Falling in love over and over

di Shakethatangstforme
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inverno in cui ci siamo innamorati ***
Capitolo 2: *** La stanza di Bucky Barnes ***
Capitolo 3: *** Stay with me ***
Capitolo 4: *** I'm a thousand winds that blow ***
Capitolo 5: *** It comes and goes in waves ***
Capitolo 6: *** Sarah ***



Capitolo 1
*** L'inverno in cui ci siamo innamorati ***


AMBIENTATA FRA CAPTAIN AMERICA: THE WINTER SOLDIER E CAPTAIN AMERICA CIVIL WAR
 

Bucky Barnes ha sempre amato l’inverno, o almeno, da quando ne ha memoria, che effettivamente non è un periodo particolarmente lungo. Però, in questi ricordi, la stagione invernale è sempre stata accompagnata da un sorriso.
Quella volta, però, Bucky Barnes non riesce proprio ad apprezzarlo, non è neanche certo di esserlo davvero, Bucky Barnes.
“Chi diavolo è Bucky?”, sono memorie ancora fresche, se chiude gli occhi riesce ancora a vedere il viso del Capitano Rogers scioccato dal vedere proprio lui.
 
Bucky, James, Buchanan, il Soldato, chiunque sia la persona che è adesso, è in fuga ormai da più di un anno, tutt’ora si sente perseguitato da chi ha l’ordine di riportarlo in Siberia e da chi vuole solo riabbracciarlo. E lui darebbe qualunque cosa in quel momento per sentire quelle braccia attorno al proprio corpo, ora che è solo in una casa fatiscente, dove si gela.
Ma per Bucky il freddo non è un problema, ci ha fatto l’abitudine, di certo l’HYDRA non si è mai premurata di procurargli una coperta e un pasto caldo, in uno dei gelidi inverni siberiani. Il problema sono i ricordi che quel freddo sta portando con sé.
 
Il Soldato d’Inverno era stato programmato per non provare alcun tipo d’emozione, era stato così per più di cinquant’anni. Sarò con te fino alla fine, e tutto era cambiato. Steve era tornato, Bucky era tornato dal suo Steve. E in un anno Bucky aveva dovuto imparare a gestire tutto quello che l’HYDRA gli ha impedito di sentire così a lungo – non ha ancora imparato, per questo sta fuggendo anche da Steve.
 
Bucky è seduto davanti la finestra, lo sguardo verso il basso, in un cortile coperto di neve, più avanti vede dei bambini divertirsi.
 
Bucky Barnes bambino amava giocare con la neve, passava ore e ore a farlo con i propri fratelli, ricorda bene anche il rammarico di poter coinvolgere raramente Stevie, troppo freddo, troppo vento, nessuno voleva rischiare di farlo ammalare. Bucky in primis.
E allora era nata una tradizione per far vedere a Steve quanto fosse divertente: i giovani fratelli Barnes andavano sotto la finestra di Steve per costruire il più assurdo dei pupazzi di neve, mentre Steve guardava divertito.
Anno dopo anno avevano continuato, anche quando gli altri avevano iniziato a trovarlo infantile, allora Bucky, per il solo gusto di far ridere Steve, da solo si ritrovava a costruire il più brutto dei pupazzi – purtroppo, il senso artistico non era mai stata una sua competenza, ma rientrava in quelle di Steve. Così erano nati album interi di schizzi di Bucky alle prese con la neve a cui Steve teneva particolarmente.
 
Anno dopo anno, però, il rapporto tra i due mutava, diventando sempre più stretto, fino a quando entrambi hanno realizzato di non poter vivere senza l’altro, che non importa come, ma loro ci sarebbero sempre stati l’un l’altro.
 
Bucky aveva diciassette anni quando per la prima volta non ha costruito alcun pupazzo di neve sotto la finestra di Steve, il più giovane non se n’era neanche reso conto, intento a disegnare l’amico chino sulla neve. Quando ha sollevato lo sguardo, infatti, si è ritrovato Bucky che lo guardava con le braccia incrociate, il naso rosso per il freddo, le mani nelle tasche del cappotto; nel momento in cui Steve ha spostato lo sguardo dove avrebbe dovuto esserci il solito pupazzo di neve si è ritrovato a osservare un cuore storto al cui interno c’era un appena leggibile punk.
 
“Te ne sei accorto, finalmente! È da dieci minuti almeno che aspetto”, Steve sentiva Bucky parlare, ma pareva così lontano – i suoni ovattati dal proprio cuore che batteva più velocemente.
“Buck…? Ma cosa…?”
“Parliamo un attimo?”
 
Steve all’epoca sarà pure stato cagionevole, debole e magro, eppure Bucky se lo è ritrovato davanti la porta in un battito di ciglia, fermo sull’uscio, era chiaro l’invito a entrare in casa. Bucky non farebbe mai uscire Steve con quel tempo.
Dovevano parlare, ma nessuno dei due diceva una singola parola.
Steve è leggermente arrossito sulle guance, Bucky sentiva il proprio cuore pronto per uscire dal petto, talmente era forte. Occhi negli occhi, così vicini da poter sentire il respiro dell’altro contro il viso.
“Stevie, io – “

Non hanno parlato, perché, alle volte, le parole sono superflue. Steve Rogers, quella volta, ha baciato per la prima volta Bucky Barnes. Era rischioso, avrebbero dovuto evitare, ma certi sentimenti sono incontrastabili.
 
E dopo cinquant’anni Bucky Barnes riesce ancora a sentire le labbra del proprio migliore amico contro le proprie, un solo sentimento certo in quel labirinto di emozioni a cui non è abituato: l’amore che prova per lui, mai svanito, che lo ha salvato.
Adesso, guardando fuori dalla finestra, desidera soltanto di potersi rimettere in sesto per poter tornare da lui, ma farlo come il vero Bucky, non l’uomo a metà che sente di essere per ora.
Aspetta, allora, perché probabilmente, dopo tutto quello che ha fatto, Bucky non vale lo sforzo che Steve sta facendo per trovarlo, ma Steve vale assolutamente la sofferenza di non raggiungerlo, se questo significa poter tornare da lui come un uomo sano.

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Capitolo 2
*** La stanza di Bucky Barnes ***


Possibili spoiler di Endgame alla fine della storia
 
Bucky ha conosciuto più stanze di quelle che vorrebbe.
 
La prima, quella in cui è nato – anni quaranta a Brooklyn, una stanza che lo ha visto crescere fino a diventare adulto. Lì ha giocato, riso, pianto, ha condiviso lo spazio con i propri fratelli. Lì si è reso conto di essere innamorato.
In quella stanza, in quei pochi momenti in cui riusciva a ritagliarsi uno momento di privacy, Bucky ha scoperto cosa significava passare ore a letto con la persona che si ama, lì, disteso accanto a Steve, sorridendogli in modo quasi stupido, per quanto era dolce, tenero, in adorazione. Quella stanza che ricorda baci, carezze e promesse di rimanere insieme a qualunque costo.
 
Bucky non ci è mai più tornato.
 
Poi arriva l’esercito, l’addestramento, le sveglie nel cuore della notte per imparare a essere sempre all’erta. Non era una stanza personale, quella, è il luogo in cui dormiva – effettivamente l’unica cosa personale, lì, è un disegno dove Steve ha ritratto uno dei loro baci. È sempre nascosto, quel disegno, per il timore che qualcuno possa vederlo e non capire che non c’è devianza, in quel bacio, ma solo amore, un amore che Bucky non ha mai provato prima e che la lontananza non fa altro che rendere più forte - Bucky tornerà da Steve, sempre.
 
Ma è Steve ad andare da Bucky, quella volta.
 
Bucky non sa neanche di preciso quanto tempo passa in quella cella, circondato dai propri compagni, costretto a lavorare fino a quando non si regge più in piedi. 
Ma poi arriva la stanza e, onestamente, Bucky tornerebbe volentieri ai lavori forzati. Quella è pura tortura, digiuni prolungati, o assenza di acqua, o entrambi, dolore fisico, elettricità, gli iniettano chissà cosa e a Bucky sembra di stare impazzendo.
Cerca di ripetersi chi è, dietro gli occhi cerca di ripescare quelle immagini che sembrano essere l’unica cosa che lo ancorano alla realtà: abbracciare Steve, un sorriso di sua madre… ogni secondo che passa, però, è come se venisse costretto ad allontanarsi da questi ricordi.
Ma poi sente quella voce che dice il proprio nome e Bucky per un istante crede di starselo immaginando. Steve?
 
Bucky Barnes, a quel punto, impara a condividere lo spazio con Captain America.
 
A volte Bucky è convinto che tutti gli altri lo sappiano che lui è completamente innamorato di Steve, lo confida allo stesso che risponde con un semplice: “Pensi che si mettano contro Captain America?”, che fa effettivamente ridere un po’ Bucky, che risponde: “Penso che il siero abbia amplificato anche la tua voglia di farti picchiare, Rogers”, riceve un verso divertito in risposta – è un momento di pace in una guerra che sembra non finire mai, attorno a loro, quindi Bucky si fa bastare questa idea, appoggia la testa sulla spalla di Steve e insieme passano la notte seduti fuori a fare la ronda.
 
Tuttavia, Bucky perde Steve.
 
E pensa di averlo perso per sempre. Sente ogni osso rotto, dolori lancinanti nel corpo e il desiderio di essere morto sul colpo, piuttosto che sentire questa agonia. Non riesce a muoversi, sente troppo sangue uscire. Panico.
Da quel momento in poi il vero Bucky Barnes desidererà essere morto ogni giorno, piuttosto che sopportare quello a cui lo sottopongono.
C’è una stanza, quando si sveglia, troppo luminosa, abbastanza da rendergli difficile aprire gli occhi, per un momento immagina che troverà Steve, preoccupato e innamorato come lo ricorda. Ma non è così.
Sergente Barnes. Una voce sconosciuta, un accento che non è sicuramente quello americano, ma c’è troppa luce, Bucky si rende conto di provare troppo dolore per potersi muovere e reagire.
E poi il panico, si sente bloccare, sente un rumore a lui sconosciuto avvicinarsi, elettrico, spalanca gli occhi realizzando che il braccio sinistro non poteva muoverlo perché non esiste più, poi urla, solo urla, dolore che sembra eterno, tanto da farlo svenire – purtroppo, dice una voce nella sua testa, non è morto in quell’occasione.
 
Bucky si sveglia e realizza di essere diventato una cavia da laboratorio.
 
Realizza anche di non aver saputo fino a quel momento cosa volesse dire tortura.
È una stanza buia, che si accende solo quando lo trascinano su quella sedia, quella in cui l’HYDRA uccide Bucky Barnes.
Parole, urla, preghiere di un ragazzo che non ce la fa più, tanta, tantissima ribellione, la tremenda consapevolezza che nessuno lo cercherà mai, neanche Steve, l’ultimo viso amico che ha visto nella sua vita, pensa. L’ultimo che vedrà mai, Bucky pensa che morirà lì.
 
E poi l’HYDRA decide di farlo vivere nel ghiaccio.
 
In quei momenti Bucky Barnes è stato annientato. Non è rimasto niente. Dentro la testa solo le voci dell’HYDRA, il russo, una lingua che il vero Bucky non aveva mai neanche pensato di imparare.
Ma a quel punto Bucky non esiste. L’HYDRA ha creato il Soldato d’Inverno, un perfetto schiavo armato, privo di emozioni, pensieri e memorie. Un soldato che di proprio non ha niente se non una stanza, una cella, dove l’HYDRA lo congela regolarmente, quando non ha bisogno di lui – trattato alla stregua di un oggetto.
 
Eppure, quell’assassino dagli occhi privi di emozioni incontra Steve Rogers e per la prima volta dopo anni sente.
 
Perché Il soldato d’inverno sa che in qualche modo lui quell’uomo lo conosceva, non importa cosa dicano i dottori o quante volte viene colpito perché chiede, lui lo conosceva e il calore che questa consapevolezza porta al proprio cuore è talmente bello che non vuole dimenticarlo, ci si aggrappa in modo disperato. Riportatelo a zero.
Ma certe persone sono semplicemente troppo importanti per poter essere dimenticate e quando Bucky rivede Steve torna a combattere con tutta la forza che settant’anni di torture gli hanno lasciato, per riaverlo indietro.
Sarò con te fino alla fine, e il Soldato d’Inverno viene messo all’angolo, incapace, per la prima volta, di completare una missione. Decide, in quel momento, di fuggire da un destino chiuso in una stanza di ghiaccio e cercare di ritrovare sé stesso. Chi diavolo è Bucky?
 
La persona che fugge, però, non è né il Soldato d’Inverno, né Bucky Barnes e allora corre cercando di capire chi è davvero.
 
Quella persona, giorno dopo giorno, anno dopo anno, impara qualcosa di nuovo su sé stesso. Tenta disperatamente di ritrovare una propria identità.
Vive in una casa quasi fatiscente, eppure lui ne è fiero per come, nelle piccole cose, quella casa è piena di dettagli scelti da Bucky. Il materasso dove lui pensa sia meglio, il frigo con il cibo che a lui piace, gli snack che ha deciso essere i suoi preferiti, persino un paio di libri che, in ricordi lontani, ricorda essere i suoi preferiti. Ma è ancora vago, poco stabile, eternamente in conflitto con sé stesso.
 
Ed è per questo che, anche se ritrova Steve, decide che è meglio tornare in quella stanza di ghiaccio.
 
Steve non era d’accordo, ha pregato in tutti i modi di cambiare idea, ho bisogno di te, Buck. “Esatto! Tu hai bisogno di Bucky, Steve e… e io non lo sono, io sono pericoloso”.
Steve ha sofferto troppo a causa sua, non può rischiare che delle stupide parole lo mettano di nuovo in pericolo.
Ma lì sono in Wakanda, Bucky ammira quel posto e la serietà con cui Shuri gli parla, gli assicura che troverà un modo di togliergli tutte quelle cose dalla testa – troverà il modo di aggiustarlo, in parole che userebbe lui.
 
E quando è pronto, Bucky si ritrova a sorridere sentendosi bene, lì, in Africa.
 
La prima persona che chiede di sentire è, ovviamente, Steve e Bucky è grato al re T’Challa quando lascia loro privacy. Steve lo stringe in un abbraccio forte, Bucky poggia la testa sulla sua spalla, sorpreso di vedere la barba sul volto dell’uomo, ma non infastidito, con l’unica mano stringe il tessuto della maglietta che Steve indossa come se non volesse farlo andare più via. Steve gli permette di allontanarsi, così da guardarsi negli occhi, ma non lo lascia, gli passa le mani fra i capelli sempre più lunghi, si sorridono. Bucky bacia Steve, un bisogno al pari di quello per l’aria.
Steve rimane un paio di giorni, T’Challa li invita al palazzo, Bucky mostra un po’ a Steve la città, che prima Shuri ha mostrato a lui, gli mostra il posto in cui vive, quella stanza in mezzo alla natura dove Bucky ammette di sentirsi libero, finalmente. E Steve ne è così felice.
 
Ma non dura così a lungo, questa felicità ritrovata.
 
Bucky è stanco, non vuole più combattere, vorrebbe poter semplicemente vivere la propria vita, potendo, si libererebbe anche del siero del super soldato – forse è per questo che non ha chiesto un braccio, non ne sentiva il bisogno, non quando è in una terra, libero, dove ha iniziato a conoscere le persone, dove queste lo rispettano e gli hanno dato persino un soprannome. Lupo bianco è molto meno militare di Soldato d’Inverno.
Ma, nonostante questo, Bucky non potrebbe mai rifiutare di affiancare Steve in battaglia. E allora si lascia impiantare un nuovo braccio, si lascia dare una nuova divisa e una nuova arma ed eccolo lì, pronto a seguire di nuovo quel ragazzino di Brooklyn che non sa tirarsi indietro dalle battaglie.
Ma Steve glielo promette, dopo quella volta si rifaranno una vita insieme, quella che gli era stata negata tanto a lungo.
 
L’ultima cosa che ricorda di quella battaglia, Bucky, è Steve.
 
Semplicemente, a un certo punto, Bucky cessa di esistere e, davvero, a quel punto lui non vuole. Non ora che ha ritrovato Steve, non ora che possono stare assieme. Bucky lo guarda un’ultima volta e vorrebbe correre da lui, baciarlo e sentirsi dire che andrà tutto bene, ma non è così, perché Steve non ha neanche il tempo di rispondergli.
 
Ma come cessa di esistere, Bucky torna, lì, sul suolo Wakandiano, confuso e senza Steve.
 
Bucky lo chiama, cerca in quella natura che aveva tanto apprezzato, trova Sam, trova T’Challa, ma lui non c’è. Non capiscono cosa stia succedendo, almeno finché non arriva un tipo che non ha mai visto, Strange dice di chiamarsi, che spiega tutto in modo parecchio veloce, comunica loro che il Capitano ha bisogno di voi. E Bucky va, come non potrebbe.
L’ultima battaglia, si dice, e questa ha intenzione di vincerla. Non sarà lui a salvare il mondo, ma lui vuole continuare a viverci, con Steve.
 
Ed alla fine, nonostante le perdite e i sacrifici, è quello che succede.
 
Lui e Steve tornano insieme a New York, decidono di prendere casa lì in modo da poter tenere d’occhio gli Avengers, aiutarli, in caso di bisogno. Steve ha ceduto il titolo di Capitano a Sam.
E dopo mesi, quando Bucky si guarda introno, vede una stanza piena di libri che gli piacciono, film, cd, le coperte che ha scelto, e, lo sa, quella è proprio la stanza di Bucky Barnes e lo è perché è anche quella di Steve Rogers, se lo sono promessi e Bucky non ha mai smesso di crederci, staranno insieme fino alla fine.

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Capitolo 3
*** Stay with me ***


 
E se Steve fosse morto alla fine di Endgame?

No, ti prego no, non puoi farmi questo. Steve… Steve, ti prego. Abbiamo vinto, Steve, Stevie, punk, l’abbiamo sconfitto, possiamo tornare a casa.
Stai piangendo.
Dai, smettila, perché dovrei? Starai bene, Steve, ci… ci aiuteranno i tuoi amici e poi torniamo a casa, me lo hai promesso, Steve, non puoi infrangere così la parola data. Steve, staremo insieme fino alla fine, io e te, perché io ti amo e mi dispiace non avertelo detto prima, ma avevo paura della tua reazione, ma adesso mi rendo conto che è stato stupido, perché la mia vita senza di te è incompleta.
No, Steve, smettila, non mi interessa che posso andare avanti, io voglio solo che adesso ti alzi, o che ti fai portare come quando eri troppo basso e troppo testardo, ma ce ne andiamo, okay? Dimmi che verrai a casa con me.
No, no, non dirmi che sei stanco, non… non lo sei, okay? Tu non sei mai stanco, tu sei testardo, forte, non voglio lasciarti andare, Steve, ti ho appena ritrovato. Stringimi la mano, ti prego, non allentare la presa.
Steve?
Stevie?
Non chiudere gli occhi, il mondo ha bisogno di te, io ho bisogno di te, ti amo, Steve, non avrei mai dovuto nascondertelo.
Ti prego.
Non lasciarmi.
Rimani con me.
Cosa faccio senza di te?
Steve?
 
Quella volta, nessuno osa avvicinarsi, le persone piangono, Sam, Tony, Thor, persino Scott, T’Challa stringe Shuri a sé, Peter si stringe a Tony che sembra essere sorretto solo da Pepper. Ma nessuno interrompe quella supplica di un uomo disperato che vede morire chi ama fra le braccia, nessuno lo giudica. Bucky sta piangendo sul corpo di Steve, ci si aggrappa come se fosse l’unica cosa che lo tiene insieme, ma questi non risponde, non può.
Sam guarda Tony, che annuisce, sono gli unici che si muovono, si abbassano, Tony chiude gli occhi del corpo esamine di Cap, Sam lo guarda, guarda Bucky. “Mi dispiace”, è un sussurro, inutile e lo sa, non servirà a niente, non placherà il dolore.
Bucky guarda Sam negli occhi, guarda Tony e a quel punto poco importano le antipatie o i trascorsi, quello è un uomo distrutto, col cuore spezzato. Non gli chiedono di muoversi o di smettere di abbracciare un corpo che ormai ha smesso di vivere, non ne hanno il coraggio, ma loro due, come tutti gli altri, gli fanno sapere che gli sono vicini.
 

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Capitolo 4
*** I'm a thousand winds that blow ***


Steve Rogers alla fine di Infinity War
 
L’ha perso. L’ha perso di nuovo e, di nuovo, davanti gli occhi. E Steve si sente nuovamente in colpa per ciò che è successo.
Steve l’aveva lasciato cadere, se l’era lasciato scappare nel momento più fragile quando non era Bucky, ma non era neanche più il Soldato d’Inverno e, adesso, è successo di nuovo.
Steve?”, è stata l’ultima cosa che Bucky ha pronunciato dopo che Thanos aveva schioccato le dita e quel suono è stato uno dei più dolorosi della vita del Capitano. Bucky aveva bisogno del suo aiuto, Steve avrebbe dovuto salvarlo – salvare un intero universo – ed ha fallito.
 
Di Bucky Barnes, adesso, non ne rimane che polvere dispersa nel vento, neanche un corpo da piangere, ma solo la consapevolezza di aver fallito.
 
Non sa quanto tempo Steve rimanga seduto lì, le mani fra la terra alla disperata ricerca di qualcosa, ma non c’era niente, se non l’arma scivolata dalle mani dell’uomo – un uomo che ora vive nei ricordi, che sono i più belli per Steve, sono quelli che sanno di casa, di protezione… lui, Captain America, che si sentiva protetto da un abbraccio. Quando dovrebbe essere lui a proteggere il mondo, no?
 
Ma ha fallito e ora il mondo, l’universo, ha perso metà della popolazione e Steve Rogers (non Captain America) non può fare a meno che incolparsi della cosa. Eppure, egoisticamente, ciò che gli dilania il cuore è l’aver perso lui. La consapevolezza che non avrebbe mai più potuto stringerlo in un abbraccio, che mai più avrebbe sentito la sua risata, che non avrebbe mai sentito il confortevole peso del suo corpo accoccolato contro il proprio, le labbra sulle proprie. Niente. Non è rimasto niente se non dei ricordi troppo belli per poter essere rievocati senza soffrire, ma proprio per questo impossibili da sopprimere.
 
Steve ha perso di nuovo Bucky e questa volta è stata ancora peggio, perché ora si erano ritrovati, ora si erano promessi che sarebbero tornati a casa assieme, perché Bucky stava bene.
Quello di Steve non è un lutto, ma è la perdita di un pezzo di cuore, il più importante, è la perdita della metà della sua anima.
 
Steve si alza, lo sguardo fermo in quello di Natasha, tutti hanno evitato di calpestare quel punto dove il suo amato è svanito, ma è una cosa sciocca, Bucky non è lì, Bucky non è morto, Bucky è stato cancellato, eliminato dall’esistenza come se non fosse mai esistito.
Steve è sopravvissuto, ma sente di aver perso tutto, sente di aver perso l’ossigeno che lo teneva in vita.

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Capitolo 5
*** It comes and goes in waves ***


Nella nuova timeline del 2012 Steve, come prima cosa, salva Bucky

Se aveste detto a un giovane Bucky Barnes che nel suo futuro sarebbe potuto andare in spiaggia con Steve Rogers ufficialmente come una coppia, senza doversi nascondere, probabilmente avreste ricevuto uno sguardo parecchio perplesso, come risposta.
Chiaramente non per Steve – diamine, Steve è l’unica costante che ha sempre avuto nella sua vita – ma perché l’epoca in cui è nato non era sicuramente un’epoca in cui esistevano addirittura cose come i pride.
 
Adesso, però, Bucky è seduto sotto il sole, lo sguardo rivolto verso il mare e il sorriso è lieve nell’espressione assorta che ha assunto. Sta pensando.
È difficile, per Bucky, non perdersi nei suoi pensieri. È passato poco più di un anno da quando ha ritrovato Steve – o meglio, Steve ha ritrovato lui – e non si sente ancora affatto stabile, se chiude gli occhi riesce a sentire ancora il dolore, l’annichilimento; vede dietro le palpebre tutto ciò che ha fatto, e i sensi di colpa sono immensi. Perché Bucky non voleva.
 
Steve l’aveva trovato, salvato e lui aveva reagito, lo aveva ferito, in difesa dell’HYDRA. Un perfetto burattino. Ma Steve non aveva demorso. Steve, Tony, Natasha, erano lì e l’avevano salvato. Riprenditi il tuo fidanzato-assassino. Era stata una delle primissime battute di Stark rivolte a Steve, quando Bucky aveva iniziato a tornare in sé, una battuta che inizialmente non aveva colto come uno scherzo, considerato i trascorsi con gli Stark… ma lite dopo lite, giorno dopo giorno, avevano trovato una pace.
E Bucky è diventato ufficialmente il fidanzato-assassino di Steve.
Prova molta stima, Bucky, per Tony, in realtà – ascolta volentieri l’uomo vantarsi della sua ultima invenzione e, negli ultimi tempi, aveva iniziato a rispondere col proprio sarcasmo all’ironia di Tony. Steve è estremamente entusiasta di questa cosa.
 
Ma non è sempre così, ci sono quei momenti in cui Bucky si chiude nella propria testa, momenti in cui si spaventa o, peggio, spaventa gli altri, perché è ancora tutto lì. Ci stanno lavorando.
 
È per questo che adesso lui e Steve sono al mare, in vacanza. Bruce pensa che sia una cosa utile per lo stato mentale di Bucky, ritiene che allontanarsi dallo stress degli Avengers, dalle missioni (a cui non gli è comunque ancora permesso di partecipare) possa solo migliorare una situazione non molto stabile.
E, insomma, Steve non appena ha sentito che la cosa potrebbe giovare all’altro ha accettato immediatamente. Bucky sa che Steve si sente in colpa per ciò che gli è successo.
 
È proprio Steve a distoglierlo da queste elucubrazioni, sedendoglisi accanto, le mani che vanno a intrecciarsi in un gesto ormai naturale.
“Come ti sembra qui?”, chiede, costringendo l’altro a deviare i propri pensieri – che è un bene, perché stavano andando sempre più verso l’oscuro.
“Mi piace, non c’è neanche tanta gente”, cosa davvero importante per lui, considerando cosa potrebbe accadere.
“Anche a me, era da un po’ che non mi prendevo una vacanza”.
Bucky si ritrova a sogghignare, girando il viso verso quello dell’altro. “Rogers, ti conosco da una vita, tu non ti sei mai preso una vacanza”.
Steve ride, e per Bucky è uno dei suoni più belli che possano esistere al mondo. Tony sostiene che da quando Bucky è tornato Steve ha smesso di essere troppo rigido, si è sciolto un po’ (certo, detto con parole più da Stark).
 
In quel momento, in quella risata, Bucky decide di catturare le labbra dell’altro in un bacio, sente la mano del biondo finire automaticamente fra i suoi capelli, ormai lunghi. Si baciano, incuranti di essere Captain America e il Soldato d’Inverno, ma solo in quanto Steve e Bucky, quei ragazzini di Brooklyn che si sono innamorati quando ancora non era iniziata la seconda guerra mondiale.
 
Bucky non si illude, sa che la strada è lunga, che non è neanche a metà del percorso verso la totale ripresa (che forse non arriverà mai), ma si gode ogni singolo istante, perché in quel momento si sente felice e, ha imparato, la felicità può essere strappata via in pochissimi secondi – il tempo di una caduta, il tempo di pronunciare qualche parola, il tempo di annullare una persona.

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Capitolo 6
*** Sarah ***


IL PUNTO DI VISTA DI SARAH ROGERS
 
4 luglio 1918, senza dubbi il giorno in cui Sarah Rogers scoprì la vera felicità. Il giorno in cui poté, finalmente, stringere fra le braccia quel bambino che aveva tanto desiderato, un bambino gracile, che sembrava senza capelli tanto era biondo, ma che per lei era un angelo fra le proprie braccia.
Guardare quel bambino crescere giorno dopo giorno era una sfida, una continua incertezza, perché il piccolo Steve Rogers, per tutti, era un bambino davvero inadatto alla vita. Non per Sarah, no, per lei quello che teneva così stretto a sé era un piccolo guerriero – solo un neonato ma con un desiderio di combattere e resistere incommensurabile. Vedeva tanto di Joseph, in quel bambino, Sarah.
Il suo amato Joseph non ha poté mai conoscere quel figlio che tanto aveva desiderato, ma Sarah sapeva che ne sarebbe stato fiero. Un piccolo guerriero dai grandi occhi blu e il sorriso sempre gentile sulle labbra.
 
E il piccolo Steve non dovette mai smettere di combattere per la vita, una vita che, nonostante tutto, quel bambino sembrava voler vivere fino alla fine, senza limitazioni… e di limitazioni ne aveva parecchie. Che fosse asma o un problema al cuore, Steve accettava la situazione e non demordeva. Niente avrebbe mai fermato quel bambino, e Sarah ne era così orgogliosa. Bastava sentirlo ridere per lasciarsi passare addosso, con una scrollata di spalle, tutti i commenti acidi che sentiva, quei commenti che descrivevano il suo piccolo amore come un peso, quasi uno spreco di soldi, perché era ovvio che non avrebbe vissuto a lungo.
Voi non conoscete il mio Steve.
Non che Sarah si illudesse, sapeva bene che la salute di quel bambino era perennemente al limitare di un baratro, una febbre nel momento sbagliato e avrebbe rischiato di non svegliarsi l’indomani – ma anche consapevole di ciò, avrebbe lavorato ventiquattro ore al giorno tutti i giorni, se questo avrebbe significato dare a Steve la vita che si meritava di vivere.
 
Nonostante la sfortuna nella salute, Steve aveva subito rivelato un carattere davvero deciso, con una morale di ferro, nel corpo gracile di un bambino di sei anni.
Più basso dei bambini della sua età, Steve comunque usciva di casa il pomeriggio dopo la scuola per andare a giocare con gli altri bambini, all’inizio Sarah pensava che fosse sbadato, ma era bastato seguirlo per dieci minuti, dopo averlo mandato a giocare, per scoprire che quando Steve tornava a casa con qualche graffio, livido o ginocchio sbucciato era perché aveva difeso qualcuno, che fosse un bambino a cui avevano fatto uno sgarbo di troppo o una bambina a cui veniva rubata la merenda. Quando era tornato a casa, dopo la scoperta, Sarah non se l’era sentita di rimproverarlo – dopotutto, che aveva fatto di male? Perché mai avrebbe dovuto zittire la sua voce che invece si stava ribellando ai prepotenti? Però gli chiese di fare attenzione, Steve si era imbronciato un po’, riflettendo, poi aveva annuito e le aveva fatto un gran sorriso. “Sì, mamma”.
 
A un paio di settimane da quella promessa, Steve stava ritardando nel tornare a casa e nella mente di Sarah vi erano già i peggiori degli scenari, stava cercando il proprio cappotto, pronta a uscire per cercarlo, quando sentì delle risate, l’inconfondibile voce di Steve e una a lei sconosciuta. Cercando di dissimulare la preoccupazione, andò ad aprire la porta.
La scena che si trovò davanti era quella di Steve con un ginocchio sbucciato, appoggiato e sorretto da delle braccia di bambino, più alto di lui, ma non più grande d’età a giudicare dall’aspetto. Era Steve a sembrare più piccolo.
Non appena la donna si chinò per essere all’altezza dei due bambini, si ritrovò davanti un sorriso sdentato e due grandi occhi dal colore indefinito, dipende da come il bambino si muoveva erano tanto grigi quanto azzurri.
In ogni caso, il bambino non le diede l’opportunità di chiedere per prima chi fosse che lui già le tese la mano con fare educato. “Salve, signora mamma di Steve”, le disse, con tono solenne, come se si stesse presentando a qualche persona di grande spicco. Sarah strinse la mano del bambino.
“Ciao…”, lasciò la frase in sospeso, aspettando che il bambino si presentasse, ma a quel punto intervenne Steve, fece lui. “Ma’, lui è James, James, lei è ma’”.
James parve convinto e soddisfatto delle presentazioni e annuì, come se il sapere che lei era la mamma di Steve fosse la migliore delle garanzie.
“Ho accompagnato Steve a casa perché gli fa un po’ male la caviglia, dopo essere caduto”, spiegò il bambino, a cui Steve riservò un’occhiata come se il rivelare questa cosa fosse il peggiore dei tradimenti e non un gesto tanto semplice quanto bello. “Ma non si preoccupi, l’ho difeso, nessuno gli farà più male, lo prometto”, aggiunse con grande fierezza.
Sarah allungò una mano per fare una carezza sulla guancia del bambino, accogliendo allora Steve fra le braccia. “Sono certa che lo terrai al sicuro, James”, una frase semplice ma che accese ancora di più lo sguardo del bambino.
“Adesso io torno a casa, altrimenti la mia mamma si arrabbia”, disse il bambino, guardando più Steve che Sarah. “Ci vediamo?”, Steve annuì entusiasta e Sarah poté giurare che per James fu uno sforzo immane quello di non saltellare dall’entusiasmo.
“Arrivederla, signora mamma di Steve”, fece un saluto con la mano, prima di allontanarsi.
“Sarah va bene”, fu naturale dire, nonostante l’appellativo signora mamma aveva un che di adorabile.
“Signora Sarah”, disse il bambino più che altro fra sé, ridacchiando, come se fosse il più divertente degli scherzi. Sarah lo seguì con lo sguardo fino alla fine della strada, fino a quando scomparve dalla sua vista.
 
Da quel momento non esistette più Steve, quanto l’unione SteveeJames, ogni giorno Steve per un motivo o per un altro spariva di casa per pomeriggi interi, passati con quel bambino che sembrava aver preso davvero sul serio la sua promessa di proteggere Steve.
A cena, ogni sera, Steve raccontava a Sarah le avventure del pomeriggio. Così, la donna venne a sapere che James aveva più di un fratello ed era il più grande, andava nella stessa scuola di Steve, ma un anno più avanti. Se non giocavano, studiavano, venne fuori che James riusciva a eccellere in tutte le materie, ma, secondo Steve, non sapeva disegnare neanche un po’ – su questo Sarah si fidava, il piccolo Steve aveva dimostrato fin da subito una grande propensione per l’arte, lei non lo ha mai frenato, anzi, per le disponibilità che avevano gli ha sempre comprato colori e matite per lasciare sfogo all’immaginazione del bambino.
 
Ma Steve non è un bambino sano, James ci mette poco più di un anno a scoprirlo, purtroppo.
Sarah, come ogni volta, cercava di dimostrarsi forte, perché non poteva permettersi di far perdere a Steve neanche un briciolo di speranza, ma era difficile. Il suo bambino rimase disteso a letto per giorni senza la forza di alzarsi, Sarah per badare a lui stava perdendo anche parecchi soldi di stipendio, non potendo andare al lavoro, ma non le importava, non quando c’era il suo piccolo angelo ad aver bisogno di lei.
Steve dormiva, ogni tanto si svegliava di soprassalto per un qualche incubo dovuto alla febbre troppo alta, nei momenti di coscienza passava il tempo accoccolato a Sarah scusandosi – così piccolo e con così tanti sensi di colpa per la malattia. Le si spezzava il cuore.
In questo scenario, dopo circa quattro giorni, Sarah sentì bussare alla porta di casa. Lei era in cucina, Steve dormiva, aprì senza farci troppo caso. In un primo momento pensò a uno scherzo di cattivo gusto, ma si rese conto subito, abbassando di poco lo sguardo, di chi aveva bussato. 
“Signora Sarah, Steve è in punizione e per questo non viene più da me?”, una domanda posta con una tale sincerità negli occhi e tristezza nei tratti del volto che le si strinse il cuore.
“No, James, Steve sta male, per questo non può uscire di casa”.
Preoccupazione, fu quello che sostituì la tristezza del bambino. “E gli posso dire ciao?”
“Temo di no, tesoro, non vorrei che ti ammalassi pure tu”.
“Oh…”, il bambino abbassò lo sguardo, Sarah non seppe quale fosse l’emozione, ma poté giurare che rimase deluso dal non poter salutare il proprio amico. “Quando sta meglio può chiedergli di venire a cercarmi, allora?”
“Certo, sono certa che non vede l’ora di riabbracciarti”, questo accese di nuovo lo sguardo di entusiasmo, sebbene di poco. Aveva davvero un sorriso sincero, quel bambino.
“Anche io”, confessò, senza alcun tipo di vergogna nel mostrare i propri sentimenti. Forse ancora troppo innocente e privo di malizia, o forse solo davvero sincero nell’affetto. “Allora arrivederci, signora Sarah”.
“Ciao, James”.
Ma Steve, anche quando si riprese, non era molto in forze. Sarah gli riferì le parole del bambino, ma farlo uscire con quel vento era follia, le doleva il cuore, ricordava la tristezza di James e vedeva in ogni istante l’insofferenza di Steve a stare chiuso in casa.
 
Dopo una settimana, Sarah venne di nuovo sorpresa da quel bambino che sembrava aver preso tanto a cuore suo figlio. Quella volta, però, non era solo.
Quando infatti aprì la porta, si trovò davanti una donna sua coetanea, che somigliava davvero troppo a James per non essere sua madre.
“Signora Sarah, Stevie sta ancora male? Ho fatto una torta con la mia mamma, proprio come quella che lei fa a me quando io sto male!”, annunciò ancor prima dei saluti. Sua madre lo guardò con un sopracciglio sollevato, Sarah non capiva, ma il bambino sembrò comprenderla con il solo sguardo. “Non so quale sia il cognome di Steve, ma’”.
Sarah ridacchiò, porgendo la mano alla donna: “Sarah Rogers, è un piacere”.
“Winifred Barnes”, si presentò la donna, stringendole la mano… chissà se sa quanto il suo sorriso è simile a quello del figlio, si ritrovò a pensare spesso Sarah, tutte le volta che la donna sorrideva.
“Bucky Barnes”, allora si intromise il bambino – che ogni volta che Sarah lo vedeva, si convinceva sempre di più che fosse nato per stare al centro dell’attenzione, volontariamente o no.
“Bucky?”, fu sua madre a chiedere.
“Me lo ha proposto Steve, è meno comune di James, dice che è speciale”, spiegò il bambino, come se stesse parlando a persone troppo dure di comprendonio per capire cose così ovvie.
“E tu non vedi l’ora di essere sempre speciale, vero, Bucky?” lo stuzzicò sua madre, sollevando poi lo sguardo sull’altra donna e spiegando: “Il secondo nome è Buchanan”. Be’, sicuramente aveva più senso come diminutivo di Buchanan che di James.
Sarah si limitò ad annuire, spostandosi un po’ dall’uscio: “Volete accomodarvi? Sono certa che Steve non veda l’ora di mangiare un po’ di torta”.
“Allora sta bene?”, chiese il bambino, entrando senza aspettare la madre, cercando l’amico con lo sguardo. Winifred sospirò, scusandosi per l’invadenza del figlio, mentre lo seguiva, Sarah le assicurò che per lei era solo un piacere sapere che il suo bambino aveva un amico che ci teneva così tanto.
“Sì, ma con questo tempaccio è meglio non farlo uscire, non vorrei che si ammalasse di nuovo”.
Il bambino annuì, con lo sguardo di uno che la sapeva lunga nella sua esperienza da bambino di otto anni.
“Te lo vado a chiamare”, si scusò un attimo Sarah, dopo aver fatto accomodare i Barnes nell’umile cucina di casa Rogers.
Trovò Steve tutto intento a disegnare, si vide ritratta mentre lo abbracciava. Sorrise, il cuore pieno d’amore per quel bambino. “Ehi, angioletto, c’è un certo Bucky che ti ha portato una cosa”, gli disse, aspettando la sua reazione, che non si fece attendere, infatti, il bambino mollò la presa sulla matita, alzandosi dal pavimento della sua cameretta per andare a cercare Bucky.
Steve era ancora in pigiama, ma nessuno fece accenno alla cosa, in compenso la prima cosa che Bucky disse: “Wow, sembri un po’ morto”, seguito da un “James Barnes!” di Winifred.
Ma Steve rise, sembrò non accorgersi di niente se non dell’altro bambino: “Bucky!”, esclamò, aprendo istantaneamente le braccia, Bucky non se lo fece ripetere due volte, perché corse ad abbracciare Steve, come se fosse la cosa che desiderava fare più al mondo.
 
Né Winifred, né Sarah dissero niente, tagliarono la torta e la offrirono ai bambini, che sembravano chiusi nel loro mondo in cui esistevano soltanto BuckyeSteve, parlarono fra di loro, ma entrambe passarono il pomeriggio a guardare con tenerezza la nascita di un legame che pareva essere destinato all’eternità. Bastava guardarli negli occhi.
 
Sarah Rogers non dubitò mai, fino all’ultimo giorno della sua vita, che Bucky avrebbe mantenuto la sua promessa di proteggere Steve fino alla fine.
 

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