Il giorno in cui dissi NO!

di Alice Jane Raynor
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Di come tutto ebbe inizio ***
Capitolo 3: *** Turbamento nei Tasti ***
Capitolo 4: *** Increspature nell'acqua ***
Capitolo 5: *** Il significato di un nome ***
Capitolo 6: *** Imbarazzo alla porta ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Sapevo molto bene il motivo che oggi mi portava a sbirciare appena le note sullo spartito. Le dita arrancavano appena sui tasti e per quanto cercassi almeno in modo meccanico di produrre qualche suono piacevole, non mi era possibile. Nella mia testa c’era un ronzio fastidioso che non mi lasciava, come quello di una stazione radio che perde la linea.

Mi alzai e aprii la finestra. Una brezza fredda mi colpì in pieno, nonostante fosse maggio inoltrato ormai. Questo clima non impediva all’allergia di dilagare e così già sentivo gli occhi lacrimare. Ma forse ero troppo approssimativa nel dare la colpa al polline.

Gli uccellini cantavano e se si tendeva l’orecchio era possibile sentire il suono di altri pianoforti e anche la voce di un tenore. Per la prima volta nella giornata mi sfuggì uno sbuffo divertito. Riconobbi l’aria “Dalla sua pace” di Don Ottavio e, nonostante fosse cantata in modo buffo, non potevo che rimanere stupita per la coincidenza che mi portava proprio a distinguere quella tra altre melodie che permeavano l’aria.

Chiusi la finestra, cercando di isolare i suoni. Il bisogno di sotterrare quell’aria era così forte che finalmente anch’io riuscii a suonare la mia parte. Non pensai ai suoni, alla loro espressività o agli errori. Dovevo solo fare rumore e coprire. Quando terminai mi sentii esausta, ma almeno nella testa non imperversava più la tempesta di prima che aveva riportato a galla i ricordi. Ricordi che mi risultavano intollerabili, perché troppo dolci e strazianti da sopportare.

«Dalla sua pace, la mia dipende…» cercai le note abbinate alle parole, ma ormai la mia furia aveva avuto davvero l’effetto desiderato: avevo coperto tutto. Di nuovo il ronzio e nient’altro.

Volevo chiudere tutto e tornare a casa, dopotutto il mio studio non stava andando avanti e sarebbe stato meglio rilassarsi. Eppure non volevo. La fragile speranza che quel maledetto telefono si illuminasse con la notifica giusta mi esaltava. E poi… chi avrebbe potuto sopportare la solitudine?
Non ero mai stata una persona particolarmente socievole. Un po’ per timidezza e un po’ per riservatezza. Eppure da quando ero entrata in conservatorio qualcosa era cambiato. Avevo trovato tante persone diverse, lontane dal gruppetto antipatico e sempre uguale che mi ero trascinata dalle elementari. Nonostante frequentassi ormai il liceo, non mi era mai capitato di sentire così tanto quell’adolescenza che sbocciava in ritardo e che mi trascinava dietro con i suoi molteplici sentimenti. Nessuno avrebbe potuto dirlo a guardarmi.

Mi ero lasciata prendere, trascinare e poi… avevo incontrato lui. La mia pace era dipesa davvero dalla sua e adesso ero in balia di una corrente da cui non riuscivo a liberarmi. Ora sì, sì che rimpiangevo il tempo primario dell’innocenza. Dove l’amore era solo sospirato e non era ancora stato toccato. Ma adesso, che si era infranto tutto, non avevo altra certezza che la mia tranquillità era stata turbata e così tutto l’equilibrio precario della mia esistenza.

Non accesi le luci. Speravo che il buio dell’inconsapevolezza mi avrebbe avvolta, risvegliandomi da quel sogno che mi aveva intrappolata senza lasciarmi scampo.

Guardai ancora il telefono.

Lampeggiava.

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Capitolo 2
*** Di come tutto ebbe inizio ***


Capitolo I - Di come tutto ebbe inizio

 

Mentre risalivo la strada per arrivare in conservatorio mi ritrovai a cantare da sola, in un improbabile tedesco, il “Rollend in schäumenden Wellen”, da “La Creazione” di Haydn.

«Senza contare l’improbabile voce, visto che è un’aria maschile».

Parlottavo spesso da sola, quando camminavo. Anche quando ero a casa, per essere sincera. Avevo questa strana abitudine da sempre. Non era una questione di “amici immaginari”, sentivo che quella fosse l’unica strada per conoscermi più a fondo.

Sorpassai il cancello e scostai i capelli scuri dal volto che finivano sempre per intralciarmi. Avvicinarsi al conservatorio aveva sempre qualcosa di caratteristico. Sentivo prima il vento tra gli alberi, poi gli ottoni, i legni e, sempre più salendo, i pianoforti e i cantanti. Il luogo era strutturato in tre padiglioni più un auditorium da cui si accedeva dall’esterno. Mi dirigevo sempre nella zona superiore, il padiglione A.

Aprii il libro che tenevo in mano, “La musica romantica” una raccolta di articoli di Schumann.

 

“Magari finirete per udir nascere l’erba nella Creazione di Haydn” .

Florestano

«Spero anch’io, un giorno, di poter suonare con così tanta dolcezza da poter far crescere l’erba».

Sistemai il segnalibro all’interno del tomo, lo richiusi e lo riposi in borsa prima di entrare nell’edificio. Non avevo alcuna voglia di farmi vedere con un testo in mano: notavo spesso compagnie di ragazzi che si conoscevano e uscivano insieme, io ne ero esclusa. Non per una loro colpa, si intende. Ma mi vergognavo di farmi vedere troppo immersa nella lettura quando avrei potuto fare amicizia con qualcuno di loro. Poi finivo per rimanere in silenzio, forse prima o poi il mio desiderio di aprirmi avrebbe vinto la ritrosia.

Controllai negli orari dove si trovasse Gimmo, il mio maestro. Era il secondo anno che frequentavo con lui e, anche se mi trovavo bene, non sapevo mai in che veste lo avrei incontrato a lezione. A volte desiderava psicanalizzarmi, a volte era tutta bontà. Certi giorni era anche un po’ acido, anche se vedeva che ci rimanevo male e in qualche modo si faceva perdonare.

«Cerchi qualcuno?»

Ero talmente concentrata nelle mie riflessioni che non mi accorsi della ragazza che mi si era avvicinata. Sobbalzai. Sperai che non si fosse notato tanto. Sorrisi. Era una ragazza dai capelli biondi che mi pareva anche di aver visto nei corridoi, al liceo. Mi era rimasta impressa per il suo modo di vestire: spesso abbinava colori che facevano a pugni tra di loro e che erano così accesi che non li avrei mai usati. E per averla notata anch’io, che spesso ero rintanata nella mia di classe, voleva dire che era una di quelle persone “popolari”, che si fanno conoscere da tutti. Almeno ero convinta di questa cosa.

«Cerco il maestro Gimmo».

«È nella 5C, come tutte le volte qui».

Ringraziai e sorrisi. Non mi sfuggiva quell’abitudine del maestro ma preferivo essere sicura. Non mi sarei mai perdonata di essere entrare in un’aula in cui avrei fatto qualche brutta figura.

«Sei sua allieva?»

Non mi dispiacque che l’altra cercasse di instaurare una conversazione. Ero in anticipo: avrei dovuto aspettare. Poi forse era arrivato finalmente il giorno della svolta.

«Sì. Tu invece?»

«Anch’io!» esclamò «Potremo sparlare di lui qualche volta!»

«Molto volentieri!»

Risposi d’istinto, anche se a dire il vero non avevo proprio molto di cui sparlare. Ma era sempre un modo per parlare e magari avrei scoperto anche qualcosa in più sul nostro docente così lunatico.

«Devi fare lezione adesso? Magari potremo prendere qualcosa alle macchinette e farci un giro».

«Guarda è perfetto! Ho giusto una mezz’oretta libera».

«Andiamo allora!»

Nell’atrio non c’era nessuno. Da un lato ne ero felice. Avrei potuto approfondire quella conoscenza senza tirare in ballo altri. In genere avevo un grande problema a integrarmi nei gruppi, preferivo quindi interagire con una sola persona. Prima o poi avrei fatto il passo successivo ma per il momento, con tutti estranei, pensai che la fortuna stesse girando per il verso giusto.

«Vuoi un caffè?»

La guardai con imbarazzo. Non bevevo caffè e infatti ogni volta che mi invitavano “a prendere un caffè” con molta ingenuità mi sentivo sempre in obbligo di precisare che non ne bevevo, senza capire che fosse un’espressione come un’altra per parlare. Poi nella realtà avrei potuto anche bere il succo di frutta e nessuno se ne sarebbe lamentato.

«Ehm… preferisco la cioccolata calda!»

Avevo guardato per qualche secondo la macchinetta con uno sguardo rapace, alla ricerca di una via di fuga. Mi proposi di offrire io, avendo fatto persino un passo verso la macchinetta. Almeno non sarei sembrata impacciata, ma amichevole.

«Tu cosa preferisci?»

«Io un caffè. Per la cioccolata ci sono tre pulsanti, ti consiglio la “cioccolata cioccolata”, il “cioccolato latte” è solo acqua».

Ordinai prima il suo caffè, glielo porsi e poi preparai la mia “cioccolata cioccolata”. Avevano una grande inventiva per i nomi. Presi il mio bicchiere. Bruciava. Feci una smorfia ma non mi lamentai. Avevo un qualche problema a portare gli oggetti caldi ma mi sentivo troppo ingessata per manifestare il mio disagio. La seguii in silenzio verso l’uscita, avevamo deciso di sederci su una panchina per chiacchierare in libertà.

Era una classica giornata di primo settembre, non più calda ma gradevole. Il vento soffiava appena per rinfrescare l’aria. Amavo l’autunno, aveva il clima ideale per i miei gusti.

«Comunque non ci siamo presentate, mi chiamo Carmela».

«Io invece Sofia» risposi. «Allora tu come ti trovi con il maestro?»

Mi congratulai con me stessa per aver posto la domanda. Di solito rimanevo in silenzio e avrebbe scoraggiato la mia compagna.

Carmela si zittì per un po’, la imitai. Mi aveva sentita, ne ero sicura. Forse stava raccogliendo le idee.

Ci sedemmo. Carmela bevve e schiocco le labbra.

Io rimasi ancora in bilico con il mio bicchierino: lo tenevo appena con le punte delle dita. Forse si sarebbe anche rovesciata, ma era ancora troppo caldo.

«Non mi trovo per niente bene con il maestro. Per me è una tortura andare a lezione».

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Capitolo 3
*** Turbamento nei Tasti ***


Capitolo II - Turbamento nei Tasti

 
Quel giorno il maestro Gimmo era inquieto.

Non assomigliava all’idea che mi ero fatta del pianista. Non indossava il frac nero, di capelli ne aveva ma erano bianchi e nel complesso mi ricordava Babbo Natale. Anche la bonarietà era la stessa, ma sapeva come farti sentire in colpa senza alzare la voce. Ero convinta, oltretutto, che la sua calma fosse dovuta solo alla grande quantità di sigari consumati in continuazione all’ingresso. Prima degli esami lo si poteva vedere alla porta, mentre fumava come un turco, a volte aveva anche la barba e i baffi sporchi di tabacco. Certi giorni era anche giallognola.

«La musica è fatta di diverse sensazioni . Il musicista deve tenerle in conto tutte: la percezione visiva, tattile, uditiva…»

Era un discorso conosciuto a memoria ormai, anche se interessante. Era uno di quegli argomenti che preludiavano alla sua insoddisfazione. Cercava da me qualcosa che non riuscivo appieno a mettere in pratica. Una volta ero persino scoppiata a piangere a lezione, dicendogli di non capire. Per questo forse moderava tanto i termini con me, ma mi faceva sentire in colpa e mi sembrava sempre di aver studiato troppo poco. In parte era anche vero, ma anche il liceo mi ostacolava nei miei progetti e non era una situazione facile.
Mi aggiustavo gli occhiali e i capelli in continuazione per frenare il nervosismo e l’imbarazzo che mi assalivano.

«Riprova il passaggio adesso».

Aveva appoggiato la schiena sulla sedia, teneva le braccia conserte e mi guardava con i suoi occhi cisposi e che sembravano ancora più infossati nel volto per gli occhiali tondi che indossava. Era bonario ma ti metteva ansia quel suo modo di fare.

Sentivo riecheggiare nella testa il “Pas de caractere” de “La bella addormentata” di Tchaikovskj, famoso nel cartone Disney come tema per Malefica. E mi sentivo braccata, come Aurora.

Respirai profondamente e mi buttai a capofitto a suonare. Sbagliai. Mi fermai: mi innervosiva andare avanti. Sapevo già cosa mi avrebbe detto il maestro e aspettavo le parole fatali. Venne interrotto. Qualcuno bussò alla porta ed entrò senza nemmeno aspettare il permesso.
Era un ragazzo alto e, anche se con la mia altezza tutto è considerabile alto, dai tratti tipici di questa regione: pelle olivastra e capelli scuri. Aveva anche un sorriso smagliante. Speravo solo che il maestro non avesse la cattiva idea di farmi provare il passaggio, magari sbagliarlo davanti a quel tipo. E sicuramente avrei potuto sbagliarlo: la presenza di qualcun altro mi rendeva ancora più nervosa. Non volevo rovinargli il sorriso prima del tempo.

«Ah Corrado! Vieni, vieni!»

Il maestro Gimmo si alzò. Significava che la lezione era finita e mi sentii salvata da questa fortuna improvvisa. Afferrai i miei libri e chiusi tutto prima che potesse cambiare idea. Guardai di sottecchi lo sconosciuto. Corrado, eh? L’unico degno di portare quel nome era il capopalestra dei pokémon e il tipo i capelli biondi fashion non ce li aveva. Continuai a scrutarlo. Per me era bocciato.

Andai a firmare. Il maestro si era messo a parlare con Corrado e perciò non iniziò a farmi raccomandazioni che avrebbero potuto mettermi in imbarazzo davanti al non biondo. Salutai e me ne andai, augurando buona lezione. Corrado mi guardò intensamente e mi sorrise. Ma quel sorriso lo aveva perennemente stampato in faccia?

Non mi trattenni più a lungo in conservatorio. Mi toccava studiare filosofia e non avevo alcuna intenzione di litigare con la professoressa il giorno dopo. Oltretutto era contenta di poter camminare: avevo dei pensieri che mi assillavano.

Ora che la mia mente era più libera, dopo la lezione, mi ritornava in mente la discussione sulle panchine con Carmela…

«Lui è… esigente. Ma di quella esigenza che ti fa disperare perché non sai come fare per esaudirla. La musica è un lavoro, presa molto sottogamba in Italia. È vero. Ma con la scuola e tutto come è possibile dedicare così tanto tempo al pianoforte per perfezionarsi? E poi lui dovrebbe stare lì, ad aiutarci. Mi manca questo sostegno che qualsiasi altro docente potrebbe dare. Mi sarebbe piaciuto anche provare un concorso, qualche anno fa. Più per mettermi alla prova che sperare di vincere. So bene di non essere all’altezza, ma credo nella possibilità del confronto. Anche la mia ex docente, che mi ha permesso di sostenere l’esame di ammissione, era d’accordo. Anzi, a dirla tutta, è stata lei a propormelo. Ne ero molto felice. Immagina il mio entusiasmo spegnersi, Sofia, quando l’ho riferito al maestro Gimmo e lui ha alzato la voce. Mi ha detto che non dovevo andare, che non era cosa. E alla fine non sono andata, ero troppo giù per farlo. Da allora ogni nostra lezione è una discussione e non riesco a soffrirlo…»

Carmela continuò ancora: era proprio una chiacchierona, il mio esatto contrario. Da un lato forse era un bene. Sorseggiai la mia “cioccolata cioccolata” e rimasi silenziosa. Ascoltavo e meditavo. Perché un uomo aveva dei comportamenti tanto diversi? Certo era esigente anche con me ma… c’era qualcosa di strano. Non riuscivo a spiegarmelo nemmeno con la semplice antipatia. Credevo alle parole di Carmela e raccontava con una partecipazione tale che non poteva mentirmi. Conclusi che avrei dovuto indagare e magari intercettare qualche altro allievo della classe: magari una terza, una quarta opinione avrebbe potuto delineare il quadro. Al momento non conoscevo nessuno che potesse aiutarmi. Carmela smise di parlare e mi affrettai a risponderle.

«Mi dispiace molto, a essere sincera non mi trovo nella tua situazione. È vero che è esigente e tutto ma a queste scenate non si è mai spinto…»

«Beata te! Saranno tre o quattro anni che sono sua allieva».

Rabbrividii. Possibile che fosse solo questione di tempo? I sigari quanto a lungo potevano trattenere la bestia che si trovava dentro il nostro maestro? Temevo di essere la prossima e il nervosismo mi accompagnò fino a quando tornai a casa.

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Capitolo 4
*** Increspature nell'acqua ***


Capitolo III - Increspature nell'acqua

 

Quei pensieri non mi lasciavano più dormire la notte.

Carmela mi aveva aperto gli occhi, ero grata. In questo modo non avrei avuto nessuna delusione quando il tempo sarebbe giunto. Il tempo in cui il maestro Gimmo avrebbe mostrato la sua vera natura. Ripensavo morbosamente alle nostre lezioni. Concentravo di più l’attenzione su piccoli particolari che prima non avevo considerato, come se non fosse nulla di importante. Adesso ricoprivano una grandezza mastodontica, ne ero schiacciata.

Ero stata morsa e avvelenata. Anche la mattina a scuola non potei evitare di pensarci tra una spiegazione e l’altra. Non poter parlare con qualcuno dei miei dubbi mi stava logorando. Risolvetti di dover cercare la donna che mi aveva instillato tutti i dubbi per trovare un minimo di conforto.

Attesi il suono della campanella con impazienza ma durante l’avvicinarsi del tempo, mi sentivo sempre più insicura di voler andare. Temevo di cader ancora di più nello sconforto: magari Carmela non avrebbe voluto nemmeno vedermi a scuola. Non ero proprio una persona “cool” di quelle con cui hai piacere a stare anche in pubblico. Magari davanti alle sue amicizie si sarebbe vergognata di vedermi: mi era già successo. E così avevo rovinato intere amicizie, ma chi poteva sopportare questo stare delle cose?

Ovviamente nella mia mente in soccorso arrivò la musica. “In quegl’anni in cui val poco” di Basilio, nelle nozze di Figaro. Non era un’aria particolarmente conosciuta ma a me piaceva molto e in momenti come questi, di indecisioni, me la canticchiavo e spesso, per contrastare la ritrosia di Basilio, finivo per prendere coraggio. Forse era uno strano modo per prendere decisioni ma la musica influenzava qualsiasi mio comportamento e ne ero totalmente abbagliata: non potevo rinunciarci. Erano cose che tenevo per me, un po’ un mio segreto che non avevo voglia di svelare agli altri.

Arrivato il momento, mi alzai cercando di allontanare tutti gli altri dubbi. La velocità del movimento mi aiutò a non tirarmi indietro.

Trovare Carmela fu un’impresa semplice. Vestiva di giallo acceso e nero e, come al solito, i suoi vestiti davano nell’occhio. Non potei fare a meno di pensare che forse anche per questo riusciva a essere tanto popolare. Io indossavo per lo più tinte morbide o l’immancabile nero.

«Oh! Sofia! Che piacere! Lascia che ti presenti Alessio: anche lui viene in conservatorio!»

Almeno non mi aveva cacciata e ora conoscevo anche un’altra persona che frequentava anche il mio stesso liceo. Era poco più alto di me, pelle abbronzata, capelli ricci e scuri. Era particolare e mi sorrise simpatico, provai a mia volta simpatia e ricambiai il sorriso.

«Ieri mi sono dimenticata di dirti una cosa!» Carmela riprese a parlare: Alessio e io a mala pena eravamo riuscirci a presentarci e scambiare qualche domanda formale. Carmela doveva proprio amare a essere al centro dell’attenzione, altrimenti non i sarebbe spiegato come perennemente avesse qualcosa da dire per calamitare le orecchie. Mi afferrò un braccio e mi portò in disparte. Lanciai uno sguardo in direzione di Alessio: mi dispiaceva lasciarlo così ma non avrei potuto ribattere niente a Carmela.

Lei nel frattempo mi divorava con lo sguardo e mi sentivo un po’ in soggezione. Se davvero doveva dirmi una cosa così importante, perché non mi era venuta a cercare? Oltretutto ci eravamo anche scambiati i numeri e non mi aveva scritto niente. Mi sentivo così in imbarazzo solo perché non mi sembrava tanto educato mettere così da parte Alessio: sembrava chissà quale notizia di stato. Non che io e Carmela avessimo poi tutta questa amicizia per farci confidenze di qualche tipo. Anzi, era molto più improbabile che conoscesse Alessio da molto più tempo prima di me. Lo guardai ancora di sfuggita, lui non se l’era presa più di tanto, si era allontanato a parlare con altri, aveva l’aria sorridente.

«Te lo avrei scritto, ma me ne sono dimenticata completamente! In ogni caso, domani in conservatorio arriverà un maestro. È tanto gentile da volerti sentire, vieni?»

Rimasi un attimo frastornata. Un maestro che doveva ascoltarmi? E chi era? E cosa avrei mai potuto fargli sentire? E poi perché? Carmela dovette notare il mio disorientamento, o semplicemente parlava fin troppo, perché iniziò a darmi un sacco di spiegazioni confuse e disordinate.

«Gli ho parlato io di te. In realtà sa anche della mia situazione con Gimmo e sa che anche tu non ti trovi bene. In ogni caso può darti un consiglio e magari prenderti nella sua classe».

Non ebbi le forze per dire qualcosa. Non avevo mai detto di non trovarmi con il maestro. E se lui lo avesse saputo? Probabilmente per questa sua uscita infelice avrei rischiato dei guai seri. Ma alla fine, se mi sentivo così stamattina, era forse perché in realtà non mi trovavo bene e non me n’ero mai accorta? Ma in ogni caso non avevo voglia di farmi sentire da nessuno: non avevo niente di pronto!

«Lo so che sei timida, ma potresti davvero prendere in considerazione di andare. Andremo insieme! Anche io voglio andare a suonare qualcosa ma avevo vergogna di andare da sola ed ero sicura che tu non mi avresti lasciata! Oltretutto sei un’allieva di Gimmo anche tu, quindi magari potrebbe anche farsi un’idea del modo in cui lavora per poterci aiutare meglio, no! Potresti dirgli anche la tua! E poi non avere paura, è gentilissimo e molto simpatico!»

Pensai fosse stata carina a prendermi in considerazione e nominarmi con tutte le persone che conosceva. Però mi sentivo abbastanza a disagio.

«Ecco io verrei ma non ho niente di pronto…»

«Ma non ti preoccupare! È gentilissimo! E poi me ne uscirò anch’io dall’aula quando suonerai tu, così ti sentirà solo lui. Così mi dirai pure che ne pensi. Io lo sposerei se potessi».

Ero confusa. Stava scherzando sull’ultima battuta ma forse neanche più di tanto. Accettai anche se non mi sentivo tranquilla, quando tornai a casa non riuscii a pensare ad altro.

Ero in questo stato meditabondo quando sentii il telefono squillare. Non che ricevessi tanti messaggi, ma non mi aspettavo il messaggio di un estraneo, cosa che era.

“Ciao Sofia, a volte ti penso”.

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Capitolo 5
*** Il significato di un nome ***


Come mi fossi ritrovata in quella situazione non mi era proprio pienamente chiaro.

La sera del nostro incontro e la mattina seguente Carmela aveva seguitato a bombardarmi di messaggi. Temeva che mi tirassi indietro non aveva tutti i torti. Più il tempo si avvicinava e più un po’ la sua iniziativa mi turbava e mi innervosiva: perché non me ne aveva parlato prima? Aveva programmato una mia figuraccia. Per quieto vivere non dissi nulla: non volevo certo rovinare l’unica possibile amicizia che avevo per una sciocchezza. In fondo era davvero un modo per migliorarsi e per crescere, non potevo scappare. Dovevo tener conto che avrei anche attirato l’attenzione del maestro da cui andavamo e se non mi fossi presentata, forse si sarebbe ricordato di me in un momento meno propizio, magari a un esame, e avrei peggiorato la mia situazione.

Sognavo di entrare al suono del Valzer della Masquerade Suite, di Chačaturjan, solo che a un certo punto avrei fatto un capitombolo pateticissimo fino a interrompere la bellezza della musica. Ne ero convinta. E avrei mandato all’aria tutto quanto. A casa mi preparai più a lungo del solito, speravo almeno che non presentandomi trasandata avrei fatto come minimo una figura migliore di quella che avrei poi fatto in seguito.

Ero andata in conservatorio prima dell’appuntamento, con l’intenzione di rispolverare un po’ qualche pezzo per riscaldarmi anche le mani e cercare il suono migliore per i miei pezzi. Non stavo combinando niente: ero troppo in ansia e pensavo morbosamente alla scenata che avrei fatto di lì a poco. Insomma se anche avessi potuto studiare bene, mi stavo dando da fare per non fare il massimo. Poi ero anche un po’ in ansia per il maestro Gimmo, lui non sapeva di questa cosa e continuavo a trovarlo ingiusto nei suoi confronti.

Carmela mi raggiunse poco dopo, doveva aver visto il mio permesso in quell’aula.

«Allora! Sei pronta?»

Annuii, guardando e ripassando con gli occhi lo spartito che avevo davanti e che da lì a qualche momento avrei dovuto eseguire. Perdersi nei piagnistei lo avevo sempre trovato abbastanza inutile, quindi non mi feci problemi a fingermi più sicura di quanto in realtà non fossi. Alla fine non avrei potuto fuggire, tanto valeva cercare di godermi la situazione fino alla fine.

«Io no per niente»¸ continuò Carmela «ma alla fine in due si ha meno paura e avremo modo di confrontarci!»

Da lì partì tutta una serie di lamentele e insicurezze da parte di Carmela che cercai di arginare nel modo più educato possibile.  La sua ansia mi veniva trasmessa come un morbo addosso e iniziai a tremare impercettibilmente con le mani. Posai dunque il libro, senza che Carmela si accorgesse di niente. Iniziai di respirare più a fondo, tentando di trovare nella respirazione il modo di calmarmi. Aprii anche la finestra per far entrare un po’ d’aria e mi concentrai anche di camminare per la stanza per rilassare i muscoli. Non volevo interromperla, ma aiutarla: mostrarmi scontrosa non era il modo per farla stare tranquilla.

Non so come, Carmela si era messa a parlare di quanti grissini consumassero nella sua famiglia. Fortunatamente pensai a cosa dire prima che mi andasse in cortocircuito il cervello. La interruppi, aveva parlato per quasi mezz’ora senza prendere fiato.

«Comunque ieri mi è successo qualcosa di strano… cioè mi ha scritto una persona del conservatorio».

Gli occhi di Carmela si richiusero a spillo. Avevo eccitato la sua curiosità e per un momento quello sguardo mi mise a disagio. Poi pensai che alla fine non me ne fregava niente, non era niente di serio.

«Si chiama Corrado e suona il flauto…» sbloccai il telefono, «Mi ha scritto che a volte mi pensa, perché il mio nome significa saggezza e pensa di aver visto questo nei miei occhi quando mi ha visto. In realtà prima di rispondergli sono rimasta un po’ interdetta. Ma se mi ha vista mezza volta e non mi ha manco parlato come può dire queste cose?»

«Non gli avrai risposto questo, vero?»

«No, ovvio che…»

«Io lo conosco già comunque. È simpatico e penso sia un bravo ragazzo».

Mi sentii sollevata. Sì che c’era il grande problema del capopalestra dei pokèmon, ma se era un bravo tipo era anche qualcosa di sorvolabile. Dovevo essere rimasta in silenzio per un po’ perché Carmela mi chiese di continuare. Guardai l’orologio, nervosa, e decisi di passarle direttamente la discussione sul cellulare.

 

 

Chat 1

 

Seguiva una discussione molto blanda e breve in cui si parlava degli strumenti che si suonavano, il Maestro Gimmo e le scuole d’appartenenza. Corrado suonava il flauto, due anni più grande di me. Frequentava il musicale. Era di paese ed era single.

 

 

Chat 2

 

«Hai una ragazza?» Carmela aveva fermato la lettura, guardandomi ad occhi spalancati.

«Ma no, è che gli avevo detto che non avevo un ragazzo ma quando mi ha proposto di uscire non me la sono sentita di stare con lui, per ora. Lo conosco così poco! E non avrei voluto dargli un no definitivo, oltretutto per come sono certi uomini poteva sentirsi in dovere di insistere e non avevo voglia di litigare. Per cui sono corsa ai ripari…»

«Ma sei etero? Guarda che si esce con le persone per conoscerle!»

Il ragionamento di Carmela non faceva una piega ma non ero convinta dell’approccio di Corrado. Ma nemmeno un po’. Certo, sapere che fosse un bravo ragazzo un po’ mi faceva sentire in colpa del mio comportamento, ma se non ero interessata…

Ero mai stata interessata a qualcuno?

«Andiamo, stiamo per fare tardi». E così rimandai il dilemma.

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Capitolo 6
*** Imbarazzo alla porta ***


Ero davanti la porta del maestro Reau da qualche minuto ormai. Fissavo il legno graffiato in cerca di coraggio. Inoltre dall’interno sentivo suonare ed ero troppo in imbarazzo per interrompere chiunque fosse lì dentro. Non mi sentivo in confidenza e non volevo mancare di rispetto a un maestro che voleva aiutarmi. Sarebbe stato un inizio catastrofico.

Carmela mi fissava ma non fiatava. Forse finalmente l’ansia aveva fatto effetto sulla sua parlantina. Anche lei sembrava restia ad aprire la porta, tutta la sua spavalderia si era persa in un nonnulla. Aveva provato prima a spingermi ad aprire ma al mio cenno, riferito alla lezione in corso, si era ammutolita.

Stavo lì per trovare il coraggio per bussare, quando la porta si aprì sotto il mio naso. Mi ritirai quel tanto per evitare la porta in faccia e feci la mia prima figuraccia.

«Ciao Carmela, questa penso sia la tua amica. Non dovevate entrare?»

Non era ancora ciò che mi aspettassi da un pianista ma era molto più giovane del maestro Gimmo, dai capelli e gli occhi mori. Tutti i suoi tratti rivelavano una certa gentilezza e anche le sue parole lo erano state. Nei suoi occhi si poteva leggere un certo scintillio di divertimento e cordialità. Non mi sentivo a mio agio con la gentilezza: non ero abituata a riceverne. Oltretutto non dopo aver fatto una scenata prima ancora di cominciare a suonare.

«Sì, lei è Sofia, è di lei che abbiamo parlato a telefono!»

Al gesto dell’uomo mi ero affrettata a entrare in aula e per fortuna non poté vedere il mio viso quando sentii Carmela alle spalle dire questa cosa. Ero stata oggetto di una chiacchiera? L’imbarazzo cresceva a dismisura.

«È un po’ timida, ma vi troverete bene».

Un altro colpo al cuore. Capivo di essere riservata e spesso impacciata, ma potevo gestire la situazione senza queste raccomandazioni. Forse avrei dovuto provare gratitudine per Carmela, ma non riuscivo a provarne. Aprii la borsa e ripercorsi con gli occhi lo spartito del Valzer di Brahms op. 39 n. 15, il pezzo che dovevo portare all’esame. Non era molto difficile, anche se il passaggio finale mi suggestionava al punto di sbagliarlo sempre anche se lo avevo studiato più volte. Ero anche preoccupata per una questione di suono. Spesso non mi sentivo e ancora non avevo un orecchio ben raffinato. Desideravo il giudizio di un estraneo e competente perché mi avrebbe aiutato a crescere; ne avevo paura perché avrebbe potuto ritenermi inadatta a suonare. La porta si chiuse, lasciando fuori Carmela. Mi sentivo cattiva a pensarlo, ma respiravo più liberamente.

Il maestro Reau sorrideva ma mi guardava di sfuggita, per non mettermi né imbarazzo né pressione. Mi sentii più sollevata dalle preoccupazioni che avevo nel petto. Aprì la finestra e iniziò una banale conversazione per rompere il ghiaccio.

«Sofia è un bel nome, da queste parti l’ho sentito ben poco. Da quanto ho capito usate sempre gli stessi nomi della famiglia qui. Hai delle origini greche?»

Mi fermai a metà dall’aggiustare i fogli sul leggio. Mi passai una mano tra i capelli. Non era la prima volta che me lo chiedevano, ma non ne avevo mai capito il motivo. Non poteva essere il nome: me lo chiedevano a volte anche senza conoscerlo. Credevo fosse perché avevo la pelle chiara e i capelli e gli occhi scuri, a differenza dei tratti italiani e spagnoli che spesso avevano una carnagione più scura. Il bello è che non avevo mai incontrato un greco, quindi non sapevo dire se questa ipotesi che mi ero fatta in testa corrispondesse al vero.

«No!»

Avevo risposto più duramente di quanto volessi. Lo vidi strabuzzare gli occhi, mi affrettai a mitigare i toni.

«Non è la prima volta che me lo chiedono».

Ottimo! Complimenti, questa sì che è la sdrammatizzazione del secolo. Perché fossi sarcastica solo nei pensieri, rimaneva un mistero.

Ci scambiammo qualche altro discorso formale. Mi chiese anche del maestro Gimmo. Apprezzai il fatto che non parlasse male di un suo collega anche se un’allieva aveva fatto delle rimostranze. Rimasi sul vago, non sapendo ancora cosa dire al riguardo. Oltretutto dovevo fidarmi di lui e per il momento non me la sentivo di lasciarmi troppo coinvolgere dalla sua disponibilità. Poteva essere una trappola o semplicemente non avevamo nessun tipo di affinità. Alla sua richiesta suonai, cercando di fare del mio meglio.

Respirai profondamente prima di cominciare, immaginavo i suoni e le sfumature che volevo fare. Sfiorai i tasti con incertezza, le dita presero a tremare e la mia mente pensò ad altro. Da un lato mi sforzai di andare avanti nonostante stessi suonando malissimo, dall’altro sentivo tutte le imprudenze appena fatte passarmi sotto gli occhi. Sentivo anche la rabbia per Carmela emergere e l’imbarazzo sempre più crescente di farsi sentire in quelle condizioni penose da un maestro, a detta di molti, molto bravo.

Conclusi il pezzo senza fermarmi, sbagliai il finale e sporcai tutto il suono. Era appena una pagina scarsa ma quando finii mi sentivo distrutta. Quasi non osavo guardare in volto il maestro. Mi sentivo di averlo disturbato inutilmente.

Lui non mi sgridò, né diede a vedere un malcontento, se ne aveva. Mi aiutò a migliorare alcuni punti e mi dedicò del tempo per raffinare alcune parti. Cercai di eseguire tutto ciò che mi diceva e cercavo di mantenerlo nella mia memoria. C’era però un altro pensiero che aveva preso a farmi tremare le mani.

Non si scollò di dosso nemmeno quando uscii dall’aula, soddisfatta di tutte le informazioni e conoscenze che mi erano state affidate. Accesi lo schermo del telefono, sperando di trovare qualcosa.

Era vuoto. Nessuno mi aveva scritto.

Mi sentii rattristata e per tutto il tragitto verso casa non potei evitare di accendere e spegnere lo schermo, in attesa di una notifica che non arrivava mai.

Carmela poi si fece sentire. Non mi chiese come fosse andata ma mi chiedeva se il maestro non fosse meraviglioso e da sposare. Questa discussione mi metteva a disagio. Un po’ mi sentii anche invidiosa nel pensare che lei poteva scrivere a lui e che magari sparlassero di me. Avevo letto delle loro chat, il maestro Reau sembrava molto alla mano su queste faccende.

Non volevo che si parlasse di me.

Ma da qui a pensare che si potesse pensare a un matrimonio con lui era tutt’altra questione.

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