So take my hand and let's fade away

di Lost In Donbass
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I hate the distance ***
Capitolo 2: *** I still think about our memories ***
Capitolo 3: *** A song brings back 1000 memories ***
Capitolo 4: *** After all, you're still there ***
Capitolo 5: *** I'll save you from yourself ***
Capitolo 6: *** I'm too young for all this sorrow ***
Capitolo 7: *** (Never) Let me go ***



Capitolo 1
*** I hate the distance ***


SO TAKE MY HAND AND LET’S FADE AWAY

CAPITOLO PRIMO: I HATE THE DISTANCE

Don’t you ever forget about me,
When you toss and turn in your sleep
I hope it’s because you can’t stop thinking about
[Sleeping With Sirens – Don’t You Ever Forget About Me]
 
La nostra storia non era iniziata in modo normale.
Non c’era stato un corteggiamento complicato, occhiate di fuoco, consigli dei migliori amici, battutacce poco fini e scherzi di cattivo gusto.
Lui non era il solito spaccone idiota, o meglio, lo era, ma a modo suo e io non ero il solito ragazzino sprovveduto.
Non avevamo una vita normale, nessuno dei due.
Lui aveva il cuore spezzato. Io non stavo bene con me stesso.
Eravamo entrambi soli, arrabbiati, delusi da qualcosa al quale non sapevamo dare un nome. Non avevamo niente altro che non fossero le nostre brutte facce, una propensione speciale a cacciarci nei guai e gusti musicali molto discutibili. Non eravamo belli, non eravamo brillanti, non eravamo niente, solamente due  ragazzi slavi in vacanza. Io, che venivo da Kharkiv, lui, da qualche sobborgo russo di cui non ricordo più il nome.
Ci ricordo alla perfezione, con l’anello alla narice, gli orecchini e i capelli tinti, i jeans stracciati e le sigarette in tasca, le Vans slacciate e le felpe sgraziate. Ci ricordo seduti sulla spiaggia, sdraiati sul suo letto, ancora vestiti, sulla sua Vjatka scassata. Ci ricordo stretti uno all’altro per non aver freddo, testa contro testa e mano nella mano. Ci ricordo e basta, noi, i ragazzi innamorati per un’estate, quelli che pensavano sarebbe stato per sempre, quelli che credevano di poter soppravvivere.
A volte penso a lui, e mi chiedo che fine avrà fatto. Se avrà un altro uomo. Se sarà morto suicida, nella sua disperazione congenita. Se sarà scappato lontano. Se semplicemente si ricorderà ancora di me e dei miei jeans neri stracciati.
A volte vorrei tornare da lui, mettermi a cercarlo e raggiungerlo, dovunque sia. Prenderlo di nuovo per mano, spettinargli i capelli, abbracciarlo e sentire il suo odore, che era fumo e colonia scadente.
Mi mancano i suoi occhi grigi, così grandi e malinconici. Aveva quello sguardo triste di un ragazzo che aveva perso tutto, eppure c’era la forza di chi non ha mai smesso di lottare. Come il suo sorriso, così luminoso eppure così carico di dolore. Mi sono sempre chiesto se sorridesse così bene proprio perché aveva sperimentato la depressione più nera, la sofferenza più sconvolgente. C’era sempre stato qualcosa di spezzato in lui, una ferita inguaribile che avrebbe continuato a sanguinare per sempre, un livido che non si sarebbe mai riassorbito. Io avevo amato quel suo lato distrutto, quel suo male, quelle sue cicatrici. Avevo amato tutto di lui, a partire dal suo dolore, dai suoi occhi di rugiada, al suo modo di camminare, sempre un po’ curvo e ciondolante, alla sua voce dolce e al suo modo di chiamarmi “amore”. Lui era stato speciale per me, e avevo sempre desiderato essere stato speciale per lui almeno tanto quanto lui lo era stato per me.
Ma poi, era finito tutto. Quel giorno di ormai cinque anni fa ci eravamo detti addio e non c’eravamo mai più rivisti. Mai un messaggio, una foto, una chiamata. Niente, come se avessimo voluto relegare quell’estate a un episodio salvifico e fugace della nostra adolescenza. Mi chiedo perché, a volte. Perché aver mollato tutto quando adesso saremmo potuti essere qui, sposati, magari con dei bambini piccoli, magari felici, magari salvi. Però lo abbiamo fatto. Con lacrime agli occhi, singhiozzi strozzati, ci eravamo salutati prima che lui partisse di nuovo per il suo sobborgo e da quel momento in poi per me lui non è mai stato altro che un ricordo meraviglioso a cui ritornare nelle notti di disperazione. Ho avuto molti uomini in questi cinque anni, ma nessuno che si sia mai potuto avvicinare almeno un quarto a lui, alla sua bellezza, al suo dolore. C’è stato Nikita, che obiettivamente era molto più bello. C’è stato Misha, sofferente allo stesso modo. Ma non erano lui. Non avevano il suo odore di sale, non sorridevano con gli occhi, non tenevano la sigaretta tra il mignolo e l’anulare. Mi sono lasciato dietro un pezzo di cuore da quando era salito su quell’aereo senza voltarmi indietro.
Amo pensare a lui, a quel modo di abbassare gli occhi e di sorridere appena quando mi sporcavo il naso di gelato. Amo ricordarlo suonare canzoni strappalacrime in quel locale in Crimea, rivederlo camminare a piedi nudi sulla sabbia dorata oppure venirmi a prendere sotto casa sulla Vjatka verdolina. Amo ancora tutto di quel ragazzo russo che soffriva di depressione e che suonava il pianoforte. Ricordo ogni imperfezione della sua pelle, ogni sfumatura che acquisivano i suoi capelli al sole, ogni minima espressione del volto, ogni colpo di tosse, ogni risata, ogni bacio a fior di labbra, ogni abbraccio, ogni lacrima, ogni risata. Ricordo tutto di lui perché, per quell’estate, era stato la mia vita. Per quei tre mesi avevo pensato che mi avrebbe salvato da me stesso, che saremmo scappati insieme in America, che ci saremmo ricostruiti una vita altrove. Avevo sperato che lui mi trascinasse fuori dal baratro dove ero sprofondato con le mie stesse mani. Ricordo che una notte avevamo preso la Vjatka e lui mi aveva detto “Scappiamo, amore.” Non so perché non l’avessimo fatto. Non so perché non avessimo imboccato la statale, con uno zaino e i nostri pochi risparmi, diretti verso l’aereoporto di Kiev. Forse, se avessimo avuto il coraggio di farlo, adesso saremmo insieme, da qualche parte. Forse a Berlino, forse a Londra, forse addirittura a Baltimora. Ma soprattutto, saremmo fianco a fianco. Invece, io sono qua, a Kharkiv, senza più vita, senza più niente che non siano i ricordi di quell’estate, e la collana col plettro che mi aveva dato prima che partissi. La porto ancora al collo, e a volte l’annuso, tentando di sentire ancora il suo profumo, ormai falsato dagli anni. Ci aveva suonato la chitarra in spiaggia, con quel plettro, la prima volta che ci siamo conosciuti. Gli avevo detto “suoni bene, ragazzo russo”. E lui mi aveva sorriso e aveva detto “Che canzone vuoi, ragazzo ucraino?”. “Quello che vuoi”. Aveva suonato quella canzone dei Goo Goo Dolls, e ci aveva messo talmente tanta passione da far tacere chiunque, sulla spiaggia, tutti troppo intenti a sentire il dolore nella sua voce quando disse “yeah, you bleed just to know you’re alive”. Era stato lì che mi aveva guardato per la prima volta negli occhi e io ero arrossito, distogliendo lo sguardo, troppo spaventata dalla devastazione covata in quelle iridi color del metallo.
Eppure, adesso lui non è che un ricordo, un stupendo, tragico, ricordo di quell’estate ucraina. Dove sei, amore mio?, mi chiedo. Cosa starai facendo? Penserai ancora a me? O ti sarai dimenticato del giovane ucraino che ascoltava musica emo e girava con i calzini di colori diversi? Mi ami ancora, dovunque tu sia? Piangi ancora sentendo un nome simile al mio? Oppure hai un altro da chiamare “amore”, da portare sulla Vjatka? Che ne è stato di te, bellissimo ragazzo depresso?
Sì, sicuramente avrai un altro, forse più bello di me, forse più intelligente, forse meno tormentato. Spero solo che tu non ti sia dimenticato di quello che abbiamo avuto, dei sorrisi, dei bagni in mare, del gelato alle undici di sera, delle canzoni sotto le stelle, delle promesse, dei baci, del sesso nella tua camera azzurra, delle battute infelici, dei graffiti sui muri, degli abbracci infantili, delle risate spezzate, dei pianti soffocati, del dolore e dell’amore. Ti prego, giurami che pensi ancora a me. Ti prego, meraviglioso ragazzo russo, non esserti dimenticato di me perché io ancora sogno di quell’estate, ancora piango pensandoti, ancora mi sveglio con sapore delle tue labbra salate sulle mie.
Spero di poterti incontrare ancora, maledicendo il giorno in cui ti ho lasciato andare. Avremmo dovuto continuare a tenerci in contatto invece abbiamo lasciato che tutto scivolasse via, distruggendoci con la marea. Darei tutto me stesso per poterti riabbracciare, per poter sentire il tuo odore ancora una volta, per poter dire il tuo nome e spettinarti i capelli perennemente arruffati. Ti rivoglio indietro nella mia vita come la lenta risacca del mare in Crimea.
Ti amo ancora, nonostante il silenzio, nonostante non sappia più nulla di te.
Ti amo ancora come il primo giorno, e so che se ti dovessi rivedere per me non sarebbe cambiato niente. Ti amo e ti amerò per sempre, fedele al ricordo di quell’estate meravigliosa che mi aveva cambiato la vita. Ti vorrei ancora, disperatamente, ti desidererei, ti amerei come se non fosse passata che una notte da quei giorni di sole, mare e gelato.
 
È questo quello a cui penso mentre mi sto per imbarcare sull’aereo per Londra.
È questo quello a cui penso mentre mi sto per lasciare alle spalle Kharkiv e la triste periferia ucraina.
Sei tu quello a cui penso ogni istante.
Sei tu quello a cui penso mentre sto per cambiare vita, mentre desidero che tu fossi qui con me, a salire su questo aereo.
Sei tu quello che amo ancora, nonostante tutto.
Sei tu, Yurij.
Sei tu.

***
Storia già pubblicata in versione het, ma siccome non sono in  grado di scrivere roba etero eccovela in versione slash. Vi è paciuta? Fatemi sapere nei commenti! Verrano trattate tematiche delicata e sarà molto triste, come al solito aha
Il titolo è tratto dalla canzone Run dei Bring Me The Horizon
Charlie xx

 

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Capitolo 2
*** I still think about our memories ***


CAPITOLO DUE: I STILL THINK ABOUT OUR MEMORIES

I put your picture in a frame that stands at the side of my bed
So whenever I get sad I can stare at your face
And hope and pray that I won’t forget
[Mayday Parade – Angels]
 
Sono depresso. Sono malato. Sono un suicida.
Sono Yurij Seriabkij e la mia vita, da quando  ho memoria, è sempre stata un disastro.
Sono queste le parole che mi vengono in mente mentre, stravaccato sul divano sporco, fumo una sigaretta e bevo un sorso di vodka dalla bottiglia, fissando il soffitto. Fuori piove, ma a Londra piove tutti i giorni e ormai ci ho fatto l’abitudine, completamente diversa dalla mia Barnaul, nella Siberia che mi sono lasciato alle spalle nella speranza di salvarmi da me stesso. Quando, cinque anni fa, ero scappato dalla Russia, avevo ancora un minimo di fiducia nel futuro – avevo pregato, sperato, di poter uscire dal mio inferno personale, avevo creduto ciecamente che trasferendomi in Europa sarei riuscito a cambiare, ma mi sbagliavo, perché ora sono qui, col mio studio fotografico e il mio appartamento lurido, bottiglie vuote in giro, pacchetti di sigarette, antidepressivi e ansiolitici dappertutto e la certezza di essere un uomo morto. Non volevo vivere così, non volevo che la mia depressione avesse la meglio ma l’ha avuta. Ha vinto. È come una guerra, e, come si sa, una guerra puoi vincerla o perderla. Io, ovviamente, la sto perdendo alla grande.
Mi passo una mano tra i capelli che avrebbero urgente bisogno di una lavata e mi baccendo un’altra sigaretta. Ho trentadue anni, niente figli, nessun uomo, amici distrutti quanto me, medicine, macchine fotografiche e i ricordi troppo brucianti dell’estate in Crimea di cinque anni fa.
Già, la Crimea.
E soprattutto, lui, Denis Shostakovich, l’amore della mia vita.
Sbatto la testa sul bracciolo del divano e soffoco un’imprecazione. Perché okay, saranno passati cinque fottutissimi anni ma io non posso fare altro che pensare a lui, in qualunque uomo che ho avuto ho sempre cercato sue tracce, mi perdo ancora a sognare i suoi occhi e il suo sorriso stupendo. Quello che abbiamo avuto durante quell’estate è qualcosa che non può essere rimpiazzato da nulla.
Me lo ricordo come fosse ieri, quel ragazzino di dieci anni meno di me, con i capelli scuri sparati dappertutto, le ciocche bionde come andavano di moda all’epoca, l’acne dilagante sulla schiena e sulla fronte come qualunque diciassettenne, gli occhi luccicanti di gioia, le stelline tatuate sul polso ossuto, il costume blu sempre addosso e la maglietta bucata dei Black Veil Brides. Ricordo tutto di lui, a partire dal suo forte accento ucraino, alla sua voce bellissima quando cantava qualche hit estiva, al suo modo di ridere gettando la testa all’indietro, ai suoi occhioni curiosi da cucciolo che vuole scoprire il mondo. Ma ricordo anche le lacrime a stento trattenute, i musi lunghi, la speranza dipinta in quel sorriso più luminoso del sole, i gemiti durante il sesso, le promesse strette sotto la luna, le risate spezzate e i sorrisi appena accennati. Per quei tre mesi, Denis era stato la mia vita. Lo avevo amato di un amore sincero e a me completamente sconosciuto, lo avevo idolatrato come un angelo sceso a salvarmi dalla mia depressione. I miei amici mi avevano trascinato in vacanza in Crimea per cercare di riprendermi dopo un goffo quanto azzardato tentativo di suicidio, e ricordo quanto fossi partito a malincuore da Barnaul, con un paio di bermuda coi fiori e le infradito rosse. Ma poi, appena sbarcato, mi ero ritrovato in spiaggia a suonare la chitarra, costretto da Ylja e da Kuzma, e lui si era avvicinato, con le guance arrossate e mi aveva detto che suonavo così bene. Avevo fatto Iris, quella dei Goo Goo Dolls solo per lui, quella sera, solo per quegli occhi del colore dell’ambra, solo per quel sorriso allegro.
Abbiamo avuto la storia più bella del mondo, io e Denis, perché in quei tre mesi mi ero convinto di aver trovato l’amore, di potermi salvare, di poter devolvere me stesso per lui. Eppure, anche l’estate era finita, e con lei eravamo finiti noi, erano finiti i baci sul collo, la Vjatka verdolina, il gelato con cui si sporcava il naso, i vari “amore” urlati dalla finestra. Ero tornato a Barnaul, e mi ero ripromesso che mi sarei tenuto in contatto. Poi, più nulla. Dopo quel 15 settembre di cinque anni fa, non seppi mai più niente di Denis. Potrebbe essere morto adesso, che io non lo saprei e questa cosa mi uccide giorno dopo giorno. Vorrei tanto rivederlo. Riabbracciarlo. Chiedergli “come stai”. Parlare di nuovo della Crimea. Risentire il suo odore, che non sarà sicuramente più di ormoni a palla e colonia scadente.
Schiaccio la sigaretta sul pavimento e mi alzo, inserendo nel dvdplayer uno dei vecchi filmini della Crimea. Kuzma, all’epoca, non si staccava mai dalla sua telecamera a mano ed era finita che mi ero fatto regalare tutte le sue registrazioni per risentire addosso l’estate più stupenda di sempre. Aspetto che parta, e quando vedo il familiare tremore della mano e la voce profonda di Kuzma scandire “Crimea, 12 luglio. Ragazzi, dove siete? Un sorriso per la telecamera” sorrido, ripensando a quei tempi andati. Si vede Anastasija in costume da bagno che ride, con i suoi capelli neri e rossi, insieme a Dana e le sue orribili vestaglie arancioni. Si inquadra Ylja che beve vodka dalla bottiglia e ride, con la sua risata alto tenorile che faceva tremare i vetri. Si passa a vedere Asel, che gioca a qualche solitario, le collane apotropaiche sul petto nudo. Poi, ecco me e Denis, abbracciati, che ridiamo di qualche scherzo che non ricorderò mai. Io avevo i capelli più corti, e brutte camicie hawaiane, lui quelle ciocche bionde imbarazzanti e i suoi costumi troppo grandi. Sorrido da solo, quando la registrazione va avanti. A un certo punto prendo io in mano la telecamera per inquadrare anche Kuzma, con i suoi capelli biondissimi e la cicatrice sul collo. E poi le risate, le battutacce, i racconti, gli spintoni. E poi il mare, il gelato, la musica nelle casse. E poi Denis sulle mie spalle che canta a squarciagola quella canzone di Mari Kraimbrery che andava tanto di moda. E poi noi che ce ne andiamo sulla Vjatka scassata. E la voce dolce di Asel, e gli scherzi di Anastasija, e l’affetto di Dana, e le risate di Ylja, e i commenti salaci di Kuzma, e la gioia di Denis. Tutto quello che, almeno per tre mesi, era riuscito a salvarmi dalla depressione più di quanto avessero fatto gli psicofarmaci.
Eppure, anche la Crimea mi aveva abbandonato, lasciandomi di nuovo solo, pronto a scappare lontano da una Russia che mi voleva morto e adesso sono qui, in Inghilterra, a barcamenarmi nel nulla assoluto che caratterizza da sempre la mia vita. Guardati, Yuroch’ka, e dimmi chi sei.
-Un fallito, Yura. Niente altro che un fallito.- mi dico a voce alta, bevendo un sorso di vodka.
A volte vorrei tanto che Denis fosse rimasto. Sia che io fossi rimasto in Ucraina con lui, sia che lui fosse venuto a Barnaul, sia che fossimo fuggiti nottetempo, vorrei che non se ne fosse mai andato. Magari adesso io starei bene. Magari non avrei più tentato il suicidio, magari non vivrei sotto medicinali, magari non farei preoccupare i miei amici. Saremmo già sposati, sicuramente, forse avremmo anche adottato uno o due bambini. Lui canterebbe nei locali il venerdì sera e io lo accompagnerei col piano e la chitarra. Poi faremmo di nuovo l’amore sotto le stelle, e lui verrebbe urlando il mio nome. Andremmo d’estate una settimana in Crimea e poi andremmo a trovare sua madre a Kharkiv. Ogni tanto, forse, passeremmo anche da Barnaul, giusto per vedere se Anastasija e Dana sono ancora vive. Avremmo una Vjatka verdolina come quella storica e ci andremmo in giro ridendo. Rideremmo delle nostre sventure a cena, tra un piatto di borsch e una fetta di carne scottata. Saremmo così tanto felici, io e Denis.
E invece no.
Sono solo.
Solo, abbandonato, lontano dalla Russia e dalla Crimea, con pochi soldi, costretto a suonare senza avere un cantante, appiedato e stanco di vivere questa vita orrenda. Non ne posso più di niente, sono così stufo.
Mi alzo, spegnendo la registrazione. La guardo ogni giorno, e ogni giorno piango un po’ quando risento la sua voce squillante. Spero che sia riuscito a scampare alla guerra civile ucraina. Spero che sia felice, dovunque sia. Spero che abbia un uomo che lo ami quanto lo amerei io. Spero che si ricordi ancora di me. Spero, semplicemente, per quel ragazzo che mi aveva rapito il cuore.
Mi affaccio alla finestra e guardo il triste cielo grigio di Londra. Non amo questa città, questo suo grigiore, questa sua tristezza metafisica, questo suo ricordarmi la maledetta Barnaul. Stavo male là, sto male qua, ma in Crimea ero stato bene, su quelle spiagge dorate, sulle rive del Mar Nero, tra le braccia di Denis.
Forse adesso potrei scendere e andare a vedere cosa si dice al pub, quello dove suono il piano per sentirmi meno solo. Forse ci saranno anche Kuzma, Ylja e Asel con cui dire le solite cose tristi.
Prendo la giacca e bacio la fotografia di me e Denis che ho poggiata in salotto.
Ti troverò un giorno, Denisoch’ka.
Saremo di nuovo insieme, tesoro adorato.

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Capitolo 3
*** A song brings back 1000 memories ***


CAPITOLO TRE: A SONG BRINGS BACK 1000 MEMORIES

Огни большого города, твой свет смеётся надо мной
А я люблю без повода мысли о тебе одном
 
Tutte le luci della città, la tua luce ride di me
Ma io amo senza ragione, il pensiero di te solo
[Yulia Savicheva - Огни большого города ]
 
Questo locale mi ricorda vagamente la Crimea, quel posticino dove io e Yurij avevamo ballato un valzer stretti uno all’altro come se non ci fossimo mai dovuti lasciare andare, tra gli applausi della gente. Lui ballava così bene, era così aggraziato, mentre io sembravo un elefantino in cristalleria. Ma lui mi guidava, mi stringeva, ogni tanto mi baciava la fronte e a me sembrava di vivere un sogno.  Anche se poi non ho più ballato il valzer, mi ricordo alla perfezione tutti i passi, tutte le giravolte. Mi ricordo soprattutto i suoi occhi che luccicavano di qualcosa che poi avrei identificato come felicità.
È questo quello a cui penso mentre entro in questo locale ricalcato su quelli slavi, guardandomi attorno con una vaga malinconia di fondo. Ma i locali slavi in Inghilterra sono malinconici di natura, con la gente che non sogna altro che le steppe di casa propria, e che siano i viali moscoviti, il Mar Nero o il Tash Rabat kirghizo non fa più molta differenza, con l’odore forte del borsch e della vodka che non emuleranno mai quelli di casa, con qualche nonno che ancora legge le vecchie favole del pesciolino d’oro e della Baba Yaga. Mi siedo al bancone, chiedendo una vodka e osservo il pianoforte in penombra nell’angolo dello stanzone. Anche Yurij suonava il piano, in Crimea, e io lo accompagnavo cantando canzoni d’amore dal sapore dolceamaro. A volte canto ancora, a Kharkiv, ma non è la stessa cosa che cantare accompagnato da lui. Che cantare per lui.  
Mi passo una mano tra i capelli arruffati  e bevo la mia vodka in un fiato, tirando appena su col naso. Non so perché sono venuto a Londra. Se per dimenticare i demoni del mio passato, se per capriccio, se per curiosità. So solo che ho preso e sono partito, lasciando la mamma e cinque sorelle maggiori laggiù. Forse le porterò qui. Qui dove c’è la pace, qui dove non sarei costretto ad arruolarmi per una guerra che non voglio combattere, qui dove conto di ricostruirmi una nuova vita lontano da Kharkiv e da tutto quello che rappresenta per me. Volevo scappare da quei cieli infiniti, e l’ho fatto. Adesso sono qui, in una terra sconosciuta, a parlare una lingua non mia, nella speranza di trovare qualcuno che sopisca la mia solitudine interiore. Nella speranza di trovare lui.            
La mia scelta di aprire un negozio di dischi forse non sta né in cielo né in terra, ma mi ricorda di quando io e Yurij andavamo in quel bugigattolo in Crimea ad ascoltare a tradimento gli Slayer e gli Asking Alexandria. Mi aveva comprato l’ultimo disco degli Sleeping With Sirens dell’epoca e poi eravamo andati a rubare ciliegie al mercato – forse era stato lì che mi ero innamorato dell’idea di avere un negozio di dischi. O forse era stato lì che mi ero completamente innamorato di lui, non saprei dirlo.
Mi guardo in giro e ordino un’altra vodka. Sono passate due settimane da quando sono arrivato a Londra, e ancora non ero uscito dal mio triste appartamento, troppo impegnato a piangermi addosso come al solito mentre sistemavo le casse di cd nel mio nuovo negozio. Denis Alexandrovich Shostakovich, da anni a questa parte, non è mai più stato sinonimo di divertimento sfrenato, mettiamola così. Non che lo sia mai del tutto stato.
Obiettivamente, potrei cercarmi un uomo con cui passare la notte. Qualcuno con cui attaccare bottone e bere. Qualche nonno per sentirmi raccontare le storie che mi raccontava la mamma e mia sorella Natasha quando ero piccolo. Qualsiasi cosa che non sia starsene qui appolaiati da soli a pensare ai malspesi, ma non posso fare altro che fissare con aria sognante il muro e sognare silenziosamente di averlo al mio fianco, magari con le mani intrecciate, magari con anelli gemelli agli anulari.
Sono talmente preso da me stesso che ci metto un po’ a realizzare la canzone che stanno suonando al pianoforte, ma quando comincio a sentirla per davvero, il cuore perde un battito. E’ la canzone di Yulia Savicheva che suonava sempre Yurij per concludere gli spettacoli di pianoforte laggiù in Crimea. Stringo il bicchiere fino a farmi sbiancare le nocche e mi giro lentamente verso il pianista. Mi da le spalle, lo distinguo a fatica nel buio ma i ricordi, dio, i ricordi mi sommergono. Quel locale ucraino dove passavamo tutte le sere, lui seduto al grande piano a coda che suonava, io seduto accanto a lui che cantavo le vecchie canzoni di Yulia Savicheva, dei Vivienne Mort, le canzoni popolari e la gente che applaudiva, e le rose che un giorno ci avevano lanciato, e le mie guance rosse e il suo sorriso spezzato.
 
-Suona ancora, Yuroch’ka.
-Ancora, cucciolino? Ma non sei stanco di cantare?
-Quando sono con te non sono mai stanco. Dai, facciamo ancora Mayaki. Parla di fari, è una promessa. È la nostra canzone.
-Come vuoi tu, amore.
E suonò. E io cantai. E un mazzo di rose mi planò ai piedi. Piansi. E lui mi abbracciò, baciandomi dolcemente le labbra davanti a tutti. E io piansi più forte.
 
Mi mordo il labbro e mi rendo conto di avere gli occhi lucidi. È così tanto che non canto più, ed è così tanto che non sento queste canzoni della mia adolescenza felice. Avevo smesso di ascoltarle quando c’eravamo lasciati ma adesso che la risento, troppi ricordi bellissimi tornano prepotentemente a galla. Troppi baci sotto le stelle, troppe mani intrecciate, troppe fughe sulla Vjatka verdolina, troppo Yurij che continua a perseguitarmi dopo cinque anni di silenzio. Sono cambiato così tanto da quei giorni, mentre forse non sono cambiato per niente. Mi riconoscerebbe, adesso, senza ciocche bionde, senza acne imbarazzante, senza gambe da pollo, senza costumi blu rovinati e magliette di rock band? Mi amerebbe ancora come lo amo io, adesso che sono cresciuto, che ho visto la guerra, che non mi sbrodolo più di gelato, che scappo da me stesso? Io sì, sì, lo amerei, lo amo ancora, più di me stesso, più della mia vita, più di mia mamma, più di qualsiasi cosa io amo lui, lui e solo lui.
Muovo appena la testa a ritmo della canzone e comincio a cantare, sottovoce, quella vecchia melodia. К чему все эти ночи без тебя?, И я знаю точно - я твоя, И нежность наполнит сердце” – tutte queste notti, cosa sono per te?, E io so di essere tua, e la dolcezza riempirà il cuore.
Vorrei tanto che lui fosse qui con me adesso. Vorrei ballare ancora il valzer abbracciati, vorrei che mi baciasse la fronte e che accompagnasse la mia canzone. Ma adesso chi sa dove sarà. Forse a Barnaul, forse a Varsavia, forse a Parigi, forse sepolto in qualche cimitero popolare.
Mi alzo, come in trance, e comincio a cantare più forte la canzone, che ora è cambiata, sì, la riconosco, è quella che parla delle luci della città, quella che mi piaceva tanto quando avevo diciassette anni. Mi avvicino al pianista, e canto, alzando la voce sempre di più, come facevamo quando eravamo in Crimea. Non mi importa degli sguardi delle persone, mi importa solo di quell’estate meravigliosa e di quanti ricordi portano queste canzoni.
-Огни большого города, твой свет смеётся надо мной, a я люблю без повода …
Continuo a cantare, come se non me ne importasse nulla e forse è veramente così, perché finchè riesco a ritrovare l’odore di sale della Crimea, il sole cocente sulla pelle troppo pallida, il mare cristallino, le risate tristi, le occhiate rubate, la chitarra sulla spiaggia, allora va tutto bene. Finché sento rifluire dentro di me quell’estate benedetta allora so che starò bene e così canto, canto ancora, accompagnando questo pianista che non ho ancora visto in faccia.
Canto e mi avvicino, guardando quelle mani completamente tatuate che corrono sui tasti. Mani. Mani tatuate. Anche Yurij aveva le mani tatuate, così nobili, che correvano sui tasti, ma non è possibile, non è possibile. Le ricordo, quelle mani, accarezzarmi il viso, pulirmi il naso dal gelato, spettinarmi i capelli, masturbarmi delicatamente, prendermi per mano e guidarmi nella danza. Ricordo anche di averle baciate, di averle strette, di aver implorato di sentirle ancora sul viso, tra i capelli. Ma di nuovo non è possibile, non esiste, non possono essere le sue mani.
Il pianoforte stona e il pianista smette di suonare di colpo. Non faccio in tempo nemmeno a chiedermi perché che si volta verso di me.
E il mio cuore smette di battere per un secondo.
 

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Capitolo 4
*** After all, you're still there ***


CAPITOLO QUARTO: AFTER ALL, YOU’RE STILL THERE

Удержи мое сердце - словами
Скажи мне, если любишь меня!
Удержи мое сердце -губами
Ведь я всё еще люблю тебя..
 
(Reggi il mio cuore con le parole
Dimmi se mi ami!
Reggi il mio cuore con le labbra
Dopo tutto ciò, ti amo ancora)
[Ani Lorak - Удержи мое сердце]
 
Avrei riconosciuto quel modo di dire “люблюtra mille. La voce è cambiata, è più matura, più sofferente, eppure l’accento ucraino appena strascicato non si è cancellato. Come non si è cancellata la luce speciale nei suoi occhi d’ambra.
Sono qua, immobilizzato dallo stupore, a fissarlo negli occhi.
È lui.
È Denis quello che ho davanti agli occhi, il mio amore, il mio bambino, il mio Denisoch’ka della Crimea.
È lui e io non riesco a fare altro che non sia guardare il ragazzo che mi aveva salvato la vita cinque anni fa, sulle rive del Mar Nero. Non riesco nemmeno a processare il fatto che lui sia di nuovo qui davanti a me, che sia vivo, che sia così bello, che semplicemente sia.
-D … Denis … - esalo, sentendo le gambe tremare e gli occhi annebbiarsi.
Lui rimane un secondo immobile prima di urlare, a pieni polmoni, come quando era ragazzino e mi chiamava dalla finestra quando arrivavo la mattina
-Yurij!
Mi salta al collo, facendomi barcollare e lo sento piangere, così forte da tremare violentemente. Il suo odore, è cambiato così tanto: adesso sa di colonia, di dolcezza dissimulata, di malinconia, ha perso il sapore di sale, di sole, di fanciullezza che aveva all’epoca, ma c’è qualcosa che è lui e solo lui ed è questo che mi fa commuovere, mentre lo stringo forte a me, affondando il naso nei suoi capelli scuri tutti arruffati. Non ci voglio credere, di averlo ritrovato, di riaverlo accanto. Non ci voglio credere perché ho paura che sia un sogno.
-Yura … Yura … - Denis ansima e mi stringe, piangendo come una fontana.
-Denisoch’ka … - lo abbraccio ancora più stretto, cercando di trattenere le lacrime. – Come … cosa … dio mio … oddio …
Tiro su col naso, per non scoppiare a piangere a mia volta. Tutto questo è completamente fuori da ogni grazia divina eppure lui è qui, tra le mie braccia, lui, col suo profumo, la sua voce, i suoi capelli, il suo viso.
Lo allontano gentilmente da me, continuando a tenerlo nel terrore che si dissolva nel fumo del locale e lo guardo negli occhi. È cambiato così tanto, ma contemporaneamente non è cambiato di una virgola. Gli occhi femminili di quel meraviglioso colore ambrato sono più maturi, più feriti, più sopraffatti da qualcosa senza nome ma non hanno perso la luce viva, terribilmente viva, che avevano all’epoca. E poi il naso schiacciato con l’anello alla narice, il ciuffo spettinato, la mascella squadrata. E la pelle pallida non più rovinata dall’acne dilagante, il fisico sottile ma allenato completamente diverso dal mucchietto d’ossa che mi ricordavo, l’aria adulta ma ancora bambina: è ancora più bello di quanto me lo fossi mai potuto immaginare. Ma non è solo la bellezza esteriore a questo punto: sono anche le lacrime che gli inondano il viso, il labbro tremante, l’espressione più smarrita e più ritrovata che abbia mai visto.
Il ragazzo che avevo amato per un’estate adesso è davanti a me, ancora più bello, ancora più spezzato ma incredibilmente vivo, tangibile e ancora mio, come se non lo avessi mai lasciato andare.
-Denisoch’ka … tu … oh dio, ma come stai?
Lo so che probabilmente non è la cosa più romantica da dire ma sono rimasto a corto di parole.
Lui arrosisce, si guarda un attimo intorno e poi mi salta di nuovo al collo, cercando di trattenersi dal piangere.
-Sto che sono felice. Felice, felice, felice.- balbetta, e sento le sue lacrime bagnarmi il collo. Gli accarezzo la schiena, affondandogli il naso nei capelli.
-Non hai più le ciocche bionde.- sorrido, spettinandogli la zazzera scura.
-E tu hai i capelli molto più lunghi. Stai bene.- mi sorride a sua volta.
-Ti sbrodoli ancora quando mangi il gelato?
Quante volte gli avevo pulito il naso con un bacio.
-No, mi sa di no.- diventa un po’ rosso e mi prende la mano. Quasi istintivamente controllo che non abbia anelli al dito e sospiro di sollievo quando vedo che non ne ha.
-Amore.- dico, semplicemente. Sono cinque anni che non pronuncio questa parola – Amore, dimmi che esisti veramente.
-Potrei farti la stessa domanda.- mi accarezza il viso e tremo a sentire sulla pelle quelle mani callose e un po’ impacciate. Me le ricordo ancora dai tempi della Crimea, grandi e un po’ sproporzionate, con quelle unghie mangiucchiate. – Yuroch’ka … mi sei mancato.
Mi viene quasi da ridere. Sei mancato anche a me, bambino. Ho pianto notti intere sulle tue foto, non ho fatto altro che guardare i filmini della Crimea tutti i santi giorni per cinque anni, ho cercato te in ogni uomo che ho avuto, ho singhiozzato ogni volta che sentivo un nome simile al tuo, ti ho sognato tutte le notti, in un momento di disperazione ho tentato il suicidio pensando che non ti avrei mai più rivisto. Sì, maledizione, mi sei mancato.
-Anche tu.- mi limito però a rispondere, cercando di sorridere e di non commuovermi anche se le lacrime cominciano a tradirmi – Mai avrei pensato di ritrovarti a Londra …
Mi prende entrambe le mani e sorride ancora, con quel suo sorriso più luminoso della luna russa, quello che illuminava le notti della Crimea e che mi ha fatto tanto patire in questi cinque anni.
-Vuoi venire a casa mia?- chiedo, e la voce trema appena.
-Voglio venire dovunque tu sia, Yura.- mi stringe la mano e mi abbraccia di nuovo e io penso che tutto questo non può essere vero, che non posso aver ritrovato il mio Denisoch’ka in questo locale fumoso.
Ho paura che le gambe non mi reggano mentre usciamo nella fredda notte londinese, stretti uno all’altro come all’epoca come se non ci dovessimo mai lasciare andare.
-Cosa ci fai a Londra?- chiedo, spettinandogli ancora i capelli.
-Sono scappato dalla guerra.- risponde, e mi guarda. Ha gli occhi molto più tristi rispetto a cinque anni fa. C’è un dolore, una consapevolezza nuovi dentro, la luce di chi ha visto già troppo e mi chiedo cosa sia successo in cinque anni al mio bambino, quella perla preziosa che avrei voluto difendere strenuamente. Mi ero ripromesso che l’avrei protetto da tutto, in Crimea. Invece l’ho lasciato andare e non sono stato al suo fianco quando avrebbe avuto bisogno di me. – Ho intenzione di sistemarmi il più rapidamente possibile per far venire qui mia mamma e le mie sorelle. La situazione a casa è da paura, Yura, non potevo rimanere a Kharkiv ancora.
-Mi dispiace, Den.- come al solito, sbaglio sempre la cosa da dire – Avessi saputo …
Avessi saputo cosa, Yurij Ivanovich. Te ne sei andato e l’hai abbandonato a sé stesso, tu, che hai dieci anni più di lui e che avresti dovuto proteggerlo.
-E tu cosa ci fai qui?
Soffro e basta.
-Lavoro come fotografo. Ti ricordi in Crimea?
-Facevi delle foto orribili, Yura. Erano raccapriccianti.
Ci guardiamo e scoppiamo a ridere entrambi, senza sapere perché, un riso isterico e selvaggio quasi liberatorio per due uomini uccisi dalla vita che finalmente hanno trovato una luce in fondo al tunnel. Gli passo un braccio attorno alle spalle e me lo stringo contro e lui mi affonda il viso nella spalla, mentre saliamo nel mio appartamento.
Il salotto è disordinato, pieno di foto, di bottiglie di vodka vuote, di scatolette di antidepressivi e ansiolitici. Niente di cui vado fiero, ma niente che Denis già non abbai sperimentato sulla sua pelle. Lo vedo tremare appena quando lo faccio entrare, imbarazzato o forse eccitato, non saprei dire. Si passa una mano tra i capelli e poi sorride, con quel sorriso stupendo e mi prende per mano, trascinandomi sul divano sfondato dove passo le mie giornate miserabili. Eppure adesso, con lui, anche questa casa disperata sembra illuminata da una luce nuova.
Sprofondiamo sul divano, mano nella mano e mi viene da ridere, perché tutto questo è assurdo e bellissimo contemporaneamente. Gli accarezzo i capelli e gli metto il ciuffone dietro l’orecchio.
-Sei bellissimo, tesorino.- gli dico.
-Tu sei bellissimo.- ribatte, e mi passa una mano tra i capelli.
Sono passati cinque anni ma mi pare che non sia passato nemmeno una notte dall’ultima volta che l’ho visto. Gli stessi sorrisi, gli stessi gesti teneri, gli stessi toni dolci e sommessi. Ma potremmo veramente fare finta che non sia passato così tanto tempo? Lui mi perdonerà per non essermi mai fatto vivo? Riusciremo a riavere quello che abbiamo avuto un tempo? Ritroveremo i vecchi sorrisi, le vecchi battute, le vecchie confessioni? O dovremo ricostruire tutto d’accapo?
-Mi sei mancato così tanto, Yuroch’ka.- piagnucola Denis, e mi si accocola vicino.
Tremo. È la stessa cosa che faceva quando era ragazzino, lo stesso modo di stringere le ginocchia al petto e posarmi la testa sulle gambe, la stessa aria beata quando io comincio a massaggiargli delicatamente la testa. Mi sembra ieri che faceva la stessa cosa sulle spiagge della Crimea.
-Denis … scusa.- sputo, poggiandomi allo schienale del divano – Pasticcino, scusami.
-Per cosa?- alza appena gli occhi verso di me.
-Per non essermi fatto vivo in cinque anni. Avrei dovuto venire a cercarti. Avrei … oh, fanculo. Scusa, amore mio.
Gli stringo forte la mano e lui sorride, un sorriso così triste da fare male al cuore.
-Non osare mai più chiedermi scusa per qualcosa di cui non hai colpe.- dice e si mette in ginocchio sul divano, continuando a tenermi la mano. È così bello. – Yura, le cose sono andate come sono andate. Ci siamo trovati. Ci siamo persi. Ci siamo ritrovati. Ma tu continui a stare male come cinque anni fa, te lo leggo negli occhi.
E ora come gli dico che ho tentato di nuovo il suicidio, quando cinque anni fa gli avevo promesso che non l’avrei mai più fatto?
-Mi conosci.- mi limito a dire – Sono una causa persa.
Provo a sorridere, ma appena l’occhio mi cade sulla scatoletta vuota degli antidepressivi mi passa la voglia anche solo di provarci.
Denis mi fissa e sospira, accarezzandomi ancora il viso, passando il dito sul mio naso lungo e dritto. Non mi crede, lo so. C’è lo scritto in fronte “depresso suicida con crisi di panico che non sa cosa fare della sua vita”.
-Tutto questo tempo senza vederti e adesso mi sembra che non sia passato nemmeno un giorno.- dice.
-Dormi sempre con Tovarish Oppa?- sorrido, al ricordo di quel grosso pelouche a forma di coniglio rosa e azzurro.
-Sempre.- ride e getta indietro la testa – Hai qualcuno?
Ho aspettato te e basta, cucciolo.
-Solo, come mi hai trovato. E tu?
Dimmi che sei solo. Dimmi che sei mio. Dimmi che mi ami ancora.
-Certo che sono solo.- lo dice con un tono quasi offeso – C’è sempre stato solo un uomo per me, Yura, dovresti saperlo.
-Anche se quell’uomo ti ha abbandonato e non si è mai più fatto vivo?
Dio, quanto mi odio.
-Lui non mi ha abbandonato. Era ferito, e non riusciva a guarire. Io ero perso, e non riuscivo a ritrovarmi. A volte le strade si separono da sole.
Ci guardiamo nel profondo degli occhi ed è qui che lo afferro per le spalle e lo bacio con tutta la passione che ho tenuto dentro per questi cinque anni. È incredibile averlo ritrovato qui dopo tutto questo tempo, è incredibile che mi ami ancora, è incredibile che sia sempre rimasto il meraviglioso ragazzino che ricordavo. È tutto così incredibile che devo sentire le sue labbra sulle mie per sapere che non sto sognando. Sanno di fumo, di Ucraina, di vodka, di dolore, di passione, di perdita. Così diverse da quelle impacciate che mi ricordavo, che sapevano di gelato e caramelle alla fragola. Queste sono labbra adulte, mature, malinconiche anche mentre mi divorano la bocca. Lo stringo a me, ricercando ancora quel calore perduto, beandomi delle sue mani tra i capelli. Quando ci stacchiamo per respirare ho gli occhi lucidi, mentre vedo le sue lacrime tornare a sporcargli il viso bellissimo.
-Non piangere, Denisoch’ka.- mormoro, asciugandogli il pianto con la mano.
-Come faccio a non piangere quando ti ho ritrovato, Yura?- sbotta lui, e ricomincia  a singhiozzare, come ai tempi della Crimea quando vedevamo Mosca non crede alle lacrime sul mio divano letto.
-Sorridi. Ti prego, sorridi.- gli dico, trattenendo le lacrime – Sei così bello, amore, così bello.
Lui piange più forte e mi stringe, tornando a raggomitolarsi come un gatto ed è lì, con lui tra le braccia e il suo sapore sulle labbra che, finalmente, scoppio a piangere anche io.

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Capitolo 5
*** I'll save you from yourself ***


CAPITOLO QUINTO: I’LL SAVE YOU FROM YOURSELF

I will be all that you want, and get myself together
Cause you keep me from falling apart
All my life, I’ll be with you forever, to get you through the day
And make everything okay
[Avril Lavigne – I Will Be]
 
-Oh, sì, Yura, sì, ah, oddio …
Sono ridotto a un ammasso gemente e strillante, gambe avvolte attorno al bacino di Yurij, mani disperatamente aggrappate alla sua schiena e testa rovesciata all’indietro. Mi era mancato così tanto fare sesso con lui, ma così tanto che in questi giorni non stiamo praticamente facendo altro che saltarci addosso in continuazione. Ma è più di sesso, è più di amore: sono due giovani uomini che vogliono di nuovo tastare i propri corpi per sapere di essere ancora vivi, vogliono sfregare pelle contro pelle nella speranza di risentire quell’odore di sale e di sole che avevano in Crimea, vogliono scavarsi dentro e possedersi con tutta la violenza possibile per giurarsi che non si lasceranno mai più andare. È questo quello che facciamo io e Yurij: cerchiamo di ricordarci di essere vivi, insieme e innamorati. Ed è questo che lui mi sta imprimendo nel cervello mentre mi sbatte dentro e fa tremare il letto, mentre mi bacia e ansima il mio nome, mentre io gli tiro i capelli scuri e lo spingo ad andare più veloce, a farmi urlare come un disperato tutte le sconcezze che mi vengono in mente, a marchiarmi a fuoco per essere suo e per sempre suo.
-Dio, Yura, sì, sì, uhm, vai più veloce, ti prego, oddio …
Continuo a sproloquiare, e nel frattempo penso a quanto lo amo.
A quanto sia stato fortunato ad averlo ritrovato.
A quanto sono convinto che adesso niente ci separerà.
Avevamo passato giorni paradisiaci in Ucraina, cinque anni fa, e adesso sono convinto che inizierà la nostra splendida vita insieme. Magari cadremo, magari soffriremo. Magari piangeremo, magari litigheremo. Ma saremo insieme ad affrontare una vita che ci vuole morti, lotteremo fianco a fianco fino all’ultimo giorno delle nostre vite, ci ameremo di un amore così viscerale da incendiare i cieli inglesi di mille stelle. Non lascerò andare Yurij adesso che l’ho ritrovato, adesso che finalmente posso dirmi felice dopo tutto il vuoto e l’inadeguatezza provati in questi cinque, maledetti anni.
Vengo urlando il suo nome, schizzando sperma dappertutto e godendo silenziosamente quando sento lui venire gemendo dentro di me. Era un ricordo che non ero mai riuscito a rinverdire, il piacere di sentirlo completamente mio, di bagnarci a vicenda del nostro seme, di abbracciarci e raggomitolarci sudati tra le coperte luride, ancora ansimanti. Nessuno mi ha mai fatto eccitare e godere quanto lui e adesso … adesso sono di nuovo suo. In tutti i sensi.
Mi cade a fianco ansimando e io mi stringo al suo fianco, come quando ero ragazzino, posandogli la testa sulla spalla e facendomi accarezzare i capelli con quei movimenti lenti e metodici che mi facevano venire sonno. Mi bacia la fronte.
-Mi eri mancato, pasticcino.- mi dice, con la voce arrochita dalla passione e mi bacia di nuovo.
C’è sempre così tanta tristezza nei suoi baci, così tanta malinconia nelle sue carezze, così tanta nostalgia nei suoi piccoli gesti affettuosi. È ancora un uomo distrutto, ma non posso fare a meno di credere che guarirà. E lo farà grazie a me, al mio amore infinito, alla dedizione che ho deciso di dedicargli.
-Ti amo, Yura … - miagolo, infilandogli la sigaretta tra le labbra e guardandolo sorridermi appena.
-Ti amo anch’io, bambino mio. Ti ricordi la Crimea? La mia camera azzurra dove avevano fatto sesso per la prima volta. Eri così impacciato che facevi tenerezza.
-Ti sei preso la mia verginità, ragazzo, ridi poco.- gli do un pizzicotto sul braccio e poi torno a baciargli il viso, sbavandolo un po’, come quando ero ragazzino e producevo una quantità di saliva fuori dalla norma. – Ero così brutto quando avevo diciassette anni.
Yurij mi guarda e mi bacia con dolcezza
-Eri bellissimo anche all’epoca. Sei sempre bellissimo, tesorino adorato.
Rimaniamo un po’ in silenzio a baciarci e a guardare il soffitto, giocando distrattamente con le dita uno dell’altro. Vorrei solo essere felice al suo fianco. Vorrei solo poter toccare con mano il cielo e portargliene un pezzetto, per vederlo finalmente sorridere col cuore.
Non l’ho ancora visto sorridere veramente. È sempre così tanto triste. Ma lo amo, lo amo di un amore tenero, affezionato, infantile, un amore sbocciato d’estate e perdurato per mille inverni. Lo salverò dalla sua disperazione, lo porterò lontano dai suoi demoni e lo sposerò, strappandolo definitivamente ai mostri che albergano nella sua testa. Lotterò per lui, come avevo lottato anni fa. Non lascerò che la sua depressione se lo mangi vivo.
-Amore, vuoi ballare?
-Come, scusa?
Mi guarda e si alza quasi di scatto, tendendomi la mano.
-Come facevamo in Crimea. Un valzer. Un ultimo valzer, zuccherino, e poi voleremo insieme nei cieli siberiani.
Lo guardo e sento le lacrime cominciare a bruciarmi gli occhi.
Allora se lo ricorda. Noi due, in quel locale, a ballare come se fosse l’ultimo giorno delle nostre vite. Noi due a danzare via la notte, stretti uno all’altro per non morire. Noi due e basta, contro il mondo che ci voleva morti.
Scoppio a ridere e lo prendo per mano, saltellando in salotto. Siamo nudi, tatuati, sudati e spettinati ma non ci importa, non mentre lui mette quel disco dei Goo Goo Dolls che ascoltavano lui e i suoi amici all’epoca e io spalanco le finestre, facendo entrare l’aria fresca della sera.
-Ti ricordi come si balla, cucciolo?
Mi prende delicatamente per la vita e mi stringe a sé, baciandomi le labbra con una dolcezza tutta nuova. Sorride e quando sorride così diventa l’uomo più bello del mondo. È un misto di tristezza, tenerezza e affetto dolente. È quello che io chiamo “Yurij Seriabkij”.
Quando parte la musica di Broadway, così inadeguata per una situazione come questa, cominciamo a muoverci.
Io, impacciato e imbranato, lo stringo forte e comincio a muovermi ondeggiando, cercando di seguire i suoi movimenti aggraziati e signorili.
E così balliamo.
Balliamo come se non ci fosse un domani, balliamo inciampando, balliamo anche se io continuo a non esserne in grado, ma non ci importa, non ora che siamo insieme in terra straniera.
Gli poggio la testa sul petto e lui mi bacia la fronte, facendomi fare una perfetta giravolta. Gli sorrido e lui ricambia il sorriso, baciandomi con passione tra un giro e l’altro. È tutto così bello che potrei piangere.
Siamo insieme, nonostante tutto, e possiamo di nuovo ballare come ai tempi della Crimea, quando improvvisavano strane gighe sulla spiaggia, accanto al falò. Possiamo dire di essere insieme e di combattere l’uno per l’altro, possiamo dire di amarci come dei pazzi, possiamo dire di essere fatti per stare insieme e per ballare fino al mattino ogni notte come stiamo facendo adesso.
Guardo fuori dalla finestra e vedo la piccola luna inglese. Sogno che sia quella ucraina, enorme disco latteo che ha benedetto tutti i nostri incontri più dolci, le nostre risate più vere, le nostre danze più sentite. La luna della Crimea non può essere sostituita, così vera, verace, sensuale ma va bene anche la luna inglese, ora che siamo cresciuti, che siamo uomini, che abbiamo visto gli orrori più profondi della guerra civile e della depressione, ora va bene anche questa, perché è malinconica al punto giusto, è sofferente come lo siamo noi.
-Ti amo tanto, Yura.- quando il disco finisce e noi rimaniamo ancora abbracciati di fronte alla finestra, guardando la strada movimentata sotto di noi. – Promettimi che terrai duro.
Lui non mi risponde. Si limita a sospirare molto rumorosamente e a baciarmi i capelli. Per un attimo, mi sembra che stia tremando. Per un attimo, cerco di convincermi che andrà tutto bene.
 
Yurij
Siamo di nuovo a letto, e abbiamo di nuovo fatto sesso. Questa volta è stato molto più selvaggio, molto più erotico, molto più scenografico.
Adesso Denis dorme e io lo guardo, con le lacrime agli occhi. È così bello, il mio bambino. Non mi merito il suo amore, la sua dedizione infinita, non mi merito nulla di lui, né il suo corpo né la sua anima.
Gli accarezzo distrattamente i capelli arruffati e gli poso un bacio timido sulla spalla.
Sono un uomo distrutto, in tutti i sensi e anche adesso che ho ritrovato il mio Denisoch’ka non riesco ad essere in pace con me stesso. C’è sempre qualcosa che mi blocca dall’essere felice e quel qualcosa è quella maledetta depressione che mi rovina da quando sono venuto al mondo.
Sono depresso, c’è poco da dire. Non riesco a vedere altro che dolore, dolore e dolore dovunque mi volgo. È il male terribile che covo dentro al cuore e dal quale non riesco a liberami, è l’orrore con cui mi devo misurare ogni giorno.
Avevo sperato che con Denis di nuovo al fianco sarei migliorato, eppure quel famoso dolore è sempre lì, al posto del cuore, come un cancro assassino che mi divora vivo.
Io amo Denis, senza se e senza ma. Amo i suoi passionali occhi ucraini, la sua voce dolce, il suo viso squadrato, i suoi capelli spettinati e il suo modo di sorridere. Amo il fatto che sia maturato così tanto, e che non abbia più quella cocciutaggine infantile che aveva un tempo. Amo la sua dolcezza e la sua dedizione nel controllarmi le medicine, nel vedere che io stia bene, nel cercare di salvaguardarmi dal mondo. Amo le sue battute, la sua risata squillante, i suoi baci e le sue promesse. Amo la sua allegria, la sua passione, la sua gioia di vivere. Amo tutti di lui, ma non amo me stesso. Non voglio rovinarlo, non voglio fare del male all’unico uomo che abbia mai amato. Perché so, e lo so bene, che a stare con me morirà anche lui. Lo farò soffrire disperatamente, lo ucciderò lentamente perché lui non ha ancora capito del tutto cosa voglia dire prendersi cura di un depresso suicida con problemi di ansia sociale, lui pensa che basti l’amore a salvarmi. Ci ho creduto anche io, ma ormai non ne sono più così sicuro. Basterà il mio Denisoch’ka per combattere contro i demoni che infestano la mia mente? Basterà, oppure lo trascinerò all’inferno con me?
Non lo so e forse non lo voglio nemmeno sapere.
Lo guardo dormire e gli accarezzo i capelli, lentamente, guardandolo aprire appena gli occhioni scuri
-Uhm … amore … è ora di alzarsi?
-E’ notte fonda, cucciolino, dormi.- mi chino a baciarlo.
-Dormi anche tu, allora.- miagola, scalciando un po’.
Sospiro e lo bacio ancora, lasciando che mi si addormenti addosso, come un grosso gatto bisognoso di affetto. Vorrei tanto poter dormire sogni tranquilli, Denisoch’ka. Vorrei tanto poter essere normale, darti tutto quello che ho, trattarti come una principessa, farti vivere la vita perfetta che ti meriti.
Ma io non sono così. Sono perso, sono un disastro, sono già morto e non so più cosa fare della mia vita.
Aiutami, bambino mio.
Ti prego, Denis, salvami da me stesso.

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Capitolo 6
*** I'm too young for all this sorrow ***


CAPITOLO SESTO: I’M TOO YOUNG FOR ALL THIS SORROW

If I let you in, you’d just want out
If I tell you the truth, you’d vie for a lie
If I spilt my guts, id’d make a mess we can’t clean up
If you follow me, you’ll only get lost
If you try to get closer, we’ll only lose touch
But you already know too much, and you’re not going anywhere
[Bring Me The Horizon ft. Lights – Don’t Go]
 
Sono passate tre settimane da quando io e Yurij ci siamo ritrovati, e sono passate tre settimane nelle quali qualcosa dentro di me si è spalancato. Sto … meglio. Rido di più, sorrido alla vita, ho di nuovo gli occhi luccicanti come li avevo quell’estate. Da quando sono potuto tornare a dormire tra le sue braccia, riesco finalmente a non avere incubi, riesco a vedere la bellezza dove prima non la trovavo, riesco a guardare alla vita con la vecchia gioia che la guerra civile aveva cancellato.
Eppure, quanto io mi sento a posto con me stesso, tanto mi pare che il mio Yurij stia pian pianino deperendo sempre di più. È sempre così stanco, c’è una sofferenza tale nei suoi occhi che mi fa stringere il cuore. Perché mi ricordo della Crimea, e mi ricordo della sua depressione. Mi ricordo del suo dolore, mi ricordo delle sue paure. Mi ricordo qualunque cosa lo riguardasse e adesso che siamo tornati insieme come quell’estate, mi pare di rivivere sulla pelle le stesse vicende, gli stessi orrori.
 
-Come mai sei sempre triste, Yura?
Lui continuò a fumare, stravaccato accanto a me e mi sorrise appena.
-Sono cose che non puoi capire, Denisoch’ka.
Mi strinsi al suo fianco, le nostre pelli nude e sudate a contatto, in mezzo al lenzuolo stropicciato. Mi strinsi a lui e lo guardai negli occhi, cercando di imprimermi nelle narici il suo profumo.
-Allora aiutami a capirle. Cos’è successo?
-Niente, amore. La depressione è una brutta bestia da combattere.
-Cosa vuol dire?
-Vuol dire che il mio corpo vuole vivere, disperatamente. Ma la mia mente si oppone. Voglio morire, perché mi sembra che tutto il mondo mi sia avverso. Sono stanco, di una stanchezza metafisica. Eppure in qualche maniera sono ancora appeso a questa vita, anche se lotto in tutti i modi per lasciarmi andare. È una brutta bestia perché in fondo non vuoi davvero morire, vuoi solo che questo dolore si calmi e non sai come fare a placarlo. Sto male, Denisoch’ka, sto molto male.
Fu un attimo prima che lo stringessi con tutta la forza contenuta nelle mie braccine da diciassettenne ossuto.
-Non ti lascerò andare, Yura, per nessuna ragione al mondo. Lotterò con te fino all’ultimo giorno delle nostre vite.
Lui non mi disse niente si limitò a sorridere e a scompigliarmi i capelli.
Non ci credeva.
Non mi ha mai creduto.
 
Mi sembra di essere tornato a quei giorni bollenti. Lui sorride ma riconosco perfettamente il demone che si nasconde dietro a quel sorriso. Mi bacia con una malinconia quasi dolorosa. Quando parla sento la tristezza soffocata di quando cantava le canzoni dei Goo Goo Dolls.
Anche adesso, sdraiati a letto, tra le lenzuola stropicciate, mi sembra di essere tornato in quell’estate.
Gli accarezzo il petto tatuato, baciandogli distrattamente la clavicola. Respira pesantemente, fumando e ogni volta che tento di vedere dove vaga il suo sguardo,  lo vedo perso nel nulla. Ma so che non è il nulla pacifico di qualunque altra persona, è il nulla devastante che solo lui può vedere, è l’inferno che gli si spalanca davanti agli occhi quando rimane solo, è l’incubo che non lo lascia mai stare.
Sembra peggiorato ancora in questi cinque anni, sembra più stanco, più perso dentro sé stesso. Sospiro rumorosamente.
-Yura.
Non mi guarda, continuando a starsene nel suo brutto mondo parallelo che lo soffoca.
-Yura, guardami.
Non mi guarda.
Gli volto il viso verso il mio e lo bacio con ferocia, forzandogli le labbra con la lingua. Un bacio passionale, rabbioso, un bacio che gli vuole dire “torna su questa terra, torna tra noi, torna da me”. Un bacio di quelli da cosacco ucraino, quelli che ci ricordano la passione dell’estate in Crimea.
Lui risponde lentamente al bacio, con quella sua melancolia naturale e poi si stacca, tornando a fumare, un braccio attorno alle mie spalle e l’aria abbandonata.
Sbuffo e mi metto a sedere, scostandomi i capelli spettinati dal viso.
-Amore, per favore. Cosa c’è. Hey, guardami.- gli prendo il viso e lo giro verso di me – Yurij Ivanovich. Sono serio: cosa ti sta succedendo?
-Niente, cucciolo, niente, non ti preoccupare.- borbotta lui, dandomi un buffetto sulla guancia e stampandomi un bacio sulla punta del naso.
Cado mollemente di nuovo sul letto sfatto e mugolo di disappunto. Perché, dannazione, tutto questo mi ricorda troppo la Crimea. Il suo ostinarsi a dire che andava tutto bene, i suoi occhi persi nel vuoto, la mia impossibilità a capire cosa stesse succedendo, il divario naturale che si instaura tra di noi quando lui cade nel baratro. E io sono qui, che annaspo perché di nuovo non so come fare per aiutarlo a salvarsi da sé stesso. Vorrei tanto che ci fosse un modo per farlo sorridere, ma sorridere veramente. Pensavo, mi ero illuso, che riunendoci ci saremmo finalmente potuti salvare a vicenda. E invece no. Lui è insalvabile.
 
-Yura, guarda il tramonto! Non ti ricorda quello della Crimea?- strillo, stringendogli il braccio.
L’ho trascinato di peso a fare una passeggiata sul Tamigi, la sera, non so nemmeno io perché. È in caduta libera, e me ne sono perfettamente accorto. Sono giorni ormai che a stento mangia, che si trascina per casa come uno zombie, che si ostina a dirmi “sto bene, amore” quelle rarissime volte che parla. Non sorride più e questo mi uccide ogni volta. Ormai è praticamente passato un mese e quello che all’inizio sembrava promettere come la più bella delle storie d’amore adesso si sta tramutando in un lento e limaccioso scorrere di sguardi, antidepressivi, terrore cieco. Non voglio perderlo, è di quanto più prezioso mi rimane. Non esiste che mi venga strappato dalla sua stramaledetta depressione.
Lo guardo fisso e lui annuisce, distratto, continuando a fumare.
Oggi è uno dei giorni brutti, in cui sembra che si stia per suicidare da un momento all’altro, in cui si trascina nell’esistenza come un completo estraneo, in cui mi fa soffrire così tanto. Ci sono anche volte in cui sembra stare meglio, in cui interagisce, sorride un pochino, parla anche, ma negli ultimi tempi queste volte si sono ridotte così tanto da farmi temere che non torneranno più.
-Dai, tesoro, dimmi qualcosa.- insisto, tirandogli la manica della camicia – Ti ricordi quando ci siamo baciati per la prima volta? Eravamo sulla spiaggia e c’era il tipico tramonto infuocato che incendia i cieli ucraini. Mi avevi preso la mano  e mi avevi stretto a te, per poi sollevarmi il viso con un dito e baciarmi con tutta la tua delicatezza speciale. Era stato stupendo. Rammenti, Yuroch’ka?
Spero ardentemente che mi dica sì. Che mi afferri di nuovo per la vita e che mi baci di nuovo come quella volta di cinque anni fa.
Ma non lo fa.
-Sì, Denis.- si limita a dire, e non mi inganno quando vedo delle lacrime ustionargli gli occhi grigi.
E adesso perché piange? Perché? Perché non riesco a salvarlo?
 
-Yura, mangia.
Ho le lacrime agli occhi mentre glielo dico.
Mangia sempre meno, e non importa che io prepari la roba che so che più gli piace, lui ci gioca un po’, ne mangia un goccino e poi la lascia lì, trascinandosi sul divano da dove si alza giusto per prendere le medicine. Io non ne posso più di questa situazione. Ero scappato da Kharkiv alla ricerca di una vita migliore, non volevo sprofondare all’inferno con l’uomo che amo.
-Per favore, amore, almeno un goccino.
Prendo la forchetta e tento di imboccarlo con tutta l’amorevolezza di cui sono capace, ma lui non reagisce. Sposta solo la forchetta e si alza, trascinandosi verso il divano. Adesso non mi dice nemmeno più “non ho fame.” Non mi dice più “ti amo”. Non mi guarda nemmeno più negli occhi e io mi riduco a piangere tutte le notti, raggomitolato in un letto ormai freddo. Non so più come fare, sono sprofondato in una disperazione senza limiti.
Mi alzo a mia volta e mi pianto di fronte a lui, davanti a quel divano che ormai ha assunto la sua forma. Non so nemmeno più io cosa voglia fare. Se mettermi a piangere. Se lasciarlo. Se continuare a lottare una guerra che ormai è persa alla grande. Non lo so, non so più niente, ho solo ventitre anni, maledizione, ero venuto qua per allontarmi dalla guerra, non per iniziarne una personale con lui.
Lo guardo, e mi rendo conto di quanto sia invecchiato in questo momento. Di quanto vuoto osceno ci sia nei suoi occhi color di perla. Non sono più tristi, non sono più disperati, sono semplicemente vuoti, privi di ogni emozione, di qualunque cosa che possa considerarsi umana. E questo mi uccide, perché io mi ricordavo occhi belli, occhi vivi, occhi che sì, soffrivano, ma non si arrendevano. Erano occhi che parlavano, mentre questi sono ormai muti per sempre.
Mi guarda, ma non mi vede. Chissà quali mostri vede al mio posto.
-Yura. Non ce la faccio più.- gli dico, e mentre parlo mi sto rendendo conto di star piangendo. Un pianto furioso, silenzioso, devastato – Io non so cosa ti stia succedendo ma ci stiamo uccidendo entrambi. Perché non vuoi che ti aiuti? Perché ti stai lasciando andare così? Perché, Yurij, perché?! Ti amo, ti amo da impazzire e non so più come fare a vederti così distrutto. In cosa ho mancato, perché ti stai autodistruggendo? Per favore, parlami, fammi un cenno, qualunque cosa, ti prego!
Mi rendo conto di essermi messo a urlare, ma non mi importa poi molto. Voglio solo che si svegli, voglio che si animi, voglio che torni il vecchio Yurij. Voglio solo riavere indietro il mio fidanzato.
-Non ti ricordi la Crimea? Non ti ricordi tutti i momenti splendidi che abbiamo vissuto insieme, tutti i baci, le promesse, i valzer, le risate, le lacrime? Vuoi veramente buttare tutto all’aria? Yurij, ti scongiuro, torna in te! Ho bisogno di te, del tuo sorriso, dei tuoi abbracci. Ho bisogno del mio fidanzato, ho bisogno che tu viva accanto a me! Ti prego, ti imploro, ti scongiuro in ginocchio: non lasciarmi così, non abbandonarmi!
Urlo, e piango, piango così tanto come non ho mai pianto in vita mia, strepito con tutta la rabbia, la paura, il dolore che ho tenuto dentro per troppo tempo.
E poi gli tiro un ceffone. Così, un manrovescio con tutta la furia, il terrore, l’angoscia che provo, riverso tutto in questo schiaffo che gli stampo sulla guancia.

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Capitolo 7
*** (Never) Let me go ***


CAPITOLO SETTE: (NEVER) LET ME GO

God, keep my head above water
I lose my breath at the bottom
Come rescue me, I’ll be waiting
I’m too young to fall asleep
[Avril Lavigne – Head Above Water]
 
Lo guardo dormire, ma ormai ho deciso.
Non ce la faccio più.
Sono stanco.
Sono distrutto.
Sono … oh, al diavolo. Sono troppo andato per poter pensare di salvarmi, adesso.
Accarezzo distrattamente i capelli di Denis, addormentatosi dopo ore di pianti che io non ho consolato e penso a quanto sia bello e a quanto sia sbagliato quello che sto per fare. Ma adesso è arrivato il momento: sono vuoto, completamente vuoto, non sento niente di niente. Mi muovo come un automa verso la mia fine.
Mi alzo da letto e continuo a fissare il mio amante. Sarà l’ultima volta che potrò vederlo e questo mi uccide, ma capitemi, ormai sono già morto – la mia depressione ha avuto la meglio su di me, e adesso non c’è niente che mi possa salvare da me stesso. Non le medicine, non Denis e il suo sorriso.
C’era stato un tempo, in Crimea, quando avevo pensato che mi sarei potuto salvare, ma adesso, qui a Londra, ho capito che io sono fatto per finire la mia vita nella disperazione. Giuro che ci ho provato. Ho provato a lottare, ad aggrapparmi disperatamente a Denis ma non sto facendo altro che trascinarlo all’inferno con me e io non voglio questo per lui.
È ancora giovane, è un ragazzo, ha bisogno di vivere la sua vita, di trovare un altro uomo che lo ami e che lo idolatri com’è giusto. Cosa se ne fa di un rifiuto umano come il sottoscritto? Cosa potrò mai dargli io, depresso e suicida? Niente che non sia dolore e ancora dolore, lo stesso dolore da cui ha tentato di fuggire scappando dall’Ucraina.
Cosa sei, Yuroch’ka? Nient’altro che il fantasma di me stesso, nient’altro che un uomo distrutto che non merita più di vivere. Non voglio portare altra disperazione al mio adorato bambino. Ormai sono troppo stanco per poter continuare a sopportare questa vita maledetta.
Gli accarezzo ancora i capelli e lui continua a dormire, e piange, piange nel sonno.
È colpa mia. Come al solito è tutta colpa mia, non mi potrò mai perdonare di averlo fatto piangere.
Mi chino e gli bacio la fronte un’ultima volta. Mi mancherà il mio Denisoch’ka? Forse sì, ma ormai ho deciso e non ci sarà niente che potrà fermare il mio volere malato. Il mio è un dolore così forte, così coercitivo e soffocante che non può essere curato da niente che non sia il sonno eterno.
Dormirò tutta la vita e sognerò del mio amore, magari finalmente felice, magari sorridente, magari libero dalle catene che gli ho imposto.
Gli mancherò, perché lo so che gli farò del male anche adesso, ma almeno da questo potrà guarire, potrà farsene una ragione mentre se continuassi a stare qui, come un cancro lo divorerei vivo e non è quello che voglio. Voglio solo il meglio per lui, e io sono il peggio che poteva trovare.
-Volevo solo che tu fossi felice, amore.- sussurro, baciandogli i capelli.
Mi trascino in salotto, senza avere il coraggio di voltarmi e di vederlo lì addormentato e fisso la finestra.
Splende la luna in cielo e penso che forse avrei fatto meglio a morire bagnato dalla luna russa, violenta, verace e bellissima. Quanto è malinconica l’aria inglese, quanto mi ha fatto male. Ripenso alla Crimea, a tutto quello che abbiamo avuto insieme: i bagni in mare, le canzoni dei Goo Goo Dolls da cantare sotto le stelle, i baci dolcissimi, il sesso passionale nella camera azzurra, Mosca non crede alle lacrime per farsi due frignate, il profumo di sale e sole che ci profumava la pelle abbronzata, le promesse strette sotto la luna, le risate ad ogni ora del giorno, le passeggiate sulla spiaggia mano nella mano, le babke la mattina, i musi lunghi, i gelati alla vaniglia, le lunghe chiacchierate di musica e letteratura, i graffiti illegali, le brevi litigate furiose, tutto quello che aveva segnato l’estate più bella di sempre torna come un fiume in piena e mi travolge.
E poi l’averlo ritrovato, averlo potuto di nuovo stringere tra le braccia, e baciare quelle labbra piene, e suonare ancora le canzoni di Yulia Savicheva al pianoforte, e fare di nuovo l’amore fino a stramazzarci, e andare in giro insieme a vedere il tramonto, e tornare a parlare come all’epoca, quasi che non fosse passato un giorno da quei bollenti giorni della Crimea.
Apro la finestra, e il vento freddo della sera mi scompiglia i capelli.
Sento qualche lacrima cominciare a cristallizzarsi sulle mie guance mentre salgo in piedi sul davanzale e guardo nel vuoto. Non è un grande salto, ma è abbastanza da uccidere un uomo.
Mi sto per suicidare.
Di nuovo.
Sto per volare giù dalla finestra di casa mia.
Sto abbandonando Denis.
Sto per dirgli addio, per non rivedere più i suoi occhi d’ambra, per non risentire più la sua risata meravigliosa, per non toccare più la sua pelle sempre calda, per non abbracciarlo più.
Sto per dire addio alla vita, lasciando per sempre il mio posto al pianoforte del pub, i ricordi della Crimea, il ragazzo che dorme con me.
Lo vuoi veramente fare, Yurij?
Vuoi veramente dire addio a tutto questo, vuoi veramente lasciarti andare, morire, dimenticare tutto, arrenderti così?
Vuoi veramente smettere di combattere per dare retta alla tua depressione e alla tua mente malata?
Sì.
 
No.
No.
Cazzo, Yurij, che cazzo fai?!
Mi metto a urlare, come un pazzo, rotolando di nuovo nel salotto, buttando per terra tutto quello che incontra il mio cammino, piangendo, strillando.
Ma come ho potuto farlo? Come ho potuto anche solo pensare di abbandonare Denis?
-Yurij! Yurij, mio dio, cosa succede?!
Denis arriva di corsa nel salotto e io continuo a urlare disperato.
Lo vedo che guarda la finestra, guarda me, e caccia uno strillo, fiondandosi a chiuderla a doppia mandata. Poi si volta verso di me e mi plana al fianco, stringendomi con tutta la forza possibile, mentre singhiozza e mi soffoca.
-Yura, no … non farlo mai più … Yura, no …
-Scusami, Denisoch’ka, io … scusami …- ansimo, stringendogli disperatamente la maglietta.
Non voglio morire, voglio combattere.
Non voglio morire, voglio stare vicino al mio Denis.
-Shh, va tutto bene, va tutto bene.- mi ripete lui, baciandomi il viso. – Yura, sono fiero di te. Va tutto bene. Non mollare. Sono al tuo fianco. Ti amo. Ti amo tantissimo.
Continuo a piangere, ma mi rimprometto di combattere. Non posso lasciare solo questo ragazzo, non posso abbandonare Denis, che mi sta accanto sin dai tempi della Crimea.
Non posso.
-Ti amo anch’io, amore. Non lasciarmi mai andare.

THE END
 
***
Eccoci alla fine. Piaciuta la storia? Spero di sì. Vorrei che per favore non giudicaste quest'ultimo capitolo o che lo trovaste stupido/mal scritto/impossibile perché vi giuro che so di cosa sto parlando e vi giuro che è possibile.
Recensite e bacioni a tutti, grazie di aver letto e di aver seguito la storia
Charlie xx

 

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