Un amore nato dal caso

di G RAFFA uwetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non resta che guardare ***
Capitolo 2: *** Lasciare spazio al nuovo ***
Capitolo 3: *** Ritenta, sarai più fortunato ***
Capitolo 4: *** Mi gioco il tutto per tutto ***
Capitolo 5: *** Amare è capire come orientarsi nella nebbia ***
Capitolo 6: *** Riscriviamo la storia ***
Capitolo 7: *** Il vuoto nel cuore ***
Capitolo 8: *** Raccomandato? Con ricevuta di ritorno! ***
Capitolo 9: *** L'ultima prova ***
Capitolo 10: *** Un pezzo di cielo ***
Capitolo 11: *** L'umanità del Signor Nessuno ***



Capitolo 1
*** Non resta che guardare ***


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Un amore nato dal caso



Non resta che guardare



Era una sera limpida, una di quelle in cui il cielo faceva l’amore con le stelle e la luna invidiosa si appiattiva dietro a un angolo buio. Giovanni, occhi viola e capelli neri come il carbone, se ne stava seduto sulla panchina dall’altra parte della strada a fumare pigramente, ammirando il paesaggio.

All’improvviso, senza un motivo valido, per un secondo, si fece silenzio. Ed era ben strano considerato il parco vicino che pullulava di insetti e il grande raccordo che sovrastava il quartiere periferico della città.

Poi un boato. Immenso e stucchevole, fradicio di pietre che rotolavano le une sulle altre.

La terra tremò e si spaccò, come se all’improvviso le fosse venuta voglia di ridere a crepapelle. Squarci bui come bocche affamate di coccodrillo afferravano e rivoltavano ogni cosa li sovrastava. Sciami di sirene, urla e scoppi si fusero con il terrore e la polvere imbevuta di calcinacci.

Fu di nuovo silenzio. Irreale e suggestivo come la nebbia di dicembre.

L’intero isolato era stato inghiottito. Rimasero indietro solo il dolore e lacrime sporche di sangue che si mischiavano agli idranti saltati lungo la via.

A pochi passi dalla panchina, una ruota girava lenta, il resto della macchina incastrato sotto un blocco di cemento. Una mano strisciò da sotto un tronco e sbucò dai rami fradici di detriti. Più lentamente un’altra la seguì, così come tutto il corpo.

Giovanni sbatté le ciglia, passandosi le dita tra i capelli sudici.

Sotto l’intermittente luce dell’unico lampione rimasto attaccato al suolo, quasi si strozzò ingoiando saliva mista a sangue. Davanti a sé scoprì che, al posto di un rigoglioso angolo di quartiere, vi era una voragine fumante.

La terrà tremò ancora un paio di volte, come se lo stomaco del coccodrillo si assestasse per accogliere meglio la propria preda. Lingue di fuoco erano disseminate ovunque lungo il percorso del gasdotto e sporadiche scintille crepitavano nel buio della notte.

Agghiacciato, si accasciò sulle ginocchia tremanti. Il suo urlo fagocitò il silenzio e l’eco ridestò i rumori che ripresero a ronzare nelle sue orecchie. Giovanni pianse impunemente come un bimbo.

Non si avvide degli uomini accorsi che si guardavano attorno impreparati. Dei curiosi che sgomitavano per avere la migliore visuale. Di una coperta e un abbraccio caldo che lo sorreggevano davanti a quell’inferno.

Era rimasto vivo solo lui. Tutto il resto era polvere di stelle.



Niente è più emozionante nella vita che vedersi sparare addosso e non essere colpiti – Sir Winston Churchill ( dopo aver subito un attentato )



Note dell’autrice: inizio un po’ forte per una storia che vuole essere raccontata.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Questa storia partecipa al contest ‘Il contest del Simbolismo’ indetto da Arianna.1992 sul forum con il prompt sopravvivenza/alligatore.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

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Capitolo 2
*** Lasciare spazio al nuovo ***


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Un amore nato dal caso



Lasciare spazio al nuovo



Lo studio della psicologa era molto piccolo. Le pareti erano bianche e dal soffitto pendeva un filo alla cui estremità era attaccata una lampadina tondeggiante. Una spropositata finestra senza tende occupava la parete più lunga, davanti alla quale erano poste una scrivania scura e due sedie dall’aria scomoda. La porta, di dimensioni insolitamente ridotte, si trovava incastrata tra due angoli della stanza.

Fin troppo minimalista, aveva pensato Giovanni storcendo il naso, la prima volta che era entrato. È davvero bizzarra, come del resto la proprietaria.

La dottoressa Morena Scafandrone era una donna minuta dallo sguardo gelido. Portava con disinvoltura corti capelli canuti e un intreccio di rughe che partivano dagli occhi chiari fino giù sul collo che spuntava da un colletto perfettamente inamidato. I piedi, che si muovevano aritmicamente senza incontrare il pavimento, calzavano delle comode ballerine di un vistoso colore rosa.

Per riuscire a guardare negli occhi i suoi pazienti, teneva sotto il sedere un paio di volumi sulla psiche umana.

«Che c’è di strano?» rispondeva altera agli sguardi interrogativi. «Ormai non servono più.» Liquidava il discorso con la mano appesantita da un enorme solitario.

Tutto in quella stanza era disomogeneo, sembrava il magazzino di un robivecchi, ma a Giovanni piaceva. Forse perché anche lui si sentiva un’accozzaglia di emozioni contrastanti.

«Allora, mio caro,» addolcendo lo sguardo, la donna lo scrutò negli occhi, «hai fatto molti progressi. Non hai più bisogno del mio aiuto. Buona giornata.»

Giovanni andò in iperventilazione e boccheggiò davanti a quelle parole di chiusura. Scosse la testa borbottando risentito.

Era approdato in quello studio mesi prima, straziato dalla cruda realtà: lui era vivo.

Gli tornò in mente il rumore sordo della sua rabbia che schiantava sul ripiano della scrivania, l’espressione imperturbabile della dottoressa e l’irrazionale terrore che gli soffocava la gola. Allora non capiva, non riusciva a farsi una ragione della propria presenza sulla terra.

«Non esiste un valido motivo, è così e devi accettarlo.» gli ripeteva Morena.

E, giorno dopo giorno, passo dopo passo, come un puma, aveva imparato ad adattarsi alle incongruenze della vita. Chiuso nella sua testa aveva scisso le emozioni e le aveva rielaborate, trovando loro una nuova collocazione.

Aveva smesso di urlare contro Dio, di ritorcere la rabbia contro se stesso. Aveva ripreso a camminare tra la gente, sorpreso per ogni sorriso che aleggiava sui volti di sconosciuti. Aveva imparato ad ascoltare il silenzio che cantava nella sua testa. Aveva abbandonato i toni cupi dei discorsi futili.

Aveva ristabilito una connessione con il cielo rimanendo in equilibrio tra follia e realtà. Aveva scalciato i demoni e abbracciato nuovi sogni.

«Torna a vivere, Giovanni. Sono certa che qualcuno, la fuori, ti sta aspettando.» E gli porse un quadretto.

Il ragazzo glielo strappò dalle mani e stizzoso lo lesse: Primo segno di un animo equilibrato è la capacità di starsene tranquilli in un posto e in compagnia di se stessi. 1

Si alzò e, uscendo, le regalò il suo sorriso migliore.



Siamo come una fotografia che per essere nitida ha bisogno di luci e ombre nella giusta misura. Massimo Bisotti.





Note dell’autrice: Giovanni non capisce. È uno qualunque, con i suoi chiari e scuri. Dunque: perché solo lui si è salvato? Ma a questo quesito non c’è una risposta. E Giovanni dovrà farsene una ragione.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Questa storia partecipa al contest ‘Il contest del Simbolismo’ indetto da Arianna.1992 sul forum con il prompt puma/equilibrio.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

1Citazione di Lucio Anneo Seneca

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Capitolo 3
*** Ritenta, sarai più fortunato ***


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Un amore nato dal caso


Ritenta, sarai più fortunato


Non si è mai lontani abbastanza per trovarsi – Alessandro Baricco



«È la fine del mondo!» urlò un signore inginocchiato tra i detriti, le mani sporche e insanguinate nel tentativo di scavare. Daniele annuì piano, quasi trasognato davanti a quel disastro. Scosse le forti spalle e si fiondò in mezzo a quella baraonda di calcinacci in cerca di sopravvissuti.

Fu proprio per caso che, con la coda dell’occhio, vide una sagoma districarsi da sotto un grande albero. Senza perdere tempo la raggiunse e l’avvolse in una coperta presa al volo dal mezzo dei Pompieri.

Deve avere la mia età,” pensò distratto mentre lo sorreggeva tra le proprie braccia. «Sh,» sussurrò tra i suoi capelli nel tentativo di calmarlo, «è tutto finito.»

Per un solo istante i loro occhi si incontrarono e, sebbene il giovane non lo vedesse affatto, Daniele avvertì le loro anime sfiorarsi.



Giovanni, sorreggendo un vassoio, si districò tra i tavolini del bar dove lavorava. Porse due birre ghiacciate a una coppia di ragazzi e un caffè a Osvaldo, seduto lì accanto. Prese l’ordinazione dal solito gruppo di pettegole e, nel mentre, sentì alle sue spalle ridere bonariamente alle spese di qualcuno.

«Siete dei cafoni!» disse quest’ultimo contrariato, sebbene la sua voce fosse intrisa di risa.

Giovanni sobbalzò. Aveva già sentito quel tono caldo sussurrargli nell’orecchio. Si voltò di scatto e piantò i suoi occhi viola in faccia al giovane che proprio in quell’istante girò il volto nella sua direzione, quasi ne fosse stato attratto.

Il tempo si fermò e le loro anime cantarono.

Un cliente urtò Giovanni che scosse la testa frastornato. Contemporaneamente, l’altro ragazzo ricevette una pacca sulla spalla che lo distrasse. Sebbene avessero tentato immediatamente di ritrovare i loro volti tra la folla di passanti, l’attimo era fuggito via.



I centri commerciali sono una trappola per topi,” pensò frustrato Daniele davanti alle lucenti porte dei loro silenziosissimi ascensori. Era stanco e l’idea di buttarsi a capofitto nella folla di un sabato pomeriggio di saldi lo demoralizzava.

Proprio in quell’istante le porte si aprirono lentamente su un abitacolo stipato all’inverosimile. Daniele gemette tutto il suo disappunto.

Rassegnato alla prospettiva di aspettare il successivo, i suoi occhi scovarono, tra tutti quegli sconosciuti, un paio dall’incredibile colore viola. “È lui,” gridò la sua anima mentre la consapevolezza li incendiava. Poco elegantemente sgomitò ma fu inutile: le porte si chiusero derisorie.



L’asfalto scorreva lento sotto le ruote dell’autobus che lo stava riportando a casa. Giovanni, la testa appoggiata al finestrino, la mano che aveva scavato un solco sulla guancia, sognava il suo letto.

Erano imbottigliati nel traffico cittadino di lunedì mattina e lui era stanco perché aveva lavorato fino all’alba nel pub di un amico.

L’urlo della sirena e l’improvviso inchiodarsi del veicolo, lo svegliarono del tutto e, con occhi sgranati, si appiccicò al vetro nel tentativo di scoprire il motivo.

La camionetta dei Pompieri lì affiancò e Giovanni vide un giovane biondo sistemarsi il bavero della divisa. «Finalmente!» esultò. «Ora so dove cercarti.»



Il fato è come uno scoiattolo: riempe la tana di ghiotte occasioni, anche quelle bacate.



Note dell’autrice: Il destino sembra prendersi gioco di loro. Ma è bene ciò che finisce bene.

Buona lettura e sono graditi i commenti.

Questa storia partecipa al contest ‘Il contest del Simbolismo’ indetto da Arianna.1992 sul forum con il prompt scoiattolo/ incontri.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

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Capitolo 4
*** Mi gioco il tutto per tutto ***


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Un amore nato dal caso


Mi gioco il tutto per tutto



Cadendo, la goccia scava la pietra, non per la sua forza, ma per la sua costanza. Lucrezio.



Giovanni odiava le feste, non per l’allegria che le impregnava ma per quel fastidioso rimbombo che gli martellava il cervello.

Chiuse gli occhi e si passò una mano dietro il collo già madido di sudore freddo. Strinse i denti conscio che, se non si fosse lasciato alle spalle quel sottile velo di timore che non lo abbandonava da allora, nulla sarebbe mai cambiato.

Aveva faticato a ottenere un biglietto per la festa dei Vigili del Fuoco. Negli ultimi due mesi, aveva tampinato Guido, un suo vicino, fino all’esasperazione affinché gli cedesse il suo invito dietro una lauta ricompensa.

Sebbene avesse il cuore che batteva forsennato dall’ansia, non si sarebbe fatto abbattere, avrebbe mantenuto i nervi saldi e sarebbe andato dritto verso il proprio obiettivo. Avrebbe minuziosamente scandagliato la sala finché i suoi occhi non avessero incontrato quelli castani del suo salvatore. L’uomo che, solamente tenendolo stretto a sé, l’aveva salvato da un destino peggiore che finire schiacciato dalle mura di casa.

Giovanni nascose le mani tremanti nelle tasche dei jeans e si inoltrò tra la folla evitando le grosse casse degli altoparlanti. Raggiunse a fatica il buffet di torte fatte in casa e accettò un piatto di plastica con una fetta di tiramisù afflosciato sul fondo. Non era molto invitante, ma aveva bisogno di zuccheri per contrastare il panico che a ondate tentava di sopraffarlo.

Mentre ingoiava la torta, scorse, attraverso un canale apertosi tra gli astanti, il volto sorridente del suo eroe che puntava nella sua direzione. Istintivamente le labbra si aprirono denudando i denti ancora sporchi di crema stucchevole. Che figura da barbagianni, pensò inorridito mentre con uno scatto si girava e si dileguava tra la folla.

«Suvvia, Giovanni, fatti forza! Da quella distanza non si sarà accorto di nulla,» tentò di convincersi mentre si specchiava nel bagno in cui si era rifugiato poco prima. Piegò il capo e con le mani a coppa si sciacquò il volto in fiamme. Prese un sorso d’acqua fresca e, dopo averla rimestata in bocca, la sputò nel lavandino.

Fu allora che la porta si aprì ed entrò Daniele, sguardo preoccupato e gli occhi fissi al riflesso di fronte. Giovanni si pietrificò imbarazzato.

«Ciao, io sono Daniele,» si presentò. «Ti ho cercato ovunque e sono così contento di notare che ti sei ripreso bene.»

Davanti a quella mano tesa smise di pensare. Fece leva sul ripiano e si voltò lentamente. Gli sembrava di camminare sulla luna, impacciato e traballante sulle gambe molli dall’emozione. A un soffio da lui allargò le braccia e gli si buttò contro, premendo il capo sulla sua spalla. Un paio di lacrime scivolarono lungo la guancia accaldata quando avvertì Daniele ricambiare la stretta.

«Ciao, sono Giovanni,» sussurrò. «Ti ho cercato ovunque e sono così felice di averti finalmente trovato.»

Stretto a lui, pensò che era fortunato. Come un bravo castoro, era riuscito a fare l’impossibile: intreccio dopo intreccio aveva raggiunto il proprio obiettivo.



Note dell’autrice: io penso che se uno è destinato arriverà ovunque.

Giovanni e Daniele si sono cercati e trovati. Ora non devono fare altro che vivere.

Questa storia partecipa al contest ‘Il contest del Simbolismo’ indetto da Arianna.1992 sul forum con il prompt raggiungere gli obiettivi/castoro.

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Capitolo 5
*** Amare è capire come orientarsi nella nebbia ***


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Un amore nato dal caso



Amare è capire come orientarsi nella nebbia1



Giovanni prese il telefonino e, per la terza volta, controllò i messaggi. Era appena tornato dal lavoro e già l’ansia premeva per uscire.

Alloggiava in una modesta pensione nel cuore della città, in uno stabile immerso nel verde appartenuto a un nobile decaduto.

Giovanni non aveva problemi con le persone perennemente in ritardo, ma quando si trattava di Daniele la sua insicurezza emergeva.

Nervoso, calciò una scarpa che finì sotto la scrivania.

Ci teneva a Daniele, al loro rapporto fatto di timidi sguardi e sorrisi sinceri. Si era abituato così tanto alla sua presenza da riconoscere le sfumature dietro le quali mascherava le emozioni. Stare con lui era come vagare nella nebbia e riconoscere che un’ombra, come un suono improvviso o un colore sfocato, erano indizi che lo portavano da lui.

Si appoggiò alla finestra e iniziò a tormentare le unghie. Aveva ripreso a piovere.

Daniele era bello, aveva fascino e tutti ammiravano la sua allegria. Invece lui era schivo, gli piaceva fermarsi e contemplare, magari in compagnia di una buona sigaretta.

Proprio l’opposto, pensò mesto. Se non cambio la situazione qualcun altro me lo porterà via. Non sono abbastanza interessante o particolarmente carino per uno come lui.

In quell’istante, oltre l’uscio, qualcuno gridò: «Giovanni! Giovanni! Scendi, c’è un tizio che ti aspetta fuori in cortile.»

Senza indugio, il moro caracollò giù dalle scale col cuore che batteva forsennato, le scarpe dimenticate, per catapultarsi fuori sotto la pioggia.

Col fiato in gola lo raggiunse e, prima che potesse dire alcunché, gli prese il viso tra le mani e lo baciò. Daniele, colto di sorpresa, fece cadere l’ombrello.

Fu intenso e straziante.

Un calore improvviso gli bruciò la pelle e gli parve che il sangue evaporasse all’istante quando Daniele rispose al suo assalto. Così gli affondò le dita nei capelli biondi e li strattonò, piegandogli il capo di lato.

Era terribile e al contempo gustoso. Era come soffiare via la nebbia per scoprire che esistevano davvero i colori.

Oh santo cielo quanto lo amo. Si staccò da lui e prese un lungo respiro.

«Ti amo,» gli disse con urgenza. «So di non essere perfetto e non ho molto da offrirti ma vorrei comunque provare a dimostrare che sei speciale. Che sei unico.»

Daniele fermò quel fiume di parole baciandolo con trasporto.

«Non chiedo la luna, Giovanni. Desidero un compagno che mi comprenda, che mi sopporti.» Sorrise alla smorfia buffa che fece. «E tu sei perfetto,» l’assicurò. Ripresero a baciarsi lentamente.

«Ehi! Voi due! Avete finito di fare le colombelle? Venite, ho appena servito il tè.» Sulla porta si stagliava la figura tonda della cuoca.

I due ragazzi sussultarono colti di sorpresa. «Non è stata la più eclatante delle dichiarazioni,» bisbigliò Giovanni sulle sue labbra.

Risero impacciati, poi, prendendosi per mano entrarono nella pensione.

«Ah, Giovanni. Poi assicurati di lavare il pavimento.» proferì la cuoca, indicando loro le evidenti tracce di umido che avevano lasciato; erano bagnati come pulcini.



Note dell’autrice: dove sta scritto che dichiararsi l’amore sia un evento straordinario? Giovanni e Daniele sono due pasticcioni ma è indubbio che si amano davvero. Ciò non gli impedirà di causare qualche disastro.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Questa storia partecipa al contest ‘Il contest del Simbolismo’ indetto da Arianna.1992 sul forum con il prompt amore/colomba.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

1Questa citazione è mia

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Capitolo 6
*** Riscriviamo la storia ***


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Un amore nato dal caso



Riscriviamo la storia



«Tu non capisci,» urlò Giovanni, «è tutta colpa mia.» Tentò di scostarsi ma Daniele lo fermò deciso.

Si erano dati appuntamento in quel piccolo appartamento vuoto in periferia: due stanze, un cucinotto e un balcone dalla vista mozzafiato. Una firma sul contratto e sarebbe stato loro, per sempre. Era tutto perfetto, eppure c’erano questioni in sospeso tra loro.

«Spiegami,» si limitò a dire mentre gli asciugava una lacrima col pollice. Giovanni deglutì e tirò su col naso, sorridendo triste.

«Allora ero un menefreghista, bighellonavo e vivevo a spese di mio zio. Quella fatidica sera avevo ceduto per pochi soldi una dose di coca a Paolo. Aveva solo quattordici anni e sapevo benissimo che era strafatto, ma non mi importava. Dopo il disastro, venne fuori che l’esplosione era avvenuta appunto nella rimessa dove si rifugiava. Gli inquirenti ipotizzarono che, stordito dalla droga, pensando di avere acceso la stufa, avesse invece lasciato uscire il gas che saturò il locale, con la disastrosa conseguenza che sappiamo.»

«È colpa mia,» ripeté mogio. «Sono un assassino,» rincalzò sviando il suo sguardo, «e non ho avuto nemmeno le palle di denunciarmi. Sei il primo a cui lo confesso,» sussurrò tra i denti, pentito e vergognoso.

Tra loro calò un pesante silenzio e Giovanni si mosse a disagio. Infine, certo del rifiuto del compagno, fece un passo indietro e, tenendo il capo basso, si diresse verso l’uscio.

Non riuscì a raggiungere le scale del pianerottolo che si sentì afferrare e due labbra calde si appoggiarono con prepotenza sulle sue strappandogli un mugolio sorpreso. Daniele lo baciò con impeto, accarezzandogli il palato e succhiandogli fuori l’anima. Giovanni, stretto nella morsa del suo abbraccio, tremò.

«Non sei l’unico ad avere dei segreti,» cominciò a raccontare Daniele con voce commossa. «Era la mia prima uscita ed ero gasato, anche per via di un bicchiere di troppo. Arrivammo in quel casolare a notte fonda, scesi eccitato, con l’adrenalina a mille. Il comandante mi disse di fare un sopralluogo per vedere se qualcuno era sfuggito a quell’inferno. Poco distante sentii dei lamenti provenire da un cespuglio. Scostai le foglie e trovai un bambino parzialmente ustionato con un tubo conficcato nel petto. Fui in grado solo di vomitare.» La sua voce si incrinò, respirò a fondo prima di continuare. «Mentre me ne stavo lì, pietrificato dall’orrore, vidi la vita scivolare dai suoi occhi.»

Giovanni gli accarezzò la schiena cercando di alleviare la sua angoscia.

«Entrambi siamo colpevoli,» riprese Daniele tra le lacrime. «Condividiamo il dolore per sopportare meglio i nostri errori. Ricominciamo da qui, Giovanni, e affaccendiamoci come formiche affinché il nostro amore cresca più saldo.»

Rientrarono nell’alloggio con un sorriso mesto e, a entrambi, vennero in mente le parole di un libro: tutte quelle pagine bianche le regalo a te per riempirle1. E così avrebbero fatto. Si sarebbero concessi un’opportunità spartendosi i silenzi e le gioie, i giorni tristi e l’amore.



Note dell’autrice: la vita ci mette davanti a delle scelte e non sempre siamo in grado di fare ciò che è giusto. Giovanni e Daniele devono fare i conti con un triste passato ma, ora che sono in due, il fardello peserà di meno a entrambi.

Questa storia partecipa al contest ‘Il contest del Simbolismo’ indetto da Arianna.1992 sul forum con il prompt condivisione/formica.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

1Da Storia di una ladra di libri.

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Capitolo 7
*** Il vuoto nel cuore ***


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Un amore nato dal caso



Il vuoto nel cuore



Per colmare un vuoto devi inserire ciò che l’ha causato. Emily Dickinson.



Le vie della città erano invase da una folla multicolore, da grida festanti, musica ad alto volume e striscioni stesi tra un carro e l’altro inneggianti all’amore e al rispetto.

Da un folto gruppo di motociclisti fasciati in aderenti tute nere, sbucò una giovane ragazza lentigginosa. Dietro di lei arrancava un uomo tarchiato che teneva una telecamera in bilico sulla spalla.

«Seguimi!» urlò la giornalista mentre trafficava con il registratore agganciato in vita; era un modello superato, di quelli con il microfono attaccato al filo. «Voglio intervistare quel ragazzo laggiù.» E, con passo spedito, uscì dal corteo per fermarsi davanti a un negozio di scarpe.

«Ciao!» esordì con un sorriso smagliante. «Già stanco di questa confusione? Cosa ne pensi del Pride di quest’anno? Cambieresti qualcosa? Ritieni che i politici si occupino a dovere dei diritti degli omosessuali? Cosa vi manca per sentirvi uguali?» sparò a raffica. Nella fretta, quasi ficcò il microfono nel naso a un bel ragazzo dagli straordinari occhi viola.

«Cosa ti fa credere che faccia parte di tutto ciò?» rispose accigliato l’interpellato, sventolando la mano.

«Oh, scusa. Ecco, io credevo...» balbettò la ragazza, fissando il foulard iridato che teneva al collo. Davanti all’espressione confusa della giornalista, il giovane scoppiò a ridere di gusto.

«Perdonami, è stato più forte di me.» Le sorrise porgendo la mano. «Mi chiamo Giovanni, sono gay e, una volta arrivato il mio compagno, ci tufferemo tra la folla.»

«Stupido!» proruppe confidenzialmente, dandogli un buffetto sul braccio come punizione per lo scherzo subito.

«Sono ancora valide le domande?» chiese Giovanni strizzando l’occhio. Al cenno positivo continuò. «Personalmente? Tutto questo non mi interessa. Nella mia vita, non ho mai avuto bisogno di identificarmi, di appartenere ad un gruppo piuttosto che ad un altro. Ho sempre fatto quello che mi pareva più opportuno, o per lo meno, che mi dava più profitto. Meravigliata? Come darti torto.»

«Quindi, se non credi nell’utilità del Pride, cosa fai qui? Sei uno dei tanti pacati curiosi che aspettano che altri risolvano i problemi?» La ragazza fletté le labbra in una piega amara e gli occhi le si adombrarono, persa in chissà quali ricordi. Giovanni sorrise.

«Guarda che non condanno o disprezzo le varie comunità gay, anzi: sono qui per sostenere Daniele, l’uomo che amo. Vedi, lui è uno dei molti a cui la società ha calpestato la dignità, e, per società, intendo tutto ciò che celebra l’omofobia: leggi, religione, famiglia, prospettive di vita, lavoro.»

«Sai, Daniele è un ragazzo d’oro, eppure i suoi genitori l’hanno bollato come un diverso. Nemmeno si sognano quanto amore ha donato a chi ha avuto la fortuna di incontrarlo. Del bene che si prodiga a fare fino ad annullarsi. No, per loro è solo uno sbaglio, un aborto.» quasi ringhiò. Mise una mano tra i capelli scuri e fece un profondo respiro per calmarsi.

«Il loro rifiuto ha creato un vuoto nel suo cuore e lui l’ha colmato entrando a fare parte della comunità gay. Non c’è niente di male, in questo, ma nel profondo del suo animo pensa ancora di essere sbagliato. Invece, sono coloro che non l’hanno accettato ad essere imperfetti

In quel momento un ragazzo trafelato li raggiunse. «Amore, scusa il ritardo.» Giovanni si illuminò e strinse a sé il nuovo venuto.

La giornalista si spostò lievemente per lasciare loro un po’ di intimità. Sentendo un sordo brontolio, alzò gli occhi al cielo per scoprire che, nel frattempo, si era annuvolato.

«Piero, togliamoci dalla strada prima che si scateni il temporale.» L‘uomo grugnì il suo assenso. Una volta raggiunto l’androne di un palazzo, si girarono verso la folla che aveva preso a sciamare composta, disperdendosi tra le vie verso i mezzi di trasporto cittadini. Con la coda dell’occhio la giornalista scorse la coppia che rideva felice sotto la pioggia che aveva preso a cadere insistente. Diede una pacca al suo compare e gli disse:

«Riprendili, sono fantastici. La giusta conclusione per questa giornata piena di amore.»

Piero immortalò il bacio appassionato che Giovanni e Daniele si stavano scambiando incuranti di tutto.



Il cielo era un cumulo disordinato di nubi grige che il vento sferzante spostava a proprio piacimento. Scrosci d’acqua improvvisi fendevano l’aria rendendo lucido e pulito il paesaggio. L’umidore del terreno si miscelava perfettamente con quello più dolce delle piante in fiore. Un placido ruscello scorreva lento tra i campi pezzati di marrone, giallo e verde.

Dietro il vetro socchiuso della camera, una giovane ragazza era china su una scrivania.

Celeste, capelli ramati trattenuti da una matita in uno sgraziato chignon, labbro stretto tra i denti canditi, una mano pallida distesa sul foglio, era indaffarata a scrivere con la sua calligrafia minuta, imbrattando di verde la superficie bianca.



Caro, Daniele.

Che banalità iniziare una lettera così, ma mi manchi.

Sono anni che cerco di...



Proprio in quell’istante la porta si aprì ed entrò suo padre.

«Cosa stai facendo chiusa in camera?» chiese. Poi, i suoi occhi si posarono sul giornale e l’espressione divenne glaciale. In due falcate raggiunse la ragazza e le scoccò uno schiaffo sulla guancia.

«Come ti sei permessa? Come hai osato?» disse indignato.

«Non puoi impedirmi di amare mio fratello!» urlò Celeste. L’uomo si ritrasse come scottato, artigliò il giornale e lo fece a pezzi. Voltò le spalle alla figlia e uscì sbattendo la porta.

Celeste guardò a lungo l’uscio chiuso. Non le era sfuggito il tremore delle braccia del padre e l’indecisione prima di afferrare il quotidiano, gli occhi farsi malinconici davanti all’evidente espressione felice di Daniele e la piega amara della sua bocca.

«Forse un rimedio c’è,» disse cospiratoria. Alacre, radunò davanti a sé i pezzi di carta, li distese e raccolse i frammenti della foto che ritraeva Daniele e il suo compagno. Delicatamente li pose all’interno di una busta vuota.

«Domani scendo in paese e la spedisco.» Sorrise furba. E finalmente tornerà tutto come prima, pensò fiduciosa.





Note dell’autrice: La famiglia dovrebbe essere il luogo più sicuro dove crescere circondati dall’amore.

Daniele viene da un mondo pieno di pregiudizi che ha scavato un solco nel suo cuore, un vuoto che ha colmato come ha potuto.

In soccorso, sono giunte due persone speciali: Giovanni, il suo compagno, che gli riempie le giornate dimostrando tutto il suo amore. E Cecilia, sua sorella, che, con un espediente, cercherà di ridargli ciò che crede perduto.

Sebbene in modi differenti, entrambi hanno dimostrano di tenere a lui.

Questa storia partecipa al contest ‘OUT & PROUND – Originali e Fanfiction’ indetto da Nuel2 sul forum.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Ulteriori note: Questa storia l’ho inserita in una raccolta ideata per il contest ‘Il contest del Simbolismo indetto da Arianna.1992 sul forum.

Anche se non partecipa al suddetto concorso, mi sono presa la libertà di usare uno dei simbolismi in elenco: cane/devozione. Inoltre, al fine di sottolineare che partecipa solo a un contest, ho deciso di creare un nuovo banner.

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Capitolo 8
*** Raccomandato? Con ricevuta di ritorno! ***


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Un amore nato dal caso



Raccomandato? Con ricevuta di ritorno!



«Perché il pompiere?» chiese curioso Giovanni un pomeriggio.

«Per riscattarmi e rendere Pietro fiero di me,» rispose. «Sapessi quanto ero agitato mentre aspettavo la lettera che mi avrebbe cambiato la vita.»



«Daniele, guarda che se consumi il pavimento poi ti tocca pagarlo.» Il vecchio Pietro aveva riso davanti all’espressione scioccata del giovane.

Erano giorni che stava chiuso in casa nella speranza di ricevere il responso al bando a cui aveva partecipato tempo prima.

Non era stato facile accedere al concorso pubblico indetto per diventare Vigili del Fuoco, avendo avuto in passato un piccolo contenzioso con la giustizia. Ma Pietro, suo angelo custode, aveva messo una buona parola con Sandro, il Maresciallo di zona, che aveva insabbiato la sua pratica.



Era ancora un ragazzino quando era scappato dalla famiglia che lo voleva chiudere in collegio perché gli piaceva vestirsi da donna.

«Lì ti raddrizzeranno!» aveva sbraitato suo padre mentre gli teneva il viso sotto la fontana per lavare via il trucco. Appoggiata allo stipite della porta, sua madre singhiozzava col volto nascosto tra le mani.

Era ancora un gioco, eppure l’avevano fatto sentire sporco e sbagliato, così aveva deciso di andarsene, pur di non vedere la delusione storcere la bocca ai suoi genitori.

Solo, spaventato e affamato, sperduto nella grande città, per due giorni aveva tenuto d’occhio il sacchetto di carta, appoggiato sopra le cassette della posta, che il panettiere lasciava ogni mattina. Poi, con il coraggio di chi non aveva più nulla da perdere, l’aveva afferrato e, mentre scappava via, una signora l’aveva colto in fallo. Dei passanti, arrivati in soccorso della donna, l’avevano raggiunto e immobilizzato fino all’arrivo della polizia.

Fortuna aveva voluto che Pietro, l’uomo derubato, fosse una persona buona. Aveva compreso subito la situazione, facendosi immediatamente carico di Daniele. Non aveva figli e nemmeno moglie, e avere accanto il ragazzo l’avrebbe aiutato a vivere meglio la propria vecchiaia.



«Ho sentito un rumore,» Daniele aveva scosso la testa e, con aspettativa, si era fiondato alla finestra perlustrando con voracità la strada.

«È ancora troppo presto,» aveva cercato di ammansirlo Pietro. «Sono appena le otto e il postino arriva verso mezzogiorno.» Aveva riso con affetto della sua ansia.

«E se mi hanno scartato perché sono un ladro? E se non vedono di buon occhio i finocchi? E se la mia media scolastica non bastasse? E se...»

«E se invece vieni qui e mi leggi il giornale?» l’aveva incitato sventolando le pagine. Daniele aveva buttato fuori il fiato e si era seduto accanto all’uomo iniziando la lettura.

«Vedrai che ti prenderanno, sei un bravo ragazzo. Devi solo avere la pazienza delle mucche.»

«Cosa?» aveva chiesto sconcertato Daniele.

«Be, certo. Mio nonno diceva sempre che una mucca vive serena perché ha la speranza che prima o poi mangerà tutta l’erba del prato. Leggi, su.» E, dandogli un buffetto sulla testa bionda, aveva liquidato la questione.



«È proprio andata così, lo giuro,» disse sorridendo a Giovanni. «A mezzogiorno in punto seppi di essere diventato un pompiere.»



La speranza è la vernice del domani sulla delusione di oggi. ( Evan Esar )



Note dell’autrice: Daniele coltiva un sogno che forse non si avvererà mai.

Come dice il proverbio, la speranza è l’ultima a morire così Pietro convince Daniele ad avere pazienza perché solo aspettando si colgono i frutti migliori.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Questa storia partecipa al contest ‘Il contest del Simbolismo’ indetto da Arianna.1992 sul forum con il prompt speranza/mucca.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

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Capitolo 9
*** L'ultima prova ***


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Un amore nato dal caso



L’ultima prova



Il vento soffiava forte e le gocce d’acqua rigavano il parabrezza della macchina solitaria che percorreva la strada immersa nella campagna.

Daniele, occhi vigili e mascella serrata per la tensione, sterzò a sinistra imboccando un sentiero sterrato alzando, al suo passaggio, un muro di fango. I fari del veicolo sfavillavano ad ogni sobbalzo delle ruote, non riuscendo a fendere il buio precoce di quel fine pomeriggio primaverile.

Finalmente, dopo quasi due ore di viaggio in totale silenzio, spense il motore davanti ad un’austera casa in mattoni rossi, inscuriti dalla pioggia battente. Daniele si passò una mano tra i capelli in un vano tentativo di sciogliere la tensione, respirò forte e aprì lo sportello della piccola utilitaria giallo canarino.

Come le suole delle scarpe toccarono il pietrisco, reso sdrucciolevole dall’acqua, una ragazzina dalla zazzera raccolta in due trecce disordinate si fiondò tra le sue braccia facendolo barcollare.

«Celeste,» bisbigliò felice tra i suoi capelli, «se non mi lasci andare prenderemo entrambi un bel malanno!» E poi rise forte, il viso rivolto al cielo plumbeo e la schiena premuta contro la lamiera dell’auto.

«Non importa cosa dice papà, sei mio fratello e ti voglio bene lo stesso,» sussurrò Celeste stringendolo più forte. Daniele baciò teneramente il suo capo ormai zuppo.

Erano passati quasi dieci anni da quando, confuso e arrabbiato, era scappato da quelle terre sempre umide di pioggia e sferzate dal vento. Si era cacciato subito nei guai. Ma il vecchio Pietro, che aveva derubato per fame, aveva visto in lui qualcosa di buono che l’aveva indotto a salvarlo da se stesso. Grato, aveva preso al volo quell’opportunità e, sotto la sua ala, aveva finito gli studi e, successivamente, si era arruolato nei Vigili del Fuoco. Erano stati anni esaltanti e aveva ricambiato appieno la fiducia di Pietro.

Poi, pochi giorni prima, gli era arrivata una busta da suo padre, contenente una sola fotografia ridotta in mille pezzi: lui che baciava il proprio compagno sotto un acquazzone.

Davanti a quell’ennesimo rifiuto, si era deciso ad affrontare il drago nella propria tana, come conclusione di un percorso iniziato anni prima in un giorno uggioso come quello.

«Non nasconderti dietro a un dito,» gli diceva spesso Pietro, «affronta il tuo nemico a testa alta. Se perdi, pazienza. Ci sono altre mille vittorie che ti attendono.»

Daniele sorrise al ricordo e l’amarezza che provava si diluì nella pioggia che gli scivolava addosso come un manto.

Invocò l’aiuto di Pietro che l’aveva accolto come un figlio. Pensò a Giovanni che l’attendeva fiducioso a casa. Strinse più forte a sé Celeste, la sua adorata sorellina, e, passo dopo passo, si avviò sereno verso la porta pronto ad affrontare la sua ultima prova.

«Amo un uomo e non mi vergogno,» disse risoluto una volta raggiunto il salotto. «Se proprio non l’accetti, pensa a tutte quelle vite che ho strappato alla morte. Di questo, spero, ne sarai fiero. E» bisbigliò, «me lo farò bastare.»



Chi desidera vedere l’arcobaleno, deve imparare ad amare la pioggia. Paulo Coelho.





Note dell’autrice: ognuno di noi ha ferite scoperte che fanno male.

Daniele decide di affrontare l’ultimo ostacolo alla propria serenità: suo padre. È risoluto nelle proprie ragioni ma offre una scappatoia perché in fondo amare è anche scendere a compromessi.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Questa storia partecipa al contest ‘Il contest del Simbolismo’ indetto da Arianna.1992 sul forum con il prompt pioggia/drago.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

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Capitolo 10
*** Un pezzo di cielo ***


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Un amore nato dal caso



Un pezzo di cielo



Il parco era immenso. Piante ad alto fusto allungavano la loro ombra fino a lambire il cortile di un edificio basso dalle persiane azzurre. Aiuole lussureggianti di fiori inodori circondavano il pianale in cemento arricchito da comode sedute e bassi tavolini in ferro. Viottoli in terra battuta si districavano nella verzura inoltrandosi fino nel cuore del parco, dov’era ubicata una magnifica fontana in marmo rosa.

«Ciao, Pietro.» Daniele baciò sulla guancia rugosa il suo vecchio amico. Al ragazzo si stringeva il cuore nel vedere che si stava spegnendo piano piano.

Dopo l’ennesimo attacco epilettico, avvenuto mentre lui si trovava in trasferta, avevano concordato il suo trasferimento in quel luogo di pace. Per i primi tempi era stato difficile, abituati com’erano alla reciproca presenza. Ma poi Daniele aveva trovato Giovanni e Pietro aveva ritrovato una cara amica d’infanzia.

«Dov’è il tuo ragazzo?» gli chiese con voce flebile.

«Sta parlando con la direttrice, vogliamo che torni a vivere con noi.»

L’uomo sbuffò e sorrise fiero di quel giovane così altruista.

«Non ti devi preoccupare,» lo redarguì. «Sono felice per voi, per quel piccolo pezzo di cielo che vi state conquistando. Comunque, sarei solo di troppo.»

Daniele scosse la testa davanti alla cocciutaggine del vecchio.

«Non sei un peso,» l’assicurò. «Per me sei un padre, un amico, un nonno. Mi spiace solo non essere stato in grado di venire a prenderti prima.»

Pietro chiuse gli occhi commosso e una lacrima sfuggì al suo controllo. Con affetto circondò il collo del giovane con le braccia appesantite dalla vecchiaia. Daniele appoggiò la guancia sul petto dell’uomo e gli sfuggì un singhiozzo quando Pietro gli baciò i capelli.

«Sto morendo e non è giusto iniziare una vita portando in casa la sofferenza.»

«Quindi, sarebbe più semplice lasciarci alle spalle le persone che amiamo? Pietro, Daniele ed io stiamo costruendo il nostro futuro, ma che persone diventeremmo se ragionassimo egoisticamente? Che insegnamento daremmo agli altri?» Giovanni li aveva raggiunti e li guardava sereno, una mano appoggiata sulla spalla del compagno.

Pietro allungò il braccio perché si unisse a loro. Visti da fuori erano proprio buffi, tutti stretti uno all’altro. «Sono fiero di voi, ragazzi.»

«Andiamo a casa,» disse Giovanni aiutando Pietro ad alzarsi.

L’amore è un campo aperto, un oceano di opportunità, e per viverlo appieno basta decidere dove andare, e farlo assieme. Accettando gli alti e i bassi che la sorte vorrà donare.

Come i camaleonti si dipingono addosso sfumature non loro, usando la pelle come una tela su cui imprimere le proprie emozioni1, così, Daniele e Giovanni hanno imparato a non restare concentrati su se stessi, a urlare al mondo il loro amore, la reciproca appartenenza.

Che vestirsi con altri colori2 non è essere diversi ma significa essere unici. Che provare a condividere diluisce il dolore. Che vivere assieme è tutto ciò che chiedono per il loro futuro.

Amare non significa guardarsi negli occhi, ma guardare insieme verso la stessa meta. ( Antoine de Saint-Exupery )





Note dell’autrice: un viaggio non termina mai con l’arrivo, ma prosegue con l’esplorazione del luogo. Così la vita non deve avere dei punti fermi ma orizzonti da visitare, mete da raggiungere.

Daniele e Giovanni hanno intrecciato i loro percorsi e ora si accingono a viaggiare assieme, uniti nel loro amore.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Questa storia partecipa al contest ‘Il contest del Simbolismo’ indetto da Arianna.1992 sul forum con il prompt futuro/camaleonte.

Ulteriori note: questa è l’ultima flash iscritta al contest e un po’ mi dispiace abbandonare Giovanni e Daniele al loro destino. Per cui, giudice permettendo, in futuro vorrei tornare a scrivere di loro usando alcuni degli altri prompt del bando stesso. Quindi, che l’ispirazione sia con me.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

1I camaleonti attirano le femmine cambiando il colore della loro pelle. In questo link trovate la fonte: https://www.cavernacosmica.com/simbologia-del-camaleonte/

2È un palese riferimento al Pride svoltosi il primo giugno.

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Capitolo 11
*** L'umanità del Signor Nessuno ***


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Un amore nato dal caso



L’umanità del Signor Nessuno


Cercando di sembrare ciò che non siamo, cessiamo di essere quel che siamo. (Ernst Jùnger)


Il cimitero era silenzioso. Una leggera brezza espandeva il lieve profumo di fiori freschi che ingentiliva il paesaggio grigio. L’erba appena tagliata attutiva i passi frettolosi di chi provava il desiderio di sentirsi vicino ai propri cari. La presenza di un piccolo escavatore strideva fortemente con la poesia del luogo.

Giovanni si passò una mano sul viso in cerca di quelle lacrime che faticavano a scendere. Era passato molto tempo dal terribile scoppio che aveva stravolto la città dove viveva e, il fatto di essere stato il solo sopravvissuto alla tragedia, aveva contribuito a creare un vuoto dentro di lui. Più volte, la psicologa gli aveva ordinato di recarsi sulla tomba dello zio, di fare pace con lui ma soprattutto con se stesso. Perché le cose non accadono mai per caso. Gli diceva di continuo con la sua fastidiosa voce da bambina. Cosa che lui non aveva fatto fino a quel momento.

«Se preferisci rimanere solo mi sposto sotto quell’albero laggiù.» La voce gentile del suo compagno lo riscosse. Voltò il capo e lo vide indicare una grande pianta dove stava, nascosta dalle fronde, una panchina in pietra. Al suo assenso, Daniele gli sfiorò le labbra con le proprie, sorridendo triste e al contempo incoraggiante, per poi incamminarsi facendo scrocchiare la ghiaia bianca.

Rimasto solo, Giovanni si inginocchiò e accarezzò con riverenza la foto che ritraeva lo zio. Aveva un sorriso bellissimo, caldo e avvolgente. Portava i capelli lunghi alla moda degli hippies che brulicavano nelle città americane degli anni settanta. Adorava l’America, avrebbe tanto voluto vivere lì ed essere sepolto a Los Angeles, ma la sua famiglia si era opposta fermamente.

«Sono qui per chiedere perdono, zio. Per non essere stato un buon nipote e perché quel giorno me ne sono uscito di casa senza averti detto quanto ti amavo, quanto ero orgoglioso di fare parte della tua vita. Se potessi vedermi ora, sono certo che saresti fiero di me. Ho fatto tesoro di ogni tuo insegnamento e sono riuscito a costruire delle solide basi per potere vivere al meglio la mia vita, esattamente come volevi tu. Ora, ho un compagno meraviglioso che amo alla follia.» Giovanni tolse le rose avvizzite dal vaso in peltro.

«Avrei tanto voluto dimostrare che ero degno di te quando eri in vita, ma ero uno stupido sciocco accecato dalla mia vana gloria. Hai sempre avuto ragione su tutto e il mio più grande rammarico è non averti più accanto.

«Mi vergogno un po’ ad essere così felice mentre tu sei rinchiuso in una scatola sotto metri di terra.» Con l’aiuto di una spugna umida, ripulì dalla polvere la lapide in marmo bianco.

«Allora, ero così cieco, così sordo e così concentrato su me stesso da essere finito per identificarmi con tutto ciò che odiavo di più. Ero diventato uno qualunque in un mare di banalità. Mi ero impegnato così tanto a non somigliare a mio padre, troppo attaccato alla divisa militare, che ho abbracciato il lato opposto della barricata. Finendo così per confondermi tra loro: un signor nessuno senza arte né parte.

«Sai, ho imparato a mie spese che nella vita ho incontrato tante maschere e pochi volti1. La più terrificante fra tutte era proprio la mia.»


***


L’appartamento all’ultimo piano di un anonimo palazzo di quartiere era inondato dalla calda luce serale. Le pareti azzurre avevano assunto un tenue colore lilla mentre decine di fotografie, chiuse in austere cornici, ammiccavano felici. I mobili datati, curati ed essenziali, rendevano il modernissimo televisore un pesce fuor d’acqua. Un gatto maculato, fino a pochi istanti prima acciambellato sulla poltrona in velluto a coste, dopo essersi sgranchito le membra, era uscito con le coda ben ritta, infastidito dal cicaleccio degli altri due occupanti del locale.

«Ti ho visto alla rimessa con Paolo, che combinavi?» aveva chiesto Luigi mentre posava gli occhiali da lettura sopra il libro che stava leggendo.

«Nulla che ti riguarda,» aveva risposto sgarbato Giovanni, ingollando una birra fresca. L’uomo aveva sospirato preoccupato.

«Giovanni, lo sai che devi stare lontano da lui. È così giovane eppure così corrotto. Puoi frequentare chiunque, perché insisti appresso a lui?»

«Zio, io non lo frequento. Abbiamo un rapporto… lavorativo, ecco,» aveva risposto sbrigativo, afferrando un paio di prugne secche da un piatto sul tavolo.

«Ma cosa dici? Lavorativo? Quel ragazzino ha quattordici anni! Che lavoro potrebbe mai fare? E tu, da quando lavoreresti?» aveva ribattuto incredulo lo zio. Giovanni aveva sbuffato irritato.

«Lo sai che aiuto Paride al pub!»

«E lo chiameresti lavorare essere impegnato tre sere a settimana? Un lavoro serio è quello che ti permette di guadagnare abbastanza da vivere in modo autonomo.»

«Mi stai cacciando di casa?» aveva chiesto irriverente Giovanni mentre sputava il nocciolo della prugna facendo canestro in un vaso di peonie lì accanto.

«Giovanni!» l’aveva ripreso Luigi. «È questa l’educazione che ti ho insegnato?» Il ragazzo aveva fatto spallucce mettendo in bocca un altro frutto. «Ringrazia il cielo che ho la caviglia fasciata altrimenti avrei sistemato a modo mio la testaccia dura che ti ritrovi!» l’aveva minacciato. Giovanni aveva sorriso accondiscendente e gli aveva spedito un bacio sulla punta delle dita.

Sebbene passassero il tempo a bisticciare, zio e nipote si volevano molto bene.

Giovanni era approdato a casa di Luigi appena adolescente per frequentare le scuole superiori, troppo lontane dal paese di provincia dove era nato.

Quando suo padre aveva scaricato le valige sul pianerottolo, Giovanni aveva letto nei suoi occhi il sollievo di essersi liberato di uno come lui. Quella cosa l’aveva ferito profondamente, nonostante sapesse che aveva procurato solo dispiaceri ai propri genitori. Così, stringendo i denti per non urlare il proprio disappunto, aveva alzato il mento spavaldo per non fare notare il magone che gli stava attorcigliando le budella.

A salvarlo dai pensieri cupi, era arrivato Luigi che, dopo avere spalancato la porta, l’aveva stretto in un caldo abbraccio, invitando entrambi ad entrare. L’interno era spoglio e puzzava di vernice fresca, ma era apprezzabile, soprattutto per i pasticcini che imbandivano il tavolo in cucina.

Il padrone di casa era il fratellastro della mamma di Giovanni, un uomo di mondo ma che classificava la vita in scomparti separati.

Oltre le tende, il sole era calato e il nero della notte stava sgomitando con gli ultimi barlumi rossastri. In quella serata limpida, i rumori delle autovetture, che stavano sostando sul grande raccordo, arrivavano nitidi come i pigolii dei passerotti affamati. Il gatto Paride aveva sbirciato dalla porta spalancata e, miagolando forte, aveva attirato l’attenzione del padrone. Luigi si era alzato e l’aveva seguito in cucina dove aveva riempito la sua ciotola di croccantini. Dopo poco, dal bagno in cui si era rifugiato a causa del suo amore per le prugne, Giovanni l’aveva sentito rovistare nei cassetti.

«Hai spostato tu i cento euro che avevo messo nel barattolo del sale?» aveva chiesto corrucciato.

Giovanni aveva incrociato lo zio nel piccolo corridoio che separava la zona giorno da quella della notte. A Luigi era bastata una fugace occhiata agli espressivi occhi viola del giovane per leggere tutta la sua colpevolezza.

«Accidenti! E adesso che faccio? Quei soldi servivano per pagare alcune fatture e domani la banca è chiusa.»

«E con questo? Cosa vuoi da me! Se sei smemorato non è di certo colpa mia,» aveva sputato infastidito rientrando in sala. Per alcuni secondi, lo zio l’aveva guardato interdetto, poi l’aveva rincorso zoppicante e l’aveva bloccato a un passo dall’uscio di casa.

«Tu non me la racconti giusta, Giovanni. Sono giorni che ti comporti in modo strano. Bighelloni dalla sala alla tua camera per poi sparire per delle ore. Cosa stai combinando?» gli aveva chiesto picchiettando il dito sul suo petto. Il ragazzo aveva scosso le spalle indifferente.

«A volte, vorrei tanto che i tuoi genitori fossero ancora vivi, sono certo che tuo padre saprebbe raddrizzarti,» aveva sussurrato piano passando la mano nei lunghi capelli scuri.

«Sì, certo. Proprio lui, il grande e irreprensibile Stefano Ghilbertone che non ha trovato di meglio che scaricarmi davanti a casa tua perché si vergognava di avere un figlio troppo ribelle.» Come un violino scordato, nella voce di Giovanni aveva vibrato tutta la sua amarezza. Luigi aveva fatto un passo indietro, sbigottito dall’acredine che stava manifestando il nipote.

«Ma cosa? Ma come? Non...» aveva balbettato portando una mano davanti alla bocca.

«Ero solo un accessorio, un motivo in più per brindare alla sua grandezza. Fin dalla mia nascita aveva panificato ogni cosa: l’asilo, gli amici, le scuole, gli sport e perché no, anche cosa dovevo mangiare. Tutto ciò che facevo doveva essere supervisionato e approvato da lui; ci mancava solo che mi contasse i minuti spesi in bagno ed hai un quadro completo di ciò che ho passato.

«Tutto doveva essere perfetto e impeccabile, peccato che non abbia mai speso un secondo della sua vita a chiedere a me cosa davvero mi piacesse. E visto che non mi era concesso oppormi alla sua volontà, ho iniziato a trasgredire le regole al di fuori del suo dominio. Quando potevo marinavo la scuola, fumavo nei bagni delle ragazze, rubavo qua e là piccole cose che rivendevo. Più venivo messo in punizione, più aumentavo la posta. Ma per lui contavano solo le apparenze e mai le mie esigenze.

«L’ultimo affronto è stato quello di obbligarmi a frequentare lo Scientifico, quando l’avevo supplicato di mandarmi all’Alberghiero! Perché fare il cameriere è umiliante per un Ghilbertone mi diceva ogni volta che tentavo di dissuaderlo.

«Ora, mi senti padre? Servo il Pirlo ai vecchietti il venerdì sera,» aveva urlato così forte che il gatto era schizzato miagolando verso le camere. Luigi l’aveva fatto sfogare restando in silenzio, perduto nell’osservare la sua rabbia. Come ho potuto non accorgermi di niente? Si stava ripetendo addolorato come un mantra.

«Quando è morto mi sono sentito finalmente libero e, al contempo, ancora terribilmente in gabbia. L’unico pensiero che mi ha permesso di restare a galla sei stato tu, zio. Quell’amore che mi avevi donato senza reticenze, senza che l’avessi chiesto, senza avere nulla in cambio, è stato l’edera che mi ha tenuto ancorato a terra, non permettendomi di crollare.

«È vero, ti devo molto più di quello che non sarò mai in grado di restituire ma non ti permetto di immischiarti nei miei affari,» aveva concluso tronfio, gli occhi viola che lanciavano dardi.

«Io… Giovanni, non voglio ficcare il naso, semplicemente credo che tu abbia ancora bisogno di una figura genitoriale che ti guidi,» aveva detto cauto, sondandolo negli occhi. «Sei così giovane e così pieno di rabbia che mi si stringe il cuore.»

«Non ho bisogno di niente e di nessuno,» era scattato. «Men che meno una presenza asfissiante e ingombrante come era quella di mio padre.»

«Oh certo! Il grande Giovanni si crede un uomo navigato,» aveva iniziato risentito dalle parole del nipote. «Un uomo che ha fatto sempre le scelte giuste, come quella di abbandonare gli studi o finire a bighellonare con la banda di Maurizio. Pensavi fossi del tutto cieco? Eppure vieni qui a fare la morale, credi di essere migliore di tuo padre, Giovanni?» gli aveva urlato contro lo zio. «Tu non sei nessuno! Sei un volto vuoto in mezzo a facce dipinte. Ecco cosa sei. Te ne vai in giro tronfio. Io faccio come credo e smetto quando voglio.» l’aveva scimmiottato. «In realtà sei patetico, uno stupido pusillanime che non è in grado di prendersi le proprie responsabilità.»

«E tu, invece?» aveva infierito Giovanni indicando i quadri appesi. «Che mi dici di Alberto? Delle seghe che ti fai pensando a lui? Hai paura che crolli la tua perfetta facciata rispettabile se venissero a sapere che sei un frocio?»

Nella stanza era calato un pesante silenzio, corrosivo e indigesto come un limone acerbo.

Improvviso, lo schiaffo l’aveva colpito in pieno volto facendogli scattare la testa di lato. Lo zio l’aveva guardato a lungo, ferito e deluso. «Alberto è morto dieci anni fa di AIDS, due giorni prima che riuscissimo a formalizzare la nostra unione a Los Angeles.» Era uscito zoppicando dalla stanza senza degnarlo di uno sguardo.

Quella era stata l’ultima volta che l’aveva visto.

Mezz’ora dopo, un’esplosione aveva ridotto in macerie fumanti alcuni palazzi del quartiere dove abitavano. Per un caso fortuito, Giovanni era stato l’unico a uscire vivo da quell’inferno.


***

Un pettirosso planò leggero ad un passo da Giovanni e il suo trillare felice lo ridestò dai ricordi. Si perse per un attimo a osservare il suo zampettare tra l’erba profumata in cerca di cibo. Poi, un rumore alle sue spalle allontanò l’uccellino e lui si volse infastidito verso il disturbatore.

«Mi scusi, dobbiamo iniziare a scavare.» Due uomini con la divisa comunale sporca di terra lo guardavano appoggiati all’escavatore.

«Certo, certo!» balbettò imbarazzato Giovanni. Si alzò in piedi così velocemente da rischiare di cadere.

«Per sicurezza è meglio che si sposti un poco più in là,» gli disse professionale quello più smilzo con gli occhi iniettati di sangue. A passo lento, Giovanni raggiunse Daniele che lo accolse tra le sue braccia.

«Credi che sia la cosa giusta da fare?» chiese titubante.

«Certamente. Sarà felice di tornare a Los Angeles dal suo Alberto.» Giovanni soffocò un singhiozzo nel suo collo mentre lui gli accarezzava gentilmente le guance. «Stai piangendo,» mormorò tra i suoi capelli.

Giovanni spalancò gli occhi e davanti a sé vide tutto sfocato, come se il mondo fosse finito dietro un filtro. Ogni cosa era indefinita, senza consistenza, piatta, un po’ come la sua vita prima di conoscere Daniele. Sbatté le ciglia e i colori tornarono a sorridere.

Dentro di sé, sentì le ultime briciole della maschera che portava anni addietro disciogliersi nelle lacrime che scorrevano lente.

«Grazie, Luigi. La mia felicità la devo a te che, con il tuo amore e i tuoi insegnamenti, hai aperto una breccia nella mia corazza, permettendomi di capire cosa davvero volevo dalla vita.»

Mentre seguivano mesti la bara appena riesumata verso il crematorio, il pettirosso gli volò davanti al viso, quasi volesse contribuire a lavare via le sue colpe con le proprie ali.


Nessuno può cambiare una persona, ma una persona può essere la ragione per cui qualcuno cambia. (Anonimo)



Note dell’autrice: per emergere sopra gli altri non bisogna per forza essere dei grandi, degli eroi o dei ricchi. Per distinguerci dagli altri basta essere speciali per qualcuno.

Giovanni non vuole diventare un uomo inquadrato come suo padre: un uomo sterile e privo di cuore. Disubbidendo alla volontà del genitore è convinto di essere un ribelle. Invece diventerà un disgraziato qualunque che non riesce a riconoscere la felicità a portata di mano.

Ulteriori note: questa storia avrebbe dovuto partecipare al contest ‘Contest – Una macchia di storia’ indetto da Inchiostro_nel_Sangue e elli2998 con il pacchetto segreto A occhi chiusi:

quadro: l’uomo con la bombetta.

frase di Pirandello: imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti.

condizione: qualcuno sta mangiando una prugna.

Il pacchetto prevede un obbligo: descrivere come ultima scena (in metafora o figurativa) la scena presentata nel quadro assegnato.


Come sempre ho divagato e sono uscita fuori tema.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

1Citazione di Luigi Pirandello

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