ARCANA

di Itzi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - THE MAGICIAN ***
Capitolo 2: *** II - THE HIGH PRIESTESS ***
Capitolo 3: *** III - THE EMPRESS ***
Capitolo 4: *** IV - THE EMPEROR ***
Capitolo 5: *** V - THE HIEROPHANT ***
Capitolo 6: *** VI - THE LOVERS |Parte prima| ***
Capitolo 7: *** VI - THE LOVERS |Parte seconda| ***
Capitolo 8: *** VI - THE LOVERS |Parte terza| ***
Capitolo 9: *** THE LOVERS - |Parte quarta| ***



Capitolo 1
*** I - THE MAGICIAN ***


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I
THE MAGICIAN
 
 

Firenze non le piaceva.
            Nora, maglione color panna e macchina fotografica al collo, era arrivata a quella conclusione durante la mattinata. Era il suo terzo giorno lì e, se all’inizio la caotica frenesia della città l’aveva lasciata stupita, costringendola a camminare con il naso per aria mentre raggiungeva l’hotel, adesso la infastidiva e basta.
            C’erano troppe cose da vedere, posti dove andare, e tutto le scorreva davanti agli occhi senza darle tempo di elaborare. Non faceva in tempo a scattare un paio di foto, che subito doveva fuggire. Verso un’altra destinazione, verso un programma che era stato compilato a puntino e che non poteva, in nessun modo, saltare.
            Forse, in realtà, il problema non era Firenze in sé, con gli edifici bianchi dai tetti di mattoni e quell’enorme cupola che svettava sempre in lontananza. Il problema era la gita di classe, e lei le gite di classe le odiava. Le veniva l’ansia a sapere di essere vincolata ad un gruppo di altre persone, e di non poter decidere spontaneamente dove andare e cosa fare.
            In un posto così bello, avrebbe solo voluto andarsene via; vagare per le strade senza meta, e saggiare sulla bocca la consistenza di una lingua straniera. Firenze sembrava il posto perfetto dove perdersi e scomparire per sempre.
            Willow, invece, era radiante. Le volteggiava a fianco, e spesso la prendeva a braccetto indicandole tutto ciò che aveva attirato la sua attenzione: case e fontane, piazzette dai marmi scheggiati e ristoranti indiani, rosoni elaborati e gatti randagi.
            L’aveva implorata di farle una foto davanti al negozio della Gucci in Piazza della Signoria e, quando si era messa in posa, i passanti si erano fermati ad osservala colpiti dalla sua bellezza. Sembrava una modella, piuttosto che una diciassettenne con gravi problemi di dislessia.
            Era bassina, con occhi nocciola leggermente a mandorla, il naso schiacciato e un caschetto di capelli mossi e biondissimi. Quel pomeriggio, aveva deciso di camminare entro il perimetro delle pietre che lastricavano la Galleria degli Uffizi, facendo esasperare la loro guida, già provata da ore di spiegazione in inglese. Aveva un fortissimo accento italiano, e Nora aveva percepito il disagio nella sua voce mentre si rapportava con un gruppo di adolescenti provenienti da un altro continente. Alla fine, aveva ceduto, e li aveva lasciati liberi di gironzolare tra le statue per qualche minuto.
            Willow aveva sfiorato con le dita le incisioni sul marmo, osservando curiosa Dante, Boccaccio e Petrarca, in posa nella loro trinità letteraria. Al confronto con quei mostri di pietra, sembrava ancora più minuta del solito, ma per nulla fuori posto. Le aveva scattato una foto, e poi erano tornate dal gruppo per continuare la visita.
            Il museo interno era, se possibile, ancora più suggestivo dell’esterno. Le pareti rosso scuro rivestite di quadri dalle cornici dorate, statue e calci in gesso al centro delle stanze. Non si poteva fotografare, e Nora si sforzò di imprimersi dietro le palpebre ogni più piccolo dettaglio che riuscisse a cogliere. Willow le si era avvicinata e avevano intrecciato i propri mignoli, continuando a camminare.
            Poi, l’avevano vista. Si trovava al centro di una fila ordinata di tele, che copriva tutta la parete di quel corridoio. Una recinzione di legno teneva i visitatori a debita distanza, e una sintetica didascalia, stampata in più lingue su un foglio plastificato, ne illustrava il contenuto. La guida si soffermò qualche istante in più, prima di riprendere il suo giro.
            Willow le strinse leggermente il dito mentre si posizionavano davanti, osservando il dipinto.
            La Venere di Botticelli le guardava, con un sorriso appena accennato sul volto di porcellana; lo sguardo di chi è appena nato ma ha già colto la vera essenza del mondo. Sullo sfondo, placide onde sfumavano sulla battigia, e per un istante Nora pensò di poter sentire l’odore della salsedine sulla pelle.
            «Com’è bella la mamma…»
            Un bisbiglio impercettibile, lungo come un battito di ciglia. Annuì piano senza distogliere lo sguardo.
            Willow si morse un labbro pensierosa, girando la testa.
            «Vi assomigliate un sacco.»
            «Non è vero.»
            Nora fissò sua sorella, la sua carnagione chiara, i capelli biondi fermati da un cerchietto di metallo dorato con stampe di foglie e fiori. La camicia di seta che indossava le scivolava larga sul corpo, increspandosi sui gomiti come la veste nel quadro. Sul petto le ricadevano sottili collane d’oro e d’argento.
            «Sei tu che somigli di più a lei, casomai.»  Disse. Erano una l’opposto dell’altra; e la sua pelle nera, insieme ai ricci afro, poco c’ entravano con la dea che avevano davanti agli occhi.
            «Non lo so.» La bionda alzò le spalle. «Avete lo stesso sguardo. E anche questa piega qui, sotto gli occhi…» Le toccò il viso con la mano libera, tracciando una linea leggera. «Davvero molto carina.»
            Nora tornò a guardare il dipinto, cercando di cogliere quei tratti in comune con la donna, senza successo.
            «Sarà…» Non provò nemmeno a nascondere lo scetticismo nella sua voce, e Willow rise divertita, mentre si spostavano per fare posto ad altri turisti. Uscendo, sentì distintamente uno sguardo divertito scivolargli lungo la schiena.

 
 
 
La scena aveva davvero del comico.
            Una vecchia signora, in coda davanti a lui, era ferma davanti alla vetrina della macelleria, intenta a sbraitare contro il ragazzo dall’altra parte del bancone.
            «Madre de Dios, abuela, vede per caso dei serpenti qua dentro? È una macelleria, mica un rettilario!»
            «Ma a me serve carne di serpente!» Replicò la donna, alzando minacciosamente un dito scheletrico e il tono di voce. «Mia nuora, pobre chica, non ne ha mai mangiato uno, viene dalla Svizzera!»
            «Beh, che peccato, ma qui serpenti non ne vendiamo. Né iguane. Né qualsiasi altro animale che dovrebbe starsene in mezzo alla foresta Pluviale!»
            Lucio puntò le mani sui fianchi, sforzandosi di non aggiungere altro. Le labbra serrate e la sottile vena che aveva cominciato a pulsargli al lato della fronte, testimoniavano il suo fastidio e la poca pazienza che gli era rimasta.
            «Che razza di macellaio è, se non vende la carne che mi serve?»
            «¡Jódete
            Emanuel rise senza neppure provare a nascondersi, davvero colpito dalla grazia che una divinità millenaria riusciva a utilizzare in momenti come quelli. Lucio alzò la testa e lo fulminò con lo sguardo, promettendogli una morte lenta e sanguinosa al prossimo accenno di risata.
            «Signora, perché non prova a chiedere al ristorante thailandese in centro? Magari le sanno dire dove trovare del serpente.» Si intromise, parlandole con tono gentile. La donna si voltò scettica, evidenziando le rughe sulla fronte.
            «O magari può portare sua nuora a mangiare lì.»
            «Non dire assurdità, chico, nessuno cucina il serpente come me!» Lo ammonì con il dito inquisitore. Si prese il tempo necessario per guardare male Lucio, e poi uscì dal negozio a passo spedito.
            Rimasti soli, Emanuel si avvicinò alla vetrina, prendendo il posto della donna. Dal modo in cui l’altro assottigliò gli occhi, capì di non essere riuscito a mascherare molto bene tutto il suo divertimento.
            «Non ci metto nulla a squartarti la gola, Manu.» Lo minacciò, afferrando uno dei coltelli che aveva sul ripiano. Nonostante non mettesse in dubbio le sue parole, ormai aveva ascoltato così tante dichiarazioni di morte e torture, che la prima cosa che gli venne spontanea fu ridere.
            «In negozio? Sai che spreco, poi ti tocca pure pulire. Comunque, a mamma serve un chilo e mezzo di manzo, stasera fa il chili. E chiede anche se domenica vieni a mangiare da noi.»
            «Non lo so, devo finire di studiare.» La bocca gli si trasformò in una smorfia schifata al solo pensiero di prendere un libro in mano. Recuperò dalla vetrina un grosso trancio di carne, e cominciò a tagliarlo con movimenti rapidi e precisi.
            «Ma se hai quattromila anni! Avrai visto di persona quello che c’è scritto nei libri, non ti serve a niente studiare.»
            Lucio gli puntò di nuovo contro la lama del coltello.
            «Sta’ zitto, ti conviene. Prima quella vecchia decrepita, poi tu… Oggi è la giornata nazionale del “spariamo cazzate e diamo fastidio a Lucio”, per caso?»
            «Ma davvero ti ha chiesto anche dell’iguana?» Colse l’occasione per chiederglielo, cambiando completamente argomento.
            «¡Sì!» Il dio alzò entrambe le braccia al cielo «Quella pazza! Un’iguana! Il mio animale sacro!»
            Emanuel rise vedendo la reazione dell’altro, che adesso aveva preso a tagliare a cubetti la carne selezionata. Aveva il grembiule sporco di sangue, e i capelli scuri serrati in una crocchia ben ordinata.
            «Che eresia.»
            «Sul serio. Come se non avessi altre cose di cui preoccuparmi, al momento…»
             Il ragazzo si appoggiò alla vetrina, studiandosi le unghie corte con finta noncuranza. «Perché, abbiamo cose di cui preoccuparci?»
            Lucio schioccò la lingua, incartando la carne. Ormai si conoscevano da così tanti anni, che Emanuel sapeva riconoscere immediatamente le sue emozioni solo osservandone i gesti. Si vedeva che c’era qualcosa che lo infastidiva, qualcosa di noioso che avrebbe messo a soqquadro la sua tanto sudata quotidianità.
            «I nostri cari vecinos avranno di nuovo fatto casino…Ottanta anni fa se ne sono usciti con quella cosa degli imperatori; abbiamo avuto le comunicazioni bloccate per mesi, un incubo!» Gesticolò con una mano, ritirando i soldi che gli aveva poggiato vicino alla cassa «Convivenza civile un cazzo. Entro la fine di questo secolo finirò per prendere qualcuno a calci in culo, me lo sento!»
            «Uuh, quindi… Siamo di fronte a uno scontro tra Pantheon? Ma davvero?»
            Il moro lo fissò serio, porgendogli il sacchetto. Per un momento, Emanuel percepì la sua vera essenza, la rabbia repressa di quattromila anni di umiliazione e impotenza, il potere della magia che gli scorreva nelle vene. Gli mancò il fiato.
            «Non avrai una parola di più da me. Ne parliamo domani a scuola.»
            Prese la carne, e si sistemò gli occhiali con un dito, sotto lo sguardo dell’altro.
            «…Già. La scuola. Il luogo adatto per una divinità.» L’atmosfera precipitò drasticamente, e Lucio gli mostrò molto elegantemente il dito medio, aumentando le sue risate.
            «Muoviti ad andare a casa, e non azzardarti a passare davanti all’Hotel di Alejandro! Quel dannato colibrì ha solo una brutta influenza su di te.»
            «Ma ti senti? Sembri mia madre!»
            Emanuel lo salutò, ridendo, oltrepassando la soglia e sparendo nelle strade trafficate di Città del Messico.
 

 
 
Si accomodò su uno dei divanetti color crema che costeggiavano le pareti della caffetteria. Gli interni riprendevano, con paurosa precisione, gli unici due toni che sembravano essere presenti all’interno del locale: verde e beige. Sopra il bancone, la scritta Starbucks campeggiava in grosse lettere lucide di vernice.
            Aprì il Mac, controllò di avere una connessione decente, e poi avviò Skype, aspettando. nella barra dei contatti, Olivia divenne online, e subito una sequela di messaggi fece capolino dalla chat.
 


            Non fece in tempo a leggerli tutti, che la schermata gli si bloccò, rivelando la chiamata della ragazza. Accettò, e si ritrovò davanti due occhi azzurri glaciali e adirati.
            «Bonjour, ma chère.»
            Olivia prese un respiro profondo, nonostante fosse palese quanta voglia avesse di urlargli contro. Si era rifatta la tinta, e i suoi capelli adesso avevano il colore del vino, con riflessi viola scuro.
            «Maximillien.» Sciorinò, enfatizzando il suo nome completo. «Maximillien
            «So come mi chiamo, ma a quanto pare il barista no.»
            Sul suo bicchiere di Caramel Caffè, il ragazzo del bancone aveva scritto con l’indelebile Maximilian, togliendo qualche lettera, e cambiandone qualcun’altra. Però era carino, perciò lo perdonò senza troppe storie.
            «Non sono in vena.» Lo liquidò all’istante la giovane «Hai anche solo la minima idea di che cosa io abbia dovuto passare, per risolvere la tua ennesima bravata?»
            «No…?» Assottigliò lo sguardo, e il suo alter ego digitale, relegato in fondo allo schermo, fece lo stesso. Neanche lui se l’era passata bene, e nonostante avesse deciso di tenere gli occhiali da sole, le lenti sembravano non essere in grado di nascondere le sue occhiaie.
            «Bene, allora lascia che ti racconti di come io abbia passato la notte in bianco. Di come tutti i maghi del nostro Nomo abbiano provato a spegnere l’incendio che tu hai provocato. Di come anche i mortali si siano accorti di noi.»
            Olivia socchiuse gli occhi ad ogni punto, massaggiandosi le tempie con le dita. Ogni suo gesto trasmetteva furia, ma la cosa che davvero lo inquietava era il suo totale controllo. La sua pacatezza era agghiacciante.
            «Erm, Io…Io non lo sapevo…»
            «Certo che no. Sia mai che tu pensi prima alle conseguenze.» Un sospiro esasperato. «Perché mi fai questo, Max? Dammi un buon motivo per non esiliarti, ti prego… Perché io non so più da che parte girarmi.»
             Un silenzio teso calò tra loro. Il rosso si mordicchiò distrattamente un labbro, rigirandosi tra le mani la sua maxi porzione di caffè.
            «Non è stata colpa mia.» Da come Olivia lo guardò, incrociando le braccia e facendo arricciare il bordo della sua canotta, dedusse che non era per nulla credibile.
            «Allora perché sei scappato?»
            «Perché tutti saltano alle conclusioni! Senti, ieri sera, è successo qualcosa.» Si avvicinò leggermente allo schermo, con fare furtivo, quasi avesse paura di essere ascoltato. Si abbassò gli occhiali sul naso, rivelando due occhi grigi e stanchi. «Qualcosa che la Casa non può più ignorare.»
            Olivia non disse nulla, ma girò impercettibilmente la testa per guardarsi attorno.
            «Che cosa hai visto?»
            «Chi ha visto, semmai!» La corresse. «C’era un coccodrillo che se ne andava in giro per Montmartre, era un po’ grosso, ma nulla di che. Stavo per liberarmene quando la gente ha cominciato a fermarsi. E a urlare. Loro hanno visto, nitidamente, quello che è successo. Niente magia ad oscurargli la vista. E poi è successo il panico, con la polizia e i giornalisti: ho lanciato l’incantesimo ma ho perso il controllo, e il fuoco è divampato, come se non fossero quattordici anni che manipolo la magia elementare!»
            «E allora sei fuggito.»
            «Non avevo scelta.» Max alzò le mani in segno di resa. «Avrei solamente peggiorato la situazione. Ho provato ad andarmene, a utilizzare un passaggio nella Duat, e per poco non ci rimanevo secco. Mi sono precipitato in aeroporto e ho preso il primo volo per l’America.»
            «Tutto questo non ha senso…» La ragazza si premette il ponte del naso con le dita, esasperata. La sua bocca si era arricciata in una smorfia sofferente.
            «Ma è così. La nostra magia è stata compromessa, seppur per pochissimo tempo. Stamattina, ho provato con qualche geroglifico elementare, e non è successo nulla di strano. Ma ieri… Ieri mi sono sentito come se fosse stata la prima volta. Ed è stato, francamente, orribile.» Buttò giù una generosa sorsata di caffè, ormai tiepido. Il caramello gli scivolò in gola mischiato al latte, rendendogli la bocca dolciastra. «Devi per forza aver sentito qualcosa, Olivia. Sei l’ospite di Iside, e lei è la dea della magia.»
            Dall’altra parte dello schermo, la ragazza chiuse gli occhi.
            «Se davvero quello che mi dici è vero… La Duat e la nostra magia compromessa… Mi fa malissimo la testa…»
            Si lamentò un poco, e Max capì che non stava più parlando con lui, bensì con la sua parte divina. Qualsiasi cosa le stesse dicendo Iside, comunque, non sembrava per nulla incoraggiante. Aspettò in silenzio che Olivia si riprendesse, tornando a concentrarsi sul suo caffè: si sentiva abbastanza a disagio a vederla in quello stato così delicato, gli sembrava di violare la sua intimità. Alla fine, dopo un sospiro, lei tornò a guardarlo attraverso la webcam.
            «Dove sei adesso, stai bene?» Gli chiese stancamente. Sembrava prosciugata da tutte le energie, e anche i gioielli che indossava, gli orecchini e i piercing, sembravano essersi incupiti sulla sua pelle di cacao.
            «Chicago. Volevo fermarmi a New York , ma poi ho cambiato idea. Immagino che la notizia si sia diffusa in fretta, no?»
            «Sei diventato la nuova Sarah Jacobi. E si, sei ricercato in tutto il mondo, da praticamente tutti i Nomi.»
            Max fischiò in ammirazione, finendo quello che rimaneva della sua bevanda.
            «Non pensavo di avere tutto questo successo!»
            «Smettila di esserne entusiasta. Piuttosto, che cosa farai adesso?»
            «Beh, sai, stavo pensando…» Iniziò vago, roteando una mano davanti lo schermo. «Che, magari, potrei fare un salto a Long Island; dicono che la baia sia molto bella durante questo periodo dell’anno.»
            «No! Max, non puoi essere davvero così stupido!»
            «Sei tu che non capisci!» Questa volta, il ragazzo si era avvicinato così tanto allo schermo, che Olivia riusciva a vedere perfettamente il velo di barba che gli copriva le guance. «Potrebbe non essere solo un nostro problema, ma anche degli altri! La magia è l’unica cosa che ci unisce, e se qualcosa non va… Beh, magari questa volta non possiamo sbrigarcela da soli. E poi, non ho altri posti dove andare, e sinceramente preferirei non essere catturato, esiliato o ammazzato.»
            «Va bene, fa’ come ti pare.» La ragazza si accasciò sulla sedia. «Vedrò cosa posso fare per aiutarti. Ma tu, devi giurarmi che non peggiorerai le cose, in nessun modo possibile. È la tua ultima possibilità.»
            Maximillien le dedicò un sorriso morbido, gli occhi socchiusi in quel modo che trovava davvero irritante.
            «Vous ne le regretterez pas, Olivia.»
           

 
 
Per arrivare al castello di Praga bisognava percorrere una salita ripida, e svegliarsi presto la mattina per non fare troppa fila all’ingresso. Il complesso attorno all’edificio si estendeva per centinaia di metri, inglobando vecchi quartieri medievali, resti del periodo romano e l’immensa cattedrale di San Vito.
            Samuel aveva vagato a testa alta per le navate, cercando di inquadrare le enormi vetrate scintillanti. I colori si alternavano, creando giochi di luce sul pavimento della chiesa che affascinavano i turisti. Nonostante il brusio di sottofondo, l’atmosfera era rilassante.
            Si sentiva in pace con sé stesso. Di fronte all’altare, e le decorazioni d’oro e d’argento sullo sfondo, respirò la grandiosa maestosità di duemila anni di storia. I luoghi cristiani avevano sempre quell’essenza gravosa attorno a loro, a testimoniare una Volontà silente e onnipresente, difficile da figurare: un’eco lontano, indistinto e senza forma, così diverso dalla cruda materialità a cui era abituato.
            Allungò le braccia di lato, in un’imitazione del Crocifisso d’oro tre volte più grande davanti a lui. Alcuni turisti giapponesi trovarono la cosa divertente, e cominciarono a scattargli delle foto.
            Quando uscì era quasi mezzogiorno, e questo implicava la fine della sua visita in solitaria: doveva tornare all’albergo per le due e raggiungere suo padre e sua sorella. Non si ricordava dove dovessero andare quel pomeriggio – forse al campo di concentramento di Theresienstadt – ma gli avevano raccomandato di non fare tardi, perché la corriera aveva orari precisi e la loro guida non poteva sempre bloccare il programma per aspettarlo.
            Ripercorse a ritroso il grande spiazzo davanti alla cattedrale, dove gruppi di turisti stavano ammassati cercando di immortalare la facciata con smartphone e GoPro. Poi, la vide: seduta per terra, in un angolo discreto sotto le mura, c’era una ragazza con un Fedora nero in testa. Si guardava attorno, mischiando con cura un mazzo di carte. Tarocchi di Marsiglia.
            Non seppe resistere; nel giro di qualche secondo si era già diretto verso di lei, attirando l’attenzione delle persone lì attorno, già incuriosite. La ragazza alzò la testa quando lo vide, e Samuel le sorrise.
            «Ahoj!» La salutò in ceco, cercando di mascherare il suo pessimo accento. «Quanto viene un consulto?»
            Lei lo guardò per un attimo, perplessa dal cambio di lingua.
            «Cento corone.»
            Dal marsupio che teneva a tracolla, Samuel tirò fuori due scintillanti monete di metallo e le porse alla ragazza, sedendosi per terra di fronte a lei. La piccola folla attorno a loro si agitò un poco, e una signora tirò fuori il cellulare per immortalare il momento. Probabilmente sembravano una bella coppia; lei con quel cappello troppo grande e lui, la giacca kimono a stampe floreali, i capelli rosa, i jeans strappati e le calze a rete sotto di essi.
            «C’è qualcosa in particolare che vuoi sapere? Le carte possono darti le risposte che cerchi. Amore, amicizia, fortuna… Puoi fare una domanda su qualsiasi argomento.» Gli spiegò, poggiando il mazzo in mezzo a loro. Il retro delle carte era plastificato, con la stampa di una ragazza con in mano un canestro di frutta.
            «Non lo so. Non penso di cercare risposte, piuttosto… Un consiglio.»
            Sì, consiglio era proprio la parola giusta. La ragazza annuì con la testa e divise il mazzo in tre parti uguali.
            «Scegline uno.»
            Samuel indugiò qualche istante, prima di decidersi. Se si concentrava, riusciva a sentire il potere delle carte, la magia che gli scorreva sulle braccia in modo così famigliare da farlo sentire a casa.
            «Questo.» indicò il mazzetto in mezzo. La giovane lettrice scartò gli altri, e con un gesto della mano gli sistemò i tarocchi davanti.
            «Prendi tre carte qualsiasi.» Anche qui, Samuel si prese del tempo per decidere; alla fine una piccola piramide si frappose tra loro due.
            «Ultima scelta, la carta che verrà fuori è quella che maggiormente ti rappresenta.»
            Questa volta non ci pensò: indicò con precisione la carta alla sua sinistra e la ragazza la voltò, rivelando la figura impressa sopra. Una donna dai capelli d’oro e una corona di rose rosa impugnava con eleganza un bastone; di fronte a lei un tavolo con una spada, un bastone, una coppa e un medaglione. Il bordo era decorato da un roseto in fiore e in basso, nonostante la vedesse capovolta, Samuel notò il numero I impresso con l’inchiostro rosso.
            «Il Mago!» Esclamò, riconoscendo immediatamente l’arcano e anticipando la sua lettrice.
            «Sì, esatto.»
            «È una bella carta, mi piace. Che cosa dice?»
            La ragazza se la rigirò tra le mani, osservando prima lui, e poi la figura.
            «Hai un progetto in mente, forse non ancora ben definito, forse ancora da ideare. Ti è costato – o costerà -  tanto impegno e dedizione. Quello che ti posso dire è che, qualsiasi cosa tu voglia fare, falla. Adesso è il momento giusto, hai tutto le condizioni necessarie per partire… Il resto verrà da sé.»
            Le persone attorno a loro bisbigliarono eccitate, e Samuel sorrise alla giovane mentre si alzava.
            «Děkuji moc! Hai un mazzo molto bello, sono le illustrazioni di Mucha, vero?»
            «Proprio così.» Non riuscì comunque ad aggiungere altro perché, prese dall’entusiasmo, altre due signore si erano fatte avanti per una lettura. Il ragazzo si incamminò verso la strada, cedendo il posto.
            Oltrepassò negozi di souvenirs e una vecchia chiesa in restaurazione, mentre le vie si facevano più movimentate: all’angolo della strada, l’odore di pizza di un ristorante italiano impregnò tutta l’aria per almeno una decina di metri, facendogli brontolare lo stomaco.
            Era di buon umore, così sfilò il suo mazzo di tarocchi dal marsupio, prendendo la prima carta, che aveva cominciato a reclamare attenzione da quando aveva elogiato quella di Mucha.
            «Ormai ci siamo.» Annunciò solenne. Il suo, di Mago, era completamente differente; una volpe dagli occhi violetti lo osservava, con le zampe intrecciate e i quattro simboli del suo dominio che spuntavano dagli angoli. La carta vibrò nelle sue dita, e un po’ della sua magia gli solleticò la pelle.
            «Sarà meglio avvertire mamma.»
 

 
 
 
 
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            Abuela: vecchia signora, in modo più confidenziale nonna.
            Chico, Chica: ragazzo, ragazza.
            Jódete!: ‘fanculo!
            Pobre: povero
            Madre de Dios!: esclamazione comune, traducibile con “Madre di Dio!”

 
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            Bonjour, ma chère: buongiorno, mia cara.
            Vous ne le regretterez pas: non te ne pentirai.

 
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            Ahoj: ciao.
            Děkuji moc: grazie mille.
 
 
 
 
  
 
- THE MAGICIAN –

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DIRITTO
            Il mago rende reale ciò che non lo è, manifestando i desideri dal nulla.
            Adesso è il momento di agire, prima che tutti gli sforzi diventino vani. Concentrati, hai un lavoro da portare a termine!
 
ROVESCIO
            Il Mago manipola e oscura la verità. Le sue parole mielate sembrano la speranza nella foschia.
            Diffida dalle menzogne raccontate dalle bocche carismatiche. Non manterranno le loro promesse.

 
 
 
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Ho avuto l’occasione di leggere già qualche storia che trattava il tema dei Tarocchi, qui sul fandom. Ne sono rimasta piacevolmente colpita, così ho deciso di buttarmi anch’io e presentarvi questo progetto, sicuramente ambizioso, ma che spero possa piacervi.
            Da dove iniziare? Innanzitutto, ci tengo a precisare che il mazzo di carte scelto in questa storia – e di cui vi ho messo l’immagine in fondo – proviene dal gioco “The Arcana”; una visual novel disponibile su Playstore e che forse qualcuno di voi conoscerà. Personalmente, non seguo il gioco, ma sono rimasta colpita dal design delle carte, che trovo molto evocativo, e ho deciso di utilizzarlo.
            Parlando della storia in sé, spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto: ho cercato di essere il più precisa possibile nella descrizione dei luoghi, e in generale ho curato molto l’impostazione, perché – ahimè! - sono una precisina senza speranza.
            Ho voluto inserire, come avete potuto notare, personaggi che provengono da realtà differenti: ci sono contesti noti, come i semidei greci e romani, o i maghi egizi; ma anche altri che ho appositamente messo su per questa storia, come i ragazzi aztechi.
            Ed è qui che voglio spiegarvi un pochino meglio la mia idea. Come ben sappiamo, ci sono più divinità di diverse civiltà che abitano il mondo di Zio Rick; perciò ho pensato che sarebbe stato carino scrivere di ragazzi che provengono da Pantheon diversi e che si trovano costretti a collaborare tutti insieme.
            Come già detto, è molto ambiziosa la cosa, e posso capire anche il vostro scetticismo, magari. Ma, del resto, le fanfiction non servono proprio per mettere su carta i nostri desideri di lettori?
            Ovviamente, non posso portare avanti questa cosa da sola. Anzi, potrei farlo, ma che gusto ci sarebbe? Nonostante sia più difficile, preferisco condividere le mie idee, e creare una storia ben fatta e, perché no, in grado anche di appassionare.
            È la prima interattiva che scrivo, ed è anche la prima storia su questo sito, quindi spero che la combinazione mi porti fortuna!
            Chiarito questo, è arrivato quindi il momento delle regole e delle schede!
 
                       ø REGOLE :
 
  1. Chi vuole partecipare, ovviamente, non deve sparire. Non potete di certo abbandonare i vostri amati pargoletti!
  2. Ho bisogno di 16 OCs, perciò non ho una scadenza, le iscrizioni termineranno quando avrò ottenuto la quota necessaria. In ogni caso, avviserò sull’introduzione il numero di posti ancora disponibili.
  3. Potete inviarmi quanti OCs volete, da uno a dieci, siete liberissimi!
  4. Per quanto riguarda la loro discendenza, accetto OCs tradizionali – quindi greci, romani, egizi e anche norreni – senza distinzione, quindi anche i figli dei Tre Pezzi Grossi, oppure di divinità minori. L’importante è che non siano figli di divinità vergini, quali Era, Atena, Artemide e Estia.
  5. Potete creare anche OCs che appartengono ad altri Pantheon, non trattati nelle serie ufficiali. Ci sono tantissimi esempi, come gli Aztechi, le divinità Shintoiste, gli Yoruba. Se fate parte di qualche religione particolare, oppure siete appassionati di mitologia, potete davvero sbizzarrirvi, creare – secondo voi – i legami tra questi dei e i vostri personaggi. Come sapete, infatti, nel caso degli egizi non si parla certo di semidei, ma di ragazzi che ospitano un dio; quindi il rapporto che hanno è differente rispetto a quello a cui siamo abituati con greci, romani e norreni.  
  6. L’età minima che accetto è 16 anni, non di meno.
 
                       ø  COME PARTECIPARE:
 
  1. Lasciare una recensione a questo capitolo, e indicarmi età, sesso, Pantheon di appartenenza e genitore divino/divinità a cui è legato.  Se volete, potete chiedere un flirt o una relazione con uno dei miei personaggi, vedrò di prendere la cosa in considerazione.
  2. Compilate la scheda con i dati del vostro pargoletto e inviatela come messaggio privato. Per evitare fatiche inutili, per favore, nominate il messaggio in questo modo: “ARCANA – [ Inserire Nome e Cognome ].
 
            ø SCHEDA PERSONAGGIO 
 
            NOME E COGNOME:
            SOPRANNOME O DIMINUTIVO: Facoltativo. Ovviamente, per i soprannomi voglio una spiegazione!
            ETÀ E LUOGO DI NASCITA:
            PANTHEON DI APPARTENENZA:
            GENITORE DIVINO O DIVINITÀ A CUI È LEGATO: Inserite, brevemente, anche che tipo di rapporto hanno. (Si conoscono? Si piacciono, si odiano?)
            FAMIGLIA MORTALE: Anche qui la stessa cosa. Mettete fratelli, sorelle, zie, nipoti, tutto quello che volete.
            DESCRIZIONE FISICA: Assolutamente dettagliata, è un ordine! XD (Capelli, occhi, voce, carnagione, corporatura, cicatrici, tatuaggi, segni particolari…)
                       Link immagini: Se volete, potete usare questi spazi per mostrarmi delle foto, e farmi così un’idea più precisa.
             ABBIGLIAMENTO:
                       Link immagini:
            DESCRIZIONE CARATTERIALE: Pregi e difetti, di che indole è, come si comporta di solito o in situazioni di stress…
            CON CHI ANDREBBE D’ACCORDO? :
            CON CHI NON ANDREBBE D’ACCORDO? :
            POTERE ED EVENTUALI ARMI:
                       Link immagini:
            PAURE E DEBOLEZZE:
            TRE COSE CHE AMA:
            TRE COSE CHE ODIA:
            ORIENTAMENTO SESSUALE:
            DISPONIBILE PER UNA RELAZIONE? :
            PARTNER IDEALE:
            DESCRIVILO IN UNA FRASE:
            NOTE: Se volete inserire qualche dettaglio in più, sentitevi liberi di farlo! Potete anche mettere dei link, se ne avete la necessità.
 
 
E adesso, vi lascio con le schede dei miei ragazzi. Attenzione! Lucio, essendo una divinità, NON rientra tra i personaggi effettivi della storia, anche se ho messo la sua scheda <3
            Vi ringrazio per aver letto fino qui, e aver speso un po’ del vostro tempo per me!
 
 

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* NORA HAMILTON *
 
Una ragazza abbastanza scettica, si sente a disagio tra gli estranei.
 
            SESSO: Femmina
            PANTHEON: Romano
            GENITORE DIVINO: Venere
            ETÀ: 17
            OCCHI: Marroni
            CAPELLI: Neri
            SEGNI PARTICOLARI: Incisivi leggermente distanti tra loro
            ORIENTAMENTO: Eterosessuale
            AMA: La fotografia, Tintoretto, i portachiavi di peluches
            ODIA: L’estate, i pomodori crudi, le folle
 
 
* WILLOW ROMERO *
 
Una ragazza sempre positiva e allegra, dai modi pacati.
 
            SESSO: Femmina
            PANTHEON: Romano
            GENITORE DIVINO: Venere
            ETÀ: 17
            OCCHI: Nocciola
            CAPELLI: Biondi
            SEGNI PARTICOLARI: Nessuno
            ORIENTAMENTO: Eterosessuale
            AMA: La moda, i romanzi d’amore, i tatuaggi
            ODIA: I temporali, gli asparagi, il suono delle dita scrocchiate
 
 
* EMANUEL CABRERA *
 
Uno dei ragazzi scelti come Guerrieri del Sole, con un pessimo senso dell’umorismo.
 
            SESSO: Maschio
            PANTHEON: Azteco
            DIVINITÀ PROTETTRICE: Itztlacoliuhqui-Ixquimilli
            ETÀ: 19
            OCCHI: Neri  
            CAPELLI: Biondo scuro
            SEGNI PARTICOLARI: Lentiggini, apparecchio per i denti
            ORIENTAMENTO: Vegetariano (?)
            AMA: I dolci, i giochi di parole, il colore blu
            ODIA: Studiare, i viaggi in treno, la neve
 
 
* LUCIO GARCIA *
 
Una delle divinità minori del Phanteon azteco, molto irascibile e rancoroso.
 
            SESSO: Maschio
            PANTHEON: Azteco
            DOMINI: Giudizio, Gelo, Ossidiana
            ETÀ: 19 (umana)
            OCCHI: Castani
            CAPELLI: Marroni
            SEGNI PARTICOLARI: Cicatrice sulla tempia destra
            ORIENTAMENTO: Indifferente
            AMA: Il cioccolato, l’ossidiana, le iguane
            ODIA: Svegliarsi presto la mattina, i fallimenti, i colibrì
 
 
* MAXIMILLIEN LEROY *
 
Uno degli elementaristi più influenti nel mondo, spesso troppo avventato.
 
            SESSO: Maschio
            PANTHEON: Egizio
            SENTIERO SEGUITO : Nessuno  
            ETÀ: 20
            OCCHI: Grigi
            CAPELLI: Rossi
            SEGNI PARTICOLARI: Piercing al sopracciglio
            ORIENTAMENTO: Bisessuale
            AMA: Il caffè, le serie tv a sfondo medico, i gialli
            ODIA: Le grandi altezze, la menta, gli insetti
 
 
* OLIVIA MOREAU *
 
Una delle maghe più giovani e dotate della storia, una leader naturale.
 
            SESSO: Femmina
            PANTHEON: Egizio
            DIVINITÀ OSPITATA: Iside
            ETÀ: 26
            OCCHI: Azzurri
            CAPELLI: Viola
            SEGNI PARTICOLARI: Piercing al naso e al labbro
            ORIENTAMENTO: Bisessuale
            AMA: I profumi, la frutta, i gioielli in argenti
            ODIA: Il disordine, i cibi troppo speziati, l’arancione
 
 
SAMUEL HUGHES *
 
Un ragazzo eccentrico, perennemente in ritardo.
 
            SESSO: Maschio
            PANTHEON: Greco
            GENITORE DIVINO: ?????
            ETÀ: 18
            OCCHI: Verdi
            CAPELLI: Rosa
            SEGNI PARTICOLARI: Nessuno
            ORIENTAMENTO: Indifferente
            AMA: I negozi di antiquariato, viaggiare, il pane alla cannella
            ODIA: I luoghi poco spaziosi, le medicine, i prepotenti
             
 
 

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Capitolo 2
*** II - THE HIGH PRIESTESS ***


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II
THE HIGH PRIESTESS

 
 
Per andare a scuola, Vittoria era costretta a prendere l’autobus ogni mattina, e giocare d’azzardo con Madre Natura. La fattoria della sua famiglia si trovava in uno dei tanti piccoli villaggi sperduti in mezzo al verde, dove l’odore della foresta Pluviale impregnava l’aria, e la folta vegetazione si mischiava con le stradine di fango e terra battuta.
            Ci voleva circa un’ora di viaggio per arrivare a Campeche, e Vittoria aveva imparato, nel corso degli anni, a usare quel tempo per rilassarsi, recuperare un po’ di sonno, finire i compiti di matematica. Non c’erano molti altri ragazzi a condividere il viaggio con lei, perciò si limitava a sedersi al suo solito posto, rannicchiandosi sul sedile, e starsene per i fatti suoi.
            Quella mattina non fu diversa dalle altre. Pioveva – cosa abbastanza normale, considerando che ormai erano quasi in pieno inverno – e l’autobus continuava ad arrancare lungo la strada, facendole venire la nausea. Si strinse nel suo gaban mentre puntava i piedi sullo schienale del sedile davanti:  tìa Ines aveva insistito fino allo sfinimento affinché lo indossasse; e lei non se l’era sentita di farle notare che, con addosso due canotte e la maglia termica a maniche lunghe, le sarebbe stato comunque impossibile morire di freddo.
            Non era esattamente il genere di indumento che era solita portare, ma l’intreccio le piaceva. Sottili strisce di lana colorata correvano orizzontali su uno sfondo nero, sfumando dal bordeaux scuro al giallo, dal bianco al blu. Sul colletto, tre righe un po’ più spesse richiamavano i colori della sua amata bandiera.
            In effetti, la lana sembrava un rimedio più efficace per restare al caldo, rispetto al polipropilene dei suoi pantaloni da corsa. O, forse, in realtà era solo una sua suggestione; come se il ricordo dei suoi tre piccoli cuginetti intenti a scegliere e separare tra loro i fili da tessere potesse rendere in qualche modo il tessuto ancora più caldo e confortevole.
            Guardò fuori dal finestrino, lasciando scorrere i pensieri allo stesso ritmo della pioggia. Era rilassante non soffermarsi troppo a lungo su quello che la memoria le suggeriva, lo trovava quasi liberatorio.  Ben presto la sua attenzione fu tutta per i campi di mais ai lati della strada, e il cielo plumbeo che si chiudeva sopra di loro.
            L’autobus cigolò in maniera poco rassicurante, le ruote si infossarono in una grande buca piena di acqua e fango, e Vittoria si trovò sbalzata in avanti bruscamente. Aveva fatto scivolare i piedi in basso, ma il colpo le aveva reso comunque le caviglie doloranti.
            «¿Qué demonios está pasando
            Si alzò dal suo posto, dirigendosi verso l’autista che sembrava sull’orlo di una crisi di nervi.
            «Siamo bloccati dall’acqua, non possiamo proseguire. La strada è tutta allagata.»
            «Cosa? Sul serio?»
            Prese un bel respiro per non iniziare a urlare dalla frustrazione. Era la terza volta che succedeva quella settimana, e in realtà non era nulla di così sconvolgente. La stagione delle piogge portava sempre qualche disagio in realtà piccole come la loro, tra strade chiuse o corrente assente.
            «Devo assolutamente andare a scuola, davvero non si può proseguire? Neanche a piedi?»
             L’autista la guardò perplesso, non capendo l’urgenza nella sua voce.
            «Si, ci puoi andare a piedi… Ma sotto questa pioggia? Non so quanto tempo ti ci vorrà, non ne vale la pena.»
            La ragazza alzò gli occhi al cielo, tirando fuori dalla sua sacca di tela una fascia per capelli : ringraziò gli dei di non avere l’ingombro dello zaino almeno per quel giorno, altrimenti sarebbe stato impossibile correre con quello addosso.
            «Ci sono le finali per le gare scolastiche di atletica, non posso mancare!» Spiegò all’uomo, mentre si tirava indietro i lunghi capelli marroni e si preparava a buttarsi in mezzo al diluvio.
            Poteva farcela benissimo. Mancava meno di un chilometro, e se stringeva gli occhi poteva vedere il profilo della città in mezzo a tutta quell’acqua. Più avanti, sarebbe cominciato anche l’asfalto, e il palazzetto dello sport era solo a un centinaio di metri dalla stazione.
            Prese un bel respirò, assaporando gli ultimi istanti di calore, e poi si precipitò giù dall’autobus.
            Fu investita, completamente, dall’acqua. I piedi affondarono nel fango e dopo due passi, Vittoria li sentì totalmente fradici. Corse fiancheggiando la strada quando poteva, facendo attenzione a non scivolare sull’erba. La sacca con le scarpette chiodate le rimbalzava sulla schiena, al ritmo della sua andatura.
            Doveva assolutamente scambiare due parole con Miguel. Fargli capire che il mondo era andato avanti negli ultimi duemila e passa anni; che gli uomini non avevano più bisogno di così tanta acqua. Specialmente la mattina. Specialmente nei giorni in cui c’era la gara che avrebbe segnato la sua carriera sportiva da liceale.
            Svoltò e, una volta finita la curva, si ritrovò sull’ultimo tratto che l’avrebbe portata in città, completamente asfaltato. Erano almeno dieci minuti che continuava a macinare metri su metri, l’acqua adesso gli arrivava ad una spanna sopra le caviglie, rendendo la sua corsa faticosa e potenzialmente pericolosa.
            In alternativa, avrebbe potuto affogare il ragazzo, pensò. Sarebbe andata nella piscina in cui lavorava, e l’avrebbe spinto sul fondo, con tutta la rabbia che stava provando in quel momento. E poco importava che lui fosse il divino Tlaloc, il dio della pioggia: con la bocca tappata, pure lui avrebbe fatto fatica a respirare acqua clorata.
            Arrivò a Campeche un quarto d’ora più tardi, infreddolita, completamente fradicia e senza più un briciolo di energia in corpo. Arrancò sotto le pensiline di autobus e tram, chiedendosi se effettivamente avesse ancora senso presentarsi: anche ammesso che non avrebbero fatto storie sul suo ritardo, non c’erano possibilità che riuscisse a classificarsi tra i primi dieci dello Stato e accedere alla finale.
            Aveva una gran voglia di piangere, tanto era arrabbiata, ma si ricompose in fretta. Ne aveva abbastanza di acqua e liquidi in generale, perciò si fece forza e marciò verso il palazzetto, una costruzione curva dai muri color pastello, come la maggioranza degli edifici in quella città. I colori sembravano un po’ spenti per via del tempo, ma erano ugualmente belli, insieme ai balconi ricchi di vasi e fiori sgargianti.
            Le strade erano deserte, con poche macchine temerarie ad affrontare il maltempo. Il temporale inghiottiva qualsiasi suono, e la città sembrava quasi soffocare sotto i suoi tuoni.
            Imboccò una stradina dai marciapiedi lastricati in marmo, anche se non era la più veloce. Il palazzetto si intravedeva tra i tetti piatti delle case, e Vittoria sperava di ripararsi almeno un po’ passando sotto gli ampi balconi, finendo di strizzare così tanto gli occhi per cercare di mettere a fuoco.
            Riuscì ad arrivare fino a metà, poi si fermò, girando perplessa la testa alla ricerca di un rumore che non era sicura di aver sentito. Sbatté le palpebre.
            Dall’altra parte della strada, in piedi davanti a un condominio azzurro, c’era una mummia.
            Le bende le si erano attaccate al corpo e minacciavano di sciogliersi da un momento all’altro, la pelle che si intravedeva era scura, rugosa e sottilissima. Le orbite erano due incavi scuri, la mascella penzolava molle dal cranio, senza più tendini e muscoli a tenerla in posizione.
            Rimase a guardarla allibita. Pensò di essere impazzita.
            La mummia iniziò a fare qualche passo sbilenco verso di lei, avendo serie difficoltà a rimanere in piedi. Vittoria la guardò, studiandola con gli occhi, completamente impreparata alla situazione. Non sapeva come comportarsi al riguardo; stava ancora metabolizzando il fatto che ci fosse una mummia che vagava sotto la pioggia, neanche si trovasse in uno di quei film americani da quattro soldi.
            La creatura allungò un braccio e le strinse una mano ustionata, facendo scricchiolare le ossa fragili delle sue articolazioni.
            Vittoria urlò e con uno strattone si ritrasse, strappandole via il braccio con una facilità disarmante. La mano scheletrica rimase ancorata al suo polso pochi istanti, prima di sfumare in un sottile strato di sabbia.
            Indietreggiò veloce, cercando di mettere più distanza possibile tra loro due, ma la mummia la seguì con lo sguardo, avanzando più rapidamente verso di lei, la bocca muta spalancata in un grido. Vittoria si sfilò la sacca dalle spalle, frugandoci all’interno ed estraendone il suo coltello militare, preparandosi ad attaccare.
            La pioggia si era fatta più fitta e lei non vedeva davvero niente, i tuoni peggioravano solo il suo mal di testa rendendola incapace di concentrarsi più del dovuto.
            Sferrò un paio di colpi alla cieca, colpendo le bende del torso e dello stomaco; la mummia l’afferrò per il colletto del gaban facendola sbilanciare in avanti, e lei la decapitò goffamente, con un colpo leggermente inclinato della lama. Le ossa si sbriciolarono come cenere, e al loro posto rimase solo un mucchietto di sabbia bagnata.
            Vittoria abbassò lo sguardo su quella macchia ai suoi piedi.
            Le mani le tremavano così violentemente, che il coltello le cadde, rimbalzando sulle pietre del marciapiede. Sentiva ancora la stretta di quelle dita sulla sua pelle, incredibilmente forte nonostante le apparenze suggerissero il contrario. Faceva fatica a respirare ed era abbastanza sicura le stesse per venire un attacco di panico.
            «…Vete de aquí…» Mormorò, chinandosi a raccogliere le sue cose. Parlare a voce alta l’aiutava a distarsi, anche se non si sentiva più il fiato in gola. «¡Vete! ¡Vete!»
            Non osò guardarsi indietro mentre abbandonava di corsa la via.
 
 
 
Emanuel fece scorrere lo sguardo sui suoi libri di scienze, ammucchiati disordinatamente sul pavimento. Quello di citologia non era sopravvissuto alla caduta, spiaccicandosi sul terreno aperto a metà.
            «Se volevi spazio potevi semplicemente spostarli di fianco, sai?»
            «Non li ho buttati io. Sono caduti.»
            Il biondo alzò un sopracciglio per niente convinto.
            Ivory Harper, caschetto platino e vestiti da punk, corso di studi non ben identificato, sedeva come se niente fosse al suo posto, controllando svogliatamente la home di Instagram.
            «Che cosa vuoi? Non dovresti avere lezione, ora?» Bevve un sorso di caffè dal bicchierino che teneva tra le mani. Era nel bel mezzo della mattinata peggiore di tutto il suo orario scolastico, che prevedeva ben quattro ore filate di chimica inorganica. Aveva smesso di prendere appunti dopo la prima, confidando nelle grandi capacità organizzative di Lucio, e adesso aspettava solamente il pranzo.
            «Ho buca.» biascicò la bionda, aggrottando le sopracciglia scure. Si stiracchiò e poi allungò le gambe, incrociando i piedi sulla sedia davanti a lei. «Sto cercando il tuo dio.»
            «Lucio non è il “mio” dio.»
            «Si, vabbè… Protector, amigo, amante… Quello che è, insomma.» Disse, facendo un cenno annoiato con la mano. Emanuel tossì, cercando di evitare di soffocare col caffè.
            «¡No somos amantes!» Dal momento che stava arrossendo, capì lui stesso di non essere molto credibile. La ragazza si limitò a sghignazzare, mettendo via il telefono.
            «Sai dov’è? Gli devo parlare.»
            «Se ne è andato all’inizio della pausa.» Lucio aveva la divina abilità di scomparire quando arrivava il momento delle spiegazioni, e la cosa era così irritante che a volte avrebbe voluto dargli un pugno. Meditò se buttargli i libri per terra come Ivory aveva fatto con i suoi, per ripicca. Magari avrebbe attirato la sua attenzione.
            «Non c’è problema, posso aspettare.»
            «Aspettare cosa?»
            Lucio superò la soglia dell’aula, iniziando a salire gli scalini per arrivare alla loro bancata. Perforò con lo sguardo Ivory, che era ancora stravaccata sulle sedie, avvicinandosi con passo felino.  Aveva la giacca a vento bagnata, segno che aveva avuto il coraggio di correre i cinque metri che separavano il loro edificio dalla segreteria per consegnare le loro iscrizioni agli esami. Eroe.
            «Togli i piedi dalla mia sedia, ragazzina, prima che decida di mandarti nel Mictlan.»
            «Che paura!» Commentò la bionda, ma si premurò all’istante di obbedire. Nonostante apparisse come un normale ragazzo con i capelli un po’ umidi e le Converse consumate, persino lei riusciva a percepire la minaccia nella sua voce. E morire, quella mattina, non era assolutamente nei suoi piani.
            «Che cosa ci fai qui?»
            «Nulla di che… Stanno succedendo delle cose un po’ strane, quindi ho pensato che magari avresti potuto darmi qualche spiegazione.»
            Lucio la guardò, soppesando le sue parole, pensieroso. Poi, come se nulla fosse, si voltò verso Emanuel.
            «Perché i tuoi libri sono a terra?»
            «Ah, quello? Sono caduti.»
            «E poi ti lamenti che sono tutti rovinati!» Lucio rise rubandogli il bicchiere di plastica e finendo il caffè per lui.
            «Io non mi lamento.» Sottolineò l’altro, spingendosi gli occhiali sul naso «Però hai visto come cade a pezzi il mio libro di veterinaria? Ed era solo di seconda mano!»
            Ivory tossì seccata. «Quando l’avrete finita di comportarvi come una vecchia coppietta sposata, magari potreste anche prestarmi attenzione.»
Si morse le labbra, evitando di aggiungere altro: era stata lei, in fondo, a cercarsela, e se voleva ottenere anche uno straccio di risposta avrebbe dovuto fare buon viso a cattivo gioco.
            Anche se la tentazione di dare un calcio al moro era fortissima.
            «Non ho nulla da dirti, ragazzina.» Lucio le rise in faccia, sprezzante, spostandosi i capelli dal viso. Erano così lunghi che gli sfioravano i fianchi.
            «Invece sì.» Insistette. «Avevo un seminario sulla cultura egizia stamattina, programmato da due settimane, con conferenza al Museo Nazionale. E oggi, senza preavviso, ci dicono che l’hanno annullato perché alcuni reperti sono stati rubati.»
            «Quando si dice il karma…»
            «Non scherzare, non sono stupida.» Ivory assottigliò gli occhi grigi, facendo indurire lo sguardo con freddezza. Le occhiaie sembravano quasi più scure sul suo incarnato cadaverico. «Un furto che ha colpito esclusivamente la mostra egizia. Certo. E tutte le centinaia di reperti sulla nostra cultura, sul nostro pantheon, nemmeno sfiorati. Davvero credibile.»
            «A volte anche le cose più incredibili possono succedere.» La liquidò il ragazzo, alzando un sopracciglio e intimandole velatamente di andarsene. Ivory schioccò la lingua, decisa più che mai a capirci almeno qualcosa.
            «Quindi sta succedendo davvero qualcosa! Quanto è grave la situazione? Chi è coinvolto?»
            Emanuel si intromise nella discussione, diventando all’istante un alleato perfetto. Ad Ivory non sfuggì lo scatto della mascella di Lucio, che si serrò appena quando l’altro lo scosse leggermente per una spalla, invadendo il suo spazio personale. Anche così, comunque, il dio sembrava più scettico che a disagio.
            «Nessuno di noi sa ancora niente di preciso. Siamo divinità, è vero, ma mica sempre onniscienti.» Fu l’unico momento in cui piegò la testa verso di lei. «Sembra esserci stato qualche problema con la magia. I maghi egiziani hanno avuto difficoltà con i portali per qualche ora, ma non abbiamo idea se questo sia un problema esclusivamente loro, o se possa in qualche modo riguardare anche noi. Mordecai ci ha chiesto di non farvene parola fino a che non fossimo stati sicuri di qualcosa.»
            «Come fa a esserci un problema con la magia? Cioè, è assurdo…»
            «Ah, chica, eppure è così. Spera che sia una cosa passeggera, perché un mondo senza magia – nessuna forma di magia – sarebbe il delirio. Collasserebbe su se stesso. Addio umanità e addio divinità.»
            Probabilmente, Lucio riusciva a parlare così tranquillamente di un’ipotetica apocalisse perché era stato testimone e partecipe di altre quattro prima di allora. Una in più o una in meno non faceva differenza.
            «Mi stai facendo salire il panico. Così, giusto per avvertirti.» Gli fece presente Emanuel, e il moro rise, dandogli una pacca sul braccio.
            «Non ci pensare adesso, è troppo presto. E poi, figurati se Mordecai ci permette di far finire il mondo un’altra volta. Si è rotto le palle di dover sempre raccogliere i cocci e ricreare l’umanità da zero.»
            «Oh, certo, questo si che è confortante!» Replicò il biondo, imbronciandosi.
            «Spero sarai soddisfatta ora.» Ivory batté gli occhi rendendosi conto di essere stata presa in causa. Lucio la stava fissando.
            «Non erano esattamente le cose che volevo sentirmi dire, ma si. Grazie mille! Ora credo proprio che me ne andrò… Che cosa avete adesso?»
            «Biochimica.»
            «Che schifo! Adiós!»
            Si alzò in fretta sistemandosi il giacchetto bianco, non intenzionata a passare un altro minuto in quell’aula.
            Quello che aveva scoperto non la entusiasmava per niente, eppure era sicura ci fosse ancora qualcosa. Di solito non si sarebbe mai incaponita, avrebbe lasciato correre e sarebbe tornata alla sua routine quotidiana. Il punto era che adesso, forse, una routine quotidiana da rispettare non ce l’avrebbe più avuta.  Ed era intenzionata a scoprire chi, o che cosa, aveva intenzione di rovinargliela.
 
 
 
Il primo sintomo che qualcosa non andava fu il Museo Nazionale di Antropologia chiuso.
            Eve aveva guardato sconcertata il giornale, quella mattina, leggendo il titolo che occupava metà della copertina.
 
FURTO AL MUSEO NAZIONALE DI ANTROPOLOGIA
SCOMPARSI REPERTI PER OLTRE MEZZO MILIONE DI DOLLARI
 
            I vari articoli non facevano che ripetere la stessa storia, tessendo congetture e ricostruzioni che le avevano fatto storcere il naso. Era molto scettica, e non pensava che i giornalisti fossero stati completamente sinceri sulle dinamiche. La cosa che l’aveva lasciata perplessa, comunque, era il fatto che solo la mostra egizia fosse stata depredata e devastata: in confronto ai quattro piani e un cortile sterminato, pieno di reperti delle antiche civiltà Mesoamericane, quelle quattro mummie rattrappite circondate da statue di terracotta, vasi e papiri non erano poi molto. Mezzo milione non era nulla.
            Scorrendo tra le righe, poi, si era imbattuta in una dichiarazione del direttore del museo.
 
“Siamo sinceramente scioccati dall’accaduto, nessuno pensava sarebbe mai potuto succedere. Avevamo preso ogni precauzione possibile, ogni sicurezza di cui potevamo disporre è stata impiegata. Purtroppo si è rivelato tutto inutile, ma stiamo collaborando appieno con la polizia, in modo che si riesca a risolvere la questione al più presto.  L’unico rammarico, è quello di dover chiudere al pubblico una così bella mostra. Dubito avremmo di nuovo questo privilegio, ma ringraziamo il Cairo per averci dato questa possibilità.”
 
            A quel punto aveva deciso di boicottare la sua mattinata di lezione, era uscita dal bar e si era diretta verso il museo, determinata a parlare con Felipe.
            La struttura si trovava proprio al centro della città, nel bosco di Chapultepec. Per arrivarci fu costretta a prendere l’autobus, per poi camminare all’interno del parco, fino all’ingresso.
            Sembrava di essere tornati indietro nel tempo di duemila anni: la vegetazione cresceva spontanea, e un sentiero ben curato si snodava attraverso il bosco, aggirando parco giochi, teatri e addirittura uno zoo. Ruderi di quelli che un tempo erano stati edifici aztechi spuntavano ai bordi della strada, e il castello di Chapultepec si intravedeva sulla cima dell’omonimo monte.
            Quel posto era l’orgoglio del Messico, e il museo il suo più importante trofeo: Eve sapeva quanto impegno e dedizione Felipe avesse messo nella sua gestione, e dopo quanto aveva letto, un po’ si era preoccupata. Aveva passato la grande statua di Tlaloc e si era diretta verso il portico e le porte a vetri della struttura.
            Non sembrava per nulla il luogo di un furto milionario. Non c’erano volanti, né poliziotti, né giornalisti. Una calma pacifica regnava indisturbata, e gli unici rumori che aveva sentito erano quelli delle rane.
            Si era avvicina, ma solo quando si era ritrovata davanti alle porte, si era resa conto che il posto non sembrava poi così deserto: un paio di ragazzi l’avevano vista ed erano corsi dentro, sgambettando agitati. Portavano tuniche grezze e bianche, che cozzavano con le Nike colorate che avevano ai piedi. Gli occhi erano contornati da trucco scuro.
            Aveva deciso di lasciar perdere quella bizzarria almeno per il momento, ed era entrata. L’atrio era enorme, si snodava in tutte le direzioni riprendendo la pavimentazione esterna. Alte colonne di cemento reggevano il soffitto, le pareti erano costellate di enormi vetrate che davano sul giardino, e la biglietteria seguiva il profilo curvo della sala.  Quella non era certo la prima volta che ci andava, eppure Eve non aveva potuto fare a meno di restarne affascinata. L’eleganza degli interni rifletteva quella del proprietario, in  fin dei conti.
            La mostra egizia si trovava al piano terra, in una saletta appartata che sarebbe stato impossibile notare senza le giuste indicazioni. Era riuscita a fare solo un paio di passi però, prima di trovarsi placcata dai ragazzi di prima. Il gruppetto, che contava un elemento in più che apriva la fila, le era venuto incontro con una violenza malcelata nei passi e nelle espressioni.
            «Il museo è chiuso al pubblico al momento.»
            Il ragazzo l’aveva guardava assottigliando i piccoli occhi scuri, che quasi sembravano sparire dietro le lenti degli occhiali sottili. Era alto, almeno due spanne più di lei, con una zazzera di capelli scuri e la pelle abbronzata.
            «Lo so. Cercavo il direttore.»
            Il ragazzo aveva stretto leggermente le labbra, e i due dietro di lui si erano agitati sul posto, non sapendo cosa fare.
            «Il signor Berna è occupato al momento, sta aiutando con i rilievi.»
            «Posso aspettare.» Aveva alzato lo sguardo e si erano fissati con astio per secondi interminabili. Quel tipo non l’aveva per nulla convinta, a partire dalla tunica che anche lui indossava, abbinata a un paio di orrende infradito marroni, che lei avrebbe bruciato senza pensarci due volte.
            «Temo che ci vorrà molto tempo, forse ore.»
            «Non ho fretta.»
            Il moro si era trattenuto dall’urlarle in faccia, ma il loro battibecco aveva richiamato l’attenzione di un nutrito gruppetto di persone, che si erano sporte dall’ingresso della sala curiose. Avevano tutte lo stesso abbigliamento, e la cosa l’aveva turbata.
            «Non può restare qui. Se ne vada.»
             Ed Eve se ne era andata, furiosa, ma non prima di averlo spinto con una certa cattiveria. Aveva sprecato un’intera mattinata solo per essere cacciata da un luogo che conosceva come le sue tasche.
            Arrivata a casa, la prima cosa che aveva fatto era stata maledire quel damerino con un pessimo abbigliamento, poi aveva messo a bollire il caffè e si era accasciata stremata sul tavolo della cucina. Alla fine non era neanche riuscita a vederlo, Felipe.
            «Che schifo. E devo anche studiare.»
            La moka fischiò richiamandola, e la ragazza si trascinò ai fornelli, spense il fuoco e cominciò a versare il liquido in una sequenza di gesti meccanici.
            «Ah, mi hai preparato il caffè, che dolce! Ne avevo proprio bisogno.»
            L’uomo che aveva parlato trascinò una delle sedie, sistemandosi e puntando un gomito sulla tovaglia di plastica colorata. Eve si voltò, e per poco non si scottò dalla sorpresa.
            «Felipe!» Esclamò. Era comparso dal nulla, e nonostante non fosse una cosa così stupefacente per un dio, lo aveva visto farlo davvero poche volte per abituarcisi. «È tutta la mattina che ti cerco!»
            «Lo so.» Le sorrise divertito, incrociando le gambe. «Hai fatto un bel trambusto in atrio, ma sei scappata prima che potessi anche solo affacciarmi alla porta.»
            «Lascia perdere, piuttosto si può sapere che cosa ci facevano quei tizi lì?»
            Gli porse la tazzina e si sedette accanto a lui, cercando di nascondere la sua impazienza. Il dio sorseggiò con calma la bevanda, tastando sulla lingua il gusto amaro del caffè. Non aveva toccato lo zucchero, come se lo considerasse qualcosa di sacrilego e totalmente inutile.
            «Sono venuti in rappresentanza dal Cairo. Hanno dato un’occhiata ai danni, fatto l’inventario dei reperti…»
            Eve socchiuse gli occhi. «Sembri esausto.»
            «Odio le pratiche burocratiche: ho dovuto ripetere le stesse cose cinque volte, in tre lingue diverse.» Si massaggiò una tempia con le dita, fissando assorto la sua tazzina. Aveva i capelli stretti in treccine sottilissime, ormate da perline, piccole pietre e piume rosse all’estremità. I pantaloncini color cachi gli sfioravano le ginocchia, lasciando scoperta una protesi in carbonio blu elettrico.
            «C’è stato davvero un furto?»
            «Mia cara, metà mostra è davvero sparita…» Le rivolse un sorrisetto, confermando la piega che le sue intuizioni stavano prendendo. «In che modo, non lo so. Ma è inutile preoccuparsi tanto al momento.»
            Ci fu un attimo di silenzio, in cui entrambi si concentrarono a finire di bere. Felipe sospirò e poggiò con cura la tazzina sul tavolo, passando le dita sul bordo.
            «Ho incontrato un mio vecchio amico, sai? Erano secoli che non ci vedevamo.»
            «Letteralmente o in senso figurato?»
            L’uomo rise «Ti sembro uno che parla per metafore?»
            «No, quello è Mordecai.» Risero e il moro sembrò apprezzare la battuta.
            «Ah, non sta bene parlare alle spalle degli assenti. Già il mio caro fratellino è uno sfigato cronico, non serve che glielo ricordiamo. La cosa è già palese da sé.»
            Eve sghignazzò e si augurò che il povero Quetzalccoatl non fosse nei paraggi.
            «Quindi hai saltato lezione questa mattina? Come sei messa con gli esami?»
            «Devo darne due ma non sono troppo impegnativi.» Da un certo punto di vista era toccante l’interesse che le stava dimostrando, ma l’occhiata che le dedicò faceva presuppore altro.
            «Continua a studiare, mi raccomando.» Un sorriso furbo. «El hombre hace la cultura y la cultura hace el hombre
 
 
 
Diana si sporse curiosa oltre l’uscio della sala, per vedere che cosa stava succedendo.  Jacob stava discutendo con una ragazzetta dai folti capelli scuri e felpa oversize bordata di pizzo. Era troppo distante per capire che cosa si stessero dicendo, ma il silenzio della sala era un ottimo conduttore, perciò riuscì a carpire gran parte della conversazione.
            «Il signor Bernal è occupato al momento, sta aiutando con i rilievi.»
            «Posso aspettare.»
            La ragazza mora era molto determinata a restare, e Diana riusciva a percepire la stizza di Jacob anche da lì. Sembrava una semplice mortale – non aveva certo l’aria da maga – e assomigliava vagamente al direttore del museo, con quell’aria sofisticata e gli zigomi alti. Forse era sua figlia.
            Il battibecco richiamò l’attenzione degli altri maghi del Nomo messicano, che si affacciarono per seguire, formando una piccola folla di curiosi.
            «Che succede, nana?»
            Diana non alzò nemmeno lo sguardo, sentendo un braccio poggiarsi sulla sua testa, dando al suo proprietario un valido appoggio. In realtà non era neanche così bassa, ma Richard era una pertica in confronto a lei.
            «Non lo so. C’è una ragazza che vuole parlare con il direttore.»
            «Ah, ma perché, questo posto è pure diretto da qualcuno?»
            «Il signor Bernal è andato nel suo ufficio giusto due minuti prima che arrivassi tu.»
            Il ragazzo schioccò la lingua in assenso, decidendo che era un ottimo pomello e che avrebbe potuto benissimo schiacciarla col suo peso. Diana sbuffò e scivolò in avanti.
            Richard era il ragazzo più spocchioso e tatuato che avesse mai conosciuto in tutta la sua breve vita. Era arrivato in ritardo utilizzando un portale, infischiandosene bellamente delle restrizioni che la Casa della Vita aveva emanato nelle ultime ore; non si era cambiato, rimanendo in canotta e jeans vertiginosamente strappati, e aveva distrutto almeno una decina di shabti perché non aveva voglia di finire la sua parte di inventario.
            Dovunque andasse seminava caos, panico, e un sacco di altre situazioni davvero imbarazzanti; cosa più che comprensibile visto chi ospitava: probabilmente Seth era rimasto affascinato dalla bravura di Richard nel bruciare le formiche con la lente d’ingrandimento, quando era solo un bambino.
            Il dialogo in mezzo all’atrio stava degenerando. La ragazza dedicò un’occhiata assassina a Jacob, lo spinse facendolo barcollare all’indietro e girò i tacchi, rivelando lo scollo vertiginoso della sua felpa, coperto da un sottile strato di pizzo.
            Jacob tornò indietro, serrando la mascella in un vago tentativo di sbollire la rabbia: gli bastò uno sguardo e tutti i maghi si dispersero nella sala, riprendendo l’inventario e l’analisi delle dinamiche.
            Tutti tranne Richard.
            «Ah, avrei davvero pagato per una rissa! Scommetto che la tipa ti avrebbe steso all’istante.»
            Il moro lo ignorò, lasciando che le sue provocazioni cascassero a vuoto. Era lì in veste ufficiale, Olivia gli aveva affidato la missione e lui non aveva nessuna intenzione di farsi mettere i piedi in testa da un egocentrico teppista di strada.
            «Pensavo che le regole sull’uso di oggetti magici fossero chiare, Chasseur.»
            «Sei arrabbiato con me, visto che mi chiami per cognome?»
            «Farò il rapporto delle tue azioni alla signorina Moreau.»
            «Oh, corri da Olivia a raccontarle che ho fatto il bambino cattivo?»
            Richard si piazzò davanti a Jacob, infossando le mani nelle tasche posteriori dei suoi jeans. Era parecchio divertito, e gli occhi verdi luccicavano di malizia e cattiveria.
            «Smettila.» Sillabò l’altro. «Abbiamo già abbastanza problemi, e se non ti rendi utile, allora puoi anche andartene.»
            Sentiva un gran mal di testa montargli da dietro le orecchie, perforandogli le meningi. Di solito non si comportava così, anzi. Si considerava un ragazzo abbastanza insicuro su molti fronti, ma Richard non riusciva proprio a sopportarlo, gli faceva venire il sangue alla testa.
            «Oh, ma io sono utile!» Il biondo si portò una mano al petto, fintamente sorpreso per le sue parole. «Ma visto l’alta considerazione che hai di me… Non so… Probabilmente non ti interessa sapere nulla di quello che ho scoperto…»
            Schifosamente drammatico. Jacob storse le labbra; non aveva nessuna intenzione di cedere.
            «Se sai qualcosa, parla!»
            Il mago si esibì in un perfetto sorriso derisorio, prima di rispondere con tutta la calma del mondo: «No.»
            «Ha trovato l’ultima mummia, è stata avvistata nei pressi di… Campeche? O qualcosa del genere. I maghi della zona hanno trovato un mucchio di sabbia e diversi segni di colluttazione, e adesso stanno indagando per vedere che cosa è successo.»
            Diana risolse la faccenda rivelando quello che aveva ascoltato all’inizio, quando Richard era riemerso dal vortice di sabbia. Stava esaminando con cura una raffigurazione su papiro di Anubi, ma anche di spalle sentì lo sguardo gelido del biondo perforargli schiena e spina dorsale.
            «Non sei per nulla divertente, nana.»
            «Dove cavolo si trova Campeche?» Chiese invece Jacob, riportando l’attenzione sulla questione della mummia. A causa di qualche scompenso magico, i reperti della mostra avevano preso vita da soli la notte precedente, e si erano volatilizzati senza lasciare traccia.
            «Solo a quindici ore di macchina da qui. Se guidi senza rispettare i limiti, puoi scendere a dieci.»
            Il direttore del museo gli sorrise, mentre incedeva nella stanza, tra le mani un grosso raccoglitore in plastica. Jacob sbiancò, e biascicò qualche parola per rimediare alla sua avventatezza: non aveva idea di quanto quell’uomo avesse sentito, e ricevere altre attenzioni dai mortali non era assolutamente necessario.
            Incredibilmente, fu Richard a salvare la situazione, diventando un ottimo diversivo.
            «Oh, un volto nuovo. Non ci siamo visti prima, mi pare.»
            «Sono arrivato solo da qualche minuto, per fare il punto della situazione con i miei colleghi.»
            «Capisco perfettamente. Beh, penso le abbiano parlato di me, ma mi presento lo stesso: Felipe Bernal, direttore del museo. Purtroppo non ho molto tempo da dedicarle, ma faccia come se fosse a casa sua.»
            L’uomo lo guardò, scivolando con gli occhi verdi sopra i suoi tatuaggi. Indugiò qualche istante sulla sua gola, e i due grandi geroglifici che si era impresso con l’inchiostro. Ebbe la sgradevole sensazione che sapesse leggerli benissimo.
            Prima che potesse rispondergli una risata gli esplose in testa. Assordante, roca, ed estremamente divertita.
            “Non ci credo! Ma guardalo!” Seth prese un bel respiro. “Direttore di un museo! La carogna!”
            “Di che cazzo stai parlando?” Richard si ritrovò a urlare nei suoi stessi pensieri – cosa che non avrebbe mai pensato di fare – ma Seth non lo calcolò minimamente. Rise ancora, biascicando altro e poi la sua voce svanì così come era arrivata. Il direttore del museo allungò le labbra in un sorriso, come se avesse sentito la voce del dio. Cosa impossibile.
            «Sì… certamente.» Risposte, ancora frastornato. Le orecchie gli fischiavano.
            «Signor Bernal, è il catalogo delle esposizioni quello?»
            Diana si fece avanti ancora una volta, salvando la situazione, indicando il raccoglitore.
            «Certo mia cara. Non so a cosa possa servirvi, ma l’ho portato come mi avete chiesto.»
            «Perfetto! Ci è stato davvero di grande aiuto.» Recuperò l’oggetto e lo maneggiò con estrema cura. «A proposito, prima è venuta una ragazza che la stava cercando. Un pochino più alta di me, capelli color cioccolato lunghi più o meno fino a qui.» Si sfiorò la schiena con una mano. «Ha presente?»
            L’uomo si illuminò, alzando entrambe le sopracciglia. «Eve? È passata di qua?»
            «Sì. È sua figlia per caso? Vi somigliate un po’.»
            Felipe batté gli occhi confuso, ma poi le sorrise. «Sì, è mia figlia.» La cosa sembrava divertirlo. «Allora meglio che vada. Se avete bisogno di altro, il mio ufficio è alla fine del corridoio al terzo piano.» E detto questo sparì, lasciandoli soli.
            «Beh, è simpatico alla fine.»
            «È fottutamente inquietante, invece.»
            «Basta. L’importante è che non sospetti nulla.» Jacob sospirò. Si sentiva vecchissimo. «Diamoci una mossa, e rimettiamo a posto questo casino.»
 
 




 


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- SPAGNOLO -
 
            Adiós: addio
            Amante: amante
            Amigo: amico, compagno
            El hombre hace la cultura y la cultura hace el hombre: L’uomo fa la cultura e la cultura fa l’uomo
            Gaban: il nome comune in cui viene chiamato il poncho
            No somos amantes!: non siamo amanti!
            Protector: protettore    
            Qué demonios está pasando?: che diavolo sta succedendo?
            Tìa: zia
            Vete/ Vete de aquí!: via/ via da qui!
           
 
           



- THE HIGH PRIESTESS - 

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DIRITTO

           La Papessa è custode delle porte del mistero, offre segreti arcani ai suoi iniziati.
            Ascolta i tuoi sogni; lascia che l’intuizione ti guidi. Tutto sarà rivelato nel tempo.

ROVESCIO 
            La Papessa si frappone tra te e il tuo io interiore, bloccando la via da seguire.
            Stai attento a perdere il contatto con la tua intuizione. Non chiudere la tua mente ai misteri del mondo.
              








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21 recensioni.  Credo sia doveroso partire da questo.
            Grazie, grazie mille a tutti voi che mi avete mostrato il vostro sostegno, che avete speso tempo a leggere quello che ho scritto, che mi avete fatto sentire apprezzata!
            Ho scelto con molta cura gli Ocs partecipanti, ho preso tempo per valutare ogni singola scheda che mi avete mandato, ho selezionato in modo tale da avere un equilibrio tra tutti i pantheon e tra maschi e femmine.  Non è stato facile. Più di una volta sono stata combattuta, e alla fine sono arrivata alla conclusione che, non per forza, sono costretta a scartare tutti quelli che non vengono scelti.
            Vedete, i protagonisti ricoprono un ruolo centrale, e a ognuno di loro è stata assegnata una carta degli Arcani maggiori. Ogni carta rappresenta un archetipo, perciò i personaggi devono avere determinate qualità. Molti Ocs erano sviluppati magnificamente, ma mancavano di quegli elementi, per questo non sono stati scelti. Altri non si sposavano bene, a livello di carattere e bilanciamento, a quelli già scelti, e muoverli mi sarebbe risultato ostico.
            Perciò ho deciso di utilizzare tutti gli Ocs non selezionati come figure secondarie. Pratica abbastanza comune, lo so, ma voglio farvi capire qual è il mio concetto di “personaggio secondario”: prendiamo Nico, per esempio. Lui non fa parte dei sette della profezia, eppure ha un ruolo determinante nella storia, inoltre non credo proprio che sia un personaggio piatto, vero? Ecco, io voglio sviluppare i personaggi così, in modo che ci sia una differenza tra i protagonisti, ma non per questo vengano soltanto menzionati e fatti apparire di sfuggita per far contento qualcuno.
            In realtà, vi ho messo la prova di questo, proprio nel capitolo! Jacob, che appare nella parte finale, NON È STATO SCELTO COME PROTAGONISTA. Non è legato a nessuna carta, non partirà in giro per il mondo, nulla. Però è un personaggio di supporto. Sia per Olivia che per il primo Nomo. Quello che può fare rispetto a Richard o Diana è limitato, certo, ma non per questo meno importante.
            Fatta questa lunga precisazione, vi pregherei di inviarmi le schede che ancora, per un motivo o per un altro, non siete riusciti a mandare. Ne mancano 9, ma su ben 53 direi che è un ottimo risultato!
            Passando al capitolo, è da ieri che ci lavoro su, perciò se notate qualche errore o incongruenza avvisatemi, probabilmente domani revisionerò con calma. Ci tenevo a farvelo leggere insomma!
            Spero vi piaccia, che vi piacciano i vari personaggi e le varie scene. Ho pensato sarebbe stato carino fare una progressione dagli aztechi agli egizi, in modo da riuscire a presentare tutti. A grande richiesta sono tornati Lucio e Manu, che credo diano più omogeneità riprendendo lo scorso capitolo, con qualche altro dio! Nel prossimo capitolo presenterò greci e romani, e nell’ultimo i norreni e i restanti ragazzi di vari pantheon dislocati un po’ in giro.
            L’introduzione di questa storia durerà fino al capitolo V. Dall’ I al IV ci saranno appunto le presentazioni, il V invece sarà dedicato esclusivamente agli dei, così potrò spendere qualche parolina in più su di loro! Dal VI in poi, i capitoli saranno un pochino più corti e divisi in più parti distinte in modo da avere ben presenti le azioni dei personaggi. In tutto ci saranno 22 capitoli!
            Perciò eccoci qui, le schede dei personaggi le sistemerò domani mattina, per adesso godetevi il capitolo e fatemi sapere se vi è piaciuto!
 
Un bacio, e grazie davvero!
Itzi

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Capitolo 3
*** III - THE EMPRESS ***


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III
THE EMPRESS
 
 
Quella mattina Callum, diciassette anni di vita da un po’ di mesi, era arrivato alla conclusione che il Ritalin non gli serviva a nulla se non fargli marcire il fegato. Secondo il foglietto illustrativo – e le rassicurazioni del suo medico – quelle pasticchette grandi come tic-tac avrebbero dovuto attenuare la sua narcolessia, stimolare il suo sistema nervoso centrale, e già che c’erano dare anche una mano per l’ ADHD.
            Il problema era che, qualsiasi fosse stato il principio attivo presente lì dentro, non funzionava. Si era rotto un braccio la settimana scorsa, perché mentre era in groppa a un pegaso si era addormentato, precipitando nel vuoto per tre lunghissimi secondi. Durante le lezioni di spada, a volte, non riusciva a tenere gli occhi aperti finendo per farsi colpire e riempire di lividi così grossi che neanche l’ambrosia riusciva a far sparire subito. E anche quella mattina si era ritrovato con il bacon spiaccicato sulla faccia, mentre si rialzava ancora confuso dopo il suo ultimo attacco di sonno. Non era rimasto quasi più nessuno, e le arpie stavano già facendo pulizia ingurgitando i resti del pasto. La guancia gli era rimasta unta per almeno mezza giornata.
            Preso dallo sconforto, una volta ritornato in cabina, aveva afferrato la confezione mandando giù una decina di pillole, una dopo l’altra. Una parte del suo cervello, in un minimo momento di lucidità, gli ricordò che forse morire di overdose non era esattamente un gesto eroico degno di lui. Poi l’avventatezza ebbe la meglio – del resto era dislessico e iperattivo, non poteva mica prestare troppa attenzione a un pensiero come quello -  e Callum si era ritrovato a trascinare i piedi sul vialetto che conduceva al campo delle canoe, lo stomaco pieno di medicine.
            La mattinata era passata pigramente, nonostante l’agitazione generale per la Caccia alla Bandiera di quella sera: nessuno era stato davvero attento, e un gran numero di semidei era intento a confabulare tra loro, stringendo alleanze e discutendo ipotetici piani di battaglia. La casa di Ares si era divertita a terrorizzare il suo vicinato sfoggiando un nuovo carro da guerra rosso cupo con i cerchioni di metallo e degli speroni grandi quanto una mano, affilati e lucenti.
            «Quella cosa è la tamarrata più orrenda che io abbia visto in tutta la mia vita.» Aveva bisbigliato una figlia di Afrodite, scrutando il carro con gli occhi socchiusi.
            «Hai ragione sorellina, è semplicemente inguardabile. Spuntoni così non c’erano nemmeno ai tempi del Punk 77.»
            «Ah! Sempre a lamentarvi voi, dolcezze, vediamo se sarete così anche stasera!»
            Lorina Caeli, della casa di Eris, era balzata tra i due dopo aver corso tra i campi di basket, in un turbinio di capelli castani e fasce svolazzanti. Teneva una spada al fianco, legata blandamente alla sua cintura.
            «Chirone non autorizzerà mai l’uso di quella roba per la Caccia alla Bandiera.»
            «Peccato l’abbia già fatto.» Lorina aveva sogghignato, già entusiasta all’idea. «Quindi a dopo. Ah, comunque, bei pantaloni Jennifer!» Aveva aggiunto prima di andarsene, tirando una pacca nemmeno troppo discreta sul sedere dell’altra, che era sobbalzata con un urletto.
            Callum l’aveva guardata prima di incrociare il suo sguardo; la mora aveva inarcato le sopracciglia in un gesto eloquente e poi si era dileguata, probabilmente per andare a importunare qualcun altro. Amava troppo Lorina, quella ragazza lo faceva scassare, e poi era l’unica che fomentava il suo incessante bisogno di essere al centro dell’attenzione. Di solito se ne andava in giro con una benda su un occhio e un mantello rosso davvero scenico, urlando al mondo quanto fosse forte e fiera e pronta a squartare qualsiasi cosa si fosse messa in mezzo al suo cammino. Formavano la coppia di semidei più melodrammatica e teatrale di sempre, probabilmente al pari del divino Apollo e del divino Hermes nelle sue giornate migliori.
            I problemi erano arrivati all’ora di pranzo. Callum si era disposto al suo posto, tra la fila della casa di Hypno e quella di Ecate, mantenendosi a una certa distanza essendo l’unico rappresentante della sua Cabina. I figli di Fobetore non erano tantissimi – giusto un paio, e tutti più piccoli di lui – ma durante l’inverno rimaneva da solo, cosa abbastanza deprimente di per sé.
            «È mai possibile che dobbiamo sempre aspettare mezz’ora prima di entrare, anche quando siamo così pochi?»
            Dietro di lui, Maria aveva sbuffato appena, ondeggiando da un piede all’altro. Avevano fatto qualche passo in avanti, mentre la casa di Ermes si sistemava nel padiglione, e poi era semplicemente collassato, sotto lo sguardo attonito dei presenti.
   
            «Tu sei davvero un deficiente.»
            La ragazza che era china su di lui socchiuse gli occhi, aspettando probabilmente una qualche risposta da parte sua. Aveva provato a legarsi i capelli neri in un codino, ma essendo troppo corti, continuavano a sfuggire dall’elastico, incorniciandole il viso tondo.
            «Maria?»
            La guardò in faccia perplesso, faceva fatica persino a mettere a fuoco quello che aveva davanti al naso. Si sfregò gli occhi con i palmi, reprimendo uno sbadiglio. La schiena gli faceva malissimo.
            «Che ci fai qui?»
            «Cosa ci faccio qui? Mi sei svenuto davanti agli occhi prima di pranzo, senza preavviso. Pensavo avessi avuto un altro attacco di narcolessia, ma non ti muovevi. Tobias era sicuro stessi avendo una crisi epilettica. »
            Infossò le mani nelle tasche della felpa e alzò le spalle, anche se la sua tensione era palese.
            Callum sospirò. Non era un tipo che si preoccupava particolarmente della sua salute, lo trovava stancante e controproducente, ma, ecco, se la dislessia gli aveva dato noia solo pochissime volte, la narcolessia si divertiva a sconvolgergli il mondo ogni volta che chiudeva gli occhi. Trovava la cosa abbastanza stressante.
            «Come stai?»
            «Da schifo.»
            «Ah, allora come al solito.» Maria gli pungolò il braccio con un gomito, mentre si sistemava seduto su uno dei letti dell’infermeria. «Se non ti conoscessi così bene, direi che l’hai fatto apposta. Sai, per essere al centro dell’attenzione e tutto il resto, razza di megalomane.»
            «Potrei aver ingerito metà confezione di Ritalin questa mattina.» Disse, strofinandosi il viso. Guardò Maria tra le fessure delle sue dita, nascondendo un sorrisetto mentre lei lo guardava sconvolta.
            «Ma sei scemo in testa?»
            «Duecento grammi al giorno non mi fanno nulla, passo più temo a dormire che altro!» Si lamentò, sistemandosi la spallina della felpa che indossava, e che continuava imperterrita a scivolargli lungo il braccio. «Sono stanco di addormentarmi d’ovunque e svegliarmi pieno di botte o con del bacon in fronte.»
            «Non puoi ingerire medicinali come se fossero caramelle!» Sottolineò la figlia di Ecate, alzando gli occhi al cielo come se stesse parlando a un bambino. «E adesso come facciamo senza di te stasera? Abbiamo un’intera ala scoperta. Emma rimarrà da sola.»
            Callum storse la bocca. Aveva la bocca secca.
            «C’è Lorina, quindi non mi preoccuperei più di tanto. Ma ora sto meglio, perciò non tagliarmi automaticamente fuori.»
            «Ah, non è lei a tagliarti fuori, ma io.»
            Tobias picchiettò le dita contro il legno degli infissi della porta, scrutandolo come se non sapesse decidersi se prenderlo a sberle, o dargli delle pacche di incoraggiamento sulla spalla. Alla fine entrò nella stanza, incrociando le braccia.
            «Sai una cosa? In effetti non è davvero successo nulla di che. Certo, hai avuto un mezzo collasso, ma credo sia perché non hai mangiato quasi nulla questa mattina. Ma tutto il Ritalin che hai preso è sparito, non ne è rimasto un grammo nel tuo corpo. Smaltito, completamente.»
            «…Quindi posso…»
            «No.»
            «Ma dai!»
            Maria scosse la testa: non era entusiasta di perdere uno dei suoi alleati migliori, ma capiva anche le preoccupazioni di Tobias, che sicuramente erano molto più valide del suo personale desiderio di disintegrare la casa di Ares a suon di incantesimi.
            Callum si era imbronciato, corrucciando le sopracciglia scure in un’unica linea arrabbiata. Sembrava che avesse scelto i vestiti al buio, perché l’arancione sbiadito della sua maglietta spariva sotto il verde lime della felpa enorme che indossava, piena di scritte sbaffate fatte con l’indelebile, borchie, perline e spille di band ormai cadute nel dimenticatoio.
            «Non voglio rimanere in infermeria!»
            «Neanche io ti voglio in mezzo ai piedi, grazie tante. Perciò rimettiti le scarpe ed esci, non ho nulla in contrario… Ma la Caccia alla Bandiera no, almeno per stasera. Potresti avere una ricaduta di qualsiasi tipo, o un attacco di narcolessia durante uno scontro, il bisogno di vomitare. E, davvero, per oggi ne ho avuto abbastanza, quindi per una volta fa’ come ti dico.»
            Il biondo sbuffò teatralmente, scivolando giù dal letto e recuperando le sue scarpe completamente rosse, giusto per rendere il suo outfit ancora più scoordinato a livello cromatico.
            «A Lorina non piacerà assolutamente questa cosa.»
            «Lorina se ne farà una ragione.» Rispose a tono Tobias, sfoggiando il suo miglior tono autoritario, quello con cui convinceva i più piccoli dei suoi fratelli a mangiare le verdure. «E poi sarà troppo impegnata a cercare di rubare e guidare il nuovo carro da guerra della casa di Ares.»
            «Che cosa?! Non è vero!» Protestò il biondo, arricciando le labbra in un segno che preludeva una lamentela coi fiocchi. Non riuscì a parlare però, perché proprio in quel momento ci fu una scossa.
            Il terreno aveva vibrato solo per un istante, e il ragazzo pensò di esserselo immaginato. Ingoiò a vuoto prestando maggiore attenzione; l’aria era diventata elettrica e densa, pesante come un macigno.
            La scossa successiva fu più violenta, le terra ribollì e gemette, come un animale sofferente. L’infermeria cigolò sulle proprie fondamenta.
            «Un terremoto…?» Azzardò Tobias, incredulo, sgranando gli occhi chiari. Accanto a lui, Maria si irrigidì, boccheggiando come se le avessero tolto l’aria dai polmoni.
            «L’Atena Parthenos!» Gridò, e poi si precipitò fuori, verso la mensa, spaventata. Callum la seguì, balzando giù dai gradini del portico, e raggiungendo i tavoli in pietra.
            Un cospicuo gruppetto di semidei si era radunato nel padiglione, e si agitava al ritmo di sussurri e frasi biascicate. Qualcuno aveva sguainato spade, lance e archi; qualcun altro era corso ad avvertire Chirone. Dalla mezzaluna principale di cabine, i ragazzi riempirono i portici, volgendo la loro attenzione all’ingresso del campo.
            La statua sembrava illesa, contornata dal solito baluginio dorato, leggermente più flebile rispetto al solito perché ormai, con l’inverno alle porte, gran parte dei semidei era tornata a casa o aveva lasciato il campo.
            «Sembra tutto a posto…» Maria strinse le labbra mentre continuava a fissare la dea. Era sbiancata, e il sudore le scivolava sulla fronte. «Eppure, ero sicura che…» Si zittì. L’intera cabina di Ecate aveva avuto una reazione più o meno simile. Peleo, il loro drago da guardia, continuava a girare intorno ai piedi della statua, nervoso, spalancando le grosse ali e rendendosi visibile anche da lì.
            «Si può sapere che sta succedendo?» Chiese Callum, avvicinandosi all’amica per cercare di cogliere qualche dettaglio in più.
            «Non lo so!» Fece lei sbrigativa. «Dov’è Chirone?»
            La folla si agitò e il mormorio diventò più forte, mentre il nome del centauro serpeggiava di bocca in bocca. Quando l’uomo apparve, accompagnato da un corteo di ninfee e satiri agitatissimi, calò il silenzio più assoluto.
            Si voltò a guardare la statua, e gli occhi scuri percorsero in silenzio i confini della valle, come se fosse in grado, in questo modo, di percepire qualsiasi stranezza. In groppa teneva una bimba, che si divertiva a passare le dita lì dove il manto diventava più rado per lasciare spazio alla pelle. La maglietta del campo le faceva da vestito, e portava una collanina di cuoio con un’unica perlina di terracotta.
            «Abbiamo un problema con l’ Atena Parthenos.»
            Maria si fece avanti, affiancando il vecchio centauro, già stufa di quell’aria pesante che sembrava opprimerle il petto. «O meglio, penso sia così.»
            «Già, è vero. Abbiamo sentito delle scosse…» I ragazzi della cabina di Ecate si smossero dal loro silenzio, iniziando a parlarsi uno sopra l’altro.
            «E la magia che circonda il campo… Per un attimo è stato come se fosse svanita!»
            «I confini magici, la Foschia… Potremmo essere visibili ai mortali, ora...»
            Una simile eventualità non era nemmeno lontanamente immaginabile, per Callum, e solo l’idea che un gruppo di contadini varcasse la soglia del loro campo, magari attratti dagli immensi campi di fragole, lo faceva sentire strano. Lo stomaco si contorse su sé stesso e il sangue gli si rimescolò nelle vene… No, una cosa così non poteva davvero succedere.
            «Ma la statua è normale, o no?» Azzardò qualcuno.
            «Non c’è nulla che non va!»
            «I confini magici funzionano ancora!»
            In un secondo, il brusio generale riempì l’aria, e Chirone fu costretto a battere gli zoccoli sul selciato per farsi ascoltare.
            «Semidei!» Chiamò, e l’ordine tornò tra le fila agitate di adolescenti. «Non sappiamo di preciso che cosa sia successo, ma è impossibile negare che non sia stato nulla. Pattuglieremo i confini per capire se, effettivamente, la Foschia sia stata intaccata o meno, anche se sono molto dubbioso, e agiremo di conseguenza. Nel frattempo, vi chiedo di riprendere le vostre attività. E no… » Il centauro assottigliò gli occhi prevedendo già la domanda della casa di Afrodite. «La Caccia alla Bandiera non sarà rimandata.»
            Delle proteste si levarono dalla cabina Dieci, ma ben presto si mescolarono al chiacchiericcio concitato del resto del campo. Mentre la folla si disperdeva, Callum afferrò per un gomito Maria. Tobias si era allontanato, raggiungendo i suoi fratelli, ma anche da lì gli aveva scoccato un’occhiata nervosa, scuotendo appena la testa.
            «E quindi?»
            «Quindi nulla. Qualcuno ci ha rotto la statua.»
 
 
 
La Discordia lo fissò imbronciata da sopra il suo carro. In realtà, essendo a rovescio, il ghigno che le tirava le labbra dipinte assomigliava di più a una smorfia di orrore. I capelli erano acconciati in trecce arrotolate sulla nuca, e le ali si piegavano seguendo il bordo della carta e circondando il numero romano in rilievo.
            VII. Il Carro.
            Forza, disciplina, indipendenza. La dea lo intimoriva un po’ con addosso l’armatura scura, ma lo sguardo ambrato – quasi tagliente – gli ricordava Marte, e la severità con cui lo scolpivano nella roccia.
            Accanto c’era Trivia. Sullo sfondo della sua carta si riusciva a distinguere un incrocio, e un cartello che indicava tre direzioni differenti. Il resto, era coperto da una voluminosa massa di capelli biondi, ricci fitti e crespi che incorniciavano un viso a cuore e due occhi scuri come la notte.
            I. Il Mago.
            Desiderio, magia, aspettativa. Da qualsiasi angolazione la guardasse, la dea sembrava seguirlo con lo sguardo, un sorriso appena accennato sulle labbra carnose. Sentiva le dita formicolare, sussurri appena accennati che gli solleticavano le orecchie. Qualsiasi cosa avesse voluto iniziare, sembrava il momento adatto per farlo.
            Infine, Egeria, anche lei a rovescio. La ninfa, moglie del re Numa Pompilio, stava al centro, tenendo una mano alzata. Alle sue spalle, due colonne dai capitelli elaborati facevano da sfondo, segregandola all’ingresso di quello che sembrava essere un tempio.
            V. Il Papa.
            Lealtà, vocazione, sacralità. Non usciva molto spesso durante le sue stese, eppure aveva sempre trovato curiosa la scelta di utilizzare quella figurina per uno degli Arcani Maggiori, protagonista di una leggenda quasi da tutti dimenticata. Aveva pianto la morte del marito così a lungo che, alla fine, aveva creato una vera e propria fonte che le era diventata sacra. Non una delle storie più tragiche che erano in circolazione, certo, eppure c’era un velo di malinconia negli occhi chiari che lo guardavano, ancora arrossati dalle lacrime.
            Ekanta osservò la sua ultima stesa coprendosi la bocca con una mano, la schiena incurvata: era tutta la mattina che continuava a pescare le stesse, identiche carte. E dal momento che non riusciva a coglierne il collegamento, la cosa stava diventando ridicola, poco produttiva, e profondamente esasperante.
            Due carte su tre a rovescio: non era per nulla un buon segno, e fino a qui nulla di difficile. Ma che cosa c’entrava la perdita di fede del Papa, con l’inizio di un viaggio del Mago?
            No, stava decisamente sbagliando qualcosa. Le figure sulle carte non gli stavano dando nessuna mano, nonostante replicassero quasi fedelmente lo stesso simbolismo dei Tarocchi Marsigliesi.
            Trivia era in mezzo, come se l’idea stessa di trovarsi ai margini di un’ipotetica scelta fosse innaturale. Era chiaro che la questione girasse attorno a lei, più come archetipo che come significato convenzionale.
            Per la Discordia ed Egeria, invece, probabilmente era l’opposto. Entrambe a rovescio, entrambe con una connotazione negativa. Perdita di sacralità, squilibrio… E poi cosa ancora? Da quell’angolazione, i cavalli scuri che trainavano il carro del settimo Arcano si inarcavano sofferenti in posizioni opposte, come se, nonostante tutto, non riuscissero ad avanzare.
            Stallo. Sconfitta. Abulia. Passività.
            «Oh…»
             Ekanta rabbrividì, scosso da una vertigine, nel momento esatto in cui intuì quello che le carte stavano cercando di dirgli. Trivia rimase silenziosa, ma la Discordia gli trasmetteva agitazione anche da lì.
            Si passò una mano tra i capelli bianchi: le bimbe di Nuova Roma si erano divertite a fargli le treccine quel giorno, perciò le sue unghie si incastrarono tra le perline e i fermagli a forma di margherita.
            «Questo non va bene. Non va assolutamente bene.»
            Raccolse frettolosamente le carte, riponendole nella tasca posteriore dei jeans, insieme al resto degli Arcani Minori. Leggeva i Tarocchi da una vita, eppure ci aveva messo così tanto – troppo – tempo per interpretarne i segni; più del solito, più di quando era un ragazzino e sapeva a malapena riconoscere una carta dall’altra. L’innaturale silenzio delle figure gli era subito risultato strano ma adesso… Oh, se anche solo la metà delle sue preoccupazioni si fosse avverata, non aveva idea di che cosa sarebbe successo! Non riusciva nemmeno a figurarsi un’ipotetica prospettiva, per quanto assurda… Eppure sapeva fin troppo bene quanto la sfortuna lo amasse, specialmente in quei casi.
            Stava correndo verso il Senato quando, nell’aria, uno squillo di trombe concitato mise in allerta l’intera città. Ekanta si sentì schiacciare sotto il peso dell’aria, che sembrava essersi fatta più densa ed elettrica. Imboccò la strada che portava al campo militare, mentre i veterani si mobilitavano: un gruppo abbastanza sostanzioso si era già radunato davanti ai negozi, disponendosi in file ordinate e armate fino al collo. Sorpassò gruppi di mercanti, bancarelle piene di cibo, cerchi di mani ancora intrecciate e giochi interrotti da parte dei più piccoli. Una bambina gli venne addosso urtandogli le gambe, e per non travolgerla si ritrovò ad annaspare in avanti, nel vuoto, finendo per cadere di schiena battendo la testa.
            «Porca…»
            Si tastò la nuca e quando ritrasse le dita le trovò integre, senza nessuna traccia di sangue. Il punto in cui era caduto però gli pulsava abbastanza da lasciarlo stordito e col fiato corto; si rialzò a fatica e zoppicò verso la sua meta.
            Era al Campo da quasi cinque anni, eppure restava sempre stupito dall’efficienza delle truppe romane. Tutte e cinque le Coorti erano ben schierate fuori dal perimetro, con il Piccolo Tevere a separarle dal tunnel di ingresso. Le catapulte erano già cariche, gli arcieri con gli archi tesi, la cavalleria serrata in ranghi ordinati. I lari si aggiravano tra le fila sussurrando e agitando le loro armi spettrali, fomentando l’irrequietezza generale.
            «Sei in ritardo…!» Louise non lo guardò nemmeno, ma si premurò di linciarlo a parole, stringendo le dita pallide attorno alla sua lancia. Si era cotonata i capelli e li aveva legati in due piccoli chignon bassi ai lati della testa, diventando la copia più violenta e taciturna di Pucca.
            «Che sta succedendo?»
            «Mostri, forse. Non si sa.» Una smorfia increspò il viso della ragazza. «Le guardie sono rientrate di corsa, sconvolte.»
            «Hai visto Crystal?»
            «No, non è ancora arrivata…» La mora lo guardò con la coda dell’occhio, intimandogli di rimanere al suo posto e di tirare fuori al più presto la propria spada. Ekanta la ignorò completamente, cercando l’amica tra le prime fila.
            Al centro, con un mantello rosso cupo drappeggiato sulle spalle, c’era solamente il Pretore Adams: la sua figura spiccava solida sul carro da guerra, mentre l’armatura dorata seguiva le linee morbide della sua muscolatura. I cavalli sbuffarono, agitando le code, in attesa che il nemico si mostrasse.
            Era il ritratto del romano perfetto, ma Ekanta sapeva che era solo apparenza, che dietro quel viso impassibile non si nascondeva nemmeno la metà dell’autorevolezza e del controllo che Crystal aveva sui suoi compagni.
            Certo, non avrebbe mai insinuato una cosa del genere davanti al diretto interessato – era pur sempre un suo superiore, oltre che un portento con la spada – ma, quando Crystal arrivò trafelata dal Foro, non gli sfuggì il sollievo generale da parte dei soldati. Schizzò via dalla Quinta Coorte per raggiungerla, con lo sguardo ghiacciato di Louise sulla schiena.
            Crystal era armata solo di una spada. Aveva il viso arrossato per la corsa e la maglietta del Campo Giove aveva il colletto sporco di cioccolata. Si tirò su le maniche della letterman jacket che indossava, probabilmente per sembrare un minimo più ordinata, nonostante si fosse presentata in guerra in jeans e Vans consumate.
            «Dov’è il problema..?» La ragazza scandagliò la zona confusa, gli occhi blu che fremevano sul paesaggio. «Non c’è nessuno qui.» Constatò.
            Malcom spostò il proprio peso sul carro, e i cavalli si innervosirono un poco.
            «Le guardie all’ingresso…»
            «Pretore Wolff!»
            «Pretore!»
            «Abbiamo un problema!»
            I due ragazzini avevano la testa nascosta dall’elmo, e le magliette sotto l’armatura fradice di sudore. Ekanta stentava a credere che dei semplici mostri di passaggio potessero creare così tanto scompiglio da mobilitare l’intero esercito; eppure le guardie erano ceree in volto in maniera preoccupante.
            «Ci sono… Ci hanno visti lì fuori e…» Iniziò il primo dei due, balbettando.
            «Hanno fermato le macchine e non capivamo, però alla fine sono arrivati…!»
            «Ci hanno parlato!» Urlò il secondo, che a causa degli occhi lucidi non si capiva se fosse incredulo oppure sull’orlo di un attacco di panico.
            «Hanno detto che ci avrebbero portato via per interrogarci! L’autostrada è bloccata ora!»
            In un crescendo di disperazione e lacrime, iniziarono a parlarsi uno sopra l’altro. Malcom strinse le labbra in un chiaro segno di disprezzo. Crystal allungò titubante le mani sulle loro spalle, cercando di farli calmare e ricevere qualche spiegazione meno confusa.  
            «Chi sta arrivando, esattamente?»
            «La polizia mortale!»
            Silenzio.
            Ekanta smise di respirare per un istante lunghissimo, sentì il corpo cedere e la tasca dei pantaloni bruciare. Il Mago lo investì di energia, annebbiandogli la mente, lasciandolo boccheggiante e confuso. Il mondo gli era, definitivamente, caduto addosso.
            «Che cazzo state dicendo!» Malcom urlò sconvolto, scendendo dal suo carro e attirando l’attenzione di tutte le Coorti. Sulla fronte gli si era ingrossata una vena che continuava a pulsare sempre più forte, minacciando di scoppiare da un momento all’altro.  «I mortali non possono vedere l’ingresso del Campo, è protetto dalla Foschia.»
            Il figlio di Marte continuò a studiare con  freddezza i due soldati, avvicinandosi e provocando il panico generale; era talmente furioso che anche i lari sparirono dalla sua vista, timorosi per la propria incolumità.
            «Non stiamo mentendo!»
            Un’altra smorfia. «Non ho detto questo.»
            «D’accordo, una cosa per volta.» Si intromise Crystal, cercando di mantenere l’ordine, nonostante anche lei fosse abbastanza scossa. Le mani non la smettevano di tremare. «I mortali hanno trovato l’ingresso, avete fatto bene a rientrare ed avvertire.»
            «Hanno lasciato il tunnel scoperto.»
            «Non importa.» Crystal gli lanciò un’occhiata intimandogli di non ribattere più del necessario; non lì, non con trecento ragazzi armati per la guerra completamente nel panico. «Comunque sia, anche se dovessero attraversarlo, probabilmente tornerebbero indietro: la Foschia che circonda il Piccolo Tevere è più potente di quella all’ingresso, li lascerà abbastanza spaesati da farli tornare indietro.»
            «Nessun mortale ha mai messo piede qui dentro.» Malcom si chinò verso la ragazza, serrando le parole tra i denti per non farsi sentire. «Hai idea di quanto disastrosa sarebbe la cosa, se succedesse?»
            «Lo so, ma che cosa dobbiamo fare altrimenti? Non possiamo combatterli, Malcom, e nemmeno esporci più di così!» Replicò Crystal, sull’orlo di una crisi di nervi.
            Nel frattempo, le ultime linee avevano iniziato ad agitarsi con più veemenza, rompendo i ranghi e richiamando l’attenzione generale. Ekanta strizzò gli occhi cercando di mettere a fuoco, ma tra la botta alla testa, il ginocchio gonfio e la nausea, la sua vista rimase appannata. Poi, davanti a lui, il Centurione della Seconda Coorte, Koori Hoshita, collassò al suolo ferendosi con la punta della propria lancia.
            «Koori!» I compagni lo soccorsero all’istante, tirandolo a forza su per le braccia; il ragazzo si lamentò, tastandosi a tentoni la spalla sanguinante, per poi puntare blandamente i piedi a terra alla ricerca di un sostegno.
            «Cosa succede ancora?»
            «I legionari stanno svenendo!» urlò qualcuno dalle retrovie, in risposta. Koori biascicò qualcosa, buttò gli occhi all’indietro e perse conoscenza.
            «È la Foschia! Crys!» Ekanta la scosse per una spalla. Gli fischiavano le orecchie. «Non c’è più nulla a proteggerci. La magia è completamente sparita!»
            La ragazza sgranò gli occhi, scuotendo la testa in diniego, mentre le pupille le si dilatavano dal terrore. Le mani le tremavano tantissimo, ora.
            «No…»
            Il rumore dei passi e delle sirene all’ingresso coprì qualsiasi cosa avesse voluto aggiungere, facendo calare un silenzio assordante. Il primo gruppo di poliziotti incespicò sull’erba, mentre giravano la testa osservando sconvolti l’acquedotto che attraversava Nova Roma. Poi si girarono verso di loro, e nell’esatto momento in cui gli sguardi si incrociarono, Ekanta sentì il sangue gelarsi nelle vene. Crystal esalò la poca aria che le era rimasta nei polmoni.
            «Miei dei.»
 
 
 
Blanca guardò i nuovi arrivati sistemare le poche cose che avevano attorno a uno dei letti della propria cabina. Erano in quattro, due ragazzi e due ragazze, con delle facce anonime dagli occhi blu e i capelli acconciati con cura.
            «Quello non ti conviene metterlo lì.» Disse a un ragazzo in maglietta rossa. «Primo, perché il telefono amplifica la nostra aurea, e i mostri se ne accorgono subito. Secondo, sei nella Cabina di Ermes, se esci di qui stai sicuro che non lo ritrovi più.»
            «E dove lo dovrei mettere, scusa?» Le rispose acido, tirando fuori dallo zainetto un caricatore. Lo attaccò alla spina del comodino e lasciò il telefono in carica.
            Blanca sospirò. Quella giornata era stata troppo stressante per i suoi gusti, tra presunti attacchi epilettici, strani terremoti e nuovi semidei. Era da pranzo che l’aria era tesa, e l’agitazione cominciava a crescere ogni minuto che passava, anche se Chirone sosteneva il contrario. Il solo fatto che continuasse a passare per il padiglione centrale però, osservando scrupolosamente tutte le Cabine, la diceva lunga sulle sue vere preoccupazioni.
            I novizi avevano alleggerito un po’ l’atmosfera quel pomeriggio, e tutti si erano premurati di scarrozzarli da ogni parte del Campo, riempendogli la testa di nozioni probabilmente scioccanti e mettendogli in mano delle spade.
            Lei era lì da pochi anni, ma di gente che andava e veniva l’aveva vista a bizzeffe: iniziavano da indeterminati ma la cosa non durava mai troppo a lungo, il riconoscimento non tardava quasi mai. Poi c’erano gli allenamenti, l’addestramento, le spedizioni congiunte con il Campo Giove; e quella gente che non sapeva nemmeno allacciarsi l’armatura, da un giorno all’altro era in prima fila brandendo una lancia e reclamando vittoria.
            Da un certo punto di vista, la cosa la rendeva orgogliosa, dall’altro le faceva venire ansia, specialmente quando i più piccoli la guardavano tirare con l’arco o scalare la parete per le arrampicate senza nessuna fatica. Era in quei momenti che realizzava quanto fosse vecchia e che, effettivamente, era considerata alla stregua di una veterana. Chirone le aveva proposto di tenere un corso tutto suo – anche qualcosa di poco impegnativo, come delle lezioni di greco – ma lei si era categoricamente rifiutata. Pensare di poter insegnare a qualcuno le sembrava impossibile, si sentiva così inadeguata in quel ruolo, vista la mole di cose che lei per prima ignorava.
            Nonostante questo, sapeva come era un novellino tipico del Campo: alcuni erano particolarmente dotati e riuscivano bene in alcune cose fin da subito, altri dovevano sputarci sangue, e altri ancora si dimostravano selettivi fin dall’inizio, preferendo fare solo quello a cui si sentivano più affini. Lasciar parlare l’istinto era la cosa migliore da fare, ma non era mai capitato che qualcuno fallisse miseramente tutte le attività che gli venivano proposte.
            Il talento non c’entrava nulla, e ci stava che il primo giorno non riuscissero a tendere bene la corda dell’arco, o stare ritti con le spade in mano, però a tutto c’era un limite. Sembrava quasi che le armi li rigettassero, per quanto del bronzo celeste potesse ribellarsi di sua spontanea volontà. Aveva provato a parlarci, dando anche diversi consigli, ma ogni volta, quando si trattava di mettere in pratica quanto detto, quei ragazzi sembravano scordarsi ogni cosa, come se la loro mente non riuscisse a processare tutte le informazioni. E quando succedeva così, tornavano sempre ai campi di fragole.
            Blanca non capiva assolutamente questa ossessione per le fragole del Signor D, ma i ragazzi ripetevano la solita cantilena ogni volta, come dei dischi rotti, e dubitava ne fossero coscienti. Li vedeva spaesati, poco lucidi, e la cosa aveva cominciato ad inquietarla. E non era l’unica ad averlo notato.
            Uscirono al suono del corno per la cena. Gli altri ragazzi di Ermes si erano già radunati ai piedi del portico, mancavano solo loro e il capo Cabina, che probabilmente stava ultimando le preparazioni per la Caccia alla Bandiera di quella sera. Blanca si raccolse i capelli in una coda alta, aprendo la fila dei non riconosciuti: era così impegnata a cercare di domare anche i ciuffi più corti, che si accorse solo dopo qualche minuto di quello che stava succedendo.
            Maria era in piedi davanti alla porta della sua Cabina, le braccia rigidamente conserte, mentre i suoi fratelli e le sue sorelle si erano disposti al suo fianco: ragazzi dai capelli tinti, piercing brillanti e trucco scuro, tesi come corde di violino pronte a spezzarsi. Tennero gli occhi fissi sul gruppo, senza mai perderli di vista, le bocche serrate. Vicino a Maria, un tipo con i capelli grigi e gli occhi truccati di viola smise di battere le palpebre.
            Blanca ci mise un po’ per rendersi conto di quello che stava davvero succedendo, perché era semplicemente ridicolo, nonostante fosse al corrente delle stranezze della casa di Ecate. Tutti i semidei si erano radunati fuori, e nessuno aveva il coraggio di parlare; l’aria era diventata irrespirabile, la sensazione che qualcosa di orribile fosse appena successo le scuoteva le ossa.
            «…Dovremmo andare a mangiare.»
            Emma Stevens, della casa di Hypno, strinse nervosamente la mano della sua sorellina più piccola, mentre si girava verso Maria. Era minuta per la sua età, con un grande giubbotto militare nero che le calzava largo sopra la salopette di jeans e la maglia del Campo. Accanto a lei, Callum fece una smorfia, assottigliando gli occhi verso di loro.
            Maria risposte con un grugnito ma non si mosse dalla sua posizione. I neofiti, che avrebbero dovuto sentirsi a disagio, o perlomeno reagire in qualche modo, si limitarono a prestare attenzione solo per qualche istante: Blanca vide i loro lineamenti spezzarsi e gli occhi scivolare nell’incoscienza, come pesci in un fiume.
            I figli di Ecate sussultarono, stringendosi tra loro, mentre tutto il Campo assisteva a quella bizzarra gara di sguardi. La ragazza più vicina a Blanca si voltò, con la confusione dipinta in viso, l’espressione di chi non ha la minima idea di dove si trovi o di che cosa abbia fatto.
            «Questa scenata è durata fin troppo, e io ho fame!»
            Lorina si fece largo a spintoni tra la folla, sogghignando verso i quattro ragazzi. In occasione della Caccia alla Bandiera si era messa una benda per l’occhio rossa, con ricami dorati che riprendessero il suo mantello. Ora la teneva sul sinistro, ma Blanca giurava di averla vista, quella mattina, con il destro coperto.
            Avanzò senza dire più nulla, e sfoderò la spada così velocemente che nessuno ebbe il tempo di fermarla. La lama tracciò un arco nell’aria, preciso e mortale, andando ad abbattersi contro il collo del ragazzo del cellulare.
            Urla, strilli.
            Il Bronzo Celeste affondò nel corpo, senza lasciare nessuna traccia al suo passaggio.
 
 
 
Crystal si sfregò l’interno del polso con il pollice, sovrappensiero. Aveva controllato l’ora pochi minuti prima, ma era così distratta che quando arrivò il dolore si morse per sbaglio le labbra, sobbalzando per la sorpresa.
            L’undicesima riga pulsò per qualche istante, mangiandosi un altro pezzetto di pelle e unendosi alle altre del suo tatuaggio. Il fulmine di Giove, alla cima, sembrava ancora più cupo, per quanto lo potesse essere una saetta marchiata sul proprio corpo.
            Undici, che numero sbagliato.
            Sospirò sconsolata, rimirando per un attimo l’ultima riga: probabilmente era solo la sua immaginazione, ma le pareva che fosse leggermente distaccata del resto, come a sottolineare il fatto che Ah! Era rimasta incastrata.
            Era arrivata al Campo a tredici anni, adesso ne aveva ventiquattro e il suo unico desiderio era poter lasciar perdere il suo posto da Pretore, i combattimenti e qualsiasi cosa centrasse con l’Olimpo nei limiti del possibile. Quella mattina doveva essere l’ultima della sua carriera militare, l’ultima prima del suo tanto agognato congedo… E invece erano arrivati i mortali e, beh, lei aveva dovuto abbandonare in fretta e furia la festa a sorpresa dei suoi amici, oltre che a far slittare la riunione in Senato.
            Il tempo, tra una crisi e un’altra, era completamente volato, ed ecco che, ora, si trovava ad iniziare il suo undicesimo anno di servizio.
            «Si potrebbe fare una riunione straordinaria, così non saresti costretta a rimanere un altro anno.»
            Ekanta era seduto ai piedi delle gradinate del Senato, attualmente vuoto, e rimescolava senza entusiasmo il suo mazzo di carte. Aveva i pantaloni strappati sulle ginocchia e la maglia viola sporca di terra ed erba, probabilmente a causa di qualche caduta. Si erano persi di vista per un bel po’ dopo la comparsa della polizia mortale e, quando era tornato, l’albino zoppicava vistosamente. Non le aveva detto niente e lei non aveva fatto domande al riguardo.
            «No, va bene così. In fondo me lo aspettavo, sai? Sarebbe stato troppo bello altrimenti.» Sospirò. «Porterò a termine ancora quest’anno. Magari è un segno. Destino.»
            «Un Destino veramente di merda…» Borbottò l’altro, girando con cautela la prima delle carte che aveva posato per terra. Crystal scorse una torre, ma non fece in tempo a sporgersi per osservare meglio che Ekanta, incredulo, la rigirò, la raccolse, e ricominciò a mescolare da capo come se nulla fosse.
            «Hai notizie dall’altro Campo?»
            «Io e Malcom abbiamo parlato con il responsabile prima, Chirone.» Ovviamente il nome non produsse nulla più che un paio di sopracciglia aggrottate da parte del ragazzo, non che si aspettasse diversamente, Ekanta non aveva mai avuto occasione di incontrare i Greci, a differenza sua.
            «E quindi?»
            «Non so molto, ma a quanto pare hanno avuto il nostro stesso problema con i mortali, anche se in forma più contenuta. Hanno chiesto di parlare, questa sera, per vedere di cosa si tratta.»
            «Quindi è per questo che mi hai trascinato qui?» Alzò leggermente gli occhi, accennando un sorriso. «Pensavo volessi cedermi il posto.»
            «Vuoi diventare Pretore? Ti ci vedrei meglio come Augure…»
            «Assolutamente no.» Rispose perentorio, facendo cadere lì la questione. Crystal rise vedendolo imbronciarsi e mugugnare alle sue carte.
            In realtà, non era poi un’idea campata per aria. Ekanta possedeva una sensibilità davvero fine e uno spiccato intuito, che molto spesso nemmeno i figli di Trivia dimostravano nei confronti della magia. Quando, sul campo, le aveva detto che nessuna barriera li proteggeva dal mondo esterno, non aveva nemmeno dubitato delle sue parole. E adesso, nonostante fosse con il capo chino concentrato a leggere la sua stesa, Crystal sapeva che stava irrimediabilmente speculando su tutto quello che era successo.
            Controllò l’orologio ancora una volta, ormai era solo questione di minuti.
            «Ci siamo quasi.»
            Mentre aspettavano, comparve sulla soglia Koori Hoshita, con una vistosa fasciatura trasversale che gli teneva ben ferma la spalla e i capelli molto più corti. Non sapeva bene come fosse successo, ma a quanto pare il giovane figlio di Trivia aveva avuto qualche problema con i leoni dell’arena, rimediando uno squarcio sulla testa che era stato chiuso con una serie infinita di punti.
            «Vieni pure.» Con un cenno, lo invitò ad entrare. «Malcom mi ha detto che ti sei ripreso.»
            «Adesso sto abbastanza bene, si.» Gli occhi scuri indugiarono nella stanza leggermente inquieti. Ekanta si lasciò sfuggire uno sbuffo esasperato mentre pescava un’altra carta e la sistemava in mezzo alle altre. Alzò gli occhi un attimo verso il ragazzo, per poi cercare di concentrarsi, di nuovo, su quello che stava facendo.
            «Mi fa piacere… Almeno una notizia positiva. Avere la Seconda Coorte con il morale sotto le scarpe è l’ultima delle mie priorità.» Commentò incrociando le braccia.
            L’attesa si prolungò per qualche minuto. Alla fine, Ekanta si arrese, lasciò cadere il suo mazzo per terra e osservò le carte sparpagliarsi sul pavimento, prima di raccoglierle e metterle via. Era palesemente frustrato, ma Crystal non avrebbe saputo dire se fosse per qualcosa che aveva letto o, al contrario, non aveva letto.
            L’aria si increspò con un lieve crepitio, lasciando intravedere lo scorcio di un paesaggio placido, con le colline coperte da boschi e il mare che si allungava dalla parte opposta; più l’immagine si faceva nitida, più cose riusciva a distinguere, come lo scintillio dorato di una statua in lontananza e un sentiero che si inerpicava tra i tronchi per poi sparire nella vegetazione.
            Era uno strano modo di comunicare ma, lo ammise, parecchio efficace. I due ragazzi le si avvicinarono e si posizionarono ordinatamente ai suoi lati, facendo attenzione a rimanere leggermente indietro: probabilmente non ci avevano neanche pensato, ma Crystal sorrise, notando come la disciplina ferrea con cui erano stati tirati su si manifestasse comunque nella loro quotidianità.
            La scena si spostò in fretta, avanzando verso il Campo Mezzosangue, mettendone a fuoco gli edifici frettolosamente, con un’urgenza che non riuscì a capire finché un paio di occhi grigi non riempirono tutta l’inquadratura.
            «Pronto…? Oh, aspetta, Ed!» la ragazza greca si voltò, mettendo in mostra i capelli neri. «Spostalo più lontano… A sinistra. Sinistra ho detto! È la mano con cui lanci i tuoi incantesimi di trasformazione.»
            L’immagine traballò un po’, in sottofondo c’erano urla e schiamazzi che si facevano sempre più rumorosi.
            «Perfetto ci siamo!» La ragazza mora sorrise, ora ben visibile. Aveva i capelli neri e un taglio sanguinante che le attraversava le labbra di sbieco, anche se sembrava non preoccuparsene affatto.
            «Chi di voi è il Pretore?»
            «Io. Crystal Wolff, è un piacere conoscerti.»
            «Ah, anche per me figurati. Chirone mi ha chiesto di chiamarvi di persona per spiegarvi al meglio la situazione… Avrei voluto farlo prima ma eravamo impegnati.» Fece una smorfia, guardandosi di nuovo alle spalle. «Ad ogni modo, sono Maria, capocabina della Casa di Ecate.»
            Doveva trovarsi nel padiglione della mensa, a giudicare da tutto il chiasso che le copriva la voce. Tentò di andare avanti ma, alle sue spalle, una ragazza con una benda su un occhio e una bandiera legata sulla fronte, in perfetto stile samurai, strillò: «Apollo fa schifo!»
            «Che cavolo succede?» sussurrò Ekanta, cercando di seguire lo scambio di battute in sottofondo. La bruna urlò ancora, seguita da altri compagni.
            «Abbiamo vinto la Caccia alla Bandiera, stiamo aspettando Chirone per il verdetto.» Disse Maria, cercando di salvare la connessione. «Lori, taci o ti faccio ingoiare un pavone nel sonno!»
            «Era mi ha detto la stessa identica cosa una volta, eppure sono ancora qua!» Urlò quella di rimando, per poi girarsi di nuovo «Ares merdaaa!».
            Maria alzò gli occhi al cielo, mentre dietro di lei si formava un coretto di “Ares merda!” con tanto di saltelli a tempo.
            «Il giorno in cui Zeus la fulminerà riderò un sacco.» Commentò. «Comunque tornando a noi. Non so quali problemi abbiate avuto, ma questa mattina tutte le difese magiche del nostro Campo sono svanite e la Foschia non è stata in grado di nasconderci agli occhi dei mortali.»
            Crystal strinse le labbra, sovrappensiero.
            «La stessa cosa è successa qui. I mortali si sono accorti dell’ingresso e delle nostre guardie. Hanno bloccato l’autostrada al traffico e… Si, insomma, sono entrati. Hanno visto tutto.»
            Maria sgranò gli occhi anche se non sembrava particolarmente sorpresa. «Vai avanti.»
            «Un delirio. Eravamo pronti per una battaglia ma siamo rimasti completamente spiazzati. L’Oro Imperiale non può ferire un mortale, ovviamente, perciò non sapevamo cosa fare. Hanno provato ad attraversare il Piccolo Tevere ma, nonostante non ci fosse nulla ad ostacolarsi, erano molto confusi, spesso finivano per guardarsi intorno e basta.»
            «Beh, non li puoi biasimare. Abbiamo un acquedotto che si snoda per cinque chilometri all’interno di una collina, fai conto.» Commentò Ekanta.
            «La situazione è peggiorata all’istante, Terminus era sconvolto e ha cominciato a urlare, dicendo che la città era completamente scoperta. I poliziotti avevano occupato tutto l’ingresso quindi ci siamo ritrovati bloccati. Braccati tra le nostre stesse mura.»
            Crystal si scoprì essere ancora scossa dalla cosa. Non aveva mai provato un tale senso di impotenza in tutta la sua vita.
            «Beh, se può consolarti, almeno voi vi siete accorti di avere dei mortali in giro per il Campo, noi no. Uno dei nostri satiri ha trovato questo gruppetto di ragazzi che vagavano vicino all’ingresso, li abbiamo portati dentro e ci è voluta Lorina per capire che non erano poi così tanto semidivini.» Indicò con un cenno la ragazza con la benda, che con molta grazia stava mostrando il dito medio alla squadra rivale, in bilico sopra due tavoli.
            «Il punto è, che Foschia o non Foschia, qui sta succedendo qualcosa di grosso. E preoccupante. Quando gli incantesimi attorno alla valle sono scomparsi lo abbiamo sentito tutti, è stato come se…»
            «…Come se un elastico si fosse rotto.» Terminò per lei Koori. «Tutta la magia si è riversata nell’aria, e ci ha stordito, lasciandoci inermi.»
            «Esatto!» Maria annuì con vigore. «Siamo tutti confusi. Uno dei miei fratelli è rimasto in catalessi per ore, prima di riprendersi.»
            «Se le cose stanno così, è ovvio che non possiamo rimanere con le mani in mano. Ma non possiamo nemmeno lanciarci verso l’ignoto.»
            «Forse Chirone può aiutarci. Può parlare con il Signor D., scoprire cosa cavolo sta succedendo.»
            Crystal incrociò le braccia. «È una buona idea. Anche noi chiederemo a Terminus, controlleremo i libri Sibillini, non sia mai che capiti una profezia, uno di questi giorni.»
            «Non la chiamare.» Borbottò Ekanta al suo fianco.
            «Quindi è deciso. Riferirò il tutto a Chirone, probabilmente sarà meglio rimanere in contatto.» L’immagine tremolò, dissipandosi nell’aria. «A presto!»
 
 




 
- THE EMPRESS - 

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 DIRITTO
            L'imperatrice abbraccia la sua bellezza interiore e la sua natura gentile, permettendole di prosperare nel mondo che la circonda.
             Ora è il momento di coltivare le tue relazioni, coltivando attentamente la tua connessione con gli altri.

ROVESCIO
            L'imperatrice dà fino a quando non è rimasto nulla per sé, lasciando dietro di sé un guscio vuoto.
Non sacrificarti per il bene degli altri.
             Non possono restituire ciò che hanno preso.






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(Signori e Signore, la mia vita in un'immagine.
Ringrazio Bungdog per questo <3 )


Questo capitolo mi ha mangiato l’anima, lo giuro. È stato scritto e riscritto, cancellato, odiato, amato… Alla fine l’ho finito. Qui, sul tavolo pieno di briciole della cucina del mio appartamento, mentre sono impegnata a guardare I Medici con la mia coinquilina nerd tanto quanto me.
            Si sta rivelando una puntata piena di gente ciclata, incomprensioni e presagi di morte. Io intanto sono troppo presa a guardare quanto bello è  Francesco Pazzi e sclerare su Botticelli e Simonetta, come la brava ragazza che sono.
            È tardissimo, perciò rimando di qualche giorno tutta la parte sull’intestazione, immagini e cose varie. Lo so che è fastidioso, ma ho tardato fin troppo, perciò voglio lasciarvi al capitolo, sperando che vi piaccia e che non abbia deluso le vostre aspettative.
            Comunque, ho avuto l’occasione di incontrare qualcuno di voi a Lucca, sono stata veramente felice di avervi conosciuto di persona! Siete davvero carinissimi <3 Volevo ringraziarvi per tutto il sostegno e l’interessamento che avete dimostrato nei miei confronti! Mi impegnerò al massimo per il prossimo capitolo, che non tarderà come questo!
            Per il momento è tutto, di solito inizio a scrivere questo spazio con un sacco di cose da dire, ma alla fine non concludo nulla.
            Ve se ama, un bacio!
            Itzi.
 
AH, DIMENTICAVO. BUNGDOG HA DISEGNATO QUESTA COSA, E IO NON RIESCO AD ESPRIMERE UN COMMENTO PIÙ COMPLESSO DI “AAAAAAAAAH!!!”
(Riuscite a riconoscerli tutti? ;D) (Se qualcun altro di voi è in vena di creare altro, per favore lo faccia, non sapevo di aver bisogno di tutto questo.) 
 


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Capitolo 4
*** IV - THE EMPEROR ***


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IV
THE EMPEROR
 
 
 
La baia si apriva in un arco allungato sotto i suoi piedi, protetta da alte scogliere sconnesse che si buttavano a strapiombo nell’Oceano. Aveva nevicato tutta la notte – la prima volta quell’anno -  e la sabbia appariva più scura del solito mentre scricchiolava sotto la suola delle sue scarpe.
            Sua madre gli aveva ripetuto fino allo sfinimento di cambiarle, perché quelle vecchie Converse blu non erano certo adatte per andare in giro con quel tempo, ma lui si era sempre limitato ad annuire, a prometterle che prima o poi l’avrebbe fatto, trascurando quella premura non appena finito di pronunciare le parole. Sinceramente non gli interessava più di tanto che le sue suole fossero così lisce e sottili da riuscire a percepire ad ogni passo tutte le crepe, le irregolarità della strada : finché rimanevano intatte gli andava bene.
            Camminò lungo la battigia, affondando le mani nelle tasche della sua giacca a vento. Era uscito di casa abbastanza presto per vedere l’alba, stupendo sua madre che lo aveva guardato assorta mentre si allacciava le scarpe. Gli aveva detto di stare attento, e lui aveva acconsentito con un grugnito, prima di sparire oltre alla porta.
            Il mare non gli piaceva. Era bello, su questo sicuramente non aveva nulla da ridire; ma per quanto trovasse ipnotico il costante infrangersi delle onde sulla scogliera, quella era pur sempre acqua salata. Un sacco di acqua salata. Niente di più e niente di meno.
            Si fermò ad osservare il sole che appariva all’orizzonte, un cerchio pallido non più grande di una moneta da cinquanta corone. Era freddo come l’aria dell’Islanda, e Hjord sapeva che nel giro di poche ore sarebbe scomparso, facendo sprofondare Reykjavik nel buio familiare dell’inverno. Le giornate si consumavano talmente in fretta che quasi faceva fatica ad accorgersi del loro trascorrere, e la sensazione che il tempo gli stesse pericolosamente sfuggendo dalle dita gli aveva accartocciato lo stomaco in una morsa davvero sgradevole.
            Si era svegliato a un orario assurdo per via della nausea, ma ora che si trovava lì non riusciva a giustificare tutta la foga con cui aveva raccattato i vestiti accasciati sulla sedia della sua stanza quella mattina, tantomeno il motivo che l’aveva condotto in spiaggia. Sospirò pesantemente e prese a mordicchiarsi l’unghia di un pollice.
            Stava malissimo. Sembrava che tutto il suo corpo si stesse ribellando, e al passare di ogni ora nuovi sintomi gli facevano sudare la pelle, stringere lo stomaco. Due giorni prima aveva avuto un mal di testa allucinante. La sera prima era rimasto aggrappato alla tavoletta del water per mezz’ora, cercando di placare i conati di vomito che continuavano a scuotergli il petto, nel vano tentativo di liberarlo da una cena che non era neanche riuscito a mandar giù. L’ansia non lo aveva abbandonato da allora, serpeggiandogli lungo la schiena, mozzandogli il fiato e rendendolo inerme: quando finalmente era riuscito ad addormentarsi, aveva sognato di affogare, trascinato su un fondo oscuro mentre un macigno invisibile lo schiacciava.
            Purtroppo non era malato, nonostante tutto quello schifo presupponesse il contrario. Conosceva molto bene quelle sensazioni, che germogliavano dal nulla, solo, non le aveva mai provate così intensamente. Non poteva definirlo come un vero e proprio dono, ma era tutto quello che suo padre si era premurato di lasciargli; come se vivere in una società costantemente stressata e sull’orlo dell’isteria a causa del progresso tecnologico non fosse già abbastanza deprimente di per sé.
            Hödr era un dio dimenticato, senza volto e senza ricordi a testimoniare la sua eterna esistenza, con il peccato del fratricidio a macchiargli il sangue e l’anima. Hjord quasi lo sentiva sulla sua stessa pelle, e la cosa gli dava il voltastomaco.
            Il cielo rombò cupo, e le prime gocce di pioggia iniziarono a cadere, caricando l’aria di un’umidità gelida. Non si scompose e si limitò a tirarsi su il cappuccio della felpa quando il vero e proprio acquazzone iniziò, nonostante fosse un gesto dettato più dall’abitudine che da una vera e propria esigenza di coprirsi.
            Il primo fulmine lampeggiò lontano, e dopo secondi infiniti il suono della sua caduta gli arrivò alle orecchie, per poi essere rimpiazzato nuovamente dalla pioggia. Il cuore gli sussultò nel petto senza apparente motivo, iniziando una corsa sfrenata che lo lasciò interdetto: sentiva il sangue rombargli attraverso le vene, battergli sulle ossa, e il terrore si impossessò di lui, facendogli perdere il controllo sul suo stesso corpo.
            Una paura irrazionale gli bloccò il respiro, annaspò in preda al panico ma l’aria non voleva saperne di entrare. Ad un certo punto era di nuovo in acqua, schiacciato, mentre affogava a il buio lo trascinava inesorabilmente in basso.
            Il fragore di un tuono lo riportò alla realtà; tremante e fradicio si accasciò sulla spiaggia affondando le dita nella sabbia zuppa.
            Stava morendo, e la lucidità con cui formulò questo pensiero lo lasciò interdetto, sconvolto. Non era una cosa di cui avrebbe dovuto avere paura, si disse, anche perché era convinto che ormai si stesse condizionando da solo. Ma il suo corpo si rifiutava di alzarsi, e il cuore pompava adrenalina come se davanti a lui ci fosse un animale feroce pronto a sbranarlo.
            L’Acquazzone sfumò presto in una pioggerellina silenziosa e sottile; nel giro di venti minuti il cielo era tornato torbido come se non fosse accaduto nulla.
            Almeno, quel mezzo attacco di panico gli era servito, effettivamente, a qualcosa, fugando tutti i dubbi che fino ad allora gli avevano solleticato i pensieri.
            Non sapeva quando, o come, ma qualcosa di davvero orribile gli avrebbe sconvolto la vita. E, forse, era cominciato tutto proprio in quell’esatto momento.
 
 
 
Una mano si allungò morbidamente contro il suo fianco, e quando alzò lo sguardo dal suo piatto ormai vuoto, Areli incrociò gli occhi divertiti di Mick. Fece finta di nulla e finì l’ultimo sorso di idromele, nascondendo la felicità che quel gesto così semplice le provocava dietro il bordo del suo calice.
            «Serafini, tieni le mani a posto!»
            «Oh, andiamo, mica sei mia madre!» Si lamentò il ragazzo, facendosi più vicino a lei. Dall’altra parte del tavolo, Astrid alzò gli occhi al cielo, con l’esasperazione dipinta sul viso.
            «No, ma potrei esserlo. E, guarda, se voi ragazzi…»
            «Lei non è mica vecchia quanto te.» Continuò imperterrito, sfoggiando una faccia da schiaffi degna di Loki. Schioccò la lingua, e sul loro tavolo cadde un silenzio opprimente. Persino Brycan, che solitamente ingurgitava tutto il commestibile e non proferiva parola durante la cena, aveva alzato di scatto la testa.
            Avrebbe voluto davvero schiaffeggiare il suo presunto ragazzo, in quel momento, fino a fargli sanguinare la bocca; ma sapeva che non sarebbe riuscita a zittirlo comunque. Per essere un figlio di Thor, era troppo incline al masochismo e al massacro a suo discapito.
             «Astrid lascia perdere, adesso comincia anche la cerimonia, non ne vale la pena.» Borbottò Robin, portandosi le ginocchia al petto. Quella sera erano riusciti ad accaparrarsi uno dei tavoli delle cerchie più vicine, dopo un breve scontro in cui Brycan aveva fracassato un’intera panca in testa a tre ragazzi del venticinquesimo piano. Questo significava che non avrebbe dovuto passare la maggior parte del tempo a contorcersi sul posto nella vaga speranza di riuscire a intravedere qualcosa.
            «Quanti stasera?»
            «Solo una. C’è Honora con lei.»
            Mick si lasciò sfuggire un fischio, mentre si sporgeva per guardare di sotto: di fronte al tavolo dei capi, due ragazze stavano aspettando la chiamata. Honora era in piedi nelle sue vesti di Valchiria, la spada legata al fianco e lo sguardo truce perso in un punto non ben precisato davanti a sé.
            Era una ragazzetta piuttosto alta, dalla pelle brunita e spessi capelli neri acconciati in trecce: ogni volta che la guardava, Robin si faceva scappare un commento sul suo aspetto, che tanto le ricordava l’amica indiana che aveva avuto un secolo prima e che le mancava da morire.
            Da quello che si diceva, Odino l’aveva reclutata quando ancora doveva compiere dodici anni; a sedici aveva rifiutato il posto di Capo che le veniva concesso. Areli non sapeva se biasimarla davvero per le sue scelte, che a volte sembravano affrettate e dettate più da un orgoglio sfrenato che dall’umiltà con cui la dipingevano i suoi compagni di piano.
            Non era stata la sua Valchiria, ma Mick era arrivato con lei, così come Robin e Astrid. Più volte si erano fermati a parlarle, magari quando la incrociavano frettolosamente a cena, per poi osservarla sfrecciare abilmente tra i tavoli. Era figlia di Vidarr, il dio della vendetta, e questo spiegava il suo naturale broncio e le sopracciglia perfette perennemente corrucciate.
            «EINHERJAR!»
            Un grido si levò dal tavolo principale, seguito dal frastuono dei calici che venivano sbattuti sul ripiano. Il silenzio calò in sala e Helgi iniziò a sciorinare il suo usuale discorso su quanto bello e gratificante fosse morire tra atroci sofferenze e servire Odino nel suo personale esercito, aspettando ovviamente la fine del mondo.
            La nuova Einherji si chiamava Alessia, e continuava a torcersi le mani piegando la testa verso Honora, forse chiedendole spiegazioni su quello che sarebbe accaduto di lì a pochi minuti. Areli la capiva: far vedere la propria morte a centinaia di sconosciuti poteva essere imbarazzante. Lei non era uscita dalla propria camera per una settimana dopo la proiezione del video, che la vedeva protagonista di un incidente aereo armata di un ombrello di plastica a fiori. Orribile.
            «Mi sa che è successo qualcosa…» Accanto a lei, Mick poggiò un gomito sul legno, lo sguardo fisso verso la Valchiria. Le dita avevano ripreso ad accarezzarle distrattamente il fianco.
            «Dici?»
            «Eccome.» Fece eco Robin. «Guarda come le stritola la spalla: sembra abbia intenzione di frantumargliela in mille pezzi.»
            Effettivamente, anche da lì, Areli poteva vedere le dita sbiancarsi a causa della forza innaturale con cui la mora stava stritolando la maglietta della povera ragazzina.
            «Non l’ho mai vista così.» Astrid sospirò e tornò in silenzio.
            A differenza di molte altre sue compagne, Honora non aveva mai dimostrato particolare agitazione durante le cerimonie, anche se ogni sera si metteva potenzialmente in discussione il suo ruolo di Valchiria. Semplicemente, ogni Einherji che portava si dimostrava degno della sua morte, era un dato di fatto ormai.
            Piena di curiosità, lasciò che le parole di Helgi le scivolassero addosso, finché il filmato di ValchiriaTV non partì.
            Si trovavano in un museo.  Le riprese erano state fatte dall’alto, ma l’inquadratura continuava lentamente a girare, seguendo i profili di una scolaresca abbastanza annoiata. Alessia camminava a braccetto con un’altra ragazzina, condividendo gli auricolari, verso la coda del gruppo. Si erano fermate per seguire la spiegazione della guida o, almeno, simulare un minimo di interesse; accanto a loro, un ragazzo alto e allampanato continuava a picchiettare un dito contro una vetrina che custodiva statuette d’argilla, come se si aspettasse che queste prendessero vita da un momento all’altro.
            Era una mostra Egizia, notò, quando i ragazzi avanzarono verso la stanza successiva: al centro campeggiava un’enorme statua alta due metri e mezzo di un dio con la testa di cane e il corpo nudo coperto da gonnellino a pieghe. La guida si fermò ai suoi piedi e iniziò a spiegare con pazienza di cosa si trattasse; era una ricostruzione a quando pareva, e ritraeva il dio Anubi. La testa era interamente d’ossidiana e, a detta dell’uomo, rappresentava uno sciacallo.
            Dopo la breve digressione, i ragazzi furono lasciati liberi di aggirarsi tra le bacheche. Passò un intero minuto e poi successe.
            In un rombo assordante, la statua al centro si mosse, affondando un piede nel pavimento azzardando un passo. I vetri esplosero in una miriade di schegge e le statuine al loro interno balzarono via dai loro piedistalli, seminando il panico e facendo scattare l’allarme.
            Areli era basita. Come tutti nella sala, non riusciva a credere a quello che stava vedendo: sapeva che qualche tragedia era avvenuta, ma i suoi pensieri si erano soffermati su un incendio, un sequestro, una sparatoria. Mick accanto a lei era rigido come un tronco, e i capi continuavano a boccheggiare davanti alle scene. Odino non era presente, ma anche lui avrebbe avuto una reazione simile, ci avrebbe scommesso.
            La telecamera si fece più vicina, nonostante tutto il fracasso, segno che Honora aveva seguito la scena quasi rasoterra. Alessia, nel video, spinse via la sua compagna strillando, precipitandosi a bloccare la porta di sicurezza che si stava chiudendo, intrappolandoli dentro. Con fatica, e aiutata da altri due ragazzi, riuscì a tenere uno spiraglio aperto, e uno per uno tutti gli studenti furono ben presto fuori. Qualcuno le urlò di buttarsi, che da dietro avrebbero spinto per farla passare, ma un istante dopo la statua l’afferrò per i vestiti e la trascinò indietro.
            La porta si sigillò con un tonfo.
            Non mancava molto, Areli poteva immaginare come fosse finita. Per quanto assurdo fosse quello che stava guardando, ormai era stata testimone di una quantità allucinante di stranezze negli ultimi quattro anni. Forse, quelle statue, erano solo una malia ben orchestrata.
            Spostò, per curiosità, la sua attenzione su Honora, e la vide stringere le labbra fino a renderle una linea furente e secca sul suo viso.
            «PORCA PUTTANA!»
            Una voce squillante si impose con prepotenza sull’allarme, e Mick aggrottò le sopracciglia, sconvolto, riconoscendo immediatamente la sua lingua madre. Anche lei, che di italiano non spiccicava una parola, l’aveva riconosciuta subito.
            La telecamera si voltò con uno scatto verso il grido e lì, a pochi metri, c’era una ragazza vestita di bianco, con un vortice di sabbia che le roteava alle spalle a mezzo metro da terra.
            «E per fortuna che doveva essere un compito facile… Ma che si sono fumati nella Duat?»
            Mick tradusse basito per il loro tavolo, e Areli vide la ragazza allargare le gambe, puntando saldamente le converse bianche a terra. Aveva un caschetto di capelli biondi che le incorniciava selvaggiamente il viso, occhi verdi contornati da trucco scuro e una riga di eyeliner che le sfiorava la fine delle sopracciglia. Alzò una mano in aria, brandendo un bastoncino ricurvo, decorato in cima e gridò.
            «HA-DI!»
            Sopra la sua testa alcune figure iniziarono a brillare, ma non assomigliavano a nessuna runa. No, quelli erano geroglifici. Non voleva crederci.
            Tutte le statuine si arrestarono, esplodendo in frammenti minuscoli, sgretolandosi in sabbia. La statua di Anubi si voltò per squadrarla, e per la prima volta dopo minuti, l’attenzione di Honora e del suo video tornò a concentrarsi sulla giovane Alessia.
            Stava soffocando, il viso paonazzo, le lacrime agli occhi, con una mano della statua che la teneva per il collo. In una mano brandiva una stecca di metallo che era stata parte integrante di qualche intelaiatura.
            «Li mortacci tua…!» Biascicò l’italiana, e come prima si preparò a scagliare un’altra magia per liberarla. Aveva i denti serrati perché probabilmente si era accorta dei due corpi esamini che giacevano tra i vetri, quello di un professore e della guida.
            «NON TI AZZARDARE!»
            Un sussulto di stupore scosse la sala, quando si aggiunse anche la voce graffiante di Honora. La bionda la guardò esterrefatta, come se si fosse appena resa conto della sua presenza.
            «SEI SCEMA?» Le gridò in inglese, ma ormai era distratta. Alessia si accasciò, lo schiocco del suo collo che si rompeva si perse tra il frastuono generale.
            «Anubi, ora!» Una luce fredda la circondò; lanciò l’incantesimo con tutte e due le mani e la statua si dissolse in un cumolo di cenere. Il corpo inerme di Alessia cadde con un tonfo al suolo.
            Honora si avvicinò, ma la biondina le sbarrò la strada puntandole contro il bastoncino.
            «L’avrei salvata se non ti fossi messa in mezzo!»
            «Sei tu che ti sei mezza in mezzo!» Le urlò senza mezze riserve. «Non immischiarti nel mio lavoro!»
            «Il tuo lavoro? Ma ti senti quando parli? Non dire stronzate.»
            Passarono immediatamente allo scontro. Areli sentì la Valchiria sguainare la spada e menare un affondo perfetto alla gola della ragazza, ma qualcosa la rispedì indietro e l’onda d’urto mandò a terra Honora. Le immagini divennero turbolente, sfocate; l’allarme smise di suonare ma bisbigli sempre più forti presero posto del silenzio.
            «Diana, che è successo…?»
            «Non lo so! È colpa di quella!»
            Honora stava provando a rimettersi in piedi, con fatica: la telecamera inquadrò di sfuggita un gruppo di persone attorno all’italiana, anche lei a terra, vestite tutte nello stesso modo. Un ragazzo con gli occhiali e la carnagione scura guardò nell’obbiettivo e aggrottò gli occhi, furente.
            «Ohi, Valchiria, vacci piano che poi come ci torni a casa?»
            Altre immagini sfocate, finche un viso decisamente troppo divertito non riempì l’intera inquadratura. Era il ragazzo alto dell’inizio, con tanto di capelli corti e neri, e due occhi cobalto che promettevano le peggiori azioni irresponsabili di cui fosse capace un essere umano senziente. Non era scappato, e questo voleva dire che anche lui aveva assistito all’intera scena.
            «Non mi toccare…»
            «Non ti reggi in piedi.» Le fece notare il moro, ridendo e mettendo in mostra le fossette e il naso lentigginoso. «Ma accomodati pure se vuoi. Ah, comunque, la tua anima, lì, se ne sta andando. Scivolando per sempre negli abissi del Ginnungagap. Un risvolto interessante in effetti, ma non penso sia questo che vi chiedono di raccontare a cena, no?»
            Rise ancora, e Honora lo spinse via con un braccio, precipitandosi a raccogliere l’anima. Le afferrò il polso, e Alessia le si aggrappò con entrambe le mani, la sua figura iridescente nell’aria.
            «”Grazie dell’aiuto!” Oh, ma figurati.» Il ragazzo imitò una voce stridula beccandosi probabilmente un’occhiata assassina, che non lo scompose di un millimetro.
            «Farai meno lo spiritoso quando toccherà anche a te.»
            «Oh, non ne dubito. Una morte violenta, con sangue, budella… Non vedo l’ora! Ah, comunque, salutami i miei fratelli, o le mie sorelle, se ce ne sono.» Le fece un occhiolino, e poi lo schermo si oscurò di botto, come se la telecamera avesse preso un colpo.
            «Che cavolo…?»
            «Oooooh….»
            «Si può sapere che stai facendo!?»
            «Jacob no!»
            «Il portale si sta chiudendo, muovetevi voi due…!»
            «EHI!»
            Poi il silenzio. Il filmato terminò e l’intera sala rimase ammutolita.
            Areli non aveva la più pallida idea di che cosa avesse visto.
            Si sentiva strana, scossa, quasi fosse stata lei stessa la protagonista di quella follia. In basso, Honora continuava a portare avanti il suo stato di calma apparente: ritrasse la mano dalla spalla della sua Einherji dopo essersi abbassata per dirle qualcosa all’orecchio, forse rassicurarla su quello a cui aveva appena assistito.
            «Beh… Direi che è tutto molto… Singolare.» Provò Helgi, sfoggiando un sorriso che avrebbe dovuto essere spontaneo, ma che assomigliava a una smorfia sofferente, preannuncio di un’imminente crisi di nervi. «Qualcuno vuole commentare; qualcosa di aggiungere…?»
            «Io!»
            Dalle cerchie più lontane una mano sventolò, attirando l’attenzione. Areli ci mise un po’ per capire di chi si trattasse, e quando la ragazza in questione parlò di nuovo finalmente riuscì a inquadrarla per bene.
            «Io ho qualcosa da dire!» Ripeté. Era seduta a gambe incrociate sul tavolo, le braccia morbidamente inarcate all’indietro per sostenerla. Indossava una camicia a quadrettoni rossa e i capelli scuri le ricadevano sulle spalle in ricci perfetti.
            «Trinidad Aleix Alvarado, figlia di Loki!» Sciorinò l’uomo, quando l’ebbe riconosciuta. La mora alzò gli occhi e i suoi compagni di piano repressero sorrisi e sghignazzamenti dietro le mani.
            Di solito si faceva chiamare Trini, e da quando era arrivata non era mai morta. Sembrava assurdo, ma in un modo o nell’altro riusciva ad evitare le condanne più disparate: annegamenti, defenestrazione, avvelenamenti e persino una quasi decapitazione. Nessuno era ancora riuscito a farle esalare il suo secondo ultimo respiro. Sosteneva che l’intero concetto di “continuare a morire” fosse totalmente stupido, visto che durante il Ragnarok non sarebbero resuscitati, e l’istinto di sopravvivenza è comunque un ottimo alleato quando si parla di sopportazione del dolore.
            Solo quella mattina, per esempio, l’aveva vista alle prese con alcuni ragazzi del piano centoquattordici, che avevano trovato divertente l’idea di sfigurarle mezza faccia con dell’acido. Trini l’aveva presa con filosofia e li aveva squartati sotto i suoi occhi, per poi zoppicare allegramente ai margini del loro campo di battaglia, cercando i suoi compagni. Adesso, aveva solo delle leggere rughe su una guancia, bianche come ragnatele, che continuavano ad incresparsi seguendo le sue parole. Il giorno dopo si sarebbe svegliata e il suo viso sarebbe tornato perfetto.
            «Niente, volevo solo dire che il tipo molesto alla fine è mio fratello!» Sghignazzò, rivolta al tavolo dei capi. C’era una nota di orgoglio nella sua voce che la inquietò.    «Bro, hai visto!?» Gridò poi, all’altra parte della sala.
            Alex Fierro sollevò cripticamente entrambe le sopracciglia scure, incrociando le mani sotto il mento. Era l’unico – o unica? Areli non era molto brava a capire la differenza, e il più delle volte si limitava a rimanere in silenzio per non fare brutta figura – figlio di Loki lì nel Valhalla, e faceva parte del piano diciannove che decenni prima aveva rimandato la fine del mondo. Erano un po’ i VIP di quel posto di cerebrolesi, ed essere ammazzati da loro era considerato un grandissimo onore.
            «Purtroppo sì.» Rispose, sporgendosi un po’ verso il basso. «Ricambia i saluti se lo rivedi in giro, cara.»
            Honora mimò con le labbra un “neanche morta!” voltandosi verso di lui.
            «Ah, comunque Magnus ha qualcosa da dire, vero?»
            «Eh!?» Il figlio di Freyr tossì un paio di volte per non strozzarsi con l’idromele, sentendosi preso in causa. Cercò di protestare, ma pochi secondi dopo si era ritrovato a parlare di fronte a tutti contro la sua volontà.
            «Avanti, Magnus Chase, parla!» Lo spronò Helgi, che evidentemente riponeva molta aspettativa nelle sue parole.
            «Non è niente di certo.» Precisò il biondo, grattandosi un orecchio. «Però non credo ci sia da stupirsi tanto.» Un sussulto indignato scosse le fila di Einhajer. «Nel senso… Ok, sappiamo che esistono gli dei norreni. Wow, tutto molto figo: i Nove Mondi, Il Ragnarok, noi che continuiamo a morire… Però, voglio dire, mia cugina è una semidea greca. Sua madre è sua intelligenza divina Atena; e da qualche parte a Long Island c’è un Campo in cui dodicenni davvero poco morti si addestrano per sconfiggere mostri e altra roba. Quindi, boh, magari la ragazzina del video era solamente una semidea egiziana? O qualcosa del genere.»
            Messa in quel modo aveva un briciolo di senso in più. Mentre la sala esplodeva in manifestazioni più o meno violente sul fatto che esistessero altre divinità – che comunque non sarebbero mai state al pari delle loro, sia ben chiaro – Areli sospirò, impensierita. Quell’idea non le sembrava poi tanto stramba, ma in un certo modo aveva minato le poche certezze che aveva avuto da quando era morta: ci aveva messo molto per riuscire ad assimilare tutta la faccenda del Valhalla, e ora il mondo si era fatto improvvisamente più grande, più ostile, e più confuso che mai.
            «Questa cosa non mi piace per niente.» Asserì Robin, lisciandosi i lunghi capelli con una mano. «Se gli dei si assomigliano tutti, questo vuol dire che siamo circondati da pazzi pronti a tenere seminari motivazionali nel pieno della fine del mondo.»
            Brychan si grattò la mascella, aggrottando con forza le sopracciglia. «Io me li ricordo, i Romani.» Lanciò un’occhiata storta a Mick, visto che aveva passato tutti i suoi sedici anni di vita nella capitale italiana. «Un popolo di burattini senza anima, con l’unico scopo di marciare sopra i cadaveri dei nemici e conquistare la loro terra. Non mi stupirei se i loro dei fossero senza spina dorsale, proprio come loro.»
            Sicuramente insultare una divinità non era proprio quella che si dice un’idea geniale, ma lasciò perdere questo dettaglio. Mick scivolò sulla panca, stringendole il fianco, finché non furono spalla contro spalla.
            «Secondo me, non è nulla di così terribile. Odino è vecchio come il mondo, sicuramente è a conoscenza di tutti gli altri Pantheon e la gente che li frequenta.  Probabilmente, come ha detto Chase, ci saranno anche tonnellate di ragazzi come noi.»
            «E allora perché nessuno sa niente?»
            «Istinto di sopravvivenza, credo.» Mick socchiuse gli occhi. «È più facile tenerci separati: se ognuno bada ai fatti propri, senza immischiarsi in cose che non lo riguardano, è ovvio che si riesca a mantenere più a lungo una “convivenza pacifica”. Probabilmente è così per tutti. Noi, Greci, Egizi, Romani, Cristiani e qualsiasi altra cosa ci sia su questo pianeta.»
            «Spero tu abbia ragione.» Disse Robin. «Queste cose fanno paura.»
            «E cosa succederà quando scoppierà il Ragnarok?» Gli chiese. Mick ci pensò su, cercando di figurarsi una prospettiva del genere.
            «Beh, noi moriremo. Per gli altri non lo so, immagino che avranno qualche mito, o racconto, sull’ipotetica fine del mondo. Per i Cristiani ci sarà l’Apocalisse e poi Dio giudicherà l’umanità, no? I Maya l’hanno predetta con un calendario, e credo ci fosse qualcosa al riguardo agli Aztechi… Boh, forse dei sacrifici? Gli Aztechi facevano un sacco di sacrifici.»
            Calò il silenzio. Helgi, a un certo punto, aveva provato a concludere la cerimonia; ma le sue parole si erano perse nel fracasso generale: sopra di loro, il piano settantuno dichiarò guerra al seicentosessantasei lanciando una coppa con ancora dell’idromele all’interno. Trini la schivò, si alzò in piedi, e tagliò la gola al ragazzo che l’aveva presa di mira con il bordo scheggiato di un piatto; in un gesto colmo di brutalità non necessaria che infervorò tutti i suoi compagni.
            Due minuti dopo, il caos era già dilagato dappertutto, e i resti delle stoviglie continuavano a volare giù dalle file di panche. Mick alzò un braccio per ripararsi dai cocci, tagliandosi.
            «Direi che possiamo anche andare, per stasera ne ho avuto abbastanza.» Sentenziò, dando un’occhiata in giro prima di alzarsi. L’uscita più vicina era bloccata dagli scontri, e per raggiungerla avrebbero dovuto correre aggirando asce, spade e bicchieri in caduta libera.
            Mick rise. «L’ultimo che arriva è un gigante di pietra!» Poi le afferrò il polso e saltò giù.
 
 
 
L’odore della pioggia le pizzicava il naso. Era carico del profumo del bosco, dell’odore ricco della terra morbida immersa nel torpore dell’inverno. Non aveva mai prestato troppa attenzione a dettagli piccoli come quello, eppure da quando era arrivata le veniva più facile notare le piccole cose. La sfumatura che prende il cielo tra l’arancio e l’azzurro prima dell’alba. Il suono leggero delle campanelle appese all’ingresso del dojo. La consistenza del tatami sotto i suoi piedi nudi, prima di andare a dormire.
            Era felice, nonostante fosse lontana da casa e non vedesse la sua famiglia da quasi un mese; un tempo così lungo per una ragazzina che, come lei, non si era mai allontanata dalla città. C’era voluto del tempo e parecchia fatica da parte sua per ambientarsi, ma alla fine tutti gli sforzi l’avevano ripagata, rendendola orgogliosa del proprio impegno.
            Si alzò sulle punte, e con molta cura allacciò il cordino del suo Teru bouzu al filo di metallo che Taewook-san aveva fissato per lei quella mattina. Correva da una parte all’altra del portico in legno, coperto da un tetto spiovente. Una serie di colonne in mogano delimitavano l’ingresso del dojo; in fondo, sulla parete di roccia, c’era il Kamiza e le rastrelliere su cui tenevano bokken, jo e shinai. Non c’erano porte, o vere pareti, perciò il tatami in quei giorni era sempre umido e freddo.
            «Tsukki, guarda che i Teru bouzu non si attaccano da soli.» Disse, vedendo la sua amica intenta a fissare il prato e le montagne all’orizzonte, tra le mani la bambolina di stoffa. Era la prima volta che ne faceva una, visto che aveva la testa un po’ deforme, ma era stata felicissima di provare quando glielo aveva proposto, quella mattina. Con un pennarello, aveva abbozzato una faccina sorridente compresa di baffi, come un piccolo gattino.
            «Stavo pensando che con tutta questa pioggia il fiume deve essersi ingrossato, di sotto.» Si girò verso di lei, con gli occhi viola che luccicavano di divertimento. «D’estate andiamo sempre a fare il bagno lì. Teawook ci lascia giocare con i pesci, è divertente. Non vedo l’ora che sia estate, così potremo andarci insieme.»
            Soddisfatta, allacciò anche lei la sua bambolina. Tsukki era al campo da molti più anni di lei, ma quello era solo il secondo che si fermava anche durante l’inverno. Le aveva detto che, appena iniziava la bella stagione, il numero di ragazzi che si fermava cresceva esponenzialmente, e che organizzavano veri e propri tornei di karatè, judo e tiro con l’arco. Taewook li portava a valle dove c’erano tre grandi ryokan accumunati da un giardino immenso che curava lui stesso, e durante il Tanabata il tempio si riempiva con i cartoncini dei loro desideri e delle preghiere agli dei.
            Ayano non vedeva l’ora che facesse bel tempo, anche se l’autunno era appena finito. Attualmente erano solamente in sette, contando anche Taewook-san, e a malapena riempivano tutte le stanze della piccola abitazione che avevano a disposizione. Il campo di tiro con l’arco le sembrava sempre troppo grande e silenzioso, come se trasmettesse una malinconia simile agli alberi che hanno perso le foglie. C’era un ragazzo di qualche anno più grande che la mattina si esercitava; per il resto, rimaneva deserto.
            Più che a un campo, in effetti, le sembrava un villaggio, di quelli piccoli sperduti in mezzo alle piantagioni di riso. Tutti gli edifici erano in legno, e Tsukki le aveva detto che era stato Teawook-san a costruirli in persona, per poi farli benedire agli dei. Il complesso si sviluppava su una sporgenza rocciosa larga poco meno di un chilometro, attorno a un prato curato. Non c’era modo di accedervi se non attraverso un portale, che si trovava all’interno del tempio.
            «I tuoi sono molto più belli, Yan-chan, non è giusto!» Si lamentò Tsukki, occhieggiando le sue bambole, indispettita.
            «Io le faccio da molto più tempo. Ho imparato da mio padre, quando ero piccola le appendeva sempre alle finestre di camera mia.» Le disse. Ne prese un’altra, su cui aveva disegnato un’espressione sonnacchiosa, e l’appese.
            «Deve essere stato bello. Io… Non ho molti ricordi del mio papà. Se ne è andato che ero ancora piccola, e poi sono stata lontana dagli umani per anni…»
            Ayano alzò il viso e vide la punta delle orecchie di Tsukki pendere verso il basso, immerse completamente tra i ricci crespi dei suoi capelli rossi. Non le serviva conoscere nulla della sua infanzia per immaginare quanto fosse stata dura, e piena di pregiudizi. Né completamente umana, né completamente volpe: essere una mezza kitsune l’aveva relegata sul confine sottilissimo che divideva due mondi distanti quanto un abisso.
            «Mi dispiace.»
            «Um.» Si era rattristata, nonostante tutto, attorcigliando la coda su una gamba. «Non devi. È  passato tanto tempo, ormai.»
            Si sfregò le guance con entrambe le mani per poi sorriderle, mettendo in mostra i dentini affilati. Ayano era ancora un po’ dubbiosa, ma preferì non dire nulla. Non aveva le parole adatte per essere di conforto.
            Ripresero il loro lavoro, lasciando che la pioggia rompesse il silenzio. Si ritrovò a canticchiare a bassa voce le strofe di una poesia vecchissima, che sapeva di casa e aveva il colore dei ricordi.
            «Teru-teru bozu, teru bozu… Ashita tenki ni shite o-kure, itsuka no yume no sora no yo ni. Haretara kin no suzu ageyo
            Le orecchie di Tsukki fremettero all’istante, e la ragazzina si voltò verso di lei con il sorriso sulle labbra.
            «E questa?»
            «Una filastrocca. Serve per mandare via gli spiriti maligni.»
            Tsukki rise appendendo l’ultimo Teru bozu. «Insegnamela! Ah, aspetta, l’inizio non è difficile, allora… “Teru-teru bozu, teru-teru bozu…!”» Cantilenò, facendo una piroetta sul posto.
            «No, no, non così, hai sbagliato!» Il suo rimprovero però fu smorzato dalle risate; la ragazzina le prese entrambe le mani e insieme iniziarono a girare in tondo, sempre più veloce. Quando smisero avevano i visi rossi e il fiato corto.
            «Oh, questo è stato divertente! Super divertente!»
            Ayano dovette darle ragione, perché le guance le tiravano tutte e si sentiva leggera come una piuma, anche se il mondo non aveva ancora finito di vorticarle attorno. Prese fiato e fece scivolare lo sguardo di fuori, dove la pioggia si era attenuata un poco.
            «Ehi Tsukki…» Tiro pianò la manica del kimono che indossava. «C’è un ragazzo in mezzo al prato.»
 
            Lo sconosciuto si era seduto per terra a gambe incrociate, e Teawook-san aveva alzato le sopracciglia a quel gesto, quasi scandalizzato. Ayano non lo conosceva benissimo, ma aveva imparato a leggere il linguaggio del suo viso in maniera precisa.
            «Lo hai mai visto?»
            Tsukki scosse la testa, sporgendosi dallo stipite per poter sbirciare: la kitsune le aveva spedite a preparare il thè per il loro ospite non appena entrate, ordinando tacitamente di rimanere in disparte e non intromettersi.
            «Non sembra uno Yokai, per nulla.» Disse, assottigliando gli occhi felini. Le orecchie e la coda erano scomparse per il momento, ma Ayano poteva benissimo immaginare gli scatti irrequieti che avrebbero fatto se ci fossero state. «Forse è un dio…»
            «A me sembra normalissimo…» Bisbigliò, ricontrollando il vassoio. La teiera era in mezzo, poi aveva posizionato l’infuso, le tazze. Il servizio era molto vecchio e tutti i pezzi erano striati d’oro lì dove alcune crepe ne indicavano la rottura. Le sarebbe piaciuto saper ascoltare la voce segreta degli oggetti; chissà che bella storia avrebbero potuto raccontarle.
            Con attenzione, si incamminò nell’altra stanza, posizionando il tutto sul tavolino basso. Iniziò a servire in silenzio e Taewook-san le sorrise compiaciuto notando la sua precisione nei movimenti.
            Aveva una corporatura abbastanza massiccia, eppure il kimono gli scivolava sulla pelle alla perfezione, increspandosi leggermente sui gomiti. Si era tagliato e rasato i capelli, e ora l’unico punto in cui si arricciavano era dietro le orecchie.
            Le dedicò un cenno con il capo e aspettò prima di cominciare a bere, tendendo la schiena in una postura impeccabile. Forse stava cercando di intimorire l’altro ragazzo: era un gesto che gli aveva visto fare spesso in dojo quando, alla fine della lezione, li chiamava a coppie per mostrare una o più tecniche di fronte al resto del gruppo.
            «Grazie mille.» Il giovane unì le mani e si chinò leggermente verso di lei.
            Era vestito tutto di bianco, e a prima vista gli aveva ricordato un Teru bouzu. Aveva il viso gentile dei monaci e capelli ricci e scuri che gli ricadevano sulla fronte, occhi grandi e castani.
            «Ho visto che sono arrivati ragazzi nuovi.»
            «Un po’.» Taewook-san stirò le labbra in un sogghigno morbido. «Vedremo quest’estate.»
            Sorseggiarono la bevanda e per un po’ non si dissero nulla. Ayano era giovane, ma non stupida, e si accorse perfettamente del distacco gelido che la kitsune dimostrava in ogni singolo movimento del corpo. Il loro ospite non sembrò farci caso però. Si sentiva a disagio a rimanere lì, ma nessuno l’aveva ancora congedata e lei di certo non poteva andarsene senza dire nulla.
            «Allora, Ravi, che cosa ti porta qui?»
            «Nulla in particolare.» Rispose. «Ero di passaggio e ho pensato di venire a salutare. Le ultime giornate sono state frenetiche, un po’ di calma è tutto quello che cerco.»
            «Allora sei venuto nel posto giusto.» Un rombo di un tuono scosse l’aria, e l’acqua iniziò a cadere più fitta. «O forse no. Che tempo, sembra che gli spiriti siano irrequieti anche quassù.»
            Ravi serrò la mandibola in uno scatto abbastanza evidente. Bevve un sorso di thè, prima di parlare ancora.
            «Stanno succedendo parecchie cose…»
            «Oh, lo so.» Taewook-san sorrise, come se la cosa lo divertisse. «È un po’ difficile non accorgersene. Ecco, forse qui non è evidente, ma ho sentito che in America stanno succedendo cose interessanti. In Europa. In Egitto.» Schioccò la lingua. «Tutti si affannano come formiche sulle briciole.»
            «Non pensi dovremmo fare qualcosa anche noi?»
            Taewook-san irrigidì la bocca, e Ayano vide il disgusto dipingersi sul viso allungato.
            «No.» Rispose secco. «La cosa non ci riguarda minimamente. Che se la sbrighino da soli come hanno sempre fatto.»
            Ravi poggiò la tazzina sul tavolo, senza aggiungere altro. Sembrava provato, in un certo senso, e una ruga gli solcava la fronte in modo netto.
            «Capisco.» Aggiunse alla fine. Taewook-san finì il thè e poi inclinò leggermente la testa nella sua direzione.
            «Sei ancora qui?» Le chiese, vedendola rigidamente in piedi. «Raccogli tutto e vai di sopra.»
            Ubbidì senza protestare, nonostante il tono brusco le desse fastidio. Tsukki si era accovacciata dietro i pannelli di carta di riso, con la coda in grembo, gli occhi spalancati e in allerta.
            «Yan-chan…»
            «Non lo so.» Bisbigliò all’amica, mentre salivano in camera. Non era riuscita a carpire molto da quella conversazione, ma le aveva lasciato addosso una pesantezza opprimente. «Andiamo.»



«Oh Jacob, smettila di tormentarti quel taglio. Sei come i bambini; poi se ti levi la crosta ti rimane la cicatrice.»           
            Il ragazzo strinse le labbra e arrossì per l’imbarazzo, lasciando ricadere la mano sul tavolo.
            «Scusa.»
            Olivia gli sorrise bonariamente, più divertita che irritata. Riprese a sorseggiare il caffè dell’hotel, che aveva un curioso retrogusto fruttato che l’aveva affascinata dalla sera prima.  In un momento di follia, aveva preso ben tre dolci ricoperti di crema e cioccolato, ma non era più così sicura di riuscire a finirli.
            «Ti vedo abbastanza nervoso in questi giorni. E anche Diana è ridotta a uno straccio, penso abbia qualche problema a dormire.» Disse, indicando con un cenno la ragazza seduta a un altro tavolo un po’ più avanti. Aveva fatto a pezzi una brioches ripiena di crema, che continuava a inzuppare senza entusiasmo nel latte. Richard, accanto a lei, stava letteralmente dormendo sopra un piatto di salsicce e bacon.
            «È che…!» Iniziò, sfilandosi gli occhiali e massaggiandosi le tempie, esasperato. Uno dei camerieri si affacciò per vedere se stesse bene; Olivia lo allontanò con un cenno della mano senza scomporsi.
            «Con calma, Jacob. Fai un bel respiro. Non c’è fretta.»
            Il ragazzo annuì, premendosi le mani sugli occhi in modo da scacciare via le lacrime: avere una crisi isterica di fronte ad Olivia – per quanto lo avesse visto in condizioni molto peggiori – era proprio l’ultimo dei suoi desideri. Si impose di calmarsi, e alla fine trasse un respiro tremante mentre rialzava lo sguardo.
            «Quello che è successo a Salem… Non doveva… Non doveva andare così.»      Distolse lo sguardo abbassandolo sul suo piatto pieno di briciole e croste mangiucchiate. Tirò su col naso, e Olivia sorrise nel vederlo così umano        . L’impulso di alzarsi e consolarlo si fece prepotentemente strada tra i suoi pensieri; ma erano pur sempre in un salone di un hotel di Istambul a fare colazione, e sapeva che simili gesti non sarebbero stati graditi con tutta quella gente a fare da testimone.
            «Che cos’è che ti ha turbato così tanto?» Gli chiese. Le avevano raccontato tutto nei minimi particolari – ovviamente - inclusa la ragazza intreccinata e a prima vista invisibile, ma ancora non aveva avuto modo di approfondire la questione con nessuno. Diana era scoppiata a piangere al ritorno – per frustrazione o shock ancora doveva capirlo – e Richard era sprofondato in un silenzio stretto condito da mal di testa allucinanti. Le aveva accennato qualcosa riguardo a Seth e altri deliri che li vedano protagonisti di diatribe a suon di urla e insulti, prima di spaccare a pugni lo specchio della sua camera dalla disperazione.
            «Io… Non lo so.» Ammise Jacob. «Credo sia tutto quanto. Il museo era un disastro, ma quando siamo arrivati abbiamo solo visto Diana venire scaraventata dall’altra parte della sala. La ragazza in armatura si è volatilizzata. Il ragazzino con la maglia blu anche. E poi sono arrivati i mortali… E hanno visto…»
            Si interruppe, boccheggiante.
            «C’era sangue dappertutto…» Aggiunse con un filo di voce. Non serviva che dicesse altro: Olivia allungò le mani verso le sue in un gesto di conforto, accarezzandogli i dorsi con i pollici.
            L’odore salato che impregna l’aria. Il fumo, le lacrime, le urla. Le ossa spezzate che sporgono fuori dai corpi e occhi vitrei ancora aperti su un mondo che non possono più vedere. Anche lei aveva provato sulla propria pelle l’impotenza, l’angoscia, la nausea che le stringeva lo stomaco alla vista dei cadaveri.
            Era stato improvviso e inaspettato e lei non aveva potuto far nulla che non fosse piangere.
            «Non datevi colpe che non vi appartengono.» Gli disse piano. «Siete stati bravi, è questo l’importante. Oh, Jacob, le persone sensibili sono sempre quelle che soffrono di più. Passerà, prima o poi passerà.»
            Jacob annuì, con gli occhi già carichi di lacrime. Si sfregò il viso con la manica della maglia e poi tirò indietro la sedia.
            «Vado in camera.» Biascicò, ed uscì dalla sala a grandi passi.
            Diana si girò a guardarla leggermente stranita.
            «Vuoi che vada da lui?»
            «No.» La rassicurò, scuotendo appena la testa. «Andate a dormire voi due, ne avete proprio bisogno.»
            Agitò una mano e sopra le teste dei due maghi scintillò un piccolo geroglifico. N’dah; proteggi.
            Diana strattonò Richard per un braccio, e dopo averlo svegliato sparirono anche loro su per le scale.
            Olivia sospirò, guardando il suo piatto ancora strabordante di cibo. Non era davvero in vena di buttar giù ancora qualcosa, ma si disse che non poteva tirare avanti fino a pranzo con del semplice caffè. Specialmente nelle sue condizioni.
            Tirò fuori il telefono, controllando velocemente Skype: Max aveva visualizzato il suo ultimo messaggio ma non risposto, probabilmente perché rimasto senza credito. Le aveva detto che era riuscito a prendere un autobus e che, se gli andava bene, avrebbe raggiunto Long Island nel giro di tre giorni. Sospirò e decise di chiamarlo la sera, non aveva tempo al momento.
            «Scusi, posso sedermi?»
            Alzò lo sguardo dallo schermo, vedendo un ragazzo tenere in equilibrio perfetto tre piattini sul braccio. Le stava sorridendo appena, forse un po’ nervosamente.
            «Oh, certo, solo un attimo.»
            Spostò i piatti di Jacob verso un angolo del tavolino, lasciandogli spazio. L’osservò sistemarsi con una certa curiosità, anche perché non credeva fosse un caso che avesse deciso di sedersi lì: la sala si stava svuotando, perciò era palese che avesse qualcosa da dirle. Non ricordava di averlo mai visto prima, ma le dava l’impressione di una persona abbastanza tranquilla, di quelle con cui avrebbe parlato volentieri.
            Durante gli anni aveva ricevuto avances imbarazzanti di tutti i tipi, in momenti più o meno sbagliati; e se quel ragazzetto ci stava davvero provando, almeno aveva avuto la decenza di farlo in modo discreto.
            «Ci conosciamo?» Gli chiese, notando le continue occhiate che le rivolgeva. Lui quasi si strozzò con il caffelatte.
            «Non… Non esattamente.» Tossì, posando la tazza per evitare di rovesciare il contenuto sulla tovaglia. «Almeno, di persona è la prima volta che ci vediamo.» Precisò.
            Olivia inarcò un sopracciglio, improvvisamente interessata alla piega che la conversazione stava prendendo.
            «Davvero?»
            «Um.»
            Il ragazzo si ficcò in bocca due biscotti, socchiudendo gli occhi scuri, con l’indecisione dipinta sul viso. Aveva capelli neri e leggermente mossi che gli arrivavano alle spalle, tirati indietro in un codino in modo da lasciargli scoperta la fronte. Teneva le maniche della camicia bianca arrotolate sui polsi e l’estremità dei jeans stracciati infilata con cura dentro un paio di scarponcini nocciola. In vita teneva legata una felpa scolorita, color vinaccia.
            «Diciamo che ho fatto un sogno.» Cominciò vago, afferrando un bignè alla crema dal suo piatto. «Ecco, potrei… Come dire…»
            «Mi hai sognata?» Gli risparmiò l’imbarazzato, e lui arrossì.
            «Sì, eeh… In sostanza sì.»
            «Fai sogni strani, allora!» Aggiunse ridendo, prendendo in mano il dolce al cioccolato. Diede un morso ma appena inghiottì il suo stomaco protestò violentemente, accartocciandosi su sé stesso per via della nausea.
            No, decisamente niente dolci oggi.
            «Purtroppo sì.» Sospirò il ragazzo rassegnato, grattandosi un orecchio. «Insomma, senza scendere nei particolari…» Olivia avrebbe voluto dirgli che invece i particolari li voleva eccome. «Sono venuto per consegnarti questi.»
            Frugò nelle tasche della sua felpa e ne estrasse un blocchetto di biglietti squadrati, con sopra la stampa lucida di un museo.
            Erano ingressi per il museo di Istambul, utilizzabili per tutto il weekend. Mentre li rigirava tra le mani si sentì sollevata, come se un peso enorme le avesse abbandonato le spalle. Dall’incidente di Max, utilizzare i portali era diventato ancora più rischioso, e questo li limitava da un sacco di fronti. Entrare nei musei senza dare nell’occhio si era rivelata un’impresa più ardua del previsto, e non potevano certo sperperare una quantità immonda di denaro per pagare l’ingresso a decine di maghi ogni singola volta.
            «Ti ringrazio moltissimo.» Gli disse, veramente riconoscente. «Per curiosità, a quale divinità dobbiamo l’interessamento?»
            Il moro sospirò, sollevato di aver trovato la persona giusta.
            «Ishtar.»
            «Oh, non avrei mai detto.»
            «Già… Non so bene di preciso che cosa le sia preso, ma nell’ultimo periodo è diventata ancora più intrattabile del solito… Uh, forse questo è meglio non dirglielo, però…» Olivia capiva benissimo, Iside per prima aveva un caratteraccio, e anche se negli anni si era ammorbidita, quando era stressata tendeva a impartirle ordini, tagliare di proposito qualsiasi connessione lasciandola a corto di magia, e soprattutto chiudersi in un silenzio opprimente.
            «Mi ha detto che stanno succedendo cose strane, ma nessuno sembra sapere perché. Per quanto ne so, ha cercato di mettersi in contatto con qualcuno, penso altri dei ma… Beh, il fatto è che di divinità babilonesi non c’è ne sono molte in circolazione. Sono state tutte dimenticate o quasi, e la loro coscienza a volte è appena percettibile.»
            «Quindi ha pensato che noi l’avremmo potuta aiutare?» Chiese perplessa. Di solito gli dei cercavano di annientarli senza pietà gettandoli in pasto a problemi molto più grandi di loro, e per esperienza Olivia aveva imparato a leggere tra le righe della presunta gentilezza che Iside le dimostrava, a volte.
            «Gli egizi le piacciono.» Il ragazzo sorrise. «Ad un certo punto è diventata parte integrante del vostro Pantheon, no? Ritornare a essere una dea in carne e ossa dopo aver visto la propria civiltà morire deve essere stato un vero e proprio miracolo. Anche se non ha mai apprezzato i gonnellini.»
            Risero.
            «Un punto a suo favore. Cercheremo di fare il possibile per sistemare la situazione. Tra l’altro, non ci sono anche delle decorazioni della sua porta esposte?»
            «Si. Ne è ossessionata, forse perché è l’unica cosa che la mantiene ancora in vita: il fatto che l’abbiano smembrata e che la parte principale sia da qualche parte a Berlino… Beh, meglio non parlarne!»
            Stava per aggiungere altro ma si bloccò, sfilando il telefono dalla tasca dei jeans. «Cavolo è tardissimo! Mio padre mi ammazzerà, poco ma sicuro..!» Biascicò, alzandosi in fretta.
            «Ah, mi spiace ma…»
            «Non c’è problema.» Olivia lo rassicurò con un cenno della mano. «È stato un piacere conoscerti di persona.»
            «Anche per me!» Le allungò un biglietto da visita stampato su un cartoncino color panna.  «Alla prossima… Oh? Evet
            Si alzò incastrando il cellulare tra l’orecchio e la spalla, iniziando a parlare in turco. Olivia lo seguì con lo sguardo finché non sparì. Lesse il nome impresso in bella grafia sul biglietto: Demir Aydin. Purtroppo non le diceva nulla, ma avrebbe senz’altro fatto delle ricerche a proposito.
            Mentre si infilava il biglietto in tasca, il suo sguardo finì di nuovo sul suo piatto e il cibo intonso. Qualcosa nel suo corpo si ribellò alla vista della crema e del cioccolato. Sospirò
            «No, davvero niente dolci.»
 
 
 
 
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- GIAPPONESE –
     
      Tanabata: (Settima notte) Festa tradizionale giapponese, celebra il ricongiungimento delle divinità Orihime e Hikoboshi, che rappresentano le stelle Vega e Altair. Non ha una data precisa, visto che si celebra la settima notte del settimo mese lunare, di solito tra Luglio e Agosto.
      Tatami:
      Ryokan: Albergo tradizionale, che conserva molti elementi dell’epoca Edo (1603 - 1868) come i pavimenti in tatami, il bagno esterno alla camera e un giardino dove, molto spesso, si può trovare un padiglione per la cerimonia del thè.
      Teru bouzu: Bambolina fatta di stoffa o carta di colore bianco, molto diffusa nelle campagne. Viene appesa alle finestre come amuleto contro la pioggia. La parola giapponese Teru è un verbo che significa rispendere e bouzu è il monaco buddista. È protagonista di una famosa filastrocca per bambini*.
      Dojo: Luogo dove si svolgono gli allenamenti alle arti marziali. Letteralmente significa “ luogo dove si segue la via”.
      Kamiza: Posto d’onore. Nel dojo, è il luogo dove si colloca la foto del Sensei (maestro) a simboleggiare la trasmissione dell’insegnamento.
      Bokken: Spada di legno utilizzata negli allenamenti, solitamente ha la lunghezza di una katana, ma può rifarsi anche ad altre spade.
      Jo: Bastone di legno lungo dal metro e mezzo ai due metri, viene utilizzato in alcune arti marziali.
      Shinai: Spada di allenamento utilizzata nel kendo.
      Kitsune: Volpe. Nella mitologia giapponese, queste creature sono dotate di grande intelligenza, e tra i loro poteri c’è l’abilità di cambiare aspetto assumendo sembianze umane.
      Yokai: Tipo di creatura soprannaturale della mitologia giapponese. La parola può venire tradotta con “apparizioni” “demoni” o  “spettri”. Esistono molti tipi di Yokai, tra questi rientrano anche le kitsuni.
 
* La filastrocca che canta recita Ayano è composta da tre strofe, qui vi riporto la versione integrale con la traduzione.
     
      Teru-Teru Bouzu, Teru Bouzu, ashita tenki ni shite o-kure.
      Itsuka no yume no sora no you ni
      haretara gin no suzu ageyo.
 
      Teru Teru Bozu, Teru Bozu, portami il sole domani
      Se il cielo sarà sereno come lo sogno
      ti regalerò un campanello dorato.
 
      Teru-Teru Bouzu, Teru Bouzu,
      ashita tenki ni shite o-kure.
      Watashi no negai wo kiita nara
      amai osake wo tanto nomasho.
 
      Teru Teru Bozu, Teru Bozu,
      portami il sole domani
      Se ascolterai le mie preghiere
      ti donerò del sakè dolce.
 
      Teru-Teru Bouzu, Teru Bouzu,
      ashita tenki ni shite o-kure.
      Sore de mo kumotte naitanara sonata no kubi wo chon to kiru zo.
 
      Teru Teru Bozu, Teru Bozu,
      portami il sole domani
      Se sarà nuvoloso ti staccherò la testa.
 
 
- TURCO –
 
      Evet?: Sì?
 
 
 
 
- THE IMPEROR –
 
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      DIRITTO
                  L'Imperatore ha il controllo del proprio destino, costruendo il proprio impero su solide fondamenta.
                 Fidati delle tue esperienze. Puoi imparare molto dall'osservare le conseguenze delle tue azioni.
      ROVESCIO
                 L'Imperatore domina il suo mondo con un pugno di ferro, senza che nulla sfugga alla sua presa.
                 Fai attenzione a non stringere troppo il tuo impero. Le piante crescono solo quando viene dato spazio per prosperare.
 
 
 
 
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Allora! Eccoci finalmente di nuovo qui!
      Sono reduce dalla mia primissima sessione di esami, che mi h fruttato dei votoni davvero inaspettati, e credo che questo si sia un po’ sentito anche sulla scrittura.
      Beh, che dire. Mi sono davvero divertita a scrivere questo capitolo! Non vedevo l’ora! Ho cambiato molte scene dalla bozza che aveva buttato giù, però sono davvero soddisfatta.
      Spero vi sia piaciuto, che le note alla fine non siano state troppo prolisse e, come sempre, se notate errori o altro sarei molto felice se me lo diceste. Sono SICURISSIMA di aver cannato qualcosa ahaha.
      Passando ad altro, le presentazioni sono finalmente finite. Anche se effettivamente non credo che sia molto chiaro, in alcuni casi, quali siano i veri e propri protagonisti ahaha, ma Arcana è anche questo XD Ditemi se serve magari un riepilogo, così al prossimo capitolo lo inserisco, magari con dei disegni.
      Mi scuso tantissimo per non aver risposto ad alcune recensioni! Sappiate che le leggo tutte sempre con piacere, ma tra feste e studio matto e disperatissimo ho sempre rimandato. Prometto che nei prossimi giorni risponderò a tutti!
      E nulla, non credo di aver altro da dire (?) Il prossimo aggiornamento sarà tra due settimane, la prossima aggiornerò invece  10 sec, lo dico qua visto che molti partecipano ad entrambe ahahah.
      Un bacione e alla prossima <3
                 Itzi

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Capitolo 5
*** V - THE HIEROPHANT ***


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V
THE HIEROPHANT
 
 
 «Aspetta, cosa? Gli dei avrebbero intenzione di fare che?!»
      Max si strozzò con il caffè che stava bevendo, e per alcuni secondi la telecamera del suo cellulare inquadrò la moquette scura di una camera d’albergo. Il ragazzo si colpì il petto con un pugno, e alla fine riuscì a mandare giù la bevanda, ustionandosi la bocca.
      «Credo di essermi perso qualche passaggio.»
      «Purtroppo hai capito benissimo.»
      Olivia reclinò la testa all’indietro, serrando le mani attorno alla tazza di thè in modo che il calore le sciogliesse le dita tese. Si sentiva stremata e aveva freddo, una combinazione letale che si aggiungeva alla lunga lista di malesseri che negli ultimi tempi avevano iniziato a tormentarla. Iside non aveva ancora parlato, ma percepiva la sua presenza con un’intensità tale da farle tremare le ossa, tanto sembrava agitata e arrabbiata.
      Sospirò. Si era arresa ormai anni prima al fatto che, prima o poi, quella bisbetica divinità della magia le avrebbe tenuto il broncio a seguito di qualche scelta non condivisa. E invece che parlarne, sfoggiava un infantilismo che aveva cominciato a darle davvero sui nervi, tanto che alla fine, si era ritrovata a smettere di frenare anche ai suoi stessi pensieri. C’erano cose più importanti da discutere di un capriccio, al momento.
      «Tra due giorni ci sarà una sorta di incontro tra le divinità - a Manhattan - per discutere dei problemi che stiamo avendo nell’ultimo mese. A richiederlo è stato Zeus, e a quanto pare non siamo gli unici a essere stati coinvolti. Sembra arriveranno dei da ogni parte del mondo; decine di Pantheon sono in fermento.»
      Max si ravvivò il ciuffo con le dita, cercando di mantenere un’inquadratura decente.
      «Beh, se posso dirtelo, mi pare un’enorme cazzata.» Disse, assottigliando lo sguardo. «Gli dei egizi non vanno d’accordo nemmeno tra di loro, figuriamoci con gli altri! La diplomazia non è nella loro natura, tout ira en enfer
      Iside sibilò minacciosa come il peggiore dei serpenti velenosi, e Olivia sentì un odio acido salirgli in petto, corrodendole le vene in profondità e offuscando qualsiasi suo pensiero razionale. Chiuse gli occhi e la figura della dea le riempì la vista; uno sguardo minaccioso come mille tempeste e capelli scuri sciolti sulle spalle, crespi e irosi quanto la loro proprietaria.
      Finiscila!
      L’ammonì, e prima che la donna potesse replicare, aprì di scatto le palpebre, trovandosi di fronte lo schermo del tablet. Max si schiarì la gola, in un tentativo abbastanza impacciato di nascondere il suo disagio.
      «Oli, tutto bene?» Le chiese alla fine, grattandosi una guancia. Dall’ultima volta che lo aveva visto sembrava più rilassato: si era rasato barba e capelli lasciando solamente il suo proverbiale ciuffo a coprirgli gli occhi.  Indossava vestiti nuovi, e in generale aveva un aspetto più riposato. L’Ankh che gli aveva regalato quando erano ancora bambini era posato con cura contro il colletto della maglia bianca.
      «Sì. Sono solo un po’ stanca.» Disse. Iside non parlò, ma sentì il suo disappunto crudo scivolarle sulla pelle, e per quanto fosse un gesto rude, una parte del suo animo restò colpita da quella preoccupazione inaspettata. «Sono successe tante cose nel giro di poche settimane. I Nomi sono un po’ in subbuglio, ma quello che ci serve è solo del tempo per poterci organizzare, tutto qui.»
      Socchiuse gli occhi, bevendo un sorso del suo infuso. Sapeva di arancia e melograno, una combinazione dolciastra che non l’aveva mai fatta impazzire; eppure da un po’ di tempo a questa parte, era l’unica cosa che riuscisse a bere senza problemi.    
      «Ne hai già parlato con gli altri?»
      «Non ancora, pensavo di farlo a cena. Magari accennerò qualcosa a Jacob dopo, giusto per dargli tempo di assimilare: sai come è fatto, ha bisogno di rimuginare parecchio in queste situazioni.»
      Max annuì, anche se era palese che avrebbe voluto chiederle di più. Nonostante tutto gli mancava Parigi, glielo leggeva negli occhi, ma esprimere un pensiero del genere sarebbe stato come rendere quella distanza ancora più concreta. Fingere che l’incidente non ci fosse stato era più facile, e poi uno schermo, per quanto sottile, non era lo stesso un buon tramite per parlare di argomenti troppo seri come la condanna che si portava appresso.
      «Credi che questo incontro porterà davvero a qualcosa?»
      «Lo spero.» Disse Olivia. «Se capiamo cosa diamine sta succedendo, sicuramente smetteremo di andare in giro alla cieca. È una situazione delicata, considerando anche che molti maghi non hanno idea dell’esistenza dei semidei, o di divinità all’infuori di quelle del mondo egizio.»
      «Potresti sfruttare tutto questo per fare un annuncio pubblico.» Le suggerì. «Probabilmente ci saranno già molti maghi a conoscenza della cosa, sarebbe un aiuto anche nei loro confronti. Eviterebbero di spaccarsi la testa nel trovare una risposta. Forse hanno anche dei contatti diretti con altri ragazzi, chi lo sa? Nelle scuole, al giorno d’oggi, si trova proprio di tutto.»
      Olivia sorrise, rilassando appena le spalle.
      «Non è una cattiva idea. Ci penserò.»
      Max inarcò le sopracciglia, sfoggiando un sorriso morbido, furbo e tremendamente familiare. «Le mie idee non sono mai cattive.» Dichiarò, conscio della mezza verità appena detta. Scoppiò a ridere subito dopo, e Olivia pensò, che in fondo, anche a lei mancava molto vederlo in giro per il loro Nomo.
      «Fai meno lo sbruffone e ascoltami: voglio che tu stia attento, e che non ti sforzi troppo in questi giorni.»
      «Come mai?» Max non era bravo a nascondere le sue emozioni, e Olivia notò immediatamente la piega scettica che aveva preso la sua voce nel formulare la domanda. Bevve un ultimo sorso di thè, ignorando Iside che con forza le stava serrando la mente e bloccando le parole, in un tentativo abbastanza violento di zittirla.
      «Venerdì, per poter partecipare, gli dei dovranno materializzarsi direttamente dalla Duat, senza usare ospiti mortali.» Cominciò. Iside ringhiò e sparì dalla sua mente, facendo cadere un vuoto improvviso che la lasciò interdetta per qualche istante. «Per farlo avranno bisogno di parecchia energia, e la attingeranno direttamente da noi maghi.»
      Il ragazzo sgranò gli occhi grigi, impallidendo all’istante. Dall’inquadratura non riusciva a vederlo bene, ma era sicura si fosse irrigidito sul posto. Posò il bicchiere di caffè con un gesto davvero troppo meccanico per essere naturale, e poi tornò a guardarla, prendendo fiato e cercando di articolare una frase che non risultasse tremendamente idiota.
      «Hein
      Ovviamente fallì.
      Olivia inarcò un sopracciglio, e represse un sorriso coprendosi abilmente le labbra con le dita.
      «Non tutti gli dei parteciperanno, Maximillien, e l’energia che preleveranno sarà una minima parte del potenziale magico di ciascuno, perciò varierà in base alle proprie capacità, per evitare che qualcuno rimanga ucciso.»
      «Oh.» Le labbra del ragazzo descrissero una curva perfetta. «Questo non mi rassicura per nulla.»
      «Non pensarci troppo.» Lo troncò la ragazza, agitando una mano e facendo scintillare un paio di anelli smaltati. «Te lo sto dicendo solo perché, probabilmente, ci sarà anche Ra.»
      L’espressione di Max passò dal dubbio alla confusione più assoluta in un lasso di tempo incredibilmente breve.
      «Spero non in gonnellino.» Commentò, con una nota di nervosismo. Olivia fece finta di non averlo sentito e continuò.
      «Attualmente, non ha un ospite tra noi maghi. E tu sei l’elementalista del fuoco più potente che la Casa abbia visto da decenni, la persona più vicina a seguire il suo cammino.»
      Il ragazzo toccò istintivamente i due piccoli amuleti che teneva appesi a un braccialetto di cuoio un po’ rovinato, anch’essi vecchi regali di compleanni ormai passati. Il primo era uno scarabeo di corallo con il guscio fatto di smeraldo; l’altro raffigurava un Udjat orientato verso destra, di ceramica bianca. Il bordo dell’occhio era smaltato di blu e la pupilla era formata da un singolo lapislazzulo screziato d’oro. Entrambi, secondo la tradizione, erano associati al dio del Sole.
      «Non voglio diventare l’ospite di Ra.» Borbottò. L’intera faccenda di dei, occhi e risorse magiche infinite l’aveva sempre messo a disagio più di quanto amasse ammettere. E poi, con tutta onestà, le infinite discussioni che Olivia sembrava portare avanti con la sua parassita personale non erano proprio incoraggianti.
      «Non ho detto questo. Solo, è probabile che Ra farà molto affidamento sulla tua magia, lasciandoti stanco e stordito per qualche giorno. Mi sembrava giusto avvisarti.» Lo rassicurò.
      «Ah, quindi non potrò nemmeno usare gli incantesimi? Fantastique
      «Smettila di lamentarti e riposati, hai capito?» Gli disse, sbirciando l’orario sull’orologio appeso alla parete. «Ora devo andare. Non far passare una settimana prima di avere di nuovo tue notizie, o giuro che ti incenerisco.»
      «Reçu fort et clair! Salut
      «Salut
      Max chiuse la chiamata e lei si accasciò contro il divano, chiudendo gli occhi, accorgendosi solo in quel momento di quanto fosse effettivamente stanca, nonostante non avesse fatto nulla.
      Iside la stava, ovviamente, aspettando. Si materializzò davanti a lei in un turbinio di colori, facendo frullare le ali con impazienza.
      “Non avresti dovuto dirglielo.” Esordì, stagliandosi con prepotenza contro il vuoto che il suo subconscio stava proiettando dietro i suoi occhi. “Non era necessario sapesse.”
      “Invece sì. Ne ha tutto il diritto, come Jacob.”
      Iside non nascoste una smorfia schifata, il volto bellissimo contratto nel disgusto più totale e puro.
      “È inutile che fai quella faccia.” La rimbeccò Olivia, come se stesse parlando a una bimba capricciosa. “Saremo le tue fonti principali di energia durante la materializzazione, è un dato di fatto.”
      “Ti prego, non ricordarmelo. Sto per vomitare.
      “Pensavo che la cosa ti facesse piacere, dopotutto.
      La dea sciolse l’intreccio delle sue braccia, facendo increspare la veste trasparente e impalpabile.
      “Oh Olivia, non sei tu il problema.” Le fece presente. “Sei perfetta, ragazza mia. Altrettanto non si può dire di quell’altro… Oh, non mi vengono nemmeno le parole per descriverlo…
      “Ragazzo?” Provò la giovane. Iside schioccò la lingua.
      “Abominio.” Scandì, e il suono di quelle sillabe le ruggì in testa con prepotenza.
      “Ma per favore!” Esclamò, senza impedirsi di sbuffare. “Jacob ha un’affinità naturale per seguire il tuo cammino, dovresti esserne lusingata. Un giorno, potrebbe persino rivelarsi un ospite molto più potente di me.
      “In tal caso preferisco marcire per tutta la mia eternità nella Duat, grazie tante.”         
      Olivia aprì di scatto gli occhi, per nulla intenzionata a continuare una conversazione del genere. Si massaggiò le tempie indolenzite e, alla fine, decise di alzarsi, raccattando la coperta che aveva trovato in uno degli armadi.
      Non ne poteva più. In tutta la sua vita non si era mai sentita così stanca, arrabbiata, confusa, instabile. Iside era impossibile. Gli altri maghi a capo dei Nomi erano impossibili. Tutta la faccenda della magia era impossibile.
      Si bloccò al centro della stanza, imponendosi di prendere un bel respiro profondo, prima di continuare. La nausea aveva ricominciato a tediarla, salendole fino alla bocca dello stomaco, in un supplizio che sarebbe terminato – ormai lo sapeva fin troppo bene – con lei china sul pavimento del bagno.
      «Mamma mia…» Borbottò. Si fermò davanti allo specchio appeso alla parete, come se scrutare così intensamente il suo riflesso avesse potuto farla stare meglio.
      Occhi azzurri, capelli indomabili, piercing sul naso e sul labbro: era sempre la solita Olivia, nella sua vecchia stanza al Primo Nomo con le pareti color carta da zucchero. La sua altezza spropositata era sempre la stessa; la matita che si era mezza sciolta sbavandole la riga dell’eyeliner pure. Ma più si guardava, e più si sentiva strana, come se non fosse veramente il suo corpo, quello.
      Una fitta più dolorosa le accartocciò lo stomaco, e d’istinto si portò le mani al ventre, strizzando gli occhi. Durò solo per un istante, e quando rialzò lo sguardo vide Iside riflessa sulla superficie lucida davanti a sé.
      “So come ti senti.” Disse, dopo un silenzio irreale in cui si era limitata a fissarla. La sua immagine tremolò impercettibilmente, i tratti del viso si ammorbidirono, finché davanti a lei non rimase che una ragazza della sua stessa età, con grandi occhi scuri e capelli lisci. La serietà che le segnava l’espressione stonava completamente con la sua figura; e Olivia sentì qualcosa smuoversi da qualche parte nel suo animo, rendendosi conto – forse per la prima volta -  di quanto in realtà si somigliassero.
      “Mi preoccupo solo per te.” Continuò, serrando le labbra e lasciando che l’incrinatura impalpabile nella sua voce si disperdesse nell’aria. “Questo lo sai, vero?
      Annuì. Iside la guardò un’ultima volta, e poi svanì.
 
 
 
Odiava, con ogni singola molecola del suo essere, l’America.
      Aveva sempre trovato ridicola la sua affermazione di potenza a livello mondiale, e l’egocentrismo degli uomini che l’abitavano le faceva salire la bile allo stomaco, oltre ad aumentare il suo personale disgusto verso tutto ciò che respirava e si vantava di possedere un briciolo di raziocinio.
      Nulla sembrava salvarsi: tutto quello che le passava davanti agli occhi riusciva ad irritarla, in una maniera che neanche lei avrebbe mai immaginato fosse possibile. Gli umani, la folla, quei ridicoli cartelli colorati pieni di indicazioni, e soprattutto l’uomo seduto dietro il bancone di fronte a loro. Sospirò seccata facendo sibilare l’aria accanto a sé, assottigliando gli occhi neri fino a renderli due piccole fessure.
      «Qualcosa non va, Onee-sama
      Tsukuyomi si voltò a guardarla, piegando un poco il viso pallido e perfetto. I capelli scuri gli ricadevano ordinati sulle spalle, legati in un’impeccabile coda alta che gli scopriva le orecchie; sulla fronte, appena percettibile, c’era l’alone di una voglia a mezzaluna.
      Gli strinse con la mano il braccio che le aveva porto appena scesi dall’aereo, e che lei aveva accettato di buon grado.
      C’erano un sacco di cose che non andavano, avrebbe voluto dirgli, a partire dal fatto che per arrivare in quel luogo squallido avevano dovuto utilizzare un ridicolo mezzo di trasporto umano invece che un portale, partendo addirittura due giorni in anticipo. Poi, ovviamente, c’era la questione dell’incontro con le altre divinità, che aveva brutalmente fatto a pezzi tutti i suoi sforzi millenari di isolarsi dalla feccia – o comunque da entità che, secondo il suo modesto parere, non erano nemmeno degne di respirare la sua stessa aria. Ultimo, ma non meno importante, era il luogo in cui era stato organizzato il tutto.
      Manhattan.
      Un nome volgare per una città altrettanto volgare. Quell’accozzaglia di edifici alti che si ostinavano a chiamare grattacieli non era nulla paragonata alla raffinatezza della sua Tokyo, che nonostante il passare degli anni continuava a mantenere un gradevole equilibrio tra innovazione e tradizione. Il palazzo della famiglia reale aveva ancora i tetti spioventi e decorati, e i tatami delle stanze interne – dove i piccoli principi si divertivano a giocare in sua presenza – rispecchiavano esattamente l’estetica che aveva portato grande splendore al suo Paese.
      Nonostante questo però, anche una qualsiasi città dell’Asia le sarebbe andata bene. Anche l’Europa, per quanto le facesse nascere sentimenti contrastanti, possedeva il suo fascino. Ma l’America era, in assoluto, la scelta più orribile e mediocre a cui potevano ricorrere. E no, la scusa che quel gradasso di Zeus le aveva dato era riuscita solo a indispettirla ancora di più, facendo nascere il desiderio incontrollabile di sputargli in un occhio alla prima occasione disponibile. Non le importava che metà dei Pantheon più influenti della loro epoca si trovassero lì, né le interessava in alcun modo la Civiltà Occidentale. Avevano attraversato un oceano su uno squallidissimo aereo per essere presenti, solo perché quel bambino viziato non aveva voglia di far fatica e muovere qualche passo in più.
      Non era stupida: sapeva benissimo come stavano le cose, e l’ipocrisia di quell’invito non l’avrebbe scordata facilmente. Era una dea molto più antica di lui, e non avrebbe esitato a farlo scendere da quel piedistallo che gli uomini e i simili della sua stessa stirpe avevano osannato per secoli.
      «Non voglio essere qui.» Sillabò furiosa, frenando il flusso dei suoi pensieri per concentrarsi su suo fratello. Tsukuyomi abbassò le palpebre e le poggiò la mano libera sulla sua, in un gesto intimo per esprimerle conforto.
      «Lo so, Onee-sama. Nessuno di noi vorrebbe, ma è il nostro dovere.»
      Gli occhi blu l’osservarono attenti, ma senza rimprovero. Fece una smorfia e tornò a fissare davanti a sé, perdendosi nelle pieghe della giacca di Susanoo, al momento intento a rispondere alle domande della guardia. Con un cenno, l’uomo fece segno di venire avanti, e un minuto dopo Amaterasu si ritrovò con uno scanner elettronico puntato in faccia.
      Represse la sua indignazione e si limitò a squadrare con disgusto quell’umano: A Narita il personale ormai era composto solamente da androidi, e le procedure di controllo duravano così poco che le file non avevano nemmeno il tempo di formarsi.
      «Non pensavo ci fosse così tanta gente.» Borbottò Susanoo mentre si allontanavano, riponendo con cura i loro passaporti nella tasca interna del suo giaccone bianco. Aveva deciso di tenere i capelli molto corti, e la barba gli segnava con cura la mascella squadrata.
      Le si affiancò e, anche lui, le porse il braccio. Amaterasu fece scivolare la mano sul suo gomito, e artigliò il tessuto con le unghie, nella disperata ricerca di un sostegno che l’aiutasse a trovare la forza per uscire da quell’aeroporto.
      «Forse è già periodo di festa per i mortali americani.» Provò Tsukuyomi, guardando con interesse la pubblicità di un rasoio elettrico su uno dei numerosi schermi presenti.
      «Mancano due mesi a Natale.» Borbottò. Susanoo alzò un sopracciglio e tese le labbra in un sorriso.
      «Qualcosa ti da fastidio, Onee-san
      Non si sprecò nemmeno ad alzare la testa per incontrare il suo sguardo. «Tutto.»
      Susanoo rise di gusto, e li trascinò verso il nastro trasportatore per ritirare i bagagli. La calca di persone intente a sbracciarsi e controllare i dettagli del volo sul monitor incassato sulla parete le fece venire il voltastomaco. Azzardò un paio di passi, cercando di seguire il minimo di coda che si era formata, ma rinunciò quasi subito ad andare avanti.
      «Io lì in mezzo non ci vado.» Fece presente ai fratelli, mentre aspettavano. Non capiva perché la gente continuasse a spingere, a starle così tremendamente vicina e soprattutto ad urlare. Con il tacco della scarpa, pestò un piede all’uomo dietro di lei, che si era permesso di toccarle una spalla, e si voltò inferocita quando quest’ultimo iniziò a sbraitarle contro, facendogli morire in gola le parole.
      «Onee-sama.» La riprese Tsukuyomi, preoccupato. Avanzarono di qualche metro, e finalmente riuscirono a scorgere il nastro trasportatore e le valige ammassate le une sulle altre. Al suo fianco, il dio della Luna sporse la testa, probabilmente cercando di individuare le loro, impresa tutt’altro che semplice. Susanoo sospirò sconsolato, vedendo che, effettivamente, in quei pochi metri quadrati erano raggruppati almeno i bagagli di due voli differenti.
      Stava per esprimere tutto il suo disappunto quando, dalla folla, emerse un ragazzo. Si fece largo a spintoni e con noncuranza si sfilò le scarpe, balzando sul nastro con i piedi fasciati in un paio di calzini azzurri.
      Era il tipo più assurdo e mal vestito che i suoi occhi avessero mai visto in tutta la sua vita, una specie di apparizione futurista color neon: portava pantaloni rosso mattone con dei discutibili risvoltini all’altezza del polpaccio, e un paio di bretelle larghe appese ai passanti della cintura; una giaceva inerme lungo il fianco, l’altra continuava a scivolargli sul braccio. Aveva il coraggio di andare in giro in canotta scollata, nonostante il freddo, sfoggiando anche un orribile ciondolo a forma di teschio – con tanto di becco – probabilmente placcato d’oro, al collo. E, per finire, legato in vita teneva un giacchetto di un’improbabile tonalità di rosa con tanto di piumino e imbottitura sintetica.
      Il ragazzo balzò agilmente tra le borse, spostando con i piedi quelle che lo intralciavano, e alla fine arrivò di fronte a un trolley giallo canarino. Lo sollevò con entrambe le mani e poi si voltò verso la folla, sotto lo sguardo sgomento dei vari passeggeri.
      «Ohi, Sis!» Gridò, sogghignando quando la ragazza che stava chiamando si voltò. «Prendi!» E senza il minimo senso civico lanciò la valigia.    
      La folla si separò per levarsi dalla traiettoria dell’oggetto, tra urla di protesta e grida. Qualcuno aveva sfilato il proprio telefono dalla tasca per poter riprendere la scena, prima che qualche agente della sicurezza fermasse quel delirio da visualizzazioni facili.
      La ragazza non si mosse dal suo posto, ma si limitò ad alzare una gamba per colpire un angolo del trolley, che deviò sfracellandosi al suolo con un gran fracasso.
      «Ale, cha cazzo fai!» Gli urlò di rimando, ridendo. Non riusciva a vederla bene in faccia perché degli occhiali da sole le coprivano metà del viso, ma aveva capelli chiari raccolti in uno chignon e in una mano teneva un bubble tea rosa, in perfetto abbinamento con il colore della sua giacca di jeans di almeno tre taglie più grande.
      Per tutta risposta il fratello le lanciò un’altra valigia, questa volta di tela e di color verde scuro, che fece la stessa identica fine, schiantandosi per terra.
      «Spero che Mordecai non ci tenesse il portatile, lì dentro.» Commentò la biondina, spostando con la punta del piede il suo trolley vicino all’altra borsa. Bevve un sorso del suo thè mordicchiando la cannuccia, mentre il ragazzo sollevava un’altra valigia ancora.
      «Di chi è questa?»
      Mostrò l’oggetto camminando sul nastro, e per poco non inciampò. Un uomo si sbracciò dalla folla, e il ragazzo gliela passò ridendo, raccattandone un’altra.
      Nonostante il metodo poco ortodosso – e l’inspiegabile divertimento con cui quel tipo continuava a passare bagagli – il recupero si velocizzò abbastanza da svuotare gran parte del nastro, e la folla si dissipò in fretta.
      «Oh, questa è di Lucio!» Disse il tipo, e sghignazzò lanciando alla sorella un vecchio trolley nero pieno di adesivi appiccicati sopra. La ragazza non si sforzò nemmeno di prenderlo, semplicemente si spostò per non essere colpita, ficcando una mano in tasca mentre finiva la sua bevanda.
      Amaterasu avanzò di un passò, arrivando finalmente davanti al nastro. Per quanto la riguardava, quello sciocco teatrino avrebbe potuto anche continuare, non le interessava, l’unica cosa che non voleva era essere coinvolta. Ma prima che Tsukuyomi potesse anche solo allungare la mano, il ragazzo arraffò il suo bagaglio, stringendolo tra le mani.
      «Questo?»
      «Qui, per favore.» Suo fratello fece un cenno con la mano, e il giovane gli allungò la borsa con premura, sporgendosi e rimanendo in equilibrio su un piede.
      «Immagino che anche queste siano vostre, giusto?» Raccattò le due valige vicine e gliele passò. Amaterasu cercò di afferrare il manico senza sfiorargli nemmeno un centimetro di pelle; e il ragazzo sembrò trovare la cosa divertente.
      Continuava a fissarla in maniera insistente e dovette far ricorso a tutta la pazienza che le era rimasta per non sfregiargli la faccia con le unghie. Forse un tempo era stato biondo, ma ora i capelli erano solo un ammasso confuso di ciocche azzurre, rosa e viola che gli ricadevano in un ciuffo disordinato sugli occhi. Oltre alla collana portava due orecchini diversi, pacchiani alla stessa maniera, e un paio di piume e perline pendevano su una trecciolina di stoffa posta dietro il collo, dove il taglio dei capelli sfumava e si faceva più corto. Le sorrise, mettendo in mostra un generoso spazio tra gli incisivi; cosa che contribuì ad aumentare enormemente al suo malumore.
      «Grazie.» Susanoo la invitò ad andare avanti con un cenno della testa, e lei voltò il capo mettendo fine a quell’irritante scambio di sguardi.
      «Dai Ale, non abbiamo tutto il giorno!» Si lamentò la biondina, tirando su i fondi di quello che rimaneva del suo thè. Le passarono accanto e lei, senza nemmeno provare a essere discreta, si abbassò gli occhiali sul naso, occhieggiando Tsukuyomi e facendogli l’occhiolino quando questo alzò il viso nella sua direzione.
      «Per favore…» Borbottò esasperata, e camminò spedita verso l’uscita, sorvolando sulla faccia paonazza di suo fratello minore, e il sogghigno morbido che avevano preso le labbra di Susanoo.
      «Ne ho già abbastanza di questo posto.» Decretò alla fine.
 
 
 
Loki era felice. Tremendamente felice.
      Un sentimento così prepotente e genuino non lo provava da decenni; nemmeno il momento in cui, ottanta anni prima, era riuscito a liberarsi dalle catene con cui lo avevano costretto gli dei, riusciva a competere con l’euforia che ora gli ruggiva nelle vene e gli piegava le labbra sfregiate nel più entusiasta dei sorrisi.
      Probabilmente però, la cosa non era condivisa. Gli bastava guardarsi attorno per capirlo: gli Asi e i Vani continuavano a squadrarlo con insofferenza, attenzione e una palpabile voglia di farlo a pezzi, incenerirlo e prenderlo a martellate… Insomma, le solite cose per vendicarsi dei tiri mancini che aveva giocato loro nel corso dei millenni.
      Trovava la cosa estremamente esilarante.
      «Ti serve qualcosa, Sif cara?»
      La dea serrò le labbra indispettita, rifiutandosi di rispondergli, e scosse la chioma dorata voltandosi dall’altra parte. Suo marito, Thor, inarcò entrambe le sopracciglia con una smorfia, cercando un pretesto abbastanza credibile nelle sue parole che gli potesse dare il permesso di stampargli una martellata in faccia. Loki fissò il suo faccione contrarsi per il disappunto, e lo trovò adorabile.
      «Oh andiamo! Cosa sono quelle facce? Non mordo mica!» Disse sorridente, facendo scorrere lo sguardo sulle divinità presenti, sedute in modo stranamente civile attorno a un tavolo ancora integro. Sygin, accanto a lui, si mosse appena e allacciò le mani in grembo.
      «Loki, abbiamo sospeso la tua pena in vista di questo incontro, non farci rimpiangere questa scelta.» L’ammonì Frigg dall’altro lato della tavolata, con una serietà eccessiva che lo divertì ancora di più.
      «Non lo farei mai!» Si portò una mano al petto, ma nessuno credette al suo tono fintamente offeso. «Sono davvero lusingato di essere qui.» Il che era la cosa più vicina alla verità che avesse mai detto.
      Frigg socchiuse gli occhi, per nulla convinta, ma prima che potesse aggiungere altro, Odino si materializzò a capotavola, facendo starnazzare i suoi due corvi.
      L’uomo si grattò la barba corta, soppesando i presenti con l’unico occhio che gli era rimasto.
      «Ah, bene, vedo che siete già tutti qui.» Asserì, dedicandogli una lunga occhiata a cui rispose con un sorriso innocente. «Dei! Abbiamo molto di cui parlare!»
      I minuti successivi furono un susseguirsi di spiegazioni fuorvianti, riassunti in elenchi puntati e diapositive in PowerPoint: il Padre Universale sembrava andare molto fiero della sua presentazione con i testi in bianco su sfondo nero, in modo che fosse più facile capirli e più difficile distrarsi. Loki non ascoltò nemmeno una parola e si limitò a coprirsi la bocca con una mano, nascondendo uno sbadiglio annoiato.
      Ancora non gli era chiaro perché uno del calibro di Odino avesse bisogno di tenere discorsi seguendo una scaletta di punti; ma d’altra parte era conscio del fatto che non tutti fossero fantastici come lui, e riuscissero a improvvisare sempre su qualsiasi argomento facendo un’ottima figura.
      Forse era una prerogativa delle divinità della conoscenza quella di essere strana, pensò. Tezcatlipoca gli aveva raccontato, ridendo, di come suo fratello fosse geniale in un sacco di campi, ma ancora non era riuscito a laurearsi a causa di un paio di esami che continuavano a spostargli. E poi c’era anche quel tale egizio, Toth, che oltre agli evidenti problemi di vista si ostinava a circondarsi di babbuini e rinchiudersi in biblioteche universitarie, invece che usare il suo tempo in attività più produttive quali progettare la fine del mondo, per esempio.
      Odino continuò a ciarlare imperterrito, mandando avanti la sua presentazione finché la foto di un uomo non coprì metà dello schermo: Zeus aveva la faccia contrita, occhi azzurro sporco e una barba striata di grigio come se fosse percossa dai suoi fulmini.  Fece una smorfia guardando l’immagine: lui e quel bisbetico greco avevano più o meno la stessa età, ma certamente lui non aveva mica tutti quei capelli bianchi.
      «Credi che anche io sia così vecchio?» Sussurrò, voltandosi verso sua moglie, distraendosi per l’ennesima volta.
      Sygin battè le palpebre, prendendosi tempo per studiarlo in viso. Una ciocca di capelli le era sfuggita dal cappuccio che indossava, e ora le sfiorava piano una tempia. Gli occhi erano sempre rossicci, un po’ stanchi, ma almeno aveva smesso di piangere – cosa che personalmente gli aveva sempre dato un certo fastidio.  Alla fine lei scosse la testa, arricciando appena le labbra.
      «Volevo ben dire!» commentò, passandosi una mano tra i capelli.       
       «Loki.»
      Odino lo guardò storto mentre tornava a girarsi; il telecomando con il puntatore stretto in una mano.
      «Non sei qui per chiacchierare.» Gli ricordò.
      «Oh, ma io stavo ascoltando!» Disse, offeso. «Zeus e l’incontro di domani sera, a Manhattan. “Caraval Place, ore 19:30, vestirsi in modo adeguato per l’occasione.”» Recitò a memoria, sotto lo sguardo sbigottito dei presenti. «È per questo che mi avete chiamato vero? Oh, io adoro le feste!» Esclamò, accavallando le gambe sotto il tavolo.
      I corvi di Odino sbatterono le ali infastiditi, e il dio lo fissò per secondi interi con aria indecifrabile.
      «Sì… È esatto.» Disse. Probabilmente aveva anticipato qualche punto nel suo PowerPoint, per questo ora sembrava così seccato. «Per domani, Zeus ha indetto un incontro tra tutte le divinità; e noi siamo qui per decidere chi ci rappresenterà, visto che per problemi logistici non potremmo essere tutti presenti. Ho compilato alcune liste che vi pregherei di leggere, per poi passare all’approvazione…» E ricominciò a parlare illustrando i vari motivi che lo avevano portato a una soluzione del genere.
      Loki sghignazzò. Si era beccato un’occhiataccia da Vidarr, che a braccia incrociate stava cercando di seguire il discorso; un’impresa coraggiosa, dovette ammetterlo. Lui, d’altro canto, si concentrò sul bordo di legno scheggiato che aveva davanti.
      Aveva ricevuto la notizia ben tre giorni prima, in modo tutt’altro che normale: quel gran gradasso di Seth gli si era materializzato davanti – o meglio, la sua essenza – e lui lo aveva riconosciuto solo per la pelle rossa e il sorriso da carogna. Gli aveva detto qualcosa che suonava come “Ah, ma ancora non hai saputo?” e poi era sparito ridendo; senza lasciargli il tempo di chiedersi a che cosa si riferisse, o perché avesse l’aspetto di un ragazzino ricoperto di tatuaggi.
      Sygin era stata decisamente più utile e gli aveva porto l’invito con entrambe le mani, sul viso un’espressione di trepidante attesa mentre articolava la prima frase dopo più di un millennio di silenzio. La cosa gli aveva fatto uno strano effetto, ma visto come lui stava gestendo l’intera faccenda – nemmeno si fosse iniettato qualche droga strana direttamente nelle vene – poteva comprendere la sua euforia.
      «Questa è la proposta definitiva. Qualcuno ha qualcosa da dire?»
      Alle spalle di Odino era comparso l’ennesimo schema che illustrava i nomi di chi, il giorno dopo, avrebbe partecipato all’incontro. Il dio si era impegnato affinché la lista apparisse ordinata, suddividendo in colonne gli Asi e i Vani, e in righe le donne e gli uomini.
      Erano in sette e, onestamente? Nulla di sorprendente. Loki scorse rapidamente la lista: Odino, Thor, Sif, Frigg, Freya, Freyr… Il suo nome era l’ultimo, e la cosa lo divertì più del dovuto. Non che facesse qualche differenza, comunque: a prescindere da qualsiasi decisione – e presentazione motivazionale – di quel vecchio svampito, lui aveva già deciso di presentarsi. Non poteva certo sprecare un’occasione del genere, considerato anche le illustri personalità che ci sarebbero state.
      «Perché deve venire anche lui?»
      Thor batté un pugno sul tavolo, facendone scricchiolare le gambe, in un gesto pieno di eloquenza degno di un bambino di cinque anni.
      «Perché non dovrei?» Ribatté prontamente. «Sì, è vero, il mio scopo è quello di far iniziare il Ragnarok… Ma senza fretta.» Scrollò le spalle, alzando le mani. «Anche perché questo non è proprio il momento giusto per scatenare il Giorno del Giudizio. I problemi che la magia sta causando dappertutto sono il sintomo di qualcosa di più grande e molto meno divertente del Ragnarok, credimi.»
      Il faccione di Thor si contrasse, mentre processava le sue parole e cercava di capirle. Per lo sforzo, una scintilla gli attraversò la barba e i capelli, facendoglieli rizzare sul cranio.
      «Lo sanno tutti che non ci si può fidare delle tue parole.» Freya incrociò le braccia sotto il seno, facendosi più vicina al gemello.
      «Non avrei motivo di mentirvi.» Le disse, scoprendo i denti in un sorriso gelido. «Se non ve ne siete accorti qui non stiamo parlando di giganti e navi fatte con le unghie dei piedi. Stiamo parlando di magia; e se scompare allora non rimarrà la benché minima traccia di nessuno di noi. Puff! Tutto svanito nel nulla, come se non fosse mai esistito.» Agitò le dita a mezz’aria, e dalla punta baluginarono piccole fiammelle. «Quindi, sì. Preferisco rimanere vivo ancora un po’, grazie mille.»
      «Loki ha ragione.» Odino sospirò, mentre i corvi gli beccavano la testa. «Un problema di questa portata non è mai capitato, e non mi stupirei se in futuro ci trovassimo a collaborare direttamente con altre realtà differenti dalla nostra. Ed è scontato che non possiamo tirarci indietro! Che esempio saremmo, sennò?»
      Loki alzò un sopracciglio notando il fervore che animava le parole del dio; forse qualcuno di quei seminari motivazionali era davvero servito a qualcosa. Thor si lamentò ancora, minacciando di sfondare il cranio di chiunque fosse il responsabile di quel macello a martellate – cosa difficile, visto che la magia era qualcosa di astratto; ma il rosso non sembrava arrivarci, e finì per portare il suo divertimento a picchi estremi, che difficilmente avrebbe superato.
      «Altri?»
      «Potrei venire anche io?»
      Tutta la tavolata si voltò verso Sygin, che si torse nervosamente le mani poggiate in grembo. Non le piaceva essere al centro dell’attenzione – una delle tante cose per cui differivano sostanzialmente – eppure dovette riconoscerle una certa audacia.
      Gli dei la osservarono straniti, in silenzio, negli occhi la confusione come quando aveva espresso il desiderio di rimanergli accanto durante la sua atroce tortura.
      Pazza.
      «È un problema?» Chiese, la voce ridotta a un sussurro. Avevano ancora da lavorare su questo aspetto, ma lo sguardo deluso con cui stava guardando Odino era al pari delle sue recitazioni migliori. Sapeva che Sygin non si sarebbe mai sognata di ingannare nessuno ovviamente ma, chissà, forse secoli di matrimonio le avevano insegnato qualcosa, almeno a livello inconscio.
      «No, non c’è nessun problema.» Disse Odino, scambiando una rapida occhiata con il resto delle divinità. Sygin ringraziò facendo un cenno col capo e increspò leggermente le labbra all’insù, in un sorriso discreto come la sua presenza.
      «Devi essere proprio disperata, eh.» Le disse, avendo fin troppo chiaro il motivo per cui desiderasse partecipare. Che poi, alla fine, era uguale al suo.
      «…Potrei dire la stessa cosa di te.»
 
 
 
«Manu, ho un problema!»
      Emanuel rise, sistemando meglio la webcam del computer in modo che gli riprendesse il viso e la parete piena di poster sopra il letto.
      «Centra qualcosa con il fatto che sei nudo?»
      «Non sono nudo.» Precisò, uscendo dal bagno della sua camera. Aveva passato le ultime due ore a lavarsi e asciugarsi i capelli in vista della cena di quella sera, soffrendo in maniera allucinante: i phon messi a disposizione dall’hotel conoscevano una sola potenza di calore - quella minima - e lui era stato costretto a usarla per rendere quantomeno presentabile la sua capigliatura. Alla fine, preso dalla rabbia, ne aveva ghiacciato uno e lo aveva scaraventato per terra in una pioggia di schegge, distruggendolo con una certa soddisfazione.
      «Ho ancora i pantaloni addosso.»
      «Ah beh, questo si che cambia tutto.»
      Lucio lo guardò dallo schermo crepato del proprio cellulare, facendo finta di non averlo sentito.
      «Ho un’ora per prepararmi, è non ho alba di cosa mettermi.» Gli disse, cacciando sotto il letto il suo paio di Vans nere con una suola bucata. «Felipe mi ha minacciato dicendo che, se non mi vesto decentemente, mi picchia a sangue e poi mi fa anche pulire!»
      Manu si sistemò meglio sul letto, probabilmente incrociando le gambe, e spostò qualcosa fuori dall’inquadratura.
      «Questo potrebbe essere un problema effettivamente. Camicie ne hai?»
      Si mordicchiò l’unghia del pollice, guardando l’ammasso di vestiti sparpagliati per tutta la stanza: la sua valigia giaceva inerme sul tappetino vicino all’armadio, ormai vuota; il fulcro nevralgico di tutto quel casino. Un paio di jeans neri e strappati era appeso a cavallo di un’anta, mentre la sedia della scrivania stava assolvendo perfettamente al suo ruolo di “accumulatrice”, accogliendo sul suo schienale un paio di magliette che erano troppo sporche per l’armadio, ma allo stesso tempo troppo pulite per finire in lavatrice. Gli anfibi erano stati lanciati con molta grazia sotto la televisione –sicuramente con un paio di calzini infilati ancora dentro – e il comodino era un cumulo traballante di carte di merendine, lattine di Coca Cola vuote e una quantità indefinita di gioielli e monili vari.
      «Probabilmente sì, da qualche parte.»
      «Dio mio Lucio, sei via da meno di tre giorni, non puoi aver già messo tutto in disordine!»
      «Tu mi sottovaluti.» gli disse sghignazzando, mostrandogli il delirio che imperversava in quelle quattro mura. «Il bagno è messo peggio.»
      «Immagino.» Il ragazzo provò a guardarlo con un’espressione di rimprovero, ma appena vide un paio di calzini – spaiati – precariamente appesi su uno degli appendini vicino all’ingresso, cominciò a ridere senza remore.
      «E quelli?!»
      Si prese addirittura del tempo per girarsi a osservare quella nuova forma di arte architettonica.
      «Non ho alba di come ci siano arrivati lì. Ma hanno il loro perché.»
      Emanuel si sfilò gli occhiali asciugandosi le lacrime con due dita. Ogni volta che rideva gli si formava una fossetta sulla guancia sinistra, e ora era diventato così rosso che le lentiggini sembravano scomparire sulla sua pelle. Cercò di ricomporsi, ma il minimo di serietà che aveva racimolato andò in briciole non appena si guardarono di nuovo.
      «Ma alla signora delle pulizie non ci pensi?» Gli disse alla fine, sforzandosi di calmarsi. Sorrideva ancora, con gli occhi lucidi e divertiti, e Lucio sapeva che sarebbe bastata la minima cavolata per farlo tornare a piegarsi in due dal ridere.
      Era una cosa che succedeva spesso, in realtà. Una volta, avevano passato ben due ore ad annaspare e a soffocare risate durante la lezione di chimica inorganica, questo perché il loro professore aveva qualche problema di pronuncia, e ogni volta che diceva “carbocatione” era un’esperienza mistica. Alla fine erano stati cacciati comunque dall’aula, e Manu ci aveva messo almeno dieci minuti prima di tornare a un colorito normale. Lui, d’altro canto, non ne era uscito incolume, e per tutto il giorno aveva avuto la mascella indolenzita.
      «Non capisci! Questa è la mia personale forma di protesta contro le pareti oscene di questo hotel!» Gli disse, avvicinando il telefono al viso, in modo che il ragazzo potesse avere una visuale perfetta del suo naso largo e schiacciato. «Cioè, sono qualcosa di aberrante! Guarda!»
      Uscì dalla stanza, puntando il cellulare contro i muri, che sfoggiavano un’invidiabile tonalità arancione acceso; per poi tornare dentro come se nulla fosse, sotto lo sguardo perplesso dell’androide che stava spingendo un carrello pieno di lenzuola pulite, dall’altra parte del corridoio.
      «È tutto un complotto ai miei danni.» Continuò. «Vogliono che diventi cieco! Non bastava il colibrì scemo con il suo daltonismo ad attentare alla mia vista, ora ci sono pure questi!»
      «Beh, almeno a Zaina e Pablo sarà piaciuto di sicuro.»
      Fece una smorfia. «Non hai idea. Quelli sono pazzi.» Il che era tutto dire. Manu rise e piegò appena la testa per vedere qualcosa alla sua destra.
      «Il bue che disse cornuto all’asino.»
      «Almeno io sono un bue bellissimo.» Si vantò, portandosi i capelli dietro le spalle con un gesto secco della mano. Solo in quel momento si accorse della spia rossa che lampeggiava vicino alla fotocamera, e quando guardò la barra del menù notò con orrore l’indicatore della batteria vuoto.
      «Merda, ho il telefono scarico!» Si precipitò verso il comodino, e riuscì a salvare il cellulare dallo spegnimento per un soffio. «Aspetta che ti passo sul computer, Manu.»
      «Oh, fai con calma.» Ne approfittò per alzarsi, e Lucio lo vide scomparire dall’inquadratura.
      Arrancò sul letto, sfilando il portatile da sotto il cuscino, che ancora aveva il cavetto dell’alimentatore attaccato. Lo sistemò al meglio sul materasso, in modo che inquadrasse l’armadio e non la porta del bagno, che si apriva su un campo di battaglia minato, con tanto di resti di quello che era stato un phon sparsi per terra.
      Cominciò, dopo ben venti minuti di procrastinazione, a frugare tra i vestiti, alla ricerca delle fantomatiche camicie: era sicuro di avercele messe, ma visto che aveva buttato dentro la valigia le prime cose che gli erano capitate a tiro, non poteva esserne davvero sicuro. La verità era che non aveva assolutamente voglia di essere lì, ma, come al solito, i suoi adorabili fratelli maggiori se ne erano infischiati, e alla fine lo avevano trascinato a Manhattan sfruttando l’età e i seimila anni di differenza che si correvano. In pratica, era vittima di un sopruso familiare bello e buono.
      Sentì Emanuel tornare, e cadere sul letto con tutta la grazia di cui un diciannovenne maschio fosse capace.
      «Trovato qualcosa?»
      Lucio alzò una mano, mostrando al ragazzo una camicia semitrasparente, scollata e con una stampa floreale che si allargava sulla schiena, scomparendo sotto il colletto. Non aveva ancora alzato la testa, e Manu fischiò in apprezzamento.
      «È quella che hai messo l’hanno scorso per il Dia de los Muertos
      Non era una domanda. Sorrise mentre spostava una maglietta distrutta dei Metallica, e finalmente si imbatté in quello che stava davvero cercando.  
      «Ah! Che ne dice di questa?»
      Trionfante, gli sventolò davanti alla faccia un’altra camicia, molto meno appariscente. Era a righe bianche e nere, e il tessuto era così morbido che gli scivolava tra le dita come se fosse acqua.
      Emanuel ammutolì, fissandolo con gli occhi sgranati da dietro le lenti degli occhiali. Non aspettò risposta, e slacciò con cura la fila di bottoni neri prima di infilarsela.
      «Hai aperto il mio regalo! Avevi promesso che avresti aspettato domani per farlo!» Lo accusò, aggrottando le sopracciglia e assumendo un cipiglio che lo divertì ancora di più. Gli aveva consegnato il pacchetto in aeroporto, prima che partisse, visto che per il suo compleanno non si sarebbero visti. Aveva mantenuto il buon proposito di non toccare il regalo per i primi dieci minuti; ma appena decollati non aveva resistito e lo aveva scartato, troppo curioso.
      «Ops.» Lo fissò sogghignando, allacciandosi la camicia davanti a lui, nel chiaro intento di provocarlo. «La colpa è tua. Non puoi darmi un regalo e dirmi di non aprirlo.» Gli fece notare, ovvio. Si voltò verso lo specchio e si aggiustò le maniche, studiando il modo in cui il tessuto si increspava sulle spalle.
      «E tu non puoi fare sempre di testa tua.»
      «Comunque mi piace un sacco.» Gli disse, tralasciando un attimo il suo riflesso. «Come sempre hai un ottimo gusto, Manu.»
      Il ragazzo distolse lo sguardo, mordicchiandosi l’interno della guancia per sviare l’imbarazzo. Lucio notò come il rossore gli avesse chiazzato le guance, risalendo fino alla punta delle orecchie; ma non disse nulla. Si perse a guardarlo finché l’altro non si girò, e lui fu costretto a concentrarsi su altro per non fare la figura dell’ebete.
      «Se pensi di cavartela così, ti sbagli di grosso: il prossimo anno di attacchi!»
      Per tutta risposta rise, e vide l’espressione di Emanuel ammorbidirsi.
      «Me ne farò una ragione. Qualche idea per i jeans?»
      «I Levi’s azzurri a vita alta.»
      «Oh.» Inarcò le sopracciglia. «Questa te la sei preparata?»
      «Non era una proposta, ma un ordine. Ho comprato quella camicia solo per vederti con qualcosa di chiaro addosso.»
      «E se non li avessi portati?» Ribatté, divertito.
      «Non fare il furbo, sono sulla sedia. Li ho visti, prima.»
      Ridendo li recuperò, e finì di vestirsi. Emanuel assottigliò lo sguardo quando rimase in mutande, inarcando un sopracciglio.
      «Hai davvero dei boxer con dei cactus sopra?»
      Abbassò lo sguardo sulla sua biancheria, e le stampe sorridenti di piccoli cactus verdi. Probabilmente la sua ossessione verso tali piante grasse era data da qualche trauma infantile, però sì. Aveva dei boxer con dei cactus sopra. E ne andava fiero.
      «Se vuoi me li tolgo.» Gli propose, con la sua peggior faccia da schiaffi, tanto che Manu alzò gli occhi al cielo.
      «Per carità, mettiti quei jeans.»
      «Come se fosse la prima volta che mi vedi nudo.»
      Emanuel sospirò, ma Lucio vide comunque l’accenno di sorriso che cercava di nascondere.
      «Perché non ti ho ancora dato un pugno?»
      «Perché mi adori.» Infilò con cura l’orlo della camicia nei pantaloni, e poi si voltò un’ultima volta verso il computer. «Allora?»
      «Ti sei salvato. Non dovrai ripulire il tuo sangue dalla moquette arancione, stasera.» Gli sorrise, spingendosi sul naso gli occhiali. «Ora devo andare, c’è mamma che mi chiama. Fammi sapere come va, d’accordo?»
      «¡Claro que si!»
      Si salutarono, e Lucio chiuse il portatile lasciandolo in stand-by. Svogliatamente finì di prepararsi, indossando orecchini, piercing, e collane varie; si legò i capelli in una treccia bassa perché si erano gonfiati tutti, e lui non aveva le forze per armarsi di piastra e spazzola. Si infilò gli scarponcini, recuperò il telefono e la giacca, e uscì in corridoio.
      La telefonata con Manu gli aveva decisamente risollevato l’umore, e lo aveva lasciato con una bella sensazione addosso, che gli faceva formicolare piacevolmente la pelle. Si stava convincendo che, dopotutto, quella serata non sarebbe stata poi così male.
      Poi arrivò in atrio, e le sue speranze si sgretolarono senza pietà.
      «Bella camicia!»
      Alejandro gli sorrise mettendo in mostra lo spazio tra i denti mentre, a cavallo dell’entrata, fumava una sigaretta. Indossava una giacca rosa e jeans strappati di una tonalità più scura – ovviamente muniti dei soliti risvoltini ad altezza polpaccio - insieme a un’accecante camicia azzurra e un paio di snaekers immacolate.
      Insomma, era inguardabile in tutti i sensi.
      «Grazie. Tu gli scaldamuscoli dove li hai lasciati? Negli anni ottanta?»
 Suo fratello rise, e Lucio sentì l’impellente desiderio di tirargli un pugno sul naso già storto.
      «State buoni, voi due.» Li rimbeccò Santos, sporgendosi dal divanetto dove era seduto. La maglia che indossava gli si tendeva sul petto e sulle spalle enormi, dandogli un’aria ancora più imponente del solito. Aveva cambiato le perline delle sue treccine di stoffa, in modo che fossero intonate con i vestiti e gli orecchini di metallo.
      Lucio avrebbe voluto accontentarlo, davvero, ma nei minuti che seguirono l’atrio si riempì con il resto del loro gruppo, e lui rimpianse con tutto il cuore di non essersi portato appresso dei fottutissimi occhiali da sole.
      Zaina e Pablo lo placcarono appena scesi dalle scale, in un vorticare di arancione – la stessa, identica, sfumatura delle pareti – nero e tatuaggi messi in bella vista da spacchi e scollature; nonostante fuori ci fossero cinque gradi. Rebeca indossava una gonna di pelle gialla e Miguel, al suo fianco, aveva deciso di non essere da meno sfoggiando una salopette blu elettrico. Elia era quasi presentabile, se non si contavano gli occhiali da sole ben piantati sulla testa e il rossetto fosforescente rosa, che si abbinava alla perfezione con quello azzurro di Alejandro.
      L’ultimo ad arrivare fu Mordecai, e scese le scale sistemandosi i polsini della camicia verde oliva, il giubbotto sottobraccio. Li squadrò, e Lucio sperò quasi che li rispedisse tutti a cambiarsi; o che per la vergogna decidesse all’ultimo di non farli partecipare. Purtroppo si limitò a scusarsi per il ritardo, e a commentare la camicia di Felipe, uno dei pochi a essere davvero presentabile.
      «Hai messo quella bianca alla fine.»
      «Sì.» L’uomo inarcò un sopracciglio, come se si aspettasse una frase del genere. Le treccine gli ricadevano sulla schiena in una massa scura, ornata da piume e applicazioni in oro. «Avete qualcosa contro la mia camicia, oggi?»
      «No, semplicemente pensavo avresti scelto quella nera.»
      «Anche io gliel’ho detto!» Ada circondò la vita del marito, nel suo svolazzante abito rosso, e Felipe le passò un braccio dietro la schiena, abbassando la testa per guardarla. «Non che il bianco non ti stia bene, caro, ma il nero è più elegante. Si confonde con la tua carnagione. Ti fa sembrare nudo, il che è sempre fantastico.»
      «Donna, per favore.»
      La dea rise, e Lucio decise che si sarebbe buttato giù dal primo ponte che avesse trovato per strada. Sfilò il telefono dalla tasca e mandò un messaggio a Emanuel, giusto per non avere rimpianti nel caso non fosse sopravvissuto alla cosa.
     
      TI PREGO, SALVAMI.
 
 
 
Caraval Place era, probabilmente, l’edificio più lussuoso che avesse mai avuto modo di visitare nel mondo mortale. Svettava sul cielo buio di Manhattan, con l’architettura che si incurvava morbidamente verso l’alto, dando l’impressione che potesse prendere vita da un momento all’altro. Un parco sconfinato circondava l’intera struttura, e ordinate file di larici affiancavano il vialetto principale.
      C’erano molte cose che lo rendevano nervoso, prima fra tutte il suo essere lì. Non era per nulla a suo agio, e sapere che quello era proprio il suo corpo, e non una manifestazione evanescente della sua essenza, gli faceva arricciare lo stomaco, non migliorando affatto la situazione. Quando glielo aveva detto, Diana aveva riso, allungando le mani per sistemargli la catenina con l’Ankh, in modo che spuntasse poco più sotto del colletto del maglione che indossava. Gli aveva detto di non preoccuparsi, e che era forte abbastanza per donargli tutta la magia di cui avesse avuto bisogno.
      Nonostante non mettesse in dubbio le doti della ragazzina, non era per nulla convinto. Ad alimentare ulteriormente la sua angoscia c’era anche il fatto di aver lasciato gli Inferi incustoditi: o meglio, i giudici erano rimasti per mandare avanti i processi, ma Osiride camminava placidamente davanti a lui; la pelle di una sfumatura più fredda di un normale essere umano, ma non blu. Iside gli stava accanto, facendo frusciare il vestito di seta verde e mantenendo una postura perfetta nonostante il tacco delle scarpe sprofondasse nella ghiaia.
      Più si avvicinavano all’ingresso e più sentiva il desiderio di scomparire sottoterra, nelle profondità della Duat; un pensiero davvero poco nobile considerando il suo essere, a tutti gli effetti, una divinità. Horus, al seguito dei genitori, era il suo esatto opposto: il portamento da guerriero rispecchiava l’eleganza di Iside, e lo sguardo truccato era così severo che era difficile non rimanere in soggezione.
      Ma più di Horus, in realtà, quello che lo preoccupava realmente era suo padre. Seth aveva un’espressione un po’ troppo divertita sul viso, per uno che doveva solo presiedere a una cena. Nella sua forma umana aveva la pelle brunita, quasi scottata -un richiamo lontano della sua usale carnagione rossa- e indossava un borsalino nero che si abbinava al completo a righe. Sicuramente stava tramando qualcosa, e il fatto che gli avesse posato una mano sulla spalla, pochi minuti prima, chiamandolo “ragazzo mio” già la diceva lunga sulle sue intenzioni.
      Arrivarono all’ingresso, sicuramente più affollato. Gruppi di mortali ben vestiti erano radunati fuori, sotto il portico, dove le colonne e i muri erano illuminati dalla luce proveniente dall’interno. Le porte erano composte solamente da vetro, e lasciavano in bella vista l’atrio e il bancone in mogano del guardaroba.
      Si avvicinarono, e in quel momento Ra, a capo del loro gruppo con Bast al fianco, alzò leggermente la testa verso l’alto, posando lo sguardo sul primo cornicione della struttura.
      Una decina di ragazze stavano appollaiate lassù, con i giacconi d’argento aperti sui vestiti e gli archi puntati contro di loro, pronte a colpire. Non che non le avesse percepite prima, ma trovarle tutte lì, schierate, lo aveva lasciato abbastanza interdetto. Bast soffiò indignata, ma Ra la fermò con un cenno della mano, senza scomporsi: una delle ragazze abbassò l’arco e fece segno alle compagne di fare altrettanto.
      «Sul serio?» Bisbigliò Iside all’orecchio del marito, mentre si dirigevano all’interno. Prima di superare il portico, Anubi alzò gli occhi, e vide le ragazze inchinarsi leggermente al suo passaggio.
      «Non parlare alle spalle degli altri, Iside.» La riprese Ra, senza nemmeno voltarsi. «Non è educato.»
      La dea non replicò, il che fu una fortuna. Anubi studiò l’ambiente con circospezione, soffermandosi sugli arredi che, proprio come l’esterno, erano di uno sfarzo senza limiti. C’erano lampadari di cristallo appesi ai soffitti alti, che sicuramente nascondevano dei neon di ultima generazione, perché la luce che irradiavano era bianchissima e innaturale. Le pareti erano stuccate e dipinte di colori caldi, che sfumavano verso l’alto dando l’impressione di un ambiente ancora più ampio, ed enormi vetrate si affacciavano sul giardino curato.
      I minuti seguenti furono stranamente infiniti. Anubi si ritrovò ad eseguire una fila si gesti meccani – porgere la giacca alla ragazza del guardaroba, prendere il proprio numero, ringraziare – e solo quando furono scortati verso la sala dove era stato allestito l’aperitivo, capì veramente di non essere pronto a una cosa del genere. Era la prima volta che incontrava altri dei, e non sapeva nulla di più di quello che Diana gli aveva trasmetto tramite la sua memoria e i suoi ricordi. Seth gli diede una pacca sulla spalla allargando il suo sorriso, incoraggiandolo ad avanzare; un gesto che gli fece fremere l’intera spina dorsale.
      Il salone non era molto grande, a discapito delle sue aspettative. La pianta era circolare e un grande mosaico astratto svettava al centro, con le tesserine che sfumavano in colori diversi, tutte differenti tra loro. Quando ci camminò sopra, si accorse quasi con stupore che anche i materiali erano dei più disparati: si passava dal vetro alla ceramica, dalla pietra al gesso. Cercò di imprimersi bene nella memoria quell’immagine, in modo da poterla condividere con Diana, più tardi.
      In fondo c’era un lungo tavolo allestito alla perfezione, con il cibo ben disposto in piatti rigorosamente bianchi, quadrati e con i bordi tendenti leggermente verso l’alto. I bicchieri per il vino erano capovolti in file ordinate, e tre camerieri erano pronti a servire gli invitati. In un angolo, su un palchetto rialzato, una piccola orchestra era intenta a suonare.
      Ad accoglierli c’era un uomo fasciato in un completo blu scuro, con una barba striata di grigio e la postura severa. Gli occhi scintillavano come il crepitio dei fulmini un attimo prima di colpire il suolo, e perfino l’aria, vicino a lui, aveva un odore diverso. Una donna gli stava accanto, sorreggendo un calice di champagne, i lunghi capelli marroni sciolti sulle spalle. C’era qualcosa che gli ricordava terribilmente Iside, forse i tratti del viso affilati ed eleganti, forse la disinvoltura con cui pareva muoversi per la stanza.
      Ra, avanzò, tendendo la mano verso l’uomo, un sorriso pacato sul viso abbronzato. Le rughe si concentrarono ai lati della bocca, increspandogli la pelle come ragnatele.
      «Benvenuti.» Persino la voce di Zeus era bassa come le nuvole cariche di pioggia. «Ci sono stati problemi per il viaggio?»
      «No, nessuno. Grazie mille per l’invito Zeus, Era.» Con un cenno del capò salutò la dea, che distese le labbra rosse in un sorriso. «Siamo onorati.»
      «L’onore è nostro.» Disse, anche se tutta quella formalità sembrava eccessiva. Ra rivolse un ultimo sorriso alla coppia, e con Bast al seguito si spostò verso il tavolo, lasciandogli spazio.
      Anubi scoprì che, essendo effettivamente i primi ad essere arrivati, avrebbero dovuto eseguire un giro di saluti obbligatori. Sua madre dovette percepire il suo nervosismo, perché con una scusa lo prese sottobraccio e insieme si diressero verso gli dei greci.
      A posteriori, non fu così brutto. Se si concentrava abbastanza, riusciva a percepire l’essenza di ognuno di quei volti sconosciuti, che spesso prendevano nome e coscienza dopo che si erano presentati. Zeus rombava come i suoi tuoni, sua moglie invece aveva una mano più piccola e una grazia decisamente più pacata. Un ragazzo biondo lo salutò, e sentì su di lui l’odore dell’estate e del Sole, molto simile a quello che provava di fronte a Ra; la sua gemella – perché erano davvero troppo simili per non esserlo - era più schietta invece, fredda, e percepì lo sforzo che fece nel toccarlo, come se la cosa le costasse fatica.
       Un uomo riccio e con un sorriso tutt’altro che onesto gli diede qualche pacca sulla spalla, e Anubi ebbe come l’impressione che lui e suo padre sarebbero andati davvero d’accordo. Una donna bassa e con gli occhi pesantemente truccati indugiò più del previsto a sciogliere la stretta, e sentì la sua magia reagire sulla pelle, come una scarica elettrica. Quando arrivò alla fine, si trovò di fronte a un uomo alto e allampanato, vestito di nero, e ancora prima che lo toccasse sentì la piega familiare che aveva la sua presenza, che rispecchiava in tutto e per tutto quella di Osiride. Al suo fianco c’era una ragazza con indosso un grazioso vestito a stampe floreali, i capelli chiari raccolti sulla testa. Non disse nulla, ma Anubi pensò che non doveva essere molto più grande di lei.
      Tornato al fianco di suo padre, si sentì decisamente meglio, cosa che non credeva fosse possibile. Nefti sciolse la presa dal suo braccio e gli sorrise, sistemandogli una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
      «Non rimanere in un angolo tutta la serata, d’accordo? Sono sicura ci sarà qualcuno anche della tua età con cui parlare. E sorridi un po’ di più, vuoi?»
      «Va bene. Ci proverò.» Poi piegò la testa, perché sentì distintamente l’imbarazzo colorargli il viso. Nefti rise e tornò al fianco del marito, lasciandolo da solo.
      Scrutò la sala. Nonostante le apparenze, anche i greci sembravano abbastanza sulle loro, divisi in piccoli gruppi. Apollo gli sorrise dall’altra parte del tavolo; e sarebbe anche venuto a parlargli, se Ra non lo avesse avvicinato prima. Il ragazzo inarcò le sopracciglia verso il basso in un’espressione di muto dispiacere, prima di voltarsi di spalle.
      Non ebbe tempo di fare altro nemmeno lui, perché Osiride lo chiamò con un cenno della mano e lui lo raggiunse, decisamente sollevato. Il dio gli poggiò una mano sulla spalla con affetto, un gesto decisamente più sentito rispetto a quello di suo padre, e lo presentò in maniera ufficiale alle due divinità degli Inferi greche.
      «Ho sentito parlare molto di te.» Commentò Ade, scrutandolo. Era molto alto, e superava di almeno una spalla Osiride.
      «Ne sono onorato.» Non sapeva esattamente cosa dire, né come intendere quelle parole. Se anche gli altri dei erano permalosi almeno la metà di come lo erano loro; allora doveva assolutamente fare attenzione a qualsiasi cosa gli uscisse dalla bocca. Far arrabbiare Iside era un conto; scatenare una lite tra Pantheon un’altra.
      «Spero siano state solo cose belle, allora!» Osiride rise, spazzando via senza problemi il suo disagio. «Anubi è un bravo ragazzo; mi da una mano, è sempre preciso.»
      «Diventerà sicuramente un ottimo dio.» Disse Ade, con un accenno di un sorriso sul volto pallido. «Nulla di cui stupirsi, visto che si tratta di te.»
      Osiride rispose con incredibile tranquillità a quel complimento, e la discussione si restrinse unicamente a loro due. La ragazza con il vestito a fiori – Persefone, se non sbagliava – spostò il peso da un piede all’altro, dimostrandogli che non era l’unico a sentirsi fuori luogo. Voltò la testa verso il rinfresco, dove una donna con un vestito marrone stava animatamente discutendo con Bast, e sospirò.
      «Mi accompagneresti?» Chiese. «Non penso saremmo di compagnia comunque.»
      Annuì, e l’affiancò mentre si dirigevano verso il tavolo. Si concentrò su gesti semplici, come passarle un bicchiere di vino bianco, e lo trovò estremamente rilassante, nonostante l’aria tra loro fosse ancora un po’ tesa. Persefone sorseggiò la bevanda, e passò in rassegna l’intera sala prima di rivolgersi di nuovo a lui.
      «Osiride è entusiasta di te. Gli brillano gli occhi ogni volta che ti nomina.»
      «Io… Uuuh, non l’ho mai… Notato?»
      La dea rise, e gli angoli della bocca si arricciarono all’insù facendola sembrare ancora più giovane di quanto non fosse.
      «È una cosa carina.» Disse, bevendo ancora. «Sei suo figlio?»
      «Purtroppo no.» Questa era una domanda più facile a cui rispondere. «Horus lo è.»
      Guardò suo cugino, impeccabile nell’aspetto e nel portamento, pochi metri più in là: stava ridendo per qualcosa che il suo interlocutore, un giovane uomo con i capelli a spazzola e gli occhi ambrati, aveva detto. Persefone seguì il suo sguardo e socchiuse gli occhi.
      «Oh. Conosco il genere, bruto e di bell’aspetto. Infatti sembra andare magnificamente d’accordo con Ares.»
      Non avrebbe trovato modo migliore per descriverlo. Per carità, Horus non gli aveva fatto nulla di male e, anzi, quando erano bambini avevano passato giornate infine presso le rive del Nilo, a giocare assieme. Ma poi erano cresciuti, prendendo strade diverse, e insomma, lui non era mai stato il tipo da voler attirare l’attenzione.
      «Beh, non è importante. Osiride sembra prestare più attenzione a te.» Fece ovvia, scrollando le spalle.
      «Diciamo che Horus è il preferito di Iside.» Con un cenno del capo gliela indicò, nel suo vestito esageratamente scollato. L’influenza di Olivia si faceva sentire, perché solo lei avrebbe scelto di mostrare così tanta pelle senza problemi. Sottili gioielli d’oro le scendevano sul petto, mettendo in risalto la carnagione ambrata.
      «Sembra… Anzi, non dirò nulla.» Decise Persefone, guardando Era avvicinarsi e sorridere in maniera quasi forzata. «Spero non si scannino tra loro, sarebbe davvero il colmo.» Sospirò di nuovo, e si perse ad osservare la scena.
      Anubi la imitò, non avendo nulla da aggiungere. Persefone gli sembrava quasi rassegnata; una sensazione che non era riuscito a togliersi di dosso dal primo momento che l’aveva vista. Era indubbiamente legata al mondo dei morti, ma c’era qualcosa di intrinseco nella sua stessa essenza che, invece, era completamente differente. Nonostante la curiosità però, evitò di fare domande, per non risultare scortese; avrebbe potuto cercare la sua storia su Wikipedia più tardi, assieme a Diana.
      «Ti stanno chiamando.» Gli fece notare, e Anubi vide Seth spaventosamente felice fargli un cenno con la mano. Ebbe la tentazione di voltarsi e fare finta di non averlo visto, ma alla fine il suo buon senso lo costrinse a raggiungere il padre.
      «È stato un piacere, Anubi. Ci vediamo.» Persefone gli sorrise ancora una volta e poi tornò da Ade.
      Con pochi passi anche lui si allontanò, fermandosi al fianco del genitore: aveva una gran voglia di chiedergli come mai stesse sorridendo così tanto, visto che dubitava che il suo obiettivo ultimo fosse quello di avere una paralisi facciale per tutta la settimana seguente. Poi dall’ingresso si affacciò un altro gruppo di divinità, e Anubi capì, con una lucidità disarmante, che in realtà da lì in poi le cose sarebbero progressivamente peggiorate, senza ombra di dubbio.
      L’uomo che apriva la fila era corpulento, fin troppo alto, e con una benda su un occhio. Una personalità che non passava di certo inosservata, se si contavano anche i due corvi appollaiati sulle spalle; eppure non ebbe tempo di prestargli attenzione, semplicemente. Si ritrovò a fissare, confuso, un altro dio, che a braccia spalancate si era diretto verso di loro ignorando completamente il resto dei presenti.
      «Carissimo!» Salutò, palesemente rivolto a Seth, e il suo sorriso si tese ancora di più. «E i tatuaggi?» Si bloccò a un passo da lui, stupito, ma Anubi avrebbe notato il suo divertimento anche se non fosse stato così vicino.
      «Non si abbinavano con il vestito.»
      «Non ne sarei così sicuro, del resto erano pacchiani alla stessa maniera. Come il tuo ridicolo pizzetto del resto!»
      Seth, invece che disintegrarlo in un cumulo di sabbia come avrebbe fatto con chiunque, scoppiò a ridere, afferrando la mano che gli porgeva e trascinandolo in un mezzo abbraccio con tanto di sonore pacche sulle spalle, in un gesto di pura amicizia virile.
      Il che era, già di per sé, davvero preoccupante.
      «Nefti, cara, ti trovo in splendida forma!» Continuò l’uomo, e sua madre gli sorrise educata. Poi si voltò verso di lui, e gli occhi chiari gli scintillarono di malizia nel vederlo. «Ah, quanto sei cresciuto!» Esclamò, posandogli le mani sulle spalle.
      Anubi batté gli occhi, perché quella era davvero l’ultima cosa che si sarebbe aspettato di sentirsi dire. Quell’assurdo teatrino però fu interrotto ancora prima che potesse formulare una risposta di qualsiasi tipo; e si accorse che, effettivamente, non era l’unico ad essere rimasto confuso da quell’improbabile re unione.
      «Loki.» L’uomo con i due corvi lo fulminò all’istante con l’unico occhio che gli era rimasto, di un blu profondo e cupo. «Cosa…»
      «Ah, ma dove ho lasciato le mie buone maniere? Certo, prima i padroni di casa; Zeus, Era!» E senza il minimo problema si avvicinò ai due per salutarli, con al seguito quella che, probabilmente, era sua moglie.
      Si voltò verso Seth, e tutto quello che riuscì a fare di fronte a quel ghigno esagerato fu aggrottare le sopracciglia.
      «Padre… Sul serio?»
      «È un mio carissimo amico.» Gli disse solo, alzando le spalle con indifferenza. Avrebbe voluto rispondergli in qualche modo; ma non aveva parole abbastanza adeguate per esprimersi. Al momento, l’aria di strana euforia che aveva permeato gli ultimi tre giorni e il divertimento quasi esasperante di suo padre erano diventati palesemente chiari. Persino sua madre, che solitamente era molto tranquilla, aveva accettato la notizia di quella cena con un’allegria insolita che però non lo aveva insospettito più di tanto.
      «Ah, eccoci qui! Scusate, le solite cose: “ah Loki, che cosa vuol dire questo? Perché non ce ne hai parlato?” e via dicendo. Dove eravamo rimasti?»
      Si aggiustò le maniche della giacca bianca che indossava, da cui spuntavano i polsini di una camicia rossa. Aveva un viso di una bellezza bestiale, con occhi chiarissimi e cicatrici che gli si increspavano sul naso, irregolari e sottili. Attorno alle labbra, un po’ sbilenchi, c’erano diversi buchi; come se qualcuno si fosse divertito a cucirgli la bocca con un ago smussato. Una massa di capelli rossi gli ricadeva sulle spalle, dalle sfumature ricche e calde.
      La donna al suo fianco si chinò verso di lui, dicendogli qualcosa, e Loki tornò a dedicargli tutta la sua attenzione.
      «Sì giusto, il ragazzo! Sygin me lo stava facendo notare, è proprio la tua copia spiccicata!»
      Anubi inarcò un sopracciglio d’istinto: quella era davvero l’ultima cosa che si aspettava gli dicessero, senza dubbio. Ed era stata abbastanza scioccante da fargli morire qualsiasi volontà di rispondere, o quantomeno intervenire nella conversazione. Sentì la flebile speranza che aveva nutrito nei minuti precedenti svanire nel nulla, e si chiese se, effettivamente, sarebbe mai riuscito ad andarsene da quel luogo senza riportare qualche genere di trauma psicologico, che lo avrebbe segnato per il resto della sua eternità. Neanche amare per una vita Sadie Kane l’aveva mai provato così – il che era tutto dire, considerando che da quando era morta, era diventata ancora più irritante e molesta nei suoi confronti.
      Decise a priori di non ascoltare, anche perché tutta quell’intesa tra Loki e Seth lo inquietava, e si concentrò sulle divinità appena arrivate. Per quanto la sua cultura in fatto di mitologia norrena fosse nulla, Thor lo riconobbe lo stesso, anche se la figura di quell’uomo tozzo, con la barba rossiccia e due trecce ai lati del viso cozzava completamente con l’idea che anni di film avevano coltivato nel suo immaginario. La prossima volta che avrebbe rivisto Walt, magari avrebbe omesso quel particolare.
      C’erano anche dei gemelli, un’altra coppia. Erano molto più eleganti rispetto agli altri, e non solo nei lineamenti o nella postura; sembrava quasi facessero parte di un’altra generazione, una parentesi stranamente raffinata in quell’ammasso di rudezza che ogni divinità sembrava emanare dalla propria pelle. Persino Loki, che gli ricordava un serpente per la morbidezza della sua voce e delle sue parole, aveva un che di brutale che gli sporcava il viso.
      Finì per indugiare un po’ troppo su di loro, e quando la donna si voltò verso di lui, sorridendogli, si ritrovò a distogliere lo sguardo, imbarazzato.
      La sala aveva finito per riempirsi in fretta, e il chiacchiericcio generale aveva coperto la musica in sottofondo. Zeus continuava a stringere mani con la faccia contrita; e a quel punto Anubi immaginò che quella fosse la sua espressione usuale. I gruppi si erano allargati e alcuni temerari, come il vecchio Ra, erano intenti a finire un nuovo giro di saluti, cosa a cui lui aveva rinunciato immediatamente sia per la timidezza, sia per evitare figure abbastanza sconvenienti.
      Quando posò lo sguardo sulla porta - curioso di vedere chi ancora sarebbe arrivato – capì, forse con un po’ di ritardo, che quella sera non avrebbe fatto altro che stupirsi.
      La prima cosa che notò furono i colori: nonostante il ragazzo che guidava la fila indossasse una semplice camicia verde e un paio di jeans scuri; dietro di lui c’era un marasma di stoffe, tessuti e gioielli delle tonalità più disparate. Un uomo basso e tarchiato sfoggiava un completo arancione su una camicia nera, e come se il vestito non fosse già appariscente di per sé, aveva la faccia completamente tatuata, compreso il cranio rasato. Assomigliava a uno scheletro vivente, e persino sulle labbra l’inchiostro disegnava i solchi dei denti. La donna che lo seguiva non era da meno, con un vestito smanicato che a stento le copriva le cosce, anche lei ricoperta di tatuaggi dalle colorazioni sature. Le ossa disegnate sul suo corpo riprendevano quelle nascoste da muscoli e pelle, ma ognuna di loro era la base per piante rampicanti, rose che si intrecciavano le une sulle altre, e falene che si posavano sulle ginocchia o i dorsi delle mani. Un tizio assurdo aveva le labbra azzurre, cosa più che sufficiente a sconvolgerlo.
      Il loro ingresso - impossibile da ignorare a priori – fu coronato inoltre da una sequela di gomitate, ammiccamenti e saluti molto poco discreti da parte di Loki e suo padre, che riportarono inevitabilmente l’attenzione su di loro.
      «Guarda chi è arrivato!» Seth rise di gusto, e Loki assottigliò gli occhi con il divertimento che gli piegava le labbra sfregiate.
      «Com’è che si fa chiamare adesso… Lucia?»
      «Oh no, aspetta, penso iniziasse per “f”…»
      Un uomo li guardò con la coda dell’occhio, sogghignando e scatenando una serie di risate incontrollabili. Era altissimo, con la pelle così scura che sembrava fosse nera, e due occhi di un’innaturale sfumatura di verde, screziati d’oro al centro. A differenza di Loki, aspettò il suo turno per salutare Zeus, e poi sotto lo sguardo attonito dei presenti, li raggiunse.
      «Signori.» Disse, e schiuse le labbra mettendo in mostra una chiostra di denti bianchissimi. «Loki, non sapevo avessi cominciato a vendere gelati.»
      «È il business del futuro. E poi il bianco mi dona!» Rispose il dio, stirando i bordi della sua giacca.
      «Il problema è la faccia.» Disse Seth, sghignazzando. «A quella non puoi porre rimedio.» 
      «Che ci vuoi fare, così è la vita. Almeno adesso posso partecipare alla gara di cicatrici brutte, qui dentro.»
      Il nuovo dio inarcò elegantemente le sopracciglia, schioccando la lingua.
      «Carini i tuoi punti di sutura, peccato non possano competere con il carbonio ultraleggero della mia gamba.» Ribatté, come se fosse una cosa ovvia. Inclinò la testa verso destra, e sorrise verso la dea che li stava raggiungendo.
      «Ah donna, sempre in ritardo sei.» La stuzzicò.
      «Sono stata placcata.» Disse, con un grande sorriso sul viso. Era minuta e nonostante indossasse i tacchi, arrivava a malapena al petto dell’uomo. I capelli erano corti e acconciati in treccine che partivano dall’attaccatura della fronte, ornati da perline e piume.
      Girò il viso verso di lui e si illuminò di felicità.
      «Mamma mia quanto sei cresciuto!» Il fatto che un sacco di divinità sconosciute continuassero a commentare la sua effettiva crescita gli stava dando qualche problema. «L’ultima volta che ti ho visto eri un fagottino grande così! Feli, te lo ricordi?»
      L’uomo annuì, sorridendo appena. «Ti somiglia proprio, Seth.»
      Più lo guardava, più gli sembrava familiare: il modo in cui spostava il peso su una gamba, la piega divertita delle labbra, l’espressione rilassata che nascondeva una malizia sottile. Un pensiero gli attraversò la mente, e l’immagine del direttore del museo che tre settimane prima avevano visitato gli si palesò di fronte.
      Il giro di saluti fu imbarazzante, non trovava altre parole per descriverlo. La dea bassina si presentò come Ada – un grazioso nome mortale a sua detta, perché quello vero era troppo lungo e complicato -  e nel giro di due minuti aveva pizzicato il fianco del marito – Felipe, anche se Loki insisteva a chiamarlo Lucia a causa di chissà quale aneddoto passato – lisciato le maniche del vestito di sua madre e abbracciato la moglie di Loki, il tutto senza smettere di sorride e ridere.
      Si ritrovò, ben presto, a essere il fulcro di discussione delle tre donne che, oltre a complimentarsi per il suo bell’aspetto – cosa che lo lasciò ancora una volta perplesso – si lanciarono su un lungo discorso sulle responsabilità che alla sua età avrebbe dovuto avere, e come le cose fossero cambiate da quando loro erano giovani dee. La cosa rasentava così tanto l’assurdo, che non voleva crederci. Diana si sarebbe piegata in due dal ridere per una settimana, non appena l’avrebbe ospitato di nuovo, prendendosi gioco di lui per qualcosa come tutta la vita. Sospirò.
        Aveva ormai perso il conto di quanta gente era arrivata, e tutta quella folla lo fece desistere subito dall’allontanarsi. Persino se si concentrava faceva fatica a ritrovare volti noti, o per lo meno non sconosciuti. Vide di sfuggita Zeus che si inchinava appena di fronte a una donna altissima e furiosa; a braccetto con altri due uomini. Non riuscì a cogliere tutti i dettagli della sua espressione, ma la rabbia con cui piegava le labbra rosse era difficile da non notare.
      Il suo personale supplizio ebbe una svolta quando, dalla calca, comparve il ragazzo in camicia verde. Avanzò verso di loro tirandosi su le maniche in modo da scoprire i polsi, in un gesto involontario, probabilmente.
      «Buonasera.» Salutò con un lieve sorriso, prima di poggiare una mano sulla spalla di Felipe.
      «Tutto bene?»
      «Sì. È appena arrivato Thot, sto andando a salutarlo. Dai un occhio ad Ale, evita che faccia cazzate. E già che ci sei ferma Lucio dal mettergli le mani addosso.»
      «Per chi mi hai preso, un babysitter?» Gli chiese l’uomo, facendo una smorfia.
      «Per l’unico con un po’ di maturità sulla coscienza.» Rispose il biondo, e se ne andò prima che l’altro potesse replicare.
      Loki sghignazzò, e Felipe lo guardò con la rassegnazione dipinta negli occhi.
      «Bisogna avere pazienza.» Disse solo. «Ringraziate di non avere venti fratelli problematici a vostro carico.»
      Suo padre si perse a commentare il fatto che si, lui di fratello ne aveva uno, ma gli bastava e avanzava. Visto la piega che la situazione stava prendendo, Anubi non si sarebbe sorpreso se l’idea di fare a pezzi Osiride e rinchiuderlo in un sarcofago fosse stata partorita, all’epoca, da uno degli altri due dei.
      «I più piccoli sono sempre i peggiori.» Commentò Felipe, scrutando gli invitati, alla ricerca di qualcuno. Alzò il braccio, e con un cenno della mano richiamò l’attenzione di un ragazzo.
      «Mordecai ti ha chiesto di guardarmi?» Esordì quello al suo arrivo, aggrottando le sopracciglia indispettito. «Perché se ha paura che picchi quel colibrì scemo sta’ fresco: questa serata è così pallosa che anche la mia voglia di suicidarmi se ne è andata.»
      Per tutta risposta Felipe rise, e gli passò una mano dietro la schiena per incoraggiarlo ad avvicinarsi.
      «Dai, smettila di lamentarti e presentati.»
      «Ah-ha. Sono Lucio. Piacere eccetera, eccetera.» Disse, alzando gli occhi al cielo e cominciando a stringere mani. Quando toccò a lui gli rivolse uno sguardo pieno di comprensione. «Tu sei davvero Loki?» Chiese poi.
      «L’ultima volta che ho controllato sì, il mio nome era quello.»
      «…Ma non sei moro.» Constatò.
      A quanto pare non era l’unico lì che si era sorbito ore e ore di film Marvel, decine di anni prima. Il sorriso di Loki si allargò ancora di più, appena colto il riferimento.
      «Posso esserlo se lo vuoi, tesoro.»
      Lucio lo guardò con la più plateale espressione di disgusto sul viso.
      «No. E non chiamarmi tesoro.» Loki rise, più divertito di quanto avesse dovuto.
      «Lasciamelo stare.» Lo ammonì Felipe. «È l’unico che si salva.»
      «Grazie al cazzo.» Sbottò il moro. «Per fortuna che sei rimasto qui a fare il simpatico, almeno non hai dovuto assistere all’imbarazzante presenza di Ale. Anzi, sai una cosa? Spero che sua maestà “Sono-offesa-quindi-mi-chiudo-in-una-grotta-per-mesi” gli sputi in un occhio e lo accechi malissimo!»
      «Lucio, modera quelle parole.» Lo riprese Ada.
      «Tanto mica mi sente quella vecchia, è troppo impegnata a guardare la gente con lo schifo sulla faccia. Non che la biasimi eh.» Continuò imperterrito, con una disinvoltura che lui non avrebbe mai avuto. Dal modo in cui Seth e Loki continuavano a guardarlo, Anubi capì che era appena entrato a pieno titolo nelle loro grazie.
      «Il tuo fratellino è un amore.»
      «Faccio del mio peggio.» Poi si voltò verso il fratello. «Posso andare ad affogarmi nel laghetto delle anatre, ora?»
      «No.»
      «Quanto sei noioso.» Ruotò ancora una volta gli occhi verso l’alto, prima di voltarsi versò di lui. «Dai, vieni, mi serve qualcuno che mi faccia da palo o muoio prima.» E senza aspettare una risposta lo trascinò per un braccio verso il tavolo del buffet.
 
 
 
Lucio riuscì a confermare tutte le prime impressioni che si era fatto su di lui nel giro di cinque minuti.
      Si diresse a passo spedito verso i piatti, schivando con abile maestria qualsiasi persona avesse potuto rivolgergli la parola, e nel tempo di un battito di ciglia aveva arraffato quanto più cibo possibile, infischiandosene dello sguardo basito dei camerieri, o di qualsiasi regola di galateo esistente.
      «Non ringraziarmi.» Gli disse, masticando un crostino con del caviale sopra. «Ho visto che faccia avevi, volevi morire. Ti capisco, anche io mi farei un giro nel Mictlan in questo momento.» Si mise in bocca un tortino salato e passò almeno due minuti con le guance piene.
      «Non pensavo fosse così palese.»
      «Fidati, la tua credibilità è pari a zero.»
      Molto confortante. Anubi lo seguì mentre scivolava verso il fondo della tavolata, e si ritrovò con un bicchiere di vino in mano.
      «Non bevo.»
      Lucio lo guardò con sufficienza, sfoggiando un sorrisetto davvero irritante.
      «Sta’ zitto e manda giù.»
      Se si fosse trovato in un'altra occasione, probabilmente non avrebbe ceduto così facilmente. Ma, a quanto pareva, era così esasperato che alla fine prese a sorseggiare il vino, lasciando che il palato gli pizzicasse appena. Lucio socchiuse gli occhi, ma almeno non disse nulla.
      «Allora, il piano è questo: noi ci facciamo gli affari nostri, e se qualcuno si avvicina troppo ci spostiamo dalla parte opposta e lo seminiamo. Ci sono alcuni pali in culo da evitare assolutamente, quali: Thor.»
      «Sul serio?» Non aveva avuto l’occasione di parlarci, ma il dio non gli pareva scontroso, o pronto a fracassargli il martello in testa. Aveva un faccione rubicondo e faceva un gran chiasso, nulla di più.
      «Beh, che c’è? Non ho mica i soldi per pagarmi ogni mese di abbonamento a Netfix, cosa credi? Due minuti con quello, e sta sicuro che ti avrà spoilerato metà delle serie che ci sono là dentro.» Lucio lo fissò tra la moltitudine di gente, e poi si voltò verso di lui, tirando fuori la lingua in ribrezzo e mostrando la sommità lucida di un piercing. «Grazie al cazzo, con un martello che ti fa da satellitare sono bravi tutti.»
      La cosa lo fece ridere, perciò nascose il suo divertimento bevendo un altro sorso.
      «D’accordo, Thor no. Chi altro?»
      «Zaina e Pablo.» Con un cenno del capo gli indicò quella strana coppia vestita di arancione. «Sono pazzi, e molto probabilmente verranno a cercarti perché sei una divinità degli Inferi, hai la testa di un cane e menate varie. Tu ignorali, nel caso ti rapiscano a tradimento; prima o poi si stuferanno di parlare al vento.»
      «Sono i vostri dei della morte?»
      «Sì. E questo già ti dovrebbe far capire il grado di disagio che permea la mia intera esistenza.» Dalla tasca posteriore dei jeans estrasse un telefono, guardò lo schermo, sorrise, e poi digitò una risposta rapidissima, prima di rimetterlo a posto. «Se te lo stai chiedendo – perché si, te lo leggo in faccia – anche io sono una divinità degli Inferi. Per farla breve, il mio dominio si estende sul quarto girone del nostro Inferno: giudico le anime che ci arrivano, e se sono abbastanza forti e non scompaiono prima, allora possono continuare il loro viaggio.»
      «Non siamo molto diversi.»
      «No.» Si voltò di nuovo a guardare gli dei. «Però diciamo che, confrontando i ruoli, sei molto più simile a mio fratello Xolotl. Cioè siete identici, pure lui è un cane; oltre ad essere il più sveglio, perché come vedi è riuscito ad evitare tutta questa gran rottura di coglioni non presentandosi!»
      Lucio finì il vino e tornò a concentrarsi sul suo cellulare, evidentemente molto più interessato a quello che leggeva. Lui alzò il viso, e colse Apollo da lontano sorridergli e avvicinarsi.
      «Anche io avrei volentieri evitato tutto questo. Non penso che la mia presenza cambi effettivamente qualcosa.»
      «Non dirlo a me.» Rispose il moro, con la testa ancora china. «Io e Manu avremmo potuto finalmente breedare la nostra squadra di Pokemon, e invece no! Dovremmo farlo durante le ore buca di lezione; il problema è che tra un mese e mezzo inizia la sessione e ciaone, abbiamo qualcosa come cinque esami da dare, lo schifo!» Sciorinò, finendo di digitare e spegnendo il display. Faceva fatica a stare appresso a tutto quello che diceva – quindi andava a scuola? Aveva tempo per giocare in competitivo a Pokemon anche se la fine del mondo era potenzialmente dietro l’angolo? Sul serio?
      «Ah comunque, tornando a noi, un altro tizio da evitare assolutamente è mister “occhiali da sole” Apollo, quel biondino appiccicato alla tizia inquietante con le sopracciglia scure.»
      «Artemide?»
      «Si vabbè, quello che è. Ho un problema personale con tutti gli dei del Sole, inoltre è molesto da morire, ergo, non guardarlo e non dargli corda.»
      «Ciao!»
      Il suddetto dio del Sole li raggiunse, e Anubi vide Lucio sbiancare nell’arco di due secondi netti, prima di voltarsi di scatto facendo frustare la treccia nell’aria.
      «Ciao.»
      «Sarei venuto a parlarti prima, ma sono stato trattenuto da Ra. E poi ho visto che eri impegnato, quindi non mi sembrava il caso.» Apollo gli rivolse un sorriso luminoso – letteralmente – e gli strinse di nuovo la mano.
      «Noi invece non ci siamo presentati, vero? Piacere, Apollo.»
      Lucio guardò la mano tesa verso di lui, afferrandola solo dopo secondi infiniti.
      «Itztlacoliuhqui-Ixquimilli.» Gli sillabò in faccia, sfoggiando una freddezza atroce. Persino la temperatura dell’aria sembrava essersi abbassata, e Anubi comprese perché sceglievano nomi umani per andarsene in giro.
      Apollo rimase perplesso giusto pochi istanti e poi, con tranquillità, gli sorrise.
      «Bel nome. Come il resto d’altronde.»
      «Per favore, risparmiatelo.» Il moro corrucciò così tanto le sopracciglia, che invece di una ruga gli si formò un vero e proprio solco in mezzo alla fronte.
      «Non ti facevo così frigido.» Lo stuzzicò ancora il biondo, girandosi verso di lui per ricevere un minimo di appoggio, suppose.
      «Non sono frigido.» Lucio scosse la testa facendo ondeggiare i capelli, rivolgendogli il ghigno più velenoso che gli avesse mai visto in faccia. «È che sono già impegnato.»
      Il trionfo sul suo viso affiorò con la stessa velocita con cui il sorriso di Apollo si spense. Evidentemente però, il greco doveva aver presto legnate peggiori nella sua lunga vita, per arrendersi a una risposta del genere.
      «Oh, non importa, non sono geloso.»
      Lucio batté gli occhi due volte, incredulo, stringendo così forte il bicchiere tra le mani da mandarlo quasi in frantumi. Poi decise che ne aveva abbastanza, o che finalmente fosse arrivato il momento di andarsi ad affogare nel laghetto; Anubi non avrebbe saputo dirlo.
      «Io però sì.»
      E, con divina classe, gli mostrò il dito medio.
 
 
 
La scelta fu abbastanza semplice: da una parte c’era il tavolo dei “Big”, e questo implicava discorsi noiosi sulla fine del mondo, sull’equilibrio dell’universo e affini. No grazie. Dall’altra quello dei piantagrane e no, quel giorno aveva già retto Felipe abbastanza; il tavolo degli Avengers brutti lo avrebbe lasciato a qualcun altro, e non era così disperato da passare le ultime ore ad ascoltare tutorial illustrati su come preparare un campo per la semina.
      «Vieni.»
      Trascinò Anubi per la sala diretto al tavolo in fondo, dove il gruppo delle dee dell’amore e cose sdolcinate si stava accomodando; facendo un gestaccio ad Alejandro quando gli passò di fronte per rispondere al suo occhiolino.    
      «Oh cari, venite con noi?» Ada gli sorrise e gli spostò la sedia vicino a lei.  Anubi occupò l’ultimo posto, tra sua madre e la tipa norrena che aveva i capelli d’oro e una faccia da innocentina per nulla credibile.
      «Sto cercando di arrivare a casa senza essere stuprato. Anubi mi fa compagnia.»
      Il dio si agitò un po’ sulla sedia, e si alzò le maniche del maglione per dissimulare l’imbarazzo: era un moretto parecchio più basso di lui, con la carnagione cadaverica e le mani nervose. Gli ricordava in maniera impressionante Emanuel: stessa ansia sociale, stessa tendenza ad arrossire per nulla e via dicendo. E siccome era un disastro di dio adolescente, sapeva benissimo che quello era l’unico motivo per cui aveva deciso di intrattenere una conversazione con lui, trascinandoselo appresso.
      «È successo qualcosa?» Domandò Ada, decisamente troppo interessata. Lucio fece passare lo sguardo sul tavolo, e non si soprese per nulla nel vedere cinque paia di occhi addosso. Si prese un attimo per studiare le dee: tralasciando Sygin e Nefti – sì, non era così negato con i nomi dopotutto – c’era una donna con i capelli biondo fragola e un vestito con uno spacco inguinale seduta accanto ad Ada; e per finire la biondina moglie di Thor che non somigliava minimamente alla sua trasposizione televisiva, ma pazienza, quello era il trauma minore. Ancora doveva superare il fatto che Loki non fosse moro; aveva come l’impressione che ci sarebbe voluto tempo e un sacco di cibo spazzatura per colmare la crepa che il suo cuore di nerd ora aveva.
      «Apollo ci ha provato ed è stato, francamente, orribile.» Disse, scatenando gridolini vari.
      «Non siete male come coppia.» Commentò la donna bionda, che era quasi sicuro fosse Afrodite, andando per esclusione.
      «No, cara, ma lui è già impegnato!» La informò Ada, dandole una leggera gomitata. «Non è vero?»
      «Ah boh, chiedilo a Manu, è lui quello confuso sulla nostra relazione, mica io.» Rispose, prendendo a dondolarsi sulla sedia giusto per infastidire Santos che, dal suo tavolo, lo stava guardando con quello che sembrava un vero e proprio sguardo di rimprovero.
      «Quindi è un ragazzo!» Esclamò Sif entusiasta, e perfino Nefti gli sorrise. «E com’è, bello?»
      «Il più bello del reame.» Rispose monocorde, sfilandosi il telefono dalle tasche per rispondere, guarda caso, a Manu. Gli mandò la foto del tavolo accanto a loro, quello degli Avengers brutti: Thor aveva piantato il suo martello al centro del tavolo, e Alejandro stava cercando di tirarlo su insieme ad Ares, mentre Elia filmava la cosa col telefono. Probabilmente avrebbe mandato il video sul gruppo di Whatsapp, più tardi; ma lui non poteva aspettare per mostrare tale disagio al ragazzo.
      «È lui che ti scrive?»
      «Ma una foto, non ce la mostri?»
      Lucio alzò lo sguardo, basito.
      «Ma i cazzi vostri?» Chiese retorico, scatenando risatine generali.
      «Sei tu che ti sei seduto qui, sapevi benissimo sarebbe finita in questo modo!» Lo rimbeccò Ada, con una prontezza che stava cominciando a trovare esasperante. Per un secondo, uno soltanto, provò compassione per Felipe. Poi si ricordo che gran cagacazzi fosse, e quel sentimento svanì velocemente così come si era formato.
      «Tenete, assatanate. Non rovinatemela che è l’unica che ho.»
      Dalla cover sfilò una vecchia polaroid che risaliva alla bellezza di due estati prima, e che Ivory gli aveva ceduto dopo un sacco di esperienze disagianti volte a distruggere l’ultimo briciolo di dignità che gli rimaneva. Nella foto si stava legando i capelli, ed Emanuel, accanto a lui, teneva il pallone da pallavolo sotto il braccio, mentre con le dita storte faceva il segno della vittoria.       
      Le dee se la passarono tra loro, sospirando di felicità solo come delle donne di fronte a una coppia carina sapevano fare. Afrodite osservò Manu con un sorriso furbo, prima di restituirgli lo scatto.
      «Che carino, quindi tu mi vedi bionda?»
      Era tentato di dirle no solo per infastidirla, ma a prescindere dalla sua risposta, sapeva che la dea non avrebbe creduto a qualcosa che fosse diverso da un’affermazione.
      «Ci sono biondi e biondi, non dimenticarlo.» Ada rise, trascinando le altre, e Lucio fissò Anubi solo per fargli sapere che non si era dimenticato della sua presenza, e che se voleva si sarebbe volentieri lanciato da una finestra assieme a lui.
      Poco più avanti rispetto a loro, di fronte alla vetrata che dava sulla città, c’era il tavolo dei piantagrane; che vantava tra le sue schiere, oltre che il trio imbarazzante dell’Ave Maria, il messaggero cleptomane dei greci, un tizio che sembrava uscito da un casinò di Las Vegas con almeno due chili di platino addosso - in competizione con Alejandro per il titolo di “dio più pacchiano del 2k83” – un’altra tipa greca con più capelli che altro, e Susanoo direttamente dal clan Uchiha.
      Personalmente la cosa non gli creava nessun fastidio, al contrario di Mordecai che continuava a trafiggere Felipe con lo sguardo, nella vana speranza di inchiodarlo alla sedia e limitare così la sua presenza caotica. Premura del tutto inutile, visto che il moro aveva la divina capacità di scatenare il pandemonio solo parlando; e infatti due minuti dopo Ada aveva alzato la testa verso di lui, facendo cadere il silenzio tra i due tavoli dopo le ennesime risatine a mezza bocca.
      «Ma stai parlando male di me?»
      Felipe sfoggiò un perfetto sorriso da schiaffi. «No donna, figurati, ho solo detto che sei estremamente bassa.» La stuzzicò, guardandola assottigliare gli occhi con estremo divertimento.
      «Ah, davvero? Non mi pare fossi di questa opinione ieri sera…»
      Era pur sempre Ada, senza un briciolo di pudore. Loki diede una gomitata a sua fratello mentre si piegava in due dal ridere, sulla sedia, e il loro tavolo esplodeva in esclamazione e risate varie.
      «Quello perché ero in ginoc-»
      «AH, MA QUINDI STAI SOTTO?» Urlò Alejandro dall’altro tavolo, dando prova dell’esistenza di un unico buco nero all’interno della sua scatola cranica, intento a risucchiare qualsiasi pensiero coerente potesse mai formulare. Mordecai alzò esasperato lo sguardo, ignorando il fatto che più di quaranta dei stessero assistendo a quel teatrino scemo, e li richiamò all’ordine.
      «Finitela, voi tre.»
      «Colpa tua donna, così me le tiri proprio fuori di bocca.»
      «Fossero solo quelle!» Ada dedicò un sorriso innocente a Felipe. Poi vide la faccia assai provata di Mordecai e sbuffò. «Dai, siamo tutti grandi e vaccinati, nessuno si sconvolge!»
      «Sei impossibile donna; e poi non mi credono quando dico che vengo seviziato in casa mia! Non mi posso nemmeno chinare senza preoccuparmi della mia incolumità.»
      «Oh poverino.» Gli fece il verso Ada, estremamente divertita. «Sei tu che mi hai rapita! A quest’ora avrei potuto palpeggiare il sedere di Miguel, e saremmo stati tutti felici e contenti. Ma tu ti sei messo in mezzo, ergo…» Assottigliò lo sguardo, e il sogghigno di Felipe si allargò sul suo viso. «Mo’ ti attacchi al cazzo.»
      «Davvero una grande dimostrazione di classe, cara.» Le sussurrò Afrodite sghignazzando.
      Ada rise, incurante del fatto che la sua dichiarazione avesse scatenato una serie di reazioni esilaranti sulle facce delle altre divinità: Era probabilmente si stava chiedendo come, nell’universo, una tappetta del genere con una proprietà di linguaggio degna di uno scaricatore di porto avesse una vita matrimoniale migliore della sua. Zeus sembrava basito, ma per un motivo diverso. Sua maestà “Luce del Giappone” invece aveva intensificato la sua espressione di disgusto verso l’umanità, espandendola direttamente a tutte le creature del creato e non.
      «Per la cronaca, Eve dice che siete imbarazzanti e che potete anche evitare di tornare a casa.» Disse, leggendo la risposta che la ragazza gli aveva dato dopo aver ascoltato l’audio di quel teatrino idiota.
      Lucio sapeva per esperienza che chiunque, nella sua famiglia, se si metteva d’impegno poteva risultare assai imbarazzante – certo, alcuni avevano un talento particolare, e non gli serviva nemmeno aprire la bocca per dimostrarlo – perciò l’arrivo dei menù fu una manna dal cielo, e decretò la fine momentanea del suo personale supplizio.
      Sfogliò senza entusiasmo le pagine, leggendo più nomi complicati di quanti un piatto dovrebbe averne. Alla fine lo lanciò senza grazia in mezzo al tavolo.
      «Hai già scelto?»
      «Sì, circa. La cena la paga Zeus vero? Perché io sono povero, vi ricordo.» Le sue finanze ammontavano a circa 20 pesos; una singola banconota ripiegata in quattro, e custodita gelosamente nella cover del suo telefono. «Non mi pagano abbastanza a lavoro.»
      Anubi lo guardò richiudendo con cura il menù, evidentemente interessato alla sua triste storia di studente universitario che, pur di risparmiare, va avanti a gallette e confezioni precotte di cibi decisamente poco salutari. Certo, sarebbe stato interessante raccontare le sue mirabolanti imprese culinarie – inclusa la volta in cui lui e Manu erano addirittura riusciti a bruciare della pasta – ma non era quello il momento. Non con Santos a portata d’orecchio almeno; suo fratello lo avrebbe ammazzato sentendo una cosa del genere.
      I camerieri arrivarono per prendere le ordinazioni, ognuno a un tavolo diverso. La sala che Zeus aveva prenotato si trovava in uno dei piani superiori dell’edificio, con le vetrate che davano sulla città e carta da parati scura sulle pareti. L’uomo che li serviva appuntò gli ordini su un taccuino in pelle, utilizzando una penna. Una normalissima penna. Lucio rimase basito, perché anche nel Mac più scadente di Città del Messico, ormai le ordinazioni erano tutte elettroniche, i camerieri non esistevano più.
      «Io voglio tutto.» Disse, quando fu il suo turno. Mordecai alzò l’intera testa per guardarlo male; un onore che gli scaldò il cuore.
      «Lucio, non puoi ordinare il menù intero.» Lo ammonì.
      «Perché pensi sia uno spreco di cibo, o perché credi io non sia in grado di mangiare così tanto?»
      «Non puoi e basta.»
      «Tu mi sottovaluti.» Ribatté. Tornò a voltarsi verso il cameriere. «Tutto. E doppia porzione di tagliata.»
 
 
 
Organizzare quell’incontro era stato un azzardo, e fino alla fine aveva sentito la pelle pizzicare, mentre sprazzi di magia diversa si mescolavano in quella saletta. Il risultato era stato… Inaspettato. Mettere a confronto così tante realtà differenti aveva portato alla formazione di gruppi interessanti e, davvero, le sarebbe piaciuto rimanere a studiarli un po’ più a lungo, ma ormai il tempo stava per finire e non potevano rimandare ancora.
      Zeus richiamò l’attenzione schiarendosi la gola, alla fine della cena. La sua posizione non era delle migliori, glielo aveva detto fin da subito, e vedere come cercasse di limitare millenni di arroganza di fronte ad altri dei – molto più antichi, più potenti, con occhi che avevano visto il mondo nascere dal nulla – la fece sorridere. Per una volta, si sentiva importante. Rispettata.
      L’uomo non parlò molto. Non ce ne era bisogno: ognuno di loro aveva sperimentato diverse sfumature di quello che era un unico, allarmante problema. Perdere tempo a spiegare come le barriere centenarie dei loro Campi fossero cadute, piuttosto che rimarcare il fatto che ogni tipo di portale, al momento, fosse instabile e potenzialmente pericoloso non li avrebbe portati da nessuna parte. Ben presto Zeus non ebbe più nulla da dire, e le passò la parola.
      Ecate si alzò, lisciandosi le pieghe del vestito scuro. Tezcatlipoca, l’unico forse più vecchio di lei, incrociò le braccia sul tavolo facendo tendere le maniche della camicia.
      «Buonasera.» Iniziò. «Non ho molto di cui parlare, perciò sarò veloce. Come sapete, da quasi un mese a questa parte i mortali sembrano notare più cose. La magia non riesce ad eludere la realtà; inutile dire quanto questo possa essere seccante.» Fece una pausa, voltando appena la testa, in modo da poter osservare i presenti. Iside si lisciò una ciocca di capelli con le dita, assorta. «Confrontandoci, siamo arrivati a una possibile risposta che spieghi la cosa.» Si premurò di parlare al plurale: al momento il suo era un ruolo di ambasciatrice; non poteva permettersi distrazioni che avrebbero compromesso tutta la fatica delle ore precedenti. «Il problema non è la magia di per sé, ma le forme originali di cui è manifestazione tangibile: gli Archetipi
      Ci fu un momento di agitazione, di sussurri e borbottii sommessi.
      «E cioè? Voglio dire, so cos’è un archetipo; ma non è appunto qualcosa di astratto? Un concetto, un’idea, cose così.»
      Ecate guardò Itztlacoliuhqui-Ixquimilli con una punta di ammirazione: nonostante fosse molto giovane gli aveva dato una buona impressione, e questa non era che una conferma.
      «Non del tutto. Gli Archetipi sono manifestazioni delle culture e della civiltà umana. Ogni Archetipo non è solamente un concetto, ma incarna l’essenza più profonda dell’animo umano.» Spiegò. Le risultava difficile descrivere una cosa che aveva sempre solo percepito con altri sensi. «Sono esattamente come noi, con l’unica differenza che operano su un piano dimensionale diverso, letteralmente. Noi incarniamo, dall’inizio del mondo, qualità e difetti degli umani, e infatti la nostra esistenza è legata indissolubilmente a loro. Gli Archetipi non fanno eccezione, ma risentono l’influenza umana in maniera differente.»
      «Ovviamente, nulla di cui stupirsi.» Disse Iside. «Questo non risolve nulla, però. La dimensione degli Archetipi è dissociata dal mondo mortale, e nonostante gli strati più profondi della Duat le si avvicinino molto, resta qualcosa di precluso a noi dei.»
      «Non possiamo varcarla, è vero. Per questo abbiamo bisogno degli umani. Dei semidei: loro sono naturalmente sospesi tra due dimensioni opposte, per questo hanno una sensibilità diversa. Sono sempre stati, e sempre lo saranno, il tramite per riunire realtà differenti.»
      «Quello che mi lascia perplesso è…» Iniziò Tezcatlipoca, assottigliando lo sguardo. «A che cosa stiamo andando incontro, esattamente? Più che un decadimento, una corruzione degli Archetipi, penso ci sia in atto un cambiamento. E invece che concentrarci su come bloccarlo, dovremmo trovare il modo di assecondarlo
      Dal tavolo di fronte a lei, Thor aggrottò le sopracciglia folte.
      «Perché?» Disse, rispecchiando la confusione di metà dei presenti. «Se blocchi e distruggi qualcosa, poi non ti devi più preoccupare dei problemi che può creare. Perché l’hai distrutta!»
      Loki diede un paio di pacche sulla spalla di Tezcatlipoca, che ebbe il buon senso di ignorare quell’uscita.
      «Gli Archetipi non si possono distruggere, perché non hanno corpo. Sono astratti, e l’unico posto in cui si possono manifestare, in qualche modo, è la loro dimensione.» Disse l’uomo. «E poi gli umani ne hanno bisogno; non possiamo semplicemente estirparli e rischiare di fare la stessa identica fine.»
      Quetzalcoatl, dal suo posto, scambiò un’occhiata con il fratello.
      «Quindi mi pare evidente che dovremo trascinare anche i ragazzi in questa storia. Non c’è altro che si possa fare?»
      Ecate piegò la testa verso di lui, concedendosi il lusso di non prestare attenzione ad altri.
      «Ci sono gli ingressi da cercare. Nonostante noi, personalmente, non possiamo accedervi; possiamo benissimo essere in grado di localizzarli e permettere ai semidei di utilizzarli per raggiungere la dimensione degli Archetipi. È solo questione di tempo prima che qualcuno di loro ne entri in contatto: visioni, sogni, marchi. Qualsiasi cosa.»
      «Profezie?» Chiese Zeus.
      «Questo non lo so. Gli oracoli potrebbero parlare, ma non è il caso di affidarsi completamente a loro.»
      Zeus annuì cupo, guardando la sala, un’espressione indecifrabile sul volto spigoloso.
      «Allora è deciso. Cercheremo gli ingressi, avvertiremo i semidei. Mi pare evidente che la cosa non possa essere risolta diversamente.»
      «La Casa della Vita ha sedi in tutto il pianeta; i nostri maghi li troveranno in un’istante.»
      «Noi faremo la nostra parte.» Sillabò Amaterasu, stringendo la mascella. «Ma non ci lasceremo coinvolgere dalle vostre inutili dispute. Mi rifiuto anche solo di mettere di nuovo un piede su questo continente: se avete bisogno di noi, sapete dove trovarci.»
      «Sarà impegnativo.» Quetzalcoatl si massaggiò le tempie con due dita, cercando di far ordine tra i suoi pensieri. «D’accordo, si può fare. Troveremo il modo.»
      Ecate tornò a sedersi in silenzio, osservando la sala. Era stato un azzardo; e ancora adesso non sapeva dire se fosse stata una buona idea. Durante la sua lunga esistenza aveva preso molte decisioni, vissuto momenti di instabilità che l’avevano segnata per sempre; eppure non si sentiva così, in quel momento.  C’era qualcosa di diverso che le si agitava in corpo, qualcosa che non sapeva come definire, e che pure le risultava familiare.
      Decise di farsi scivolare addosso quella sensazione, di lasciare che la se imprimesse appena sulla pelle.
      Dopotutto, c’era ancora un dolce da gustare.
 
 
 
 

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- FRANCESE –
     
      Tout ira en enfer!: Andrà tutto all’inferno!
      Hein?: Eh?
      Fantastique!: Fantastico!
      Reçu fort et clair!: Ricevuto forte e chiaro!
      Salut: Ciao.
 
- GIAPPONESE –
     
      Onee-sama; Onee-san: Sorella. Sono entrambe espressioni che utilizzano i fratelli minori per appellarsi alle sorelle maggiori, quello che cambia è il tono. In questo caso, tutte e due sono molto formali; ma il primo risulta essere molto più rispettoso.
 
- SPAGNOLO –
 
      ¡Claro que si!: Chiaro che si!
 
 - NOTE -
 
      Ankh: Amuleto a forma di croce con un occhiello su una delle estremità. Oltre che ad essere un geroglifico, rappresentava la vita e, più nello specifico, la vita eterna per gli dei.  
      Udjat: Altro nome per “ l’Occhio di Horus ”; nonostante sia diverso da quello di Ra, rappresenta molti dei suoi stessi concetti. Viene associato alla protezione e alla buona salute.
      Mictlan: Inferi Aztechi, hanno una struttura molto simile all’Inferno dantesco, con girono che si snodano verso il basso.
     

 
- THE HIEROPHANT -
 
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DIRITTO
                  Il Papa apprezza soprattutto la tradizione, incoraggiando la conformità e la fiducia nelle istituzioni stabilite.
                 Potresti trovarti a cercare istruzioni in nuovi settori della vita. Metti la tua fiducia in metodi a lungo fidati.
ROVESCIO
                 Il Papa si è fatto troppo comodo nella fortezza della tradizione, a spese dei progressi necessari.
                 È tempo di rompere le convenzioni, mettere in discussione le tue convinzioni più lunghe e accettare cambiamenti positivi.
     
     
     


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Questo capitolo è stato il coronamento di almeno due mesi di disagi, messaggi improbabili e vaneggiamenti vari.
      E non recrimino nulla di quello che ho scritto.
      Siamo arrivati finalmente alla fine del prologo! Certo, un traguardo davvero esiguo in confronto a quello che effettivamente sarà questa storia, ma ne sono davvero soddisfatta!
      A discapito di tutti gli altri, queste quarantadue pagine hanno visto la luce in due giorni. Nei tre successi ho passato solamente ad aggiungere, e aggiungere, e aggiungere altre scene perché ormai avevo già tolto la dignità a tutti, e quindi!
      Spero lo amiate come lo amo io; anche se è solo un’accozzaglia di paragrafi davvero frivoli che, verso la fine, acquista un minimo di senso. O almeno così si spera XD
      Vorrei davvero dire molto, sul serio, il problema è che non ho abbastanza parole per commentare… questo. Mentre scrivevo mi ripetevo “aah, è così divertente! È sicuramente la cosa più divertente che abbia mai scritto!” per poi ricredermi a quello successivo XD
      Non ho nulla di aggiungere sugli Aztechi perché mi pare che l’andazzo sia più che chiaro e nulla. Sappiate solo che i deliri sui loro abiti sono stati il frutto di un quarto d’ora di fuoco, a mezzanotte e mezza, su Whatsapp.
      Per il resto, fatemi sapere cosa ne pensate. RECENSITE. SCRIVETEMI COSA VI È PIACIUTO E COSA NO, SE AVETE RISO, O ERA TUTTO COSÌ PATETICO CHE VI SIETE ARRESI PRIMA.
      Non fatemi passare per quel tipo di autrice che deve impostare una dittatura e imporre un minimo di recensioni per continuare! Siete in tanti, ci sono un sacco di oc, e lo so che sono numeroni, ma per una storia che ha iniziato con una media di quindici recensioni; almeno la decina è d’obbligo.
      Altre informazioni di servizio su come proseguirà ARCANA da qui in poi: allora, questo capitolo è più lungo perché probabilmente il prossimo aggiornamento tarderà un po’. Devo fare un mega brainstorming per decidere cosa scrivere e come sviluppare i prossimi capitoli perché non ho uno straccio di guida.
      O meglio, so cosa faranno i personaggi in gran parte delle occasioni, ho già pronti tutti gli spostamenti e chi incontra chi e quando. Il problema sono proprio le scene specifiche in sé, i paragrafi, i pov e via discorrendo. Per chi non lo sa; io tendo a scrivere su un quaderno a parte tutte queste cose, in modo da avere la vita più facile dopo.
      Per i personaggi, non seguirò l’ordine di presentazione avuto nel prologo. In base alle necessità verrà prima uno piuttosto che un altro, l’unica cosa che posso dirvi per certo è che non porterò avanti una narrazione parallela in continuazione.
      Bene, vi lascio davvero. Un bacione e a risentirvi presto!
      itzi     

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Capitolo 6
*** VI - THE LOVERS |Parte prima| ***


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VI
THE LOVERS
Parte Prima
 
 
 
Nonostante non fosse così grande, il tatuaggio era davvero troppo elaborato per passare inosservato: tre cerchi concentrici, sottili, e un rombo dai bordi lunghi e affusolati che si allungava verso l’alto, dal tratto più spesso. Lo spazio vuoto era riempito da intrecci e ghirigori così piccoli che a malapena erano distinguibili.
            Ekanta ci passò le dita sopra, sconvolto, mentre si specchiava nel bagno comune della sua Coorte. Era sicurissimo di non essersi ubriaco la sera prima, e in generale i suoi ricordi erano perfettamente lucidi; perciò non aveva la più pallida idea del perché avesse un tatuaggio sul costato. La pelle non era nemmeno arrossata, non gli tirava o pulsava con fastidio, come se il disegno fosse lì da una vita.
            Deglutì, e si aggrappò al bordo del lavandino con una mano, mentre l’altra teneva alzato il bordo della maglietta: sentiva la testa leggera, completamente svuotata da qualsiasi pensiero coerente avesse potuto formulare; e il sudore aveva già iniziato a rendergli scivolosi i palmi e la fronte.
            «Ohi! Kitty! Esci da quel cazzo di bagno, tra cinque minuti dobbiamo essere in piazza!»
            Ekanta trasalì sentendo i pugni contro la porta di legno, e per lo spavento sobbalzò sul posto, mollando la presa sulla maglia e colpendo il portaspazzolini che si rovesciò sul pavimento con un gran fracasso.
            «Non immolarti colpendo qualche spigolo, dolcezza
            Alzò gli occhi al cielo mentre sistemava il disastro frutto della sua impareggiabile grazia, e quando uscì trovò Ben placidamente appoggiato sulla parete; le mani conserte sopra la toga, la spada al fianco. Era un ragazzone alto, massiccio, con ricci scuri e una barba corta che faceva sospirare metà delle ragazze al Foro. Il suo senso dell’umorismo era qualcosa di noto, e ormai Ekanta ci aveva fatto l’abitudine, insieme ai nomignoli che ogni tanto gli affibbiava in buona fede e che non gli piacevano per niente: aveva provato a protestare più di una volta, ma per tutta risposta si era guadagnato una risata e delle pacche troppo forti sulle spalle.
            «Che hai fatto ai capelli?»
            «Lascia perdere.» Lo liquidò con un gesto della mano. Si era svegliato in orario; ma tra il chiasso dei lari, i ragazzini più piccoli che chiedevano una mano per vestirsi e il tatuaggio, alla fine non aveva fatto in tempo a indossare la toga, che ora gli penzolava inerme su una spalla. Iniziò a drappeggiarla, creando un mazzo di pieghe più o meno omogenee, mentre si incamminava verso Nuova Roma.
            Erano passate circa due settimane dall’incidente con i mortali, e il Campo si era ripreso con una velocità disarmante, come a volergli dimostrare che, in realtà, era stato tutto uno scherzo della sua immaginazione. Avrebbe volentieri assecondato quel pensiero, peccato che i segni di un’intrusione erano ancora ben visibili: le ronde si erano intensificate sui perimetri, il Senato aveva indetto due assemblee straordinarie a porte chiuse e gli abitanti della cittadina erano più irrequieti che mai.  
            Sospirò e finì di sistemarsi la toga, facendola passare lungo il busto e i fianchi. Era un po’ sbilenca sulla spalla, e le pieghe non erano poi così fitte come avrebbero dovuto, ma la cosa gli interessava davvero poco. Il fatto che fosse color avorio lo preoccupava di più, perché conoscendosi sapeva che, nel migliore dei casi, sarebbe inciampato almeno una volta prima di raggiungere il Foro, sporcandola irrimediabilmente di erba e di fango.
            Imboccarono la strada lastricata in marmo, e Ben iniziò a fischiettare il motivetto di una pubblicità vecchissima. Terminius si materializzò di colpo sul piedistallo di fianco a loro, e per poco Ekanta non cacciò un urlo.
            «Dove credi di andare conciato così!?» gli gridò addosso, inarcando le sopracciglia di pietra verso il basso. «Neanche i bambini si allacciano la toga in quel modo! E i capelli? Guarda che una spazzola non ti fa male, ragazzo!»
            «Siamo in ritardo, dobbiamo andare vecchio…» Borbottò, tirandosi la stoffa sulla spalla, in un gesto che fece strepitare ancora di più il dio. Ignorarono le sue lamentele e continuarono a camminare.
            Il Foro era gremito di gente, e alla fine delle scale che conducevano al Senato era stato allestito un piccolo palco in legno. Sembrava che l’intero Campo si fosse riversato in piazza, compresi i bambini e i professori anziani che insegnavano nelle accademie. I ragazzini che ancora non avevano compiuto sedici anni indossavano vesti ornate di porpora; i più grandi sfoggiavano toghe rosse e bianche. Raggruppati in un angolo c’erano i sacerdoti, le Vestali con il capo ornato da bende e l’Augure, un ragazzino con i capelli castani e una tunica cangiante, stretta in vita da una cintura d’oro.
            Distinguere le varie Coorti fu un’impresa, ma alla fine riuscì a farsi strada sgomitando tra la folla. Ben si fermò a parlare con delle ragazze della Seconda, e presto sparì dalla sua visuale.
            Cinque giorni prima, Crystal aveva annunciato l’imminente incontro che si sarebbe svolto tra gli dei a cena, facendo cessare le chiacchere e i cori nel giro di pochi minuti: a quanto pareva, la situazione si era rivelata ancora più preoccupante rispetto a quello che avevano creduto fino ad allora, e la trepidazione di scoprire qualcosa in più si poteva percepire a pelle. L’agitazione gli aveva mangiato lo stomaco per ore, e persino le sue amate carte erano rimaste ostinatamente in silenzio di fronte alle sue domande, tanto da farlo quasi esasperare. Quella mattina ne aveva pescata una di getto, ed era rabbrividito vedendo la Ruota della Fortuna, l’arcano prediletto di sua madre.
            Alle dieci precise, Malcom e Crys fecero capolino dall’ingresso, seguiti dai dieci Centurioni, l’Augure che si era arrampicato su per la scalinata, e una donna in veste porpora, con folti capelli biondi che sfioravano il suolo e una veste viola. Ekanta strizzò gli occhi cercando di metterla a fuoco; aveva un’aria tremendamente familiare, eppure non riusciva ad associare un nome a quei tratti. Poi la donna si girò, puntandolo in mezzo alla folla, e per poco non si strozzò per la seconda volta nell’arco di una mattina. Trivia battè le palpebre truccate e poi tornò a far scivolare il suo sguardo sul resto dei presenti, mentre il suono di una campana faceva cadere il silenzio.
            «Buongiorno a tutti voi.» Crys si fece avanti sul palchetto, prendendo la parola per prima. Indossava una toga azzurra bordata d’oro, e la spalla scoperta lasciava intravedere l’armatura finemente decorata. Nonostante la postura autorevole, gli occhi blu tradivano una preoccupazione profonda; irrequieti come nubi prima di una tempesta. «Abbiamo indetto questa assemblea straordinaria a seguito dei vari incidenti che ci sono stati con i mortali in queste settimane. Come molti di voi sapranno, c’è stato un raduno tra gli dei in questi ultimi giorni. I problemi con la Foschia non riguardano solo il nostro Campo, o quello Greco, ma si… estendono.»
            Crys esitò un attimo, spostandosi nervosamente i capelli dalla spalla: probabilmente stava solo cercando le parole giuste, ma il silenzio sembrò durare in eterno. Malcom spostò il peso da un piede all’altro in un movimento impercettibile, tenendo le braccia conserte dietro la schiena.
            «Altre realtà, altri dei. Culture diverse, semidei differenti rispetto a noi…» Nonostante la pacatezza, la folla iniziò comunque ad agitarsi. Ekanta sospirò, di nuovo, con la testa che gli pulsava per l’emicrania imminente. Il ragazzo accanto a lui mosse di scatto un braccio mentre gesticolava con il vicino, colpendolo allo stomaco con una gomitata micidiale che lo fece piegare in due dal dolore.
            Ovviamente. Non era rovinato a terra mentre scendeva gli scalini del Foro, ma quello compensava benissimo la caduta mancata: sua madre doveva proprio volergli un gran bene.
            Malcom pestò con forza un piede sul legno per far tornare il silenzio, dal momento che non aveva la lancia, e Crystal rimase a guardare le prime file con sguardo indecifrabile.
            «Ordine.»
            «Ordine un cazzo!» Strillò qualcuno dal fondo. «Prima i mortali arrivano e invadono il campo, poi la Foschia non ci nasconde; i mostri ci attaccano, le difese cadono. E, dopo tutto questo, ci venite a dire che non solo dobbiamo preoccuparci di tutto questo, ma anche di altri dei?»
            «Ugh, spaccate i denti a Lisa e chiudetele la bocca, vi prego, così smette di sparare stronzate.» borbottò Louise al suo fianco, passandosi una mano sul viso. Non aveva la lancia con sé, ma Ekanta sapeva per esperienza che ci voleva davvero poco prima che si sfilasse una scarpa e la lanciasse in testa alla ragazzina della Prima Coorte.
            Avrebbe voluto sentirsi confuso e disorientato come tutti i suoi compagni, lì al Campo. Eppure, le parole di Crystal non erano che l’ennesima – amara -  conferma di tutte le immagini che popolavano i suoi sogni; di voci che gli suggerivano scenari fantastici alle orecchie ogni volta che voltava una carta del suo mazzo. Leggere i tarocchi aveva aiutato la sua mente a farsi più acuta, e ad accettare di buon grado cambiamenti del genere: era come osservare un quadro e accorgersi delle figure diverse che si stagliavano in base al colore su cui si stava concentrando.
            «Non abbiate paura.» Trivia si fece avanti con espressione serena; le braccia nude piene di braccialetti. «Siete figli di Roma. E fin dagli albori i vostri avi si sono scontrati con popoli diversi; con uomini, tradizioni, divinità. Quello che vi state apprestando a combattere non è nulla più di questo.»
            «Ci è stato detto che i problemi dati dalla Foschia e i mostri dipendono da delle entità chiamate Archetipi. Sono simili agli dei, ma operano in un’altra dimensione e, solitamente, non riescono a materializzarsi in una forma concreta.» Riprese Crys, battendo le mani una volta per richiamare l’attenzione.
            «Il nostro compito, d’ora in poi, è riuscire a localizzarli il più velocemente possibile.» Aggiunse Malcom. Si sfregò le dita sul mento, come se la cosa non lo entusiasmasse affatto.
            I mormorii si fecero più insistenti, serpeggiando lungo le fila, dando vita a pensieri e domande. Il mal di testa era risalito fino alle tempie, ed Ekanta strizzò gli occhi chiedendosi se fosse davvero possibile sentirsi così stanchi poche ore dopo essersi alzati. Il fianco aveva preso a pizzicargli con insistenza lì dove si trovava il tatuaggio, ma aveva troppo timore per slacciarsi i vestiti e controllare.
            «Silenzio! Silenzio!»
            Crystal calmò di nuovo le voci, anche se l’agitazione era palesi sui volti di tutti: l’Augure si voltò indietro, verso i Centurioni della Seconda Coorte, bisbigliando qualcosa a mezza voce, e Koori si irrigidì sul posto, evitando accuratamente di posare lo sguardo sulla madre davanti a sé.
            «Lo so che al momento avete molte domande; quello che vi chiediamo è di essere pazienti ed aspettare solo…»
            «Ma quindi ci sarà un’impresa?»
            «Una profezia?» Gridarono dal basso, e Crystal si morse le labbra.
            «Nessuna profezia.» Trivia riprese il discorso con voce ferma. Più il tempo passava, più Ekanta sentiva il fianco prudere e, se da prima la sensazione era stata fastidiosa, adesso era solamente dolorosa. Serrò le nocche lungo i fianchi e si sforzò di prestare attenzione.
            «Noi dei abbiamo discusso a lungo, e nemmeno bandire un’impresa potrà essere d’aiuto, non con così tante variabili incognite. Il Campo Mezzosangue sarà un alleato importante nelle vostre fila, e quando arriverà il momento sarà compito vostro saperlo sfruttare al meglio.»
            Una fitta lancinante gli mozzò il respiro, rendendogli le gambe inferme. Premette una mano sulle costole e la ritrasse di scatto quando sentì la stoffa della toga umida.
            «Quello che stiamo aspettando è un segno…»
            Ekanta impallidì alla vista del sangue. L’odore del ferro era così denso da nausearlo, e per un attimo riuscì a distrarlo dal dolore. Qualcuno accanto a lui si accorse della ferita e strillò, attirando l’attenzione; e fece in tempo ad alzare la testa incrociando lo sguardo brillante di Crys, prima di inginocchiarsi a terra e vomitare.
 
 
 
Si trovava su una spiaggia: la sabbia era ruvida sotto i suoi piedi, e le si infilava sotto le unghie e tra le dita ad ogni passo. Alzò lo sguardo, e un cielo terso pieno di stelle brillanti le fece girare la testa; sembravano irreali per quanto fossero nitide, e Blanca non ricordò di aver mai visto qualcosa del genere, nemmeno sulle locandine che gli osservatori appiccicavano sulle bacheche delle scuole.
            Non aveva idea di dove si trovasse. Il mare si allungava poco distante, alla sua sinistra, mentre a destra file di ulivi con i tronchi ritorti facevano capolino da una collina. Camminò, senza una vera meta, e ben presto la sabbia cedette il posto alla terra battuta, a una stradina che si tuffava in basso per poi risalire. L’erba era corta e scricchiolava ad ogni passo, portando con sé l’odore della campagna, della polvere, dell’estate afosa.
            Se, all’inizio, aveva avuto qualche dubbio, ora era sicura si trattasse di un sogno, per quanto vivido fosse: le sensazioni che provava erano così intense che, se si concentrava, poteva sentire gli insetti zampettare sui tronchi degli alberi di fichi o l’acqua affondare nella battigia lasciando dietro di sé minuscole conchiglie. Si rese conto di essere tesa, in attesa di qualcosa che sarebbe potuto succedere di lì a poco.
            I sogni erano sempre qualcosa di più di quello che apparivano; gli anni al Campo glielo avevano insegnato fin troppo bene, eppure percepiva ci fosse qualcosa di diverso e, onestamente, non sapeva che aspettarsi.
            Sentì i passi prima ancora di vedere il ragazzino: risalivano lenti dalla spiaggia, e Blanca si voltò appena all’indietro strizzando gli occhi, cercando di metterlo a fuoco nonostante il buio.
            Era alto e magro, con gambe lunghe e spalle strette. Indossava una semplice tunica bianca, che risaltava sulla pelle abbronzata, e i piedi scalzi erano sporchi di sabbia bagnata e polvere, fino alle caviglie. Le passò accanto completamente indifferente e continuò a seguire il sentiero, sparendo alla sua vista.
            Blanca lo seguì, dopo attimi di indecisione, decidendo di tenersi a distanza nonostante non ce ne fosse bisogno. La scena continuava ad andare avanti senza aspettarla, ed ebbe il sospetto che, se si fosse distratta anche solo un attimo, avrebbe irrimediabilmente perso qualche dettaglio davvero importante.
            Il ragazzino svoltò, e cominciò ad accelerare. Non poteva avere più di tredici anni, anche se l’altezza lo tradiva. Il viso era ancora quello di un bambino - incorniciato da una massa di ricci biondi che gli sfioravano le spalle -anche se i tratti morbidi della mascella stavano andando ad affilarsi e, in generale, tutto il suo corpo sembrava dotato di una tale grazia che era difficile attribuire a un essere umano.
            Arrivarono di fronte a un muro di pietra; il ragazzino fece scorrere le dita sui mattoni distrattamente e proseguì verso la sua meta. Blanca ci mise un po’ a capire che era la fiancata di un palazzo che si ergeva basso e tozzo su un’altura, circondato dalle vigne e dagli ulivi. Cespugli e piante aromatiche riempivano l’aria di odori familiari, e quando si fermò si ritrovò davanti a una grande finestra. Non c’erano vetri, ed era così in basso sulla facciata, che sarebbe bastato scavalcarla per entrare senza problemi all’interno.
            Quasi a leggerle nel pensiero, il ragazzino si issò sul davanzale, rivestito con pietre più scure, e si lasciò cadere dall’altra parte senza fare rumore. Blanca preferì affacciarsi, strizzando gli occhi mentre studiava la stanza: non era molto grande, ma i pochi mobili la facevano apparire spaziosa. C’erano due letti, addossati agli angoli opposti della parete di sinistra, un catino con dell’acqua, un mobile di legno intarsiato sotto uno specchio ovale e dal bordo in oro. C’era cura nell’arredamento, eppure tutto sembrava spoglio, minimale, a differenza del lusso opulento che si sarebbe aspettata. Forse quello non era veramente un palazzo reale, ma apparteneva solo a qualche aristocratico della zona.
            Il ragazzino si era fermato, indeciso, prima di alzare la testa verso il letto opposto al suo, che Blanca si accorse essere occupato. La luna rischiarava l’esterno, ma le fu lo stesso abbastanza difficile riuscire a distinguerne la figura, che divenne chiara solo dopo pochi minuti: un altro ragazzo, con la carnagione ancora più scura e ricci castani schiacciati sul cuscino. Dormiva nudo, probabilmente per via del caldo, ma non fece in tempo a formulare un altro pensiero che il biondo gli balzò addosso, soffocando le risate e svegliandolo. I due si dimenarono un poco, e alla fine il moro strizzò gli occhi, ancora intontito dal sonno.
            «Buongiorno.» Sussurrò. Il biondino si chinò e premette il naso contro il suo, con un sorriso che gli storceva tutta la bocca.
            «Buongiorno.»
            Rimasero per un po’ in silenzio, e Blanca osservò con cura il modo in cui si guardavano, e le mani che si stringevano prima sulle spalle e poi sulle braccia. Alla fine, il biondo si alzò, e prese a grattarsi via la sabbia secca dalla pelle, seduto su un angolo del materasso.
            «Sei andato da tua madre?» Il moro si tirò su a fatica mentre poneva la domanda, stropicciandosi gli occhi con le dita.
            «Sì.»
            «Lei sta bene?»
            Il ragazzino annuì, senza alzare lo sguardo dai suoi piedi. «Dovresti venire con me la prossima volta.»
            «Oh, no. Meglio di no.» Blanca percepì un timore quasi reverenziale nelle sue parole, che accompagnava l’agitazione del suo sguardo scuro. «Mi fa paura.»
            Il biondo rise, e si sbilanciò all’indietro inarcando con eleganza le braccia. Piegò la testa sulla spalla, rivolgendogli un sorriso tutto denti e gengive.
            «Non ti farà niente. Non glielo permetterei.»
            L’altro ragazzino sembrava sul punto di aggiungere altro ma non lo fece. Sul viso gli balenarono molte emozioni, ma quando aprì bocca non ne uscì nulla. La scena sfumò, e Blanca si ritrovò a fissare le travi intonacate della sua cabina.
 
 
           
Annaspò e tossì così forte che Louise alzò lo sguardo dal suo muffin ai mirtilli.
            «Ohi, non ti strozzare.» Disse. Un ottimo consiglio da mettere in pratica, se solo ne fosse stato in grado. Inghiottì con fatica il boccone, sentendo la gola bruciare, e alla fine si accasciò all’indietro.
            «Stai cercando di morire oggi?»
            «Non esattamente.» Ekanta sospirò, passandosi una mano tra i capelli per liberare la fronte umidiccia. Si sentiva uno straccio, come se il suo corpo fosse fatto di gelatina. Una pessima gelatina che non riusciva a sostenerlo e lo faceva arrancare in giro come un povero ubriaco.
            Decise di alzarsi, e Louise lo guardò scettica.
            «La cena non è finita.»
            «Ci vediamo dopo.» La liquidò, facendole un cenno con la mano prima di allontanarsi. Aveva assolutamente bisogno di rimanere da solo, per pensare e crogiolarsi nell’ansia che quella giornata era riuscita a fargli salire in tempo record.   
            L’accampamento era deserto, ad accezione di alcuni lari che fluttuavano sotto i portici illuminati e i cani alla ricerca di avanzi. Vagabondò senza una meta ben precisa passando la caserma e i dormitori verniciati di fresco. Gli stendardi della legione pendevano dalle finestre, e le viti si arrampicavano sotto gli ingressi, creando tetti di foglie e uva ormai matura.
            Aveva la testa che gli scoppiava; persino il silenzio lo infastidiva, forse ancora più della cagnara che proveniva dalla cena. Strascicò i piedi fino alla veranda dell’erboristeria, e si lasciò cadere sui gradini.
            Tirando le somme, poteva dire con certezza che quella era stata la giornata peggiore della sua vita; il che era tutto dire vista la sua proverbiale sfortuna, che lo aveva cacciato in ogni tipo di situazione assurda. Il tatuaggio – o marchio, come lo aveva chiamato Trivia dopo averlo esaminato da vicino -  aveva smesso sì di sanguinare, ma la pelle aveva cominciato ad irritarsi, gonfiandosi e facendolo piangere dal dolore ogni volta che faceva un movimento troppo brusco.
            Nessuno era riuscito a dargli una spiegazione sul perché di punto in bianco gli fosse comparsa quella cosa sul corpo, neppure la dea della magia: aveva scosso la testa con indifferenza, parlandogli di segni, destino e congiunzioni astrali che lui aveva bellamente ignorato. Conosceva benissimo quella finta vaghezza con cui gli stava parlando, visto che era la stessa che utilizzava lui quando leggeva le carte per le vecchiette o le donne di mezza età, disperate nei loro drammi di cuore.
            E così, era stato incastrato senza che potesse nemmeno aprire bocca in proposito. Trivia gli aveva detto che sarebbe partito presto, insieme a un numero imprecisato di compagni che avrebbero sfoggiato lo stesso marchio, neanche fossero tutti bestie da macello.
            Il supporto di Crys era stato solo una magra consolazione e, se giorni prima aveva provato un po’ di compassione per la sua amica costretta a servire ancora un anno, adesso comprendeva appieno il senso di frustrazione e impotenza di cui gli aveva parlato.
            Insomma, non sapeva dove sbattere la testa. Non era nemmeno troppo entusiasta all’idea di lasciare il Campo, che nel bene e nel male era comunque un posto sicuro, conosciuto: gettarsi in mezzo al mondo mortale per cercare dei portali dimensionali gli sembrava più un risvolto banale di quelle serie tv a sfondo fantascientifico, che un vero e proprio piano messo in atto da divinità millenarie.
            Sospirò, e frugò nelle tasche dei jeans fino ad estrarre il suo mazzo di carte. Prese a mescolarlo senza particolare entusiasmo, cercando di fare chiarezza nei sui pensieri il minimo necessario per formulare una domanda di senso compiuto. Negli ultimi giorni le stese erano state magre e silenti, ma tentare non gli costava nulla e, anzi, sicuramente l’avrebbe aiutato a rilassarsi.
            Aspettò un secondo, e poi pescò tre carte, che dispose con cura di fronte a sé: c’erano un sacco di cose che avrebbe voluto sapere, ma si limitò a chiedere con chi sarebbe finito a fare gruppo. Un buon punto da cui partire.
            Voltò i tarocchi. II, la Papessa; XVII, le Stelle e XVIII, la Luna.
            Inarcò un sopracciglio mentre le studiava, indeciso se stupirsi di più per i tre Arcani Maggiori che erano usciti, o per il fatto che, incredibilmente, la sua domanda poco convinta avesse ricevuto una risposta di facile interpretazione.
            Non era la prima volta che faceva una cosa del genere, e sapeva benissimo cosa cercare in mezzo alle figure: nella prima, Minerva stava placidamente seduta sulla riva di un laghetto, con l’elmo e l’egida poggiata di fianco.
            Aveva sempre pensato che quel disegno non rendesse giustizia alla dea nella sua forma romana, e che fosse invece più affine a quella greca: a parte le armi, c’era una patina di freddezza che le attraversava gli occhi, come se fosse pronta ad alzarsi all’istante per fare a pezzi chiunque le avesse dato torto.
            Al centro, Venere. Nuda e per metà immersa in un lago, con uno sfondo stellato alle spalle, versava dell’acqua tenendo in bilico un’anfora sulla spalla. La dea teneva gli occhi socchiusi, e le labbra piene appena schiuse; in un’espressione che poteva passare per concentrazione o complicità, in base alla quantità di malizia con cui veniva letta.
            Infine Diana, con l’arco stretto in una mano, una tunica arancione e un diadema in fronte, seguita da un branco di cani dal manto chiaro. C’era qualcosa nel suo aspetto che lo faceva desistere dall’avvicinarsi, forse i tratti spigolosi del viso, forse le ginocchia arrossate e sbucciate, che sembravano urlare indipendenza a gran voce.
            Fece scivolare velocemente lo sguardo un’altra volta sulle carte, soffermandosi più sulle figure che il significato in sé delle carte: le tre dee indicavano la discendenza divina dei suoi futuri compagni, di questo era certo ma, dal momento che sia Minerva che Diana erano, per definizione, votate alla castità, l’unica scelta ricadeva su Venere. Sicuramente si trattava di almeno una ragazza visto che i tre Arcani erano strettamente legati all’universo femminile.
            Per il resto, non aveva molte altre informazioni. Forse le carte simboleggiavano qualche tratto caratteristico, ma questo non l’aiutava per nulla a restringere ulteriormente il suo campo di ricerca.
            Provò a formulare una domanda più precisa sulla stesa, e pescò altre tre carte che dispose una fila sotto le altre.
            Tre di bastoni, di coppe e di spade. Ekanta batté gli occhi perplesso, davanti a quella che poteva sembrare una fortuita coincidenza.
            «Dovrei imparare a mischiare meglio…» Borbottò con un filo di voce, quasi volesse farsi sentire dal suo mazzo. Qualcuno lì in mezzo – forse il Matto – gli trasmise un’ondata di divertimento, prima di tornare in silenzio.
            Gli Arcani Minori che aveva estratto erano molto più simbolici; dalla ricorrenza del numero tre, alle figurine immortalate quasi nella medesima posa. Nonostante quello però, non gli stavano dicendo nulla di utile.
            Tutte carte positive, che delinearono un po’ meglio l’idea che si stava facendo dei suoi futuri compagni, ma niente di più. Vedeva una persona acuta che, stando ai bastoni, avrebbe ricavato grande successo da quella impresa; poi una più sensibile e strettamente legata agli affetti visto le coppe; e infine una determinata, indipendente quasi. Le spade indicavano chiaramente una separazione che, forse, sarebbe arrivata a un certo punto del loro viaggio.
            Ekanta continuò a studiare la stesa per parecchi minuti, con la testa prontamente altrove, impegnata a seguire il filo contorto dei suoi pensieri. Avrebbe dovuto parlare con Crys il prima possibile, e farsi dare una mano in modo da non sprecare troppo tempo.
            «Scusa…?»
            Era così assorto, che quando sentì una mano scuoterlo per la spalla trasalì e si ritrasse d’istinto, allontanandosi di scatto.
            «Scusami, non volevo spaventarti!»
            Ci mise più del previsto per ricomporsi, anche se il cuore gli batteva così forte da fargli vibrare le ossa.
            «Non preoccuparti.» Gemette, tirando un sospiro di sollievo quando si accorse che le carte erano ancora tutte al loro posto. Con la sfortuna che si ritrovava, il minimo sarebbe stato colpire il mazzo e sparpagliare tarocchi per tutto il porticato.
            La ragazza di fronte a lui si rasserenò un poco. Non era molto alta e teneva i capelli biondi tagliati in un caschetto corto. Ekanta la riconobbe quasi subito: si chiamava Willow e faceva parte della Terza Coorte. Non aveva mai avuto modo di parlarci per bene, nonostante fossero entrambi da anni a Nuova Roma, ma avevano affrontato una quantità sufficiente di Ludi di Guerra da non essere dei perfetti estranei. Era da un po’ che non la vedeva in giro, ma forse era solo poco attento a quello che lo circondava, come al solito.
            «Sono venuta a darti questa: l’hai dimenticata al nostro tavolo, prima, solo che quando ce ne siamo accorti eri già andato via.»
            Gli porse la sua felpa nera, con i polsini scuciti e pieni di piccoli buchi, che ormai aveva già dato per scontato non avrebbe più rivisto; se la infilò e solo allora si rese davvero conto di quanto, effettivamente, avesse avuto freddo fino ad allora.
            «Grazie. Non dovevi disturbati, potevi mollarla al mio tavolo, o a Louise… O lasciarla lì dove l’hai trovata.» Visto che sembrava uscita da un cassonetto, Ekanta avrebbe messo in atto quest’ultima opzione, a parti invertite. Willow gli sorrise divertita, increspando le labbra.
            «Nessun problema, figurati. E poi, volevo sapere come andava con la ferita.» La fissò forse troppo a lungo, visto che cominciò a tormentarsi le dita, a disagio. «Se posso chiedere, ovvio.»
            Quello che più odiava di tutta quella assurda situazione era probabilmente il fatto di essere al centro dell’attenzione. Dopo aver interrotto l’assemblea, sotto lo sguardo di un numero spropositato di gente, era stato sballottato in infermeria per essere curato, con scarso successo; in Senato, dove Trivia lo aveva mandato in pasto a chissà quale impresa; e poi aveva girato la collina dei templi per parlare con l’Augure e lasciare un paio di monete sull’altare di sua madre. Le voci erano arrivate dappertutto, e poco importava che Crys avesse passato metà pomeriggio a rispondere alle domande di tutti: lui continuava ad essere additato alla stregua di un fenomeno da baraccone.
            «Va tutto bene.» Willow lo guardò, incoraggiandolo silenziosamente a continuare. «Sì, in realtà la ferita non è nemmeno un problema.» Onestamente, non aveva idea di che cosa avesse sentito, ma preferì non essere troppo specifico e l’assecondò.
            «Preoccupato per la profezia?»
            «Diciamo di sì.» Fece una smorfia, abbassando lo sguardo sui gradini e le carte. «Non ho la minima voglia di finire coinvolto in questo macello.»
            «Un po’ tardi per questo.»
            «Come se avessi avuto scelta.» Sospirò, rassegnato. Willow scrollò le spalle, e si poggiò contro la parete del negozio, girata verso di lui.
            «Non ci pensare troppo: sicuramente i nomi degli altri che dovranno partire verranno fuori nei prossimi giorni; altrimenti credo sarai libero di sceglierteli come da tradizione. Non serve a nulla preoccuparsi in anticipo.»
            Ekanta inarcò un sopracciglio e, davvero, si trattenne dallo stroncare tutta quella positività solo perché Willow gli aveva riportato la felpa, e tutto sommato la trovava carina.
            «Sarà.» Si limitò a dire. Willow gli sorrise ancora una volta.
            «Vedrai che andrà bene.» Si staccò dal muro e infilò le mani in tasca, scendendo i gradini. «Meglio che vada. Ci vediamo!»
            Ekanta la salutò con un cenno della mano, e l’osservò sparire lungo la strada. Si mosse solo quando fu sicuro avesse svoltato l’angolo, lasciandolo di nuovo da solo.
            «Miei dei.» Infossò il viso tra le mani, rendendosi conto di essere stato davvero ridicolo. Avrebbe potuto sforzarsi un minimo di più, giusto per non fare la figura del cafone ingrato.
            «Uccidetemi, vi prego.»
 
 
 
Il Campo Mezzosangue aveva diversi Oracoli su cui fare affidamento in momento di bisogno: c’erano le querce del bosco di Dodona all’interno della loro foresta, il cui ingresso veniva custodito dalle driadi; e poi lo spirito di Delfi, che risiedeva attualmente nel corpicino di una bimba di sei anni.
            Alice era arrivata solo l’estate scorsa, e fin da subito si era rivelata una fonte inesauribile di energia. La mattina sgambettava in mensa e si lasciava coccolare dai più grandi, masticando waffles straripanti marmellata e cioccolata, e poi subito scappava a giocare. Faceva gruppo con i più piccoli e correva in mezzo alle statue del cortile, raccoglieva le conchiglie colorate sulla battigia, si riempiva le guance con le fragole mature sotto il sole.
            Era difficile credere che un esserino così piccolo, che a malapena le arrivava alla vita, fosse capace di dare voce al destino di tutti loro e, in effetti, Blanca non l’aveva mai visto farlo. Alice non parlava attraverso versi in rima – non ancora almeno -  ma si divertiva a impiastricciare fogli su fogli con i suoi disegni incerti, rappresentando tutti i sogni che le attraversavano la mente.
            «Mi serve il grigio.» Le disse con aria solenne, e Blanca le passò il pastello a cera, osservandola tracciare delle linee un po’ confuse sulla carta. Aveva provato a sbirciare, ma Alice aveva piantato il braccino in mezzo a loro, e si era chinata così tanto sul suo lavoro, da poggiare direttamente la testa sul tavolo. Non aveva idea di come facesse a stare comoda, visto che le veniva il torcicollo solo a guardarla, ma lei continuava imperterrita a colorare come se non avesse una preoccupazione al mondo.
            Raccattò i disegni già finiti e li ordinò. Chirone era dall’altra parte del padiglione e, attualmente, stava parlando con la capocabina di Apollo, sul viso l’espressione più tetra che gli avesse mai visto. Non sapeva cosa fosse successo di preciso, e nonostante la curiosità, sperava che il centauro desse delle spiegazioni a pranzo, o a cena.
            «Mi serve un altro foglio!» Alice richiamò la sua attenzione, spingendo di lato il disegno finito. Blanca l’accontentò, e la vide fissare intensamente i pennarelli finché non afferrò il blu, stappando con soddisfazione e iniziando a scarabocchiare dappertutto.
            Aveva un’aria più serena rispetto a quella mattina: Blanca aveva fatto in tempo ad uscire per la colazione che Alfred, uno dei loro satiri, l’aveva trascinata fin sotto la veranda della Casa Grande. Aveva trovato Alice in un mare di lacrime, così disperata che i singhiozzi continuavano a scuoterle il corpo, mentre si aggrappava alla maglietta di Ed, che la teneva in braccio.
            Chirone le aveva detto che, probabilmente, aveva sognato qualcosa riguardo a una profezia e ne era rimasta terrorizzata. Blanca non poteva biasimarla, lei stessa non capiva i suoi sogni, e spesso si spaventava anche; ma immaginò che per una bambina così piccola non dovesse essere affatto semplice.
            Una volta calmata, Alice aveva reclamato tutte le sue attenzioni, e Blanca non ci aveva messo molto a capire che, in qualche modo, le visioni la riguardavano personalmente. Si erano messe a disegnare e Chirone aveva iniziato a far chiamare qualsiasi capocabina fosse disponibile al momento.
            «Non so come fare le stelle.» Pigolò Alice, aggrottando le sopracciglia. «Il giallo non si vede sopra il blu!»
            «Prova a usare la ceretta. Guarda.»
            Sul bordo del foglio, disegnò una piccola stellina, che risaltò nitida sopra l’inchiostro. La bambina rise entusiasta e le strappò il pastello dalle dita, iniziando a riempire il suo cielo.
            Blanca tornò a concentrarsi sui fogli. Non sapeva bene cosa aspettarsi, ma già la prima immagine le fece venire un colpo al cuore: l’omino era abbastanza stilizzato ma era lei, con la coda castana e la maglietta del Campo arancione. Nonostante lo sfondo fosse allegro, con una bella striscia di cielo blu, il sole in un angolo e i fiori sull’erba; la sua faccia era triste, con la bocca curvata all’ingiù e due grosse lacrime azzurre sulle guance.
            Passò oltre, osservando il resto. Nel secondo disegno c’era un deserto di sabbia con il sole che faceva capolino dall’orizzonte. Sul terzo compariva solamente un simbolo al centro del foglio, un cerchio storto con delle linee che si allungavano verso i punti cardinali. Poi il mare, una spiaggia, una donna altissima che occupava tutto lo spazio con i capelli neri e un vestito fatto di acqua e conchiglie.
            Più andava avanti, e più gli sfondi si facevano confusi; pieni di colori accesi e vibranti. C’era un cane su due zampe che indossava un vestito bianco e uno zaino, o almeno così credeva. Si teneva per mano con un altro cane più alto, rossiccio e con gli occhi verdi.
            Non aveva idea di che cosa volessero dire tutte quelle immagini. Riconobbe Lorina nei fogli successivi per via dei vestiti e del mantello, ma al posto della benda Alice aveva pasticciato con il pennarello rosso sopra il suo occhio sinistro. A ben vedere, tutte le gambe di Lori erano macchiate allo stesso modo, anche se il colore era stato coperto con del nero. La cosa la fece rabbrividire abbastanza da cambiare di nuovo foglio.
            Questa volta c’erano tre figurine. Un ragazzo altissimo a sinistra, e due bambine che lo seguivano. Tutti gli occhi erano stati stilizzati con delle lineette oblique, e i personaggi ai lati avevano orecchie a punta e code panciute che spuntavano dai vestiti larghi.
            L’ultimo disegno che le aveva dato la raffigurava di nuovo, ma questa volta accanto alla bambina del gruppo precedente, quella senza orecchie. L’aveva riconosciuta solo dai vestiti, perché a nessuna delle due Alice aveva disegnato la faccia: si era limitata a colorare solo la testa di rosa, e basta.
            «Ho finito!» Alice urlò e le spinse tra le mani il suo lavoro. Non aspettò nemmeno che dicesse qualcosa; balzò giù dalla sedia e si aggrappò alle gambe della ragazza che stava parlando con Chirone.
            «Posso usare la mazza?» Le sentì chiedere, e la mora le allungò la mazza da baseball che si trascinava ovunque, lasciandola libera di brandirla per il padiglione. Alice iniziò a sventolarla per aria, ridendo e giocando a non pestare le crepe sul pavimento della mensa, tutta felice.
            Blanca raccattò l’ultimo foglio, e nel momento in cui lo guardò sentì il cuore accelerare e una vertigine stringerle lo stomaco, come se si fosse affacciata su un precipizio e si fosse accorta di quanto profondo fosse.
            Circondati da un cielo blu pieno di stelle grandi e piccole, c’erano due ragazzini. Uno biondo, l’altro moro, con occhi scuri e sorrisi rossi. Era la stessa identica scena che aveva visto nel suo sogno; e più guardava quel disegno, più dettagli riusciva a riconoscere: gli ulivi con i tronchi storti che Alice aveva abbozzato ai lati, il mare, la spiaggia.
            Non sapeva cosa pensare. Era rimasta così colpita che poteva ancora richiamare la sensazione della sabbia sotto i suoi piedi, dell’aria calda e dolce dell’estate. Tutto era stato così intenso che si era marchiato a fuoco nel suo cervello.
            Con riluttanza, sistemò il bloccò di fogli. Chirone colse il movimento nervoso delle sue mani e, quando si avvicinò, Blanca sperò solo che avesse qualche risposta da darle.
 
 
 
Samuel incrociò le gambe sulla spiaggia, socchiudendo leggermente gli occhi. Sulla battigia, Scout aveva finalmente smesso di rincorrere le onde e si era accucciato, cominciando ad ammucchiare la sabbia in quello che sembrava essere un vero e proprio castello. Si stava divertendo così tanto che, ben presto, prese a scodinzolare, e Samuel osservò la coda muoversi a ritmo per qualche minuto.
            Era un cagnolino magro, con il pelo chiaro tutto arruffato e una tunica larga almeno il doppio di lui, decorata con ricami dorati. Le braccia erano sottili e lunghe, e le orecchie si muovevano a scatti sotto il velo che gli cingeva la testa. Come tutti gli esseri di quella dimensione, alternava caratteristiche antropomorfe a tratti tipicamente animaleschi. Non l’avrebbe definito un vero e proprio Arcano, assomigliava di più a un bambino sempre pronto ad entusiasmarsi per tutto. Faceva da guida a chi si perdeva tre le pieghe dei diversi mondi, e comunicava solamente a gesti e guaiti, portandosi appresso uno zaino di tela e un bastone intagliato con la punta ricurva.
            Aveva cominciato a fare buio, anche se lì era difficile percepirlo, visto che il cielo era costantemente scuro e le stelle erano visibili a qualsiasi ora. Sprazzi di luce viola e verde si allungarono verso l’orizzonte, in direzione degli altri Regni. Samuel affondò i piedi nella sabbia nera e sorrise a Scout, che gli stava mostrando trionfante una conchiglia liscia e lucida. Il cagnolino la posizionò in cima alla sua costruzione e poi si allontanò di qualche passo, osservandola soddisfatto.
            «È davvero molto bello.» Disse, e Scout annuì con un cenno della testa. Gli indicò in lontananza il palazzo di vetro del Mago, che scintillava alle loro spalle, immerso nella folta vegetazione dell’oasi.
            «Sì, è esattamente lo stesso.» Continuò, osservando con sguardo critico il modellino di sabbia. Scout si avvicinò per leccargli la faccia, dimostrando così tutto il suo apprezzamento, e poi caracollò tutto felice verso l’acqua alla ricerca di qualche manta rossiccia da accarezzare. Spesso si arenavano sulla sabbia, e quando le trovavano erano soliti rimetterle in mare spingendole con dei bastoncini.
            «Siete ancora qua fuori?»
            Il Mago si materializzò accanto a lui facendo increspare l’aria. «Pensavo che Scout fosse già tornato a casa.»
            Il cagnolino drizzò le orecchie sentendo il suo nome, e alzò la testa. Abbandonò la sua ricerca per avvicinarsi, e dal modo in cui osservò il cielo Samuel intuì non si sarebbe fermato ancora a lungo. Raccattò il suo zaino, si lisciò la veste bianca e preso il bastone glielo agitò sotto la faccia, in segno di saluto. Il Mago gli fece cenno con la zampa, e insieme osservarono Scout passare l’erba e tuffarsi in mezzo al laghetto tra le palme. La sua figura scomparve, e l’acqua rimase immobile.
            «Lo hai incontrato mentre venivi qui?»
            Samuel fece un cenno con la testa, alzandosi. Il Mago incrociò le braccia e le labbra si tesero verso l’alto, anche se il cambiamento era appena percettibile. Era una volpe snella dal pelo rossiccio, che si scuriva sulle zampe e all’estremità delle orecchie. Gli occhi erano allungati e di una sfumatura innaturale di viola, senza iridi e pupille; il muso sottile e ben definito.
            «Ho fatto fatica ad arrivare; ho aperto il passaggio ma mi sono ritrovato in mezzo al Regno della Torre. Scout mi ha dato una mano a non annegare.»
            Scosse le spalle. Il Mago non disse nulla e si limitò a voltarsi, camminando verso il suo palazzo; passata la spiaggia le palme si facevano più fitte, fino a lasciare spazio ad alberi sempre più alti e robusti, e i fiori sbocciavano sulle cortecce, tra i rami, insieme a una quantità spropositata di funghi. Mentre passavano, le corolle si schiusero e fiorirono all’istante, dispiegando i petali massicci.
            «Forse dovresti passare meno tempo qui.»
            «È un consiglio o una richiesta?» Domandò. Il Mago si lisciò le maniche della veste che indossava.
            «Vedila come preferisci.»
            Il palazzo consisteva in un’unica stanza circolare, dal soffitto così alto che si perdeva in mezzo alle sfumature del cielo. Le pareti erano completamente trasparenti, non c’erano porte ma finestre rotonde che si affacciavano all’esterno ad altezze differenti, e i mobili erano disposti con cura rivolti verso il centro. Due poltrone, un tavolino con una teiera di cristallo piena a metà, vasi di erbe aromatiche sospese sui muri. L’intero pavimento era un mosaico di tesserine cangianti che ritraeva il simbolo dell’infinito.
            Samuel aveva ammucchiato le sue cose ai piedi di una delle due poltrone, compresi i compiti di letteratura che, per una volta, era riuscito a finire. Non aveva nessuna fretta di tornare a casa e, anzi, probabilmente avrebbe passato tutta la notte lì come suo solito. Si accasciò sullo schienale morbido, rannicchiando le gambe incurante del fatto che avesse i piedi sporchi di sabbia e terra. Il Mago alzò un sopracciglio, ma non disse nulla. Gli rivolse solamente un sogghigno morbido prima di accomodarsi di fronte a lui. Anche da seduto torreggiava, superando i due metri di altezza.
            Con un cenno della zampa fece levitare il servizio da thè, e le tazze si riempirono all’istante mentre il profumo rendeva dolciastra l’aria. Fuori aveva cominciato a piovere, ma il mare continuava a infrangersi placidamente sulla battigia, senza neanche un’onda a scalfirne la superficie.
            «Che ne pensi?»
            Samuel bevve un sorso della sua bevanda, scaldandosi piacevolmente la gola. Sapeva bene a cosa si riferiva l’Arcano, eppure passò lo stesso qualche istante a guardarlo, prima di sogghignare.
            «Avrei messo dello zenzero, ma è buono lo stesso.»
            Il Mago alzò pragmaticamente un sopracciglio facendolo scoppiare a ridere. Di solito era abituato a rimanere impassibile, eppure Samuel in tutti quegli anni aveva imparato a riconoscere la sfumatura di divertimento nelle sue frasi, che andava dalla presa in giro all’ironia. Riuscire a prenderlo in contropiedi era sempre soddisfacente.
            «E così gli infusi sono diventati la tua priorità.» Gli disse, portandosi la zampa sotto il muso. Samuel storse la bocca in un sorriso e mando giù un altro sorso.
            «Ormai è ora. Gli altri hanno cominciato ad organizzarsi, e non credo passerà molto tempo prima che arrivino qui.» Disse. Un lampo squarciò il cielo in lontananza ma non ne seguì nessun rumore. La figurina della Torre si stagliava minuscola all’orizzonte, così tanto che se non avesse saputo dove guardare, non l’avrebbe nemmeno notata. «Tutto sommato credo sia meglio così.»
            Il mago annuì e le orecchie fremettero mentre l’osservava. Gli aveva mostrato immagini fatte d’acqua quando era arrivato; immagini di dei capricciosi e litigi che si erano protratti a lungo: Zeus che si faceva più alto sul suo trono, Era con il viso rigido mentre gli urlava addosso, supportata dalle sorelle e i figli. Nonostante l’incontro con le altre divinità alla fine si fosse concluso con ottimi risultati, convincere il Padre degli dei era stato estenuante, e le scene che aveva viso avevano confermato tutti i suoi sospetti. Atena aveva lavorato senza sosta per appianare le divergenze, intessendo le sue parole di ragione e buon senso come la più abile delle ricamatrici. E poi c’erano stati tutti gli dei minori; Vesta che si rivolgeva al fratello nella stanza dei troni, sua madre che lo metteva in guardia dei rischi a cui andava incontro se avesse peccato di superbia.
            La cosa, alla fine, non l’aveva turbato più di tanto.
            «Sembri diverso.» Il Mago inclinò la testa, divertito.
            «In che senso?»
            «Oh no, no ragazzo. Non in questo modo. Scegli le parole con cura quando fai una domanda.» Era una delle prime cose che gli aveva insegnato, da bambino.         «…In che modo? Così ti piace di più?»
            «Meglio. Anche se, lo sai…» Gli rivolse un sorriso morbido. «Dovresti smettere di cercare delle risposte, qui.»




- THE LOVERS –
 
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            DIRITTO

                       Gli amanti si abbracciano, uniti dalla consapevolezza di essere più forti uniti.
            Ricorda il valore della connessione e della comunicazione. Una nuova partnership potrebbe presto essere nel tuo futuro.
            ROVESCIO
                       Gli amanti si girano gli uni dagli altri, permettendo al ponte di comunicazione tra di loro di sgretolarsi.
            Potrebbe essere il momento di riesaminare le tue relazioni e decidere se i tuoi valori allineare veramente.






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Ci ho messo ben tre mesi a tornare, ma adesso che gli esami sono quasi finiti posso dire di essermi liberata abbastanza da tornare a dedicarmi alle mie amate storie.
            Mi spiace avervi fatto attendere così tanto, ma spero che questo capitolo vi piaccia: non so, forse è una maledizione romana, ma ogni volta che devo scrivere di loro è un parto ahahah nonostante ci siano alcuni oc che amo davvero.
            E nulla, non ho molto da dire in realtà. Ho buttato in mezzo alcuni spoiler per le cose future, giusto per divertirmi un po’ e niente.
            Un bacione e ci sentiamo presto! Passate delle buone vacanze e mangiate tanto gelato ahahah
            Itzi.

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Capitolo 7
*** VI - THE LOVERS |Parte seconda| ***


VI
THE LOVERS
Parte Seconda
 
 
 
A Richard la burocrazia faceva schifo. Tralasciando il fatto che si sentisse tremendamente vincolato dalle regole di buona condotta che gli venivano imposte, la politica non faceva per lui. Mostrarsi in pubblico, di fronte a un numero esorbitante di maghi, era solo una scocciatura che lo portava ad annoiarsi nell’arco di due minuti scarsi.
            Ma era comunque lì. Diana lo aveva tirato per il colletto della sua tunica di lino costringendolo ad abbassarsi, e adesso stava studiando con aria critica la riga di khol con cui si era impiastricciato le palpebre quella mattina.
            «Guarda su.» Disse, sfregandogli le dita sotto gli occhi cercando di pulire un minimo la sbavatura del trucco. Anche lei si era messa in tiro, sfoggiando braccialetti dorati e sandali aperti allacciati alle caviglie con strisce sottilissime di cuoio. Probabilmente l’ultima volta che l’aveva vista così era stata durante la cerimonia di passaggio, quando era diventata a tutti gli effetti l’ospite di Anubi.
            «Ecco qui. Certo, potevi anche impegnarti un po’ di più, sai?»
            «Non ho cazzi di stare qua.»
            Diana roteò gli occhi al cielo ma non disse nulla. La sala dove stavano aspettando aveva i soffitti di pietra scavata, decorati con geroglifici dorati: ogni volta che ci passava sopra con lo sguardo sentiva le parole reagire alla sua magia, e sarebbe bastato pronunciarle per renderle vive. Magari avrebbe potuto evocare un coccodrillo lungo quattro metri e mezzo durante il discorso di Olivia, e vedere cosa sarebbe successo.
            «No.»
            Diana lo ammonì assottigliando gli occhi, avendo percepito perfettamente le sue intenzioni – non che fosse così difficile, visto che probabilmente ce le aveva scritte in faccia – e lui si limitò a sogghignare, incrociando le braccia al petto. Accantonò l’idea per il momento, e spostò il peso da un piede all’altro mentre un omino pelato sgusciava fuori da uno dei corridoi secondari. Si schiarì la voce e con un cenno della mano cominciò a disporli ordinatamente in fila di fronte a un portone massiccio decorato da geroglifici eleganti e colorati.
            Olivia aveva disposto delle prove per quell’entrata, nei giorni precedenti, e Richard era stato costretto a prendervi parte nonostante le reputasse un’enorme perdita di tempo: nemmeno dare fuoco al bordo della tunica di Jacob era stato di conforto, e Seth l’aveva pateticamente deriso prima di zittirsi.
            In tutto erano in dodici, provenienti dai Nomi più disparati. Il più piccolo tra loro era un ragazzino sui dodici anni, con le mani scorticate a sangue per via di qualche ustione, ospite di Heka; la controparte infantile e più silenziosa di Iside, a detta di Seth.
            «Mantenete la distanza, un passo e mezzo dalla schiena di chi vi precede.» Disse l’omino, passando in mezzo alla fila per aggiustare posture e braccia. Diana era la quinta, mentre lui il penultimo, essendo disposti in ordine di altezza. Di fronte aveva Talon, una ragazzina pallida e slanciata con una cascata di capelli scuri intrecciati e legati in una coda laterale, come il suo dio era solito tenerli.
            «Perfetto!» L’omino sembrava davvero soddisfatto del suo lavoro, come un maestro che finalmente riesce a domare con successo la sua classe più problematica. «Entrate e procedete fino alla tacca segnata sul palco, scalati come nelle prove: il primo e l’ultimo devono stare sei piedi indietro, poi a procedere disponetevi sempre un piede davanti a chi vi precede, per il primo gruppo.» Con la mano indicò i primi sei maghi. «Per il secondo, un piede indietro invece. La signorina Moreau sarà in centro, quindi lasciate abbastanza spazio.»
            Richard alzò gli occhi al cielo, esasperato. Non si era mai lamentato del fatto di essere diventato l’ospite di un dio, ma davvero, quella era una rottura di coglioni così grande che per la prima volta si ritrovò a odiare Seth.
            “Ehi, dai un freno ai tuoi pensieri, ragazzino. Guarda che ti sento.”
            “Vaffanculo, stronzo.”     
            Il dio rise, stringendogli amorevolmente la testa in una pressa dolorosa che gli fece strizzare gli occhi di scatto.
            “Non distrarti.” Non era una domanda. Seth lasciò andare la presa, e Richard sentì il suo cervello tornare a respirare nonostante le fitte lancinanti che avevano preso a serpeggiargli dietro gli occhi.
            Il rumore dei tamburi e dei sistri interruppe l’attesa, e le porte che davano al Corridoio dell’Età vennero spalancate, dando inizio alla loro marcia.
            Il Primo Nomo era gremito di maghi, guerrieri, istruttori e qualsiasi mortale immischiato con la magia abbastanza a lungo da non rischiare di impazzire. La folla formava due colonne ai lati delle pareti, davanti alle cortine olografiche appese, e poi si allargava al di fuori, riversandosi nella piazza principale su cui era stato allestito il palco. I negozi erano rimasti chiusi per l’occasione, i banchetti del mercato smontati e addossati alla pietra viva dei muri.
            L’aria era densa di magia, e più si avvicinava, più la sensazione aumentava, facendogli stringere lo stomaco. I geroglifici scintillavano sopra le loro teste, brillando appena, mutando continuamente forma e significato in modo del tutto casuale. Salì i gradini e si sistemò seguendo la fila.
            La musica raggiunse il culmine; vennero annunciati i loro nomi e i simboli degli dei ospitati brillarono per un momento alle loro spalle. Come se il nome di Seth tatuato sulla sua gola non fosse abbastanza esplicativo su chi si portasse appresso.        
            Una cerimonia così sfarzosa non l’aveva vista nemmeno durante i riti di passaggio per diventare l’occhio di un dio. Gli incantatori erano schierati attorno a due piccole sfingi, gli unici artefatti abbastanza stabili da poter stabilire una connessione mondiale senza sgretolarsi per il sovraccarico di magia. Le parole del Sommo Lettore sarebbero state ascoltate in diretta da ogni Nomo, o da qualsiasi mago che fosse riuscito a rintracciare l’incantesimo principale.
            Il silenzio calò nella piazza mentre la melodia sfumava nell’aria. Olivia fece il suo ingresso a passi lenti ma decisi; il mantello leopardato le avvolgeva una sola spalla, mostrando lo scollo importante della sua veste di lino senza maniche. Gioielli d’oro, amuleti come orecchini, e poi al centro della fronte un simbolo. Era troppo nitido per essere temporaneo, e Richard socchiuse gli occhi studiandone la forma allungata, simile a una bussola. Le decorazioni sui bordi erano piccole ma precise, senza apparente significato.
            “Che cos’è quella roba?” Gli mimò Diana dall’altra fila, inarcando le sopracciglia sottili.
            “Che cazzo vuoi che ne sappia?”
            La ragazza alzò gli occhi al cielo, e tornò a guardare davanti a sé, stringendo pensierosa le mani dietro la schiena.
            A un tratto, quella stupida cerimonia era diventata inquietante. Sapeva che la sua percezione era distorta e amplificata dal potere di Seth, ma non bisognava certo essere degli ospiti per accorgersi di un simile potere. Persino i bambini della folla si erano ammutoliti, con i giocattoli in legno stretti blandamente tra le mani.
            Olivia sorrise placidamente, sistemandosi più avanti. Jacob emerse dal retro e si precipitò verso di lei, bisbigliandole qualcosa all’orecchio prima di sparire di nuovo, facendo ondeggiare la tunica chiara.
            «Do il benvenuto a tutti voi. Sono Olivia Moreau, attuale Sommo Lettore, e ospite della dea Iside.» Cominciò, con parole puramente di circostanza. «Mi è stato chiesto di recapitare un messaggio oggi; delle istruzioni per i maghi che stanno ascoltando.»
            Richard serrò leggermente la mascella, più concentrato sul marchio che sul discorso in sé. Bla bla bla, la Duat si sta sfaldando, bla bla bla, fate attenzione quando usate la magia o il mondo potrebbe finire domani. E sti cazzi. Aveva già sentito quella cantilena da Seth una volta di troppo, la sua attenzione in merito all’argomento era rasente lo zero.
            «Prestate attenzione a qualsiasi cambiamento, siate ricettivi ai vostri incantesimi e non trascurate l’istinto. In questi mesi verrete messi davanti a realtà diverse, a poteri fuori dal vostro immaginario. Non fatevi cogliere impreparati.» Olivia si lisciò le pieghe sottilissime del suo vestito, prima di riprendere. «A ogni Nomo verranno dati dei compiti specifici da portare a termine, e ogni vostra azione dovrà essere riportata ai vostri superiori, che sia inconcludente o meno. La nostra è una posizione di snodo, un punto di riferimento. Non possiamo permetterci di risultare poco efficienti
            Poco efficienti. Come se lui non fosse mai stato produttivo! Gli incantesimi gli venivano con la stessa facilità con cui schioccava le dita, non aveva bisogno di una minaccia del genere.
            «Per ultimo, se vi doveste imbattere in qualcuno marchiato in questo modo…» Si indicò la fronte, e l’aria attorno al palco divenne elettrica all’istante. «Fate in modo che raggiunga il Nomo più vicino. Non importa se non pratica la magia, o se adora altri dei. Siate di supporto in qualsiasi situazione.»
            “In pratica vi sta chiedendo di fare da babysitter a un branco di gente maledetta.”  
            Seth schioccò la lingua, sovrapponendosi ai suoi pensieri con la sua solita indelicatezza. Era tornato a mostrarsi con una cascata di dreads scuri arricciati attorno a rubini grezzi.
            “È una cazzo di maledizione? Sul serio?! Quella roba lì?”
            “Aaah, non ci sono più i Sommi Lettori di una volta! Ospitano dei del Caos, si fanno maledire…!” Rise, e Richard strizzò gli occhi mentre un dolore lancinante gli serpeggiò dietro le palpebre. “Che disgrazia. Dove andremo a finire?”
            “Finiscila o ti meno, stronzo!”
            “E tu smettila di urlare. Mi fai salire il mal di testa, ragazzino.”
            Un’altra fitta gli attraversò il cranio, e Richard si morse l’interno di una guancia fino a farla sanguinare. Non aveva nessuna intenzione di cedere, e l’unica cosa che si concesse fu irrigidirsi sul posto.
            “Dimmi come fai a beccarti una maledizione del genere dal nulla.” Conosceva Olivia da una vita; la ragazzina prodigio che a sette anni scolpiva shabti perfetti alti cinque metri. Era impossibile che fosse caduta vittima di qualche sortilegio a sproposito; era sì noiosissima, ma mica stupida.
            Seth sorrise morbidamente e gli occhi scuri gli si illuminarono di divertimento, come se avesse davanti un cucciolo tanto carino quanto scemo.
            “Così.” Disse. “Vedi di non farci ammazzare.”
            Fu il pensiero di un secondo. La mente gli si svuotò, e mentre alzava la testa, sentì la pelle tendersi e strapparsi all’altezza della spalla destra. Il dolore gli lacerò i muscoli, il sangue colò lungo i vestiti bianchi con l’inchiostro che affiorava lento, amalgamandosi al resto dei suoi tatuaggi.
            Non urlò, ma premette lo stesso un palmo sulla ferita; Diana alzò il viso verso di lui boccheggiando nello stesso momento, con la veste sporca all’altezza del petto, le mani strette sulla stoffa.
            «Indietro, state indietro…!»
            La folla cominciò ad agitarsi; un paio di mani lo sorressero per la spalla sana mentre Talon e un’altra ragazzina minuta passavano le braccia attorno a Diana.
            Non avrebbe dovuto fare così male. Le immagini cominciarono a sdoppiarsi di fronte ai suoi occhi, e ben presto non riuscì a mettere più a fuoco nulla. Un rumore sordo, costante, gli riempì la testa; come il brulicare di mille piccole zampe che si arrampicavano sui suoi vestiti, infilandosi sotto gli orli ricamati. Quando gli si schiarì la vista, notò l’immensa distesa di scarafaggi rossi ai suoi piedi.
 
 
 
Il planisfero di Olivia era molto più grande di una normale cartina, ed era interamente disegnato a mano sul papiro. Le linee erano così precise che faticava a credere fossero state tracciate a mano libera; e probabilmente non ci avrebbe nemmeno dato credito se non avesse visto la ragazza lavorarci personalmente.
            Jacob si sistemò gli occhiali sul naso e tornò col capo chino sui vari continenti. Provò a concentrarsi sui tratteggi dorati che indicavano l’estensione di ogni Nomo, ma la sua mentre era altrove, insieme a pensieri che continuavano a distrarlo.
            Il discorso della mattina era stato un disastro, inutile che Olivia rimanesse impassibile a riguardo: un sacco di maghi avevano cercato di contattarli, intasando le linee di comunicazioni già deboli. Organizzare tutti, almeno per il momento, era stato un lavoraccio; e oltre a quello c’era il marchio.
            Sulla pelle scura di Olivia quasi non si notava, ma la pesantezza sgradevole della maledizione si percepiva a metri di distanza, rendendogli persino difficile avvicinarsi senza provare una nauseante sensazione alla bocca dello stomaco.
            «Cosa c’è che ti preoccupa così tanto?»
            Non si sorprese della domanda. Nonostante si sforzasse, sapeva che le sue espressioni tradivano il suo vero stato d’animo, e Olivia era un’ottima osservatrice. Si morsicò soprappensiero un labbro ma non alzò la testa.
            «Nulla.»
            «Interessante il tuo concetto di nulla.»
            Si impose di non risponderle, e seguì con gli occhi il confine tra il Messico e gli Stati Uniti per la terza volta di fila. Se fosse stato più attento, forse avrebbe potuto distinguere con più precisione la carica magica del punto che stava studiando, mettendo finalmente un segnalino.   
            «Non ti devi preoccupare.»
            «Non sono preoccupato.»
            Olivia sorrise appena, e il suo viso si addolcì mentre lo guardava. Con il dito sfiorò El Paso, e il puntino della città si illuminò appena diventando rosso scuro.
            «Oh, eccolo qui. Credo ce ne sia uno anche sulle coste del Messico, sai?»
            Sbuffò. Era infastidito dalla sua tranquillità, come se non ci fosse nessun problema; nessuna maledizione mortale a cui far fronte. Alla fine cedette, sbattendo le mani sulla cartina.
            «È una perdita di tempo!»
            Olivia non cambiò espressione, né alzò la voce quando parlò.
            «Credo che segnalare i punti critici dove la magia si è ammassata nell’ultimo periodo sia qualcosa di più che una perdita di tempo.»
            «Possono aspettare! Così come qualsiasi richiesta da parte degli dei…»
            «Non si può ignorare un dio, Jacob.» Lo riprese.
            «C’è sempre una prima volta.» Replicò deciso. Sentì il nervosismo accumulato nei giorni risalirgli verso la bocca dello stomaco. «Gli dei ci chiedono cose impossibili dall’alba dei tempi; se passa qualche giorno non è la fine del mondo.»
            «Non abbiamo tutto questo tempo.»
            «Nemmeno tu!» Era così frustrante. «Pensi che non si veda? Non si senta? Non sono stupido, e l’odore di quella cosa…» Indicò con un cenno del capo il marchio sulla sua fronte. «L’hanno sentito tutti per quanto è forte.»
            La faccia della ragazza si contrasse con un movimento impercettibile.
            «Non è quello che sembra.»
            «Ah no?» Fu il suo turno di alzare le sopracciglia. «Una maledizione che compare da un giorno all’altro, così radicata che è impossibile percepire la tua sola presenza. Poi, dal nulla, la stessa cosa colpisce altri due maghi, ospiti di dei.»         «Qualsiasi cosa tu voglia fare, toglitela dalla testa. Sei il Sommo Lettore, e se ti succedesse qualcosa ora, come…»
            Deglutì cercando di completare la frase, nonostante il groppo in gola.
Come faccio io senza di te?
            Solo pensare un’eventualità del genere lo destabilizzava, rendendolo davvero patetico. Gli occhiali gli scivolarono di nuovo, e li tirò ostinatamente su con le dita.
            «Oh Jacob…»
            Oh Jacob. Quante volte lo aveva chiamato con quel tono, a metà tra un sospiro e l’affetto che si prova per un fratello più piccolo? Si avvicinò per abbracciarlo e, davvero, provò a ribellarsi. Fece pressione su una spalla ma alla fine cedette e si ritrovò con un paio di braccia a cingergli la schiena e il profilo morbido di una pancia contro lo stomaco.
            Olivia prese a carezzargli i capelli con delicatezza, e lui fece scivolare le mani sui suoi fianchi, chiudendo gli occhi.
            «Ho fatto un sogno stanotte.» Gli disse. «Era estate e faceva caldo. C’era una steppa sterminata con l’erba scura, piena di fiori…» La sua voce si fece bassa, come se si stesse sforzando di ricordare la bella sensazione del sole sulla pelle. «Assomigliava molto a casa mia, sai, e ho cominciato a correre a piedi scalzi come facevo da bambina. Ho visto la mia mamma. Ha detto: “Non avere paura”»
            Per un secondo Jacob sentì le dita di Olivia stringersi sui suoi vestiti. La voce le si incrinò.
            «Quindi non avere paura. Andrà tutto bene.»
 
 
 
«Che cosa è quella roba!?»
            Aydin urlò, mentre la tazzina di ceramica si sfracellava al suolo insieme al suo tanto agognato caffè. Il cuore gli martellava così forte nel petto che ebbe paura potesse sfondargli la cassa toracica.
            «Ishtar…»
            La dea alzò gli occhi al cielo incrociando le braccia magre, sul bel viso un’espressione di puro fastidio.
            «Chi altri?» Gli chiese retorica, avanzando con decisione nella sua direzione. Vedersela comparire davanti era stato uno choc più che sufficiente per quella giornata, e Aydin le sorrise nervosamente sperando che la sua tachicardia si calmasse.
            «Che ci fai…»
            «Alzati la maglia!»
            Beh. Era una richiesta abbastanza esplicita, e il suo cervello aveva già trovato abbastanza motivi per non fare una cosa del genere. Ishtar sembrò leggere la sua indecisione e gli si avventò contro un secondo dopo, afferrandogli con cattiveria l’orlo della maglietta.
            «Che cavolo fai!»
            «Alzatela o te la faccio a pezzi con le unghie!» Gli urlò di rimando, cercando di trattenerlo. Nonostante nella sua forma umana si presentasse come una donna minuta, con una cascata di capelli scuri allacciati blandamente in una coda, era dannatamente forte.
            Aydin indietreggiò, guardando con preoccupazione il tessuto tendersi un po’ troppo.
            «Ma sei matta?» Indietreggiò, pestando i cocci che scricchiolarono sotto le sue scarpe. «Dimmi perché!»
            «Fallo e basta!»
            Ishtar scoprì le gengive e, senza farsi troppi problemi, lo spinse all’indietro con tutto il peso del suo corpo. Aydin inciampò, e cercò disperatamente di mantenere l’equilibrio facendo leva sul ripiano in ceramica della cucina, ma con scarsi risultati: un attimo dopo si ritrovò per terra, con la testa dolorante e una dea incavolata a cavalcioni su di lui.
            Gli sollevò i vestiti ignorando le sue proteste, e prese ad osservargli la pancia con espressione contrita.
            Dire che era a disagio era un eufemismo. Oltre alla botta, una parte di lui era davvero infastidita, e se Ishtar non lo avesse piantato al suolo stringendo le ginocchia sui suoi fianchi, avrebbe provato a scrollarsela di dosso.
            «Insomma…» Piagnucolò, ma lei sembrò non ascoltarlo. Gli passò le dita gelide sulla pelle e lui rabbrividì.
            «Ay, amore, hai per caso visto la mia camicia…»
            Dakun, il suo ragazzo ormai da tre anni effettivi, si fermò sull’uscio della cucina inarcando pragmaticamente un sopracciglio alla vista della scena: caffè sparso per terra, cocci, e lui sull’orlo di uno stupro da quella che era una dea millenaria.
            «Momento sbagliato?»
            «Dakun!»
            «Dopo umano, ho da fare!» Lo liquidò Ishtar, senza nemmeno guardarlo. Dakun sospirò, e tornò a controllare lo schermo del suo cellulare, allontanandosi con una mano infilata nella tasca dei pantaloni scuri.
            Traditore! Come poteva lasciarlo così, inerme e mezzo nudo su un pavimento piastrellato, oltretutto senza muovere un dito?
            Stava già pensando a come fargliela pagare, quando una fitta di dolore gli colpì la pancia facendolo rannicchiare di riflesso.
            «Ti fa male?»
            Ishtar sembrava confusa, gli tastò con più delicatezza la pelle facendo attenzione alle sue reazioni.
            «Se ci premi sì.» Borbottò alzandosi a fatica sui gomiti. Ishtar decise che ne aveva abbastanza e si spostò, facendo alzare.
            «Da quanto tempo hai quella roba addosso?»
            Strinse i denti. Quella sorta di tatuaggio era comparso quella stessa mattina, svegliandolo prestissimo e facendolo piangere dal dolore. Non sapeva perché fosse lì. Non sapeva cosa rappresentava. Non sapeva perché gli avesse fatto un male cane, come se qualcuno gli avesse aperto la pelle e rimescolato le viscere con una mano.
            Sperava che Ishtar potesse dargli delle risposte, ma il suo viso non era per nulla rassicurante. Si prese del tempo sistemandosi la maglia, prima di parlare.
            «Questa mattina. Sai cos’è?»
            «Nulla di buono.» Scosse la testa. Indossava orecchini così pesanti che aveva i lobi delle orecchie sformati verso il basso. «Assolutamente nulla di buono.»
            Aydin si sentì sbiancare. Provò a chiedere altro, ma la dea lo bloccò con la mano.
            «La ragazza, quella dell’hotel.» Gli disse, lentamente, in modo che capisse. «Vai da lei. Cercala assolutamente, dovessi girare mezzo mondo. Io non posso fare altro per te.»
            Non l’aveva mai vista così seria. Osservò gli angoli tremolanti della sua bocca tendersi verso il basso. Poi sparì.
 
 
 
Diana si strinse nel suo giaccone, chiudendo la zip fin sotto il mento. Il cielo coperto minacciava pioggia, ma per il momento non era un suo problema. O almeno, sperava non lo sarebbe diventato.
            Il Tower Hamlets Cemetery Park era un piccolo cimitero poco conosciuto, chiuso alle sepolture ormai da almeno un decennio. Una stradina di terra battuta si snodava attraverso file di cipressi e cespugli di rosa canina selvatica. Le lapidi spuntavano dal terreno pallide e sottili, ammassate tra loro, ognuna con una forma diversa. Era un luogo tranquillo, silenzioso in una maniera che il resto del mondo sembrava aver dimenticato.
            Passò una statua di un angelo con le ali di pietra tutte scheggiate e ricoperte di muschio, facendo attenzione a non scivolare per la piccola discesa.
            Aveva impiegato un po’ di tempo per scegliere i fiori: gigli, rose, ciclamini e girasoli. Alla fine aveva deciso per un mazzo di crisantemi e alstromeria, accuratamente incartato da fogli di plastica trasparenti.
            Lasciò il sentiero avventurandosi in mezzo all’erba, poggiando delicatamente i piedi sul terreno.
            La tomba di Sadie Kane era squadrata, in pietra naturale e con i bordi decorati da una linea di geroglifici minuscoli. Il suo nome era stato inciso con precisione, insieme alla sua versione egizia. Non c’era una data, ma lo spazio restante era occupato da un nodo di Iside e un ankh smaltati d’oro.
            I bordi dove la sua bara era stata sepolta erano marcati con sassi dipinti e incisi: occhi di Horus, geroglifici di buona sorte, il profilo canino di Anubi. Una schiera di fiori bianchi e gialli erano posati con cura ai lati della lapide, insieme a papiri sigillati da spago e candele tozze.
            «I ragazzi sono già passati ieri.»
            Anubi comparve al suo fianco come un fantasma, i capelli scompigliati e le guance rosse da un freddo che non avrebbe dovuto provare. Diana alzò lo sguardo e sorrise appena, posando il suo mazzo ai piedi della pietra.
            Le sarebbe piaciuto incontrare i figli di Sadie. Quando era arrivata al Primo Nomo loro erano già partiti per l’America, e in tutti quegli anni non aveva avuto molte occasioni per viaggiare, tra addestramenti e altro. Anubi ne parlava a volte. Era sempre un po’ complicato perché i suoi ricordi erano filtrati dagli occhi di Walt e si, non li considerava per davvero suoi figli, anche se Diana era di tutt’altra opinione.
            Si sedette sull’erba umida e fece scorrere lo sguardo sulle scritte. Il marchio sotto il suo sterno bruciava, ma forse era solo una sua impressione.
            «Non ci posso proprio parlare, vero?»
            Anubi si schiarì la gola, avanzando senza sfiorare il terreno con i piedi. Toccò la lapide con le dita, in una carezza un po’ insicura.
            «Mi spiace.» Disse solo.
            «Non importa.» Incrociò le gambe e si circondò le ginocchia con le braccia, poggiandoci il mento. «Mi parli un po’ di lei?»    
            Anubi batté le palpebre, perplesso: «Cosa vuoi sapere?»
            «Non lo so. Nulla di particolare, credo.»
            La punta delle sue Converse bianche scivolò piano in avanti. Gli occhi le si erano scuriti per via del tempo, lucidi e di un verde scuro come il muschio sui tronchi che li circondavano. Sembrava piccola e indifesa, spaventata.
            «Un anno, tre giorni prima del suo compleanno, si ammalò.» Iniziò cauto. «Così le preparammo la colazione e gliela portammo a letto per farle gli auguri. Pessima idea.»
            Diana sorrise, lo colse dalla piega che presero i sui occhi.
            «Walt era un pessimo cuoco e io…Beh, quando sei un dio mangiare non è proprio una delle tue priorità.» Si grattò un orecchio, quasi imbarazzato. «Insomma, facemmo dei pancake ai mirtilli terribili. Ce lo rinfacciò non appena ebbe il piatto tra le mani, però nonostante tutto li mangiò lo stesso.»
            «Pian piano divenne quasi una tradizione, a casa. I tentativi successivi furono più fortunati a ogni compleanno, e anche quando arrivarono i bambini…»
             Si bloccò, quasi avesse difficoltà a continuare. Incrociò le braccia, e Diana osservò la sua figura, le spalle rigidamente dritte.
            «Ti manca?»
            Domanda difficile. Anubi indugiò, oscillando impercettibilmente sulle punte, un movimento che risultava strano visto che stava fluttuando. Sapeva cosa intendeva: essere un dio della morte non gli dava diritto di vedere un’anima ogni qualvolta ne avesse avuto voglia. Ogni tanto capitava, ma Sadie meritava pace e riposo dopo una vita passata a combattere e bruciare tappe perché forse non avrebbe avuto mai abbastanza tempo. Lui non aveva nessun diritto di privarla di qualcosa di così importante, non con desideri così egoisti a smuoverlo.
            «Un po’.» Disse alla fine. Non era per nulla convincente.
            Diana respirò contro il colletto della giacca, e il rumore giunse ovattato tra di loro. Il suo animo era inquieto, come un’anima in pena imprigionata tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
            «Gli dei hanno mai paura?» Chiese ancora, e la voce le si spezzò in gola. Batté gli occhi ma una lacrima le scivolò lo stesso lungo la guancia.
            «Molto spesso.»
            Si inginocchiò, cautamente, accanto a lei. Non servì altro, Diana infossò il viso tra le pieghe della sua giacca, cercando di asciugarsi le lacrime con le mani. Le passò un braccio sulle spalle con delicatezza.
            «Ho così tanta paura!» Singhiozzò disperata. La strinse appena e aspettò.
 
 
 
Nulla aveva il potere di rilassarlo come una doccia calda. Nell’ultima mezz’ora aveva lasciato che l’acqua gli scorresse sulle spalle, sciogliendogli i muscoli tesi e lavando via ogni preoccupazione.
            Di fronte lo specchio, Max aveva lo stesso aspetto stanco di sempre, ma tutto sommato si sentì soddisfatto di essere riuscito a sopravvivere a quella giornata. La mattinata era stata solo fonte di stress, e il discorso di Olivia non era servito a calmare molto il suo spirito. Dopo pranzo era comparso anche a lui il marchio, e come da previsione gli aveva fatto malissimo. La nausea l’aveva accompagnato per ore, insieme a un’emorragia lenta e preoccupante che non aveva avuto intenzione di placarsi nemmeno sotto incantesimo.
            Era rimasto cosciente, in un modo che non capiva nemmeno lui. Adesso la sua gola era meno gonfia, ma la pelle arrossata faceva a botte con il suo colorito cadaverico.
            Fece una smorfia, finendo di vestirsi. Allacciò i monili e le catenelle con cura, e poi uscì dal bagno.
            Il motel in cui si era rintanato durante quella che gli piaceva etichettare come “vacanza alternativa” era piccolo, stipato in un quartiere che contava un negozio di alimentari, una vecchia casa fatiscente e una fermata dell’autobus. Olivia gli aveva sconsigliato di dirigersi a Long Island, pregandolo di fermarsi un attimo finché le acque non si fossero calmate.
            La cucina in comune aveva le pareti color pastello e il soffitto macchiato dall’umidità. Un tavolino angolato offriva un buffet davvero poco invitante, anche per un affamato come lui. Si avvicinò agli espositori e cominciò a riempirsi un piatto senza prestare davvero attenzione al cibo.
            Oltre a lui, nella sala c’erano un giovane ragazzo e una bambina. Gli davano le spalle, ma Max sentì lo stesso i loro sguardi sulla schiena, più insistenti di quelli dettati da semplice curiosità. Prese posto sul tavolino più vicino alla finestra, in modo da essergli perfettamente di fronte.
            All’inizio nessuno disse nulla: il silenzio nervoso fu smorzato dal suo masticare, e le occhiate si fecero più sottili da entrambe le parti. Max notò che quello che a una prima occhiata aveva scambiato per un ragazzo era, in realtà, un androide. Si era sbarazzato della divisa, ma sotto i capelli corti riusciva a intravedere l’alone del led che aveva cercato di staccarsi. Aveva un viso squadrato e l’espressione allertata, di chi è pronto a scattare al primo accenno di pericolo. La bimba con lui era più discreta, probabilmente umana, e molto interessata ai suoi amuleti, visto come li guardava.
            «Ci conosciamo?» Chiese dopo un po’, ruminando una forchettata di insalata che aveva la stessa consistenza della carta. L’androide si irrigidì sul posto, e lo vide passare un braccio attorno alla bambina da sotto il tavolo.
            «No.» Rispose secco.
            «Ah, mi sembrava.» Scrollò le spalle, e tirò su con la forchetta un pezzo di uovo.  Sorrise alla piccola mentre mandava giù. «Ti piacciono? Stavi guardando queste, no?»
            Indicò i suoi amuleti e la vide stringere le dita sul bordo del tavolo in legno, tra il piatto di plastica ancora mezzo pieno. Alla fine annuì, e lo sguardo dell’androide si fece ancora più tagliente.
            «Hai già studiato gli Egizi a scuola? Sono geroglifici. Portano fortuna.»
            La bocca della bambina si piegò in un muto “oh” di sorpresa. Dopo un po’ gli parlò.
            «Li ho visti in un video.» Confessò. «Quello e anche altri.»
            Indicò l’occhio di Horus sul suo petto. Fece un cenno con la testa per farle capire di essere piacevolmente sorpreso, e poi tornò a guardare l’androide silenzioso.
            Quelli come lui li chiamavano devianti: macchine difettose che avevano sviluppato un proprio libero arbitrio, in seguito a eventi più o meno traumatici. Era un fenomeno che aveva fatto molto scalpore negli anni precedenti, insieme a una vera e propria rivoluzione ma lui non si era mai interessato troppo della cosa; onestamente aveva di meglio da fare.
            «State andando da qualche parte?» Chiese con tranquillità, rivolgendosi all’androide.
            «Nel Queens.» Disse quello dopo un po’, con l’espressione più contrita che avesse mai visto. «Andiamo a trovare dei parenti e…»
            «No, no, lascia stare!» Esclamò Max, ripulendo i fondi della sua cena, interrompendolo. «No, non vi conviene. Il Nomo più vicino è quello di Brooklyn, il resto è tutta un’accozzaglia di altra roba; greci, pegasi volanti…» Fece una smorfia. «Vi basta arrivare in città, al Brooklyn Museum, e sicuramente troverete qualcuno dei nostri tra i custodi.»
            Si stiracchiò sulla sedia, allungando braccia e gambe.
            «Sei una maga, no? Lo sento dalla tua aura.»
            La bambina sgranò gli occhi e la vide trattenere il respiro. Non era stato difficile indovinare e, del reso, la sua scia magica era piuttosto difficile da ignorare in un posto così minuscolo. Si alzò e si avvicinò al tavolo, agitando appena le dita. Sul suo palmo brillò un singolo geroglifico, che si sciolse dando vita a una minuscola fiammella. I due lo guardarono sorpresi e increduli.
            «Puoi davvero aiutarci?»
            «Non vedo perché no. Siamo sempre alla ricerca di giovani maghi, e di sicuro troveranno del lavoro anche per te.» Diede una pacca sulla spalla dell’androide. «Non dovete preoccuparvi! Ecco, tieni.»
            Si sfilò l’occhio di Horus e lo passò con delicatezza sopra la testa della piccola. Le calzava un po’ largo, ma nulla di irreparabile.
            «Grazie signore.»
            «Grazie davvero.» L’espressione dell’androide si fece più mite.
            «Che gli dei vi proteggano!» Disse. Con la mano fece apparire una benedizione sopra le loro teste, geroglifici che tremolarono nell’aria solo per un’istante. Se ne andò dalla sala un momento prima che il marchio reagisse alla sua magia, cominciando di nuovo a sanguinare.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
 
Allora! Eccoci di nuovo con un nuovo capitolo!
            Questa volta abbiamo i nostri cari Egizi a far da vittime e, devo dire, ho cambiato molte cose dalla mia prima stesura.  Ho sistemato e riscritto le parti che non mi piacevano nell’arco di un pomeriggio e, indovinate? Questa è l’ulteriore conferma che se mi metto d’impegno potrei davvero scrivere un capitolo a settimana con una cadenza regolare, invece che fare apparizioni sporadiche e farvi rosicare dall’ansia ogni volta ahahaha.
            Spero che vi sia piaciuto, e che vi abbia emozionato un pochino, in tutto questo delirio delirante ahaha.
            L’ultima parte è una citazione nemmeno tanto nascosta a Detroit Became Human, gioco che dopo eoni sono finalmente riuscita a completare interamente!
L’impaginazione è quello che è ma solo perché Tynipic ha chiuso e io devo fare l’abbonamento LOL Quindi abbiate pazienza!
            Inoltre è da questa estate che non ci sentiamo, spero che il rientro a scuola/uni sia andato bene e sia stato meno traumatico del previsto ahahah. In tutto questo tempo, io e altre ragazze abbiamo aperto una page su insta per caricare disegni, strisce meme e altro sulle nostre storie qui su efp. Se avete voglia di seguirci per partecipare allo sclero, dirci la vostra  o semplicemente urlarci quanto siamo in ritardo con gli aggiornamenti, siete i benvenuti!
 Ci trovate qui
                       https://www.instagram.com/10_seconds_of_arcana_knowledge/
 
Un bacione a tutti!
Itzi 

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Capitolo 8
*** VI - THE LOVERS |Parte terza| ***


VI
THE LOVERS
Parte Terza
 
 
 
Lorina di sogni strani ne faceva già abbastanza prima che la sua parte divina ci si mettesse in mezzo: il suo cervello, a quanto pareva, non era in grado di processare le informazioni della giornata senza assimilarle a una buona dose di cazzate e pensieri totalmente incoerenti tra loro. Di solito lasciava correre, ma la visione che stava avendo in quel momento – perché solo di quello poteva trattarsi - superava ogni soglia di stranezza a cui si era abituata negli anni.
            Si trovava a un banchetto, e una lunga tavolata si allungava alla sua destra carica di piatti sottili e frutta matura; satiri e ninfe sedevano sotto i pochi alberi impegnati a cantare e ridere. Ci mise un attimo a inquadrare il resto dei commensali, e si accorse che a tutti gli effetti le erano familiari perché erano i suoi compagni del Campo.
            Davanti a lei c’era Emma, ma al posto del giacchetto di jeans che si ostinava sempre a portare, indossava una tunica chiara fermata con spille dorate; in grembo un mazzo di papaveri rossissimi. Più in là riconobbe Maria con una corona a cingerle i capelli corti; e poi Callum, Lucas della cabina di Atena con un elmo finemente decorato al fianco, Ilia che invece della mazza da baseball sfoggiava un arco dorato lungo almeno due metri.
            Abbassò lo sguardo, e notò con orrore di essere vittima lei stessa della fantastica moda greca a cui mancavano solo pizzi e merletti per essere davvero scomoda. La stoffa del suo vestito era così sottile da risultare trasparente; le arrivava le caviglie ma un lungo spacco risaliva fino alla vita lasciandole le gambe scoperte. Braccialetti di ceramica e corallo le ricadevano sui polsi, e tra i capelli sentì il peso di spille che avrebbero dovuto tenerle indietro la frangia.
            Il piatto di fronte a lei conteneva un’unica mela rossa con la buccia liscia e scura pronta per essere addentata. Lori non si fece molte domande, allungò la mano e le diede un morso, girando appena la testa verso il resto della tavolata. Per un momento, l’idea che si trovasse a un matrimonio le era anche passata per la testa, ma non c’era nessuna coppia di sposi, o almeno nessuno che le desse quell’impressione.
            Mandò giù la mela, e quando si sporse di nuovo per poco non le andò di traverso il boccone: ognuno dei commensali era stato sostituito da enormi figure animalesche; elefanti, volpi, civette, tori. Provò a parlare ma si accorse che la sua voce non aveva suono.
            Un rumore stridente la fece sobbalzare sulla sedia, e dal fondo un enorme giaguaro si erse in piedi; gli occhi feroci del colore dell’oro fuso e macchie più scure che sfumavano sul pelo all’altezza della fronte. Le spalle erano cinte da un’armatura d’argento con mezzelune incise nel mezzo.
            «Alla più bella.» Disse, con lo sguardo fisso verso un punto non definito all’orizzonte, e tra le zampe gli comparve un pomo dorato. Lo lanciò e Lori osservò la traiettoria curva che tracciò a mezz’aria per un secondo, prima di chinarsi e strillare a pieni polmoni.
           
Cadde malamente dal letto, e la prima cosa che fece fu strizzare gli occhi, premendosi entrambe le mani su quello sinistro in un blando tentativo di alleviare il dolore allucinante che stava provando. Sembrava che qualcuno avesse deciso di cavarle un’orbita con un cucchiaino rovente, e nel delirio dei suoi pensieri sentì distintamente le dita umide di lacrime e probabilmente sangue.
            Aspettò rannicchiata per un tempo lunghissimo, rialzandosi a fatica e arrancando per la cabina a tentoni. Accese la luce, battè con il piede contro il cassettone dove teneva i vestiti evitando di sfracellarsi al suolo all’ultimo per grazia divina. Tenevano solo uno specchio e Lori fece fatica a metterlo a fuoco del tutto, tra lo stordimento per essersi svegliata così malamente e il sangue che continuava a colarle sul viso a fiotti, tanto da farla seriamente agitare.
            Si guardò. Il suo riflesso era pallido e ancora un po’ confuso; avvicinò il viso fino a sfiorare il vetro con il naso e, tremante, spostò le dita dalla palpebra.
            Si aspettava una ferita, e invece quello che vide furono le linee spesse di un segno inciso sulla sua pelle, che si allungavano sul sopracciglio e parte della guancia. Lentamente aprì l’occhio, e notò con orrore che il disegno proseguiva direttamente sulla sua sclera e la pupilla, in modo che gli intrecci fossero comunque visibili sia che tenesse gli occhi aperti o no.
            Non era opera umana, ovviamente, e si passò una mano sul viso cercando di pulirsi. Il dolore che l’aveva svegliata si era ridotto a una pulsazione sorda ma altrettanto fastidiosa, che le faceva battere le tempie; il sangue continuava a colarle sulla guancia senza sosta.
            Ci mise comunque del tempo prima di capire che il motivo per cui continuava a non vederci bene, era che aveva appena perso la vista da un occhio.
 
 
 
Il padiglione della mensa era ancora pieno, cosa su cui non contava moltissimo, in effetti. Era sicuro che si fosse addormentato perché aveva una guancia indolenzita e le dita intorpidite.
            Callum abbassò lo sguardo sulla sua colazione, e quasi facendosi violenza, si costrinse a tagliare due pezzi di wurstel lesso per mangiarli, nonostante la vista del cibo non facesse altro che alimentare la sua nausea.
            Sospirò. Aveva avuto notti migliori, il che era un paradosso considerato che dormiva solamente grazie alla narcolessia, che nella maggior parte delle volte lo costringeva a chiudere gli occhi. Sperimentare l’insonnia era stato disastroso; un’esperienza che avrebbe fatto volentieri a meno di replicare.
            Punzecchiò con poco interesse il bordo del suo uovo fritto, e si accorse di Blanca solo quando la ragazza si sedette sulla panca dall’altro lato del suo tavolo.
            «Mi sono perso qualcosa?»
         «Chirone ha detto di andare a sistemare l’armeria.»
            Non sembrava avere fretta, perciò non si scompose e ricominciò a mangiare. Blanca intrecciò le dita e si voltò verso la spiaggia e la baia che si apriva più lontano, come se nel mare invernale si nascondessero le risposte a tutti i suoi dubbi. Non la biasimava, perché in quel mese anche lui ne aveva sperimentate di tutti i colori, e persino viaggiare nei sogni degli altri – il suo passatempo preferito – non aveva fatto altro che inquietarlo ancora di più.
            «Lori? Ancora in infermeria?»
            «No.» Una pausa. Sospirò e tornò a voltarsi verso di lui. «È uscita prima.»
            Callum si riempì la bocca, aspettando che aggiungesse altro: era snervante cavarle le parole a forza, ed effettivamente era anche questo il motivo per cui non si erano mai parlati più di tanto. Blanca era troppo anonima, prudente e mai rumorosa; una triade perfetta per passare completamente inosservata.
            «Senti, lo sappiamo tutti e due perché Chirone ci ha relegato al giro delle pulizie, inutile girarci intorno: è per quello che è successo stanotte. Ora, non so che idea ti sia fatta, e non mi interessa nemmeno, ma potresti evitare di fare quella faccia? Sento la tua angoscia da qui!»
            Blanca strinse i denti, e una parvenza di fastidio le attraversò il viso indurendole lo sguardo.
            «Scusa se mi preoccupo per la missione suicida a cui ci stiamo preparando!» Sbottò, e per un momento Callum ebbe l’impressione che volesse colpirlo dritto in faccia. Sarebbe stato il suo secondo pugno nel giro di sei ore, un record.
            «Qualcuno è nervosetto.» Commentò, raccattando con la forchetta quello che restava nel piatto. «Dovresti dormire di più.»
            «E tu chiudere la bocca.»
            Glielo intimò sottovoce, sibilando come un serpente velenoso e, solo per questa volta, Callum lasciò perdere. Non era il momento adatto per mettersi a litigare, e fare una scenata non avrebbe attirato nemmeno l’attenzione di chissà chi, visto che tutti avevano finito di mangiare e le arpie avevano cominciato a passare in rassegna le tavolate.
            In secondo luogo, Blanca sarebbe stata comunque una sua compagna, e lui aveva altre priorità nella vita che vivere con l’ansia che gli potesse piantare un coltello nella schiena alla prima occasione utile, per ripicca.
            «Bah, non capisco cosa ti terrorizzi così tanto.»
            Blanca drizzò la schiena e scoppiò in una risata isterica.
            «Ah, beh, non lo so! Forse il fatto che sogni cose inquietanti? Che mi svegli nel pieno della notte con il tallone scorticato a sangue senza un motivo? Che stiamo per morire e nessuno ci dica nulla?»
            «Siamo semidei.»
            «Non è una giustificazione.» Incrociò le braccia. «Niente di quello che è successo può definirsi normale, nemmeno per i nostri standard; andiamo!»
            Callum si prese del tempo per masticare l’ennesimo boccone. Aveva appena vissuto, probabilmente, la notte più orribile della sua vita, e ancora non riusciva a togliersi di dosso la sensazione di panico opprimente che aveva provato nell’affogare nei suoi stessi sogni. Si era sentito così impotente e smarrito che per un attimo, un lungo, lunghissimo attimo, aveva creduto di non svegliarsi più. Poi era comparso il marchio e il dolore era stato così forte da farlo urlare, costringendo Argo a trascinarlo in infermeria nel pieno di una crisi isterica.
            «Se nemmeno Chirone ne sa qualcosa non possiamo farci niente.» Ribadì lui, puntando i gomiti sul tavolo. Poi sospirò, e fu come se le sue spalle avessero appena ceduto a tutto il nervosismo che si portava dietro da settimane.
            «Perché Lorina ti ha dato un pugno?» Gli chiese dopo un po’. Callum storse la bocca in un sorriso davvero ironico.
            «Pensava fossi stato io a distorcere la sua visione. Purtroppo non sono in grado di influenzare così tanto i sogni di qualcuno, anche se sono lusingato dall’idea che vi siete fatte di me.»
            «Quindi non ne sai nulla?»
            «Negativo. Per la cronaca, questo Campo conta circa una cinquantina di semidei iperattivi con sogni abbastanza grotteschi, è un po’ difficile andarsene in giro per la mente di tutti. Di solito ci sono visioni più forti di altre, incubi, cose così; quindi la mia attenzione è automaticamente dirottata verso quelle. Stasera comunque a parte Lori c’eri anche tu e, beh, non so cosa sia successo ma stavo letteralmente affogando nel nulla della mia testa, quindi ho accantonato il resto.»
            Il suo tono era risultato più acido del necessario, ma non si curò della cosa. Blanca continuò ad osservarlo con la stessa espressione; se era infastidita non lo diede a vedere.
            «L’altro giorno stavo guardando i disegni di Alice.» Cominciò piano, e per un secondo i suoi occhi corsero di nuovo verso il mare. «E c’era anche Lorina, piena di sangue e accecata.»
            «Beh, tu hai avuto la fortuna di vedere un pastroccio su carta che rappresenta Lori. Io ho visto cosa ha sognato per davvero l’Oracolo, e senza scendere nei particolari, è stato disgustoso.»
            Non era stata una buona idea intrufolarsi in mezzo ai sogni divinatori della bambina, poco ma sicuro. Si era ritrovato sballottato da una parte all’altra, circondato da colori sgargianti, suoni, cantilene, e urla tutte dolorosamente intense il cui scopo era quello di fondergli il cervello. Lorina gli era apparsa all’improvviso, inginocchiata e curva con il mantello lacerato e i capelli incrostati di sangue, e più tempo passava più ferite le si aprivano sulla pelle; squarci profondi che lasciavano intravedere il biancore delle ossa.
            «Sono sorpreso che non sia ancora impazzita perché, beh, io al suo posto avrei già dato di matto.» Ci tenne a precisare, e Blanca incurvò la bocca come se il solo pensiero le desse il voltastomaco.
            «Va bene, ti sei spiegato.» Lo bloccò. C’erano altre cose di cui voleva parlare, Callum glielo leggeva in faccia, ma per quella mattina avevano già detto troppo.
            Chirone se ne era andato verso la Casa Grande e immaginò che, una volta che Lori fosse stata in grado di reggersi sulle sue gambe senza minacciare di svenire a ogni passo, probabilmente li avrebbe chiamati tutti e tre per discutere di tutto quel casino. Di solito adorava essere al centro dell’attenzione, ma questo era troppo persino per uno come lui.
            Si alzò, allontanando il suo piatto con un gesto della mano, e strascicò le scarpe in direzione dell’armeria con meno voglia possibile.
 
 
 
Di Gaio Verre Nora non sapeva nulla di più delle poche versioni che aveva tradotto durante il suo anno di apprendistato al Campo. Cicerone non le era mai interessato più di tanto, e aveva affrontato lo studio del latino con indolenza perché necessario; nonostante questo, la situazione stava prendendo una piega quasi scontata.
            Scese gli scalini del porticato e si diresse in strada, seguendo la folla urlante. Aveva le orecchie piene di pianti, proteste e singulti; accanto a lei una donna si afferrò la veste all’altezza del petto e strillò con il volto paonazzo e le guance rigate di lacrime finché la sua voce non si perse in mezzo a quella degli altri.
            Il suo sogno era iniziato con la notizia che il pretore era arrivato a Segesta, accampandosi ai piedi della città perché l’ingresso, preceduto da una salita abbastanza ripida, era troppo lontano. Aveva dato l’ordine di radunare ogni bene di valore di ciascun cittadino, e Nora aveva assistito a delle scene indecenti; mobili e suppellettili letteralmente strappate dalle mani dei proprietari, donne disperate pronte a gettarsi per terra supplicanti e prese a calci dai soldati.
            La rabbia aveva superato abbondantemente la sua pazienza da un pezzo, e l’unico motivo per cui non era corsa fuori dalla città, pronta a prendere a pugni un soggetto del genere, era che si trattava comunque di un sogno a cui non poteva porre rimedio. Verre sarebbe stato processato di lì a pochi anni, ma si trattava comunque di vicende avvenute più di duemila anni prima.
            Si fece spazio tra i bambini accalcati e allungò la testa verso la strada: quattro uomini in armatura erano impegnati a trasportare una statua d’oro e d’avorio sulle spalle, arrancavano puntando i piedi per non cadere e nel frattempo una miriade di mani e braccia si slanciavano per poterla toccare, lasciando baci o lanciando corone di fiori.
            La disperazione era opprimente. La statua le sfilò davanti e Nora vide il viso liscio della dea, i capelli raccolti e le pieghe della tunica finemente lavorata. Non si sarebbe stupita se, da un momento all’altro, avrebbe preso vita.
            Più si avvicinava alle porte, più le grida si facevano forti e quando i soldati varcarono l’uscita, l’intera città proruppe in un lamento sofferente che le fece scoppiare la testa. Cercò di allontanarsi per seguire il corteo di Verre, ma le persone continuavano a spingerla e a strattonarla ogni volta che provava a fare anche solo un passo, in un chiaro tentativo di farla desistere.
            Mentre si guardava attorno, notò una ragazza dall’altra parte della strada, con una tunica arancione che le copriva a stento le cosce e i pugni stretti lungo i fianchi. A differenza delle persone che le circondavano la sua espressione era tesa, furente, piena di sdegno e rabbia che le si riversarono addosso non appena voltò la testa nella sua direzione.
            Gli dei non piangono mai. Ma per ogni secondo di attesa, per ogni respiro smorzato di quella ragazza, la folla si agitava e lamentava e strillava sempre più forte, dando voce all’ira della stessa Diana.
            Condivideva quell’ingiustizia. Il fastidio si era trasformato in qualcosa di più affilato, una sensazione che continuava a schiacciarle il petto e che non riusciva a definire bene. Diana le dedicò un’ultima occhiata, poi il sognò terminò e Nora si svegliò sudata, con le guance piene di lacrime e la maglia sporca di sangue.
 
 
 
Willow aveva visto molte cose terrificanti, e assistito a una quantità innumerevole di incidenti e ferite da quando aveva messo piede al Campo; non era di certo la prima volta che osservava sua sorella sanguinare.
            Eppure c’era qualcosa che l’aveva scossa quando Nora le aveva chiesto di accompagnarla in infermeria, sottovoce perché era pur sempre notte fonda e non voleva svegliare le altre ragazze. Era sconvolta, con un’irrequietezza negli occhi scuri che non accennava a sparire, le tremavano le mani, faceva fatica a parlare. Willow aveva osservato il sangue sulla maglietta e poi il profilo sottile di un segno sulla pelle mentre si spogliava e Massimo, il guaritore di turno, si era limitato a scuotere la testa.
            «Vado a chiamare Crystal.»
            «A quest’ora?»
            «Non è così grave.» Ribatté Nora, stringendo le dita sul bordo della brandina dove era seduta. «Possiamo aspettare domani mattina.»
            L’uomo inclinò leggermente il viso ma non aggiunse altro, sospirò e si infilò un paio di guanti in lattice monouso.
            «Fammi vedere.»
            La ferita, se così si poteva chiamare, era chiaramente gonfia, ma nulla di più. Assomigliava a un’incisione, il disegno non le ricordava nulla in particolare e ben presto iniziò a trovare snervante anche il solo continuare ad osservarlo. Tra l’altro, era troppo stanca anche solo per pensare lucidamente, e Nora dovette chiamarla due volte prima che se ne accorgesse.
            «Andresti a prendermi un’altra maglia?»
            Annuì e uscì senza dire nulla. La strada per tornare indietro le sembrò surreale e davvero troppo lunga, senza un motivo preciso e, ancora, le bruciavano gli occhi per la stanchezza in maniera indicibile. Prese dal cassetto di sua sorella un cambio completo, immaginando che alla fine Massimo l’avrebbe tenuta a dormire lì, e tornò sui propri passi.
            La cosa che più la stava destabilizzando era un’angoscia costante che sembrava aumentare da quando si era svegliata, come se stesse per accadere una tragedia. Non era propriamente un pensiero positivo, né improbabile a dirla tutta, ma Willow dubitava che svoltato l’angolo una calamità si abbattesse sul Campo.
            L’unica persona che incontrò fu un ragazzo che stava smontando dal proprio turno di guardia, e che riconobbe solo dopo essersi avvicinata abbastanza alle luci sotto i portici.
            «Ehi.»
            «Ehi.» Ekanta la guardò con un cipiglio perplesso, sicuramente domandandosi che cosa ci facesse in giro in piena notte con dei vestiti. Si stringeva due dita con una mano e del sangue gli sgocciolava sulla pelle da una ferita che non riusciva a vedere. «…Tutto bene?»
            «Sì. Sì, tutto a posto!» Willow annuì con più energia di quanto realmente servisse. « E tu…?»
            Il ragazzo abbassò lo sguardo sulle sue mani; e se non fosse stato per la poca luce avrebbe giurato di vederlo arrossire.
            «Ah, nulla.» Liquidò subito. «Abbiamo sistemato il filo spinato di fronte all’ingresso della galleria. È solo un graffio.»
            Si ritrovarono a guardarsi in silenzio per dei secondi lunghissimi. Non si conoscevano così bene, certo, ma non erano nemmeno dei perfetti sconosciuti, e Willow non riusciva a giustificare quell’imbarazzo che tutto a un tratto stava diventando sempre più pesante. Alla fine gli accennò un sorriso sperando di alleggerire un poco quella sensazione.
            «Io stavo andando in Infermeria, comunque. Mia sorella non si è sentita molto bene e… Sì, insomma, non so se volevi passare anche tu da Massimo…»
            «L’idea era quella. Sì.»
            Ekanta fece una smorfia, ma non sapeva se fosse per quello che aveva detto o per la ferita. Cominciarono a camminare e Willow pensò a quanto ironica fosse quella situazione: lei, che era figlia di Venere, stava davvero facendo un’impressione così misera davanti a un ragazzo. Se avesse potuto vederla, sicuramente sua madre le avrebbe riso in faccia, poco ma sicuro.
            Nonostante non fosse un’immagine così positiva, le servì per distrarsi per il resto della strada. Ekanta salì i gradini prima di lei, indugiò appena sulla soglia e con un cenno le fece segno di entrare per prima; un gesto tanto fuori luogo quanto gentile.
            Il lettino dove prima era seduta Nora era vuoto, con la maglietta sporca abbandonata sulle lenzuola. Willow si avvicinò poggiando il cambio pulito sul cuscino, e prese la maglietta viola piegandola con cura. Dalle voci che sentiva, immaginò che Massimo si trovasse nell’altra stanza. Sospirò appena.
            «Puoi avvertire Nora che le ho portato i vestiti? E che domani passerò prima dell’adunata mattutina. Se ha bisogno di qualcosa mi trova in camerata.»
            Avrebbe voluto rimanere ma, per esperienza, sapeva che Massimo l’avrebbe cacciata a prescindere, anche a costo di prenderla di peso per buttarla fuori. Non si faceva problemi, e Willow non aveva forze per impuntarsi e mettersi a discutere; Nora sarebbe stata bene anche senza di lei. E poi, aveva assolutamente bisogno di dormire qualche ora possibilmente su un materasso.
            «Va bene.» Disse Ekanta.
            «Grazie. Ci vediamo allora, buonanotte.»
            «’Notte.»
 
 
 
Crys osservò per un momento il riflesso della ragazza prima di parlare. La sua figura aleggiava impalpabile nell’aria e i suoi vestiti erano un caleidoscopio di colori; la giacca di pelle, il maglione infilato nei jeans, gli anfibi.
            «Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro, la situazione mi pare abbastanza chiara.»
            Ekanta tossì di risposta, ma non contestò a parole il suo commento. La ragazza del riflesso non ci fece caso e con una mano si spostò i capelli di lato, mentre sulla fronte le brillava il simbolo della profezia. «Dovremo indire un’altra riunione in Senato entro stasera, e avvertire i ragazzi del Campo Mezzosangue.»
            « Pas de problème! Possiamo farlo noi. E, anzi, vi confermo che l’altro punto dove abbiamo registrato un notevole incremento della magia è proprio lungo la costa di Long Island. Ormai i valori si sono abbassati, ma probabilmente altri simboli sono comparsi tra la giornata di ieri e stanotte.»
            Crys annuì e fissò lo sguardo per terra, pensierosa. Si stava rivelando l’ennesima mattinata stancante, ma in Olivia aveva trovato un aiuto inaspettato. In un primo momento era stata sospettosa, ma Terminius aveva dissolto velocemente qualsiasi sua incertezza con un cipiglio esasperato; per quanto lo potesse essere visto che era un busto di marmo. Poi era venuta a sapere delle due ragazze della Terza Coorte, e a quel punto si era limitata a chiamare anche Malcom nella sua tenda per parlare.
            «Beh, questo è un buon segno, no?» Disse Willow in tono incoraggiante, rompendo il silenzio. Era ancora un po’ pallida ma sembrava essersi ripresa; il marchio le era comparso nemmeno un’ora prima lasciandola stordita e in preda alla nausea in infermeria. Meglio così che durante una campale, decisamente.
            «Bien sûr!» Rispose Olivia. «È importante perché per ogni manifestazione c’è un rilascio non indifferente di energia, e ci rende in grado di individuare con esattezza il luogo ma anche quante persone sono convolte. Attualmente molti dei nostri maghi fanno fatica ad utilizzare gli incantesimi perché l’intero sistema non è stabile, ma i simboli sono come strappi di potere che perforano la Duat, ed è impossibile non notarli.» Spiegò. Crys non aveva chissà quale competenza in ambito magico, ma la spiegazione le era abbastanza chiara. Ekanta aveva sicuramente intuito di più dal modo in cui storse la bocca.
            «Quindi adesso cosa dobbiamo fare; aspettare che questi segni siano comparsi e radunarci tutti insieme da qualche parte o cosa? Trivia ha detto che non ci sarà nessuna profezia, perciò siamo bloccati.» Fece notare Nora.
            «Aspettate una profezia per muovervi, solitamente?»
            «Sì.» Troncò bruscamente Malcom, serrando le braccia al petto. Crys alzò gli occhi al cielo e sospirò.
            «Non è un costume poi così insolito, ma in questo momento possiamo orientarci anche senza.» Risposte Olivia, e il suo ologramma scintillò mentre cambiava posizione e accavallava le gambe. «Per farla breve: la magia che opera su questo piano non è una manifestazione dei poteri degli dei, ma uno strumento, un mezzo che nasce in un altro piano di esistenza, parallelo al nostro e solitamente inaccessibile. La fonte della magia sta, per motivi a noi sconosciuti, andando incontro a un rapido deperimento, causando instabilità nel nostro mondo. Per risolvere il problema dobbiamo raggiungere la fonte primigenia, altrimenti qualsiasi soluzione risulterà presto o tardi inefficace.»
            Crys annuì appena, facendole cenno di continuare.
            «Il piano di nascita della magia non è disabitato però: ci sono delle entità chiamate Archetipi che stanno cercando il modo di mettersi in contatto con il nostro piano, e questo simbolo è uno dei modi che hanno adottato. Non possono manifestarsi nel nostro mondo direttamente perché, probabilmente, hanno bisogno di un ospite, un po’ come i nostri dei egizi; la loro essenza è troppo potente per varcare così un altro piano. Immagino, ma sono solo supposizioni, che i simboli stiano ad indicare all’Archetipo quale corpo è potenzialmente il più adatto ad ospitarlo.»
            «CHE!?»
            Ekanta alzò la testa di scatto e nella foga di aggiungere altro si strozzò con la sua stessa saliva, iniziando a tossire fino a diventare paonazzo. Quando riprese finalmente fiato Crys si rilassò appena; un mancato soffocamento sarebbe stato proprio il colmo per quella mattina.
            «Scusate…!» Borbottò.
            «Come dicevo, è solo una supposizione, magari il legame riguarda i poteri, o caratteristiche e fattori per noi irrilevanti.» Riprese la ragazza. «Finora i picchi che abbiamo registrato sono solo in aree dove c’è la presenza di semidei o persone connesse con il mondo divino; ma nulla vieta di coinvolgere anche le persone normali, in teoria. Stiamo tenendo d’occhio l’intero pianeta, perciò è solo questione di tempo prima di avere una risposta anche a questo.»
            «Coinvolgere i mortali è sempre una pessima idea.» Disse Malcom. Per quanto fosse discutibile, Crys gli dava pienamente ragione. Sperò che quell’eventualità rimanesse nella lista delle possibilità e non si realizzasse in sua presenza.
            «Tornando a noi, come dicevo, la comparsa di un simbolo scatena una forte reazione magica, ma solo temporaneamente: più il tempo passa, più l’equilibrio tende a ristabilirsi; è una delle leggi del nostro piano di esistenza, ovviamente nei limiti che questa situazione ci impone. Ma, abbiamo notato che da un po’ di tempo a questa parte si stanno formando dei punti nevralgici, luoghi dove la magia si addensa particolarmente. Restano comunque meno potenti come manifestazioni, ma è come se fossero passaggi pronti ad aprirsi per connettere il nostro piano a quello degli Archetipi
            «E visto che noi dobbiamo raggiungere questi Archetipi, la cosa migliore è raggiungere questi portali.» Concluse.
            «Esattamente!» Olivia le sorrise raggiante e il suo viso tremolò ancora una volta. «Ancora non siamo riusciti a mapparli tutti perché sono tuttora in formazione; a questo punto immagino bisognerà aspettare che tutti i simboli siano comparsi, non più di qualche settimana. A quel punto sapremmo con precisione quante persone sono coinvolte, la loro posizione, e la posizione di questi punti d’interesse. La cosa migliore e agire in gruppi visitando il luogo più vicino.»
            «Sarà difficile rimanere aggiornati però. Noi semidei non possiamo utilizzare telefoni, né qualsiasi apparecchiatura elettronica, o attireremmo troppo l’attenzione dei mostri. Senza considerare che potremmo imbatterci tra di noi e non riconoscerci, e non sempre i messaggi Iride funzionano.»
            «Mia cara, è una preoccupazione più che legittima, ma lì dove il tuo mondo ti penalizza, quello di qualcun altro ti fornisce una soluzione.» Ribatté Olivia, sorridendo divertita a Willow. «I maghi egizi si trovano in ogni angolo del globo, divisi tra i vari Nomi, e attraverso i portali possiamo coprire grandi distanze in poco tempo. Ogni presidio ha ricevuto istruzioni per aiutare durante la missione, che sia il combattere che semplicemente avere un posto sicuro dove riposare, perciò su questo fronte puoi stare tranquilla. Inoltre, il simbolo che abbiamo continua ad avere una carica magica che passa tutt’altro che inosservata; per i maghi è come essere di fronte a una maledizione.»
            «Rassicurante.» Mormorò Ekanta. «Quindi quello che dobbiamo fare è aspettare.»
            «Per ora sì. Sfrutteremo questa attesa per prepararci al meglio.» Gli rispose, poi si rivolse ad Olivia. «Direi che è meglio terminare qui. Olivia, grazie.»          «È stato un piacere, Crystal. Sarà un onore lavorare con tutti voi. Au revoir et à bientôt
            L’ologramma si dissolse in un istante così come era comparso. Crys osservò per qualche secondo il ripiano della sua scrivania prima di voltarsi verso Malcom e i tre legionari.
            «Andate a fare colazione.» Gli concesse. «E se volete discutere tra di voi, liberissimi di farlo ma, vi chiedo, di non parlarne con nessun altro. Nel pomeriggio faremmo una riunione in Senato per dare un quadro generale della situazione, possibilmente dopo aver sentito il Campo Mezzosangue al riguardo. Ma quello che è stato detto qui, rimane qui.»
            «Con la sfortuna che ho qualcuno ci avrà origliato.» Commentò Ekanta, con l’intendo di alleggerire l’atmosfera ma fallendo miseramente. Le due figlie di Venere lo trascinarono di fuori quasi a forza e Crys si voltò finalmente verso Malcom, che non si era ancora mosso dalla sua posizione.
            «Non è andata così male. Anzi, per una volta abbiamo effettivamente delle informazioni su cui lavorare, piuttosto che versi criptici in rima.»
            Malcom non reagì alla sua battuta. Socchiuse gli occhi e tese ancora di più le spalle sotto gli spallacci dell’armatura che si era blandamente allacciato una volta svegliatosi.
            «Hai altro da dirmi? O posso andare anche io?»
            «Non hai bisogno del mio congedo per andare, se vuoi.» Rispose con un mezzo sorriso.
            «Crystal.»
            «Non c’è nulla che non va, Malcom. Ti ho detto tutto quello che avevo bisogno di dirti.»
            Lo sentì serrare le nocche, avviandosi verso l’uscita con passo pesante.
            «Non sarò un buon Pretore.» Iniziò, bloccandosi sulla soglia, con la voce che gli tremava appena. «Ma non sono stupido.»
            Crys lo osservò stupita andare via, e una sgradevole sensazione cominciò a stringerle lo stomaco. Il marchio sul suo braccio, che aveva nascosto sotto la maglietta, sembrò tornare a bruciare.

 
 
 
ANGOLO AUTRICE
 
Allora! Eccoci di nuovo qui, chi non muore si rivede!
           Questo aggiornamento arriva con un ritardo madornale, vi dico solo che avevo iniziato a scriverlo a DICEMBRE; testimoni le mie tre veline dell'Apocalisse, ma poi è arrivata la sessione invernale, il covid, io che rimango bloccata in appartamento senza le mie coinquiline e non vi dico la solitudine che sto soffrendo sigghete. comunque, dopo mesi in cui sono rimasta bloccata sul paragrafo di Willow e quella benedetta infermeria, finalmente ieri a caso sono riuscita a finire tutto.
UN PARTO SIGNORI, UN PARTO.
Sono abbastanza soddisfatta però. Sì, lo so che questi capitoli si somigliano un po' tutti e mi spiace, ma spero che la spiegazione di Olivia sia stata sufficientemente esaustiva e abbia chiarito i dubbi che alcuni si sono, giustamente, posti durante il quinto capitolo. Mancano ancora tre parti e poi sto benedetto capitolo VI finisce, giuro, il VII sarà simile e poi tutto scorrerà più veloce, è una promessa.
Un bacione e grazie per tutte le recensioni e le visualizzazioni di questi mesi, sono una gioia per me!
A presto, e buona quarantena dai!
Itzi

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Capitolo 9
*** THE LOVERS - |Parte quarta| ***


VI
THE LOVERS
Parte Quarta
 
 
Dopo quasi una settimana, aveva finalmente smesso di piovere. Non ci aveva badato molto appena sveglia visto che era corsa negli appartamenti di Taewook- san, ma il cielo era tornato ad essere di un’unica sfumatura piatta di grigio che si intravedeva dalla finestra.
            «Spogliati.»
            Ayano trattenne il fiato e si impose un minimo di compostezza per non alzarsi e correre via da lì. Lo speziale assottigliò appena gli occhi continuando ad osservarla senza mostrare la minima espressione. Aveva capelli biondi arricciati sotto una bandana viola, del trucco rosso sulle palpebre e orecchie allungate verso l’alto.
            «Per vedere meglio il segno.» Rimarcò, nel caso avesse frainteso le sue intenzioni. Ovviamente Ayano sapeva che era lì per quello, ma l’implicazione nelle sue parole la fece lo stesso avvampare. Kayo, l’assistente dello speziale, gli tirò uno scappellotto sul retro della nuca.
            «Ma ti pare che glielo puoi chiedere così? Almeno girati!»
            Il ragazzo la guardò con la perplessità dipinta sul viso, e Kayo premette le mani sulle ginocchia coperte dal suo kimono giallo.
            «Perché?»
            «Perché magari si vergogna!»
            «Oh!»
            Ayano scosse la testa. «Non c’è problema, davvero!» Disse, e prese ad allentare con le dita l’obi del kimono. Fece scivolare le spalline della veste sfilandosela dalle braccia e, una volta rimasta in maglietta, si adoperò per toglierla senza dover per forza slacciare la cintura e buttare al vento i dieci minuti che Tsukki ci aveva messo per allacciargliela al meglio.
            Il marchio, segno, o qualsiasi cosa fosse, le copriva l’intera clavicola, impresso sulla pelle come un tatuaggio. Oltre ad essere troppo grande, la metteva a disagio e non capiva come potesse essere comparso: la sera prima si era limitata ad andare a dormire senza che nulla di strano succedesse.
            «Si è gonfiato…» Borbottò Kayo. Lo speziale allungò le dita e cominciò a tastarle la pelle con delicatezza, senza però migliorare la situazione. Alzò lo sguardo, osservando Tsukki che, in piedi accanto all’uscio della porta, muoveva a scatti le orecchie palesando tutto il suo nervosismo. Taewook-san era seduto in ginocchio al tavolino dove avevano servito il thè.
            Lo speziale rimase chinato su di lei abbastanza da farla arrossire. A un certo punto, nemmeno Tsukki fu più di distrazione, e si ritrovò a sobbalzare con le guance calde all’ennesimo tocco. L’uomo assottigliò gli occhi e dopo un momento ritrasse le dita.
            «Allora?»
            «Non ho idea di cosa sia.»
            Ayano vide il volto di Taewook–san contrarsi in un principio di fastidio.
            «Nessun odore strano, né energia propriamente malvagia. Sembra solo un tatuaggio; sicuro che la ragazza non sia scappata in qualche sottoscala illegale in preda agli ormoni?»
            «Certo che no! Non sono così… Così…!» Strepitò, con il viso paonazzo, non riuscendo nemmeno a terminare la fase.
            Abbassò la testa e riprese a vestirsi tenendo lo sguardo incollato sulla stoffa del suo kimono; Teawook–san si limitò ad alzare un sopracciglio prima di rivolgersi di nuovo allo speziale.
            «Sei sicuro non ci sia altro?»
            «No. Non ho mai visto nulla di simile, ma non sembra opera di un mononoke. E, perdonami, se lo fosse stato, lo avresti avvertito. Sono ancora convinto che tu mi abbia chiamato solo per confermare i tuoi sospetti.»
            «Cambierebbe qualcosa? Sei sempre in giro, almeno ti rendi utile, visto che nessuno compra più i tuoi intrugli.»
            Lo speziale sospirò mormorando qualcosa su come fosse scomodo camminare con i geta sulle metropolitane per attirare l’attenzione, poi le dedicò un’ultima occhiata, quasi di sfuggita.
            «Portala al tempio.» 
            «Oh, posso farlo anche io, se siete troppo impegnati.» Disse Kayo, sorridendole. La ragazza era l’unica che si sforzava di non darle le spalle e parlare come se non fosse stata presente, una premura che apprezzava molto e che almeno un po’ attenuava l’imbarazzo.
            «Non serve. L’accompagnerò in città, tu e Kusuriuri potete rimanere coi ragazzi.»
            Dal fondo della sala, Tsukki si irrigidì appena. Aveva la coda attorcigliata tra le gambe e tra i ricci spuntavano appena la punta delle orecchie; i suoi occhi erano più brillanti e ferini del solito. Non aveva detto nulla dall’arrivo dei due nuovi ospiti, e non si era sbilanciata in nessun modo com’era solita fare, e questo aveva lasciato Ayano stranita. Sembrava quasi fosse intimorita e, se nei riguardi dello speziale poteva comprenderla, le pareva strano fosse schiva anche con la gentilezza di Kayo.
            Le fece un cenno col capo, ma la ragazzina voltò la testa e i capelli le nascosero il viso.
 
 
 
I templi del complesso di Ise venivano abbattuti con cadenza ventennale, per poi essere ricostruiti e consacrati prima del solstizio d’inverno. Quell’anno, i lavori si erano protratti per mesi e, nonostante alcune strutture non fossero finite, l’afflusso di persone e turisti era rimasto costante, preannunciando un aumento in vista delle festività.
            Aveva già avuto l’occasione di visitare il santuario più volte, ma farlo con Taewook-san accanto le sembrava diverso, e non era sicura se fosse un bene o no. Da quando avevano lasciato il Campo si erano rivolti a malapena la parola, e Ayano aveva provato a distrarsi senza successo: a quanto pare, ritornare in città dopo mesi non le aveva dato il conforto sperato.
            Passarono un lungo ponte che dava sul letto di un fiume in secca. Più in basso, un gruppo di monaci e inservienti era intendo a strofinare delle pietre basse e piatte, in un lavoro di manutenzione che non le sembrava particolarmente efficace ma che era indice di un’altra peculiarità di Ise, ossia la presenza massiccia di sacerdoti e sacerdotesse che viveva nel villaggio centrale, chiuso al pubblico. L’unica cosa che si riusciva a scorgere erano i tetti dei templi e, neanche a dirlo, quella era proprio la direzione che avevano intrapreso.
            Per un momento, Ayano fu sul punto di chiedere a Taewook-san come, di grazia, sarebbero riusciti ad entrare, ma la sua domanda non vide mai la luce. La kitsune le premette una mano sulla spalla e la spinse in avanti, incoraggiandola a continuare. Gli sguardi delle poche persone lì presenti le scivolarono addosso, e nessuno le disse nulla, come se fosse stata invisibile.
            Più andavano avanti e più folti si facevano gli alberi; i santuari sembravano incastrati tra tronchi di piante secolari e staccionate scure dalle assi sottili. Indugiarono di fronte a un portico in legno, finché una ragazza non uscì dalla porta principale brandendo una scopa di saggina. Era molto alta, e le si intravedevano le caviglie oltre l’orlo dell’ hakama rossa che indossava; i capelli scuri erano raccolti in una coda alta con un nastro del medesimo colore.
            La miko iniziò a spazzare l’entrata del tempio con gesti secchi, nonostante non ci fossero foglie secche per terra. C’era qualcosa che la metteva a disagio a guardarla, qualcosa che le faceva pesare il petto come se un macigno le avesse fratturato la gabbia toracica. Trattenne il fiato, e Taewook-san  le strinse appena le dita sulla spalla, intimandole di rimanere ferma al suo posto.
            Non successe nulla. Rimasero ad osservare la ragazza a lungo, ma lei non diede nessun cenno di essersi accorta della loro presenza. Continuava a spazzare, impugnando la scopa con la stessa tenacia con cui avrebbe brandito una katana. Quando parlò, Ayano sobbalzò per la sorpresa.
            «Stai perdendo tempo, Taewook. Non dovresti essere qui.» La sua voce era tagliente come il filo di una lama. Taewook-san non si scompose, ma inclinò la testa in un inchino, anche se la miko continuava a tenere gli occhi fissi per terra e l’invisibile sporco.
            «Ōhirume-no-muchi-no-kami». Disse. Ayano sgranò gli occhi sconvolta dalla rivelazione, e si apprestò a chinarsi con veemenza in direzione della dea. Sperò di non averla offesa o di essere scambiata per un’irriverente per quella mancanza. Amaterasu continuò ad ignorarli. 
            «Onorati. Immagino sappia già perché siamo qui?»
            «Sì. E non c’è nulla da dire. Fa’ quello che devi fare e basta, il resto non mi interessa.»
            Ayano strinse le labbra a disagio, sicuramente non era la risposta che si era aspettata e per un attimo si ritrovò stranita dal tono tanto seccato. Taewook-san socchiuse gli occhi fino a farli diventare due fessure e inarcò appena la bocca in un sorriso.
            «Capisco.»
            Fece un ultimo inchino, e poi riprese a camminare seguendo il sentiero che si snodava attraverso i templi. Ayano si trovò costretta a seguirlo.
 
 
 
Tsukki si lasciò alle spalle il calore e il chiacchiericcio della sala per uscire di fuori. L’aria gelida del pomeriggio le si schiaffò in faccia e per un momento meditò di tornare in salone e ricongiungersi con la sua tazza di thè al gelsomino. Non importava che, tecnicamente parlando, essendo una mezza volpe avrebbe potuto trasformarsi e godere il calore della sua stessa pelliccia.
            Il Campo era tornato silenzioso come sempre. Si diresse verso il piccolo santuario addossato alla parete rocciosa, e si bloccò a pochi passi dall’ingresso e dai gradini in pietra liscia: seduto a gambe incrociate, scorse la figura di Ravi.
            La pioggia lo aveva trattenuto per tutta la settimana, e in quei giorni si era abituata ad averlo attorno. Era di poche parole e la sua compostezza l’affascinava, insieme ai suoi modi, anche se era evidente a tutti che avesse poco a che fare con kami e affini. Si schiarì la voce, prima di parlare.
            «Ravi-san?»
            Il ragazzo rimase seduto dandole la schiena, le spalle rilassate. Era immerso in quella che sembrava una preghiera, ma anche facendo attenzione, non era in grado di distinguere le parole che stava mormorando, un po’ per la lingua, un po’ perché si accavallavano tutte tra di loro, sussurrate e masticate tra le labbra. Decise di aspettare un poco prima di provare a richiamarlo.
            «Ravi-san.» Disse, e questa volta il ragazzo si girò appena verso di lei piegando il viso sulla spalla.  «Il thè è pronto.»
            Ravi rivolse un ultimo cenno verso l’altarino del tempio e si alzò sistemandosi le pieghe della casacca bianca che aveva addosso.
            «Grazie. Sei molto gentile a chiamarmi ogni volta.» Le sorrise e Tsukki rispose allo stesso modo un po’ impacciata. Iniziarono a tornare indietro.
            Se la sua prima impressione di Ravi si era fermata al fatto che non sembrasse solamente umano, in quei giorni non era riuscita a confermare né smentire tale idea. Il suo odore era normale, forse più deciso rispetto a quello degli umani a cui era abituata; la sua presenza non tradiva nessuna origine divina, eppure avvertiva che qualcosa nel profondo fosse diverso. Solo che non riusciva a figurarsi esattamente cosa fosse, e questo oltre a portarla a una distrazione continua, era diventato un suo chiodo fisso; voleva sapere, e quella era probabilmente l’ultima occasione utile per farlo.
            «Preghi spesso Ravi-san? Sei un credente?» Gli chiese, alzando lo sguardo dalla stradina che stavano percorrendo per guardarlo in viso.
            «Sì. Le mie preghiere sono rivolte alla mia famiglia e alla mia casa: auguro per la loro felicità e la buona salute.»
            «Oh!» Esclamò, a un certo punto ancora più interessata alla conversazione e alla piega che stava prendendo. «Hai una famiglia numerosa?»
            «Non particolarmente. Ma siamo tutti molto uniti tra noi.»
            «Che bellezza Ravi-san! A me sarebbe piaciuto avere qualche fratello, o sorella al di fuori delle altre kitsuni.» Rispose, allacciando le mani dietro la schiena. «Se hai una famiglia così allora sei un umano anche tu? Io non riesco proprio a capirlo.»
            Ravi le dedicò una lunga occhiata, pensando alla risposta da darle. Apprezzava che non avesse semplicemente liquidato il suo interesse con il silenzio.
            «Non proprio… Direi di più che sono a forma di umano.»
            Tsukki annuì. Aveva intuito quello che intendeva, nonostante il significato preciso di quella affermazione continuava a sfuggirle. Era qualcosa di diverso dall’ essere un ibrido a metà tra realtà differenti come lo era lei; e comunque in qualche modo era anche simile. Sentiva che la risposta a un quesito come quello non sarebbe stata facile, né scontata.
            «Il dio che preghi ti ascolta?» Chiese ancora. 
            «La mia devozione, le mie parole e le mie intenzioni parlano già per me. Quello che faccio o desidero viene sempre conosciuto.»
            Arrivarono di fronte alla porta del ryokan; Tsukki si sfilò le scarpe ed aprì la porta, entrando per prima al cenno di Ravi. L’ingresso era costellato di calzature di ogni tipo: scarpe da ginnastica, scarponi imbottiti, stivali, sandali e poi geta dai tacchi alti almeno trenta centimetri e con la suola di legno duro. Le aggirò in punta di piedi, facendo attenzione a non calpestarle e si diresse verso il salone del piano terra.
            Era abituata a tutto quel frastuono durante l’estate, quando il Campo si riempiva e animava, ma in inverno… Beh, era estraniante. Tra la miriade di persone che erano arrivate nell’arco della mattina c’erano alcune che già conosceva. Ragazzini mezzosangue, adolescenti, liceali che tra un compito di giapponese e un festival scolastico esorcizzavano demoni, e che passavano l’estate lì. Altri invece non sapeva nemmeno chi fossero, l’alternanza di creature, yokai e sacerdoti dei più disparati clan la lasciava senza parole. Si chiese se, una volta aver vissuto tanto quanto Taewook, anche lei avrebbe potuto contare così tante conoscenze.
            Ayano le fece un segno dall’altra parte della stanza, indicandole il posto accanto a lei. Sembrava abbastanza stanca dal viaggio della mattina e Tsukki non vedeva l’ora di chiederle qualche dettaglio in più, ma con tutto quel trambusto non ne aveva ancora avuto l’occasione. Si sedette accanto all’amica, Ayano socchiuse gli occhi per sorseggiare il suo thè.
            «Ti fa ancora male il segno?»
            «No, non più. Kusuriuri-san l’ha medicato, prima, ma onestamente non so con quale intruglio… Puzzava un sacco!» Le bisbigliò, chinandosi verso di lei con fare cospiratorio. Lo speziale era seduto al tavolino basso di fronte a loro, intento a giocare a go con Taewook.
            La partita stava attirando una discreta attenzione; Tsukki si sporse per riuscire a vedere la tavola da gioco e cercare di capire chi fosse in vantaggio, anche se con scarso successo. Scorse solo la manciata di pedine bianche di Taewook coprire un angolo e basta.
            «Hai notato che…»  Ricominciò Ayano, coprendosi la bocca con una mano e socchiudendo gli occhi. «Ogni volta che gioca a go, Taewook-san vince sempre. È davvero molto fortunato
            Il modo in cui glielo disse implicava altro, e si ritrovarono a sghignazzare mentre lo osservavano.
            «Non credo ci sia qualcuno che bari più di Taewook.» Disse poi. «Ma anche Kusuriuri-san non sembra da meno.»
            Lo speziale fumò pigramente dalla sua kiseru, guardando la disposizione delle pedine da gioco. Allungò le dita e ne posizionò una verso il centro della tavola, una mossa che scatenò il chiacchiericcio degli spettatori vicini. Kayo, la sua assistente, incrociò le braccia e si avvicinò per dirgli qualcosa, facendolo sorridere.
            «Certo che, mettere due kitsuni allo stesso tavolo da gioco…»
            Seguirono con interesse la partita finchè, dopo una diatriba sul conteggio finale dei punti, fu dichiarato il pareggio. Taewook si passò una mano tra i capelli e si alzò, lasciando il proprio posto a chiunque fosse stato interessato a giocare. Lo videro dirigersi verso Ravi, e poi uscire insieme a quest’ultimo dalla stanza.
            «Vuoi andare ad origliare?» Le chiese Ayano, notando il suo interesse. Sarebbe stata una cosa divertente da fare, e che magari avrebbe placato un minimo la sua curiosità, nonostante la possibilità di finire in guai seri. Ma decise che no, almeno per quella volta, avrebbe passato. Forse non ne valeva così tanto la pena.
            Kusuriuri-san la distrasse abbastanza da abbandonare quei pensieri: le fece un cenno verso di lui e il tavolo da gioco. La tavola era stata pulita, pronta per una nuova partita.
            Si alzò ridendo e trascinò con lei anche Ayano.
            «Perché devo venire anche io?» 
            «Perché io non so giocare bene, mi serve una mano! Dai!»
            Non era mai stata brava nei giochi da tavolo, in verità le piaceva più osservare che cimentarsi in prima persona, ma non poteva certo rifiutare quell’invito. Ayano si sedette accanto a lei e lo speziale sorride appena. Era difficile da notare, visto che il trucco sulla bocca mascherava un po’ la cosa.
            «Non si può giocare in più di due.» Soffiò, prendendo un’altra boccata dalla pipa.
            «Yan-chan mi fa da supporto!» Esclamò. Ayano socchiuse gli occhi.
            «Qual è il premio se vinciamo?»
            «A parte la consapevolezza di saper muovere bene delle pedine? Nulla.» Rispose pragmatico.
            «Beh, noi vogliamo un premio.» Disse Ayano, puntando un dito verso lo zaino di legno poggiato contro un angolo del muro. Era una cassa a diversi scomparti, con un occhio dipinto sulle assi e due spallacci di corda abbastanza robusti a fare da spalline. «Se vinciamo possiamo guardare dentro alla sua borsa?»
            Lo speziale inarcò appena le sopracciglia, ma alla fine acconsentì con un cenno del capo.
            «Non c’è nulla di interessante.» Disse solo. 
            Tsukki strinse la bocca per non ridere, perché era palese a tutti il contrario. Qualsiasi oggetto ci fosse all’interno di quello zaino, emanava un’energia così forte da impestare l’intera stanza, e capiva perché Ayano fosse così curiosa al riguardo. Ora anche lei voleva sapere di che cosa si trattava.
            «Che pedine scegliete?»
            «Bianche.»
            Kusuriuri-san allungò loro il sacchetto corrispondente. Le sorse il dubbio che forse non sarebbe stato poi così facile vincere, ma Ayano sembrava estremamente determinata a portare a termine quel personale obbiettivo, perciò decise di fidarsi.
            
 
 
Taewook gli fece abbassare la testa, mentre passava le mani tra i suoi ricci. Gli scostò alcune ciocche e lo sentì premere contro la sua pelle; socchiuse gli occhi per il fastidio.
            «Uhm, si, lo vedo. È proprio uguale.» Disse, continuando a controllare. «Ha fatto male anche a te? Credo sia un po’ gonfio, ma non ne sono sicuro. Dovrei tagliarti i capelli per poterlo dire con certezza.»
            Gli spinse la testa ancora più in basso, e Ravi si ritrovò con il mento premuto contro lo sterno.
            «Taglia, se devi.»
            La kitsune sgranò appena gli occhi divertita, anche se non poteva vederla. La sentì armeggiare con il cassetto della specchiera e vide il lampo lucido di un paio di forbici, poi il rumore secco dei suoi ricci tagliati e che gli scivolavano sulle spalle, sulla schiena.
            «Certo che sono lunghi!» Commentò Taewook, tirandogli indietro la frangia per accorciarla. «Non ricordavo avessi così tanti capelli in testa nemmeno da bambino.»
            Scosse appena le spalle. Onestamente non si curava troppo della cosa, le uniche volte che aveva prestato attenzione al suo taglio di capelli era quando le ciocche cominciavano a diventare fastidiose e a ricadergli di fronte agli occhi. Non si ricordava nemmeno come apparisse da ragazzino, ma Taewook aveva sicuramente una memoria migliore della sua e, tra l’altro, avrebbe scommesso sul fatto che lo considerasse ancora un moccioso urlante incapace di allacciarsi le scarpe senza il suo aiuto.
            «Come è andata la mattinata?» Chiese. Taewook gli passò le forbici vicino alle orecchie, continuando a tagliare. «Il Campo si è riempito tutto all’improvviso con ragazzi provenienti dall’intero Giappone, ma immagino che il tuo invito fosse più esteso.»
            «Odio tutto questo casino! Per cosa poi? È stato solo un inconcludente assembramento di gente che, francamente, avrei preferito anche non vedere per il prossimo decennio. Per quanto riguarda la storia del marchio, né più né meno di quello che già sapevamo: nessuno a parte te e Ayano-chan sembra averlo, e gli dei non si sono sbilanciati per niente.» Si lamentò, spazzolandogli le spalle e riponendo le forbici sul ripiano del mobile. Dal cassetto, tirò fuori un rasoio con il manico in osso intarsiato, sfoderò la lama e cominciò a passarla alla base della nuca con movimenti precisi. «Prova a pregare Yama, magari sei più fortunato e avrai le risposte che cerchi senza aspettare sogni premonitori o catastrofi naturali!» Lo schernì. Lui non risposte e così la conversazione cadde.
            Rivolgersi a Yama era stato il suo primo pensiero in realtà. Una volta accortosi del marchio, tra il sangue e il dolore era stata quella l’unica idea da mettere in pratica. Ma le sue preghiere erano state accolte solo dal vento e dal cielo color metallo; Yama era rimasto in silenzio e per un momento lunghissimo Ravi si era sentito spaesato. Perso. Come un bambino che si volta e non trova più il viso famigliare della madre ad aspettarlo.
            C’erano tante domande che erano maturate nel corso di quei giorni, prima ancora di arrivare da Taewook, ma si era arreso all’evidenza che nessuno, per il momento, potesse davvero rispondergli. Non avere la certezza di che cosa stesse accadendo era estraniante. Anche il fatto che fosse lì, a gambe incrociate su un tatami di fronte a una vecchia toeletta appartenuta a chissà quale nobildonna giapponese era qualcosa di alienante.
            Alzò lo sguardo e si soffermò sul suo riflesso: Taewook gli aveva rasato davvero tutta la testa, lasciandolo scoperto e quasi vulnerabile. Aveva l’impressione che le sue orecchie sporgessero più del necessario, e che la sua fronte fosse esageratamente lunga. Assomigliava in tutto e per tutto ad un monaco, e non sapeva come approcciarsi a quel cambiamento così drastico e repentino che lo stava lasciando tutt’altro che indifferente.
            «Oh, sanguina!» Borbottò Taewook, riferendosi al marchio dietro la sua nuca, proprio sopra il collo. Sentì il sangue colargli sulla pelle, lento e denso.
            «Non è proprio una ferita, credo sia più una reazione involontaria. Hai la pelle gonfia, rimarrà in questo stato almeno per un paio di giorni.» Gli disse, premendoci le dita sopra. Il freddo gli pizzicò la testa e ben presto anche il dolore sordo che provava si attenuò abbastanza da diventare sopportabile. Taewook lo osservò dallo specchio, assottigliando gli occhi e storcendo le labbra in un sorrisetto divertito. «Non stai poi così male.» Sentenziò alla fine.
            Ravi si alzò, scuotendo via dai vestiti quello che rimaneva dei suoi capelli. Il pavimento era pieno di ciocche scure e arricciate, ma a Taewook sembrava non importare. Probabilmente avrebbe chiamato qualcuna delle ragazze di sotto dandole il compito di ripulire quel disastro.
            «Rimani per cena? O riparti già questa sera?» Chiese la kitsune, infossando le mani nelle maniche larghe del kimono. Per un momento, l’idea di fermarsi ancora una notte indugiò nella sua mente: la sua stanza era sempre la stessa, con i pannelli dipinti e i fogli delle preghiere appiccicate alle travi di legno delle pareti, nell’esatto ordine in cui le aveva affisse da ragazzino. 
            Scosse la testa. «Devo andare. Mi sono fermato abbastanza.»
            Taewook non risposte ma sul suo viso gli si formò un’espressione ben più eloquente. La stessa che gli rivolgeva da bambino, quando si ostinava a cercare di afferrare una delle sue code come se fossero i giocattoli più interessanti. Un misto di curiosità ed evidente insofferenza.
            «Beh, fai come ti pare. Buon viaggio, suppongo!»
            Sorrise, e la sua bocca si incurvò con malizia verso l’alto.
 
 
 
La borsa dello speziale non conteneva davvero nessun oggetto particolare, escludendo le scatole piene di farmaci e unguenti. Ayano aveva aperto il vano più grande, scoprendo una custodia di velluto e il manico pesante di una katana: era ricoperto di sigilli ma si riusciva a intravedere l’estremità dell’elsa a forma di testa, insieme agli smeraldi incastonati tra i rilievi delle decorazioni. Era sicuramente un’arma stregata per fare a pezzi i mononoke, ma la cosa non la stupì considerando la natura dello speziale. L’aveva riposta con cura e aveva continuato a frugare tra le altre cianfrusaglie.
            «Oh, questo è il mio vecchio fermaglio!» Esclamò Kayo a una certa, indicando il portagioie di legno che avevano riesumato tra bilancini dalle forme strane e sacchetti di spezie. «Da giovane lo indossavo sempre! Lo avevo anche quando ho conosciuto Kusuriuri-san!»
            Le fece cenno di aprirlo. Al suo interno c’era un semplice kanzashi; la spilla era lucida e ricavata probabilmente dal guscio di una tartaruga, all’estremità un sottile filo di ferro teneva agganciati dei fiori di pesco di ceramica e metallo.
            «Oooh, è così carino!» Esclamò Tsukki estasiata, facendo scattare le orecchie. Lo tirarono fuori dalla custodia e iniziarono a rigirarselo tra le dita.
            «Vuoi provarlo? Vieni, ti mostro come si fa.»
            Kayo le si sistemò dietro le spalle e iniziò a raccoglierle i capelli, facendo attenzione a non tirarglieli. Infilò il fermaglio in mezzo alle ciocche e torse con un movimento sicuro, bloccando la coda in modo che rimanesse al suo posto.
            «Ecco fatto!» Cinguettò la ragazza, e Tsukki le si avvicinò per guardare meglio. 
            «È davvero bellissimo!»
            «Puoi tenerlo se vuoi, sai? Ormai non lo indosso più, e poi ti sta così bene! Ti porterà fortuna!»
            Kayo le sistemò la coda su una spalla ridendo, e Ayano strinse appena le dita sulla custodia del fermaglio.
 
            Nel buio della notte, i suoi pensieri sono più rumorosi di quello che pensa. Tsukki si girò su un fianco, guardandola con i suoi occhi ferini, così vicina che le loro gambe si toccavano sotto le coperte.
            «Se devi andare voglio venire con te.» Le disse; una confessione maturata durante tutta la giornata e che solo in quel momento trovava voce. Non rispose.
            Tsukki allungò la mano e gliela poggiò vicino al cuore, nel punto in cui il marchio si allargava sul suo corpo. Anche attraverso il tessuto della sua maglia, riusciva a sentire le dita indugiare lungo le linee, come se fossero appoggiate direttamente sulla sua pelle.
            «Hai paura?»
            «Non lo so.»
            Ed era vero. Non c’era una certezza che potesse definire tale, e aveva questa impressione terrificante di non riconoscere nemmeno il terreno dove camminava, come se neanche il suo corpo le appartenesse. Trasse un respiro un po’ tremante e Tsukki si spinse in avanti verso di lei, finché le loro fronti non si toccarono.
            All’improvviso ebbe paura di quella vicinanza. Lo stomaco le si strinse in una morsa, lasciandola stranita e con la voglia di allontanarsi almeno un po’. Non lo fece però, si limitò a sistemare la testa sul cuscino, e Tsukki lasciò scivolare via la mano. Pensò volesse dirle altro, di solito lo faceva finché non era così stanca da addormentarsi a metà frase. Ma non le disse nulla e si limitò a sorriderle.
 
 
 
Probabilmente non avrebbe potuto essere più bagnato. Samuel abbassò lo sguardo solo per constatare che sì, non solo i suoi vestiti erano fradici, ma l’umidità gli aveva impregnato pure le ossa. Sentiva il freddo risalirgli all’interno del corpo, e a poco servì concentrarsi sulla propria magia, il calore che stava cercando di scatenare si arrese inerme a quella sensazione. Sospirò.
            «Lo trovi divertente, vero?»
            Scout scosse il capo, ma il suo uggiolare assomigliava fin troppo a una risata. Si sistemò con le zampe l’enorme zaino che si portava appresso e gli fece cenno di seguirlo. Alle sue spalle, oltre alla spiaggia dove erano approdati, si estendeva una giungla di palme azzurre, così fitta che non si riusciva a scorgerne la fine. Un sentiero tracciato da grandi lastre di pietra si inoltrava nella vegetazione, e appesa ci passò sopra con i piedi scalzi, si accorse che erano calde, come se fossero state esposte sotto il sole cocente per una giornata intera.
            Scout si voltò a guardarlo spazientito, vedendolo camminare fin troppo lentamente.  
            «Ho freddo.» Si giustificò, passandosi le mani tra i capelli zuppi. Li strizzò, e l’acqua evaporò al contatto con la pietra. «Mi capiresti se anche tu avessi la pelliccia bagnata dalla punta delle zampe alle orecchie!»
Scout socchiuse gli occhi scuri e tornò indietro, saltellando sui lastroni. A quanto pare, la generale instabilità della magia non lo aveva colpito e, a differenza sua, era riemerso dal mare più asciutto che mai. O, forse, era semplicemente più abile di lui, cosa che non l’avrebbe dovuto sorprendere nemmeno più di tanto.
            Gli porse una zampa e Samuel gliela strinse, finendo per essere trascinato senza nessuna remora lungo il percorso. Le palme erano enormi, con tronchi grossi quanto colonne e foglie larghe come i tetti di una casa: non sembravano avere frutti, ma sfoggiavano colori intensi e di sfumature che continuavano a cambiare sotto i suoi occhi. Celeste, azzurro, blu. Più avanzavano e più le piante si avvicinavano tra loro, la sabbia aveva ceduto il posto a dell’erba cortissima dai riflessi bluastri, quasi nera.
            Al centro della giungla c’era una radura. Sembrava emergere dal nulla, e lo stacco così netto lo si notava anche nel terreno. La strada si interruppe bruscamente e Scout lo strattonò verso l’edificio che si ergeva al centro.
            Avrebbe potuto essere un tempio, anche se probabilmente non era il modo migliore per descriverlo. Delle colonne intarsiate seguivano una circonferenza, ma si interrompevano su un lato, lasciando posto a degli architravi di bronzo fuso. Il riverbero del sole li rendeva accecanti, e si slanciavano verso l’alto, curvandosi e assottigliandosi come se fossero getti d’acqua; delle gradinate a più piani erano incastrate ai loro piedi e in cima, su un supporto di metallo, c’era un globo. Da quella distanza non si riusciva bene a vederne i disegni, ma Samuel sapeva esserci rappresentate stelle e costellazioni.
            «Non c’è nessuno.» Disse, mentre Scout avanzava nel padiglione, alzando le orecchie in ascolto. «Forse siamo venuti troppo presto. Non è ancora sera.»
            Si sedette ai piedi di una colonna, e osservò Scout continuare ad aggirarsi per la struttura. La giungla rimase comunque silenziosa fino alla fine, non lasciando tradire la presenza di nessuno. Scout tornò da lui, e gli indicò la base della prima gradinata.
            «Sì, anche la bussola è rimasta intatta.» Disse. Incavata nella pietra, i suoi raggi si allungavano morbidamente verso i punti cardinali; tre cerchi e un rombo. Si era attivata da un paio di giorni, e da allora non aveva smesso di brillare nemmeno per un istante. Al momento, la luce era ridotta a un flebile alone, ma di sera era abbastanza forte da illuminare tutta la struttura.
            «Direi che abbiamo finito il nostro giro per oggi, abbiamo controllato quasi tutti i Regni e non sembra esserci nulla di nuovo.»
            Scout alzò il muso al cielo, in una direzione ben precisa. Gli ci volle del tempo per riuscire a mettere a fuoco, ma alla fine anche lui vide le sagome evanescenti delle altre bussole. Tra la distanza e il colore abbacinante del cielo faceva fatica a distinguerle.
            «Ne sono comparse altre due!» Esclamò entusiasta, e Scout annuì scuotendo il muso e facendo scivolare il cappuccio che teneva in testa sulle spalle. «Che Regni sono? Quello sembra l’Eremita e poi… Il Papa?»
            Scout annuì ancora e senza aspettarlo si mise a correre di nuovo verso le palme. Samuel lo seguì, lo vide evocare un passaggio da una pozzanghera ai piedi di un tronco, e senza indugio vi si tuffò dentro. L’acqua ingoiò la sua figura e rimase completamente immobile, senza incresparsi. 
 



ANGOLO AUTRICE

Ehehehehe. Allora, premetto che sono molto soddisfatta di non aver fatto passare DAVVERO un anno intero prima di aggiornare di nuovo. Onestamente non so nemmeno cosa dire, immagino che la mia totale sparizione per, cosa, tipo 10 mesi? vi abbia solamente fatto mettere il cuore in pace e relegare arcana nel grande gruppo delle fic interattive abbandonate.
BEH. Non vi biasimo onestamente, però sapete, nonostante in quasi tre anni siamo ancora qui, all'inizio, io sono veramente affezionata a questa storia e spero di portarla a termine in un lasso di tempo inferiore ai prossimi cinque anni lol, vita reale permettendo.
Quindi sì, rieccomi qui. Immaginate quanti mesi questo capitolo è rimasto a prendere polvere nel mio pc, mezzo incompleto. Ci sono tanti motivi per cui ho mollato efp, tra covid, lezioni, drammi amorosi e familiari... Insomma, ci siamo capiti. Ma spero che comunque questo capitolo vi piaccia (anche se probabilmente non vi ricordate dove eravamo rimasti ahahah comprensibile XD) e che vi renda almeno un poco felici, dai!
Insomma, rieccoci qui. Non vi illudo dichiarando una costanza che so non riuscirei a rispettare, ma sicuramente non dovrete aspettare più così tanto prima di leggere altro.
Due parole velocissime giusto sul capitolo: Lo speziale e Kayo vengono direttamente dalla serie "Ayakaashi: japanese horror stories" e "Mononoke"! Quindi se non sapete cosa guardare ve le consiglio, sono delle serie brevi (12-13 episodi se non ricordo male). A Marzo dell'anno scorso ero andata completamente in fissa e ho douto inserirli anche qui ahahah (questo per farvi capire da quanto ho in mano questo capitolo... Mamma mia ahahah)

Grazie a tutti! Per il vostro tempo, per i vostri commenti e le visite che mi lasciate; mi rendete estremamente felice <3
Un bacio dalla vostra Itzi di quartiere!!


P.S. Sto lavorando a un restyle artistico perchè non nè posso più di vedere le pagine praticamente vuote ahahah giuro che sistemerò tutto XD

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