Chronicles of the Foxes's Reign [vol.1]: il Cuore

di viola_capuleti
(/viewuser.php?uid=1107847)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: L'uomo con la sigaretta ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: Nella tana del lupo ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: I conigli portano consiglio ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: Mezzi demoni ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5: Regina ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6: Caffè dal sapore amaro ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7: Risposte in dirittura d'arrivo ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8: Sul ghiaccio sottile non si corre ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9: Un quadro generale... ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10: ... e un sacco svuotato ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11: Facce nuove ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12: Quando il gatto c'è i topi scappano ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13: Chi si volta è perduto ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14: Pace ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15: Protezione ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16: Se non puoi batterli unisciti a loro ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17: C'era una volta, in un posto infelice... ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18: Riunione di famiglia del tutto spiacevole ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19: Cicatrici ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20: Cattura ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21: Salvataggio e sospetti ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22: Benvenuto con l'inganno ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23: Soft spot ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24: Fidarsi è bene, prepararsi a soffrire anche ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: L'uomo con la sigaretta ***


CAPITOLO 1
L'uomo con la sigaretta


Normale.
In fondo chi non si sente normale? Però, ognuno ha i suoi comportamenti o pensieri personali che se qualcuno venisse a sapere lo farebbero sentire anormale, diverso dagli altri.
Ma Raven non aveva hobby venuti a galla dal segreto che la facevano sentire anormale (magari una collezione di gomme da masticare trovate in metropolitana) o aveva detto in pubblico cose intime particolari, ma ben altro.
Innanzitutto era molto atletica e forte.
Non se ne sarebbe neanche accorta se non avesse iniziato a cronometrare le sue corse. Aveva preso l’abitudine molto presto di andare a fare jogging insieme alla madre.
Era un modo per trascorrere del tempo assieme a causa del suo lavoro, che le portava via una considerevole quantità di ore che invece potevano sfruttare per fare qualcosa di decisamente più divertente: si cambiavano mettendosi qualcosa di comodo, decidevano un percorso, si mettevano una cuffia ciascuna in un orecchio e partivano. Solitamente sceglievano percorsi poco trafficati, magari passando per un parco o in qualche passeggiata che costeggiasse un corso d’acqua, dato che a lei piaceva il rumore dell’acqua mischiato a qualche canzone a basso volume. Per pura curiosità aveva cercato su internet le medie di uomini e donne e aveva calcolato le sue e quelle di sua madre: entrambe erano molto più veloci del normale.
Aveva già notato gli sguardi incuriositi di altri corridori o passanti e lei stessa aveva notato che le sembrava che il loro passo fosse troppo affrettato per essere una semplice corsetta per tenersi in forma. Oppure quando si metteva a correre per la fretta di arrivare in un negozio o tornare a casa dopo essersi accorta di essere in ritardo.
La sua agilità non era da meno quando si cimentava in qualche coraggiosa arrampicata su un albero o con quegli attrezzi che si potevano trovare facilmente nei parchi per chi avesse voluto allenarsi all’aria aperta con una sbarra.
La sua resistenza alla fatica e agli sforzi era anche provata dal fatto che lei e sua madre non avevano avuto mai bisogno di aiuto nello spostare mobili per i loro numerosi traslochi in giro per il paese. A nessuna delle due sembrava costare fatica spostare librerie e armadi per una giornata intera.
Ma questa era una stranezza che condivideva con sua madre.
Un’altra cosa che la faceva sentire un po’ fuori dal normale era di non frequentare una scuola: da quando era piccola sua madre le aveva imposto di non frequentare né una scuola pubblica né una privata. Sostanzialmente il motivo per questa scelta era stata che con i loro trasferimenti così assidui sarebbe stata una gran seccatura dover continuamente fare iscrizioni in così tanti istituti (anche a metà anno) e perché lei non avrebbe trovato poi il tempo per fare nuove amicizie. Più che altro mantenerle.
Per lei incontrare ragazzi che uscivano dalla scuola era motivo di agitazione: chissà cosa pensavano della strana ragazza che non si vedeva mai a scuola e non si fermava mai a parlare? Aveva provato ad inserirsi in una festa d quartiere ma non era riuscita a sentirsi a suo agio. Quello che le era stato offerto in bicchierini di carta non l’aveva aiutata ad avere una parlantina sciolta né a provare a muoversi sulla pista da ballo senza preoccuparsi degli sguardi altrui.
La compagnia non le mancava, certo, grazie a sua madre e Andrea.
Lui non era un suo parente, ma un collega di lavoro della mamma. Che si ricordasse, aveva fatto parte della loro vita fin dai suoi primi ricordi: il maglioncino rosa con i ricami che le aveva portato per il Natale dei suoi quattro anni era ancora in un cassetto di camera sua. Le piaceva ancora.
L’amicizia che sua madre aveva con quest’uomo la faceva sorridere molto spesso, soprattutto per il loro apparente contrasto. Chiunque li avesse visti avrebbe insistito che quei due non avevano assolutamente niente in comune: lei con i capelli corti, lui con i capelli lunghi, lei vestita alla bell’è meglio con abiti economici, lui rassomigliante ad un modello di una qualche casa di moda sempre griffato, lei scurrile e incline alla rabbia, lui calmo e riflessivo… eppure ogni fine settimana lui era a casa loro, ad aiutare sua madre a cucinare e chiacchierare su cosa si era persa sul lavoro o ascoltare le sue preoccupazioni per rassicurarla e viceversa.
Raven lo adorava almeno quasi quanto sua madre, lo considerava al cento percento uno zio. Dopotutto, quando sua madre doveva stare via per lavoro anche per giorni, era lui quello che si occupava di lei, anche quando era ormai abbastanza grande da cavarsela da sola. E non solo: l’accompagnava a fare shopping, a divertirsi e aveva aiutato sua madre ad insegnarle a casa, concentrandosi soprattutto sul francese, la sua lingua natia.
Un’altra cosa che la faceva sentire strana era la grande diversità che c’era fra lei e i suoi genitori. La cosa la turbava da relativamente poco tempo, da quando aveva frugato nei cassetti del comodino di sua madre. Era alla ricerca di una pastiglia per il mal di testa, che immaginava lei avesse a portata di mano vicino al letto, dato che in bagno la scatola era vuota e non ce n’erano di nuove. Prima di quel momento non aveva mai messo il naso negli affari di sua madre e quindi non aveva potuto vedere prima quella fotografia che teneva nascosta lì, invece che in una cornice. Non riconosceva il posto dove era stata scattata (si vedeva solo un albero, senza un paesaggio preciso o altri punti di riferimento), ma riconosceva sua madre e lei, ancora neonata tra le sue braccia. Ma la figura stranamente sfocata dietro di loro… suo padre? Sul retro della foto c’erano i loro nomi, per cui aveva avuto la certezza di non sbagliarsi.
Era la prima volta che vedeva effettivamente suo padre, dato che le era stato raccontato che era morto quando lei era troppo piccola per ricordarsi dell’accaduto o della sua faccia. Tanto per cambiare sua madre non ne parlava mai e, dato che si vedeva che soffriva parecchio a parlare dell’argomento, non aveva più fatto domande. Solo grazie a quella foto aveva potuto vedere quanta differenza ci fosse tra lei e i sui genitori: i colori dei capelli e degli occhi erano completamente differenti, i loro visi non avevano nessuna rassomiglianza e lei aveva lentiggini che i suoi genitori non avevano. Questo aveva insinuato in lei un dubbio di cui non aveva ancora parlato con la madre.
Ma quello che più la faceva sentire differente era la grossa cicatrice che aveva sul petto, lunga quasi una spanna, larga due dita, seghettata come il bordo del coltello che usavano per tagliare il pane. Nonostante l’avesse avuta sotto il naso da sempre faceva fatica a guardarla.
Le faceva senso. La faceva sentire rotta.
Le spiegazioni di Andrea e sua madre, ovvero che era il semplice rimasuglio di un’operazione che aveva dovuto subire appena nata, non le avrebbero mai fatto cambiare idea sul fatto che quell’orribile cicatrice le sembrava orribilmente fuori posto.
Quella non era assolutamente una conseguenza di una normale operazione. Aveva cercato immagini di cicatrici post-intervento e nessuna corrispondeva minimamente alla sua.
Odiava quello sfregio, ogniqualvolta che usciva di casa le sembrava che chiunque le passasse accanto la guardasse per cercare di vederla, anche se indossava maglie accollate o delle sciarpe che andassero a coprire eventuali scollature.
Andrea e sua madre scherzavano che era per altri motivi che la gente allungava lo sguardo su di lei, ma non l’avevano mai incoraggiata a fregarsene e cercare di conviverci senza nasconderla.
***
Raven picchiettò la penna sul tavolo, cercando di ricordarsi cosa doveva appuntare sul foglietto che le serviva per fare la spesa. Le sfuggiva una parola.
Infastidita dal fatto che non riuscisse a farsi venire in mente cosa mancava in casa decise di mettere da parte la penna e chiedere a sua madre.
Si sbilanciò indietro dalla sedia sulla quale era seduta e urlò verso le scale: -Mamma! Cos’è che devo comprare? -.
Attese qualche secondo ma la voce di sua madre non si fece sentire.
-Mamma?! – riprovò alzando un po’ il tono, sperando che questa volta sentisse.
Neanche stavolta lei rispose e con uno sbuffo lasciò che le gambe della sedia sbattessero a terra, prima di farla strisciare sul pavimento ed alzarsi per andare a chiederle direttamente.
Non che da un piano all’altro della casa non si sentisse, tutt’altro.
Aveva notato che da qualche giorno sua madre, Elen, sembrava persa nei suoi pensieri e tendeva a disconnettersi completamente da questo mondo, borbottando tra sé e sé o vagando per casa senza fare attenzione a non sbattere nelle pareti o negli spigoli dei mobili.
Probabilmente non l’aveva sentita perché in un altro momento mistico del quale non voleva spiegarle l’origine.
Stava per abbandonare la cucina per cercare la madre al piano di sopra, quando qualcosa colse la sua attenzione alla finestra.
Si avvicinò di soppiatto e sbirciò attraverso le tendine semitrasparenti, attenta a non farsi vedere da fuori. Davanti alla recinzione di ferro della loro casa, sul marciapiede, c’era un uomo vestito di scuro che fumava una sigaretta. Sembrava intento ad osservare proprio casa loro.
-Che ha da guardare? – pensò infastidita arricciando il naso. Poi scosse la testa, allontanandosi: -Se quando torno sotto è ancora lì lo dirò a mamma. Se se ne va spero che non decida di buttare la cicca proprio davanti a casa nostra. C’è un bidone più avanti. -.
Saltando gli scalini a due a due raggiunse il piano di sopra e si diresse subito verso la camera da letto di sua madre.
La porta era socchiusa e ci bussò sopra prima di aprirla, senza attendere il permesso di entrare.
Lei era seduta a gambe incrociate sul letto, con il telefono stretto tra spalla e orecchio, mentre guardava delle carte che teneva in mano.
Alzò subito gli occhi per vedere chi era entrato e contemporaneamente posò i fogli con la parte scritta sul copriletto, dicendo: -Sì Andrea, ti richiamo dopo. Mh, sì, non mi devo preoccupare. Ciao. -.
Spense la chiamata e sbuffò sonoramente, spostandosi un ciuffo di capelli biondi dalla fronte.
-Ti ho chiamata due volte e non mi hai sentita. – la informò Raven.
-Ah davvero? Non ti ho sentita davvero. – commentò la madre –Ti serve qualcosa? -.
-Vado a fare la spesa adesso, ma non mi ricordo che devo comprare. -.
-Hai segnato l’anticalcare? Ah, lo shampoo e il filo interdentale. -.
-Mi mancava il filo. – ammise la ragazza –Ti viene in mente qualcosa da mangiare? -.
-Nah. – fece Elen alzando le spalle.
-Ok, allora segno quello e vado. -.
Raven fece per andarsene ma si fermò.
Osservò i capelli scompigliati della madre e le ombre scure sotto gli occhi, leggere ma visibili. Di solito si degnava ancora di pettinarsi e coprire i segni di notti insonni con un po’ di trucco, ma da quando aveva iniziato ad essere sovrappensiero per la maggior parte del tempo che passava in casa non si sforzava minimamente di farlo.
Probabilmente notando il suo sguardo e il fatto che non se ne fosse già andata di sotto, assunse uno sguardo interrogativo, a cui lei rispose con un frettoloso: -Ci metterò un attimo. – per poi chiudere la porta e prendere di volata le scale.
Appuntò il filo interdentale e per curiosità guardò di nuovo dalla finestra, per vedere se quel tipo era sparito oppure no.
Era ancora lì, ma stavolta sembrava cercasse di guardare anche lui attraverso la finestra, cosa che la spinse a togliersi dalla visuale immediatamente.
-Maniaco… - pensò Raven facendo schioccare la lingua. Indietreggiò verso le scale e chiamò sua madre di nuovo, aggiungendo: -Scendi, è urgente! -.
Sentì subito i suoi passi che attraversavano il corridoio e scendevano gli scalini mentre tornava a spiare con discrezione alla finestra.
-Cosa c’è? – chiese sua madre avvicinandosi a lei, cosa a cui rispose limitandosi ad indicare la finestra e sussurrare: -Guarda: è da prima che se ne sta lì. -.
Invece di fare come lei e cercare di non farsi vedere, la donna si piazzò di fronte alla finestra, puntando una mano sul davanzale ed alzando una delle due tende con l’altra, socchiudendo gli occhi a causa del sole pomeridiano.
Raven vide l’espressione di sua madre passare da incuriosita a stupita ad arrabbiata, con tanto di morso al labbro inferiore nel giro di un attimo. Che ricordasse sua madre non aveva mai avuto nessun cambio così repentino di umore. L’aveva già vista arrabbiata, certo, ma per uno sconosciuto davanti a casa sua che stava fumando? Non ci vedeva niente di così grave da arrabbiarsi subito. Se non se ne fosse andato dopo averglielo chiesto, beh, ok, era il caso di iniziare ad innervosirsi.
Guardò l’uomo là fuori, che aveva visto sicuramente sua madre alla finestra. Ne fu sicura quando le fece un cenno con la mano.
Sua madre gli mostrò il dito medio, facendo un verso irritato a denti stretti. Per tutta risposta l’uomo si girò e si appoggiò al cancello, togliendosi la sigaretta di bocca per espirare una nuvola di fumo scuro, come a dire che da lì non si sarebbe mosso.
La donna sbuffò, allontanandosi di un passo dalla finestra, incrociando le braccia per poi pizzicarsi la radice del naso con le dita e fare un altro verso irritato.
-Raven, vai a fare la spesa per piacere. – borbottò –Passa dal retro. E non farmi domande. – aggiunse quando la sentì provare a parlare.
-Quando torno sarai viva? – chiese lei sarcastica, prendendo il biglietto dal tavolo.
-Non ti assicuro per quello là fuori. -.
-Certo. -.
La ragazza uscì dalla porta che dava sul retro, obbedendo, anche se aveva voglia di passare davanti a quel tipo strambo e guardarlo bene in faccia.
Quella situazione era la cosa più strana che le fosse mai capitata. Sua mamma conosceva quel tipo? Forse sì o forse no. Certo era strano che fosse partita immediatamente con il piede di guerra.
Riuscì a distrarsi da quei pensieri facendo la spesa, ma si affrettò a comprare scatole e bottiglie per tornare a casa e vedere se sua madre era riuscita a liberarsi di quello là.
Per il ritorno decise di prendere una scorciatoia da cui adorava passare. Il motivo era che passava davanti ad un bel villino di cui aveva seguito la costruzione passo passo: era stato commissionato da delle persone benestanti, che però non si erano voluti trasferire all’ultimo momento e quindi l’avevano lasciato in affitto.
Per mesi era passata davanti al cartello in tinte bianche e rosse in cui spiccava la scritta “AFFITTASI”, che certo non giovava all’aspetto della casa con giardino come avrebbero potuto fare tendine e una bella tinta di vernice alle pareti.
Già da lontano notò che vi era una differenza: le pareti bianche adesso erano tinte di grigio e i rampicanti che si avviluppavano sulla cancellata erano spariti. Avvicinandosi, non vide il cartello che prima era in bella vista sul prato, ma due macchine erano parcheggiate nell’ampio vialetto. A giudicare da come erano tirate a lucido e dalle marche, chiunque avesse preso la casa doveva essere benestante almeno quanto chi aveva commissionato l’abitazione, se non di più.
-Caspita. – pensò riprendendo a camminare, dopo essersi fermata ad osservare dei vasi di fiori lasciati in un angolo, probabilmente destinati ad essere trapiantati al fianco della bella scalinata d’ingresso –Chi vorrebbe trasferirsi qui? Niente da dire sul vicinato, ma pensavo che i ricconi preferissero città con vista sul mare… -.
La sua attenzione fu catturata da un gruppetto a qualche metro da lei che procedeva nella sua direzione. Anche loro avevano dei sacchetti della spesa in mano, ma probabilmente erano andati ad un supermarket diverso da quello in cui andava lei.
Uno era un uomo latino-americano, con i capelli scuri che brillavano di gel al sole, esattamente come il brillantino che aveva sul lato destro del naso. Sfoggiava un paio di occhialoni da sole dalle lenti a specchio che la abbagliarono per un attimo.
Parlava ad una ragazzina che dall’aspetto poteva essere una liceale, dai lunghi capelli biondi e il fisico magrolino, che sembrava camminare sulla punta dei piedi. Fece una giravolta tenendo stretta l’unica borsa che aveva in mano davanti a sé, ridendo.
Questo infastidì l’ultimo componente di quella combriccola, un ragazzo forse della sua età, che fece un salto indietro per non essere preso nelle gambe dalla borsa. Si sistemò il cappello di cotone sulla testa con un gesto stizzito, borbottando.
-Oggi è la giornata degli sconosciuti. – pensò tra sé e sé Raven, non riconoscendo nessuno di quei tre –Magari sono loro quelli venuti ad abitare qui, chissà? -.
Mentre si spostava di lato in previsione del fatto che non sarebbero riuscita a passare contemporaneamente sul marciapiede, sentì una delle sue borse della spesa alleggerirsi di colpo e rumore di colpi attutiti per terra.
Si fermò guardandosi indietro, vedendo metà delle sue compere sparse sul cemento. Una rapida occhiata al fondo della borsa le fece capire che una delle scatole aveva lacerato la plastica del sacchetto.
-Stupendo, che figuraccia. – pensò arrossendo, consapevole che il gruppetto aveva visto la scena, chinandosi per raccogliere quello che era caduto e controllare che niente di fosse danneggiato.
Mentre teneva la testa bassa per evitare di incrociare lo sguardo con quei tre, imprecò mentalmente, soprattutto quando infilò un cartone del latte nella borsa ancora integra e quello rotolò fuori, dato che non c’era spazio.
Fece per riprenderla, ma invece che sul cartone mise la mano sopra un’altra. La ritrasse e il suo sguardo incontrò quello azzurro e luminoso della ragazza bionda che piroettava poco prima davanti a lei.
-Ti serve una mano vero? – fece lei, dispiegando una borsa per la spesa riutilizzabile con un rapido movimento di polso, in cui infilò subito il cartone del latte ribelle.
-Uhh… -.
-Mi sembra evidente Mati. – replicò l’uomo con gli occhiali da sole, mentre raccoglieva un pacchetto di caffè, sorridendo.
-Eh-uhm, non ce n’è bisogno. – balbettò Raven, sentendosi avvampare ancora di più in viso.
-Figurati. – replicò l’altro ragazzo facendo spallucce, sistemandosi meglio le borse della spesa che aveva in mano, evidentemente quelle che i suoi amici gli avevano affidato per aiutarla, dato che prima non ne aveva nessuna.
Rapidamente il marciapiede fu sgomberato dalla sua spesa e messo al sicuro dentro alla borsa molto più robusta.
Raven la sollevò e, ancora in imbarazzo, borbottò: -Grazie dell’aiuto. Oh, e della borsa. Ve la restituirò. -.
La ragazza riprese la sua borsa della spesa e scosse la testa, facendo ondeggiare la lunga coda di cavallo che aveva sulla nuca da una spalla all’altra, dicendo: -Non c’è il caso, ne abbiamo un sacco. E poi potrebbe ritornarti utile per i tuoi prossimi acquisti. -.
-Se proprio ci tieni abitiamo lì. – la informò con noncuranza il ragazzo, indicandole con il pollice il villino che aveva appena superato.
L’uomo con gli occhiali gli diede una gomitata, dicendo: -Ehi, la borsa se la può tenere, taccagno. -.
-Allora siete voi ad esservi trasferiti. -.
-Oh, sì, giusto stamattina. – confermò la ragazzina, annuendo.
-Mh… - fece Raven, poi azzardò: -Per caso insieme a voi si è trasferito anche…? -.
Dato che aveva indovinato che fossero loro i nuovi inquilini del villino, perché non avrebbe potuto esserlo anche quello sconosciuto che si era piazzato davanti a casa sua?
Ma non finì la domanda, perché il ragazzo con il cappello si girò come se avesse sentito un rumore e alzò un braccio come a salutare qualcuno, esclamando con un tono più allegro di quello usato prima: -Ehi, eccoti qua! Sei già di ritorno? – e la distrasse.
Questa volta nella loro direzione camminava proprio quello sconosciuto, ancora con una sigaretta tra le labbra. O era la stessa che fumava davanti a casa sua? Non sembrava aver cambiato lunghezza.
Lui non rispose alla sua domanda, limitandosi a dirgli di farsi gli affari suoi. Si soffermò un attimo per togliersi il mozzicone dalle labbra con un gesto elegante ed osservarla con un paio di occhi grigi come l’acciaio che lei credeva che nessuno potesse possedere.
Raven deglutì, sentendosi minacciata da quello sguardo freddo come quello di un rettile e dalla sua statura alta. Sentì il bisogno urgente di fare o dire qualcosa, ma nell’aria le sembrava di sentire una strana tensione che non le fece muovere un muscolo.
La cicatrice sul petto pizzicò, come succedeva spesso quando era nervosa.
-Tua madre ha detto di sbrigarsi a tornare. – le disse l’uomo con gli occhi grigi. Poi si rimise la sigaretta tra le labbra e disse: -Ragazzi, andiamo. -, facendo un cenno con la testa.
Loro lo seguirono senza aprire bocca e guardandola di sottecchi, in un modo che non le piacque affatto. Solo la ragazzina le rivolse un timido cenno di saluto con la mano, prima di voltarsi e correre dietro all’uomo, che con i suoi passi lunghi aveva già quasi raggiunto il cancello della villetta.
Raven indietreggiò finché loro non furono scomparsi alla sua vista dietro alla cancellata, poi si voltò e prese a correre verso casa come se avesse avuto il fuoco alle calcagna. Voleva mettere più distanza possibile tra lei e quel tipo inquietante!
Quello era entrato in casa sua e aveva parlato con sua madre! Ma chi diavolo si credeva di essere per entrare in casa sua e parlarle con quel tono?
Quando raggiunse casa sua quasi scaraventò le borse da una parte all’altra dell’ingresso, per la fretta di controllare che sua mamma fosse ancora in casa e che stesse bene.
La chiamò e lei rispose da camera sua.
-Mamma ho incontrato quel tipo per strada e mi ha detto che dovevo sbrigarmi a tornare a casa, parole tue. – ansimò Raven salendo gli scalini che portavano al piano di sopra a due a due –È entrato in casa, vero? C’è odore di sigaretta in corridoio e in sala. Di che cosa avete parlato? Chi è? Non lasci mai entrare nessuno in casa a parte Andrea, lavora con te? -.
-Raven rilassati, non è nessuno di cui tu ti debba preoccupare. -.
-Perché non… oh. -.
Sul letto erano disposte alcune maglie piegate, in attesa di raggiungere i pantaloni nella valigia spalancata. Sua madre stava passando in rassegna la biancheria intima, con la fronte corrugata e un labbro stretto tra i denti.
Non sembrò neanche accorgersi che la figlia era sulla porta, che la guardava, confusa. Dopotutto non era poi inusuale trovarla intenta a preparare una valigia per un viaggio, anzi, ogni tanto le chiedeva anche di aiutarla a preparare i bagagli. Ma di solito aveva qualche giorno di preavviso prima di vederla intenta nei preparativi, con tanto di spiegazione e raccomandazioni.
-Andiamo da qualche parte? -.
La donna la guardò con la coda nell’occhio, per poi correggerla dicendo: -Vado. – prendendo una manciata di mutande come se fosse un pugno di sabbia e tornare ad occuparsi della valigia.
-C’entra con quel tipo? -.
-Che ti ho appena detto? Di lui non devi preoccuparti, ho sistemato tutto. Devo andare per lavoro. -.
-Bastava dirlo. – disse Raven andandosi a sedere sul letto –Quando parti? -.
-Domani. -.
-Ah. Quando torni? -.
-Tra un mese. -.
-Potresti ripetere? -.
-Un mese. -.
-Stai scherzando. -.
Riconoscendo nel tono di voce della figlia che si stava arrabbiando, Elen si fermò per fronteggiarla. Si fissarono negli occhi, cercando l’una di far cedere l’altra, facendo distogliere lo sguardo a chi fosse stata nel torto per il tono accusatorio o distaccato.
 Incrociò le braccia e chiese: -Perché dovrei scherzare? -.
-Al massimo stai via una settimana, mai un mese. – rispose Raven –Hai sempre gestito tutto perfettamente da casa, cosa c’è di diverso stavolta? -.
-Ti telefonerò, tranquilla. E Andrea starà con te, tra un paio di giorni ti raggiungerà. -.
-Non è questo il punto! – ribatté la ragazza alzandosi in piedi –Sei strana ultimamente, poi appare questo tizio e io mi allontano per neanche mezz’ora che te ne stai andando praticamente di nascosto! Quando me lo avresti detto che andavi via, stasera a cena o domattina? Cosa mi stai nascondendo? -.
-È una cosa che non posso spiegarti. – rispose Elen prendendo le maglie e mettendole in valigia con un gesto stizzito –Perché è troppo complessa e non capiresti. Ma non devi preoccuparti per me. -.
-Sono quasi un’adulta mamma, anzi lo sono. -.
-Beh, le cose a lavoro si sono complicate e richiedono la mia presenza. L’ho saputo oggi, quando mi hai visto scartabellare tutti quei papiri. Te lo avrei detto quando saresti tornata da fare la spesa comunque. Come mai sei così nervosa? -.
Lei non rispose, tacendo cocciutamente. Non era poi un gran problema l’assenza di sua madre per un mese, ormai era abituata a dover convivere per qualche giorno con Andrea e a volte non vedeva l’ora di trascorre del tempo con lui senza sua madre, dato che poteva definirlo come l’unico amico che aveva.
Ma quello sconosciuto le aveva messo il nervoso addosso. La inquietava. Difficilmente aveva provato questa sensazione nei riguardi delle persone, o in generale. Ma aveva sentito chiaramente su tutto il corpo la pelle d’oca nel momento in cui quel tipo si era tolto la sigaretta di bocca per dirle di filare a casa.
Senza contare quegli sguardi dei suoi amici, sguardi che le avevano fatto pizzicare la cicatrice ancora una volta.
Il fatto che abitasse ad appena una decina di isolati di distanza non la tranquillizzava affatto.
-Ho incontrato quel tipo per strada, vicino a casa sua. – confessò quando la madre le appoggiò una mano sulla spalla –Mi fa venire la pelle d’oca. -.
-Già, fa quest’effetto. – ammise Elen con un sospiro, accarezzandole la testa –Ma non devi preoccuparti di lui: ci sono cose ben peggiori a questo mondo. -.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2: Nella tana del lupo ***


CAPITOLO 2
Nella tana del lupo


Stava ripercorrendo la strada davanti alla villetta. Ma questa volta, quando la borsa si ruppe (di nuovo? Ma com’era possibile, tutte a lei dovevano capitare?) lei non se ne accorse e inciampò in un barattolo, finendo distesa a terra.
Non sentì dolore, proprio per niente. Si mise seduta, massaggiandosi comunque le mani, che non avevano il minimo segno di sbucciatura o arrossatura.
Le sembrò di vedere qualcosa muoversi sopra la sua testa con la coda nell’occhio e alzò lo sguardo: la ragazzina bionda le stava porgendo la mano, sorridendole.
-Vuole aiutarmi ad alzarmi. – pensò con gratitudine Raven, allungando a sua volta una mano per prendere la sua.
Ma si bloccò subito, perché notò che la ragazzina non le stava porgendo la mano per alzarla, ma la stava indicando. Il suo ditino affusolato puntava appena sotto il suo mento.
-Guardate che razza di cicatrice! -.
-Cosa? – pensò Raven, confusa, abbassando gli occhi.
Le sembrò che il terreno le mancasse sotto il corpo, perché non stava indossando la maglia e la sua cicatrice spiccava pallida tra le lentiggini spruzzate sul petto.
-Orrenda. – commentò l’uomo con gli occhiali a specchio, comparso dal nulla in compagnia del ragazzo con il cappello, che aggiunse ridendo: -Mamma mia, come si fa ad avere quella roba addosso? -.
-Smettetela di guardare! – sbottò Raven coprendo con una mano meglio che poteva la cicatrice, mentre con l’altra cercava di allontanare la mano della biondina o almeno farle smettere di indicarla –Fatevi gli affari vostri! -.
Adesso stavano ridendo e lei si sentiva un’idiota.
Ma non riusciva neanche a tapparsi le orecchie per non sentirli, dato che sembravano pesanti come blocchi di cemento.
-Andate al diavolo! – sbottò ancora facendo loro il dito medio, cercando di alzarsi.
Ciliegina sulla torta, ora ecco l’uomo con la sigaretta e gli occhi d’acciaio, che le soffiò addosso un’enorme nuvola di fumo nel quale le sembrò di soffocare. Non durò a lungo, perché si diradò quasi subito, in modo che lo potesse veder sogghignare: -Meglio non metterla troppo in mostra, quella. Vai a casa, prima che qualcuno la veda. -.
-Senti tu…! – fece la ragazza, decisa a riempirlo d’insulti.
La sua rabbia sfumò nel momento in cui si accorse che il terzetto era immobile, congelati nella loro ridarella, come l’uomo della sigaretta, in una posa in cui somigliava molto a Crudelia Demon, con il mozzicone stretto tra due dita. Neanche il fumo si muoveva, fermo in una spirale perfetta.
-Perché sono fermi? – pensò Raven, per poi scrollare le spalle: -Meglio così. Tutto questo è strano… sto sognando? -.
Si guardò attorno e accanto a lei, alla sua sinistra, c’era un coniglio. Non era tanto grande, con la pelliccia candida e gli occhi rossi.
-Decisamente. -.
C’era qualcosa di strano in quel coniglio: aveva già visto animali albini ma il rosso dei suoi occhietti tondi era troppo intenso e le pupille… erano verticali, come quelle di una vipera! Fissavano sgranati l’uomo con la sigaretta, ma non sembrava spaventato. Stupito, ecco, stupito lo definiva alla perfezione.
Inclinava la testa da una parte all’altra, con la boccuccia mezza aperta e i baffi frementi.
-Lo conosci amichetto? -.
Il coniglio si girò a guardarla, abbassando e rialzando le orecchie.
-Che carino. – commentò Raven –Non preoccuparti, non ti farò male. -.
Allungò la mano per accarezzarlo, cautamente, e quello si scansò con un salto, lontano da lei, appiattendosi al suolo con le orecchie sulla schiena. La pelliccia sui fianchi si contraeva freneticamente, come il nasino rosa confetto, le pupille dilatate non sembravano quasi più quelle di un rettile.
-Non mi toccare. Non ti dovrei neanche parlare. – mormorò il coniglio, per poi scappare a zampe levate aggiungendo ad alta voce: -Tutto questo è stato un errore! -.
***
La sveglia suonò, diffondendo per la stanza la nostalgica melodia di un violino, svegliandola. Superata la confusione del dormiveglia, spense la suoneria con un colpo di dito sullo schermo del cellulare, si tolse le coperte di dosso con un calcio. Aveva qualche ricordo confuso del sogno che aveva appena fatto.
L’unica cosa che ricordava con chiarezza era il coniglio bianco parlante.
-Certo che la mia mente ha scelto un bel momento per essere creativa. – pensò grattandosi la pancia sotto la maglia del pigiama, mentre si dirigeva in cucina con gli occhi ancora mezzi chiusi –Mai fatto sogni così sconclusionati. -.
Vicino al gas c’era sua madre, che le dava la schiena: stava preparando il caffè in una vecchia caffettiera con il fondo annerito.
Mentre si avvicinava al tavolo per sedersi e servirsi dei cereali e del latte, si chiese ancora una volta che legame avesse sua madre con quel tipo con sigaretta e pizzetto.
Parentela? Non si somigliavano affatto e non si era mai fatto vivo prima, né sua madre parlava mai di famiglia.
Lavoro? Probabile.
Dato che non sembrava ancora dell’umore di parlarne, esattamente come era sembrato il giorno prima, Raven decise che ne avrebbe parlato con Andrea. Se era un collega sicuramente glielo avrebbe detto.
Ma quella reazione alla sua comparsa… non è che fosse una persona con la quale si vedesse per ragioni sentimentali? Magari si era arrabbiata perché voleva introdurre l’argomento in modo più delicato che presentarglielo su due piedi portandolo a casa. Poteva aver disubbidito all’accordo sì, era plausibile.
Scosse immediatamente la testa, pensando: -No, non mi sembra il tipo di mamma. E poi non ha tempo per un fidanzato. Neanche il bisogno, penso. -.
-A cosa pensi? -.
-Uh? – fece Raven, accorgendosi che sua mamma le stava parlando –Niente. -.
-Facevi una faccia strana. – replicò Elen togliendo la caffettiera borbottante dal gas, facendo chiedere a Raven per quanto tempo avesse pensato a che rapporto c’era tra lo sconosciuto e sua madre –Mancava poco che sbavassi, avevi la bocca mezza aperta. -.
-Non è vero. – replicò la ragazza, imbarazzata, iniziando a mangiare i suoi cereali con foga, per evitare di spaziare di nuovo con la mente.
Elen scosse la testa, sogghignando divertita, mentre si serviva una tazza di caffè fumante. Ne sorseggiò appena un po’ prima di dire: -Allora, inizio con le raccomandazioni. -.
-Non sono una bambina. -.
Ignorando quello che aveva detto la figlia, lei continuò: -Andrea non sarà con te prima di domani sera o dopodomani mattina. Perciò non aprire la porta a nessuno prima di esserti assicurata che non sia uno sconosciuto e prima di andare a dormire controlla che tutte le finestre e le porte siano chiuse a chiave. Tieniti almeno un cacciavite a portata di mano sul comodino, al massimo, non si sa mai. -.
-Già che ci siamo perché non una mannaia? -.
-Piantala di fare battute. Non telefonarmi, sarò io a contattarti: avrò tempi molto ristretti per quanto riguarda l’uso del cellulare. -.
-Ok, ok. Niente di diverso dal solito. – fece spallucce Raven.
Notò che sua madre sembrava indecisa se aggiungere qualcosa, tamburellando un dito sulla tazza che reggeva e guardando un punto fisso del ripiano della cucina.
-Qualcos’altro? –.
-Ecco… - borbottò Elen, ancora con espressione dubbiosa, per poi dire tutto d’un fiato: -Se ti capitasse di incontrare quell’uomo con il pizzetto prima dell’arrivo di Andrea… -.
-Devo piantargli il cacciavite in un occhio? O tra le costole? -.
La madre le scoccò un’occhiata severa, dicendo: -Ricambierebbe il favore. Non è una persona di cui devi preoccuparti Raven: se ti troverai in difficoltà potrà aiutarti. -.
Non si aspettava dicesse quello.
Quel tipo le sembrava tutt’altro che rassicurante o di buon cuore. A dirla tutta, piuttosto la ragazzina e l’uomo con gli occhiali da sole sembravano bravi samaritani (anzi, lo erano proprio stati).
In ogni caso, quella combriccola sarebbe stata l’ultima delle sue risorse in caso di bisogno. Dopotutto chi li conosceva? Due di loro erano stati gentili, certo, ma questo non voleva dire che l’avrebbero aiutata per qualcosa di più grave di una borsa della spesa rotta.
-Se lo dici tu… - borbottò, poco convinta.
Elen finì la tazza di caffè in fretta e prese la valigia nell’ingresso. Raven la seguì fino alla porta, dove sua madre si soffermò per un attimo.
Posò la valigia a terra e l’attirò in un abbraccio talmente inaspettato che la ragazza reagì sulle prime irrigidendosi. Ricambiò stringendole le braccia attorno alle spalle, dicendo: -Ehi, ehi, andiamoci piano con le smancerie. -.
-Stai attenta Raven. -.
-Certo. -.
Elen la baciò sulla fronte e uscì di casa. Raven restò sulla porta d’ingresso a guardare la madre che si allontanava in macchina fino a quando non svoltò l’angolo della strada e scomparve alla sua vista.
Si sentì stranamente abbandonata ed indifesa. Era a disagio e aveva un brutto presentimento, accompagnato da un pizzicore alla cicatrice, che grattò distrattamente.
Lavò i piatti della colazione meccanicamente e decise di impegnare la mattinata nel mettere a posto la casa e dare una pulita generale. Chi l’avrebbe sentito altrimenti Andrea se fosse arrivato e avesse visto la casa come l’aveva lasciata Elen?
Iniziò a riordinare l’ingresso. Mentre spostava delle giacche buttate sulla cassapanca verso gli appositi ganci, notò la borsa di plastica appesa al muro al loro posto, ricordandosi che l’aveva messa lì per non scordarsi di restituirla.
-Dovrei farlo. – pensò prendendola in mano –Magari dopo aver fatto qualche faccenda domestica. -.
Per un attimo il sogno che aveva fatto si rifece vivo in un flash di risate di scherno, ma scacciò subito il pensiero: era un sogno, subconscio. Non c’era mica il caso di avere soggezione di una ragazzina e i suoi amici che tra l’altro l’avevano addirittura aiutata, no?
Sarebbe stato un mordi e fuggi: portare la borsa, ringraziare, salutare e andare via. Prima d’incontrare il cosiddetto amico della mamma.
Decise di attendere l’ora di pranzo per andare a restituire la borsa, per essere certa che qualcuno fosse a casa. A giudicare dalle macchine parcheggiate esattamente come il giorno prima, qualcuno doveva esserci.
Per l’ennesima volta da quando era uscita di casa si accertò che la maglietta che indossava la coprisse fino al collo, passando un dito all’interno del colletto e poi avvicinò il dito al pulsante del citofono accanto al cancello.
Si fermò subito, pensando: -E se mi apre quel tipo? Non voglio parlargli, non me la sento. -.
Fece un passo indietro, guardando il quadrante di metallo dorato lucido. La telecamera che serviva da spioncino le sembrò un occhio inquisitore, che si chiedeva se si sarebbe decisa a suonare o se se ne sarebbe andata con la coda tra le gambe.
-Beh, ormai sono qui. – pensò, avvicinandosi nuovamente per suonare. Esitò di nuovo: -Mi aveva detto che non c’era bisogno di restituire la borsa. Se si offendessero? -.
Il citofono gracchiò, facendola sobbalzare per la sorpresa, e la vocina della ragazzina bionda uscì dalla piccola grata dorata chiedendo: -Ciao! Ti serve una mano? -.
-Cosa? Ciao, no. Ho riportato la borsa. – disse Raven, alzando la suddetta davanti alla telecamera.
-Oh, lo avevo immaginato. Ma non capivo che cosa stessi facendo davanti al citofono senza suonare. Entra, ti apro subito. -.
Il cancello si aprì con un cigolio appena accennato e Raven s’infilò dentro al vialetto lastricato di porfido.
Notò che i fiori erano stati davvero trapiantati ai lati della scalinata. Dalla porta uscì la ragazzina, con i capelli stavolta raccolti in uno chignon basso e con indosso un grembiulino svolazzante. Scese le scale saltellando, sempre con il sorriso sulle labbra.
-Ciao. – la salutò di nuovo, quando si furono avvicinate.
-La borsa. – fece Raven, allungandole la suddetta.
Vide i suoi occhi celesti saettare dal suo viso alla borsa e per un attimo le sembrò che si soffermassero sul suo petto. Scacciò il pensiero quando la ragazzina continuò il discorso dicendo: -Oh, non c’era il caso, ti ringrazio. – prendendo la borsa.
-Nessun problema. Per sdebitarmi dell’aiuto. -.
-Perché non entri un attimo in casa? -.
-Non credo sia il caso, è quasi ora di pranzo. Mi sembri indaffarata. – rifiutò subito Raven alzando una mano e facendo un passo indietro.
La ragazzina sbattè le ciglia bionde con espressione confusa, come se non avesse mai ricevuto un rifiuto in vita sua. Poi sorrise di nuovo e ritentò: -Voglio solo offrirti qualcosa da bere per il disturbo. Fa anche caldo e ti sei fatta una bella scarpinata per venire fino qui. -.
-Perché, sai dove abito? -.
Le guance della ragazzina si arrossarono in un attimo e i suoi occhi si abbassarono subito a guardarsi i piedi.
Raven si vergognò di averla messa in imbarazzo in quel modo. Probabilmente l’uomo con la sigaretta aveva raccontato dell’incontro con sua madre e aveva riferito dove abitavano.
Si grattò la cicatrice da sopra la maglietta e disse: -Sì, fa caldo… un bicchiere d’acqua farebbe piacere. -.
Il volto della ragazzina si rasserenò subito, come se non ci fosse stata nessuna imbarazzante gaffe. Le fece segno di seguirla su per la scalinata con un cenno della mano mentre diceva: -A proposito, non mi sono presentata: il mio nome è Matisse. -.
-Raven. -.
Entrarono in casa e Raven si trovò nell’atrio più moderno e chic che avesse mai visto, un mix perfetto degli atri che trovava nelle riviste di arredamenti che si guardava ogni tanto dalla parrucchiera o dal dentista. Rimase affascinata dalle pareti azzurro pastello molto tenue con lo zoccolo bianco sposate con l’arredamento semplice ma moderno, con un appendiabiti in stile vintage di metallo scuro, un tappeto lungo grigio con ghirigori neri, uno specchio situato sopra ad un tavolino su cui erano appoggiati dei soprammobili e una ciotola in cui erano depositate le chiavi della macchina, un piccolo quadro con un paesaggio francese e una lampada da soffitto al neon. Il tutto davanti ad una scalinata di legno con annessa ringhiera di metallo che portava al piano superiore.
Seguì Matisse spostandosi verso destra, attraversando una bella sala da pranzo in tinte oro e rosso per entrare in una candida cucina all’avanguardia con una penisola al centro della stanza con il ripiano di marmo che sua madre aveva sempre desiderato, con un paio di sgabelli alti da bar foderati di pelle nera.
Da un super frigo moderno con il distributore per il ghiaccio Matisse prelevò una bottiglia di tè alla pesca, che versò dentro ad un alto bicchiere di vetro colorato a cui aggiunse un paio di cubetti di ghiaccio.
-Siediti pure. – le disse appoggiandole il bicchiere sulla penisola.
-Grazie. – disse Raven obbedendo.
Osservò come la ragazzina si rimettesse al lavoro: controllò quello che aveva lasciato nel forno (che spandeva nell’aria un profumino a dir poco delizioso) e prese ad affettare alcune verdure lasciate su un tagliere. Prese un sorso di quella bevanda magnificamente rinfrescante e sospirò per il brivido che le fece scendere lungo la gola.
Matisse finì di affettare un pomodoro e prendendone un altro chiese: -Non sei qui in vacanza vero? -.
-No, abito qui da qualche mese. -.
-Ah, immaginavo. Sai, è che è estate e magari vieni qui a trascorrere solo le vacanze. È una bella città dopotutto. -.
-Sì. Voi invece siete qui in vacanza? -.
-Per lavoro. – rispose lei facendo spallucce.
-Tu e la tua famiglia? -.
-In un certo senso è la mia famiglia. Le persone con cui ero ieri sono i miei fratelli, mentre chi ci ha raggiunti dopo… non so come dire in realtà, ma potrei definirlo il nostro benefattore. -.
-Non avete più i genitori? – chiese Raven.
-Non tutti. – ammise lei con un sospiro.
Raven deglutì un sorso di tè e disse: –Mi dispiace. -.
-Tranquilla, ormai non è più un problema. – minimizzò la bionda dedicandole un sorriso dolce mentre Raven aggiungeva a bassa voce: -Anche io… non ho un padre. –.
Matisse smise subito di affettare la verdura, per guardare Raven, che adesso stringeva il bicchiere tra le mani, fissandone il tè all’interno, timorosa di incontrare il suo sguardo.
-Non c’è niente di cui vergognarsi. – disse la ragazzina, interpretando male il suo comportamento –Che sia andato via di casa o morto non è colpa tua. -.
-No, certo. È che non lo avevo mai detto a nessuno. -.
A salvare Raven da quella situazione imbarazzante ci pensò l’uomo con gli occhiali da sole: entrò dalla portafinestra che dava sul giardino sul retro, ma non prima di scrollarsi della terra dai pantaloni. Evidentemente stava piantando altri fiori là dietro. Si tolse anche le scarpe sporche prima di entrare.
Raven si aspettò che si togliesse anche gli occhiali o che per lo meno se li spostasse sulla testa, invece se li tenne anche quando entrò dentro casa sgattaiolando in punta di piedi per rubare un pomodoro intero dal tagliere di Matisse, che gli allungò una manata sulle dita senza colpirlo.
-Piantala di rubare da mangiare prima che sia servito a tavola! – esclamò lei, ma dal sorriso Raven intuì che quella fosse la milionesima volta che glielo diceva e che non sarebbe stata l’ultima, né che lei era davvero arrabbiata per quel gesto.
-Me lo merito, sei tu che hai voluto che piantassi tutti ‘sti fiori. – replicò lui dandole un colpetto sulla spalla con il dorso della mano che stringeva il frutto, per poi dargli un morso.
Aveva un accento magnifico accento sud americano che non aveva notato la prima volta che si erano incontrati. Come non aveva notato i canini piuttosto appuntiti.
L’uomo sembrò accorgersi di lei, infatti disse: -Salve. Qual buon vento? -.
-Ci ha gentilmente riportato la borsa Jag. – rispose per lei Matisse, riprendendo a cucinare.
-Ah, davvero? – fece lui alzando un sopracciglio –Allora penso di dovermi presentare: mi chiamo Jaguar. -.
Raven non poté trattenersi dal fare un’espressione incredula per quel nome così strano. Matisse suonava francese ed era molto carino come nome, mentre Jaguar… beh, non sembrava esattamente un nome di persona. Non come poteva sembrare il suo, almeno.
Quando si presentò a sua volta Jaguar osservò: -Un nome tenebroso per un viso così luminoso. -.
Matisse schioccò la lingua: -Sei fidanzato. -.
-Era solo un’osservazione. – la ribeccò Jaguar bonariamente.
–Ti fermi a mangiare Raven? – chiese improvvisamente Matisse voltandosi con uno svolazzo di grembiule, appoggiandosi al ripiano della cucina con la schiena.
La domanda arrivò inaspettata e Raven rimase un attimo senza parole.
Glielo stavano chiedendo davvero? Si conoscevano appena.
-Io? – chiese, ricevendo una risposta affermativa.
Rispose subito di no. Un po’ le dispiacque, perché vide il sorriso cordiale di Matisse capovolgersi in un broncio dispiaciuto.
Ora che ci pensava non aveva mai mangiato a casa d’altri, neanche a casa di Andrea. Al massimo aveva mangiato fuori con lui e sua madre, in ristoranti o fast food.
A casa però l’attendeva un pasto fatto molto male, dato che lei non sapeva affatto cucinare. Sua madre se la cavava discretamente ma se cucinava lei era probabile che avrebbe bruciato qualcosa o si sarebbe fatta male. Andrea non era mai riuscito ad insegnarle a fare qualche piatto più elaborato di una pasta in bianco o una bistecca alla piastra, cose che lui sapeva trasformare in piatti gourmet con pochi altri ingredienti che lei proprio non riusciva ad assemblare.
Matisse implorò con un: -Perfavore, ci farebbe piacere… -.
-Mati, lasciala stare. Avrà dei genitori con cui mangiare pranzo. – la sgridò Jaguar con tono persuasivo.
-In realtà no. – si lasciò sfuggire Raven.
-Allora non vedo perché non accettare. – cambiò idea Jaguar, facendole un bel sorriso cambiando completamente tono di rimprovero.
Tentennò ancora un poco e si arrese, dando il suo consenso. Perché non approfittare dell’occasione per scoprire qualcosa di più su di loro e sapere se davvero fidarsi del loro benefattore in caso di emergenza?
Dato che Matisse oramai aveva quasi finito di preparare tutto, si offrì di aiutare il suo fratello maggiore ad apparecchiare nella sala da pranzo e a portare le pietanze in tavola.
Si stavano sedendo, quando a Raven venne un dubbio: non aspettavano l’altro ragazzo e l’uomo inquietante?
Lo chiese e notò che Jaguar alzò un sopracciglio in direzione della sorella che ridacchiò nervosamente e disse: –Ehm, non sono a casa a casa oggi, arrivano tardi. -.
-Lavorano? -.
-Sì. – rispose Matisse precedendo Jaguar di un secondo, mentre con una spatola serviva il primo nei loro piatti.
Forse aveva detto la verità, fatto stava che dopo circa un quarto d’ora, dopo aver iniziato a mangiare il pesce, la porta principale si aprì ed entrò il ragazzo della sua età, che sbattè la porta, cosa a cui Matisse reagì con un: -Beast, non si sbatte la porta! -.
Il ragazzo ribatté: -Lasciami stare Matisse, non è giornata! Non sopporto di essere trattato come un cane da quello là. Dopotutto lo sto solo aiutando a cercare in città… -.
Camminò pestando i piedi sul pavimento con rabbia fino all’entrata della sala da pranzo, dove si interruppe, fissando Raven, seduta vicino a Matisse.
Sembrò trasalire e fece per fare un passo indietro, quasi esclamando: -E lei cosa diavolo ci fa qui? -.
-Beast, non essere scortese. – sbuffò Matisse.
-Mi sembra di capire che non abbiate molti ospiti di solito. – osservò Raven, cosa a cui il ragazzo reagì diventando rosso come un pomodoro.
-In effetti no. – concordò Jaguar –Beast, Raven. Raven, Beast, il nostro fratellino che deve imparare le buone maniere. -.
-C-ciao. – borbottò lui, imbarazzato, grattandosi sotto il cappello.
Matisse alzò gli occhia al cielo ed arricciò il naso, tappandoselo immediatamente, chiedendo: -Ma cos’è questo odore? Beast? -.
Anche Raven afferrò un odore sgradevole che si stava espandendo dentro la sala. Di sicuro non proveniva da nessuno di loro tre, ma dal nuovo arrivato, che infatti incrociò le braccia dietro la schiena e borbottò: -Siamo andati in discarica. Gli sembrava una buona idea farmi cercare lì. -.
-E non t’è passato per la mente che ti stesse prendendo in giro? – fece Jaguar girandosi per guardarlo.
-E certo che me lo ha fatto fare per dispetto! – ribatté Beast –Infatti eccomi qua, perché non sopportava l’idea di avermi vicino con questa puzza addosso! -.
-Neanche noi. – fece Matisse –Vatti a lavare e cambiare, poi mangia. Lascialo perdere lui. -.
Beast si volatilizzò sulle scale e loro ripresero a mangiare.
Raven bevve un sorso d’acqua e chiese: -Di che genere di lavoro si occupa il vostro benefattore? Non pensavo lavorasse in una discarica, non mi sembra il tipo. -.
-Infatti. – ammise Jaguar –Come dire, lui… -.
Sembrava piuttosto in difficoltà nel dare una risposta, cosa che insospettì Raven. Non sapeva come spiegare o semplicemente non sapeva inventarsi una balla su due piedi?
-Pubbliche relazioni? – lo aiutò Matisse.
-Ti sembra che faccia pubbliche relazioni? – ripeté lui, scettico quanto Raven sul lavoro in discarica.
-Possiamo definirle così. – rispose Matisse facendo spallucce mentre si mangiava un pezzo di pesce con noncuranza.
Beast si unì a loro quando avevano già praticamente finito di pranzare. Ma la sua presenza creò un clima familiare fantastico fra fratelli, che intenerì Raven: si punzecchiavano e anche Beast, che a prima vista sembrava un gran musone, ridacchiava divertito alle battutine della sorella e rispondeva a tono a Jaguar. Le fece quasi scordare che aveva accettato di mangiare con loro solo per spillare informazioni sul loro conto e valutare se evitarli come la peste o, ancora peggio, fare molta attenzione a loro. Riuscì solo a scoprire che come lei, anche loro dovevano trasferirsi molto spesso a causa del lavoro del loro benefattore e che prima di essere presi sotto la sua custodia era Jaguar ad occuparsi degli altri due, lui appena bambino e lei neonata, senza l’aiuto di nessuno.
Si trovò a suo agio.
Aiutò a sparecchiare e dovette salutarli per andare a casa, lasciando il suo numero di cellulare alla ragazza, con la promessa che si sarebbero rivisti.
Dell’uomo con la sigaretta neanche l’ombra.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3: I conigli portano consiglio ***


Capitolo 3
I conigli portano consiglio


Attese l’ora della telefonata con ansia.
L’orario designato era sempre stato attorno alle otto e mezza di sera: lei iniziava ad aspettare che il telefono squillasse attorno alle otto e un quarto, al massimo doveva aspettare fino alle nove meno un quarto.
Quando era più piccola e Andrea le faceva da babysitter, appoggiava il telefono su un mobile vicino al divano, dalla quale lei aspettava tenendo il mento appoggiato sul bracciolo, tenendo d’occhio l’apparecchio per rispondere almeno entro il terzo squillo.
Da quando aveva ricevuto il suo personale cellulare semplicemente controllava ogni minima notifica, cosa che di solito lasciava da fare quando avrebbe avuto tempo di dare un’occhiata.
Non vedeva l’ora di sentirla.
Il tempo passato insieme a quella famiglia strampalata era stato piacevole, ma sua madre le mancava già. In più voleva chiederle informazioni su Andrea, dato che non era ancora arrivato né rispondeva alle sue telefonate o messaggi.
Rispondeva sempre tardi (dopo qualche ora dall’invio) ma aveva provato a contattattarlo la mattina e non aveva ancora ricevuto nessun messaggio frettoloso pieno di faccine.
Dopo aver mangiato un insipido hamburger mezzo bruciato raccattato dal frigo, si buttò sul divano a guardare un programma tv con il telefono sulle ginocchia.
Questa volta sua madre telefonò alle otto e mezza in punto.
Rispose immediatamente, lasciando che facesse appena uno squillo.
-Ciao mamma. -.
-Stavi aspettando eh? – ridacchiò Elen –Ciao Raven. Come te la passi? -.
-Sta andando tutto bene. La casa è ancora tutta intera e io viva. -.
-No? Allora hai imparato a cucinare? -.
-Divertente mamma. No, ho mangiato fuori. -.
-Fuori? Spero che con Andrea non ti venga la buona idea di farlo tutti i giorni, non possiamo permettercelo. Dovrei davvero prendere tempo ed insegnarti a fare qualcosa di commestibile. -.
Raven ignorò l’ennesimo punzecchiamento sulle sue scarse qualità da chef, soprattutto fatto da sua madre che se la cavava appena meglio di lei. Replicò: -Ipocrita. No, ho mangiato a casa di… amici. -.
Sua madre rise: -E da che cappello li hai fatti uscire questi amici? Dai, non raccontarmi bugie. -.
-Non racconto balle. Sono andata a restituire la borsa a quei tipi che me l’hanno prestata. A casa del tuo amico. -.
-Oh. -.
Sentire sua madre perdere all’improvviso l’allegria la preoccupò non poco. Cambiò posizione sul divano, cercando un’altra posizione più comoda, mordendosi un labbro.
-Beh, è una novità. – continuò Elen, lo stupore di poco prima scomparso o solo mascherato –Dimmi, come sono? -.
-Strani. -.
-Strani? -.
-Diciamo che sono particolari… La ragazzina direi che è ok, è molto gentile e carina. -.
-Bene. -.
-L’uomo invece non si è mai tolto gli occhiali da sole, neanche in casa. Poi ha i canini appuntiti, non ne ho mai visti così in vita mia. Mentre il ragazzo con la mia età quando mi ha visto in casa ha chiesto “lei cosa ci fa qui?”. Ha calcato il lei, capisci? Come se fossi una persona particolare che non si sarebbe mai immaginato in casa sua! -.
-Forse è stata una tua impressione Raven. – commentò sua madre con una mezza risata –Vi siete appena visti… magari non è molto socievole, proprio come qualcuno che conosco. -.
-Ah-ah, sei proprio dell’umore stasera. – borbottò Raven pizzicandosi la radice del naso con uno sbuffo –Almeno non c’era quel tipo inquietante. Sai che bella atmosfera altrimenti? -.
-Non si è fatto vedere? Come mai? -.
-Hanno detto che lavorava. Secondo me è uno di quelli che va a cercare i debitori o chi non si presenta in tribunale, ne ha la faccia. -.
-Non essere così dura con lui. -.
-Dammi un buon motivo e io non lo farò. -.
Sua madre sospirò, un sospiro da “ecco, mi ha messa all’angolo e non ho voglia di parlarne”. Infatti evitò l’argomento e disse: -Li hai chiamati amici. Mi fa piacere. -.
-Sì, beh, “ho mangiato da dei conoscenti” non suonava bene. L’ho detto tanto per dire. – si difese Raven –Tra l’altro sarebbe comunque sbagliato, perché non li conosco affatto. Sbagliare per sbagliare… tanto vale. -.
-Sei un’orsa. – la sgridò bonariamente Elen –Dovresti farteli degli amici. A volte sono l’unica cosa che ti rimane. -.
-Già toccato l’argomento, già respinto. -.
-Ma ti sei trovata bene con loro o no? -.
Raven alzò gli occhi al cielo e borbottò: -Sta iniziando a starmi sui nervi, ti saluto. -.
Sua madre rise ancora: -Potresti darmela vinta una volta tanto. -.
-Mai. Andrea non è ancora arrivato e non riesco a contattarlo. Ne sai qualcosa? -.
-Oh, sì. È bloccato in aeroporto con il cellulare scarico. Non ha il caricabatteria dietro, perciò non so fra quanto sarà raggiungibile. Ma sta arrivando, non preoccuparti. -.
-E chi si preoccupa? – replicò Raven.
-Devo andare Raven. – l’avvisò sua madre facendo poi schioccare le labbra –Bacio. Ci sentiamo domani sera. -.
-Sì, a domani. Ciao mamma. -.
-Ciao Raven. Stai attenta. – la salutò Elen, attaccando la chiamata.
-Ah. Molto carino come saluto. Rassicurante, proprio. – pensò Raven bloccando lo schermo del suo telefono.
Finì di guardare qualche serie tv e poi fece il giro della casa per assicurarsi che tutte le finestre e le porte fossero chiuse a chiave. Sentendosi un’idiota, quando passò in cucina per dare un occhio fuori dalla finestra.
Non che si aspettasse di vedere l’uomo con la sigaretta di nuovo davanti a casa sua intento a fissarla come un maniaco ma… non si sa mai. No, tutto era tranquillo: i lampioni della strada illuminavano con la loro luce arancione la via centrale e anche parte del marciapiede di fronte, lasciando solo qualche angolo buio, ma irrilevante.
Fece passare lo sguardo con insistenza da un capo all’altro della strada, in cerca di qualcosa di sospetto.
Una macchina solitaria passò davanti a casa e per un attimo a Raven sembrò che ci fosse qualcosa tra i due coni di luce dei lampioni di fronte al suo lato della strada.
Attese che un altro veicolo attraversasse la strada e questa volta il furgone che l’aiutò nel suo spionaggio aveva fari più potenti: riuscì a vedere un naso appuntito e un paio di occhi brillanti.
-Un cane. – realizzò allontanandosi dalla finestra –Dev’essere un randagio. Se si ripresenta dovrò chiamare il canile… sarebbe un disastro se iniziasse a rovistare nella spazzatura. -.
Spense le luci e andò a dormire.
***
-Non conosco questo posto. -.
Insieme a sua madre e Andrea era solita fare qualche escursione in montagna o in qualche parco naturale, dove potevano godersi un po’ di sole e di aria pura. La sua buona memoria le aveva consentito negli anni di non perdersi sui sentieri percorsi anni prima, insieme ad un discreto orientamento.
Ma guardandosi attorno non riuscì a riconoscere tra i tronchi e gli arbusti qualcosa di familiare. A dire la verità non era neanche su un sentiero, notò guardando in basso. Con il naso per aria si accorse che le fronde degli alberi oscuravano completamente il sottobosco, senza lasciar passare neanche un filo di luce. O forse era notte.
-Sto sognando. -.
Girò su se stessa in cerca di qualcosa, senza neanche sapere cosa stava cercando. Provava una strana sensazione, incolpando uno strano peso sulla cicatrice.
Con la coda nell’occhio colse un movimento in mezzo ad un cespuglio e, prima che potesse avvicinarsi per controllare, una palla bianca saltò fuori da groviglio di rami.
-Ancora tu? – domandò Raven, riconoscendo il coniglio albino del sogno precedente, che adesso si puliva il musetto con le zampe anteriori con piccoli gesti nervosi –Non ho mai sognato la stessa cosa più di una volta. -.
Si aspettò che rispondesse con quella voce che non sembrava affatto appartenere ad un batuffolo di pelo. Se mai avesse immaginato un coniglio parlare gli avrebbe affibbiato una vocetta squittente, di certo non calda e musicale.
Sollevò le sopracciglia quando si rese conto che, mentre la guardava, il coniglio stava borbottando tra sé e sé, passandosi di quando in quando una zampa su quegli inusuali occhi cremisi.
Riuscì ad afferrare solo un: -… stupido sbaglio… grosso errore… superare i limiti… -, prima di perdere la pazienza e schioccare le dita per attirare la sua attenzione, dicendo: -Ehi, sto parlando con te. -.
Il coniglio sembrò scuotersi da quello stato e saltellò a destra e sinistra, come per controllare che in quello piccolo spazio tra gli alberi ci fossero solo loro.
Seguendolo con lo sguardo Raven notò che dal terreno si stava alzando una nebbiolina bianca. Attorno a loro non si vedevano più di tre o quattro alberi oltre la prima fila che li circondava, tanto era fitta e abbondante.
-Corri. -.
-Come scusa? – fece la ragazza, provando di nuovo quella scossa misteriosa dalla cicatrice.
-Corri. Sai correre? – chiese il coniglio, senza alcuna traccia di ironia, saltando ad un passo da lei, alzandosi per quanto potesse sulle zampe posteriori, con le orecchie che si piegavano di lato con piccoli scatti.
-Potresti restare stupito da quanto… -.
Il coniglio la interruppe facendo qualche rapido balzo lontano da lei, dichiarando: -Sopravvivere non è una competizione. -, con un tono che non ammetteva repliche, severo. Tutto il suo nervosismo sembrava essere stato cancellato per dire quello.
-Non posso neanche vantarmi di… -.
Il coniglio la interruppe ancora una volta, ripetendo per la terza volta: -Corri. -.
Sopra le loro teste un tuono crepitò ed esplose come una cannonata, facendo urlare per la sorpresa Raven.
-Perché diavolo dovrei mettermi a correre?! – urlò dietro all’animale, che con un paio di salti era scomparso nella nebbia davanti a loro.
Il peso che sentiva sulla cicatrice  da qualche momento diventò più opprimente, tanto che si mise una mano sul petto per accertarsi che effettivamente niente la stesse schiacciando in qualche modo.
Un altro tuono scosse l’aria e lei si premette le mani sulle orecchie.
Odiava i tuoni si da quando era bambina, le facevano venire un groppo alla gola e le ginocchia molli. Normalmente avrebbe cercato rifugio tra le braccia di sua madre o sotto le coperte. Tecnicamente era già sotto le coperte, ma non si stava calmando affatto.
Le sue orecchie sentirono qualcos’altro oltre all’inizio dello scrosciare di miliardi di gocce d’acqua sulle foglie degli alberi, qualcosa di potenzialmente più pericoloso di un temporale: un ringhio.
Si girò, cercando di vedere l’animale che avesse prodotto quel suono, ma quando si ripeté, molto più vicino di prima, decise di dare ascolto a quello che il coniglio le aveva detto di fare.
Cominciò a correre nella stessa direzione del coniglio, saltando con agilità degli arbusti. A qualche metro da lei riconobbe nella nebbia gli occhi del coniglio e i suoi contorni indistinti.
Si era fermato a vedere se l’avesse ascoltato.
Riprese a correre al suo fianco, una saetta bianca frusciante sulle foglie secche che pian piano stavano diventando bagnate e scivolose per colpa dell’acquazzone.
Raven non fece neanche caso se si stesse bagnando o meno, ma piuttosto si concentrò sui rumori spaventosi che sentiva dietro di sé: ringhi, grosse zampe che battevano il terreno molle, ansiti affannati. Sentiva i capelli rizzarlesi sulla nuca e la pelle d’oca sulle braccia scoperte.
-Da cosa stiamo correndo? – chiese tra un respiro e l’altro.
-Non voltarti. – rispose il coniglio con un tono che sfiorava talmente la professionalità da farle pensare che dovesse scappare da qualcuno quotidianamente. Essendo un coniglio la cosa era altamente probabile.
-Rispondimi! -.
Il coniglio saltò su un sasso e spiccò un balzo tanto alto che Raven lo poté vedere con la coda nell’occhio all’altezza del suo viso.
-Andiamo al sicuro. – disse il coniglio atterrando –Prima che ti prendano. -.
-Perché ce l’hanno con me? Chi ce l’ha con me? -.
-Devi raggiungere la casa grigia e stare al sicuro. Loro ti aiuteranno. -.
-Oh, per l’amor del… si può avere una riposta chiara?! – sbottò Raven.
Voltò la testa per vedere cosa le stesse praticamente col fiato sul collo. Mentre lo faceva inciampò in qualcosa di duro e cadde.
Urlò e cercò subito di alzarsi, terrorizzata che la massa scura ed enorme con occhi rossi e luminosi come carboni ardenti dietro di lei le saltasse addosso e la sbranasse, ma quando lo fece le mani non toccarono un letto di foglie zuppe di pioggia, né fango.
Ansimando, spostò le mani a terra per accertarsi che quelle fossero davvero le sue coperte. Alzò la testa, cercando di regolarizzare il respiro, guardando il letto, la scrivania e la finestra.
-Camera mia. – boccheggiò passandosi poi la lingua sulle labbra secche –Era solo un incubo. -.
Si mise seduta, togliendosi le coperte di dosso, massaggiandosi le ginocchia doloranti per la caduta, perfettamente sveglia.
Quando si fu calmata abbastanza, guardò l’ora e controllò poi fuori dalla finestra per vedere se Andrea era arrivato o no.
 Provò di nuovo a chiamarlo sul cellulare, ma sentì solo la segreteria.
-Questa giornata comincia male e continua peggio. – borbottò alzandosi per andare in bagno.
Aprì l’acqua fredda e si bagnò subito il viso, rabbrividendo.
Questi sogni erano assurdi. Quel coniglio era assurdo.
Un coniglio che l’avvisava di mettersi al sicuro nella casa grigia… la casa di Matisse? Non conosceva altre case grigie, per cui doveva essere quella.
Scosse la testa: tutto questo era il suo subconscio che le faceva brutti scherzi.
Si stava semplicemente preoccupando per l’assenza di sua madre e di Andrea. Ammetteva a sé stessa che stare da sola la rendeva inquieta, dato che non lo era mai stata in vita sua. Ma addirittura farci su degli incubi come una mocciosa?
Le venne quasi da ridere.
Segnare poi la casa grigia come sicura, certo! E cos’altro? Sarebbe poi saltato fuori che il tipo con la sigaretta era il suo vero padre?
-Ma il coniglio? – pensò scendendo in cucina per mangiare colazione –Quello non sembra… mio. Inventato dalla mia mente addormentata. -.
La cicatrice la faceva sentire strana in sua presenza. Non era mai capitato prima. Certo, molte delle sue emozioni le sentiva all’altezza della cicatrice e non erano “sensazioni di pancia” come le chiamava sua madre. Ma questa specie di scossa era nuova.
Mentre mangiava cercò sul cellulare “coniglio bianco nei sogni”. Andrea le aveva detto che spesso i sogni nascondevano dei messaggi nascosti sotto forma di simboli: spesso risultavano veri, altre volte solo dei casi.
Lesse diverse voci e il riassunto era questo: simboleggia il punto d’ arrivo in un progetto che si sta per realizzare grazie all’aiuto delle persone che ci stanno accanto, un mondo magico, un partner puro di cuore, la paura di affrontare la vita di tutti i giorni…
Non aveva nessun progetto in corso.
L’unica persona cara era lontana chilometri.
La magia non esiste.
Non aveva nessun partner, fidanzato e neanche qualcuno che le interessasse.
La paura.
Paura ne aveva tanta dopo quell’incubo.
Ma era solo un insulso incubo, una cosa che non sarebbe mai accaduta. Quando mai sarebbe capitata in un bosco, inseguita da qualunque cosa fosse quella bestia?
No, era solo in pena per sua madre e l’essere sola a casa, ecco tutto. Doveva darsi una calmata e aspettare che Andrea arrivasse.
Diede un’occhiata al portafoglio e decise di andare a mangiare fuori per pranzo: poteva permettersi un kebab o un hamburger da qualche parte. Lo avrebbe mangiato poi a casa. Prima di uscire lasciò un biglietto sul tavolo della cucina ad Andrea, nel caso fosse arrivato proprio mentre lei era fuori. Così non si sarebbe preoccupato troppo. Per sicurezza aggiunse anche il numero di telefono del posto dove andava e il percorso che avrebbe fatto con un disegnino.
Uscì e rabbrividì di freddo. Si era dimenticata che al telegiornale la sera prima avevano previsto un temporale estivo con i controfiocchi.
Per un attimo pensò al suo sogno, ma fece una scrollatina di spalle per levarsi il pensiero: non aveva mai avuto sogni premonitori e quello non era di sicuro il primo solo perché si era svegliata con il terrore addosso. E poi aveva appena deciso che non c’era niente di cui preoccuparsi e che quel coniglio bianco era solo una sua paranoia.
Quando voleva andare a mangiare fuori di solito andava in un piccolo locale vicino al centro commerciale della città, gestito da un vecchio italo-americano che preparava pizze e panini.
Calcolando bene il tempo del percorso, andata e ritorno, preparazione del panino ed eventuali chiacchere con il proprietario, sarebbe tornata a casa giusto per l’ora di pranzo. Avrebbe preso qualcosa anche per suo zio, così nel caso arrivassero insieme non avrebbero perso tempo a cucinare.
Magari dopo avrebbe mandato un messaggio a Matisse mentre si guardava un film alla televisione o al computer.
Raggiunse il locale quando nel cielo ormai si erano raggruppati nuvoloni scuri promettenti pioggia e fulmini. Si affrettò a raggiungere la piccola tettoia che riparava l’entrata in tempo per evitare la prima spolverata d’acqua, solo per leggere un cartello sulla porta a vetri chiusa che annunciava il fatto che il negozio era chiuso per lutto.
-Accidenti. – borbottò –Dovrò andarmene a casa a mani vuote. Adesso sì che ci vorrebbe Andrea a casa per fare qualcosa. -.
Con uno sbuffo seccato si tirò il cappuccio della felpa che indossava sulla testa e uscì da sotto il riparo. La pioggia era talmente leggera che a stento la sentiva sui vestiti, ma sapeva che sarebbe tornata a casa comunque gocciolante. Sperò di raggiungere casa prima che iniziasse a tuonare.
Mentre camminava ripassando mentalmente il contenuto del freezer per iniziare ad organizzare un pranzo in solitaria, notò un gatto dall’altra parte della strada: era piccolo e dal manto chiaro, con delle striature scure.
Non era inusuale vedere gatti in giro per strada di solito, ma adesso stava piovendo. I gatti non odiavano l’acqua?
-Non questo qua, evidentemente. – pensò, vedendo come sgattaiolava veloce sul marciapiede.
Notò che il gattino la superava di gran lunga per poi sedersi e aspettare che la superasse, per ripetere l’operazione ancora e ancora.
Lo vide attraversare la strada sulle strisce pedonali per raggiungere il suo lato della strada. Quasi si aspettò che poi le venisse incontro, quando mise piede sul suo marciapiede, ma le diede le spalle e proseguì nella sua stessa direzione, agitando la coda come se scodinzolasse. Ogni tanto si girava indietro, come se non si fidasse di averla dietro o per controllarla.
Per qualche motivo il comportamento di quel gatto la allarmò. Un gatto sano di mente non si aggirava sotto la pioggia e, a giudicare dal pelo appiccicato al corpo, doveva esserlo da molto tempo.
-Prima il cane di ieri sera, ora questo gatto. Mi sento fin troppo osservata. -.
Il gatto si fermò al suo stesso semaforo. Si sedette vicino al palo, a qualche passo da lei, guardandosi attorno con la pioggia che gocciolava dai baffi bianchi.
Attese pazientemente che la sagoma dell’omino in movimento s’illuminasse e si guardò attorno anche lei: era l’unica anima viva abbastanza scema da andarsene in giro con quel tempaccio, oltre ai tizi sulle automobili e al gatto zuppo.
La pioggia s’intensificò un poco e un fulmine squarciò le nubi con un potente tuono che la fece sobbalzare.
La paura del sogno la colse all’improvviso per un attimo, ma passò subito.
Ridacchiò pensando a quanto era stupida, a spaventarsi per un temporale.
Ma smise immediatamente quando l’ultima auto passò davanti a lei nell’altra corsia lasciandole libero il campo visivo del marciapiede dall’altra parte della strada, proprio mentre il gatto soffiava spaventato e cominciava a correre via sollevando piccoli spruzzi d’acqua.
Due enormi cani dal pelo nero arruffato reso lucido dalla pioggia la guardavano con i denti scoperti in un ringhio dall’altra parte della strada.
Non fu il fatto che non erano al guinzaglio, soli e che sembrassero avercela proprio con lei che le fece tremare le gambe.
Ma gli occhi rossi luminosi come bracieri come la bestia nel suo sogno.
-Corri. – le disse la voce del coniglio nella sua testa.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4: Mezzi demoni ***


CAPITOLO 4
Mezzi demoni


Il cappuccio le era scivolato via dalla testa e i capelli fradici le impedivano la vista del marciapiede dove correva e gli eventuali ostacoli.
Aveva iniziato a correre ancora prima che cominciassero quei due cagnacci, girando i tacchi e tornando indietro, cercando di mettere immediatamente distanza tra loro. Non aveva assolutamente idea se quelle due bestiacce avrebbero iniziato ad inseguirla, ma era meglio sentirsi ridicola per una reazione esagerata che avere quei denti dentro la carne.
E il ricordo del sogno le aveva messo le ali ai piedi ancora prima di fare un ragionamento logico su quella situazione.
Poteva sentire quei cagnacci starle alle calcagna tanto vicini da sentirli calpestare il terreno bagnato e il graffiare delle loro unghiacce sulla superficie lastricata.
Non riusciva a pensare chiaramente se non a non fermarsi e di accelerare il passo. L’affanno però le stava facendo sbagliare la respirazione per continuare ancora a correre con sufficiente impegno.
Aveva la netta sensazione che il cuore le volesse uscire fuori dal petto, non solo perché la cicatrice le facesse un male cane, come se la pelle fosse tirata: aveva una paura fottuta in quel momento.
Nella confusione più totale vide una macchina solitaria attraversare la strada a velocità sostenuta e le balenò in mente un’idea disperata per togliersi quelle bestie di torno.
Chiudendo gli occhi fece un salto nella carreggiata e attraversò la strada.
Sentì freni stridere pericolosamente vicino a lei e un grido soffocato provenire dall’interno della macchina, probabilmente un insulto, ma niente urti o guaiti sofferenti.
Per buona misura non si voltò per vedere se effettivamente almeno uno di loro fosse stato investito dalla macchina prima di controllare.
Ma non ce ne fu bisogno, perché sentì abbaiare dietro di lei.
-Non ha funzionato bella! – le sembrò che quel latrato dicesse e cercò di accelerare.
Correre in quella maniera su della pietra bagnata le poteva costare uno scivolone. Sarebbe stata una bella seccatura cadere.
Avrebbe voluto urlare ma chi l’avrebbe sentita?
Aveva superato il centro dove poteva ancora sperare di trovare rifugio in un qualche negozio (ma si sarebbero davvero arresi i suoi inseguitori di fronte ad una vetrina?) e ora era in un quartiere residenziale: avrebbe potuto chiedere aiuto, sgolandosi fino a diventare rauca, ma non sarebbe riuscita a rallentare per entrare in qualche porta aperta da un buon samaritano senza che quei cagnacci da incubo la raggiungessero.
Non sarebbe neanche riuscita a chiamare qualcuno con il cellulare.
Imprecando ad alta voce, s’infilò in un vicolo.
Era bloccato da una rete metallica alta almeno tre metri.
 Per un attimo si disperò, vedendo la sua via di fuga sbarrata, ma notò una cassa di legno e un cassonetto della spazzatura chiuso addossato al muro e alla rete.
-Ti prego ti prego ti prego… - pensò saltando sulla cassa e poi sul cassonetto –Reggimi per qualche secondo. -.
Si alzò in piedi sul coperchio instabile e saltò sulla rete, aggrappandosi alla cima con le braccia. Puntò i piedi nei fori e si arrampicò, lasciandosi cadere dall’altra parte.
Atterrò in ginocchio, miracolosamente senza farsi male, mentre i cani si buttavano sulla rete con un clangore metallico, abbaiando furiosamente.
La ragazza si alzò e barcollò all’indietro, allontanandosi da loro, prendendo fiato a boccate profonde.
Dandosi lo slancio per saltare sulla rete aveva spinto via sulle sue ruote il cassonetto. Per cui, se anche fossero stati capaci si saltare su quella cassa di legno e poi sul cassonetto come aveva fatto lei, non sarebbero mai riusciti a saltare oltre la rete e raggiungerla.
Una risata liberatoria le scappò dalle labbra e mostrò loro il dito medio, esclamando: -Prendete questa bastardi! Ah! -.
I cani neri si buttarono ancora un paio di volte contro la recinzione, facendola tremare violentemente, in modo scomposto, come se fossero molto frustrati dal non poterla raggiungere.
Sotto gli occhi della ragazza, dopo questi tentativi inutili, i cani indietreggiarono e saltarono sui muri: appoggiarono tutte le zampe sui mattoni in un incredibile salto ben più alto di quanto lei potesse immaginare potessero mai fare e poi sulla cima della rete, pronti a scendere e riprendere l’inseguimento.
Raven non aspettò che atterrassero, imprecò nuovamente e ricominciò a correre con un nodo alla gola.
Dove poteva rifugiarsi da dei cani che sapevano saltare una rete alta il triplo di lei?
Provò ancora una volta a svoltare ormai a casaccio in un’altra strada e s’imbatté in uno dei parchi cittadini, piuttosto piccolo e con un’area attrezzata per i bambini. Non poteva certo nascondersi sullo scivolo, quei cosi avevano saltato una rete usando i muri per darsi lo slancio, manco facessero parkour! Un cane normale quelle cose non avrebbe potuto farle neanche se si fosse impegnato! Una persona normale le sarebbe stata alle calcagna a malapena, mentre quelle bestiacce non sembravano neanche stanche!
Qualsiasi cosa a quell’ora sarebbe stata al limite delle sue capacità.
Forse era la paura, ma si sentiva le gambe molto pesanti e stanche in quel momento. O forse correva da molto ed aveva perso la cognizione del tempo.
Per un attimo cercò di guardare oltre le sue spalle, per vedere se era riuscita a mettere un po’ di distanza tra lei e i suoi inseguitori, e andò a sbattere con una gamba contro una panca di pietra.
Finì a terra rotolando su un fianco, con un’esplosione di dolore al ginocchio destro. Se lo strinse digrignando i denti per il male, mentre sopra di lei un altro tuono scuoteva l’aria.
Provò a rialzarsi, ma la gamba cedette. Non riusciva neanche ad appoggiare il piede per terra.
Non poteva più scappare.
Stringendosi il labbro inferiore tra i denti si trascinò contro l’unica cosa che in quel momento potesse proteggerle almeno le spalle, un albero, pensando con rabbia: -Quello schifoso coniglio deve pagarmela per aver avuto ragione. -.
Solo allora si accorse che il temporale aveva reso il cielo così scuro da far sembrare che fosse notte. Sotto l’albero aveva un po’ di copertura dalla pioggia, che adesso cadeva violentemente dalle nubi.
I suoi inseguitori, vedendola a terra e ferita, avevano rallentato il passo e adesso erano a poco più di due metri da lei, terribilmente grossi e dall’aspetto famelico, con quegli occhi innaturalmente rossi.
-Si può sapere che volete da me, eh, bastardelli? – fece Raven, stringendosi il ginocchio al petto con una mano, mentre con l’altra cercava tra l’erba qualcosa con cui proteggersi. Avrebbe dato qualsiasi cosa per avere almeno un manico di scopa.
Aveva fatto quella domanda senza aspettarsi un’effettiva risposta.
Invece, il cane alla sua sinistra, alzò la testa e rispose: -Come se non lo sapessi, Portatrice. -.
Raven non poté fare a meno di spalancare la bocca per lo stupore.
Quel cane aveva parlato. Aveva parlato con una voce assolutamente fastidiosa, piena di boria, trascinando le erre come se fossero un corto ringhio.
-Una pessima idea fare una passeggiata senza scorta. – continuò il cane con tono ironico.
-Che cosa… i cani non parlano. -.
-Non siamo cani. – tagliò corto l’altro cane, con un tono di voce molto meno attaccabrighe del suo collega.
-E allora cosa sareste? -.
I due cani si scambiarono una fugace occhiata interrogativa, ma quello alla sua destra tornò a guardarla in fretta, rispondendo: -Tutto a tempo debito. Adesso verrai con noi Portatrice. -.
-Mi sembra evidente che abbiate sbagliato persona. – ribatté Raven –Non mi chiamo così, sempre che quello sia un nome. Lasciatemi stare bestiacce! -.
-Basta fare storie. – tagliò corto il cane a sinistra, mentre l’altro avanzava verso di lei.
Raven appoggiò tutte e due le mani a terra, pronta a darsi una spinta con le braccia per alzarsi e ricominciare a correre. Il ginocchio faceva ancora male, ma avrebbe provato comunque ad allontanarsi e tornare a casa, dove poteva chiudersi a chiave dietro una porta.
La mano che stringeva la gamba fino ad un momento prima sfiorò qualcosa di duro che prima non aveva potuto raggiungere con l’altra.
Senza pensarci due volte l’afferrò e mulinò il ramo contro il cane.
Accadde talmente in fretta che l’animale non ebbe il tempo di togliersi dalla traiettoria. Guaì di dolore, scrollando freneticamente la testa, indietreggiando con un balzo.
L’occhio sinistro sanguinava copiosamente, gocciolandogli lungo la guancia e il muso, imbrattandogli la pelliccia scura.
-Chuck! – esclamò l’altro cane andandogli vicino, annusando la ferita fresca. Si girò verso di lei con un ringhio furibondo: -Questa la paghi cara! Ti strapperò quella mano a morsi prima di portarti con noi. Che tua sia a pezzi o meno non farà differenza! -.
Raven impugnò meglio il bastone insanguinato, mentre il cane si abbassava per prendere lo slancio per saltarle addosso.
Dai rami sopra di lei provenne uno scricchiolio e una gran quantità di gocce d’acqua le caddero sulla testa. Dalle fronde saltò giù un’enorme ombra che si frappose tra lei e i cani, sibilando.
Vide indietreggiare i nemici, che ringhiarono, come frustrati.
La ragazza si schiacciò ancora di più contro l’albero, impaurita dalla nuova presenza, anche se quella sembrava intimorire chi fino a quel momento l’aveva vessata.
Guardandola meglio si accorse che non era affatto un’ombra, ma una pantera nera, che ora brontolava minacciosamente all’indirizzo dei due cani. A giudicare dalla lucentezza del mantello anche quella era stata alla pioggia come lei per abbastanza tempo.
Colse un movimento alla sua sinistra, ed ecco apparire un altro cane dal pelo nero, ma questo era decisamente più grosso degli altri, con il pelo più lungo, il muso più appuntito, le orecchie triangolari e una coda lunga e cespugliosa. Effettivamente assomigliava di più ad un lupo che ad un cane.
Non la degnò di uno sguardo e camminò mollemente ad affiancare la pantera, senza emettere un suono.
-Voi da quanto siete qui? – chiese il cane accecato.
-Siete voi a seguire noi, non il contrario. Sapevate che l’avremmo trovata prima noi. – replicò il lupo con una voce che Raven giurava di aver già sentito –Perché siete degli incapaci. Non ti ricordavo mezzo cieco Chuck, che è successo? -. Si capiva che la sua preoccupazione per quello sconosciuto che adesso aveva un nome era completamente disinteressata, se non addirittura ironica.
Dalle sue parole Raven non capì se adesso doveva preoccuparsi anche di queste due nuove bestie o se erano lì per aiutarla.
-Fatevi da parte! – avvertì l’altro cane con rabbia –State interferendo con dei sottoposti di Regina Hydra, che stanno lavorando su suo ordine! -.
-Siamo ribelli Buck. Ci si aspetta questo da noi. – replicò con tono annoiato il lupo –Siamo realisti, basta girarci attorno: sappiamo bene che questo scontro non è equo. Lasciate stare la ragazza e tornate a casa con la coda tra le gambe. Altrimenti tornerete a casa senza comunque. -.
-Figlio di… -.
-Buck, basta. Per questa volta l’hai ancora fatta franca Milord. Ma quando torneremo a casa, non saremo noi a tornare per darvi la caccia. – disse il cane accecato.
-Ci stai suggerendo di farvi fuori? – domandò il lupo inclinando la testa di lato.
-Andiamo Buck. -.
Raven vide Chuck toccare il suo compare con il naso, incoraggiandolo a seguirlo, allontanandosi. Ma Buck non si mosse: continuò a fissare i suoi avversari con odio, ignorando i richiami dell’altro.
-Lei viene con noi! – urlò saltando verso la ragazza, che urlò a sua volta.
Da dietro l’albero schizzò fuori un cane marrone e bianco, che lo intercettò a mezz’aria e lo sbattè a terra, dove anche il lupo lo aggredì. La pantera saltò addosso a Chuck per impedirgli di attaccare i suoi compagni.
Fu una lotta breve e caotica, condita di guaiti, ringhi e ciuffi di pelo che volavano in aria, a cui Raven assistette impotente e pietrificata dalla paura che uno dei due cani neri le saltasse addosso.
Nella confusione, vide apparire del fumo scuro, che si diradò in un attimo portandosi via Chuck e Buck.
L’ultimo arrivato, che Raven riconobbe essere un akita, si scrollò con un verso soddisfatto, leccandosi le labbra bianche.
La pantera gli leccò la testa, strusciando il mento tra le sue orecchie, per poi avvicinarsi a Raven, che subito si rimise sulla difensiva: brandì il bastone nella sua direzione, cosa che fece fermare l’animale.
-Non avvicinatevi. – intimò –Ho già cavato un occhio di oggi, non mi pesa continuare. -.
-Che lingua tagliente. – osservò il lupo con tono piatto, osservandola con occhi grigi come l’argento, familiari come la sua voce –Ma dubito che con quella gamba potrai fare molto. -.
Lei lo sentì borbottare un basso: -Stupida ragazzina arrogante… - che le fece montare la rabbia e rispondere: –Ascoltami bene, sono bagnata fradicia, ho un male terribile al ginocchio, sono stata aggredita e ora sto immaginando animali parlanti, ma non permetterti d’insultarmi cagnaccio rognoso-.
L’akita ruotò le orecchie all’indietro e si mise a ridere con dei corti guaiti divertiti: –Sentito Milord, ti ruba gli insulti. -.
-Zitto sacco di pulci. – ringhiò lui rizzando il pelo sul collo in modo così autoritario e minaccioso che fece smettere l’altro di ridere immediatamente.
-Adesso basta, ha bisogno di cure e di abiti asciutti. Portiamola a casa. – li interruppe la pantera, per poi rivolgersi alla ragazza con premura, chiedendole: –Non ce la fai proprio a camminare? -.
Fu tentata di mandarlo a quel paese e fare domande: chi diavolo erano, come facevano a sapere che era nei guai, chi erano quei due e soprattutto che diavolo stesse accadendo.
Ma si rese conto che era stanca, spaventata e troppo dolorante per continuare a cercare di attaccarli a livello verbale.
E almeno era stato gentile con lei.
Scosse la testa e si toccò la gamba facendo una smorfia di dolore per conferma.
Sotto i suoi occhi, per quel giorno ormai abituati a tutto, la pantera prese la forma di un uomo. All’inizio non capì chi fosse, ma poi lo riconobbe: era Jaguar.
 
***
 
Per la seconda volta era ospite a casa di quella famiglia ormai decisamente fuori dall’ordinario, seduta su un divano arancio pastello nonostante i pantaloni sporchi, un altro di quelli in stile scandinavo ultra moderno. Ma non stette a guardare l’arredamento degno di una rivista.
Matisse le stava applicando un disinfettante ai graffi che si era fatta cadendo, dopo averle detto di muovere il meno possibile il ginocchio, adesso munito di un pacchetto di ghiaccio istantaneo per cercare di far passare il male.
Il Lupo nero era salito si sopra facendo ticchettare le unghie sul legno della scala, ordinando di prendersi cura di lei ed aspettare il suo arrivo per parlare.
Jaguar stava appoggiato al caminetto di mattoni vintage intento a guardare fuori dalla finestra, forse controllando che nessuno apparisse nel giardino.
Non portava gli occhiali da sole.
Ormai l’umana aveva visto la sua vera forma e non c’era il caso di nascondere i suoi occhi da felino, completamente identici a quelli di una pantera anche dopo essere tornato in forma umana. Era stato lui a portarla in casa sulla schiena, camminando per la città affiancato dal Lupo e dall’Akita, sempre sotto la pioggia, in silenzio.
L’Akita era Beast, il ragazzo della sua età. Lui se ne stava sprofondato su una poltrona abbinata al divano, giocando con il cellulare svogliatamente.
-Ti fa ancora male? – le chiese Matisse mettendole un cerotto su una scorticatura sul dorso di una mano.
-Non più tanto. – rispose lei, diffidente.
Chissà se lei era normale o si trasformava in qualche animale.
-Fantastico. Ora devo solo controllare il ginocchio per vedere che non sia lussato o peggio. Non spaventarti se senti tanto male quando toccherò. -.
-Dopo questa sera non mi spavento più di nulla. – le assicurò Raven. Ma non stava cercando di fare battute.
La bionda se ne accorse ma non disse niente. Tolse il ghiaccio e prese a palparle il ginocchio con delicatezza, inarcando e corrugando le sopracciglia, e Raven pregò che il suo ginocchio non avesse niente o chissà cosa le avrebbero fatto se avessero saputo che non poteva scappare così facilmente.
Matisse batté le mani l’una contro l’altra e annunciò soddisfatta: -Credo proprio che il tuo ginocchio stia bene! Solo una botta, basterà il ghiaccio per evitare che si gonfi e riposo. Ma se senti ancora tanto male posso darti un antidolorifico o… -.
Raven si alzò dal divano e, non trovando difficoltà a muoversi nonostante il ginocchio intorpidito dal ghiaccio e ancora dolorante, si diresse subito verso l’atrio dicendo: –Tranquilli, non farò troppi sforzi ad andarmene a casa. -.
Invece andò a sbattere contro qualcuno.
Facendo un passo indietro riconobbe l’uomo con la sigaretta, che la fissava con i suoi occhi grigi freddi come un iceberg. Quelli e i capelli spettinati neri come la notte le fecero capire che il Lupo era lui, cosa che la fece preoccupare non poco: era decisamente più grosso di Jaguar trasformato e anche più aggressivo nella lotta.
Lui le diede una spintarella con una mano sulla spalla, facendola indietreggiare ancora, dicendo: -Carina la battuta scenica per svignartela Portatrice. Ma tu non alzi il culo da quel divano per nessun motivo. -.
Vedendo che non si muoveva di un centimetro appoggiò di nuovo la mano sulla sua spalla e l’accompagnò rudemente a risedersi sul divano.
-Milord fai piano. – lo sgridò Matisse, sedendosi accanto a lei –Ha ancora male al ginocchio ed è spaventata. -.
-C’è gente peggiore di me là fuori Matisse, consolati. – replicò Milord –Ha ancora la testa sul collo. -.
-Voglio andarmene a casa. – disse Raven.
-E io ti ripeto che non puoi. – rispose Milord.
-Non puoi costringermi-.
Milord le dedicò un’occhiata feroce e si abbassò all’altezza dei suoi occhi, parlandole a pochi centimetri dalla faccia: -Se non te ne sei accorta posso diventare un animale strappa budella, ma se preferisci fuori ci sono ancora quei due e tantissime altre creature simili che vogliono farti fare una brutta fine. Dimmi, ora vuoi ancora uscire? -.
Sagace, provocatorio e arrogante. Antipatico con la A maiuscola.
-No. – dovette ammettere abbassando gli occhi, incapace di sostenere quel crudele color argento dei suoi occhi –Ma non voglio neanche restare qui. Non senza spiegazioni. -.
Milord ignorò l’implicita richiesta di darle informazioni per andarsi a sedere sulla poltrona gemella sulla quale Beast ora stava seguendo la situazione con interesse. A differenza sua, però, l’uomo (se lo era) si sedette in modo composto, accavallando le gambe ed appoggiando i gomiti sui braccioli, continuando a fissare la ragazza con sguardo inquisitorio.
Sporse il mento verso l’alto e chiese a bruciapelo: –Hai una cicatrice, vero? -.
-Questi non sono affari tuoi. -.
Solitamente con le persone che non conosceva era molto rispettosa e dava del lei, ma quel tipo lì era talmente arrogante da non meritarsi la sua cortesia. E poi stava parlando della sua cicatrice.
-Che bel caratterino… in ogni caso lo so che ce l’hai: l’ho percepita il giorno in cui ti sei fermata davanti alla villa. -.
-Percepita? – ripeté Raven lasciandosi sfuggire una mezza risata dettata dal nervosismo e l’assurdità di quella situazione –È una cicatrice. Me l’hanno fatta quando ero piccola per una complicazione al cuore. Voi siete pazzi e io non capisco se sto sognando o se sto impazzendo! Animali che parlano, persone che si trasformano, bestiacce che vogliono rapirmi e portarmi chissà dove, questo stupido nomignolo di “portatrice”… come diavolo fai poi a sapere della mia cicatrice per davvero? Te l’ha detto mamma? -.
Mentre parlava l’espressione apatica dell’uomo non era cambiata affatto. Ma Raven notò che invece gli altri tre sembravano stupiti di quello che stava dicendo, se non addirittura inorriditi.
Jaguar cambiò posizione, spostando il peso del suo corpo da un piede all’altro, guardandola con incredulità: -Non sai niente di tutto questo? -. Raven gli rispose facendo una smorfia che voleva dire “ti pare che ci stia capendo qualcosa e sia tutto normale per me?” e lui si rivolse a Milord, chiedendo: -Non sa niente? -.
Milord sospirò: -Sapevo che l’avevano tenuta all’oscuro di tutto. Il motivo è da idioti, ma dopotutto non ci ho potuto fare niente per quasi due decadi. Non date la colpa a me se tutto grava sulle sue spalle ignoranti. -.
-Beh potresti metterci rimedio adesso. – sbuffò infastidita Raven, decidendo di ignorare l’insulto –Posso avere queste spiegazioni o no? Chi o cosa siete? -.
Milord fece un cenno con la testa a Jaguar, che si schiarì la gola con un colpetto di tosse e disse: -Diciamo che non siamo umani. Siamo mezzi demoni. -.
-Certo, come no… - fece Raven schioccando la lingua, con tono sarcastico.
-Raven, non vorrei essere così dura con il tuo scetticismo… - disse Matisse con comprensione, facendole girare la testa verso di lei. Raven vide seduto accanto a lei sui cuscini del divano lo strano gattino striato che l’aveva accompagnata in strada prima, che dopo un attimo di silenzio disse con la voce di Matisse: -… ma credo che gli umani non possano fare una cosa del genere. -.
La ragazza si scostò subito dall’animale, indietreggiando sul divano fino al bracciolo, con gli occhi spalancati. Anche la ragazzina era una di loro… probabilmente allora il cane che aveva visto la sera prima era Beast che la controllava.
Dopo un attimo di silenzio in cui non riuscì a distogliere lo sguardo da Matisse, Raven ripeté lentamente: -Demoni? Quei mostri umanoidi con corna, coda e forcone? -.
-Mezzi. – le ricordò Beast –Ma Matisse è un angelo. Te lo hanno detto che non siamo fratelli di sangue, no? -.
La ragazza deglutì, senza parole.
Era nella stessa stanza con delle creature teoricamente immaginarie, conosciute per essere ingannatrici, violente, subdole e malefiche. E un angelo, certo, era da aggiungere alla lista.
Sentì come un nodo allo stomaco che la fece stare quasi male a livello fisico.
Era evidente che quello che era successo era reale: a conferma aveva ancora i vestiti bagnati fradici, il dolore al ginocchio e Matisse ancora in forma di gatto accanto.
O era decisamente un brutto sogno o la realtà era ben diversa da quello che immaginava.
Si mise le mani nei capelli e appoggiò i gomiti alle ginocchia, cercando di non scoppiare in una crisi isterica.
-Hai bisogno di un bicchiere d’acqua? – chiese Matisse, ma qualsiasi risposta fu zittita da Milord: -Matisse, non è il momento di essere gentili. -.
-Mi sembra che sia il momento di essere comprensivi invece. – ribatté Matisse con fermezza, cosa a cui lui reagì con un cenno della mano in direzione della cucina, a labbra strette.
Matisse saltò sullo schienale del divano e trotterellò via silenziosamente.
-Altre domande? -.
Raven avrebbe avuto voglia di strozzarlo. Si morse un labbro e chiese: -Perché mi chiamate Portatrice? Mi chiamo Raven. Dato che sa dove abito e hai parlato con mia madre, immagino tu sappia benissimo come mi chiamo. -.
Si aspettava che le rispondessero e invece Milord alzò una mano in direzione di Jaguar, che stava per dare spiegazioni, ed esordì: -Per oggi basta così. Finiremo questo discorso domani: resterai qui e non ti muoverai finché non lo riterrò opportuno. -.
Raven s’infervorò e sbattendo un pugno sul divano esclamò: –Sentimi bene, posso anche sopportare il fatto che non vogliate spiegarmi niente, ma voglio tornare a casa mia! -.
Il mezzo demone strinse i braccioli della poltrona e corrugò la fronte, arricciando il naso. Si stava trattenendo dal ringhiare, realizzò Raven: evidentemente non era abituato ad avere qualcuno che gli tenesse testa.
All’improvviso un telefono suonò. Il rumore sembrava talmente estraneo a quella situazione che sembrava provenire addirittura da un’altra realtà.
Poi Raven si rese conto che era il suo telefono.
Lo prese dalla tasca e lesse sul display che era sua madre a chiamarla, fuori dall’orario concordato.
Si affrettò a rispondere: -Mamma che succede? -.
-Nulla, ho cinque minuti liberi. Come va? -.
Rassicurata che non era un’emergenza, Raven si affrettò a dire: -Mamma, quel tipo che è venuto a casa è un… -.
Senza neanche averlo visto muoversi, la ragazza si trovò Milord davanti, che le strappò il telefono dalla mano. Raven era convinta che avrebbe attaccato la chiamata. Invece premette il tasto del vivavoce e si avvicinò il microfono alla bocca, dicendo: -Pronto Elen. Sono io. -.
Raven trattenne il fiato.
Che aveva intenzione di fare?
-Che sta succedendo? – fece sua madre con tono preoccupato.
-Niente di preoccupante. – rispose con nonchalance Milord, guardando Raven negli occhi, l’ombra di un sogghigno sulle labbra –Ho ritenuto opportuno portare tua figlia a casa mia: purtroppo ci sono dei malintenzionati nel quartiere. Feccia. È meglio che non se ne stia sola a casa, non credi? Potrebbe essere troppo pericoloso. -.
-Mam… -.
Milord le tappò la bocca prima che potesse anche solo richiamare l’attenzione di sua madre. Provò a sottrarsi alla stretta, ma quella del mezzo demone era troppo forte per riuscire a scivolare via o fargli perdere la presa.
-Va bene. Come sta? -.
-È scossa. – rispose Milord –Meglio che attacchi, si sta agitando. -.
-Fammela salutare. -.
A quanto pare quel tipo non era solito dare ascolto agli altri, perché invece che permetterle di parlarle, attaccò.
Raven schiaffeggiò via la sua mano, esclamando: -Ridammi il cellulare! -.
-Certo. – assentì lui lanciandoglielo in grembo.
-Non ho idea se mia madre sappia di che razza di abominio sei, ma sappi che alla prossima telefonata le dirò tutto. – minaccio Raven –Ti strapperà le palle per come mi hai trattata. -.
-Oh, tua madre mi conosce.  – replicò Milord con una scollata di spalle –Non so se crederà a te o a me su questa faccenda. -.
-Io sono sua figlia. -.
-Ma io cosa sono per lei? -.
Raven digrignò i denti, non sapendo come rispondere. Decise di ribattere: -Io glielo dico lo stesso. -.
-E io ti apro la testa come un’anguria. – sibilò il mezzo demone avvicinandosi ancora una volta pericolosamente al suo viso, costringendola ad evitare il contatto stringendosi allo schienale del divano –Voi preoccupare tua mamma? Bene, fallo, dille tutto, coinvolgila in questa brutta storia: hai le spalle abbastanza larghe da prenderti questa responsabilità. -.
La ragazza fece per aprire la bocca e rispondere a tono. Però non le venne in mente come controbattere a quella parte della faccenda.
Serrò le labbra e si allontanò da lui lasciandosi cadere con le spalle contro lo schienale del divano, evitando il suo sguardo.
Comprendendo che l’ultima parola era la sua, Milord si raddrizzò, incrociando le braccia dietro la schiena, dirigendosi verso l’ingresso senza nascondere la soddisfazione con il tono di voce con cui disse: -Jaguar, assicurati che non provi a scappare. Matisse, preparale una stanza. Lessie, non disturbarmi. -.
Raven agguantò il pacchetto di ghiaccio caduto a terra e glielo lanciò dietro, ma il mezzo demone si girò in tempo per prenderlo e restituirglielo, con tale velocità e forza, che la ragazza non fece in tempo a schivarlo. Il pacchetto la colpì sulla fronte e Milord sparì indisturbato.
Matisse, che era rimasta nell’ingresso della stanza, sgridò Milord per il suo comportamento e si scusò profusamente con Raven, porgendole il bicchiere d’acqua che era andata a prendere, ma lei si girò dall’altra parte.
-Non te la prendere, Milord è uno stronzo quando ci si mette. – disse Beast, ma si guadagnò un’occhiataccia che lo fece ammutolire.
-Io qua non ci resto. – sibilò Raven cocciutamente, stringendo il pacchetto di ghiaccio tra le mani.
-Capisco che tu non voglia restare dopo questo trattamento. – intervenne Jaguar –Mi dispiace per come si è comportato Milord piccola… è un momento di tensione per tutti noi. Ma non puoi tornare a casa tua, è davvero troppo pericoloso per te: è molto meglio se resti sotto la nostra protezione qua. -.
Raven si trovò costretta ad annuire. Va bene, là fuori era riuscita a tenere a bada quei due mettendosi le ali ai piedi e accecandone uno con un bastone. Però se non fosse arrivata la cavalleria sotto forma di quei tre, se la sarebbe vista molto più brutta.
Vedendola titubante, Jaguar continuò: -Non è una situazione piacevole, lo so. Non hai neanche niente di tuo, dopotutto. Facciamo così, ti accompagno a prendere qualcosa a casa tua: torneremo prima che Milord se ne accorga e che qualcuno torni sulle tue tracce. Che ne dici? -.
Il suo tono e la proposta più che ragionevole fece passare una parte della rabbia alla ragazza. Annuì e lo seguì fuori dalla casa, dando un’ultima occhiata alle scale per vedere se per caso Milord (insomma, questi nomi diventavano sempre più assurdi) li stesse osservando.
Mentre saliva insieme a Jaguar sul pick-up verde chiese: -Che succede se Adolf ci scopre a non rispettare i suoi ordini? -.
-Niente, se tu torni sana e salva. – rispose tranquillamente l’uomo accendendo la macchina e aprendo il cancello con un telecomando –Ma con me sei al sicuro. Con tutti noi sei al sicuro. So che è una cosa assurda per una ragazza come te abituata alla normalità, ma ti devi fidare di noi. Sappiamo cosa stiamo facendo. -.
-Lo spero vivamente. -.
Per distrarsi osservò l’interno della macchina: era ordinata e profumava di pulito. Evidentemente ci teneva ad avere una macchina lustra.
Appeso allo specchietto retrovisore c’era un piccolo acchiappasogni bianco con delle piume multicolori che dondolava lentamente ad ogni movimento della macchina.
Non ci misero molto tempo ad arrivare a casa sua.
Scesero insieme ed entrarono. L’aveva lasciata aperta, ma non c’era entrato nessuno per fortuna.
Salì le scale dicendo al suo accompagnatore un frettoloso: -Ci metto poco. – per dirigersi in camera sua.
Prese il suo zaino da escursione e ne controllò il contenuto sul letto, valutando se poteva essere roba utile anche per quella situazione assurda.
Aprì l’armadio e prese maglie e pantaloni da mettere dentro allo zaino, lasciandole piegate per risparmiare spazio. Per fortuna era sempre stata una persona che in viaggio non si portava mai molto e riusciva a sopravvivere con i soliti vestiti senza preoccuparsi degli accostamenti e delle occasioni. Riuscì a farci entrare anche un paio di scarpe extra e una giacca. Non si dimenticò di recuperare il caricabatteria del cellulare e prelevare dei soldi dalla sua banca personale nascosta sotto il letto.
Poi andò in camera di sua madre.
Aveva sempre avuto un grande rispetto per quella stanza, non ci entrava molto spesso da quando aveva passato i dieci anni. Si ricordava però di quando faceva un brutto sogno da piccola e vi si rifugiava, strisciando nel cuore della notte sotto le coperte per finire tra le braccia della madre.
Entrò solo per prendere la foto del padre: eccola sul suo comodino, accanto alla lampada, dietro alla sveglia digitale.
La sua cornice era molto semplice, di legno scuro, senza decorazioni, con la loro foto dentro. In quella foto il volto del padre era leggermente in ombra, con il viso parzialmente coperto ed il corpo sfocato, come se solo quella parte della foto fosse rimasta male.
Non vi diede importanza e la mise dentro lo zaino. Se mai qualcuno sarebbe entrato in casa, quella non l’avrebbero avuta o rovinata.
Si voltò per tornare indietro, ma si soffermò a dare un’occhiata alla cabina armadio della madre. Non aveva mai notato che sopra all’armadio nella cabina ci fosse un libro abbastanza voluminoso.
Entrò nella stanza e avvicinò la bassa scaletta di ferro che Carol utilizzava per dipingere le pareti della casa o per avvitare le lampadine all’armadio salendovi sopra. Prese il libro e lo spostò.
Si accorse che non era affatto un libro, ma un album di fotografie con la copertina in stoffa a fantasia stellata blu e bianca. Era uno strano tipo di album, non ne aveva mai visti chiusi da una placca laterale con una specie di lucchetto con le lettere al posto dei numeri.
La osservò per bene e non notò nessuna serratura per aprirlo con una chiave.
Che cosa strana…
Lo mise nello zaino e tornò al piano di sotto da Jaguar.

°°°

NB: il cane dal quale ho preso ispirazione per la forma animale di Chuck e Buck, è l'Irish Wolfhound o Levriero Irlandese. L'ho scelto per il suo aspetto a prima impressione da "cane da pagliaio", come si dice dalle mie parti, che si addice alle origini umili dei due. Infatti, vistolo in carne e ossa ad una mostra canina in tutta la sua grandezza, il mio fidanzato notò candidamente che sembrava il tipo di cane che di solito affiancano ai vagabondi e senzatetto nei film, solo con stazza da guerra. Fun fact, è anche il mio patronus su Pottermore, cosa che ho scoperto almeno un anno dopo la prima scrittura della storia.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5: Regina ***


CAPITOLO 5
Regina


-Non sei in grado di curarti da solo? –.
Chuck scosse la testa, tenendola chinata.
Sentì il medico schioccare la lingua e borbottare a bassa voce: -Mezz’umani… neanche in grado di curare un graffietto. -.
Il mezzo demone sentì le guance andare in fiamme per la vergogna. Avrebbe voluto andarsene, ma l’occhio gli faceva veramente male. Il dolore era talmente intenso da fargli stringere i denti tanto che aveva il timore di schiantarli
Buck aveva insistito per portarlo a far vedere la ferita, quando lui non avrebbe neanche voluto… con che soldi potevano permettersi le cure?
-Quanto hai? – chiese infatti il demone, continuando ad occupare l’entrata della sua minuscola clinica.
Nei dintorni era conosciuto per essere un semplice segaossa, che cauterizzava le ferite e cavava denti marci ai poveracci. Lui non si sarebbe mai sognato di anche solo degnare d’una occhiata quel posto da infime speranze, ma non osava presentarsi dal medico reale.
Se lo avesse visto con quella ferita che continuava a sanguinare…
Meglio andare da qualcuno attaccato ai soldi che agli ideali.
Si mise una mano in tasca e tirò fuori due monete d’argento, con la stella a sette punte da un lato e la testa di Hydra dall’altra. Buck avrebbe voluto prendere di più, ma Chuck lo aveva fermato dal mettere mano ai risparmi: servivano per l’affitto e il cibo.
Il demone saggiò subito le monete con i denti, grattandole poi con l’unghia del pollice per vedere se rimaneva attaccato un qualsiasi residuo che avrebbe potuto indicare che cercava di fregarlo.
Gli lanciò comunque un’occhiata sospettosa e gli disse di entrare con un grugnito infastidito. Come se in quel momento avesse avuto molto di meglio da fare che dare una controllata e guarire un occhio accecato.
Con un cenno sbrigativo della mano gli indicò una sedia, su cui il mezzo demone si sedette.
-Fai vedere. – ordinò il dottore stringendogli due dita grassocce sul mento, obbligandolo a guardarlo. Con l’altra mano gli tolse la benda provvisoria che si era stretto attorno alla testa con un fazzoletto e un po’ di garza a tamponare il sangue.
Con l’occhio buono vide il demone fare una smorfia disgustata, tirando addirittura fuori la lingua dalla bocca, mentre buttava a terra il bendaggio casalingo.
Si mise le mani sui fianchi e gli chiese: -Come diavolo hai fatto a farti una ferita del genere? -.
-Un incidente. – si limitò a rispondere Chuck.
-Tutto qui? -.
-Sì, signore. -.
Sembrò deluso e indispettito dal fatto che non sembrasse voler approfondire l’argomento. Come se quello avesse la priorità rispetto all’occhio. Con uno sbuffo si allontanò da lui per andare ad indossare un grembiule disseminato di macchie, dicendo con tono disinteressato: -Per quello che mi hai dato posso toglierti la scheggia che ti sei piantato nell’occhio e disinfettarti. Nient’altro. Solo perché sei un cane di Regina non vuol dire che avrai un trattamento di riguardo, mezzo uomo. -.
Lo guardò in tralice come se si aspettasse che controbattesse o s’indignasse per quello che aveva appena detto. Chuck sapeva già che avrebbe ricevuto quel tipo di trattamento. Non lo risparmiavano a corte, figuriamoci nei bassifondi. Tuttavia trovò il coraggio di chiedere: -Non bastano per un antidolorifico, signore? -.
Il dottore sbuffò: -Certo che no. Fai come tutti, prenditi una bella sbronza e dormici su. Se dovesse continuare a fare male, ripeti, se te lo puoi permettere. Prima o poi passerà. -.
-Grazie per il consiglio. -.
In poco meno di qualche minuto era tutto finito.
Con una nuova benda legata alla testa, si avviò giù per le scale del palazzo dove il dottore aveva la sua clinica, appoggiandosi al corrimano come se fosse un bastone per camminare. Aveva perso un bel po’ di sangue da quella ferita e come se non bastasse la lotta con Jaguar l’aveva sfiancato. Non c’era un osso che non gli facesse male, ma solo in quel momento se ne rese completamente conto. Forse era colpa dell’adrenalina.
Maledetto suo cugino e le sue manie di compiacere Regina… che diavolo gli era passato per la testa? Buttarsi a testa bassa in una lotta con la cricca di Milord, che razza di idee!
Lo seguivano da anni per riuscire a trovare la Portatrice e quando fosse successo avrebbero dovuto tornare a casa ed avvertire chi di dovere.
Ma a vederla sola Buck non aveva resistito a tentare di portarla al cospetto della sovrana senza l’aiuto di nessuno. Un’idea da megalomane che li aveva morsi nel didietro.
Come aveva fatto ad assecondarlo, non lo sapeva neanche lui.
Uscì fuori nella strada, dove Buck lo aspettava.
Si girò verso di lui con l’aspettativa dipinta in volto, per poi cambiare completamente espressione quando lo vide trattenere una smorfia di dolore e portarsi una mano alla benda.
-Che ti ha fatto? – gli chiese alzandosi da terra, spazzolandosi i pantaloni con qualche colpetto sbrigativo sul retro delle gambe.
-Non molto. Ha disinfettato e tolto qualcosa che ci era rimasto dentro. – rispose lui.
-Cosa?! – sbottò Buck stringendo i pugni –Gli abbiamo dato due monete d’argento! Poteva fare qualcosa di più! Ha almeno cercato di curarti offrendoti un po’ di energia? -.
-Perché me lo chiedi se sai la risposta? – sospirò Chuck. Buck fece per entrare nel palazzo, ma il cugino lo afferrò per il polso, bloccandolo: -Che vuoi andare a fare? Lascia perdere Buck, i soldi non li riavremo e neanche un trattamento di riguardo. Sto bene. -.
-Siamo uomini di Regina. – replicò lui dando uno strattone al braccio per fargli perdere la presa.
-Già. – disse Chuck, tacendo i suoi pensieri ancora una volta sull’argomento, mitigando il discorso: -E dovremmo essere da lei a dirle cos’abbiamo trovato. Meglio non farla aspettare. -.
-Dannazione, va bene. – si arrese Buck –Ma solo perché non voglio ricevere strigliate da Taylor o da McMastiff. Altrimenti gliel’avrei già fatta pagare a quello strozzino… -.
-Come no. – fece Chuck e, prima che suo cugino potesse controbattere, aggiunse: -Meglio sbrigarsi e correre. -.
Nonostante provasse dolore ad ogni movimento, ce la mise tutta per restare al passo di Buck, che correva come il vento per arrivare alla fortezza, fatta di pietra nera, come se fosse stata lambita dal fuoco.
Sgusciarono nei vicoli e si affrettarono nei carruggi, a volte passando anche pericolosamente vicino a qualcuno che camminava tranquillamente, pur di arrivare in fretta al cospetto della sovrana e riferire la loro scoperta.
Ad un certo punto la loro corsa divenne una competizione amichevole.
Chuck non seppe dire se avesse iniziato lui a rendere giocoso quello che stavano facendo o se fosse stato Buck, ma in un modo o nell’altro iniziarono a correre fianco a fianco, spalleggiandosi ogni tanto, lasciandosi scappare qualche risata.
Sapeva che quel comportamento era fuori luogo.
Non dovevano fare una cosa del genere, essere spensierati… ma stare con Buck gli portava alla mente bei ricordi.
Adorava ricordare le volte in cui suo padre li mandava al torrente a pescare rane, per mangiarle la sera fritte nel burro. Gli piacevano ancora ed erano anni che non ne mangiava. Anche quelle occasioni diventavano una scusa per poter giocare alla lotta con suo cugino, che era molto meno bravo di lui a scovare le rane nell’acqua, tra i sassi o le piante acquatiche. In qualche modo finivano sempre per battibeccare perché qualche animale riusciva sempre a sfuggire agli agguati di Buck.
L’unica cosa che sapeva fare bene e, soprattutto, che Chuck non avesse cuore di fare, era di uccidere le rane. Gli bastava sbattere la loro testolina su un sasso ed era finita.
Tante volte aveva cercato inutilmente di convincerlo almeno a provare a dare il colpo di grazia alle bestiole, esattamente come faceva con i pesci che pescavano nello stesso torrente, facendolo arrossire fino ai capelli per la vergogna che provava nel non avere lo stomaco di ucciderle. Suo padre ci aveva provato molte volte, ma aveva capito che non si sarebbe azzardato a uccidere qualcosa di più grosso o diverso di una trota.
Arrivati i portoni borchiati di punte acuminate, però, non riuscì a continuare.
Con un gemito, rallentò la corsa di colpo, per poi stramazzare al suolo.
L’occhio disinfettato sembrava pulsare talmente tanto da rimbombare nella sua testa, dolorosamente.
Buck, corso avanti, tornò indietro, con lo sguardo preoccupato, e si affrettò a rassicurarlo: -Mi sono sforzato troppo. Stai tranquillo, va tutto bene. -. Provò anche a sorridere, ma fece solo una smorfia.
-Mi dimentico che non sei più giovane. – provò a scherzare Buck, ritrasformandosi e inginocchiandosi accanto a lui –Forza, vecchio mio, ti porto. -.
-Abbiamo pochi mesi di differenza, cretino. -.
Gli passò le braccia sotto il corpo e lo sollevò, con un po’ di fatica, dirigendosi verso i portoni.
Di guardia c’erano solo due uomini di Regina, con le uniformi nere bordate di rosso, con il doppio petto e il colletto rigido che fasciava metà collo.
Li guardarono con disprezzo ma non gli sbarrarono la strada: le prime volte adoravano intimorirli.
Chuck si comportava ancora con cautela in loro presenza, abbassando gli occhi e salutandoli con riverenza, allontanandosi il più in fretta possibile prima che decidessero di usarlo come bersaglio di scherno. Buck non condivideva la sua idea di prostrarsi alla loro arroganza.
Infatti, si fermò per fare una domanda: -Regina è nella fortezza? -.
-Sua maestà. – lo corresse uno di loro con un ringhio feroce, che fece drizzare il pelo sul collo di Chuck.
-Che si è fatto all’occhio? – chiese l’altro, ignorando completamente la domanda del mezzo demone, che stizzito la ripeté, con l’accortezza di correggersi.
Le due guardie si guardarono, come per decidere chi avrebbe dovuto sprecare tempo a dare una risposta. Alla fine fu la seconda a dire: -Sua maestà è uscita un paio d’ore fa con suo fratello e il suo lacchè. Non abbiamo idea di quando possano tornare. -.
-Intanto che ci fate qua? Non avete un lavoro da fare nel mondo degli umani? -.
-Di questo possiamo solo risponderne a sua maestà. – rispose Buck con tono di superiorità, entrando.
Quando si furono allontanati Chuck lo sgridò: -Devi smetterla di parlare in quel tono con loro… potrebbero farcela pagare, lo sai. Non ci vorrebbe niente per quei due a… -.
-La vuoi smettere? – lo interruppe Buck con tono scocciato –Loro lavorano per Regina e anche noi. Sono solo degli spocchiosi, a loro non è stato affidato il compito che invece è stato dato a noi due: non dovrebbero essere così orgogliosi di sorvegliare una porta, tsk! -.
Chuck lasciò perdere ancora una volta la discussione. Suo cugino era più testardo di un mulo.
Il cortile interno era deserto, non c’era nessuno. La cosa era normale, dato che era usato solamente per gli allenamenti delle guardie e per ricevere ospiti importanti. Il motivo per il suo scarso uso era l’inquietante fontana al suo centro, una grossa vasca circolare di pietra scura opaca.
L’acqua zampillava dalle sette teste di un’Hydra scolpita nella stessa pietra della vasca, in circolo, dagli inquietanti occhi di rubino brillante. Era rappresentata nell’atto di fendere l’aria con gli artigli delle zampe anteriori in un gesto di vittoria, arricchita dalle ali spiegate, mentre con le posteriori teneva inchiodata a terra un’altra creatura, più piccola, dalla quale anche fuoriusciva un rigagnolo d’acqua, dove gli artigli affondavano: una Volpe a nove code.
Quella era un’aggiunta recente alla scultura, altrimenti Chuck l’avrebbe ammirata. Quel “tocco di classe” faceva venire i brividi a chiunque sapesse la storia celata dietro di esso.
Buck lo mise a terra e lui si alzò per bere dalla vasca.
Diede poche lappate, trovando l’acqua tiepida.
Alzò lo sguardo. Non aveva mai visto la statua da così vicino, riusciva a vedere bene la Volpe. Lo scultore era stato davvero bravo, non c’era che dire: l’animale non era stato rappresentato in agonia, ma già morto. Poteva quasi percepire l’intenzione dell’artista di far sembrare che la cosa fosse appena accaduta, che le orbite vuote e scure della Volpe si fossero appena spente.
Nonostante l’acqua fosse anche più che tiepida, provò un brivido.
Buck si sedette accanto a lui, appoggiando la schiena alla fontana, guardando in alto il cielo scuro. Sospirò: -A quanto pare non c’è. Dobbiamo aspettarla. -.
-Ti stupisci? – ribatté Chuck leccandosi la bocca che gocciolava acqua –Non è mai dove serve quell’oca. -.
-Chuck! – lo sgridò Buck, girandosi per guardarlo con aria truce, occhiata che lui sostenne –Regina è impegnata, ha molte cose da fare. -.
-Cosa? – ribatté a muso duro Chuck, sedendosi, e senza attendere risposta continuò: -Trovare quelli come noi e rinchiuderli nel Mattatoio? Cercare di scovare la Resistenza e fare fuori gli unici demoni che non vogliono vedere quelli con il nostro sangue misto morti? -.
-Gli angeli… -.
-Gli angeli non ci danno problemi da anni. – lo interruppe il cugino –L’hai sentito: è fuori con suo fratello e il fidanzato. È uscita a divertirsi. Non che sia una novità, dato che il suo lavoro lo fa Taylor. -.
Buck arrossì, serrando le labbra. Ma non distolse lo sguardo.
Chuck insistette: -Che c’è? Ti dà fastidio avere la verità schiaffata in faccia o che lei sia in compagnia di suo fratello e di quel codardo che sposerà presto? -.
-Stai zitto Chuck. -.
E Chuck stette zitto.
Si vergognò di quelle uscite rancorose. Guardò la piccola Volpe con il corpo squarciato dagli artigli dell’Hydra, chiedendosi se era stata la sua vista a farlo parlare troppo. Per dissimulare l’imbarazzo si leccò una zampa.
-Avete finito di litigare? -.
I due mezzi demoni sobbalzarono, con un nodo alla gola.
Si girarono verso la statua dell’Hydra, dal quale proveniva la voce fin troppo conosciuta. Con passi appena udibili, Taylor, il fratello della sovrana, li raggiunse incrociando le braccia dietro la schiena, facendolo sembrare ancora più alto di quello che già era.
Tutto del suo aspetto gli dava un’aria affilata, dai lineamenti del viso, al taglio sottile degli occhi (reso ancora più accentuato dal fatto che li teneva perennemente socchiusi) color sangue, cosa che lo rendeva molto intimidatorio agli occhi di Chuck: sembrava che qualsiasi cosa lo interessasse poco, anche quando faceva del male a qualcuno.
Buck balzò in piedi, affiancandosi al cugino, e si affrettarono ad inchinarsi, anche per evitare il suo sguardo: molti poteri dei demoni usavano come canale di esecuzione proprio gli occhi. Bastava avere un minimo contatto visivo e se si era deboli, come un mezzo demone o una persona non allenata a resistere a questo tipo di potere, si era perduti. Come un serpente che incanta la preda.
Loro l’avevano già subito da parte del principe.
Chuck deglutì, irrigidendosi man mano che il demone si faceva più vicino.
Santa Volpe, li aveva sentiti. Lo aveva sentito parlare di cose per il quale si sarebbe meritato di tornare nella polvere dal quale era stato raccolto dopo che suo padre e sua zia erano morti. Per cui avrebbe dovuto pagare con la vita.
-Mi stupisce sentirvi litigare voi due: mi sembravate una famigliola affiatata. – continuò Taylor, fermandosi davanti a loro –Ma soprattutto mi sembra ancora più strano vedervi qui tutti e due: avete novità dal mondo umano? -.
Chuck guardò in su con cautela. Non… aveva intenzione di punirlo per quello che aveva detto? Era evidente che li aveva sentiti discutere, aveva chiesto se avessero smesso di farlo. Se li aveva sentiti sicuramente aveva anche compreso quello che dicevano e non aveva detto niente di rispettoso nei suoi confronti o della sorella. L’aveva insultata, la sorella.
Nessuno la passava liscia quando non si rispettava la sovrana del Regno Antico, figuriamoci uno sporco sangue misto come lui.
Ma quando guardò in faccia il demone si accorse che stava solo aspettando una risposta alla domanda. I suoi occhi non brillarono come quando usava i suoi poteri, né sembrava voler aggiungere qualcosa all’argomento litigio.
Temendo che serbasse una punizione per quello che aveva detto per dopo, Chuck rispose nervosamente: -Sì, lord Taylor, signore. -.
-Buone notizie? -.
-Sì, signore. -.
-Ah, molto bene. – commentò voltandosi per guardare verso la torre della fortezza, mostrando loro il lato della faccia che teneva nascosta dai lunghi capelli neri, legati in una coda sulla spalla –Mia sorella sarà contenta di questa giornata: una scampagnata e buone notizie. Spero diciate il vero. -.
-Certo lord Taylor. – assicurò Buck –Sua sorella ne sarà entusiasta. -.
Taylor tornò a guardarli e a Chuck sembrò che osservasse la ferita che si era procurato. Ma anche su quello non disse niente.
-Seguitemi. – disse invece, dando loro le spalle ed incamminandosi –Mia sorella è con il suo fidanzato, ha un altro attacco di emicrania, non lo lascerà solo. Sarà più facile che ci parli nei suoi appartamenti che in qualsiasi altro posto. -.
Regina aveva donato la torre della fortezza della sua famiglia al suo compagno, simpaticamente chiamato Fify. Che Chuck sapesse, una volta quella il luogo dove la madre della regnante aveva i suoi appartamenti. Non aveva idea se la cosa fosse stata presa con orgoglio da parte di Fify o se fosse stata presa come una punizione. Di certo le intenzioni erano state buone.
Non erano mai stati nella torre, dato che non avevano mai dovuto avere a che fare con quel demone. Non avrebbero neanche mai potuto entrare per pura curiosità, dato che le scale che portavano alle stanze erano presidiate sempre da delle guardie.
Seguirono Taylor su per le ripide scale di legno consumato in silenzio. Chuck notò che c’era un buon profumo di fiori nell’aria.
Man mano che salivano, poteva anche sentire versi sofferenti sempre più forti.
Era normale sentire lamenti nella fortezza da parte del demone nella torre, dove si rifugiava sempre a soffrire. Forse non sapeva che da quel punto chiunque fosse nella fortezza lo poteva sentire lamentarsi del dolore, che spesso lo faceva piangere.
Arrivarono davanti ad una porta dalla quale i lamenti si sentivano molto più chiaramente, insieme alla voce della sovrana, che sembrava confortare il suo fidanzato.
Taylor bussò e la voce di Regina rispose: -Non mi disturbare Taylor! Qualsiasi cosa sia, torna più tardi, non è il momento! -.
Sembrava irritata e questo non piacque a Chuck. Con la coda nell’occhio controllò Buck e lo vide stringere i denti. Non seppe dire se era perché anche lui si sentiva tremendamente nervoso o perché volesse essere al posto di Fify.
-Regina. – insistette Taylor –Ci sono notizie della Portatrice. -.
Da dietro la porta si sentì uno sbuffo incerto e qualche parola sussurrata. Rapidi passi ed ecco apparire la sovrana, che scivolò fuori dalla stanza da letto aprendo la porta di uno spiraglio.
Sembrava alquanto contrariata dall’essere stata interrotta nel mezzo delle cure del suo fidanzato, ma quando smise di guardare con irritazione il fratello e posò gli occhi su di loro, ecco che l’espressione cambiò in genuino interesse.
-Siete tornati. – fece, togliendosi un boccolo nero come l’inchiostro dal viso, sfuggito all’acconciatura –Parlate dunque: l’avete trovata? -.
-Sissignora. – rispose prontamente Buck, inchinandosi appoggiando il ginocchio a terra.
Regina fece un verso estasiato, battendo le mani in un momento d’euforia. Si girò addirittura ad abbracciare il fratello, ridendo: -Hai visto Ty? Lo sapevo che avevo visto giusto con questi due! Sapevo che sarebbero riusciti a scovarla. -.
-Abbiamo seguito Milord e la sua banda. – riprese Buck e Chuck desiderò che stesse zitto –È stato facile seguire le loro tracce e trovarla prima di loro. -.
La demone si staccò dal fratello e domandò: -Dov’è adesso? L’avete presa, vero? -.
Il loro silenzio fu eloquente.
Regina fece una smorfia e finì per digrignare i denti, sibilando: -Cosa? L’avete trovata per primi, perciò dov’è? -.
Buck tacque, abbassando la testa, improvvisamente a corto di parole. Se fossero rimasti in silenzio, Regina avrebbe sbroccato, Chuck ne era sicuro. E se fosse stato in silenzio suo cugino e lo avesse lasciato parlare, Regina non si sarebbe fatta delle aspettative, maledizione.
Perciò rispose: -Milord ci ha messo i bastoni tra le ruote… adesso è sotto la sua protezione. Siamo davvero spia… -.
Chuck chiuse la bocca, vedendo come il viso della sovrana stesse diventando paonazzo man mano che parlava. Come se non bastasse, anche Taylor lo stava guardando e se c’era qualcosa di peggio che avere gli occhi di uno dei due addosso, era di avere gli occhi di entrambi addosso. Ma c’era qualcosa di diverso in quelli di Taylor… non era arrabbiato. Non sembrava neanche deluso dal fatto che non fossero riusciti a prendere la Portatrice.
-Incapaci! – sbraitò Regina pestando un piede a terra con così tanta forza da far rimbombare cupamente il suono contro le pareti –Non siete stati in grado di avere la meglio su una mocciosa mezza umana come voi? Cosa diavolo vi ha fatto credere di poter tornare qui a mani vuote e credere di passarla liscia?! Mh? Rispondete maledetti! -.
Chuck si accucciò a terra, tremando e lasciandosi scappare un guaito involontario, incapace di controllare la paura che di lì a poco avrebbe perso molto più di un occhio. Fino a quel momento non l’aveva ancora vista così arrabbiata da vicino, né nei suoi confronti. Ma nei confronti dei suoi simili, oh... a volte non serviva neanche che fosse di cattivo umore.
-Regina, basta. – disse semplicemente Taylor.
Le appoggiò una mano sulla spalla e la fece voltare verso di lui, aggiungendo: -Non è assolutamente il caso di scomporsi. -. Non attese neanche che lei si calmasse davvero, ma si rivolse ai due mezzi demoni: -Siete stati utili Faoil. Potete andare a riposarvi fino a nuovo ordine. -.
Non se lo fecero dire due volte e i due cugini scesero dalla torre in silenzio, correndo non appena furono lontani dalla loro vista.
Regina si tolse di dosso la mano del fratello, sibilando: -Milord, sempre Milord! Avremmo dovuto ucciderlo non appena la notizia di un cane sciolto alla ricerca della Portatrice ci è arrivata all’orecchio! Dopo che si è rifiutato di farlo per me… ha portato solo guai. Non basta la Resistenza. -.
-Se non lo avessimo lasciato fare non l’avremmo mai trovata. – replicò Taylor –I Faoil hanno fatto il loro dovere, dirci dov’era. Ora tocca a noi disfarci di lei. -.
-Quei due ci sono stati utili, è vero. Ma ora non servono più, sbarazzatene appena puoi. – decise la demone agitando una mano in aria con disinvoltura -Dobbiamo mandare qualcuno di cui ci fidiamo per questo compito, soprattutto competente. -.
-I McMastiff. -.
Regina fece una smorfia dubbiosa: -Loro? Il nonno semmai: ha già fatto secchi diversi ribelli, mentre loro erano contro di me. -.
-Ma ora sono dalla nostra, da diversi anni ormai. Se avessero voluto farti del male lo avrebbero già fatto. – disse Taylor con un’alzata di spalle –McMastiff serve qui, è il comandante delle guardie. I suoi nipoti saranno all’altezza del compito. -.
Regina si portò una mano al mento, riflettendo in silenzio. Infine, fece un cenno con la testa: -Va bene. Occupatene tu Taylor, al momento sono occupata. – aggiunse, appoggiando una mano sulla maniglia della porta della camera da letto. Prima di aprirla, però, lo guardò dritto negli occhi: -Voglio la Portatrice viva. Chiaro? -.
Taylor vide una luce sinistra nel suo sguardo e rispose annuendo.
Quando sua sorella tornò a prendersi cura del fidanzato, un pensiero gli attraversò la mente: -Stupida, sciocca sorella… -.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6: Caffè dal sapore amaro ***


Capitolo 6
Caffè dal sapore amaro


solo per stasera. – ribadì Raven buttando lo zaino sul letto.
Jaguar le aveva fatto visitare la casa, illustrando ogni singola stanza: al piano di sotto c’erano il salotto, la cucina, la sala da pranzo, uno studio (di esclusiva proprietà di Milord, dove solo lui poteva entrare), una lavanderia e un sottoscala che portava a un seminterrato, mentre al piano di sopra c’erano due bagni e le camere da letto.
-Non c’era il caso di mostrarmi questa e quella stanza. – continuò, andandosi a sedere accanto allo zaino, occhieggiando la stanzetta che le avevano assegnato con sospetto –Resto solo perché devo ammettere che quello che è successo è stato pericoloso e non sarei in grado di difendermi da sola. In questo momento. -.
Era decisamente scossa, doveva ammetterlo a sé stessa: prima due cani enormi parlanti cercano di rapirla, poi viene salvata da degli “sconosciuti” che si rivelano essere esseri sovrannaturali come i suoi potenziali rapitori, poi le viene fatto capire che lei centra con loro in una qualche maniera, ma senza grandi spiegazioni.
Ma una bella dormita le avrebbe calmato i nervi. Sarebbe poi tornata a casa e avrebbe chiamato sua madre.
Poteva parlarle di questo, avrebbe capito.
-Ti proteggeremo noi. – le assicurò Jaguar, gentilmente.
-Posso esserne certa? Quelli erano solo due. -.
-La runa di Milord funzionerà a dovere. L’ha sempre fatto. -.
Raven si concessi di guardare il mezzo demone, guardinga: -Runa? -.
-È un vecchio metodo per proteggere una certa area. Nessuno che ha cattive intenzioni può oltrepassare i cancelli di casa. -.
Raven sentì la fronte contrarsi, come ad avvisarla che presto avrebbe avuto mal di testa. Di solito era così. Si massaggiò la fronte con le dita in movimenti circolari, espirando a fondo con il naso.
Jaguar alzò le sopracciglia e si mordicchiò l’angolo di un labbro, bofonchiando: -Immagino che siano abbastanza informazioni inverosimili per una giornata sola… -. Dopo essersi guadagnato un’occhiata da “tu dici?” al di sotto della frangia castana della ragazza, il mezzo demone aggiunse con tono più allegro: -Se stasera non ti va di mangiare con noi posso portarti da mangiare in camera. Nessuno si offenderà, possiamo capire che tu sia scossa. -.
-Lascia perdere. Penso che mi cambierò questi vestiti e che mi farò una bella dormita per calmare i nervi. Grazie dell’offerta, salto. – assicurò Raven alzando una mano, come a respingere fisicamente l’offerta.
-Sei sicura Raven? Non è molto salutare né ti aiuterà con il nervoso. -.
-Sono al cento per cento sicura che preferisco restare sola al momento. Grazie dell’offerta. -.
La ripetizione, questa volta pronunciata scandendo le parole e con un leggero digrigno di denti, indusse Jaguar ad augurarle un buon riposo e di chiudere la porta.
Aveva bisogno di riordinarsi le idee, tutto qui.
Il mezzo demone si allontanò dalla stanza dopo aver origliato brevemente, per capire se sarebbe davvero andata a coricarsi a letto o avrebbe cercato di sgattaiolare via. Ma, a giudicare dal rumore di cinghie sganciate, fruscio di abiti e il cigolare del materasso, la ragazza aveva davvero intenzione di riposare.
Rincuorato, ma non del tutto tranquillo, scese al piano di sotto.
Ai piedi della scala trovò i suoi fratelli ad aspettarlo, di sicuro per spillargli informazioni di qualche genere.
Il primo a farsi avanti fu Beast, che con studiata nonchalance commentò: -Selvatica, eh? -.
-Non è socievole. – concordò Jaguar –Ma tu ti ricordi come hai reagito quando hai saputo che non eri umano ed eri in pericolo? -.
-Sì, beh… - ammise Beast con un borbottio –Almeno io… -.
-No. – lo interruppe Jaguar con un sorriso –Anche tu eri una bestiolina. -.
-Non è vero! – protestò Beast arrossendo vistosamente, provando il fatto che invece si ricordava perfettamente che gli aveva fatto sudare sette camice –Beh, è diverso, ero piccolo. Lei ha la mia età, dovrebbe essere più matura a riguardo. -.
-Cosa volevi facesse? – fece Matisse con uno sbuffo –Che scattasse sull’attenti? È spaventata, zuccone: trovarsi faccia a faccia con i Faoil… -. La ragazza si strinse nelle braccia.
-Buck e Chuck non farebbero paura ad una mosca. -.
-Parla per te, tu ce li hai i denti per morderli, io e lei no. – replicò Matisse e, quando Beast fece per rispondere, gli diede un pugno sul gomito. Era leggero, non era il caso di impartirgli una lezione o zittirlo in malo modo, ma Beast si massaggiò comunque la parte colpita, guardandola male.
Il ragazzo le fece la linguaccia e tornò a parlare al fratello maggiore: -Allora che si fa adesso? -.
Entrambi guardarono Jaguar, con occhi pieni di incertezze.
Sulle prime non seppe che rispondere. Cosa poteva rassicurarli che tutto sarebbe andato bene, nonostante tutto stesse andando palesemente storto, se si voleva escludere il fatto che la Portatrice era al sicuro?
-Non dobbiamo preoccuparci. -.
Dissimulò il fatto che aveva tanti dubbi quanto loro con un sorriso.
Appoggiò una mano sulla spalla destra di Matisse, dicendo: -Prepara qualcosa di buono per stasera, qualcosa di invitante e leggero che la convinca a mangiare un pochino: ha saltato un pasto e questo non può fare che male. Che io sappia, poi, mangiare mette di buonumore chiunque e ha bisogno anche di questo. -. Si rivolse poi a Beast, appoggiando l’altra mano sulla sua spalla sinistra: -Tu controlla che non abbandoni la stanza, ha tutta l’aria di essere una disposta a saltare dal quinto piano di una palazzina pur di farla franca. L’ultima cosa che ci serve è che nel tentativo di calarsi da una finestra si rompa una gamba o un braccio, o peggio, la testa. Se effettivamente riesce ad oltrepassare la porta o tenta davvero di uscire dalla finestra, avvisa subito me o Milord. -.
-Perché non posso fermarla io? – chiese subito il ragazzo, offeso.
-Perché ha cavato un occhio a Chuck. Vorrei evitare che uno dei due si faccia male in qualche colluttazione. – replicò Jaguar con un tono che non ammetteva repliche –Appena torna Milord gli parlerò di questa situazione… per capire cosa fare. -.
-Farò del mio meglio. – assicurò Matisse. Beast si limitò ad annuire e ad andare a tenere d’occhio Raven.
Dovettero attendere il ritorno di Milord per qualche ora, con preoccupazione crescente, ma alla fine tornò tutto intero e senza notizie preoccupati: durante la sua ricognizione in città non aveva incontrato nessun demone sulle tracce lasciate dalla Portatrice e la sua disavventura con i due galoppini di Regina.
Ma Jaguar non gli parlò subito. Per quello avrebbe dovuto aspettare di essere da solo con lui e prima avrebbero dovuto cenare e sottoporsi al quotidiano allenamento.
Portarono da mangiare a Raven prima di scendere nel seminterrato. Sembrava dormire rivolta verso il muro, con un braccio piegato sotto la testa e ancora completamente vestita, scarpe comprese. O era davvero stanca e non aveva avuto la voglia di togliersi di dosso i vestiti fradici (se non proprio la felpa, lasciata al fondo del letto) oppure aveva deciso di restare pronta e scappare al primo momento opportuno e far finta di dormire.
Addirittura lo zaino era vicino al letto, chiuso e pronto per essere buttato in spalla e dileguarsi.
Jaguar non stette ad indagare. Le lasciò il piatto sul comodino e uscì il più silenziosamente possibile. Poi andò nel seminterrato.
Ovunque s fossero trasferiti prima, avevano sempre ritagliato uno spazio per loro, dove poter tenersi in allenamento, in preparazione agli scontri che avrebbero dovuto affrontare.
Superate le porte metalliche con i maniglioni antipanico, si accorse che Milord e Beast avevano già iniziato.
Milord era appoggiato alla parete, le braccia incrociate e la sigaretta sull’orecchio quasi nascosta dai capelli disordinati, mentre Beast aveva i piedi incastrati nella spalliera, a testa in giù.
Con le mani incrociate dietro la testa si spiegava verso le ginocchia, con la faccia paonazza e il sudore che gli appiccicava la frangia alla fronte. Di sicuro avrebbe sudato meno se si fosse tolto quel benedetto cappello dalla testa.
Jaguar si mise in disparte, aspettando il suo turno.
Il ragazzo si lasciò andare contro la spalliera, con le braccia penzoloni ed ansimando, boccheggiando: -Quanti… ancora? -.
Milord fece spallucce: -Non lo so… forse fino a quando ti entrerà in testa che non devi seguire me e Jaguar quando ti dico di restare a casa. Ti avrei preso a calci se non fossi stato impegnato Lessie. -.
Al nomignolo Beast digrignò i denti e ricominciò subito a fare l’esercizio, con una foga tale che quasi sbatteva la testa contro le ginocchia.
Tra un addominale e un altro borbottava: -Se non fossi intervenuto Buck avrebbe morso la Portatrice. Tanti auguri a rattopparla! -.
-Piccolo arrogante che non sei altro. Tu credi che gliel’avrei anche solo lasciata sfiorare? – rispose Milord senza cambiare espressione, ma voltandosi per guardare il ragazzo con espressione fredda –O pensi di essere migliore di me e tuo fratello? -.
-Sono bravo quanto Jaguar. -.
-Abbassa la cresta bastardello, sei molto lontano dalle capacità di Jaguar, soprattutto perché lui è diverso da te. Perché credi che ti abbia detto di restare a casa? -.
-Perché credi che io sia un incapace, ecco perché! – sbottò Beast, stavolta colpendo davvero le gambe con la testa.
-Ti disprezzo, è vero. – ammise con naturalezza il mezzo demone –Ma pensa un po’ se mentre quelle due zecche dei Faoil ci distraevano qualcuno fosse riuscito in qualche modo ad entrare in casa e prendere tua sorella? Come ti ho già spiegato gli angeli sono ottima merce da mercato nero nell’Inferno e in questo caso anche un ottimo ostaggio nei nostri confronti. Oh, non penso che ti dispiaccia quindi vedere la tua sorellina in mano a qualche demone, se hai deciso di abbandonarla in casa in una situazione cruciale. -.
-Io non… -.
Milord lo interruppe: -Poi, pensa se anche i Faoil avessero avuto la brillante idea di avere qualcuno insieme a loro, un demone al cento per cento, che vedendoti attaccare per primo se la sarebbe presa con te. Buona fortuna a rattopparti, se non addirittura a rimetterti assieme. -.
Beast si lasciò cadere indietro, facendo tremare la spalliera. Cercò di regolarizzare il respiro, passandosi una mano sulla fronte.
Deglutì un paio di volte per poi ammettere: -Non ci avevo pensato. -.
-Nessun dubbio a riguardo. -.
Beast si morse un labbro per evitare di esplodergli in facci con qualche insulto. Raramente ammetteva di avere torto con Milord, sperava che glielo riconoscesse almeno un po’. Tentò di avere una rivincita: -Però sono stato bravo, vero? Hai visto che faccia ha fatto quando l’ho azzannato? Bam! Atterrato in mezzo secondo! -.
Jaguar conosceva l’espressione che Milord fece, cosa che Beast non sembrava notare mai o forse faceva semplicemente finta di niente. L’espressione consapevole del fatto che davanti non aveva un ragazzo appena maggiorenne, ma un cucciolo scodinzolante in attesa della carezza del padrone. Jaguar non sapeva dire se era un’espressione di fastidio o tenerezza. Già era difficile decifrare le sue espressioni, se la cosa si limitava agli occhi era pressoché impossibile capire cosa passasse per la testa del mezzo demone Lupo.
-Hai fatto un errore madornale: se proprio vuoi immobilizzare qualcuno non puntare alle zampe. Tieniti ben lontano dai denti, non ti ci piazzare davanti. Se non fossi intervenuto in tempo zero avrebbe girato la testa e ti avrebbe strappato un pezzo di faccia. Non ti avrebbe aiuto con le ragazze, credimi. -.
Il ragazzo stava di nuovo perdendo le staffe. Si aggrappò con le mani alle sbarre di legno e si tirò su, chiedendo con un po’ di irritazione: -Ma io qualcosa di giusto lo faccio? -.
Milord sembrò pensarci su.
-Quando stai zitto. – ammise alla fine con un ghigno.
-Vaffanculo. -.
Beast girò i piedi e scese dalla spalliera con un salto poco elegante, traballando un po’ sui piedi. Si aggiustò il cappello sulla testa e se ne andò calcando il passo, facendo rimbombare il rumore sulle pareti, le mani talmente strette a pugno da avere le nocche bianche, in grande contrasto con la faccia ancora più paonazza di prima.
-L’allenamento non è finito. -.
Lui ignorò il richiamo svogliato del mezzo demone. Diede un colpo alla maniglia antipanico e la porta si aprì di un palmo, ma invece di uscire si girò di scatto a puntare contro Milord l’indice ed esclamare: -Vedrai quando avrai bisogno di me! T’ignorerò e ti riderò in faccia! Arriverà il giorno in cui sarai orgoglioso di me e forse ti darò l’onore di considerarti! -.
Jaguar non provò neanche a fermarlo. Ogni volta che provava a farlo calmare dopo questi scoppi d’ira veniva sempre spintonato via. Immaginava lo facesse per evitare di riversare la rabbia addosso a lui che non ne poteva niente né poteva fermare Milord dall’essere insensibile.
Fermò la porta in tempo per non farla sbattere e svegliare la ragazza al piano di sopra però.
-Sei troppo duro con lui. – disse per l’ennesima volta.
Milord non rispose.
Per chiudere la porta si era girato e quando si girò per guardare l’altro mezzo demone, si accorse che era scomparso. Al suo posto, fumo denso e scuro, che rapidamente stava invadendo la stanza.
-Questo non è un modo leale per evitare un argomento. – disse Jaguar, avanzando nel fumo.
La voce di Milord parve provenire dalla sua sinistra: -Non sto evitando l’argomento, non è solo il momento di parlarne. Concentrati. -.
Jaguar si voltò verso la fonte della voce, ma anche lì c’era solo fumo.
L’odore gli entrò nelle narici, insopportabile e totale come sempre. Arricciò il naso, provando come sempre a sentire un odore diverso, cercando di catturare l’odore di sigaretta e cologna di Milord o anche solo la traccia di Beast, ma il fumo era capace di cancellare ogni tipo di fonte olfattiva. In una stanza chiusa, poi, l’effetto era molto più efficace.
-Hai un buon olfatto Jaguar. – gli ricordò Milord, questa volta da un’altra parte della stanza, più lontano da lui –Ma non quanto quello di un demone completo. Per fortuna questo trucchetto può mettere in difficoltà chiunque. Ci basiamo troppo su olfatto e vista, noi. L’altra volta te la sei cavata e mi hai trovato, ma stavolta riuscirai anche ad atterrarmi? Non chiedo di sfruttare il fumo a tuo favore, non ancora, è difficile. -.
-Cercherò di farlo. Tu giocherai pesante? – chiese il mezzo demone iniziando a seguire la sua voce.
Milord ridacchiò e sembrò che lo facesse troppo vicino stavolta, come se gli avesse camminato accanto, e Jaguar si voltò di scatto, sperando di vedere qualcosa che si muovesse nel mezzo del fumo.
-Stiamo simulando qualcosa che potrebbe accadere, no? Va bene, non “giocherò pesante”. Ti farò faticare un po’, però. -.
Non riusciva a vedere ad un palmo dal naso.
Le prime volte che Milord aveva provato a oscurare una stanza in quella maniera per allenarlo, Jaguar non era riuscito neanche a respirare in quella coltre quasi soffocante. Ci erano volute almeno cinque sedute prima di riuscire a non svenire e cadere come un sacco di patate dopo pochi minuti.
Per muoversi con sicurezza in quell’ambiente preferiva avvalersi della sua forma felina. C’era qualcosa di piacevole e quasi primitivo nel scivolare nell’abbraccio di una pelliccia e combattere con denti e artigli.
Milord gli aveva spiegato che probabilmente quelle sensazioni erano dettate dal fatto che la forma primaria dei demoni era molto più animalesca di quella moderna, simile agli umani.
Concentrandosi, agitò la coda, spostando il fumo dietro di sé, altrimenti pensate e pressoché immobile.
Il mezzo demone Lupo aveva un passo molto silenzioso ma Jaguar aveva l’udito fine abbastanza da poterlo sentire respirare. Era un rumore lieve, ma sufficiente a fargli capire dove si trovasse.
Gli sembrò di sentirlo respirare davanti a sé. In mezzo alla varietà di grigi di fronte ai suoi occhi, gli sembrò di scorgere una sagoma scura e balzò senza sfoderare gli artigli.
Non incontrò niente, con suo grande stupore, e atterrò sul pavimento di linoleum. Appena appoggiò le zampe a terra, un colpo violento alla sua destra lo fece cadere.
Assecondò la caduta e rotolò di lato per rimettersi in piedi, soffiando minacciosamente alla muraglia di fumo davanti a lui.
-Credevo d’averti visto… - borbottò, confuso.
-Sto provando a creare delle illusioni addensando il fumo. Funziona a quanto pare. – rispose il mezzo demone avversario, in qualche modo dietro di lui.
Jaguar si voltò immediatamente, sgusciando di lato per evitare di essere colpito di nuovo, ma non accadde. Sentì che Milord si spostava ancora e lo seguì quattoni dicendo: -Avrei dovuto immaginare che vederti era troppo facile. -.
-Infatti. -.
Adesso era nuovamente dietro di lui.
Iniziava a sospettare che più che creare il fumo, fosse anche in grado di fondersi con esso.
Senza aspettare di essere colpito di nuovo, saltò di nuovo avanti, dove sapeva esserci un muro. Era facile capire se davanti si aveva un ostacolo per come si muoveva il fumo facendolo muovere anche solo avanzando.
Per un attimo si aggrappò al cemento con gli artigli, per poi darsi uno slancio all’indietro con le zampe posteriori. Ruotò su sé stesso e questa volta sentì qualcosa di duro sotto i cuscinetti, che cedette sotto il suo peso.
Si ritrovò naso a naso con Milord, steso a terra con gli occhi spalancati, stupiti. Quel momento di incredulità comune durò pochi secondi.
Il mezzo demone gli concesse un raro sorriso compiaciuto, constatando: -Non me lo aspettavo. -.
-Manco io. – ammise Jaguar, affrettandosi a scendere dal suo petto, riprendendo la forma umana.
Gli tese un braccio per aiutarlo ad alzarsi, cosa che lui accettò. Di norma ignorava ogni aiuto con un gesto vago della mano.
-Continuiamo? -.
-Perché tieni il piede appoggiato così? -.
Jaguar abbassò lo sguardo e si rese conto di star appoggiando solo la punta del piede destro a terra. Lo appoggiò e tornò ad alzarlo per colpa di una fitta di dolore. Non si era accorto che facesse così male prima.
-Chuck mi ha morso. Pensavo mi fosse passato. -.
-Perché non lo hai detto? – lo rimproverò Milord –Non devi sforzarti o potresti peggiorare. Basta così, andiamo su. Tanto devi parlarmi. -.
Milord si voltò, incamminandosi verso la porta. Man mano che avanzava, tentacoli di fumo s’insinuarono all’interno della sua giacca e nei pantaloni. Quando aprì le porte, l’aria era pressoché limpida e respirabile dietro di lui.
I mezzi demoni entrarono nella cucina, dove Matisse aveva già sparecchiato e pulito. Probabilmente adesso era fuori in giardino ad annaffiare i fiori approfittando del fresco serale e a controllare la finestra della ragazza. Al piano di sopra poteva sentire Beast che faceva la doccia con la musica alta. Avrebbero potuto parlare in pace.
Milord andò a prepararsi una caffettiera.
Era l’unica cosa da mangiare che si preparasse, almeno da quando Matisse si era presa la responsabilità di cucinare per tutti. Era metodico il modo in cui lo preparava, con gli stessi gesti e la concentrazione che vi dedicava, quasi fosse un rito.
Mentre lui si prendeva una bottiglia di birra dal frigo, Milord disse: -Dimmi. -.
Jaguar si sedette su uno degli sgabelli alti, stappando la bottiglia con la mano, senza bere.
-Sto ascoltando. – lo incoraggiò Milord mettendo il caffè macinato dentro la caffettiera –E ti ricordo che non ho molta pazienza. -.
Il mezzo demone prese un sorso di birra, lasciandoselo scivolare giù per la gola senza neanche sentirne il sapore.
-Non sa niente. -.
Milord non rispose ma chiuse la caffettiera con una torsione del polso particolarmente secca. Forse strinse addirittura i denti.
Jaguar si leccò le labbra e continuò: -Non ha assolutamente la minima idea di cosa stia accadendo. Che addirittura esistono demoni, angeli, mezzi demoni e una ribellione in corso. Scommetto che non sa quello che è successo, anzi, è certo dato che non sa della nostra esistenza, non sa niente della sua cicatrice, non sa niente di quello che sta succedendo, non sa della profezia… Non ha la benché minima idea di come difendere anche solo sé stessa. E dovrebbe proteggere noi. E tutti gli altri. -.
Milord strinse la base della caffettiera in mano, girandosi verso di lui.
-Quella non è una profezia, ma il delirio di una partoriente. – ripeté per l’ennesima volta Milord, alzando gli occhi al cielo.
-Ciò non toglie che l’unica a poter dar un taglio a questo casino sia lei. – rispose seccamente Jaguar prendendo un altro sorso di birra.
Il mezzo demone non si scompose per il tono che stava usando.
-Sono preoccupato: pensavo che avremmo avuto a che fare con qualcuno con una base di autodifesa. Ha mulinato quel ramo alla cieca, non ha neanche provato a difendersi seriamente. – continuò Jaguar approfittando del silenzio momentaneo di Milord –Ha paura, è spaventata, la posso capire. Ma se mi viene in mente che è la stessa ragazza a cui devo affidare la sicurezza dei miei fratelli io… io non posso che avere dubbi Milord. -.
Milord espirò dal naso, chiudendo per un attimo gli occhi.
Con tono grave disse: -Ho le tue stesse preoccupazioni Jaguar. Quando ho parlato alla sua tutrice pensavo anche io di trovarmi di fronte ad una ragazza preparata, in grado di fronteggiare Hydra e portare la pace. Invece sono venuto a sapere che le ha tenuto nascosto tutto. -.
-Ma perché? – chiese incredulo Jaguar, sentendo lo stomaco accartocciarglisi in una sensazione sgradevole. Strinse le mani attorno alla bottiglia.
-Il cuore delle donne è debole. – rispose con una smorfia Milord –Ha voluto proteggerla da questa situazione. Lasciando così a me un sacco di merda con cui fare i conti. -.
La caffettiera iniziò a borbottare e fumare nel momento in cui nei suoi occhi passò un lampo rosso, che gli colorò le iridi grigie.
-Elen è dovuta tornare ai suoi doveri, ci sono dei casini a casa. Per fortuna le ho trovate prima che la situazione si complicasse ancora di più: l’ho convinta a lasciare che mi occupassi io della ragazza. Da questo momento in avanti la Portatrice dovrà imparare il più possibile a combattere e usare i suoi poteri. Altrimenti siamo tutti fottuti. -.
Prese la caffettiera per la maniglia e avvicinò il beccuccio alle labbra, bevendo direttamente il caffè bollente.
Jaguar chinò la testa, rimuginando sulle nuove informazioni.
-Non dovremmo… -.
-A proposito dei tuoi fratelli. – lo interruppe bruscamente Milord –Beast. -.
-Sì? -.
-Digli di darci un taglio con questa faccenda. -.
Sapeva che quel momento sarebbe arrivato prima o poi. Da quando li aveva trovati e aveva deciso che lui era un buon partito per dargli una mano nella ricerca della Portatrice, per avere una spalla con cui combattere, non era riuscito a scollarsi Beast di dosso. Sia come ragazzino adorante che come ragazzino che faceva di tutto per impressionarlo. Tentò di minimizzare: -Ci tiene molto alla causa, vuole solo aiutare. -.
-Togliti il prosciutto dagli occhi Jaguar. – ringhiò Milord avanzando di un passo verso di lui in uno scatto nervoso –Lui non può aiutarci: è debole e fa fatica a restare al passo. Ammetto che è utile se vogliamo seguire una traccia o recuperare informazioni, è un paio d’occhi e orecchie in più. Ma la cosa finisce qui. Non mi ascolta, diglielo tu che deve stare chiuso a fare il disadattato sociale in camera sua a strimpellare la chitarra. -.
-Non potre… -.
-No. Mi hai sentito prima? Basta che ci mandino dietro qualcuno di un poco più cattivo dei Faoil per farlo fuori. Io non mi prendo la responsabilità di un suo sgozzamento. Né te la vuoi prendere tu. -.
-Ci rimarrà male. – pensò Jaguar, ma annuì comunque in silenzio.
Milord annuì a sua volta, finendo la caffettiera. Fece per andarsene dalla cucina, soffermandosi accanto a Jaguar senza guardarlo.
Mormorò: -Dobbiamo essere pronti d’ora in poi. -.
Uscì, dirigendosi subito nella camera della Portatrice. Era sul letto, addormentata.
Non gli sembrava possibile che fosse davvero lì. Né di aver rivisto Elen.
Questi ultimi giorni erano stati stressanti per colpa di quelle due, pieni di ricordi.
Poteva percepire come una strana energia provenire dalla ragazza addormentata che gli fece venire la pelle d’oca, non seppe dire se in modo piacevole o sgradevole.
Sul comodino notò il cibo intonso, freddo e immangiabile. Non aveva mangiato cena e questo era un male. Non poteva permettersi che non fosse in forma. Se la mattina dopo non avrebbe mangiato colazione “perché voleva la mamma” o “non poteva costringerla a stare in quel posto” l’avrebbe obbligata con le cattive, si ritrovò a pensare. A giudicare dal gesto che aveva fatto (lanciargli il ghiaccio alle spalle, che razza di gesto infantile!) sarebbe stata una battaglia cercare di tenerla a posto. Da qualcuno aveva preso fin troppo nel carattere…
Nonostante avesse passato una giornataccia rischiando anche di essere rapita, dormiva piuttosto tranquillamente.
Già… ormai sapevano dov’era anche a casa.
Chi gli avrebbero sguinzagliato dietro adesso?

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7: Risposte in dirittura d'arrivo ***


CAPITOLO 7
Risposte in dirittura d'arrivo


-Stai bene? -.
Si girò, frastornata, sia perché le sembrava di avere mal di testa, sia perché aveva di nuovo quel peso invisibile sulla cicatrice.
Il coniglio albino mosse un orecchio, leccandosi un labbro con un rapido movimento della linguetta rosa, ripetendo la domanda con cautela.
Raven si concesse una rapida occhiata attorno, notando che non si trovava in nessun luogo particolare. Sembrava di camminare su una lastra di vetro galleggiante in un cielo stellato, con nebulose dai colori accesi che sembravano pennellate sullo sfondo.
Poi registrò nuovamente la presenza del coniglietto, capendo che si stava rivolgendo a lei.
-Tu! – esclamò puntandogli un dito contro, mentre la cicatrice veniva percorsa da una scossa che le fece stringere le spalle –Tu centri con quello che mi è successo vero? M’hai avvertita su quei cani del cazzo, sapevi che avrebbero cercato di farmi la pelle! -.
Non aveva fatto neanche un passo verso di lui, ma il coniglio si precipitò comunque in una breve fuga dandole le spalle per un attimo, per poi tornare a voltarsi verso di lei accucciandosi a terra in una palla di pelo candida in cui spiccavano due occhietti dalle pupille dilatate.
-Ti ho avvertita, ti ho anche detto dove saresti stata al sicuro. – disse cautamente il coniglio dopo qualche attimo di silenzio in cui Raven decise di non allarmarlo oltremodo, se voleva avere delle risposte –Per cui… dovresti capire che ti sono amico. -.
Dovette ammettere a se stessa che, in effetti, chi ti avverte di un pericolo non può che essere dalla tua parte. Oppure poteva cercare di fartelo solo credere.
-Può darsi. – ammise, assumendo una posa più rilassata, smettendo di puntagli un dito contro come se avesse voluto fulminarlo con un gesto della mano –Allora, se mi sei amico, puoi anche dirmi come facevi a saperlo. -.
-Oh… - fece il coniglio, titubante.
I suoi occhi saettarono a destra e sinistra, alla ricerca di una risposta. Raven non avrebbe potuto chiedere di meglio: con un salto, si buttò pancia a terra verso l’animale, riuscendo ad afferrarlo per le orecchie.
Il coniglio squittì spaventato, irrigidendosi tra le sue mani, il naso che si dilatava velocemente. La ragazza si mise in ginocchio in modo da sollevarlo da terra, cosa che gli fece raccogliere gli arti davanti al corpo.
-Dimmi come fai a saperlo e forse non ti farò del male. – minacciò lei.
Avrebbe voluto farlo con quell’arrogante di Milord, ma purtroppo non sembrava essere vulnerabile come questo qua. Forse poteva ottenere più risposte di quelle che avrebbe mai ricevuto da Milord e i suoi amici a ben pensarci.
-Per la cronaca mi stai già facendo male. – fece il coniglio –Essere preso per le orecchie fa più male di quanto ricordassi…non ho detto che non avrei risposto alle tue domande, stavo valutando cosa dire. Potresti mettermi giù? -.
-Te la darai a gambe appena ti metterò giù? -.
-No. Mi piace stare qui. -.
Raven decise di dargli retta, ma si tenne pronta a riafferrarlo per le orecchie nel momento in cui avrebbe cominciato a scappare.
Lo mise a terra e lui la ringraziò, arricciando il nasino. Si alzò sulle zampe posteriori e cominciò a lisciarsi le orecchie con gesti lenti e misurati. Quando decise che le sue orecchie avevano ricevuto abbastanza cure sospirò e ammise: -Sapevo che ti sarebbero venuta a cercare. -.
-Perché lo sapevi? Chi sei? -.
-Mi sembri una ragazza sveglia, saprai cosa sono. -.
Raven sbuffò: -O un demone o un mezzo demone, grazie tante. Ma non penso che fosse un’informazione di dominio pubblico quella di venirmi a prendere. -.
-No, era piuttosto riservata in effetti. – disse il coniglio –Ma non posso dirti altro. Sto già rischiando a dirti queste cose e presentarmi nei tuoi sogni… Volpe perdonami, sono un codardo. – aggiunse in un mormorio, scuotendo la testa.
Raven si sedette allungando le gambe davanti a lei, borbottando tra sé e sé: -Quelli non mi dicono niente perché sono degli stronzi, tu non mi dici niente perché sei un codardo… sono a posto. -. Rimuginò sulle sue parole e le venne un dubbio: -Di’, non puoi dirmi nulla perché sei un codardo. Vuol dire che se vengo informata da te può succederti qualcosa? -.
Il coniglio si fregò le zampette rispondendo: -Potrei essere punito, sì.
-Beh, se mai chiedessero come ho fatto a scappare da quei due non dirò che sei stato tu a dirmelo. -.
-È un pensiero molto gentile da parte tua. -.
-Non ti ho ancora ringraziato, comunque. -.
-Non c’è il caso. Volevo farlo, non avrei sopportato di vederti in mano a Regina. -.
-Che non so chi sia. – sbuffò nuovamente Raven –Sei proprio sicuro che non puoi darmi altre spiegazioni? Ormai hai spifferato già qualcosa, tanto vale continuare. -.
-Ora non posso. Sto per svegliarmi. – disse il coniglio abbassando le orecchie –E poi ho paura... Ma se vuoi… posso pensare se… aiutarti ancora. -.
-Allora se ci rivedremo nei miei sogni vorrà dire che risponderai alle mie domande? -.
-Va bene. -.
La ragazza tese una mano.
Quando raggiungeva un accordo con sua madre si stringevano sempre la mano per sigillare il patto.
Al coniglio la cosa sembrò strana o forse era solo titubante, perché guardò la mano inclinando la testa di lato. Ma poi allungò una zampetta e l’appoggiò sulle sue dita, mormorando un tremulo “va bene” in un soffio.
 
***
 
Quando si svegliò, la prima cosa che notò era che qualcuno le aveva messo delle coperte addosso durante la notte. Gliele avevano anche rimboccate, che pensiero gentile.
Appena riuscì a mettere a fuoco la stanza con gli occhi ancora appesantiti dal sonno, pescò il cellulare dalla tasca (non si era fidata a lasciarlo sul comodino, nel caso a Milord fosse venuta la brillante idea di sequestrarglielo) per controllare eventuali messaggi e chiamate, ma aveva solo qualche notifica dalle app. Provò a chiamare prima sua madre e poi Andrea, ma lei non era raggiungibile e lui invece non rispose al telefono.
-Almeno squilla. – pensò, mordendosi un labbro, non sapendo se essere sollevata o irritata.
Si alzò e casualmente guardò alla finestra, vedendo Jaguar di nuovo impegnato a piantare fiori. Da fuori camera sua sentiva suonare una chitarra. Probabilmente era Beast, di sicuro non Milord.
Camminando in punta di piedi si rimise la felpa addosso, asciutta, e prese il suo zaino per poi uscire nel corridoio.
Passò davanti alla porta da cui proveniva la musica e quasi trattenne il fiato per non farsi sentire. Sperò vivamente che la scala non scricchiolasse in alcun modo, ma non le sembrava che la sera prima scricchiolasse. In ogni caso appoggiò il piede ogni volta con lentezza, attenta al minimo rumore.
Quando arrivò alla fine della scala quasi le scappò un sospiro di sollievo: fino a quel momento tutto bene. Milord non sembrava in casa.
Adesso doveva raggiungere la porta e andarsene di corsa. Il cancello non sembrava difficile da scalare, bastava non infilzarsi in qualche punta mentre lo scavalcava.
-Raven? -.
Si fermò con il piede a mezz’aria.
-Raven? Sei tu in corridoio? – chiese Matisse, dalla cucina –Sei sveglia finalmente! Pensavo che avresti dormito fino a mezzogiorno. Stavo giusto per mandare Jaguar a vedere come stavi. Vieni di qua, vieni. -.
E adesso? Non poteva mettersi a correre, né tantomeno cercare di fare la finta tonta e sperare che non venisse a controllare il perché nessuno le rispondesse. Come diavolo aveva fatto a sentirla poi? Aveva fatto talmente piano!
Digrignando i denti per la frustrazione, posò lo zaino in corridoio e andò da Matisse.
La ragazzina aveva indossato lo stesso grembiulino del giorno prima ma teneva i capelli legati in modo diverso, in un’elaborata acconciatura con una treccia che le girava attorno alla testa a circondare uno chignon.
Era di nuovo intenta a cucinare, affettando cipolle dalla buccia viola in listelle sottili.
-Eccoti qui. – le sorrise la ragazzina vedendola entrare –Dormi proprio come un sasso, Beast è da ore che suona. Stavi scendendo per fare colazione, vero? -.
-Veramente… -.
-Dev’essere così. – la interruppe Matisse in un modo che Raven non seppe dire se casuale o se sapesse in qualche modo che stava cercando di andarsene alla chetichella –Non hai mangiato niente da ieri, neanche quello che ti abbiamo lasciato in camera. È tardi per chiamarla colazione, ma consideralo un brunch: ti abbiamo lasciato qualcosina nel caso ti fossi svegliata prima di pranzo. -.
-Oh, non c’è il caso, io… - mise le mani avanti la ragazza ma un brontolio sordo dello stomaco la tradì.
Effettivamente aveva una fame boia.
Matisse le prese le mani tra le sue e la trascinò alla penisola della cucina dicendo: -Abbiamo deciso di tenerci leggeri, dato che abbiamo ospiti a pranzo, ma è stata una faticaccia lasciarti qualcosa per me: Jaguar non la smetteva di fare man bassa di pancetta, Beast di strafogarsi di marmellata. Non ho mai distribuito tante cucchiaiate sulle dita come stamattina. Forse è per questo che nessuno mi sta aiutando a preparare pranzo. -.
Mentre parlava le servì un piatto di pancake ai mirtilli freddi, accompagnati da sciroppo e marmellata a parte, bacon tiepido, succo di frutta e un bicchiere di latte.
Raven stava per direqualcosa di acido, come un “non puoi comprarmi con il cibo, carina” ma non riuscì a dire niente quando la vide fare un cenno d’incoraggiamento con la mano, accompagnato dal solito sorriso gentile che lei e suo fratello sembravano avere perennemente sul viso.
-Sta solo cercando di essere gentile. – pensò iniziando a mangiare in silenzio –Dev’essere abituata a prendersi cura di tutto… l’unica ragazza in un gruppo di maschi. -.
Matisse riprese ad affettare e Raven si trovò a riempirsi la bocca di forchettate di pancake con sciroppo d’acero mentre osservava la rapidità e la precisione con il quale usava il coltello.
-Sembri quasi pericolosa. – osservò dopo poco, quando finalmente lei mise da parte l’attrezzo.
L’angelo sembrò per un attimo spersa, poi commentò con leggero imbarazzo: -Oh, no no. Sono i miei fratelli quelli che potrebbero usarlo in modo pericoloso. Io posso davvero solo limitarmi alla cucina. Avrei voluto imparare, ma Milord non ha voluto. -.
-Fratelli… come siete diventati fratelli voi tre? – chiese di getto Raven, incuriosita –Tu sei un angelo, Jaguar e Beast dei mezzi demoni. -.
Capì che l’argomento era delicato quando vide qualcosa vacillare nell’espressione serena della ragazzina. Fu solo un attimo e forse fu solo un’impressione, ma si affrettò comunque a precisare che non era obbligata a rispondere.
Matisse scrollò le spalle e prese un pesce da un involucro di plastica, piazzandolo sullo stesso tagliere che poco prima ospitava le cipolle, ora nell’insalatiera: -Nessun problema, non è poi tanto un segreto nella nostra società quello che capita agli angeli come me. -.
Si abbassò una spalla della maglia che indossava e scoprì una voglia a macchia di vino grossa come una noce, di un vivido color porpora. Il contrasto con la pelle chiara della ragazzina era impressionante, la faceva sembrare una cosa fuori posto sul suo corpo.
Probabilmente chiunque avrebbe pensato la stessa cosa della sua cicatrice a primo impatto.
La voglia tornò ad essere coperta dalla maglia e lei cominciò a sviscerare il pesce dicendo: -Gli angeli hanno certi standard nell’apparenza e nella mentalità, non tollerano errori. Come se fossero cani da mostra, capisci? Chi nasce non rispettando lo standard o divergendo dallo standard di comportamento ed ideali è subito eliminato. La mia voglia è una delle cose che marchiano come difetto di fabbrica. Perciò… mi hanno tagliato le ali e abbandonata nel mondo umano. Lo fanno per tenersi la coscienza pulita, in qualche modo, dato che ero un’infante: poteva trovarmi un umano oppure un demone, che differenza poteva fare? Però mi ha trovato Jaguar. Meglio non poteva andarmi. -.
-È una cosa disgustosa. – disse Raven, impressionata dalla spiegazione e dalla noncuranza con la quale Matisse raccontava –Loro… eri una neonata! Quella non è stata una tua decisione, le voglie sono macchie! -.
-Gli angeli sanno essere pragmatici e svampiti allo stesso tempo. – disse Matisse trappando con le dita l’intestino al pesce, facendo una smorfia quando uno schizzo viscido macchiò il tavolo o forse per l’argomento –Credono che delle imperfezioni della pelle danneggino l’idea che si ha di qualcosa di puro ma vogliono passare per giusti e magnifici segando via le ali ad un poppante. -.
-Io la chiamerei mente perversa e ipocrita, non svampitismo. – borbottò Raven –Mi spiace aver chiesto. Non immaginavo una cosa del genere. -. Abbassò la testa, non osando guardare Matisse negli occhi.
-Acqua passata. – la rassicurò Matisse –Se non fosse stata per la voglia non avrei incontrato Jag e Beast. Anche loro non se la sono passata bene come me. -.
Pensava che gli angeli fossero creature buone, non esseri che abbandonavano i loro simili per un’assurdità come una voglia o un neo sulla pelle. Provò ad immaginarsi Matisse appena nata, piccola, con appena qualche filo biondo in testa e gli occhioni azzurri già aperti in braccio a due ipotetici genitori angeli che la cullavano dolcemente fra le braccia fino alla scoperta della voglia sulla spalla. Quindi la respingevano con durezza, dandola ad un dottore che le scopriva la schiena dove due soffici e piccole ali dalle piume bianche erano ancora troppo deboli per aprirsi, prendeva un lungo attrezzo metallico dalla lama dentata e…
Scacciò l’immagine dalla mente con decisione insieme ad un lungo brivido che le pizzicò la nuca.
Sentirono una porta sbattere al piano di sopra e si zittirono entrambe. Raven vide con la coda nell’occhio che Matisse appoggiava i polpastrelli sul manico del coltello, gli occhi fissi sull’ingresso della cucina.
Passi affrettati rimbombarono sulla scala di legno, mentre Beast urlava: -La Portatrice è sparita! Se l’è svignata! -.
Dalla sua angolazione Raven riuscì a vederlo scivolare sul pavimento per la fretta di raggiungere la cucina, dove senza fiato Beast andò a sbattere contro lo stipite della porta, continuando ad urlare: -Non c’è, è sparita, puf, Milord mi ammazzerà! -.
Poi notò la sua presenza.
-Ehi occhio di lince. – lo salutò con tono ironico Raven, agitando la forchetta, divertendosi a vedere come il viso del ragazzo diventasse rosso.
-Sei imbarazzante B. – sospirò Matisse alzando gli occhi al cielo.
Beast si morse un labbro e borbottò: -Questi non sono scherzi da fare. – puntandole contro un dito.
-Chi scherza? – fece Raven bevendo del succo di frutta.
Jaguar comparve alla portafinestra, togliendosi gli occhiali da sole dal naso, dicendo: -Ho sentito gridare, che succede? -.
-Niente. – risposero tutti loro in coro.
Fece uno sguardo perplesso e poi entrò, allungando subito una mano a spilluzzicare qualcosa sul tavolo, seguito subito da un rimprovero di Matisse.
-Allora solo Milord non è in casa. – osservò Raven.
-Già, è fuori a controllare che non ci siano Faoil o altri in giro a cercare di far casini. – rispose Beast –Lo avrei accompagnato se non mi avesse beccato a seguirlo. – aggiunse a denti stretti.
-Ti avevo detto di non farlo. – disse Jaguar incrociando le braccia –Non mettermi in una posizione difficile con lui non ascoltandomi. -.
-Posso essere più utile che tenere d’occhio due ragazze! – ripose lui sbattendo una mano sul ripiano che aveva davanti, facendo sobbalzare Matisse.
-Ci conosciamo da poco, ma mi permetto di dissentire. – si lasciò sfuggire Raven mettendosi una striscia di pancetta in bocca.
Beast ringhiò: -Che cosa? -.
La ragazza si girò sullo sgabello per mettersi in una posizione più comoda per evitare eventuali colpi, biascicando con la bocca piena: -Ragaffa prefiosa, non puoi favmi male. -, alzando le mani in segno di resa.
Nessuno ebbe il tempo di controbattere o sgridare, perché nell’aria si diffuse un odore sgradevole di fumo e zolfo, per cui Raven si coprì il naso e bocca con il braccio, reprimendo uno starnuto. Dalla sala da pranzo accanto entrarono nuvole di fumo grigio e a grandi passi, Milord.
Teneva le mani davanti al corpo, sollevate come un medico che si era appena messo i guanti, e a Raven quasi scappò un’imprecazione per quanto fossero rosse in confronto alla carnagione pallida che si poteva vedere sul suo viso.
-Sacre code! – esclamò Matisse facendo uno scatto verso di lui, ma il mezzo demone si ritrasse, avvicinandosi le mani al corpo, dicendo: -Ferma, non voglio scottarti di nuovo. -.
-Giusto… Beast, il secchio in lavanderia, Jaguar la bacinella sotto il lavello. Raven, in freezer ci sono delle vaschette con il ghiaccio, mettine due nella bacinella. – ordinò Matisse prendendo dei guanti da forno, indossandoli per prendere le mani di Milord tra le sue, esaminandole.
Raven ci mise un attimo prima di processare il fatto che le aveva detto di fare qualcosa. Poi si alzò e si precipitò ad obbedire, spalancando la porta del frigorifero per raggiungere il piccolo freezer all’interno, dove trovò quattro contenitori per il ghiaccio. Ne svuotò due dentro la bacinella che Jaguar stava riempiendo dentro il lavello della cucina, mentre Milord rifiutava con tono stanco che Matisse gli desse della crema.
Quando Jaguar gli porse la bacinella, il mezzo demone vi immerse le mani, che sfrigolarono come bistecche su una griglia, emettendo vapore.
-Quanti? – chiese Jaguar.
-Almeno una decina. – rispose Milord, con un sospiro di sollievo, muovendo le mani in circolo a sfiorare i pezzi di ghiaccio che si scioglievano velocemente –Ratti non di Regina. La voce deve essersi sparsa in qualche modo, non proveranno una seconda volta. Se non sono stupidi. -. Rivolse un’occhiata a Raven e disse: -Ho visto lo zaino in corridoio: se ti passa un’altra volta per la mente ti metto a dormire assieme il cane oppure ti rompo le dita, scegli tu. -.
-La prossima volta starò semplicemente più attenta. – sibilò Raven.
Poi Milord notò altro. Diede una rapida occhiata alla cucina, inarcando un sopracciglio. Chiese a Matisse: -Come mai tutta questa roba? È il compleanno di uno di voi tre? -.
-Non vedo niente di male nel mangiare qualcosa di più sostanzioso. – rispose Matisse togliendosi i guanti da forno.
-Eh? – fece Beast entrando con un secchio pieno d’acqua tra le braccia –Ma non avevi detto che venivano… Ahio! -.
Matisse si lisciò il grembiule sulle gambe dopo aver dato un pestone al fratello, arrossendo.
-Mi tiro fuori. – disse dubito Jaguar dileguandosi dalla portafinestra in un lampo –Io non centro niente. -.
Calò un attimo di silenzio nel quale Raven non seppe dove andare a rifugiarsi. Milord sembrava voler strozzare Matisse, Matisse faceva finta di niente mentre integliava il pesce che aveva pulito e Beast aveva tutta l’aria di voler seguire il fratello fuori, lontano dal guaio. Il mezzo demone Lupo gli fece cenno con la testa di andarsene e lui obbedì, lasciando il secchio a terra.
Milord si raddrizzò sulla sedia e chiese: -Chi? -.
-Lo sai chi. -.
-Lei può, l’altro no. -.
-Non sei te che decidi. -.
-Ah, no? La runa di protezione di chi è? -.
-Non sono nemici. -.
-Loro… -.
-Tu credi che io non noti il fatto che non dormi? – lo interruppe Matisse sbattendo due spicchi d’aglio nella teglia, voltandosi per guardarlo in faccia –Neanche io dormo, perché anche io me la faccio sotto. -.
-Non me la faccio sotto. -.
-Beh, dovresti. – ribatté Matisse calcando la frase e facendo un gesto esasperato con le braccia –Non possiamo farcela da soli, tu non puoi farcela da solo, lei non può farcela da sola. – aggiunse indicando Raven, che per un qualche motivo si sentì in colpa. Il tono di Matisse si addolcì: -Sei meglio di così. -.
-Non provare ad intenerirmi. Puoi fregare i tuoi fratelli o qualcuno a cui piacciono le ragazzine, non me. – disse Milord a muso duro –Puoi dare consigli utili se vuoi, ma non prendere decisioni. -.
Matisse roteò gli occhi, Raven non seppe dire se per il fatto che non poteva prendere decisioni in sua vece o perché i suoi occhi dolci non avevano avuto effetto.
Alzò una mano come per dare uno schiaffo con il dorso della mano all’aria, voltandosi dall’altra parte con fare sdegnato per riprendere a cucinare, borbottando: -Sei una testa più dura di Beast oppure cieco, non so decidermi. Viene solo per parlare, tutto qui. E voglio proprio vedere se non lo lascerai entrare in casa cosa ti faranno. -.
Milord contrasse la mascella, aggrottando le sopracciglia, senza dire niente. Matisse stette stoicamente in silenzio, continuando a cucinare.
-E va bene. – si arrese Milord –Ma se tardano di un solo secondo all’appuntamento i cancelli non si aprono. -.
Matisse sorrise senza distogliere lo sguardo dal suo lavoro e il mezzo demone la schizzò con l’acqua: -Non montarti la testa angelo macchiato. -.
-Mezzo demone spelacchiato. – replicò Matisse facendogli la linguaccia. Poi si rivolse a Raven: -Mi dai una mano a finire per favore? Sono sicura che sarai contenta di ricevere una visita. -.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8: Sul ghiaccio sottile non si corre ***


CAPITOLO 8
Sul ghiaccio sottile non si corre


-Non dovremmo andare. -.
Naturalmente aveva detto una cazzata. Un’idiozia.
Buck si voltò a guardarlo. Li separavano una decina di passi.
Fuori il sole batteva implacabile e riscaldava come al solito le pietre della fortezza. A volte, in giornate particolarmente calde, il calore delle spesse pareti di roccia dall’esterno passava all’interno, creando un tepore piacevole nelle stanze e nei corridoi. Per questo si potevano trovare rettili ovunque dentro e fuori, che si godevano il sole o il calore, anche nei posti più impensabili.
Ma Chuck in quel momento aveva freddo. Anzi, addirittura la pelle d’oca.
Si strinse nelle braccia, cercando di togliersi i brividi con le mani, scoprendo di averle fredde e viscide di sudore.
-Non dovremm-che cosa? – ripeté sbigottito Buck sgranando gli occhi –Ma che dici? Sei strano Chuck. È l’occhio? Hai la febbre, un’infezione? -.
-L’occhio sta bene. -.
Una balla enorme, l’occhio gli faceva un male cane. Gli sembrava di avere un carbone ardente nell’orbita e anche qualcuno che cercava di accoltellargli l’interno della testa con simpatiche pungolate. Non aveva dormito molto e l’unico calmante che poteva prendere era un bicchiere di liquore che aveva trovato in un vicolo in una bottiglia mezza piena. Non faceva pensare al dolore per un po’ ma era disgustoso.
-Allora andiamo. Taylor ci vuole. – disse con decisione Buck, riprendendo a camminare.
Fece solo un paio di passi, per poi voltarsi a guardare di nuovo il cugino, per assicurarsi che lo stesse seguendo.
Cosa che non stava facendo.
-Chuck, muoviti. – insistette Buck, scocciato –Io da solo non vado di sicuro. -.
Avevano avuto la Portatrice tra le mani per un attimo prima che arrivassero i soccorsi a tenerla al sicuro. In più era accecato da un occhio.
Quella notte aveva sognato Calfie. Era nato d’inverno ed era piccolo e rachitico. Adorabile, come tutti i cuccioli, ma suo padre aveva capito che qualcosa era andato storto quando la vacca non aveva avuto lo stimolo di scodellarlo.
Lo avevano tenuto, certo, perché niente si butta via: poteva ancora irrobustirsi e diventare almeno un manzetto. Così se ne erano occupati, lo pulivano, lo nutrivano con un succhiotto, lo facevano camminare e lo tenevano d’occhio quando stava con gli adulti e gli altri vitellini. Ma Calfie era nato sfortunato.
Chissà come era rotolato giù per un pendio e si era rotto la zampa. Mugghiava, chiamava la mamma, cercava di alzarsi in piedi con l’osso che usciva dalla pelle, sanguinava come se lo avessero scannato.
 Lo aveva portato nel fienile, convinto che potessero fare qualcosa. Era piccolino, curare una vacca era più complicato perché erano più grosse. Ma suo padre, sentito che era successo e guardato la ferita, invece che prendere le bende e le stecche aveva preso la scure.
“Lascia perdere Chucky, Calfie era anche malato. Le erbe non hanno funzionato. Se resti m’aiuti, quindi vai di là, vai da zia o dai vicini. ”
Gli si era aggrappato al braccio ma non c’era stato verso, Calfie era diventato carne salata per i tempi più duri.
Calfie nel sogno correva e sgambava, stava bene. Lui gli correva dietro, non sapeva neanche se era perché era felice che fosse vivo o se per evitagli un’altra caduta pericolosa. Gli diceva di non correre, altrimenti inciampava. Ed era inciampato, non c’era da stupirsi, dato che saltabeccava come un matto. Lo aveva tirato su, guardando che non si fosse rotto nessuna gamba.
Era tutto a posto, ma teneva un occhio chiuso. Il sinistro.
“Siamo tutti carne da macello.” aveva detto, aprendo le palpebre, facendo grondare un fiume di sangue dall’orbita nera “Vieni a tenere compagnia al piccolo Calfie?”.
Sua zia aveva scommesso sulla vita del vitello, pensando che non avrebbe raggiunto i due mesi di vita.
Di sorveglianza alle cucine, aveva sentito le guardie sussurrare che loro sarebbero stati eliminati il giorno stesso. Lo aveva sentito dire da Regina in persona a cena, i due cani non avrebbero più avuto un canile a cui andare, che non fosse accessibile se non dai vermi.
E adesso Taylor li voleva nel suo studio.
-Muoviti-i. – ribadì Buck, cantilenando l’ultima lettera, non seppe dire se era ancora scocciato dalla sua immobilità o se stava capendo che qualcosa non andava.
Ma come faceva a non rendersi conto del fatto che stavano per fare una brutta fine?
Lui non sembrava neanche capire… non per stupidità, sembrava voler chiudere apposta gli occhi davanti alla realtà.
Fin da piccolo si cacciavano nei guai per colpa sua, dato che ignorava i segnali ovvi che avrebbero portato al casino. Inutile cercare di fermarlo, sembrava avere il prosciutto sugli occhi.
Cosa per la quale sua zia gli aveva fatto promettere di prendersi cura di lui.
-Andiamo… - bofonchiò iniziando a camminare, pensando: -Se ce ne andiamo sarà insieme. Insieme siamo entrati al Mattatoio, insieme ne siamo usciti e insieme ci torniamo… se è questo che ci toccherà. -.
Quando gli passò accanto sembrò non accorgersi che aveva ancora la pelle d’oca sulle braccia.
Raggiunsero lo studio di Taylor in poco tempo. In tutti gli anni in cui erano stati al servizio degli Hydra non si ricordava di aver mai messo piede in quella stanza.
Rimase stupito dalla meravigliosa vetrata sulla sinistra, un mosaico che andava formare tralci rampicanti di fiori rossi, che solo dopo essersi avvicinato abbastanza riuscì a riconoscere come Code di Volpe. L’aveva sempre vista dal cortile della fortezza e aveva immaginato che appartenesse alle stanze di Regina o al massimo alla biblioteca, non alla stanza del principe.
Il sole rifletteva nella stanza luci colorate, che investivano Taylor, intento a leggere un libro in una poltrona all’esatto opposto della vetrata.
Il vetro rosso faceva sembrare che il demone fosse ricoperto di macchie di sangue luminose, cosa che fece rabbrividire ancora di più Chuck, almeno quanto l’enorme testa di Hydra sul tappeto che ricopriva buona parte del pavimento, dalle fauci spalancate.
Appoggiandoci i piedi sopra sperò che la fine a cui stavano per andare incontro potesse essere veloce e indolore come essere ingoiati da un mostro.
Si inginocchiarono davanti a Taylor e attesero che parlasse.
Il demone si tolse gli occhiali che stava usando e si passò una nocca sull’occhio destro, facendo una smorfia. Mise da parte il libro e disse: -Immagino sappiate perché siete qui. -.
Chuck sentì i capelli rizzarglisi sul collo. L’istinto gli diceva di darsela a gambe, subito, anche buttandosi contro il finestrone. Cadendo di sotto magari avrebbe avuto una morte meno dolorosa di tornare al Mattatoio o essere ammazzato dalle guardie o addirittura da Taylor.
Accanto a lui, Buck parlò alzando la testa dalla posizione prostrata: -Credo sia per il lavoro che abbiamo svolto. Siamo onorati di lavorare per Regina, non c’è il bisogno di essere ricompensati in altro modo. -.
In un altro momento gli avrebbe allungato una gomitata o un calcio alla caviglia, oppure avrebbe anche solo pensato che avrebbe dovuto stare zitto. Invece incassò la testa tra le spalle trattenendo il fiato.
Stavano comunque per essere congedati in una maniera o l’altra, poteva ancora fare lo spavaldo un’ultima volta. Non lo avrebbe sgridato neanche con un’occhiataccia.
L’espressione di Taylor si accigliò lievemente: -Mi aggrada sentire dei servitori addirittura onorati di lavorare per mia sorella. Sono addolorato però di comunicarvi che non siete qui per delle congratulazioni o una ricompensa. -.
-Signore? -.
-I vostri servizi non sono più richiesti. -.
Chuck incassò il colpo come un cane abituato alle bastonate del padrone. Buck invece si rivoltò.
-Che diavolo significa? – chiese con rabbia, alzandosi in piedi –Perché non possiamo lavorare ancora qui? -.
-Questo fervore è ammirevole. – osservò Taylor con tono atono, cosa per cui Chuck non capì se fosse pronto a punire suo cugino per la sua insolenza o se ormai non importasse più. Se avesse avuto il coraggio di alzare la testa forse avrebbe potuto leggere qualche sentimento nei suoi occhi.
-Tuttavia… - continuò il principe -Mi vedo costretto a congedarvi. -.
-Perché? – ripeté il mezzo demone con arroganza.
-Credo tu abbia notato la ferita di Chuck. – disse Taylor –La perdita della vista è fatale, un lato scoperto è di una completa inutilità. -.
-Chuck può farcela. -.
Taylor sospirò e ordinò: -Chuck, voltati a destra. -.
Il mezzo demone obbedì prontamente, rimanendo in ginocchio e voltando solo la testa di lato. Udì un fruscio e qualcosa lo colpì alla testa. Non se lo aspettava e indietreggiò goffamente, guardando a terra: una monetina.
-Non l’ha vista arrivare. – constatò il demone –Come pensi possa riuscire ad evitare un pugno o un fendente? No, Chuck non può lavorare in queste condizioni. Se avesse potuto guarire avrebbe già un occhio nuovo. -.
Buck ringhiò: -Sarò io il suo occhio. Io posso ancora essere utile, farò anche la sua parte. -.
-Non sareste comunque in grado di combattere un demone. – continuò Taylor, come se lui non avesse parlato –Mi spiace, il lavoro è stato affidato ai fratelli McMastiff. Mi vedo costretto a congedarvi, non ho altro da darvi. Devo sottostare a degli ordini anche io. -.
-Ma… -.
-La prego, un’ultima possibilità. -.
Per un attimo non capì chi avesse parlato: non era la voce di Buck, né tantomeno quella di Taylor e non c’era nessuno nella stanza oltre a loro. Si rese conto che era stato lui a parlare solo quando Taylor gli chiese di ripetere.
Francamente non sapeva neanche perché aveva parlato o come, dato che non si ricordava di aver effettivamente mosso la bocca per parlare. Credeva di essere pronto per andare. Forse era la ferita che lo stava facendo straparlare, la sentiva pulsare sotto la benda.
Perciò ammutolì, sperando che Taylor lasciasse perdere e si sbrigasse. Soprattutto che Buck non facesse scenate.
Invece, dopo qualche attimo di silenzio Buck sbottò: -E va bene, non siamo riusciti a catturare la Portatrice, che importa? Ma questo non vuol dire che… -.
-Silenzio. -.
Buck si azzittì immediatamente.
-Esci, il tuo abbaiare mi tedia. Chuck, rimani. -.
Il mezzo demone sembrò tentennare, poi si voltò e si affrettò ad uscire, lasciando il cugino solo.
-Se stai pregando smettila. – disse Taylor –Non serve. -.
-Non stavo pregando signore. – rispose Chuck, incerto.
Perché voleva solo lui? Voleva fare le cose separatamente?
-Allora alzati se non stai pregando, non mi va di parlare a qualcuno che sembra non considerare la mia presenza. -.
Chuck si alzò in piedi e si sforzò di nuovo di non dare di matto e cercare di scappare. La calma di Taylor era terrificante. Calma o apatia, non avrebbe mai saputo dire cos’era delle due.
Azzardò ad alzare gli occhi su di lui ma li distolse subito quando vide una porzione di pelle bruciata sul viso. La nascondeva apposta con i capelli in pubblico, non gli piaceva si vedesse.
Aveva sentito voci di corridoio su quella particolarità, una cosa che si portava dietro sin da quando era bambino, ma non aveva mai visto effettivamente la bruciatura. Qualcuno diceva che prendeva solo il lato destro della faccia, altri dicevano che si estendeva al corpo.
Sperò che non avesse notato la sua occhiata furtiva.
-Tu sapevi già perché vi ho chiamati qui. – affermò con certezza Taylor prendendo una postura rigida contro lo schienale della poltrona –Ho sempre notato il tuo comportamento da animale in gabbia, sapevi che prima o poi sarebbe successo in un modo o nell’altro. Dal primo giorno che vi ho portati qui non hai mai chiesto niente. Ho seguito la vostra vita passo passo, avresti potuto chiedermi qualsiasi cosa, anche solo per migliorarvi la vita di poco: soldi, cibo, aiuto… Eppure, oggi mi hai chiesto di risparmiarvi. Non vuoi morire. -.
Chuck annuì, guardandosi i piedi.
-Vieni dall’ovest, ne hai l’accento. E da come tu e tuo cugino vi comportate a volte è quasi d’obbligo immaginare che siate dei campagnoli, probabilmente avevate una fattoria. Corretto, vero? Non sono pratico di animali e allevamento, ma so per certo che se una vacca smette di dare il latte o una gallina non fa più uova vengono destinate alla cucina. Che il fattore vi sia affezionato o meno, non hanno più utilità. -.
Annuì di nuovo, non sapendo cos’altro voleva da lui.
-Ma… immagino che se la bestia sapesse che ad attenderla c’è la mannaia cercherebbe di scappare. -.
Il tono con cui parlò spinse Chuck ad alzare la testa e guardarlo, dimenticandosi per un attimo che incontrare il suo sguardo avrebbe potuto portarlo ad immense sofferenze, più di quanto l’occhio non lo facesse già soffrire.
Taylor lo guardava senza calore.
Aveva semplicemente constatato che era come Calfie? Se avesse saputo che lo avrebbero ammazzato non si sarebbe mai lasciato riportare a casa.
Se avesse avuto la possibilità di scappare anche lui sarebbe già andato nella Resistenza.
Quindi…
-Potete andare. – concluse Taylor riprendendo gli occhiali e il libro.
Chuck indietreggiò lentamente fino alla porta, mentre Taylor riprendeva a leggere da dove aveva abbandonato la lettura. Prima di uscire diede un’ultima occhiata al demone, che lo stava osservando appena al di sopra delle lenti.
Era incerto se ringraziarlo, chiedere spiegazioni o darsela a gambe levate. Ma il demone distolse lo sguardo e lui perse coraggio.
Scivolò tra i portoni di legno con le mani che tremavano. Se ne accorse solo quando Buck lo prese per in braccio tirandolo da parte e si affrettò a mettersele in tasca.
-Non sono riuscito a sentire niente, che t’ha detto? – gli chiese subito il cugino.
Il mezzo demone si sentiva la lingua incollata al palato ma riuscì a biascicare: -Abbiamo ancora una possibilità. -.
Buck esultò con una risatina strozzata ed eccitata, stringendolo in un abbraccio con un braccio solo sulle spalle: -Ah-a! Lo sapevo che servivamo ancora! Era tutta una balla! -.
-Credo che… -.
-Il lavoro è ancora nostro? -.
-Non lo so, non… -.
-Vabbè, chissene. Andiamo a parlare ai McMastiff. -.
Mentre veniva trascinato via Chuck balbettò: -Perché ai McMastiff? -.
-Beh, ovvio, siamo ancora al servizio di Regina e da quando lavoriamo per lei abbiamo sempre cercato la Portatrice, per cui se siamo ancora qua è perché dobbiamo ancora catturarla. Ci ha dato un’altra possibilità perciò i McScemi si dovranno fare da parte. -.
Chuck non replicò. La lingua era tornata ad incollarsi al palato e la gola a chiudersi.
Era sera, i fratelli McMastiff potevano essere ovunque: nella fortezza, in città o a casa loro.
Non avevano idea di dove abitassero e anche se lo avessero saputo Chuck non avrebbe lasciato che Buck andasse a disturbarli a casa loro, con il rischio di venire pestati a sangue.
Cercarono nella fortezza e da una guardia riuscirono ad avere l’informazione che erano usciti fuori in un pub.
Buck non perse tempo e si mise subito alla ricerca del locale, con Chuck che lo seguiva con i nervi a fior di pelle, sobbalzando al minimo rumore.
Il pub era incastrato tra due edifici, ma per entrare si doveva scendere una scaletta di ferro cigolante. Non c’erano insegne visibili dalla strada, solo un cartello di legno dipinto accanto alla porta, con due boccali che si scontravano e si rompevano. Niente scritte.
Dopo essersi passato la mano tra i capelli per darvi una parvenza di ordine, Buck entrò, seguito a ruota dal cugino.
L’ambiente non era molto illuminato, ma era decisamente affollato: non c’era un solo tavolo non occupato, anche se qualcuno sedeva da solo.
Con una rapida occhiata Chuck capì che per trovare i McMastiff dovevano per forza mettersi a girare tra i tavoli. A parte la luce insufficiente, l’aria era invasa da fumo di sigaretta, non li avrebbero neanche trovati con il fiuto.
Più di una persona si zittì e si girò a guardare che fosse entrato. Qualcuno, con grande sollievo di Chuck, tornò alle sue chiacchiere o a qualche gioco di carte.
Qualcun altro li seguì con lo sguardo.
Il mezzo demone si sistemò l’unica cosa che impedisse a qualche demone di farlo fuori sul braccio, un pezzo di stoffa rossa con il simbolo degli Hydra cucito con filo nero. L’unica divisa che gli fosse mai stata data. Addirittura i mezzi demoni del Mattatoio potevano indossare le divise dei servitori degli Hydra, con l’aggiunta della fascia al braccio.
Mentre strizzando l’occhio sano cercava di vedere se Buck indossasse la sua, prima di finire appeso ad un muro per la gola, lui fece una brusca svolta tra i tavoli.
Chuck lo seguì e vide seduti a degli sgabelli chi cercavano.
Buck si schiarì la voce e si fermò vicino al loro tavolo, mettendosi le mani sui fianchi.
-Oh, chi si vede. Qual buon vento? -.
Chi aveva parlato era il secondogenito dei gemelli McMastiff, Carlo, capelli biondi dal serio taglio militare e sguardo serio. Per quello che aveva sentito dire Chuck in giro, era affidabile e molto più bravo di quanto sembrasse, nonostante avesse un aspetto fin troppo rigido, diverso da quello Taylor. Forse era dovuto all’addestramento del nonno, ancora capitano delle Guardie Reali dopo tanto tempo.
-Volete aggregarvi ad una partita? Possiamo anche offrirvi da bere se vi va di fermarvi. -.
Il terzogenito era decisamente più affabile degli altri due, Chuck questo lo sapeva già. Di loro conosceva meglio proprio lui, Rosco, capelli neri e sorriso gentile. Non era propriamente un combattente, dato che era un medico, ma seguiva comunque i fratelli nelle ronde e nei compiti più difficili da guardia. Era stato lui a visitarli usciti dal Mattatoio e sapeva anche che si occupava del fidanzato della sovrana.
-Saranno venuti a piagnucolare, dato che hanno dato il loro lavoro a noi. -.
Madison, quartogenito e ultimo gemello della cucciolata: scontroso e aggressivo, i capelli castani adombravano sempre il suo sguardo, cosa di cui Chuck aveva segretamente sollievo. Quello era conosciuto per essere un attaccabrighe e già una volta Buck aveva rischiato delle botte quando lo aveva sentito dargli del “voltagabbana”, cosa che più di tutto gli faceva salire il sangue alla testa.
Alla caduta delle Volpi inizialmente si erano schierati dalla parte della Resistenza insieme ai genitori, opponendosi al nonno dalla parte degli Hydra, ma dopo poco tempo erano tornati dalla parte d chi regnava.
Era meglio se a parlare fosse stato lui invece che il cugino o sarebbero usciti da quel posto con dei denti in meno.
Prima che potesse anche solo formulare il pensiero di una frase con cui iniziare, Buck rispose a tono a Madison: -Mi spiace per te ma ci hanno ridato l’incarico, risparmiati il sarcasmo. -.
-Che stronzata! – ribatté Madison sbattendo una mano aperta sul tavolo –Avrebbero ridato l’incarico a due incapaci come voi? Già è un mistero come sia passato per la mente a qualcuno di darlo a voi la prima volta, ma dopo che ve la siete lasciati sfuggire…! -.
-E invece è così. – insistette Buck digrignando i denti e aggiunse: –Taylor ci ha detto che potevamo continuare a cercare la Portatrice, anzi catturarla. Anche senza di voi, potete tornare al vostro canile. -.
Chuck rabbrividì. Non solo Taylor non aveva affatto detto che avevano di nuovo l’incarico ma non aveva assolutamente detto che i McMastiff erano sollevati dal lavoro.
Aveva dovuto immaginare che se cercava i McMastiff era per fare qualcosa del genere, avrebbe dovuto fermarlo e farlo tornare a casa.
La bugia fece inarcare un sopracciglio a Rosco, che non guardò neanche Buck, ma rivolse lo sguardo su Chuck, che se ne stava stretto nelle spalle appena un passo dietro al cugino, come se cercasse in lui una falla in quello che Buck aveva appena detto.
-Davvero Taylor ha detto questo? – domandò Carlo, con tono dubbioso.
-Certo. – mentì ancora Buck, incrociando le braccia –Potete andare a chiedergli, s’avete voglia. -.
-Sei un arrogante del cazzo, lo sai questo? – ringhiò Madison alzandosi in piedi.
-Siediti Mad. -.
-Ma… -.
-Cuccia Maddy. -.
Il demone si lasciò cadere sullo sgabello, paonazzo. Chuck pensò che poteva comodamente schiantare le gambe di legno in quella maniera. E che se avesse potuto uccidere con lo sguardo suo cugino sarebbe già stato freddo sul pavimento la prima volta che aveva aperto bocca.
-Se non gliel’insegno io come si parla a certe persone, la prossima volta che le vedremo sarà in una fossa. – mugugnò Madison –Gli avrei fatto un favore. -.
-Grazie per averci avvertito del cambio di programma. – disse Rosco -Volete fermarvi con noi? -.
-No, abbiamo da fare. – fece Buck –Andiamo Chuck. -.
Esitò prima di seguirlo.
Fuori, appoggiò una mano sulla spalla di Buck e lo fermò, sibilando: -Perché hai detto quelle balle? -.
Avrebbe voluto essere arrabbiato o almeno di dargli l’impressione di esserlo, ma gli sembrò di miagolargli pateticamente nell’orecchio.
Buck si scostò da lui scrollando le spalle: -Non ho detto balle. -.
-Taylor non mia detto quello che tu hai detto. L-lui… il lavoro era dei McMastiff, perché hai voluto dirgli che invece è nostro? -.
-Perché è nostro, stupido: Regina ha detto a noi di cercare la Portatrice, quello che dice il fratello non conta niente. Se non è Regina a dirmi di farmi da parte, io non mi muovo di un centimetro. -.
-Da quando lord Taylor non conta una cicca? Non sai neanche quello che mi ha detto! -.
-Beh, prima non mi hai fermato quando ho parlato. Se vuoi tornare lì dentro e dire ai McMastiff che ho mentito, accomodati. Io vado a casa a studiare un piano e a riposarmi. Vieni? -.
Chuck guardò l’entrata del pub e il cugino, borbottando: -No… ho una cosa da fare. Vai avanti. -.
Buck non se lo fece ripetere due volte e andò verso casa.
L’altro mezzo demone attese che sparisse dalla sua vista per poi andare ad appostarsi dall’altra parte della strada, nel buio di un vicolo, da dove poteva vedere bene chi uscisse dalla porta del locale.
Avrebbe voluto entrare e prendersi qualcosa da bere per attenuare il dolore alla ferita, ma gli serviva anche la mente lucida. Strinse i denti mordendosi di quando in quando il labbro inferiore quando il male sembrava volerlo convincere ad alzarsi e seguire Buck.
Non doveva desistere e lasciarsi convincere dall’istinto di lasciare perdere.
I McMastiff erano demoni buoni, non aveva mai sentito le guardie o la servitù parlare male di loro. Carlo e Madison non avevano mai fatto parte delle Squadre di Cattura né erano mai entrati nel Mattatoio, il loro compito era solo di pattugliare. Tantomeno erano coinvolti nella ricerca della Resistenza.
Rosco poi era un medico… almeno lui lo avrebbe ascoltato.
Dovette attendere un po’ di tempo prima che finalmente uscisse un gruppetto di tre persone che iniziò a salire le scale.
Era buio e lui era stanco, ma poté udire un: -Dovevi per forza andare a metterti in mezzo a quella mischia vero? E rompere uno scaffale di bicchieri! – seguito dal distinto suono di un ceffone, subito lamentato da un: -Non rompere le palle, li ho separati Rosco! -.
Chuck si alzò, pronto.
Li seguì di soppiatto, aspettando che si allontanassero dal pub prima di avvicinarli. Non avevano ragione di passare per strade poco frequentate, sarebbe stato costretto a parlargli davanti ad altre persone. Magari si sarebbero spostati in privato per non farsi vedere con un mezzo demone, chi lo sa? Sarebbe stato meglio in ogni caso.
Con sua sorpresa, invece si spostarono proprio in una via secondaria, che lui conosceva abbastanza bene da sapere che non ci passava nessuno.
Senza pensarci li seguì. Appena mise piede oltre i muri che delimitavano l’inizio della strada, un paio di mani lo afferrarono sul davanti della giacca e lo sbatterono contro una parete, facendogli vedere le stelle.
-Guarda guarda, ecco il sorcio che ci seguiva. – sogghignò Madison sollevandolo da terra almeno di una spanna, facendolo annaspare in aria –Cosa vuoi? -.
Prima che potesse aprire bocca e dare una spiegazione, Carlo diede una manata sulla spalla del fratello minore con il dorso della mano, dicendo: -Mettilo giù, animale. Lo stai spaventando per niente. -.
Madison lo sguardò storto e aprì le mani, lasciando cadere il mezzo demone come un sacco di patate. Dovette aggrapparsi all’intonaco ruvido dietro di lui per non cadere a terra come un idiota.
-È sospetto uno che ti segue con quell’aria circospetta. – fece il demone dai capelli castani spostandosi alla sua destra, appoggiandosi al muro con una spalla.
-Hai paura del vecchio Chuck? – chiese ironico Carlo, spostandosi a sinistra.
-Se magari lo faceste parlare… - sbuffò Rosco, alzando gli occhi al cielo.
Chuck li osservò e capì subito che nonostante almeno due di loro volessero sembrare gentili, erano sospettosi quanto l’altro: gli avevano bloccato ogni via di fuga. Cosa temevano da addirittura metterlo all’angolo?
Mentre cercava silenziosamente una via di fuga, intimorito dal loro atteggiamento velatamente aggressivo, Rosco chiese: -Ti serve una mano? Vuoi che ti controlli l’occhio e non osavi chiederlo prima? -.
-No, grazie. Io… credo… volevo chiedere una cosa in effetti. -.
-Allora chiedi. – lo esortò Carlo e Madison aggiunse: -Senza balbettare o impappinarti. Non abbiamo tutta la notte. -.
-Parla. Parla chiaro e tondo o potresti farli arrabbiare. – pensò Chuck prendendo un bel respiro. Parlò lentamente.
-Innanzitutto volevo scusarmi per prima, per come mio cugino s’è comportato, è stato molto maleducato. E voglio anche scusarmi per le bugie che ha detto. -.
-Bugie? – ripeté Carlo.
-Ecco, ehm… - mugugnò il mezzo demone, rendendosi conto di aver impostato male la frase –Noi… in verità… non saprei dire se il lavoro è nostro. -.
-Che? – fece Madison, con un tono tra il divertito e lo stupito che lo mise in agitazione.
Tacque, pensando a quello che Taylor aveva detto, le parole gli ronzavano in testa.
“Immagino che se la bestia sapesse che ad attenderla c’è la mannaia cercherebbe di scappare.”.
“Potete andare”.
Quelle parole, quello sguardo…
Li stava avvertendo? Avrebbe dovuto ucciderli o rimandarli al Mattatoio e li aveva lasciati andare di proposito per farli scappare? Aveva voluto dare loro un vantaggio, prima che li venissero a cercare per liberarsi di loro, o non li avrebbe perseguitati ma dimenticati? Se fosse venuto a sapere che invece erano rimasti avrebbe cambiato idea e perso compassione?
Ma soprattutto perché lo aveva fatto?
Era il fratello della sovrana, una demone che odiava in modo viscerale i mezze demoni per qualche motivo, che aveva rovesciato addirittura un governo pur di avere voce in capitolo e cancellare la loro esistenza, l’unico della sua famiglia che gli era rimasto.
Dimostrava continuamente il suo affetto per la sovrana aiutandola, sostenendola, rassicurandola, amandola come solo un fratello poteva fare nei confronti della sorella minore.
Gestiva il Mattatoio, aveva a che fare con i mezzi demoni ogni giorno da quando Regina aveva preso il potere e forse anche da prima. Aveva le mani macchiate del loro sangue.
Eppure gli era sembrato di capire che con la più genuina pietà li avesse lasciati andare.
-Abbiamo trovato la Portatrice e abbiamo commesso un errore. – spiegò e realizzò allo stesso tempo, fissando un punto imprecisato del terreno davanti ai piedi di Rosco –Taylor avrebbe dovuto sbarazzarsi di noi in qualche modo ma non l’ha fatto. Ha dato il lavoro a voi e ci ha detto di andare. Non so perché Buck abbia detto quello che ha detto ma noi non possiamo riprendere il lavoro. Né tornare indietro. -. Alzò lo sguardo, senza guardare nessuno dei tre demoni in particolare ma catturando comunque la loro attenzione: -Aiutateci, vi prego. -.
Seguì un attimo di silenzio in cui si sforzò di non piangere.
Aveva appena confessato a delle Guardie Reali che lui e Buck erano dei condannati a morte in fuga. Nessuno poteva essere più stupido di lui, eppure non aveva visto altra soluzione, con il
Madison scoppiò a ridere buttando la testa all’indietro e tra un ululato e l’altro esclamò: -Tu vuoi che pariamo il culo a te e il tuo cuginastro? Buahah, magari vuoi ridistribuire la colpa nel caso la ragazzina ci sfugga dalle mani? A te è partita la testa, non solo un occhio Chuck. -.
Mentre Chuck incassava la testa tra le spalle, impallidendo, Carlo aggiunse in tono più condiscendente: -Mi dispiace Chuck, ci chiedi qualcosa di impossibile. Non possiamo rischiare di prendervi con noi se quello che hai detto è vero: da quello che ho capito tu e Buck siete nei guai. Non possiamo. -. Scosse anche la testa, sembrando davvero dispiaciuto.
-No… - pensò il mezzo demone, guardandoli disperato –No no no, non può finire così, non voglio che finisca così. -. Deglutì e ripeté: -V-vi prego, lo so che è chiedere troppo, non d-dovrei neanche pensare una cosa del genere ma-ma-ma forse se riuscissimo… -.
-Regina non è misericordiosa. – ribatté Madison –Siete due morti che camminano. -.
Il dolore all’occhio fu all’improvviso insopportabile.
Coprendosi la benda con una mano, digrignando i denti con un verso frustrato per quella situazione, Taylor, i ragionamenti contorti di suo cugino, le risate e la consapevolezza di essere fottuto sbottò: -Non ho scelto io di essere un mezzo umano sapete? Se almeno uno di voi ce l’ha, ci avrete sulla coscienza! Come tutti gli altri che sono morti prima di me e che voi non avete difeso… -.
Sentì un ringhio animalesco e fu di nuovo contro il muro, sbattendo la testa talmente forte che il dolore all’occhio fu dimenticato.
A pochi centimetri dalla faccia, Madison gli alitava addosso come un toro imbestialito, sputando un: -Non sai di cosa stai parlando stronzo. Ti sei scavato la fossa, adesso ti svito la testa dal collo o te la rompo contro questo muro merdoso, decidi tu. -.
-Lascialo Madison. -.
Questa volta il demone si voltò a guardare il fratello maggiore, senza smettere di ringhiare. Ad un suo cenno della testa, però, lo lasciò andare di nuovo.
A differenza di prima Chuck finì in terra, le gambe troppo molli per tenerlo in piedi.
Carlo si avvicinò e il mezzo demone si rannicchiò, alzando appena un braccio per difendersi.
Ma non arrivò nessun colpo.
Il demone gli strinse la mano che alzava e lo tirò in piedi con uno strattone deciso, facendolo barcollare.
Lo fissò nell’occhio buono e disse: -Va bene. Domani ci rivediamo qui per parlare. Se succede qualcosa prima di allora non ci siamo visti. Chiaro? -.
Chuck annuì rigidamente, troppo spaventato per parlare, e il demone lo lasciò andare, dandogli una pacca in mezzo alla schiena dicendogli di andare a casa.
Non se lo fece ripetere due volte e scappò senza voltarsi.
Carlo tirò un sospiro di sollievo.
Il fratello minore gli diede una spinta rabbiosa, dicendo a denti stretti: -Che cazzo ti dice la testa? Quei due ci manderanno i piani in fumo! -.
-Mi dispiace ammetterlo ma Madison per una volta ha ragione. – concordò Rosco, rimasto in silenzio per tutto quel tempo –Mi dispiace per la loro situazione, ma è una situazione molto delicata e non abbiamo mai preso in considerazione qualcun altro. -.
-Fidatevi di me.  –sentenziò il maggiore, sorridendo –Forse non Buck, ma Chuck di sicuro ci sarà utile. Se i miei sospetti sono fondati è ben diverso da cugino e ci aiuterà ancora più di Raven per i nostri piani. Almeno, per arrivare a concludere la fase uno. -.
Rosco sorrise a sua volta: -Pensavo di essere io il volpone del gruppo. -.
-Per me siete due idioti allo stesso modo. – borbottò Madison.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9: Un quadro generale... ***


CAPITOLO 9
Un quadro generale...


Raven aiutò Matisse con i preparativi del pranzo solo per cercare di calmare il nervoso del tentativo di fuga fallito. Nonostante Matisse fosse dolce e paziente nei suo confronti, dopo aver quasi bruciato una padella e aver sbagliato il dosaggio del sale in un’altra, il cattivo umore restò per colpa di Milord, appostato come un cane da guardia in sala da pranzo ad occhieggiarla fumando la solita sigaretta.
Ogni volta che incrociavano lo sguardo  lui dava un colpetto col piede allo zaino che aveva ai piedi e faceva un mezzo sogghigno, che le faceva immaginare di sentirlo dire: -Lo vedi questo? Se ti becco con questo in spalla che cerchi di scappare ti ci infilo dentro. Poi ci dò fuoco. -. La cosa più brutta del fatto che la tenesse così sotto controllo e che sogghignasse in quel modo inquietante era che non rideva con gli occhi.
-Allora, chi sono gli ospiti? – chiese Raven prendendo i piatti per apparecchiare tavola da uno scaffale –Devo preoccuparmi? -.
-Gente che non ho voglia di vedere. – ripose Milord, sbuffando una nuvola di fumo dal naso.
-Oh, ti piaceranno, vedrai. – lo zittì Matisse.
-Quindi non mi devo preoccupare, bene. – pensò ad alta voce Raven spostandosi in sala da pranzo agitando una mano per dissipare il fumo di sigaretta –Puoi fumare fuori? -.
-È casa mia. -.
-È casa nostra. – sottolineò Matisse –Milord, vai a fumare fuori per favore. Oppure fai quella cosa carina. -.
Raven guardò incuriosita l’angelo, che si era fermata da ogni attività culinaria per sporgersi verso l’ingresso della sala con qualcosa che poteva somigliare ad aspettativa. Milord roteò gli occhi e sbuffò, dando un colpetto con il pollice alla sigaretta per far calare della cenere in un posacenere di vetro blu sul tavolo.
Se l’accostò di nuovo alle labbra e questa volta inspirò molto più a fondo di come faceva di solito, accorciando a metà la carta bianca in un colpo solo. Trattenne il fumo in bocca ad occhi chiusi per un po’ e poi lo buttò fuori lentamente, separando appena le labbra.
Il fumo che ne uscì era bianco, a differenza delle altre volte, e non salì verso l’alto. Iniziò a prendere una forma strana agitandosi come se fosse vivo o qualcosa si agitasse nascosto al suo interno. Si separò in tante minuscole nuvolette bianche che pian piano presero la forma di farfalline dalle ali arrotondate, che iniziarono a sbattere volando in cerchio e planando.
Milord fece un gesto con una mano come a scacciarle e quelle volarono in direzione di Matisse che le accolse con un risolino deliziato. Una le si posò sul naso, altre sulle mani e sui capelli.
Una farfalla di fumo volò fino a Raven, separata dalle altre, e le si infranse contro la fronte dopo averle volato attorno alla testa.
Non avrebbe mai immaginato che quel mezzo demone tanto odioso sapesse fare qualcosa del genere. O almeno qualcosa che facesse anche solo lontanamente sorridere Matisse come stava facendo in quel momento. Dall’espressione che stava facendo non sapeva dire se era imbarazzato dal gesto che aveva appena fatto o se ne era compiaciuto.
-Non ringraziarmi, sai che odio farlo. – disse infatti quando Matisse fece per dire qualcosa. Si rivolse poi a Raven –Finisci di apparecchiare: mi prude il naso, quell’ impiastro sta per arrivare. -.
-Spero ti cada dalla faccia. -.
Aveva appena finito di metter posate e bicchieri che dal giardino Jaguar urlò: -Ehi sono arrivati! Aprite il cancello! -.
Raven andò subito ad aprire la porta principale per vedere chi stava arrivando. L’unica cosa che vide fu un minivan rosso che attendeva che i cancelli si aprissero. Il riflesso del sole sul parabrezza le impedì di riuscire a vedere chi fosse seduto nell’abitacolo.
Trasalì quando sentì una mano appoggiarlesi sulla spalla. Si girò di scatto e vide Milord accanto a lei, arrivato silenziosamente al suo fianco.
-Che diavolo fai? – sibilò facendo per scostarsi.
-Sto per abbassare la protezione. – rispose lui con freddezza –Non farti strane idee. -.
Mentre il cancello si apriva il mezzo demone le strinse le dita sulla maglia.
Il minivan entrò nel cortile con lentezza e parcheggiò in mezzo altre macchine, come se chi fosse arrivato era di famiglia.
La prima portiera ad aprirsi fu quella del passeggero, dal quale saltò giù una bella donna dai capelli corti, quasi rasati, sul lato destro della testa e lunghi sulla sinistra in un taglio obliquo, dai colori rosso e nero, come il pelo di una volpe. Indossava una camicia senza maniche a scacchi neri e verde allacciata sotto il seno e jeans corti dall’orlo sbrindellato.
Jaguar accorse dal giardino sul retro saltando le piante di fiori che delimitavano il confine tra il porfido e il prato, precipitandosi a sollevare la nuova venuta tra le braccia, stampandole un bacio sulle labbra tanto forte che Raven sentì lo schiocco dalla porta.
-Ti sono mancata panterone? – chiese la donna ammiccando al latino americano.
-Tantissimo Raquel. -.
-Merçi per il passaggio Andrea, molto gentile da parte tua. – esordì sarcasticamente una seconda voce dalla erre moscia.
Raven quasi gridò di gioia nel vedere che chi scendeva dal posto dell’autista era una testa bionda che conosceva fin troppo bene.
Era proprio Andrea, con i capelli raccolti in un enorme chignon alto e un tailleur verde con gonna coordinata e una sgargiante camicia bianca, almeno quanto i tacchi rossi che aveva ai piedi. In mano reggeva un paio di occhiali da sole che si affrettò ad appuntarsi sulla testa quando lei corse ad abbracciarlo a testa bassa, quasi buttandolo a terra.
-Fai piano zuccherino, lo zio non è così stabile su questi trampoli quanto sembra. – scherzò Andrea ricambiando l’abbraccio e depositandole un bacio al profumo di lip-gloss alla ciliegia sulla fronte –Ma li porta egregiamente. -.
Raven si beò ancora un pochino del profumo tanto familiare dell’uomo prima di alzare la testa e chiedere: -Cosa ci fai tu qui? -.
-Credi che la tua mamma sia tanto scema da lasciarti tutta sola con quel tipaccio laggiù? – sorrise Andrea facendole l’occhiolino con i suoi meravigliosi occhi viola pervinca, che non credeva le sarebbero mancati così tanto –Lo zio è venuto a monitorare la situazione, zucchero: andrà tutto bene. -.
Le diede un buffetto sul naso con un dito e le arruffò i capelli.
-Allora è lei. La Portatrice. -.
Raquel le si era avvicinata e la osservava con interesse, le braccia incrociate dietro la schiena, leggermente sporta verso di lei. Era abbastanza vicina da poter notare le orecchie a punta, la strana colorazione dei capelli e gli occhi scuri dalla pupilla verticale, cosa che le diede una stretta alla cicatrice.
Guardò confusa prima la donna e poi Jaguar, accanto a lei, poi Andrea. Quando la lingua le si scollò dal palato chiese: -Sei una mezza demone? -.
-Certo. – ripose lei con una scrollatina di spalle –Sono la ragazza di Jaguar. – aggiunse con un sorriso appoggiando la testa alla spalla del mezzo demone –Mi chiamo Raquel, è un piacere conoscerti. -.
Raven ignorò la mano tesa della mezzo demone, girandosi verso Andrea cercando una spiegazione. Cosa ci faceva lui con una mezza demone?
Sapeva cosa stava succedendo?
Era coinvolto?
L’uomo le sorrise e si chinò verso di lei per sussurrarle in un orecchio: -Non ti preoccupare Raven, fidati di Andrea, ti dirà tutto quello che vuoi sapere, ma dopo. -. Le strizzò l’occhio e si raddrizzò, dichiarando: -Meglio affrontare l’argomento con la pancia piena e Matisse è una cuoca eccezionale. Sono troppo stanco per dare spiegazioni dopo un viaggio così lungo, poi. -.
Si stiracchiò alzandosi sulle punte delle scarpe rosse e le chiese: -Ti fidi di me chérie? -.
Raven non vide perché non fidarsi di Andrea: l’aveva cresciuta con sua madre e si era sempre preso cura di lei. Se non le aveva detto niente evidentemente era per proteggerla.
Per cui lo seguì con un cenno del capo affermativo mentre si dirigevano verso la casa, dalla quale Milord non si era mosso per tutto quel tempo, guardandoli con aria torva e le braccia incrociate, la sigaretta sull’orecchio.
Quando si furono avvicinati abbastanza, guardò dall’alto in basso Andrea con una rapida occhiata e lo salutò con un: -Sei ridicolo. – che non aveva niente di affettuoso o lontanamente amichevole.
-Oh, merçi Milord. Anche io sono molto contento di vederti. – cinguettò Andrea –Non mi inviti ad entrare? – chiese passandogli accanto ed entrando senza aspettare il suo consenso o che lui si facesse da parte.
Contagiata dalla spavalderia dello zio, Raven lo imitò guardando di sottecchi il mezzo demone, che sembrava aver dato un morso ad un limone, e accelerò il passo quando vide un riverbero rosso nelle sue iridi.
Si affiancò ad Andrea e osservò in un sussurro: -Non vi siete simpatici. -.
-Certo che no. – confermò lui facendo un gesto vago con la mano –Uno dei motivi è che lavoro per Elen e quindi sono qui per mettergli i bastoni tra le ruote. E poi lui sai cos’è, per cui non ti stupirai di certo che non sopporti il mio culetto angelico. -.
La ragazza quasi inciampò nei suoi stessi piedi a sentire questa cosa ed esclamò: -Angelico? -.
Questa volta Andrea sorrise quasi con timidezza rispondendo: -Beh, sì. Non come Matisse, a me hanno dato il siero. -.
Le fece segno con un dito sulla bocca di non chiedere altro e proseguì verso la cucina, dove andò a salutare Matisse.
Raven li osservò mentre parlavano insieme: capelli di due diverse tonalità di biondo, occhi dai colori freddi, pelle pallida, corporatura asciutta, lineamenti simili… come aveva fatto a non notare prima quella somiglianza tra suo zio e quella ragazzina?
Per tutto quel tempo era stata in compagnia di niente meno che un angelo. Una domanda le sorse spontanea: se Andrea sapeva ed era una creatura del sovrannaturale allora anche sua madre doveva sapere qualcosa. Per forza doveva sapere cosa stava succedendo!
Conosceva Milord, aveva mandato Andrea a controllare come stava e a quanto pare anche per tenere sotto controllo quella sottospecie di dittatore metamorfo. Per quanto ne sapeva lei e Andrea potevano conoscersi anche da prima che lei nascesse, perciò in ben più di dieci anni di amicizia doveva per forza sapere che Andrea non era umano.
Si diede una grattata nervosa alla cicatrice e realizzò che anche quel lembo di pelle rovinata aveva un ruolo centrale in quella faccenda: sia Elen che Andrea le avevano detto più di una volta di non mostrarla troppo in giro. Senza mai averla vista Milord sapeva che ce l’aveva.
Quando lo zio si girò per parlare con lei non poté non avere dei dubbi nei suoi confronti. Lui sembrò accorgersene e le fece segno con la mano che ne avrebbero parlato dopo, proprio come quando a volte lo sorprendeva con la mamma a parlare sottovoce, confabulando in segreto alle sue spalle per un motivo o un altro.
Le aveva sempre raccontato tutto dopo. Ma mai come adesso aveva l’incredibile necessità di sapere tutto e subito, a costo di fare una scenata. Sentiva quasi la gola tirare per la voglia di rovesciargli addosso una valanga di domande.
Invece, silenziosamente, si accomodò a tavola insieme agli altri.
Nell’aria si poteva respirare tensione. Osservando i presenti Raven poté capire perché: Milord continuava a guardare male Andrea, che era proprio alla sua sinistra, con tale insistenza che forse pensava che inquietandolo abbastanza con quello sguardo fisso se ne sarebbe andato spontaneamente. Anche Beast guardava di quando in quando l’angelo, ma sembrava più intimorito e incuriosito da lui che infastidito dalla sua presenza. Notò anche che a quanto pareva c’era anche tensione tra Raquel e Matisse, fatta di smorfie nascoste l’una dall’altra e occhiate al cielo. Le sembrava impossibile che Matisse potesse avere un comportamento del genere senza motivo.
L’unico che sembrava essere a perfetto agio in quella stanza era Andrea, che parlava a tutti con disinvoltura. Raven era abituata alle sue filippiche durante i pasti. A volte si chiedeva come facesse a parlare e a vuotare il piatto come se non avesse aperto bocca per tutto il tempo.
Lei era troppo sulle spine per rispondere alle sue battute o prestare molto attenzione alle sue chiacchiere, aspettava solo che finalmente ci si alzasse da tavola e si decidesse di darle qualche dannata spiegazione riguardo a cosa stava accadendo e perché proprio a lei era capitata la fortuna di essere coinvolta.
Provò un brivido di eccitamento quando, dopo l’ultima forchettata di torta alla panna, Andrea si pulì un angolo della bocca con un tovagliolo e lo posò guardandola.
Invece l’angelo si alzò e si rivolse a Milord: -Possiamo parlare in privato per qualche minuto? -.
-Cosa? No! – esclamò Raven, ignorando il fatto che Milord se ne stava andando silenziosamente in giardino accedendosi la sigaretta –Devi spiegarmi prima! -.
-Zuccherino non ho detto che me ne andavo per sempre senza darti una spiegazione. – disse Andrea –Per darti delle spiegazioni devo prima accordarmi con Milord. -.
-Su cosa mi potete ancora nascondere? -.
-Non ti ricordavo così sospettosa. – notò Andrea –Più che altro su cosa è meglio parlare prima: magari dalla cosa più scioccante alla meno scioccante o viceversa. Dovrei valutare se imbottirti di calmanti prima o sei in grado di aspettare e poi stare seduta senza fare pazzie mentre parliamo? -.
-Dipende… avrò voglia di mettere le mani addosso a qualcuno quando saprò? -.
 
***
 
Era alquanto doloroso vederla così sospettosa e carica di rabbia…
Non che non fosse abituato al suo temperamento focoso e in particolare a quello di sua madre. Elen era un vulcano attivo di emozioni forti che erano difficili da contenere per lui, quando lei andava a cercare ragioni o conforto dall’angelo.
Ma Raven era tutt’altra cosa… le volte che l’aveva vista davvero incazzata come era in quel momento le poteva contare sulle dita di una mano. Sul sospetto, beh, quella ragazza sospettava molto spesso che sua madre le nascondesse qualcosa o che ci fosse sempre qualcosa sotto quando lei o lui dovevano partire per lavoro o non potevano vedersi.
Poteva immaginare come in quei giorni poi si fosse sentita. Matisse gli aveva raccontato tutto per telefono quando l’aveva contattato, già partito per raggiungerli in segreto.
Era stata attaccata e portata al sicuro, certo, ma circondata comunque da sconosciuti.
Li conosceva da qualche anno ormai, quel piccolo gruppetto sconclusionato di ribelli, composto dall’allegra famigliola di un mezzo demone che faceva da papà, un altro mezzo demone che altro non era che un adolescente testardo e un’angioletta adorabile cui avrebbe pizzicato le guance fino a fargliele diventare insensibili.
Milord era tutto un altro paio di maniche. Era mancato poco che rimanesse secco al loro primo incontro.
Sulle prime non lo aveva minimamente tenuto di conto, esattamente come Elen, che lo aveva considerato una faccenda di poco conto, assolutamente incapace di intralciare i loro progetti.
Poi erano saltati fuori dei particolari che avevano insospettito la sua amica.
Infine si era presentato alla sua porta e Elen non avrebbe potuto immaginare una cosa più disastrosa di quella.
Lo osservò seduto in giardino, su una sdraio, intento ad aspirare dalla sigaretta che teneva stretta tra indice e medio per poi buttare fuori sottili spirali di fumo che andavano a formare una figura fluttuante davanti a lui, spostandole di tanto in tanto con un cenno della mano impegnata.
Elen gli aveva affidato un compito difficile, non doveva tergiversare.
Uscì dalla porta finestra della cucina e esordì: -Non sapevo che potessi fare questo genere di cose. -.
-Non sembro un’anima in pena che cerca di alleviare i suoi dolori con l’arte? -.
La figura di fumo sembrava vagamente umana, cosa che spinse Andrea a chiedere: -Per caso è qualcuno di caro? -.
Milord fece un basso ringhio e con un gesto rabbioso dissolse la figura, stringendo tra i denti un: -Fatti gli affari tuoi culattone e andiamo al punto. -.
Andrea roteò gli occhi con uno sbuffo e borbottò: -Cominciamo bene… -.
-Questo lo dovrei dire io. – ribatté aspramente Milord alzandosi dalla sdraio –Cos’altro avrei dovuto pensare quando sono venuto a sapere che quella là non sa niente? -.
Sottolineò il “quella là” indicando verso la casa senza interrompere il contatto visivo con lui. Da come atteggiava la bocca Andrea poté indovinare che stava stringendo i denti tanto da andare vicino a schiantarseli.
Doveva stare attento con Milord, non avrebbe trattenuto la rabbia a lungo. Elen le aveva detto di stare tranquillo ma non lo conosceva come lo conosceva lui.
-È stata una decisione di Elen. – rispose l’angelo incrociando le braccia –Quando l’ho conosciuta aveva già la bambina ed era troppo piccola per fare alcunché, anche solo spiegarle qualcosa… -. Fece una pausa, ricordandosi della prima volta che aveva incontrato la donna con la bambina in fasce, che non poteva passare inosservata con quella impressionante cicatrice su un corpo così piccolo. Poi riprese: -Più cresceva e aveva la possibilità di inculcarle qualcosa nel suo piccolo cervellino da Portatrice, più la vedeva solo come Raven, sua figlia. -.
-Idiota. – commentò Milord facendo un gesto stizzito con la mano, prendendo subito una presa di sigaretta –Questo non era il piano di Alan. -.
-Già, ho sentito parlare di lui. – disse Andrea con più acidità di quanto volesse lasciar traspirare e allo sguardo di Milord continuò: -Gran bel tipo questo Alan. -.
-Trovare la bambina e usare la bambina. – fece Milord con un riverbero rosso negli occhi che passò guizzando in modo discreto –Niente di più facile. Se lui fosse rimasto in vita a questo punto non avremmo altro da fare se non sguinzagliarla addosso ad Hydra. -.
-Trovare il cucchiaio e usare il cucchiaio. -.
Milord lo guardò, confuso e guardingo.
-Visto? Sostituisci qualsiasi oggetto alla frase che hai detto e otterrai lo stesso senso compiuto. Ma qui non stiamo parlando di un oggetto, ma di un essere vivente. – chiarificò l’angelo indurendo il tono della voce –Cosa pretendevi che facesse Elen, eh? Che chiudesse il suo cuore e allevasse un’assassina a sangue freddo? Magari questo Alan ce l’avrebbe fatta, non lo metto in dubbio. Ma Elen non è di ghiaccio: ha visto una bambina innocente e indifesa. -.
-Ci ha condannati tutti! – esclamò Milord digrignando i denti –L’unica persona al mondo che potrebbe davvero mettere un punto a questa storia è un’incapace! Cosa credeva di fare quell’idiota, continuare a tenerla all’oscuro di tutto e giocare alla Resistenza ancora un po’? Ha quasi resistito vent’anni nascosta in un buco sottoterra come un topo ed è un miracolo che nessuno sia ancora riuscito a scovarla! Ma adesso che sanno dov’è la Portatrice, adesso che sanno dove colpire… la Volpe ce ne scampi. -.
-Hai ragione. – ammise Andrea stringendosi nelle spalle –Ovvio che hai ragione. Ma credi che lei non lo sappia? Credi che io non le abbia mai detto che stava facendo una stronzata? A conti fatti è davvero lei l’unica potenziale avversaria di Regina. Ma qualcosa è scattato nella testa di Elen e lei ha voluto proteggerla dalla sua realtà. Come non è riuscita a fare con Alan o con… -.
Milord gli intimò di fare silenzio con un gesto secco della mano e l’angelo si zittì.
Il mezzo demone si mise una mano nella frangia scompigliata, stringendo e strattonando, cercando di pensare, le nocche bianche per la forza che stava usando.
Non avrebbe dovuto menzionare troppo Alan, Elen gli aveva detto che era una ferita aperta. Ma o l’avrebbe fatto ragionare o arrabbiare, valeva la pena tentare per la prima opzione piuttosto che buttarsi a testa bassa in una discussione con questo permaloso.
Alla fine Milord spense la sigaretta con le dita e se l’appuntò sopra l’orecchio, borbottando: -Quindi ora che si fa? -.
-Devi dirmelo tu. – rispose Andrea, lieto che si fosse calmato e avesse deciso di parlare in modo civile –Elen ti ha dato carta bianca, ma io sono qui per mediare comunque. Cosa vuoi dirle? -.
-Basta tenerla in una campana di vetro: tutto. – decise Milord, guardandolo al di sotto dei capelli con uno sguardo che sembrava sfidarlo a dirgli di no.
Invece l’angelo concordò: -Via il cerotto. Sono d’accordo con te per questa volta. Vuoi anche dirle di te e Elen? -.
-No. – fece Milord –Questo non ancora. Gli altri non sanno niente. Sono un mezzo demone ora. -.
Andrea annuì, anche se trovò ipocrita da parte sua tenere nascosto ancora qualcosa ai ragazzi che lui aveva deciso di prendere sotto la sua ala.
-Molto bene allora. – fece Andrea –Poi? -.
-Poi sarà ora che iniziamo ad addestrarla ad uccidere. Che lo voglia o meno. -.
 

*Angolo dell'autrice*
Scusate il mega ritardo nell'aggiornamento, tra una cosa e l'altra andare avanti a scrivere è stata un'impresa.
Domanda non pertinente con la storia, di recente mi compaiono delle notifiche riguardante la sezione messaggistica di EFP, ma quando apro detta sezione non mi compare nessun messaggio, anche aggiornando la pagina. Qualcuno sa se è un semplice bug che sta succedendo ad altri o per qualche motivo non posso visualizzare i messaggi? Detto questo se qualcuno riconosce il fatto che in privato non ho mai risposto lasci un commento qua sotto.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10: ... e un sacco svuotato ***


CAPITOLO 10
... e un sacco svuotato


-Dove credi di andare tu? Resta qua. -.
Jaguar tirò a sedere il fratello afferrandolo per il cappuccio della felpa, senza neanche dargli tempo di allontanarsi dalla sedia da cui stava sgusciando via silenziosamente.
-Stavo andando in bagno! – protestò vivacemente Beast con una smorfia infastidita a storcergli la bocca.
Raven sbuffò con ironia: -Ti conosco da ben poco tempo, ma pure io so che stavi andando a origliare. Chi ha diritto di sapere cosa quei due sono andati a discutere in questa stanza sono io, perciò o porti pure me o ti tengo io inchiodato alla sedia. -.
Beast la squadrò come se anche lui, oltre a Milord, volesse darle una bella lezione per la sua linguaccia. Poteva capirlo, essere sgridati o comandati da qualcuno della stessa età poteva essere fastidioso, soprattutto se la persona in questione poteva essere facilmente presa a calci.
Ma lui decise per fortuna sua di incrociare le braccia sul tavolo e appoggiarci sopra il mento, borbottando: -Quel Malinois non mi piace… chi ci dice che non faccia qualche trucchetto per portarcela via? -.
Fece un cenno con la testa verso Raven, spostando lo sguardo per controllare se Milord stesse tornando dalla chiacchierata.
-Figurati se Andrea farebbe una cosa del genere. – fece Raquel con una scrollata di testa e un sorriso.
-Malinois? – ripeté Raven. Cos’era, una specie di insulto nella loro lingua?
Matisse interruppe per un attimo la sua attività di sparecchiatura, appoggiando la pila di piatti con sbuffi di panna e crema sul tavolo, per risponderle: -Il vecchio cognome di Andrea. A dire il vero ha cambiato anche il nome, prima si chiamava Alexandre. -.
-Non sapevi neanche questo? – chiese sempre divertita la ragazza di Jaguar, sporgendosi verso di lei, e continuò con tono vagamente cospiratorio: -Prima di ricevere il siero Andrea era un pezzo grosso in Paradiso, veniva da una famiglia bene: i protettori del Sommo Serafino. -.
Era la seconda volta nel giro di un paio d’ore che questo siero veniva nominato di nuovo. Cos’era poi questa storia che Andrea non si chiamava così da sempre?
Beh, quella era decisamente la cosa meno scioccante degli ultimi giorni.
-Mi state incuriosendo. – ammise –Ditemi di più, intanto aspettiamo che quei due smettano di chiacchierare. -.
I mezzi demoni e l’angelo si scambiarono una rapida occhiata dubbiosa.
Alla fine Jaguar disse: -Beh non credo ci sia niente di male a dirle questo. Giusto per far passare il tempo. Spiega tu Matisse, sei più ferrata di noi sull’argomento. -.
L’angelo mise definitivamente da parte quello che stava facendo e si sedette di nuovo di fronte a Raven, che si mise in una posizione più comoda per ascoltare.
-Ti ricordi cosa ti ho detto riguardo la mia voglia, vero? -.
-Difficile scordarselo. -.
-Come ti ho già detto gli angeli hanno una testa abbastanza quadrata. Cosa credi che possano pensare allora di una persona come Andrea? -.
Raven storse il naso, ricordando le occhiate che suo zio riceveva spesso in pubblico, soprattutto quando decideva di sfoggiare abiti più indicati per lei o Elen o anche solo quando apriva bocca, di tanto in tanto. Non era piacevole e quando era più piccola a volte gli chiedeva del perché si comportasse così, ma solo quando era cresciuta aveva ricevuto qualche spiegazione.
-Esatto. – disse Matisse, arricciando il naso proprio come lei –Per quello che mi ha spiegato Andrea, o hai un basso profilo o le cose si mettono male per chiunque. Lui che poi faceva parte di una famiglia altolocata, i protettori del Sommo Serafino infatti, era ancora più sotto i riflettori rispetto ad altri angeli. Quando è stato scoperto, però, non hanno potuto fare come hanno fatto a me, sia per la sua posizione che per il “problema”. Per chi ha ancora possibilità di poter essere reintegrato nella società del Paradiso si usa un siero per togliere loro la possibilità di usare le ali. Basta farsi un’altra puntura per riaverle in poche parole. Ma Andrea si è sempre rifiutato di tornare… nessuno della sua famiglia l’ha mai cercato. Neanche i suoi fratelli. -.
Andrea non aveva mai parlato dei suoi genitori o della sua famiglia in generale. Qualche frase di circostanza, certo, tipo “sembri mia madre” o “manco mio padre era così stronzo”, ma niente che descrivesse. E adesso aveva pure dei fratelli.
-Nessuno dei nove. – confermò Raquel.
-Cavolo, nove? -.
-Dieci, ma uno non conta, lo odia. – precisò Matisse.
-Dieci?! – esclamò Beast battendo Raven di un secondo –Che cavolo è la madre, una fabbrica? -.
-Porta rispetto. – lo sgridò Jaguar.
-Già. – rincarò la dose Raquel –Per quello che ne so, lei e i suoi altri fratelli, a parte quello che lo odia, gli volevano molto bene e lui mancano. Lo ammiravano, sarebbe potuto diventare un Serafino. -.
All’espressione confusa di Raven venne in aiuto Matisse: -Gli angeli si dividono in nove categorie: gli Angeli, cioè gli angeli appena nati, senza istruzione o cacciati, gli Arcangeli, chi inizia a studiare all’incirca a sei anni fino a diventare Principati, quando finiscono gli studi intorno ai dieci anni. I Potestà sono quelli che iniziano l’accademia militare a undici anni, i Virtù chi perde la verginità a dodici o tredici anni. Qui le carriere si dividono: i Domini finiscono l’accademia militare, i Troni sono quelli che continuano gli studi fino ad avvalersi del titolo di Cherubini e i Serafini sono chi si specializza per diventare Sommo Serafino, chi comanda in tutto il Paradiso. -.
-I Virtù cosa? – chiese Raven.
Matisse si morse un labbro e non rispose, cosa che invece fece Raquel: -Oh, andiamo, non è niente di imbarazzante Matisse. Angeli e demoni possono cambiare forma in animale, ma solo se maturano sessualmente possono prendere un corpo adulto, cosa che aiuta molto nel combattimento. Andrea ha spiegato che aumenta anche la forma fisica, cosa che è importante per i Domini in poi. -.
Jaguar osservò: -Ma sono giovani a quell’età. -.
-Se è per questo non è niente di piacevole. – intervenne nuovamente Matisse, rossa in faccia –Non possono farlo di loro spontanea volontà. Da quando sono piccoli gli viene insegnato che amare è sbagliato perciò… ecco… -.
-Mi allontano cinque minuti e voi diventate delle comari? -.
Andrea alzò un sopracciglio mentre entrava nella sala da pranzo, ma Raven capì che non era arrabbiato, anzi. Sembrava divertito.
Spostò lo sguardo su di lei: -Mi sembra giusto che tu vada a curiosare nel mio passato quando io ho tenuto la bocca chiusa su argomenti più importanti. Se vuoi che ti dica qualcosa su tua madre però dovrai pagarmi bene. -.
-Non le dirai niente su Elen. – intervenne Milord entrando dandogli una spallata per niente accidentale.
L’angelo alzò gli occhi al cielo e sbuffò, borbottando qualcosa di incomprensibile.
Raven si alzò dal tavolo, guardando i due con aspettativa: adesso doveva avere le sue spiegazioni. Non gliene poteva fregare di meno di cosa sua madre le aveva nascosto sulla sua vita, voleva sapere che cosa c’entrava lei con tutta questa storia di demoni, angeli, mezzi demoni e il soprannome stupido che Milord e quei due cani le avevano appioppato.
Milord si rimise la sigaretta che teneva sull’orecchio tra le labbra e ordinò: -Matisse e Raquel, fate le vostre cose in cucina. Jaguar, vai a finire i tuoi lavoretti fuori. Raven, come e Andrea nello studio. Beast non disturbarci. -.
Non stette neanche ad ascoltare le proteste di Raquel e di Beast, Raven spinse indietro la sedia e seguì di corsa il mezzo demone che era già in corridoio, diretto alla sua stanza privata, con Andrea alle spalle.
Lo studio non era niente di speciale ma Raven non stette a guardare nessun particolare che avrebbe potuto destare la sua curiosità. Si precipitò a sedersi nella sedia libera di fronte al tavolo su cui Milord si era andato ad accomodare in una posizione rigida e tesa.
Sembrava infastidito da tutta quella situazione e Raven si ripromise di fargli pesare ogni secondo per come l’aveva e probabilmente avrebbe continuato a trattarla.
Incrociò le braccia e alzò le sopracciglia, incoraggiandolo a cominciare.
Lui sbuffò una nuvola di fumo, dicendo: -Credo che sia meglio cominciare dall’inizio. Come hai già capito ci sono tre razze di creature, angeli, demoni e esseri umani… -.
-Stai scherzando, cosa vuoi che me ne freghi… -.
-Raven, zucchero. – la interruppe subito Andrea appoggiandole una mano sulla spalla –Lascialo parlare. -.
La ragazza sbuffò, seccata, e si abbandonò contro lo schienale della sedia facendola cigolare.
-Come stavo dicendo… - riprese Milord senza nascondere un sogghigno –Puoi ben capire che sono molto simili tra di loro queste specie, per cui si possono mischiare. Che si ottiene dall’unione di un demone e un umano? -.
-Quelli come voi? Mezzi demoni? -.
-Il tuo tono non mi piace, sto cercando di coinvolgerti ignorante. – la sgridò il mezzo demone senza sembrare davvero arrabbiato –I demoni e gli angeli sono sempre stati coinvolti nella vita degli umani per un motivo o un altro. Principalmente per ispirare e guidare, ma queste sono altre storie. Come avrai capito, gli angeli si schifano parecchie cose e hanno uno strano concetto di rispetto nei confronti degli altri esseri viventi, perciò dato che gli umani davano tante confidenze ai demoni, che ritengono dei bruti senza cervello, non se li filavano troppo. I demoni invece fin troppo. Puoi capire che spesso ne erano attratti anche in modo da averci figli assieme. -.
-Ok. Quindi? -.
-Questa cosa per un po’ è andata bene. I mezzi demoni venivano spartiti a loro preferenza tra mondo umano e Inferno, non davano fastidio finché tenevano un profilo basso tra gli umani. Peccato che a un certo punto il numero di mezzi demoni ha iniziato a diventare enorme, soprattutto perché era un passatempo riprodursi con gli umani. Superava quasi il numero di nascite di demoni purosangue. Puoi capire che la cosa ha fatto storcere il naso agli angeli e ai demoni, che comunque li vedevano come una sottocategoria. Il sovrano dell’epoca per evitare problemi vietò di generare prole con gli umani e ai mezzi demoni di mischiarsi con altri demoni, per eliminare i geni umani. La cosa funzionò, quelli che stavano per superare in numero i loro progenitori sovrannaturali diventarono una minoranza, ma ormai il danno era fatto: ormai c’era chi li odiava. C’era stata la possibilità di diventare estinti. I mezzi demoni non ebbero più lavori di rilievo, furono considerati inferiori e pericolosi. Spesso ci furono episodi violenti ma i sovrani riuscirono a sedare con l’andare del tempo certi pensieri. Dopotutto i mezzi demoni erano comunque in parte demoni. -.
-Ma? -.
-Ma la cosa alla fine non è andata bene. -.
Lo sguardo d’acciaio di Milord brillò di una sfumatura color sangue, freddo e pieno di emozioni che si accavallavano.
Il suo tono diventò più duro: -Regina Hydra non era d’accordo con i sovrani, i mezzi demoni andavano trattati come si meritavano. Fin troppe persone concordavano con lei e ha scelto di agire, invece che limitarsi a parlare. Ha spodestato i sovrani e li ha uccisi, i mezzi demoni li hanno seguiti insieme ai loro genitori. -.
Raven si leccò le labbra, a disagio. Questa storia non le piaceva e non riusciva a capire dove volevano andare a parare con lei. Si lasciò sfuggire un: -Deve essere stato orrendo. -.
Il mezzo demone non disse niente né si mosse per fare cenno d’assenso. Si limitò a prendere una profonda boccata di fumo.
Andrea riprese il discorso: -Prima di morire la regina diede una profezia. -.
-I deliri di una partoriente. – rettificò a denti stretti Milord, facendo venire la pelle d’oca alla ragazza.
L’angelo lo ignorò: -Disse “la Fenice risorgerà, un cuore coraggioso sconfiggerà un cuore pieno d’odio”. Intanto, i dissidenti del suo governo appena nato si riunirono per fare giustizia e tra di loro c’era qualcuno che rispecchiava la descrizione della profezia. Diedero battaglia ma il loro eroe li tradì e passò sotto Regina. Per essere sicura che le rimanesse fedele lo privò del cuore e lo nascose, in modo che nessuno potesse trovarlo e compiere la profezia. -.
-Il cuore passò ad una bambina umana, il ventidue Marzo del novantasei. -. Milord alzò finalmente gli occhi da terra, che aveva abbassato da quando Andrea aveva preso a raccontare –Ricorda niente, Portatrice? -.
Sotto il suo sguardo predatore, la cicatrice diede una stretta dolorosa, tanto che Raven dovette appoggiarci una mano sopra per accertarsi che niente la stesse effettivamente aprendo, cosa che sembrava stesse succedendo.
-La mia data di nascita… - mormorò.
Era seduta ma le sembrava di avere le vertigini. Aveva voglia di vomitare.
-Crediamo sia tu. – disse Andrea dandole una carezza su una spalla, con un tono dolce –Anzi, ne siamo certi. Per questo ti cercano e noi ti proteggiamo. -.
-Vi sbagliate. – balbettò Raven, il dolore alla cicatrice che le faceva venire voglia di urlare (o erano queste assurdità?) –Tutto questo è una pazzia, io non so neanche come possiate aver fatto un collegamento del genere con me. -.
-La cicatrice zuccherino. – rispose l’angelo con un tono paziente che irritò Raven –È una pratica antica ed esclusiva per l’esecuzione. È una credenza antica che i sentimenti risiedano nel cuore e Regina è superstiziosa più che cauta… -.
-Ma che cosa stai dicendo?! – sbottò Raven schiaffeggiando via la mano dello zio, alzandosi di scatto dalla sedia, ribaltandola. La cicatrice adesso pizzicava, ma non faceva meno male di prima. Forse reagiva alla sua rabbia, non ne aveva idea. Continuò ad urlare contro uno sbigottito Andrea: -State dicendo delle puttanate! Questa me la sono fatta per un intervento al cuore quando ero piccola! È assurdo quello che hai detto, è impossibile! -.
-Noi siamo impossibili, zuccherino? – chiese sarcasticamente Milord, facendo il verso all’angelo –Ti ricordo l’attacco dell’altra sera, quello che noi e altri possiamo fare. Non essere ridicola. -.
Un singhiozzo le salì e morì in gola, si rifiutava di piangere per un puro isterismo.
Si voltò verso Andrea: -Mamma, lei… vuoi forse dirmi a questo punto che non è la mia vera madre? -.
-Raven… -.
Scosse la testa, ricacciando indietro le lacrime.
-Non sono io! – urlò –Scordatevi una cosa del genere, non voglio averci niente a che fare con questa storia assurda! -.
Diede un calcio alla sedia rovesciata e scappò verso la porta.
-Corri pure! – le urlò dietro Milord, coprendo il richiamo preoccupato di Andrea –Non credere di riuscire a scappare! -.
Aprì la porta con una spallata dolorante, era solo socchiusa. Per la fretta e gli occhi annebbiati però andò a sbattere anche contro un mobile del corridoio con il fianco, che la fece sibilare.
Incespicò contro una persona, che la afferrò per un braccio e la tenne saldamente prima che potesse cadere o andare a scontrarsi contro qualcos’altro.
-Ehi, fai attenzione Raven. – disse Jaguar. Il suo tono bonario si spense subito, sostituito da un preoccupato: -Ma che succede? -.
-Lasciami andare!  - protestò Raven dando uno strattone, senza successo.
-Ti hanno detto…? -.
Raven non lo lasciò finire e affondando le unghie del dorso della sua mano, ringhiando: -Voi siete dei pazzi, io non farò un bel niente per voi! -.
-Calmati Raven, non dire così. -.
-Quante volte dovrò dirvelo prima che vi convinciate? Io non centro niente con questa storia! -.
La stretta sul suo braccio si fece più forte.
All’improvviso si trovò a un palmo dal volto di Jaguar, gli occhi color giada incredibilmente tristi ma anche decisi. In un sussurro le soffiò in faccia: -Neanche mia madre centrava. -.
Per un attimo la sua rabbia scemò, spiazzata davanti a quella frase, che sembrava più una confidenza che un’accusa silenziosa nei suoi confronti per come si stava comportando.
Poi il dolore alla cicatrice e la stretta sul suo braccio le fecero ricordare la confusione e la paura che aveva provato anche qualche sera prima, sotto la pioggia.
-E mollami. – sibilò rabbiosamente, dando uno strattone con il braccio e una spinta a Jaguar con l’altro, staccandosi da lui.
Poi corse fuori, con quella frase che le pulsava nelle tempie.
 
***
 
Acquattato nell’ombra, Chuck aspettava impazientemente la comparsa di Carlo.
Stare fuori casa quando faceva buio non gli piaceva. In teoria con la fascia degli Hydra sul braccio, in bella vista, non aveva nulla da temere.
Ma lui in quel momento era in una zona grigia di sicurezza. Era ancora al servizio degli Hydra oppure no? La sua faccia e quella di suo cugino era adesso appesa negli spogliatoi delle Squadre di Cattura, con la priorità assoluta di essere catturati? Oppure erano ancora al loro servizio e potevano girare tranquillamente? Erano indecisi se attuare il primo o il secondo caso?
In realtà non si era mai preso il lusso di essere sicuro nel girare per le strade, anche con il simbolo degli Hydra sul braccio. Anche se lo avesse avuto tatuato il fronte o su tutta la schiena non si sarebbe sentito tranquillo.
Le facce dei demoni adibiti alle Squadre di Cattura erano terrificanti, non lo facevano dormire la notte alle volte.
Chuck non se ne era mai accorto, ma lui aveva notato gli sguardi famelici con il quale spesso quei demoni li seguivano quando passavano loro accanto. Gli aveva detto di essere paranoico, ma lui sapeva che non aspettavano altro che poter mettere loro le mani addosso e farli sparire sui loro furgoni neri.
Non era neanche troppo sicuro che con quei veicoli li avrebbero riportati al Mattatoio dopo una ripassata.
Suo cugino era convinto che era con arroganza che li fermassero ogni tanto, chiedendo di identificarsi. Come se non li conoscessero. Come se non sapessero perfettamente che erano mezzi demoni al servizio di Taylor e Regina, diversi dalla servitù che prelevavano al Mattatoio.
Leggeva il loro disgusto come se fosse stato un libro aperto, la loro voglia di poter cancellare la loro esistenza dall’Inferno per la sola colpa di essere di sangue misto.
Chinava la testa e dava le informazioni che volevano, anche quando erano domande fatte solo per tormentarli, come quando chiedevano cosa era successo prima del Mattatoio, per ricordarsi se erano stati loro o no ad occuparsi della loro famiglia.
Stringeva i denti. Chuck non aveva la sua cautela.
Più di una volta aveva dovuto trascinarlo via prima che loro perdessero davvero la pazienza e decidessero di infischiarsene di quello che Taylor aveva detto, cioè lasciarli stare.
Da una parte avrebbe voluto essere come lui e avere il coraggio di reagire, ma non era troppo sicuro che il suo fosse coraggio.
Arroganza cieca, piuttosto.
Se lo avessero trovato fuori casa, da solo, dopo quello che era successo…
-Faccia presto Carlo, faccia presto… - pregò mentalmente, facendosi ancora più piccolo nel suo angolo buio.
Aveva dovuto fare i salti mortali per non farsi scoprire da Chuck: non doveva sapere niente di questa faccenda. Avrebbe cercato di fare di testa sua.
Carlo arrivò, per fortuna.
-Da cosa ti nascondi? – gli chiese, facendolo trasalire contro un bidone, che si rovesciò sferragliando.
Quando il mezzo demone lo riconobbe e riuscì a calmarsi un po’, rispose con un filo di voce: -Le Squadre di Cattura. C’è il coprifuoco… -.
-Ah, ma sei con me Chuck. Non ci farebbero domande. – lo rassicurò il demone tirandolo su da terra, dove si era accucciato.
Chuck si spazzolò i pantaloni e, mentre rialzava il bidone, Carlo disse: -Non voglio che niente vada storto. -.
-No, certo che no. – si affrettò ad assicurare il mezzo demone –Neanch’io lo voglio. -.
-Chi ce l’ha in custodia? -.
-L’ha Milord. -.
-Puoi dirci qualcosa di lui? Siete voi due ad averci avuto più a che fare. -.
-Non sono una grande minaccia per un demone completo. So che con loro hanno un angelo, ma non l’ho mai visto combattere: è appena una ragazzina, gracilina poi. Lei la tengono con loro più che altro per compagnia, immagino. Poi c’è un ragazzo, Cane, ma spesso si mette in mezzo ed è più un impiccio per gli altri che altro. Anche se l’ultima volta si è comportato bene. Poi c’è Jaguar, lui è bravo e forte. È il figlio di Esteban. -.
-Davvero? -.
Chuck annuì: -Sì, ma voi siete demoni completi. Per quanto sia stato addestrato bene c’è una bella differenza. E infine Milord, Lupo. Lui è pericoloso davvero. Sa fare un trucchetto con il fumo che è micidiale, in un attimo non si vede più niente. -.
-Fumo? – ripeté Carlo stupito portandosi una mano al mento –Lupo hai detto? Che tipo di trucco usa? -.
-I-io penso sia un trucco. – balbettò Chuck, innervosito dalle domande del demone –Ma a dire la verità sembra che venga da lui, signore. -.
-Sei proprio sicuro che sia un mezzo demone? Non è una cosa comune. -.
-Lo so, l’ho pensato anche io. Lui si dichiara mezzo demone, non so perché dovrebbe mentire. -.
Carlo sembrò perdersi per un attimo in qualche pensiero e Chuck attese che dicesse qualcosa.
-Lasciamo perdere, non è possibile. – borbottò infine –Evitiamo lo scontro diretto. Sapreste attirare la Portatrice lontano dalla loro custodia? -.
-Posso provarci. – assicurò Chuck.
-E tuo cugino no? -.
-Lui… ecco, lui non deve sapere niente. Non vuole neanche collaborare con voi, vuole fare tutto da solo. Non la pensa come me. – confessò il mezzo demone con un nodo in gola.
Il demone lo guardò, dubbioso, e disse: -Qualunque cosa ci sia tra voi due non ne voglio sapere niente, sono affari vostri. Ma fai in modo che non interferiscano con quello che faremo: abbiamo un’occasione sola. -.
-Sì, certo. Sì. -.
-Bene. Allora domani ci incontreremo qui. -.
-Sissignore. Allora a domani. -.
Chuck si voltò e sgattaiolò via, strisciando nelle ombre.
Come avrebbe fatto l’indomani a spiegare a Buck che non sarebbe andato con lui a cercare la Portatrice ma con i McMastiff? Sarebbe andato da solo quell’incosciente, non gli sarebbe importato.
E che avrebbe detto a vederlo con loro invece che con lui?
Si passò una mano sulla benda. Il dolore all’occhio si presentava di tanto in tanto, ma molto meno intensamente di prima.
Avrebbe scambiato volentieri il dolore di prima con un modo per tenere Buck fuori combattimento per almeno un giorno.
Tornò a casa cercando di avere una qualsiasi idea per bloccare Buck o almeno convincerlo a cominciare subito a cercare la Portatrice e prendersi qualche giorno per organizzarsi.
Quando entrò nell’ingresso fu accolto da un gemito sofferente.
-Buck? – chiamò affrettandosi a cercarlo.
Lo trovò accasciato in bagno sul water, la testa completamente dentro la tazza, che amplificava la sua voce in un verso preoccupante.
-Che succede? Stai bene? -.
-Mi fa male tutto… -.
-Ma perché, che hai fatto? – domandò Chuck avvicinandosi.
L’odore di vomito lo fece indietreggiare per un attimo e coprire il naso con il braccio.
-La carne nel lavello. – rispose Buck in un rantolo –L’avevi messa lì a scongelare no? -.
-Quella carne? No, no era da buttare! Non hai sentito che odore che mandava? La spazzatura era piena e l’ho messa lì. L’hai mangiata? -.
-Certo che l’ho mangiata, pensavo fosse di salamandra, ha sempre un cattivo odore. – si lagnò Buck, raddrizzandosi sui gomiti per vomitare di nuovo.
-Da quando ci possiamo permettere carne di salamandra? – scosse la testa Chuck –Dimmi che almeno l’hai cotta. -.
-La carne cotta non mi piace, lo sai. -.
-Tu… - fece il mezzo demone, pronto a sgridarlo.
Ma si zittì.
Buck aveva uno stomaco delicato nonostante mangiasse continuamente carne cruda e cose simili, una cosa del genere poteva tenerlo a letto per almeno un giorno.
S’inginocchiò accanto a lui e gli passò una mano sulle spalle, confortandolo: -Non ti preoccupare cugino. Ti preparo qualcosa da mandare giù che ti faccia passare il male. Poi ti metterai a riposo. -.
-Assolutamente no. – protestò il mezzo demone –Noi due abbiamo da fare. -.
Provò a rimettersi in piedi ma tornò a inginocchiarsi portandosi una mano sullo stomaco con una smorfia.
Chuck osservò: -Non potresti fare un passo. Della Portatrice mi occupo io. -.
-Davvero? -.
Annuì vigorosamente e con convinzione: -Ma certo. Ci divideremo la paga, poi. Non ti preoccupare di niente. -.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11: Facce nuove ***


CAPITOLO 11
Facce nuove


-Fatemi uscire! – ripeté per l’ennesima volta battendo i pugni contro l’aria.
Poteva sembrare che stesse prendendo a pugni l’aria, in realtà colpiva qualcosa di invisibile di piuttosto duro sotto le sue mani, che prendeva una leggera colorazione grigia, che spariva non appena caricava il prossimo colpo.
Tra i cespugli di lavanda appena piantati, sopra il muro oltre il quale aveva provato ad arrampicarsi, sopra al cancello, ogni angolo era protetto da quella barriera invisibile.
Doveva essere quell’affare che le avevano spiegato di Milord.
Quella carogna intanto se la rideva dei suoi sforzi e lei avrebbe voluto ammazzarlo. Non strangolarlo, non rifilargli un calcio nelle palle, voleva proprio vederlo stecchito.
-Voglio andare via di qui, voi siete dei pazzi! Andrea almeno tu! – continuò Raven strattonando la cancellata, provando qualsiasi cosa per almeno provare ad aprirsi una via d’uscita da quella villetta.
-Neanche mia madre centrava. -.
Per lo spavento saltò addirittura di lato.
Jaguar era comparso dal nulla al suo fianco e la guardava come se lei fosse la più grande delusione della sua vita o se gli avesse rifilato una sberla in faccia.
-Ma cosa vuoi dalla mia vita tu? – lo aggredì la ragazza –Non è stata colpa mia e manco posso portartela indietro, dammi tregua amico. Scordatevi che io ponga rimedio a qualsiasi guaio qualcun altro ha fatto! -.
Perché la guardava così? Lei non… non aveva alcuna intenzione di rischiare la pelle per degli sconosciuti.
Intanto all’ingresso della casa Milord rideva e rideva, contorcendosi addirittura sul posto, tenendosi la pancia dalle grasse risate.
Si voltò verso di lui per dirgliene quattro, urlargli contro e in quel modo riuscire a togliersi quell’orribile peso che si sentiva sulla cicatrice, ma lui non era più lontano da lei. Adesso era a meno di un passo da lei e la fissava con quegli occhi grigi, completamente diversi da quelli di Jaguar.
Più profondi.
-Credi di poter avere scampo? – le chiese –Finché sei sotto la mia responsabilità farai quello che io dico, altrimenti… -.
I suoi capelli presero a muoversi, ma non come se fossero stati mossi dal vento, o no. Come se avessero vita propria. E presero a crescere, coprendogli la faccia, trasformandogliela in quella di un lupo, sempre più grossa.
Le si buttò addosso, con le fauci spalancate, pronte ad ingoiarla in un solo boccone.
Alzò le braccia per proteggersi ma non accadde nulla.
Le tenne alzate finché non sentì la solita voce bassa e dimessa commentare: -Cruento. -. Quel suono le fece provare una breve scarica elettrica alla cicatrice.
Abbassò lo sguardo, trovandosi il coniglio a un metro di distanza, che la guardava.
Al suo momentaneo silenzio cercò di mettere rimedio dicendo: -Cruento a dir la verità non è proprio la parola adatta, perché sei ancora tutta intera. Non è successo niente, è solo un… -.
-Sogno. – lo interruppe Raven, abbassando le braccia e guardandosi attorno.
Il solito paesaggio nebuloso.
-Sembrava così reale… e simile a quello che ho fatto. -.
-Ma sei andata a dormire. – precisò il coniglio –Dovevi ricordarti di questo. Sarebbe sparito senza che io ci mettessi mano. A volte basta buon senso per prendere il controllo delle cose. -.
-Hai ragione. -.
Si morse l’interno guancia, cercando di ricordarsi se le avesse detto il suo nome oppure no. Ma non riuscì a collegare un nome a quel musetto candido.
-Non ci siamo mai presentati. Io mi chiamo Raven. -.
Si chinò per stringergli di nuovo la zampa, ma l’animaletto non sembrò intenzionato a toccarla.
Il coniglio si passò la lingua sulle labbra e mormorò: -Morfeo. -, guardando altrove.
-È solo timido. – pensò Raven, ritirando la mano che aveva continuato a tenere tesa inutilmente.
-Mi sei sembrata alterata. – osservò Morfeo, fregandosi le zampe in quello che sembrava un gesto nervoso.
-Esatto. – confermò Raven lasciandosi cadere a terra, incrociando poi le gambe.
-Posso chiedere perché? -.
-Perché a quanto pare sono una cosa che col cavolo voglio essere. -.
-La Portatrice. Te lo hanno detto. -.
Lei alzò gli occhi e guardò l’animale, esterrefatta: lo sapeva?
-Come fai a saperlo tu? -.
Morfeo si mosse sul posto, chiaramente a disagio, e balbettò: -Non-oh… posso vedere i tuoi ricordi. Sono collegati ai sogni, ogni tanto. E poi quella la conoscono tutti. -.
Con una zampetta la indicò senza guardarla e Raven abbassò lo sguardo per vedere il colletto del suo pigiama sbottonato. Spesso le davano fastidio la sensazione dei bottoni sulla cicatrice.
Si coprì con una mano, allacciando uno dei bottoni centrali, commentando: -Pensavo fosse un segreto. -.
Il coniglio tentennò: -È un pezzo di storia del mio popolo. È un simbolo. -.
-Me lo hanno detto. -.
Quell’argomento non le piaceva per niente. Avrebbe volentieri resettato quella conversazione dal suo cervello.
-Partecipai alla guerra. – aggiunse in un sussurro Morfeo, come se parlasse a sé stesso. Finalmente la guardò negli occhi: -Sei importante. -.
-Non sono nessuno invece. – ribatté bruscamente la ragazza, irritata -In pratica io dovrei prendere a calci quella che ha preso a calci il re che è morto. La sostanza è questa. -.
-Se la vuoi mettere in questo termini… - concesse il coniglio.
-E come? Sono una dannata umana. -.
-Con un cuore demoniaco. – le ricordò Morfeo.
-E quindi? Cos’è, mi verrà un demoniaco attacco di cuore quando quella tizia cercherà di fare fuori anche me? Grazie tante batuffoloso animaletto, ora sì che sto meglio! Morirò nel più atroce dei modi se anche solo ci proverò! -.
L’ultima frase le uscì con una voce stridula e la accompagnò sporgendosi in avanti, verso il coniglio, e sbattendo le mani sulla superficie invisibile che le permetteva di sedersi sopra al paesaggio nebuloso.
Il coniglio saltò all’indietro, zigando e sotto gli occhi di Raven mutò aspetto.
In un battito di ciglia davanti a lei il coniglio scomparve e al suo posto comparì un essere umano. O almeno, l’aspetto era umano. I capelli e la pelle erano rimasti bianchi come il latte, esattamente dello stesso colore del completo che stava indossando. L’unico altro colore che spiccava su di lui era il rosso degli occhi, della cravatta e del bocciolo di rosa appuntato sul bavero della giacca.
Si passò una mano sui capelli corti e ondulati come per cercare le lunghe orecchie da coniglio che aveva poco prima, ora normali, anche se a punta.
-Non urlarmi addosso. – disse a bassa voce, ancora proteggendosi con un braccio alzato all’altezza del petto –È una cosa che mi fa perdere il controllo. -.
-Mi dispiace, non lo sapevo. – si scusò Raven.
Morfeo sospirò, abbassando lentamente il braccio. Poi si mise una mano dentro la giacca, frugando brevemente con le dita dentro ad una tasca per estrarre un monocolo dalla montatura dorata.
-Questo è il tuo vero aspetto? – chiese Raven mentre lui si appuntava la lente sul naso, davanti all’occhio destro.
Dopo una breve arricciata di naso e un rapido ammiccamento, Morfeo rispose quasi con vergogna: -Sono un demone albino. -.
-Da come lo dici sembra… -.
-Una disgrazia. – completò per lei il demone.
Fece finta di controllare con estrema attenzione i bottoni della giacca sui polsi, perfettamente abbandonati, per poi domandare se aveva domande da fargli.
Raven avrebbe voluto sommergerlo di domande: qualcosa di più su questa storia su Hydra, sulla sua cicatrice e soprattutto su come riuscire a neutralizzare una barriera invisibile. Ma quel demone in quel momento non sembrava affatto avere voglia di parlare. Da quando aveva cambiato forma non l’aveva ancora guardata una volta e sembrava avere la tremarella alle mani.
-Sicuro che tu abbai voglia di fare un’intervista? Sembri nervoso. -.
A quanto pare il gesto di leccarsi le labbra non era una prerogativa dell’essere un coniglio, perché il demone lo fece un paio di volte prima di parlare: -Questa situazione è snervante. Non dovrei essere qui e tantomeno dovrei parlarti. In più... preferirei essere rimasto nell’altra forma, questa mi mette a disagio. -.
-Perché? -.
-Il colore della mia pelle. -.
Raven storse la bocca: -Sembri solo fortemente anemico. Ehi, non provare ad usare questa scusa per non rispondere alle mie domande. Ci siamo stretti la mano mio caro, non provare a fregarmi. Posso capire l’essere nei guai a parlarmi e starmi assieme, ma questo no. -.
Morfeo fece saettare lo sguardo su di lei per un attimo, per poi tornare a concentrarsi sulla punta delle scarpe, dicendo: -Nella mia cultura essere albini non è esattamente un vantaggio. -.
-Nella mia non me ne frega niente. – ribatté Raven –Non vergognarti di questo. Parliamo d’altro: c’è un modo per abbattere una barriera che voi sapete fare? -.
-Abbattere una runa di protezione, dici? -. Morfeo sembrò pensarci su un momento, poi scosse la testa: -Sarebbe molto difficile già in condizioni normali. Tu non puoi farci niente. A meno che tu non sappia persuadere chi l’ha fatta ad abbassarla. -.
-Detto fatto. – borbottò Raven, sospirando. Prima di convincere Milord a lasciarla andare sarebbe diventata vecchia. – Non mi sei utile. -.
-Scusa. -.
-Non fa niente. Vediamo, qualche altra domanda…-.
 
***
 
Si svegliò trovandosi con un braccio a coprirle gli occhi. Probabilmente se lo era messo da sola addosso per colpa del raggio di sole che la stava abbagliando.
Mugugnò, tirandosi su a sedere.
Il giorno prima si era talmente arrabbiata con quei mentecatti che non si era manco cambiata per andare a dormire e, come si ricordava, farlo con i jeans addosso era la cosa più scomoda del mondo.
Però aveva dormito benissimo.
Morfeo si era rilassato davvero molto, andando avanti a parlare, arrivando addirittura a non distogliere lo sguardo per almeno un minuto. A poco a poco erano anche spariti i numerosi segni di nervosismo come rigirarsi i bottoni tra le dita e movimenti snervanti delle mani.
Aveva addirittura sorriso in un paio di occasioni.
Alla fine avevano parlato del più e del meno. Lui si era soprattutto interessato a lei, cosa che le aveva fatto immaginare che non visitasse il mondo umano da almeno una ventina d’anni. Le aveva raccontato di averlo fatto in precedenza.
Non si ricordava di tutto quello che avevano parlato, ma si ricordava che era stato piacevole.
Prese il cellulare, che era finito a terra, per controllare se sua madre avesse risposto al suo messaggio. Non aveva capito bene dal discorso che Milord e Andrea le avevano fatto se lei era effettivamente coinvolta, sapendo qualcosa di quella storia, ma era talmente arrabbiata e confusa che quando aveva avuto il telefono per le mani era riuscita a scrivere solo “Se tu ne sapevi qualcosa e non mi hai detto niente VAFFANCULO”.
L’ sms era rimasto senza risposta. non aveva neanche una chiamata persa.
-Perché non mi risponde? – pensò con un nodo alla gola, che non seppe dire se era dovuto all’essere ancora alterata o se era preoccupata –Non mi ha neanche chiamata alla solita ora… -.
I suoi pensieri furono interrotti da una bussata alla porta.
-Zuccherino, sono io. Ti abbiamo lasciata dormire fino ad adesso. -.
Effettivamente era passata l’ora della colazione. Si alzò e andò ad aprire la porta a suo zio. Probabilmente aveva dormito da loro e doveva essere di umore non troppo felice a giudicare da come si era vestito e la completa assenza di trucco sul viso.
Storse la bocca e si appoggiò allo stipite della porta con la spalla, domandando: -Che volete? -.
-Siamo diventati un gruppo adesso? – fece Andrea alzando le sopracciglia –Tutti nemici? -.
-Non lo so. – rispose Raven alzando le sopracciglia a sua volta –Anche tu hai intenzione di recludermi in casa in attesa che faccia quello che qualcun altro ha deciso che io devo fare? -.
-Uh, pensavo avessimo superato la fase adolescenziale. -. L’angelo fece un passo indietro e le indicò il corridoio: -Vieni, scendiamo a mangiare. Poi usciamo. -.
Raven non si mosse di un centimetro.
-Usciamo? – ripeté con sospetto –E dove andiamo? -.
-A farci un giro. – rispose lui alzando le spalle –Vieni? Il treno non aspetta. -.
Le fece ancora un cenno verso le scale e s’incamminò, facendo squittire le scarpe da ginnastica sul parquet.
Raven lo seguì intascandosi il telefono nei pantaloni, guardinga.
Si aspettava che Milord uscisse dal primo angolo che la casa offrisse, ma nessun’altro comparve che non fosse Matisse, in cucina, dove le servì dei pancake questa volta con le fragole e una spremuta.
La ragazza si sedette alla penisola e, prendendo una forchetta in mano, chiese: -Dove sono tutti? – guardandosi intorno.
Matisse le sorrise amabilmente: -Oh, Milord e i ragazzi sono fuori a controllare che sia tutto tranquillo, Raquel è fuori a prendere il sole. -. Le sembrò che il tono di voce dell’angelo caduto cambiasse un po’ per quanto riguardava l’attività della mezza demone, ma tornò come il miele quando aggiunse: -Ho bisogno di fare una commissioncina, sono finite un paio di cose in casa che mi servono assolutamente. Hai voglia di accompagnarmi anche tu, vero? -.
Raven mandò giù un boccone di pancake annaffiandolo con la spremuta, per poi replicare: -Non vi fidate a lasciarmi sola con Raquel? -.
Matisse assunse un’espressione ferita: -Ci sei rimasta male dopo ieri… pensavo solo che ti avesse fatto piacere prendere un po’ d’aria fresca e fare qualcosa di normale. Ma se sei ancora arrabbiata con noi non fa niente. Lo capisco. -.
La ragazza non riuscì a capire se quella bambolina la stesse cercando di manipolare nel farla sentire in colpa. In un caso o nell’altro, in quel momento si vergognò del suo atteggiamento sospettoso e rancoroso.
Stava solo cercando di fare ammenda, stava cercando di farla sentire meglio e lei le rispondeva male. Doveva imparare a mordersi la lingua ogni tanto.
Quando le sarebbe capitato di uscire di nuovo da quella villa poi?
-Ok. – concesse, abbassando gli occhi sul piatto –Ma facciamo in fretta. Non mi va di incontrare i Faoil di nuovo. -.
-Oh, neanche io. – sorrise nuovamente Matisse.
Non le sembrò quasi vero oltrepassare il cancello senza andare a sbattere contro qualcosa di invisibile. O quando era lontano Milord non funzionava a dovere oppure qualcuno era riuscito a convincerlo a lasciarla uscire, almeno per la sua sanità mentale.
Avrebbe puntato tutti i suoi risparmi sullo zampino dei due angeli che l’accompagnavano.
Subito provò un brivido di eccitazione a potersi muovere sul marciapiede senza la presenza inquietante del mezzo demone nelle vicinanze.
Ebbe la mezza idea di tentare di correre via. Non ci sarebbe voluto molto, Matisse non sembrava essere così veloce. Per quanto riguardava Andrea non aveva la minima idea se sapesse correre veloce quanto lei, valeva la pena tentare.
-Vorrei cambiare supermercato, l’altro non mi piaceva molto, era caro. – sentenziò Matisse, voltandosi verso di lei –Sai dove ci può essere un altro supermercato? -.
-Ehm, sì? – rispose colta alla sprovvista Raven –Da quella parte. -.
Con un movimento fluido Matisse incrociò il braccio con il suo e le si accostò cinguettando: -Allora fammi strada. Oh e ricordami di prendere il dentifricio. -.
Andrea ridacchiò della sua momentanea confusione, ma Matisse la spinse a cominciare a camminare e non poté fare altro che lanciargli un’occhiataccia.
Alla fine fu piuttosto piacevole passeggiare a braccetto con l’angelo e suo zio dall’altro lato, con le mani in tasca.
Non parlarono molto, ma Raven lo preferì: si godette ancora di più il suo piccolo momento di libertà. L’aria era umida, il cielo in lontananza era scuro e minacciava pioggia.
Quando raggiunsero il piccolo minimarket squadrato all’angolo di una strada trafficata, le nuvole all’orizzonte avevano coperto il sole, facendo sembrare la giornata già finita e prossima alla sera.
Matisse si sciolse dal suo braccio non appena varcarono le porte scorrevoli, invitando subito gli altri due a sbrigarsi, sia perché Milord aveva detto di “metterci poco” e perché non avevano un ombrello.
Raven le stette dietro e notò che con i minuti che passavano entrambi gli angeli sembravano concentrarsi sempre di più sulla spesa piuttosto che tenere d’occhio lei.
Provò a sgusciare via e subito fu ripresa da Andrea: -Hai sentito tua madre? -.
La ragazza storse la bocca e finse di leggere l’etichetta di una bibita tropicale, mugugnando: -Le ho lasciato un messaggio, ma non ha risposto. -.
-Che genere di messaggio? – chiese ancora l’angelo e, vedendo che Raven sembrava non volerne parlare, suppose: -Immagino che fossi trasportata dall’umore. -.
-Lasciami respirare. Oh, ehi, laggiù c’è il caffè, ti serviva no? – aggiunse affrettandosi a sparire dietro l’angolo dello scaffale.
Prese il cellulare e ricontrollò se sua madre avesse risposto anche se non aveva sentito nessuna notifica o vibrazione.
Messaggio inviato e ricevuto, esattamente come un’ora prima.
Perché non le rispondeva? Si sentiva in colpa perché le aveva nascosto quella storia assurda per quasi vent’anni della sua vita oppure era impegnata?
Al punto da non rispondere neanche ad un messaggio? No no no, impossibile.
Un pensiero la fece rabbrividire: se le fosse successo qualcosa?
Insomma, a lei avevano sguinzagliato dietro quei due cani e chissà quanti altri bei personaggi, lei che era l’obbiettivo. Potevano farlo anche con chi si era preso cura dell’obbiettivo.
Scosse la testa. No, basta pensieri del genere. Troppi film.
Qualcuno la urtò contro la spalla, passandole accanto, ignorando il suo insulto borbottato a denti stretti. Ci era mancato poco che le pestasse pure un piede.
Guardò in basso e notò un foglietto macchiato e spiegazzato sul pavimento. Decisamente non uno scontrino o una qualche banconota. Magari era caduto al tizio che l’aveva quasi spinta a terra. Si chinò con un sospiro rassegnato, decisa a fare la cosa giusta, e disse ad alta voce: -Ehi, t’è caduto questo… -.
“Portatrice”.
C’era proprio scritto quello sul biglietto.
Non proprio chiaramente, la calligrafia sembrava stentata e tutta storta, anche se scritta in stampatello maiuscolo.
La cicatrice diede una stretta.
Afferrò il biglietto e lo girò, per trovare un’altra frase che le fece salire il sangue alla testa: “Abbiamo tua madre”.
Alzò lo sguardo per vedere se quel tipo era ancora lì e lo colse nell’atto di spiarla da dietro uno scaffale, per poi dileguarsi immediatamente. Ma lei fece in tempo a riconoscere l’occhio rosso con la pupilla verticale che non fosse coperto da una benda.
Strinse il biglietto in un pugno e si sporse nel corridoio accanto, dove Matisse e Andrea stavano ancora guardando qualche prodotto in offerta.
-Devo andare in bagno. – annunciò.
-Se non torni entro cinque minuti ti veniamo a cercare. – l’avvisò Andrea.
-Lo spero proprio. – pensò Raven scattando subito all’inseguimento.
Riuscì a scorgere appena il posteriore di un grosso cane nero fuori dalle porte scorrevoli e quasi vi sbattè contro per la foga.
Saettò tra i passanti, che già lasciavano un bel po’ di spazio disponibile per correre grazie alla stazza di quel cagnaccio in fuga, il quale si voltò a controllare chi lo stesse inseguendo una volta sola.
-Fermo! – gli urlò dietro la ragazza –Torna subito qui! -.
Chi lo avrebbe immaginato che a distanza di un paio di giorni si sarebbero invertiti i ruoli? Lo stava quasi raggiungendo e probabilmente lui sentiva che le distanze si stavano accorciando.
Il mezzo demone voltò bruscamente a sinistra dopo aver cercato di seminarla infilandosi in un paio di dehors, mandando a gambe all’aria un paio di persone e rovesciando tavolini.
Raven lo vide buttarsi a capofitto in un condominio in costruzione, nascondendosi dietro al cartellone pubblicitario.
All’interno dello scheletro dell’edificio grigio le scale erano già state costruite, arrampicandosi alle pareti di cemento. Prima di entrare controllò brevemente che nessuno le tendesse un agguato, ma visto un lampo nero sul primo giro di scalini perse ogni precauzione.
Notò che il cane aveva rallentato il passo. O era stanco o si era fatto male nella fuga.
Meglio per lei.
Quando appoggiò le zampe sul primo vero e proprio pianerottolo della struttura, Raven tentò un balzo e riuscì ad avvolgergli le braccia attorno al corpo, atterrandolo.
Il mezzo demone guaì mentre rotolavano sul pavimento ruvido, riprendendo forma umana.
Ansando, Raven lo inchiodò a terra piantandogli un ginocchio nello stomaco e afferrandolo per il collo del maglioncino che indossava, strattonandolo in alto per poi sbatterlo a terra.
Alzò un pugno e fissandolo nell’occhio spalancato sibilò: -Dimmi subito cos’avete fatto a mia madre, altrimenti… -.
Allentò e strinse il pungo un paio di volte. Davvero se la sentiva di dare un pugno in faccia a quel tipo? Aveva un aspetto da far pena e sembrava più spaventato di lei in quel momento, con quella pelle olivastra e il braccio alzato a proteggersi la faccia. Non sapeva neanche se avrebbe avuto la forza di fargli male.
-Altrimenti… che cosa? -.
Raven sussultò, allentando la presa sul vestito del mezzo demone, guardandosi attorno per vedere chi aveva parlato.
Non erano soli, c’erano tre uomini davanti a lei e, a giudicare dalle iridi rosse, non avrebbero patteggiato per lei.

 
*Angolo della scrittrice*
Sarà un miracolo di Halloween, ma a quanto pare la mia cattiva memoria si è risvegliata per un fun fact carino: a quanto pare la musa a cui mi sono ispirata per creare l'aspetto di Morfeo è AntiCosmo, dai Fantagenitori.
Ora mi sorge una domanda: quanto ero malata ai tempi?

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 12: Quando il gatto c'è i topi scappano ***


CAPITOLO 12
Quando il gatto c'è i topi scappano



Si rese conto di essere pietrificata dalla paura quando Chuck riuscì a togliersela di dosso sgusciando da sotto di lei, facendo leva sulle gambe per poterla buttare a terra e filarsela verso i suoi compari.
Quei tre erano dei bestioni in confronto a Chuck e il suo amico. Se era anche solo riuscita a tenere a distanza di sicurezza quei due da lei al parco con un bastone, non aveva una mezza chance in quel momento.
-Ma guardatela, prima era tanto spavalda. – commentò uno di loro, quello castano –Adesso è con la coda tra le gambe. -.
La sua risatina la fece tornare a ragionare: non poteva assolutamente restare lì.
Probabilmente Matisse e Andrea si erano già accorti che lei aveva lasciato il supermercato e di sicuro non avranno esitato ad avvertire Milord o a cercarla direttamente senza coinvolgere quel rompiscatole. Aveva solo bisogno di guadagnare tempo per loro e per sé stessa.
Intanto cercò vie di fuga.
Era troppo in alto per saltare dalla finestra. Poteva correre dalle scale, ma quelli erano di sicuro più veloci di lei. Potevano anche raggiungerla saltando al suo posto da una qualsiasi finestra
Si mise in piedi appoggiandosi su un ginocchio, dicendo con il tono più intimidatorio che riuscisse a fare: -Tsk, non ho la coda tra le gambe, mi avete solo colta di sorpresa. -.
Vicino a lei gli operai avevano lasciato degli attrezzi. Le bastò pestare un piede sulla lama di una pala incrostata di cemento e prenderla al volo per il manico per appropriarsene. La puntò verso di loro insinuando: -Voi piuttosto siete dei bei vigliacchi: quattro contro uno, una ragazza per di più. Avete paura di me? Il vostro amico lì ha già provato sulla pelle quello che posso fare, non credete di spaventarmi. -.
Si capiva benissimo che non se la stavano bevendo. Quello castano non aveva perso il sogghigno dalla faccia e somigliava fin troppo a quello strafottente di Milord.
-Senti, Raven, vogliamo solo parlarti. – disse quello biondo.
Raven si concentrò su di lui e quando lo guardò bene in faccia le sembrò di riconoscerlo.
Impossibile che lo avesse già visto, se era con Chuck era palesemente un uomo di questa Hydra che la stava rintracciando, quindi se mai si fossero incrociati prima avrebbe cercato di catturarla. Si concentrò, cercando di ricordarsi perché quel viso e quel colore di capelli le sembrassero familiari, mentre quello con i capelli neri intervenne quasi sottovoce, rivolgendosi al biondo: -Carlo, è meglio portarla prima da qualche altra parte prima che la raggiungano. Le potremmo parlare con calma così. -.
-Mi sembra già abbastanza agitata, vorrei evitare di ... -.
-Non sarà agitata se la mettiamo prima KO. – ribatté quello castano, interrompendo l’altro.
All’improvviso Raven realizzò.
-Tu! – esclamò puntandogli la pala contro –Ti ho già visto, riconosco la tua faccia -.
Il demone chiamato Carlo assunse un’aria interrogativa, mentre il moro osservò: -Tecnicamente siamo gemelli, abbiamo la stessa faccia tutti e tre. -.
La ragazza lo ignorò: -Tu sei nella foto con mia madre! Sfocato, ma riconoscibile. Sei mio padre? -.
Era proprio lui, non c’erano davvero dubbi. La sua faccia era davvero sfocata, ma ci somigliava davvero troppo per poterlo scambiare con qualcun altro. Si trovava davvero davanti a suo padre?
Carlo diventò paonazzo e con una strana sensazione di sollievo Raven lo vide sbottare: -Ma di che diavolo di foto stai parlando? Non sono tuo padre! -.
-Cosa ci facevi con mia madre allora? Perché non mi hai fatto niente quando ero una bambina? Anzi, che ne avete fatto di mia madre adesso? -.
Questa volta parlò Chuck, come se si vergognasse, nascondendosi di un altro poco dietro a quei tre energumeni: -Ho origliato la conversazione e agito di conseguenza. Dovevo solo attirarti qui. -.
-Scema! – esclamò il castano scoppiando in una corta risata.
Fu prontamente punito da uno scappellotto sulla nuca da parte di Carlo, che si ricompose subito: -Ti spiegheremo tutto Raven. Intanto tua madre credo stia bene, noi non le abbiamo fatto niente. -.
-Beh, sarà meglio. – rispose Raven, infinitamente sollevata da quella dichiarazione.
Sua mamma stava bene, non era in mano a nessuno. Se non aveva risposto al messaggio era per un altro motivo. Assolutamente ottimo.
Abbassò la pala e vi si appoggiò contro, tirando un sospiro di sollievo.
Un rumore attirò la sua attenzione, dietro di lei: passi affrettati sulle scale. Dovevano averlo sentito anche gli altri quattro, perché si misero subito sull’attenti, pronti a reagire. Dall’apertura nel pavimento emerse la testa bionda di Andrea, cosa che fece gioire Raven, ma subito ammutolì quando l’angelo raggiunse il pianerottolo impugnando una pistola bianca a due mani.
Si piazzò a gambe larghe accanto a lei, tenendo sotto tiro i tre demoni e il mezzo demone, esclamando: -Non provate a fare un solo passo McMastiff, o vi crivello. -.
-Andrea… -.
Gli occhi color pervinca dell’angelo si fissarono su di lei per un breve attimo, prima di tornare sul bersaglio, e lui sibilò: -Cosa ti è saltato in mente? Sei nei guai fino al collo Raven. -.
-Avevano detto che mamma… -.
-Se tua madre fosse in pericolo lo saprei. – tagliò corto Andrea, per poi rivolgersi agli altri –Vedo che Regina ha iniziato a spedire la cavalleria pesante contro di noi. Che onore avere i gemellini alle calcagna. -.
Carlo corrugò le sopracciglia in una espressione spazientita, borbottando: -Valentine, ancora tu. -.
-Te lo avevo detto di darti una mossa. – fece il demone castano, prontamente zittito dal terzo: -Madison, ti prego, stai zitto. -.
-Evitiamo di farci del male. – continuò Andrea, alzando il mento con spavalderia –Voi ve ne andate e noi anche, illesi. Mi sembra una cosa ragionevole. -.
-Sarebbe ora di fare abbassare la cresta a questo angelo. – propose Madison facendosi scrocchiare le nocche delle mani –Siamo in vantaggio, possiamo farlo a pezzi e prenderci la ragazza. -.
-Datti una calmata capra! Che cosa otterremmo facendo così eh? -.
-E piantala di darmi contro Rosco, quello si crede chissà che solo perché è il leccapiedi di Elen. -.
Raven riprese ad impugnare la pala, dicendo: -Andrea non è il leccapiedi di mia madre. -.
-Non ti hanno detto niente, vero? – fece Rosco alzando un sopracciglio, aggiungendo: -Beh, se verrai con noi ti diremo tutto. Soprattutto non ti faremo niente, cosa che nessun altro può assicurarti. -.
Andrea si piazzò davanti a Raven, tagliandole la vista del demone, e ringhiò: -Non credere d’incantarla, non è così stupida da non capire che la state cercando di portare da Regina intortandola con delle promesse. -.
Madison sbuffò incrociando le braccia: -Chi ha detto che l’avremmo portata da Regina? Dai troppe cose per scontato. -.
-Vuoi tapparti quella boccaccia? – sibilarono all’unisono i suoi fratelli scattando a dargli due manate dietro il collo.
Raven non poteva vedere le facce dei tre demoni, ma di Chuck sì e sembrava confuso da quello che Madison aveva appena detto. Se era loro alleato e lavoravano per Regina era scontato che se l’avessero presa l’avrebbero portata da lei, quindi perché fare quella faccia? Potevano aver mentito, ma sembrava che il mezzo demone avesse avuto una reazione genuina, quindi forse…
Si distrasse per un improvviso odore di bruciato.
Con un fruscio di stoffa, Milord si parò davanti a loro due a braccia spalancate, il trench militare aperto come se fossero state ali schioccò nell’aria per il movimento interrotto bruscamente. Al suo fianco si fecero avanti Jaguar e Beast, in forma animale, ringhiando sommessamente.
Raven si spostò per riuscire a vedere come i demoni avessero preso l’arrivo improvviso di rinforzi.
Chuck sembrava disperato, con l’occhio spalancato e con un piede spostato indietro, come se non aspettasse altro che voltarsi e cominciare a scappare. I tre gemelli, invece, sembravano aver preso lo stupore che provava poco prima il mezzo demone, fissando nella sua direzione.
Anzi, guardando Milord.
Il suddetto sembrò perdere a sua volta sicurezza, rimanendo in silenzio e abbassando le braccia.
Quei quattro sembravano cervi sorpresi dagli abbaglianti di una macchina.
Milord irrigidì la mascella: -Voi? -.
-Milo? Sei proprio tu? – chiese Carlo facendo un passo avanti, titubante.
Beast inclinò la testa, guardando prima il suo compagno e poi il demone, chiedendo: -Vi conoscete? -.
-Ti avevo detto di non venire, cerca almeno di non dire sciocchezze! – scattò Milord, ma Madison aggiunse: -Pensavamo fossi morto! -.
-I Faoil ci avevano detto di te, ma pensavamo fosse solo qualcuno che ti somigliava. – disse ancora Rosco.
Il mezzo demone strinse i pugni e rispose: -Io non so di che cosa stiate parlando. -.
-Raven è con te? – continuò Carlo –La porterai da Elen? -.
-Non sono affari vostri. -.
-Da quello che ci hanno detto non lavori più con lei. – intervenne Rosco, aggrottando la fronte –Che ci vuoi fare con la ragazza? -.
-Di certo non lo spiegherò a chi sta nel torto. -.
-Ma sentite questo! -.
Si voltò appena, guardando con la coda nell’occhio l’angelo. Stava ancora tenendo la pistola puntata contro i McMastiff, conoscendolo nessuno dei tre avrebbe avuto la possibilità di muoversi senza venire colpito. Raven invece sembrava avere la sua stessa sicurezza, ma si vedeva che se la stava facendo sotto.
I gemelli erano forti, poteva tenere testa ad almeno due di loro, Jaguar poteva occuparsi di quello rimasto se non era Madison. Con Beast di mezzo non poteva rischiare di ingaggiare una lotta troppo lunga o si sarebbe fatto male.
Odiava scappare davanti al pericolo, ma non aveva scelta.
-Andate voi due, io mi occupo di questi. – ordinò Milord facendo un gesto indietro con un braccio, dalla cui manica iniziò ad uscire un fumo denso e scuro.
Andrea non perse tempo e afferrò Raven per la spalla, trascinandola giù dalle scale di corsa. La ragazza lasciò andare la pala, concentrandosi più sul seguire l’angelo e mettere più distanza possibile tra lei e quei pazzi.
-Vi conoscete? – chiese, affiancandolo mentre uscivano dal palazzo.
L’angelo la prese per un polso e continuò a correre tenendola stretta, rispondendo: -Sì, faccio parte della Resistenza contro Regina, li ho già visti quelli. -.
-Mamma cosa centra in tutto questo? -.
Andrea schioccò le labbra: -Tua madre è il mio capo. Diciamo… diciamo che tua mamma è come i McMastiff. Te lo avrei detto ieri, ma sei intrattabile. -.
-Lei è una demone? -.
-E io sono un angelo. – ribadì Andrea –Ora risparmia fiato zucchero. -.
Corsero fino alla villa, dove Matisse stava tenendo il cancello aperto per loro. Lo chiuse facendolo tremare e subito saltò al collo di Raven stringendola tra le sue braccia magre.
-Stai bene Raven? Non ti hanno fatto del male, vero? -.
-No, sto bene. – mentì Raven.
La cicatrice le pulsava in modo fastidioso e la fronte non era da meno, causandole un mal di testa che premeva contro le tempie. Il cuore le batteva ancora forte come fosse stato un martello sull’incudine e sapeva che non era per la corsa a perdifiato.
Aveva rischiato grosso a seguire quel Faoil e a trovarsi faccia a faccia con quei tre… come li aveva chiamati Andrea? McMastiff? Vabbè, uomini di Regina.
Se non avessero tergiversato probabilmente non sarebbe al sicuro nella villa in quel momento. Anzi, poteva dire se non avessero davvero avuto intenzione di farle del male?
I Faoil non avevano esitato più di tanto, perché invece mandare qualcuno che tentava di attirarla con l’inganno di una chiacchiera?
Chuck sembrava stupito dall’affermazione del demone chiamato Madison, perché essere stupiti da una strategia più che ovvia?
E poi sua madre era addirittura una demone.
Era stata adottata.
-Non mi sembra che tu stia bene. -.
Si appoggiò alla macchina parcheggiata di Andrea con una mano, togliendosi di dosso Matisse.
-Sono solo scombussolata. -.
In una nuvola di fumo apparve ancora una volta Milord. Teneva una mano sulla spalla di Jaguar, mentre sotto l’altro braccio teneva Beast, che si stava divincolando per liberarsi. Fu subito accontentato, perché il mezzo demone dagli occhi argentati lo mollò a terra come un sacco di patate per dirigersi verso di lei.
Le diede uno spintone contro il furgone, facendole sbattere la schiena, per prenderla poi per il colletto della felpa e impedirle di scappare.
-Sei proprio una ragazzina ottusa, vero? – le ringhiò sputandole in faccia del fumo dall’odore soffocante –Come ti è saltato in mente di fare una cosa del genere? -.
-Non metterle le mani addosso! -.
-Rispondi. – le intimò il mezzo demone, ignorando l’angelo.
-Mi avevano detto che mia madre ce l’avevano loro. Sei contento? Lo ammetto, mi hanno fregata. – rispose Raven con la stessa rabbia –Se anche tu avessi una madre in pericolo… -.
-Lei è morta, nessuno le darà fastidio. – la interruppe Milord stringendo la presa sulla felpa e schiacciandola ancora di più contro la macchina –Ti conviene darmi ascolto o la prossima volta che provi anche solo a scappare ne subirai le conseguenze. -.
-Faccio quello che mi pare. -.
Un lampo rosso colorò le iridi del mezzo demone mentre alzava una mano chiusa a pugno.
-Basta adesso! -.
Jaguar si mise in mezzo, spingendo via l’altro mezzo demone stringendogli una mano su quella che tratteneva la felpa di Raven riuscendo a fargli perdere la presa, mentre Andrea si precipitava ad aggiungersi come muro di difesa davanti alla ragazza.
-Basta. – ribadì Jaguar con tono più calmo, senza però abbassare la guardia –La stai spaventando. -.
-Deve esserlo a buon ragione! – sbottò Milord –Quell’idiota stava per fare una gran brutta fine! Quelli erano i McMastiff, se l’avessero presa saremmo stati nei guai fino al collo! -. Spostò lo sguardo su Raven: -Mi dici che cosa c’è di così difficile nell’obbedire? Noi non ti torceremo un capello, loro potevano ucciderti! -.
-Ma non è successo. -.
Beast si era avvicinato in punta di piedi a Milord, titubante. Aveva un morso fresco sul collo, regalo di Chuck, ma non sanguinava più. Forse avrebbe voluto aggiungere qualcosa di rassicurante per far sbollentare la rabbia del mezzo demone Lupo. Lui invece si girò di scatto e gli stampò su una guancia il dorso della mano, facendolo barcollare e cadere a terra.
-A te invece avevo detto di stare a casa idiota! – esclamò –Finirete ammazzati tutti e due! -.
Fece un gesto esasperato con le braccia e se ne andò verso la villa con passo pesante.
-Yeesh… - fece Raquel stringendosi nelle braccia –Quello è tutto matto. -.
Beast si massaggiò la guancia colpita guardando incredulo Milord, senza neanche accorgersi che Matisse gli stava porgendo un fazzoletto per coprirsi la ferita sul collo.
Jaguar sospirò: -Lascia perdere Raquel… non si era ancora mai comportato così. Tu Raven stai bene? -.
-Sì. -.
-Bene, una buona notizia. Andrea, Matisse, andateci a parlare, con voi due parla. Raquel, fammi il piacere, dai un occhio a Beast. -.
Senza neanche accorgersene, Raven si trovò guidata da una mano piazzata in mezzo alla schiena di Jaguar verso la cucina della casa. Le disse di sedersi e lei si lasciò spingere su uno degli sgabelli placidamente.
La prospettiva di vedersi ricevere un pugno in faccia da Milord le aveva sedato ogni spirito ribelle.
Mentre i due angeli si dirigevano nello studio di Milord e gli altri due mezzi demoni invece andavano al piano di sopra, Raven stette in silenzio ad osservare Jaguar che metteva a scaldare un pentolino di acqua sul gas e prendeva una scatola di latta colorata da una mensola.
-Stai bene davvero Raven? – chiese ancora, prendendo dalla stessa mensola due specie di bicchieri dalla forma tondeggiante piuttosto piccoli di legno –Sei pallida come un cencio. Sei ancora spaventata vero? -.
-Mi sono appena scontrata con tre energumeni e quello che dice che non mi torcerebbe un capello ha appena provato a sfondarmi la faccia a pugni. Tu che dici? -.
-Non voleva farlo, ne sono sicuro. – disse Jaguar mettendo il contenuto della latta nel bicchiere –Milord è molto arrabbiato, certo, ma non voleva colpirti. Non l’ho mai visto scosso così. -.
-È un maniaco del controllo, con voi è abituato che obbedite come cagnolini. – borbottò Raven –A parte Beast forse. -.
-Già. – ammise Jaguar –Ma è un altro tipo di arrabbiatura… non so quale fosse il suo rapporto con quei demoni, ma lo hanno agitato. -.
Raven soppesò quella frase: anche lei quando aveva realizzato di aver già visto quel tipo biondo aveva provato una strana sensazione allo stomaco. E quando aveva sospettato che fosse suo padre, wow… stavano per cedergli le gambe. Invece non era lui e questo era un problema che si era tolta dalle spalle.
Ma la reazione che aveva avuto Milord era stata molto più strana della sua. Intanto anche quei tre sembravano averlo riconosciuto e, anzi, erano felicissimi di vederlo subito. Anzi, pensavano fosse morto addirittura. Poi era stata nominata sua madre e sembrava che avessero toccato tutti un tasto dolente. Non osava chiedere che rapporto c’era tra Elen e Milord o tra quest’ultimo e i tre demoni.
-Milord è decisamente uno a cui a primo acchito non mi avvicinerei neppure, lo ammetto. – continuò Jaguar strofinandosi le mani per togliersi della polverina dai palmi –Ma devi credermi se dico che di lui ti puoi fidare. Ci ha accolti con sé e da allora non ci ha mai abbandonati, si è preso cura di noi. Perché non ti fidi di lui e continui a cacciarti nei guai? È pericoloso davvero per te. -.
-Non mi piace come mi tratta. E poi… non sono quello che voi dite. Non voglio fare niente di quello che voi vogliate che io faccia. -.
-Solo perché te lo diciamo di fare e tu non dai ascolto a chi conosci da pochi giorni? -.
-Anche. – ammise Raven appoggiandosi al bancone, guardando Jaguar che continuava a preparare qualcosa dentro a quei due bicchieri strani –Ma se ho ben capito devo togliere qualcuno di mezzo. O sbaglio? -.
-No. -.
-Chiederesti una cosa del genere al primo che passa? -.
-Certo che no. Ma puoi almeno provare ad aiutarci in qualche altro modo? -.
Raven non riuscì a sostenere lo sguardo verde del mezzo demone latino americano.
Lui e i suoi fratelli si erano comportati bene nei suoi confronti e l’avevano già tolta dai guai ben due volte, rischiando la pelle. In più Jaguar l’aveva accompagnata a casa a prendere la sua roba dopo che quel rompiscatole le aveva espressamente vietato di uscire.
-Posso provare. – disse dopo qualche minuto di silenzio.
Jaguar le sorrise e le porse uno dei bicchieri, con una cannuccia di metallo che pendeva di lato.
-Salute. – disse, facendo un piccolo brindisi contro il suo bicchiere.
La ragazza assaggiò la bevanda calda e la trovò un po’ amara, ma piacevole.
 -C0s’è? -.
-Mate. – rispose il mezzo demone con espressione triste –Quando ero giù di corda mamma lo preparava e me ne faceva sempre bere un sorso. -.
-Oh… -.
Raven prese la cannuccia tra le labbra e notò un tatuaggio sulla mano sinistra di Jaguar. Fino a quel momento non l’aveva vista, dato che non avevano mai mangiato vicini e quando lavorava al giardino indossava dei guanti.
Era una scritta nera maiuscola sulla prima falange, con una stella bianca sulla prima lettera.
-È il nome di tua mamma quello? – si azzardò a chiedere.
Jaguar seguì il suo sguardo e chiuse la mano a pugno, facendogliela vedere meglio: -No, ma ci sei andata vicino: la A sta per Anita, mia mamma. La M e la B stanno per Matisse e Beast. La R è Raquel. Li ho fatti io. -.
-Li hai disegnati tu? -.
-No, li ho fatti io. – ripeté Jaguar –Anche i buchi alle orecchie di Beast sono fatti da me, ho imparato tanti anni fa. -.
-Davvero? -.
-Certo. Ho anche fatto questo. -.
Si alzò la maglia che indossava sul fianco sinistro, rivelando una testa di pantera in atteggiamento aggressivo, che spuntava da una mezzaluna di fiori di ibisco rosso fuoco.
Raven non poté fare a meno di fischiare con ammirazione.
-Questi fiori erano i preferiti di mia mamma. – spiegò Jaguar –E anche se era umana e non come me o mio padre per me era una pantera anche lei. Quando tutta questa storia sarà finita voglio aprirmi un negozietto. Magari con un appartamento al piano di sopra e fare una bottega. -.
-È un’idea molto carina. – commentò Raven.
“Quando tutta questa storia sarà finita”.
Non le era piaciuto come aveva detto quella cosa. Suonava troppo come se avesse voluto usare un “se” invece di un “quando” e si fosse corretto in tempo. Non aveva niente contro di lui e pensare che forse non sarebbe riuscito a realizzare il suo sogno futuro a causa sua, perché aveva di nuovo cercato di filarsela, le fece ripromettere a se stessa che sarebbe stata buona.
Dovette stringere molto i denti quando Milord le disse che dovevano andarsene dalla città
 
***

-Vuoi stare fermo? -.
-Giù le mani, quella cosa brucia! Faccio da solo. -.
Ormai rimbrottavano da diversi minuti, dato che Rosco voleva disinfettare le ferite di Madison e lui insisteva che se le curava da solo.
A lui non gli importava, si teneva in disparte a leccarsi senza convinzione un morso su una spalla. L’occhio gli faceva un male terribile, quel maledetto ragazzino gli aveva dato una zampata sopra e ora bruciava come il fuoco.
Ma la cosa che gli bruciava di più addosso era il fatto che non avevano ancora una volta preso la Portatrice. Cos’avrebbe detto a suo cugino? Cosa avrebbero dovuto fare adesso loro due?
Occhieggiò Carlo, in disparte pure lui a pensare agli affari suoi con la fronte aggrottata in un’espressione di tormentato pensiero.
Se davvero l’intenzione di Taylor era quella di farli fuori avrebbe dato l’ordine ai McMastiff, dato che erano i più vicini a loro in quel momento, per non scomodare qualcuno delle Squadre di Cattura.
L’ordine poteva arrivare da un momento all’altro e Buck poteva essere già…
-Ti spezzo quelle mani Rosco, vai a fare l’infermiera da qualcun altro! – sbottò Madison, cercando di allungare un calcio al fratello per allontanarlo.
Quello che aveva detto Madison prima lo aveva confuso.
Certo, poteva essere un bluff o una frase sarcastica dire che non avrebbero portato la ragazza a Regina. Ma allora perché i fratelli gli avevano subito detto di stare zitto e se l’erano presa così tanto per quello che poteva essere una bugia?
Mentre pensava a quello, Rosco gli si avvicinò e si sedette vicino a lui, chiedendogli: -Vuoi che si un’occhiata alle tue ferite? All’occhio, magari? -.
-No signore, la ringrazio signore. -.
Non sembrava, ma era molto più giovane dei tre fratelli e addirittura di Jaguar, se suo padre si ricordava correttamente la sua età. Lui e suo cugino avevano trentaquattro anni. Purtroppo la loro vita era stata segnata di talmente tante sfortune e soprusi che erano invecchiati di colpo nell’aspetto e nello spirito, più lui che Buck, ancora intento a comportarsi da ragazzino. Ma davanti a loro era di grado inferiore, per cui era molto rispettoso ed intimorito, come davanti a Taylor.
Madison fece un verso esasperato, mettendosi le mani sulle orecchie, dicendo: -Code storte, ditegli di piantarla con questa storia del “signore”, mi sta facendo diventare scemo! -.
Chuck ammutolì.
Nessun demone che avesse mai conosciuto si sarebbe permesso di dire una cosa del genere. I mezzi demoni non potevano non rivolgersi diversamente a un demone, erano inferiori.
-Questa è una frase da rivoluzionari. – disse in un soffio.
Rosco alzò gli occhi al cielo: -Maddy, ti vuoi stare zitto tu? -.
-Tanto ormai ha già detto troppo. – disse Carlo, rompendo finalmente il silenzio in cui si era chiuso –Rosco, digli tutto. -.
Il demone mise da parte la bottiglia del disinfettante e lanciando un’occhiata di sbieco al fratello minore disse: -Ascolta Chuck, so che la cosa potrebbe allarmarti, ma se abbiamo accettato l’incarico per catturare Raven era solo perché ci serviva per entrare nella Resistenza. -.
-Perché? – si lasciò sfuggire Chuck e, come se non riuscisse a zittire i pensieri che gli vorticavano in testa, continuò: -Voi avete abbandonato la Resistenza anni fa. Perché farlo e andare dalla parte di Hydra per poi tornarci così? -.
-Quale modo migliore per riuscire ad eliminare Regina se non starle assieme? – rispose Rosco –Solo che è impossibile poterlo fare. Anche se fossimo riusciti ad avvicinarci abbastanza da iniziare una lotta, credi davvero che solo noi tre saremmo riusciti a farla fuori? È troppo ben protetta e forte per riuscire a fare qualcosa. Ci ripromettevamo “soltanto un anno, ancora uno, troveremo un modo”, ma è stato impossibile. Dobbiamo tornare alla Resistenza, ma non ci accoglieranno di nuovo. -.
-Perché? -.
-Perché non gli abbiamo detto niente, genio. – intervenne Madison –Per evitare guai abbiamo deciso di far sembrare a tutti che eravamo dalla parte di Regina e del vecchio, compresa la Resistenza. Il minimo errore avrebbe fatto scoprire tutto, anche dove si nascondono i ribelli. -.
-Doveva essere un’operazione esclusivamente interna, niente contatti con l’esterno. -.
-Se provassimo a tornare così come siamo ci ammazzerebbero. – aggiunse Carlo -L’unico modo per poter essere accettati ora è portare Raven al sicuro da loro. -.
Un brivido di pura eccitazione percorse la schiena del mezzo demone, che gli fece raddrizzare la sua postura dimessa in un attimo e farlo diventare più attento. Era quello che anche lui cercava! L’unica via per scappare da quell’incubo oltre la morte, essere parte del movimento oppositore di Regina e del suo folle governo!
Al colmo della felicità chiese: –Allora era per questo che la volevate catturare? Anche voi volete deporre quella pazza? -.
-Esatto. Ma Raven è nelle mani di Milo e lui è peggio di sua sorella a quanto pare. La missione è fallita e tu adesso sei in pericolo. -.
La felicità che stava provando scemò immediatamente.
-Cosa? -.
-Le Squadre di Cattura sono pronte a venirvi a cercare. – disse Rosco –Le abbiamo sentite parlare di qualche ordine di Regina che riguardava te e tuo cugino. Non sappiamo quando inizieranno a starvi dietro, ma credo che non aspetteranno più di un paio di giorni. -.
-Non preoccuparti Chuck, ti portiamo a casa, prendi tuo cugino e ce ne andiamo dalla città. Noi passeremo ancora dalla fortezza per prendere qualcosa per il viaggio. -.
Si diedero appuntamento davanti alla casa dei Faoil e lui si trattenne a stento dal piangere dalla felicità mentre li ringraziava. Si precipitò nell’appartamento, trovando il cugino con una cera migliore della mattina, in sua attesa nel corridoio.
-Com’è andata cuginetto? – gli chiese, andandogli incontro, pieno di aspettativa.
Chuck gli mise le mani sulle spalle e lo girò per spingerlo verso la camera che condividevano, rispondendo: -Ti spiego dopo, dobbiamo prendere le nostre cose. -.
Buck puntò i piedi e cercò di girarsi verso di lui: -Che? Rispondimi, l’hai presa la Portatrice? -.
Vedendo che non si spostava di un altro passo, Chuck lasciò perdere e andò nella camera da solo, dicendo: -No, non ho preso la Portatrice, ma adesso aiutami, svelto! -.
Recuperò un borsone da un armadio ed iniziò a metterci dentro i pochi vestiti che avevano senza badare a piegarli o in che stato erano.
Il cugino lo seguì, perplesso e irritato dal suo comportamento, e quasi gli chiuse le dita in un cassetto quando lo chiuse per ottenere la sua attenzione.
-Puoi darmi una spiegazione? -.
Chuck strinse le cinghie del borsone con un gesto secco e alzò lo sguardo su di lui: -Andiamo via da qua Buck, siamo in pericolo. -.
-In pericolo? Ma di che stai parlando? -.
-I McMastiff ci portano alla Resistenza. Non abbiamo molto tempo, dai, le Squadre ci stanno cercando. -.
Fece per prendere la sacca, ma Buck le diede un calcio e l’allontanò da lui, andando a farla sbattere contro una parete. Strinse i pugni e a denti stretti fece: -Ma di che diavolo stai parlando? -.
-Senti, so che è una cosa sconvolgente. – ammise Chuck, a disagio per quella reazione inaspettata –Ma i McMastiff vogliono tornare alla Resistenza e ci porteranno con loro. Regina ha dato ordine di catturarci, non le serviamo più ricordi? -.
-Ma cosa stai dicendo? – ribatté il mezzo demone con un ringhio –Regina non farebbe mai una cosa del genere, ci ha ridato l’incarico. Sei fuori di testa. -.
-Io fuori di testa? Buck, non ci ha ridato l’incarico, Taylor ci ha detto di andare, sei tu che hai voluto raccontare quella balla ai McMastiff. È quello che aspettavamo, dobbiamo andare Bucky. -.
Chuck allungò una mano per prendere quella del cugino, ma lui si ritrasse, scivolando verso la porta. La sua espressione fece accapponare la pelle al cugino: solo quando si ritrovavano faccia a faccia con un avversario scopriva i denti in quella maniera e faceva quello sguardo feroce.
-Io non stavo aspettando niente del genere. Io sono un servo di Regina, ci ha salvati dal Mattatoio. Sei un traditore, Chuck? -.
Il mezzo demone ammiccò, allibito.
-Cosa dici? Ti ricordo che nel Mattatoio ci ha messi lei! -.
-E allora? Poi ci ha ripresi. Lei ci protegge, non la Resistenza! -.
-Regina vuole ammazzarci, non ci considera neanche animali! -.
-Non è vero! Scordati che io faccia una cazzata come questa! Vuoi andartene? E allora vattene! Ma io non ti seguirò questa volta.-.
Buck si girò e corse via. Chuck non provò neanche a corrergli dietro tanto era spiazzato da quello che era appena successo.
Loro non avevano mai litigato in quella maniera, non si erano mai urlati addosso. Non lo aveva mai guardato in quella maniera, come se avesse voluto mettergli le mani addosso.
Da quel momento all’appuntamento con i McMastiff trascorse tutto il tempo sentendosi le budella intrecciate insieme per l’ansia della fuga, la preoccupazione per Buck e in minima parte per la felicità del riscatto, ma quel sentimento era schiacciato con prepotenza dagli altri due. Scese in strada per provare a cercare Buck, ma rinunciò dopo aver gironzolato in zona tenendosi nascosto: era meglio farsi trovare a casa dai gemelli. Se avesse voluto tornare, poi, sarebbe andato verso casa.
L’ora dell’appuntamento arrivò e passò. Dei McMastiff non c’era l’ombra.
Iniziò a preoccuparsi, spostandosi da un lato all’altro del piccolo quadrato che gli offriva un incastro tra due edifici, parzialmente nascosto da una rete di metallo.
Finalmente vide qualcosa muoversi in fondo alla strada e si sporse appena dal suo nascondiglio per vedere se poteva uscire allo scoperto senza timore.
Sulla strada stava avanzando un furgone nero, lentamente e silenziosamente.
Chuck ebbe un tuffo al cuore.
Quello era un furgone usato dalle Squadre di Cattura.
Indietreggiò velocemente, schiacciandosi contro il muro, stringendo il borsone tra le gambe e coprendosi la bocca con le mani, nel tentativo di coprire il suo respiro.
Avevano detto che non si sarebbero mossi prima di qualche giorno.
Cosa ci facevano lì?
Era solo una pattuglia di passaggio oppure stavano cercando lui e suo cugino?
Buck stava bene o lo avevano già preso?
Dove diavolo si erano cacciati i McMastiff?
Sentiva appena il furgone continuare a muoversi, sempre più vicino, e decise che non poteva sopportare l’attesa di scoprire se erano lì per lui o meno.
Si buttò il borsone in spalla e iniziò a correre nella direzione opposta alla macchina, da dove stava arrivando.
Non appena si fu allontanato di qualche metro dal suo nascondiglio, sentì il rumore di freni dietro di lui e la veloce inversione di marcia della macchina.
-Oh no oh no oh no oh no. – pensò buttandosi alla cieca alla ricerca di un nascondiglio –Non è possibile che sapessero che ero lì e mi stavo muovendo, no no no. -.
Invece, a giudicare dal rumore, sembrava seguire proprio lui.
Prese delle scale che portavano sotto uno dei numerosi ponti che permettevano di attraversare il fiume che tagliava a metà la città, sperando che nessuno lo avesse visto.
Tornò ad accucciarsi nell’ombra, cercando di regolarizzare il respiro ed essere silenzioso.
Sopra di lui sentì il ponte tremare e una macchina fermarsi.
-È qua sotto, vediamo di fare in fretta. -.
Taylor li aveva avvertiti, gli aveva detto di andarsene. Il perché di quel gesto ancora gli sfuggiva, ma avevano sprecato un’occasione che non si sarebbe più ripetuta. Sperava solo che Buck fosse al sicuro, lontano da lì.
Chiuse gli occhi e iniziò a mormorare una preghiera muovendo solo le labbra.
Ora che ci pensava non pregava da quando era entrato al Mattatoio.
All’improvviso uno schianto sul ponte lo fece trasalire. Guardò in alto, ma non stava crollando la struttura, non c’era neanche una crepa nel cemento.
Subito seguirono urla e rumori di lotta.
Spaventato, uscì dal suo nascondiglio, iniziando a correre lontano dal ponte, girandosi solo per un attimo per guardare cosa stava succedendo.
Il retro del furgone nero delle Squadre era completamente distrutto, accartocciato contro un’auto che non riconobbe. Non riconosceva neanche gli individui senza la divisa nera e rossa di Regina che stavano combattendo quelli che invece la indossavano.
-Meglio andarsene, ora che sono impegnati. – pensò, distogliendo lo sguardo per guardare dove andava.
Sulla banchina che costeggiava il fiume davanti a lui stava avanzando un altro furgone nero.
Si bloccò immediatamente, paralizzato.
Non poteva scappare da nessuna parte ormai: tornare indietro neanche per sogno, a destra aveva un muro senza appigli a cui arrampicarsi e a sinistra un fiume che non poteva attraversare perché non sapeva nuotare.
Il furgone avanzò a velocità folle e gli passò accanto. Dal portellone spalancato sul fianco una mano lo afferrò per il braccio e lo caricò su, sbattendolo contro il pavimento.
Sferrò un calcio alla cieca quando la stessa persona che lo aveva preso gli mise un ginocchio in mezzo alla schiena, inchiodandolo a terra.
-Fermo Chuck, devo toglierti il chip del Mattatoio dal collo. -.
-Signor Rosco? -.
-Solo Rosco, grazie. – replicò il demone –Adesso stai fermo e stringi i denti per un attimo. -.
Non poteva vederlo, era dal suo lato cieco, ma non c’erano dubbi che quella fosse la sua voce.
Solo in quel momento si rese conto che alla guida del furgone c’era Madison, che stava litigando con Carlo.
-Madison gira! -.
-E dove, nel fiume?  Si va dritto e la prossima volta guidi tu questo trabiccolo! -.
La paura che gli annodava lo stomaco si sciolse subito.
Era al sicuro.
Una fitta al collo gli fece fare un gridolino e subito sentì del sangue colargli nella maglietta.
-Superficiale, che fortuna. – commentò Rosco –Avresti potuto togliertelo da solo grattandoti fino nella carne. -.
Il demone gli si tolse di dosso e tornò al portellone ancora aperto, buttando fuori qualcosa che Chuck non riuscì a vedere.
-Cos’era? -.
-Un chip. Ve lo hanno messo al Mattatoio, ricordi? -.
-Credevo ci avessero fatto un segno per riconoscerci. – mormorò Chuck portandosi una mano dietro al collo, sfiorando l’attaccatura dei capelli sulla nuca umida.
-Non toccare, ti fascio subito. Risparmia le energie. -.
-Chi erano quelli sul ponte? -.
-Non ne abbiamo idea. – rispose Carlo –La Resistenza probabilmente. Non abbiamo idea di come facessero a sapere che stavano per prenderti. -.
-E loro… le Squadre perché sono arrivate così presto? Avevate detto in un paio di giorni. -.
-Perché Buck ha spifferato tutto. Ahio, ma che ho detto? -.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 13: Chi si volta è perduto ***


CAPITOLO 13
Chi si volta è perduto

 
Fumare lo aiutava a pensare e pensare in quel momento era molto importante. Espirò il fumo azzurrognolo della Chesterfield rossa che si teneva fra le labbra con un gesto nervoso, scrollando senza volerlo la cenere, e osservò le spirali risalire verso il soffitto in curve contorte e a modo loro sinuose.
I gemelli McMastiff lo avevano beccato. Aveva accuratamente evitato qualsiasi altro demone per quanto poteva per il puro scopo di non farsi riconoscere e proprio quei tre doveva andare a incontrare.
Strinse le dita sulla sigaretta, trattenendo a stento la voglia di ringhiare. Rivedere Carlo era stato come ricevere uno schiaffo: lui e Alan erano davvero due gocce d’acqua.
La copertura era quasi saltata, ma di sicuro adesso i suoi compagni si sarebbero fatti due domande sul perché li conosceva. Sperò vivamente che non si ricordassero nome che avevano usato i McMastiff.
In più aveva Andrea fra i piedi. Altro che lasciargliela, Elen aveva subito mandato il suo braccio destro a recuperarla, non per tenerlo d’occhio e basta.
Doveva andarsene di corsa e togliere di mezzo l’angelo prima che tornassero alla carica.
La porta dello studio si aprì e Matisse e Andrea entrarono, guardandolo come se fosse un animale in gabbia.
 Cosa che tra l’altro si sentiva.
-Stai bene Milord? – chiese Matisse, preoccupata –Sei tanto pallido… -.
-Chi se ne frega di come sta lui. – fece Andrea, avvicinandosi alla scrivania dietro la quale lui era seduto, sbattendoci una mano sopra –La prossima volta che cerchi anche solo di sfiorare Raven io ti giuro che te la faccio pagare. -.
Per tutta risposta Milord gli soffiò addosso una nuvola di fumo: -Che paura Valentine. Già che ci sei, perché non tieni d’occhio la mocciosa, in modo che non si faccia davvero del male? -.
-Basta litigare. – implorò Matisse con tono esasperato –Dobbiamo trovare una soluzione a questo problema: sanno dove siamo. -.
-La soluzione è semplicissima Matisse. – disse Milord –Leviamo le tende da qua. -.
L’angelo tarpato annuì dopo un attimo di ragionamento, l’altro chiese: -E dove? -.
-Ho un posto mio. – rispose il mezzo demone –Neanche i ragazzi sanno dov’è. In più, in caso di emergenza, ho un asso nella manica per quel posto nel caso succeda qualcosa di grave. -.
-Oppure potremmo andare alla Resistenza. -.
Milord guardò l’angelo e desiderò tanto di potersi alzare e chiudergli la bocca con un pugno.
-No. -.
-Ma... perché no? – domandò Matisse, incerta, tormentandosi un ciuffo di capelli con le dita –Noi siamo stanchi di scappare. Abbiamo trovato la Portatrice, potremmo andare ormai. È un posto sicuro. -.
Il mezzo demone spostò lo sguardo su di lei, che però non dimostrò segno di paura alla sua visibile irritazione: -No. -.
-Sono sicuro che hai un’ottima motivazione per questo. -.
Quel pugno gli prudeva incredibilmente.
-Fatti gli affari tuoi, angelo. La mia risposta è no, punto. Ho i miei motivi e solo a me interessano. Va bene così. -.
Matisse si strinse le mani sulla maglia e non disse niente. Ma lo sguardo nei suoi occhi azzurri gli fece capire che non era finita lì.
Conoscendola avrebbe cercato di indagare. Sperò vivamente che non andasse subito a chiedere ad Andrea e, nel caso, che quel dannato ficcanaso non le spifferasse tutto.
-Quando andiamo? -.
-Il prima possibile Matisse. Fai un paio di telefonate per chiudere questa baracca, quando avrai finito prepareremo le valige. -.
L’angelo annuì e fece per andarsene, ma la fermò subito: -Assicurati anche che Beast guarisca quel dannato strappo che ha sul collo. Non mi va che mi sanguini per la macchina. Sta bene? -.
Matisse storse la bocca e sibilò: -Invece che prenderlo a schiaffi potresti accertartene. -. Poi uscì dalla stanza accostando la porta.
Suo malgrado Milord si sentì avvampare.
Andrea fece una smorfia e lo riportò alla realtà: -Ehi, vedi di darci un taglio con questo atteggiamento zucchero: tanto prima o poi all’Inferno deve andare. -.
-Oh, sì, da Elen che fino ad adesso non ci ha fatto niente. – disse Milord prendendo una boccata dalla sigaretta –Vorrei evitare che torni tra le sue calde braccia protettive. È già abbastanza rovinata, direi. -.
-Ti ricordo che Raven è una persona. -.
-Ti ricordo che è l’unico modo per liberarci di una bomba ad orologeria. -.
Andrea assottigliò gli occhi color pervinca e minacciò: -Sai che nulla mia vieta di togliertela? -.
-Sbagliato mio caro amico ex alato: te lo vieta il fatto che ti spezzo le mani se anche solo ti azzardi. – rettificò Milord spegnendo la sigaretta e incenerendola –Se vuoi continuare a tenerla d’occhio come un bravo zietto e basta fai pure. Altrimenti levati di torno se hai intenzione di mettermi i bastoni tra le ruote. Dillo pure ad Elly se ti preme tanto la questione: chissà se ti crederà. -.
L’angelo arricciò il naso e uscì silenziosamente scuotendo la testa.
Quando più tardi Matisse fece capolino dalla porta facendo un cenno affermativo con la testa, si alzò dalla poltrona e andò a cercare gli altri.
Erano tutti in salotto, probabilmente li aveva radunati Andrea senza spiegare il perché, a giudicare dallo sguardo interrogativo che tutti gli lanciarono.
Beast aveva un bel cerottone bianco sul collo, che andava già macchiandosi, ma non sembrava darci peso o che gli facesse male. Raven invece lo guardava con un’ostilità pari a quella che aveva visto in pochi conoscenti fino a quel momento e, ai tempi, era rivolta a delle persone che anche lui odiava.
-Che sia diventato come loro? – pensò, evitando il suo sguardo rancoroso. Si schiarì la voce e disse: -Ce ne andiamo. Fate le valigie, avete mezz’ora. -.
Lasciò la stanza senza guardare nessuno.
Raven restò immobile sul divano mentre tutti gli altri si alzavano e seguivano Milord.
Fare le valigie e andare via? Che diavolo, stava scherzando?
Balzò giù dal divano e seguì Milord su per le scale, superando gli altri di corsa, esclamando: -Non puoi dire sul serio! -.
-Oh, eccome. – obbiettò Milord –Sanno dove siamo e adesso ce ne andiamo al sicuro, dove tu non potrai essere rapita. -.
-Questo è un rapimento! – ribatté furente la ragazza cercando di tagliargli la strada per fermarlo e parlargli in faccia –Non puoi costringermi a seguirti! Ho acconsentito a restare qui e solo qui! -.
-Non essere ridicola Portatrice. – replicò Milord spostandola di lato –Le scorte non rapiscono, proteggono. Va a prendere i tuoi stracci senza protestare troppo o ti lego e ti trascino in macchina. -.
Avrebbe voluto provare a protestare ancora un po’ e cercare di convincerlo che non era il caso di andarsene addirittura, ma lui sparì nella sua camera da letto sbattendogli la porta in faccia.
Raven cercò Andrea con lo sguardo ma lui fece segno di diniego con la testa e sparì.
-Vorrebbe dire che devo adattarmi? – pensò –No, col cavolo che mi adatto, questo è troppo! -.
Cercò Jaguar e lo trovò intento a controllare il contenuto di una valigia, inginocchiato sul pavimento, mentre Raquel sul letto ne riempiva un’altra senza piegare i vestiti.
-Jaguar, non voglio andare. – disse tirandolo per una manica –Non c’è un’altra soluzione? -.
-Questa è la più logica Raven. – rispose Jaguar interrompendo il suo lavoro per un attimo –Avremmo dovuto andare via già quando ci hanno scoperto i Faoil. Non preoccuparti, andrà tutto bene. -.
Tornò ad occuparsi della sua valigia, chiudendola e tirandola su per la maniglia. Raven gli prese il polso e lui perse la presa per la sorpresa di quel gesto.
Con le lacrime agli occhi Raven esclamò: -Ma io non voglio andarmene! Mia madre potrebbe tornare prima e… non voglio! Non so neanche se posso aiutarvi, non so come si fa! -.
Jaguar tentennò vedendo che la ragazza non era solo spaventata dall’idea di andare dove neanche lui sapeva la destinazione ma era preoccupata per mille altre cose. Forse non avrebbero mai dovuto chiedere il suo aiuto per una cosa che a dire il vero nemmeno lui sapeva come risolvere.
Ma lei era pur sempre una chiave importante per il loro scopo.
Le appoggiò le mani sulle spalle e la guardò negli occhi con dolcezza dicendo: –Non devi preoccuparti Raven, non ti accadrà nulla di male. Adesso verrai con noi. Devi stare tranquilla Raven, tranquilla -.
La ragazza non cercò neanche di sottrarsi. Un lampo giallo aveva illuminato per un attimo lo sguardo verde del mezzo demone e da quel momento la sua voce le riempì la testa. Non potè pensare ad altro.
Jaguar ripeté quello che stava dicendo finché gli occhi della ragazza non diventarono un po’ appannati e spenti. Le tolse le mani dalle spalle e le chiese se avesse capito, cosa a cui lei annuì in silenzio.
Lui la fece voltare e le diede una spintarella verso la porta incoraggiandola a fare come loro, prendere il suo zaino e seguirli senza preoccuparsi. L’umana annuì di nuovo e si avviò meccanicamente fuori dalla stanza diretta alla sua.
Il mezzo demone sospirò frustrato e riprese il bagaglio ignorando con durezza la mano di Raquel appoggiata sulla sua spalla. Uscirono anche loro fuori dalla casa dove ormai erano tutti riuniti per la partenza. Milord si avvicinò Raven, constatando: -Siamo molto più collaborativi vedo, mi sorprendi. -.
Poi notò il suo sguardo e gli schioccò le dita davanti al naso.
-Che le prende? – chiese guardando gli altri. Individuata l’espressione colpevole dell’altro mezzo demone disse: -Era ora che ti decidessi a sfruttare le tue capacità demoniache. -.
Lasciò perdere il ringhio sommesso dell’altro e si rivolse a loro seccamente: -Per arrivare alla baita ci divideremo nella prossima regione, al casello: Andrea, tu e Raquel andrete a ovest, Jaguar tu e Matisse a est, io e i due impiastri proseguiremo dritto. Dobbiamo depistare il più possibile, capito? Vi darò le indicazioni per messaggio, memorizzate e cancellate. Tutto chiaro? -.
Alla risposta affermativa generale accompagnò la ragazza dentro la sua auto e partirono.
 
***

Matisse notò subito che suo fratello era nervoso da come stringeva il volante dell’auto infilzandoci dentro le unghie. Sapeva anche per cosa.
Mentre cambiava la marcia per rallentare l’andatura del veicolo gli appoggiò la mano sulla sua. Adorava vedere come la sua carnagione era in contrasto con quella del fratello, l’una chiara e l’altra scura, come le dimensioni. In più le mani di Jaguar erano dure e callose per il lavoro e le sue invece erano lisce come quelle di una bambina.
-Guarda che usare l’Honesty non è una brutta cosa. – azzardò.
Il latino-americano sospirò pesantemente e rispose: -È una cosa che costringe le persone a fare cose che non vorrebbero. Raven non voleva lasciare la città ed io l’ho manipolata. È come se ti costringessi ad abbandonarmi con un bel sorriso e qualche parola veritiera Matisse. -. 
I suoi felini occhi verde giada si posarono sui suoi azzurro cielo con serietà.
Lei comprendeva che si sentisse a disagio ad usare quel particolare potere demoniaco: l’Honesty era un potere che apparteneva solitamente alle persone oneste che con parole gentili e veritiere potevano condizionare le azioni degli altri, come in quel caso convincere una ragazza a seguirli lontano di casa senza fare storie per qualche ora. L’effetto sarebbe poi svanito, non era eterno, a meno che non si continuasse ad esercitarlo con costanza sul soggetto.
Non ritrasse la mano dalla sua ma strinse un poco la presa.
-Jag… - disse –Non avrai paura di diventare come un demone completo? -.
-È una leggenda, non posso diventare completo. Ma farlo mi fa sentire come uno, sì. – ammise lui con riluttanza.
-Non tutti i demoni sono cattivi. -.
-Ma tutti messi alle strette hanno un animo cattivo. Non voglio diventare una bestia come… - si zittì. Tolse la mano dalla marcia e la rimise sul volante –Più cedo alla mia parte demoniaca più sento di somigliarci. -.
L’angelo sapeva a chi lui si riferiva e disse: -Non sarai mai come lui Jaguar. Tu sei la persona più brava del mondo, non sei e non sarai mai un mostro, non finché avrai noi come famiglia che ti vogliamo bene. L’Honesty è un dono che non ha solo risvolti negativi. -.
-Matisse per favore adesso basta. – tagliò corto lui –Non parliamo più di queste cose. -.
L’angelo rimase in silenzio, offesa per il suo tono brusco di cui subito lui si pentì. Le prese la mano e la mise sotto anche se non c’era bisogno che cambiasse marcia.
-Mati, scusa, ma lo sai che questo argomento mi innervosisce. In più ci siamo divisi esattamente in tre, il perfetto numero per farsi inseguire da tre fratelli: Beast è con Milord grazie al cielo, non so se riuscirò a proteggerti contro un demone completo e Raquel è con Andrea… avrei dovuto portarla con me… -.
A quell’ultima frase Matisse sbuffò scocciata e ritirò la mano da sotto la sua incrociando le braccia.
Jaguar non se ne accorse perché nello specchietto retrovisore vide qualcosa che al momento era molto più preoccupante di aver lasciato la sua ragazza in compagnia di un angelo che a ben pensarci era perfettamente capace di proteggerla.
Accelerò bruscamente facendo schizzare la lancetta del tachimetro dall’altra parte del quadro e chiese: -Hai la cintura ben allacciata? -.
-Che succede? -.
-Madison e sembra di pessimo umore. -.
Il rumore di uno scoppio accompagnò la loro sbandata verso destra a cui Jaguar dovette mettere rimedio con una sterzata, che fece girare l’auto come una trottola sulla strada sgombra. Quando si fermarono erano completamente girati dalla parte opposta e con il fiatone.
Il mezzo demone si slacciò la cintura e scese dall’auto ordinando alla sorella di non scendere per nessun motivo. La ruota posteriore dalla sua parte era squarciata, mancava un pezzo, completamente inutilizzabile.
Madison, seduto sul tettuccio dell’auto con le braccia appoggiate alle ginocchia ridacchiò: -Non si fanno più i copertoni di una volta, eh? – stringendo fra i denti il pezzo di gomma nera mancante per poi sputarglielo ai piedi.
Jaguar indietreggiò e rispose: -Già, devono ancora farli a prova di demone. -.
Merda, proprio quello che fra i tre era il più pericoloso doveva toccargli! Guardò preoccupato Matisse, spaventata quanto lui dal demone. Doveva inventarsi alla svelta una soluzione per aggirarlo e scappare. Sarebbe stato costretto ad usarle l’Honesty di nuovo. Ma con Madison non gli sarebbe spiaciuto affatto usarlo.
-Calmo amico, possiamo parlarne? -.
-Di cosa dovremmo parlare? – chiese lui saltando giù dall’auto ed appoggiandosi pesantemente ad essa tanto da spostarla di qualche centimetro indietro –Se vuoi saperlo sono qui per prendere solo un ostaggio nel caso che mio fratello non prenda la Portatrice. Sai, mi prenderei volentieri questo bel faccino qui dietro. – disse indicando dietro di sé Matisse, rannicchiata sul sedile –Di certo sarebbe molto più facile da prendere e tenersi stretti durante una contrattazione, non so se mi spiego. -.
Jaguar perse per un attimo la calma. Sibilò: -Tieni le mani lontano da mia sorella. -.
-Se quella è tua sorella mi mangio ruota e cerchione. – disse lui dando un colpo di tacco al suddetto –Ma perché no? Nel caso andasse male, ci sono demoni che la pagherebbero a peso d’oro pur di potersi portare a letto una cosina carina come quella che ti tieni tutto per te. Oppure potrei lasciarla a mio fratello se la cosa ti farebbe star tranquillo: Rosco è gentile con le ragazze. -.
Lo stava provocando e ci stava riuscendo perfettamente. Ma non poteva perdere le staffe proprio in quel momento: per usare l’Honesty doveva essere calmo e sorridente, non dare peso alle sue parole provocatorie. E soprattutto avvicinarsi.
Ma come poteva avvicinarsi a quel demone senza spingerlo ad attaccarlo? Giocare d’astuzia non era esattamente il suo forte. E se invece avesse usato le stesse carte dell’avversario? Poteva provare, Milord si era lasciato sfuggire più di una volta che quello era il testa calda del terzetto.
Si coprì la bocca con la mano e ridacchiò divertito.
-Cos’hai da ridere tanto? -.
-Oh scusa, ma mi pare proprio giusto che tra me e lei tu scelga di prendertela con una ragazzina. -.
Aveva chiaramente risvegliato l’attenzione del demone.
-Cosa? -.
-Sai, io posso capire che qualunque lavoro sia stressante, ma scegliere di prendersela con un angelo che peserà pressappoco come una piuma… hai paura di me? -.
-Senti ciccio, Carlo mi ha detto che se posso evitare di fare un occhio nero a qualcuno, devo stare con le mani a posto. – rispose lui con uno sbuffo irritato –Non ti conviene farmi incazzare. -.
-Oh, capisco. Quindi fai tutto quello che dice il fratellone? Dimmi, di solito che comanda è uno forte e intelligente, vuol dire che sei un po’ tardo? -.
Decisamente aveva fatto centro perché Madison si staccò dall’auto e gli andò incontro con passo pesante.
-Ascoltami bene ragazzino… -.
Quando fu abbastanza vicino Jaguar lo guardò negli occhi e sorrise: -Calmati. Perché non torni dai tuoi fratelli? Nessuno si farà male così, non credi? Basta che ti allontani e nessuno si farà male. Tuo fratello ne sarà contento. Va tutto bene, allontanati. -.
Il demone si fermò a pochi passi da lui, con gli occhi che andavano appannandosi come quelli di Raven non appena aveva usato l’Honesty.
Stava funzionando.
-Hai ragione…? - borbottò, incerto. Fece qualche passo andando dietro a Jaguar come per andarsene, facendo tirare a quest’ultim0 un sospiro di sollievo.
Aveva appena cantato vittoria che Matisse picchiò sul vetro ed indicò dietro di lui in tempo per farlo voltare e fargli vedere un bel pugno schiantarsi contro la sua faccia.
Madison si massaggiò il pugno con un sogghigno soddisfatto a vedere l’avversario steso per terra con il naso sanguinante. Si avvicinò e gli diede un calcio nel fianco facendolo sbattere contro la ruota scoppiata.
-Davvero pensavi che non sapessi resistere al tuo Honesty? – sogghignò –Sei patetico, per stordire un demone della mia risma dovresti essere molto più forte. Visto che ci tieni così tanto a vedertela con me, preparati. -.
 
***
 
Andrea si spostò i capelli dalla fronte e guardò il lungo rettilineo che lo attendeva. Amava le strade senza curve ma solo se c’era un paesaggio degno di essere visto. In quel momento era solo una landa tutta uguale di campi coltivati.
Monotoni.
Quanto odiava la parola monotono. Lo riportava alla sua famiglia…
-Mi hai sentito? -.
L’angelo si riscosse dai suoi pensieri malinconici e riportò la sua attenzione sulla sua passeggera.
-Dicevi zuccherino? – chiese.
-Perché se parlo io nessuno mi ascolta? -.
-Stavo pensando. Puoi ripetere? -.
-Stavo chiedendo dove stiamo andando. -.
-Al rifugio di Milord. Credo che sia l’unica casa che gli è rimasta. -.
-Ha perso i suoi genitori come me? -.
-Non esattamente. – scosse la testa Andrea –Ma è una storia molto lunga da raccontare. -.
-Ah. E non ti va di raccontarla? Il viaggio sarà luuuungo… - piagnucolò Raquel allungando le gambe davanti a sé.
-Sai quanto mi piacciano i pettegolezzi ma è una storia che io non posso raccontare. – disse l’angelo a malincuore perché, appunto, amava le storie piene d’amore, colpi di scena, gelosia e amicizia come era quella della vita di Milord. Ma se mai lui avesse saputo che andava in giro a spifferare le sue origini avrebbe avuto la sua ricompensa in botte ed era giusto farsi gli affari propri, dopotutto.
E poi non voleva divulgare troppe cose sul conto di quel demone a questa ragazza, leggermente sospetta per i suoi gusti. Certo, era effettivamente la ragazza di un rivoluzionario al cento per cento, ma c’era qualcosa che gli puzzava sotto e che non sapeva spiegarsi…
Tornò a guardare la strada e dovette inchiodare di colpo perché ad una ventina di metri dall’auto c’era una persona piantata in mezzo alla corsia e alla velocità a cui andavano era impossibile evitarlo. Il freno non sembrava abbastanza così dovette anche sterzare, evitando per un soffio quella persona.
L’angelo tirò il freno a mano e uscì fuori dall’auto, preoccupato e arrabbiato: -Ehi, che crede di fare?! Vuole farsi ammazzare?! -.
Ma invece che corrergli incontro e prenderlo a schiaffi per la sua stupidaggine fece solo il giro della macchina, finendo dalla portiera del passeggero. Quella non era una persona normale.
Era un demone.
Rosco per la precisione.
E dannazione aveva lasciato la pistola nella borsa in macchina.
-Ancora noi due eh? Che piacevole coincidenza. – commentò il demone incrociando le braccia con un sorriso divertito.
-Piacevolissima… - commentò a sua volta Andrea.
Da solo con un demone completo e una mezzo demone. Come poteva andare peggio?
-Bravo, idiota, lascia la pistola in macchina, chi vuoi che sia quel tizio che casualmente si piazza nel mezzo della strada proprio quando stai scappando? Chi ti vuole fermare, ovvio. – pensò Andrea con i sudori freddi che gli pizzicavano il corpo –Avresti dovuto investirlo. -.
Come poteva cavarsela?
Chiedere a Raquel di passargli la pistola dal finestrino? Certo, se voleva guadagnarsi un calcio nei denti. Prenderla direttamente lui? Stesso risultato. Mandare avanti Raquel per avere il tempo di procurarsi un’arma? Poteva farcela ma se succedeva qualcosa alla ragazza di Jaguar non se lo sarebbe ami perdonato.
Era egoistico pensare una cosa del genere ma forse era meglio se Jaguar si fosse tenuto la sua ragazza e lo avesse lasciato da solo contro un demone. Se almeno avesse avuto ancora le ali avrebbe potuto fare molte altre cose, mentre adesso aveva solo la sua buona mira e qualche potere inutile. Anzi, magari lo Charm poteva essere più che utile ma non aveva voglia di usarlo.
Giocare d’astuzia con lo stratega di quel terzetto di fratelli poi…
Per sua immensa fortuna la donna se ne stette tranquilla tranquilla in macchina, nascosta. Era meglio così in fondo.
-Non sono armato. – lo informò Rosco mettendo le mani in bella mostra ed agitando le dita per mostrare che non aveva niente –Mi sembra ingiusto che siate in due contro uno e per di più armati. Chi c’è lì con te, Raven? -.
Allungò il collo e cercò di vedere chi si era nascosto in macchina.
-Hai sbagliato macchina tesoro. – disse ad alta voce Andrea mettendosi tra lui e il mezzo –Siamo solo io e te. -.
-Uh, sembra che tu stia offrendo un appuntamento. -.
-Una pacifica trattativa piuttosto. – rispose Andrea ignorando il suo sorriso –I tipi come te non sono proprio i miei preferiti. -.
Rosco fece spallucce, dondolandosi sui talloni.
La pistola era definitivamente irrecuperabile, visto che Raquel sembrava terrorizzata: chiederle di passargliela era inutile. Se non aveva mentito sul fatto che non aveva armi con sé aveva una possibilità di sopravvivere in caso di scontro diretto.
Fece un passo alla sua destra e l’altro ne fece uno a sinistra. Più o meno la distanza fra loro due erano cinque metri. Di girare in tondo per farlo avvicinare alla macchina era fuori discussione. Perciò rimise a posto il piede e si arrovellò il cervello. Con Raquel in mezzo non poteva fare niente.
Spostò una mano dietro la schiena e le fece dei segni. Non sentendo il rumore della macchina messa in moto li ripeté finché il furgone non sfrecciò accanto a loro.
Il demone non la seguì se non con lo sguardo, rimanendo fermo dov’era. Anche se fosse stata Raven lo avrebbe ignorato?
L’angelo si ritrovò a dire sollevato: -Allora il tuo obbiettivo non era lei. -.
-Mi hanno detto di prendere un ostaggio, ma sinceramente non ho affatto voglia di fare a botte. –rispose infilandosi le mani in tasca –Sono sicuro che Carlo riuscirà a prendersi la ragazza e la porteremo alla Resistenza. -.
Non credeva alle sue orecchie: portarla alla Resistenza? Avevano già detto che non avrebbero portato Raven a Regina, ma poteva essere un trucco.
-Ma non lavorate per Regina? – chiese.
-Siamo scappati. – rispose lui -Vogliamo unirci alla Resistenza ma… -.
-Con il vostro ruolo svolto per la sovrana non trovereste mai posto. – completò Andrea.
-Molto arguto. – si complimentò lui.
-Semplice ragionamento. – minimizzò l’angelo –Siete sicuri di farcela? Milord non lascerà mai andare la ragazza tanto facilmente, piuttosto vi stacca la testa, voi, i suoi migliori amici d’infanzia. -.
Questa volta fu il turno di Rosco di essere sorpreso da quelle parole, spalancando gli occhi rossi e domandando: -Come fai a saperlo tu? -.
Incrociò le braccia e disse: -Storia vecchia. Raccontata da una vostra altrettanto vecchia amica. -.
Il demone dovette ragionarci un attimo su questa frase e collegare un paio di pezzi ad un puzzle che creò sul momento, fatto di sospetti, ricordi ed intuizione.
-Ti serve una mano zuccherino? – continuò Andrea unendo pollice ed indice delle mani tra di loro per formare due ovali ed unirli, agitando le dita separate.
Rosco riconobbe immediatamente il simbolo della Resistenza e si lasciò sfuggire una domanda retorica: -Tu fai parte della Resistenza? Pensavamo fossi solo uno che non volesse parlare.– alla quale l’angelo rispose con un cenno d’assenso del capo.
In un battito di ciglia Rosco si avvicinò a lui e lo prese per le spalle: -Portaci da lei, ti prego. -.
Aveva capito che non intendeva attaccarlo, ma per lo spavento si aggrappò comunque alle sue grosse braccia allenate, toccando qualcosa che non era affatto un braccio. Assottigliò gli occhi color pervinca e sibilò: -Potrei. Ma io, come lei, non mi fido di voi. A cominciare dal fatto che prima hai mentito. – abbassandogli la manica della maglia per scoprire uno stiletto dalla lama perfettamente affilata –Bugiardo. -.
Rosco alzò gli occhi al cielo e sospirò, per poi tornare a fronteggiare gli intelligenti occhi dell’angelo: -Non lo avrei usato, è come non averlo. -.
-Peccato. Mentire a volte sembra la via più facile da prendere per facilitarsi le cose, ma alla fine è la cosa che ti inguaia di più. Sai, avrei potuto crederti e rischiare che non solo nascondessi questo nella tua manica, ma anche cattive intenzioni. – disse Andrea puntando un dito sotto il mento del demone per fargli alzare il viso.
-Posso dire una verità adesso, se mi tira fuori dai guai: i tuoi occhi sono la cosa più bella che abbia mai visto. -.
Andrea gli stampò le dita sul volto in uno schiaffo secco, mirato a fargli bruciare la guancia per un pezzo, e lo oltrepassò, dicendo: -Lasciate stare la ragazza. Se volete entrare nella Resistenza, la chiave sono io. Convincetemi e avrete le porte aperte. E avete già giocato male parecchie carte, miei cari McMastiff. -.
 
***
 
Le sembrava di avere la testa invasa dalle parole gentili di Jaguar, frasi che sostituivano prepotentemente ogni singolo pensiero che le passasse per la mente per sostituirlo e prendere il suo posto.
A poco a poco quelle frasi smisero di combattere i pensieri e scomparvero, lasciando a loro il posto. Cominciò a sentire anche altre voci, che somigliavano molto a quelle di Beast, che chiedevano “secondo te quanto resterà rimbambita?” o “quanto ci vuole ancora?”, e di Milord, che rispondeva.
Perciò si chiese: -Ma dove sono? -.
Non si ricordava come fosse finita in auto… era rimasta alla partenza improvvisa e nella camera di Jaguar. Poi le sue parole gentili, i suoi occhi verde giada che la guardavano in modo magnetico e… nebbia.
Si portò una mano alla testa e si massaggiò la fronte con una smorfia mentre alle narici le arrivò odore di sigaretta.
Davanti a lei sentì una voce familiare in risposta alla sua domanda: -Sei in macchina, stiamo andando a Pine Silence. Siamo a qualche stato di distanza da casa tua. -.
Dunque erano partiti. Troppo tardi per tentare di restare nella sua città in attesa della madre.
-Tutto bene? – chiese Beast dal sedile del passeggero, girandosi a guardarla.
-Vi odio. – sussurrò la ragazza e Beast tornò a girarsi verso la strada con espressione spaventata.
-Oh, povero me, come farò a sopravvivere sapendo questo? – commentò sarcastico Milord con il suo solito tono atono –Ascoltami bene Portatrice... -.
-Raven. – lo interruppe.
-Portatrice. – ribadì con durezza –Abituati. Ci servi e se sei in pericolo di vita scappiamo. Chiaro? O vuoi che ti torcano quel bel collo? Prima o poi ti ci abituerai. -.
-Dai un po’ troppe cose per scontato. -.
-Ritieniti fortunata che do le cose per scontato o a quest’ora avrei preso il prezioso cuoricino dal suo prezioso contenitore e starei chiamando Portatrice una borsa frigo. Per cui evita i piagnistei, che m’innervosiscono. -.
Raven decise di stare zitta solo per il momento. Arrivati a questo famoso Pine Silence, oh… l’avrebbero sentita. Questo era sequestro di persona! Altroché! Demoni o no gliene avrebbe cantate! E avrebbe detto tutto alla mamma! Va bene, minaccia infantile, ma pur sempre una minaccia.
Al puzzo di sigaretta si aggiunse uno strano odore molto più fastidioso del fumo, come di zolfo.
Milord alzò lo sguardo nello specchietto retrovisore e sbuffò una nuvola di fumo con fare infastidito.
-Chi ti ha detto di salire in auto? – mentre Beast prese a ringhiare, girandosi nuovamente.
Raven stava per chiedere se aveva preso l’alzheimer o se il fumo gli aveva invaso completamente la testa come le parole gentili di Jaguar avevano riempito ed offuscato la sua, quando qualcun altro parlò al posto suo, accanto a lei, con tono disinvolto: -Non mi saluti vecchio mio? -.
L’umana si voltò nella stessa direzione di Beast e si trovò a sinistra Carlo, appoggiato alla portiera con la schiena e un gomito appoggiato sullo schienale dietro di sè, che visto il suo sguardo la salutò con un cenno della mano e un sorriso a cui lei non rispose.
-Non so perché mi saluti in questo modo. – disse Milord.
-Ma non ricordi? Eravamo amici d’infanzia noi. -.
-Amici? – ripeterono Raven e Beast.
Milord serrò le labbra tanto quasi da sbiancarsele e buttò la sigaretta dallo spiraglio del finestrino aperto. L’umana poté vedere un riverbero rosso guizzare sull’argento della sua iride solo per un secondo nello specchietto. Questa cosa le fece venire la pelle d’oca dalla paura.
-Per quello che mi riguarda adesso siamo conoscenti e nemici. – si arrese il mezzo demone, smettendo di far finta di non conoscere l’altro.
-Anche se avessimo lasciato il posto da Guardia Reale? – chiese Carlo sporgendosi veros il suo sedile, cosa che fece riprendere Beast a ringhiare.
-Anche se lo avete fatto. – confermò Milord mettendo una mano sulla faccia al ragazzo per farlo smettere –Non pensare che cambi idea. -.
-Ti conosco abbastanza da sapere che sei un testone irremovibile. -.
Il demone provò a sorridere per sottolineare che era una battuta, invece ottenne un ringhio infastidito e un nuovo riflesso rosso negli occhi.
-Sei venuto per prendere la Portatrice? Preparati ad una brutta sorpresa perché non ve la cedo affatto. -.
-Da solo sappi che non puoi farcela a sconfiggere Regina. È impossibile o l’avremmo annientata noi dall’interno. Ci abbiamo provato… Lascia che la portiamo alla Resistenza, vieni anche tu. -.
Il mezzo demone si rivoltò come una vipera: -Voi non dovete intromettervi in quello che io voglio fare. -.
-Ti farai ammazzare, te e la tua combriccola. – ribatté Carlo alzando la voce a sua volta.
-La mia famiglia ha incasinato le cose e io le risolvo, non ti intromettere! – ribatté Milord alzando ancora la voce.
-Farai del male a Raven! –.
-Smettetela! -.
I due uomini si voltarono verso la ragazza esasperata dal loro tono di voce e dalla loro litigata.
-Sono confusa! Non capisco! Prima eravate amici, adesso no, tu che volevi rapirmi vuoi portarmi dalla Resistenza (che penso siano i buoni) e tu che in teoria mi hai salvato non vuoi portarmi dai buoni, la tua famiglia ha incasinato le cose e lui non vuole che mi fai del male! Qualcuno vuole dirmi che cosa sta succedendo?! -.
-Non ci sto capendo niente neanche io. – ammise Beast.
Carlo alzò un sopracciglio e chiese: -Non le hai detto nulla? -.
-Certo che no, non tutto. – rispose Milord con un gesto sdegnoso della testa che gli fece spostare diversi ciuffi disordinati dalla fronte.
-Deve sapere. -.
-Finalmente! – commentò l’interessata.
-No, nessuno le spiegherà un accidente. -.
-Milord ma… -.
-Zitto tu. -.
La nuova discussione fu interrotta nuovamente dalla puzza di zolfo che invase l’interno dell’auto e vicino a Raven apparve il fratello Rosco che salutò i presenti frettolosamente.
Il biondo gli chiese che cosa ci faceva lì e lui rispose: -Lascia perdere Raven. Ho trovato un nuovo modo per entrare nella Resistenza. -.
Si scambiarono un’occhiata ed il maggiore ordinò: -Vai a fermare Mad prima che mutili Jaguar o faccia qualcosa di peggio. -.
 -Volo. – gli assicurò lui facendo un comico saluto militare prima di scomparire e salutare Raven con un: -Sei diventata una signorina. -.
Il demone rimasto annuì e le appoggiò una mano sul capo al di sopra del poggiatesta del sedile scompigliandole i capelli con gentilezza, un gesto affettuoso che la stupì non poco. Insomma era o non era un demone che la voleva rapire meno di un giorno prima?
-Rosco ha ragione, sei cresciuta un sacco. Pensa, l’ultima volta che ti ho vista indossavi ancora una tutina azzurra da neonata. -.
-Che? -.
-Adesso basta. Fermo la macchina e ti faccio scendere a calci, tappati quella dannata bocca larga. -.
Carlo alzò le mani in segno di resa e lo tranquillizzò: -Me ne vado, me ne vado… -.
-Voglio sapere… - tentò di dire Raven ma un’occhiata di Milord la fece ammutolire.
Il demone le mise una mano sulla spalla: -Stai tranquilla Raven. Potremo parlarne con calma quando toglieremo le mani di questo mentecatto da te e riusciremo a farlo rinsavire. -.
-Prevedo che sarà tutt’altro che una cosa facile. – sibilò Milord accompagnando la scomparsa del biondo dalla macchina con il solito puzzo di zolfo. Si rivolse a Raven senza considerare minimamente la strada: -Parla di questa conversazione a qualcuno e ti elimino. Sul serio ragazzina. -.
Lei annuì, stranamente non perché era intimorita dalla minaccia, ma per ben altro motivo: capirci qualcosa di quell’assurda faccenda.
 
***
 
Aveva sempre provato una grande soddisfazione nell’impartire una lezione a qualcuno, una grande soddisfazione, soprattutto se quel signor qualcuno lo aveva ritenuto stupido o facilmente abbindolabile. E decisamente qualcuno come Jaguar, che aveva creduto di intontirlo con l’ Honesty, era il signor qualcuno perfetto.
Non avrebbe mai ammesso che all’inizio lo aveva quasi sconfitto, mai, ma quel sorriso e quegli ipnotici occhi verdi da felino predatore lo avevano quasi incantato. Per fortuna si era allenato spesso a resistere all’Honesty e allo Charm in particolare. Lo aveva colto peraltro di sorpresa.
Insomma, non era cosa da tutti i giorni che un mezzo demone avesse i poteri di un demone completo. Se mai si fosse allenato abbastanza avrebbe potuto migliorare fino a poter disorientare demoni al suo livello o anche più potenti.
Peccato però che non fosse ancora così preparato.
Almeno a combattere era valido, forte abbastanza da tenergli quasi testa.
Quasi.
Ora era a terra e quasi gli era dispiaciuto accanirsi contro di lui.
Forse non avrebbe dovuto morderlo alla spalla, strappargli i tessuti dell’avambraccio sinistro e rompergli il polso destro. Almeno lasciargli integro il naso.
Nel suo consueto momento di calma dopo essersi sfogato si era accorto che ci era andato giù un bel po’ pesante e quasi gli dispiacque.
Jaguar si puntellò sul gomito e sputò una boccata di saliva rosata. Anzi, rossastra.
-Ti arrendi micetto? – chiese.
Aprì e chiuse la bocca un paio di volte come un pesce in un acquario e temette di avergli spezzato la mandibola. Invece parlò, faticosamente, ma parlò: -Ci vuole di peggio per mettermi al tappeto. -.
Madison fischiò ed osservò: -Non ti reggi in piedi e fai comunque l’arrogante? Lasciamo perdere, così non faresti del male neanche ad una mosca. Prendo l’angelo e ci vedremo quando contratteremo per lo scambio, se sarai ancora vivo. -.
Gli diede le spalle e si diresse verso la macchina dove l’angelo era rimasto tutto il tempo pietrificato dalla paura. Sentì che l’altro si trasformava e se lo ritrovò davanti, una fiera malconcia e tremolante sulle zampe, una delle quali sferzò l’aria nella sua direzione con un artiglio rotto per poi riappoggiarsi a terra pesantemente.
-Finché mi reggo in piedi non toccherai mia sorella. -.
Lo trovò più patetico che coraggioso o determinato.
Con un gesto svogliato del piede gli fece perdere l’equilibrio in modo da farlo tornare buono buono a terra.
-Non ti reggi affatto in piedi, due o quattro zampe che usi. Un consiglio: allenati di più. E voi vorreste far la guerra a Regina? -.
Suo fratello maggiore apparve nel momento in cui la Pantera chiudeva gli occhi priva di sensi. Osservò il mantello nero lordo di sangue per poi spostare lo sguardo sul fratello appena impolverato e graffiato sotto l’occhio.
Si portò una mano alla radice del naso e prese a massaggiarsela con le dita borbottando: –Ti prego dimmi che è vivo. -.
-Se è fortunato rimane vivo per qualche ora. – rispose lui facendo spallucce –Prendiamo la biondina e andiamocene. Ho bisogno di una doccia. – commentò passandosi una mano fra i capelli per togliersi della polvere di dosso.
-Avevamo detto di tenerli solo impegnati e all’occasione prendere un ostaggio. – gli ricordò Rosco trattenendo a stento l’irritazione –L’hai quasi ammazzato deficiente. La missione è annullata, comunque, nuovo piano. -.
Rosco aprì la portiera del passeggero e Matisse arretrò spaventata reprimendo un singhiozzo. La vista di quella creatura che piangeva (da chissà quanto ormai) intenerì il demone.
-Non preoccuparti piccola, non ti farò del male e quel cattivone laggiù non alzerà più le mani né su di te né su tuo fratello, te lo prometto. Vuoi curare il fratellone? -.
-Non so come si fa. – rispose Matisse passandosi la manica della maglia sugli occhi per asciugarseli –S-se fossero ferite più leggere sì. -.
Rosco le porse la mano e disse: -Tranquilla. Sono un medico, ti aiuto. -.
-Sei davvero un medico? – chiese sospettosa.
-Non mi sono portato dietro il pezzo di carta, ma posso assicurarti che ho studiato per esserlo e sono capace a ricucire una ferita. Mi sembra il minimo. -.
L’aiutò a scendere dal macchinone e l’angelo corse da Jaguar inginocchiandosi accanto a lui. Passò la mano tremante sul graffio che aveva sulla fronte macchiandosi le dita di sangue, cercando di ignorare le ferite più gravi. Purtroppo le cadde l’occhio sul’ arto sinistro e per poco non vomitò.
-Sa curarsi da solo? – chiese intanto Rosco raggiungendola.
Lei annuì: -Forse si cura il polso da solo… e i graffi come questo. -.
-Non sai ricucire una ferita e tantomeno abbiamo il materiale. -.
-Figurati! Guarda com’è pallida, se resta ancora un po’ sviene per tutto questo sangue. – commentò sarcastico e sdegnoso Madison.
-E di chi è la colpa? – rispose Rosco.
-Sembri la mamma. -.
-E tu sembri papà quando si comportava da capra. Per cui zitto. -.
Dalla tasca posteriore dei pantaloni estrasse una scatoletta che diede all’angelo. All’interno conteneva una bottiglietta blu con un contagocce nel tappo.
-Cosa devo farci? -.
-È un estratto di Fiore del Diavolo: cura tutte le ferite che sanguinano. Non più di tre gocce sulle ferite gravi non più di una sulle meno gravi. Chiaro? Altrimenti la ferita brucerà e non garantirà una buona guarigione. -.
-Capito. -.
-Brava bambina. – si complimentò Rosco dandole una pacca gentile sulla spalla, a cui lei si ritrasse di scatto –Aspetta che riprenda conoscenza per spostarlo. Ma tanto è un pochino grande per te vero? -.     
Notando che l’angelo lo guardava con paura e rabbia, decise di lasciarla stare a curare il fratello e costrinse il suo ad aiutarlo a cambiare la ruota della macchina che aveva distrutto.                                            
Quando ebbero finito di sostituire la ruota, scomparvero e riapparvero a circa venti chilometri dalla baita di Milord, su un’altura dalla quale l’abitazione era perfettamente visibile, ma non loro, protetti da un roccione grigio.
Chuck aveva montato le quattro tende che avevano requisito alla fortezza ma non aveva acceso il fuoco come gli aveva ordinato Carlo, già in sua compagnia.
-Ha fatto qualche casino? – chiese con aria preoccupata.
-Sono arrivato in tempo. Previsioni? -.
Il mezzo demone si mise sull’attenti e rispose: -Il vento tirerà verso di noi per almeno due settimane per cui non potranno fiutarci. -.
 -Bravo. Adesso siediti che devo toglierti la fasciatura. A quest’ora la ferita deve essere guarita. – disse Rosco battendo una mano sul tronco d’albero che il fratello minore stava facendo rotolare accanto al cerchio di pietre dove avrebbero acceso il fuoco quella sera. Lui obbedì e si lasciò togliere le fasciature senza fare lamenti.
Il taglio sulla nuca era sparito, lasciando spazio ad una sutura fatta con fili azzurri stretti. Rosco la esaminò senza trovare traccia di infezione o fuoriuscita di sangue, per cui decise di toglierli.
-Voilà. Ancora una piccola medicazione e sarai come nuovo. -.
-Per l’occhio non si può fare proprio nulla? -.
-Mi spiace. – scosse la testa lui.
-Non fa niente. – sospirò Chuck toccandosi sopra la cicatrice.
La cosa che più gli faceva male era che suo cugino lo aveva tradito senza pensarci due volte. Nessuna anestesia al mondo avrebbe curato quel dolore che veniva dal più profondo del suo affetto per Buck.
I tre demoni percepivano il suo stato d’animo e decisero di lasciarlo stare: avrebbero peggiorato le cose cercando di consolarlo. Lo capivano.
Chuck mangiò la magra cena che si erano procurati prima di scappare dall’Inferno e rimase fuori a tenere d’occhio il fuoco, pensando a quando da bambini lui e Buck si divertivano a creare nuove costellazioni collegando le stelle a caso. Una volta avevano creato una costellazione a forma di gatto e per giocare si erano messi ad abbaiare a quella figura per un bel po’ di tempo, finché non avevano ricevuto una scarpa addosso per il chiasso che stavano facendo. Cercò la costellazione e la trovò.
Rosco, il fratello con il sonno più leggero degli altri, lo sentì uggiolare per buona parte della notte.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 14: Pace ***


CAPITOLO 14
Pace

 
George si diresse alla sala del trono con cipiglio parecchio arrabbiato. Sapeva per quale diavolo di motivo era stato convocato dalla sua regale maestà. Certo, i suoi nipoti avevano avuto la geniale idea di disertare, scappare con un mezzo umano e rubare dalla fortezza vari rifornimenti. Inoltre avevano anche aggredito più di una guardia.
Non sapeva se essere arrabbiato con loro o complimentarsi per la loro fuga rocambolesca andata a quanto pare a buon termine.
Bah, erano di cattivo sangue quei tre e anche quello che era schiattato. Ma lui tanto non era più un problema. Era morto no? Tre metri di terra sullo stomaco e se ne stava come un pascià tra i vermi.  Ma quelle tre pestifere creature ancora in vita…oh, quella era tutta opera di Arthur, quel cretino che si era ritrovato per figlio che si era sposato una gatta di strada al posto di una demone d’alto rango come lui voleva.
Era suo quel sangue cattivo che aveva rovinato i suoi quattro nipoti.
Sputò mentalmente sul pavimento con disprezzo prima di entrare nella sala.
Cosa che gli fece salire ancora di più il sangue alla testa fu che accanto alla sovrana non c’era il suo fratello maggiore Taylor, ma quell’infida creatura che si ostinava a tenere come cucciolo da spupazzarsi e consigliere, quel demone che conosceva sin da quando era un mocciosetto sempre tra i piedi dei genitori e degli altri. Se lo odiava quell’essere codardo…
Scommetteva che si sarebbe goduto la lavata di capo che gli sarebbe stata inferta.
Avanzò e s’inginocchiò al cospetto della sua sovrana che tamburellava le lunghe unghie laccate di rosso sul bracciolo del trono, facendo un rumore ritmico e snervante alle orecchie del vecchio demone (si faceva per dire, dato che aveva duecentocinquantotto anni compiuti da poco).
-Maestà… per quale motivo mi ha fatto chiamare? -.
Lei smise di tamburellare le dita e si mise più dritta sul trono, impettita. Una ragazzina che giocava a fare la donna vissuta, questo lo pensava anche George.
-Lo sai che i tuoi nipoti hanno assaltato le guardie, rubato e sequestrato un mezzo demone o no? – domandò, alzando un sopracciglio arcuato.
-Certo che lo so mia signora. -.
-Allora perché fare quella stupida domanda? – ribatté lei.
George si morse la lingua pur di non rispondere malamente, occhieggiando il consigliere silenzioso, che non sembrava affatto divertito dalla situazione come lui credeva. Si alzò e ribatté il più educatamente possibile: - Era una domanda di circostanza mia signora. Il motivo per cui mi ha fatto chiamare qual è, dunque? -.
Regina accavallò le gambe e riprese a fare quel fastidioso rumore con le unghie.
-Sei il capo delle Guardie Reali e in più il nonno di quei tre traditori. È dunque tuo compito ritrovarli e portarli qui. -.
-Sarà un piacere mia signora. – rispose il demone chinando il capo –Ho già mandato due squadre a setacciare la città: se sono ancora qui li troveranno. -.
-E inoltre desidero che tu catturi la Portatrice e me la porti qui. Sono stufa degli incompetenti e dei traditori. Spero che tu non sia né l’uno né l’altro. -.
George approfondì l’inchino e se ne andò dalla stanza impaziente di prendere qualche uomo con sé e dare la caccia ai suoi adorati nipoti.
Andato via McMastiff, Regina si sporse dal trono ed appoggiò una mano sul braccio del suo consigliere, chiedendogli: -Allora Fify ti va di andare a fare un giro nel Mattatoio con me? -.
Il demone sorrise, celando perfettamente il disagio che gli provocava quel nomignolo sminuente, e rispose: -Mia signora sono dolente di dover reclinare l’invito: sono rimasto sveglio tutta la notte per lavorare al dipinto e vorrei riposarmi. Non voglio essere un peso con la mia stanchezza, rischierei di rovinarle la giornata. – aggiunse chinando la testa.
Regina sbattè le lunghe ciglia e, mettendosi in ginocchio sul sedile per potersi avvicinare al suo viso, chiese: -È il mio dipinto? -.
-Il suo, mia graziosa signora. Sta venendo molto bene… è una sorpresa, non dipingo da davvero tanto, tanto tempo. -.
-Davvero? – chiese lei entusiasta con gli occhi brillanti per l’emozione che il suo amato le facesse un regalo con le sue mani. Rise e gli buttò le braccia al collo, baciandolo brevemente sulle labbra, dicendo: -Allora va bene, resta pure qui. Tornerò questa sera, fatti trovare con quel bell’abito nero che ti ho comprato, si sposa così bene con la tua carnagione! -.
Saltò giù dal trono e lo salutò agitando una mano, per poi sparire in una nuvola di fumo.
Il demone rispose al saluto con un cenno e quando lei scomparve dalla sua vista, si passò il dorso della mano sulle labbra, sospirando.
-Mi dispiace. -.
 
***
 
Sognò un lungo viale alberato di cipressi verdi in una giornata assolata alternati a lampioni di metallo nero spenti. Oltre gli alberi non c’era niente se non un lungo prato di erba verde ondeggiante in un leggero vento che creava un effetto di movimento sinuoso e rilassante. Iniziò a camminare e man mano che avanzava il sole calava e comparivano le stelle. Alla fine l’unica illuminazione presente furono proprio i lampioni.
Sotto uno di essi, in lontananza, vide Morfeo. Era vestito come l’ultima volta che lo aveva sognato ma ora aveva un bastone da passeggio nella mano sinistra. A quanto pare la stava aspettando.
-Buonasera mia cara. – la salutò con un cenno del capo.
Era indecisa se ignorarlo o tirare dritto, ma alla fine si costrinse a rispondere: -‘Sera.  – per poi continuare a camminare senza degnarlo di ulteriori attenzioni.
Il demone assunse un’aria interrogativa e la seguì appoggiandosi al bastone. Notò che si appoggiava un po’ troppo a esso per essere un semplice oggetto elegante da utilizzare nelle passeggiate.
La raggiunse e le chiese: -Sei arrabbiata? -.
-Che occhio… - commentò sarcastica alzando gli occhi al cielo in un gesto scorbutico accelerando il passo.
Sperava che non riuscisse a raggiungerla, dato che a quanto pare aveva qualche problema a camminare, invece la raggiunse nuovamente con ampie falcate delle lunghe gambe magre.
-Vuoi parlarne? Parlare aiuta. -.
-Cazzate. – sputò lei –Parlare aiuta a sgonfiarsi per un attimo. -.
-Aiuta se qualcuno accoglie la tua richiesta di aiuto. Non credi? -.
-Perché dovrei farlo con te? – chiese aggressivamente Raven per coprire il suo disappunto per quelle parole assolutamente vere –Sei un demone, siete tutti bugiardi. -.
Lui si portò la mano al petto e disse: -Sono il tuo demone. Non posso mentirti. – con un sorriso strano.
Raven corrugò la fronte e ripeté: -Mio? -.
-Esattamente. Abbiamo stretto un patto: risponderò a tutte le domande che vorrai, ma non ho detto fino a quando. Ciò implica che lo farò fino a che tu non ti stuferai di sentirmi parlare o avrai finito di interrogarmi. Questo ci legherà per molto tempo. -.
-Non mi avevi detto che comportava questo. -.
-Non è uno svantaggio, ho pensato che ti servisse sapere queste cose se non ti danno fastidio. Ma ora ti ricordo che ho promesso di dirti la verità. Sempre. -.
Le fece piacere vederlo di quell’umore più rilassato. La ragazza si portò una mano al mento. Non ci credeva. La poteva prendere in giro, lo aveva detto: era pur sempre un demone.
-Va bene: perché anche se non volevo ho seguito Milord e gli altri? – chiese, per metterlo un po’ in difficoltà.
-Perché Jaguar ha usato l’Honesty. – rispose il demone con sicurezza.
Non pensava sapesse rispondere, cosa che la indispettì in un primo momento. Poi analizzò la risposta. Cos’era l’Honesty? Onestà? Cosa c’entrava? Non si ricordava le esatte parole di Jaguar prima che la sua testa diventasse leggera come una nuvola ma se ben ricordava… beh non le aveva detto certo che andavano a fare una scampagnata nel bosco. Non aveva negato niente di quello che Milord aveva detto cioè che scappavano e sarebbero andati in un altro luogo sicuro di proprietà di Milord.
Lui notò la sua aria interrogativa e dedusse che non sapeva cos’era l’Honesty. Per cui glielo spiegò: -L’Honesty è un potere demoniaco che sfrutta soprattutto il livello di onestà che utilizza il soggetto in grado di praticarla. Attenzione, non basta che le parole siano veritiere: in cuor suo il soggetto deve essere certo che quello che dice sia la pura verità e solitamente una persona onesta. Un potere, quindi, abbastanza raro nei demoni. Jaguar è in grado di utilizzarlo perché la sua parte demoniaca è abbastanza elevata da permetterglielo e perché è buono d’animo. -.
-Come fai a sapere che è stato Jaguar? – chiese lei, conscia che non lo aveva mai menzionato in sua presenza.
Morfeo arrossì e borbottò: -Sono nella tua testa: ho accesso a tutti i tuoi ricordi e cose varie del tuo complesso cervello umano: da cosa hai mangiato cinque settimane fa a cena all’ultima volta che ti sei guardata allo specchio -.
–Ce ne sono altri di poteri del genere che mi farebbero comodo sapere? -.
Ripresero a camminare.
-Molti altri: la Kindness è un potere molto simile all’Honesty per esempio. Poi c’è lo Charm, che sfrutta l’avvenenza ed il fascino del soggetto che lo utilizza. Andrea lo sa usare per certo. Anche il mio è un potere, il Dream: fa entrare nella mente delle persone ed è utilizzato per vari scopi. Potrei farti anche addormentare in uno schiocco di dita. Vuoi sentirne altri? -.
-No. Basta così, grazie. -.
-Ne erano rimasti pochi, ma va bene. – rispose Morfeo. Ma a quanto pareva la ragazza non era ancora di buon umore. –Sati bene cara? -.
-Da Jaguar io una cosa del genere non me la aspettavo. Con Matisse non lo avrebbe mai fatto questo. -.
Morfeo annuì: -No, non l’avrebbe mai fatto a Matisse. E non l’avrebbe mai fatto a te. -.
-Ma l’ha fatto. -.
-Per Jaguar è difficile gestire la detenzione di questo potere: lui è uno dei pochi mezzi demoni che possono vantarsi di avere poteri e per quanto sia raro, non gli piace affatto. Com’è ovvio è una persona onesta ed usare l’Honesty gli sembra una cosa molto lontana dall’onestà. Ma soprattutto gli fa sviluppare la sua parte demoniaca. -.
-Come? -.
-Più lo usa più il demone dentro di lui si sviluppa. – sintetizzò il demone stringendo il suo bastone da passeggio.
-Ha solo da non usarlo. -.
-Non è così facile come sembra. Ha a che fare con un capo i cui ordini vanno eseguiti e la paura di mettere in pericolo la sua famiglia e te. -.
-Me. – grugnì Raven –Certo, se mi rompo la testa ci sarebbero un bel po’ di problemi. -.
-Naturalmente. – rispose Morfeo –Ma lo fa anche perché ti vuole bene. – aggiunse facendo per appoggiarle una mano sulla spalla. Poi sembrò ripensarci e la ritrasse, continuando: –Ha paura di fare la cosa sbagliata: ha una famiglia sulle spalle, Raven. La paura… -.
-È la catena che ci lega all’insicurezza. -.
Si voltarono a guardarsi, stupiti entrambi di aver completato la frase insieme. L’espressione stupita del demone si sciolse in un sorriso strano.
Raven pensava che fosse una massima di sua madre, quella frase. Allora era una frase famosa presa da un libro o un film. Anche se dubitava che un demone come Morfeo guardasse dei film o che i demoni in genere guardassero film.
O forse l’aveva semplicemente presa dalla sua memoria.
Continuarono a camminare in silenzio per un po’. Dopo aver saputo che Jaguar aveva usato dei poteri su di lei non sapeva se essere arrabbiata con lui o meno: dopotutto prima gli diceva che era come una sorella e dopo usava questo Honesty per convincerla ad andarsene. In pratica se non avesse avuto quel potere l’avrebbe stordita con un colpo alla testa. Era una prigioniera, definitivamente.
E Jaguar, a dispetto dell’Honesty, era un gran bugiardo e ipocrita.
-Sento che sei arrabbiata. – disse Morfeo –E so perché. -.
-Tu cosa faresti? -.
-Io seguirei il consiglio di una persona che mi vuole bene.  Tua madre che cosa ti direbbe? Secondo me di perdonare. -.
-Anche secondo me. – dovette ammettere con riluttanza Raven.
Morfeo alzò gli occhi al cielo stellato con un sospiro e Raven chiese: -Cosa? -.
-Devo svegliarmi. Dobbiamo salutarci Raven. -.
-Grazie. -.
-Per cosa? -.
-Per avermi fatto passare il malumore, per adesso. -.
Il demone allungò ancora una volta la mano e la ritrasse nuovamente. Notandolo, Raven sporse la sua e lui sfiorò le sue dita.
-Grazie a te. -.
-Per cosa? -.
-Mi sento bene. -.
 
***
 
Matisse si era come al solito svegliata presto per preparare la colazione ma quella mattina, prima di correre in cucina ai fornelli, sarebbe passata prima da suo fratello per curargli le ferite.
Il giorno prima aveva applicato la medicina che gli aveva dato Rosco sulle ferite di Jaguar: il liquido blu estratto dai petali del Fiore del Diavolo aveva fatto cessare il flusso di sangue dalle ferite più grandi e aveva chiuso e fatto sparire graffi e lividi. Per farlo rinvenire aveva dovuto aspettare un po’, ma alla fine stava abbastanza bene da sopportare tutti i suoi baci, abbracci e lacrime e risalire sul pick-up per andare alla baita contro il suo consiglio di fermarsi almeno per una notte da qualche parte per recuperare le forze.
Secondo le istruzioni del Fiore del Diavolo bastava una seconda applicazione per curarlo completamente.
Prese la boccetta colorata dal comodino accanto al suo letto e uscì silenziosamente dalla camera per non svegliare Beast (aveva lasciato la sua stanza a Raven per permetterle di avere un po’ di privacy dato che mancavano stanze e a lei non dava fastidio la compagnia di Beast). Amava con tutto il cuore i suoi due fratelli: Beast era il più vicino a lei per età, l’aiutava con la spesa e la faceva divertire soprattutto perché costruiva spesso delle cose meravigliose che trovava nei cassonetti tutte per lei, mentre Jaguar… amava Jaguar in modo diverso da Beast. In quel modo, quello speciale che lui provava per Raquel.
Era molto, molto, molto gelosa della mezzo demone: si era permessa di mettersi in mezzo a loro due. Certo che sapeva che per Jaguar lei era la sorellina da proteggere e coccolare ma lei voleva che quei gesti fossero spinti da qualcosa di diverso dall’amore fraterno. Altrimenti era alla pari con Beast in questi termini! Lei voleva essere al posto di Raquel, ecco tutto. Ma se il fratello adottivo non si era accorto di niente Raquel invece aveva inteso tutto dal primo momento che si erano incontrate.
Ma adesso non doveva pensare a Raquel, doveva curare Jaguar, per cui andò in camera sua. Stava ancora dormendo. Per evitare di toccarlo mentre dormiva e fargli male la sua ragazza aveva deciso di dormire sul divano in salotto e lasciargli il letto. Matisse gioì per quella scelta tanto altruista.
Si vedeva che non aveva dormito bene tutta la notte perché teneva le palpebre contratte e stringeva le mani sulla federa del cuscino. Almeno, quello che rimaneva della federa del cuscino, ridotta a brandelli dalle sue unghie. A quanto pare aveva anche fatto degli incubi e dato che aveva usato l’Honesty sapeva anche su cosa o meglio chi.
Posò la medicina sul comodino accanto a lui e si sedette sul letto, chinandosi a dargli un bacio vicino all’orecchio senza far schioccare le labbra. Lui aprì gli occhi e li girò verso di lei.
-Buongiorno Jaguar. Stai meglio? -.
Lui annuì strusciando la faccia sul cuscino ed emettendo un mugolio. Sul braccio la ferita era ridotta ad una cicatrice e la spalla stava meglio: l’osso scoperto era sparito sotto un nuovo strato di carne e pelle nuova.
Il mezzo demone si mise seduto e si passò una mano sulla faccia con un grugnito.
-Mi devi dare ancora quell’intruglio? Brucia. -.
-C’è scritto che brucia solo sulle ferite aperte. Ora ti fa sparire il dolore e le cicatrici. -.
-Cosa farei se non ci fossi tu? -.
Nei romanzi rosa che tanto adorava era sicura che in una scena come questa i due innamorati si sarebbero scambiati un bacio o almeno uno sguardo d’intesa. Loro però non erano innamorati e il tono di Jaguar troppo stanco per lasciar immaginare una cosa del genere. Mise le gocce blu sulle cicatrici rimaste: il liquido prese a sfrigolare e formare bollicine brillanti come la volta precedente e quando sparirono le cicatrici erano più pallide di prima.
Richiuse il flacone e disse: -Stasera saranno scomparse. -.
-Grazie Mati. – ringraziò il fratello maggiore mettendole un braccio attorno alle spalle per stringerla in un abbraccio debole rispetto a quelli che di solito rifilava ai fratelli. Si accorse che l’angelo aveva i capelli sciolti e si offrì di pettinarglieli.
Era da quando era piccola che non le pettinava più i capelli, per cui accettò di buon grado: si mise seduta a gambe incrociate dandogli la schiena e passandogli un elastico che teneva sempre al polso.
Le raccolse i capelli e glieli pettinò con le dita fino a che non ebbe lisciato tutti i ciuffi biondi come voleva. Partì dalla tempia destra a raccogliere diverse ciocche cha a mano a mano intrecciava scendendo fino alla nuca, creando una treccia lunga che terminava sulla spalla sinistra.
Mentre lavorava rimuginava sulla sorella: ormai aveva quindici anni, una signorinella a tutti gli effetti, con il Calore in atto da quattro. Il Calore lo mandava fuori di testa tutti i mesi perché doveva stare attento che nessuno lo sentisse e potesse saltare addosso alla sua sorellina. Faceva di tutto pur di coprire quel dolce aroma che avvertiva un periodo fertile in atto con il suo odore, decisamente più forte, ma a volte faceva fatica anche lui a distogliere l’attenzione. Solo il pensiero che fosse sua sorella gli faceva cambiare pensieri.
 Si sentiva combattuto quando non aveva il Calore: da una parte era tranquillo perché poteva rilassarsi e lasciarla andare in giro con Beast o da sola e finché tornava regolarmente voleva dire che la ragazzina era ancora… beh una ragazzina.
D’altro canto, più Matisse cresceva e più lui aveva paura che le succedesse qualcosa.
Che sarebbe successo il giorno in cui lui avrebbe dovuto andarsene per anche solo un giorno e a lei sarebbe arrivato in anticipo? Si fidava di Beast e lui non aveva certo interessi verso la ragazza, ma addirittura lui come su detto faceva fatica a ignorare il suo profumo. Beast avrebbe potuto cedere con più facilità all’impulso.
La chiacchierata con Madison poi lo aveva lasciato sveglio almeno un’oretta. Se mai li avessero catturati lei sarebbe finita direttamente al mercato nero nel peggiore dei casi, dove femmine di tutte le età e le specie venivano vendute come oggetti di piacere, pezzi di carne maneggiati da sporchi individui senza coscienza. Sapeva bene come le ragazzine dall’aspetto delicato come Matisse fossero bramate ed il fatto che fosse di razza angelica non facilitava le cose perché la rendevano desiderabile oltre ogni limite. Se era fortunata poteva finire nel locale dove lavorava Andrea e sarebbe passata sotto la protezione dell’angelo (magari anche solo per poco) o… peggio, molto peggio!
Scosse la testa con decisione mentre spostava la treccia davanti alla spalla di Matisse.
-Matisse, il Calore quado dovrebbe arrivare? -.
-Una settimana circa. Perché? -.
-Dovrai dormire con me. Te lo ricordi? -.
-Sì. -.
-Brava. Ora lasciami riposare ancora un po’, non ho dormito molto stanotte. -.
-Lo vedo. Ti chiamo quando è pronta colazione. -.
Mentre il mezzo demone si rimetteva sotto le coperte Matisse tornò in cucina, così contenta di essersi fatta pettinare i capelli da lui che le sembrava di non appoggiare neanche i piedi per terra, che quasi non si accorse della presenza di Raquel, solo quando sentì odore di uova fritte.
-Cosa ci fai in cucina? -.
La mezzo demone si voltò e rispose: -Beh, pensavo non fossi ancora sveglia.  A quest’ora di solito lo sei. – indicando con la punta del coltello che teneva in mano l’orologio appeso alla parete.
L’angelo appoggiò l’estratto di Fiore del Diavolo in un angolo del bancone della cucina (più rustica e montanara rispetto a quella della città, non molto di suo gusto) e si mise il grembiule borbottando a bassa voce: -Mi prendevo cura di Jaguar. -.
Evidentemente l’altra la sentì e rispose seccata: -Lo avrei fatto io se avessi avuto l’estratto. Rassegnati Matisse, per quante moine fai, sarai sempre sua sorella ai suoi occhi. Non vivere nelle favole, dovresti aver imparato che non esistono. -.
La guardò di sbieco con gli occhi di un marrone profondo scuriti da una linea di matita nera facendo ingoiare la bile all’angelo, che non ribatté per orgoglio mordendosi le labbra e sforzandosi di collaborare con lei per preparare colazione.
A poco a poco la casa si rianimò: per primo scese Milord, poi Andrea, Raven ed infine Beast in compagnia di Jaguar. Si respirava tensione e non era dovuto solo a Raquel e Matisse, ma anche a Raven.
Da quando il mezzo demone Pantera aveva raggiunto la stanza l’umana si era fatta astiosa dalla prima occhiata che gli aveva rivolto per non parlare della risposta acida che gli riservò per il saluto che le aveva dato.
-Hai fatto un buon viaggio ieri? – chiese gentilmente quest’ultimo ignorando il suo tono.
-Scusa ma l’Honesty mi ha annebbiato la mente e non me lo sono goduto affatto. – rispose lei girando il cucchiaino nella sua tazza di caffelatte.
Il viso abbronzato dell’uomo sbiancò e Milord e Andrea alzarono la testa stupiti da quella frase.
Il mezzo demone Lupo assottigliò i magnetici occhi argentati e la fissò, chiedendo: -Come fai ad essere a conoscenza di questo potere? -.
Fu tentata per un attimo di cantargliele e dire anche la verità, trattenendosi giusto in tempo per rispondere: -Voi avete i vostri segreti. Io i miei. -.
-Uh che faccia tosta stamattina. – fischiò Andrea.
-Risparmia i tuoi commenti. – lo aggredì Milord –Parla Portatrice: come lo sai? – ripeté scandendo le parole come se stesse parlando con un bambino cocciuto. La stessa impressione che diede alla ragazza che decise sul momento di comportarsi proprio come una mocciosa.
Raddrizzò il busto e rispose: -Perché lo vorresti sapere? Che differenza fa se so dell’esistenza di certi poteri? Mi stordirete un’altra volta e non ci potrò fare niente. -.
-Te lo ha detto il finocchio? -.
-Io non ne so niente. – ribatté l’angelo –Sono stupito quanto te. -.
Milord non si arrese e si alzò dal tavolo appoggiandosi i pugni sopra per ringhiae ancora una volta la domanda ed ottenere un: -Tirami fuori la risposta se ci riesci. – stretto fra i denti che lo fece imbestialire ancora di più.
Gli prudevano le mani dalla voglia di tirarle un pugno ma resistette abbastanza da domandarle ancora: -Te lo ha detto qualcuno? Qualcuno che non è in questa stanza adesso? -.
-Non te lo dirò mai, balordo che non sei altro. -.
-Mi hai stancato piccola… - ringhiò lui alzando la mano serrata a pugno.
Un colpo sul tavolo fece tremare le stoviglie. Jaguar si alzò a sua volta, nel silenzio generale.
Con tono calmo scandì bene le parole: -Stiamo esagerando. Lasciamola stare, sta sopportando abbastanza cose da mandarla al manicomio. -.
Si guardarono negli occhi e lo sguardo severo del latino-americano prevalse sulla rabbia dell’altro, che si risedette pesantemente sulla sedia mandandola indietro.
A colazione finita l’umana si avvicinò timidamente al mezzo demone. Attirò la sua attenzione tossicchiando un po’ ed ottenutala disse semplicemente: -Grazie. -. Il mezzo demone l’osservò con un’espressione stupita che si addolcì subito.
-Sei arrabbiata con me? -.
-Ancora un po’ tradita direi. – dovette ammettere lei dondolandosi sui talloni con fare imbarazzato –Sei stato gentile a difendermi. -.
-Ti prometto che non userò mai più l’Honesty su di te se questo ti aiuterà a farti dimenticare l’accaduto. -.
-Meglio non dimenticarsi. – rispose dopo un attimo di riflessione –Potrebbe servirmi in futuro. -.
-Risposta molto saggia la tua. – approvò il mezzo demone.
 
***
 
Approfittò dell’assenza di Matisse, intenta a fare una partita a carte in compagni degli altri al piano di sotto per passare la serata, per iniziare a fare quel lavoro che aveva in mente da qualche giorno.
Tra il trasloco nella città di Raven, il pattugliamento per trovare demoni alle sue calcagna e la fuga che avevano fatto non era riuscito a lavorare come doveva al suo album.
La passione per la musica risaliva a sua madre: tutto quello che si ricordava di lei era che cantava e aveva una voce meravigliosa. Cantava in modo diverso da Matisse, che anche aveva davvero una bella voce. Forse era perché cantavano per due motivi diversi, chi lo sa.
Stava di fatto che lui aveva coltivato una grande passione per la musica, anche se il canto non era esattamente il suo cavallo di battaglia, ma la chitarra.
Il suo primo strumento glielo aveva regalato Jaguar, quando lo aveva trovato e lo aveva portato via dalla strada, più per tenerlo buono e distrarlo dall’abbandono della mamma che per un vero benvenuto in famiglia. Ma la cosa aveva comunque fatto il gioco.
Imparare da autodidatta era stato davvero difficile, ma aveva un buon orecchio.
Matisse e Jaguar lo supportavano davvero molto, da quando aveva deciso di fare della musica anche un lavoro, mentre Milord odiava che lui “strimpellasse” quel “dannato strumento”. Lo aveva sempre scoraggiato a seguire quel percorso e dedicarsi a trovarsi un lavoro più importante che quello.
Non capiva perché ce l’avesse tanto con lui.
La baita era circondata pini e abeti di grande dimensione che lasciavano un letto di aghi marroncini sul terreno. La cosa che più gli piaceva più al mondo era il loro profumo e rotolarsi in forma canina proprio in mezzo ad essi era tanto rilassante da poterlo comparare a scrivere musica.
Il loro profumo lo distrasse per un attimo quando il vento girò nella direzione giusta per infilarsi nella finestra aperta.
Sbirciò fuori per vedere se ci fosse qualche punto interessante in cui andare magari a scrivere fuori o anche solo rotolarsi, ma qualcos’altro attirò la sua attenzione: un lupo nero seduto accanto ad una roccia ricoperta in parte dal muschio.
Appoggiò la chitarra sul letto e sporse dal davanzale per vedere meglio.
Cosa ci faceva Milord tutto solo là fuori? Pensava fosse di sotto a giocare a carte o, almeno, fare finta di interessarsi al gioco degli altri.
Per essere estate faceva parecchio freddo anche con tutto quel pelo addosso per starsene fuori.
Magari gli avrebbe tenuto compagnia per un po’, finché non lo avrebbe cacciato in malo modo. Stranamente più lo trattava male e più gli faceva voglia di tenergli compagnia, non per il gusto di essere trattato male o perché gli piaceva dargli fastidio, per niente, non sopportava vederlo da solo, sempre con la faccia seria.
Avrebbe fatto di tutto pur di fare colpo su di lui ed alzarsi da suo fastidioso conoscente ad amico, se non migliore amico.
Forse, se fosse riuscito a confidarsi con lui, sarebbe stata una cosa facile da fare: era sicuro che nascondesse qualcosa che riguardava quei tre demoni e soprattutto Raven.
Senza badare di non far rumore si calò giù dalla finestra atterrando in piedi sullo spesso strato di aghi. Decise di avvicinarsi a lui sotto forma di Akita per il semplice gusto di lasciare un po’ libera la sua forma demoniaca.
-Cosa fai? – chiese allegramente avvicinandosi al Lupo.
-Sto lontano da te. – rispose acidamente l’interessato alzandosi solo per allontanarsi di qualche passo e risedersi incassando la testa tra le spalle.
Non si offese. Si sedette dove si era fermato e si leccò il naso. Osservò lo sguardo di Milord e riattaccò: -Stai guardando la luna? -.
-Se non ti spiace voglio restare da solo. – ringhiò Milord alzandosi di nuovo.
Beast lo seguì fino al limitare del cerchio di conifere che circondavano la baita. Su ognuna di esse Milord aveva disegnato la runa demoniaca della protezione. Il Lupo si fermò e si voltò scandendo con tono di minaccia: -Cosa non esattamente capisci di “restare da solo”? -.
-Il senso. – rispose suscitando un sospiro scocciato dell’altro.
-Sei fastidioso e petulante, vattene in casa e lasciami stare. -.
-Voglio tenerti compagnia. – insistette.
-Io vorrei ucciderti quindi se ti lascio restare dovrai permettermi di assecondare anche il mio desiderio. -.
L’Akita deglutì appiattendo le orecchie sulla testa in contemporanea con la coda piegata tra le zampe.
Approfittando del momento di incertezza del più giovane l’altro schizzò oltre gli alberi. Dopo il suo passaggio lo spazio regolare tra gli alberi sembrò vibrare e luccicare d’argento, segno che la barriera protettiva era innalzata e non sarebbe passato nessuno.
-Questo è sleale. – protestò Beast pestando una zampa a terra.
-Lo dici tu. – disse Milord –Ora vattene. -.
-Ti terrò compagnia lo stesso. – lo contraddisse –Me ne sto qui, guarda. -.
Si sedette a terra in modo scomposto, con le zampe posteriori malamente distese in avanti, cosa che sapeva che all’altro dava fastidio.
Milord alzò un sopracciglio e chiese: -Se me ne andassi nel bosco come faresti a starmi accanto? -.
-Farei… ah, non posso… potrei… accidenti. -.
L’Akita guaì di frustrazione.
La protezione si abbassò e Milord borbottò: -Vieni. Facciamo un giretto di pattuglia. -.
Beast balzò in piedi scodinzolando la folta coda arricciata: -Sul serio? -.
Milord non rispose e si allontanò con la coda dondolante.
Con cautela, Beast superò la barriera, temendo che volesse fargli uno scherzo tirandola di nuovo su. Constatato che diceva sul serio, lo seguì trotterellando.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 15: Protezione ***


CAPITOLO 15
Protezione

 
-Signor Rosco, la colazione è pronta. -.
Il demone si passò la mano sulla faccia grugnendo e aprì gli occhi, trovandosi Chuck a quattro zampe all’entrata della sua tenda.
-Che stai facendo? -.
-La sveglio. -.
-Non c’è il caso. E dammi del tu, ti prego. Mi fai sentire dannatamente vecchio. -.
-Mi spiace signore. – si scusò Chuck gattonando all’indietro per lasciare spazio all’altro per uscire –Ma mi hanno insegnato sin da piccolo a servire e dare del lei ai demoni purosangue. Mi spiace se qualche volta me ne sono dimenticato. -.
-A quanti anni? -.
-Quattordici. – rispose il mezzo demone aiutandolo ad uscire dalla tenda –Sa, all’ascesa di Regina. -.
-L’avevo capito. – rispose Rosco.
Si passò la mano dietro al collo, constatando che faceva caldo quella mattina con quel sole appena sorto da dietro le montagne.
Chiedendo il permesso di allontanarsi il mezzo demone andò ad occuparsi della colazione rimasta sul fuoco, roba sgraffignata nelle dispense da Madison. A quanto pare il mezzo demone aveva riservato lo stesso trattamento ai suoi fratelli già seduti sui tronchi attorno al focolare. Quella mattina c’erano una salsiccia a testa e olive. Non erano riusciti a rubare granché.
Chuck si servì per ultimo e per primo finì di mangiare, lasciando mezza salsiccia nel piatto e tre olive delle sei che si era preso.
Madison sbadigliò e chiese: -Come mai hai lasciato a metà? -.
-Non ho lasciato a metà. – rispose distrattamente l’altro, ma abbassando lo sguardo sul piatto notò che invece aveva ragione, cosa che lo fece arrossire fino alle orecchie.
-Non hai fame? Stai bene? -.
Si limitò a scuotere la testa e borbottare qualcosa. Si alzò e andò a lavare i piatti in un ruscello non lontano.
-Che tipo strano. – commentò Madison sgraffignando la sua colazione lasciata a metà.
Carlo non fece commenti sul comportamento strano del mezzo demone e dedicò le sue attenzioni a Rosco: -Dimmi, l’altro giorno non hai finito di parlarmi. -.
-So come entrare nella Resistenza in modo molto più facile che cercare di farsi ammazzare da Milo. -.
-Bussare alla porta? -.
-Zitto Maddy. Andrea è la chiave: lui è nella Resistenza e conosce lei. -.
-Lei? -.
-Lei. È con questo ho detto tutto: dobbiamo convincerlo, convinto lui, convinta lei. Possiamo farcela. -.
Il fratello biondo contrasse la mascella e incrociò le mani sulla bocca appoggiando i gomiti sulle ginocchia. Era la sua solita posa da “ci devo pensare” e neanche Madison lo disturbò con commenti sarcastici. Rosco poteva immaginarsi le sue meningi che si spremevano come limoni e le rotelline del suo cervello girare per mettere in moto ogni singolo ingranaggio che gli permettesse di arrivare ad una conclusione.
Sapeva che stava pensando a questo: dovevano entrare nella Resistenza, convincere Andrea a farli ammettere con le buone (assolutamente non le cattive), valutare la reazione di lei, convincere Milord ad unirsi a loro insieme a Raven.
Esattamente come anche lui e forse Madison stavano pensando. Ma il capo era lui da quel lontano millenovecentonovantasei in cui il loro vero leader se n’era andato lasciandoli spaesati e con il cuore rotto in mille pezzi esattamente come quello di Chuck che, ne era sicuro, lasciava il cibo a metà perché abituato a condividere il pasto con il suo migliore amico nonché cugino, anche se era poco.
Ma il loro amato fratello non sarebbe mai tornato indietro, come il resto della loro famiglia se non per tre persone rimaste a cui loro tenevano. Il loro adorato nonno non era uno dei tre eletti, troppo crudele verso loro madre e fedele a Regina per volergli bene.
A poco a poco le rughe sulla fronte di Carlo si appianarono e i due fratelli si misero comodi per ascoltare l’imminente decisione.
Prendendo un bel respiro si alzò e disse: -Assicuriamoci l’entrata nella Resistenza. Nel frattempo vedremo di far tornare il buonsenso a Milord e farlo rientrare nella Resistenza con noi. -.
-È uscito di testa, lascialo perdere. – sbuffò Madison –Non è più il Milo che conoscevamo. -.
-Appunto perché non è più quello che conoscevamo dobbiamo portare almeno Raven con noi. È nostro dovere difenderla in quanto nostra nipote. -.
-È anche la sua, di nipote. – gli ricordò Madison.
Carlo non rispose e chiamò Chuck, di ritorno dal lavaggio dei piatti: -Chuck, vieni, ho una cosa importante da farti fare. -.
Lui si affrettò a riporre le stoviglie e andare al suo cospetto pronto per essere investito di qualsiasi dovere gli spettasse di svolgere.
 
***

-Davvero c’è un lago? – chiese interessata Raven.
Matisse indicò un punto della casa e disse: -Sì, proprio di là. È pulito e ci si potrebbe fare una nuotata. -.
-Con il caldo che fa non ci farebbe male. – sospirò Beast usando un cuscino per arieggiarsi il viso.
Quella mattina quasi tutti si erano svegliati per il caldo, nonostante fossero in alta montagna, tanto da costringerli a stare in maniche corte o in canottiera. Addirittura Milord aveva abbandonato la giacca restando in una sobria camicia dai colori chiari e Andrea si era raccolto i capelli in una coda di cavallo alta.
Il mezzo demone scosse la testa e borbottò: -È pericoloso uscire. -.
-Ieri sera noi siamo usciti. -.
Beast si guadagnò un’occhiataccia e un ringhio: -Era diverso. -.
Al culmine del caldo Raquel si tolse la maglia e buttò la testa oltre lo schienale del divano sulla quale era seduta con un sospiro e guardò sottosopra Milord, supplicando: -Oh andiamo Milord stiamo fuori un’oretta… cosa vuoi che accada? -.
Alla fine, infastidito dalle suppliche di tutti, cedette. Che andassero a quel dannato lago.
Sarebbe venuto anche lui solo per sicurezza di tutti.
Felici dell’uscita si andarono tutti a cambiare: per Raven, Matisse rinunciò ad uno dei suoi due costumi da bagno, optando per tenersi per lei quello intero. Pronti per l’uscita si diressero a nord-est rispetto alla casa e l’umana calcolò un quarto d’ora di camminata pigra.
Man mano che camminava tra gli alberi con le scarpe da ginnastica calpestando aghi imbruniti sentiva oltre al canto di qualche solitario uccello e il vento tra gli alberi, il rumore di acqua corrente, sempre più vicino e rilassante. In lontananza vide che gli alberi si diradavano e con Beast fece una corsa fino al limitare del bosco, sbucando in una piccola radura dal quale lei vide la cosa più meravigliosa che avesse ami visto in vita sua: dopo tre metri di morbida erbetta verdognola, un cerchio di rocce grigie luccicanti al sole circondavano un lago di medie dimensioni torreggiato da una montagna altissima ricoperta di alberi, che la facevano sembrare morbida come la schiena di un gatto. Una grande torrente impetuoso sciabordava dal fianco della montagna e si buttava nel lago per poi riemergere più in basso e continuare il suo corso verso la valle.
-Wow… - si lasciò sfuggire.
La sua meraviglia fu smorzata da Raquel che sotto forma di Volpe si buttò in acqua e la spruzzò dalla testa ai piedi, seguita da Jaguar, Beast e Matisse, la quale entrò in acqua con un movimento fluido increspando di poco la superficie a differenza dei fratelli.
Riemerse spostandosi i capelli sciolti dietro la testa con un movimento secco del collo e la pelle d’oca. Si portò le mani alle braccia e batté i denti: -L’acqua è gelata! -.
L’umana si tolse i vestiti e saggiò l’acqua con la punta del piede e lo ritrasse, concordando con l’angelo. Almeno da quella parte il lago era subito profondo ad occhio e croce un metro.
Beast si avvicinò con due bracciate e ridacchiò: -Allora, ti vuoi buttare o no? -.
-Non so… è freddissima. -.
Il ragazzo mise le mani a coppa e le buttò l’acqua addosso facendola strillare ed indietreggiare velocemente, convincendola però a buttarsi con loro. Dopo che lei lo ebbe innaffiato a dovere si girò verso la riva vedendo Milord e Andrea seduti a terra.
-Venite? -.
-Non so nuotare. – declinò l’invito l’angelo con un cenno della mano –Me ne starò al sole anche se non posso abbronzarmi. -.
-Tu? -.
-Passo. – rispose scorbutico il mezzo demone –Prova a schizzarmi e ti uccido. -.
Con quella minaccia Beast si abbassò nell’acqua fino a lasciare fuori dall’acqua solo gli occhi per poi emergere e dire: -Ieri sera eri più simpatico. – e nuotare via con gli altri.
Andrea assottigliò gli occhi color pervinca e domandò: -Cos’avete fatto? -.
-Niente che ti riguardi. – rispose l’altro.
Prese un sassolino e lo lanciò nell’acqua con stizza.
Diamine, avevano parlato. Parlato fin troppo per i suoi gusti, tanto che avrebbe voluto prendersi a schiaffi e cucirsi la bocca con il fil di ferro per punizione alla sua boccaccia. Allora perché se si stava imponendo di non farlo mai più in realtà voleva rifarlo? Se ne rendeva perfettamente conto che aprirsi con qualcuno lo avrebbe aiutato ad allontanarsi dal baratro della pazzia.
Ma perché il suo istinto aveva scelto Beast e non uno dei McMastiff? Si sarebbe sorpreso di meno se avesse eletto sua sorella per tale compito. Invece si sentiva propenso ad accettare la compagnia del ragazzo da un pezzo, più o meno da quando aveva scovato lui e la sua strampalata famigliola sotto un ponte come cani randagi.
In realtà si erano più scontrati che incontrati, ma quella era un’altra storia. Quello era un indizio che ci fosse un Legame e da subito aveva deciso di non lasciar trapelare nulla e tenere le distanze con il ragazzino. Al tempo non poteva accettare che quello succedesse e si era imposto di non lasciare che la cosa avesse il minimo sviluppo: stava lontano da lui e se si avvicinavano attaccava uno scontro verbale e una volta sola era arrivato alle mani per tenerlo a distanza. Lo stupì e lo compiacque contemporaneamente il suo ritorno, più agguerrito che mai per conquistarsi la sua ammirazione, che purtroppo aveva già ottenuto.
Non lo avrebbe mai ammesso.
La promessa fatta a sé stesso però si era incrinata notevolmente la sera precedente, quando aveva abbassato la barriera di protezione della runa e gli aveva permesso di venire con lui a farsi una passeggiata nel bosco.
Era però sicuro di una cosa: per quanto avessero parlato di diverse cose non gli avrebbe mai rivelato il suo più oscuro segreto.
Lo osservò giocare nell’acqua spensieratamente e si accese una sigaretta ignorando il commento di Andrea riguardo la natura e lui che la rovinava con il fumo.
Purtroppo per l’angelo e la sua strafottuta natura, la vista del fumo lo rilassava e la nicotina copriva in parte la sua irruente cattiveria, almeno non quanto aveva fatto la passeggiata serale con Beast.
Una domanda gli frullava però nella testa: se c’era davvero un Legame con il ragazzo, lui di cosa aveva bisogno da parte sua?
Nell’acqua, intanto, gli altri cinque si divertivano come matti e si facevano scherzi e vi rimasero fino a pomeriggio inoltrato. Quando il sole scomparve dietro la montagna Milord li avvertì che erano le cinque e mezza e sarebbero dovuti tornare a casa. Loro tornarono buoni buoni a riva per asciugarsi e rimettersi i vestiti asciutti addosso.
Raven si accorse che si era completamente dimenticata della cicatrice. Abbassò gli occhi su di essa, ancora solcata in mezzo al suo petto, una striscia di pelle liscia senza lentiggini. Nessuno la stava guardando anche se in teoria doveva somigliare ad una cosa fantastica per loro o almeno misteriosa. Invece non la degnarono di uno sguardo.
Tornarono a casa e ognuno tornò ad occuparsi delle proprie attività in attesa di cena. Matisse chiese a Raven se la voleva aiutare a cucinare con Raquel, ma lei dovette declinare, perché il suo cellulare prese a suonare nella tasca dei pantaloni.
Tutti si voltarono a guardarla, incuriositi.
Lei prese il cellulare e guardò il display, sul quale capeggiava la scritta “MAMMA” e sullo sfondo c’era un suo primo piano.
-Ah. -.
-Chi è zuccherino? – chiese Andrea, avvicinandosi a lei, sbirciando la schermata.
-Mamma… non mi ha più chiamata o scritto. -.
-Rispondi, forza. – la incoraggiò lui, mentre gli altri si allontanavano discretamente, occhieggiandola con curiosità.
-Non lo so se me la sento di parlarle. – borbottò lei stringendo il cellulare con la mano –Non so che dirle. -.
Andrea si accigliò e disse: -C’è sempre qualcosa da dire ai genitori. -. Poi, senza che Raven riuscisse ad evitarlo, allungò una mano e con il dito teso scorse l’icona verde per accettare la chiamata.
La ragazza si portò immediatamente il cellulare all’orecchio, scoccando un’occhiata promettente ripercussioni per quello che aveva fatto, dirigendosi subito fuori dalla baita, per stare nel portico di legno.
-Raven? – fece la voce di Elen dall’altra parte, incerta –O sei tu Milo? -.
-Sono io mamma. – rispose Raven, appoggiandosi alla porta per chiuderla con la schiena.
-Oh, ciao. – la salutò la donna, con più sicurezza –Come stai? Va tutto bene, non sei ferita? -.
-No. Mi ero fatta male al ginocchio, ma è passato. – rispose Raven –Tu… come stai? -.
-Sto uno schifo. – confessò lei con un grosso sospiro –Raven, mi dispiace per questa situazione. Sono mortificata per non averti detto niente e lasciata con Milo. Non ho avuto il coraggio fino ad adesso di parlarti. Sei arrabbiata con me vero? Hai ragione ad esserlo tesero. -.
-Non sono arrabbiata. –.
Sentire la voce della madre le fece salire le lacrime agli occhi. Si passò una mano su di essi per cercare di scacciare la sensazione e con voce tremolante aggiunse: -M-mi sei mancata mamma, mi manchi. Ho avuto tanta paura. -.
-Oh no, non piangere ti prego. Credevo fossi arrabbiata, il messaggio… -.
-Chissene del messaggio, ero agitata. – ribatté Raven tirando su con il naso –Non volevo dire quella cosa, mi dispiace. Ma tu perché non mi hai detto niente di questo? O di te se è per questo? -.
Si rannicchiò a terra, abbracciandosi le ginocchia con un braccio, attendendo la risposta.
Dopo un attimo di silenzio Elen rispose: -Tutto questo è molto complicato. Ti hanno già detto qualcosa della storia vero? -.
-Sì, questa Regina, i mezzi demoni, i sovrani uccisi, il tradimento, quelle cose. -.
-Io ero con il traditore. Non dalla parte di Regina, con la Resistenza. Quando abbiamo saputo di cosa era successo ti abbiamo subito cercata. Eri sola, poverina, così piccola. Come avrei potuto addestrare la mia bambina come un cane? Avevo paura di perderti, niente è certo sul futuro. -.
-Lo capisco mamma. Non importa più, davvero. -.
-Sono contenta di questo. Come sta andando con Milo? Non è troppo duro, vero? -.
-Ehm, un po’. Non è molto disponibile a capire il mio punto di vista. -.
-E tu scommetto che non glielo stai rendendo facile. -.
Suo malgrado si ritrovò a sorridere.
Elen sospirò: -Devo andare Raven, ho davvero tanto da fare qui. Non so quando ci risentiremo. -.
-Va bene. Non metterti in situazioni pericolose, voglio rivederti. -.
-Certo. A presto tesoro. -.
-Ciao mamma. -.
Elen spense la chiamata e Raven posò il telefono per terra vicino a lei.
Sua mamma stava bene, solo questo le importava. Il resto poteva andare a farsi benedire.
Chiuse gli occhi, rilassata.
Il rumore del vento tra i rami, il solitario cinguettare di qualche uccellino… tutto questo la faceva sentire tranquilla, come quando sognava Morfeo.
O meglio, quando Morfeo la veniva a trovare nei sogni.
Era bello confidarsi con lui perché sembrava capirla davvero. La sua personalità riservata poi le piaceva e l’ultima volta era sembrato molto più aperto delle prime volte, dove sembrava spaventato dallo stare con lei.
Era diverso parlare che parlare con Andrea, sua madre o Jaguar.
Doveva pensare a che domande fargli.
Un rumore di legno che si spezzava le fece aprire gli occhi.
Avevano fatto tardi al lago e ormai il cielo si stava scurendo, il sole stava calando dietro le montagne. Non c’era abbastanza luce per riuscire a vedere cosa poteva nascondersi tra gli alberi.
Qualcosa si mosse poco oltre gli alberi marchiati dalle rune, appena più di un’ombra.
Si alzò e guardò meglio avvicinandosi al bordo della veranda, vedendo lo stesso movimento.
Diede un’occhiata alla porta d’ingresso per controllare se qualcuno dentro la stava controllando e, vedendo che probabilmente le stavano lasciando privacy per la telefonata, scese dalle assi di legno del piccolo porticato avanzando nel crepuscolo fin quasi al limitare del bosco. Era sicura di aver visto qualcosa e qualsiasi cosa fosse, sarebbe stata al sicuro fino a quando non avrebbe oltrepassato gli alberi.
-C’è qualcuno? – chiese ad alta voce.
Le rispose un rumore di passi circospetti sul letto di aghi. Che fosse un semplice animale? Prese il telefono ed accese la torcia puntandola tra gli alberi. Vide distintamente una gamba sporgere da un albero, che si ritirò non appena il proprietario si accorse di essere stato scoperto.
-Chi sei? – chiese. Non ricevendo risposta continuò: -Fatti avanti, non aver paura. Sempre che tu sia amichevole. -.
-Ma io potrei farle paura. -.
Riconobbe la voce ancora prima che la persona si mostrasse: Chuck.
Fece un mezzo passo indietro, deglutendo.
Chuck la fissava con l’occhio rosso illuminato dalla luce del telefono tanto da farlo sembrare davvero un animale notturno.
-Ha paura di me? -.
-No. Sono al sicuro. -.
-Questo lo so. – disse il mezzo demone –Voglio parlarle. -.
-Non abbiamo niente da dirci. – replicò lei, a disagio per il fatto che le dava del lei in tono rispettoso –Se sei venuto qua di nuovo per fregarmi sappi che ho appena parlato con mia madre al telefono. E non ho un padre su cui ripiegare per questo trucchetto. -.
-Il signor Carlo ha detto che se riuscivo ad avvicinarla dovevo darle un messaggio. -.
-Che genere di messaggio? – chiese sospettosa.
Chuck incrociò le mani davanti a sé, composto, dicendo: -Venire con noi. Solo questo. Posso assicurarle sul mio nome di Faoil che i McMastiff sono buoni quanto i suoi difensori. Vogliono portarla dove sarà realmente al sicuro, nella Resistenza dei demoni contro la sovrana tiranna. Lì potrà aiutarci veramente. -.
-Quanto vale la tua parola? – chiese Raven.
-Non è stato onorevole quello che ho fatto con mio cugino a lei o l’inganno di sua madre, né il modo irrispettoso in cui mi rivolgevo a lei, questo lo ammetto: ma la prima volta che l’ho fatto era perché ero ancora nel torto ed erano ordini per i quali sarei morto se non avessi obbedito, la seconda ero già dalla parte giusta di questa vicenda. Ora vengo senza l’intenzione di ingannarla Raven, perché io voglio vivere in un mondo senza ingiustizie e solo lei può garantirmelo, come a molte altre persone come me. Io le giuro che sto dicendo la verità. Ho giurato fedeltà davanti a Regina per servirla, ma non avevo altra scelta se non avessi voluto morire subito. Ora invece non ho niente che mi costringa a giurare e rendere il giuramento falso e forzato: le garantisco da persona libera dalla paura di essere punito che io e i McMastiff non le faremo del male se deciderà di venire con noi. -.
-Dice la verità. – si rese conto Raven –Sta dicendo la verità, lo sento. -.
La cicatrice pulsante sembrava darle conferma di quei pensieri.
Alla luce del telefono Chuck sembrava quasi indifeso e distrutto, con quell’aspetto stanco e trasandato, ben lontano da quella prima volta che lo aveva visto sotto forma canina. I suoi occhi sembravano così speranzosi e sinceri che non avrebbe potuto sospettare un secondo fine.
Strinse il telefono con decisone e fece un passo avanti, dicendo: -Non posso venire con te ed i McMastiff. Sono sotto la custodia di Milord, per cui voglio sentirmi dire da loro cosa vogliono da me, prima di andare chissà dove. -.
Chuck sembrò illuminarsi e disse: -I McMastiff sono accampati lontano da qua: se desidera parlare con loro io la scorterò e la riporterò qui in men che non si dica. Sta a lei decidere se aiutarci o no, nessuno di loro né io la costringeremo. Ma se ha detto che ci aiuterà a Milord sono sicuro che dirà di sì anche a loro. Viene con me? – chiese porgendole la mano.
Lei spense la luce del telefono ed oltrepassò gli alberi con la cicatrice che continuava a pulsare fino a Chuck, che le sorrise. Si stinsero la mano.
Nel momento in cui si toccarono Milord uscì dalla casa sbattendo la porta contro la parete ed individuò subito la Portatrice e l’ospite indesiderato.
-Torna subito qui Portatrice! – urlò scendendo i gradini della veranda.
-No! – urlò in risposta lei stringendo i pugni per la rabbia di sentire quel nomignolo che cominciava a darle fastidio.
-Subito ho detto! Cosa ti salta in mente?! -.
-Mi salta in mente di andare a fare quattro chiacchere con i McMastiff! -.
-Cosa ti ha detto quella feccia per convincerti? Bugie immagino. – accusò il mezzo demone avanzando a passo di carica verso di loro, mentre sulla veranda si accalcavano gli altri.
-Perché tu mi hai sempre detto tutto! – commentò sarcastica lei –Perché ti chiamano Milo, eh? -.
A quell’ultima parola Milord si fermò di botto. Sembrò che fosse indeciso sul da farsi perché si mordicchiò il labbro, un gesto che l’umana non si sarebbe mai aspettato da parte sua. Non durò a lungo perché riprese a marciare e ringhiare come un animale.
-Ci ammazza. – bisbigliò Chuck arretrando di un paio di passi.
Lei non arretrò affatto.
Il pulsare della cicatrice era scomparso per lasciare il posto ad un pizzicore intenso che le faceva quasi male ma anche allora non ci badò mentre faceva tutto il contrario di Chuck, cioè andare incontro a Milord: -Vuoi venire a prendere il Cuore e metterlo in una borsa frigo? Vieni, è qui che ti aspetta Milord, pallone gonfiato che non sei altro! -.
L’argento scomparve completamente dagli occhi del mezzo demone, diventando rossi come il sangue con la pupilla verticale come quella di una vipera. Trasformò la marcia marziale in una corsa, schiumante di rabbia come un cavallo impazzito.
Neanche allora lei indietreggiò e quando alzò il pugno per colpirla lei alzò la mano per fermarlo.
Prima che le due mani potessero toccarsi, lo spazio che le divideva, vibrando, si colorò di verde, e Milord fu sbalzato in aria fino a colpire e distruggere un angolo del tetto della baita per poi giacere a terra su un fianco.
Raven guardò incredula il corpo esamine di Milord soccorso da Beast e la sua mano, perfettamente normale. Una fitta alla cicatrice la costrinse a cadere in ginocchio e portarsi una mano sopra di essa a stringersi la maglia, diventata insopportabile per il contatto che faceva con la pelle della ferita.
-Brucia! – esclamò togliendosi l’indumento di dosso buttandolo a terra incurante di sporcarlo ma la cicatrice le fece ancora più male, anzi, si aggiunse un grande bruciore agli occhi.
Jaguar ed Andrea la soccorsero in fretta, tirandola su da terra. Il primo la girò verso di sé e lei poté vedere un’espressione atterrita formarsi sul viso abbronzato attraverso le lacrime che le offuscavano la vista.
-I tuoi occhi… -.
-Cosa? Cos’hanno? – ansimò lei.
-Sono rossi. -.
Raven vide tutto girare e poi il buio più completo.
 
***
 
In passato sapeva nuotare molto bene. Da quando l'avevano cacciato non aveva messo piede in acqua per paura di qualche scherzo dei farmaci: dopotutto non poteva più controllarla, quindi poteva benissimo aver perso la capacità di nuotare. Quel pomeriggio non aveva voglia di testare la veridicità delle sue teorie affogando nel caso fossero state vere. Aveva un po' sofferto nel vedere i ragazzi nuotare spensieratamente, soprattutto Matisse, come faceva lui con i suoi fratelli molti anni prima e ad un certo punto aveva avuto paura di lasciarsi scappare qualche lacrima. Grazie al cielo non era successo.
Adesso era curioso di sapere se effettivamente era capace o no solo per togliersi il quesito dalla testa e sapere se poteva nuotare solo più nei ricordi. Si spogliò dai suoi abiti firmati e li lasciò nel punto più pulito del terreno, rimanendo in costume da bagno. Era da molto tempo che non lo indossava.
Si sedette sulla riva del lago mettendo solo le gambe nell'acqua.  Constatò che era gelata, sicuramente più di quanto lo era stata nel pomeriggio, e rabbrividì. Era il suo tipo di acqua preferita in assoluto. L'acqua era alta forse un metro e poco più avanti iniziava ad aumentare di profondità di un bel po'.
Se per fare quella prova doveva agire come quando si faceva la ceretta era meglio fare molto velocemente prima che il coraggio gli scappasse. Sicuramente sarebbe stato meno doloroso della ceretta.
Si diede una spinta con le mani e in un attimo fu avvolto da un mordente abbraccio freddo fino alle spalle.  Gli sfuggì un sospiro compiaciuto nel riprovare quella sensazione glaciale.
Non aspettò oltre e si diede lo slancio con le gambe per provare a fare qualche bracciata e con sua immensa gioia e sollievo non affondò, andando avanti nella nuotata. Il farmaco non aveva intaccato le sue capacità natatorie.
In un eccesso di euforia si mise a ridere di gusto e s'immerse sotto la superficie puntando al fondo del lago. Non seppe per quanto tempo stette nell'oscurità del fondale (saranno stati una ventina di metri) ma sicuramente era passata una buona mezz'ora di meditazione subacquea. Decise di tornare in superficie e nuotò in verticale puntando alla vacua immagine della luna.
Un movimento improvviso dell'acqua interruppe la sua risalita. Non capì da dove era arrivato e si voltò a destra e sinistra per capire che cosa era stato. Si sentì toccare una spalla e si voltò trovandosi faccia a faccia con Rosco, il quale lo salutò con la mano.
Aprì la bocca per riempirlo d'insulti per lo spavento che gli aveva fatto, invece ingoiò un sacco di acqua. Si tappò la bocca con le mani e tornò velocemente in superficie per sputare e recuperare l'aria che stupidamente aveva lascito andare sott'acqua mentre accanto a lui emergeva anche il demone.
Gli piazzò un pugno sulla spalla e ringhiò: -Volevi farmi affogare? -.
Lui si massaggiò la spalla colpita e rispose con un sorriso malizioso: -Se era una buona occasione per fare pratica di primo soccorso sì. -.
-Divertente Romeo. – borbottò l’angelo.
-Rosco. – lo corresse il demone nuotandogli dietro.
-Lo so come ti chiami. – ribatté seccato voltandosi ed appoggiando le braccia sulle rocce che contornavano il lago, imitato dall’altro.
Notò che aveva i capelli più lunghi dell’altra volta che lo aveva visto e, decisamente una notizia migliore dei capelli, non era armato. A meno che non nascondesse armi in posti impossibili anche per un demone.
Nervoso per il silenzio che si era creato e la vicinanza di Rosco chiese: -Beh, posso sapere che ci fai qui? -.
-Una nuotata? -.
-Ti affogo se non rispondi. -.
-Dubito tu possa farlo. Sono troppo bello per lasciare questo mondo gonfio e pallido, non credi? – scherzò Rosco con un sorriso.
Andrea si prese i capelli e li strizzò borbottando: -Sto schiattando dalle risate. -. Lasciò andare i capelli e con un gesto secco della testa li fece sbattere sul viso del demone. –Se non vuoi dirmelo vado a casa al caldo. -.
-Parlo, parlo. Sei permaloso eh? -.
-Solo quando non mi si dicono le cose. – precisò Andrea.
-Volevo solo chiedere che cosa è successo a Raven: Chuck ci ha detto qualcosa sulla runa che si è ritorta contro Milord e Raven che aveva male alla cicatrice. È esatto? -.
-Il vostro amico ha riferito bene. – concordò Andrea chiudendo gli occhi –Mi sono preoccupato molto: la ragazza ha gli occhi rossi come i vostri adesso. -.
Rosco si staccò dalle rocce con gli occhi sgranati per la sorpresa e la bocca aperta.
-Sembri un merluzzo. – osservò Andrea per sminuire un po’ la notizia.
-È impossibile che sia successo. – dichiarò il demone corrugando la fronte.
Questo fece sorridere l’angelo che chiese: -Allora dimmi, mio bel Romeo, come la spieghi la runa che si ritorce contro il suo creatore? Nessuno dei presenti poteva farlo, nemmeno io. In più si è colorata di verde e sappiamo che le barriere di protezione prendono il colore degli occhi di chi le controlla. Spiega, le mie orecchie sono ansiose di sapere chi può essere dunque stato a manipolarla. -.
Per niente offeso dal tono sarcastico usato da Andrea ribatté: -Scusa se continuo ad essere scettico sull’argomento ma fino ad adesso non ha mai dimostrato nessun potere demoniaco. -.
-Lo so. Dovevano essere in fase dormiente: so che corre più velocemente di un umano ed è abbastanza forte quando vuole, per cui non così dormienti. È capitata l’occasione di lasciarli andare forse perché non è mai stata apertamente a contatto con qualcosa di demoniaco. -.
-Effettivamente può essere andata così... – dovette ammettere il demone –Questo vuole dire che è un’ibrida. -.
-Ovviamente. Non ci voleva molto ad arrivarci. -.
-Beh, non posso competere con il tuo raffinato cervello sopraffino. – lo canzonò bonariamente lui allungando un braccio dietro le sue spalle.
Andrea si scostò e rispose: -Non è adulandomi che tu ed i tuoi fratelli sarete ammessi alla Resistenza, ma passando ai fatti. Dimostratemi che ne siete degni. -.
-Davvero non posso dimostrarti che ne siamo degni in altri modi? – insistette abbassando la voce in un bisbiglio seducente. Andrea notò la fulminea sfumatura rosa che passò nelle sue iridi. Il demone si ritrovò una mano schiacciata sulla faccia per essere allontanato.
-Uno, non puoi usare lo Charm su qualcuno che lo può utilizzare a sua volta. Due, se vuoi davvero fare qualcosa con me hai solo da sganciare i soldi e venire al Burning Pole. Tre, aggiustatevi. Io devo essere convinto e non vengo a darvi suggerimenti su come farlo. – concluse spingendolo via.
-Burning Pole? Devo farci un pensierino… -.
-O anche no. – ribatté Andrea –I donnaioli come te non mi piacciono. -.
-Sbaglio o la reputazione che hai è un po’ differente? Si dice in giro che non dici noi proprio nessuno… a partire dallo Zingaro. Sono quelli gli uomini che piacciono a te? La mia persona si offende. -.
Andrea distolse lo sguardo per nascondere il rossore che gli imporporava le guance e borbottò: -Lo Zingaro, come lo chiamate voi, è molto più gentile di quello che può sembrare. E poi quello è lavoro, i miei gusti lì non contano molto. -.
-Dubiti che ti tratterei bene? -.
-Voi scemi dalla vita semplice siete tutti uguali. – disse l’angelo uscendo dall’acqua –Non capirete mai niente che sia all’infuori di voi. -.
Mentre si rivestiva Rosco si appoggiò alle rocce e disse: -Dato che conosci Elen dovresti sapere che la vita semplice ce l’abbiamo avuta solo per un breve periodo. -.
Andrea s’infilò la maglia, guardando di sottecchi attraverso i capelli bagnati il demone, che sembrava aver perso completamente interesse nel sedurlo, anzi, sembrava quasi offeso.
-Hai ragione. – ammise prendendo i pantaloni –Mi dispiace. Ho parlato senza ragionare. – si scusò, alzando una mano in segno di resa.
-Apprezzo le scuse. – rispose il demone –Ma se per ottenere il mio perdono dovessi cedere ad un certo lasciapassare per una certa Resistenza? – sorrise appoggiando il mento alle braccia incrociate.
Adrea scosse la testa nascondendo un sorriso dandogli le spalle ed augurandogli una buona nuotata.
 
***
 
I corridoi della fortezza furono di nuovo percorsi dai lamenti del prigioniero che facevano accapponare la pelle ai servi ed irritare Taylor, che ad ogni lamento corrugava sempre di più la fronte e stringere la penna tra le dita.
All’ennesimo urlo angosciante fracassò il calamaio che stava usando contro la parete davanti a lui e sbraitò: -Fai silenzio! Dannazione! -. Sapeva che la sua voce non sarebbe mai arrivata fino alle orecchie del prigioniero, come invece i suoi lamenti facevano, ma aveva bisogno di sfogare per un attimo il nervosismo. Funzionò in parte.
-Fai silenzio tu. – lo ribeccò la sorella.
Era accovacciata sulla sua poltrona nel suo studio in modo scomposto, con i capelli in disordine e una corta vestaglia da notte rossa addosso, arrabbiata per essere stata interrotta durante la sua seratina intima con Fify.
-Lo sai cosa vuole dire se si lamenta così. – sbuffò il fratello recuperando un altro calamaio dal cassetto della scrivania –Vuol dire che la ragazza è diventata più pericolosa di quanto lo era già prima. -, poi pensò: -E poi ha deciso lui di dare inizio a tutto. -.
Regina corrugò la fronte con fare seccato e gli fece il verso storpiando la voce in modo troppo cavernoso, cosa che lo fece irritare ancora di più. Sbatté un pugno sul ripiano per ottenere l’attenzione della sorella che gli rivolse uno sguardo sorpreso.
-Stammi bene a sentire Regina: smettila di comportarti da stupida! Sei una sovrana e come tale devi stare attenta a quello che fai e mai sottovalutare le cose che ti possono danneggiare! -.
-Io non sottovaluto mai niente! – ribatté.
-Vedo… - replicò più freddamente il demone –Te ne stai seduta lì invece che andare in prima persona a cercare la Portatrice. -.
Sapeva benissimo che il suo tono distaccato la mandava fuori dai gangheri molto più di quello arrabbiato. Infatti poté notare che i suoi occhi diventavano più scuri man mano che parlava.
S’impettì e dichiarò: -Sono la regina, il mio compito è stare qui a governare non andare ad inseguire ragazzine per il mondo umano. -.
-Non sei in grado neanche di comandare. – infierì Taylor con cattiveria.
Adesso Regina era davvero arrabbiata, con i denti scoperti in un ringhio come un cane arrabbiato e le unghie conficcate nei braccioli della poltrona.
-Con questo che cosa vorresti insinuare Taylor? – sibilò scandendo le parole mentre si alzava dalla poltrona.
-Intendo dire… - rispose alzandosi anche lui –Che il lavoro politico lo devo fare tutto io e tu vai in giro ad ammazzare, creare malcontento e andare a letto con il tuo animale da compagnia. Questo non è governare. Mi chiedo perché tu abbia combattuto: non ti aggradavano le Volpi, ma devo dire che il loro governo almeno era molto meglio che il tuo. Dopotutto eravamo una famiglia abbastanza agiata. -.
Regina attraversò la stanza a grandi passi e con una manata sparse tutti i fogli sulla scrivania sul pavimento insieme al calamaio, rendendo i documenti inutilizzabili e da rifare completamente.
-Non ti azzardare a parlarmi mai più così. Sono molto più forte di te Taylor e non esiterò a battermi con te se osi ancora fare insinuazioni del genere. Fify dice che governo benissimo. -.
-Se Fify fa tanto il finto tonto per accontentarti non è colpa mia. Ascolta chi è sangue del tuo sangue Regina. Voglio il meglio per te. -. Era sincero con lei: era pur sempre sua sorella, la sua dolce sorellina minore a cui voleva bene nonostante il suo carattere difficile e quello che aveva fatto.
Regina si strinse la vestaglia addosso e gli voltò le spalle ordinando: -Stai fuori dai miei affari Taylor. Domani farò io quei documenti, vai a riposarti. -.
-Almeno è un inizio. – pensò il demone –Ma è comunque una bambina troppo viziata per questo ruolo. O cambia o penso che neppure io potrò salvarla dal suo destino. -.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 16: Se non puoi batterli unisciti a loro ***


CAPITOLO 16
Se non puoi batterli, unisciti a loro

 
Rinunciò al sonno per tutta la notte pur di vegliare su Milord. Sembrava un morto messo nel letto con quella posa rigida degna di un faraone egizio e il suo pallore non aiutava tanto a crederlo vivo. A malapena si vedeva il suo petto alzarsi ed abbassarsi.
Gli riferirono che Raven era più o meno nelle stesse condizioni, solo che lei si lamentava e non riusciva a stare ferma, continuando a grattarsi sopra la cicatrice fino a farla sanguinare più di una volta. Lui avrebbe preferito di gran lunga che lo facesse anche Milord, perché vederlo in quello stato lo faceva diventare nervoso.
Non voleva arrivare a dire che gli mancava essere maltrattato da lui ma in quel caso sì, poteva prenderlo anche a schiaffi se voleva, fare qualsiasi cosa, bastava che si risvegliasse.
Raquel e Matisse assistevano Raven mentre Andrea e Jaguar tenevano d’occhio la casa: con lo svenimento di Milord la protezione era svanita e loro non potevano farla ricomparire.
Com’era possibile che la protezione avesse fatto quello a Milord? Milord! Le protezioni miravano ad allontanare, al massimo nascondere… se ci andavi a sbattere contro ti respingeva come se rimbalzassi contro un tappeto elastico, esattamente come aveva fatto contro il mezzo demone, ma non tramortivano mai. Erano in grave pericolo senza di essa e con Milord fuori combattimento non avrebbero avuto la possibilità di combattere contro eventuali demoni.
Era pomeriggio inoltrato quando si decise a fare qualcosa.
Si mise in ginocchio vicino al letto e scosse il corpo immobile del loro capo, dapprima con poca forza poi tanto da fargli battere i denti. Si azzardò a dargli uno schiaffo ottenendo solo l’impronta della sua mano stampata sulla sua guancia.
-Sei uno stronzo Milord! – sbottò –Un gran stronzo stupido, testardo, ti odio, non mi tratti mai bene, sei arrogante e hai la faccia da cretino! Non sei neanche capace a… a… a fare… ti dai troppe arie perché sai fare tutto! Svegliati! Ci servi! Mi hai sempre sgridato quando poltrivo e non mi sembra il caso di essere ipocriti! -.
Gli riversò addosso tutto quello che gli passava per la testa e che non gli aveva mai detto in faccia, senza prendere una pausa, la faccia paonazza per il fiato che andava esaurendosi e la voce quasi stridula. Vedendo che non sortiva alcun risultato sbottò in un ultimo insulto: -Sei un figlio di puttana! -.
Aveva quasi le lacrime agli occhi: e se non si fosse più risvegliato? Se la botta lo stava lentamente uccidendo? Che avrebbero fatto loro? Che avrebbe fatto lui? Ormai era scontato che dove stava Milord poco lontano c’era lui, piccolo cagnolino obbediente e adorante (anche se lui non lo avrebbe mai ammesso).
Ma quando il padrone muore dove va a stare il suo fedele compagno?
Se fosse morto davvero come avrebbe fatto a riprendere la vita normale di un tempo con la sua famiglia, senza più ricevere sgridate e scappellotti da lui?
Poteva anche odiarlo a volte, ma per certo lo considerava una specie di amico…
-Ti odio… lo fai apposta a stare male, ci godi a vedermi dare di matto. – bisbigliò appoggiando la testa di lato sul materasso.
Stette per qualche momento con gli occhi chiusi prima di sentire qualcosa appoggiarsi sulla sua testa. Quando la alzò la mano di Milord ricadde pesantemente sul materasso con un rumore sordo e i suoi occhi si socchiusero.
-Sei patetico quando piagnucoli. – commentò con un filo di voce roca –Orecchie appuntite. -.
Si dimenticò all’istante delle sue preoccupazioni per quell’individuo che credeva con un piede nella fossa rispondendo indignato: -Come fai a saperlo? Ho tenuto il cappello anche a nuotare! -.
-Si sentono attraverso il cappello. – rispose ironico il mezzo demone agitando le dita della mano –È ridicolo il modo in cui le nascondi. -.
-Sono più ridicole loro, credimi. – borbottò imbarazzato il ragazzo. Poi si ricordò che si era svegliato e chiese: -Stai bene? -.
-Non c’è un solo centimetro del mio corpo che non mi faccia male. – rispose il mezzo demone.
Provò a spostare una gamba per scendere, ma dai denti stretti gli uscì un sibilo dolorante. Beast la spinse di nuovo sul letto, cosa che lo fece irritare.
-Voglio scendere. -.
-Non se ne parla. – ribatté il ragazzo –Hai detto che stai male. -.
-È ridicolo… quanto sono stato qui? Un’ora? -.
-Quasi un giorno. -.
-Troppo. – constatò –Devo assicurarmi che i McMastiff non attacchino. -.
-Ci pensano già Andrea e Jaguar. -.
-Raven… -.
-È con le donne e sta male come te. È tutto sotto controllo, smettila di preoccuparti per gli altri e preoccupati per te. -.
Milord inarcò un sopracciglio e disse: -Io non mi preoccupo affatto per gli altri. Che attacchino pure e ammazzino le sentinelle, non devono arrivare a Raven. E non mi preoccupo neanche per lei: appena sarò abbastanza in forze per stare in piedi le spezzerò le gambe. Voglio proprio vedere come farà ad andarsene in giro. Magari le strappo anche la lingua, non si sa mai. – prese a massaggiarsi la fronte con lentezza e borbottò: -Glielo faccio pagare questo colpo basso… -.
Beast corrugò la fronte e sbuffò: -Lei cosa c’entra? -.
-Stai tranquillo che c’entra… appena si sveglia aiutami ad alzarmi. Devo parlarle. -.
-Perché io? -.
-Perché sei sempre stato qui. Sentivo la tua fastidiosissima presenza e per la cronaca, mia madre era una donna molto rispettabile. Insultala di nuovo e ti strappo quelle orecchie a punta che ti ritrovi a morsi. -.
Il ragazzo avvampò per la rabbia e l’imbarazzo riservati alle sue orecchie. Annuì e borbottò fra sé e sé che almeno poteva ringraziare per il tempo che aveva speso per lui. Aveva rinunciato a dormire, una delle sue tre attività preferite, cioè dormire, mangiare e suonare la chitarra! Era un ingrato quell’uomo.
Preparò con pazienza una tazza di caffè e dei sandwich da portare anche alle ragazze intente a prendersi cura di Raven e per sapere come stava. Male come la sera prima.
Andrea non riusciva a capacitarsi del perché di quella specie di trance o forse non voleva dirlo a loro, ma le ragazze sapevano meno di lui.  
Tornò nella camera da letto del mezzo demone, trovandolo sveglio e ancora a letto, per fortuna. Lasciò il cibo sul suo comodino e chiese: -Vuoi? -.
-Chi li ha fatti? -.
-Io. -.
La risposta gli fece arricciare il naso e voltare la testa dall’altra con una smorfia: -Io non mangio quella robaccia. -.
-Che cosa? E perché scusa? – chiese indignato Beast.
-Perché di te non mi fido. -.
-Mica ci ho sputato dentro… - sbuffò, pensando: -Al caffè sì, però. – sforzandosi di non sorridere malignamente.
Milord fece una smorfia e guardò con la coda nell’occhio l’invitante sandwich rimasto nel piatto. Avrebbe mangiato solo quando sarebbe stato meglio e di sicuro niente che gli preparasse quel fastidioso ragazzino: non sapeva fare un uovo bollito. Una stretta allo stomaco gli ricordò che non mangiava da quasi un giorno e non affatto saggio rimanere a digiuno.
Nonostante sentisse un male incredibile a costole, addominali, collo, gambe e braccia si issò sui gomiti con un lungo gemito che cercò di trasformare in un ringhio per non apparire così mal messo.
Punzecchiò il panino con un dito e disse: -Mangio e basta, butta pure in caffè. Spero vivamente che tu non l’abbia avvelenato questo coso. È un sandwich questo? Sembra piuttosto una tartaruga ripiena di… spero qualcosa di commestibile. -.
-Guarda che l’ho fatto esattamente come mi ha insegnato Matisse. -.
Prese tra le mani lo spuntino e lo rigirò. In effetti sembravo fatto dalla sua dolce sorellina ma non era sicuro che avesse seguito la ricetta… poteva sentire odore di pomodoro, insalata, prosciutto, maionese e cipolla. Lui odiava la cipolla e Beast lo sapeva. Strinse la mascella e si costrinse a mangiarlo tutto, nonostante odiasse la consistenza e il sapore delle cipolle e anche la crosta del pane troppo croccante e la forma da pagnotta esagerata, quasi tonda sulla parte superiore. Ingoiare fu un’agonia, avendo la gola secca come la crosta di quel pane che gli grattava l’inizio della gola mentre ingoiava. Poteva almeno portargli un bicchiere d’acqua. Lo intuì quando si mise a tossire e riempì la tazza del caffè con dell’acqua del piccolo bagno adiacente alla camera.
Ingollò l’acqua fredda con foga tanto che gliene sfuggì un po’ dall’angolo destro della bocca e le andò di traverso, cosa che lo fece tossire ancora e gli fece un gran male all’altezza del torace.
-Hai male? -.
Non gli diede affatto fastidio il fatto che gli avesse appoggiato una mano sulla schiena e gli diede un paio di colpi leggeri, ma rispose lo stesso in modo brusco: -Certo che mi fa male. -. Finì di mangiare e sospirò. La pancia piena gli ridiede un po’ di buonumore.
-Grazie. -.
-Pensavo che non lo conoscessi quella parola. – osservò Beast tra lo stupito e il sarcastico.
-Credimi, questa è una parola che è più utile di mille altre. –. Si passò la mano sulla bocca per pulirsela (quanto avrebbe dato per un tovagliolo) e chiese: -La ragazza? Ha ripreso conoscenza? -.
Lui scosse la testa in segno di diniego. Un rumore di passi affrettati nel corridoio li fece voltare verso la porta, dove apparse Matisse, con i capelli scarmigliati per la corsa.
Si appoggiò alla porta ansimando e mentre riprendeva fiato esalò: -È sveglia… ma qualcosa non va. -.
 
***
 
Pensò di aver perso i sensi dopo aver chiuso gli occhi quando Jaguar l’aveva soccorsa. Non aveva idea per quanto tempo era rimasta senza conoscenza, ma era stato terribile: aveva sognato.
Le era sembrato di brancolare in un buio vischioso da cui voleva andare via ma non riusciva, come se fosse stata in mezzo al catrame o alla melassa. Si sentiva ardere le carni come se avesse la febbre altissima e tutto partiva dalla cicatrice, quella maledettissima cicatrice. La toccava ed era incandescente, la graffiava e sembrava di toccare lava!
Era confusa, non capiva che stava succedendo, si sentiva opprimere da ogni lato da quella roba vischiosa, le girava la testa, voleva vomitare, sentiva fitte dolorose agli occhi come se glieli bucassero con degli aghi arroventati… finché le braccia che teneva davanti a sé non furono prese per i polsi da due mani candide che la tirarono in avanti, togliendola da quella robaccia.
La sua testa si scontrò contro qualcosa di morbido e la sensazione di essere nella melassa scomparve, anche se attorno a lei era tutto nero. Alzò lo sguardo e scoprì che Morfeo la stava abbracciando.
-Che succede? Cos… -.
Lui la strinse e sibilò un lungo “shh…” rassicurante accarezzandole la testa. Dovette ammettere che si calmò e il giramento di testa passò come la sensazione di vomito che le attanagliava gola e stomaco, ma ci volle tempo.
-Ho creato un contatto per farti dormire… il male si sente di meno, io lo so… - le disse in un sussurro dopo un tempo che sembrava infinito.
Lei distolse le sue attenzioni di quel caldo e piacevole abbraccio per alzare nuovamente la testa e ripetere: -Dormire? -.
-Sono Morfeo. No? -.
-Cosa sta succedendo? Perché ho male… cosa ho fatto e come? -.
Il sorriso di Morfeo si piegò e poté notare che si mordeva l’interno della guancia mentre distoglieva lo sguardo. Quando i suoi occhi tornarono a guardare nei suoi una delle sue mani passò a toglierle i capelli dalla fronte ed accomodarglieli dietro l’orecchio, accompagnati da un commento appena udibile: -Dovresti tagliarti i capelli Raven, o i tuoi magnifici occhi nuovi si rovineranno. -.
Non poté fare osservazioni su quello strano aggettivo che disse una nuova frase: -Una magnifica Fenice alla fine si sta risvegliando dopo un lungo sonno nelle sue ceneri fredde… un cuore ardente di coraggio sconfiggerà un cuore ardente di rabbia… sono stati i vent’anni più lunghi della mia vita Raven e anche per te sono stati molto lunghi…-.
Cercò di togliersi le sue mani di dosso ma non ottenne niente, né una presa più debole né una più forte.
-Mi vuoi rispondere o no? – sbottò al massimo del disagio.
-È solo la profezia Raven. Adesso ti sveglierai. -.
Come un incantatore schioccò le dita e lei aprì gli occhi, ritrovandosi nel suo letto nella camera della baita in un bagno di sudore e spossata come se avesse corso per un giorno intero.
Vide con la coda nell’occhio qualcosa che si muoveva ed intuì che fosse Matisse, dato che accanto a lei c’era Raquel. Probabilmente era andata a prendere qualcosa.
La mezzo demone le appoggiò una mano sulla spalla e le chiese: -Stai bene? -.
Si girò su un fianco annuendo e si tirò su. Con un gesto si tolse i capelli dagli occhi e notò che Raquel faceva una strana faccia, tra il sorpreso e l’inorridito.
Senza badare al suo richiamo si trascinò in bagno fino al lavandino ed allo specchio, guardando subito l’immagine riflessa: il suo viso stravolto, con due occhiaie livide che le contornavano gli occhi… divenuti come quelli di un demone, con mille sfumature di rosso nell’iride e pupille verticali nere come l’inchiostro.
Si spaventò da sola per il grido che le sfuggì dalla gola ed incespicò all’indietro per allontanarsi da quell’immagine spaventosa. Raquel la raggiunse subito e la sorresse prima che potesse cadere.
-Ehi, stai tranquilla, non è niente. – la rassicurò.
-Niente? NIENTE?! Cosa cazzo mi è successo!? Da quando… come?! – balbettò la ragazza passandosi una mano sul viso come se non si capacitasse che fosse realmente il suo.
La mezzo demone si passò una mano sui corti capelli rossi e neri, indecisa su cosa dire o fare. Per fortuna intervenne Matisse, che calmò la ragazza con paroline dolci e riuscì a farla spostare in soggiorno, dove Milord aveva insistito per andare a parlare. Orgoglioso com’era non voleva di certo stare a letto per parlarle ed orgoglio a parte era stato costretto a farsi aiutare da Beast. Intanto anche le due sentinelle erano rientrate in casa.
Raven si sentiva tutti i loro occhi addosso, curiosi e allo stesso tempo intimoriti. Lei non sapeva dove guardare, per cui tenne gli occhi sulle mani che teneva strette fra le gambe, imbarazzata e spaventata.
Lo sapeva che era stata lei a fare quella cosa. Aveva desiderato di fermare Milord e… aveva sentito tutto quel bruciore e la sensazione di possedere uno scudo per poterlo tenere lontano da sé. Semplicemente lo aveva usato.
Il mezzo demone sembrava parecchio arrabbiato ma palesemente debole. Ciononostante la sua espressione non lasciava pensare che avesse paroline dolci per lei come Matisse. C’era una scacchiera appoggiata ad un tavolinetto basso: sembrava di marmo ed i pezzi bianchi e neri, schierati uno di fronte all’altro, sembravano piuttosto pesanti. Quasi distrattamente Milord prese una torre dai merli squadrati e la osservò attentamente. Poi con un rapido movimento del polso la lanciò nella sua direzione.
Poteva dire di aver sempre avuto dei buoni riflessi, ma non immaginava di poter prendere sul serio al volo quella pedina, non a quella velocità e con quel peso. Invece le sembrò di vederla volare molto più lentamente di come si era immaginata e la prese, stringendole le dita attorno. Quando riaprì la mano la pedina era rotta in tre pezzi.
Guardò incredula la pedina inutilizzabile e balbettò: -Non… volevo romperla. -.
Come aveva fatto a romperla piuttosto? A volte non riusciva neppure ad aprire certi barattoli di sott’aceti, come faceva a frantumare addirittura una statuetta di marmo? Non era fisicamente in grado.
Milord scrollò debolmente le spalle ed arricciò il naso. La ragazza lasciò i pezzi della torre su un tavolinetto gemello all’altro accanto alla poltrona su cui era seduta.
-Si aggiusta. – commentò il mezzo demone. Con tutti gli altri schierati dietro le spalle le sembrava di essere in un tribunale, anche se gli altri non la guardavano in modo particolarmente preoccupante. Sicuramente Milord ce l’aveva con lei per la botta.
-Ti sei accorta che hai gli occhi rossi? -.
-Certo. -.
-Sai cosa significa? -.
-No. – dovette ammettere Raven. Oppure si rifiutava di accettarlo? Certo che ci aveva pensato, aveva fatto dei collegamenti.
La risposta che le aveva già sfiorato la mente quando si era guardata allo specchio arrivò direttamente dal mezzo demone: -Ti sei trasformata in una demone. Direi finalmente. – aggiunse. Udirla le fece provare un turbine di emozioni che le fecero venire la nausea: rabbia, incredulità, rifiuto e paura.
-Non è una cosa possibile! Io sono umana! – esclamò.
-Corretto. – ammise Andrea –Ma ti ricordo che non sei completamente umana. – le ricordò tamburellando con un dito sul suo petto.
Capì perfettamente il riferimento e questo le fece sentire il sangue che defluiva di colpo dal viso.
Farfugliò: -Ma è solo un cuore… - che fece ridacchiare Milord.
-La vuoi sapere una cosa Portatrice? – ghignò –Sei più stupida di quanto pensassi. Dovrei cambiarti il soprannome in ibrida ormai. -.
-Cos’è un ibrido? – chiese Beast, non capendoci niente di quel discorso quanto gli altri.
Matisse rispose al posto dell’altro angelo: -Un ibrido è un essere vivente come sono i mezzi demoni, il frutto di un incrocio fra razze diverse. –. Poi ci ripensò ed aggiunse: -Ma penso che loro intendano un altro tipo di ibrido. -.
-Esatto. – confermò Andrea annuendo –Una specie di Frankenstein. Ci sono tre razze in tutto il mondo: angeli, demoni e umani. Milioni di anni fa gli umani ci davano la caccia sia per paura che per potenziarsi: avendo DNA molto compatibili era ed è possibile impiantarsi organi od arti di esseri come noi perché tendono ad aderire al corpo senza problemi e ad espandersi. Se qualche umano per esempio prendesse l’occhio ad un demone o ad un angelo e se lo impiantasse nel cranio, l’occhio per prima cosa non avrebbe problemi ad essere accettato dal corpo umano, e secondo, l’umano potrà avere i poteri dell’occhio demoniaco o angelico. Dipendendo poi dal corpo ospite e dall’organo del “donatore” i poteri demoniaci o angelici possono espandersi all’intero corpo o ad una sola parte. A grandi linee il fatto è questo. -.
-Il cuore è l’organo che permette al cento per cento una trasformazione completa: da umana a demone in pochissimo tempo. – aggiunse Milord.
Jaguar fece un’osservazione scettica: -Ma com’è possibile? È diciannove anni ormai che ce l’ha, come ha fatto a non accadere prima? -.
-Penso che ci siano alcune ipotesi: o il fatto che non ha mai avuto alcun contatto con qualcosa di demoniaco o angelico che potesse risvegliare in lei qualcosa o è sempre stato dormiente perché qualcuno lo voleva. – disse l’angelo dagli occhi viola passandosi una mano sul mento –Propenso per la seconda. Diciannove anni di ritardo sono stati recuperati in una notte sola. -.
-Morfeo. È Morfeo che ha bloccato la mia trasformazione! – pensò immediatamente Raven, ricordando le parole del demone albino con chiarezza. Scosse la testa e se la prese tra le mani: troppe cose tutte all’improvviso, cose con cui lei non voleva avere a che fare e di cui era spaventata.
Una demone! Era un mostro! Ma perché a lei? Che aveva fatto di male?
Mai, non li avrebbe mai aiutati!
Si alzò dalla poltrona e corse fuori dalla baita alla cieca. Raquel e Jaguar fecero per inseguirla quando Milord tese un braccio per fermarli e lasciare che andasse Andrea al posto loro. Si alzò anche lui, aiutato da Beast e commentò: -Bene, anche questa è fatta. Credevo che qualcosa non andasse in quella ragazzina, invece era solo un ritardo dello sviluppo in demone. -.
-Lo sapevi? – chiese incredulo Jaguar.
-Certo che sì, era scontato. – rispose, saccente -Adesso non dobbiamo perdere tempo ed addestrarla: in meno di un mese dovrebbe essere pronta. -.
-Pronta? Per cosa, affrontare demoni come i McMastiff? Come Madison? – chiese ancora il mezzo demone, ricordandosi bene della batosta che si era preso con un brivido.
Ricevette una scrollata di spalle in risposta.
-Non pensi che stiamo esagerando? È solo una ragazza… una ragazza normale. -.
-Normale? -.
-Va bene, non più di tanto. Ma fino a poco tempo fa conduceva una vita normalissima. Diamole tempo di abituarsi, di prendere fiato Milord. La stiamo stressando troppo. -.
L’altro mezzo demone lo guardò con un sopracciglio inarcato, come se stesse ascoltando una sciocchezza incredibile. Infatti confermò quello che la sua espressione faceva capire ed aggiunse: -Hai il cuore troppo tenero Jaguar. Conoscevo una persona come te una volta e, credimi, non ha fatto una bella fine. Ti consiglio di usare un po’ meno tatto se vuoi che la ragazza collabori e vuoi sconfiggere Regina. Cosa preferisci, che la Portatrice si decida a fare quello che deve fare e proteggere chi ti sta a cuore o rinunciare ad avere la tua bella vita felice con la tua famigliola in tutta tranquillità? -.
-È naturale che voglia avere la mia famiglia con Raquel. – ribatté il latino-americano –Ma… -.
-Ma qui comando io e si fa come dico io: tornerà a qui e verrà addestrata, che le piaccia oppure no. – concluse Milord con un ringhio.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo 17: C'era una volta, in un posto infelice... ***


CAPITOLO 17
C’era una volta, in un posto infelice…

 
Chissà cosa stava facendo suo cugino?
Chuck ci pensava sempre a lui e addirittura se lo sognava di notte. Era vivamente preoccupato per lui, essendo anche il più grande di esattamente un mese, e non sapeva cosa fare. Era vivamente tentato di abbandonare i McMastiff e scappare da Buck solo per vedere se era tornato al Mattatoio o lo avevano ucciso. Se quello era successo era tutta colpa sua: chi aveva avuto l’idea di scappare? Chi lo aveva fatto?
Forse era ancora vivo, se era vero che aveva avvertito Regina… no, Bucky non lo avrebbe mai fatto, non lo avrebbe mai messo in pericolo. Sicuramente era stato qualcun altro ad avvertire Regina, non certamente il suo migliore amico.
D’altra parte perché il signor Carlo gli avrebbe mentito? Per convincerlo a venire con loro? Ormai era in macchina, non c’era affatto il caso di mentire. Che avesse detto la verità?
Forse doveva davvero andare a dare un’occhiatina all’Inferno per stare con l’anima in pace. Magari era con la Resistenza! Certo, era ovvio: impaurito e tutto solo si sarà certamente rifugiato dalla Resistenza, dove accolgono volentieri mezzi demoni bisognosi come loro e chi poteva dare una mano. Regina aveva dedotto da sola che erano scappati. Dunque non era stato Buck.
Era un sollievo pensarlo, almeno finché non pensava che era anche un ragionamento assurdo.
Madison smise di fare gli addominali a testa in giù appeso a un ramo e chiese a Rosco: -Che ha? – indicando con il mento il mezzo demone accovacciato accanto alla sua tenda intento a strappare fili d’erba e sospirare.
Il fratello maggiore stava pensando ad una maniera per guadagnarsi con facilità la fiducia di Andrea e s’irritò per l’interruzione.
-Gli manca il cugino. – rispose seccamente per poi ritornare a pensare.
Non ne ebbe tempo perché Madison tornò alla carica: -Chi, quel rognoso di Buck? -.
-Ti prego, sto pensando. – lo sgridò Rosco roteando gli occhi –E abbi più rispetto per lui. Soffre. -.
-Ma se lo ha tradito! È scappato a riferire tutto a Taylor mentre noi stavamo giusto rubando alla fortezza. Lo abbiamo visto e dovremmo dirglielo. -.
-Non è abbastanza distrutto, vogliamo proprio straziarlo quel pover’uomo. – sospirò Rosco –Usa più tatto Mad, è già abbastanza preoccupato perché non sa che fine ha fatto, dobbiamo anche dargli conferma che lo ha pugnalato alle spalle? -.
-Direi che sarebbe meglio che fargli credere di potersi fidare di quel voltafaccia. -.
-Va bene. – si arrese il demone –Diglielo tu. -.
Il fratello minore era già sceso dal ramo e si stava già dirigendo verso Chuck, ma sentendo la frase si fermò.
-Io? -.
-Chi potrebbe mai farlo senza sentirsi in colpa? Nessuno tranne te. Su, vai a spezzargli il cuore. – lo incoraggiò facendo anche un gesto con la mano per fargli segno di andare.
Il demone deglutì e tornò sui suoi passi, un po’ meno deciso di prima. Decisamente meno convinto di prima. Era giusto dirgli la verità, ma non intendeva che doveva dirglielo proprio lui. Per certe cose era buono solo a far prendere aria alla bocca se doveva andare al sodo per quelle questioni non era il suo lavoro. Lui sapeva usare le mani, non parlare.
Quando Chuck alzò gli occhi su di lui nel momento in cui si fermò nelle sue vicinanze non ebbe il coraggio di proferir parola.
-Deve dirmi qualcosa signor Madison? -.
-Non lo sopporto con quel tono sottomesso… - pensò il demone infastidito, ma disse: -Vieni, andiamo a prendere dell’acqua. -.
-Subito. – si affrettò a rispondere Chuck prendendo due bottiglie vuote.
Entrarono nel bosco, inoltrandosi fino al torrente da dove solitamente prendevano l’acqua.
Mentre camminava ripensò a cosa gli aveva detto Rosco, anche se sovrappensiero: “chi potrebbe mai farlo senza sentirsi in colpa?”. Forse ora si era accorto di aver detto una crudeltà o forse era ancora troppo immerso nei suoi ragionamenti, ma prima o poi gli avrebbe chiesto scusa.
Certo che lui si sentiva in colpa come tutti. Solo che quel senso di colpa che lui provava non era riservata a delle parole dette a qualcuno, piuttosto ad un errore che aveva commesso molti anni prima, che non si sarebbe mai scordato. A volte sognava il fratello, Alan, da piccole scene di quando erano bambini fino a quando era morto.
Quella notte per esempio aveva fatto un sogno bellissimo: semplicemente quel pomeriggio in cui lui si era inciampato nel bordo rialzato di un tappeto ed era caduto di testa dentro ad un vaso della mamma. C’era rimasto incastrato per un quarto d’ora urlando come un pazzo finché Alan non era rientrato in casa dalla passeggiata che la sua famiglia aveva deciso di fare e gli aveva tolto il vaso dalla testa rompendolo con un martello. Si era guadagnato la claustrofobia e le orecchie schiacciate alla testa. Ma almeno l’unico che non lo prendeva in giro era proprio Alan.
“Le disgrazie capitano prima o poi. Per fortuna questa era divertente.” diceva spesso dopo l’accaduto, una massima che diceva anche quando magari la disgrazia era grave.  Se ne avesse avuto la possibilità l’avrebbe detta anche come ultima frase?
Certo che sì, era il suo marchio di fabbrica.
Gli mancava davvero tanto e quel che peggio era morto per colpa sua, per cui oltre che triste si sentiva anche in colpa. Poteva sembrare una persona dal carattere molto ruvido e scontroso ma il soprannome “soffice cucciolo” che suo padre gli aveva rifilato gli calzava a pennello. E no, provare a comportarsi come lo Zingaro gli veniva piuttosto male, a meno che non era in compagnia di sconosciuti.
-Mi sembra pensieroso signor Madison. – osservò Chuck, chinato a riempire la seconda bottiglia.
-Anche tu sei pensieroso. -.
-Penso a Buck. Lei pensa che stia bene? -.
Stava per rispondere con tutto il candore che possedeva ma si morse la lingua con forza: –Certo che sta bene. -.
Si sentì in colpa a vedere il suo sorriso sollevato e contento.
Per fortuna durò poco, perché entrambi si distrassero per un rumore improvviso: passi, lenti e incerti, sicuramente non un cerbiattino in cerca della mamma. Qualcosa di più grosso.
Bastò spostarsi di qualche metro per trovarsi in cima ad una collinetta di rocce franate dalla montagna e dare un’occhiata di sotto per vedere chi stava camminando nel bel mezzo del bosco al crepuscolo: Raven, la ragazza Portatrice. Era visibilmente infreddolita e disorientata. Dopotutto era molto lontana dalla baita di Milord. Ecco, come ci era finita lì?
Chuck non perse tempo e si calò giù dalle rocce, chiamandola: -Signorina Raven! Sta bene? -.
Lei alzò subito la testa, lo vide e sorrise rincuorata.
-Sto bene. Cosa ci fai qui? – rispose.
-Lei cosa ci fa qui piuttosto. – ribatté il più gentilmente possibile il mezzo demone sfilandosi la giacca per mettergliela sulle spalle –Siete gelata e lontana chilometri dalla baita, da sola. Milord non ci tiene più alla vostra incolumità? Ma i vostri occhi… accidenti, il signor Rosco aveva ragione, siete un’ibrida! -.
-A quanto pare. – rispose lei stringendosi la giacca tiepida addosso –Sei da solo? -.
Madison decise che era ora che si accorgesse della sua presenza. Li raggiunse con un paio di salti leggeri sulle rocce ed atterrò vicino al mezzo demone, costringendo la ragazza a fare un passo indietro. Poté notare che la sua vista le faceva paura. Non si aspettava di certo che le saltasse in braccio chiamandolo zio, dato che sicuramente le avevano raccontato qualcosa sul loro conto o almeno visto come aveva ridotto Jaguar.
Non passò inosservato neanche a Chuck, che si affrettò a dire: -Dovete stare tranquilla signorina Raven: ricordate? I McMastiff sono buoni. Vi riporteranno sicuramente al sicuro. -.
-Finché non vedo non ci credo. – disse diffidente Raven storcendo il naso.
-Furba. – commentò il demone. Di solito non l’avrebbe fatto ma tese la mano e disse: -Madison. -.
Lei la strinse e disse: -Penso che tu sappia come mi chiamo. -.
Annuì massaggiandosi le dita. Aveva una stretta bella forte la ragazzina, sicuramente effetto della forza demoniaca, ma gli aveva fatto un bel po’ di male.
A camminare dietro al piccolo duetto di Raven e Chuck non riusciva a capacitarsi che da piccola neonata in tutina azzurra che gattonava sul pavimento e a malapena parlava fosse diventata una bella ragazza, una donna ormai. Chissà chi erano i suoi genitori? Sicuramente il carattere lo aveva preso per osmosi dal genitore adottivo.
“Finché non vedo non ci credo.”, proprio una frase degna di Elen…
All’accampamento ci arrivarono in un attimo. Già da lontano i suoi fratelli avevano avvistato Raven e li aspettavano. Poteva percepire il loro entusiasmo e la loro impazienza, come dei bambini.
Chuck l’annunciò con un allegro: -Indovinate chi abbiamo trovato? -.
-Raven. – rispose Carlo. Madison roteò gli occhi nel vedere quelli del fratello luccicare.
Purtroppo per lui la nipote non era entusiasta quanto lui di rivederlo. L’ultima volta che lo aveva visto era stata in auto con Milord e poteva immaginare che quei due non si fossero rivolti parole cordiali.
Era visibilmente a disagio per la presenza di ben quattro persone che non conosceva affatto, se non di fama, ma si mise comunque ben dritta con la schiena e la testa eretta, dicendo: -Carlo e Rosco. Vi chiamate così, vero? -.
-Hai una buona memoria oltre che un bel viso. – si complimentò Rosco appoggiandosi con un gomito sulla spalla del fratello –Sei diventata proprio una bella ragazza. -.
-A proposito di questo devo farvi delle domande. – li avvertì Raven –Posso? -.
Carlo la guardò in modo piuttosto stupito ed acconsentì, facendola accomodare su uno dei tronchi attorno al piccolo focolare acceso. Lei si sedette, sempre con la giacca di Chuck addosso a ripararla dal freddo della sera. Doveva essere successa una cosa piuttosto brutta per farla allontanare così da Milord.
Si schiarì la gola e domandò: -Come fate a conoscermi voi tre? -.
Rosco ridacchiò e disse: -Mi sembra ovvio che sei piuttosto famosa nel nostro mondo. -.
-Non in quel senso. – disse Raven facendo un rapido segno di diniego con la testa –Mi avete detto che sono cresciuta. Questo vuol dire che mi avete visto da piccola, giusto? -.
-Beh, sì. -.
-E lavoravate per questa… Regina fino a poco tempo fa. Sempre giusto? -.
-Sì. -.
-Questo vuol dire che avreste dovuto catturarmi. Essendo piccola non avrei fatto niente per impedirvelo. Quindi perché non lo avete fatto? -.
I tre gemelli si guardarono, facendo contemporaneamente un rumore con l’angolo della bocca come uno schiocco.
Il maggiore si passò una mano sui capelli e disse: -Ehm… diciamo che non lavoravamo subito per Regina. Non vorrei dire qualcosa che ti turbi… -.
Madison gli diede di gomito e disse a voce alta: -Penso che ormai si sia abituata a cose che la turbano. -.
-Va bene, va bene, ho capito. Non voglio dirti tutto, ma il succo è questo: ti abbiamo visto da piccola perché conosciamo i tuoi genitori, quelli adottivi almeno. Punto. Tutto il resto a tempo debito. -.
-Adottivi… - mormorò Raven abbassando lo sguardo, per poi rialzarlo e chiedere: -Quante cose dovrei ancora sapere sul mio conto? – con una strana scintilla negli occhi rossi.
-Troppe. – dovette ammettere Rosco –Ma ora passiamo noi alle domande: come ci sei arrivata qua? -.
-Correndo. Mi sono persa perché non guardavo dove andavo. Venire a conoscenza del fatto che sono un’ibrida mi ha un po’ scossa. -.
-Scossa? Direi che ti ha dato una bella carica per arrivare qua. – osservò Madison.
Raven sospirò: -Dovrei tornare da Milord. Ma dato che sono con voi penso abbiate progetti diversi per me. -.
Carlo scosse la testa: -No, ti riportiamo da lui e vi porteremo entrambi nella Resistenza con noi. Sempre che Andrea abbia voglia di indicarci la strada. Vogliamo andare? – domandò alzandosi.
-Avevi detto che non era necessario prendere anche Milo. – s’impuntò Rosco.
-Ho cambiato idea. Dobbiamo farlo: convinto lui, convinta lei. È pur sempre suo fratello, no? -.
-Ti ricordo che però ci odia, noi tre. -.
-Lavorati Andrea. Mi è sembrato di capire che ti piace. -.
-Indubbiamente, ma l’angioletto è piuttosto ritroso alle mie avances. – dovette ammettere a denti stretti il demone.
L’ibrida sentì la conversazione e propose: -Potresti provare comportandoti da persona normale. -.
S’incamminarono di nuovo nel bosco e a detta dei suoi accompagnatori, Raven capì che avrebbero intrapreso una bella scarpinata. Lasciarono tutto al campo, sarebbero tornati in ogni caso. Lei ci aveva messo almeno due ore per arrivare in prossimità dell’accampamento dei demoni, scombussolata, infreddolita ed incredibilmente più calma di quanto si aspettasse, forse solo a causa della stanchezza per la corsa.
Dunque ora era una demone a tutti gli effetti, causa cuore, e molto probabilmente Morfeo che aveva “addormentato” i suoi poteri. Se tendeva le orecchie non sentiva niente di particolare, se cercava di guardare più in là del buio che le torce non riuscivano ad illuminare non vedeva niente, se dava rapidi annusate con il naso non sentiva alcun odore… insomma, niente di demoniaco a parte quella corsa pazza incredibilmente stancante, più veloce delle solite che faceva a scuola e decisamente più lunga. In cosa era consentita dunque quella dolorosissima trasformazione? Occhi rossi perfettamente con le stesse funzioni di prima, né meglio né peggio? Ma che schifo era? Se proprio doveva essere una demone poteva almeno avere qualche potere speciale! Insomma, doveva pur salvarli i mezzi demoni in qualche modo, se era uguale a prima che senso aveva trasferire il Cuore in lei? Bastava prendere un’altra umana, spingerla nel mondo dei demoni, augurarle tanta fortuna e una morte rapida senza dolori.
Chuck la vide pensierosa e si affiancò a lei, facendole notare che non guardava dove andava. Lei scartò un sasso dove sarebbe inciampata sicuramente e lo ringraziò.
-Di nulla signorina. -.
-Senti, chiamami Raven. Mi fa strano che mi chiami signorina. E scusa per l’occhio. -.
-Uh? Questo? – fece lui mettendosi una mano sulla benda bianca che copriva la ferita per proteggerla dalle infezioni come aveva suggerito Rosco –Non è più niente di grave. Siete scusata: eravate spaventata e sicuramente non è la cosa peggiore che mi è successa. -.
-Per esempio? Se ti va di parlarne… -.
-Perché no? Farò in modo che il tragitto le sembri più corto rispetto a quanto lo è in realtà. – rispose Chuck facendo un mezzo sorriso –Da cosa vuole che cominci? -.
Lei trovò buffo che Chuck si offrisse volontariamente di rispondere alle sue domande al posto di Morfeo. Era una domanda che le premeva molto fare a qualcuno e si vergognava a chiedere ad un possibile diretto interessato ma voleva assolutamente sapere: -Cosa succede ai mezzi demoni nell’Inferno? -.
Il pomo d’Adamo di Chuck andò su è giù un paio di volte nel deglutire del mezzo demone, evidente segno di disagio. Abbassò la testa e fece un lungo sospiro. Poi si schiarì brevemente la gola e disse: -Succedono molte cose. Dopo che Regina è salita al trono le famiglie dei demoni con figli imbastarditi avevano due possibilità: venire uccisi con il loro partner umano e il figlio meticcio o uccidere loro stessi i partner ed i figli, per dimostrare la loro fedeltà a lei. Deve sapere che è una cosa grave uccidere sangue del proprio sangue signorina, un reato grave che è punito duramente, ma per quella volta Regina fece un’eccezione. Vennero uccise tante persone innocenti, tra cui i nostri genitori. All’incirca cinque mesi dopo, però i massacri si fermarono. I mezzi demoni vennero raccolti, non uccisi sul posto. Venimmo catturati anche noi dai suoi Cacciatori e caricati sui loro camion per una destinazione a tutti sconosciuta. Sul camion che ci portò là avevamo tutti paura e c’erano persone di ogni età, da piccoli bambini agli anziani, rigorosamente mezzi demoni. Noi avevamo quattordici anni, quasi quattordici insomma, ed eravamo parecchio spaventati. Quando ci fecero scendere ci siamo trovati davanti ad un grande edificio nero dal quale usciva odore di fiori, polvere e paura. Era solo la facciata principale dove stava il nostro destino: dietro si estendevano piccoli casolari che sembravano quasi villette a schiera piacevoli, costruite su un terreno polveroso senza vegetazione recintate da un muro altissimo sul quale passeggiavano parecchi demoni armati ed addestrati. Su ogni casa c’era dipinto un numero scritto in rosso ed avvicinandoci ci accorgemmo che non era vernice. Entrammo nell’edificio nero e capimmo che non saremmo mai riusciti a svignarcela: troppe guardie e una sola via d’uscita. Ci fecero entrare in una stanza ed inginocchiare a terra. Lì uomini e donne vennero separati, le donne portate altrove. A quello noi rumoreggiammo ma fummo zittiti dalle guardie. Quando la calma fu ristabilita entrò un demone che noi conoscevamo: il fratello della regina, Taylor. Era spaventoso ai miei occhi: il suo sguardo ci passò in rassegna con sufficienza ed ebbi paura che fosse la nostra fine. Poi parlò, dandoci spiegazioni: eravamo al Mattatoio, una struttura dove potevamo stare in tutta tranquillità, sorvegliati dai demoni per essere protetti e sorvegliati. Un ghetto, in poche parole. Potevamo avere la nostra vita normale, con la nostra abitazione e il nostro lavoro a cui saremmo stati assegnati di lì a poco. Naturalmente potevamo scegliere di uscire e farci una vita fuori dal Mattatoio, ma fuori non saremmo stati protetti: questa eventualità ci veniva detta per scherzo. Precisò che la stessa cosa era per le donne, ma loro sarebbero state in un altro posto per lavorare, alla fortezza di sua sorella o nella mensa di questo posto dal nome minaccioso, condividendo con noi solo il cibo e una parte delle abitazioni. Prese il nostro silenzio come un sì e si fece da parte per far entrare un demone dall’aria mingherlina con un camice bianco con una pistola in mano o comunque un aggeggio che le somigliava molto. Ero il primo della fila e si diresse proprio verso di me. Pensai subito che quel discorso era stata tutta una messinscena per farci uno scherzo crudele. Pensai di essere spacciato e presi la mano a Buck accanto a me, chiudendo gli occhi. Sentii i passi del demone fermarsi dietro di me e la canna della pistola premuta contro la mia nuca. Quasi me la feci addosso, lo ammetto. E risi quasi dalla gioia quando premette il grilletto e sentii solo un gran bruciore, mentre Taylor ci spiegava che ora ci avrebbero impiantato un chip di localizzazione, utile nel caso avessimo deciso di andare da qualche parte oltre le mura o gironzolassimo fuori dalle baracche fuori dall’orario consentito. Inoltre ci diede le regole da rispettare: tenere pulita l’abitazione, non consumare pasti fuori dagli orari consentiti (ma come potevamo procurarcelo? Imparammo presto che era impossibile mangiare qualcosa fuori orario: tutto era controllato all’interno della mensa), non allontanarsi dai luoghi di lavoro fuori orario salvo infortuni, aggredire le guardie o scappare (in questi casi la pena era essere banditi dal Mattatoio e quindi essere cacciati come animali fuori) e mai e poi mai avvicinarsi alle donne. Prima di uscire ci fece assaggiare un po’ del suo potere speciale, la Fear. Tutti ci sentimmo soffocare, ci sentivamo morire. Finito, si congedò con un: “Trasgredite e pregherete per avere la Fear al posto delle punizioni normali” e andò dalle donne. Quando uscimmo di lì tenevo ancora Bucky per mano.
Andammo subito nell’abitazione a noi assegnata: quattro metri quadrati con delle brande impilate. Niente finestre se non un piccolo lunotto di vetro sopra la porta. La stanza puzzava e non solo puzza di sporco, ma perché alleggiava paura e disperazione. Dormimmo cinque ore, poi fummo svegliati dai nostri carcerieri per andare a lavorare: le case della nostra fila erano per quelli che dovevano lavorare nei campi di Fiori del Diavolo, piante utilissime ma dolorose da raccogliere. Prima però dovemmo pulire la nostra casa, per il controllo mattutino con strumenti forniti sul momento. Ci condussero verso un cancello che ci portò in un campo adiacente di sterminate file blu di fiori da raccogliere. I fiori ricrescono ogni tre giorni ed avevamo tutto il tempo di finire la fila e tornare in cima per ricominciare il lavoro, ma ci voleva una settimana per finirla. Potevamo fare con comodo, le guardie si limitavano a controllare che non ci rivoltassimo, non che lavorassimo come macchine, sollecitandoci di tanti in tanto di fare alla svelta. Le pause naturalmente non erano ammesse. Le foglie della pianta sono altamente urticanti e ci ritrovammo con le mani rosse e un prurito incredibile che non riuscivamo a far passare neanche tenendo le dita nell’acqua fredda o grattandole contro le pareti ruvide della nostra stanza.  Fummo quelli che le guardie preferivano, io e mio cugino, dato che lavoravamo sodo senza lamentarci e obbedivamo alle regole senza fare errori. Fui tentato anche io di andarmene, ma mi resi conto che le cose erano troppo ben organizzate per riuscire a trovare una falla nel sistema. E il chip nella nuca non sarebbe servito a nascondersi: ci avrebbero trovati subito e giustiziati sul posto. Inoltre non avevo motivo per andarmene; ero protetto, in fondo. Il lavoro era ripagato con piccoli extra alla mensa, sapone, abiti nuovi ogni tanto… Per cui stavamo zitti, compiangendo chi invece si ribellava al sistema e faceva di tutto pur di andarsene e vivere una vera vita senza restrizioni, disprezzando noi che ci accontentavamo di starcene come animali in gabbia.
Poi all’età di diciotto anni arrivò Regina. Beh, non era la prima volta che si faceva un giro nel Mattatoio con il fratello, ma andava negli altri reparti, dove si divertiva di più a guardare la paura dei lavoratori impegnati in lavori in cui la precisione doveva essere minuziosa, messa a rischio dalla sua vicinanza, cosa che dita irritate e sanguinolente per le foglie urticanti non facevano. Ma quella volta venne da noi. Non ne eravamo particolarmente contenti né altro, solo indifferenti e chi non lo era doveva fingere: scatti di rabbia e attentati alla sovrana, fratello o guardie avrebbero costato la vita al disgraziato di turno o a tutti noi. Era una splendida donna, niente da dire in contrario: prosperosa nei punti giusti e un bel viso, crudele, ma un bel viso. Il fratello un po’ meno bello ma altrettanto crudele d’aspetto e dall’espressione annoiata. Mio cugino se la mangiò con gli occhi per tutto il tempo che ispezionò le nostre file e dovetti dargli molte gomitate prima che fossero sostituite da scudisciate per farlo tornare al lavoro. Era una giornata particolarmente calda e tutti gli uomini si erano tolti la maglia per alleviare il caldo con il contatto diretto di un filo d’aria che soffiava da un paio di giorni, decisamente piacevole. Erano in mostra un bel po’ di costole quel giorno, dovetti osservare, comprese le mie e quelle di Buck. La nostra razione di cibo consisteva in un po’ di verdura bollita, una striscia di carne di bassa qualità e una piccola dose d’acqua verso l’una del pomeriggio e alla sera, poca roba che ci teneva in vita. Mi ricordo che io facevo spesso a meno della mia razione di carne per allungarla a qualche vecchio, bambino o donna che mi capitava accanto con discrezione, per non farmi notare: non sapevo se era contro le regole condividere cibo con gli altri, l’unica che riguardava il mangiare era rubare dalla mensa per poter magiare fuori dall’orario del pasto e avevo paura di essere punito per un gesto di gentilezza. Buck non lo fece mai e mi sgridava spesso, ricordandomi che chi aveva bisogno di quel cibo era chi lo riceveva nella sua scodella dal cuoco e ciò che io non mangiavo era una possibilità in più di svenire e venire sostituito con un prigioniero fresco come una rosa ed andare a riposare sotto terra. Come era successo a molti altri troppo deboli per brandire le forbici dalla punta smussata per potare i fiori o ammalati. Il cibo bastava appena, va bene, ma alcuni mezzi demoni venivano presi dalla depressione e smettevano di mangiare e si ammalavano. Grazie alla Volpe non ci siamo mai ammalati noi due e io mi sentivo abbastanza in forze da riuscire a lavorare anche senza dover buttare giù quella robaccia che sembrava cuoio troppo salato. In conclusione ero più magro di lui, giusto quel filino di grasso che copriva i muscoli, ma riuscivo a lavorare alla perfezione: sollevavo leggermente il fiore con due dita, con la mano libera tagliavo e recuperavo il fiore da mettere dentro la cesta di vimini che lasciavamo a terra e spostavamo man mano che avanzavamo con la raccolta. Ad un certo punto non sentii più Regina camminare o parlare. Credetti che se ne fosse andata ed invece era proprio davanti a noi. Mi concentrai più che potei sulla raccolta dei fiori ma la sua ombra che mi oscurava il sole mi dava una sensazione orribile, come se il cielo fosse oscurato per intero da essa. Alza, taglia, riponi, alza, taglia, riponi, alza taglia riponi, alzatagliariponi… se non avessi avuto autocontrollo mi sarebbero cadute le forbici di mano dal nervoso. Buck era più o meno nel mio stesso stato ma la mano gli tremava decisamente di meno. Poi ci chiese: “Siete fratelli voi due?”. Io risposi di no, solo cugini. Lei schioccò la lingua e chiese un’altra cosa: “Da quanto siete qui?”. Sempre io risposi che eravamo lì da quasi quattro anni. “Wow, siete belli resistenti. Come mai non li avete uccisi?”. Sudai freddo. Una guardia spiegò che non avevamo mai dato fastidio e lavoravamo in modo diligente e costante. Lei mugolò qualcosa e intanto Taylor passò ad esaminarci, osservano che per quanto magri e sporchi potevamo essere più utili di così. Passò ad interrogarci guardandoci dall’alto in basso: eravamo in grado di trasformarci? Quanto forti? Quanto veloci? Sapevamo maneggiare qualche arma? In grado di uccidere? A quest’ultima domanda Buck rispose di sì, io no. Il commento di Taylor mi fece accapponare la pelle: “Vedremo…”. Ci fecero posare le forbici e lasciare il lavoro per condurci dentro al grande edificio nero. Avevamo pranzato da tre ore, che volevano? Offrirci da bere? Poco probabile. Cos’altro facevano lì i demoni era un mistero a parte il fatto che uccidevano i mezzi demoni troppo deboli o rivoluzionari. Ebbi paura per Buck e me. La mia mano scattò a prendere quella del mio migliore amico e per la prima volta in assoluto lui la scansò rivolgendomi uno sguardo di rimprovero. Ci stavano per uccidere e lui faceva così? Entrammo nella stanza completamente coperta di piastrelle bianche che mi accecarono per un istante, abituato com’ero ai colori monotoni dei campi e della mensa. In fondo alla sala erano rannicchiati due fagotti che a prima vista scambiai per animali. Invece erano due persone che riconobbi subito: uno era un uomo che avevo visto di sfuggita qualche giorno prima a mensa e l’altra era una donna a cui meno di tre ore prima avevo passato il mio pezzo di carne. Regina prese con disinvoltura una pistola infilata nella sua cintura e la caricò con due proiettili per porgerla a Buck e dirgli: “Prego.” indicando quelle due povere creature dal viso scavato. Mi scappò da chiedere cosa avrebbe dovuto fare. “Uno ha tentato di scappare e l’altra ha cercato di avvelenare il cibo che serviva a mia sorella. Vanno puniti.” spiegò annoiato Taylor esaminandosi le unghie di una mano “Lui ha detto che sa uccidere: un piccolo esame per vedere se siete in grado entrambi di far parte dei personali servitori di mia sorella.”. Mi venne da ridere: io e Bucky non avevamo mai ucciso niente che non fossero piccoli animali come polli e conigli, una cosa completamente differente da una persona in confronto a degli animali da cortile. Non avremmo mai avuto cuore di fare una cosa del genere, neanche se era il nostro biglietto per avere un altro lavoro più agiato. Avevo appena finito di pensarlo che… la stanza rimbombò di uno sparo e l’uomo cadde in una pozza di sangue che usciva a fiotti dalla sua testa. Quasi mi venne da vomitare per l’odore improvviso di sangue. Quando si girò verso di me Buck aveva uno sguardo talmente duro che non lo riconobbi. Regina rise e gli scompigliò i lunghi capelli impolverati facendogli i complimenti. Passò la pistola a me e quasi mi cadde di mano. Non sapevo neanche da che parte si impugnava quella cosa! Guardai la donna e stava piangendo in silenzio. Dissi che non potevo e mi rifiutai. Buck mi sussurrò in un orecchio: “Sei pazzo? Abbiamo la possibilità di andarcene, spara stupido.”. Mi girai nuovamente verso la mezzo demone, la quale mi rivolse uno sguardo spaventato e… -.
-Basta. – disse Raven. Non avrebbe sopportato una sola parola di più.
-L’ho tubata signorina Raven? – chiese lui girandosi verso di lei. La poca luce che illuminava ancora la foresta si rifletté sui suoi occhi lucidi e il labbro tremolante.
-Ti ho detto di darmi del tu. -.
Lui scosse la testa con energia e disse: -Non posso: siete una demone, un livello, vari livelli, più di me. Devo portare rispetto, soprattutto perché… -.
-Tu a me? Adiamo, sono molto più giovane di te e ne hai passate molte più di me, cose per cui io sarei impazzita! – ribatté lei con enfasi –Io piuttosto dovrei portarti rispetto Chuck, come tu fai con me. Sei un mezzo demone, vero, ma rispetto a me sei livelli, vari livelli, più in alto di me. Sei rispettabile quanto lo sono io, nessuno è più importante di altri, siamo esattamente sullo stesso livello. Chiamami Raven. -.
-Va bene. Raven… - gli concesse Chuck.
-Era ora che desse retta qualcuno: mi sentivo un grande lord con lui che mi chiamava “signore”. – borbottò Madison.
Carlo appoggiò una mano sulla testa della ragazza e si complimentò: -Bel discorso signorinella. Sei una leader in fondo. -.
-Affatto. – lo contraddisse Raven arrossendo.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo 18: Riunione di famiglia del tutto spiacevole ***


CAPITOLO 18
Riunione di famiglia del tutto spiacevole

 
C’erano molte persone che non sopportava: in primis “Fify” ed i suoi due mocciosi, i suoi nipoti, lo Zingaro e in buona parte anche la regnante, con il suo modo di fare da ragazzina. Aveva settant’anni e che diamine, doveva comportarsi da donna adulta da un bel po’!
L’unico che poteva avere il piacere di godere delle sue simpatie ed era con lui in quel momento era Esteban, un demone di razza pura che aveva figli un po’ dappertutto e nessun impegno, se non quello che aveva preso nelle guardie di Regina.
Aveva diversi figli mezzi demoni.
Aveva.
Tranne qualcuno che era finito nella Resistenza e uno che se ne andava in giro con il cucciolo dei Fenrir, l’unico che gli sembrasse interessare.
Tipica carnagione abbronzata dei latino-americani, naso leggermente curvo, occhi verde giada, capelli neri corti con qualche filo argentato e fisico dalla muscolatura asciutta. In sostanza ancora un bell’uomo. Per non parlare del caratterino: infido e putrido, crudele ed insensibile alle sue malefatte. Un demone con la D maiuscola, come era modestamente anche lui tempo prima.
In quel momento gli stava al fianco mentre si mangiava una mela tirata fuori da chissà dove, una di quelle dalla buccia rosso scuro e dalla forma perfetta che ti facevano venire un certo languorino anche se avevi appena mangiato.
-Ti sembra il momento di mangiare? – chiese, infastidito dal rumore che faceva masticando.
-È sempre il tempo buono per mangiare Georgie. – replicò lui dando un morso al frutto –E poi io non ho mangiato stasera. -.
-Sì invece. -.
-Non abbastanza allora. – si corresse –Tu dovresti mangiare di meno. Cos’è quella pancia? Qualche anno fa non ce l’avevi. -.
-Forse perché qualche anno fa ero giovane. -.
Lui scrollò le spalle e finì di mangiarsi la mela con un morso solo, dichiarando mentre la buttava sotto un cespuglio: -Anche io ero più giovane una volta, eppure sono ancora un rubacuori. Soprattutto sono giovane dentro. -.
-Il tuo essere giovane dentro ti ha procurato un paio di problemi. – gli ricordò George.
Esteban fece spallucce e disse: -Jaguar non è un problema per Regina: gliel’ho detto milioni di volte, me ne libererà se non vorrà passare dalla nostra parte. Qualche giochino psicologico lo porterà dalla parte dei cattivi. In fondo ha buona parte dei miei geni e a differenza degli altri figli che ho in giro m’importa di lui. E almeno mi somiglia. -.
George lo stuzzicò: -Dunque c’è un po’ di sentimento in quel pezzo di granito che hai incastonato in mezzo al petto per qualcuno. -.
-Non è ancora nata la creatura che mi farà nascere sentimenti positivi. – lo rassicurò il latino-americano –Mi approfitterò del ragazzo finché sarà utile. Mica ho detto che gli voglio bene. -.
-Sai, se tu fossi una donna probabilmente ti avrei sposato. – ridacchiò George.
La battuta fece sorridere Esteban, il quale si trasformò in una grossa Pantera del lucido mantello nero e si strofinò sulle sue gambe come un grosso gatto, facendo rumorosamente le fusa. La lunga coda flessuosa arrivò al mento ruvido di barba del demone più anziano e gli solleticò la gola. Si alzò per appoggiargli le grosse zampe sulle spalle e tenendosi saldo con gli artigli alla sua giacca gli sussurrò all’orecchio: -Sei troppo vecchio per i miei gusti Georgie anche se ammetto che i tuoi capelli biondi come un giovanotto di vent’anni mi piacciono molto. Cosa dici, potremmo provarci… ? -.
A George venne la pelle d’oca a causa dei baffi che gli solleticavano il collo e le guance e soprattutto per l’offerta che gli stava dando con quel tipico tono che usava con le donne al bar. Si era dimenticato che aveva un pessimo senso dell’umorismo.
-Non pensarci nemmeno! – esclamò togliendosi le sue zampe di dosso –Io stavo scherzando, scemo! -.
-E io ti ripeto che sei troppo vecchio per me. – rispose Esteban con un risolino -Ora, se non ti spiace, andrei a dare inizio al piano. -. Detto questo la Pantera scivolò nei cespugli come un’ombra senza provocare neanche un rumore.
Strisciò sulla pancia come un vero predatore fino alla baita dove stavano i ribelli. Si accertò che le rune fossero inattive e lo erano. A quanto pare Milord era davvero ridotto male se non aveva la forza di tenere attive le protezioni per la Portatrice. Il loro piccolo uccellino aveva rivelato quello ed anche che c’erano turni di guardia ben precisi alla quale partecipava anche il piccolo angioletto alla quale Jaguar teneva tanto, dato che aveva vista aguzza e buon olfatto, cosa che la tarpatura delle ali non aveva smorzato. Inoltre aveva rivelato che raramente il turno era doppio, dato che avevano un uomo in meno, ma non era riuscito a dare l’identità di esso dato che era stato interrotto. Strisciò nei cespugli intorno alla casa ed individuò la posizione di George com’erano rimasti d’accordo. Un ultimo giro e tornò alla sua postazione.
Ad una certa oretta usciva l’angelo e quando si posizionò nell’oscurità del bosco, lei uscì.
Una gattina molto carina e palesemente in Calore. Ecco cos’era quel sentore così dolce a cui non era riuscito a dare un nome che sentiva da molto lontano. La sua coda ebbe un guizzo involontario e scostò rumorosamente delle foglie, cosa per cui si morse la lingua per non ringhiare.
Matisse si voltò nella sua direzione ma non vide nulla.
-Chi c’è? – chiese ad alta voce scendendo dalla veranda.
Con circospezione si guardò attorno per poi avvicinarsi a piccoli passi verso la fonte del rumore. Quando fu abbastanza vicino tese l’orecchio e non sentì nient’altro.
Sospirò di sollievo e si voltò, sicura che fosse stato uno scoiattolo o qualcosa del genere. Invece qualcosa di molto grande e pesante la fece cadere e le tappò la bocca.
-Shshsh… - le sussurrò una voce all’orecchio –Non ti farò del male pupetta. -.
La pressione sul suo corpo si allentò e lei riuscì a scivolare in avanti di poco, abbastanza da permettere all’aggressore di metterle una zampa sulla spalla e girarla per ritrovarsi faccia a faccia.
Un artiglio grigio e ricurvo andò ad appoggiarsi sulla tenera carne del collo a fare un po’ di pressione minacciosa. I grandi occhioni azzurri dell’angelo si spalancarono terrorizzati ma non gridò.
-Sei la sorellina di Jaguar vero? Su, chiama il tuo fratellone, fallo uscire di casa. – le ordinò con un basso ringhio che sembrò una fusa minacciosa.
Con sua grande sorpresa la fanciulla cambiò espressione e disse: –Mio fratello non è in casa. -.
Ci mise un secondo a capire che cosa intendeva la pupetta, sentire lo spostamento d’aria e buttarsi il più velocemente possibile di lato per evitare un attacco dall’alto da un’altra Pantera. Quando riuscì a rimettersi in piedi poté vedere suo figlio in tutto il suo splendore felino mentre passava la testa tra le braccia della ragazzina per aiutarla ad alzarsi.
-Guarda guarda chi si vede. – commentò –È così che si accolgono i genitori? Mi aspettavo un benvenuto un po’ più delicato. -.
Com’era prevedibile gli saltò addosso con un ruggito furibondo. Sfortunatamente per lui era pronto ad accoglierlo graffiandolo sul muso e non era un graffietto da gatto. L’urto con i suoi artigli gli fece abbassare la testa e ne approfittò per saltargli sulla schiena. Presero a rotolare su sé stessi avvinghiati a morsi e graffi, staccandosi solo per riprendere un attimo di fiato e prendere nota dei danni fatti e ricevuti.
Ne erano passati di anni e constatò che suo figlio era migliorato molto: gli aveva aperto una grossa ferita sulla schiena e morso la testa.
Lui non era stato da meno e notò che del sangue lo costringeva a tenere un occhio chiuso
Dalla veranda uscì Raquel con una pistola in pugno e Matisse al fianco. La puntò su una delle fiere per poi fare lo stesso con l’altra.
-Qual è Matisse? – chiese.
-Sono io Raquel! – disse Jaguar.
-No, è un bugiardo, sono io Jaguar. Spara a lui! – replicò l’altro con la stessa voce.
Jaguar soffiò ed esclamò: -Non imitare la mia voce! -.
-Tu non imitare la mia! – esclamò invece Esteban attaccandolo di nuovo.
Rotolarono nuovamente riprendendo ad aggrapparsi l’uno alla pelle dell’altro, cambiandosi nuovamente di posto e confondendo ancora di più la donna che riprese a puntare l’arma a caso prima su uno e poi sull’altro, senza decidersi su chi premere il grilletto e farla finita.
Puntò una delle Pantere e sparò.
Il felino ruggì di dolore e si rotolò sul fianco colpito artigliando il terreno con tutte e quattro le zampe, frustando l’aria con la lunga coda.
-Era Jaguar! – strillò Matisse prima che esso si trasformasse in umano tenendo le mani premute sull’anca sinistra che perdeva copiosamente sangue. Anche Esteban si ritrasformò e tenne ben saldo a terra il mezzo demone commentando con un sarcastico: -Bel colpo rossa. Ora mi fareste la cortesia di portare fuori la Portatrice? -.
Matisse era talmente arrabbiata che sarebbe saltata personalmente addosso a quel brutto ceffo e prima di tutti a Raquel. Ma come aveva fatto a non riconoscere Jaguar! Si era battuto come un leone e quella stupida lo aveva quasi ammazzato!
Dietro di loro apparve Milord, sorretto da Beast. Non era ancora in grado di reggersi in piedi da solo per troppo tempo tanto era debole. Si appoggiò alla ringhiera della veranda e chiese: -Chi sei? -.
-Esteban, umile servo di Regina. Piacere di fare la tua conoscenza Milord, sei piuttosto famoso. – si complimentò il demone facendo un inchino irriverente –Vogliamo parlare? Sarei qui per trattare di uno scambio. -.
-Mi avete stufato con le trattative. – sbuffò lui –Non cederò mai la ragazza. E poi non è qui. È scappata da un pezzo. – spiegò facendo un gesto vago con la mano. Arricciò il naso e si guardò intorno.
Spinse Beast verso la porta con le ragazze e disse: -Dentro voi tre. -.
-Ma…- cercò di protestare il ragazzo.
-Dentro. – ribadì Milord spingendo con decisione le ragazze dentro chiudendosi la porta alle spalle.
Si era appena appoggiato ad essa per non cadere a causa delle gambe divenute tutto ad un tratto cedevoli che l’odore che lo aveva messo in allarme si fece più vicino. Come sospettava era George, con il suo spregevole sorrisino. Se lo ricordava da quando era un bambino quel sorriso.
-McMastiff. -.
-Fenrir. Arrogante come Duncan e tremendamente simile a lui anche nell’aspetto. – commentò il demone studiandolo dalla testa ai piedi con occhio critico –Credevamo fossi morto. -.
-L’ho appena detto, la ragazza non è qui. – ripeté Milord, ignorando il commento -Siete sordi oltre che vecchi voi due? Lasciate andare Jaguar: se non ho la ragazza lo scambio non si fa. Non lo farei comunque. -.
George sputò sprezzante e ghignò in direzione di Esteban: -Hai sbagliato ostaggio: dovevi prendere il ragazzino-cane e ci avrebbe servito la Portatrice su un piatto d’argento. -.
-Che ci vuoi fare… - rispose lui con una scrollata di spalle alzando Jaguar da terra per il colletto della maglia –Sono sentimentale e mi mancava mio figlio. Una riunione padre-figlio con i fiocchi, vero? – ridacchiò pizzicando la guancia all’uomo per ritirare velocemente la mano prima che lui gliela mordesse.
Provò anche a rimettersi in piedi ma la ferita della pistola non gli permetteva di usare la gamba e suo padre non lo lasciava muovere. L’unica cosa che lo consolava era il fatto che fosse al posto di Matisse, al sicuro che lo guardava dalla finestra.
-In ogni caso, pensi che se ci teniamo il cucciolo di Esteban e te, i tuoi compari ci lascerebbero la Portatrice non appena tornerà in sede? – continuò George.
-Me? Divertente George, ma io non mi lascerò catturare molto facilmente. – ribatté il mezzo demone. Si smentì da solo quando cercò di allontanarsi dalla veranda e riuscì solo a fare pochi passi veloci, perché un ginocchio gli cedette e dovette appoggiare una mano al terreno per non sbatterci la faccia contro.
-Milord! – esclamò Beast andandogli vicino.
-Sto bene Lessie. – mentì, pensando: -Qui serve un miracolo per uscirne vincitore o meglio, vivo. -.
Poteva immaginare che nell’avvicinarsi a lui, George fosse tronfio e vittorioso, sicuro di farcela. Non si sentiva neanche di alzare le protezioni per fare un ultimo disperato tentativo di scacciarli e nemmeno di mettersi due dita in bocca e fischiare per chiamare la sua ultima, decisiva, possibilità di salvarsi.
Beast si mise in mezzo sotto forma di Akita, ringhiando. Poteva sembrare minaccioso se non avesse avuto la coda tra le gambe. George non si spaventò affatto e gli intimò di andarsene, finendo con il ricevere un morso sul polso.
-Beast ti avevo detto di entrare! -.
-Stupido cane. – borbottò George sbattendo la testa di Best contro il muro della casa, facendogli perdere i sensi.
Liberatosi del mezzo demone si avvicinò a Milord e lo sollevò prendendolo per il colletto della camicia coreana per guardarlo negli occhi.
-Sai, è dannatamente soddisfacente vederti sconfitto. – gongolò George con un sorriso soddisfatto –Ti ricordi bene di me vero? Ma sì, i tuoi occhi dicono tutto, lasciano traspirare un odio che è assolutamente un piacere vedere. -.
Milord gli appoggiò le mani sulla sua che lo tratteneva e ringhiò: -Stai pur certo che non è finita qui McMastiff… -.
-Tu dici? -.
Alzò il pugno sopra la faccia di Milord, pronto a colpirlo talmente forte da fargli rientrare li naso nella testa.
-Ehmehm, George? Quanti Mastini Tibetani ci sono in circolazione oltre te? -.
-Tre, che domande. – rispose irritato per l’interruzione –Ti sembra il momento di fare domande idiote? -.
-Per me no, ma per loro temo di sì. – rispose Esteban indicando un punto imprecisato dietro al demone.
-Cos…? Ah, i miei nipoti guastafeste. E sono in compagnia. -.
Infatti la compagnia dei gemelli arrivò appena in tempo per evitare a Milord un occhio nero e i denti rotti.
Per arrivare prima che facesse troppo scuro per raggiungere la baita avevano deciso di trasformarsi e dare un passaggio a Raven. Lei non aveva mai capito cosa volesse significare il loro cognome, anche se sapeva cos’era un mastino: una parola che le faceva pensare ad un Rottweiler o un Alano, ma mai in vita sua aveva visto un Mastino Tibetano.
Quando si ritrovò davanti quei tre trasformati quasi li scambiò per leoni: erano grossi, sia per l’altezza al garrese (molto oltre il suo bacino) e l’enorme massa di pelo che ricopriva il loro corpo, con grandi zampe con altrettanti artigli non retrattili e zanne bianche minacciose. Chuck a confronto sembrava molto più piccolo (anche perché per essere un Levriero Irlandese era più basso della media della razza di una spanna) e molto meno robusto. Erano decisamente immensi ed intimidatori. Quando però Carlo si abbassò alla sua altezza per farla salire il suo morbido pelo biondo le aveva fatto pensare piuttosto ad un peluche caldo e coccoloso, anche se era difficile mantenere l’equilibrio, soprattutto perché correva molto veloce.
Puntarono le zampe e frenarono bruscamente in vista dell’abitazione e di quello che stava accadendo fuori, sbalzando quasi la Portatrice. Lei mise a fuoco i due nuovi individui e osservò: –Immagino che loro non siano amici. -.
-Per niente. – confermò Chuck con un guaito –Sono Esteban e George, due guardie speciali di Regina, padre di Jaguar e nonno dei McMastiff. Se loro sono qui non vuole dire niente di buono, perché quella è la cavalleria pesante. -.
-Niente paura Raven. – le disse Carlo mentre tornava in forma umana con i fratelli –Ti proteggiamo noi. -.
-Non ho paura. – disse lei, gettando un’occhiata a Jaguar e Milord, l’uno molto contento di rivederla mentre l’altro sembrava la volesse sbranare viva.
I due demoni lasciarono la presa sui loro prigionieri, ma a differenza di Jaguar, l’altro gridò: -Portatela via! Dove diavolo volete, ma via di qui, la porteranno da lei! -.
-Oh ma allora ci tieni alla ragazzina. – osservò Esteban perdendo completamente interesse vero il figlio, ormai pallido come un morto per la perdita di sangue, impregnato nei pantaloni e nel terreno.
-Piuttosto che consegnarla a voi la lascerei anche agli angeli. – ribatté Milord con un ringhio furibondo.
Raven guardò preoccupata Jaguar, che sembrava più di là che di qua. Si aggrappò al polso di Rosco e implorò: -Dobbiamo fare subito qualcosa per Jaguar o morirà. Andrea ha detto che sei un medico, fai qualcosa, ti prego. -.
-Cos’altro ha detto su di me? – chiese interessato il demone.
-Che se non ti sbrighi crepa, imbecille. – lo apostrofò Madison.
-Raven ha ragione. – disse Carlo –Rosco porta dentro il mezzo demone, Chuck e Raven con lui. -.
Mentre i due scattavano indisturbati a recuperare i feriti e portarli in casa Raven si oppose con un deciso: -No. -.
-Che significa no? Va’. – ribadì lui prendendola per un braccio, stretta da cui lei si liberò con uno strattone.
-Per te cosa significa no? Io resto: Milord non può alzare le protezioni ma io sì. Qualcuno dovrà pur tenere a bada loro. -.
-Penso di sì… - rispose titubante il demone.
-Allora buona fortuna ragazzi. – concluse Raven battendogli una mano sulla spalla e correndo verso uno degli alberi con le rune.
-Ma sì, lasciamo che ci provi. – disse Esteban –Intanto prendiamo questi quattro disertori e prendiamoci la ricompensa. Non ti spiace, vero Georgie? -.
-Per niente. – rispose il demone.
Finalmente la buona occasione per avere la sua vendetta personale verso Arthur e Jane e soprattutto indispettire qualcuno di sua conoscenza… uhh, una dolce, dolce vendetta! Finalmente avrebbe avuto la possibilità di fronteggiare i suoi dolci nipotini: Carlo, uguale identico al defunto fratello nello spirito e nel corpo, Madison, identico a suo figlio, loro padre ed infine Rosco, l’incarnazione della madre di quei quattro traditori. In questo modo avrebbe preso a calci rispettivamente ed ancora una volta Alan, Arthur e Jane. Poi sarebbe arrivata l’ora di Milord, un modo per farsi beffe di Duncan ancora una volta e la ragazza Portatrice. Cinque persone per girare il coltello nella piaga soprattutto ad una: già s’immaginava la sua silenziosa reazione che avrebbe interpretato come il secondo smacco della sua patetica vita.
-Carlo è mio. Intesi? – disse a Esteban.
Lui guardò quel lampo feroce tipico di quando era deciso passargli velocemente nelle iridi rosse e si morse il labbro annuendo con un piccolo cenno del capo, per poi dire: -È tutto tuo. -.
Le ombre dei contendenti presero a muoversi sotto il loro piedi come un animale che si risveglia dal sonno, per poi alzarsi e vorticare attorno ai loro padroni e concentrarsi su una delle mani, prendendo forma e consistenza, trasformandosi in spade. I McMastiff avevano spade lunghe a doppio taglio mentre Esteban una spada molto più corta tagliente da un solo lato e senza guardia, un machete.
Non aspettò un solo attimo, scagliandosi contro il suo avversario che parò l’affondo dell’arma mettendo la spada di piatto e respingendolo.
Il ragazzo era piuttosto forte e la sua arma gli permetteva di tenerlo a distanza di sicurezza. Peccato che fosse anche piuttosto lento in confronto a lui. Doveva per forza avvicinarsi e rischiare di farsi tagliare in due, cosa che poteva evitare se usava la sua arma più importante: una parlata svelta e seccante, adatta a distrarre l’avversario.
Stavolta ad attaccare fu Madison, alzando la spada sulla testa e calandola, il quale fu molto stupito che il suo attacco mirato a rompergli la testa fosse parato con facilità da quell’arma decisamente più corta della sua.
-Sicuro di voler usare quel giocattolino? – domandò calcando il peso sulla spada per tentare di far piegare l’avversario.
Esteban resistette e disse: -Questo è un giocattolino che vale quanto il tuo. Ed è molto efficace in mani che sanno usarlo. -.
Scivolò di lato lasciando che la spada di Madison completasse il suo corso aggirandolo e dandogli un colpo nel bel mezzo della schiena con l’elsa del machete. Non aveva calcolato che la schiena del demone fosse così robusta e di conseguenza aveva calibrato male la potenza da imprimere al colpo. La spada di Madison si conficcò nel suolo e lui vi si appoggiò con tutto il suo peso, sollevandosi e tirando un calcio in faccia ad Esteban. Il latino-americano girò il viso dall’altra parte e cadde a terra, coprendosi la bocca. Quando tolse la mano dal suo viso la trovò imbrattata di sangue e sentì un male incredibile in fondo alla mandibola. Passò la lingua sul dolore aggiungendone altro e poi sputò, trovandosi ai piedi un dente scintillante di saliva e sangue.
-Merda. – imprecò divertito passando la lingua nella cavità tra i denti –Colpisci forte ragazzo. -.
-Sono un demone adulto. – ribatté Madison.
-Uhh, come siamo permalosi… -.
Ripresero a combattere, uno parando i colpi dell’altro per studiare dove poteva trovare una breccia in quell’insolita difesa e l’altro cercando di abbatterlo il più velocemente possibile per andare ad aiutare suo fratello. George era nato con la spada in mano e la determinazione a dare una lezione ai nipoti lo avrebbe reso particolarmente pericoloso nei loro confronti.
Quest’ultimo intanto duellava con Carlo usando schemi di combattimento in rapida successione che venivano tenuti sotto controllo dall’abilità del più giovane di avere riflessi pronti e una grande conoscenza di questi schemi. Dopotutto il suo maestro gli aveva insegnato tutto ciò che era di sua conoscenza prendendo ad esempio le persone che componevano la sua famiglia e le loro preferenze in fatto di combattimento ed armi. Per fortuna suo nonno non era cambiato di una virgola ed usava gli stessi schemi. Poteva sembrare pericoloso preservare questa tecnica negli anni, ma non seguiva mai lo stesso ordine più di una volta, cosa che lo rendeva molto imprevedibile e temibile. Era costretto a parare e non gli dava spazio per tentare anche solo un affondo, impegnato com’era a non farsi infilzare e lasciarlo passare al suo fianco o, peggio ancora, dietro di lui.
Per quanto vecchio era veloce e letale: perderlo di vista anche solo per un secondo gli sarebbe stato fatale.
Riuscì a bloccarlo mentre parava un colpo diretto alla gamba spingendo la sua lama lontano e tentando un affondo tenendo la spada con due mani, ma non era un movimento abbastanza fluido da poterlo colpire. Bloccò la lama trattenendola con una mano per poi tirarlo verso di sé. Lo avrebbe trapassato da parte a parte se lui non avesse fatto lo stesso con la sua arma.
Il metallo della spada di George gli incise il palmo e le dita, cosa piuttosto dolorosa quando l’avversario decise di spingere l’arma ed essa scivolò per qualche millimetro nel suo palmo facendosi strada attraverso la carne. Ma a quanto pareva lo stesso trattamento faceva male anche a lui. Mantenere la presa fu difficile con il sangue che diminuiva l’attrito fra mano e spada.
Carlo fece una manovra disperata, sperando che George non mollasse la presa: si appoggiò alle spade come un ginnasta ed alzò le gambe unite, colpendo l’avversario sotto il mento.
Il demone lasciò la presa sulla spada del nipote ed arretrò di due passi. Poteva sentire un dente scheggiato, ma niente di grave. Piegò la mano ferita e trovò che bruciasse molto. Doveva rinunciare a curarsi se voleva preservare la forza necessaria per sconfiggere il nipote. Era forte e se lo aspettava: dopotutto aveva i capelli biondi. I Mastini Tibetani dal pelo biondo erano particolarmente forti e rari, per cui lui era fiero di essere uno di essi quanto per i nipoti Alan e Carlo, quando suo figlio glieli aveva presentati. Gli dispiaceva dover eliminare anche l’ultimo Mastino biondo, ma a ben pensarci lui poteva ancora farcela a riprodursi e preservare i geni fortunati.
Mentre lo scontro infuriava, Raven non sapeva come accidenti attivare la runa demoniaca. Non percepiva alcuno scudo da alzare con la sua mano invisibile della mente (come aveva immaginato che fosse andata). Se non c’era niente da sollevare che poteva fare?
Toccando le rune le sembravano fredde e vuote come quella nella villa di Milord, inattiva. Quando lei aveva aizzato la runa contro Milord aveva caldo, male alla cicatrice e si sentiva pizzicare dappertutto come se avesse avuto una carica elettrica che le attraversava il corpo. Adesso non sentiva un bel niente.
-Mi spieghi che cosa stai facendo? -.
Milord si appoggiò al tronco dell’albero visibilmente affaticato dal tragitto che si era dovuto fare, soprattutto perché si teneva una mano sulle gambe.
-Cerco di fare quello che dovresti fare tu. – rispose seccamente lei.
-Io vorrei liberarmi di loro quanto te, credimi. – rispose lui a tono –Ma non posso ed è colpa tua Portatrice. -.
-Almeno puoi darmi una mano a capire come fare? -.
-Posso provare. -.
Appoggiò una mano sulla runa e chiuse gli occhi.
Quando la tolse disse: -Fantastico, è sparita. C’è solo l’Impronta. Complimenti, l’hai rotta. – aggiunse guardandola male.
-Beh scusa se non volevo ricevere un pugno in faccia da te. – sbuffò lei.
-Non posso rifarla, non ho abbastanza forza. Ci vogliono anni per imparare a farle. -.
-E quanto ci vuole a ritorcerle contro il proprietario? -.
Roteò gli occhi argentati e sbuffò: -Va bene, ho capito, vuoi farlo tu per forza. Per disegnare una runa devi sapere che devi impegnarti molto. -.
-Ok. -.
Appoggiò un dito sulla X e spiegò: -Devi ripassare la runa. Intanto pensa che vuoi proteggere un determinato luogo, questo. -.
Raven annuì e appoggiò un dito sulla corteccia scavata e ripassò il disegno, partendo dal cerchio per poi passare alle due sbarre incrociate all’interno. Non successe assolutamente nulla.
 Ci riprovò, pensando esattamente alla baita e alla barriera verde che aveva creato. Ancora nulla.
-Ce lo stai mettendo il desiderio di protezione? -.
-Oh no, mi piace accarezzare alberi, lo faccio sempre! -.
-Datti una calmata. Ci credi che funziona? -.
La ragazza corrugò la fronte e con tono sarcastico chiese: -Quando arriviamo al punto in cui mi cospargi di polvere di fata? -.
Ricevette uno scappellotto sulla nuca e Milord ringhiò: -Concentrati scema. -.
-Non trattarmi come un’idiota! – esclamò lei sentendosi andare in fiamme –Ci riprovo ma guai a te se mi insulti. -.
Fece un profondo respiro e si concentrò, focalizzando per bene nella sua mente l’immagine vista dall’alto della baita, immaginandola come circondata da muri. Tracciò con i piedi un cerchio attorno a lei e lo completò con la X.
Quando aprì gli occhi lo spazio vuoto che aveva lasciato tracciando la runa con i piedi era bruciato e luminoso di verde. Il cerchio illuminato si allargò, passando oltre le bruciature e l’albero, oltrepassando senza problemi esso, Milord e lei stessa. Il muro verde che si formò puntò dritto verso i McMastiff ed Esteban, che si erano fermati nel momento in cui si erano accorti della luce proveniente dalla ragazza.
Il muro passò oltre Madison e Carlo come aria, ma a contatto con gli altri due sembrò che prendesse consistenza e li spingesse via, allontanandoli. Loro puntarono i piedi nel terreno cercando di fare resistenza ma scivolavano inesorabilmente indietro.
-Ci siamo fatti fregare da una ragazzina a quanto pare. – constatò Esteban dando un colpetto con le nocche alla barriera verde che vibrò minacciosamente e respinse le due dita, quando si fu fermata oltre la cintura di alberi.
George diede un rabbioso calcio alla protezione e fu slanciato indietro di parecchi metri, finendo contro un albero.
Il suo compagno ridacchiò coprendosi la bocca con una mano. Si voltò verso la Portatrice ed alzò un braccio nella sua direzione per salutarla e urlò: -Ci si rivede la prossima volta! Porta i miei saluti a Jaguar! -.
-Ehm… certo. – balbettò Raven salutandolo muovendo leggermente una mano.
Si sentì appoggiare una mano sulla spalla e si voltò, vedendo Milord.
-È la prima cosa giusta che fai. -.
-Oh, grazie Milord. -.
-Ora muoviti ad aiutarmi a tornare in casa. -.
-Oh… certo. -.
Il mezzo demone si appoggiò alla sua spalla e lasciò che l’aiutasse a tornare in casa. Passati davanti Carlo e Madison alzò una mano e disse: -Voi due state fuori. Vi spedisco fuori Rosco non appena finisce di cucire Jaguar. -.
-Loro entrano. – lo zittì Raven –Anche loro sono feriti e se non fossero intervenuti tu avresti la faccia infossata nella testa. -.
Lui borbottò qualcosa che lei non capì, ma forse stava solo facendo suoni inarticolati. Lasciò che loro entrassero.
In soggiorno Jaguar era disteso sul divano mentre Rosco stava tagliando con i denti un filo per infilarlo dentro ad un ago. Matisse stava accanto al fratellone e gli teneva la mano accarezzandolo sulla fronte sudata. Beast era accovacciato sulla poltrona di Milord, cosciente. Si spostò per lasciare il posto a lui, il quale gli appoggiò la mano tra le orecchie con leggerezza prima di sedersi.
Rosco alzò per un attimo lo sguardo dalla ferita di Jaguar e chiese: –State bene fratelli? -.
-Qualche taglio. – rispose Carlo.
-Io ho preso il dente di Esteban. – si vantò Madison.
Il fratello arricciò il naso disgustato e sospirò: -Già che ci sei perché non giochi con il proiettile che ho trovato dentro la gamba di Jaguar? -.
-Davvero?  Dov’è? -.
-Nel posacenere. – rispose Rosco, poi si rivolse a Matisse: -Adesso farà male. -.
-Non puoi usare il Fiore del Diavolo? -.
-No, fa una strana reazione con la carne andata a contatto con metallo di Lux. È meglio fare alla vecchia maniera. -.
Quando iniziò Jaguar strinse i denti e la mano di Matisse. Per distrarsi osservò: -Pensavo che fossi un cattivo tu. -.
-Sono un medico. Un medico è neutrale quando professa. – rispose Rosco –E non è la prima volta che ti curo. -.
-Grazie. -.
-Dovere e piacere. Tocca a me fare domande: dov’è Andrea? -.
-Non era con voi? Con Raven? – chiese perplessa Matisse.
-Non lo abbiamo visto. – rispose Carlo, con il consenso degli altri.
Chuck precisò: -Ho sentito il suo odore nelle prossimità della baita ma nient’altro. -.
In quel momento la porta si aprì ed entrò l’angelo mentre chiudeva una chiamata al telefono. Vedendosi tutti gli sguardi addosso fece una risata nervosa e chiese: -Cosa è successo? Sembra che abbiate visto un fantasma. -.
-Tu avresti dovuto essere con Raven. – disse con tono grave Milord.
-Sì, hai ragione. Ma mi ha chiamato Elen e ho dovuto rispondere. Abbiamo parlato di tu-sai-cosa. -.
Il mezzo demone strinse i braccioli della poltrona con forza e sibilò: -La risposta è no Andrea. -.
-È tua nipote! Devi farlo, cosa pretendete di fare voi cinque da soli contro un esercito? Stando con te la farai ammazzare! – esclamò furioso Andrea –E in più mi sembra un sequestro, se la metti su questo piano, psicopatico. -.
-Non una parola di più angelo o giuro sulla Volpe che ti sgozzo qui davanti a tutti e me ne fotto il cazzo che sei il comandante in seconda di mia sorella e di tutta la sua inutile combriccola di rivoluzionari! – sbottò lui, con le pupille completamente rosse.
Andrea sollevò le mani in segno di resa: -Va bene. Ok. L’hai deciso tu. Me ne vado, dato che farti ragionare è impossibile. Tua sorella non ha ragione, sei matto e ti consumerai da solo a fare così. -.
Per tutta risposta lui voltò il capo dall’altra parte con uno sbuffo. Andrea andò in camera sua a riprendersi le sue cose senza degnare nessuno di uno sguardo. Intanto Rosco aveva finito di medicare Jaguar e spiegò a Matisse cosa fare l’indomani.
Carlo si avvicinò a Milord, ma lui si rivoltò come una vipera e sibilò: -Non provare a parlarmi. -.
-Andrea ha ragione se ho capito quel che ho capito. -.
Il mezzo demone lo prese per la maglia e lo avvicinò a lui per sussurrargli all’orecchio talmente piano che neanche Beast sentì: -Gira al largo dalla ragazza Carlo o giuro sul nome dei Fenrir che te la faccio pagare. Sono io che salverò i demoni e vendicherò i miei genitori, non la Portatrice, ma io. La userò finché mi pare, con le buone o le cattive e non m’importa un cazzo che è tua nipote o la figlia di mia sorella, state alla larga da me. -.
Lo lasciò andare ed accompagnò il gesto con un ringhio.
Il biondo si allontanò di qualche passo, guardandolo con aria ferita. Con un cenno fece segno ai fratelli di seguirlo fuori, salutando intanto i presenti. Si soffermò sulla porta e disse: -Milo… Milord ti prego, ripensaci. Pensa a… -.
-Lui è morto per me. – lo interruppe Milord –Sono solo e così voglio stare. -.
Era tentato di rientrare e dargli un pugno, ma invece lasciò perdere ed uscì.
Dietro di lui arrivò Andrea con una borsa in mano che scaricò sulla sua auto. Mentre entrava nel posto dell’autista Rosco lo bloccò.
-Allora? Possiamo? -.
-Mi dispiace, ma ci sono questioni più urgenti che devo sistemare. Per la cronaca non mi fido ancora di voi, nonostante ammiri il tuo modo di cucire le ferite. Sarà per un’altra volta. –.
-Andrea aspetta! -.
Raven lo raggiunse di corsa, infilandosi quasi nella macchina attraverso il finestrino, dicendo: -Non andare, resta. -.
-Oh, zuccherino, mi dispiace ma devo andare. Devo aiutare tua madre con il suo lavoro. La terrò d’occhio per te. Tu intanto resta con loro. -.
-Ma… -.
-Raven. -.
La ragazza si scostò dalla macchina, ferita. L’angelo gli fece un cenno con la testa come per dire “non dipende da me” e se ne andò.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo 19: Cicatrici ***


CAPITOLO 19
Cicatrici


Non succedeva da un pezzo. Va bene, erano stati lontani per quasi un anno intero, ma in tutta la loro relazione non aveva mai litigato con Raquel. Forse era stato il dolore del colpo di arma da fuoco o forse era molto agitato dalla presenza del padre, fatto stava che si era arrabbiato molto. Mentre Rosco ordinava acqua calda e un asciugamano a Matisse, lui si era puntellato sui gomiti e aveva schiaffeggiato via la mano della sua ragazza chiedendole parecchio arrabbiato: -Vuoi spiegarmi perché hai deciso di rendermi un colabrodo? -.
-Cosa? Secondo te l’ho fatto apposta? – aveva risposto indignata lei.
-Beh, sai, essendo la mia ragazza avresti dovuto riconoscermi subito e sparare a quello giusto. -.
-Ma eravate identici! Come facevo a distinguervi? Ero agitata! -.
-Io non sono affatto identico a quello schifoso bastardo! -.
Avevano discusso ancora finché Rosco non aveva tirato fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni una scatolina rossa di metallo ed aveva estratto un piccolo bisturi e un paio di pinze. Si erano scambiati un paio di “fottiti” e lei era scappata nella camera di Beast e Matisse, dato che sua sorella doveva stare con lui per tutto il periodo del Calore.
Come stavano facendo. Peccato che non riuscisse a dormire anche quella notte, forse per il male alla cucitura o perché era dispiaciuto per la litigata. O per un’altra cosa…
Dopo che ebbe sospirato per l’ennesima volta Matisse si girò verso di lui e chiese: -Non riesci a dormire? -.
-No. Scusa se ti ho svegliata. -.
-Non mi hai svegliata. Non dormivo neanche io. Ti fa male? -.
-Poco, è sopportabile. Mi dispiace aver litigato con Raquel. -.
-Io ti ho riconosciuto. – osservò lei.
-Lo so che mi hai riconosciuto. Ho sentito… forse non dovrei essere arrabbiato con lei. Dopotutto ci assomigliamo. Esteticamente. – si affrettò a precisare.
-Sei preoccupato per tuo padre? -.
Jaguar spostò il braccio sotto la testa ed annuì. Non la guardò negli occhi, troppo impegnato a pensare ad Esteban. Era l’unica persona che conosceva personalmente che odiava, odiava ed odiava! Era l’essere più spregevole che avesse mai conosciuto ed aveva popolato la sua infanzia, che lo aveva costretto a fuggire e ancora adesso lo tormentava nei suoi incubi.
-Hai ancora paura di lui? – chiese lei passandogli una mano sui capelli con fare materno.
-Non proprio… paura. – borbottò lui ruotando gli occhi –Sono preoccupato. Ti ha fatto male? -.
-Mi sono scorticata la mano. – rispose lei mostrandole il palmo della mano destra arrossato e con delle pellicine sollevate.
-Ti ha toccata in qualche modo che c’entra con il fatto che sei in Calore? – chiese preoccupato il fratello.
Lei scosse la testa, diventando rossa in viso. Che razza di domande le faceva! A dire la verità aveva paura che stesse per succedere qualcosa di brutto. Almeno aveva conosciuto per la prima volta il padre di Jaguar. In pratica una versione vecchia di Jaguar di almeno vent’anni ma molto più pericoloso.
-Ho avuto tanto paura per te. Grazie al cielo ero lì. – sorrise.
Le mise un braccio attorno al busto e la tenne stretta in un abbraccio facendo le fusa. Matisse chiuse gli occhi e si godette il calore di quel gesto e tutto l’amore fraterno che faceva traspirare.
Si era goduta un sacco la loro scenata, sicura che iniziassero ad insultarsi tanto da lasciarsi, cosa che invece non successe. Beh… si poteva mettere rimedio a questa cosa.
***

Il sogno questa volta aveva una nuova ambientazione: una stanza.
Era un salotto molto spazioso, anzi, era uno studio: era arredato semplicemente, con due librerie sui lati più spaziosi, un caminetto di marmo acceso, una scrivania di legno scuro con penne, calamai e una lampada, una sedia girevole dallo schienale alto e un divanetto di pelle su cui lei era seduta. Era molto comodo, anche se la pelle era un po’ scolorita e consumata. Ai muri erano appesi alcuni quadri con dei paesaggi, nature morte e persone senza volto. Sotto i suoi piedi c’era un elaborato tappeto persiano dai tenui colori dorati. Fuori dall’enorme finestrone dietro la scrivania non si distingueva l’esterno, ma aveva colorazioni verdi e azzurre. Forse un prato con un bel cielo.
Si voltò per un rumore di porta che si chiude ed in effetti vide Morfeo con la mano appoggiata sulla maniglia della porta in fondo alla stanza.
-Buonasera mia cara. – la salutò con un inchino elegante, per poi venire a sedersi accanto a lei, lasciando il bastone appoggiato al divano.
-Che posto è questo? -.
Morfeo diede un’occhiata alla stanza e rispose: -A volte mi piace rifugiarmi nel passato. -.
-Era casa tua? -.
-Questo era il mio ufficio, la casa l’avevo lasciata a mia sorella e alla sua famiglia. -.
-Sai, so poco di te. Questa stanza è sfarzosa, eri benestante? -.
-Ero di una famiglia molto benestante: la Phòinix. Ma questa è una cosa che ti racconterò un altro giorno. -.
Lei si soffermò su un quadro e disse distrattamente: -Non ho mai visto quel quadro. -.
Morfeo fece una breve risata e confessò: -Non per vantarmi, ma li ho dipinti io. Quando ero ancora capace. -.
-Davvero? Sei bravissimo. – si complimentò lei.
Si alzò e si avvicinò ad uno dei ritratti senza volto: erano due persone, un uomo ed una donna con le mani intrecciate, vestiti con abiti antichi di blu e bianco. Per quanto si sforzasse i lineamenti dei loro volti erano inafferrabili.
-È inutile che provi a vederli. Ho nascosto i loro visi. -.
Questa frase fece ricordare qualcosa alla ragazza che si girò per fronteggiarlo: -C’è qualcos’altro che nascondi che mi riguarda? -.
-Molte cose. – ammise Morfeo annuendo con gli occhi chiusi –Cose che probabilmente è meglio che ora tu non sappia. -.
-No, tu hai detto che avresti risposto a tutte le domande che ti avrei fatto. – gli rinfacciò incrociando le braccia, pronta a dare battaglia nel caso avesse negato.
Invece lui si appoggiò la mano sul petto e disse: -Hai ragione. Fammi una domanda, risponderò. -.
Sulle prime si stupì che non avesse negato ma si riprese in fretta.
Chiese subito: -Tu mi hai fatto qualcosa che mi impedisse di trasformarmi in demone prima di adesso. Vero? -.
-Vero. -.
-Me lo avresti detto, vero? -.
-Sbagliato. Non prima di adesso. -.
-Perché? -.
-Perché non ti ritenevo pronta. Ho lasciato che l’afflusso demoniaco iniziasse quando ti ho ritenuta pronta. Sei stata coraggiosa in quel momento e ho sentito che era il momento. -.
-Perché tu? Perché proprio tu avresti dovuto fare tutto questo? Chi sei? -.
Gli occhi rosa del demone, sempre stati altalenanti tra i vari oggetti della stanza, puntarono ai suoi occhi e divennero seri. Quasi quasi somigliavano a quelli di Milord, ma avevano ancora una nota dolce in quel colore meno intenso del rosso.
-Tu chi sei? – chiese.
-Io… sono Raven. -.
-Anche. – le concesse Morfeo.
-Me lo volete sentire dire? – chiese lei stizzita –La Portatrice. Contenti? La Portatrice. -.
-Perché? -.
Non capiva se stava giocando a fare il finto tonto o voleva portarla da qualche parte con quel ragionamento. Stette al gioco: -Perché ho il cuore di un demone perché a quanto pare ho vinto una specie di lotteria per chi vuole essere il nuovo eroe del momento. -.
-Dunque perché io? -.
-Non lo so! Vuoi darmi una risposta dannazione? – esclamò lei esasperata da quel tono strano che stava usando.
-Perché mai un demone dovrebbe mettersi in contatto con te? Perché proprio io? Ragiona cara, non è difficile. Cos’hai tu in comune con un demone? – chiese lui inarcando le sopracciglia.
Lei ragionò su quelle parole e collegò vari pezzi. Ma non poteva essere che la risposta fosse quella.
Si avvicinò a Morfeo e gli slacciò la cravatta, per poi passare ai bottoni. Sotto la camicia bianca aveva una pelle della stessa tonalità e nel bel mezzo del petto spiccava una considerevole cicatrice che riconobbe all’istante: larga quanto due dita e dai bordi seghettati come un coltello.
-Te lo avrei detto Raven, di questo puoi starne certa. – le disse Morfeo prendendole le mani prima che potesse provare a sottrarsi –Ma ho dovuto tralasciare di dirtelo e non sarà l’ultima volta, questo mi rincresce dirtelo. Ho sbagliato a prometterti di rispondere a tutte le tue domande con sincerità, pensavo che saresti venuta da me quando ormai saresti stata in grado di perdonarmi tutto. Non odiarmi. Ma ho tralasciato di informarti solo sulla mia identità, su nient’altro. Lo giuro sulla cicatrice che cementa il nostro Legame, davvero. -.
Era decisamente stufa che le nascondessero tutto come se fosse una bambina stupida. Prima la cosa che aveva un cuore demoniaco, poi che esistono demoni ed angeli (i quali erano dei puritani incredibili), poi che la volevano praticamente eliminare a tutti i costi, che i suoi genitori erano adottivi e di chissà quale razza, poi che il tizio che gli entrava nei sogni era il suo donatore… cos’avrebbe scoperto ancora? Quanto tempo ci avrebbe messo prima di uscire di testa completamente? In certi versi ormai si fidava di Morfeo ed ora anche lui la pugnalava alle spalle nascondendosi dietro mille misteri.
-Perché dovrei crederti? -.
-Il perché te l’ho già detto. – disse lui senza lasciar andare le sue mani –Siamo Legati. Il Legame è la cosa più forte che può unire due persone, una cosa che niente e nessuno può spezzare o eliminare in alcuna maniera, se non i proprietari. È vero, esistono Legami d’Odio e Legami Distaccati, ma il nostro non è così. -.
-Cos’è? -.
-Legame del Destino: era previsto che io mi sarei dovuto Legare a causa di un mio sbaglio a qualcuno a cui avrebbe messo rimedio e fra tutti gli esseri viventi dei tre mondi a noi conosciuti sei stata tu a diventare quella persona. I Legami possono cambiare, è vero, non sempre in meglio. Ma un Legame del Destino non può diventare d’Odio. In poche parole non posso farti del male e soprattutto non voglio. Capisci? Era necessario ti mentissi. Non volevo… che ti trovassero innanzitutto. Se avessi lasciato che la trasformazione avvenisse subito il tuo odore demoniaco avrebbe attirato molti uomini di Regina, soprattutto quando si sarebbe attuato il Calore. Dovevi anche raggiungere una maturità mentale abbastanza alta da capire a cosa saresti andata incontro, combinata ad alcuni eventi esterni. Adesso mi perdoni? -.
-Come faccio a sapere che non è una cazzata questa? -.
Morfeo stirò un angolo della bocca ed aspirò dell’aria per fare un verso di indecisione e disse: –Penso che il modo che ho per dimostrartelo mi farebbe guadagnare un pugno da parte tua e vedendo come hai ridotto Milord mi preoccuperei. -.
-Fallo. – decise lei. -.
-Come la mia promettente piccola Fenice vuole. – le concesse –Ma spero che tu non mi faccia del male. -.
Lasciò libera una delle mani e guidò l’altra sulla sua cicatrice. Stranamente Raven aveva indossato una maglietta meno accollata del solito: bastò abbassargliela con un dito per riuscire a scoprire la cicatrice ed appoggiarci una mano sopra. A contatto avvenuto le cicatrici presero a scottare e formicolare, per poi prendere una colorazione rossa luminosa.
Morfeo lasciò la sua mano e si staccarono. Le cicatrici ripresero il loro colore normale.
-Che hai provato? -.
-Fiducia. E un gran pizzicore. – rispose lei stringendosi le dita della mano che aveva toccato la cicatrice. Abbassò lo sguardo e continuò: -Va bene, mi fido. Mi chiedo che fine farò se continuo a fidarmi così delle persone… -.
-Hai buon occhio Raven. – la rassicurò Morfeo appoggiandole una mano sulla spalla –Devi seguire il tuo istinto e soprattutto il cuore. A proposito di occhi, perché i tuoi sono ancora rossi? Dov’è quello splendido verde? -.
-Non ne ho idea. – disse lei –Penso di essere costretta a restare così per sempre. -.
-In parte: il colore naturale degli occhi dei demoni è il rosso ma possono mutare aspetto quando vogliono. Se decidi di volere gli occhi verdi puoi averli. Basta che chiudi gli occhi, pensi al nuovo colore e dove vuoi metterlo. È facile. -.
Raven seguì le istruzioni e quando riaprì gli occhi Morfeo annuì compiaciuto, cosa che inorgoglì lei.
-Fallo anche tu. -.
Lui scosse la testa: -Mi spiace, ma per me è difficile. Sono albino e le mie cellule somatiche mutevoli sono danneggiate. Il massimo che posso fare è diventare biondo e occhi azzurri, ma per poco tempo o mi affatico. -. Chiuse gli occhi e si passò una mano tra i capelli, che divennero di un biondo molto chiaro e gli occhi azzurro tenue come il ghiaccio.
Raven osservò che così era tutt’altra persona, irriconoscibile ad una prima occhiata. Era decisamente molto meglio prima e glielo disse.
-Grazie per i complimenti. – sorrise il demone tornando normale –Non ti sarai imbarazzata quando ti ho toccato lì spero. In teoria sono la seconda persona che lo fa. -.
L’ibrida arrossì e chiese: -Come fai a saperlo? -.
Lui fece spallucce e rispose: -Mi sono fatto un giro sui tuoi ricordi. Non hai mai avuto un ragazzo, se non quella scappatella estiva di qualche anno fa. -.
-Non puoi farlo. -.
-Ho guardato solo quello. Comunque, hai quasi vent’anni, dovresti iniziare a cercarti un compagno. -.
-Perché? -.
-Se fossi in te lo farei: uno, hai l’età giusta per i demoni e due, diventando demone avrai presto il Calore. Sarebbe meglio che qualcuno ti proteggesse da eventuali approfittatori. -.
-Non ne ho bisogno. Potrei chiedere a Jaguar, lo fa già per Matisse. -.
-Matisse è sua sorella. Con te non potrebbe stare calmo quanto con lei. – ipotizzò Morfeo –Mi piacerebbe essere io quel qualcuno, essendo il tuo Legame, ma non posso raggiungerti. -.
-Perché? -.
-Sono l’ex Portatore. Sono in carcere da Regina da diciannove anni a fare la muffa. – rispose mestamente –Non posso allontanarmi dal castello a meno che non sia sotto scorta. Mi manca tanto uscire… mi piacerebbe uscire con te. -.
-Vuoi un appuntamento? Come sei diventato sciolto. -.
-Io? – chiese Morfeo arrossendo –Tu hai provato a spogliarmi prima. -.
-Non ti stavo spogliando. – negò Raven con le guance in fiamme.
-No no, certo. – fece lui riallacciandosi la camicia e rimettendosi la cravatta con movimenti lenti –Ad ogni modo, ora sei sicura di voler aiutare i mezzi demoni? -.
-Non credo di avere molta scelta. -.
-Quindi sì perché ti senti costretta. – osservò.
-Solo un po’. Io voglio salvarli ma… ma mi sento costretta, in effetti. Me lo hanno chiesto con gentilezza, ma se anche avessi risposto di no avrei comunque dovuto farlo. Avere contro un’intera comunità, beh, non è una bella prospettiva. -.
-Capisco. – borbottò Morfeo portandosi una mano al mento –Devi trovare una motivazione più valida del “lo faccio perché lo dicono loro”. -.
Sembrava stesse parlando tra sé e sé più che fare un ragionamento con lei. Infatti al suo sguardo incuriosito si affrettò a dire: -Sono sicuro che la troverai. -.
-La cosa che vorrei fare subito sarebbe stare con mamma. Non mi ero resa conto di quanto mi servisse sentirla. E poi… lei è con la Resistenza e scommetto che Andrea è andato da lei. Vorrei poterli raggiungere. -.
-Perché? -.
-Perché Milord non mi piace e mi sembra di non star risolvendo niente stando qua, se proprio devo fare qualcosa. -.
-In effetti è vero. Io forse… potrei aiutarti. -.
Raven si girò verso di lui, stupita: -Davvero? -.
Il demone albino strinse le labbra e annuì lentamente, guardando altrove: -Ma è molto rischioso. Non so se posso rischiare una cosa del genere, potrebbero scoprirmi e… -.
Iniziò a tormentarsi le dita le une con le altre, pungendosi il labbro inferiore con un canino.
La ragazza appoggiò una mano sulle sue, fermandole.
-Ehi. Mi fido di te. -.
 
***
 
Mai, mai si sarebbe immaginato di venire battuto da un moccioso prima di allora e meno che mai da una mocciosa!
Se non fosse stato per lei l’avrebbero catturata insieme a quei traditori e rivoluzionari e li avrebbero serviti su un piatto d’argento alla sovrana, adempiendo finalmente ai suoi doveri. Aveva una tale rabbia che si sarebbe mangiato le dita!
Esteban era decisamente molto più tranquillo e sereno rispetto a lui. Tanto per cambiare mangiava un’altra mela, mentre camminavano tranquillamente tra le strade deserte della città.
-Come fai ad essere tranquillo tu? Ci daranno una bella strigliata per questo. -.
-Sono Esteban: le mie uniche preoccupazioni sono il cibo e avere il letto caldo. – rispose lui con un’alzata di spalle disinvolta –Tu dovresti preoccuparti per quella ferita. – aggiunse indicando la sua mano gocciolante di sangue dal taglio sul palmo.
George ringhiò: -Quel dannato ha ancora la spada con in Lux che gli ha regalato Morfeo, quell’albino maledetto. -.
-Forza, vecchio mio, su con il morale. Adesso andiamo a casa mia, mangiamo qualcosa e andiamo da Regina. Un po’ di alcol e la preoccupazione se ne va. -.
-Non voglio bere. -.
-Fa bene bere: aiuta a dimenticare, ricordare, riempire lo stomaco… tante cose utili. – elencò Esteban spingendolo dentro ad una casa ad un solo piano, la sua amata casetta.
Era completa di tutto: bagno, cucina, camera da letto, piccolo soggiorno… la sua tana. Amava tenere pulito, sforzandosi di ritagliare almeno un’ora delle sue attività quotidiane per mettere rassettare e pulire. Giusto il giorno prima aveva pulito tutto meglio del solito in previsione di portarsi qualcuno a letto nei giorni seguenti. Invece a quanto pare non avrebbe ospitato nessuna donna, ma George.
Lo fece accomodare sul divano in soggiorno per allontanarsi in cucina e prendere un paio di bicchieri e un liquore strano che lui adorava perché bruciava la gola come una fiaccola: Alcol di Salamandra o, come lo chiamava lui, ADS.  Una bevanda artigianale che lui aveva imparato a fare da solo anni addietro: bastava avere la giusta attrezzatura, tempo, speciali erbe aromatiche e una salamandra da infilare nella bottiglia a macerare. Finita la bottiglia si poteva anche mangiare, quella bestiolina dalla carne decisamente forte era uno stuzzichino piacevole dopo essere stato sott’alcol.
Servì il liquore davanti al suo ospite, divertendosi nel vedere la sua faccia quando notò il piccolo anfibio posato sul fondo della bottiglia, rannicchiato come se dormisse.
George prese il bicchiere ed annusò il liquido ambrato molto scuro, arricciando subito il naso per la zaffata di pungente odore di erbe e salamandra, per poi domandare in modo scettico: -Da dove hai preso questa robaccia? -.
-Potrei offendermi. – lo avvertì –L’ho fatto con le mie mani. Bevi, è più alcolico di quanto sembri. -.
-Quanto alcolico? -.
-Due bicchieri e sei ubriaco marcio. – gli disse Esteban –Per cui ti consiglio di sorseggiarlo con molta calma o ti presenterai a Regina cantando canzoni d’osteria. -. Detto ciò prese il suo bicchiere e se lo scolò in un sorso solo, leccandosi le labbra soddisfatto –Ma devi essere un bimbo grande per berlo come me. – lo canzonò.
-Ah sì? – fece lui bagnandosi appena la bocca con l’Alcol di Salamandra.
Sentì la pelle andare a fuoco e si leccò le labbra per alleviarlo almeno in parte, invece quello si espanse alla lingua. Dovette dare fondo a tutto il suo autocontrollo per non sbraitare e andare in cerca di acqua fresca come un misero umano che ha mangiato peperoncino.
Esteban ridacchiò e chiese: -Vuoi qualcos’altro da bere? -.
-No, questo va benissimo. – borbottò George.
L’altro demone si allontanò un attimo per prendere delle bende dal bagno per curare George. Dovette prendere anche della Luxina, perché a ben pensarci non era una buona idea usare l’ADS come aveva in mente di fare, perché avrebbe fatto troppo male, e George era troppo arrabbiato per sopportare cure ruvide (anche se conoscendolo le preferiva. Ma non avendo mai visto, quindi usato, l’Alcol di Salamandra era meglio evitare di risvegliare in lui l’istinto omicida).
Si sedette accanto a lui e senza badare alle sue proteste gli prese la mano ferita e vi versò sopra il liquido celeste quasi trasparente della Luxina, l’unica cosa che alleviasse il dolore che il Lux provocava ai demoni, un minerale che si trovava molto spesso nei filoni di metalli usati per le armi e che gli angeli avevano riprodotto artificialmente, di qualità più letale per loro. Il contatto con il Lux non permetteva ai demoni di curarsi da soli la ferita se non sprecando tutta la loro energia e la sua presenza in grande quantità li indeboliva in modo considerevole. La ferita faceva molto più danno della vicinanza: c’era il rischio di dissanguamento per un taglio da niente come quello che aveva George, se non si avevano energie sufficienti per curarsi.
Poté notare che il demone sospirava di sollievo al rinfrescante contatto del liquido disinfettante. Pulì con calma il sangue che aveva sporcato il suo palmo e lo fasciò stringendo le bende.
-Domani sarai come nuovo. – lo rassicurò.
Mentre lo curava, lui si era scolato tutto il bicchiere, forse per spostare il pensiero umiliante di farsi accudire come un pupo al bruciore che procurava quel liquore. Alla fine aveva un buon sapore ed era sicuro che al bruciore ci avrebbe fatto l’abitudine prima o poi.
Chiuse un paio di volte la mano medicata a pugno dicendo: -Grazie. Sai, penso che tu sia l’unico di cui mi possa fidare. -.
-Ti ricordo che io non sono per niente affidabile. – gli fece osservare lui appoggiandosi allo schienale del divano allungando le braccia su di esso.
Forse aveva detto quello per colpa dell’alcol, ma ormai che aveva parlato era meglio finire il discorso. Parlare avrebbe fatto bene.
-Io allora? Ho ucciso mio figlio e mia nuora solo perché il primo mi aveva disobbedito e l’altra non mi andava a genio. A volte penso di essere un mostro e subito mi ricordo che invece sono un McMastiff: ho la licenza per essere un mostro. -. Piegò la testa all’indietro, appoggiandola su un braccio di Esteban.
-Di che parli? – chiese l’altro, non capendo il discorso che stava per affrontare.
-I McMastiff sono la famiglia che per secoli ha protetto la famiglia reale delle Volpi dopo gli Orsi e la mia famiglia non ha mai avuto una bella reputazione: abbiamo sulle spalle storie di omicidi da far accapponare la pelle allo Zingaro. Ho pure ucciso mio padre! Mi ricordo ancora… santa Volpe, io gli volevo bene, ma quel giorno ero su di giri per la mia carica e quello è venuto a stuzzicarmi parlando di cose che avevo fatto in passato di cui mi vergognavo molto… gli ho sparato in mezzo alla fronte! Non era la prima persona che uccidevo, ma la prima di cui mi sono pentito... Anche la regina Marian… correva con il principe in braccio, un frugoletto nato da un giorno. Avevo sempre ammirato la bellezza di quella demone e anche la sua destrezza nel muoversi nelle questioni politiche a fianco del marito, ma ormai mi avevano stufato con le loro idee che andavano contro la natura dei demoni, con le loro trattative di pace con gli angeli, e non ho battuto ciglio ad ucciderla. Ma il bambino… non ho proprio avuto cuore! Mi guardava con quei dannati occhi dolci e l’ho lasciato lì da solo! A quest’ora gli Helhest se lo sono preso da un pezzo, ma mi dispiace averlo lasciato là a morire di fame, cosa che non augurerei a nessuno. Non vorrei mai uccidere i miei nipoti, ma cazzo, hanno in mente quelle idee di pace e amore e fesserie che odio ma che sarebbero meglio di quella cretina che se ne sta seduta sul trono! Non sopporto loro e non sopporto Regina! Ci sta mandando in rovina! Io vorrei stare con lei, ma vado contro i miei nipoti che d’altro canto mi fanno arrabbiare allo stesso modo! Sono confuso! Vorrei andarmene! -.
Esteban decise che era ora che smettesse di dare voce al liquore che aveva bevuto. Gli appoggiò una mano sulla testa e gli strofinò i capelli con energia moderata.
-Zitto o finisce che ubriaco come sei mi chiedi davvero di sposarti. Almeno per essere ubriaco fai discorsi abbastanza articolati. -.
-Non sono ubriaco! – rispose il demone togliendosi la sua mano di dosso.
-Certo che no. – acconsentì lui pizzicandogli una guancia barbuta rossa e ardente –Ma forse è meglio che vada io a conferire con la nostra adorata sovrana, che dici? Ora Georgie ti fai una bella ninna e la sbronza passa. -.
-Non sono così sbronzo… -.
-A questo possiamo mettere rimedio. – sorrise Esteban versandogli altro Alcol di Salamandra nel bicchiere. Glielo porse e chiese: -Dunque, stavamo parlando di un posto in cui vorresti stare? Con chi, se posso permettermi? -.
 
***
 
Una parola: euforia.
Euforico, era decisamente euforico.
Quella parola gli faceva pensare all’acqua con le bollicine, ai fuochi d’artificio e a mille altre cose.
Sulle prime aveva paura che andando a spifferare tutto lo avrebbero fatto tornare al Mattatoio o lo avrebbero ucciso, essendo dopotutto il socio di Chuck. Invece niente… anzi, non proprio niente.
Regina, subito dopo aver dato ordine di rintracciare i McMastiff e suo cugino, era scesa dal trono e gli aveva scompigliato i capelli come quel giorno in cui li aveva tirati fuori dalla piantagione di Fiori del Diavolo.
Era sempre radiosa, con quei lucenti e lunghi capelli neri e quegli occhi, quella bocca, quel corpo così sensuale… ne era innamorato cotto da quel giorno.
Forse le piaceva! Perché gli avrebbe scompigliato i capelli allora, proprio a lui e non a Chuck? Era più alto del cugino e sicuramente molto più attraente, avendo tutti e due gli occhi. E in più non era uno sporco traditore voltagabbana.
Non si sarebbe mai aspettato una mossa del genere da lui, il suo migliore amico di sempre. Perché lo aveva fatto? Non mancava niente a loro due ormai: avevano una casa nuova, un lavoro pagato con dei soldi e una bellissima persona per cui lavorare.
Come aveva potuto tradire Regina dopo che aveva dato a loro tutto quello?  Come aveva potuto abbandonarlo per la Resistenza? Loro non avevano fatto niente quando erano stati spinti a forza nel Mattatoio, loro non li avevano salvati, ma lei sì!
Chuck era storia passata ormai.
Ora era il servo personale di Regina, con una stanza tutta per lui nella fortezza, la divisa del personale della sovrana (senza dover indossare quella stupida fascia) sempre inamidata e stirata, profumato come un giglio e sempre vicino a lei… tranne quando aveva il permesso di dormire e quando lei si cambiava o si faceva il bagno o stava con Fify, quell’odioso biondino che gli rubava l’amore della demone più bella che avesse mai visto in vita sua.
Regina era venuta a sapere del rientro di George ed Esteban ed era ansiosa del responso, per cui lui si era preparato in fretta e aveva scortato la sua amata sovrana nella sala del trono in compagnia di Fify.
Purtroppo lei s’irritò molto per il ritardo che quei due sottoposti stavano facendo e tamburellava le unghie sul trono. Temeva una sfuriata in cui lei avrebbe distrutto la sala, invece, con mezz’ora di ritardo, Esteban comparve nella sala senza la divisa e con i capelli spettinati. Sembrava fosse uscito da una zuffa, cosa che sicuramente aveva fatto per prendere la Portatrice. Che non c’era.
Si piazzò a pochi metri dal trono e non fece nessun inchino, dicendo: -Mia signora, io e George siamo tornati. -.
-Dov’è il mio Mastino da guardia? – chiese Regina.
-È indisposto al momento. – rispose Esteban con le braccia incrociate dietro la schiena –Ma abbiamo notizie. -.
Lei sbuffò con tono annoiato: -Non voglio notizie, voglio la Portatrice. Lei dov’è? -.
-Lei è al sicuro con Milord e abbiamo trovato i disertori. -.
Buck tremò nel vedere le unghie laccate della sua bella conficcarsi dentro il granito con uno stridio fastidioso e non diede affatto peso alla menzione del cugino.
-Come sarebbe a dire che è al sicuro? – strillò con voce acuta –Lei deve essere qui, in catene, a chiedere pietà! -.
Esteban arricciò il naso infastidito e borbottò: -Senza alcun dubbio… ma abbiamo trovato una resistenza molto forte. -.
-Il nostro informatore ha detto che non c’erano possibilità di fallimento! -.
-Il nostro informatore non ha calcolato la presenza dei nipoti di George e di Chuck. Non che lui abbia fatto molto. – rispose il demone –Ci siamo battuti ed eravamo in vantaggio, ma la Portatrice ci ha respinti con una runa. È molto forte. -.
-Vi siete fatti sconfiggere da un’ibrida? -.
-Ci siamo fatti sconfiggere e abbiamo riportato entrambi ferite da taglio e lesioni perché ci siamo battuti. – riferì con la massima calma il demone, anche se stringeva i denti –Lei, mia graziosa signora, quando esattamente si è battuta l’ultima volta? -.
Quella provocazione fece scattare in piedi la sovrana, provvidenzialmente bloccata sul suo trono da Fify, il quale ringraziò Esteban per le informazioni e lo congedò dando a lui e George due giorni liberi.
Regina sbuffò come un toro imbestialito e schiaffò via la carezza che il suo amante gli fece sulla guancia come una bambina capricciosa offesa.
-Cosa succede mia signora? – chiese Fify con tono talmente mieloso che per poco Buck non si lasciò sfuggire un falso conato di vomito.
-Che succede? Sono circondata da incompetenti! – esclamò lei incrociando le braccia –Prima i Faoil, poi i McMastiff e poi questi due! C’è qualcuno che è in grado di prendere quella ragazzina o no?! -.
-Mi spiace ma lei ha sbagliato tutto fin dal principio: ha scelto due ragazzi troppo giovani ed inesperti, tre disertori e due uomini troppo attaccati a chi protegge la ragazza. Chi ci dice che non si siano inteneriti davanti alla parentela? Lei ha bisogno di un mercenario, uno che non dia tregua alla Portatrice. -.
-Dove lo posso trovare uno che soddisfi le mie richieste? – sbuffò lei ruotando gli occhi, seccata.
-Questo è facile mia signora. – sorrise il demone –Si guardi intorno. -.
Lei si voltò e guardò Buck inarcando un sopracciglio.
-Lui? -.
-Lui potrebbe aiutarlo. – assentì il demone con un’alzata di spalle.
-Allora tu? – tentò Regina con un barlume di ammirazione negli occhi.
-Oh, nonono, io non sarei in grado di fare niente mia signora. – rispose Fify –Io intendevo il mio uomo. -.
-Cosa? Presteresti a me il tuo mercenario personale? Davvero? – domandò lei entusiasta.
-Tutto per la mia signora. – annuì lui con un tono accondiscendente.
-È fantastico! – esclamò entusiasta la demone battendo le mani come una bambina.  Si voltò verso Buck e ordinò: -Vai a chiamare lo Zingaro, Buck, veloce. -.
-Ehm… - fece Fify –È meglio che vada anche io o c’è il rischio che lo divida a metà per avergli commissionato qualcosa per suo ordine. Sa com’è fatto. -.
-Non metterci troppo. Oh, puoi dirgli che Buck parteciperà: si merita una promozione ancora più grande che servirmi direttamente. Lavorare con lui potrebbe rafforzarlo. -.
Fantastico, la sua euforia dovuta alla vicinanza della sua amata era sparita nel nulla per colpa di quel pomposo leccapiedi, nonostante la promozione.
Uscirono dalla fortezza sotto scorta con calma e si diressero nella città. Era fatiscente, ma lui ci era abituato alle case decadenti e le strade imbrattate di sporcizia ed annidate da scarafaggi, ratti enormi e delinquenti. Fify grattò con l’unghia il muro di una casa ed esaminò il dito sporco.
-Regina dovrebbe fare qualcosa. – commentò.
-La nostra sovrana ha molte altre cose da fare, molto più importanti. – ribatté sgarbatamente Buck.
Il demone non rispose, ma continuò a guardarsi attorno con aria pensierosa. Per quello che sapeva lui, il fidanzato di Regina non usciva mai dalla fortezza, se non in compagnia sua o del suo mercenario. Sapeva che ci aveva messo anni, da quando era con la sovrana, prima di mettere il piede fuori, in città.
Però sapeva certamente dove andare: con sicurezza guidò il gruppo di guardie e Buck in un locale senza insegna in cui il mezzo demone non sarebbe mai entrato neanche sotto tortura.
Era una bettola poco illuminata dall’aria pesante a causa dell’odore di cibo impregnato nelle pareti, semivuota.
L’uomo che cercavano era riconoscibile dal fatto che spiccava in altezza di almeno un metro e mezzo in più rispetto alla maggior parte dei demoni che erano ai tavoli. In effetti era il demone più alto che Buck avesse mai visto: era alto due metri e ottanta.
Due metri e ottanta di muscoli abbronzati che pensava neanche esistessero premuti contro una camicia e un paio di jeans consumati. La sua vista era terrificante per tutti, sia perché tutti conoscevano la sua storia sia per il suo aspetto.
In pratica era un demone venuto dal Regno Arcade, popolato solo demoni ancora dediti al nomadismo, legati a regole antiche e dal comportamento barbaro e losco. Senza contare il suo aspetto imponente, ciò che faceva paura alle persone era la cicatrice di sfregio che gli avevano fatto sul viso: un lungo taglio dallo zigomo destro a quello sinistro che passava sopra al naso dal dorso leggermente pronunciato, che era il simbolo del suo esilio da quella parte del mondo.
Tutti sapevano il motivo per il quale era stato esiliato ed evitavano di avere a che fare con lui. Lo chiamavano Zingaro perché era il suo nome di battaglia quando combatteva nelle arene di svago di Regina dovuto ai suoi ornamenti: un orecchino a bilanciere sul sopracciglio sinistro, due orecchini ad anello alle orecchie e uno al mento. Sospettava che ne avesse altri da qualche altra parte ma non voleva sapere dove.
Le guardie attesero all’entrata, mentre lui seguì il demone fino al tavolo dell’altro, suscitando il massimo disinteresse da parte sua e occhiate curiose da parte degli altri clienti.
Prima che rivolgesse loro qualche attenzione dovettero aspettare che arrivasse a metà del pasto che stava consumando.
Quando si degnò di alzare i penetranti occhi dorati come oro fuso, prima li posò sul mezzo demone, il quale distolse in fretta lo sguardo, e poi sul demone, che invece sostenne lo sguardo, forse l’unico in grado di farlo.
-Buonasera Nikolaj. – lo salutò Fify, per niente intimorito peraltro dall’aura omicida che sembrava avere attorno a sé quel demone.
-Boss… - lo salutò con sufficienza Nikolaj –Nuovo giocattolo quello? -. Aveva una voce dal timbro basso dal marcato accento della terra delle sabbie che faceva accapponare la pelle. Non sapeva ancora parlare bene la loro lingua. E dire che era lì da molto tempo.
Buck non capì a cosa si riferisse, ma avrebbe voluto andarsene subito, ma si costrinse a stare seduto ed attendere che quei due finissero di parlare, sperando che non gli rivolgesse la parola.
-Sarà il tuo accompagnatore nel prossimo lavoro che dovrai svolgere. So che non gradisci compagnia, ma potrebbe tornarti utile. Ti prego di avere pazienza, Regina sembra esserci affezionata. -.
Presero a parlare nel dialetto di Nikolaj, veloce e dai toni duri, ricco di parole corte e secche, come tante piccole esclamazioni arrabbiate. Buck non capì un accidente di quello che dicevano, tranne che lui accettava, quando si lasciò sfuggire un sospiro seccato e annuì.
Fify prese da una tasca una scatolina per gioielli bianca. La spinse sul tavolo davanti al demone.
Nikolaj lasciò perdere il cibo e la aprì con lentezza. Prese dal suo interno con estrema delicatezza una catenina d’argento con dei grani e un ciondolo a forma di croce gotica con un diamante incastonato al centro.
-Molto bello. – commentò –Quanto devo dare? -.
-Niente. – rispose Fify –È un regalino da parte mia. Dopotutto è per un’occasione speciale. – aggiunse.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Capitolo 20: Cattura ***


CAPITOLO 20
Cattura

 

Dopo il sogno di Morfeo si era svegliata ed aveva riprovato a chiamare la madre, ma naturalmente non aveva risposto.
Ci aveva pensato su a quello che aveva pianificato con Morfeo ed era giunta alla conclusione che era la cosa giusta da fare.
Chiedere a Milord di andare alla Resistenza era follia, non avrebbe mai accettato. Se gli avesse chiesto, poi, avrebbe aumentato la sorveglianza nei suoi confronti. Con o senza di lui, sarebbe andata, non poteva aspettare altro tempo: voleva raggiungere la madre e trovare qualcuno in grado di aiutarla davvero a fare qualcosa per i mezzi demoni che non la trattasse come un ostaggio.
Silenziosamente prese il suo zaino e uscì dalla stanza. In punta di piedi si avvicinò alla stanza di Milord, dando una sbirciata dalla porta socchiusa: lui stava dormendo sul letto con Beast accoccolato sotto forma di Akita accanto a lui. Dormivano della grossa. Se il vigile Milord stava facendo la nanna come un bambino stanco gli altri stavano certamente facendo altrettanto.
Si calcò la bretella dello zaino sulla spalla e s’incamminò verso l’uscita della baita.
Fuori faceva freddo ma questa volta lei si era messa la giacca. Si ricordava piuttosto bene la strada che avevano fatto in auto per arrivare fino a lì. Il problema sarebbe stato arrivare al punto di incontro concordato in fretta, senza farsi del male o perdersi al buio, nel bosco. Sperando che nessun demone stesse facendo la posta fuori dalla barriera.
Il bosco era un posto inquietante di notte, ma per fortuna mancavano poche ore all’alba. In ogni caso a fare luce ci pensava una torcia che aveva trovato in un cassetto e sperava vivamente che le batterie avessero abbastanza vita da portarla alla prima strada asfaltata che avesse incontrato. I soldi per potersene prendere altre li aveva, anche se non contava di dover usare nuovamente la pila dopo aver trovato un passaggio.
Per distrarsi dalla camminata e soprattutto dai rumori inquietanti che provenivano da folto degli alberi si mise a pensare al sogno fatto poco prima.
Dunque Morfeo era il demone che aveva il suo cuore e lei aveva il suo, cosa che aveva creato un Legame del Destino che li avrebbe tenuti insieme per sempre. Bel tipo quel furbacchione.
A dire la verità non le sarebbe dispiaciuto. Era davvero piacevole il tempo che passava con lui. Beh, paragonarlo allo scappare di qua e di là, essere inseguita da dei demoni che la volevano catturare e l compagnia di Milord, non rendeva troppa giustizia al povero albino.
Era stato bello vederlo sorridere così tanto. Anche lui sembrava apprezzare il tempo che passava con lei.
Aveva detto che sarebbe finito nei guai se l’avessero beccato ad aiutarla. Era controllato da Regina o uno dei suoi? Il suo comportamento nervoso sembrava essere una paranoia causata da maltrattamenti… la prossima volta glielo avrebbe chiesto.
Doveva mancare poco all’alba quando intravide la strada asfaltata da dove erano arrivati. Bene, la strada l’aveva raggiunta, ora bastava aspettare un passaggio.
Che non arrivava.
A quanto pare erano proprio in un posto isolato.
Che avrebbe fatto se prima di un’auto che potesse darle un passaggio sarebbe arrivato Milord? Uhm… botte, sgridate e tante botte. Questa volta le avrebbe davvero strappato il cuore per metterlo nella borsa frigo ed evitare che andasse a spasso da solo a ritrovare madri. Si mise a gironzolare sullo spiazzo ghiaioso per i pic-nic dove era sbucata dal bosco e oltrepassando un paio di rocce quasi cadde in un burrone. Non lo aveva notato mentre salivano.
Era profondo e disseminato di rocce piuttosto grosse ed acuminate. L’unica cosa che poteva bloccare una caduta (o fare più male) erano spinosi arbusti disseminati sul crinale.
Sentì un’auto avvicinarsi e si affrettò a tornare nella strada per chiedere un passaggio. Non dovette neanche sbracciarsi o alzare il pollice per chiedere di fermarsi perché l’auto stava già rallentando e si fermò proprio davanti a lei, investendola con la luce dei fari. Era un’auto strana, enorme e nera opaco. Sembrava un fuoristrada.
Non aveva una buona sensazione riguardo quell’auto ma a ben pensarci era meglio accettare quello che le capitava, vedendo l’afflusso di macchine che c’era in quel posto.
Prima che potesse parlare per spiegare la sua situazione (non avrebbe detto la verità, ma avrebbe inventato una commuovente storia di una povera ragazzina alla quale si era fermato lo scooter nel bel mezzo del nulla e gli era anche caduto casualmente nel burrone lì accanto non-si-ricordava-come) o che il conducente abbassasse il finestrino per permetterle di parlargli, la portiera dalla parte del volente si aprì e qualcuno scese.
Prima vide una zazzera di capelli rosso-biondi, della stessa tonalità di un infuso di tè nero rimasto a lungo nell’acqua calda, raccolti in un codino alto sulla testa, poi emerse il resto del corpo, una massa enorme di muscoli di un’altezza impressionante. Quando si voltò una brutta cicatrice spiccò sul suo viso, una linea retta da zigomo a zigomo.
Non aveva gli occhi rossi, ma aveva la netta sensazione che fosse un demone. La sua teoria si confermò quando dal posto del passeggero scese Buck. Aveva decisamente un aspetto molto più curato dell’ultima volta che lo aveva visto: indossava una divisa che non aveva mai visto prima e si era tagliato la barba.
-Lei? – chiese il demone altissimo dal tetro viso inquietante.
-La Portatrice dici? No, è andata di là. – rispose Raven indicando da una parte e scappando dall’altra.
Avrebbe dovuto aspettarselo che sarebbe successo, stupida che era! Insomma, le altre volte le avevano dato un margine di riposo di qualche giorno tra i tentativi di rapimento, perché quella volta no? Non si faceva così!
La corsa che fece non le permise di mettere molto spazio tra lei e i demoni, perché si sentì sollevare da terra per la giacca mentre lo zaino le scivolava dalle spalle.
-Mettimi giù bestione! – protestò scalciando come una matta del tentativo di prenderlo nelle gambe, cosa che fece, ma non sortì nessun effetto.
Lui si girò e la mostrò a Buck come se fosse un gattino e disse: -Fatto, presa. No tanto difficile. -.
-Scusa se non sono un armadio, non sono così forte e tantomeno così fortunato da trovarla da sola a gironzolare senza Milord nei paraggi. – pensò lui incrociando le braccia con stizza.
Il demone che la teneva sollevata da terra la schiacciò senza farsi il problema di farle male sul cofano dell’auto. Raven si sentì stringere i polsi gli uni agli altri e poi una morsa dolorosa che non le permise di separarli.
-Mi hai ammanettata? -.
-Sappiamo che sai fare rune, quindi è meglio che tu abbia le mani impedite. – rispose Buck aprendo la portiera del passeggero.
Mise un piede dentro ma l’altro lo spinse indietro dicendo: -Tu dietro. -.
-Perché? -.
-Perché io controllo. Non so neanche perché tu è qua. – commentò il demone buttando la ragazza sul sedile –Spero tu non ribella o devo a tenere ferma con gambe rotte. -.
-Secondo me sei buono solo a parlare. – ringhiò Raven, arrabbiata per essere stata presa e per il trattamento subito –Anzi, neanche quello. -.
-Io non gli parlerei in questo modo. – l’avvertì Buck con un sogghigno cattivo –Sappi che lui è molto più pericoloso dei McMastiff. -.
-Se fossi in te mi sotterrerei piuttosto che far vedere in giro il mio brutto muso da traditore. – replicò la ragazza rivolgendo su di lui le sue attenzioni –Tuo cugino è preoccupato per te ma a quanto pare posso riferirgli che stai meglio di lui! Quella divisa immagino sia degli uomini di Regina. -.
Il viso scolorito del mezzo demone s’infiammò, forse di indignazione o forse di imbarazzo, ma disse: -Regina è colei a cui sono davvero fedele. Lei è la nostra sovrana. -.
-Intende baldracca. – replicò freddamente il demone dai capelli rossi sbattendo la portiera del passeggero –Sali, tu. Basta perdere tempo. -.
Buck eseguì senza emettere un solo borbottio.
Mentre il demone passava davanti al cofano dell’auto per entrare, un’auto comparve nuovamente sulla strada e si fermò davanti a loro facendo un mezzo giro. Raven conosceva quell’auto e fu grata di vedere Andrea scendere con la sua pistola bianca in pugno.
-Nikolaj lascia andare la ragazza. -.
Il demone si fermò a massaggiarsi la radice del naso borbottando: -Ho detto ora basta perdere tempo. Che vuole? -.
-Nikolaj hai sentito benissimo. – rispose Andrea avanzando di qualche passo –Forza, lascia andare Raven. -.
-Tu paga se io faccio? -.
-No. -.
-Allora non faccio. -.
Un proiettile partì dalla pistola di Andrea ed andò a colpire il vetro della macchina dietro la testa di Nikolaj, che si era tolto dalla sua traiettoria, rimbalzando da tutt’altra parte senza fare alcun danno. Mandò altri tre colpi a vuoto prima di essere sollevato per i polsi dal demone ed essere disarmato. La pistola fece un rapido giro tra le mani del demone mentre i proiettili rimanenti caddero per terra senza tintinnare.
-Voleva bucarmi con questa? – chiese infilandogli l’arma nella tasca posteriore dei pantaloni.
-Non credere che finisca qua! – esclamò Andrea.
-Dubito. – rispose Nikolaj.
Il suo sguardo si posò oltre le rocce dal quale iniziava il burrone che Raven aveva trovato e tornarono sull’angelo.
-Tu niente ali, se non ricorda male. – fece avvicinandosi al crepaccio, con i pesanti stivali militari di pelle nera che scricchiolavano sopra la ghiaia.
Raven vide dove si stava dirigendo ed intuì quello che volesse fare. Ma quando cercò di aprire la portiera ed uscire Buck, seduto dietro di lei, le mise le mani sulle spalle e non le permise di muoversi.
Lo sospese sopra il vuoto e quando Andrea guardò giù capì anche lui.
-No ti prego, questo no. – balbettò spaventato.
-Ordini dall’alto. Fare buon volo. -. Mosse ancora le labbra ma da lontano né Buck né Raven sentirono quello che diceva.
-NO! Andrea! – urlò Raven vedendolo sparire nel burrone.
Andrea era un angelo, poteva sopportare una caduta del genere… vero?
La cicatrice cominciò a bruciare mentre Nikolaj tornava alla macchina. Provò ancora a divincolarsi dalla presa di Buck, ma quel mezzo demone era più forte di quanto potesse sembrare. Da dove era seduta e per il fatto che quello dietro la stesse tenendo ferma, non poteva neanche cercare di prendere a calci Nikolaj.
Dall’occhiata che le diede comunque, forse capendo quello che avrebbe voluto fare, decise solamente di minacciarlo: -Toglimi queste manette e battiti con me se hai coraggio. -.
-Non picchio bimbi e femmine. – disse sporgendosi verso di lei. Prese la cintura e gliela agganciò al sedile. –Ora sa che io parlo sul serio: dico spezzo gambe, io spezzo. Anche se è ragazzina. -.
 
***
 
Beast dormiva ancora della grossa quando lui si svegliò. Sentiva molto meno dolore alle braccia e alle gambe. Ancora un giorno e sarebbe guarito completamente.
Si sentiva decisamente in forze e riposato, soprattutto perché aveva dormito senza fare sogni, cosa che non accadeva da anni: era come se appena qualche secondo prima avesse chiuso gli occhi nel bel mezzo della notte e li aveva riaperti a mattina inoltrata.
Poteva sentire nel corridoio il profumo invitante del Calore di Matisse arrivare dalla cucina, indicazione del fatto che era mattina e lei stava preparando la colazione. Era coperto leggermente dall’odore di Jaguar, ma abbastanza invitante da poterle riservare qualche pensierino scacciato subito da una certa consapevolezza che gli dava parecchio fastidio.
Appoggiò una mano sulla testa di Beast e gli lisciò il pelo in mezzo alle orecchie, passando dietro l’orecchio per una grattatina leggera con le unghie. La coda arricciata dell’Akita prese a muoversi a destra e sinistra ritmicamente.
Aveva avuto un cane da piccolo ma… leggermente diverso. Non che non fosse carino con quel musetto, ma preferiva cani dall’aspetto più tosto.
Era anche un bravo ragazzo dato che era stato accanto a lui tutto il tempo della sua convalescenza: lo aiutava a mettersi le camicie, le giacche, alzarsi, camminare e una volta lavarsi i denti. Grazie alla Volpe non aveva insistito per aiutarlo in altre mansioni che doveva svolgere in bagno.
Lo aveva difeso contro George. Non provava simpatie né per Jaguar né per Matisse o Raquel o Andrea o Raven o i McMastiff… ma chissà perché il Legame aveva deciso di manifestarsi proprio con un ragazzino trovato in strada qualche anno prima.
Legame di Dolore.
Strano che il ragazzo non lo avesse sviluppato con Jaguar. Anche che lui lo avesse sviluppato con qualcuno: pensava che non gli potesse capitare.
Insomma… pensava di non potersi affezionare più a nessuno, neanche ai suoi parenti rimastogli. Invece era successo con un cagnetto randagio che non aveva mai visto.
Più o meno era nella stessa posizione quando lo aveva visto vicino a quel cassonetto in quel vicolo sporco. Aveva annusato da lontano la presenza di un mezzo demone e si chiedeva dove fosse. Poi si era diretto nel vicolo per sfuggire alla vista di qualche passante dallo sguardo sospetto. Aveva quasi pestato la sua coda, notandolo. Subito gli era sembrato di sentire una scossa elettrica dall’osso sacro alla nuca che gli aveva fatto raddrizzare la schiena all’improvviso. L’Akita aprì gli occhi e lo fissò per un attimo, per poi balzare in piedi e ringhiare abbaiando come un ossesso. “Lo so che non sei un vero cane. Sei qua da solo, mezzo demone?”.
A sentirlo parlare così aveva smesso subito, ma era rimasto sull’attenti, chiedendo: “Come fai a saperlo?”.
“Il tuo odore. Sono un mezzo demone anche io.”. Sembrava in buona salute, per averlo trovato nel bel mezzo dei rifiuti ed adatto ai suoi scopi. “Sei solo?”.
“Con mia sorella e mio fratello.”.
“Posso incontrarli? Sto cercando qualcuno che mi aiuti per un certo lavoro.”. Lo aveva condotto dalla sua sgangherata famiglia e aveva stretto un accordo con il capofamiglia. Da quel giorno il ragazzo lo seguiva come un cagnolino e lo adorava tanto da stargli sui nervi. Pian piano però si era abituato alla sua presenza e gli faceva piacere, soprattutto perché non cercava mai d’intromettersi nel suo passato e voleva imparare tutto da lui, manco fosse stato una celebrità, accorgendosi presto che se avesse continuato così il Legame si sarebbe instaurato. Però lui non voleva avere un Legame per paura di soffrire ancora e peggio dell’ultima volta che aveva stretto amicizia con qualcuno: per cui lo allontanava e non lo chiamava neanche per nome.
Si era dimenticato che un Legame era la cosa più testarda di tutto l’universo: quando decideva di Legare due persone col cazzo che le lasciava stare separate.
Si alzò in modo da non disturbarlo e si vestì da solo. Sì, stava decisamente meglio. Forse sentiva ancora male alla testa e dovette appoggiarsi alla cassettiera per un piccolo giramento, ma per il resto era davvero a posto. Riuscì anche a prepararsi da solo i bagagli per abbandonare di nuovo la baita.
-Beast, svegliati. – gli sussurrò in un orecchio –Dobbiamo andare via. Prepara le valigie. -.
L’orecchio a punta si piegò di lato e tornò a puntare contro il soffitto. Un occhio marroncino si aprì e lo fissò.
-Allora sai come mi chiamo. Aspetta, ma sei in piedi! -.
-Certo che sono in piedi. Sto meglio. -.
-Fantastico. Quindi posso tornarmene in camera mia. – constatò il ragazzo tornando normale, stiracchiandosi.
Milord lo fermò prima che uscisse dalla stanza toccandogli la spalla e disse: -Grazie per essermi stato accanto. Orecchie appuntite. – aggiunse dando una scrollata al cappello che aveva in testa. Lui si calcò quest’ultimo sulle orecchie e sorrise.
Ora che aveva fatto il suo gesto di gentilezza si ricordò che non aveva fatto ramanzine alla Portatrice.
Andò subito alla sua camera e bussò gentilmente alla porta. Lei non rispose. Bussò e la chiamò.
Come se avesse chiamato la porta.
Abbassò la maniglia ed entrò, trovando la stanza vuota. Avrebbe pensato che fosse in cucina se non avesse notato che lo zaino non era in vista. Lo cercò nell’armadio e sotto il letto, ma non c’era.
-È scappata! – urlò furibondo e preoccupato. Era pur sempre sua nipote. E se sua sorella lo fosse venuto a sapere l’avrebbe ucciso sul serio.
Andò velocemente in cucina e chiese ai presenti: -Avete visto Raven? -.
La risposta negativa gli fece stringere talmente tanto i pugni che le nocche scricchiolarono.
-Non ce ne siamo accorti. – disse Jaguar.
-Eravamo troppo stanchi. – concordò suo malgrado Milord –Ma dobbiamo recuperarla subito. Beast, con me, voialtri preparate le valigie e aspettate qui. Se mai tornasse telefonate. -.
Prese Beast per un polso e lo trascinò fuori dalla baita rudemente. Prima di entrare in auto fischiò mettendosi due dita in bocca, producendo un suono così acuto che Beast dovette tapparsi le orecchie con le mani.
Quando il mezzo demone si sedette al posto di guida chiese: -Ma che hai fatto? -.
-Ho chiamato i rinforzi. Allacciati la cintura, ora dobbiamo correre. – l’avvertì Milord mettendo in moto.
Non ci misero molto a tornare alla strada asfaltata. Beast fu il primo ad avvistare lo zaino abbandonato per terra.
Scesero dall’auto e lo presero. Intanto Milord percepì diversi odori familiari: -Raven è arrivata fino qui, ha gironzolato fino là ed è tornata indietro in questo punto. Poi è arrivato Buck e… penso di non conoscerlo questo odore. È arrivato Andrea ed anche lui è andato là ma non è tornato indietro. Non da solo: Rosco. Senza i fratelli, strano. Non sento l’odore di Raven da nessuna parte, devono averla presa e messa in auto Buck e l’altro. Ma non riesco a capire da che parte siano andati, ho troppo mal di testa per capirlo. – borbottò massaggiandosi le tempie.
-Come facciamo allora? – chiese scoraggiato il ragazzo.
-Ti ho mai detto che da piccolo avevo un cane? -.
 
***
 
L’impatto con la prima roccia gli aveva ferito la spalla e la seconda lo aveva colpito nella curva della schiena, bloccandogli l’urlo che gli stava per uscire dalla gola. Si ricordò di avere raggiunto la fine del burrone graffiandosi e facendosi un male boia ovunque, tra rocce e cespugli. L’ultima botta lo aveva preso alla tempia.
Chiuse gli occhi stordito dall’urto e li riaprì poco dopo (o forse dopo molto tempo), riuscendo a distinguere ombre indistinte che si muovevano davanti a lui. Forse quelle ombre gli avevano anche parlato o si era immaginato le voci. Forse aveva parlato anche lui…
Quando gli sembrò di svegliarsi di nuovo non poteva credere di essere di nuovo in quella stanza maledetta: era un ambulatorio completamente bianco con pareti di vetro, se non per i diversi contenitori di liquidi colorati che da piccolo lo avevano affascinato più di ogni altra cosa messi in ordine su scaffali e mobili di vetro. Ma in quel momento gli si accapponò la pelle alla loro vista apparentemente innocua. Al naso non gli arrivò nessun odore o profumo se non quello di disinfettante. La luce faceva male agli occhi, rimbalzando sulle piastrelle di pavimento, pareti e soffitto.
-Non è reale… - pensò –È un incubo, non sono in ospedale, non posso essere di nuovo in ospedale. -.
Mosse le mani e le gambe, ma erano immobilizzate sulla sedia senza schienale trasparente con le cinghie di cuoio che già una volta lo avevano tenuto fermo. Avrebbe potuto strapparle con facilità se al loro interno non fossero state fornite di aghi per bloccare le terminazioni nervose che permettevano il movimento.
Sentì un rimbombante rumore di passi provenire oltre le due porte a battente con due piccole finestre rotonde davanti a sé.
-È un incubo, ora non entrerà nessuno, nessuno! – pensò ancora ricordandosi perfettamente che invece l’ultima volta che era stato lì nella realtà era entrato suo padre (suo padre!) con la siringa in mano, un ago lungo cinque centimetri, pronto ad iniettargli nella nuca e nella schiena quel liquido trasparente che gli avrebbe avvizzito la capacità di far uscire le ali dal suo corpo ed utilizzarle… poteva sentire il sudore scendergli lungo la schiena nuda e imperlargli la fronte.
Una delle porte si aprì verso l’interno e lui fu pronto ad urlare maledizioni indirizzate al suo genitore (in realtà non lo aveva fatto: era stato tranquillo ed aveva sfidato suo padre a testa alta), ma non apparve nessun angelo in camice argentato.
Entrò Morfeo.
Meglio che vedere aghi o Brian, naturalmente, ma non poteva sopportare la sua vista, non dopo quello che gli avevano riferito sul suo conto.
-Aspettavi qualcun altro? – chiese il demone passeggiando verso di lui con un passo leggero e misurato, un portamento molto elegante nonostante l’evidente zoppia –Non voglio farti del male. -.
-Buono a sapersi. Cosa vuoi da me? – chiese in tono ostile –Vuoi mettere le mani su Raven? Puoi scordarti che io parli, feccia. -.
-Mi dispiace ci sia questa ostilità. Perdonami, ma faccio ancora fatica a cominciare un discorso con persone che non conosco senza essere un po’ caustico. Per la cronaca, se mai avessi Raven tra le mani non le succederebbe niente. -.
-Aw, che carino, credi che io ti creda? Non m’incanti con la tua condizione -.
-Non intendo proprio parlarti con l’intento di farti pena. – disse Morfeo fermandosi davanti a lui –Mi spiace averti messo in queste condizioni, ma volevo evitare uno scontro con te. Non mi è venuto niente di meglio, sono sinceramente dispiaciuto. Adesso parliamo seriamente, da Phòinix a Valentine. -.
L’ostilità nei suoi confronti si acquietò quando sentì il suo cognome di fantasia al posto di quello ereditato dal padre, Malinois. Rilassò le spalle, rimaste in tensione dal suo arrivo. Avrebbe voluto anche accavallare le gambe ma non poteva. Magari, se si dimostrava accondiscendente avrebbe abbassato la guardia.
Se esisteva davvero la Volpe era meglio che lui gli fosse devoto, in quel caso.
-Come vuoi. – rispose –Non oso immaginare di cosa tu voglia parlarmi. -.
-Sì. Vorrei che tu lasciassi entrare i McMastiff nella Resistenza. -.
-Ho avuto ordine di abbindolarli per un po’ con la storia che è difficile a causa della loro reputazione e per Elen, ma lei ha già tutte le carte pronte per loro. -.
-Oh, capisco. – mormorò il demone pungendosi un labbro con un canino –Porta ancora molto rancore. Dille che non voglio faccia loro del male. –.
-Cosa ti fa pensare che io lo farò? Adesso c’è una situazione particolare, ma appena riverrò avvertirò subito Elen che Raven è in pericolo. Non finirà mai tra le grinfie di Regina, puoi starne certo. -.
-So che è con Nikolaj. – disse il demone –La sua corsa sarà lunga e lenta, spero vi dia abbastanza tempo per intervenire. Però dovete fare in fretta, non posso rischiare di far saltare la sua copertura. -.
Andrea era confuso e nervoso: -Copertura? Di che diavolo stai parlando? –.
Nikolaj era stato scoperto?
Morfeo scosse la testa, sorridendo appena: -Gli ordini dall’alto di Nikolaj da chi credi che arrivino? Ora basta, abbiamo perso troppo tempo, sono passate due ore: svegliati. -.
E schioccò le dita.
 
***
 
Si svegliò davvero questa volta.
Lo capì dal fatto che era in un letto, rivoltato a pancia sotto e le mani vicino alla testa, una posizione molto inconsueta per lui. Le lenzuola erano profumate di pulito e lui se ne riempì le narici, pensando per un attimo alla madre.
Provò ad appoggiarsi ai gomiti per tirarsi su, ma un dolore alle scapole lo fece gemere e rinunciò. Il lenzuolo che gli copriva le gambe raggiungeva solo metà schiena: dal brivido di freddo che percepì sulla pelle poté capire che non aveva la maglia e dal contatto diretto con il lenzuolo neanche i pantaloni.
Una mano era fasciata e con occhio medico capì che si era slogato il polso. Per fortuna era una medicazione fatta bene, il polso riusciva a muoverlo in tondo. Riprovò a mettersi seduto e questa volta ce la fece, nonostante dovesse mordersi le labbra pur di non fare un solo verso.
Si tolse le coperte di dosso e scoprì un’ingessatura al piede sinistro, nuove fasciature sulle gambe ed in altri punti del corpo profumate di disinfettante. Toccandosi il viso poté sentire anche qualche cerotto e una medicazione sulla tempia.
-Mi sono proprio ridotto male. – pensò.
Solo con la coda nell’occhio notò le sue ali, fiaccamente abbandonate sulla schiena. Probabilmente le aveva messe fuori dal corpo per pararsi la caduta ed evitare di ferirsi alla schiena sfruttando la totale insensibilità delle sue appendici piumate. Infatti poté notare che una era steccata e ad entrambe mancavano delle piume. Le accarezzò con tenerezza, godendosi la morbidezza delle candide piume dall’aspetto un po’ debole e malaticcio. Forse non erano neanche più così candide, con la penombra non riusciva a capire.
Ma dov’era? Poteva percepire odore di demone.
La porta alla sua sinistra si socchiuse e vide Rosco fare capolino per dare un’occhiata all’interno, cosa che fece affrettare l’angelo a rimettersi le lenzuola addosso e cercare qualcosa con cui difendersi. Vedendo che era sveglio e seduto diede una spintarella alla porta ed entrò, mettendo in mostra un vassoio con una tazza e qualcosa in un piccolo piattino fondo.
-Buongiorno. Stai bene? -.
-Grazie a chi mi ha curato. – rispose lui, guardingo –Tu immagino. -.
-Modestamente sì. – ammise Rosco. Sul vassoio c’era una tazza di caffè scuro e nel piattino dei cioccolatini. Una piacevole sorpresa.
Ne prese uno a forma di cuore e se lo passò sotto il naso, aspirandone l’aroma delicato e stimò: -Marca belga. -.
-Ottimo intenditore. -.
-Mamma li faceva spesso. – rispose lui dandogli un morso nostalgico –Il caffè è espresso? -.
-Sì. -.
-Bene, è quello che preferisco -.
-Buono a sapersi. -.
Vide che usava la mano fasciata per prendere i cioccolatini e bere il caffè, constatando che era a posto. A quel punto quindi tutti i graffi e i tagli che si era procurato dovevano essere guariti, ma non la frattura alla caviglia e tantomeno quella all’ala.
-Cosa ci faccio in tua compagnia? -.
-Ti abbiamo trovato in un burrone mentre scendevamo dalle montagne. Ti abbiamo riportato su ed abbiamo analizzato la situazione, decidendo di non tornare come nei piani all’Inferno nel nostro rifugio segreto, date le tue condizioni, e rifugiarci in una casa umana abbandonata per le vacanze. Mi sono preso cura di te meglio che potevo. -.
-Mhm… Raven è in mano a Nikolaj. -.
-Lo sappiamo. – annuì cupamente il demone –Spero vivamente che quella bestia non le faccia del male o dovrà vedersela con noi. -.
-Non riuscireste neanche a spaventarlo. – commentò Andrea –Ma credimi, non le farà del male. -.
-Come fai a dirlo? -.
-Lo so, fattelo bastare. Dammi il mio cellulare, non ho molto tempo. -.
Rosco si sporse per prendere quello che aveva chiesto da un cassetto del comodino accanto al letto.
-Ora... – aggiunse Andrea, iniziando a scrivere un messaggio -Non è che mi hai curato e mi vizi per estorcermi il lasciapassare per la Resistenza? – cambiò discorso l’angelo
Un sorriso furbo si allargò sul viso di Rosco: -Tutto è lecito. – rispose rubando un cioccolatino dal vassoio–Se mi permettessi di usare lo Charm potrei tentare di convincerti in modi decisamente più appaganti per entrambi. -.
-Piantala, sei fastidioso. In ogni caso ho già preso la mia decisione: verrete arruolati. -.
-Davvero? -.
-A ben pensarci ci servite: Carlo e Madison sono molto forti e tu sei un medico capace a giudicare da me stesso e da quei punti di sutura a regola d’arte che ho potuto notare su Jaguar. Sei bravo. -.
-Davvero? –ripeté il demone –Anche tu sei un medico. -.
-Ho voluto fare un dispetto a papà. Ma in realtà era il mio sogno nel cassetto. Ora và, riferisci ai tuoi fratelli che siete formalmente ammessi. – lo incitò con un gesto della mano–Lasciatemi il tempo per riposare e vi porterò da lei. -.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Capitolo 21: Salvataggio e sospetti ***


CAPITOLO 21
Salvataggio e sospetti

 
Di solito i viaggi in macchina le piacevano: ascoltava la musica, guardava il paesaggio, parlava con sua madre, facevano giochi stupidi come indovinare il colore della prossima macchina che sarebbe passata o cantavano canzoncine stupide che passavano alla radio.
Con Nikolaj non immaginò di poter cantare o indovinare il colore delle auto. Non aveva l’aria di essere una persona che sorridesse spesso o scherzasse volentieri. Anzi, a dire la verità aveva l’aria più arrabbiata che avesse mai visto in vita sua (e pensare che l’aria perennemente arrabbiata pensava l’avessero Madison e Milord). Sembrava che ne avesse passate talmente tante e brutte da non essere più in grado di sorridere. Persino Milord sorrideva quando le dava della stupida ed erano sorrisi divertiti, come se vedesse un gatto che cerca di graffiare il suo riflesso in uno specchio e nel frattempo lo pensasse una delle creature più stupide del mondo. Poteva chiamare un sorriso del genere sorrezzo o dispriso.
Ecco, una cosa del genere l’avrebbe detta a sua madre, avrebbero riso ed avrebbero inventato altre parole composte. Con chi lo avrebbe fatto in quel momento? Nikolaj? No, non parlava da quando aveva risposto al telefono un paio d’ore prima.
Buck? No, il mezzo demone era troppo impegnato a lamentarsi di quanto ci mettevano ad arrivare.
Mano a mano che parlava, Raven poteva notare una punta d’irritazione nel demone, rappresentata da una vena sulla tempia che cominciava ad ingrossarsi e dal fatto che alzava gli occhi al cielo muovendo il ginocchio sinistro con irritazione. Si sarebbe aspettata che tirasse fuori una sigaretta e che la finisse in un tiro solo, invece niente.
Allungò un braccio dietro al suo sedile e prese una bottiglietta d’acqua. La tese a Buck dicendo: –Bere. -.
Lui smise di lamentarsi e guardò la bottiglia con sospetto, chiedendo: -Perché? -.
-Parlare seccare la gola. Non hai chiuso bocca da parecchio. Bere e fare riposare orecchie nostre. O Regina non salverà te da mia pazienza esaurita. -.
-Va bene… - bisbigliò Buck, perdendo subito l’aria spavalda che aveva mantenuto mentre snocciolava quel rosario improvvisato di lamentele, vedendo la sua garanzia di incolumità incrinarsi. Prese la bottiglia e l’aprì, prendendone qualche sorso. –Ha un sapore strano. – notò schioccando le labbra un paio di volte –Però è buona. -.
-Posso bere anche io? – chiese Raven –Anche io sono in questa macchina da un pezzo e non bevo da altrettanto tempo. -.
-Mh… - fece Nikolaj riprendendo la bottiglia –Tu no. -.
Raven si leccò le labbra secche e borbottò: -Ho il culo quadrato e non posso neanche avere il sollievo di bere qualcosa? -.
-Tra poco ringrazia. – rispose Nikolaj con la mano sinistra appoggiata con il polso sul volante, buttando la bottiglia ai suoi piedi –.
Raven non capì di che cosa stesse parlando finché non sentì sbadigliare Buck. Si girò con discrezione e notò il suo sguardo appannato dal sonno. Dopo poco appoggiò la testa al finestrino, iniziando a ronfare.
Nikolaj si girò a controllare il mezzo demone a sua volta e, visto che dormiva, allungò una mano dietro la schiena dell’ibrida.
-Che stai facendo? – chiese spostandosi in avanti sul sedile, pronta a girarsi e dargli un calcio.
La stretta delle manette si allentò e scomparve. Non era stato affatto comodo viaggiare con le braccia dietro la schiena fino a quel momento e quando sentì che poteva muoverle come le pareva provò un sollievo enorme. I polsi erano arrossati e se li massaggiò piano con movimenti circolari delle dita.
-Perché mi hai liberata? -.
-Macchina va, io faccio guardia: tu non è tanto stupida spero. Manette inutili. – rispose con noncuranza –Se tu chiede, no, non ti porta subito a Inferno. -.
-Perché? -.
-Ho cosa da fare prima. -.
-Cosa? -.
La guardò con quegli strani occhi color dell’oro, senza badare alla strada. Forse stava valutando se risponderle.
-Ho amica malata. – rispose infine tornando a guardare davanti a sé.
Non sembrava un gran chiacchierone, per cui se ne stette zitta per un bel po’ di tempo. Certo che i soldati di Regina erano ben variegati: non immaginava che i demoni potessero avere anche un aspetto del genere, così alti e robusti da far invidia ad un culturista, rimanendo comunque armoniosi. Il viso era deturpato da una cicatrice ma se la si metteva da parte quello era un bel viso, dalla mascella leggermente squadrata ed il mento ovale. Se lo si guardava bene si poteva dire che aveva un viso aggraziato e nobile quanto Milord, se non fosse stato per quella strana cicatrice che lo rendeva inguardabile. I capelli rosso-biondo di quella tonalità scura erano legati e ad occhio e croce potevano arrivargli alle spalle se lasciati sciolti. Anche le spesse basette erano dello stesso colore.
Osservando la cicatrice iniziò a pensare come se la fosse fatta. Era impossibile fosse una cicatrice da battaglia: da zigomo a zigomo continuava il suo percorso anche sui lati del naso. In un combattimento poteva sicuramente capitare un taglio del genere, ma solo da una parte del viso, e anche dall’altra, ma non potevano coincidere così perfettamente. Che fosse stata fatta di proposito?
Forse lo stava guardando con un po’ troppo interesse perché chiese: -Che guarda? -.
-Nulla. – s’affrettò a dire distogliendo lo sguardo.
-Evita di farlo. Cicatrice spaventa. -.
Era così evidente che era interessata alla cicatrice? Beh, finalmente qualcuno con una cicatrice bizzarra e diversa dalla sua.
-È solo una cicatrice. -.
Poté sentire una rabbia feroce nella precisazione che fece: -Non è “solo una cicatrice”: è segno di Sfregiati, banditi. Chi si guadagna non può tornare dove è stata fatta e nascondere. È fatta Lux, non cancella da pelle. -.
-In effetti è un po’... fa un po’ senso. – ammise Raven.
-Se tu di nostra cultura non guardi in faccia. Come voi umani chi non veste bene è visto male, Sfregiati è marcio di società e mostri. -.
-Che esagerazione. – pensò, ma disse: –Come vuoi. Però non mi sembri così brutto. -.
-Oh, interesso, solo per una cosa. Tranne che Andrej. -.
-Chi? -.
-Come nome? Andrej… Andrea. Sì, spogliarellista, l’angelo maschio che crede femmina. Angelo furbo, meschino a volte. -.
-Andrea era una persona molto rispettabile. – lo difese Raven.
-Certo. Conosci McMastiff? Sì? Beh, vita corta se stare con lui. – disse Nikolaj passandosi il pollice della mano destra sotto la gola –Angelo lavora per boss feroce. -.
-Che intendi? -.
Lui non rispose, continuando a guardare verso la strada. Lei lasciò perdere la domanda e ne fece un’altra: -Tu sei un uomo di Regina? Prima l’hai insultata. -.
-Sono mercenario, lavoro per paga, non per persona. Pochi quelli che lei piace e deficiente là dietro… - disse indicando con un cenno della testa dietro di sé –È uno di pochi. -.
-Perché se piace a così pochi mi sembra che siano tutti con lei? -.
-Togli mezzi demoni e quelli che non piace lei e che ribella. Chi resta? Chi piace e chi paura di lei. -.
-A te non piace. -.
-Ho paura. – rispose lui.
-Che? Ma sei grande e grosso, com’è possibile? – chiese Raven, quasi divertita da quell’affermazione. Dall’aspetto sembrava un guerriero fatto e finito ed era truce abbastanza da poter affermare che piuttosto lui faceva paura rispetto ad una probabile demone di normali dimensioni femmina.
-Non ho paura per me. – rispose prontamente lui –Possono fare quello che vuole a me, sarei già in Resistenza. Ma mia amica è punto debole: poter prendere e fare male, non può difendere. È umana debole anche per dire “ahia” per fare stare buono me. Peccato io troppo bravo per non avere parte. Per me non combattere mai, sempre con Lovel a prendere cura di lei. -. Le sue spesse sopracciglia si corrugarono e allungò la mano libera per prenderle il mento stringendo fino a farle male: -Se qualcuno sa di Lovel ho due persone per trovare colpevole: se dire qualcosa io sa dove cercare prima. Capire? -.
-So mantenere un segreto. – farfugliò la ragazza con un occhio che le bruciava per una lacrima di dolore –Mi fai male. -.
-Mano grossa poco delicata, non stupire. E adesso silenzio, basta parlare. -.
Strano… fino a poco prima sembrava quasi simpatico ed aperto, soprattutto con la storia del suo amico umano. Chissà chi era? Chi poteva essere amico di un demone dall’aspetto bizzarro e minaccioso come lui? Non capiva molto bene la storia della cicatrice ma il resto sì.
Dunque Regina non era poi così amata come lei pensava.
Doveva assolutamente scoprire dov’era la Resistenza e soprattutto capire perché se esisteva Milord non la portava lì. Dopotutto cosa poteva fare lontana dal luogo dove doveva agire? E soprattutto dove non aveva possibilità di allenarsi? Insomma… Jaguar e Milord potevano essere forti, ma lei si sarebbe dovuta battere con un demone puro e abbastanza cazzuto da comandare tempo addietro una rivolta e ora un popolo intero, le servivano dei professionisti.
Che posto poteva essere poi l’Inferno?
Aveva voglia di chiede al suo rapitore qualcosa di più, ma aveva paura che se avesse anche solo aperto bocca quella volta gli avrebbe stretto il mento così forte da romperglielo. Dopotutto, che senso aveva chiederglielo poi: la stava portando lì, l0 avrebbe visto con i suoi occhi com’era fatto.
Stavano passando per un’altra strada deserta: a destra e sinistra di essa c’erano solo campi di mais che, essendo a giugno, erano ancora piantine piuttosto basse, ma creavano comunque un grande paesaggio verde e marrone, con un cielo azzurro come sfondo, con qualche nuvola dall’aria batuffolosa. Quando sarebbe arrivato un bel temporale estivo? Le erano sempre piaciuti i temporali estivi, quelli violenti che flagellavano tutto con grandi gocce d’acqua e tuoni terribili. Certo, ne aveva subito uno la sera in cui aveva incontrato i Faoil ma lei ne voleva uno che durasse una giornata intera, per leggersi un libro, guardare la tv… ah già, non poteva più.
Nikolaj grugnì arricciando il naso.
-Cosa? -.
-Puzza di cane. -.
-Buck? -.
-No, no lui. – rispose con un cenno secco della mano libera il demone verso l’uomo addormentato sui sedili posteriori –Altro cane. -.
Lei si sporse a guardare nei campi e sulla strada. Cani? Ma se non c’era nessuno lì. L’ultima fattoria che avevano passato era stato chilometri prima, un cane non poteva allontanarsi così tanto da casa sua e tantomeno non potevano essercene di randagi in mezzo al nulla.
All’improvviso sentì dei ritmici scossoni che la fecero sobbalzare sul sedile. Si avvicinavano.
La macchina si fermò all’improvviso con un tonfo sordo che accompagnò la depressione formatasi nel tettuccio e senza stridii di gomme sull’asfalto, tanto che se non fosse stato per le cinture di sicurezza sarebbe volata fuori dal veicolo sfondando il parabrezza. La stessa cosa sarebbe successa a Nikolaj.
Buck cadde giù dai sedili con tale violenza che Raven sentì la sua faccia stamparsi sul suo sedile così forte da sentirsi il suo naso puntarle nella schiena, continuando a dormire come se niente fosse.
Raven si massaggiò il petto dove la cintura le aveva fatto male nel tendersi ed esclamò: -Perché hai frenato così?! -.
-No frenato io. – la contraddisse il demone slacciandosi la cintura di sicurezza con un ringhio dopo aver spento la macchina. Raven lo vide rimettere un braccio dietro il sedile e stavolta non prese una bottiglia d’acqua, ma qualcosa di ben diverso: due asce enormi dall’impugnatura di metallo scuro e lame corte e lucenti, sicuramente affilate come rasoi e decorate da strani simboli. Gliene puntò una al naso e ordinò frettolosamente: -Scendi dall’auto e sarà l’ultima cosa che farai. – prima di aprire la portiera ed abbandonare il veicolo.
Era decisamente stufa di essere comandata ed essere minacciata da perfetti sconosciuti, perciò decise di sganciare la cintura e fregarsene di quello che aveva detto il demone. Questa volta avrebbe guardato che cosa stava accadendo.
Quando scese dall’auto pensò che forse era meglio seguire gli ordini di chi non conosceva affatto e dare ascolto alle minacce perché forse non sarebbero state attuate da chi brandiva due asce da combattimento. Capì anche perché aveva detto che sentiva odore di cane: un’enorme zampa più grossa della ruota posteriore di un trattore era appoggiata sul tettuccio dell’auto. Apparteneva ad un cane a tre teste, simili a quelle di un pastore tedesco, dal pelo pezzato nero e grigio, come se si fosse rotolato nella cenere.
Le teste erano impegnate a ringhiare contro Nikolaj, molto più in basso. Ad occhio e croce quella bestia doveva essere sette metri senza contare le teste e molto arrabbiata con il demone.
–Questo non sapevo. – borbottò Nikolaj arretrando di qualche passo.
-Cos’è quel coso? -.
-Cerbero, non sa proprio niente te? -.
-Esistono? -.
-Esistono demoni ma no cane con tre teste? – chiese irritato il demone –Avere detto stare in macchina. -.
L’animale spostò la zampa dall’auto per colpire Nikolaj ma lui affondò una lama nel morbido cuscinetto centrale, evitando di essere colpito per un pelo. Non zoppicò neanche, per quella specie di Fufi era come un graffietto superficiale.
La testa a destra e quella sinistra scesero per mordere, ma le fauci si chiusero nel nulla. Nikolaj saltò ed atterrò sulla sinistra, proprio in mezzo alle orecchie a punta. La centrale abbaiò e sferrò un morso nella sua direzione, guadagnandosi una nuova ferita sul naso che si aprì come una mela sulla parte superiore. Questa volta ululò di dolore e si leccò la ferita con l’enorme lingua rosa mentre la gemella destra s’impegnava a punire il demone per il male. Nikolaj dovette faticare parecchio per tenerla a bada, dato che sembrava molto meno spaventata delle altre riguardo le lame. La testa sinistra lo scaraventò in aria alzandosi di scatto e lui perdette un qualsiasi appoggio dove poter attaccare.
Raven pensò con orrore che la testa sinistra lo ingoiasse in un sol boccone vedendo come si posizionava sotto di lui con la bocca spalancata. Invece la camicia di Nikolaj si gonfiò sulla schiena e si ruppe, lasciando libere due enormi ali da pipistrello nere che lo portarono con un solo battito lontano dalla portata dei mostruosi denti del Cerbero.
-Addio camicia. – pensò il demone togliendosi l’indumento rovinato che gli scivolava dal corpo, scoprendo completamente l’enorme busto muscoloso. Era tatuato con strani simboli tribali sulle braccia, dai polsi alle spalle. L’ibrida non vide bene cos’era il disegno che aveva sul petto, perché non rimase in volo a lungo per offrire spettacolo.
Scese velocemente in picchiata dietro il Cerbero. Evidentemente aveva intuito che voleva attaccare il suo fragile stomaco, perché saltò di lato prima ancora che potesse toccargli il pelo della morbida e vulnerabile pancia. Investì quasi Raven, ma lei si buttò di lato in tempo per non essere schiacciata dalle zampe posteriori.
Mancando l’attacco, Nikolaj provò con uno frontale e mettere fuori gioco almeno una delle teste, perché non aveva intenzione di diventare lo stuzzicadenti di un Cerbero.
Uno scontro frontale avrebbe funzionato solo se le teste fossero state ridotte ad una, ma con tre non riusciva a concentrarsi: potevano attaccarlo cinque demoni contemporaneamente ma non tre teste enormi che avevano voglia di assaggiarlo. Tentare un trucco per poterle confondere era inutile: era evidentemente addestrato al combattimento da come aveva evitato di essere sventrato e se il suo padrone era stato tanto previdente da insegnargli quel ragionamento, era stato abbastanza intelligente da insegnargli a non mettersi a litigare tra loro. Dovette tornare presto alla realtà perché la bestiaccia spiccò un salto per prenderlo al volo e scartò di lato in tempo per non essere preso ad una gamba. Riuscì ad allungare un colpo sul naso alla testa destra.
Con la coda nell’occhio vide che stava per schiacciare la ragazza e stavolta non sarebbe riuscita a schivare in tempo il Cerbero. Raccolse le ali e scese di quota a grande velocità verso Raven con le braccia alzate a pararsi la testa dalla zampa molto vicina al suo corpo. Arrivò in tempo per buttarla a terra a distanza di sicurezza.
-Non ha capito di stare dentro macchina?! – le ripeté urlandole nelle orecchie per sovrastare i latrati delle teste.
Si sentì stringere la caviglia sinistra in una morsa dal dolore incredibile e capì che salvare la pelle alla Portatrice era stata una pessima idea.
La testa lo sollevò per sbatterlo sull’asfalto. Dovette ammettere che era forte, perché vide nero per una manciata di secondi prima di essere di nuovo a contatto con l’asfalto e sentire la testa che girava. Le teste laterali lo girarono e lo sollevarono tenendolo stretto per i polsi. Nel momento in cui riuscì a scacciare le mille lucine colorate che gli danzavano davanti agli occhi capì che la testa centrale era ansiosa di farlo a pezzetti per ringraziarlo del naso spaccato e ancora sanguinante.
Infatti si passò ancora una volta la lingua sul naso ferito per pulirselo dal sangue e si avvicinò con i denti scoperti in una sottospecie di ringhio-sorriso da una parte.
Mentre apriva la bocca fu pronto a puntaglia contro gli stivali per impedirgli di avvicinarsi.
-Non voler essere mangiato da stupido cane nato male. – ringhiò lottando con i piedi per tenerlo a distanza. Era stato un terribile errore lasciare andare le armi, avrebbe potuto tagliuzzargli le lingue se aveva ancora in mano le sue adorate lame gemelle.
Non riuscendo a combattere le sue pedate energiche sul naso dolorante, le teste laterali iniziarono a tirare le braccia. Nikolaj sentì un legamento saltare subito e si morse le labbra a sangue piuttosto che mettersi ad urlare. Non sarebbe passato molto prima che oltre al gomito sarebbero partite le spalle e lo avrebbero diviso a metà.
Raven pensò disperatamente cosa fare per aiutarlo: non voleva certo che quella bestiaccia lo distruggesse come una bambola di pezza, anche se era il suo carceriere.
Le era venuto in mente di usare una delle armi del demone, ma sembravano troppo grandi e pesanti per lei da sollevare e soprattutto utilizzare. L’unica cosa che poteva fare era usare la runa. La disegnò sempre con i piedi, pensando ad allontanare il Cerbero. Avrebbe funzionato? Dopotutto stava tenendo Nikolaj tra le fauci: la protezione avrebbe accelerato il suo squartamento? Sperava vivamente di no.
La parete verde si alzò dal disegno bruciato impresso nell’asfalto e creò un’ampia area di azione fino all’animale. Tenne le dita incrociate.
Fortunatamente lasciò andare la presa, allontanato dalla runa, e il demone cadde a terra con una capriola, finendo in ginocchio mentre si teneva un gomito con la mano.
Lo raggiunse. Da vicino riuscì a dare un’occhiata a quel tatuaggio: era una testa d’orso tribale. Era bella, ma in quel momento non era la cosa più importante da guardare. Nikolaj aveva il gomito slogato, se non rotto, e i polsi scavati dai denti del Cerbero.
-Stai bene? – chiese –Hai qualcosa per curarti? -.
-No necessario. -.
Sotto il suo sguardo stupito ed affascinato le ferite sui polsi si rimarginarono in un istante e mosse il braccio ferito come se non glielo avesse cercato di staccare. Sentì degli schiocchi in rapida sequenza ed il gomito era guarito alla perfezione. Stessa cosa per la caviglia.
Lo sentì borbottare qualcosa e le diede una spinta sulla schiena in direzione della parete verde che lei aveva creato.
-Va’ via. -.
-Che? -.
-Andare. Io ammette, non riesce a fare nulla ora. Troppe cose in testa. Forza, vai da bestia e fare portare da Milord, è qui per questo. Io ho cosa più importante da fare. Io dare un giorno a respirare, ma poi tornare. -.
Si voltò per recuperare le sue armi e tornare alla macchina e lei disse: -Ma che razza di demoni siete? Prima mi rapite e poi mi ridate indietro come niente fosse? Che storia è questa? -.
Il demone aprì la portiera posteriore, lasciò lì le asce e prese un’altra camicia, rossa, e la indossò. Provò ad abbottonarla ma i bottoni sul petto non volevano saperne di chiudersi, scivolavano via di continuo. Dopo un paio di tentativi se la tolse e prese una maglia a maniche corte bianca da mettersi sotto. Intanto la ragazzina si era avvicinata e gli stava a fianco.
-Che fare qui ancora? -.
-A che gioco state giocando? -.
-A chi prende Portatrice. Sente bene, a me di te non frega. – chiarì appoggiandosi con un gomito alla portiera chiusa dell’auto –Poter anche no guardare cane e portare a Inferno, prendere soldi e sparire. Invece non era ordini. No portare subito. Ragazza, tu è pedina delicata in gioco di inganni e strategie. Un errore e saltare tutti in aria. Se permette, Lovel deve essere sicura. Oggi sono quasi morto per tua colpa. – disse dandole un colpetto sul petto, proprio sopra la cicatrice –E no perdono a me se… merda, perché dire a te questo? Va’ prima di cambiare idea o volere calci in culo? -.
Diede un pugno rumoroso all’auto che convinse l’ibrida a darsela a gambe levate come un gatto che ha sentito un rumore improvviso. Quando oltrepassò la parete della runa quella si dissolse e nello stesso tempo la macchina di Nikolaj partì.
Ma il Cerbero non la inseguì. Rimase seduto sulla strada a fissare la ragazzina minuscola che si avvicinava a lui. Si mise a pancia in giù e tutte e tre le teste l’annusarono, tanto forte che la maglietta che indossava si appiccicò al grosso naso ferito della testa centrale. Sotto il folto pelo dei colli poté scorgere un leggero luccichio. Si avvicinò, scostò il pelo e scoprì dei collari di cuoio nero forniti di targhetta argentata. Da destra a sinistra c’erano incisi questi nomi, in stampatello maiuscolo: Passato, Presente e Futuro.
-Sì, a quanto pare sei proprio il cane di Milord. A chi verrebbe in mente di chiamare tre testoline così? Io ti avrei chiamato Trifoglio. Capito? Tri, tre… no? – fece, ma vendendo le tre teste inclinarsi di lato con fare interrogativo lasciò perdere.
Futuro la prese per la giacca e la depositò delicatamente sulla base del collo di Presente.
 
***
 
Jaguar aiutò la sorella minore a togliere i piatti sporchi della colazione dal tavolo, lasciando quelli per Milord, Beast e Raven. Il primo aveva telefonato per avvertire che molto probabilmente Andrea era andato… in quel senso.
A notizia appresa Matisse si era buttata tra le sue braccia chiedendogli se era vero con gli occhi lucidi. Naturalmente aveva negato con il sorriso più rassicurante che era riuscito a fare ma in cuor suo sapeva che c’era la possibilità del trenta per cento che l’angelo fosse vivo a quello che aveva detto Milord.
Raquel invece aveva continuato a mangiare in silenzio la sua tazza di cereali. Forse era troppo chiusa per piangere o mostrarsi dispiaciuta per Andrea o forse… no, certo che le importava. Era solo arrabbiata con lui.
Mentre metteva le scodelle nel lavello la vide uscire di casa. Avvertì Matisse che usciva e la seguì.
Era solo seduta sulla veranda.
Si sedette accanto a lei. Rimasero in silenzio e alla fine fu lui a parlare per primo.
-Mi dispiace tanto per ieri. -. Non diede motivazioni più approfondite. Non se la sentiva.
-Anche a me. -.
Si voltò a guardarlo e sfiorò con delicatezza il fianco dove era stato colpito da lei. Matisse quella mattina aveva tolto i punti da sola come Rosco le aveva spiegato. Era stata brava anche a dargli la medicazione di protezione.
Jaguar le mise un braccio attorno alle spalle e le fece voltare il viso per poterla baciare. Era da tanto che avevano il tempo di baciarsi come si deve. Amava morderle il labbro inferiore con delicatezza per poi attendere che lei richiedesse baci più appassionati passandogli una mano sul collo per spingerlo verso di lei o che le passasse le mani fra i capelli. Lui preferiva passarle le dita sulla schiena in carezze languide da quando si era tagliata i capelli, altrimenti avrebbe giocato con i suoi lunghi boccoli rossi e neri finché non lo avrebbe allontanato accusandolo di farle i nodi.
Quando si separarono le lasciò un bacio sul naso e sorrise nel vedere il suo sorriso.
-Non litighiamo più piccola, mi dispiace starti lontano. -.
-Aspetta che il Calore di Matisse smetta. – gli disse in un orecchio –E non ti starò poi così lontano. -.
-Proposta allettante. – ammise Jaguar premendole il naso contro la guancia –Non vedo l’ora. -.
Dentro casa Matisse aveva assistito e si stava rodendo il fegato: non aveva ancora cominciato a seminare zizzania fra quei due che già facevano pace!
La odiava quell’oca! Non le era mai piaciuta! Sentiva che c’era qualcosa di sbagliato, misterioso e minaccioso in lei… da quando cinque anni prima lei si era scontrata con loro. Inseguita da degli uomini di Regina incaricati di catturare i mezzi demoni, i Cacciatori, anche di come erano stati messi facilmente in fuga. Una cosa tirò l’altra e quei due s’innamorarono. Lei era una bimba di dieci anni, ma già amava il fratello maggiore, incondizionatamente: era tutto, il suo salvatore ed il suo migliore amico. Questo non era giusto!
I due tornarono in casa e lei ebbe il tempo per tornare in cucina e finire di lavare i piatti.
Era frustrante quella situazione. Strofinò con rabbia una posata immaginando che fosse la faccia di Raquel per toglierle quel brutto sorriso stupido dalla faccia con la parte ruvida della spugna. Peccato che non fosse davvero lei, l’avrebbe scorticata a morte.
Insomma, lei sapeva che Jaguar aveva una madre che gli cucinava le uova con la pancetta, gli cantava la ninnananna prima di andare a dormire, suo padre lo picchiava di continuo, era scappato in treno, suo padre l’aveva trovato e… sapeva anche che adorava camminare sulle strisce pedonali mettendo il piede destro sulle strisce nere e la sinistra su quelle bianche! Lei quelle cose non le notava neanche!
Cosa facevano di romantico quei due oltre andare a letto? Cioè, lui la riempiva di attenzioni, lei per niente.
Chi portava i calzini scaldati in inverno a Jaguar? Matisse.
Chi gli lavava i vestiti? Matisse.
Chi preparava sempre da mangiare per lui? Matisse.
Chi gli portava il termometro quando si ammalava, gli tagliava i capelli, lo accompagnava a fare la spesa, considerava i suoi disegni dei capolavori, lo aiutava a pulire e disinfettare l’attrezzatura per i tatuaggi, guardavano i film insieme mangiando popcorn, gli portava l’accappatoio quando non si ricordava di portarselo dietro e mille altre cose? Matisse!
Era praticamente sua moglie, altro che ragazza o sorella!
Dopo un po’ di tempo, mentre puliva il pavimento prima di lasciare la baita, diede un’occhiata fuori dalla finestra con la speranza di vedere qualcuno di ritorno. Invece vide Raquel al telefono.
Chi poteva chiamarla? O meglio, chi poteva chiamare lei? Era una cosa sospetta…
Matisse uscì fuori casa e si avvicinò silenziosamente a lei, che le dava la schiena. Da lontano non capiva che diceva, ma avvicinandosi riuscì a percepire qualche frammento di conversazione: -Beh, non lo sapevo mica… Cosa? Se lo sapevi già tu io che c’entro? Pensavo che fossi in grado di svolgere questo lavoro! Che? Altro? Aspetta… ah. Ah, fantastico. Non pensavo fossi in grado di pensare una cosa del genere. -. Raquel si girò e trasalì vedendo la ragazza vicino a lei. Spense la chiamata e chiese: –Che cosa stai facendo? -.
-Tu cosa stai facendo. – la ribeccò lei incrociando le braccia. Non le era piaciuto affatto il tono ansioso di quella domanda.
-Mi faccio gli affari miei. Jaguar non ti ha insegnato a farteli? -.
-Certo che mi ha insegnato a farmi gli affari miei. -.
-Allora ubbidisci. – le disse lei passandole accanto.
Matisse non pensò fosse un caso che passandole accanto avesse ricevuto una spallata.
-Stai facendo il doppio gioco. – l’accusò seguendola.
-Io? Che cosa? Dici cazzate più grandi di te. – rispose lei.
-È strano che ci abbiano trovati subito no? -.
-C’erano i McMastiff. -.
-Che sono dalla nostra parte. – la corresse –Chi altri può avvertire gli uomini di Regina? L’unica estranea alla famiglia, cioè tu. Non sei neanche dispiaciuta per Andrea! -.
Erano vicine alla baita. Raquel si voltò verso di lei e sorrise, un sorriso decisamente poco rassicurante che la fece deglutire a vuoto. La mezzo demone le si avvicinò e le bisbigliò in un orecchio: -Mi spiace per te, ma io nella famiglia ci sono dentro. Oh, e non solo nella famiglia mia cara: precisamente dentro ai pantaloni di tuo fratello, dove tu non potrai mai avere accesso, povera piccola ingenua. -.
La mano si alzò a colpirla prima ancora prima che lei pensasse di darle uno schiaffo. Non aveva mai dato uno schiaffo in viso a qualcuno, ma sentì un senso di vittoria a vedere la faccia di Raquel voltarsi da una parte con la guancia arrossata.
Purtroppo non durò a lungo perché sentì la voce di Jaguar che chiedeva cosa succedeva, ed era arrabbiata. Si avvicinò a grandi passi.
-Ha cominciato lei! – disse Matisse.
-Non m’interessa chi ha cominciato. – disse Jaguar mettendo le mani sulle spalle alla sua ragazza –Non si schiaffeggia la gente così. -.
-Lei ha detto… -.
-È colpa mia Jag. – la interruppe Raquel –Le ho risposto male dopo che mi ha detto che per lei non faccio parte della famiglia. Ero arrabbiata, mi spiace. -.
L’angelo le avrebbe dato un altro schiaffo per quella falsa umiltà dispiaciuta, se non cavato gli occhi che ridevano di sottecchi alla faccia sua.
Il mezzo demone assunse un’aria corrucciata e guardò storto la sorellina chiedendo: -Che hai detto? -.
-Io… non… - balbettò Matisse. Dannazione, non sapeva dire le bugie lei. Sentì le orecchie andarle a fuoco per l’imbarazzo e l’arrabbiatura.
-Raquel fa parte della famiglia quanto te Matisse. Potevo capire che eri gelosa a dieci anni, ma adesso sei abbastanza grande da capire che un giorno io e Raquel, se il futuro ci sorride, ci sposeremo. Avremo anche dei figli, sempre se tutto va bene, e li avrai anche tu. Cosa faresti se schiaffeggiassi il ragazzo che ti porti a casa per presentarmelo? Sarebbe una persona che ami che viene maltrattata dal famigliare a cui vuoi più bene, ragiona. Chiedi scusa. -.
-No, io non chiedo scusa! – esclamò la ragazza –Lo ha fatto apposta a spararti perché era d’accordo con tuo padre! -.
-È una bugia! – s’infervorò Raquel.
-Matisse, chiedi scusa ho detto. -.
-Io non la voglio in famiglia! Lei ci sta separando, non capisci? Lo fa apposta, io non la voglio, voglio che siamo solo io, te e Beast! -.
-Basta. In camera tua. – le ordinò il fratello.
-Non sono una bambina! -.
-Peggio, sei una stupida. Forza, in camera, e ragiona su quello che hai detto. Quando uscirai voglio che chiedi scusa a Raquel. – ordinò seccamente Jaguar indicandole la baita.
La ragazzina obbedì, ma prima di sbattere la porta gli urlò: -Ti odio! -.
Era da tempo che non si comportava in questo modo. Gli era spiaciuto darle della stupida, ma quando si comportava così diventava testarda come un mulo ed insopportabilmente infantile. E poi non gli aveva mai detto che lo odiava. Questo lo aveva ferito. Era il prezzo da pagare per educarla, pensò.
Ma non aveva mica finito.
La sua ragazza gli sorrise e disse con voce dolce: -Hai fatto la cosa giusta. -.
-Tu cosa le hai detto? -.
-Io? – fece con tono confuso –Niente. Beh…sai, che è un po’ cresciuta per fare queste scenate ed accusarmi ingiustamente di cospirare alle vostre spalle. -.
-Non ne dubito. – le concesse il mezzo demone, ma aggiunse con una sfumatura autorevole -Le esatte parole Raquel. -.
-Le ho solo detto quello. – confermò lei con un gesto sdegnoso del capo –Non mi credi? -.
-Matisse non ha mai picchiato nessuno in quella maniera. Per questa volta mi fido, ma non voglio vedervi più litigare voi due: siete le mie due donne, voglio che andiate d’accordo. -.
-Certo. Farò del mio meglio. -.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Capitolo 22: Benvenuto con l'inganno ***


CAPITOLO 22
Benvenuto con l’inganno

 
-Qualcuno ti ha insegnato che non si fruga negli zaini degli altri? -.
-Certo e ho deciso di non ascoltarlo. -.
Milord sganciò le due cinghie dello zainetto di Raven con calma. Il contenuto era scarso: qualche vestito, il portafoglio, il caricabatteria del telefono e un quaderno. Anzi, non un quaderno, un album fotografico, insieme ad una cornice con una foto.
Esaminò la foto e la rimise subito al suo posto, sbuffando aria dal naso, come se fosse infastidito. Il quaderno si rivelò un album, che riconobbe subito.
Passò le dita sula morbida copertina a stelle bianche su sfondo blu. Notò che i bordi erano leggermente consumati, anche dove c’era il rinforzo di metallo sugli spigoli.
Beast lo notò mentre esaminava la placca con il display e chiese: -Quello che sarebbe? -.
-Un album – rispose il mezzo demone battendo un dito sul display di lato –È della madre. -.
-Come fai a saperlo? - fece il ragazzo incrociando le braccia dietro la testa mentre si distendeva sul sedile posteriore dell’auto –Non hai mai spiegato che rapporti hai con lei. È una vecchia fiamma? -.
Milord lo ignorò e digitò la password sul tastierino. Sperava fosse ancora la stessa, ma dubitava che Elen avesse cambiato la sequenza di lettere.
Sul display comparvero diversi puntini lampeggianti e poi la scritta:
PASSWORD CORRETTA
La placca metallica si sganciò da un lato dalla copertina e il mezzo demone fu libero di aprire l’album. Beast, sentito un rumorino metallico, si alzò per vedere che era successo.
Notando l’album aperto chiese: -Ma come hai fatto? – sbalordito.
-Conosco la password. -.
-Me lo vuoi dire chi è questa qua? – sbuffò Beast –Sai pure queste cose di lei… -.
-Mia sorella Elen. –.
Beast slancò la bocca, sorpreso.
La prima foto era un gruppetto di ragazzi sorridenti. Guardandola meglio poteva riconoscerli.
-Ma sono i McMastiff questi? – chiese indicando tre ragazzini, sporgendosi tra i sedili.
-Sì: quello con la medicazione in faccia è Madison. Quel giorno si era preso una bella botta sul naso. Rosco invece non me lo ricordavo con i capelli lunghi. Carlo è con Alan, il loro fratello che è morto durante una rivolta. -.
-Quel ragazzo? – chiese Beast indicando una figura smilza con i capelli arruffati.
-No, lei è Elen. Somigliava ad un maschio in effetti con i capelli corti così. -.
-Quindi quello sei tu. – dedusse il ragazzo indicando un ragazzino vestito in modo molto più formale rispetto agli altri e un bel sorriso.
-Tempo fa. Avevamo dodici anni e Elen era un anno più piccola. -.
-Quindi eri amico dei McMastiff… non potevo immaginarlo. Ma scusa, se lei è tua sorella, Raven… -.
-Raven era un’umana prima che le mettessero il cuore demoniaco. Non potevamo certo lasciarla con degli umani a sorvegliarla, abbiamo dovuto prenderla con noi ed affidarla a soldati valenti che la proteggessero. Tanto l’avevano lasciata in ospedale perché i genitori erano morti in un incidente stradale e la questione del difetto cardiaco per il cuore. La prese Elen dato che voleva una figlia e tanto l’aveva presa Alan. – sospirò.
-Vuol dire che sei suo zio?! -.
-Solo sulla carta. – precisò Milord girando le pagine dell’album guardando di sfuggita le foto.
Beast non lo vide sorridere neppure una volta o anche solo addolcirsi davanti ad una di esse. Teneva le sopracciglia corrugate e una strana piega alla bocca.
Solo davanti ad una foto si fermò: c’erano lui e quella Elen insieme ad un uomo dalla pelle bianca come il latte e gli occhi rossi, vestito elegantemente e con un bastone da passeggio. Ringhiò come un animale ferito e chiuse l’album, ricacciandolo nello zaino.
-Chi era? -.
-Mio zio materno. È tutta colpa sua se abbiamo perso tutto. -.
Il mezzo demone rifletté e domandò: -In che senso? -.
Milord non rispose, buttando lo zaino sul sedile del passeggero.
Il silenzio diventò imbarazzante. Beast scivolò sul sedile davanti e Milord voltò il viso dall’altra. Sbagliava o aveva gli occhi lucidi?
Oh, capiva… gli mancava. Forse era morto e con la sua morte aveva perso casa e famiglia.
Gli appoggiò una mano sulla spalla e disse: -Guarda che non c’è da vergognarsi a piangere perché qualcuno ti manca. -.
-Non mi manca nessuno. – ribatté lui scrollandosi di dosso la sua mano. Aveva fatto un gesto carino ma una scarica elettrica che gli partì dall’osso sacro alla nuca al suo tocco gli impedì di accettare quella gentilezza.
Brutto segno, il Legame voleva instaurarsi e, a giudicare dalla reattività, era impaziente di farlo.
Doveva reprimerlo prima che succedesse l’irreparabile: non si sarebbe mai permesso di soffrire o far soffrire qualcuno, soprattutto il suo Legame.
-Perché fai così? Sto solo cercando di essere gentile. -.
-Lo sei fin troppo ed hai fatto abbastanza. – rispose celando il nervosismo.
La scarica elettrica era un segnale chiaro: la prossima volta sarebbe stata quella decisiva per stabilirlo e a giudicare dall’intensità, sarebbe bastato il minimo tocco nel momento giusto perché accadesse.
In lontananza sentì arrivare Tempo e decise di scendere dall’auto anche per allontanarsi dal ragazzo. Il suo cane non ci mise molto tempo a raggiungere il distributore di benzina abbandonato dove avevano lasciato la macchina.
Tempo arrivò, con le lingue penzolanti per la corsa, e si accucciò a terra scodinzolando piano per non creare danni. Si avvicinò a Presente e gli strofinò il naso spaccato. Era un orrore da guardare, ma con i giusti ungenti sarebbe tornato come nuovo. Nonostante tutto era bello umido e soffiava per la corsa investendolo di aria calda, in contemporanea all’alito che usciva dalla bocca aperta decisamente fetido. Passato e Futuro strofinarono i loro nasi sui suoi fianchi tanto forte che lo sollevarono da terra per poi lasciarlo cadere.
-Bravo ragazzone, hai fatto un buon lavoro. – si complimentò notando la Portatrice scendere dal collo della testa centrale. Sembrava stordita.
Beh, personalmente si ricordava ancora la prima volta che aveva fatto un viaggio a dorso di un Cerbero irruento come Tempo e sì, non era una bella esperienza: morbido quanto bastava per non avere male al deretano durante il viaggio ma decisamente arduo da rimanerci in groppa. A giudicare dai capelli che aveva doveva anche aver corso molto velocemente e dal suo colorito quasi verdognolo doveva aver saltato parecchio durante la corsa. I Cerberi potevano saltare molto in alto e bisognava fare una proporzione con un cane normale ad uno decisamente più grosso.
Più che stordita sembrava ubriaca da come camminava. Già, ricordava anche quello.
Futuro la sorresse con il muso prima che cadesse e lei si appoggiò volentieri al suo pelo soffice e scompigliato.
-Spero che non vomiti in macchina. – si augurò Milord mentalmente per dire: -Spero ti serva da lezione Portatrice: la prossima volta Tempo non ti recupererà, ma ti userà come merenda, se provi a scappare un’altra volta così. -. Le diede lo zaino sbattendoglielo addosso e lei lo prese.
-Nikolaj era molto più gentile. – commentò acidamente Raven –Ha detto che mi dà un giorno di tempo per provare a scappare. -.
-Che? Ma che storia è questa? – chiese sbalordito Beast, sceso anche lui dall’auto con Milord. Stava accarezzando in modo titubante la testa a Passato, evidentemente a disagio per la sua grandezza, ma la testa era tranquilla. –Che diavolo vuol dire che ti danno del tempo per scappare? Vuol dire che stanno preparando qualcosa? –.
Guardò preoccupato Milord, il quale capì che era terrorizzato. In più aveva ragione.
Se avesse fatto del male a qualcuno, Raven o peggio, Beast… non poteva accollarsi la responsabilità su così tante persone che probabilmente non sarebbe riuscito a proteggere se voleva continuare a recitare la sua parte.
-Dovremmo andare alla Resistenza. Lì saremmo protetti. – disse decisa Raven, guardando Milord con occhi seri.
Milord ricambiò lo sguardo, serrando la mascella. Continuando di questo passo non sarebbero riusciti ad addestrare la ragazza e soprattutto avrebbero rischiato di fare una brutta fine.
-Per una volta tanto hai detto la cosa sensata. – ammise –Partiamo immediatamente. -.
 
***
 
-Vedo che stai bene. -.
-Meglio di prima sicuramente. – assicurò Andrea ricacciandosi indietro una ciocca di capelli sfuggita dallo spesso chignon che si era fatto sulla nuca. Era piuttosto scomposto, ma sembrava che la sciattezza di quella pettinatura fosse minuziosamente studiata, da quella ciocca sfuggente all’aspetto molle dei capelli raccolti.
Si era quasi preoccupato quando era entrato nella sua stanza, per controllarlo prima di scendere a preparare la colazione per i suoi fratelli e l’angelo, e aveva trovato l’ingessatura abbandonata sul pavimento accanto ad un seghetto (che aveva lasciato nella cassetta delle medicazioni per quello scopo) e le bende abbandonate sul letto. Poi aveva sentito dei rumori in cucina e lo aveva trovato intento a preparare della crema al mascarpone.
La steccatura all’ala era presente. Forse non riusciva ad arrivarci. In compenso si era vestito, o almeno ci aveva provato: era stato costretto a svestirlo per medicarlo e tanto i suoi abiti erano inutilizzabili, strappati com’erano. Però aveva trovato un paio di pantaloni della sua misura ed una camicia da qualche cassetto della casa. Per la presenza delle ali però doveva tenersi l’indumento slacciato, tanto che gli cadeva ai gomiti lasciandolo praticamente a busto scoperto. Non indossava neanche le scarpe e senza quei tacchi con il quale l’aveva visto la prima volta sembrava molto basso, anche se le gambe snelle lo facevano apparire comunque slanciato.
-Che stai facendo? – chiese curioso, avvicinandosi per dare una sbirciata a quello che aveva preparato.
-Oh, aspettavo che qualcuno venisse a togliermi la steccatura dalle ali e intanto preparavo la colazione che i simpatici signor Vattelapesca ci offrono mentre sono in vacanza. – rispose l’angelo posando la frusta e la ciotola di crema sul ripiano della piccola cucina dall’aspetto ordinario.
Rosco annuì e gli tolse la steccatura, facendo attenzione a non rovinare le piume fasciate. Quando la tastò constatò che l’osso si era risaldato, cosa che non pensava succedesse. Prima che facesse domande su di essa o potesse toccarla ancora per accertarsi che fosse completamente guarita, le ali tornarono dentro al corpo di Andrea con un lieve fruscio.
-Merçi. – ringraziò portandosi la camicia sulle spalle. Si lisciò il colletto con cura e riprese a prendersi cura della crema.
-Vuoi una mano? -.
-Se ci tieni ad aiutarmi non rifiuto. – disse Andrea –Potresti affettare la frutta? Non troppo sottile, s'il vous plaît. – aggiunse indicando della frutta in un contenitore di plastica –È già pulita. -.
Rosco annuì di nuovo e prese a tagliare a fette e sbucciare fragole, banane, kiwi e pesche, lasciando le fette in un piatto.
-Come mai parli francese? -.
-Sono di buon umore. – rispose.
-Mi insegneresti? -.
-Magari quando avrò tempo. -.
Lasciò la crema e prese del pancarrè integrale da un pacchetto. Prese sedici fette e le coprì con la crema al mascarpone su di un lato, coprendone otto con i pezzi di frutta. Preparò così dei tramezzini che poi mise in una terrina con uova e latte, per inumidirli da entrambi i lati. Li passò in una padella con del burro, qualche minuti ciascuno e poi li divise a metà, disponendoli su un piatto da portata guarniti dalla frutta fresca avanzata.
-Peccato però. – commentò prendendo la ciotola –È rimasta ancora della crema. La lasciamo nel frigo ai Vattelapesca? -.
-Si prenderebbero un colpo a trovare qualcosa che loro non hanno fatto. – rispose Rosco –E non sappiamo quando torneranno, potrebbe inacidire. -.
Con un dito pescò un po’ di crema e la leccò, assaporando i diversi gusti di mascarpone, miele e cannella amalgamati fra di loro in modo stupefacente. Fu imitato ben presto dall’altro, che commentava la sua sbadataggine nel non aver controllato prima se poteva avere un cattivo sapore.
Rosco osservò attentamente come il dito affusolato scomparisse per un attimo nella crema ed emergesse per poi venire ripulito da un rapido movimento della lingua.
-Forse avrei dovuto aggiungere altro miele… - borbottò contrariato Andrea appoggiandosi la mano sul mento in una posa indecisa, tamburellandosi il dito sporco sull’angolo destro della bocca –Che dici? -.
-Dico che sei sporco qui. – rispose divertito il demone indicando sul suo viso dove lui si era sporcato.
Andrea si portò la mano davanti alla faccia e vide il dito ancora sporco. Si pulì con il dorso della mano, brontolando.
-Il miele è nella giusta quantità comunque. – continuò Rosco –Posso farti una domanda scomoda? -.
-Posso immaginare quale sia. – sospirò Andrea, iniziando a spostare il cibo sulla tavola –Spara. -.
-Se non sono indiscreto… -.
-Dimmi. -.
-Come mai puoi ancora fare uscire le ali? – chiese il demone, aiutandolo -Capisco che puoi ancora avere una possibilità di tornare, ma la procedura per le ali non dovrebbe anche impedire che escano fuori da corpo? Quando le ho toccate non sembravano essere funzionali e tu non le hai mosse una sola volta. -.
-Non è la domanda che mi aspettavo. – ammise Andrea, scostandosi nuovamente una ciocca dal viso –Credo abbiano sbagliato qualcosa nella procedura. Che roba, un angelo che sbaglia, eh? Pensavo mi chiedessi perché sono stato cacciato. -.
-Posso capire che quello è un argomento particolarmente delicato per te. -.
-Non è poi niente di speciale: mi hanno beccato ad amoreggiare con un angelo maschio. Amoreggiare è dire poco, ma hai capito. Vuoi i dettagli? -.
-Questo di prima mattina le mie orecchie non possono sopportarlo. -.
I due sussultarono e guardarono Madison, Carlo e Chuck sulla porta. Il primo aveva i capelli talmente scompigliati che sembrava si fosse rotolato per tutta la notte sul divano e non avessero ancora incontrato il pettine. Carlo era perfetto, con i capelli tirati indietro per quanto la loro lunghezza glielo permettessero. Chuck era probabilmente ancora mezzo addormentato.
-Andiamo Madison, non fare il bambino. – disse Rosco –Siamo tutti adulti qui. -.
-Non m’interessano ‘sti discorsi deficienti. - rispose schifato lui avvicinandosi al tavolo. Adocchiata la colazione però, allungò le mani per prendersi un toast e disse: -Dovresti trovarti più spesso una fidanzata che si ferma a cucinare la colazione invece che scapparsene via appena può. -.
-Non è la mia fidanzata, un po’ di rispetto. – rispose il demone prima che l’angelo potesse aprire bocca, prendendo una vecchia caffettiera da uno sportello aperto della cucina –Appena finiamo di mangiare dobbiamo sbrigarci a rimettere tutto a posto. È tardissimo. -.
-Hai ragione. – concordò Carlo guardando l’orologio da parete che segnava le dieci di mattina.
Andrea si accorse che era il più nervoso dei tre, a giudicare da come divorava la sua colazione e per poco non mancava la bocca con la tazza del caffè.
Si sedette accanto a lui e gli appoggiò una mano sul braccio: -Tranquillo. Elen vi accoglierà a braccia aperte. -.
-Se non fosse così? – rispose lui.
-Ebbene… non lo so. Ma di una cosa sono certo: le mancate. – assicurò l’angelo bevendo il suo caffè –Non lo ammetterebbe mai, lo sapete anche voi, ma spesso si mette a giocherellare con quello strano ciondolo che si tiene al collo e sospira. -.
-Quello è perché gli manca Alan. -.
-“Rosco avrebbe cauterizzato la ferita”, “Madison avrebbe detto questo” e “Carlo non avrebbe fatto questo stupido errore”. – citò Andrea dondolando pigramente una gamba –Ha solo voi tre in bocca. Per non dimenticarsi di “Milo avrebbe fatto così e cosà”. A volte mi dà sui nervi quella donna… -.
-Davvero? -.
-È vostra amica no? Tranquilli. -.
-Mi sa tanto che dopo quello che è successo non siamo più molto amici. – mugugnò Carlo con aria mesta.
-Se mi avete detto la verità e avete la coscienza tranquilla non dovete preoccuparvi di niente. – commentò Andrea –Intanto aiutatemi a lavare i piatti e mettere a posto. Si parte fra poco. -.
In poco tempo ogni cosa fu al suo posto esattamente come i proprietari della casa avevano lasciato. Presero le loro cose ed uscirono nel giardino sul retro.
Con una nuvola di fumo passarono dalla Terra all’Inferno in un batter d’occhio.
Si ritrovarono in una foresta dagli alberi scheletrici e le fronde abbondanti tanto che non si vedeva il cielo sopra di loro. Chuck fu costretto ad accendere una pila per riuscire a vederci qualcosa, dato che lui non aveva la visione notturna come i suoi quattro accompagnatori.
L’angelo sapeva che loro erano a conoscenza del posto dove la Resistenza era nascosta. Probabilmente dicevano davvero la verità sul doppio gioco dato che in tutti quegli anni Regina non l’aveva ancora trovata.
-Di qua. – disse Andrea prendendo a camminare in una direzione.
-Come fai a dirlo? – chiese Madison.
Indicò una pietra nera ai piedi di un albero e continuò a camminare, dicendo: -Le cose sono cambiate da quando c’eravate voi. Seguitemi in silenzio. -.
Loro conoscevano la foresta, ci andavano sempre da piccoli, ma sapevano che era piena d’inganni: forse era l’aria o la disposizione arborea, bisognava stare attenti e rimanere concentrati sull’obbiettivo da raggiungere o ci si perdeva anche se si possedeva un ottimo orientamento. Qualcuno pensava che fosse qualche cosa di magnetico che li disorientava, un giacimento sotterraneo di Lux o qualche potere antico che voleva celare segreti. Fatto stava che erano pochi i metodi per non perdersi. Quello delle pietre era uno stratagemma elementare ma efficace.
I tre fratelli ed il mezzo demone stavano dietro ad Andrea, attenti a dove mettevano i piedi e dove l’angelo andava. Ad un certo punto sembrò accelerare l’andatura e sparì. Lo chiamarono un paio di volte, ma nessuna traccia di lui.
-L’ho perso di vista. – disse Chuck puntando il fascio di luce da tutte le parti.
-Cerchiamo le pietre nere. – propose Carlo ma bastò un’occhiata per capire che non ce n’era traccia da nessuna parte, se non quelle per tornare indietro.
-Bene, avrai trovato una fidanzata che ci prepara la colazione ma ci lascia nella merda. – commentò acido Madison –Ora cosa facciamo? -.
Sentirono uno strano fruscio che scosse ogni albero nelle loro vicinanze con un rumore di sicure da arma da fuoco tolte.
Si misero schiena contro schiena osservando attentamente attorno a loro.
-Potreste cominciare con l’alzare le mani in alto e non muovervi se non volete diventare come una groviera sanguinolenta. – propose una voce a cui diedero ascolto.
Dagli alberi uscì Andrea con la pistola in pugno in compagnia di una donna pressappoco della loro età, con i capelli biondo miele raccolti in uno chignon a treccia basso sotto un logoro cappello da cowboy di cuoio, vestita con una semplice canottiera bianca, larghi pantaloni militari e stivali al ginocchio dalla punta bombata. Al collo portava una gemma verde, della stessa tonalità dei suoi occhi, allacciata ad una semplice cordicella nera. Portava anche lei un’arma, un fucile a pompa dalla canna argentata.
I gemelli la riconobbero immediatamente.
-Elly! Oh, siamo così contenti di… - sorrise Carlo facendo un passo verso di lei.
Elen caricò il fucile con un movimento secco e sparò ai suoi piedi. Per la sorpresa di quel gesto il demone cadde per terra, osservando stranito il cratere a pochi centimetri dai suoi piedi miracolosamente illesi.
-Ho detto di non muovervi. – ribadì la demone ricaricando –Buttate le borse da me e anche le armi che avete addosso. Tutte e Andrea sa dove le tenete. Una mossa falsa e i miei uomini vi crivellano. Il mezzo demone può venire avanti. -.
I tre demoni guardarono la donna e l’angelo, poi obbedirono scaricando due coltelli serramanico, un pugnale e la pistola di Rosco, che Chuck portò alla demone insieme alle borse.
Rosco alzò le mani e bofonchiò: -Mi fidavo di te. E quel discorso sulle bugie? -.
Andrea abbassò l’arma e rispose: -Mi dispiace zuccherino ma io non ho mentito. Io vi ho assicurato che sareste entrati ed è quello che succederà. Vivi o morti sta a voi. -.
Le borse e le armi arrivarono ad Elen, che intanto si congratulava con il suo compagno: -Complimenti Andrea, sapevo che ce l’avresti fatta. -.
-Elen, io ti sconsiglierei di giustiziarli. – sentenziò l’angelo con le braccia incrociate davanti al corpo.
-Giustiche? – esclamò Madison girandosi verso di loro ed abbassando le mani, scatenando un concerto di rumori metallici –Da quando? – chiese rialzando le mani.
-Da quando siete ufficialmente nella lista dei traditori, traditori. – rispose Elen mentre tre demoni scendevano dagli alberi per prendere i bagagli e le armi dei prigionieri –Avete abbandonato la Corte già una volta e avete servito Regina, quanto basta per non meritarvi il perdono e il permesso per entrare di nuovo a far parte della famiglia. -.
-Elen, hanno difeso Raven davanti ai miei occhi mentre ti parlavo al telefono. In più per tutto questo tempo non hanno mai ostacolato la Resistenza o hanno dato informazioni importanti su di noi a Regina. Non vorrai ammazzare i fratelli di Alan nonché zii di tua figlia spero. -.
La demone sibilò: -Non provare a farmi venire i ripensamenti. È già difficile così com’è. -.
-Zuccherino, ragiona: ci servono uomini e loro tre sono molto valenti. Ammettilo. -.
-Ci hanno traditi. Possono essere qui sotto copertura. -.
-Posso capire che ti senti ancora ferita, ma devi mettere i tuoi doveri prima dei tuoi sentimenti: loro ci servono. Chuck diglielo. -.
Il mezzo demone sussultò nel sentire il suo nome.
-Cosa vuoi che dica? Lui è salvo perché è un mezzo demone, da quello che mi hai detto. -.
-Sì, lo sono. – confermò lui –Anche io voglio entrare a far parte della Resistenza. Però i signori McMastiff mi hanno difeso e protetto Raven, sono dei demoni molto buoni. A dire la verità non li ho mai visti fare del male a nessun mezzo demone mentre ero in servizio da Regina: si limitavano a pattugliare e sedare le risse, tutto qua. Non sono mai entrati nel Mattatoio se non per portare il cibo che serviva ai sorveglianti ed i prigionieri. Avrebbero aiutato quelle povere anime se la sorveglianza non fosse così stretta e numerosa, ne sono certo. -.
Elen fece una faccia molto stupita e domandò: -Tu come fai a saperlo? -.
-Lo so perché una volta li ho visti ed ero dall’altra parte del muro, a raccogliere Fiori del Diavolo, signora. -.
-Eri nel Mattatoio? -.
-Sì. Lo so che è raro uscire di lì vivi. -.
Il viso della demone s’illuminò ed esultò: -Perfetto! Quindi sai com’è fatto! -.
-Mi ricordo la piantina appesa al muro come se fosse ieri ed i turni di guardia. Parlavo con gli altri prigionieri molto spesso e conoscevo le guardie. – confermò diligentemente Chuck. Fece un passo indietro e disse: -Ma non dirò niente finché lei non mi assicura che i McMastiff saranno integrati con me nel corpo della Resistenza in quanto disertori come me al governo della sovrana. Sono meritevoli di fiducia. -.
L’angelo fu costretto a coprirsi la bocca per non ridere in faccia ad Elen, sbigottita da quella trattativa improvvisata. La demone lo fulminò comunque con lo sguardo, intuendo che a cosa lo divertiva molto, e fu costretta ad accettare: -Se le cose stanno così va bene. Ma al primo sgarro che fanno, saranno imprigionati tutti e tre. Nel frattempo se ne staranno nelle cucine, in infermeria e nei magazzini ad aiutare. -.
-Almeno è passata dal farli fuori all’imprigionarli. – pensò Chuck, con enorme sollievo.
I gemelli non furono legati, ma tenuti sotto stretta sorveglianza da tutti i demoni che erano piazzati sugli alberi, una ventina circa.
Chuck capì come funzionava la strada per arrivare alla Resistenza, senza l’aiuto delle pietre addossate agli alberi a fare da guida.
La foresta disorientava, come aveva immaginato, dopo circa un paio di minuti di cammino iniziò a sentire la voglia di andare dalla parte opposta a dove stava camminando, tanto che uno dei demoni gli diede una pacca leggera su una spalla quando vide che stava per andarsene per i fatti suoi.
-Che stai facendo? Stiamo andando di qua noi. – lo prese in giro.
-Scusi, ma mi sento confuso… -.
-Lo so, le prime volte è uno spasso. – ammise il demone con un sorriso divertito. Grattò con un’unghia la corteccia di un albero e gliela mise sotto il naso –È questa, altro che Lux sotterraneo! È allucinogena per certi versi, va ad intaccare il tuo senso dell’orientamento. Per cui… naso tappato. – sogghignò indicandosi il naso.
Solo allora notò che aveva dei batuffoli di cotone dentro le narici, abbastanza grossi da non permettergli di respirare dal naso. 
-Se respiri con la bocca è anche un po’ un casino. –continuò –Ma basta masticare qualche foglia dell’albero ed il gioco è fatto. Preferiresti masticare insetti piuttosto che questo schifo, ma o così oppure ti fai il viaggio in apnea. -.
-Non si può sorvolare la foresta? -.
-Abbattiamo tutto quello che vola sopra la Foresta della Perdita. L’unico passaggio per entrare sta qua sotto, non lassù. Inoltre è protetta da una runa, controllata da alcuni demoni all’interno. Forza, ti spiegheremo tutto davanti ad una bella tazza di tè caldo nelle cucine, adesso stammi vicino e non perderti. Oh, e non dare del lei: fai conto di essere in casa tua. -.
In cima alla fila, i tre gemelli stavano in mezzo al codazzo di demoni e mezzo demoni e Andrea ed Elen.
Quest’ultima camminava con il fucile sulle spalle e le braccia su di esso, con la schiena dritta. Era più bassa di Andrea, ma questo perché lui aveva le zeppe. Probabilmente sarebbero stati alti uguali oppure lei sarebbe stata più alta.
Senza dare nell’occhio si avvicinò a loro due, precisamente alla demone, e sussurrò: -Ciao Elly. -.
-Nessuno può chiamarmi Elly. Stai zitto Carlo o ti apro come una cozza a calci. -.
-Va bene, scusa. Volevo dire, ciao Elen. -.
-Non parlarmi. -.
-Oh, andiamo! Almeno guardami. -.
Elen si girò giusto per poterlo intravedere al di sotto della falda larga del cappello. Si guardarono per alcuni secondi, poi lei si voltò nuovamente e ordinò: -Torna nella fila o sarò costretta a farti male. -.
Il demone tornò dietro di loro mugugnando.
In breve tempo gli alberi finirono bruscamente contro una parete rocciosa che altro non era che una montagna. Elen si avvicinò alle rocce ed infilò la mano dentro ad una fessura, facendola scivolare all’interno fino al gomito, per poi estrarla tenendo in mano un triangolo di metallo legato ad una corda, lasciandolo dopo cinque precisi secondi.
Rosco notò che la parete rocciosa era strana in un punto accanto alla fessura e ben presto quella strana lastra di roccia si mosse di lato, rivelando un passaggio illuminato. Al centro di esso c’era un giovane uomo dai capelli ricci di un colore tendente al castano chiaro, magro come un’acciuga e con delle bretelle nere intonate agli spessi occhiali che portava in bilico sulla punta del naso.
-Salve miss Elen! – esclamò allegro vedendo la demone dai capelli biondi.
-Ciao Murphy. – lo salutò lei –Come vanno le cose? Successo qualcosa? -.
-Certo. – rispose lui tirando fuori un taccuino dalla tasca dei pantaloni –Il carico di cibo è arrivato puntualissimo. – annunciò spuntando una frase con un mozzicone di matita.
-Molto bene. Nessun ferito? -.
-Oh, nonononono, tutto è andato per il meglio. – annuì con veemenza il ragazzo, mentre avanzavano nel passaggio e l’ultimo della fila schiacciava un bottone sulla parete rocciosa per far tornare a posto la lastra di roccia.
-Invece Isaac? – chiese Andrea –Sta bene? -.
-Isaac è ancora isolato. Oggi non ha abbandonato l’Infermeria. -.
L’angelo annuì, pensieroso-
-Ho anche preparato le celle per i prigionieri. Il boia non sa se stasera è libero per l’esecuzione però. – continuò Murphy –Non si sente troppo bene… dovrò trovare un sostituto. -.
Elen sospirò e disse: -Mi spiace Murphy, ma la loro testa rimane a posto. Purtroppo. -.
-Che? Ma io ho passato la giornata intera a collaudare le celle per essere a prova di evasione, per non parlare che ho disinfettato l’arma per l’esecuzione! – protestò Murphy tirandosi su gli occhiali sul naso, che scivolarono di nuovo sulla punta.
-Mi spiace Murphy, scommetto che ci hai messo tutto il tuo impegno come al solito. – si scusò Elen con un sorriso consolatorio, ma fece cenno ad Andrea e gli bisbigliò: -Ti prego vai a controllare che cosa ha combinato. -.
Il ragazzo stava già scrollando le spalle, senza sentire che cosa la demone stava dicendo, e guardò i prigionieri con sospetto: -Ma non fa niente, immagino che se non verranno usate oggi, verranno usate un altro giorno. – mentre si riemetteva taccuino e matita in tasca.
I McMastiff non si ricordavano la Resistenza così bella e tecnologica.
Finito il corridoio, sbucarono in una caverna spettacolare dal soffitto altissimo illuminato da diverse luci artificiali che la illuminavano a giorno in cui vi era un gran viavai di mezzi demoni e demoni di ogni età, sesso e razza, che si spostavano su un magnifico pavimento a mosaico rappresentante una Fenice che nasceva dal simbolo dell’infinito. Vi erano cinque diverse aperture che si affacciavano sulla caverna a cupola, che Elen spiegò mentre i loro accompagnatori si disperdevano: -Dovreste ricordarvi le disposizioni delle stanze. Da qui si entra e basta, non si esce. Per uscire si passa nell’Arena, l’anfiteatro che usiamo come sala del consiglio, luogo dove allenarci e scarico merci da cui possono entrare solo i fornitori – indicò davanti a sé –Di qua si sale per andare alle cucine e alla mensa- indicò alla sua sinistra –Accanto l’infermeria – indicò la galleria tra Arena e mensa –I bagni in comune divisi tra maschi e femmine – indicò tra l’Arena e le abitazioni- Ed infine le prigioni. – indicò tra la mensa e l’entrata –Ora Andrea vi mostrerà dove alloggerete e vi darà i vostri compiti. Io devo andare a scaricare l’arma dove deve stare. -.
Avevano notato che parlava con un tono distaccato come se loro non fossero mai entrati dentro la Corte, come se fossero estranei.
Andrea la salutò con un cenno e si fece seguire dagli altri: per scendere si doveva passare per una scala piuttosto ampia scavata nella roccia. Dopo un centinaio di scalini arrivarono ad una sottospecie di città sotterranea, composta da bungalow di legno disposti in file contrassegnate da lettere e numeri, anch’essa in una grotta illuminata.
Alla vista delle case Chuck indietreggiò d’istinto, collegandole a quelle del Mattatoio, anche se queste erano sicuramente più umane che le altre. Rosco se ne accorse e gli mise una mano sulla spalla bisbigliando: -Tutto bene? -.
Dovette deglutire parecchie volte prima di rispondere con un no. Seguirono comunque l’angelo nella fila C, abitazione 9, dove li fece accomodare: era attrezzato con dei letti a castello e un paio di armadi. Era piuttosto spazioso e aveva una finestra grande che potevano aprire. In un angolo c’erano i loro bagagli.
-Molto bene ragazzi, casa vostra. – annunciò allegramente Andrea: -Vi darò i compiti da subito: Carlo e Madison, nell’Arena per occuparvi delle armi, Rosco in infermeria e Chuck, in cucina. I compiti sono a rotazione, non aspettatevi di svolgere sempre le stesse mansioni tutti i giorni. In più ci saranno anche dei turni di guardia a diverse entrate e settori, per non parlare del controllo sulla runa di protezione. La colazione è alle sette di mattina, pranzo a mezzogiorno e cena alle sette di sera. Non si possono fare pasti fuori da questi orari, solo i bambini possono. Se desiderate fare la doccia o il bagno siete liberi di usare i bagni comuni. Vi lascio soli, socializzate pure in giro. Voi tre però andateci piano, avete un cognome conosciuto male. Oh, se mai ci saranno risse sarete messi in quarantena o nel vostro caso specifico eliminati. Chiaro? -.
Tutti dissero di avere capito e Andrea uscì.
Rosco lo seguì subito e quando lo affiancò chiese: -avevi intenzione di farci ammazzare? -.
-All’inizio. Poi ho cambiato idea. -.
-Va bene, lasciamo stare. Sono vivo e sono contento. Stai andando in Infermeria? -.
-Sì, devo controllare Isaac. -.
-Siete riusciti ad avere qualche altro medico? -.
-Pochissimi: siamo in cinque, con te sei. Due però sono semplici infermieri e io sono impegnato con Isaac e i bambini. -.
-Chi è Isaac? -.
Andrea si morse l’interno guancia: -È un angelo come me: lo hanno cacciato un paio di mesi fa ed è in un brutto stato. Devo tenerlo d’occhio o potrebbe succedere come accade sempre con tutti gli altri Caduti. -.
Rosco capì la situazione e gli sfiorò un braccio: -Mostrami cosa c’è da fare e darò una mano subito: mi sembra che tu ne abbia bisogno. -.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Capitolo 23: Soft spot ***


CAPITOLO 23
Soft spot

 
Dormì una mezz’ora, giusto per sentirsi meno stanco. Soprattutto per un esperimento che gli aveva rivelato il boss: “Se hai paura di essere nervoso prova a dormire, se ti addormenti sei tranquillissimo”, gli aveva detto.
In effetti sì, era tranquillo quando si svegliò.
Si era liberato del rompiscatole in fretta: si era svegliato ed aveva inventato la storiella che avevano perso la Portatrice per colpa sua. Aveva approfittato di un effetto secondario del sonnifero, cioè un po’ di amnesia. Buck se l’era filata con la coda tra le gambe da Regina dopo la sua sfuriata.
Almeno poteva andare da Lovel indisturbato.
S’infilò con cura un paio di guanti sulle mani enormi. Anche questi erano un debito nei confronti del boss, suo regalo: doveva essere stato parecchio difficile trovarli della sua misura, essendo un gigante di due metri e oltre con delle mani che sembravano delle pale.
Si vergognava a farlo ma era il suo allenamento personale per vedere se le sue mani erano in grado di non distruggere di tutto e di più ed arrossì al pensiero che il boss potesse venire a sapere che teneva un uovo dentro al cruscotto per testare la sua delicatezza.
Mentre lo prendeva, ripensò alle sue risatine divertite il giorno in cui lui gli aveva messo in mano un cucciolo di gatto di poche settimane per fare un ultimo test. Il gattino era un batuffolo di pelo rossiccio miagolante, che stava comodissimo nel palmo della sua mano callosa. Aveva odiato il suo capo profondamente in quel momento, ma si era costretto a passare un dito sulla schiena pelosetta del gattino, pregando di non rompergliela. Invece era scivolato con delicatezza sulla fragile spina dorsale del cucciolo molte volte senza fare danno, scatenando anzi dolcissime fusa. Erano settimane che si allenava con le uova ed erano settimane che le rompeva di continuo, prima di quell’esperimento finale, nonostante ci mettesse tutto il suo impegno per essere delicato. Ma sotto le sue dita i gusci si frantumavano e lui immaginava fossero ossa rotte per il rumore che producevano.
Prese l’uovo e se lo passò da una mano all’altra. Dopo qualche minuto aprì le mani e lo trovò illeso, come tutte le altre volte.
Ormai doveva capire che non ne aveva bisogno, ma la sua segreta paura era di perdere quella capacità di poter essere delicato e tornare a spaccare qualsiasi cosa con la sua incontrollabile forza e fare del male a Lovel.
Non che passasse le serate a toccarla, ma per quelle poche volte che la teneva per mano aveva paura di spezzarle le dita, cosa per cui sarebbe stata sufficiente la semplice forza di un umano.
Decise di essersi esercitato abbastanza per quella sera. Ripose l’uovo nel cruscotto e scese dall’auto parcheggiata davanti all’orfanotrofio.
Era un casermone dipinto di bianco, o almeno, una volta doveva essere stato bianco: ora era grigio ed un po’ scrostato in alcuni punti, con le persiane azzurre anch’esse con la vernice scrostata. Era protetto da un’alta cancellata di ferro e circondato da un bel prato con aiuole di fiori colorati.  Non sembrava un posto allegro, così di notte, ma Nikolaj era sicuro che di giorno i bambini uscissero a giocare in compagnia delle suore. Tutti tranne una.
Varcò la cancellata con un salto ed attraversò il prato su un vialetto di porfido. Però non entrò dal portone di legno.
Il suo obbiettivo era la finestra al secondo piano, l’ultima. Un breve volo lo fece arrivare alle persiane chiuse. Le aprì con semplicità, come le finestre, ed entrò. Mentre richiudeva tutto accuratamente in modo da non fare rumore qualcosa gli toccò una gamba.
La luce era sempre accesa nella stanza per cui riuscì a vedere cosa lo avesse toccato, anche se lo sapeva già.
-Ciao Adone. -.
Il cane lo salutò uggiolando. Era un alano di una grandezza impressionante, dal pelo marroncino, più scuro su muso e orecchie. Indossava un collare di cuoio rosso leggermente stretto per il suo collo muscoloso.
Lui era l’unica compagnia che Lovel avesse quando le suore non si occupavano di lei o lui per primo non c’era. A quanto pare era un cucciolo quando lo avevano portato in quel posto in compagnia di Lovel, che adesso doveva avere all’incirca undici anni. Per essere così anziano non dimostrava affatto vecchiaia: aveva tutti i denti ed era parecchio dinamico, per quanto la stanza glielo permettesse. Poteva andare e venire quando voleva per non sporcare, dato che aveva imparato ad aprire le porte da solo, anche quelle munite di chiavistelli. Era, in effetti, parecchio intelligente, dato che sembrava capire ogni cosa che gli dicessero e rispondeva.
Con il tempo Nikolaj aveva iniziato a capire anche come interpretare il suo linguaggio canino. I demoni non erano capaci di capire il linguaggio animale dettagliatamente (se non pochi) e il più delle volte li spaventavano a morte.
La prima volta che Adone aveva visto Nikolaj entrare dalla finestra gli si era parato davanti con il pelo ritto sul collo e neanche il suo ringhio gli aveva fatto paura. Si era tolto di mezzo dopo averlo annusato per un po’, andando a rintanarsi nella sua cuccia in un angolo della stanza, ma non gli aveva tolto di dosso gli occhi per tutto il tempo in cui era stato in compagnia di Lovel. Con il passare del tempo però erano diventati amici.
Dopotutto tra giganti ci s’intendeva.
Si chinò per strofinargli le spalle con moderata energia e chiese: -Sta bene? -.
Adone gli appoggiò il muso sulla spalla mugolando in modo apprensivo.
No, non stava affatto bene.
Si tolse dalla spalla del demone e si mise nella sua cuccia, rosicchiando una vecchia palla da rugby mestamente.
Nikolaj diede un’occhiata al letto dove Lovel era costretta a stare praticamente il novantacinque percento della giornata a causa della perdita dell’uso delle gambe: non poteva muoversi di conseguenza.
La ragazzina era una creaturina fragile, dalla corporatura sottile sottile, con la pelle eburnea che quasi raggiungeva il candore della pelle del boss. Notò che gli avevano spuntato i capelli: non erano così lunghi ma erano stupendi come sempre, rosso-biondi come i suoi, solo più chiari. Sembravano il cielo al tramonto. Anche le sopracciglia e le ciglia avevano quel colore. Non era però come al solito distesa a letto, ma aveva il busto rialzato dai cuscini, tanto che dormiva quasi seduta.
Con orrore vide i diversi flaconi di medicine sul comodino e il tubicino che usciva dal suo braccio sinistro inerte sulle lenzuola, collegato ad una flebo di liquido trasparente. L’ago nella carne aveva formato un livido bluastro che spiccava sulla pelle.
La flebo voleva dire che aveva avuto una ricaduta. Se aveva riavuto una ricaduta voleva dire che aveva vomitato, perso sangue dal naso e pianto.
Voleva dire che avrebbe potuto morire.
Si costrinse ad avere il sangue freddo nel svegliarla.
Era un gioco: si avvicinava al suo orecchio e le ringhiava sottovoce, più o meno come una mamma orsa con il cucciolo, toccandole il fianco come se avesse avuto degli artigli al posto delle dita, molto delicatamente.
Le palpebre di Lovel ebbero un fremito ed aprì gli occhi piano piano.
Nikolaj amava i suoi occhi celesti come un cielo limpido primaverile. Ad un’occhiata più attenta si notava l’assenza della pupilla, che non gli permetteva di vedere niente. Nonostante questo li trovava meravigliosi.
Riteneva che Lovel fosse veramente meraviglioso.
-Nikolaj? – chiese con un filo di voce.
-No conosce Nikolaj. Io grande orso venuto a mangiare. – gli ringhiò nell’orecchio.
La fece ridere, debolmente, ma lo fece ridere.
-Lo dici tutte le volte. Ebbene, quando mi mangerai davvero, grande orso? -.
Anche se era debole e malata, riusciva a celare perfettamente le sue condizioni con quel tono stranamente sarcastico e canzonatorio. Di solito era una persona tranquilla e molto dolce, ma quando voleva diventava una volpacchiotta parecchio impertinente e testarda.
-Quando varrà pena. – rispose Nikolaj –Troppe ossa, poca ciccia. -.
In effetti doveva rimettersi decisamente in sesto: era magrissima. Doveva anche andarci piano con lo scherzo dell’orso che lo mangiava. In passato i demoni lo facevano con gli esseri umani, non materialmente, certo, ma con la loro anima.
Era una pratica vecchia di secoli, ma Lovel poteva avere decisamente un aspetto delizioso per un demone d’altri tempi affamato.
Purtroppo per lei la ragazzina era il suo Legame. Per quello indossava i guanti: il contatto con le mani o con le labbra Legava i soggetti, per cui doveva coprirsi con tutti i mezzi possibili per le poche volte che si toccavano.
Reprimere in questo modo il Legame era doloroso per lui, perché l’istinto continuava a procurargli dolorose scariche elettriche alla colonna vertebrale a causa della sua vicinanza e di tutto il tempo in cui aveva fatto in modo che non si instaurasse.
Doveva Legarsi.
Ma non voleva.
A lungo andare gli avrebbe fatto del male, prima o poi, ne era certo: magari fisicamente o magari sentimentalmente. Quello lo avrebbe fatto anche da non Legato, per esempio se quella mattina fosse morto a causa di quella bestiaccia. Non si sarebbe mai permesso di lasciarla da sola, senza le sue visite che lo rendevano felice e le facevano dimenticare tutti gli interventi che subiva.
Forse, dopo che tutto avrebbe avuto fine, forse lo avrebbe portato con lui e se ne sarebbe preso cura.
Tornò al presente.
-Stai bene? -.
-Sì. Sto bene. -.
-Cambio domanda: stato bene? -.
-Sì, perché? – chiese lei innocentemente.
-Medicine e tubi decorazioni, sì? -.
-Ho avuto una lieve ricaduta. – ammise girando gli occhi dall’altra parte.
Adone, nella sua cuccia, fece un corto abbaio smettendo di rosicchiare la sua palla e Lovel ribadì: -Ho detto lieve. -.
Il cane lasciò perdere il suo giocattolo e trotterellò nella stanza accanto, che aveva la porta aperta, e la ragazza disse: -No, Adone torna qui. Non si fruga nella biancheria sporca. -.
Di solito obbediva ai comandi di Lovel, ma quella volta entrò nel bagno e tornò con una coperta, mettendola sulle gambe di Nikolaj, seduto per terra.
Il demone la prese e la dispiegò, rivelando numerose e grosse macchie di sangue. Non era la prima volta che Adone gli mostrava le prove della malattia della sua padroncina ma questa volta Nikolaj inorridì come se lo fosse stata.
-Questa no somiglia a lieve. – osservò.
Lovel sospirò ed mise la mano libera sulla testa di Adone, appoggiata al materasso, e borbottò: -Sei un cane ficcanaso. – poi si rivolse a Nikolaj –Questa volta non ho avuto i tremori però. -.
-È notizia buona. Ma rischio di… -.
-Come tutte le volte. Lo sai, che sono così. – sospirò Lovel grattando le orecchie ad Adone. 
-Suore chiamato medico? -.
-Il signor M dice che sto bene. – rispose – Almeno, quando mi riprendo dall’anestesia dice così. Ogni tanto lo sento dire che farebbero prima a darmi una mazzata sulla testa. Forse è l’effetto della morfina. Vero? -.
-Se no curare di te lasciar adottare. -.
-Ne abbiamo già parlato Nikolaj: non voglio. -.
-Perché? Ho casa, tempo per te. -.
-Ti sposerai un giorno. Vorrai dei figli. Tua moglie non vorrà una storpia costosa da tenersi in casa a succhiar soldi per l’eternità. Chi si prenderà cura di me se mai ti succedesse qualcosa? -.
-No sposare io, mai. Poi no figli. -.
Vero: come succedeva agli umani, anche certi demoni erano sterili. Purtroppo lui lo era.
Se mai si fosse Legato a lui non avrebbe avuto bisogno di una moglie (oltre per il fatto che non poteva darle figli). Il boss aveva analizzato il suo Legame ed era un gran miscuglio: aveva trovato tracce di Dolore, Destino, Protezione ed anche di Amore. Se un Legame univa due persone quasi mai esse erano sposate o fidanzate con persone che non fossero l’altro Legame o non avrebbe avuto senso: se un Legame avesse dovuto scegliere tra l’altro Legame ed una moglie avrebbe scelto il Legame, senza ombra di dubbio. Per logica non si potevano condividere sentimenti con altre persone così forti. Amicizia sì, ma nient’altro.
Se si fosse Legato a Lovel l’unica cosa di cui avrebbe avuto cura nella vita sarebbe stata l’umana e nessun’altro. Più o meno come faceva anche adesso.
-Adesso dici così. Va bene, mettiamo che non ti sposi e non avrai figli. Mi adotti. I soldi da dove li prendi per prenderti cura di me? -.
-Soldi no problema. – disse, mentre pensava: -Sono un demone. Nel mondo umano mi prenderebbero per fare qualsiasi cosa. -. Fece una pausa guardando con odio le medicine e la flebo: -Porcherie far male, no cura. Sapere cosa serve: cibo buono, tanto e sole. Uscire, sentire vento su pelle, conoscere persone. -.
-Tu e Adone siete i miei unici amici e mi bastate. Mi hai insegnato anche a giocare a scacchi, ricordi? -.
-Sì, ricorda. Ma altre amicizie buona cosa, no solo come cane. No offesa Adone. -.
Lovel abbassò gli occhi e mormorò: -Mi prenderebbero in giro… -.
-Chi? -.
-Gli altri… tu non lo fai. -.
-No dire questo: ci essere persone buone fuori. – provò a dire, pensando. –Io non lo sono affatto. Ho delle persone sulla coscienza e ti mento sulla mia identità. Io sono la cattiva persona da cui dovresti guardarti. -.
-Farei pena. Anche alle suore faccio pena, le sento che mi danno nomi, nomi cattivi… -.
Aveva gli occhi umidi e se li nascose dietro il dorso della mano.
Nikolaj riuscì a scostare la mano e le asciugò le lacrime con le dita, piano. I guanti non erano ruvidi, ma di morbido cotone e raccolsero quelle lacrime salate con facilità con delle carezze.
-Sapere che vita dura per cucciola, stare sola e resto. - le disse –Io promette: ora stare via a lungo, ma quando tornare vengo prendere e stare insieme. No importa soldi, davvero. Mi prendere cura di te. -.
-Anche Adone? -.
-Certo. Ora no piangere, ho regalo per te. -.
Detto questo prese il cofanetto ricevuto dal boss e lo tenne in mano.
-Chiude occhi. -.
-Nikolaj… - fece con tono di rimprovero Lovel.
-Insiste. -.
-Non ha senso. – sbuffò divertito l’umano obbedendo, il dolore dimenticato.
Il demone le mise in mano il regalo e le permise di aprire gli occhi. Lovel passò le mani sul piccolo cofanetto e capì come doveva fare. Riuscì ad aprirlo ed esplorò l’interno, riuscendo ad individuare il gioiello.
-Ma è un rosario. -.
-Prega tanto, questo aiuta mi dire. – spiegò Nikolaj.
La ragazza era molto religiosa e spesso arrivava nei suoi momenti di preghiera. Era roba da angeli, ma sapeva che le alleggeriva l’esistenza recitare quelle quattro filastrocche e lasciava correre.
-Grazie Nikolaj, è un regalo bellissimo. Lo darò ad Adone, in modo da nasconderlo alle suore o si chiederanno da dove l’ho preso. -.
-Brava. -.
-Però io non ho niente da darti. -.
-No preoccupa: tuo sorriso grande regalo per me. – le assicurò il demone passandole la nocca di un dito sotto il mento come carezza –Ora deve andare. Ci rivedere tra un po’. Star bene, ok? -.
-Sarò forte. Così staremo insieme quando tornerai. – gli assicurò stringendogli una mano.
-Se tornerò. – pensò mestamente Nikolaj, ma disse solo: -Buonanotte. -.
-Buonanotte Nikolaj. Ti voglio bene. -.
-Anche io. Dormire. -.
Adone l’accompagnò alla finestra e gli tirò i pantaloni quando la scavalcò. Nei piccoli occhi marroni c’era una luce di rimprovero, come se sapesse cosa aveva pensato prima di dargli la buonanotte.
-Prendere cura di lei per me. Io torna, promette. -.
Il cane starnutì e si girò, per riportare le lenzuola sporche nel cesto della biancheria.
Chiuse finestra e persiane e tornò alla macchina, vergognandosi di non avere avuto il coraggio di dirgli la verità ancora una volta.
Sentì chiaramente due odori familiari dalla macchina e tirò fuori dagli stivali il suo fedele coltello da caccia. L’aggirò e si trovò davanti Fify ed Esteban.
-Lui cosa fare qui? – chiese rivolto al suo capo puntando l’arma contro il demone Pantera.
Quest’ultimo sbuffò, rimirandosi le unghie, e disse: -Sei proprio scontroso sai? Comunque, cosa vieni a fare qui? Non vorrai dirmi che ci provi con le suore… -.
-Vi prego di azzuffarvi un altro giorno. – disse Fify mettendosi tra i due -Ognuno si faccia gli affari propri. Nikolaj, lui è qui per aiutarci. C’è stato un, ehm… cambio di programma da parte di Regina. Ordini. -.
-Ordini? – ripetè Nikolaj rimettendo il coltello nel suo nascondiglio.
-Mettiamola così, Sfregiato. – sogghignò l’interessato –Tra poche ore non tutti gli ostaggi potrebbero far ritorno tra le braccia dei loro cari. -.
-No ammazzare, no voglia ora. – ribatté Nikolaj.
-Potresti non farlo. – ammise con tranquillità Esteban –Ma Taylor ha voluto che vi controllassi, dato che sembra facciate i voltagabbana. Se ammazzi il nostro uccellino, che tanto non serve a nessuno, potremmo pensare che non è poi così vero. -.
-È un ordine Nikolaj. Devi uccidere la spia. – disse Fify, nonostante il mercenario leggesse chiaramente nei suoi occhi azzurri che quella situazione gli dispiaceva.
 
***
 
Si ricongiunsero ai loro compagni rimasti alla baita.
Decisero in fretta che cosa fare, dato che ormai il tempo di vantaggio che Nikolaj aveva concesso a Raven stava scadendo.
In previsione della partenza Jaguar andò a bussare alla porta di Matisse, ancora in punizione. Lei gli aprì, ma non disse niente, riprendendo a riempire la sua valigia messa sul letto.
-Disturbo Mati? -.
-Sì. – rispose lei piegando una maglietta.
-Dobbiamo quasi andare… sei ancora arrabbiata? -.
-No. – rispose buttando la maglietta con rabbia nella valigia, per poi chiuderla con uno scatto.
-A me non sembra. -.
Matisse chiuse la valigia con la cerniera e borbottò: -Bene, Raquel ti ha anche reso deficiente. -.
Il mezzo demone si avvicinò alla ragazza e le tolse le mani dalla valigia e gliela spinse da parte per sedersi sul letto. Le fece segno di sedersi con lui e lei obbedì con uno sbuffo.
-Matisse, sei una signorinella ormai. Pensavo capissi che io voglio intraprendere una relazione molto seria con Raquel. -.
L’angelo sbuffò ed incrociò le braccia, dando un calcio con stizza all’aria davanti a sé.
-Anche se non ti sta simpatica. Vorrei che foste entrambe contente di essere nella stessa famiglia. -.
-Lei non fa parte della famiglia. – borbottò.
-Lo è. Un giorno sarà mia moglie e potremmo anche avere dei figli, nipoti tuoi. – la trattenne per un braccio prima che saltasse su e corresse via –Voglio solo una famiglia felice. Tu vuoi che io sia felice? -.
-Beh, sì… ma anche io voglio essere felice e lei me lo impedisce. -.
-Non puoi essere felice per me? -.
Matisse spostò lo sguardo su di lui, pensando a quanto era egoistica quella richiesta. Ma in fondo anche lei era piuttosto egoista a pretendere che Jaguar stesse con lei al posto dei milioni di femmine in circolazione e che solo con lei fosse contento. Fu un pensiero che le fece salire le lacrime agli occhi ma si controllò abbastanza per dire: -Ci proverò. -.
-Se una ragazzina speciale. – sorrise Jaguar dandole un bacio sulla fronte –Adesso andiamo o faremo tardi. Ci incontreremo in un certo posto. -.
-Non viaggiamo insieme? -.
-No, ci dividiamo: tu, Beast e Raquel andrete con la mia macchina al luogo stabilito, noialtri dovremo fare una deviazione per prendere delle cose. Ma stai tranquilla, sarai al sicuro. -.
-Lo spero. -.
Uscirono con i bagagli e si separarono: Raquel e i fratelli di Jaguar presero il suo pick-up e gli altri andarono con Milord.
Raven non era tranquilla per quella separazione inutile, ma a quanto pare Milord doveva recuperare delle cose da chissà quale parte. Tempo li seguiva a grande distanza: per essere enorme nessun umano lo aveva mai visto.
Ma non poteva protestare, dato che ormai erano in viaggio e lei era in pericolo. Perciò chiuse gli occhi e si addormentò.
 
***
 
La colazione consistette in latte caldo con cereali e dei biscotti secchi leggermente stantii. Forse troppo, dato che Madison se ne trovò uno che non si spaccava neanche a batterlo contro il tavolo.
-Beh, spero che almeno il pranzo sia meglio. – sospirò buttandolo dentro al latte sperando di ammorbidirlo.
La mensa era una sala enorme con molti tavoli lunghi e panche, decisamente spoglia. Vicino all’entrata vi erano dei lavelli dove pulire le proprie stoviglie utilizzate e lasciarle scolare per risparmiare tempo ai cuochi.
Mentre mangiavano, i McMastiff si sentivano piuttosto osservati, a differenza di Chuck che si era mimetizzato alla perfezione con la variegata popolazione della Resistenza. Qualcuno lo conosceva perché lavorava per Regina, ma a differenza sua loro erano demoni e con un cognome noto, facilmente odiabili. Lui era un mezzo demone ed aveva già raccontato la sua storia un paio di volte, cosa che era passata di bocca in bocca, per cui fu perdonato e addirittura ben accolto: già qualche donna ronzava attorno alla sua benda.
-Secondo me ci linciano. – sussurrò Rosco mentre lavavano i loro piatti. Un cartello scritto in rosso pregava di usare poca acqua.
Non erano soli ai lavelli.
Un mezzo demone piuttosto robusto dai capelli castano-rossicci forse più vecchio di loro accanto a Carlo ridacchiò malignamente e disse: -Puoi contarci amico: voi tre siete la peggior feccia che potesse entrare qui. Ma in fondo siete raccomandati da sua eccellenza Elen ed il suo amichetto effemminato. -.
-Senza offesa, ma temo che la tua gentile persona sia totalmente in errore. – disse mellifluamente Rosco –Non siamo affatto raccomandati, tutt’altro: siamo in prova ed al primo sgarro saremo puniti. Vedi, non siamo poi tanto simpatici ad Elen. Cambiando discorso, ti pregherei di non usare quel tono sprezzante quando parli di Andrea. Non è molto cortese. -.
-Oh, ti infastidisce? – gli fece il verso l’uomo imitando il suo tono. Stavano per arrivare ai pugni, dato che dietro al mezzo demone si raggrupparono un paio d’altri e a Rosco si strinsero i fratelli e non avevano facce amichevoli.
Intervenne Elen. Quella mattina era vestita con uno stretto corpetto di pelle bianco con i lacci sul davanti. Per il resto era vestita come la sera prima. Alla cintura portava allacciata una frusta lunga di cuoio.
-Che cosa succede qui? – chiese con tono autoritario –Ancora tu Hereford? Dacci un taglio con lo spaventare i novellini quando arrivano. -.
-Stavo solo facendo amicizia. – si difese lui.
-Ho sentito… loro non sono raccomandati da me. Al massimo è Andrea che ha un debole per il belloccio. – disse facendo un cenno con la testa a Rosco, poi continuò: -Mi è sembrato di sentire molta ironia in “sua eccellenza Elen”. Qualcosa da dire? – chiese accarezzando con dolcezza la frusta –Qualcosa che c’entra con il fatto che sono una femmina? -.
Hereford mugugnò qualcosa di incomprensibile e su esortazione di Elen disse chiaramente: -No, nessun problema Elen. -.
-Bene. Perché se così fosse sono più che disponibile a dimostrarti che una femmina può stare al comando quanto un maschio facendoti mangiare la sabbia dell’Arena. Tutti al lavoro adesso. – ordinò rivolgendosi ai presenti –Voi due, con me nell’Arena. – fece guardando Madison e Carlo.
Scesero al piano di sotto ed entrarono nel grande anfiteatro scavato nella roccia scura della montagna.
-Ma è… -.
-Esattamente come lo avevamo lasciato. -.
-Già. Ma abbiamo scavato noi nelle scalinate per allestire l’armeria.
Nello spiazzo circolare centrale ricoperto di sabbia si allenavano parecchie persone, demoni e mezzo demoni, maschi e femmine. Notarono un grande portone sotto ad un palco nel bel mezzo delle scalinate, da dove probabilmente entrava la merce come aveva spiegato la demone.
-Per le armi da fuoco siamo costretti ad usare fucili a vernice. – spiegò Elen –Per non sprecare nulla e soprattutto per il rumore. Possiamo anche simulare vere e proprie battaglie in giro per la Corte, tanto utilizziamo vernice lavabile e provoca solo qualche livido. -.
Entrarono in una porta di ferro rinforzata (Carlo notò che era antisfondamento, come le porte che aveva trovato spalancate all’inizio delle gallerie che portavano agli altri locali) nella parete degli spalti, trovandosi in un corridoio di armi di ogni genere, in compagnia di altre persone sedute su degli sgabelli intente a lucidare le lame o pulire le armi da fuoco.
-Bene ragazzi, fate amicizia e olio di gomito. Qui sono piuttosto amichevoli, basta parlare di armi e siete bene accetti. Io sono fuori che alleno, se finite siete invitati a partecipare. -.
-Almeno oggi ci sorridi. – notò Carlo.
Chuck, nelle cucine, stava in compagnia di alcune donne piuttosto carine, intente a pulire della verdura e lui con loro.
-Siete bene organizzati qui. – notò. La cucina era enorme, completa di lavelli, fornelli a gas, forni e tutti gli arnesi da cucina che si potessero immaginare. Le pareti e il pavimento erano piastrellati con mattonelle laccate di diversi colori, forse prese da diversi posti.
-Sì, è un bellissimo posto questo, rispetto ai vicoli dove eravamo costretti a nasconderci. – disse una donna –C’è anche l’acqua calda che viene da una falda sotterranea. -.
-Il cibo arriva una volta a settimana. Qualche volta non basta, ma qui siamo tutti abituati a fare economia. – aggiunse un’altra, mentre puliva del sedano che sarebbe servito per preparare della minestra.
-In più non siamo minacciati: la foresta ci protegge anche in caso che la protezione sia annullata e siamo organizzati per la difesa. Anche noi donne siamo allenate. -.
-Quanti siete? -.
-Siamo circa tremila. -.
-Cosa? – si stupì Chuck –Siete così tanti? -, facendo sorridere qualcuno.
-Abbiamo sentito che tu sei riuscito a scappare dal Mattatoio. – sussurrò una ragazza che puliva delle patate coperte di terra in un catino.
Chuck annuì: -Ero lì con mio cugino. Ci ha tirati fuori Regina, per lavorare con lei per stanare altri mezzo demoni. Obbedivo ad ogni ordine per paura che uccidesse Buck. Ora lui è ancora là… spero stia bene. -.
-Ci dispiace tanto Chuck. – gli disse una mezzo demone piuttosto carina appoggiandogli una mano sul braccio –Se magari qualche sera ti manca troppo… B14. – sorrise facendogli l’occhiolino.
Non si era mai ricordato di essere stato così corteggiato. Forse la benda faceva un certo effetto alle donne oppure una gran pena.
Guardò con la coda nell’occhio la ragazza che aveva parlato del Mattatoio, osservandone i capelli e gli occhi castani. Somigliava ad una cerbiatta.
Corrugò la fronte. Si ricordava di una ragazza simile con cui aveva condiviso buona parte dell’infanzia e qualcosa un po’ più importante, la sera in cui era diventato adulto a tutti gli effetti.
Continuò a guardarla per tutto il tempo in cui fu impiegato in cucina e durante la pausa per sgranchirsi le gambe dopo essere stati tutto il tempo in piedi a raggrinzirsi le mani nell’acqua per pulire la verdura la seguì fuori.
Le toccò una spalla e lei si voltò facendo ruotare la lunga gonna rossa che indossava.
-Ciao. -.
-Posso esserti utile Chuck? -.
-Sì… uhm, ti ricordi per caso di me? -.
La ragazza batté le lunghe ciglia scure e rispose: -In realtà sì. -.
-Dunque sei tu, Daisy Fawn. Eri la figlia dei vicini. -.
-Anche tu eri il figlio dei vicini. -.
Sorrisero imbarazzati ma divertiti da quello scambio di frasi.
Era proprio lei, quella dolce ragazzina che abitava nella fattoria dei vicini alla sua: all’epoca lui aveva quindici anni da poco e lei tredici. C’era stato un attacco e loro si erano rifugiati a casa loro per paura. In tenera età com’era pensava che fosse parecchio carina. Loro condividevano la camera con lei e le sue tre sorelle maggiori. Beh, la paura li aveva avvicinati molto quella notte.
Strano che lei fosse rimasta con quell’aspetto così bello e giovane, a differenza sua che era già pieno di rughe attorno agli occhi e alla bocca. Poi la cosa dell’occhio lo faceva sentire vecchissimo e brutto, senza contare quello che aveva passato.
Si passò una mano sulla nuca, imbarazzato come non mai.
-Come stai? -.
-Bene, potrei dire. – rispose lei –Mamma e papà non ci sono più. La mia sorella maggiore sì, è da qualche parte qui. Forse pulisce i bagni. -.
-Oh. Anche a me è rimasto solo Buck. -.
Rimasero in silenzio fino a quando non dovettero tornare in cucina.
-Ti ricordi quando abbiamo giocato sotto la pioggia, da piccoli? – chiese all’improvviso lei mentre erano seduti uno accanto all’altra impegnati a pulire delle pentole ostinatamente incrostate.
-Avevi i capelli che splendevano al sole per l’acqua. – rispose lui strofinando la spugna su una macchia nerastra tenacemente attaccata alla superficie metallica. Non diede peso a quello che disse finché non ci ragionò sopra. Come faceva a ricordarselo?
In effetti aveva dei ricordi sulla pioggia e le pozzanghere. Poi sì… aveva smesso di piovere e il sole aveva scintillato sui suoi capelli castani. Non pensava di poterselo ricordare.
-Tu ti ricordi quando abbiamo cercato i gattini nel fienile? – chiese lui.
-Come potrei scordarmelo? Ti sei buttato in mezzo al fieno come se fosse acqua e mi hai trascinato con te. – sorrise Daisy –Abbiamo passato ore a toglierci tutta quella roba dai capelli. -.
-Hai ragione. – ridacchiò Chuck –Sono contento di averti trovata Daisy. -.
-Anche io. Sai, se sei troppo triste per Buck, puoi venirmi a parlare quando vuoi. Sono nella B14. -.
-Anche tu? Devo fare attenzione a quando verrò a bussare. -.
Rosco invece era in compagnia di Andrea dal momento in cui Elen li aveva esortati a tornare a lavoro, in infermeria. Anche quello era un grande salone scavato pieno di lettini, vuoti ed occupati dai feriti. Dietro un paravento tenevano un armadio blindato con tutte le medicine e gli attrezzi per il lavoro.
Rosco si sentiva a perfetto agio in quel posto, come Andrea. L’angelo gli aveva spiegato che lì i posti erano un po’ tagliati, dato che c’era bisogno di persone esperte, soprattutto nel caso ci fossero molti feriti. Ogni tanto illustravano qualche base a chi si offriva volontario per imparare qualcosa, ma non tante persone avevano lo stomaco per aiutare in situazioni difficili. Per quello evitavano di mandare troppe persone fuori dalla Resistenza, per evitare di avere feriti di cui occuparsi.
-Vieni, ti faccio conoscere i bambini. – gli disse il biondo facendogli cenno.
Alla Resistenza i bambini erano numerosi e stavano per la maggior parte del tempo in una sala attigua all’Infermeria, dove potevano fare tutto quello che volevano, collegata tramite una scala alle abitazioni sottostanti.
Un gruppetto di canaglie stava attorno ad un lettino occupato da un bambino sugli otto anni con una testata di riccioli biondi da angioletto. Era chiaramente un mezzo demone a causa dei canini sviluppati che metteva in mostra con un sorriso e le pupille leggermente strette come quelle di un gatto.
Andrea batté le mani un paio di volte per zittirli e li salutò con un bel sorriso, ricambiato subito.
-Come va la bruciatura Toby? – chiese al malato nel letto.
-Benone. Guarda. – disse il bambino togliendosi una medicazione dal braccio. Rosco rimase impressionato dalla bruciatura estesa dalla mano alla spalla del bambino classificabile come terzo grado, impressionante. Poteva fare un po’ senso alla vista, ma appena tolta la medicazione si levò un coro da parte dei piccoli spettatori e qualcuno chiese: -Posso toccare? -.
-Meglio di no. – li fermò Andrea –Sta guarendo molto bene, sono contento. -.
Toby annuì mentre l’angelo applicava una nuova fasciatura con del grasso di Salamandra. Intanto notarono la presenza del demone, sussurrando fra di loro concitatamente.
Alla fine fu l’ustionato a parlare: -Sei Rosco, vero? Quello intelligente. -.
-Quello intelligente su cosa? – chiese stupito.
-Trai i quattro gemelli! - esclamò una bambina –I McMastiff… - aggiunse sottovoce, intimorita dal suo sguardo incuriosito.
-Gli amici di Elen. -.
-I fratelli di Elen! -.
-Quelli che l’anno salvata dal Cerbero più grande dell’Inferno intero! -.
-Vogliamo parlare della volta che hanno affrontato Regina? Quella era un’impresa, io a un Cerbero gli annodo la coda come farei con una corda. – sbuffò un bambino con una scrollata di spalle.
-Piano piano piano, di che state parlando? – chiese Rosco mettendo le mani avanti –Come fate a saperlo? -.
-Elen a volte si diverte a raccontare delle storie con voi come protagonisti. – rispose Andrea con un sorriso –Siete degli eroi per i bambini: Alan e Carlo sono sempre i cavalieri, Madison è il brigante buono e tu… beh, il fratello giudizioso. -.
-Davvero? -.
-Sì. Ma a Toby queste storie non piacciono. – aggiunse l’angelo pizzicando la guancia al bambino –Giusto? -.
-No. – confermò lui. Aveva uno sguardo parecchio truce per essere stato uno che pochi secondi prima era fiero e sorridente della sua ferita –Che hanno fatto loro? Giocato con Elen, e allora? -.
-Sono storie vere. – protestò un suo coetaneo.
-Questa è una storia vera. – ribatté alzando il braccio fasciato –Chi ci ha salvato? Loro no di certo. -.
-Basta adesso, Toby ha bisogno di riposo. – s’intromise Andrea –Lasciatelo stare per un po’. -.
I bambini ed i due medici si allontanarono, lasciandolo solo a rintanarsi sotto le lenzuola grigie del lettino.
-Cosa è successo a quel bambino? – chiese Rosco, quando i bambini si furono allontanati.
-Regina ha dato fuoco ad una casa dove si riteneva che ci fossero dei mezzi demoni nascosti. Erano nelle cantine e il fuoco è arrivato anche là sotto, dove erano nascosti alcuni di quei bambini che hai visto. Nikolaj non era in servizio quella sera e stava venendo da me quando ha visto lo spettacolo. Senza pensarci due volte è entrato nell’edificio ed ha portato fuori tutti i bambini, tranne Toby, che si era nascosto. È riuscito a salvare anche lui ed ha dovuto affrontare Regina per questo affronto. Ne è uscito sconfitto. I bambini sono stati rintracciati e portati qui. Da allora il vero eroe di Toby è Nikolaj, non voi tre: secondo lui siete dei traditori, mentre Nikolaj è un eroe che combatte dall’interno il sistema di Regina. -.
-Noi eravamo troppo esposti per farlo. Aiutavamo alcuni mezzi demoni ogni tanto, ma con nostro nonno in giro non si poteva fare un granché. Speravamo di raccogliere informazioni utili, ma sospettando una qualche cosa come tornare da Elen (che abbiamo fatto), non ci facevano mai partecipare a cose grosse. -.
-Siete un po’ malvisti. – concordò Andrea in modo distaccato, mentre rimetteva a posto il grasso di Salamandra.
-Anche tu. -.
-Ho sentito. Voi demoni sarete anche tolleranti ma a quanto pare un angelo effemminato non va a genio a qualche maschietto virile che se ne sta nelle retrovie. È stato gentile il modo in cui mi hai difeso. -.
-Prego. -.
Andrea evitò di guardarlo.
-Vieni, dobbiamo andare a controllare laggiù. -.
Dopo il pranzo, i tre fratelli si divisero ancora una volta.
Nell’Arena però Carlo non seguì il fratello nell’armeria; sulla porta rimase indeciso se entrare o seguire Elen.
Madison, già con una spada in mano e la pietra per molarla sulla lama, fece: -Va’. -.
-Cosa? -.
-Corrile dietro. – disse passando la pietra sul filo della lama –Ora ne hai la possibilità -.
-Me ne fai una colpa? -.
-L’amore è cieco ed approfittatore. – sentenziò il fratello minore –La donna incustodita rende l’uomo innamorato audace. Fai un po’ tu. -.
-Da quando queste perle di saggezza dalla tua boccaccia? – chiese divertito ed un po’ stupito Carlo.
-Da quando sono abbastanza furbo da osservare i comportamenti dei miei fratelli che si prendono le cotte e vedo di non imitarli troppo. Ti decidi ad andare? È tutto il girono che le guardi le tette, non te le guadagni mica guardandole da lontano. -.
-Se si trattasse solo delle sue tette avrei già... -.
-Tic tac, il tempo scorre. -.
-Non so se stimarti o pensare che mi prendi in giro. -.
-Tic ta-ac. – ribadì Madison canticchiando.
Carlo si diresse nello spiazzo insabbiato, dritto verso Elen, che stava osservando delle sequenze eseguite da dei ragazzi piuttosto giovani con dei bastoni ad imitare delle lance.
I demoni non amavano le guerre come le svolgevano gli umani nei tempi recenti, rintanati da qualche parte, appostati con i fucili, piazzando bombe e quant’altro. Sì, le imboscate piacevano molto ma preferivano un buon combattimento corpo a corpo, per dimostrare la supremazia di un avversario su un altro sfruttando le proprie qualità. Ad imbracciare un fucile e sparare erano capaci tutti, ma a maneggiare un’arma da taglio e sapere come utilizzarla in armonia con il corpo era tutt’altra storia. Per non parlare del combattimento in forma animale: uno spasso.
Elen impartiva indicazioni: -Spalle rilassate! No, troppo basso… cos’è combatti contro uno gnomo? Prima si colpisce, poi si ruota ragazzi! Ma quante volte… tu cosa ci fai qui? -.
La demone si voltò verso il nuovo arrivato, corrugando la fronte con ostilità.
-Ho deciso di aiutarti. È una mansione come un’altra ed hai detto che potevamo. -.
-L’ho detto sperando che non lo faceste. Torna in armeria a fare il tuo lavoro. Riprendiamo. – ordinò voltandosi verso i ragazzi.
Carlo notò che un mezzo demone lo guardava e lui fece un cenno, accompagnandolo con un occhiolino complice. Lui capì e lanciò la sua arma al demone, che la prese al volo con una mano. Elen notò la manovra e si voltò di nuovo, ordinando: -Ho detto di andare in armeria. -.
-Paura di essere battuta, gattina? -.
-Sono un Puma. – soffiò lei portando una gamba davanti all’altra in posizione d’attacco –E ti sconsiglio di attaccarmi o potrò considerarla aggressione. -.
-Che esagerazione. Potremmo chiamarla esercitazione, o scommessa. -.
Presero a girare in tondo, misurando passi e parole.
-Sentiamo. -.
A quanto pare le scommesse e le sfide la interessavano ancora come quando era ragazza.
-Facciamo una bella dimostrazione pratica. Se vinci tu torno in armeria e non ti disturberò per tutta la durata della mia permanenza qui. -.
-Se vinci tu? -.
-Svolgerò le tue stesse mansioni con la stessa carica di Andrea. -.
-Che scalata al potere! Va bene, accetto. Ma non piangere quando ti batterò. – accettò la donna prendendo un bastone da una ragazza –Prestate attenzione, questo potrebbe insegnarvi qualcosa. Prima di tutto, mai sfidarmi! -.
Attaccò Carlo, il quale parò alzando la sua arma in perpendicolare al colpo, che rispose: -Sai che roba, non sei mica invincibile. -.
I bastoni continuarono ad abbattersi l’uno contro l’altro, evitando batoste dolorose ai loro possessori. Se Carlo faceva un passo avanti Elen lo costringeva a farne due indietro, ma se lui faceva attacchi alti lei indietreggiava con un salto.
Si muovevano agilmente, ma la demone era molto più sciolta nei movimenti.
-Sei diventato un pezzo di legno. -.
-Oppure sto cercando di farti avvicinare facendoti sentire più sicura muovendomi male. -.
-Tu cosa? – chiese indietreggiando bruscamente, non abbastanza in tempo per tenere il suo cappello sulla testa.
Il demone gli prese il cappello e se lo mise lui, sorridendo: -La prima regola di Elly è mai toccare il cappello, la seconda è mai chiamarla Elly. -.
-Ridammi subito quel cappello Carlo. – protestò Elen tendendo la mano.
-Prendilo, è qui sulla mia testa. -.
Elen sferrò un attacco rabbioso, schivato da un passo laterale e un colpo sulla schiena la fece voltare. Forse non era stata un’ottima idea aizzarla prendendole il cappello… lo capì dopo l’occhiata assassina che gli rivolse. Spezzò il bastone con una mano sola e lo attaccò con le due estremità, furiosa.
Fece fatica a tenerle testa soprattutto perché doveva preoccuparsi sia di non ricevere bastonate nelle costole e sia di non farsi rubare il cappello.
-Ahia! – esclamò lei quando ricevette un colpo sulle dita e fu costretta a lasciare la presa su una delle sue armi.
Carlo si appoggiò al bastone e ridacchiò: -A quanto pare ho vinto. -.
-Lo dici tu. – ribatté Elen.
Strinse la metà del bastone che gli rimaneva e glielo lanciò, colpendolo sulla fronte. Anche lui perse la sua arma e lo sbigottimento gli costò trovarsi un enorme Puma addosso che gli conficcava gli artigli nel petto.
Si trasformò anche lui e rotolarono nella sabbia mordendosi fino a che non si separarono.
-Pft… Elly… - balbettò Carlo prima di scoppiare a ridere e rotolarsi per terra dalle risate.
-Cosa? Che c’è? – fece lei soffiando, in modo poco convinto.
-Hai la coda che è un batuffolo! -.
Lei si voltò e vide la sua lunga coda color sabbia arruffata come quella di un gatto spaventato, anzi, come un piumino per spolverare.
-È un incidente, lo sai che capita quando mi arrabbio. – borbottò lei lisciandosi la coda con le zampe –Smettila di ridere deficiente! -.
-Ma se ridi anche tu? -.
-Non sto ridendo, tu piccolo cagnone peloso che sembri un peluche da fiera di campagna. – rise lei dandogli zampate sul muso ad ogni parola.
Si ritrasformarono e lui le rimise il cappello sui capelli sciolti dall’austera pettinatura da comandante con la treccia, come li teneva da ragazza.
Si alzò e gli tese la mano, aiutandolo ad alzarsi.
-Che cosa avremmo dovuto imparare? – chiese un mezzo demone alzando la mano.
-A fare un combattimento molto divertente e riappacificante. – disse Elen –Continuate, io vado a darmi una sistemata. -.
Si tirò dietro Carlo, dicendo: -Per la Volpe Carlo, volevo ammazzarti quando mi hai preso il cappello, sei stato fortunato che mi hai fatto ridere o ti facevo male sul serio, scavezzacollo che non sei altro. -.
-Guarda come mi hai ridotto. – disse lui indicandosi il petto dove otto buchi sanguinanti stavano impregnando la sua maglia di sangue –È il meno, posso dire. -.
-Andiamo in Infermeria, ti fai dare una controllata. -.
-Dunque amici come prima? – buttò lì il demone.
-Fratelli come prima. – lo corresse lei sputandosi su una mano per stringere quella di Carlo –Non avete idea di quanto mi siete mancati tutti e quattro. Milo lo avete visto? -.
-Sì. È… riservato. Va bene, è diventato matto da legare: si è messo in testa di usare Raven per sconfiggere Regina e non ha funzionato mandargli Andrea a parlare. Servirebbe un miracolo per farlo desistere. -.
-Dovremmo capirlo… sta solo cercando vendetta, un modo per rimediare agli errori di nostro zio. -.
-Si farà ammazzare e con lui Raven. -.
-Mia figlia ha abbastanza giudizio e coraggio da protestare. -.
-Hai ragione. Ma lui è un demone e lei è solo un’ibrida ancora troppo debole per fronteggiarlo. -.
-Andrea ha detto che gli ha dato una bella batosta. -.
-Fortuna del principiante. L’ultima volta che abbiamo avuto sue notizie era in mano a Nikolaj, ma penso l’abbia recuperata. -.
-Andrea mi ha parlato di un sogno che ha fatto. -.
Alla parola “sogno” Carlo drizzò le orecchie e si voltò verso di lei: -Sogno sogno o quel tipo di sogno? -.
-Quel tipo di sogno. – rispose lei annuendo –C’è una cosa che dovrei dirvi, a voi e Andrea, ma la dirò dopo cena. Sarà una bella sorpresa. -.
Si riappacificarono in un attimo, tutti i risentimenti che lei provava per i suoi amici ritrovati scivolarono via e furono eliminati. Stava per dire loro quella cosa quando Murphy arrivò di corsa, inciampandosi in una sedia ed evitando per un soffio di finire in braccio ad Hereford, dicendo che un tizio che diceva di essere suo fratello pretendeva di entrare con un paio d’altri.
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Capitolo 24: Fidarsi è bene, prepararsi a soffrire anche ***


CAPITOLO 24
Fidarsi è bene, prepararsi a soffrire anche

 
Raquel guidava adagio sulla strada bagnata dalla pioggia insistente del pomeriggio. Beast, seduto davanti, stava con il gomito appoggiato alla portiera dell’auto e la mano puntata sotto il mento, intento ad osservare le gocce di pioggia scivolare giù per il vetro.
La pioggia gli dava un senso di… pericolo.
Nei film non succedeva mai nulla di buono quando pioveva e lui era convinto che succedesse la stessa cosa anche nella realtà. Insomma, era una cosa buona solo per l’ambiente quando scendeva in buona misura, altrimenti anche lì diventava un pericolo: nubifragi, alluvioni, per esempio.
Perché mai Milord aveva deciso di dividerli? Forse i loro inseguitori avrebbero lasciato perdere il gruppo senza la Portatrice, vero, ma potevano anche essere un buon bersaglio. D’altra parte Raven era sorvegliata da due miseri mezzo demoni: quanti uomini poteva chiamare Regina per catturarla? Tantissimi, quindi aveva anche un minimo di senso il fatto di lasciar andare i deboli per i conti loro, per incontrarsi in un punto prestabilito.
Se così era, erano già stati attaccati? Avevano già preso Raven?
Forse.
Per distrarsi, chiese a Matisse come stava, dato che non la sentiva parlare da un pezzo e, guardando nello specchietto, aveva il viso terreo e un’espressione che non gli piaceva affatto.
-Tutto bene Mati? Hai una faccia da fare spavento. -.
-Ho una brutta sensazione. -.
-Anche tu? Siamo a posto. Raquel, anche tu hai brutte sensazioni? -.
Lei non rispose.
Beast studiò il suo modo di tenere il volante, la rigidità delle braccia e lo sguardo fisso alla strada. Sì, anche lei era nervosa.
Attraversarono una città che avevano già attraversato durante l’andata verso la baita. Erano quasi a casa quindi. Non vedeva l’ora di scendere da quell’auto e vedere Milord.
Sarebbero andati all’Inferno, nella Resistenza. Non stava nella pelle dall’emozione, finalmente sarebbe andato nella sua terra natia (da parte di padre).
Si ricordava a stento il viso del suo genitore demoniaco: capelli fulvi, occhi a mandorla e un bel sorriso. Sua madre era una donna di origini americane, da cui aveva preso molto dall’aspetto fisico. Dal padre solo gli occhi dal taglio orientale, ma non per quello somigliava ad un orientale.
Sua madre un giorno l’aveva abbandonato spiegandogli brevemente cos’era e da cosa doveva stare in guardia, poi lo aveva lasciato per sempre. A quattro anni. L’aveva odiata per quello.
Per qualche settimana aveva girovagato senza meta sfuggendo ai Cacciatori di Regina, incredibilmente sempre per un pelo, fino a che non si era imbattuto in uno strano mezzo demone che si occupava di una bambina di razza angelica che lo aveva tirato fuori dai guai quando lo avevano sorpreso a rubare.
Jaguar poteva essere considerato senza problemi un secondo padre più che un fratello, dato che aveva dovuto educarlo una seconda volta (stando nelle strade si era inselvatichito molto e si comportava da vero cane randagio), vestirlo, mantenerlo e dargli un tetto.
Gli aveva regalato una chitarra e gli aveva insegnato a trasformarsi completamente, dato che prima d’incontrarlo sapeva solo tirare fuori le orecchie e la coda da Akita.
Poi incontrarono Milord e la loro vita prese una piega decisamente migliore: si trasferirono in una casa lussuosa, dove non mancava niente, e iniziarono a lavorare per una causa di cui andare fieri.
Aveva ammirato Milord dal primo istante in cui lo aveva visto: naturalmente il suo bell’aspetto dava da solo una buona impressione.
A quanto pare però a lui non piaceva un granché, dato che non si era mai rivolto a lui chiamandolo per nome, ma solo con nomi che si sarebbero dati ad un cane che si comportava male o Lessie. Solo recentemente lo aveva chiamato Beast, quando stava male.
A quanto pare stava male davvero.
Si distrasse dai suoi pensieri a causa del profumo sprigionato da Matisse, che gli fece pensare ad altro per un attimo, prima che l’auto si bloccasse di botto.
 
***
 
Sembrava il set di un film degli orrori: era in un corridoio con pareti di pietre cementate fra loro, illuminato da alcune fiaccole, una ogni cella che oltrepassava. Erano prigioni, sicuramente.
 Perché stava sognando delle prigioni?
Si sentiva stranamente emozionata al pensiero che stesse per incontrare Morfeo di nuovo. Che avrebbero fatto questa volta? Sperava non le facesse qualche scherzo, in un posto così lugubre. L’ultima volta si erano parlati abbastanza a lungo e lei aveva trovato che oltre ad essere attraente era piuttosto simpatico e divertente, nonché galante.
Quella cosa che lui aveva chiamato Legame se lo sentiva scaturire dal petto per tutto il tempo in cui restarono insieme e a volte anche quando pensava a lui.
Le celle erano tutte vuote. Faceva un bel po’ di freddo là sotto e lei si strinse la felpa addosso, accelerando il passo. Sembrava non avere fine quel corridoio maledetto.
Passò davanti ad una cella in cui intravide una macchia bianca e tornò indietro per ricontrollare. Non aveva visto male: incatenato alla parete c’era Morfeo. Quando lui alzò il viso un incredibile livido bluastro attorno al suo occhio destro la fece inorridire.
Si slanciò verso la porta della cella e l’aprì, scivolando ai suoi piedi all’altezza dei polsi incatenati. Provò a forzare la serratura, ma non successe un accidente.
-È inutile. – l’avvertì lui –Mi spiace mia cara. -.
-Cosa ti è successo? Chi è stato a farti questo? – chiese sentendo un formicolio alla cicatrice.
-Gli uomini di Regina. Sono stanchi di aspettare e mi useranno per convincerti a consegnarti spontaneamente. – rispose lui lasciandosi accarezzare sotto il livido –Tu non stare a sentirli e vai alla Resistenza, ignorami. -.
-Cosa ti faranno? Se non mi presenterò? -.
-Di questo non ti devi preoccupare. -.
Morfeo girò la faccia dall’altra parte, ma Raven lo costrinse a guardarla e ripeté la domanda, sperando che non desse la risposta che pensava. Il demone albino chiuse gli occhi e rispose: -Mi faranno altro male, non preoccuparti. Lo sopporto abbastanza come l’ho sopportato fino ad adesso. -.
-Se decidessero che non basta? – sbottò lei prendendolo per le spalle –Se ti uccidessero? -.
-Almeno ti ho conosciuta. -.
-Non scherzare. -.
-Io sono serio Raven, mia cara. -.
Lei si guardò attorno, odiando quelle pareti che trasmettevano freddo e le facevano venire un groppo alla gola pensando a cosa Morfeo aveva passato tra quelle mura.
-Cambia sogno, subito, mi sento male qui. – balbettò.
I muri cambiarono e la cella prese l’aspetto dello studio del demone, un ambiente sicuramente più confortevole e familiare a lei, avendoci passato un sogno intero con lui a parlare come se fossero amici che si conoscevano da un pezzo senza preoccupazioni, invece che due persone che si conoscevano da quasi due settimane l’una con una missione da compiere e l’altro imprigionato in una cella da anni.
-È colpa mia se ti hanno fatto del male. – disse con sensi di colpa che le facevano salire le lacrime agli occhi fissando quel livido bluastro che rovinava il bel viso del demone albino –Mi dispiace. -.
-Non è colpa tua. – la smentì lui facendola sedere sul confortevole divano -Devi sapere che è un po’ colpa mia se sono in prigione. -.
-Ti useranno come esca per attirarmi. Perché sono il tuo Legame e sono la Portatrice. -.
-Mia cara, non voglio che vieni a liberarmi. Sii testarda ed insensibile e vai alla Resistenza: lì sarai molto più utile che al posto mio. Tanto non sarei accettato fuori dalle prigioni. Sai com’è… ho rovinato tutto già una volta, sarebbe la seconda questa. Andando dai ribelli ti allenerai e potrai liberarmi con calma. -.
-Potrebbe essere troppo tardi. Non potrei sopportare che tu non ci fossi più a causa mia. -.
Morfeo ammiccò, perplesso: -È il Legame che ti fa dire queste cose? -.
-Non lo so. -.
-In ogni caso non venire. – ribadì serio Morfeo–Anche io non sopporterei di saperti qui, al posto mio, a subire le mie stesse torture. Sono una persona codarda ma… questo devo dirtelo: mi è piaciuto stare con te. -.
-Anche a me, ma non usare il passato. Troverò il modo per portarti con me. Ho già perso Andrea… -.
-Andrea? L’angelo Andrea? – chiese Morfeo.
Raven annuì mestamente e il demone albino disse: -Sta bene, non preoccuparti. Se qualcuno può sognare vuol dire che è vivo. -.
La ragazza sentì la cicatrice emanare calore per un attimo.
-Davvero? -.
Morfeo annuì: -Lui è il figlio di una cara amica: lo tengo d’occhio da molto tempo, da quando è Caduto. -.
-Quindi sta bene davvero? -.
-È solo ferito, mia cara. Si rimetterà molto presto. -.
-Oh signore… - gemette Raven appoggiandosi allo schienale del divano, coprendosi la faccia con le mani –Grazie grazie grazie… -.
Avrebbe pianto se non fosse stata così contenta per quella notizia.
Morfeo si mosse accanto a lei, a disagio.
-Non posso impedirti di fare qualcosa. – continuò, stringendosi le mani l’una con l’altra –O fartelo promettere, se è per questo. Ma vorrei che mi promettessi comunque di fare attenzione. In ogni caso. -.
Raven abbassò le braccia e lo guardò, trovandolo molto abbattuto.
-Sono il tuo Legame: puoi fidarti di me. – gli disse, abbracciandolo.
Non era una cosa che faceva normalmente, soprattutto con qualcuno che conosceva da così poco, ma sembrava davvero averne bisogno.
Il demone si irrigidì, subito, per poi sciogliersi e appoggiarle la testa sulla spalla.
 
***
 
Si svegliò. L’auto era ferma e mancavano due passeggeri.
Aprì la portiera e saltò giù, trovandosi al limitare di un bosco, dove Milord stava scavando sotto forma canina ai piedi di un albero. Stava finendo ed aiutato da Jaguar, mise le mani nella buca estraendone un baule di ferro che sembrava uno di quelli utilizzati dai militari.
Quando li raggiunse stava estraendo da esso una specie di maschera antigas e blaterava qualcosa su una foresta e cortecce tossiche. Milord si zittì per dirle un: -Ben sveglia Portatrice. -.
Lei lo prese per la giacca e lo tirò giù alla sua altezza esclamando: -Devi portarmi ad uno scambio, adesso! -.
-Che cosa dovrei fare? – chiese lui staccando la ragazza dai suoi abiti.
-Uno scambio! Hanno preso… hanno la mamma. – mentì prontamente. Non poteva dire a Milord che era in contatto con l’ex Portatore, che avrebbe detto?
-Come lo sai? – chiese dubbiosamente Jaguar.
Già, come lo sapeva?
Per sua fortuna il telefono di Milord squillò e la conversazione finì lì. Aveva il tempo per inventarsi una storia. Lui lo prese dalla tasca e lesse il display. Vedendo la foto di Beast rispose subito con un: -Arriviamo immediatamente, non preoccupatevi. -.
-Oh, bene. -.
Milord corrugò la fronte e si appoggiò al tronco di un albero, non riconoscendo quella voce. Beast non era di certo. Gli altri due notarono la sua faccia e lo guardarono preoccupati.
-Chi parla? -.
-Nikolaj. Ho tuoi amici e persona cara a ragazza di cuore. Venire in vostra vecchia casa, in fretta, o cane perde dita ogni mezza ora che noi aspetta. -.
Sentì un rumore agghiacciante e un urlo sofferente da cagnolino che conosceva bene.
-Uno andato. – disse Nikolaj –Fare veloce. Io poca pazienza, non sa se aspetta mezza ora prima di prossimo dito. -.
-Fammi parlare con lui. – ringhiò affondando le dita nel tronco dell’albero spaccandone la corteccia e penetrando nel legno.
-Come volere. – acconsentì.
La voce del demone fu sostituita dai singhiozzi del ragazzo.
-Milord, non ce ne siamo accorti, sono piombati all’improvviso… - piagnucolò Beast.
-Va tutto bene, calmati. State tutti bene a parte il dito? -.
-Sì, noi… -.
-Zitto. Vengo subito, resistete. -.
 
***
 
Tenersi il dito era un’agonia terribile. La falange prossimale dell’indice era spezzata a metà e lui aveva pianto come un bambino, maledicendosi mille volte di non essere abbastanza forte da rompere la corda che gli stringeva i polsi e prendere a cazzotti quell’energumeno che gli aveva spezzato il dito come se fosse stato una fragile matita. Sicuramente non era la prima volta che faceva un lavoro del genere. Era l’essere più spaventoso che avesse mai visto e di sicuro avrebbe spappolato Milord.
Appena avevano fermato l’auto lui era uscito e gli aveva azzannato la mano, ma a quanto pareva non lo aveva manco sentito che lo aveva attaccato. Semplicemente lo aveva preso per la collottola e sbattuto a terra con una violenza tale che aveva visto decine di stelle davanti agli occhi e non si ricordava di essere arrivato a casa, seduto sulle scale.
Raquel era qualche scalino più in alto, legata come lui e Matisse. La prima era silenziosa e fissava le scale con ostinazione, la seconda era terrorizzata. Un male, perché la paura aveva fatto aumentare il profumo inebriante del suo Calore.
La cosa non sembrava turbare affatto Nikolaj, appoggiato alla parete del corridoio con aria annoiata. Cosa ben diversa per il tizio identico a Jaguar che aveva già visto alla baita, che la fissava con un paio d’occhi ardenti come un braciere che gli mettevano paura.
Ad un certo punto quel tale le si avvicinò. Lei scivolò sullo scalino fino a toccare la parete e non avere più vie di scampo dalla sua mano che la costrinse ad alzare il viso.
-Osa torcere un solo capello a mia sorella e te la faccio pagare. – sibilò minacciosamente.
Per tutta risposta l’altro ridacchiò ed avvolse un dito attorno ad una ciocca dei capelli biondi dell’angelo, strappandone un sottile filo dorato.
-Fatto. Ora che cosa fai cagnolino? – ridacchiò, poi si rivolse a Nikolaj –Che dici? Potremmo anche approfittarne. -.
Gli occhi dorati nel demone si posarono sul corpo tremolante della ragazzina. Poi disse: -Sentito fratello: lascia stare. -.
-Ah! Sai che può farmi quello… -.
-Lui no, io sì. Lei bambina, tu vecchio idiota, io no sopporta angherie su deboli. Mette mani in tasca e tornare qua, o spezza braccia. -.
Esteban, stizzito, lasciò Matisse e tornò a sedersi per terra, continuando a fissare l’angelo come se volesse mangiarla.
Il dito si gonfiò in tempo zero, prese a pulsare e diventò bluastro.
Guardò con odio Nikolaj, il quale ricambiò lo sguardo, ma non con odio. Si staccò dal muro e andò in un’altra stanza, tornando con un sacchetto che spandeva fumo bianco gelato nell’aria.
-Mette sopra. – gli disse. Erano carotine che Matisse aveva messo in congelatore qualche giorno prima.
-Per essere uno che odia vedere maltrattare i deboli spezzi loro le dita senza problemi. – commentò acidamente il ragazzo.
Gli sembrò di vedere un lampo di stizza e dispiacere negli occhi di Nikolaj, ma quello disse: -Sì? Magari toglie guinzaglio ad Esteban e essere co-rente, così tutti felici. – minacciosamente, allontanando il sacchetto.
-No, certo che no. – borbottò Beast, accettando le carote congelate.
Il dolore si allievò un po’ e poté tirare un sospiro di sollievo.
Dopo più di una mezz’ora in cui nessun’altro dito fu spezzato, ecco che sentirono il rumore del cancello che si apriva.
Esteban prese nuovamente Matisse e la tirò su, tenendole stretto il collo con una mano, come se sua sorella fosse stata in grado di scappare davvero. Nikolaj invece prese lui ed aspettarono che la porta si aprisse.
Entrò Raven, da sola. Lasciò la porta aperta, in modo che Milord e Jaguar potessero vedere a distanza che cosa accadeva dentro la casa.
-Ciao Raven. – la salutò Esteban.
-Toglile le mani di dosso. – intimò la ragazza, vedendo come Matisse era in procinto di scoppiare a piangere –Le stai facendo male. -.
-Non è vero, non sto neanche stringendo. -.
-Basta giocare. – li interruppe Nikolaj –Vede Milord abbastanza intelligente da stare lontano. -.
-Per niente. Sta cercando di obbedirmi. – lo smentì Raven –Se non fosse per me, loro sarebbero qui pronti a combattere e perdere. -.
Nikolaj notò che si guardava intorno: o cercava trappole o qualcuno…
-Ragazza intelligente. Lupo no vuole venire a ritirare Legame? -.
-Lui non è ancora il suo Legame. Lascialo andare. -.
Il demone spinse Beast verso di lei. Quasi s’inciampò sul tappeto, ma riuscì a stare in piedi.
Raven notò il dito rotto, ma gli slegò i polsi chiedendo comunque: -Stai bene? -.
-Sì. -.
-Esci, va’ da Milord e ricordagli di non fare gesti avventati. Nessuno dei due. – sussurrò Raven spingendolo fuori dalla casa. Incredibilmente obbedì senza fare storie. Forse non tanto incredibilmente, dato che probabilmente aveva passato una mezz’ora e più d’inferno con il dito rotto ed in compagnia di quei due.
-Ora anche loro. Tutti gli ostaggi. – disse. Di Morfeo nessuna traccia. Dove lo tenevano? Che gli avessero fatto del male?
Esteban ridacchiò malignamente: -Mi spiace, ma chiunque in questa casa rimarrà con noi. -.
-Dire a quelli fuori di andare. No scherzi. – intimò Nikolaj.
Fu costretta a farlo. Da lontano vide che Jaguar protestava, ma Milord lo spinse in auto a forza e si allontanarono.
Sapeva che non sarebbero tornati: aveva chiesto a Milord che per una volta obbedisse o temeva che qualsiasi cosa che fosse andata storta o che non andava a genio ai sequestratori sarebbe costato caro a qualsiasi ostaggio, da Raquel a Matisse e soprattutto a Morfeo. Non voleva rischiare che qualcuno oltre Beast si facesse male.
-Fatto, siamo pari: avete me. Perché tenervi anche loro? -.
Esteban lasciò Matisse e andò verso di lei, senza togliersi dal muso quello schifoso sorrisetto cattivo che gli sembrava stato impresso con un marchio a fuoco. Le girò attorno e lei sentì la familiare stretta delle manette attorno ai polsi. Questa volta erano decisamente più strette di come l’altra volta gliele fissate Nikolaj, tanto che aveva paura la circolazione le si fermasse. Per la rabbia avrebbe voluto sfilargli la sua arma dalla cintura e piantargliela nello stomaco. Invece non fece niente, soprattutto perché aveva le mani legate dietro la schiena e lui se ne sarebbe accorto in tempo per fargliela pagare.
-Bambina suo capriccio. – rispose Nikolaj con noncuranza indicando con un cenno della testa l’altro demone.
-E Raquel? -.
-Questa è la parte divertente della storia. – ridacchiò nuovamente Esteban –Sai chi è Raquel? -.
-La fidanzata di Jaguar, tuo figlio. -.
La risposta fece scoppiare a ridere Esteban, in un modo talmente irriverente che oltre a far accapponare la pelle sul collo alla ragazza le fece venire di nuovo voglia di accoltellarlo davvero, mani dietro la schiena oppure no.
La mezzo demone si alzò in piedi e si sfilò la corda dai polsi come se fosse stato un braccialetto troppo largo, lasciando sbigottite le altre due ragazze.
-Sono una mezzo demone al servizio di Regina. Sì, ho recitato bene la mia parte di ragazza in pericolo per poter entrare a far parte della Resistenza, ma prima sono entrata a far parte della combriccola di Milord, per farmi una buona reputazione. Però non mi hanno accettata lo stesso. Grazie al cielo nessuno ha mai dato ascolto a Matisse o la mia copertura sarebbe saltata. Hai sempre avuto buon occhio. – la canzonò con un sorrisetto trionfante –Mi spiace per Jaguar ma era l’unico con il cuore abbastanza tenero da riuscire ad essere preso in giro senza che destasse sospetti. L’unico per altro di cui conoscevo tutti i punti deboli grazie ad Esteban. -.
-Voi è rivoltanti. – commentò Nikolaj con una smorfia –No girare coltello in piaga, no necessario. -.
Matisse si sentì ribollire il sangue nelle vene quando la donna si avvicinò ad Esteban con espressione trionfante: lo sapeva! Aveva preso in giro Jaguar per tutto il tempo mentre se la faceva con il padre! Un’ottima accoppiata senza dubbio, entrambi i responsabili dei sentimenti distrutti di Jaguar.
-Tornerai da lui a prenderlo ancora per i fondelli? – domandò usando un tono velenoso.
-Tranquilla, ho finito di prendere in giro il tuo amato. – sorrise malignamente Raquel –Adesso andrò a riscuotere i soldi che mi sono stati promessi e ti dirò addio. Sei contenta? Non mi vedrai mai più. O forse sì. Perché no, potrei anche restare a guardarti mentre fai la sguattera. A meno che non decidano di lasciarti alle guardie e lì, credimi, ci sarà da divertirsi. -. L’angelo deglutì guardando preoccupata prima i demoni e poi Raquel.
Raven fece un passo avanti e spinse Raquel da parte, facendo da scudo alla ragazza da quegli sguardi.
-Dovreste vergognarvi entrambi. Ti pensavo una diversa, Raquel, per fortuna non ti devo un bel niente, perché altrimenti mi dispiacerebbe darti un bello schiaffo come ha fatto Matisse. Te lo sei proprio meritata. -.
-Sono mezza demone. Che ti aspettavi Raven? -.
-Mi aspettavo che tu fossi come Jaguar! Lui sì che è un brav’uomo, altro che mezzo demone come ti definisci tu. – le abbaiò contro. Prima che potesse interromperla, attaccò anche Esteban: -Nikolaj ha ragione, sei viscido. Chi tratta così il figlio? Per quale ragione lo hai lasciato in vita se hai deciso di rendergliela d’inferno? Meriteresti che qualcuno ti aggiustasse la schiena a mazzate, stronzo che non sei altro. Cos’è, vuoi usarlo ancora? Per farlo lavorare al tuo fianco? Sappi che conosco Jaguar e lui non lo farebbe mai, piuttosto ti strozzerebbe che essere come te. –. Fece una pausa per guardarli con odio. –Spero vivamente di liberarmi e dare battaglia a Regina solo per eliminare gli stronzi come voi. – sibilò infine.
Dalla cima delle scale arrivò un lento rumore di passi e una voce disse: -Bel discorso mia cara. -.
 
***
 
Si accorse che gli tremavano le mani quando abbracciò Beast, subito dopo che lui si fu liberato dal fratello. Rimase in quella posizione per un tempo che gli sembrò infinito. Quello stupido ragazzino non poteva avere idea di cosa avesse provato nel momento in cui aveva sentito il suo urlo di dolore, oltre alla scarica del Legame.
Probabilmente si aspettava un pugno, perché alzò le mani come a proteggersi, e rimase molto stupito quando invece ricevette un abbraccio stretto.
Dopo un primo momento di stupore appoggiò le mani sulla sua schiena: -Scusa, ma che ti prende? -.
-Mi sono preoccupato. Il dito fa male? Lo rimettiamo subito a posto, entriamo nella Resistenza e troviamo un medico. -.
-Tu? Preoccupato per me? -.
Avrebbe voluto rispondere qualcosa di intelligente, invece non disse un bel niente. Gli spinse contro una maschera e diede ordine entrare nella foresta dove aveva fermato l’auto.
Le maschere di sua invenzione permetteva di filtrare l’aria della foresta senza incappare nelle allucinazioni della corteccia degli alberi: semplicemente strati e strati di foglie erano impresse dentro la maschera con una sostanza particolare. Era un segreto l’affare delle foglie.
-È strano che ci abbiano fatto passare… - borbottò Milord –Si vede che hanno già capito che voi due siete mezzi demoni. O ci tenderanno un’imboscata. Attenti. -.
Mentre attraversavano la foresta, Jaguar aveva la mente invasa dall’immagine delle dita di suo padre strette intorno al collo sottile di Matisse, il suo viso arrossato per la paura e le mani legate. Una cosa che sognava spesso.
Adesso era in mano sua, per giunta in Calore. L’avrebbe…non poteva pensarlo. Aveva quindici anni, non poteva abusare di lei, era appena una bambina innocente.
Matisse era spacciata e la colpa era solo sua… Raquel avrebbe combattuto piuttosto che sottomettersi, magari sarebbe riuscita a ferirlo se mai avesse tentato di toccarla. Sua sorella era vulnerabile, uno schiaffo del calibro di Esteban poteva costarle denti rotti e lividi. Per non parlare di quante cose poteva farle.
Beast si accostò a lui e gli toccò la spalla, distogliendolo dai suoi pensieri.
-Nikolaj la proteggerà. -.
-Guarda cosa ha fatto a te. -.
-È anche quello che mi ha dato il ghiaccio ed ha impedito a quel tizio di non fare del male a Mati. -.
-È un demone. I demoni sono peccato e i peccati li attraggono. Se mai avesse un briciolo di bontà quello lì, cederà al suo Calore in meno di un attimo. -.
-A me non è sembrato il tipo… ma non voglio che pensi sia colpa tua. Io avrei dovuto proteggerla. -.
-Io non avrei mai dovuto lasciare che ci separassimo. Sono un pessimo fratello e adesso le ho perse. Non le rivedrò mai più. -.
Al fratello non sfuggì il fatto che si accarezzasse la mano sinistra. Beast si rabbuiò: presto quel tatuaggio si sarebbe arricchito di due nuove stelle.
Arrivarono in prossimità di una parete rocciosa. Milord si fermò e diede un calcio ad una lastra di pietra, producendo un rumore che fece pensare che dietro fosse vuota.
Dopo un paio di minuti una voce uscì da un buco: -Chi è? -.
-Sono il fratello di Elen e due suoi seguaci. Lo sa che sono qui, mi ha lasciato passare, apri. -.
-Aspettate. -.
La voce tacque. Dopo altro tempo, la lastra di pietra su cui Milord aveva abbattuto il suo piede si fece da parte, rivelando un corridoio in cui c’erano un ragazzo con le bretelle, i McMastiff, Andrea e una bella donna bionda, la quale si slanciò fuori dal corridoio per buttare le braccia attorno al collo di Milord, esclamando: -Milo! Lo sapevo che saresti tornato! -.
Lui si lasciò stringere per poi allontanarla freddamente.
-Che succede? Sei felice di vedermi? – chiese lei con un sorriso incerto, guardando dietro di lui. Si rabbuiò immediatamente e a denti stretti chiese: -Dov’è Raven? -.
-L’hanno presa. Mi spiace Elen. -.
La demone sganciò la frustra dalla cintura e l’abbatté su di lui, spaccando il terreno dove prima stava lui prima che si spostasse, sbraitando: -Hai perso mia figlia?! -.
Un altro colpo di frusta fu bloccato dalla mano del fratello, che sibilò: -Non potevo fare altrimenti. Ti lascio questi due e me ne vado. -.
-Cosa? Ma avevi detto che avremmo salvato Raven insieme. – protestò Jaguar, mentre Beast si allungava per prendergli la mano, manovra che lui scansò.
Andrea scosse la testa e fece: -Ma non lo avete ancora capito? Vi ha sempre presi in giro. Non è neanche un mezzo demone. Lui è Milo, Fenrir Milo. -.
I due mezzi demoni lo guardarono straniti, mentre Milord gli lanciava uno sguardo omicida e ringhiava: -Stai zitto. -.
-Voleva solo qualcuno di sacrificabile da usare per arrivare alla Portatrice. – continuò imperterrito l’angelo –E ha trovato voi. Vi avrebbe buttati al momento giusto per andare a guadagnarsi gloria e onore usando Raven. -.
-Non è vero! – sbottò Beast –Lui ci ha aiutati! Non ci avrebbe mai mentito, lui non è Milo Fenrir, lui… -.
-Beast. Smettila. Io sono Milo Fenrir. – lo interruppe Milord –Vi ho mentito. Ora andate con Elen. Io vado a riprendere Raven e farò quello che ho progettato di fare. -.
-Tu te ne saresti andato così? Senza dirci la verità facendo la figura del buon samaritano? – domandò incredulo Beast.
-Esattamente. – disse con tono grave Milord –Cosa che sto facendo. -.
Fece per andarsene, ma Beast si mise fra lui e la foresta.
-Tu non vai da nessuna parte, perché tu non sei Milo Fenrir: tu sei Milord, il mezzo demone che ci ha aiutati ed era preoccupato per me poco fa. -.
-Questo è quello che vi ho fatto credere. -.
-Non è vero! -.
-È vero imbecille! E adesso fatti da parte o ti elimino. -.
-Costringimi. -.
-Io adesso vado e tu starai qui a cuccia come hai sempre fatto. -.
-Io non sono mai stato a cuccia e non sono un cane! -.
Beast fece per prendergli un braccio, ma Milord si tolse la giacca e gliela buttò sul viso, per poi scomparire in una nuvola scura di fumo.
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3838862