Il soldato della luna

di irYsblackeyes
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sì ***
Capitolo 2: *** Arthur ***
Capitolo 3: *** La notte ***
Capitolo 4: *** Lo sconosciuto ***
Capitolo 5: *** La doccia infernale ***
Capitolo 6: *** L'orco ***
Capitolo 7: *** Lacrime ***
Capitolo 8: *** Disperazione ***
Capitolo 9: *** Flashback ***
Capitolo 10: *** Damien Meier ***
Capitolo 11: *** Damien Meier pt 2 ***
Capitolo 12: *** Il terrore di aver sbagliato ***
Capitolo 13: *** Disgusto ***
Capitolo 14: *** Vergogna ***
Capitolo 15: *** Il gatto ***
Capitolo 16: *** La punizione ***



Capitolo 1
*** Sì ***


CAPITOLO 1 –SI'-

"Sì" .

Un avverbio utilizzato per comunicare generalmente una risposta positiva.

"Si, ti sposo"

"Si, puoi uscire a giocare con gli amici"

"Lo ami?" "Sì"

Amore, questo mio "Sì" ti è costato la vita ma non potevo non gridare la verità. Dopo due anni di silenzio, nella situazione in cui eravamo, non potevo più tenermi tutto dentro.

Qualsiasi cosa io avessi detto, di qui a poco saresti comunque morto. Volevo almeno che morissi con la consapevolezza che qui dentro c'era e c'è tutt'ora una persona che ti ama più della sua stessa vita.

Tu mi hai dato la voglia di sopportare questo orrore con la certezza e con la speranza che a breve sarebbe cambiato tutto, che la prossima primavera sarei sicuramente riuscita a correre spensierata nel prato fiorito dietro casa mia pur sapendo, tu per primo già da allora, che la probabilità che uscissi viva da qui, era ed è tutt'ora pari a zero. Nonostante questo, hai lasciato che mi aggrappassi a te, cosciente del fatto che prima o poi ti avrei trascinato all'inferno ed io mi sono accorta troppo tardi di amarti.

Ora il tuo corpo esanime giace pochi metri dinnanzi a me, molle e riverso a terra in posizione fetale con le mani legate dietro la schiena. Il sangue ti sgorga a fiotti dalla tempia sinistra, quella che non poggia a terra; ti inonda gli occhi neri oramai spenti ma aperti, che fissano vuoti un punto dietro di me, ti imbratta i capelli corvini appiccicati alla fronte e, denso come lava scorre sull'asfalto. Prepotente si fa strada lungo il terreno come un fiume in piena dopo un temporale fino ad arrivare a diramarsi quando incontra il primo ostacolo: due stivali neri. Immobili. Attonita, non riesco a distogliere lo sguardo da quello che fino a poco fa era la tua linfa vitale e che fra poco si confonderà con della sporca acqua piovana.

Stringo forte i pugni torturando l'enorme e lurida camicia a righe che indosso. Cerco di non piangere perché in fondo, amore mio, solo pochi minuti ci separano.

Non scappare Damien, fra poco ti raggiungerò. Fra poco saremo di nuovo insieme, lontani da questo inferno. Qualora dovessimo finire tutti e due nell' Ade, fidati che sarà meglio dello schifo in cui abbiamo vissuto, in questi ultimi anni, su questa terra.

Distratta da un rumore di passi fin troppo deciso, volgo lo sguardo verso l'uomo che si sta avvicinando a me. Punto i miei occhi, scuri come i tuoi, dentro alle sue iridi color ghiaccio. Sostengo quello sguardo gelido ma non per sfida, semplicemente per paura. Sono talmente chiari e trasparenti che inconsciamente provo a leggere dentro di essi tentando di indovinare il modo in cui ha intenzione di uccidermi. Sono nelle sue mani.

Con un colpo di pistola mi farebbe quasi un favore ed io non lo merito.

Magari mi riempirà di botte. Sono talmente magra piccola e fragile che non gli servirebbe un grande sforzo per togliermi la vita.

La cella punitiva: stivata, come un bagaglio dimenticato, per giorni e giorni in piedi in un abitacolo poco più grande di me per morire di freddo, di fame, sete e sfinimento. In questo modo non si sporcherebbe nemmeno le mani.

Eccolo qui, davanti a me, eretto e rigido nel suo quasi metro e novanta contro il mio scarso metro e sessanta. Eri il suo migliore amico e non ci ha pensato due volte a toglierti la vita. Gli faccio talmente tanto ribrezzo che il solo scoprire che mi amavi e che io ti amavo più di quanto tu amavi me, non lo ha fatto vacillare un solo minuto. Una cosa simile, tu non la avresti mai fatta. Tu eri diverso amore mio, non l'ho saputo capire immediatamente come tu non sei riuscito a mostrarmelo subito.

Potrei urlargli contro di tutto: che è un mostro, che è lui la feccia umana non io, non noi ma oramai il mio unico pensiero ed obiettivo sei tu. Non mi importa di null'altro. Voglio raggiungerti il prima possibile perché senza di te, amore mio, io qui dentro non vivo come non vivevo fino a che tu non sei entrato brutalmente e prepotentemente dentro di me.

-Schmutziger menschlicher Abschaum!!!!- urla ad un millimetro dal mio viso. Il suo alito sa di menta fresca mentre io neanche riesco a ricordare l'ultima volta che mi è stato concesso di lavarmi i denti.

Sobbalzo a quelle parole. Nonostante ci vengano vomitate addosso ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni secondo, ancora non mi sono abituata a sentirmi chiamare "Lurida feccia umana" perché tutt'ora io, dopo anni amore mio, non riesco a comprendere cosa mai abbiamo fatto di male per meritarci tutto quest'odio.

-Hai visto cosa mi hai fatto fare, Lurida Feccia Umana? Ora tocca a te!-

Dinnanzi a me, nella sua divisa perfetta, un demonio con le sembianze di un angelo.

Le mie pupille si dilatano per il terrore rendendo ancora più scuri i miei occhi ed il mio cuore accelera i battiti. Sento il respiro farsi sempre più corto mentre un forte tremolio si impossessa delle mie gambe scheletriche. Mi viene da vomitare nonostante il mio stomaco sia vuoto da tre giorni.

Respira rabbioso, quel Diavolo. Sento il suo fiato caldo sul mio volto.

Chiudo gli occhi stringendoli forte fino a quasi sentire male cercando di dimenticare quell'uomo biondo dagli occhi di ghiaccio che ho di fronte. Non voglio che sia lui l'ultimo mio ricordo prima di morire.

Con il pollice e l'indice della mano sinistra, mi prende per il collo sollevandomi da terra. Le mie vie respiratorie sono ora occluse dalle sue grosse dita. Provo un dolore terribile, la mia trachea si sta spezzando. Involontariamente tento rumorosamente di esalare qualche respiro.

Il mio istinto di sopravvivenza mi implora di combattere ma io non lo ascolto. Non ho più voglia di vivere. Senza te amore mio nulla ha senso. Preferisco fare un salto nel buio sperando che dall'altra parte ci sia qualcosa, che ci sia tu, con la tua grande e forte mano tesa, pronto ad accogliermi. Potremmo davvero iniziare una nuova vita lasciandoci tutto quanto alle spalle; il modo in cui è iniziata la nostra storia, l'orrore in cui in segreto abbiamo dovuto portarla avanti. Chissà, magari ora finalmente potremmo corteggiarci ed amarci come fanno le persone normali. 

Il dolore è talmente forte che il mio corpo inizia a singhiozzare da solo quasi preso da forti convulsioni, non vedo l'ora di perdere i sensi. Sento il sangue gonfiare le vene del mio viso, le tempie fra poco esploderanno, lo so. Non credevo fosse così lenta la morte per asfissia ma io tengo duro. Non voglio più vivere.

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Capitolo 2
*** Arthur ***


Arthur. Di questo soldato dagli occhi color smeraldo conosco solo il nome. L'ho scoperto per caso un giorno, mentre mi scortava verso le cucine.

E' molto giovane, non avrà neanche 30. Ha la pelle del viso pulita, liscia e diafana. Visto in un altro ambito, potrebbe davvero rappresentare il classico rampollo di buona famiglia; giovanotto brillante ed educato che tutte le ragazze della mia età bramano. In un'altra circostanza, l'appello di Principe Azzurro gli calzerebbe a pennello.

In questa realtà Arthur è un uomo terribile. Riesce ad ammazzare a mani nude una donna ed un istante dopo, sorridere alla bella sorvegliante che gli passa accanto.

Arthur siede a gambe divaricate sulla sedia dietro di me. Il gomito destro appoggiato al tavolo, la mano che gli sorregge il capo, ed un sigaro in bocca.

Come un fedele segugio, non mi toglie gli occhi di dosso; è stato addestrato molto bene. Il suo compito? Controllare che non mangi gli avanzi del pranzo anzi, dei pranzi.

In una situazione normale, farebbe ribrezzo a chiunque pensare di arrivare ad ingurgitare gli scarti dei pranzi di persone sconosciute ma questa non è una normale situazione.

Ho fame, mi viene da piangere. Il mio stomaco si contorce generando lamenti imbarazzanti e mi fa terribilmente male. Un quarto d' ora fa ho gettato via pezzi di carne, pane, verdure. Le avrei messe tutte insieme in un unico piatto e me le sarei ingurgitate tutte d'un fiato davanti ad Arthur. Non mi importava di rischiare di morire con una pallottola conficcata in fronte. Di certo in Paradiso non si soffre di fame ma qui all'Inferno, sì.

Arthur intona una canzoncina in tedesco mentre lucida la sua pistola. La cucina è invasa dalla puzza nauseabonda del suo sigaro.

A differenza degli altri soldati, lui non mi ha mai picchiata e "conoscendolo" non ne riesco a comprendere il motivo. Molti di loro ci percuotono senza un movente specifico, solo perché gli va. Rispettano più i loro cani schifosi che noi. Noi, che arriviamo a puzzare peggio di quelle bestie. I cani possono entrare nei negozi, girare nei verdi parchi all'interno della città. Noi NO.

-Mi annoio- sussurra ad un certo punto e rabbrividisco all'istante. -Vedi di finire in fretta che non ho più voglia di stare qui dentro con te.-

-Mi perdoni- sussurro con voce strozzata.

Mezz'ora dopo, mentre Arthur mi scorta verso le mie compagne già al lavoro, osservo, alla luce del sole le mie braccia.

Oltre ad essere scheletriche sono metà rosa e metà nere. Gli avambracci che immergo quotidianamente nell'acqua per lavare i piatti, sono puliti, quasi profumano. Il resto del mio corpo è sempre sporco. Ci sono giorni in cui puzzo peggio di un animale. Puzzo di sudore e immondizia. Per essere l'inizio della primavera, fa fin troppo caldo.

Arthur sorride alla Kapo mentre mi consegna nelle sue terribili mani. Di rimando, lei mi prende per i capelli e mi butta in mezzo alle pietre.

-Caricale sul carro- mi ordina severa indicando una montagna di pietre accanto a me.

Annuisco voltandole le spalle ed inizio il mio lavoro.

Ultimamente, solo ed esclusivamente per suo puro divertimento, le piace farci caricare i camion di legna, pietre, sabbia, quello che capita insomma per poi farcelo svuotare e nuovamente caricare davanti a quei porci dei soldati che ridono a crepapelle, ubriachi.

Ogni giorno, mi stupisco sempre di più di fin dove si possa spingere lacattiveria umana.    

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Capitolo 3
*** La notte ***


La notte dormo seduta. Mi corico insieme alle mie compagne nelle brande poi, quando tutte sono addormentate, mi alzo, mi siedo nell'angolo destro della baracca, mi accuccio a terra e mi addormento con la testa appoggiata alle ginocchia.

Sta arrivando il caldo e sono due settimane che dall'alto mi piovono in testa insetti di ogni tipo. Piccole creature dotate di mille zampette mi camminano sul volto, fra i capelli, dentro i vestiti.

Non riesco a capire come facciano le altre a non accorgersi della folle attività notturna di quelle piccole creature ripugnanti. Probabilmente sono tutte troppo stanche per venire svegliate dal solletico che provocano mentre camminano sui loro corpi. Io invece la prima volta che ne ho sentito uno su di me, ho destato tutte.

Ricordo ancora bene. Stavo dormendo, come al solito, senza sognare. D'un tratto sento qualcosa che mi solletica il naso. D'istinto, ancora molle per il sonno, mi porto una mano sul volto, credendo si trattasse di una ciocca ribelle di capelli. Tuttavia quel solletico non mi abbandonava. Leggermente più lucida quindi, ho subito realizzato che non poteva trattarsi di una ciocca di capelli. I miei capelli sono corti. Troppo corti. Con un terrore misto a schifo, cercai, con mano tremante di capire toccando, di cosa si trattasse. Subito quella bestia orripilante iniziò a correre sul mio volto fino a scendere sulle mie labbra. Presa da un raptus iniziai a prendermi a schiaffi la bocca, il viso, la testa per scacciare o schiacciare quel millepiedi o quello scarafaggio che aveva scambiato il mio viso per un parco giochi.

Urlai a tutta gola fino a destare metà delle dormienti. La mia vicina di letto mi mollò un forte ceffone per farmi stare zitta ed io subito corsi a rifugiarmi in un angolo. Quella notte rimasi in piedi con la tachicardia e gli occhi fuori dalle orbite, non so per quante ore. Chissà quanti di quegli insetti schifosi si erano "mangiate" le altre, nel sonno.

Con la punta dell'indice destro seguo distrattamente una scritta incisa sul legno: se esiste un Dio, quando morirò, dovrà chiedermi perdono.

E' vero. Passiamo tutta una vita a pregare e ad adorare il nostro Dio ed è così che ci ripaga? Trattati senza rispetto peggio delle bestie, accusati del crimine di essere nati. Da quando sono qui dentro vedo cose che non avrei pensato mai di poter vedere.

L'uomo che uccide l'uomo solo per divertimento, solo perchè un individuo con dei baffi neri ha imposto che DEVE essere così. Chi è lui per poter dettare legge? Perchè si è accanito così tanto contro di noi?

I soldati la fuori sono marionette nelle mani di un pazzo ed io sono terrorizzata ogni giorno di più.

Ieri notte, stranamente tutto era tranquillo come non capitava da mesi. Negli ultimi tempi, nelle ore più buie, arriva un carico nuovo. Tutto si ripete sempre nello stesso modo: le solite urla, i soliti pianti, i soliti comandi ruggiti a gran voce dai soldati. Spesso mi metto le mani a coppa sulle orecchie per non ascoltare, stringo gli occhi e cerco di immaginare cose belle. Penso al mio roseto. Ne andavo terribilmente fiera. Nel mio quartiere nessuno aveva delle rose belle come le mie. Rosse, grosse, piene di petali, brillavano al sole come enormi rubini. Ora saranno tutte morte.

Morte come me.

Morte come Elsa.

Elsa era una delle donne su cui io ho fatto più affidamento in questi mesi qui dentro. Arrivai sul treno da sola, i miei genitori erano stati catturati la settimana prima.

Spaesata e spaventata, piansi tutta la notte fra le sue braccia e lei mi consolò senza dormire.

Ieri notte si è suicidata. Si è buttata contro il filo spinato ad alta tensione generando mille scintille come fossero state stelle cadenti.

Dalla fessura della baracca, che dovrebbe rappresentare una finestra, vidi tutto ma non versai neanche una lacrima. Era quello che voleva. Solo in questo modo, sarebbe riuscita a ritrovare la pace dell'anima ed io non ho potuto fare altro che sentirmi felice per lei ed orgogliosa del suo coraggio.

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Capitolo 4
*** Lo sconosciuto ***


Stamattina la mia Kapo mi ha trascinata verso un uomo che non era Arthur.

Generalmente a quest'ora, è lui che viene a prendermi per portarmi alle cucine.

Per un attimo provo paura. La figura dinnanzi a me è una montagna alta, grossa e mi dà le spalle. Involontariamente indietreggio ma la Kapo mi spinge con forza ed io perdendo l'equilibrio, urto l'avambraccio dell'uomo che nell'immediato si desta dai suoi pensieri. Mi osserva con disgusto mentre si pulisce la divisa.

-E' lei?- le chiede.

-Sì, è lei-

L 'uomo inizia camminare a grandi passi ed io, confusa, cerco di correre per riuscire a stargli dietro.

Dove mi vuole portare? Dov'è Arthur?

Per la prima volta, mi guardo intorno pregando e sperando di vederlo arrivare. Per assurdo, se fosse davvero spuntato dal nulla, lo avrei potuto benissimo vedere sul serio come il mio Principe Azzurro.

A testa bassa inizio a torturarmi di domande, dubbi e preoccupazioni fino a che, senza accorgermi mi trovo davanti alle cucine. Spaesata guardo per un attimo il profilo del soldato accanto a me.

Ha capelli ed occhi scuri. Come me. La pupilla non sembra neanche distinguersi dall'iride talmente sono bui. E' raccapricciante. Gli do più di quarant'anni. Fa paura, molta paura.

Con un gesto della testa mi fa cenno di entrare.

Salgo il gradino e mi abbandono alla solita routine: mi cambio d'abito, mi lego il foulard ai capelli, mi lavo bene le mani ed inizio a buttare gli avanzi per poi procedere a lavare i piatti.

Tutte queste cose, da mesi le ho sempre fatte sotto la stretta sorveglianza di Arthur.

Il nuovo soldato invece non è molto ligio al dovere; mi abbandona in cucina e mi riprende dopo non so quanto tempo. Quando arriva da me con la porzione di zuppa ormai fredda destinata ad essere il mio misero pasto, io ho sempre già finito le mie faccende da un pezzo. Ingurgito comunque quella brodaglia, in una frazione di secondo sia per la fame che per la paura.

Mi bastano pochi giorni per capire come mai il nuovo soldato giunge da me sempre con così tanto ritardo. Dopo pranzo, si crogiola al sole, da qualche parte a bere con i suoi colleghi. Non appena entra in cucina infatti, l'odore del suo alito impregnato di alcol echeggia in tutta la stanza facendomi attorcigliare lo stomaco.

Non sono ancora riuscita a scoprire il suo nome. Certo è il fatto che, la sua negligenza per me è un grande vantaggio. Su ventuno giorni, solo tre li ha passati accanto a me. Per quindici giorni sono riuscita a portare alle mie ragazze avanzi di cibo di ogni tipo. Ossa di maiale con ancora attaccata la carne anche se mezza masticata, pane, qualche frutto a metà, patate.

E' facile fregare quell'uomo. La mia cara Elsa, durante l'inverno mi ha cucito con degli stracci, una doppia fodera all' interno della camicia nel tentativo di farmi stare più al caldo. Non servì a nulla ma ora, tramite un buco all'interno di essa, riesco a nascondere senza problemi i cibi asciutti che non lasciano traccia come le carote e il pane. Le ossa con attaccata la carne le nascondo solo se riesco a trovare qualcosa in cui avvolgerle. Quando viene a prendermi, quell'uomo è talmente ubriaco da, a volte, non riuscire neanche ad entrare dalla porta, figuriamoci se può accorgersi di ciò che nascondo nella camicia. D'un tratto, da nullità sono diventata un "Nome" importante all'interno del mio blocco. 

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Capitolo 5
*** La doccia infernale ***


In questi giorni, presa da una strana e particolare euforia, mi sono studiata alla perfezione tutti i turni delle guardie. Oggi ho rubato un pezzo di sapone e nella notte, io e cinque altre mie compagne andremo finalmente ai lavatoi a pulirci come si deve. Sono due mesi che ci buttiamo addosso solo acqua. Se si può dire, sono convinta che fra di noi, la più pulita abbia i pidocchi.

Tra loro c'è Nikole. Nikole ha 14 anni, sei meno di me. E' piccola ma forte come un leone. Aveva i capelli rossi, lunghi fino alle natiche quando è arrivata. L' ho vista scendere da sola dal treno a testa alta e l'ho vista entrare nella nostra baracca con il capo rasato a testa ancora più alta. Non si fa sottomettere da nessuno nemmeno dalla Kapo. Vorrei essere come lei.

Peggio di una ladra che sta progettando un furto che passerà alla storia, istruisco le ragazze su come procedere per arrivare indenni ai lavatoi: saremmo uscite dalla baracca durante il cambio della sentinella, avremmo camminato rasenti alle pareti delle tre baracche alla nostra sinistra e, dopo che la luce del faro della torretta di guardia sarebbe stato lontano da noi, ci saremmo infilate nel blocco dei lavatoi attraverso la crepa ancora non richiusa nel muro.

Il piano fila alla perfezione e prima del previsto ci ritroviamo esultanti e felici sotto il getto dell' acqua ad insaponarci come credo nessuna di noi abbia mai fatto in vita sua. Quel profumo di fresco e quella sensazione di pulito ci inebriano a tal punto da sentirci quasi ubriache; in quel momento poco ci importa del pudore, siamo nude e felici l'una davanti all'altra mentre tutto lo schifo e lo sporco ci scivola via dal corpo come una vecchia pelle. Finalmente ritroviamo il nostro colore, il nostro profumo, il nostro essere donne, la nostra dignità, il nostro corpo; senza fare troppo rumore ridiamo piangiamo e scherziamo come delle ragazzine.

Io sono la prima a finire. Infreddolita corro verso la crepa nel muro, dove ho lasciato la mia divisa. Mi spiace indossarla, è sporca ma non posso lavarla. Non asciugherebbe mai nel giro di una notte e non c'è cosa peggiore del tenersi addosso abiti umidi in una stagione come questa che un giorno è caldo e quello dopo batti i denti dal freddo. Siamo malnutrite e debilitate, fra un mese abbiamo il controllo medico non possiamo permetterci di ammalarci.

Respiro per l'ultima volta quell'aura di pulito che mi circonda e raccolgo i miei vestiti. A malincuore li indosso.

In tutto questo, presa dall'euforia, non mi accorgo di ciò che di terrificante ho davanti agli occhi.

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Capitolo 6
*** L'orco ***


Dinnanzi a me, una montagna dalle terrificanti iridi corvine. E' lui e puzza terribilmente di alcol. Barcollando si avvicina a me ed io automaticamente indietreggio. Non indossa il cappello, la sua chioma è spettinata; un ciuffo nero e sudato gli si è appiccicato prepotente sulla fronte piena di rughe.

Dondolando estrae la pistola e me la punta in fronte. Il mio cuore inizia a martellare nel petto e le mie viscere vuote si contorcono quasi a farmi male.

-Ti ho stanato, schifoso topo di fogna!- sussurra. La sua voce è roca e terrificante. L'odore di alcol fa muovere ancora di più le mie interiora. Deglutisco a fatica, non riesco a distogliere lo sguardo da quella maledetta arma.

-Ora vai dalle altre e ordina loro di andarsene. Tu invece rimarrai qui- ondeggia instabile per un attimo ed il mio istinto in quel frangente mi sussurra timido di buttarlo a terra ma la paura mi pietrifica. Il mio corpo è paralizzato e la mia gola è più secca del deserto.

Si avvicina ancor di più a me, mi afferra per il mento e mi punta la pistola alla tempia sinistra. Chiudo gli occhi e giro il volto nella parte opposta trattenendo il respiro. Odio il puzzo di alcol che secerne la sua bocca.

-Hai capito o no cosa ti ho detto, lurido scarto umano?-

Le sue parole taglienti mi perforano il timpano nonostante le abbia solo sussurrate. Con forza mi spinge lontana da lui rimanendo nella penombra ad osservarmi mantenendo l'arma sempre puntata verso di me.

Spaventata e con le lacrime agli occhi, cammino molle verso le mie compagne.

Nikole è la prima ad accorgersi che qualcosa non va. Quasi leggendomi nel pensiero la vedo guardare oltre la mia spalla e per la prima volta noto il terrore espandersi nei suoi occhi azzurri. Mi guarda più impaurita di me.

-Se ve ne andrete subito, non ci ucciderà...-

Ora anche le altre si mettono all'erta.

-Io non me ne vado senza di te!- mi prende per le spalle e mi fissa dritta negli occhi -non posso lasciarti sola con lui!-

-Nikole, non fare storie. Ti prego, andatevene! Mi conosce, non mi farà del male, non me lo ha mai fatto! Probabilmente vorrà solo divertirsi un pò con me - Mento -Ti fidi di me, Nikole?-

-No, non mi fido. Né di te, né di lui. Ti ucciderà!- ribatte seria.

Stremata scoppio in lacrime mentre uno sparo echeggia nello strano silenzio di quella notte.

Stufo del nostro melodrammatico teatrino, il soldato ci mette mezzo secondo a ristabilire l'ordine. Un secondo sparo prende di striscio la spalla di Edith che cade a terra piangendo e perdendo sangue.


-Uscite immediatamente da quì!!!!!!- urla sparando di nuovo ed attirandomi al suo petto tappandomi la bocca. La pistola fredda preme troppo forte sulla mia tempia destra. Cerco di respirare mentre inizio a sudare freddo.

-Uscite immediatamente, o la ucciderò all'istante spargendo le sue budella sui vostri corpi schifosi!- sussurra rabbioso.

A malincuore Nikole, aiuta Edith ad alzarsi e si allontana insieme alle altre.

Ora siamo io e lui da soli. Questa volta però, ho veramente paura. 
 

Soli, uno davanti all'altro. Per la prima volta lo posso osservare bene e senza fretta.

La luce fioca e argentea della luna illumina il suo volto. Quest'uomo è uno degli individui più brutti che abbia mai visto.

Ha una mascella spigolosa che sporge prepotente dal viso quadrato, due labbra sottili strette in una costante espressione di rabbia; occhi neri, che nel buio sembrano occupargli tutto il bulbo oculare, le sopracciglia folte ed altrettanto scure incurvate verso il basso, vanno a formare sulla sua fronte due grosse rughe permanenti che accentuano il suo perenne stato d'animo.

Ha le sembianze di un orco.

Con gli occhi e la bocca sbarrati dalla paura non riesco a smettere di fissarlo. Attendo tremante una sua mossa che non tarda ad arrivare.

Con un pesante rovescio, con la mano destra mi colpisce lo zigomo sinistro. Le sue nocche sono sassi sulla mia pelle sottile e delicata. Barcollo sotto il peso di quello schiaffo fino a cadere a terra andando però prima a colpire con la guancia destra il lavabo di cemento. Come carta vetrata scorre sul mio viso grattando via il primo strato di pelle. Cado a terra gocciolando sangue.

Tossendo cerco di rialzarmi ma l'Orco non me lo permette. Con un forte calcio mi colpisce il coccige e mi si blocca il respiro dal dolore. Cado di nuovo a pancia a terra e da lì, inerme come un animale morto, divento il suo giocattolo. 

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Capitolo 7
*** Lacrime ***


Ammutolita osservo la cascata di acqua e sangue che dalle mie mani scende nello scarico del lavandino. Tasto la mia tempia destra sussultando dal dolore. Piangendo cerco di staccare un piccolo ciuffo dei miei corti capelli incrostati di sangue che ha deciso di torturarmi attaccandosi alla ferita piena di terra.

Sono ancora viva ma preferivo essere morta. Mi gira la testa ed il mio corpo è un agglomerato di lividi, sangue e dolore. Mi appoggio al lavandino tossendo. Inizio a singhiozzare come una bambina mentre mi accorgo che mi dondola il canino destro. "Ti prego non cadere, resta attaccato!" Mi duole dappertutto. La mia camicia ed i miei pantaloni sono zuppi del mio sangue ancora caldo. Una fitta terribile mi attraversa il ventre e mi accascio a terra. Sento quel liquido bollente mi colarmi lungo le gambe. Mi rannicchio a terra in posizione fetale e prego il signore che mi prenda con se.

- Anita, Anita svegliati!!-

Apro gli occhi. E' quasi l'alba e Nikole è venuta a cercarmi.

-Mio Dio, come ti ha ridotta!- piagnucola mettendosi entrambe le mani sul volto.

-Anita dobbiamo andare in infermeria!- esclama mentre mi aiuta ad alzarmi.

Mi tiro in piedi a stento aggrappandomi un poco a lei ed un poco al lavandino di cemento. Respiro a fatica mentre una fitta agghiacciante mi attraversa di nuovo il ventre.

-Nikole, non posso andare in infermeria! Il Revier è il passo prima della morte!!"

-Ma ti rendi conto che non puoi lavorare in queste condizioni? - esclama rabbiosa mentre con un po' di acqua cerca di lavarmi via dal viso le croste di sangue rancido.

-Stanotte Edith è morta- mi dice con voce strozzata. Probabilmente era la sua ora. Ti ho portato la sua divisa. Stella gialla come te. Sorride. Ho portato ciò che ci era rimasto di ago e filo per scambiare il numero di matricola. Con la terra chiara cerca in qualche modo di coprire i grossi lividi sul mio volto. Se ti presenti all'appello in queste condizioni non ci metteranno molto ad ucciderti sul posto.

-Sembra quasi che Edith sia morta per salvare me- ribatto con un sorriso amareggiato. Nikole mi guarda per una frazione di secondo e senza rispondermi, mi aiuta a vestirmi.

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Capitolo 8
*** Disperazione ***


E' notte fonda e non riesco a dormire. Sto molto male, ho la nausea e ogni osso del mio corpo grida pietà.

L'Orco oggi mi ha scortata in cucina come nulla fosse accaduto ieri. Stavolta si è seduto al tavolo per tutto il tempo. Non mi ha lasciata sola un solo secondo. Con il suo sigaro maleodorante ed il suo caffè impregnato di Rum, ha osservato attentamente ogni mio singolo movimento. Per le due ore che siamo stati insieme, le mie mani dentro l'acqua hanno tremato sia per la rabbia che per la paura.

Rannicchiata dolorante nel mio angolino guardo la luna dalla piccola fessura alla mia destra. E' bellissima, come ha potuto ieri sera voler dare luce a quell'uomo terribile?

Flashback di quella notte interminabile riaffiorano caldi e vividi nella mia testa. Sfregandomi vigorosamente le mani sul volto cerco in tutti i modi di ricacciarli indietro provocandomi più dolore di quello che già sento. E' impossibile cancellare quell'evento. Persino il mio corpo me lo ricorda. Il labbro inferiore è gonfio sul lato destro, il mio sopracciglio sinistro è attraversato da un profondo taglio e la punta del mio naso è molle come gelatina. Avrò di sicuro le sembianze di un mostro.

Sarò anche un mostro fuori ma dentro sono ancora bella, non come Lui. Lui è un mostro fuori e ancora più mostro dentro.

Appoggio il mento sulle ginocchia e chiudo gli occhi per cercare di riposare.

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Capitolo 9
*** Flashback ***


Vengo svegliata da un bruciore mai provato prima. Il mio volto sembra ardere.

Apro gli occhi urlando. Devo aver perso per un attimo i sensi ma l'Orco ha avere avuto l'idea per destarmi.

Sdraiata supina a terra lo vedo inginocchiarsi alla mia destra, all'altezza del mio viso. Come se stesse annaffiando una pianta, con un sorriso sadico che non ho mai visto neanche in volto ad Arthur che mi sembrava mille volte più cattivo di lui, dalla sua preziosa fiaschetta di Whisky, faceva cadere, goccia dopo goccia sulla mia ferita frontale, quel liquido ustionante.

D'istinto ed in preda al dolore cerco in qualche modo di allontanarlo da me ma l' Orco, più forte e veloce, mi blocca i polsi dietro la testa.

-Cosa credi di fare sporca ebrea?-

Respiro a fatica e in modo convulso mentre mi conficco le unghie nei palmi delle mani. I suoi occhi neri perforano i miei. Con il ginocchio destro mi divarica le gambe e quando si slaccia la cintura, mi chiedo dove riesca trovare ancora la forza e la voglia di picchiarmi mentre io invece inizio a supplicare me stessa di abbandonare ogni resistenza per potermi lasciare morire in fretta. Tanto sarà questa la fine che farò stanotte. Morirò.

Rimango sgomenta e confusa quando vedo che, invece di scagliarmi addosso la fibbia metallica, lancia a terra l'accessorio. Capisco tutto invece non appena si sbottona il pantalone della divisa. Ecco perché non indossa più la giacca dell'uniforme. Ora ho chiare le sue intenzioni. Mi si congela il sangue.

Il mio istinto di sopravvivenza da un forte calcio alla rassegnazione di poco fa e con violentemente, con una spinta energica riesco ad allontanarlo. Sono sbalordita dalla forza che sono riuscita a tirar fuori ma probabilmente, l'Orco, non aspettandosi da me questo tipo di reazione, aveva abbassato la guardia.

Credendomi invincibile, con uno scatto mi giro a pancia in giù e gattonando cerco di scappare. Velocemente però l'Orco riprende in mano la situazione e mi afferra per i fianchi facendomi sbattere il coccige dolente contro il suo bacino marmoreo. Sussulto per il male e per la prima volta tiro fuori la voce.

-La prego, mi lasci andare, mi risparmi almeno questo! - Lo imploro a gran voce piangendo. Subito però mi tappa la bocca con quella sua mano enorme che mi ottura anche le narici.

Raccolgo di nuovo tutte le mie forze e mi aggrappo ad una trave di fronte a me scheggiandomi entrambe le mani. Di nuovo la Bestia mi attira a se afferrandomi violentemente per il bacino e in un attimo, prendendomi per le caviglie, mi gira a pancia in su.

I miei occhi sono nei suoi e le mie unghie sono di nuovo conficcate nei palmi di entrambe le mani, piene di schegge. Piango come una bambina sotto di lui mentre beve di nuovo dalla sua fiaschetta. Tracanna tre enormi sorsi mentre mi guarda soddisfatto.

Non può essere umana questa persona. Mi dico. E' un pazzo, un sadico. Il suo volto, mentre io sono inerme, spaventata, sottomessa, martoriata e sanguinante sotto di lui, mostra una felicità che nemmeno un bambino il giorno del suo compleanno.

Al quarto sorso lancia la fiaschetta dietro di se che cade producendo un tonfo secco.

Anche il mio cuore si è appena staccato dal mio petto producendo quell' identico suono.

Con un gesto fulmineo mi apre la camicia facendo saltare tutti i bottoni. Con la pistola gelida traccia una linea invisibile che inizia dal mio mento, scende lungo il collo per poi solleticarmi il petto, il seno, fino ad arrestarsi sul ombelico. Rabbrividisco sia per il freddo che il metallo trasmette alla mia pelle accaldata sia perché mi convinco che la sua intenzione ora sia quella di farmi saltare in aria le viscere.

Lentamente inizia a far scorrere la punta dell'arma a destra e a sinistra per un interminabile lasso di tempo. E' un'attesa snervante che eccita la sua mente depravata. I suoi occhi fissi nei miei mostrano una concentrazione ed una tranquillità terrificante a cui non riesco più tener testa. Abbiamo gli stessi occhi. Nei suoi arde la fiamma nera del demonio che sfida e terrorizza quella angelica dei miei. La spegne lentamente. Più la mia si affievolisce più la sua arde di una nuova luce. Non posso dargli la possibilità di prenderla tutta. Strizzo forte le palpebre mordendomi il labbro inferiore fino a farlo sanguinare. Chissà se sarà una morte lenta e dolorosa. Mi chiedo. Per il momento nulla mi sembra più lento e doloroso di questa attesa.

Le sue possenti mani afferrano l'elastico dei pantaloni e nel giro di mezzo secondo mi trovo completamente nuda sotto di lui. Da quel momento è un attimo. Con la mano destra afferra entrambi i miei polsi, e con la mano sinistra mi tappa la bocca, il suo ginocchio destro di nuovo mi allarga le cosce molli come gelatine ed in un attimo è dentro di me.

Per tre secondi smetto di respirare. Una spada conficcata nel cuore mi avrebbe procurato meno dolore fisico ed emotivo.

Mi risveglio presa da una forte tachicardia. Sento il cuore uscirmi dal petto, sono sudata ed ho il fiatone. Vorrei tanto essere stata vittima di un incubo ma non è così. E' successo veramente, le immagini di quella terribile violenza sono nitide davanti a i miei occhi: è come se fossi ancora lì. Le lacrime che mi sgorgano andando a mischiarsi con il mio stesso sangue e con la sabbia sporca. Quel mostro che prepotente prende possesso della parte più intima di me ed io che non posso fare altro che sottomettermi inerme a lui.

Non so per quanto tempo sia andato avanti a spaccare a metà il mio corpo. Il tutto poteva essere durato tre minuti, ma per me quei tre minuti sono sembrate tre ore. Ho vissuto la scena a rallentatore ed è stato terribile. Sentirlo entrare ed uscire da me millimetro per millimetro, sentire la sua pelle a contatto con la mia, sentire le gocce del suo schifoso sudore bagnarmi il volto. Il ribrezzo che ho provato nel vivere tutto questo, nessuno lo potrà mai immaginare. Se ripenso ai gemiti strozzati ed ai rantolii che emetteva mentre mi possedeva mi viene da vomitare. Nessuna parola, solo gemiti e rantoli. Come le bestie. Ricordo che ad un certo punto, per avere più presa mi ha afferrato per i capelli tirandomi la testa all'indietro. Se mi sfioro in quel punto, la cute ancora mi duole.

Accucciata sulle mie ginocchia piango in silenzio inzuppando i pantaloni di lacrime. Mi sento ferita e violata sia nel corpo che nell'anima. 

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Capitolo 10
*** Damien Meier ***


Vengo destato di soprassalto da un assordante strombettio.

Mi siedo sul letto afferrandomi la testa. Ho un conato di vomito. Come al solito, anche ieri sera ho bevuto troppo.

Il reflusso di alcool e succhi gastrici risale nel mio esofago corrodendone le pareti e riempiendo la mia bocca di un sapore acido. Tiro un forte respiro per cercare di ossigenare quel poco che rimane delle mie cellule cerebrali, scalcio via la coperta e distendo gambe e braccia. Lo strombettio che mi ha svegliato mi comunica che è mattino, che è l'ora dell'appello e che sono di nuovo in ritardo. Sto talmente male che quasi mi viene voglia di darmi per malato ma questa volta non posso. Sarebbe già la quarta in due settimane e stranamente nessuna epidemia ha ancora intaccato questo blocco del campo. Nemmeno i pidocchi sono arrivati. Credo.

E' una giornata bellissima e nonostante sia da poco iniziata la primavera, fa davvero caldo. Come se fosse estate. Il sole e l'aria frizzante del mattino mi aiuteranno a smaltire la sbornia.

Mi guardo allo specchio deluso e schifato di me stesso. Sono spettinato, i miei capelli non hanno ne arte ne parte, ho la barba ispida e sfatta, le sopracciglia folte e più spettinate della mia chioma, rughe profonde mi solcano il volto quadrato. Ho quarantaquattro anni ma ne dimostro dieci di più. Sono quindici anni che bevo.

Il sole del mattino mi brucia le retine. La visiera del cappello non mi protegge da questa strana luce. Con una mano davanti agli occhi mi dirigo verso il luogo dell'appello. La nausea ancora non mi è passata del tutto.

-Sei in ritardo Meier, non posso vivere coprendoti!-

-Perdonami Koch- sussurro guardando dritto innanzi a me.

-Devi smetterla di ubriacarti da fare schifo, tutte le sere. Stai mettendo in gioco non solo il tuo lavoro ma anche la tua salute-

Con le braccia dietro la schiena, io e Herrman Koch iniziamo a marciare percorrendo da nord a sud la fila di prigioniere immobili come statue al nostro cospetto. Sono tutte uguali. Uomini e donne potrebbero mischiarsi che sarebbe difficile distinguerli. Sono tutti denutriti, alcuni rasati ed alcuni con ancora i capelli seppure molto corti. Le donne non hanno più il seno talmente sono magre. Sono tutti alieni androgini e grigi.

Mi fanno pena, e rabbia per il fatto che mi fanno pena. All'inizio provavano molta paura nei miei confronti; mi bastava uno sguardo e si scioglievano come neve al sole. Ora più che paura sembra abbiano solo rispetto per me. Mi sono "addolcito" in questi anni, complici l'alcool, la vecchiaia e dei sensi di colpa che non so da dove arrivino che non riesco a scacciare. Forse il passare del tempo mi sta piano piano avvicinando alla resa dei conti con Dio. Forse è questa consapevolezza che crea codesta mia terribile battaglia interiore. Ma perché mi preoccupo così tanto? Dio sa che non voglio diventare un angelo.

Ho bisogno di sfogarmi, di arrabbiarmi con qualcuno, di esorcizzare questa briciola buona nascosta in un angolino del mio cuore; esso deve tornare nero e spaventoso come i miei occhi.

Arthur Sneider mi ha comunicato che da oggi dovrò scortare una prigioniera alle cucine. A lui è stata affidata un'altra mansione. Lo invidio parecchio perché mi ricorda quello che ero un tempo: forte ed ambizioso credevo fermamente in un mondo migliore con al comando il Fuhrer. Sacrilegio dirlo ma da un po' di tempo a questa parte, credo fermamente di essere fra le mani di un pazzo. Questi pensieri però preferisco tenerli per me. Sono terribilmente incoerente. Ritengo la mia guida un individuo instabile ma lavoro fermamente per lui uccidendo esseri umani come me.

Però purtroppo devo guardare in faccia alla realtà che mi sbatte in faccia ogni giorno tutto ciò che sono: un uomo solo che non ha altro che il suo lavoro, nient'altro che questo.

Qualcosa mi urta il braccio e mi desta bruscamente dai pensieri. Volgo lo sguardo, rabbioso, verso la fonte di disturbo notando la figura smunta e spaventata di una ragazzina poco più che vent'enne. Intuisco che si deve trattare della persona che devo scortare alle cucine.

-E' lei?- chiedo alla Kapo pulendomi la divisa contaminata dalla polvere che la ragazza stessa si porta addosso.

-Sì, è lei- mi risponde secca.

Mi affascina la figura delle "Kapò". Nei loro occhi leggo una malsana soddisfazione nel torturare le loro stesse compagne. Generalmente sono triangoli neri, donne ribelli e problematiche già di loro: asociali. Riescono egregiamente a mantenere la disciplina fra le prigioniere e noi soldati ci affidiamo quasi ciecamente a loro. Mangiano, bevono dormono e si lavano quasi come delle persone normali. Sono disposte a qualsiasi cosa pur di avere in mano del pane, dell' alcool o delle sigarette, sono facilmente corruttibili e fanno volentieri la spia per apparire dinnanzi a noi ed ottenere quindi da parte nostra, favori di ogni tipo.

Non si direbbe ma anche a noi soldati piace "divertirci". La regola fondamentale qui dentro è: MAI MISCHIARSI CON UNA STELLA GIALLA.

Osservo con attenzione la piccola prigioniera dinnanzi a me e la prima cosa che noto è il suo triangolo giallo. Di rimando, le volto immediatamente le spalle e inizio a falcare il terreno a grandi passi dirigendomi verso le cucine. Con la coda dell'occhio vedo che fatica a starmi dietro; inciampa goffa cercando di mantenere il mio passo. Inizio quindi a camminare ancora più velocemente.

Finalmente arriviamo, ma lei sembra non accorgersi. E' persa in un mondo tutto suo. Ferma davanti alla porta mi guarda stranita soffermandosi sul mio profilo per qualche secondo.

Le sue iridi sono nere quanto le mie e rimango per un attimo impressionato di come quegli occhi risultino persi, grigi, vuoti, vuoti come lo è il suo volto, scavato ormai dalla fame e dalla sofferenza. Ha i capelli corti, scuri, spettinati e sporchi di sabbia. Due labbra sottili e aride mi fanno capire che è da più di ventiquattro ore che non beve acqua. Sembra un fantasma. Non appena metti piede nel campo, esso ti trasforma in un mostro. Trasforma tutti. Sia noi che loro.

Con un cenno della testa la invito ad entrare. Il suo sguardo perso e la sua andatura molle mi indispongono parecchio anche se mi fanno però capire che questa creatura, mai, oserebbe disobbedire a qualsiasi ordine le venga dato.

Il mio compito infatti sarebbe quello di controllarla secondo per secondo: dovrei appurare che, nello svuotare i piatti, non nasconda nella divisa avanzi di cibo per lei e per le sue compagne.

-Sai cosa devi fare, e meglio ancora sai cosa non devi fare-

Annuisce con un cenno del capo ed io quindi, mi sento libero di potermi distrarre un pò.

Generalmente dopo pranzo mi fermo a bivaccare con i colleghi, dopodiché torno a riprenderla per portarla al suo blocco. Quando entro in cucina con in mano la sua porzione giornaliera di brodo, lei ha già finito le sue faccende. Mi aspetta seduta a capotavola con le mani sulle ginocchia e lo sguardo fisso dinnanzi a sè. Mi chiedo come un uccellino spennato e spaventato come lei, stia riuscendo a sopravvivere in questo covo di predatori rapaci e portatori di malattie. 

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Capitolo 11
*** Damien Meier pt 2 ***


Entro nel mio alloggio sbattendo la porta e ridendo a crepapelle. Dondolo a passo pesante fino a raggiungere la scrivania, e mi ci affondo, gettando la testa scompigliata fra i palmi delle mani. Sollevo il volto e mi guardo allo specchio. Lo cerco, lo vedo, eccolo! Il mio viso brutto, vecchio, scuro, sfatto, quelle borse sotto gli occhi, quelle labbra secche finalmente hanno recuperato l'elemento fondamentale che rende tutto così perfetto. Il sorriso. Perfido e diabolico.

L'adrenalina mi pervade il corpo, mi da una scossa che neanche la rete elettrica che circonda il campo potrebbe essere in grado di infliggermi. Mi viene da svenire da ridere da piangere e da vomitare nello stesso tempo. Mi tremano le mani, le braccia, le ginocchia, lo stomaco vuoto ma pieno di alcool si contorce facendomi male...da quanto tempo non provavo un' emozione del genere? Troppo, ma ora, quelle sensazioni tanto agognate, tanto ricercate, finalmente stanno riaffiorando.

Quanto mi eravate mancate!

Venite, ed inebriate i miei polmoni come se stessi soffocando e voi foste ossigeno in grado di ridarmi la vita.

Mi annuso le mani ancora sporche di sangue orami rancido, lacrime e terrore e mi godo quello inebriante sapore. La macabra fragranza mi pervade le narici e come gas mortale scioglie il mio cervello; il veleno nero entra in circolo lo sento scorrere nei miei vasi sanguigni soffocando tutti gli organi fino ad arrivare finalmente al cuore.

Lascio scivolare le mani lungo il viso mentre espiro ad occhi chiusi. Mi sento rinato. La mia trasformazione è avvenuta, apro gli occhi guardandomi allo specchio e per una frazione di secondo mi sembra quasi di scorgere in essi lo scintillio di una fiamma, come quando si accende un fiammifero. Sono fiero di me stesso: ora mi riconosco, ora sono di nuovo io, il tremendo e terribile soldato che da troppo tempo aveva perso la retta via.

Mi piace vedere il terrore nelle sue iridi corvine. Quando si avvicina tremante a me per farsi scortare in cucina, non tiene più lo sguardo basso anzi, sempre all'erta, non smette di fissarmi con quegli occhi spaventati che giorno dopo giorno diventano sempre troppo grandi per il suo viso minuto. Non so come mai quella notte di luna piena mi sia abbassato a tal punto da abusare sessualmente di lei, forse ero troppo ubriaco e di per certo non mi concedo ad una femmina da troppo tempo. Una cosa è sicura. Non accadrà mai più.

Dopo quella notte, la tengo d'occhio molto più diligentemente. Ora non si permette più di nascondere il cibo nei vestiti. La tensione che dilania il suo corpo quando siamo da soli nella cucina mi rinvigorisce. Sentire il suo respiro corto e rotto dal peso dell'ansia che prova ad avermi costantemente dietro le sue spalle mi alletta tutti i sensi. A quell'ora del pomeriggio un raggio di sole le accarezza il volto evidenziando delle gocce di sudore che fino a prima di quella fatidica serata non avevo mai visto sulla sua fronte.

Piccolo e fragile uccellino, non vedo l'ora di sentire di nuovo il tuo sangue caldo sulle mie mani.

Sulla veranda in legno del mio alloggio, sorseggio il mio bicchiere di Whisky mentre completamente nudo, dopo una sana doccia mi asciugo crogiolandomi nella fresca brezza notturna di primavera. Ingoio l'ennesimo bicchiere di liquido corrosivo e guardo verso il campo. Un silenzio mortale pervade le baracche. Chissà chi, fra le tante persone che vi sono rinchiuse in questo momento starà dormendo, sognando, piangendo, morendo.

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Capitolo 12
*** Il terrore di aver sbagliato ***


- Cosa stai combinando in questi giorni, Meier?-

Mi giro sbalordito verso il mio fido amico e collega Koch. Quando scandisce in quel modo il mio cognome, significa solo una cosa: è intenzionato ad affrontare un discorso serio.

Rimango per un attimo interdetto muovendo le labbra senza riuscire ad emettere alcun suono. "Cosa sto combinando?"

-... in che senso? Cosa sto combinando...-

Il mio stato catatonico rende tutto surreale dato che quasi nessuno riesce a lasciarmi senza parole per più di tre secondi. Con una lentezza incredibile, quasi per darmi il tempo di riflettere sulla risposta corretta da dargli, estrae una sigaretta, se la porta alle labbra, la accende, inspira ed espira il fumo appoggiandosi alla parete in legno della torretta dove da ore stiamo montando di guardia.

Il piccolo abitacolo, nonostante sia aperto ai lati, trasuda calore, condensa e sudore. Fa caldo sotto la divisa oggi, fin troppo per la stagione in cui siamo e sembra che il mio fedele amico dagli occhi di ghiaccio abbia deciso di cogliere l'occasione di questo snervante turno per farmi il terzo grado. Non mi piace essere sotto interrogatorio.

Da giorni un'incredibile ansia mi attanaglia. Due settimane fa, preso dai fumi dell'alcol ho abusato di quella ragazzina ed il mio terrore ora è che qualcuno in qualche modo lo abbia potuto scoprire. Tra tutte le persone che spero non vengano mai a conoscenza di questo mio imperdonabile sbaglio, uno è proprio lui: il mio migliore amico. Ne perderei immediatamente la stima ma la cosa peggiore è che so bene che sarebbe in grado di uccidermi con le sue mani. Con tutte le donne appetitose che vi sono al "bordello" proprio con una di quelle "schifose" dovevo sfogare la mia voglia? Mi maledico.

Mi tolgo il cappello e mi accarezzo la testa sudata sospirando pesantemente quasi a buttare fuori un agglomerato di pietre e lava incandescente infilato in gola.

Koch, non sentendomi parlare, inizia a sogghignare a testa bassa. Lo guardo con la coda dell'occhio, teso come non mai. Il mio volto è una maschera di paura. Ma come è possibile che io provi questo terrore? E' possibile eccome, so fin troppo bene di aver commesso un grave errore.

Terminato di ridere, tira su col naso prima di parlare.

- A me lo puoi dire ... - si gira di scatto verso di me ed i suoi occhi freddi e seri mi trafiggono l'anima. Come può rendermi così vulnerabile? Il peso di aver fatto qualcosa di sbagliato, il peso di essermi mischiato con quel topo di fogna mi indebolisce così tanto di fronte allo sguardo freddo ed indagatore del mio amico. Tutto scorre veloce, ecco il terrore che prende possesso di me, le mani che tremano, le membra che iniziano a diventare molli e dolenti, le ginocchia che cedono, i conati silenziosi a vuoto, il sudore freddo che inizia a stillare dalla mia pelle e la testa che gira. Cado, rassegnato e sudato sulla sedia appoggiando il gomito destro sul ginocchio. Lascio andare per terra il cappello che tengo nella mano sinistra e adagio la testa pesante e sudata sul palmo della mano destra facendomi sfuggire un gemito.

Koch, serio più del solito, respira un'altra boccata di tabacco sbuffandola dal naso. Picchietta ad occhi bassi la sigaretta lasciando cadere la cenere nel vuoto. Io sono quella cenere, sto precipitando nel vuoto.

-Damien Meier...- pronuncia il mio nome scandendo ogni lettera. Lo guardo supplichevole. I miei occhi gelatinosi gli implorano di arrivare al dunque, ho mal di pancia, stringo gli addominali per sentire meno dolore e faccio un lungo respiro. Mi faccio schifo. Per tutto. Dove è finito quell'orco che ero fino a pochi minuti fa? Può, la paura della morte, ridurti in questo stato pietoso?

-Non vi è nulla di male a divertirsi un po' ...- sussurra.

"Ma tu ti sei divertito con la persona sbagliata" " E pagherai per questo " "Mi hai deluso amico mio" "Con un topo di fogna" "Vergognati" "Sarà mio piacere ucciderti con le mie mani" "Mi fa vomitare solo l'idea di avere accanto un individuo che ha avuto a che fare con una di quelle fetenti creature"

La mia mano sinistra sale per coprirmi il volto, mi voglio nascondere dietro i miei stessi sporchi palmi, non riesco quasi più a controllare gli organi che mi si stanno rivoltando nel corpo per la paura, non riesco nemmeno a capire se il mio cuore stia battendo o no.

-Finalmente ti sei deciso a frequentare il "bordello" – mi sussurra mettendomi una mano sulla spalla sorridendo, poi, osservandomi bene e notando il mio volto bianco e sudato come uno straccio che ha appena pulito un pavimento aggiunge – Damien non vi è nulla di male a cedere ai sapori della carne. Non crucciarti in questo modo. Tutti noi frequentiamo il bordello. E' nostra disposizione-

Mi appoggio molle allo schienale della seggiola in legno sputando per terra la saliva acida che è risalita dal mio stomaco. Cerco di recuperare il mio normale e profondo tono di voce.

-Come fai a dire che sto frequentando il bordello?- come fa a sostenere fiero questa tesi anche se totalmente errata?

-La fiamma della lussuria e del peccato arde nelle tue iridi color pece...-

-Che conclusione "intelligente " Koch – ironizzo sollevato. Del mio amico posso dire tutto: e' sadico, cattivo e crudele ma l'intuito bhè... non è una delle sue migliori qualità.

Mi sorride freddo appoggiandosi anche lui allo schienale della scomoda e dura seggiola che abbiamo a disposizione e sbuffa l'ultima boccata di fumo.

- Ricordati solo una cosa, crudele amico mio ...- mi rammenta lanciando nel vuoto la sigaretta ancora accesa -Non fare in modo che la tua nuova perversione verso le carni ti porti a mischiarti con qualche putrida stella gialla perché ti giuro che provvederò io stesso a spegnerti mozziconi incandescenti sul corpo fino a non lasciarne un millimetro libero. Quando si tratta di stelle gialle io non guardo in faccia nemmeno ad un amico-

Rabbrividisco in risposta alla sua minaccia perché so che tutto quello che ha appena detto, è vero.

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Capitolo 13
*** Disgusto ***


-Cosa facevi, quando eri... si insomma... eri un essere umano?- L'Orco sbiascica ubriaco questa domanda ed io alzo gli occhi dal mio freddo e disgustoso cucchiaio di minestra, se si può definire tale. Lo fisso stordita, non so se e cosa rispondergli. Nell'immediato mi viene in mente l'ultima mia festa di compleanno. Annebbio subito quel ricordo, mi fa stare troppo male.

-Hai perso la parola?- Sogghigna. Hai paura di raccontarmi di quando eri una Lurida Puttana? – Scoppia in una fragorosa risata buttando indietro la testa- Non preoccuparti, a me puoi raccontare tutto! Sono tuo "Amico", so mantenere un segreto...non fiaterò niente a nessuno ... - con l' indice davanti alla bocca simula il gesto del silenzio, un sorriso diabolico compare dietro a quel dito. Lo detesto. Con tutta la forza della mia anima. Quando beve poi, lo odio ancora di più.

Continuo ad osservarlo spiazzata. Appoggio rassegnata il cucchiaio sul tavolo perdendo completamente l'appetito.

Con la bottiglia di alcol in mano, l'Orco si appoggia allo schienale della sedia sospirando. E' seduto completamente storto e più lo osservo più mi rendo conto di quanto il suo stile di vita lo stia consumando.

-Non oso immaginare con quanti uomini tu abbia fatto la birichina- tossisce senza coprirsi la bocca espettorando un rantolo rauco di fumo e catarro, poi riprende a parlare – non riesco ad immaginarti appetibile. Eri una bella ragazza? A guardarti ora non sembrerebbe; non so se sei consapevole del tuo aspetto ma fidati, sei veramente orripilante!-

Si alza dalla sedia avvicinandosi prepotente a me. Rimango seduta e lo osservo dal basso verso l'alto. Lievi gocce di sudore iniziano a bagnare la mia fronte ed involontariamente il mio corpo inizia a tremare.

-Questa chioma corta e lurida- si aggrappa ai miei capelli tirandomi indietro la testa.

-Questo volto grigio e scavato...- con l'indice sinistro percorre il mio viso dalla tempia, scendendo lungo lo zigomo, la guancia, per poi fermarsi sulle mie labbra.

- Questa labbra aride e quelle borse sotto gli occhi...-

Scende sulle mie spalle.

-Queste ossa che escono prepotenti dalla tua pelle. Per non parlare del tuo puzzo: odore di morte. Siete tutte uguali! Siete dei mostri! Se avessi con me uno specchio, ti renderei partecipe della tua immensa e raccapricciante sozzura!-

Lo osservo tremante e rabbiosa, consapevole della mia impossibilità di poter replicare per difendermi da quelle sue affermazioni che mi tagliano il cuore. Vorrei dirgli tante cose, vorrei dirgli che il mostro è lui, non io, ma ho troppa paura, così sto zitta e muoio dentro di me.

-Ma per quelle come "Voi"... - riprende continuando ad accarezzarmi il collo facendomi rabbrividire sempre di più - è davvero facile portare a letto un uomo. Belle o brutte che siate-

Lascia la presa brutalmente e torna a prendere la bottiglia che ha lasciato sul tavolo ne beve un gran sorso, e la sbatte sul banco.

Si avvicina di nuovo a me.

-Siete delle streghe! –Urla- E' colpa tua! – sbraita puntandomi contro l'indice - Solo tua, per quello che è successo quella sera!- ringhia.

Nell'immediato non capisco a cosa si sta riferendo ma poi...ci arrivo. Allora quella notte non era completamente ubriaco. Allora si ricorda... si ricorda tutto.

Mi afferra per la camicia alzandomi di peso. La sedia su cui ero adagiata cade a terra generando un tonfo spaventoso. – Tu! Lurida Strega e Puttana, mi hai soggiogato!- Grida sbattendomi come uno straccio usato

- Io – scandisce bene il pronome- Io dovevo punirti, ucciderti all'istante ma tu, con i tuoi luridi sortilegi, hai fatto in modo che la mia carne si mischiasse con la tua, si contaminasse con la tua!- le sue urla mi perforano i timpani, la sua voce roca e sgradevole mi lacera le membrane dell'orecchio.

Mi butta a terra e di scatto, si mette le mani nei capelli prendendo a fare avanti e indietro per la stanza.

-Giuro...- torna verso di me e mi agguanta per il bavero della casacca sollevandomi di nuovo.

Mi ghermisce il mento facendomi male, costringendomi a guardarlo negli occhi.

-Giuro che se ne fai parola con qualcuno, ti uccido con le mie mani, sbriciolandoti l'esofago proprio come sto facendo in questo momento!-

Mi da un'anteprima del dolore che avrei potuto provare; fatico a respirare e la mia laringe emette un latrato sofferente quasi ad implorarlo di smettere. Sorseggia ancora un po' di alcol e poi, lanciandomi per terra, si allontana da me.

Impaurita, mi rialzo e resto in piedi mentre lo guardo tornare a sedersi barcollante. Mi massaggio il collo, mi fa davvero male ma ancor di più, mi fanno le sue parole.

-Aiutavo mio padre in ambulatorio... era dottore...- sibilo quasi per fargli capire che ero una brava persona, che mi piaceva aiutare gli altri, che non sono una strega cattiva. Cerco di impietosirlo.

L'Orco, che nel frattempo a stento si è riseduto alla sua postazione, mi fulmina.

Per un attimo, con la mente, credo stia tornando a qualche settimana fa.

-Come ti chiami?- mi domanda.

-Anita- rispondo.

-... Anita... – mormora. Poi, sogghigna – I tuoi genitori avrebbero potuto fare di meglio- inizia di nuovo a ridere a crepapelle – Porti un nome che fa ancora più ribrezzo di quanto lo faccia tu stessa! –

Un magone mi trafigge il cuore.

Il mio pensiero vola dritto verso di loro. I miei cari genitori che non ho potuto godere come fanno le ragazze normali. La mia mamma, dolce e premurosa, il mio papà, uomo freddo ed allo stesso tempo, forte e amorevole. Non ho loro notizie da mesi.

– Sai che fine hanno fatto i tuoi genitori?- mi domanda serio.

-Non lo so, ma di sicuro li avrete uccisi!- Sbotto esausta e nervosa coprendomi il viso con le mani.

-Di sicuro, Anita. Di sicuro.- Si alza, e barcollando, lascia la cucina.

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Capitolo 14
*** Vergogna ***


Non è vero che Anita è un brutto nome. Anita è un nome molto bello che di certo non sta bene ad un mostro come lei.

Mi odio per quello che ho fatto; i sensi di colpa verso me stesso, mi attanagliano. Come ho potuto farmi questo? Come ho potuto arrivare al punto di concedermi ad un essere schifoso e ripugnante come Anita. Il suo viso, il suo odore, il suo corpo, solo alla vista mi provocano un gran ribrezzo. Eppure l'ho fatto. Colpa sua e colpa dell'alcool.

Prendo la bottiglia vuota e la sbatto contro il muro facendola andare in mille pezzi.

Mi spoglio velocemente e mi butto nella vasca da bagno. L'acqua fredda mi fa rabbrividire ma nello stesso tempo mi risveglia.

"Non è colpa tua, Meier"sospiro rabbioso mentre nella mia testa, ripeto questo Mantra " E' colpa dell' alcool, è colpa di quella Strega. Smetti di bere quando sei con lei."

Mi appoggio al muro e lascio l'acqua scorrermi sui capelli e sul viso.

Sono stanco, sfinito. Questo stile di vita mi sta uccidendo; non posso sovraccaricare la mia mente di un altro problema. Decido per il mio bene di non crucciarmi più per questo.

Ho avuto un momento di debolezza. Non si ripeterà mai più!

Nessuno potrà venire a sapere di quanto successo e se Anita oserà parlare... chi le potrà credere?

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Capitolo 15
*** Il gatto ***


L'orco ci prova davvero gusto nell' annientarmi lentamente.

Le porzioni di cibo che mi da sono sempre più scarse e molte volte le "corregge " con un po' dell'alcool che beve facendomi rifiutare completamente il cibo.

Non riesco più ad ingurgitare quella roba, il mio debole fisico si ribella all'istante.

A volte mi convinco che il suo unico scopo sia rendermi tale e quale a lui per poi riuscire a portarmi con sé all'inferno.

Sono due settimane che faccio un solo pasto al giorno e non riesco a stare in piedi. Ho bisogno di mangiare. Sarei disposta a tutto pur di mangiare un po' di carne.

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E' il 12 aprile e sotto la divisa si suda come se fosse agosto. Stasera ho bevuto davvero poco quindi, sono convinto che non sia l'alcool a farmi questo effetto.

Guardo Koch chiedendogli se anche lui stesse soffrendo quanto me e la sua risposta risulta affermativa.

Stare di guardia durante la notte è snervante e preghiamo sempre che ci capiti qualche prigioniero ribelle con il quale divertirci un po'.

Ho bisogno di farmi un bagno fresco. Sento di puzzare peggio delle anime perse che fluttuano qui dentro. Ripenso alla sera di qualche mese fa in cui ho scovato il topo di fogna permettersi il lusso di lavarsi con le sue "amiche". Sembravano così felici e spensierate, sembravano essersi per un attimo dimenticate dell'inferno nel quale si trovavano.

Perse. Perse a ridere, scherzare, piangere e a giocare con l'acqua.

Acqua. Un bene di consumo a cui io posso attingere quando e come voglio; per loro invece, diventa un bene raro e prezioso.

Penso a come possa essere poter godere delle piccole semplici cose. Ho sempre avuto tutto dalla vita eppure molte volte mi sento triste, insoddisfatto. Vorrei di più ma non capisco cosa esattamente desidero e dove esattamente voglio arrivare.

Mesi orsono, arrivò un carico molto sostanzioso da non ricordo dove. Di certo avranno viaggiato per giorni interi senza mangiare, bere, lavarsi.

Scesero dal vagone completamente persi, spaventati. Sembravano pecore spaesate.

Appena ci avvicinammo a loro con i nostri cani, l'isterismo prese il sopravvento. Gente che iniziò ad urlare, a spingere, donne che piangendo stringevano al petto i loro piccoli, uomini e ragazzi incoscienti che ci gridavano qualsiasi tipo di insulto.

Iniziammo a sparare: in aria, alle persone, dove capitava.

Alcuni di loro caddero a terra colpiti; il caos aumentò, le madri si strinsero ancora di più ai loro pargoli e le ragazze, ai loro compagni o padri.

Ognuno cingeva l'altro talmente forte da non riuscire a dividerli così, uno di noi prese una canna dell'acqua e ne sganciò il getto gelido contro la massa.

Ebbene, invece che tranquillizzarsi, essi vi si buttarono contro come se quel liquido fosse elisir di lunga vita. Col freddo che faceva, io stesso faticavo a sciacquarmi le mani sotto il primo getto d'acqua del mio rubinetto mentre loro, vestiti di deboli stracci, quasi si uccidevano per riceverlo.

Patetici. Sembravano dei maiali alla mangiatoia.

Fortunatamente non sono nato come un porco ebreo! Sogghigno sotto la visiera, vittima del mio stesso sottile senso dell'umorismo.

Passo la mano sinistra dietro al collo asciugandomi del sudore ripensando al bagno fresco che mi attende e per un attimo, la mia mente, ritorna a quella notte.

Tutto nacque per caso. Avevo finito il turno ed ero terribilmente nervoso.

Dovevo trovare qualcuno con cui sfogarmi, così mi misi a girare per il campo sperando di scovare qualche prigioniero disobbediente.

D'un tratto vidi un gruppo donne dirigersi verso la baracca delle docce.

Incuriosito le seguii e fra di loro notai Anita. Allora non conoscevo il suo nome ma poco mi importava: avevo trovato il mio bersaglio.

Sapevo che rubava avanzi di cibo per poi distribuirli alle sue compagne ma sinceramente la cosa mi toccava poco. Preferivo sedermi a bere con i miei colleghi piuttosto che stare due ore accanto a lei che puzzava peggio di una latrina.

Vedere quei mucchi di ossa nudi, mi fece ribrezzo a tal punto da pensare di andarmene e lasciare a qualcun altro, lo sporco lavoro di finirle. Prima di avviarmi però osservai di nuovo Anita. Sorrideva. Per la prima volta vidi un' espressione ilare sul suo volto.

Loro non devono sorridere.

Non ne hanno il diritto.

Non sono in villeggiatura, non si stanno facendo una doccia rinfrescante dopo un bagno al mare. Loro devono soffrire.

Devono piangere e disperarsi.

Devono morire.

Complice il mio nervosismo, mi venne una gran voglia di trasformare quello stupido ed innocente sorriso beffardo, in una autentica smorfia di paura e dolore.

Avrei solo dovuto picchiarla per poi lasciarla agonizzante a pentirsi della sua bravata, nulla di più. Mai avrei immaginato di poter arrivare al punto in cui sono giunto. Mi pento ogni singolo giorno del grave torto che ho fatto a me stesso.

Koch mi desta dai pensieri dicendomi di aver notato dei movimenti sospetti.

Ci avviciniamo puntando le torce verso la fonte di quel sottile rumore.

Dinnanzi a noi, una scena raccapricciante che quasi mi fa risalire la cena mezza digerita.

Ci metto un po' a capire cosa sta realmente succedendo.

Alcune ragazze in cerchio, ne conto cinque o sei inginocchiate a terra, avventate su qualcosa che non distinguo ancora nitidamente.

Koch illumina i volti delle donne che con un gioco di luci ed ombre, sembrano appartenere a demoni risaliti da qualche antro dell'inferno. Riconosco Anita. O meglio, non la riconosco.

A terra, sventrato, al centro del loro cerchio, un animale che ricordo essere il gatto domestico del collega Faust.

Sangue, peli, budella. Residui ancora caldi e pulsanti del felino sparsi per terra, sulle loro mani, sui loro volti.

Anita, quella ragazzina sottomessa che ho di fronte tutti i giorni, mangia da quella carcassa, come un leone sulla zebra. Dalla mia postazione posso vedere i suoi occhi fiammanti, animaleschi, posseduti da un demonio che annienta quell'innocenza che vi ho letto dentro in tutti questi giorni.

Per un momento rimango interdetto. Una sensazione strana mi pervade.

E' un lampo.

Koch spara dei colpi di fucile, intimando a quelle donne di tornare nelle loro baracche. Rimango stordito ancora per qualche secondo prima di rivolgergli la parola.

-Non le hai uccise...- sussurro incredulo.

Koch sorride diabolico sotto la visiera.

Aspetta solo che Faust scopra cosa hanno fatto al suo povero gatto.

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Capitolo 16
*** La punizione ***


Il giorno successivo, Faust Schulz, uno dei peggiori fra noi guardie S.S., aiutato dall'efficace memoria visiva di Koch, convoca le cinque, subito dopo pranzo, in mezzo alla "Appellplatz".

Piove. E' una pioggia forte e fastidiosa che ticchetta nel cervello; come avere mille orologi a pendolo nel cranio.

Noi soldati, con addosso impermeabile ed ombrello, siamo pronti a scoprire la punizione che Faust ha in serbo per quelle donne .

Sembriamo spettatori di un circo all'aperto.

Faust convoca tutte le prigioniere appartenenti al blocco delle colpevoli e le fa disporre una accanto all'altra.

Schulz possiede una calma quasi spaventosa in tutto ciò che fa. Persino mentre punisce od uccide e qualcuno, dal suo volto non ho mai visto trasparire alcuna emozione.

Le donne sono spaventate; nei loro occhi leggo paura mentre si guardano interrogative.

Con il manganello, Faust indica le cinque prigioniere che saranno vittime della sua furia sottile e fa loro fare un paio di passi avanti alla linea.

Con estrema lentezza, percorre la mischia di donne e con accuratezza ne sceglie altre cinque ordinando loro di porsi a fianco alle prime selezionate.

Ad ognuna di esse, consegna un pezzo di stoffa ed ordina di legare i polsi delle vittime.

Le prescelte eseguono l'ordine ad occhi bassi, senza fiatare.

Successivamente dà comando alle colpevoli di inginocchiarsi a quattro zampe e poggiare le mani legate, a terra.

Faust provvede personalmente ad alzare a livello del collo, la casacca di ogni singola colpevole lasciandole la schiena nuda.

Un fuscello di legno per ogni fustigatrice.

Imperativamente ordina di iniziare a colpire con forza le colpevoli.

Sessanta frustate, e sarebbero dovute andare tutte a tempo perché al contrario, avrebbero dovuto ricominciare tutto daccapo.

Al terzo tentativo riuscirono a sincronizzarsi.

-Frustate, che banalità- sogghigno mentre sbuffo un po' di fumo.

Osservo Anita. Il suo volto è terrorizzato, paonazzo, sta soffrendo ma non mi provoca nessun effetto; mi sento solo un po' stranito dal fatto di non essere io a procurarle dolore.

Oso affermare che quasi mi fa pena, il vederla in quelle condizioni.

L' "Alt" di Faust mi risveglia dai pensieri.

Più esauste di quelle colpite, le fustigatrici lasciano cadere per terra il fuscello sporco di sangue e si accasciano a terra piangendo.

Le fustigate, immobili ed inermi, piangono lacrime di sangue.

Non finisce così perché il terribile soldato, battezza una ad una la schiena delle donne con una gran quantità di alcol che infuoca le ferite ancora fresche e aperte.

Le ragazze gridano, due di loro si accasciano per terra e rotolano infettando di sabbia le lacerazioni sul loro fragile e minuto dorso.

-Quanto spreco!- sussurra Koch indignato scuotendo la testa – me ne vado!-

Volgo lo sguardo verso Anita e per un attimo penso a quella fatidica sera. Quella notte in cui.. non ci voglio ripensare.

Prepotente riaffiora il ricordo di quando per svegliarla, decisi di inondare di alcol la ferita sulla sua fronte. Si destò in un istante urlando come un vitellino al macello.

Quel momento fu una scossa di adrenalina pura.

Mentre mi dirigo verso il mio alloggio, rifletto sulla bestialità dell'essere umano.

Siamo animali dotati di un cervello. L'evoluzione ci ha fatto veramente un gran bel regalo. Abbiamo un organo in grado di ragionare, di capire il giusto e lo sbagliato, possiamo fare scelte, provare sentimenti, amare, odiare.

Abbiamo nel cranio un'arma ancora più potente delle carabine in nostra dotazione.

Eppure a volte, anche noi esseri umani regrediamo allo stato di Bestie.

Chi come Anita e le altre quattro ragazze, per una questione di necessità, di sopravvivenza e chi come noi soldati, per una questione di Onore, di scelte.

Noi soldati siamo Bestie consapevoli di esserlo e forse felici di esserlo diventato.

Uccidiamo esseri umani inutili, che contaminano l'umanità come dei virus.

Il campo ti trasforma, ti rende un animale. Il campo è un inferno a parte da tutto il resto del mondo. Un inferno che ti ingloba e, se non ti evolvi anche tu in un demone, ti uccide.

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