I walked through the fire and I fly through the smoke: mama, I'm a voodoo child.

di Happy_Pumpkin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Life ***
Capitolo 2: *** Healing ***
Capitolo 3: *** Sunlight ***



Capitolo 1
*** Life ***


I walked through the fire and I fly through the smoke:
mama, I'm a voodoo child.

1.
Life





La nonna di Abel Mahogany sosteneva che nella vita ci fossero due tipi di scelte: quelle obbligate dalle circostanze e quelle fatte d’istinto. A volte certo erano connesse, ma di una cosa la vecchia signora Abigail era sicura: le decisioni istintive erano le migliori. Difficilmente alla fine dei conti si arrivava a rimpiangere di averle prese.
Anche se a fatto compiuto e ragionandoci a mente fredda sembravano azzardate, persino stupide, secondo lei negli anni a seguire si riusciva a vedere ogni azione passata sotto un’altra prospettiva, in uno dei tanti resoconti che si facevano nella vita: difficilmente, a quel punto, ci si pentiva del proprio istinto.
Viceversa, i pensieri troppo ponderati, lasciati a macerare come una pozione misteriosa nella testa, non portavano mai a nulla di buono.
Tim Westfield aveva conosciuto la simpatica nonnina in una delle numerose occasioni in cui era andato a trovarla con Abel, in ognuna delle quali lei lo aveva messo a parte di cose e opinioni sorprendenti: più volte gli aveva confessato di vedere l’angelo custode del ragazzo e altrettanto spesso ammetteva che il giovane Timmy, come lo chiamava, era buono sebbene fondamentalmente sfortunato. Tim però, con il suo cognome dal sapore inglese, la cadenza ignorante della Louisiana e la sequela effettivamente incontestabile di sfighe, manifestava le sue rimostranze verso la bontà delle scelte d’istinto con la stessa sicurezza con cui sapeva di non avere alcun angelo custode – lo avesse avuto davvero, data la posizione infima del suo umano assistito, la creatura paradisiaca avrebbe dovuto ormai da tempo fare qualcosa a riguardo, a meno che non fosse un sadico bastardo, il che effettivamente poteva spiegare il prolungato sciopero angelico di ben ventun anni, più o meno da quando Tim Westfield era nato.
Allo stesso modo, però, in quella sera di giugno il giovane della Louisiana in realtà avrebbe comunque voluto trovare un fondo di verità, sicuramente più plausibile rispetto al presunto angelo custode, per quanto riguardava tutta quella storia delle scelte d’istinto decantata da nonna Abigail. Proprio perché si trovava nella condizione di aver fatto una scelta d’istinto poche ore prima, più precisamente nella fase disperatissima del ‘rielabora a mente fredda quello che hai appena fatto, idiota’, dunque con conseguente realizzazione di aver compiuto forse una delle più grandi cazzate della sua vita. E, in proporzione, considerando che di cazzate ne aveva fatte davvero tante per aver superato da poco la soglia dei due decenni di vita, si trattava veramente di una cosa apocalittica.
“Akash mi ammazza. Non mi assumerà più” dichiarò all’improvviso, quasi fosse un’enunciazione scientifica. Fredda, senza inflessioni patetiche. Si mise un braccio dietro la testa e fissò il soffitto: tappezzeria anni ‘60 dalle sfumature color senape, ventilatore inutilizzato da chissà quanti anni appeso sopra le loro teste e mobilio scarno tipico di uno dei tanti motel a cavallo tra New York e Pittsburgh.
“Non ti ammazza, non ci perderà tempo” assicurò Abel con tranquillità, tirandosi su a sedere dopo aver schiacciato il cuscino piatto. Cercò la sigaretta elettronica che da qualche anno aveva cominciato a utilizzare al posto del tabacco, più o meno da quando nonna Abigail gli aveva detto che era troppo giovane per morire di cancro ai polmoni e lui si era spaventato a morte; già, a morte, tanto per rimanere in tema. Ciononostante, non aveva smesso davvero di fumare, accontentandosi di quel palliativo ingombrante e dagli odori mentolati. Abel era uno che più gli si diceva di non fare qualcosa, più si ostinava a farla; magari cambiando qualche carta in tavola, ma la mano rimaneva sempre la sua, con il suo personalissimo tocco, vincente o perdente che fosse.
“Beh, bella roba. Io intanto sono senza lavoro; mi mantieni tu? Tuo papà? Tua nonna? L’angelo custode fancazzista?” replicò Tim incattivito, reagendo in maniera più feroce del solito quando si sentiva messo all’angolo.
Abel voltò la testa verso di lui, lo guardò dall’alto verso il basso. Fece un mezzo sorriso, per poi espirare tra le labbra la nuvola al mentolo, dando prova della sua incrollabile pazienza, al contrario di quel ragazzetto più giovane di sei anni, più magro per quanto alto quanto lui, e decisamente più biondo, anche se non altrettanto pallido.
“Io. Ti mantengo io. Troveremo un altro lavoro, Timmy. Quell’indiano di merda era un coglione, un approfittatore arrivista che ti sfruttava e basta. Ti pagherà pure gli arretrati che ti deve, vedrai.”
Tim lo guardò, per poi tirarsi a sua volta a sedere e, nudo, incrociare le gambe rivolto verso l’altro.
“Come fai?”
“A fare cosa?” domandò Abel, ridacchiando placido.
“A essere così. Tranquillo, sicuro che le cose andranno in maniera spettacolosa quando, concedimelo, sono proprio una merda.”
Gli fissò i capelli scuri e mossi, lunghi fino alle orecchie, selvaggi, gli occhi altrettanto neri e la pelle di contrasto bianca, di chi stava sempre in soffitta – a volte Tim pensava che Abel avesse una relazione con il suo attico polveroso, che odorava di acqua ragia, vernici e polvere di marmo, piuttosto che con lui – e usciva la notte, quando faceva meno caldo e incontrava più gente interessante. Provò un moto d’amore, ma anche d’odio, in quell’equilibrio cosmico che da tre anni a quella parte reggeva la loro strana eppure intensa relazione.
Volle schiaffeggiarlo, perché era un ricco figlio di puttana, però desiderò anche baciarlo, perché era il più altruista, intelligente e devoto ricco figlio di puttana che conoscesse.
Davanti a lui sentiva davvero di avere ventun anni e non di essere un vecchio precoce, di quelli troppo stanchi e troppo cinici; la cosa lo spaventava e lo elettrizzava allo stesso tempo, dandogli un sapore di genuina invidia per tutti i soldi che lui aveva, la casa, il futuro, misto a un senso di karmika soddisfazione, perché se c’era una persona che si meritava tutto, quella era Abel. Idealista ma mai sprovveduto, artista eppure coi piedi per terra nella determinazione di andare avanti, a qualunque costo. Egocentrico fino all’infinito ma appunto generoso e capace di coltivare i rapporti, anche a distanze che Tim considerava interplanetarie. Lo amava nei suoi infiniti contrasti, sebbene a volte quell’amore lo facesse riflettere sulle proprie insoddisfazioni.
Si grattò la profonda cicatrice sopra il sopracciglio destro, che gli pesava sulla palpebra conferendo all’occhio un aspetto più stanco rispetto alla sua controparte sinistra, poi sospirò e si trattenne dal dire altro, perché in quel momento, in quel merdoso motel disperso chissà dove c’era Abel con lui, nonostante i progetti in corso, la scultura lasciata a metà e tutta la vita rimasta sospesa nel suo attico  a SoHo.
Lo vide aspirare da quello che gli ricordava un detonatore per bombe e poi prendergli la mano, facendogli smettere di grattarsi; allora Tim sospirò ancora, come se fosse una stupida questione di principio, o di sofferta rassegnazione.
“Amore – come riusciva a non essere nauseante anche chiamandolo con un vezzeggiativo simile? Come? – Sono così perché mi rende felice l’idea che tu ti sia levato dal cazzo. Quel posto faceva schifo. Dai: vendita di pneumatici, un sacco riparati con materiale scadente. È solo perché paga la gente giusta che quel posto non ha ancora chiuso e lui non è andato dietro le sbarre; woh, a quanto pare questo cazzone di Akash paga tutti, tranne i suoi dipendenti.”
I due si guardarono, nel silenzio notturno della stanza, eccetto per il ronzio del frigo minuscolo che odorava di muffa, con dentro una bottiglietta d’acqua presa alle macchinette: tutto, di quel viaggio, era davvero d’improvvisazione e di fortuna. Dopodiché, scoppiarono istintivamente a ridere. Allora Abel lasciò andare la sigaretta elettronica e baciò Tim, senza impeto euforico ma comunque con trasporto, dotato di quel fascino leggero e impalpabile della sua persona, che sembrava perennemente destinata un futuro più grande, sebbene confinata in una stanza decadente con un ventunenne solo e carico di delusioni. Un martire innamorato – innamorato... forse; Tim aveva dubbi persino su quello – che aveva deciso di immolarsi per rendere migliore la vita di quel ragazzo spiantato, coi capelli pallidi al pari della pelle lunare di un amante delle soffitte.
Lo baciò e fecero l’amore, anche se erano stanchi dopo un viaggio fatto sull’onda di quelle famose scelte istintive eppure con un obiettivo preciso, sebbene rimandato da troppo tempo.
Dopo ulteriori baci, carezze e in procinto di spingersi oltre, Abel guardò Timmy, abbracciato a sé, gli portò all’indietro i capelli lunghi incollati dall’afa e dal calore di ciò che erano, assieme; gli accarezzò il sopracciglio deformato dalla cicatrice, passando il pollice lungo il collo magro, dove vedeva le vene pulsare e il pomo d’Adamo sporgente spingere per scacciare la saliva scarsa.
Così arrabbiato, ferito, disilluso. A ventun anni. Pensava al lavoro mal pagato e pagato in ritardo, non si ribellava allo sfruttamento, anche se dentro piangeva e fuori urlava, scaraventava quel poco che aveva perché forse il nulla era meglio. Ma anche così… ah, era pieno d’idee, di fantasie, di racconti. Raccontava tanto, e bene. Storie della Louisiana, della mama Hazika che praticava il vodoo e usava le ossa di pollo, storie di quando riusciva a prendere con sua sorella il bus fino a New Orleans e vedere il Mardi Gras, storie della cucina creola di sua mamma, delle discendenze francesi dei nonni, della zona palustre in cui sognava di cavalcare alligatori misteriosi fino al vicino lago Pontchartrain.
Lo amò e lo sentì gemere, innamorandosi della passione con cui sconfiggeva la sua condizione di ‘sfortunato Timmy ignorato dal suo angelo custode’. Abel credette che anche quello fosse un suo racconto speciale, per ricordargli che persino lui sapeva amare.
Poi, all’improvviso squillò il cellulare, mentre lo stavano facendo e il letto cigolava con trasporto, la testiera sbatteva contro il muro e ansimavano, ignorando l’unica suoneria collegata a una persona specifica che Tim si fosse scomodato a mettere nel cellulare modello ultrabase.
Lasciarono che Lady Gaga continuasse a cantare e in un certo senso fu divertente. Abel guardò Tim, il quale però gli mise una mano sulla bocca, impedendogli di ridere anche se stava scoppiando a ridere a sua volta, ma soprattutto di chiedergli cose come vuoi rispondere?
“No” gli disse solo, ansimando. Poi gli tolse la mano e lo baciò, un bacio sconnesso, esattamente come era sconnesso, assetato, il modo in cui si cercavano.
Quando Tim venne, Lady Gaga aveva già smesso da un pezzo di suonare e il cellulare giaceva ormai silenzioso sul comodino.
Abe
.
Mormorò flebile, girando gli occhi verso il soffitto, quasi stesse per morirci. Metteva un’intensità incredibile durante l’orgasmo; chiamava Abel abbreviandogli il nome, quasi non avesse più fiato ma prima di andarsene volesse comunque avere tempo di ricordarsi del suo compagno un’ultima volta.
Questi lo guardò, non chiuse un istante gli occhi, anche se aveva le lacrime e sentiva il sudore contro le cosce e la fronte. Pensò che gli avrebbe fatto una statua, nonostante la promessa di non ritrarlo più. Ebbe a sua volta un orgasmo, però... un po’ si vergognò, per non essere altrettanto intenso, con l’impressione irrazionale che Tim potesse ritenere di non piacergli abbastanza. Westfield era fatto così: pensava di se stesso come un passatempo, un viaggio effimero con un ritorno senza di lui, ma non perdeva mai tempo a lamentarsene, dandolo per scontato, come se non gliene importasse particolarmente. Ragionava da vecchio veterano rassegnato, congedato dal sistema.
Il ragazzino della Louisiana si alzò infatti in piedi in fretta una volta che ebbero finito, legandosi i capelli come faceva d’abitudine per farsi la doccia. Sembrava non ci fosse sentimento in lui eccetto un tiepido distacco, terminato, esaurito in una supernova universale dopo aver fatto l’amore, quando prima era stato passione e sorrideva cercando paradossalmente di non farlo.
Abel si passò allora una mano sul volto, poi lo guardò prendere il cellulare e cambiare espressione.
“Perché mi ha chiamato?”
Tim sembrò chiederlo a se stesso. Forse era così.
Abel si alzò in piedi ravvivandosi i capelli ondulati, anche se erano schiacciati dal cuscino e dal sesso, e frugò nella tasca dei pantaloni per porgergli il proprio cellulare, anticipandolo su tutta la linea.
“Richiamala.”
Tim roteò gli occhi, con un senso di fastidio. Poi annuì e mormorò una sorta di grazie, tenendosi una mano sulle costole: quasi si abbracciava per suonare le ossa leggermente sporgenti, simili a tasti di un vecchio pianoforte da saloon. I suoi muscoli nervosi, i tendini del collo, ogni cosa sembrava tendersi fino a fargli spiccare il volo.
Compose il numero ricordato a memoria, per tutte le volte in cui l’aveva cercata in un bar o a casa di qualcuno così da dirle che stava bene.
Guardò Abel che, fermo con una mano nel suo caso sul fianco, in attesa lo osservava a sua volta, l’espressione intensa eppure placida capace di placare Tim, le sue paure, l’ansia e la rabbia.
Dopo diversi squilli rispose una voce maschile, che Tim conosceva bene, ed era così vibrante da assordarlo:
“È nata! Gesù Signore, è nata, è nata cazzo!”
Abel sgranò gli occhi scuri prima ancora di Tim e gli afferrò un braccio. Questi non si mosse. Aprì una volta la bocca asciutta e annuì, senza smettere di fissare il compagno.
“Ellie sta bene? La bimba anche?”
Domandò alla fine e sentì dall’altra parte Steve Wu, cinese di seconda generazione nato negli U.S.A., compagno e ora padre devoto... piangere. Tim seppe che era un buon pianto e, sollevato, senza pensarci si sedette per terra, espirando mentre il cuore batteva impazzito nel petto svuotato.
“Sta bene, Timmy, stanno bene tutt’e due. Quando smetto di tremare e tua sorella riprende a capirci qualcosa ti... ti mando un sacco di foto. Oddio, oddio, ci pensi? Sophie. Vuol dire sapienza, lo sapevi? Ellie si è letta un sacco di cose.”
Disse qualcos’altro e Tim lo ascoltò, mentre Abel gli si sedeva accanto, appoggiando la testa su quella del compagno per ascoltare a sua volta, anche se Steve parlava con sufficiente energia da sentirsi benissimo anche a distanza.
“Ok, ok, Steve, non preoccuparti. Quando riesci. Salutamele. Sapevo che... che non sarei riuscito ad arrivare prima del parto ma un po’ ci speravo.”
Lo sentì ridere leggero dall’altra parte del telefono: “Arrivare? Ma dove sei? Con Abel, giusto?”
Per qualche istante, Tim una volta di più realizzò che sua sorella aveva memorizzato in rubrica il numero di Abel. Evidentemente, lei ci credeva più di quanto ci credesse lui.
“Sono in viaggio. Veniamo a trovarvi. Ma è una sorpresa, non dirlo a Ellie.”
Sentì qualche esclamazione di deliziosa sorpresa da parte di Steve e pensò che come sempre era l’uomo capace di esprimere maggiore genuino entusiasmo sulla faccia della Terra. Sua sorella era una donna fortunata, finalmente.
Dopodiché lo udì zittirsi e abbassare il tono di voce: “Contaci. Ma e con Apu – sempre adorabilmente ironico sentire un asiatico ironizzare sugli stereotipi degli indiani, specie se quell’indiano era un pezzo di merda come Akash – come hai fatto? Ti ha dato giorni di ferie?”
Lo disse senza nemmeno crederci davvero, eppure fu in grado di manifestare una sorta di stupore quasi ingenuo.
“Sì. In un certo senso sì” mentì. Avvertì il respiro caldo di Abel, cadenzato e calmo.
“Bene. Bene. Grandissimo – tacque un istante, poi si sentì un fruscio e uno scambio di parole – aspetta. Aspetta, te la passo.”
Suo malgrado Tim sorrise. Si grattò la cicatrice, ma Abel si tolse dall’appoggio e lo fermò, scuotendo la testa con quel fare tranquillo, vagamente divertito eppure ammonitore che gli era proprio in quei casi.
“Ehi” disse la voce di Ellie, un po’ stanca, ma felice.
“Ehi” replicò l’altro. La sua era incrinata, sbeccata da quell’impatto imprevisto con il suo maltrattato lavandino intasato di emozioni.
“È una cicciona. Oltre nove libbre*. Secondo me diventa una bella biondona come te e la mamma.”
Tim rise e Abel si morse un labbro, fotografandolo nella sua testa.
“Una bionda cinese non s’è mai vista, entrerebbe nella storia. Mamma la adorerebbe.”
“Timmy...” mormorò dopo un istante, con la risata che si spense lenta, un fuoco dopo lo scintillio di un nuovo ciocco di legno.
“Riposati. Io sto bene. Mi mancate, Signore Wu.”
“Anche tu, baby, anche tu. Dai un abbraccio ad Abel da parte nostra. Steve ti manderà una foto di Sophie, anche se è rossa e piena di rughe – ridacchiò e aggiunse – non mia eh. Faccio schifo. La mia foto domani, dammi il tempo di riprendermi” sospirò, con fare fintamente drammatico.
Si salutarono e Tim chiuse la telefonata dopo un ultimo saluto di Steve.
Nuovamente avvolto dal silenzio, si grattò un gomito:
“Come si chiamano i mulatti quando sono cinesi e... americani? Mah, non proprio americani. Creoli? Francesi?” domandò a caso, senza che realmente gli interessasse.
Si alzò poi in piedi, con Abel che lo guardò. Disfò la coda, lasciandosi l’elastico al polso, infine si massaggiò il collo. Abel notò che sul proprio telefono erano arrivate una serie di foto di Sophie, una delle quali ritraeva in pieno anche la mamma che cercava di guardare altrove per non essere catturata dall’obiettivo.
“Saremo gli zii che la porteranno alle mostre d’arte, a teatro, a vedere le drag queen più fighe del pianeta” annunciò, distendendo le gambe sul pavimento fresco, come se facesse una previsione ormai certa. Sembrava un divo o un Gesù moderno, forse entrambe le cose. Tim schioccò la lingua, gli prese il cellulare quasi con stanchezza, quasi non volesse davvero vedere le foto.
“Tu e la convinzione che il tuo mondo queer sia speciale. Siamo solo ricchioni, Abel, non c’è nulla di cui vantarsi.”
L’altro gli dette un calcio alla caviglia, leggero, una sorta di pacca, e replicò: “Se siamo solo ricchioni allora perché non ci lasciano in pace e siamo ancora costretti a manifestare per i nostri diritti? Domani ti porto in un posto figo, amore” decretò all’improvviso, in uno dei suoi infiniti collegamenti tra un discorso e l’altro. Si alzò in piedi, prima che Tim potesse afferrargli il piede.
“Una delle tue due tappe prima di arrivare a Lafayette?” domandò Westfield, senza ancora guardare le foto. In quella posizione, nudo, coi capelli sciolti oltre le spalle e un po’ sporchi per via del sesso e del caldo, il cellulare schiacciato contro il petto, Tim sembrava un ragazzino invecchiato presto, come se si fosse appropriato di anni non suoi. Eppure, anche con il suo sopracciglio appesantito dalla cicatrice, la muscolatura nervosa e lo sguardo cinico, aveva una sua personale forma di bellezza, simile a una statuina di vetro che rifletteva le luci dell’arcobaleno ma, purtroppo, con l’arrivo della notte si eclissava.
“Una delle mie due tappe – confermò – ho intenzione di pensare alla mia prossima mostra. Potrei lanciarmi nella fotografia, credo di avere un certo talento” ammise, senza falsa modestia.
“Indubbiamente” replicò Tim, a sua volta senza cinismo. Ci credeva davvero e apprezzava quell’ego sicuro di sé di Abel; avrebbe voluto poter succhiare un po’ di quella convinzione ed essere così capace di piacere comunque agli altri.
Alla fine Tim si decise: abbassò lo sguardo e vide la foto di Sophie, dopo aver sbloccato lo schermo. Ovviamente la bimba aveva i capelli neri, anche se radi, ed era bruttina, come tutti i neonati appena decompressati dopo l’uscita dal confortevole utero. Non capiva se si vedesse qualcosa degli occhi, se fossero vagamente a mandorla o meno. Era una smorfia addormentata di rughe.
“Mia nipote.”
Nel dirlo, per la prima volta ebbe gli occhi lucidi. Sigillò le labbra e si sedette sul letto, dopo essere indietreggiato mentre continuava a guardare la foto.
Pensò che l’idea di Abel, di loro due zii, non fosse poi così folle. Perché no, giusto? Magari... beh, magari in fin dei conti nemmeno tutta la storia delle scelte d’istinto professate da nonna Abigail era poi così sbagliata.
Sollevò la testa e gli chiese all’improvviso, dopo aver appoggiato il cellulare sul comodino:
“Siamo quello che siamo; nel nostro piccolo, possiamo essere stelle: ce ne sono tante nel cielo, ma ognuna a modo suo brilla. Hai ancora voglia di fare l’amore con me, Abe?”
Questi gli sorrise, mordendosi un labbro. Avanzò e si piegò sulle ginocchia, posando le mani sulle sue cosce: “Sempre – gli baciò un ginocchio – zio Timmy. Zio Abel.
Poi lo baciò ancora. E Tim non lo zittì, cominciando a crederci, con il cuore che galoppava e la vita che scorreva in sangue. La vita, lui l’aveva quasi vista nascere.

 

Sproloqui di una zucca

Lo so, dovrei scrivere di un mucchio di cose e ne ho altrettante da pubblicare, ma è un periodo intenso e non avevo la giusta concentrazione. Poi ieri sono stata illuminata dall'ispirazione e ho scritto di getto, dopo aver pensato e ripensato ai protagonisti di questo racconto breve, di cinque capitoli, che illustrerà un viaggio on the road.
Ringrazio il gruppo SasuNaru Fanfiction  per la bellissima challenge a tema per il pride month (qui il link
https://www.facebook.com/groups/1712840615712529/permalink/2254066268256625/), per ogni colore della bandiera arcobaleno, simbolo della comunità LGBT, cii sono dei prompt associati.
Il primo colore è il rosso, la vita, con ulteriori prompt Scoperta / Dubbio / Passione.  Mi sono concentrata sulla vita, ma anche sul dubbio e sulla passione, sebbene il primo inerente al dubbio esistenziale.
Dedico questo capitolo in particolare a Sunako, la futura zia che mi ha ispirata per il prompt più bello ed emozionante di tutti: vita. Sarai la zia più bella, sensibile e tosta del mondo. Tuo nipote è fortunato, fortunatissimo.

P.s. il titolo principale è ispirato a due canzoni, una di Jimi Hendrix, Voodoo Child, l'altra di Johnny Jenkins, I Walk on Gilded Splinters. Hanno tutta l'atmosfera che volevo per questa storia e un tocco di New Orleans.

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Healing ***


I walked through the fire and I fly through the smoke:
mama, I'm a voodoo child.

2. Healing

 

 

Abel amava le mattine pigre, quelle in cui la luce estiva del giorno scaldava le lenzuola impalpabili facendole assomigliare a un plaid invernale. Amava l’impercettibile sudore vicino al collo e il modo in cui la testa affondava in un solco perfetto nel cuscino stropicciato, al pari della guancia arrossata che, simile a un trasferibile da bambini, fotocopiava le pieghe del tessuto.
Tirò un sospiro profondo, poi stirò le braccia e si alzò a sedere, massaggiandosi la faccia e ravvivandosi i capelli.
“Ho fatto un sogno” annunciò, dando per scontato che Tim, a pancia in giù e girato dall’altra parte, fosse sveglio e riuscisse a sentirlo.
Non ci fu risposta, eccetto un placido respiro. Prese la sigaretta elettronica, controllò ci fosse ancora liquido, poi guardò vago fuori dalla finestra, le cui tende tirate filtravano un po’ di luce; aspirò, con il piacere perverso di sentire un gusto aereo di nicotina e mentolo nella bocca ancora impastata dal sonno.
“Eravamo in riva a un fiume, non so quale. Attorno c’era qualche albero e delle colline, la sabbia era ghiaiosa, metallica direi – rise appena – l’acqua gelida, cazzo. A un certo punto arriva un’onda gigantesca, di quelle che ci travolgono, ci schiacciano e ci portano nel mezzo della corrente. So che è impossibile, ma, ehi, il potere dei sogni, no?”
L’altro non gli rispose, né si mosse. Il frigo ancora ronzava, si udiva in lontananza il passaggio di qualche macchina coi pneumatici che grattavano l’asfalto caldo.
Abel continuò placido, sbattendo lentamente le palpebre mentre nella stanza si diffondeva l’odore al mentolo del vapore denso, reso quasi magico dalla luce soffusa che passava attraverso le tende polverose:
“La prima cosa che ho fatto è stata cercarti, assicurarmi che stessi bene. Poi mi sono preoccupato del cellulare che per qualche motivo sapevo essere rimasto a riva. È arrivata un’altra onda e me l’ha portato via, fin dentro il letto. Tu mi hai detto di lasciar perdere, che non ne vale la pena, io invece mi sono immerso lo stesso e l’ho recuperato. Mi sentivo, ah, trionfante, come se avessi fatto chissà cosa.”
Appoggiò la testa contro la parete e sollevò gli occhi verso il soffitto, assottigliandoli appena mentre inspirava e poi gettava una nuova nuvola.
“E alla fin fine il cellulare funzionava?”
La domanda improvvisa era stata detta con la voce arrochita di chi doveva ancora scaldare le corde vocali. Abel spostò lo sguardo verso Tim, con una leggera sorpresa: “Allora eri sveglio – scrollò le spalle, facendo un mezzo sorrisetto – sì, funzionava. Sai che sono ostinato, poi ho preso il tuo ‘provaci lo stesso anche quando le cose vanno di merda’ et, voilà, mesdames et messierus, les jeux sont faits: cellulare recuperato e funzionante. Ma sai qual è la cosa davvero figa?”
Espirò un’ultima nuvola ancora, poi si leccò un labbro, continuando a guardare Tim che si voltò verso di lui in un fruscio di lenzuola. Westfield lo fissava con occhi strani, di chi già sapeva la risposta ma non attendeva necessariamente di sentirla.
“Che non hai vomitato anche l’anima dopo la centrifuga del fiume?” ironizzò l’altro, sbattendo una volta le ciglia. Sembrò impassibile, anche se le labbra fecero un mezzo sorriso, parzialmente coperto dal cuscino.
Mahogany finse di non cogliere l’ironia e specificò, come se si trattasse di un evento reale: “La cosa figa è che eri nel fiume, assieme a me. E nuotavi. Da quello che mi raccontavi della Louisiana ti ho sempre immaginato simile a una bellissima ranocchietta.”
“Che sogni assurdi fai – replicò Tim, senza muoversi – un cellulare non si ripara e io non ho più intenzione di nuotare da nessunissima parte. Che ore sono?”
Domandò di seguito, come per chiudere il discorso; senza inflessioni cattive, ma quasi fingendo che  fosse una semplice sequenza priva di possibilità di tornare indietro.
Abel fece un sorriso dei suoi, particolari, che riuscivano a essere seducenti con fascino leggero, mentre gli occhi scuri si assottigliavano impercettibilmente, come se lui fosse a conoscenza di qualcosa di più profondo.
“Le undici di mattina, amore.”
Tim roteò gli occhi e si girò a pancia in su: “Dobbiamo muoverci, abbiamo dormito troppo. Ci saranno ancora almeno tre ore di viaggio.”
Si alzò infine in piedi, legandosi i capelli per poi cominciare a raccogliere i vestiti mentre si massaggiava una guancia, nell’atto di carburare e riprendere la piena attività del cervello dopo comunque troppe poche ore di sonno.
Abel non si mosse; lo osservò, contemplando con morbido piacere la nudità del suo ragazzo, infine lo rassicurò: “Johnny non ci aspetta prima delle 18,00. Abbiamo tempo.”
“Sì, va bene, ma dobbiamo mangiare.”
Lo guardò quando glielo disse, lasciando i vestiti sul letto, simili a una dichiarazione di guerra. Abel cambiò impercettibilmente il sorriso, poi sospirò e annuì, come se fosse un’immensa concessione: “Lo so, ovvio. Abbiamo tempo lo stesso. Non dirmi cosa devo o non devo fare.”
Glielo ribadì con tono tranquillo, quasi scherzoso, in quel modo speciale che aveva di riuscire a plasmare la rabbia altrui, trasformandola in comprensione. Tim infatti non fu in grado di prendersela, anche se come sempre avvertì un moto di superiorità scaturire senza cattiveria da Abel, persino di maturità rispetto a se stesso, quasi fosse assurdo che un poppante di ventun anni desse qualche suggerimento a una persona più vicina ai trenta che ai venti.
“Tu lo fai continuamente con me” replicò però d’istinto, pentendosene subito dopo per la connotazione infantile, e stupida, che aveva dato a quella frase.
“Che bugiardo! Non è affatto vero!” replicò l’altro, sgranando gli occhi divertito. Gli tirò un cuscino e si alzò in piedi – cuscino che Tim aveva afferrato e stava per lasciar andare a terra, già propenso a ignorare tutto il discorso.
Però Abel lo raggiunse, gli prese il cuscino e lo appoggiò sul letto, per poi stringergli un polso e dirgli con l’intonazione di chi avesse ricevuto l’ispirazione del secolo: “Andiamo a Carlisle e ci cerchiamo un diner. Facciamo una colazione abbondante, poi ritorniamo sulla 76 e via, diretti verso Pittsburgh.”
Per un istante, con una morsa d’angoscia al cuore, Tim fu tentato di andare a controllare il portafoglio e vedere quanti soldi aveva con sé, gli ultimi che possedeva e si era portato dietro dopo aver sfanculato Akash. Si sentì in colpa, avvertì un senso di nausea e paura all’idea di cosa sarebbe stato di lui a quel punto, se non avesse avuto più nulla in tasca. Anche se... davanti aveva Abel che gli parlava di mangiare assieme.
Non lo fece dunque, non controllò i suoi patetici contanti, esattamente come non aveva ancora controllato il telefono, sicuro di trovare qualche messaggio furente del suo capo che lo licenziava mandandolo a farsi fottere, con la concentrazione di tutti gli insulti accumulati verso la sua patetica persona di ragazzino. In generale, c’erano momenti della propria vita in cui Tim non guardava il telefono e basta: la gente aveva un peso specifico importante e non sempre, ogni singolo giorno, sentiva di essere in grado di gestirlo.
Però appunto si trattava di Abel, e Abel che gli proponeva di andare a mangiare in un diner stupido nel mezzo di una cittadina sconosciuta era un evento da segnare sul calendario. Avesse potuto, avrebbe speso anche tutto quello che aveva per far sì che avvenisse davvero:
“Va bene, certo, ci sto.”
Abel sollevò un sopracciglio e gli sorrise, mordendosi un labbro. Compiva quel gesto solo quando facevano l’amore o qualcosa lo rendeva particolarmente felice; in quei tre anni più o meno insieme Tim aveva imparato a conoscere parecchie cose di Abel, nonostante questi sostenesse di essere il vero osservatore della coppia. In realtà Mahogany l’aveva sostenuto più specificatamente nell’ultimo anno, perché prima per tutti e due le idee erano un po’ confuse, persino vaghe, riguardo l’impegno dello stare assieme, sebbene si fossero conosciuti in una situazione fragile e delicata per entrambi.
Tim non era un grande esperto di relazioni, né aveva avuto chissà quanti uomini, ma aveva sempre immaginato che da una parte la fedeltà, così come la stabilità di coppia, e dall’altra l’essere gay, fossero due universi paralleli e distinti, destinati raramente a incrociarsi. Solo ultimamente stava ricredendosi, anche se ogni tanto riteneva plausibile, persino normale, che saltuariamente Abel potesse vedersi con qualcuno: ipotizzava che, continuando a pensarlo, gli avrebbe fatto meno male se un giorno avesse avuto ragione. Senza false modestie, Westifield pensava di avere una straordinaria abilità nell’anestetizzarsi in molte cose.
Abel per contro lo baciò e, a piedi nudi – perché amava stare scalzo – raccolse le ultime cose sparse nella stanza, si dette una sciacquata e fumò ancora, mentre aveva lasciato a Tim il suo cellulare per telefonare a Steve ed Ellie. Poi, dopo aver pagato il conto si mise in macchina e Tim si sedette di fianco, i capelli lasciati crescere lunghi schiacciati all’indietro dal vento quando presero velocità; il guidatore improvvisato del viaggio lo scorse stare con gli occhi chiusi, il volto diretto verso l’aria.
Una volta a Carlisle, entrò in W High Street, la strada principale: era circondata da tantissimo verde, viali alberati e un generale senso di pace, dove persino il traffico sembrava moderato. Sfruttò il primo parcheggio disponibile con accanto un diner, indossò gli occhiali da sole e, in ciabatte, uscì dall’auto dove si stiracchiò la schiena e si guardò attorno, cominciando infine a camminare sicuro di sé.
Tim lo osservò un attimo, poi lo raggiunse con le mani in tasca; portava una maglietta a maniche corte dipinta da Abel e sapeva che, dietro gli occhiali, lui la stava guardando. Con soddisfazione manifesta d’artista, perché quella maglietta, come tante altre, l’aveva dipinta lui. Le metteva quasi sempre, le regalava alle persone a cui teneva, considerandole i suoi ‘quadri prêt-à-porter’. Ne andava orgogliosissimo, anche quando si trattava di linee astratte e altre elaborazioni conoscesse dopo un trip particolarmente intenso. Quella che aveva addosso Tim, per esempio, l’aveva dipinta una notte di qualche mese fa da ubriaco, dopo aver discusso di religione, etica e morale con un’interprete che lavorava al parlamento di Strasburgo ed era in vacanza negli U.S.A.
Non sono luci, sono fuochi d’artificio. Non festeggiamo abbastanza.
Non che ci fosse mai stato nulla di particolare da festeggiare, eccetto il successo di qualche mostra di Abel – evento di per sé meraviglioso, ma comunque già corredato di qualsiasi elemento per festeggiare, dal catering di alto livello, ad alcolici, alla gente coi soldi veri e l’interesse a sembrare di un certo livello di cultura, dunque non contava – però Tim capiva che quello era il suo canto d’artista per affermare di volerci credere.
Nel diner, ordinarono da bere e da mangiare. Tim non si stupì particolarmente quando vide Abel chiedere dei pancakes e una fetta di carrot cake: tanto bravo a consigliare il suo compagno, ma altrettanto pessimo nei propri eccessi, pur mantenendo sempre quell’aria sicura di sé, come se li avesse davvero programmati.
“Che c’è?” domandò infatti Abel con una sorta di sorriso, quando vide l’espressione scettica dell’altro.
“Ce la fai a finire tutta quella roba?”
“Se puoi farcela tu, non vedo perché non dovrei riuscirci io. Poi… sono previdente: mal che vada abbiamo degli avanzi da mangiare durante le lunghissime tre ore di viaggio.”
Sembrò quasi contrattare, con sottigliezza strategica. Tim lo osservò mettersi gli occhiali sul capo, così che affondarono tra i capelli mossi, infine rispose, incapace di passare oltre:
“Non prendermi per idiota – nel parlare, d’istinto il suo accento della Louisiana divenne più marcato, mai davvero influenzato dalla parlata più stretta assorbita a New York, nell’eclettico e un tempo povero quartiere di Harlem – mangia quello che ti senti. Ma se vuoi abbondare, se davvero lo vuoi, non c’è nulla di male: non sono...”
Tacque, emettendo una specie di ringhio infastidito, quasi strozzato, poi iniziò a inforchettare il pancake come se avesse dovuto ucciderlo. Ne prese una grossa fetta, cominciando a masticarla con le guance piene e gli occhi puntati verso lo sciroppo d’acero.
“Mia madre?” finì per lui Abel, diretto ma tranquillo. Lo osservò mangiare, poi ammise in uno dei suoi personali collegamenti: “Sei sempre così magro, hai un sacco di pensieri in meno da quel punto di vista.”
Tim smise di mangiare e lo guardò, con ancora la bocca piena. Abel si tolse gli occhiali da sole, li appoggiò sul tavolo e, con ancora il suo piatto e la torta intoccata, al pari dei pancakes, aggiunse mortificato eppure con fierezza:
“Scusa. Scusa amore, sono stato stronzo.”
Tim mangiò lentamente, deglutì, bevve dalla tazza un sorso di caffè macchiato. Gli servì perché altrimenti avrebbe attaccato Abel dicendogli qualcosa di cattivo, lo sapeva. Dunque prese una pausa per connettere e cercare una cosa giusta da dire, anche se era un ragazzino ignorante, non era andato al college e a malapena aveva finito le scuole.
“Non metterci troppo sciroppo sopra. Questa marca è più zuccherata del solito.”
Si grattò poi il sopracciglio. Abel annuì, la stessa espressione intensa e attenta di chi riceva una grande nozione scientifica, poi allungò la mano per far smettere il compagno. Gliela baciò, in maniera sfrontata, chiedendosi se qualcuno si sarebbe girato a guardare, infine la lasciò e iniziò a tagliare la pila di pancakes dopo averci messo sopra un po’ di sciroppo – poco: stranamente, ma non poi così tanto, aveva ascoltato almeno quel consiglio.
Dopodiché, con iniziale lentezza prese a mangiare.
“Buoni. Ne valeva la pena.”
“Sì, ne valeva la pena. Sicuramente più di salvare un cellulare nel mezzo di un fiume in piena,” replicò Tim, con una sorta di sorriso che rendeva meno ingombrante la sua cicatrice, come se in quel modo sparisse nelle minuscole rughe d’espressione.
Abel però a sua volta gli sorrise, gli occhi scuri affascinanti, saggi nonostante qualche sfumatura di follia per le idee che la sua testa perseguiva.
“Johnny – annunciò all’improvviso Abel, dopo aver tagliato in parti più piccole quello che ancora restava del pancake in cima – l’ho incontrato in clinica. Ci tenevo che lo conoscessi perché, prima di te, assieme a nonna è stato parte del mio percorso di guarigione.”
Lo disse come se fosse qualcosa di spirituale e, in un certo senso, forse era così. Abel era tanto bravo a parlare di sé come artista, a mostrarsi sicuro, pieno di certezze e al tempo stesso ricco di fragilità nascoste, che lasciava intravedere come uno spiraglio lontano a sufficienza da instillare curiosità, ma mai compassione; allo stesso modo, per opposto, era totalmente incapace di gestire le proprie debolezze: gettava in superficie tutto ciò che voleva gli altri vedessero, per evitare che, nonostante quel famoso luccichio distante che ingolosiva, la maggior parte delle persone non fosse interessata a scavare più a fondo, certa di aver già ricevuto il meglio. Lo faceva anche con se stesso, senza mai chiamare per nome ciò di cui aveva sofferto, senza mai menzionare la madre – eccetto quando gli dava i soldi e pubblicava articoli riguardo l’arte del figlio sul New Yorker, per il quale, sotto sua insistenza, Abel aveva anche disegnato una copertina, copertina che odiava e aveva usato per ‘pulirsi il culo dopo aver cagato’. Dopodiché, aveva incorniciato la suddetta copertina per spedirla via posta alla madre e al compagno di quest’ultima. Tim l’aveva visto in azione e, suo malgrado, aveva capito di essersi innamorato di Abel anche per quel suo lato ricco di parolacce nel mezzo di parole auliche, oltre che di ribellione un po’ capricciosa, all’apparenza, ma in realtà frutto di un’esasperazione dalle radici ben più profonde.
“Johnny – ripeté allora Tim, assorbendo quel nome, perché era la prima volta che Abel gli parlava così tanto all’improvviso di qualcuno incontrato in clinica – va bene, lo conoscerò volentieri. Cosa fa nella vita?”
Azzardò a chiedere, dopo aver mangiato l’ultimo boccone. Aspettò a bere, quasi per non interrompere il contatto visivo con Abel che, come se avesse atteso quella domanda, replicò soddisfatto:
Edith Labelle. È una drag queen e uno stilista piuttosto affermato nel suo ambiente. Se stessi un po’ di più su instagram lo sapresti.”
Lo prese in giro con fare pacato, consapevole che se c’era una persona a cui non fregava nulla dei social media, beh, quella era Tim, il quale era capace anche per giorni di non rispondere al telefono o persino ai più semplici messaggi.
“Stacci tu anche per me su instagram” sbottò infatti alla fine Timmy, prevedibilmente. Picchiettò la forchetta sul piatto, raccogliendo qualche residuo dello sciroppo d’acero, per poi grattarsi la cicatrice e smettere prima che glielo dicesse Abel, aggiungendo: “Facciamo portare via la carrot cake e quello che non hai mangiato dei pancakes, non era una cattiva idea quella di smangiucchiarli per strada.”
Incredibilmente, in aggiunta gli sorrise e scrollò le spalle, assumendo però come sempre un atteggiamento tiepido e vagamente distaccato, anche se Abel conosceva le sfumature dei suoi occhi e di quel sorriso. Allora abbassò lo sguardo, realizzando di aver sminuzzato e accantonato una grossa parte dei pancakes; uno dei suoi trucchi preferiti per diminuire il volume del cibo nel piatto e dopo esclamare ho mangiato fino a sfondarmi! Se prendo ancora altro esplodo!
“No. No, amore, ho ancora fame. Sai che sono lento” specificò dopo un istante di silenzio, anche se non era vero. Abel era lento solo quando accarezzava il suo compagno, o camminava a piedi nudi da qualche parte. Lì… sì, si prendeva tutto il tempo del mondo.
Infilzò i pezzettini uno dopo l’altro, con fare metodico, preciso, contandoli. Quattro per ogni forchettata. E se ne riempì la bocca, con Tim, le sue cicatrici, il suo corpo nervoso e spigoloso che, Dio, quanto cazzo gli aveva invidiato e ancora, in parte, gli invidiava, che lo guardava senza nemmeno provare a fingere di fare altro, anche se ogni tanto gli rubava un pezzetto di pancake, silenzioso, facendogli credere che potevano competere per chi mangiava di più e il ragazzo della Louisiana riuscisse davvero a perdere.
Abel dunque si riempì le guance, masticò, più e più volte, mentre continuava a fissare il piatto. Deglutì e si rese conto della fatica nel farlo, perché, cavoli, aveva esagerato come al solito, nella sua personale forma di protesta. Bevve poi del caffè, si sciacquò gli ultimi residui tra i denti e ricominciò. Meno lento quella volta.
Fu Tim a chiedere di portare via la carrot cake; quando la cameriera gliela riportò nel doggy bag, il ragazzo la ringraziò, pagò di tasca sua e si mise il sacchetto in grembo, portandosi una ciocca di capelli dietro le orecchie.
“Grazie” gli disse Abel dopo un istante, per poi sorridergli mordendosi un labbro. Tim a quel punto sentì inconsistente il peso dei soldi dati via, anche se erano pochi quelli rimanenti; pochissimi, se pensava al viaggio che ancora avevano davanti.
“Prego – guardò poi l’ora e aggiunse, dopo essersi schiarito la gola con un colpo di tosse – che ne dici di andare? Edith Labelle potrebbe essere una potenziale drag queen per gli spettacoli che volevi far vedere a Sophie.”
“Sì, decisamente sì. La amerebbe” decretò Abel. Con quelle parole fece scomparire in maniera definitiva qualunque precedente insicurezza, come dimenticandosi del cibo, anche se era finalmente nello stomaco, macigno del senso di colpa.
Si alzò in piedi, attendendo Tim; quando lo ebbe accanto gli iniziò a parlare della cantautrice Edith Piaf a cui era ispirata Labelle, del fascino del bianco e nero, di quanto fosse bella sua nonna con le sfumature antiche delle fotografie e di quanto avrebbe voluto impostare la sua prossima mostra sul bianco e nero. L’hanno fatto tutti, ma io lo farò meglio.
Sull’onda del trasporto, aggiunse anche che avrebbe fatto una prossima foto a Tim nudo in un fiume, come nel suo sogno, quasi fosse stata una missione di vita farlo tornare a nuotare con alligatori immaginari. Stupido, stupido Timmy: in passato hai avuto talmente tanta paura di annegare e soffocare da non bere per giorni. Hai rischiato di morire per la disidratazione, lo sapevi?
“Sei il paladino delle cause perse, Abel” replicò Tim salendo in macchina, ma non contestò del tutto la possibilità di fare davvero una foto in un fiume. Non perché ci credesse, semplicemente non aveva voglia di discutere: gli spiaceva smorzare l’entusiasmo ed era troppo contento nel constatare che, da un anno a quella parte, Abel aveva decisamente migliorato il suo rapporto con il cibo e ogni tanto si ubriacava persino. Certo, c’erano ancora sospetto, diffidenza e vecchi echi di rifiuto, simile a un cane che annusi con incertezza il padrone che l’ha abbandonato, però Abel e il cibo riuscivano a fare lunghe passeggiate al guinzaglio senza rischiare di scappare.
“No, niente cause perse: siamo cresciuti tanto da quando ci siamo incontrati, Timmy. Credo nella crescita appunto e nel cambiamento. Una delle tante cose buone che il mio ex mi ha insegnato è questa.”
Indicò il due con le dita, poi avviò il motore, rimettendosi gli occhiali sul naso. Tim si allacciò la cintura: “Che vuol dire quel due?”
“Seconda tappa. Il mio ex. Prima John, poi Lyanna.”
Tim non riuscì a provare nemmeno senso di inadeguatezza, o a immaginare se l’ex di Abel dovesse essere un barbone, per effetto del modus Jesus-Christ-Our-Lord-and-Saviour operandi di Mahogany Abel, che replicò sull’onda della sorpresa: “Lyanna?
Da dietro gli occhiali vide Abel inarcare un sopracciglio, sorridere, e immettersi in carreggiata senza dire altro. Accese solo la radio, che passò una canzone di Gloria Gaynor. Appena la sentì alzò il volume al massimo, abbassò i finestrini e lasciò che le parole I will survive risuonassero per le strade verdeggianti di Carlisle e, poi, in quelle immense ma polverose della Pennsylvania.

 

Daily News – Sezione annunci

AAA Artista cerca modello per terapia riabilitativa
Non interessa il fisico, né la bellezza. Compenso congruo. No scopo sessuale, solo affidabilità professionale in percorso personale parallelo di terapia. Contattare all’indirizzo mail shapeshifter@yahoo.it

 
Da: tim.westfield1234@gmail.com
A: shapeshifter@yahoo.it
Oggetto: annuncio cercasi modello

Buongiorno,
scrivo per l’anuncio. Uomo, fisico magro. Dicono che ho una buona empatia, se può aiutare nella riabilitazione.

 
Questo era l’annuncio che Abel tre anni fa aveva prescelto, tra centinaia e centinaia di altri migliori, molti dotati di foto dei candidati in ogni posa possibile, di gente che si sapeva vendere insomma o cercava perlomeno di farlo, a differenza di quelle quattro righe sputate e persino con un errore di battitura. Eppure l’aveva scelto perché era l’unico che gli avesse parlato di empatia, quando i pochi che si ricordavano della riabilitazione vantavano nient’altro che immense lauree in psicologia o addirittura in psichiatria.
L’aveva colpito, quell’empatia, aggiunta al se può aiutare, come un’entrata in punta di piedi ma da ballerina, non da ladro.
Preparò allora due mail.
Una che gli mandò:

 
Re: annuncio cercasi modello
Da: shapeshifter@yahoo.it
A: tim.westfield1234@gmail.com

 
Ciao Tim Westfield, presupponendo che sia tua la mail. Incontriamoci al Lacolombe Café, a SoHo, Lafayette Street. Domani alle 18,00?
Discutiamo del compenso e delle disponibilità di giorni e orari. Per onestà professionale preciso che sono gay; non intendo provarci con te, né molestarti sessualmente.
A presto,
Abel

 
Re: re: annuncio cercasi modello
Da: tim.westfield1234@gmail.com
A: shapeshifter@yahoo.it

 Sono Tim. Grazie per l’avviso, anche io cerco solo del lavoro se si riesce normale. Ok per domani.Ciao.

 
Quando lesse quelle righe Abel si ritrovò a mordersi il labbro e a sorridere. Lesse una qualche forma di speranza e al tempo stesso di rassegnazione, quasi come se la prima fosse contrastata da una maturità più grande, di chi non si aspettava di incappare tramite annuncio nel lavoro perfetto però volesse comunque provarci. Trovò bella la semplicità delle parole, l’essere sia dirette che schive.
Fu tentato di seguire il consiglio della sua terapista e della clinica pagata da suo padre tanti di quei soldi da poterci fare infiniti viaggi attorno al mondo, comprare materiali per la scultura, pitture, tele. Lo faceva incazzare la sola idea delle spese e pensò di mandare un messaggio a sua madre, per riversarle contro quello che era stata. Non lo fece. Riscrisse invece quella mail alternativa che non aveva mai mandato all’ormai confermato Tim.
Rimase nelle bozze, ma ogni tanto la guardava pensando che forse, un giorno, quando Tim sarebbe stato più forte emotivamente gliel’avrebbe fatta avere, come una proposta di matrimonio.

 La riabilitazione è perché ho un disturbo alimentare: anoressia. Se ti stupissi pure tu come tanti prima di te, ma credo tu sia più sveglio, ebbene sì: l’anoressia colpisce anche gli uomini; me l’hanno spiegato con un sacco di statistiche e grafici. Come per farmi sentire meno speciale, o più normale.
Parlando con il gruppo di supporto e con la terapista che mi segue, è emerso che forse potrei ritrarre dei corpi, visto che ho studiato alla New York Academy of Art. Rendermi conto che in ogni fisico c’è una forma di bellezza, persino quando tentiamo di autodistruggerci.
Sto cominciando il mio percorso per non vanificare quello che ho ottenuto in clinica. Molti mi hanno preso da parte, guardato in faccia e detto che, ehi, lo sappiamo tutti e due, non guarisci mai veramente dall’anoressia, l’allontani solo per più o meno tempo. Ma io non voglio ascoltarli, voglio andare contro le opinioni comuni, capisci? In fin dei conti voglio solo sopravvivere: sono un essere umano, è questo quello che gli uomini fanno.
Quindi, senza troppo peso o responsabilità, se cominciamo questa collaborazione è bene che tu sappia una cosa: più che la mia musa potresti essere il mio incantesimo, il mio mantra, la mia medicina per guarire veramente,

 il mio voodoo contro ciò che odio, Timmy.


Sproloqui di una zucca

Il prompt era guarigione. Spero di averlo affrontato con la giusta sensibilità, accanto a prompt importanti come malattia, supporto e fiducia. La canzone portante da inserire è ovviamente I will survive, di Gloria Gaynor. Grazie per aver letto, mi auguro che quanto scritto possa piacervi!

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Capitolo 3
*** Sunlight ***


I walked through the fire and I fly through the smoke:
mama, I'm a voodoo child.

3. Sunlight




Se ti comporti male, Tonton Macoute ti porta via.”


Tonton Macoute, Zio Sacco di Juta. Ancora a distanza di anni, Tim ricordava i moniti secchi di sua nonna paterna. Seduta sulla sua grande poltrona a fiori, con il camice largo e le ciabatte da cui spuntavano i piedi, fasciati dalle calze contenitive per combattere la pessima circolazione, la signora Westfield aveva un aspetto imponente, persino autoritario, e parlava di Tonton Macoute con talmente tanta convinzione da far credere all’allora nipotino che potesse evocarlo così, da un momento all’altro, come se fosse stato un suo vecchio amico.
Il giovane Tim ne era inquietato e affascinato al tempo stesso, anche se sua mamma gli diceva di non dare ascolto alla vecchia Tina, perché era spostata come suo figlio; e, considerando che suo figlio la mamma di Tim se l’era sposato, in fin dei conti al bambino non sembrava una posizione poi tanto credibile quella della sua genitrice.
Nonostante questo, e nonostante pochi anni dopo Tina fosse morta d’infarto, l’ombra di Tonton Macoute era rimasta; a modo suo infatti Timmy aveva provato a essere buono, per quanto, si era reso conto con la crescita, la definizione di buono nel mondo degli adulti fosse molto relativa. Così, mentre sua sorella maggiore cresceva e usava l’ironia come scudo, Tim aveva provato a interpretare cosa fosse buono o meno e ribatteva se qualcosa non gli andava giù: tenere le cose nascoste era pessimo, di certo non voleva che Tonton Macoute si barcamenasse fino all’Eight Street di Lafayette per punirlo e portarlo via.
Altra realizzazione in parallelo, però, era che agli adulti tendenzialmente non piaceva quando un ragazzino li contestava, o si esprimeva liberamente, quasi come se temessero di vedere mistificato il loro piccolo mondo fatto di principi inattaccabili per colpa di un marmocchio, sputato da una scatoletta di lamiera che ricordava un container, più che una casa. Questo dunque gli aveva dato un sacco di problemi, specie con suo padre e gli altri adulti con cui il piccolo Timmy aveva costantemente a che fare, eccetto sua madre, a detta di molti eccessivamente comprensiva.
“Sono le sue radici francesi che la rendono debole. Cajun: loro e come parlano. Pensano che qui sia l’Europa” sbottava suo padre, mentre Tim si teneva il labbro spaccato da un suo ceffone, quasi per farlo smettere miracolosamente di sanguinare.
In qualche forma, comunque, nonostante gli alti e bassi della vita Timmy era arrivato fino ai sedici anni senza troppi impedimenti di sorta, eccetto la normale lotta per la sopravvivenza, tra lavoretti pagati con qualche mancia per aiutare con le spese di casa, oppure i racconti sui loa trasmessi da Mama Hazika e quindi narrati in cambio di cibo ai bambini del vicinato, per quando i genitori non c’erano. Giunto a quell’età era arrivata anche la progressiva consapevolezza che, tanto, dal suo personale ghetto di povertà Tim non sarebbe mai uscito, come i professori, le sue uniche guide, si erano premuniti di ricordargli: non sei intelligente e sei svogliato per studiare, Westfield, quindi non pensare nemmeno di avere una borsa di studio. Il college puoi anche dimenticartelo. Anche se intelligenza e svogliatezza spesso venivano confusi con un precoce senso di arrendevolezza a un mondo di falliti; ma Tim aveva creduto a quello che dicevano i suoi insegnanti, dunque non si era mai scomodato a far cambiare loro opinione.
Tutto questo
insieme di fragili equilibri, però, aveva cominciato a mutare nel momento in cui Tim si era ritrovato a fare due conti con se stesso riguardo le proprie preferenze sessuali. E se in principio aveva attribuito lo scarso interesse ed eccitazione verso il genere femminile a un suo complessivo senso di disagio, alla rabbia e alla frustrazione per la situazione a casa, con il tempo Tim aveva realizzato che qualcosa non andava come doveva: nel masturbarsi davanti a qualche patetico ritaglio di uomini in intimo, rubati da una delle riviste recuperate di fortuna, o con in testa corpi maschili di compagni di scuola, piuttosto che di compagne.
Non si parlava mai di cose come l’omosessualità, anche se era un argomento sicuramente meno tabù di quanto avveniva decenni prima, né lui aveva amici, o parenti a cui rivolgersi
per chiarire i propri dubbi. Sua madre da un po’ di tempo a quella parte sorrideva raramente, stava sempre più a letto e si lamentava delle proprie frustrazioni meno di quanto facesse anni primae quante ne aveva, di frustrazioni: la carriera come insegnante naufragata per un matrimonio riparatore e dei figli avuti troppo giovane, dei libri che non leggeva con la stessa frequenza di una volta, soprattutto la sua amata Virginia Woolf, della generale ignoranza in cui suo marito Waltie era sprofondato e che stava risucchiando tutti loro, in un quartiere povero e con lavori precari.
Sua sorella c’era sempre meno a casa, impegnata a cercare di succhiare con avidità quel poco di libertà che trovava in amiche e ragazzi che sosteneva di amare, per poi dimenticarsene o piangere di delusione, quasi fosse una questione di sopravvivenza ultima, l’amore di un’altra persona.
Poi, Tim conobbe Mathieu.
Suo padre si era trasferito da Baton Rouge per lavoro e, come
Waltie Westfield, lavorava in una fabbrica che produceva zanzariere per porte e finestre; certo, a differenza del proprio vecchio, quello di Mathieu era un ingegnere, quindi assicurava al figlio tutto ciò che invece a Tim mancava. Ma quest’ultimo nemmeno da ragazzino era mai stato tipo da sentirsi sminuito o invidioso per le questioni materiali, seppur persino troppo conscio del peso del denaro: liquidava tutto con un pacifico pazienza, a lui è andata meglio, c’è gente a cui è andata meglio ancora e altri che stanno peggio. Così è la vita.
Difatti di Mathieu, più che i soldi, Tim aveva notato il fisico slanciato da corridore – una gazzella con il colorito d’ebano – i capelli ricci, acconciati in splendide treccine corte che tracciavano linee perfette sul cranio altrettanto armonioso. Gli occhi erano di un castano più chiaro, quasi nocciola, e alla luce del sole sembravano medaglie di legno contornate da un mare di ciglia folte, con una strada luminosa di denti attorno a cui si distendevano le labbra piene.
“Marie Laveau, eh? Deve essere stata davvero un portento!”
Aveva esordito all’improvviso Mathieu, con le mani nelle tasche dei jeans tagliati fino al ginocchio, il sorriso e un occhio chiuso per via del sole del tramonto. Tim era seduto sulle scale del porticato in Eight Street, stava infilando in un sacchetto della spesa le merendine, il boudin o altri contenitori di cibo portati dai bambini del vicinato che ora, finiti i racconti, stavano rientrando a casa; alzò lo sguardo, rimanendo in silenzio qualche istante perché non sapeva proprio cosa dire, troppo stupito che la gazzella fosse arrivata fino a lì.
“Sì. Mama Hazika però ci terrebbe a ricordare che il voodoo è una religione, la magia nera un’altra cosa. Ma ai bambini non sembra interessare.”
Il giovane allora aveva riso, con quella risata calda e vibrante che sembrava venire direttamente dai polmoni per far scuotere di piacere la trachea; forse, effettivamente faceva ridere che un cajun dai capelli biondi parlasse di voodoo a un creolo di origini haitiane. A quest’ultimo, però, in realtà sembrava non importare, esattamente come ai bambini: “Piacere, sono Mathieu. Mio papà ha conosciuto il tuo a lavoro, so che andiamo alla stessa scuola e allora, sai...”
Aveva scrollato le spalle, muovendo le pieghe della polo stirata. Aveva una scarpa di tela slacciata, quasi come se fosse uscito di fretta.
A quel punto Tim mosse le labbra in un sorriso; poi, le mosse per presentarsi a sua volta: “Tim. Dove abiti?”
Mathieu si guardò un istante attorno, grattandosi la testa: “Ehm, abito… non distante. Forse.”
Gli aveva sorriso di nuovo e, per la prima volta, Tim si era sentito consapevole della propria stupidità, dell’inesperienza, di tutto ciò che aveva di non chiaro nella propria vita. Mentre il cuore, ah, batteva con entusiasmo palpitante, lo stesso di quando il ragazzino si lanciava a tutta velocità giù per le discese con la bici del vicino, che cigolava e gli ricordava di fermarsi, ma lui attendeva fino all’ultimo solo per poter sentire fino in fondo l’eco dei propri battiti folli nelle orecchie.
“Vuoi entrare? Ho del succo” gli aveva proposto d’istinto, parlando più veloce, con la speranza luminosa che dicesse di sì, quel giorno, e poi altri, che passasse ancora nel suo vicinato per ascoltare qualche stupido racconto al tramonto del sole, quando la città si impigriva e i vecchi sedevano sulle sdraio per contemplare i raggi immergersi fin dentro le rive del Vermilion.
Mathieu aveva accettato senza nemmeno pensarci.
Da allora avevano avuto un anno per conoscersi e per rivelarsi l’uno all’altro, per ciò che erano: innamorati, come potevano essere innamorati due ragazzini di poco più di sedici anni, quindi senza pensare al futuro, ma comunque consapevoli del tempo. Così, mentre da una parte Tim vedeva sua mamma sparire tra le pieghe del letto, dall’altra usciva dalle mura di casa e lì tornava a vivere, con Mathieu. Prendeva con lui il bus per andare fino a New Orleans, aveva visto mesi dopo il Mardi Gras, sperimentando i colori e la festa, la musica e i balli; avevano chiesto passaggi di fortuna nel cuore della notte, tra gente che andava nei campi a lavorare e altri che, come loro, ritornavano nelle città vicine. Era andato nei locali a sentire suonare musica blues, aveva fatto lunghe nuotate nel lago Pontchartrain nei giorni d’estate in cui non aveva scuola, dormendo all’aperto o in una tenda di fortuna.
Aveva visto il sole riverberare sulle superfici dell’acqua, con il mare poco distante e le paludi simili a trame troppo larghe di un tessuto, dopo aver fatto l’amore con Mathieu in maniera di volta in volta meno impacciata ma mai davvero esperta, con quell’irruenza maschile che mascherava la paura di fallire, di essere troppo femmina, di star facendo un immenso sbaglio e svegliarsi, magari un mattino, con una voce sordida che gli diceva sei malato, Tonton Macoute ti porterà via.
Ma Mathieu era bello, era quel riverbero di luce sull’acqua, era i baci più sicuri, meno tormentati dell’animo perennemente in contrasto di Tim. Era le unghie perfette che gli grattavano la pelle o la schiena quando le zanzare gliela pungevano, era il modo in cui la lingua accarezzava e cercava quella del compagno senza vergognarsi, era la presa gentile quando lo masturbava e gli chiedeva di abbracciarlo perché aveva freddo e poi gli faceva il solletico, ma solo dopo, più tardi, perché in realtà realizzava di aver caldo e smascherava il suo pretesto.
“Sai, pensavo di dirlo a mio padre un giorno. Che sono gay” aveva confessato all’improvviso Mathieu. Era fine marzo e loro si trovavano sulle rive del lago, all’alba.
Tim era seduto accanto, con le braccia allacciate attorno alle gambe dalle ginocchia spigolose, i capelli biondi lunghi fino alle orecchie, fradici, perché si era fatto un bagno gelido e suo malgrado tremava. Con le labbra viola e un asciugamano di fortuna sulla schiena, Timmy si era girato verso Mathieu, guardandolo come se fosse stato un alieno:
“Dirà che sei una femminuccia – lo aveva detto con tono tiepido, un po’ tremante per il freddo – Capirà anche di noi due?”
Gli occhi azzurri, di vetro dorato per le prime luci del sole, si erano dilatati in un moto di panico involontario, anche se l’espressione era stoica, quella di un prigioniero che accettava la sentenza.
Mathieu, che non aveva più le treccine ma i capelli erano tagliati cortissimi, aveva sollevato le spalle: “Non sono una femminuccia, questo lo sa pure lui. Poi, anche fosse, dai, mi vuole bene. Crede in me. Non gli dirò di noi due, però forse lo immagina. Sai – mosse una mano, come se stesse spiegando un concetto fondamentale – credo si veda, che io e te ce la intendiamo.”
In un altro contesto, Tim sarebbe stato lusingato da quell’affermazione. Gli sembrava una bella e impacciata dichiarazione d’amore, se solo non fosse stato troppo impegnato a calcolare il peso delle scelte per riconoscerla.
“Mio padre… no, non lo capirebbe mai” aveva sbottato Tim, coinciso. Stava per alzarsi in piedi, quando Mathieu ancora seduto lo aveva fermato per dirgli: “Tuo padre è uno stronzo, Tim. Un omofobo razzista. Ce l’ha coi francesi, pensa di essere di origini inglesi e ce l’ha pure con noi negri – aveva fatto il segno delle virgolette con l’altra mano – perché è piccolo e frustrato. Sbattigli in faccia la verità: se lo merita, per come tratta te e per cosa sta facendo a tua madre.”
Tim per un attimo non aveva parlato. Con grande lucidità e un fare molto più adulto dei suoi reali anni, si era tolto dalla presa di Mathieu con un gesto però morbido, per poi ribadire apparentemente incolore:
“Sì, sì, mio padre è un pezzo di merda, lo so, non ho bisogno che me lo ricordi tu. Hai uno splendido rapporto con tuo papà, è un grande uomo, e ti auguro che le cose tra voi due vadano sempre così, anche quando gli parlerai di chi sei. Ma non voglio che ciò che sono diventi una punizione per il mio, di padre, capisci? E lascia fuori mia mamma. La depressione è una malattia, non uno scarico di responsabilità.”
Si era infine strizzato i capelli, per poi togliersi le mutande bagnate, asciugarsi e fare per rientrare nella tenda a vestirsi. Mathieu allora si era corretto, i muscoli più definiti di giovane atleta sembravano una molla tenuta sotto tensione: “Non volevo esprimermi così – una risata morbida, quasi come se si sentisse in difetto, tanto bambino, rispetto a quell’uomo rinchiuso nel corpo di un ragazzino – prendi tutto troppo alla lettera, sai che tuo papà mi fa arrabbiare e… è che sarebbe bello, no? Se potessimo parlare liberamente. Magari baciarci.”
Aveva arricciato il naso, i denti bianchi svettanti in un altro sorriso spontaneo. Tim non gli aveva risposto. Una volta aperta la tenda, si era infilato le mutande e una canottiera, per poi riemergere coi pantaloncini in mano e uno sguardo stanco, ma al tempo stesso malinconico:
“Vivi in un mondo di favole. Dai, rientriamo che devo arrivare a Lafayette prima che cominci il mio turno da Donny Burger.”
Mathieu allora aveva smesso di sorridere. Più alto, era scattato in piedi e con quel fervore giovanile ma lucido degli oppressi, il ragazzo aveva ribattuto: “Non sono io a vivere in una favola, Tim! Sei tu a essere rimasto confinato in un mondo retrogrado e stupido – aveva indicato con un dito oltre il lago, con alle spalle costantemente il mare, in un punto indefinito dei maestosi U.S.A. - là marciano per i nostri diritti. Là ci sono locali, là ci si tiene per mano, là ci sono associazioni e spettacoli, show televisivi, pagine su facebook, su instagram, su twitter. Smettila di credere che sarai sempre e solo un poveraccio figlio di operai incapace di uscire dal ghetto!”
Stava ansimando. Aveva urlato.
Tim aveva al contrario serrato le labbra e faceva fatica a respirare; aveva gli occhi lucidi: di rabbia, rabbia verso suo padre, verso sua madre che si era dimenticata di lui, verso sua sorella che lo pensava ma fuggiva, verso Mathieu che non capiva, verso il suo paese stupido, verso la sua casa così povera da essere patetica, una parodia di un tetto e di quattro pareti, verso il suo quartiere che odorava di asfalto sciolto, di peperoni e cipolle, di sudore, quando l’afa era insopportabile e l’odore del fiume portato dal vento caldo ricordava le insenature di Delacroix, stagnanti ma paradossalmente salate.
Allora, di riflesso, ancora incapace di gestire tutti quei sentimenti, anche se avrebbe dovuto, perché già lavorava, era dovuto maturare in fretta, si ingegnava per pagarsi i libri, per andare a scuola, per trovare il modo di non gravare sulla sua famiglia, Tim aveva digrignato i denti per poi urlare, facendoli quasi tremare. Aveva dato ancora una spinta a Mathieu che aveva compiuto un passo indietro, perdendo per qualche istante l’equilibrio, sorpreso ma non troppo da quello scatto furente. Westifield aveva urlato ancora, più forte, senza parlare, per poi aprire la bocca e continuare a gridare, con le vene sul collo che pulsavano e gli occhi gonfi. Non riusciva a piangere, anche se li sentiva lucidi per l’esasperazione.
Aveva afferrato poi Mathieu per la maglia; lo vedeva spaventato, come consapevole di aver tirato troppo la corda. Per un attimo la giovane gazzella d’ebano aveva creduto che Tim, coi suoi lineamenti nervosi, spigolosi ma al tempo stesso ancora intinti di un eco adolescenziale, gli avrebbe tirato un pugno.
Invece, Westfield aveva solo dilatato le narici, lo guardava e ammetteva, con voce rauca, senza piangere anche se il volto era arrossato: “Lo so. So di essere rimasto indietro, Thieu.”
Scosso, sconvolto, dopo essere tornato a respirare questi aveva balbettato qualcosa, la sua sicurezza di diciassettenne svanita con la stessa rapidità con cui smetteva di sorridere. Poi, aveva scosso la testa e gli aveva ribadito:
“Non ce l’avevo con te. Non è colpa tua.”
Di cosa ci fosse qualche colpa, esattamente, non lo sapeva nemmeno lui. Sentiva di volerglielo dire.
Tim aveva annuito, senza dire più nulla, quasi come una constatazione genitoriale dopo aver sentito le scuse del figlio, poi si era messo i pantaloncini e con un saltello le scarpe da ginnastica mentre, ancora nudo, in piedi, Mathieu lo guardava, incerto. A quel punto Westfield lo aveva guardato a sua volta, i capelli fradici che gli avevano bagnato la canotta; si rendeva conto di essersi allontanato, nella sua maniera particolare in cui stava imparando a distaccare i sentimenti, simili a un germoglio troppo precoce da togliere e tenere da parte per momenti migliori:
“Hai ragione e non ce l’ho nemmeno io con te. Forse... davvero, tirare fuori tutto, parlarne, è la cosa migliore. Grazie” lo aveva detti sinceramente, con quel fare semplice e diretto che gli apparteneva e che, negli anni, gli aveva creato tanti problemi.
Mathieu si era portato una mano sulla testa, massaggiandosela appena mentre aveva risposto: “Prego. Non… non devi ringraziarmi, Tim. Siamo assieme, no?”
Gli occhi sembravano più grandi quando glielo disse, quasi col timore di essere smentito, o peggio ancora che Tim lo lasciasse così, su due piedi.
“Quest’estate Ellie darà una festa. Siccome non ci è riuscita per i sedici e nemmeno ha mai avuto una macchina, ha pensato di approfittarne per i ventuno e portare alcolici. Ci possiamo andare assieme” aveva proposto l’altro, all’improvviso. Mathieu aveva fatto una faccia strana, di quelle apertamente confuse, poi era scoppiato a ridere, battendo le mani mentre saltellava sul posto; suo malgrado Tim rideva a sua volta, contagiato dal buonumore rinnovato dell’altro, capace di farlo sorridere anche nei momenti più impensabili.
“E facciamo festa, e facciamo festa, festa, festa sì!”
Aveva canticchiato Mathieu, mimando un balletto un po’ seducente, un po’ festoso, con immaginari ritmi haitiani insiti nel suo sangue creolo.
Poi, sempre ballando, aveva baciato Tim che, più leggero dopo aver urlato, o forse era la luce nel sorriso del suo ragazzo, si era lasciato sedurre sulle sponde placide del lago, anche se dentro di sé era acqua, lacrime e sudore.

Due mesi dopo, Tim aveva perso sua madre e, di riflesso, aveva smesso di nuotare: aveva creduto che forse le storie di Tonton Macouta non erano bugie, anche se inesatte. Lo zio Sacco di Juta l’aveva di sicuro punito per essere stato bugiardo, codardo e vigliacco, ma anziché rapirlo gli aveva portato via sua madre.
Sua sorella invece aveva lasciato definitivamente casa, quasi fosse stata anche lei stregata dall’uomo nero; però, aveva confessato a Tim che in sogno le era apparsa la loro mamma, chiedendole quando sarebbe arrivata l’estate di celebrare la vita e il mondo che aveva lasciato. Tim aveva pensato che forse Ellie avesse bisogno di una giustificazione per provare a essere felice e permettersi, egoisticamente, di avere ancora un compleanno.
Laissez les bons temps rouler. Sua mamma lo diceva sempre, ma non ci aveva creduto fino in fondo; forse, per questo almeno i suoi figli dovevano provarci.


“Tchoupitoulas” scandì lentamente Tim mentre guardava con attenzione le labbra di Abel, tenendo una mano sul suo cockatil che gocciolava fino al portabicchiere.
L’altro assottigliò gli occhi, come se ciò gli garantisse una maggiore concentrazione: “Cia… – poi si bloccò, rise e replicò – maddai, non è nemmeno una parola. È… è un insieme cacofonico di consonanti.”
“Certo che è una parola, esiste: Tchoupitoulas Street, sul Missisipi – specificò Tim, per poi far tintinnare con un certo sapore di vittoria il bicchiere contro quello del suo compagno – il vostro accento di New York è ridicolo.”
“Il vostro fa ridere, non il mio; bah, compreso il ciupitapa, o come si dice, e quella schifezza che mangiate... bubin, quella roba lì” liquidò Abel, che aveva bevuto poco e piano, ma mal sopportava non sapere qualcosa o non esprimerlo al meglio.
Ciupitapa? Cosa tiri fuori, che tipo sei – scosse la testa Tim, divertito da quella pronuncia per lui bizzarra di qualcosa di tanto scontato e domestico – il boudin comunque. Non lo mangio da una vita, secondo me ti piacerebbe: una volta o l’altra lo proviamo.”
Lo osservò e Abel fece un sorriso più morbido, affettuoso, dimenticando la competizione su accenti e geografia: “Volentieri. Se me lo prepari tu.”
“Auguri allora” commentò Tim, anche se abbassò lo sguardo con fare schivo e quell’imbarazzo leggero dietro il suo fare austero di difesa. Tornò a guardarlo, realizzando la fortuna di poter parlare di cibo con Abel, di promettergli di cucinare della carne con la speranza che lui l’avrebbe davvero mangiata, anche se non sarebbe mai stata buona come quella preparata da mamma nei suoi anni più felici.
A quel punto Abel gli mostrò la lingua, contemplando il modo in cui Timmy corrugava le sopracciglia e poi roteava gli occhi, in un ormai noto tentativo di mistificare il sorriso spontaneo. Poi spostò lo sguardo verso la terrazza dove la gente, esattamente come loro, beveva, ballava e chiacchierava; le luci percorrevano i porticati simili ad arredi a festa, assieme a rampicanti decorativi, mischiandosi all’illuminazione del resto del Cultural District, dove Edith Labelle aveva invitato loro e gli altri suoi ospiti a festeggiare dopo lo spettacolo teatrale. Poco oltre, l’Allegheny si preparava a incontrare l’Ohio ed era come se, con quelle luci e quelle chiacchiere, ognuno degli astanti si stesse preparando a dire addio a un fiume, contemplando le sue acque scorrere un’ultima volta.
Ma d’altronde così era Pittsburgh, la Città dei Ponti: un crocevia di acque e di cultura. Ad Abel faceva effetto trovarsi lì, con Tim che gli aveva stretto più forte la mano quando avevano passeggiato vicino alla riva, per riuscire ad arrivare al quartiere dopo aver lasciato le cose all’hotel; era come un presagio della propria promessa di vedere un giorno Tim tornare a nuotare.
Adesso erano lì, su una terrazza ricca di persone interessanti, alcune più estrose delle altre, parte di quel mondo queer che Abel tanto amava e conosceva ma che Tim, invece, ancora guardava un po’ a distanza, come se non lo capisse o fosse incerto di avere il permesso per farne parte fino in fondo. Lo vedeva, coi suoi occhi chiari, severi, di chi aveva contato le bollette e ogni singolo centesimo e tolto oggetti dalla lista della spesa, anziché metterli, ma allo stesso tempo erano occhi curiosi, assetati di quelle luci scintillanti narrate da qualcuno più esperto o sognatore di lui.
Abel allora gli si avvicinò di più, sussurrandogli in un orecchio: “Secondo me quel tipo con la giacca a quadri se la intende con l’altro.”
Tim lo guardò un istante, con una sorta di sorriso perplesso, poi seguì lo sguardo di Abel, che aveva puntato con un cenno l’oggetto del suo pettegolezzo frivolo: “Il tipo con le macchie dici?”
“Ghepardato, è ghepardato, piccolo Ciupitapa – lo prese in giro Abel, contemplando il volto dell’altro che, coi capelli sciolti, la maglietta dipinta da lui addosso e dei semplici pantaloncini, continuava a ignorare gli elementi base del vestiario consapevole – comunque sì, è lui.”
Ciupitapa” ripeté Tim, scuotendo la testa apertamente divertito, per poi sfiorarsi la cicatrice e aggiungere: “E invece di quei due che si tengono per mano, che pensi di loro?”
“Uno è l’amante di Ghepardato. Sì, si vede che è un tipo che ama tenersi impegnato” dedusse Abel con fare saccente e altrettanto divertito, circondando però il suo ragazzo con un braccio. Un movimento morbido, persino elegante e leggero. Annusò i suoi capelli: “Sai di shampoo dell’albergo.”
Tim lo lasciò fare, anche se temeva non si sarebbe mai abituato a quei gesti:
“Ed è una brutta cosa? Perché hai anche tu lo stesso odore” scherzò Westfield, per poi vedere Abel mordersi un labbro e sorridere.
Allora, in quella terrazza, in una festa con gente che non conosceva in cui Abel aveva insistito per portarlo ed essere lui a pagare, esattamente come l’aveva spronato per farlo viaggiare e mandare a fanculo il suo datore di lavoro che lo sfruttava e non lo pagava, sì, in quella terrazza ripensò a tutti i sorrisi delle persone che aveva amato e che gli avevano rivolto. Ed erano più di quanti pensasse. Sua madre, sua sorella, i bambini del quartiere quando lui era un ragazzino cantastorie, Mama Hazika, la vecchietta del 24/7 che lui ogni tanto aiutava sistemandole gli scatoloni della merce, oppure l’insegnante di inglese, l’unica che premiava la sua creatività. Mathieu. Che aveva lasciato dopo la festa di Ellie, coperto di sangue e lacrime.
“Laissez les bons temps rouler” mormorò, per poi vedere Edith Labelle alzare un calice e rispondere al brindisi di uno dei suoi amici. La trovò bellissima, coi suoi abiti in bianco e nero, i capelli pallidi, il trucco di un’attrice d’altri tempi. Con la sua simpatia travolgente aveva detto una battuta capace di far sorridere tutti, così, come se si trattasse di accendere e spegnere una lampadina. Essere interessante, divertente, coinvolgente era un dono, alla stregua di Abel che sapeva affascinare anche solo dal modo in cui muoveva le labbra, articolava il corpo, rivolgeva uno sguardo.
Portò un dito sulla mano di Abel, appoggiata sul tavolo, e ammise, per poi guardarlo negli occhi e calamitare il suo sguardo, nonostante il fiume che risucchiava vita e trasportava memorie, le luci e le risate: “Con mio padre non è andata bene, lo sai. Ma ora sono qui, in questo posto, e… sono convinto di aver fatto la cosa migliore anche se più pazza della mia vita.”
Si grattò di riflesso la cicatrice, come per accertarsi che fosse ancora lì e avere appunto conferma che, purtroppo, non se ne sarebbe mai andata.
Abel gli osservò il dito, il modo in cui lui gli toccava la mano. Si alzò poi in piedi, lasciando la sigaretta elettronica sul tavolo; quella sera aveva fumato poco. Si tolse le ciabatte, infine tese una mano verso il suo compagno e gli propose, con fare tranquillo:
“Dai, balliamo, amore.”
Tim rimase immobile, quasi l’altro stesse scherzando; poi si guardò attorno, sospirò, come se gli costasse una grande, immensa fatica, ma alla fine annuì e commentò tranquillo, avvicinandoglisi dopo avergli afferrato solo un dito:
“Ti ho fatto un discorso serissimo prima, ora ci tieni proprio a fare qualcosa di ridicolo. Non so ballare, Abel.”
Quell’ammissione fu un sussurro, quasi avesse qualcosa di cui colpevolizzarsi, o non fosse al passo coi tempi. Ma Mahogany si limitò ad annuire, a mettergli la mano sul fianco e a prendere quella dell’altro, intrecciando le dita.
La musica era ritmata, in una rievocazione di gusti musicali tra gli anni ‘70 e ‘80 che nessuno dei due aveva mai vissuto, ma che in qualche modo erano passati di generazione in generazione. Nonostante questo Abel ballò piano, scalzo, coi suoi capelli che stavano crescendo ma non sarebbero mai stati lunghi quanto quelli di Tim, l’accenno di barba non rasata, qualche ruga d’espressione assieme a quelle piccolissime d’età, mentre Tim nonostante fosse più giovane, per il sole delle sue terre, per la vita meno curata, attorno agli occhi e alla pelle arrossata aveva già delle prime rughe, che si vedevano di più quelle volte importanti in cui sorrideva, anche se la cicatrice sembrava mangiare tutto il resto.
Abel appoggiò con lentezza la fronte su quella del compagno e chiuse gli occhi. Sentì poi la sua mano appoggiarsi a sua volta sul fianco; in quell’occasione, Westfield una volta di più fu felice di non sentire le costole del suo ragazzo, la pelle sottile e tesa, al contrario di quando l’aveva visto le prime volte: un’ombra nervosa che fumava sigarette, in una soffitta inondata di luce tiepida, delle insegne di una città che era anche un mondo, con le sue idiosincrasie, le etnicità e le subculture. Tim allora non aveva avuto idea di cosa fosse l’anoressia, di come la fame, il cibo, il corpo potesse essere allo stesso tempo l’alleato più importante ma anche il nemico più formidabile con cui avere a che fare.
Quando si erano conosciuti sapeva di essere inadeguato, ferito e rattoppato malamente, forse lo era anche adesso, eppure nella sua ignoranza, persino nella sua semplicità, magari all’epoca era stato quello che serviva ad Abel; per questo, più entrambi crescevano, più temeva che avrebbero potuto allontanarsi, che presto le serate mondane per le esposizioni delle sculture, i giri nei locali LGBT, i circoli letterari avrebbero potuto assorbire Abel e sputare fuori Tim, che non era altro che un normale essere umano intento ad arrancare per sopravvivere con ciò che aveva, anche se poco.
Poi, però, in occasioni come quella Westfield sentiva di avere una connessione speciale con lui, basata non solo sulle sofferenze e le difficoltà, ma anche su una percezione diversa delle piccole cose, di sogni condivisi verso un futuro più luminoso.
Abbassò lo sguardo e cercò di seguire Abel nei suoi passi di danza, anche se questi si muoveva poco e sembrava più cullarlo. Lo guardò negli occhi, però, quando questi sussurrò, socchiudendo i propri:
“Mio papà non è mai stato di molte parole. Ma quando gli ho rivelato di essere gay, mi ha detto che l’aveva già capito, anche se era un dottore, con la sua scrittura orrenda, le sue lauree e la capacità di aprire i cuori, ma non certo di leggerli. Mi ha chiesto di te qualche mese fa, sai? È aggiornato sul fatto che adesso ho un ragazzo vero; stabile, capisci. Dopo Lyanna non ci credeva nemmeno più lui.”
Accennò a una risata, poi fece un profondo respiro. Odorava del mentolo della sigaretta elettronica, di un profumo vagamente floreale che Tim gli sentiva addosso quando usciva, ma anche del cocktail che aveva sorseggiato: bastava un istante per assorbire ciò che si prendeva, tanto o poco che fosse.
Tim non disse nulla. Era sempre un’esperienza totalizzante venire messi a parte delle fragilità di Abel, dietro la sua maschera di sicurezza, così come sentire rivelazioni d’affetto che davano un nuovo spessore al loro rapporto, anche se mischiate con il ricordo di Lyanna, di cui non gli aveva mai parlato.
Riconobbe poi una canzone di George Micheal, sentita tanti anni addietro in un’occasione non troppo felice. Pensò che anche lui, come altri artisti provocatori, capaci di lasciare un messaggio e un’eredità, era morto; ritenne assurdo che fino a pochi anni fa conosceva poco o niente di musica, se non per passaggi in radio, nelle scampagnate in bus o grazie a sua sorella che lo rendeva partecipe dei suoi interessi, quando si incrociavano a casa e loro padre non c’era. Si sentì felice, per quel momento e per tante sue scelte, al punto che scomparve il peso portato nel cuore per aver lasciato il lavoro, per i soldi che andavano, più che venivano, per la paura che non sarebbe mai riuscito a risalire.
Abel allora continuò: “Mia madre invece l’unica cosa che è riuscita a dirmi è stata non puoi essere gay e obeso. Saresti ridicolo. Visto che la prima situazione non cambierà mai, vedi di modificare la seconda. Lo ha detto così, come se fosse una pratica da sbrigare. So per certo, anche se non me lo ha mai specificato, che è persino felice che io sia gay, ma solo perché come artista è quasi una garanzia, uno status, capisci? 'Sta puttana.”
Sollevò a sua volta la testa e incrociò gli occhi con Tim, che non aveva mai smesso di guardarlo. I suoi occhi chiari, incastonati in un volto di chi era stato al sole e non sembrava progettato per farlo, avevano così tante sfumature di saggezza, dispiacere e una forma di orgoglio stanco, da far rimanere l’altro sempre affascinato.
“Sono uno stronzo a trattarla così, vero? Se ho tutte queste mostre ed esposizioni è perché mia madre mi promuove e sfrutta i suoi contatti. Da solo non avrei fatto nulla. Eppure, davvero, non riesco a...”
Si umettò il labbro e volse gli occhi verso il cielo. Per via delle luci non riusciva a vedere le stelle.
Tim pensò in quel momento di contestarlo com’era giusto che fosse, ribadirgli che sua mamma lo promuoveva perché era certa del talento del figlio e perché era una donna contorta, capace di fare ammenda e dimostrare il suo algido affetto elogiandolo di fronte a estranei, piuttosto che davanti ad Abel. Ma quella non era una serata per deduzioni emotive e, ormai lo conosceva, quando sembrava piangersi addosso Abel non amava essere contestato neanche dal suo ragazzo.
“Davvero eri un ragazzino obeso? Non ci credo nemmeno se mi fai vedere una foto” commentò infatti all’improvviso Tim, pacato, con un sopracciglio sollevato e un accenno di sorriso.
Abel non rispose subito, preso piacevolmente in contropiede. Gli sorrise a sua volta, poi spostò la mano dal suo fianco per portargli una ciocca di capelli dietro le orecchie e, dopo un istante, confermare:
“Oltre quindici chili in sovrappeso. Per mia madre ero già l’Anticristo in pratica.”
Scrollò le spalle, poi rise, per tranquillizzare Tim sul fatto che, soprattutto a distanza di anni, anche se ancora era infinitamente difficile fare pace col proprio corpo, almeno non c’erano più argomenti tabù sul peso, il cibo e sua madre.
Timmy allora fu meno in tensione e lasciò andare un sorriso, istintivo ma quasi tagliente, così maturo e saggio, di quelli capaci di far sparire la cicatrice e rendere più belli gli occhi; li deviò poi verso Edith Labelle, con i suoi vestiti dal taglio anni ‘50 e la parrucca gonfia, piena, che svettava ad adornare il volto splendidamente truccato, in quel modo esagerato eppure femminile tipico dell’essere drag queen. Infine ammise:
“Ero un po’ incerto, sul fatto che dovessi vedere Johnny o, questa sera, Edith. Temevo sarebbe stato difficile per te ritrovarlo, dopo quello che entrambi avete passato e l’esperienza in clinica. Mi chiedevo infatti come avrebbe combattuto lui che, più di chiunque altro, si trova sotto gli occhi della gente e mostra il proprio fisico in quanto parte di sé, del personaggio che si è costruito. Poi, guardando lo spettacolo ho capito, e ti ringrazio: usa l’ironia. Scherza sul proprio problema, lo prende in giro, come se fosse un amico di vecchia data.
A volte non sempre combattere e abbattere il problema è la soluzione: già, a volte bisogna prenderlo sotto braccio e portarlo con sé, plasmandolo, riadattandolo, come tu hai fatto con le statue, o Johnny con gli spettacoli.”
Avrebbe voluto che sua mamma avesse fatto lo stesso, avrebbe voluto essere più coraggioso, più saggio, più esperto… quanti più avrebbe voluto essere stato, per poter tornare indietro nel tempo e dirglielo, anche se la stessa vita di Tim era stata un continuo alternarsi tra una rumorosa lotta disperata d’arena e un leggero planare sull’acqua, in attesa di riprendere il volo o di andare più a fondo, ma sempre discreto e silenzioso.
Abel lo guardò, in quel caso eccezionalmente incapace di ribattere. Respirò appena attraverso le labbra impercettibilmente dischiuse, con gli occhi scuri che non battevano ciglio. Poi, se le morse e sorrise.
Abbracciò di più Tim, appoggiando la guancia sulla sua spalla dalla clavicola spigolosa, come un tempo era spigolosa la propria, e ritenne che non fosse poi così male avere qualche chilo in più di lui, anche se una voce di disprezzo e paura cercava di fargli credere il contrario; semplicemente, però, la voce di Tim, la sua presenza quieta, a tratti imbronciata, matura eppure tanto giovane, era più forte, più carica di luce, come il sole immenso delle sue terre.
Anche quella sera, in quel viaggio, il voodoo di Timmy aveva scacciato ogni male.


Grazie all’aiuto di alcuni amici e conoscenti, quella sera estiva al Pa Davis Park era stato possibile allestire tavoli e festoni in uno spazietto dedicato, tra il golf club comunale e le altre attività ricreative, complice la serata più tranquilla in cui la gente non lo frequentava.
Era una bella festa, con la musica di chi aveva portato la chitarra e di chi lo stereo, l’alcool, le ghirlande hawaiane e un po’ di cibo spazzatura che dava la carica e riempiva lo stomaco. Anche Tim stava riuscendo a godersela, sebbene un po’ in tensione, perché qualche giorno fa Mathieu aveva parlato con suo padre, tenendo fede alle intenzioni confessate su di un lago. Era andata benissimo, anche se c’era stato quel vago iniziale imbarazzo genitore-figlio così tipico di quell’età.
Carico di pensieri, Tim aveva bevuto qualche birra e ora sedeva sulla panchina con le gambe aperte, i gomiti appoggiati sulle cosce e lo sguardo rivolto verso Ellie che ballava. Mathieu era poco distante e ballava a sua volta, con il suo sorriso scintillante, i capelli un po’ più lunghi rispetto a quel giorno di marzo in una tenda; visto così, sembrava avere una maggiore consapevolezza dentro di sé, quasi avesse appena varcato una soglia per Tim ancora proibita.
Stasera lo dico a mio padre. Glielo sparo in faccia. Che sono ricchione.
Si tormentò le dita in cui teneva una bottiglia di birra, tamburellando un piede. Sentì una canzone di Lady Gaga, che Ellie amava, e pensò che poteva essere di buon auspicio. Poi partì George Micheal che allora lui nemmeno conosceva. Poche note dopo scorse qualcuno voltare la testa, all’improvviso; allora, anche Tim spostò lo sguardo.
La bottiglia gli cadde di mano, in un tonfo attutito dall’erba.
Il vetro si scheggiò e la birra, in una schiuma bianca, affondò tra i ciuffi verdi, espandendo nell’aria odore di luppolo e di spezie, mischiato a quello del prato tagliato da poco.
Gli mancò il respiro, quando vide suo padre – il vecchio, stanco, rancoroso Waltie Westfield – avanzare a passo di carica nel prato, fendendo la gente che si spostava un po’ irritata, i festoni, ignorando la musica e le chiacchiere. Con il cuore che batteva sempre più veloce Tim si alzò in piedi, lanciando un’occhiata prima a Ellie, che aveva sgranato gli occhi, poi a Mathieu che aprì e richiuse la bocca più volte.
Per un istante, soltanto per uno, Tim pensò che suo padre fosse lì per Ellie. Perché invidioso della festa, perché lo reputava ingiusto, quando lui non aveva avuto mai niente e sua moglie si era annegata in un fiume – Dio, teatrale ed eccessiva fino all’ultimo – lasciandolo con due figli ingrati.
Stupido. Era stato stupido a pensarlo: Waltie era lì per lui.
Senza parlare,
infatti, se lo era trovato davanti. Si erano guardati, come prima di un duello ma già destinato a decretare vinto e vincitore. Infine, Tim vide la sua luce negli occhi: una luce cattiva, pericolosa, un guizzo improvviso di rabbia, di odio e di paura profonda, come qualcosa di ineluttabile che non si poteva combattere.
Nonostante la realizzazione di quello sguardo, Tim non riuscì a evitarlo: suo padre lo colpì in pieno volto con un pugno, scaraventandolo sulla panchina per poi fargli
sbattere la schiena contro il tavolo. Qualcuno urlò. Ellie e Mathieu corsero incontro a entrambi, gridando spaventati e furenti, ma, prima che potessero fare qualcosa, con un ringhio feroce, terribile, l’uomo afferrò suo figlio per i capelli, i capelli che non gli faceva tagliare perché costavano soldi e lui non ce li aveva da spendere per un parassita, e gli urlò, a pochi centimetri dal volto:
“Come cazzo ti permetti? Come? Dopo tutto quello che ho fatto per te, che ho sacrificato! Vai – mosse una smorfia di disgusto, come un rigurgito di rabbia; Tim ricordò l’odore di alcool e di sudore, ma ricordò soprattutto la paura – vai, Cristo Santo, cazzo, a dare il culo agli uomini? È questo che sei? Un frocio? Un finocchio che scopa con… con quel negro?”
Indicò Mathieu sputando, con il volto congestionato dalla rabbia, i capelli non lavati di chi sciattamente si stava lasciando andare.
Tim non riuscì a parlare. Terrorizzato, cercò scoordinato di muovere le mani, ma suo padre gli sollevò di più la testa e con un urlo gliela schiantò contro il tavolo. Il ragazzo vide all’improvviso tutto nero, come se qualcuno gli avesse lanciato addosso della vernice scura, le orecchie fischiarono e fu certo, in quel fischio, di sentire il suo stesso dolore parlargli. Più e più volte, avvertì la testa spaccarsi contro il tavolo, udì uno schiocco secco che non seppe se fosse il legno o il cranio, fino a che qualcuno trascinò via il suo vecchio, che ancora lo insultava, come se ne valesse comunque la pena.
Tim
allora cercò di rimettersi in piedi, anche se barcollava, non aveva più l’equilibrio e il volto era ricoperto di sangue. Non sentiva più niente eppure al tempo stesso avvertiva male, né si accorse di avere uno squarcio sul lato destro della fronte. Cercò di toccarselo, senza vedere altro che bordi neri attorno a sé, e a malapena udì Ellie urlare e piangere, o Mathieu che gli aveva preso la testa tra le mani, sporcandosele, e cercava di dirgli qualcosa mentre il resto del gruppo allontanava Waltie Westfield che giurava, su tutto quello che era sacro, di disconoscerlo, di non avere più un figlio, che la sua donna si era uccisa perché un rottinculo era un peso troppo grande da portare.
Il ragazzo
non perse conoscenza, ma rimase catatonico per qualche ora.
Fu solo quando uscì dall’ospedale
, con dei punti e il volto gonfio, che Tim si bloccò in mezzo alla strada, per poi guardare Mathieu; ah, Mathieu, che non la smetteva di dispiacersi e di arrabbiarsi con quel patetico figlio di puttana razzista e omofobo. Anche se davanti aveva un altrettanto patetico ragazzino sporco, ormai senza genitori, squarciato e privo di soldi, dall’educazione scolastica precaria e privo di alcun reale talento, fascino o pregio.
Senza parlare, con gli occhi azzurri sgranati, Tim invece puntò all’improvviso il dito oltre il suo compagno; oltre i tetti bassi, oltre i negozi dall’intonaco che si staccava, le insegne vecchie e i marciapiedi dissestati. Oltre. Dove un tempo l’aveva puntato Mathieu: attraverso il lago, i fiumi, le distese paludose della Louisiana. Verso New York; poi, il resto del mondo.
“Là” annunciò Tim in un sussurro roco.
Per un istante Mathieu non capì. Aveva ancora le mani sporche di sangue e gli occhi liquidi di paura. Poi, realizzò di cosa Tim stesse parlando, e si sentì stupido, per avergli detto all’epoca quelle parole con tanta rabbiosa indignazione.
Sorrise.
E quando sorrise, Tim realizzò che Mathieu non lo avrebbe seguito in quel . Ciò che erano finiva in quella strada, il loro viaggio, ma i ricordi sarebbero stati per sempre, come cartoline mai spedite.
Tim sarebbe partito comunque. Con autostop, passaggi di fortuna, spendendo ciò che aveva messo da parte in pullman, bibite e merendine. Dormendo dove capitava, lavandosi ai bagni delle stazioni, utilizzando qualche ulteriore centesimo per telefonare a Ellie e scusarsi, mentre lei a sua volta gli chiedeva scusa e lo pregava di stare attento.
Mathieu gli aveva ancora scritto un paio di volte, dicendogli che gli mancava e si pentiva di non aver avuto la sua forza. Ce l’aveva con se stesso e con Waltie Westfield:
Tonton Macoute ti ha portato via da me. Un giorno riandremo sul lago, anche se magari staremo con persone diverse e saremo cambiati: torneremo a nuotare, senza paura, alla luce del sole.

Sproloqui di una zucca

Questa volta il prompt era coming out. Ho giocato molto sui parallelismi in questo capitolo, sperimentando su una struttura narrativa a più riprese, con collegamenti e il riferimento alla canzone di George Micheal collegata, Outside. Spero di aver trasmesso le atmosfere della Louisiana, con riferimenti alle tradizioni, alla cultura cajun, creola, al voodoo, ma anche al cibo e ai luoghi. Allo stesso modo in cui ho cercato di dare qualche atmosfera di Pittsburgh e degli U.S.A. in generale, per quanto non sia facile rendere per scritto le differenze d'accento. A questo proposito ci sono un sacco di video a tema simpaticissimi.

Grazie per aver letto, spero mi accompagnerete ancora in questo percorso.

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