Tomo's troubles di shanna_b (/viewuser.php?uid=41450)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
DEL PERCHE’
I 30STM NON HANNO FATTO LA SIGNING LINE A MILANO IL 12
FEBBRAIO 2008 (E HANNO CANNATO ‘THE MISSION’).
“Io
ti ammazzoooooo!! Ti ammazzoooooo!!”
“Dai,
Jay…
smettila!” Shannon teneva stretto il fratello come poteva, ma
Jared era a dir
poco furente.
“Ma
Shan… ha
rovinato tutto, non capisci?”
“Non
è il caso
di drammatizzare, Jared. Ho sbagliato e…” Tomo
tentava di scusarsi ma… quelle
erano le prime parole che riusciva a spiaccicare, rosso in volto e
imbarazzato.
“SBAGLIATO???”
Jared non aveva gridato così nemmeno sul palco e una vena
bluastra, sulle quale
le scrittrici di fan fiction avrebbero prodotto almeno dieci capitoli
di
sentita prosa, pulsava pericolosamente sul collo. “SEI UN
PROFESSIONISTA,
CAZZO!!”
“Ma
Jared
anche tu stecchi e…”
Shannon
dovette stringere in modo supplementare, per evitare che il fratello
prendesse
il volo diretto alla giugulare del loro chitarrista e Tim, con il
ciuffo di
sbieco in mezzo agli occhi, si mise davanti a Tomo, per fargli da scudo.
“IO
STECCO??
IO STECCO?? COME OSI????!!!” Jared era fuori di sé.
Tomo
tentò di
accampare una scusa: “Ma io volevo dire che capita di
sbagliare, non sono
l’unico, e…”
“Non
si può
sbagliare l’attacco di ‘The Mission’, non
si può, anzi… NON SI DEVE!! Doveva
essere un SOL e invece che cacchio era quell’accordo che ho
sentito nelle
cuffie? Ho perso metà dell’udito!! Per non dire
che ho dovuto fare finta che
qualcuno si stesse ammazzando nelle prime file per fermare
tutto...”
“Io…
Boh… Mi
sono emozionato e…”
“E-M-O-Z-I-O-N-A-T-O?”
Tim
cercò di
intromettersi, in difesa del suo amico: “Anche a me
è successo. Una volta
davanti a me, tra il pubblico, c’era
una tipa con la canottiera mezza tolta e le dita mi si sono paralizzate
e…”
Tim
si
interruppe subito quando Jared lo fissò con uno sguardo che
emetteva pericolose
saette azzurrognole: “Sto parlando con te, io? Tu non sbagli
mai, quando suoni,
e ti conviene continuare così se vuoi forse essere assunto
in pianta stabile,
un giorno.”
Tim
sorrise,
al settimo cielo, quasi commosso, spostandosi da davanti a Tomo e
facendo un
passettino verso Jared, gli occhi pietosi: “Davvero? Mi
assumi?”
Jared
incrociò
le braccia: “Ho detto ‘FORSE’. E ho detto
anche ‘UN GIORNO’.”
Shannon
sogghignò, spuntò da dietro il fratello e
mollò un po’ la presa su Jared: “Hai
anche detto che suona bene, però...”
“No.
Ho detto
che non sbaglia mai, non che suona bene. Non sbaglia… AL
CONTRARIO DI TOMO CHE
ADESSO LO AMMAZZOOOO!!!”
Jared,
approfittando della disattenzione del fratello, con un balzo si
avventò su Tomo
che cominciò a correre per il camerino mentre Tim diceva a
Shannon, che, stanco
marcio, si era accomodato sul divano con le gambe accavallate:
“Chiamo la
polizia?”
“Ma
no… che si
picchino… e il sangue lo recuperiamo per il blood ball di
domani sera!”
Tim
allora si
sedette anche lui sul divano mentre Jared e Tomo ci giravano attorno
rinfacciandosi errori musicali di ogni tipo e Tim e Shannon li
guardavano come
fosse una scenetta da recita scolastica.
“E
quella
volta che hai sbagliato gli accordi di ‘From
Yesterday’…”
“Non
è vero…
tu hai steccato ‘The modern
myth’…”
“Tu
hai
sbagliato perfino l’entrata con il violino, tre note in
croce…”
“E
chi si è
scordato le parole di ‘Oblivion’?”
“E
chi ha
cannato l’arpeggio di ‘The kill’? Eh?
Chi è stato?”
Toc-toc.
Un
battito improvviso alla porta interruppe la lunga e non esaustiva lista
di
errori: “CHI CAZZO E’ CHE MI INTERROMPE MENTRE
LITIGO?” disse un Jared infuriato
come non mai.
Era
Jon, che
mise dentro solo la testa: “Signing line o
tourbus?” disse, come se stesse
recitando l’Amleto di Shakespeare, quella parte con
‘Essere o non essere’, per
intenderci.
“Signing
line.” dissero in coro Tomo e Shannon (e anche Tim, ma
sottovoce, sperando in
un miracolo mariano).
“Tourbus.”
disse Jared, con aria compunta: “Tutti in albergo.”
Poi allungò il dito contro
Tomo, che era rimasto immobile vicino al divano, “Qualcuno
qui deve ripassare
gli accordi per il concerto di domani sera. Anche perché se
qualcuna là fuori
mi chiede perché abbiamo interrotto ‘The
mission’, e io lo so che almeno una
c’é, CHE CAZZO DICO?”
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
DEL
PERCHE’ TOMO MILICEVIC NON HA DORMITO LA
NOTTE TRA IL 12 E IL 13 FEBBRAIO (E S. VALENTINO NON
C’ENTRA…)
Tomo
teneva la
sua Gibson nera con l’amplificatore portatile bassissimo, in
modo da sentirla
solo lui. Per fortuna tutte le camere dell’albergo
extra-lusso in cui
soggiornavano i 30 Seconds To Mars erano
anche insonorizzate, altrimenti qualche ospite dello
stesso albergo
avrebbe potuto lamentarsi del rock che usciva dalla sua camera, anche
se a
basso volume.
Il
chitarrista
aveva appoggiato le partiture per chitarra sul tavolo e le leggeva
mentre le
provava.
E
gli riusciva
tutto benissimo.
Gli
accordi e
gli arpeggi erano perfetti, i pochi assoli meravigliosi, il ritmo
corretto.
E
ALLORA
PERCHE’ SUL PALCO SBAGLIAVA??
Tomo
si diede
un piccolo pugno in testa, risentito, e poi si passò le mani
sui capelli lisci
e scuri, buttando il plettro sul tavolo.
Ma
che diavolo
gli succedeva sul palco? Era un professionista, lui, come poteva
sbagliare quei
due semplici accordi che costituivano l’accompagnamento delle
canzoni dei
30STM? In passato aveva suonato cose anche più difficili di
queste, come mai
adesso non gli riuscivano?
L’uomo
appoggiò la Gibson sul tavolo e abbattuto si diresse verso
il letto e vi si
sedette pesantemente, sbuffando e guardandosi attorno.
Era
distrutto
e il suo bel viso era decisamente triste, i suoi occhi scuri un
po’ spenti, i
lineamenti tirati. Spettinato e con la barba lunga, si sentiva
decisamente a
pezzi.
E
le parole di
Jared gli avevano fatto un gran male, sentiva uno strano dolore al
petto, ma
non sapeva davvero cosa fare. Non voleva deluderlo, ma la soluzione non
la
sapeva, al momento.
Si
sentiva
come un pittore che avesse perso l’ispirazione e i quadri gli
riuscivano
soltanto come guazzabugli assurdi di colori pasticciati; come uno
scrittore
che, in un racconto, si trovava ad un bivio della trama e non sapeva da
che
parte condurre i suoi personaggi; come uno chef di alta scuola a cui i
nuovi
piatti uscivano senza senso, con i sapori non amalgamati e le salse
insipide.
Insomma,
UN
DISASTRO.
Si
prese la
testa tra le mani, disperato.
C’erano
ancora
poche date e poi la tournee era finita, per fortuna, ma la tortura era
rimandata soltanto di qualche mese, il tempo di ritornare in studio per
la
registrazione del terzo album. Anzi, sarebbe stato anche peggio dover
imparare
le partiture delle canzoni nuove.
Ecco:
non
aveva entusiasmo nemmeno per il nuovo CD. Jared aveva già
scritto dei nuovi
pezzi, Shannon aveva già registrato delle parti, Tim aveva
già preso accordi
per suonare, il produttore era pronto, le echelon erano in fervida
attesa, pure
la critica stava affilando le armi per stroncarli, come al solito, e
lui… non
si era mai fatto vedere allo studio di registrazione e
l’ultima volta che doveva
andarci, si era dato pure malato.
Non
è che non
volesse più stare con i 30 Seconds to Mars, no, non era
quello, anzi, adorava
far parte di questo gruppo, andar per concerti, festival, interviste
televisive, etc. con quei due pazzi dei Leto, il suo amicone Tim, e
tutto
l’entourage, ma… Boh… non sapeva cosa
gli stesse succedendo.
Forse
era solo
stanco. Aveva bisogno di riposare, di stare lontano dai 30 Seconds to
Mars per
un po’, andare in vacanza e occuparsi degli affari suoi.
E
un pensiero
lo colpì subito.
La
sua vita
privata.
Praticamente
inesistente, da quando era con i 30 Seconds.
E
la sua
ragazza.
Che
l’aveva
lasciato tre mesi prima con il solito ultimatum che di solito danno le
donne
dei musicisti in giro per il mondo ai musicisti stessi: “O me
o i 30 Seconds.”
Un
colpo al
cuore, una delusione fortissima, per lui, che in fondo non era uno
stronzo né
un donnaiolo, ma proprio un bravo ragazzo. Per i due anni che erano
stati
insieme, ad ogni pausa di tournee e registrazioni, Tomo era corso da
lei, in qualsiasi
posto del mondo si trovasse, e ora era da solo, con nessuno da cui
tornare.
Che
fosse
quello il motivo per cui era così giù di corda?
Mah…
cosa
c’entrava la sua vita sentimentale con la sua
incapacità sul palco? Un cavolo
di niente. Jared e Shannon avevano un andirivieni di fidanzate che non
impediva
loro di suonare bene.
E
allora?
Basta.
Era
stufo di
pensare.
Erano
le tre
di notte, era stato a cena con Tim e ora era proprio stanco, aveva
bisogno di
andare a dormire.
Tomo
si alzò
dal letto sospirando e passandosi le mani tra i capelli, si tolse la
maglia, la
gettò sul letto e poi si diresse verso il bagno: una doccia
e poi fine della
serata, si disse.
‘Ffanculo
al
mondo intero.
Ai
suoi problemi ci avrebbe pensato il giorno dopo, sperando in una
ispirazione
notturna per risolverli… cosa che non avvenne, visto che si
limitò a rigirarsi
nel letto tutta notte.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
DEL PERCHE’ I FRATELLI LETO NON HANNO
DORMITO LA NOTTE TRA IL 12 E IL 13 FEBBRAIO (E S. VALENTINO NON
C’ENTRA MANCO
QUI…)
Jared
si
sedette pesantemente sul divanetto della sua camera, rivolgendosi a suo
fratello, in piedi a braccia conserte davanti a lui:
“Dobbiamo mandarlo a
scuola, Shan.”
Shannon
soffocò una risatina: “A scuola? Non è
un po’ grandicello?”
“Hai
capito
benissimo cosa voglio dire. Appena torniamo negli Stati Uniti troviamo
qualcuno
che faccia ripetizioni di chitarra a Tomo.”
Shannon
sogghignò: “Eh sì, come no.
Chi?”
“Non
so.
Conosci qualcuno?”
“Non
credo.”
Jared
si alzò
e cominciò a passeggiare per la stanza, pensieroso:
“Però ci vuole un
chitarrista con le palle, uno famoso, bravo, un metallaro, per
esempio.”
Metallaro?
Shannon guardò suo fratello ad occhi spalancati. E che
diavolo doveva farci,
lui? “Posso fare una lista, se vuoi. La prendo da
Wikipedia.”
Jared
annuì,
convinto: “Sì, sì, buona idea. Mettici
tutti quelli che ti vengono fuori e poi
decidiamo.”
“Va
bene, te
la preparo per domani. Buonanotte.” Shannon si
avviò alla porta, contento di
essere finalmente libero: aveva giusto sottomano una lista di locali
notturni
milanesi da visitare, un tiro a due di zoccole e...
“No.
Per
adesso. Decidiamo stanotte.”
“Stanotte?”
Gli occhi di Shannon raggiunsero delle dimensioni notevoli, mentre si
spalancavano in faccia al fratello.
“Sì,
stanotte.”
“Avrei
da
fare, Jay…”
La
rabbia a
Jared non era ancora passata, gli mancava solo di litigare con il
fratello:
“NON ME NE FREGA NIENTE, SHAN. Ne va del buon nome dei 30
Seconds To Mars. Un
critico in sala stasera all’Alcatraz e vai con un altro
articolo di merda…
Dobbiamo risolvere tutto il prima possibile.”
“Cazzo.”
“Ecco.
Quello
per stanotte lo lasci a riposo! Fammi la lista. Muoviti.”
Shannon
uscì
sbuffando e sbattendo la porta e, dopo dieci minuti, di malavoglia,
tornò con
una lista stampata con la stampante portatile di Emma (la santa donna
previdente e pronta a tutto…) e si mise a leggere
compìto i nomi davanti a
Jared, seduto sul letto in attesa:
“Allora:
Kirk
Hammett – Metallica?”
Jared
strabuzzò gli occhi: “Cosa? Se lo mangia vivo,
Tomo, con contorno di patatine.
Direi di no.”
“Claudio
Sanchez
o Travis Stever – Coheed and Cambria.”
“Sono
in
tournee fino a fine anno. Troppo tempo.”
“Joey
Eppard
dei Three?”
“Sta
a New
York. Tomo voglio che resti a Los Angeles, voglio tenerlo
sott’occhio, sennò
quello va a fare il turista.”
“Mark Knopfler
– ex Dire Straits ?”
“Senti:
qualcuno di un po’ più giovane, no? E poi
è inglese, lascia perdere.”
“Tremonti,
quello degli Alter Bridge?”
“Ma
non faceva
il ministro delle finanze di un qualche governo di un paese
sottosviluppato?”
Shannon
fece
una smorfia di disapprovazione: “Lascia perdere. Jimmy Page
– Led Zeppelin.”
“Ma
è ancora
vivo?”
“Keith Richards
– Rolling Stones.”
“Idem
come
sopra. Adesso non mi tirare fuori i Beatles o mi incazzo.”
“No.
George
Harrison è morto. Eric Clapton?”
“Se
Tomo
suonasse metà di quello che suona ‘slow
hand’ non saremmo qui. Passa avanti…
costerebbe troppo.”
“Solon
Bixler
– Great Northern … ooops…”
“Se
c’è anche
lui, allora Wikipedia non è una cosa seria.
Avanti.”
“No.
Wikipedia
non sbaglia mai. Tom
DeLonge –
Angels and Airwaves? Orca…”
“Non
è il caso
che me lo nomini…”
“Robert
Smith
– Cure... aaah simpatico, questo.”
“Non
mi
nominare nemmeno questo…”
“Jeff Beck?”
“Troppo
jazz…”
“Jared
Leto –
30 Seco… O cielo!!”
Jared
balzò
dal letto tutto contento: “CI SONO
ANCH’IO??????”
Shannon
tossicchiò: “Par di sì… ma
può essere che in Wikipedia ci siano errori. Passiamo
avanti: Matthew Bellamy – Muse.”
“Ma
se è più
statico di Tomo… sembra di cera, quello…
chissà chi è la sua estetista… devo
chiederglielo…”
“Alex
Britti?”
“E
chi cazzo
è?”
“E
che ne so.
E’ nella lista. The Edge – U2?”
“Ma
ti rendi
conto quanti soldi potrebbe volere questo? Quattro mutui dobbiamo fare,
Shan!!”
“Allora
no.
Ace Frehley – Kiss.”
“Lo
chiamano
‘Ace’ perché è bravo con le
donne, mica a suonare… Avanti…”
“John
Frusciante
– Red Hot Chili Peppers.”
“Da
quando ha
fatto quel video in cui l’hanno fatto cadere dalla macchina
non è più lui…
lasciamo perdere…”
“Noel Gallagher
– Oasis?”
“Come no? Gli
spezza le
braccine a Tomo, questo. Dopo averle spezzate a me e a te.”
“Soprassediamo.
Kelly Jones – Stereophonics?”
“ODIO
I
GALLESI!! AVANTIIIIIIIII!!!!!”
“Daron Malakian
– System Of A Down?”
“Mmmmmmhhhhh…
questo potrebbe andare… e poi è amico del mio
amico Serj.”
“No,
Jay…”
“Perché?”
“Ha
l’alito
pesante…”
“E
tu come lo
sai?”
“Me
lo ha
detto una con cui sono uscito l’altra sera, la sua
dentista.”
“Beh,
con Tomo
mica deve baciarsi… deve insegnargli.”
“Tomo
potrebbe
traumatizzarsi, è troppo sensibile,
credimi…”
“Dici?”
“Sì.
E’
traumatizzata anche la dentista, ho dovuto applicare tutte le mie
più efficaci
tecniche psicologiche per farla riprendere e…”
“Sì,
sì, non
le voglio sapere, le tue efficaci tecniche psicologiche. Va bene, va
bene,
niente, allora. Avanti il prossimo…”
“Billie
Joe
Armstrong – Green Day.”
“No.
Il punk
lasciamolo fuori, per favore.”
“Yngwie J. Malmsteen?”
“Mmmmmmhhhhh… no
no, troppo
vichingo…”
“Brain May –
Queen?”
“Ma non è in
pensione?”
“John Norun –
Europe.”
“Ho detto vichinghi
noooo!!”
“Mike Oldfield?”
“Troppo smielato.”
“Richie Sambora –
Bon Jovi?”
“Sound vecchio!”
“Carlos Santana?”
“Sound TROOOOPPO
vecchio!!”
“Eddie Van Halen.”
“Noooo… TROOOOPPO
avanti!!”
“Omar
Rodriguez Lopez – The Mars Volta?”
“Noooo…
TROOOOPPISSIMO avanti!! E
poi questi ci hanno mezzo copiato il nome. Poi chiamo
l’avvocato e facciamo
loro causa.”
“Angus Young –
AC/DC?”
“E se poi Tomo mi si
presenta in
pantaloni corti al concerto? Mi tocca ammazzarlo…
Avanti…”
“Frank Zappa?”
“Sicuro che non sia
morto?”
“Boh.
Slash – Velvet Revolver.”
“No.”
“Perché?”
“Perché no. Mi
sta antipatico. E
non gli si vede manco la faccia a quello…”
Shannon
sbuffò, toccandosi la barba sfatta: “Senti Jay,
sono le cinque del mattino e ce
ne sono almeno altri duecento nella lista e tutti stra-famosi e tu non
vuoi
nessuno, a quanto pare. Come vuoi che ne usciamo?”
Jared
si grattò
la testa, perplesso: “Non lo so…”
“Beh…
potresti
insegnargli tu, no?”
“IO??
Non
vorrai che perda il mio tempo in quel modo, no? Con tutto quello che ho
da
fare. Non esiste.” Jared si alzò e si mise a
camminare per la stanza,
nuovamente incazzato: ma vedi che adesso LUI doveva perdere tutto il
SUO tempo
prezioso con Tomo? Ma no, davvero.
Shannon
lo
seguiva con la lista in mano, sventolandola come una bandiera:
“Eddai, tanto
sono due accordi, non è che facciamo il progressive rock,
via… Abbiamo
partiture di una pagina, mica come i Coheed and Cambria che hanno
canzoni con
settanta pagine di accordi su sei chitarre diverse,
cazzo…”
“Ma
hanno sei
chitarristi?”, disse Jared, perplesso da tutta quella
varietà strumentale.
“Ma
noooo… che
dici?” Shannon era esausto, non ne poteva più.
“Senti, io ne ho le palle piene.
Sono stanco, esaurito, e adesso vado a dormire. Tu pensaci, intanto.
Buonanotte.”
Jared
si
arrese, sospirando, e si appoggiò alla parete vicino alla
porta. Non poteva
pretendere di più da suo fratello e, in fondo in fondo, era
stanco anche lui:
“OK. ‘Notte, Shan.”
“’Notte.”
Shannon mollò la lista sul tavolino ed uscì di
corsa prima che Jay cambiasse
idea: tutti i suoi propositi di folleggiare per Milano con un paio di
spogliarelliste erano andati in fumo e aveva perso un sacco di tempo
per niente
con suo fratello. Arrivò in camera sua, deciso a farsi una
doccia rinfrancante
e ad assaltare il frigo bar, ma gli venne uno scrupolo di coscienza:
dopo tutto
i 30 Seconds to Mars erano una creatura anche sua e non poteva lasciare
perdere
così, sottovalutando il problema degli errori di Tomo. Non
poteva non aiutare
suo fratello a trovare una soluzione.
Forse
qualcosa
poteva fare. O almeno poteva provare. Prese il telefonino e
passò in rassegna i
numeri della rubrica. Consultò l’orologio: in
California era giorno, poteva
chiamare tranquillamente.
“Ciao,
Zummo”
“Ehi,
Shan,
come butta?”
“Male.
Tomo
che sbaglia gli accordi e Jay in panico.”
Frank
Zummo,
uno dei batteristi degli Street Drum Corps, amici di Shannon, si mise a
ridere
a cuore aperto, dall’altra parte del mondo:
“Spiacente, sono un batterista.”
“Pure
io.
‘Scolta non conosci un chitarrista metal o giù di
lì, per insegnare qualcosa al
bel TOMO di TOMO, prima che Jared lo aTOMOzzi?”
“Ahahahahhah.
Boh, può essere. Chiedo in giro.”
“Sì,
dai, fai
un favore…”
“Per
quando ti
serve?”
“Lunedì
prossimo.”
“Urka.
Prestino, mi pare.”
“Insomma
il
prima possibile, dai... Anche martedì va bene.”
“Faccio
il
possibile. Ma…”
“Cosa?”
“Metallo
pesante?”
“Qualcuno
che
sappia suonare, via… e che costi poco. E che scuota un
po’ Tomo… pare sempre
morto, sul palco, e la volta che salta si rompe il
piede…”
Zummo
si mise
a ridere di nuovo, anche se Shannon non credeva di dire cose tanto
divertenti
visto che, a quell’ora, il suo senso dell’umorismo
era addormentato da un
pezzo: “OK. Ti faccio sapere.”
“Grazie.
Ciao.”
“Ciao.”
Shannon
spense
il telefonino, lo buttò sul tavolo e si avviò
verso il frigobar. Che palle,
però… ce n’era sempre una,
accidenti… E perché doveva risolvere sempre tutto
lui? Prima o poi lo avrebbero fatto santo, addirittura martire. Santo
Shannon
da Bossier City, Martire dei 30 Seconds To Mars. Sì, suonava
pure bene.
Facendoci una risatina sopra, Shannon bevve d’un fiato una
bottiglietta di
liquore e si avviò in bagno.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
DEL
PERCHE’ TOMO SI PENTE DI FAR PARTE DEI
30 SECONDS TO MARS E PREFERIREBBE DI GRAN LUNGA FAR PARTE DI UN CORO DI
FRATI
FRANCESCANI.
Tomo
suonò il
campanello della casa, perplesso, sistemandosi la felpa e guardandosi
intorno:
una casetta a schiera a due piani come ce n’erano una fila,
lungo quella via
alberata della periferia, tutte uguali, di legno, con un giardinetto
davanti.
L’indirizzo che gli aveva dato Shannon non era sbagliato,
sicuramente. E anche
se Tomo non era pratico di Los Angeles, era certo di essere nel posto
giusto,
almeno dal punto di vista geografico, visto che da quello professionale
ancora
non aveva capito con chi avrebbe avuto a che fare e in che mani lo
avessero
buttato i Leto.
Un
chitarrista
molto bravo, gli aveva detto Shannon, dal nome d’arte di
FirstLeaf,
appartenente ad un gruppo di alternative rock chiamato FourLeafClover,
Quadrifoglio. Mah…
Tomo non li aveva mai
sentiti in vita sua, questi qui. Chissà chi erano e
chissà com’era questo
chitarrista genialoide e poi… come l’aveva trovato
quel diavolo di Shan? Vallo
a sapere.
Pensò
che la
sua curiosità avrebbe dovuto aspettare ancora, quando una
ragazza venne ad
aprire e lo guardò subito male. Tomo la studiò
per un lungo momento, nello
stesso modo in cui la ragazza faceva con lui: aveva circa venticinque
anni, non
era molto alta ed indossava pantaloni neri con tutte fibbie e cerniere
e una
maglietta nera attillata, sempre nera, con scritto
“TheMarsVolta” in giallo.
Masticava il chewing gum, era pesantemente truccata di nero sugli occhi
e aveva
un bel rossetto color rosso sangue. Occhi neri e capelli castani
mechati
lunghi, riccioluti e spettinati completavano il tutto. Una metallara
con tutti
i crismi, insomma, una di quelle capaci di tirare reggiseno e mutandine
sul
palco, pensò Tomo, magari proprio in faccia ad un poveretto
che sta facendo
l’assolo di chitarra della sua vita.
Si
fece
coraggio: “Ciao.
Ehm… abita qui...”
“Non
voglio
niente.”
“OK,
ma abita
qui…”
La
ragazza era
proprio aggressiva: “Ho detto che non compro niente.
Vattene.”
Tomo
la guardò
male, per quanto potesse farlo un tipo amabile come lui: “E
io non vendo
niente: sto cercando un chitarrista di nome FirstLeaf.”
La
ragazza
sorrise lievemente: “Ahhh, potevi dirlo subito.
L’hai trovato.”
“Bene.
E’ tuo
fratello?”
“No.
Sono
figlia unica.”
“Cugino?”
La
ragazza
scosse la testa: “No.”
“Cognato?
Zio?
Secondo cugino? Nipote?” Poi che altro? A Tomo non venivano
in mente altre
parentele possibili.
La
ragazza
riprese a guardarlo male: “No. SONO IO.”
Tomo
strabuzzò
gli occhi e per un momento pensò che gli rotolassero via:
“CHE COSA?”
“FirstLeaf
sono io.”
L’uomo
avrebbe
voluto sprofondare, lì, direttamente sul gradino di marmo
della scala.
Quella
ragazza
era la sua insegnante di chitarra?
No.
No,
davvero.
Doveva
esserci
uno sbaglio. Non poteva essere. Shannon doveva essere impazzito e lui
ancora di
più ad essere lì.
O
forse non si
erano capiti: “Sicura?”
La
ragazza
incrociò le braccia al petto in segno di sfida e gli
sibilò: “Senti,
coccobello. Io devo essere tra due ore in sala prove. Se sei un certo
Tomo
Miliqualcosa, mandato qui da Frank Zummo, entri e mi dici qual
è il tuo
problema. Se non lo sei, addio.”
“Ma…”
“Allora?
Sei
Tomo Milichecavolo o no?”
“Milicevic.”
“Beh,
quel che
è…”
Tomo
annuì.
Che altro poteva fare? “Sì.”
“Bene.
E la
chitarra dove ce l’hai, caro?”
Il
chitarrista
indicò l’auto parcheggiata davanti alla casa:
“In auto.”
“Allora
prendila; sennò con che diavolo suoni?”
“Ma…”
“E
muoviti… ti
ho detto che non ho tempo!”
Tomo
annuì
amaramente. Ma avrebbe dovuto farsi tiranneggiare da quella
lì? E per quanto
tempo? La tentazione era di andare verso l’auto, salirci e
sparire. Ma poi cosa
avrebbe detto ai Leto? ‘Scusate non sono andato
perché mi faceva paura quella
tizia…’?
Non
si poteva.
I
Leto avevano
sempre riposto fiducia in lui e ora non poteva deluderli.
Aveva
dei
problemi? Beh, doveva risolverli.
Altrimenti
doveva farsi da parte e mollare i 30 Seconds to Mars, lasciando spazio
per un
altro chitarrista, migliore di lui.
FirstLeaf
era
ancora lì che lo fissava, in attesa, e, con le braccia
conserte, batteva un
piede per terra .
“OK.”
Tomo si
girò, sospirando, andò verso la macchina,
recuperò la chitarra, l’amplificatore
portatile e le partiture e si avviò, un po’
abbattuto, verso la porta che la
ragazza, rientrando in casa, aveva lasciato aperta.
Sarebbe
stato
un pomeriggio molto duro, pensò Tomo, entrando a sua volta e
chiudendosi la
porta alle spalle, pentendosi nel profondo del suo cuore di non avere
fatto il
frate francescano, visto anche che la pettinatura che gli aveva fatto
la nuova
truccatrice era perfettamente adatta allo scopo.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
DEL
PERCHE’ FIRSTLEAF SI PENTE DI AVER
ACCETTATO DI FARE UN FAVORE A FRANK ZUMMO (ANCHE SE PROFUMATAMENTE
PAGATA) E
VORREBBE SCAPPARE CON IL PRIMO MOTOCICLISTA DI PASSAGGIO.
FirstLeaf
prese in mano i fogli degli spartiti che le aveva dato Tomo e li
studiò un
attimo: “E queste sarebbero le
partiture…” Lo disse come se la sua tentazione
fosse quella di accartocciarle e farne una palla di carta da tirare nel
cestino.
“S-sì.”
Tomo
si era seduto sul divano del salotto e la osservava da sotto, con la
sua Gibson
nera sulle ginocchia, un po’ intimidito da tutta quella
aggressività. Nemmeno
un manipolo di echelon armate di macchine fotografiche, pacchetti
regalo e
bandiere gli faceva così paura come quella lì,
che ora lo fissava come se
avesse voluto dargli fuoco.
“E
il problema
dov’è?” FirstLeaf si grattò
una guancia, dubbiosa, mentre si legava i capelli
dietro con un elastico e teneva il foglio in bocca.
“In
che
senso?”
La
ragazza
puntò il dito sulle note scritte sul foglio:
“Beh… Non mi dirai che non sai
fare questi due accordi, SPERO…”
Tomo
scosse la
testa: “N-no…”
“E
allora?”
FirstLeaf si mise la sua chitarra elettrica a tracolla, con un
po’ di
nervosismo, e fece l’arpeggio iniziale di “A
Beautiful Lie”, dopo averlo
guardato soltanto una volta. Poi puntò un indice contro
Tomo: “Fallo tu, ora.”
Tomo
si alzò,
attaccò la chitarra all’amplificatore e lo fece
anche lui.
Perfettamente.
Come
perfettamente fece tutto il resto della canzone, che FirstLeaf non
conosceva ma
che leggeva dalla partitura.
La
ragazza
aggrottò le sopracciglia, dubbiosa, con la voglia di
prendere a calci qualcosa.
Zummo non le aveva spiegato bene il problema di Tomo ed era rimasto sul
vago
anche su quale fosse il gruppo da cui proveniva, dicendo solo che era
piuttosto
famoso: “Scusa, ma non capisco dove sia il problema. Sono
accordi facili e non
hai difficoltà. Perché sei qui,
allora?”
Tomo
si
schiarì la gola e timidamente disse:
“Ehm… E’ sul palco che li
sbaglio.”
FirstLeaf
gli
si piantò davanti, mentre Tomo si risiedeva sul divano,
anche se si sentì come
se si posasse su un formicaio in attività, specialmente
quando la ragazza
cominciò a fissarlo come se lo stesse radiografando.
“E perché?”
“Boh.
Non so.”
“Come
‘non
sai’?”
“Non
so… mi si
incollano le dita e… sbaglio…”
Ma
certo,
perfetto, come no. Effetto ‘Coccoina’:
“Non mi stai aiutando ad aiutarti perché
non ho idea di cosa devo dirti.” FirstLeaf si
grattò la testa: “Per caso… ti
droghi?”
Tomo
scosse la
testa: “No.”
La
ragazza si
mise a camminare avanti e indietro sul tappeto davanti a Tomo, tenendo
la
chitarra elettrica dietro, mentre interrogava l’individuo
tutt’altro che
sospetto seduto sul suo divano e spuntava la sua lista personale di
possibilità: “Sei un emotivo?”
“No.”
“Hai
litigato
con il leader o gli altri membri del tuo gruppo?”
“Beh
un po’
ma… in fondo no, direi di no.”
“Pressione
bassa? Problemi di salute?”
“No.”
“Vestiti
inadeguati, troppo larghi o stretti e che impediscono i
movimenti?”
“No.”
“Sei
depresso?
Problemi psicologici? Psicopatie?”
“No.”
“Trucco
troppo
pesante, capelli sugli occhi, unghie troppo lunghe o cose del
genere?”
“No.”
“Canti,
anche,
mentre suoni?”
“No-no,
per
carità, sono stonato…”
FirstLeaf
si
fermò con le mani sui fianchi davanti a Tomo: “E
allora?”
Tomo
allargò
le braccia: “Eccheneso…”
La
ragazza
appoggiò la chitarra e ricominciò a camminare
avanti e indietro per il salotto.
Era
un bel
casino.
Il
bellimbusto, detto anche Tomo, faceva confusione con gli accordi
durante il
concerto e non sapeva nemmeno lui perché… e
allora doveva saperlo lei? Sembrava
il chitarrista più innocuo al mondo con le partiture
più semplici esistenti
sulla faccia della terra e non riusciva suonarle dal vivo? Boh. Che
diavolo
doveva fare, lei? D’istinto lo avrebbe preso per la
collottola e buttato fuori
della porta con un calcio ben assestato nel deretano, ma aveva promesso
a Zummo
di fare il possibile, visto anche che veniva pagata. E poi stranamente
quel
ragazzo le faceva un po’ pena.
Si
fermò e lo
fissò un attimo: Tomo, tranquillo, seduto con le mani
incrociate sulla
chitarra, si guardava intorno e non si poteva dire che fosse un brutto
ragazzo,
anzi, ma… più che un rockettaro sembrava uno
studente del liceo, un bravo
ragazzo studioso. Non aveva quell’astio e quella rabbia negli
occhi che
caratterizzavano i rockettari veri. Con quella pettinatura
poi… gli mancavano
il saio e il rosario e poi altro che rock… convento di frati
domenicani o giù
di lì… Vabbé… essendo
famoso avrà avuto fior fior di stilisti che si occupavano
di lui. E poi lei doveva occuparsi solo della sua capacità
musicale, non del
suo look.
Bene.
Cosa
doveva fare? Guardò l’orologio. Ormai
l’ora di lezione era quasi passata e
poteva anche mandarlo via…
Sospirò
e gli
si avvicinò: “OK. Allora… non so ancora
perché sul palco non funzioni, ma direi
di fare come faccio di solito quando insegno ad altri non famosi e/o
alle prime
armi… un po’ di esercizi
vari…” FirstLeaf si avviò verso la
libreria e ne
estrasse un raccoglitore che appoggiò sul tavolino in mezzo
al salotto e si
mise a sfogliare: “Uhm… partiamo da
questa…” Estrasse dei fogli: “Questa
è la
partitura della canzone ‘One’ dei Metallica,
conosci?”
“No.”
FirstLeaf
lo
guardò perplessa: “Ma certo che la
conosci… magari non te la ricordi… Tutti i
chitarristi rock la conoscono, non si può non
conoscerla… e tutti la sanno
suonare… certo non come Hetfield ed Hammett,
ovviamente…”
Tomo
fece alla
ragazza, che si era seduta sul divano vicino a lui con i fogli in mano,
un
sorriso che FirstLeaf trovò molto dolce e disse, arrossendo:
“Io… non so… No,
non credo…”
La
chitarrista
lo guardò ad occhi spalancati: “Ma non sei un
chitarrista rock, tu?”
“Beh,
sì…”
FirstLeaf
pensò che non era il caso di distruggere anche le poche
sicurezze che avesse
Tomo e gli disse, sorridendo a sua volta: “Allora vedrai che
la sai fare anche
tu, senza problemi…” e gli spalancò il
foglio davanti, spiegandogli che le
chitarre che suonavano erano due e che lui doveva imparare le parti di
entrambe. “Oggi è martedì…
uhm… torna giovedì pomeriggio e vediamo come va.
La
proviamo suonando assieme, facendo le due parti a turno, ok? Prima
solista tu e
io accompagno e poi viceversa, va bene?”
Tomo
le piantò
gli occhi addosso: “Sei sicura?”
“Sì.”
“Non
è poco
tempo?”
“Ma
no,
impegnati e vedrai che ce la fai.” FirstLeaf si
alzò dal divano e mise via il
faldone, mentre Tomo si diceva che, dopo tutto e nonostante il suo
atteggiamento un po’ prepotente, quella ragazza aveva una
gran fiducia in lui,
molto di più di quella che avesse lui in sé
stesso. Non era andata poi così
male, aveva temuto di peggio, viste le premesse, ed invece FirstLeaf
era andata
subito al sodo per tentare di aiutarlo. Gli piaceva, sì, gli
piaceva, quella
strana ragazza che ora lo stava nuovamente fissando.
“OK.”
Tomo si
alzò e cominciò a raggruppare le sue cose per
andarsene. “Torno giovedì,
allora…”
“Certo.”
FirstLeaf accompagnò Tomo verso la porta e gliela
aprì, sollevata: dopotutto
quel ragazzo non sembrava uno stronzo, un imbecille, anzi. Magari non
sarebbe
stata così dura insegnargli, forse il suo problema era di
essere soltanto un
po’ stanco, esaurito, magari non era un incapace e ancor meno
un imbranato
maldestro.
Ma
su
quest’ultima cosa cambiò idea e si
pentì di avere accettato subito dopo, quando
Tomo, dopo averla salutata, scendendo le scale incespicò sui
pochi gradini e,
con un perfetto volo d’angelo e per fortuna senza farsi
niente, planò in
giardino sopra la Gibson, in mezzo al suo cespuglio preferito di
roselline
fucsia.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
DEL
COME FIRSTLEAF CAPISCE CHE I VERI
TALENTI DI TOMO, NONCHE’ IL CORAGGIO, RISIEDONO IN ALTRI
LUOGHI, PER ESEMPIO IN
CUCINA.
Erano
passate
quattro settimane e FirstLeaf era sempre più perplessa:
c’erano momenti in cui
non si capacitava delle buone abilità musicali del suo
allievo Tomo
Miliqualcosa (con quel diavolo di un cognome che non si ricordava
mai…) e altri
in cui avrebbe voluto scavare una fossa in giardino, al posto del
cespuglio di
rose fucsia la cui crescita era rimasta compromessa dalla caduta di
Tomo, e
seppellircelo con la sua Gibson sopra, come i cavalieri templari che
venivano
tumulati con lo scudo.
Purtroppo
non
aveva ancora capito il problema di Tomo, il quale, bel bello, arrivava
puntualissimo ogni volta (come il bonifico che la ragazza riceveva in
banca
ogni settimana da un certo Shannon Leto, chissà chi cazzo
era, questo…), con la
lezioncina studiata, la sua espressione pulita e quell’aria
da bravo ragazzo
che a FirstLeaf dava parecchio sui nervi. Un uomo che non si scomponeva
mai,
che non perdeva mai la pazienza e che alle provocazioni rispondeva con
un
timido sorriso, il contrario del suo carattere, cioé. E che
stava simpatico
perfino alla sua coinquilina Jane, medico dell’ospedale, che
andava e veniva e
in casa ci stava poco ma che di Tomo sembrava sapere tutto.
E
Tomo? Lui
era contento. Lo diceva a tutti, Leto compresi, ma a nessuno aveva
detto che
FirstLeaf era una ragazza perché sapeva che se i suoi
colleghi lo avessero
saputo, lui sarebbe diventato lo zimbello dei 30 Seconds to Mars. Tim
lo
avrebbe preso in giro ogni secondo e Jared avrebbe cominciato a fare
battutine
del cazzo ad ogni occasione. E Shannon avrebbe voluto mettersi
sicuramente in
mezzo e Tomo non voleva: il suo rapporto con FirstLeaf, anche se solo
musicale,
era una cosa tra lui e lei, e il resto della gente non
c’entrava. Stava
imparando un sacco di cose da quella ragazza e si era accorto che aveva
mancato
una caterva di
grandi canzoni rock.
Canzoni che era una gioia suonare e che rappresentavano esempi di
musica con la
M maiuscola. Ma dove diavolo era vissuto fino ad ora?
Se
lo stava
chiedendo anche ora, mentre provavano ‘Alexander The
Great’ degli Iron Maiden e
guardava FirstLeaf, in minigonna di blue jeans e maglietta nera con
scritto
‘Metallica’, in piedi davanti a lui con la chitarra
al collo che lo accompagnava.
E la ragazza lo osservava minuziosamente, speranzosa, Tomo ne era
certo, di
trovare la pecca del giorno da risolvere.
Cosa
che
avvenne quando all’improvviso la chitarrista smise di suonare
e gli disse: “Che
diavolo fai, CARO?”
Tomo
si bloccò
subito e si disse che quel ‘caro’ non preannunciava
nulla di buono: “C-che
cosa?”
FirstLeaf
gli
si avvicinò subito: “Perché guardi la
cazzo di chitarra mentre suoni?”
“Non
è
vero...”
“SI’.
Ti ho
visto.” FirstLeaf gli puntò il dito al viso.
“Ma,
no…”
“Sì,
l’hai fatto…
NON TI DEVI GUARDARE LE MANI, te l’ho detto l’altra
volta…”
Tomo
abbassò
gli occhi: “Scusa…”
FirstLeaf
non
lo sopportava quando faceva l’arrendevole così:
“Macchè scusa e scusa. Non devi
chiedere scusa… Devi stare dritto e non devi guardare le
corde. La chitarra è
la tua estensione, non hai bisogno di guardarla. E’ come se
ti guardassi i
piedi quando cammini… Io non ho mai visto Santana che guarda
le corde. Quando
suoni non devi pensare nemmeno a quello che suoni: è la
musica dentro di te che
fa tutto. Le dita si muovono da sole, è la musica a
muoverle, NON SEI TU… e
quindi non devi guardare!”
“Scusa.”
La
ragazza cominciava a perdere la pazienza: “BASTA CON QUESTO
‘SCUSA’, TI HO
DETTO…” FirstLeaf
mise giù la chitarra e
si piantò davanti a Tomo: “Ora facciamo come
faceva mio zio con me quando mi
guardavo le mani.” La ragazza si avviò verso
l’attaccapanni e prese un suo
foulard, poi lo arrotolò e si avvicinò con le
braccia alzate ad un Tomo
leggermente in apprensione. “Abbassati.”
“Uhm…
perché?”
“Perché
ti bendo…”
Tomo
spalancò gli occhi: “Cosa?”
FirstLeaf
lo spinse verso il divano mettendogli una mano sul petto:
“Siediti sul divano.”
“Ma…”
“Niente
‘ma’. L’insegnante sono IO e facciamo
come dico IO e basta…”
Tomo
scosse la testa, un mezzo sorriso preoccupato, pensando che
c’era sicuramente
un bel gruppetto di echelon che avrebbe fatto lo stesso con lui, ma non
per
ragioni musicali. Che FirstLeaf fosse in combutta con le sue fans e le
avrebbe
subito chiamate dopo averlo bendato? Magari no, ma era meglio non
rischiare:
“No.”
FirstLeaf
si mise a ridere: “Non è un gioco erotico, se
è quello che pensi, è solo un
esercizio… e non ti butto sul divano e ti violento, se
è quello che temi…”
Tomo
arrossì fino alla radice dei capelli e, mentendo
spudoratamente, le rispose:
“N-non avevo pensato a niente del
genere…”
“Come
no? Certo che l’hai pensato, per quello sei diventato tutto
rosso… Dì la
verità, sei il sex symbol del gruppo? Frotte di donne alle
costole, plotoni di
ammiratrici scatenate, pattuglie di ragazze alla ricerca di un tuo
sorriso, di
un’occhiata in tralice da quei tuoi begli occhi?”
Eccome
no, e i Leto, allora? Tomo tossicchiò:
“Ehm… Insomma, non proprio. Ho altri
colleghi più sex symbol di me…”
FirstLeaf
sgranò gli occhi: se Tomo non era il figaccio del gruppo,
come diavolo erano
gli altri? “Accidenti… un giorno me li presenti,
allora, perché mi piacciono i
bei ragazzi. Ora basta, fatti bendare, che è quasi scaduta
l’ora…”
Tomo
si sedette sospirando e FirstLeaf gli legò il foulard sugli
occhi, ridacchiando
dell’imbarazzo del chitarrista: “Dimmi se
è troppo stretto…”
Tomo
risospirò, pensando che quella che gli stava capitando era
una cosa che non
avrebbe dovuto raccontare a nessuno, nemmeno sotto tortura:
“No, va bene.”
FirstLeaf
si allontanò di un passo: “E ora proviamo
così. Io dico una canzone che conosci
e tu suoni. Come viene viene, tanto per fare pratica…
OK?”
“Ma…”
“The Crowing dei
Coheed and Cambria.
Dai, suona…”
Tomo,
ormai rassegnato e certo che anche quello potesse servire per risolvere
il suo
problema, si alzò, si sistemò la chitarra, mise
le dita sui capotasti e iniziò
a suonare. Correttamente.
Dopo
poche note, FirstLeaf lo interruppe: “Bene. Ora
l’assolo di Sultans of Swing
dei Dire Straits…”
E
Tomo lo eseguì giusto, ma FirstLeaf lo interruppe
nuovamente. “Perfetto. E ora
American Idiot dei Green Day.”
Ma
il ragazzo fu salvato dal trillo del cellulare di FirstLeaf che corse a
rispondere, mentre Tomo si abbassava immediatamente il foulard.
“Pronto?
Ooohh! Ciao, nonna. Tutto bene? Come? Scordata? No-no, nooooo, ma
scherzi? Sì.
Certo, Come no? Pronta. Ok. Arrivo alle otto. Ciao, nonna.”
FirstLeaf
chiuse il cellulare e si mise una mano sulla fronte. Poi si sedette,
abbattuta,
sul divano vicino a Tomo dicendo un sentito: “O
nooooo.”
Tomo
si tolse
il foulard del tutto, contento che lo squillo del telefono fosse una
sorta di
campanella di fine orario: “Che
c’è?”
La
chitarrista
scosse la testa: “Niente.”
“Problemi?”
“No,
no…”
“Sicura?”
“No.
O sì… non
so…”
Tomo
si alzò e
cominciò a mettere via la sua chitarra, guardando la ragazza
di sottecchi:
“Dalla tua faccia non sembra. Sta male tua nonna?”
“No,
al
contrario. Oggi compie gli anni.”
“E
allora?”
FirstLeaf
soffiò: “Ehm… allora stasera dovevo
andare alla casa di riposo a festeggiare
con lei portando una torta. E…”
“E?”
“E
me ne sono
completamente scordata. Sia di lei che della torta… Posso
sempre andare, ma ora
dove la recupero una torta?”
Tomo
fece
spallucce e si risedette sul divano: “Beh i negozi sono
aperti a quest’ora,
no?”
“Ma
alla nonna
piacciono quelle fatte in casa…”
“E
allora
falla tu…”
La
ragazza si
grattò la testa: “Ehm… non ne sono
capace.”
“No?”
“No.
Mai fatto
una torta in vita mia. Di solito me la fa Jane, per la nonna, ma oggi
è di
turno.”
Tomo
sfoderò
uno dei suoi sorrisi più convinti e, mentre FirstLeaf
soltanto in quel momento
si accorgeva che il ragazzo aveva due adorabili denti leggermente
accavallati
proprio davanti, dichiarò: “Beh, se vuoi te la
faccio io.”
“COSA?”
Tomo
si puntò
un dito al petto, sicuro: “Ho un diploma in pasticceria e
decorazione torte.”
FirstLeaf
si
tratteneva a malapena dal ridergli in faccia: “Eh
sì, come no? E io ne ho uno
in riparazione motori dello Shuttle. Stai scherzando, vero?”
“No.”
E
la serietà
con cui lo disse la fece immediatamente scoppiare a ridere come una
matta: “E’
la cosa più ridicola che abbia sentito in vita mia. Tu che
prepari le torte?”
“E
allora?”
“Passi
dal
plettro al frullino così, su due piedi?”
“Se
non ci
credi fammi provare. Vado a vedere dentro il frigo
cos’hai…” Tomo si alzò dal
divano e si avviò verso la cucina, seguito da una FirstLeaf
piuttosto perplessa
ma che lasciava fare, visto che Tomo era la sua unica e ultima speranza
di
avere una torta a breve. Il ragazzo aprì il frigo ed
infilò la testa dentro:
“Uhm… uova, latte e burro ci sono, farina e
lievito ne hai?”
FirstLeaf
indicò un mobiletto: “Guarda lì
dentro…”
Tomo
aprì lo
sportellino e si mise a frugare dentro. Poi estrasse due pacchettini e
si
rivolse alla ragazza: “Sì,
c’è tutto. Bene. Che torta vuoi?”
FirstLeaf
ancora non credeva ai suoi occhi: “Eh?”
“Che
torta
piace a tua nonna?”
“Uhm…
Beh… A
nonna non piacciono le torte con le creme. Preferisce quelle
là basse con la
marmellata.”
“Crostate
alla
marmellata.”
“Sì,
quelle.
Oppure quelle morbide con la polvere bianca sopra.”
“Torta
margherita.
E la polvere bianca è zucchero a velo.”
“Sì,
ecco.
Proprio quelle. Oppure quella che viene fatta con quel
frutto… come si chiama,
quella famosa? Uhm…”
“Torta
di
mele?”
“Sì
sì,
quella…”
Tomo
sogghignò, contento di non sembrare l’imbranato di
turno: “Accidenti… Si vede
che te ne intendi… Quanto tempo abbiamo?”
FirstLeaf
guardò l’orologio: erano le diciotto e trenta e
alle venti doveva essere alla
casa di riposo armata fino ai denti di una torta fatta in casa.
“Un’ora e
mezza, anche meno...”
“Uhm…
Se hai
la marmellata direi di fare la crostata, allora, che serve solo
mezz’ora di
forno. A proposito: funziona il forno?”
“Sì.
Jane ci
cucina sempre.”
“OK,
allora.”
Tomo
si girò e
cominciò a ravanare dentro la credenza in cerca della
marmellata e di una terrina
dove preparare l’impasto e quando dispose sulla tavola tutto
il necessario, si
lavò le mani e cominciò, sotto lo sguardo
incuriosito di FirstLeaf che non
perdeva una mossa.
Nel
giro di
venti minuti Tomo aveva finito: la torta era in forno, FirstLeaf era
senza
parole, sbalordita dalla perizia del chitarrista-pasticciere, Jane era
tornata
a casa e si scambiava ricette di torte con Tomo che, seduto tranquillo
in
cucina con una gamba accavallata e una guancia leggermente infarinata,
beveva
un thé freddo, discuteva della consistenza corretta della
pastafrolla e…
…
non riusciva
a non guardare le lunghe ed affusolate gambe di FirstLeaf che girava
per la
cucina in cerca di un contenitore
per
mettere la torta. Perché, improvvisamente, mentre impastava
la torta e non era
concentrato con accordi e arpeggi, Tomo si era reso conto che FirstLeaf
era
davvero una bella ragazza. Quei capelli lunghissimi e tutti a
ricciolini e
quegli occhi neri, profondi e caldi… le cinghia lunghe, la
bocca perfetta, il
sedere ben disegnato, un bel seno…
“Non
vai a
prepararti?” Le disse l’uomo ad un tratto, mentre
FirstLeaf era appoggiata alla
credenza immersa nei suoi pensieri e Jane era andata di sopra a farsi
una
doccia.
“Eh?”
“Per
andare da
tua nonna, no? Ci vai vestita così?” Le disse,
mentre le fissava la scollatura
della maglietta.
FirstLeaf
si
guardò, sulla difensiva: “Perché? Cosa
c’è?”
“N-non
ti devi
vestire da brava bambina?”
FirstLeaf
fece
spallucce e scosse la testa: “No. Mia nonna è
più rockettara di me, è
innamorata di Mick Jagger da cinquant’anni e mi faceva
sentire i Led Zeppelin
quando avevo cinque anni. Quindi da lei posso andare
così.”
“OK.
Ti
accompagno io.”
La
ragazza
scosse la testa: “No, non importa, vado in metro, sono tre
fermate, è qui a due
passi…”
Tomo
si alzò e
le si mise davanti, piuttosto vicino: “Meglio di no, magari
ti scippano la
torta.”
FirstLeaf
per
un attimo si sorprese, ma poi alzò una mano per togliere il
segno di farina dal
viso di Tomo e gli appoggiò le dita sulla guancia:
“Devi sorvegliare la tua creatura
finché arriva a destinazione?”
Tomo
le prese
la mano e sorridendo disse: “E se invece volessi sorvegliare
te?”
La
ragazza
tolse la mano e se la mise in tasca e pensò subito che la
causa di
quell’improvvisa avance di Tomo fosse il thé
freddo molto zuccherato oppure una
sniffata di troppo di farina e rispose, un po’ imbarazzata:
“Beh, paura che la
tua insegnante, favolosa ma a buon prezzo, venga rapita?”
Tomo
si
avvicinò di più e appoggiò una mano
sul pensile sopra FirstLeaf che si trovò
imprigionata tra il mobile e l’uomo, con gli occhi nei suoi.
Che stava facendo
quel Tomo? Ci provava, forse? Cominciava a sentirsi paralizzata mentre
Tomo non
si muoveva di un centimetro e continuava a fissarla.
“Eh
già… dove
ne troverei un’altra?”
Tomo
allungò
una mano a toccare un ciuffo di capelli sulla spalla di FirstLeaf che
si
ritrasse, ancora di più appiccicata al mobile, e disse:
“Ehm… non dovresti
controllare la torta?”
“Ah
sì…” Tomo
si spostò verso il forno e FirstLeaf cominciò a
respirare normalmente, sconcertata
del comportamento di Tomo e anche, o forse soprattutto, del fatto che
non le
era venuto l’istinto di tirargli un pugno in testa.
“E’ pronta. Hai trovato
dove metterla?”
“S-sì.”
Tomo
sistemò
con estrema cura la torta dentro la scatola e in cinque minuti
FirstLeaf era in
auto con il ragazzo, nel bel mezzo di un silenzio imbarazzante,
interrotto solo
dalle indicazioni sulla strada da seguire.
“Ecco…
Qui
gira a destra, Tomo.”
Il
chitarrista
accostò: “OK. Ci vediamo martedì,
allora…”
“Certo…
e
ripassa tutte le canzoni perché interrogo a
salti…”
Tomo
sorrise:
“Sì, maestra…”
FirstLeaf
scese ridendo e chiuse la portiera ma, mentre Tomo la osservava entrare
nella
casa di riposo, si girò e, con un sorriso, gli
mandò un bacio con la mano e,
dalle sue belle labbra, Tomo poté leggere un sentito
G-R-A-Z-I-E.
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
DEL
COME TOMO SCOPRE CHE FIRSTLEAF E’ COME
IL MOTTO DEI TRANSFORMERS, ‘MORE THAN MEET THE
EYES’, E SI TRASFORMA IN UN
PERFETTO SHERLOCK HOLMES CROATO.
Tomo
aveva
ripreso coraggio.
Rassicurato
anche dal fatto che, quando si era avvicinato in quel timido tentativo
di
avance, la ragazza non gli aveva tirato un calcio nella parti basse,
come si
sarebbe aspettato, dopo l’episodio della torta FirstLeaf non
gli faceva più
così tanta paura, non gli incuteva più un timore
referenziale così forte da
intimidirlo.
O
almeno così
pensava, mentre, puntuale come al solito alle ore diciassette e
zero-zero,
arrivava a casa di FirstLeaf per
la sua
consueta lezione di chitarra del martedì, provvisto di un
piccolo mazzo di
fiori (roselline fucsia, come quelle che le aveva sterminato in
giardino…),
intenzionato a invitarla fuori a cena quella sera. Non sapeva nemmeno
lui
perché lo stesse facendo, ma, in effetti, quella ragazza gli
piaceva parecchio
e quindi, si era detto, perché no? La cena era
un’occasione per conoscerla
meglio, dato che, a ben vedere, non sapeva nemmeno quale fosse il suo
vero
nome!
Mentre
parcheggiava la sua auto dall’altro lato della strada
rispetto alla casa di
FirstLeaf e si apprestava a scendere, con la coda dell’occhio
notò uno strano
movimento davanti alla porta della casa.
Una
ragazza
stava uscendo.
E
non era
Jane, riconoscibilissima per i capelli rossi e le lentiggini, e
tantomeno
FirstLeaf.
Tomo
si girò
per fissarla meglio e, quando la ragazza scese i pochi gradini per
arrivare sul
marciapiede e gli si mise a favore, l’uomo rimase di sasso.
ERA
FirstLeaf.
O
era sua
sorella gemella?
No…
FirstLeaf
aveva detto che era figlia unica.
Ma…
Non
era
possibile che fosse lei…
FirstLeaf
vestita così?
Un
vestito a
tubino azzurro scuro con la gonna al ginocchio e la giacca in pendant.
Calze,
borsa e scarpe blu con il tacco alto. Una cartellina portadocumenti in
braccio,
capelli pettinati e raccolti in una treccia, trucco leggero, occhialini
da
secchiona e… accidenti se non stava bene, vestita
così elegante! Quel completo
le stava benissimo e la ragazza a Tomo parve bellissima, anche se
completamente
diversa dalla FirstLeaf che conosceva lui.
L’uomo
era lì
fermo, a bocca aperta, mentre la ragazza, a piedi, cominciò
ad allontanarsi
lungo la via.
Ma
che diavolo
stava facendo quella donna?
Non
avevano
appuntamento per la lezione?
Sì,
certo. E
allora dove cazzo stava andando?
Improvvisamente
Tomo si riscosse.
Scese,
inforcò
gli occhiali da sole, il suo berretto nero calato sugli occhi, chiuse
l’auto e
si acquattò dietro un albero.
Adesso
era
proprio curioso.
Doveva
seguirla.
Doveva
capire
con chi diavolo avesse a che fare.
Doveva
sapere.
Attraversò
la
strada, senza farsi scorgere, e cominciò a seguirla a
distanza di sicurezza,
nascondendosi ogni tanto dietro qualche persona o albero o cespuglio,
quando
gli pareva che la ragazza si girasse.
FirstLeaf
non
camminava velocemente e Tomo riusciva a tenerla sott’occhio
piuttosto
agevolmente. Dopo circa cinquecento metri, la ragazza girò
per una via alla sua
sinistra che portava alla piazza del quartiere. Poi si diresse verso il
teatro
che si ergeva su quella piazza, con Tomo dietro, nascosto dietro un
cestino dei
rifiuti prima e poi dietro una signora anziana ma piuttosto in carne
che gli
faceva da paravento.
La
ragazza si
fermò un attimo per guardare una bacheca appesa alla porta
del teatro e poi
entrò.
Tomo
arrivò
alla porta e lesse anche lui: “Ore 17: Conferenza sulle
applicazioni della
Teoria del Caos nella vita quotidiana. Prof. Carvarvon.”
Il
chitarrista
rimase a bocca aperta.
Che
diavolo
era questa roba?
E
che ci
faceva FirstLeaf lì?
Cosa
le
serviva quel congresso?
Se
la ragazza
voleva sapere qualcosa sul caos nella vita quotidiana, non occorreva
una
conferenza, bastava che chiedesse a lui: dopo sette giorni di seguito
in
tourbus con i 30 Second To Mars, il caos regnava sovrano più
che mai. Una
mattina Tomo si era perfino trovato i calzini di Shannon dentro la
tazza per la
colazione, per non parlare di quella volta che Tim aveva trovato il
reggipetto
di Emma dentro una sua scarpa, per non pensare nemmeno per un secondo a
dove
avevano trovato un giorno gli slip di Jared… al pensiero
Tomo soffocò un
conato… Applicazioni della Teoria del Caos? Più
applicazione di quella!
Tomo
entrò in
modo circospetto: nella hall non c’era nessuno e anche il
teatro, una sala
piuttosto estesa con il soffitto a vetri e le poltroncine azzurre,
sembrava
mezzo vuoto. Il
chitarrista notò subito
FirstLeaf, in prima fila, seduta proprio davanti al relatore, un
signore
piuttosto giovane, biondo e vestito molto elegantemente di marrone con
un
papillon rosso a pallini e il foulard al taschino intonato.
Un
professore
universitario, forse. Uno di quelli geniali e stravaganti. E che non
sembrava
americano.
E
soprattutto
non era famoso, visto che al massimo ci saranno state una ventina di
persone:
un successone, insomma… come i primi concerti dei 30 Seconds
to Mars, quelli
dove andava anche lui prima di farne parte.
Tomo
si guardò
intorno un attimo e poi decise che non era il caso di rimanere, primo
perché
delle formule matematiche che aveva scritto sulla lavagna quel tizio,
lui non
ci capiva niente e poi perché non voleva farsi scorgere da
FirstLeaf, tutta
intenta a prendere appunti. Ma perché poi? Boh.
Il
ragazzo
uscì e si diresse verso il bar dall’altra parte
della piazza, si sedette ad un
tavolino appena fuori, con vista sulla porta del teatro, ed
ordinò un caffè. Si
nascose dietro un giornale trovato su una sedia e si mise di guardia:
FirstLeaf
non poteva scappargli.
E
infatti,
dopo ben due ore, durante le quali Tomo non sapeva più come
sedersi su quella
dannata sedia di metallo e aveva letto tutto il giornale per intero
cinque
volte, FirstLeaf uscì, ma non nel modo in cui si aspettava
Tomo, visto che la
ragazza era sottobraccio con il professorino e si sorridevano,
dirigendosi
proprio verso il bar.
E,
a ben
vedere, formavano proprio una bella coppia.
Tomo
era
sottosopra e brandì nuovamente il giornale per nascondersi.
Che cazzo stava
succedendo? Tutti i suoi propositi su FirstLeaf e la loro cena erano
svaniti in
due nanosecondi netti e adesso veniva pure fuori che la ragazza si
prendeva
certe confidenze con altri personaggi COMPLETAMENTE al di fuori del suo
mondo?
Ma non era una musicista? E chi cacchio era, invece, quello
lì, che adesso
molto galantemente le scostava la sedia e la faceva sedere in un
tavolino in
angolo ma poco distante da quello di Tomo? IL SUO RAGAZZO????? Non era
possibile!
FirstLeaf
non
si era accorta della presenza di Tomo celato
dietro il giornale, visto che aveva occhi soltanto per il
‘suo’
professorino. La coppia ordinò due caffè e la
ragazza estrasse un pacco di
fogli dalla cartellina e cominciò a passarli uno a uno al
professore
spiegandogli cose che Tomo non capiva nel modo più assoluto.
Tensori? Ipotesi?
Teoremi? Che diavolo era quella roba?
Ad
un certo
punto si scocciò.
Era
ora di
finirla.
Era
ora di
sapere.
Era
ora che
FirstLeaf smettesse di sorridere in quel modo a quel cacchio di tizio
imbalsamato.
Abbassò
il
giornale con un po’ di nervoso, lo accartocciò e
lo mollò sul tavolo, si alzò e
andò verso di loro.
“Ehi,
Ciao.”
Disse alla ragazza, abbassandosi, sorridendo e agitando la mano.
FirstLeaf
fece
quasi finta di non averlo visto, anche se sobbalzò
leggermente: lo guardò con
la coda dell’occhio e poi tornò a fissare
velocemente il professore.
Tomo
rimase un
po’ sorpreso da questo atteggiamento: “Ehi? Ciao,
FirstLeaf!”
La
ragazza
allora lo guardò, dicendo: “First cosa? Scusi, non
mi pare di conoscerla…”
“Ma
sì…”
FirstLeaf
scosse
la testa: “No, direi di no…”
Tomo
alzò
subito la voce, frustrato: “SI’
INVECE…”
Il
professore
intervenne in modo molto pacato, quasi gentile, a bassa voce:
“La prego di non
urlare… e se la signora le ha detto che non la conosce, la
prego di allontanarsi…”
Ma
Tomo era
troppo agitato: “Sì che mi conosce e
tu… stai zitto, capito? Che ci fai qui,
FirstLeaf?”
La
ragazza gli
rispose con un finto sorriso di cortesia, guardandolo con uno strano
occhio:
“Non sono FirstLeaf, lei si sbaglia…”
Ma
Tomo era
scatenato: “Avevamo lezione oggi, ricordi? E’
martedì e tu dove diavolo te ne
vai? Cazzo…”
“Veramente
oggi è lunedì e comunque io non so di che genere
di lezioni parla, lei…”
Il
professore
intervenne nuovamente: “La prego di andarsene e di evitare il
turpiloquio…”
Ma
anche il
fatto che gli dessero del ‘lei’, fece infuriare
ancora di più Tomo, che se la
prese con il giovane uomo: “Ti ho detto di stare zitto,
tu…”
Il
professorino si alzò e gli puntò un dito in
faccia, un po’ minacciosamente:
“Lei non sa chi sono io. Sono Lord Julius Herbert George
Carnarvon,
bis-bis-nipote del noto Lord George Edward Stanhope Carvarvon, colui
che ha
finanziato la scoperta della tomba di Tutankhamon; quindi, anche nella
sua
immensa ignoranza in merito, le chiedo un po’ di
rispetto…”
Tomo,
con quei
baffi sottili incurvati all’ingiù, fatti crescere
in un solo week end per far
colpo su FirstLeaf, sembrava un pistolero del west nel pieno di un
perfetto
‘mezzogiorno di fuoco’; guardò il
professorino negli occhi e gli sibilò: “Beh
certo. Se non altro perché, a guardare te, vedo che la
maledizione della mummia
continua, nella tua famiglia…”, ‘e il
‘lei’ te lo scordi, lord destocazzo’,
pensò.
FirstLeaf,
che
era rimasta seduta muta a fissare i due, si girò a guardare
Tomo con gli occhi
spalancati e a bocca aperta: non poteva credere che il mite e timido
Tomo
stesse insultando in quel modo una persona che non conosceva per
niente. Per
fortuna il professore non sembrava essersene accorto o, meglio, aveva
fatto
finta di non accorgersene e, con tutta la flemma inglese di cui era
capace,
dichiarò: “Bene, mia cara Dana, suggerirei di
lasciare questo luogo popolato di
personaggi oltremodo ambigui e maleducati e di dirigerci verso il mio
ufficio
all’università, dove potrò guardare il
tuo interessante lavoro con tutta
calma.” Poi, molto galantemente, senza badare Tomo di
striscio, le scostò la
sedia per aiutarla ad alzarsi.
“Grazie
Julius.” FirstLeaf recuperò i suoi fogli e la sua
borsa e, guardando per un
momento Tomo di sottecchi, prese il braccio di Lord Carvarvon e si
allontanò
attraverso la piazza.
“Ma…
FirstLeaf…” Tomo tentò di chiamarla
nuovamente, ma la ragazza non lo badò.
Fatti pochi passi, mentre Tomo li osservava allontanarsi, FirstLeaf
mise una
mano dietro la schiena e alzò verso Tomo un bel dito medio
e, con la stessa
mano, gli fece segno di andarsene.
Al
che Tomo,
visto che non poteva fare altro, con una voce talmente alta che avrebbe
risvegliato Tutankhamon e tutti i suoi parenti, tanto per stare in
argomento,
le gridò dietro: “’Scolta FirstLeaf, ci
vediamo domani, allora …”
E
sembrava una
minaccia bella e buona.
A tutte
le
mie fedeli lettrici: per un po’, causa concorso, non
potrò aggiornare questa
ff! Mi dispiace tanto…! Arrivederci a presto con nuove
sorprese! Un bacio a
tutti/e. Ciaooooo. :-*** Shanna
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
DEL
COME LA CURIOSITA’ DI TOMO SI RIVELA
ASSAI FLORIDA E LA PAZIENZA ASSAI SCARSA (E QUELLA DI FIRSTLEAF PURE)!
FirstLeaf
camminava velocemente lungo il viale alberato, verso casa, nel pieno di
un
tramonto californiano. Quelle dannate scarpe blu con i tacchi le
facevano un
male da morire e non vedeva l’ora di buttarle con odio dentro
la scarpiera,
sciogliersi i capelli, togliersi quel cavolo di tailleur da funerale e
anche
quel diavolo di reggiseno che le faceva quasi mancare il fiato. Erano
le otto
di sera e voleva soltanto farsi una doccia, mettersi il suo pigiama da
depressione, ingurgitare una cioccolata bollente e mandare
l’intero universo
conosciuto a ‘ffanculo, dal profondo del cuore, dalle
fondamenta delle sue
viscere.
Era
stanca.
Esausta.
E
forse anche un po’ esaurita.
Arrivata
davanti alla porta di casa, cominciò a frugare dentro la
borsetta in cerca del
mazzo di chiavi, quando un’ombra uscì dalla siepe
vicino all’uscio facendola
sobbalzare, un colpo al cuore: “E così avresti una
doppia vita.”
Fece
un salto
indietro.
TOMO!
TOMO?
TOMO.
Accidenti
anche a lui e ai suoi tiri da matto!
Si
riprese
subito dalla sorpresa: “CHE CAZZO CI FAI QUI?”
“Ma…
vai
all’Università?”
FirstLeaf
gli
piantò addosso due occhi fiammeggianti e a denti stretti
affermò: “Non sono
affari tuoi. Vattene.”
Il
chitarrista
si appoggiò a lato della porta, con molta non-chalanche, con
le braccia
conserte, in attesa e
dichiarò, compunto: “Eh
no. Adesso mi dici tutto…”
Oh
sì, come
no. Subito. “E perché dovrei? A te cosa interessa?
Vieni solo per le lezioni di
chitarra. Cosa ti interessa di me?”
“Come
ti
chiami, per esempio. E chi sei veramente.”
FirstLeaf
infilò la chiave nella serratura, pensando che quella sera
nemmeno lei sapeva
chi era veramente, figurarsi a spiegarlo ad uno semi-sconosciuto come
Tomo. Non
era proprio il caso: “Vattene e torna quando abbiamo lezione,
cioè domani
pomeriggio. DOMANI. Martedì.”
Ma
Tomo era
decisamente aggressivo, come FirstLeaf non l’aveva mai visto,
ancora di più
rispetto a come si era rivolto al suo professore. L’uomo
aggrottò le
sopracciglia e le disse, minaccioso: “ Faccio quel che
voglio… Non mi comandi
tu.”
Che
pretese!
“Certo che no! Ma… ti lascio fuori.”
FirstLeaf
aprì
velocemente la porta e tentò di entrare, ma Tomo fu
più scaltro, le diede una
spinta e si infilò in casa prima di lei. Poi si mise in
mezzo al corridoio
d’entrata, mentre la ragazza buttava con veemenza borsa e
libri sopra il
tavolino dell’ingresso, con una specie di grugnito, e gli si
avvicinava prontamente,
le mani piantate sui fianchi, arrabbiata come una biscia.
“Cazzo,
chiamo
la polizia, adesso. TE NE VAI O NO?”
Ma
Tomo aveva
tutta la sua lista di domande pronta, preparata durante un soggiorno di
oltre
due ore passate acquattato sotto una dannata siepe: “E chi
sarebbe quello? Lord
Coso?”, disse, indicando con un indice da qualche parte.
“Vaffanculo,
Tomo, non sono affari tuoi… Stavi rovinando tutto,
bastardo…”, gli sibilò
FirstLeaf.
“Rovinando
cosa?”
“Rovinando
e
basta…”
“E
ti chiami
Dana, alla fine. Bel nome…”
FirstLeaf
scosse la testa: “No. Non mi chiamo proprio niente. Per te io
sono FirstLeaf e
basta, non ho un nome, capito? Non sono Dana.”
Ma
Tomo aveva
deciso che non avrebbe rinunciato a sapere la verità per
niente al mondo: la
sua idea della cena con FirstLeaf/Dana era andata a farsi friggere in
due
secondi netti e ora doveva sapere in nome di cosa era successo. E
allora
insistette: “E che diavolo ci faresti con quello
là, quel tipo mummificato? Chi
è per te?”
Ma
Dana non
rispose e si avviò verso la cucina a passo di marcia, dopo
aver buttato la
giacca per aria e le scarpe in un angolo dell’entrata con un
calcio.
E
Tomo dietro:
“E allora?”
FirstLeaf
mise
il tavolo della cucina tra sé e il chitarrista, dopo avere
acceso la luce della
stanza: “Non sono affari che ti
riguardano…”
“Invece
sì.”
“Direi
di no.”
Tomo
iniziò
una circumnavigazione lenta del tavolo: “VOGLIO
SAPERE!!”
“HO
DETTO
NO!!”
Tomo
tentò di
cambiare tattica: “Se non mi dici cosa succede potrei
rovinare qualcosa, hai
capito? Devo sapere, sono un disastro in queste cose!”
Il
chitarrista
era più vicino ma FirstLeaf gli scappò girando
ancora: “Se te ne vai e torni
domani, trovi la FirstLeaf che hai conosciuto, che non ha niente a che
vedere
con Dana, e così non ti poni tanti interrogativi strani in
quel tuo cervello…”
Eh
no, non era
una cosa contemplata nelle possibilità di Tomo. E poi
l’idea di quel
professorino che avesse in qualche modo a che fare con la
‘sua’ FirstLeaf lo
mandava in bestia: “CHI E’ QUELLO?”
FirstLeaf
fece
spallucce: “Cosa ti importa?”
“CHI
E’?”
FirstLeaf
si
diresse verso l’uomo e gli si fermò a dieci
centimetri dal viso. Lo guardò un
attimo e poi gli gridò in faccia: “JULIUS
E’ LA MIA SPERANZA DI RISCATTO,
CAZZO!!!!” Poi la ragazza si sedette di peso su una sedia con
i gomiti appoggiati
al tavolo ed il viso tra le mani.
Tomo
rimase di
stucco. Non capiva l’atteggiamento misterioso di FirstLeaf
né il motivo per cui
questo Julius, così diverso da lei, potesse essere
così importante per quella
ragazza. Ma che diavolo voleva dire? Cosa stava succedendo?
“Ma perché? Perché
lui?”
FirstLeaf
rimase con le mani sugli occhi e dopo un po’ disse,
lentamente, quasi con
difficoltà: “Tu… tu non capisci, non
puoi capire. Io… Tu… Forse non lo sai ma
le musiciste donne sono considerate alla stregua di battone, nessuno ci
considera niente di più che puttane…”
FirstLeaf
si
fermò, sospirò e Tomo era senza fiato: non aveva
mai pensato a come dovesse
essere la vita e l’esperienza musicale per una ragazza come
FirstLeaf, che a
lui, ragazzo semplice e genuino, pareva così brava e sulla
quale si era fatto
tutta un’idea romantica con fiori, cena a lume di candela,
parole dolci e baci
appassionati. Non disse nulla, ma le si avvicinò di
più.
La
donna
continuò: “Dopo anni che passo per una zoccola
perché suono e… nessuno mi degna
di interesse, e anzi mi schifano perché me la so cavare a
suonare meglio di
tanti maschi, Julius è l’unico che mi presta
attenzione, che mi considera
speciale.” FirstLeaf abbassò le mani ma rimase
seduta, fissando la finestra,
con l’espressione seria, il volto triste:
“Io… studio
all’università. Studio Fisica. Devo solo fare la
tesi e poi
ho finito. Mi laureo il mese prossimo. Julius è il mio
relatore. Stiamo
sviluppando una parte della Teoria del Caos, una cosa nuova, mai
proposta prima.
Lui… beh… dice che sono brava, che posso
diventare ancora più brava, che mi
farà avere una borsa di studio in Inghilterra,
che… insomma, mi considera una
ragazza col cervello, non soltanto…
soltanto…” First Leaf cominciò a
sciogliersi la treccia dei capelli con rabbia, come se volesse
strapparseli, e
buttò il fermaglio sul tavolo, con collera,
“… soltanto un paio di tette con la
chitarra al collo, come fanno tutti! E non gli passa nemmeno per
l’anticamera
del cervello di farmi proposte oscene, di scoparmi dietro una porta, di
sbattermi per terra! Cazzo!!!”
Dana
si alzò
rabbiosamente e si diresse verso il frigo. Lo aprì, prese
una bottiglietta
d’acqua e cominciò a bere.
Tomo,
consternato e quasi senza parole, le si avvicinò:
“E-e… e io?”
Dana
lo guardò
stancamente: “Tu cosa?”
“N-non
ti
presto attenzione, io? Non ti considero speciale?”
La
ragazza
sospirò: “Mi hai forse detto qualcosa che mi sono
persa? Non mi pare…”
Tomo
scosse la
testa. “No. In effetti non ti ho detto niente,
ma…”
“Lascia
perdere Tomo, lascia stare, non dire cose che non sono vere, per
favore…”
“Ma
io… io
volevo dirtelo stasera che… che per me sei speciale e che mi
piaci e che…”
FirstLeaf
sogghignò, ma più che cinica, la sua risata
risultò piuttosto triste: “E
secondo te, io dovrei crederti? Credi di essere il primo musicista che
mi dice
che gli piaccio? Il primo chitarrista sulla faccia della Terra? Potrei
farti la
lista di batteristi, tastieristi, bassisti, sassofonisti, trombettisti
e anche
produttori musicali, tutti maschi ovviamente, che mi hanno detto la
stessa cosa
solo e soltanto per potermi mettere le mani addosso e di come suono non
importa
a nessuno di loro. Sono dieci anni che succede. E io…
beh… io adesso sono
stanca di questo mondo, di questo vivere, di questa gente. Voglio cose
diverse,
ora. Ne ho la possibilità e tu non rovinerai tutto,
capito?”
“Ma…
ma tu con Lord Coso
non hai niente a che
spartire.”
Dana
sospirò
nuovamente, fissando Tomo con uno sguardo in qualche modo sofferente e
mettendogli una mano sul braccio, gli disse, quasi implorando:
“Stanne fuori
Tomo, per favore. Stanne fuori. Io ti insegno, ti aiuto. Lo faccio
volentieri,
davvero, perché tu in fondo non sei uno stronzo. Tu, o chi
per te, non so, paghi
ed è finita lì. Non abbiamo niente a
che spartire io e te, semmai. Non voglio spartire niente con te, non
voglio
musicisti tra i piedi, non più... E anzi… non
rovinare tutto quello che di
buono c’era tra di noi.”
“Ma
Dana, io
credo…”
FirstLeaf
improvvisamente parve esasperata e lo interruppe: “Ti sto
chiedendo PER FAVORE.
Non complichiamoci la vita. Adesso hai saputo tutto quello che
c’era da sapere
e ora basta. Vattene. Ti chiedo solo di non rovinare tutto. Pochi sono
a
conoscenza delle cose che ti ho detto. Mantieni il segreto anche tu.
Per
favore. Io voglio cambiare vita…”
Tomo
scosse la
testa: “Stai sbagliando, Dana. Ascolta…”
“NO.
Senti.
Per te non è tanto difficile: ti scordi quello che hai visto
oggi, ti scordi
che sono Dana, torni domani, facciamo la lezione e… basta!
Non cambia niente
per te, no?” FirstLeaf cominciò ad alzare la voce:
“CHE CAZZO TI CAMBIA! E poi…
BASTA! Sono stanca di discutere con te! BASTA! Faccio il cazzo che
voglio della
mia vita!”
FirstLeaf
si
allontanò da Tomo velocemente, uscì dalla cucina
e fece per avviarsi verso le
scale per andare a chiudersi in camera sua, ma Tomo la raggiunse, la
prese per
un braccio e la imprigionò tra le sue braccia, mentre la
ragazza si
divincolava.
“Lasciami,
lasciami, stronzo…”
“Aspetta,
aspetta…”
Tomo
avrebbe
voluto dirle tante cose, ma l’atteggiamento della ragazza non
lo aiutava
nell’esprimere quello che provava per lei. Avrebbe voluto
dirle di non mandarlo
via, di dargli una possibilità, di non trattarlo come un
puttaniere, di
ripensare ai suoi progetti, ma quella Dana che si divincolava tra le
sue braccia,
scalza, con i capelli al vento, il viso arrossato e le labbra socchiuse
gli
fecero perdere la testa. Improvvisamente i pensieri razionali di Tomo
si
sciolsero come neve al sole e la sua parte animale venne a galla.
L’uomo la
strinse a sé, le afferrò la nuca con una mano e
diresse la sua bocca su quella
di Dana. Poi cominciò a baciarla con forza.
Ma
Dana,
avvezza a rispondere a questo genere di avance e con dalla sua un corso
di
autodifesa personale, si divincolò ancora, lo spinse via e
riuscì a staccarsi
sufficientemente per alzare una gamba e tirare una ginocchiata a Tomo
nelle sue
parti basse. Il ragazzo la lasciò subito, arretrò
mugolando e tenendosi le mani
sul pube, e Dana ne approfittò per tirargli un pugno in
faccia, con rabbia.
“Vedi
che sei
come tutti gli altri? Lo vedi? Vaffanculo,
Tomo…” gli gridò, mentre
si passava il braccio sulla bocca, come a
pulirsi dal bacio dell’uomo.
Tomo
era
piegato in due, indeciso se tenersi la guancia o il davanti dei
pantaloni:
“Ahioooo…”
In
quel
momento la porta d’entrata si aprì e Jane fece il
suo ingresso, rimanendo in
piedi in mezzo al corridoio, stupita alla vista di FirstLeaf, in
elegante
vestito blu e… guardia da pugilato,
che
diceva: “E adesso vattene Tomo. Subito. O ti sistemo per le
feste…”
“Ehi,
che succede,
qui?” chiese. “Perché picchi
Tomo?”
FirstLeaf,
con
il fiatone, le si avvicinò: “Perché lo
voglio convincere ad andarsene da qui…”
“Ma
poveretto…
non potevi provare con altri argomenti?”
“Ho
provato,
cazzo!! Ma non sente ragioni…”
Jane
si
avvicinò a Tomo e, con il suo spirito medico che prendeva il
sopravvento, lo
fece sedere sul gradino della scala e cominciò a chiedergli
come stava, con
Tomo che si lamentava e che pensava che FirstLeaf picchiava proprio
come
suonava la chitarra, cioè bene.
Eccomi
tornata!!
Mi dispiace per la lunga attesa! Grazie a chi, nel frattempo, ha
recensito e ha
messo questa ff tra i preferiti! :-*** Shanna
|
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
SUI
MOLTI PENSIERI, SCONNESSI E NON, DEL
NOSTRO ILLUSTRE EROE, IL BALDO TOMISLAV DETTO TOMO.
Tomo
era KO.
Gli
faceva
male il viso, sulla guancia, dove FirstLeaf lo aveva colpito con
veemenza. Per
fortuna non gli erano rimasti segni scuri o aloni e anche sua mamma non
si era
accorta di niente: l’impacco di ghiaccio fatto nottetempo di
nascosto era
sicuramente servito.
Gli
facevano
male le parti basse, ma qui l’impacco non era servito a
lenire le sue
sofferenze. Vista la botta sui testicoli, avrebbe anche dovuto
camminare un po’
storto, ma non si doveva far vedere da nessuno (specialmente dagli
spioni dei
due Leto, sempre là con due occhi spalancati come gufi e
che, a sapere una cosa
del genere, lo avrebbero preso per il culo in saecula
saeculorum…).
Gli
faceva
male la testa, visto che aveva dormito pochissimo, abbattuto al massimo
e con
il viso di FirstLeaf tatuato nelle cellule cerebrali.
Ma
soprattutto
gli faceva male il fatto che non fosse riuscito a dire a FirstLeaf cosa
provava
per lei e l’aveva invece trattata, senza in realtà
davvero volerlo, come lei
diceva facessero tutti.
Era
Martedì.
Il
giorno
dopo.
Tomo
aveva
passato la mattinata in sala di registrazione ma non aveva combinato un
cavolo
di niente, visto che con la mente non c’era proprio. E
allora, vista la sua
disattenzione e insofferenza, Jared
aveva cominciato a prenderlo in giro, Tim gli aveva offerto una birra
consolatoria senza chiedergli niente dei suoi guai, mentre Shannon
continuava a
domandargli se stesse bene o se avesse preso un qualche virus
influenzale
primaverile.
Alla
fine,
verso mezzogiorno,
Tomo, di cattivo
umore, aveva deciso
di andarsene, promettendo
a Shannon di prendere appuntamento con un medico. Invece era andato al
ristorante dei suoi genitori e, per pensare, si era messo a preparare i
dessert
per i clienti, cosa che faceva anche prima di diventare componente dei
30
Seconds To Mars.
Faceva
tutto
in automatico, senza quasi vedere quello che combinava con i piatti,
perché la
domanda che albergava sovrana nella sua testa era: che diavolo aveva
fatto? E,
soprattutto, perché?
Ora
erano le
quattro del pomeriggio e Tomo girava goffamente per il salotto di casa
sua,
l’impacco di ghiaccio sottomano, in tuta da ginnastica
grigia, spettinato, con
la barba non rasata, facendo la spola
porta-finestra-portadellacucina-porta:
mancava un’ora alla lezione di chitarra e le aveva pensate
ormai tutte. Ma la
conclusione alla quale era giunto era piuttosto elementare: si era
innamorato
di Dana.
Fine.
Aveva
preso
una bella sbandata per lei.
Semplice,
semplice.
La
voleva per
sé.
E
basta.
Non
poteva
sopportare di perderla.
Davvero
no.
Era
geloso
marcio.
Punto
e a
capo.
Bruciava
di
passione per lei.
Chiuso.
La
amava.
Papale,
papale.
Aveva
sperato
che l’essere due chitarristi e condividere la stessa
eccezionale passione
musicale per il rock, potesse essere il legame che li avrebbe uniti e
ora non
poteva credere nemmeno per un momento che fosse invece la cosa che li
avrebbe
separati. Dana però gli aveva detto chiaramente che non ne
voleva più sapere di
musicisti e quindi nemmeno di lui. Il tutto senza dargli una
possibilità, presa
com’era dall’idea della sua nuova vita.
E
cosa poteva
fare, ora, lui?
Non
lo sapeva.
A
forzare la
situazione era peggio, visto come era andata con il bacio che le aveva
dato,
che voleva essere dolce e invece era stato… era
stato… che diavolo era stato?
Tomo si passò le mani tra i capelli, bloccandosi in mezzo al
salotto. Era stato
terribile, a dire poco. Disgustoso, inutile, orribile, eccessivo
e… avrebbe
potuto andare avanti tutto il pomeriggio a trovare aggettivi, anche
senza
l’aiuto del vocabolario.
Infastidito
al
ricordo, ricominciò a girare lentamente attorno al tavolino
del salotto.
E
poi, doveva
andare alla lezione del martedì oppure no?
Uhm…
No.
Meglio
di no.
Come
avrebbe
potuto fare finta che quella FirstLeaf fosse la stessa della settimana
prima?
Impossibile. Ora per lui quella ragazza era molto di più:
era Dana, la donna di
cui era innamorato. Era la ragazza che gli stava sfuggendo di mano,
anche se
non era stata sua nemmeno per un secondo.
Doveva
già
rinunciare a lei?
Si
sedette un
momento sul divano a pensare a quanto sarebbe stato bello averla con
sé mentre
era in tournee, che lo aspettava nel backstage dopo il concerto, che
gli dava
consigli su come suonare, che lo incoraggiava, che lo guardava con quei
suoi
occhi scuri.
Che
lo
abbracciava, lo baciava, lo amava.
E
chissà che
faccia avrebbero fatto i Leto a vederlo con una ragazza
così. Per un momento si
mise a sorridere all’idea di Dana alle prese con Jared: lei
no che non ne
avrebbe avuto soggezione, come avevano in molti… magari
avrebbe picchiato pure
lui, dopo avergli detto chissà cosa o tirato gli orecchi sul
modo in cui Jared
suonava la chitarra.
Tomo
era certo
che invece Shannon avrebbe sfoderato tutte le sue più
formidabili tecniche
seduttive (e anche quell’orribile dopobarba che si metteva
ogni tanto e che
aveva un retroprofumo/retropuzza di cimice schiacciato…) per
fare colpo su
Dana, ma lei avrebbe avuto occhi solo per il suo Tomo…
E
Tim? Beh,
lui le avrebbe offerto una birra e poi avrebbero sicuramente cominciato
a
discutere su accordi e giri di basso, seduti per terra in un corridoio,
gli
strumenti sulle ginocchia…
Il
chitarrista
sospirò: che belli i castelli in aria! Ma perché
non potevano essere realtà?
Perché? Accidenti!!!
Si
alzò di
scatto, stringendo i pugni, e ricominciò a percorrere il
perimetro della
stanza.
Però…
Improvvisamente
si bloccò: ma CHI aveva detto che era tutto perduto? CHI?
NESSUNO, CAZZO!
Nessuno!
E in
nome di quei castelli in aria, non poteva rinunciare a lei.
Accantonò
per
un attimo i sentimentalismi e l’emotività,
pensò a come fosse Dana ed escogitò
un piccolo piano, così, su due piedi.
Doveva
andare
a lezione: se fosse sparito le avrebbe fatto credere di non aver
più bisogno di
lei e Dana si sarebbe sicuramente incazzata per il suo amor proprio
offeso. E
poi lui non avrebbe più avuto nessuna
possibilità. No. Doveva andarci,
sfoderare la sua migliore faccia da schiaffi e via.
Doveva
chiederle scusa: in effetti non si era comportato da gentiluomo, ma da
comare ficcanaso.
Si era precipitato a casa sua, era entrato come una furia, aveva fatto
troppe domande
e preteso troppe risposte. Troppo, per la conoscenza superficiale che
avevano.
Doveva
cercare
di non forzare le cose: Dana era un osso duro, non doveva aggredirla,
altrimenti rischiava che si chiudesse a riccio e, forse, rischiava di
prenderle
nuovamente.
Doveva
fare il
furbo: dopo anni in giro con i subdoli dei due Leto che, se non
riuscivano a
saltare l’ostacolo, trovavano il modo di aggirarlo, aveva pur
imparato
qualcosa, o no? Dana si sarebbe laureata nel giro di un mese e ci
sarebbero
state quindi ben otto lezioni: e vuoi che in otto lezioni, si disse Tomo, non riesca a dirle
quello che sento per
lei? Che non riesca a convincerla che
Lord-Julius-Coso-Carnarvon-Carneade, o
qualsiasi cosa sia, non fa per lei? Che non riesca a piacerle nemmeno
un
pochino?
Tomo
si
rispose tre ‘sì’ convinti alle domande
che si era posto e, con questo nuovo convincimento,
andò in camera sua a prepararsi.
Nel
vestirsi,
scelse una classica maglietta nera degli ‘Iron
Maiden’: era certo che alla sua
Dana sarebbe piaciuta…
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
SUI
MOLTI PENSIERI, CAOTICI E NON, DELLA
NOSTRA STIMATA EROINA, L’INCAZZOSA DANA DETTA FIRSTLEAF.
Quattro
e un
quarto dello stesso martedì.
Dana,
sdraiata
sul letto in camera sua, le braccia dietro la testa, le gambe allungate
sul
copriletto rosa, in pigiama e capelli sciolti sul cuscino, osservava i
due
poster appesi alla parete davanti a lei.
Lo
faceva
sempre, studiandone i minimi particolari, perché ogni volta
le pareva
impossibile che i suoi geni ispiratori fossero due.
Fossero
QUEI
due.
Così
diversi
in tutto ed uniti solo da una cosa: la loro genialità.
A
destra, impegnato
a fare la linguaccia alla macchina fotografica, i capelli bianchi e
spettinati,
l’espressione allegra, l’occhio
spiritato… Albert Einstein, indiscusso genio
della Fisica.
A
sinistra,
con gli occhi chiusi dietro gli occhiali spessi, la Ibanez al collo,
intento in
un assolo dal vivo, vestito alla moda anni ’70…
Omar Rodriguez-Lopez,
chitarrista portento dei The Mars Volta.
Dana
sospirò e
spostò lo sguardo sullo scaffale sotto.
Stessa
suddivisione: a destra libri e dispense di Fisica, fotocopie, quaderni,
faldoni
di formule matematiche, esercizi; a sinistra spartiti, quaderni
pentagrammati,
libri con biografie musicali, poster arrotolati, scatoline con plettri,
metronomi.
Per
un momento
le sembrò che quella fosse anche la suddivisione che aveva
nel cervello: lobo
destro la Fisica, lobo sinistro la Musica.
Si
alzò
sbuffando dal letto e si mise a guardare il cielo dalla finestra: una
suddivisione che si portava dentro da sempre e che la portava a vivere
due vite
praticamente diverse, agli antipodi.
Una…
passata
tra sala prove e locali fumosi di terz’ordine.
L’altra…
tra
aule, laboratori e biblioteche polverose.
In
classico
stile ‘Dottor Jekyll e Mr Hide’.
Due
vite
inconciliabili, che Dana avrebbe voluto entrambe e alle quali non
avrebbe
voluto rinunciare.
Come
avrebbe
fatto senza la Musica?
E
senza la
Fisica?
Non
avrebbe
saputo.
‘Ma
un giorno
dovrai scegliere…’ le aveva detto una volta una
maga di un luna-park,
leggendole la mano. Dana si era messa a ridere: ‘Non potrei
mai…’, le aveva
risposto, ma in cuor suo sapeva che la maga aveva ragione.
E
forse il
momento della scelta era giunto: i FourLeafClover non andavano male, ma
di
gruppi come loro nella Bay Area ce n’erano
un’infinità e tutti praticamente
uguali. Probabilmente, dopo quasi dieci anni di gavetta, non sarebbero
mai
diventati famosi, visto che non erano sufficientemente originali da
avere un
sound distinguibile in mezzo a tanti altri. Avevano fatto parecchie
audizioni
presso case discografiche indipendenti, ma senza esito. L’EP
che avevano
autoprodotto era andato bene, ma ora avevano ancora poche serate
programmate e
poi basta. Erano al palo.
E
forse invece
le si prospettava la possibilità di una borsa di studio in
Inghilterra, ad
Oxford, nel cuore della ricerca scientifica europea, la culla della
Fisica, la
patria di Isaac Newton.
E
doveva
rinunciare?
Doveva?
Oddio.
No.
Non
poteva.
Sarebbe stata matta: un’occasione che magari le sarebbe
capitata una volta
nella vita doveva buttarla così, in nome del nulla musicale
che invece le si
prospettava? Proprio no!
Ecco:
in fondo
aveva già deciso, aveva già scelto tra la Musica
e la Fisica e nulla le avrebbe
fatto cambiare idea, anche se le rimaneva in bocca uno strano gusto
amarognolo.
Sospirò
e uscì
dalla sua camera per scendere in cucina.
Arrivata
alla
fine delle scale, nel gradino in cui Jane aveva fatto sedere Tomo per
soccorrerlo, le venne improvvisamente in mente della discussione della
sera
precedente e non poté fare a meno di pensare che la
suddivisione che aveva
nella mente e nella vita ce l’aveva anche negli uomini che
aveva intorno!
Tomo
e Julius!
Dana
si fermò
a fissare il gradino, aggrottando le sopracciglia, pensierosa: alla
fine, si
disse, le piacevano entrambi anche se in modo completamente diverso.
Julius
era
aristocratico, geniale, sempre a suo agio in qualsiasi situazione. Un
vero
signore, nonostante avesse appena trent’anni. Un uomo del
quale Dana si fidava
ciecamente, che non le aveva mai fatto uno sgarbo da che lo conosceva
(da un
anno circa), sempre disponibile e gentile. Non si poteva dire che fosse
bellissimo (con quei baffetti e la pettinatura un po’
retrò, il modo di vestire
troppo da adulto), nonostante la schiera di studentesse che gli
sospiravano
dietro, ma a Dana piaceva. Le piaceva il fatto che Julius la trattasse
come una
signora, cedendole il passo, scostandole la sedia, aprendole la porta,
con
squisito galateo inglese: in quei momenti Dana si sentiva come una vera
Lady,
come non le capitava mai nell’altra sua mezza vita.
E
Tomo?
Tomo
era Tomo:
il pazzo, il timido, l’imprevedibile Tomo. Dolce e
scapestrato. Goffo e
divertente. Con quel sorriso impacciato e l’espressione
bonaria, ma che poteva
diventare un despota all’occorrenza, sopra le righe,
incontrollabile.
E
Dana, in
fondo, era arrabbiata con lui, furiosa: stava andando tutto a gonfie
vele, lei
riusciva a giostrarsi alla grande tra le sue due diverse vite e
all’improvviso
era arrivato lui a mettersi in mezzo.
Ma
per cosa
poi?
Cosa
ne sapeva
Tomo di quale fosse veramente la sua vita?
Come
si
permetteva di dirle che doveva lasciare perdere Julius e rinunciare
alla
Fisica?
Cosa
ne sapeva
di quello che Dana aveva passato in quegli anni? E, a ben vedere, forse
non
l’aveva capito nemmeno quando Dana aveva tentato di
spiegarglielo, la sera
prima.
Ma
probabilmente Tomo, da rock star come le aveva raccontato Zummo che
fosse,
passava le sue giornate tra feste con modelle e droga party, concerti
con folle
oceaniche, interviste per radio e TV, studi di registrazione, soste da
stilisti
e visagisti. Una vita che lei non si sognava nemmeno.
E
che diavolo
poteva volere un tipo simile da lei? Con un bacio dato a tradimento che
lasciava intendere ben altro che non una semplice amicizia?
Certo:
gli
dispiaceva averlo picchiato e trattato in quel modo, ma Tomo, con tutte
quelle
domande martellanti, l’aveva esasperata e Dana, che
già di suo non era un tipo
calmo e tranquillo, aveva perso la pazienza.
E
ora?
Tomo
si
sarebbe presentato alla lezione di chitarra o no?
E
lei doveva
chiedergli scusa o no?
Mah…
non
sapeva. Avrebbe navigato a vista: a seconda del comportamento di Tomo
avrebbe
deciso, tenendo comunque in mente che non avrebbe mai cambiato idea
sulla sua
scelta di andarsene in Inghilterra, se possibile.
Sì.
Perfetto.
Dana,
rassicurata da queste decisioni, entrò in cucina, si
versò l’ennesimo caffè
freddo della giornata e cominciò ad ammucchiare i libri sul
tavolo. Spense il
portatile e poi andò di sopra a vestirsi.
E
cosa c’era
di meglio per una lezione di chitarra che non dei comodi blue jeans
tutti
tagliuzzati ed una maglietta nera degli Iron Maiden?
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
DEL
COME FIRSTLEAF E TOMO TENTANO DI FAR
FINTA DI PENSARE DI ESSERE FORSE ALLIEVO E MAESTRA.
Tomo,
teso ed
inquieto, stava facendo
autoipnosi-autoconvincimento-autotrainigautogeno-autoincoraggiamento-autoqualcosa…
in auto, la sua auto, parcheggiata davanti alla casa di FirstLeaf.
‘Carpe
Diem…’
‘O
la va, o la
spacca…’
‘Veni,
vidi,
vici…’
‘Chi
vivrà,
vedrà…’
‘Chi
non
risica, non rosica…’
‘Chi
la dura,
la vince…’
‘A
mali
estremi, estremi rimedi…’
‘Rosso
di
sera, bel tempo…’
Ah,
no…
quest’ultimo proverbio era proprio fuori luogo, non era
adatto all’occasione,
perfetto per le previsioni del tempo forse, ma inadeguato al coraggio
che Tomo
voleva trovare in quei motti.
L’uomo
sospirò: OK.
Era
ora di
affrontare Dana.
Mancavano
pochi minuti alle cinque.
Mentalmente
il
chitarrista ripassò il suo piano d’attacco,
pensato non più tardi di un’ora
prima, ed improvvisamente… gli parve soltanto
un’accozzaglia di cazzate stratosferiche!
Gli
tremavano
le gambe… altro che fare fronte a Dana!
‘Aggirare
l’ostacolo alla Leto’… e quando mai?
Chiederle
scusa? Eh sì… Come???
Fare
finta di
niente… sì-sì, tra mille anni!
Tomo
si rese
conto di avere decisamente più dubbi che certezze e
soprattutto tanta voglia di
scappare a gambe levate, mettere in moto l’auto e partire
sgommando, come fosse
in pole-position ad un gran premio di Formula Uno.
Ma
non poteva,
non poteva, mannaggia la pergola!!!
Doveva
combattere per quello che voleva.
Sennò
che uomo
era?
Un
uomo che
non valeva NIENTE, CAZZOOOOO!!
Niente
di
niente!
NO!
NO! NO!
Tomo
scese
dalla macchina come se dovesse affrontare un intero esercito di
fangirls
assatanate, girò attorno all’auto ed estrasse dal
bagagliaio la sua Gibson, con
una nuova sicurezza. Si piantò il berretto in testa e poi
attraversò la strada
quasi correndo, con un cipiglio pericoloso.
Ah-ah-ah…
ora
Dana doveva vedersela con lui, altrochè…
Ah-ah-ah…
adesso le avrebbe fatto vedere lui chi era…
Ah-ah-ah…
lei
credeva di passarla liscia e invece…
Ah-ah-ah…
e
poi chi si credeva di essere quella lì…
Ah-ah-ah…
e
lui era Tomo, mica bau-bau-micio-micio…
Ah-ah-ah…
e
lui sapeva tenere a bada i Leto che non erano bau-bau-micio-micio manco
loro…
Ah-ah-ah…
Mise
la mano
sul campanello, suonò con convinzione, Dana aprì
la porta e gli si parò subito
davanti con gli occhi fiammeggianti, il solito piglio sicuro
e…
…
una
maglietta precisa identica alla sua!
Tomo
spalancò
gli occhi e così pure Dana.
Entrambi
si
guardarono un attimo la propria maglietta, poi quella
dell’altro/altra, poi in
viso e poi scoppiarono a ridere.
Ecco.
Il
ghiaccio era rotto. E tutto per una maglietta con Eddie T.H.!
Meglio
così.
Tomo non avrebbe saputo proprio come fare, nonostante tutte le
rassicurazioni che
aveva tentato di darsi a mo’ di mantra, ma la soluzione era
arrivata senza
volerlo. L’uomo subito lo interpretò come un segno
positivo del cielo.
“Dai,
entra…”
gli disse Dana, dopo un po’, sfregandosi gli occhi pieni di
lacrime dalle
risate.
“Grazie…”
Tomo
riuscì a malapena a dire, soffocando ancora qualche risata e
contento oltre
ogni dire di aver indossato quell’indumento. Poi si chiuse la
porta alle spalle
e si avviò in salotto dietro Dana, il cuore che gli batteva
forte. “Made in
China pure la tua, scommetto…” le disse, tentando
si dissimulare l’agitazione
con una battuta, mentre toglieva la chitarra dalla custodia e gettava
il
berretto sul tavolino.
Dana
rideva di
gusto, buttando la testa all’indietro e sedendosi sul divano,
con il libro
degli spartiti in mano: “Sì, negozio import-export
cinese, cinque dollari.”
Tomo
spalancò
gli occhi: “Cosa? Cinque dollari? Accidenti! Io
l’ho presa al mercatino delle
pulci e mi è costata dieci dollari. Mi hanno
truffato!!!”
Dana
riprese a
ridere, anche lei contenta che la conversazione avesse preso quella
piega, ma
quando Tomo si sedette vicino a lei, tenendo la faccia fintamente
scocciata per
la storia della maglietta truffaldina, non riuscì a far
finta di niente per
quello che era successo la sera prima e gli disse:
“Ehm… Tomo?”
“Sì?”
Dana
abbassò
gli occhi per un attimo, senza sapere nemmeno lei perché:
“Io… Ehm… Scusa… non
volevo…. Ehm… non volevo
picchiarti…”
Tomo
non
credeva ai propri orecchi: non avrebbe mai pensato che Dana potesse
chiedergli
scusa e gli ci volle un momento per mettere insieme le parole:
“Ehm… Scusa a
te… non-non volevo baciarti… Ehm,
cioè, sì, ma non così…
Io… Beh… Scusa… e poi
non volevo intromettermi negli affari tuoi e…
insomma… scusa…”
Dana
scosse la
testa: “OK. Dai… fa niente…
tu… beh… non potevi sapere… non
importa…”
Tomo
le prese
la mano, che lei aveva appoggiata sul divano, e pensò di
dirle proprio quello
che la ragazza voleva sentirsi dire, visto che non era il caso di
attaccare
adesso, meglio aspettare: “Io… voglio solo
che… tu faccia come ti senti, come
ti sembra meglio e… che tu sia felice…”
Voleva anche aggiungere ‘anche senza di
me’, ma si trattenne: non poteva apparire troppo
melodrammatico, visto che Dana
aveva quel librone in mano e non ci avrebbe messo niente a tirarglielo
in
testa.
Dana
non tolse
la mano, anzi gliela strinse: “Grazie, Tomo. Lo sapevo che
avresti capito. Non
sai cosa vuole dire questo per me. Grazie.”
Tomo
sorrise a
sua volta e, cacciando dentro un cassettino nella sua testa
l’idea di prenderla
tra le braccia e baciarla nuovamente, le disse: “Di
nulla.” Poi si alzò, facendo
il finto indifferente, si mise la chitarra a tracolla e le chiese,
sfregandosi
le mani: “Bene. Cosa suoniamo, oggi?”
Dana
si alzò
e, prendendo la sua chitarra, dichiarò, sollevata:
“Umh, perché non inizi con
‘Supermassive Black Hole’ dei Muse, la canzone
preferita dai miei colleghi
astronomi?”
Tomo,
sogghignando alla battuta, non fece nemmeno in tempo a prendere in mano
l’amplificatore per accenderlo che il telefonino di Dana, sul
tavolino, si mise
a suonare.
La
ragazza lo
prese subito e disse, riconoscendo la suoneria:
“Uhm…SecondLeaf? Che vorrà?
Pronto? Ehi, ciao… no-no, dimmi…”
E
mentre Tomo
pensava se c’era la possibilità che alla ragazza
servisse un’altra torta per il
compleanno del chitarrista/cantante dei FourLeafClover, sentiva
SecondLeaf
parlare concitatamente a Dana che, nel contempo, in piedi vicino al
divano,
spalancava occhi e bocca sempre di più, sorpresa. Dopo un
attimo la ragazza
disse un “OK. Ciao…” poco convinto a
SecondLeaf, chiuse il telefonino, e si
sedette sul divano, guardandosi attorno perplessa.
La
curiosità
di Tomo non si fece attendere. Si avvicinò, si
abbassò leggermente e le
appoggiò una mano su una spalla: “Che
c’è? Qualcosa di grave?”
Sembrava
quasi
che Dana facesse fatica ad articolare la frase, Tomo non
l’aveva mai vista
così: “No-no… è
che… oddio…”, poi si passò
una mano un po’ tremante sul viso,
“S-secondLeaf ha iscritto i FourLeafClover ad un
festival-concorso in cui
dobbiamo presentare tre cover… in palio
c’è un contratto discografico con
un’etichetta indipendente…” Dana si
alzò dal divano toccandosi i capelli:
“E’
incredibile…”
Anche
Tomo era
strabiliato, mise giù subito la chitarra e prese le mani a
Dana: “Uaoooh… è
meraviglioso!”
“Sì-sì
ma… ma
entro oggi devo scegliere tre canzoni perché il concorso
è tra due sabati…”
“E
allora? C’è
tutto il tempo sia per scegliere che per provare…
uaoooh… che bello!!!”
Ma
Dana era
titubante. Per tutta la sua vita aveva sperato in un momento come
questo e ora
che era arrivato ne aveva una paura folle. Era terrorizzata
all’idea di salire
sul palco e che da una sola gara dipendesse il futuro dei
FourLeafClover… e se
poi avessero vinto? E se avesse anche ottenuto la borsa di studio per
l’Inghilterra? Tutto insieme o niente del tutto, vero?
Accidenti… Vabbè: era
impossibile prevedere il futuro, tanto valeva pensare al presente. Si
risedette
sul divano e prese a scartabellare il suo librone di spartiti:
“Che diavolo
scegliamo?”
Tomo
si mise a
camminare sù e giù per il salotto, pensieroso,
desideroso di dare una
consulenza in merito: “Uhm… allora…
Secondo me devono essere delle canzoni non
troppo note, perché quelle famose le sanno tutti, rischiate
che qualcuno le
faccia prima o dopo di voi… Sai che palle sentire quattro
volte ‘Smoke on the
water’ dei Deep Purple? L’originalità
invece paga…”
Dana
annuì:
“Bravo, buona idea...”
“Poi
devi
trovare la sequenza giusta: inizi con il botto, per attirare
l’attenzione, poi
una apparentemente lenta e poi… gran finale con i fuochi
d’artificio…” Come nei
concerti dei 30STM? Beh, forse no…
Dana
non
riusciva a staccare gli occhi da Tomo: “Uaoh… hai
ragione…”
“E…
non troppo
lunghe, sennò il pubblico si rompe… ma di
sostanza, non troppo corte… Con
‘Octavarium’ dei Dream Theater, per esempio, uno si
rompe di brutto, non è da
festival, anche se è bellissima…”
La
chitarrista
annuì: “Giusto…”
Ormai
Tomo
veleggiava verso le più alte vette della sua cultura
musicale: “E poi… non
troppo vecchie sennò la maggior parte del pubblico, e forse
anche la giuria del
concorso, non le conoscono… ‘Little
Wing’ di Jimi Hendrix, per esempio…
meravigliosa, ma troppo datata…”
“Ottimo.
Che
gruppi?”
Tomo
si bloccò
davanti alla ragazza: “Cosa suonate di solito? Che repertorio
avete?”
“Beh,
un po’
di tutto: Led Zeppelin, Pink Floyd, Iron Maiden, Metallica,
Guns’n’Roses,
FaithNoMore, Coheed and Cambria, Dire Straits, Three, Incubus, Muse,
Nine Inch
Nails, Red Hot Chili Peppers, The Killers, Green Day…
insomma, non tutto di
tutti ovviamente, qualche canzone, quelle che ci ispirano…
poi dipende dalla
situazione o dalla festa o dal festival, ci adattiamo alle circostanze,
qualche
volta decidiamo al momento, a seconda di quelle che ci sembrano
meglio…”
Tomo
si grattò
la testa, ‘Accidenti!’, pensò,
‘Questi suonano TUTTO! E noi 30SecondsToMars
fatichiamo con due canzoni in croce…’
“Uhm… tutti gruppi molto buoni, ma… io
metterei come prima una canzone dei The Mars
Volta…”
FirstLeaf
mollò il librone e si alzò in piedi fissando Tomo
a bocca aperta, come se
avesse visto un fantasma aleggiare per la stanza:
“N-no.”
“Perché?”
“Io…
io non
potrei mai suonare come Omar…”
Tomo
fece
spallucce: “Infatti tu suoni come FirstLeaf, non come
Rodriguez-Lopez, che
discorsi sono?”
Dana
era
perplessa: “Ma… ma rovinerei la
canzone…”
“Macchè…
le
partiture le sai, no?”
“S-sì.
A… a
memoria.”
Tomo
fece
spallucce: “E allora? Non rovini proprio niente,
anzi… Ne dai
un’interpretazione personale, semmai… Nessuno
suona come Omar…”
“Certo
che no.
Ma dici che io…?”
“Sì-sì.
Non ho
dubbi…”
FirstLeaf
era
semi allucinata, incredula: “E… che canzone
penseresti?”
Tomo,
che
aveva passato le ultime settimane ad ascoltare gli album dei The Mars
Volta per
fare colpo su Dana, non ebbe dubbi, visto che gli erano piaciuti:
“Io ti vedrei
bene a suonare ‘Viscera Eyes’… Con
quegli assoli di chitarra sempre diversi tra
loro, con la chitarra che ad un certo punto sembra piangere, cambi di
ritmo e
un accompagnamento serrato… cantata in spagnolo e inglese,
energetica,
splendida…”
Dana
spalancò
gli occhi: “COSA?”
“Sì.”
“Ma…”
“Niente
ma…”
“Ma
… é… é
difficilissima!”
“Sì,
lo so. Ma
tu sei brava e il pubblico ed i giudici rimarrebbero a bocca aperta.
Garantito.
Cappottati sulla sedia morti stecchiti.”
Dana
si passò
una mano quasi tremante sulla fronte, immaginando sé stessa
mentre suonava con
la Ibanez sul palco e che cadeva morta stecchita lei, non i giudici:
“Oddio,
sono già agitata al pensiero... non l’abbiamo mai
fatta sul palco… in studio
soltanto, per divertirci…”
Ma
Tomo, ormai
entrato nella parte del consigliere dei FourLeafClover, non le
lasciò tempo di
agitarsi e, dall’alto dei suoi ultimi ascolti musicali,
enunciò, come fosse ad
una finestra di Piazza San Pietro a dare la benedizione Urbi et Orbi:
“Seconda
canzone. Per dar tempo alla gente di riprendersi e ai giudici di
rinvenire, io
direi gli Alter Bridge. Un gran bel rock, mai banale, e belle parti di
chitarra
di un bravo Mark Tremonti. In particolare, uhm…
direi… ‘Shed my skin’… Un bel
crescendo, una canzone d’effetto, un coro che la gente
può cantare…”
“Ma,
Tomo…”
“SecondLeaf
riesce ad arrivare alle note dove arriva Myles Kennedy?”
“Beh…
SecondLeaf è un tenore, ha studiato al conservatorio, credo
abbia quattro
ottave e… penso di sì…”
“Chiediglielo
perché se non arriva a quelle tonalità, rischi di
rovinare la canzone…”
“Beh,
se
riesce a cantare come Cedric Bixler-Zavala…”
“Allora
ce la
fa, dai…” Tomo riprese a camminare per il salotto,
mugugnando, con FirstLeaf
impalata vicino al divano, l’occhio spalancato, stranamente
senza parole:
“Terza canzone, io vedrei bene i Tool. Per
esempio… direi…
‘46&2’…
Sì, perfetta… molto spartana, cupa,
notturna, con un finale secco e quasi violento.
Però… uhm…”
“Cosa?”
“Come sono ThirdLeaf
e FourthLeaf? Perché
in questa canzone (e pure nelle altre, a dire la verità)
basso e batteria sono
fondamentali… E poi come suona un batterista come Danny
Carey suonano davvero
in pochi…”
“Beh,
il
bassista, ThirdLeaf, fa anche il session man, qualche volta, quando lo
chiamano,
e FourthLeaf andava a scuola da Travis Barker…”
“Allora
siete
a posto…” Tomo sorrise e si piantò
davanti a Dana, contento: “Cosa dici della
mia scaletta?”
“Beh…”
Dana si
guardò un attimo attorno e poi tornò al suo
librone di spartiti, lo prese e lo
chiuse. Poi si girò verso Tomo sorridendo:
“E’ a dir poco…
PERFETTAAAAAA!!!”
Quindi
prese
il suo telefonino e mandò la scaletta via sms agli altri
‘Leaf’ e Tomo,
guardandola con le gote arrossate e lo sguardo che le brillava, si
ritrovò a
pensare che voleva assolutamente vederla suonare sul palco.
“Posso venire a
vederti suonare?”
“Ma
Tomo… tu
DEVI venire a vedermi… non posso pensare che tu non sia
là con me… Te lo
ordino, anzi: da maestra ad allievo, come uscita scolastica per la fine
del
corso…”
La
parola
‘fine’ non piacque molto a Tomo, che
però si limitò a sorriderle e ad
imbracciare la sua chitarra, dicendole con un entusiasmo che non
provava
affatto: “Allora oggi proviamo le tre canzoni del concorso,
dai…”
Sorprendentemente,
Dana, prima di prendere a sua volta la Ibanez, gli si
avvicinò e lo baciò su
una guancia: “Grazie, Tomo.”
Tomo
arrossì e
pensò subito che il suo piano avventato stava andando nel
migliore dei modi,
dopo tutto, stava andando bene. Troppo bene, per non esserci una
fregatura da
qualche parte.
P.S.:
Questo
capitolo è interamente dedicato a Sonia e alla sua
incredibile passione musicale,
con tanto affetto e l’augurio che tutto si risolva nel
migliore dei modi. Ti
voglio bene, mia cara. :-***
P.P.S.:
Per
chi vuole avere un’idea delle canzoni che devono suonare i
FourLeafClover,
allego i link ai tre video relativi: The Mars Volta ‘Viscera
Eyes’ (http://it.youtube.com/watch?v=U7mGBfJLZ6E),
Alter Bridge ‘Shed my skin’
(http://it.youtube.com/watch?v=85rLUsCWg4Q) e Tool
‘46&2’
(http://it.youtube.com/watch?v=ZRe-sfb_XXY)…
|
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
DEL
COME TOMO SCOPRE CHE IL TEOREMA DELLE
MAGLIETTE FORTUNATE FALLISCE NEL CINQUANTA PER CENTO DEI
CASI… O FORSE NO…
Tomo
ce
l’aveva fatta. Aveva passato in rassegna il novanta percento
dei negozi cinesi
di import-export, la quasi totalità delle bancarelle al
mercato delle pulci,
più della metà dei negozi che vendevano
merchandising più o meno ufficiale, e
alla fine, dopo oltre una settimana di ricerche, era riuscito nel suo
intento.
L’aveva trovata, convinto che gli avrebbe portato fortuna:
era riuscito a
scovare una maglietta dei FourLeafClover! Nera, con, ovviamente, un
quadrifoglio rosso fosforescente stampato sul davanti. Una ennesima
ciofeca
‘Made in China’, ad essere sinceri, dal costo di
ben sette dollari, ma con
quella addosso sicuramente avrebbe fatto colpo su Dana. Anzi: forse le
avrebbe
dato la ‘mazzata’ definitiva.
Pavoneggiandosi
come se facesse una sfilata di moda, con la felpa nera non chiusa per
mostrare
meglio il suo trofeo, baffi, barba
lunga
e occhiali scuri per passare inosservato al concerto, l’uomo
si presentò
puntuale a casa di Dana la sera del concorso musicale, per
accompagnarla e
rimanere a vederla suonare col suo gruppo, per la prima volta.
Tomo
era
riuscito per un pelo ad evitare di andare con Tim a cena da Shannon, il
quale
si era messo in testa che, quel sabato, mentre Jared era impegnato
nell’ennesima festa per VIP, era la serata ideale per stare
seduti sul divano
ad ingurgitare chili di pizza, bere birra e guardare le finali del
baseball per
TV. Tomo aveva detto che aveva ben altro da fare e i Leto, allora,
impiccioni
come al solito, si erano messi ad interrogarlo sui suoi impegni, ma
nemmeno la
tortura cinese del solletico con una piuma sulla pianta del piede
avrebbe fatto
parlare il chitarrista, che, chiudendosi in uno sdegnoso silenzio,
aveva fatto
loro credere di avere un qualche impegno famigliare non ben
identificato al
quale non poteva mancare (il compleanno del gatto?)…
Ma
nulla è
casuale a questo mondo e quando Jane gli aprì la porta e lo
fece entrare
salutandolo con allegria e Tomo vide FirstLeaf scendere dalle scale
interne,
egli non potè fare a meno di pensare proprio a Shannon,
visto che la ragazza
indossava un kilt con lo stesso tartan a fantasia rossa indossato
qualche volta
dal loro batterista, ma almeno mezzo metro più corto, tanto
da non arrivarle
nemmeno a metà coscia! A Tomo mancò quasi il
fiato: la ragazza indossava anche
una maglietta nera aderente con tanti piccoli quadrifogli rossi
disegnati,
calze nere e stivali con il tacco, aveva i capelli raccolti in due code
alte
che le facevano ricadere una cascata di riccioli dai lati del viso,
occhi
truccati di nero e rossetto rosso sangue. Una bellezza da
copertina… copertina
del Kerrang, ovviamente!
Tomo
si
incantò a bocca aperta in mezzo al corridoio, mise al muro e
fucilò seduta
stante tutti i neuroni che avevano cominciato a scrivere una lunga
lista di
pensieri impuri su Dana e si limitò a dire:
“Uaooooh… Sei bellissima…”
Invece
Dana si
mise a ridere alla vista della maglietta di Tomo dicendo:
“Oddio, ma ce ne sono
ancora di quegli obbrobri in giro? Ne avevamo fatte fare solo duecento,
due
anni fa, e ogni tanto ne salta fuori una…”
‘Sto
giro a
Tomo con la storia della maglietta non era andata proprio benissimo e
l’uomo,
un po’ deluso, tentò di glissare: “Sei
pronta?”
“Certo.”
Dana
prese la sua giacchettina in pelle dall’attaccapanni, si
infilò una borsetta
nera a tracolla e si avviò alla porta. Non sembrava per
nulla preoccupata.
Quasi
quasi
Tomo lo era per lei: “E la chitarra?”
Dana
si
sistemò i capelli: “E’ passato
SecondLeaf a prenderla mezzora fa, con il
furgone dei Leaf, così non devo portarmela dietro. La trovo
direttamente al
concerto.”
Tomo
annuì e
poi indicò il librone di FirstLeaf appoggiato sul tavolino:
”E gli spartiti?”
Dana
fece
spallucce: “Non mi servono.”
“Ma
non devi
ripassare?”
“No,
perché?”
A
Tomo vennero
in mente i pomeriggi in tourbus con Jared a ripassare i testi e gli
accordi
delle loro canzoni, mentre Tim, Shannon,
Emma e il mondo intero li prendevano per il culo: “Niente,
niente. Ma… ma non
sei agitata?”
“No.
Ormai
quel che è fatto è fatto. Sono due settimane che
proviamo, ormai me le sogno di
notte queste tre canzoni…” Era vero. Anche Tomo le
sapeva, ormai, visto che le
aveva suonate anche lui. “Le conoscono anche i sassi del
selciato qui fuori.
Andiamo, dai…” Dana mise la mano sulla maniglia,
dopo avere accettato gli
‘in-bocca-al-lupo’ di Jane, ma Tomo non era ancora
convinto.
“Non
prendi la
mappa della città?”
“Per
fare
cosa?”
“Per
vedere
dov’è il posto…”
“So
dov’é…”
“Ma
se
sbagliamo strada e non arriviamo in tempo…”
“Sono
sempre
arrivata in tempo ad un concerto, io… E poi il concerto
inizia alle venti, tra
più di un’ora, e noi suoniamo per quarti,
cioè penultimi, tra almeno tre ore,
quindi: vuoi che non facciamo in tempo?” Dana aprì
la porta ed uscì nella
splendida serata primaverile californiana, dicendo: “Vuoi che
guidi io?”
“Ma,
Dana…”
“Cristo
Santo,
Tomo, non ti pare di esagerare con tutte queste preoccupazioni? Mi
sembri uno
di quei mariti ansiosi ed agitati in sala parto. Continua
così e allora sì che
fai agitare anche me…”
L’uomo
sospirò, prendendo le chiavi dell’auto dalla
tasca: “Scusa, hai ragione.”
“E
che tu
dovresti essere abituato a suonare dal vivo, agli MTV Awards, al Live
Aid, al
PinkPop, davanti a folle oceaniche, con gente che grida e si azzuffa,
no?
Potresti darmi qualche consiglio, invece…”
Eh
sì, come
no? Consigli del tipo ‘Come scappare di corsa davanti a Jared
imbufalito quando
sbagli gli accordi’, per esempio? Oppure ‘Come
sopravvivere ad una schiera di
echelon che si tuffano sopra di te’?
“Uhm… lasciamo perdere…”
Tomo, quasi
sbuffando, salì in auto, seguito dalla ragazza, e mise
subito in moto, sperando
che Dana non volesse altri consigli da lui e che, soprattutto, non lo
stesse
prendendo in giro.
Le
indicazioni
sulla strada date da Dana erano chiarissime e, in meno di mezzora, i
due erano
già dentro il piccolo e disordinato camerino dei
FourLeafClover al locale dove
si svolgeva la kermesse, un posto con già presenti un paio
di migliaia di
persone urlanti ed accalcate sotto il palco. Tomo sperò che
nessuno lo
riconoscesse, ma vide, quasi con rammarico, che la maggior parte dei
rockettari
che avevano incrociato dopo essere scesi dall’auto e che si
dirigevano al
locale, erano più interessati alla minigonna di Dana
piuttosto che a lui: gli
stava venendo voglia di inscatolare la ragazza dentro un burka in modo
che non
la vedesse nessuno, ma non poteva, ACCIDENTI!!
Allora
masticava amaro, ancora di più quando Dana gli
presentò SecondLeaf, che era
proprio un bellissimo ragazzo e, dentro di sé, Tomo
provò una punta di gelosia
a vedere le confidenze che si prendeva con la sua Dana, tipo
abbracciarla e
tenerla stretta a sé per un lungo momento. Il ragazzo era
più alto di Tomo, con
lunghi capelli castani ondulati sciolti sulle spalle, un pizzetto
biondo e due
bellissimi occhi blu scuro; un tipico cantante rock, un misto tra James
Hetfield, Joey Eppard e Chad Kroeger. Vestito di nero, con pantaloni e
camicia
semiaperta su dei bei pettorali scolpiti, in realtà si
chiamava George, era un
compagno di scuola di Dana dai tempi delle elementari e i due avevano
la stessa
età.
“Dov’è
ThirdLeaf?”, chiese ad un certo punto Dana, truccando con la
matita nera gli
occhi di George, seduto di fronte a lei.
SecondLeaf
indicò la porta del bagno, sorridendo:
“Indovina.”
Dana
si portò
una mano alla fronte: “Oh nooo. E’
agitato?”
“Da
morire. Ha
bevuto sette camomille e ora gli stanno facendo effetto tutte assieme.
E’ da
dieci minuti che è in bagno.”
“Come
ogni
volta. Povero piccolo…”
Tomo
si intromise:
“Perché ‘povero
piccolo’?”
“Ha
vent’anni
ed é molto emotivo. Sarebbe il miglior bassista al mondo se
non fosse tanto
ipersensibile. Fa così ogni santa volta. Prima di salire sul
palco si calma,
per fortuna… Quindi cerca di non farlo agitare anche
tu…”
Quando,
dopo
un po’, la porta del bagno si aprì e ne
uscì il ‘povero piccolo’ di ThirdLeaf,
Tomo decise che QUELLO non era proprio il caso di farlo agitare: era un
gigante
di due metri, grande e grosso come un giocatore di rugby e con lo
stesso
cipiglio, con i capelli corti sparati in testa e colorati di rosso,
camicia
bianca e cravatta con la stessa fantasia della gonna di Dana. Data la
possente
massa corporea, era ovvio che sette camomille non gli avevano fatto
niente!
Forse nemmeno due boccette di Valium sarebbero potuto servire allo
scopo. Una
tanica? Forse…
Dana
glielo
presentò e ThirdLeaf, che in realtà si chiamava
Tom, con un cordiale sorriso
stritolò la mano di Tomo nel stringergliela, e lui non
poté fare a meno di
paragonarlo al loro bassista, alto sì ma che doveva pesare
un quinto del
personaggio che aveva davanti, visto che al confronto Tim era quasi
trasparente.
All’appello
mancava soltanto il batterista, che non tardò ad entrare
dalla porta con il
telefonino all’orecchio, mentre diceva: “No, mamma.
Metti pure in forno, arrivo
sul tardi. Le orecchiette al pesto? Sì, vanno bene, ma poi
sai che voglio anche
la cotoletta… uhm… sì sì
con le patate al forno va bene… per dolce? COSA??
Cassata siciliana? Uaooooh!! Perfetta! Grazie mamma. Certo che ti
voglio bene…
Ciao-ciao.”
A
Tomo, che
non aveva cenato, venne una leggerissima acquolina in bocca al sentire
tutta
quella lista di cibi e FourthLeaf, dopo essere stato presentato da
Dana, si
affrettò subito a spiegargli che i suoi genitori avevano un
ristorante sulla
baia di San Francisco, che lui era di origini italiane e che si
chiamava Carlo.
E nonostante le abbuffate cui si sottoponeva, Carlo era magrissimo, con
una
coda di capelli neri lunga oltre metà schiena, baffetti e
occhi neri e… un paio
di pantaloni quadrettati del solito tartan rosso!
Ecco
che Tomo,
ora, con i ‘Leaf’ non aveva in comune solo Dana, ma
pure quel dannato tartan
rosso che lo perseguitava e anche un paio di
genitori col Ristorante! Casi della vita!
Però
in fondo
si stava divertendo con quei personaggi, anche quando il concerto
iniziò e si
ritrovò nel backstage con i ‘Leaf’ ad
ascoltare gli altri gruppi suonare. I
gruppi erano cinque e ognuno doveva presentare tre cover, i cui titoli
erano
noti soltanto ai giudici, che erano in dieci, tra i quali Tomo
riconobbe un
giornalista di una testata musicale che l’aveva anche
intervistato, una volta.
Non c’era un presentatore ufficiale, ma i giudici si
alternavano nel presentare
i gruppi e le canzoni proposte.
A
Tomo scappò
una grossa risata quando il primo gruppo presentò
“Phase 1-Fortification” dei
30 Seconds to Mars come seconda canzone, anche se gli fecero
impressione gli
sguardi dubbiosi dei ‘Leaf’ che si chiedevano di
chi fosse quel pezzo che loro
non avevano mai sentito!
Il
secondo
gruppo arrischiò una ‘Kashmir’ dei Led
Zeppelin che risultò piuttosto
zoppicante a causa della debolezza vocale del frontman e, come aveva
previsto
Tomo, che per un momento pensò di darsi alla chiromanzia
applicata, sia il
secondo che il terzo gruppo suonarono ‘Smoke on the
Water’ dei Deep Purple, la
prima canzone che si impara con la chitarra elettrica. Da non credere.
Qualcuno
tentò una cover di ‘Unforgettable Fire’
degli U2 e qualcun altro ‘Bitter End’
dei Placebo, poi furono suonate ‘Basket Case’ dei
Green Day, ‘Californication’
dei Red Hot Chili Peppers e ‘Whisky in the jar’ dei
Metallica.
Il
livello dei
musicisti non era male, a parte qualche eccezione, ma Tomo
pensò che se i
FourLeafClover avessero suonato come sapevano fare, avrebbero
sicuramente
vinto, vista anche la complessità dei pezzi presentati.
Ma
poi gli
venne un dubbio improvviso…
Come
suonavano
i FourLeafClover?
LUI
non li
aveva mai sentiti, in realtà!
Aveva
sentito
soltanto Dana, gli era parsa brava, sicuramente superiore a tutti
chitarristi
che aveva visto quella sera, ma… gli altri?
Quasi
gli
venne un attacco di panico.
Guardò
subito
SecondLeaf, seduto per terra vicino a lui, già con una
Fender Stratocaster nera
e bianca al collo e che giochicchiava con il plettro: ma era vero che
aveva una
gran bella voce? Che riusciva a cantare come Bixler-Zavala e Myles
Kennedy? E
ThirdLeaf, che ora stava tranquillamente chiedendo al tecnico dei
microfoni di
metterne uno anche per lui, era davvero un gran bassista? O era Dana ad
essersi
presa un abbaglio? Tomo girò la testa fino a trovare
FourthLeaf, appollaiato su
una sedia con un panino in mano, la bocca in movimento e lo sguardo
perso nel
vuoto: quel tipo lì era andato a lezione da Travis Barker,
da tutti
riconosciuto come uno dei più grandi batteristi viventi? Ma
che avesse imparato
qualcosa o Barker gli aveva fatto portare via la spazzatura?
Infine
si mise
a fissare FirstLeaf, lontana da lui una decina di metri, appoggiata al
muro con
la sua Ibanez vicino, apparentemente tranquilla, intenta a studiare il
chitarrista del terzo gruppo che suonava l’assolo
dell’ultima canzone e si
chiese cosa stesse pensando. Aveva ancora in mente il suo professorino
o in
quel momento la Fisica era fortemente relegata in un angolino del suo
cervello?
Se quella sera i FourLeafClover avessero vinto, sarebbe rimasta negli
Stati
Uniti o sarebbe andata comunque via?
Tomo si sentì rimescolare il sangue dalla
frustrazione all’idea di Dana
che se ne andava… Non poteva essere… La ragazza
si girò quasi subito a
guardarlo, come se avesse sentito quello sguardo puntato su di
sé, e gli
sorrise dolcemente, facendogli l’occhietto.
Tomo
ricambiò
lo sguardo e sorrise ma poi staccò gli occhi da Dana in
tempo per vedere un
tecnico del locale passare tra di loro con in mano una grancassa con un
quadrifoglio rosso disegnato. Il chitarrista sobbalzò, senza
volerlo: era ora.
Tra
poco
sarebbe toccato ai FourLeafClover visto che il terzo gruppo stava
rientrando e
uno dei giudici stava uscendo per presentarli e i
‘Leaf’ si stavano muovendo.
Per
una forma
di delicatezza tra musicisti, non si avvicinò a loro, ma
rimase in disparte:
sapeva che, come tutti i gruppi prima di un concerto, dovevano trovare
la
giusta concentrazione e definire le ultime intese. FirstLeaf si
infilò la
Ibanez, SecondLeaf si alzò e le si avvicinò,
ThirdLeaf si mise al collo il
basso (uno Spector ReBop4 dello stesso colore dei suoi capelli!) e
FourthLeaf,
con un paio di bacchette in mano, si unì al gruppo. Alcuni
tecnici del suono
cominciarono a piazzare le cuffiette e gli amplificatori radio addosso
ai
componenti del gruppo e sulle chitarre, mentre i Leaf si scambiavano
sguardi, parole e
cenni che Tomo non
capiva.
L’uomo
non
riusciva a staccare gli occhi da Dana, in realtà: la ragazza
appariva
determinata e concentrata, le sopracciglia leggermente aggrottate, lo
sguardo
severo. Controllando la lunghezza della cinghia che teneva la chitarra,
Dana si
tolse una ciocca di capelli che era finita sotto la stessa cinghia,
sulla
spalla, il plettro tra le labbra. Si sistemò la maglietta e
la gonna, si passò
una mano sul viso, strinse la cravatta di Tom e gli diede un buffetto
sulla
guancia. Ad un tratto FirstLeaf si girò a cercare Tomo con
gli occhi e, quando
lo vide, gli sorrise nuovamente e poi, con convinzione, gli fece il
segno dei
metallari con la mano sinistra, quindi, senza aspettare che Tomo
rispondesse,
uscì sul palco dietro a SecondLeaf, seguita dagli altri,
accolti da un boato
della folla.
Tomo
si spostò
subito da dietro le quinte verso il lato del proscenio, da dove poteva
vedere
bene il palco.
I
ragazzi,
dopo aver salutato la folla, si piazzarono tutti davanti alla grancassa
di
FourthLeaf, mentre Carlo prendeva posto sullo sgabello. Poi, dopo un
lungo
attimo in cui i ‘Leaf’ si guardavano negli occhi
per cercare il momento giusto,
FourthLeaf diede il via battendo le bacchette tra di loro:
“One-two-three-four…”
Dana
alzò il
braccio e attaccò l’accordo iniziale di
“Viscera eyes” in un modo tale che a
Tomo scorse un involontario brivido sulla schiena: subito la ragazza si
spostò verso
la gente accalcata sotto il palco. Nel modo in cui la suonava, la
Ibanez
sembrava mandare onde di energia lungo tutto il locale, specialmente
quando
Dana si portò nel bel mezzo del palco, sopra una pedana
sporgente e rialzata
verso il pubblico.
La
folla
sembrava ondeggiare e Tomo vide uno dei giudici a bocca aperta,
incantato dai
movimenti di Dana che muoveva anche il bacino mentre suonava, ad occhi
chiusi e
bocca socchiusa, sembrava far l’amore con la chitarra.
Tomo
in quel
momento realizzò che se, quella sera, c’era una
dea della chitarra elettrica
scesa dal cielo per deliziare il pubblico, quella era FirstLeaf, che
teneva
legati alle note che si espandevano dal suo strumento un paio di
migliaia di
persone, incredule ed incantate.
Una
maga degli
accordi e degli arpeggi…
Una
madonna
degli assoli…
Una
strega del
plettro…
Una
santa
peccatrice che era diventata una cosa sola con la sua
chitarra…
Per
un momento
Tomo chiuse gli occhi e si immedesimò in quello che stava
suonando Dana… vide
le note passargli per la mente, gli parve di suonare lui. Ma no, non
poteva
essere. Riaprì gli occhi di scatto. No. Lui non era
così bravo… non avrebbe
potuto mai…
Poi
SecondLeaf
cominciò a cantare e Dana si spostò per lasciarlo
davanti al pubblico, in
evidenza.
“Por quando te vi infermo con mentiras este
ladron cuenta se dio trapa mal hecho de trampas te
lo juro que yo ti se mato…”
Tomo
spalancò
gli occhi: in effetti la voce di SecondLeaf era simile a quella di
Bixler-Zavala, anche se George ci metteva del suo, stava
personalizzando
l’interpretazione, così come
l’accompagnamento di FirstLeaf era diverso da
quello di Rodriguez-Lopez, perfetto nell’esecuzione ma
differente. E visto che
non c’era nessun percussionista che li accompagnasse, i
‘Leaf’ avevano
trasformato quella canzone in modo da renderla meno
“etnica” e più rock. Una
meraviglia comunque.
E
poi Dana e
Tom non erano statici sul palco: presi dal ritmo e
dall’energia della canzone
si spostavano continuamente, si incrociavano dietro SecondLeaf,
muovevano testa
e gambe. Erano uno spettacolo, con tutte quelle luci quasi
psichedeliche che si
accendevano e spegnevano e gettavano strane ombre sul palco e sui visi
dei
ragazzi.
Alla
fine
delle strofe che componevano la prima parte della canzone, venne il
momento del
primo assolo di FirstLeaf: SecondLeaf si spostò verso la
batteria e le lasciò
spazio. La ragazza avanzò verso la gente e, piazzatasi di
nuovo sul rialzo,
venne inquadrata da un faro, cominciò l’assolo
e… Tomo in quel momento credette
di impazzire, i brividi che gli correvano lungo la schiena, la testa
che
sembrava scoppiargli: rispetto alla versione che aveva provato con lui
per due
settimane, Dana aveva cambiato tutto.
Non
stava
eseguendo la partitura.
Stava
improvvisando.
Stava
facendo
la cosa che solo i chitarristi più in gamba riuscivano a
fare. Mark Knopfler,
Eric Clapton, Jimi Hendrix, Omar Rodriguez-Lopez… non
suonavano mai la stessa
cosa due volte di seguito. Tutti gli altri si limitavano a seguire
quanto
fedelmente scritto. Tomo per primo, che, nelle canzoni che suonava con
i 30
Seconds To Mars non aveva poi chissà che assoli nemmeno per
provarci. Invece
solo i più bravi potevano “comporre” al
momento, avendo in mente soltanto la
tessitura musicale di accompagnamento.
Tomo
era
sconvolto, a bocca aperta.
E
subito si
rese conto che aveva trovato la donna della sua vita. Mai e poi mai
avrebbe
potuto lasciarsi scappare una creatura come quella. Era lei.
L’aveva trovata,
finalmente. Non aveva mai sentito niente del genere per nessuna donna,
un
calore che gli scaldava il cuore come non aveva mai provato, un
sentimento di
adorazione sconfinato.
Dana
finì
l’assolo e ritornò a suonare gli accordi base,
SecondLeaf cantò il breve
ritornello che tagliava a metà la canzone e poi si
fermò, lasciando che Dana
facesse un’arpeggio e poi...
Tomo,
concentrato com’era su FirstLeaf, non aveva fatto tanto caso
a FourthLeaf e
alla sua parte ritmica. L’aveva sottovalutato. Sbagliando. Il
ragazzo,
accompagnato da ThirdLeaf, iniziò un assolo di batteria che
avrebbe fatto
impallidire Shannon: Carlo batteva così velocemente su
timpano, rullante, sui
tom e sui vari piatti attorno a lui, che Tomo faticava a vedere le
bacchette.
Era velocissimo. L’assolo di Carlo si concluse con un cambio
di ritmo della
canzone, che divenne più veloce, e venne seguito da un
secondo assolo, ancora
improvvisato e ancora più spedito del primo, di FirstLeaf,
inginocchiata per
terra in mezzo al palco, con i capelli che sembravano dotati di vita
propria,
come Medusa, e gli occhi chiusi, mentre le note di una chitarra quasi
piangente
si spandevano nell’aria.
Tomo
concluse
che i FourLeafClover erano bravissimi e che avrebbero vinto
sicuramente. E
questo poteva anche significare che Dana avrebbe forse rivisto i suoi
piani
futuri.
La
ragazza,
con il viso sudato, si rialzò per eseguire
l’ultimo pezzo dell’accompagnamento
mentre SecondLeaf cantava l’ultima strofa, ma
improvvisamente… Dana si bloccò
guardando ad occhi spalancati tra il pubblico, dalla parte destra del
locale, e
a Tomo sembrò impallidire. Poi di scatto girò le
spalle al pubblico e si avviò
verso la batteria, ma era chiaro che non lo faceva per fare spettacolo.
Sembrava all’improvviso impaurita, aveva perso la sua
freddezza, il suo
desiderio di stare sul palco era scemato.
La
canzone
finì.
Dana
chiuse
l’ultima battuta e poi, senza ringraziare il pubblico che la
applaudiva, si
precipitò dietro le quinte, quasi franando addosso a Tomo.
Si tolse subito la
chitarra, la infilò attorno al collo dell’uomo e
gli disse: “Devi suonare tu al
posto mio, SUBITO…”
|
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
DEL
COME TOMO SCOPRE CHE NON ESISTONO
SOLTANTO I 30 SECONDS TO MARS.
Tomo
era quasi
senza parole: “C-come?”
“Devi
suonare,
Tomo! Al posto mio, ORA!!!”
SecondLeaf
era
arrivato anche lui dietro le quinte di corsa e Tomo tentava di
togliersi lo
strumento sfilandosi la cinghia dalla testa e schernendosi:
“Ma perché? Non
posso, dai…”
George
chiese
cosa stesse succedendo, mentre Dana teneva la chitarra addosso a Tomo
in modo
che non se la potesse togliere: “Ti prego, ti prego,
Tomo… C’è…
c’è Julius in
platea. Io…”. Dana si mise le mani sulla testa,
disperata: “Da non credere… io…
non so cosa faccia qui, ma… ma se mi vede sono…
rovinata, lo sai, no? Ti prego,
Tomo…”
Tomo
era
decisamente a soqquadro: “Oddio santo, come faccio?”
“Le
conosci le
canzoni successive, Tomo?” chiese SecondLeaf, mettendogli una
mano sulla
spalla.
Finalmente
Tomo riuscì a sfilarsi la Ibanez ed appoggiarla al muro
lì vicino: “S-sì…
ma…”
FirstLeaf
gli
si attaccò al collo: “Ti prego, ti
prego… aiutaci… ti basta soltanto suonare le
partiture che abbiamo studiato. Le sapevi quando le abbiamo provate
giovedì, le
sai anche ora… ti prego…”
“Ma
io…”
Dana
era
disperata, il bel volto sofferente: “Nella scaletta di
stasera ci sono quelle
che hai studiato anche tu, ti prego, Tomo, mi hai già
salvato una volta con la
torta…. E questa è l’ultima volta che
ti chiedo un favore… ti prego…”
Tomo
si grattò
la testa: vabbé, fare una torta era una cosa, suonare con un
gruppo mai visto
prima d’ora un’altra: “Preferirei farti
un’altra torta…”
Dana
si portò
le mani alla faccia, mentre tra il pubblico cominciava a serpeggiare
qualche
fischio: “Oddio… siamo rovinati… e
tutto per colpa mia…” La ragazza si sedette
per terra, ai piedi di Tomo, distrutta, tirando la camicia a
SecondLeaf.
“George, io… io non posso, per favore…
non posso suonare… non posso…”
SecondLeaf
le
accarezzò la testa, con tenerezza: “Lo so, lo so,
ho capito. L’ho visto
anch’io, il tuo prof…” Poi si rivolse a
Tomo: “Tomo, dai, ce la puoi fare. Se
Dana dice che conosci bene le due canzoni, io le credo. Ci puoi
aiutare? Suona
al posto di Dana… per favore…”
Nel
frattempo
erano arrivati anche un paio di giudici a chiedere
dell’accaduto, e Carlo e
Tom, abbandonato il palco e capito che Dana non avrebbe suonato
più, si erano
messi a fissare Tomo con occhio implorante.
“Allora
vi
ritirate dalla gara?” chiese improvvisamente uno dei giudici,
con un bloc notes
in mano, dopo che George gli aveva detto che Dana non si sentiva tanto
bene.
SecondLeaf
guardò per un istante i visi di Carlo e Tom e poi Tomo e
disse, con una certa
dose di sofferenza nella voce, sospirando, mestamente:
“Sì.”
Ma
a Tomo
passarono improvvisamente per la testa mille immagini ravvicinate: si
ricordò
dei suoi esordi, della sua prima chitarra costruita con il
papà, degli
scantinati puzzolenti in cui suonava con i suoi amici,
riprovò la frenesia che
ci mettevano nel tentare di rifare i successi che sentivano alla radio,
la
speranza di diventare famosi che bruciava nelle vene, la passione
che… la
passione… oddio… e da quanto tempo non provava
queste cose?
Si
guardò
intorno: gli occhi dei ‘Leaf’ bruciavano della
medesima passione, che però non
avrebbe portato a nulla se lui non li avesse aiutati. E allora doveva
farlo, se
lo meritavano. Lui non aveva niente da dimostrare a nessuno, era
arrivato alla
sua meta, ormai: ma i ‘Leaf’ no e, senza il suo
aiuto, quella sarebbe stata
un’ottima occasione persa, per non parlare del fatto che, se
avessero vinto il
contratto discografico, Dana forse non se ne sarebbe andata. Fatti i
debiti
conti, doveva farsi avanti. “No. Non ci ritiriamo.”
Tomo si rimise a tracolla
la chitarra di Dana, con decisione. Poi si rivolse ai giudici,
mostrando la sua
maglietta: “Suono io al posto di FirstLeaf. Vedete? Sono il
suo sostituto. Si
può, vero?”
Il
giudice
annuì, scrivendo sul bloc notes: “Sì,
certo. Basta che facciamo presto.
Presento la prossima canzone, allora.”
Tomo
annuì,
mentre si sistemava la chitarra e sentiva lo sguardo di FirstLeaf
puntato su di
lui e gli altri ‘Leaf’ che lo ringraziavano
calorosamente. Mentre il giudice
presentava la canzone e le luci si abbassavano perché il
pezzo era piuttosto
d’atmosfera, Tomo cominciò a ripassare mentalmente
‘Shed my skin’ degli Alter
Bridge: una sola chitarra, arpeggio iniziale, poi qualche accordo con
distorsione, poi senza, poi il bridge, etcetc… nessun
assolo, solo un
accompagnamento importante, fatto bene e quindi… ma
sì, cazzo… lui
non era Tremonti, che suonava con la sua PRS
Tremonti II personalizzata con le effigi di gabbiani incastonati nei
capotasti,
ma era o non era un chitarrista rock? Certo che
sì… e non aveva bisogno del DVD
‘The Sound and the Story’ dello stesso Tremonti per
imparare qualcosa. E
davvero, come aveva supposto Dana, aveva suonato al PinkPop un paio di
anni
prima, davanti ad un paio di decine di migliaia di persone urlanti e
sotto una
pioggia torrenziale… non poteva certo farsi spaventare da
quella situazione. E,
porca puttana, era stato in Groenlandia su un iceberg alla deriva,
avrebbe
dovuto aver paura di suonare lì, in un teatro? Ma andiamo,
via… che cazzo di
dubbi si faceva…
SecondLeaf
gli
fece segno di uscire e Tomo lo seguì, con convinzione,
piazzandosi a pochi
metri da lui, mentre George, senza chitarra, prendeva in mano il
microfono e si
sistemava le cuffiette negli orecchi.
Subito
Tomo
guardò sulla destra del teatro per vedere se c’era
ancora Julius ed in effetti
lo scorse, appoggiato alla parete, che scrutava sul palco semibuio,
lui, un
lord inglese, chiaramente fuori posto in mezzo a quella massa di
rockettari.
Chissà perchè era lì e
chissà se il professorino aveva riconosciuto Dana. Tomo
sperò di no. Per un momento si girò verso le
quinte e la guardò: FirstLeaf era
ancora seduta là per terra e, ad occhi spalancati, guardava
sul palco,
tormentandosi le mani. Tomo le fece l’occhietto e poi si
girò subito a guardare
SecondLeaf, che annuì e gli disse, sottovoce:
“Quando vuoi, Tomo…”
Tomo
prese un
plettro appeso al microfono, scacciò un dubbio improvviso su
cosa avrebbero
potuto dire i Leto se avessero saputo che stava suonando con un altro
gruppo,
deglutì un groppo di saliva e poi iniziò
l’arpeggio, perfettamente. E, dopo poche note, SecondLeaf
iniziò a cantare.
“I
am not alone, I
live with the memories, regret is my home. This is my true
freedom…”
Tomo
chiuse
gli occhi per un attimo e continuò a suonare, perso nella
voce di George che
cantava la prima strofa. Quella canzone era decisamente una meraviglia
e, ad un
tratto, le parole del testo sembravano quasi riflettere le
difficoltà in cui
Tomo si trovava, specialmente quando la scena si illuminò di
una calda luce
blu, con energia entrarono basso e batteria, il chitarrista
passò agli accordi
distorti e George cominciò a cantare il pezzo appena prima
del ritornello che
diceva: “It
seems I've gone away, it seems I've lost
myself, it seems really
lost my way, it seems I've lost
myself, it seems I've… shed my
skin…”
Accidenti
se
era vero: Tomo ad un tratto si sentì di aver perso qualcosa,
di non essere più
lui, di non riuscire più a fare quello che era capace.
Eppure… era lì… era il
solito Tomo… e ora stava suonando con quei ragazzi, senza
problemi, senza
sbagliare… perché allora con i 30 Seconds To Mars
era diverso… Cosa aveva
perso? Cosa c’era che non andava? Cos’era cambiato
col tempo? Stava cambiando
‘pelle’? Come i camaleonti che ne cambiavano
soltanto il colore o come i
serpenti che la perdevano perché sotto avevano una pella
nuova? Aveva anche lui
una ‘pelle nuova’ sotto? C’era forse una
‘pelle vecchia’ che gli faceva da
zavorra e che doveva buttare al più presto?
La
canzone, da
brividi, scivolava via: la seconda strofa finì e, dopo il
bridge, la canzone si
avviò verso il finale, con SecondLeaf che era riuscito a
coinvolgere così tanto
il pubblico che l’ultimo ritornello lo cantarono tutti, le
braccia alzate, con
ThirdLeaf che faceva il coretto finale e con Tomo che suonava
saltellando per
il palco, in perfetta sintonia con gli altri musicisti.
Alla
fine
della canzone, i ‘Leaf’+Tomo non lasciarono nemmeno
salire sul palco il giudice
a presentare l’ultima canzone, perché Tomo, in
accordo con gli altri, si portò
sul davanti del palco ed iniziò subito
l’inconfondibile arpeggio iniziale di
‘46&2’ dei Tool. Tutto il pezzo iniziale,
con George che cantava, era sulle
spalle del chitarrista, con un accompagnamento ipnotico, ripetitivo,
cupo. Le
luci ora erano rosse, lampeggianti, come gocce di sangue che cadevano
sul
palco, sembrava di essere dentro un cuore, specialmente quando
entrò la
grancassa di FourthLeaf in sottofondo. Tomo si sentiva fuggire via
l’anima, da
quanto gli piaceva suonare quella canzone.
E,
da non
credere, anche quel testo fu percepito da Tomo come se lo riguardasse,
visto
che, in una strofa, George cantava: “I
wanna feel the changes coming down, I wanna know what I've been hiding
in… my
shadow… my shadow… Change is coming through my
shadow…”: cosa era cambiato
(o forse stava cambiando) in lui? Che cosa voleva ora che prima non si
era
accorto di volere? Dietro dove si era nascosto? Dietro la sua ombra?
Tomo era
quasi senza fiato, mentre suonava come se fosse in trance: gli parve
che tutto
lo stesse portando verso una qualche conclusione, sapeva che quella
sera lui
sarebbe riuscito a capire il perché della sua situazione.
Sentiva che da
qualche parte, non molto lontano, c’era
l’illuminazione e forse anche la
soluzione. “I choose to live and to
lie,
kill and give and to lie, learn and love and to do what it takes to
step
through…” Sì…
c’era una soluzione…
Nella
parte
finale della canzone, tutta batteria e chitarra distorta, SecondLeaf si
spostò,
la luce si restrinse su FourthLeaf che, con l’aiuto di Tomo
che lo accompagnava
con gli ultimi accordi, con un paio di battute sul rullante e sul china
ben
assestate, diede il colpo di grazia alla giuria, lasciando un pubblico
decisamente in delirio per loro!
Subito
tutte
le luci si accesero e Tomo si riscosse, quasi dispiacendosi che fosse
tutto
finito. I ‘Leaf’ si spostarono davanti per
raccogliere gli applausi. Tomo
guardò al lato del teatro: Julius non c’era
più e chissà da quanto. Allora il
chitarrista chiamò FirstLeaf per ricevere gli applausi
assieme a loro, dopo
averle fatto segno che il professore non c’era. La ragazza
uscì, salutando il
pubblico: quasi quasi era sembrato come se i FourLeafClover in
realtà fossero
stati in cinque e che due chitarristi si dessero il cambio a seconda
della
canzone suonata. I FourLeafClover erano bombardati dai flash dei
fotografi e li
applaudivano anche i giudici. Buon segno. I cinque, tenendosi per mano,
si
inchinarono un’ultima volta e poi uscirono, felicissimi.
Tra
le quinte,
FourthLeaf iniziò a saltare su e giù con
ThirdLeaf dicendo “Ce l’abbiamo fatta,
ce l’abbiamo fatta!”, mentre SecondLeaf batteva una
mano sulla spalla a Tomo e
con l’altra teneva abbracciata Dana, che guardava il
chitarrista con occhi
adoranti.
“Sei
stato
bravissimo, Tomo. Davvero mitico…”
Tomo
si
schernì subito, quasi arrossendo, togliendosi la Ibanez e
porgendola a
FirstLeaf: “Ma no, non è stato niente.”
Ma
George
continuava: “Accidenti, devi suonare in un gruppo di
musicisti sensazionali,
per avere una padronanza tale del palco da poter suonare con chiunque e
con un
preavviso così breve…”
Tomo
fece
spallucce, sorridendo, e lo salvò dal rispondere a George
solo il fatto che
l’ultimo gruppo aveva iniziato a suonare. Riprese subito il
filo dei suoi
pensieri: Sì-sì, ‘musicisti
sensazionali’ i 30 Seconds to Mars? Come no?
Diciamo bravi, via, non di più… E continuamente
stroncati dalla critica, quello
sì… E poi senza una collocazione musicale
definita: Emo/non-emo? Alternative?
Pop-rock? Rock? Boh…
Il
dubbio che
lo stava rodendo ricominciò a fargli male.
Gli
venne in
mente che anche quello poteva essere uno dei motivi per cui aveva perso
la
fiducia in sé stesso: lui aveva sempre sognato di far parte
di un gruppo di
musicisti VERI, senza indeterminatezze su genere e capacità,
il cui pubblico
fosse costituito di gente che se ne intendeva di musica, che li adorava
per la
loro musica, non solo per la loro bella faccia… Nella sua
mente cominciò a
formarsi il puzzle delle motivazioni. Sì, quella era una:
lui in realtà non si
sentiva trattato come un musicista vero. Era solo un’immagine
di sé stesso,
un’ombra, una sagoma, un bamboccio truccato…
E
poi da
quando era con i Leto non aveva fatto altro che suonare le stesse cose
per
anni, non era progredito, non aveva imparato nulla di nuovo, non aveva
composto
una canzone che fosse una. Si era fossilizzato, come musicista. Aveva
solo
eseguito le partiture di altri, quelle scritte da Solon o da Jared,
senza
metterci nulla di suo. E ora Dana gli aveva dato uno scossone e anche,
senza
volerlo, una possibilità di rinascita.
E
poi lui non
decideva mai niente, non aveva voce in capitolo sulle cose che
riguardavano i
30 Seconds To Mars: non poteva mettere bocca sui pezzi, sulle date
delle
tournee, sulle interviste, sui costumi, sui video, su…
NIENTE. Decidevano tutto
i Leto. E quindi alla fine lui NON era i 30 Seconds To Mars. A questo
punto si
poteva dire che fosse solo un session man, niente di più e
niente di meno di
come veniva trattato Tim. Al pensiero, gli prese quasi un moto di
rabbia:
essere parte di un gruppo voleva dire mettersi in gioco, mettere la
propria
passione, mettere tutto sé stesso in modo paritario e non
fare il servo della
gleba dei Leto. Tomo si sentì di essere stato in qualche
modo soltanto usato.
E
poi gli
venne in mente un’altra cosa: da quanto tempo non provava
VERA passione nel
suonare con i 30 Seconds To Mars? Da quanto il momento in cui saliva
sul palco
lo viveva solo con il terrore di sbagliare gli accordi e non come vero
piacere
di suonare? Da quanto aveva desiderio di rimanere a letto a dormire
piuttosto
che andare in studio di registrazione?
Da
sempre.
Con
i 30
Seconds To Mars era sempre stato così.
Fin
dall’inizio. In realtà era sempre stato
terrorizzato di sbagliare a fare le
cose, con i Leto, a partire dai concerti e finendo con le interviste,
in cui,
tra l’altro, non parlava quasi mai, per paura di dire cose
che potevano non
piacere ai fratelli terribili.
Ecco…
a posto.
Tomo
improvvisamente si rese conto di avere capito tutto: i Leto gli avevano
dato
tanto (un gruppo affermato, la fama, i soldi, le donne…) ma
gli avevano anche
tolto tanto: la passione, l’amore per la musica, la
spontaneità, la creatività,
la libertà…
Mentre
era
soprappensiero e stava guardando, senza vederli, i ragazzi
dell’ultimo gruppo,
non si accorse che Dana gli si era avvicinata e gli stava parlando,
dopo
avergli appoggiato una mano sul braccio, delicatamente.
Tomo
sbatté
gli occhi: “C-come?”
“Ti
senti
bene, Tomo?” Gli stava dicendo, con dolcezza.
“Sì,
sì.”
“Sei
sicuro?”
“Sì.
Scusami…
ero soprappensiero…”
“Sei
tutto sudato,
vuoi un po’ d’acqua?” Dana gli porse una
bottiglietta, guardandolo un po’
preoccupata.
Tomo
si
asciugò il sudore dalla fronte con il braccio, accettando
l’offerta,
sorridendo. Oddio, preso com’era dai suoi pensieri non si era
accorto che stava
grondando. “Oh… Sì, grazie,
Dana…”
“Vieni
a
sederti con noi?”
Tomo
annuì e
seguì Dana verso la parte interna delle quinte, dove i
‘Leaf’ si erano tutti
seduti su una panca, in attesa del verdetto. Non ci volle molto: il
quinto
gruppo era il peggiore di tutti. Tomo, riemerso dai suoi pensieri, non
riconobbe nemmeno le canzoni suonate e Dana disse che si trattava di
tre
canzoni di uno stesso gruppo punk noto in California una decina di anni
prima.
Una scelta piuttosto bizzarra, che non aveva portato alcun giovamento a
quell’ultimo gruppo, se non una bella selva di fischi da
parte di un pubblico
quasi inviperito.
Ed
ora era già
arrivato il momento della proclamazione del vincitore. Tomo, in cuor
suo, non
aveva dubbi, ma George, forse per scaramanzia, sosteneva che anche il
primo
gruppo era stato ottimo. I giudici passarono per andare sul palco ad
annunciare
il gruppo vincitore, mentre tutti i musicisti si assieparono ai lati
del
proscenio per sentire.
Dana,
dicendo
che non voleva ascoltare, nascose la faccia contro la maglietta di uno
sconcertato Tomo, stringendoglisi addosso quanto bastava per farlo
sentire in
paradiso, mentre lui la stringeva tra le braccia.
Un
giudice
cominciò a parlare: “Su richiesta della casa
discografica indipendente
XYZ-California, avevamo la missione di trovare un gruppo sul quale ci
fosse la
possibilità di lavorare. Un gruppo che potesse avere ampi
margini di crescita,
partendo da una solida base musicale. Un gruppo capace di fare provare
delle
emozioni anche suonando canzoni non proprie. E noi pensiamo di averlo
trovato.
Qui. Stasera.” Il microfono passò ad un altro
giudice: “Niente da aggiungere!
Con un margine immenso, i vincitori sono: i
FOURLEAFCLOVEEER!!!”
Carlo,
gridando, balzò in groppa a Tom come su un cavallo e il
bassista si catapultò
sul palco con una agilità insospettata, quasi galoppando.
George, un sorriso da
fotoromanzo, prese per mano una Dana che, mollata la maglietta di Tomo,
gridava
dalla contentezza e si avviò pure lui sul palco. Tomo rimase
dietro le quinte:
nonostante avesse suonato anche lui, il successo era tutto dei
FourLeafClover;
lui, in fondo, non c’entrava nulla e non poteva certo
contrarre altri contratti
discografici con chicchessia! Dana e George lo chiamarono un paio di
volte, ma
Tomo fece segno di no: non era giusto che si intromettesse. I
‘Leaf’ suonavano
da anni insieme e lui era stato soltanto un ripiego di una mezzora. Per
un
attimo li invidiò, mentre ricevevano dalla giuria la busta
con il contratto ed
un trofeo: avrebbe voluto essere al loro posto, riprovare quelle
sensazioni che
lui aveva ormai perduto. Ma quelli erano problemi suoi e il momento era
tutto
dei ‘Leaf’.
“E
ora i
FourLeafClover per chiudere la serata ci presenteranno un altro pezzo!
Va bene,
ragazzi?”
Dana
rientrò
velocemente dietro le quinte e si avvicinò a Tomo:
“Te la senti, Tomo? Suoniamo
ancora e tu suoni con noi.”
“Ma…
e’ il
vostro momento… io…”
“Insisto,
dai…”
“OK.
Cosa?”
“Pensavamo
‘The Running Free’ dei Coheed and Cambria. Ti
va?”
“Sì,
ma… non
ho la chitarra…”
“Te
la presta
George. Lui canta soltanto.”
Tomo
annuì:
suonare con Dana una canzone che avevano provato tante volte ma su un
palco vero e non in un salotto,
era una cosa che aveva sempre desiderato. “Va bene. Tu fai la
parte di Sanchez,
io quella di Stever.”
Dana
annuì,
riprendendo la Ibanez e sorridendo: “OK.”
Il
palco si
svuotò e i tecnici cominciarono a sistemare nuovamente gli
strumenti dei
‘Leaf’. SecondLeaf, ringraziandolo per
l’ennesima volta e sorridendo, mise
intorno al collo di Tomo la sua Fender Stratocaster come fosse la
medaglia
d’oro delle Olimpiadi e in un attimo i FourLeafClover+Uno
erano pronti per
uscire. Dana si piazzò ad un lato del palco, con Tomo
vicino: l’intro toccava a
loro. La chitarrista, investita da luci bianche, attaccò
subito gli accordi
iniziali, seguita da Tomo e poi da tutti gli altri componenti del gruppo
e ne
venne fuori l’ennesima meraviglia di canzone, compreso il
coretto di FirstLeaf
e ThirdLeaf. Tomo non conosceva il testo del pezzo, ma quando George
cantò il
bridge in cui si diceva “There are no
secrets you can hide from
yourself, in your mind, leave the worst of all behind… Cause
you're going home…
You're running free… As only you would be if you never owed
them anything… And
now you've found your way out… In the trust you've seen your
path on home…”, Tomo,
sorridendo contento a Dana, si sentì di avere compreso
finalmente appieno il
suo problema.
E
si sentì
libero, leggero, fluttuante nell’aria.
Come
non lo
era da tempo.
Come,
forse,
non lo era mai stato.
E
per tutta la
serata, passata a festeggiare in una pizzeria con i suoi nuovi amici,
Tomo si
sentì d’incanto, anche quando fu il momento di
riportare a casa Dana in auto.
La
luce della
luna, giusto sopra i gradini d’entrata, si rifletteva negli
occhi scuri di Dana
che, in piedi su uno dei pochi gradini, aveva il viso alla stessa
altezza di
quello di Tomo. L’uomo, stregato da quella ragazza, credette
di non averle mai
visto un sorriso simile, mentre la ragazza gli diceva:
“Grazie per… per avere
salvato i FourLeafClover.”
Tomo,
al
solito, si schernì: “E’ stato un
piacere.”
“Spero
che tu
non ti sia sentito usato… non me lo
perdonerei…”
Dana
era una
vera musicista per poter pensare una cosa del genere e a Tomo questo
pensiero
fece piacere. “No, per nulla. Tranquilla. Ho fatto un favore
a degli amici,
dai… E poi… beh mi è servito anche per
capire un bel po’ di cose, utili per me.
Per risolvere il mio problema.”
Dana
gli
appoggiò una mano sulla spalla: “Ah sì?
E cosa hai capito?”
Tomo
si
schiarì la voce: “Che posso fare di meglio di
quello che faccio attualmente e,
anzi, che devo pretenderlo da me stesso e anche, e forse soprattutto,
dagli
altri.”
“Uhm…
cose
importanti, direi. E poi?”
“Che
in fondo
in fondo non sono malaccio…”
Dana
sorrise:
“E’ vero. A proposito: sei promosso! Domani manda i
tuoi genitori a ritirare la
pagella, OK?”
Tomo
scoppiò a
ridere: “Ooooh… grazie maestra!”
“E
poi,
qualcos’altro?”
“Sì.”
Era il
momento. Doveva dirle quello che provava. Tomo alzò una mano
e accarezzò il
viso di Dana: “Che non ti voglio perdere… e che se
vai via io… io dirotto
l’aereo… e ti riporto qui!”
Dana
scoppiò a
ridere, mentre Tomo, ridendo a sua volta, le metteva un braccio attorno
alla
vita: “Accidenti! Nessuno ha mai dirottato un aereo per
me!”
“Dico
sul
serio…”
“Certo…
Tu
ormai sei il mio eroe salvatore… posso anche credere che
potresti farlo, armato
di torta e/o chitarra elettrica, a scelta…” Dana
alzò una mano ad accarezzargli
una guancia, poi passò un dito su un baffo di Tomo che
piegava all’ingiù,
rimanendo incantata a fissare gli occhi neri di quel ragazzo
così particolare,
i suoi capelli lisci e scuri che ora portava tagliati corti,
quell’espressione
pulita, quasi da bambino, chiedendosi per l’ennesima volta se
fosse davvero una
rockstar, trovandolo invece così schietto e genuino,
così limpido da… da voler
dirottare un aereo per lei! In fondo in fondo gli piaceva. Non sapendo
che
fare, gli sorrise, in attesa della mossa successiva del chitarrista,
che non si
fece attendere.
Tomo
rise
appena per il suo nuovo ruolo di super-eroe, appoggiò
timidamente la sua bocca
su quella di Dana e le diede un piccolo bacio, timoroso che la ragazza
rispondesse con un montante destro. Ma non successe: quando si
staccò per
guardarla, Dana sorrise, lo fissò un attimo e poi gli
passò le braccia attorno
al collo, attirandolo a sé e rispondendo con un bacio
più esplicito. Tomo
immediatamente la strinse più forte, avvertendo che i suoi
neuroni stavano
svenendo uno dopo l’altro e il desiderio fisico di lei si
accentuava di momento
in momento, a sentire il sapore delle labbra di Dana, le loro lingue
delicatamente
a contatto, il corpo esile della ragazza premuto contro il suo, mentre
FirstLeaf gli accarezzava i capelli sulla nuca.
Dopo
un attimo
Dana si staccò ed iniziò a cercare le chiavi
dentro la borsetta. Poi aprì la
porta di casa: “Vieni, Tomo…”
Ma
l’uomo ebbe
un attimo di esitazione: “Sei sicura, Dana? Io… lo
sai che non ti resisto… Non
voglio crearti problemi… Se entro, sai come potrebbe
finire…”
La
ragazza gli
si avvicinò e gli prese una mano per tirarlo verso la porta:
“Sì. Finisce come
vogliamo che finisca.”
La
strana
sicurezza di Dana mandò a pezzi la presunta sicurezza di
Tomo. C’era qualcosa
che non andava, non poteva essere così semplice, quasi
superficiale, altrimenti
non avrebbe avuto alcun valore: “Non devi sentirti obbligata,
non… non farlo per
i FourLeafClover, non ti voglio come una sorta di compenso per avervi
aiutato…”
Dana
strabuzzò
gli occhi: “Non mi era nemmeno passato per la testa una cosa
del genere, non
sono in vendita io… Te l’ho già detto,
mi pare…”. Poi gli toccò nuovamente il
viso: “Stasera voglio stare con te, perché voglio
te e basta… senza altre
ragioni…”
Nemmeno
Tomo
era in vendita e nemmeno i suoi sentimenti: “E Julius? Chi
è per te?”
Dana
fece una
specie di smorfia ma non rispose: “E tu? Chi sei per
me?”
“Non
lo so. Io
so chi vorrei essere per te, ma non so se sei tu a volerlo. Vuoi che io
sia
qualcuno per te, Dana?”
La
ragazza
cominciava ad innervosirsi: “Dobbiamo deciderlo ora? Prendo
il PC e facciamo un
programma al computer per decidere? O vuoi che lasciamo fare al nostro
istinto?”
Eh
già…
l’istinto… Fosse stato per Tomo, lui avrebbe preso
Dana in braccio, l’avrebbe
portata in camera da letto, amata tutta la notte e, il mattino dopo,
l’avrebbe
presentata ai suoi genitori, ad Ivana e a Filip, e magari sposata prima
di
sera, per essere certo di non perderla più… alla
faccia dell’istinto. Ma… Dana?
Dana lo voleva per quella notte e poi… basta? Poi si
laureava, faceva le
valigie, se ne andava in Inghilterra con Julius, magari se lo sposava,
diventava Lady Carnarvon e ciao-ciao-Tomo-scopata-di-una-notte?
“Io parlo di
sentimenti, Dana…”
Dana
si morse
un labbro e aggrottò le sopracciglia, dubbiosa. Sentimenti?
Un uomo come quello
che le parlava di sentimenti? Ma da che pianeta veniva? Ad una avance
come
quella che gli aveva fatto lei, un altro uomo non avrebbe fatto altro
che
seguirla dentro casa, senza remore e rimorsi, altrochè
sentimenti… E invece
Tomo le parlava come in un romanzo d’amore
d’appendice? Accidenti, doveva
essere proprio partito per lei… e allora doveva essere
sincera, con lui.
Sospirò, abbassò gli occhi per un attimo e poi
gli disse: “Io… Non ho chiaro
cosa sento per te, Tomo. Non lo so… Tu… sei
strano, sei unico, sei raro, non ho
mai conosciuto un tipo come te, io… Dammi tempo, per
favore… E… stanotte… non
mi lasciare… se vuoi…”
Poi
gli si
avvicinò e gli mise le braccia attorno alla vita,
appoggiando il viso sulla
spalla dell’uomo, gli occhi chiusi, percependo il suo
profumo. Il chitarrista
le passò le braccia attorno alle spalle e la strinse subito
a sé, sospirando.
Dana era stata sincera con lui, era quello che Tomo voleva: sapeva, da
quello
che le aveva detto la sera in cui l’aveva picchiato, di non
poter pretendere
dichiarazioni d’amore strappalacrime da quella ragazza, ma
almeno la verità,
sì. Lui non le era indifferente, dopo tutto, non sapeva fino
a quanto, ma non
lo era. E non poteva andarsene. Doveva farle capire quanto la amava.
Ora. “Sì,
Dana. Lo voglio.” Poi le prese con dolcezza il viso, lo
diresse contro il suo e
cominciò nuovamente a baciarla.
I
due ragazzi
entrarono in casa abbracciati, scambiandosi baci leggeri e carezze. Si
tolsero
le scarpe e subito Tomo prese Dana per un braccio e la
attirò sul divano,
contro di sé, riprendendo a baciarla con passione,
accarezzandole la schiena e
le spalle, sciogliendole le code di capelli. Dana rispondeva con
altrettanta
foga, stringendolo a sé così forte che a Tomo
mancava quasi il fiato. Poi
l’uomo la fece scivolare sotto di sé, su quel
divano dove mille volte si erano
seduti a suonare, e cominciò lentamente a spogliarla,
sfilandole la maglietta,
le calze, il kilt. Perso nelle sensazioni che gli dava il fatto di
accarezzare
la pelle bianca e setosa di Dana, Tomo lasciò che la ragazza
gli sfilasse la
maglietta dalla testa e gli baciasse il petto e le spalle.
Arrendevole
e
con il cuore che sembrava sciogliersi, Tomo lasciò fare
anche quando Dana, dopo
essersi tolta il resto dei vestiti e averli sfilati anche a Tomo, si
alzò, lo
fece sedere e poi gli si mise sopra a cavalcioni, con le ginocchia ai
lati
delle sue gambe. A Tomo quasi mancò il fiato: la
abbracciò nuovamente e riprese
a baciarla, accarezzandole i seni e i capelli, mentre la ragazza lo
faceva
scivolare dentro di lei con decisione e cominciava subito a muoversi.
“Oddio,
Dana…” le sussurrò, con le cellule
cerebrali allucinate, il fiato corto,
incredulo di provare sensazioni simili.
Tomo
sentì
improvvisamente che, con Dana, anche fare l’amore era
diverso: la loro gli
parve non solo l’unione di due corpi, ma di cuori e di
passioni… per un momento
sperò anche di anime.
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Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
DEL
COME TOMO-QUASI-FIFTHLEAF E
DANA-FIRSTLEAF SCOPRONO CHE ESISTONO (PURTROPPO) ANCHE I 30 SECONDS TO
MARS.
Tomo,
felicissimo
e con negli occhi e nel cuore l’immagine della bella Dana
addormentata tra le
sue braccia, arrivò in sala di registrazione in tarda
mattinata a passo di
marcia, come se fosse preceduto da una banda con centocinquanta ottoni,
convinto di ribaltare il mondo con un sol gesto e sicuro di far valere
le sue
ragioni, musicali e non, con la premiata ditta
fratelli-Leto-insopportabili.
Aveva
capito
il suo problema: ora doveva solo risolverlo, o almeno, tentare.
E
non poteva
esserci giorno migliore, visto che toccava proprio a lui registrare,
sebbene
fosse domenica, le sue parti di chitarra in alcune canzoni, mentre
Shannon
(barba lunga, occhiali scuri, cappuccio della felpa in testa, muso
lungo,
fratello insopportabile numero uno) e Jared (barba lunga, camicia a
quadri,
coda di capelli, muso lungo, fratello insopportabile numero due)
coordinavano i
lavori e Tim (barba tagliata, felpa scolorita, capello selvatico, muso
lungo,
fratello in sofferenze), che aveva registrato i suoi pezzi il giorno
prima, se
ne stava accucciato su un divano con la sigaretta in bocca (spenta,
altrimenti
Jared lo avrebbe sicuramente soppresso) e il suo basso in mano.
L’atmosfera
non era delle migliori, ma tutto stava andando comunque per il meglio,
se non
che Tomo, rinchiuso nella saletta di registrazione con la chitarra al
collo e
le cuffie agli orecchi, improvvisamente saltò su con un
quasi convinto “Io…
beh, in questi giorni ho scritto un assolo di chitarra che potrebbe
essere
perfetto per questa parte e…”
Jared,
ovviamente, al sentire che qualcuno aveva scritto qualcosa e quel
qualcuno non
era lui, lo interruppe subito, rianimandosi: “Non importa
Tomo, qui non va
bene, lo sai…”
Ma
Tomo era
già sullo scazzeggio, aspettandosi una risposta del genere:
“Provo a
suonartelo, OK? E poi decidiamo…” E il plurale era
decisamente maiestatis.
“Ho
detto di
no.”
Tomo
sbuffò,
Tim alzò gli occhi al cielo, Shannon prese Jared per un
braccio e gli disse,
sottovoce: “Dai… fallo provare, sono due mesi che
va a scuola, magari gli è
venuto bene…”
“Ma…”
Shannon
cominciò a stringere il braccio del fratello: “Dai
Jay… Che cazzo! Non fare lo
stronzo, dagli un po’ di credito…”
Jared
sospirò,
guardando male il fratello e togliendosi la sua mano di dosso, quasi
disgustato: “OK, Tomo. Facci sentire.”
Tomo
si
sistemò le cuffie: “Va bene. Allora questo pezzo
va tra la strofa e
l’ultimo ritornello,
quando finisce l’arpeggio
di DO. OK?”
Uno
dei due
tecnici del suono presenti nello studio spuntò da dietro una
consolle: “Lo
registro?”
“No!”
Disse
Jared.
“Sì!”,
dissero
in coro Shannon, Tomo e Tim. E Leto senior, lanciando
un’occhiataccia, da
dietro gli occhiali, all’anima nera di suo fratello, subito
aggiunse: “La
maggioranza vince. Registra, Ben, e poi alla fine mixalo con quello che
abbiamo
già registrato, OK?”
Il
tecnico
annuì e poi disse: “Tomo, quando
vuoi…”
Tomo
tirò
fuori dal taschino dei pantaloni un foglio tutto accartocciato, lo
stirò con
una mano, lo appoggiò sul porta-spartiti e poi
iniziò a suonare il suo assolo,
tra lo stupore malcelato dei presenti, che diventò anche
maggiore quando Ben,
velocemente, mixò il tutto e ne uscì, completo
della base musicale, un pezzo
con i fiocchi, perfetto per la nuova canzone come un guanto della
misura giusta
che calza a pennello.
“Uaooh.”
Disse
Tim, da dietro il suo basso, il ciuffo che sembrava levitare dalla
piacevole
sorpresa, gli occhi spalancati.
“Bravo
Tomo,
bello davvero, perfetto.” Shannon, archiviato il muso lungo,
sorrideva
soddisfatto, sfregandosi le mani, contento, da buon parsimonioso, che i
suoi
soldi fossero davvero serviti a qualcosa.
L’unico
perplesso era Jared: “No. Direi di
toglierlo…”
“NOOOO!!”
Shannon saltò sulla sedia, buttando gli occhiali sul tavolo
e togliendosi il
cappuccio dalla testa: “Ma è perfetto, lo lasciamo
invece!”
“NO!”
“SI’!”
“Certo
che
no!”
“Certo
che
sì!”
“NO,
ho
detto!”
“SI’,
ho
detto!”
Tim
aveva
assunto l’espressione di uno straccio appeso al sole, i Leto
gridavano come
ossessi, Shannon tirò qualche pugno sul tavolo, Jared si
alzò in piedi pronto a
fare a botte con suo fratello, ma improvvisamente la voce di Tomo
interruppe il
battibecco: “Ehi, ehi, scusate… Jared, mi senti
bene?”
“Certo
Tomo,
dimmi…”
Il
momento era
arrivato. O adesso o mai più: “VAFFANCULO
JAY!”
Jared
e
Shannon si guardarono a bocca aperta.
Tomo
uscì
dalla sala d’incisione come una furia, togliendosi la Gibson
di dosso, con gli
occhi infuocati, i pugni stretti, un atteggiamento aggressivo come
nessuno gli
aveva mai visto: “Vaffanculo
30 Seconds
to Mars! Chi cazzo vi credete di essere per decidere? Io
non posso mai
mettere bocca su quello che suono? MAI??? Non posso proporre niente?
Non posso
suonare quello che mi piace o scrivere almeno la MIA
partitura? EH??? Ma andate a farvi fottere
tutti quanti, voi e questa cazzo di musica di
merda…”
Tomo
buttò la Gibson sul divano con
rabbia, prese la sua giacca dall’attaccapanni e
uscì dalla porta, sbattendola
con piacere in faccia ai due Leto allibiti e a Tim che invece
sorrideva, in
cuor suo contento.
£££££££
Stessa
domenica: Dana sedeva in cucina con Jane mentre facevano una tardiva
colazione.
Il medico era appena tornato dal suo turno di notte in ospedale ed
osservava,
con un mezzo sorriso quasi compiaciuto, una Dana rilassata e felice,
con i
capelli raccolti con una matita sulla testa, che le raccontava gli
eventi
eccezionali della sera prima. Non soltanto quello che era successo
durante la
gara fortunosamente vinta, ma anche quanto accaduto dopo con Tomo.
E
Jane, a suo
modo contenta, non poteva esimersi dal fare la sorella maggiore: a lei,
in
fondo, Tomo stava simpatico e non avrebbe visto di cattivo occhio una
relazione
tra i due. “E ora? Che intenzioni hai con Tomo?” le
chiese, quindi.
Dana
scosse la
testa: “Non so… sono indecisa.”
“Ti
ha chiesto
niente?”
La
chitarrista
annuì: “Sì. Di mettermi con lui. O di
provare, almeno…”
“E
Julius?”
La
ragazza si
toccò la fronte, in difficoltà: “Ho
guardato la posta stamattina. Julius torna
in Inghilterra, nel giro di un mese o anche meno, e mi ha chiesto di
andare con
lui, a vivere ad Oxford, nella villa di famiglia… Mi ha
invitato a cena per
domani sera. Non so se voglia dirmi qualcosa… parlarmi di
sentimenti o che so
io… Non so se abbia qualche intenzione oppure
no…”
“E
tu… cosa
pensi di fare?”
Dana
sospirò:
“Io… non so se sono innamorata di uno dei due o di
nessuno. Stamattina ti direi
che scelgo Tomo, visto quanto è successo stanotte, ma Julius
non mi è comunque
indifferente e… poi ieri sera abbiamo vinto il contratto
discografico, ma
Julius mi ha anche comunicato che ho vinto la borsa di studio ad Oxford
e…
Oddio, Jane… ma ti rendi conto che devo scegliere tra la Musica
e la
Fisica, tra Tomo e Julius?
Come diavolo faccio? Non so da dove partire per decidermi…
ora come ora se
metto tutto sui piatti della bilancia, sono pari, capisci? O forse no?
Boh…”
Dana si alzò e cominciò a camminare per la
stanza. “E’ un casino. Non ho un
appiglio per decidere. Niente. Non so cosa fare…”
Jane
non
rispose, ma guardò Dana con uno strano occhio. Prese il
portatile, che era appoggiato
sul tavolo lì vicino, e si collegò ad internet,
poi si schiarì la voce:
“Uhm… C’è una
cosa che dovevo mostrarti da un
po’ e forse può aiutarti a prendere una decisione
più facilmente…”. Poi girò
il
portatile verso Dana con il browser puntato su una pagina di wikipedia
ben
precisa: quella che parlava di Tomo. “Tu sai di che gruppo fa
parte Milicevic,
vero?”
Dana
era
perplessa: che importanza doveva avere di che gruppo faceva parte Tomo?
“No.
Perché?”
Jane
puntò un
dito sul monitor: “Leggi qui.”
La
chitarrista
si avvicinò, aggrottò le sopracciglia, scosse la
testa e poi sgranò gli occhi
mentre leggeva la biografia di Tomo: chitarrista dei 30 Seconds To Mars.
“30 SECONDS TO MARS?
ODDIO NO! No,
no, non può essere…. O noooooooo!”.
Poi
si
sedette di peso sulla sedia, si prese la testa tra le mani e
cominciò a
piangere.
Disperatamente.
£££££££
Shannon
e
Jared erano sconvolti.
Camminavano
su
e giù per lo studio di registrazione come leoni in gabbia,
mentre Tim, tutto
compunto e sorseggiando una birra che aveva preso chissà
dove, sedeva ancora
sul divano e non osava aprir bocca.
Shannon
aveva
ripreso a fumare da quel preciso momento, sottraendo a Tim
l’intero pacchetto
di sigarette, anche se, in cuor suo, avrebbe voluto farsi fuori una
decina di
sigari Havana, e Jared, in un momento di tragica follia, aveva pensato
di
ordinare al McDonald una pila di hamburger e una decina di sacchetti di
patatine fritte, nel tentativo di consolarsi.
Erano
arrivati
anche Emma, che cercava di parlare a Jared, che non la calcolava di
striscio,
di altri suoi appuntamenti settimanali, e anche il produttore dei 30
Seconds To
Mars, che, in realtà, era ‘passato per
caso’ ad accertarsi che i Leto stessero
lavorando al nuovo CD e invece si era ritrovato nel bel mezzo di un
reparto
della sede staccata del manicomio di Los Angeles.
In
quel
momento nessuno parlava.
Tutti
erano in
attesa della tempesta che si stava addensando e che non
tardò a scoppiare
quando Shannon emerse da una nuvola di fumo puntando un indice su
Jared: “E’
TUTTA COLPA TUA!!!”, sibilò al fratello.
“Non
è vero!”
“SI’.”
“NO.”
“SI’.
E’
SEMPRE colpa tua…”
“NO.
Semmai è
colpa tua che lo hai mandato a lezione di
chitarra…”
“NO.
E’ colpa
tua che lo hai sempre trattato male…”
“NO.
E’ colpa
tua che adesso ha imparato a suonare…”
“NO.
E’ colpa
tua che non gli hai mai dato la possibilità di fare
niente…”
“NO.
E’ colpa
tua… Se tu non lo avessi mandato…”
“NO.
E’ colpa
tua… Se tu lo avessi ascoltato…”
Le
voci si
stavano alzando sempre di più, la distanza tra i Leto si
accorciava, mentre i
fratelli si puntavano l’indice accusatorio contro, e Tim
girava la testa da un
‘colpevole’ all’altro chiedendosi per
quanto ancora sarebbe continuata la lista
delle colpe, quando la porta si aprì e, con una folata di
vento primaverile,
entrò un’apparizione bionda, leggera come una
farfalla, in una improbabile
casacca fucsia finta hippy, cappello di paglia e borsa della spesa
attaccata al
braccio.
Costance
Leto.
“Buongiorno
a
tutti. Ehi… che state facendo?”
Shannon,
la
sigaretta fumante a un lato della bocca, non la guardò
nemmeno, impegnato
com’era a tenere a bada Jared: “Ciao, mamma.
Litigando, non ti pare?”
La
madre non
si scompose un attimo: “Sì, ho visto, non
è una novità… ma… tu, da
quando fumi
ancora?”
“Da
adesso…”
Constance
alzò
gli occhi al cielo: “Che è successo?”
Fu
la volta di
Jared di rispondere: “Ciao, mamma. Abbiamo litigato con
Tomo…”
Costance
si
avvicinò di un passo, grattandosi la testa, sorpresa:
“Ah… Eh… uhm… che
strano…
che coincidenza… era proprio di lui che ero venuta a
parlarvi…”
I
fratelli si
girarono verso la donna, subito insospettiti, con l’occhio
inquisitore. Che ne
sapeva la loro madre di Tomo? “Perché?”,
chiesero in coro.
Costance
estrasse dalla borsa un quotidiano e cominciò a spiegarlo
davanti alla faccia
dei figli che pendevano dalle sue labbra: “Beh…
una cosa strana. Stamattina,
come ogni domenica, ho
comperato il Los
Angeles Tribune e… guardate qui: pagina degli spettacoli.
Questa foto, di un
gruppo rock che ha vinto non so che diavolo di concorso… E
questo qui con la
chitarra al collo e la maglietta con il quadrifoglio rosso, vicino a
questa
chitarrista, vedete? E’ Tomo, vero?”
Jared,
svelto
come un furetto, strappò dalle mani di sua madre il giornale
e, seguito come
un’ombra da Shannon, Tim ed Emma, lo mise sotto la lampada
del tavolo per
vedere meglio.
“CAZZOOOOO!!!
E’ TOMOOOOO!!!” Gli occhi di Jared se possibile era
ancora più a palla.
“Era
lui,
vero? Non mi ero sbagliata…”
Shannon
aveva
la faccia a forma di punto interrogativo: “E CHE CAZZO STA
FACENDO IN QUESTA
FOTO?”
“Eh
lo so, le
mamme non sbagliano mai…”
I
Leto si
girarono verso Costance come vipere: “MAMMA VAI A CASA,
GRAZIEEEE…”
“Venite
a cena
una di queste sere?”
Shannon
la
accompagnò subito alla porta, per metterla in salvo, notando
il tic
nervoso/assassino che stava prendendo l’occhio di Jared:
“Sì mamma, ora vai, ti
chiamo, eh? Grazie, eh?” Poi ritornò dal gruppetto
che non si era scollato dal
giornale e che sembrava covarlo: “Che dice il cazzo di
articolo?”
Emma
cominciò
a leggere ad alta voce: “Il gruppo musicale FourLeafClover di
Los Angeles ha
vinto ieri sera il festival bla-bla-bla…”
Shannon
ebbe
un sobbalzo, quel nome lo aveva già sentito:
“FourLeafClover, hai detto?”
Emma
continuò:
“Sì… con in palio un contratto con la
bla-bla-bla e bla-bla-bla e durante la
serata… ecco-ecco-sentite… si è
scivolati anche nel giallo quando la
chitarrista dei FourLeafClover, tale FirstLeaf, dopo aver suonato una
canzone
dei The Mars Volta, si è sentita male ed è stata
rimpiazzata dal chitarrista
sostituto che…”
Jared
emise
una specie di lamento: “CHITARRISTA SOSTITUTO???”
Shannon
sobbalzò nuovamente: “FirstLeaf, hai
detto?”
“Sì…
che ha
suonato in modo egregio due pezzi, rispettivamente degli Alter Bridge e
dei
Tool, consentendo al gruppo di aggiudicarsi comunque il premio
finale…”
Jared
era
ancora più sconvolto, oltre il fondo scala: “ALTER
BRIDGE E TOOL??? EH? Tomo
che suona gli Alter Bridge e i Tool? E da quando, cazzo?”
Emma
continuò:
“Soltanto alla fine FirstLeaf è apparsa sul palco
per ricevere il premio e finire
la serata suonando, anche con il suo sostituto, un pezzo dei Coheed and
Cambria. Fine.”
Shannon
credette di avere le allucinazioni: “COHEED AND CAMBRIA? E da
quando Tomo suona
i Coheed and Cambria?”
Nel
bel mezzo
del parapiglia a base di dubbi chitarristici/musicali, Tim si
limitò a dire, un
leggero sguardo da maniaco puntato sulla foto del giornale:
“E FirstLeaf
sarebbe questa gnocca qui nella foto?
Però…”
I
Leto si
sedettero di peso sul divano, senza parole, mentre il produttore si
defilava
velocemente com’era arrivato e i tecnici del suono sparivano,
come inghiottiti
dal suolo. Emma e Tim rimasero nei pressi del tavolo con il giornale in
mano,
tenendolo come se fosse un paravento, pentendosi di essersi alzati dal
letto
quel soleggiato mattino di Maggio.
Dopo
cinque
lunghi minuti di riflessione, Jared si alzò e, camminando
avanti e indietro per
lo studio, tentò di riassumere la questione: “OK.
Dunque. Tomo, i sabati sera,
va in giro a suonare con un altro gruppo e NOI non ne sappiamo niente.
E poi
suona roba che non… non… insomma che non pensavo
nemmeno conoscesse e NOI non
ne sappiamo niente. Poi arriva in studio e pretende di insegnarmi il
MIO lavoro
e mi manda anche a ‘ffanculo. E NOI non diciamo niente. Che
diavolo sta
succedendo, Shan?”
Il
batterista
cominciò a grattarsi la testa, con un’espressione
un po’ persa: “Ehm… io, beh,
non io, cioè noi… ehm… cioè
non noi, ehm… Frank Zummo, insomma…”
Jared
cominciò
a pensare male: quando Shannon tirava fuori quegli scapestrati degli
Street
Drums Corps c’era di che preoccuparsi. Cominciò a
guardarlo con occhio omicida:
“Che c’entra Zummo?”
Shannon
si
portò le mani al petto, come a fare un mea culpa:
“Non è colpa mia! E’ Zummo
che mi ha detto di mandarlo là…”
Jared
si
piantò con le braccia sui fianchi davanti al fratello seduto
sul divano: “Il
‘là’ dove sarebbe? Che cazzo stai
dicendo, SHAN?”
Shannon
sospirò, abbattuto, e a mezza voce ammise il peccato,
sperando nella clemenza
di Jared: “Sto dicendo che FirstLeaf dei FourLeafClover
è l’insegnante di
chitarra di Tomo…”
“COSA?”
Shannon
tentò
di giustificarsi, cominciando a sudare freddo: “Zummo mi
aveva detto che questo
FirstLeaf era bravo ma… primo, io credevo fosse un uomo e
non una gnocca, ehm…
volevo dire… una ragazza come questa… e, secondo,
credevo che non riuscisse ad
insegnare così tanto a Tomo da far sì che il
nostro chitarrista si sia… si sia
addirittura MONTATO LA TESTA!
E, terzo, non pensavo che ce lo volessero anche portare
via…”
Jared
batté un
pugno risolutore sul tavolo: “Basta. Ho capito tutto.
Dobbiamo chiamarlo e
parlarci. E’ partito con il cervello, ma ha firmato un
contratto e non può fare
il cazzo che vuole. E poi… se va bene sarà anche
innamorato di questa
First-gnocca e adesso allora veramente non lo teniamo
più…”
Tutti,
con
frenesia, presero il cellulare e cominciarono a fare il numero di Tomo,
ma il
chitarrista non rispose a nessuno. Jared, allora, uscì come
un tornado dallo
studio, prese la sua BMW Hydrogen 7 rigorosamente ecologica, vi
caricò suo
fratello, la sua segretaria e il loro bassista
come fossero pacchi, e, a folle velocità,
cominciò a setacciare Los
Angeles alla ricerca forsennata di Tomo, chitarrista perduto.
Princes_of_the_universe: Spero di non aver dato la mazzata
finale al tuo
‘cuoricino di Echelon’… Ovviamente mi
sono inventata tutto su Tomo e sui suoi
‘troubles’ con il mondo intero: se conoscessi i
Leto e Milicevic personalmente
tanto da sapere i loro reali problemi, non penso che sarei qui a
scrivere ff su
di loro, ma parcheggiata nel loro salotto in
modo permanente! :-P
Baci!
Cromia:
… e se ti
dicessi che per i capelli di Dana mi sono ispirata ai tuoi? ;-)
Folleria: Per
Natale
il DVD glielo regaliamo, dai… o alla prossima signing line
(nel 2025)…
Per
tutte le altre (BlueandYellow, Martunza, Madiris, Black Violet, TaccaH,
Jaredina71, sally10989, Revolve90...): grazie delle recensioni.
A
TUTTI:
BUON NATALE!!!
Baci. ;-***
Shanna
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Capitolo 15 *** Capitolo 15 ***
DEL
COME TOMO SI FA FORZA, SCOPRENDO, CON
SORPRESA, CHE LA FORZA E’
CON LUI E NON SOLO QUELLA…
Come
faceva
ogni volta che si sentiva in difficoltà, Tomo si
rifugiò nella cucina del
Ristorante dei suoi genitori a preparare il dessert per il pranzo dei
clienti,
assieme agli altri quattro cuochi, che ormai lo conoscevano e
bonariamente
lasciavano fare. Tomo avrebbe voluto un po’ di
tranquillità, ma il suo
cellulare sembrava dotato di vita propria, visto che non faceva altro
che
suonare: prima lo aveva chiamato Tim, poi Shannon, poi Jared, poi
ancora
Shannon, poi ancora Tim, poi Jared gli aveva mandato un sms, poi Emma,
poi il
loro produttore, poi… insomma un delirio di connessioni
telefoniche rifiutate!
Ma che si fottessero tutti quanti, dal primo all’ultimo,
pensava Tomo, mentre
controllava con occhio critico che la crema pasticcera non si
attaccasse al
pentolino: se avevano qualcosa da dire ci si poteva sedere tutti
intorno ad un
tavolo, tra qualche giorno, ad animi sbolliti e spiriti chetati, e
parlarne
seriamente, ma per telefono assolutamente ed inesorabilmente NO.
E
poi lui
doveva ancora discutere con Dana, che al momento aveva il cellulare
staccato,
dell’accaduto: oramai Tomo la considerava come far parte
della sua vita, anche
se avevano soltanto appena accennato al loro futuro, e qualsiasi
decisione lui
avesse preso nei riguardi dei 30 Seconds To Mars, avrebbe riguardato
anche lei,
in fondo. Eh sì: perché Tomo si sentiva ad una
svolta, non avrebbe chiesto
scusa del suo comportamento a Jared per niente al mondo e, anzi, era
pronto, al
momento opportuno, a dettare le sue condizioni ai Leto: o Tomislav
Milicevic (e
anche Timothy Kelleher, via… due al prezzo di
uno… avrebbe sparato alto…)
cominciava a contare qualcosa e ad avere voce in capitolo sulle
decisioni,
musicali e non, finora prese soltanto dai Leto, e che invece
riguardavano il
GRUPPO dei 30 Seconds To Mars, o lui se ne sarebbe andato.
E
basta.
Fine
delle
opzioni.
Di
gruppi rock
ne avrebbe trovati altri, oppure avrebbe fatto il sostituto a vita dei
FourLeafClover, o avrebbe aperto una pasticceria in centro o un bar
sulla
spiaggia a Beverly Hills, o avrebbe continuato a lavorare al Ristorante
o… boh…
qualcosa avrebbe fatto, ma non sarebbe più stato al servizio
dei due Leto, per
nessuna ragione.
Mentre
inseriva la crema dentro le barchette di pastafrolla che gli aveva
passato il
cuoco addetto ai dessert e si consolava con l’immagine della
sua Dana stesa sul
divano vicino a lui con i capelli sciolti e lo sguardo languido,
pensando a
quando l’avrebbe rivista, Damir, sua mamma, entrò
in cucina un po’ in affanno,
gli si avvicinò e gli toccò una spalla.
“Tesoro,
tutto
bene?”, gli disse, in un soffio.
Tomo
la guardò
con la coda dell’occhio: “Uhm? Certo,
mamma.”
“Sei
sicuro?”
“Sì,
perché?”
Damir
gli
diede un bacio sulla guancia, sicura al cento per cento che il figlio
le stesse
mentendo: “Ehm… ci sarebbe qualcuno che vuole
parlarti con urgenza…”
“Al
telefono?”
“Ehm…
No, di
là…”
“Chi?”
“I
Leto, con
Tim ed Emma.”
“O
NO,
CAZZO!”. Tomo sbatté il cucchiaio della crema con
rabbia sul tavolo della
cucina e una delle barchette di pastafrolla prese il volo e
finì dentro una
pentola di acqua bollente sul fornello lì vicino.
Damir
era in
difficoltà. I Leto li aveva visti un paio di volte e
sicuramente non erano mai
entrati nel suo Ristorante come avevano fatto pochi istanti prima, come
se
volessero picchettarlo, conquistarlo e dargli fuoco. C’era
sicuramente qualcosa
che non andava tra i Leto e Tomo e la reazione di suo figlio glielo
confermava
in pieno. Ma nascondersi dietro ai fornelli a Tomo non sarebbe servito
a
niente: “Li ho messi nella saletta rosa, quella piccola,
semiprivata, e… mi
sembrano un po’ alterati. Shannon sta fumando una sigaretta
dietro l’altra e
Jared ha voluto il menù…”
Tomo
si
sedette di peso su una sedia, sbuffando, mentre i cuochi si girarono
tutti a
guardarlo, perplessi ed incuriositi.
Accidenti,
era
troppo presto per parlare con i Leto.
Doveva
prima
organizzare una difesa, fare una lista di argomenti, predisporre le
risposte
alle domande che gli avrebbero fatto i fratelli (specialmente Jared),
informarsi sui termini legali dell’intera faccenda,
altrimenti sapeva che non
sarebbe riuscito ad ottenere un cavolo di niente. E poi come doveva
esordire?
Un
‘che-cazzo-volete-perché-siete-venuti-a-rompere?’
era troppo esplicito,
vero? Che casino!
Damir
gli si
portò davanti e gli accarezzò la testa:
“Allora, caro? Cosa dico ai 30
Seconds?”
Tomo
alzò il
capo e la fissò: “Hai detto loro che io sono
qui?”
“No.
Ho detto
che non ti ho visto e che sarei venuta a vedere SE eri qui in cucina.
Ho fatto
male?”
Però,
che
furba sua madre! “No…”
Damir
fece
spallucce: “Posso sempre dire che non ci sei,
dai…”
Il
chitarrista
scosse la testa e sospirò: “Vabbè. Non
cambia niente. Quelli non demordono e
prima o poi devo affrontarli. Forse è meglio prima, che
poi…”
Tomo
prese e
strinse per un momento la mano di sua madre, si alzò, fece
per avviarsi verso
la porta della cucina ma subito si fermò e si
girò a guardare verso i cuochi.
Gli venne un’idea. Forse era una sciocchezza, ma aveva
bisogno di tutto l’aiuto
possibile, anche psicologico. Ne chiamò due, quelli
più alti e nerboruti, uno
dei quali aveva pure un coltello in mano: “Ehm…
Venite di là con me un secondo?
Mi state dietro, non dite niente, OK?”
Avutone
il
consenso, si avviò a passo un po’ incerto verso la
saletta rosa, con i due che
lo seguivano come ombre. Per un momento Tomo si sentì un
po’ come Darth Fener
scortato da due guardie imperiali, senza averne
l’atteggiamento, anche se si
diceva che non doveva avere paura dei Leto, che doveva far valere le
sue
argomentazioni, perché, a ben vedere, AVEVA RAGIONE, AVEVA
RAGIONE, AVEVA
RAGIONE!!! E la forza era sicuramente con lui, compreso il lato oscuro!
Ma
il solo
pensarli, seduti al tavolo rotondo, sicuramente in silenzio, gli
sguardi torvi,
gli fece perdere le sue sicurezze e Tomo si bloccò un
attimo, tanto che i due
individui alle sue spalle lo tamponarono nei pressi della porta e lo
spinsero
senza volerlo dentro la saletta rosa.
L’entrata
un
po’ goffa di Tomo non era stata delle migliori, e Jared, che
aveva gli occhi
fissi sulla porta mentre gli altri tre seduti con lui al tavolo davano
le
spalle all’uscio, lo vide subito e immediatamente si
alzò e sventolando il Los
Angeles Tribune si mise ad urlare, del tutto indifferente agli
accompagnatori
di Tomo: “CHE CAZZO VUOL DIRE QUESTA MERDA QUI????”
Tomo
deglutì e
si fece avanti. Che diavolo stava dicendo Jared? Cos’era quel
giornale? Si
avvicinò al tavolo con una nonchalanche che in
realtà non provava affatto:
“D-di che parli?”
Jared
era
furioso, mentre Tim ed Emma erano incollati alla sedia e Shannon
permaneva
avvolto nella sua nuvola di fumo, il volto impassibile: “Se
pensi di filartela
come se niente fosse, ti sbagli, capito? Hai firmato un contratto, caro
il mio
Milicevic…”
Tomo
prese al
volo il giornale che Jared gli aveva lanciato quasi in faccia, vide la
foto di
lui e Dana sul palco del festival e sorrise, senza volerlo: lei era
l’unica
cosa bella che aveva in mente, quel giorno, il resto erano rogne.
Jared
si
sedette, scazzato: “E quella gnocca, chi
è?”
Tomo
lo guardò
male: “Quella non è una gnocca, è Dana,
la mia ragazza.”
“Da
quando sei
anche fidanzato?” Il tono di voce di Jared era canzonatorio.
“Da
ieri
notte.”
“E
cosa
aspettavi a dircelo?”
“Lei
non
c’entra niente con i 30 Seconds To Mars e i nostri problemi,
ve l’avrei detto
in un altro momento…” Tomo prese una sedia, si
sedette tra Tim e Shannon e, con
i due cuochi sempre alle spalle, raccontò in breve cosa era
successo la sera
prima, durante il festival e con Dana, le sue sensazioni, le cose che
aveva
capito, quelle che aveva imparato.
“Perché
ci
vuoi lasciare?”, chiese ad un tratto Jared, senza lasciarlo
finire.
Tomo
sospirò:
ecco, eravamo al punto. “Io… non vi voglio
lasciare, non voglio suonare con i
FourLeafClover, voglio stare con voi, con i 30 Seconds To Mars,
ma… ma voglio
contare qualcosa, non fare soltanto la bella statuina. Voglio scrivere
le mie
parti di chitarra, come Shannon si scrive le sue parti di batteria,
voglio
metterci del mio e partecipare anche alle decisioni del gruppo. E
poi…”
Jared,
seccato, alzò gli occhi al cielo. Non era abbastanza?
“Cos’altro vuoi?”
Spara,
Tomo,
spara, usa il fulminatore laser, lì, in mezzo agli occhi,
vai… “Tim. Anche Tim
deve essere dei nostri.”
Jared
scosse
la testa, mentre il bassista, che aveva avuto un tremore improvviso,
tratteneva
il fiato, inutilmente: “No.”
Tomo
non si
arrese: “Ma perché?”
“Perché
Matt
è… è… è
insostituibile…”, disse Jared, inaspettatamente.
Tomo
fissò il
cantante negli occhi, sporgendosi leggermente verso di lui:
“Jared, Matt se n’è
andato. E’ andato via. E non ci ha pensato un secondo a
mollarci mentre eravamo
all’apice del successo, avevamo una lista di concerti ed
apparizioni televisive
da fare e avevamo bisogno di lui. Non tornerà, mai
più, e non ha senso tenergli
un posto che non vuole. Ora è Tim il nostro bassista. E
basta. Il posto deve
andare a lui. Subito.”
Jared
per un
momento abbassò gli occhi: quello che Tomo diceva era vero,
ma la perdita di
Matt, così improvvisa e dolorosa, lo faceva ancora stare
male. L’uomo si chiese
per un attimo se, però, aveva ancora senso stare
così male per Matt. Forse no,
ma era una cosa che doveva risolvere tra sé e sé.
Tomo e gli altri non
c’entravano, se non marginalmente, e non potevano andarci di
mezzo ancora a
lungo. Tentò di cambiare discorso: “Ma, cazzo,
abbiamo una causa da trenta
milioni di dollari in corso! Non te ne puoi andare
ora…”
Tomo
sbuffò,
riacquistando coraggio, visto che Jared non aveva ribattuto sul
‘Matt affair’:
“Ti ho detto che non me ne voglio andare, e comunque la causa
con la
EMI non è per colpa mia…
sei
tu che scrivi le canzoni, non io… Se non hai scritto canzoni
per cinque anni e
non hai rispettato il contratto, la colpa è solo tua. E io,
non appena dico
qualcosa, mi tagli le gambe, non ti si può
aiutare… Non ti fai aiutare, Jared,
vuoi fare tutto da solo. Sei esagerato.”
Jared
quasi
balzò dalla sedia. A denti stretti, sibilò:
“Tomo, come ti permetti di…”
Shannon
sbucò
fuori inaspettatamente nella conversazione, spegnendo la sigaretta nel
posacenere, parlando con una specie di voce dall’oltretomba,
bassa e
definitiva: “Tomo ha ragione. Sia per Matt, che per la causa.
Devi farti
aiutare, Jay, non puoi fare tutto da solo.”
Jared
era
esterrefatto: “Shan, ti ci metti anche tu?”
Il
batterista
annuì, convinto: “Sì e ti
dirò di più: se non dai credito a Tomo e non
assumi
Tim, me ne vado pure io…”. Jared
spalancò due occhi enormi in faccia al
fratello, non credendo ai suoi orecchi né avendo la forza di
rispondere.
Shannon continuò: “Ho ricevuto, giusto la
settimana scorsa, una proposta da un
gruppo di progressive rock californiano appena formato. Vogliono che,
per il
momento, registri la parte di batteria per il loro primo CD, mi pagano
profumatamente e poi, se voglio, posso far parte a tempo pieno del
gruppo.
Intanto ho detto di sì per la registrazione, visto che con
quei soldi ci
paghiamo gli avvocati impegnati nella causa, e per la seconda cosa
posso sempre
pensarci.”
Questa
era la
goccia che faceva traboccare il vaso: Jared aveva sempre sopportato le
pazzie
di Shannon con i Wondergirls prima e con gli Street Drum Corps poi, ma
quello
era troppo. Il suo fratellone adorato che lo abbandonava? Non poteva
essere, era
una cosa che non aveva mai preventivato. Stava ancora cercando di
capire cosa
rispondere, che sentì Emma schiarirsi la voce. Si
girò subito verso di lei,
temendo il peggio.
La
ragazza si
scostò i capelli dagli occhi e poi cominciò a
parlare, a voce bassa: “Ehm…
anch’io ho un’altra offerta di lavoro. Ieri mi ha
chiamato Joaquin Phoenix e
vuole che vada a lavorare per lui. Vuole intraprendere la carriera
musicale e
gli serve una come me che, con te, si è divisa tra cinema e
musica.” Jared era
stranamente senza parole ed Emma continuò:
“Perciò se se ne vanno Shannon e
Tomo e i 30 Seconds to Mars vengono sciolti, non ha più
senso che rimanga
nemmeno io…”
Jared
per un
attimo rimase a guardarla ad occhi spalancati, ma poi si
lasciò prendere dalla
rabbia: “Cazzo,
ma siete proprio come
dei topi pidocchiosi, che abbandonano la nave che
affonda…”. Poi l’uomo
si alzò, sospirando con fare molto
melodrammatico, quasi togliendo la tovaglia dal tavolo e, con aria
molto adirata,
dichiarò: “E
va bene. Come volete. Tim
entrerà ufficialmente nei 30 Seconds, Tomo
scriverà le sue parti di chitarra ed
insieme prenderemo tutte le decisioni sul gruppo, MA, e dico MA e
sottolineo MA
e ribadisco MA, se questa cosa non funziona, i 30 Seconds finiscono
nella merda
più totale, non riusciamo a saldare i trenta milioni di
dollari e non vendiamo
un cazzo di dischi… IO…”, Jared fece
una pausa d’effetto da consumato attore
cinematografico, fissando negli occhi i quattro ancora seduti davanti a
lui, ad
uno ad uno, come se volesse ipnotizzarli, “… VI
TIRO IL COLLO… a
tutti e quattro! E in nessun posto
nell’universo troverete riparo dalla mia
ira…”
Poi
si girò e
si avviò verso la porta, sdegnosamente, avvolgendosi la
sciarpa a quadretti
attorno al collo, come una diva del muto teatralmente si avvolge il boa
di
struzzo.
I
quattro
seduti al tavolo si guardarono per un attimo, titubanti, e poi
scoppiarono a
ridere. Subito Emma si alzò per avviarsi dietro il suo capo,
che già la stava
chiamando al telefonino, mentre Shannon, Tomo e un Tim quasi piangente
si
complimentavano uno con l’altro per la riuscita
dell’impresa, dandosi grandi
manate sulle spalle e abbracciandosi.
Tomo
congedò i
due cuochi e poi disse: “Grazie, Emma. Bellissimo il bluff.
Mancavi solo tu!
Grazie.”
“Di
nulla,
Tomo. So per certo che il nostro Jared odia Joaquin Phoenix da
morire.”
“Ma
pensi che
gli passerà?”
“Sì,
sì, non
ti preoccupare, gli passerà. In fondo vi vuole bene,
è che ha un gran brutto
carattere e non vuole ammettere di avere bisogno di voi.”
Emma prese dal tavolo
un pacchettino di grissini e si avviò verso la porta.
“E ora, appena vado a
dirgli che mi ha chiamato Steven Spielberg perché vuole
parlargli di un nuovo
film, gli passerà tutto. Il suo amor proprio
lieviterà come una torta in forno
e si sentirà nuovamente un dio in terra. Ciao belli, a
domani!”
Tomo
non perse
tempo: “Dai, ragazzi, per festeggiare vi invito a
pranzo…” Tim e Shannon non
aspettarono ulteriori inviti e si accomodarono prendendo in mano subito
il
menù. Tomo continuò: “Allora una bella
insalatina scondita per tutti, va bene?”
Un
sincero
“BLEAH!!!” di Shannon e Tim echeggiò per
la stanza e, mentre rideva alla vista
della faccia disgustata dei suoi due famelici soci, Tomo, che si
sentiva come
se avesse affrontato e vinto la Morte Nera
in un’epica battaglia, pensò che in meno di
ventiquattro ore nella sua vita erano successe così tante
cose grandiose e
travolgenti da doverle ricordare per sempre.
E
il futuro si
prospettava altrettanto radioso.
Forse.
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Capitolo 16 *** Capitolo 16 ***
DEL
COME TOMO SCOPRE CHE DANA NON E’ QUELLO
CHE CREDE E UNA IBANEZ PEGGIORA LE COSE.
Tomo,
per due
intere settimane dopo quella fantastica notte con lei, non era riuscito
a
vedere Dana in nessun modo, nemmeno per un attimo. Prima la ragazza si
era data
malata (diagnosi: varicella, prognosi: talco mentolato e una settimana
chiusa
in casa), poi alle prese con la tesi (venticinque capitoli,
quattrocentoquarantadue pagine di formule, diagrammi e schemi), poi
alle prese
con problemi con sua nonna (che voleva fuggire in Europa con un
ex-chitarrista
hippy di novantacinque anni di dubbia moralità incontrato in
casa di riposo),
poi alle prese con problemi con il contratto discografico con la
XYZ-California
(che il papà di George, avvocato, stata minuziosamente
valutando riga per riga
e su cui aveva trovato degli inghippi legali non da poco), e poi e poi
e poi… e
poi ne aveva sempre una.
Dana
gli aveva
sempre risposto gentilmente al telefono, lo aveva tenuto al corrente di
tutti i
più piccoli sviluppi che la riguardavano (compreso il fatto
che Julius non
l’aveva riconosciuta la sera del concerto e, a detta di Dana,
era capitato là
per caso, senza nessun interesse per la musica rock, e se
n’era andato via
praticamente subito), gli diceva anche che lo pensava spesso, che lo
desiderava,
che non vedeva l’ora di vederlo ma… i due non si
erano più rivisti.
E
anche Tomo
era incasinato: ora che era riuscito ad ottenere da Jared quello che
voleva,
non aveva più un attimo di pace. Era continuamente
‘in riunione’ con i 30
Seconds To Mars per
qualsiasi cosa a
qualsiasi ora del giorno e, qualche volta, anche della notte, quando
Jared
poneva sul tavolo un qualche problema, o presunto tale, che gli era
balenato
improvvisamente nel cervello nottetempo.
Tomo
era stato
investito della responsabilità degli arrangiamenti di
chitarra dei pezzi nuovi
dell’album e della rivisitazione di quelli già
registrati. In tal modo Jared
poteva concentrarsi maggiormente sui testi delle canzoni e sul canto.
Tomo
doveva anche proporre delle date per la prossima tournee e selezionare,
con
Tim, il gruppo d’appoggio per le date americane e il
chitarrista aveva una
mezza idea di proporre i FourLeafClover, non fosse che Shannon
continuava a
chiedergli di conoscere Dana e aveva cominciato di nuovo a cospargersi
con il
solito profumo alla retropuzza e a Tomo, geloso marcio, stava venendo
il
leggerissimo sospetto che al batterista piacesse la SUA bella Dana,
anche se
l’aveva vista soltanto una volta e soltanto in una
foto…
Dopo
due
settimane passate così, Tomo era in fibrillazione, per non
dire sull’orlo
dell’esaurimento nervoso.
Avvertiva,
senza sapere nemmeno lui come e perché, che stava succedendo
qualcosa di spiacevole,
o perlomeno di strano, e così, di punto in bianco, un
martedì pomeriggio decise
di presentarsi a casa di Dana, senza chiamarla e senza preavviso.
E,
come in uno
dei peggiori film drammatici, la porta gli venne aperta da Jane, in
pigiama e
capelli scompigliati.
“Dov’è
Dana?”
chiese subito Tomo, quasi senza salutare, già presentendo
che qualcosa sarebbe
andato a catafascio.
Jane
deglutì
imbarazzata, prima di rispondere, ulteriore segno che c’erano
casini immondi
all’orizzonte e gli disse proprio quello che Tomo non avrebbe
mai e poi mai
voluto sentirsi dire: “Se n’è andata.
Stamattina.”
Tomo
sobbalzò:
“ANDATA? ANDATA DOVE?”
Jane
gli aprì
la porta per farlo entrare, sospirando, la voce atona, sicuramente
reduce da
una seduta di pianto a dirotto: “E’ andata in
Inghilterra…”
Il
ragazzo per
un momento credette di essere nel bel mezzo di un incubo:
“Oddio… Ma… ma… ma
perché?”
Jane
si
accasciò sul divano, distrutta, mentre Tomo si rese
inaspettatamente conto di
non avere nemmeno il coraggio di avvicinarsi, a quel divano, in cui
c’erano
improvvisamente troppi e amari ricordi: “Dana… si
è laureata ieri, in anticipo
sui tempi previsti, e oggi è partita per
l’Inghilterra con… con il professore.”
La donna si bloccò ed indicò a Tomo un pacco
vicino alla porta. “Quello è
l’ultimo pacco della sua roba. Devo spedirglielo nei prossimi
giorni.”
Tomo
si guardò
attorno, desolato, senza parole, amareggiato.
No.
Non
poteva
essere.
Laureata?
E…
e non gli
aveva detto niente di niente?
Anzi…
ancora
peggio!
Gli
aveva
mentito ogni secondo, per due settimane, come se quello che era
successo tra
loro quella notte non contasse niente... Nulla di nulla…
Ma…
perché?
Potevano
almeno parlarne… Dana non gli aveva più detto
niente dell’Inghilterra e Tomo
aveva dato per scontato che… aveva dato per
scontato… aveva dato per scontato
troppe cose.
Che
stupido
che era stato.
Non
avrebbe
mai pensato che Dana avesse potuto mentirgli così.
“La
chiamo al
cellulare.”
Jane
scosse la
testa, con mestizia: “Fatica sprecata. Il cellulare
è lì, sopra il tavolino
dell’ingresso. Me l’ha regalato. Vuol tagliare con
il passato, del tutto. E non
è l’unica cosa che ha
lasciato…”. Jane si alzò e si mise
davanti al ragazzo:
“Senti, Tomo… Lo so che non dovrei farlo e che
Dana mi odierà per averlo fatto,
ma… io so che le volevi bene e, nello stesso tempo, avevi
davvero stima di lei
come musicista. Te lo si leggeva negli occhi ogni volta che la
guardavi, che la
ascoltavi suonare, quando suonavate insieme. E…”
Lasciando
la
frase in sospeso, Jane si diresse nello sgabuzzino vicino alla cucina e
ne
estrasse una custodia nera con tanti adesivi appiccicati di quadrifogli
colorati.
Era
la
chitarra elettrica di Dana, la sua Ibanez bianca.
Jane
la porse
a Tomo, che la prese subito, gli occhi spalancati: “Tienila
tu. Mi aveva detto
di venderla, ma io… beh… io non posso farlo. Non
riesco… mi parrebbe di dare
via la sua anima. Io…” Due lacrime scesero sulle
guance di Jane e lei se le
tolse con il dorso della mano, prima di continuare: “Io so
quanto tempo ha
passato a suonarla e… sono sicura che una parte di lei,
forse la parte
migliore, è ancora lì dentro. Quindi…
tienila tu. Te la regalo.”
Tomo,
senza
parole e senza contegno, scivolò seduto per terra in mezzo
al corridoio
dell’ingresso e, tenendo stretta la custodia della chitarra
come se fosse la
sua Dana, cominciò a piangere, silenziosamente e senza
speranza.
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Capitolo 17 *** Capitolo 17 ***
DEL
COME DANA SI ACCORGE CHE LA SUA VITA E’
IMPROVVISAMENTE
PIENA ZEPPA DI SARCOFAGI IMPOLVERATI, MUMMIE VENERATE, FOSSILI VIVENTI
E
ANIMALI IMPAGLIATI.
Dana
se ne
stava comodamente seduta, con un libro di Fisica in mano, sul divano
della
biblioteca della villa di Julius, e osservava con interesse la perfetta
riproduzione del terzo sarcofago dorato di Tutankhamon in piedi
appoggiato ad
una parete e che brillava alla luce del caminetto acceso: ne osservava
i
lineamenti del viso, gli occhi scuri dipinti, i colori accesi e si
chiedeva
come dovevano essere la vita e i pensieri di un faraone bambino, morto
a sedici
anni, vissuto quasi tremila anni prima e che ora si trovava mummificato
al
museo di Londra, ammirato ed onorato, quasi come se fosse vivo.
Eppure…
Dana
si
sentiva strana, perplessa, allucinata, forse come se si fosse
mummificata anche
lei, come se la sua vita fosse immobile, ferma, polverosa. Erano sei
mesi che
si era spostata in Inghilterra, che
studiava alla prestigiosa Università di Oxford, che viveva
in quella splendida
dimora ottocentesca incastonata nella pianura intorno alla cittadina
inglese,
ma… ancora non riusciva a sentirsi del tutto a casa sua.
C’era
qualcosa
che non andava, davvero, ma Dava non riusciva a capire cosa. Ci stava
pensando
da un po’: tutto sembrava scorrere come aveva previsto e,
spesso, desiderato
ma… c’era un qualcosa che non quadrava, i conti
non tornavano.
Dana
si
sistemò meglio sul divano e cominciò a pensare
alla sua situazione: aveva
lasciato la soleggiata California per tuffarsi nella perenne nebbia
inglese ed
ora, in un tardo pomeriggio novembrino, quasi si sentiva come se quella
nebbia
avesse invaso la sua anima e come se i suoi stessi sentimenti e
pensieri le
giungessero ovattati, attenuati. Si mise a fissare le fiamme,
rabbrividendo e
stringendosi addosso la felpa con il simbolo
dell’Università di Oxford stampato
davanti.
Eppure…
Passò
gli
occhi sui ritratti degli antenati dei Carnarvon appesi alle pareti.
Nonostante
l’imponente albero genealogico, la famiglia di Julius, presso
cui viveva su
insistenze del ‘professorino’, era una famiglia di
studiosi genialoidi
piuttosto atipica: a differenza dei Lord inglesi caratteristici,
aristocratici
e con la puzza sotto il naso, i Carnarvon erano molto alla mano, non
avevano
alcun preconcetto contro gli americani e l’avevano accettata
fin dal primo
giorno, come ospite di riguardo del loro unico figlio. Il padre di
Julius,
James, medico di mestiere, passava la maggior parte della settimana a
Londra,
alla Camera dei Lord, ed il resto del tempo nel suo ambulatorio nel
centro di
Oxford, mentre la madre, Eve, entomologa di professione, si divideva
tra
l’Università, la sua collezione di insetti
infilzati in spilli e piccoli
animali impagliati, e le sue varie organizzazioni benefiche. Insomma, i
Carvarvon
erano delle gran brave persone e Dana non avrebbe potuto sperare di
capitare
meglio.
Eppure…
Poi
c’era
Julius, che Dana non riusciva ad inquadrare del tutto, però:
il professorino
andava e veniva tra Università e il circolo degli scacchi,
l’aiutava con il
dottorato, era sempre cortese e disponibile e non le chiedeva nulla.
Dana si
sarebbe aspettata da Julius una qualche forma di corteggiamento (visto
che a
Los Angeles, la sera della cena, l’uomo le aveva fatto
intendere di essere
‘interessato’ a lei), ma il giovane, da quando
erano arrivati in Inghilterra,
non parlava mai di loro, non le aveva chiesto di fidanzarsi con lui o
cose
simili, non faceva avance di alcun tipo e Dana stranamente percepiva
come se
Julius stesse aspettando qualcosa, una presa di posizione da parte
della
ragazza, un evento risolutore, un primo passo da parte di Dana, che la
ragazza
non aveva nessuna intenzione di fare. Non sapeva nemmeno lei
perché. Qualcosa
la bloccava e le pareva di essere in un limbo. Forse perché
quello non era del
tutto il suo mondo? Non era certa della sua scelta? Ma sì
che lo era… o no?
Chissà…
E
poi…
Le
mancavano
da morire il mare della California, il profumo dell’oceano,
la sua piccola
casa, Jane, sua nonna, i suoi genitori, suo zio, e, soprattutto, le
mancavano
la musica, la sua chitarra elettrica, quelle emozioni uniche che
provava quando
suonava, su di un palco o nel salotto di casa sua, le note che si
spandevano
nell’aria, l’armonia delle melodie
suonate… Le mancavano i suoi pazzi
FourLeafClover, George, il piccolo Tom e Carlo, e anche se li sentiva
via mail
o li incontrava su FaceBook, non era la stessa cosa: erano troppo
lontani,
dall’altra parte del mondo, in tutti i sensi ormai. Tra
l’altro i ragazzi, per
una forte forma di rispetto e affetto nei suoi riguardi, non
l’avevano ancora
sostituita, il posto di chitarrista dei FourLeafClover era vacante e il
contratto con la XYZ-California
perennemente in alto mare. E questa cosa le
metteva una tristezza tremenda.
Dana
sospirò.
Pazienza.
Ormai
aveva
scelto.
Non
poteva più
tornare indietro.
Eppure…
In
realtà
c’era ancora una questione aperta, una pratica ancora da
evadere, una porta
ancora spalancata, una voragine da riempire.
Dana
faceva di
tutto per non pensarci ma non ci riusciva.
Ogni
tanto un
viso faceva capolino tra i suoi ricordi.
Tomo.
Al
pensiero,
Dana si alzò di scatto dalla poltrona.
No.
Non
poteva
pensare a Tomo.
Non
doveva.
Tomo
in parte
rappresentava il mondo che lei aveva lasciato e quindi non doveva
pensarlo mai
più.
MAI PIU’.
Eppure…
Non
si era comportata
bene con lui, lo sapeva, ma non aveva potuto fare altrimenti, non aveva
avuto
scelta. Si augurava solo che non avesse sofferto troppo, che non la
amasse così
tanto da patirne. Contrariamente alle classiche storie
d’amore che tutte le
donne sognano, Dana sperava di essere stata per lui soltanto una delle
tante,
il calore di una notte, il ricordo di un momento e si illudeva di poter
essere
scordata presto. Ma non ne era sicura, visto che Tomo sembrava molto
preso e
questo le dispiaceva.
Dana
andò alla
finestra e cominciò a scrutare il giardino ormai buio:
chissà dov’era, ora,
Tomo… magari la stava pensando, oppure no… preso
dai suoi mille impegni di
rockstar l’aveva subito dimenticata. Per un momento
pensò al bel sorriso di
quel ragazzo, ai suoi occhi neri, alle espressioni del suo volto. Dana
sospirò:
sì, meglio così, meglio per tutti se
l’avesse scordata.
Non
era la
donna giusta per lui, per tanti diversi motivi… o forse per
uno solo.
Eppure…
Il
cellulare
le squillò improvvisamente in tasca e Dana
sobbalzò. Rispose senza guardare chi
fosse, tanto solo pochissimi conoscevano il suo numero (sua nonna, i
suoi
genitori, Julius e George).
“Pronto?”
“Ciao,
Dana!
Sono Sarah! Ho avuto il tuo numero da Julius. Come stai?”
Dana
si
sorprese un attimo: Sarah era la cugina di Julius, una ragazza un
po’ pazza con
cui aveva fatto amicizia subito dopo averla incontrata ad un cena di
famiglia.
Ogni tanto le due ragazze, che avevano più o meno la stessa
età, si
incontravano ed uscivano insieme a fare shopping per scambiare quattro
chiacchiere e Sarah le chiedeva sempre di Los Angeles,
perché avrebbe voluto
frequentare un master in Economia alla UCLA. Sebbene anche Sarah fosse
una
‘Lady Carnarvon’, di aristocratico non aveva
proprio nulla, tanto meno il
comportamento, e poteva essere scambiata per una studentessa come
tante,
tranquilla e che non se la tirava minimamente. Dopotutto era una
ragazza con
cui si poteva parlare e Dana fu contenta di sentirla.
“Ehi!
Bene! E
tu?”
“Hai
trovato
qualche reperto archeologico seppellito nel giardino della topaia dei
Carnarvon
o ti basta mio cugino?”
Dana
scoppiò a
ridere: Sarah prendeva in giro Julius, la villa e la famiglia da quando
aveva
il lume della ragione. “Non ho cercato, a dire il
vero…”
Sarah
sbuffò:
“Ma anche se cerchi, dove diavolo pensi di trovarlo un altro
fossile come lui?
Mettilo in vetrinetta sennò prende polvere,
eh…”
L’idea
di
spolverare Julius e metterlo in vetrina era piuttosto ridicola e Dana
non
riusciva a smettere di ridere: “Dai, basta, mi vuoi far
morire dal ridere… a
cosa devo l’onore della tua telefonata?”
“Vorrei
invitarti
ad un addio al nubilato di una mia amica.”
Dana
ritornò
verso il salotto e si risedette sul divano: “La
conosco?”
“No,
ma che ti
importa?”
“Mah,
così, non
so… devo chiedere a…”
Sarah
la
interruppe subito: “A chi, al fossile? Ma per
favore… O vi siete fidanzati nel
frattempo, ti ha rinchiuso in una tomba egizia
e non lo so?”
Dana
disse, in
un soffio: “No, macchè
fidanzati…”
“E
allora non
devi chiedere a nessuno, dai. Ti passo a prendere dopodomani in
mattinata e
andiamo a Londra…”
“Londra?”
“Sì,
sì.
Abbiamo preparato alla futura sposa una cena come si deve in un locale
di Soho
con contorno di spogliarellisti muscolosi e forse anche un
po’ gay! Ci
divertiremo da pazze, vedrai… E prima della cena andiamo
anche ad un concerto…”
Dana
aggrottò
le sopracciglia, incuriosita: “Che concerto?”
“Sorpresa.
La
futura sposa adora questo gruppo e le facciamo una sorpresa.”
MUSICA?
Gruppo? Che gruppo? “Mi dici il nome?”
“Uhm…
non è
che me lo ricordo, sai… l’avevo scritto anche qui
ma… dove avrò buttato il
foglio… boh… comunque è alla Brixton
Academy, sabato sera alle nove. Ho già
cinque biglietti, anche per entrare alla festa che
c’è dopo il concerto, in un
locale lì vicino. E, mi raccomando, vèstiti di
bianco…”
“Di
bianco?”
“Sì.
E se puoi
anche in stile anni trenta…”
Beh,
certo. Ne
aveva giusto un guardaroba intero di abiti bianchi in stile
‘anni trenta’: “Ma
è una festa in maschera?”
Dana
si
immaginò Sarah che faceva spallucce: “Boh, non
so… è una cosa così, che ne
so…
Comunque per il vestito chiedi alla tua futura suocera, vedrai che ha
sicuramente qualcosa… o ti fai comperare un vestito
dall’essere in via
d’estinzione…”
Sì,
come no?
La madre di Julius ne aveva sicuramente qualche esemplare, di vestiti
del
genere, magari ereditati dalla nonna. E, no, a Julius non era il caso
di
chiedere niente. “OK, dai.”
“Bene
allora.
A sabato! Ciao, carissima, e salutami tutta la famiglia Addams con cui
vivi!”
Dana
salutò a
sua volta sghignazzando e riprendendo il libro in mano.
Sì,
forse le
serviva farsi un giro lontano da lì, frequentare un
po’ di gente diversa, delle
ragazze divertenti, fare un po’ di casino, andare ad un
concerto, divertirsi un
pochino. Ne aveva bisogno, dopo sei mesi passati a studiare e a
rimuginare sul
suo malessere. Magari era soltanto stanca e uno stacco di un paio di
giorni da
tutto poteva servirle a ricaricare le pile. O a farle vedere le cose in
un
altro modo.
Dana
sospirò
per l’ennesima volta e si stiracchiò, sbadigliando
e chiudendo gli occhi, ma,
nel buio che trovò dentro la sua mente, l’unica
cosa che vide fu il sorriso di
Tomo.
Aprì
gli occhi
di scatto, sobbalzando…
Eppure…
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Capitolo 18 *** Capitolo 18 ***
DEL
COME TOMO CAPISCE CHE LA FILOSOFIA DEGLI
UOMINI SULLE DONNE E’ VAGA, OPINABILE, PERSONALIZZABILE,
IDEALE, INESISTENTE...
Dalla
finestra
della sala da pranzo del Grand Hotel, Tomo fissava, quasi senza
vederlo, il
magnifico Tower Bridge di Londra che svettava maestoso sopra il Tamigi.
Erano
le otto del mattino di un sabato di novembre e l’uomo
aspettava pazientemente
che arrivassero gli altri suoi colleghi dei 30 Seconds To Mars per la
colazione
e nel frattempo si godeva l’immagine di quella Londra
novembrina, caliginosa e
sfocata, sospesa ed immobile solo come poteva essere quella
città.
Era
soltanto dalla
sera prima che i 30 Seconds To Mars erano a Londra, provenienti da Los
Angeles,
e, sia a causa di una trasmissione TV dell’ultima ora che di
un ritardo
consistente dell’aereo, erano arrivati sul tardi in albergo e
si erano subito
fiondati a letto, certi che quel loro primo giorno in Europa sarebbe
stato un
dì davvero pesante, che sarebbe iniziato alle dieci del
mattino con
un’intervista radiofonica, sarebbe terminato in tarda nottata
con un gran party
successivo al concerto e sarebbe proseguito tutto il giorno con altre
interviste a radio e TV, foto, prelistening, soundcheck, trucco,
concerto e
preparativi vari. Il tutto con un bel jet lag sulle spalle. Insomma,
una gran
faticata.
Tomo
sospirò,
stiracchiandosi e sbadigliando, si spostò dalla finestra e
si sedette al tavolo
a loro assegnato: vabbé, era così, non
c’era nulla da fare. Era il suo lavoro e,
fatti i debiti conti, stava andando tutto bene: nell’ultimo
anno avevano
lavorato un sacco e nessuno si era risparmiato. Jared aveva disegnato
una
copertina superba, le foto dell’edizione del CD con il book
interno le aveva
fatte Shannon, Tim aveva selezionato dei gruppi di apertura fantastici,
Emma si
era fatta in quattro ed era più magra del solito, lui aveva
fatto la sua parte,
così come il produttore e tutti i loro collaboratori. Come
risultato
dell’impegno di tutto il gruppo e dello staff, il nuovo CD
vendeva benissimo,
la tournee segnava già alcune tappe soldout e forse, grazie
al lavoro dei loro
bravi avvocati, c’erano anche delle speranze che la causa con
la EMI fosse
sul punto di risolversi a loro favore.
Insomma,
era
tutto perfetto…
Eppure…
Mentre
Tomo
fissava i quadri appesi alle pareti e li classificava come delle
perfette
croste comperate a Portobello, il primo ad arrivare nella saletta, in
cui il loro
tavolo era già pronto con ogni bendiddio per la colazione
internazionale, fu
Shannon, in una inverosimile camicia a quadretti azzurrina (che
assomigliava
prepotentemente alle tovaglie del ristorante dei genitori di Tomo) con il solito blackberry
in mano, pantaloni
della tuta spiegazzati, capelli ritti in testa e scarpe da ginnastica
usate però
a mo’ di ciabatte.
“’Giornooo…”, gli disse,
trattenendo uno sbadiglio.
“Ciao,
Shan.”
“Ciao.
Dormito
bene?”
Tomo
fece una
specie di smorfia, spostandosi i capelli dagli occhi:
“Insomma…”
Shannon
si
sedette subito a tavola, dirimpetto a Tomo, e si stiracchiò,
fissandolo in
viso: “Che c’è? Sei agitato per
stasera?”
“Un
po’… E
tu?”
Il
batterista
inarcò le sopracciglia: “Beh…
è il primo concerto con i pezzi del nuovo album,
il primo della tournè mondiale, il primo dopo tanto
tempo… direi che non è
proprio da sottovalutare come grado di emozione…”
Tomo
si versò
un bicchiere di succo e cominciò a sorseggiarlo:
“Eh già…”
A
Shannon
sembrò che Tomo stesse rispondendo superficialmente e
automaticamente, ma che
in realtà stesse pensando ad altro. E aveva anche una mezza
idea di chi
albergava nei pensieri di Tomo.
Dana.
Non
ne avevano
mai parlato, di Dana: Shannon aveva preferito aspettare che fosse Tomo
a dire
qualcosa, ma il chitarrista non aveva fatto parola con nessuno di
quanto
successo, se non superficialmente. Si era limitato a chiudersi in
sé stesso,
lasciando intendere l’accaduto. Aveva continuato il lavoro
che gli era stato
assegnato, aveva fatto tutto per benino (forse o soprattutto per avere
la mente
occupata), ma di lei non aveva mai parlato. Forse, dopo sei mesi di
questo
atteggiamento, era giunto il momento di intavolare il discorso,
pensò Shannon,
a cui mancava il Tomo spensierato e fanciullesco di prima. Allora,
quasi
bruscamente, gli disse: “E’ davvero per il
concerto, o non hai dormito perchè
stai pensando ancora a quella là?”
Tomo
scosse
subito la testa e, un po’ troppo velocemente, rispose,
appoggiando il
bicchiere: “No.”
Il
batterista
scoppiò a ridere: era risaputo che Tomo non sapeva mentire,
era troppo
trasparente e sincero, un libro aperto. “Sì,
invece.”
Il
ragazzo
arrossì sotto lo sguardo indagatore di Shannon:
“Un po’… E’ che…
siamo in
Inghilterra… e lei è qui… da qualche
parte e… magari… magari mi
pensa…”,
concluse, sottovoce.
Shannon
scoppiò a ridere nuovamente: “Ma
va’… sarà dentro il letto dello
scopritore di
mummie che fa la zoccola…”
Tomo
si
inalberò: “Non ti permetto di parlare
così di lei.”
“Parlo
di lei
come voglio, invece e…”, Shannon si interruppe
subito quando vide che il viso
di Tomo si era rabbuiato e il ragazzo aveva messo le braccia conserte,
come per
mantenere le distanze. Non voleva litigarci, ma essergli di aiuto, in
fondo.
“Tomo, ascolta… Era da tanto che volevo dirtelo.
Non hai perso niente. Niente,
capito? Dana non era niente e non è il caso che ci stai male
così da tanto,
solo perché ti ha lasciato …”
Tomo
sbuffò: “SOLO
perché mi ha lasciato? SOLO? Ma… ma sei mai stato
lasciato, tu?”
Shannon,
preso
in contropiede, si grattò la fronte perplesso:
“Uhm… Beh… cioè…
forse alle
elementari… ah sì, alle elementari
sì… una volta…”
“E
quindi sei
sempre tu che lasci?”
L’uomo
si alzò
per recuperare il cestino delle fette biscottate dall’altro
lato della tavola:
“Ehm… sì, mi sa di
sì…”
“Sei
uno di quelli
che le lascia su un letto sfatto di un albergo la mattina dopo, magari
piangenti? E senza rimorso?”
Shannon
si
fermò con il cestino a mezz’aria, un po’
sorpreso, chiedendosi com’era successo
che dovevano parlare di Tomo e invece stavano parlando di lui:
“Ehm… ma… beh…
la fai un po’ melodrammatica, da romanzo rosa, ma…
sì, è capitato e… embeh
allora?”
“Ma
non pensi
a cosa provano, quelle ragazze?”
“Ehm,
no.
Cioè… Cosa vuoi che provino? Io ho usato loro,
come loro hanno usato me, no?
Non è vero amore, no? E allora cosa importa?”
Shannon allargò le braccia.
Tomo
si girò
verso la finestra, un po’ scazzato: “Usare, usare,
usare… Ma che bel
verbo! E che bella
filosofia!
Complimenti, Shannon!”
Il
batterista
fece spallucce: “Beh… io non sono innamorato di
nessuna, non sono mai stato
innamorato e non lo sarò mai, quindi… una vale
l’altra e tutte non
valgono niente…”. Shannon si risedette di
scatto, nervosamente, e cominciò ad imburrare
abbondantemente e velocemente una
fetta biscottata, prima che arrivasse Jared ad impedirglielo con una
sfilza di
storie sul colesterolo alle stelle. Ma continuò il discorso:
“E poi non mi pare
che a te sia andata così bene: eri tanto innamorato, ma la
tua cara Dana se l’è
data a gambe levate senza nemmeno dirti perché. E quindi
è stata solo una
benemerita stronza e ricorda che, in fondo, le donne sono tutte
stronze. Finché
gli servi vai bene e poi non vai più bene. E allora io non
voglio andar loro
bene, non voglio che ottengano niente da me, non me ne frega un cazzo
di loro…”
Tomo
non era
convinto: “Macchè… Io a Dana non
servivo a niente, sarebbe andata avanti anche
senza di me, ed è proprio quello che ha fatto. Era lei che
mi serviva. Io avevo
bisogno di lei, del suo amore, del suo sostegno, della sua carica
e…”
Shannon
lo
interruppe, scuotendo la testa: “Sì, forse
è vero… a lei serviva di più
quell’altro…” Poi si morse la lingua
dopo averlo detto, ma ormai era troppo
tardi. Tentò di glissare: “Ehm…
Pazienza: ne troverai un’altra, di ragazza,
e…”
Tomo
scosse la
testa, abbattuto: “No.”
“Vabbè,
magari
non subito, sei scosso, ovviamente, ma te la devi far passare, mio
caro… Non ti
si può vedere così, posso dirlo?”
Tomo
rispose a
denti stretti: “Fai a meno di guardarmi…”
“Che
discorso
del cazzo…”
“Saranno
belli
i discorsi tuoi…”
Nel
mentre
Shannon e Tomo si guardavano in cagnesco attraverso il tavolo e
andavano avanti
con un botta e risposta assolutamente irriferibile, arrivò
anche Tim, in
maglietta nera, jeans ed infradito: “Ehi,
buongiorno… che succede?”
Shannon
rispose per primo, mentre spalmava uno strato di tre centimetri e mezzo
di
marmellata sulla sua fetta biscottata: “Succede che il
bambolotto qui è ancora
innamorato della chitarrista…”
Tim
non si
scompose un attimo, mentre si sedeva vicino a Tomo, ammucchiava davanti
a sé,
dentro il piatto, il novantanove percento dei panini dolci presenti sul
tavolo
e si accaparrava un vasetto di Nutella: “E allora?”
“E
allora ci
sta male…”
“E
allora?”
“E
allora non
dorme per pensarla...”
“E
allora?”
“E
allora mi
rompe il cazzo alle otto del mattino...”
“E
allora?”
“E
allora mi
avete già distrutto i sentimenti tutti e due, e se dici un
altro ‘e allora’
quei panini ti dico io dove te li metto…”
“E…
va bene.”
Tim cominciò a spalmare di buona lena i suoi panini,
guardò con la coda
dell’occhio Tomo, che si era messo sdegnosamente a leggere il
Times, con un
muso lungo un chilometro, e declamò, sperando che Shannon
non gli tirasse
dietro la caraffa del latte bollente: “Ma, Shan, lo sai che
il nostro Tomo è un
romantico, no? Che male c’è a pensare al grande
amore perduto, come fa lui?”
Shannon
ingoiò
mezza tazza di caffè in un colpo: “Può
pensarlo finchè gli pare, ma non è il
caso di starci male visto che il grande amore non esiste.”
Tim
non era
convinto di questa affermazione così definitiva:
“Il tuo magari no, ma il suo
magari era lei…”
Shannon
fece
spallucce: “Io non lo voglio manco se
esiste…”
“Beh,
Tomo lo
vuole…”
Tomo
intervenne nella conversazione, spuntando da dietro il giornale:
“Grazie Tim,
almeno tu mi capisci…”
Tim
addentò un
panino, l’occhio perso nella degustazione della Nutella:
“Beh, in realtà non so
se sia vero, però… cioè…
magari sì… cioè non so… e
chi lo sa…”, disse, a bocca
piena.
Jared,
in tuta
grigia e impercettibile come un fantasma, piombò come un
falco sulla fetta
biscottata imburrata e marmellatizzata che Shannon si preparava ad
addentare,
prendendogliela di mano e buttandola tra i rifiuti,
dicendo: “’Chi lo sa’ cosa?
Buongiorno a
tutti!”
Shannon
digrignò i denti: tutti stavano facendo di tutto per
rovinargli la colazione,
quella mattina. “Chi lo sa se esiste il grande
amore…”, disse, riassumendo
velocemente, ma in realtà dentro di sé aveva
tirato un bestemmione.
“Ma
cerrrrrrto
che esiste.” Disse subito Jared, sorridendo beato, di buon
umore. Tutti si
girarono a guardarlo: Tim con un panino per mano, Shannon con la tazza
del
caffè a mezz’aria (l’unica cosa che
ormai gli restava, per consolarsi) e Tomo
che aveva abbassato il giornale, mentre l’uomo si sedeva
vicino a Shannon.
“Di
chi stai
parlando?”, chiese Leto Senior, a cui non risultava che suo
fratello si fosse
fidanzato, perlomeno non nelle ultime sette ore.
“Di
me!”,
disse subito Jared.
“E
chi è la
fortunata?”
“Che
fortunata?”
“Chi
è il tuo
grande amore? Cameron? Scarlett? Paris? Chi? Quale delle tue tante
sveltine?”
Jared
scosse
la testa, quasi disgustato: “E chi ha parlato di donne? Voi
avete detto il
‘grande amore’ e io vi dico che esiste
sicuramente.” Jared fece la sua solita
pausa ad effetto, mentre Shannon stava presagendo il peggio, e poi
affermò
convinto: “IO sono il grande amore!!!”, e
mettendosi le mani sul petto aggiunse
trionfante: “IO soltanto sono il grande amore di tutte le
Echelon! Tutti mi
amano!”
A
Tim andò per
traverso il panino e mentre Tomo, mollato il giornale, gli diceva
‘guarda-l-uccellino-guarda-l-uccellino’ e gli dava
dei colpi sulla schiena per
farlo riprendere e Shannon approfittava del parapiglia per ficcarsi in
tasca
una mezza dozzina di mini-panetti di burro, arrivò anche
Emma che, in uno
strano tailleur blu da donna in carriera e senza nemmeno salutare,
cominciò a
recitare la lista dei miliardi di cose che dovevano fare quel giorno,
come se
dettasse i dieci comandamenti a Mosè.
Tomo
però non
l’ascoltò che pochi istanti e poi girò
la testa di nuovo verso il panorama:
c’era un debole sole, ora, il Tamigi aveva cambiato colore ed
una brezza
leggera entrava dalla finestra. L’uomo aspirò
avidamente l’aria fresca e chiuse
gli occhi, riaprendoli di scatto, perché la sua mente
contorta gli aveva
riportato di colpo l’immagine della sua amata Dana. Eppure...
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Capitolo 19 *** Capitolo 19 ***
DEL
COME EMMA SCOPRE CHE UCCIDEREBBE
VOLENTIERI DUE STILISTI ITALIANI, SHANNON SCOPRE CHE VUOLE CAMBIARE
LAVORO E DANA
SCOPRE CHE JULIA E’ UNA BASTARDA TRADITRICE…
Dana
si
osservava allo specchio della camera da letto
nell’appartamento londinese di
Elisabeth, la futura sposa, e non poteva davvero credere ai propri
occhi: il
vestito preso in prestito dalla madre di Julius, bianco con tutte
frange e paillettes,
senza maniche e lungo fino a metà polpaccio, con una
scollatura sobria e in
stile anni trenta, le stava davvero alla perfezione, come se lo
avessero
confezionato per lei settant’anni prima. Un salto al
mercatino di Portobello
con Sarah, le aveva consentito di trovare delle scarpe bianche di
vernice con
il tacco a rocchetto che erano il non plus ultra per quel vestito.
Aveva anche
pescato tra le bancarelle una borsetta bianca, sempre con le paillettes,
fatta a sacchetto da portare al polso, una collana lunghissima di perle
(finte)
da annodare al collo, un paio di guanti bianchi di seta lunghi oltre il
gomito
e una fascia bianca di pizzo da mettere attorno alla testa con tanto di
piuma
svolazzante!
Insomma:
sembrava che il tutto aspettasse solo lei. Completato da un trucco
piuttosto
accentuato e capelli raccolti dietro sulla nuca in una cascata di
riccioli, il
travestimento da charleston era praticamente perfetto.
Anche
Sarah
(testimone della sposa numero uno, abito bianco lungo di seta,
pelliccia corta
nera, parure di brillanti VERI), Judith (testimone della sposa numero
due,
vestito nero con paillettes,
magrissima, alta, bionda
ed eterea), Dora (testimone della sposa numero tre, vestito bianco di
pizzo,
occhiali spessi, boa di struzzo bianco) ed Elisabeth (vestito nero con
pizzi e
frange, parure di perle di fiume, emozionata da morire a tre giorni
dalle nozze
o forse non per quelle) erano a dir poco perfette nei loro abiti rubati
alle
madri e alle nonne, e il quintetto, alle sette di sera di quello stesso
sabato,
prese un taxi e si avviò al numero 211 della Stockwell Road,
destinazione
Brixton Carling Academy.
Dana
era
contenta di quella bella compagnia, era rilassata e sorridente e anche
un po’
incuriosita: nessuna delle ragazze le aveva ancora detto di che gruppo
in
concerto si trattasse e la possibilità di vedere almeno la
locandina dello
spettacolo, appesa su una delle colonne del padiglione a semicerchio
della
parte anteriore della Brixton, andò in fumo quando il taxi,
su indicazione di
Sarah, si fermò a metà della Stockwell Road,
cioè la via laterale che
costeggiava la
Academy
sulla sinistra, e da cui non si vedeva per niente l’entrata
del teatro.
Sarah
pagò il
taxi e tutte le ragazze scesero, guardandosi intorno, un po’
perplesse. Dora e
Judith, con un foulard di seta, avevano bendato Elisabeth, che faceva
finta di
non sapere dove stavano andando, e lo strano gruppetto, con sorpresa di
Dana,
non si diresse verso l’entrata principale, ma verso il retro
della Academy,
fermandosi, su ordine di Sarah, davanti ad una porta blu scrostata ed
assolutamente anonima.
“Ehm…
che
facciamo qui?” chiese subito Dana, un po’ in
apprensione, mentre i numerosi
passanti si giravano a guardarle incuriositi.
“Non
ti
preoccupare. Ora vedrai…”. Sarah avevo uno strano
sorriso astuto.
Elisabeth,
da
sotto la benda, entrò subito in agitazione, da buona
echelon: “Ehm… Ma dovremmo
metterci in fila per entrare, no? Sono le sette e
mezza…”
“No.
Niente
fila. Fidatevi.” Miss Carnarvon prese il telefonino dalla
borsa e fece un
numero. “Sì. Siamo qui, Ed. OK. Grazie.”
Dopo
un paio
di minuti, la porta si aprì lentamente ed un ragazzo
biondino con i capelli
lisci e gli occhiali fece capolino, guardando sospettoso la gente che
si
muoveva sul marciapiede davanti. Si rilassò soltanto quando
riconobbe Sarah.
“Ehi, cugina!”, le disse, “Quasi non ti
riconoscevo vestita così! Vieni,
vieni…”
Sarah,
facendo
velocemente le presentazioni e indicando il ragazzo come il suo cugino
preferito (al contrario di Julius), si avviò verso la porta
facendo segno alle
altre di seguirla e, con sorpresa, le cinque ragazze si ritrovarono
all’interno
della Brixton Academy, entrate da una vecchia porta di servizio ormai
in
disuso! Da non credere!
Elisabeth
gridò di gioia, nonostante fosse bendata, ed il cugino Ed
rinchiuse con
catenacci e chiave la porta dietro di loro.
Un
corridoio
illuminato e deserto portava verso il palco e i camerini, direttamente,
ma il
gruppo, capitanato da Ed, salì una scala polverosa subito
sulla destra. “Il
posto che ho pensato per voi è quello in alto sulla sinistra
se guardiamo il
palco.”, diceva Ed, mentre le accompagnava per altri corridoi
e scale semibuie.
“E` una specie di piccola loggia da cui potete vedere
dall’alto. Non viene
quasi mai usata, perché è praticamente
irraggiungibile, come potete notare, ma
si vede benissimo. Sono solo sei posti, è piccola e quindi
non è in vendita.
Diciamo che è privata. Serve ogni tanto ai registi degli
spettacoli per
controllare che tutto vada bene, non stasera però.”
Sarah
estrasse
dalla borsa i cinque biglietti: “Grazie Ed, ecco i biglietti,
comunque…”
Ed,
il
tuttofare della Brixton, li prese, ne strappò la matrice e
li restituì alla
cugina. Poi le diede anche cinque braccialetti di plastica bianchi da
fissare
al polso per entrare alla festa, mentre arrivavano nei pressi di una
porta
marrone di legno tutta lavorata: “Ecco qui. Quando
è finito il concerto vengo a
prendervi io e vi riporto giù, altrimenti non vorrei che vi
perdeste per il
teatro, perché sapete che ogni teatro ha un suo
fantasma…”, concluse,
ammiccando e aprendo l’uscio.
Judith
e Dora
si misero a sghignazzare nervosamente, mentre Sarah toglieva la benda
ad una
fremente Elisabeth e la spingeva dentro per la porta aperta.
Mentre
Ed le
salutava e se ne andava, anche Dana entrò nel palco, per
ultima, e l’immagine
che subito ne ricavò fu tale da lasciarla senza fiato. Per
un attimo non
credette ai propri occhi: vista dalla parte alta, l’interno
della Brixton era
splendido, luci e colori impressionanti. Dana prese posto su una delle
poche
sedie e si affacciò a guardare giù, incantata. Le
sembrava di stare in cielo,
tanto la loggia era alta, ma la vista era perfetta: il palco, dove
c’erano gli
strumenti già disposti per il gruppo di appoggio, nonostante
l’altezza sembrava
vicinissimo e, anche se la loro loggia era da un lato, lo stage si
poteva
vedeva in tutte le sue dimensioni. Dana valutò subito la
strumentazione
presente, con occhio critico, ma, dagli strumenti, non riusciva ancora
ad
immaginarsi chi poteva essere il gruppo.
Poi
spostò gli
occhi sulla gente: una folla spumeggiante premeva sotto il palco e Dana
vedeva
che i colori dei vestiti delle persone erano prevalentemente bianchi e
neri, proprio
come i loro. Qualche bandiera appesa o issata, con rose, simboli
strani, teschi
e croci disegnate, ma nomi Dana non ne vedeva. Non riusciva a scorgere
cosa
fosse scritto nelle bandiere appese sul palco rialzato centrale sotto
di loro e
non capiva il perché di quel simbolismo che non conosceva.
A
questo punto
la ragazza era proprio curiosa: chi era il gruppo che poteva riempire la Brixton
in ogni ordine e
grado di una folla in così fremente attesa?
£££££££
“Sono
arrivati! Sono arrivati!”. Emma, spalancando la porta di
scatto, si catapultò
dentro il camerino dei 30 Seconds To Mars tirandosi dietro un codazzo
costituito da due costumiste, tre truccatrici, due parrucchieri e un
visagista.
Jared e Tim erano seduti sul divano nel centro della stanza: il primo
con un
libro in mano e il secondo che giochicchiava con il Nintendo-DS.
Shannon
picchiettava su un muro con le bacchette, le cuffiette
dell’Ipod negli orecchi,
e Tomo guardava dalla finestra, dietro le tende, la gente che si
assiepava tra
le transenne lungo la Astoria Walk per poter
entrare in teatro, ormai al buio.
Tutti si girarono a guardare l’indemoniata della loro
segretaria, che non la
smetteva di essere particolarmente indignata. “Sono arrivati!
Oddio! Stavolta
quei due babbei me la pagano, cazzo!”, ripeteva.
Emma
era
agitata sin dal primo mattino, quando aveva saputo che i completi dei
suoi
quattro musicisti erano smarriti chissà dove e non si sapeva
se sarebbero
arrivati in tempo per il concerto. Quattro abiti Dolce e Gabbana, tre
neri e
uno bianco, completi di camicie e cravatte, di un costo esorbitante, di
una
bellezza incredibile, fatti confezionare apposta per
quell’evento, persi chissà
dove e chissà per quanto??!?!?!
Emma
era
andata su tutte le furie, aveva preso il telefono e aveva minacciato i
due
stilisti italiani in tutti i modi, dall’azione legale alla
tortura fisica, e
alla fine, a meno di un’ora dal concerto, fortunatamente o
fortunosamente, i
completi erano arrivati, dopo essere stati bloccati in aeroporto per un
tutta
la mattina e senza un motivo apparente.
Emma
cominciò
a dirigere subito il traffico all’interno del camerino che,
per fortuna, era
sufficientemente grande per contenere tutta quella folla.
“Allora, ecco qui…”.
Si mise ad analizzare i vari pacchi tenuti in mano dai suoi
accompagnatori,
cominciando a scartare quelli lunghi degli abiti, assistita dalle
costumiste.
“Dunque… completo bianco, camicia e cravatta
bianca… E’ quello di… Jared.”
L’uomo si alzò dal divano, prese l’abito
e si avviò dentro il bagno senza dire
una parola, sapendo che, quando Emma era così, non
c’era da discutere ma solo
da ubbidire, anche perché era dannatamente tardi.
Mentre
le
truccatrici cominciavano a sistemare le loro borse del trucco,
accendere le
luci e predisporre le sedie davanti agli specchi, e uno dei
parrucchieri
scaldava la piastra per lisciare i capelli, Emma continuò:
“Questo… uhm…
completo nero, camicia bianca e cravatta nera…
é… Tim.”
Il ragazzo balzò dal divano dicendo un
“YUPPIE!!!” decisamente convinto: QUELLO era il
momento che aspettava da anni,
la sua definitiva e certa consacrazione a membro della band! Prese
l’abito come
se si trattasse di una vestizione papale e si avviò di corsa
nel secondo bagno,
grato alla sua buona stella e anche a Tomo.
Nel
mentre
Jared, vestitosi di bianco in un batter di ciglia, usciva dal bagno e
si
piazzava subito sulla poltrona per il trucco, Emma sistemò
anche Shannon:
“Completo nero, camicia e cravatta nera. Ecco a
te…” L’uomo prese il tutto di
malavoglia:
aveva gufato tutto il giorno perché gli abiti non
arrivassero e per poter
suonare soltanto in bermuda e canottiera, ma ancora il malocchio non
gli veniva
completo, a quanto pareva. Prese gli indumenti e si avviò
pure lui al suo
destino, giurando a sé stesso che si sarebbe trovato presto
un altro posto in
un gruppo Death Metal, uomini duri e veri e soprattutto senza orpelli.
Tomo
era
ancora alla finestra: “Tomo, vieni…” gli
disse Emma, dolcemente. “Ecco il tuo:
quello nero, come quello di Tim.” Il ragazzo le si
avvicinò e lo prese:
“Grazie, Emma.”
“Di
nulla.”
Poi, notata l’espressione poco convinta del chitarrista:
“Che c’è, Tomo?”
Il
ragazzo
scosse la testa: “Niente, niente…”
Emma
sapeva
della storia di Dana quello che sapevano tutto, cioè quasi
niente, però aveva
notato che Tomo era rimasto tutto il giorno piuttosto cupo, triste e in
disparte. Ma lasciò perdere il discorso, ormai non
c’era più tempo per dire
niente, né per raccogliere confidenze e/o dare consigli
amorosi. Forse solo per
un incoraggiamento. “OK. Qualsiasi cosa sia,
però…” Emma gli mise una mano
sulla spalla, sorridendo. “Stasera cerca di divertirti, OK?
E’ una grande
serata per i 30 Seconds…”
Tomo
rispose
al sorriso. “Hai ragione.”
E
mentre Jared
discuteva con il parrucchiere della corretta consistenza del gel per
tenergli
indietro i capelli e Tim e Shannon uscivano dai bagni (il primo
pavoneggiandosi
come se fosse sulla passerella di una sfilata di moda, il secondo
trascinando i
piedi come se fosse sulla via del patibolo), Tomo si avviò a
sua volta verso il
bagno, sospirando.
Doveva
concentrarsi sul concerto, si disse, era troppo importante per il
gruppo.
Non
poteva
pensare a lei.
Anzi,
NON
DOVEVA.
Era
finita.
Doveva
convincersi che era davvero finita tra loro.
Doveva
mettere
la parola fine.
FINE.
E
basta.
Dana
non lo
aveva voluto.
Dana
non lo
voleva.
Dana
non lo
avrebbe MAI voluto.
Chiuso.
E
quella sera
alla festa magari ne avrebbe trovata un’altra, come aveva
detto Shannon, anche
migliore di Dana…
No,
migliore
no…
Diversa,
forse…
Si
sorrise
allo specchio del bagno per un attimo, sforzandosi. “Forza,
Tomo, ce la puoi
fare… ce la DEVI
fare… Coraggio…”, si disse. Poi si
passò le mani sul viso come a farsi una
carezza, come a voler scacciare i segni della tensione e
dell’amarezza, e
respirò profondamente… ma non riuscì a
convincersi del tutto.
£££££££
Dana
sedeva
sull’ultima delle cinque poltrone, quella laterale, con la
sua quasi-cugina Sarah
alla sua destra. Elisabeth era in centro, con le sue due damigelle
sempre alla
sua destra.
Sarah
sgranocchiava popcorn a tutto spiano, mentre le ladies non facevano che
parlare
della set list, presunta e/o voluta, e recitavano in continuazione
titoli di
canzoni che Dana non conosceva per niente
(A-beautiful-lie-the-kill-the-edge-of-the-earth-echelon-attack-artifact-kings-and-queens-Buddha-for-Mary-the-mission-hurricane…).
Ma l’atmosfera tutto sommato era piacevole e il gruppo spalla
non era niente
male, si disse Dana, appoggiata alla balaustra e battendo il piede per
terra a
tenere il ritmo. Una specie di alternative rock un po’
banalotto, forse, ma
suonato bene, che alle altre ragazze invece non piaceva.
“Sì-sì-bravetti…”
ammise ad un tratto Elisabeth, sbadigliando: “Ma niente in
confronto ai 30
Seconds to Mars… YUPPIEEEEEEEE!!!”
Dana
non capì
al primo colpo e mentalmente ripetè il nome:
3-0-S-E-C-O-N-D-S-T-O-M-A-R-S.
30 Seconds to Mars.
30 Seconds to Mars???
30
Seconds to
Mars!!!!!
La
ragazza balzò
dalla sedia, il cuore in gola, gli occhi spalancati: “CHI HAI
DETTO CHE
SONO?!?”
“I
30 Seconds
To Mars, conosci?” Sarah era serafica, come se stesse dicendo
la lista della
spesa.
“OCCAZZ…”
Dana
si trattenne per un pelo, risedendosi di peso, tentando di rimanere
calma.
“Perché?
Non
ti piacciono?”, chiese subito Elisabeth, sospettosa e anche
un po’ irritata.
Dana
arrossì
fino alla radice dei capelli, con la sudorazione a manetta e la
salivazione
azzerata: “Ehm… no…
ehm…” Le altre Ladies si girarono subito a
guardarla ad
occhi spalancati, quasi biasimandola con lo sguardo, in attesa di una
risposta.
Dana corresse immediatamente il tiro.
“Cioè… sì…
ehm… cioè… non so…
cioè… non
li ho mai ascoltati seriamente…”
“Beh,
adesso
sentirai che forzaaaaaaa!”, cominciò ad agitarsi
Elisabeth, ritornando a
fissare il palco, mentre Dana si chiedeva dove le fosse finito il cuore
che
sentiva battere ma non nel posto giusto, bensì dappertutto,
in ogni fibra del
suo essere. Elisabeth
intanto proseguiva
il suo monologo, l’occhio perso nel nulla: “E quel
Jared, che canta e suona la
chitarra così bene… ed è
così sexy… e così…
scapolo…”. Il conseguente sospiro
della ragazza, a mo’ di tornado, avrebbe potuto spegnere le
candeline di dieci
torte di compleanno una dietro l’altra.
“E
anche
Shannon… il batterista…”, intervenne di
rimando Judith, con gli occhi a cuore e
una leggera bava alla bocca. “Così bravo e anche
lui così… scapolo…”
Sarah
si mise
a ridere sommessamente, guardò Dana scuotendo la testa e a
bassa voce le disse:
“Ehm… fai finta di niente… hanno gli
ormoni in agitazione perenne per quei due
tizi là… non so cosa ci trovino…
Queste non capiscono più niente, ormai… le
abbiamo perse… encefalogramma piatto…
biiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiip…”
Dora
non
poteva averne di meno, di ormoni: “Anche a me piace
tanto-tanto-tanto Shannon…
mi piacerebbe tanto-tanto-tanto visitarlo perché lo vedo
tanto-tanto-tanto
pallido…”
Sarah
soffocò
una risata: “Faresti il dottorato su Shannon, eh,
Dora?”, le chiese,
prendendola in giro neppure troppo di nascosto, e Dora, neo laureata in
medicina, annuì convinta, sistemandosi gli occhiali sul
naso, rossa in viso e
cotta come una pera matura.
Dana
ritrovò
la voce: “Ehm… e gli altri?”, chiese,
sottovoce. Già che c’era, forse era il
caso di saperne un po’ di più, dei componenti di
quel gruppo. Di uno in
particolare, magari, di cui non sapeva più nulla da tempo.
Elisabeth
si
piazzò subito in cattedra, desiderosa di dare una
dimostrazione delle sue profonde
conoscenze ‘marziane’: “Il bassista si
chiama Tim. Ha sostituito Matt Wachter
nel marzo del 2007. E’ stato
fatto da
poco membro ufficiale, prima suonava con i My Darling Murder, ma si
sono
sciolti nel 2006. E’ fidanzato da anni con una ragazza di
nome Brittany. Invece
Tomo…”
Dana
trattenne
il fiato senza volerlo e, per la prima volta, una strana punta di
gelosia le
pizzicò il cuore. “E’…
è fidanzato anche lui?”, chiese, quasi senza
volerlo.
Elisabeth
si
sistemò un ciuffo di capelli che le cadeva sulla fronte:
“Uhm… Ci sono strane
voci che girano…”
“Che
voci?”,
chiese Dana, tentando di fare l’indifferente.
“Beh,
si dice
che sei mesi fa, a Maggio, la sua ragazza lo abbia lasciato senza
dirgli niente
e sia scappata con un altro. Lui era stato lasciato dalla sua ragazza
precedente a Gennaio, quindi… nel giro di sei mesi
è stato lasciato due volte…
poverino… ma che cappero hanno queste ragazze nella zucca?
Come si può mollare
un tipo dolce come Tomo?”
Se
lo stava
chiedendo anche Dana.
Che
si stava
chiedendo anche come diavolo aveva fatto a ficcarsi in un pasticcio
come
quello…
£££££££
Tim
si guardò
allo specchio del camerino per l’ennesima volta e si
sistemò la cravatta che,
nonostante le estreme cure delle costumiste, a lui pendeva sempre un
po’ di
sbieco. Si infilò il suo guanto portafortuna alla mano
destra (che non c’entrava
niente con il completo che indossava, ma a cui lui non avrebbe mai
rinunciato),
si sistemò per bene il suo ciuffo appena lisciato davanti
agli occhi e si
preparò per uscire.
“Ehi,
fermo!”,
gli disse Jared, gli occhi truccati di nero e i capelli tirati indietro
con il
gel, bloccandolo sulla porta, “Non ti pare che manchi
qualcosa?”
“Oh,
no!”,
rispose Shannon alzandosi dal divano, dopo essersi annodato le scarpe,
e
battendosi una mano sulla fronte, le bacchette infilate in tasca e i
capelli
ritti in testa. “Ancora ‘sto cazzo di sangue finto?
Non possiamo lasciare che
se ne cospargano le echelon soltanto? Non possiamo limitarci a metterci
questa
cazzo di matita nera sugli occhi, farci fare un po’ i capelli
e basta?”
“No.
Nemmeno
per sogno.” Jared, convinto, se lo spruzzò sulla
camicia bianca lasciandolo
colare e poi se ne mise qualche ditata in faccia. Con la stessa mano,
sporcò
anche il viso di Shannon, sulla tempia, e quello di Tim, sulla fronte.
Al
bassista fece anche una impronta di mano insanguinata sulla camicia
bianca,
quasi artistica.
“Io
me lo
metto da solo.” Disse Tomo, prendendogli il tubetto dalla
mano e versandosene
un po’ sulla camicia, sulla sinistra, all’altezza
del cuore. “Qui.” Decretò,
con convinzione: “Che il sangue finto coli insieme a quello
vero.”
Tutti
rimasero
di sasso, quasi tramortiti da quella strana confessione di Tomo, tranne
lui,
che, guardandoli in uno strano modo,
si
mise a ridere: “Ehi, che c’è? Era una
battuta, eh…”
I
suoi tre
compagni si rilassarono, respirando forte e ridendo, un po’
troppo
nervosamente. Forse Tomo, a modo suo, stava guarendo dalla sua
ossessione per
Dana, pensò Shannon, certo di esserne l’autore,
vista la perfetta opera di
convinzione portata avanti quel mattino stesso.
“OK.”,
esclamò
Jared, contento che Tomo avesse messo via, almeno prima del concerto,
il muso
lungo che aveva tenuto tutto il giorno. “Sotto con le
maschere, ora… Rossa per
me, bianca per Shan, nera per Tim e Tomo.”
Shannon
trattenne a stento una bestemmia, mentre Jared gli metteva la maschera,
giurando a sé stesso che l’indomani avrebbe
scritto una lettera accorata ai
Korpiklaani per scongiurarli di prenderlo con loro anche solo come
suonatore di
triangolo.
£££££££
Erano
le nove
in punto.
Un
telo bianco
con una fenice rossa era stato calato una decina di minuti prima
davanti al
palco e Dana non vedeva più lo stage. Vedeva soltanto le
vaghe ombre della
gente che sistemava le apparecchiature e gli strumenti.
Sentiva
la
tensione della folla salire a poco a poco.
Perfino
le
ragazze sul palco con lei parlavano a bassa voce.
E,
anche se
non avrebbe voluto, pure Dana era in fibrillazione.
Forse
per
effetto dell’attesa che montava, o forse al pensiero di chi
doveva salire sul
palco.
Dana
voleva
scappare, ma voleva vedere Tomo.
Voleva
sentirlo suonare, ma era terrorizzata.
Voleva
nascondersi, ma voleva far parte di quella serata così
importante per lui.
Era
come se
avesse dovuto suonare lei. No. Era emozionata ancora di più.
Le tremavano le
mani, capiva per metà quello che le dicevano le ragazze,
aveva lo stomaco
contratto. Il tempo non passava mai.
Dana
era fuori
di sé.
Improvvisamente
le luci si spensero e nel teatro calò il buio. La gente
cominciò ad urlare, in
spasmodica attesa.
Una
luce rossa
spuntò in mezzo al telone bianco, nel centro della Fenice,
ed una musica cupa e
rimbombante cominciò a risuonare nel teatro. Dapprima Dana
non la riconobbe, ma
poi, all’udirne le parole, un lungo brivido le percorse la
schiena.
“O Fortuna
velut luna
statu variabilis,
semper crescis,
aut decrescis
vita detestabilis…”
Carmina
Burana!
Dana
smise di
respirare.
La
luce rossa
cominciò lentamente a spostarsi: illuminò uno
dopo l’altro i quattro simboli
attorno al corpo della fenice, poi si spostò sulle ali,
illuminò il cerchio
esterno, nella parte inferiore, con il motto del gruppo, poi la parte
superiore
con il nome. Infine si allargò ad illuminare tutto il
gigantesco logo e il
fatto che il telone si muovesse per l’effetto casuale delle
correnti d’aria
interne al teatro, faceva sì che la fenice sembrasse
prendere il volo da un
momento all’altro.
Un
brivido le
corse lungo la schiena.
Erano
delle
visioni fantastiche ed emozionanti.
Così
suggestive che Dana faticava a staccare gli occhi, evitava quasi di
sbattere
per ciglia per non perdere nemmeno un millesimo di secondo.
Specialmente verso
la fine del pezzo, quando, in sincrono con la musica, le luci si
accesero
dietro al telone e, per un momento, le ombre di quattro musicisti
apparvero.
Poi
una intro
di batteria spaccò il silenzio.
“THE
BATTLE OF
ONE!” gridarono le Ladies, e Dana vide l’ombra di
un uomo che suonava la
batteria. Doveva essere Shannon, quel famoso Shannon Leto che le pagava
le
lezioni di chitarra di Tomo.
I
giochi di
luce sul telone e sul palco continuavano e Dana vide altre tre persone
sullo
stage, ma i loro visi sembravano in qualche modo deformati. La batteria
suonò
per tre volte lo stesso fraseggio, mentre due chitarre erano entrate a
costruire una lieve melodia sonora.
Poi,
su un
deciso colpo di piatto, il telone cadde, la folla urlò e
Dana cercò immediatamente
di vedere Tomo. Ma non riusciva a capire quale fosse, perché
tutti i musicisti
erano mascherati. Guardò subito a destra del palco ma il
ragazzo alto e magro,
scuro di capelli, con la maschera nera e vestito di nero, suonava un
basso.
Quello doveva essere Tim.
Spostò
lo
sguardo al centro, ma l’uomo con la maschera rossa, subito
gettata via per
cantare al microfono, vestito di bianco e con una strana chitarra nera,
era
sicuramente Jared.
Non
rimaneva
che l’ultimo.
Dana
spostò
lentamente lo sguardo sulla sinistra.
E
rimase a
bocca aperta.
Eccolo!
Era
lui!
Era
il suo
Tomo.
Vestito
di
nero, maschera nera.
Con
la
Gibson Les Paul nera…
No.
Con
una
chitarra bianca.
Dana
spalancò
gli occhi, sorpresa.
Chitarra
bianca?!?
Ibanez
bianca.
Con
un quadrifoglio
rosso attaccato vicino al ponte delle corde.
Il
cuore di
Dana perse un colpo.
QUELLA
CHITARRA ERA LA SUA IBANEZ!
Dana
gettò un
grido, cui nessuno,
per fortuna, fece
caso.
MALEDETTA
JANE! O benedetta? Ma perché l’aveva fatto?
Perché l’aveva data a Tomo? Dana
era fuori di sé, non credeva ai propri occhi.Non sapeva se
essere adirata o in
qualche modo lieta che il suo adorato strumento fosse finito a qualcuno
che le
aveva voluto bene.
E
a cui lei
ora, improvvisamente, scopriva di volere in qualche modo bene a sua
volta.
Sentiva
di
apprezzare.
Forse
di
amare.
O
forse no.
Era
in preda
ad emozioni che non riusciva ad identificare, non sapeva dire cosa
provava per
Tomo in quel momento.
Tutto
e
niente.
Riprese
a
fissare il ragazzo che suonava la sua Ibanez: Tomo suonava benissimo,
teneva il
tempo, era sicuro di sé, si muoveva su e giù per
il palco, era bellissimo
vestito di nero, molto sexy, era splendido. Dana non l’aveva
mai visto così e
non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Per un momento le venne
in mente
che forse aveva avuto tra le mani un diamante e non se n’era
resa conto.
Ad
un tratto
si accorse che la canzone stava per finire.
Tomo
eseguì
l’ultimo accordo, poi tolse le mani dalle corde, si
levò velocemente la
maschera e la fece volare verso il pubblico, con un urlo quasi
rabbioso, quindi
gettò via anche il plettro, sollevò la chitarra
verso il teatro e la baciò.
Dana
sobbalzò.
Non
poteva
essere.
Quel
bacio era
rivolto a lei, ne era certa.
Era
un tributo
per Dana.
Un
grazie.
Forse.
Oppure
un
addio?
O
anche un
vaffanculo.
Una
presa in
giro.
Cosa?
Dana
non
sapeva rispondere ma, qualsiasi cosa fosse, si rese conto che Tomo non
l’aveva
scordata.
Purtroppo
per
lui.
P.S. Dedico questo capitolo a
Jcp, appena aggiunta
alla lista delle appassionate di ff. E al solito ringrazio le mie beta
readers
(che mi hanno dato delle dritte sulla Brixton Academy visto che loro ci
sono
state…) e tutte le persone che recensiscono:
‘Without you, I’m
nothing’…
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Capitolo 20 *** Capitolo 20 ***
DEL COME DANA TENTA LA FUGA, MA VIENE BLOCCATA DA DUE 007 DA MANUALE E
DEL COME I LETO SCOPRONO CHE LE LADIES-ECHELON NON SONO PERSONAGGI DA
SOTTOVALUTARE...
Dana
non ne
poteva più di quel dannato party post concerto in quel
locale di lusso, pieno
di gente e casino: cercava di mimetizzarsi nell’ombra, dietro
una pianta,
vicino a una tenda, sotto ad un tavolo, tra due porte accostate, ma
ogni volta
che trovava un nascondiglio perfetto, arrivava Elisabeth a cercarla per
portarla ‘a caccia dei Leto’, dispersi
chissà dove per il salone.
Le
Ladies,
decisamente alticce (a parte Sarah), nel bel mezzo di un addio al
nubilato, le
avevano anche artigliato il polso con un bracciale bianco di plastica
troppo
stretto e poi avevano anche tentato di imbrattarla di sangue finto, per
amore
del Blood Ball e dei 30 Seconds to Mars, ma Dana si era rifiutata, con
la scusa
che doveva restituire l’indumento intonso alla madre di
Julius.
Ed
erano due
ore che quattro ragazze insanguinate la trascinavano di qua e di
là, prima per
il teatro e poi per la festa, ma Dana aveva soltanto voglia di
scappare,
rinchiudersi da qualche parte e stare da sola: non se la sentiva di
incontrare
Tomo. Non dopo quello che aveva visto in lui durante il concerto: un
uomo
ancora preso per lei e che non le era più indifferente,
anzi. Dana non avrebbe
saputo cosa dirgli, ad incontrarlo, né come avrebbe reagito
davanti ai suoi
occhi scuri, a quel sorriso che si era accorta che le era mancato per
sei mesi.
Lo
voleva, ma
non poteva, doveva restare a tutti i costi nella vita che si era
scelta.
Doveva
cancellare
Tomo ed il suo viso per sempre, mettersi il cuore in pace.
Tomo
sarebbe
sopravvissuto, come fanno tutti, lentamente si sarebbe ripreso,
l’avrebbe
scordata, forse, anzi, sicuramente avrebbe trovato un’altra
donna e… basta.
Basta.
Dana
non
poteva fare niente, per lui.
Né
per sé.
Poteva
solo
andarsene, scappare il prima possibile, ritornare ad Oxford e
continuare la sua
insipida vita.
Ad
un certo punto,
la ragazza era talmente esasperata dal fatto di dover continuamente
guardarsi
le spalle nel terrore che arrivasse Tomo (che ancora non aveva visto
aggirarsi
per il salone affollato e che quindi poteva essere dappertutto) e la
sorprendesse lì, che decise di abbandonare per un
po’ il salone della festa.
Si
scusò con
le sue amiche e, piegata un po’ in avanti e con la borsetta
in faccia per
nascondersi, fece la cosa più sbagliata che poteva fare:
andare al bagno delle
signore ed incrociarsi nel corridoio che portava ai bagni
con… Tim!
Che
lei
ovviamente non riconobbe e che, bel bello ancora vestito con gli abiti
di scena,
usciva dal bagno degli uomini, che la fissò, si
bloccò al lato del corridoio
per lasciarla passare, fece 2+2=4, 4:2=2, 2x8=16, 16:3=5 resto 1,
ripassò la
tabellina del nove, recitò una poesia di Milton, si
grattò la testa perplesso,
ebbe un Deja-Vu e, alla fine, con un cortocircuito neuronale da paura,
si rese
conto che quella era FirstLeaf!
Correndo
come
una gazzella inseguita da un leone affamato nella savana africana, Tim
balzò
nel salone della festa insinuandosi tra la gente in cerca
di… in cerca di… in
cerca di non-sapeva-nemmeno-lui-di-chi, ma in cerca di aiuto,
sicuramente.
E
il primo che
vide fu Shannon che, imbrattato ancora di sangue finto e seguito da un
codazzo
di almeno quindici donne tutte sorridenti e tutte più alte
di lui, veleggiava
per il salone della festa, tronfio come un galeone spagnolo in alto
mare con il
vento in poppa. Tim, boccheggiante, gli si avventò davanti,
sui calli, tanto
che Shannon si spostò di scatto, quasi spaventato e
sicuramente seccato:
“TIM-CHE-CAZZO-FAI???”
Il
bassista
era senza fiato: “Pant pant… E’
qui!”
“Chi?”
“Pant
pant… In
bagno!”
“Chi?”
“Pant
pant…
Appena vista!!”
Shannon
si
stava scazzando: “MA CHI, PERDIO?”
“Pant
pant… LA
GNOCCA!!”
Shannon
gli
prese un braccio e lo scostò dal gruppo, abbassò
la voce e fece un sorriso da
uomo di mondo, alzando le sopracciglia: “Ehm…
Tim… ehm… qui è pieno di gnocche,
mi pare, ne ho giusto una ventina alle calcagna da mezz’ora e
ho una tasca
zeppa di numeri di telefono… e se TU non te ne sei ancora
accorto, vuol dire
che non stai bene… Cosa e, soprattutto, QUANTO hai
bevuto?”
“Ma
no… è la
cosa… quella là…”
“La
‘cosa’
CHI?”
“La FirstDana…
ehm… la
LeafClover… ehm… la FirstClover…
ehm… la
FourFirst… ehm… la
chitarrista…
ehm… come diavolo si chiamava… insomma, la
ragazza di Tomo, CAZZO!!”
Shannon
spalancò gli occhi: “COSAAAAA???”
“E’
lei, sono
sicuro.”
“Sei
sicuro?”
“Sì.”
“Sicuro-sicuro?”
“Sì!
Al mille
percento!”
“E
Tomo lo
sa?”
“Non
penso…”
“E
allora
dobbiamo dirglielo. Dov’è adesso, la
ragazza?”
“E’
appena
entrata in bagno…”
Nel
frattempo
Jared, dall’altra parte della sala, guardava sospettoso Tim e
Shannon che
confabulavano in quello strano modo.
Quasi li invidiava, essendo impegolato in una discussione con una tizia
sul
perché avesse scelto la rosa come simbolo
del secondo album e la tizia ci metteva ragioni
mistiche/esoteriche/ilnomedellarosa/ilcodicedavinci
che non c’entravano una benemerita fava. Jared si
scusò con lei con un finto
sorriso di cortesia e si avviò verso i suoi due colleghi,
arrivando loro vicino
proprio mentre Tim diceva la parola ‘bagno’.
“Che bagno?” chiese immediatamente,
curioso.
Ma
nessuno dei
due gli rispose, anzi.
“TU...”
Gli
disse subito Shannon, puntandogli il dito in faccia, in modo risoluto.
“Vai a
cercare Tomo e poi portalo in bagno. E TU…”
Shannon spostò il dito sulla faccia
di Tim: “Vieni con me. E VOI…” Shannon
si girò verso le ragazze che lo
seguivano adoranti: “Ferme qui, torno tra un
attimo.”
Jared,
mentre
cercava di capire il motivo per cui doveva portare Tomo in bagno (a
fare cosa,
poi? La pipì come i bambini piccoli?), tentò di
ribattere: “Ma…”
Shannon
quasi
lo aggredì: “E muoviti che non abbiamo tanto
tempo, CAZZO!!!”
“Tempo
per
cosa?” Ma Shannon non rispose e si avviò a passo
di marcia verso i bagni con
Tim alle calcagna, entrambi con un’espressione ben poco
raccomandabile, stile
‘Missione Punitiva’.
Jared,
con lo
stuolo di ragazze insanguinate che ora si erano assiepate adoranti
intorno a
lui, altrettanto insanguinato e vestito ancora di bianco, si
guardò attorno e
in un attimo decise che doveva ritornare ad essere il tirannico despota
di
sempre. Da quando, lasciandosi convincere, aveva lasciato andare troppe
cose,
ora tutti lo trattavano come l’ultima mosca
sull’ultima cacca della compagnia,
specialmente suo fratello, che ora OSAVA anche dargli ordini. Jared
sbuffò: vabbè,
ci avrebbe pensato dopo ma una bella sommatoria di conti
l’avrebbe sicuramente
fatta con tutti quanti, nessuno escluso. Si scusò con un
sorriso anche con
quelle ragazze e si avviò a cercare Tomo, chiedendosi dove
diavolo potesse
essere finito.
Nel
frattempo,
Shannon e Tim, con passo felpato, tipo elefante in negozio di
cristalli, e
scivolando lungo il muro del corridoio, tipo spie dei film comici, si
erano
piazzati ai lati della porta del bagno delle donne, sperando che Dana
non fosse
già uscita e non si fosse prontamente dileguata.
Ma
la fortuna
era dalla loro parte.
Infatti
quando
Dana uscì, dieci lunghi minuti dopo, la ragazza
aprì lentamente la porta,
sbirciò fuori sospettosa, fece un passettino
all’esterno, giusto per trovarsi tra
Tim e Shannon che le intimarono: “FERMA QUI!”
Dana
gettò un
grido e tentò di scappare, ma i due uomini furono
più svelti e in un secondo la
bloccarono contro il muro.
Subito
Shannon, riconoscendola, le puntò un dito contro, come
faceva ormai in
automatico con tutti, quella sera: “Sei la ragazza di Tomo,
tu?”
Dana,
trattenendo una saracca, tentò la carta della gnorri:
“Di chi?”
“Non
fare la
finta tonta. Sei Dana chiamata anche FirstLeaf, giusto?”
Tim
interruppe
l’interrogatorio di Shannon, alzando gli occhi al cielo e
grattandosi la testa,
sollevato: “Aaaaaah, ecco come diavolo si
chiamava…”
“Zitto,
Tim.
Sei Dana, vero?”
“No.”
Tim
non ce la
faceva a tenere chiusa la bocca: “Sì, sei tu, sei
tu, sei tu, ti abbiamo visto
sul giornale!!”, cantilenò.
Merda-il-cazzo-del-Los-Angeles-Tribune,
pensò Dana: “Che giornale?”
“Sei
mesi fa,
sul Los Angeles Tribune mi pare, quando hai vinto il concorso musicale
con i
FourLeafClover.”, continuò Shannon.
Diana
imprecò
tra sé: “Non so di cosa parlate. Non sono io,
sarà una che mi assomiglia.
Lasciatemi subito…”
Shannon
sogghignò:
“Col cazzo. Quando vedo una donna, io me la ricordo. Avevi il
kilt scozzese
come il mio…” Il batterista
si
interruppe subito. Beh… forse non era proprio da
uomini/machi/shannonleti dire
delle cose del genere. “Ehm…
cioè… avevi un kilt corto, stivali, maglia con i
quadrifogli, eri pettinata con le code e suonavi una Ibanez bianca,
quella
stessa che ora suona Tomo…”
Dana
non
resistette alla battuta: “Sai anche la taglia del
reggipetto?”
Shannon
abbassò gli occhi e le guardò il seno per un
momento: “No, ma quella la posso
indovinare…”
Dana
alzò gli
occhi al cielo: “Sentite. Lasciatemi andare o ve le
suono.”
Nonostante
la
minaccia, era come aver confessato: “Sei Dana,
vero?”
“Mollami…”
“No.
Devi
parlare con Tomo, invece di scappare sempre come una
ladra…”
“Non
DEVO fare
proprio niente, invece…”
“Gli
devi
delle spiegazioni.”
“No!”
Dana
cominciò a divincolarsi spingendo via Shannon ed evitando
Tim con una finta.
Stava quasi per scappare che Shannon la prese per le spalle, Tim, su
comando di
Shannon, la prese per le gambe ed entrambi la sollevarono di peso,
mentre Dana
si dibatteva come una biscia, inutilmente: “Lasciatemi,
stronzi farabutti…” La
ragazza tentò anche di dare un calcio sulla pancia di Tim,
ma il bassista si
mise le sue gambe sotto un braccio impedendole il movimento. Shannon
fece lo
stesso con le braccia e il busto di Dana e la ragazza, che era
piuttosto
leggera e in confronto ai due energumeni era un fuscello, si
ritrovò perfettamente
impacchettata, non più in grado di muoversi.
“Dove
la portiamo?”,
chiese subito Tim, soffiandosi via il ciuffo di capelli da un occhio.
“Eh?”
“Dove
la
portiamo?”
Shannon
era
dubbioso: “Ehm… non lo so…”
“Se
hai detto
a Jared di portare Tomo qui, forse è il caso di aspettare,
no?”
“Ah,
già è
vero… ma se la mettiamo giù questa
scappa…”
La
faccia di
Tim si illuminò, mentre Dana li ricopriva di insulti e
muovendosi a strattoni
li faceva andare su e giù per il corridoio: “La
portiamo sul tourbus?”
“Ma
se siamo
venuti qui in taxi…”
“Ah
cazzo, è
vero… Chiamo Emma?”
Shannon
sbuffò: “Ma no, è una questione tra
uomini, questa… se chiami Emma, poi tra
donne fanno comunella ed è finita…”
“Allora
che si
fa?”
“La
teniamo
così finché non arriva Tomo.” Sperando
che il cazzone di Jared sia davvero
andato a chiamarlo e non a farsi un giro con le Echelon,
pensò Shannon, sennò
facciamo mattina.
Ma
Tim aveva
qualche dubbio: “E se arriva qualcuno e non è
Tomo?”
“Ci
poniamo il
problema al momento…”
“E
se arriva
qualcuno e chiama la polizia?”
“Diciamo
che
era uno scherzo…”
“E
se arriva qualcuno
e ci denuncia?”
“Ho
un buon
avvocato…”
“E
se…”
Shannon
era
sull’orlo di un esaurimento nervoso espresso: “TIM
FALLA FINITA!!! Questa non
sta ferma e ti ci metti anche tu con i tuoi ‘se e
ma’???”
Per
fortuna di
lì a pochi secondi la porta del corridoio si
spalancò e comparve Jared, con
Tomo subito dietro.
Jared
sgranò
gli occhi alla vista di Tim e Shannon alle prese con una bianca biscia
indemoniata: “CHE CAZZO STATE FACENDO?”
“DANA???!!”
Tomo spostò Jared di lato con una spinta e si
piazzò davanti al trio sospetto,
a bocca aperta e con le braccia allargate. “Ma-ma-ma che
diavolo succede?”.
Shannon e Tim, con un sospiro e un grugnito, la lasciarono andare
subito,
rimettendola in piedi. Tomo aveva smesso di respirare a trovarsi la
ragazza
davanti. La guardò da capo a piedi, meravigliato anche del
modo in cui era
abbigliata, scuotendo la testa, incredulo: “Dana sei
tu…” L’uomo non credeva ai
propri occhi. Dana era bellissima, più di quello che si
ricordasse, ed era lì!
ACCIDENTI ERA LI’!!! ERA LI’!! Non avrebbe mai
detto!
Dana,
con il
cuore in gola, arrossata e senza fiato, cercava di sistemarsi il
vestito tutto sbilenco
e gettava occhiate di fuoco a Shannon e Tim che si erano spostati di
lato: “S-sì.”,
ammise, di controvoglia, a mezza voce, trovando un imbarazzo estremo a
guardare
negli occhi Tomo.
Il
chitarrista
la prese per le spalle, ancora incredulo, guardandola in viso:
“Oddio… ma… Stai
bene? Che stava succedendo? E… perché sei qui?
E… che ti stavano facendo questi
due?”
Dana
si
strappò dalla testa con rabbia la fascia bianca con la
piuma, ormai tutta
schiacciata: “Non lo so, mi stavano…
rapendo… che ne so…”
Tomo
non
credeva ai suoi orecchi: “Ma siete diventati scemi? Che modo
di fare è?”
Shannon
si
fece avanti, cercando di essere collaborativo: “Tim
l’ha vista e siccome devi
parlare con lei abbiamo pensato di non farla andare via
e…”
Dana
non lo
lasciò finire, si avvicinò a Shannon e gli
tirò un calcio su uno stinco e,
mentre il batterista cominciava a saltellare per il corridoio dicendo
‘ahia-ahia-che-male’, la ragazza si diresse verso
Tim per tirargli un pugno
sullo stomaco, ma il bassista fu più svelto e
fuggì di corsa, sparendo verso il
salone della festa.
Ovviamente,
alla vista di Dana che picchiava suo fratello, Jared non poteva stare
zitto:
“Ehi tu, che cazzo stai facendo?”
Dana,
senza
paura, gli si mise davanti, a dieci centimetri dal viso e, guardandolo
di sotto
in su, gli sibilò a denti stretti, incazzata con il mondo
intero, non
necessariamente con lui: “Togliti dai piedi, tu…
Nessuno ti ha interpellato… E
impara a suonare la chitarra che sei penoso… Mia nonna suona
meglio di te…”
Tomo,
sogghignando e cercando di non ridere in faccia ai Leto, prese Dana per
un
braccio e tentò di portarla via, visto che la faccia di
Jared aveva assunto uno
strano color rosso carminio e Shannon aveva smesso di saltellare e le
si era
avvicinato con aria assassina, lo stinco in fiamme: “Dai,
basta, Dana… vieni
via…”
“NESSUNO
HA MAI OSATO
DIRMI QUESTE COSE!!!!”
Jared era esploso, alla fine, ma Dana non fece una piega.
“Fottiti.”
“Dana,
vieni
via…”
Intervenne
anche Shannon, incazzatissimo: “NESSUNO HA MAI OSATO PRENDERMI
A CALCI
SUGLI STINCHI!”
Dana
si girò
verso Shannon e gli puntò in faccia l’indice come
lui aveva fatto con lei poco
prima: “C’è sempre una prima volta. E tu
hai bisogno di lezioni di batteria.
Vai da Carlo…”
“Dana,
vieni
via…”
Improvvisamente
un grido proveniente dalla porta che dava sul salone lacerò
l’aria:
“JAREEEED-SHANNOOOON-OMIODDIOOOOOO!!!!”.
Interrompendo
la discussione in atto, tutti si girarono verso l’origine di
quell’ululato
quasi animalesco: era Elisabeth che, seguita da Judith e Dora e, un
po’ più
indietro da Sarah, faceva il suo ingresso, con gli occhi a forma di
cuore, il
viso sognante e le mani giunte come se avesse visto la Madonna di
Lourdes. “OMIODDIO.
Jarrrrred…” Elisabeth si catapultò
contro l’uomo e gli si buttò addosso,
passandogli le braccia sopra le spalle e tirandolo verso di
sé.
“Ehi,
ferma,
ferma…” Ma la ragazza non mollava l’osso
e
Judith e Dora stavano riservando lo stesso trattamento a
Shannon che
diceva un debole ‘aiuto-soffoco’.
Sarah,
che si
era messa vicino a Dana, rideva a crepapelle: “Ma siete
partite proprio… Da non
credere…”
“Jay
ti prego
sposami…”, ululava Elisabeth, “Non
voglio sposare quel topo di biblioteca…”
“Ma…
veramente…” Jared tentava di sottrarsi alla presa,
ma Elisabeth pesava il
doppio di lui e ormai lo aveva braccato e lo stringeva forte.
“Ehm… Preferirei
di no…”
“Ma
Jared come
puoi farmi questo??” Elisabeth cominciò a
strattonarlo, “Non puoi rifiutarti,
sono una Lady, io…”
Nello
stesso
tempo Judith, con estrema agilità, era saltata in groppa a
Shannon, mentre Dora
aveva tirato fuori chissà da dove uno stetoscopio e glielo
passava sul petto
dicendo, con aria professionale, sistemandosi i pesanti occhiali sul
naso, le
guance arrossate: “Uhm… battiti
accelerati… più frutta e verdura e meno
grassi…
niente burro… dovresti metterti a dieta,
Shany…”
Shannon
tentava inutilmente di togliersi il braccio che Judith gli aveva messo
intorno
al collo pensando che DIETA e SHANNON erano due parole assolutamente
incompatibili, inavvicinabili, che non avrebbero dovuto stare nemmeno
nello
stesso vocabolario: “Sto soffocando…
mollatemi...”
Mentre
Sarah
aveva preso la macchina fotografica digitale e stava facendo un
reportage
completo dell’accaduto, Dana era rimasta a bocca aperta al
vedere quello
ridicolo spettacolo e si accorse a malapena che Tomo, con fare furtivo
e
contento di non avere delle Ladies alle calcagna, le aveva preso una
mano e la
stava portando verso la porta. Se ne accorse soltanto quando uscirono
nel
salone della festa. Solo allora la ragazza diede uno strattone, tolse
la mano e
cominciò a correre per cercare un’uscita,
inseguita dal chitarrista che le
diceva “Dana-aspetta-aspetta”, ma
Dana
non riusciva a trovare nessuna porta: dal panico che le era preso,
aveva perso
il senso dell’orientamento e non vedeva nessuna via di fuga.
Fece due giri
intorno al salone a perdifiato e Tomo la riprese facilmente,
afferrandole un
braccio e girandola verso di sè.
“Dana,
aspetta,
fermati, per favore…”
Dana
era in angoscia
completa, non sapeva dove trovava il fiato per articolare le parole e
per
spingere via Tomo: “No, devo andare, devo andare…
lasciami…”
“No,
dobbiamo
parlare, come minimo mi devi una spiegazione…”
“Non
c’è niente
da dire…”
Il
ragazzo le
prese le mani, desideroso di dirle cosa era stata e cos’era
per lui: “Un attimo
soltanto… io…”
“NO!”
E
a questo
punto, all’ennesimo rifiuto, Tomo si incazzò: la
frustrazione accumulata in quei
lunghi sei mesi esplose in una rabbia totale, simile a quella che aveva
provato
quel giorno in studio di registrazione, quando aveva mandato Jared a
’ffanculo.
“BASTA,
ADESSO, CAZZO!!!” Si abbassò, prese Dana con un
braccio attorno alle gambe, all’altezza
delle cosce, la sollevò e se la mise su una spalla, con lo
stomaco sul suo
omero, tra gli sguardi increduli di tutte le ragazze del salone.
“SE HO DETTO
CHE PARLIAMO, PARLIAMO…”, aggiunse, inviperito non
poco. Poi si avviò verso
l’uscita, con Dana che tentava di scalciare e dibattersi,
incredula che quella
sera fosse la seconda volta, nel giro di un quarto d’ora, che
uomini vestiti in
Dolce e Gabbana la rapissero alzandola da terra.
Ma
lo
spettacolo ‘marziano’ per le echelon rimaste alla
festa non era ancora finito,
visto che, come un treno in corsa, dal corridoio che dava ai bagni
uscì Sarah
con la macchina fotografica in mano, inseguita dai Leto mezzi
spogliati, con la
camicia aperta e fuori dei pantaloni, tutti spettinati e incazzati come
iene
che volevano le sue foto altamente compromettenti, inseguiti a loro
volta dalle
Ladies con in mano le loro giacche e cravatte, issate in aria come
trofei di
caccia. In coda al gruppo non poteva mancare Tim, che cercava di
recuperare i
costosissimi Dolce e Gabbana, temendo l’ira funesta di Emma.
P.S.
Grazie
per le gentili parole che usate nelle recensioni e che mi commuovono
sempre e,
sì Princes_of_the_universe, Jared vestito di bianco e sporco
di sangue finto è una immagine
difficile da cancellare, per questo l’ho rispolverata!
|
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Capitolo 21 *** Capitolo 21 ***
DEL
COME TOMO SCOPRE CHI E’ IN REALTA’
FIRSTLEAF/DANA ED IL LOSCO MOTIVO PER CUI SE N’E’
ANDATA…
Tomo
uscì dal
locale con Dana su una spalla ed un codazzo di ragazze che dicevano
“ooooooooohhhhhh”, ma lui, con
l’espressione truce, il ciuffo di capelli
scompigliato e la sua preda tanto ambita, non badava nessuno.
Cominciò a
camminare risoluto lungo la Brixton Road
finché il codazzo si diradò e lui potè
mescolarsi ai pochi passanti delle vie londinesi a quell’ora
di notte. Non che
i due, in realtà, passassero inosservati: né lui,
macchiato di sangue finto e
ancora con il costume di scena, tutto sudato e con una ragazza portata
a mo’ di
sacco di cemento, né Dana, che continuava ad agitarsi,
perdeva perle dalla
collana finta come Pollicino che semina le briciole nel bosco, e
continuava ad
inveire e a gridare a Tomo di metterla giù.
Ma
l’uomo non
ne aveva nessuna intenzione visto che Dana era leggera, non pesava
niente e poteva
scarrozzarla in giro ancora per un po’; non sapeva bene dove
portarla, ma non
se la sarebbe fatta fuggire per niente al mondo. “No, manco
per niente,
scordatelo.”, le disse, all’ennesima rimostranza.
“Mettimi
giù,
stronzo…”
“No.
Adesso
troviamo un posto e parliamo, prima che qualcuno ci arresti per
schiamazzi,
visto che non la smetti di gridare…”
“Non
voglio
parlare. Non ho niente da dire…”
“Io
sì…”
“Io
no…”
A
Tomo balenò
improvvisa un’idea: “Ti porto al mio albergo,
adesso…”
“Noooooooo.
Non ci voglio venire!!!”
“Invece
sì.”
“E
invece
noooooo…”
Tomo
cominciò
a guardarsi attorno alla ricerca di un taxi, mentre Dana gli enumerava
i motivi
per cui non voleva andare con lui, ragioni che il ragazzo non ascoltava
per
niente. All’improvviso un’auto li
sorpassò lentamente: era un ‘black cab’,
il
tipico taxi inglese, ed era vuoto. Tomo fece segno
all’autista di fermarsi e
l’auto accostò immediatamente, una decina di metri
davanti a loro, lungo il
marciapiede.
Tomo
in pochi
passi raggiunse il mezzo, aprì lo sportello posteriore, si
chinò e fece sedere
Dana sul sedile, spingendola dentro, sperando che la ragazza, in sei
mesi, si
fosse scordata le mosse imparate nel corso di autodifesa e anche il
famigerato
calcio sulle parti basse che gli aveva dato la famosa sera in cui lui
aveva
scoperto la sua doppia vita.
Ma
Dana,
quella sera, era davvero strana con lui: non attaccava, anzi, preferiva
fuggire. Entrò del tutto nel taxi e cercò di
uscire dall’altra parte, mentre
Tomo, salendo a sua volta, le abbrancò subito una caviglia e
diede al taxista
il nome del suo albergo.
“VOGLIO
SCENDERE!!!”, cominciò a gridare Dana mentre il
taxi partiva sgommando.
“No-o.”
“Non
voglio
venire con te, non voglio… e mollami la caviglia che mi fai
male.”
“Io
ti lascio
la caviglia ma tu stai ferma e non ti butti giù dal taxi,
OK?”
Dana
sbuffò:
“OK. Ma quando si ferma me ne vado.”
Tomo
tentava
di apparire risoluto: “E’ da vedersi.”,
declamò, con voce convinta, lasciandole
la caviglia.
“Tomo,
perché
mi fai questo?”
“Non
ti sto
facendo niente, cazzo! Voglio solo parlare con te! Ma ne
avrò il diritto, no?”
La
ragazza non
rispose, fece spallucce e si mise a guardare fuori dal finestrino le
strade di
Londra che correvano attorno a loro, pensando che
‘parlare’ con Tomo era
l’ultima cosa al mondo che avrebbe voluto fare quella sera.
Mentalmente si
maledisse: ma perché non se n’era andata via non
appena aveva saputo che il
concerto era quello del gruppo di Tomo? Ma perché?
Perché? Accidenti!!! Era
stata troppo curiosa di vederlo suonare, di capire come stava, e ora
quella
curiosità la stava pagando salatissima. Lo guardò
un attimo di sottecchi,
girando appena la testa: Tomo
aveva il
trucco degli occhi quasi colato ed un’espressione in volto a
metà strada tra
l’arrabbiato e il risoluto. Mannaggia, pensò Dana,
stasera non sarà facile
fuggirgli, è troppo incazzato.
Il
taxista
correva come un pazzo e, nel giro di una decina di minuti, durante i
quali Dana
tentava di mettere in piedi un piano di fuga e Tomo un piano per
tirarla giù
dalla macchina senza che scappasse, l’auto arrivò
nei pressi dell’Hotel di
Tomo.
Il
ragazzo
afferrò subito la mano di Dana e gliela strinse:
“Da stamattina, davanti
all’albergo, sono accampate decine di Echelon, fotografi,
paparazzi e
giornalisti di tutti i tipi. Ora scendiamo e tu non fare storie, non
scappare,
non metterti a correre, non strattonare e non gridare. Fa’
finta di niente e
basta. E poi si vedrà.”
Dana
lo guardò
subito male: “Scendiamo, passiamo, entriamo ma poi io me ne
vado.”
“Ho
detto che
si vedrà.”
“Ho
detto che
me ne vado.”
Tomo
iniziò ad
urlare: “HO DETTO CHE SI VEDRA’! E STASERA SI FA
COME DICO IO!”
“Questa
me la
paghi, Tomo…”, gli sibilò Dana, a denti
stretti.
“Domani
sarai
su tutti i giornali, non sei contenta?”
La
ragazza
scosse la testa: “No… Ti odio, lo sai?”
“Vedo
già il
titolo: ‘L’ex chitarrista dei FirstLeafClover
avvistata con il chitarrista dei
30 Seconds To Mars al suo arrivo in albergo. Auguri e chitarristi
maschi!’…
Bella, no?”
Dana
gettò un
urlo isterico: “ARGH! Vaffanculo, Tomo…”
“Cosa
dirà
Julius?”
“Basta!”
“La
mummia di
Tutankhamon si rivolterà nel sarcofago!
Uuuuuuuhhh!”
La
ragazza si
tappò gli orecchi: “Smettila,
smettila!!!”
“Cosa
diranno
ad Oxford?”
A
Dana vennero
le lacrime agli occhi: “Sei crudele.”
Tomo,
con la
voce gelata come ghiaccio, seppellì l’intera
conversazione sotto una lapide
composta dalle parole “Crudele. Sì. Come sei stata
tu con me.”
Dana
abbassò
la testa, sconfitta. In fondo era vero.
Il
taxi arrivò
davanti all’entrata e già una piccola folla si
assiepò intorno all’auto. Alcuni
concierge uscirono per spostare la gente ed uno aprì la
porta a Tomo che scese
sorridendo, salutando la gente e tenendo per mano e trascinandosi
dietro una
Dana seria seria. Alcuni flash li investirono e Dana era talmente
abbattuta e
sconvolta da non pensare nemmeno per un momento di nascondersi il viso
con la
borsetta.
I
due
entrarono nella hall e Tomo portò Dana verso
l’ascensore, vi salirono e in
pochi istanti arrivarono alla camera dell’uomo e vi entrarono.
Tomo
accese le
luci, si tolse subito la cravatta e la giacca e le buttò su
una poltroncina,
mentre Dana sembrava un leone in gabbia.
“Vuoi
qualcosa
da bere?” le chiese l’uomo, ma Dana si era messa a
guardare dalla finestra, le
braccia incrociate e l’espressione corrucciata. Ma non era la
serata giusta:
Tomo era scazzato da morire e si sentiva con i nervi a fior di pelle,
anche
perchè l’atteggiamento di Dana non aiutava.
Il
chitarrista
le si avvicinò e le prese un braccio, facendola girare verso
di sé. “Senti.
Inutile che ci giriamo tanto intorno. La situazione è
semplice: sei fuggita con
Julius senza dire niente e io ci sto male. Come minimo voglio, anzi,
PRETENDO
una spiegazione e subito. Mi pare ovvio che me la devi. Per rispetto di
quello
che c’è stato tra di noi. Non sto dicendo per
amore, ma almeno per rispetto.
Voglio sapere. E basta.”
Dana
fece
spallucce e scosse la testa, mordendosi un labbro, ma non disse niente:
si
limitò a guardare Tomo come se sapesse di avere fatto una
marachella ma non
volesse comunque giustificarsi.
Tomo
non aveva
nessuna voglia di demordere: “Non uscirai di qui
finché non mi darai una
risposta, quindi mettiti il cuore in pace. Barrico la porta se
necessario.” Poi
andò a chiudere la porta a chiave, si mise la chiave nella
tasca dei pantaloni,
si tolse le scarpe e ritornò da lei, mettendosi davanti a
braccia conserte a
fissarla.
Dana,
che non
riusciva a sostenere lo sguardo del ragazzo, dopo un po’ si
spostò invece verso
il letto e si sedette sul bordo, con la testa bassa e le mani sul
grembo.
Rimase così per un momento, poi si tolse il resto della
collana, che le pendeva
a pezzi dal collo, ed i guanti, appoggiò il tutto sul
copriletto, borsettina
bianca compresa, e si passò le mani sul viso, chiudendo gli
occhi, sospirando e
sfilandosi le scarpe.
A
Tomo per un
attimo fece una gran pena.
Non
la
riconosceva più, in realtà.
Non
sembrava
più lei.
Non
capiva
perché non gli desse spiegazioni, perché fosse
così abbattuta e taciturna. E
poi perché era al concerto e anche alla festa, se ora non
gli voleva parlare?
Era venuta per lui o no? E che diavolo ci faceva a Londra?
Ma… stava ancora con
Julius? O forse no?
Tomo
sentì che
aveva un milione di cose da chiederle. Le si avvicinò e le
si inginocchiò
davanti. Dana sollevò la testa e lo guardò con
uno sguardo davvero infelice.
Tomo allungò una mano a toccarle il viso, le fece una
leggera carezza
scostandole una ciocca di capelli da una guancia, e con
l’altra le prese una
mano, guardandola in quegli occhi scuri che aveva sognato per notti
intere.
“Dana, perché te ne sei andata, senza dire niente,
in quel modo?”
Dana
sospirò e
con voce atona gli disse: “Perché…
perché dovevo… dovevo farlo.”
“Questa
non è
una spiegazione.”
La
ragazza
annuì, quasi convinta. “Sì, lo
é.”
Tomo
le
strinse entrambe le mani con le sue: “Se… se io
non ti piacevo e non mi amavi
bastava che me lo dicessi. Se preferisci Julius, almeno
dimmelo… dimmelo che
non mi vuoi. Dimmelo che con me sei infelice e con lui no.
Io… avevo creduto
che avessi cambiato idea dopo quella notte…”
La
ragazza
scosse la testa. “No.”
“No,
cosa?”
Dana
cominciò
a fissarlo negli occhi: “Non sto con Julius, non è
per quello…”
Tomo
dentro di
sé sospirò a sapere che almeno Dana non si era
fidanzata con il Lord. Ma allora
la situazione era anche peggio. Se Julius non era la causa della
partenza di
Dana, cosa lo era? “E allora?
Cos’è?”
Dana
abbassò
gli occhi nuovamente, tentando di togliere le mani:
“Io… Io non voglio dirlo.”
Tomo
era esasperato, non capiva: “Ma perché? Hai figli
segreti, rubi al
supermercato, butti le vecchiette sotto le auto, fai parte di qualche
strana
setta? Ma che cacchio può essere?”
A
Dana quasi scappò da ridere alla lista delle motivazioni
assurde di Tomo e, da
un certo punto di vista, si rammaricò che non fossero vere:
“Io… Io… non
c’entro… Cioè, non del
tutto… in parte…”
Tomo
spalancò
gli occhi: “Cosa?”
Dana
si liberò
le mani e si alzò in piedi, passandosi una mano tra i
capelli, poi diede le
spalle a Tomo e fece pochi passi verso il centro della stanza:
“Ecco… Beh… il
motivo riguarda anche te.”
Il
chitarrista
si puntò un dito al petto, alzandosi a sua volta in piedi e
seguendo la
ragazza: “ME??? E… e allora a maggior ragione ho
diritto di saperlo, no?”
Dana
sospirò e
ammise di controvoglia: “Sì”.
Tomo
mise le
mani sulle spalle di Dana e la ragazza si girò: “E
allora dimmelo e basta.
Qualsiasi cosa sia, dai… Non ce la faccio più.
Devo sapere.”
Dana
annuì.
Gli puntò gli occhi nei suoi e rispose:
“Io… io mi chiamo Dana Bixler. BIXLER.”
Tomo
fece
spallucce: “E allora? Sei parente di Cedric Bixler-Zavala, il
cantante dei The
Mars Volta?”
Dana
fece una
smorfia. “No, magari. Sarebbe meglio. Io… io sono
la nipote di SOLON Bixler,
l’ex-chitarrista dei 30 Seconds to
Mars…”, concluse, in un filo di voce.
Tomo
sobbalzò:
“COSA????”
“Sì,
sono la
nipote della persona più indesiderata ed odiata in modo
assoluto dai Leto. Il
mio famoso zio chitarrista di cui ogni tanto ti parlo è
Solon.”
Tomo
si grattò
la testa, perplesso
e preoccupato: “Ma…”
Dana
si avviò
verso il letto ed estrasse dalla borsetta appoggiata sul letto il suo
passaporto e poi glielo passò. Tomo lesse i dati anagrafici
e non credeva ai
propri occhi. “Oddio…”
Dana
si
risedette sul letto, rimettendo via il documento che Tomo le aveva
reso: “E’ un
casino, vedi?”
Tomo
era a dir
poco perplesso: “Ma… ma Jared lo sa? E
Shannon?”
“E
come potrebbero?
No. Io non li ho mai incontrati. Nemmeno quando mio zio suonava con
loro. Non
lo sanno. E nemmeno Frank Zummo che mi ha contattato per farti lezione
lo
sapeva. Mi conosceva solo come FirstLeaf. E… forse
è meglio che non lo sappia
nessuno. Era meglio se non lo sapevi nemmeno tu. Ed
io…”
Tomo
si
sedette sul letto vicino a lei: “Cosa?”
“E
io… io non
sapevo chi fossi tu fino al mattino dopo la nostra notte speciale. Non
avevo
idea che tu fossi il chitarrista dei 30 Seconds To Mars. Davvero non lo
sapevo…”
“NO?”
Tomo si
fermò un momento, perplesso. “Oddio è
vero, io non te l’ho mai detto. Credevo
te lo avesse detto Zummo o… o che tu avessi parlato con
Shannon.”
“No.
E, Tomo,
io…”, Dana si girò a guardarlo in viso,
gli occhi quasi supplicanti, “Io non volevo
rovinarti la carriera musicale, per quello sono andata via…
Non volevo essere
d’impiccio tra te e i Leto… Non volevo creare
problemi a te e al tuo gruppo,
non me lo sarei mai perdonata di rovinare la tua
esistenza…”
Poi
abbassò
gli occhi a fissarsi le mani incrociate in grembo. Tomo le mise un
braccio
attorno alle spalle, sospirando: “Ma perché
dovrebbe cambiare qualcosa tra
noi?”
Dana
si girò
nuovamente a cercare i suoi occhi: “Io… non credo
che ai Leto farebbe piacere
sapere che stai insieme alla nipote di Solon, considerando che si sono
lasciati
litigando furiosamente.”
Tomo
scosse la
testa: “Ma no, litigando no… l’annuncio
ufficiale dato dai 30 Seconds To Mars non
diceva che c’era stato un litigio, ma che Solon se ne andava
di sua volontà
perché era stanco. Mi ricordo che l’ho
letto.”
“No,
no. Non è
così. Al tempo, io vivevo con i miei e mio zio veniva spesso
a trovarci e
quando lasciò i 30 Seconds lo fece perché ci fu
un litigio. Lo so perché me
l’ha detto mio padre…”
“Ma
tu sai il
perché della litigata?”
Dana
scosse la
testa: “No. Non lo so. Non ne ho idea. Mio zio non mi ha mai
detto la ragione.
A te hanno raccontato qualcosa?”
“No,
mai. Non
parlano mai di Solon. Io sono il suo sostituto e basta. Quando mi hanno
assunto
mi hanno detto che se n’era andato perché non
voleva più stare con loro e fine.
Senza una ragione particolare.”
Dana
era
dubbiosa: “Per me non è del tutto vero.
Chissà cosa è successo…”
“Beh,
qualsiasi cosa sia, dopo sei anni forse è il caso che tutti
lascino perdere,
no?”, declamò Tomo, convinto.
La
ragazza fece
una smorfia che a Tomo parve un po’ sinistra.
“Ehm… Non è così semplice.
Certi
rancori durano tutta la vita… Purtroppo… E
possono coinvolgere anche altre
persone…” Poi Dana si mise a fissare Tomo, con uno
sguardo un po’ strano: “Mio
zio, tempo fa, mi ha fatto giurare che MAI e poi MAI avrei dovuto avere
a che
fare con i Leto e con i 30 Seconds To Mars, né come
musicista, né come altro…”
Tomo
spalancò
gli occhi, sorpreso: “CHEEEE??? Ma… tu…
io…” Tomo non sapeva più cosa dire. Un
giuramento di Dana su una questione personale che alla fine non
riguardava né
lui né lei doveva impedire ad un amore appena sbocciato di
continuare?
Ma
era una
cosa incredibile. Insostenibile!
Mai
e poi mai
avrebbe potuto pensare che la ragione fosse quella. Non poteva essere.
E
lui non
poteva stare con Dana perché i Leto probabilmente avrebbero
fatto il diavolo a
quattro?
No.
Non lo
accettava nel modo più assoluto.
“MA
NON ESISTE
AL MONDO!! Io… devo fare qualcosa. Non possiamo non stare
insieme per una
questione che in fondo non ci riguarda per niente. Non esiste. Devo
capire
cos’è successo tra di loro, vedere se
c’è un rimedio. Trovare una soluzione.
Non mi arrendo. Non possiamo arrenderci così,
Dana.”
Dana
invece si
era già arresa. Sei mesi prima: “No, non
c’è niente da fare. Non
possiamo…” La
ragazza si alzò e per un momento Tomo pensò che
prendesse la porta per andare
via (chissà come, poi, visto che la chiave ce
l’aveva in tasca lui…), ma lei si
riportò alla finestra. “Se ci fosse una
soluzione…”, sospirò.
“Beh,
possiamo
mentire, no? I Leto non sanno chi sei, tuo zio Solon non mi vede mai,
anche se
magari sa chi sono. Siamo a posto, no?”
“Ma
non vorrai
che passiamo il resto delle nostre vite con questa spada di Damocle
sulla
testa, no? Con la costante paura che ci scoprano? Non potrò
mai presentarti
alla mia famiglia? Ma che vita è?”
“Già,
hai
ragione. Non si può. Dobbiamo trovare
qualcos’altro.” Tomo, ancora seduto sul
letto, sospirò e si passò una mano sui capelli,
cercando di fare mente locale:
per il momento non vedeva soluzioni MA… tutto sommato non
era per lui che Dana
era andata via, non era per Julius e nemmeno per sé stessa.
Era
per gli
altri.
In
fondo in
fondo era una cosa buona. La situazione non era delle migliori, ma
sarebbe
stato peggio se Dana non lo avesse amato o lo avesse cornificato con
Julius.
Molto peggio.
Il
ragazzo si
alzò. Doveva farsi coraggio e vedere che il proverbiale
bicchiere era mezzo
pieno, visto che in quel momento Dana era lì con lui e forse
non aveva più
tanta voglia di scappargli. Le si avvicinò. Dana gli dava le
spalle e Tomo le
si mise dietro. Un po’ timidamente, le portò le
mani sulla vita, le passò le
braccia davanti e la strinse a sé. Dana lasciò
fare, sospirò e chiudendo gli
occhi si appoggiò a lui mentre Tomo la stringeva di
più, appoggiando il viso
tra i capelli scuri della donna e chiudendo gli occhi.
“Io…
avevo
paura che… che non ti avrei più rivisto
e… Oddio, sono così contento di averti
qui, non sai quanto… E l’idea che te ne sei andata
non per me, ma… insomma, non
so più cosa dire… mi sei mancata da morire ed
è come se avessi avuto un incubo
durato sei mesi...”, le sussurrò, piano, quasi
commosso.
Dana
gli
avvolse le braccia con le sue, sorridendo: “Io…
non credevo ma… mi rendo conto
che sei mandato tanto anche a me. Ma… che facciamo adesso,
Tomo?”
Il
ragazzo
aprì gli occhi: “Non so.”
“Io…
vorrei
stare con te, davvero… ma… non so cosa
fare…”, la voce di Dana era quasi
lamentosa.
“Una
cosa per
volta, dai. Troveremo una soluzione. Almeno stasera non siamo soli e
separati.
Ma insieme. Dopo tanto tempo.”
Dana
sciolse
l’abbraccio e si girò verso Tomo. Rimase un attimo
a guardarlo, poi gli passò
una mano sulla guancia, per una carezza leggera, e gli sorrise,
ricordandosi
improvvisamente le parole che Elisabeth e le sue amiche avevano usato
parlando
del chitarrista: “Dolce Tomo… Dolce…
Sei un pazzo furioso in realtà, lo sai,
vero?”
Tomo,
sogghignando, subito le prese la mano e fece scivolare
l’altro braccio attorno
alla vita della ragazza: “Certo, ma, come si dice in questi
casi: sì, sono
pazzo. Pazzo di te.”
Dana
scoppiò a
ridere: “Oddio! Sembra di stare in una fanfiction! Mi viene
il diabete
fulminante!”
“Un
esercito
di carie da troppo zucchero!” Anche Tomo iniziò a
ridere e si strinse forte
Dana al petto, contro di sé, stretta stretta. Poi, quando
smisero di ridere, le
alzò il viso e la baciò sulle labbra, dolcemente,
ancora quasi incredulo che,
poche ore prima, si era ripromesso di scordarla e ora invece ce
l’aveva tra le
braccia.
Dana
gli passò
le braccia attorno al collo e rispose al bacio con più
intenzione, mentre Tomo
si perdeva nel suo profumo. Poi le baciò il collo sotto
l’orecchio: “Ti
voglio…”
“Non
possiamo,
lo sai…”
“Non
mi
importa…”
Dana
tolse le
braccia e tentò di allontanarsi da lui:
“Aspettiamo. Ora come ora, mio zio mi
ucciderebbe e i Leto farebbero lo stesso con te, lo sai, no?”
“Basta,
non
voglio sentir parlare ancora di loro, stasera, io voglio solo te e
basta… da
tempo…” Tomo con uno strattone attirò
Dana verso di sé e cominciò a baciarla
focosamente sulla bocca, stringendola forte a sé e
spingendola verso il letto.
Nonostante
quanto aveva appena detto, Dana non si ritrasse e, anzi, si arrese
subito:
l’ultima volta che aveva voluto un uomo, aveva voluto Tomo;
l’ultima volta che
aveva baciato qualcuno, quel qualcuno era stato Tomo;
l’ultima volta che aveva
fatto l’amore, lo aveva fatto con Tomo, sei lunghi e dannati
mesi prima.
Lo
desiderava anche lei.
Cominciò
a
sbottonargli la camicia mentre Tomo armeggiava con la cerniera
posteriore del
suo abito e ben presto entrambi gli indumenti caddero per terra. Dana
passò le
mani sul petto di Tomo e cominciò a baciarlo sul collo,
ricordandosi l’odore
della sua pelle. Tomo, dopo averle sciolto i capelli e baciata una
spalla, la
prese in braccio e la portò sul letto, senza nessuna voglia
di attendere oltre:
la voleva subito, voleva sentire il calore del corpo di Dana, voleva
fondersi
con lei e scordare il mondo intero.
La
mise subito
sotto di sé e riprese a baciarla sulla bocca, togliendole il
reggiseno e
accarezzandone la pelle bianca e delicata, mentre Dana gli sbottonava i
pantaloni e li faceva scivolare via, lasciando che il ragazzo prendesse
posto
tra le sue gambe e pensando che, da quel momento in poi, non avrebbe
mai più
lasciato solo il suo Tomo per così tanto tempo.
P.S.
Ovviamente, come potete ben immaginare, non ho la più
pallida idea se Solon
Bixler ha una nipote o meno… Ma cosa non si fa per amore di
fanfiction? :-*
Shanna
|
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Capitolo 22 *** Capitolo 22 ***
DEL
COME TOMO SCOPRE CHE ODIA I PASSPARTOUT
E CHE SA MENTIRE SPUDORATAMENTE SE SERVE.
Dana
lentamente si svegliò, ma non aprì subito gli
occhi, preferendo rimanere a
crogiolarsi al calore del corpo di Tomo sdraiato vicino a
sé. A giudicare dalla
luce della stanza, che Dana riusciva ad apprezzare anche ad occhi
chiusi,
doveva essere giorno inoltrato. Stiracchiandosi leggermente, la ragazza
si
portò più vicino a Tomo, ancora addormentato, gli
passò un braccio attorno al
corpo e gli si strinse addosso, sorridendo lievemente, sospirando, e
pensando
che, per poter stare insieme in futuro come quella meravigliosa notte
appena
trascorsa, Tomo e lei avrebbero dovuto affrontare tutta una serie di
persone
della loro vita e dovevano riuscire in tutti i modi a convincerle che
la loro
unione era possibile.
Nell’ordine
che le veniva in mente: i Leto, per primi.
Suo
zio Solon,
per secondo.
Julius
e i
Carnarvon, per terzi.
Dei
Leto
sapeva che non avevano un buon carattere e non erano malleabili, a
detta di
Tomo; suo zio Solon, conoscendolo, era un osso decisamente duro, anche
se
all’apparenza sembrava sempre calmo e tranquillo, e Julius?
Cosa avrebbe detto
Julius? Boh… A saperlo… La ragazza non riusciva
ad immaginare, non lo conosceva
a sufficienza.
Che
strazio,
pensò Dana, sbadigliando, una faticata immane. Ma
d’altra parte lei e Tomo
dovevano farlo, non c’erano soluzioni.
Prima
di tutto
perchè Dana non si sentiva di dover scegliere tra Tomo e la
sua famiglia. No,
davvero. Non avrebbe mai potuto scegliere il suo amato Tomo e, non
rispettando
un giuramento di cui tuttavia non sapeva del tutto il valore, fare un
dispetto
al suo carissimo zio Solon, che le aveva insegnato a suonare la
chitarra e che
le voleva un mondo di bene. Né avrebbe mai potuto, ormai,
lasciare Tomo solo
perché suo zio, anni prima, aveva litigato con i Leto. Non
era più possibile:
ci aveva già provato a farlo uscire dalla sua vita mettendo
addirittura un
oceano tra di loro, ma un simpatico fato aveva voluto che lei
reincontrasse
Tomo, e ora non poteva più lasciarlo.
In
realtà li voleva
entrambi nella sua vita, questi due uomini a cui sentiva di volere un
gran
bene.
E
avrebbe
trovato il modo.
Mentre
la
ragazza tentava di fare mente locale su cosa dire anche a sua nonna,
che forse
sarebbe stata contenta di avere un altro chitarrista in famiglia come
nipote
acquisito, una strana ed improvvisa sensazione la prese.
Era
come se,
oltre a lei e Tomo, ci fosse qualcun altro, in quella camera
d’albergo. Una
presenza estranea.
Dana
sollevò
piano il capo dal cuscino, aprì lentamente gli occhi,
sbatté le ciglia per
abituarsi alla luce, poi spalancò di colpo le palpebre,
gettò un grido e si
mise sotto le coperte addosso a Tomo esclamando: “Aiuto!
C’è gente!!!”.
Tomo
si
svegliò di soprassalto, balzò a sedere, tirandosi
su il lenzuolo sul petto e
cominciando subito ad urlare: “MA CHE CAZZO CI FATE IN CAMERA
MIA???!!???”
Jared,
Shannon
e Tim erano schierati a lato del letto dalla parte di Tomo, come una
milizia di
sorveglianza, con un sogghigno divertito stampato sui loro bei volti.
Subito
Shannon
gli puntò il solito dito addosso, con fare inquisitore:
“Ah-ah, ecco dov’eri
finito… a letto con la chitarrista manesca!”
Mentre
Tim se
ne stava zitto e occhieggiava curioso i capelli di Dana sparsi sul
cuscino,
l’unica cosa che si vedesse ora della ragazza, Jared
intervenne subito:
“Avevamo voglia a cercarti per i locali di Londra…
facevamo prima a venire qui,
mi sa…”, affermò, trattenendo un
sorriso.
Ma
Tomo non
rideva, anzi, aveva voglia di ucciderli tutti in un sol momento, magari
con
un’occhiata, ed il suo cattivo umore era lievitato a livelli
storici: “Nessuno
vi ha detto di cercarmi. Chi vi ha fatto entrare e che cazzo volete a
quest’ora
del mattino?”
Jared
non fece
una piega, come se entrare nelle camere degli altri a rompere i
cosiddetti come
e quando voleva, fosse la cosa più naturale del mondo:
“Ci ha fatto entrare il
concierge con il suo passpartout e… uhm…
veramente è l’una del
pomeriggio…”
Tomo
pensò per
un attimo a come sarebbe stato bello vedere sparire quei tre paia
d’occhi
puntati su di lui in un fungo atomico di immani proporzioni:
“Beh, non cambia…
che cazzo volete a quest’ora del pomeriggio?”
Jared
era un
fiume in piena, di buon umore, visto il successone del primo concerto e
le
splendide recensioni sui giornali: “Volevamo vedere che fine
avevi fatto e
raccontarti che ieri sera siamo andati a cena con le Ladies
e… ma lo sai che
Elisabeth ci presta il suo castello in Scozia, con fantasma e tutto,
per farci
un video? E nel video ho pensato che si potrebbe
mettere…”
Tomo
alzò gli
occhi al cielo, esasperato, chiedendosi quale
dio più o meno pagano lo stesse trattenendo
dallo scendere dal letto e
pigliarli tutti e tre a calci: “Beh, questa cosa me la puoi
dire anche dopo,
non credo che morirò se me lo racconti più
tardi…”
Jared
fece
spallucce, mentre tentava di sedersi sul letto ma veniva cacciato via
da Tomo
con una spinta: “Vabbé, dopo allora. I particolari
in cronaca. E… uhm… hai
fatto pace con la tua… ehm… ragazza? Non ce la
presenti?”
“Sì,
dai,
presenta-presenta…” aggiunse subito Shannon,
sfregandosi le mani, mentre Tomo
già aveva iniziato a guardarlo male, sbuffando.
“OK.
Lei è
Dana Bi… Bi…” Tomo si
bloccò: gli serviva un altro cognome per Dana nel giro di
due decimi di secondo, fosse mai che i Leto si ricordassero il cognome
di
Solon… “Z-Zavala. Dana Zavala. Sì,
Zavala. Zavala.”
Dana,
trattenendo una risata, estrasse un braccio da sotto le coperte come un
sottomarino estrae un periscopio e si posizionò il lenzuolo
sotto il naso,
facendo uscire solo la fronte, gli occhi ed un ammasso informe di
capelli scuri
ricci e scompigliati: “P-piacere… ehm…
non sono presentabile… scusate…”
Shannon,
Tim e
Jared le strinsero uno dopo l’altro la mano affusolata
dicendo a loro volta
“Molto lieto” e i loro nomi.
Dana
pensò che
forse, vista la situazione, non era il caso di inimicarsi subito i
Leto, anzi:
“E… ehm… scusate per ieri sera,
io… beh… ero un bel po’ fuori di
testa…
scusate… ho detto e fatto un paio di cose non proprio da
signora, ecco…”
“Beh,
direi di
sì…” intervenne subito Jared,
ricordandosi improvvisamente chi avesse messo in
dubbio le sue eccezionali abilità musicali. “E
sbagliando clamorosamente il tuo
giudizio, visto che IO il nostro primo album l’ho suonato
praticamente tutto da
solo, altro che ‘suoni come mia
nonna’…”
Mentre
Shannon
inceneriva il fratello con uno sguardo avendo voglia di ricordargli che
nel
SelfTitle lui aveva suonato ‘almeno’ la batteria,
Dana proseguì il suo
discorso: “Scusa Jared per quello che ho detto e scusa
Shannon per il calcio.”
Jared,
dall’alto della sua papale magnanimità, fece un
movimento con il capo come per
dire ‘scuse-accettate’, invece Shannon si
grattò la testa: “Ehm… beh…
forse
anch’io, cioè noi, io e Tim, ti dovremmo delle
scuse perché ti abbiamo trattato
come un pacco postale e…”
“Scusa,
Dana.”
Disse subito Tim, pensando che anche se non era
‘presentabile’ Dana era proprio
una bella ragazza.
Shannon
continuò, sorridendo: “Scusaci, ma…
insomma… visto com’è andata, forse
abbiamo
fatto bene a trattenerti e…”
Tomo
intervenne, subito geloso che Shannon si intromettesse negli affari
suoi:
“Scusate, non possiamo tenere le scuse e tutto il resto per
quando saremo un
po’ più vestiti?”. Poi si
alzò dal letto, nudo come mamma lo aveva fatto, e
cominciò a spingere i suoi compagni, che si erano
immediatamente spostati dal
lato del letto, verso la porta. “Fuori di qui,
ora…”
“Non
vieni a
pranzo?”, gli chiese Tim, mettendosi una mano sugli occhi e
facendosi spingere
per la stanza senza opporre resistenza.
Tomo
scosse la
testa, spostandosi i capelli dagli occhi: “No, mandatemi su
la colazione,
invece…”
Nel
contempo
Jared si era anche messo a fare il lavoro di Emma:
“Vabbè, adesso noi andiamo,
ma alle cinque ti aspettiamo alla Brixton che abbiamo
un’intervista per un
giornale. OK?”
Tomo
lo spinse
verso la porta. “OK-OK. Andate ora.”
“Ciao-ciao-Dana.
A presto!”, salutò Shannon con la mano, mentre
Tomo aveva aperto la porta e con
una spinta lo buttava fuori.
“MA
CHE
STRAZIO DI UOMINI!!”, declamò poi il chitarrista,
sbattendo la porta,
recuperando la chiave nei pantaloni, dandone tre mandate e,
già che c’era,
spostando anche un mobiletto davanti all’uscio.
Dana
scoppiò a
ridere allegramente, mettendosi a sedere sul letto, avvolta nel
lenzuolo ed
indicando la porta: “Ma sono dei matti!!!”
“Sì,
non me lo
dire. Sono imprevedibili. Non sei mai al sicuro con
loro…”
“Però
ti
vogliono un sacco di bene, devo dire. Erano preoccupati veramente. Gli
stai
molto a cuore, vedo…”
Tomo
fece una
smorfia, mettendosi una mano sullo sterno: “E invece loro
stamattina mi stanno
sullo stomaco, vedi te… Non so se sia solo
curiosità, invece…”
“Magari
un
po’, dai, ma non sembrano cattivi.”
Tomo
si
sedette sul letto vicino a Dana e le depose un bacio sulla bocca:
“L’apparenza
inganna, signorina Zavala…”
Dana
scoppiò
nuovamente a ridere, passandogli le braccia attorno al collo:
“Dana Zavala??
Zavala??? Ma è un cognome orrendo!!”
“Il
primo che
mi è venuto in mente! Ho dovuto improvvisare!”
“Non
ne avevi
in mente uno croato un po’ simpatico, magari?”
“Ah
sì, un
cognome tipo ‘Milicevic’, per esempio, ma
più avanti, non oggi!”
Dana
spalancò
gli occhi: “Ops… è una proposta di
matrimonio, signor Milicevic?”
“Beh,
non è
quella formale che farò al sig. Bixler-padre quanto prima,
ma quasi…”
Dana
lo baciò
sulla bocca, teneramente: “Mi piace, ma prima abbiamo un
po’ di parentame da
sistemare, non ti pare? Uno zio Bixler e una intera famiglia Leto da
mettere a
tacere. Che si fa?”
“Ho
un piano,
mi è venuto in mente stanotte.”
Dana
lo guardò
a bocca aperta: “Un piano?”
“Certo.”
Tomo
si alzò, si infilò i pantaloni e poi prese la sua
agenda dal ripiano della
scrivania, aprendola: “Allora, stasera abbiamo il secondo
concerto alla
Brixton, poi dopodomani siamo a Birminghan per due sere, poi Helsinki,
Stoccolma, Goteborg, Parigi, Milano, Roma, etc etc, fino al 21
dicembre, a Madrid
che è l’ultima data europea. Poi torniamo a casa
per Natale e riprendiamo il 7
Gennaio in America Latina, poi l’Australia, facciamo
l’Asia e poi ritorniamo a
casa. A Maggio.”
Dana
si grattò
la testa: “Aspettiamo fino a Maggio per il tuo
piano?”
“Ancora
sei
mesi di sofferenza? Neanche per sogno.”
“No.
E’
troppo. Hai ragione.”
Tomo
si
sedette nuovamente sul letto, vicino alla ragazza: “Tu
potresti tornare in
California a Natale?”
“Sì,
avevo una
mezza idea.”
“Perfetto.
Prima di Natale ti vengo a prendere e torniamo a casa assieme,
OK?”
“OK.”
“Però…”
“Però,
cosa?”
Tomo
le prese
una mano e gliela strinse, poi si mise a fissare la sua ragazza negli
occhi:
“Però il piano parte in quel momento: il primo ed
il più semplice da sistemare
secondo me è Julius. Devi parlarci, Dana.” La
chitarrista abbassò
la testa a fissarsi le mani e Tomo
continuò: “Se, come mi hai raccontato, tra te e
lui non c’è niente, non c’è
stato niente, non siete fidanzati, non ci sono legami se non di studio,
allora
non è il caso che ti senti obbligata con lui. Grata
perché ti ha ospitato e
aiutato con tesi e dottorato, certo, ma obbligata no.”
“Non
so… Non
so come possa reagire.”
“Secondo
me è
sufficiente che ci parli e gli dici cosa sta succedendo.”
“Può
anche
essere.”
Tomo
le
accarezzò i capelli: “Pensaci. Comunque: prima di
partire, tu parli con Julius
e gli dici di noi. Poi, quando siamo in California, sistemiamo i Leto e
tuo
zio, seconda parte del piano. Poi, finito anche con loro, io riparto
per la
tourneè con i 30 Seconds, tu finisci il tuo dottorato qui, a
Maggio dell’anno
prossimo ti vengo a prendere nuovamente e torniamo a casa insieme. Per
sempre.”
Dana
era
strabiliata da questo Tomo in fase organizzativa: “Ma
Tomo… sei sicuro che
andrà tutto bene?”
Tomo
la
strinse tra le braccia e Dana gli si appoggiò subito
addosso, passandogli le
braccia attorno al corpo. “Certo che sì.
Andrà tutto alla perfezione, vedrai…”
Dana
sospirò,
mentre Tomo le baciava la spalla nuda:
“Speriamo…”
Un
lieve
bussare li avvisò che c’era il carrello della
colazione fuori della porta, ma
Tomo, allo zucchero del cappuccino, preferì la dolcezza dei
baci di Dana, e
alla Brixton arrivò solo sul tardi, ad intervista finita.
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Capitolo 23 *** Capitolo 23 ***
DEL
COME JULIUS DIMOSTRA DI ESSERE
TUTT’ALTRO CHE UN TIPO MUMMIFICATO E DI VOLER BENE A DANA IN
UN MODO DEL TUTTO
SUO
Era
la mattina
del 23 Dicembre.
E
nevicava
forte in quel di Oxford.
Dana
era
pronta per partire per gli Stati Uniti ed aspettava da un momento
all’altro che
Tomo, che non vedeva da più di un mese e che aveva messo a
punto il loro piano
d’azione, suonasse il campanello della dimora dei Carnarvon.
La
ragazza si
trovava nella stanza adibita a studio, quella con il finto sarcofago di
Tutankhamon, e guardava il paesaggio innevato dalla stessa finestra che
dava
sul giardino dalla quale, un mese e mezzo prima, aveva risposto alla
telefonata
che le aveva cambiato la vita: quella di Sarah che la invitava al
concerto dei
30 Seconds To Mars.
Dana,
che
ormai aveva compreso che Tomo era l’uomo della sua vita, era
grata alla cugina
di Julius come nemmeno Sarah avrebbe mai potuto immaginare. Attraverso
di lei,
il destino le aveva dato una seconda opportunità con Tomo
che, grazie al cielo
e grazie anche alle manovre di Shannon e Tim, lei non aveva buttato via.
Ma
ora lei e
Tomo dovevano consolidare il loro rapporto.
Dovevano
uscire allo scoperto e diventare una coppia.
Nel
mondo del
gossip e tra le echelon, per colpa e/o grazie
alle foto scattate la sera del Ball Blood davanti
all’hotel, le voci di
un probabile fidanzamento di Tomo stavano già girando, i
Leto cominciavano a
fare domande di vario tipo (quella preferita di Shannon era
‘Ma non è che Dana
assomiglia a qualcuno che conosco?’) e lei… ora
doveva parlare a Julius.
Assolutamente.
Doveva
dirgli
che non si sarebbe MAI fidanzata con lui e che, anzi, a Maggio
dell’anno a
venire sarebbe tornata negli Stati Uniti, che il professore
l’avesse aiutata a
finire il dottorato o meno.
Mentre
pensava
a come iniziare il discorso e il cuore le batteva forte per
l’agitazione,
Julius, tranquillo come sempre, arrivò nello studio con la
sua elegante giacca
in tweed, il papillon e il foulard del taschino intonati e la solita
andatura
da scienziato con la testa tra le nuvole alle prese con la sua teoria
del Caos.
“Dimmi,
mia
cara, mi cercavi?”, le disse subito, sorridendo.
Dana
gli si
avvicinò, un po’ tremante.
“Ehm… sì. Devo parlarti.”
“Benissimo.
Sediamoci.”
Dana
si
sedette, sulle spine, su una poltrona dirimpetto a quella in cui si era
seduto
Julius e si schiarì la voce: “Julius,
io… ehm… dunque… ehm… un
mese fa, a
Londra… ehm… io ho incontrato un
ragazzo.” Era meglio non fare tanti preamboli,
non cercare scuse o mezze verità, visto anche che non ce
n’erano.
Le
sopracciglia di Julius si incurvarono: “Che
ragazzo?”
“Ehm…
Un
ragazzo che frequentavo a Los Angeles prima di venire qui con te
e…”, Dana si
interruppe sperando ardentemente che Julius capisse tutto, completasse
la
frase, traesse le conclusioni e si convincesse immediatamente.
“E…”
“Ehm…
io… lo
amo e col tempo voglio sposarlo.”
Dana,
che
chissà perché si era aspettata lo scoppio della
Terza Guerra Mondiale con
contorno di fuochi di artificio e una resurrezione di Tutankhamon in
persona,
rimase stupita di fronte ad un Julius rimasto quasi
impassibile che le disse soltanto “OK.”
La
ragazza
pensò che quella era la prima volta che sentiva Julius dire
quella parola
prettamente americana e che non si addiceva al dizionario di solito
piuttosto
forbito del professore. Per un momento pensò di non avere
capito: “OK?”
L’uomo
annuì
con il capo: “Sì. OK.”
“Ma
Julius…”
“Se
è la
persona che penso io, allora è OK.”
Dana
strabuzzò
gli occhi: “A… a chi pensi?”
“A
quello
strano tipo che ha osato insultarmi quel giorno a Los Angeles dopo la
conferenza sul Caos. E’ lui, vero?”
Dana
arrossì,
senza volerlo e senza sapere bene perché:
“Sì.”
Julius
annuì:
“Va bene.”
Dana
era
assolutamente esterrefatta. A Julius non importava proprio un cacchio
di lei?
“Ma tu…”
Julius
si
passò una mano a lisciarsi la giacca e poi
sospirò, enunciando: “Sì, tu mi
interessi, Dana. Ma con me non saresti mai felice. Lo so.”
“Ma
Julius…”
“Io…
io non ti
ho mai toccata, non mi sono mai spinto oltre, perché so che
tu in fondo non mi
vuoi. E non mi hai mai voluto. Nemmeno per un secondo.”
La
ragazza
rimase di stucco. Era vero: Dana non aveva mai pensato a Julius come ad
un
fidanzato, un amante, un marito. Non gli si era mai avvicinata con
l’intenzione
di coccolarlo, baciarlo, abbracciarlo, non aveva mai sentito un impulso
sensuale nei suoi confronti. Non aveva mai pensato a come poteva essere
fare
sesso con Julius.
Mai.
Lei
non lo
voleva.
Perché
non lo
amava.
E
Julius,
sorprendentemente per lei, lo aveva sempre saputo e si era comportato
come un
galantuomo d’altri tempi. Da non credere.
L’uomo
continuò, di fronte ad una Dana perplessa come non mai:
“Io ho aspettato tutto
questo tempo che ti schiarissi le idee, perché non ti volevo
senza che tu fossi
convinta. Non mi pareva giusto. Volevo che fossi TU a scegliere me. E
non l’hai
fatto. In sei mesi non l’hai fatto. Non lo faresti in dieci
lustri.”
A
Dana vennero
le lacrime agli occhi: l’analisi di Julius era perfetta. Non
c’era nient’altro
da dire. “Scusa, Julius.” Si limitò a
dire, abbassando la testa. “Mi odierai,
ora.”
Ma
Julius era
davvero un tipo speciale, unico, fatto con uno stampo che poi era stato
buttato
via. “No.”
Si
alzò dalla
poltrona e le si avvicinò. Anche Dana si alzò.
Lord
Carnarvon
le prese la mano e gliela baciò, in perfetto stile
anglosassone, con tanto di
inchino: “Mia signora, mia Lady della teoria del Caos, vi
conviene portare
fuori le valigie perché il vostro cavaliere
arriverà a momenti.”
Fossero
state
parole pronunciate da un altro, avrebbero potuto sembrare una presa in
giro
bella e buona, ma dette da Julius no. Dana lo guardò in viso
per un attimo, poi
gli si buttò tra le braccia e lo strinse a sé,
commossa: “Grazie Julius. In
questi sei mesi hai capito di me più di quello che avessi
capito io.”
Julius
si
schernì: “L’avevi capito anche tu, ma
non volevi ammetterlo. Eri troppo
orgogliosa per farlo. Troppo accecata delle tue scelte.”
“Forse
sì.”
L’uomo
le
sorrise, accarezzandole leggermente una guancia: “Basta dai.
Va bene così. Vai
da lui.”
“Grazie,
Julius.”
“Fammi
sapere
se vuoi continuare il dottorato qui o tornare a Los Angeles.”
Gli
occhi di
Dana brillavano alla luce del caminetto. “Va bene.”
“E
intanto ti
mando gli appunti per scrivere l’articolo per il
‘Physics Review’ che
pubblichiamo dopo le feste, d’accordo?”
“OK.”
“E
Buon
Natale, anche alla tua famiglia.”
Dana
gli fece
gli auguri dandogli due baci, uno per guancia, poi, sentendo suonare il
campanello, uscì dalla porta dello studio quasi di corsa,
quasi volando, con il
cuore leggero leggero, ancora incredula che fosse stato tutto
così semplice.
Invece
Julius,
non più tanto sorridente e sicuro di sé, fatti
pochi passi si risedette lentamente
e pesantemente sul divano a fissare le fiamme del caminetto, mordendosi
un
labbro e lisciandosi con una mano i baffetti chiari.
L’uomo
sospirò
affranto.
Era
stato
difficile lasciarla andare via, ma…
Non era anche quello amore? Volere il
bene di chi si ama,
anche se la sua felicità non dipende da noi? Sì,
anche se faceva un gran male
dentro, nell’animo, nella profondità delle viscere.
Dopo un po’, la madre di
Julius entrò e gli appoggiò una
mano su una spalla, senza dire niente. L’uomo, riscuotendosi,
prese la mano di
Lady Carnarvon e gliela strinse leggermente, continuando a fissare il
fuoco che
consumava il ciocco di Natale.
“Dana è andata
via.”, la voce della donna era un sussurro.
Julius annuì leggermente:
“Sì.”
“Per sempre?”
“Non ho idea. Forse
sì.”
“Potevi ricattarla quanto
volevi per tenerla qui.”, gli
disse sua madre, quasi con un moto di rabbia, a denti stretti.
L’uomo scosse la testa
debolmente, guardando un attimo sua
madre: “No. Non avrei mai potuto.”
“Lo so. Immagino. Ma potevi
usare quello che sai per
svergognarla davanti a tutti e se teneva tanto alla sua carriera di
scienziata
magari avrebbe rinunciato a quell’uomo, magari sarebbe
rimasta qui...”
Julius scosse la testa. “Non
credo. La musica fa parte di
lei, la musica avrebbe vinto comunque e credo che ora la musica
prenderà il
sopravvento nella sua anima e la scienza la perderà per
sempre.” Julius
estrasse il telefonino dalla tasca e vi cercò una foto. Poi
passò il cellulare
a sua madre: “Perché questa è la vera
Dana. Lo so per certo.”
Eve, nel piccolo schermo del
cellulare, vide un’immagine di
Dana con una chitarra elettrica bianca al collo, in minigonna scozzese
e con i
capelli mossi dal vento artificiale di un teatro. Lo sguardo perso nel
vuoto,
il viso sudato, l’espressione quasi allucinata. Era la sera
della
gara-concerto. Lei sapeva che suo figlio aveva quella foto, lui gliene
aveva
parlato, ma Eve non l’aveva mai vista.
“Com’era a suonare
la chitarra?”, chiese, dopo un po’.
“Eccezionale.”
Julius si alzò, riprese il telefonino, lo spense
e si girò per andarsene. “Ma non
gliel’ho mai detto…”, concluse, con
amarezza.
“Come non le ho mai detto che l’amo da
morire.”
P.S.
Julius
Carnvarvon non esiste perché uomini del genere nella
realtà non credo esistano,
ma mi è piaciuto pensarlo, almeno per un capitolo. Baci e
grazie per le recensioni su questa e sulle mie altre ff! :-*** Shanna.
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Capitolo 24 *** Capitolo 24 ***
DEL COME LA
TRAPPOLA E’
ORMAI PRONTA, I TOPI VI CADONO DENTRO E,
COME TUTTO E’ INIZIATO, COSI’ TUTTO INEVITABILMENTE
FINISCE…
Il
pomeriggio
dell’ultimo dell’anno, Jared stava facendo dei
magnifici sogni di gloria.
Rilassato,
con
un sorriso a fior di labbra, sdraiato sul lettino della sua estetista
di
fiducia con una maschera antirughe/idratante/nutriente/ecologica in
faccia e la
manicure che gli faceva le unghie e gli
metteva lo smalto nero, beatamente sognava
i premi che avrebbe vinto in un prossimo futuro agli
MTVMusicAwards,
agli EuropeanMA, ai LatinMA… sognava i premi del Kerrang,
quelli di RockTV,
quelli di TRL, il premio Oscar per la miglior colonna sonora e,
già che c’era,
pure un premio Nobel. C’era quello per la Musica? No?
Beh, lo avrebbero inventato appositamente per
lui, ne era certo…
Poi,
mentre
pensava a quale andare, delle innumerevoli feste dell’ultimo
dell’anno a cui
era stato invitato, il suo cellulare lo riscosse dai suoi profondi
pensieri.
Sobbalzando sul lettino, estrasse con fastidio, ad occhi chiusi, il
dannato blackberry
dal taschino della sua camicia a quadretti rossa. Chi diavolo osava
disturbarlo
alle tre del pomeriggio mentre era impegnato in tal guisa?
“Pronto?”,
grugnì.
“Ciao,
sono
Tomo.”
Meno
male che
non era il commercialista: “Ehi, ciao Tomo. Che
vuoi?”
Tomo
esitò un
attimo: “Ehm… Devi venire a casa di
Dana.”
“Da
Dana?
Quando e perché?”
“Alle
quattro.”
“E
perché?”
“Vuole
vederti.”
“Ma
non
dovevamo vederci stasera a una delle feste, tutti quanti?”
“Sì,
ma è
saltato tutto, stasera non possiamo… Puoi oggi
pomeriggio?”
“Ma
perché?”
“Devi
venire.”
“Sono
impegnato tutto il giorno, non posso.”
“E’
importante. Per favore.”
“Uhm…
non so.”
Forse poteva spostare il suo appuntamento con Brent a più
tardi.
La
voce di
Tomo diventò quasi supplichevole: “Per favore,
Jared. Per favore…”
L’uomo
si
arrese, se non altro per curiosità. “Va bene, ma
posso solo per cinque minuti.”
“OK,
bastano.
Grazie.”
“Dove
vi
trovo?”
“Ti
mando un
sms con l’indirizzo, OK?”
“Va
bene.”
Jared
chiuse
il telefonino e solo allora si rese conto dello strano tono della
telefonata.
Dana
voleva
vederlo a casa sua? Che assurdità.
E
per cosa
poi? Non si sapeva: Tomo non aveva risposto.
Era
strano
pure il tono di voce del loro chitarrista, così monotono e
triste.
Era
tutto
strano, fuori dalle righe.
C’era
qualcosa
che non andava.
Jared
non
riuscì più a rilassarsi e quando, poco dopo
l’estetista finì, balzò in auto e
si diresse quasi di corsa verso la casa di Dana.
£££££££
Solon
si rese
conto che, invece di comporre una canzone, quel pomeriggio stava
semplicemente
cincischiando sopra la sua tastiera, perdendo e prendendo tempo.
Continuava a
infilare una dietro l’altra note a caso, senza senso, prive
di una melodia e
assolutamente inutili. Una benemerita porcheria.
Strano.
Di
solito non appena appoggiava le dita sui tasti, dopo poche note
riusciva a
trovare il bandolo del guazzabuglio di canzoni che aveva in testa, ma
quel
pomeriggio non ci riusciva, la sua vena creativa era andata a farsi un
giro
chissà dove e chissà quando sarebbe tornata.
Solon
si spostò
la frangetta di capelli neri e lisci dalla fronte, si tolse gli
occhiali e si
accese una sigaretta, rimuginando fra sé e sé.
‘Tutto
per
colpa di quella telefonata’, pensò.
Quella
che
aveva ricevuto da sua nipote Dana in mattinata.
“Ciao,
zio.”
“Ciao,
carissima Dana! Sei tornata e…”
Dana
non
l’aveva nemmeno lasciato finire: “Sì.
Ascoltami. Puoi venire a casa mia per le
quattro, oggi pomeriggio?”
“Non
so…
dovrei andare in sala d’incisione con Rachel,
dobbiamo dare gli ultimi ritocchi al nuovo CD e anzi
pensavo che se
volevi passare, noi…”
“No.
Ti prego,
zio, ti prego. E’ importante. Passa da me.”
Solon
aveva
piegato le sopracciglia, perplesso. Non era mai capitato che Dana
avesse
rifiutato un invito ad andare in studio da loro a vedere i Great
Northern
registrare. Mai. Ci doveva essere qualcosa sotto.
“Io… va bene. Se insisti…”
“Grazie.
A
dopo, allora…”
“Ciao.
E…”
Dana
aveva
messo giù subito.
Certo
che era
strana, quella ragazza, e il suo tono di voce ancora di più.
Che
diavolo
stava succedendo?
Solon
spense
la sigaretta, chiuse il quaderno degli spartiti in cui stava scrivendo
e mise
via tutto. Poi spense la tastiera.
Erano
le tre
ed un quarto.
Era
ora di
andare da Dana.
Era
ora di
sapere.
£££££££
“…
settantadue, settantatre, settantaquattro…”
Shannon
contava mentalmente il numero di volte che alzava i pesi, mentre,
sdraiato
sulla panca in canottiera e pantaloncini corti, rivoli di sudore gli
scorrevano
dappertutto.
“…
settantacinque, settantasei…”
Certo
che era
comodo avere una mini palestra in casa, pensava Shannon, cosa che
evitava di
doversi vestire, uscire dalla porta e salire in auto, però
ci voleva anche una
discreta disciplina nell’adoperare gli attrezzi con
assiduità. E questa
benedetta disciplina lui non ce l’aveva. Anzi, non
l’aveva mai avuta.
“…settantasette,
settantotto, settantanove…”
Usava
i pesi
due volte all’anno e proprio quando non aveva
nient’altro da fare. Ma alle tre
e un quarto del pomeriggio dell’ultimo dell’anno,
mentre aspettava che Jared si
decidesse a quale festa andare ed era andato a farsi bello
dall’estetista, che
altro c’era da fare?
“…
ottanta,
ottantuno, ottantadue…”
No,
c’era
qualcos’altro da fare.
Shannon
decise
che sarebbe arrivato a cento, poi avrebbe abbandonato la sua palestra,
avrebbe
chiuso la porta della mansarda dove teneva i suoi attrezzi (almeno per
i
prossimi sei mesi) e si sarebbe sdraiato sul divano con un sacchetto da
un
chilo di popcorn, una bella lattina di birra gelata e la visione di un
DVD
appena acquistato sulle gare del MotoGP.
“…
ottantatre,
ottantaquattro, ottantacin…”
Ma
il suo
conteggio venne interrotto dalla suoneria del cellulare che lo avvisava
che
Tomo lo stava chiamando.
Shannon
lo
recuperò subito, quasi contento dell’interruzione.
“Ciao,
Tomo!
Allora a che festa si va stasera?”
“Ciao.
Ehm… A
nessuna, temo.”
“E
perché? Che
succede?”
“Ehm…
Senti,
Shannon…”
“Dimmi.”
“Potresti
venire subito a casa di Dana?”
Il
batterista
si passò una mano sulla fronte per togliere il sudore:
“Adesso?”
“Sì.
Subito.”
“Perché?”
“Vieni
e lo
saprai.”
Shannon
sospirò
sulla sua montagna di popcorn e sul suo DVD che scomparivano
dall’orizzonte
delle sue intenzioni, ma, dopotutto, la voce di Tomo gli sembrava
allarmata:
“Ehm… OK.”
“Grazie,
Shan.”
“Di
niente.”
Tomo riattaccò subito e Shannon guardò
l’ora sul blackberry. Tre e mezza.
Perché
diavolo
c’era bisogno di lui a quell’ora?
Con
un sospiro,
l’uomo abbandonò la panca: c’erano guai
in vista, lo sapeva, se lo sentiva
sottopelle, visto che, come altre volte, si sentì come
l’ormai noto Santo
Shannon da Bossier City.
Cioè
martire.
£££££££
Tim
era in
pieno delirio.
Finalmente,
e
per la prima volta, era riuscito ad arrivare al cinquantesimo livello
del
PacMan sulla sua PSP. Erano due ore che giocava, aveva iniziato dopo
pranzo,
aveva l’adrenalina che gli usciva dagli orecchi, gli occhi
fuori dalle orbite e
il ciuffo di capelli sparato in alto, indomito.
Seduto
sul
divano con le gambe raccolte e l’occhio fisso al televisore,
non gli sembrava
vero di essere arrivato lì, a quel livello, ed era certo
che, nel giro di poco,
vista la mano d’oro che aveva quel giorno, poteva riuscire a
battere il record
che sua sorella aveva fatto mentre lui era in tournee. Bastarda.
Non
gli
piacque per niente, quindi, quando sua madre arrivò di corsa
in salotto
tendendogli il suo cellulare che squillava.
“Timothy,
hai
il cellulare che suona. Tieni.”
“Non
posso.”,
grugnì, facendo una smorfia di disappunto.
“Metti
giù la
PlayStation.”
“NO!
Sto
facendo il record. Non mi distrarre, mamma…”
La
madre
guardò il display del telefonino: “E’
Tomo. Magari è importante.”
“Qualsiasi
cosa sia, ora non posso.”
La
madre di
Tim sorrise: “Rispondo io, se vuoi.”
“No,
lascia
perdere. Lo chiamo dopo.”
“Dai,
mi
faccio dire.”
“Vabbé,
se
insisti…” Dopotutto la curiosità della
madre poteva fargli anche comodo, pensò
Tim, magari Tomo doveva dirgli una cavolata.
“Pronto.
Ciao
Tomo, sono la mamma di Tim. E’ un attimo impegnato.
Dì pure a me…” Tim, con la
coda dell’occhio, guardò sua madre mentre il suo
PacMan veniva rincorso da un
fantasmino nel labirinto e lei ascoltava la voce di Tomo, attenta.
“Sì, OK.
Glielo dico. OK. Ciao Tomo e… buon
anno…”
“Che
succede?”, le chiese subito Tim dopo aver visto la madre
farsi scura in volto e
ripiegare preoccupata le sopracciglia e, se lo faceva lei,
c’era senza dubbio
un motivo.
La
madre
scosse la testa. “Non so. Dice che devi andare subito a casa
di Dana, che è
urgente e che… Non so… Tomo era preoccupato,
aveva uno strano tono di voce,
come se avesse pianto… Mi ha fatto una bruttissima
impressione…”
Tim
abbassò il
joypad della Playstation per guardare sua madre e il fantasmino si
mangiò in un
boccone il suo Pacman, ma al bassista ormai non interessava
più.
Gli
interessava di più capire cosa stesse succedendo al suo
adorato amico Tomo.
Quasi
di
corsa, con preoccupazione, il bassista si alzò dal divano,
mollando tutto,
prese la giacca e le chiavi dell’auto ed uscì di
casa, senza dire una parola.
£££££££
Quando
Solon
arrivò a casa di sua nipote, non si stupì
più di tanto che la porta gli fosse
aperta da Jane, la migliore amica di Dana, nonché sua
co-inquilina.
Quello
che
invece aggiunse inquietudine maggiore alla sua agitazione, fu vedere
che al
piano di sotto non c’era nessuno e che Jane lo stava
accompagnando di sopra, su
per le scale, nella camera da letto di Dana.
E
per Solon,
entrare in quella camera, adesso in penombra, in cui tante volte aveva
insegnato a sua nipote a suonare, fu un colpo al cuore.
Perché
Dana
era a letto, stesa supina ad occhi chiusi.
Giaceva
sotto
un piumone rosa a fiorellini con il capo appoggiato sul cuscino, i
capelli sciolti,
il viso pallido e smunto, l’espressione seria.
Chiaramente
malata.
Solon
per un
attimo si bloccò, mentre Jane faceva il giro del letto e si
sedeva su una sedia
vicino alla finestra, lasciandone una per Solon, vicino al comodino.
“Ciao,
Dana.”, la salutò l’uomo, con
circospezione, chiedendosi se non stesse
dormendo.
Dana
girò
leggermente il capo a guardarlo e aprì piano gli occhi e
poi, a bassa voce,
rispose: “Ciao, zio.”
Solon
allora
si avvicinò: “Che… che
succede?”
La
ragazza
sembrò trattenere le lacrime e scosse leggermente la testa:
“Io… io non lo so…”
Poi
Jane,
interrogata da Solon con lo sguardo, parlò, con un piglio
che voleva essere
professionale, ma che invece nascondeva una grande amarezza:
“Dana sta male. Ha
una infezione che… che non riusciamo a curare…
E’ tornata dall’Inghilterra con
questa malattia addosso, ma non riusciamo a capire cosa sia, a cosa sia
dovuta…”
Solon
si
sedette sulla sedia, affranto, come se gli fosse crollato un muro
addosso, e
Dana gli allungò la mano perché la prendesse,
mentre Jane si alzò e si diresse
ad aprire la porta, visto che il campanello era suonato di nuovo.
“Oddio,
Dana,
mi dispiace io… non so davvero cosa dire, cosa…
cosa posso fare?”
“Niente,
zio.
Nemmeno i medici sanno cosa fare, né quanto mi
resta… da vivere…”, la ragazza
parlava con grande fatica e sembrava sempre sul punto di scoppiare in
lacrime.
“Ma…
hai fatto
tutti gli esami e…”
“Sì-sì,
tutti.
Un amico di Jane è il miglior medico infettologo degli Stati
Uniti e nemmeno
lui è riuscito a capire che virus mi ha colpito.
Sai…”, poi la ragazza fece un
piccolo sorriso, nel tentativo di alleggerire un’atmosfera
piuttosto pesante,
“… ho abitato nella casa dei discendenti dello
scopritore della mummia di
Tutankhamon… magari sono stata colpita dalla maledizione del
faraone…”
Solon
sorrise,
ma dentro di sé non scartò questa
possibilità: magari qualche reperto della
casa dei Carvarvon era davvero ancora infetto. Poi le baciò
la mano: “Ma no…
magari sei tanto stanca. Hai studiato troppo in questo ultimo periodo e
devi
solo riposare…”
In
quel
momento la porta si aprì con un cigolio e Solon si
girò, per chiedere ulteriori
lumi a Jane, ma non vide chi avrebbe voluto. Solon mollò la
mano di Dana,
sorpreso, non aspettandosi per nulla al mondo di trovarsi davanti il
chitarrista
che lo aveva sostituito: “TOMO MILICEVIC?”,
esclamò, spalancando gli occhi.
Il
ragazzo lo
salutò piuttosto serio, alzando una mano: “Ciao,
Solon.”
“Ma…
ma che ci
fai tu qui?”
Tomo
non fece
nemmeno in tempo ad aprire bocca per rispondere che la porta della
camera di
Dana si aprì nuovamente ed entrarono in fila indiana Jared,
Shannon e Tim, con
la faccia da funerale, visto che Tomo li aveva appena edotti sulla
malattia
sconosciuta di Dana.
“SOLON?”,
Jared si paralizzò dopo un passo.
“JARED?”,
Solon balzò dalla sedia.
Anche
Shannon
si accorse del loro ex-chitarrista e spalancò gli occhi:
“SOLON?”
Solon
era
diventato pallido: “SHANNON? E… E TIM? ECHECAZZO
SUCCEDE? Che ci fanno questi
qui, DANA? Che ci fanno i 30 Seconds to Mars al completo in casa
tua?”
Sua
nipote non
rispose, ma Tomo si avvicinò al letto e si sedette vicino a
Dana. La ragazza lo
prese per una mano e lui le passò un braccio attorno alle
spalle, mentre i
quattro musicisti li fissavano a bocca aperta, in attesa di una
spiegazione.
Dana
cominciò
a parlare lentamente, sottovoce, a fatica, cercando, senza riuscirci,
di
alzarsi un po’: “Shannon e Jared, Solon
è… è mio zio. E, zio Solon, Tomo
è il
mio ragazzo e a Maggio ci sposiamo, se ci arrivo…”
Il
mondo
sembrò fermarsi.
Nessuno
osava
fiatare.
La
notizia era
pesante per tutti.
Jared
e
Shannon avevano l’espressione di chi, nei cartoni animati,
è appena stato
investito da un camion. Tim stava pensando se era il caso di chiamare
un’ambulanza per la rissa che si sarebbe accesa da
lì a poco e Solon non
riusciva a staccare gli occhi da Tomo abbracciato alla sua Dana. Non
poteva
essere possibile una cosa del genere, doveva essere un incubo. La
malattia di
Dana e ora… il suo fidanzamento con Tomo… da non
credere.
“Nipote?”,
Jared ritrovò la voce per primo e si rivolse a Solon:
“Dana è tua nipote?”
L’uomo
annuì:
“Sì. E’ la figlia di mio fratello
maggiore. L’unica nipote che ho e…”
“Tua
nipote è
la ragazza di Tomo?” Shannon era assolutamente incredulo e
cercò di riprovare
con un’altra frase per trovare un po’ di senso
nella vicenda.
Solon
annuì:
“Sì. Ma… ma… Non
è possibile… io… Non vorrei che
lei… avesse a che fare con
voi!”
Dana
continuò,
con la voce supplicante: “Zio, per favore… ti
prego… fai pace con Jared e
Shannon. Fallo per me… Io… non voglio essere
d’intralcio per colpa tua, tra
Tomo e il suo gruppo… per favore…”
Solon
scosse
la testa: “Dana, tu sai che puoi chiedermi tutto, ma questo
no. Questo. No.”
“Per
favore…”
Dana improvvisamente cominciò a tossire e Tomo le porse
subito un po’ d’acqua,
con l’aria affranta. Nel frattempo era tornata anche Jane che
le passò un panno
umido sulla fronte. Nessuno osava parlare e tutti avevano gli occhi
puntati su
di lei. Dopo un po’ la ragazza si riprese. “Per
favore… non darmi questo
dolore, non farmi andare avanti il poco che mi resta da vivere con il
pensiero
che io non posso stare con Tomo perché tu hai litigato con i
Leto. Io amo
Tomo…”
Solon
si passò
una mano sulla fronte: “Non… non sono stato io a
litigare con i Leto, sono
stati loro a litigare con me. E non me ne frega niente se ami Tomo.
Avevi
giurato.”
La
ragazza
sospirò, cercando di trovare fiato sufficiente per parlare:
“Lo so, ma
avevo giurato che non avrei avuto niente a
che fare con i 30 Seconds To Mars molto prima di conoscere Tomo e ora
quel
giuramento non vale niente. E, a ben vedere, non valeva niente nemmeno
allora,
visto che Tomo al tempo non faceva parte del gruppo. Lui non
c’entra niente e
quindi il giuramento non vale…”
Solon
non era
affatto convinto: “Con quello che mi hanno fatto questi qui,
vale eccome.”,
disse, indicandoli con un dito.
“Io
non ti ho
fatto niente!”, disse subito Jared, ma la fretta con cui
intervenne, fece
capire a tutti che il colpevole del litigio Leto-Bixler era proprio
lui. Tutti
si girarono a guardarlo.
“Oh,
povero
verginello! Sai benissimo cosa hai fatto, invece!” Solon si
avvicinò
pericolosamente a Jared, abbandonando perfino il tono di voce
tranquillo e
dimesso che usava di solito. Sua nipote faticava a riconoscerlo, uno
zio Solon
così scatenato. “Non parlare con me come se non
sapessi cosa è successo e…”
“Ehi,
non
aggredire mio fratello così!”, intervenne
però Shannon, mettendosi di fianco a
Jared, prima che questo riuscisse a rispondere.
“Zitto,
Shannon, falli spiegare, altrimenti non ne usciamo
più!” Strano ma vero Tim, curioso
di sapere la ragione della lite, era intervenuto a favore di Solon.
“Stai
zitto,
Tim! Che cazzo c’entri, tu?”, lo
rimbeccò Shannon. Ed in breve tutti si misero
a gridare uno contro l’altro: da una parte la premiata ditta
Jared-Shannon e
dall’altra la strana coppia Solon-Tim. Ed in mezzo Jane, che
tentava di mettere
ordine nella discussione, di calmare gli animi, ma faceva
più confusione che
altro.
E
nessuno
badava a Tomo e ad una emaciata Dana, ai quali sembrava di stare
nell’ultima
scena del primo atto del Barbiere di Siviglia di Rossini, dove tutti
“cantano”
sovrapponendo le voci e nessuno capisce cosa viene detto.
Dana
si passò
una mano sulla fronte imperlata di sudore freddo e Tomo le strinse una
mano,
esasperato.
Doveva
fare
qualcosa.
Prese
una
sedia e vi salì sopra.
“ZITTI
TUTTI!
TUTTI!”, gridò, rivolto ai litiganti.
Il
gruppo
smise subito di urlare e tutti sgranarono un paio di occhi sorpresi sul
chitarrista arrampicato su un trespolo.
“TU!”
disse
Tomo puntando il dito contro Jared. “E TU!” Poi
spostò il medesimo dito contro
Solon: “Chiaritevi. Picchiatevi. Uccidetevi. Fate quello che
volete. Ma quando
uscite di qui non dovete essere di ostacolo tra me e Dana. Per nessun
motivo. Io e Dana
ci vogliamo bene, ci
sposiamo presto e io NON voglio avere litigi e giuramenti sulla testa
e, ogni
volta che ci vediamo in tutti, finiamo per litigare. NON VOGLIO! NON LO
ACCETTO, capito?”
Tomo,
dopo
averli squadrati in malo modo, scese dalla sedia e ritornò
da Dana, mentre
tutti si guardavano l’un l’altro perplessi. Jared
incrociò le braccia davanti
al petto come per volere tenere le distanze, Shannon e Tim si
guardarono un po’
in cagnesco. E Solon abbassò la testa a fissarsi i piedi.
Allora
Dana,
in pigiama di flanella azzurro, si alzò lentamente dal
letto, aiutata da Jane,
si avvicinò a Solon e lo prese per una mano, guardandolo
negli occhi: “Zio, è
ora di fare pace. Tu ora hai i Great Northern, hai trovato il tuo
equilibrio,
non hai più bisogno dei 30 Seconds To Mars e loro non hanno
più bisogno di te. Allora
basta. Basta. Chiaritevi e fate pace. Fallo per me, per favore. Se mi
vuoi
bene, fallo per me. Ora. Adesso. Prima che sia troppo
tardi…”
Solon
scosse
la testa: “Dana, io non posso. Non posso.”
La
ragazza non
capiva: “Ma perché? Cosa sarà mai di
così grave? Dopo sei anni, cosa può
essere?”
Solon
sospirò,
stringendole una mano: “E’ stato Jared. Jared ha
fatto una cosa gravissima.”
Tutti
si
girarono nuovamente a guardare il leader dei 30 Seconds, che
reagì
immediatamente: “Ma non è vero!”
Ma
Solon
rimaneva delle sue convinzioni: “Sì che
è vero! Una cosa che tra componenti
dello stesso gruppo non si fa!”
“Ma
cosa?”, la
voce di Dana era supplichevole.
Solon
si passò
una mano sulla fronte e sospirò: “Mi…
mi ha accusato di aver rubato una cosa.”
“Cosa?
Una canzone,
forse?”, l’ipotesi più probabile, tra
musicisti.
“No.
Peggio…”
“Ma
cosa?”
Jared
intervenne: “Tuo zio ha rubato una cosa fondamentale. E dopo
questo episodio,
di lui non mi sono più fidato. Non potevo più
fidarmi. Dopo quello, avrebbe
potuto rubare qualsiasi cosa…”
“Cosa
ha
rubato, Jared, cosa?”
Solon
scosse
la testa: “Dana, io non ho rubato niente e…
diglielo, Jared, cos’era questa
cosa tanto fondamentale, così vedi che figura
fai…”
Jared
lo
guardò con disprezzo: “Semmai la figura la fai tu,
ladro…”
“Zio,
per
favore, cos’era questa cosa?”
Solon
sospirò
per l’ennesima volta: “Lo dico solo per te, Dana.
Solo perché tu ti renda conto
con che gente hai a che fare. Era il suo… smalto nero per le
unghie.”
Tutti
rimasero
impietriti.
“COSA?”,
dissero tutti in coro, dopo un attimo di smarrimento.
“Solon
ha
rubato il mio smalto nero per le unghie e questo era un affronto che
non potevo
perdonare.”, declamò convinto Jared.
Dana
era senza
parole, Tim si sedette pesantemente sul letto, Jane soffocò
una risatina, e invece
Tomo si stava adirando di brutto, sconvolto che una banalità
del genere avesse
messo a repentaglio il suo rapporto con Dana: “COSA? Voi
avete litigato per
questa cazzata, vi siete quasi sciolti e siete arrabbiati da sei anni
per una
boccetta di smalto per le unghie del valore di due dollari? E non ci
sono altre
ragioni musicali o che so io?”
“Embeh?”,
disse Jared, facendo spallucce, per il quale era normale che nessuno
dovesse
toccare le sue cose, pena punizioni esemplari ed esagerate.
Tomo
si rivolse
allora a Shannon, stranamente silenzioso e in disparte, mentre Solon
scuoteva
la testa e Tim si diceva che lui aveva la sua boccetta di smalto al
sicuro, per
fortuna: “E tu lo sapevi, Shan? E hai accettato che questa
immensa cazzata
continuasse per anni?”
“No,
Shannon
non lo sapeva.”, disse subito Jared.
Il
batterista
aveva una strana voce: “Ehm… Infatti…
Io credevo avessero litigato per
questioni musicali, su come fare il secondo album, non… non
sapevo… ma…”,
Shannon si grattò la testa, come sempre faceva quando era in imbarazzo,
“Ehm… la faccenda della
boccetta è successa quella volta che abbiamo fatto il
concerto qui a Los
Angeles, vero? Nell’autunno del 2002?”
Solon
e Jared
cominciarono a guardarlo male e tutta l’attenzione dei
presenti si spostò su Shannon.
Se non ne sapeva niente, com’è che invece ne
sapeva? “Sì. Perché lo
chiedi?”,
gli disse il fratello, immediatamente insospettito.
Shannon
indietreggiò di un passo: “Ehm…
Jared… ehm… per caso quel giorno la boccetta
l’avevi lasciata nel furgone degli strumenti, dentro il vano
portaoggetti?”
Jared
annuì:
“Sì, perché?”
“Ehm…”,
Shannon si spostò verso la porta, “Ehm…
l’ho presa io… e l’ho usata
per…”, il
batterista era sulla soglia della stanza, “… per dipingere la marmitta
della mia vecchia moto.
Non avevo soldi per comperarla nuova, si era graffiata contro un
cassonetto e
così ho adoperato il tuo smalto senza dirtelo… E
Solon non c’entra niente…”,
disse, tutto d’un fiato, diventando piccolo-piccolo, come
quando da bambino era
costretto a confessare una marachella alla mamma.
Jared
invece
diventò paonazzo, spalancò gli occhi e si diresse
verso suo fratello: “COSA HAI
FATTO?”
Shannon
uscì
di corsa dalla stanza dicendo: “Ci ho dipinto la
marmittaaaaaa…”
Jared
uscì a
sua volta di corsa inseguendo il fratello e dicendo, nel bel mezzo
della sua
personale sceneggiata: “Come hai potuto??? Come hai potuto
farmi questo
affronto? Con tutto quello che ho fatto per te!!! TU, SANGUE DEL MIO
SANGUEEEEEE….”
Jane,
Dana,
Tomo, Solon e Tim rimasero a fissare la porta spalancata e i Leto che
scendevano le scale di legno come potrebbe fare una mandria di bisonti
imbufaliti, poi si guardarono un attimo uno con l’altro e
scoppiarono a ridere.
“Se
non se ne
fossero andati, quei Leto, avrei chiamato il manicomio...”,
disse per prima
Jane, sentendo la porta di casa chiudersi sbattendo dietro ai due
fratelli, “Perché
qui siamo all’assurdo. Al delirio.”
Dana,
ridendo,
con lo stesso panno con cui Jane le asciugava la fronte, si tolse lo
strato di
cipria chiara che si era messa per sembrare pallida, poi
abbracciò Tomo,
ricambiata. “E’ finita, amore mio!”, gli
disse, felicissima.
Tomo
quasi la
alzò di peso:
“Sììììììì!!
Hai visto che era meno peggio di quello che credevi,
eh?”
Solon
si mise
in mezzo, perplesso: “Scusate, ma… ma
tu… tu non avevi la maledizione del
faraone?”
Dana
fece un
sorriso furbetto: “No. Era per finta. Per farvi fare
pace.”
Solon
si passò
una mano sulla fronte e si sedette sul letto vicino a Tim, respirando
finalmente normalmente: “Pfiù, meno male, ho preso
uno spavento!”
Dana
gli si
avvicinò e gli accarezzò la testa:
“Scusa, zio, ma non sapevamo come fare…
Perdonami per la messinscena.”
Solon
scosse
la testa: “Vabbè, fa niente…
è anche vero che dopo sei anni era una cosa
ridicola che andasse avanti questa situazione… quasi mi
vergognavo a dirla… per
una sciocchezza del genere, poi…”
Tim
si alzò, si
avvicinò a Dana e le diede un bacio su una guancia,
rasserenato pure lui, prima
di stringere la mano a Tomo: “Sono contento che fosse tutto
finto! Meno male… E
ora… vado a vedere di recuperare i due Leto, prima che si
ammazzino!”
Tomo
scoppiò a
ridere: “Ma no… tra di loro si perdonano sempre
tutto. Sono fratelli.
Litigheranno un po’ e poi Shannon chiederà scusa a
Jared che lo perdonerà e
torneranno inseparabili. Succede continuamente.”
“Dici?”,
chiese Tim, “O mi devo trovare un altro posto di bassista da
qualche parte?” e
poi ridendo, uscì dalla porta anche lui.
“Sentite
che
ne dite se faccio un po’ di thè e ci mangiamo la
torta di mele che ha fatto
Tomo? Mi aiuti, Solon?”, chiese Jane escogitando su due piedi una manovra per lasciare
soli Tomo e Dana.
“Certo.”
‘Zio’
Solon capì al volo e la seguì facendo
l’occhietto a Dana e i due innamorati
rimasero soli.
“Allora?”,
chiese Tomo sorridendo e guardandola negli occhi, “Sei
contenta?”
“Sì,
tanto!”
gli rispose Dana, abbracciandolo. “E…”
“Cosa?”
“Ho
una
sorpresa per te.” Dana sciolse l’abbraccio e si
spostò verso la parete in cui
campeggiavano i poster ormai consunti di Omar Rodriguez-Lopez ed Albert
Einstein. Li staccò entrambi e li arrotolò,
mettendoli da parte. Poi, mentre
Tomo la guardava senza capire, tirò fuori da sotto il letto
un altro poster, ma
inserito dentro un quadro, e lo appese alla parete.
Tomo
sgranò
gli occhi, sorpreso: era una sua foto presa durante un concerto. Una
gigantografia
in cui compariva con la
Gibson
al collo (http://leto30stm.com/tomo.jpg),
le cuffiette agli orecchi, il ciuffo di capelli neri lisciato e un
residuo di
smalto nero. “Ora sei tu il mio chitarrista
preferito.”, disse Dana
contemplando la foto e poi girandosi verso Tomo. “Non esiste
niente e nessun
altro per me…”
Tomo
era al
settimo cielo, quasi aveva le lacrime agli occhi. “Nemmeno
per me…”, disse, in
un soffio. Poi si avvicinò a Dana, le si mise davanti, prese
un qualcosa dal
taschino della camicia, agguantò la mano sinistra di Dana e
le mise un anello
al dito. Il più classico e romantico degli anelli da
fidanzamento, d’oro e con
il diamante. “Ora che sei miracolosamente guarita dalla
maledizione del
faraone, va bene il week-end del primo maggio per il nostro
matrimonio?”
Dana
passò lo
sguardo dall’anello agli occhi scuri di Tomo, che brillavano
tanto quanto il
diamante e gli accarezzò una guancia, contentissima:
“Sì, va benissimo e…”
“Cosa?”
“Invitiamo
tutti?
Anche i Leto?”
“Certo!
E come
bomboniera possiamo fare i classici confetti con in più una
boccetta di smalto
nero, va bene? Così ognuno ha la sua e nessuno rompe,
OK?”
In
quel
momento, mentre Dana rideva a crepapelle, il cellulare di Tomo
segnalò l’arrivo
di un sms. Il chitarrista lo prese dalla tasca. Era un sms di Jared che
Tomo
lesse a voce alta.
Diceva:
“TOMO
HAI PRESO TU LA MIA MATITA
NERA PER
GLI OCCHI?????!!!”
FINE
P.S.
In nessun modo e su nessun sito sono riuscita a trovare una ragione
‘sfiziosa’
per cui Solon Bixler abbia lasciato i 30STM nel marzo del 2003.
Inizialmente
avevo pensato che il motivo fosse di ordine musicale: Solon, che ai
concerti e
nelle interviste mi pareva piuttosto punkettaro, poteva essere
contrario
all’idea dei 30STM di fare un secondo album meno rock del
primo. Cosa
assolutamente smentita dagli album dei Great Northern che di rockettaro
non
hanno praticamente niente e dal fatto che il secondo album dei 30STM
è uscito
parecchio tempo dopo l’abbandono di Solon, e gli album dei
Great Norhern ancora
più tardi. Inoltre, nonostante suonasse durante i concerti
dal vivo, Solon (e
anche Matt) ha partecipato soltanto marginalmente alla registrazione
del ST
che, come dice anche Jared al cap.22 di questa ff, è stato
davvero scritto e
suonato praticamente tutto dai due fratelli Leto con dei musicisti di
supporto (http://en.wikipedia.org/wiki/30_Seconds_to_Mars_(album)). Per
di
più, da tutti, Solon viene descritto come una persona
assolutamente tranquilla
e posata, che non ha mai avuto niente da ridire con nessuno, tantomeno
con i
Leto. In definitiva, secondo me il motivo per cui Solon se
n’è andato è davvero
quello scritto nella dichiarazione ufficiale rilasciata a suo tempo:
solo che
per la ff era troppo poco divertente, una ragione del
genere… per cui ho dovuto
ricorrere a buttarla sul ridicolo, altrimenti non ne uscivo
più! Spero che così
vi sia piaciuta comunque.
E
ora, parto con i ringraziamenti di rito.
Prima
di tutto le mie Beta-Readers, Tannaca e Folleria, che qualche volta
cercano di farmi
cambiare idea sui contenuti dei capitoli e non ci riescono mai, ma le
cui
‘critiche’ mi sono utili per rivedere dialoghi e/o
caratteri dei personaggi.
Alla mia Beta Cromia che ‘fisicamente’ mi ha
ispirato il personaggio di Dana. Inoltre,
un ringraziamento a parte a JCP: carissima, se anche per un momento
queste cose
che scrivo ti consentono di scordare il mondo esterno, per me
è un onore
scriverle: grazie per le
tue belle
parole e per il tuo incoraggiamento.
Un
grazie immenso a tutte le persone che ‘perdono’ il
loro tempo a leggere e a
quelle che hanno lasciato commenti e recensioni e che mi scrivono:
Folleria,
madiris, sally10989, BlueAndYellow, candidalametta, Revolve90,
Jaredina71,
Cromia, TaccaH, Martunza, princes_of_the_univers, Black Violet, Dying
Atheist,pixie, StephenKing, Artemide82, PrinzexKikka, jcp, Blue_moon,
LittleDarkVampire.
Per
terze, ma non per importanza, un grazie gigantesco a tutte le persone
che hanno
messo questa ff tra le preferite e seguite e che sono: alice_echelon,
alice_chan, araya, BlueandYellow, Blue_moon, candidalametta, caporalez,
Cromia,
Dying Atheist, fteli, giugina2004,
GothicGirl, LittleDarkVampire, Lostwhite, LunaBlu89,
madiris, Martunza,
pixie, princes_of_the_univers, PrinzexKikka, Revolve90, sally10989,
StephenKing, taccaH, The Fantasy, Titti_b, The Queen, _Sophy_xX.
Spero
di non avere scordato nessuno!
Un
abbraccio forte a tutti e
alla prossima!
Baci
e buona estate!
:-***
Shanna
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