Trash, spazzatura di joellen (/viewuser.php?uid=136236)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** LE SPEDIZIONI ***
Capitolo 3: *** IL CLAN ***
Capitolo 4: *** Un giorno da non dimenticare ***
Capitolo 5: *** OSPITI ***
Capitolo 6: *** AREA 51 ***
Capitolo 7: *** IL PIACERE DI COMUNICARE ***
Capitolo 8: *** IL NASO FUORI CASA ***
Capitolo 9: *** SPIRAGLI ***
Capitolo 10: *** C'E' NESSUNO IN GIRO? ***
Capitolo 11: *** COME AMMINISTRARE I VISITATORI ***
Capitolo 12: *** VERSO NORD ***
Capitolo 13: *** PRIME NOTIZIE DAL PASSATO ***
Capitolo 14: *** LA CONFERENZA ***
Capitolo 15: *** IL GRANDE FRATELLO NON GUARDA ***
Capitolo 16: *** RICERCA DI CONTATTI ***
Capitolo 17: *** FINALMENTE, DI NUOVO ***
Capitolo 18: *** QUI, TERRA. C'E' NESSUNO LA' FUORI? ***
Capitolo 19: *** VERSO LA SIBERIA ***
Capitolo 20: *** VISITA A WASHINGTON, 1a parte ***
Capitolo 21: *** VISITA A WASHINGTON 2a parte ***
Capitolo 22: *** ULTERIORI FRAMMENTI DI VERITA' ***
Capitolo 23: *** LA VENDETTA E' UN PIATTO DA SERVIRE FREDDO ***
Capitolo 24: *** POCHI MINUTI DI FUOCO ***
Capitolo 25: *** RISVEGLIO ***
Capitolo 26: *** ATTESE ***
Capitolo 27: *** RITORNO ALLA VITA ***
Capitolo 28: *** ATTACCO ALLA TERRA ? ***
Capitolo 29: *** CONTRATTACCO ***
Capitolo 30: *** LA TERRA SI SALVERA'? ***
Capitolo 31: *** PREPARATIVI PER IL RIENTRO ***
Capitolo 32: *** PARTENZA ***
Capitolo 33: *** FINESTRA APERTA SU ARIEL ***
Capitolo 34: *** UN SECOLO PRIMA ***
Capitolo 1 *** prologo ***
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Prologo
Terra, anno 2100
Il piccolo drone sorvolava leggero e veloce l'area programmata nella sua memoria
in cui le immagini venivano via, via registrate ed inviate automaticamente alla
base per tenere lo staff costantemente informato della perlustrazione.
Pianeta Beta 1
E alla base, su schermo panoramico, i membri dello staff scientifico seguivano
il filmato con silenzioso interesse. Sul grande televisore si susseguivano le
immagini di un vasto territorio, paesaggisticamente molto vario nel suo
alternarsi di aspre e aride montagne, valli, gole in cui scorreva acqua, ampie
spianate, che una volta avevano ospitato centri urbani di cui però sembravano
esserci rimaste solo rovine, e che ora apparivano costellate a macchia di
leopardo di grosse carcasse ferrose, arrugginite.
Due dei componenti dello staff, vicini di scrivania, si girarono l'uno verso
l'altro e si scambiarono occhiate d'intesa.
"Direi che è il posto ideale" dichiarò uno dei due.
L'altro annuì.
"Prepariamo la spedizione" propose.
"Come si chiama il pianeta?" chiese il primo.
Il secondo gettò un rapido sguardo alla mappa stellare.
"Terra" rispose soddisfatto.
A migliaia di chilometri, un altro drone sorvolava a velocità non eccessivamente
elevata la distesa verde costituita dalle chiome degli alberi che, vicini l'un
all'altro, formavano quasi uno strato protettivo del terreno sottostante,
visibile a tratti attraverso i pochi spazi lasciati dal manto arboreo.
Pianeta Ariel
Nella grande sala di controllo Elai Heron seguiva attento le immagini che si
susseguivano sul mega schermo, discretamente coperte in basso da tabelle fitte
di dati su sfondo blu scuro. Heron compì qualche passo in avanti piazzandosi
dietro la sedia di una sua collaboratrice che si girò rifilandogli un'occhiata
veloce ma compiaciuta.
"Ne avremmo anche per i nostri figli" commentò la donna.
"Ne avremmo almeno per altre quattro generazioni" replicò Heron, trionfante.
"Comincio ad organizzare il viaggio?" azzardò un giovane seduto a tre postazioni
sulla destra.
"Sei ancora lì?" lo redarguì Heron allegramente.
Il giovane scattò in piedi, lasciò la sua postazione e uscì dalla sala.
"Come si chiama il pianeta del tesoro?" chiese Heron alla donna seduta davanti a
lui.
"Terra, comandante" rispose lei, pronta e professionale, questa volta senza
voltarsi.
"Bene. - commentò Heron - E' la nostra speranza".
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Capitolo 2 *** LE SPEDIZIONI ***
1) LE SPEDIZIONI
Terra, anno 2108
L'imponente cargo, nero e articolato al punto da assomigliare ad un grosso
insetto, atterrò piuttosto rumorosamente sulla sabbia sollevandone una grossa
nuvola che parve avvolgerlo per qualche secondo, tuttavia, in realtà, nessuno lo
sentì arrivare non essendoci anima viva negli immediati dintorni dell'area di
atterraggio.
Almeno così sembrò ai due componenti dell'equipaggio che scesero dall'astronave
per dare un'occhiata nei dintorni.
La zona era caratterizzata da terreno arido e sabbioso, circondato da strane
alture stratificate come fossero state composte da fette di roccia poste una
sopra l'altra, talvolta anche in modo non uniforme. Ai due l'area parve perfetta
per lo scopo e, considerato ciò, rientrarono nel veicolo per dare il via
all'operazione di scarico della merce. Dall'interno dell'apparecchio scivolò
automaticamente la pedana dalla quale cominciarono a scendere enormi containers
grigio scuro seguiti da esseri umani in uniforme e caschi verdi che manovravano
i carrelli su cui i containers si muovevano con apparente facilità. Ma,
scaricato l'ultimo, contro uno dei primi, già sistemati sulla spianata
polverosa, giunse da fonte ignota un lungo raggio luminoso che lo incendiò con
un boato.
"Oh no! - esclamò uno dei manovratori - Il Clan!".
Tutti gli operatori rientrarono nell'astronave e il comandante ordinò loro di
porsi ai posti di combattimento. Da dietro le alture partirono altri raggi
luminosi rossi e azzurri, questa volta diretti sul veicolo, ma anche da esso
uscirono altri raggi verso le alture. Seguì uno scambio fittissimo di raggi
variamente colorati, molti dei quali andarono a segno senza badare troppo alla
natura del bersaglio, provocando grida disumane di coloro che ne erano colpiti,
e che morivano carbonizzati, e incendi apocalittici dei containers, nonché di
gran parte dell'astronave che rimase danneggiata in modo quasi irreparabile e,
pochi minuti dopo, distrutta dall'ultimo fascio di raggi letali.
Dietro le montagne, un altro veicolo si alzò in volo dirigendosi verso lo spazio
infinito, lasciando su quell'area, arida e desolata, cadaveri e carcasse
fumanti.
"Così imparano a capire chi esercita il diritto" sentenziò il capitano,
lanciando un ultimo sguardo torvo dell'occhio senza benda, sullo sfacelo che
aveva appena causato.
"Ben detto, Capitano" approvò un suo sottoposto, alzando l'indice della mano
destra per sottolineare il suo accordo con la dichiarazione.
Da un ultimo controllo sulle mappe stellari, la Terra risultava completamente
disabitata e, seguendo le immagini che scivolavano l'una dopo l'altra sul grande
schermo nella sala comando dell'astronave, Elai Heron si sorprese a domandarsi
come mai un pianeta così ricco di vegetazione, come quella che si vedeva sullo
schermo, non potesse ospitare forme di vita, anche semplici, ma tant'era. Le
ricerche in merito, effettuate nei mesi e negli anni precedenti la decisione di
organizzare un viaggio verso quel pianeta, avevano dato quei risultati: sulla
Terra sembrava non esserci vita. In compenso, erano state rilevate quantità
inimmaginabili di uranio, plutonio ed altri preziosi minerali utili al
fabbisogno di Ariel che andava avanti ad energia nucleare per via della
lontananza dal suo Sole.
Ariel poteva essere definito un pianeta artificiale, ovvero: quasi interamente
costruito da opera umana, dopo che il rimanente della razza biologica era stato
costretto a trasferirsi lì dal pianeta originario il quale, colpito da un
meteorite che ne aveva spostato l'asse e l'orbita, si era avvicinato troppo al
Sole per consentire una continuazione della vita su di esso.
Su Ariel, la vita era ricominciata con le aree urbane incapsulate sotto cupole
di vetro realizzate appositamente per incamerare più calore possibile dalla poca
energia che proveniva dal Sole lontano, e alimentate da centrali nucleari a
fusione fredda, tenute però fuori dalle città per assicurare gli abitanti da
qualunque eventuale incidente che, tuttavia, per fortuna, non si era mai
verificato. Ma su Ariel, la materia prima per far funzionare le centrali non era
molta e stava esaurendosi. Se non si fosse provveduto ad un rifornimento, le
zone vitali del pianeta si sarebbero spente destinando il pianeta a morte certa,
per sempre.
I pensieri di Heron furono interrotti da uno dei membri dell'equipaggio che lo
avvertì di aver trovato, finalmente, una buona area di atterraggio. Ridestandosi
dal suo viaggio mentale, Heron impartì gli ordini per la manovra.
Elai Heron e i suoi uomini - ma anche donne - non tornarono mai più su Ariel.
L'astronave si disintegrò in un'esplosione apocalittica ancor prima che
mettessero piede sul suolo terrestre e, ovviamente, non poterono mai riferire
che la Terra non era completamente disabitata come era risultato dalle ricerche
e dalle mappe stellari.
Nella sala del Centro Operativo di Novosibirsk, in Siberia, quattro persone: due
uomini e due donne, seguirono la scena attraverso un ampio schermo televisivo
che occupava una parete. Al termine, quando dall'apparecchio si levò l'ultimo
filo di fumo, il colonnello Antonov ruppe il silenzio.
"Vediamo un pò se la smettono di venirci a rompere l'anima! - esordì, seccato e
rancoroso - Cosa vogliono fare? Hanno preso la Terra per una discarica?".
2)
IL RITORNO
Ariel, 2110
Prima di partire, Al Heron volle andare a far visita ad Adoniesis, vecchio
saggio della città, amico di famiglia, che abitava dall'altra parte del centro
abitato. Aveva la tempesta nel cuore; sapeva che, molto probabilmente, il
vecchio non sarebbe stato in grado di placarla, ma era sicuro che qualche sua
parola sarebbe stata sufficiente per calmare un poco il vento.
Era una bella giornata e i raggi del Sole lontano riuscivano comunque ad
arrivare alla grande cupola che copriva la città, riparandola dalle pur esigue
scorie radioattive, regalando agli abitanti un piacevole tepore. La vettura
elettrica a cuscinetto filava via veloce sull'asfalto liscio dell'ampia strada
che collegava i quartieri di Momex, la città dove Al risiedeva da quando lui e
la sua famiglia si erano trasferiti sul pianeta. Come tutti gli altri
agglomerati urbani del piccolo pianeta, anche Momex era una successione di
quartieri eleganti, con begli edifici circondati di vegetazione lussureggiante,
ed altri più popolari, ma non squallidi. Adoniesis viveva in un quartiere
periferico, mediamente popolare, in una piccola casa circondata da un bel
giardino curato e, quando Al arrivò davanti al cancello della sua abitazione, il
vecchio stava annaffiando le piante già fiorite.
Adoniesis fu felice di vedere il giovane uomo, ma si accorse subito
dall'espressione scura del volto, che era profondamente turbato. Lo fece entrare
nel suo rifugio costituito quasi interamente da un'unica ampia stanza, tuttavia
molto illuminata da 3 finestre che sembravano essere state costruite apposta per
far entrare più luce possibile. Si accomodarono: uno su un divano a due posti,
l'altro su una comoda poltrona foderata di stoffa color caffè e restarono circa
un minuto in silenzio, Adoniesis a scrutare Al con aria severa, ma preoccupata.
"Hai paura, ragazzo?" gli domandò paternamente.
Al fissò il volto segnato dagli anni dell'amico, addolcito da due piccoli occhi
grigio chiaro dallo sguardo indagatore, ma buono.
"Non lo so" rispose Al, quasi monocorde.
Adoniesis fissò il giovane uomo.
"Ne avresti tutte le ragioni. - asserì - E' un'incognita per te dopo quel che è
accaduto a tuo padre".
"Non posso rinunciare. - dichiarò Al, accorato - Glielo devo".
"Si, - ribatté Adoniesis in tono comprensivo - ma non pensare alla vendetta! -
si fermò un attimo, poi riprese - Non pensare solo alla vendetta.
- gli consigliò sottolineando l'avverbio "solo" con la voce. - Tu stai partendo
anche per salvare il nostro mondo".
Al annuì stancamente.
"Già" confermò, laconico.
Adoniesis si alzò dal divano, si avvicinò al giovane e gli batté una mano su
una spalla.
"Pensa a questo, Al. - ribadì - Pensa soprattutto a questo".
Come Al aveva pronosticato, la tempesta nel suo cuore non era cessata, ma la
voce e le poche, semplici parole di Adoniesis avevano diminuito di molto la
forza del vento che fischiava impetuoso nel suo animo.
Tornò a casa e cominciò i preparativi materiali e spirituali per la partenza,
cercando di concentrarsi sulla salvezza del suo pianeta. In una nicchia della
parete, nel suo studio sopra la scrivania, uno schermo proiettava di continuo le
fotografie di lui con suo padre Elai e del mondo che avevano dovuto lasciare.
Sotto lo schermo, un piccolo candelabro di vetro reggeva una lampadina a goccia
che emanava una flebile luce azzurra, quel tanto sufficiente per illuminare
l'immagine sacra di un uomo anziano dallo sguardo chiaro, calmo e solenne. Aveva
sempre sentito dire che esisteva, ma non l'aveva mai visto e, da tempo, dubitava
ormai della sua esistenza, visto che non aveva compiuto il miracolo di
proteggere suo padre dal pericolo mortale in cui era incorso, senza favorirne il
ritorno.
Chi doveva pagare l'avrebbe pagata per mano sua, ma bisognava anche procurare il
carburante per continuare a vivere.
Ariel, astroporto
All'arrivo di Al Heron all'astroporto, i graduati più alti del suo equipaggio lo
salutarono con deferenza ma anche con la gioia di vederlo, specialmente
l'elemento femminile. Al Heron era decisamente bello anche quando non era in
vena di sorridere come in quel momento, malgrado lo sforzo che fece per
strapparsi un sorriso: 40 anni, ben oltre il metro e ottanta di altezza, capelli
corti castano chiaro, occhi di un azzurro intenso, corpo scolpito da una
prolungata e costante attività fisica, ben messo in risalto dall'uniforme blu
scuro della Flotta Interstellare; viso dai bei tratti regolari, tuttavia non
effeminati, piglio risoluto di chi comanda e sa farlo nel migliore dei modi.
"E' tutto pronto, capo" ebbe il piacere di annunciargli il Comandante in
Seconda, Granya Addok, 36 anni distribuiti in circa 1, 70 cm d'altezza di fisico
snello, chioma corvina dai riflessi blu, curiosamente emanati anche dalla sua
carnagione quasi bianca, su cui s'intravedevano delicati i lineamenti
orientaleggianti, e dagli occhi neri oblunghi, caratteristiche tipiche della
razza Omneris degli Oceani, proveniente dal vecchio pianeta.
Heron si fermò e salutò in silenzio tutti i componenti del suo equipaggio,
chinando appena la testa e da essi ricevette il medesimo saluto.
"Bene. - esordì poi - Vediamo se riusciamo a trovare un pò di cibo per il nostro
povero mondo affamato".
I componenti dell'equipaggio sorrisero, ma non per dovere. Amavano il Comandante
Heron, come avevano amato suo padre Elai, almeno quelli che avevano avuto la
fortuna di averlo conosciuto; coloro che si erano salvati non essendo partiti
con lui per la sua ultima missione.
"Distruggeremo quel pianeta, Comandante! - tuonò minaccioso un giovane ufficiale
- Uccideremo tutti e vendicheremo suo padre!".
Contrariamente alle sue aspettative, il giovane ufficiale ricevette da Heron una
bruttissima occhiata.
"Non distruggeremo un bel niente, Ollen. - ringhiò il Comandante - Quel pianeta
ci serve intero, altrimenti qui moriremo tutti. Riguardo agli abitanti.... - si
fermò un attimo e assunse un'espressione vaga, rammentando le parole sagge di
Adoniesis - quando arriveremo là decideremo sul da farsi. Se non avete
nient'altro da dire, direi di alzare i tacchi".
Ci fu un battito di tacchi all'unisono dopo il quale, ad un comando impartito da
un dispositivo in mano a Al, la grande astronave aprì lentamente le sue fauci
per inghiottire il suo equipaggio che, una volta all'interno, si sistemò nelle
cellette ad animazione sospesa al fine di affrontare il lungo viaggio fino alla
Terra, preservando in quel modo l'integrità fisica ed organica dei corpi.
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Capitolo 3 *** IL CLAN ***
Nuova pagina 2
3) IL CLAN
Spazio, ultima frontiera.....
Oltre alla celebre opening della storica serie televisiva fantascientifica STAR
TREK, la frase era più o meno il primo pensiero che nasceva nella mente di chi
per caso, solcando le invisibili vie dello spazio, si fosse trovato a passare
presso il piccolo sistema solare Alpha 1, costituito da 5 pianeti, di cui la
superficie dei satelliti quasi non si vedeva più, celata da uno schermo
debolmente lucente di detriti di tutti i generi, orbitanti come automi stanchi
attorno ad essi. Se poi si aveva la ventura di scendere sul suolo di detti
satelliti, ci si ritrovava con strati di altri detriti ferrosi, ferruginosi,
arrugginiti, che potevano arrivare anche fino al punto vita di un essere
umano....
Colui, o coloro che si fossero trovati ad atterrare in simili posti, si
sarebbero chiesti, appunto, in quale misero angolo dell'universo fossero
finiti....
Pianeta Beta 1
Chi invece non se lo chiedeva (più) era lo staff componente l'equipaggio del
grosso cargo scuro che da Beta 1 era decollato da alcune ore in direzione Terra,
l'ultima speranza di trovare ancora qualche metro quadro libero per poter
depositare ciò che ormai non stava più né su Beta, né sui satelliti, né in alcun
altro angolo del sistema solare e della galassia.
Sul loro mondo, l'evoluzione tecnologica era stata talmente veloce da provocare
un accumulo esagerato di materiale metallico, non immediatamente smaltibile, che
aveva costretto gli abitanti, non molto inclini a sbarazzarsi subito dei vecchi
modelli, a creare depositi su depositi per poter accatastare tutto
l'antiquariato e il modernariato industriale che si era venuto ad ammucchiare
nel corso degli ultimi anni, colpa anche del carattere nostalgico dei Betani, i
quali amavano conservare ogni singolo oggetto come testimonianza delle tappe
segnate dal progresso della popolazione.
Se si camminava per le strade delle città di Beta, ogni cinquanta, cento metri
s'incontravano negozietti, bottegucce e banchetti in cui erano esposti modelli
di computers, cellulari, portatili e altri elettrodomestici di ogni foggia,
colore ed epoca, messi in bella mostra per invitare gli abitanti ad acquistare,
anche solo per pochi cents, gloriosi reperti che dimostravano l'evoluzione
cerebrale della specie. Ma negli ultimi tempi, quelle "sirene" non incantavano
più nessun compratore, ormai sepolto da strati di progresso metallurgico ed
elettronico.
Nonostante la mole, il cargo scivolava silenzioso nello spazio come se stesse
procedendo spedito su rotaie invisibili, dritto, filato verso la Terra.
L'equipaggio addormentato non vide un veicolo più piccolo avvicinarsi a freccia
verso di esso. Ma i sensori distribuiti nelle intercapedini delle pareti,
all'interno del veicolo, avvertirono quell'avvicinamento e cominciarono a
trasmettere impulsi di avviso, incanalati poi nei cavi che arrivavano alle celle
di animazione sospesa in cui i componenti dell'equipaggio riposavano. Conor
Ukkoos aprì gli occhi per primo e azionò l'apertura del coperchio della sua
cella. Una volta fuori, sbandando leggermente a causa del lungo periodo di
inattività fisica e psichica, raggiunse il primo monitor a disposizione e lo
accese.
Quando l'immagine che lo schermo restituì fu chiara, desiderò che non lo fosse
stato. Desiderò non vedere quel che stava vedendo. Ma ormai era troppo tardi. Il
"suo"cargo era stato agganciato e bloccato da una delle astronavi piccole e
scure del famigerato CLAN, un'organizzazione spaziale malavitosa, composta da
individui provenienti da vari pianeti - inclusi Beta 1 e Ariel -, che campavano
di rapine e di ricatti.
"Vuoi arrivare vivo e con la pancia piena fino alla Terra? - gracchiò,
sprezzante, il capitano dell'astronave nemica, riempiendo il monitor con la sua
faccia larga e segnata dagli innumerevoli sfregi che marcavano la sua vita
costellata di battaglie, duelli, scontri corpo a corpo e incidenti dai quali,
non si era mai saputo come, era sempre uscito, anche più morto che vivo, ma
sempre uscito - C'è bisogno che ti ricordi cosa devi fare o te lo devo ricordare
anche adesso?".
Ukkoos fremette di rabbia. Contro il CLAN c'era poco da fare se si voleva
sopravvivere. E quello spregevole individuo, assieme alla sua ciurma di
criminali, era lì, intenzionato ad ottenere due cose in alternativa: la merce o
il denaro per proseguire e far proseguire il viaggio alle vittime.
Quegli sgradevoli incontri si ripetevano ormai da anni, cioè, da quando era
iniziato il trasporto dei detriti fuori dall'orbita dei pianeti invasi. Quella
gentaglia aveva trovato un ottimo sistema per vivere a spese del prossimo. Ma
Ukkoos decise che non sarebbe più stato a quel tipo di ricatto e, non visto,
lanciò un allarme premendo con un piede un pulsante sul pavimento, rammentando
improvvisamente che prima di lui nessuno era mai riuscito a farlo senza morire.
Perché lui era riuscito a farlo e gli altri no? Semplice: i componenti del CLAN
erano diventati così sicuri di spaventare le loro vittime con la loro sola
presenza, e spavaldi, da non cercare più la lotta fisica e la battaglia,
limitandosi a scontri verbali. Ukkoos non aveva la certezza matematica che il
suo appello avrebbe potuto avere una risposta, ma ci aveva provato. Ed ora era
pronto alla seconda fase, ovvero: la maledetta trattativa con i delinquenti.
Nel frattempo, anche gli altri del suo equipaggio erano usciti dalle celle di
animazione e fissavano afflitti la facciona sfigurata del brigante che li
guardava a sua volta, attraverso lo schermo, col tipico ghigno sfrontato di chi
è certo della vittoria.
Sganciarsi dal veicolo dei criminali era praticamente impossibile. Questi
avevano trovato il modo di bloccare le astronavi, anche le più grosse, con la
forza di attrazione di grandi calamite che non permettevano il benché minimo
movimento fuori dal fascio attrattivo. E non mollavano finché non avevano
ottenuto ciò che chiedevano. Nel peggiore dei casi facevano saltare i mezzi dei
resistenti, ma negli ultimi tempi non erano più ricorsi a questi metodi estremi,
avendo capito che in questo modo anche loro andavano a perderci, quindi,
l'incontro/scontro con la banda del CLAN si risolveva spesso, purtroppo, in
estenuanti trattative.
"Quanto vuoi?" chiese infatti Ukkoos, freddo e laconico.
Gangu - questo era il nome del comandante del veicolo del CLAN - torse bocca,
già storta, e faccia in una smorfia di spocchiosa sufficienza che provocò un
ulteriore, seppur contenuto e silenzioso, moto di rabbia nell'animo del capitano
di Beta 1.
"Sai come funziona, no? - replicò Gangu, mellifluamente, disgustosamente calmo -
Metà della pappa così com'è o in altro metallo dal suono più dolce". E Ukkoos
sapeva che, di solito, la prima alternativa era la più conveniente. Non si
viaggiava mai con denaro e, oltre tutto, con certi personaggi circolanti, le
transazioni finanziarie erano sempre un rischio. I membri del CLAN trovavano
spesso scuse e trucchi per ottenere più denaro possibile, anche in quantità di
molto superiore all'effettivo valore della merce.
Ma era proprio a questo punto che l'inganno più grosso veniva messo in scena.
Il CLAN non si accontentava di prendersi la merce e andarsene.
No.
Le loro astronavi mantenevano arpionate quelle delle vittime con le calamite e
si facevano trainare fino a destinazione risparmiando sul carburante,
costringendo invece i mezzi degli avversari ad un consumo doppio a causa del
traino. Il massimo dello sfregio e del disprezzo nei confronti di qualunque
altro essere umano.
Tuttavia, i malviventi non avevano idea di cosa li stesse aspettando dietro
l'angolo.
Il cargo riprese tristemente il viaggio verso la meta con la zavorra attaccata a
poppa e il sangue dei componenti dell'equipaggio che ribolliva dalla rabbia per
l'impossibilità di reagire.
4) UNA DECISIONE TERRIBILE
Immagini confuse di scene di panico e disperazione nelle quali individui di
vario aspetto si assalivano, assalivano e venivano assaliti da altri individui
che non sembravano avere più remore ad uccidere, si sovrapponevano l'una
sull'altra come in un video montato con frequenti transizioni di dissolvenza
incrociata. Al Heron si vedeva poco più che bambino, poco meno che adolescente,
stretto al fianco di suo padre, che lo rassicurava:
"Non ti preoccupare, Al. - gli diceva l'uomo, dolce - Ce ne dobbiamo andare, ma
andremo a star meglio, vedrai". Poi, non sapeva come, davanti a lui e tutto
intorno, si levavano alte fiamme e lui si trovava a correre in mezzo a
quell'inferno di fuoco, uscendone stranamente e miracolosamente illeso. Subito
dopo, di solito, si svegliava di colpo, in un bagno di sudore, ma non riusciva a
ricordare altro di quello strano, ricorrente, tremendo sogno.
L'elegante lunga freccia argentea solcava velocissima lo spazio nero verso la
Terra.
All'interno, il silenzio irreale e palpabile del riposo in cui galleggiavano gli
occupanti dell'astronave nelle loro celle fu interrotto con discreta fermezza
dagli impulsi del sistema di comunicazione che stava ricevendo un messaggio di
soccorso.
E l'ultimo impulso giunse alla mente e al corpo immobile del comandante Heron
sotto forma di piccola e leggera scossa elettrica che fece fremere le sue membra
svegliandolo di soprassalto dal suo sonno e dal suo consueto incubo. Sentendosi,
come sempre, immerso in una vasca di sudore ma, tutto sommato, libero dal sogno,
Heron aprì un occhio e guardò oltre il vetro brunito sopra di lui. Sbatté le
palpebre per schiarirsi la vista e qualche secondo dopo il coperchio della cella
di animazione sospesa si aprì automaticamente da solo, invitandolo in modo
subdolo ad uscire dalla "cuccia" per andare a vedere cosa stava succedendo. Per
quanto il macchinario fosse sofisticato, i circuiti di un computer non
arrivavano sempre a capire che avrebbe potuto trattarsi di un inganno o di un
falso allarme, ma Heron sapeva che, in ogni caso, quando il sistema di
comunicazione riceveva un messaggio di richiesta di aiuto, in qualche modo,
bisognava almeno scoprire se di inganno si trattava.
Il comandante uscì dalla cella, si stiracchiò per sciogliere i muscoli
rattrappiti dalla prolungata inattività, uscì anche dalla stanza del "lungo
riposo" e mentre compiva queste azioni, le luci nell'astronave sembrarono
accendersi a "domino", una dopo l'altra al suo passaggio, come se ogni suo
movimento attivasse ciascuna delle funzioni del veicolo. L'orologio al polso
destro rinnovò il promemoria del motivo che lo aveva destato dal suo sonno
indotto. Una lucina rossa indicava richiesta di aiuto. Col polpastrello
dell'indice destro, Heron sfiorò la superficie vetrosa dell'oggetto facendo
comparire sul display la parola AIUTO in una lingua che non conosceva ma che il
traduttore simultaneo tradusse nella sua. Era davvero una richiesta di soccorso
o era una trappola? L'avrebbe saputo presto e se così fosse stato non ne sarebbe
rimasto nemmeno troppo sorpreso. Nel corso di quei viaggi, eventi del genere non
erano una novità.
In sala comando, tuttavia, apprese qualcosa che gli fece piacere.
Non erano lontani dalla destinazione.
Lo schermo acceso gli mostrò lo spazio e i dati riguardanti il percorso già
coperto e quello ancora da coprire. La Terra era già visibile, sebbene in
formato puntino sul radar.
Ma un altro schermo gli mostrò altri dati meno piacevoli: quelli concernenti la
richiesta di aiuto, e a sinistra dello schermo, nell'area rotonda del
rilevatore, apparvero due cerchi di cui il secondo più piccolo del primo in
ordine di comparsa. Heron fissò lo sguardo sullo schermo, avvertendo
misteriosamente crescere una certa ansia nell'animo. In quel momento, nella sala
fecero il loro ingresso Addok e Ollen.
"Comandante. - esordì il giovane ufficiale - Che succede?".
"Sembra che qualcuno abbia bisogno di noi" rispose Heron in apparente buon
umore.
"Non sarà una trappola?" osservò Ollen, diffidente.
"Lo sapremo presto, credo. - rispose Heron - Ben svegliati" concluse girandosi
verso di loro e abbozzando finalmente un mezzo sorriso. A distanza di pochi
secondi, uno dopo l'altro, entrarono in sala anche gli altri tre
dell'equipaggio: due donne ed un uomo.
Trascorsero probabilmente cinque minuti allorché all'angolo sinistro dello
schermo più grande fece capolino la punta di un veicolo spaziale che procedeva a
buona velocità ma non eccessiva permettendo così ad Heron e il suo equipaggio di
sapere cosa li aveva svegliati.
Nervi e muscoli dei sei occupanti l'astronave si tesero in contemporanea nel
momento in cui la massiccia nave spaziale si rivelò in tutta la sua possanza,
avanzando quasi con fatica, seguita da un altro mezzo che la teneva "ancorata"
ad un magnete. I sei impiegarono pochissimi secondi a capire la situazione.
"Oh no! - mormorò Heron vedendo la scena - Il CLAN! Tutti ai posti di
combattimento!" ordinò ad alta voce. Si disposero tutti e sei nelle loro
postazioni, con le dita pronte a premere i pulsanti giusti.
Le due astronavi procedevano ad una certa distanza dal veicolo di Heron, ma un
raggio che fosse partito dalla nave del CLAN avrebbe disintegrato il suo
gioiello. A quel che capì di trovarsi di fronte, Heron sentì la colonna
vertebrale attraversata da un lungo, potente brivido e si sentì posto davanti ad
una decisione tremenda: sparare sul mucchio e distruggere entrambe le astronavi
! Il CLAN non perdonava! Avvertì fisicamente l'intensità degli sguardi degli
altri suoi compagni di viaggio conversi su di lui. Non possedeva facoltà
psichiche; non era in grado di leggere nel pensiero altrui, ma in quel momento
non era difficile immaginare cosa gli altri stessero pensando. Salvare
l'equipaggio dell'astronave attaccata dal CLAN avrebbe voluto dire essere poi
aggrediti dai criminali nel peggiore dei modi. Anche Heron sapeva che i
delinquenti del Clan non uccidevano più nello spazio, ritenendo più conveniente
essere "accompagnati" a destinazione, salvo poi sterminare le vittime una volta
atterrate nel pianeta, ma non accettava di sottostare alle condizioni di quegli
sciagurati. Essendo la ricerca di uranio e materiali radioattivi lo scopo del
viaggio che aveva intrapreso, la sua astronave non aveva carico nella stiva,
tuttavia lo avrebbe avuto dopo, e il Clan gli avrebbe chiesto il "contributo"
per la salvezza dell'equipaggio e del carico. Fu assalito da un dubbio atroce: e
se suo padre fosse morto proprio per questo motivo? Se anche lui avesse
incontrato il CLAN? Se non avesse accettato il loro ricatto? Gli era stata
riferita la modalità della sua morte, ma non la causa. I secondi successivi
passarono lentissimi come se tutto intorno a lui avesse perso peso, spessore e
velocità. Gli sguardi dei membri dell'equipaggio lo stavano trapanando in attesa
di una sua decisione, di un suo ordine. Poi, un evento lo scosse dal torpore. Il
grosso volto sfregiato, la testa pelata e la voce gracchiante, uscita dalla
bocca deformata del capo banda, lo scrollarono dall'impasse.
"Ci vediamo sulla Terra, vecchio mio!".
"Non esserne troppo sicuro" si sorprese a rispondere Heron, glaciale ma con il
fuoco della rabbia dentro di sé. Granya Addok si era girata verso di lui e lo
fissava tanto che lui si sentì radiografato dal suo sguardo scuro e obliquo. A
sua volta, Heron si girò verso di lei.
Silenzio siderale nel vero significato del termine.
Le due astronavi unite scivolarono e cominciarono ad allontanarsi.
L'ultima immagine che apparve sullo schermo fu il volto magro, teso, ma fiero e
composto di quello che doveva essere il comandante del cargo il quale scrutò
Heron nella sua muta richiesta di soccorso, la cui risposta, forse, già
conosceva e si aspettava quasi come una liberazione.
Un minuto dopo, a debita distanza e giusta posizione, la volta nera del cielo fu
rischiarata da un gigantesco lampo di luce dopo il quale Heron abbassò la testa
per non vedere.
Era consapevole di aver ucciso degli esseri umani, fra i quali anche degli
innocenti, ma la testa del mostro era stata staccata e distrutta. Non che
l'azione in sé avrebbe del tutto risolto il problema, tuttavia, senza la testa,
senza più i capi dell'organizzazione, il mostro del CLAN avrebbe perso molto
del suo potere.
Heron teneva ancora lo sguardo basso quando l'ufficiale Ollen lasciò la sua
postazione per avvicinarsi a lui.
"Dovevamo farlo, comandante" giustificò l'atto, serio e compreso.
Heron rialzò la testa e tornò a guardare lo schermo ora riempito solo di punti
luminosi.
"Già. - asserì, scuro in faccia e con timbro profondo della voce - Dovevamo
farlo".
Nessuno degli altri si pronunciò né a favore, né contro la decisione del loro
superiore e non per paura. Tutti erano stati addestrati a prendere provvedimenti
drastici nelle occasioni in cui fosse stato necessario. E quella era stata una
delle occasioni. Heron si concentrò ed esercitò tutto il potere di persuasione
di cui era capace su se stesso per convincersi che perfino il comandante del
cargo gli aveva tacitamente chiesto di farlo pur di non dover sottostare ai vili
ricatti di quegli esseri abominevoli, ma il decidere nella simulazione durante
l'addestramento e il trovarsi in situazioni del genere nella realtà erano cosa
ben diversa e lo spirito con cui si faceva fronte a tali situazioni non era mai
lo stesso. Non era la prima volta che Heron aveva dovuto arrivare a simili
soluzioni, ma questi atti gli lasciavano sempre un sapore amaro in bocca.
"Comandante. - esordì Addok - Abbiamo sicuramente distrutto l'astronave del
CLAN, però non è del tutto sicuro che abbiamo distrutto anche l'altra".
Heron si voltò verso di lei. Il suo sguardo era fermo e fiero.
"Non cercare di consolarmi, Addok - la rimproverò blandamente e stancamente
Heron - Sai anche tu che per estirpare il maligno, spesso bisogna colpire anche
il buono".
A quel giro, furono gli altri ad abbassare lo sguardo.
"Torniamo a dormire, comandante?" chiese un altro giovane ufficiale.
"Si. - rispose Heron - E' meglio. Fra non molto dovremmo entrare in fase
d'ingresso nell'atmosfera terrestre, che è la più difficile, e meno energia
consumiamo, più ce ne sarà per la fase" e nel dirlo, si alzò dalla postazione di
combattimento premendo contemporaneamente il pulsante di sospensione energia.
Man mano che si avvicinavano alla sala delle cuccette, le luci si spensero al
loro passaggio e dopo pochi minuti, l'interno dell'astronave tornò buio e
silenzioso.
Heron si stese nella cella e attivò il dispositivo del sonno. Si addormentò con
l'immagine dell'esplosione negli occhi.
Ciò che avvenne nell'arco di tempo successivo fu molto strano e violento.
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Capitolo 4 *** Un giorno da non dimenticare ***
Nuova pagina 2
UN GIORNO DA NON DIMENTICARE
Terra, 2114, una
notte stellata di giugno in una tranquilla cittadina svizzera
La graziosa cittadina di Grindewald, spalmata su una paradisiaca valle
circondata dalle montagne, dormiva sotto un cielo stellato di giugno quando il
buio e il silenzio furono bruscamente squassati da un fragore apocalittico e da
un bagliore che illuminò a giorno la zona per alcuni istanti, svegliando per
primi gli animali, soprattutto i cani che presero ad abbaiare furiosamente,
atterriti dal baccano provocato dal boato.
Anche Wendy, la terrier della famiglia Aloisi, sprofondata fino ad un secondo
prima nel sonno del giusto, si destò di colpo, uscì dalla sua cuccia in giardino
e cominciò ad abbaiare con una certa veemenza all'alone azzurro-rosso-giallo che
si vedeva oltre la cresta del monte, contro il quale, il profilo seghettato
della cima si stagliava nero come la bocca super dentata di un' orribile
creatura che si fosse svegliata anche lui dal botto.
Il forte rumore penetrò attraverso le persiane e le ante semi-chiuse della
finestra che dava luce alla camera da letto dove Stefano Aloisi e Annamaria Di
Gennaro riposavano dopo una giornata di lavoro. Quando Annamaria si destò e
guardò l'orologio, questo segnava le 3 di notte.
E la donna ebbe un cattivo presentimento.
Si alzò e andò ad aprire la finestra. Presto, il presentimento si trasformò in
amara previsione.
Avrebbe dovuto tornare in ospedale. Morti, o feriti gravissimi, in arrivo.
Anche Stefano si svegliò e la raggiunse alla finestra.
Insieme convogliarono gli sguardi in direzione della montagna di fronte, dietro
la quale sembrava essersi acceso un incendio che però pareva anche essersi già
ridimensionato.
Annamaria sospirò.
"Nemmeno stanotte si dorme" constatò, rassegnata.
Infatti, dopo pochi istanti, il suo orologio emise il classico bip del
cerca-persone.
I due si guardarono alla luce del bagliore e Stefano scrutò serio sua moglie.
Annamaria tornò al letto e cominciò a vestirsi.
"Speriamo che non sia troppo grave" si limitò a commentare il marito.
"Grave o non grave, devo andare. Lo sai" asserì, senza tuttavia tono di lamento.
Stefano baciò Annamaria e lei, una volta vestita, uscì di casa aprendo nel
frattempo il garage con un comando dell'orologio.
Federico, il terzo dei loro figli, uscì dalla sua stanza e incontrò suo padre.
"Che è successo?" chiese, assonnato.
"La mamma deve andare al lavoro. - spiegò l'uomo - Ma sarà una cosa breve. Torna
a dormire" e nel dirlo, abbracciò il bambino e lo accompagnò nella sua camera.
Non sapeva perché, ma sentiva che invece non sarebbe stata una cosa molto breve.
Ciò nonostante, non aveva idea di cosa fosse capitato nella cittadina di cui era
sindaco e, al momento, non aveva sentore dell'evento incredibile di cui il paese
sarebbe stato protagonista nelle settimane successive.
Qualche ora dopo, nel suo ufficio di primo cittadino, Stefano era pronto ad
affrontare una nuova giornata di lavoro, ignaro di cosa avrebbe dovuto
ulteriormente fronteggiare nelle ore e nei giorni che seguirono.
La cittadina che amministrava si trovava in una splendida e soleggiata conca
verde chiusa da una corona di montagne dalle cime nude ed aguzze, in un
paesaggio che, visto dall'alto dava l'idea di essere capitati nel classico
villaggio da favola o da cartolina natalizia, con le casette di massimo due
piani, in pietra, legno e intonaco bianco, i tetti a punta e i balconcini da cui
scendevano fasci di gerani colorati. Tuttavia, Stefano sapeva, per esperienza
personale, che quel paradiso in terra nascondeva in realtà tensioni latenti fra
la comunità teutonica e quella italiana, più numerosa, trasferitasi in parte lì
dopo i fatti accaduti un secolo prima.
Lui era nato nella cittadina e da 45 anni ci viveva, ora con la sua numerosa
famiglia composta da lui stesso, la moglie Annamaria e i quattro figli nati
dalla loro unione, ma i suoi genitori e i suoi avi erano emigrati in quel luogo
parecchio tempo prima e, inizialmente, si erano scontrati con la comunità locale
tedesca che, come ovvio, non li aveva accolti a braccia aperte. Malgrado questo,
ma, forse, grazie alla sua mole (1, 95 m), nonché al suo carattere deciso,
Stefano era riuscito a imporsi sugli "indigeni" di lingua germanica. Non era
andato tutto liscio, la strada non era stata ancora completamente spianata, ma
era stato accettato e, alle ultime elezioni amministrative, era stato eletto
sindaco di Grindewald anche dai tedeschi.
A dispetto che fosse un venerdì mattina, un dipendente del Comune in divisa
entrò nell'ufficio per annunciare a Stefano che quella notte, in un locale della
città era scoppiata una rissa fra autoctoni e Italiani dalla quale un certo
numero di avventori era uscito con varie ammaccature, molto alcool e una
discreta quantità di rabbia in corpo. Con un sospiro tranquillo, Stefano ordinò
all'uomo di chiudere il locale, almeno per la sera seguente, andare all'ospedale
e ascoltare le testimonianze dei presenti, nonché dei partecipanti attivi alla
rissa, quindi, di tornare poi in ufficio per riferire la dinamica dei fatti,
sebbene non gli fosse difficile immaginare come sicuramente questi si erano
svolti.
Solita storia. Anche dopo anni, qualche indigeno ancora mal tollerava
l'invasione italiana della sua quieta cittadina svizzera. Ma quando il graduato
tornò in ufficio per conferire con lui, il suo volto chiaro di uomo nordico,
caratterizzato dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, era ancora più chiaro,
quasi cadaverico, e gli occhi erano sgranati. Turbato, Stefano chiese
spiegazioni e la risposta, confusa, fu ancora più preoccupante.
"Signor sindaco, - balbettò quasi l'uomo - l'ospedale è in assetto di grave
allarme. Non mi hanno fatto entrare. Si sospetta un'epidemia, ma non ho capito
di cosa!".
Il pensiero di Stefano andò velocissimo alla moglie, primario al nosocomio
comunale, e si fece ulteriormente più pesante, dopo il tentativo ripetuto e
inutile di chiamarla con il telefono incorporato all'orologio. Riuscì a
mantenersi calmo, almeno all'esterno, ma sentì il cuore fare le capriole. Questo
nuovo allarmante evento aveva a che fare con ciò che lui e Annamaria avevano
visto durante la notte? I nuovi tentativi di contattare la consorte, andati a
vuoto, incrementarono la paura. Per mettere d'accordo la popolazione, il vice
sindaco era tedesco, ma non si trovava in giro, sicché Stefano chiese all'uomo
in divisa di andare a cercarlo, pregandolo, una volta trovato, di recarsi subito
nel suo ufficio. Nella comunità tedesca, c'era anche chi amava Stefano per
quello che era, riconoscendogli i suoi pregi di autentico leader e ottimo
conduttore di un'amministrazione non facile.
L'ufficiale di Polizia montò in macchina e si avviò, spedito, in direzione di
uno dei probabili luoghi in cui sapeva avrebbe trovato la "spalla" del sindaco.
E infatti lo trovò proprio lì, in un locale, in cui stava consumando la
colazione a base non di cappuccino e dolcetto, ma di birra e salsicce. E a
giudicare dal colorito rosa acceso del volto paffuto, non era alla prima pinta.
Con modi gentili, ma fermi, invitò il secondo cittadino a raggiungere subito il
luogo di lavoro. Stancamente, e borbottando, il vice sindaco lasciò il grosso
boccale di ceramica bianca dipinta a mano con paesaggi del posto, depositandolo
sul bancone con fare seccato, pagò alla cassa e uscì dalla birreria, seguìto dal
graduato che non lo perse mai di vista finché non lo vide entrare nella
palazzina del municipio.
Il panico travolse quasi Stefano quando, arrivato all'ospedale, non fu possibile
neppure a lui entrare.
Di Annamaria e dei suoi colleghi, nessuna notizia. Erano "ostaggi" all'interno
dell'edificio.
Ma dopo un'ora circa, Annamaria comparve, piccola, affacciandosi all'apertura,
in mezzo alle due grosse ante della porta in fondo al corridoio dove lui si
trovava, all'imbocco. Vedendolo, corse verso di lui e si abbracciarono.
Indossava ancora il camice da chirurgo, si stava togliendo i guanti ed aveva
abbassato la mascherina sulla gola. Quell'atto rassicurò Stefano di molte
tacche. Se lo abbracciava, voleva dire che non era infettata da qualche
misterioso e pericolosissimo virus vagante.
"Allora non è epidemia! - constatò Stefano, rincuorato, stringendo le spalle
della sua donna - Non ci sono malattie gravi in circolazione".
Il volto mediterraneo della moglie era pallido, ma non eccessivamente sconvolto.
L'espressione dei suoi occhi scuri era di stupore, mista a preoccupazione per
qualcosa di certamente serio e, più che altro, sconcertante.
"Ti dico tutto a casa, stasera. - tagliò corto la donna - Adesso non posso
parlare".
"Cosa devo fare io?" chiese Stefano, invece più agitato.
"Niente. - rispose Annamaria - Continua pure il tuo lavoro. Stasera ti racconto
tutto, Ora, meno sai, meglio è" e nel parlar così, lo baciò con dolcezza e
passione confermando in questo modo l'assoluta assenza di eventuale pericolo di
contagio.
Per quanto incuriosito al massimo, Stefano si sentì più rasserenato e, insieme
con lei, si avviarono verso la prima macchina erogatrice di caffè. Il personale
del nosocomio si aggirava, frettoloso per i corridoi dell'edificio senza però
risparmiare un saluto riverente, seppur rapido, alla prima coppia della città e
Stefano, dal canto suo, non negò ad alcuno un breve inchino della testa
sorseggiando il caffè che lui e Annamaria avevano pazientemente insegnato alla
popolazione locale a fare secondo la ricetta italiana ovvero: forte, concentrato
e aromatico.
Vedere i due insieme strappava un sorriso di compiacimento ma anche di sottile,
bonaria, ironia.
Fra marito e moglie c'erano almeno trenta centimetri di differenza in altezza.
Benché abbastanza magro, Stefano era un colosso fisico, un armadio a tre ante,
con un viso largo e squadrato, addolcito però da un perenne velo di barba
castana, come i capelli che gli coprivano per intero il collo, e irradiato da un
paio di begli occhi grigio verde, di taglio leggermente allungato, acuti e
indagatori. Annamaria era minuta, con capelli castano scuro lunghi, ora raccolti
nella cuffietta dell'uniforme ospedaliera e gli occhi grandi e scuri come i
capelli, dall'espressione dolce e intensa, che illuminavano un viso
rotondeggiante dai tratti regolari da cui sporgeva il naso lievemente aquilino.
Annamaria era medico ed era riuscita ad entrare a lavorare nell'ospedale della
città grazie all'aver salvato la vita al figlio più piccolo di un notabile di
lingua tedesca del luogo, colpito da un'improvvisa quanto misteriosa forma di
meningite. Forse era stato anche questo episodio che aveva favorevolmente
contribuito all'accettazione della comunità italiana nella rigida e diffidente
comunità germanica.
Finito di sorbire il caffè, i coniugi si salutarono ed ognuno tornò alla sua
mansione, ma per Stefano non fu facile riprendere a svolgere il suo incarico con
i pensieri che andavano alla moglie e al mistero che avvolgeva la struttura
sanitaria della città in quelle ore.
Quando Stefano rientrò in ufficio, la palazzina comunale, bianca, di soli tre
piani, con decori geometrici in legno era circondata dalla cittadinanza che,
malgrado lo sforzo congiunto del vice sindaco e dell'ufficiale di polizia di
rassicurarla, aveva riempito la piazzetta antistante, per chiedere delucidazioni
sulle voci che avevano cominciato a circolare a proposito di ciò che stava
accadendo all'ospedale. Quella notte non solo Stefano e Annamaria avevano
sentito il boato e avevano visto il bagliore quasi diurno illuminare il retro
della montagna e volevano saperne di più,
"Tranquilli, amici! - tuonò Stefano in perfetto tedesco, salito sull'ultimo
scalino davanti alla porta d'ingresso. - La situazione è meno grave di quanto si
fosse immaginato all'inizio e tutto è sotto controllo. Potete tornare a casa e
riprendere le vostre attività. Vi terremo informati sugli sviluppi".
Detto ciò, rientrò nell'edificio e raggiunse la sua postazione di lavoro.
Inutile dire che i cittadini non lasciarono subito la piazza rimanendo lì a
raccontarsi e a commentare gli eventi.
Oltre ad essere una piccola città, per la sua collocazione, e per le conseguenze
di ciò che era avvenuto tempo addietro, Grindewald era isolata dal resto del
mondo e, da allora, per i suoi abitanti ciò che importava maggiormente era solo
ciò che succedeva all'interno della conca fra i monti nella quale era distesa.
Di quel che accadeva al di fuori, nel pianeta, da tempo lì non giungevano più
informazioni o notizie. Per caso o di proposito? Pertanto, i compiti del primo
cittadino, spartiti poi fra i vari assessorati, erano di mantenere l'ordine, far
quadrare i conti fra spese e ricavi, celebrare matrimoni, registrare morti e
nascite e, periodicamente, organizzare feste e sagre.
Pochi minuti dopo essersi reinsediato al suo posto, Stefano fu, appunto,
disturbato da una coppia mista - un italiano e una tedesca - che gli chiesero di
sposarli. Finito il pacifico tumulto per l'arcano in ospedale, la normalità si
ristabilì apparentemente in quel piccolo paradiso in terra.
Nessuno degli abitanti ebbe il minimo presentimento che qualcosa, invece, stava
per cambiare.
Sera
Finalmente Annamaria, sfinita, varcò la soglia di casa, accolta da Stefano, in
fibrillazione, dopo essere riuscito faticosamente a convincere i suoi figli più
piccoli: Federico e Annalisa di sei e tre anni, ad andare a letto. Decisero di
attendere e assicurarsi che tutti e quattro i loro ragazzi fossero sprofondati
nel sonno e si ritirarono anche loro nella loro stanza. Stefano non stava più
nella pelle per conoscere i segreti del mistero che Annamaria gli aveva
accennato in ospedale e Annamaria non sapeva invece da dove cominciare a
raccontare. Non si poteva definire scioccata, ma era ugualmente scossa
dall'evento.
"Sono....tutti morti?" azzardò Stefano, quasi timoroso di una conferma.
"No. - rispose sorprendentemente Annamaria - Beh... - proseguì poi, costernata -
Tre sono gravi e non sappiamo se ce la faranno; due sono in prognosi riservata,
ma nutriamo qualche speranza e uno sembra se la sia cavata con qualche costola
rotta ma....".
"Ma?" la incalzò Stefano, trepidante.
Annamaria scosse la testa, molto esitante.
"Non so come dirlo" continuò.
"Dillo, semplicemente" la incoraggiò il marito.
Annamaria sollevò il viso e guardò il consorte negli occhi.
"Non sono dei nostri" rispose, espirando come per liberarsi di un peso.
Si sentì sondata dagli occhi grigio verdi di Stefano che le scavarono nell'anima
fino ai meandri più reconditi.
"Cioè? - chiese maggiori lumi lui, assumendo il tono di chi sta sul chi vive,
con le ciglia aggrottate - Non sono del paese? - Annamaria negò - Vengono da
un'altra zona della Terra?" Annamaria negò ancora.
Stefano sentì di toccare la soglia dell'allarme rosso. Annamaria annuì.
"Hanno la pelle color bianco perlaceo, - specificò - e...il sangue blu". Vide
gli occhi del marito ingrandirsi oltre misura.
"Alieni?" esclamò. Annamaria gli fece cenno di abbassare di molto il volume
della voce.
"A meno che l'inquinamento sul pianeta non abbia raggiunto livelli tali da
apportare simili modifiche al DNA umano, non risulta che sulla Terra ci siano
popolazioni con queste caratteristiche" commentò.
"Oh cazzo!" se ne uscì Stefano strappando un sorriso alla consorte che pur non
amando molto il turpiloquio, trovò, in questo caso, l'esclamazione, divertente.
"Già" confermò lei, sorridendo ancora.
"E... - balbettò Stefano - come sono?".
"Come noi, Stefano. - rispose lei - Due braccia, due gambe, due occhi.... E sono
belli. Non sono mostricciatoli con la testa grossa, il corpo piccolo o le
antenne come li abbiamo visti in certi film di fantascienza piuttosto stupidi".
"Dio ci ha creati tutti a sua immagine e somiglianza. - commentò Stefano,
fissando, ieratico, un punto lontano oltre le spalle della moglie - Non solo
sulla Terra.... - Se è vero, - proseguì, serio - e se....Dio esiste
veramente.....ancora" concluse.
In qualità di sindaco, Stefano era autorizzato a celebrare matrimoni, ma non era
il suo ruolo il solo motivo. Da anni non venivano più celebrati matrimoni
religiosi in chiesa perché....da anni non c'erano più sacerdoti a celebrarli e
le chiese erano chiuse.
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Capitolo 5 *** OSPITI ***
Nuova pagina 2
6) STRANI MOVIMENTI
Terra: nei paraggi
dell'Area 51
Il drone sorvolò, con un lieve e regolare ronzio, la spianata, bruciata da un
Sole implacabile, di quell'angolo di pianeta che sembrava sgombro da qualunque
tipo di detrito, presente invece su molte altre aree del globo terracqueo, e
l'apparente assenza di vita, registrata dal dispositivo, parve dare il via alle
successive manovre di un mezzo pesante, ma volante, che atterrò su una pista
ormai ricoperta di sabbia per svolgere la sua mansione.
La nuvola sabbiosa si alzò e coprì la visuale per un minuto circa per poi
dissolversi e ridiscendere pacifica sul terreno lasciando chi di dovere a
compiere le manovre del caso. Il grosso veicolo spalancò verticalmente la sua
gigantesca bocca e da essa uscì tutto ciò che costituiva fastidio ed ingombro
per coloro che erano arrivati fin lì a sbarazzarsene: ferraglie, qualsiasi
prodotto di scarto di qualunque materiale e perfino rifiuti organici.
Ma quei movimenti e quel baccano non passarono inascoltati e, dal nulla, un
manipolo di cinque individui, abbigliati con tute mimetiche, e con grosse armi
da fuoco fra le mani, fecero la loro silenziosa comparsa piazzandosi a gambe
divaricate e atteggiamento sprezzante al cospetto della squadra di operatori
..... ecologici i quali si fermarono, sbigottiti, a guardarli.
"Oh no! - esclamò a mezza voce uno di loro - Anche qui".
"Già. - fece uno dei cinque, con un sorriso cattivo - Noi siamo ovunque la
nostra presenza sia necessaria. E direi che questo sia uno dei casi, non
trovate?".
"No" rispose, secco, un membro dell'equipaggio del veicolo di scarico.
"Mmmm.... - muggì il primo individuo armato e mimetizzato che aveva parlato - Da
qualche parte mi pare di aver letto e capito che questo è terreno privato,
quindi lo scarico non è legale a meno che non si abbiano permessi speciali".
"Perché? - ribatté un altro del mezzo di scarico - Tu ce l' hai il permesso? A
me non sembra. Che vuoi da noi?".
"Se tenete ad avere il permesso noi potremmo anche farvelo avere. - replicò
l'uomo armato - Con uno scambio vantaggioso".
"Per voi criminali!" protestò vivacemente il primo scaricatore.
"Anche per voi, idiota" protestò il tizio armato, tornando serio, e in tono
duro.
"Certo. - si ribellò il secondo scaricatore - Ci dobbiamo rivendere il cargo per
pagare la vostra gentile concessione. Ma va' all'inferno!".
"Inferno? - ripeté il malvivente, sarcastico - Non esiste".
"Per te, e per tutta la tua razza, esiste. - rispose lo scaricatore - Ne
abbiamo creato uno apposta per voi proprio ora" e nel dirlo premette un pulsante
a destra del suo orologio da cui scaturì un sottile raggio blu che andò a
colpire il rompiscatole in mezzo al torace, spedendolo qualche metro indietro
sul terreno.
Uno degli altri cinque sparò col suo mitra vintage e colpì a morte uno degli
scaricatori. L'altro si era già andato a rifugiare rientrando nel veicolo e lo
stava per chiudere quando tutta l'area sotto i suoi piedi, e sotto il mezzo di
trasporto, cominciò a vibrare intensamente e poi a tremare nel tipico moto
ondulatorio di un fortissimo sisma. I quattro delinquenti rimasti in piedi
videro il terreno su cui sostavano aprirsi letteralmente ma in modo anomalo. Il
suolo, infatti, non si spaccò creando crepe serpeggianti, classiche delle
conseguenze di un terremoto, ma si aprì in un unica lunghissima faglia dritta e
il terreno iniziò a sprofondare con un boato terrificante trascinando tutto ciò
che vi era sopra in una enorme voragine che ingoiò qualsiasi cosa vivente e/o
non.
7) IL RISVEGLIO
Grindewald, tre
giorni dopo l'incidente
Elai Heron teneva Al per mano e Al guardava suo padre con ammirazione e paura.
Lo vedeva alto e grande. Un gigante severo ma buono che lo stava però conducendo
dentro una foresta di fiamme le cui lingue rosse e gialle dalle punte azzurre
danzavano minacciose davanti ai suoi occhi formando a tratti sagome di volti
umani terrificanti e terrorizzati che, ad un certo punto, cedevano il posto,
svanendo, all'apparizione di una croce con la parte inferiore dell'asse
centrale più lunga rispetto a quella superiore.
E come sempre accadeva, Al Heron si svegliò in un bagno di sudore e....di
dolore!
Aprì gli occhi e non riuscì a capire dove si trovasse. Il soffitto sopra di lui
aveva pieghe e riflessi argentei e quasi tutto il suo viso era coperto ed
imprigionato da un aggeggio morbido che si muoveva seguendo il suo respiro.
Tuttavia, pur essendo regolari, inspirazione ed espirazione gli provocavano
fitte acute a tutto il torace. Cosa gli era successo? Perché sentiva male
dappertutto? Gli venne spontaneo muoversi, ma il dolore gli gelò la spontaneità.
Il secondo istinto fu di chiamare aiuto, ma anche quello gli morì nella gola
arsa dalla sete. La situazione in cui versava non gli piaceva per niente e provò
rabbia nel constatare che non avrebbe potuto cambiarla almeno nel tempo a
venire. Inoltre, ripensando a suo padre, si ricordò che doveva vendicarlo.
Era ora di pranzo e Stefano intravide una remota possibilità di incontrarsi con
sua moglie e i suoi ragazzi per consumare finalmente, una volta ogni tanto, un
buon pasto tutti insieme. Telefonò ad Annamaria la quale, anche lei ottimista
nel vedere questa opportunità, fissò con lui un piccolo programma per i minuti
successivi: lei sarebbe passata a prendere i due maschi a scuola; Stefano
avrebbe prelevato Annalisa all'asilo. Flavia, la figlia maggiore, dodicenne,
sarebbe uscita da scuola verso l'una per raggiungerli in un ristorantino non
lontano dal municipio.
Tutto andò secondo i loro piani fino all'ingresso al ristorante.
In quel momento, Annamaria ricevette una chiamata urgentissima dall'ospedale da
cui era uscita senza problemi circa un'ora prima. Uno dei pazienti "speciali" si
era svegliato, era riuscito ad alzarsi dal suo letto ed ora stava minacciando
altri pazienti ed alcuni operatori sanitari con un bisturi in mano e la ferma
intenzione di usarlo se non avesse ottenuto ciò che chiedeva.
Al suo ritorno nel nosocomio, entrando nella stanza nella quale era ricoverato,
l'uomo si girò verso di lei e le lanciò un'occhiata così intensa che lei ne
avvertì la profondità da lontano e, avvicinandosi a lui, non poté far a meno di
notare il blu cobalto dei suoi occhi che la radiografavano fino al midollo.
Fu invasa dall'imbarazzo, più che altro pensando a come avrebbe comunicato con
lui. Senza lasciare il bisturi, il paziente si strinse la testa fra le mani,
contraendo il viso in una smorfia di concentrazione e apparente, forte
sofferenza, dopodiché, con sua grande sorpresa, le rivolse la parola nella sua
lingua.
"Perché avete ucciso mio padre? - accusò, accorato - Cosa aveva fatto?".
Annamaria restò annichilita dallo stupore ma trovò la forza di rispondere:
"Non abbiamo ucciso suo padre. - disse, sforzandosi di tenere i nervi e tutto il
resto sotto controllo - Mi dispiace molto che sia stato ucciso, glielo
garantiamo, ma non siamo stati noi e non sappiamo chi lo abbia fatto". In quel
momento l'uomo, appoggiato con la mano libera alla sbarra di ferro ai piedi del
letto, vacillò e si piegò in due, stringendo i denti, esibendo poi grosse
difficoltà nel respiro. Tossì con violenza, sputando un rivolo di sangue
bluastro - viola che gli scivolò dall'angolo della bocca, andando a macchiare la
t - shirt bianca. In un attimo gli furono tutti addosso, lo bloccarono; una
delle infermiere riuscì a strappargli il bisturi dalla mano, Annamaria fu pronta
a prenderlo, a riportarlo nel suo letto coperto dalla tenda ad ossigeno e ad
aiutarlo nel riadagiarcisi nel modo meno penoso che le fu possibile. Nel
muoversi, Annamaria notò che soffriva molto. Il dolore alle costole rotte doveva
essere terribile e lei si adoperò subito per risistemargli tutti i tubi
collegati ai macchinari di sopravvivenza, compreso il respiratore di cui l'uomo
dimostrava di averne un estremo bisogno. Constatato con soddisfazione che
sarebbero stati in grado di capirsi, una volta ridisteso sul letto e col
respiratore sul viso, lei gli parlò dolcemente convincendolo a rilassarsi e
abbandonare per il momento ogni proposito di vendetta. L'imperativo era:
riposarsi e stare tranquillo. Tutto si sarebbe risolto per il meglio. Era vivo.
Dolorante, ma vivo, e questo era un mezzo miracolo, se di miracoli si poteva
ancora parlare. In quell'attimo, nella stanza fece il suo ingresso anche un
collega, del luogo, al quale lei si rivolse per avere alcune informazioni
proprio sul miracolo.
"La Scientifica ha effettuato i rilevamenti. - le annunciò il medico - Il
veicolo col quale si sono schiantati sulla montagna è andato distrutto, ma le
celle in cui erano chiusi, in un certo senso, li hanno salvati da morte sicura
perché erano costruite con materiale ignifugo che ha impedito alle fiamme di
propagarsi anche a quelle. Tuttavia, tre di loro sono ugualmente in condizioni
molto gravi e non sappiamo ancora se sopravvivranno".
"Perché a lui è andata meglio che agli altri?" chiese Annamaria, indicando col
mento il paziente, potenziale omicida.
"Perché è quello che è atterrato meglio di tutti. - rispose il medico - La sua
cella non si è capovolta".
"Ha riportato comunque delle fratture" osservò Annamaria.
"E' il minimo che poteva capitargli. - commentò il collega - L'urto non
dev'essere stato una bazzecola". Annamaria tornò a guardare l'uomo che ora
sembrava essersi di nuovo addormentato.
Addio pranzo con la famiglia, ma adesso la situazione si era normalizzata.
Stefano la chiamò per essere ragguagliato sugli sviluppi della vicenda.
"Tutto a posto. - rispose Annamaria, sedendosi, esausta sulla prima sedia che
trovò - Stasera ti racconto" quindi chiuse telefonata e occhi, cercando anche
lei di recuperare un filo di relax.
Sera
Quando rientrò, Stefano vide sua moglie più stanca del solito e se ne preoccupò.
I ragazzi erano già nel mondo dei sogni e lui la trascinò subito in camera da
letto dove ambedue si sedettero sul letto, Stefano ansioso di sapere. Annamaria
gli raccontò la giornata. Al termine, Stefano si tirò nervosamente i capelli
indietro infilandosi le lunghe dita fra essi e accennando una risata tesa.
"Porca puttana! - esordì a mezza voce - I tedeschi e i nostri che se le danno di
santa ragione, il mio vice, semi alcolizzato, che va a birra invece che a caffè,
la festa da organizzare a fine mese e adesso ci mancavano gli alieni
vendicativi! E se ce ne fossero altri sulla Terra? Se stessero preparando
un'invasione?..."
"Ehi, ehi, ehi, Spielberg! - lo ridimensionò Annamaria ridacchiando - Non
crearti saghe cinematografiche dove non ci sono! Secondo me, quel tipo è da
solo, a parte il resto del suo equipaggio che non si sa ancora se sopravvivrà.
Ha parlato soltanto di suo padre che forse è stato ucciso sulla Terra, ma non si
sa dove". Stefano si calmò, poi si bloccò e fissò la moglie.
"Hai detto Spielberg?" disse.
"Si, - rispose Annamaria, sorpresa - perché?".
"Chi è Spielberg?" chiese, sospettoso.
"Uno che forse faceva film" rispose Annamaria.
"Come lo sai?".
"Qualche sera fa, in un momento di pausa, mi sono messa a guardare la tv e
andava in onda un film firmato da lui. Parlava di alieni".
Stefano strinse le spalle della donna e la guardò intensamente.
"Annamaria, - attaccò, sentendo la sua mente lavorare con alacrità - il nostro
pianeta ha un passato e noi non ne sappiamo niente. Perché?".
"E lo chiedi a me, a quest'ora?" rispose Annamaria, ironica.
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Capitolo 6 *** AREA 51 ***
Nuova pagina 2
8) AREA 51
Terra
Si risvegliarono a scadenza di pochi secondi l' uno dall'altro e, aperti
completamente gli occhi, si trovarono in un vasto ambiente in fondo al quale
intravidero alcuni macchinari. Provarono a muoversi ma, a parte la spiacevole e
dolorosa sensazione di non aver più un osso sano in corpo, si videro legati,
fino all'immobilità, su poltroncine disposte in riga ad una certa distanza l'una
dall'altra. I cinque uomini si scambiarono occhiate e l'aria dell'intero vano
parve riempirsi di punti interrogativi.
Dov'erano?
Cos'era successo prima?
Com'erano arrivati lì?
Tre ottime domande alle quali, al momento, non sembrava esserci risposta.
Tuttavia, dopo pochi minuti, da probabili ed invisibili ingressi laterali,
esseri umani in uniforme grigio-verde fecero la loro comparsa come fossero
entrati in una sorta di palcoscenico e si fermarono davanti a loro, a gambe
leggermente divaricate, guardandoli con apparente poca curiosità, quasi li
avessero attesi, quasi avessero saputo che prima o poi sarebbero arrivati.
Infatti, pochissimi secondi dopo, uno di essi parlò.
"Buon giorno. - salutò Steve Forrest, con una certa spocchia. Gli ospitati
(Prigionieri? Ostaggi?) lo fissarono all'unisono, allocchiti, non avendo capito
la parola appena pronunciata e non seppero come rispondere - Benvenuti. -
proseguì Forrest - Allora....avete finito di scaricare le vostre porcherie sul
nostro suolo?".
Altro scambio muto di occhiate interrogative nel gruppo dei legati alle poltrone
dopodiché col mento, Forrest fece un segno a Edwards di andare in fondo alla
stanza. Quello ci andò e smanettò con un macchinario, il che produsse un paio di
effetti: un'improvvisa, fortissima quanto fortunatamente breve emicrania ai
malcapitati e, da quel momento, in poi, la possibilità di capirsi fra i presenti
nella stanza.
"Pensavamo che questo pianeta fosse disabitato.- si giustificò uno di quelli
legati alle poltrone - Le nostre mappe non mostravano segni di vita".
"Mmmm ... muggì Forrest - su questo potreste anche aver ragione. - convenne poi
- A dirla tutta, ora siamo un pò di meno...".
"Parecchi di meno" osò interloquire Hardings, vicino a Forrest.
"Non serve sottilizzare troppo, Hardings. - lo riprese Forrest - Il punto è che
questi non hanno alcun diritto di insozzare la zona solo perché non ci vedono
camminare nessuno sopra".
"Ehi - fece un altro prigioniero - Ci sono altre zone del vostro pianeta piene
di immondizia".
Stavolta lo scambio di sguardi interrogativi si scatenò fra gli uomini della
base.
In realtà, il poco simpatico traffico di smaltimento rifiuti sulla Terra era
cominciato da non molto tempo, forse una decina d'anni. Fino ad allora, la Terra
era stata semplicemente e completamente isolata ed ignorata da qualunque rotta
di qualsivoglia viaggiatore spaziale, anche occasionale. Solo Beta 1, bisognoso
di spazio per liberarsi dall'eccesso di spazzatura, e Ariel, in cerca di
minerali per continuare a vivere, avevano intercettato la Terra come meta per
soddisfare i loro rispettivi scopi, trovandola per l' appunto deserta e
disabitata.
Senza dimenticare il CLAN, l'accozzaglia di malavitosi di cui alcuni
provenienti, forse, anche da altri mondi poco noti.
Almeno per ora.
Sentendoli atterrare sulle loro teste, gli uomini dell'Area 51 si erano limitati
a provvedere alla pulizia della zona senza conoscere la situazione di altre zone
del pianeta, e l'informazione appena avuta giungeva nuova anche perché, in
seguito agli eventi di un secolo addietro, comunicare con il resto del globo era
diventato, chissà per quale strano motivo, molto difficile.
Oltre a ciò, nelle operazioni di ripulitura, lo staff dell'Area aveva trovato
molto materiale interessante e utile alle proprie ricerche e sperimentazioni. Ma
in tutto il rimanente della Terra, se lo si sorvolava, ci si trovava sotto,
larghissimi tappeti di ogni mal di dio.
"Ma che è successo al vostro mondo?" chiese uno di coloro che erano atterrati
proprio per svuotare i magazzini di Beta 1.
"Piacerebbe anche a noi saperlo" rispose Forrest che, in effetti, non lo sapeva.
Per un'altra arcana ragione, degli eventi di un secolo prima non sembrava essere
rimasta pressoché alcuna testimonianza neppure archiviata in qualche antico hard
disk, come se si fosse volutamente cancellare un'epoca per non richiamarla mai
più e ricominciare da zero con una nuova era. Ma la nuova era non aveva corpo,
né ancora un'identità precisa. Molti dei sopravvissuti sulla Terra non sapevano
dell'esistenza in vita di altri, raggruppati in altre piccole comunità sparse ai
quattro angoli del mondo.
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Capitolo 7 *** IL PIACERE DI COMUNICARE ***
Nuova pagina 2
9) IL PIACERE D I POTER COMUNICARE
Terra: Grindewald,
cinque giorni dopo.
Al Heron sognò di nuovo il fuoco ma al risveglio non provò né paura, né tanto
meno dolore.
Si svegliò e basta, tuttavia, intorno a lui il panorama non era cambiato di
molto. Sopra la sua testa brilluccicava ancora il soffitto argenteo e il suo
viso era sempre semi-coperto da qualcosa di morbido e gommoso che pareva dare un
buon contributo alla sua respirazione, ma che gli stava portando una sete da
deserto.
Proprio in quel momento, la tenda che lo circondava si scostò e in mezzo ai due
lembi si affacciò un volto piacevole da vedere: un volto, i cui occhi grandi e
scuri si allargarono ancor di più, e una mano che maneggiò sopra il suo naso con
l'arnese morbido che gli copriva il viso, liberandolo finalmente da esso. Heron
guardò quel volto e Annamaria guardò il volto dell'uomo notando con stupore un
particolare: il colorito della sua carnagione sembrava essere cambiato passando
da una tonalità pallida, decisamente perlacea, ad una di un paio di nuances più
rosea.
Lo salutò con un bellissimo sorriso.
"Buon giorno. - la sentì dire con una gradevole voce argentina - Come si sente?
Meglio, spero".
Provò a girarsi più verso di lei. Una fitta lo trafisse al torace, ma riuscì
ugualmente nell'intento.
Tentò di rispondere, annuendo con la testa e poi usando le parole.
"Ho sete. - implorò quasi - E si. - proseguì - Sto meglio. Grazie".
Annamaria aprì completamente la tenda, alzò la parte superiore del letto e offrì
da bere al paziente un grosso bicchiere colmo d'acqua. Heron bevve con avidità
e ne chiese ancora. Era buona, fresca; l'apprezzò molto e lo espresse a voce,
quindi si guardò intorno.
"Dove sono? - domandò - Dove sono gli altri? Sono in Paradiso, forse? Esiste,
allora?".
Annamaria sorrise.
"Mi è stato detto di no, - rispose, dolce - ma si trova comunque al sicuro, dove
nessuno farà del male a lei e ai suoi amici".
"I miei compagni! - sussurrò lui, agitandosi - Stanno bene? Sono vivi?".
Annamaria lo informò di tutto parlandogli sempre con soavità, ma quando Heron
seppe degli altri componenti del suo equipaggio chiuse gli occhi e, palesemente
avvilito, si lasciò andare sul letto.
Il suo primo pensiero andò a Granya Addok, suo vice, e anche altro per lui.
"Ricorda qualcosa di quel che le è successo?" chiese Annamaria.
Ecco. Quello era il punto davvero dolente. Più dolente delle fitte al torace.
Ricordava un gran colpo di coda all'astronave, una fortissima accelerazione e
poi più nulla. Forse aveva perso il controllo del veicolo. Forse erano lì,
alcuni di loro in fin di vita, per colpa sua. Annamaria lo guardava nella sua
afflizione. Era veramente bello: il volto fine, regolare; quell'incarnato
chiarissimo che contrastava il colore pur sempre chiaro dei capelli, ma il cui
confronto li faceva apparire scuri; i lineamenti delicati; gli occhi, quando li
riaprì, blu cobalto, e infine le labbra, disegnate da un artista.
L'uomo scosse la testa.
"No" rispose, semplicemente lasciando intuire ad Annamaria che forse non voleva
ricordare.
Lei non insistette.
"Non si preoccupi. - volle rassicurarlo - Adesso non è importante".
"Veramente lo sarebbe" la contestò lui, educato.
Annamaria sorrise.
"Certo. - convenne - Capisco. Lo sarebbe. Ma dopo un incidente come quello che
ha avuto lei e i suoi colleghi, dal quale è già un miracolo che siate usciti
vivi, pretendere di ricordare è pretendere quasi l'impossibile. Non si angosci.
Col tempo ricorderà".
"Miracolo?" ripeté lui.
"Oh! - fece Annamaria come fosse sbadata - Si. Lo so: i miracoli non esistono,
ma come chiamerebbe lei uscire vivi da un impatto contro una montagna a velocità
della luce, o quasi?".
Annamaria si fermò un attimo a respirare la consapevolezza di parlare con un
uomo che veniva da un altro mondo, credendo tuttavia di sognare, ma alcuni suoi
colpi di tosse la riportarono alla realtà istillandole apprensione per lui e
spingendola a prestargli immediato soccorso, rimettendogli il respiratore. Forse
l'aria di Grindewald era dannosa per lui? Il cerca persone trillò avvisandola
che qualcun altro aveva bisogno di lei. Lasciò Heron a malincuore. Le era parso
di vedergli gli occhi lucidi. Sarebbe rimasta volentieri a confortarlo.
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Capitolo 8 *** IL NASO FUORI CASA ***
Nuova pagina 2
10 ) TRASH - SPAZZATURA
Area 51
Nel vasto ambiente dei sotterranei dell'Area 51 alcuni grandi schermi si
accesero mostrando dapprima solo un pulviscolo catodico bianco e nero poi, dopo
forse mezzo minuto, immagini, leggermente sfocate, inquadranti varie zone del
continente americano aventi in comune il medesimo scenario, ossia: vere e
proprie montagne di detriti di ogni genere.
Lo spettacolo gettò l'intero vano e i suoi occupanti nel silenzio più assoluto,
attonito e imbarazzato.
"Che cazzo è successo?" esclamò Hardings, fissando a turno gli schermi.
"Vorrei saperlo anch'io. - rispose Forrest, apparentemente meno imbarazzato
degli altri ma, di sicuro, più meravigliato e infuriato dei colleghi e degli
uomini legati alle sedie, ai quali si rivolse in tono poco conciliante - Avete
spiegazioni da dare? Io sono certo di si e fareste bene a darle alla svelta
prima che ve le estorca in modalità sgradevole" concluse duro e tagliente come
una lama.
Nell'enorme sotterraneo il silenzio tornò sovrano assoluto fino a che fu rotto
dalla voce, arrochita per l'emozione, di uno degli scaricatori.
"Io l' ho detto. - cominciò, incerto - Non abbiamo più spazio per i rifiuti
e.... abbiamo visto che sulla Terra ce n'era tanto e.... ci era sembrato che il
pianeta fosse disabitato. Non abbiamo la minima idea di cosa sia successo sul
vostro mondo".
Forrest, Edwards e Hardings si guardarono, esterrefatti, quindi ridiressero gli
sguardi sugli schermi, fissando i monti di immondizia. Tuttavia, dopo i primi
attimi di autentico stupore, in quei giganteschi cumuli di pattume, i tre
iniziarono a intravedere qualcosa di positivo.
"Scusate, - s'intromise uno dei prigionieri appartenente al gruppo dei
malviventi - ma nessuno di voi si era accorto di questo, prima d'ora?".
Forrest dovette ammettere che l'uomo aveva ragione. Fino al giorno precedente,
lui e il suo staff dell'area avevano costantemente provveduto alla pulizia e
alla rimozione di immondizia ammucchiatasi e sparsa al di sopra delle loro teste
e per un raggio di alcuni ettari, ma non erano andati mai oltre quei limiti
naturali quasi esistessero virtuali colonne d'ercole al di là di cui era inutile
avventurarcisi, considerando anche che non era stato loro più possibile ricevere
informazioni sulla sorte del resto del pianeta.
A quel punto, Forrest prese una decisione e ordinò ai suoi collaboratori di
salire su uno dei loro veicoli aerei di ricognizione per effettuare un sorvolo
oltre i limiti fino a quel momento assurdamente, ma istintivamente rispettati.
In attesa degli esiti, l'uomo restò in piedi, fra gli schermi ed i prigionieri,
a riflettere sull'incredibile status delle cose.
Già. Cos'era successo alla Terra? Perché non aveva avuto più notizie
dall'esterno?
E non aveva idea di quanti suoi simili si fossero posti la stessa domanda,
almeno per qualche tempo, prima di seppellire gli eventi nel gran calderone del
dimenticatoio.
La Terra
non aveva più un passato e nessuno aveva alzato un dito per farlo riemergere.
Cos'era avvenuto di tanto terribile per cancellarlo e impedire a chiunque che
fosse, anche solo per un istante, cercato e ripreso?
Forrest e gli altri avevano circa cinquant'anni, dunque mezzo secolo, ma non
bastava per poter tornare indietro fino all'ora X, o al giorno X quando era
successo, e nessun altro, sul pianeta, risultava sopravvissuto cento anni o più
per ricordare, anche solo vagamente, i fatti.
Le immagini del veicolo di ricognizione in volo, che cominciarono a scalzare
quelle delle montagne di spazzatura, restituirono un panorama desolante,
tuttavia, il paesaggio appariva si apocalittico, ma non di distruzione provocata
da fenomeni, per esempio, sismici, quali terremoti, maremoti o esplosioni
vulcaniche. No. Niente di tutto questo o, almeno così sembrava.
Di sicuro, il mondo era stato sconvolto da un evento di proporzioni, si potrebbe
usar definire, bibliche, ma non di natura fisica. In alcune zone del pianeta gli
edifici erano effettivamente in macerie ma lo erano in modo singolare. Non erano
crollati tutti in briciole come se fossero stati polverizzati da scosse
telluriche o aggrediti da tsunami; parevano essere stati bombardati e i
bombardamenti, benché ugualmente distruttivi, lasciavano segni diversi da quelli
lasciati dai fenomeni di origine geologica o atmosferica, portando ad intuire
che più di un cataclisma, il pianeta fosse stato vittima di una guerra a livello
mondiale o, quanto meno ad una poderosa rivoluzione a larga scala.
Ad un certo punto, il panorama devastato e desolante cominciò ad essere
sostituito da inquadrature di agglomerati urbani nei quali sembrava esserci
ancora vita. Dall'alto del veicolo s'intravedevano forme che si muovevano come
formiche, non molto operose, si sarebbe detto piuttosto tranquille, quasi non
avessero più tanta fretta di vivere; quasi sapessero che davanti a loro la vita
sarebbe stata abbastanza lunga per fare tutto ciò che avevano in programma di
fare.
E la cosa più strana che Hardings notò fu che nessuno parve alzare gli occhi al
cielo per vedere chi o cosa stesse volando sulla testa. Gli esseri semoventi
continuarono a camminare e a muoversi senza guardare in alto. Ai comandi del
velivolo, attraverso il vetro dei caschi, Hardings ed Edwards, invece, si
guardarono attoniti ed interrogativi.
Ma non fu così per tutti.
Sentendo un ronzio lontano, e vedendo qualcosa che volava, qualcuno alzò occhi e
naso per vedere cosa volava.
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Capitolo 9 *** SPIRAGLI ***
Nuova pagina 2
11)
SPIRAGLI
Grindewald - ufficio
del Sindaco
Stefano aveva cominciato a cercare.
Dopo la velocissima corsa che, in soli dieci, quindici anni aveva portato i
Terrestri ad abbandonare quasi del tutto i computers a favore dei tablets e
delle nuove generazioni di telefoni cellulari, l'evoluzione tecnologica aveva
subìto una brusca battuta di arresto non producendo pressoché più alcun
dispositivo di comunicazione e sulla scrivania del sindaco di Grindewald
troneggiava un buon computer portatile datato 2102 ancora ben funzionante.
Internet esisteva ancora, ma si era trasformata in una più limitata Intranet
nella quale si trovavano solo informazioni sull'area in cui si abitava; una
sorta di rete domestica che non andava oltre la corona di montagne intorno alla
cittadina. Di essa, degli abitanti e degli eventi si trovava tutto e anche di
più, compresi i pettegolezzi, ma niente di ciò che era al di là dei monti.
Il ronzio lontano pervenne alle orecchie di Stefano che aveva aperto la finestra
del suo ufficio per alcuni istanti, il tempo necessario di fumarsi una sigaretta
senza strafogarsi. Ciò che ronzava appariva piccolo a distanza, e sfrecciò scuro
nel cielo celeste pallido di una giornata non molto assolata per poi sparire
proprio dietro la cima contro cui si era schiantato il veicolo alieno.
Il fatto curioso fu che il piccolo aereo ricomparve dopo alcuni minuti
dirigendosi poi verso est.
Poi ritornò e puntò verso sud.....
Dopo il grande botto di alcune notti prima, quella visita costituì una novità.
Ospedale
Quel giorno, la figlia maggiore, Flavia, aveva chiesto a sua madre di andare con
lei in ospedale per far visita ad un'amica ricoverata un paio di giorni prima
per una banale appendicite e Annamaria era stata felice di andare a lavorare con
la figlia al seguito, programmando poi di tornare a casa con lei e, magari,
riuscire almeno ad andare a cena insieme con gli altri componenti della sua
famiglia.
Arrivate nella struttura, le due si erano separate per raggiungere i vari
reparti e Annamaria aveva raccomandato a Flavia di ritornare da lei non appena
avesse finito la visita.
I vetri delle finestre del nosocomio erano spessi e anti-rumore con lo scopo di
dare pace e silenzio agli ospiti, ma il microchip impiantato nel cervello di Al
Heron, oltre a tradurre ogni linguaggio in codice binario per permettere a lui e
ai suoi complanetari di comprendere le lingue parlate nell'universo conosciuto
ed abitato, aveva la sensibilità di consentirgli di avvertire rumori anche in
ambienti insonorizzati e protetti. I rumori giungevano a lui, ovviamente
attutiti per non arrecargli troppo disturbo, ma arrivavano, e Heron avvertì il
ronzio che lo spinse istintivamente ad alzarsi dal letto e ad andare alla
finestra per vedere.
Grazie alle cure, e a massicce dosi di analgesici, i dolori al corpo si erano di
molto attenuati e, malgrado ancora qualche fitta, l'uomo riuscì a muoversi fino
alla grande finestra e a guardare da dietro il vetro centrale quanto bastò per
vedere il velivolo sfrecciare rapido nel cielo.
Non era un'altra astronave mandata forse da Ariel per cercarlo.
Con tutta probabilità, su Ariel era giunta notizia anche della sua scomparsa.
Con tutta probabilità, su Ariel i suoi complanetari erano convinti che anche lui
fosse morto come suo padre. Da lui e dal suo veicolo non erano più pervenuti
aggiornamenti.
Al abbassò la testa ed ebbe un pauroso capogiro che lo obbligò ad ancorarsi al
termosifone spento sottostante la finestra. Si sentiva debolissimo e non cadde a
terra solo perché, provvidenzialmente, Annamaria entrò in quel momento e corse a
sostenerlo, riaccompagnandolo poi al letto.
Era uscito dalla tenda ad ossigeno ed ora riposava su un letto normale con
testiera e spalliera di metallo lucido blu come i suoi occhi che fissavano
Annamaria con sguardo intenso di discreta e dignitosa supplica. Non volle
stendersi, rimanendo seduto sul bordo, al centro del materasso.
"Credo... - sussurrò - di avere fame".
"Lo credo anch'io. - convenne Annamaria - Saranno almeno dieci giorni che non
manda giù neppure una briciola di pane. Anche gli alieni mangiano, suppongo. -
si fermò e gli sorrise - Vado ad ordinarle una bella e abbondante colazione"
detto questo, prese il telefono ed inoltrò l'ordinazione.
Dunque, quella donna sapeva chi lui fosse e cosa fosse, ma non sapeva nulla di
suo padre.
Chi avrebbe potuto sapere di lui? Chi avrebbe potuto dargli qualche
informazione?
Pochissimi minuti dopo, un giovane dipendente in camice bianco entrò con un
carrello metallico interamente occupato da piatti, bicchieri, vassoio e varie
cuccume, anche quelle d'acciaio lucidissimo, e lo spinse fino al letto dove
Heron era ancora seduto. In altrettanti pochi minuti, l'uomo spazzolò il
contenuto di piatti e bicchieri, godendo tuttavia del sapore dei cibi ingoiati,
e regalando, al termine del pasto, al giovane e ad Annamaria, un sorriso dolce,
bellissimo, velato di fanciullesca malinconia. Rifocillato e rinvigorito dal
cibo, volle recarsi in bagno senza aiuto, liberandosi dalle scorie accumulate
nell'organismo da giorni di assoluta immobilità, si sciacquò il viso più volte,
bevve altra acqua, tornò nella stanza, ma non volle tornare a letto e chiese di
essere accompagnato a vedere almeno uno dei suoi colleghi, pur conscio che la
vista gli avrebbe fatto più male del dolore al torace. Ma Annamaria fu
richiamata in altro reparto e non poté accompagnarlo, delegando il giovane
dipendete all'incombenza. Il ragazzo lo scortò nella sala di rianimazione dove
riposava la donna, Granya Addok, immobile, ancora custodita all'interno della
tenda ad ossigeno. Come Heron aveva previsto, vederla in quelle condizioni fu un
colpo tremendo che lo sorprese a trattenere le lacrime a stento.
"Mi dica sinceramente, - si rivolse l'uomo al ragazzo, - si salverà? Si
risveglierà?".
Il giovane guardò Heron, contrito.
"Non lo sappiamo ancora. - rispose - Ha alcune vertebre del collo danneggiate.
Potrebbe salvarsi. Potrebbe anche risvegliarsi, ma non sappiamo se potrà tornare
a camminare e a muoversi come prima". Al Heron chiuse gli occhi, distrutto.
Lanciò un'ultima occhiata alla tenda e chiese di uscire.
Perché si era salvato solo lui? Se non fosse accaduto quel che era accaduto,
avrebbe potuto prendersela con un ente superiore che aveva voluto punirlo per il
suo eccessivo decisionismo, ma non era così. Nessuno lo aveva punito. Forse si
era punito da solo addossandosi una colpa che avrebbe potuto anche non essere
completamente sua ma che ora sentiva sulle sue spalle ancora indolenzite. Il
ragazzo gli domandò se avesse voluto continuare il giro, ma Heron pensò, con
saggezza, che per quel giorno lo spettacolo poteva finire lì, distribuendo la
pena nei giorni successivi. Il ragazzo lo riaccompagnò nella sua stanza, chiese
se avesse bisogno d'altro e, alla sua risposta negativa, uscì lasciandolo
definitivamente ai suoi pensieri. Al non volle rimettersi a letto. Aveva visto
che era in grado di camminare e volle muovere le gambe. All'esterno, sotto la
finestra si vedeva il giardino dell'ospedale, curatissimo, con prato verde
rasato e fiori intorno agli alberi tagliati da giardinieri artisti. Il tempo non
prometteva molto bene. Il Sole era sparito sopra una coltre di nubi grigio scuro
che minacciavano pioggia, ciò nonostante, il panorama che si godeva dalla
finestra era splendido e sereno: una vasta distesa verde sulla quale alcune case
erano ordinatamente raggruppate in un agglomerato al centro, altre, invece,
erano sparse, più distanziate andando verso le pendici dei monti che
contornavano la valle, qualcuna con accanto lo specchio azzurro di una piscina.
In un certo qual modo, quel panorama gli ricordava le città di Ariel le quali
però si differenziavano da quella che vedeva sotto i suoi occhi per il colore
del cielo sopra di esse, quasi sempre bianco a causa dell'alta concentrazione di
polveri provenienti dalle centrali atomiche disseminate sul pianeta, fuori dai
centri abitati salvaguardati dalle cupole di protezione. Appoggiandosi ovunque,
Heron si avviò verso l'uscita dalla stanza.
Voleva ritrovare la donna che credeva gli avesse salvato la vita.
Voleva chiedere a lei se i suoi compagni di viaggio si sarebbero salvati.
Non aveva più dovuto ricorrere alla maschera ad ossigeno, ma a destra del letto
ne vide una priva di qualunque cavo, semplicemente posata su una forcella e, per
sicurezza, la prese portandosela dietro.
Se il paesaggio di quella cittadina era simile a quello delle città di Ariel,
non lo era l'aria, molto più leggera e rarefatta.
L'orario delle visite stava per terminare e Flavia si accomiatò da Hilde, sua
compagna di classe, stesa sul letto dopo aver subìto un normale, seppur
fastidioso, intervento all'appendice. Le due ragazzine si salutarono
affettuosamente, Flavia lasciò l'amica con un sonoro bacio su un guancia, uscì
dalla cameretta in cui la ragazza era ospitata e, come le aveva raccomandato sua
madre, andò a cercarla nel reparto pneumologia dove Annamaria, originariamente
infettivologa, era stata designata dopo che, a causa dell'isolamento in cui
Grindewald si era affossata, le malattie infettive erano, in pratica, scomparse
del tutto. Iniziò a percorrere il lungo corridoio al termine del quale avrebbe
trovato l'ascensore quando, proprio in fondo, controluce, vide una forma umana
scura con un volto che, anche in ombra, le sembrò indefinito, deforme,
mostruoso, con una specie di proboscide al posto del naso. In quel momento il
suo cellulare squillò. Esitante, tremante, rispose e, nel contempo, cacciò un
urlo di terrore. All'altro capo della linea, la vocina squittente di una sua
amichetta le chiese, spaventata cosa stesse succedendo. Le porte delle altre
stanze si spalancarono sul corridoio e gli occupanti si affacciarono per vedere
e sapere la stessa cosa.
Sul cerca-persone, Annamaria vide lampeggiare la luce di chiamata di emergenza e
corse al reparto da dove era partita la chiamata.
La scena che si presentò fu tragicomica.
L'ospite alieno era davanti a un gruppetto di pazienti ed infermieri, accorsi
anche loro dopo aver ricevuto varie chiamate, con la maschera di ossigeno
stretta nella mano sinistra e lo sguardo blu che si muoveva veloce da una
persona all'altra.
La frittata è fatta, pensò Annamaria, sconsolata, e adesso cosa racconto?
Heron diresse gli occhi su di lei invitando tacitamente gli altri a fare la
stessa cosa come se lei fosse stata l'oracolo appena arrivato. Flavia si gettò
fra le braccia della madre e Annamaria la strinse a sé, consolandola subito e
rassicurando gli altri.
"Tranquilla, Flavia. - le sussurrò - E' tutto a posto. Non è pericoloso. Non
farà del male a nessuno. Sta solo cercando suo padre".
Per incanto della sua voce calma, tutti si rasserenarono e contemplarono l'uomo
con occhi diversi, ammirandone l'aspetto molto piacevole. I due si erano
parlati, ma non si erano ancora mai presentati.
"Mamma, chi è?" chiese Flavia staccandosi di poco dall'abbraccio materno.
"Vi presento.... - introdusse Annamaria - come ha detto che si chiama?" domandò
all'uomo.
"Sono Heron. - si presentò Al - Al Heron, comandante della Prima Unita della
Flotta Spaziale, e vengo da Ariel, quarto pianeta del quindicesimo sistema
solare della galassia di Andromeda".
Tana!
Vinta dall'evidenza, Annamaria alzò gli occhi al soffitto.
"E' uno scherzo!" esclamò uno dei pazienti fuoriusciti dalla sua stanza.
"Sono tutti così?" cinguettò, compiaciuta, una paziente, muovendo la testa
sormontata dai bigodini, e lo sguardo fra Heron e Annamaria.
"Siamo stati invasi dagli alieni e nessuno ci ha detto niente!" protestò un
altro.
"Potrebbero voler sembrarci amici e poi distruggerci tutti!" sbraitò un quarto
paziente,
E sarebbero andati avanti in quel modo per un pezzo se Annamaria non si fosse
imposta con un picco risoluto della voce che s'innalzò sopra le altre.
"Va bene, adesso basta! - gridò quasi, riuscendo a far tornare silenzio e calma
nel corridoio - D'accordo. Avete ragione. Avremmo dovuto avvertire, ma nemmeno
sapevamo come fosse la situazione e allarmarvi con notizie false sarebbe stato
ancora peggio. - poi, indicando lo spaurito Heron, continuò - Ciò che quest'uomo
dichiara è tutto vero, ma non è qui per farci del male. E non ci sarà alcuna
invasione aliena. - illustrò la drammatica situazione dell'uomo - Sta cercando
un suo familiare. Lo vogliamo aiutare a ritrovarlo, eh?" finì col tono di chi
invitava a partecipare ad un gioco.
I pazienti, avvolgendosi le vestaglie intorno ai corpi, e i paramedici, fermi
dove erano accorsi, si passarono vicendevolmente in rassegna, nel silenzio della
sorpresa, della costernazione e dell'imbarazzo, concludendo il giro degli
sguardi sul meravigliato e intimidito comandante Heron che, muto, fissava
Annamaria.
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Capitolo 10 *** C'E' NESSUNO IN GIRO? ***
Nuova pagina 1
12)
C'E' NESSUNO IN GIRO?
Terra. Durante la
ricognizione aerea
Hardings ed Edwards rimasero sbalorditi.
Sotto di loro il deserto del Sahara era un tappeto scuro di immondizia di ogni
genere dove comunque dominava il colore del ferro di veicoli probabilmente
atterrati in malo modo, di satelliti e sonde precipitati sulla Terra e ....
forse anche di mezzi di fabbricazione non terrestre, rispetto ad altri colori
compreso quello rossiccio della sabbia, quasi del tutto sparita sotto quel
tappeto.
Nel loro volo, i due piloti stavano scoprendo che, più o meno, tutte le aree
disabitate e poco abitabili del pianeta erano diventare discariche a cielo
aperto.
"Figli di puttana ! - gracchiò Hardings a denti stretti, incavolato nero -
Hanno preso la Terra per la loro pattumiera! E nessuno se n'è accorto?" finì con
l'urlare, scuotendo pericolosamente le leve della cloche. Allarmato dalla sua
reazione nervosa, Edwards afferrò il braccio destro del collega, richiamandolo
gentilmente all'auto-controllo. Per tutta risposta, Hardings effettuò la manovra
di viraggio e puntò con decisione verso nord impartendo all'aereo una forte
accelerazione.
Quando però, in lontananza, intravidero un grosso centro urbano, Hardings decise
improvvisamente di voler scendere a farci un giro ed avviò le manovre di
atterraggio su quelle che dovevano essere le piste di Ciampino. Si, perché quel
grosso agglomerato che avevano visto era proprio Roma.
Ma una volta atterrati, e saliti su un convoglio che dall'aeroporto li conduceva
al cuore della città, ebbero la prima sconcertante sorpresa. La carrozza era
semi vuota e i pochi passeggeri lanciarono sfuggevoli occhiate ai due senza
tuttavia mostrare né paura, né tanto meno curiosità o sospetto.
"C'è qualcuno che è sopravvissuto, allora! - esclamò Hardings esibendo una
felicità infantile - Non siete morti tutti !". A quel punto, i passeggeri
inviarono loro sguardi moderatamente stupiti e uno di essi, un tipo anonimo,
basso e panciuto, con pantaloni grigi sbiaditi ed una maglietta a righe gialle e
rosse, rispose a loro nel suo italiano romanesco:
"Perché, ce stanno artri in giro?".
I due piloti americani lo capirono per merito del microchip inserito nel
cervello che, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, non era
un'invenzione di matrice aliena.
"Certo che c'è qualcun altro in giro! - ribatté Hardings molto irritato dal tono
quasi infastidito dell'uomo - Non ci siete solo voi, non lo sapete?".
"No. - rispose ancora il tizio il quale, malgrado parlasse il suo dialetto,
dimostrò di conoscere l'inglese quanto bastava per capirli - E sinceramente,
nun ce ne frega niente" terminò secco, in italiano.
Hardings ed Edwards erano allibiti, ma continuarono il viaggio senza più
profferir parola.
Il treno si fermò alla Stazione Termini e, una volta fuori dal vagone, Edwards
chiese come si arrivasse nel centro della città. Le informazioni gli furono date
da un'impiegata ambulante lungo i corridoi, gentile ma fredda. I due salirono su
un convoglio della metropolitana e, grazie ad una voce registrata che si
diffondeva da microfoni distribuiti all'interno della carrozza, e scandiva il
luogo di ogni tappa, riuscirono a scendere ad una fermata vicina al centro
storico. Non essendo mai stati a Roma, risaliti in superficie, non capirono
subito dove si trovassero e domandarono di nuovo lumi.
Ricevettero risposte cortesi ed esaurienti, in buon inglese, tuttavia sempre
gelide, da passanti che poi riprendevano a camminare a passo spedito, ma non
affrettato, guardando in avanti, persi ognuno nei propri pensieri.
Le strade non erano affollate e, di conseguenza il traffico era abbastanza
scorrevole perfino sul Lungotevere. Seguendo un tratto del lungo viale alberato,
i due giunsero nei pressi di Castel S. Angelo e da qui, avvistata la cupola,
raggiunsero Piazza San Pietro.
Non avendo idea di cosa fosse avvenuto in passato, non trovarono strano che
nella piazza serpeggiasse una lunga fila di persone in paziente e civile attesa
del proprio turno per visitare la basilica. A pagamento.
I due decisero di fermarsi qualche ora nella città, sperando di saper qualcosa
su ciò che era accaduto anni prima, ma le loro ricerche e le loro speranze
finirono presto in fumo. Molti intervistati in proposito risposero che la
situazione era quella che si vedeva e non c'era molto da spiegare, né da
rivangare. Per la stragrande maggioranza dei cittadini era sempre stato così. La
loro vita era quella, da sempre. Non ne conoscevano altre e non le volevano
conoscere. A loro andava bene in quel modo. C'era calma e ordine e così doveva
rimanere.
Nessuna traccia del passato.
Nessun ricordo.
Millenni di storia cancellati da un'enorme, invisibile spugna spietata.
Quella sera, Hardings ed Edwards vollero concedersi un tour notturno per la
città e s'inoltrarono per le stradine che sbucavano poi in Piazza Navona.
Trovarono Roma viva anche di notte, con i cittadini che gironzolavano per le sue
vie leccando i gelati e chiacchierando. I negozi erano aperti e alcuni
nottambuli entrarono in quello che sembrava essere un grosso emporio, il cui
ingresso era proprio davanti alla Fontana dei 4 fiumi. Hardings invitò Edward
a farci una visita. Il locale era ampio, elegante ed esponeva merce di alta
qualità. Fin lì, niente di strano.
Fu quando uscirono e compirono il periplo della fontana che notarono il
dettaglio.
Sopra l'insegna del negozio s'intravedeva ancora la scritta: CHIESA DI
SANT'AGNESE.
Una volta, quel locale era un luogo sacro.
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Capitolo 11 *** COME AMMINISTRARE I VISITATORI ***
Nuova pagina 2
COME AMMINISTRARE I VISITATORI
Grindewald, luglio
2114
Sebbene Annamaria ed i suoi colleghi fossero riusciti a contenere le conseguenze
dello sconfinamento di Heron dal reparto di malattie infettive, e la dottoressa
avesse pregato la figlia maggiore di non divulgare ancora la notizia, voci di
corridoio erano trapelate ugualmente, ed erano uscite dal nosocomio
diffondendosi per la città in modo non chiassoso ma in ogni caso invasivo.
E il sindaco Stefano Aloisi ne pagò lo scotto in termini di continue visite da
parte dei cittadini che entrarono spesso nel suo ufficio senza bussare,
soprattutto quelli appartenenti alla comunità teutonica.
"Avrebbe dovuto dircelo! - protestò un tedesco, imbufalito - Potrebbero essere
pericolosi!".
"Avete avuto fastidi? - rispose Stefano in tono - Vi hanno fatto del male? Hanno
fatto del male a qualche vostro familiare?".
"No, - dovette ammettere un connazionale del sindaco - ma sono stranieri! Non
sono dei nostri e non conosciamo ancora le loro intenzioni".
"E se fossero arrivati qui per conquistarci ed assoggettarci?" osservò una
cittadina germanica.
"Non crede che l'avrebbero già fatto?" ribatté Stefano.
"Potrebbero farlo in silenzio, senza dir niente" commentò un italiano.
Stefano si alzò dalla sedia erigendosi in tutta la sua possanza, allontanando di
poco, istintivamente, la piccola folla che si era radunata nella stanza dei
comandi. E a quel punto, qualcuno parlò a suo favore.
"Signor sindaco, - propose una donna italiana, alta, bruna e robusta, con i
tipici spiriti di curiosa e di cacciatrice di notizie - perché non indice una
conferenza stampa? I visitatori potrebbero presentarsi, o essere presentati, in
modo da sapere chi sono e cosa intendono fare. A questo punto, se non hanno
nulla da nascondere, verranno, se invece sono qui con cattive intenzioni, in una
maniera o nell'altra, mostreranno una reazione. O scapperanno, o attaccheranno".
Per quanto demenziale e surreale, quella soluzione si rivelò una buona idea e,
intuito subito che tipo lei fosse, Stefano chiese cortesemente alla donna di
organizzare l'evento. L'italiana uscì di corsa dall'ufficio di Stefano e non si
fece più vedere in giro per alcuni giorni, riapparendo poi, soddisfatta,
annunciandogli che tutto era pronto per l'inizio del mese di agosto e, se avesse
voluto, anche per la fine di luglio, in occasione della festa di fine mese.
Stefano tirò un mezzo sospiro di sollievo e si accese una sigaretta per
rilassarsi, aprendo la finestra per non impuzzolentire l'ufficio con l'odore del
fumo.
Pochi minuti dopo, entrò Annamaria e, nonostante apparisse stravolta, per lui fu
come avere una visione divina, se si poteva ancora parlare di divino.
Le chiese come stesse l'ospite e quale fosse la situazione reale.
"Sta meglio. - rispose la moglie - Ma è ancora l'unico del suo equipaggio ad
essere in piedi e camminare con le sue gambe. E'ormai quasi sicuro che tre di
loro non ce la faranno. Gli altri due sono ancora in coma, ma non irreversibile.
Potrebbero però risvegliarsi fra mesi!".
Stefano le riferì gli sviluppi in merito all'organizzazione della conferenza
stampa.
"Pensi che se la sentirà?" le domandò, alla fine, perplesso.
Annamaria sorrise.
"Nonostante sia il comandante di una flotta spaziale, abituato a decidere della
sorte di altri esseri umani, fondamentalmente è timido.- rispose - Non so come
potrebbe reagire davanti al pubblico. Cercherò di prepararlo dal punto di vista
psicologico".
"Credi sia stata una buona idea?" chiese Stefano alludendo all'evento al quale
lei avrebbe dovuto prepararlo.
"Tutto sommato, si. - rispose Annamaria, convinta - Per lui sarebbe una buona
opportunità per illustrare la sua condizione e domandare, eventualmente aiuto,
nonché a dirci qualcosa che potrebbe essere utile a noi. Sarebbe un bello
scambio di informazioni".
Di sua moglie, Stefano adorava il non stupirsi praticamente di nulla e la sua
complicità in tutto.
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Capitolo 12 *** VERSO NORD ***
Nuova pagina 2
14)
TERRITORIO LIBERO
Verso nord
Lasciata Roma, con il suo mistero dei luoghi sacri, non più sacri, e rifornito
l'aereo di carburante, Hardings ed Edwards puntarono ancora verso nord e
spingendosi alle alte latitudini scoprirono un territorio vasto che apparve
libero da detriti di qualunque genere, corrispondente alla Siberia.
Altro scambio muto di sguardi interrogativi e successiva immediata decisione di
atterrare per sapere perché. Hardings provò a comunicare con qualcuno al suolo:
ricevette risposta e autorizzazione a scendere. Planati sulla pista e scesi dal
velivolo, furono accolti con moderato calore da tre uomini di una probabile base
militare nei dintorni, i quali chiesero da dove provenissero. Quando Hardings lo
rivelò, annuendo con le teste, i tre dimostrarono di conoscere il luogo.
"Com'è la situazione da voi?" domandò uno dei tre, presentandosi col nome di
Antonov.
Hardings gliela raccontò e gli parlò di ciò che avevano visto dall'aereo.
"Maledetti schifosi bastardi! - digrignò Antonov - Hanno preso il nostro pianeta
per il loro immondezzaio. Ma noi ne abbiamo fatti saltare per aria parecchi e da
un pò di tempo non si sono fatti più vedere, almeno da queste parti".
"Anche da noi. - disse Hardings - Ma da noi, ogni tanto, qualcuno atterra ".
"Non abbiate pietà. - suggerì Antonov, risoluto - Sterminateli. Chissà che non
passi loro la voglia, definitivamente".
"Ma da dove vengono?" chiese Edwards.
"Non lo so. - rispose Antonov, duro - E non me ne può fregare di meno. So solo
che non hanno alcuna autorità e autorizzazione a sporcare il nostro pianeta con
le loro schifezze. Se continuano, e noi li vediamo arrivare, li attaccheremo su
scala mondiale. Preparatevi anche voi".
Hardings azzardò ad accennare anche ciò che avevano scoperto a Roma.
"Sapete che diavolo è successo?" chiese poi.
Antonov invitò i tre a seguire lui e i colleghi alla base, una costruzione larga
e bassa, con i muri rossastri, appena fuori dalle piste di atterraggio. Entrati
tutti e cinque, in un'ampia stanza, l'uomo offrì da bere ai suoi e agli ospiti.
"Qualche vaga idea ce l'avremmo" parlò poi.
"E sarebbe?" lo incoraggiò Hardings, speranzoso di avere delucidazioni.
"Dev'essersi trattato di una specie di rivoluzione culturale. - teorizzò il
russo - Un pò cruenta".
"Direi. - commentò Edwards - Non siamo rimasti in molti".
"Perché? - commentò Antonov - E' un male secondo voi?".
"Non saprei. - replicò Hardings - Forse no. Però, il punto è che ai superstiti
non sembra fregare niente di sapere se altri sono ancora al mondo. Ma da chi
avete avuto notizia di cosa è successo?".
"In un villaggio sperduto, non so dove, - iniziò Antonov - abita una donna molto
anziana, forse ultra centenaria, sopravvissuta a questa rivoluzione ma.....".
"Ma?" fecero in coro Hardings ed Edwards che sentivano aumentare la speranza di
saperne di più.
"Pare che sia l'unica sopravvissuta della sua famiglia. - rispose Antonov -
All'epoca dei fatti, era molto piccola e fu sepolta in uno scantinato dai suoi
per proteggerla dai rivoltosi. Quando riemerse, scoprì che i suoi familiari
erano tutti morti, quindi, anche se era già nata al tempo degli eventi, non può
ricordare cosa sia realmente accaduto e non c'è nessuno che possa riportare
com'è veramente andata".
Hardings ed Edwards si guardarono, avviliti. La loro unica piccola speranza di
apprendere qualcosa in merito agli eventi del passato era miseramente
tramontata.
15)
IL COMANDANTE HERON
Grindewald, ospedale
Annamaria entrò, educata e discreta, nella camera del nosocomio che da circa un
mese ospitava il comandante Al Heron e trovò l'uomo in piedi che guardava oltre
la finestra. Avvicinatasi a lui, non poté fare a meno di notarne l'espressione
triste in quei suoi splendidi occhi cobalto che, giratosi verso di lei, si
fissarono sulla sua persona, passandola ad un'accurata radiografia senza
comunque altri scopi che non fossero di ringraziamento e speranza.
Gli parlò con la sua abituale soavità spiegandogli cosa sarebbe successo nei
giorni seguenti e gli chiese se si fosse sentito di presentarsi in pubblico,
sottolineando l'eventuale utilità che ne avrebbe ricavato.
"Non ho nulla da nascondere, - disse Heron, mestamente - tranne la
responsabilità che ho sul mio equipaggio".
Annamaria sospirò e gli posò una mano sulla spalla larga esposta verso di lei.
"Comandante Heron, - esordì - io non ho ancora idea di cosa vi sia successo e di
come e perché voi siate atterrati qui dietro quella montagna nel modo terribile
in cui lo avete fatto, ma sono sicura che non è colpa sua. Dev'essere stato un
evento accidentale. Credo che nello spazio possa accadere. Un
meteorite.....qualunque cosa può aver colpito la vostra astronave e deviato la
rotta, portandovi ad arrivare fin qui. Non si colpevolizzi. Non si tormenti con
responsabilità che forse non ci sono".
Heron si voltò completamente verso di lei e, con sua immensa sorpresa, alzò una
mano e le accarezzò una guancia. E Annamaria si trovò ad avere lei gli occhi
lucidi di commozione.
Fissò l'uomo. Ora che si era ripreso quasi del tutto, era di una bellezza
stratosferica. L'ossigeno che aveva respirato, e che, di tanto in tanto era
costretto a respirare a causa dell'aria rarefatta dei duemila e passa metri di
altitudine ai quali la cittadina di Grindewald era situata, che, spesso, gli
rendevano il respiro difficoltoso, aveva cambiato il colore della pelle da
bianco cereo a un lieve tuttavia gradevole color spumante pallido, e i
lineamenti, prima contratti dalla sofferenza delle ossa rotte, ora distesi dal
benessere fisico ritrovato, si erano ulteriormente, addolciti, senza però essere
effemminati. Annamaria fu certa che alla conferenza stampa avrebbe fatto strage
di cuori muliebri, scatenando, come unico effetto negativo, una bella dose di
gelosia maschile. A malincuore, gli prese il polso e allontanò dal viso la sua
mano bianca dalle dita sottili e lunghe.
Heron le chiese scusa e lei accettò scuotendo la testa in un gesto di
noncuranza, quindi, l'uomo tornò a guardare oltre la finestra.
Poi si girò di nuovo, sorrise e annuì.
"Sono pronto" rispose, sicuro.
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Capitolo 13 *** PRIME NOTIZIE DAL PASSATO ***
Nuova pagina 2
16) PRIME NOTIZIE DEL PASSATO
Terra, Kirghizistan
Contrariamente alle previsioni pessimistiche dei due piloti americani, la
centenaria fu trovata, non in Siberia, bensì in un villaggio di poche urte del
Kirghizistan, in mezzo alle montagne, a oltre 3000 metri di altitudine, tutto
sommato molto più vicino di quanto sarebbe potuto essere se avessero dovuto fare
il giro della Siberia, essendo lo Stato a pochi chilometri dal confine
siberiano.
In un paesaggio dominato dal color argilla del terreno, dal grigio e dal bianco
dei monti, l''urta dove la donna abitava costituiva una gradevole macchia
colorata e, malgrado il freddo, era calda, interamente rivestita com'era di
tappeti di pregio, variopinti, con bellissimi disegni orientaleggianti,
manufatti da lei stessa in persona, nel molto tempo libero che aveva durante le
lunghe giornate fra quelle alte montagne dove, incredibilmente viveva ancora da
sola, autosufficiente ed abbastanza lucida da poter parlare e formulare discorsi
sensati. Per la traduzione dall'inglese al Kirghiso e viceversa, Antonov aveva
provveduto mandando, con i due americani, un suo dipendente, nato nel Paese
della donna, e vissuto sul luogo abbastanza da ricordare qualcosa del suo idioma
d'origine.
Il volto tartaro di cartapesta scura, dagli zigomi alti, attraversato da
centinaia di rughe dell'anziana montanara, era illuminato da occhi stranamente e
straordinariamente chiari per la razza di quei luoghi, e lo sguardo era ancora
sveglio e brillante.
Non molto avvezza a parlare per il lungo tempo passato in pressoché completa
solitudine, il suo racconto partì sotto la forma di intervista, con domande
piuttosto corte e precise poste dall'interprete, alle quali la donna controbatté
con risposte altrettanto corte e precise.
Aveva trascorso i suoi cento anni e oltre - affermò di averne attualmente
centocinque - in quel villaggio senza spostarsi mai troppo e incontrando poca
gente, troppo poca per raccogliere testimonianze bastanti a ricucire qualche
brandello di storia del pianeta in quell'ultimo secolo, però qualcosa uscì per
praticare un piccolo squarcio nello spesso velo di inspiegabile occultamento del
passato della Terra.
In parole semplici e povere, Hardings, Edwards e l'interprete capirono, o
credettero di capire, che cento anni addietro, un giorno, qualcuno aveva, in
sostanza, rivelato quella che aveva definito Verità Assoluta, ovvero, la non
esistenza di alcuna divinità e la completa invenzione di una mitologia ad essa
legata, la qual cosa, in soldoni, stava a significare che Dio non esisteva, non
era mai esistito e tutto ciò che aveva girato intorno a lui si era rivelato un
ammasso di enormi balle costruite ad arte per far soldi, questione che,
comunque, alla narratrice non aveva interessato più di tanto, non essendo mai
stata credente, il cui sviluppo della vicenda non aveva più seguito per i
motivi appena citati e perché nel suo Paese, a parte all'inizio, ben presto di
notizie non ne erano più arrivate.
Non era molto, ma era già un indizio che, tra l'altro, forniva una spiegazione
al recente nuovo utilizzo profano dei luoghi una volta ritenuti sacri.
Tornati alla base in Siberia, Hardings ed Edwards ringraziarono Antonov e
compagni e risalirono sul loro velivolo di ricognizione.
"Se vedete uno di quei cosi belli gonfi di spazzatura - avvertì il russo -
abbattetelo senza misericordia. Non importa se ammazzate anche gli occupanti.
Sono bastardi in meno che vengono a depositare la loro merdaccia sul nostro
sacro suolo".
Prima di chiudere lo sportello dell'aereo, Hardings salutò Antonov con il tipico
leggero battito della mano tesa a taglio sopra l'arcata sopraciliare destra in
segno di comprensione del messaggio e successiva tacita promessa di obbedire al
suo ordine ma, non appena i due ripresero posto davanti ai comandi, prima di
rimettere il moto l'aereo, Hardings si fermò a riflettere ad alta voce, volendo
condividere i suoi pensieri col collega
"Edwards... "gli si rivolse, perplesso.
"Si?"
"E' possibile che l'umanità abbia creduto subito a quello che era stato detto?".
Anche Edwards si fermò a riflettere. Sembrava strano pure a lui.
"Non saprei, - rispose tuttavia - Però...si. In effetti...".
"O forse è stato proprio questo a provocare lo sconquasso" osservò Hardings.
"Cioè?" disse Edwards che aveva capito, ma voleva ulteriori conferme.
"Secondo me, in principio, la gente non ha creduto subito. - azzardò Hardings -
Vuoi che sia stata così stupida da prendere a tamburo battente per buona una
dichiarazione fatta magari da un tizio che si era svegliato male una mattina o
che aveva chiesto un miracolo e non lo aveva ottenuto? Succede così, sai? Tutti
i più grandi casini della Terra sono avvenuti perché qualcuno non si è visto
accontentato nella propria richiesta. Poi l'umanità si è divisa in credenti e
non credenti e, finalmente, dopo anni di silenzio e ipocrisia, le due fazioni se
le sono date da orbi sfogando i loro istinti repressi. Secondo me è andata
così".
Pensandoci bene, Edwards realizzò di trovarsi in accordo col collega. Doveva
essere andata in quel modo. Soddisfatto della sua teoria, Hardings accese i
motori dell'aereo e dopo pochi secondi i comandi automatici si attivarono,
favorendo un decollo rapido e ben calibrato. Altri secondi dopo, lasciata la
pulita Siberia alle spalle, sotto di loro si riaprì il desolante panorama di
distese di spazzatura in tutte le zone pianeggianti disabitate. E la madre
delle domande sbocciò spontanea: possibile che, tranne nelle aree intorno a basi
militari, nel resto del mondo nessuno si fosse mai accorto di quello scempio?
Libero, grazie al temporaneo inserimento del pilota automatico, Hardings lasciò
per qualche attimo i comandi incuriosendo e ponendo all'erta Edwards che
indovinò una qualche altra profonda riflessione del compagno di volo. Ed
effettivamente, Hardings era stato folgorato da un pensiero improvviso: che fine
avevano fatto i telescopi? Riprese completamente i comandi in mano e puntò
l'aereo verso sud est.
Nel mentre, i due fecero in tempo ad accorgersi che l'intero territorio del
Medio Oriente era scomparso, sommerso dalla spazzatura.
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Capitolo 14 *** LA CONFERENZA ***
Nuova pagina 2
Grindewald, più o
meno nello stesso periodo
Ospedale
Terminata la giornata lavorativa, prima di tornare definitivamente a casa,
Annamaria volle fare un'ultima visita a Heron per assicurarsi che fosse davvero
pronto per la conferenza. Era rimasta particolarmente colpita da quella carezza,
elargitagli dall'uomo forse inconsciamente, ed ebbe una seconda maggiore
sorpresa allorché, entrata nella stanza, Heron le andò incontro con le braccia
semi tese come se la volesse abbracciare, ritraendosi solo all'ultimo momento da
quell'impulso e scusandosi per il gesto. Annamaria fu sicura di capire.
"Comandante Heron, - gli si rivolse piena di comprensione - lei ama quella
donna, vero?" disse, riferendosi alla paziente sotto tenda ad ossigeno. Heron
tornò al letto e si sedette, affranto, sul bordo.
"Si" confessò come una liberazione.
"Ma?" lo sollecitò Annamaria aspettando il "ma".
"Le regole della flotta proibiscono ogni legame sentimentale, anche una semplice
amicizia fra membri dell'equipaggio di un'astronave" rivelò l'uomo, tristissimo.
"Lei la ama?" chiese ancora Annamaria.
"Si. - rispose Heron, maggiormente afflitto - Almeno....credo!".
"Immaginavo. - disse Annamaria avvicinandosi a lui. L'uomo si girò verso di lei
lanciandole uno sguardo muto che però diceva tutto - Al diavolo, le regole!" si
lasciò sfuggire lei, a mezza voce, stizzita e anche lei rattristata.
A quel punto, Heron ebbe una reazione imprevista. Spalancò i suoi splendidi
occhi blu di stupore.
"Come ha detto, scusi?" la interpellò, teso. Perplessa, Annamaria ripeté la
frase.
"Credo sia un vecchio modo di dire. - spiegò - Per protestare contro una
situazione a noi sfavorevole".
"No, - rettificò Heron - Al diavolo. Il Diavolo.... - e nel parlar così, prese
un tablet e le mostrò una fotografia che raffigurava una croce.- Ha mai visto
quest'oggetto?".
Annamaria frugò nel suo archivio mentale. Si. Aveva incontrato l'immagine di
quell'oggetto ma non l'aveva mai associato a nulla di particolarmente
importante.
"Perché me lo chiede?" domandò, incuriosita.
"Perché a volte mi appare in sogno. - rispose Heron, eccitato da un'emozione che
sembrava intensa - Fra le fiamme. - Poi, afferrandole il bavero del camice la
invitò a guardarlo bene. Lo sguardo di Annamaria cadde sulla piccola spilla
appuntata sotto il bavero: il Caduceo, il bastone avvolto nelle spire di due
rettili, il simbolo della categoria dei medici. Annamaria non capì subito -
Dovrebbe esserci anche la croce - riprese Heron - come simbolo di chi salva vite
per professione. Lo avevo visto in un libro a casa di un nostro vecchio amico di
famiglia. - si fermò notando l'espressione corrucciata di Annamaria - Ho detto
qualcosa che non va?" terminò preoccupato.
Annamaria sorrise.
"No. - lo tranquillizzò - Talvolta ho la sensazione che ci venga nascosto un
passato".
"Non è una sensazione" corresse Heron.
Annamaria gli si avvicinò ancor di più e gli si mise davanti scrutandolo con
sguardo determinato.
"Lei sa qualcosa in merito?" lo interrogò, decisa.
"Del vostro pianeta, no. - rispose Heron - Del mio, frammenti di racconti
incompleti che hanno il sapore di favole narrate di fronte al fuoco di un
camino". Annamaria apprezzò quella poetica similitudine. Sotto la rigidità
dell'uniforme di pilota di un'astronave - che in quel momento, tuttavia non
indossava -, Heron stava rivelando un animo sensibile e romantico.
"E di cosa parlava quel passato? Ricorda?" continuò Annamaria, cercando di
incoraggiarlo a parlare. Heron la guardò con un un'intensità difficilmente
sostenibile.
"Di un dio che non c'è più. - rispose lui, sempre mesto - O almeno di una
divinità in cui i nostri antenati riponevano fiducia". Annamaria annuì,
percependo vaghe linee di un'idea che andava disegnandosi nella sua mente. Al
momento decise di non insistere e di cambiare tema.
"Perché lei e il suo equipaggio siete venuti fin qui, in un mondo popolato da
quattro gatti? - domandò - Ci siete arrivati per caso?" Heron abbozzò un
sorriso. Meraviglioso.
"No. - rispose - Oltre ai quattro gatti, avete materiale che ci interessa".
"Quale?" chiese Annamaria, curiosa.
"Uranio" rispose Heron, secco, osservando divertito l'espressione stupita della
donna.
"Non è pericoloso?" commentò infatti Annamaria.
"Se usato male. - specificò Heron con atteggiamento di chi si vanta di essere
esperto, mutandolo però poi in uno più umile - Annamaria... - proseguì,
preoccupato - gli abitanti di questa città hanno paura di me?"
Annamaria sorrise.
"All'inizio sì. - ammise - Ma ora sono solo curiosi e ansiosi di conoscerla. -
si allontanò di poco, per cominciare ad andar via, continuando a sorridere -
Stia tranquillo. Andrà tutto liscio. Sia solo se stesso. E li conquisterà
davvero. Buona notte". Detto ciò, gli sfiorò una spalla. Prima di lasciare la
stanza, fu certa che il comandante avrebbe voluto almeno deporle un bacio sulla
fronte o su una guancia. Uscì in fretta per impedirglielo e per evitare a lei
stessa di commuoversi.
A casa Aloisi
Non erano riusciti ad andare a cena fuori ma quella sera la famiglia Aloisi era
al completo attorno al tavolo della bella e grande cucina abitabile per
consumare il pasto serale tutti insieme.
Flavia, Giulio e Federico, i più grandicelli erano finalmente in vacanza dalla
scuola e la piccola Annalisa era ben sistemata, salda sul suo seggiolone, in
trepida, nervosa, affamata attesa del primo piatto, la sua bella porzione "da
grandi" delle penne all'arrabbiata. Annamaria non aveva di sicuro molto tempo
per preparare pietanze elaborate come lasagne o cannelloni, ma i primi piatti le
venivano comunque sempre molto bene.
"Mamma, è vero che ci sono gli alieni?" se ne uscì Giulio di punto in bianco.
"Le notizie girano in fretta" commentò Stefano, mordicchiando un pezzo di pane
morbido e fresco.
"Non siamo certo a Roma o a New York" fu la risposta veloce di Annamaria.
"Mamma, tu li hai visti, vero?" fece seguito Federico.
"Li ho visti anch'io! - si vantò Flavia ridimensionandosi però, subito dopo -
Cioè....l' ho visto. Ne ho visto uno solo. - Giulio e Federico la tempestarono
di domande alle quali la ragazzina rispose, per la verità, in tono non tanto
enfatico - Poverino! - si mostrò empatica alla fine - Mi ha fatto quasi pena.
Sembrava più spaventato lui di noi".
Annamaria si fermò con la zuppiera in mano, sovrappensiero. Tutti ebbero
l'impressione che fosse preoccupata. Infatti, immediatamente dopo, chiese al
marito quando fosse stata fissata la conferenza.
" A fine settimana. - rispose Stefano, piuttosto allegro. Ma nel vedere la
consorte perplessa, tornò serio - Come sta il nostro ospite?".
"Fisicamente sta meglio. - rispose Annamaria facendo spazio sul tavolo e
depositando la zuppiera fumante - Si è ripreso quasi del tutto, ma moralmente è
un pò giù. A dirla tutta, non so davvero come reagirà e come si comporterà. E'
vero che è un tipo abituato al comando e a prendere decisioni in velocità, ma
qui la situazione è molto diversa. E' letteralmente in un altro mondo che non è
il suo. Sto cercando di prepararlo meglio possibile. Comunque, già il fatto che
abbia accettato di parlare in pubblico, è un buon segno. Vuol dire che ha voglia
di comunicare con noi..... - si fermò come per pensarci - Ne ha bisogno".
"Ci racconterà la sua storia?" intervenne di nuovo Giulio.
"Ci parlerà del suo pianeta?" si accodò Federico.
"Possiamo venire anche noi alla conferenza?" chiese Flavia.
"La conferenza è aperta a tutti. - rispose Stefano, afferrando la forchetta e
affondandola nelle penne scivolose di profumato sugo di pomodoro, come a voler
porre fine alla discussione, dando il via alla cena - Fa parte della festa di
fine mese che è aperta a tutti".
Annamaria si fermò con la forchetta a mezz'aria.
"Non so se forse sia troppo presto" commentò, seria.
"E' meglio così, credimi. - le fece notare Stefano - Già gli abitanti non hanno
digerito molto che abbiamo tenuto loro nascosto la presenza dei nostri
visitatori dello spazio. Mi hanno assalito e me ne hanno dette di tutti i
colori. - si lamentò - Si sono calmati solo quando ho annunciato che uno di loro
si sarebbe fatto vedere, proprio perché non hanno nulla da nascondere. Sono
venuti in pace.....Vero?" . Scorgendo sul volto di Stefano una buffa espressione
di ricerca di conferma, Annamaria accennò un sorriso. Se si escludeva quella
iniziale minaccia di vendetta per la morte del padre, perito chissà dove e
perché, con la quale aveva esordito i primi giorni di degenza, forse sotto
l'effetto degli analgesici e dell'ossigeno, Heron non aveva più dato segni di
istinti violenti, anzi! Si era dimostrato pacifico e....molto dolce, soprattutto
con lei. Ma aveva manifestato un continuo tormento interiore che pareva farlo
soffrire e neanche poco e adesso lei ne conosceva la ragione. Per associazione
di idee, le venne in mente di colpo ciò che le aveva mostrato e volle
condividerlo con il marito pur rendendosi conto che, forse, l'argomento non
sarebbe stato adattissimo per i figli.
Al sentirla parlare, Stefano smise di botto di mangiare e alzò la testa di
scatto.
"E me lo dici così?" la rimproverò senza, tuttavia, esser duro.
"Come avrei dovuto dirtelo? - replicò Annamaria, piegando sullo scherzoso -
Cantando?" e accennò una musica mettendo in versi ciò che aveva appena detto a
parole.
Stefano drizzò la testa e il busto, dimostrando estremo interesse alla
rivelazione e anche che sembrava aver avuto un'improvvisa intuizione.
"Annamaria...."esordì, vagamente solenne.
"Si?" lo incalzò la moglie.
"Qualunque cosa sia successa sul nostro pianeta, qualcosa di simile dev'essere
successo in quello del nostro amico".
"Credo di si" convenne Annamaria.
"Convincilo a parlarne alla conferenza" quasi le ordinò Stefano. Annamaria annuì
"Credo che lo farà. - disse a mezza voce - Senza bisogno di convincerlo".
E la famiglia Aloisi riprese la cena.
Dopo cena
L'eccitazione per la conferenza imminente, che senza dubbio si stava delineando
fuori da ogni schema convenzionale, rese particolarmente difficile il persuadere
la prole della famiglia ad andare a godersi il sonno del giusto. In altre
parole, quella sera i coniugi Aloisi fecero più fatica del solito a mandare i
loro figli nelle proprie stanze a dormire, ma alla fine ci riuscirono e dopo
aver socchiuso la porta della loro camera per non perdere del tutto il controllo
della situazione, poterono godersi un pò di intimità senza esagerare data anche
la profonda stanchezza a cui giungevano al termine di giornate per loro sempre
piuttosto pesanti. Quando Stefano uscì dal bagno dopo una doccia rigenerante,
trovò Annamaria seduta sul letto matrimoniale, a gambe incrociate e con la
faccia scura. Si sedette accanto a lei e le girò il viso verso di lui.
"Sputa il rospo!" le comandò, in tono scherzosamente imperioso, sicuro che
stesse covando qualche pensiero cupo. Annamaria scosse la testa.
"Forse hai ragione" esordì, seria.
"Su cosa?" chiese lui, sospettoso.
"Sul passato. - rispose Annamaria - Abbiamo un passato. Questo pianeta ha un
passato, ma non so per quale accidenti di strano motivo, è stato cancellato o
almeno qualcuno ha deciso che non dobbiamo recuperarlo e mi domando perché. Cosa
è successo di tanto terribile da impedircelo?"
Stefano sgranò gli occhi.
"Complimenti, dottoressa Di Gennaro! - gongolò - Lei ha appena posto la domanda
della settimana! O meglio: quella del millennio".
"E cosa vinco?" continuò il gioco Annamaria.
Stefano non rispose passando all'azione e baciandola.
"Ritroveremo il passato della Terra. - si divertì Stefano a promettere
solennemente - Parola di Stefano Aloisi".
La conferenza
La tanto attesa conferenza ebbe luogo il sabato in un'ampia sala del municipio
di Grindewald, che si riempì fino all'esaurimento posti in piedi. Si poté quasi
dire che vi partecipò tutta la popolazione adulta e pensante, ma registrò anche
la presenza di molti giovani fra i quali i figli maggiori del sindaco Aloisi.
Stefano ricevette molti complimenti per sua figlia, una bella ragazzina di 12
anni, più alta di svariati centimetri della media - mutuati dalla statura di suo
padre -, sottile, dal bel visetto sveglio, incorniciato da una folta e lunga
capigliatura castano ramato, e illuminato da due grandi occhi grigio-verdi,
anch'essi ereditati da papà Stefano, mentre i due maschi, Federico e Giulio,
rispettivamente di 9 e 7 anni, erano piuttosto evidentemente somiglianti ad
Annamaria, anche loro castani di capelli e occhi, dalle chiome corte e
zazzerute, e i visi tondeggianti che conferivano un aspetto simpatico ed
accattivante. La piccola Annalisa, troppo giovane per partecipare a
quell'assemblea, dove forse si sarebbe parlato di cose da grandi, era rimasta a
casa con una ragazza trovata disponibile per miracolo a farle da baby sitter per
quella mattina.
Tutti sapevano dell'arrivo dell'ospite che veniva da lontano e l'emozione era
tangibile al tatto.
I commenti bisbigliati serpeggiavano fra i convenuti e si sentiva di tutto: da
quelli benevoli e speranzosi a quelli vagamente velati di incomprensibile
malignità, finché da una porta in fondo alla sala, Heron entrò, alto, elegante
nel portamento, nel semplice e sobrio completo grigio chiaro, prestatogli da un
collega di Annamaria della sua stessa statura e struttura fisica, sotto il quale
spiccava una camicia celeste, ben stirata, ma aperta al collo per volere della
dottoressa, preoccupata che potesse il più liberamente respirare, considerando
la sua nota difficoltà nel farlo a causa dell'altitudine e delle dolorose
conseguenze fisiche riportate nel grave incidente di cui lui e il suo equipaggio
erano rimasti vittime. Le costole fratturate si erano ormai pressoché saldate
completamente, ma gli procuravano ancora, di quando in quando, qualche brutta
fitta e solo per cautela, sotto la camicia, indossava un leggero tutore elastico
che gli fasciava il torace, accentuandogli apparentemente l'ampiezza del petto.
Il suo avanzare verso il lungo tavolo in fondo alla sala, dalla parte opposta
dell'entrata, ebbe il potere di ammutolire qualunque residuo commento diretto
alla sua persona, facendo convergere gli sguardi su di lui, fomentando un "oh"
di meraviglia e dividendo idealmente ed immediatamente la platea nelle due
fazioni sessualmente distinte: la femminile, inchiodata dalla meraviglia e la
maschile, più mobile, che a sua volta si divise a metà fra coloro che
mormorarono di ammirazione e quelli che vibrarono di invidia e gelosia.
Senza guardare, Heron raggiunse il tavolo e, invitato con fare soave da
Annamaria che parve mangiarselo con gli occhi, lo aggirò e vi si sistemò dietro,
al centro di esso. A quel punto, alzò la testa e gli occhi puntandoli sui
presenti i quali sembrarono perdere la parola, precipitando la sala in un
silenzio irreale. Silenzio che lui ruppe poco dopo stirando lentamente le sue
labbra perfette in un sorriso, prima timido poi sempre più aperto, sciogliendo
gli animi come burro al Sole.
"Miseria! - si sentì borbottare una voce femminile - Ma nel suo pianeta sono
tutti come lui? E gli altri? Voglio andare. Voglio partire subito!".
Esplose una risata in mezzo alla quale, però, si udì anche qualche rimbrotto
acido, probabilmente fuoriuscito dalla bocca di qualche esemplare maschile non
molto felice di essere oggetto di un inevitabile confronto esteriore avanzato
dalla propria partner. Alcuni animi mostrarono di cominciare a scaldarsi, pronti
ad un eventuale scambio di non educati convenevoli, ma gli esponenti delle Forze
dell'Ordine esibirono subito palesi le intenzioni di spegnere e disinnescare
qualunque miccia, anche la più piccola, spingendo con pochi complimenti le teste
calde fuori dalla sala attraverso porte laterali.
Ristabilita la calma, la bruna, alta e spavalda organizzatrice della conferenza
si sorprese ancora sotto shock, ma si fece coraggio, si ricompose e cominciò a
porre le sue domande a cui Heron rispose dapprima timido, educato, dolcissimo,
sfoderando poi, anche ironia. Precedentemente istruita da Annamaria che ormai
sapeva molto dello straniero, Giacinta Raineri, - questo era il nome della
cronista che aveva voluto l'incontro - raggiunse presto il punto desiderato.
"Comandante Heron, - lo interpellò come aveva appreso dalla dottoressa - cosa l'
ha spinta a venire sul nostro pianeta?".
"Piacerebbe saperlo anche a me. - rispose Heron esibendo la sua ironia - Visto
che sono arrivato qui in modo molto veloce. Anche troppo, forse" . Molti
ricordarono il botto di un mese prima e riempirono la sala con una risata
contenuta, ma sentita, dopodiché Heron riprese, stavolta recuperando la sua
serietà e la sua sobrietà, fornendo il vero motivo della sua presenza sulla
Terra. "Uranio?" esclamò un convenuto, sinceramente stupito dalla risposta.
"Già. - confermo Heron - Siamo qui perché abbiamo scoperto che sulla Terra c'è
molto uranio e altri minerali che potrebbero servirci per alimentare le nostre
centrali produttrici di energia per far funzionare i macchinari che ci
forniscono luce e calore nelle città e nelle abitazioni".
"Io so dov'è l'uranio!" se ne uscì un cittadino italiano di Grindewald.
"Bene. - rispose Heron, sentendo accendere la speranza - Me lo dica. Vado a
cercarlo, ne prenderò quanto stimo sia necessario e toglieremo il disturbo".
"Nessun disturbo, comandante! - gongolò una donna tedesca in carne - Per me può
stare qui quanto vuole".
"Non t'illudere, balena! - la smorzò un italiano - Scòrdati che venga a
scaldarti il letto!"
Senza replicare, la corpulenta signora teutonica si alzò dalla sua poltrona, si
mosse rapidissima fino a quella occupata dall'italiano e assestò all'uomo
un'energica borsata sulla testa. Il tedesco strillò, si portò le mani al capo
mezzo pelato e, con occhi furenti, si scagliò a voce contro la donna
investendola di insulti mezzo in italiano e mezzo in tedesco. Lei non mostrò di
essersi pentita del gesto, anzi! Manifestò l'intenzione di concedergli il bis,
il tris e il tetris se non fosse stato per gli agenti delle Forze dell'Ordine
che la riacchiapparono e, a forza, la riportarono alla sua postazione con le
loro armi puntate addosso. I due litiganti si sedettero ai loro posti,
continuarono a guardarsi in cagnesco, ma non si mossero più.
La conferenza proseguì senza altri inconvenienti e si giunse alla questione
cruciale.
"Comandante... - avviò Giacinta, compiendo un profondo respiro - molti anni fa
qui, sul nostro pianeta sembra siano avvenuti dei fatti che hanno sconvolto
l'umanità decimandola numericamente, e cambiandone per sempre l'assetto sociale.
Pare strano, ma noi di queste ultime generazioni non sappiamo nulla di quel che
realmente sia avvenuto perché non ci sono giunte più informazioni nel tempo,
però pare che lei sappia qualcosa. Può dircelo?".
Anche Heron respirò e a qualcuno non sfuggì una rapida smorfia di dolore che
alterò per un secondo o due i bei tratti del suo volto. Non sfuggì neppure ad
Annamaria che gli si accostò apprensiva. Ma l'uomo la tranquillizzò. Stava bene
ed era già tutto passato.
"Nemmeno io ne so molto. - rispose calmo - A quell'epoca non ero ancora nato.
Non ero nemmeno in programma... - altra risatina generale - Ma da quel poco che
sono riuscito a sapere grazie a persone che sono vissute a lungo e sono ancora
vive, so che gli eventi sono da ricondurre al sentimento della fede. In altre
parole.... - si fermò un attimo per prendere un altro respiro, allarmando
Annamaria che cominciò a vederlo affaticato - dev'essere successo qualcosa che
riguarda la sfera religiosa... o una credenza...".
"Una guerra santa?" azzardo qualcuno ad alta voce.
"Qualcosa di simile" fece eco un altro. L'ipotesi accese un'interessante e
civile discussione che coinvolse molti partecipanti. Annamaria ne approfittò per
assicurarsi che Heron stesse bene, ma l'uomo le garantì che tutto stava
procedendo per il meglio e che, malgrado la tensione, si stava divertendo.
"Ma... - continuò Giacinta - è successo anche nel suo pianeta?".
"Credo di si" rispose Heron, convinto.
L'evento ebbe termine scivolando poi nella grande festa che sindaco e assessori
avevano preparato nelle piazze della cittadina allestite con enormi tavolate
dove salsicce, birra, delikatessen tedesche e sana cucina italiana
s'incontrarono in una grande mangiata e bevuta a cui seguì danze e canti di
entrambe le comunità le quali, almeno una volta ogni tanto, si univano
dimenticando vecchi rancori intonando insieme canzoni di montagna e di altro
genere.
Il Sole era brillante e caldo e il cielo sereno, di un azzurro densissimo, si
specchiò magicamente negli occhi del bel comandante extraterrestre accentuando
il blu che parve retroilluminarsi sprigionando una luce quasi sovrannaturale.
Qualcuno cominciò a pensare che in quel momento, se non Dio, o il dio di cui si
era parlato a fine conferenza, lui avrebbe potuto comunque essere una creatura
in cui credere, alla quale dare fiducia e su cui confidare per risolvere qualche
problema.
Era l'effetto della birra?
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Capitolo 15 *** IL GRANDE FRATELLO NON GUARDA ***
Nuova pagina 2
IL GRANDE FRATELLO....NON GUARDA
Volo di ricognizione
"Tom, dove stai andando? - domandò Edwards, preoccupato, notando che il collega
aveva spinto il velivolo a velocità piuttosto elevata - Dove intendi andare?".
Qualche ora dopo lo indovinò. Da lontano, in mezzo alla vegetazione, faceva
capolino una costruzione dalla struttura inconfondibile, che ne rivelava la
natura e la funzione: la cupola di un osservatorio astronomico, stranamente
chiusa.
"Il telescopio di Monte Palomar è stato ritirato" borbottò Hardings abbassando
la quota di volo dell'aereo e puntando più a sud.
Dopo circa un'ora furono sopra al grande telescopio, incassato nel verde, di
Arecibo Ed anch'esso era circondato da detriti di ogni genere.
Edwards vide Hardings girarsi verso di lui e fissarlo, stralunato.
I più grandi telescopi del mondo, quelli che, per capirsi, erano in grado di
sondare l'universo fino agli angoli più remoti, erano stati bloccati e messi
fuori uso, il che spiegava il non aver intercettato gli invasori impedendo che
questi depositassero la loro spazzatura sul suolo terrestre.
Perché?
E da chi?
Terra, Area 51
Sicuri ormai che i prigionieri non sarebbero scappati in alcun modo e da nessuna
parte, Forrest e soci avevano deciso di lasciarli liberi mantenendo comunque una
stretta sorveglianza.
Uno degli scaricatori di immondizia manifestò educatamente la necessità di
andare al bagno. Cinque uomini della sorveglianza gli puntarono le loro armi
contro e, senza abbassarle, lo scortarono fino alle toilettes. L'uomo aveva
finito col non farci più molto caso ed accettava di spostarsi ovunque
all'interno di quello strano posto, costantemente accompagnato dalle bocche di
quei "cannoni" sempre carichi, pronti a far fuoco ad ogni sua mossa interpretata
come errata.
Atteggiamento differente e più infastidito, quello mostrato invece dagli
esponenti della "malavita spaziale", più insofferenti a quel tipo di
costrizione. Ma tant'era. Il capo di quel luogo aveva deciso così e non sembrava
esibire intenzioni di cambiamento di idee. Avevano dovuto accontentarsi di non
essere più legati alle sedie e considerare quella concessione come una generosa
prova di fiducia che non doveva assolutamente essere delusa, pena: il tornare ad
essere legati per l'eternità.
Gli uomini partiti per la ricognizione aerea non erano ancora rientrati alla
base e ciò stava lievitando un certo nervosismo all'interno degli ambienti.
Con le armi sempre puntate addosso, i prigionieri seguirono il capo e compagni
recarsi in fondo all'ampia sala, entrare, smanettare con i macchinari e
parlottare.
A bordo dell'aereo
La radio di bordo emise un fischio lacerante che per poco non mise fuori uso i
timpani di Hardings ed Edwards, poi gracchiò e spernacchiò poco finemente, per
introdurre, alla fine dei vari rumori, una voce anch'essa non molto limpida, ma
familiare.
"Si può sapere dove accidenti siete? - sbraitò la voce - Avevo detto un volo di
ricognizione non uno turistico! Siete andati alle Hawaii a fare surf?".
"Capo, - replicò Hardings, eccitato - Non sa cosa abbiamo scoperto!".
"No, - protestò vispamente Forrest - e mi auguro per voi che sia interessante,
altrimenti non rispondo delle conseguenze. Quando vi decidete a tornare?".
"Stiamo tornando, capo. - lo assicurò Hardings - Fra non molto arriviamo".
Poche ore dopo, Hardings ed Edwards fecero il loro ingresso nell'ampia stanza
accolti dal loro capo, fra il contento di rivederli o lo stizzito di rivederli
così tardi. Tuttavia, in seguito all'avere ascoltato il rapporto abbastanza
dettagliato dei due piloti, gli animi di Forrest e degli altri uomini della base
si calmarono ma furono anche pervasi da una spiacevole sensazione di
inquietudine e a farne le spese furono, ancora una volta, i prigionieri che si
videro puntare le armi dai sorveglianti, col tiro alzato e più minaccioso di
prima.
"Ne sapete niente?" squillò Forrest, torvo.
I cinque prigionieri si passarono in rassegna, stupiti e in imbarazzo.
"No" rispose uno degli scaricatori.
"Capo, - lo interpellò un altro uomo della base, un tipo giovanile, alto, magro
biondo ed occhialuto, esprimendosi in un tono di voce professionale, da esperto
di cospirazioni - è evidente che qualcuno ha creato questa situazione per
esercitare un comando occulto".
"Un comando occulto?" ripeté Forrest, poco persuaso.
"Si. - ribadì l'occhialuto - Da qualche parte dev'essere nata un'organizzazione
oligarchica, formata da un esiguo gruppo di persone le quali hanno fatto in modo
che i sopravvissuti agli eventi di un secolo fa si siano divisi in comunità
separate, indipendenti, specie di città-stato di stampo greco, indifferenti
all'esistenza degli altri. Dividi et impera, usava dire l'antico popolo
romano".
"Perché? - chiese e si chiese Forrest, accigliato - E chi può esser stato a
volere questo?".
"Non saprei" rispose l'occhialuto, esibendo la sua cultura, ma anche la sua
sincera perplessità.
"Un popolo alieno?" azzardò un altro esponente dello staff della base.
Forrest si grattò prima la testa poi, il mento.
"Beh, - fece, assumendo un atteggiamento più deciso - dobbiamo scoprirlo - e
rivolgendosi, cupo ai prigionieri - Voi ci aiuterete, vero?". L'ulteriore
innalzamento del tiro delle armi in mano ai sorveglianti, non lasciò molte
chances ai cinque prigionieri i quali non avrebbero saputo da che parte
cominciare, ma accettarono l'incarico senza recriminare troppo.
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Capitolo 16 *** RICERCA DI CONTATTI ***
Nuova pagina 2
RICERCA D I CONTATTI
Grindewald, il giorno
dopo
La festa di fine mese si era conclusa per il meglio.
La conferenza si era rivelata un successo, imprimendo vivacità, ulteriori
maggior interesse e partecipazione ai festeggiamenti da parte della cittadinanza
che ora era consapevole della novità piovuta sul loro sonnacchioso nucleo
urbano. Nella sua educata discrezione, il bel comandante alieno Al Heron aveva
ovviamente scatenato la curiosità degli abitanti i quali avrebbero volentieri
venduto i propri familiari, o parte di essi, per sapere di più su di lui ma che
dovettero ben presto accontentarsi di apprendere notizie vaghe da Annamaria e
dallo staff medico precipitatosi a riformare il cordone protettivo attorno a
lui, per lasciarlo riposare e ultimare le cure per la sua ripresa fisica
definitiva, nonché compiere ennesimi tentativi di rimettere in sesto almeno
qualche altro componente scassato del suo equipaggio.
Pur ricevendo impressione positiva, Stefano non aveva potuto fare a meno di
notare lo sguardo intenso che l'uomo aveva di tanto in tanto riservato alla sua
dolce consorte ed ora osservava Annamaria, apparentemente con altri occhi. Ma
Annamaria non aveva fatto una piega e fissava il marito con sguardo scanzonato.
"Stefano Aloisi, - lo apostrofò quella sera, soli nella loro camera da letto -
che fai, mi fai il geloso?".
Stefano si schiarì la voce cercando nel contempo di darsi un contegno
distaccato.
"Ammetterai che non gli sei antipatica" osservò.
"E chi lo nega? - riconobbe lei, senza scomporsi - Ma ti assicuro che non si va
oltre la simpatia. - Annamaria smise di parlare, si avvicinò al marito e gli
accarezzò le braccia regalandogli uno sguardo accorato - Il cuore e la mente di
quell'uomo sono per la donna che è ancora in coma sotto la tenda ad ossigeno e
che noi stiamo cercando di salvare. Per lui, io sono colei che forse la salverà.
Deve salvarla!"
"La salverete?" chiese Stefano, stavolta, parlando seriamente.
"Non morirà. - rispose Annamaria, triste - Ma non sappiamo ancora se si alzerà e
tornerà a camminare". Stefano chiuse gli occhi, sinceramente costernato per la
notizia, quindi si avvicinò ad Annamaria e la baciò senza altri indugi. Il resto
della sera e della notte furono spesi dai due nella conferma che il cuore di
Annamaria Di Gennaro era, e sarebbe stato sempre solo per Stefano Aloisi.
La mattina dopo
La mattina dopo, al suo arrivo in ospedale, un'infermiera corse verso di lei
annunciandole che Heron era entrato nella stanza della donna ricoverata ancora
al reparto terapia intensiva. Corsa sul posto, Annamaria trovò l'uomo sbirciare
la paziente attraverso la sottile breccia aperta da lui scostando i lembi della
tenda che la chiudeva nell'ambiente iperbarico. Al suo ingresso, Heron chiuse la
tenda e si voltò verso Annamaria. Lo sguardo dell'uomo provocò nella donna un
autentico moto di compassione. Gli occhi blu erano lucidi di lacrime. Avrebbe
voluto farli vedere a suo marito, ma Heron si ricompose velocemente e si mosse
verso di lei, avvicinandosi e stringendole le braccia.
"Guarirà, comandante. - le venne spontaneo rincuorarlo - Ce la faremo".
"Non c'è rimasto niente della nostra astronave, vero?" chiese Heron,
sorprendendola della domanda.
"Purtroppo no. - rispose Annamaria, avvilita, confermando la richiesta dell'uomo
- Almeno così mi è stato riferito".
Heron assunse un'espressione pensierosa e concentrata.
"Devo trovare un modo per recuperare un contatto con il mio pianeta. - annunciò
poi, con aria vagamente persa - Cosa posso usare? Cos'avete qui sul vostro?".
Annamaria si sentì completamente spiazzata. Se nel suo campo medico era
considerata, e lei stessa si considerava qualcuno, in astronomia si reputava una
nullità totale. Tuttavia, nel suo disordinato archivio della memoria, ripescò il
ricordo di aver incontrato, nel corso dei suoi studi, la notizia dell'esistenza
di telescopi da qualche parte sulla Terra. Al momento non era sicura che fosse
la soluzione ideale, ma ritenne giusto di doverlo menzionare al povero disperato
Heron che invece, a quell'informazione, si riaccese come una torcia a cui
avessero appena cambiato le batterie.
"Telescopi?" ripeté il comandante in un sussurro.
"Telescopi" confermò Annamaria, felice di vederlo cambiar colore di pelle al
viso.
"Certo! - mormorò Heron, effettivamente risollevato - Telescopi. Va benissimo.
Li abbiamo anche noi su Ariel. Servono a sondare l'universo. Con quelli abbiamo
trovato la Terra. Dove sono?".
In quel preciso momento, Annamaria non lo ricordava con esattezza, ma gli
promise di trovarli prima possibile e chiamò subito Stefano per girargli la
richiesta.
Nel suo ufficio, Stefano provò a cercarli sul computer e fortunatamente li
trovò.
Forse non facevano parte del pacchetto di cose appartenenti al passato del
pianeta, da cancellare, o già cancellate.
"Non si trovano qui, - tenne a puntualizzare Annamaria dopo aver avuto da
Stefano la risposta desiderata - ma in un altro continente, però...."
"Si possono raggiungere con un veicolo aereo" finì Heron, ora con il morale
decisamente più alto.
Al contrario, Annamaria entrò nel panico. Heron aveva già difficoltà di
respirazione a 2300 metri di altitudine, figurarsi a decine di migliaia. Era
vero che lui viaggiava nello spazio, ma in altre condizioni e glielo fece
presente. Da parte sua, Heron volle subito tranquillizzarla garantendole che si
sarebbe portato dietro la maschera ad ossigeno vista accanto al letto.
Tutto risolto. Ora andava solo trovato chi lo avrebbe accompagnato fino a
destinazione.
E qui, la sera, quando tornò a casa, Annamaria ebbe la seconda sconvolgente
sorpresa: sarebbe stato Stefano stesso a portarlo alla meta. Perché Stefano
sapeva pilotare un aereo e si offrì di buon grado a fargli da "autista".
Nel frattempo........
Area 51
"Stando a ciò che avete visto e detto, in parole povere, sulla Terra non sono
spariti tutti" asserì Forrest a fine rapporto dei due piloti appena tornati dal
volo perlustrativo.
"Esatto, signore. - confermò Hardings, sembrando fiero della scoperta e di
esserne stato l'autore assieme al collega Edwards - Non siamo rimasti in molti,
ma qualcuno ancora c'è. Solo che....".
"Quel che è rimasto della popolazione terrestre si è riunito in vasti
agglomerati urbani, sparsi per il mondo e non comunicanti fra loro. - continuò
Arnold Weaver, il giovane occhialuto - L'ultimo particolare è davvero strano.
C'è da chiedersi perché fra le popolazioni non ci sia desiderio di sapere che
altrove, sul pianeta ci sono altri esseri umani, a parte un eventuale piano di
separazione volontaria voluta da qualcuno collocato nelle alte sfere
dell'amministrazione di una di queste città stato".
"Dove pensa che sia, Weaver?" chiese Forrest.
"Non saprei. - rispose Weaver sinceramente perplesso - Per quel che ne so, può
essere dovunque. Se davvero c'è".
"Qui, in America?" domandò ancora Forrest.
Weaver aprì le braccia.
"Dovunque. - rispose serafico - Anche in un posto dove potremmo non immaginare
che siano".
Arnold Weaver, 38 anni, alto, slanciato, aria giovanile da eterno studente
universitario, vantava in effetti due lauree: psicologia comportamentale e
sociologia, ma anche lui, in quel momento, tracciando con un dito passato sul
vetro di un grosso schermo incastonato in un vasto ripiano, un grande cerchio
ideale sulla zona dell' Europa mediterranea, manifestava dubbi sulla singolare
situazione che era venuta a crearsi sul globo terrestre,
"Se non fosse così?" insistette Forrest.
"Allora dobbiamo pensare che gli eventi accaduti in passato sono stati così
sconvolgenti da togliere agli abitanti la voglia e la curiosità di sapere
dell'esistenza degli altri e di comunicare la propria, nonché di cercare
semplicemente contatti" rispose Weaver.
"Che diavolo può essere successo?" sbottò Forrest al quale questo mistero dava
quasi fastidio fisico.
"Per ora non ne ho idea. - rispose Weaver, con contenuta desolazione - Il guaio
è, - proseguì - stando sempre al rapporto dei nostri amici, - e nel dirlo,
indicò i due piloti - che i mezzi di comunicazione sono fuori uso e nessuno ha
pensato a ripristinarli, elemento questo che avvalora ulteriormente l'ipotesi di
una volontà a non comunicare".
"Bel mistero!"borbottò Forrest, contrariato, avvicinandosi poi, di colpo ad uno
dei prigionieri il quale arretrò, lievemente intimorito dall'espressione severa
del viso e degli occhi dell'uomo.
"Oltre a scaricare le vostre schifezze qui sul nostro pianeta, - lo apostrofò,
duro - quale altro motivo vi ha portato qui? E ti conviene dirlo subito se non
vuoi assaggiare i nostri sistemi di persuasione a parlare. Sono piuttosto
pesanti e convincenti". I soldati puntarono le loro armi cariche a tutta la
superficie della testa dell'individuo, che non mosse un dito.
"Nessuno, si...signore" balbettò.
"Sicuro? - incalzò Forrest - Parla" lo minacciò poi.
"Lo giuro. - si affrettò ad assicurare il poveretto - Abbiamo visto il vostro
pianeta deserto. Che motivo avremmo avuto di attaccare, muovere guerra, occupare
o conquistare un pianeta deserto e disabitato?".
"E' questo che avete visto? - chiese Forrest ridimensionando il tono minaccioso
- Non avete visto anima viva sul nostro pianeta?".
"I nostri strumenti non hanno registrato tracce biologiche. - rispose l'alieno
più tranquillizzato nel vedere Forrest meno nervoso - Non quando hanno
individuato il vostro mondo".
"Quanto tempo fa è successo? - chiese Forrest, a questo punto quasi più
incuriosito che seccato - Ricordi?".
L'alieno guardò verso il soffitto come se da esso volesse trarre ispirazione per
ricordare.
"Una decina di anni fa. - rispose poi ricordando senza trarre ulteriori
ispirazioni dal soffitto - Forse".
"Da dieci anni andate avanti e indietro dal vostro pianeta a qui per scaricare
la vostra immondizia?".
"S....s....si, signore. - rispose l'alieno tornando a balbettare - Abbiamo
occupato i satelliti. Non avevamo più spazio e non sapevamo più dove
depositarla".
"E avete trovato la Terra" seguitò Forrest recuperando l'aggressività in seguito
alla sua risposta.
"L'hanno trovata i nostri strumenti. - rispose l'uomo - Gliel' ho detto.
Sembrava deserto e disabitato".
"Signori... - richiamò l'attenzione un altro dei prigionieri appartenente al
gruppo dei malavitosi - se volete, pensiamo noi a sgombrare e ripulire tutto....
- fece una pausa studiata, ridacchiando sarcasticamente - Il servizio però...."
non riuscì a finire la frase. Forrest gli si avvicinò fulmineo e gli assestò un
violento manrovescio su una guancia facendo compiere alla testa un giro di 90
gradi. L'uomo protestò vivacemente per il colpo.
"Ne approfitteremo subito, stronzo! - digrignò poi Forrest ponendo il volto a
pochissimi centimetri dalla faccia dell'alieno e inchiodandolo con sguardo
freddo - Ma non tireremo fuori un centesimo. Servizio ripulitura completamente
gratis, hai capito, testa di cavolo?".
"Guarda che non siamo stati noi a sporcare! - ribatté l'alieno malvivente -
Anzi! Noi abbiamo cercato di impedire a loro di sbarcare qui".
"Certo! - strillò il Betano - A suon di mazzette! Se vuoi portare fin qui la
spazzatura, basta versarci cinquantamila dollari universali!".
"Facevamo del bene!" cercò di giustificarsi il malvivente.
"Basta! - urlò Forrest, infuriato. - Sgombrerete tutto completamente gratis".
"Ma dove portiamo quella roba? - si lamentò il Betano angustiato - Noi non
abbiamo più posto".
"Non ho detto che dobbiate portarla in un altro posto" replicò Forrest cambiando
atteggiamento e piegandolo verso un tono soddisfatto, pensando che già da tempo
aveva trovato un valido impiego per tutto il materiale raccolto intorno all'Area
51.
I prigionieri si scambiarono occhiate perplesse e preoccupate.
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Capitolo 17 *** FINALMENTE, DI NUOVO ***
Nuova pagina 2
FINALMENTE, D I NUOVO IN "ONDA"
Stefano Aloisi e Al Heron partirono una mattina di buon ora, poco dopo il
sorgere del Sole.
Ripresosi ormai quasi completamente nel fisico,il comandante Arieliano fu quasi
felice di uscire finalmente all' aperto nonostante l'aria leggera
dell'altitudine elevata e seguì Stefano fino al velivolo, sorridendo, senza però
abbandonare del tutto quel velo malinconico che lasciava trasparire la sua
costante preoccupazione per i membri del suo equipaggio, specie per la donna del
suo cuore.
"Si riprenderà, Heron. - lo incoraggiò Stefano - Vedrà che quando torneremo, lei
starà meglio. Mia moglie sa il fatto suo". In realtà, Stefano non era così
sicuro ma, in cuor suo, sentiva che comunque una soluzione sarebbe stata trovata
per tirarla fuori da quella maledetta tenda ad ossigeno.
Annamaria era più dubbiosa e, in aggiunta, seguendo con lo sguardo marito e
alieno allontanarsi verso l'aereo, avvertì un insidioso presentimento poco
positivo, ma lo tenne per sé non volendo turbare alcuno, forse neppure se
stessa. Baciò Stefano e diede ai due una sorta di benedizione per il viaggio.
"Cercate di tornare tutti interi" si raccomandò con la sua solita celata vena
ironica.
"Non stiamo andando in guerra. - rispose Stefano in tono meno scherzoso - E'
solo un volo ricognitivo. Speriamo solo di tornare con qualche buona notizia. O
soltanto con qualche notizia".
"Giusto. - riconobbe Annamaria riacquistando una tranquilla saggezza -
Basterebbe anche soltanto questo". E nel dir così, abbracciò Flavia che aveva
voluto andare con la mamma a salutare il padre che partiva. Heron lanciò ad
Annamaria uno sguardo che trafisse il suo sensibile cuore femminile. Era uno
sguardo pieno di riconoscenza e di letizia nel vedere l'amore fra lei, Stefano e
la figlia, ma anche di immenso dolore per la stessa ragione; per non poter avere
ciò che loro avevano. Poi si voltò e cominciò ad allontanarsi affiancando
Stefano verso l'aereo. Annamaria provò per lui una pena infinita. Quell'uomo
stava soffrendo in modo indicibile.
Guardando i due, vicini, spalla a spalla, Annamaria si rese conto della statura
di Heron non di molto inferiore a quella di Stefano, apparentemente accentuata
dalla tuta scura da pilota che, oltre tutto, metteva in risalto la figura
slanciata dell'alieno.
La pista di decollo era appena fuori città, ricavata nel poco spazio fra
l'abitato e i monti, ma la tecnologia, che non aveva fatto passi da gigante
nella comunicazione però nella meccanica sì, aveva prodotto aerei che erano
quasi in grado di decollare verticalmente dopo una breve corsa di rullaggio. Il
velivolo si staccò presto da terra, si alzò di alcuni metri, ripartì orizzontale
e scomparve presto oltre le creste dure e arrossate dal Sole delle montagne che
circondavano la cittadina. Le due donne rimasero ancora qualche minuto a
pensare, poi si decisero a rientrare nel centro abitato.
"Torneranno presto?" chiese Flavia, in macchina, a sua madre.
Annamaria sorrise.
"Non credo stasera per cena. - rispose - Non ce la fanno".
Anche Flavia sorrise alla battuta materna.
Annamaria calcolò rapidamente che, nonostante la velocità del mezzo, il viaggio
dei suoi uomini sarebbe durato almeno una settimana dei cui primi giorni non
avrebbe potuto avere molte informazioni fino a che i due non avessero trovato il
modo di ripristinare uno straccio di comunicazione con l'esterno.
Oltrepassata la grande barriera delle Alpi che si estendeva per molti chilometri
verso ovest, scintillante al Sole di fine luglio, Stefano puntò ancora verso
occidente, direzione Oceano Atlantico e quindi continente Americano dove aveva
scoperto che si trovavano i due più grossi, potenti ed importanti telescopi del
mondo: quello di Monte Palomar, in California, e quello di Arecibo nell'isola di
Portorico.
Volando velocissimi ad alta quota, Stefano aveva avuto premura a pressurizzare
al massimo la cabina di pilotaggio tuttavia, per molti chilometri, Heron
mantenne la maschera ad ossigeno sul volto. Volare su un aereo non era la stessa
cosa che viaggiare su un'astronave ma giunti ad un certo punto del viaggio, il
comandante alieno provò a levarsela, scoprendo presto e con piacere che riusciva
a respirare anche senza, grazie alla grande quantità di ossigeno che entrava
nell'abitacolo.
I due si sorrisero ma Heron tornò serio e sgranò gli occhi non appena in
lontananza cominciò ad intravedere la grande distesa liquida dell'oceano.
"Oddio!" esclamò con la voce strozzata dall'emozione.
Stefano restò molto sorpreso per quella esclamazione.
"Oddio?" ripeté infatti, meravigliato girandosi verso di lui.
"Si, - confermò Heron - Perché?".
"Heron.... " lo interpellò Stefano in tono deciso e vagamente solenne.
"Si?" fece Heron lievemente stupito.
"Cosa sa precisamente di Dio?".
"So che c'era. - rispose Heron quasi con una punta di tristezza - Che è
esistito. Poi è scomparso e non si è più parlato di lui. Credo di aver capito
che anche qui sulla Terra c'era un dio. C'è stato e anche qui è sparito".
Ecco un bell'argomento di cui parlare durante quel volo!
"Già. - confermò Stefano - Sembra proprio che sia così. Strano, vero?".
Heron abbozzò un sorriso mesto.
"In effetti. - ammise - Ma un vecchio amico della nostra famiglia mi disse che i
nostri avi credevano in lui e stavano bene. Poi, un giorno qualcuno dichiarò che
era tutto falso, che ci erano state raccontate solo bugie, che eravamo stati
ingannati e dovevamo credere solo in noi stessi....."
Heron si fermò e si rimise la maschera per recuperare il respiro, allarmando un
poco Stefano che si preoccupò subito per quella pausa.
"Tutto bene?" chiese infatti.
Il comandante inspirò ed espirò cinque, sei volte, quindi, si tolse di nuovo la
maschera e rassicurò Stefano, sorridendo e alzando un pollice come aveva visto
fare a un paio di pazienti all'ospedale.
Stefano si accorse di come l'uomo guardasse avidamente il mare che brillava
sotto di loro inondato dal Sole dell'anticiclone delle Azzorre.
"Non c'è il mare nel suo pianeta, Heron?" non poté fare a meno di chiedere.
"Si, c'è. - rispose il comandante - ma non così vasto".
Stefano tornò all'attacco.
"Heron, - ricominciò - lei allora ricorda qualcosa di quel che è successo. Cosa
è successo esattamente?".
Heron scosse la testa, avvilito. I ricordi non erano molti ed erano confusi.
"Ricordo solo grandi incendi. - rispose lasciandosi trasportare dall'emozione
legata ad immagini che si sovrapponevano senza un ordine preciso - Bruciava
tutto e noi dovemmo scappare dal nostro pianeta per rifugiarci dove siamo ora,
in un pianeta più piccolo e lontano dal nostro sole. Un pianeta più freddo dove
occorre molta energia per riscaldarlo e riscaldarci. Ecco perché abbiamo bisogno
di uranio".
"Ma non è pericoloso?" obiettò Stefano che aveva sentito parlare di inquietanti
incidenti alle centrali nucleari.
"No, se usato correttamente" rispose Heron, calmo.
Vedendo sotto di loro le isole caraibiche, Stefano smise di parlare
concentrandosi sull'immediata e delicata fase di abbassamento quota, nonché
quella successiva di atterraggio che però si presentava non facile. La mappa
elettronica sul quadro dei comandi rilevava infatti scarsità di zone su cui
poter scendere seppur verticalmente. Avvertì Heron di rimettersi la maschera
dovendo forse abbassare anche il livello di pressurizzazione nella cabina. Senza
discutere, Heron provvide subito a rindossare il dispositivo e senza aggiungere
altro, ma promettendosi di tornare nell'argomento Dio, Stefano si dedicò alle
manovre da compiere.
TROVARE LA CURA GIUSTA
Grindewald, ospedale
Tornata alla sua postazione abituale, all'interno del nosocomio, Annamaria fu
assalita, travolta e tempestata di domande dai pazienti - e dalle pazienti -
sfaccendati sul bello straniero che quella mattina non si vedeva più aggirarsi
fra i corridoi.
"E' ripartito?" domandò un paziente.
"E' tornato a casa?" chiese una paziente.
"Poverino! - esclamò un'altra - Era così triste!".
E via discorrendo.
Annamaria si recò al reparto malattie infettive dove gli altri membri
dell'equipaggio di Heron giacevano da giorni, inerti nelle loro stanze di
terapia intensiva, senza apparenti segni di miglioramento ma neanche di passare
a miglior vita se ci fosse stata.
Tre di loro avevano la colonna vertebrale spezzata, mentre la donna, oggetto
d'amore di Heron, aveva solo tre vertebre rotte alla base del collo, ma erano
sufficienti per tenerla in coma, anche indotto e farmacologico. Se sveglia, i
dolori sarebbero stati molto forti.
Osservandola meglio sotto la tenda ad ossigeno, dietro la plastica trasparente
del respiratore,Annamaria scoprì che in effetti era piuttosto bella, con il suo
viso dai tratti orientaleggianti che la faceva assomigliare ad una nostra
Coreana o quanto meno un'abitante dell'arcipelago indonesiano. La medicina,
finalmente sdoganata dai paletti moraleggianti esistiti fino a qualche tempo
prima, aveva compiuto passi enormi e registrato importanti progressi sulla
genetica che avevano reso malattie incurabili. come cancro e leucemia, appena
poco più gravi di una comune influenza; possibile però che non avesse ancora
trovato una cura adeguata per risanare ossa rotte? Dopo il solito giro e la
solita consultazione con colleghi e assistenti, non dovendo occuparsi di Heron e
soci, e non avendo molto altro da fare, Annamaria pensò di recarsi in biblioteca
per effettuare ricerche. Sfogliando volumi cartacei e spulciando nella memoria
dei computers, la donna scoprì che forse qualcosa del passato del pianeta era
stato salvato, almeno in quell'angolo remoto del globo. Molte notizie risalivano
infatti all'inizio del nuovo millennio e qualcuna era datata anche più indietro,
nelle quali si accennava appunto a problematiche di carattere falsamente morale.
Ma anche ad altro.
A mere questioni economiche che però avevano maggiormente inciso sul progresso
nella ricerca medica e scientifica più in generale. Fra le tante nozioni e
notizie, ne trovò una che la colpì come un macigno conferendole una certa
sicurezza di aver trovato la soluzione o una possibile soluzione ai danni
riportati da Heron e colleghi nel loro grave incidente. Verso la fine del
ventesimo secolo, un oscuro e semisconosciuto medico russo aveva messo insieme
calcio, silicio e resina di betulla, li aveva trattati per metà naturalmente con
acqua e alcool e per metà chimicamente, con una sostanza che li amalgamava e li
sintetizzava in una specie di schiuma la quale, iniettata attraverso un grosso
ago, o una sottilissima sonda, intorno all'osso fratturato, lo "fasciava" e lo
saldava in poco tempo venendo assorbito con velocità dal tessuto osseo che
ricomponeva la frattura senza la necessità di ricorrere a supporti esterni in
gesso per immobilizzare l'arto offeso come era stato in uso intervenire in
questi casi negli ospedali del mondo intero per anni, costringendo il paziente a
lunghi periodi di inutile e fastidiosa immobilità, seguiti poi da altrettanti
lunghi periodi di dolorosa fisioterapia riabilitativa.
Naturalmente, il medico era stato internato in qualche istituto per malati
mentali e dimenticato con la sua scoperta che, in qualche modo, ledeva al
traffico lucroso di gessi e fisioterapisti i quali, altrimenti, sarebbero
rimasti disoccupati.
Annamaria avrebbe voluto comunicare subito questa notizia a Stefano, ma la
comunicazione non era stata ancora ripristinata. Avrebbe voluto urlare, ma si
guardò dal farlo. Problema: dove trovare i componenti dello strano farmaco?
Calcio e silicio si reperivano un pò ovunque ma la resina di betulla? Si rituffò
fra volumi e computers e trovò anche quella: la maggior quantità e probabilità
di reperimento si registrava in Siberia! Si sorprese a fremere di impazienza e
rabbia avvertendo improvviso un consistente rallentamento del tempo. Non era mai
stata un genio in fisica ma in quel momento, come non mai, comprese appieno il
vero significato della teoria della relatività eisteiniana: se stai bene e sei
felice, il tempo vola, ma basta che ti dolga un dente o che abbia una
preoccupazione, anche piccola, e il tempo di colpo rallenta in modalità
drammatica. Ecco! La seconda tipologia di situazione era diventata concreta!
Un immaginario orologio a pendolo cominciò a scandire minuti e secondi con suono
cupo e sinistro.
Annamaria non riusciva a togliersi dalla testa l'espressione accorata di Heron
che, silenzioso e discreto, le chiedeva aiuto per lui e i suoi colleghi. Doveva
salvarli ed ora forse aveva la soluzione in mano per farlo. Doveva solo
aspettare di poterlo fare.
Portorico, Caraibi
A causa del territorio circostante, piuttosto ondulato, con pochissimo spazio
pianeggiante e a dispetto della possibilità dell'aereo di atterrare in
verticale, Stefano dovette compiere vari giri e un bel numero di manovre per
poter scendere sicuro nei pressi del telescopio di Arecibo ma, alla fine, la sua
abilità lo premiò con atterraggio perfetto ed applauso del suo compagno di volo.
"Sarebbe ottimo anche come pilota di un'astronave!" esclamò Heron soddisfatto.
"Non si allarghi, comandante!" si schernì Stefano ricordando una buffa
espressione romanesca: 'nt'allargà!, rivolta a chi si dava arie o
s'illudeva su qualcosa che avrebbe voluto accadesse.
Il gigantesco padellone del telescopio era incassato fra morbide onde del
terreno, e sormontato da una complicata struttura in metallo che doveva essere
l'antenna, la quale, ora, penzolava sopra, inerte, dondolando pigramente mossa
dal vento ed arrugginita dal tempo atmosferico e cronologico, dando al tutto un
aspetto desolante, di abbandono e colpevole incuria.
Scesi entrambi dall'aereo, Stefano ed Heron si scambiarono occhiate afflitte.
"Dubito molto che questo arnese funzionerà. - commentò amaramente Stefano -
Chissà da quanto è in queste condizioni".
Heron non rispose limitandosi a fissare l'oggetto, senza particolari espressioni
del viso.
Guardandosi poi intorno, scoprirono a qualche centinaio di metri, in fondo ad un
viale, sopra ad un'altura, un piccolo edificio bianco che, con la sua torretta,
sembrava un faro in mezzo ad un mare verde di alberi. Forse doveva esser stato
un centro ricerche o, semplicemente la residenza di qualche scienziato o
astronomo che aveva usato, o usava spesso il telescopio.
I due lasciarono l'antenna e si diressero verso l'edificio ma, ivi giunti, lo
trovarono chiuso, addirittura con il lucchetto alla porta. Stefano vide Heron
compiere una mossa di stizza. Dal canto suo, Heron si sorprese seccato per non
aver con sé neppure un'arma, persa probabilmente nell'incidente insieme con
tutte le altre. Stefano, invece l'aveva. Di solito era caricata a salve per
intimidire e riportare certi soggetti della città alla calma, ma quel giorno,
sapendo di dover andare in giro, avventurandosi oltre confine, in territori
sconosciuti, l'aveva caricata a dovere, con proiettili veri e ne usò uno
sparando al lucchetto che si aprì, docile, senza discutere. La porta di legno,
forse gonfia per le innumerevoli copiose piogge tropicali del luogo, cigolò
impietosamente e sinistramente introducendoli verso l'interno dell'edificio che
però si rivelò davvero fantascientifico, con mastodontiche apparecchiature di
acciaio non intaccato dal tempo, luccicanti nella penombra appena ferita da
sottili frecce di luce provenienti da strette finestre poste in alto nelle
pareti. Guidati da quella debole fonte luminosa, i due riuscirono a trovare la
strada per giungere alla "sala comandi", quella, per intenderci, da cui si
poteva manovrare il telescopio. E qui, Stefano lasciò il campo libero ad Heron
che dimostrò presto di trovarsi come a casa sua.
L'operazione che rubò loro più tempo fu quella di recuperare l'energia elettrica
per far ripartire i macchinari, per la quale dovettero in alcuni punti buttar
giù parti di parete al fine di ripescare cavi funzionanti. Ad un certo punto,
s'imbatterono in una specie di grossa ciabatta di congiunzione, alla quale era
collegata una fitta ragnatela di cavi. La ciabatta era a forma di croce e
Stefano giurò di vedere Heron assentarsi dal mondo per un pugno di istanti,
assumendo un'espressione facciale distaccata e distante anni luce da lui, con i
suoi occhi blu che fissavano un punto lontanissimo.
Lo vide! Era
inchiodato ad una croce! Perché? Cos' aveva fatto? Chiese spiegazioni ad una
donna che piangeva. "Lo stanno uccidendo perchè ama!" rispose lei. Si fermò a
guardare la terribile scena sotto il sole cocente che bruciava la zona già
secca di suo, finché i suoi compagni non lo richiamarono per lasciare il luogo.
Stefano scosse Heron in apparente stato di completa trance.
"Heron! - lo chiamò - Che le succede? Che cos' ha? Sta bene?" .
Heron parve uscire dallo stato catatonico.
"Sì. - rispose annuendo, ancora tuttavia incantato - Va tutto bene, capitano
Aloisi" lo rassicurò alla fine. Stefano, però, non era persuaso.
"Ha visto qualcosa? - gli domandò, premuroso e ansioso - Questo oggetto le ha
suscitato ricordi? Come mai, la croce?" chiese infine.
Heron gli rivelò il dettaglio del simbolo da lui visto sul camice di lavoro di
Annamaria.
"E' il simbolo dell'Ordine dei Medici" spiegò Stefano.
"Lo so. - confermò Heron - Me lo ha detto sua moglie. Qualcuno, molto tempo fa,
è morto su una croce".
"E' ciò che ha visto lei, pochi minuti fa?" chiese Stefano, sempre più curioso e
d eccitato da quei particolari che stavano emergendo.
"Sì" ammise Heron.
Stefano fissò quel suo compagno di avventure con uno sguardo così intenso da
costringere Heron ad abbassare la testa.
"Heron, - attaccò poi - Voi siete venuti sulla Terra, vero?".
"I miei avi forse. - rispose Heron con un timbro di voce che sembrava venire
dallo spazio - Ma non capisco perché riesca a vederlo anch'io".
Stefano non rispose. Realizzò che non avrebbe potuto. Che non avrebbe saputo
cosa dirgli. Si limitò a stringergli il braccio la cui mano teneva la ciabatta a
croce.
"Lo scopriremo, Heron. - lo incoraggiò - Anch'io voglio saperlo".
Heron sorrise. Un sorriso dolce e malinconico. Poi ricominciò a smanettare sulla
ciabatta e sui cavi ad essa collegati.
Il lavoro li assorbì per un tempo superiore alle loro aspettative. C'era da
sdipanare un notevole groviglio di fili di tutti gli spessori ma, al termine, il
groviglio si sciolse, riuscirono a connettere tutte le spine alle varie prese e
l'energia elettrica ronzò e vibrò all'interno dei sottili rivestimenti in vari
tipi di metalli, perfino oro e argento.
Riscosso il successo in quel versante, il resto fu abbastanza agevole e i
macchinari tornarono al funzionamento e alla vita.
Stefano e l' alieno si strinsero le mani con forza per celebrare quell'evento.
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Capitolo 18 *** QUI, TERRA. C'E' NESSUNO LA' FUORI? ***
Nuova pagina 2
Area 51
Un silenzio di piombo era calato sulla vasta sala del sotterraneo, in cui, in
quel momento, ognuno era occupato in compiti diversi: Forrest sembrava meditare;
Hardings ed Edwards si guardavano in cerca di ispirazione per idee nuove su come
passare il tempo; Arnold Weaver era sempre impegnato ad elaborare teorie sul
perché la gente non comunicava, e i soldati avevano ormai le braccia bloccate,
con le armi puntate fisse sulle facce dei prigionieri, rassegnati ad andare in
bagno con la scorta perennemente armata.
Quando ecco compiersi il miracolo!
Gli schermi si riempirono del blu della vastità dell'oceano e di una realtà
lontana dall'area 51.
"Qualcuno ha riattivato il telescopio!" esclamò Weaver con la sua voce educata
ma piena di meraviglia. I soldati armati si girarono e, in
contemporanea, puntarono le armi verso i monitors.
Solo un urlo potente ed agghiacciante di Forrest evitò il disastro.
"IDIOTI !!!!! - sbraitò l'uomo, infuriato - Giù quel cazzo di armi! Riposo !! I
prigionieri hanno capito! - Finalmente i soldati abbassarono braccia ed armi e,
ad uno ad uno caddero a terra, svenuti -Era ora!" concluse Forrest che aveva
appena sudato freddo per il tremendo pericolo scampato di vedere gli schermi
distrutti dai fucili. Alcuni minuti dopo la panoramica del mare blu e di un
altro mare verde di lussureggiante vegetazione tropicale, due volti apparvero
sui televisori: uno barbuto ed uno chiarissimo dai bei lineamenti eleganti.
"Salve. - salutò il barbuto, allegro e sorridente - Se da qualche parte nel
mondo qualcuno ci sta vedendo, io sono Stefano e lui è Heron. Siamo qui a
Portorico, in pace, e vogliamo sapere se qualcun altro vuole comunicare con
noi".
Forrest, Hardings, Edwards, Weaver e i prigionieri sgranarono gli occhi e
fissarono esterrefatti i volti comparsi sugli schermi. Poi, Forrest si ricompose
e parlò, presentandosi e presentando gli altri.
"Vorremmo sapere com'è....ehm... - si fermò per schiarirsi la voce - la
situazione e....".
"Se avete visto per caso qualche città - stato. - s'intromise Weaver - Qualche
agglomerato urbano in giro. Voi da dove venite?".
"Dalla Svizzera. - rispose Stefano soddisfatto - In Europa".
"Interessante. - commentò il giovane sociologo - Ci sono città - stato da voi?".
Stefano rimase un pò perplesso dalla definizione, ma intuì e rispose. Solo che,
all'inizio del volo, dirigendosi subito verso l'America, non aveva visto molti
centri urbani durante il viaggio.
"C'è il nostro. - disse - Quello da cui proveniamo" E citò il nome della città
dove abitavano.
Weaver la cercò subito sul computer e la trovò, ma non era segnata come polis.
Evidentemente, le cartine non erano aggiornate. Weaver sorrise, composto.
"Beh, - fece poi - Ben trovati".
Stefano e Heron sorrisero compiaciuti.
"Voi dove siete ora?"domandò Forrest.
"Arecibo... - rispose, prontamente Stefano - Credo".
"Il famoso telescopio di Arecibo. - osservò Weaver, compunto - A Portorico. Il
più grande del mondo" e snocciolò subito dopo i dati dello strumento.
"Potreste venire. - propose Forrest, accennando poi un mezzo sorriso - Non siete
molto lontani da noi".
"Dove siete voi?" chiese Stefano.
"Area 51. - rispose Forrest, soddisfatto - Dovreste conoscerla".
Stefano ci rifletté sopra. L'aveva sentita nominare, ma non ricordava
esattamente dove fosse e chiese lumi.
"Nevada. - rispose ancora Forrest. - Immagino che stiate viaggiando in aereo.
Se il vostro mezzo è potente e veloce, in un'ora siete qui. Magari ci beviamo
una birra insieme".
Stefano giudicò la proposta simpatica, ma volle consultarsi con Heron che stava
smanettando a tutto spiano sulla grande tastiera dei comandi sul ripiano sotto
lo schermo. Il comandante annuì, tuttavia, pregò Stefano di lasciargli finire il
lavoro. Quel che l'uomo desiderava in quel momento più di ogni altra cosa era
tentare un contatto con il suo pianeta. Stefano capì che l'alieno aveva una
qualche priorità e credette opportuno dargliela.
"Magari fra un pò" ritenne giusto avvisare i suoi interlocutori al di là dello
schermo.
Forrest alzò il pollice in segno di accordo. Heron ripeté il gesto a Stefano.
Evidentemente gli piaceva, pensò Stefano e lo lasciò lavorare.
Grindewald
Lo schermo del computer, a sinistra di Annamaria, iniziò a fare versi strani e,
sotto certi aspetti, poco raffinati, accompagnando in quel modo lampi di
immagini, all'inizio in bianco e nero, che tentavano disperatamente di formarsi
assoggettando i pixels al loro volere o, almeno provando a farlo, in un continuo
e caotico susseguirsi di scatti e chiari e scuri sino a quando, finalmente, il
rettangolo 16:9 si riempì prima con un panorama marino, poi terrestre e verde ed
infine con i volti familiari e rassicuranti di Stefano e Heron.
Per un pelo, nel rivederli sul monitor, Annamaria non emise un grido di gioia!
"Ci siete riusciti?" cinguettò, felice.
"Tu che dici?" contro rispose Stefano sorridendo sotto i radi baffi.
Heron aveva un'espressione del viso leggermente più sollevata, distesa e
speranzosa.
Annamaria ricambiò lo sguardo con un sorriso e, avendo stupidamente paura di
dimenticarlo, comunicò subito a Stefano e al comandante la sua scoperta.
"Perfetto! - esclamò Stefano, realmente soddisfatto - Sei un fenomeno! Andremo
immediatamente in Siberia. Tra l'altro, là si trova anche l'uranio, così
prenderemo due piccioni con una fava".
Heron si voltò, perplesso, verso Stefano, il quale girò l'indice della mano
destra per avvisarlo che poi gli avrebbe spiegato il senso della frase. Dal
canto suo, Heron annuì e fece il gesto del pollice alzato per indicargli che a
lui andava bene. Annamaria sorrise, divertita. I due sembravano intendersi ed
Heron stava imparando molte cose terrestri.
La comunicazione era stata ripristinata.
Tutto pareva andar bene.
Isole Svalbard,
Groenlandia
Gli schermi nella sala del Centro Ricerche si animarono e si riempirono prima di
blu, poi di verde e infine di nero tempestato di corpi celesti vaganti.
"Cavolo! " esclamò Jansen, compiendo quasi un salto sulla poltroncina imbottita,
foderata di rosso scuro, davanti alla sua postazione informatica. Erika Nielsen,
sua vicina, che si era alzata dalla sua poltrona per sgranchirsi un pò le
membra, si precipitò accanto a lui per vedere cosa avesse suscitato lo stupore
del collega.
"A quanto pare, qualcuno è riuscito a ripristinare i telescopi" commentò
lievemente costernata.
"Sembra proprio. - confermò Jansen - Ed ora? Che succederà?"
"Niente. - rispose Nielsen - Dobbiamo vedere cosa succederà nell'immediato
futuro. - quindi si eresse nel suo quasi metro e ottanta di statura -
D'altronde, dovevamo prevedere che, prima o poi, qualcuno avrebbe messo il naso
fuori da casa sua!".
"Si, - obiettò Jansen - ma se....".
"Se, cosa? - replicò Lasström, senza muoversi dalla sua sedia, alzando gli occhi
grigi da sopra la montatura degli occhiali - se i nostri simili cercano
contatti? Che li trovino, se vogliono, ma niente forzature e niente repressioni.
Può darsi che dopo un secolo, gli esseri umani siano di nuovo pronti a dirsi
almeno buon giorno e buona sera. Che lo facciano pure! Non glielo impediremo, ma
non li incoraggeremo. Ricordate i piani, no? Jansen, non agitarti inutilmente".
Il giovane ingegnere tornò a guardare lo schermo, sospirando.
Erika Nielsen lanciò un'occhiata all'enorme mappa tridimensionale che occupava
la parete di fronte alle postazioni di lavoro, nella quale era stato riportato
per intero il nuovo assetto urbano e sociale della Terra, costituito da
agglomerati urbani più o meno vasti, sparsi per il globo.
L'Europa era il continente che ne contava di più: 5; Londra, Parigi, Berlino,
Mosca e Roma. L'America ne contava 3: Washington - New York per il Nord, Città
del Messico per il centro e Buenos Aires per il sud. Anche l'Asia ne aveva 3:
Hong Kong, Tokio e Bombay. L'Australia era concentrata solo su Sidney e in
Africa, la popolazione rimasta si era riunita a Città del Capo.
La piccola polis svizzera di Grindewald, luogo di un grande evento, non era
segnata.
Ariel
Sui monitors dell'ampia sala operativa, al Centro Spaziale, collegati ai
telescopi fissi su ciò che era all'esterno del piccolo pianeta, il nero del
cielo e i pochi corpi che vi si muovevano dentro sparirono dietro all'immagine
di un essere vivente dal volto conosciuto che fece sobbalzare gli occupanti
delle varie postazioni ma, soprattutto il direttore Kaius.
"Comandante Heron!" esclamò l'uomo, sorprendendosi a contenere con fatica la
felicità nel rivedere il giovane ammiraglio della Flotta Spaziale di Ariel, da
molti dato per morto o almeno disperso.
"Buon giorno, amici!" lo salutò Heron con un sorriso tuttavia non esageratamente
radioso.
"Come stai, ragazzo? - chiese Kaius, accorato - Ti credevamo....".
"Morto?" terminò Heron.
"Beh.... - balbettò Kaius - Non abbiamo avuto più tue notizie. Non siamo
riusciti a pensare in modo molto positivo sulla tua missione".
Sugli schermi, accanto ad Heron, gli Arieliani videro un altro essere umano di
sesso maschile, dal volto scuro, ma non minaccioso, né tanto meno sgradevole. Ed
Heron lo presentò ai suoi complanetari. Stefano salutò tutti alla maniera
tipicamente italiana, agitando la mano destra e sorridendo.
"E' grazie a lui, - introdusse Heron - e alla sua giovane, ma intelligente
compagna di vita, che io sono ancora vivo e intero...Quasi".
"E gli altri?" incalzò Kaius.
La piccola pausa di silenzio prima della risposta di Heron, fece tremare i
presenti nella sala.
"No!" sussurrò Kaius, sprofondando nello sconforto. Ma Heron volle in parte
rassicurarli spiegando che, allo stato attuale delle cose, essi erano ancora
ufficialmente vivi e c'era speranza di poterli salvare benché l'impresa non si
presentasse facile.
Da quel momento, Heron comunicò con la sua gente nella loro lingua estromettendo
Stefano dalla conversazione. Stefano capì e non insistette a voler partecipare
allontanandosi da lui, scomparendo dallo schermo e spostandosi verso un altro
monitor per poter continuare a parlare con Forrest e compagni. Ma in lui rimase
aleggiante un pizzico di curiosità per quel che si stavano dicendo e, pur
chiacchierando con Forrest, non perse mai completamente di vista l'alieno
seguitando a sbirciarlo con la coda dell'occhio.
"Non è dei nostri, vero?" disse Forrest, alludendo a Heron.
Stefano si stupì dell'intuizione del suo interlocutore.
"Come...." farfugliò.
"Oh, non si meravigli! - minimizzò Forrest, allegro - Siamo abituati a vederne
di tutti i colori. Qui atterra di tutto. ".
Discreto, a passo felpato, Stefano si riavvicinò ad Heron, in tempo per vedere
sullo schermo davanti all'alieno, un altro uomo di età avanzata ma non troppo,
con un volto che, incorniciato e sormontato da una folta capigliatura candida,
illuminato da occhi grigi a fessura, lo faceva assomigliare a quello di un
anziano saggio dell'estremo Oriente terrestre, visto in una fotografia su un
libro.
Heron si girò verso Stefano e, con sua sorpresa, lo afferrò per un braccio,
trascinandolo poi, verso di sé.
"Le presento Adoniesis. - lo informò - Un amico della mia famiglia". A Stefano
venne spontaneo salutare l'uomo con un cerimonioso inchino della testa per
rispetto ad un'ipotetica età non più molto verde . Dallo schermo, l'uomo
ricambiò il saluto più o meno alla stessa maniera, ma con meno enfasi.
"Vorrei andare presto in Siberia. - annunciò poi Heron, un pò teso - Abbiamo
bisogno urgente dell'uranio. E di quella pianta".
Stefano agitò la testa in segno di comprensione e fece per salutare Forrest che
però, udita la richiesta, s'intromise con una certa risolutezza.
"Ragazzi, - li interpellò - se dovete andare in Siberia, e siete disarmati,
allora vi consiglio vivamente di passare un attimo da noi. In Siberia c'è una
base militare, un pò come la nostra, diretta da uno stron......ehm .... - si
schiarì la voce come per scusarsi dell'epiteto usato nei confronti del
collega-rivale - da un tipo che ha il viziaccio di sparare a chiunque scenda
nelle immediate vicinanze, che non abbia un aspetto decisamente terrestre e
viaggi con mezzi sospetti di essere carichi di spazzatura. - si fermò un istante
e si rivolse diretto a Stefano - Forse il vostro mezzo di trasporto e piccolo ed
innocente, Stefano, ma fossi in voi, mi porterei qualcosa. Noi qui abbiamo una
buona scorta e vi possiamo dare qualche articolo interessante ed efficiente.
Datemi retta. Non andate là solo col fazzoletto bianco, gridando veniamo in
pace. Non so se quel tipo ed i suoi soci ci crederebbero al cento per
cento".
Stefano ed Heron si scambiarono occhiate d'intesa ed Heron accettò la proposta.
Dopo alcuni minuti, i due erano già in volo verso l'Area 51.
Nella prossima puntata si
saprà come Heron si sia potuto collegare col suo pianeta, a 4 anni luce dalla
Terra.....
E non è del tutto
fantascienza.
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Capitolo 19 *** VERSO LA SIBERIA ***
Nuova pagina 2
Area 51
L'aereo su cui Stefano ed Heron volavano era un piccolo gioiello di meccanica e
tecnologia.
Nonostante le dimensioni non certo gigantesche (apertura alare totale di appena
12 metri), era un quadrimotore, con motore principale di diecimila cavalli ed
era in grado di volare nella stratosfera a quindicimila chilometri l'ora con
possibilità di decollo ed atterraggio quasi in verticale, caratteristica che
favoriva le due operazioni in qualsiasi tipo di territorio, anche il più
accidentato.
Giunti in effetti dopo circa un'ora di volo, a quota relativamente bassa,
notando il terreno piuttosto piatto ed un accenno di pista, Stefano si concesse
un atterraggio abbastanza comodo in diagonale. Toccato il suolo, una voce alla
radio - quella di Forrest - lo avvertì di non scendere dal velivolo ed attendere
sue istruzioni. Stefano ed Heron si limitarono a liberarsi parzialmente dei vari
impedimenti che bloccavano i loro corpi durante il volo e aspettarono qualche
minuto in cui, dopo uno scossone, l'aereo cominciò ad abbassarsi fino ad essere
inghiottito dalla terra e terminare il suo viaggio dentro ad un immenso hangar
sotto la pista. Arrestato il meccanismo di discesa e chiusosi il soffitto sopra
le loro teste, la voce di Forrest comunicò a Stefano che poteva spegnere tutto e
rilassarsi. I due si slacciarono tutte le cinture di sicurezza, ma Heron non
abbandonò la maschera ad ossigeno, allacciandosi i legacci dietro al collo,
quindi scesero dal velivolo e si avviarono verso il fondo dell' hangar la cui
enorme porta si aprì automaticamente introducendo i due in un'altra grande sala
dove Forrest li accolse con calore, stringendo forte le loro mani.
Attraversarono anche quel vasto vano e la loro passeggiata finì dentro l'ultimo
locale, più illuminato degli altri, pieno di macchinari e schermi, in cui
ricevettero il benvenuto da Edwards, Hardings e Weaver, di tutti, in apparenza,
il più felice di vederli e conoscerli, il quale si complimentò subito, con molto
sussiego, per l'esito positivo del ripristino del telescopio.
"Merito suo. - si tirò indietro Stefano - E' lui il genio dei telescopi" disse,
battendo amichevolmente una mano sulla spalla di Heron che sorrise, timido e
modesto. A quel punto, Forrest riapparve con le bottiglie di birra promesse per
festeggiare gli ospiti e la visita.
"Come ha fatto a restituire le immagini del pianeta?" domandò Weaver.
"Ho trovato un satellite funzionante" rispose Heron, pronto.
"Perché? - intervenne Forrest - Non mi dica che ce n'è ancora qualcuno!".
"Evidentemente si" constatò Stefano.
"Buon Dio! - esclamò Forrest - Allora non è andato tutto a puttane!".
"Evidentemente no" replicò Stefano.
"Certo che c'è" confermò Heron con aria soddisfatta.
Tutti gli sguardi degli occupanti la sala conversero su di lui.
Weaver tornò allo schermo e mise mano alla tastiera.
Pochi secondi dopo, all'interno di un piccolo riquadro in basso a destra del
monitor gli comparve l'immagine di un apparecchio a cilindro, nero lucido, che
con non eccessiva ma costante andatura si muoveva sopra la superficie della
Terra. Weaver non ricordava di averlo mai visto ma c'era.
"E' il Black Night. - informò Heron - Gira intorno al pianeta da molto tempo".
Da lui gli sguardi dei presenti si spostarono effettuando un rapido muto
scambio fra gli uomini.
In quel momento, nessuno ricordava che fosse esistito un satellite di nome Black
Night.
"Un ulteriore buon motivo per brindare" commentò Forrest, allegro, cominciando a
stappare le bottiglie.
Sugli schermi accesi si alternavano ad intervalli regolari foto in lento
movimento ritraenti vari angoli della Terra e squarci dello spazio nero e
profondo dentro il quale tutto ciò che c'era, a tratti pareva quasi immobile in
un silenzio talmente denso da sembrare che si propagasse anche nella sala. Ma il
silenzio fu presto rotto dai leggeri urti tintinnanti delle bottiglie che si
scontrarono nel brindisi di buon auspicio.
In Siberia c'è una
base militare, un pò come la nostra, diretta da uno stron...... da un tipo che
ha il viziaccio di sparare a chiunque scenda nelle immediate vicinanze, che non
abbia un aspetto decisamente terrestre e viaggi con mezzi sospetti di essere
carichi di spazzatura.......
Sul momento non ci aveva pensato. Non ci aveva dato peso, ma ora Heron si
sorprese a ritornare con la mente a quella frase pronunciata dall'uomo che aveva
davanti, occupato a bere dalla bottiglia.
E nel suo cervello, un terribile sospetto cominciò a formarsi come l'embrione di
una nuova creatura.
Ora, forse sapeva, o credette di intuire dove e com'era morto suo padre ma
stabilì di non rendere partecipe il suo compagno di viaggio alla scoperta. Non
voleva essere fermato nei suoi propositi.
A Stefano però, non sfuggì l'espressione cupa che il volto dell'ormai amico
alieno assunse, l'indurimento dei tratti del viso, l'abbassamento del braccio la
cui mano teneva la bottiglia, e si avvicinò a lui per chiedergli se tutto
andava bene.
"Si, certo. - gli garantì Heron abbozzando un sorriso tirato - Niente paura. E'
tutto a posto" e così dicendo, buttò giù qualche altra sorsata di birra. Era
fresca e frizzante. Gli piaceva.
Anche Forrest gli domandò se andasse tutto bene e Heron rassicurò anche lui.
Finiti birra e brindisi, l'uomo raccolse le bottiglie e andò a gettarle in un
contenitore di rifiuti a scomparsa semi nascosto in un punto di una delle pareti
della sala, dietro all'ala destra del lungo tavolo ad "elle" sormontata da uno
schermo, dopodiché chiese a Stefano e a Heron di aspettarlo, poi però, cambiò
idea e li invitò a seguirlo fuori dalla sala.
"Voglio mostrarvi una cosa" annunciò, apparentemente orgoglioso di quello che
sembrava un appetitoso segreto.
Curiosi, Stefano ed Heron lo seguirono per corridoi e sale finché giunsero ad un
altro vastissimo hangar in mezzo al quale troneggiava un grosso veicolo aereo
che, tuttavia, non aveva di certo l'aspetto di un normale aeroplano bensì quello
di un'autentica astronave, non molto grande ma con le classiche caratteristiche
di un mezzo adatto a viaggi interspaziali. E rivelò loro che quel veicolo era
stato realizzato con la spazzatura raccolta tutt'intorno all'Area 51.
"Complimenti. - si congratulò Stefano - Questo si che è un uso intelligente
dell'immondizia".
Forrest sorrise soddisfatto.
"E adesso, pensiamo alle necessità immediate" dichiarò spegnendo la luce dell'
hangar e uscendo dall'enorme locale. Ritornarono alla sala comandi dove il capo
dell'area pregò i due di aspettarlo.
Stefano e Heron lo attesero conversando amabilmente con Weaver e soci.
"E così venite dall'Europa" esordì Weaver a cui brillavano gli occhi chiari
dietro le lenti degli occhiali.
"Si. - confermò Stefano, quasi fiero - Credo di si".
"Ehi! - s'intrufolò Hardings, allegro, dando una leggera gomitata ad Edwards -
Ci siamo stati anche noi! Dov'è che siamo stati? In quella città dove c'è quel
grande palazzo con la cupola".
"Roma" specificò Stefano sorprendendosi di saperlo.
"Si. - strillò Edwards entusiasta - Siamo stati proprio lì, credo".
Stefano avvertì una strana punta di nostalgia, come se i due stessero parlando
di un posto da lui conosciuto e forse amato. E di colpo ricordò suo padre , o
probabilmente suo nonno, che gliel'aveva nominata una volta, indicandogliela su
una vecchia cartina geografica stinta, rivelandogli che la sua famiglia
proveniva da quella città. Doveva aver assunto un'aria triste perché Hardings
gli si accostò, preoccupato.
"Abbiamo detto qualcosa che non dovevamo?"domandò, contrito.
Stefano si ridestò da quella specie di sogno ad occhi aperti e tranquillizzò
l'uomo sorridendo.
"No, no. - disse - E' che...".
"Piacerebbe anche a lei andarci?" ammiccò Hardings.
"Dovrebbe assolutamente. - s'intromise Edwards - Ci sono molte belle donne!".
Hardings appioppò ad Edwards una gomitata più potente, che strappò al collega un
lamento ed un'imprecazione.
"E che avrò detto mai! - protestò l'uomo - E' la verità e le hai viste anche
tu".
Roma! Stefano sentì la mente essere attraversata da improvvisi ma vividi flashes
di una memoria che non gli parve nemmeno sua ma che gli riportò bocconi di frasi
udite in casa sua:
"Non riesco ancora a crederci!" un giorno aveva sospirato suo padre.
"Già. - aveva confermato sua madre - Sembra assurdo ma siamo qui perché i nostri
vecchi sono dovuti scappare dal caos totale".
In quel momento, Forrest rientrò nella sala con una borsa blu e nera che
consegnò a Stefano e che aprì davanti ai suoi occhi. La borsa conteneva un certo
numero di armi di tutti i tipi, dalle dimensioni piccole ma, come tenne a
specificare fiero, dal potenziale ragguardevole.
Stefano prese in mano una piccola pistola dalla linea essenziale, tutta
metallizzata e leggera.
"Questa è veramente un portento! - illustrò Forrest, soddisfatto - Triplo uso: a
proiettili, elettrica e a raggio laser" e nel dirlo, indicò a Stefano una
levetta rossa nascosta sotto il calcio, istruendolo sul suo utilizzo per la
verità molto semplice: bastava infatti alzare ed abbassare la levetta per
variare l'uso.
"Interessante. - commentò Stefano, laconico, ma ironico - Dove le ha
trovate?".
Forrest alzò gli occhi verso il soffitto come per cercare di ricordarlo.
"Mmmm - fece meditabondo - Bottino di guerra?"rispose, fingendo una vaga ipotesi
.
Stefano capì,annuì e sorrise.
"Andata" assentì, schioccando uno sguardo furbo e complice all'uomo
Forrest ridacchiò.
"Vi saranno molto utili. - dichiarò poi, gongolante - Ma non usatele a
sproposito. Assicuratevi di adoperarle a momento ed occasione giusta". Stefano
annuì di nuovo e, con Heron, alzarono il pollice destro in contemporanea, nel
tipico gesto di chi aveva capito tutto.
Allorché Stefano e Heron lasciarono la base, all'esterno stava imbrunendo e la
giornata volgeva lentamente al tramonto. Il Sole stava calando arrossendo le
rocce di quella zona semidesertica conferendole una magnifica colorazione rosso
scuro. Ritornati all'aria aperta, riconquistata la posizione di decollo e
riassicurati i loro corpi ai sedili dell'aereo con i vari legacci, Stefano
riaccese i motori e ripeté per la seconda volta in quel giorno le manovre per
alzarsi in volo.
Giunti ad un certo punto del viaggio, Stefano fece per salire di quota quando,
dirigendosi verso nord ovest, sotto di loro, intravide un autentico oceano di
luci fittissime indicanti un gigantesco agglomerato urbano.
"Oh, cavolo !" esclamò a mezza voce e invitò Heron a guardare. Anche Heron restò
senza parole.
"Una città-stato!" esclamò a sua volta, rammentando la definizione che Weaver
aveva dato al complesso edilizio. I due si scambiarono una veloce occhiata
d'intesa di sbieco.
"Visitina? - propose Stefano strizzando l'occhio all'alieno - O ha molta fretta
di raggiungere la meta?".
Heron ci pensò su qualche secondo. In effetti, aveva una certa premura ad andare
alla meta ma la curiosità di vedere un centro urbano più grande della cittadina
di montagna in cui era precipitato e vissuto fino a qualche ora prima, superò la
fretta di recarsi al luogo di destinazione e gli fece sollevare il pollice per
l'ok.
Stefano consultò la mappa digitale sul pannello dei comandi dell'aereo e anche
grazie al ritorno in funzione del telescopio e del satellite, il display rivelò
che quel mare luminoso corrispondeva a Washington. Comunicò la scoperta a Heron
che, malgrado non sapesse neanche cosa fosse, approvò incondizionatamente la
decisione di Stefano di scendere e fare un giro.
Stefano avviò le procedure per chiedere permesso ad atterrare nell'area della
città.
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Capitolo 20 *** VISITA A WASHINGTON, 1a parte ***
Nuova pagina 2
Washington
Il permesso di atterrare gli fu accordato ma non prima di una specie di
interrogatorio.
"Da dove venite?" chiese la voce del controllore.
"Europa, signore!" rispose Stefano con la sua voce sicura e squillante.
All'altro capo, silenzio toccabile.
"Europa?" esclamò la voce della torre, sinceramente meravigliata.
"Sissignore" confermò Stefano, baldanzoso.
"C'è qualcuno al di là dell'oceano?" domandò, palesemente stupita, la voce dalla
torre di controllo.
"Sissignore. - confermò Stefano, con orgoglio - Non siete i soli rimasti
dopo..... - e qui si fermò anche lui dubbioso su come definire il passato
inesistente - Dopo... Beh, insomma, dopo quello che è successo prima. Ma non mi
chieda cosa è successo, per favore".
Stefano udì un muggito.
"D'accordo, d'accordo. - acconsentì la voce dalla torre - Qual è lo scopo della
sua presenza nel nostro cielo?".
"Turismo, signore! - rispose Stefano con una certa sfacciataggine - E cultura".
Heron gli scoccò un'occhiata obliqua, divertita.
Alla risposta di Stefano, seguì un secondo muggito.
"Va bene. - continuò la voce - Affermativo. Permesso accordato. Scendete pure".
Il cielo, ormai blu scuro, evidenziò meravigliosamente la pista illuminata
dell'aeroporto a poche migliaia di metri davanti all'aereo e stavolta Stefano si
permise un normale e tranquillissimo atterraggio in diagonale con dolce
scivolata conclusiva che si arrestò al termine della pista.
Ma una volta atterrati, fu loro intimato di non uscire subito dal velivolo e
Stefano vide quattro persone avvicinarsi camminando veloci verso l'aereo. Fu
solo quando i quattro raggiunsero il veicolo che Stefano e Heron poterono
lasciare l'abitacolo, scendere le scale e mettere piede sul suolo. E i quattro
squadrarono Stefano e Heron né più e né meno fossero ambedue extraterrestri.
Casa Bianca
Sui due grandi monitors, fissati alle due robuste staffe inchiodate alle due
strisce esigue di pareti libere da finestre e mobili della Sala Ovale, le
immagini che si susseguivano lente cambiarono d'improvviso sostituendo le solite
rassicuranti fotografie dell'esterno dell'edificio con altre riproducenti luoghi
lontani sulla Terra e nello spazio e Alice Kelly, attuale governatore dell'asse
Washington - New York, guardando quelle foto, saltò quasi dalla comoda e
avvolgente poltrona in pelle nera posizionata dietro la massiccia scrivania
intarsiata che occupava metà della stanza.
"Che accidenti...." esclamò. E pochi minuti dopo, il telefono, sull'orologio da
polso, trillò.
"Buona sera, Governatore. - la salutò educatamente una faccia stupita ma anche
radiosa, dai capelli e occhi chiari - Ci sarebbe una grossa novità per lei. -
Sul piccolo display dell'orologio apparve una foto che ritraeva due uomini: uno
con capelli, barba e baffi castani e occhi grigio-verde di forma lievemente
allungata, accanto ad un altro, capelli corti biondo scuro, due occhi
incredibilmente blu e incarnato chiaro, glabro, con bellissimi lineamenti - Due
uomini vorrebbero atterrare qui a Washington. Sono arrivati fin qui in
aereo....Dall'Europa, al di là dell'oceano".
"Cosa? - esclamò Kelly, allibita - Sono armati? Che intenzioni hanno secondo
lei?".
"Mi sembrano due persone pacifiche. - rispose l'interlocutore - Hanno dichiarato
che sono qui per turismo e cultura. Possiamo accettarli?".
Convinta da sempre che la polis Washington - New York fosse l'unico agglomerato
urbano al mondo, Alice Kelly si scoprì impreparata a ricevere la notizia che un
altro angolo del pianeta Terra ospitasse altri esseri umani, tuttavia volle
dimostrarsi civile e diede il suo consenso all'atterraggio.
"Li mandi da me. - ordinò poi - Prima che comincino a scorrazzare per le strade
di Washington" detto questo, chiuse la comunicazione e corse allo specchio ad
aggiustarsi la folta capigliatura rossa e la giacca del completo blu scuro.
Alcuni minuti dopo, i due furono introdotti da due segretarie, con aria
sognante, nella Sala Ovale della Casa Bianca e Alice Kelly li fissò
esterrefatta. Erano molto belli nelle loro tute da volo.
"Buona sera, signor Governatore. - salutò Stefano, con classe, in ottimo inglese
- Avremmo voluto presentarci meglio, ma non c'è stato il tempo".
Incantata, Kelly riuscì comunque a ridimensionare la situazione e l'atmosfera
freddamente cerimoniose, quindi, invitò i due ospiti ad accomodarsi sulle ampie
sedie davanti alla scrivania.
"Per carità. - si affrettò a minimizzare - Non ha alcuna importanza. Andate
benissimo così. In fondo, state viaggiando e dovete star comodi.... E così
venite dall'Europa?".
"Si, signor Governatore, - confermò questa volta Heron - Veniamo dall'Europa e
non sapevamo che sulla Terra ci fossero altri abitanti..."
"Ad essere sincera, - commentò la donna - neppure io lo sapevo. - e lanciando
una veloce occhiata agli schermi, proseguì - Ma.... - balbettò, incerta -
sbaglio o le linee di comunicazione sono state ripristinate da poco?".
"No, non sbaglia. - le confermò Stefano - In effetti, la comunicazione è
possibile da poche ore grazie al mio....amico, qui vicino a me" terminò
indicando Heron che sorrise quasi imbarazzato.
Bello, pensò Kelly, e anche intelligente. Ma pure chi le aveva parlato non era
da meno.
Dal canto suo Heron si emozionò. Stefano lo aveva appena chiamato "amico" ma si
affrettò ad accantonare quella bella emozione spiegando cosa aveva fatto e
Stefano, facendosi coraggio, colse l'opportunità per porre la domanda, regina
delle domande del momento.
"Signor Governatore, - attaccò schiarendosi la voce - sul nostro pianeta, molto
tempo fa dev'essere accaduto qualcosa che ha cambiato profondamente un pò tutto.
Ha idea di cosa sia successo?".
I due videro la donna sgranare i suoi grandi occhi grigio-verdi e fissarli,
allibita, poi tornare ad un'espressione normale e infossarsi sotto le
sopracciglia che si aggrottarono, dubbiose.
Ricordava vagamente di aver colto brani sfilacciati di un racconto uscito a
pezzi da sotto i folti baffi chiari di suo nonno che aveva menzionato una
rivoluzione, ma non aveva saputo altro anche perché in casa non era stato più
sfiorato l'argomento, quasi fosse stato una specie di tabù.
"Per la verità, no signori miei. - rispose infatti, dispiaciuta solo per non
poter soddisfare la richiesta dei suoi ospiti - L' ho sentito dire ma non ne so
molto più di voi. E' importante?".
"Lo sarebbe soltanto per capire perché ora siamo in questa strana situazione"
rispose Stefano.
"Si, certo. - concordò Kelly tuttavia non molto persuasa - Forse avete ragione.
In Europa c'è qualche centro urbano?" domandò poi.
"Per quanto ne sappiamo, - rispose Stefano - dovrebbe esserci quello di Roma. E
chissà.... ! -continuò, sperando così di accendere un minimo di curiosità nella
testa della donna - Potrebbe essercene qualcun altro sparso nel mondo".
"Si, - fece lei stirando le labbra in un bel sorriso tuttavia non completamente
convinto - potrebbe".
"Non è curiosa di saperlo?" chiese Stefano, alzando le sopracciglia, con gesto
ammiccante.
"Finora non ho mai avvertito la necessità e la curiosità di sapere se siamo gli
unici sopravvissuti sulla Terra. - rispose il Governatore mantenendo il suo bel
sorriso di circostanza - Considerando, oltretutto, che non c'è stata neppure la
possibilità eventuale di scoprirlo, visto che le comunicazioni non
funzionavano".
"Ha ragione. - convenne Stefano riconoscendo che il discorso non faceva una
grinza. Ma dopo i primi minuti di sconcerto riprese, più vivace - Si è mai
domandata perché?".
La donna sospirò e ridusse il sorriso.
"Ho sempre pensato che la mancanza di comunicazione dipendesse da un guasto
irreparabile agli impianti. - rispose, compunta - E ho altresì pensato che se
finora nessuno aveva mai provveduto neppure a provare di ripararlo, doveva
esserci un motivo valido per aver preso tale decisione".
"Giusto" ammise Stefano. Poi, lui e Heron si scambiarono rapide occhiate
comprensive.
Kelly si soffermò a guardare Heron, ammirata dalla sua bellezza, cercando però
di non rivelarsi troppo. Ma quei pochi secondi di osservazione discreta le
bastarono per capire che, malgrado anche Heron la stesse scrutando con quei suoi
favolosi occhi blu, il cuore, l'anima e la mente di quell'uomo erano in altro
luogo, impegnati in qualcos'altro, o focalizzati su qualcun altro.
"E' meglio andare" si limitò ad intervenire l'alieno.
Rendendosi conto del non eccessivo entusiasmo della donna all'argomento, Stefano
decise di non insistere sul tema e mostrò di voler andar via.
" Il mio collega ha ragione. Il viaggio che dobbiamo affrontare è lungo, - si
scusò - E' tardi ed è meglio proseguire. Senza contare che lo sarà anche per
lei, ormai, signor Governatore".
"Oh! - si schernì la donna - Per me far tardi è un'abitudine. C' è sempre tanto
da fare qui. Ma tornate pure, se volete. Saremo felici di ospitarvi qui a
Washington".
"Sicuramente. - mentì Stefano, senza molta fatica - Magari, alla fine del
viaggio".
Il Governatore di Washington esibì un altro sorriso, stavolta un filo più
radioso, e i tre si accomiatarono.
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Capitolo 21 *** VISITA A WASHINGTON 2a parte ***
Nuova pagina 2
VISITA A WASHINGTON, 2a parte
All'aeroporto
Sulla velocissima auto che riaccompagnò i due all'aeroporto, Stefano ed Heron
rimasero in silenzio ma Stefano si accorse che Heron gli lanciava frequenti
occhiate rapide ancorché intense e significative, segno evidente di una volontà
di dirgli qualcosa che non doveva uscire nell'abitacolo della vettura. Senza
parlare, Stefano gli accennò di aver capito, ma quando furono di nuovo
sull'aereo e ricominciarono le manovre per sistemarsi e ripartire, Stefano non
riaccese subito i motori, mettendo Heron sui carboni ardenti e inducendolo a
girarsi verso di lui
"Com' è la storia del satellite? " lo apostrofò senza tuttavia alcun cenno di
rimprovero, piegando il tono della voce verso un accento ironico.
"Quale satellite?" rispose Heron, fingendo indifferenza.
Stefano gli scoccò un' occhiata traversa, e stirò le labbra, sotto i baffi, in
un sorrisino sghembo di presa in giro.
"Quello che lei sembra aver usato per riattivare il telescopio. Il Blacknight. -
rispose poi, serafico, aspettandosi una risposta. Heron si girò verso la pista
e si morse il labbro inferiore, senza replicare subito - Ce l' avete messo voi?
- proseguì Stefano - Non ne abbiamo mai sentito parlare prima. - e continuò,
sempre calmo - Da quanto tempo siete qui?".
Heron sospirò, esibendo un abbozzo di capitolazione.
"Non lo so, di preciso. - si decise a rispondere - Io sono arrivato da poco"
concluse, enigmaticamente. Stefano annuì.
"E?" seguitò, mantenendo un timbro placido e ironico, aspettando un proseguo.
"E, cosa?" fece Heron, con aria rassegnata.
"So che vuole dirmi qualcos' altro" lo incitò Stefano, intuendo subito che il
suo amico alieno non voleva toccare l' argomento satellite, almeno non
nell' immediato.
"Ho parlato con il mio amico....." cominciò il comandante, guardando avanti,
oltre il grande vetro parabrezza di fronte a loro.
"L'uomo con i capelli bianchi e il viso da grande saggio?" domandò Stefano,
parzialmente divertito,
Infatti, Heron sorrise.
"Si. - rispose - Proprio lui. - Poi si rattristò - E' un amico della mia
famiglia ma....".
"Ma?" rafforzò Stefano.
"Dopo la morte di mio padre, mi è rimasto solo lui. - disse Heron, sinceramente
mesto - Ora lui E' la mia famiglia" terminò sottolineando il verbo essere con la
voce.
Stefano si sentì quasi in colpa per aver preso in giro, seppur in tono
affettuoso, l'extraterrestre.
"Mi dispiace, comandante. - si affrettò infatti a scusarsi - Davvero. E per un
verso, sono felice che almeno qualcuno le sia rimasto vicino, se non altro
moralmente, in tutto questo tempo ma.... - Stefano riconquistò il tono ironico
iniziale - adesso, sputi il rospo! - Heron tornò a sorridere e Stefano capì ben
presto che forse Heron non conosceva quell'espressione - Mi dica cosa vuole
dirmi" si sbrigò a spiegare, allargando il sorriso.
"Decolliamo, capitano Aloisi. - propose Heron - Altrimenti gli uomini
dell'aeroporto potrebbero allarmarsi e insospettirsi. - e nel finir la frase,
strizzò l'occhio. Stefano sospirò e accese i motori. Diavolo di un alieno! Aveva
imparato molti gesti terrestri. Più di quanti avesse immaginato. Che Annamaria
c'entrasse in qualche modo? Altro sospiro, ma stavolta Heron non attese e non si
fece pregare per parlare, mantenendo tuttavia lo sguardo fisso oltre il
parabrezza - Forse so dov'è morto mio padre. - rivelò di getto, cogliendo
Stefano di sorpresa, che si girò un attimo per lanciargli una rapida occhiata -
Ma non mi chieda di più. - continuò con un tono di voce simile al ghiaccio che
si scioglieva al Sole - Ho bisogno di conferme" terminò con la voce alterata da
una forte emozione. Stefano non gli chiese altro.
"Comandante Heron... " lo stuzzicò poi, essendogli venuta un'idea.
"Si?" rispose l'alieno.
"Che ne dice di fare un giretto a Washington?.. - propose Stefano - O ha molta
fretta?".
In città
Alcuni minuti dopo erano a spasso per le vie della ex capitale degli U.S.A., ora
capitale della polis Washington-New York.
Pur in tuta da piloti, o forse proprio in virtù di quest'ultima, i due non
passarono di certo inosservati. Alti tutti e due ed avvenenti, si accorsero ben
presto di essere oggetto di osservazione ed interesse, neanche a dirlo,
soprattutto Heron, con quel suo incarnato chiaro, luminoso e i suoi occhi blu.
Una donna in abiti eleganti li fermò e rivolse loro la fatidica
domanda/constatazione: "Voi non siete di qui". E spalancò i suoi grandi occhi
scuri allorché Stefano le rivelò che venivano dall'Europa.
"Europa?" esclamò la donna, allibita.
"Si" confermò Stefano.
"Ma non siamo rimasti solo noi?" replicò la donna, ancora stupita.
Stefano ed Heron si scambiarono occhiate meravigliate ma anche d'intesa. Ormai
era chiaro che in ogni angolo del mondo popolato, gli abitanti erano convinti di
essere gli unici rimasti sul pianeta e non avevano mai cercato di sapere se ce
ne fossero altri.
"No, signora. - la contraddisse cortesemente Stefano - Sulla Terra siamo un po'
di più di quel che immaginavamo". La donna rimase ferma qualche istante a
riflettere, o almeno così parve, poi li salutò e si allontanò con passo meno
sicuro di quanto lo era quando li aveva fermati.
Anche Stefano si fermò e scrollò la testa. Heron, accanto a lui, lo scrutò,
perplesso e apprensivo.
"Tutto a posto?" chiese.
Stefano stirò la bocca in un sorriso amaro.
"E' più facile comunicare con un extraterrestre che fra abitanti dello stesso
pianeta. - sbottò alla fine. Poi si girò verso Heron - E' così anche su Ariel?".
Heron sorrise appena, ma anche il suo sorriso era triste.
"Gli Arieliani non sono dei gran chiacchieroni per natura. - tenne ad informarlo
- Ci limitiamo a comunicazioni di servizio".
"Lei no, comandante. - si permise di osservare Stefano - Nonostante il suo
mestiere, mi sembra che ami comunicare con il prossimo" .
"Lo trovo importante, capitano Aloisi. - rispose l'alieno - E necessario. Si
evitano molti equivoci".
Si guardarono, si sorrisero e si concessero una breve risata con sfondo acidulo,
quindi, ripresero la passeggiata, sempre con gli sguardi curiosi dei passanti
addosso. Da parte loro, i due non poterono fare a meno di notare, sui volti
delle persone che venivano loro incontro, espressioni, se non proprio di
felicità, di certo di contenuta ma convinta serenità, come se le vite di quella
gente fossero, per loro fortuna, povere di ansie e problemi. Questa distensione
di animi poteva dipendere proprio dall'isolamento e dall' assenza di contatti
fra le persone? Ai due cominciò a nascere qualche sospetto. Terminato il tour,
tornarono all'aeroporto.
La Siberia non era molto lontana da dove si trovavano.
Sorvolarono in parte l'Alaska e rimasero allibiti.
Lo Stato, praticamente disabitato, era un immondezzaio a cielo aperto.
Heron fu còlto da un pensiero folgorante, ispirato da ciò che aveva visto alla
base dell'Area 51.
E se avesse utilizzato tutta quella spazzatura per uno scopo?
Se l'avesse utilizzata per....produrre energia? Sarebbe stata una fonte
sostitutiva a quella prodotta dall'uranio?...No, forse non sarebbe stata
sufficiente per rimpiazzare il minerale, ma sarebbe stata compensativa. Il suo
cervello cominciò a produrre idee.
Con l'aereo, Stefano sorvolò la Siberia che, nonostante fosse anch'essa in gran
parte disabitata, si rivelò invece ai loro occhi libera e pulita da qualunque
tipo di detrito.
Strano. Veramente strano.
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Capitolo 22 *** ULTERIORI FRAMMENTI DI VERITA' ***
Nuova pagina 2
ULTERIORI FRAMMENTI DI
VERITA'
Base di Novosibirsk,
sala operativa
Antonov, Kyrianov e Wichinskji, tre dei componenti lo staff della base,
sobbalzarono sulle sedie allorché sugli schermi dei computers, e su quelli più
ampi fissati alle pareti, d'improvviso, le immagini cambiarono di genere
sostituendosi rapidamente a quelle che i tre ormai erano abituati a vedere da
diversi mesi. Alcuni schermi si riempirono di panoramiche su angoli remoti della
Terra: deserti ricoperti di grigi tappeti di ferraglie, distese di acqua più o
meno calma e infine altri rivelarono ciò che c'era sopra di loro, ossia il
cielo, con stelle e pianeti che si muovevano lenti nel nero siderale.
"Che mi venga un colpo! - esclamò Antonov fissando, sbigottito quel mutamento
così repentino - Ma che è successo?".
"Qualcuno ha riattivato telescopi e satelliti" commentò Wichinskji, con
soddisfazione.
"Wow" fece Kyrianov, allegro.
"E' sicuro che sia un bene?" lo contestò Antonov.
"Beh, - rispose Kyrianov, su di giri - almeno si vede qualcosa di nuovo".
Antonov, invece, guardò, sconsolato e adirato, il deserto ricoperto di
spazzatura ferrosa. Tuttavia, subito dopo, quello spettacolo gli accese un lume
di ottimismo.
"Ha ragione Kyrianov. - convenne - Chissà che ora non vedremo meglio e prima
gli sporcaccioni che arrivano qui a scaricare le loro schifezze per poterli
abbattere subito".
Senza farsi vedere, Wichinskji sospirò e sbuffò. Per un verso poteva anche aver
ragione, ma quell'uomo odiava proprio chiunque non fosse terrestre, per
principio.
Siberia, non lontano
da Novosibirsk
Dio creò il cielo, la
Terra e gli altri pianeti, i sistemi solari, le galassie e le
costellazioni....l'universo, insomma ! Poi decise di popolare i pianeti... non
tutti...solo alcuni....quelli che si trovavano ad una giusta distanza dal Sole
attorno al quale giravano, in quanto si era reso conto che altri si trovavano
troppo lontani o troppo vicini a quel Sole da poter essere abitati senza che gli
esseri viventi ne ricevessero danni gravi: troppo caldo da essere bruciati o
troppo freddo da essere congelati. E in un qualche modo misterioso, i popoli
dei pianeti abitati lo vennero a sapere cominciando a credere ad un entità
superiore a loro, che aveva donato loro la vita e i mezzi per viverla nel modo
più appropriato: la terra per poterne coltivare i frutti e sfamarsi, l'acqua per
potersi dissetare, mantenere l'igiene e navigarci sopra per poter raggiungere le
varie zone del pianeta....
Ma un giorno,
qualcuno aveva annunciato che non esisteva alcun Dio e che tutto era stato
generato da un'esplosione primordiale nell'universo, miliardi di anni
prima......
"Heron! Heron! Heron!" lo richiamò Stefano, scuotendolo, accortosi dello stato
quasi catatonico in cui il comandate alieno sembrava essere caduto mentre
narrava i fatti.
Heron si scosse, effettivamente in trance.
"Si" fece, riacquistando completamente lo stato di veglia.
"Mi sta dicendo che la fede in Dio è stata equamente distribuita in tutto
l'universo? - lo incitò - Che forse in tutti i pianeti abitati, i popoli credono
in Dio? Che il suo messaggio è arrivato ovunque ci sia vita? La teoria è
pazzesca!...Assurda!...Ma splendida!".
Heron si destò del tutto dal suo stato di trance e accomodò meglio sul sedile.
"Non ne ho un'idea precisa. - rispose Heron, completamente sveglio ma calmo -
Per quel che ne so io potrebbe anche essere avvenuto. Il mio amico Adoniesis mi
ha raccontato di templi bruciati e di mio padre che mi ha portato fuori da uno
di questi, in fiamme, mentre eravamo dentro a pregare".
"E la croce, Heron? - lo sollecitò a continuare Stefano - Annamaria mi ha
parlato di una croce che ha visto anche lei".
"Non ho mai saputo con esattezza cosa volesse dire quella croce. - rispose Heron
quasi dispiaciuto di non poter fornire una spiegazione esauriente a quell'enigma
- Credo fosse un simbolo di quella fede, ma l' ho vista di sfuggita in quel
tempio". Stefano percepì una profonda emozione nella voce rotta del suo compagno
di viaggio.
"Dobbiamo saperne di più, comandante! - sentenziò, fermo nel proposito -
Probabilmente, questa è la chiave del passato di questo pianeta. - quindi si
girò verso di lui - Perché ha voluto dirlo solo a me?".
" Perché ho pensato che solo lei e sua moglie avreste potuto capire" rispose
Heron, ora sicuro e tranquillo.
Stefano gli dette una pacca sulla spalla dalla sua parte.
"Grazie per la fiducia" disse, sorridendo.
"Di niente" replicò Heron. Stefano si voltò un istante verso di lui e,
sorridendo, alzò il pollice della mano destra in segno di intesa. Heron rispose
alla stessa maniera torcendo le labbra in un mezzo sorriso di complicità.
Fra i due si stava stabilendo un bel rapporto di comprensione e, forse anche
amicizia. Due rappresentanti di due popoli di due pianeti relativamente lontani,
che però sembravano aver avuto un destino comune. Non solo! Stefano realizzò
che, - pareva incredibile, - grazie al suo nuovo amico di un altro mondo, stava
venendo a conoscenza dei fatti che in passato avevano sconvolto il suo.
In quel momento, tuttavia, accadde qualcosa che cambiò radicalmente la
situazione creatasi attorno a loro.
Il momento di
un'altra verità
Sul display collegato al radar, un oggetto di dimensioni piuttosto ragguardevoli
- di sicuro un'aeronave, se non un'astronave - apparve a sinistra avanzando
lento e dirigendosi verso un grosso punto al centro dello schermo. I due uomini
concentrarono i loro sguardi sullo schermo seguendo l'oggetto, con attenzione.
L'oggetto non arrivò al punto centrale e il disegno schematico di un'esplosione
si formò sul monitor. E sempre alla loro sinistra, Stefano, con la coda
dell'occhio e Heron girandosi di scatto nella direzione, videro da dov'erano
un'enorme fiammata nel cielo che schiarì di molto la già non completa oscurità
circostante loro, dovuta al Sole che in quel periodo non tramontava mai del
tutto all'orizzonte.
Heron credette di non avere più dubbi.
Ora sapeva come, e soprattutto dove, era morto suo padre.
Base di Novosibirsk
Antonov seguì, soddisfatto, la fase dell'esplosione godendosi lo spettacolo del
veicolo saltato in aria e scoppiato in pezzi schizzati ovunque nello spazio che
stavano ricadendo sul suolo come le comete del 10 agosto, pur non essendo ancora
arrivati a quella data.
"Altri insozzatori fuori dalle scatole!" esclamò fregandosi le mani.
Pochi secondi dopo, Zitowskji, il radarista, uscì nello spiazzo annunciandogli
di aver intercettato un veicolo aereo.
"Piccolo o grande?" chiese Antonov, sul chi va là.
"Piccolo, direi. - rispose l'uomo - Sembra un normale aereo da turismo".
Lievemente seccato, Antonov rientrò nell'edificio e andò dietro al giovane
tecnico del radar fino alla sala controllo.
Sull'aereo
Il Sole a mezz'asta all'orizzonte illuminava il viso di Heron i cui bei tratti
si erano improvvisamente induriti diventando lame taglienti e conferendo
all'uomo un'espressione di glaciale furore.
"Tutto bene, amico?" gli chiese Stefano, preoccupato di quella rapida
trasformazione.
"Si" fu la risposta fredda e lontana dell'alieno che guardava fisso davanti a sé
come se stesse vedendo un nemico da abbattere immediatamente.
Stefano gli sfiorò la spalla.
"Hey, - lo apostrofò, ma in tono apprensivo - Turbato dall'esplosione? Forse è
stato un incidente".
"No. - lo contraddisse Heron, mantenendosi gelido - Non è stato un incidente.
L'esplosione è stata voluta. Di sicuro quella era un'astronave carica di
spazzatura".
Stefano fu certo di capire ma si sentì ugualmente la spina dorsale percorsa da
una scarica di forti
brividi di allarme.
"Beh... - se ne uscì con l'intenzione di recare un minimo di conforto al
comandante - Forrest ci ha avvertiti che il responsabile della base qui in
Siberia è un tipo da prendere con le molle".
Heron si voltò verso di lui e accennò un sorriso.
"Già. - confermò - Vero. Dobbiamo andare a prendere l'uranio. - continuò
tornando serio ma acquisendo un'espressione meno minacciosa - E la medicina per
il mio equipaggio".
Di colpo, a Stefano venne in mente un particolare a cui non aveva pensato;
almeno non prima di quel preciso istante. E volle condividerlo con Heron.
"Hey, .... " lo richiamò, allegro. Heron si girò verso di lui, sorridendo a
labbra chiuse.
"Si?"
"Sarà meglio non parlare dell'uranio" suggerì.
Dapprima, Heron non capì poi però arrivò alla stessa intuizione: l'uranio era
usato anche per costruire armi atomiche e anche lui lo sapeva. Tacitamente,
annuì per fargli sapere che aveva compreso, accompagnando il sì con l'ormai
consolidato gesto del pollice alzato. Stefano rispose alla stessa maniera, senza
aggiungere altro, riaccese i motori dell'aereo ed effettuò l'ennesimo decollo di
quel lungo viaggio. Il territorio piatto gliene permise uno abbastanza normale,
non troppo verticale.
E non si alzò eccessivamente. Non erano molto lontani dalla meta.
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Capitolo 23 *** LA VENDETTA E' UN PIATTO DA SERVIRE FREDDO ***
Nuova pagina 2
LA VENDETTA E' UN PIATTO DA SERVIRE FREDDO
Base di Novosibirsk
"Veicolo aereo in avvicinamento da est" avvisò fredda, monocorde e
apparentemente annoiata, la voce del controllore dalla torre.
Antonov si spostò dalla sua postazione di lavoro e si pose davanti allo schermo
del radar.
Il veicolo sembrava procedere a velocità non molto elevata e ad altitudine
piuttosto bassa, il che lo mise in guardia.
"Potrebbe essere un mezzo di ricognizione" commentò Kyrianov.
"Già. - convenne Antonov, con voce piatta - Aereo spia inviato per individuare
dove scaricare il pattume".
"Attacchiamo?" chiese e propose Kyrianov.
Antonov stava per dare l' ok quando dalla grata del sonoro uscì una voce
maschile senza alcun'ombra di minaccia.
"Unità Ci Acca 250 a torre di controllo. - si presentò la voce che parlò in
inglese - Buona sera signori. Veniamo in pace e abbiamo bisogno di aiuto".
Quella voce maschile, tranquilla e sicura, fermò l'ordine di distruzione che
Antonov avrebbe impartito di lì a pochi secondi.
"Aspetti, capo! - contribuì Wichinskji a dissuaderlo ulteriormente,
avvicinandosi veloce ad Antonov - Se c'è qualcuno che vuole scaricare
immondizia, di solito manda prima un drone a perlustrare, non un aereo con umani
a bordo".
Antonov convenne che l'uomo aveva ragione e scelse di rispondere alla voce.
"D'accordo.- disse, più disponibile - Base Nova a unità CH 250. Per cosa,
esattamente, siete venuti fin qui?". Sentendosi interpellare in inglese, Stefano
si rincuorò
"Motivi... - rispose, cercando velocemente un termine che definisse il loro
scopo nel modo migliore e più convincente possibile - sanitari" rispose alla
fine, sicuro di averlo trovato
Alla piccola grata nera del microfono gli pervenne un muggito. E dopo una
manciata di secondi,
la risposta.
"Va bene. Atterrate pure".
Con questa concessione, Yuri Antonov tracciò le linee di un cambiamento di
destino per lui e per gli altri.
*********************
Anche in quel caso, essendo il territorio circostante piuttosto piatto, Stefano
poté permettersi un atterraggio normale e in effetti lo eseguì con la massima
calma, senza difficoltà. Ma il comportamento di Heron gli infuse agitazione.
Benché l'uomo si muovesse con una certa naturalezza, percepì in lui nervosismo.
E un paio di profonde respirazioni nella maschera ad ossigeno, lo allarmarono.
Prima di uscire dal veicolo, prese un paio di pistole a triplo uso: a
proiettili, elettrico e a raggi laser, dalla grossa borsa di armi fornita da
Forrest e se ne infilò una in una tasca interna della tuta, passando in silenzio
l'altra al comandante.
"Heron, - lo interpellò poi, preoccupato - tutto bene? - Heron annuì, ma
l'avvicinarsi all'edificio che ospitava la base, aumentava il tumulto nel suo
cuore e concentrarsi nei suoi obiettivi gli diventava sempre più difficile.
Dovette fermarsi e respirare ancora profondamente. A quel punto, Stefano si
fermò e fermò anche lui - Che ha, Heron? - gli domandò, apprensivo - Che
succede? - Heron era combattuto. Il sospetto crescente sulla causa della morte
del padre gli stava esplodendo nell'animo. Fu Stefano a decidere
involontariamente per lui bloccandolo fino a che non si persuase a rivelargli
ulteriori dettagli - Ne è sicuro?" - chiese conferma dopo aver ascoltato il suo
racconto.
"Non al cento per cento. - rispose Heron - Ma per un buon novanta, si".
Stefano si tirò indietro i capelli e sospirò nel tentativo di mantenere i nervi
saldi. Questa non ci voleva e sentiva di capire l'uomo, ma era altresì conscio
che non potevano concedersi errori.
Strinse le spalle a Heron e lo guardò dritto negli occhi.
"Ha tutta la mia comprensione e solidarietà, comandante - dichiarò infatti -
Anch'io proverei quello che sta provando lei ora, ma dobbiamo muoverci con
cautela e stare molto attenti a ciò che diciamo. Qui, sulla Terra, usiamo dire
che la vendetta è un piatto da servire freddo. So perfettamente come si sente e
al suo posto, forse, prenderei queste persone e le metterei al muro, ma ora non
possiamo farlo. Pensi alla sua donna, Heron! Si concentri su di lei. Chiediamo
quel che dobbiamo chiedere poi, semmai, vedremo cosa si può fare".
Stefano ebbe l'impressione che Heron lo avesse capito e fosse d'accordo con lui.
Malgrado il profondo dolore, che di certo in quel momento gli stava lacerando
l'anima e che traspariva nei suoi occhi rendendoglieli particolarmente
espressivi e brillanti, Heron era intelligente, abbastanza razionale e non
avrebbe commesso sciocchezze. Gli fece coraggio stringendogli le braccia. Si
mossero verso l'edificio largo e basso della base quando un uomo alto, magro, in
uniforme grigio - verde, uscì dall'edificio e camminò dritto e marziale incontro
a loro.
Anche Stefano si eresse in tutta la sua statura e si preparò a salutare l'uomo
il quale, vedendolo più alto di lui, parve assumere più timore e rispetto nei
suoi confronti. Raggiuntili, chinò lievemente la testa e strinse loro la mano.
Stefano e Heron risposero allo stesso modo, quindi l'uomo li invitò ad entrare
nella palazzina. Tolti i lunghi tavoli di metallo chiaro sui quali erano
disposti i computers delle postazioni di lavoro e gli schermi alle pareti, il
locale era piuttosto spoglio e spartano, ma l'accoglienza fu gentile e nemmeno
troppo fredda.
"Cosa vi ha portato fin qui, - attaccò Antonov dopo essersi presentato e aver
presentato i colleghi nella sala - e in cosa possiamo esservi utili?". Stefano
sorrise. Era evidente che la sua mole incuteva agli uomini una certa soggezione,
nonché la tendenza al garbo e alla disponibilità.
"Beh,... - iniziò, quasi imbarazzato, prevedendo che la sua richiesta sarebbe
sembrata quanto meno curiosa - chiediamo l'autorizzazione a prelevare piccoli
quantitativi di resina di betulla".
Uno degli uomini, il non eccessivamente alto, tarchiato, bruno, baffuto sale e
pepe, e con occhiali tondi, corrispondente al nome di Wichinskji, sorrise sotto
i suoi folti mustacchi che spezzavano la rotondità della sua testa e del suo
simpatico viso.
"Credo che i signori stiano chiedendo il farmaco aggiusta-ossa" ipotizzò.
Stefano sentì il cuore allargarsi il doppio della sua dimensione.
"Lo....avete?" quasi balbettò, incredulo per la soluzione più vicina delle sue
aspettative.
"Ne abbiamo qualche campione in magazzino. - rispose Antonov - Ma è lì da un pò
di anni. Bisogna vedere se sarà ancora efficace".
"E' costituito da componenti naturali. - tenne a precisare Wichinskji - Calcio,
silicio e resina di betulla. Quelli non scadono. Vado a prenderne subito una
confezione" detto questo, uscì veloce dalla sala attraverso una porta laterale,
vicina ad uno dei grandi schermi. Stefano e Heron si scambiarono occhiate felici
e sorrisi. Mai avrebbero pensato che la loro richiesta sarebbe stata soddisfatta
in così breve tempo e facilità.
Ma non tutto andò liscio |
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Capitolo 24 *** POCHI MINUTI DI FUOCO ***
Nuova pagina 2
POCHI MINUTI D I FUOCO
Alla luce bianca delle lampade che illuminavano la stanza, il pallore
dell'incarnato di Heron risultò particolarmente visibile, dettaglio che attrasse
l'attenzione di Antonov e lo spinse ad accostarsi all'alieno facendo scattare un
campanello d'allarme nel cuore e nel cervello di Stefano il quale, comunque,
seppe mantenere i nervi saldi.
"Si sente bene?" chiese Antonov a pochi centimetri dal comandante.
"Ho avuto un grave incidente - rispose Heron, pronto e tranquillo, nonostante
l'istinto di sparare all'uomo fosse pressoché fuori da lui - dal quale sono
uscito per miracolo, se di miracoli si può ancora parlare. Ho riportato la
frattura di alcune costole che mi fanno ancora male. Io e il mio amico abbiamo
saputo di questo farmaco e di dove avremmo potuto trovarlo, così, lui mi ha
accompagnato fin qui nella speranza di trovarlo. Per fortuna lo avete. Togliamo
subito il disturbo" finì la frase respirando un paio di volte nella maschera ad
ossigeno portatile penzolante al collo. Ma la tensione nell'animo e nel suo
corpo dovevano essere tangibili.
Stefano notò che lo sguardo chiaro e gelido di Antonov era pericolosamente fisso
sull'extraterrestre e in cuor suo si augurò che il baffuto collega si sbrigasse
a tornare con il medicinale per lasciare quel posto il più rapidamente
possibile, specie dopo aver saputo cosa fosse forse successo al comandante,
quasi amico. Antonov si allontanò di poco da Heron annuendo, ma senza parlare e
staccare lo sguardo da lui.
"E' vero. - si affrettò Stefano a confermare la versione di Heron - Non si è
ancora ripreso del tutto e purtroppo non può neanche sopportare fasciature per
una grave forma di asma che gli impedisce in ogni caso di respirare bene. Questo
farmaco può essere una buona soluzione per lui. Ora ce ne andiamo. Non
preoccupatevi".
"Non mi preoccupo. - assicurò Antonov, glaciale - E non ho fretta che voi ve ne
andiate. ...Perché so che non ve ne andrete... Non vivi. Almeno lui".
Accadde tutto in pochi minuti.
Anche lui munito di arma a raggio laser, Antonov sparò a Heron colpendolo dritto
al cuore.
Con orrore, Stefano vide l'alieno venir sbalzato all'indietro di qualche metro e
stramazzare a terra rimanendo poi immobile.
"Chi volevate fregare? - sibilò il russo - Si vedeva da anni luce che non era
dei nostri".
Esplodendo di rabbia, senza più remore, Stefano sparò ad Antonov ma Antonov fu
altrettanto veloce e sparò a Stefano centrandolo al petto. Stefano avvertì un
bruciore insopportabile al torace e non seppe se perse i sensi o passò a miglior
vita. L'ultimo straziante pensiero volò ad Annamaria e ai suoi ragazzi. Non si
sarebbe certo aspettato di andarsene lontano da casa, in così breve tempo da non
poterli neppure salutare per l'ultima volta.
Pietrificato per i primi attimi dalla sequenza agghiacciante, Wichinskji, che
nel frattempo era tornato dal magazzino, riuscì tuttavia a reagire, mollò la
scatola a terra e sparò ad Antonov con una pistola a proiettili colpendo l'uomo
allo stomaco.
Kyrianov estrasse la sua arma e fece per usarla contro Wichinskji ma il polacco
sparò anche a lui centrandolo in mezzo alla fronte, quindi si mosse verso
Antonov che non era morto, ma rantolava, lamentandosi per il dolore mentre una
macchia rosso scuro si allargava in mezzo alla giacca dell'uniforme.
"Bastardo razzista! - digrignò con odio - Perché? Cosa le avevano fatto quei
due?".
Accecato dalla rabbia non si accorse che Heron si era ripreso, si era alzato a
fatica e, barcollando, stava avvicinandosi a loro. Se lo vide arrivare a destra
puntando la sua arma contro Antonov.
"Ci penso io a finire il lavoro. - mormorò con la voce rotta da una fredda e
controllata ira - Non aspettavo altro" e nel parlare, a fatica, incollò il foro
di uscita della sua pistola a triplo uso alla fronte del capo della base
siberiana che lo fissava terrorizzato come se sopra di lui ci fosse un fantasma
o uno zombie. Anche Wichinskji era sbalordito dalla sua presenza lì ma non osò
chiedergli spiegazioni. Non allora.
"Non ti ho ammazzato?" balbettò Antonov, senza fiato per il dolore allo stomaco.
"No, stronzo! - rispose Heron, abbassandosi e poggiando un ginocchio a terra,
con la voce monocorde di chi sta controllando molto bene le sue emozioni
malgrado queste stiano per scoppiare tutte insieme come mortaretti - Hai creduto
di colpirmi al cuore ma il mio cuore è leggermente spostato rispetto al vostro
terrestre. Hai sbagliato anche stavolta, come hai fatto circa dieci anni fa
quando hai fatto saltare in aria l'astronave di mio padre senza neppure
chiedergli chi fosse....perché fosse arrivato fin qui... semplicemente perché
hai creduto che fosse arrivato fin qui per scaricare spazzatura. Ma mio padre
non era arrivato sulla Terra per scaricare immondizia..... Cercava solo
carburante per le nostre centrali produttrici di energia per illuminare e
scaldare il nostro pianeta. Tu però non glielo hai neanche chiesto. E' vero; non
sono terrestre. Vengo da Ariel, ma a te non importa niente. Ci odi per
principio. Per te siamo tutti solo imbratta-Terra! Non fai distinzioni perché
non sei in grado di farle. Il tuo profondo razzismo ti acceca fino al punto di
renderti anche idiota.... O forse lo sei di natura!" detto questo spinse
indietro la levetta rossa della piccola arma e fece fuoco prima con un
proiettile poi con una forte scarica elettrica che bruciò la carne, infine,
allontanò di pochi millimetri la canna corta della pistola e spinse una terza
volta la levetta, più a fondo, sprigionando un sottile raggio laser blu che
terminò l'opera. Antonov spirò con un urlo che riecheggiò agghiacciante in tutti
gli angoli della sala. Dopo ciò, Heron si abbatté sfinito, con entrambe le
ginocchia sul pavimento lucido e freddo, accanto a Wichinskji ancora sotto
shock, e al corpo di Antonov, ora immobile dopo un ultimo sussulto.
Aveva consumato la sua vendetta, ma il piatto era tiepido.
Respirò un certo numero di volte nella maschera ad ossigeno appoggiandosi con
una mano ad una spalla di Wichinskji che lo sostenne per un braccio.
"Soffri....davvero di asma?" gli chiese l'uomo vedendolo compiere
quell'operazione.
Heron sorrise.
"L'aria terrestre è un po' leggera per me. - tenne a spiegare - Ma mi ci sto
abituando. E adesso cerchiamo di rianimare il nostro amico, sperando che questo
bastardo non l'abbia ucciso".
Stefano sembrava davvero morto.
Heron gli premette lievemente due dita sul collo ed in effetti non avvertì
pulsazioni
Con Wichinskji si scambiarono occhiate disperate.
Poi Heron ebbe un'idea e istruì Wichinskji nel metterla subito in pratica.
Aprì la tuta fino allo stomaco e sbottonò gli indumenti sottostanti, dopodiché
strappò la pistola dalla mano di Stefano, la consegnò a Wichinskji e gli impartì
l'ultima istruzione.
Al suo via, Heron e Wichinskji puntarono contemporaneamente le armi sul petto
nudo di Stefano, premendo la levetta rossa in modalità scarica elettrica. Il
corpo di Stefano sobbalzò in maniera impressionante, ma poi rigiacque a terra
immobile.
"Oddio, no!" mormorò Heron, disperato, accarezzando il volto dell'ormai amico.
"Dio? - ripeté Wichinskji, stupito di quell'invocazione - Anche tu credi in
Dio?....Credevi...".
"Lo sentivo nominare spesso. - rispose Heron, serio - Ci credevo, ma forse per
riflesso condizionato. O forse ci ho creduto sul serio".
"Allora è vero! - esclamò Wichinskji, quasi speranzoso - Dio è dovunque..... -
Era".
"Già. - commentò Heron, amaro - Era. Almeno qui da voi.... E da noi su Ariel".
"Forse in altri pianeti esiste ancora. - si auto-incoraggiò Wichinskji -
Bisognerebbe indagare".
"Hai ragione. - lo supportò Heron - Bisognerebbe. Ma sono troppo lontani anche
per noi. Pur essendo probabilmente più potenti dei vostri, i nostri strumenti
arrivano fino ad una certa distanza nell'universo. E non vanno oltre. Ma adesso
dobbiamo salvare quest'uomo. Ha una donna meravigliosa che lo aspetta. E deve
salvare la mia. Poi penseremo a cercare Dio da qualche parte. Se esiste ancora
un angolo dell'universo che ci crede. Forza, amico! Ritentiamo".
"Heron? - lo chiamò Wichinskji con fare timido - Ti chiami Heron, vero?".
"Si. - confermò l'alieno, sospettoso ma curioso di quella domanda - perché?".
"Il tuo cognome suona come un cognome di origine ebraica. - Wichinskji si fermò
rendendosi conto di parlare di qualcosa che, con tutta probabilità, l'uomo non
conosceva - Ah, non importa. - finì agitando una mano come per cancellare ciò
che aveva appena detto. In effetti, Heron non conosceva la religione ebraica.
Poi riprese - In ogni caso, se volete sapere qualcosa su quel che è successo
tanti anni fa, dovete andare a Roma, al Vaticano. Lì troverete le risposte".
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Capitolo 25 *** RISVEGLIO ***
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RISVEGLIO
Al Heron annuì e sorrise all'uomo.
"Grazie amico. - disse - Posso sapere il tuo nome?".
"Gregorji Wichinskji" rispose l'interrogato porgendo la mano destra con la
prospettiva di stringere la mano destra di Heron il quale esitò qualche secondo,
per poi imitare il gesto con convinzione, continuando a sorridere. La
rivelazione non aveva grande senso per lui, ma Heron intuì che doveva farne
tesoro e rivenderla subito al suo amico se fosse riuscito a rianimarlo. E tale
rivelazione contribuì a infondergli maggior impegno nel riportare Stefano in
vita. Insieme con Wichinskji, ritentarono la defibrillazione con le pistole e
solo alla quinta scarica, Stefano diede segno di essere ancora nel mondo dei
vivi con colpi di tosse da far temere ai due che sputasse veramente l'anima.
Stefano sentiva il petto ardere in modo atroce. Su tutta la superficie del
torace la pelle era viola e bruciava come il fuoco anche all'interno, sui
polmoni, rendendogli il respiro penoso. Tuttavia, aprì gli occhi e fissò Heron
come fosse un fantasma.
"Comandante.... - sussurrò - sei...vivo?".
"Ben tornato, .....- lo salutò Heron - capitano Aloisi!".
"Diavolo di un alieno. - borbottò Stefano - E' davvero difficile ammazzarti!".
Heron sorrise, divertito.
Non visto, spaventato dal baccano dei colpi che gli era pervenuto agli
auricolari, sceso a vedere cos'era successo e, vista la scena, il controllore
della torre se la diede a gambe scomparendo nella vicina foresta siberiana.
Grindewald
Ore 5 del mattino.
Lo smart watch di Annamaria si animò emettendo l'allegro scampanio di una
chiamata.
Ma la voce ansante di Stefano spense presto l'allegria del suono.
"Puoi prepararci un letto? - ansimò l'uomo - E magari uno straccio di colazione?
Stiamo tornando".
Annamaria ebbe la spiacevole sensazione che il cuore perdesse alcuni colpi.
"Siete...ancora tutti e due in un pezzo solo?" osò chiedere la donna,
augurandosi una risposta affermativa.
"Grosso modo, si" rispose Stefano con la voce di una tacca più sicura e ferma,
garantendo così ad Annamaria il loro stato in vita.
"Stefano... - lo interpellò lei, esitante, non conoscendo le loro reali
condizioni fisiche - che faccio? Vengo all'aeroporto o vi aspetto
all'ospedale?".
"Fai tu. - fu la criptica risposta del consorte - A tua discrezione".
"Ok. - si arrese Annamaria - Ho capito".
"Hey... - la richiamò Stefano più animato - Abbiamo la medicina".
Quella rivelazione aiutò Annamaria a prendere la decisione giusta.
I movimenti della madre in cucina svegliarono Flavia che scattò fuori dal letto
e si precipitò nella stanza dove Annamaria stava velocemente preparando la
caffettiera per la colazione.
"Papà?" chiese, ansimante. Annamaria fece segno affermativo.
"Stanno tornando" annunciò con un mezzo sorriso.
All'ospedale, allorché vide i due uomini che si reggevano l'un l'altro
avvicinarsi lentamente alla grande porta di vetro ed acciaio, non seppe se
ridere o piangere ma era sicura di essere felice di rivederli vivi. Una volta
all'interno, in una delle salette del pronto soccorso, si prese il tempo
sufficiente per constatare meglio le loro reali condizioni fisiche che non si
rivelarono gravi ma che, comunque, ripiegarono il suo programma verso un suo
intervento piuttosto immediato. Spogliati nella parte superiore del corpo,
entrambi ostentavano bruciature sulla pelle non belle alla vista, che stavano
convertendosi in grosse vesciche purulente all' apparenza anche dolorose al
tatto.
"Annamaria, - intervenne Stefano trattenendo deboli lamenti - non converrebbe
pensare subito a curare i colleghi del nostro amico? Noi stiamo abbastanza bene.
Possiamo aspettare". Ma terminò la frase stringendo i denti in una smorfia
intensa di dolore non appena Annamaria gli sfiorò il petto.
Lo sguardo fermo e sorprendentemente duro della donna, mentre cominciava ad
armeggiare con gli strumenti per le cure, tacitò l'uomo.
"Decido io cosa fare e la priorità degli interventi" sentenziò Annamaria,
rimanendo di marmo.
Dopo questa frase lapidaria, ambedue i feriti si scambiarono occhiate d'intesa,
non parlarono più e la lasciarono fare.
Annamaria medicò con cura le ustioni sui corpi dei due uomini, fasciò i loro
toraci con bende appropriate antiaderenti per evitare che si incollassero alle
bruciature, somministrò loro dosi calibrate di anti dolorifici, li invitò a
spostarsi in un'altra sala del nosocomio per liberare quella del pronto
soccorso, raccomandò di non muoversi troppo e riposarsi, dopodiché li salutò,
prese la confezione di farmaco che Stefano le porse e si spostò al reparto
ortopedico al fine di iniziare l'operazione saldatura fratture multiple dei
cinque membri componenti l'equipaggio della sfortunata astronave di Al Heron.
Il farmaco fu iniettato nei corpi attraverso lunghe e sottili sonde inserite
alla base del collo per la donna e alla schiena per gli altri quattro
infortunati. Conclusa la procedura, che durò svariati minuti, Annamaria trasse
un profondo sospiro. Al momento non restava altro che attendere l'esito di tale
terapia. Qualunque fosse stato, era, in ogni caso, valsa la pena tentare.
Dai suoi familiari, e dalla vita, Annamaria di Gennaro aveva appreso che nulla
doveva essere abbandonato al destino. Il destino non esisteva, o meglio: era un
mix fra le scelte operate dall'Uomo e una piccola percentuale di
imponderabilità. Ma molto piccola.
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Capitolo 26 *** ATTESE ***
Nuova pagina 2
ATTESE
Area 51
Attraverso i grandi schermi, accesi e operativi, Forrest e soci potevano
finalmente seguire tutto ciò che avveniva sulla superficie terrestre e
comunicare con qualche esemplare umano del pianeta che in quel momento fosse
disposto e disponibile a comunicare con loro.
Su uno schermo poterono assistere all'arrivo e discesa di un veicolo spaziale
che scaricò rottami in mezzo al deserto.
"Figli di puttana ! - gracchiò, rabbioso Forrest - Adesso vi faccio passare io
la voglia di trattare la Terra come una pattumiera! Dove sono i prigionieri?"
strillò alla fine.
"Li ha mandati a fare le pulizie, capo!" gli rammentò Hardings, al suo fianco.
"Ah, è vero" si ricordò Forrest, calmandosi un poco.
"Vuole che andiamo a cercarli e riportarli qui?" si offrì Edwards.
"Si, grazie. - rispose Forrest - Ho una missione importante per loro".
I due piloti eseguirono il saluto di rito e uscirono dalla sala comandi.
Base di Novosibirsk, Siberia
Gregorji Wichinskji si aggirò per la base e scoprì ben presto di essere rimasto
solo ma decise di non abbandonare il luogo. Qualcuno avrebbe dovuto restare ed
occuparsi di esso il minimo che sarebbe stato necessario per tenerlo in funzione
e non lasciarlo decadere.
Portò il corpo di Antonov all'esterno, somministrò una sorta di benedizione
inventata su due piedi e gli diede fuoco con l'accendino che teneva in tasca per
accendersi i sigari; intanto che c'era, si accese anche un sigaro, dopodiché
rientrò con l'intenzione di mettere un pò di ordine nel locale. Tuttavia,
richiamato da voci di cui non riuscì subito a capirne la provenienza, prima di
accingersi a cominciare i lavori, andò a dare un'occhiata ad uno degli schermi
che si trovava in una sala attigua a dove si era svolto lo scontro fra il suo
capo e i due visitatori e lo vide occupato dall'immagine di un uomo con capelli
molto corti, chiari e brizzolati che incorniciavano un viso simpatico ma
dall'aria risoluta. Oltre al volto si scorgeva anche il colletto di un'uniforme
militare. Attivò il sonoro per poterne ascoltare anche la voce.
Area 51
Nella sala comandi, uno schermo inquadrò un viso maschile dai capelli castani,
striati di grigio, ornato da un paio di folti ed importanti baffi anche questi
castani e brizzolati.
"Qui, base aerea Area 51, Stati Uniti d'America, o almeno, una volta era così. -
attaccò Forrest - Sono il comandante Steve Forrest; con chi ho il piacere di
parlare?".
"Qui base di Novosibirsk, Siberia. - rispose Wichinskji ben disposto a parlare -
Ed è ancora così per adesso. Sono Gregorji Wichinskji, unico superstite di
questo avamposto...Salve comandante Steve Forrest. Sono felice di trovare
qualcuno con cui scambiare due parole....- Nella sala comando dell'Area 51scese
un silenzio di ghiaccio in cui a Forrest sembrò che il cuore si fermasse.
Ricordò infatti di aver lasciato i due visitatori: l'italiano Aloisi e l'alieno
dalla pelle bianca, partiti proprio per la località all'altro capo del globo, ed
ebbe paura a chiedere notizie dei due. - Un uomo molto alto e robusto e l'altro
un pò più basso, più magro e con la pelle molto chiara?" chiese conferma il
tizio sullo schermo.
"S....si" balbettò quasi Forrest, temendo fortemente una risposta negativa.
"Se ne sono andati pochi minuti fa. - informò Wichinskji - Erano un poco
malmessi ma se ne sono andati con le loro gambe e il loro veicolo aereo. Credo
che fossero diretti in Svizzera".
Forrest tirò un sospiro di sollievo che ebbe l'intensità di un tornado.
"Ma perché?.... - chiese poi - Che è successo?".
"C'è stato uno scontro a fuoco. - rispose Wichinskji serio - E il nostro capo ha
avuto la peggio.... E' stato ucciso dall'uomo con la pelle chiara. Pare che il
nostro capo gli avesse ucciso il padre".
"Oh, porca vacca!" esclamò Forrest sinceramente stupito dalla notizia.
"Già. - commentò Wichinskji, ridacchiando letteralmente sotto i baffi - Bel tipo
ma tosto. Non ha avuto scrupoli a sparargli".
"Beh, - fece Forrest sospirando di nuovo - L'importante è che siano vivi. Mi
sarebbe dispiaciuto se fosse loro accaduto qualcosa di brutto. Erano simpatici".
"Può dirlo forte, comandante. - commentò Wichinskji continuando a sorridere -
Due esseri umani".
"Vero" convenne Forrest.
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Capitolo 27 *** RITORNO ALLA VITA ***
Nuova pagina 2
Chiedo venia ai lettori per averli fatti attendere così tanto tempo dalla
pubblicazione dell' ultimo capitolo in ordine cronologico di questa mia storia,
ma sono stata travolta da mille impegni che mi hanno impedito di proseguire la
narrazione.
Per
farmi perdonare ed agevolare la lettura del presente capitolo, scrivo un
riepilogo degli ultimi fatti.
Alla
base di Novosibirsk, in Siberia, è avvenuto un conflitto a fuoco in cui Heron e
Stefano sono rimasti feriti, ma non gravemente da non riuscire a tornare a casa
con le loro gambe, mentre Antonov, capo della base, è stato ucciso da Heron.
Il
presente capitolo inizia avvolto da un' atmosfera romantica, ma nuove insidie
aspettano i nostri personaggi.
Leggete e godete, se vi piace.
Grazie, se continuerete a leggere.
RITORNO ALLA VITA
Grindewald, alcuni
giorni dopo
Sebbene, da oltre un secolo, non si parlasse più di eventi soprannaturali, in
questo caso è possibile dire che Granya Addok, secondo ufficiale dell'
equipaggio della Prima Unità della Flotta Spaziale di Ariel, ebbe la netta
sensazione di uscire da un lungo e buio tunnel in fondo al quale brillava una
vivida luce bianca.
Avvertì il tocco leggero di una carezza sulla guancia.
Aprì gli occhi e lo vide accanto a lei, vide il comandante Al Heron sempre
bello, luminoso, sorridente, con i suoi occhi blu retroilluminati.
Al Heron uscì invece da una sorta di galleria che avrebbe ricordato quella di un
parco-giochi, piena di immagini ed effetti speciali accavallantisi l' uno dopo
l'altro, in alcuni istanti fondendosi l' uno dentro l'altro. Solo che le
immagini erano drammatiche e cruente. Uomini armati di strumenti rozzi come
fruste o catene seviziavano barbaramente loro simili, in particolare uno, il
quale, oltretutto, trasportava una pesante croce su una spalla ormai consumata
fino all' osso alla lettera dallo sfregamento del legno su piaghe sanguinanti.
Si svegliò di colpo, spalancò gli occhi e saltò seduto sul letto, ansante e
sudato.
L'ufficiale Addok gli apparve in fondo al letto, in piedi, in calzoni celesti e
maglietta bianca a maniche corte, immobile, sorridente, luminosa come un sogno,
mentre lo fissava dolcissima, con i suoi grandi e lunghi occhi neri iridescenti.
Sorrise anche Heron, sbalordito, e provò ad alzarsi dal letto. Una volta in
piedi, ebbe un leggero capogiro che lo obbligò ad appoggiarsi al primo sostegno
a disposizione, ma durò un istante e fu subito dopo in grado di stare in
posizione eretta. Mosse qualche passo verso di lei, lei gli andò incontro e...
si abbracciarono, stretti l'uno contro l'altro.
Quando Annamaria entrò nella stanza per effettuare la visita di controllo, li
trovò così e rimase bloccata, esterrefatta, sentendo gli occhi cominciare a
pizzicarle di lacrime di commozione, notando oltretutto le guance magre e chiare
di Heron luccicanti di lacrime alla luce del giorno che entrava nella stanza
dalla finestra. Non osò compiere altri passi e si godette la scena, non
riuscendo nemmeno lei a frenare le lacrime che le scendevano da sole sulle
guance.
Anche Stefano, svegliatosi in quel momento, si sedette sul letto, rimanendo in
silenzio a gustarsi quegli attimi, sforzandosi mascolinamente di non commuoversi
pure lui. Marito e moglie si strinsero le mani, poi Stefano accostò Annamaria a
sé, abbracciandola per le spalle continuando a fissare i due innamorati stretti
in quell'abbraccio emozionantissimo.
Anche su Ariel si usava così.
L'universo, in fondo, era piccolo.
Il farmaco aveva funzionato.
Creata da un medico dimenticato in un ospedale psichiatrico nascosto chissà dove
in un angolo sperduto dell'ex impero sovietico nell'era della Guerra Fredda, la
miscela di calcio, silicio e resina di betulla, iniettata sulle fratture, le
aveva saldate nel giro di una decina di giorni avvolgendole in una specie di
schiuma che, assorbita dal tessuto osseo, aveva lentamente, ma non troppo,
chiuso le crepe prodotte in esso dai gravi colpi ricevuti al momento
dell'impatto nel violentissimo atterraggio dell'astronave sul suolo montuoso del
nostro pianeta.
Annamaria decretò che era valsa la pena provare quella cura.
Il meraviglioso risultato era adesso sotto i loro occhi.
Nel quarto d'ora successivo, molti pazienti circolanti nel paraggi si fermarono
sulla soglia della stanza a guardare, senza parlare, i due innamorati
abbracciati, e mancò poco che si fosse dovuto chiamare i pompieri per
allagamento dei locali. Tutti piangevano di commozione e si abbracciarono:
uomini e donne, solo uomini e solo donne.
Da commovente, la scena divenne quasi comica.
Verso le nove e mezzo del mattino, fu distribuita la colazione e nel corso della
seguente mezz'ora, nella stanza entrarono anche gli altri quattro membri
dell'equipaggio di Heron, in un tripudio di applausi riservati a loro e ad
Annamaria.
Ma l' idillio durò poco.
Furtivamente, l'ufficiale Ollen si avvicinò ad un carrello piazzato vicino al
letto di Heron, che ospitava il vassoio su cui erano radunate le vettovaglie del
pasto e, afferrato un coltello, si mosse verso Heron con l'intento di colpirlo
alla schiena, passandosi la posata dalla mano destra alla sinistra. Stefano se
ne accorse, afferrò anche lui un coltello dal vassoio sul carrello accanto al
suo letto e lo lanciò contro l'uomo, centrandolo fra il petto e la spalla.
Tutti gridarono dallo spavento.
Dopo un balzo all'indietro, Ollen stramazzò a terra, in un primo istante non si
capì subito se morto o no, rimanendo comunque immobile in terra. Staccatosi
ormai dalla donna, Heron s'inginocchiò a fianco del collega colpito per
verificarne la condizione.
Nella sala scese un silenzio sepolcrale che gelò il sangue nelle vene del
sindaco di Grindewald, soprattutto dopo, allorché il comandante di Ariel si alzò
e fissò Stefano con i suoi occhi blu divenuti improvvisamente due lame di
ghiaccio..
Nonostante la stazza, Stefano si sentì minuscolo e provò il desiderio di
seppellirsi nel primo tombino che avesse trovato.
"Non....volevo! - mormorò, tirandosi i capelli indietro con una mano - Ma ho
visto che...".
"No. - lo interruppe Heron il cui sguardo non aveva tuttavia ombra di rimprovero
- Grazie, capitano Aloisi, per avermi salvato la vita".
Partì un altro fragoroso applauso tutto dedicato a lui.
"Figùrati, comandante Heron. - replicò Stefano, sospirando di sollievo - Ti ho
ricambiato il favore".
Heron si staccò definitivamente dall'ufficiale Addok e si atteggiò ad uno che
fosse intenzionato ad iniziare un discorso importante. Ed in effetti, così fu.
"Una decina di anni fa, - attaccò il comandante alieno, con aria grave - a bordo
di una delle astronavi della Flotta Spaziale di Ariel, durante un viaggio
interstellare, due uomini dell'equipaggio cominciarono a discutere a causa di
una donna. Entrambi ne erano innamorati e la discussione si trasformò ben presto
in alterco, quindi in scontro fisico. E nessuno dei due, ma neppure gli altri
membri dell'equipaggio, distratti dal litigio e dal duello, si avvidero che un
grosso meteorite stava avvicinandosi a grande velocità verso l'apparecchio. Il
meteorite centrò in pieno l'astronave e la distrusse. L'impatto provocò la morte
dell'intero equipaggio. Dieci persone morirono incenerite nell'incidente. Da
quel giorno, e in seguito a quel terribile episodio, fu emanata una legge ferrea
che proibì, e proibisce tuttora, categoricamente, qualsiasi tipo di rapporto fra
i membri che non sia soltanto di lavoro. Questo per evitare che si verifichino
altri incidenti come quello che vi ho appena narrato. Ciò mi fa soffrire molto,
non lo nego. Amo l'ufficiale Addok ma.... solo sulla terraferma. A bordo di
un'astronave, ci scambiamo solo ordini e saluti convenzionali".
Di nuovo silenzio tombale per qualche secondo poi altro applauso che per poco
non fece crollare l'intera stanza, stavolta dedicato a Heron che si riavvicinò
alla donna abbracciandole le spalle e tirandola verso di sé.
Annamaria andò a controllare le condizioni del potenziale omicida. Il coltello
era conficcato piuttosto in profondità fra petto e spalla sinistra ma non aveva
colpito organi vitali importanti.
Con il cerca - persone chiamò il servizio paramedico per venire a prelevare il
ferito, privo di sensi, attese che arrivasse qualcuno e, una volta arrivato,
seguì la barella fuori nel corridoio.
Verso le undici, nella stanza dove Stefano ed Heron riposavano, piombarono come
bolidi tre dei quattro figli di Stefano, capitanati dalla maggiore, Flavia, i
quali, a turno, abbracciarono il padre sotto gli occhi divertiti di Heron e
l'ufficiale Addok.
Flavia fissò per qualche istante l'alieno e ne rimase affascinata.
Scomparso il velo triste dal suo volto e dai suoi occhi, l'extraterrestre pareva
brillare di luce propria; splendido, avvolto dall'alone dell'amore ritrovato, le
sorrise tenendo sempre la sua donna vicino, che sorrise anche lei alla
ragazzina. I due maschietti: Federico e Giulio sorrisero all'ufficiale Addok
trovandola bellissima. E lei ricambiò, imbambolando i due bambini che restarono
incantati finché Stefano, vista la scena, non schioccò le dita riportando i
figli nel mondo reale.
"Papà, quando torni a casa?" chiese Flavia,tutta eccitata.
"Quando lo deciderà la mamma" rispose Stefano, con filosofia.
"Ma stai meglio, vero?" chiese Federico.
"Si. - lo rassicurò Stefano - Molto meglio".
Dopo la visita dei figli, Stefano ricevette numerose visite da parte dei suoi
concittadini sia italiani che tedeschi.
"Sei amato, capitano Aloisi" commentò Heron, sempre divertito.
"Pare di si" minimizzò Stefano, apparendo discretamente soddisfatto, pur se, nel
suo io più recondito,, lo era davvero.
"Lo meriti. - sentenziò Heron Sei un grande. Tu e la tua donna siete grandi. Se
non fosse stato per voi, noi non saremmo qui, vivi".
Stefano sorrise.
"E' stato un piacere" rispose, con studiata modestia, fingendo di schernirsi.
Heron si staccò di nuovo da Granya Addok e si avvicinò, allargando le braccia,
al letto di colui che ormai considerava il suo amico terrestre. Stefano rimase
un attimo perplesso, poi capì. Si alzò anche lui dal letto e Heron lo abbracciò
con forza. Stefano ricambiò, all'inizio per accontentarlo, poi con maggior
convinzione.
E di nuovo, Annamaria capitò nella stanza proprio in quel frangente. Con la coda
dell'occhio destro Stefano vide la moglie smanettare con il suo smart watch.
"Oggi, 10 agosto 2114, giornata degli abbracci. - dettò Annamaria all'orologio -
Da oggi in poi, questo giorno sarà dedicato agli abbracci" .
Stefano, Heron e Addok risero.
Alcuni secondi dopo, fu il turno di Annamaria, che Heron abbracciò in modo
particolarmente energico.
E nel clima gaio di un amore ritrovato, nonché della linfa vitale che aveva
ripreso a scorrere nelle vene dei resuscitati grazie alle cure dello staff
dell'ospedale di Grindewald, nessuno si prese la pena di dare anche solo un
fuggevole sguardo ai monitors; nessuno si avvide del rischio mortale che il
pianeta Terra stava per correre ed affrontare.
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Capitolo 28 *** ATTACCO ALLA TERRA ? ***
Nuova pagina 2
Dov'eravamo rimasti?
Il
farmaco somministrato ai membri dell' equipaggio, gravemente feriti nell'
incidente con la loro astronave, ha funzionato, e i pazienti sono completamente
guariti. Ma uno di loro, anch' egli innamorato del secondo ufficiale Granya
Addok, compagna di Heron, tenta di uccidere il capitano, tentativo sventato da
Stefano che se ne accorge in tempo. C'è clima di festa all' ospedale di
Grindewald, ma un grosso pericolo incombe sulla Terra.
ATTACCO ALLA TERRA ?
Area 51
Weaver non credette ai suoi occhi.
Ora che il telescopio aveva ripreso a funzionare correttamente, le immagini che
arrivavano ai teleschermi erano molto varie e andavano dallo spazio alle distese
terrestri tristemente ricoperte d'immondizia, passando, talvolta, all'oceano e
ai centri abitati. Improvvisamente, tornarono allo spazio per inquadrare uno
stormo di veicoli che sembravano dirigersi verso la Terra.
"Che mi venga un colpo! - mormorò il giovane studioso, esterrefatto - Da dove
escono quelle astronavi?" e chiamò Forrest il quale fissò lo schermo, allibito.
"Che accidenti succede?" esclamò.
"E' quello che mi sto chiedendo anch'io" si unì Weaver, sconcertato.
"Porca puttana! - imprecò Forrest - Stanno puntando decisamente verso la Terra e
non mi pare proprio che vogliano venire per il tè. Dobbiamo avvertire l'italiano
e l'alieno! Prova a contattarli!".
Weaver attaccò a smanettare sulla tastiera. Ed in effetti, lo stormo non
sembrava manifestare intenzioni amichevoli. I musi lunghi, affusolati dei
velivoli avevano l' aspetto e davano l' idea di sfondare l'atmosfera, ma anche
la superficie del pianeta.
Grindewald, Svizzera,
ospedale
Sul suo smart watch, Annamaria si avvide di un segnale di comunicazione esterna
e attivò il programma. Pochi secondi dopo le giunse uno strano ed inquietante
messaggio che la invitava a guardare un qualsiasi schermo acceso. La dottoressa
si trovava nella sala terapia intensiva dell'ospedale di Grindewald dove aveva
ricoverato il collega ferito del comandante Heron e ne uscì qualche minuto per
raggiungere il suo studio nel quale ricordava di aver lasciato acceso il
computer.
Entrò e si avvicinò allo strumento informatico per dare un'occhiata al monitor
dove, dopo pochi secondi scomparve il salva schermo sostituito da un'immagine
che inquadrava lo spazio, riempito da una nidiata di veicoli in rapido movimento
verso il pianeta.
Fissò il filmato, rapita, ma anche allarmata dallo spettacolo, quindi cercò,
affannata, di mettersi in contatto col mittente che le aveva inviato il
messaggio. Lo trovò, realizzando che proveniva dagli Stati Uniti. Armeggiando
ancora sullo smart, lo individuò e lo identificò.
Era Forrest.
Lo interpellò.
"Ha visto?" le chiese il comandante americano.
"Affermativo. - rispose Annamaria in perfetto codice militaresco - Che sta
succedendo?".
"Stiamo cercando di capirlo anche noi, - rispose Forrest - ma la prego .... se
il capitano Aloisi e il suo amico extraterrestre sono nei paraggi, li avverta
subito e li inviti a guardare. Forse loro sono in grado di capirlo meglio di
noi".
Annamaria corse nella stanza dove suo marito Stefano ed il comandante Heron, con
il suo equipaggio rimessosi in forze, festeggiavano ancora il miracolo della
guarigione e si avvicinò al consorte per condividere con lui il messaggio appena
ricevuto. Nel vedere Stefano sbiancare e diventare di colpo serissimo, Heron si
pose sull'attenti e all'erta, domandando, apprensivo di seguirli. Stefano
acconsentì ed Heron fu seguìto a sua volta dall'ufficiale Addok che non aveva
più intenzione di mollare il suo amato. Tutti insieme seguirono Annamaria nel
suo studio e, non appena entrarono, senza bisogno di altro invito, Stefano e
l'alieno si diressero verso il computer e lo schermo acceso.
Nel vedere la scena inquadrata sul monitor, l'incarnato dell'extraterrestre
tornò al suo colore bianco - grigio alabastro.
"Oh no! - mormorò l'uomo, costernato - Il CLAN!!" e nel dirlo, strinse a sé
Addok che gli rivolse un'occhiata disperata.
Stefano gli chiese spiegazioni..
"Sono criminali che provengono da vari pianeti della galassia. - rispose Heron,
teso - Compreso il nostro Ariel. Sono i più sfortunati. Rinnegati, reietti. Ma
hanno trovato la loro rivincita col traffico della spazzatura. Solo che per
quella, uccidono senza porsi domande. E senza porle alle loro vittime".
"Che facciamo, allora?" domandò Stefano alla fine della spiegazione, realmente
preoccupato.
"Avete armi?" chiese Heron, pallidissimo.
"Non lo so. - rispose Stefano - Qui a Grindewald non credo".
Heron chiuse gli occhi, sentendosi sudar freddo.
"Comandante, - gli si rivolse Annamaria, allarmata - Stiamo per subire un
attacco dallo spazio?".
"Così sembra. - rispose l'alieno - In ogni caso, quelle astronavi vanno
distrutte. E' gente pericolosa, Non ci pensano molto prima di uccidere. Bisogna
combatterli ad ogni costo".
Annamaria guardò implorante Stefano.
"Non preoccuparti - cercò di rassicurarla l'uomo stringendole le spalle - In
qualche modo risolveremo la situazione".
All'interno dello smart watch di Annamaria, Forrest gracchiò qualche parola e
Stefano afferrò il polso della moglie per rispondergli rivendendogli ciò che
l'alieno gli aveva rivelato.
Altra imprecazione colorita dell'americano.
"Avete armi?" chiese Stefano al direttore dell'Area 51.
"Beh... - fece lui in tono vago - Vado a vedere in magazzino" e chiuse la
comunicazione.
Dall'umore alle stelle, Heron passò, se non proprio alla disperazione, di certo
ad un forte stato di ansia, sentendo addosso la responsabilità di aiutare chi
aveva aiutato lui, e non sapendo al momento come fare, non avendo a disposizione
nulla con cui far fronte al pericolo imminente. Si infilò le lunghe dita chiare
fra i capelli folti trasmettendo in silenzio la sua angoscia agli altri.
Stefano strinse le spalle anche a lui.
"Tranquillo, amico mio. - lo incoraggiò Stefano - In qualche modo faremo. In
qualche modo affronteremo l'attacco". Ma Heron era consapevole che con quei
nemici, i suoi amici terrestri avevano ben poche chances di uscirne vincitori.
In aggiunta, si sentì schiacciato da un pesante senso di colpa. Che fossero lì
per lui? Lui aveva distrutto l' astronave-madre del Clan uccidendo la "Cupola",
ma era conscio che ciò non dava la garanzia della conclusione definitiva con la
malavita organizzata. Nella Galassia le notizie circolavano e, pur non essendoci
più i capi, i gregari si erano riorganizzati eleggendo altri capi. E se erano lì
per lui, la Terra non avrebbe avuto futuro.
"Al, - lo chiamò dolcemente Addok - Non addossarti colpe che non hai. - respirò
a fondo - Non hai avuto altra scelta". Heron fissò il suo sguardo color cobalto
sulla sua compagna di viaggi, e lei ne colse la straripante amarezza . Heron
accarezzò i capelli scurissimi del secondo ufficiale, quindi si allontanò.
Con le sue grandi mani, il sindaco di Grindewald si ravviò i capelli portandoli
dietro la nuca.
Non poteva nascondere quella nuova realtà; non poteva non avvisare la
cittadinanza, ma come fare senza allarmarla? Dal clima gioioso, la sala passò ad
uno silenzioso e teso. Gli altri sembravano non aver capito bene la situazione
ma ne percepivano la gravità e si guardarono l'un l'altro.
"Ci sono dei problemi, signor sindaco?" chiese una donna tedesca.
"Si, - rispose Stefano, serio, riuscendo tuttavia a non buttarla
sull'eccessivamente drammatico - ma niente paura. Li risolveremo".
La sua stazza e la sua sicurezza parvero sortire un buon effetto sui presenti,
ma Stefano era sull' orlo del terrore puro.
Heron e Addok uscirono dalla stanza e si fermarono sul corridoio a qualche metro
da essa.
"Che facciamo?" chiese la donna, guardando supplichevole il suo uomo.
"Non lo so, Granya. - rispose Heron quasi disperato - Se questa gente non ha
armi, non avrà nemmeno speranze. Noi abbiamo perso tutto nell'incidente. E' un
miracolo se siamo tutti ancora vivi e adesso non possiamo far nulla per loro.
Neppure chiamare i nostri. Non ci sarebbe tempo per far arrivare rinforzi fin
qui ".
Addok abbracciò di nuovo Heron e il comandante la strinse forte contro il suo
corpo sentendo, in quel momento, di non poter far altro. Stefano uscì sul
corridoio e si commosse vedendo i due uniti in quel gesto tenero. E in un certo
senso, il gesto lo incoraggiò a tornare al suo posto per compiere il suo dovere.
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Capitolo 29 *** CONTRATTACCO ***
Nuova pagina 2
PREPARAZIONE AL CONTRATTACCO
Municipio, ufficio di
Stefano, qualche ora dopo
"Lo sapevo! - sbraitò Hartmann, un massiccio cittadino teutonico, alto quasi
quanto Stefano, biondo con gli occhi azzurri! - Non c'era da fidarsi! Dietro
quella faccia da angelo, l'alieno stava preparando un piano per attaccare il
nostro mondo, per invaderlo e conquistarlo! Altro che cercare solo l'uranio per
scaldarsi!".
"Sentiamo, signor Hartmann, - lo apostrofò Stefano - Secondo lei, cos'avrebbe
la Terra di tanto interessante e appetibile da suscitare ad un extraterrestre la
voglia di invadere e possedere un pianeta? Come il nostro, per giunta?".
"Non saprei. - rispose il tedesco smorzando un tantino l'alterigia iniziale - Ma
è pur sempre un estraneo ...., uno straniero !! E poi, ... non dimentichiamoci
che se lui e i suoi amichetti sono arrivati fin qui è perché loro sono molto più
tecnologicamente avanzati di noi. Noi non siamo ancora riusciti neanche ad
arrivare su Marte e forse non ci arriveremo mai!".
"Appunto per questo, mio caro Hartmann, - ribattè Stefano, sicuro - Cosa se ne
farebbero di un pianeta retrogrado come il nostro? Lei cosa se ne farebbe?
Personalmente io lo ignorerei, andando a cercare qualcosa di più ...
sostanzioso!".
Gli altri concittadini del sindaco uscirono dalla stanza, mesti ed ansiosi.
Benché Stefano fosse stato in qualche modo in grado di tranquillizzare la sua
gente, i Grindewaldesi erano ora informati e consapevoli di un grave pericolo
imminente mai provato fino a quel momento.
Spazio
La flotta, composta da una ventina di astronavi, procedeva solenne verso la
Terra a velocità molto elevata, ma regolare.
Troppo regolare!
Grindewald, interno
ospedale
Con lo sguardo incollato allo schermo, Heron se ne accorse.
Si accorse che qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto.
Le astronavi si muovevano in gruppo, a cuneo, conservando la stessa distanza l'
una dall' altra, come fossero telecomandate. Come se non fossero guidate da
mente e mani umane.
Era successo qualcosa. A bordo dei veicoli, o della nave madre, era successo
qualcosa di grave.
Forse un guasto. O era avvenuto un ammutinamento. In ogni caso quei velivoli non
erano pilotati da umani. E ciò rendeva il pericolo in corso, altissimo.
Venti proiettili inarrestabili stavano per colpire l'unico pianeta del Sistema
solare dotato di requisiti atti alla vita.
Isole Svalbard,
Groenlandia
L'immagine si materializzò anche sui monitors di quell'angolo gelato, sperduto
fra i ghiacci polari.
"Ma che diamine... " esclamò Lasström seguendo il movimento dei veicoli.
"Ci stanno arrivando addosso!" esclamò Jansen, sgomento, dalla sua postazione,
fissando il filmato.
"Sembra un attacco astronavale in piena regola!" commentò Nielsen, quasi
ironica.
"Sono i cattivi?" domandò Jansen, con sarcasmo
"Certo - confermò Lasström - Quelli della spazzatura. - si stropicciò le mani
- Fantastico! Finalmente ci divertiremo".
"Forse non è così divertente come sembra. - obiettò Jansen, un filo allarmato -
Non si fermano. Paiono decisi a centrarci".
Lasström aumentò la concentrazione sul filmato.
E captò anche lui l' anomalia.
"Accidenti! - esclamò a mezza voce - Hai ragione! Non pare siano guidati dall'
uomo. Sembra che viaggino con il pilota automatico".
"Questo non ci permette di comunicare con l' equipaggio" osservò Nielsen,
costernata.
"Se c'è un equipaggio" aggiunse Jansen, amaro.
"Beh, - fece Lasström, rimanendo piuttosto freddo e controllato - Abbiamo di che
fermarli noi. - posò gli occhiali sul tavolo di vetro, si alzò e sospirò - Ok.
Tutti ai posti di combattimento. Almeno passeremo qualche ora in modo diverso".
"Capo .... " lo interpellò Jansen in tono calmo.
"Si?" fece Lasström mantenendo il suo atteggiamento rilassato e un tantino
altezzoso.
"Si ricorda cosa abbiamo fatto?" proseguì Jansen.
"Certo, Jansen. - rispose Lasström, tranquillo - Ma evidentemente ora è arrivato
il momento giusto per ripristinare le cose com'erano una volta".
Jansen annuì con la testa, senza profferire parola.
Area 51
"Le batterie sono a posto?" chiese Forrest a Edwards e Hardings.
"Si, capo. - rispose Hardings facendo il saluto militare - E' tutto a posto".
"Bene. - approvò Forrest, soddisfatto. - Vediamo chi la spunterà".
Base di Novosibirsk,
Siberia
Anche Gregorj Wichinskji era stato avvertito ed aveva visto tutto.
Era rimasto solo ma non si perse d'animo.
Il sottosuolo dell'intera Siberia era un arsenale di ogni tipo di armi.
Sarebbe stato sufficiente premere un tasto sul computer e di quei veicoli non
sarebbe rimasto che polvere d'acciaio o di qualunque materiale con cui essi
fossero stati fabbricati.
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Capitolo 30 *** LA TERRA SI SALVERA'? ***
Nuova pagina 2
CONTRATTACCO
Grindewald, Svizzera.
Interno ospedale
Heron e l'ufficiale in seconda, Addok, continuavano a seguire, sullo schermo del
computer, lo stormo di astronavi che si avvicinavano sempre di più, e sempre
più rapidamente al nostro pianeta. E più si appropinquavano, più intenso ed
angosciante diveniva il sospetto di Heron che nessuna mano - e mente - umana -
esercitassero guida su quei velivoli.
Erano bombe innescate contro la Terra.
I due piloti extraterrestri si scambiarono occhiate preoccupatissime, in
assoluto silenzio.
"Sinceramente, - dichiarò Annamaria, sgomenta, seguendo anche lei ciò che si
vedeva sul monitor - non pensavo di finire così i miei giorni!".
"Anche i nostri. - si aggregò Heron, triste ed amaro - Lontano dal nostro mondo,
senza la possibilità di tornarci mai più".
Annamaria domandò a Heron il favore di chiamare il marito ed i figli per poter
almeno terminare la vita, abbracciata a Stefano e ai suoi ragazzi. Permesso
ovviamente accordato da parte del comandante che, dal canto suo, tornò a
stringere a sé l'ufficiale Addok e chiamò gli altri membri del suo equipaggio,
attraverso un interfono gentilmente messo a disposizione dalla dottoressa,
affinché potessero raggiungerlo nella stanza ed unirsi a loro due.
Quando, ad un certo momento, accadde l'impensabile!
Sul monitor l'immagine cambiò, sostituita da una che raffigurava un'enorme mappa
sulla quale, in vari punti del pianeta, i tre videro formarsi velocemente lunghe
scie rosse che partivano da essi dirigendosi verso un' unica meta.
"Missili!" sussurrò Annamaria, incredula.
"Allora, avete armi!" constatò Heron, quasi felice.
"Evidentemente, si!" commentò Annamaria, anche lei sorpresa da quello
spettacolo, incapace di domare quel pizzico di ironia che talvolta le usciva
pure nelle situazioni più drammatiche.
Ma anche Heron sfoderò una bella performance ironica che spiazzò la moglie del
sindaco di Grindewald.
"Bisognerebbe avvertire chi ha lanciato quei missili .... - cominciò - di
lasciare almeno una delle astronavi intere .... - Annamaria scrutò Heron,
perplessa. - Ci servirebbe per tornare a casa!" finì il comandante, torcendo la
bella bocca in un mezzo sorriso.
Annamaria capì al volo, sorrise, poi scoppiò in una breve risata.
"Ha ragione, comandante!"
Anche Addok rise.
"E' vero, Alàm, - considerò. Annamaria scoccò un'occhiata interrogativa ad Heron
e Addok si affrettò a spiegare - E' il suo vero nome per intero. - proseguì
sorridendo - Alàm Heròn, con l'accento anche sulla "o" del cognome. Nella
lingua del nostro pianeta, il suo nome vuol dire: << il buon grande eroe>> "
concluse con il suo sorriso radioso.
Heron annuì, ma con aria mesta.
"Peccato che in questo momento - disse - tutto mi senta tranne che un eroe!".
"Lo sei, Alàm! - lo confortò Addok , accarezzandolo sul viso - Non saremmo qui,
tutti vivi senza il tuo aiuto".
"Non saremmo qui, tutti vivi, - ripeté Heron, serio - senza l'aiuto di questa
donna" volle correggere Heron, indicando Annamaria.
"Grazie" disse semplicemente Addok, prendendo una mano della dottoressa e
stringendola fra le sue, scure, dalle bellissime dita lunghe. Annamaria si
limitò a sorridere, restando in silenzio, sentendo tuttavia gli occhi pizzicare
ed inumidirsi di lacrime.
"Abbiamo solo fatto il nostro lavoro. - minimizzò - Che è quello di salvare
vite. Se è possibile. Finché lo è. - Il suo cerca-persone trillò avvisandola
della necessità di un suo intervento. Si scusò e uscì dal suo studio. -
Continuate a seguire la faccenda. - si raccomandò sulla porta, prima di
allontanarsi - E tenetemi aggiornata" finì, strizzando l'occhio destro e
chiudendo l'uscio.
Heron e Addok furono raggiunti dal resto dell'equipaggio e tutti insieme si
assieparono attorno al computer per seguire ciò che sarebbe avvenuto di lì a
pochi minuti o, al massimo poche ore.
Annamaria entrò nella sala terapia intensiva nella quale fu accolta dal sinistro
e raggelante fischio dell'apparecchiatura salva-vita troneggiante accanto al
letto in cui era steso l'ufficiale Ollen, sul cui schermo nero le linee gialla e
blu dell'elettroencefalogramma e dell'elettrocardiogramma scorrevano parallele,
veloci e completamente piatte. Fu poi travolta da un paramedico donna,
agitatissima, che la trascinò vicino al letto dell'uomo, incapace tuttavia di
spiegare chiaramente cosa fosse accaduto. Ogni traccia di vita pareva essere
scomparsa dal corpo del paziente. Annamaria volle effettuare un controllo
manuale, ma polsi e cuore non battevano più. L'uomo era morto e, in un primo
momento, la dottoressa non capì come e perché, sapendo e avendo potuto
constatare precedentemente la non eccessiva gravità della ferita inferta da
Stefano con il lancio del coltello.
L'infermiera si affannò a giustificarsi asserendo che non aveva mai perso la
sorveglianza sull'uomo e che in nessun modo avrebbe lasciato il suo posto, ma
Annamaria intuì molto presto che la morte di Ollen non era da imputare alla
eventuale negligenza della giovane operatrice sanitaria. E lo capì notando un
paio di particolari che non lasciavano molti dubbi sulla causa e sulla modalità
in cui l'uomo era deceduto.
Due tubicini si erano staccati dall'apparecchiatura che lo aveva tenuto in vita
fino a poco tempo prima. Ma non si erano staccati da soli. Qualcuno li aveva
staccati e lo aveva fatto maldestramente, con mano poco ferma. In poche parole,
Ollen si era tolto la vita. Si era suicidato. Annamaria aveva capito come
era morto ma non ancora perché e si propose di domandarlo al comandante
Heron.
Raggiunte da un nugolo di missili somigliante ad uno sciame di insetti, le
astronavi che stavano giungendo sulla Terra a velocità pazzesca, senza
controllo, furono letteralmente polverizzate, illuminando a giorno il nero della
notte siderale appena sopra la calotta dell'atmosfera.
In molti, col cuore in gola dopo essere stati informati ed avvertiti del
pericolo che il pianeta stava per correre, seguirono l'operazione sugli schermi
di tutto il mondo, rimanendo col fiato sospeso al momento dell'impatto. Lo
spettacolo che seguì fu ancora più impressionante dello scoppio di migliaia di
batterie di fuochi artificiali, se non addirittura di ordigni atomici
Il contrattacco aereo, partito da tre basi terrestri, ebbe pieno successo e i
veicoli spaziali furono distrutti prima del loro ingresso nell'atmosfera. Gli
abitanti del pianeta tirarono un sospiro di sollievo per il pericolo scampato, i
cinque visitatori involontari Arieliani, specialmente il comandante Heron, non
furono altrettanto felici e si scambiarono occhiate di preoccupazione.
Heron, infatti, aveva sperato che almeno una di quelle astronavi si fosse
salvata da poter essere recuperata ed utilizzata per il ritorno su Ariel, ma si
rese conto che un suo eventuale salvataggio avrebbe potuto essere un rischio per
il pianeta che li stava ospitando.
Poi, però, improvvisamente rammentò qualcosa che avrebbe potuto risolvere la
loro situazione.
Stava invitando i suoi colleghi a seguirlo quando Annamaria irruppe nel suo
studio, con un'espressione piuttosto turbata sul volto, e lo sguardo duro,
rivolto verso di lui. Si allarmò e le chiese, apprensivo, cosa fosse successo.
Annamaria glielo riferì e lo vide abbassare testa e sguardo.
Addok sospirò e si apprestò a spiegare.
"L'ufficiale Ollen ha tentato di uccidere il comandante della sua unità -
cominciò, serissima - e, secondo le leggi della Federazione, questo è un atto
molto grave che comporta, purtroppo, la condanna capitale e.... a tale pena è
preferibile darsi la morte prima".
Heron annuì mestamente.
"Si, dottoressa Annamaria. - tenne a confermare - Ollen non è il primo a
scegliere di morire piuttosto che affrontare la pena".
"Capisco. - asserì Annamaria - Non voglio sapere che pena sia e non intendevo
accusarla di nulla, comandante. E' solo che... - si fermò ed esibì un debole
sorriso - Accidenti, ma non siete un po' troppo duri voi di Ariel?".
Heron e Addok sorrisero, dopodiché la donna si girò verso il comandante.
"Al, - lo interpellò con solennità - al prossimo congresso della Federazione,
dobbiamo far presente che si sta esagerando".
"Non sarà facile. - commentò Heron - Ma ci proveremo".
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Capitolo 31 *** PREPARATIVI PER IL RIENTRO ***
Nuova pagina 2
PREPARATIVI PER IL RITORNO A CASA
Grindewald
Heron continuava a fissare, avvilito, lo schermo del computer.
Nessuna delle astronavi che avevano attaccato la Terra era arrivata sana al
suolo. Il pezzo più grande della più integra era di dimensioni pari ad un
fazzoletto.
Yarus, un altro giovane ufficiale della Flotta, si avvicinò a lui.
"Comandante, - gli si rivolse in tono educato ma non sottomesso - come torniamo
su Ariel?".
Il comandante sospirò.
"Non certamente con le ali. - rispose calmo, non rinunciando allo scherzo -
Sarebbe molto faticoso e impiegheremmo molto tempo . - si fermò e scoccò
un'occhiata divertita - Troveremo un modo, ufficiale Yarus. - - Forse ho
un'idea".
"La gente di questo pianeta potrebbe aiutarci?" domandò ancora Yarus.
"Potrebbe, amico mio. - rispose Heron - E forse lo farà".
Heron stava elaborando un pensiero. O meglio... dopo averlo ripreso, lo stava
rielaborando.
Gli era tornato in mente un dettaglio.
A destra in basso del monitor comparve una piccola icona e subito dopo lo
schermo fu quasi totalmente riempito dall'immagine di un interno conosciuto, al
centro del quale si materializzò un volto, anche questo noto.
"Chi erano quelli che volevano attaccarci, comandante Heron? - chiese Forrest,
adirato ma non troppo - Ne sa niente lei? - Heron sorrise.
"Criminali dello spazio" rispose, faceto
"Buon Dio! - esclamò Forrest - Neppure lo spazio si salva dalla delinquenza?".
"Purtroppo no" commentò Heron, amaro.
"E volevano attaccare il nostro pianeta?" chiese Forrest, perplesso.
"Attaccarlo ed inondarlo ulteriormente di spazzatura cosmica" rispose Heron, ora
serio.
Forrest alzò le sopracciglia.
"Oh! - fece, sinceramente stupito - Cavolo!".
Heron si congratulò con lui per l'azione di difesa/attacco intrapresa per
risolvere la faccenda. L'americano ringraziò, gongolante, quindi fissò
l'extraterrestre con preoccupazione chiedendogli perché lo vedesse turbato.
Quando Heron gli illustrò il motivo della sua apprensione, condendolo con un
pizzico di umorismo, Forrest sorrise apertamente - Amico, ricordi cosa ti ho
fatto vedere alla base?" domandò, allegro.
Ecco! Era proprio questo che Heron ricordava. Forrest aveva invitato lui e
Stefano a vedere cosa la base Area 51 custodiva nei suoi sotterranei. E fra gli
oggetti interessanti c'era anche un'astronave costruita con i detriti lasciati
sulla superficie della Terra. Non dava completo affidamento ma con qualche
ritocco avrebbe potuto ugualmente essere utilizzata. Lui era abile in questo
genere di interventi.
"D'accordo, capitano Forrest. - rispose - Allora forse ci rivediamo presto".
Forrest controrispose con un sorriso accattivante e la comunicazione venne
temporaneamente chiusa. Si girò e vide Weaver immobile davanti ad un monitor, ma
con lo sguardo perso oltre esso, le sopracciglia aggrottate ed un'espressione
alquanto perplessa.
"Qualcosa non va, collega?" gli domandò, un filo apprensivo.
Weaver si voltò verso di lui, come ridestato da un sogno e lo invitò ad
avvicinarsi avvisandolo di volergli mostrare qualcosa. Uno dei monitor a parete
fu nuovamente riempito con la mappa del mondo qualche attimo prima del lancio
dei missili contro le astronavi extraterrestri e Weaver, usando una penna
elettronica, indicò al suo capo i punti da cui erano partiti i razzi. Erano tre:
Nevada, Siberia e.... Polo Nord, per la precisione: un'isola delle Svalbard,
sopra la Groenlandia.
I due si scambiarono occhiate di stupore e dubbio e lo spazio fra di loro, e
tutto intorno a loro, si riempì di meraviglia e punti interrogativi. Sul
momento, non ci avevano fatto caso, impegnati come'erano stati nel seguire
l'attacco agli...attaccanti alla Terra, ma ora che avevano visto, e ci
pensavano, la cosa apparve davvero strana e singolare.
"Ne sa qualcosa, capo?" chiese Weaver.
"No" rispose Forrest, sconsolato.
"Vuole che indaghi?" incalzò il giovane scienziato.
"Indaghi, Weaver. - lo esortò Forrest - Indaghi pure". Si allontanò da lui, poi
si fermò e si voltò, guardando il giovane scienziato. Weaver gli lanciò
un'occhiata interrogativa.
"Vuole dirmi altro?" chiese.
"Sì. - rispose Forrest, con aria risoluta - Se per caso le sue indagini
approdassero ad un risultato, trovasse i nostri ignoti benefattori e riuscisse a
comunicare con loro.... - fece una pausa studiata - li ringrazi per la
collaborazione".
"Non mancherò di farlo, comandante!" rispose Weaver con tono seriamente
scherzoso.
Area 51, alcuni
giorni dopo
L'astronave era pronta per la partenza e per affrontare un lungo viaggio
spaziale, intergalattico.
Heron, Addok e gli altri componenti dell'equipaggio avevano lavorato sodo per
apportare tutte le dovute modifiche atte ad adattare il veicolo a lunghi
tragitti, compresa l'installazione delle celle ad animazione sospesa che avrebbe
salvaguardato i corpi degli uomini e delle donne dagli effetti del tempo.
Tutti erano stanchi ma felici.
Tutti, tranne Heron e Addok.
Per loro tornare su Ariel avrebbe significato tornare a guardarsi da lontano,
rinunciando anche a quegli scarsi contatti fisici che concretizzavano il loro
amore. Ma Heron era consapevole che bisognava tornare a casa per poter portare
il "cibo" che alimentava gli impianti il cui scopo era continuare a dar vita al
pianeta, dunque, era ora di rientrare alla base.
Erano scesi sulla Terra per procurarsi l'uranio, invece, il comandante aveva
maturato un'altra idea e, prima di lasciare quel pianeta, l'avrebbe messa in
pratica.
La partenza fu stabilita proprio all'Area 51, indubbiamente più adatta,
soprattutto in fatto di spazio per decollare, rispetto alla scarsa ampiezza
della piccola valle svizzera.
I mezzi tecnologici più potenti, nonché il collegamento più diretto ai satelliti
ed al telescopio di Arecibo che l'Area 51 vantava nei confronti di una
postazione più piccola e privata, permisero ad Heron di stabilire un contatto
con Ariel. Il volto incorniciato dalla folta capigliatura candida del suo saggio
amico Adoniesis occupò il monitor.
"Ciao figliolo. - lo salutò l'uomo, sorridendo - come stai? Come va sulla Terra?
Penso bene se ti stai attardando a tornare".
"Stiamo per tornare, Adoniesis" annunciò Heron accennando un sorriso, non però
molto aperto.
Il sorriso di Adoniesis, invece, si allargò maggiormente.
"Bene! - esclamò l'uomo, visibilmente contento - Non vedo l'ora di
riabbracciarti. - poi si bloccò, aggrottando la fronte - Un momento..... -
aggiunse - stiamo?".
"Sì, amico mio. - annunciò Heron, stavolta più gioioso - Siamo tutti vivi.
Tutti, tranne Ollen".
"Fantastico! - esclamò il vecchio saggio, illuminandosi in volto - Capisco
perché tu voglia rimanere sulla Terra. La popolazione di quel pianeta è davvero
eccezionale. Ma che è successo ad Ollen?".
"Ha tentato di uccidermi. - rispose Heron, senza molta enfasi - Un terrestre
glielo ha impedito. E sai cosa accade quando un graduato attenta alla vita del
suo superiore".
La felicità si spense sul viso del saggio.
"Si viene espulsi nello spazio senza protezione e bombole d'ossigeno. - rispose
l'uomo, mesto - Una morte orribile".
"Già" confermò Heron, anche lui serissimo.
"Beh,..... - riprese Adoniesis, più animato, quasi a voler cacciar via
definitivamente quella brutta immagine - pensiamo ai vivi. Cercate di far presto
a tornare.... - si fermò per aver scorto sul volto del giovane comandante
un'espressione che non corrispondeva con esattezza alla gioia di rimetter piede
sul suolo del pianeta d'origine - Che hai, ragazzo mio? Cosa non ti rende
felice di tornare?".
"Lo sai, Adoniesis" rispose Heron, mesto.
Adoniesis abbassò lo sguardo, dimostrando di aver capito. Sapeva di lui e
Addok.
"Troveremo una soluzione al tuo problema" cercò di rassicurarlo.
"Sai che l'unica soluzione per noi è uscire dalla flotta" puntualizzò Heron.
"Ma la flotta, senza di voi, sarebbe un'astronave senza più guida. - replicò il
vecchio amico saggio mestamente - In balia di qualunque pericolo siderale".
"Lo so, amico mio. - convenne Heron altrettanto tristemente - Ma il prezzo da
pagare, riguardo ai sentimenti, è molto alto".
"Quando non siete in servizio potete fare ciò che volete" tenne a precisare
l'uomo.
"Certo. - confermò Heron - Ma si dà il caso che lo siamo per tre quarti della
nostra vita".
Adoniesis non replicò, limitandosi a chiudere gli occhi, costernato da quella
considerazione.
"Beh, .... - concluse poi, rialzando la testa - vi aspettiamo".
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Capitolo 32 *** PARTENZA ***
Nuova pagina 2
PARTENZA
Stefano, Annamaria e due dei loro figli: Flavia e Giulio, i più grandi, salirono
sull'aereo per raggiungere il luogo dove sarebbe avvenuto il distacco e il
pensiero li rendeva tristi.
Il rapporto creatosi con il comandante extraterrestre era davvero straordinario
e questo era un altro motivo che incupiva il cuore e l'animo di Heron. Non li
avrebbe dimenticati. Mai più.
Il grosso veicolo stazionava sulla larga piana all'interno del recinto che
chiudeva la base.
L'aereo su cui Stefano e i suoi familiari avevano raggiunto l'Area 51 planò
docile ed in diagonale su una pista a lato dell'astronave, poco più lontano.
Il Sole stava sorgendo e i suoi caldi raggi si allungavano dorati sull'ampia
superficie sabbiosa e rocciosa della zona.
Heron e soci stavano armeggiando intorno al maestoso velivolo spaziale.
Quando Stefano e famiglia scesero dall'aereo, Heron mosse verso di loro a passo
veloce e, raggiuntili, abbracciò prima Stefano e poi Annamaria, salutando i due
ragazzi con molto calore, elargendo loro carezze su capelli e viso.
Stefano ed Heron fecero incontrare i loro sguardi, fissandoli l'uno sull'altro,
quindi si scambiarono amichevoli pacche sulle spalle.
Finito di armeggiare sul veicolo, questo si aprì lentamente come se avesse
un'enorme bocca in attesa spasmodica di essere riempita; come fosse quella di un
terribile mostro affamato di carne umana. Metteva paura, ma i quattro non si
lasciarono spaventare, tanto più che Heron li invitò ad entrare per visitarne
l'interno. I ragazzi erano emozionatissimi.
Non sarebbe loro capitato mai più di vedere l'interno di un'astronave pronta per
partire nello spazio e Flavia chiese di poter fotografare qualcosa. Permesso
accordato a condizione che gli scatti fossero rimasti segreti. Giunto in quel
momento, Forrest chiese a Flavia di consegnarle la scheda della fotocamera,
promettendole che quelle immagini sarebbero rimaste per sempre nell'archivio
della base, con il suo nome. La ragazzina capì e, un pò a malincuore, gli
consegnò la scheda.
Forrest si diresse verso l'edificio, entrò, e ne uscì dopo pochi minuti,
restituendo la scheda a Flavia.
"Tranquilla, - la rassicurò con un sorriso accattivante - Hai un posto nella
storia dell'astronautica".
Flavia stirò le labbra rosa in un sorriso poco convinto, ma abbozzò,
incoraggiata dal padre.
A quel punto fu dato il via ai saluti.
Poche parole e occhi lucidi.
L'immenso veicolo spaziale pareva attendere paziente di ingurgitare l'equipaggio
per poi "digerirlo" nel corso del lungo tragitto fino ad Ariel. Anche gli altri
membri salutarono i quattro terrestri rinnovando i ringraziamenti per essere
ancora al mondo dopodiché salirono a bordo, tranne l'ufficiale Addok. I due si
fermarono pochi altri minuti con i loro salvatori poi voltarono loro le spalle e
si avviarono, mano nella mano, verso l'astronave. Vedendoli così, Annamaria
sentì lo stomaco stringersi a pugno. Non avrebbero potuto più neppure compiere
quel bel semplice gesto di prendersi per mano. Ad un tratto però, Heron si
bloccò, parlottò con Addok, si girò e tornò indietro, sorprendendo Stefano e i
suoi familiari.
"Ci stai ripensando, comandante?" lo apostrofò Stefano, buttandola
sull'umorismo, cercando di non lasciarsi travolgere dall'emozione.
"No. - rispose Heron, guardando l'amico terrestre dritto negli occhi. Si era
ricordato di ciò che gli aveva detto l'uomo, conosciuto alla base siberiana - Ho
un messaggio per voi". E riferì il messaggio di Wichinskji.
"Vaticano?" ripeté Stefano, stupito.
"Si. - confermò Heron - Vaticano. Si trova in una città che si chiama Roma, mi
pare".
"Certo. - confermò Stefano - Va bene. Ci andremo. Grazie".
"Quell'uomo mi ha detto che lì troverete le risposte alle vostre domande " finì
Heron.
Stefano e Annamaria annuirono in silenzio.
Un ultimo lungo caldo abbraccio sancì definitivamente la separazione fra loro e
l'alieno.
"Abbi cura di te, comandante" si raccomandò Stefano.
"Anche tu, - disse Heron - capitano Aloisi". Abbracciò anche Annamaria e regalò
un sorriso ai ragazzi dopo il quale girò i tacchi e si diresse verso l'ingresso
del velivolo.
Gli occhi di tutti pizzicavano per le lacrime che volevano uscire.
Stefano, Annamaria e i loro due figli seguirono l'uomo che entrò nel veicolo
spaziale, senza voltarsi. Ma loro erano sicuri che anche Heron stava sentendo
bruciare gli occhi.
Oltre a Forrest, sul luogo della partenza, sopraggiunsero anche Hardings,
Edwards e Weaver, gli altri tre pilastri della base americana dell'Area 51. Ed
anche loro non riuscivano molto bene a contenere la commozione per quel
distacco.
L'enorme bocca dell'astronave cominciò a chiudersi lentamente fino a sigillare
chi era dentro per proteggerlo dalle insidie esterne. Contrariamente a quanto ci
si sarebbe potuto aspettare, il decollo della macchina fu rapido e poco
rumoroso. L'astronave si alzò in verticale emettendo uno strano rombo sordo che
non infastidì troppo l'udito entrando in compenso nello stomaco dei presenti,
scuotendone gli organismi in modalità piuttosto consistente. Il veicolo si alzò
di molto dalla pista e quando raggiunse una data altezza si mosse in
orizzontale, schizzando via ad altissima velocità, scomparendo rapidamente alla
vista degli astanti che restarono sul posto qualche altro minuto, senza
profferir parola, ancora scossi dall'emozione.
Area 51, qualche
minuto dopo
Elaborato il distacco, Forrest invitò tutti ad entrare nell'edificio con
l'intenzione di seguire il volo dell'astronave almeno per una manciata di
minuti, fino a che il telescopio avesse loro consentito di seguirlo.
E con grande sorpresa, sui monitor , il gruppo vide l'astronave volare
bassissima sulla superficie terrestre mentre, alla poppa del veicolo, una grossa
apertura circolare, come la bocca del tubo di un gigantesco aspirapolvere,
risucchiava all'interno dell'apparecchio i detriti metallici, e di altri
materiali di cui tutte le zone desertiche della Terra erano state tristemente
cosparse negli ultimi dieci, vent'anni, ossia, da quando la Terra era stata
erroneamente considerata un pianeta disabitato, dunque perfetto per diventare
una discarica universale.
"Chi aveva detto che gli alieni erano cattivi e da combattere?" esordì Hardings.
"Non tutti" osservò Forrest.
"Il Bene e il Male sono ovunque" sentenziò Weaver con studiata solennità.
"Questa l' ho già sentita, - commentò Forrest, smorzando l'enfasi del giovane
studioso con la sua solita ironia realistica - ma è sempre valida".
La battuta fu seguita da una sommessa sghignazzata generale.
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Capitolo 33 *** FINESTRA APERTA SU ARIEL ***
Nuova pagina 2
A casa del saggio
Adoniesis, il vecchio saggio, amico di Heron aveva invitato lui e l'ufficiale
Addok a pranzo presso la sua dimora per festeggiare il suo ritorno e l'esito
positivo della sua missione.
Come sempre, la semplicità e l'essenzialità dell'abitazione dell'uomo erano
comunque cariche del calore e della sua natura profondamente umana, emanate
dalle pareti e dai pochi mobili chiari.
Tutti e tre si accomodarono nell'angolo del ricevimento ospiti, riassunto in un
divano a due posti, dove si sedettero Heron e Addok, e una comoda poltrona,
rivestiti con tessuto a fiori, su cui prese posto Adoniesis, non prima di aver
posato sul tavolino di vetro,posto fra divano e poltrona, un vassoio di
metallo con tre bicchieri colmi a metà di un aperitivo analcolico dal colore
dorato, che porse agli ospiti, prendendone uno per sé.
Brindarono alla missione appena conclusa ed al ritorno del comandante.
"Allora, - iniziò l'uomo, sorridendo, con aria di chi è pronto ad ascoltare
belle storie - a parte le varie vicissitudini del viaggio di andata, il tuo
ritardo nel ritorno mi fa pensare che la Terra sia più ospitale di quanto
raccontato dai tuoi predecessori".
Heron respirò a fondo. L'atmosfera più densa di Ariel glielo consentì con
facilità.
"La Terra è un magnifico pianeta. - cominciò - Con una bella popolazione ma
....".
"Ma?" fece eco Adoniesis ponendosi in modalità di attenzione.
"Ci siamo già stati?" lo apostrofò Heron senza alcun tono di rimprovero.
Adoniesis abbassò occhi e testa per un secondo, quindi rialzò il tutto e fissò
il comandante con intensità.
"All' origine dell' universo, forse. - rispose poi, serafico - Ariel ha perso
qualche pezzo per strada e quello ha vagato nello spazio fino ad approdare sulla
Terra. Oppure un corpo celeste ha sfiorato Ariel quel tanto sufficiente per
raccogliere semi di vita che si sono attaccati alla sua superficie e depositati
sulla Terra, ma anche altrove, nello spazio.. Succede".
"Niente teorie divine?" replicò Heron, incuriosito e divertito.
"Del tipo che l' universo è stato creato da un dio?".
"Di quel tipo" rispose Heron, compreso.
Adoniesis tacque un istante, pensoso.
"E' una teoria circolante. - riprese - Ha circolato anche su Ariel fino a
qualche anno fa".
"Circolava anche sulla Terra" puntualizzò Heron.
"Se circola ancora, lo fa in tutto l' universo, amico mio. - sentenziò il saggio
- Se l' universo è stato creato da una sola mano, prima poi la notizia si
diffonde ovunque".
"Eravamo sulla Terra anche quando quell' uomo è morto in quel modo orribile?"
chiese Heron.
"Su una croce?" chiese Adoniesis a sua volta.
"Già".
"Forse sì. - rispose il saggio - Vedi qualcosa?".
"In sogno. - rispose Heron - O in stato di semi-coscienza".
"Tu non c'eri all' epoca, Al. - precisò Adoniesis - Ma hai ereditato la memoria
nel tuo DNA di chi è stato presente all' evento. Un tuo antenato, giunto sulla
Terra in quei giorni. Sai come funziona, vero? Te l' ho già spiegato, mi pare".
Heron annuì.
"Oltre alle caratteristiche fisiche, - disse - alle qualità mentali e morali, il
nostro DNA memorizza e conserva anche gli eventi".
"E in questo modo possiamo spiegare perché alcuni individui credono di aver
vissuto esperienze, visto luoghi o incontrato persone esistite in epoche remote,
molto prima della loro nascita effettiva... Come te".
"In certi momenti l' impressione di aver visto, o addirittura vissuto, certi
episodi è fortissima".
confermò Heron.
"Probabilmente, - ipotizzò Adoniesis - di quegli eventi hai ereditato anche le
emozioni".
"Ho poteri speciali?" chiese Heron, con una punta d'ironia, accennando un
sorriso.
"Hai una sensibilità speciale, Al. - rispose il saggio - Che è un potere".
"E' sparito tutto, Adoniesis. - commentò Heron, amaro - Anche sulla Terra.
Nessun segno di una fede".
"Date le distanze, non sembra, - disse il saggio - ma le notizie si diffondono"
Adoniesis sorrise. Un sorriso triste
"Come mai è andato tutto perduto?" insistette il comandante.
"Mancanza di buon senso, ragazzo mio. - rispose il saggio - E di senso della
misura. L' umanità ne è affetta, purtroppo. Ovunque nell' universo. Credere in
qualcosa di superiore a noi, può anche andar bene. E' consolatorio. Attaccarcisi
e vivere solo per quello non va bene. Pensare che il divino risolva tutti i
problemi è da stolti. E non è così. Si perde completamente il senso ed il
contatto con la realtà. La fede cieca acceca. E' come se una fitta nebbia
calasse sugli occhi nascondendo la verità. Senza contare il fanatismo che ne
consegue. Per una divinità si diventa disposti ad uccidere. E ciò è tutt' altro
che intelligente e saggio. Oltre ad essere incivile".
Heron convenne mestamente con Adoniesis, supportato da Granya Addok che aveva
seguito, rapita, la conversazione, preferendo rimanere in silenzio. Non aveva
molto da dire. Era d'accordo con le tesi dei due uomini. Anche lei aveva
studiato genetica e conosceva bene le teorie sorte in merito.
"Vogliamo mangiare?" incitò, subito dopo, il saggio.
Heron e Addok si trovarono d'accordo anche su questo.
Durante il pasto, più di una volta Adoniesis vide Heron accarezzare e stringere
la bella mano scura del secondo ufficiale, avvertendo ad ogni stretta, una
puntura dolorosa al cuore. Aveva promesso al comandante di impegnarsi al massimo
per trovare una soluzione definitiva al loro rapporto d'amore in servizio,
sfortunatamente però, era consapevole di una totale assenza di soluzioni. Le
leggi di navigazione erano durissime, specie dopo l' increscioso incidente della
zuffa su un 'astronave per causa di una donna, che aveva condotto alla
distruzione del veicolo, colpito da un grosso meteorite non visto, e provocato
la morte dell'intero equipaggio.
L' unica soluzione per i due innamorati era lasciare Ariel e fuggire lontano,
facendo perdere ogni traccia. Doveva solo studiare il "come".
Convegno della Flotta
Aerospaziale di Ariel
L'edificio ove avrebbe avuto luogo l' assemblea si trovava all'estrema periferia
di Momex, in una zona quasi disabitata e caratterizzata da vasta estensione di
verde, costituito da prati e vegetazione di vario genere, comprendente alti
alberi, ma anche bassi e folti arbusti di piante aromatiche che spargevano
nell'aria gradevoli profumi.
Il palazzo, non molto grande e alto, era di forma ellissoidale, in cemento e
vetro per raccogliere più luce possibile ed anch'esso era circondato da un bel
parco ricco di piante, ora fiorite.
Per raggiungerlo con la sua vettura semi-volante, Heron aveva sorvolato la
città, rammentando con non poca nostalgia, i paesaggi cangianti della Terra, con
le sue zolle verdi, brune, brulle o sfolgoranti di lussureggiante vegetazione, e
le sue immense distese d'acqua, denominate oceani sul pianeta che li aveva
ospitati per circa un paio di mesi. Ariel aveva una bella natura ma niente di
paragonabile con quella dai molteplici aspetti del mondo da cui lui e i suoi
compagni di viaggio erano tornati, e quando entrò nell'ampio atrio del palazzo
in cui stava per svolgersi il convegno annuale della Federazione, il suo volto
doveva esprimere il vago disagio che la comparazione fra Ariel e la Terra gli
stava procurando, tanto che un suo collega lo fermò nel corridoio conducente
allo spazioso locale per chiedergli se qualcosa non andasse come doveva.
"No. - minimizzò Heron sorridendo - Va tutto bene, non ti preoccupare".
Il collega gli scoccò un'occhiata color ghiaccio, poco persuasa e sembrava non
volerlo mollare se non gli avesse detto cosa non andava. Poi, con un sorrisetto
sarcastico, lo interpellò.
"Belle donne sulla Terra?".
Heron gli rispose con smorfia di falsa sufficienza.
"Niente male. Lo ammetto",
"Ah, ecco!" replicò l'uomo alzando il mento appuntito.
Maltus, ammiraglio di un'altra delle astronavi della Federazione, era un tipo
alto, segaligno, capelli a spazzola castani e occhi grigi che parevano emettere
luce propria.
I due si salutarono avvicinando gli avambracci destri e stringendosi le
corrispettive mani, dandosi appuntamento alla sala dei convegni di lì a pochi
minuti.
Nel raggiungere la sala, Heron incontrò altri colleghi che lo bloccarono volendo
avere notizie della loro avventura sulla Terra.
"Hai trovato la fonte? gli chiese un giovane ufficiale biondo e mingherlino.
"Certo" rispose Heron, soddisfatto.
"Per quanto tempo?"
"Per sempre" rispose Heron, in tono trionfalistico. Il giovane ufficiale lo
squadrò, stupito, coi suoi occhi grigio-verde.
"Stai dicendo che avremo energia per sempre?" esclamò.
"E' quello che ho detto" confermò Heron, gongolante.
"Sulla Terra c'è tanto uranio?" domandò il giovane.
"Sì, - rispose Heron - ce n'è molto, ma io ho trovato di meglio".
"Cosa?" chiese l' ufficiale, ansioso.
"Lo vedrai".
"Vuoi serbare la sorpresa per il convegno?" motteggiò il giovane.
"Se vuoi vedere adesso, non devi far altro che seguirmi".
I due uscirono dal palazzo e raggiunsero un enorme hangar a qualche centinaio di
metri dall'edificio. L' hangar ospitava l' astronave con cui Heron e compagni
erano tornati a casa.
Con un telecomando che estrasse dal taschino della giubba, il comandante aprì il
portellone posteriore del veicolo e l' ufficiale restò paralizzato dalla
meraviglia nel vedere l' interno stracolmo di ferraglie arrugginite.
"Quella è la fonte?" esclamò.
"Spazzatura" dichiarò Heron, eccitato.
"Ma.... - balbettò il ragazzo - .....come.....?".
"Bruciandola. - rispose il comandante, felice - Pensa alle nostre astronavi
obsolete, non più in funzione, relegate in un angolo solo per occupare posto
senza poter essere più utilizzate!".
"Geniale" convenne il giovane, ancora scioccato dalla sorpresa e dalla
soluzione.
Geniale davvero se si considerava che l' operazione di incenerimento avveniva in
grandi strutture all'esterno delle cupole che proteggevano i centri abitati,
evitando in questo modo qualunque rischio di inquinamento atmosferico all'
interno.
Il convegno iniziò circa mezz'ora dopo e la sala, con spalti distribuiti a
corona tutti intorno, si riempì quasi completamente. Al centro, Erasmus, il capo
assoluto della confederazione, ancora scuro di capelli nonostante l' età
avanzata, e con poche rughe sul volto scarno ed austero, era sistemato su
un'ampia e comoda poltrona di pelle nera, dietro ad una massiccia scrivania
dalla quale uscì magicamente una tastiera su cui l' uomo premette un tasto che
materializzò un gigantesco schermo olografico roteante per consentire a tutti i
convenuti di vedere cosa era riprodotto.
All'ora prestabilita, Erasmus aprì il convegno con il consueto discorso
introduttivo, dopodiché cominciò ad interpellare i vari partecipanti, chiedendo
loro un rapporto sulle rispettive attività. Nulla di interessante finché non
arrivò a Heron.
"Comandante Heron, - attaccò con tono quasi allegro - di sicuro lei avrà molte
cose da raccontarci, nonché avvincenti aggiornamenti da riferire. Prego. Ci
delizi. - Heron si schiarì la voce e partì con il suo rapporto - Com'è la storia
della spazzatura?" finì l' anziano graduato, mantenendo il tono ilare..
Heron rise e illustrò la sua scoperta nonché il suo progetto per la sua
utilizzazione.
Un muggito di ammirazione si propagò sordo nella sala.
"Beh, - fece Erasmus alla fine dell'esposizione del comandante - direi che il
suo viaggio alla Terra abbia dato davvero ottimi risultati. Si occuperà lei di
questo progetto?". Heron annuì. L'idea gli piaceva e diede risposta affermativa.
"Che impressione ha ricavato, in generale, del popolo terrestre? E' cambiato?"
chiese a conclusione del suo intervento.
Heron respirò di nuovo a fondo.
"Direi di sì. - rispose - Ciò che ha passato in questi ultimi anni ha inciso
profondamente negli animi, tanto da indurlo a concedersi una lunga pausa di
riflessione nella quale ogni esponente del popolo ha deciso di starsene per
conto proprio senza, in apparenza, cercarsi e reperire notizie sugli altri ma,
fondamentalmente, è un popolo di indole buona. Per loro l'amore l'uno verso
l'altro è di importanza vitale e travalica qualunque condizione in cui si
trovino".
Pronunciando questa frase, Heron era perfettamente conscio di aver lanciato il
sasso che voleva lanciare, ovvero, l'eliminazione della maledetta regola che
riguardava i rapporti interpersonali fra i membri delle varie flotte.
Erasmus raccolse il sasso ed il messaggio.
"Mi dispiace comandante Heron. - disse, dimostrando all' interpellato di aver
capito, usando comunque un tono privo di recriminazione - Ma qui su Ariel, certi
regolamenti rimarranno in vigore ancora per qualche tempo. Lei sa bene che il
popolo di Ariel è tranquillo solo in apparenza".
Si, Heron lo sapeva. Altrimenti, episodi come la rissa, scoppiata in
quell'astronave, non sarebbe mai avvenuta . Tanto meno, l'ufficiale Ollen non
avrebbe attentato alla sua incolumità più o meno per lo stesso motivo che aveva
innescato la rissa, cioè, l'amore..
Ma Heron si domandò se proprio queste regole così rigide non contribuissero
talvolta a scatenare gli istinti animaleschi nel quieto - solo esteriormente -
popolo di Ariel.
Tuttavia non insistette nel riproporre l'abolizione di tali leggi. Sarebbe stato
uno sforzo inutile.
Ma la sua mente partorì un altro progetto, non sapendo ancora che era nato anche
nella fantastica testa di Adoniesis.
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Capitolo 34 *** UN SECOLO PRIMA ***
Nuova pagina 2
UN SECOLO PRIMA
2016
Roma
"E venne il giorno
della verità.
Tutto fu svelato e,
da quel momento, nulla fu più come prima.
Seguì un tempo in cui
cominciò la caccia a duplice direzione.
Il fratello uccise il
fratello non tanto per il colore della pelle quanto per il dio che venerava.
Era lo stesso, ma con
diverso nome, tuttavia, in suo nome, sangue fu sparso a fiumi per la supremazia
di una fede che stava morendo.
Non uscì un
vincitore.
Il Padre scomparve
per sempre.
Uomini, donne e
infanti non trovarono riparo e conforto neppure dietro le mura sacre.
Nessuno mosse un dito
per difendere il suo simile .Tutti uccisero tutti, per giorni, mesi ed anni
Poi, il massacro si
fermò.
Non erano rimasti in
molti ed i sopravvissuti si chiusero dietro le mura delle loro città e delle
loro dimore, occupandosi solo del proprio orto, senza più voler sapere nuove
neppure del vicino.
Troppe parole erano
state pronunciate; troppe parole avevano distrutto il piacere di pronunciarle e
scambiarle con il fratello.
Un secolo dopo
Roma, 2126 Interno
archivio segreto del Vaticano, non più segreto
Flavia Aloisi chiuse il tomo rivestito in pelle rossa, rifinita con preziose
decorazioni in oro, ma rimase seduta sulla comoda poltrona in velluto verde che
le abbracciava il corpo, in profonda meditazione.
Nella vastissima sala della Biblioteca Vaticana, in zona una volta segreta, -
adesso non più - , che occupava quasi tutto il sotterraneo del palazzo, regnava
un silenzio toccabile con mano.
Ora sapeva cos' era accaduto cento anni prima.
All'esterno, il mondo era tornato quasi alla normalità.
Il silenzio sacrale fu fiocamente interrotto dal ticchettio di un paio di
tacchi, proveniente dal fondo dell' amplissimo vano, e la sagoma scura femminile
della donna addetta alla sorveglianza ed alla consulenza comparve piccola contro
la luce diffusa che illuminava la stanza, lontano.
Con andatura rigida, quasi militaresca, la donna si avvicinò al tavolo dove
Flavia sedeva, fermandosi a pochi metri da lei, severa nel suo elegante tailleur
bordeaux, con i capelli neri raccolti dietro la nuca e tenuti a posto da un bel
fermaglio brillantinato.
L' espressione sul suo volto svelò a Flavia la sua perplessità ed un discreto
sconcerto.
"Cosa pensa, signorina?" le chiese infatti la donna, fissandola con l' intensità
dei suoi occhi neri.
Flavia si prese qualche secondo per rispondere.
In effetti, era un po' sgomenta, ma aveva capito.
"Credo sia stato un periodo difficile per l' umanità" rispose poi, distaccata.
"Indubbiamente. - convenne la donna - Ma è stato necessario".
"Certo. - accordò Flavia, in realtà poco convinta - Probabilmente sì".
"Non probabilmente. - si permise di correggerla la donna - Di sicuro. Purtroppo,
l' Uomo non ha innato il senso della misura, ed esagera. A questo punto occorre
un restart per riportare l' equilibrio. E a volte, la soluzione è molto
drastica. Dura e sanguinosa".
"Già" commentò Flavia, con amarezza.
Lo smartwatch trillò, dolce e discreto.
"Flavia, hai finito? - Era sua madre - Ti aspettiamo per il pranzo".
"Vengo, mamma" rispose Flavia, veloce, alzandosi e compiendo il gesto di voler
riporre il libro nel suo scaffale. La donna la fermò invitandola a non
preoccuparsi per questo e ad andare dove doveva.
Flavia la ringraziò, sorridendo.
"Torni pure quando vuole, signorina Aloisi. - le disse la donna, gentile - Tutti
questi libri sono a sua disposizione e a disposizione di chi vorrà consultarli".
Flavia ringraziò ancora solo col sorriso e lasciò la sala.
Verso casa
Fuori era primavera; una fine aprile tiepida, con un cielo non del tutto sgombro
da nuvole in cui il Sole faceva già sentire la sua forza anticipatrice della
buona stagione. Flavia si fermò in mezzo a Piazza San Pietro e gettò lo sguardo
attorno a sé. Il colonnato abbracciava la piazza, come sempre gremita di turisti
che però provenivano solo dal suolo Italiano. Al di là dell' Oceano Atlantico,
quasi nessuno sapeva che Roma c'era ancora. Lo sapeva lei e la sua famiglia,
trasferitasi da qualche anno nella Città Eterna dopo il lungo soggiorno in
Svizzera. Lo sapeva Stefano Aloisi che era stato eletto governatore di Roma a
suffragio universale. E lei era la figlia del governatore, ma il fanatismo che
prima sorgeva attorno a certe cariche era scomparso da un pezzo. Flavia
camminava per Via Cola di Rienzo, accompagnata dagli sguardi dei passanti,
incuriositi ed attratti più dalla sua bellezza che dall' illustre parentela. Nel
quartiere era conosciuta solo perché era stata vista spesso con suo padre,
niente di più. E di questo lei era felice. Non amava le luci della ribalta.
Ad attenderla nell' elegante appartamento di Via Paolo Emilio, c'era sua madre,
Annamaria che, dopo l' elezione del marito a governatore, aveva rallentato di
molto la sua attività di medico non essendo più necessario il suo apporto
economico al bilancio familiare. Aveva trovato un ruolo part-time in una piccola
clinica privata, nel quartiere, e tornava a casa per pranzo.
"Com' è andata la ricerca?" chiese subito alla figlia appena comparsa nel vano
della porta di casa.
"Bene, mamma. - rispose Flavia senza tuttavia mettere eccessivo entusiasmo nella
risposta - E' stata proficua" Ma Annamaria scorse un' espressione quasi triste
sul volto della ragazza.
"Stai apprendendo tutto, vero?" disse, seria.
"Già" confermò Flavia, laconica, depositando la borsa con i libri, sul divano di
pelle color miele.
"Non è stato bello".
"No".
"Ma da ora in poi andrà meglio, vedrai" la rincuorò Annamaria, accarezzandole le
braccia, guardandola dritto negli occhi.
"Papà?" chiese Flavia, desiderosa di cambiare velocemente argomento.
"Da quando è sul trono, l' abbiamo perso, tesoro mio!" rispose la madre,
allegra.
Qualche minuto dopo, la quiete della casa fu brutalmente interrotta dall'
irruzione degli altri tre figli, al ritorno da scuola.
Flavia frequentava l' ultimo anno di Scienze Storiche, nuovo ramo della facoltà
di lettere.
A Roma era iniziato un altro capitolo della vita della famiglia Aloisi.
Il televisore era acceso e l' immagine che stava passando colpì l' attenzione di
Flavia: un uomo con i capelli biondo scuro e un paio d'occhi di un azzurro fuori
dall' ordinario accesero nella ragazza il ricordo dell' ospite alieno,
conosciuto anni addietro in territorio elvetico. Non era lui, ma ci assomigliava
alquanto. Chissà dov'era! Chissà se l' avr4ebbero mai più visto!
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