Nero come la Notte di Roiben (/viewuser.php?uid=601789)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ricerche e deviazioni ***
Capitolo 2: *** Bere dallo stesso calice ***
Capitolo 3: *** La compagnia si allarga ***
Capitolo 4: *** Sophìa ***
Capitolo 1 *** Ricerche e deviazioni ***
Nero
come la Notte
~º~
Qui
si narra di avventure e tribolazioni occorse all’Uomo Nero, e
del
suo fatale incontrar la Dea della Notte, dopo del quale nulla mai
sarà più come fu.
~º~
-
Ricerche e deviazioni -
Il
vento gelido che spira burrascoso dal nord sfiora il suo viso immoto
senza toccarlo realmente. Le sue labbra pallide e sottili si storcono
in una curva scontenta. Schiude gli occhi su di un cielo nero come il
suo cuore e sospira piano.
I
Dream Pirates sono perduti, ormai. Niente più bambini:
niente
fearlings. La ragazzina è andata, non potrà
essere sua, non lo è
mai stata d’altronde. La fata e lo spadaccino russo non lo
impensieriscono più di tanto, ma il mago è
insidioso e il pooka è
una preoccupazione tangibile. E poi… poi
c’è quel maledetto Star
Captain; come è possibile che si trovi qui anche lui? I
nemici da
cui guardarsi stanno diventando un po’ troppi per i suoi
gusti, e
ha perduto gli alleati con l’ultima infruttuosa battaglia.
Le
stelle continuano a brillare e riescono a calmare un poco il suo
animo agitato, ma gli servirà del tempo per rimettersi in
carreggiata.
“Forse
però…” pensa, in un soffio appena.
Forse,
dopo tutto, non è persa ogni speranza. La nave potrebbe
ancora
esistere, da qualche parte. Sì, potrebbe, e se
così fosse deve
ritrovarla e tentare di farla tornare in volo.
Bruscamente
si rimette
seduto e riflette seriamente su quella possibilità. In fondo
che ha
da perdere giunti a questo punto? Sperare è
l’unica opzione che
può ancora permettersi, non c’è molto
altro che possa fare
attualmente. Solleva nuovamente gli occhi al cielo e accenna uno
stentato sorriso: niente luna, stanotte; un’altra buona
notizia.
Rimessosi in piedi si allontana da quella landa brulla e fredda nella
quale ha perso sin troppo tempo, diretto ovunque decidano di condurlo
le sue percezioni, augurandosi che non lo tradiscano anche loro.
Strada
facendo riflette su un’idea che gli è balenata in
testa poco dopo
la partenza: può darsi che qualcuno degli incantesimi del
mago possa
tornagli utile per rintracciare il galeone. Dopo tutto è
stato
proprio quell’Ombric, in compagnia del cosacco, a mettersi in
viaggio tempo fa con la medesima speranza. Avesse avuto ancora con
sé
quei libri, sarebbe senz’altro risultato tutto più
semplice,
tuttavia può disporre di una memoria discreta e pensa di
poter
rammentare con sufficiente precisione la funzione di molti degli
incantesimi ivi trascritti; dovrà solo trovare un buon
momento per
concentrarsi e provarne qualcuno dei più promettenti.
Annuisce,
soddisfatto, e accelera il passo.
*
Il
sole è ancora un fastidio, ed è estremamente
seccante dover
attendere il momento in cui declina oltre l’orizzonte per
potersi
muovere agevolmente e in tutta libertà. Se ne avesse le
adeguate
conoscenze viaggerebbe sottoterra, percorrendone gli infiniti
cunicoli, ma è già fin troppo complicato rimanere
sulle giuste
tracce in superficie, non osa immaginare in qual luogo sperduto
finirebbe col ritrovarsi se dovesse scegliere la galleria sbagliata.
Per questo motivo si accontenta di percorrere più strada
possibile
nelle ore buie e sostare invece trepidante durante il giorno. Si sta
avvicinando, lo può avvertire con sempre maggior sicurezza
con lo
scorrere del tempo. Si riscopre eccitato alla prospettiva di
giungere, finalmente, alla meta tanto desiderata e, inconsapevole,
aumenta il passo impaziente di arrivare a destinazione.
Un’improvvisa
luminosità dorata al di sopra di un colle in lontananza
blocca
bruscamente i suoi passi. Indeciso, scruta con maggior attenzione il
cielo e, cauto, si muove per cercare un riparo. Il bagliore sembra
farsi più vicino, riflesso nei suoi occhi impensieriti, ma
infine
sfila oltre il suo momentaneo rifugio senza avvedersi della sua
presenza e, sollevato, trae un sospiro, riprendendo velocemente la
strada nel tentativo di recuperare il tempo perduto.
*
L’alba
è ormai vicina e rapido scova un buon riparo in cui
attendere il
prossimo tramonto. Siede sul morbido terreno muschioso, fra alberi e
grossi massi rocciosi, e abbassa morbidamente le palpebre,
permettendo ai pensieri di vagare fino a individuare il sentiero
giusto. Un buon punto di partenza, tutto sommato, sembra
l’incanto
che ha appena ripescato dalla memoria; serve a dare una rapida
occhiata a un momento preciso del passato, e lui sa esattamente quale
momento sbirciare. Risolleva le palpebre, raddrizza la schiena e, a
gambe incrociate, concentra la propria attenzione sulla corretta
esecuzione di quella piccola magia. Dall’esterno nulla si
può
scorgere, ma poco dietro i suoi occhi scorrono rapidamente brevi
immagini concitate, mostrandogli per un istante ciò che
più gli
preme. Quando tutto torna buio e silenzioso attorno a lui, le sue
labbra piegano appena verso l’alto nell’apprendere
che sì,
esiste qualche effettiva possibilità che il galeone sia
ancora su
quella Terra. Sospira, soddisfatto di quel primo esperimento, e torna
a chiudere gli occhi, questa volta per concedersi il lusso di un
po’
di riposo fino al nuovo digradare del sole.
*
Si
sta dirigendo a sud-ovest perché il secondo esperimento
portato a
compimento poco prima del crepuscolo sembra aver confermato la
direzione seguita fino a quel momento. Si augura che sia
effettivamente quella giusta perché fra pochi giorni la sua
marcia
lo porterà diritto in territorio umano, il che significa
centri
abitati, una sgradevole quantità di uomini adulti e
parecchie grane
al seguito che avrebbe di gran lunga preferito evitare. Ma certo non
può imbarcarsi in un giro
largo nel
tentativo di raggiungere la sua destinazione evitando tutto
ciò che
si trova nel mezzo; ci impiegherebbe troppo tempo e troppe energie,
sarebbe un vero disastro per il suo morale non propriamente alto.
Il
vento è meno gelido ma più potente, tanto che
l’erba cresce
stenta e malaticcia. Un fruscio lo distoglie dai suoi ragionamenti;
solleva di scatto la testa, senza ancora riuscire a scorgere
null’altro che il brullo paesaggio della steppa, ma qualche
misero
passo dopo si ritrova la strada sbarrata da un piccolo branco di
grossi lupi grigi che lo scrutano con scarsa benevolenza,
malignamente si direbbe. Inarca un sopracciglio, tenta un ulteriore
passo avanti ma è nuovamente costretto a bloccarsi di fronte
a un
cupo ringhio d’avvertimento. Sta per aprire bocca e provare a
chiedere in qualche modo spiegazioni; prima che ne trovi il tempo,
tuttavia, fra i lupi compare una nuova figura, grigia
anch’essa, ma
d’aspetto più umano anche se ugualmente selvaggio.
«Sei
nel mio territorio» avverte il nuovo venuto in un basso
ringhio
contrariato.
«Sono
solo di passaggio» tenta in risposta, per nulla intenzionato
a
cercare un confronto.
«Passa
altrove» ribatte quello, asciutto.
Affila
lo sguardo, i denti stridono, butta fuori un lungo respiro fremente.
«Bene» sibila, non meno contrariato, «da
che parte?».
Il
mezzo lupo solleva un braccio e indica oltre le basse colline a nord,
poi incrocia le braccia e lo fissa con evidente astio.
Si
limita ad annuire, quindi, e a fare qualche prudente passo indietro,
prima di azzardarsi a voltar loro le spalle e riprendere il cammino
seguendo la direzione indicata e augurandosi mentalmente di non dover
essere costretto ad allungare all’infinito il suo itinerario.
Altre
creature altrettanto territoriali e gli toccherà fare il
giro del
globo intero per arrivare al galeone.
*
È
discretamente convinto di star percorrendo la strada sbagliata. Tutta
colpa di quel maledetto mezzo lupo. Scuote il capo, si ferma nel bel
mezzo di un nulla fatto di terra e rocce ed erba ingiallita, sbuffa
irritato e si siede a terra, riflettendo, cercando di rammentare uno
di quei libri che per poco tempo ha potuto avere fra le mani. Gli
farebbe comodo qualche incantesimo per ritrovare la direzione giusta,
a quel punto, ma non riesce a rammentarne tutti i particolari, solo
qualche povero frammento che, da solo, sarebbe inutile nel migliore
dei casi, disastroso nel peggiore. Fa scorrere a mente, con pazienza,
i caratteri studiati in un momento migliore di quello attuale,
cercando di mettere a fuoco là dove adesso scorge unicamente
falle,
socchiude le labbra che prendono a muoversi lentamente ma senza
emettere suono, assottiglia le palpebre all’aumentare della
concentrazione, sente di esserci vicino. Poi un rumore proveniente
dal mondo esterno manda in frantumi l’immagine mentale prima
che
possa trovare la giusta nitidezza. Impreca, e bruscamente si rimette
in piedi, guardandosi attorno con nervosismo. Pensare che, fino a
pochissimi giorni prima, credeva che viaggiare di notte gli avrebbe
assicurato fra le altre cose minor possibilità di imbattersi
in
fastidiosi contrattempi; un errore di calcolo da parte sua,
evidentemente.
Per
un breve attimo pensa possa trattarsi di nuovo di quei lupi grigi, ma
si accorge ben presto che si tratta invece di cani, impegnati nel
trainare… slitte? Reclina appena il capo di lato, perplesso.
Slitte
sull’erba? Accantona però in fretta le proprie
perplessità quando
si rende conto che si stanno dirigendo proprio verso di lui e si
inquieta anche nello scorgere diverse figure dall’aspetto
umano a
bordo dei veicoli, e si allarma ancora di più nel momento in
cui si
rende conto che sono tutti equipaggiati d’armi ed espressioni
poco
amichevoli.
“Guai,
a quanto pare. Di nuovo. Ma che sorpresa” medita acidamente
dentro
di sé.
Poi
il tempo per meditare si esaurisce in un istante fin troppo breve e
una laconica maledizione abbandona le sue labbra, prima che si
risolva ad armarsi a sua volta nell’eventualità di
dover
fronteggiare l’ennesimo problema imprevisto.
Sono
quattro in totale, le slitte; rapide lo circondano ancora a una certa
distanza e da ognuna smontano un paio di uomini, o quantomeno tali
appaiono, mentre alla guida ne rimane uno. Il suo sguardo da affilato
si fa sorpreso quando nota che al posto dei bagagli, sui veicoli,
trasportano con sé fagotti che si dimenano e ansimano:
prede,
dunque, e vive per di più; di che genere ancora è
da scoprire, ma
non è poi così desideroso di farlo, soprattutto
non da vicino.
Gli
uomini, che infine non lo sono realmente, considerando che recano
segni di magia sulla pelle e occhi del colore del sangue, gli si
fanno presto incontro, decisi ad aggiungerlo al loro bottino,
evidentemente. Ha come la netta impressione che questa volta non
sarà
proprio possibile evitare lo scontro.
«Vediamo»
mormora, seguendo con gli occhi gli spostamenti dei cacciatori.
Poi
quelli lasciano da parte ogni indugio e gli si fanno rapidamente
incontro. Ma le lance di due di loro volano all’aria al primo
affondo, delle lunghe picche non rimangono che pochi trucioli e
l’ascia manca per un soffio il suo proprietario quando viene
ricacciata indietro da una parata un po’ troppo energica. I
tre
ancora armati si aggirano con maggior cautela al limitare del suo
campo visivo, forse intenti a studiare un nuovo piano
d’azione.
Dalle spalle lo sferragliare di una catena lo mette in allerta; una
delle sue lame sibila nell’aria e le maglie, arrotolatesi
appena al
di sotto dell’elsa, cedono tintinnando sul terreno. In fretta
ruota
su sé stesso, si piega sulle ginocchia e affonda la punta
della lama
sopra il ginocchio di quello che ancora regge la seconda ascia, poi
si scansa veloce mentre quest’ultima si pianta in
profondità nella
dura terra e colui che la impugnava si accascia ringhiando di rabbia
e dolore. L’ultimo, ancora armato di bastone ferrato, lo
fissa con
astio ma ancora non muove il suo attacco; sembra attendere un qualche
evento, e lo comprende per certo quando dalle retrovie delle slitte
smontano i quattro conducenti. Due di loro portano sulla spalla una
balestra, i restanti reti metalliche.
Soffia
stizzito, sorvegliando i passi misurati dei nuovi venuti. È
chiaro
che le sue lame non saranno altrettanto utili in questo frangente, ma
forse lo sarà la sua velocità.
Il
cacciatore col bastone decide di uscire allo scoperto, probabilmente
con l’intento di distrarlo, ma senza perdere
d’occhio gli altri
si sposta all’indietro andandogli incontro e confondendolo,
blocca
lateralmente il suo colpo portato dall’alto lo manda gambe
all’aria colpendolo con l’elsa.
L’aria
si smuove, un balzo indietro, due, per evitare di finire incastrato
nella rete di un pilota. È costretto a rotolarsi a terra, a
meno che
non desideri un foro o due di troppo; una freccia si pianta poco
discosta dalla sua gamba sinistra, un’altra accanto al suo
collo
sottile. Con un colpo di reni si rimette in piedi e prepara il
fendente prima che i piloti abbiano il tempo materiale per ricaricare
le balestre, ma le estremità uncinate di una rete strappano
la sua
giacca lungo la spalle fino al colletto, costringendolo a scartare
lateralmente per evitare danni peggiori.
I
suoi occhi dardeggiano all’intorno, controllando la posizione
dei
cacciatori e dei piloti, mentre indietreggia prudentemente tenendo la
guardia alta. I piloti con le reti ne hanno lanciate di riserva ad
altri tre cacciatori e uno dei rimanenti maneggia un grosso pugnale.
I balestrieri hanno ricaricato e sembrano intenzionati a mettere fine
alla partita. Snuda i denti, un lampo d’ira lampeggia nelle
pupille, scatta avanti e colpisce la mano del cacciatore con il
pugnale, poi si accuccia facendosi scudo del suo corpo quando una
freccia termina la sua corsa nel polpaccio di quello stesso
cacciatore che lancia un grido di bestemmia e crolla a terra
dolorante.
Tuttavia
ora ci sono cinque uomini con le reti attorno a lui e un balestriere
che non ha ancora lanciato. Guardarsi le spalle sta diventando un
problema; farebbe dannatamente comodo un buon diversivo, ma
lì nel
mezzo della steppa solo il vento è estraneo allo scontro, e
lui non
ha il tempo per trovare parole adatte a comandarlo; dunque si affida
nuovamente ai suoi sensi e alla sua esperienza, e si prepara ancora
una volta a dare battaglia.
Balza
indietro quando la prima rete plana veloce su di lui, poi di lato
evitando agilmente le maglie uncinate della seconda, ma è
costretto
ad appiattirsi a terra per evitare una freccia e gli uncini della
terza rete lo agganciano allo stivale destro. Solleva un braccio e
cala la lama che impugna; le maglie vanno in pezzi e gli consentono
di rotolare via per sottrarsi a un nuovo lancio. Balza nuovamente in
piedi e si slancia in avanti, direttamente contro uno dei cacciatori,
tramortendolo e sottraendogli la sua rete, poi la fa roteare in aria
dirigendola sulla testa del balestriere che, impreparato, solleva in
ritardo la sua arma, facendolo impigliare nella rete assieme alle sue
braccia.
Poiché
tutto sommato sembra lo vogliano prendere vivo (anche se non
necessariamente in ottima salute), non si cura affatto di far da
bersaglio quando salta verso il balestriere imprigionato e lo getta a
terra con un calcio, usando poi il suo petto come trampolino per
volteggiare all’indietro eludendo altri due tiri dei
cacciatori. E
tuttavia, inaspettatamente, uno di quelli che sperava vivamente di
aver disarmato una volta per tutte, a quanto pare non lo è
completamente. Così si ritrova a rovinare a terra con
entrambe le
caviglie imprigionate in una sottile fune trattenuta da tre pesi
tondeggianti. Non ha però perduto la presa sulle sue lame e
la prima
rete in arrivo viene squarciata a mezz’aria da un deciso
fendente.
Identica sorte capita a un braccio di uno dei cacciatori che
imprudentemente si è avvicinato mentre ancora la lama
mulinava in
aria.
Scalcia
furiosamente con un sordo ringhio frustrato, poi infila la punta di
una lama fra gli stivali e taglia velocemente la corda.
L’operazione
gli ha però richiesto preziosi secondi che lo espongono alle
azioni
altrui; infatti i cacciatori approfittano della momentanea
distrazione per farsi avanti assieme e bloccarlo a terra sotto il
peso e il fastidio delle restanti reti rimaste integre.
Sibila
adirato, ritrae al petto le ginocchia e rifila un calcio deciso,
seppur ostacolato dall’impedimento delle maglie metalliche,
al
primo cacciatore che si è avvicinato, spedendolo lungo
disteso. Gli
altri si accostano con maggior esitazione e prudenza, badando a
tenere ben serrati i bordi delle reti, e piano gli si fanno vicini,
decisi a immobilizzarlo e renderlo il più inoffensivo
possibile.
Sembra tuttavia un’operazione più complessa di
quanto si
aspettassero; nel tentativo almeno quattro di loro si guadagnano
lividi e tagli in quantità, mentre la loro preda si
divincola con
forza, spintonando, graffiando e mordendo senza risparmiare nulla,
neppure colpi bassi.
Grida,
ansimante e furioso, ritrovandosi infine strettamente avvolto dalle
stesse reti che lo hanno obbligato a terra. Avrebbe dovuto ucciderli
tutti; a quest’ora sarebbe già molto lontano,
magari nuovamente
diretto verso il suo galeone. Ma si sarebbe lasciato alle spalle
l’ennesima scia di cadaveri, e a dirla tutta la sola idea gli
dà
la nausea.
Ruggisce
una pesante imprecazione quando due cacciatori provano a issarlo su
una delle slitte fatte accostare appositamente; assottiglia gli occhi
e si contorce, affibbiando una testata a quello che gli si trova di
fronte, ghignando nel sentirlo borbottare maledizioni assortire, ora
sfoggiando un bel naso rotto.
“Ben
gli sta” pensa acidamente, rifilando una ginocchiata nelle
costole
di un terzo cacciatore avvicinatosi per dare una mano (e rimetterci
le ossa, evidentemente).
Mentre
riprende fiato, di nuovo adagiato sull’erba, li ascolta
lanciare
ingiurie e discutere animatamente fra loro. “Forse nel
tentativo di
mettersi d’accordo su chi sarà la prossima
vittima” riflette
maligno. Sospira. Nelle attuali condizioni difficilmente
riuscirà a
liberarsi; dovrà necessariamente essere paziente e attendere
il
momento più opportuno per levarsi d’impaccio e
lasciare la loro
sgradita compagnia.
Il
viaggio, buttato alla rinfusa come un sacco sulla slitta, è
incredibilmente scomodo e lungo in maniera angosciante. Si augura
ardentemente che non abbiano intenzione di fare fermate intermedie
per caricare a bordo altre prede, o finirà sul serio col
dare di
matto. Ma si consola immaginando che dopo aver perduto gran parte
delle loro armi e reti, la loro destinazione più prossima
sia anche
quella finale, ovvero il luogo (qualunque esso sia) nel quale
verranno scaricate le prede e verrà fatto un adeguato
rifornimento
d’armi e provviste. Sbircia con desolazione gli scorci di
cielo che
gli è dato di scorgere dal punto in cui è stato
gettato: è ancora
buio, ma non lo sarà ancora a lungo; presto
l’orizzonte schiarirà
e la situazione, per lui, si complicherà ulteriormente. Un
po’
irragionevole, spera che il viaggio abbia termine prima che il sole
sorga, anche se francamente ne dubita: nessun indizio annuncia che di
fronte a loro vi sarà altro che erba ingiallita e cielo a
perdita
d’occhio, almeno per un lungo tratto ancora. Sospira,
contrariato,
e chiude gli occhi, cercando invano una posizione più comoda
che,
ovviamente, non riesce a trovare, e mentre riposa gli occhi pensa;
riflessioni affatto liete, ma capaci di portarlo a chiedersi quale
sia la loro destinazione e per quale motivo quei cacciatori si sono
dati tanto da fare per assicurarsi di portarlo con loro, dovunque
siano diretti. È certo, ormai, che qualcuno li stia
attendendo, e ha
il timore di scoprire chi sia poiché sospetta che saperlo
non gli
garberà affatto.
Uno
scossone più forte degli altri, quasi da dargli
l’impressione che
la sua schiena possa spezzarsi da un momento all’altro, lo
mette in
guardia. Rapidamente riapre gli occhi e li fa spaziare il
più
possibile a studiare ciò che li circonda; le slitte stanno
rallentando? Sembrerebbe di sì. Dopo tutto pare giungeranno
a
destinazione prima dell’alta. Non è ancora certo
se sentirsi grato
per quella piccola fortuna, oppure maggiormente impensierito alla
prospettiva di venire presto scaricato ai piedi di qualche
personaggio ben poco apprezzabile. Respira lentamente per cercare di
rilassarsi, ma il suo corpo ancora strettamente imprigionato nelle
fastidiose maglie metalliche non facilita l’operazione,
tutt’altro.
Ecco,
il fruscio del vento contro l’erba ora supera il rumore dei
veicoli
trainati dai cani. Sono di nuovo fermi, finalmente, anche se ancora
non è in grado di scorgere nulla che non sia steppa e stelle
pulsanti. Ma è il suo naso, inaspettatamente, a intercettare
una
novità: odore di fiori, pensa, senza riuscire
però a comprendere,
inizialmente, di quali si tratti né da dove provenga. Sgrana
gli
occhi nel momento in cui ricorda quello specifico odore: fiori di
stramonio, dal sentore abbastanza aspro e pungente perché
possa
celare l’olezzo della morte.
Prova
qualche cauto movimento, cercando di capire se ci sia speranza di
liberarsi, ma pare che, senza le sue lame, siano catene troppo
robuste per essere spezzate o eluse. “Di nuovo guai, ma tu
guarda.
Questo assurdo mondo non porta altro, dopo tutto” riflette
con
cinismo. Abbassa le palpebre, affatto sicuro di voler scoprire troppo
in fretta ciò che lo attende. Le altre prede hanno sacchi
sulla
testa; lui, com’è ovvio aspettarsi, non ha questa
fortuna e presto
conoscerà il mandante di quella battuta di caccia.
Qualcuno
fa saltare la serratura che blocca il portello sulla fiancata e, come
un pesante sacco di patate, rovina a terra, rotolando su sé
stesso e
ritrovandosi malauguratamente a fissare negli occhi una donna dai
fiammeggianti capelli rossi e dallo sguardo purpureo. “E non
ho
neppure portato con me un pensierino” strascica velenoso fra
sé,
maledicendo quella nottata con devoto fervore.
La
signora dai capelli rossi e dall’apparenza di una giovane
fanciulla
si guarda attorno con manifesta curiosità, studiando una a
una le
slitte e osservandone il contenuto con molta attenzione, apparendo
poi leggermente contrariata.
«Avete
fatto ritorno prima del solito, portando un minor numero di
esemplari» fa notare con una nota stizzita nella voce.
«Sì»
ammette uno dei cacciatori, facendosi prudentemente avanti,
evidentemente dopo essersi auto imposto l’onere di portavoce.
«Posso
almeno conoscerne il motivo?» chiede dunque la signora con
tono
lieve ma sguardo affilato.
«Ci
sono stai… guai» tenta il cacciatore, incerto.
“Guai…
Come no” è il sarcastico pensiero del Nightmare
King.
La
signora fa brevemente vagare lo sguardo all’intorno, notando
senza
darvi troppo peso il palese nervosismo degli uomini. «Non
vedo guai,
qui. Li avete lasciati indietro, dunque?» chiosa ironica.
Il
cacciatore portavoce scuote piano la testa. «Non proprio. Lo
abbiamo
portato con noi» confessa di malavoglia.
«Lo?»
indaga, ora suo malgrado incuriosita.
Per
quanto tenti di controllarsi, il suo corpo si irrigidisce mentre
l’ansia per l’incontro ormai imminente sale.
“Di male in
peggio” riflette con amarezza.
«Sì,
uno degli esemplari» conferma il cacciatore, indicando con la
mano
il punto in cui ancora giace l’oggetto del loro interesse.
Mentre
la signora gli si accosta, lui mantiene i suoi occhi chiari su di lei
senza perderla di vista un solo istante.
«Orbene,
tu saresti quel famoso guaio» commenta lei, reclinando
graziosamente
il capo di lato.
Rimane
in silenzio, nonostante tutto ciò che avrebbe da dire al
riguardo,
per esempio che l’unico guaio, attualmente, è
quello nel quale si
trova lui. Certo, parlare con quella donna non fa parte delle sue
intenzioni, soprattutto tenendo a mente che lei è il
principale
motivo per cui lui ora si trova abbandonato a terra e aggrovigliato
nelle inestricabili maglie delle reti. E lei è anche
circondata e
seguita da quel terribile olezzo che gli sta portando una poderosa
emicrania.
«Nulla
da dire, quindi?» insiste la signora, chinandosi appena e
stuzzicandolo con la punta di un piccolo piede. «Sei forse
privo del
dono della parola… o dell’intelletto?»
scherza, senza notare il
bagliore dorato negli occhi del suo interlocutore.
Sta
per ringhiarle contro una minima quantità del suo totale
disprezzo,
ma si blocca per tempo, impedendo a sé stesso di cedere alle
seccanti provocazioni di quella creatura. Vi sarà certamente
un
momento migliore per farle scontare l’affronto.
Poi
lei sorride, incurvando gentilmente le labbra rosee, e un lungo
brivido ghiacciato scorre lungo la sua schiena maltrattata,
facendogli trattenere un brusco respiro.
«Non
importa. Sono certa avremo altre ottime occasioni per fare
conoscenza»
sentenzia, facendola apparire come una minaccia a tutti gli effetti.
In
seguito, grazie al cielo, si volta dando le spalle alle slitte e, con
un rapido gesto del braccio, congeda i presenti, abbandonandoli ai
loro doveri e tornando evidentemente ai propri.
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Capitolo 2 *** Bere dallo stesso calice ***
-
Bere dallo stesso calice -
Il
suo sorriso. Non lo aveva mai veduto di persona, ma ne aveva letto e
sentito parlare e, a dire il vero, avrebbe più che volentieri
continuato a evitarlo, se solo non gli fosse capitato sotto gli occhi
giusto un momento prima. Non l’ha riconosciuta subito:
dall’aspetto è difficile giungere alla sua reale natura.
Ma quel suo sorriso non può essere confuso; si tratta della
dea del caos e della guerra: Nemain. Ora, inoltre, si spiega anche il
puzzo che si porta dietro, malamente coperto dai fiori di stramonio:
morte. “Ma che fortuna” bercia mentalmente. Già,
non si può certo dire che sognasse di rimanere invischiato
nelle trame di una tra le creature più velenose dell’intero
pantheon, ma tant’è dovrà proprio trovare il modo
per uscirne, possibilmente intero.
Intanto
un paio di quelli che può tranquillamente considerare i suoi
rapitori se lo sono caricato sulle spalle e a passo di marcia lo
stanno conducendo solo il cielo sa dove, seppur in effetti qualche
sospetto ce l’avrebbe. Quando scorge, al di sopra della propria
testa, delle arcate in pietra che ricordano in parte quelle di
qualche tempio dimenticato e corroso dal tempo, storce il naso e
reclina il capo per tentare di vedere con maggior chiarezza il
percorso preso dai suoi accompagnatori. Il luogo non si
presenta molto arredato; per lo più statue di dubbio gusto,
gargolle e altre simili amenità. Ha già il sospetto di
doversi scomodare a chiedere informazioni direttamente alla padrona
di casa, quando i suoi portatori iniziano a scendere e la luce
dell’ambiente a scemare. Vorrebbe potersene rallegrare, ma
l’odore che giunge alle sue narici non gliene offre
l’opportunità: sangue, e per buona misura
decomposizione. D’altronde, che altro poteva aspettarsi dai
sotterranei di quella che immagina essere la dimora di Nemain?
Quasi
avrebbe preferito scorgere cadaveri, ma ciò che intravede
lungo il corridoio, in quelle che può solo definire nicchie
poiché la parola stanze sarebbe pretenziosa e fuori
luogo, sono figure di esseri viventi, anche se, a ben vedere, non è
certo di quanto a lungo lo resteranno. Qualcuno (o qualcosa?) sembra
essersi divertito parecchio con coloro che risiedono in quei
sotterranei, forse addirittura la padrona di casa, ma non ci
giurerebbe. Invece pensa di intuire in modo sgradevolmente chiaro il
destino che attende le prede frutto della caccia della notte appena
trascorsa. Da ciò che i suoi occhi pensierosi possono
scorgere, deduce che siano oramai a corto di cavie ancora in vita per
esperimenti non propriamente leciti. Potrebbe trattarsi, magari, di
un mago, anche se dal puzzo propende per qualche alchimista di scarso
valore. Che poi si aspettino di potersi fare le ossa e trarre un
qualche insegnamento dalla sua presenza è comunque fuori
discussione; piuttosto spiccherà loro la testa dal collo (non
si tratterebbe comunque di una grave perdita), o meglio ancora farà
saltare all’aria il tempio o qualunque cosa sia in realtà
quel posto, con tutte le sue marce fondamenta (e questo lo può
fare; ha perfino in mente la formula giusta per radere al suolo
l’intera collina, se necessario). Prima di correre quel
rischio, tuttavia, deve comprendere le vere intenzioni di coloro che
lo ospitano, ma soprattutto di chi realmente si tratti. Non
può avere la certezza che ci sia solo lo zampino di Nemain lì
dentro. Potrebbe addirittura esistere di peggio. E a quel pensiero lo
sconforto più nero lo assale.
A
un tratto sgrana gli occhi, suo malgrado sorpreso, mentre i suoi
portatori lo lanciano di peso in uno di quei pertugi, con la
differenza che in questo ci sono anche le sbarre (un trattamento
d’eccezione!). Atterra pesantemente sul pavimento, lastricato
di grosse pietre fredde e levigate dal tempo e dall’usura, con
un grugnito di protesta, ma rimane immobile e in silenzio ad
ascoltare gli uomini o quello che sono e i loro passi che si
allontanano con indolenza. Sospira, prova a districarsi dalle maglie
di metallo ed emette un lieve gemito mentre la sua schiena schiocca,
adirata per il pessimo trattamento.
«Che
razza di modi empi» borbotta fra sé, seccato e un poco
depresso.
«Aspettarsi
levità da quelle creature è tempo sprecato»
replica una voce sconosciuta da non troppo distante.
Pitch
si irrigidisce e deglutisce un fastidioso bolo di saliva. Può
trattarsi di una preda come lo è lui stesso? O, peggio, un
nuovo nemico dal quale guardarsi le spalle? “Vale la pena
tentare” decide.
«Conosci
i soggetti?» domanda in tono neutro.
Riceve
un piccolo sbuffo, in cambio. «Ho mio malgrado avuto occasione
di spendere del tempo in loro compagnia. Sarebbe stato ben più
piacevole affondare in un mare di magma incandescente» commenta
con una marcata nota di acidità che, nonostante la situazione
precaria, fa sorridere Pitch.
«Sì,
credo di poterlo immaginare. In effetti sono reduce da uno sgradevole
incontro con un gruppo di creature ben poco cortesi e…
immagino con il loro capo» soppesa incerto.
«Hai
dunque avuto il privilegio di incontrare Nemain… Ti
compiango» conferma la voce.
Trae
un profondo respiro e decide di rischiare. «Posso chiederti con
chi sto discorrendo?».
Il
silenzio che segue la sua richiesta gli fa pensare di aver osato
troppo. Invece il suo udito fine intercetta un piccolo sospiro.
«Arawn»
soffia la voce, e il tono questa volta è decisamente
sconfortato.
Trae
un brusco respiro poi, per quanto si provi a trattenersi, una lieve
risata sboccia dalle sue labbra esangui.
«Perché
ridi?» chiede la voce di Arawn, evidentemente un po’
offesa. «Lo trovi divertente?».
«No…
Mi scuso» rantola Pitch, cercando come può di placare
l’improvvisa e quanto mai fuori luogo ilarità. «Il
fatto è che, se non vado errato, gli esseri umani sono soliti
definirti Uomo Grigio».
«Sì,
ciò che affermi è corretto. Ma…» dubita
Arawn, ancora irritato.
«In
questo caso forse dovresti sapere che da qualche tempo a questa
parte, ovvero da quando vago per questi lidi, gli esseri umani di
questo vostro mondo hanno preso a chiamarmi Uomo Nero»
spiega Pitch.
Di
nuovo è silenzio. Poi, nel silenzio, un lieve incresparsi
d’aria che si trasforma in qualcosa che ricorda il tintinnare
di campanelle, o lo scroscio lieve della pioggia primaverile. Ora
anche Arawn sta ridendo.
«Te
lo concedo» ammette Arawn, in tono divertito, «è
una situazione piuttosto buffa». Dopo un altro momento di
disteso silenzio, giunge un nuovo sospiro. «Quindi, chi sei tu,
in effetti?» indaga incuriosito.
«Posso
offrirti un nome. Spiegare il resto sarebbe quanto meno complicato»
tentenna Pitch.
«Sta
bene. Mi accontenterò di un nome» accetta di buon grado
Arawn.
«Pitch»
si limita a dire.
«Solo
questo: Pitch?» dubita Arawn.
«Possedevo
un nome differente, in un tempo molto lontano» ammette Pitch.
«Ma non sono più ciò che ero a quel tempo.
Pertanto sì, solo Pitch».
«È
strano, ma temo di non riuscire a ricordare la tua presenza in questo
mondo. Eppure dovrei poter ritrovare qualche traccia di te, da
qualche parte nella mia memoria».
Pitch
abbassa le palpebre sugli occhi stanchi. Dev’essere già
mattina inoltrata, là fuori.
«Non
può esserci alcuna traccia di me nelle tue conoscenze. Io non
appartengo a questo vostro mondo» spiega Pitch.
Qualcosa
gocciola, da qualche parte. Forse semplice umidità che trasuda
dalle spesse mura fino ai sotterranei; forse qualcosa di meno
gradevole.
«Vieni
da altrove?» indaga Arawn.
«Altrove…
È un’ottima definizione, mi piace. A ogni buon conto sì,
da un luogo molto lontano da qui; stelle differenti».
Prova
a muoversi, le maglie metalliche fremono e tintinnano, ma nessun
cedimento lo fa ben sperare.
«E
tu, signore dell’oltretomba, come ti sei ritrovato ai piedi di
costei?».
Un
brontolio proviene dalla direzione in cui pensa si trovi Arawn.
«Divergenze» borbotta appena.
«Oh
sì, lo posso ben immaginare. Ed essendo ella una femmina, non
sarà stata nella buona disposizione d’animo d’accettare
né tanto meno prendere in considerazione il tuo differente
punto di vista».
«Affatto»
conferma Arawn con un soffio stizzito.
Un
lieve, angoscioso lamento serpeggia fino a lui. Arcua le
sopracciglia, impensierito, ma distoglie presto l’attenzione.
«Ma
dimmi, signore, sei dunque suo ospite da molto tempo?».
«Non
ne ho la certezza. Dovrebbero essere trascorse circa tre albe
dall’ultima occasione nella quale ho veduto la luce del mondo
umano».
Riflette,
provandosi a ricordare, dettagli sopiti nel tempo ma non andati
perduti completamente. Le maglie di metallo stringono attorno al suo
corpo, ma crede di poterle vincere, mettendoci volontà
sufficiente. Non può tuttavia far conto di lasciare quel luogo
indisturbato, non senza conoscerne gli opportuni segreti.
«Ancora
non ti è venuto a noia?» mormora, quasi fra sé.
«Da
più tempo di quanto io sia disposto ad ammettere»
risponde Arawn.
«Dunque,
mio buon signore Arawn, che ne diresti di congedarti dalla sua
tiepida ospitalità?».
«Lo
farei volentieri, se sapessi come».
«Sei
una creatura soprannaturale. Il come lo puoi inventare a tuo
piacimento» obbietta Pitch.
«Vi
sono regole…» tituba Arawn, confuso.
Sorride,
di un sorriso sinistro e pericoloso. «Tu lo credi. Ma sono
catene, quelle, che si possono spezzare con semplicità, se
stringono fino a far mancare il fiato».
Un
lungo momento di pensieroso silenzio cala sui sotterranei umidi e
scuri.
«Qual
è la tua idea?» giunge infine la voce vigile e attenta
di Arawn.
*
Ha
gli occhi chiusi mentre si accinge a radunare le idee e trovare loro
un ordine adatto a esporle al suo compagno di sventure. È
custode del mondo dei morti: sa che pazienterà il tempo
sufficiente a trovare la via giusta, ma quale sia questa via non ne è
ancora del tutto certo. La sua comprensione della magia non è
mai stata completa né perfetta, nel tempo, e le falle nella
sua mente non concorrono a migliorare la sua visione del problema.
«Quanto
potente è la tua influenza sulla materia?» decide di
chiedere, giusto per saggiare il terreno dello scontro.
«Nel
mio mondo è quasi illimitata. Ma quello nel quale ci troviamo
è il mondo degli esseri viventi, degli umani: interferenze di
questa portata non sono permesse a…».
«Signore
Arawn, te lo chiedo come un favore personale: vorrei che almeno
provassi a risparmiarmi le solite favole sul codice d’onore
delle divinità. Ho udito storie, nel tempo in cui i miei piedi
hanno calcato e percorso questa Terra, le quali mi hanno ampiamente
disincantato sulla valida applicabilità di queste vostre,
cosiddette, regole. Ti è mai capitato di udire quel
racconto assolutamente edificante e delizioso che narra di una contea
la quale, nell’arco di un’unica notte, è stata
cancellata completamente dalla faccia della terra da un acquazzone?
No? È strano, poiché doveva essere accaduto, guarda
caso, proprio dalle tue parti».
«Non
sono io il responsabile dell’accaduto» sibila Arawn.
«No,
certo. Immagino che tu, personalmente, non ti sia mai mosso per
questo genere di… trastulli» chiosa Pitch.
«Forse…
in un paio di occasioni può essere accaduto» replica
asciutto. «Ma nessun villaggio o contea è mai stato
distrutto a causa del mio intervento» rimarca cocciuto.
«Prendo
nota e ne terrò debito conto» assicura Pitch. «E
tuttavia io non sono che uno spirito. Possiedo delle conoscenze,
alcuni poteri e abilità utili, intelligenza quanto basta, ma…
Non mi sarà possibile, da solo e senza assistenza, trovare una
via per uscire da questo pasticcio».
«Dunque,
dimmi, cosa puoi fare?».
«Il
mio campo sono le emozioni, negative per lo più. Contro un
avversario definito posso scontrarmi. Ma questo posto è stato
eretto su basi che non comprendo del tutto, e i fili vengono mossi da
lei. Ho bisogno del tuo aiuto, signore».
Arawn
sospira pesantemente. «E io del tuo, immagino».
Stiracchia
le labbra in una smorfia di contrizione. «Ogni soluzione ha il
suo prezzo. Io posso farti uscire da lì, tu puoi farci uscire
da questo… luogo».
«Ho
del tempo per poterci riflettere?».
«Forse.
Non posso averne la certezza poiché non so cosa vogliano da
me» commenta Pitch, incerto e impensierito.
«Neppure
io, purtroppo» ammette Arawn. «Sta bene: farò ciò
che è necessario per liberarci da questa scomoda posizione.
Ma…».
«Ti
ascolto. Dimmi pure le tue condizioni».
«Non
è mia intenzione offenderti, spirito, ma devo assicurarmi che
la tua oscurità non abbia a intaccarmi, per nessun motivo.
Sarebbe troppo pericoloso».
Ripiega
le lunghe dita fra le maglie della rete, stringendo. Le sue ciglia
sfarfallano nella penombra. La punta della lingua saetta sulle labbra
aride, inumidendole. Espira lentamente.
«Sarà
come tu desideri, signore Arawn» promette Pitch.
*
Il
giorno, quando il cielo è illuminato dal sole e l’aria è
più calda, non è esattamente il momento migliore per
adoperare i suoi poteri a sostegno della magia. È più
faticoso e spesso gli fa dolere la testa. Ciò nonostante è
più che cosciente del tempo che scorre inesorabile, e non se
la sente di rimandare più a lungo solo per un poco di
malessere passeggero.
Prende
qualche lenta boccata di quell’aria greve che lo circonda e
concentra la propria attenzione alla ricerca della forza che possa
sorreggere l’incantesimo adatto. I suoi occhi sono chiusi, ma
la sua mente è aperta e i suoi pensieri veloci. Piccole rughe
compaiono sulla sua fronte altrimenti levigata; le catene tintinnano
senza che il suo corpo si sia mosso per provocare quel suono. L’aria
si fa più rarefatta e fredda, l’oscurità più
fitta. Le maglie di metallo gemono, alcune piccole crepe le
intaccano, infine si sgretolano riversandosi al suolo.
Il
suo respiro ora è un poco più pesante e affrettato, ma
infine è libero di muoversi a piacimento, e quindi non attende
oltre per rimettersi agilmente in piedi e guardarsi attorno con
circospezione per controllare che nessun ospite inatteso e sgradito
sia stato attirato nei sotterranei dai rumori prodotti poco prima.
Quando è certo che non riceveranno la visita fuori programma
da nessuno, si decide a studiare brevemente le sbarre che bloccano
l’entrata. Piega il capo di lato, valutandone in silenzio il
valore, e giudica che tutto sommato ne possedesse in maggior quantità
la rete che lo imprigionava in precedenza. Scrolla le spalle, in
qualche modo interdetto per quella constatazione e per la scarsa
lungimiranza dei loro anfitrioni, poi serra le dita di una
mano su una delle sbarre e dà uno strattone deciso,
ritrovandosi lei e alcune sue compagne fra le mani.
«Non
ci sono più le celle di una volta» commenta, non senza
una certa sorpresa mista a disgusto.
«Non
dovresti lamentartene, in questo caso» replica Arawn.
«Oh,
non lo faccio. Mi limitavo a constatare».
Con
passo lento ma deciso oltrepassa il buco nel quale è stato
precedentemente rinchiuso e procede oltre, cercando quello nel quale
dovrebbe trovarsi il signore dell’oltretomba. I suoi passi sono
cauti e silenziosi, eppure Arawn sembra comunque in grado di
percepirlo muoversi.
«Un
poco più avanti, sulla tua destra» lo istruisce infatti,
pensando di potergli essere di aiuto con la propria voce.
E
in effetti Pitch non deve fare ancora molta strada. Presto,
nonostante la pesante oscurità, i suoi occhi attenti scorgono
una nuova cella, proprio sulla destra come gli è stato
indicato. A una prima occhiata giudica che sia più spaziosa e
meglio protetta rispetto a quella nella quale era stato gettato lui.
E all’interno individua presto una figura che sembra fatta di
fumo, risultando quasi evanescente nel buio che la circonda.
«Signore
Arawn?» si accerta.
La
figura offre una parvenza di sorriso. «Proprio io, sì».
Pitch
fa vagare lo sguardo sorpreso sulla strana creatura dall’altro
lato del cancello e scuote la testa.
«Mi
scuso per l’impertinenza, ma non hai un aspetto molto sano»
prova, incerto.
«Ne
sono piuttosto consapevole. Stare al buio e lontano dal mio regno
provoca un’alterazione nel mio aspetto, e non ho ritenuto
saggio sprecare energie per mantenerlo intatto» spiega con
pazienza.
«Comprendo.
Non potendo sapere per quanto tempo sarebbe durata questa situazione,
convengo che la tua decisione sia stata più che saggia. Ora,
se non ti dispiace, vorresti allontanarti dall’entrata? Queste
sbarre mi sembrano più robuste delle altre e temo di aver
bisogno di più spazio per operare».
Seguendo
il suggerimento di Pitch, Arawn si porta nell’angolo opposto e
rimane in silenzio a osservare l’operato del suo momentaneo
alleato.
Sì,
decisamente qualcuno lì dentro ci ha messo maggior impegno per
assicurarsi che chi era dietro quelle sbarre ci restasse. Pitch
cruccia le sopracciglia e pensa che le sue spade, in quella
circostanza, gli farebbero un gran comodo. Ma poiché al
momento non le ha a portata di mano dovrà arrangiarsi
altrimenti. Fruga nella memoria alla ricerca di qualcosa di utile, e
quando pensa di averlo trovato appoggia le mani sull’inferriata
e mormora alcune parole. Il cancello di fronte a lui trema, ma lo
stesso fanno le pareti e il pavimento. Serra le labbra, sperando di
non aver calcolato male la potenza dell’incantesimo e un
momento dopo il metallo si sbriciola sotto le sue dita intaccando
anche una piccola parte della roccia circostante.
«Mh…
Bisogna che riveda un po’ la portanza di questo incantesimo»
ragiona fra sé, adocchiando con aria critica il danno.
«Se
non altro l’edificio è ancora in piedi» lo consola
Arawn.
*
Sono
diretti verso le scale che li condurranno all’uscita, o almeno
è quanto si augura Pitch. Quando Arawn gli si è
accostato ha avvertito un brivido, che non era né di freddo né
di timore, ma piuttosto una sensazione estranea e sconosciuta, o
forse un vago ricordo dimenticato da troppo tempo. Percorrendo lo
stretto e buio corridoio, di tanto in tanto, avverte suoni ovattati
provenire dalle loro spalle, ma decide di ignorarli e procedere
oltre; intende abbandonare al più presto quel luogo infernale,
e fermarsi a indagare sulle stranezze che racchiude non potrebbe
procurargli che guai ulteriori.
Camminano
in silenzio, l’uno a fianco dell’altro. Si sta abituando
gradualmente a quella presenza che non appartiene allo stesso mondo
degli uomini mortali, ma ciò non significa che possa
diventargli naturale; dubita che possa essere un evento attuabile, e
quell’apparenza nebbiosa non è certo di aiuto, piuttosto
il contrario. Si chiede che aspetto abbia in realtà, come lo
vedrebbe se si trovassero nel suo regno. Poi scuote la testa perché
l’idea di ritrovarsi nell’Annwn non lo alletta per nulla;
preferirebbe piuttosto ritrovarsi di nuovo fra i piedi i guardiani e
tutto il loro scomodo entourage.
«Si
intravede un chiarore» lo avvisa la voce stranamente nitida ma
imperturbabile di Arawn.
Pitch
solleva lo sguardo senza rammentare quando lo aveva distolto né
perché. E sì, in effetti non molto più oltre può
scorgere un lucore soffuso. Non è molto, ma dopo tanta
oscurità è di certo un cambiamento interessante.
«Che
l’uscita si stia approssimando?» si chiede a voce alta.
«Me
lo auguro» ammette senza remore Arawn.
Nonostante
la sua espressione placida, il suo tono lascia trapelare un velo di
nervosismo. Forse anche lui ne ha ormai abbastanza di quel posto. Le
pareti, attorno a loro, sembrano farsi più distanti; il
corridoio si sta allargando e il buio retrocede, lasciando il posto a
una penombra meno opprimente. Qualche minuto più tardi
incrociano una biforcazione: a destra, in apparenza, il corridoio
prosegue verso una luce più decisa e un passaggio più
agevole; a sinistra si addentra nuovamente nelle viscere dei
sotterranei, perdendo gradualmente nitidezza con il procedere della
via.
«Mh…
Potremo fidarci?» soppesa Pitch, che a quanto sembra non è
stato attento a sufficienza sulla strada dell’andata e non
ricorda affatto quella biforcazione.
«Se
dessimo una veloce occhiata a sinistra? Per accertarci che non si
tratti di un qualche inganno» propone Arawn.
Pitch
stringe le labbra e la sua espressione si fa pensierosa. «Potrebbe
valere la pena» considera con incertezza. Si volta verso Arawn
e sembra soppesarlo. «Sei in grado di produrre luce?».
Arawn
inarca le sopracciglia. «Una minima quantità, sì.
Che cos’hai in mente?».
«Vorrei
entrare nel corridoio di sinistra, e vorrei che tu rimanessi qui e
facessi luce» spiega.
Gli
occhi di Arawn si sgranano appena. «Per essere un punto di
riferimento» comprende.
Pitch
annuisce. «Sarebbe comunque imprudente se vi entrassimo
entrambi».
Arawn
accenna un piccolo sorriso. «Sono d’accordo. Sarò
la tua luce» acconsente di buon grado. Chiude le mani a coppa e
un momento dopo queste si illuminano di un biancore perlaceo.
«Perfetto.
Cercherò di essere rapido» avvisa, prima di incamminarsi
a passo sostenuto nelle ombre della biforcazione alla loro sinistra.
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Capitolo 3 *** La compagnia si allarga ***
-
La compagnia si allarga -
Avanza
a passi cauti e leggeri nel corridoio in ombra, notando che con il
procedere nell’addentrarcisi esso si fa di momento in momento
più buio; ha la niente affatto piacevole sensazione che fin
troppo presto non sarà più in grado di distinguere
un’ombra dall’altra, neppure da sé stesso.
«In
che guaio sto andando a infilarmi?» riflette cupo fra sé.
Nonostante
le sue preoccupazioni non arresta i propri passi e prosegue invece
con decisione, risoluto a fare la sua parte, non potendosi però
impedire di voltare lo sguardo di tanto in tanto per accertarsi che
alle sue spalle la luce di Arawn ancora brilli fioca, anche se sempre
più distante.
Un
lieve baluginio nell’oscurità attira la sua attenzione e
il suo sguardo si fa più affilato. Affretta il passo, appena
sfiorando il suolo, e presto, con sua somma sorpresa, raggiunge il
punto che ha attirato il suo interesse, scoprendo trattarsi di una
roccia rialzata e levigata, sulla quale sono state deposte bracciate
intere di armi dalle fogge più disparate e completamente alla
rinfusa. Qualcuna di quelle creature al servizio di Nemain deve avere
la direttiva di trasferire in quel punto le eventuali armi sottratte
alle prede notturne. Piacevolmente rinfrancato da quella vista,
scopre che in mezzo al mucchio sono presenti anche le sue due spade,
delle quali si appropria rapace e senza indugio alcuno. Un sorriso
spontaneo, seppur striminzito e un poco malato, spunta sulle sue
labbra nell’osservare le lame riflettere la scarsa luce di quel
sottosuolo. Fa scorrere l’occhio sul corridoio che più
avanti diviene cunicolo, rinserra la presa sull’elsa delle
spade e riprende lesto il cammino.
Non
troppi passi dopo è però costretto a incurvarsi
seguendo il volere della strada davanti a sé, il cui soffitto
si fa inesorabilmente più accosto al pavimento. Se da un lato
i suoi piedi sono occupati a scansare spaccature nelle pietre appena
abbozzate e la sua bocca è parimenti impegnata a formulare
borbottii e imprecazioni, tuttavia i suoi occhi rimangono attenti e
lo mettono in allerta su una nuova presenza. Questa volta si vede
costretto a arrestare bruscamente la propria avanzata, lo sguardo
fisso su altri due occhi, più grandi e cupi, che rifrangono a
stento l’ormai quasi assente luce lontana. Un basso ringhio lo
avvisa che deve essersi appena inoltrato in territorio ostile (per lo
meno, più ostile del precedente). Osserva con una certa
inquietudine mista a curiosità quei due occhi fissi nei suoi
fino a che li nota spostarsi impercettibilmente indietro. Il pensiero
ha appena il tempo di raggiungere la sua mente quando la creatura cui
appartengono gli occhi balza scattante in avanti per ghermirlo,
mancandolo di un soffio poiché Pitch ha saggiamente seguito
l’esempio facendo a sua volta un balzo indietro; poi scarta
bruscamente di lato, per quanto glielo permetta la parete, così
da scansare di stretta misura gli artigli affilati della creatura; un
leopardo indiano, nota con la coda dell’occhio mentre è
impegnato a schivare una nuova zampata diretta al suo inguine. Il
felino appiattisce le orecchie sul cranio e tenta un affondo con le
zanne, ma la mascella schiocca a vuoto nell’aria dal momento
che Pitch è scattato all’indietro e lo tiene a
rispettosa distanza con le spade.
«Hai
fame, micetto?» mormora con delicatezza, tenendolo
costantemente d’occhio. «Non sono molto ospitali da
queste parti, vero?».
Il
ringhio del felino diventa un cupo borbottio mentre le sue orecchie
sfarfallano su e giù, intente ad ascoltare la voce vellutata
di Pitch.
«Sono
ragionevolmente sicuro di poter ritrovare la via per tornare là
fuori, sai? Se lo vuoi, posso mostrarla anche a te» tratta,
continuando a parlare con tono pacato e a muovere le spade in sinuose
curve davanti a sé.
I
grandi e attenti occhi del leopardo, sempre occupati a controllare i
suoi movimenti, sembrano appannarsi per una frazione di secondo; la
lunga coda spazza il terreno una volta, poi si posa placida al suolo;
si accuccia, più calmo, e ruota la testa mostrando la sua
confusione.
Un
angolo delle labbra di Pitch si solleva appena, rilassa le spalle e
piega le ginocchia. «Bene così. Bravo micetto. Hai un
nome?» sussurra, posando una delle due spade a terra e
allungando la mano libera fino a raggiungere il pelo morbido sul
collo del felino. «Non importa, lo scopriremo in un secondo
momento. Ora esci con me, coraggio. Troverai di certo ciò di
cui hai bisogno, e forse molto di più» promette.
*
Rilascia
un lungo sospiro sollevato, ritrovando la pallida luminosità
creata da Arawn là dove l’aveva dovuta lasciare non
troppo tempo prima: all’incrocio dei corridoi. Nulla è
davvero andato come si aspettava, e di ciò dovrà in
qualche modo rendere conto alla divinità. Tuttavia le loro
possibilità di riuscita sono ancora intatte e questo dovrà
pur contare qualche cosa, giusto? D’accordo, forse no dopo
tutto, almeno a giudicare dall’occhiata allucinata di Arawn
alla sua ricomparsa.
«Quello
cosa sarebbe?» sibila, mostrando per la prima volta un tono
alterato.
Pitch
inarca un sopracciglio, scettico, si guarda un breve istante alle
spalle e si schiarisce la voce con discrezione. «Un gatto»
replica asciutto.
«Un
gatto di oltre settanta chili?» sbotta Arawn, sembrando appena
un filo isterico.
Pitch
lo fissa con intensità, poi ghigna malevolo. «Non me lo
dire: sei allergico al pelo di gatto?».
Lo
sguardo che gli indirizza Arawn fa pensare che sia in procinto di
ridurlo in polvere seduta stante. «Per tua fortuna, no. Ma
rammenta di consultarmi, la prossima volta, se mai deciderai di voler
adottare altre creature pelose».
«Farò
il possibile per tenerlo a mente» promette Pitch con falsa
solennità.
«Ottimo.
Qualche altra buona notizia?».
«In
effetti, sì: ho ritrovato le mie spade» annuncia con
visibile soddisfazione.
Gli
occhi impensieriti di Arawn si staccano a fatica dal grosso felino
acquattato accanto alle lunghe gambe dello spirito e scorrono sulla
nera figura di Pitch, notando solo allora le due lame scintillanti
strette saldamente fra le sue mani pallide.
«Vedo.
Se non altro questa è davvero positiva» recrimina
acido.
Pitch
dà un piccolo sbuffo. «Qual è il problema? Non li
avete gli animali nel vostro mondo?».
Arawn
pianta su di lui uno sguardo pensoso e un po’ seccato. «Sì,
li abbiamo. E di solito è un miracolo sopravvivervi dopo
averne incontrato uno. Sempre che, chiaramente, non si tratti del
proprio cavallo» racconta.
«Bel
posto» commenta Pitch con sarcasmo ben poco velato. «Ricordami
di non accettare mai un tuo invito a venire a trovarsi a casa tua.
Comunque, per tua informazione, era da sola e aveva fame; non mi
andava di lasciarla lì. È davvero un luogo orrendo, e
te lo dice qualcuno che di posti simili ne ha veduti fin troppi»
borbotta piccato.
Ad
Arawn sfugge un sorriso che è però presto costretto a
inghiottire, vista l’occhiataccia ammonitrice dello spirito.
«Che dolce» non riesce tuttavia a fare a meno di
considerare, mordendosi le labbra per non scoppiare a ridere. «Come
sai che si tratta di una femmina?» domanda quindi, incuriosito.
Nel
mentre fa un paio di passi avanti per accostarsi al duo e a quel
punto il felino decide che sono già troppi, levandosi lesto
sulle zampe robuste e scattanti e sibilandogli contro, mostrando con
orgoglio la candida e perfetta dentatura al completo.
«Hai
la reale necessità che ti risponda?» ribatte Pitch con
ironia.
Sospira
mesto, osservando il felino strusciarsi sfacciato contro il fianco
dello spirito, e scuote la testa. «No, suppongo di no. Vogliamo
andare, quindi?».
Pitch
annuisce e si mette in testa al terzetto, tallonato dal leopardo e
con Arawn nelle retrovie con l’inespresso compito di
controllare che nessuno di sgradito li segua. Lo spirito si sente un
poco più sicuro da quando può di nuovo contare sulle
sue armi materiali, spera solo di non doverle utilizzare troppo
presto; un poco di tranquillità non sarebbe una cattiva idea,
ma fintanto che si troveranno all’interno del territorio di
Nemain quella è per forza di cose una prospettiva lontana,
tanto da apparire quasi come un fioco miraggio.
Nel
frattempo hanno percorso un buon tratto della galleria in luce, senza
peraltro incontrare alcun genere di ostacolo. Se da un lato questo
può senz’altro essere annoverato fra i fatti positivi,
dall’altro preoccupa sia Pitch che Arawn poiché non
sanno cosa dovranno attendersi sulla strada che stanno percorrendo.
Di sicuro c’è che l’aria è diventata meno
pesante, così come la luce appare più vivida, ed
entrambi sperano che ciò significhi l’approssimarsi
dell’uscita.
Un
mugolio distrae i pensieri sia di Pitch che di Arawn.
«Il
tuo gatto deve essersi stancato di andare a zonzo per queste
gallerie» fa notare Arawn.
«Non
è mio» tiene a precisare Pitch. «Ma posso di certo
comprendere il suo stato d’animo, e condividerlo persino»
ammette.
«Vorrei
solo essere certo che non ci toccheranno spiacevoli incontri, una
volta fuori da qui» decide di esternare Arawn.
«Mi
trovi d’accordo. Al contempo sono nel dubbio se augurarmi che
sia giorno oppure notte, oltre queste spesse mura» considera
Pitch.
Arawn
osserva pensieroso la schiena dello spirito poco più avanti.
«Il giorno ti crea problemi?» indaga, incerto.
«La
luce del sole tende a indebolire i miei poteri, che appartengono
all’oscurità. Immagino succeda un po’ come i
luoghi chiusi e bui agiscono sui tuoi».
Le
labbra di Arawn si storcono in una smorfia che appare infastidita,
oppure preoccupata. «In questo caso speriamo che sia già
scesa la notte. Magari contornata da una luna piena».
Un
soffio stizzito scatena la perplessità della divinità,
la quale sposta alternativamente lo sguardo confuso da Pitch al
leopardo e viceversa, incerto sull’origine di quel suono.
«Erano
tue le rimostranze, questa volta?» decide quindi di sincerarsi.
«Lo
erano» conferma Pitch in tono polemico. «Ho un conto in
sospeso con la luna, o per meglio dire, con la creatura che in essa
dimora».
Arawn
socchiude le labbra, attonito e sorpreso. «C’è
qualcuno nella luna?» chiede incredulo.
«Purtroppo»
asserisce lo spirito. «Se dipendesse da me, potrebbe benissimo
essere vuota e gelida. Perderci non ci perderebbe, anzi».
Dopo
un lungo momento di silenziosa riflessione, Arawn si decide a farsi
avanti. «Dimmi, sono indiscreto se chiedo di che genere di
dissapore si tratta?» arrischia curioso.
«Tremendamente»
replica Pitch in modo succinto e molto definitivo.
Arawn
rinserra le labbra, un poco risentito, ma è presto costretto a
lasciare da parte il proprio disappunto e affrettare il passo, perché
non solo Pitch sta praticamente correndo, ora, ma anche lui ha
avvertito l’approssimarsi di una presenza e preferirebbe non
dover fare altri brutti incontri. Spalanca gli occhi e segretamente
prega che il suo compagno di fuga non abbia modo di percepire i suoi
sentimenti non propriamente edificanti, o di certo finirà nei
guai (più di quanti se ne trovi già fra i piedi).
«Non
distrarti» gli sibila Pitch, senza rallentare l’andatura
e stringendo con forza le spade.
Il
leopardo corre agile fra di loro, senza produrre alcuno suono
percepibile, ma Arawn si accorge che neppure lo spirito sembra fare
rumore, quasi non respirasse nemmeno. Vorrebbe indagare sulla
stranezza appena constatata, ma comprende bene che quello non è
proprio il momento adatto per soddisfare le sue curiosità,
pertanto fa come gli è stato detto: si concentra sul percorso
e sul ritmo dei suoi piedi che toccano terra, attento a ogni altro
suono che possa risultare fuori posto.
*
Nessuno
dei due lo realizza appieno fino al momento in cui avvertono il
freddo del vento del nord sulla pelle: sono fuori, infine, ed è
ormai il crepuscolo, a giudicare dalle striature violacee che tendono
al blu del cielo. In realtà ad Arawn poco importa se non può
ancora rivedere il caldo sole sfavillante; ciò che invece
davvero conta è non trovarsi più nei claustrofobici
sotterranei dell’edificio che si sono appena lasciati alle
spalle. L’unico piccolo problema (che in effetti poi così
piccolo non è) lo nota solo in un secondo momento, ma riesce
comunque a far precipitare la sua ritrovata gioia iniziale sotto i
piedi: sono praticamente circondati; di fronte hanno decine di quegli
uomini che davvero umani non sono, alle spalle i cunicoli dai quali
proviene il sinistro scalpiccio di passi affrettati forieri di altri
guai in arrivo. Si lascia sfuggire un gemito di sconforto, al quale
risponde uno sbuffo da parte di Pitch che al contrario sembra molto
più seccato piuttosto che depresso.
«Avremo
un po’ da fare, temo» commenta piano lo spirito.
«Un
po’?» replica Arawn, abbastanza in disaccordo con la
linea d’azione che crede di aver intuito nelle intenzioni dello
spirito.
«Dubito,
in tutta onestà, che intendano lasciarci passare
indisturbati».
«Questo
l’avevo capito benissimo, grazie mille» borbotta Arawn un
po’ scontroso. «Mi serve del tempo per tirarci fuori da
questo pasticcio» esala angosciato.
«Per
l’appunto» conferma Pitch senza in apparenza condividere
la sua preoccupazione. «Ma ho le mie spade, ora. E, ammetto,
scarsa voglia di lasciarmi catturare una seconda volta. Pertanto
spero non abbia a dispiacerti se ci sarà qualche cacciatore in
meno su questa terra, a breve».
Quella,
pondera Arawn con una punta di amarezza e preoccupazione, pare
proprio una minaccia in piena regola. «Se lo credi necessario…»
tenta di mediare.
«Lo
credo» conferma succinto, avanzando al contempo di qualche
passo e variando di un soffio la presa delle dita sull’elsa.
E
davvero, l’ultima eventualità che auspica Pitch è
di tornare a marcire là sotto; una volta gli è stata
sufficiente per il resto dei suoi giorni che si augura siano ancora
molti e meno oppressivi; anche se, a giudicare dal numero in costante
aumento delle pedine in campo non ci giurerebbe affatto. Assottiglia
le palpebre, risoluto a non permettere loro di mettergli di nuovo i
piedi in testa.
All’ennesimo
passo avanti avverte una leggera pressione contro il proprio fianco e
con la coda dell’occhio individua l’ormai conosciuta
presenza del leopardo, il quale sembra intenzionato a rimanere
accanto a lui anche in quel frangente. Pitch si augura che sappia ciò
a cui sta andando incontro, poiché non crede affatto di poter
trovare il tempo materiale per badare anche alla di lei incolumità,
non in una situazione tanto sfavorevole.
Infine
il tempo per gli indugi volge al termine e i due gruppi di cacciatori
radunatisi fino a quel momento attorno ai tre fuggiaschi decidono di
porre fine al loro tentativo. Ma Pitch, consapevole del loro
svantaggio numerico, non si fa trovare impreparato di fronte al primo
attacco e, sotto il tiro incrociato di arcieri e balestrieri, muove
velocemente le labbra ergendo attorno al loro piccolo gruppo uno
scudo fatto di magia che brucia in volo ogni singolo dardo prima che
questi abbiano la possibilità di colpirli.
«Ben
fatto» esclama Arawn in tono sorpreso e affascinato.
«Tsk!
Con che gente di poca fede mi tocca avere a che fare» borbotta
Pitch con fare bisbetico, in parte offeso dalla palese incredulità
dimostrata dall’altro.
Al
signore dell’Annwn sfugge un risolino, decisamente fuori luogo
dato il contesto, meritandosi infatti un’occhiata molto seccata
dallo spirito oscuro.
«Invece
di perderti in inutili ilarità, che cosa ne pensi di iniziare
a rimboccarti le maniche per toglierci da questa scomoda situazione?»
sibila Pitch.
Arawn
è indeciso se sentirsi o meno oltraggiato per aver ricevuto
quel palese ordine malamente mascherato da richiesta ben poco
cortese. Ma non gli occorre molto per comprenderne la validità:
è sufficiente dare uno sguardo a ciò che li circonda
per sapere con certezza che non resta loro molto tempo né
grandi possibilità. Annuisce, cercando come meglio può
di concentrarsi sui propri poteri e lasciare fuori ogni altra
questione, perfino l’ombra del timore che avverte agitarsi
dentro. Non ha affatto bisogno di complicarsi ulteriormente la vita
pensando a come la situazione potrebbe facilmente peggiorare, a loro
svantaggio naturalmente.
Mentre
raduna con attenzione forze e conoscenze in egual misura, i suoi
occhi scorgono ancora il conflitto che si sta svolgendo al di fuori
della sua mente; seppur tentando di non prestarvi eccessiva
attenzione, non può esimersi dal notare che la barriera magica
eretta pocanzi dallo spirito oscuro allo scopo di proteggerli
dall’offensiva dell’esercito di Nemain si sta
gradualmente sfilacciando, perdendo ogni momento di più un
poco della sua energia. Rinserra gli occhi, deciso a non lasciarsi
distrarre con il fondato rischio di commettere qualche errore e, nel
momento in cui avverte le energie collidere creando i giusti
presupposti, schiude le labbra e bisbiglia «È il
momento» sperando che lo spirito oscuro lo abbia sentito.
Pitch
ha raccolto le sue parole, ma non è così certo di poter
fare qualcosa in proposito. Sta consumando la propria magia per
permettere loro di sopravvivere ancora un poco e non crede affatto di
potersi permettere molto altro, sul momento. Un lieve gemito scivola
fra le sue labbra livide, attirando su di sé l’attenzione
della divinità.
Arawn,
suo malgrado, si vede costretto a riaprire gli occhi per accertarsi
dell’attuale situazione e, solo allora, nota lo stato dello
spirito oscuro e digrigna i denti. Ha compreso che dovrà con
tutta probabilità pensare egli stesso a mantenerli uniti.
L’idea, inutile sottolinearlo, non lo alletta in particolar
modo, eppure è anche consapevole che è davvero giunto
il momento, il suo turno di fare qualcosa di concreto per la loro
salvezza. Spera solo di riuscire a mantenere la propria
concentrazione ai livelli adeguati all’impresa che si accinge a
compiere. Ma, d’un tratto, non c’è davvero più
tempo di indugiare né gingillarsi con le domande, resta solo
quello appena sufficiente per prendere la decisione più
giusta.
Si
sporge, afferrando con una mano la spalla spigolosa dello spirito
oscuro, mentre affonda le dita dell’altra nella morbida
pelliccia del collo del leopardo, poi si riappropria di tutta la
concentrazione che è in grado di racimolare e sceglie: sceglie
di espandere il proprio potere lì, nel mondo degli esseri
umani, creando in esso una frattura sufficientemente ampia da
permettere loro di sfuggire alle pericolose grinfie di Nemain e del
suo esercito; sceglie di ignorare il proprio codice morale e fare
consapevolmente violenza su quella dimensione per portare in salvo le
loro effimere esistenze.
Un
momento dopo Arawn, Pitch e il leopardo svaniscono nel nulla sotto lo
sguardo attonito di qualche decina di cacciatori e della loro signora
del caos.
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Capitolo 4 *** Sophìa ***
-
Sophìa -
Quando
ricompaiono, il sole è basso all’orizzonte e ormai in
procinto di lasciare il posto a una sera che si prospetta tiepida e
profumata di erbe aromatiche. Pitch, molto lontano dal pensiero di
poter apprezzare il cambio di scena e l’amenità del
luogo, sibila e socchiude gli occhi, schermandosi con una mano mentre
va alla ricerca di un posto riparato nel quale potersi rifugiare fino
all’imbrunire.
«Scusa»
soffia Arawn, osservando con rammarico il disagio dello spirito. «Ho
pensato solo ad allontanarci dai guai. Temo di aver del tutto
dimenticato di tenere traccia dei movimenti del sole» prova a
spiegare a sua discolpa.
Pitch,
quasi accecato dal riverbero, annaspa trascinandosi a fatica dietro
alcuni arbusti di quello che, almeno a giudicare dall’odore,
ritiene essere lauro, e una volta guadagnata la penombra trae uno
stentato sospiro di sollievo, poi soffia uno sbuffo annoiato mentre
il leopardo, che nel frattempo doveva essersi avvicinato a lui, gli
solletica il collo con le lunghe vibrisse per controllarne le
condizioni.
«Siamo
ancora interi. Di certo questo si può considerare un fatto
positivo» si limita a commentare asciutto e poco incline a
portare avanti una conversazione.
«Sì,
è così» conferma Arawn a bassa voce, nel
tentativo di non aggravare le sofferenze dello spirito.
Sposta
lo sguardo sul leopardo e con esso ne segue i movimenti mentre questi
si acciambella al fianco dell’Uomo Nero. Scuote la testa, ma
accenna comunque un piccolo sorriso divertito.
«Posso
arrischiare ad allontanarmi qualche momento? Vorrei dare un’occhiata
ai paraggi per cercare di capire in che luogo ci troviamo. Noto che
comunque disponi di un’ottima sentinella» scherza.
Un
cupo borbottio risponde alla sua proposta e, ancora una volta, Arawn
è indeciso se esso provenga dal felino oppure dallo spirito
oscuro.
«Preferirei,
in tutta franchezza, se evitassi di insultare oltre la mia
intelligenza, signore dell’Annwn» replica Pitch con una
strana calma che mal si concilia con le parole appena pronunciate.
«Sono perfettamente in grado di comprendere quando la mia
compagnia non è apprezzata, pertanto so bene quanto la mia
presenza non sia di tuo gradimento».
«Non
ho detto questo» si difende Arawn, un lieve allarme percepibile
nella sua voce appena traballante.
«Non
lo hai detto, è vero» ammette Pitch. «È
possibile che tu non ne sia al corrente, ne convengo; per questo
motivo vorrei informarti che posso avvertire le tue paure, le tue
insicurezze e perfino il tuo disprezzo. Sono peculiarità che
fanno parte integrante del mio bagaglio di spirito oscuro» fa
notare con tono piatto e incolore.
«Questo
non è…»
Stringe
le labbra in una smorfia contrita, incapace di portare a termine la
frase. Era in procinto di protestare che le affermazioni dello
spirito non rispondevano al vero, ma ciò sarebbe equivalso a
mentire. Sospira, si preme i palmi sugli occhi e fa scorrere le dita
fra i capelli, che ora sono come fili d’argento brillanti agli
ultimi raggi di sole.
«Mi
dispiace. Sono stato ingiusto» si rammarica. «Non mi hai
mai fatto alcun torto e non avevo il diritto di giudicarti in modo
negativo sull’unica base di… sciocchi preconcetti».
«Posso
ben immaginare che avresti gradito, accanto, qualcuno di più
idoneo» pondera, le palpebre abbassate a dar sollievo agli
occhi affaticati.
«Sì…
No! Ah, dèi, ti detesto» sbotta Arawn, seccato oltre
ogni dire per la propria incapacità di venire a patti con
quella faccenda incresciosa.
Bizzarramente,
le labbra di Pitch si piegano in un lieve sorriso indulgente. «Lieto
di saperlo».
Arawn
rimane un lungo istante a bocca aperta, allucinato e incredulo. «Stai
scherzando? Ho appena finito di insultarti (di nuovo). Come può,
questo, renderti lieto?».
«Non
apprezzo le menzogne, quand’anche celate da omissioni. Non hai
idea di quanto sia arduo sostenere la dualità di coloro che
pretendono di esserti amici, mostrando al contrario chiaramente, con
i propri sentimenti negativi, quanto falsi riescano a essere»
spiega pragmatico.
Arawn
lo fissa sgomento e ingoia uno scomodo bolo di saliva. «Tu hai…
Hai sempre saputo?» soffia a disagio più che mai.
«Evidentemente»
conferma Pitch senza scomporsi affatto.
«Ma…
hai comunque deciso di aiutarmi» contesta incredulo.
«Lo
sai, ammiro la tua innata capacità di sottolineare l’ovvio»
replica per tutta risposta con acuto sarcasmo.
Arawn
sbuffa, facendo vibrare le narici. «Non sei esattamente un
campione di simpatia» recrimina seccato.
Pitch
fa spallucce, poco toccato da quel commento. «Non ho mai
sostenuto né preteso di esserlo, in verità, e nessuno
mai se lo è aspettato da me».
«Perché?»
insiste Arawn, deciso ad avere una risposta che possa definirsi tale.
«Diamine,
è ovvio: sono l’Uomo Nero; mi nutro di paura, non di
risate» borbotta piccato e un filo offeso.
Con
una solenne occhiata esasperata, Arawn si avvicina, mettendo in
guardia con i suoi movimenti indesiderati il leopardo che, per tutta
risposta, affila lo sguardo e lo tiene attentamente sotto tiro,
sfoderando gli artigli.
«No,
non questo. Voglio sapere per quale motivo hai deciso di venire in
mio soccorso e tirarmi fuori da quel posto».
«Mi
servivi» si limita a rispondere Pitch, quasi con candore.
«Non
è una risposta!» sbotta Arawn alterato.
Pitch
arrischia a sollevare le palpebre, sperando che la luce sia ora
abbastanza fioca da non creargli fastidi e, quando nota che così
è, indirizza uno sguardo indagatore all’altro.
«Lo
è, invece. Mi rendo conto che non sia il genere di risposta
che ti aspettavi, ma non ne otterrai di migliori, non da me».
«Sei
una brutta persona» sibila, fissandolo truce.
«Ne
convengo».
Arawn
assottiglia le labbra, contrariato. Vorrebbe insultarlo, di nuovo, ma
sa che questo non lo aiuterebbe in alcun modo né lo renderebbe
migliore dell’altro; pertanto desiste dai suoi propositi
bellicosi e trae un lento respiro per calmarsi. In fondo non può
nemmeno fargliene una colpa: si tratta pur sempre della sua natura,
che concorre a indirizzare le sue azioni.
«Stai
di nuovo avendo brutti pensieri» lo avverte di buon grado
Pitch.
Arawn
sobbalza impreparato e lo scruta guardingo e sospettoso. «Sai
anche di che genere?» indaga nervoso.
«No,
non lo so. Ciò di cui sono a conoscenza è che si tratta
di pensieri di natura maligna e che, per buona misura, sono
indirizzati al sottoscritto. Il resto è affar tuo».
Si
sente confuso, e un poco sfiduciato. «È difficile»
mormora fra sé.
«Che
cosa?» si informa lo spirito con un pizzico di curiosità.
«Trovare
il modo per convivere senza…»
«Ricoprirmi
di insulti?» offre volenteroso.
«Farti
del male» corregge in un soffio.
«Ah,
capisco. Temo non sia una possibilità praticabile. E comunque
sono ampiamente avvezzo a certi trattamenti, tanto che è ben
difficile, oramai, colpirmi a morte».
Arawn
rimane muto di fronte alle parole e all’atteggiamento dello
spirito, e segretamente si sente grato di non doversi trovare al suo
posto, perché in tutta onestà non crede che saprebbe
sopportarlo per più di qualche misero giorno senza perdere il
senno.
*
Il
cielo, poco prima rosato, vira rapidamente al viola e all’indaco.
Pitch inspira l’aria tiepida e profumata e si scosta dal ruvido
appoggio del suo precario riparo, rimettendosi in piedi e scrutandosi
attorno con curiosità.
«Oso
supporre tu ci abbia condotti sulle coste del Mediterraneo»
mormora rivolto a un ancora sconvolto Arawn.
«Cosa
te le fa presupporre?».
«La
vegetazione predominante, innanzitutto. In secondo luogo la
conformazione del terreno. Per ultimo il clima temperato»
spiega con pazienza. Avanza di qualche passo, mentre i suoi occhi
sensibili scorgono i contorni delle alture sulle quali si trovano in
quel momento e, dietro una di queste, scorge lo scintillio degli
ultimi dardi solari riflettersi su di una vasta superficie lucida.
«Ah, non siamo poi così distanti dalla costa, dopo
tutto. Osserva» esclama, indicando al compagno l’orizzonte
lontano.
«Quello
è il mare?» sussurra Arawn, suo malgrado intrigato dalla
prospettiva. «Sembra allettante, visto da qui».
«Suppongo
di sì. Mi auguro solo che quelle non siano le coste
dell’Iberia» elucubra Pitch.
«Come
mai?» si incuriosisce Arawn.
Pitch
lo fissa di traverso e scuote il capo, desolato. «Dovresti
provare a tenerti maggiormente aggiornato sui movimenti del mondo dei
mortali. Per lo meno seguire la direzione presa dalle guerre degli
umani, non fosse altro che per non incapparvi giusto nel mezzo nel
momento meno opportuno».
«Oh»
si limita a commentare Arawn, interdetto e vagamente impensierito.
Poi, d’un tratto, nota che lo spirito ha assunto un’espressione
un poco più triste e decide quindi di arrischiarsi a indagare.
«Cosa accade ora? Qualche problema?».
Pitch,
ripescato dai suoi pensieri, si riscuote e torna con l’attenzione
al momento presente. «No, o quanto meno lo spero. Semplicemente
riflettevo su un fatto cui avevo smesso di prestare attenzione fino a
poco fa».
«Ovvero?»
insiste, incoraggiato dal non essere ancora stato ammonito da qualche
sguardo assassino.
«Non
so se sia anche il tuo caso, ma da parte mia avevo una meta nel
momento in cui malauguratamente mi sono imbattuto nei cacciatori di
Nemain, e si dà il caso che quella meta fosse…».
La sua voce sfuma mentre solleva lo sguardo sul cielo ormai scuro, in
una direzione ben precisa dal lato opposto rispetto al mare. Sospira.
«Lontana. Decisamente lontana da qui» soffia, suo
malgrado deluso e sconfortato dalla presa di coscienza.
Arawn
abbassa lo sguardo e sospira a sua volta. «No, io… non
ne avevo idea. Se… lo desideri, posso provare a riportarti sul
sentiero giusto» tituba preoccupato.
Pitch
sbuffa una piccola risata affatto divertita. «No, non puoi».
«Cosa?
Io… Sì, certo che posso, se…».
«Continui
a farlo: mi parli come se fossi uno sciocco sprovveduto. Pensi non
sappia che hai usato i tuoi poteri per portarci lontani da quel luogo
solo in virtù del fatto che l’unica alternativa non
poteva che essere la sconfitta? Ho avvertito il tuo dolore nel farlo,
e attraverso il tuo quello di questo mondo. Non puoi rifarlo, non per
scopi futili come quelli che ti proponevi poco fa, in ogni caso».
Le
labbra di Arawn sono strettamente serrate, e non sa se ciò che
sta trattenendo sia la rabbia oppure il dolore. Ciò che invece
sa è che inghiottirà la propria lingua un boccone per
volta prima di permettersi il lusso di pronunciare un altro, inutile
insulto contro quel dannato spirito oscuro. E poi, all’improvviso,
il sentimento che lo ha atterrito fino a un momento prima evapora nel
nulla, lasciandolo svuotato di tutto tranne che di vergogna quando un
pensiero sfiora la sua mente confusa: tutti i suoi sforzi sono
inutili, perché lui ne ha di certo già compreso le
intenzioni inespresse. Gli è sufficiente un fugace sguardo
alla sbilenca smorfia sulle labbra dello spirito per averne conferma
e sentirsi un perfetto idiota.
«Non
potresti, non so… spegnere quella parte della mente che ti
permette di ricevere questo genere di informazioni?» tenta,
sentendosi sempre più sciocco.
Pitch
sfarfalla le ciglia, perplesso. «Potrei prestarti una delle mie
spade. Se mi stacchi la testa sono certo che risolverai il tuo
problema».
Le
gote di Arawn si accendono di porpora. «Dèi, quanto ti
odio» borbotta.
In
quella Pitch si ritrova a sorridere, e non è un riso di
scherno, né una smorfia sarcastica; accompagna una sensazione
in parte piacevole. Scuote il capo, confuso suo malgrado, e torna con
lo sguardo su Arawn.
«Ebbene,
non desideravi forse dare un’occhiata nei dintorni? Se non ti
crea problemi potrei accompagnarti, così che si possa farci
un’idea più chiara e precisa sul luogo in cui siamo
capitati» avanza propositivo.
Arawn
sbuffa ma annuisce. «D’accordo. Ti seguo, fai strada»
accetta.
*
L’odore
salmastro dell’acqua marina si fa sempre più marcato e
presto giungono anche a udirne il sommesso sciabordio. Oramai il
cielo è scuro, di un blu profondo che presto diverrà
nero insondabile, come scura è anche l’acqua che più
che scorgere odono davanti a loro. Non c’è dubbio,
pertanto, che abbiano infine raggiunto la costa. Si tratta per lo più
di rocce spigolose e frastagliate; la vegetazione è del tutto
scomparsa e non rimangono che alghe essiccate e acqua spumeggiante.
«Non
ha l’aspetto di un luogo pericoloso» azzarda Arawn, fermo
alle spalle dello spirito e intento nell’improbabile tentativo
di scorgere qualche dettaglio in più di ciò che si
trova di fronte ai suoi occhi.
«In
effetti no. A prima vista sembra essere disabitato. Ma è quasi
notte, dopo tutto; non è da escludere che gli umani si siano
semplicemente ritirati nelle loro abitazioni più accoste
all’entroterra» soppesa Pitch, lasciando vagare gli occhi
sulla volta celeste punteggiata di stelle sempre più vivide e
brillanti.
Uno
sciaguattare d’acqua e un piccolo ringhio borbottato informano
i due che il leopardo è evidentemente impegnato in
un’infruttuosa caccia tra i flutti. Lo spirito oscuro avanza di
qualche passo leggero fino a raggiungere il punto in cui il felino
ancora mugola deluso e con il pelo infradiciato. Con un leggero
sbuffo divertito si accosta al leopardo e sfiora il retro delle sue
morbide orecchie con i polpastrelli.
«Scostati
un momento, vuoi?» sussurra gentile.
Mentre
Arawn socchiude gli occhi cercando di distinguere i movimenti di
Pitch, quest’ultimo estrae una lama dal suo fodero, la mantiene
un lungo momento sospesa nell’aria e infine la fa saettare poco
oltre la superficie dell’acqua. Un istante dopo, quando la
punta acuminata torna fuori, un guizzo d’argento la segue.
Arawn sgrana gli occhi mentre il guizzo precipita con un lieve tonfo
sugli scogli, dibattendosi e contorcendosi; poi il leopardo gli si
avventa contro e affonda le fauci nel corpo freddo e scivoloso del
pesce.
Pitch
rinfodera la spada e si siede sul bordo di una roccia che ancora
mantiene un poco del calore accumulato durante la lunga giornata di
sole da poco conclusa. Inspira piano la brezza profumata e osserva
con tranquillità il leopardo terminare con minuziosa
accuratezza il proprio pasto tanto a lungo desiderato.
«Hai
riflettuto su come chiamarla?» si fa strada nei suoi pensieri
la voce pacata di Arawn.
Scuote
la testa. «Non ancora. Hai forse qualche buona idea?» si
informa.
Sta
giocando, questo lo sa bene. È uno spirito oscuro, per di più
con alle spalle una cospicua quantità di nemici. Non crede
affatto di potersi permettere il lusso di farsi accompagnare nel suo
peregrinare da una creatura vivente, seppur in grado di difendersi in
maniera più che accettabile.
«Mi
domandavo… che ne pensi di Sophìa?» propone
Arawn.
Si
volta lentamente alle proprie spalle, scrutando nel buio il riflesso
delle lontane stelle negli occhi perlescenti della divinità.
«È un nome piuttosto importante per un gatto»
pondera indeciso.
Avverte
il sorriso sulle labbra di Arawn senza il reale bisogno di scorgerlo
con gli occhi. «Forse. Ma non puoi negare che non si tratti di
un gatto qualsiasi» considera.
«Questo
è vero» ammette Pitch. «Molto bene: vada per
Sophìa» decide, avvertendo un ignoto pizzicore al petto.
Quando il leopardo termina il pasto, si rimette in piedi e le fa
segno di avvicinarsi, poi le si inginocchia accanto, accarezzando il
morbido pelo lungo il collo. «Cosa ne dici? Ti garba, Sophìa?»
mormora in tono dolce, guadagnandosi un gorgoglio di fusa
dall’interessata.
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