Respira ancora

di kissenlove
(/viewuser.php?uid=173886)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** – non c'è parola più dura di un addio ***
Capitolo 2: *** – cuore di latta ***
Capitolo 3: *** – niente avrà più un senso ***
Capitolo 4: *** – imbarazzante incontro ***



Capitolo 1
*** – non c'è parola più dura di un addio ***


                                            


 
Breathe Again 💔 




 
Ospedale St. Luke (Tokyo)




 
Sono ormai due settimane che vago tra i corridoi di questo posto. Due settimane da quando lei non ha più aperto gli occhi, non ride e non scherza. Due settimane che giace in quel letto attaccata a dei macchinari che – secondo i medici – mantengono stabili le sue condizioni, impedendole di non soffrire. Due settimane che l'orologio si è totalmente fermato. Sarebbero dovuti essere i giorni più felici della nostra vita, avremmo dovuto spendere il nostro tempo da fidanzati ad occuparci del ricevimento. Proprio la sera degli innamorati le avevo chiesto di sposarmi e mi ero impegnato a fare un discorso sull'amore che mai avrei pensato di dedicare a una donna. Avrei dovuto farlo qualche giorno prima, ma il troppo lavoro me l'aveva impedito.
E adesso che mi ero deciso a sceglierla come compagna di vita, un tragico e crudele incidente me l'avrebbe portata via da un momento all'altro.
Stava per raggiungermi in azienda per farmi una sorpresa quando una macchina le tagliò la strada. Un bastardo, che non aveva rispettato le regole, le si schiantò contro, e in un attimo ha distrutto le nostre vite.
 morte celebrale... - queste furono le parole del medico, dopo le ultime analisi. Le parole che misero fine ai miei sogni. I nostri sogni. Un peso sul petto mi impediva di respirare, di reagire agli stimoli. Sapevo esattamente cosa significassero quelle parole: il suo cervello aveva smesso di funzionare ma, essendo ancora giovani, il suo cuore aveva ancora la forza di battere ed è forse l'unica cosa che le permette di non lasciarsi andare. E' attaccata ad una macchina per questo il suo corpo è ancora caldo, ma non potrà più risvegliarsi. 
Per l'ennesima volta e da ormai una settimana, ho discusso con sua zia. Lei mi accusa di non accettare il fatto che lei sia morta. Lei crede che staccare la macchina può essere la soluzione, ma io non voglio e non posso. Ha provato a convincermi in mille modi che continuare sarebbe inutile e che è arrivato il momento di dirle addio. Ma io non posso...

Come può anche solo pensare che possa porre fine alla vita della donna che ho amato di più al mondo?
Prima che lei arrivasse nella mia vita, ero un gatto che portava sfortuna a chi gli stava intorno. Con lei ho sperimentato l'amore, quello che lega due persone inscindibilmente dai propri destini. Il mio destino era distruggere il domani dei bambini, renderli tristi e insicuri come me quando mio padre abbandonò me e mia sorella, causando un arresto cardiaco a mia madre. Io ero uno degli assoldati della Easter, ed è stata lei a liberarmi da quelle catene. Quella donna che giace in quel letto che avrei sposato e reso felice e a cui mi stavano chiedendo di rinunciare. Come osano pensare che io possa farlo davvero?
Io non posso dirle addio. Non posso accettare il pensiero di non poterla più vedere, abbracciare, baciare. Non posso scrivere la parola fine e chiudere così la storia. Le avevo promesso che le avrei stretto la mano per proseguire insieme il cammino, avremmo avuto figli e li avremmo visti crescere e a loro volta avere dei figli, e saremmo stati accanto l'uno all'altra finché morte non ci avesse separato. E ora?

No, non è così. Non è questa la fine che avevamo progettato. Non posso toglierle la vita. Non posso rinunciare e arrendermi. Finché potrò continuare a starle accanto, seduto al suo capezzale, potendo guardarla "dormire", sentire il suo odore, toccarla e sapere che lei è qui io non potrò mai dirle addio. E' troppo crudele. Lei è l'unica cosa che mi è rimasto, dopo Utau, l'unica persona che in tutti questi anni sia riuscita a capire i miei desideri, e nessuno può permettersi di farmi una vile proposta come questa. 

Ogni giorno vago in questi corridoi come un'anima persa, aggrappandomi a quel barlume di speranza che si affievolisce quando il medico guarda il suo referto e ripete la sua diagnosi. Io non smetto di parlarle e raccontarle di cose futili, banali, e so che lei può sentirmi o almeno è ciò che mostrano nei film durante queste situazioni. Alla fine la protagonista si risveglia, sempre.

– Non in caso di morte celebrale... – ripete il dottore, ogni volta che viene nella sua stanza a controllare la situazione nella speranza che mi convinca a far firmare quel maledetto documento per procedere; sua zia è l'unica persona che può acconsentire allo spegnimento, ma non osa farlo per paura della mia reazione. Tutti, medico compreso, sanno che non darei mai l'approvazione. 


- Ciao, Ikuto - 

- Ascolta, Hisa1, se sei venuta per convincermi ti dico che, ancora una volta, è solo fiato sprecato.

La guardai dritto negli occhi e, per qualche secondo, dopo giorni di tristezza le vidi fare un debole sorriso. Prese posto accanto a me. – Beh, avrei voluto... ma no. Volevo solo chiederti di andare a casa per riposare un po' e mangiare qualcosa. E' da giorni che non fai un pasto decente. Rimango io qui stanotte, anche se comunque i medici hanno detto che non è necessario.

Alzai un sopracciglio perplesso per la sua proposta. Nella mia testa balenò il pensiero che mi volesse mandare via per agire indisturbata e firmare i documenti, ma mi diedi subito mentalmente dello stupido. Hana non avrebbe mai agito alle mie spalle, era una persona troppo onesta per abbassarsi a tanto, anche sapeva di poterlo fare anche senza il mio consenso, visto che non potrei oppormi legalmente alle sue decisioni.  Alla fine decisi di accettare, non che m'importi del mio aspetto fisico, ma una doccia non mi avrebbe fatto male. 

- D'accordo, ma sarò di ritorno domattina. Per qualsiasi cambiamento, voglio essere avvisato in maniera tempestiva.- dichiarai alzandomi e dandole le spalle.
- Certo, va bene. - acconsentì. - Ma Ikuto, ricorda che hai un'azienda da gestire. Non puoi... - la interruppi, non lasciandole il tempo di concludere la frase. 

- Lei viene prima di tutto nella mia vita, e non osare dirmi che non c'è più niente da fare Hana. L'azienda è gestita al meglio, i miei collaboratori non batteranno la fiacca tanto facilmente.

La donna non poté far altro che chinare la testa, di fronte alla mia ostinazione. Ormai i nostri dialoghi sfociavano sempre di più in litigi. Prima dell'incidente il nostro rapporto era solido e fatto di reciproco rispetto. Lei, d'altronde, era l'unico familiare della mia ragazza, e da allora Hana era stata il suo unico punto di riferimento, fino ad oggi.

Dopo aver lasciato l'ospedale, il mio fidato autista – gentile omaggio del mio patrigno, precedente presidente della Easter – mi accompagnò a casa, anche se non mettevo piede lì da due giorni. Per non allontanarmi dall'ospedale, avevo deciso di affittare la stanza di un hotel, ma andavo lì solo per farmi una doccia e vestirmi. Non riuscivo a chiudere occhio, sapendo le condizioni critiche della mia ragazza. Appena entrato, la governante mi accolse con un sorriso chiedendomi se ci fossero novità, ma la mia espressione afflitta fu un ottimo biglietto da visita e capì in un istante, tacendo. Mi recai al piano superiore per fare una doccia, poi scesi al piano di sotto per mangiare un boccone, anche se il mio stomaco si rifiutava. Persino il taiyaki2 al cioccolato mi disgustava, ma dovevo pur sforzarmi altrimenti avrei corso il rischio di indebolirmi più di quanto lo fossi già. 

Presi il cellulare e osservai la schermata. C'era la nostra foto, l'ultima che abbiamo scattato. Bloccai l'aggeggio e lo appoggiai sul tavolo, sentendo un dolore al petto, come se il mio cuore fosse stato infilzato dalle spille. Il cellulare squillò un paio di volte, erano arrivate delle notifiche, ma non avevo alcun bisogno di guardarle. Non m'importava del lavoro avrei voluto chiudere gli occhi e cancellare quest'incubo orribile. Avrei voluto aprirli e trovarmela di fronte, in piedi e viva, ma sapevo che non sarebbe mai accaduto.




 
Lei non era più accanto a me.










 
Note dell'autrice.

Vi ricordate di me? Uhm, spero proprio di sì perché - come se non bastassero le altre - aggiungo un'altra storia particolarmente drammatica. E so che mi odierete dal più profondo della vostra anima. Questa storia come sempre sarà sulla coppia Amu/Ikuto, e naturalmente ci saranno altri personaggi a far da sfondo alla vicenda. Il più grande mistero che aleggia in questo prologo è... Amu sarà morta, a causa di un incidente...? Perché a quanto pare una donna è morta "celebralmente" e a meno che non avvenga un miracolo del tipo "Lazzaro, alzati e cammina" purtroppo questa ipotetica fidanzata di Ikuto è venuta, ahimè.., a mancare. Cosa accadrà in questa nuova storia? 

Naturalmente vi lascio le mie note: 

1 Hana è un personaggio che non fa parte dell'universo Shugo Chara, ma è un personaggio inventato dalla sottoscritta. Non aggiungo altro però...
2 Ikuto, come nell'anime, va matto per questo dolce a forma di pesce.

La copertina di sopra, Breathe Again, è realizzata con Canva. Ed è di mia proprietà. Inoltre vi ricordo di lasciare una piccola opinione e di seguirmi sui miei profili ufficiali Efp (kissenlove) e Wattpad (Jo_14) 

- Al prossimo capitolo!





 

 
 


 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** – cuore di latta ***






 
Breathe Again 💔 



 
- Mamma, ti prego ascoltami. Sono stanca! -
Oltrepasso la sua figura ed entro nella stanza sbattendo la porta.
"Sono esausta", e lo sono davvero. Non ho più le forze per lottare e continuare questa vita, sento il respiro mancarmi ad ogni passo. E' da quando sono venuta al mondo che non faccio altro che chiedermi se quello che sto vivendo sarà l'ultimo, con la consapevolezza che non vivrò abbastanza per guardare un'altra alba sorgere. Passo la maggior parte del tempo da un ospedale all'altro come uno yo-yo, ascoltando svariate diagnosi, pareri diversi, un barlume di speranza distrutto da una sola verità...

Il 
mio cuore è malato. Mi è stata diagnosticata una grave malformazione, che a lungo andare sarebbe costantemente peggiorata, fino ad arrivare alla necessità di un trapianto, anche se potrebbe non esserci un riscontro positivo; se trovare un donatore è come cercare un ago in un pagliaio, trovarlo compatibile ancora peggio, specie con una lista d'attesa lunga come un treno. Fin da piccola, ero consapevole che qualcosa in me non funzionasse come si vede. All'inizio ero spaventata, scoprire che in qualsiasi momento sarei potuta morire, e che se fossi sopravvissuta mi sarei dovuta adattare, non fu facile da accettare. Ricordo che ogni sera avevo il terrore di addormentarmi per paura che non avrei più aperto gli occhi. Provavo in tutti i modi possibili a tenermi sveglia il più lungo possibile.

Guardavo alla finestra i bambini della mia età correre, saltare, divertirsi, e ne invidiavo la spensieratezza sentendomi fuori posto in quella cornice incantevole. Ho sempre evitato di legarmi a qualcuno, così non l'avrei fatto soffrire se un giorno fossi morta. Non volevo che nessuno soffrisse per colpa mia, specie le persone costrette a starmi vicino.

Era già difficile convivere con il pensiero di dover salutare i miei genitori, che si erano preclusi la possibilità di avere altri figli, dopo la scoperta della mia malattia, per cui avevano rinunciato ai loro progetti. Non c'era giorno che mia madre non piangesse disperata al mio capezzale implorandomi di perdonarla. Si sentiva fallita come madre, credeva fosse colpa sua questo "difetto", e ne morivo ogni volta che pronunciava quelle parole. Le abbiamo provate tutte, e nonostante i medici mi avessero assicurato che non sarei arrivata ai vent'anni, io sono ancora qui.

L'ultima speranza è sottopormi al trapianto. L'unico modo per sopravvivere un altro po'. Ho ventitrè anni, ma sono così stanca di lottare. 

Mia madre mi prende delicatamente per le spalle. - se tu credi che io mi arrenda, firmando la condanna a morte di mia figlia ti sbagli! Finchè c'è un briciolo di speranza che tu possa vivere, io non mi arrenderò, e non devi farlo neanche tu intesi?- Vederla con gli occhi lucidi e il labbro tremante mi stringe nella gola e sento un peso sullo stomaco. So che non accetterebbero mai, ma voglio farle capire che preferisco vivere quel che mi rimane, piuttosto che aggrapparmi alla speranza di trovare un cuore nuovo per il mio di latta. Io voglio vivere intensamente ogni momento come se fosse l'ultimo, scendere a compromessi con la malattia e correre il rischio. 

Mentre mia madre cerca di trattenermi lì, il dottore s'intromette nella discussione. - Amu... quello che intende dire tua madre è che finché c'è una minima speranza tu non devi arrenderti.

Sbuffo, incrociando le braccia al petto. - Tomoya sei un bravo medico e saresti un ottimo psicologo. Mi conosci da quando sono nata, si può dire. Ho sempre seguito le tue istruzioni, ho sempre fatto tutto il necessario per poter vivere, no? Ma vivere, per cosa? Cosa, Tomoya? Con la costante paura di morire... vivere rinunciando a tutto quello che di bello la vita ha da offrirti? Passare da un ospedale all'altro, come fossi una pallina da ping pong e allarmarsi anche per un semplice raffreddore? Vivere sentendoti dire che forse sarebbe stata l'ultima, vivere aggrappata a delle speranze, che rimarranno tali. E' questo quello che intendete dire? Questo state cercando di dirmi? Beh, Tomoya, mamma... vi ho sempre ascoltati, e posso dirvi che l'unico risultato è stato allungare i tempi, ma non di certo vivere...  - lascio scivolare le mani di mia madre lontano dal mio corpo. - Se adesso mi scusate vorrei stare un po' da sola. 

- No, piccola, sai che non puoi farlo. E' troppo pericoloso nelle tue condizioni... - lo interrompo subito. - Sono consapevole che non posso fare molte cose. Siete voi che non capite le mie scelte.-

Esco dalla stanza lasciando i due a lanciarsi sguardi d'intesa e mentre attraverso il corridoio noto da una porta semi-aperta una donna, seduta al capezzale di un'altra, che le stringe teneramente le mano. Credo che siamo coetanee, anche se non né sono sicura. Così bella, anche se intrappolata in uno stato di trance, da cui difficilmente potrebbe uscire.
Rimango ferma ad osservarla. Forse anche lei, come me, preferirebbe trovarsi in un altro posto, piuttosto che in un letto d'ospedale. Vorrebbe vivere la propria vita normalmente, ma non può perché è immobile, senza possibilità di reagire, mentre io egoisticamente posso farlo eccome, ma non trovo il bisogno per provarci. 

La osservo con più attenzione, provando pena per una ragazza che, molto probabilmente, non ha avuto il tempo di capire cosa le stesse succedendo in quelle dinamiche. Starà soffrendo in quel limbo? O sta semplicemente dormendo profondamente come molti pazienti nel suo caso? In un certo senso, siamo più simili di quel che pensiamo. Per qualche assurdo scherzo del destino lei è bloccata in quel letto, come una bambola di porcellana in una cristalleria, come lo sono anch'io.

Quella ragazza, non so chi sia, nè come... ma ritrova uno strano eco nel mio corpo e nei miei pensieri.

Provo pena per lei. E pensare che fino a qualche ora fa lei era ancora in questo mondo, mentre adesso sembra solo un ricordo sbiadito nella mente di quella donna, che continua ad accarezzarla amorevolmente e a stringerle le dita per farle sentire la sua presenza. Guardo la macchina che segna i parametri vitali, sono stabili. Smetto di origliare, e prima che la donna se ne accorga decido di proseguire verso l'uscita, ma non appena sto muovendo qualche passo, una voce dietro le spalle mi blocca. 

-Ciao... - 

-Ehm, salve... mi scusi non avevo intenzione di origliare... - spiego, immobilizzata alla soglia della porta. - Oh, non ti preoccupare. Conoscevi mia nipote?- chiede, con tono pacato e cordiale spostando una ciocca di capelli dalla guancia. 

- Veramente ho visto la porta semi-aperta e mi sono fermata. Mi scuso ancora per essere stata inconveniente- divento rossa per la vergogna, ma la donna non sembra prendersela tanto.

- Non ti preoccupare cara. Io sono Hisa e quella che vedi nel letto è mia nipote... -

- Il piacere è mio. Sono Amu Hinamori. E' da molto che sua nipote... è in quello condizioni?

-Sono due settimane ormai. E tu cosa ci fai da queste parti? Sei qui per far visita a un parente ricoverato qui?-

Vorrei poterle confessare che la mia non è una visita di cortesia.

Lasciamo che la giovane riposi tranquilla e ci spostiamo nella sala d'attesa, dove lei mi racconta cosa sia successo a sua nipote durante l'incidente, e io, a mia volta, gli racconto della mia "vita". Sembra una brava persona, e anche sua nipote doveva esserlo, anche se non ho avuto la possibilità di parlarci, quando era in grado di farlo. Mi chiedo perché il destino si sia dovuto accanire su una povera ragazza, che si era trovata al posto sbagliato nel momento sbagliato, perché sia così crudele da negare a quella ragazza di essere felice. Mi sento egoista per aver pensato che il lusso di morire fosse solo mio, quando lei era già stata clinicamente dichiarata morte.

- Mi dispiace tanto per te, cara. Sei così giovane e soffri già tanto... - 

- Non si preoccupi. Ormai è un abitudine, è da tempo che l'ho accettato.

- Sei una ragazza molto coraggiosa - 

Io, coraggiosa? Credo che chi ho abbandonato nella sala di degenza non sia dello stesso parere...

Dopo aver chiacchierato un altro po' la saluto promettendole che sarei tornata l'indomani per farle sentire la mia vicinanza. Esco dall'ospedale sempre più convinta di voler salire sul ring. Non voglio perdermi niente

E se devo morire lo farò in modo dignitoso, dopo che avrò fatto tutte le esperienze possibili, anche se questo dovesse far male al mio cuore. 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** – niente avrà più un senso ***






Breathe Again 💔 


 





Come avevo previsto una volta rientrata nella camera mi è toccato subire anche la ramanzina di mio padre, che non smetteva di fissarmi con il suo sguardo contrariato. Capisco le loro preoccupazioni per il mio penoso stato di salute. Io non li colpevolizzo di nulla, voglio solo che accettino le mie ultime volontà, che si mettano in testa una buona volta che detesto la mia vita controllata in questo modo. 

Voglio godermi fino alla fine quello che mi rimane. Non voglio sentirmi spaventata quando chiudo gli occhi. Non voglio più avere paura aggrappandomi a una falsa speranza, come quella del trapianto. Ho voglia di scoprire e conoscere il mondo che c'era dietro la finestra di quest'ospedale e che mi è stato per troppo tempo negato. Voglio poter vivere come farebbe una qualsiasi altra ragazza di ventitrè anni; voglio uscire, divertirmi, tornare a casa ubriaca perché ho alzato il gomito. Voglio prendere una multa per aver superato il limite di velocità o perché non ho rispettato un segnale. Voglio fare un bagno nuda, senza il timore di prendere un semplice raffreddore. Voglio saziarmi di cibo spazzatura senza il timore che l'aumento di peso affatichi il mio cuore, o perché i troppi zuccheri o alimenti troppo fritti incidano sulla mia salute. Voglio poter fare quelle cose sbagliate, commettere gli errori che farebbe qualsiasi ragazza della mia età.

Perchè è così difficile da capire? 

Io ho bisogno di tutte queste piccole cose, perché non le ho mai conosciute. Voglio avere degli amici e condividire con loro le mie giornate, senza che siano degli inferiori, dottori o pazienti conosciuti durante i ricoveri o i day ospital. Voglio poter avere dei ricordi, e sorridere quando mi capiterà di riportarli alla mente. Ma anche mio padre, come mia madre, non accetta che mi voglia condannare. 

Credono che mi sia arresa e non voglia più vivere. Ma si sbagliano, io voglio vivere, ma devo trovare una ragione più importante per farlo. Una ragione che non sia constantemente la mia malattia. Anche io ho paura della morte, convivo con questo pensiero da quando sono nata. Ma ho ancora più paura di sapere che non ho mai vissuto, in realtà. 

Ho paura che, una volta arrivata alla fine, non avrò nulla a cui pensare. Nessun ricordo che mi faccia sorridere, nessun rimpiato, o di non aver detto un "ti voglio bene" o "mi manchi, scusami" ad un amico, restando intrappolata in questa realtà distorta, dove non potrà accadermi nulla – o almeno è quello che spero; Non voglio morire sola e triste, e questo mi fa molto più paura della morte stessa, perchè sarebbe la conferma che la mia malattia ha vinto molti anni fa. 

Principessa, posso farti un po' di compagnia?

– Papà, non credi che sia ormai troppo grande per questo nomignolo?

Mi siedo sul ciglio del letto con la testa abbassata e la mente offuscata dai troppi pensieri. Mio padre non smette di fissarmi, mentre prende posto accanto a me. Ora che ci penso, mi ha sempre chiamato "principessa", secondo lui, questo mi avrebbe reso speciale agli occhi degli altri. Mi piaceva tanto questo nomignolo, mi sentivo davvero una principessa... rotta

– Hai ragione. Ormai sei una giovane donna, ma per un padre la propria figlia rimane sempre la sua principessa. O preferisci che ritorni a chiamarti "orsetta?"

Lo fisso, imbarazzata. – Smettila, papà. E' imbarazzante... 

Ed entrambi scoppiamo a ridere, ricordando quei tempi così lontani dalla mia infanzia. Ero triste per aver discusso con lui, e non sopportavo tenergli il muso. Era da un paio di giorni che stava accarezzando l'idea di lasciare l'ospedale firmando le mie dimissioni e niente mi avrebbe fatto cambiare opinione.

– Ho riflettuto su quello che hai detto prima... - comincia, facendomi voltare nella sua direzione.

Oh no, ho parlato troppo presto. Ora riprendermo a discutere.

– Per favore, papà. Non ho voglia di tornare sull'argomento. - lo interrompo.

– Hai ragione. 

Le sue ultime parole mi straniscono completamente.
Un'ora fa mi dava dell'irresponsabile, e quella dopo mi appoggiava? Cos'era successo? 

Si gira verso di me, stringendomi la mano. – E' la tua vita. Sei adulta, ed è normale che sia tu a decidere quello che ritieni giusto per te. Noi, come genitori, possiamo solamente darti consigli o non essere d'accordo e arrabbiarci, ma rispettiamo le tue scelte. 

Non riesco a credere a quello che ho appena sentito. Mio padre ha messo da parte l'orgoglio! 
I miei occhi si riempiono di lacrime, ma questa volta sono felice. So ch'è difficile da accettare e so che vorrebbe fare qualcosa per aiutarmi, ma è giusto così, e avevo bisogno del loro consenso per proseguire in questo mio intento.

Non appena mi stacco dal suo abbraccio, gli accarezzo il viso e gli schiocco un bacio sulla guancia.
– Grazie, papà. Non puoi capire quanto sia importante il vostro appoggio, per me. - dico fra le lacrime, e lui porta una mano alla guancia con gli occhi lucidi, ponendomi un bacio sulla fronte.

Il suo sguardo si fa' serio. 

– Ma che sia chiara una cosa! Dovrai prometterci che non interromperai le cure prescritte e verrai in ospedale almeno una volta al giorno, e che non farai nulla di sproposito.

– Certo, papà. Te lo prometto. Non farò sciocchezze.

Mi sembra un giusto compromesso, non potrei comunque sospendere le cure: il mio cuore dipende da questo.

Da oggi, vivrò la mia vita normalmente, non dovrò più preoccuparmi delle cose che posso o non posso fare. Ora, finalmente, scriverò un nuovo capitolo molto più interessante dei precedenti.









Ikuto




 
Non potevo più restare un'altra ora lontano da lei. Dopo essermi svegliato mi sono precipitato in ospedale. Ho parcheggiato la macchina al solito posto e percorso rampe di scale e file di corridoi con il cuore in gola e il presentimento che fosse successo qualcosa. Prima di arrivare nella stanza il pensiero di non trovarla più nel suo letto, circondata dai fili, aveva preso il sopravvento tanto da affrettare il passo. Ma non appena arresto la corsa alla soglia, la vedo, è ancora lì, non si è sposata di un millimetro, e il mio cuore si alleggerisce.
Le ferite al volto si sono quasi rimarginate. La sua mano è calda e la tengo stretta alla mia per tutto il tempo, con la paura che possa scomparire da un momento all'altro nell'aria. L'anello di fidanzamento è sempre al suo dito, ma guardarlo mi fa' ripiombare in quella sensazione di vuoto e amarezza. Quella sera le aveva chiesto di sposarmi; i suoi occhi, la sua risata, le sue braccia attorno al mio corpo.

L'ultima notte in cui lei è stata mia.

Non so cosa pagherei per riavvolgere tutto, per convincerla a non prendere la macchina per rimanere in quel letto, lontano da tutti e tutto. Ma mi sono arreso troppo presto, l'ho lasciata andare via perché sapevo quanto fosse importante per lei il suo lavoro. Non potrò mai darmi pace per non averla persuasa. La polizia ha impedito che incontrassi il colpevole dell'incidente, e anche se avrei voluto è stata la cosa giusta, perché l'avrei ucciso con le mie stesse mani. Lui mi ha strappato la felicità dalle mani, mi ha portato via tutto in pochi secondi, e non credo che avrò mai pace sapendo che lui è ancora vivo, mentre la mia ragazza non c'è più. Lui è sopravvissuto all'incidente, se l'è cavata con un paio di escoriazioni, mentre la mia ragazza è in uno stato vegetativo e rimarra così per sempre.

Stringo le mani così tanto, che le nocche mi diventano pallide. 

– Signor Tsukiyomi, le devo chiedere di uscire qualche minuto dalla stanza. Devo sistemare la paziente. - i miei pensieri vengono interrotti dall'infermiera che, puntualmente, ogni sera viene per sistemarla. Mi alzo riluttante dalla sedia, dopo averle lasciato un bacio ed esco dalla stanza per dirigermi alla finestra. 

Ormai è da due settimane che il tempo si è bloccato. Niente e nessuno ha più senso.

 






 
 
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** – imbarazzante incontro ***





♦ Breathe Again... 






 
Sono di nuovo in ospedale per i soliti controlli giornalieri, e il dottore non la smette più con le sue raccomandazioni. La figura del medico si erge di fronte a me, seduta dietro la sua scrivania fissandomi attraverso gli occhiali. Oggi gli ho comunicato che ho intenzione di lasciare l'ospedale per un po', e il dottore non sembrava felice dei miei piani. 
- Io comunque non ti ho tolto dalla lista e sto facendo di tutto per accelerare i tempi... - 
- Ti ringrazio per le tue premure, ma ormai non ci credo più. Restano poche possibilità.- 
Il suo viso si rabbuia mentre scrive qualcosa con la sua penna stilografica, ma ormai ci sono abituata. Ogni medico a cui abbiamo chiesto un consulto sulla mia malattia mi guardano con quell'espressione di pura pietà, come a dire, "mi dispiace che devi morire."
- No, Amu. Non devi arrenderti e smettere di crederci! - 
L'ho fatto per troppo e non ho ottenuto nulla. Avrei voluto che il mio cuore collaborasse e mi desse la possibilità di vivere più a lungo, ma nell'ultimo consulto mi hanno detto chiaramente che la situazione può solo peggiorare.
- Se abbiamo finito, io andrei.- 
- Certo, va bene. - si rialza, e mi stringe la mano. - Amu non fare troppi sforzi e rilassati. Ci vediamo domani - 
Prima di uscire dall'ospedale passo dalla stanza di Akira, sicura di trovarci sua zia. Mi ha fatto piacere parlare con lei, e mi dispiace molto della tragedia che si è abbattuta su di lei.
Ma una volta arrivata davanti alla porta mi blocco sentendo la voce di un uomo. Forse è un medico. Cerco silenziosamente di avvicinarmi e appoggio l'orecchio alla porta nel tentativo di capire se c'è anche lei, ma per poco non cado come una cretina quando la porta si spalanca all'improvviso. Sto per finire elegantemente sul pavimento quando due braccia mi afferrano.
Tiro un sospiro di sollievo e appena alzo il viso per guardarlo, per una volta, il mio cuore batte energicamente ma non per la mia malattia. 
Nel momento in cui i miei occhi si incastrano in quelli ametisti di lui mi si mozza il respiro. Rimango per un po' a osservarlo, lui intanto si è messo le mani nelle tasche del pantalone con un'espressione sciocciata.
-Oh, ehm... scusami. Stavo cercando Hisa e poi tu... insomma hai aperto e io ho perso l'equilibrio - spiego, impacciata. Non vorrei che si facesse una strana idea di me, o che pensasse che stavo origliando la sua conversazione. Che vergogna...
- E non potevi semplicemente bussare invece di appoggiarti sulla porta e origliare? Potevo farmi male se mi fossi caduta addosso! - 
Cosa?  Che faccia tosta!
- Rompiscatole... - sussurro.
- Hai detto qualcosa? - dice, avvicinando il suo viso al mio.
- No, assolutamente. - 
- Hisa è andata a casa a riposare. Puoi tornare ad origliare domani se vuoi. Ora scusami, ma dovrei passare... - con un'espressione arrabbiata mi sposto per farlo passare, e mi volto guardandolo allontanarsi verso le scale. "Maleducato, presuntuoso..." penso, portandomi una mano alla fronte. Tutte queste emozioni possono mettere a dura prova il mio cuore. Dovevo aspettarmelo, di solito nei film gli uomini belli sono tutti bastardi, ma questo ha vinto il primario. Non so chi sia e nemmeno voglio saperlo visto il modo in cui mi ha trattata. Sono passata per salutare Hisa e Akira, non avevo nessuna intenzione di origliare, e spero vivamente di non incontrarlo una seconda volta, perché non potrei reggere un altro confronto. 
Entro nella stanza con cautela e mi avvicino al suo letto per salutarla, prima che quell'antipatico torni. Anche con le bende e con le cannule che le entrano nel corpo, è davvero una bella ragazza. Chissà che tipo era, ma sono certa che doveva essere buona e simpatica, circondata da amici e persone che le volevano bene. Le sfioro dolcemenente una mano, facendo attenzione alla farfallina sul suo dorso.
- Ciao Akira. Io sono Amu, piacere di fare la tua conoscenza. - le parlo come se potesse rispondermi, mentre mi accomodo sulla sedia. - Mi dispiace per quello che ti è successo.  So che magari adesso starai pensando che io non ti conosco e non dovrei essere qui, che non conosco nulla della tua vita, ma abbiamo qualcosa che ci accomuna. Qualcosa d'importante. Anche io come te mi è stato impedito di vivere. Non ho vissuto, e se l'ho fatto è stato in funzione della mia malattia. Non avrei nemmeno nulla da raccontarti perché non ho ricordi belli, potrei stare qui ore ed ore a parlarti di tutti gli ospedali e pazienti e delle loro sofferenze, di quanto questa vita sia stata ingiusta con entrambe. Questi sono gli unici ricordi che ho della mia infanzia... - 
Sentendo le lacrime sul punto di uscire, scuoto la testa. - Ma non voglio rattristarti col mio racconto. Voglio poter venire qui e raccontarti cose belle, che forse tu hai già vissuto, e io vorrei tanto che tu me ne parlassi. Sento che hai tanta voglia di svegliarti, ma il destino ha scritto le ultime pagine in maniera sbagliata. Alla nostra età dovremmo vivere una vita diversa. - 
Mi blocco, non riesco più a parlare, la voce è a scatti. 
- Io voglio vivere così. La vita è troppo breve e io voglio godermi gli ultimi giorni che mi restano, e vorrei che anche tu avessi questa possibilità. Ma tu non ce l'hai... -

Sono ormai sull'orlo di una crisi di nervi. Questa ragazza aveva un presente ed un futuro e l'è stato tolto tutto quello che avrebbe voluto costruire. Io non voglio che succeda anche a me. Voglio continuare perchè l'ho voluto, non perchè altri hanno deciso per me.

- Ti faccio una promessa, se ti fa piacere accettala. Da questo momento vivrò le tante piccole cose che la vita potrà offrirmi fuori da quest'ospedale, e lo farò anche per te. Verrò qui ogni giorno e ti racconterò tutto. Forse non vorrai ascoltare i discorsi di un'estranea, ma io lo farò... - 

Mi sento una stupida. Anzi, lo sono. 
In questo momento forse è l'ultima cosa che vorrebbe sentirsi dire date le sue condizioni. Io sono qui, mentre lei è intrappolata in una dimensione da cui forse non ne' uscirà. Ma in un certo senso anch'io lo sono, forse per questo motivo sento il legame divenire più forte ad ogni parola.

Abbandono il suo capezzale con la promessa di tornare domani, e mentre sto camminando per il corridoio, ecco apparire all'angolo l'impertinente di prima. Abbasso la testa e mi fisso i piedi, cercando di passare inosservata, ma lui s'interrompe a pochi passi da me. 

- Di nuovo tu?- 

Mi fermo anch'io. - Riguardo a prima, io non stavo origliando. Sono venuta per vedere se ci fosse Hisa. Mi dispiace di esserti caduta addosso, ma non stavo origliando. Perchè avrei dovuto? - 

- Stai tergiversando, ragazzina. - 

- Scusami per l'incidente, la prossima volta starò più attenta. - 

Lui continua a guardarmi attentamente socchiudendo gli occhi. 

- Se non ti dispiace, dovrei passare. Ti auguro buona giornata. - e velocemente lo sorpasso.










Ikuto 

Sono di ritorno dal bar, e quando svolto l'angolo mi ritrovo fra i piedi la ragazzina di prima. Non appena mi fermo a pochi centimetri da lei, comincia a dire una valanga di parole per tentare di scusarsi per l'incidente di prima. Non nego che non sia una bella ragazza, e forse qualsiasi essere umano avrebbe pagato un capitale per ritrovarsela fra le braccia. 

Ma è stata poco delicata. Un elefante avrebbe avuto più grazia. 

Ha detto che stava cercando Hisa per chiacchierare un po' e che era venuta a trovare Akira. E' strano che mia zia non mi abbia parlato di lei l'ultima volta che ci siamo visti in ospedale. Probabilmente è un'amica o conoscente della mia fidanzata, allora perché non ci siamo mai visti? Non c'è sicuramente altre spiegazioni plausibili, evidentemente è una nuova collega di lavoro. Quando mi sorpassa infastidita per il mio atteggiamento poco cortese il suo profumo m'inebria i sensi. Poco prima, mi è praticamente caduta nelle braccia, e quando lei ha alzato lo sguardo i nostri occhi si sono incrociati, e per un'istante ho sentito una sinergia attraversare ogni fibra del mio corpo.

Forse sono stato maleducato, ma lei non è stata da meno.
Ignoro quella sensazione, che mi tortura lo stomaco, ed entro nuovamente nella stanza di Akira. Me la chiudo alle spalle e mi appoggio ad essa, ascoltando in silenzio il rumore regolare delle macchine. Sbatto le palpebre e batto lievemente la testa contro quella superficie dura mentre il mio sguardo cade sul viso rilassato di Akira. Quanto vorrei specchiarmi nei suoi occhi, sentire la sua voce e toccare il suo corpo fino a fondermici, ma nonostante lei sia in quel letto da più di tre mesi mi rifiuto di accettare la realtà. Mi rifiuto di capire che lei non potrà svegliarsi, che l'incidente ha spezzato la sua giovane vita. Mi rifiuto di concepire una vita senza di lei. Forse la zia ha ragione, dovrei permetterle di raggiungere la luce anzichè condannarla a stare distesa in un letto come una bambola di porcellana, solo per puro egoismo.

Appena la raggiungo, le stringo forte la mano portandomela alle labbra, e gliela bacio.

- Amore mio, perché te ne sei andata? - 

La fisso speranzoso, in attesa di un cenno o di una risposta. Una risposta che non arriverà mai. 











N/A: 

 Finalmente l'incontro è avvenuto, e c'è stato già un piccolo scontro fra i due. Chi non vorrebbe cadere nelle braccia di Ikuto? :D 
Io sicuramente lo farei ad occhi chiusi. Nel frattempo, Amu sembra aver stretto un legame intenso con Akira...
Cosa succederà quando Ikuto verrà a scoprirlo? Scoprirà chi è la persona misteriosa che gli è caduta fra le braccia?
Spero che il capitolo vi piaccia, e nel frattempo lasciatemi qualche piccolo appunto o parere!

 
 Kiss.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3839434