I walked through the fire and I fly through the smoke: mama, I'm a voodoo child. di Happy_Pumpkin (/viewuser.php?uid=56910)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Life ***
Capitolo 2: *** Healing ***
Capitolo 3: *** Sunlight ***
Capitolo 1 *** Life ***
I
walked through the fire and I fly
through the smoke:
mama, I'm a voodoo child.
1.
Life
La
nonna di Abel Mahogany sosteneva che nella vita ci fossero due tipi di
scelte: quelle obbligate dalle circostanze e quelle fatte
d’istinto. A volte
certo erano connesse, ma di una cosa la vecchia signora Abigail era
sicura: le
decisioni istintive erano le migliori. Difficilmente alla fine dei
conti si
arrivava a rimpiangere di averle prese.
Anche se a fatto compiuto e
ragionandoci a mente fredda sembravano azzardate, persino stupide,
secondo lei
negli anni a seguire si riusciva a vedere ogni azione passata sotto
un’altra
prospettiva, in uno dei tanti resoconti che si facevano nella vita:
difficilmente, a quel punto, ci si pentiva del proprio istinto.
Viceversa, i pensieri troppo
ponderati, lasciati a macerare come una pozione misteriosa nella testa,
non
portavano mai a nulla di buono.
Tim Westfield aveva conosciuto la
simpatica nonnina in una delle numerose occasioni in cui era andato a
trovarla
con Abel, in ognuna delle quali lei lo aveva messo a parte di cose e
opinioni
sorprendenti: più volte gli aveva confessato di vedere
l’angelo custode del
ragazzo e altrettanto spesso ammetteva che il giovane Timmy, come lo
chiamava,
era buono sebbene fondamentalmente sfortunato. Tim però, con
il suo cognome dal
sapore inglese, la cadenza ignorante della Louisiana e la sequela
effettivamente incontestabile di sfighe, manifestava le sue rimostranze
verso
la bontà delle scelte d’istinto con la stessa
sicurezza con cui sapeva di non
avere alcun angelo custode – lo avesse avuto davvero, data la
posizione infima
del suo umano assistito, la creatura paradisiaca avrebbe dovuto ormai
da tempo
fare qualcosa a riguardo, a meno che non fosse un sadico bastardo, il
che
effettivamente poteva spiegare il prolungato sciopero angelico di ben
ventun
anni, più o meno da quando Tim Westfield era nato.
Allo stesso modo, però, in quella
sera di giugno il giovane della Louisiana in realtà avrebbe
comunque voluto
trovare un fondo di verità, sicuramente più
plausibile rispetto al presunto
angelo custode, per quanto riguardava tutta quella storia delle scelte
d’istinto decantata da nonna Abigail. Proprio
perché si trovava nella
condizione di aver fatto una scelta d’istinto poche ore
prima, più precisamente
nella fase disperatissima del ‘rielabora a mente fredda
quello che hai appena
fatto, idiota’, dunque con conseguente realizzazione di aver
compiuto forse una
delle più grandi cazzate della sua vita. E, in proporzione,
considerando che di
cazzate ne aveva fatte davvero tante per aver superato da poco la
soglia dei
due decenni di vita, si trattava veramente di una cosa apocalittica.
“Akash mi ammazza. Non mi assumerà
più” dichiarò all’improvviso,
quasi fosse un’enunciazione scientifica. Fredda,
senza inflessioni patetiche. Si mise un braccio dietro la testa e
fissò il
soffitto: tappezzeria anni ‘60 dalle sfumature color senape,
ventilatore
inutilizzato da chissà quanti anni appeso sopra le loro
teste e mobilio scarno
tipico di uno dei tanti motel a cavallo tra New York e Pittsburgh.
“Non ti ammazza, non ci perderà
tempo” assicurò Abel con tranquillità,
tirandosi su a sedere dopo aver
schiacciato il cuscino piatto. Cercò la sigaretta
elettronica che da qualche
anno aveva cominciato a utilizzare al posto del tabacco, più
o meno da quando
nonna Abigail gli aveva detto che era troppo giovane per morire di
cancro ai
polmoni e lui si era spaventato a morte; già, a morte, tanto
per rimanere in
tema. Ciononostante, non aveva smesso davvero di fumare,
accontentandosi di
quel palliativo ingombrante e dagli odori mentolati. Abel era uno che
più gli
si diceva di non fare qualcosa, più si ostinava a farla;
magari cambiando
qualche carta in tavola, ma la mano rimaneva sempre la sua, con il suo
personalissimo tocco, vincente o perdente che fosse.
“Beh, bella roba. Io intanto sono
senza lavoro; mi mantieni tu? Tuo papà? Tua nonna?
L’angelo custode
fancazzista?” replicò Tim incattivito, reagendo in
maniera più feroce del
solito quando si sentiva messo all’angolo.
Abel voltò la testa verso di lui, lo
guardò dall’alto verso il basso. Fece un mezzo
sorriso, per poi espirare tra le
labbra la nuvola al mentolo, dando prova della sua incrollabile
pazienza, al
contrario di quel ragazzetto più giovane di sei anni,
più magro per quanto alto
quanto lui, e decisamente più biondo, anche se non
altrettanto pallido.
“Io. Ti mantengo io. Troveremo un
altro lavoro, Timmy. Quell’indiano di merda era un coglione,
un approfittatore
arrivista che ti sfruttava e basta. Ti pagherà pure gli
arretrati che ti deve,
vedrai.”
Tim lo guardò, per poi tirarsi a sua
volta a sedere e, nudo, incrociare le gambe rivolto verso
l’altro.
“Come fai?”
“A fare cosa?” domandò Abel,
ridacchiando placido.
“A essere così. Tranquillo, sicuro
che le cose andranno in maniera spettacolosa quando, concedimelo, sono
proprio
una merda.”
Gli fissò i capelli scuri e mossi,
lunghi fino alle orecchie, selvaggi, gli occhi altrettanto neri e la
pelle di
contrasto bianca, di chi stava sempre in soffitta – a volte
Tim pensava che
Abel avesse una relazione con il suo attico polveroso, che odorava di
acqua
ragia, vernici e polvere di marmo, piuttosto che con lui – e
usciva la notte,
quando faceva meno caldo e incontrava più gente
interessante. Provò un moto
d’amore, ma anche d’odio, in
quell’equilibrio cosmico che da tre anni a quella
parte reggeva la loro strana eppure intensa relazione.
Volle schiaffeggiarlo, perché era un
ricco figlio di puttana, però desiderò anche
baciarlo, perché era il più
altruista, intelligente e devoto ricco figlio di puttana che conoscesse.
Davanti a lui sentiva davvero di
avere ventun anni e non di essere un vecchio precoce, di quelli troppo
stanchi
e troppo cinici; la cosa lo spaventava e lo elettrizzava allo stesso
tempo,
dandogli un sapore di genuina invidia per tutti i soldi che lui aveva,
la casa,
il futuro, misto a un senso di karmika soddisfazione, perché
se c’era una
persona che si meritava tutto, quella era Abel. Idealista ma mai
sprovveduto,
artista eppure coi piedi per terra nella determinazione di andare
avanti, a
qualunque costo. Egocentrico fino all’infinito ma appunto
generoso e capace di
coltivare i rapporti, anche a distanze che Tim considerava
interplanetarie. Lo
amava nei suoi infiniti contrasti, sebbene a volte
quell’amore lo facesse
riflettere sulle proprie insoddisfazioni.
Si grattò la profonda cicatrice
sopra il sopracciglio destro, che gli pesava sulla palpebra conferendo
all’occhio un aspetto più stanco rispetto alla sua
controparte sinistra, poi
sospirò e si trattenne dal dire altro, perché in
quel momento, in quel merdoso
motel disperso chissà dove c’era Abel con lui,
nonostante i progetti in corso,
la scultura lasciata a metà e tutta la vita rimasta sospesa
nel suo attico a
SoHo.
Lo vide aspirare da quello che gli
ricordava un detonatore per bombe e poi prendergli la mano, facendogli
smettere
di grattarsi; allora Tim sospirò ancora, come se fosse una
stupida questione di
principio, o di sofferta rassegnazione.
“Amore – come riusciva a non essere
nauseante anche chiamandolo con un vezzeggiativo simile? Come?
– Sono
così perché mi rende felice l’idea che
tu ti sia levato dal cazzo. Quel posto
faceva schifo. Dai: vendita di pneumatici, un sacco riparati con
materiale
scadente. È solo perché paga la gente giusta che
quel posto non ha ancora
chiuso e lui non è andato dietro le sbarre; woh, a quanto
pare questo cazzone
di Akash paga tutti, tranne i suoi dipendenti.”
I due si guardarono, nel silenzio
notturno della stanza, eccetto per il ronzio del frigo minuscolo che
odorava di
muffa, con dentro una bottiglietta d’acqua presa alle
macchinette: tutto, di
quel viaggio, era davvero d’improvvisazione e di fortuna.
Dopodiché,
scoppiarono istintivamente a ridere. Allora Abel lasciò
andare la sigaretta
elettronica e baciò Tim, senza impeto euforico ma comunque
con trasporto,
dotato di quel fascino leggero e impalpabile della sua persona, che
sembrava
perennemente destinata un futuro più grande, sebbene
confinata in una stanza
decadente con un ventunenne solo e carico di delusioni. Un martire
innamorato –
innamorato... forse; Tim aveva dubbi persino su quello
– che aveva deciso
di immolarsi per rendere migliore la vita di quel ragazzo spiantato,
coi
capelli pallidi al pari della pelle lunare di un amante delle soffitte.
Lo baciò e fecero l’amore, anche se
erano stanchi dopo un viaggio fatto sull’onda di quelle
famose scelte istintive
eppure con un obiettivo preciso, sebbene rimandato da troppo tempo.
Dopo ulteriori baci, carezze e in
procinto di spingersi oltre, Abel guardò Timmy, abbracciato
a sé, gli portò
all’indietro i capelli lunghi incollati dall’afa e
dal calore di ciò che erano,
assieme; gli accarezzò il sopracciglio deformato dalla
cicatrice, passando il
pollice lungo il collo magro, dove vedeva le vene pulsare e il pomo
d’Adamo
sporgente spingere per scacciare la saliva scarsa.
Così arrabbiato, ferito, disilluso.
A ventun anni. Pensava al lavoro mal pagato e pagato in ritardo, non si
ribellava allo sfruttamento, anche se dentro piangeva e fuori urlava,
scaraventava quel poco che aveva perché forse il nulla era
meglio. Ma anche così…
ah, era pieno d’idee, di fantasie, di racconti. Raccontava
tanto, e bene.
Storie della Louisiana, della mama Hazika che praticava il vodoo e
usava le
ossa di pollo, storie di quando riusciva a prendere con sua sorella il
bus fino
a New Orleans e vedere il Mardi Gras, storie della cucina creola di sua
mamma,
delle discendenze francesi dei nonni, della zona palustre in cui
sognava di
cavalcare alligatori misteriosi fino al vicino lago Pontchartrain.
Lo amò e lo sentì gemere,
innamorandosi della passione con cui sconfiggeva la sua condizione di
‘sfortunato Timmy ignorato dal suo angelo custode’.
Abel credette che anche
quello fosse un suo racconto speciale, per ricordargli che persino lui
sapeva
amare.
Poi, all’improvviso squillò il
cellulare, mentre lo stavano facendo e il letto cigolava con trasporto,
la
testiera sbatteva contro il muro e ansimavano, ignorando
l’unica suoneria
collegata a una persona specifica che Tim si fosse scomodato a mettere
nel
cellulare modello ultrabase.
Lasciarono che Lady Gaga continuasse
a cantare e in un certo senso fu divertente. Abel guardò
Tim, il quale però gli
mise una mano sulla bocca, impedendogli di ridere anche se stava
scoppiando a
ridere a sua volta, ma soprattutto di chiedergli cose come vuoi
rispondere?
“No” gli disse solo, ansimando. Poi
gli tolse la mano e lo baciò, un bacio sconnesso,
esattamente come era
sconnesso, assetato, il modo in cui si cercavano.
Quando Tim venne, Lady Gaga aveva
già smesso da un pezzo di suonare e il cellulare giaceva
ormai silenzioso sul
comodino.
Abe.
Mormorò flebile, girando gli occhi
verso il soffitto, quasi stesse per morirci. Metteva
un’intensità incredibile
durante l’orgasmo; chiamava Abel abbreviandogli il nome,
quasi non avesse più
fiato ma prima di andarsene volesse comunque avere tempo di ricordarsi
del suo
compagno un’ultima volta.
Questi lo guardò, non chiuse un
istante gli occhi, anche se aveva le lacrime e sentiva il sudore contro
le
cosce e la fronte. Pensò che gli avrebbe fatto una statua,
nonostante la
promessa di non ritrarlo più. Ebbe a sua volta un orgasmo,
però... un po’ si
vergognò, per non essere altrettanto intenso, con
l’impressione irrazionale che
Tim potesse ritenere di non piacergli abbastanza. Westfield era fatto
così:
pensava di se stesso come un passatempo, un viaggio effimero con un
ritorno
senza di lui, ma non perdeva mai tempo a lamentarsene, dandolo per
scontato,
come se non gliene importasse particolarmente. Ragionava da vecchio
veterano
rassegnato, congedato dal sistema.
Il ragazzino della Louisiana si alzò
infatti in piedi in fretta una volta che ebbero finito, legandosi i
capelli
come faceva d’abitudine per farsi la doccia. Sembrava non ci
fosse sentimento
in lui eccetto un tiepido distacco, terminato, esaurito in una
supernova
universale dopo aver fatto l’amore, quando prima era stato
passione e sorrideva
cercando paradossalmente di non farlo.
Abel si passò allora una mano sul
volto, poi lo guardò prendere il cellulare e cambiare
espressione.
“Perché mi ha chiamato?”
Tim sembrò chiederlo a se stesso.
Forse era così.
Abel si alzò in piedi ravvivandosi i
capelli ondulati, anche se erano schiacciati dal cuscino e dal sesso, e
frugò
nella tasca dei pantaloni per porgergli il proprio cellulare,
anticipandolo su
tutta la linea.
“Richiamala.”
Tim roteò gli occhi, con un senso di
fastidio. Poi annuì e mormorò una sorta di
grazie, tenendosi una mano sulle
costole: quasi si abbracciava per suonare le ossa leggermente
sporgenti, simili
a tasti di un vecchio pianoforte da saloon. I suoi muscoli nervosi, i
tendini
del collo, ogni cosa sembrava tendersi fino a fargli spiccare il volo.
Compose il numero ricordato a
memoria, per tutte le volte in cui l’aveva cercata
in un bar o a casa di
qualcuno così da dirle che stava bene.
Guardò Abel che, fermo con una mano
nel suo caso sul fianco, in attesa lo osservava a sua volta,
l’espressione
intensa eppure placida capace di placare Tim, le sue paure,
l’ansia e la
rabbia.
Dopo diversi squilli rispose una
voce maschile, che Tim conosceva bene, ed era così vibrante
da assordarlo:
“È nata! Gesù Signore, è
nata, è
nata cazzo!”
Abel sgranò gli occhi scuri prima
ancora di Tim e gli afferrò un braccio. Questi non si mosse.
Aprì una volta la
bocca asciutta e annuì, senza smettere di fissare il
compagno.
“Ellie sta bene? La bimba anche?”
Domandò alla fine e sentì dall’altra
parte Steve Wu, cinese di seconda generazione nato negli U.S.A.,
compagno e ora
padre devoto... piangere. Tim seppe che era un buon
pianto e, sollevato,
senza pensarci si sedette per terra, espirando mentre il cuore batteva
impazzito nel petto svuotato.
“Sta bene, Timmy, stanno bene tutt’e
due. Quando smetto di tremare e tua sorella riprende a capirci qualcosa
ti...
ti mando un sacco di foto. Oddio, oddio, ci pensi? Sophie. Vuol dire
sapienza,
lo sapevi? Ellie si è letta un sacco di cose.”
Disse qualcos’altro e Tim lo
ascoltò, mentre Abel gli si sedeva accanto, appoggiando la
testa su quella del
compagno per ascoltare a sua volta, anche se Steve parlava con
sufficiente
energia da sentirsi benissimo anche a distanza.
“Ok, ok, Steve, non preoccuparti.
Quando riesci. Salutamele. Sapevo che... che non sarei riuscito ad
arrivare
prima del parto ma un po’ ci speravo.”
Lo sentì ridere leggero dall’altra
parte del telefono: “Arrivare? Ma dove sei? Con Abel,
giusto?”
Per qualche istante, Tim una volta
di più realizzò che sua sorella aveva memorizzato
in rubrica il numero di Abel.
Evidentemente, lei ci credeva più di quanto ci credesse lui.
“Sono in viaggio. Veniamo a
trovarvi. Ma è una sorpresa, non dirlo a Ellie.”
Sentì qualche esclamazione di
deliziosa sorpresa da parte di Steve e pensò che come sempre
era l’uomo capace
di esprimere maggiore genuino entusiasmo sulla faccia della Terra. Sua
sorella
era una donna fortunata, finalmente.
Dopodiché lo udì zittirsi e
abbassare il tono di voce: “Contaci. Ma e con Apu
– sempre adorabilmente
ironico sentire un asiatico ironizzare sugli stereotipi degli indiani,
specie
se quell’indiano era un pezzo di merda come Akash –
come hai fatto? Ti ha dato
giorni di ferie?”
Lo disse senza nemmeno crederci
davvero, eppure fu in grado di manifestare una sorta di stupore quasi
ingenuo.
“Sì. In un certo senso sì”
mentì.
Avvertì il respiro caldo di Abel, cadenzato e calmo.
“Bene. Bene. Grandissimo –
tacque un istante, poi si sentì un fruscio e uno scambio di
parole – aspetta.
Aspetta, te la passo.”
Suo malgrado Tim sorrise. Si grattò
la cicatrice, ma Abel si tolse dall’appoggio e lo
fermò, scuotendo la testa con
quel fare tranquillo, vagamente divertito eppure ammonitore che gli era
proprio
in quei casi.
“Ehi” disse la voce di Ellie, un po’
stanca, ma felice.
“Ehi” replicò l’altro. La sua
era
incrinata, sbeccata da quell’impatto imprevisto con il suo
maltrattato
lavandino intasato di emozioni.
“È una cicciona. Oltre nove libbre*.
Secondo me diventa una bella biondona come te e la mamma.”
Tim rise e Abel si morse un labbro,
fotografandolo nella sua testa.
“Una bionda cinese non s’è mai
vista, entrerebbe nella storia. Mamma la adorerebbe.”
“Timmy...” mormorò dopo un istante,
con la risata che si spense lenta, un fuoco dopo lo scintillio di un
nuovo
ciocco di legno.
“Riposati. Io sto bene. Mi mancate, Signore
Wu.”
“Anche tu, baby, anche tu. Dai un
abbraccio ad Abel da parte nostra. Steve ti manderà una foto
di Sophie, anche
se è rossa e piena di rughe – ridacchiò
e aggiunse – non mia eh. Faccio schifo.
La mia foto domani, dammi il tempo di riprendermi”
sospirò, con fare fintamente
drammatico.
Si salutarono e Tim chiuse la
telefonata dopo un ultimo saluto di Steve.
Nuovamente avvolto dal silenzio, si
grattò un gomito:
“Come si chiamano i mulatti quando
sono cinesi e... americani? Mah, non proprio americani. Creoli?
Francesi?” domandò
a caso, senza che realmente gli interessasse.
Si alzò poi in piedi, con Abel che
lo guardò. Disfò la coda, lasciandosi
l’elastico al polso, infine si massaggiò
il collo. Abel notò che sul proprio telefono erano arrivate
una serie di foto
di Sophie, una delle quali ritraeva in pieno anche la mamma che cercava
di
guardare altrove per non essere catturata dall’obiettivo.
“Saremo gli zii che la porteranno
alle mostre d’arte, a teatro, a vedere le drag queen
più fighe del pianeta” annunciò,
distendendo le gambe sul pavimento fresco, come se facesse una
previsione ormai
certa. Sembrava un divo o un Gesù moderno, forse entrambe le
cose. Tim schioccò
la lingua, gli prese il cellulare quasi con stanchezza, quasi non
volesse
davvero vedere le foto.
“Tu e la convinzione che il tuo
mondo queer sia speciale. Siamo solo ricchioni,
Abel, non c’è nulla di cui
vantarsi.”
L’altro gli dette un calcio alla
caviglia, leggero, una sorta di pacca, e replicò:
“Se siamo solo ricchioni
allora perché non ci lasciano in pace e siamo ancora
costretti a manifestare
per i nostri diritti? Domani ti porto in un posto figo,
amore” decretò
all’improvviso, in uno dei suoi infiniti collegamenti tra un
discorso e
l’altro. Si alzò in piedi, prima che Tim potesse
afferrargli il piede.
“Una delle tue due tappe prima di
arrivare a Lafayette?” domandò Westfield, senza
ancora guardare le foto. In
quella posizione, nudo, coi capelli sciolti oltre le spalle e un
po’ sporchi
per via del sesso e del caldo, il cellulare schiacciato contro il
petto, Tim
sembrava un ragazzino invecchiato presto, come se si fosse appropriato
di anni
non suoi. Eppure, anche con il suo sopracciglio appesantito dalla
cicatrice, la
muscolatura nervosa e lo sguardo cinico, aveva una sua personale forma
di
bellezza, simile a una statuina di vetro che rifletteva le luci
dell’arcobaleno
ma, purtroppo, con l’arrivo della notte si eclissava.
“Una delle mie due tappe – confermò
– ho intenzione di pensare alla mia prossima mostra. Potrei
lanciarmi nella
fotografia, credo di avere un certo talento” ammise, senza
falsa modestia.
“Indubbiamente” replicò Tim, a sua
volta senza cinismo. Ci credeva davvero e apprezzava
quell’ego sicuro di sé di
Abel; avrebbe voluto poter succhiare un po’ di quella
convinzione ed essere
così capace di piacere comunque agli altri.
Alla fine Tim si decise: abbassò lo
sguardo e vide la foto di Sophie, dopo aver sbloccato lo schermo.
Ovviamente la
bimba aveva i capelli neri, anche se radi, ed era bruttina, come tutti
i
neonati appena decompressati dopo l’uscita dal confortevole
utero. Non capiva
se si vedesse qualcosa degli occhi, se fossero vagamente a mandorla o
meno. Era
una smorfia addormentata di rughe.
“Mia nipote.”
Nel dirlo, per la prima volta ebbe
gli occhi lucidi. Sigillò le labbra e si sedette sul letto,
dopo essere
indietreggiato mentre continuava a guardare la foto.
Pensò che l’idea di Abel, di loro
due zii, non fosse poi così folle. Perché no,
giusto? Magari... beh, magari in
fin dei conti nemmeno tutta la storia delle scelte d’istinto
professate da
nonna Abigail era poi così sbagliata.
Sollevò la testa e gli chiese
all’improvviso, dopo aver appoggiato il cellulare sul
comodino:
“Siamo quello che siamo; nel nostro
piccolo, possiamo essere stelle: ce ne sono tante nel cielo, ma ognuna
a modo
suo brilla. Hai ancora voglia di fare l’amore con me,
Abe?”
Questi gli sorrise, mordendosi un
labbro. Avanzò e si piegò sulle ginocchia,
posando le mani sulle sue cosce:
“Sempre – gli baciò un ginocchio
– zio Timmy. Zio Abel.”
Poi lo baciò ancora. E Tim non lo
zittì, cominciando a crederci, con il cuore che galoppava e
la vita che
scorreva in sangue. La vita, lui l’aveva quasi vista nascere.
Sproloqui
di una zucca
Lo so, dovrei scrivere di un mucchio di cose e ne ho altrettante da
pubblicare, ma è un periodo intenso e non avevo la giusta
concentrazione. Poi ieri sono stata illuminata dall'ispirazione e ho
scritto di getto, dopo aver pensato e ripensato ai protagonisti di
questo racconto breve, di cinque capitoli, che illustrerà un
viaggio on the road.
Ringrazio il gruppo SasuNaru Fanfiction per la bellissima
challenge a tema per il pride month (qui il link https://www.facebook.com/groups/1712840615712529/permalink/2254066268256625/),
per ogni colore della bandiera arcobaleno, simbolo della
comunità LGBT, cii sono dei prompt associati.
Il primo colore è il rosso, la vita, con ulteriori
prompt Scoperta / Dubbio / Passione. Mi sono
concentrata sulla vita, ma anche sul dubbio e sulla passione, sebbene
il primo inerente al dubbio esistenziale.
Dedico questo capitolo in particolare a Sunako, la futura zia che mi ha
ispirata per il prompt più bello ed emozionante di tutti: vita. Sarai la zia
più bella, sensibile e tosta del mondo. Tuo nipote
è fortunato, fortunatissimo.
P.s. il titolo principale è ispirato a due canzoni, una di
Jimi Hendrix, Voodoo Child, l'altra di Johnny Jenkins, I Walk on Gilded
Splinters. Hanno tutta l'atmosfera che volevo per questa storia e un
tocco di New Orleans.
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Capitolo 2 *** Healing ***
I
walked through the fire and I fly through the smoke:
mama, I'm a voodoo child.
2.
Healing
Abel
amava le mattine pigre, quelle
in cui la luce estiva del giorno scaldava le lenzuola impalpabili
facendole
assomigliare a un plaid invernale. Amava l’impercettibile
sudore vicino al
collo e il modo in cui la testa affondava in un solco perfetto nel
cuscino
stropicciato, al pari della guancia arrossata che, simile a un
trasferibile da
bambini, fotocopiava le pieghe del tessuto.
Tirò un sospiro profondo, poi stirò
le braccia e si alzò a sedere, massaggiandosi la faccia e
ravvivandosi i
capelli.
“Ho fatto un sogno” annunciò, dando
per scontato che Tim, a pancia in giù e girato
dall’altra parte, fosse sveglio
e riuscisse a sentirlo.
Non ci fu risposta, eccetto un
placido respiro. Prese la sigaretta elettronica, controllò
ci fosse ancora
liquido, poi guardò vago fuori dalla finestra, le cui tende
tirate filtravano
un po’ di luce; aspirò, con il piacere perverso di
sentire un gusto aereo di
nicotina e mentolo nella bocca ancora impastata dal sonno.
“Eravamo in riva a un fiume, non so
quale. Attorno c’era qualche albero e delle colline, la
sabbia era ghiaiosa,
metallica direi – rise appena – l’acqua
gelida, cazzo. A un certo punto arriva
un’onda gigantesca, di quelle che ci travolgono, ci
schiacciano e ci portano
nel mezzo della corrente. So che è impossibile, ma, ehi, il
potere dei sogni,
no?”
L’altro non gli rispose, né si
mosse. Il frigo ancora ronzava, si udiva in lontananza il passaggio di
qualche
macchina coi pneumatici che grattavano l’asfalto caldo.
Abel continuò placido, sbattendo
lentamente le palpebre mentre nella stanza si diffondeva
l’odore al mentolo del
vapore denso, reso quasi magico dalla luce soffusa che passava
attraverso le
tende polverose:
“La prima cosa che ho fatto è stata
cercarti, assicurarmi che stessi bene. Poi mi sono preoccupato del
cellulare
che per qualche motivo sapevo essere rimasto a riva. È
arrivata un’altra onda e
me l’ha portato via, fin dentro il letto. Tu mi hai detto di
lasciar perdere,
che non ne vale la pena, io invece mi sono immerso lo stesso e
l’ho recuperato.
Mi sentivo, ah, trionfante, come se avessi fatto chissà
cosa.”
Appoggiò la testa contro la parete e
sollevò gli occhi verso il soffitto, assottigliandoli appena
mentre inspirava e
poi gettava una nuova nuvola.
“E alla fin fine il cellulare
funzionava?”
La domanda improvvisa era stata detta
con la voce arrochita di chi doveva ancora scaldare le corde vocali.
Abel
spostò lo sguardo verso Tim, con una leggera sorpresa:
“Allora eri sveglio –
scrollò le spalle, facendo un mezzo sorrisetto –
sì, funzionava. Sai che sono
ostinato, poi ho preso il tuo ‘provaci lo stesso
anche quando le cose vanno
di merda’ et, voilà, mesdames et
messierus, les jeux sont faits: cellulare
recuperato e funzionante. Ma sai qual è la cosa davvero
figa?”
Espirò un’ultima nuvola ancora, poi
si leccò un labbro, continuando a guardare Tim che si
voltò verso di lui in un
fruscio di lenzuola. Westfield lo fissava con occhi strani, di chi
già sapeva
la risposta ma non attendeva necessariamente di sentirla.
“Che non hai vomitato anche l’anima
dopo la centrifuga del fiume?” ironizzò
l’altro, sbattendo una volta le ciglia.
Sembrò impassibile, anche se le labbra fecero un mezzo
sorriso, parzialmente
coperto dal cuscino.
Mahogany finse di non cogliere
l’ironia e specificò, come se si trattasse di un
evento reale: “La cosa figa è
che eri nel fiume, assieme a me. E nuotavi. Da quello che mi raccontavi
della
Louisiana ti ho sempre immaginato simile a una bellissima
ranocchietta.”
“Che sogni assurdi fai – replicò
Tim, senza muoversi – un cellulare non si ripara e io non ho
più intenzione di
nuotare da nessunissima parte. Che ore sono?”
Domandò di seguito, come per
chiudere il discorso; senza inflessioni cattive, ma quasi fingendo che fosse una semplice
sequenza priva di
possibilità di tornare indietro.
Abel fece un sorriso dei suoi,
particolari, che riuscivano a essere seducenti con fascino leggero,
mentre gli
occhi scuri si assottigliavano impercettibilmente, come se lui fosse a
conoscenza di qualcosa di più profondo.
“Le undici di mattina, amore.”
Tim roteò gli occhi e si girò a
pancia in su: “Dobbiamo muoverci, abbiamo dormito troppo. Ci
saranno ancora
almeno tre ore di viaggio.”
Si alzò infine in piedi, legandosi i
capelli per poi cominciare a raccogliere i vestiti mentre si
massaggiava una
guancia, nell’atto di carburare e riprendere la piena
attività del cervello
dopo comunque troppe poche ore di sonno.
Abel non si mosse; lo osservò,
contemplando con morbido piacere la nudità del suo ragazzo,
infine lo
rassicurò: “Johnny non ci aspetta prima delle
18,00. Abbiamo tempo.”
“Sì, va bene, ma dobbiamo mangiare.”
Lo guardò quando glielo disse,
lasciando i vestiti sul letto, simili a una dichiarazione di guerra.
Abel
cambiò impercettibilmente il sorriso, poi sospirò
e annuì, come se fosse
un’immensa concessione: “Lo so, ovvio. Abbiamo
tempo lo stesso. Non dirmi cosa
devo o non devo fare.”
Glielo ribadì con tono tranquillo,
quasi scherzoso, in quel modo speciale che aveva di riuscire a plasmare
la
rabbia altrui, trasformandola in comprensione. Tim infatti non fu in
grado di
prendersela, anche se come sempre avvertì un moto di
superiorità scaturire
senza cattiveria da Abel, persino di maturità rispetto a se
stesso, quasi fosse
assurdo che un poppante di ventun anni desse qualche suggerimento a una
persona
più vicina ai trenta che ai venti.
“Tu lo fai continuamente con me”
replicò però d’istinto, pentendosene
subito dopo per la connotazione infantile,
e stupida, che aveva dato a quella frase.
“Che bugiardo! Non è affatto vero!”
replicò l’altro, sgranando gli occhi divertito.
Gli tirò un cuscino e si alzò
in piedi – cuscino che Tim aveva afferrato e stava per
lasciar andare a terra,
già propenso a ignorare tutto il discorso.
Però Abel lo raggiunse, gli prese il
cuscino e lo appoggiò sul letto, per poi stringergli un
polso e dirgli con
l’intonazione di chi avesse ricevuto l’ispirazione
del secolo: “Andiamo a
Carlisle e ci cerchiamo un diner. Facciamo una colazione abbondante,
poi
ritorniamo sulla 76 e via, diretti verso Pittsburgh.”
Per un istante, con una morsa
d’angoscia al cuore, Tim fu tentato di andare a controllare
il portafoglio e
vedere quanti soldi aveva con sé, gli ultimi che possedeva e
si era portato
dietro dopo aver sfanculato Akash. Si sentì in colpa,
avvertì un senso di
nausea e paura all’idea di cosa sarebbe stato di lui a quel
punto, se non
avesse avuto più nulla in tasca. Anche se... davanti aveva
Abel che gli parlava
di mangiare assieme.
Non lo fece dunque, non controllò i
suoi patetici contanti, esattamente come non aveva ancora controllato
il
telefono, sicuro di trovare qualche messaggio furente del suo capo che
lo
licenziava mandandolo a farsi fottere, con la concentrazione di tutti
gli
insulti accumulati verso la sua patetica persona di ragazzino. In
generale,
c’erano momenti della propria vita in cui Tim non guardava il
telefono e basta:
la gente aveva un peso specifico importante e non sempre, ogni singolo
giorno,
sentiva di essere in grado di gestirlo.
Però appunto si trattava di Abel, e
Abel che gli proponeva di andare a mangiare in un diner stupido nel
mezzo di
una cittadina sconosciuta era un evento da segnare sul calendario.
Avesse
potuto, avrebbe speso anche tutto quello che aveva per far
sì che avvenisse
davvero:
“Va bene, certo, ci sto.”
Abel sollevò un sopracciglio e gli
sorrise, mordendosi un labbro. Compiva quel gesto solo quando facevano
l’amore
o qualcosa lo rendeva particolarmente felice; in quei tre anni
più o meno
insieme Tim aveva imparato a conoscere parecchie cose di Abel,
nonostante
questi sostenesse di essere il vero osservatore della coppia. In
realtà Mahogany
l’aveva sostenuto più specificatamente
nell’ultimo anno, perché prima per tutti
e due le idee erano un po’ confuse, persino vaghe, riguardo
l’impegno dello
stare assieme, sebbene si fossero conosciuti in una
situazione fragile e
delicata per entrambi.
Tim non era un grande esperto di
relazioni, né aveva avuto chissà quanti uomini,
ma aveva sempre immaginato che
da una parte la fedeltà, così come la
stabilità di coppia, e dall’altra
l’essere gay, fossero due universi paralleli e distinti,
destinati raramente a
incrociarsi. Solo ultimamente stava ricredendosi, anche se ogni tanto
riteneva
plausibile, persino normale, che saltuariamente Abel potesse vedersi
con
qualcuno: ipotizzava che, continuando a pensarlo, gli avrebbe fatto
meno male
se un giorno avesse avuto ragione. Senza false modestie, Westifield
pensava di
avere una straordinaria abilità
nell’anestetizzarsi in molte cose.
Abel per contro lo baciò e, a piedi
nudi – perché amava stare
scalzo – raccolse le ultime cose sparse nella
stanza, si dette una sciacquata e fumò ancora, mentre aveva
lasciato a Tim il
suo cellulare per telefonare a Steve ed Ellie. Poi, dopo aver pagato il
conto
si mise in macchina e Tim si sedette di fianco, i capelli lasciati
crescere
lunghi schiacciati all’indietro dal vento quando presero
velocità; il guidatore
improvvisato del viaggio lo scorse stare con gli occhi chiusi, il volto
diretto
verso l’aria.
Una volta a Carlisle, entrò in W
High Street, la strada principale: era circondata da tantissimo verde,
viali
alberati e un generale senso di pace, dove persino il traffico sembrava
moderato. Sfruttò il primo parcheggio disponibile con
accanto un diner, indossò
gli occhiali da sole e, in ciabatte, uscì
dall’auto dove si stiracchiò la
schiena e si guardò attorno, cominciando infine a camminare
sicuro di sé.
Tim lo osservò un attimo, poi lo
raggiunse con le mani in tasca; portava una maglietta a maniche corte
dipinta
da Abel e sapeva che, dietro gli occhiali, lui la stava guardando. Con
soddisfazione manifesta d’artista, perché quella
maglietta, come tante altre,
l’aveva dipinta lui. Le metteva quasi sempre, le regalava
alle persone a cui
teneva, considerandole i suoi ‘quadri
prêt-à-porter’. Ne andava
orgogliosissimo, anche quando si trattava di linee astratte e altre
elaborazioni
conoscesse dopo un trip particolarmente intenso. Quella che aveva
addosso Tim,
per esempio, l’aveva dipinta una notte di qualche mese fa da
ubriaco, dopo aver
discusso di religione, etica e morale con un’interprete che
lavorava al
parlamento di Strasburgo ed era in vacanza negli U.S.A.
Non sono luci, sono fuochi
d’artificio. Non festeggiamo abbastanza.
Non che ci fosse mai stato nulla di
particolare da festeggiare, eccetto il successo di qualche mostra di
Abel –
evento di per sé meraviglioso, ma comunque già
corredato di qualsiasi elemento
per festeggiare, dal catering di alto livello, ad alcolici, alla gente
coi
soldi veri e l’interesse a sembrare di un certo livello di
cultura, dunque non
contava – però Tim capiva che quello era il suo
canto d’artista per affermare
di volerci credere.
Nel diner, ordinarono da bere e da
mangiare. Tim non si stupì particolarmente quando vide Abel
chiedere dei
pancakes e una fetta di carrot cake: tanto bravo a consigliare il suo
compagno,
ma altrettanto pessimo nei propri eccessi, pur mantenendo sempre
quell’aria
sicura di sé, come se li avesse davvero programmati.
“Che c’è?” domandò
infatti Abel con
una sorta di sorriso, quando vide l’espressione scettica
dell’altro.
“Ce la fai a finire tutta quella
roba?”
“Se puoi farcela tu, non vedo perché
non dovrei riuscirci io. Poi… sono previdente: mal che vada
abbiamo degli
avanzi da mangiare durante le lunghissime tre ore di viaggio.”
Sembrò quasi contrattare, con
sottigliezza strategica. Tim lo osservò mettersi gli
occhiali sul capo, così
che affondarono tra i capelli mossi, infine rispose, incapace di
passare oltre:
“Non prendermi per idiota – nel
parlare, d’istinto il suo accento della Louisiana divenne
più marcato, mai
davvero influenzato dalla parlata più stretta assorbita a
New York, nell’eclettico
e un tempo povero quartiere di Harlem – mangia quello che ti
senti. Ma se vuoi
abbondare, se davvero lo vuoi, non c’è nulla di
male: non sono...”
Tacque, emettendo una specie di
ringhio infastidito, quasi strozzato, poi iniziò a
inforchettare il pancake
come se avesse dovuto ucciderlo. Ne prese una grossa fetta, cominciando
a
masticarla con le guance piene e gli occhi puntati verso lo sciroppo
d’acero.
“Mia madre?” finì per lui Abel,
diretto ma tranquillo. Lo osservò mangiare, poi ammise in
uno dei suoi personali
collegamenti: “Sei sempre così magro, hai un sacco
di pensieri in meno da quel
punto di vista.”
Tim smise di mangiare e lo guardò,
con ancora la bocca piena. Abel si tolse gli occhiali da sole, li
appoggiò sul
tavolo e, con ancora il suo piatto e la torta intoccata, al pari dei
pancakes,
aggiunse mortificato eppure con fierezza:
“Scusa. Scusa amore, sono stato
stronzo.”
Tim mangiò lentamente, deglutì,
bevve dalla tazza un sorso di caffè macchiato. Gli
servì perché altrimenti
avrebbe attaccato Abel dicendogli qualcosa di cattivo, lo sapeva.
Dunque prese
una pausa per connettere e cercare una cosa giusta da dire, anche se
era un
ragazzino ignorante, non era andato al college e a malapena aveva
finito le
scuole.
“Non metterci troppo sciroppo sopra.
Questa marca è più zuccherata del
solito.”
Si grattò poi il sopracciglio. Abel
annuì, la stessa espressione intensa e attenta di chi riceva
una grande nozione
scientifica, poi allungò la mano per far smettere il
compagno. Gliela baciò, in
maniera sfrontata, chiedendosi se qualcuno si sarebbe girato a
guardare, infine
la lasciò e iniziò a tagliare la pila di pancakes
dopo averci messo sopra un
po’ di sciroppo – poco: stranamente, ma non poi
così tanto, aveva ascoltato
almeno quel consiglio.
Dopodiché, con iniziale lentezza
prese a mangiare.
“Buoni. Ne valeva la pena.”
“Sì, ne valeva la pena. Sicuramente
più di salvare un cellulare nel mezzo di un fiume in
piena,” replicò Tim, con
una sorta di sorriso che rendeva meno ingombrante la sua cicatrice,
come se in
quel modo sparisse nelle minuscole rughe d’espressione.
Abel però a sua volta gli sorrise,
gli occhi scuri affascinanti, saggi nonostante qualche sfumatura di
follia per
le idee che la sua testa perseguiva.
“Johnny – annunciò
all’improvviso
Abel, dopo aver tagliato in parti più piccole quello che
ancora restava del
pancake in cima – l’ho incontrato in clinica. Ci
tenevo che lo conoscessi
perché, prima di te, assieme a nonna è stato
parte del mio percorso di
guarigione.”
Lo disse come se fosse qualcosa di
spirituale e, in un certo senso, forse era così. Abel era
tanto bravo a parlare
di sé come artista, a mostrarsi sicuro, pieno di certezze e
al tempo stesso
ricco di fragilità nascoste, che lasciava intravedere come
uno spiraglio
lontano a sufficienza da instillare curiosità, ma mai
compassione; allo stesso
modo, per opposto, era totalmente incapace di gestire le proprie
debolezze:
gettava in superficie tutto ciò che voleva gli altri
vedessero, per evitare
che, nonostante quel famoso luccichio distante che ingolosiva, la
maggior parte
delle persone non fosse interessata a scavare più a fondo,
certa di aver già
ricevuto il meglio. Lo faceva anche con se stesso, senza mai chiamare
per nome
ciò di cui aveva sofferto, senza mai menzionare la madre
– eccetto quando gli
dava i soldi e pubblicava articoli riguardo l’arte del figlio
sul New Yorker,
per il quale, sotto sua insistenza, Abel aveva anche disegnato una
copertina,
copertina che odiava e aveva usato per ‘pulirsi il culo dopo
aver cagato’.
Dopodiché, aveva incorniciato la suddetta copertina per
spedirla via posta alla
madre e al compagno di quest’ultima. Tim l’aveva
visto in azione e, suo
malgrado, aveva capito di essersi innamorato di Abel anche per quel suo
lato
ricco di parolacce nel mezzo di parole auliche, oltre che di ribellione
un po’
capricciosa, all’apparenza, ma in realtà frutto di
un’esasperazione dalle
radici ben più profonde.
“Johnny – ripeté allora Tim,
assorbendo quel nome, perché era la prima volta che Abel gli
parlava così tanto
all’improvviso di qualcuno incontrato in clinica –
va bene, lo conoscerò
volentieri. Cosa fa nella vita?”
Azzardò a chiedere, dopo aver
mangiato l’ultimo boccone. Aspettò a bere, quasi
per non interrompere il
contatto visivo con Abel che, come se avesse atteso quella domanda,
replicò
soddisfatto:
“Edith Labelle. È una drag
queen e uno stilista piuttosto affermato nel suo ambiente. Se stessi un
po’ di
più su instagram lo sapresti.”
Lo prese in giro con fare pacato,
consapevole che se c’era una persona a cui non fregava nulla
dei social media,
beh, quella era Tim, il quale era capace anche per giorni di non
rispondere al
telefono o persino ai più semplici messaggi.
“Stacci tu anche per me su
instagram” sbottò infatti alla fine Timmy,
prevedibilmente. Picchiettò la
forchetta sul piatto, raccogliendo qualche residuo dello sciroppo
d’acero, per
poi grattarsi la cicatrice e smettere prima che glielo dicesse Abel,
aggiungendo: “Facciamo portare via la carrot cake e quello
che non hai mangiato
dei pancakes, non era una cattiva idea quella di smangiucchiarli per
strada.”
Incredibilmente, in aggiunta gli
sorrise e scrollò le spalle, assumendo però come
sempre un atteggiamento
tiepido e vagamente distaccato, anche se Abel conosceva le sfumature
dei suoi
occhi e di quel sorriso. Allora abbassò
lo sguardo, realizzando di aver
sminuzzato e accantonato una grossa parte dei pancakes; uno dei suoi
trucchi
preferiti per diminuire il volume del cibo nel piatto e dopo esclamare ho
mangiato fino a sfondarmi! Se prendo ancora altro esplodo!
“No. No, amore, ho ancora fame. Sai
che sono lento” specificò dopo un istante di
silenzio, anche se non era vero.
Abel era lento solo quando accarezzava il suo compagno, o camminava a
piedi
nudi da qualche parte. Lì… sì, si
prendeva tutto il tempo del mondo.
Infilzò i pezzettini uno dopo
l’altro, con fare metodico, preciso, contandoli. Quattro per
ogni forchettata.
E se ne riempì la bocca, con Tim, le sue cicatrici, il suo
corpo nervoso e
spigoloso che, Dio, quanto cazzo gli aveva invidiato e ancora, in
parte, gli
invidiava, che lo guardava senza nemmeno provare a fingere di fare
altro, anche
se ogni tanto gli rubava un pezzetto di pancake, silenzioso, facendogli
credere
che potevano competere per chi mangiava di più e il ragazzo
della Louisiana
riuscisse davvero a perdere.
Abel dunque si riempì le guance,
masticò, più e più volte, mentre
continuava a fissare il piatto. Deglutì e si
rese conto della fatica nel farlo, perché, cavoli, aveva
esagerato come al
solito, nella sua personale forma di protesta. Bevve poi del
caffè, si sciacquò
gli ultimi residui tra i denti e ricominciò. Meno lento
quella volta.
Fu Tim a chiedere di portare via la
carrot cake; quando la cameriera gliela riportò nel doggy
bag, il ragazzo la
ringraziò, pagò di tasca sua e si mise il
sacchetto in grembo, portandosi una
ciocca di capelli dietro le orecchie.
“Grazie” gli disse Abel dopo un
istante, per poi sorridergli mordendosi un labbro. Tim a quel punto
sentì inconsistente
il peso dei soldi dati via, anche se erano pochi quelli
rimanenti;
pochissimi, se pensava al viaggio che ancora avevano davanti.
“Prego – guardò poi l’ora e
aggiunse, dopo essersi schiarito la gola con un colpo di tosse
– che ne dici di
andare? Edith Labelle potrebbe essere una potenziale drag queen per gli
spettacoli che volevi far vedere a Sophie.”
“Sì, decisamente sì. La
amerebbe”
decretò Abel. Con quelle parole fece scomparire in maniera
definitiva qualunque
precedente insicurezza, come dimenticandosi del cibo, anche se era
finalmente
nello stomaco, macigno del senso di colpa.
Si alzò in piedi, attendendo Tim;
quando lo ebbe accanto gli iniziò a parlare della
cantautrice Edith Piaf a cui
era ispirata Labelle, del fascino del bianco e nero, di quanto fosse
bella sua
nonna con le sfumature antiche delle fotografie e di quanto avrebbe
voluto
impostare la sua prossima mostra sul bianco e nero.
L’hanno fatto tutti, ma
io lo farò meglio.
Sull’onda del trasporto, aggiunse
anche che avrebbe fatto una prossima foto a Tim nudo in un fiume, come
nel suo
sogno, quasi fosse stata una missione di vita farlo tornare a nuotare
con
alligatori immaginari. Stupido, stupido Timmy: in passato hai
avuto talmente
tanta paura di annegare e soffocare da non bere per giorni. Hai
rischiato di
morire per la disidratazione, lo sapevi?
“Sei il paladino delle cause perse,
Abel” replicò Tim salendo in macchina, ma non
contestò del tutto la possibilità
di fare davvero una foto in un fiume. Non perché ci
credesse, semplicemente non
aveva voglia di discutere: gli spiaceva smorzare l’entusiasmo
ed era troppo contento
nel constatare che, da un anno a quella parte, Abel aveva decisamente
migliorato il suo rapporto con il cibo e ogni tanto si ubriacava
persino.
Certo, c’erano ancora sospetto, diffidenza e vecchi echi di
rifiuto, simile a
un cane che annusi con incertezza il padrone che l’ha
abbandonato, però Abel e
il cibo riuscivano a fare lunghe passeggiate al guinzaglio senza
rischiare di
scappare.
“No, niente cause perse: siamo
cresciuti tanto da quando ci siamo incontrati, Timmy. Credo nella
crescita
appunto e nel cambiamento. Una delle tante cose buone che il mio ex mi
ha
insegnato è questa.”
Indicò il due con le dita, poi avviò
il motore, rimettendosi gli occhiali sul naso. Tim si
allacciò la cintura: “Che
vuol dire quel due?”
“Seconda tappa. Il mio ex. Prima
John, poi Lyanna.”
Tim non riuscì a provare nemmeno
senso di inadeguatezza, o a immaginare se l’ex di Abel
dovesse essere un
barbone, per effetto del modus Jesus-Christ-Our-Lord-and-Saviour
operandi di Mahogany Abel, che replicò sull’onda
della sorpresa: “Lyanna?”
Da dietro gli occhiali vide Abel
inarcare un sopracciglio, sorridere, e immettersi in carreggiata senza
dire
altro. Accese solo la radio, che passò una canzone di Gloria
Gaynor. Appena la
sentì alzò il volume al massimo,
abbassò i finestrini e lasciò che le parole I
will survive risuonassero per le strade verdeggianti di
Carlisle e, poi, in
quelle immense ma polverose della Pennsylvania.
Daily
News – Sezione annunci
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terapia riabilitativa
Non interessa il
fisico, né la bellezza. Compenso
congruo. No scopo sessuale, solo affidabilità professionale
in percorso
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Buongiorno,
scrivo
per l’anuncio. Uomo, fisico magro. Dicono che ho una buona
empatia, se può
aiutare nella riabilitazione.
Questo era l’annuncio che Abel tre
anni fa aveva prescelto, tra centinaia e centinaia di altri migliori,
molti
dotati di foto dei candidati in ogni posa possibile, di gente che si
sapeva
vendere insomma o cercava perlomeno di farlo, a differenza di quelle
quattro
righe sputate e persino con un errore di battitura. Eppure
l’aveva scelto
perché era l’unico che gli avesse parlato di
empatia, quando i pochi che si
ricordavano della riabilitazione vantavano nient’altro che
immense lauree in
psicologia o addirittura in psichiatria.
L’aveva colpito, quell’empatia,
aggiunta al se può aiutare, come
un’entrata in punta di piedi ma da
ballerina, non da ladro.
Preparò allora due
mail.
Una che gli mandò:
Re: annuncio cercasi
modello
Da: shapeshifter@yahoo.it
A: tim.westfield1234@gmail.com
Ciao Tim Westfield,
presupponendo che sia tua la mail.
Incontriamoci al Lacolombe Café, a SoHo, Lafayette Street.
Domani alle 18,00?
Discutiamo del
compenso e delle disponibilità di
giorni e orari. Per onestà professionale preciso che sono
gay; non intendo
provarci con te, né molestarti sessualmente.
A presto,
Abel
Re:
re: annuncio cercasi modello
Da:
tim.westfield1234@gmail.com
A:
shapeshifter@yahoo.it
Sono Tim. Grazie per
l’avviso, anche io cerco solo
del lavoro se si riesce normale. Ok per domani.Ciao.
Quando lesse quelle righe Abel si
ritrovò a mordersi il labbro e a sorridere. Lesse una
qualche forma di speranza
e al tempo stesso di rassegnazione, quasi come se la prima fosse
contrastata da
una maturità più grande, di chi non si aspettava
di incappare tramite annuncio
nel lavoro perfetto però volesse comunque provarci.
Trovò bella la semplicità
delle parole, l’essere sia dirette che schive.
Fu tentato di seguire il consiglio
della sua terapista e della clinica pagata da suo padre tanti di quei
soldi da
poterci fare infiniti viaggi attorno al mondo, comprare materiali per
la
scultura, pitture, tele. Lo faceva incazzare la sola idea delle spese e
pensò
di mandare un messaggio a sua madre, per riversarle contro quello che
era
stata. Non lo fece. Riscrisse invece quella mail alternativa che non
aveva mai
mandato all’ormai confermato Tim.
Rimase nelle bozze, ma ogni tanto la
guardava pensando che forse, un giorno, quando Tim sarebbe stato
più forte
emotivamente gliel’avrebbe fatta avere, come una proposta di
matrimonio.
La
riabilitazione è perché ho un
disturbo alimentare: anoressia. Se ti stupissi pure tu come tanti prima
di te,
ma credo tu sia più sveglio, ebbene sì:
l’anoressia colpisce anche gli uomini;
me l’hanno spiegato con un sacco di statistiche e grafici.
Come per farmi
sentire meno speciale, o più normale.
Parlando con il gruppo di
supporto e con la terapista che mi segue, è emerso che forse
potrei ritrarre dei
corpi, visto che ho studiato alla New York Academy of Art. Rendermi
conto che
in ogni fisico c’è una forma di bellezza, persino
quando tentiamo di
autodistruggerci.
Sto cominciando il mio percorso
per non vanificare quello che ho ottenuto in clinica. Molti mi hanno
preso da
parte, guardato in faccia e detto che, ehi, lo sappiamo tutti e due,
non
guarisci mai veramente dall’anoressia, l’allontani
solo per più o meno tempo.
Ma io non voglio ascoltarli, voglio andare contro le opinioni comuni,
capisci?
In fin dei conti voglio solo sopravvivere: sono un essere umano,
è questo
quello che gli uomini fanno.
Quindi, senza troppo peso o
responsabilità, se cominciamo questa collaborazione
è bene che tu sappia una
cosa: più che la mia musa potresti essere il mio
incantesimo, il mio mantra, la
mia medicina per guarire veramente,
il
mio voodoo contro ciò che
odio, Timmy.
Sproloqui
di una zucca
Il prompt era
guarigione. Spero di averlo affrontato con la giusta
sensibilità, accanto a prompt importanti come malattia,
supporto e fiducia. La canzone portante da inserire è
ovviamente I will survive, di Gloria Gaynor. Grazie per aver letto, mi
auguro che quanto scritto possa piacervi!
|
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Capitolo 3 *** Sunlight ***
I
walked through the fire and I fly through the smoke:
mama, I'm a voodoo child.
3.
Sunlight
“Se
ti comporti
male, Tonton Macoute ti porta via.”
Tonton Macoute, Zio
Sacco di Juta. Ancora a distanza di anni, Tim ricordava i moniti
secchi di sua nonna paterna. Seduta sulla sua grande poltrona a
fiori, con il camice largo e le ciabatte da cui spuntavano i piedi,
fasciati dalle calze contenitive per combattere la pessima
circolazione, la signora Westfield aveva un aspetto imponente,
persino autoritario, e parlava di Tonton Macoute con talmente tanta
convinzione da far credere all’allora nipotino che potesse
evocarlo
così, da un momento all’altro, come se fosse stato
un suo vecchio
amico.
Il giovane Tim ne
era inquietato e affascinato al tempo stesso, anche se sua mamma gli
diceva di non dare ascolto alla vecchia Tina, perché era
spostata
come suo figlio; e, considerando che suo figlio la
mamma di
Tim se l’era sposato, in fin dei conti al bambino non
sembrava una
posizione poi tanto credibile quella della sua genitrice.
Nonostante questo, e
nonostante pochi anni dopo Tina fosse morta d’infarto,
l’ombra di
Tonton Macoute era rimasta; a modo suo infatti Timmy aveva provato a
essere buono, per quanto, si era reso conto con la crescita, la
definizione di buono nel mondo degli adulti fosse molto relativa.
Così, mentre sua sorella maggiore cresceva e usava
l’ironia come
scudo, Tim aveva provato a interpretare cosa fosse buono o meno e
ribatteva se qualcosa non gli andava giù:
tenere le cose nascoste era pessimo, di certo non voleva che Tonton
Macoute si
barcamenasse
fino all’Eight Street di Lafayette per punirlo e portarlo via.
Altra
realizzazione in parallelo, però, era che agli adulti
tendenzialmente non piaceva quando un ragazzino li contestava, o si
esprimeva liberamente, quasi come se temessero di vedere mistificato
il loro piccolo mondo fatto di principi inattaccabili per colpa di un
marmocchio, sputato da una scatoletta di lamiera che ricordava un
container, più che una casa. Questo dunque gli aveva dato un
sacco
di problemi, specie con suo padre e gli altri adulti con cui il
piccolo Timmy aveva costantemente a che fare, eccetto sua madre, a
detta di molti eccessivamente comprensiva.
“Sono
le sue radici francesi che la rendono debole. Cajun: loro e come
parlano. Pensano che qui sia l’Europa” sbottava suo
padre, mentre
Tim si teneva il labbro spaccato da un suo ceffone, quasi per farlo
smettere miracolosamente di sanguinare.
In
qualche forma, comunque, nonostante
gli alti e bassi della vita
Timmy era arrivato fino ai sedici anni senza troppi impedimenti di
sorta, eccetto la normale lotta per la sopravvivenza, tra lavoretti
pagati con qualche mancia per aiutare con le spese di casa, oppure
i racconti sui
loa trasmessi da Mama Hazika e
quindi narrati in cambio di cibo
ai bambini del vicinato, per quando i genitori non c’erano. Giunto
a quell’età era arrivata anche
la progressiva consapevolezza che, tanto, dal suo personale ghetto di
povertà Tim
non
sarebbe mai uscito, come i professori, le
sue uniche guide,
si erano
premuniti di ricordargli: non sei intelligente e
sei
svogliato per studiare, Westfield,
quindi non
pensare nemmeno di avere una borsa di studio. Il
college puoi
anche dimenticartelo.
Anche se
intelligenza e svogliatezza spesso
venivano confusi con un precoce senso di arrendevolezza
a un mondo di falliti; ma Tim
aveva creduto a quello che dicevano i suoi insegnanti, dunque non si
era mai scomodato a far cambiare loro opinione.
Tutto
questo insieme
di fragili
equilibri,
però, aveva
cominciato a mutare
nel
momento in cui Tim si
era
ritrovato a
fare due conti
con se stesso riguardo le proprie preferenze sessuali. E se in
principio aveva attribuito lo scarso interesse ed eccitazione verso
il genere femminile a un suo complessivo
senso di disagio, alla rabbia e alla frustrazione per la situazione a
casa, con il tempo Tim
aveva
realizzato che qualcosa non andava come doveva: nel
masturbarsi davanti
a qualche
patetico ritaglio di uomini in intimo, rubati
da una delle riviste recuperate di fortuna, o con in testa corpi
maschili di compagni di scuola, piuttosto che di compagne.
Non
si parlava mai di cose come l’omosessualità, anche
se era un
argomento sicuramente meno tabù di quanto avveniva decenni
prima, né
lui aveva amici, o parenti a cui rivolgersi per
chiarire i propri dubbi.
Sua
madre da un po’ di tempo a quella parte sorrideva raramente,
stava sempre più a letto e si lamentava delle proprie
frustrazioni
meno di
quanto facesse anni
prima
– e
quante ne aveva, di frustrazioni:
la carriera come insegnante naufragata
per un matrimonio riparatore e dei figli avuti troppo giovane,
dei libri che non leggeva con la stessa frequenza di una volta,
soprattutto
la sua amata
Virginia Woolf,
della generale ignoranza in cui suo marito Waltie era sprofondato e
che
stava risucchiando tutti loro, in
un quartiere povero e con lavori precari.
Sua
sorella c’era sempre meno a casa, impegnata a cercare di
succhiare
con avidità quel poco di libertà che trovava in
amiche e ragazzi
che sosteneva di amare, per poi dimenticarsene o piangere di
delusione, quasi fosse una questione di sopravvivenza ultima,
l’amore
di un’altra persona.
Poi,
Tim conobbe Mathieu.
Suo
padre si era trasferito da Baton Rouge per lavoro e, come Waltie
Westfield,
lavorava in una
fabbrica che produceva zanzariere per porte e finestre; certo, a
differenza del proprio vecchio, quello di Mathieu era un ingegnere,
quindi assicurava al figlio tutto ciò che invece a Tim
mancava. Ma
quest’ultimo nemmeno da ragazzino
era mai stato tipo da sentirsi sminuito o invidioso per le questioni
materiali, seppur persino troppo conscio del peso del denaro:
liquidava
tutto con un pacifico
pazienza, a lui è andata meglio, c’è
gente a cui è andata meglio
ancora e
altri che
stanno peggio. Così è la vita.
Difatti
di Mathieu, più che i soldi, Tim aveva notato il fisico
slanciato da
corridore – una gazzella con il colorito d’ebano
– i capelli
ricci, acconciati in splendide treccine corte che tracciavano linee
perfette sul cranio altrettanto armonioso. Gli occhi erano di un
castano più chiaro, quasi nocciola, e alla luce del sole
sembravano
medaglie di legno contornate da un mare di ciglia folte, con una
strada luminosa di denti attorno a cui si distendevano le labbra
piene.
“Marie
Laveau, eh? Deve essere stata davvero un portento!”
Aveva
esordito all’improvviso Mathieu, con le mani nelle tasche dei
jeans
tagliati fino al ginocchio, il sorriso e un occhio chiuso per via del
sole del tramonto. Tim era seduto sulle scale del porticato in Eight
Street, stava infilando in un sacchetto della spesa le merendine, il
boudin o altri contenitori di cibo portati dai bambini del vicinato
che ora, finiti i racconti, stavano rientrando a casa; alzò
lo
sguardo, rimanendo in silenzio qualche istante perché non
sapeva
proprio cosa dire, troppo stupito che la gazzella
fosse
arrivata fino a lì.
“Sì.
Mama Hazika però ci terrebbe a ricordare che il voodoo
è una
religione, la magia nera un’altra cosa. Ma ai bambini non
sembra
interessare.”
Il
giovane allora aveva riso, con quella risata calda e vibrante che
sembrava venire direttamente dai polmoni per far scuotere di piacere
la trachea; forse, effettivamente faceva ridere che un cajun dai
capelli biondi parlasse di voodoo a un creolo di origini haitiane. A
quest’ultimo, però, in realtà sembrava
non importare, esattamente
come ai bambini: “Piacere, sono Mathieu. Mio papà
ha conosciuto il
tuo a lavoro, so che andiamo alla stessa scuola e allora,
sai...”
Aveva
scrollato le spalle, muovendo le pieghe della polo stirata. Aveva una
scarpa di tela slacciata, quasi come se fosse uscito di fretta.
A
quel punto Tim mosse le labbra in un sorriso; poi, le mosse per
presentarsi a sua volta: “Tim. Dove abiti?”
Mathieu
si guardò un istante attorno, grattandosi la testa:
“Ehm, abito…
non distante. Forse.”
Gli
aveva sorriso di nuovo e, per la prima volta, Tim si era sentito
consapevole della propria stupidità,
dell’inesperienza, di tutto
ciò che aveva di non chiaro nella propria vita. Mentre il
cuore, ah,
batteva con entusiasmo palpitante, lo stesso di quando il ragazzino
si lanciava a tutta velocità giù per le discese
con la bici del
vicino, che cigolava e gli ricordava di fermarsi, ma lui attendeva
fino all’ultimo solo per poter sentire fino in fondo
l’eco dei
propri battiti folli nelle orecchie.
“Vuoi
entrare? Ho del succo” gli aveva proposto
d’istinto, parlando più
veloce, con la speranza luminosa che dicesse di sì, quel
giorno, e
poi altri, che passasse ancora nel suo vicinato per ascoltare qualche
stupido racconto al tramonto del sole, quando la città si
impigriva
e i vecchi sedevano sulle sdraio per contemplare i raggi immergersi
fin dentro le rive del Vermilion.
Mathieu
aveva accettato senza nemmeno pensarci.
Da
allora avevano avuto un anno per conoscersi e per rivelarsi
l’uno
all’altro, per ciò che erano: innamorati, come
potevano essere
innamorati due ragazzini di poco più di sedici anni, quindi
senza
pensare al futuro, ma comunque consapevoli del tempo. Così,
mentre
da una parte Tim vedeva sua mamma sparire tra le pieghe del letto,
dall’altra usciva dalle mura di casa e lì tornava
a vivere, con
Mathieu. Prendeva con lui il bus per andare fino a New Orleans, aveva
visto mesi dopo il Mardi Gras, sperimentando i colori e la festa, la
musica e i balli; avevano chiesto passaggi di fortuna nel cuore della
notte, tra gente che andava nei campi a lavorare e altri che, come
loro, ritornavano nelle città vicine. Era andato nei locali
a
sentire suonare musica blues, aveva fatto lunghe nuotate nel lago
Pontchartrain nei giorni d’estate in cui non aveva scuola,
dormendo
all’aperto o in una tenda di fortuna.
Aveva
visto il sole riverberare sulle superfici dell’acqua, con il
mare
poco distante e le paludi simili a trame troppo larghe di un tessuto,
dopo aver fatto l’amore con Mathieu in maniera di volta in
volta
meno impacciata ma mai davvero esperta, con quell’irruenza
maschile
che mascherava la paura di fallire, di essere troppo femmina,
di star facendo un immenso sbaglio e svegliarsi, magari un mattino,
con una voce sordida che gli diceva sei malato, Tonton
Macoute ti
porterà via.
Ma
Mathieu era bello, era quel riverbero di luce sull’acqua, era
i
baci più sicuri, meno tormentati dell’animo
perennemente in
contrasto di Tim. Era le unghie perfette che gli grattavano la pelle
o la schiena quando le zanzare gliela pungevano, era il modo in cui
la lingua accarezzava e cercava quella del compagno senza
vergognarsi, era la presa gentile quando lo masturbava e gli chiedeva
di abbracciarlo perché aveva freddo e poi gli faceva il
solletico,
ma solo dopo, più tardi, perché in
realtà realizzava di aver caldo
e smascherava il suo pretesto.
“Sai,
pensavo di dirlo a mio padre un giorno. Che sono gay” aveva
confessato all’improvviso Mathieu. Era fine marzo e loro si
trovavano sulle rive del lago, all’alba.
Tim
era seduto accanto, con le braccia allacciate attorno alle gambe
dalle ginocchia spigolose, i capelli biondi lunghi fino alle
orecchie, fradici, perché si era fatto un bagno gelido e suo
malgrado tremava. Con le labbra viola e un asciugamano di fortuna
sulla schiena, Timmy si era girato verso Mathieu, guardandolo come se
fosse stato un alieno:
“Dirà
che sei una femminuccia – lo aveva detto con tono tiepido, un
po’
tremante per il freddo – Capirà anche di noi
due?”
Gli
occhi azzurri, di vetro dorato per le prime luci del sole, si erano
dilatati in un moto di panico involontario, anche se
l’espressione
era stoica, quella di un prigioniero che accettava la sentenza.
Mathieu,
che non aveva più le treccine ma i capelli erano tagliati
cortissimi, aveva sollevato le spalle: “Non sono una
femminuccia,
questo lo sa pure lui. Poi, anche fosse, dai, mi vuole bene. Crede in
me. Non gli dirò di noi due, però forse lo
immagina. Sai – mosse
una mano, come se stesse spiegando un concetto fondamentale –
credo
si veda, che io e te ce la intendiamo.”
In
un altro contesto, Tim sarebbe stato lusingato da
quell’affermazione.
Gli sembrava una bella e impacciata dichiarazione d’amore, se
solo
non fosse stato troppo impegnato a calcolare il peso delle scelte per
riconoscerla.
“Mio
padre… no, non lo capirebbe mai” aveva sbottato
Tim, coinciso.
Stava per alzarsi in piedi, quando Mathieu ancora seduto lo aveva
fermato per dirgli: “Tuo padre è uno stronzo, Tim.
Un omofobo
razzista. Ce l’ha coi francesi, pensa di essere di origini
inglesi
e ce l’ha pure con noi negri –
aveva fatto il segno delle
virgolette con l’altra mano – perché
è piccolo e frustrato.
Sbattigli in faccia la verità: se lo merita, per come tratta
te e
per cosa sta facendo a tua madre.”
Tim
per un attimo non aveva parlato. Con grande lucidità e un
fare molto
più adulto dei suoi reali anni, si era tolto dalla presa di
Mathieu
con un gesto però morbido, per poi ribadire apparentemente
incolore:
“Sì,
sì, mio padre è un pezzo di merda, lo so, non ho
bisogno che me lo
ricordi tu. Hai uno splendido rapporto con tuo papà,
è un grande
uomo, e ti auguro che le cose tra voi due vadano sempre
così, anche
quando gli parlerai di chi sei. Ma non voglio che ciò che
sono
diventi una punizione per il mio, di padre, capisci? E lascia fuori
mia mamma. La depressione è una malattia, non uno scarico di
responsabilità.”
Si
era infine strizzato i capelli, per poi togliersi le mutande bagnate,
asciugarsi e fare per rientrare nella tenda a vestirsi. Mathieu
allora si era corretto, i muscoli più definiti di giovane
atleta
sembravano una molla tenuta sotto tensione: “Non volevo
esprimermi
così – una risata morbida, quasi come se si
sentisse in difetto,
tanto bambino, rispetto a quell’uomo rinchiuso nel corpo di
un
ragazzino – prendi tutto troppo alla lettera, sai che tuo
papà mi
fa arrabbiare e… è che sarebbe bello, no? Se
potessimo parlare
liberamente. Magari baciarci.”
Aveva
arricciato il naso, i denti bianchi svettanti in un altro sorriso
spontaneo. Tim non gli aveva risposto. Una volta aperta la tenda, si
era infilato le mutande e una canottiera, per poi riemergere coi
pantaloncini in mano e uno sguardo stanco, ma al tempo stesso
malinconico:
“Vivi
in un mondo di favole. Dai, rientriamo che devo arrivare a Lafayette
prima che cominci il mio turno da Donny Burger.”
Mathieu
allora aveva smesso di sorridere. Più alto, era scattato in
piedi e
con quel fervore giovanile ma lucido degli oppressi, il ragazzo aveva
ribattuto: “Non sono io a vivere in una favola, Tim! Sei tu a
essere rimasto confinato in un mondo retrogrado e stupido –
aveva
indicato con un dito oltre il lago, con alle spalle costantemente il
mare, in un punto indefinito dei maestosi U.S.A. - là
marciano per i
nostri diritti. Là ci sono locali, là ci si tiene
per mano, là ci
sono associazioni e spettacoli, show televisivi, pagine su facebook,
su instagram, su twitter. Smettila di credere che sarai sempre e solo
un poveraccio figlio di operai incapace di uscire dal ghetto!”
Stava
ansimando. Aveva urlato.
Tim
aveva al contrario serrato le labbra e faceva fatica a respirare;
aveva gli occhi lucidi: di rabbia, rabbia verso suo padre, verso sua
madre che si era dimenticata di lui, verso sua sorella che lo pensava
ma fuggiva, verso Mathieu che non capiva, verso il suo paese stupido,
verso la sua casa così povera da essere patetica, una
parodia di un
tetto e di quattro pareti, verso il suo quartiere che odorava di
asfalto sciolto, di peperoni e cipolle, di sudore, quando
l’afa era
insopportabile e l’odore del fiume portato dal vento caldo
ricordava le insenature di Delacroix, stagnanti ma paradossalmente
salate.
Allora,
di riflesso, ancora incapace di gestire tutti quei sentimenti, anche
se avrebbe dovuto, perché già lavorava, era
dovuto maturare in
fretta, si ingegnava per pagarsi i libri, per andare a scuola, per
trovare il modo di non gravare sulla sua famiglia, Tim aveva
digrignato i denti per poi urlare, facendoli quasi tremare. Aveva
dato ancora una spinta a Mathieu che aveva compiuto un passo
indietro, perdendo per qualche istante l’equilibrio, sorpreso
ma
non troppo da quello scatto furente. Westifield aveva urlato ancora,
più forte, senza parlare, per poi aprire la bocca e
continuare a
gridare, con le vene sul collo che pulsavano e gli occhi gonfi. Non
riusciva a piangere, anche se li sentiva lucidi per
l’esasperazione.
Aveva
afferrato poi Mathieu per la maglia; lo vedeva spaventato, come
consapevole di aver tirato troppo la corda. Per un attimo la giovane
gazzella d’ebano aveva creduto che Tim, coi suoi lineamenti
nervosi, spigolosi ma al tempo stesso ancora intinti di un eco
adolescenziale, gli avrebbe tirato un pugno.
Invece,
Westfield aveva solo dilatato le narici, lo guardava e ammetteva, con
voce rauca, senza piangere anche se il volto era arrossato:
“Lo so.
So di essere rimasto indietro, Thieu.”
Scosso,
sconvolto, dopo essere tornato a respirare questi aveva balbettato
qualcosa, la sua sicurezza di diciassettenne svanita con la stessa
rapidità con cui smetteva di sorridere. Poi, aveva scosso la
testa e
gli aveva ribadito:
“Non
ce l’avevo con te. Non è colpa tua.”
Di
cosa ci fosse qualche colpa, esattamente, non lo sapeva nemmeno lui.
Sentiva di volerglielo dire.
Tim
aveva annuito, senza dire più nulla, quasi come una
constatazione
genitoriale dopo aver sentito le scuse del figlio, poi si era messo i
pantaloncini e con un saltello le scarpe da ginnastica mentre, ancora
nudo, in piedi, Mathieu lo guardava, incerto. A quel punto Westfield
lo aveva guardato a sua volta, i capelli fradici che gli avevano
bagnato la canotta; si rendeva conto di essersi allontanato,
nella sua maniera particolare in cui stava imparando a distaccare i
sentimenti, simili a un germoglio troppo precoce da togliere e tenere
da parte per momenti migliori:
“Hai
ragione e non ce l’ho nemmeno io con te. Forse... davvero,
tirare
fuori tutto, parlarne, è la cosa migliore. Grazie”
lo aveva detti
sinceramente, con quel fare semplice e diretto che gli apparteneva e
che, negli anni, gli aveva creato tanti problemi.
Mathieu
si era portato una mano sulla testa, massaggiandosela appena mentre
aveva risposto: “Prego. Non… non devi
ringraziarmi, Tim. Siamo
assieme, no?”
Gli
occhi sembravano più grandi quando glielo disse, quasi col
timore di
essere smentito, o peggio ancora che Tim lo lasciasse così,
su due
piedi.
“Quest’estate
Ellie darà una festa. Siccome non ci è riuscita
per i sedici e
nemmeno ha mai avuto una macchina, ha pensato di approfittarne per i
ventuno e portare alcolici. Ci possiamo andare assieme” aveva
proposto l’altro, all’improvviso. Mathieu aveva
fatto una faccia
strana, di quelle apertamente confuse, poi era scoppiato a ridere,
battendo le mani mentre saltellava sul posto; suo malgrado Tim rideva
a sua volta, contagiato dal buonumore rinnovato dell’altro,
capace
di farlo sorridere anche nei momenti più impensabili.
“E
facciamo festa, e facciamo festa, festa, festa sì!”
Aveva
canticchiato Mathieu, mimando un balletto un po’ seducente,
un po’
festoso, con immaginari ritmi haitiani insiti nel suo sangue creolo.
Poi,
sempre ballando, aveva baciato Tim che, più leggero dopo
aver
urlato, o forse era la luce nel sorriso del suo ragazzo, si era
lasciato sedurre sulle sponde placide del lago, anche se dentro di
sé
era acqua, lacrime e sudore.
Due
mesi dopo, Tim aveva perso sua madre e, di riflesso, aveva smesso di
nuotare: aveva creduto che forse le storie di Tonton Macouta non
erano bugie, anche se inesatte. Lo zio Sacco di Juta l’aveva
di
sicuro punito per essere stato bugiardo, codardo e vigliacco, ma
anziché rapirlo gli aveva portato via sua madre.
Sua
sorella invece aveva lasciato definitivamente casa, quasi fosse stata
anche lei stregata dall’uomo nero; però, aveva
confessato a Tim
che in sogno le era apparsa la loro mamma, chiedendole quando sarebbe
arrivata l’estate di celebrare la vita e il mondo che aveva
lasciato. Tim aveva pensato che forse Ellie avesse bisogno di una
giustificazione per provare a essere felice e permettersi,
egoisticamente, di avere ancora un compleanno.
Laissez
les bons temps rouler. Sua mamma lo diceva sempre, ma non ci
aveva creduto fino in fondo; forse, per questo almeno i suoi figli
dovevano provarci.
“Tchoupitoulas”
scandì lentamente Tim mentre guardava con attenzione le
labbra di
Abel, tenendo una mano sul suo cockatil che gocciolava fino al
portabicchiere.
L’altro
assottigliò gli occhi, come se ciò gli garantisse
una maggiore
concentrazione: “Cia…
– poi si bloccò, rise e replicò
– maddai, non è nemmeno una parola.
È… è un insieme cacofonico
di consonanti.”
“Certo
che è una parola, esiste: Tchoupitoulas Street, sul
Missisipi –
specificò Tim, per poi far tintinnare con un certo sapore di
vittoria il bicchiere contro quello del suo compagno – il
vostro
accento di New York è ridicolo.”
“Il
vostro fa ridere, non il mio; bah, compreso il ciupitapa,
o
come si dice, e quella schifezza che mangiate... bubin,
quella
roba lì” liquidò Abel, che aveva bevuto
poco e piano, ma mal
sopportava non sapere qualcosa o non esprimerlo al meglio.
“Ciupitapa?
Cosa tiri fuori, che tipo sei – scosse la testa Tim,
divertito da
quella pronuncia per lui bizzarra di qualcosa di tanto scontato e
domestico – il boudin comunque. Non lo mangio da una vita,
secondo
me ti piacerebbe: una volta o l’altra lo proviamo.”
Lo
osservò e Abel fece un sorriso più morbido,
affettuoso,
dimenticando la competizione su accenti e geografia:
“Volentieri.
Se me lo prepari tu.”
“Auguri
allora” commentò Tim, anche se abbassò
lo sguardo con fare schivo
e quell’imbarazzo leggero dietro il suo fare austero di
difesa.
Tornò a guardarlo, realizzando la fortuna di poter parlare
di cibo
con Abel, di promettergli di cucinare della carne con la speranza che
lui l’avrebbe davvero mangiata, anche se non sarebbe mai
stata
buona come quella preparata da mamma nei suoi anni più
felici.
A
quel punto Abel gli mostrò la lingua, contemplando il modo
in cui
Timmy corrugava le sopracciglia e poi roteava gli occhi, in un ormai
noto tentativo di mistificare il sorriso spontaneo. Poi
spostò lo
sguardo verso la terrazza dove la gente, esattamente come loro,
beveva, ballava e chiacchierava; le luci percorrevano i porticati
simili ad arredi a festa, assieme a rampicanti decorativi,
mischiandosi all’illuminazione del resto del Cultural
District,
dove Edith Labelle aveva invitato loro e gli altri suoi ospiti a
festeggiare dopo lo spettacolo teatrale. Poco oltre,
l’Allegheny si
preparava a incontrare l’Ohio ed era come se, con quelle luci
e
quelle chiacchiere, ognuno degli astanti si stesse preparando a dire
addio a un fiume, contemplando le sue acque scorrere
un’ultima
volta.
Ma
d’altronde così era Pittsburgh, la
Città dei Ponti: un crocevia
di acque e di cultura. Ad Abel faceva effetto trovarsi lì,
con Tim
che gli aveva stretto più forte la mano quando avevano
passeggiato
vicino alla riva, per riuscire ad arrivare al quartiere dopo aver
lasciato le cose all’hotel; era come un presagio della
propria
promessa di vedere un giorno Tim tornare a nuotare.
Adesso
erano lì, su una terrazza ricca di persone interessanti,
alcune più
estrose delle altre, parte di quel mondo queer che Abel tanto amava e
conosceva ma che Tim, invece, ancora guardava un po’ a
distanza,
come se non lo capisse o fosse incerto di avere il permesso per farne
parte fino in fondo. Lo vedeva, coi suoi occhi chiari, severi, di chi
aveva contato le bollette e ogni singolo centesimo e tolto oggetti
dalla lista della spesa, anziché metterli, ma allo stesso
tempo
erano occhi curiosi, assetati di quelle luci scintillanti narrate da
qualcuno più esperto o sognatore di lui.
Abel
allora gli si avvicinò di più, sussurrandogli in
un orecchio:
“Secondo me quel tipo con la giacca a quadri se la intende
con
l’altro.”
Tim
lo guardò un istante, con una sorta di sorriso perplesso,
poi seguì
lo sguardo di Abel, che aveva puntato con un cenno l’oggetto
del
suo pettegolezzo frivolo: “Il tipo con le macchie
dici?”
“Ghepardato,
è ghepardato, piccolo Ciupitapa – lo prese in giro
Abel,
contemplando il volto dell’altro che, coi capelli sciolti, la
maglietta dipinta da lui addosso e dei semplici pantaloncini,
continuava a ignorare gli elementi base del vestiario consapevole
–
comunque sì, è lui.”
“Ciupitapa”
ripeté Tim, scuotendo la testa apertamente divertito, per
poi
sfiorarsi la cicatrice e aggiungere: “E invece di quei due
che si
tengono per mano, che pensi di loro?”
“Uno
è l’amante di Ghepardato. Sì, si vede
che è un tipo che ama
tenersi impegnato” dedusse Abel con fare saccente e
altrettanto
divertito, circondando però il suo ragazzo con un braccio.
Un
movimento morbido, persino elegante e leggero. Annusò i suoi
capelli: “Sai di shampoo dell’albergo.”
Tim
lo lasciò fare, anche se temeva non si sarebbe mai abituato
a quei
gesti:
“Ed
è una brutta cosa? Perché hai anche tu lo stesso
odore” scherzò
Westfield, per poi vedere Abel mordersi un labbro e sorridere.
Allora,
in quella terrazza, in una festa con gente che non conosceva in cui
Abel aveva insistito per portarlo ed essere lui a pagare, esattamente
come l’aveva spronato per farlo viaggiare e mandare a fanculo
il
suo datore di lavoro che lo sfruttava e non lo pagava, sì,
in quella
terrazza ripensò a tutti i sorrisi delle persone che aveva
amato e
che gli avevano rivolto. Ed erano più di quanti pensasse.
Sua madre,
sua sorella, i bambini del quartiere quando lui era un ragazzino
cantastorie, Mama Hazika, la vecchietta del 24/7 che lui ogni tanto
aiutava sistemandole gli scatoloni della merce, oppure
l’insegnante
di inglese, l’unica che premiava la sua
creatività. Mathieu. Che
aveva lasciato dopo la festa di Ellie, coperto di sangue e lacrime.
“Laissez
les bons temps rouler” mormorò, per poi vedere
Edith Labelle
alzare un calice e rispondere al brindisi di uno dei suoi amici. La
trovò bellissima, coi suoi abiti in bianco e nero, i capelli
pallidi, il trucco di un’attrice d’altri tempi. Con
la sua
simpatia travolgente aveva detto una battuta capace di far sorridere
tutti, così, come se si trattasse di accendere e spegnere
una
lampadina. Essere interessante, divertente, coinvolgente era un dono,
alla stregua di Abel che sapeva affascinare anche solo dal modo in
cui muoveva le labbra, articolava il corpo, rivolgeva uno sguardo.
Portò
un dito sulla mano di Abel, appoggiata sul tavolo, e ammise, per poi
guardarlo negli occhi e calamitare il suo sguardo, nonostante il
fiume che risucchiava vita e trasportava memorie, le luci e le
risate: “Con mio padre non è andata bene, lo sai.
Ma ora sono qui,
in questo posto, e… sono convinto di aver fatto la cosa
migliore
anche se più pazza della mia vita.”
Si
grattò di riflesso la cicatrice, come per accertarsi che
fosse
ancora lì e avere appunto conferma che, purtroppo, non se ne
sarebbe
mai andata.
Abel
gli osservò il dito, il modo in cui lui gli toccava la mano.
Si alzò
poi in piedi, lasciando la sigaretta elettronica sul tavolo; quella
sera aveva fumato poco. Si tolse le ciabatte, infine tese una mano
verso il suo compagno e gli propose, con fare tranquillo:
“Dai,
balliamo, amore.”
Tim
rimase immobile, quasi l’altro stesse scherzando; poi si
guardò
attorno, sospirò, come se gli costasse una grande, immensa
fatica,
ma alla fine annuì e commentò tranquillo,
avvicinandoglisi dopo
avergli afferrato solo un dito:
“Ti
ho fatto un discorso serissimo prima, ora ci tieni proprio a fare
qualcosa di ridicolo. Non so ballare, Abel.”
Quell’ammissione
fu un sussurro, quasi avesse qualcosa di cui colpevolizzarsi, o non
fosse al passo coi tempi. Ma Mahogany si limitò ad annuire,
a
mettergli la mano sul fianco e a prendere quella dell’altro,
intrecciando le dita.
La
musica era ritmata, in una rievocazione di gusti musicali tra gli
anni ‘70 e ‘80 che nessuno dei due aveva mai
vissuto, ma che in
qualche modo erano passati di generazione in generazione. Nonostante
questo Abel ballò piano, scalzo, coi suoi capelli che
stavano
crescendo ma non sarebbero mai stati lunghi quanto quelli di Tim,
l’accenno di barba non rasata, qualche ruga
d’espressione assieme
a quelle piccolissime d’età, mentre Tim nonostante
fosse più
giovane, per il sole delle sue terre, per la vita meno curata,
attorno agli occhi e alla pelle arrossata aveva già delle
prime
rughe, che si vedevano di più quelle volte importanti in cui
sorrideva, anche se la cicatrice sembrava mangiare tutto il resto.
Abel
appoggiò con lentezza la fronte su quella del compagno e
chiuse gli
occhi. Sentì poi la sua mano appoggiarsi a sua volta sul
fianco; in
quell’occasione, Westfield una volta di più fu
felice di non
sentire le costole del suo ragazzo, la pelle sottile e tesa, al
contrario di quando l’aveva visto le prime volte:
un’ombra
nervosa che fumava sigarette, in una soffitta inondata di luce
tiepida, delle insegne di una città che era anche un mondo,
con le
sue idiosincrasie, le etnicità e le subculture. Tim allora
non aveva
avuto idea di cosa fosse l’anoressia, di come la fame, il
cibo, il
corpo potesse essere allo stesso tempo l’alleato
più importante ma
anche il nemico più formidabile con cui avere a che fare.
Quando
si erano conosciuti sapeva di essere inadeguato, ferito e rattoppato
malamente, forse lo era anche adesso, eppure nella sua ignoranza,
persino nella sua semplicità, magari all’epoca era
stato quello
che serviva ad Abel; per questo, più entrambi crescevano,
più
temeva che avrebbero potuto allontanarsi, che presto le serate
mondane per le esposizioni delle sculture, i giri nei locali LGBT, i
circoli letterari avrebbero potuto assorbire Abel e sputare fuori
Tim, che non era altro che un normale essere umano intento ad
arrancare per sopravvivere con ciò che aveva, anche se poco.
Poi,
però, in occasioni come quella Westfield sentiva di avere
una
connessione speciale con lui, basata non solo sulle sofferenze e le
difficoltà, ma anche su una percezione diversa delle piccole
cose,
di sogni condivisi verso un futuro più luminoso.
Abbassò
lo sguardo e cercò di seguire Abel nei suoi passi di danza,
anche se
questi si muoveva poco e sembrava più cullarlo. Lo
guardò negli
occhi, però, quando questi sussurrò, socchiudendo
i propri:
“Mio
papà non è mai stato di molte parole. Ma quando
gli ho rivelato di
essere gay, mi ha detto che l’aveva già capito,
anche se era un
dottore, con la sua scrittura orrenda, le sue lauree e la
capacità
di aprire i cuori, ma non certo di leggerli. Mi ha chiesto di te
qualche mese fa, sai? È aggiornato sul fatto che adesso ho
un
ragazzo vero; stabile, capisci. Dopo Lyanna non ci credeva nemmeno
più lui.”
Accennò
a una risata, poi fece un profondo respiro. Odorava del mentolo della
sigaretta elettronica, di un profumo vagamente floreale che Tim gli
sentiva addosso quando usciva, ma anche del cocktail che aveva
sorseggiato: bastava un istante per assorbire ciò che si
prendeva,
tanto o poco che fosse.
Tim
non disse nulla. Era sempre un’esperienza totalizzante venire
messi
a parte delle fragilità di Abel, dietro la sua maschera di
sicurezza, così come sentire rivelazioni d’affetto
che davano un
nuovo spessore al loro rapporto, anche se mischiate con il ricordo di
Lyanna, di cui non gli aveva mai parlato.
Riconobbe
poi una canzone di George Micheal, sentita tanti anni addietro in
un’occasione non troppo felice. Pensò che anche
lui, come altri
artisti provocatori, capaci di lasciare un messaggio e
un’eredità,
era morto; ritenne assurdo che fino a pochi anni fa conosceva poco o
niente di musica, se non per passaggi in radio, nelle scampagnate in
bus o grazie a sua sorella che lo rendeva partecipe dei suoi
interessi, quando si incrociavano a casa e loro padre non
c’era. Si
sentì felice, per quel momento e per tante sue scelte, al
punto che
scomparve il peso portato nel cuore per aver lasciato il lavoro, per
i soldi che andavano, più che venivano, per la paura che non
sarebbe
mai riuscito a risalire.
Abel
allora continuò: “Mia madre invece
l’unica cosa che è riuscita
a dirmi è stata non puoi essere gay e obeso.
Saresti ridicolo.
Visto che la prima situazione non cambierà mai, vedi di
modificare
la seconda. Lo ha detto così, come se fosse una
pratica da
sbrigare. So per certo, anche se non me lo ha mai specificato, che
è
persino felice che io sia gay, ma solo perché come artista
è quasi
una garanzia, uno status, capisci? 'Sta puttana.”
Sollevò
a sua volta la testa e incrociò gli occhi con Tim, che non
aveva mai
smesso di guardarlo. I suoi occhi chiari, incastonati in un volto di
chi era stato al sole e non sembrava progettato per farlo, avevano
così tante sfumature di saggezza, dispiacere e una forma di
orgoglio
stanco, da far rimanere l’altro sempre affascinato.
“Sono
uno stronzo a trattarla così, vero? Se ho tutte queste
mostre ed
esposizioni è perché mia madre mi promuove e
sfrutta i suoi
contatti. Da solo non avrei fatto nulla. Eppure, davvero, non riesco
a...”
Si
umettò il labbro e volse gli occhi verso il cielo. Per via
delle
luci non riusciva a vedere le stelle.
Tim
pensò in quel momento di contestarlo com’era
giusto che fosse,
ribadirgli che sua mamma lo promuoveva perché era certa del
talento
del figlio e perché era una donna contorta, capace di fare
ammenda e
dimostrare il suo algido affetto elogiandolo di fronte a estranei,
piuttosto che davanti ad Abel. Ma quella non era una serata per
deduzioni emotive e, ormai lo conosceva, quando sembrava piangersi
addosso Abel non amava essere contestato neanche dal suo ragazzo.
“Davvero
eri un ragazzino obeso? Non ci credo nemmeno se mi fai vedere una
foto” commentò infatti all’improvviso
Tim, pacato, con un
sopracciglio sollevato e un accenno di sorriso.
Abel
non rispose subito, preso piacevolmente in contropiede. Gli sorrise a
sua volta, poi spostò la mano dal suo fianco per portargli
una
ciocca di capelli dietro le orecchie e, dopo un istante, confermare:
“Oltre
quindici chili in sovrappeso. Per mia madre ero già
l’Anticristo
in pratica.”
Scrollò
le spalle, poi rise, per tranquillizzare Tim sul fatto che,
soprattutto a distanza di anni, anche se ancora era infinitamente
difficile fare pace col proprio corpo, almeno non c’erano
più
argomenti tabù sul peso, il cibo e sua madre.
Timmy
allora fu meno in tensione e lasciò andare un sorriso,
istintivo ma
quasi tagliente, così maturo e saggio, di quelli capaci di
far
sparire la cicatrice e rendere più belli gli occhi; li
deviò poi
verso Edith Labelle, con i suoi vestiti dal taglio anni ‘50 e
la
parrucca gonfia, piena, che svettava ad adornare il volto
splendidamente truccato, in quel modo esagerato eppure femminile
tipico dell’essere drag queen. Infine ammise:
“Ero
un po’ incerto, sul fatto che dovessi vedere Johnny o, questa
sera,
Edith. Temevo sarebbe stato difficile per te ritrovarlo, dopo quello
che entrambi avete passato e l’esperienza in clinica. Mi
chiedevo
infatti come avrebbe combattuto lui che, più di chiunque
altro, si
trova sotto gli occhi della gente e mostra il proprio fisico in
quanto parte di sé, del personaggio che si è
costruito. Poi,
guardando lo spettacolo ho capito, e ti ringrazio: usa
l’ironia.
Scherza sul proprio problema, lo prende in giro, come se fosse un
amico di vecchia data.
A
volte non sempre combattere e abbattere il problema è la
soluzione:
già, a volte bisogna prenderlo sotto braccio e portarlo con
sé,
plasmandolo, riadattandolo, come tu hai fatto con le statue, o Johnny
con gli spettacoli.”
Avrebbe
voluto che sua mamma avesse fatto lo stesso, avrebbe voluto essere
più coraggioso, più saggio, più
esperto… quanti più
avrebbe voluto essere stato, per poter tornare indietro nel tempo e
dirglielo, anche se la stessa vita di Tim era stata un continuo
alternarsi tra una rumorosa lotta disperata d’arena e un
leggero
planare sull’acqua, in attesa di riprendere il volo o di
andare più
a fondo, ma sempre discreto e silenzioso.
Abel
lo guardò, in quel caso eccezionalmente incapace di
ribattere.
Respirò appena attraverso le labbra impercettibilmente
dischiuse,
con gli occhi scuri che non battevano ciglio. Poi, se le morse e
sorrise.
Abbracciò
di più Tim, appoggiando la guancia sulla sua spalla dalla
clavicola
spigolosa, come un tempo era spigolosa la propria, e ritenne che non
fosse poi così male avere qualche chilo in più di
lui, anche se una
voce di disprezzo e paura cercava di fargli credere il contrario;
semplicemente, però, la voce di Tim, la sua presenza quieta,
a
tratti imbronciata, matura eppure tanto giovane, era più
forte, più
carica di luce, come il sole immenso delle sue terre.
Anche
quella sera, in quel viaggio, il voodoo di Timmy aveva scacciato ogni
male.
Grazie
all’aiuto di alcuni amici e conoscenti, quella sera estiva al
Pa
Davis Park era stato possibile allestire tavoli e festoni in uno
spazietto dedicato, tra il golf club comunale e le altre
attività
ricreative, complice la serata più tranquilla in cui la
gente non lo
frequentava.
Era
una bella festa, con la musica di chi aveva portato la chitarra e di
chi lo stereo, l’alcool, le ghirlande hawaiane e un
po’ di cibo
spazzatura che dava la carica e riempiva lo stomaco. Anche Tim stava
riuscendo a godersela, sebbene un po’ in tensione,
perché qualche
giorno fa Mathieu aveva parlato con suo padre, tenendo fede alle
intenzioni confessate su di un lago. Era andata benissimo, anche se
c’era stato quel vago iniziale imbarazzo genitore-figlio
così
tipico di quell’età.
Carico
di pensieri, Tim aveva bevuto qualche birra e ora sedeva sulla
panchina con le gambe aperte, i gomiti appoggiati sulle cosce e lo
sguardo rivolto verso Ellie che ballava. Mathieu era poco distante e
ballava a sua volta, con il suo sorriso scintillante, i capelli un
po’ più lunghi rispetto a quel giorno di marzo in
una tenda; visto
così, sembrava avere una maggiore consapevolezza dentro di
sé,
quasi avesse appena varcato una soglia per Tim ancora proibita.
Stasera lo dico a
mio padre. Glielo sparo in faccia. Che sono ricchione.
Si
tormentò le dita in cui teneva una bottiglia di birra, tamburellando un piede. Sentì
una canzone di Lady
Gaga, che Ellie amava, e pensò che poteva essere di buon
auspicio.
Poi partì George Micheal che allora lui nemmeno conosceva.
Poche
note dopo scorse qualcuno voltare la testa, all’improvviso;
allora,
anche Tim spostò lo sguardo.
La
bottiglia gli cadde di mano, in un tonfo attutito dall’erba.
Il
vetro si scheggiò e la birra, in una schiuma bianca,
affondò tra i
ciuffi verdi, espandendo nell’aria odore di luppolo e di
spezie,
mischiato a quello del prato tagliato da poco.
Gli
mancò il respiro, quando vide suo padre – il
vecchio, stanco,
rancoroso Waltie Westfield – avanzare a passo di carica nel
prato,
fendendo la gente che si spostava un po’ irritata, i festoni,
ignorando la musica e le chiacchiere. Con il cuore che batteva sempre
più veloce Tim si alzò in piedi, lanciando
un’occhiata prima a
Ellie, che aveva sgranato gli occhi, poi a Mathieu che aprì
e
richiuse la bocca più volte.
Per
un istante, soltanto per uno, Tim pensò che suo padre fosse
lì per
Ellie. Perché invidioso della festa, perché lo
reputava ingiusto,
quando lui non aveva avuto mai niente e sua moglie si era annegata in
un fiume – Dio, teatrale ed eccessiva fino
all’ultimo –
lasciandolo con due figli ingrati.
Stupido.
Era stato stupido a pensarlo: Waltie
era lì per lui.
Senza
parlare, infatti,
se lo era trovato davanti. Si
erano guardati, come
prima di
un duello ma già destinato a decretare vinto e vincitore.
Infine,
Tim vide la sua luce negli occhi: una luce cattiva, pericolosa, un
guizzo improvviso di rabbia, di odio e di paura profonda, come
qualcosa di ineluttabile che non si poteva combattere.
Nonostante
la realizzazione di quello sguardo, Tim non riuscì a
evitarlo: suo
padre lo colpì in pieno volto con un pugno, scaraventandolo
sulla
panchina per poi fargli sbattere
la schiena contro il tavolo. Qualcuno urlò. Ellie e Mathieu
corsero
incontro a entrambi, gridando spaventati e furenti, ma, prima che
potessero fare qualcosa, con un ringhio feroce, terribile,
l’uomo
afferrò suo figlio per i capelli, i capelli che non gli
faceva
tagliare perché costavano soldi e lui non ce li aveva da
spendere
per un parassita, e gli urlò, a pochi centimetri dal volto:
“Come
cazzo ti permetti? Come? Dopo tutto quello che ho fatto per te, che
ho sacrificato! Vai – mosse una smorfia di disgusto, come un
rigurgito di rabbia; Tim ricordò l’odore di alcool
e di sudore, ma
ricordò soprattutto la paura – vai, Cristo Santo,
cazzo, a dare il
culo agli uomini? È questo che sei? Un frocio? Un finocchio
che
scopa con… con quel negro?”
Indicò
Mathieu sputando, con il volto congestionato dalla rabbia, i capelli
non lavati di chi sciattamente si stava lasciando andare.
Tim
non riuscì a parlare. Terrorizzato,
cercò
scoordinato di muovere
le mani, ma suo padre gli sollevò di più la testa
e con un urlo
gliela schiantò contro il tavolo. Il
ragazzo
vide all’improvviso
tutto nero,
come
se qualcuno gli avesse lanciato addosso della vernice scura,
le orecchie fischiarono e fu certo, in quel fischio, di sentire il
suo stesso dolore parlargli. Più e più volte,
avvertì la testa
spaccarsi contro il tavolo, udì uno schiocco secco che non
seppe se
fosse
il legno o il cranio, fino
a
che
qualcuno trascinò via il
suo vecchio, che ancora lo insultava, come se ne valesse comunque la
pena.
Tim
allora
cercò di rimettersi
in piedi, anche se barcollava, non aveva più
l’equilibrio e il
volto era
ricoperto di sangue. Non sentiva più niente eppure
al tempo stesso avvertiva male, né si accorse di avere uno
squarcio
sul lato destro della fronte. Cercò di toccarselo, senza
vedere
altro che bordi neri attorno a sé, e a malapena
udì Ellie urlare e
piangere, o Mathieu che gli aveva preso la testa tra le mani,
sporcandosele, e cercava di dirgli qualcosa mentre il resto del
gruppo allontanava Waltie
Westfield che giurava, su tutto quello che era sacro, di
disconoscerlo, di non avere più un figlio, che la sua donna
si era
uccisa perché un rottinculo
era un peso troppo grande da portare.
Il
ragazzo non
perse conoscenza,
ma rimase catatonico per qualche ora.
Fu
solo quando uscì dall’ospedale,
con dei punti e il volto gonfio, che Tim si bloccò in mezzo
alla
strada, per poi guardare Mathieu; ah,
Mathieu, che
non la smetteva
di dispiacersi e di arrabbiarsi con quel patetico
figlio di
puttana razzista e omofobo.
Anche se davanti aveva un altrettanto
patetico
ragazzino sporco, ormai
senza
genitori, squarciato e privo di soldi, dall’educazione
scolastica
precaria e privo di alcun reale talento, fascino o pregio.
Senza
parlare, con gli occhi azzurri sgranati, Tim invece puntò
all’improvviso il dito oltre il suo compagno; oltre i tetti
bassi,
oltre i negozi dall’intonaco che si staccava, le insegne
vecchie e
i marciapiedi dissestati. Oltre. Dove un tempo l’aveva
puntato
Mathieu: attraverso il lago, i fiumi, le distese paludose della
Louisiana. Verso New York; poi, il resto del mondo.
“Là”
annunciò Tim in un sussurro roco.
Per
un istante Mathieu non capì. Aveva ancora le mani sporche di
sangue
e gli occhi liquidi di paura. Poi, realizzò di cosa Tim
stesse
parlando, e si sentì stupido, per avergli detto
all’epoca quelle
parole con tanta rabbiosa indignazione.
Sorrise.
E
quando sorrise, Tim realizzò che Mathieu non lo avrebbe
seguito in
quel là. Ciò che erano finiva
in quella strada, il loro
viaggio, ma i ricordi sarebbero stati per sempre, come cartoline mai
spedite.
Tim
sarebbe partito comunque. Con autostop, passaggi di fortuna,
spendendo ciò che aveva messo da parte in pullman, bibite e
merendine. Dormendo dove capitava, lavandosi ai bagni delle stazioni,
utilizzando qualche ulteriore centesimo per telefonare a Ellie e
scusarsi, mentre lei a sua volta gli chiedeva scusa e lo pregava di
stare attento.
Mathieu
gli aveva ancora scritto un paio di volte, dicendogli che gli mancava
e si pentiva di non aver avuto la sua forza. Ce l’aveva con
se
stesso e con Waltie Westfield:
Tonton Macoute ti
ha portato via da me. Un giorno riandremo sul lago, anche se magari
staremo con persone diverse e saremo cambiati: torneremo a nuotare,
senza paura, alla luce del sole.
Sproloqui
di una zucca
Questa
volta il prompt era coming out. Ho giocato molto sui parallelismi in
questo capitolo, sperimentando su una struttura narrativa a
più riprese, con collegamenti e il riferimento alla canzone
di George Micheal collegata, Outside. Spero di aver trasmesso le
atmosfere della Louisiana, con riferimenti alle tradizioni, alla
cultura cajun, creola, al voodoo, ma anche al cibo e ai luoghi. Allo
stesso modo in cui ho cercato di dare qualche atmosfera di Pittsburgh e
degli U.S.A. in generale, per quanto non sia facile rendere per scritto
le differenze d'accento. A questo proposito ci sono un sacco di video a
tema simpaticissimi.
Grazie
per aver letto, spero mi accompagnerete ancora in questo percorso.
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