L'Ultimo Crociato

di alessandroago_94
(/viewuser.php?uid=742337)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


Capitolo uno

CAPITOLO UNO

 

 

 

 

 

 

 

Anno 1202, periferie di Gerusalemme.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I festeggiamenti per il secondo centenario dell’unificazione dei due Imperi si sono conclusi da pochi giorni. Dall’Oriente fino all’Al-Andalus, la cristianità riunita ha osannato i discendenti di Ottone III di Sassonia e Zoe Porfirogenita, fondatori della dinastia imperiale che ha donato all’Occidente un nuovo domani.

Quando gli infedeli si sono resi pericolosi da diventare padroni di una cospicua fetta di mondo conosciuto, i nostri sovrani hanno fatto di tutto per ampliare i loro territori e allargare le alleanze, fino a poter rivendicare buona parte dei territori d’Oltremare.

Per noi guerrieri del grande Impero, però, è stato un secolo di guerra e di sfide, nonostante la soddisfazione per i gloriosi risultati ottenuti. E allora che l’Aquila Nera e l’Aquila d’Oro possano solcare assieme i cieli, fino a lambire i confini dell’umanità…

 

Sono solo due anni che presto servizio al cospetto dei vessilli crociati, ma sembra che sia trascorsa una vita. Sono nato ventisei primavere fa all’ombra delle alte mura di Magonza, per scegliere poi di venire a morire qua, nella remota Terra Santa.

Se c’è un destino che accomuna tutti noi guerrieri della Fede, be’, quello è di sapere che un giorno saremo inghiottiti dalle sabbie dell’Oriente ignoto, le stesse che hanno visto il martirio di Cristo. Questo è un onore, ma è meglio osannare il nostro religioso fervore mantenendo ben salda la vita per tutto il tempo che ci viene concesso.

La nostra spada è il prolungamento che ci è stato donato affinché possiamo reprimere tutto ciò che è contro l’Impero e la Cristianità, afferma sempre il mio fedele amico Michele, greco fino al midollo.

Michele che ancora dorme, coricato sull’umile giaciglio a fianco del mio. Il sole dell’alba infatti già bacia le nostre fronti e mi fa pensare un po’ troppo, così da farmi venire la nostalgia di casa, e questo non posso permettermelo.

Mi alzo quindi di scatto e scuoto il mio vicino, costringendolo a svegliarsi.

“Avanti, il nuovo giorno è arrivato”, gli dico, solo per stimolarlo. Presto i nostri superiori verranno a prendere a bastonate tutti coloro che sono ancora distesi, e sono convinto che anche lui non voglia ricevere tale umiliante trattamento.

“Uff”, sbuffa, tirandosi in piedi a sua volta e strofinandosi con vigore gli occhi, “la disciplina è ciò che più odio di questo posto”.

Concordo.

“Non ti manca mai casa tua?”, gli sussurro, come se fosse vergogna.

“No, mai. Costantinopoli è davvero noiosa. E come se non bastasse, i miei fratelli hanno già sperperato tutti i beni dei miei genitori. Mi toccherebbe chiedere l’elemosina”, mi spiega il greco, mentre ci dirigiamo verso il cortile del monastero che ci ospita e cerchiamo di non calpestare parti del corpo degli ultimi compagni ancora addormentati. Poi si permette una risatina.

Pure a me sfugge un sorriso.

“Anche io non avrei avuto un futuro in Germania. Sono il sestogenito, non c’è nulla per me, eppure a volte sento la mancanza di casa…”, borbotto e lascio che le mie parole svaniscano pian piano.

Ci sono giorni in cui non riesco a dimenticare il clima fresco dove sono cresciuto, proprio quando sabbia e sole cocente diventano troppo insopportabili. Tutta questa malinconia però passa in secondo piano quando finalmente c’è bisogno di me, di noi e delle nostre armi.

Ciò accade ogni giorno, a partire dall’alba.

I pellegrini che giungono nella Terra Santa sono sempre di più, spinti dalla Fede e dalla fama che le nostre imprese stanno imprimendo in tutto l’Impero. A noi tocca difendere queste terre e chi le attraversa.

Io e Michele consumiamo un frugale pasto, composto da latte di capra e un paio di fette di pane nero, poi senza dire una parola iniziamo a prepararci adeguatamente per la giornata. Ormai i nostri sono gesti imparati a memoria, anche se la concentrazione è sempre elevata. Basta una piccola imperfezione nell’armamentario per sancire la fine della nostra vita.

Indosso la tunica imbottita, e poi la maglia di ferro, mentre il caldo inizia già a farsi opprimente.

Mentre ci incamminiamo verso le caotiche strade della Città Santa, pronti a offrire i nostri quotidiani servigi, avvertiamo i lamenti dei nostri compagni che non si sono alzati in tempo. Verranno poi ulteriormente puniti con il digiuno.

“Oggi che si fa?”, mi chiede Michele, come se io fossi il Maestro in persona.

Non sto nemmeno a rispondergli. Abbiamo sempre molto da fare, anche durante questo periodo in cui non ci sono conflitti ufficiali contro gli infedeli; per servire l’Ordine e i pellegrini, dobbiamo costantemente scortare gruppi di persone indifese verso i luoghi di culto più antichi, dove ancora si avverte tutto l’estremo dolore del calvario di Cristo.

Nonostante la pace che da quasi mezzo secolo regna tra noi servi della cristianità e i musulmani, le campagne attorno a Gerusalemme pullulano di aggressori violenti, che come cavallette sgusciano fuori dalle sterpaglie e cercano di arricchirsi ai danni degli inermi sventurati.

Aumentiamo in sincronia il passo, poiché è il momento della prima Messa della giornata e non possiamo permetterci di perderla. Poi, scopriremo cosa si farà.

Il nostro Ordine presidia la maggior parte delle chiese in città, e numerosi tra i confratelli più anziani hanno scelto curare i riti sacri, poiché inadatti ormai alle fatiche del mondo esterno alle mura sacre. Sparse in tutta Gerusalemme, e fino alle periferie, i vari luoghi di culto sono a disposizione di tutti, ma le prime fila sono riservate ai Cavalieri Franchi, a seconda del quartiere ai quali siamo assegnati.

La nostra chiesetta è molto umile e povera, non ci sono panche in legno, bensì qualche misera sedia tarmata. Io e Michele riusciamo a prendere posto appena in tempo, giusto un attimo prima che Adalbert, il nostro confratello anziano che ha la responsabilità del rito sacro, inizi la funzione mattutina.

Durante tutto il corso della mia vita ho ascoltato talmente tante Messe e detto talmente tante preghiere da non saper nemmeno immaginare quanta fedele devozione ho dedicato al nostro Dio.

Questa mattina sono ancora leggermente intorpidito e faccio fatica a stare attento, anzi, spesso perdo la concentrazione e mi ritrovo a blaterare frasi e preghiere a memoria, senza rifletterci. Sto di certo peccando.

Devo confessarmi al più presto.

La funzione finisce relativamente in fretta, quella mattutina poi è leggera, poiché probabilmente ci attendono diverse mansioni, e anche se la preghiera è importante, lo è anche il lavoro e il dovere. D’altronde noi siamo anche le braccia di Dio, e non dobbiamo donargli solo la nostra mente e le nostre parole.

Avverto i miei confratelli che iniziano a uscire dalla chiesetta, e Michele si allunga per sfiorarmi un braccio e risvegliare la mia attenzione, ma ormai io sono deciso a volermi confessare per il peccato appena commesso.

Si nota tuttavia che non è la mattina appropriata, poiché mentre cerco di avvicinarmi al fratello Adalbert, un messo giunge di corsa. Quasi travolge i Cavalieri che stanno uscendo, li spintona e raggiunge l’anziano, reso saggio dai voti e dal lunghissimo servizio prestato nell’Ordine.

Adalbert allora afferra il messaggio scritto che il giovane gli ha frettolosamente consegnato, e con risolutezza richiama l’attenzione di tutti.

“Fratelli, per favore, tornate indietro”, afferma con il suo vocione roco, obbligando tutti i Cavalieri a fermarsi ad ascoltare. “E’ appena giunta una convocazione urgente da parte del nostro amato Maresciallo”, prosegue, quando è sicuro che siamo tutti presenti e attenti, “vi vuole tutti presenti al più presto presso la porta di Davide. Andate in pace”.

Detto questo, ripiega minuziosamente la preziosa pergamena.

Noi obbediamo tutti in simultanea e immediatamente; sappiamo bene che si tratta di un ordine. Ciò che proviene da così in alto non si può confutare né discutere, bensì solo eseguire.

Mi unisco agli altri uomini, e Michele non mi abbandona un attimo. Siamo diventati così grandi amici che ormai siamo simbiotici.

Le strade di Gerusalemme sono sicure, per fortuna, e dentro le mura di solito vige la correttezza e l’ordine. Non che si possa fare altrimenti, ormai la presenza crociata è così da tempo consolidata che ogni forma di ribellione è stata sedata.

La Città Santa è ora perlopiù abitata da Greci e cristiani provenienti dall’Occidente, mentre i discendenti delle genti locali sono stati tutti convertiti e vivono in pace. La nostra Fede ora è una sola, da quando i sovrano orientali e occidentali hanno fuso le loro dinastie. Siamo tutti fedeli a Roma.

E per noi è un grande onore poter percorrere le strade che un tempo hanno ospitato anche Cristo.

Giungiamo quindi in tranquillità alla porta di Davide, immensa e trionfante. Assieme al nostro gruppo stanno confluendo anche tantissimi altri confratelli, probabilmente anche loro opportunamente avvisati.

“Uh”, borbotta il mio amico, stupito quanto me, “credo che questa volta ci attenda una missione complicata”. La sua osservazione è corretta, poiché durante tutto il periodo della mia presenza in città non ho mai visto un raccoglimento di forze così ampio.

Mentre osserviamo i grandi portoni spalancati e vigilati da semplici guardie armate, nessuno di noi si accorge che in realtà il Maresciallo è in piedi sui camminamenti sovrastanti, e ci fissa dall’alto. Quando avvertiamo la sua voce tonante, siamo quasi percossi da un rapido brivido di stupore.

“Fratelli, non ruberò tempo alle vostre preghiere e alle azioni caritatevoli a cui vi dedicate giornalmente. Vi ho riunito qui perché ho necessità e urgenza di almeno cento di voi, possibilmente volontari”, afferma, le sue parole che rimbombano nel silenzio sceso tra i guerrieri.

Nessuno si chiede il motivo di tale richiesta, e un vocio soffuso si sparge in fretta tra noi. Vogliamo essere tutti tra quei cento prodi, renderci validi e coraggiosi agli occhi dei nostri superiori.

“Non tutti, calma”, ci riporta alla realtà la voce tonante del Maresciallo, che dall’alto sfrutta l’eco per farsi udire chiaramente, “siete così volenterosi, ciò vi rende onore. Ma solo cento di voi verranno con me, cento scelti tra i volontari che si proporranno…”. Non ha ancora finito di parlare che alziamo le mani al Cielo, quasi le unisco come durante la preghiera.

“Che Dio mi dia occasione per rendermi utile alla sua Causa”, mormora un qualcuno alle mie spalle. Siamo infervorati, abbiamo bisogno di qualche emozione nuova.

Poco dopo, iniziano le selezioni; chiunque vuole proporsi tra noi, deve presentarsi al cospetto del Maresciallo, che nel frattempo è sceso e si è posizionato nel mezzo dell’ampia porta cittadina, aiutato dalle guardie.

I primi di noi che riescono a mettersi in fila e a proporsi, vengono accettati e passano oltre la porta. Cerco anche io, assieme al mio amico, di mettermi in fila e di cercare di rientrare tra i cento. La scelta è rapida, c’è chi viene scartato, ma la maggior parte varca la fatidica e vasta soglia.

Michele, che è davanti a me, viene accettato.

Quando è il mio turno di farmi avanti, finalmente posso osservare a dovere il Maresciallo, quell’illustre guerriero che è riuscito a scalare le gerarchie dell’Ordine. L’uomo è attempato ma ancora dotato di un fisico e di un carisma da ragazzo.

Mi avvicino a lui e porgo l’ossequio, chinandomi con il ginocchio destro.

“In piedi, prode protettore della Croce”, mi intima, solennemente. Non faccio in tempo a rialzarmi che già mi pone un’altra domanda. “Sei abile di spada, o sei più adatto alla preghiera?”, mi chiede.

“So difendermi bene, se Dio vuole”, ribatto con difficoltà, quasi balbettando. Sono un po’ in soggezione. Non sono abituato a trovarmi di fronte a confratelli di rango più alto del mio.

Con un solo cenno del capo, il Maresciallo mi fa capire che posso passare oltre. Ho superato la selezione.

Mi ricongiungo quindi con Michele, che mi stava aspettando.

“Non avevo dubbi! Non poteva non sceglierti”, afferma. Io gli rifilo una manata contro la cotta di maglia, provocandogli un leggero barcollo.

“Non dire scemenze. Mi sto già pentendo”, ammetto. Se servono uomini abili di spada, be’, non so garantire. A fine addestramento ero discretamente bravo, ma non ho mai preso parte ad alcuno scontro armato di rilievo. Contro i predoni che a volte tediano i pellegrini basta spesso mostrare il nostro coraggio, altrimenti scaturiscono zuffe dove non sempre le spade vengono utilizzate correttamente.

Se il Maresciallo vuole controllare di persona la preparazione delle truppe dell’Ordine d’istanza a Gerusalemme, temo di poterlo deludere.

“Sei possente come un tronco di un albero secolare, Bruno. Non essere troppo modesto con te stesso”. Di certo il mio migliore amico ha ragione, sono possente e massiccio come pochi altri, però le mie abilità con le armi temo siano discretamente arrugginite.

“Le lodi devono essere rivolte solo a Nostro Signore”, rispondo tuttavia con diplomazia. Il greco annuisce, senza aggiungere altro.

Attendiamo con trepidazione la fine della rapida scelta, e infine i nostri nomi vengono registrati su una pergamena.

In conclusione al tutto, giunsero inaspettatamente alcuni assistenti del Drappiere, vestiti in modo umile e solo con la lunga tunica con la Croce sul petto. Con ordine, ci consegnano a ciascuno una cappa nuova e pulita.

Mi ritrovo a osservare la mia, stranito; generalmente non c’è concesso di indossarne una nuova prima che trascorrano diversi mesi, spesso soltanto dopo la Santa Pasqua dell’anno successivo. L’umiltà del vestiario deve parlare per noi.

Cosa sta succedendo, quindi? Perché tanta magnanimità?

Ci viene solo ordinato di andare a recuperare le nostre armi e di vestirci adeguatamente, poiché una carovana di pellegrini provenienti da Cesarea, dopo un faticoso viaggio a piedi nel mezzo delle sabbie infuocate, ha bisogno urgente del nostro supporto.

Ci dividiamo per un poco, al fine di raccogliere la nostra attrezzatura. Presso il nostro dormitorio, i compagni puniti e quelli esclusi ci accolgono festosi, sommergendoci di domande, ma noi non sappiamo rispondere a nessuna di esse.

Cerco di farmi gli affari miei, e in fretta mi metto a vestirmi. Già indosso la cotta di maglia, e il peggio viene quando mi metto addosso la cappa nuova e indosso l’elmo. Mi sembra di soffocare.

Con le gocce di sudore che iniziano a scendere rapidamente lungo la mia schiena, mi assicuro la spada ben affilata al fianco, nell’apposito fodero. Sono pronto a tornare al punto di raccolta, dove partirò per questa strana missione.

Michele e gli altri confratelli scelti sono stati lesti e silenziosi quanto me nella loro preparazione, e ce ne andiamo tutti assieme e in silenzio. Siamo tesi, è inutile nasconderlo.

Gerusalemme ospita tra le sue mura un presidio di circa cinquecento Cavalieri dell’Ordine, e se un quinto di essi devono abbandonare la città, di certo è per qualcosa di molto importante.

Il Maresciallo in persona ci attende, anche egli è vestito con una cappa nuova e la Croce rossa è come una ferita che gli marchia il petto. A suo fianco, il Comandante di Gerusalemme, suo subalterno, in groppa ad un magnifico cavallo da battaglia.

Io, Michele e tanti altri confratelli, per scelta e vocazione, quando scortiamo i pellegrini ci muoviamo a piedi come loro. Nonostante siamo Cavalieri, su un cavallo non riusciremmo a difendere al meglio i nostri appiedati e fragili fratelli di Fede. Per questo marceremo anche questa volta, seppur i nostri superiori cavalchino davanti a noi, aprendo la colonna umana.

Ogni passo che compiamo è un tintinnare di ferro e armi, un continuo svolazzare di cappe nuove e pulite.

Le strade che collegano Gerusalemme alla costa sono poche e tutte molto battute, le conosciamo bene, e il paesaggio circostante riesce a offrirci un vago senso di tranquillità. Ciò grazie alle sue forme lineari, ove il terreno arido e sabbioso ogni tanto incontra bassi cespugli dalle foglie bruciacchiate dal sole.

Siamo in una zona dove ancora possiamo notare il pericolo. Ma uniti ci sentiamo fortemente al sicuro; di solito ci muoviamo in gruppetti da massimo venti guerrieri, già così siamo molto temuti.

Ora, in cento, ci sentiamo invincibili. Non ci poniamo nemmeno altre domande, seguiamo i nostri superiori e basta, senza sprecare fiato o pensare troppo.

Che Dio sia con noi.

 

Scorgiamo i pellegrini poco oltre metà giornata. Il sole è alto nel cielo e i nostri corpi sono madidi di sudore, però gli occhi li abbiamo ancora ben validi, parzialmente protetti dall’elmo. Il caldo rende le immagini sfuocate, e infatti sembra che si tratti di un misero gruppetto di persone.

Invece, più ci avviciniamo e più udiamo rumori simili a quelli che produciamo anche noi, e cioè di armi e di ferro. Infine riusciamo a focalizzare la carovana nella sua completezza, e ci rendiamo conto che pare immensa. Io, con gli occhi offuscati dal sudore, dal calore e dalla sabbia, resto quasi inebetito al suo cospetto.

I nostri superiori si avvicinano alle avanguardie e parlottano per qualche attimo, prima di farci cenno di disporci ai margini della strada. A quanto pare, chiuderemo la fila delle persone in movimento.

E lasciamo allora che queste genti ci passino a fianco; la maggior parte di loro è a piedi, ma tranne i guerrieri della Croce, tutti contraddistinti dalle cappe bianche e dal simbolo della Fede, il resto sono perlopiù soldati di evidente provenienza germanica.

Alcuni indossano pesanti armature come se stessero per combattere una battaglia decisiva, altri sono a cavallo, ma si tratta per lo più di Cavalieri Orientali.

Nel centro del corteo, un grande carro trainato da una decina di cavalli. Ricco, sfarzoso.

Quando transita a mio fianco, a qualche passo da me, non posso non chiedermi chi ci sia al suo interno. Non sono abituato a tanti fasti.

Alla fine ci ritroviamo ad accodarci alla carovana, certi che nessuno ci attaccherà. Credo che sia da tempo che la Terra Santa non viene attraversata da così tanti soldati armati fino ai denti, uniti in un unico gruppo.

 

Il ritorno a Gerusalemme, come previsto, è calmo. Nessun predone ha le forze necessarie per poter scalfire anche solo minimamente le nostre difese.

Noi crociati siamo abituati al clima locale e al ferro che ci portiamo addosso quasi continuamente, mentre i soldati stranieri hanno fatto molta più fatica del previsto. A un certo punto, quasi arrancavamo, poiché avevano perso ritmo.

Per fortuna, a sera le accoglienti mura di Gerusalemme hanno saputo farci accomodare tutti quanti. La sorpresa nella Città Santa è generale, poiché ormai era chiaro che non sono giunti dei semplici pellegrini.

“Ci hanno fatto scortare qualcuno di importante”, aveva presagito il mio fedele amico, ma non ci voleva uno sforzo eccessivo per comprenderlo.

L’arcano si svela solo quanto il grande carro coperto si ferma ormai al sicuro delle mura, e da esso scende un baldo giovane. Subito, i guerrieri occidentali si inginocchiano in segno di devota adorazione.

Noi restiamo fermi, invece, in trepidante attesa. Tuttavia i nostri superiori non elargiscono alcun ordine, anzi, si recano dal ragazzo e gli parlano. Non alzano lo sguardo.

Le vesti del giovane sono sontuose, color porpora, e indossa il lungo manto imperiale. Che sia un importante vassallo, o magari un conte tedesco?

Egli viene condotto via da noi, dai nostri sguardi a cui vien sottratto con rapidità. Come un gioiello da proteggere. Solo dopo qualche ora inizia a divulgarsi la voce che abbiamo scortato a Gerusalemme un principe cadetto, Enrico della dinastia dei Porfirogeniti, secondo figlio del defunto Imperatore Teodoro IV di Sassonia.

 

Nonostante siamo uomini di Chiesa, umili guerrieri addestrati solo per difendere la Vera Fede e i poveri pellegrini, la lingua non l’abbiamo perduta. Molti confratelli adorano spettegolare e i pettegolezzi cominciano a divulgarsi in fretta dopo un avvenimento importante.

Di certo, l’arrivo in Terra Santa di un principe è qualcosa di veramente raro. Pare che il giovane sia sbarcato a Cesarea solo due giorni fa, e condotto qui grazie a una lunga marcia forzata. I suoi uomini sono a pezzi e il Maestro in persona è andato a conferire con lui.

Pare sia ospitato presso il sontuoso palazzo che si erge sulle rovine di quello che un tempo era il principale Tempio ebraico della città, demolito dai crociati.

“Dicono che la guerra sia imminente”, proferisce Michele, dopo aver parlottato con altri suoi amici molto chiacchieroni. Io ho preferito ritirarmi in preghiera, in fondo sono ancora convinto che il nostro nobile ospite sia giunto fin qui solo per accertarsi che regni la pace fin negli angoli più remoti dello sterminato Impero di suo fratello, l’Imperatore Teodoro V Porfirogenito, anch’egli nato dalla porpora come tutti i suoi più illustri antenati.

“E’ qui in pace”, replico, un po’ seccato.

“I rapporti tra lui e suo fratello maggiore si sono resi complicati. È probabile che voglia coinvolgere l’Ordine in una guerra in Oriente, magari per crearsi un Regno suo…”.

Lo interrompo con un gesto categorico della mano destra, che quasi gli giunge alle labbra per zittirlo.

“Nessuno userà la Croce per una personale guerra di conquista. Ciò è oltraggio e bestemmia, anche solo pensarlo”, affermo, categorico. Michele però sorride.

“Non conosci i potenti. Tu non hai mai vissuto a Costantinopoli, dove le famiglie patrizie da secoli lottano per il predominio sul Senato. Non sai nulla”.

Socchiudo gli occhi e torno a unire le mani davanti al mio viso, emettendo un profondo sospiro. Il mio fedele amico è importante per me, ma è ancora più importante la preghiera, il raccoglimento, la Fede. Altrimenti non sarei venuto fin qui. I comuni monasteri sono presenti anche in Germania.

Non amo parlare di cose mondane, di potere terreno o quand’altro, e neppure avere amici, però Michele è fatto così… siamo nati e cresciuti in realtà differenti, e anche quando lui mi parla in quel modo riesco a capirlo.

È vero, sono solo un campagnolo nato e cresciuto lontano dal fulcro della cultura greca e latina che influenzano il nostro sterminato Impero, ma non ho scelto di donarmi a tutto ciò.

Non ho scelto di prestarmi a pettegolezzi o alle amicizie di troppo. Un amico basta e avanza, mentre si cammina sul selciato di Dio. Troppe persone poi fanno chiasso e distolgono l’attenzione dal vero fulcro dell’esistenza.

“Io non so nulla, fratello. Sono solo un umile braccio di Dio”, dico, senza più alcuna voglia di parlare. E il greco lo sa che quando mi comporto così voglio essere lasciato solo, quindi torna dagli altri confratelli, che ancora parlano. Parlano troppo.

A zittirli è il suono della campana che annuncia il momento di andare a letto, e nessuno aspetta in piedi; la sveglia è all’alba e le preghiere non possono aspettare.

Anche io vado a letto, cercando di dimenticare quello che sta accadendo, o per lo meno cercando di interpretarlo nel modo migliore possibile.

 

Al mio risveglio, il sole è presente come sempre. È la solita alba, ma il frastuono che rimbomba nella Città Santa rende questa mattinata alquanto insolita.

Sono un po’ frastornato quando mi lascio trasportare fuori dal dormitorio comune dai miei compagni, anche loro svegli. Tutti quanti assieme, questa volta.

Ancora mezzi nudi ci affacciamo al portone di legno e facciamo a spintoni per osservare i gruppi armati che stanno marciando per le pacifiche strade di Gerusalemme; guerrieri di tutti i tipi, chi porta la Croce impressa sulla cappa bianca e chi veste ferro o oro. Vengono da tutto l’Occidente e dall’Oriente cristianizzato.

Mi vesto in fretta e mi lascio travolgere dal movimento delle persone armate, un flusso continuo che sta invadendo la città. Non mi chiedo cosa sta succedendo… ormai, travolto dagli eventi, non posso far altro che assecondarli. E continuare a sperare e a pregare.

Ma per cosa, poi? Tante armi possono solo portare la guerra. Una nuova e improvvisa crociata, nonostante la longeva e prospera pace che ci lega agli infedeli, una pace forzata che ha fatto bene a entrambi, permettendoci di prosperare? Proprio ora, che il nemico sembra ormai disinteressato al dominio su Gerusalemme?

Non ho risposte, so solo che ho paura.

Le mie braccia sono strumenti di Dio, come il mio umile e miserabile corpo, ma non voglio combattere qualcosa di fondamentalmente ingiusto. Mi sento in dovere di pregare, e lo faccio, nonostante tutto questo frastuono inaspettato.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Capitolo due mystery

CAPITOLO DUE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La pace è finita. A quanto pare, senza preannunciare nulla, Enrico Porfirogenito ha indetto una nuova crociata. Da quanto l’Impero si estende dal Sud Italia fino all’estremo Nord, e dall’Al Andalus fino all’Oriente, nessuno a parte i crociati si è mai realmente interessato alla sottomissione dei territori al di là dell’Asia Minore.

Secoli fa, qualche pontefice spinse i primi disorganizzati volontari a conquistare la Città Santa, mentre gli Imperatori si erano solo limitati a riottenere il controllo sui territori latini orientali perduti, quelli più prosperi e ricchi di porti commerciali, lasciando perdere la desolazione della Siria. Io e i miei predecessori abbiamo tenuto ben salda Gerusalemme e diversi altri Regni Crociati senza mai ricevere alcun aiuto diretto da parte dell’Impero.

Nonostante siamo formalmente in territorio imperiale e cristiano, abbiamo una nostra organizzazione, una nostra Regola e un nostro Ordine; vestiamo la cappa bianca con la Croce rossa e preghiamo quanto i monaci delle nostre terre natie. Parliamo il latino come tutti i sudditi di Costantinopoli, la capitale del rinato Impero Romano Germanico, ma in realtà ormai non siamo più abituati a ricevere ordini che siano emanati da altri oltre al nostro Maestro e dal Capitolo Generale.

Enrico è giunto fin qui in silenzio, prevaricando il nostro Ordine e le nostre Regole. Ha infranto la nostra pace, facendo giungere dall’Occidente tantissimi soldati, e pare che molti altri si stiano dirigendo dall’Asia Minore verso Edessa.

Ha portato così la confusione. E la confusione ci porta a mancare le preghiere e ad abbandonare le nostre consolidate consuetudini.

I miei confratelli non la pensano come me, anzi, sono euforici… si sentono protagonisti di un’impresa. Io invece ho tanta paura.

Mentre Gerusalemme è percorsa da questo improvviso fremito, ne approfitto per recarmi dall’anziano Adalbert, al fine di confessarmi. Questa volta conto di riuscirci, sperando di non essere interrotto.

Il vecchio infatti mi accoglie subito, anzi, sembra quasi che mi stia aspettando; egli si erge diritto nel mezzo dell’ingresso della sua umile chiesetta.

Quando mi nota mi invita subito a seguirlo.

“Sei qui per la consueta confessione, immagino, mio caro fratello”, afferma il prete-guerriero, continuando a camminare verso l’angolino più buio del sacro ambiente, dove confessa i peccatori.

“Proprio così, Padre”, confermo con grande rispetto. L’uomo si ferma, poi si mette a sedere sulla sedia in mezz’ombra.

Io mi inginocchio al suo cospetto, sotto le ginocchia il duro pavimento è già un assaggio di penitenza.

“Questo è un giorno in cui nessuno pensa ai propri peccati. Tutto questo ti rende grande onore, Bruno”.

“E’ solo ciò che ho scelto. È la mia vita”, replico.

Faccio fatica a trattenere il nervosismo che mi assilla dall’alba di questa mattina.

“Immagino che tu sia uno dei pochi in disaccordo con quello che sta accadendo”, riflette il sacerdote.

“Lo sono. Mi sono addestrato per difendere i luoghi santi, le reliquie e i pellegrini indifesi, e non per entrare nelle milizie personali di un signore terreno”.

Non mi freno, non ho peli sulla lingua. La mia spada difende Dio e i poveri, non prende le parti di chi vuole aumentare la sua influenza. Al di là della Terra Santa, già sottomessa, non c’è nulla che possa importare a un fedele devoto.

“Mio caro fratello, dispiace anche a me tutto quello che sta accadendo. E’ preambolo di sventura”, sussurra.

“Poi, un principe si presenta qui all’improvviso, facendo sbarcare tantissimi uomini e mettendosi d’accordo con i nostri vertici al solo scopo di inserirci tra i suoi guerrieri. Tutto questo senza alcun avviso pubblico, né il supporto del fratello Imperatore e del nostro Pontefice. Non lascerò che il mio orgoglio venga così piegato”, torno ad affermare a voce alta, e non me ne pento.

È solo quello che sento dentro di me. Eppure, Adalbert pare contrariato dalle mie parole e si china verso di me, stringendomi in un fraterno abbraccio.

L’odore d’incenso emanato dalla sua barba inebria per un attimo le mie narici.

“Fratello Bruno, cerca di non gridare queste parole”, mi sussurra all’orecchio, “se il principe intende indire una guerra contro gli infedeli, è naturale che sia giunto fin qui con la massima discrezione, cercando di non spargere la voce. Cogliere il nemico di sorpresa è una delle più valide tattiche belliche”.

Adalbert scioglie l’abbraccio.

“E ti ricordo che purtroppo viviamo sulla Terra, e non tutto è giusto. Tu hai un animo puro, beato alla Fede, quindi investi le tue forze nel tuo progetto. Ricorda però che hai anche dei superiori, ed entrando nell’Ordine hai giurato di obbedire”, prosegue.

“Quindi…”, borbotto, un po’ perplesso.

“Quindi se si dovrà combattere, combatteremo tutti. Se i nostri confratelli di rango superiore decideranno che ciò è cosa buona e giusta per l’Ordine stesso, allora obbediremo”. Le sue parole risuonano come profetiche.

“Se il Capitolo ha accolto e scortato il principe, presto sarà ufficiale la collaborazione, se non lo è già…”, replico, ma per un’ultima volta il sacerdote mi zittisce.

“Entro sera lo sarà, probabilmente, e sarà come Dio vuole! E tu sei qui per una confessione, ricorda, e non peccare continuando a parlare di altro. Queste sono decisioni che non ci sfiorano, noi poveri servi della Croce seguiamo solo ciò che viene deciso. Tutto qui. Procediamo, quindi! Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo…”.

So di aver messo in imbarazzo l’anziano con tutti quei miei dubbi, e preferisco quindi lasciare che accolga la mia confessione e mi infligga molte preghiere in più da recitare. In fondo ha ragione lui, non dovrei nemmeno pensare di poter mettere in dubbio le decisioni dei nostri superiori e dell’Ordine. E se guerra dev’essere, che guerra sia, se questo è il volere di Dio.

Quando torno all’aria aperta, dopo aver pregato assieme al vecchio e averlo ringraziato per le sagge parole che mi ha rivolto, confortandomi un po’, mi lascio solo avvolgere dal frastuono di una Gerusalemme sul piede di guerra.

 

Due giorni dopo l’arrivo del Porfirogenito, siamo già tutti in marcia verso Sud. Il Maestro ha sancito che giorno e notte ode le grida di dolore dei nostri fratelli cristiani in Egitto, che invocano il nostro aiuto.

Gli Ayyubidi devono essere finalmente puniti per tutti i crimini che hanno commesso.

L’altra branca dell’esercito, rimasto a Edessa, calerà invece verso la Mesopotamia. La nostra duplice manovra servirà per attaccare all’improvviso e su più fronti un nemico per ora molto più numeroso, però non adeguatamente preparato.

Il lungo periodo di pace ha reso stabili i confini e probabilmente gli infedeli non si aspettano alcuna mossa improvvisa.

Noi, i Cavalieri di Gerusalemme, abbiamo la fortuna di poter combattere direttamente sotto gli ordini di Enrico, il giovane e spavaldo principe sicuro della vittoria della Croce. Egli ci guida in prima linea e veglia sulla nostra difficoltosa marcia.

Il principe è un giovane dai capelli scuri, tarchiato e dalla carnagione abbronzata, è un greco in tutto e per tutto. E’ comunque davvero molto risoluto, sembra che sia stato forgiato in mille e più battaglie, un vero veterano, ma tutti sappiamo che è la prima guerra alla quale partecipa. Forse non ha nemmeno mai annusato l’odore del sangue.

All’epoca dell’ultima guerra balcanica, quando moltissimi uomini di ogni ceto ed età erano stati arruolati per conquistare il Regno dei Bulgari e sottomettere per sempre gli ultimi Ungari rimasti erranti, doveva essere ancora in fasce. Io stesso ero un bambino piccolo, e ben so che dopo quel breve ma sanguinoso conflitto non ci sono state altre campagne militari degne di rilievo.

L’Impero Romano Germanico ha già raggiunto un’estensione imponente e anche l’odierno e giovane Imperatore pare non avere il desiderio di spingersi più a Est, dove ancora i Variaghi possiedono un vasto e florido Regno indipendente basato sui commerci con la Scandinavia e altre terre ignote. Ma ora noi siamo in piena crociata, quindi dobbiamo essere pronti al peggio.

Il mio inseparabile amico Michele marcia a mio fianco, e nonostante il clima ostile siamo come rocce, nulla ci scalfisce.

“Secondo te, come sono questi infedeli?”, mi chiede, ed io sorriso amaramente. Bella domanda.

Nella Terra Santa ancora ci sono numerosi predoni appartenenti ai popoli al di là del confine, ma sanno confondersi tra i Franchi vestendosi come noi, e utilizzano armi occidentali. Non ho idea di come si comportino in battaglia questi individui.

“Non lo so, probabilmente sono molto simili a noi”, rispondo con razionalità.

D’altronde, per ora siamo ancora in territorio amico. Non vale la pena fasciarsi la testa, ormai siamo stati obbligati a questa follia.

 

Camminiamo per giorni e giorni, sembra un vero e proprio calvario. Il paesaggio è sempre tutto uguale e ogni tanto ci sentiamo osservati, forse il nemico presto verrà a conoscenza delle nostre mosse. Ma probabilmente sarà già troppo tardi, poiché le nostre truppe sono già presso Gaza, nostra ultima roccaforte meridionale.

Non ci viene concesso nemmeno di entrare in città, poiché alcuni dei guerrieri provenienti dalla Germania si sono ammalati di strane febbri e si teme una pestilenza.

A noi si unisce un intero reparto di catafratti, la cavalleria pesante d’eredità greca che ha donato alla cristianità e all’Impero notevoli vittorie, soprattutto nei Balcani.

Adesso, mentre l’implacabile marcia forzata prosegue verso Sud, iniziamo ad avere paura. L’euforia iniziale è svanita anche presso i miei confratelli; anche se siamo gli unici a essere abituati a tali sacrifici, la fatica inizia a farsi sentire.

Tutta l’accozzaglia proveniente dalle altre regioni dell’Impero è ormai ridotta a retrovia, lenta e impacciata.

Ad accompagnarci c’è il Maresciallo, a cui facciamo tutti affidamento, ma egli non si sbilancia e non ci ordina altro che continuare a marciare. Presto siamo solo una massa umana taciturna, ma il silenzio del deserto viene interrotto dal rumore ritmico del ferro che portiamo addosso.

L’acqua scarseggia e le nostre stesse borracce iniziano a vuotarsi.

Enrico resta sempre davanti a tutti, ma non si mostra più baldante e gioioso. La nostra guerra sta per concludersi ancora prima di iniziare.

Entriamo quindi nelle terre degli infedeli senza nemmeno accorgercene, immersi nella vastità desertica che separa Gaza dalla remota penisola arabica e dall’Egitto. Le nostre notti diventano rapide e disturbate per paura di un attacco nemico, i giorni sempre più caldi e sfiancanti.

Seguiamo le rotte delle carovane che a lungo hanno fatto la spola tra i Regni Crociati e i vari califfati meridionali, ma non notiamo nessuna traccia di vita umana. Inizio a credere che forse il nemico si stia prendendo gioco di noi.

Beviamo e mangiamo sempre più raramente, la nostra situazione peggiora e le giornate scorrono tutte uguali, non sappiamo nemmeno da quante settimane siamo in marcia. Per fortuna non dobbiamo pensare molto.

Inoltre, almeno il deserto ci ha risparmiato le tempeste di sabbia e i suoi patimenti più estremi. La penisola del Sinai si rivela un vero ostacolo, ma non insormontabile.

Dopo settimane di fatiche e di privazioni, giungiamo infine in una fertile e ristretta fascia di pianura circostante un grande corso di acqua, dove ci rifocilliamo a dovere. Ma ancora non possiamo riposare. Dove c’è necessità, attraversiamo le acque su fragili zattere improvvisate e costruite sul momento con i tronchi delle temerarie palme che resistono anche a questo clima.

Ormai siamo macchine da guerra, non più uomini. Non parliamo più, né preghiamo se non tra i denti e di sera, prima di addormentarci.

Qualche giorno dopo, finalmente giungiamo in quello che viene subito identificato come il delta del Nilo. Siamo nel cuore dell’Egitto, ed è là, nella fertile piana, che ci attende il primo grande esercito nemico. Già dispiegato, pare sia in attesa da settimane.

Io faccio fatica a camminare, sono stanco e ho la vista offuscata, ma come tanti altri miei compagni non ho nessuna difficoltà a focalizzare la massa umana che, non appena ci nota, inizia a muoversi verso di noi. E questi nemici urlano parole incomprensibili e minacciose, decise e colme di rabbia.

Non c’è tempo da perdere; le nostre fila si organizzano in fretta e dagli ordini impartiti sappiamo bene che noi crociati saremo i primi ad affrontare l’orda degli infedeli.

Sfilo la mia spada dal fodero e mi metto in attesa.

L’impatto è devastante; molti di noi vengono spinti all’indietro e il fatto che siamo coperti di ferro non ci aiuta. I primi si sbilanciano, alcuni cadono e vengono uccisi, ma noi li rimpiazziamo subito.

Mi ritrovo così ad affrontare per la prima volta una schiera armata di infedeli.

Mulino la spada e cerco di fare del mio meglio, ma si nota subito che loro sono in vantaggio. Sono più forti, più rapidi, più agguerriti, più numerosi e preparati.

Vengo affiancato subito dal mio amico greco, mentre le nostre formazioni sembrano sciogliersi, per poi mischiarsi a formare una rissa confusa.

Non riscontro difficoltà eccessive nel limitare la tecnica di combattimento avversaria, anche se loro sono molto più rapidi di noi nei movimenti. Vestiti in modo semplice, con soli abiti leggeri che svolazzano a ogni alito di vento, i nemici godono di una libertà quasi assoluta, anche se sono più vulnerabili di noi. Non mi impegno in combattimenti seri, cerco la difensiva e tanti altri del mio stesso schieramento sono nella mia stessa situazione.

Forse non ce l’aspettavamo neanche più, di trovarci a faccia a faccia con questi mitici infedeli, finora sempre rimasti nascosti nel cuore dei loro ostili territori.

Giungiamo presto a un punto in cui capiamo che stiamo per battere in ritirata. Allora una voce si alza perentoria nel bel mezzo del grido rabbioso della gente che muore; è Enrico, il Porfirogenito che alza verso il cielo una lunga asta, e su di essa è incastonato il mitico frammento della Croce, che i sovrani greci vantano di tenere con loro da tempi immemori, fin da Costantino il Grande. Egli ci ricorda così la nostra missione.

Riprendo a combattere con maggior impegno, ora mi è chiaro che non sono in Egitto solo per volere di un potere terreno, ma anche per portare la Croce nelle terre dove tanti poveretti sono alla sua ricerca. Gente che ne ha bisogno per andare avanti, per sopravvivere alle atrocità a cui viene sottoposta dagli infingardi conquistatori blasfemi.

Per la prima volta, affondo la mia spada nelle viscere di un Moro. È stato facile riuscire a violare la sua scarsa difesa e lasciare che il ferro squarci le sue carni.

Mi è capitato di ferire molti predoni, ma non ne ho mai uccisi. Invece quest’uomo crolla davanti a me, la mia lama tra le sue costole e le braccia allargate. È un uomo che non ha viso, poiché come la maggior parte degli aggressori è ricoperto da veli che lasciano intravedere giusto i bulbi oculari.

E la mia vittima li ha sgranati, quegli occhi neri come la pece e arrossati da venuzze che diventano violacee…

L’attacco di un altro nemico distoglie la mia attenzione da quella del cadavere ormai disteso al suolo. Lo calpesto involontariamente, mentre la scimitarra si cala su di me come fosse un’accetta e mi costringe a chinarmi un po’, per parare il colpo.

La lama insanguinata della mia spada emette uno stridio sinistro nell’impatto, un rumore che si propaga nonostante il clangore della battaglia in corso. Eppure, resiste alla potenza dell’urto.

Anche la lama della scimitarra è imbrattata di sangue, presagio sinistro per qualcuno dei miei compagni.

Il contatto tra i ferri si scioglie e torniamo a confrontarci mentre tutti attorno a noi duellano caoticamente, ma in modo abbastanza equilibrato.

Mentre torniamo a saggiarci, il suono di un corno manda in frantumi la parità ritrovata, segnale che i poderosi catafratti sono riusciti a raggiungerci e sono pronti a darci man forte.

La cavalleria spazza via i nemici in un battito di ciglia, i fianchi travolti dai prodigiosi cavalli corazzati e dai guerrieri che li cavalcano, molto più Cavalieri di noi crociati.

Io e i miei confratelli ci disimpegniamo in fretta e furia, lasciando gli avversari in balìa della cavalleria.

La ritirata degli infedeli quindi giunge rapida, ma nessuno riesce a inseguire quelle leggiadre figure così rapide da scomparire senza lasciare traccia, come se non ci fossero mai state. Noi purtroppo non abbiamo le forze nemmeno per provare a inseguirli.

Crolliamo sfiniti sotto il peso del ferro, del caldo e della fatica.

“Avanti, prodi guerrieri! Oggi abbiamo vinto, dobbiamo onorare a dovere la vittoria”, ci incita il Maresciallo, girovagando sul suo cavallo.

Attorno a noi, ci sono più morti vestiti di ferro che di fresco tessuto di lino. Non è stata una così grande vittoria.

 

Io e Michele ci ricongiungiamo presso uno dei tanti rigagnoli che formano il vasto delta del Nilo. Beviamo l’acqua sporca senza nemmeno prenderci la briga di farla bollire, meritandoci gli insulti del Maresciallo e dei vari comandanti occidentali, ma che importa in fondo? Abbiamo una sete così devastante che ci conduce alla pazzia.

I vertici reclamano l’ordine, ma noi siamo bagnati dal nostro stesso sudore e abbiamo una necessità urgente di rimpiazzare i liquidi perduti. Nessuno può comprendere la profondità del nostro strazio fisico.

Una volta dissetati, ci abbracciamo con forza.

“E’ stata una battaglia del cazzo”, afferma Michele, contrito. Come dargli torto.

“Andrà meglio la prossima volta… l’importante resta vincere, in fondo”, trovo la forza di aggiungere, la lingua resa impastata dalla disidratazione.

All’improvviso, alcuni nostri compagni gridano.

Ci volgiamo a osservare cosa sta accadendo, e vediamo subito uno dei nostri mentre viene trascinato in acqua da un grosso coccodrillo. È stato afferrato alla spalla, quando da chino ha cercato di bere proprio come abbiamo fatto anche noi. Inutile l’opposizione di alcuni prodi che cercano di trafiggere le sue dure squame con un paio di lance dalle punte smussate a causa del conflitto recente.

Questo ci ricorda che siamo in un territorio così ostile che pure gli animali si ribellano alla nostra presenza. E questo triste evento può capitare a ciascuno di noi.

Al cospetto della tragedia, e forse con il timore che ciò possa riaccadere, i nostri superiori ci ordinano all’unisono di rimetterci in marcia. Andremo verso la costa, nell’attesa che la flotta di Costantinopoli porti altri rinforzi alla guerra appena iniziata.

 

Il paesaggio limitrofo al corso del Nilo è differente rispetto a quello a cui ci siamo abituati.

La piana è fertile e lussureggiante, dobbiamo sempre stare attenti poiché tra gli insidiosi e alti papiri potrebbero nascondersi pericolose e improvvise minacce. Anche se c’è molto verde, il caldo però non si attenua.

La nostra marcia è tutto sommato tranquilla, capita che qualche predone o beduino ci tenda qualche imboscata, ma sono situazioni che provocano poche perdite e che vengono sedate in fretta. Non sono l’unico a pensare che i nemici siano tutt’altro che sconfitti, chissà quindi dove stanno organizzando la loro nuova offensiva.

Ci sentiamo tutti meglio quando viene divulgata la voce che Damietta dista solo due giorni di marcia da noi, quindi un importante punto di sbarco lungo la costa potrebbe favorirci di nuovo e permetterci sostanziosi rifornimenti di uomini e cibo.

Quando però l’euforia pare averci indotto al punto di abbassare la guardia, forse credendo che sarebbe stato tutto più facile del previsto, ecco che giungono i guai.

Restiamo con il fiato sospeso mentre un rombo improvviso ci avvolge con la medesima sinuosità di un eco. Sono loro, la possente cavalleria saracena che si sta muovendo verso di noi.

Il nostro esercito si compatta, non capiamo bene da che parte sta giungendo il nemico e l’alta e fitta vegetazione non aiuta la nostra vista. I catafratti si dispiegano tutti nelle retrovie, e per qualche attimo speriamo che tocchi a loro la bega. E invece iniziano a spuntare uomini armati ovunque, da ogni lato, agitano le loro armi da taglio dalle diverse fogge e fatture.

Molti infedeli sono in groppa dei loro cavalli bassi e leggiadri, altri addirittura sui cammelli. Altri, ancora, a piedi. Una moltitudine così numerosa che ci manda in confusione.

Sbucano ovunque e si muovono senza difficoltà in quel territorio che conoscono molto bene. All’improvviso, nessuno urla più ordini né appare il frammento della Croce, a sovrastare la nostra battaglia. È come se fossimo soli.

Cerco il mio amico greco, forse nella speranza di una qualche sorta di sostegno, ma non lo vedo da nessuna parte.

Mi circondano tanti confratelli, ma è come se per me fossero volti ignoti.

Ancora una volta mi ritrovo a combattere contro un nemico vestito leggero e molto più agile di me. Mi limito a rispondere ai suoi affondi e a tentare qualche fendente, ma l’elmo ostacola la mia vista, già annebbiata dal sudore, e presto mi accorgo che la mia vita potrebbe finire qui.

Per questo cerco di resistere con un ultimo impeto d’orgoglio, combattendo con tutte le ultime forze che mi restano. Ho il fiatone e so che non ce la posso fare a resistere a oltranza.

I nemici che mi circondano alla fine diventano due, tre, quattro, mentre sembra che il nostro esercito si stia sciogliendo come neve al sole. A terra le cappe con la Croce impressa sono molte, e ferro e armature fanno inciampare e rendono difficoltoso anche il solo restare in piedi.

Avverto le grida dei catafratti, forse stanno cercando un’ultima resistenza.

Poi, il corno suona la sua melodia più lugubre e profonda: quella che sancisce la ritirata. Non mi metto a pensare, mi limito a spostarmi all’indietro e a pregare.

I Mori a questo punto hanno notato che tutti i nostri si stanno ritirando e capiscono che possono attaccarci senza alcuna paura.

La battaglia diventa così un catastrofico disordine, dove noi crociati e occidentali cerchiamo di svignarcela e gli infedeli ci assillano con prepotenza. Le uniche urla che si odono, ora, a parte quelle dei feriti, sono proprio le loro.

Dobbiamo ritirarci ma non sappiamo cosa fare, cerco infatti qualche figura di riferimento ma noto solo qualche altro mio confratello sparso qua e là, soverchiato dagli aggressori.

In preda al panico, mi tolgo l’elmo e cerco di assicurarlo al cinturone, ma non ci riesco e finisce a terra, perduto per sempre. Sono in guai grossi, poiché sto compiendo tutte le azioni che mi hanno sempre vietato fin dai tempi dell’addestramento. Mai separarsi dai componenti del proprio armamentario, durante una battaglia.

Ma io non ci vedo più nulla e la mia testa pare esplodere.

Con il capo libero ho una visuale maggiore, anche se sono molto più esposto.

Ho paura e continuo a muovermi a caso, di fretta e cercando di evitare ogni scontro. Un paio di infedeli mi sbarrano la strada, per mia fortuna sembrano ragazzini e riesco ad avere la meglio sul più basso, mentre l’altro è indeciso come me. Conta solo sull’agilità e sull’euforia del momento.

Io combatto quasi a caso, affondo con la spada e non lo perdo d’occhio fintanto che non riesco a mozzargli la mano destra. Quasi per miracolo. Si vede che le mie preghiere hanno fatto effetto.

Riprendo la mia corsa, questa volta verso il limitare del campo di battaglia, che finalmente pare vicino. La boscaglia che ha protetto gli assalitori ora potrà essere d’aiuto a noi sconfitti.

Riesco a raggiungerla e mi ci getto a capofitto, limitandomi a correre.

Il cuore mi esplode nel petto, ma non ci bado nemmeno.

Sono così tanto terrorizzato da non riuscire più a fermarmi, fintanto che non crollo sfinito all’ombra di un’alta palma da dattero, circondata da fitti papiri.

Mi rannicchio contro il tronco e resto con il fiato sospeso, consapevole di non avere più le forze necessarie per correre o per difendermi. Se qualche infedele mi ha seguito, avrà una vittoria facile su di me.

Per fortuna, il silenzio mi avvolge.

Temo anche le creature selvagge di questa località esotica, quindi resto molto vigile. È già un caso che sono ancora tutto intero. Continuo a non sapere cosa fare, sono solo e isolato, nonché distante dal luogo dello scontro armato, ed ho perso l’orientamento.

Resto così fermo e immobile per tutto il resto della giornata, finché il buio non mi avvolge completamente e il caldo del giorno si tramuta in un fresco così intenso da farmi tremare in continuazione.

 

Con l’arrivo del nuovo giorno, so che devo andarmene. Non posso restare qui in eterno.

Mi muovo tra i papiri con circospezione, ma la mia attrezzatura bellica fa rumore. Allora compio l’ultimo atto scellerato, spinto dalla disperazione estrema: mi tolgo tutto il ferro che ho addosso, e lo abbandono. Resto vestito con la mia cappa crociata, ai piedi le calze e ai fianchi il cinturone con la spada nel fodero, nient’altro. Non posso più permettermi di attirare anche solo accidentalmente l’attenzione di qualcuno.

Cerco liquidi, perché ho un bisogno folle e impellente di bere. La presenza di papiri così imponenti è segno che non sono molto distante da un corso d’acqua.

Quando la terra inizia a diventare umida sotto i miei piedi, capisco che l’agognata meta è veramente vicina.

Mi muovo con ulteriore circospezione, e mi ritrovo in una sorta di oasi, dove un ampio acquitrino si estende a vista d’occhio. Accecato, quasi mi getto a capofitto, ma sono costretto a bloccarmi all’improvviso poiché odo delle voci vicine.

È così che noto un gruppo di uomini che vestono la cappa, proprio come me. Alcuni miei confratelli.

Abbandono di corsa il mio nascondiglio e corro loro incontro, euforico e contento di averli ritrovati. A guidarli c’è il Maresciallo, appiedato e stanco. Quando mi vede, batte due volte le mani.

“Un altro di noi si è salvato, grazie a Dio”, mormora, e mentre mi getto a bere, un paio di mani gentili mi cingono le spalle. Si tratta della stretta inconfondibile di Michele, il mio fedele amico. Attende che finisca di bere prima di rivolgermi la parola.

“Dio è stato dalla tua parte anche questa volta, vecchio mio. Ti avevo già dato per morto”, mi dice, felice di avermi ritrovato. Gli dono un sorriso, il primo dopo mesi di triste fatica.

“Sono coriaceo, lo sai”, affermo.

Controllo chi mi circonda, e mi accorgo con chiarezza che siamo pochissimi. Una cinquantina, forse qualcosa in più. Molti sono feriti, altri hanno una brutta cera.

Mi volgo verso Michele.

“Siamo tutti qui?”, gli chiedo, ed egli scrolla le spalle.

“Chissà. Dopo che il corno ha sancito la ritirata, molti si sono arresi, altri sono stati massacrati. I catafratti sopravvissuti si sono radunati assieme ai soldati tedeschi attorno al principe, poi i nostri gruppi sono stati separati. Non so se sono vivi o se sono morti”, mi spiega. Ha evidente voglia di parlare, dopo il dramma della scorsa giornata.

“Noi speriamo che chi non è presente si sia salvato, e che presto Dio ce lo riporti come ha fatto con te”, interviene il Maresciallo, che è vicino a noi e ci stava ascoltando. Non so come replicare, meglio tacere.

L’uomo mi pare per la prima volta molto umano, minuto e tozzo, non un’autorità distante. Le rughe che solcano il suo viso scoperto dall’elmo mostrano tutta la gravità dei suoi anni e dei recenti sforzi esagerati.

“Sono tutti morti”, afferma un confratello disperato, “tutti morti, e non torneremo più indietro da questo inferno…”. Le sue parole sconfortanti ci levano ogni speranza.

E adesso, che si fa? Il nostro superiore ci osserva, poi allarga le braccia.

“Andiamo via, prima che ci scoprano. Proveremo a tornare a Gerusalemme”.

 

Non torneremo mai indietro, è questa la verità.

Di muoverci verso Est non se ne parla proprio, il delta sta venendo invaso da infedeli armati e anche i nostri spostamenti sono difficoltosi e molto limitati.

Proviamo quindi a seguire il corso del Nilo, ma sappiamo che prima o poi ci troveranno. Resta la speranza di ritrovare ciò che resta dell’armata del principe.

Nessun altro dei nostri si ricongiunge al nostro gruppo. I giorni scorrono lenti, abbiamo paura e siamo taciturni. Ci limitiamo a lottare per il cibo e per l’acqua.

Capiamo che siamo braccati quando ci accorgiamo di essere osservati, probabilmente qualche civile ci ha notato e riferirà presto agli altri Mori. Iniziamo quindi a muoverci alla rinfusa e in fretta, provando anche ad allontanarci dall’acqua, ma quando avvertiamo il rumore prodotto dagli zoccoli dei cavalli nemici, capiamo che è tutto finito.

Il Maresciallo si volge indietro, come tutti noi, e osserva gli infedeli in avvicinamento. Accorgendosi che li stiamo guardando, gli uomini lanciano grida rauche e spaventose, colme di potenza e di orgoglio.

Il nostro superiore è categorico sul da fare: non tenta una fuga, non dice nulla, non ordina più. Si mette davanti a noi e toglie la spada dal fodero.

“Arrendetevi, fratelli. Non ha più senso combattere. Dio ci vuole vivi”, afferma, poi appoggia a terra la sua arma e attende che i numerosi Mori ci circondino.

Noi tutti, stanchi e provati, compiamo il suo stesso gesto.

 

Siamo schiavi, ora. Non ci hanno uccisi, ma ci hanno legati ai polsi e ci trattengono dietro le loro cavalcature.

Ci costringono così a umiliarci.

La sete e la fame tornano ad annebbiare la mia mente, ormai non fa più differenza questa sconfitta completa.

Ci fanno marciare per mezza giornata, poi verso sera torniamo a raggiungere l’immenso corso del Nilo. Ed è in uno spiazzo appositamente ripulito dalla vegetazione che possiamo notare lo scempio finale, ovvero decine e decine di cadaveri ammucchiati e ormai ricoperti dalle mosche e dal fetore della putrefazione. I corpi sono nudi, tranne uno che è stato crocefisso a testa in giù. Nessuno di noi ha difficoltà nel riconoscere che si tratta del principe Enrico.

Ecco quindi dove hanno raggiunto gli ultimi superstiti e dove li hanno sopraffatti e sterminati.

Ci slegano dai loro cavalli e ci conducono al cospetto di coloro che erano catafratti e guerrieri dell’Impero. Ci costringono a inginocchiarci tra risa e grida di scherno, ed io obbedisco.

La maggior parte di noi però unisce le mani all’altezza del cuore e inizia a pregare a voce alta. Noto che anche Michele e il Maresciallo si sono inginocchiati, ma quasi nessuno ci segue.

Sapendo che la fine è prossima, vogliono morire con dignità. Gli infedeli non si fanno troppi scrupoli e iniziano a scagliare frecce ravvicinate a chiunque non si chini. Chiudo gli occhi, mentre quasi tutti i miei compagni periscono in fretta.

Li riapro quando non sento più il sibilo costante degli archi.

Evito di guardare i crani spappolati e i petti trafitti, con l’odore ferrigno del sangue fresco che si mischia a quello della carne marcia.

Siamo rimasti una decina, abbiamo paura e tremiamo da capo a piedi. Ci costringono ad alzare lo sguardo e ci danno un colpo di frusta ciascuno, trattandoci peggio delle bestie, prima di mostrarci la Sacra Reliquia che Enrico Porfirogenito aveva portato con sé da Costantinopoli, appositamente per quella sua crociata improvvisata: il frammento della Croce.

Il legno è scuro, quasi fossilizzato, mentre i Mori lo mostrano. Poi, a turno, ci sputano sopra.

La rabbia del Maresciallo esplode e l’uomo grida, cerca di divincolarsi, ma una scimitarra lo decapita. Dal suo collo spruzza via il sangue, mentre il corpo si divincola ancora un po’, prima di smettere di dimenarsi.

I barbari sputano anche sulla sua testa.

Ridendo e schiamazzando, porgono il frammento anche a noi, e capiamo dai loro gesti beffardi che dobbiamo compiere quel loro stesso e orripilante gesto, se vogliamo continuare a vivere ancora un po’. Nessuno si fa avanti.

Allora, in ordine, lo mettono sotto al naso del primo prigioniero, ma egli sputa in faccia al Moro che gliela porge. Viene immediatamente decapitato.

Poi, si passa al secondo, e al terzo. Nessuno sputa.

Michele, a mio fianco, prega a voce sommessa. Continua a pregare fin quando la sua testa ruzzola a terra, e ancora pare che le sue labbra continuino a snocciolare un Padre Nostro.

Ora sono l’ultimo, l’ultimo sopravvissuto alla mattanza. L’ultimo prigioniero da decapitare.

Il frammento della Croce mi viene posto con insolenza, ed io socchiudo gli occhi. Penso alla mia vita, se davvero tutto merita di finire in quel modo. Dio mi vuole vivo, diceva il Maresciallo. Non voglio finire come i miei compagni, con la testa che ruzzola sulla terra molle e il sangue che schizza ovunque. Presto i coccodrilli sbraneranno le loro membra.

No, io voglio tornare a casa, sogno la vita, la libertà. Io voglio tornare indietro, non voglio morire qui. Io ho scelto di servire Dio, ma non ho voluto questa sorta di crociata tanto agognata dal potere terreno.

Mi ritrovo a piangere, quando la mano di un infedele mi afferra i capelli e mi scuote con forza, per costringermi a fare la mia scelta.

“Pietà di me”, mi ritrovo ad affermare, poi sputo. La mia bava appiccicaticcia insozza la reliquia. Per salvare la mia vita, ho ripudiato Dio. Io, che ero il prolungamento del Suo braccio, un misero frammento di Lui.

Non faccio in tempo a razionalizzare la cosa, poiché mentre i Mori ridono e sembrano soddisfatti, uno di loro si fa avanti e si inchina a mio fianco, prima di sciogliersi il ridotto turbante che porta sul capo. La seta scende rapida lungo il collo e mostra un volto bianco, latteo come il mio. Capisco immediatamente che si tratta di un occidentale.

“Non devi dispiacerti, amico. Anzi, sei stato coraggioso”, mi dice in latino, sorridendomi. Io ancora piango, ma smetto al cospetto delle sue parole.

“Non… non… dirlo…”, balbetto, scosso e traumatizzato.

“Anche a me, tempo fa, è toccata questa sorte. Sono stato catturato dai pirati berberi, che poi mi hanno venduto a un egiziano che mi ha reso un servo fedele di Allah. Allah è il vero e sacro nome di Dio”, afferma con risolutezza, poi si rialza e mi lascia solo.

“Da oggi inizia la tua nuova vita”, torna a dirmi mentre si allontana, poi la sua figura si mischia a quella degli altri infedeli, e non la scorgo più.

Manco riesco a scinderla dalle altre, in tutto quel vorticare di immagini, scene, colori… ciò che mi frulla per la mente. Questo è il mio calvario, e chissà quanto soffrirò, ora che ho tradito anche Dio. Il mio Dio, il suo Unico Figlio così infinitamente buono.

Torno a piangere, disperato. Spero che ci ripensino e che mi uccidano, ho paura di ciò che accadrà adesso. Meglio l’inferno a tutto questo.

Mi lascio crollare al suolo, riponendo le speranze in una morte che, però, non giunge a liberare il mio animo traditore.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Epilogo ***


Epilogo

EPILOGO

 

 

 

 

 

 

 

 

 Anno 1224 d.C., Alessandria d’Egitto.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono passati oltre vent’anni dal giorno in cui ho ripudiato la mia fede e i miei ideali, per avere salva la vita. Negli ultimi decenni ho appreso il valore della religione islamica e sono diventato uno di quelli che consideravo infedeli.

Sono un Moro, un Saraceno.

Dopo lo sputo contro la reliquia, il mio nome è diventato Abdul Al-Rashid, in onore del comandante che ha condotto la mia cattura e l’esecuzione dei miei compagni.

Sono stato circonciso e sono stato obbligato a seguire per oltre due anni un Imam, che mi ha aiutato ad apprendere tutto ciò che serve a un devoto fedele di Allah e del suo Profeta.

Mi sono state concesse tre mogli scelte tra le figlie degli arabi più radicali, affinché potessi dimostrare che appartenevo ormai alla loro realtà.

Ho appreso l’arabo, ho letto il Corano, ho imparato tutte le preghiere e ad adagiarmi correttamente sullo stuoino per prostrarmi al cospetto della potenza divina.

Ho avuto moltissimi figli dalle mie consorti, che con il tempo ho imparato ad apprezzare e rispettare. Davvero, sono uno di loro. A tutti gli effetti.

 

Il burqa di Fatima, la preferita tra le mie mogli, profuma di henné e di cibo. Di casa.

Sa che non deve parlarmi se non glielo chiedo espressamente, è stata educata così. Però, concluso questo lungo periodo di digiuno, viene da me e si prostra ai miei piedi.

“Risparmia i tuoi inchini per rendere onore ad Allah, donna”, la riprendo con tono rude.

Fatima allora si ritira e si mette in ginocchio, congiungendo le mani all’altezza di quel viso inesistente, che posso scorgere solo durante la notte. Non riesco a vedere nemmeno i suoi occhi, poiché coperti da un leggero velo di lino che le permette solo di muoversi senza inciampare.

“Marito, mi prostro ai tuoi piedi solo per rivolgerti una supplica a riguardo di nostro figlio Mohamed”, farfuglia con imbarazzo.

“Dimmi”, affermo. Mohamed è il nostro figlio maschio maggiore, ed ho un buon dialogo con lui. Non capisco quindi il motivo dell’intervento della madre.

“Nostro figlio vorrebbe partire con te, nel qual caso vengano raccolti nuovi soldati per la guerra santa contro i Franchi”.

“Poteva dirmelo anche da solo”.

“Mohamed ha un carattere molto timido…”.

Non l’ascolto più, mi limito a scansarla. Ho bisogno di parlare con mio figlio.

 

Mohamed è in giardino, dove si allena ogni giorno. Il suo sogno è quello di diventare un guerriero di Allah e di cavalcare sulle terre dei Franchi invocando il Profeta.

Mi avvicino a lui e noto quanto la sua pelle pallida sia simile alla mia.

“Mohamed”, dico, “devo parlarti”.

Il giovane capisce al volo che cosa è successo.

Lascia a terra le sue armi e mi si avvicina, ma è titubante e i suoi lineamenti esprimono tensione. Non sa a cosa abbia portato l’intervento della madre.

“Dimmi, padre”, replica, ma continua a immaginare tutto.

Con un sospiro, gli poso le mani sulle sue spalle muscolose.

“Se volevi venire in guerra, bastava dirmelo. Sai che non mi separerei mai da te, figliolo”, lo rassicuro. Pare felice di non essere sgridato, e infatti sorride.

“Grazie, padre”, replica con attenzione, senza dire altro. La soddisfazione però è evidente.

“Sai, vero, perché non siamo ancora partiti verso l’Occidente?”. La mia domanda è una sorta di masso che ruzzola in un precipizio.

Torna serio e si scosta i capelli castani dalla fronte, turbato. È consapevole che un tempo ero un cristiano.

Sa che non ho potuto combattere per Allah, finora, solo perché dovevo dimostrare di essere pienamente convertito.

Adesso pare prossimo il momento in cui io e il mio figlio maschio maggiore potremo partire per combattere la Jihad. La maggior parte degli uomini, a parte i contadini, l’hanno già fatto.

A seguito del disastro della crociata improvvisata di Enrico Porfirogenito, il mondo islamico si è accanito duramente contro i Regni Crociati e l’Impero Romano Germanico. Dopo la disfatta del nostro esercito e la morte del principe, la flotta di Costantinopoli è stata annientata nei pressi di Damietta proprio mentre cercava di approdare per offrirci rifornimenti e truppe fresche.

L’altra metà dell’esercito, in movimento da Edessa, è stata sconfitta e annientata una volta raggiunta la Mesopotamia.

I Mori, arrabbiati per l’aggressione a sorpresa, hanno invaso presto tutta la Terra Santa e i Regni Crociati, ormai rimasti vulnerabili e indifesi. In pochi mesi hanno capitolato tutti. Poi è stata la volta dell’Anatolia e dell’Armenia, sottomesse rapidamente.

Infine, la flotta islamica è sbarcata in Grecia, iniziando la conquista dei Balcani, mentre l’esercito ha assediato Costantinopoli, la capitale, che è caduta dopo quasi un anno di assedio costante. Durante il suo saccheggio sono stati uccisi tutti i componenti della famiglia imperiale, Imperatore ed erede compresi.

La potenza del mondo islamico si è rivelata in tutto il suo impeto grazie all’unità delle sue componenti, che notando i successi improvvisi hanno scelto di cogliere a loro volta il momento e di unirsi alla Guerra Santa. Una Crociata invertita.

Dall’Al-Andalus, i Mori hanno invaso l’Impero da Ovest e hanno sottomesso facilmente il Sud della Gallia, riuscendo a invadere anche il Nord dell’Italia. I guerrieri berberi e beduini sono salpati dal porto di Tunisi su imbarcazioni improvvisate, per sbarcare in Sicilia.

Attaccato da tutti i fronti e ormai senza più nessuna guida, l’Impero ha subìto una sconfitta dopo l’altra ed ha perso la maggior parte dei suoi territori.

Dopo oltre vent’anni di guerra incessante resta solo la città di Roma a resistere nel cuore di un Mediterraneo islamico, grazie alle continue ed esose tasse pagate dal pontefice.

Dell’Impero resta solo il suo nucleo tedesco, racchiuso tra Brema e Amburgo. Anche la fortezza di Colonia resiste ancora. Per compiere l’ultimo atto della lunghissima guerra e sancire la netta vittoria islamica serve ogni guerriero disponibile, quindi anche le nostre braccia.

Dopo un lunghissimo silenzio, mio figlio pare riscuotersi.

“Lo so, e non mi interessa. Io sono un guerriero di Allah”, replica. Secco, deciso. Forse ha ragione lui, ed ho sbagliato a ricordargli che di me nessuno su fida, ancora, per via del mio passato.

Ma egli potrà fare grandi cose, questo è sicuro.

Tolgo le mani dalle sue spalle e lascio che torni a esercitarsi, fingendomi felice per la sua risolutezza e per il suo modo corretto di comportarsi, adatto alla nostra Fede.

In realtà, non è così. So che quando tornerò in Germania perderò tutto quello che mi è stato insegnato con la forza in Egitto. So già che odierò tutte le moschee che hanno rimpiazzato le chiese, saccheggiate e date alle fiamme. So che cercherò ciò che resta della mia famiglia, le mie sorelle e i loro discendenti. Già mi chiedo come se la staranno passando, d’altronde sono tre anni che Magonza è sotto il dominio saraceno, quindi saranno stati convertiti tutti da tempo.

Insomma, la Germania e l’Occidente sono per me un’attrazione irresistibile. Mi allontano da mio figlio e mi lascio avvolgere dalle basse e rigogliose fronde dei melograni, che prosperano in questa terra resa fertilissima dal Nilo.

Solo e distante dagli occhi di tutti, dopo tanti anni riesco a compiere quel gesto che mi riporta alla mia vita precedente, mandando in frantumi tutti i giuramenti più recenti; compio il Segno della Croce.

Lo faccio con lentezza, pianissimo.

Adesso sono anche certo che non tornerò più indietro, e che la mia missione è nell’altra sponda del Mediterraneo, che devo assolutamente raggiungere. Ho forza e motivazione, e la certezza che il Cristo è ancora dentro me e non mi ha mai abbandonato.

Quando torno indietro, trovo un funzionario che chiacchiera con mio figlio. È venuto per arruolarci, lo so. Il Dio della mia infanzia mi vuole riportare a casa al più presto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Due anni dopo, boschi della Danimarca.

 

 

 

 

 

È qui dove ho deciso di riprendere in mano le redini della mia vita.

Sono tornato a essere Bruno.

Ho visto il mio figlio primogenito, Mohamed, morire di peste durante il lungo viaggio che mi ha riportato in Germania.

Nonostante il fatto che fosse un Moro fino al midollo, lo adoravo. È stato un colpo così duro da donarmi ancora più risolutezza quando ho disertato, una volta giunto sotto le mura di Colonia.

Mi sono ricongiunto con ciò che resta delle truppe imperiali, poche centinaia di uomini mal equipaggiati e spaventati che si nascondevano tra i boschi.

Alla fine, Colonia, Brema e Amburgo hanno capitolato, come tutte le altre cittadelle fortificate della Germania Settentrionale. Noi ci siamo riorganizzati qui, nella Danimarca ancora libera, nell’ultimo lembo di terra rimasto ancora inviolato dai temibili Saraceni.

Essi hanno già sconfitto i Variaghi, espandendosi ancora più verso Est, e condotto terribili incursioni in Scandinavia e nelle remote Isole dei Britanni. La Marca Danese si è salvata, però, e si salverà dall’immenso Impero islamico.

I miei compagni erano allo sbando, certi della sconfitta, ma io mi sono impegnato a convincerli del contrario. Non si fidavano di me, poiché sono giunto presso di loro vestito ancora da Saraceno.

Ho raccontato a loro la mia storia personale, ed ho mostrato le ferite sul mio corpo, segno delle battaglie condotte per conto degli infedeli. Ho raccontato delle mostruosità che essi compiono contro i nostri correligionari, essendo schiavi di una divinità demoniaca.

Ho inventato tutto ciò di sana pianta, per dare loro un’ultima motivazione per resistere ancora e a oltranza. Per loro ora sono l’Ultimo Crociato, l’unico uomo tornato dall’Oltremare per servire ancora la Croce.

All’onorevole età di cinquant’anni sono diventato la loro guida, un barlume di speranza nel mezzo della devastazione e della sconfitta.

Alla fine, ho scoperto che l’unico dettaglio che può permetterci di vincere è il combattere durante il rigido inverno. Dio ha mostrato di essere dalla nostra parte, quando il clima negli ultimi anni si è mostrato più rigido e inclemente, con estati brevissime e spesso gelide.

Noi, abituati al freddo, e loro, abituati al caldo.

Combattere seminudi e leggeri non è semplice in queste condizioni climatiche, e soprattutto non sono in grado di farlo sulla neve.

Possiamo vincere, quindi, anche se siamo in pochi; sono convinto che lo sterminato Impero dei Porfirogeniti tornerà a splendere, seppur magari non raggiungerà le dimensioni precedenti. Possiamo farcela e per la prima volta dopo quasi un trentennio di guerra siamo riusciti a infliggere alcune sconfitte ai Mori.

Adesso anche la popolazione locale ha trovato la forza per ribellarsi agli infedeli e molte delle principali città tedesche e italiane stanno cercando di espellerli dalle loro mura. Noi giungeremo loro in aiuto.

Che questi freddi boschi possano essere imperituri testimoni del nostro coraggio e del desiderio di rivalsa.

La speranza è tornata, e che Dio sia per sempre con noi. Amen.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

 

Ogni volta che Mystery indice un Contest, so già che mi divertirò a scrivere.

Ne ho saltato solo uno perché ero indaffaratissimo, ma ricordo che era molto ispirante. Complimenti al giudice quindi per offrire alla mia mente tante idee su cui scrivere.

Detto questo, andiamo al sodo.

La traccia che ho scelto non era molto scontata. Ho deciso di complicarmi ancora la vita tramite alcune scelte narrative non semplici.

L’Ordine a cui Bruno appartiene è costruito sulla base di quello Templare. Tuttavia, dopo la prima crociata, nel mio racconto si sono assestati i confini tra Regni Crociati e Islamici, sulla base di una pace stabile.

La Cristianità è riunita, i due Imperi si sono fusi da secoli. Ho scelto di mantenere il latino come lingua principale del riformato Impero Romano, anche se ho preferito chiamarlo Impero Romano Germanico poiché si presuppone la fondazione del lobo occidentale a opera di Carlo Magno e dei Franchi, ed esso ha come nucleo proprio la Germania. Il momento in cui la linea del tempo cambia rotta, infatti, è proprio a seguito del matrimonio tra l’erede bizantina e l’Imperatore del Sacro Romano Impero, avvenuto nel 1002. Nella Storia che tutti conosciamo, però, l’Imperatore muore poco prima del matrimonio.

Grazie allo stato di pace, il fenomeno dell’incastellamento è stato minore, quindi da qui la maggior vulnerabilità al cospetto del repentino attacco in massa del nemico.

Ci tengo a precisare che nel racconto nulla vuole ledere qualcuno. Ho utilizzato il termine infedeli e alcune scene delicate solo per restare fedeli al periodo storico e, appunto, agli eventi e al lessico delle crociate. Naturalmente io sostengo la pace tra le varie culture e le varie religioni. Il mondo è bello proprio perché è variegato.

Vi ringrazio tantissimo per aver letto questo racconto.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3844542