di partire. Ero stato fregato come un bambino, e in un certo senso avevano usato le mie azioni per creare disordine.
Quando lo capii – quando Xehanort usò me per portare il Maestro Eraqus alla furia e all’ostilità, per fargli alzare la lama contro me e contro Terra – pensai avessero toccato il fondo.
Poi cominciarono a usare Shiro.

 
«Va bene. Ti darò una ragione per combattere.» Vanitas saltò giù dal ponte e camminò verso Ventus. «Vieni a cercarmi, nel solo e unico posto dove il X-blade può venire forgiato. Il Cimitero dei Keyblade.»
Il suo sguardo senza occhi resse quello di Ventus, poi una mano guantata di nero prese qualcosa da sotto ai vestiti.
Ventus si trovò a fissare quelli che sembravano alcuni centimetri di fili bianchi. Vanitas schioccò le dita, incenerendoli, e soltanto dall’odore acre Ventus capì che si trattava di capelli.
«Vedremo per quanto continuerai a fare il pacifista con la tua cucciola in mano nostra!»
Gli gettò addosso la cenere, per poi aprire un passaggio nelle ombre e sparire.
Ventus rimase per un momento attonito a fissare il punto in cui Vanitas era fuggito.
Shiro. Quei capelli erano i suoi. Avevano preso Shiro.
Come poteva essere…? Come erano finiti in quella trappola, e come erano riusciti a fare in modo che ci finisse anche un’innocente come lei?
«Sono stato uno stupido!» Ventus gridò a nessuno in particolare. La comparsa di Vanitas nella sua camera, le cose che il Maestro Xehanort gli aveva detto… cosa avrebbe potuto smentire, a quel punto, che la prova stessa di Terra fosse stata sabotata fin dall’inizio?
Avevano preso Shiro.
Ventus sarebbe fuggito a dirlo a qualcuno, ma a chi? Il Maestro Eraqus non lo avrebbe ascoltato, non dopo quello che gli aveva detto. Terra lo aveva mandato via, e dopo tutto quello che aveva detto e il modo in cui era fuggito, non si sentiva il coraggio di andare a cercare Aqua.
E se avesse perso tempo per cercare uno qualsiasi di loro – anche il Maestro Yen Sid, che pure lo aveva aiutato a cercare Topolino – probabilmente sarebbe stato troppo tardi per salvare Shiro.
No.
Doveva farlo lui, e accettarne le conseguenze.
 
Il cielo era stellato su Radiant Garden quella notte, ma nella piazza della città infuriava una battaglia.
Il giovane uomo, rifugiato in una casa abbandonata, tirò un sospiro e si accasciò contro la parete.
Tutto come da piano, anche se ancora non era sicuro di quanto ci sarebbe voluto perché il piano andasse interamente a compimento.
«… cammina, cammina, Russell ci disse di aver trovato qualcosa. Inseguì le impronte e scoprì un enorme pennuto. Proprio così, un uccello alto più di me, con le ali piccine così, le gambe lunghe così, il collo enorme e degli occhi grossi come le padelle!»
La sua ascoltatrice lo fissava come se avesse sentito lo stesso Maestro dei Maestri parlare.
«Il signor Fredricksen aveva cercato di cacciarlo via con il bastone, ma il pennuto si pappò il bastone!» Il ragazzo continuò. «Però il bastone non gli piaceva, quindi se lo sputò fuori subito. Però gli piaceva tanto il cioccolato di Russell…»
«E poi?» La bambina gli chiese di nuovo.
Quando il ragazzo aveva portato Shiro via dal castello in rovina, la piccolina non aveva fatto altro che piangere, ma con il passare delle ore, complici un biberon trovato nelle cucine, la canzone giusta, e la storia di quando lui e il suo migliore amico avevano salvato il beccaccino Kevin con l’aiuto di un anziano addetto ai palloncini e un boyscout, si era calmata e sorrideva.
«E poi c’erano una nave che volava, e tanti cani che parlavano, e alla fine il signor Fredricksen con il nostro aiuto riuscì a salvare il beccaccino e a portare la sua casa sulle Cascate Paradiso.»
Il ragazzo alzò lo sguardo verso la finestra che dava sulla piazza. I suoni della battaglia erano cessati, e stranamente nessuno sembrava essere accorso per via dei rumori.
«Che dici, gattina? Dici che possiamo salutarci?»
Shiro lo guardò negli occhi ed emise un suono interrogativo. Non sembrava capire esattamente quello che stesse accadendo, ma considerando la sua età c’era da aspettarselo.
Non poteva rimanere lì ancora per molto. Non poteva portarla con sé.
Il mondo di quella bambina era stato distrutto in poco meno di un giorno, e c’era un solo modo per non abbandonarla al suo destino.
 
«Lea! Giù dal letto!»
Il ragazzo soffocò uno sbadiglio e si avvolse ancora più strettamente nelle coperte coprendosi la testa con il cuscino. Era estate. Perché la nonna insisteva tanto che si alzasse?
«Ho bisogno di te, giovanotto. Mi serve che tu venga al castello oggi.» Nonna continuò, la sua voce sempre più vicina.
«Eh?» Lea aprì gli occhi e si mise a sedere. La nonna aveva quasi una mano sulle coperte, e nel letto accanto al suo Kairi, già vestita ma scalza, saltellava sulle coperte disfatte. «Nonna, avevo detto ad Isa e Cloud che ci saremmo visti alla gelateria...» Lea cercò di protestare.
«C’è stata un’emergenza nella piazza ieri notte. Il professor Even ha telefonato stamattina… Braig ha trovato nella piazza un giovane e una bambina piccola. C’è bisogno di qualcuno che si occupi della piccola fino a quando non verrà rinvenuta la sua famiglia.»
Lea alzò gli occhi al cielo. Non era forse bastato dover imparare a cambiare i pannolini a tredici anni perché sua nonna lavorava alla biblioteca? Non aveva affatto intenzione di farlo di nuovo, e per giunta con una perfetta sconosciuta! Kairi era stato un altro discorso…
«E perché dovrei farlo io? Ti sembro forse Mary Poppins?» Lea sbuffò rumorosamente.
«No, mi sembri soltanto la persona di cui mi posso fidare di più al momento.» Nonna si fermò vicino al letto e si sedette accanto a lui. «Li hanno trovati all’alba e non c’è molta gente che entra in quel castello. Ancora meno tra questi hanno delle famiglie. Ti dispiace essere uomo abbastanza da prenderti questa responsabilità?»
Un’ora dopo, Lea aveva già preparato la colazione per sé e sua sorella, si era vestito e pettinato alla meno peggio, ed era ai cancelli del castello assieme a Nonna e Kairi, con metà della faccia coperta dalla bandana e lo sguardo basso, per evitare che le guardie di Lord Ansem lo riconoscessero e gli facessero fare una pessima figura davanti alla sua famiglia.
«Non possiamo far entrare bambini qui, signora.»
Le ultime parole famose. Dilan, la guardia con i capelli scuri, si avvicinò a Lea con una lancia e gliela puntò contro il naso celato dalla stoffa.
«Avevo detto che avrei portato qui i miei nipoti, Dilan.» Nonna sostenne il suo sguardo. «Lea è qui per prendersi cura della bambina che avete trovato in piazza, e non posso lasciare Kairi da sola a casa.»
«Siete parenti, eh?» Dilan abbassò la bandana di Lea con un singolo colpo di mano. «Il vostro affidabile nipote ha cercato di intrufolarsi nel castello più volte con un amico. Perdonatemi la cautela.»
Nonna fulminò Lea con lo sguardo, ma rivolse di nuovo un’occhiata a Dilan.
«E qualsiasi siano state le sue ragioni, ora è con me e dovrete risponderne ad Even se lo metterete alla porta.»
Per un momento, nei giardini regnò il silenzio. Kairi, che ancora teneva Lea per mano, gli diede una piccola stretta alle dita in quello che tra i due era sempre stato un segno di intesa. Il ragazzo decise che era l’ora di stare al gioco e dimostrare alle guardie il motivo per cui era lì, si chinò all’altezza di Kairi e la prese in braccio.
«D’accordo.» Fu Aeleus a intervenire. «Parleremo con Even. Il ragazzo attenderà nel corridoio.»
I due aprirono il cancello, conducendo dentro Lea, Kairi e Nonna.
«Ma è andata bene?» Kairi chiese a Lea parlandogli nell’orecchio. Lea fece spallucce.
Le guardie li condussero in un corridoio senza finestre, fino ad arrivare ad una porticina foderata in rosso dove li fecero fermare. Lea era già stato in quella zona del palazzo quando Zack ce lo aveva portato, settimane prima che gli erano sembrate una vita, prima che lui e Isa iniziassero a venire scoperti. Le guardie e la Nonna entrarono nella stanza, lasciando Lea e Kairi soli ad aspettare.
Da qualche parte nei meandri del castello si sentiva distinto il suono di qualcuno che piangeva.
«La bambina…» Kairi mormorò.
Il suono regolare e pesante dei passi di un uomo adulto riempì il corridoio, sempre più forte, sempre più vicino, e da dietro ad un angolo apparve una faccia familiare.
«Lea! Che stai facendo qui dentro?»
Non era né una guardia del castello né uno scienziato ad averlo riconosciuto – era Angeal della guardia cittadina, il mentore di Zack.
«Signore!» Lea si raddrizzò al meglio che gli consentiva il peso di Kairi e accennò a un gesto di saluto.
Angeal si avvicinò a loro con aria preoccupata.
«Dovreste essere a casa vostra, con quel che è successo ieri notte…»
«Siamo qui perché è successo qualcosa ieri notte.» Lea fece scendere Kairi e guardò Angeal negli occhi. «Mia nonna, la bibliotecaria del castello, dice che sono stati trovati per strada un uomo e una bambina. Dice che Braig li ha trovati. Io sono qui perché so… so cambiare i pannolini.» Lea si costrinse a sogghignare.
«Braig?» Angeal alzò gli occhi al cielo. «Perché mai quell'uomo sembra scovare tutti i guai dovunque si vada a infilare?»
«Ma è vero che ha perso l'occhio?» Kairi intervenne indiscretamente.
«Kairi!» Lea cercò di calmarla.
«Come fa una persona a perdere l'occhio?» La bambina chiese di nuovo. «Gli è caduto dalla testa?»
Angeal si coprì la bocca con una mano ed emise uno sbuffo.
Lea avrebbe voluto sprofondare nel pavimento.
«Credimi, Kairi, è meglio se non lo sai.» Il ragazzo alzò gli occhi al cielo.
La porta della stanza si aprì, e le guardie uscirono con Nonna ed Even.
«… e vorrei sapere perché vi siete presi la briga di rubarmi tempo prezioso!» Even stava sbraitando. «Vi hanno dato un babysitter per la mocciosa e voi volete anche metterlo alla porta?»
Alcuni minuti dopo, Angeal stava conducendo Lea negli alloggi per gli ospiti del castello, seguendo la direzione dei pianti, e bussò ad una delle porte.
Ad aprire fu un bambino – un ragazzino in età da prima media – con addosso un camice troppo lungo e largo e l’aria fin troppo seria. Metà del suo volto era coperto da un folto ciuffo blu argenteo.
«Ienzo, ho il babysitter.» Angeal disse al bambino. Il piccoletto annuì e lasciò la stanza di corsa, senza dire una parola.
Lea si guardò intorno – doveva essere una delle stanze degli ospiti del castello. La bambina di cui tutti parlavano era seduta su un letto appoggiato contro una parete, con dei cuscini infilati sotto il materasso dal lato libero per impedire che cadesse, e strillava a pieni polmoni. Aveva un pigiamino grigio a forma di gatto che era visibilmente lurido, le mancavano ciuffi di capelli bianchi come se qualcuno glieli avesse tagliati via senza badare al suo aspetto, e la sua faccia era rigata dalle lacrime.
Lea si morse il labbro – non sarebbe stato facile. Fece allargare sul suo volto il più affabile dei sorrisi, fece gesto a Kairi di restare indietro per un momento, e si sedette sul pavimento con la schiena rivolta verso al muro.
«Ehilà, funghetto. Piacere di conoscerti,» esordì scandendo bene le parole. «Io sono Lea. Lo hai memorizzato?»
Le tese la mano. Gli ricordava molto Kairi – nei giorni dell’incidente. Anche quella piccolina aveva la sua stessa aria smarrita, ma se possibile anche più aggravata dai capelli in disordine e dal vestitino sporco. E sembrava anche avere più o meno un anno.
La piccola smise di piangere e lo guardò negli occhi.
«Buongiorno.» Lea riprese a parlare in tono cantilenante. Qualsiasi cosa avrebbe dovuto fare, quella bambina andava calmata.
«Volio papà…» La bambina iniziò a dire in tono lamentoso.
Lea si coprì la faccia con una mano. Cominciamo bene.
 
«Zack, giusto?»
Una figura vestita di nero girò uno degli angoli di Tebe e si fermò davanti al ragazzo.
Zack non lo aveva mai visto dal vivo, ma conosceva l’uomo di fama. Era il Capitano Sephiroth, il capo della guardia cittadina. Cosa ci faceva lì?
«Capitano?» Zack scattò sull’attenti, per poi gettarsi un’occhiata fugace alle spalle. Ercole e Phil erano ancora impegnati nella piazza, Phil a sbraitare ed Ercole a fare piegamenti.
«Sei richiamato urgentemente a casa.»
Zack avrebbe voluto chiedere se fosse accaduto qualcosa, se la sua famiglia stesse bene, ma Sephiroth lo prese immediatamente per un braccio e tutto attorno a loro si fece buio.
Il mondo tornò a fuoco e Zack si ritrovò nella piazza principale di Radiant Garden – la stessa piazza in cui Cloud aveva segnato un fuoricampo sulla testa di Braig.
Si accorse subito che qualcosa non andava.
C’erano solchi nella pietra, sassi spezzati, anneriti come se bruciati, sparpagliati dovunque. Un albero era stato sradicato, alcuni presentavano bruciature e un altro era stato abbattuto, troncato di netto.
Per quanto fossero all’aperto, verso il centro della piazza si avvertiva un vago odore di pesante, stantio, che a Zack sembrava di riconoscere.
Gli venne immediatamente in mente Ade.
Fece per girarsi verso Sephiroth e chiedergli cosa fosse successo, ma il capitano non c’era.
Zack era solo.
Sei richiamato urgentemente a casa.
Qualcosa doveva essere successo, ma cosa? Zack fu tentato di andare a parlarne con i suoi genitori – ammesso non fosse successo qualcosa a loro, oppure andare al castello e parlare con Angeal, quando due voci tagliarono il silenzio e due ragazzi corsero verso di lui.
«Zack! Zack, sei tu, vero?»
Cloud fu il primo a raggiungerlo. Il tacito Isa lo seguì a ruota.
Nessuno dei due era a mani vuote: Cloud stringeva la sua mazza da baseball nel pugno e Isa aveva una vanga da giardinaggio dall’aria pesante appoggiata su una spalla.
«Cos’è successo?» Zack chiese loro. «E dov’è Lea?»
I due rimasero in silenzio per un momento mentre Zack passava lo sguardo da uno all’altro, poi Cloud fu il primo a parlare.
«Non lo sappiamo,» disse. «Non era dove volevamo vederci, e abbiamo provato a cercarlo a casa ma non c’è nessuno. Né lui, né la nonna o la sorellina.»
«Né alcun segno di lotta.» Isa appoggiò la vanga a terra e incrociò le braccia. «C’è stata una battaglia ieri notte in questa piazza. Non sappiamo esattamente cosa sia accaduto, ma dicono che sono stati ritrovati dei feriti. Li hanno portati al castello.»
«Volevamo andare a cercare Lea…»
«… Ma è fuori discussione, Cloud. Soprattutto per te, se ci tieni a entrare nelle guardie.» Isa lo zittì.
«Ma tu e Lea lo fate…»
Zack non li lasciò continuare.
«Posso controllare io al castello, ragazzi. Inutile discuterne,» intervenne. «Qualsiasi cosa sia accaduta, se è stata messa in movimento la guardia cittadina, non potrà di certo essere affrontata con una mazza e una vanga.»
Gli dispiaceva sminuire gli sforzi dei due, ma non voleva metterli in pericolo – non ora che Lea non si trovava.
Cloud lo guardò per un momento con l’aria da cucciolo ferito, come se volesse in un qualche modo convincerlo senza parlare. Zack si maledisse mentalmente per aver acconsentito di aiutarlo con Aerith – quel piccolo testardo sembrava più che intenzionato a fare l’eroe, ma non aveva affatto capito di non poter fare la differenza alla sua età.
Un momento. Aerith.
«Ma ho bisogno che mi facciate un favore. Tornate nel borgo e andate a casa di Aerith. Per favore, assicuratevi che stia bene, ditele che sono tornato e sono tutto intero.»
«Possiamo farlo. So dove abita.» Cloud fece sì con la testa. «Seguimi, Isa.»
Girò i tacchi, quasi prendendo il ragazzo più grande per la manica, e corse via verso le strade che portavano al centro abitato.
Zack rimase un momento nella piazza, a cercare di capire dalle tracce del combattimento cosa fosse successo.
Non lo aveva menzionato ad Isa e Cloud, ma aveva già visto una devastazione del genere, e quello che aveva visto non gli piaceva.
Aveva visto come Ventus aveva fatto a pezzi qualche mattone nella piazza di Tebe per spazzare via i mostri, e Ventus. Era. Un. Bambino. O perlomeno, il suo fisico non era affatto quello del distruttore.
Zack aveva anche visto l’arena e come era stata ridotta dopo che Terra e Aqua avevano vinto due tornei all’Olimpo, e quei due, che combattevano come Ventus ma erano decisamente più anziani ed esperti, avevano mandato polvere dalle fondamenta dello stadio fino in cima agli spalti!
… o qualcosa del genere.
Era sicuramente successo qualcosa che aveva coinvolto qualcuno forte come loro… qualcuno con le loro stesse armi.
Il suo sguardo si fermò su una zona del pavimento dove i mattoni erano stati strappati dal suolo e spazzati via. La malta sottostante si era sbriciolata in certi punti, ed erano visibili delle familiari trame a spirali, tracciate da quella che sembrava la punta di una scarpa.
Una ragazza, circondata da un’aura celeste, che piroettava sull’arena quasi fosse una pista di pattinaggio, tenendo in alto la sua spada, sferrando una aggraziata quanto micidiale aggressione magica…
Aqua. Aqua era stata lì.
Zack riconosceva quei solchi, riconosceva le scarpe che li avevano lasciati.
«Dannazione!» sbottò, mettendosi a correre verso i cancelli del castello. Non era più preoccupato solo per Lea – cosa era successo nella piazza?
Attraversò i giardini andando quasi a sbattere contro Ienzo, che esaminava delle bruciature nell’erba lasciate senza dubbio da qualche mostro – Zack li riconosceva ormai, sapeva le tracce che lasciavano –, salì le scalinate saltando un gradino ogni due, e quasi non si fermò davanti a Dilan e Aeleus.
«Zack Fair della guardia cittadina!» ansimò. «Sono stato richiamato a casa dal Capitano!»
I due lo riconobbero quasi subito e non fecero una piega quanto a lasciarlo entrare, e Zack irruppe nei corridoi di corsa. Non sapeva cosa lo stesse trattenendo dal non urlare il nome della sua amica… poi andò a sbattere contro qualcosa e si ritrovò una bambina, caduta sul sedere, davanti a lui.
Cosa ci faceva Kairi lì?
«Cavolo… Kairi… scusami, non ti avevo vista!» Zack la prese in braccio e guardò su e giù nel corridoio, nel caso qualcuno avesse visto la sua epocale figuraccia.
«Non fa niente,» la bambina rispose. Le tremava un poco il labbro, ma si stava sforzando di restare stoica. Zack la rimise a terra.
«Cosa ci fai tu qui?» Si chinò per guardarla negli occhi. «Non è posto per bambini.»
«Lo hanno detto anche i due signori grandi qui fuori, ma poi hanno lasciato entrare me e Lea lo stesso.» Kairi si dondolò sui piedi.
«Anche Lea è qui?» Zack chiese immediatamente.
Kairi fece sì con la testa. «Hanno trovato una bimba nella piazza, e c’era bisogno di qualcuno che sa fare il fratello.»
Dalla gola di Zack uscì un suono che sembrava un imbarazzante ibrido tra una risata e un sospiro di sollievo. Di tutti i posti in cui Lea poteva essere finito… stava facendo il babysitter al castello di Ansem.
«Cos’è successo ieri notte, Kairi?»
«Non lo so.» Kairi girò un poco su sé stessa, le mani giunte dietro la schiena. Poi camminò verso una delle porte e la spinse, rivelando Lea che cercava di calmare una bambina di più o meno un anno, seduta in una culla di fortuna con un evidente broncio.
«Zack! Sei tornato!» Lea era piacevolmente sorpreso dalla sua presenza. «Il funghetto qui continua a lamentarsi di volere i suoi genitori. Quasi non si lascia toccare
«E Kairi mi aveva detto che sai fare il fratello…» Zack gli si avvicinò con un sorrisetto, poi si fece serio. «Lea, cos’è successo in piazza ieri notte?»
Il ragazzo scrollò le spalle.
«Sarei curioso di saperlo anche io. Ho parlato con Angeal non appena sono arrivato qui. Ora che ci penso, non mi stupisce che tu sia arrivato qui un paio d’ore dopo… questa storia puzza. Braig ha trovato la bambina e un uomo al centro della piazza. Angeal è tornato qui poco fa, e a quanto pare l’uomo si chiama Xehanort, ma non mi è riuscito a dire niente riguardo alla bambina, a parte che era abbracciata a quelli che sembravano dei pezzi di armatura. Che Angeal non ha visto, per la cronaca.»
«Ho esaminato la piazza.» Zack si appoggiò a un muro. «Hai detto Xehanort, no? So chi era l’altro combattente, forse. E forse ho anche un modo per provare che dico il vero.»
 
«Per come parli di Terra…» Aqua nascose con una mano le risate. «Credo che solo Ventus e Shiro arriverebbero a parlare così.»
Zack incrociò le braccia e sorrise.
«Ventus lo conosco. E Shiro chi è?»
Aqua tirò fuori una fotografia da una tasca nascosta dalle pieghe dei vestiti. Zack riconobbe Ventus, con una maglietta verde e un paio di calzoncini corti, e una bambina molto piccola, forse un anno, che galleggiava in un lago con un salvagente. Ventus la manteneva da dietro, per evitare che si allontanasse.
«Hai conosciuto Ven? Hai conosciuto questo ragazzo?»
Zack fece di sì con la testa.
«Quindi Shiro è lei, eh?» Indicò la bambina.
 
«Quindi tu saresti Shiro, eh?»
Era identica alla bambina della foto, salvo per alcuni ciuffi di capelli in meno, che sembravano essere stati tagliati senza che importasse.
«Shiro?» Lea fece una smorfia. «Era quello che cercavi di dirmi con tutti quegli io io pio pio?»
La bambina indicò sé stessa.
«Shio!» squittì in tono esasperato.
«Va bene, va bene!» Lea alzò le braccia. «L’ho memorizzato, funghetto.»
 
 
Ultimamente, il cielo sopra le isole era spesso punteggiato da stelle cadenti, e Sora e Riku facevano del loro meglio per non perdersene nemmeno una.
A volte Sora cercava di spingere Riku di lato, nel tentativo di vedere le stelle per primo ed esprimere un desiderio. Ma, dopo due notti di scie luminose, Riku sembrava quasi aver perso l’entusiasmo.
«Alcuni anziani del paese dicono che è un brutto segno,» disse, guardando il cielo. «Dicono che è in arrivo…»
«… una disgrazia o una guerra.» Sora mormorò senza accorgersene, facendosi serio senza volerlo.
Si portò entrambe le mani alla bocca. Che era successo?
Non era una cosa che aveva voluto dire!
«Da quando in qua sai cos’è una disgrazia?» Riku lo guardò storto, alzando un sopracciglio.
«Infatti non lo so!» Sora sentiva le guance farglisi calde. Incrociò le braccia dietro la testa in un movimento che gli pareva quasi istintivo. «Perché, tu lo sai?»
«Vuol dire qualcosa di molto brutto.» Il bambino più grande fece alcuni passi in avanti e colse da terra alcuni sassolini. «Brutto come se il cielo ci cadesse addosso.»
Quando ebbe il pugno sinistro pieno di pietre, Riku mise la mano destra sulla spada di legno che portava sempre appesa alla cintura dei pantaloni.
«Un giorno voglio diventare forte come gli eroi.» Fece un sorriso, mostrando i ciottoli che aveva in mano. «Così quando le stelle cadranno dal cielo le spedirò lassù, indietro da dove sono venute!»
Scagliò i sassi verso l’alto e poi iniziò a ribatterli con la spada, uno dopo l’altro, lontani da loro. Uno stava ricadendo lontano da lui… non lo avrebbe raggiunto in tempo… Sora strinse la sua spada giocattolo e vibrò l’ultimo colpo, facendo rimbalzare anche l’ultimo sassolino lontano.
«Ricordi che ha detto la signorina?» Sora affiancò Riku. «Devo starti vicino altrimenti non vali niente.»
Riku rimase fermo e zitto mentre guardava Sora in faccia.
Sora rimise la spada alla cintura e gli rivolse il più caldo dei suoi sorrisi.
«Un giorno in città racconteranno storie nuove.» Gli mise una mano sulla spalla. «Racconteranno dei due grandi e potenti eroi che rimettono le stelle a posto nel cielo. Insieme perché sono amici del cuore. E diranno “c’era una volta un eroe, anzi no, erano due, e si chiamavano Riku e Sora” e noi saremo lì ad ascoltare e tutti ci guarderanno.»
Mentre lo ascoltava, Riku stava diventando sempre più rosso ad ogni parola.
«Ma io non voglio finire in una storia…» disse, stringendosi nelle spalle. «Io… voglio soltanto rimettere a posto le stelle…»
«Beh ma è quello che fanno gli eroi.» Sora prese Riku per le spalle con il braccio con cui già lo stava toccando e strinse forte.
Riku lo prese a sua volta con un braccio, da sotto le ascelle, e lo sollevò in aria per un momento.
«Sora, dai, se pensi di essere un eroe col peso piuma che sei…!» ridacchiò, poi lo lasciò andare e lo sollevò di nuovo, stavolta con entrambe le braccia, cercando di issarselo sulle spalle. Sora cercò di farsi lasciare lottando con tutte le sue forze, e finirono entrambi per terra prima di accorgersene.
«Siamo dei pesi piuma tutti e due!» Sora, atterrato di pancia addosso a Riku, alzò la testa e si mise a ridere.
«Piuma? A me?» Riku si sollevò e portò minacciosamente le braccia all’indietro. «Ora arriva il solletico!»

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Capitolo 4
*** Chi Guarda le Guardie ***


Warning:
Se ancora NON avete giocato a Kingdom Hearts 3 e NON avete letto i Rapporti Segreti, in questo capitolo ci sono espliciti riferimenti ad essi, se non proprio un paio di citazioni prese quasi pari pari. Spoiler a vostro rischio e pericolo, ma non dite di non essere stati avvisati - ormai il gioco è uscito da quasi quattro mesi.

 
Legacy – Capitolo 4
Chi Guarda Le Guardie
 
Dopo il mezzo disastro del primo giorno, Lea iniziò a trovare più facile prendersi cura di Shiro.
Già sapere il suo nome era un passo in avanti, ed era anche rincuorato dal fatto che Zack sapesse chi erano i suoi genitori e aveva promesso che sarebbe andato a cercarli.
La sera del primo giorno, una volta tornato a casa, Lea si era anche messo a cercare assieme alla nonna i vestiti che Kairi aveva portato quando aveva un anno, per portarne un po’ al castello la mattina dopo.
Era ancora stranissimo vedere Dilan e Aeleus lasciarlo passare, ma fu ancora più strano vedere, entrando nella stanza della bambina tenendo Kairi per mano e con in spalla un borsone di abiti piegati, che Shiro non era sola.
C’era un uomo nella sua stanza – uno che Lea non aveva mai visto prima – ma che aveva i suoi stessi capelli bianchi e le somigliava visibilmente. Era chino davanti a lei, che era seduta sul letto, e sembrava mormorare malamente una canzone.
«… ma i patti erano chiari… un coccodrillo a te… e tu dovevi dare un gatto nero a me…»
Lea rimase ritto sulla soglia, trattenendo Kairi perché non si muovesse, in silenzio.
«Buon… giorno…» mormorò quando l’uomo ebbe finito di cantare. Shiro stava ancora battendo le mani e ridendo.
Guardando il tipo in faccia, Lea dovette rapidamente concludere che si trattava di un ragazzo padre. Non sembrava essere molto più anziano di lui, e aveva l’aria stanca e confusa.
«Uhm, mi chiamo Lea. Sono il babysitter di Shiro.» Lea trascinò un piede sul pavimento. «Questa qui è la mia sorellina Kairi. Devo portarmela dietro o dovrei pagare io un babysitter.»
Il padre di Shiro passò lo sguardo in silenzio da lui a Kairi, poi si mise in piedi e uscì dalla stanza, tenendosi la fronte con una mano e quasi spingendo Lea di lato.
Il ragazzo lasciò andare Kairi e si sedette sul lettino accanto a Shiro.
«Scommetto che quella socievole è tua madre, dico bene funghetto?»
«Lea, nonna dice che non si fanno i sarchesmi!» Kairi quasi marciò verso di lui.
Shiro sicuramente non aveva capito che Kairi aveva completamente sbagliato la frase, e quasi sicuramente non aveva neanche capito il motivo del rimprovero, ma guardò Kairi e prese a ridacchiare.
«Va bene, ce l’avete con me.» Lea si mise in piedi e aprì il borsone. «Posso farmi perdonare da voialtre? Adesso ci cambiamo e poi andiamo a giocare in giardino.»
Ne trasse come prima cosa un pacco di gessetti.
«Guarda qui cosa ho per te, Kai.»
Nel vedere i gessetti colorati, il broncio di Kairi si dissolse, e per poco non li strappò di mano a Lea prima di correre per la stanza facendo i salti di gioia.
Il piano di Lea era semplice: per quanto Shiro fosse difficile da gestire, col fatto che non fosse del migliore degli umori la maggior parte del tempo, se avesse fatto giocare le bambine appena fuori dal castello, dove ai civili era comunque concesso arrivare, nessun Dilan e nessun Aeleus avrebbe obiettato alla presenza di Isa, Cloud e Aerith. E, per quanto Kairi adorasse disegnare per strada con il gesso, Lea sapeva di averla già in pugno.
Mentre Kairi era impegnata ad esaminare la scatola di gessetti e a vedere quali colori ci fossero, Lea prese uno dei vestitini dal borsone, un pannolino pulito da un mobile là vicino, cambiò il pannolino a Shiro (cosa le avevano dato da mangiare? Urgh.) e le mise addosso i vestiti puliti.
Buttando il pannolino sporco, Lea iniziò a pensare a come farne, possibilmente, una bomba puzzolente da usare su Braig, ma dismise l’idea. Isa e gli altri lo stavano aspettando fuori, e non intendeva affatto perdere tutta l’estate nell’unica zona del castello che gli era permessa.
Prese Shiro in braccio e Kairi per mano e si avviò verso il giardino.
Non appena fuori, Kairi gli lasciò la mano e prese ad aprire la scatola dei gessetti, iniziando a disegnare linee, una campana, e varie figure a stecchi che indicò gradualmente come lei stessa, Lea, Shiro, e “la signora cavaliere che combatteva i mostri”.
Lea lasciò andare Shiro, iniziando a chiedersi se Kairi le avrebbe lasciato usare il suo vecchio triciclo, e diede un’occhiata fugace alla scalinata, sperando di vedere presto Isa, magari con dei gelati.
Cosa non avrebbe dato per un…
Qualcuno stava salendo le scale. Ma non erano ragazzi.
Lea scattò istintivamente verso Kairi e Shiro, restando vicino alla prima e prendendo per una manina la seconda, ma si rilassò quando vide le uniformi scure delle guardie che pattugliavano la città.
E avrebbe riconosciuto i capelli argentati, l’aria superiore, e la katana del Capitano Sephiroth anche al buio pesto. Se c’era qualcuno davanti a cui si fidava a lasciare due bambine libere, erano quegli uomini.
Dilan e Aeleus, tuttavia, non sembravano della stessa opinione. Dilan marciò verso di loro, lancia in resta, come ad impedire loro il passaggio.
«La guardia cittadina non ha niente da fare qui, Sephiroth.»
Un altro ufficiale cittadino, che Zack aveva indicato a Lea come Genesis, fece un passo in avanti ed affiancò il capitano.
«E le guardie del castello non hanno affari nella piazza.» Genesis ribatté. «Come vi spiegate sia stato uno di voi a rinvenire le tracce dello scontro? La vostra giurisdizione è questo castello, e chi vi abita. Eppure Braig era lì, a raccogliere i superstiti, quasi come sapesse di trovarli
Dilan quasi trasalì, ma si ricompose subito. «Da quando un abitante del Giardino, una guardia di Lord Ansem, deve rispondere alle guardie cittadine su dove si trova?»
Le altre due guardie erano facce conosciute per Lea. Uno di loro era Angeal, e l’altro Zack, ed entrambi gli rivolsero un’occhiata complice. Zack aveva un Moguri di peluche ciccione e spelacchiato sotto ad un braccio, e Lea iniziò a chiedersi il perché.
«Va bene, non scoppiamo in risse davanti alle bambine.» Angeal si intromise tra Sephiroth e Genesis. «Vogliamo solo parlare. E Zack forse ha delle informazioni su Shiro – su da dove viene e sulla sua famiglia.»
«Avrei anche Mister Kupò…» Zack sorrise imbarazzato.
Fece alcuni passi in avanti e si avvicinò a Shiro.
«Ciao, piccola.» Si chinò davanti a lei. «Questo è Mister Kupò ed è un mio vecchio amico. Solo che adesso che lavoro nelle guardie resta solo a casa mia tutto il tempo. Puoi fargli compagnia tu?»
Porse il Moguri di pezza a Shiro.
Per un momento, Shiro guardò Zack con aria sospetta, poi allungò una manina e toccò il naso di Mister Kupò.
«Tì…» Shiro pigolò.
Zack le fece un sorriso da un orecchio all’altro e le mise Mister Kupò nelle braccia.
«Mi raccomando, ho fiducia in te. È un compito importante che ti sto affidando. Questo vecchio brontolone è un mio caro amico e non voglio che senta la solitudine.»
Probabilmente Shiro non aveva capito una parola di quello che Zack stava dicendo, ma aveva capito il tono, e quando il ragazzo le mise il peluche tra le braccia, lei prese a stringere forte con tutto l’affetto che un bambino di quell’età poteva avere con un nuovo amico.
«Vogliamo andare, Zack?» Angeal lo sollecitò ad entrare.
«Uhm, subito!» Zack ondeggiò le braccia e scattò in piedi, poi seguì il suo mentore verso il portone del castello. Accennò un saluto a Lea e Kairi e sparì, poi fece di nuovo capolino fuori dalla porta.
«So che Cloud, Aerith e Isa stanno venendo qui con una scorta di gelato. Lo so perché ho pagato io il Signor De’ Paperoni. Aspettatemi
 
Tutto procede come da piano.
Xehanort è tabula rasa e sotto il mio controllo. La bambina è stata portata qui e dovremo solo aspettare che il suo destino si compia.
Lo ha nel sangue, dopotutto. Il Keyblade l’ha scelta, forse dal giorno in cui è nata, forse anche da prima.
Dubito che Xehanort ricorderà il ruolo di padre che aveva il ragazzo che l’ha cresciuta – ma il nipote della vecchia bibliotecaria sembra aver conquistato la sua fiducia abbastanza da consentirmi di tenere la bambina lontana dal padre.
Occorre cercare qualcun altro che si prenda cura della mocciosa quando l’estate sarà finita – tremo al pensiero di quello che la vecchia rimbambita potrebbe farmi se dovessi sottrarre il suo prezioso nipotino alla scuola.
E c’è un’altra minaccia al piano. Zack, l’apprendista guardia.
Non sono sicuro di come ne sia venuto a conoscenza, ma sa troppe cose che non dovrebbe sapere. Stavolta Lord Ansem non era reperibile, chiuso nei laboratori ad occuparsi di Xehanort, ed è stato Even ad ascoltare i deliri di quell’impiccione d’un ragazzino.
Se vedesse Xehanort, se parlasse con Ansem, i piani del vecchio trombone sarebbero estinti ancor prima di cominciare.
Occorre ridurlo al silenzio in una qualche maniera. Lui, e quella patetica scusa per un corpo di polizia che è la guardia cittadina.
È l’ora che imparino quel che succede quando si gioca a fare gli eroi.
 
Quell’anno, l’autunno arrivò prima del previsto.
Radiant Garden al suo risveglio aveva un che di poetico, e mentre Isa, lasciato Bolt nel giardino di casa sua, si incamminava per la strada di scuola in mezzo alla città ancora silenziosa, non poté che pensare che forse era proprio ora.
Non gli dispiaceva l’estate, ma gli era mancata un po’ la routine dei giorni di scuola, specie ora che Lea aveva avuto gran parte del suo tempo sottratto dal lavoro che la nonna gli aveva trovato.
Il ragazzo si strinse nella giacca della divisa e accelerò il passo. Non stava bene arrivare in ritardo il primo giorno di scuola. Non nella sua posizione.
C’erano soltanto pochi studenti davanti ai cancelli, specialmente ragazzi dell’ultimo anno e qualcuno della sua classe. Isa e Lea, assieme a Zack, avrebbero cominciato il quarto anno delle superiori, il penultimo prima dei diplomi.
«Buongiorno!» Zack arrivò, salutando allegramente nonostante l’aria assonnata. Aerith era con lui, e gli teneva la mano.
«Ciao, Isa!» Aerith, con indosso un’uniforme nuova di zecca e un cartellino con il suo nome che indicava la sua appartenenza al primo anno, quasi sembrava starsi trascinando dietro il suo ragazzo. Notò subito la recente aggiunta all’uniforme scolastica di Isa. «Il servizio d’ordine? Wow, complimenti!»
Isa si strinse nelle spalle e accennò ad un sorriso. Quando aveva ricevuto la telefonata alcuni giorni prima era stata una piacevole sorpresa.
Aveva ritirato la stola rossa che lo designava come membro della pattuglia studentesca senza menzionarlo a nessuno se non ai suoi genitori, e adesso che i suoi amici ne sarebbero venuti a conoscenza, era il momento di affrontare l’imbarazzo.
«Whoa, basta che non mi metti in castigo, amico. Sarebbe abbastanza imbarazzante se una guardia scolastica pizzicasse una guardia cittadina!» Zack fece un sorrisetto nervoso.
«Beh, tu non metterti in condizione di venire preso.» Isa non fece una piega.
«Avete visto Cloud?» Zack chiese. «Sono stato da lui l’altro ieri, era un fascio di nervi. Spero non si sia sentito male.»
«Mi ha detto che sarebbe arrivato con Tifa. Abitano nella stessa strada.» Aerith precisò. «… perché sei andato da lui?»
Rimase in silenzio per un momento. Lo guardò negli occhi.
«Zack, non dovevi
Zack si limitò a ridacchiare e a passarsi una mano tra i capelli.
«E perché no?» ribatté. «Dai, Aerith, mi hai detto tu stessa che lui e la mamma non se la passano benissimo. Era il minimo che potevo fare!»
«Cosa avrebbe fatto?» Isa chiese ad Aerith in tono inquisitorio.
«Niente di tanto straordinario.» Zack intervenne. «Gli ho lasciato la mia vecchia divisa di quando avevo la sua età. I sarti della scuola costano un po’ troppo per sua madre.»
Aerith stava per ribattere qualcosa, ma si zittì quando vide che erano in arrivo altri studenti. Cloud era in mezzo a loro, assieme ad una ragazza dai capelli corvini che Isa riconobbe come la sua amica della squadra di baseball. Per qualche ragione, era riuscita a farsi vendere dei pantaloni anziché la gonna a pieghe che avrebbe dovuto essere assegnata alle ragazze.
Le maniche della camicia e i pantaloni della divisa di Cloud erano un po’ rimboccate, e la camicia e il gilet gli pendevano un po’ dalle spalle, ma il ragazzo stava sorridendo. Aveva il nodo della cravatta sciolto.
«Hey, Porcospino!» Zack quasi gli corse incontro. «Sei pronto? Hai paura?»
«Ciao, Zack.» Cloud rispose in un tono appena più alto di un mormorio. «Mi puoi… dare una mano?» Si indicò la cravatta.
«Ahem…» Zack divenne rapidamente rosso. «Uhm, hey, Isa, qua la guardia sei tu. Puoi aiutare Cloud con la cravatta?»
«Scusami, e tu come avresti fatto?» L’amica di Cloud, che il cartellino identificava come “Tifa”, alzò contro Zack un sopracciglio accusatore.
«Mio padre mi ha fatto il nodo e io me lo allento e stringo ogni giorno.» Zack diede in una risatina colpevole.
«Bella roba.» Tifa alzò gli occhi al cielo, mentre Isa cominciava ad armeggiare con la cravatta di Cloud. A lui certe cose venivano quasi come seconda natura – suo padre lavorava al tribunale civile di Radiant Garden come giudice, ed era una vita che Isa lo aveva osservato vestirsi elegante per le udienze.
«Dai, Tifa, non tutti hanno un papà che ha il tempo o che sia tanto bravo.» Zack sbuffò. «Neanche mio padre è tanto bravo. Poi dai, Isa c’ha il papà che lavora al tribunale, il mio è giardiniere.»
«A proposito di padri.» Tifa fece un sorrisetto. «Ma il professor Braska, quello che insegna storia, è vero che si è sposato con una fata?»
Isa finì di annodare la cravatta a Cloud e fissò Tifa con una faccia schifata.
«Di tutte le domande che potresti fare su di lui, fai proprio quella?» le chiese. «Io mi preoccuperei di più su quanto possa essere puntiglioso con le date e gli eventi.»
Gli studenti continuavano ad arrivare. Isa condusse Cloud e Tifa nell’angolo del cortile dove si stavano radunando i ragazzi del primo. Dopo di loro e di Aerith arrivarono altri – un ragazzino castano che la targhetta identificava come “Squall”, Cecil e Claire della squadra di baseball, e un sacco di altri nuovi nomi che, Isa si rese conto con un certo sconforto , probabilmente avrebbe dovuto memorizzare.
E Lea era in ritardo.
«Dove credi che sia Miccia?» Zack alzò un sopracciglio. «Pensi che il vecchio Braig lo voglia far ancora lavorare al castello?»
«Oh, ne dubito. Sua nonna gli staccherebbe la testa a morsi.» Isa scosse la testa. «Già Lea ha abbastanza gatte da pelare con Kairi, figuriamoci se sua nonna gli lasciasse tenere a tempo pieno un’altra bambina.»
Un momento.
Ma certo, Kairi!
Isa per poco non si prese a schiaffi da solo. Era il primo giorno di scuola per tutti. Compresa una certa bambina che, quel giorno, avrebbe cominciato la primina.
Fu proprio, infatti, mentre suonava la campana che decretava l’apertura dei portoni, che Lea, con il colletto della camicia sbottonato, la cravatta che gli pendeva dal collo, e il fiato corto per la corsa, si piantò a fermarsi davanti a loro con le mani sulle ginocchia.
E, davanti a lui, Isa si limitò a sorridere, a farlo tirare su, e ad abbottonargli la camicia. Non ci sarebbe stato verso di costringerlo a sistemarsi la cravatta, era già tanto che non se la fosse annodata alla fronte.
Stava iniziando un altro anno, e mentre entrava nella scuola assieme ai suoi amici, con una nuova responsabilità che gli si leggeva sull’uniforme, e sulle labbra uno dei suoi rari sorrisi, Isa non poteva che pensare che era proprio l’ora.
 
Dopo l’invasione dei mostri dell’estate prima, gli scontri nella piazza, e la comparsa del fantomatico Xehanort e della piccola Shiro, sembrava che la situazione a Radiant Garden si fosse fatta nuovamente tranquilla.
Passarono Halloween e Natale senza nessun episodio degno di nota, a parte quando la maschera da licantropo di Isa mandò la povera Kairi a nascondersi sotto il letto.
Babbo Natale fece il giro delle case, e Cloud ne rimase più che contento quando vide sotto il suo albero una lunga, pesante mazza da baseball nuova. Chiese i provini per la squadra del liceo non appena le lezioni ripresero, e anche grazie a un po’ di allenamento con Zack, riuscì ad ottenere un posto.
Ultimamente, la guardia cittadina non sembrava avere problemi di alcun genere: negli ultimi giorni erano sulle tracce di un uomo grasso, viscido e perennemente con un sigaro in bocca che era stato segnalato appostarsi appena fuori dalla scuola media e avvicinare alcune scolare con intenzioni che lasciavano poco spazio ai dubbi.
Cloud si era proposto a Zack come esca viva, ma erano giorni che il suo amico rifiutava le sue offerte di aiuto.
«Lo so che vuoi aiutare, Porcospino, ma non mi perdonerei se ti accadesse qualcosa per causa mia.» Zack passò a Cloud la palla e attese il rilancio.
«Accadermi?» Cloud si strinse nelle spalle, prese la palla dal guantone e la lanciò verso Zack. «Che potrebbe farmi? Non sarebbe troppo difficile. Potrei ancora passare per una bambina se mi impegno per bene. Aspetto che si metta mano alle mutande… e gliele strappo
Non si riferiva alle mutande.
«Cloud, non posso fartelo fare. Sei…» Zack prese la palla al volo e la lasciò cadere ai suoi piedi.
«Troppo piccolo? Troppo debole? Andiamo, Zack, dammi un po’ di fiducia. Sul serio!» Cloud si tolse il guantone e fece per lanciarlo via, ma si fermò quando dalla tasca di Zack partì un forte squillo.
«Angeal? Sì, sono a casa di Cloud. Sto bene.» Il ragazzo più grande si portò il telefono all’orecchio e rispose immediatamente. Per quanto inizialmente fosse calmo, forse anche scocciato, un attimo dopo sgranò gli occhi e si fece pallido come un cencio. «Cosa? Genesis? Angeal, ma sei serio?»
Rimase in silenzio per alcuni momenti, con la voce ovattata di Angeal che gli spiegava qualcosa dall’altra parte del telefono.
«Va… bene. Ci vediamo al castello, sì, cerco di arrivare non appena posso, no, non ho la spada dietro, la vado a prendere? Va bene… va bene.»
Riagganciò la chiamata e rimase per un momento a fissare lo schermo, poi guardò Cloud.
«Genesis è sparito.»
 
«Ragazzi, mi dispiace avervi coinvolti in questa storia, ma qualcuno qui deve ascoltare e sapere.» Zack prese posto sul divano cigolante del soggiorno di Lea e incrociò le braccia.
Erano appena usciti da scuola, e casa di Lea era l’unico posto sicuro che fosse vuoto – la nonna era al lavoro e Kairi era, fortunatamente, a casa di un’amichetta.
Assieme a Lea e Zack c’erano Isa, Aerith e Cloud, ed erano ancora tutti quanti in uniforme scolastica, anche se Isa si era tolto la stola della sicurezza.
«Riguarda la chiamata di due giorni fa?» Cloud, seduto vicino a lui, fu il primo a parlare. «Potevi parlarcene prima.»
«Anche i muri hanno orecchie, Cloud, non è a scuola che ne voglio parlare.» Zack si fissò le mani, poggiate sulle ginocchia. «Ragazzi… voi siete i miei amici. È di voi che mi fido qui, al di fuori di Angeal e delle guardie cittadine.»
Per la prima volta in molto tempo, Lea sentiva una nota di vera preoccupazione nella voce di Zack.
«Prima di tutto, chiunque sia questo Xehanort…» Zack aggrottò le sopracciglia. «Shiro non è sua figlia.»
«Aspetta, che?» Lea non lo lasciò finire di parlare. «L’ho visto, socio. Le somiglia. E quando lui le ha cantato la ninna nanna, lei ha reagito. Più volte
«Lea, può anche essere solo perché la melodia era familiare.» Isa gli precisò. «Zack, hai delle prove di quello che dici?»
Zack fece sì con la testa.
«Ho conosciuto i genitori di Shiro – i suoi veri genitori. L’estate scorsa, mentre ero ad allenarmi lontano.» Spiegò. «Si chiamano Terra e Aqua. Lui è sui vent’anni, ha i capelli castani e gli occhi azzurri. Di stazza ricorda un po’ Aeleus, anche se non è altrettanto grosso. Lei ha i capelli più o meno dello stesso colore di Isa, è sui diciotto anni, e sono certo che sia stata qui, a Radiant Garden, almeno una volta. Portano entrambi delle cinghie sopra i vestiti, incrociate a formare una X, e avevano dell’armatura sulle braccia quando li ho conosciuti.»
Al sentire la descrizione della X, Lea cercò lo sguardo di Isa, e si accorse immediatamente che anche il suo amico lo stava fissando.
«Ventus!» Isa fu il primo a parlare.
«Già, Ven...» Lea fece del suo meglio per non risultare il tardo tra i due.
Zack li fissò come se avesse appena inghiottito un limone.
«Un ragazzo di nome Ventus, che si fa chiamare Ven?» chiese loro. «Bassino, veloce come il fulmine, capelli  biondi e parlantina killer? E va in giro con una spada dalla forma strana?»
«E porta una X sopra i suoi vestiti formata da due cinture.» Isa concluse. «Sì, Zack, lo conosciamo. È stato qui l’estate scorsa.»
«Quindi sa di questo posto.» Zack si grattò il mento e sfregò un piede sul pavimento. «Ragazzi, non voglio menare il can per l’aia, ma la madre di Shiro, Aqua… so che è stata nella piazza e so che ha combattuto lì durante quella notte. Ho visto le sue tracce. La guardia cittadina era in allerta… Genesis, Sephiroth e Angeal sanno quello che gli ho raccontato, e stavano cercando di indagare. Ora Genesis è sparito. Ho parlato con gli altri, e stavamo decidendo sul da farsi… non sapevo se in un qualche modo avrei potuto dirigere Terra qui, o se è ancora in giro… ma se mi dite che Ventus sa di questo posto, se mi dite che vi conosce, forse abbiamo una speranza.»
Si mise in piedi.
«So di un posto dove Ventus ha promesso di tornare, ma dovrei andare lì e chiedere di lui. Nel frattempo… Angeal mi ha detto che nella sua ultima chiamata, momenti prima di sparire, Genesis aveva trovato una ragazza nella piazza centrale. Nello stesso posto dove ho trovato le tracce di Aqua.»
Rimase in silenzio per alcuni attimi, fino a quando Aerith non lo fissò e non risolse a parole l’arcano che Zack aveva lasciato.
«Braig! Pensi sia stato Braig?» gli chiese.
«Se soltanto fossi un po’ più grosso…» Stavolta fu Cloud a scattare in piedi, i pugni chiusi stretti. «Altro che un bernoccolo, dovevo sfondargli la testa…»
«Piano, Cloud, calmati.» Zack gli mise una mano su una spalla. «Statemi a sentire adesso, perché ho bisogno del vostro aiuto. Specie mentre sarò via a cercare Ven. Cloud e Aerith, mi serve che siate i miei occhi in città. Dobbiamo scoprire cosa è successo a Genesis. Se è davvero stato Braig. Lea e Isa, in un qualche modo sapete infilarvi nel castello, giusto? Angeal e Sephiroth non hanno accesso a parecchie zone del castello… e voi siete gli unici altri che conosco a conoscere il castello. Potreste usare la scusa di Shiro o entrare con un diversivo…»
«… posso coinvolgere Tifa, Cecil e Squall del baseball. Una bella finestra in frantumi con una pallonata.» Cloud intervenne con un sorrisetto.
«E punto per Cloud.» Zack gli diede una forte pacca sulla schiena.
Sulla carta, Lea si trovò a pensare, il piano era abbastanza semplice. Gli amici che Cloud aveva menzionato erano dei veri e propri cecchini con una mazza da baseball, e non ci avrebbero messo molto a sparare un buco in una vetrata.
Tecnicamente avrebbero persino avuto altri stratagemmi per una diversione, uno più vario dell’altro. Lea avrebbe potuto entrare nel castello semplicemente chiedendo di vedere Shiro, che pur avendo un’altra babysitter mentre lui era a scuola, era ancora tremendamente affezionata a lui e di tanto in tanto, secondo la nonna, urlava a gran voce di volerlo. Kairi avrebbe potuto correre fino al portone gridando di aver visto dei mostri.
«Oppure potreste fare un po’ di attenzione a scuola qualche volta tanto.» Isa intervenne. «Zack, ricordi che dal quarto anno parte il praticantato? Ah, no, per te non conta, sei già nelle guardie.»
«Per favore, Isa, non me ne parlare. Nonna già vuole che io faccia i documenti per la biblioteca.» Lea alzò gli occhi al soffitto. «E il corpo dei pompieri mi ha già mandato due o tre lettere per via di mamma e papà.»
«Né biblioteca, né pompieri, Lea. Spariamo più in alto.» Isa fece un sogghigno. «Il laboratorio di Ansem il Saggio?»
Lea scosse la testa.
«No, Isa.»
Non era di certo ad un lavoro come studioso in quel castello che Lea ambiva. Per quanto volesse scoprire cosa ci fosse nei meandri di quel palazzo, non voleva farlo come scienziato.
Voleva diventare… l’eroe della città. Come suo padre e sua madre lo erano stati, prima che una sciagura sotto la città se li portasse via per sempre.
«Non voglio sprecare la mia occasione. Mi capisci, non è vero?» Guardò il suo amico di sempre. «Per favore, abbiamo altri modi. Usiamo quelli.»
 
Lea entrò nei corridoi del castello con un sorrisetto sulle labbra. Come aveva pensato, Dilan e Aeleus non avevano obiettato minimamente quando aveva asserito di voler vedere Shiro.
La governante che se ne occupava mentre lui era a scuola o a studiare era abbastanza competente, la nonna gli aveva detto, ma Shiro continuava a voler vedere lui e a volte arrivava a piangere. C’erano state più volte durante gli ultimi mesi in cui Lea, nei pomeriggi una volta finiti i compiti e nei weekend, era stato a trovare Shiro e l’aveva portata a giocare in cortile assieme al resto dei suoi amici.
La bambina, che secondo Even doveva aver compiuto i due anni nell’inverno, non si staccava un momento da Mister Kupò, portava ancora i vecchi abiti smessi di Kairi e Lea, e aveva imparato ad andare sul triciclo rosso appartenuto ai due fratelli, tenendo il Moguri di pezza nel cestino anteriore.
Il ragazzo aprì la porta e guardò nella stanza. Dove c’era stato un lettino di fortuna ora c’era una culla, il pavimento era coperto da moquette colorata che quasi scompariva sotto dei blocchi di costruzione.
Shiro era tutta intenta a costruire una torre, con Mister Kupò “seduto” accanto a lei, ma alzò subito lo sguardo quando vide la porta aprirsi.
«Fratellone!» la piccolina si mise in piedi e corse verso di lui, mandando all’aria parecchi blocchi e stringendogli forte le ginocchia.
«E ci risiamo!» Lea alzò gli occhi al cielo. «Shiro, te l’ho detto come mi chiamo…»
«Lea, Lea, elle e a, lo hai memorizzato? Ti do un biscotto se lo ricordi.» Shiro gli fece il verso. Non sapeva dire molte frasi, ma aveva senza dubbio memorizzato quelle due.
Da fuori venne il suono di un vetro infranto. Il piano di Cloud stava funzionando, a quanto sembrava.
A questo punto, il piano era semplice. O perlomeno in apparenza.
«Ti va di fare un gioco, Shiro?» Lea le chiese abbassandosi al suo livello. «Ora facciamo il gioco del silenzio. Ci facciamo una bella passeggiata nel castello, ma dobbiamo stare zitti zitti, perché se ci sentono in giro abbiamo perso e dobbiamo tornare al punto di partenza.»
«Zitti zitti?» Shiro pigolò.
«Come i pesci!» Lea si premette il dito sulle labbra. «Ma sai che ti dico? Anche Isa gioca con noi!»
Isa non era molto contento del gioco, però.
«Perché l’hai portata con te?» gli sibilò non appena li vide arrivare.
«Perché sanno che sono con lei.» Lea rispose con voce altrettanto bassa, mentre Shiro, in ottemperanza alla regola del silenzio, salutava Isa con la manina. «Questa è casa sua. Tecnicamente potrebbe essere dovunque.»
«Sì, ma se Braig è pericoloso come dicono…»
«Shiro qui è la principessa delle spie. Ti posso assicurare che se vede qualcosa che non va, qualcuno lo verrà sicuramente a sapere.»
«E come dovrebbe questo farmi stare tranquillo?»
Isa alzò gli occhi al cielo, ma non disse altro e si incamminò per il dedalo di corridoi che portava ai laboratori. Teneva una mano appoggiata alla parete destra, trascinandola sul muro e non staccandola mai dalla parete, in uno stratagemma che Lea riconosceva come il suo “trucco infallibile per non perdersi in un labirinto”.
C'era silenzio, quasi troppo.
Erano dalle parti di quella che doveva essere la stanza del computer, attraverso la cui porta si sentiva la voce di Lord Ansem interloquire con qualcuno dalla voce acuta e nasale a cui lo studioso si rivolgeva con il nome di Topolino.
Shiro mostrò segni di irrequietezza, e Lea fu rapido a coprirle la bocca con la mano, poi Isa indicò un altro corridoio e una rampa di scale che scendeva in basso, e i tre vi si dileguarono.
Il castello sotterraneo era quasi spettrale. C'era meno luce rispetto ai corridoi superiori, e dopo un paio di svolte, la mano che Isa teneva poggiata sulla parete destra iniziò ad incontrare grate.
«Moccio...» una voce rantolò da dietro una delle grate quando Isa ci passò la mano.
Il ragazzo trattenne un urlo e sobbalzò, cercando di capire chi fosse al di là della grata.
I suoi occhi si misero a fuoco su qualcosa, e immediatamente impallidì si morse il pugno.
Lea fu lesto ad affiancarlo e a cercare di vedere chi ci fosse oltre la porta.
Aveva i suoi sospetti. Sperava di sbagliarsi.
Non si sbagliava.
Seduto con la schiena abbandonata contro una parete c'era il tenente Genesis della guardia cittadina.
«Cosa vi è successo, signore?» Isa bisbigliò. «Siete un pubblico ufficiale… non hanno il diritto!»
«Perspicace come sempre, il figlio del giudice.» Genesis alzò la testa. Aveva gli occhi iniettati di sangue, crepe gli si stavano allargando sulla faccia e sul collo, e i capelli rossi gli si erano ingrigiti. «Scappate. Andate via.»
«Zack ha detto che avete trovato una ragazza nella piazza!» Isa insistette. «Dove l'hanno portata? Lo avete visto?»
«È stato Braig, non è vero?» Lea aggiunse.
«Brutto!» Shiro, dalle braccia di Lea, mugugnò stringendo i pugnetti.
Genesis si mise su dritto.
«È peggio di quello che temevamo.» Dietro la sua schiena c'era una sorta di ombra nera. «Braig. Xehanort. Non è solo al castello di Lord Ansem che mirano. È a tutto il regno. Ai mondi oltre questo.»
«Dobbiamo fare qualcosa…» Lea mugugnò.
«Cosa vi hanno fatto?» Isa sibilò di nuovo.
Genesis scosse la testa, abbandonando la schiena nuovamente contro la parete.
«Non mettetevi nei guai. Andate via
Alcune piume nere volarono nella cella.
«Avete detto che tutto il mondo è in pericolo…» Lea insistette. «La ragazza che stavate soccorrendo. Dov'è
Genesis si mise a ridere, un suono distaccato e senza gioia, la risata di un pazzo.
Lea rimpianse di aver portato Shiro con sé. La bambina sembrava tranquilla, ma non sembrava affatto stare divertendosi.
Almeno fino a quando…
«Bimba!»
Shiro stava indicando una delle grate in fondo al corridoio, illuminata da un lucernario come se fosse stata sotto un qualche faro teatrale.
C'era una ragazza dietro le sbarre.
Sembrava appena più giovane di Lea e Isa, forse appena più anziana di Aerith, e aveva la sua stessa aria saggia.
Lasciato Genesis al suo delirio, i due ragazzi, con Shiro ancora in braccio a Lea, corsero alla cella della ragazza. Portava vesti color pastello coperte di polvere e stracciate in alcuni punti, aveva capelli dorati legati dietro la testa e lo sguardo smarrito.
«Ciao…» Lea fu il primo a cercare di interagire.
La risposta della ragazza, la stessa identica parola, fu appena pronunciata.
«Io sono Lea, e questi sono Shiro e Isa.» Lea sussurrò. «Lo hai memorizzato?»
La ragazza rimase in silenzio, muovendo soltanto gli occhi, fissando prima i ragazzi e poi la bambina.
«Bimba?» Shiro commentò.
«Credo voglia sapere come ti chiami.» Isa cercò di interpretare. «Lo ha fatto anche con me l’estate scorsa.»
«Oh…» La ragazza mormorò, poi prese a fissare il pavimento.
 
Chi era? Per quale motivo era stata imprigionata lì? Non seppe risponderci. Non ricordava nulla. Lei era un enigma, ma volevo aiutarla.
Continuammo con le nostre visite non autorizzate al castello, la maggior parte delle quali si interrompeva bruscamente quando venivamo scoperti all'ingresso. Le poche volte che riuscivamo a entrare parlavamo con lei. Quello era l'unico conforto che due bambini come noi potevano offrirle. Ma Lea aveva altre idee: voleva liberarla a tutti i costi.
Zack tornò dall’Olimpo senza alcune notizie di Ventus, ma fummo noi a recapitargli una pessima notizia: durante un pomeriggio di primavera in cui il cielo era stato completamente oscurato da un temporale, Angeal venne rinvenuto morto nelle cisterne dei giardini esterni.
 
Zack fu l’ultimo ad arrivare quel sabato mattina. I temporali incessanti dei giorni prima avevano lasciato il passo a dei leggeri piovaschi, ma il cielo era ancora plumbeo. Il ragazzo era zuppo, e grondava acqua dagli stivali, dai capelli, e dalla pesante spada che portava assicurata alla schiena, la spada che era appartenuta al suo mentore.
«Ti serve un asciugamano?» Il padre di Isa gli chiese aprendogli la porta.
«No, no grazie, Vostro Onore, non è niente...» Zack fece per scrollarsi la pioggia dai capelli e si tolse la spada dalla schiena, appoggiandola nell’ingresso.
«Uno, chiamami Ilyas, te l’ho già detto. Due, faresti meglio ad asciugarti invece. Alla città non servono guardie col raffreddore.» Il giudice insistette e gli ficcò un asciugamano nelle mani. Zack avrebbe voluto ribattere ulteriormente, ma qualcosa di peloso e pesante gli saltò addosso piantandogli le zampe sulle spalle e leccandogli la faccia.
«Sì, Bolt, ciao anche a te.»
In altre occasioni, Zack avrebbe lasciato perdere l’asciugamano e avrebbe iniziato immediatamente a fare il solletico al cane di Isa, ma mettersi a giocare era l’ultima cosa che voleva fare in quel momento.
Si sentiva vuoto.
«Gli altri ti aspettano in cucina. Isa ha fatto la cioccolata calda.» Ilyas gli fece strada verso una delle stanze. Attorno alla piccola tavola della cucina erano già seduti Isa, Lea e Cloud (che ci faceva lì Cloud?), ognuno con davanti una tazza che emanava vapore. Sia Lea che Cloud avevano i capelli più mosci del solito, senza dubbio per il maltempo. Tutti e tre erano scalzi.
«Isa, allora, posso stare tranquillo?» Il giudice rimase nel vano della porta. Zack notò che aveva un cappotto nelle mani.
«Nessun problema.» Isa, apparentemente impassibile, scosse la testa. «Sai quando torna mamma a casa?»
La sua domanda sembrava assolutamente normale, ma Zack riusciva a leggere tra le righe. Isa stava chiedendo a suo padre quanto tempo avrebbero avuto da soli.
«Credo che tua madre tornerà a casa per l’ora di pranzo.» Ilyas mormorò. «Ma temo che io potrei dover restare in tribunale fino a sera. Questa faccenda è una brutta storia
Si infilò il cappotto e lasciò la stanza.
«Ragazzi, state tranquilli. Ho già visto un sacco di storie come questa, e ve lo assicuro, il colpevole verrà fuori.» Si affacciò alla porta, come se avesse dimenticato qualcosa. «Radiant Garden può ancora dormire sonni tranquilli. Gli eroi ci sono ancora.»
Strinse un pugno e fece un sorriso, come per fare loro coraggio. Isa lo guardò e fece un sorriso triste, poi passò a Zack una tazza di cioccolata calda e gli fece gesto di sedersi.
Qualche istante dopo, non appena si sentì la porta aprirsi e chiudersi, e Bolt il cane trotterellò nella cucina e iniziò a fissare i ragazzi con una convincente aria da morto di fame, Isa si abbandonò sulla sua sedia, fece un sorriso amaro e dichiarò: «Signori, l’udienza è aperta
«Angeal è stato ucciso per colpa mia.» Zack disse immediatamente. «Gli avevo detto dove avete trovato la ragazzina. Volevo la portasse via.»
«Non dire così, Zack. Poteva anche rifiutarsi.» Cloud alzò lo sguardo dalla sua cioccolata. «Ha deciso lui di provarci.»
«E io sapevo che lo avrebbe fatto.» Zack ribatté sedendoglisi accanto.
Gli altri rimasero in silenzio, evidentemente non sapendo cosa dire. Bolt appoggiò il muso sulle ginocchia di Zack e prese a cercargli le mani con il naso, tentando di leccargliele.
«A proposito, Cloud, che ci fai qui? Ti avevo detto che...» Zack tentò di rimproverare l’amico.
«Ci siamo tutti in questa storia, no?» Cloud aggrottò le sopracciglia. «Ricordi che ha detto Genesis a Lea e Isa? Non è solo il castello di Lord Ansem. È tutta Radiant Garden. Se Xehanort riesce nel suo piano, ci lasciamo tutti quanti le penne. Kairi. Mamma. Aerith. Tifa. Il gatto randagio che cerca di entrarmi in casa dalla finestra. Zack, non mi puoi chiedere di stare al sicuro. Non lo sono in ogni caso
Zack lasciò sul tavolo la sua tazza e si fissò le mani.
«Cloud, non ti voglio chiedere questo. Tu sei...»
«Non lo abbiamo già fatto questo discorso?» Cloud si mise in piedi.
«Sei il mio migliore amico, Cloud.» Zack si alzò a sua volta. «Non ti posso chiedere di buttarti diritto nel pericolo. Non ne avrei il cuore.»
Cloud rimase fermo e zitto, sostenendo il suo sguardo.
«Tu sei il mio migliore amico. E io non avrei il cuore di farti andare da solo.» Fece un sorrisetto. «E ho anche scoperto che il mio vicino di casa, quel vecchio brontolone che ci urla sempre addosso quando facciamo finire la palla nel suo cortile, ha iniziato a costruire astronavi con quel materiale gommoso che cade dal cielo. Ne ha una o due in un hangar fuori città.»
Zack avrebbe voluto ribattere, ma era senza parole. Che Braig si fosse rifiutato di far ammettere Cloud nelle guardie cittadine perché sapeva che sarebbe stato così sveglio?
«Quindi, qual è il piano?» Lea vuotò la sua tazza d’un fiato e chiese.
«Dobbiamo agire di notte, quando meno se lo aspettano.» Zack si rimise a sedere. «Ho l’accesso al castello da quando Angeal è morto… sua madre è riuscita a lasciarmi il suo tesserino. Io e Cloud entriamo, Cloud pensa a Shiro e io penso alla ragazza nelle celle e a Genesis. Lea e Isa… credo che le telecamere nel castello ormai vi riconoscano. Fareste scattare qualche allarme. Aspettateci qua… fate la scusa di un pigiama party, qualcosa, ma perché Shiro passi la notte abbiamo bisogno di te, Lea. Sei l’unico tra noi che riesce a farla stare calma. Almeno finché non troviamo sua madre.»
«Oh, grandioso.» Nella voce di Lea si sentiva pesante il sarcasmo. «Sono Mary Poppins, gente
Bolt trotterellò verso Isa e gli balzò in grembo. Il ragazzo iniziò ad accarezzare il suo cane sulla testa.
«Non riesco a credere che lo stiamo facendo.» Mormorò. «Papà e mamma moriranno di paura se sparisco. E Bolt… e se smettesse di mangiare se non sono più a casa?»
«Isa, tutti abbiamo qualcuno che lasceremmo indietro.» Lea ribatté. «Cloud ha sua madre, io ho Kairi e nonna, Zack ha Aerith e i suoi genitori…»
«Aerith viene con noi.» Zack scosse la testa. «Ci aspetta dal vicino lunatico di Cloud. Sono… ahem, stato a dormire da lei ieri notte.»
Non era successo niente di particolare, ma Zack aveva avuto realmente bisogno di un posto tranquillo e una spalla su cui piangere. Peraltro, la situazione era talmente seria che neanche Lea si stava azzardando a scherzare, salvo la battuta inopportuna su Mary Poppins.
«E poi cerchiamo Terra, Aqua, e Ventus. Assieme.» Zack concluse. «Forse sono loro che ci possono aiutare. O forse siamo noi che possiamo aiutare loro, ma senza dubbio sanno qualcosa su chi sia questo Xehanort.»
Si rimise in piedi, guardando i suoi tre amici – i suoi tre compagni di avventura.
Un tempo, Zack aveva creduto che sarebbe diventato un eroe quando la folla nella piazza lo avrebbe applaudito. Quando i giornali lo avrebbero chiamato il giovane prodigio della città. Quando avrebbe salvato i gattini dagli alberi, i bambini dai criminali, quando avrebbe sbattuto i ladri in gattabuia.
Non aveva mai immaginato che essere eroi prevedesse restare in silenzio, mantenere segreti, arrivare a fare cose che minacciavano di fargli il cuore a pezzi.
Ma forse aveva capito il senso di essere eroi…
Nonostante avessero quasi tutti contro, Zack sentiva di stare facendo la cosa giusta.
 
Quella mattina fu l’ultima volta che vedemmo Zack e Cloud per molto tempo.
Non si fecero vivi all’appuntamento. Io e Lea restammo svegli tutta la notte, come pure Aerith a casa sua.
Non li trovammo alle loro case la mattina dopo, né a scuola il giorno successivo. Per le strade della città iniziarono a spuntare manifesti di persone scomparse – non solo loro, ma anche l’ultimo ufficiale di guardia, il Capitano Sephiroth.
Lea venne chiamato di nuovo da sua nonna per tenere d’occhio Shiro, che sembrava essere stata terrorizzata da qualcosa. Della ragazza nelle segrete, invece, non sembrava più esserci traccia.
Doveva essere successo qualcosa quella notte, ma cosa? Io e Lea sapevamo che c'era solo un modo per scoprirlo.
Ed è per questo motivo che oggi siamo all'ingresso del castello, non più come bambini che vogliono entrare in un luogo proibito, ma come nuovi apprendisti di Ansem il Saggio.

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Capitolo 5
*** Destino in Movimento ***


Legacy – Capitolo 5
Destino in Movimento
 
«Avete sentito? C’è una bambina a casa del sindaco! Dicono che è caduta dal cielo
«Ma dai, Wakka, ti verranno le gambe corte!»
«Dico sul serio, Lulu, io l’ho vista
«… cadere dal cielo
Sora e Riku fissarono i due compagni di classe del bambino più grandicello. Wakka era noto in tutta la prima elementare e oltre per credere a qualsiasi frottola gli venisse detta – e ripeterla a tutta l’isola. Non era la prima volta che iniziava a raccontare qualcosa di improbabile.
Era “solo” la prima volta che Riku stava ad ascoltare.
«Se quello che dici è vero,» Riku intervenne nella conversazione. «Perché non è a scuola? I bambini devono andare a scuola.»
«Beh, forse è malata.» Wakka trascinò un piede per terra. «O forse quando è caduta si è rotta un braccio come è successo a Chappu e adesso è in ospedale.»
Sora rimase dov’era, lo sguardo fisso sui ragazzi grandi. Lui avrebbe cominciato la prima elementare l’anno successivo, e gli sembrava ancora terribilmente lontano.
La primina non era male – era in classe con il fratellino di Wakka, che era molto più silenzioso e tranquillo, e Riku aveva spergiurato e giurato che in prima elementare non facevano più fare il sonnellino dopo il pranzo, ma Sora avrebbe voluto passare più tempo con il suo migliore amico.
«Io non gli credo, dice sempre un sacco di bugie,» Lulu ribadì il suo argomento.
Riku strinse un pugno, come se si stesse trattenendo dal dire qualcosa. A Sora tornò per un momento in mente l’episodio degli sconosciuti dell’anno prima, della persona che stava soffrendo. Esistevano altri mondi, per quanto la gente reputasse quella storia poco più che una vecchia storia di comari.
Forse quella bambina veniva da uno di quei mondi.
«Senti, Wakka, se è vero quello che dici,» Riku disse finalmente. «Devi fare come fa Basil di Baker Street, che quando risolve un caso tira fuori le prove. Quindi se c’è una bambina a casa del sindaco, come si chiama? Come sono i suoi capelli? Le piace giocare ai pirati o ai ninja? Ci sa andare sulla bici?»
Wakka fissò Riku con aria a metà tra l’offeso e il turbato, spostando istintivamente un piede all’indietro.
«Beh… ho sentito i grandi parlare,» disse. «La bambina non si ricorda niente, ma il dottore dice che ha cinque anni, non di più. Dice che le ha visto i denti e non ha ancora iniziato a perderli.» Wakka si appoggiò nervosamente al muro e iniziò a stuzzicare con un dito l’incisivo che gli ballava.
«Smettila di fare così, se no poi lo ingoi.» Lulu gli allontanò la mano dalla bocca.
«E quindi come si chiama?» Sora si avvicinò al gruppetto di bambini della prima e ruppe il ghiaccio. La bambina aveva cinque anni. Cinque. Come lui! Sarebbe andata in primina e sarebbero diventati amici!
«Riku, non dirmi che il tuo amico crede a una storia del genere…» Lulu a stento considerò Sora. «Anzi no, aspetta, ha cinque anni. Può essere.»
«Non dire quelle cose a Sora o ti scompagno!» Riku scattò quasi immediatamente.
Lulu guardò Riku come se si fosse ristretto. Per tutta risposta, Riku affiancò Sora e gli prese la mano, come quando la maestra diceva a scuola di non lasciar andare il proprio compagno, poi si allontanò di qualche passo da Wakka e Lulu portando Sora via.
«Sora, credi che la maestra mi fa tornare all’indietro?» Riku chiese a bassa voce.
«Non ti preoccupare, tanto l’anno prossimo ci vengo io in prima.» Sora tolse la mano da quella di Riku e si incrociò le braccia dietro la testa.
«Sì ma poi io vado in seconda…» Riku si strinse nelle spalle.
«Sì però ti ricordi che quando tu eri in primina e io all’asilo ci facevano andare alla mensa tutti quanti insieme?» Sora si dondolò sui piedi. «L’anno prossimo facciamo di nuovo la mensa insieme. E la ricreazione anche. Non stiamo più a due piani diversi.»
Sora avrebbe voluto dire altro, ma dal tetto della scuola la campana prese a suonare, e le maestre iniziavano a condurre le classi nelle aule.
L’asilo e la primina – la scuola materna – sarebbero andati al piano terra. La scuola elementare al primo piano.
Riku venne chiamato dalla sua maestra e si allontanò assieme a Lulu e Wakka, con le mani nelle tasche e lo sguardo basso.
«Hey, Sora, aspetta!» Wakka si fermò mentre la sua classe si allontanava.
Guardando dall’altra parte, Sora vide che la sua maestra stava iniziando a chiamare la sua classe, ma rimase ad ascoltare cosa aveva da dire il bambino più grande.
«Kairi.» Wakka fece un sorrisetto. «La bambina si chiama Kairi!»
 
Posso darti uno scopo.
Non era la prima volta che perdeva qualcosa, o qualcuno.
Ricordava ancora quando, in terza media, era tornato a scuola dopo il funerale dei suoi genitori, e aveva sopportato gli occhi di tutta la sua classe addosso, ricordava ancora l’opprimente cappa del silenzio di quella mattina.
Il mantello nero gli pesava sulle spalle, e l’opprimente bianco di quella che doveva essere la sua nuova stanza quasi lo accecava.
Una volta, il professor Braska aveva detto alla classe che chi perdeva un arto, che logicamente non avrebbe più dovuto sentire, continuava a sentire il dolore come se il braccio o la gamba mancante fossero ancora là, in una posizione inconveniente e altamente scomoda.
Com’era possibile sentire e non sentire il dolore allo stesso tempo?
Non aveva più una casa, una nonna, una sorella. Come quando aveva perso mamma e papà si era aspettato di vederli tornare la sera, un sacco di volte aveva urlato “Papà!” in una casa silenziosa, chiedendo aiuto per dei problemi di matematica che nessuno gli avrebbe risolto.
Tre anni prima, Isa gli aveva detto che piangeva troppo.
 
In quel momento, Axel avrebbe voluto poter piangere.
 
I bambini della primina erano tutti in riga su un palco improvvisato, composto da banchi incollati e inchiodati tra loro dalla notte dei tempi.
Riku conosceva bene quel palco. Soltanto l’anno prima, con addosso un grembiulino celeste e un tocco di cartone che aveva speso i giorni precedenti a decorare e dipingere, su quel palco c’era stato lui. Avevano cantato tutti assieme una canzone che diceva che non importava avere tutto, che di notte il cielo era illuminato, e che potevano scegliere quale era la loro stella nel cielo.
Sora quel giorno era stato nel pubblico, e quando la canzone diceva “siamo tu e io nella notte”, Riku lo aveva fissato e segnato a dito quando tutti gli altri compagni avevano puntato dritto davanti a loro.
Adesso c’era Sora su quel palco, con i suoi soliti calzoncini rossi che spuntavano da sotto al grembiule, in prima fila in piedi tra Kairi e Chappu, con il cartoncino del suo tocco che quasi spariva sotto macchie di colore, porporina e carta velina. Aveva fatto il solito pasticcio, ma ne sembrava altamente soddisfatto. Vicino a lui, Kairi aveva coperto il suo tocco con disegni di fiori e stelle.
Mamma e papà avevano detto a Riku che il sindaco aveva adottato Kairi – che aveva scritto e firmato dei documenti in cui lui si impegnava ad essere il papà della bambina.
Voci tra i ragazzi più grandi dicevano che la bambina aveva pianto, forte, quando il signor sindaco le aveva detto che doveva chiamarlo papà. Riku ancora non capiva quale fosse la differenza – tra un figlio portato dalla cicogna e uno caduto dal cielo. In ogni caso, non succedeva comunque che i genitori decidevano di diventare genitori? Perché adottare era tutta quella storia lunga? Perché Kairi era già una bambina grande magari, e sapeva già disegnare e parlare e scrivere il suo nome?
Il suo interrogativo se fosse una bambina vera si era risolto quando, qualche giorno dopo la discussione tra Wakka e Lulu, Kairi era andata a scuola.
Era finita nella stessa classe di Sora, nel banco vicino al suo, e spesso Sora l’aveva portata con sé nei loro pomeriggi di avventura.
Sora le aveva insegnato a giocare ai pirati, ed era diventato anche il suo gioco preferito. A volte dava loro filo da torcere nelle corse.
Ma soprattutto, di quello che era cambiato, era sempre più raro che Sora si allontanasse dal gruppo della primina per passare tempo con i bambini più grandi: Kairi non era solita farlo, e Sora non si allontanava molto da lei.
«Prima della consegna dei diplomi, i bambini vogliono cantare per tutti voi.» La maestra annunciò al microfono.
Riku sorrise. Aspettava quel momento: come lui aveva fatto l’anno scorso, probabilmente Sora avrebbe…
La canzone non era la stessa.
«Quando saremo grandi e capiremo un po’ di più…» le voci stridule dei bambini riempirono il salone dopo qualche accordo di pianoforte.
Riku rimase a guardare ed ascoltare. Le cose erano cambiate… la canzone stessa parlava di cambiamento. Nessuno dei gesti prevedeva un dito puntato verso il pubblico, semmai le mani dei piccoli cantori erano spesso puntate su loro stessi.
«… tutti sapremo vincere o perdere, ma con umiltà…»
Riku non sapeva dire se la canzone fosse felice o triste, ma Sora sorrideva e cantava a squarciagola, dondolandosi da sinistra a destra e quasi esagerando i gesti. Come suo solito, sembrava stare divertendosi un mondo.
Faceva quasi male fisico vedere Sora lì su quel palco, nonostante Riku avesse aspettato quel giorno per un intero anno. Aveva pensato che anche lui si sarebbe sentito parte della festa, ma così non era. Nonostante fosse seduto sul pavimento, davanti alle prime file, se possibile si sentiva lontano un mondo.
Sora adesso aveva Kairi. Aveva un’altra canzone da cantare.
La canzone e gli accordi di piano svanirono, ma prima che accadesse la mano di Kairi si era stretta attorno a quella di Sora. La maestra salì sul palco e si avvicinò al microfono ad asta su uno degli angoli.
«Quando chiamo il vostro nome, verrete qui a prendere il vostro diploma, uno per uno, in ordine come abbiamo provato.» Annunciò. «Fate un bel sorriso per il fotografo, e poi scendete dal palco per ricongiungervi con le vostre famiglie. Mi raccomando, dimostrate di essere cresciuti
Iniziò a fare alcuni nomi, e uno alla volta i bambini che aveva chiamato si allontanavano dalla riga, presero il piccolo rotolo di carta colorata che la maestra porgeva loro, posavano per una foto, e scendevano dai gradini per ritrovare le loro famiglie nel pubblico.
Quando fu il turno di Sora, il bambino si tolse il tocco e lo lanciò in aria prima di fare la foto, come aveva senza dubbio visto fare nei film ai grandi del liceo. La maestra gli fece recuperare il cappello e gli fece un po’ il solletico, poi lo tenne letteralmente fermo per la foto e gli diede una spinta gentile verso la scala che portava alla platea.
Sora scese le scale, ma rimase per un momento fermo davanti all’ultimo gradino, il diploma stretto in una mano e il tocco infilato di traverso con la nappa che gli penzolava davanti ad un occhio.
Aveva lo sguardo fisso ancora sul palco, dove Kairi era stata appena chiamata dalla maestra.
La bambina era visibilmente più timida. Non imitò il gesto temerario dell’amichetto, mettendosi quietamente in posa per il fotografo e scendendo gli scalini.
Fu allora che Sora la prese per mano…
… ed entrambi corsero da lui.
«Hai visto? Siamo fuori dall’asilo, amico. Ora siamo grandi come te!» Sora saltellò sul posto con aria trionfale.
Per come era entusiasta, sembrava aver atteso quel momento tutta la mattinata – e Riku conosceva troppo bene Sora per poter pensare che stesse fingendo.
Quasi si rassegnò che le cose fossero cambiate quando Sora distolse lo sguardo da lui per lanciare un’occhiata a Kairi, ma improvvisamente i due si scambiarono un sorrisetto complice e, lasciati cadere i cappelli e i diplomi, lo placcarono urlando insieme: “ADDOSSO!”
E fu in quel momento, stretto nella morsa di ferro del suo amico di sempre, che Riku decise che forse era giusto così. Che forse non erano più il duo delle meraviglie.
Ma forse era anche meglio, ora che erano in tre.
 
La Città di Mezzo era principalmente un posto di penombra e silenzio, ma dopo settimane di viaggio e un anno passato a cercare di sistemarsi, alcuni degli esuli di Radiant Garden avevano cominciato a chiamarla casa.
Non era facile. Aerith aveva seri dubbi persino sul fatto che lo sarebbe diventato.
Una dei bambini che era riuscita a salvare, Yuffie, bagnava ancora il letto. Squall, l’unico ragazzo della sua classe che Aerith aveva più visto, si rifiutava di punto in bianco di rispondere al suo nome. Non c’era una famiglia che fosse rimasta unita, anzi, quasi tutti i sopravvissuti erano letteralmente persone sole.
Tutti avevano visto qualcuno sparire nelle tenebre. Il giudice Ilyas aveva perso sua moglie, così come il capitano Cid, l’uomo che li aveva portati fin là. Squall, Aerith e Yuffie erano senza genitori. Di alcuni, come Isa, il figlio del giudice, e il suo migliore amico Lea, sparito assieme a tutta la sua famiglia, si erano letteralmente perse le tracce da prima che la catastrofe avesse luogo.
Non voleva neanche immaginare cosa fosse successo a Kairi, la sorellina di Lea, o agli orfani che Lord Ansem aveva accolto nel castello come famiglia: Ienzo, di tredici anni, e Shiro che a stento diceva frasi di senso compiuto.
Tutta quella gente che si era trovata nel castello quando il peggio era successo… senza che nessuno potesse essere lì e salvarli dopo che le guardie cittadine erano scomparse, uno dopo l’altro.
Aerith si era voluta convincere per mesi che le guardie di Lord Ansem avrebbero fatto qualcosa. Che prima o poi, Lea e Isa sarebbero comparsi assieme agli uomini del re e avrebbero riportato le persone che erano riusciti a salvare a casa. O che sarebbero riusciti a farsi una nuova casa.
Ma con il passare del tempo, questa speranza sembrava sempre più vana.
«Vorrei avere qui la mia mazza da baseball.» Tifa le confessò in un pomeriggio solitario che avevano passato a girare per i vicoli. «Mi prudono le mani. Voglio spaccare qualcosa.»
Aveva perso sua madre alcuni anni prima per una malattia, e adesso l’oscurità che aveva divorato il loro mondo le aveva preso il padre. Cid l’aveva portata via priva di sensi dalla piazza principale, ma non avevano potuto fare nulla per il corpo spezzato di suo padre, preso in pieno dal crollo di un edificio.
«Non credo che un pezzo di legno potrebbe aiutare.» Aerith tirò un sospiro. «Non ha aiutato Cloud quando lui e Zack hanno cercato di…»
Si interruppe, ricordandosi che Tifa non poteva sapere. Zack si era fatto promettere il loro silenzio.
«Sai cosa gli è successo?»
Tifa non era nata certo il giorno prima.
Aerith esitò un momento. Non voleva infrangere la promessa fatta al suo ragazzo scomparso. Ma quello che Zack aveva predetto, una possibile catastrofe che si sarebbe abbattuta sull’intero loro mondo, alla fine era accaduto, e la ragione principali del ragazzo per non voler diffondere parola era la possibilità di qualcuno che li puntasse.
Cos’altro potevano fargli? Cosa? Dopo che avevano letteralmente perso tutto?
Aerith non aveva più un ragazzo, un migliore amico, una famiglia, e la sua intera classe si era ridotta a soli tre ragazzini.
«La bambina che Lea teneva d’occhio. Zack continuava a dire che era stata tolta ai suoi veri genitori, e che Braig, la guardia, aveva qualcosa da nascondere.» Aerith confessò, mentre un nodo le saliva in gola. «Zack diceva che è tutto collegato… da quando hanno trovato la piazza scassata un anno fa…»
Non ce la faceva più ad andare avanti – finalmente era riuscita a parlare con qualcuno, e tutto quello che si era tenuta dentro negli ultimi mesi stava uscendo di prepotenza assieme a singhiozzi e lacrime.
«Stava cercando di fermarli… stavano cercando di fermarli… Zack e Cloud, Lea e Isa… volevano andare a cercare aiuto…»
Tifa non la lasciò andare avanti – le mise le mani sulle spalle, poi la abbracciò forte.
«Vuol dire che tocca a noi allora.» Le disse. «I ragazzi sono ancora in giro da qualche parte. Lo so. Me lo sento
La lasciò andare e fece un passo indietro.
«Nessuno li ha visti venire presi… nessuno li ha visti morire. Cosa ti dice il tuo cuore
Aerith non rispose, ma le venne quasi un altro attacco di singhiozzi quando si rese conto che Tifa non aveva tutti i torti. Nessuno aveva visto Zack e Cloud dopo la loro scomparsa, come pure nessuno aveva visto Lea e Isa dopo che erano andati al praticantato, nel castello, alcuni giorni prima che scoppiasse il cataclisma. Non era stato neanche anomalo come evento – era stato quasi normale che gli allievi di Ansem non lasciassero il castello per giorni.
Non erano nemmeno sicuri che il pericolo fosse venuto dal castello – c’erano dei superstiti che asserivano l’intervento di una strega.
«Saranno ancora in giro, da qualche parte.» Tifa strinse un pugno con fare determinato. «E se siamo riusciti ad arrivare fino a qui, allora possiamo anche andare dove sono loro. Li riporteremo a casa.»
Aerith fece per dire qualcos’altro, ma il suono di passi di corsa sul pavimento di pietra fece alzare la testa ad entrambe le ragazze.
«Hey, Leon.» Tifa si rivolse al nuovo arrivato.
Il ragazzino che fino a mesi prima era stato conosciuto come Squall girò l’angolo, rallentò il passo, e camminò verso di loro.
«Zack non parlava di gente strana che combatteva con chiavi enormi?» disse loro, con sul volto quella che sembrava la traccia di una speranza. «E Lea e Isa lo avevano confermato…?»
«Qualcosa del genere…» Tifa mormorò. «Ma non erano solo loro tre. Anche il signor De’ Paperoni della gelateria li aveva menzionati… e il vecchio Merlino, anche.»
Leon tornò alla sua solita facciata impassibile.
«Credo che uno di loro abbia trovato noi
Aerith rimase ferma sul posto. E se fosse stato uno dei parenti di Shiro? Come avrebbe potuto spiegare che la bambina era scomparsa, probabilmente per sempre?
Che non erano stati in grado di salvarla?
Ma il guerriero che stava seguendo Leon non era neanche umano.
La sua statura era paragonabile a quella di Yuffie, era coperto da capo a piedi di una folta pelliccia nera, e la sua testa era sovrastata da due enormi orecchie tondeggianti.
«Signor Maestro, queste sono Aerith e Tifa. Ragazze…»
Leon sorrise di nuovo.
«… vi presento il Maestro Topolino.»
 
«Buongiorno, Axel! Oggi hai visite!»
Saix aprì la porta e lasciò entrare Shiro nella stanza dell'amico.
La piccolina ormai aveva fatto sicuramente i tre anni, anche se la data che avevano scelto per segnarli era abbastanza arbitraria. Portava ancora alcuni vecchi vestiti di Kairi, che forse era la ragione per cui per Axel era difficile guardarla. Gli risultava un po’ più facile quando Shiro portava addosso il cappotto nero, ma la bambina sembrava mal sopportarlo.
Axel, seduto sul letto a fissarsi i piedi, alzò appena lo sguardo quando Shiro cercò di arrampicarsi sul materasso, poi riprese ad interessarsi alle sue scarpe.
Vedendo evidente mancanza di reazione da parte dell'amico, Saix si sedette sul letto accanto a lui e aiutò Shiro a issarsi su. Considerando che la piccola aveva un pastello in mano, sembrava anche una buona idea impedirle di arrampicarsi da sola, prima che riempisse le coperte di Axel di righe rosse.
«Abbiamo un numero nove. Xigbar ha portato qui una specie di lumaca con una chitarra.»
Si sarebbe aspettato che Axel facesse delle battute sulla lumaca in questione, ma il suo compagno rimase zitto.
«Demyx.» Shiro completò la frase per lui.
«Suona talmente male che potrebbe far piovere…» Saix cercò di continuare la conversazione, anche se sembrava che i suoi sforzi fossero abbastanza vani. Era da quando erano lì, al Castello che Non Esiste, che il suo vecchio amico, un tempo il petardo della situazione, si trascinava come un automa tra tutti i loro incarichi, per poi chiudersi in camera e finire la giornata seduto sul letto a fissare il vuoto.
«A…xel?» Shiro, seduta in mezzo ai due, lasciò il pastello nella mano di Axel e fece una smorfia. «Sorridi fratellone! Non ti voglio triste!»
Axel fece un sorriso visibilmente forzato.
«Ciao Shiro… lo hai memorizzato, eh?»
«Beh, direi, dopo un anno…» Saix forzò un sorriso a sua volta. Aveva sperato che in quell’arco di tempo, le cose si sarebbero risolte, e invece c’era un Nessuno in più, qualsiasi fossero le mire di Xemnas, non ci erano arrivati neanche lontanamente, i piani dell’Organizzazione erano buio totale, e dopo la perdita di sua nonna e sua sorella, Axel era diventato responsivo quanto un cetriolo.
Considerando che non aveva idea di cosa fosse accaduto ai suoi genitori e a Bolt, Saix avrebbe giurato che, se avesse avuto un cuore, sarebbe crollato anche lui, ma non si spiegava come mai Axel stesse reagendo in quel modo. O perlomeno, non se lo era spiegato fino a quando non gli era tornato in mente che, a sua differenza, il suo amico di sempre aveva memoria di cosa fosse il lutto.
«Axel, ho fatto una cosa.» Shiro infilò le mani nella tasca del cappotto che portava sopra i vestiti e tirò fuori un foglio piegato con disegnate varie figure di stecchi. «Questo sei tu. Questa sono io. Poi ci sono Kai e papà e Saix e gli altri.»
«Ma no…» Axel scosse la testa. Sembrava avesse gli occhi lucidi. «Funghetto, la tua famiglia non siamo noi. Ci stiamo solo prendendo cura di te finché non troviamo la tua mamma. Ricordi che diceva Zack sulla tua mamma?»
L’espressione di Shiro si incupì.
«Mamma…?» Fissò Axel negli occhi. «Ma… papà non vuole stare con me. Axel non puoi tu? Fratellone? Non devi andare in missione vero…?»
Saix avrebbe voluto dire qualcosa, ma rimase in silenzio. Shiro si stava abituando troppo a loro. Non aveva minimamente reagito alla menzione di Zack, che pure era stato uno dei suoi compagni di giochi preferiti, e aveva sbagliato a menzionare il nome di Kairi.
Come potevano fare?
Shiro avrebbe dimenticato tutti i Qualcuno nella sua vita se fosse passato troppo tempo. E un Qualcuno non poteva crescere in mezzo ai Nessuno, non lasciata a sé stessa come un campo di erbacce.
Fu allora che Axel ruppe il silenzio.
«Shiro… dove hai lasciato Mister Kupò
Per Saix fu come sentire la voce del vecchio Lea un’altra volta. Dovette reprimere l’istinto di ficcarsi un dito nell’orecchio per controllare di aver sentito bene.
«Su, corri a prenderlo, prima che si senta troppo solo!» Axel aiutò Shiro a scendere dal letto e le indicò la porta con un sorriso.
La bimba spalancò gli occhi e corse via per quanto veloce le consentissero le gambe corte e l’orlo della cappa.
Fu solo dopo che fu fuori dalla stanza che Axel fissò Saix.
«Ora sei tu quello di poche parole. Sta dimenticando
«Te ne saresti anche accorto prima, se non restassi qua a fissare la parete.» Saix ribatté immediatamente. «I miei complimenti, Lea, vecchio mio
Axel si abbandonò all’indietro e strisciò con la schiena giù per il letto.
«La ricorda ancora.» Sbuffò. «Non dovrebbe. Sarebbe la sua famiglia che deve ricordare.»
Strinse nella mano il pastello che Shiro aveva lasciato sul letto – uno dei tanti pezzi di cera che erano appartenuti a Kairi prima di lei.
«Avevamo promesso a Zack che avremmo fatto il possibile per portarla via.»
Lanciò il pastello attraverso la stanza, mandandolo a lasciare una brutta riga rossa sul muro davanti a lui.
«E guarda come ci siamo ridotti adesso.»
Saix si sdraiò accanto ad Axel – forse la cosa migliore era abbassarsi al suo livello e avvicinarglisi quando aveva certi grilli per la testa – e rimase vicino a lui per un momento.
«Come nel libro che mi leggeva mio padre. Noi non dovremmo essere qui – ma ci siamo,» gli disse. «Tanto vale andare fino in fondo. Perché siamo finiti in questa merda, Lea?»
«Perché… volevamo salvare delle vite?» Axel mugugnò tra i denti.
«Bene. E allora facciamolo.» Saix si tirò su e issò l'amico. «Shiro tornerà a momenti, ma questa chiacchierata non è finita. Domani, dopo la missione, ci vediamo alla Torre dell'Orologio in quel mondo qui vicino dove è sempre tramonto.»
«Uh, certo, e cosa ti fa pensare che ci sarò?» Axel fissò la strisciata di cera rossa che aveva lasciato sul muro.
«Non avremo più un cuore ma tu hai sicuramente ancora il tuo stomaco senza fondo.» Saix sogghignò. «E in quel mondo in particolare hanno il gelato salmastro.»
 
«Sora, ti sta simpatico Riku?»
«Certo, è il mio migliore amico!»
«Bene. Se dovesse succedere qualcosa, e Riku si perdesse… oppure se si incamminasse da solo su un sentiero oscuro… tu dovrai stare con lui e proteggerlo. È una tua responsabilità, Sora, conto su di te.»
 
Era in piedi su un pavimento di vetro, e il vetro andava in pezzi, facendolo precipitare nel vuoto.
 
«Ti sto facendo un grosso favore, sai?»
«Vuoi che ti aiuti a trovare i tuoi pezzi?»
 
Era seduto su una spiaggia che non riconosceva, con la schiena contro una scogliera. Vicino a lui, uno da un lato e uno dall’altro, erano seduti un uomo adulto con i capelli biondi e mossi che riflettevano quasi il sole del tramonto, e un bambino con i capelli blu talmente scuri da sembrare quasi neri.
 
«Sora, il destino non è scritto nella pietra…»
Era la voce di un ragazzo, stavolta. Il suo tono era quasi disperato.
«… puoi ancora dimostrargli che si sbagliava!»
 
A Sora sembrava ancora di stare precipitando nel vuoto quando aprì gli occhi.
Non riconobbe la stanza attorno a lui come camera sua, e stava quasi per andare in panico quando si rese conto di essere in un sacco a pelo nel soggiorno di casa, che Riku e Kairi erano vicino a lui, e su una delle pareti era ancora appeso lo striscione che mamma e papà avevano inchiodato là per la festa dei suoi dodici anni il giorno prima.
Si sentiva quasi un idiota ad essersi spaventato così per un incubo da quattro soldi.
Non gli sarebbe potuto accadere nulla… Mamma e Papà erano di sopra, il pavimento non avrebbe ceduto sotto di lui, e con Riku e Kairi accanto si sentiva il bambino più forte del mondo.
Ragazzo. Errata corrige.
Ma dettagli, eh.
D’istinto, andò a cercare il braccio di Riku con una mano. Lo aveva appena toccato quando il ragazzo più grande ebbe un sussulto e aprì gli occhi a sua volta.
«Che succede?» La voce di Riku era sia impastata dal sonno che in piena rottura.
Sora scosse la testa, restando zitto.
«Sooooraaaa?» Riku, sdraiato su un fianco, fissò l’amico e fece un sogghigno. «Se non mi dici cosa c’è che non va, io adesso sveglio Kairi.»
Sora rimase zitto e accompagnò al gesto con la testa anche un segno di preghiera con le mani. Per tutta risposta, Riku alzò un piede e…
«Che succede…?» Kairi mormorò da dietro Sora. «Chi tira calci?»
«Sora ha gli incubi.» Riku disse immediatamente.
«Non è vero!» Sora si tirò su a sedere.
Riku sembrò ignorare la bugia di Sora, o perlomeno parve riconoscerla per quello che era.
«E cos’altro avrebbe potuto svegliare un pigro come te?» Si puntellò con le braccia e gli mise una mano sulla schiena. «Sora, siamo i tuoi amici. Puoi dircele queste cose.»
Anche Kairi si tirò su. «Quello, oppure con tutta la glassa che ti sei sbafato oggi sei ancora in sbronza da zucchero.»
«Grazie tante, Kairi.» Sora sbuffò. «Ti informo che i marshmallow non li abbiamo neanche tirati fuori.»
Non avrebbe voluto svegliarli.
Non avrebbero dovuto svegliarsi.
Era stato soltanto un brutto sogno, e Sora aveva soltanto voluto assicurarsi che, nel soggiorno buio, loro fossero ancora al suo fianco.
«… anzi. Potrei fare un po’ di cioccolata calda e ce li buttiamo dentro.»
La sua proposta sembrò essere buona, perché Riku alzò il pollice e Kairi esclamò la sua approvazione.
«… però ci conviene accendere la luce prima che qualcuno si faccia male.» Riku si mise in piedi e andò a premere l’interruttore.
«Sora, ti do una mano.» Kairi prese ad andare verso la cucina. Sora andò con lei e iniziò a cercare il pentolino, mentre Riku iniziava a sistemare i cuscini sparsi sul pavimento.
«Non c’è di cui vergognarsi ad avere gli incubi, Sora.» Kairi gli disse a bassa voce mentre Sora metteva il latte sul fuoco e iniziava a cercare la latta del cacao. «Mio padre dice che è normale cercare le persone di cui ti fidi.»
«Lo so, Kairi, ma…»
Sora non si sentiva più un bambino.
Non voleva mostrarsi debole e spaventato, non per una sciocchezza del genere.
«A volte anche io ho degli incubi.» Kairi confessò. «A volte sono in una specie di sala computer, a volte in una biblioteca. C’è qualcuno che mi insegue. A volte sento voci che gridano il mio nome.»
Sora rimase fermo sul posto, il barattolo che aveva trovato stretto in una mano.
«Kairi, perché non ce lo hai mai detto?»
«So come siete voi due. Vi preoccupate.» Kairi gli tolse la latta dalle mani e prese un cucchiaio da un cassetto. «La cosa è che siete due scemi. Riku parla nel sonno, per la cronaca. L'anno scorso mugugnava di un'orda di mostri che ti attaccava.»
Mentre Kairi versava il cacao nel pentolino, Sora rimase in silenzio. Aveva immaginato che gli incubi fossero la normalità, ma qualcosa del genere… e i suoi amici che lo nascondevano come lui…
Si sentiva sempre più idiota.
Rimase in silenzio mentre la cioccolata bolliva, mentre la versavano in tre tazze e apriva la busta dei marshmallow per ricoprire la superficie della bevanda, e non disse nulla neanche quando tornarono nel soggiorno con le tre tazze in un vassoio.
Fu Riku, spaparanzato sul divano, a parlare.
«Allora era un incubo, dico bene?»
«Tu inizia a raccontargli dei tuoi, e vedrai che anche Sora parlerà dei suoi.» Kairi gli lanciò un’occhiataccia.
 
«Li ho trovati.»
Saix si sedette sulla balconata della torre e passò un gelato ad Axel.
Sopra le loro schiene, l’orologio della stazione di Crepuscopoli rintoccava le sette di sera.
«Vexen… li ha usati in tutti questi anni.» Saix continuò a spiegare. Axel aveva preso il suo gelato, ma lo stava fissando senza mangiarlo. «Esperimenti. Un programma chiamato Progetto Replica, non so a cosa vuole arrivare, ma alla fine sono stati scartati, entrambi, dopo quattro anni, e messi per altri due a dormire in delle specie di boccioli di vetro.»
Axel alzò lo sguardo.
«Sono vivi? E sono ancora Qualcuno
Saix sbuffò.
«A quanto pare per Vexen era necessario fossero entrambe le cose.»
La sua bocca si contorse in una smorfia.
«Sono stati portati sotto al castello. Nella Grotta della Memoria. Non sono stati nemmeno toccati dagli Heartless per quanto sono stati nascosti bene.»
Per quanto si fosse sentito dire e ripetere che da Nessuno non potevano sentire nulla, Axel si trovò a provare qualcosa di orrendamente simile a sollievo e speranza, miste a rabbia.
Shiro era rimasta per troppo tempo al Castello che Non Esiste. Parlava da sola, sosteneva di sognare sua madre, spesso si svegliava urlando o in lacrime, e a volte al termine di questi incubi, o addirittura durante, fasci di luce partivano dalla sua mano destra stretta a pugno, per poi lampeggiare come una lampadina malfunzionante e svanire.
Non era una vita che una bambina di otto anni poteva meritare. Axel ricordava i suoi otto anni, gli otto anni di Lea, come il remoto periodo in cui era stato la mascotte della caserma dei pompieri, supplicava i suoi genitori per un fratellino, e cercava in tutti i modi di far finire i fagiolini della mensa scolastica nel bidone della spazzatura.
«Cosa facciamo ora?» Axel fissò il gelato che iniziava a sciogliersi nella sua mano, poi aggrottò le sopracciglia e iniziò a mangiarlo.
«Quello che Zack e Cloud avrebbero dovuto fare. Sono ancora vivi e sé stessi, Axel.» Saix finì il suo gelato e puntò il bastoncino contro Axel. Sul legnetto era stampata la scritta “hai vinto”. «Spacchiamo il vetro di quei boccioli in cui li hanno messi in stasi, facciamo in modo che sappiano che Shiro è ancora viva, ed è qui, e la aiutiamo a scappare. Da lì, Zack sa dove andare. Ricordi? Aveva parlato di un mondo dove erano stati i suoi genitori.»
«Sì, sì, lo avevo memorizzato. Loro e Ventus.»
Axel rimase a fissare il perenne tramonto di Crepuscopoli con il gelato che gli si scioglieva in mano. Non poteva evitare di pensare che Zack e Cloud, se pur imprigionati in chissà quali condizioni, forse erano stati quelli fortunati in quella storia.
Avrebbe voluto poter fuggire con loro. Ma non aveva alcun posto dove andare. Casa era solo un lontano ricordo, come pure Nonna e Kairi, e se finanche altri suoi amici, oltre Zack e Cloud, fossero sopravvissuti alla distruzione del Giardino, non aveva realmente voglia di rivederli.
«Saix, tu non credi davvero che il Superiore stia cercando di agire nei nostri interessi.» Axel scosse la testa. «Mettiamo il caso che è come suppongono. E che Shiro probabilmente porterà la chiave, come sua madre, ed è per questo che la stiamo tenendo con noi. Ma questa storia della chiave che potrebbe recuperare i nostri cuori, e di Kingdom Hearts, io sento puzza di bruciato.»
«Tu senti puzza di bruciato.» Saix aggrottò un sopracciglio.
Axel si strinse l’osso nasale con pollice e indice e sbuffò.
«Va bene, non il paragone migliore, ma… non so più cosa è vero, oppure no. Potremmo stare buttando all’aria la nostra occasione di tornare a delle vite normali, o potremmo stare salvando la vita a qualcuno. Cioè, sicuramente stiamo salvando la vita a qualcuno. Ma importa qualcosa?»
Saix fissò Axel con gli occhi sbarrati, e per un momento nella testa del numero otto balenarono pensieri come “sto per morire”, “ora mi ammazza”, o “ecco, se avessi sobbalzato appena di più sarei caduto di sotto”.
«Hai già perso Kairi, Axel!» Saix scattò in piedi, gli occhi sbarrati in quello che poteva sembrare uno scatto d’ira e che invece avrebbe potuto persino essere qualcosa di peggio – Berserk. «Se non facciamo qualcosa, potresti perdere anche Shiro!»
Era soltanto una frase, ma avrebbe potuto essere benissimo una freccia.
Il Superiore aveva detto e ripetuto che non potevano sentire dolore, e allora cos’era quello?
«Va bene.» Axel si fissò gli stivali. «Dimmi cosa devo fare.»
Saix sembrò calmarsi.
«Cercherò io di liberare Zack e Cloud. Mi assicurerò che stiano bene e dirò loro di venire qui.» Si sedette di nuovo. «Tu…»
Guardò Axel, e un’ombra del suo raro sorriso di ragazzino, quello che aveva riservato soltanto a Bolt, comparve sulla sua faccia.
«… offri a Shiro un gelato.»

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Capitolo 6
*** La Cosa Giusta ***


Legacy – Capitolo 6
La Cosa Giusta
 
Zack scosse la testa.
Era seduto sul pavimento di pietra della stessa stanza che aveva continuato a vedere per… quanto tempo? Anni, a giudicare da quanto gli tiravano i vestiti.
Si mise in piedi e i pantaloni che aveva addosso decisero di far saltare una cucitura o due. Maledisse mentalmente gli apprendisti di Ansem il Saggio e si guardò intorno.
«Isa?»
Gli era sembrato di vedere il suo vecchio amico prima di sentire il rumore di vetri infranti e ritrovarsi sul pavimento.
Adesso invece era nuovamente solo – salvo per Cloud, ancora addormentato nell’altro baccello intatto. In un angolo, la vecchia spada che era appartenuta ad Angeal e altre armi abbandonate alla rinfusa. Vicino ai baccelli c’era una console di comando, e Zack vi si trascinò immediatamente, azionando quello per l’apertura.
Due sezioni della strana gabbia si aprirono, lasciando anche Cloud libero. Zack si affrettò a reggere il suo amico – si era fatto pesante! – per poi metterlo a sedere sul pavimento e dargli un paio di schiaffetti per cercare di rianimarlo.
Non gli avevano nemmeno lasciato tenere i suoi vestiti, per quanto era cresciuto, ed era infagottato in una specie di pigiama asettico da ospedale.
«Hey, Cloud… Cloud!» Zack scosse nuovamente l’amico.
«Cosa…?» Cloud mugugnò con la voce impastata.
«Come ti senti, amico?» Zack si lasciò sfuggire un sorriso vedendo che Cloud gli rispondeva. Per un momento che era sembrato eterno, aveva temuto che lo sguardo del ragazzo sarebbe rimasto vitreo e assente, e che non avesse formulato affatto parole.
«Schifo…» fu il solo commento di Cloud, accompagnato ad una smorfia di disgusto e a una scrollata della testa.
«Stessa cosa, porcospino.» Zack gli prese un braccio e se lo mise attorno alle spalle, aiutandolo ad alzarsi. «Forza, se qualcuno ha aperto la porta è meglio non sprecare questa occasione. Andiamocene via di qui!»
Non era molto facile capire dove fosse il “qui”. Presero la Buster e una spada d'ordinanza della guardia cittadina, poi lasciarono la stanza dove si erano svegliati e presero un corridoio. Dalle stanze asettiche dalle pareti bianche dove si trovavano, un alto portone li condusse in quella che sembrava una vecchia miniera abbandonata. Dopo un po’, Cloud spinse via il braccio di Zack, asserendo di riuscire a camminare, ma non aveva fatto qualche passo prima di trasalire.
«Cosa c'è, Cloud, ti senti male?» Zack fu lesto a riprenderlo.
«Pompieri...» Cloud si liberò dalla presa dell'amico e camminò verso un copricapo abbandonato sul pavimento della caverna. Lo sollevò e lo esaminò, facendo gesto a Zack di avvicinarsi.
«Questo casco è stato qui da anni.» Zack commentò prendendolo dalle mani di Cloud. «E questo spacco qui…? Amico mio, credo di sapere a chi appartenesse.»
Sull'elmetto c'erano i gradi di capitano. L'iscrizione “vigili del fuoco di Radiant Garden”. Il numero 8 impresso su un lato. Oh, se Zack riconosceva quell'elmetto. Non era la prima volta che lo vedeva.
Aveva visto sia il copricapo che il suo padrone in quinta elementare, durante la giornata dei mestieri dei genitori. Ricordava ancora di quanto fosse stato a mangiucchiarsi le unghie a causa del suo papà contadino, quando Isa aveva portato in aula il suo papà giudice, e Lea aveva annunciato a gran voce che la sua mamma comandava i pompieri.
«È successo qui, Cloud. L'incidente che ha ucciso i genitori di Lea.» Zack dedusse.
«Quindi vuol dire che siamo sotto il Castello di Ansem?» Cloud arrivò da sé a parte della conclusione.
«Già, e vuole anche dire che qualsiasi cosa abbia ucciso i pompieri, potrebbe ancora essere qui.» Zack portò istintivamente la mano alla Buster che era appartenuta ad Angeal. «Restiamo in guardia.»
Non dovettero aspettare molto per capire cosa aveva aggredito i pompieri anni prima. Ombre scivolarono sul pavimento della caverna, muovendosi verso di loro ed emergendo dal suolo come creature nere dagli occhi gialli, arti allungati e nodosi come bastoni, e la testa tonda che ondeggiava, sovrastata da quelle che sembravano orecchie o antenne.
Sarebbero sembrati quasi carini, Zack si azzardò a pensare, se uno di loro non gli stesse saltando addosso scoprendo quelli che erano inequivocabilmente artigli.
«Attento, Porcospino, questi cosi fanno male!» Zack si affrettò a tagliare in due il suo aggressore con la Buster.
Cloud non se lo fece ripetere, e in un solo, fluido movimento prese la spada che avevano trovato nella stanza e affiancò Zack in modo da dargli le spalle.
Non sembrava nemmeno che fino a un momento prima fosse stato visibilmente in pessime condizioni, per la disinvoltura con cui si era messo in guardia e stava iniziando ad affrontare i mostri d'ombra.
Per come continuavano a combattere e vendere cara la pelle anche dopo che Zack e Cloud li avevano decimati, anziché fuggire per salvarsi le vite, quei mostri sembravano avere un livello di intelligenza pari a quello degli animali. Fu quando ne rimasero soltanto due o tre che le gambe di Cloud cedettero e il ragazzo crollò in avanti, reggendosi sulle ginocchia e sulle mani, in preda a tremiti.
Zack si liberò in fretta degli ultimi mostri e si chinò immediatamente al fianco dell’amico. Il respiro di Cloud era affannato, aveva gli occhi sbarrati, e il suo corpo esalava lo stesso miasma nero che Zack aveva visto Ade usare con lui.
«Oscurità…» Zack mormorò, cercando di reggere Cloud. «Cosa ci hanno fatto?», sibilò tra i denti.
Rimase all’erta, sia verso i meandri della caverna che verso Cloud stesso, per un periodo di tempo che gli parve eterno. Il suo migliore amico non sembrava sul punto di impazzire, o venire controllato da qualcosa, e non sembravano arrivare altri mostri.
Zack si sedette sul pavimento della caverna e fece sedere anche Cloud, reggendolo con un braccio e sfregandogli la schiena con l’altro, nella speranza che si sentisse meglio…
«Posso andare avanti,» Cloud insistette ancora. «Dobbiamo andarcene di qui.»
Aveva smesso da qualche momento di emanare miasma oscuro, ma Zack non se la sentiva di farlo sforzare. Perché soltanto Cloud si stava sentendo così male…? Erano stati sottoposti agli stessi esperimenti, da quanto Zack ricordava, prima di venire chiusi come sottaceti in quei fiori di vetro.
Poi gli tornò in mente nuovamente l’Olimpo. Ade. Terra.
Anche lui era stato esposto all’oscurità, prima che Terra lo liberasse. E probabilmente adesso ne era un po’ immune, come se non fosse stato altro che un brutto caso di varicella.
«Va bene, lasciamo le caverne.» Zack finse di cedere. «Ma non appena arriviamo in un qualsiasi posto che abbia dei letti e una porta che si possa chiudere, ci riposiamo.»
Procedettero attraverso la miniera abbandonata, lentamente e all’erta, Zack muovendosi più rapidamente per intercettare qualsiasi aggressore prima che Cloud si stancasse troppo e si sentisse nuovamente male. Ad un certo punto fu quasi certo di aver udito delle voci e qualcosa che fluttuava sopra le loro teste. Fece per imbracciare la spada quando si rese conto che erano fate – abitanti di Radiant Garden, proprio come loro.
«Hey!» Corse qualche passo dietro di loro, sbracciandosi per attirare la loro attenzione, ma le fate – tre – volarono via senza dargli retta.
Stupide creature senza cervello, pensò brontolando tra i denti mentre tornava da Cloud, come accidenti ha fatto il professor Braska a sposarne una?
«Zack, guarda!»
Fu Cloud a scuoterlo dai suoi pensieri, alzando un dito per indicare qualcosa alle sue spalle.
Il giovane si girò, fissando la direzione indicata dall’altro ragazzo. Nella stessa direzione dove le fate erano sparite, più in basso, si apriva una spaccatura nelle rocce dalla quale entrava una fioca luce.
«Un’uscita!» Zack esclamò raggiante. «Bel lavoro, amico!»
 
Il castello di Lord Ansem era irriconoscibile, almeno dall’esterno.
Tempo prima era stato un capolavoro di architettura vecchio di decenni, adesso era semisommerso da macchine, lurido, e abbandonato, con mostri che pattugliavano interno ed esterno.
Con una mano saldamente serrata attorno al polso di Cloud, Zack attraversò a rotta di collo quelli che erano stati il cortile e i corridoi e corse con la spada nell’altra mano fino a quando non arrivò alle familiari stanze della caserma. Con la vecchia passkey di Angeal, chiuse la porta alle loro spalle e si lasciò cadere su di essa appoggiandovi la schiena.
«Cosa è successo a casa nostra?» sbottò appoggiando il sedere sul pavimento.
Cloud si sedette a sua volta. «Abbiamo fallito.»
E, a quanto pareva, erano i soli rimasti vivi nel castello. Le macerie, la distruzione, i mostri, dovevano sicuramente essere opera di Xehanort.
«Non dire così. Cloud. Non è colpa nostra, né mia, né tua, se Sephiroth ha deciso di impazzire. Dovevamo salvare il castello e i suoi abitanti. È quello che fanno gli eroi… quello che fa la gente con un minimo di cuore.»
Tirò un sospiro.
«Per quello che sappiamo poi, Aqua potrebbe essere ancora qui, prigioniera come lo eravamo noi.»
Cloud aggrottò le sopracciglia.
«Chi è Aqua?»
«La madre di Shiro. La sua vera madre.» Zack si mise in piedi e camminò verso gli armadietti. Non voleva rimanere con l’uniforme stretta e strappata un minuto di più, e anche Cloud necessitava disperatamente di un cambio di abiti. «L’ho conosciuta in un mondo che si chiama Olympos. Non era del posto, era solo lì di passaggio, stava cercando il suo compagno, Terra. Che è anche un mio amico, per la cronaca. Alla fine ci siamo ritrovati entrambi a vedercela contro quel farabutto di Ade, il signore locale dell’Oltretomba, che per quale ragione chissà, ce l’ha a morte con suo nipote e sta cercando un sicario per farlo fuori.»
«E…?» Cloud mugugnò.
«Ricordi quando comparvero Xehanort e Shiro e qualcuno fece a pezzi le pietre nella piazza principale? C’erano le impronte di Aqua lì. L’ultimo posto in cui ho avuto sue notizie era quello.» Zack abbassò lo sguardo, poi raccolse una divisa dall’armadio e la lanciò addosso a Cloud. «Mettila addosso. È antiproiettile, non so quanto resista a mostri o magia, ma di sicuro copre più di quella specie di carta velina che stai indossando.»
«Fa freddo.» Cloud si lamentò, ma si tolse quell’insulso pigiama e iniziò a infilarsi l’uniforme dalla testa. Zack rimase in silenzio, pescò a sua volta un’uniforme che gli andasse bene e iniziò a cambiarsi. Nella stanza c’erano due letti impolverati, probabilmente ci sarebbe stata una cassa di razioni a scadenza lunga se erano fortunati, e le porte del castello erano corazzate in modo da non poter venire sfondate dal primo mostriciattolo vagante.
Avrebbero potuto rifugiarsi lì per tempi indefiniti, ammesso e non concesso che avessero modo di accedere a viveri e acqua, oppure avrebbero dovuto andare il più lontano possibile, e a quel punto…?
Zack si lasciò andare sul letto, alzando sbuffi di polvere. Dopo un po’, Cloud fece lo stesso sul letto vicino, prima sedendosi molto più timidamente.
«Che facciamo adesso?»
«Non possiamo restare qui per sempre, questo è chiaro.» Zack fissò il soffitto, parlando in tono piatto. «Se conosco Aerith, ed è la persona più furba e sveglia che conosco, sarà al sicuro e a miglia e miglia di qui. Mi piacerebbe ritrovarla.»
«Aerith sa di Cid.» Cloud brontolò. «L’avrà portata via.»
«Dovunque sia, sarebbe felice di accoglierci. Ma lasciamo perdere, sua madre vive con lei.» Zack si girò verso Cloud e si lasciò scappare una risatina. «Qualsiasi cosa faremo, avremo bisogno di munny. Cosa potremmo fare?»
Il ragazzo più giovane si strinse nelle spalle.
«Boh!»
Zack si rimise in piedi. Non era una domanda facile – nessuno dei due aveva finito le scuole superiori, lui aveva solo la sua formazione da guardia e la cosa più professionale che Cloud poteva dire di aver fatto era di aver militato… in due squadre scolastiche di baseball.
Mentre pensava, si acquattò sulle sue gambe, poi si rimise in piedi, poi nuovamente giù e su, nell’esercizio di ginnastica che aveva imparato da bambino ed era solito fare per dissipare i nervi.
«Ci sono! Conosco un sacco di cose, sia sui mostri di anni fa che adesso su quelli comparsi ora. E io e te abbiamo cervello e abilità che molti in giro si sognano!»
«Huh?» Cloud si tirò su a sedere. «Zack, non abbiamo nemmeno il diploma…»
«Beh, non credo che Ven lo avesse, ma la cosa non gli ha impedito di fare mostri a pezzi.» Zack ridacchiò. «È deciso. Farò il mercenario. Lavori noiosi, lavori pericolosi, basta che paghino.»
«Zack…» L’espressione di Cloud era paragonabile a quella di un cucciolo bastonato.
«E tu vieni con me, ovvio.» Zack si sedette accanto a lui. «Sei il mio migliore amico, te n’eri scordato?»
Rimasero entrambi in silenzio per un momento. Zack poteva giurare che gli occhi del suo amico si stessero riempiendo di lacrime.
Erano dispersi in un castello abbandonato e infestato da mostri. Chissà cosa avevano fatto con loro. Ma erano vivi. Stavano più o meno bene, avevano un rifugio, un piano e una speranza.
Dopo anni di prigionia, avevano l’occasione di ricominciare, nonostante attorno a loro non avessero che l’ignoto.
Ci volle un po’ perché Zack si accorgesse che veniva da piangere anche a lui.
Se non fosse stato per la polvere, per l’odore di abbandono, per la paura e la preoccupazione, avrebbero potuto fingere di essere due guardie cittadine, pronti per la prossima missione.
Poi degli sbuffi di oscurità in un angolo della stanza fecero scattare entrambi come molle, e come un solo uomo, i due giovani misero mano alle armi e si misero in guardia.
Si era aperto una specie di portale di tenebre nella stanza, e ne uscì quella che sembrava una figura umana, coperta da una cappa nera.
«Chi sei?» Inaspettatamente, fu Cloud il primo a parlare, o meglio, a sibilare tra i denti, puntando la spada contro l’intruso. «Mostra il tuo volto!»
Quella che sembrava una claymore fece abbassare l’arma a Cloud, ma la figura misteriosa non fece altro se non trattenerlo.
«Il mio nome è Saix.» Il nome non era familiare a Zack, ma avrebbe giurato di aver sentito da qualche parte quella voce. «E sono stato io a liberarvi… e a liberare la strada dal grosso degli Heartless affinché arrivaste qui illesi.»
Cloud fece una smorfia.
«Cosa vuoi da noi?» Zack fece un passo in avanti, pronto ad aggiungere la Buster al duello.
«Falliste una missione, sei anni or sono.» L’essere chiamato Saix asserì in tono piatto, poi portò una mano guantata alle pieghe della sua cappa ed estrasse una foto che ritraeva una ragazzina di otto anni. «Avreste dovuto portare questa bambina lontano dal castello. Le vostre tracce vennero perdute, con solo tre testimoni a conoscenza di dove stavate andando e cosa avreste provato a fare.»
«Shiro?» Zack riconobbe la bambina nel ritratto. Era visibilmente cresciuta, ma stringeva ancora nelle braccia Mister Kupò. «Sta bene? Dov’è?»
«Basta giochetti!» Dei due, Cloud sembrava quello più adirato. «Cosa vuoi da noi? Mostra la tua faccia, codardo!»
Lasciò andare la spada e accennò un sogghigno.
«O forse dovrei dire Isa?»
Puntò un piede all’indietro, per poi lanciarsi addosso allo sconosciuto con l’intenzione di strappargli via il cappuccio.
Era appena riuscito a mettere una mano sulla stoffa quando il suo corpo riprese ad emanare miasma oscuro, e lui crollò al pavimento tremando e con gli occhi sbarrati.
Fu Saix a fare un passo indietro in quel momento, e quel poco che si vedeva del suo volto era adombrato dalla preoccupazione.
Prese immediatamente Cloud per le spalle e lo trascinò di peso sul letto, mettendolo a sdraiarsi. Cloud non sembrò manco accorgersi di essere stato afferrato, e continuava a tremare e ansimare, con gli occhi che fissavano il soffitto senza davvero guardarlo.
«Che gli prende?» Il primo impulso di Zack fu di chiedere spiegazioni – di domandare allo sconosciuto se effettivamente quella misteriosa afflizione fosse qualcosa di cui lui sapeva.
«Xehanort ha usato l’oscurità su di lui… e su di te.» Saix rispose. «Sul perché non abbia avuto lo stesso effetto anche su te, non è chiaro, ma secondo gli appunti che ho rubato, ha a che fare con una tua precedente esposizione.»
«Ci ero arrivato.» Zack sbuffò, tenendo sempre un occhio su Cloud, che sembrava sul punto di calmarsi. «Come sai di Shiro? Dove è stata portata?»
«La bambina è nelle mani dell’Organizzazione XIII.» Pur non vedendo gli occhi di Saix, Zack sentiva il suo sguardo fissarsi su di lui mentre la figura in nero lo fissava. «Gli esseri che la tengono prigioniera non sono persone come te e Cloud. Sono quello che si chiama Nessuno. Esseri privi di cuore che ambiscono a riottenerlo, con qualsiasi mezzo necessario.»
Rimase in silenzio per un momento.
«Persino una bambina che ha in sé, quiescente, il potere del Keyblade.»
Zack si morse il labbro, rimanendo per un momento in silenzio. Il fine dell’Organizzazione, dei Nessuno, non sembrava tanto basso ed abietto, ma per come Saix aveva parlato del servirsi di una bambina, i mezzi probabilmente lo erano.
«La porto via. Anche subito.» Zack fece sì con la testa.
Saix sbuffò.
«Non subito, idiota che non sei altro. La devo prima allontanare dal Castello che Non Esiste.» Zack lo vide alzare gli occhi al cielo. «E no, niente battute sul fatto che esista o meno. Non sono io che l’ho chiamato così. Fatti trovare domani davanti al Grattacielo della Memoria. Sarò io ad aprirti il passaggio fuori da questa stanza, e rimarrà aperto fino a quando non verrà attraversato di nuovo. Da lì, in un hangar mezzo distrutto c’è una nave che funziona ancora. Tu e Cloud la prenderete e porterete Shiro ad un mondo chiamato La Città di Mezzo. I rifugiati di Radiant Garden sono lì. Tutto chiaro?»
«Tutto tranne la tua faccia, Isa.» Zack si sedette sul letto. «Perché sei tu, non è vero?» Si fece serio. «Poche persone sapevano di Mister Kupò. Sai i nostri nomi e sapevi che siamo spariti mentre eravamo diretti al castello. Hai detto tu stesso solo tre testimoni
Saix – se così si chiamava – evocò un’altra pozza d’ombra.
«Il ragazzo che conoscevi non esiste più, Zack.» Mise un piede nell’ombra, in quella specie di corridoio oscuro che aveva usato anche prima per entrare, e si girò verso di lui. Abbassò il cappuccio, però, e gli occhi verde mare e i capelli blu del suo amico di un tempo si mostrarono su un volto reso irriconoscibile dagli anni e da qualsiasi cosa gli fosse accaduto. «Sii rapido e potrai salvare la bambina.»
 
«Credo sia sparita un’altra stella.»
A Crepuscopoli vedere il cielo notturno era un evento più unico che raro: il Sole non raggiungeva mai l’apice del cielo, né spariva mai oltre l’orizzonte, ma con un cannocchiale attrezzato con dei vetri da eclisse, era comunque possibile osservare le stelle.
Ammesso e non concesso che non stessero svanendo, una dopo l’altra.
«Dici che sia vero quel che ha detto tuo zio?» Il suo migliore amico sistemò il cannocchiale in posizione orizzontale, cercando per quanto possibile di scrutare il cielo sopra di loro anche ad occhio nudo. «Che potrebbe essere un brutto segno?»
«Mah. Lo sai meglio di me quanto la sappia lunga.» Il ragazzo incrociò le braccia dietro la testa e sbuffò. Erano giorni che “Zio”, o meglio quel vecchio lunatico del suo prozio, diceva che qualcuno avrebbe dovuto indagare sugli strani fenomeni paranormali che erano accaduti nelle ultime settimane.
Le gallerie sotto la città non erano più sicure: strani esseri, quasi fatti d’ombra, aggredivano chiunque fosse imprudente abbastanza da attraversare la loro via, e il suo migliore amico aveva salvato più di una volta il suo fratellino e la sua banda sparando alle ombre con un lanciarazzi.
«Già, peccato che Pence e i suoi amici si siano convinti che possa essere un’altra meraviglia di Crepuscopoli e io devo andare a salvargli il sedere.»
Il ragazzo rise. «Dai, tuo fratello ha quattordici anni! Anche io e te due anni fa abbiamo combinato un bel po’ di guai cercando di esplorare la vecchia villa.»
«Io e te non eravamo soli.» Il suo amico gli puntò contro un dito. «Hayner e Olette sono più forti di Pence, ma non sono come i tuoi gorilla o tuo zio.»
«Andiamo, ancora li chiami gorilla solo perché sono più grandi di noi?» Il ragazzo tirò un sospiro. «Almeno loro hanno finito la scuola.»
I due si sedettero sul prato, uno accanto all’altro, continuando a fissare il cielo. Da qualche parte sotto di loro, il treno stava fischiando.
«Mi mancherà questo tramonto.» Il ragazzo si alzò, si scosse un po’ di erba secca dai vestiti, e aiutò il suo amico ad alzarsi. «Allora, pronto a fare i bagagli?»
«Uhm, non hai paura di questa oscurità mangiastelle?» Il suo amico sembrava abbastanza spaventato.
«Paura. Chi, io?» Il ragazzo sorrise. «Per niente. Ci siete voi con me
 
Cloud bilanciò nelle mani la spada e si mise in posizione di guardia, pronto ad affrontare il suo nuovo sfidante.
Erano passati almeno due anni da quando era arrivato alla Città di Mezzo solo ed esausto, con quella specie di pozza d’ombra che non sapeva nemmeno come era riuscito ad evocare. Si era preso a stento il tempo di recuperare e riposarsi prima di cercare e trovare Olympos, il mondo di cui il suo migliore amico gli aveva raccontato.
In quasi due anni che lui era stato lì, campando giorno per giorno con qualsiasi lavoro noioso o pericoloso che gli venisse assegnato, partecipando nei tornei per riempirsi ancora le tasche di dracme e munny, non era comparsa l’ombra di un Custode del Keyblade.
Sembravano spariti.
Cloud era arrivato persino a stringere un patto con Ade, il signore locale dell’Oltretomba, nella fragile speranza di riavere il suo compagno. Con i giorni che passavano riteneva sempre più di essere stato gabbato, perché per quanto stesse facendo, per quanto si stesse sporcando le mani, non sembrava che il suo committente avesse intenzione di mantenere la parola, ma quale altra speranza aveva?
Adesso però quello che il re dei funerali gli aveva chiesto di fare aveva passato ogni limite: il soldo di cacio che Cloud aveva davanti a sé aveva sì un Keyblade, ma quanti anni poteva avere? Lo aveva sentito parlare, non aveva nemmeno cambiato voce!
Cloud poteva anche definirsi un mercenario, una lama a pagamento, ma per quanto voleva rivedere Zack, non si sarebbe mai perdonato se per farlo avesse fatto del male ad un bambino.
Un bambino che, peraltro, poteva essere la chiave per rimediare alla catastrofe che aveva lasciato lui e i suoi amici senza più casa né famiglia, e aveva fatto male a chissà quanti altri.
Gli venne dato il via, e Cloud partì all’attacco. Il ragazzino aveva la stoffa, ma sembrava che mai nessuno  gli avesse realmente insegnato ad usare un’arma.
"Ha, ha, senti chi parla," una voce che Cloud aveva iniziato a definire come quella della sua coscienza e a volte del suo sarcasmo gli parlò nella testa. Diede un po’ di corda al piccoletto – quanto gli ricordava sé stesso a quell’età! – fino a quando non decise di finire l’incontro lasciandosi cadere con le ginocchia nella polvere dello stadio.
Si rimise in piedi, pulendosi i pantaloni e fece per andare a stringergli la mano, ma qualcosa di grosso e pesante lo colpì alle spalle e tutto si fece buio.
 
Lo scontro con Cerbero era stato una delle cose più spaventose che Sora avesse mai affrontato nei suoi quattordici anni di vita, e gli avvenimenti degli ultimi giorni di certo non erano stati una passeggiatina nel parco.
Sperava che Cloud, così si chiamava a quanto pareva il suo avversario della finale, non si fosse ferito in modo grave. Sembrava un tipo tosto da come aveva combattuto, ma la zampata del gigantesco cane a tre teste doveva aver sicuramente fatto male.
Sora non aveva nulla contro i cani grossi, anzi. Di norma, i cani di taglia grande erano quelli goffi e adorabili che gli salivano addosso per lavargli la faccia con la loro stessa bava. Però dubitava che una persona sana di mente avrebbe potuto adottare una bestiaccia del genere e dare un nome che, per quanto Ercole giurasse e spergiurasse, a quanto pareva significava Macchia.
«Avanti, andiamocene.» Paperino per poco non lo tirava per la manica, ansioso di portarlo via dallo stadio e chissà verso quali altri mondi.
Nel cortile dell’arena, però, seduto sugli scalini e con lo sguardo fisso sui suoi stivali, c’era Cloud. Sembrava stare bene fisicamente, ma era anche visibilmente scoraggiato.
«Hey, stai bene?» Sora affrettò il passo e si fermò davanti al suo vecchio avversario.
«Sì…» Cloud a stento alzò la testa.
«Come mai stavi dalla parte di quel tipo?»
Il ragazzo più grande abbassò di nuovo la testa, appoggiandosela alle mani.
«Cerco qualcuno. Ade mi aveva promesso aiuto. Ho tentato di usare il potere dell’Oscurità, ma mi si è ritorto contro.» Si alzò in piedi. «Non so con quale faccia tornerò da…»
«Non credo sarebbero contenti di quello che avresti fatto, yuk.» Pippo intervenne prima che Cloud trovasse le parole che stava cercando. «Di chiunque tu stia parlando, dire di no ad Ade è stata la cosa giusta.»
Cloud guardò Sora, Paperino e Pippo, rimanendo in silenzio, poi tirò un respiro e guardò Sora.
«Sora, giusto?» gli chiese. «C’è qualcun altro con te? Qualcuno con una spada come la tua, ma più anziano? Un giovane biondo, un uomo e una donna adulti?»
Sora scosse la testa prima che Cloud finisse di chiederglielo, ma fu Paperino a parlare per lui.
«Sono spariti nel nulla!» il mago intervenne. «Scomparsi dieci anni fa!»
«COSA!» Per poco Sora non prese Paperino per i vestiti. «Credevo di essere l’unico!»
Con la coda dell’occhio, Sora vide che Cloud sembrava quasi vacillare, come se la notizia di Paperino non fosse stata affatto buona per lui. La sua domanda poteva aspettare, perché a quanto pareva c’era una ragione dietro a quello che Cloud stava cercando di dire.
«La loro bambina. Shiro. È ancora viva da qualche parte.» Cloud si fece serio e fece per allontanarsi, ma gli lasciò prima cadere qualcosa nelle mani. «Sora, non perdere di vista la tua luce.»
 
Cloud si allontanò a passo pesante, stringendo i denti e lottando per trattenere le lacrime.
Per quanto avessero avuto ragione, per quanto Aerith e Tifa non avrebbero mai avuto il coraggio di guardarlo in faccia se avesse rispettato quell’accordo sleale, per quanto si sentiva di aver fatto la cosa giusta, non alzando la lama che era appartenuta a Zack su un ragazzino…
… quella probabilmente era stata la sua ultima occasione, e lui l’aveva gettata alle ortiche.
Non poteva più restare ad Olympos.
In fin dei conti, aveva trovato un portatore della chiave. Aveva detto che Shiro era ancora viva, anche se per quanto avesse cercato di tornare al Mondo che Non Esiste, lui stesso non ci era mai riuscito. Ade sicuramente non lo avrebbe più aiutato, non dopo che aveva visto dove era riposta la sua lealtà.
Una voce nella sua testa, una che suonava tremendamente come il suo vecchio amico Zack, continuava a dirgli che si era fatto onore, e che nessuno lo avrebbe biasimato se fosse tornato da solo alla Città di Mezzo.
Aerith e Tifa non aspettavano altro che di dargli il bentornato.
Si guardò un momento alle spalle. Sora era ancora lì, con mezza faccia invasa da un sorriso scemo, come solo quello di un ragazzino poteva essere.
In fin dei conti, anche Cloud era stato così una vita prima. Dieci anni prima, quando Zack lo aveva aiutato a segnare un fuoricampo e aveva espresso la volontà di diventare suo amico. Tutti i pomeriggi che avevano passato a lanciarsi la palla. Persino la pausa pranzo a scuola, la vecchia divisa scolastica regalata.
Si rese conto in quel momento di cosa lo aveva spinto a frenare la sua mano – sarebbe stato come uccidere sé stesso.
E quello non sarebbe mai, mai stato un prezzo onesto per Cloud Strife.
Era il momento di tornare a casa.
 
«Vedi, Shiro? Quel ragazzo là. Vai da lui e salutalo.»
Axel indicò un ragazzino, appena più grande di Shiro ma che sembrava farsi piccolo piccolo in mezzo alla gente. Aveva addosso una giacchetta bianca con dei motivi a scacchi e una maglia nera su un paio di pantaloni grigi, e i suoi capelli irti e arruffati sfumavano dal castano delle radici al biondo miele delle punte.
A Shiro sembrava di averlo già visto altrove, ma non aveva propriamente idea di dove e quando.
«Axel, scusami, mi sembra un po’…» Shiro fece una smorfia, poi si puntò un dito alla tempia e lo fece girare, come ad indicare qualcuno che non ci stesse molto di mente.
«Tranquilla, è lui il nostro uomo.» Axel ammiccò. «Il tuo vecchio vuole che lo portiamo a casa.»
Shiro scosse la testa. Come al solito, Papà faceva piani senza il minimo senso logico o un briciolo di ragione. Non lo aveva già visto lui per primo? Non gli aveva dato un nome?
«Axel, non ha senso. Non poteva prenderlo lui?» Scosse la testa e sbuffò.
«Beh, non lo so. Shiro, non è come gli altri Nessuno… questo è il Nessuno di un bambino… magari ha visto tuo padre in faccia e gli è venuta paura.»
«Ma se mi hai detto che i Nessuno non sentono la paura…» A volte, Shiro avrebbe potuto giurare che i Nessuno, e Axel in particolare, facessero discorsi senza capo né coda soltanto per confonderle le idee.
«Senti, Shiro, non lo so, so soltanto che il compito è ricaduto su di me e secondo me per te sarà più facile.»
«Va bene
L’undicenne lasciò ad Axel la sua casacca nera, rimanendo con i vestiti che portava sotto, e fece qualche passo per la strada, fino ad andare casualmente verso il ragazzetto smarrito.
Crepuscopoli non le era affatto nuova, anzi. Erano circa due anni che Axel la portava lì a prendere il gelato, più o meno da quando Saix si era sfigurato la faccia e aveva smesso di parlargli. Probabilmente, Shiro si era detta, Axel lo aveva fatto perché aveva perso l’amico.
Ma qui la cosa si faceva strana, se Axel aveva perso l’amico, non voleva dire che era triste? E come poteva essere triste se i Nessuno non sentivano niente?
Beh, non era il momento di pensarci.
Si fermò davanti al ragazzo – era davvero un Nessuno? Non aveva l’aria di esserlo! – e lo salutò con la mano.
«Ciao! Io e il mio amico Axel stiamo andando a prendere un gelato. Ti va di venire con noi?»
Il ragazzo rimase fermo, ma fissò Shiro negli occhi senza rispondere. Era muto per caso? Oppure non sapeva cosa fosse il gelato? Però sembrava averla sentita, quindi Shiro riprese a parlare.
«Ti va il gelato? È buono.» Si portò un dito alla faccia e ruotò il polso un paio di volte.
Il ragazzino – o Nessuno? Era la prima volta che Shiro ne vedeva uno così piccolo – fece un passo indietro, come se qualcosa lo avesse spaventato. Che genere di reazione era quella? Shiro gli voleva offrire il gelato!
Un momento. Cos’altro c’era di carino che avrebbe potuto mostrargli… qualcosa per non farlo spaventare…
Shiro ebbe un’idea e si lasciò scivolare dalle spalle la sua borsa, tirando fuori Mister Kupò. Forse il ragazzo aveva bisogno di un amico come Mister Kupò.
«Questo qui è Mister Kupò, è il mio migliore amico.» Shiro lo alzò davanti al ragazzino con entrambe le mani. «Vuole sapere come ti chiam…»
Oh, no. Il ragazzo stava decisamente cercando di andare via…
«E dai, Shiro, cosa ti avevo detto riguardo a come ci si presenta?» Axel emerse quasi dal nulla e tagliò la strada al ragazzo. «Prima dici il tuo nome. Poi si parla di peluche o di gelati.»
Shiro fece una smorfia ad Axel, poi sbuffò e guardò il ragazzo, che sembrava ancora perplesso ma si era fermato, e più che spaventato appariva curioso.
«Ciao! Io sono Shiro,» esordì indicando sé stessa. «Quello è Axel…» indicò la figura alta e con il mantello. «… e questo qui è Mister Kupò.» Alzò infine il peluche nell’altra mano. «Piacere di conoscerti. Ce l’hai un nome?»
Fu allora che il ragazzino la guardò negli occhi. La sua bocca si aprì di poco e ne venne fuori un mugugno che suonava molto come “R-uhm-csss”. Non aveva molto senso, ma Shiro rimase in silenzio, non volendo spaventarlo.
«Come scusa?» fu Axel a chiedergli di ripetere. «Non l’ho memorizzato, ragazzino. Puoi parlare chiaro?»
Il ragazzo abbassò la testa, respirò un paio di volte, e poi fissò Axel prima di parlare a voce un po’ più alta, scandendo le sillabe.
«R-roxas. Roxas
Parlava. Roxas aveva parlato! Shiro si mise a saltellare sul posto.
«Allora sai parlare!» Ridacchiò. «Mi stai simpatico, lo sai? E anche a Mister Kupò!»
«Va bene, Shiro, ma di’ a Mister Kupò di non spaventarlo!» Axel ridacchiò. «Credo che il nostro Roxas sia un pochino timido, lo hai memorizzato?»
«Uh-uh.» Shiro annuì e strinse Mister Kupò a sé. Dopo anni assieme a lei, il pupazzo era diventato un po’ moscio, e prima Saix e poi Axel lo avevano rammendato più volte, e la ragazzina non capiva come potesse spaventare qualcuno… o Nessuno che dir si volesse… ma diede retta ad Axel e ripose il Moguri di pezza nello zaino.
«Va bene, siamo tutti tranquilli adesso?» Axel fece un paio di passi cauti verso Roxas. Era raro che Shiro lo vedesse tanto calmo e posato. «Uhm, ciao, Roxas. Piacere di conoscerti. Io sono Axel, lo hai memorizzato?»
Roxas portò lo sguardo da Shiro ad Axel un paio di volte.
«Axel…» lo indicò. «Shiro…» Indicò lei, poi abbassò l’indice verso il punto dove il peluche le spuntava dalla borsa. «Mister… Kupò…»
Axel si portò una mano alla bocca ed emise una specie di sbuffo. Ci volle qualche istante a Shiro per capire che era la prima volta che lo aveva visto ridere.
«Beh, è un buon inizio. Ti va di venire con noi?» Sempre con una certa calma, Axel tese una mano a Roxas. «Io e la piccolina stavamo andando a mangiare il gelato. A fare merenda. Se vuoi lo offriamo anche a te.»
Sulla faccia di Roxas comparve una specie di smorfia, e il ragazzo passò di nuovo lo sguardo dall’uomo alla bambina. Mugugnò qualcosa e tirò uno sbuffo dal naso, poi alzò lo sguardo e fece sì con la testa.
«Bene, seguimi!»
Senza la sua solita baldanza, Axel indicò una strada e vi si incamminò con un’aria tranquilla che non era assolutamente da lui. Shiro gli andò subito dietro, e Roxas, dopo un attimo di esitazione, fece lo stesso.
«Oh, Roxas?» Axel girò la testa mentre camminava. «Saresti così gentile da dare la mano a Shiro? Non vorrei che si allontani e si perda!»
Shiro fece per protestare – perdersi, lei? – ma un’occhiata e un cenno di Axel la persuasero a restare in silenzio e a offrire la mano al ragazzo più alto.
Non era lei che rischiava di allontanarsi e perdersi – era lui che con la sua aria distratta e smarrita rischiava di rimanere indietro.
Cinque dita ruvide si strinsero attorno alla sua mano più piccola. Shiro alzò lo sguardo e sorrise, dando a sua volta una stretta leggera.
Roxas ricambiò il suo sguardo, facendo di nuovo una smorfia. Era come se non sapesse come sorridere, o la ragione per cui farlo, ma stesse cercando comunque di partire con il piede giusto con loro.
«S-shiro…» mormorò. Sicuramente c’era molto altro che stava cercando di dirle, ma non sembrava conoscere le parole per farlo.
Shiro gli diede un’altra stretta alle dita e riprese a camminare dietro ad Axel, con Roxas che le camminava docilmente accanto.
«Sai, Roxas…»
Per quanto il suo nuovo amico non parlasse, Shiro sperava che stesse ascoltando e capendo quello che lei stava per dire, perché se davvero fosse rimasto assieme a loro, probabilmente le cose al Castello sarebbero cambiate, e tanto, e tanto in meglio.
«… credo che io e te ci divertiremo un sacco.»

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Capitolo 7
*** Tredici ***


Per chiunque fosse ancora indietro con i giochi, annuncio che in questo capitolo sono presenti lievi spoiler sia su Union X (globale) che su KH3.
Inoltre, per chi mastica un po' l'inglese, questa fanfiction sta venendo tradotta in inglese e postata su Archive Of Our Own, ancora un po' indietro rispetto all'edizione italiana, ma vedrò di metterla presto in pari.


Legacy – Capitolo 7
Tredici
 
GIORNO 7
 
Seduto al suo posto nella Stanza Circolare, Axel sbadigliò e si coprì la bocca.
Poco prima, Saix aveva annunciato nella Sala Grigia che la riunione di quel giorno sarebbe stata molto importante e si aspettava la massima puntualità, salvo poi manifestare l’ombra della seccatura quando Shiro aveva protestato: alla bambina non era permesso assistere alle assemblee, anche ora che era arrivato Roxas, che, appena più grande di lei, invece poteva.
Probabilmente Shiro era stata quella più ferita – ovviamente, era una Qualcuno – dal repentino cambio di comportamento che Saix aveva avuto dopo essere stato sfigurato. Axel aveva provato a chiedere al suo amico cosa fosse successo, ma lui si era categoricamente rifiutato di parlarne.
«Buone notizie, amici. Oggi è un gran giorno.» Xemnas esordì, facendo calare nella sala il silenzio. «Sono lieto di annunciare che un nuovo alleato è stato scelto per indossare la tunica.»
Axel si ricompose e si sfregò il mento. Alcuni stavano guardando verso l’ingresso della sala – notò che Xigbar in particolare appariva abbastanza livido, il che lo rendeva se possibile ancora più sgraziato del solito.
Una figura minuta, probabilmente appena più bassa ed esile di Roxas, aveva fatto il suo ingresso nella sala. Il suo volto era ancora coperto dal cappuccio.
Adesso li prendevano sempre più piccoli? Axel non aveva battuto ciglio davanti a Marluxia e Larxene, ma erano suoi coetanei. E Zexion… era stato in età da scuola media quando era successo tutto quanto, ma era sempre stato fin troppo cresciuto di mente.
Roxas era un altro conto, se era vero che da Qualcuno era già stato un Prescelto del Keyblade – da quanto Axel ricordava, quel genere di persone erano guerrieri già da ragazzini. E la sua somiglianza incredibile con Ventus, a parte i capelli leggermente più scuri, era un capitolo a parte. La settimana prima, Axel aveva sperato che facendo interagire Shiro con lui, ci sarebbe stata quantomeno una traccia di familiarità tra i due, ma per quanto avessero legato in fretta per essere una bambina solitaria e un Nessuno senza ricordi, Shiro e Roxas avevano interagito come se non si fossero mai incontrati prima.
«Numero XIV. Xion.»
Axel iniziò a chiedersi quale fosse stato il nome del tappetto prima che il suo cuore finisse perduto. Con soltanto tre lettere, di cui due vocali, non c’erano molte possibilità, e nessuna aveva senso.
Senti un po’ chi parla, una voce nella sua testa si divertì a fargli il verso mentre Xion fissava Roxas. La mezza calzetta sembrava tanto smarrita quanto Roxas nei giorni precedenti, e continuava a guardarsi attorno e fissare i presenti in silenzio.
Il suo sguardo incrociò quello di Axel.
Non… non può essere…
Il Superiore stava dicendo qualcosa a proposito dello scopo dell’Organizzazione e di una speranza per tutti loro, ma le orecchie di Axel furono invase da una specie di ronzio.
Conosceva quella faccia, anche se erano nove anni che non la vedeva.
Xion non era un ragazzino, era una ragazzina. E quegli occhi azzurri, quello sguardo innocente e la forma del volto… oh, se Axel lo aveva memorizzato.
Axel alzò lo sguardo verso Saix, cercando di capire se anche lui avesse riconosciuto i lineamenti di Kairi nella faccia della nuova arrivata, ma il suo amico di un tempo guardava Xion con un’espressione assimilabile alla seccatura o al disgusto – e Isa non aveva mai guardato Kairi in quel modo.
 
Gli era stato detto e ripetuto che in quanto Nessuno, non aveva un cuore.
Non poteva sentire.
Eppure Marluxia sentiva eccome. Sentiva il ghiaccio salirgli su per lo stomaco e invadergli tutto quanto.
E a giudicare dalla faccia di Larxene dall’altra parte della sala, anche lei doveva aver visto quel che aveva visto lui.
La ragazzina, la nuova recluta di Xemnas, aveva appena alzato lo sguardo verso di lui, quando Marluxia aveva visto, come in un flash, lunghi capelli rossi, una faccia smarrita, e occhi verde mare.
Perché Xion somigliava così tanto a Strelitzia?
 
Di tutte le persone che Xigbar aveva visto in tutte le sue vite…
Perché il fantoccio aveva preso proprio quelle sembianze?
Lo ricordava quel bambino. Sin da quando era stato lui a portare un Keyblade vero e il ragazzino impugnava una delle tante copie da due munny che il Maestro aveva creato con uno schiocco di dita.
Prima il Nessuno di Sora. Ora la copia?
Niente da dire. Quanto sarebbe rimasto prima che Xigbar vedesse Ventus dappertutto?
 
L’ombra di un sorriso si increspò sul volto del Superiore.
Dopo il suo duello con il Prescelto, i ricordi che aveva ricavato dal ragazzino sembravano servire allo scopo – il numero XIV era fisicamente identico a Sora, occhi azzurri, viso rotondo e capelli castani sparati in aria.
Ora restava da vedere se avesse anche acquisito i suoi poteri.
Una volta stabile, il numero 14 sarebbe stato esposto alle missioni, agli stessi stimoli del numero 13, e molto probabilmente anche esso si sarebbe rivelato degno
… e anche se non fosse successo, la presenza dei due avrebbe probabilmente stimolato la chiave ancora latente nella bambina
 
«Uff, ci stanno mettendo troppo!» Shiro per poco non diede un pugno alla porta. Lo avrebbe anche fatto, ma la sua coscienza avrebbe protestato, come faceva tutte le volte che giocava un brutto tiro ad uno dei Nessuno. «Perché papà lascia entrare Roxas e non me?»
“Shiro, fai silenzio. Non sentiremo nulla se continui a borbottare!”
Saix le aveva detto e ripetuto che la coscienza era una cosa immaginaria, ma a volte Shiro era convinta di sentirlo parlare esattamente come se ci fosse stato qualcun altro nella stanza. Forse tra Nessuno e Qualcuno, la cosa era completamente diversa.
«Perché vuoi ascoltare?» chiese alla sua coscienza.
“Perché… beh, anche tu vuoi ascoltare!”
«Però dopo voglio un gelato!» Shiro fece un sorrisetto.
“Ma dai! Questa è sleale, bimba!”
Shiro ebbe l’impressione che se la sua coscienza fosse stata davanti a lei (se la immaginava come un ragazzo più grande per come suonava) si sarebbe dato una forte manata in fronte.
Le porte della sala si aprirono, e, uno dopo l’altro, i tredici membri lasciarono la sala.
Per ultimo c’era il nuovo alleato, quello che era stato chiamato Xion, numero quattordici. Era appena più basso di Roxas, e procedeva con lo sguardo fisso al pavimento. Aveva i capelli appena più chiari di Roxas, irti ma tagliati più corti, e gli occhi azzurri.
“Non può essere…”, la coscienza echeggiò nella testa di Shiro. La bambina chiuse gli occhi e scosse la testa – da quando in qua una coscienza conosceva le persone? – e nel momento che rimase ad occhi chiusi, Xion aveva alzato il cappuccio, rimanendo con il volto quasi completamente celato.
«Lo hai visto in faccia?» Shiro bisbigliò alla sua coscienza, avvicinando l’orecchio di Mister Kupò alla sua bocca per fingere di parlare con il peluche.
Non aveva intenzione di ripetere la presa in giro che Xigbar le aveva fatto quando aveva scoperto che “parlava da sola”.
“Credo di aver visto male. Forse abbiamo le allucinazioni.”
«Cos’è, qualcosa al ditone del piede?»
“No, è quando ti sembra di vedere qualcosa che non c’è realmente… scusa, Shiro. Credevo di aver visto il mio amico Ventus.”
Ventus? Il nome non le era nuovo – Shiro era convinta di averlo già sentito, probabilmente menzionato da Axel o qualcosa. Probabilmente era il ragazzo di cui la coscienza aveva fatto prima la coscienza.
«Senti, io ci vado a parlare.» Shiro concluse, poi abbassò Mister Kupò e camminò con una certa cautela verso Xion.
Si fermò davanti al ragazzino e cercò di guardarlo in faccia nonostante il cappuccio le ostruisse la linea visiva.
«Ciao.» Fece un sorriso e tese timidamente la mano. Se Xion era in un qualsiasi modo come Roxas, avrebbe dovuto mostrare lo stesso tatto. «Piacere di conoscerti, io sono Shiro.»
La nuova recluta non rispose, anzi a malapena si rese conto di essere stato guardato. Shiro fece per schiarirsi la gola e riprendere, ma qualcosa le diede una manata sulla parte alta del petto, appena sotto al collo, e la fece indietreggiare.
«Non disturbare la matricola, mocciosa!»
Shiro riconobbe immediatamente la voce odiosa di Xigbar. Dovette resistere alla tentazione di abbassare la testa e mordergli la mano – Papà l’aveva messa in castigo per una vita l’ultima volta che aveva morso qualcuno – e invece si divincolò e lo guardò con aria di sfida.
«Volevo soltanto parlarci, brutto ratto di fogna!»
Xigbar fece un passo indietro, nella sua stucchevole e detestabile recita del finto spavento. Shiro quasi si pentì di non averlo morsicato – almeno le ingiurie che avrebbe sputato fuori in quel caso sarebbero state tanto autentiche quanto ci si poteva aspettare da un Nessuno.
«Oh, la gattina oggi vuol graffiare!» Xigbar commentò.
«NON CHIAMARMI GATTINA!» Shiro alzò entrambi i pugni e si scagliò verso il Numero 2. Xigbar si spostò di lato, facendole perdere l’equilibrio, e la prese per il colletto della giacca.
La lasciò raddrizzare, poi le diede una spintarella all’indietro.
Shiro detestava quando Xigbar faceva così, era quasi peggio che se l’avesse picchiata. Era letteralmente riuscito a renderla inoffensiva muovendosi a malapena, mentre invece dopo che lui l’aveva chiamata così – solo Papà poteva usare quel nome! – Shiro non avrebbe voluto fare altro che fargli assaggiare un pugno o due.
«Che stai… che stai facendo?»
Prima che Shiro potesse provare ad avventarsi di nuovo, Roxas si era avvicinato a loro e li stava fissando con aria a dir poco sconcertata.
«Oh, adesso la gattina ha chiamato la tigre…» Xigbar commentò guardando entrambi dall’alto in basso. «Cosa c’è, bambini, volete giocare?»
Roxas sembrava confuso dal comportamento di Xigbar, ma affiancò Shiro e le prese la mano.
«Che succede?» le chiese.
«Solo papà può chiamarmi gattina.» Shiro ripeté.
Roxas la fissò con aria confusa, ma si strinse nelle spalle. Xigbar decise che a quanto pareva li aveva presi in giro abbastanza, perché fece una risatina e si allontanò.
«Seriamente, Shiro, di nuovo?» Axel si avvicinò ai due.
Shiro non rispose nemmeno – non era la prima volta che si metteva nei guai con Xigbar, soltanto la prima che Roxas la difendeva. Axel sapeva tutta la storia a memoria ormai, e le spiegazioni sarebbero state inutili.
«Axel, non capisco.» Fu Roxas a chiedere spiegazioni.
«Ovvio che non lo fai, Shiro è una Qualcuno. Pensa in maniera diversa.» Axel abbozzò un sorriso. «Senti, vuoi che te lo spiego davanti a un gelato? Non credo mi daranno missioni oggi.»
 
Lasciarono il Castello in tre e riapparvero nell’unico altro mondo che Roxas ricordava. La luce del tramonto scaldava, sia sulla faccia che dentro.
Una delle tante cose che Roxas non capiva, ma Shiro sembrava contenta, quindi lasciò passare.
«Non è la prima volta che Shiro si mette nei guai con Xigbar.» Axel cominciò a spiegare mentre erano per strada, tre gelati incartati che gli pendevano da una mano. «Anche quando lui era un Qualcuno e Shiro mi arrivava alle ginocchia, l’unica cosa che continuava a dirgli era “brutto, brutto, brutto”.»
«Beh, prova a darmi torto, Axel,» Shiro ribatté scrollando le spalle. «Scommetto che ha già rotto almeno venti specchi nelle sue stanze.»
«Non voglio affatto darti torto, Shiro, ma dovresti smetterla di metterti nei guai con lui in quel modo. Già non lasci passare una settimana senza combinare scherzi a qualcuno.» Axel condusse i due su per la scalinata. «I palloncini nella stanza di Zexion mentre era in missione. La supercolla sulla sedia, e per fortuna che me ne sono accorto io anziché Larxene. E non so come hai fatto a scarabocchiare in faccia a Saix mentre dormiva senza svegliarlo e sentirti la sua reazione immediata, ma credimi, so che sei stata tu, e credo lo sappia anche lui.»
«Ma non è vero, sono stati i Simili e mi hanno anche rubato i pennarelli!» Shiro protestò.
Arrivarono in cima alla torre e Axel fece gesto ai due di sedersi, poi passò loro i gelati.
«Perché fai tutto questo?» Solo una volta seduto, Roxas diede voce ai suoi dubbi. «Lo farai anche con me?»
«Tu non c’entri, mi stai simpatico.» Shiro rispose immediatamente. «È che se gli altri si lamentano, poi Papà mi viene a cercare.»
«Sì, e poi ti fa una predica che sentiranno anche fino all’abisso più profondo del Reame Oscuro.» Axel commentò, iniziando a mangiare il suo gelato. «Ora, funghetto, questo discorso avrei dovuto fartelo un sacco di tempo fa. Tu vuoi che il tuo papà stia con te. Ti manca. Ma non è così che avrai la sua attenzione, anzi. Potrebbe arrivare a decidere che sarà Saix a farti la predica la prossima volta. O Xigbar
«Le manca?» Roxas non riusciva a capire il concetto.
«Mancanza. Lo hai memorizzato?» Axel spiegò. «Forse è anche troppo facile da capire.» Tirò un sospiro. «Shiro si accorge di non avere qualcosa. L’ha persa. Cerca in tutti i modi di riottenerla. Anche infrangendo le regole o facendo qualcosa che il resto della gente attorno a lei non giudicherebbe accettabile.»
«Ma…» A Roxas era venuta in mente una cosa. «Axel, il Superiore non è sparito.»
«In un certo qual senso, lo è per lei. Il padre di Shiro non è Xemnas, lo era il suo Altro. Ammesso e non concesso che fosse vero quel che aveva detto al mio Altro un ragazzo dieci anni fa…» Axel sbuffò. «Il punto della situazione, Roxas, è che per quanto… uff, sempre a me questo genere di spiegazioni… Shiro lo chiama padre. Ma un padre non si comporta così, specie quando un Qualcuno è piccolo come lei. Un genitore non si comporta così. Anche non sapendolo, Shiro si è accorta che qualcosa non va. Che qualcosa le manca.»
«Come per…?» Roxas si toccò il torace con una mano.
«Esatto. Tu non ricordi di aver perso il cuore. Ma secondo me ti sei accorto che ti manca qualcosa.»
Roxas aggrottò le sopracciglia. Per come l’aveva messo Axel, sembrava un concetto abbastanza semplice, ma c’era qualcosa che ancora non capiva.
«Ma se hai detto che il nostro capo si chiama Xemnas, perché Shiro lo chiama papà?»
Per poco Axel non fece cadere il suo gelato. Alzò gli occhi al cielo e si coprì gli occhi con la mano libera.
«Vedi, Roxas, per ogni Qualcuno che esiste nei mondi ci sono altri due Qualcuno che lo hanno… beh, come posso dire, fatto apparire. Questi Qualcuno particolari vengono definiti genitori nei confronti del Qualcuno che hanno fatto comparire.»
«Genitori.» Roxas ripeté il termine. «Ancora non capisco.»
«Un momento di pazienza!» Axel prese un boccone di gelato e alzò una mano. «Quando un Qualcuno è appena comparso è molto piccolo e debole. Ci vuole un anno perché si regga in piedi e forse anche di più perché parli. Quindi i Qualcuno che lo hanno fatto apparire di solito si prendono cura di lui. Ad esempio credo che il tuo Altro non avesse ancora finito di crescere, per questo sei più minuto di molti di noi.»
«… Okay?» Roxas fece gesto ad Axel di continuare.
Genitori. Crescere. Tutti questi termini per spiegare un modo che Shiro aveva di parlare?
«E… quando un genitore è maschio, come me o te, i Qualcuno che ha fatto apparire, i suoi bambini, lo chiamano papà.»
OH. Era tutto molto più chiaro, adesso. Shiro non aveva ancora finito di crescere. Shiro aveva bisogno dei suoi genitori.
Senza pensarci troppo, Roxas concluse che una cosa del genere doveva essere anche più grave di non avere un cuore – lui non pensava di stare troppo male, perlomeno.
«E allora l’altro?» chiese subito ad Axel. «Hai detto che ne servono due
«L’altra sarebbe la mamma.»
Non era stato Axel a rispondere.
Era stata Shiro.
 
GIORNO 21
 
«Hey, Paperino?»
Sora era rimasto a fissare il fuoco da campo per tutta la sera, e solo in quel momento gli era venuto il coraggio di parlare.
Era un paio di giorni che erano persi in un mondo che non conoscevano, senza né Gummiship né vie aperte tra i mondi per tornare a casa, o chiedere aiuto, o riprendere a cercare Riku e il Re, ancora perduti nel Reame Oscuro.
«Avevi menzionato che non ero l’unico. Che non sono l’unico Custode del Keyblade.» Sora alzò la mano, lasciando che Catena Regale gli comparisse in mezzo alle dita. «Dove sono gli altri?»
Quasi si pentì di avere parlato quando nell’ultima frase il suo tono di voce prese a calare come se gli facesse male la gola. Ma la gola non gli faceva male.
Paperino scambiò uno sguardo con Pippo e tirò un sospiro, che come al solito il suo becco faceva sembrare una pernacchia.
«Non è una bella storia da raccontare.» Paperino ammise. «Ti verrebbero i brutti sogni.»
«Ma se li andassimo a cercare? Potrebbero aiutarci, sono adulti!» Sora insistette di nuovo, la sua voce di nuovo una sequela di note stonate.
«Sono scomparsi, dieci anni fa.» Pippo ammise. «Uno dopo l’altro. Partirono per combattere una battaglia. Prima sparì Terra, poi Ventus, e poi infine anche Aqua.»
«Cloud ha menzionato una bambina. Ha detto che è nelle mani dell’Organizzazione Tredici. Cos’è l’Organizzazione Tredici?» Sora si chiese di nuovo.
Sia Paperino che Pippo scossero la testa, facendogli capire a gesti di non averla mai sentita nominare.
«Ah-yuk, qualsiasi cosa sia, non sembra un buon posto per una bambina.» Pippo commentò infine. «Dobbiamo parlarne con il Re quando lo rivedremo. Shiro starebbe molto meglio al Castello, oppure dal Maestro Yen Sid.»
«Ne parleremo con il Re…» Paperino concluse a sua volta, per poi sbadigliare.
Sora avrebbe voluto parlare ancora, ma qualsiasi cosa stesse accadendo alla sua voce, cominciava ad essere imbarazzante. Decise di seguire Paperino nello sbadiglio (accidenti! Perché anche quello gli usciva stonato?) per poi sdraiarsi sul prato e attendere il sonno.
 
Non so perché Papà volesse che io fossi al Castello dell’Oblio con Axel e gli altri, eppure sono qua.
Questo posto è una noia mortale. C’è una ragazza, Naminé… ovviamente è Nessuno, non Qualcuno, e un po’ però mi sono stufata. Roxas è a posto, e anche Axel, ma vorrei conoscere dei bambini VERI qualche volta.
Marluxia vuole tendere una trappola per un tipo che chiama il Prescelto del Keyblade. Non so cosa intenda fare Merluzzia, onestamente, ma Axel dice di avere cautela.
Chissà perché.
 
C’è un altro ragazzo nel castello. Lo chiamano Riku ma lui dice di non chiamarsi così.
Axel dice che non è un ragazzo vero, è una copia che Vexen ha creato, e da qualche parte c’è quello vero.
Preferisco la compagnia di Naminé. Almeno lei ha carta e pastelli.
(Larxene è una brutta strega insopportabile.)
 
Non so cosa stia succedendo, ma Naminé è sparita, e Axel mi ha detto che ci sono dei traditori nell’Organizzazione e se ne sta occupando.
Per ora, mi ha detto di non lasciare la stanza e rimanere al sicuro.
CI SONO DEI PASSI FUORI DALLA PORTA. HO PAURA.
Sono nascosta in un angolo. Ho trovato una spada di legno per terra… sembra quella di Roxas ma c’è scritto il mio nome sull’elsa.
So cosa devo fare.
 
GIORNO 51
 
Riku stava salendo la scalinata che lo allontanava dal piano dove aveva lasciato Naminé a prendersi cura di Sora quando qualcosa di rapido, argentato e nero balzò verso di lui con un’arma.
Pensò immediatamente alla copia, ma fu quando ebbe deflesso il colpo, allontanato il corpo contundente e respinto l’aggressore, che si rese conto che la persona che lo aveva aggredito era un bambino.
O una bambina? Portava i capelli lunghi, ma la cappa nera non lasciava molti indizi riguardo al genere.
Quella che gli era sembrata un’arma rimbalzò contro la parete, con un tonfo che lasciava poco all’immaginazione.
Spada di legno.
«Cosa ci fai qui?» Si avvicinò alla bambina e la aiutò ad alzarsi. «Non credo sia un bel posto per mettersi a giocare. Avrei potuto farti del male…»
«Sei quello vero tu?» La bambina gli allontanò la mano. «Non sei la copia?»
Si comportava in modo strano, come se lo avesse già visto. Evidentemente doveva aver incontrato la copia, e non sembrava nemmeno averlo molto in simpatia.
Riku dismise l’Animofago e fece un passo indietro. La bambina per certi versi gli ricordava Ansem, ma non puzzava di oscurità come lui. Per quel che valeva, sembrava una bambina normale.
«Sei un Qualcuno, non è vero?» La piccola recuperò la spada di legno da dov’era caduta e gliela puntò addosso, cercando di difendersi. Riku riuscì a leggere il nome Shiro intagliato sull’elsa.
«Sono Riku.» Si strinse nelle spalle. «E tu ti chiami Shiro, giusto?»
«Leggi nel pensiero?» Shiro abbassò la spada.
«No, leggo la tua spada.» Riku dovette trattenere una risatina. «Se leggessi nel pensiero, capirei perché mi hai chiesto se sono qualcuno.»
Shiro alzò gli occhi al cielo.
«Non qualcuno. Un Qualcuno. Una persona. Un essere con un cuore, come me.»
Il discorso di Shiro sembrava non avere molto senso, ma Riku annuì.
«Cosa ci fai qui, Shiro?» Riku fece un paio di passi verso di lei.
«Uhm, papà dice che potrei essere utile per cercare… qualcosa.» La bambina disse. «Ma sono giorni che sono qui e non ho trovato niente a parte questa spada. E la cosa è strana perché c’è scritto il mio nome. E sembra un Keyblade, come quello del mio amico Roxas.»
«Ferma, ferma, tu sai cosa sono i Keyblade?» Riku accelerò il passo verso di lei.
Shiro fece di sì con la testa.
«Roxas ne ha uno. Sconfigge gli Heartless con quello. Poi alla fine della giornata se ha liberato abbastanza cuori, lui e Axel mi vengono a prendere e andiamo a comprare il gelato.»
«Riku! Sei là?» La voce del Re echeggiò dal piano superiore.
«Chi ha parlato?» Shiro si guardò attorno a scatti. Non sembrava affatto una voce che riconosceva.
Riku fece un paio di passi e raggiunse la cima delle scale. Shiro lo seguì a ruota, e quasi lanciò uno strillo quando vide Topolino.
«Cosa è quello?» esclamò, proteggendosi istintivamente con la spada di legno.
«Tranquilla, Re Topolino è un amico.» Riku si girò verso di lei e le fece abbassare il giocattolo. «Maestà, ho trovato questa bambina sulle scale. Sembra sapere qualcosa riguardo ai Keyblade…»
Dopo una rapida occhiata a Shiro, Topolino spalancò gli occhi. Sembrava aver visto un fantasma.
«Non ci posso credere…» Fece una smorfia, come se stesse cercando di dire qualcosa che non riusciva a esprimere. «Shiro…?»
«La conoscete?» Riku chiese immediatamente.
«Mai vista prima.» Topolino si sfregò la nuca con una mano. «Ma so chi è!» alzò un dito.
Si avvicinò a Shiro e sorrise.
«La tua mamma sarà contenta di sapere che stai bene. Le somigli davvero tanto!»
C’era quasi una nota di tristezza nella sua voce.
«La mamma? Sai dov’è? L’hai vista?»
Topolino trasalì.
«Io… so dove potrebbe essere. Ma non possiamo raggiungerla adesso, non io e Riku da soli.» Prese qualcosa da una delle sue innumerevoli tasche e mise l'oggetto nelle mani di Shiro.
A Riku ricordò immediatamente i Trovavia che i marinai realizzavano cucendo assieme le conchiglie nel suo paese natale, ma quelle non erano conchiglie, ma pezzi di vetro piombato rosa e bianco.
«Fece questo per te quando eri molto piccola. Lo ha affidato a me prima di andare a cercare tuo padre, sperando che io ti ritrovassi.»
Shiro osservò il pezzo di vetro e metallo che Topolino le aveva messo in mano, toccandolo timidamente con la mano libera, poi guardò il Re e sorrise.
«Grazie.»
Un’altra voce, più profonda, si intromise nella conversazione, e DiZ, l’uomo che li aveva condotti nel castello, si avvicinò a loro.
«Cosa state aspettando? Dobbiamo andarcene, prima che…»
Si fermò quando vide Shiro che si infilava il Trovavia in una tasca.
«Lei…» sibilò, fissandola.
«Lei cosa?» Topolino si girò con aria preoccupata.
L’unico occhio visibile di DiZ e quello che era visibile della sua faccia erano distorti dall’ira.
«La prole del traditore! --- Xehanort…!»
Fece per prendere la bambina per un braccio, ma lei si ritrasse e fuggì via. Riku fece per andarle dietro – anche se DiZ stesse dicendo il vero, non aveva il diritto di spaventare un’innocente – ma Shiro sembrava essere svanita nel nulla.
«Ora, non credo fosse un comportamento accettabile davanti a una bambina di undici anni!» Topolino stava dicendo all’incappucciato. «Peraltro, credo tu ti stessi sbagliando. Il padre di Shiro, di quella Shiro, non si chiama Xehanort. Si chiama Terra ed è un Custode del Keyblade, come me. So da dove viene quella bambina, e chi è… e se era qui, vuol dire che l’Organizzazione potrebbe volerla usare…»
 
«Il padre di Shiro… non si chiama Xehanort… si chiama Terra… so da dove viene quella bambina…»
Attraverso la porta che aveva appena attraversato per sfuggire all’uomo in rosso, Shiro sentiva indistinto il discorso di Re Topolino. Lui e Riku non sembravano affatto cattivi, anzi… sembravano sapere qualcosa sui suoi genitori!
Sarebbe tornata quasi subito da loro, ma la rapidità con cui la sua coscienza le aveva urlato “SCAPPA!” la fece restare ferma dov’era.
Non ci stanno inseguendo.” La coscienza commentò. “Perché non ci stanno inseguendo?
«Dobbiamo averli seminati.» Shiro appoggiò la schiena alla porta e si lasciò scivolare giù. «Riku sembrava a posto però. Anche quella specie di Re.»
Si guardò intorno. La stanza in cui si era nascosta le era completamente nuova.
Era di forma più o meno circolare, c’erano dei simboli sulle pareti – identici a quello al centro della stella che Topolino le aveva dato, e c’era un trono nel mezzo, di cui riusciva a vedere lo schienale.
Questa sala ha qualcosa di strano,” la coscienza commentò.
«Bella scoperta!» Shiro commentò, avvicinandosi al trono. Trattenne uno strillo quando vide che era occupato da un ragazzo che dormiva, ma la sua reazione fu niente in confronto a quella della sua coscienza.
PEZZO DI STRUDEL SMANGIUCCHIATO…
Shiro si avvicinò al ragazzo. Sembrava Roxas… no, era identico a Roxas. Soltanto i capelli erano più chiari, i vestiti erano completamente diversi, e aveva delle cicatrici su mani e braccia che Shiro non aveva mai visto sul suo amico.
Ven. Ventus è qui. Ventus era qui dentro tutto il tempo!
«Lo conosci?» Shiro chiese.
Tu lo conosci. Quest’uomo… questo ragazzo… è il migliore amico dei tuoi. Ti ha cresciuta quanto loro, lo chiamavi zio!
«Che vuol dire zio?» Shiro si avvicinò ancora al ragazzo addormentato, poi gli batté le mani davanti alla faccia. Non batté ciglio.
Beh, zio vuol dire… che il tuo papà lo chiamava fratellino.” La coscienza cercò di spiegare. “Non è realmente il fratello di tuo padre. Non di sangue. Fratello di scelta.
«Perché non si sveglia?» Shiro gli toccò un braccio e provò a scuoterlo. «E se sapesse dov’è mamma?» Lo scosse di nuovo.
Lascia stare, Shiro.” La voce della coscienza aveva una forte nota di tristezza. “Non riesco a percepire il suo cuore. E non è come per i Nessuno… deve essergli successo qualcosa di brutto, molto brutto. Finché non recupera, non aprirà gli occhi.”
«Vorrei che si svegliasse.» Shiro borbottò.
Rimase a guardarlo per un po’, sperando si muovesse, a dispetto di quello che la sua coscienza le aveva detto, ma non accadde nulla.
«Shiro!» La voce di Axel chiamò al di fuori della porta. «Vieni fuori, funghetto! Qui le cose hanno preso una brutta piega!»
Non dirgli nulla di questa stanza.” La coscienza le intimò mentre Shiro camminava verso la porta.
«Ma Axel è un amico…» Shiro fece per aprire la porta.
Hai sentito il Re. Xemnas non è il tuo vero padre. E Axel risponde a lui. Potrebbe fare del male a Ventus, e se vuoi davvero che lui si svegli…
«Shiro, per favore, non farmi preoccupare…» Axel chiamò di nuovo. Sembrava davvero preoccupato.
Sarà il nostro segreto, finché non avremo modo di tornare.
«Il nostro… segreto?»
Andiamo, Shiro, sono la tua coscienza. Devo o non devo dirti quello che è giusto?
Non aveva tutti i torti. Se davvero il ragazzo che dormiva era una chance per tornare a casa… se davvero avrebbe potuto riportarla da mamma e papà… Shiro non lo avrebbe tradito.
Aprì la porta e si ritrovò in un corridoio vuoto. Iniziò a chiamare Axel.
Sarebbe tornata da lui e da Roxas, per il momento. Magari se avessero recuperato i loro cuori, se fossero tornati liberi, avrebbe potuto aiutare anche loro a tornare a casa.
Dopotutto, erano amici, no?
 
GIORNO 71
 
Ehi, Roxas, amico, sentito? Nessun sopravvissuto! L’intera squadra al Castello dell’Oblio è stata eliminata!
 
Roxas ancora non si spiegava il distacco con cui Demyx gli aveva raccontato tutto quella mattina.
O meglio, se doveva credere al fatto che non avesse sentito nulla perché non sentiva nulla… beh, la cosa aveva senso.
Anzi no: perché faceva così male?
Non gli sarebbero mancati Marluxia, Larxene, Vexen, Zexion e Lexaeus, ma Axel e la loro abitudine di prendere un gelato? Shiro, che era partita senza nemmeno portarsi dietro il suo Moguri di pezza?
Roxas non ricordava di aver neanche visto il Superiore mostrare il minimo segno di sofferenza.
Ancora: perché A LUI faceva male?
Non riusciva ad immaginare altri giorni a prendere il gelato da solo. Se soltanto pensava che invece quello sarebbe stato il suo futuro per chissà quanto altro tempo, lontano dalle due persone a cui si era affezionato…
… persino completare le missioni e raccogliere cuori aveva ben poco senso agli occhi del ragazzo.
Si era trascinato per l’incarico del giorno – eliminare delle masse d’ombra che infestavano Crepuscopoli – senza davvero prestarci attenzione, riducendosi al minimo indispensabile perché Saix non gli facesse le prediche che riservava puntualmente a Demyx, e stava trascinando i piedi sul pavimento in mattoni delle strade sperando che nessuno una volta al castello fosse stato in vena di chiacchiere.
Era l’ultima cosa che voleva fare, parlare con qualcuno.
Il fatto che, pur passando dal vicolo desolato dove aveva aperto il Corridoio, si sentisse comunque osservato, non aiutava affatto.
Aveva percorso quella stradina più volte, e a parte un vecchio locale caldaie dove passavano di continuo tre adolescenti, e un appartamento appena sopra che aveva un nome sul campanello ma dal quale non aveva mai visto venire né luce né sentito rumori, la maggior parte delle volte non vi passava anima viva.
Allora, chi…?
«Ehi, Roxas!» una voce familiare chiamò dietro di lui.
Axel era qualche passo dietro di lui, e Shiro era al suo fianco, con la cappa nera aperta a mostrare i vestiti che portava sotto (non sopportava affatto di doverla portare quando viaggiavano), una spada di legno in una mano, e il suo solito sorriso da furbetta.
«Perché te ne stai qui tutto solo?» Shiro ruppe nuovamente il silenzio.
«Sembra tu abbia appena visto due fantasmi!» Axel aggiunse.
Roxas non sapeva nemmeno come reagire. Era come se fino a quel momento avesse avuto la testa e lo stomaco imbottiti di piombo, e il peso che aveva addosso d’un tratto si era come dissolto.
Qualcosa gli bisbigliava in testa che avrebbe dovuto correre verso di loro e stringerli forte con le braccia, come faceva Shiro con Mister Kupò quando ci giocava.
Quasi ad anticiparlo, Shiro prese ad allargare le braccia.
«Se non vieni qui niente gelato oggi!»
«Mi avevano detto…» Roxas rimase fermo, indeciso su cosa fare. «Che tutti quelli al Castello dell’Oblio erano morti…»
«Non io e il funghetto!» Axel prese Shiro per le spalle e la strinse a sé con un braccio (“Axel, molla!”). «Io sono un duro, e Shiro è la campionessa dei mondi di nascondino!»
«Ero preoccupato per voi,» Roxas gli rispose mentre Shiro si divincolava dalla presa di Axel e invece andava a stringere forte lui con entrambe le braccia.
Axel gli ripeté la solita battuta del fatto che non fosse possibile che lui sentisse realmente qualcosa, che non avesse il cuore per preoccuparsi, ma Roxas gli prestò poca attenzione – per quanto quelle emozioni probabilmente agli occhi di un Qualcuno avrebbero potuto risultare false, a lui sembravano vere abbastanza.
«Andiamo a prenderci un gelato?»
 
GIORNO 74
 
Sono di nuovo al Castello solo da un paio di giorni e sembra che le cose siano cambiate un sacco mentre eravamo via.
Roxas è diventato più allegro – lo ha detto anche Axel quando siamo tornati.
Mentre eravamo sulla strada del ritorno mi ha chiesto com’è sentire le cose – la preoccupazione, essere felici, essere tristi. Non credo di essere riuscita a spiegarglielo molto bene, ma sembra aver capito. Era molto pensieroso però quando ho finito il mio discorso – non so perché, è tornato in camera sua ed ero troppo stanca per indagare.
È un po’ di tempo che non si vede Xion, il numero 14. Roxas dice che è una ragazza, anche se secondo me non ci sembra molto.
A quanto pare era in missione e nessuno l’ha più visto vista tornare. Oggi Saix ha incaricato Axel e Roxas di andare a cercarlo cercarla.
 
Shiro uscì dal corridoio e lasciò la cappa dietro un bidone. Axel probabilmente l’avrebbe ripresa un’altra volta, ma meno tempo aveva addosso quella trappola asfissiante, meglio era.
Si convinse anche che era tanto di guadagnato che non la avesse, perché pochi passi dopo essere emersa nei vicoli di Crepuscopoli, sentì dei ragazzi che parlavano proprio delle cappe.
«… dico sul serio! Avevano questi mantelli neri e il capo coperto, e li ho sentiti parlare di una Quattordici da lontano. E se fosse quella vera?» Un ragazzo tarchiato con i capelli scuri stava parlando a due amici.
«Pence, ma che cavolo?» Il più alto dei tre, la testa coperta da riccioli biondi, alzò gli occhi al cielo. «Passi le sette meraviglie, ma ora credi di essere pure finito in Scarier Things
«Colpa tua, Hayner.» L’unica femmina dei tre incrociò le braccia. «Non fai che dire che è tale e quale ad Austin.»
«Olette, ti prego non ti ci mettere!» Hayner le diede una manata sul braccio.
Shiro scivolò via di soppiatto, spiccando una corsetta verso la torre dell’orologio. Doveva ricordarsi di riferire tutto ad Axel quanto prima, quella situazione poteva diventare un problema. Axel diceva sempre che non dovevano essere visti, ma se Quattordici voleva dire Xion, probabilmente erano arrivati a quel punto pur di salvarla.
Arrivò nello spiazzo della stazione e prese a fare le scale. Gli accordi con Axel e Roxas era che avevano appuntamento lì quando l’orologio rintoccava le sette, e aveva già sentito i sette dong quando era arrivata nel piazzale.
Era in orario.
«Oh, bene. Guarda un po’ chi arriva.»
Sembrava una serata come tante. Sedersi sulla balconata, Axel che le passava un gelato, il tramonto che li scaldava tutti e…
e quattro.
Xion sembrava quasi che non fosse là per quanto faceva silenzio, e Shiro decise che era il momento di rompere il ghiaccio.
«Axel, cos’è Scarier Things?»
«Dove lo hai sentito?» Per poco Axel non sobbalzò.
«Un ragazzo per strada, si chiamava Hayner. Stava dicendo al suo amico Pence che non erano in Scarier Things.»
Il Nessuno fece una risatina nella mano libera.
«Roxas, credo che le nostre ricerche non siano passate inosservate.» Diede di gomito al ragazzo più giovane. «Scarier Things è un film. Una storia raccontata da Qualcuno che fingono di essere i personaggi. Ha cominciato a girare quando ero piccolo io. Parla di quattro ragazzi e una ragazza che scoprono un’invasione di mostri. Probabilmente Pence ha visto un po’ troppe stranezze in giro e adesso è convinto che stiamo tutti per venire attaccati da un esercito di gremlin.»
«Però gli Heartless esistono, quindi non è che Pence abbia tutti i torti.» Roxas puntualizzò, poi si fece serio e guardò l’amica alla sua sinistra. «Xion, non hai detto una parola né toccato il gelato. È successo qualcosa?»
«Noi siamo qui per ascoltarti, se hai bisogno di sfogarti.» Axel aggiunse, notando la situazione. «Giusto, ragazzi?»
«Non ti preoccupare, i gremlin non esistono.» Shiro disse a sua volta. La sua coscienza le aveva già ripetuto diverse volte che una storia non sempre corrispondeva alla realtà.
«Axel ha ragione, gli amici servono a questo.» Roxas concluse.
Xion, la faccia celata dal cappuccio dall’ultima volta che Shiro l’aveva vista, si fissò i piedi.
«Non riesco… non riesco più ad usare il Keyblade.» Confessò. «E senza il Keyblade, non posso fare il mio dovere.»
«Cos’è successo di preciso?» Roxas a stento la lasciò finire.
Shiro provò immediatamente dispiacere. Era da quando aveva otto anni che l’Organizzazione attendeva che lei si facesse apparire un Keyblade nella mano, ma non le avevano mai fatto nulla – era come se temessero che lo perdesse definitivamente se le avessero minimamente torto un capello.
«Non lo so…» Xion rispose a Roxas. «Ma se non sconfiggo gli Heartless con il Keyblade, i cuori che rilasciano finiranno dentro ad altri Heartless. Li colpisco in un posto, e saltano fuori in un altro.»
«Per questo è così importante?» Shiro tese la mano davanti a sé, e come al solito il fascio di luce che ne partì prese a lampeggiare come un lumicino fulminato, per poi svanire. «Vedi, Xion? Non ci riesco nemmeno io
La guardò di nuovo. Xion si era portata dietro il cappuccio e… sbaglio o non era quello l’aspetto con cui l’aveva vista giorni prima?
Roxas aveva ragione – era una ragazza. Somigliava un po’ a Naminé, ma aveva i capelli scuri e molto più corti, e per certi versi aveva comunque un’aria familiare.
«E non ti hanno detto nulla?» Xion commentò.
«Il suo caso è particolare. Shiro non ha mai mostrato il Keyblade finora. Non è un non più, è un non ancora.» Axel bofonchiò. «Ed è tanto di guadagnato che lo sia. A undici anni, la cosa più pericolosa che faceva il mio Altro era far saltare in aria i pupazzi di neve con i petardi. Anche con il Keyblade, dubito che Shiro riuscirebbe a fare i numeri che ottenete voi due.»
Al sentire “voi due”, Xion girò la testa di lato ed emise uno sbuffo. Sembrava quasi stare per… piangere?
«Senza il Keyblade sono inutile!» sbottò. «Mi trasformeranno in un Simile non appena lo scopriranno!»
Roxas fissò Xion, poi si girò verso Axel e Shiro.
«Non possiamo fare niente?»
«Forse se riesco a…» Shiro cercò di evocare di nuovo qualsiasi cosa le si spegneva in mano, ma non ottenne altro che il solito lampeggio. «Potrebbe… far finta… che il mio… è il suo!» Strinse i denti.
Non riprovarci,” la coscienza le bisbigliò nella testa. “Shiro, smettila.”
«Shiro, smettila, non farti male da sola.» Axel la prese per il polso e le fece abbassare la mano. Sorrise. «Lo so che ci tieni a loro, ma questa è una delle volte in cui non vale la pena mettere sé stessi a rischio. Penseremo a qualcos’altro, non ti preoccupare.»
«Ma…» Shiro cercò di divincolarsi dalla presa.
«Con il carattere che ti ritrovi, li vorrei proprio conoscere ora i tuoi genitori.» Axel commentò. «Scommetto che erano degli eroi. Ma a volte, Shiro, gli eroi arrivano a mettersi in pericolo da sé perché i loro cuori li guidano verso il pericolo senza che loro se ne accorgano. Abbiamo capito, sai usare il cuore. Però cerca di usare la testa, hai anche quella.»
Le lasciò andare la mano e le diede un colpetto in fronte con il palmo.
«Anzi, la testa usiamola tutti.» Axel si girò verso Roxas e Xion. «Ce l’abbiamo tutti e quattro, no? Ci verrà un’idea.»
Rimasero in silenzio per qualche istante, a pensare e a mangiare i loro gelati. Xion sembrava ancora visibilmente preoccupata, ma aveva ripreso a mangiare e di tanto in tanto lanciava occhiate agli altri tre.
Axel fu il primo a finire il suo gelato, e anche il primo a parlare.
«Funghetto qui mi ha dato uno spunto di riflessione,» disse. «Xion, hai detto che gli altri non sanno che non riesci più a usare il Keyblade. Hai detto che quando lo scopriranno rischi la tua stessa identità, beh, io non dico quando, io dico se lo scopriranno.»
«Se?» Roxas alzò la testa. «Axel, che pensi di fare?»
«Roxas, riusciresti a lavorare per due?» Axel lo guardò negli occhi.
«Lavorare per due?» Roxas non sembrava affatto aver capito.
«In che senso?» Anche Xion era perplessa.
«Xion, devi andare in missione con lui fino a quando non potrai usare di nuovo il Keyblade.» Axel prese a spiegare. «In questo modo, lui raccoglierà i cuori e nessuno si accorgerà che non riesci a evocare il Keyblade. Se portate a Saix l’esatto numero di cuori che raccogliereste in due, non credo proprio che si metterà a chiedervi chi ne ha raccolti quanti
«Sì, posso farcela!» Roxas sorrise e fece di sì con la testa.
«Davvero?» Il volto di Xion parve quasi illuminarsi.
«Ma certo!»
 
Axel rimase a guardare mentre i tre ragazzini riprendevano a parlare tra di loro, finalmente tranquilli dopo la preoccupazione di Xion. Shiro, finito il gelato, aveva scavalcato all’indietro il muretto ed era andata a sedersi tra i due, e aveva preso a lamentarsi di quanto fosse pesante Saix con lei e con gli altri due.
«Quando mi parla sembra sempre che mi prema la testa verso il basso, uuughhh,» Roxas stava commentando con una smorfia. «Non staaai raccogliendo abbastanza.» Spinse il labbro inferiore all’infuori, aggrottò le sopracciglia, rubò la bacchetta dal gelato dalle mani di Xion, e la incrociò assieme alla propria sopra alla base del suo naso. Shiro scoppiò a ridere fragorosamente e Xion si coprì quel poco che Axel le vedeva della faccia con le mani, ridacchiando come se se ne vergognasse.
«Non è stato sempre così, però.» Shiro prese i due bastoncini dalle mani di Roxas. Sembrava triste, e probabilmente lo era, visto che aveva memorizzato come era stato Saix una vita prima. «Si è fatto male alla faccia quando avevo otto anni… e da allora ha iniziato ad essere orso. Prima lui e Axel erano amici, e poi Axel è rimasto solo.»
Roxas e Xion si girarono a fissare Axel con espressioni poco decifrabili.
«Oh, su con la vita voi!» Axel cercò immediatamente di calmarli. Non andava per niente bene – soltanto cinque minuti prima era riuscito a risollevarli e adesso erano di nuovo preoccupati, e per giunta per lui? «Adesso ho voi tre gremlin distruttori come amici!»
Roxas e Shiro risero, Xion rimase seria.
«Axel… questo significa che anche noi due siamo amici?» gli chiese. Stava ancora tenendo lo sguardo basso, e Axel ringraziò il cielo per questo. Non gli andava di vedere un’altra volta il fantasma di come la sua sorellina sarebbe diventata.
«Se sei amica di Roxas, sì, sei anche amica mia.» Distolse lo sguardo.
«Axel… grazie.» Stavolta Xion parlò ad alta voce.
Axel alzò la testa e la guardò negli occhi. La ragazza si era abbassata il cappuccio…
… e lui si era sbagliato.
Somigliava a Kairi, sì. O perlomeno, a come Axel si era immaginato sarebbe diventata. Ma dove i capelli di Kairi erano stati rossi e di lunghezza media, Xion li portava corti, quasi come un ragazzo, ed erano nero pece, come erano stati i capelli del suo amico Zack.
Era persino difficile capire immediatamente che fosse una lei – ora capiva perché Shiro nei giorni precedenti aveva fatto un po’ di confusione con i pronomi.
Axel distolse di nuovo lo sguardo, però abbozzò un sorriso, scavalcò il muro, e si rimise in piedi.
«Forza, torniamo tutti al castello… prima che mandino una squadra di ricerca per noi
 
Diario di Axel
 
Sembra che il piano funzioni, per ora. Saix ha acconsentito a lasciare che i ragazzi combattano in squadra per il momento, ma quello che hanno detto Shiro e Roxas mi ha turbato non poco.
La faccia di Xion, poi. Mi era sembrato REALMENTE di vederla come LEI quando l’avevo vista la prima volta. E da allora, non ero riuscito a vederla se non coperta dal cappuccio. Mi chiedo davvero chi fosse, prima che Xemnas la trovasse.
Anche il fatto che Roxas NON somigli a Sora, se non vagamente, per il colore dei capelli un po’ diverso… ho tante domande, e vorrei solamente che Isa fosse qui ad aiutarmi a districare questo mistero, come nel vecchio film che guardavamo da ragazzini.
Invece, il bastardo con la sua faccia ha preteso una contropartita per aver concesso a Roxas e Xion di andare in missione insieme.
“Si presuppone che riescano a finire il lavoro in tempi minori, visto che lavoreranno insieme”, ha detto. “Quindi ogni volta che torneranno al castello prima del previsto… li voglio nella Sala delle Vuote Melodie. E Shiro con loro. Mazze in gomma alla mano, dovranno insegnare alla bambina a combattere.”
 
… cosa ti è successo, Isa?

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Capitolo 8
*** Giorni di Sole ***


Avviso ai naviganti: con questo capitolo e i due successivi, questa storia è ufficialmente alle sue ultime battute!
Tuttavia, la storia in sé non finisce qui - dopo il capitolo 10 inizierà la seconda parte di questa serie, "Journey", in cui accadranno... beh, cose. Accadranno cose.

Un abbraccio forte ai lettori di sempre e anche alle nuove leve (Van92, Egyptian Cat, parlo con voi! Se vi va di dire cosa vi piace, fate pure due righe! - PS, Egyptian Cat, vedrai che nelle parti successive della serie si menzionerà molto più visibilmente la trama di Union X!)

I capitoli 8, 9 e 10 tecnicamente sono dei riferimenti a delle canzoni del mondo Disney, e questo in particolare lo è a "Days In The Sun/Quei Giorni Lontani" dal live action di La Bella e la Bestia, ma la traduzione del titolo ufficiale non mi piaceva, e l'ho riadattato come "Giorni di Sole". Nella traduzione inglese della storia, che al momento è al capitolo 4, il titolo sarà Days in the Sun.
 

Legacy – Capitolo 8
Giorni di Sole
 
GIORNO 117
 
«Dai, Shiro, piega le ginocchia! Agile su quei piedi!» Roxas soppesò la mazza di gomma che aveva nelle mani e sferrò un fendente dal basso. Shiro lo vide arrivare, ma non riuscì a scansarlo e prese il colpo.
«Come hai fatto?» La ragazzina sbuffò e alzò gli occhi al cielo.
Roxas abbassò la guardia e decise di far ridere Shiro con un’altra imitazione. Gli allenamenti già la stancavano abbastanza, e per fortuna quel giorno, cortesia delle infrazioni di Demyx da punire, né Saix né Xigbar avevano deciso di assistere, quindi poteva anche permettersi di scherzare.
«Hem-hem, mai abbassare la guardia, ragazza!» Abbassò la voce e incurvò le gambe, spingendo le ginocchia in fuori in una passibile imitazione di Filottete, il satiro grassoccio che allenava gli eroi nel mondo in cui era stato quel giorno. «Regola numero otto: se fosse facile, lo potrebbero fare tutti!»
«Già, sarebbe più facile far fare il bagno a Zibibbo ogni mattina.» Shiro colse l’occasione per riprendere fiato. «Uffa però. Potresti andarci più leggero con me. Non sono mica un Heartless!»
«Prega di non trovarti mai nella stessa stanza con Xigbar e un satiro. Non mi toglierò mai più dal naso la puzza di caprone!» Roxas fece gesto di vomitare.
«Potrebbero essere una bella coppia. Il ratto e il caprone!» Shiro ridacchiò. «Al Castello dell’Oblio ho visto un vero topo, lo sai? E non puzzava. Non come Xigbar, almeno.»
«Va bene, momento risate finito.» Roxas si rimise in guardia. «Vogliamo riprendere? Stavolta tu colpisci e io paro. Al mio tre… uno, due…»
Non ebbe il tempo di dire tre. La porta si spalancò e Xion entrò nel salone.
«Ciao, ragazzi!»
Con lei c’era… un cane. Un segugio. Un grosso animale di pelo chiaro, con un collare verde tenuto largo e l’aria allegra.
Il cane si mise immediatamente a correre per la sala, descrivendo un cerchio attorno a Shiro e Roxas, annusando loro le gambe, poi balzò addosso a Shiro e prese a leccarle la faccia.
«Ma che…?» Shiro commentò subito. «Giù, coso, giù!»
Roxas aveva la sensazione di aver già visto da qualche parte quel botolo – e concluse tra sé e sé che avrebbe dovuto aspettarsi un comportamento del genere.
«Saix dice che possiamo tenerlo!» Xion annunciò in tono trionfale. «L’ho sentito parlare con Axel mentre venivo qui, a quanto pare il suo Altro adorava i cani.»
«Quando ero piccola a volte mi aveva detto che aveva un cane,» Shiro commentò, cercando di tenere giù il cane presente nella stanza. «Diceva che si chiamava Bolt. Questo ce l’ha un nome, Xion?»
La ragazza scosse la testa.
«Non l’ho ancora deciso. Comunque avete sentito la notizia?»
«No, che notizia?» Roxas non aveva affatto presente di cosa potesse stare parlando la sua amica.
«Dicono che domani non ci saranno missioni. Giornata libera.»
 
«Pluto l’ha vista.» Riku annunciò in tono piatto. «Ha visto Shiro.»
Si trasse dalla tasca alcune fotografie, che mostravano Shiro in un salone grigio, assieme a due ragazzini, entrambi con addosso lo stesso cappotto nero che Riku e Topolino stavano utilizzando per mimetizzarsi.
«Quel volto non mi è nuovo!» Topolino indicò il più alto dei due, mentre nel suo stomaco sembrava formarsi un pezzo di ghiaccio. «I capelli sono più scuri, ma… somiglia a qualcuno che conoscevo.»
Non poteva essere Ventus… o lo era?
«A giudicare dalle stature dei membri individuati, credo che il ragazzo con i capelli chiari sia Roxas. L’altra è una figura femminile, ma in nessuno scatto sembra sia stato inquadrato il volto.»
«Il Nessuno di Sora?» Topolino strizzò gli occhi. «Non somiglia a Sora. Normalmente quando un Nessuno mantiene un aspetto umano… beh, mantiene il proprio. Abbiamo visto i Nessuno degli uomini di Ansem, ed erano quasi esattamente come i loro altri, salvo il fatto che siano invecchiati.»
«E cosa può voler dire?» Riku prese a grattarsi i capelli, portandosi due dita al di sotto della benda che portava sugli occhi.
«Non lo so. Ma… i ragazzi sono armati, se pur con armi da allenamento. Credo stiano cercando di tenere Shiro pronta per qualcosa, e non possiamo permetterci di aspettare. Puoi cercare di osservare meglio? Con i tuoi occhi, se è possibile?»
 
GIORNO 149
 
Xion non è venuta a prendere il gelato oggi. Non mi è molto chiaro cosa sia successo, e non ne ha nemmeno voluto parlare molto con Roxas… ero ancora al Castello quando Xion è tornata malridotta e con la testa bassa, si è precipitata in camera sua e non mi ha neanche guardata in faccia.
L’ho sentita litigare con Saix. A quanto pare lui è convinto che Xion sia un fallimento… un errore per l’Organizzazione.
Sono corsa nella sala e gli ho urlato: “Smettila! Smettila subito! Xion è mia amica e non è un errore!”, anche se la mia coscienza mi gridava e ripeteva di non farlo.
Non ho mai visto Saix guardarmi così. MAI.
 
Era quasi come se stesse per vomitare.
 
GIORNO 150 – Diario di Roxas
 
Xion non si è presentata nemmeno oggi. Ha avuto una strana discussione con Saix. Ho parlato con Axel delle cose che non vorremmo perdere. Per lui è il nostro passato, poiché in quanto Nessuno non abbiamo altro. Non ricordo nulla del mio passato, ma voglio tenermi stretto il mio presente. Mi spaventa poter perderlo… o perdere Axel, Xion o Shiro.
 
GIORNO 171
 
Roxas dismise il Keyblade e osservò il ponte di pietra con attenzione, quasi come a cercare con lo sguardo altri Heartless superstiti.
Quello che aveva appena abbattuto – e di cui aveva appena recuperato il cuore – era stato una specie di macchinario, grande come una casa, sovrastato da tirapiedi più piccoli, e che prima di cercare di svuotare il suo arsenale su di lui aveva messo al tappeto la Bestia che abitava il castello.
Ammesso e non concesso che la Bestia, che Roxas aveva rinvenuto privo di sensi nel cortile, non avesse sfiancato l’immenso mostro prima che Roxas ci potesse avvicinare il Keyblade.
Se Roxas avesse avuto un cuore, avrebbe giurato che una parte di esso avrebbe voluto ringraziare la Bestia.
Probabilmente lo avrebbe anche fatto, o forse gli avrebbe lasciato un Elisir vicino alle zampe mentre era svenuto… ma il padrone del castello non era più solo.
«… sono riuscito… a impedir loro… di entrare…» stava dicendo a Belle, la ragazza che era l’unico essere umano presente in quel castello.
«Ti prego, non farlo più. È troppo pericoloso.» Belle gli rispose, cercando di aiutarlo a mettersi in posizione seduta. «Se ti succedesse qualcosa… io…»
«Belle… non potevo vedere te e gli altri soffrire…» La Bestia ansimò. «Non… volevo perderti…»
Roxas rimase a guardarli dal suo nascondiglio… allora la Bestia non stava cercando di proteggere la rosa… voleva proteggere gli abitanti del castello… voleva difendere Belle! Anche se Xaldin era convinto che la Bestia stesse proteggendo la rosa
«Bah. Che mucchio di idiozie nauseanti.»
Fu proprio Xaldin ad intervenire, avvicinandosi a Roxas con un’espressione di disgusto che gli distorceva il volto.
«Da quanto sei qui?» Nonostante la sua statura irrisoria, Roxas tentò comunque di lanciargli un’occhiata di sfida.
«Non sono affari tuoi.»
Al centro del cortile, Belle aveva aiutato la Bestia ad alzarsi e lo stava portando verso il portone. La ragazza stava mormorando qualcosa, un motivo che Roxas le aveva già sentito emettere e che Axel, quando Roxas glielo aveva menzionato, aveva chiamato “ninna nanna”.
«Come si può avere un sogno… la vita sembra troppo triste e dura… sebbene io sia cresciuta… sembro molto più insicura…»
Le prime parole di Belle, Roxas non le aveva mai sentite, ma dopo quei quattro versi passò ad altre più familiari, altre che aveva già cantato dietro porte chiuse mentre lui e Xion erano intenti ad esplorare e cacciare ombre.
«Come si ferma un istante… nulla è eterno in realtà… ma se c’è con noi l’amore… tutto il resto basterà…»
«A dir poco ridicolo!» Xaldin sbuffò mentre i due sparivano dentro al portone.
«Amore? Che cosa significa?» Roxas non aveva mai sentito quel termine.
«È una semplice emozione.» Xaldin commentò. «Un’emozione che al momento sta ingannando quei due.»
«Oh…» Roxas fece cenno di aver capito, ma quella sarebbe stata un’altra domanda per Axel.
 
Shiro credeva che avrebbe visto Roxas arrivare, ma stavolta il suo amico arrivò preannunciato da un forte puzzo di fumo.
«Ed ecco il nostro stacanovista!» esclamò Axel, tappandosi il naso con la mano libera. «Xaldin ti ha fatto spazzare i camini, per caso?»
«Avete visto Xion?» Roxas si lasciò scivolare di dosso la frecciatina.
Axel rimase zitto e Shiro scosse la testa.
«Oh…» Roxas si sedette, con lo sguardo basso sugli stivali.
«Qualcuno deve parlare con quella ragazza.» Lea commentò. «Hey, Shiro, perché non le presti la tua coscienza? Magari funziona.»
«Axel!» Shiro ribatté immediatamente. Come se la coscienza si potesse prestare… da qualche parte nella sua testa, però, la vocina stava ridendo.
«Solo lei può decidere se unirsi a noi oppure no.» Roxas diede ragione a Shiro.
«Immagino di sì.» Anche Axel abbassò la testa.
Shiro pensò che sarebbe stata una buona idea cambiare argomento.
«Che ti è successo, Roxas? Puzzi come Axel quando è di umore nero!»
«HEY!» Axel alzò lo sguardo soltanto per dare a Shiro un’occhiataccia.
«Un enorme Heartless che tirava bombe, ecco cosa.» Roxas guardò Shiro e abbozzò un sorriso. «Ora che torniamo al castello mi butto sotto la doccia, tranquilla.»
Si fece serio per un momento.
«Vorrei chiederti una cosa, Axel.»
«Spara. È successo qualcosa?»
«Nah, è solo…» Roxas scosse la testa. «Ecco, è solo una domanda stupida, ma… ricordi Belle, la ragazza della ninna nanna? Come si ferma un istante, nulla è eterno in realtà… ho sentito il resto della canzone.»
Non era la prima volta che Roxas menzionava Belle. Shiro avrebbe voluto conoscerla: come lei era l’unica Qualcuno in un castello di Nessuno, Belle era l’unica persona in un castello dove i soli abitanti erano una Bestia e un mucchio di oggetti parlanti. A quanto pareva, però, la Bestia e gli oggetti erano comunque Qualcuno, da quanto Roxas e Xion avevano cercato di spiegarle…
… quella storia non aveva senso, quindi era quasi normale che persino Roxas non ci capisse un’acca.
«E come continua la canzone?» Shiro chiese a Roxas.
«Ma se c’è con noi l’amore, tutto il resto basterà.» Roxas recitò. «Solo che non ho capito. Cos’è l’amore
«Come, scusa?» Axel quasi sobbalzò.
«Ho scoperto la sua esistenza durante la missione di oggi. È un sentimento molto potente.» Roxas disse di nuovo.
«Beh, l’amore è quello che tiene insieme i genitori e i bambini, per esempio.» Shiro intervenne immediatamente. «Però hai detto che al Castello della Bestia…»
«Beh, ci sono la teiera e la tazzina, ma non erano loro.» Roxas borbottò. Shiro ancora doveva chiedersi come facevano una teiera e una tazzina ad essere una famiglia, ma aveva sentito anche cose più assurde, e la sua coscienza le aveva confermato che era possibile.
«È vero, ma io non avrò mai occasione di sperimentarlo.» Axel si rabbuiò vistosamente, quasi come se il boccone di gelato che aveva preso in bocca fosse immediatamente diventato amaro.
«I Nessuno non possono amare?» Roxas chiese con voce più bassa.
«Serve un cuore, amico.» Axel sbuffò. «Shiro qui potrebbe affezionarsi tanto a noi da volersi legare alla caviglia di uno di noi, eppure nemmeno il Superiore, che pure lei chiama papà, arriva a ricambiare. No… l’amore è per persone che hanno un legame molto speciale… noi siamo amici, sì, ma quando c’è amore tra le persone, beh, allora si chiama famiglia. E… no, non siamo una famiglia, noi, e non credo lo saremo mai.»
Roxas abbassò lo sguardo verso le sue scarpe, visibilmente rassegnato. Shiro si chiese come mai Axel si fosse rabbuiato tanto – e come mai le veniva costantemente ripetuto che i Nessuno non sentivano, e poi invece aveva quelle scene davanti? – e prese anche lei a concentrarsi sulla sua merenda.
Poi Roxas alzò lo sguardo.
«Se avessi un cuore, credi che potrei amare qualcuno?»
Axel rimase un momento in silenzio, lo sguardo perso nel tramonto all’orizzonte.
«Quando Kingdom Hearts sarà completo… allora potrai fare tutto quello che vuoi.»
 
Come si ferma un istante? … Nulla è eterno in realtà… ma se c’è con noi l’amore… tutto il resto basterà…
Axel rientrò nella sua stanza e si chiuse la porta alle spalle. Si sarebbe dato fuoco da solo, prima che Shiro e Roxas potessero vederlo piangere…
… e come da quasi undici anni a quella parte, il nodo alla gola gli veniva, le lacrime no.
Si buttò a sedere sul letto e si fissò le scarpe. Erano anni che i ricordi non gli facevano così male, e in quell’anno prima era arrivata Xion, che anche con i capelli scuri gli faceva pensare molto a come Kairi sarebbe potuta diventare… e ora Roxas aveva iniziato a scoprire come andava il mondo, e per quanto Axel fosse stato contento di poter nuovamente fare la parte del fratello maggiore – Roxas e Xion avevano l’età che Kairi avrebbe avuto se fosse stata ancora viva, la sua testa gli aveva sempre detto e ripetuto – se avesse avuto un cuore, era certo che il rimorso lo avrebbe ucciso.
Quando Kingdom Hearts sarebbe stato completo, come avrebbe guardato in faccia i suoi amici?
 
Il soffitto sopra di Kairi splendeva di stelle.
Fin da quando era arrivata alle isole, senza alcun ricordo a parte il suo nome, aveva avuto la peggiore paura del buio della sua classe, e le stelle fluorescenti sul soffitto erano state una delle prime aggiunte alla sua stanzetta, appena dopo il letto e una mano di pittura alle pareti.
Ogni volta che era rimasta a dormire da Riku o dal figlio dei pescatori in periferia, in fondo al suo zaino era stata accuratamente infilata una lucina antipaura. Ora che era rimasta da sola, gli incubi si erano fatti più comuni.
Compreso quello più vecchio, quello che le faceva aprire gli occhi con l’angoscia e il sudore freddo.
La voce del ragazzo che urlava il suo nome, le urlava di fuggire, una presa di ferro attorno al suo polso, un grido di dolore. Stavolta si era aggiunto un altro dettaglio – appena prima dell’urlo, dello “SCAPPA!”, aveva morsicato la mano a sangue a qualcuno.
La ragazza si mise a sedere e rimase a fissarsi le dita dei piedi.
Come poteva capire se quella storia fosse successa davvero?
 
GIORNO 172
 
Xion sta di nuovo male.
Credevo che anche Axel stesse male ieri quando si è infilato in camera sua e non ha più aperto a nessuno, ma stamattina era di nuovo a fare missioni, quindi se stava male, ora sta meglio.
Xion non si sveglia. Roxas è preoccupato, e ripeto, PREOCCUPATO, anche se Axel dice che i Nessuno non si preoccupano. Ha litigato con Saix, dicendo che Xion viene prima della missione – e ha ragione, solo che si sarebbe messo nei guai, e gli ho detto che avrei pensato io a fare in modo che Xion stia bene.
Ero ancora nella stanza di Xion quando lui è tornato, e mi ha raccontato del gatto viola ciccione che ha incontrato nel Paese delle Meraviglie.
Più che un gatto, ha detto la mia coscienza, per come Roxas ne parlava, era una gran bella GATTA DA PELARE.
(inoltre ora che Xion dorme, indovinate un po’ chi ci pensa al cane?)
 
GIORNO 195
 
Nonostante Xion sia sveglia da qualche giorno, continua ancora a non stare bene abbastanza per andare in missione.
Il fatto che il cucciolo che aveva trovato due mesi fa sia pure scappato dal Castello, nonostante sia io che lei fossimo lì (credo sia fuggito mentre gli preparavamo da mangiare) non la sta aiutando.
Come fa Axel ad essere tanto convinto che “i Nessuno non sentano nulla”? Posso capirlo riguardo a papà, o riguardo a Saix. Anche se Saix fino a qualche anno fa non era messo così male. Possibile che magari quando si è fatto quella ferita alla faccia gli hanno bucato il cervello o qualcosa?
 
Sette mesi.
Erano passati sette mesi da quando Ansem era stato sconfitto, gli Heartless avevano preso a ritirarsi dalle rovine del borgo, e da quando il vecchio amico del baseball di Cloud, Squall, che ora si faceva chiamare Leon, aveva iniziato a ripulire la Fortezza Oscura dai resti della battaglia.
Alcune delle case erano ancora recuperabili: Aerith aveva riavuto la sua, così come pure il giudice Ilyas e il mago Merlino, ma parecchi altri dei rifugiati tornati nel loro mondo avevano dovuto arrangiarsi e chiedere una sistemazione ad altri abitanti del borgo, almeno fino a quando non avrebbero riavuto una casa.
Cloud era uno di loro: a quanto pareva, casa sua era stata rasa al suolo.
Non gli piaceva l’idea di restare, ma Aerith (col cavolo che avrebbe chiesto di essere ospitato da lei… non dopo chi era stato l’ospite regolare in quella casa…) aveva insistito che avevano bisogno del suo aiuto, e il giudice Ilyas gli aveva offerto un posto dove dormire.
«Ascoltami bene, ragazzino, quando mio figlio tornerà a casa, perché tornerà, se venisse a sapere che ho lasciato uno dei suoi amici dormire in mezzo alle rovine, mi farebbe entrambi gli occhi neri con la mia stessa vanga!» aveva ribadito il giudice quasi trascinandolo dentro per i vestiti.
Non erano gli unici ad occupare quella casa: Ilyas si stava prendendo cura di un bambino molto piccolo che aveva rinvenuto sulla sua porta alcune settimane prima – un fagottino con i capelli ricci e la pelle scura il cui unico indizio sull’identità era stato il nome “Finn” scritto con un pennarello sulla coperta in cui era stato ritrovato.
Chiunque lo avesse lasciato lì, era certo che il giudice fosse capace di fare anche il padre.
«La cosa ironica è che non è stato il primo. Solo l’ultimo.» Ilyas aveva sbuffato, cercando di fare in modo che Finn facesse il ruttino. «In questa stessa strada, dove ci sono ancora le case in piedi, sono stati ritrovati un bambino di sette anni, memoria persa, nome Denzel, un piccoletto senza i denti di nome Austin, e un neonato che a stento si reggeva in piedi con la scritta Raphael sulla maglietta. Non so quanti di questi quattro bambini abbiano realmente avuto quei nomi alla nascita, ma non erano i nomi dei quattro protagonisti di quel film di cui voi ragazzi consumavate sempre la cassetta… Storie Strane o qualcosa del genere?»
«Scarier Things, signor giudice.»
Ilyas ci aveva visto giusto. Raphael, Denzel, Austin, e Finn – assieme alla loro amica “Quattordici” erano stati i protagonisti di quel vecchio film. Ed era stato Isa, che ne aveva sempre avuto il chiodo fisso (anche i più incorruttibili dovevano avere un qualche punto debole) a mostrare il film agli altri tre. Era persino stato il piano B dello stesso Isa per Halloween quando la sua maschera da licantropo aveva mandato Kairi a nascondersi in un’altra stanza. E se facciamo i ragazzi di Scarier Things noi quattro, e Aerith fa Quattordici?
«Non è la prima volta che arrivano rifugiati durante la notte.» Il giudice aveva mormorato. «Alcuni vivevano qui, altri no, e da giudice e da persona non mi conta un bel niente, sono vite e se le possiamo salvare da quelle ombre viventi…»
«Heartless, vostro onore…»
«… titoli irrilevanti, sia uno, che l’altro. Dicevo, anche se i nuovi arrivati non vivevano qui, secondo te quanti altri mondi là fuori sono stati distrutti da questi Heartless e c’è gente ridotta come noi lo eravamo dieci anni fa? Ma il punto è che questi quattro bambini, in questa strada… non voglio sperare, Cloud, ma credi che ci sia Isa dietro?»
Cloud non rispose. Aveva ricordi, vaghi, del misterioso Saix che aveva aiutato lui e Zack a fuggire due anni prima. Una parte di lui sosteneva di averlo visto in faccia, un’altra lo negava apertamente.
Ricordava Zack che gli diceva che li avrebbe aiutati a portare via Shiro, e poi… non era più arrivato, e lui e Zack si erano trovati da soli in mezzo ai nemici.
«Non lo… so…» Cloud si appoggiò a una sedia e vi si sedette. Ilyas era ancora impegnato con Finn, ma gli lanciò un’occhiata.
«Cloud, ascoltami. Parecchi di questa città sono andati, e per sempre. Tu e Zack foste i primi a sparire, eppure eccoti qua. Vorrei sperare… non solo per il mio ragazzo. Lea, la piccola Kairi, la loro nonna, i miei colleghi del tribunale…»
«Ho trovato un altro rifugiato del borgo la settimana scorsa.» Cloud sbuffò, cercando di cambiare argomento. «Non vuol tornare a casa, però. Ha iniziato a lavorare in una gelateria a Crepuscopoli, sta sperando di farsi una casa e un locale suo con la paga.»
«… Cloud…»
«Vostro Onore…»
Sette mesi.
Erano sette mesi che Cloud cercava persone sparite senza realmente dirlo a nessuno.
Non era più soltanto Shiro.
Genesis, che nessuno aveva più visto dopo il disastro della Fortezza.
Sephiroth, che covava ancora in sé la follia dopo quasi dieci anni.
Lea e Isa, Miccia e Moccio, che probabilmente erano persi da qualche parte là fuori.
Un bambino di cui ricordava soltanto il sorriso, una piccola mano callosa che stringeva la sua, un’innocenza rimasta impressa nella sua mente.
E tre eroi – Terra, Ventus, Aqua. Tre amici. Doveva riportare Shiro da loro – dalla sua famiglia.
«Ragazzo, so che sei cresciuto in circostanze particolari, ma restare stoico non ti aiuterà se hai dei problemi.» Il giudice interruppe i suoi pensieri. «Molte persone qui pensano che i tuoi problemi siano anche i loro. Ricordi quando Zack ti ha regalato la sua palla di scuola media, di quando ti ha lasciato la divisa perché sapeva che per tua madre sarebbe stata una spesa troppo grossa?»
La sola risposta di Cloud fu il silenzio.
«Non ho bisogno che tu mi risponda ora.» Ilyas si risistemò Finn in braccio e prese a salire le scale, probabilmente per mettere il piccolino a letto. «Ma pensaci. Nessuno di noi è forte tanto da non avere bisogno di aiuto.»
E lasciò Cloud da solo con i propri pensieri.
 
GIORNO 255
 
«Come vola il tempo…»
«Ne hai memorizzato il numero, eh?»
«Già, mi serve un punto di riferimento, no?»
Shiro fissò i due che parlavano, Roxas e Axel, e interagivano tra loro quasi come se non sentissero l’assenza di quel giorno. Per loro era quasi facile distrarsi – missioni ogni giorno, lontani da quelle pareti bianche e da quel cielo eternamente nero, per loro era facile dimenticare che ogni giorno che passava, la tensione si poteva quasi tagliare con il coltello.
O forse non lo avevano scordato, ed era vero che non sentivano la preoccupazione, o la sentivano meno di lei.
O forse ancora, Roxas non voleva pensarci al momento.
E nemmeno Axel, che Shiro non aveva mai visto sorridere così.
«Hey, ragazzi. Scommetto che non sapete perché il tramonto è rosso…»


 
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Per chi se lo stesse chiedendo, il rifugiato che Cloud menziona non voler tornare a casa è una citazione ad una serie in inglese - il cosiddetto Cometverse - che ho letto su Archive of Our Own. Gli autori leggono e apprezzano questa storia, e ho pensato di lasciare loro un piccolo omaggio.


Nel prossimo capitolo - "Mai Mi Legherai"

«Non voglio dire addio a Mister Kupò! Lui è mio amico!»

«Se fuggiamo verremo inseguiti. E chi credi che sarà più rapido? Noi senza una traccia da seguire, o chiunque Xemnas ci manderebbe dietro?»

«Cosa aspetti, pezzo di rimbambito? Chiudila in camera!»
«TI ODIO

 

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Capitolo 9
*** Mai Mi Legherai ***


Penultimo capitolo!
In realtà anche il decimo è già scritto - aspettatevi che venga pubblicato sabato, perché poi mi dedicherò alla seconda storia della serie.
Ora, prima di leggere, mettetevi comodi e assicuratevi di avere almeno un fazzoletto a portata di mano.
E per favore, non odiatemi.

Capitolo 9
Mai Mi Legherai
 
GIORNO 276
 
«Tu sei…?»
«Riku. L’amico di Sora.»
Non si aspettava che la fuggitiva dell’Organizzazione avrebbe scelto proprio quel mondo per rifugiarsi, o che avrebbe dormito nella casa sull’albero che lui, Sora e Kairi avevano usato più volte come base per giocare ai pirati… e invece Xion era lì.
Un momento prima aveva cercato di fuggire, correndo verso l’isolotto dove Riku e Sora erano stati soliti duellare, un momento dopo era crollata al suolo, stringendosi forte la testa tra le mani, come se si fosse sentita improvvisamente male.
L’aveva appoggiata per terra e si era inginocchiato, aspettando che rinvenisse, e ora era bastato che Riku menzionasse Sora perché Xion scattasse immediatamente a sedere.
«Sora? Conosci Sora
Riku si rimise in piedi, poggiandosi una mano sul ginocchio. «Sì.» Sbuffò.
Quella sola sillaba era un eufemismo, ma ormai era uno dei pochi nei mondi a ricordarlo, uno dei pochi ad avere i dettagli sulla sua vita, e se quel… quella ragazza, perché dopo quello che Riku aveva visto l’anno prima, poco importava come si arrivava a fare parte del mondo, anche se era stata definita come un fantoccio, a Riku sembrava decisamente viva, viva quanto lo era lui.
Probabilmente meritava anche più di lui di essere viva.
«Grazie.» Xion si alzò a sua volta. «Mi hai salvata… ma non so perché lo hai fatto.»
Anche perché non sembrava aver ricevuto molta decenza umana, in vita sua.
«Diciamo che… ne avevo voglia.» Riku le rispose, poi fece per allontanarsi. Si sentiva lurido a cercare di portarla da DiZ, ma si sarebbe spaccato il cranio da solo prima di farlo con le cattive.
Quella ragazza sembrava aver già visto troppo abuso per una vita intera, per come si muoveva e come parlava.
Sentiva i suoi passi dietro di lui, e poi lei intervenne di nuovo.
«Riku, ti prego… parlami di Sora. E… di quella ragazza che è sempre con lui.»
«Vuoi dire Kairi?» Riku le rispose senza neanche girarsi.
«Sì… quella che mi somiglia.»
Riku si sforzò mentalmente di stare fermo, di non tradire la tensione, di rimanere impassibile. Aveva già fatto troppi errori l’anno prima, messo in pericolo le due persone più importanti della sua vita, e anche se ora Kairi era al sicuro a casa, era c-o-l-p-a-s-u-a se Sora aveva dovuto produrre un Nessuno per salvarla, c-o-l-p-a-s-u-a se era rimasto perso nei mondi a cercarlo ed era finito vittima dell’oblio, c-o-l-p-a-s-u-a se Roxas e Xion esistevano e rischiavano di farlo morire con la loro stessa presenza.
Immaginava Sora che lo prendeva per un polso e gli diceva che tutto questo non avrebbe cambiato nulla. Sapeva per certo che Kairi ancora lo stava aspettando. Li stava aspettando. Una parte del suo cuore era ancora convinta che tutto sarebbe tornato come prima, e che…
Togliti questi pensieri dalla testa, idiota. Hai buttato la tua occasione dalla finestra quando hai fatto male ad entrambi.
«Kairi è una persona… molto speciale per Sora…» E per me, Riku avrebbe aggiunto, ma si sentiva di aver già parlato troppo. Si girò verso Xion e fece due passi verso di lei, ma non le si avvicinò.
DiZ aveva parlato troppo spesso dell’Organizzazione come il nemico… Riku ora avrebbe soltanto voluto capire se la ragazza voleva risposte per sé, o se stessero cercando di fare nuovamente loro del male.
«Ricordo cose su di loro.» Il respiro di Xion si stava facendo affannato. «Ma io non sono altro che un fantoccio… un oggetto creato da qualcun altro.» Diede di nuovo le spalle a Riku, appoggiandosi ad una delle palme dove Sora era stato solito arrampicarsi. «Perché dovrei avere i loro ricordi?» Si girò verso di lui. «Sai dov’è Sora adesso?»
«Quello resta un segreto.» Riku rispose d’istinto. Non avrebbe consegnato il suo… il suo migliore amico
«Non ti fidi di me, non è vero?» Xion evitò di nuovo il suo sguardo.
«Da che mi risulta, state tenendo Qualcuno prigioniero nella vostra roccaforte. Non è così forse?» Riku ribatté.
«Shiro è la figlia del Superiore. I Qualcuno stanno con i genitori quando sono piccoli.» Xion ribatté meccanicamente.
«Non è vero.» Riku trascinò i piedi nella sabbia. «Non so chi ti abbia riferito tutto questo, ma chiunque lo ha fatto, ha mentito o crede a questa menzogna. Terra è il nome di suo padre. Porta un Keyblade, come te e Roxas. È sparito dai mondi quando Shiro aveva un anno… forse è morto, forse è solo sparito, ma…»
Xion si irrigidì, e attraverso le maglie nere della benda, Riku la vide stringere un pugno.
«Il Keyblade. Non è un non più, è un non ancora. Xemnas sta aspettando che Shiro evochi il Keyblade
Xion rimase per la successiva decina di minuti a spiegare cose a Riku. Di come, secondo Axel, era da alcuni anni ormai che dalla mano destra della bambina partissero raggi luminosi che lampeggiavano e si estinguevano come un lume guasto appena prima di produrre una lama, del regime di allenamento, fino ad allora inutile, che un membro dell’Organizzazione chiamato Saix aveva imposto alla bambina ogni sera, in presenza di Roxas, o di Xion, o di entrambi quando possibile, del fatto che Shiro avesse memoria di un tempo in cui Saix era stato diverso, del fatto che parlava da sola o con il suo peluche abbastanza spesso…
«Avremmo potuto portarla via…» Riku mormorò a mezza voce.
A sua volta, lui spiegò a Xion di come lei portasse dentro di sé i ricordi che Sora aveva di Kairi – quelli vitali al suo risveglio. Le ammise che il suo migliore amico avrebbe potuto non svegliarsi più, se quello che lei aveva preso non fosse stato restituito.
Anche attraverso la benda, poteva vedere quanto Xion fosse scossa. Probabilmente non si era accorta dell’abuso su sé stessa, ma ora aveva aperto gli occhi su come era stato su qualcuno vicino a lei.
Una parte del cuore di Riku avrebbe voluto fare leva su questo punto debole – usare l’intenzione di Xion di aiutare la sua piccola amica per portare lei e Roxas da Sora e Shiro lontana. Era la cosa migliore da fare – la cosa giusta.
Perché un’altra parte aborriva comunque il semplice pensiero di una scelta del genere? Perché, nonostante il fine, Riku si sentiva un mostro al pensiero di poter fare del male a un Nessuno e a una Replica – a due ra-gaz-zi-del-la-sua-e-tà?
DiZ poteva anche pensare che i Nessuno fossero indegni di vivere, ma quello che la microspia di Pluto gli aveva mostrato, le reazioni di quando aveva osservato quei due, la stessa preoccupazione di Xion per Shiro, per una persona, raccontavano tutta un’altra storia.
Xion riprese ad appoggiarsi ad uno degli alberi, lo sguardo perso verso il mare. Per alcuni momenti, l’isola cadde nel silenzio, eccetto per il rumore ritmico delle onde.
«Quando… saremo ricchi… di sentimenti e di umanità…» Xion aveva preso a mormorare, le parole appena discernibili contro i rumori dell’isola. «… tutti sapremo vincere… o perdere… ma con umiltà…»
Man mano che le pronunciava, cominciò a dare un tono alle parole, fino a quando Riku non riconobbe il testo. Era una canzone, e non una qualunque – la canzone che Sora e Kairi avevano cantato alla consegna dei diplomi dell’asilo.
Era la prova principe di quello che DiZ gli aveva detto – che Xion aveva davvero rubato a Sora parte della sua mente, momenti importanti della sua vita, come quella giornata di sole di dieci anni prima in cui Riku aveva capito che non avrebbe perso il suo amico del cuore.
Se soltanto fosse riuscito a tenerlo stretto come si era promesso di fare…
Si morse forte un labbro e cercò di trattenersi. Xion non lo avrebbe visto piangere
Sulla spiaggia regnò di nuovo il silenzio, poi la ragazza scoppiò in singhiozzi. Smise di piangere, poi lo guardò in faccia.
«Mi odi… perché ti ho portato via il tuo amico?» gli chiese.
No, odio me stesso perché l’ho mandato io via, Riku avrebbe voluto rispondere, ma invece disse: «Non direi. Forse… sono solo triste.»
Si sentiva gli occhi pieni di lacrime e tenere normale il tono della sua voce sembrava l’impresa più strenua del mondo. Ringraziò la benda – oltre che impedirgli di vedere la propria oscurità, impediva anche agli altri di vedere le sue lacrime.
 
La risposta non deve essere giusta solo per te.
Deve essere la cosa più giusta per tutti.
Per te, i tuoi amici, e per tutti gli altri.
 
GIORNO 298
 
Xion è tornata. Axel dice di averla trovata a Crepuscopoli e che è svenuta poco dopo che lui l’ha vista.
Roxas è arrivato più tardi ed era livido di rabbia. Ha cercato di spiegarmi qualcosa, ma Axel ha asserito che fosse l’ora di dormire per me e mi ha mandata in camera.
Domani vedrò di andare a cercare Axel e parlare direttamente con lui.
 
GIORNO 299
 
“Shiro, non credo sia una buona idea”, la coscienza aveva preso a ripeterle nella testa da quando lei aveva deciso di pedinare Axel quella mattina.
«E basta tu!» Shiro gli bisbigliò, per poi acquattarsi contro la porta. Axel non le era affatto sembrato contento di parlare, e Roxas si era chiuso in camera.
«Se tu potessi salvare uno di loro… perché sceglieresti il fantoccio?»
Non era la voce di Axel quella. Era Saix.
“E brava Shiro. Se ti dovesse vedere, come spiegherai che stavi origliando?”, la sua coscienza le protestò contro.
«Questa è casa mia. Potrei essere dovunque.» Shiro gli ribatté. Ancora non capiva cosa fosse il fantoccio a cui Saix si riferiva, ma sperava non fosse Mister Kupò – era l’unico pupazzo presente nel castello e le si sarebbe spezzato il cuore se avessero dovuto buttarlo via, anche se era pieno di rammendi.
«Sembra ancora un oggetto, per te?» Axel contraddisse Saix, la sua voce poco più alta di un bisbiglio. «L’ho vista piangere, Isa. E avrai visto anche tu come abbraccia Shiro ogni sera quando siamo di ritorno, come scherzano assieme quei tre quando si allenano nel salone di sotto. Se non sapessi la verità, giuro, metterei la mano sul fuoco che sia Qualcuno. Che tutti e due lo siano.»
«Cosa c’entrano Xion e Roxas con i pupazzi?» Shiro scosse la testa, provando a chiederlo alla sua coscienza. Quel discorso non sembrava avere capo né coda – un momento prima stavano parlando di un fantoccio da salvare, un momento dopo Axel aveva riportato a galla il vecchio discorso del fatto che Saix odiasse chiunque, adesso era convinto che Roxas e Xion fossero persone?
«Dimmi, Lea, cosa vedi quando guardi il Numero XIV in faccia? Chi vedi
Per tutto il tempo, Saix era rimasto con la schiena contro il muro, braccia conserte, ma fece due passi verso Axel.
Da quando in qua hanno ripreso a chiamarsi tra loro con i loro veri nomi?”, la coscienza fece subito presente a Shiro. “Specie quando dicono a te di non farlo!
«Xion ha gli occhi azzurri, il viso rotondo, e l’aria di chi non farebbe mai male a una mosca neanche volendo. Porta i capelli corti. Se non li avesse neri, direi che sarebbe il ritratto di…» Axel iniziò, ma Saix non lo lasciò finire.
«… tua sorella?» Lo interruppe. «Tua sorella, se fosse arrivata a compire quindici anni?»
Saix non si era minimamente mosso, ma Axel stava trasalendo come se qualcuno gli avesse tirato un ceffone.
«Di che sta parlando?» Shiro continuava a non capire.
Una sorella. Qualcuno con i suoi stessi genitori.” La sua coscienza la intercettò subito. “Sarebbe fratello nel caso dei maschi. Non metterti a chiederlo in giro.
«Roxas e Shiro la vedono allo stesso modo…» Axel cercò di giustificarsi.
«Le cose non cambiano. LEI È MORTA! MORTA! Smettila di rincorrere i fantasmi!» Negli occhi di Saix si intravedeva il bagliore della furia. Shiro dovette stringere i pugni per non urlare e non muoversi, e fu abbastanza certa che qualcos’altro la stesse trattenendo perché non battesse ciglio.
Axel fece due passi indietro, alzando le spalle e le braccia come se si stesse mettendo in guardia. Non evocò i chakram, ma Shiro vide dalle spalle che aveva preso a tremare.
Saix fece due passi in avanti, sembrando in apparenza calmarsi, ma i suoi occhi non avevano smesso di fissare quelli di Axel per un momento.
«O mettila così. Preferiresti perdere un’amicizia fittizia o una autentica
Shiro vide la tensione di Axel allentarsi pian piano, quasi come se si stesse afflosciando. Saix continuò a camminare, passandogli oltre.
«La posta in gioco è troppo alta… Lea
 
GIORNO 300
 
Sembrava che la routine iniziale del Castello che Non Esiste fosse quasi tornata alla normalità, ma Roxas tendeva ancora a rimanere per conto suo.
Xion non sapeva se fosse più arrabbiato con Axel o più confuso. Non sapeva nemmeno se il problema avrebbe anche potuto coinvolgere…
«Shiro, tutto bene?»
… la ragazzina sembrava più distratta del solito nei suoi soliti allenamenti con la mazza. Era la terza volta che, uno a uno contro Xion, Shiro cadeva di sedere sul pavimento o si lasciava disarmare.
«S-sì, perché?» Shiro fece per rialzarsi.
«Non mi sembra.» Xion le tese una mano. «Ti vedo un po’ giù di corda. È successo qualcosa?»
«Credo che Saix voglia farmi buttare via Mister Kupò.» Non sembrava molto convinta, ma probabilmente non era di quel pupazzo che parlava il Numero Sette. Comunque c’era ragione perché la bambina si preoccupasse.
Shiro sbuffò.
«Non voglio dire addio a Mister Kupò. È mio amico.» Si appoggiò contro uno dei muri e guardò Xion.
Se un momento prima, Xion era stata convinta che Shiro fosse all’oscuro di tutto, adesso non sapeva dire se effettivamente la bambina fosse convinta che avrebbe perso il suo giocattolo o se stesse cercando di esternare la sua preoccupazione senza voler far preoccupare lei.
«Shiro, dai… non hai altri amici a parte lui?»
«E allora?» Il volto della bambina si contorse in una smorfia. «Roxas è Roxas, Axel è Axel, Riku è Riku… ma nessuno di loro è te!»
Era decisamente la seconda. Ma qualcos’altro attirò l’attenzione di Xion.
«Tu conosci Riku?»
«Sì!» Shiro fece sì con la testa, il viso rigato da due lacrime.
Xion decise che doveva distrarla – che questa poteva essere un’occasione.
«Credo stia cercando tuo padre, Shiro. Che il Superiore non è tuo padre, che si chiama…»
«… si chiama Terra.» Shiro si puntò un dito alla tempia. «L’ho memorizzato. Lo ha detto un certo re Topolino che conosce anche la mia mamma.»
Xion ricordava che Axel le aveva detto che i Qualcuno piccoli non erano… qual era il termine?... autosufficienti?, e pensava che Shiro, che le arrivava al naso se stava su dritta, avesse ancora molta strada da fare prima di dirsi “cresciuta”, ma sembrava giungere alle conclusioni a cui doveva ancora prima di quanto lei si potesse aspettare.
«Riku sa un sacco di cose.» Xion si diresse verso una panca a margine della sala e fece gesto a Shiro di sedersi. «Ma… sta cercando il suo migliore amico. O meglio, sta cercando un modo di salvarlo. Credo che il Superiore lo voglia…»
Xion si soffiò sul palmo vuoto della mano.
«Non credo sia l’unica persona a cui vuole farlo.» Shiro si fissò le scarpe. «E Saix dice che Axel ti vuole bene perché assomigli a sua sorella. Alla Qualcuno con cui è cresciuto il suo Altro. Ma secondo me non è vero, Xion… non può essere vero. Tu sei tu
Xion stava per ribattere qualcosa, ma quello che aveva detto Shiro era qualcosa che lei non sapeva. Sapeva di somigliare a Kairi, la persona importante di Sora, quella che probabilmente lui amava, ma non sapeva che Axel, che l’altro di Axel, fosse cresciuto assieme a Qualcuno che somigliava a lei.
«Saix dice che la sorella di Axel è stata cancellata. Che non è mai arrivata alla tua età. Dice che… Axel dovrebbe smetterla di andare dietro ai fantasmi.»
Xion non disse nulla. Non poteva credere che Axel si fosse legato a lei soltanto per il suo aspetto… e come Shiro, non ci voleva credere. Non sarebbe stato da lui tentare di aggrapparsi così a un ricordo.
Ma questo aveva aperto un altro mistero. C’era qualcuno a cui lei somigliava, e quella ragazza non era morta.
«Shiro, sai come si chiamava la sorella di Axel?»
La dodicenne scosse la testa.
«L’amica di Sora e Riku si chiama Kairi. È tale e quale me… solo che ha i capelli rossi, non rossi come Axel ma appena appena più scuri.» Xion mormorò. «Shiro, e se fosse lei? E se non fosse morta, ma solo sparita lontano?»
«Non lo so… non lo posso sapere…» Shiro le rispose dopo alcuni momenti in cui sembrava ci stesse pensando. «Ma… la mia coscienza mi dice che se Axel la cerca, forse sarebbe in pericolo.»
«Già, come dice Riku. Un Qualcuno non può stare in mezzo ai Nessuno.» Xion appoggiò la schiena alla parete dietro la panca. «Shiro, se Axel dovesse riavere il suo cuore… gli dirai di Kairi? Me la fai questa promessa?»
Shiro alzò la mano destra in un gesto che sembrava quasi solenne.
«Ragni, serpenti, scorpioni e zanzare, se rompo il mio voto, ch’io possa crepare!»
 
GIORNO 321
Dal Diario di Xion
Axel mi ha sempre aiutata, quindi pensavo lo avrebbe fatto ancora. Da quanto tempo mi conosce, realmente? Forse anche prima che ci incontrassimo al Castello dell'Oblio. Ma mi ha detto di pensare con la mia testa. Ero così felice. Però ora che sono diventata più forte, Roxas sta diventando più debole.
Non dovrei più esistere. Mi hanno detto che i Nessuno non avrebbero nemmeno ragione di esistere, ma il vero problema sono io.

Ma prima di andarmene, voglio aiutare Roxas e Axel. Anche solo un pochino. E Shiro… va portata via dal Castello che Non Esiste. Non mi importa se Axel oggi mi abbia detto che l’ultimo che ci abbia provato è sparito nel nulla senza lasciare tracce – per quel che sarà il mio destino, se posso aiutare qualcun altro, è quello che intendo fare. Non merita di essere qui, per quanto le vogliamo bene… deve lasciare questo posto e cominciare a vivere. Ne ha il diritto più di tutti noi messi assieme.
Penso che il ragazzo che ho visto oggi sia lo stesso Sora dei miei ricordi.
 
GIORNO 352
 
Axel spinse il pesante cancello di ferro e corse nel cimitero.
Roxas e Xion erano ancora lì, entrambi con gli occhi sbarrati, come se vedessero l’avversario davanti a loro senza realmente vederlo, con le espressioni determinate di chi voleva finire la missione e tornare a casa…
… e i loro Keyblade che si scontravano tra loro. Da nemici. In quello che sembrava poter diventare uno scontro all’ultimo sangue.
Non c’era molto tempo – se uno dei due fosse arrivato a prevalere, l’altro avrebbe potuto rimanere ferito gravemente… o addirittura…
Beh, Axel aveva chiuso col perdere le persone a cui voleva bene.
Corse verso di loro, quasi senza pensare, alzando i chakram quasi a usarli come scudo.
«SMETTETELA SUBITO!»
Si infilò tra i due, bloccando il Keyblade di Roxas con la sinistra e quello di Xion con la destra, per poi spingere entrambi all’indietro.
Roxas sembrò il primo ad accorgersi che, in tutto quel tempo, aveva alzato l’arma contro la sua amica.
«Cosa ci fai qui?» Xion, se pur più lenta, fu anche quella che riuscì a tradurre il suo sconcerto in parole. «L’Heartless con cui mi stavo battendo… eri tu
Abbassò lo sguardo, mentre – le si leggeva in faccia – il suo spavento cedeva il passo al disgusto.
Axel la guardò, poi cercò di fare del suo meglio per spiegare le cose a Roxas. Xion aveva capito sicuramente la verità da sola – ma chi avrebbe dovuto farlo con lui? Chi avrebbe dovuto dargli il rude risveglio?
«La missione era una trappola. È stata ideata solo per farvi combattere l’uno contro l’altra.»
Non c’era molto altro da spiegare – non lì. Aprì un Corridoio per Crepuscopoli, mandò Roxas alla gelateria e aprì un altro Corridoio perché Shiro li raggiungesse. Sapeva che la bambina probabilmente avrebbe fatto domande sul perché fossero tornati così presto, ma sperava di poter tagliare corto con un “evidentemente l’Heartless era stato segnalato da quel morto di sonno di Demyx”.
Shiro emerse dal passaggio d’ombra abbastanza presto, e come ogni giorno quando c’erano tutti, Xion attese che si liberasse del mantello e la abbracciò forte. Era diventata presto la loro prassi per salutare, e se solo gli altri le avessero viste… se solo Saix le avesse viste… quante volte, all’uscita da scuola, avevano visto Kairi salutare così la sua compagna di banco?
«Avete fatto presto oggi?» Shiro guardò Xion e Axel con aria perplessa.
«Chiunque avesse detto che c’era un Heartless, o si sbagliava, o mentiva.» Axel si poggiò una mano su un fianco e sbuffò.  In fin dei conti non era completamente una bugia.
Roxas fu di ritorno con i gelati, e nessuno ebbe più nulla da dire fino a quando Xion, un po’ troppo rapida nel mangiare il suo, si portò una mano alla tempia lamentandosi che le si era congelato il cervello.
«Era da un pezzo che non stavamo un po’ insieme, eh?» Roxas commentò quando Xion ebbe finito di protestare e scuotere la testa. Quei tre… Axel trovava difficile trattenere le risate, specie ora che Shiro, seduta tra i due più grandi, aveva finito il suo gelato e aveva preso a fare le smorfie con lo stecco tra i denti.
«Abbiamo avuto tutti un po’ di problemi, ultimamente…» Si costrinse a lasciarsi sfuggire un sorriso. Si sarebbe quasi aspettato che Shiro lo contraddicesse, fingendosi offesa e sparando un “parlate per voi!”, ma la bambina (dodici anni. Aveva fatto dodici anni l’inverno prima e lui a stento se ne rendeva conto…) si limitò ad annuire rapidamente, con ancora lo stecchetto di legno tra i denti. Axel si chiese quanto sentisse e quanto capisse di quello che era avvenuto al castello… era stato più o meno alla sua età che lui aveva iniziato a non ritenersi più un bambino.
«Vorrei che le cose restassero così per sempre,» Xion commentò guardando l’orizzonte. Dal suo tono di voce, Axel riusciva a discernere che lei sapeva che i suoi giorni erano contati.
«Sentite… e se andassimo via?» Roxas intervenne.
«Cosa?» Xion quasi non lo lasciò finire di parlare.
«Se scappassimo… potremmo restare sempre insieme.» Roxas si girò verso le ragazze e accennò a un sorriso speranzoso.
«Ma… non sapremmo dove andare…» Xion abbassò lo sguardo.
«Potremmo… potremmo cercare il mio papà!» Shiro le mise una mano su un braccio. «Quello vero. Oppure la mia mamma. Credo che sarebbero felici di lasciarvi stare con me, specie se gli dico che siete stati voi a riportarmi a casa.»
Rimase a pensarci un momento.
«E poi anche loro hanno i Keyblade!»
«Shiro, ragiona. In tutti i mondi che conosciamo, che l’Organizzazione conosce, non abbiamo trovato tracce di altri prescelti del Keyblade.» Inaspettatamente, fu di nuovo Xion la voce della ragione. «Se fuggiamo verremo inseguiti. E chi credi che sarà più rapido? Noi senza una traccia da seguire, o chiunque Xemnas ci manderebbe dietro? Abbiamo bisogno di un aiuto da fuori – di qualcuno che abbia davvero una possibilità contro…»
Anche senza che Xion finisse la frase, era chiaro a chi si stava riferendo. Xemnas e la sua cerchia stretta non sarebbero stati affatto facili da affrontare.
«Già, mi sa che hai ragione.» Roxas abbassò la testa in segno di resa.
Rimasero tutti e tre zitti e rassegnati, poi Shiro alzò le braccia e strinse Xion con il sinistro e Roxas col destro.
«Non puoi mai sapere quando le cose inizieranno ad andare male.» Finito il suo gelato, Axel fissò i ragazzi. «Non puoi mai sapere quale tramonto sarà l’ultimo. Possiamo… solo cercare di essere felici con il tempo che abbiamo, qui e ora.»
Shiro lasciò andare i suoi amici e si sporse un poco in avanti per guardarlo in faccia.
«Axel, ma quella storia?» riuscì a chiedergli prima che Xion le mettesse un braccio davanti per impedire che si sporgesse ulteriormente.
Axel si strinse nelle spalle. Non lo avrebbe mai detto ad alta voce…
… ma lui stesso iniziava a dubitare della sua veridicità.
Aveva creduto fino a poco tempo prima che il “nulla” che aveva sentito fosse perché aveva perso il cuore. Probabilmente era stato così… o forse, quella sensazione familiare era stata la stessa che aveva provato quando suo padre e sua madre non erano più tornati a casa.
Sentiva qualcosa, in quel momento. Sollievo per essere riuscito a portare i ragazzi a casa, al sicuro. Paura per quello che sarebbe potuto accadere il giorno dopo – conoscendo Saix, se non era riuscito a farci scappare il morto quel giorno, avrebbe cercato di farli uccidere in un altro modo il successivo. Preoccupazione per quello che sarebbe successo a Shiro, che secondo i rapporti dei Sicari ora – senza saperlo – sparava la “luce fulminata” dal palmo ogni notte.
Probabilmente, la bambina stessa aveva iniziato a sentirsi minacciata senza davvero esserne cosciente.
Non seppe dire per quanto rimasero sul bordo del cornicione, nonostante l’orologio fosse sotto i loro piedi e le campane rintoccavano ogni quarto d’ora. Aveva perso il conto e non gli importava.
Alla fine, quando tornarono al Castello, Shiro stava stringendo saldamente le mani di Roxas e Xion, e non dava segno di volerli lasciare andare nelle loro stanze.
Quando Axel si fu scrollato di dosso Saix, che aveva le sue scatole da rompere perché lui “si era intromesso”, e tornò a controllarli, li vide raggomitolati come tre gattini nel letto di Shiro, persi nel sonno dopo la stanchezza della giornata.
“… Ragazzi, che partita oggi! Il nostro Cloud è proprio il campione del giorno!... ”
“… Zack, andiamo, ora mi fai arrossire…”
“… Uhm, Lea… sei il mio migliore amico e ti voglio bene, ma sei sicuro che il divano non cederà?.... ”
“… KAIRI! Quello era l’ultimo biscotto! Ora ti prendo e ti tiro su per i piedi, lo hai memorizzato?...”
Una vita prima, la nonna li aveva ritrovati tutti e quattro ammucchiati a dormire sul divano, Cloud ancora con la divisa da baseball addosso, lui, Isa e Zack con la faccia piena di pittura da stadio e briciole di biscotti, in pace con il mondo, prima che le cose iniziassero a precipitare.
Alzò un pugno alla bocca e se lo morse, cercando di trattenere il nodo alla gola, anche se probabilmente anche stavolta non sarebbero uscite lacrime.
La storia si stava per ripetere, e lui non poteva farci niente.
 
GIORNO 353
 
«… ora siamo rimasti con quello inutile.»
«Roxas non è inutile, la smetti di dire queste cose?»
Prima che Roxas potesse ribattere, Shiro marciò tra lui e Saix e lo fulminò con lo sguardo. Anche lei sembrava confusa quanto lo era Roxas, ma quello era normale, considerando che non le veniva mai detto nulla.
Ora, restava da capire perché Xion, che quella mattina era partita in missione con Axel e Xigbar, non era nella stanza.
«Non ho chiesto la tua opinione.» Saix guardò Shiro dall’alto in basso.
Fu allora che Shiro sembrò accorgersi che qualcosa non andava.
«Dov’è Xion?» chiese, stringendo un pugno. Roxas cercò di fare del suo meglio per calmarla – forse, se fosse stato lui a spiegarle cosa poteva essere successo…
«Axel dice che è scappata…» le rispose in tono mesto.
Fece per prenderle un braccio, ma Shiro portò via la mano dalla sua presa. Roxas si era sempre chiesto cosa lo differenziasse dai Qualcuno, e in quel momento credeva di avere la risposta. La ragazza stava visibilmente tremando, entrambe le mani strette a pugno e le ginocchia piegate, in una posizione che lasciava presumere un attacco o una difesa.
«Scommetto che è colpa tua!» La ragazza apostrofò Saix. «Tua e di quella brutta pantegana! Sei contento ora? È andata via, non è quello che volevi?»
Aveva gli occhi sbarrati, la voce rotta e il corpo proteso in avanti, e i suoi occhi erano pieni di lacrime.
«Mi avete fatto perdere un’amica!» aggiunse, con il labbro che le tremava.
Roxas non aveva mai visto Saix arrabbiato come in quel momento – se arrabbiato era il termine. Se le occhiate avessero potuto incenerire, probabilmente avrebbe potuto ammazzare sia lui che Shiro.
«Non è mai stata una tua amica.» Ringhiò. «Non è nemmeno un essere vivente. È un fantoccio. È finta, come quel lurido Moguri che ti porti dovunque!»
Un fantoccio? Finta?
Cosa voleva…
Roxas stava per dire qualcosa, ma davanti a lui Shiro scattò. Protese la mano sinistra in avanti e balzò verso Saix con il pugno destro alzato.
Il ragazzo fece appena in tempo a prenderla, circondandole le spalle con le braccia, e il pugno che Shiro aveva caricato per Saix per poco non andò a schiantarsi sulla sua faccia.
Finta… un fantoccio… non poteva essere… e allora perché Shiro era così arrabbiata?
Persino Axel e Xigbar non sembravano voler intervenire – il primo era inchiodato sul posto, con un’espressione attonita in volto, l’altro aveva un ghigno sul volto sfregiato e rideva.
Fu forse la risata di Xigbar a scatenare qualcosa. Un momento prima, il guercio fissava Shiro e rideva. Un attimo dopo, un lampo di luce era partito dalla mano di Shiro, e Xigbar aveva alcuni ciuffi di capelli in fiamme.
«Cosa aspetti, pezzo di rimbambito?» Xigbar latrò ad Axel, cercando di spegnersi i capelli con le mani. «Chiudila in camera!»
Axel prese la bambina per un polso, ma Shiro non smise di lottare, il suo sguardo fisso su Saix, il volto rigato dalle lacrime.
«TI ODIO
 
Diario di Roxas
Axel ha permesso a Xion di lasciare l'Organizzazione, come se volesse che andasse via.
È davvero un fantoccio? Uno specchio che riflette la mia immagine?
Sta dicendo un mucchio di sciocchezze.
NON POSSO PIÙ FIDARMI DI LUI.
 
GIORNO 355
 
Roxas si decise finalmente a rallentare, dopo aver corso da quando aveva varcato la porta del Castello. Era fuori. Fuori.
Si sfregò il volto con una manica. Qualcosa gli gridava nella mente di voltarsi, tornare indietro, salvare Shiro… ma no, l’avrebbe soltanto messa in pericolo. Non era in grado di difendersi, e se doveva fuggire, doveva essere rapido.
«Ti sei deciso?»
La voce familiare di Axel lo fece fermare sui suoi passi.
«Perché il Keyblade ha scelto me? Devo saperlo.» gli ribatté, voltandosi a stento.
L’espressione di Axel era disperata.
«Non puoi tradire l’Organizzazione! Ti distruggeranno se te li fai nemici!»
Fu allora che Roxas gli voltò le spalle. Non sopportava più di guardarlo in faccia.
«C’è solo una persona a cui mancherei, e il suo posto non è qui.»
Sperava che Shiro stesse bene. Se davvero Axel l’aveva tenuta con sé da quando era “talmente piccola che gli arrivava solo alle ginocchia”, probabilmente lei, di Axel, si sarebbe potuta fidare.
«Abbi cura di lei.»
Continuò a camminare, senza più voltarsi indietro.
 
GIORNO 357
 
Erano due giorni che Roxas era andato via.
Shiro non aveva neanche avuto la possibilità di salutarlo – dopo quello che aveva fatto ai capelli di Xigbar, era stata chiusa in camera per quattro giorni, chiusa letteralmente a chiave.
Non aveva avuto bisogno della coscienza per capire che avevano tentato di farle evocare il Keyblade con quella punizione – se era riuscita a dare fuoco a Xigbar, probabilmente avevano pensato che sarebbe mancato poco a vedere altro.
Alla fine era stato Axel ad aprirle la porta, la sera prima. L’aveva abbracciata e le aveva ammesso di aver fatto una cosa che non avrebbe mai voluto fare – qualcosa che gli era stato imposto.
Era rimasto ferito – c’erano segni di arma da taglio sulla sua cappa. E forse, ora che Roxas e Xion non c’erano più, sarebbe tornato ad essere apatico come lo era stato prima.
Ragni, serpenti, scorpioni e zanzare… se io rompo il mio voto, ch’io possa crepare.
Ma Shiro si sentiva peggio a vedere Axel ridotto come prima. Specie dopo quello che lei aveva detto a Saix – o dopo che lo stesso Saix non accennava a tornare quello che era stato.
Doveva sapere che sua sorella forse era ancora viva.
«Axel, devo dirti una cosa.»
Shiro si fermò sulla soglia della camera. Axel era sdraiato sul letto, con una nuova cappa a coprire le ferite del giorno prima, ma alzò la testa quando la vide alla porta.
«Hey, funghetto. Cosa c’è, ti senti sola?» Si alzò a sedere. Stava sorridendo, ma Shiro era troppo abituata a vederlo fingere per credere che quel sorriso fosse vero.
«Due mesi fa ti ho spiato. Quando hai parlato con Saix e lui ti ha detto che tua sorella era…»
«Oh.» Axel abbassò lo sguardo. «Sapevi già tutto, allora. Sapevi che Xion…»
«Sì, e non ci credo. È vera quanto me e te, lei.» Shiro si sedette sul letto accanto ad Axel. «Anzi, ha scoperto qualcosa parlando con Riku. Qualcosa che voleva che tu sapessi. Mi aveva detto di aspettare, ma non ce la faccio.»
Axel sbuffò.
«Allora forse è meglio che aspetti.» Le sfiorò i capelli con una mano.
«Ma, Axel…»
 
Siete i miei migliori amici. Non dimenticarlo mai. È la verità.
 
Fece per parlare, ma… cosa stava dicendo? Dove erano rimasti?
Si sentiva come se avesse perso il filo del discorso.
«Cosa, funghetto?» Axel le chiese perplesso. «Di che stavamo parlando?»
«Io non… lo so…»
Si sentiva come se avesse scordato qualcosa di importante, o come se fosse successo qualcosa.
Probabilmente lo era, perché un Simile entrò nella stanza ondeggiando e sibilò nella sua favella incomprensibile che erano convocati nella Sala Circolare.
Sì, tutti e due.
«Questo vuol dire solo una cosa.» Axel brontolò e si mise in piedi. Aveva un’espressione grama sul volto, come se sapesse che li aspettava qualcosa di brutto.
«Cosa?» Shiro non capiva. Era la prima volta che veniva ammessa in quella stanza, e faticava a comprendere quale fosse il male in ciò.
«Ci manderanno a prendere Roxas.»
 


Nel prossimo - e ultimo - capitolo "Quando Saremo Grandi"

«La batterò, damerino. E senza nemmeno sudare!»

«L'Organizzazione ha perso una battaglia, ma non la guerra.»

È l'ora che inizi il mio viaggio.

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Capitolo 10
*** Quando Saremo Grandi ***


E questa prima avventura sta arrivando alla sua conclusione!
Grazie a tutti i lettori, sia a quelli che leggono in silenzio che a quelli che commentano, a quelli che seguono e a quelli che hanno dato una lettura occasionale.
You rock. ;)
(e ovviamente grazie a chi ha scritto e betato con me, e ai ragazzi che hanno ispirato la storia…)
 
… io non metterei via i fazzoletti, se fossi in voi.
 
Legacy – Capitolo 10
Quando Saremo Grandi
 
«Ripassiamo, Shiro. Cos’è che devi fare?» Axel le mise nelle mani la sua mazza da Struggle.
«Arrivo in finale, mi scontro con Roxas e gli dico che deve tornare a casa. Giusto?» Shiro annuì.
Axel sorrise – il suo sorriso forzato, ma era sempre meglio di vederlo abbandonato in camera.
«Brava, funghetto! Lo hai memorizzato!»
Roxas era dall’altra parte del palco eretto sul ring di sabbia, intendo a discutere con tre ragazzi della sua età. Shiro li aveva già visti nella vera Crepuscopoli, e se non ricordava male, i loro nomi erano Pence, Hayner e Olette, e Pence sembrava il personaggio di un vecchio film.
Le riusciva difficile credere che tutto attorno a lei, tutti attorno a lei, salvo Axel e Roxas, fossero finti come Mister Kupò. Che la Crepuscopoli attorno a loro era stata interamente costruita da un computer.
«Allora, quel Seifer là contro cui ti hanno messa, sembra un duro grande e grosso, ma non scordarti che è fatto al computer.» Axel le mise le mani sulle spalle, facendo un altro sorrisetto. «Un bug o due nel suo codice e cadrà come una pera cotta non appena lo colpisci. È a Roxas che dobbiamo arrivare. Gli parli, lo prendi per mano, e ce ne andiamo.»
«Quando si ferma il tempo?»
«Quando si ferma il tempo.» Axel le mise una mano sulla spalla, poi le fece fare un passo in avanti.
Sul palco adibito a ring, il negoziante del mercato delle armi, Biggs, stava iniziando ad annunciare.
«Bene, è ora di presentare i combattenti di oggi! I quattro ragazzacci che si sono fatti strada nei preliminari!»
Shiro fece una mezza smorfia. Non era esattamente quello che si diceva un ragazzaccio, lei, ma se era lì per una ragione, non le importava più di tanto.
«Finalista abituale e capo del Comitato Disciplinare di Crepuscopoli… Seifer!»
La mano dell’annunciatore indicò il più grosso dei quattro contendenti, un ragazzone con un cappello calato in faccia e un’aria quasi cattiva. Per certi versi, Shiro aveva un po’ paura di lui, ma quello che Axel le aveva detto sulla simulazione la rassicurava.
«L’imprevisto dell’anno… non ha ancora colpito l’adolescenza, ma di certo sa tirare colpi se è arrivata qui… Shiro!»
Risuonò un tiepido applauso, e gli altri tre concorrenti guardarono il suo angolo. Istintivamente, Shiro cercò Axel con lo sguardo dietro di lei, ma lui si era dileguato.
La ragazzina si girò di nuovo verso Roxas, ma a parte un’occhiata curiosa verso di lei, il suo vecchio amico non dava segno di riconoscerla.
«Quanti anni avrà?» Shiro sentì Olette chiedere a Pence. Sembravano quasi preoccupati per lei.
«Il preferito dei bassifondi, nonché il più sfrontato di Crepuscopoli: Hayner! È la prima volta che arriva in finale!»
In quel momento, Roxas si concentrò nuovamente sul terzo sfidante, Hayner. Sembrava abbastanza legato a lui per come lo guardava.
«E il contendente numero quattro, che si da il caso sia il mio cliente preferito, Roxas! Allora, chi vincerà lo scontro più bollente dell’estate?»
Il presentatore fece gesto ai partecipanti di avvicinarsi al tabellone. Hayner era all’estrema sinistra, Roxas accanto a lui, e Shiro prese posto tra lui e Seifer. Nonostante fossero talmente vicini da potersi sfiorare, Roxas non la guardava nemmeno.
«Ma che gli prende adesso?»
Non lo so. Ma non parlargli davanti agli altri,” la sua coscienza la ammonì.
L’annunciatore ripeté loro le regole e consegnò loro le mazze e delle sorta di protezioni con attaccate sopra delle palline coperte di velcro. Da quanto sembrava, lo scopo del gioco era di rimuoverne quante più da addosso all’avversario, e se questo significava colpirlo, Shiro era certa di poterci riuscire.
D’altra parte, era quasi un anno che si era allenata a tirare colpi di spada con Roxas e… a tirare colpi di spada con Roxas.
I primi a battersi furono Roxas e Hayner.
Lo scontro sembrava quasi prevedibile: quell’Hayner doveva essere una testa calda, perché tendeva a perdere il controllo e a trascurare la difesa. Roxas fu a dir poco rapido a staccargli quasi tutte le palline di dosso prima che venisse fischiata la fine.
Shiro e Seifer vennero chiamati sul ring mentre Roxas aiutava Hayner ad alzarsi e i due amici iniziavano a scherzare tra loro. Quando Seifer oltrepassò Hayner, il ragazzo riccioluto prese a schernirlo e a chiedergli se avesse fretta di perdere.
Shiro passò davanti a Roxas, accennando un gesto di saluto. Il ragazzo sollevò un angolo della bocca in un sorriso, ma sembrava più che altro di educazione.
«Devi sperare che vinca la piccola, Roxas, almeno avrai uno sfidante simpatico!» Hayner commentò prendendo l’amico per un braccio e allontanandosi dal palco. «Mi chiedo però che ne penserà lui quando verrà stracciato da una bambina…»
«La batterò, damerino.» Seifer sibilò veleno all’indirizzo di Hayner e Roxas. «E senza nemmeno sudare!»
Hayner, ormai con Roxas fuori dal ring, si limitò a ridacchiare.
Ancora nessuna reazione da Roxas.
Avanti, Shiro. La dodicenne si mise in guardia. Devi battere questo burino per parlare con Roxas.
L’arbitro segnalò il via, e Shiro si mise immediatamente in guardia.
Non poteva essere più difficile di tutte le volte che lo aveva fatto con Roxas – doveva solo resistere un minuto.
Sembrava che il suo avversario fosse più che intenzionato a sfruttare la sua stazza maggiore per prevalere – bene, Shiro sapeva cosa fare in un caso del genere.
Roxas le aveva insegnato a rotolare via dal pericolo. Ad essere veloce abbastanza da contrattaccare dopo una parata. Strappò due palline a Seifer, se le attaccò addosso con la mano libera, e poi fuggì lontano, schivando il resto degli attacchi e con qualche contrasto quando non le era possibile correre.
Mai dare le spalle.
Il fischio conclusivo sembrava non arrivare mai, ma quando finalmente le venne detto di smettere, era in vantaggio.
«Non ci credo!» Hayner esclamò da sotto al palco. «Ci è davvero riuscita!»
«Deve aver avuto un bravo insegnante, o comunque ha una buona tecnica. Quei colpi sembravano un po’ come i tuoi, sai Roxas?» Pence commentò dando di gomito all’amico.
Davanti a Shiro, Seifer sembrava quasi gonfio d’ira. Girò i tacchi e scese dal palco a testa bassa. Mentre si faceva strada nella folla a manate, Shiro sentì Hayner che gli urlava: «Le hai proprio prese stavolta, eh “grande capo”? E da una bambina per giunta!»
Shiro soppesò la mazza nella mano e ripassò mentalmente il piano. Combattere come se fosse tutto normale. Aspettare che il tempo venisse fermato. Parlare con Roxas solo allora. Portarlo via di lì. Agire in fretta. Andare via.
Roxas salì sul palco e l’annunciatore riprese a parlare.
«Questo è il momento che stavamo aspettando, signore e signori! È l’ora della finale! Gli unici due concorrenti rimasti sono Shiro e Roxas! Chi dei due si aggiudicherà la vittoria?»
«Non ci andrò piano, per niente» Shiro squadrò Roxas e gli fece un sorriso di sfida. «Shiro, piacere... tu sei Roxas immagino.»
Roxas non fece una piega, ma sorrise di rimando. «Ho visto come hai conciato Seifer… credo che inizierà a portare un sacchetto in testa.»
«Il merito è dell’insegnante.» Shiro volse lo sguardo al pubblico. Era calato il silenzio in attesa del via, ma si stavano ancora muovendo. Li stavano ancora guardando e ascoltando. «Un po’ mi dispiace per quel burino, però.»
«Naaah, ha avuto quel che meritava.» Roxas ridacchiò.
Ancora non dava segni di riconoscerla.
Al via, Roxas partì immediatamente con un fendente, cercando di colpire Shiro al fianco destro, ma lei se lo aspettava. Era stato uno dei primi attacchi che le aveva insegnato a schivare, e non fu difficile scartare verso sinistra, fare un passo indietro e mantenere la mazza verso il lato che Roxas intendeva colpire.
Shiro quasi si concesse di sorridere vedendo l’espressione sconcertata del ragazzo.
Si stava trattenendo o davvero non ricordava nulla?
Ruotò il polso e iniziò un contrattacco. Roxas fu rapido a chiudere la guardia, ma la smorfia sul suo volto tradiva una certa perplessità.
Quando tornò sull’offensiva, tuttavia, il ragazzo sorrideva. Sembrava si stesse iniziando a divertire.
«Perché non ti unisci a noi dopo il torneo?» Le chiese, tra un colpo e l’altro. «Olette sarebbe contenta di avere un’altra ragazza in gruppo!»
Cosa stava dicendo? Davvero non ricordava nulla? Shiro voleva dirgli di smetterla, di piantarla con la recita, ma attorno a loro, gli abitanti della città virtuale ancora si muovevano e urlavano il loro tifo, e non poté che rispondergli un incredulo: «Davvero?»
«Beh, ai ragazzi stai già simpatica.» Roxas parò il suo colpo e caricò subito un fendente dall’alto.
Shiro alzò la mazza per parare. Sarebbe stato bello far parte di una comitiva del genere, se solo fosse stato vero. Forse, quando tutto si fosse aggiustato, sarebbe stata una possibilità. Come sarebbe potuto essere un futuro in cui avrebbero potuto mangiare il gelato ogni giorno senza missioni che li separassero, senza che Roxas tornasse malconcio o di umore pessimo, o con un qualche problema da risolvere?
Voleva solo il suo migliore amico indietro.
«Mi piacerebbe. Tu sei…»
… il mio migliore amico…
Si aspettò il fischio di fine partita da un momento all’altro. Non aveva più contato le palline, anche se era certa che Roxas gliene avesse tolte di dosso parecchie – era rimasta più impegnata a cercare di parlargli che a cercare di parare.
Il fischio non venne. Invece, nell’arena calò il silenzio assoluto.
«Roxas…» Shiro abbassò subito la mazza e si guardò intorno. Dov’era Axel quando avrebbe dovuto spiegare?
Il ragazzo si guardò attorno smarrito. «Che succede? Perché nessuno si muove?»
Era il momento. Doveva dirglielo ora.
Shiro abbassò la guardia e portò al fianco il braccio che reggeva la mazza - secondo la sua coscienza, per mostrare fiducia avrebbe dovuto mostrarlo con il linguaggio del corpo - poi sollevò lo sguardo e si schiarì la gola.
«Roxas, so che non mi credi, o magari non lo ricordi soltanto, ma… tu eri il mio migliore amico.» Era come farsi tirare un dente che ballava, ma Shiro continuò a parlare. «Fino a qualche giorno fa andavamo sempre a mangiare il gelato insieme, mi hai insegnato tu a combattere con la mazza. Tu sei il mio migliore amico
Shiro si sentiva gli occhi pieni di lacrime e avrebbe voluto che lui la abbracciasse, ma Roxas fece due passi indietro, visibilmente confuso. Aveva gli occhi sbarrati e passava lo sguardo da Shiro ai suoi amici nella folla immobile.
Fu allora che Axel si decise a ricomparire.
«Vuoto di memoria con la V maiuscola, eh?» commentò apparendo alle spalle di Roxas, il volto celato dal cappuccio, e camminando verso di loro. «Davvero non ti ricordi?»
Roxas si girò di scatto, i suoi riflessi affinati da un anno di missioni che non ricordava.
«Non ricordi nemmeno lui?» Shiro passò lo sguardo da Roxas ad Axel.
«Sono io… Axel!» Axel si tolse il cappuccio e fissò Roxas con quello che poteva sembrare un sorriso, ma era un'espressione che Shiro non gli aveva realmente visto.
«Aspettate un momento!» Roxas si girò di novanta gradi, in modo da poter guardare sia Axel che Shiro in faccia. «Ditemi che sta succedendo!»
«Roxas, tu sei il mio migliore amico. Vivevamo nello stesso posto, che non è questo. Anche lui è tuo amico, si chiama Axel. A-x-e-l. Lo hai memorizzato?» Shiro fece un altro tentativo, imitando Axel finanche nei gesti.
Ma Roxas non sembrava rispondere.
Fu abbastanza perché Axel si facesse serio.
«Questa città è la sua creazione. Non c'è tempo per le domande.» Tese le braccia, e fiamme gli partirono dalle mani. «Verrai con noi, da solo o di peso.»
«Axel, no.» Shiro scosse la testa e si mise istintivamente a camminare, in modo da mettersi tra i due.
«Poi ascolterai la storia.» Axel non la sentì. Le fiamme che gli erano partite dalle mani si erano condensate a formare i suoi chakram.
Shiro, no!” la coscienza le urlò nella testa mentre lei accelerava il passo, mazza alzata nel tentativo di intercettare Axel.
«Shiro, sì!» La ragazzina gli ribatté senza fermarsi.
Un momento prima, Axel stava andando loro addosso, con il momento dello scatto che gli impediva di fermarsi.
Ci fu un lampo di luce, un rintocco di metallo su metallo, e Shiro cadde all'indietro addosso a Roxas, facendo crollare entrambi sul pavimento del ring con la bambina seduta in grembo al ragazzo.
Ma anche Axel era stato sbalzato indietro.
Non era caduto, era solo barcollato qualche passo indietro, ma fissava Shiro e Roxas, attonito, con gli occhi sbarrati.
«No… non ora, maledizione!»
Stava fissando le mani di Shiro. A sua volta, la ragazzina si guardò in mano, e non c'era nulla di strano - era solo la sua mazza, che puzzava di bruciato e aveva sul lato un buco bordato di nero che ancora bolliva e fumava.
Non sembrava che Axel ci avrebbe riprovato, ma per buona misura Shiro si rimise in piedi e aprì le braccia, noncurante della mazza inutile.
«Non fargli del male, Axel! È nostro amico!»
Si aspettava che Axel le dicesse di togliersi, ma lui rimase sul posto, immobile, come se per la prima volta dopo tanto tempo non sapesse più cosa fare.
Shiro girò leggermente la testa verso Roxas.
«Mi credi adesso?» sbuffò.
«Anche tu…?» Roxas sembrava attonito quanto Axel. Ma qualcosa sembrava aver scattato nella sua mente, perché tese il polso che reggeva la mazza, e una serie di codici vi fluttuarono attorno, trasformando il giocattolo nel suo Keyblade. «Prima… la tua mazza era simile a questo.»
Fece un sorriso amaro.
«Non mi ricordo di te, Shiro…» Tirò un sospiro. «Tu ricordi come mi muovo, ti sei messa in mezzo e hai anche tu un Keyblade…»
«Non credo fosse un Keyblade vero e proprio.» Shiro mostrò la sua mazza, rotta oltre ogni speranza di ripararla.
«Ma…» Roxas mormorò. «Tutto questo non può essere un caso. Sembra uno dei vecchi film di Pence.»
«Non abbiamo tempo, ragazzi!» Axel si avvicinò a loro, ma in quel momento Roxas alzò il Keyblade.
«Non ho detto di riconoscere te.» Roxas digrignò i denti. «Potresti averla rapita, per quanto so.»
Axel non si mosse, ma fissò Roxas come se anziché dalle parole fosse stato colpito dall’arma.
Fu allora che nell’aria si sentì un ronzio, come di statico della TV, e dietro di loro apparve un uomo ammantato in rosso che Shiro aveva già visto.
«Roxas, quell’uomo delira!» DiZ, il vecchio pazzo che aveva cercato di rapire Shiro, tuonò all’indirizzo del ragazzo.
«Via, ragazzi, ORA!» Axel sembrava sempre più atterrito.
Roxas rimase piantato al suo posto, ma Shiro fece per scattare via. Non aveva fatto qualche passo che un’altra figura incappucciata, una che non riconosceva, la strinse al polso in una presa di ferro.
«Ora se non ti dispiace, Nessuno, porteremo la bambina al luogo a cui appartiene.» DiZ lanciò ad Axel un’occhiata di puro disgusto.
L’aria si riempì nuovamente di statico – ma era veramente aria? – e DiZ e Axel sparirono.
La piazza era di nuovo piena di urla e schiamazzi, Roxas aveva nuovamente in mano una mazza di gomma e quella che Shiro stringeva nel pugno era intatta.
Anche lo straniero era lì, e continuava a tenerla per il polso.
«Lasciami!» Shiro urlò immediatamente. Se era un uomo di DiZ, non poteva essere dalla sua parte – e Roxas l’avrebbe difesa, doveva farlo…
«Basta bravate, Shiro, ti porto a casa.» Lo sconosciuto le latrò da sotto il cappuccio. Per quanto apparisse grosso sotto al mantello, la sua voce era familiare.
Non era uno sconosciuto – era Riku, il ragazzo del castello.
«Hey! Che succede?» Roxas marciò verso di loro, mazza in resta.
«Ti ha dato fastidio?» Riku, senza togliersi il cappuccio, sostenne lo sguardo di Roxas e rispose in tono gentile. «L’ho cercata tutta la mattina. Devo riportarla da sua madre.»
Prima che Roxas potesse dire altro, Riku si scusò rapidamente con l’annunciatore, prese Shiro per le spalle e la portò via per il vicolo più vicino.
Passarono sotto un arco e la città attorno a loro prese a dissolversi, fino a mutare in una asettica stanza buia illuminata soltanto dagli schermi di un computer.
«Quindi era per questo che la tenevano con loro.»
DiZ, seduto davanti agli schermi, fissò Shiro con l’unico occhio che teneva scoperto.
«Il Re mi ha raccontato dei suoi genitori.» Riku disse. «Di come entrambi portavano la chiave. Se è vero che Xehanort intendeva usare il Keyblade per i propri fini, e ha già tentato di usare Sora…» Abbassò la testa. «Shiro, mi dispiace.»
 
Maledizione.
Era tutto quello che Axel riusciva a pensare.
L'operazione Roxas non era solo andata male - semplicemente non sarebbe potuta andare peggio.
Non solo Roxas non ricordava nulla e si era rifiutato di seguirli. Non solo aveva perso anche Shiro, che Saix aveva svergognatamente definito come "la migliore esca per riprenderlo".
No, ora il funghetto aveva anche quasi evocato il Keyblade per difendere il suo amico.
Axel fu quasi contento che Riku l'avesse presa - in una situazione del genere, il Superiore avrebbe molto probabilmente cambiato gli ordini, fatto qualcosa per legare la bambina a doppio filo con l'Organizzazione… e dato l'ordine di eliminare Roxas, forse persino alla stessa Shiro.
Quando Xemnas avrebbe saputo che Shiro aveva quasi evocato il Keyblade…
No.
Se l’avesse saputo.
Axel e Roxas erano gli unici testimoni dell’evento, Roxas era praticamente perduto, e Axel si sarebbe fatto scuoiare prima di confessarlo.
Non avrebbe perso qualcun altro.
 
Pensando a te, ovunque tu sia.
Preghiamo perché questa sofferenza abbia fine, nella speranza che i nostri cuori si riuniscano.
Ora io realizzerò questo desiderio. E chissà… ricominciare a viaggiare non è poi cosi difficile.
O forse il mio viaggio è già iniziato.
Ci sono tanti mondi, ma tutti condividono lo stesso cielo.
Un solo cielo, un solo destino.
 
«Inizia per S… giusto, Sora
 
Roxas stappò una boccetta di Pozione con i denti, sputò via il tappo lontano e vuotò il contenuto della bottiglia in un solo sorso.
Servì a ben poco per la morsa che gli aveva preso tutte le viscere e la nausea che lo tormentava da quella mattina, ma le ginocchia presero a tremargli di meno, e le ustioni che aveva su braccia e gambe presero a ritrarsi come la bassa marea.
Non sapeva quale fosse stata la notizia peggiore di quel giorno, e quei brevi momenti in cui, appena sveglio dopo una notte di incubi e dormiveglia, non era stato sicuro di riconoscere il suo aspetto, avrebbero dovuto essere il presagio che tutto sarebbe precipitato.
Non essere né visto né sentito dalle tre persone che erano tutto il suo mondo, scoprire che non era mai stato in quella foto… Axel, che secondo le ragazze Naminé e Shiro era il suo migliore amico, aveva cercato di ammazzarlo, più volte, per gli ordini di quella maledetta Organizzazione XIII da cui a quanto pareva lui era fuggito.
E non ricordava nemmeno perché.
Probabilmente, si disse passandosi i ricordi recentemente riavuti, perché Shiro – Shiro! Le aveva insegnato lui a combattere, ecco perché conosceva ogni sua mossa! – era stata rapita dal Superiore Xemnas che si spacciava per suo padre.
Ricordava il sapore del gelato, un pomeriggio di sole seduto tra Shiro e Axel, e i piani di andare via lontano, alla ricerca dei genitori della bambina.
Quel tentativo non doveva essere affatto andato a buon fine.
Il colpo più duro, però, era stata la rivelazione di Naminé.
“Roxas, i Nessuno come noi sono solo persone a metà.”
Aveva già sentito quella parola. DiZ l’aveva usata per insultare Axel alcuni giorni prima, ma Roxas non aveva immaginato che significasse qualcosa.
Invece, lui era un Nessuno. Altri ricordi, tornati alla sua mente davanti al computer che glieli aveva strappati, gli avevano riportato alla memoria che i Nessuno – quelli come lui – erano ombre lasciate dalla corruzione delle persone, esseri incapaci di provare sentimenti.
Allora perché le ginocchia gli tremavano? Perché era preoccupato per dove fosse Shiro adesso, per cosa le fosse successo? Perché si sentiva le budella ridotte a pappina, perché aveva gli occhi pieni di lacrime e voleva gridare?
Perché aveva paura di sparire?
Fino a pochi minuti prima, Roxas aveva sperato che Axel lo prendesse con sé, gli desse un abbraccio forte e gli dicesse che tutto sarebbe andato bene.
Una parte di sé stesso gli diceva che era quello che facevano gli amici.
Un’altra, disillusa e disgustata, lo aveva intimato di non fidarsi.
Era finita con lo stesso amico che Roxas aveva sperato avrebbe asciugato le sue lacrime, che invece aveva alzato le sue armi contro di lui, e spinto Roxas a fare lo stesso, a combattere e a sconfiggerlo per qualcosa che in fondo al cuore – se ne aveva uno – sapeva già essere inutile.
Trovò un’altra Pozione nelle tasche, la stappò e la bevve. Se davvero DiZ lo voleva fare secco, Roxas se ne sarebbe andato a testa alta. Le ultime chiazze rosse che aveva sugli arti sbiadirono nella pelle.
Era il momento.
Attraversò la stanza dalle pareti metalliche e appoggiò la mano sulla porta scorrevole, che si aprì rivelando un corridoio la cui parete sinistra era coperta da baccelli di vetro che andavano dal pavimento al soffitto.
La stanza sfarfallò per un momento, muri e pavimento distorti dallo statico, e qualcuno apparve in mezzo al corridoio.
Roxas fece per alzare la mano, ma davanti a lui Shiro si strinse nelle spalle, chiuse i pugni, alzò la testa e fece: «Ehi...»
Quasi tutto il peso che Roxas aveva sullo stomaco sembrò svanire. Shiro era lì. Stava bene!
«Shiro!»
Corse subito verso di lei, fermandosi solo quando ebbe una mano sulla sua spalla. L'avrebbe abbracciata, ma la paura di essere nuovamente aggredito dopo Axel era troppo forte.
«Roxas!» Shiro non sembrava dell'idea però, perché allungò le braccia a sua volta e lo strinse forte in un abbraccio. «Sei uno stupido! Pensavo non ti avrei più rivisto!»
«Mi dispiace, Shiro… mi dispiace…» Roxas avrebbe voluto dire molto altro, ma non ci riusciva.
Poteva soltanto immaginare quanto dovesse averla ferita non riconoscendola durante il torneo. Le cose che le aveva detto… le reazioni da cretino che aveva avuto…
«Sto bene, non devi scusarti.» Shiro lo lasciò andare e sorrise. «Sono io che dovrei chiedere scusa, ho quasi combinato un disastro.» Tirò su con il naso.
«Va tutto bene.» Roxas le prese le mani e tirò su col naso a sua volta. «Basta che tu sia al sicuro adesso. Perché lo sei, non è vero?»
Shiro fece sì con la testa.
«Quel DiZ è matto come un Chocobo. Con i mezzi che ha, anziché passare un anno a cercare di svegliare un adolescente senza addestramento, avrebbe potuto trovare i tuoi.» Roxas alzò gli occhi al cielo. «Shiro, mi prometti che farai la brava?»
«Non puoi dirglielo? Possiamo ancora trovare un modo…» Gli occhi di Shiro si stavano riempiendo di lacrime. «Io… non voglio che tu sparisca. Io ti… io ti voglio bene!»
Roxas fece un passo indietro e le lasciò le mani.
«Non so quando ci rivedremo, Shiro, ma farò tutto il possibile per tornare.» Cercava di mantenere un tono normale, ma un nodo alla gola gli faceva uscire le parole a singhiozzi. «Resta in attesa. Tieni d'occhio quello scemo di Sora per me. E ti prego… sii felice.»
Si girò e camminò a passi lenti verso l'ultima porta.
«Sora…» Sentì Shiro che mormorava. «Roxas, troverò la mia mamma, lo prometto! E quando l'avrò trovata, ti veniamo tutte e due a riprendere. È una promessa, testone che non sei altro! Una promessa!»
 
Il trasportatore del computer emise un fascio di luce e Shiro ne uscì fuori, con il volto rigato dalle lacrime e in preda ai singhiozzi.
Riku spense cautamente il terminale e poi camminò verso di lei, lasciando che la bambina gli piangesse addosso.
Era praticamente tutto finito, ma il giovane non riusciva ad essere felice.
Sora stava per svegliarsi, ma non lo avrebbe più rivisto. E Shiro aveva perso qualcuno a cui teneva. Qualcuno.
Riku aveva seguito alla lettera i piani e gli ordini di DiZ, ma nonostante l'oscurità lo avesse preso, non aveva avuto il cuore di portarli a termine con l'ultimo ordine.
Naminé e Axel gli ricordavano troppo qualcuno di importante - gli ricordavano troppo Kairi - per permettergli di alzare la spada contro di loro. E non meritavano nemmeno di morire.
Sora si sarebbe svegliato da un momento all'altro, e quella villa semidistrutta era l'ultimo posto dove Riku avrebbe voluto restare.
«Hey, Shiro,» chiese alla ragazzina. «Ti va di mangiare un gelato?»
 
Dieci minuti dopo erano in fila davanti al chiosco dei gelati, dietro a due dei tre ragazzi di Crepuscopoli le cui copie digitali DiZ aveva designato come comitiva per Roxas nella città virtuale.
«Pence è in ritardo.» il ragazzo biondo stava dicendo alla ragazza.
«Dobbiamo prenderglielo comunque, lo sai che non ci perdonerà se lo escludiamo…» la ragazza ribatté.
Quasi a rispondere alla loro discussione, il ragazzo che mancava attraversò la piazzetta, correndo e ansimando, un'espressione raggiante dipinta sul suo volto.
«RAGAZZI!» stava esclamando, agitando un foglio di carta e correndo verso di loro.
«Wow, Pence, da quando in qua corri tanto? Hai preso una pagina dal libro di tuo fratello?» l'altro ragazzo ridacchiò.
«Hayner, non credo quella sia una pagina,» la ragazza commentò.
Pence si fermò davanti ai suoi amici e agitò il foglio come una bandiera.
«È di mio fratello. Dice che torneranno a settimane!» Il suo sorriso gli raggiungeva quasi le orecchie. «Dice che non vede l'ora di rivederci, e vuole vedere quanto sono diventato bravo a scattare le foto!»
Riku attese il suo turno e pagò due gelati, poi prese Shiro per mano e si allontanò. La ragazzina gli strinse la mano e cercò di condurlo in una direzione.
«Vieni, conosco un posto!»
Riku la seguì fino alla piazza della stazione, su per le scale della torre fino alla balaustra sopra l’orologio. Shiro si sedette sulla balconata, scartò il suo gelato e prese a mangiarlo.
«Venivamo sempre qui,» spiegò.
Questo spiegava perché DiZ avesse mandato la comitiva virtuale a fare merenda lì nei sei giorni precedenti – era un ricordo che non era riuscito ad estirpare completamente da Roxas, quindi aveva semplicemente cercato di mantenere l’abitudine.
«Io non capisco.» Shiro confessò mentre mangiavano. «Roxas è sempre stato un bravo ragazzo. E Axel, era il suo migliore amico. So che soffre, ha perso la sua sorellina tanto tempo fa. Perché a volte le persone buone vengono usate per delle ragioni cattive?»
«Lo hai detto, Shiro. Vengono usate.» Riku mormorò. «E sono stati usati per provocare altra sofferenza. Ho rischiato di perdere degli amici per questa storia. Vorrei soltanto… che tutto questo non fosse stato necessario.»
«Che facciamo adesso?»
Lo sguardo di Shiro si perse verso l'orizzonte. Riku provò ad immaginare come si stesse sentendo. Per la prima volta, la bambina era sola. Senza più figure di riferimento, ma senza più nemmeno una prigione e dei carcerieri.
Avrebbe avuto bisogno di qualcuno, ma Riku non sentiva di essere quella persona, non in quel momento. C'erano ancora nemici da neutralizzare, e onestamente non si sentiva di meritare di essere l'amico o la guida di nessuno.
«L'Organizzazione ha perso una battaglia, ma non la guerra. Cercheranno qualche altro modo di rifarsi, e non puoi restare qui. Tra un po' di tempo in stazione passerà il mio amico Sora...»
«Lo scemo?» Shiro rispose quasi di scatto.
Riku dovette trattenersi per non darsi una manata in testa. O qualcuno lo aveva descritto così a Shiro, o la ragazzina aveva una bella parlantina tagliente. In ogni caso, era divertente.
«In effetti è un po' scemo.» Si costrinse a sorridere, poi si tolse un borsellino dal mantello. «Dagli questi soldi, e prendi assieme a lui e ai suoi compagni il treno che parte dal binario zero.»
«Il binario zero?» Shiro sembrava alquanto confusa. «Ma non ho visto mai nessuno prenderlo… la gente dice che…»
«So dove porta.» Riku la rassicurò, mettendole i soldi nella mano libera. «Vi condurrà da un potente stregone, una persona di fiducia che potrà aiutarvi. Sei libera adesso, Shiro. Il tuo viaggio comincia qui.»
Per quanto sembrasse leggermente sollevata, Shiro stava ancora fissando Riku.
«Hai detto che Sora è tuo amico. Non lo vuoi rivedere? Puoi
Riku scosse la testa. Non sapeva come avrebbe spiegato a Shiro cosa gli era successo, ma poteva trovare una scusa.
«Ho un compito da svolgere. L'Organizzazione…»
«Sì, ma dopo? È tuo amico
Riku abbassò la testa. La sua intenzione era di sparire, magari per sempre… ammesso che sopravvivesse alla battaglia.
Ma Shiro sembrava esigere una risposta…
… e forse c'era qualcosa che avrebbe potuto fare.
«Se Xemnas ti ha rapita, probabilmente saprà cosa è successo ai tuoi genitori.» Riku drizzò la schiena. «O Sua Maestà probabilmente ne ha notizie. Resta il fatto che ormai sono in mezzo a questa storia, e voglio venirne a capo. Ti prometto che… quando l’Organizzazione non sarà più un pericolo, mi metterò io stesso alla ricerca.»
«Davvero?» Shiro si attaccò al suo braccio, la gioia visibile sul suo volto.
Riku tirò un sospiro, ma fece sì con la testa. Si era ingabbiato da solo. Ma pensare ad uno scopo, a qualcosa da cui sarebbe potuto tornare quando fosse stato tutto finito, sembrava quasi togliergli un peso dal cuore.
Ricordava ancora la canzone di Sora, quella di dieci anni prima. Ricordava quelle parole che potevano essere una dichiarazione di speranza in un giorno migliore, ma anche l'ammissione che con tutti i problemi, tutti i cambiamenti, la vita andava accettata e vissuta, con le proprie luci e le proprie ombre.
Giorni che giran male, e c'è poco da pregare, ma c'è ancora da sperare che domani cambierà…
Le cose stavano già cambiando.
«È una promessa, Riku?» Shiro tese la mano verso di lui.
«Parola d'onore di…» Riku tese la mano per stringergliela, ma non riuscì a finire la frase. Le sue dita si contrassero e rilassarono da sole, e un lampo di luce partì dalla sua mano.
Sbatté le palpebre, e quando riaprì gli occhi, la sua mano reggeva il peso familiare di una spada. Gli parve di riconoscere l'Animofago ricevuto da Malefica, ma la lama era più lunga, interamente diritta, l'elsa era ellittica e formata da un'ala bianca e una nera, e un'altra ala bianca, più piccola, era letteralmente spuntata vicino alla punta della spada.
«Pezzo di strudel smangiucchiato…» Shiro sobbalzò all'indietro. «Riku, ma quello…»
Un Keyblade? In quel momento?
A Riku tornò in mente il guerriero sull'isola. Quello che non poteva che essere il padre di Shiro. La sua motivazione per vedere i mondi, il rituale segreto.
Forse era quello il momento che Terra aveva atteso. Forse finalmente iniziava a capire.
Riku voleva mordersi il labbro per non piangere, ma decise di darsi un contegno.
Il Keyblade poteva aver deciso che da quel momento in poi, lui ne era finalmente degno, ma quella storia non era finita.
Io percorro la Via per l'Alba.
È l'ora che inizi il mio viaggio.
 
Long long journey through the darkness
Long long way to go
But what are miles across the ocean
To the heart that's coming home?
(Long Long Journey - Enya)
 
CONTINUA…
 
 
Caro Pence,
Credo che siamo venuti quasi a capo della nostra avventura.
Al momento siamo in una città che si chiama New York, ma la chiamano anche Grande Mela o La Città che Non Dorme Mai. Il mondo in cui siamo approdati stavolta non è invaso dai mostri, perlomeno non molto, e abbiamo incontrato un tipo strano che li tiene sotto controllo assieme a due suoi aiutanti.
Tempo qualche settimana e potremmo essere di nuovo a casa, e per allora voglio vedere tutte le foto su cui ti sei esercitato. Papà, Mamma, i tuoi amici, come è cambiata la città mentre eravamo via… tutto.

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