Did you really think that you could fix me?

di Lost In Donbass
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hey Boy ***
Capitolo 2: *** A girl fallen from the sky ***
Capitolo 3: *** Girl in the moonlight ***
Capitolo 4: *** Yes, she smiled ***
Capitolo 5: *** Sing with me ***
Capitolo 6: *** Kiss me cossack ***
Capitolo 7: *** I love you ***
Capitolo 8: *** Be my girlfriend ***
Capitolo 9: *** Marina ***
Capitolo 10: *** Falling ***
Capitolo 11: *** Farewell, my friend ***



Capitolo 1
*** Hey Boy ***


DID YOU REALLY THINK THAT YOU COULD FIX ME?

CAPITOLO PRIMO: HEY BOY

I’ve come to terms with the fact I’ll never change
And that’s just fine, I find solace in the pain
I don’t mind the darkness, it’s easy on the eyes
I’m praying for something to make me feel alive
[Asking Alexandria – Into The Fire]
 
 
Lei piangeva.
Lui ringhiava.
Lei soffocava nella sua depressione.
Lui era vittima della sua stessa rabbia.
Lei aveva il cuore spezzato.
Lui pensava di essere indistruttibile.
Loro non credevano più in niente altro che non fosse la loro stramaledetta periferia, anche se, quella volta, erano pronti a credere in qualcosa d’altro.
O meglio, in qualcuno.
 
Denis era alla terza sigaretta, alla quinta lattina di birra e al decimo sputo per terra. Seduto sul marciapiede della Kombinatskaya Ulitsa, guardava il cielo e cercava di ricordarsi quella melodia che gli era venuta in mente sulla metro. Niente, non se la ricordava. Sbuffò rumorosamente, stendendo le gambe e fissando l’infinita distesa di stelle che si estendeva sopra di lui: voleva scappare, non c’era molto da dire. Prendere il primo treno e lasciarsi Omsk alle spalle per andarsene lontano dalla Siberia, lontano dalla Russia, lontano da tutto quello che lo aveva rovinato. E invece era lì, seduto per terra a sognare come quando era bambino, distrutto, ferito, usato da un mondo che non lo comprendeva. Fissava il cielo e lo malediceva, quello stesso cielo che lo aveva ingannato, che gli aveva fatto credere che in qualche modo si sarebbe salvato. Cosa sei, Denisoch’ka?, si disse. Non lo sapeva. Un ragazzo qualunque che non aveva altro se non la sua voce e la sua chitarra, un povero fallito che si trascinava avanti tra alcol a poco prezzo, sigarette, sesso facile e risse di bassa lega, uno di quei tanti figli della periferia siberiana che morivano giovani, soffocati da sé stessi e dalla neve che ricopriva le strade in inverno. Eppure lui non voleva finire così. Voleva vivere, dannazione, vivere, far sentire la propria voce, urlare, suonare, distruggere tutto. Non voleva morire, il giovane Denis, voleva semplicemente trovare qualcosa per cui valesse la pena combattere, morire, vivere.
Lanciò la bottiglia vuota lontano da sé, sentendola infrangersi contro un muro di un palazzo. Era solo anche quella sera, dopo il concerto nel locale aveva preso e se n’era andato, lasciando gli altri a gozzovigliare da soli. Era stanco anche solo di provare a divertirsi insieme a Kuzma, a Nikita, ai loro amici.
Non che la solitudine, per uno come lui, fosse la situazione ideale. Perché più rimaneva solo con i suoi incubi, più aveva voglia di autodistruggersi. Denis era fuoco greco, era fiamme, era un’anima bella in un mondo marcio, era un nuovo personaggio da Pushkin che combatteva contro nemici senza nome. Era la letteratura russa direttamente trasposta in questo secolo perso e mai più ritrovato, era una rockstar mai davvero andata, era uno scapestrato, giovane eroe che lottava per la sua vita. Era tante cose, Denis Alexandrovich Shostakovich, ma soprattutto era perso e solo come nessuno dovrebbe esserlo a ventitre anni.
Si passò una mano tra i capelli scuri, tutti spettinati e sputò ancora per terra. Era una strada lunga per tornare a casa, ma sapeva che per quel giorno sarebbe rimasto in giro fino al mattino, con buona pace di sua madre. Avrebbe camminato fino a cadere svenuto per terra, fumando e bestemmiando come il pazzo che in fondo era.
Si alzò stancamente e cominciò a camminare lungo la via, mani in tasca e sigaretta all’angolo del labbro, guardando le luci della periferia. Eccolo lì, il cantante maledetto, il bullo idiota, lo spaccone arrogante, lo spezzacuori più bello di tutta Omsk. Eccolo lì il ragazzo che soffriva disperatamente e che nessuno era ancora riuscito a salvare da sé stesso.
-Even though I’m on my own, I know I’m not alone, cause I know that someone, somewhere, praying that I’ll make it home …
Cantò, con la voce arrochita dal fumo e dal concerto che avevano tenuto prima, cantò con la passione ucraina che gli scorreva nelle vene, cantò verso quel cielo siberiano che tanto odiava. Cantò perché era l’unica cosa che gli rimaneva, l’unica fuga che poteva permettersi, l’unico orgoglio che ancora aveva. Lui, Denis, il cosacco ucraino, l’eroe generazionale, con la sua voce malinconica e devastata da una depressione senza nome. Lui, Denis, che voleva scappare dalla Russia per andare a raccontare al mondo la sua filosofia di bullo di periferia.
Guardò il telefono: le due del mattino.
Sua madre sarà stata in casa disperata, in sua attesa.
I suoi amici probabilmente si saranno chiesti dove si fosse ficcato quella volta.
Non che a lui importasse veramente.
Si accese un’altra sigaretta e diede un calcio a una lattina.
Che cazzo di vita.
Forse avrebbe dovuto trovarsi una ragazza. Forse un lavoro fisso. Magari mettersi a studiare. Ma sapeva che non l’avrebbe fatto, sarebbe rimasto il bellissimo cantante spiantato di sempre, con buona pace di sua mamma e delle sue sorelle, nella speranza che qualcuno lo notasse, nella speranza di andare all’estero a incidere dischi.
-Ma perché la vita fa così schifo?- urlò al cielo, lanciando il pacchetto di sigarette vuote lontano da sé.
Non che quello lo avrebbe aiutato a uscire dalla sua disperazione congenita, sia ben chiaro.
Sbuffò e si aggiustò la giacca di pelle sulle spalle – cominciava a fare freddo, e sicuramente sua madre sarà stata molto preoccupata. Avrebbe dovuto tornare a casa a scusarsi per essere un figlio così fallimentare. Scusarsi per averla delusa. Scusarsi per essere un buono a nulla.
Non se n’era nemmeno accorto, ma lacrime furiose avevano cominciato a rigargli le guance.
 
Aleksandra, dal canto suo, guardava il cielo e pensava al mare che non aveva mai visto. Nata e cresciuta nella gelida Omsk, il suo più grande sogno sarebbe stato vedere l’oceano. Mettere i piedi in acqua per la prima volta, vederne il colore, bagnarsene i capelli e ridere al cielo. Ma sapeva anche che non ce l’avrebbe mai fatta – era tutto così sbagliato nella sua vita, tutto così sbagliato, a partire da una laurea che non voleva dare, passando per disturbi alimentari che la stavano divorando viva e finendo con una tendenza alla malinconica che sicuramente non l’aiutava a superare i suoi drammi.
Stravaccata sul letto, ascoltava quella vecchia canzone che parlava della tratta Mosca-Vladivostok e sognava che qualcuno la prendesse per mano e la portasse lontano dalla Siberia e da tutti i suoi incubi. Sognava un uomo che la stringesse e le dicesse “ti salverò”, sognava una ragazza che le baciasse via le lacrime, sognava che una persona le desse le ali. Ma allo stesso modo sapeva anche che non sarebbe mai successo. Cosa avrebbe fatto della sua vita? Si sarebbe sposata con una persona che non avrebbe amato. Avrebbe avuto un lavoro che non le sarebbe piaciuto. Si sarebbe suicidata senza mai aver visto il mare. Una prospettiva che non l’allettava, sicuramente.
Si passò una mano tra i lunghi capelli così biondi da sembrare bianchi e si accarezzò distrattamente gli avambracci dove campeggiavano ancora le cicatrici dei tagli adolescenziali. Erano passati tre anni dall’ultima volta che aveva portato una lametta al braccio, ma la depressione non era passata – aveva preso solo un’altra forma: quella della privazione del cibo.
Sasha era una ragazza triste, eppure era così tanto bella da fare male: bella di una bellezza sfruttata, depressa, rovinata, una bellezza angelicata che nessuno, in quell’inferno, era in grado di apprezzare. Lei sperava, desiderava, di trovare il ragazzo, la ragazza che potesse capirla e amarla come avrebbe voluto. Trovare qualcuno che la amasse di un amore tenero e infantile, come piaceva a lei, che le portasse mazzi di rose rosse e le cantasse canzoni sotto le stelle – voleva la perfetta storia d’amore che nessuno lì nella periferia di Omsk poteva darle. Voleva tante cose, prima fra tutte guarire dalla sua depressione apparentemente inguaribile.
Si alzò, ondeggiando sulle lunghe gambe magre e si affacciò alla finestra, fissando la strada enorme e silenziosa.
-Ma perché la vita fa così schifo?- urlò una voce.
Aggrottò le sopracciglia e si sporse, vedendo un ragazzo camminare lungo la via e lanciare lontano qualcosa.
Già, pensò la ragazza. Perché la vita fa così schifo?
Lo fissò, osservandone l’andatura arrogante e sfacciata, e si chiese chi fosse quel ragazzo che se ne andava in giro alle due del mattino, da solo, urlando frasi tristi al nero cielo siberiano. Avrebbe voluto scendere e andargli incontro. Chiedergli cosa stesse passando, quali fossero i suoi demoni, che incubi stesse affrontando. Andare da lui, prendergli la mano e dirgli “non sei solo”. Cosa poteva essergli successo? Lasciato dalla fidanzata dopo anni di relazione? Lasciato orfano da una madre tanto amata? Tradito dal migliore amico? Licenziato in tronco proprio quando sembrava che la vita stesse ingranando? Oppure semplicemente depresso di natura, come lo era lei, disperato da quella città che li voleva tutti morti, ucciso da sé stesso, abbandonato nella sua solitudine?
Non lo sapeva, ma avrebbe tanto voluto urlarglielo.
Hey, ragazzo, non sei solo in questo inferno.
Hey, ragazzo, non sei solo a combattere questa guerra.
Hey, ragazzo.
Lo guardò passare oltre il suo palazzo, mani in tasca e capelli spettinati. Avrebbe tanto voluto vederlo in faccia, leggere il dolore nei suoi occhi. Chissà di che colore erano. Chissà come si chiamava. Semplicemente, chissà.
-Hey, ragazzo. Non sei solo. Te lo prometto.- mormorò, prima di chiudere la finestra e ritirarsi in camera.

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Capitolo 2
*** A girl fallen from the sky ***


CAPITOLO TERZO: A GIRL FALLEN FROM THE SKY

She wonders what it’s like to be an astronaut in space
Cause she could barely wait to float among the angels
But could she tell me what she feel,
When I’m holding her so close?
[Drag Me Out – Pure]
 
Sasha stava pensando al bellissimo cantante di quella band metalcore – aveva degli occhi così sofferenti, eppure così belli, di un ambra pura e sincera sotto gli strati di dolore. Tutto di lui era fascinoso e doloroso: gli occhi, la camminata, il ciuffo. Quel ragazzo stava male, Sasha l’aveva percepito immediatamente e ne era stata disperatamente attratta. Non solo per l’innegabile bellezza, ma per quella rabbia a stento contenuta in quel viso, per quell’orgoglio che ardeva nel fondo di quelle iridi scure.
Si passò una mano tra i lunghi capelli biondi e sorrise al tempestoso cielo di Omsk. Sarebbe andata sulla Kirova a sentirli. Voleva rivederlo, voleva parlargli di nuovo. Voleva sentire quelle canzoni che parlavano di depressione cantate da quella voce melodiosa e malinconica. Era rimasta così colpita da lui, che quella notte lo aveva sognato. Non faceva niente se non prenderla per mano per poi voltarsi e andarsene. Non che non ci fosse abituata: tutti nella vita di Sasha erano arrivati e scomparsi con la marea. Sua madre, che era scappata col nuovo amante. Suo nonno, che era morto. Vera, la sua ex fidanzata, spaventata dai suoi demoni. Dmitrij, il suo migliore amico, che era andato a Tokyo per non tornare più indietro. Tutti, non c’era nessuno che fosse rimasto a tenere la mano della povera, terrorizzata, Aleksandra Bazarova. Ma adesso era arrivato quel ragazzo che cantava di anoressia e depressione, probabilmente sapendo benissimo di cosa stesse parlando, con quegli occhi distrutti da un dolore senza nome, con quel ciuffo ribelle che gli cadeva sul viso. Era arrivato lui, col suo mondo metalcore, la sua voce da angelo di periferia e il suo leggerissimo accento ucraino. Non sapeva nemmeno come si chiamasse, ma sapeva che non l’avrebbe lasciato andare tanto facilmente. L’avrebbe rincorso, come la pazza che era, avrebbe corso fino in capo al mondo per prenderlo per mano e dirgli “hey, ragazzo, non sei solo”.
-Oi,  Bazarova!
Si fermò e si voltò lentamente.
C’erano un gruppo di ragazzi intorno a lei, che, purtroppo, conosceva bene. Era sin dai tempi della scuola che la perseguitavano con i loro spintoni, i loro insulti e le loro minacce. Sì, era dai tempi della scuola che Sasha cercava di sopravvivere alle molestie di quel gruppo di disperati, ed era sempre da almeno sei anni che loro avevano continuato a importunarla, forse per ridere di quella ragazza depressa di una magrezza eccessiva, forse perché si sentivano potenti ad avere in loro balia una poveretta senza la forza di opporsi.
Sasha li guardò, con i suoi grandi occhi tristi. Non avrebbe corso. Non avrebbe pianto. Non avrebbe implorato. Non avrebbe fatto come faceva al liceo. Avrebbe semplicemente continuato a camminare e a ricevere gli spintoni e gli insulti finché non si fossero stancati di lei. Era arrivata a un tale livello di insensibilità che oramai non le faceva più male niente. Il dolore era così compenetrato in lei da averla lasciata anestetizzata da tutto il resto. Lei soffriva, punto, qualunque cosa succedesse. Ed era stato questo dolore a renderla pronta a ricevere qualunque urto: ormai era così distrutta che niente avrebbe più potuto romperla. Il suo cuore era un ammasso di cocci e si sa che i cocci non puoi più romperli. Almeno, così credeva.
-Dai, bionda, perché non giochi un po’ con noi?
-Su, Bazarova, sorridi, siamo arrivati!
-Mi chiedo se mai qualcuno ti scopi, magra come sei!
Camminare. Camminare e non guardarli.
-Hey, perché non ci guardi?
-Non fare la cafona, Bazarova!
Camminare. Camminare e non guardarli.
Primo spintone. Barcolli. Scappa. No. Se scappi è peggio.
Secondo spintone e uno sputo. Corri.
Aumentò la velocità, stringendo la borsa a tracolla, cercando di nascondersi sotto lo spesso ciuffo.
Terzo spintone. Allora oggi vogliono proprio vederti cadere per terra.
-Si può sapere che cazzo fate?
Si immobilizzarono tutti, Sasha compresa. Avrebbe dovuto correre in quel momento, approfittarne della distrazione e correre verso casa a tutta velocità. Invece no, rimase. E solo perché aveva riconosciuto quella voce.
Era lui.
Era il cantante della sera prima.
Alzò la testa di scatto e lui era lì, chiodo di pelle, ciuffo sull’occhio, coltello sfoderato e catene appese agli skinny.
-E tu chi cazzo saresti?
-L’angelo delle bionde e so usare il coltello meglio di voi, coglioni.
Sasha fece qualche passo indietro e osservò il ragazzo cominciare a roteare una delle catene, avvicinandosi minaccioso col coltello. Bastò quello per farli scappare. Un coltello, uno sguardo killer e delle catene dall’aria pericolosa. Sasha pensò a quanto avrebbe avuto bisogno di qualcuno che li mandasse via così, quando era a scuola. Forse una parte dei suoi problemi si sarebbe diradata. Forse.
Li guardò fuggire e lui le si avvicinò, posandole una mano sulla spalla. Sorrideva, ma anche in quel sorriso Sasha vi lesse tanti, troppi demoni.
-Tutto okay, ragazza?
-Sì, sto bene. Grazie.- sfarfallò un pochino le ciglia, e si rese conto di essere arrossita.
-Dovere, tesoro.- lui le strizzò l’occhio. Poi la guardò meglio, e in quell’attimo lei lo fissò dritto negli occhi. Erano meno alterati rispetto alla sera precedente, erano più presenti, più veri. Ma non per questo meno tormentati – Hey, ma tu sei la ragazza di ieri. Quella del concerto.
-In persona.- arrossì di nuovo.
Perché lui era bellissimo, era coraggioso, era distrutto, era troppo per una come lei.
-Ti tormentano da tanto?
Sì, ragazzo, da quando sono una ragazzina.
-Da un po’.
-Allora ti accompagno a casa.- le rivolse un largo sorriso e lei si ritrovò a sorridere a sua volta. – Non vorrei che tornassero a infastidirti.
-Ma non ce n’è bisogno, io …
-Figurati. Non posso lasciare una bella ragazza in balia di quattro coglioni qualunque.
Le strizzò l’occhio e lei scosse appena i lunghi capelli, cominciando a rilassare la presa ferrea sulla tracolla della borsa. Era quasi stranita dalla piega che avevano preso gli eventi: a lei non  doveva andare bene niente, era ormai assodato. Doveva rimanere quella sola, malata, stanca e sfiduciata, non la principessa che veniva tratta in salvo. Anche se lei era una principessa anoressica e il suo principe un cantante metalcore. Gli sorrise, abbassando i grandi occhi verdi e lui le porse la mano
-Comunque, io sono Denis. Piacere.
-Sasha, piacere mio.
Denis. Denis il cosacco. Denis il cosacco ucraino. Suonava bene, le piaceva.
-Sei ucraino?- gli chiese, quando cominciarono ad avviarsi fianco a fianco.
-Si sente tanto?- rise lui, e lei pensò che avesse un bellissimo modo di ridere.
-Un pochino.
-Recensione estemporanea del concerto di ieri?
Sasha si passò una mano tra i capelli e fece una smorfia pensierosa. Le era piaciuto? Da morire. Si era sentita a casa sentendo quella voce melodiosa e triste? Sì, assolutamente. Aveva sentito suoi i testi delle canzoni? Mai così tanto.
-Siete molto bravi.- si limitò a dire, guardandolo da sotto il ciuffo. Poi prese coraggio e si arrischiò a chiedere – Ma i testi … li scrivi tutti tu?
Denis annuì e per un attimo Sasha vide un lampo strano attraversagli gli occhi scuri. Qualcosa che aveva paura, qualcosa di incerto, qualcosa di fanciullesco, come se un piccolo, spaventato Denis fosse tornato a galla per un minuto. Come se avesse racchiuso in quelle canzoni molto più di quanto volesse davvero dare a vedere. Come se anche solo parlarne risvegliasse in lui un dolore intimo, vero, profondo.
-Sono molto tristi, ma anche molto veri.- continuò lei, sorridendo gentile.
Avrebbe tanto voluto posargli affettuosamente una mano sulla spalla ma si trattenne.
-Se li hai capiti davvero vuol dire che anche tu stai male.- rispose lui, mordendosi appena il labbro inferiore. Non sorrideva più, ma solo una certa tristezza gli ammantava il viso bellissimo. Sasha si chiese quali demoni avesse dovuto affrontare quel ragazzo, quali mostri gli avessero perseguitato l’infanzia, quali orrori avesse subito. Perché era chiaro che era un’anima tormentata, che era un poeta maledetto, un nuovo Baudelaire perso nella periferia russa, che era un nuovo personaggio dostoevskijano che cercava disperatamente di inserirsi in qualche storia. Un nuovo Raskol’nikov, e lei sarebbe mai stata la sua Sonja? Un nuovo Vanja, ma lei non sarebbe mai stata Katja. Un nuovo, scanzonato, Onegin ma lei non sarebbe mai stata Tatjana.  – E questo mi dispiace molto.
-Non ti dispiacere. Tutti dobbiamo affrontare degli incubi. Ci sono solo certe persone che li hanno più spaventosi di altre.- lo consolò Sasha.
Denis annuì, passandosi una mano tra i capelli e lanciò uno sguardo al cielo nuvoloso della loro selvaggia Omsk. Sasha lo guardò di sottecchi e di nuovo pensò che era troppo bello per quel mondo, per quella città, per quella vita. Chissà cosa vedeva lui nel cielo siberiano. Magari rivedeva il caldo sole ucraino, magari la fama, magari la felicità. Magari una donna, magari un uomo. Magari chissà. Per quanto riguardava lei, ci vedeva la sua depressione riflessa nelle nuvole, ci vedeva la sua voglia di fuga, ci vedeva una disperazione che nessuno fino a quel momento era riuscito a lenire.
-Cosa vedi nel cielo, Denis?
-Ci vedo i demoni da cui sto tentando di fuggire da ventitre anni. Tu, Sasha?
-Vedo i miei fratelli angeli che mi aspettano a braccia aperte.
-Sei un angelo?
-Non sono né un angelo né un diavolo, solo una ragazza caduta dal cielo.
Lui rise e lei fece un risolino timido, arrossendo. Non si era mai sentita così bene che vicino a quel giovane cantante, così leggera, così al sicuro da un mondo che la voleva morta.
Camminarono per un po’ in silenzio, le braccia che quasi si sfioravano e Sasha si sentiva così protetta accanto a Denis, salvata almeno per un attimo da quegli occhi tempestosi. Non lo conosceva, non sapeva nulla di noi che non fosse il nome, il fatto che cantassa come un angelo, e che soffrisse come lei. Ma bastavano anche quelle poche cose per farla stare bene e per farla sorridere almeno un pochino, lei, la ragazza che aveva disimparato a sorridere.
Arrivarono davanti al palazzo popolare dove viveva lei e Sasha si ritrovò ad arrossire di nuovo, senza sapere bene il perché. Forse era il profumo di lui, che era fumo, colonia, disperazione e rabbia a stento trattenuta. Forse era il suo sguardo battagliero da cosacco disperso nelle steppe. Forse era la sua voce che sapeva di dolcezza e di terre perdute. Forse era tutto l’insieme.
-Grazie per avermi difesa e portata a casa.- sussurrò lei, chinando la testa.
-Non dirlo nemmeno.- lui le sorrise ancora – Allora, stasera ti aspetto. Suoniamo sulla Kirova, giuro che se non ti vedo interrompo il concerto e ti vengo a prendere.
Lei scoppiò a ridere, anche se la sua era una risata triste e dolorosa come tutto il suo essere. Non rideva da quando era una bambina.
-Va bene, ci sarò sicuramente.- indugiò un attimo e poi lo guardò negli occhi – Perché hai deciso di cantare?
-Per esorcizzare i miei demoni. Ho trovato nella musica tutto ciò che mi ha dato la forza di tirare avanti. Quando stavo male, le mie band preferite erano lì nelle casse a ricordarmi di tenere duro. Quando volevo morire, la mia voce mi ha detto “che cazzo fai, ragazzo”. E così ho fondato la mia band, e in lei ho riversato tutto quello che potevo per cercare di resistere in questo mondo maledetto. È la mia vita, Sasha, non posso farne a meno.- rispose Denis, e c’era una tale consapevolezza nei suoi occhi, un tale orgoglio, una tale convinzione.
Sasha annuì, tacendo. Poi lo guardò e sorrise appena
-Grazie ancora. Adesso forse è meglio che entro. A stasera.
-A stasera, bellezza.- lui le sorrise e si voltò, facendo per andarsene quando lei si fermò e gli disse, con voce spezzata
-Non ti salvi con la musica, ragazzo.
Lui si voltò lentamente e la guardò per un attimo, senza sorridere, senza stupore, senza niente. La guardò e basta.
-Non ti salvi non mangiando, ragazza.
Detto questo, se ne andò.

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Capitolo 3
*** Girl in the moonlight ***


CAPITOLO SECONDO: GIRL IN THE MOONLIGHT

Would you be so surprised if I gave up tonight?
I’m barely breathing, I wanna kill the pain I feel inside
But I won’t quit for the people I love
So I’ll say I’m fine until the day I fucking see the light
[Sleeping With Sirens – Leave It All Behind]
 
-E avete assistito ai … My Girlfriend’s Depressed!
Sudato marcio, stanco e con la voce ormai roca, Denis scese dal palco, spettinandosi furiosamente i capelli. Concerto violento, concerto sentito, concerto arrabbiato, dove aveva cercato di dare il meglio di sé – dovevano incidere quello stramaledetto ep da spedire in giro, non esisteva che i My Girlfriend’s Depressed, con tutto il loro carismatico fascino metalcore non riuscissero a salire di grado rispetto ai tristi locali di Omsk e dei dintorni. Si guardò in giro e sospirò: seh, doveva decisamente darsi una mossa a mandare in giro l’ep, “Memorie dall’Umiliazione” (nome decisamente poetico dettato dal leggero fanatismo suo e di Kuzma per Dostoevskij). Sbuffò, andando  a sedersi al bancone e ordinò una vodka, con poco entusiasmo e tanta voglia di andare a casa a dormire. Doveva fare qualcosa. Doveva trovare uno stimolo che lo aiutasse a stare a galla almeno finché il loro ep non fosse stato accettato da qualcuno. E quello stimolo sembrava non arrivare da nessuna parte.
-Den, come stai?
Kuzma gli si era pesantemente seduto a fianco e il ragazzo sospirò
-Come vuoi che stia, Kuzja. Dovremmo sbrigarci a mandare in giro l’ep.
-Cominciamo da domani.- il biondo lo fissò con i suoi piccoli occhi celesti e gli passò un braccio attorno alle spalle – Vedrai che andrà tutto bene. Nel circondario siamo famosi. È un passo per poter firmare un contratto serio.
Denis avrebbe tanto voluto credergli e si chiese come facesse il suo batterista nonché amico di una vita ad essere sempre così positivo. Cacciato dall’Università perché non riusciva a pagarsi la retta, odiato da un padre che lo avrebbe voluto veder militare, fidanzato con una ragazza autistica con la sindrome di Asperger, forse Kuzma era l’unico che avrebbe avuto il diritto di lamentarsi. Ma no, invece non lo faceva mai. Sorrideva alla vita e Denis avrebbe tanto voluto poter incanalare la sua rabbia in modo positivo come faceva l’amico. Invece sembrava solamente in grado di odiare e basta.
-Avrei bisogno di una distrazione.- commentò Denis – Qualcosa che non sia la vodka, le sigarette o le risse di strada.
-Trovati una donna. Oppure un lavoro. Cerca di vivere, ragazzo.- Kuzma lo guardò e lo strinse a sé – Sei troppo perso, amico. Ritrovati.
-Ma come faccio a ritrovarmi se sono nel deserto?
-Segui la Stella Polare. Lei la trovi sempre.
-E se il cielo è nuvoloso?
-Allora segui il tuo istinto. Quello non tradisce mai.
-E se …
-Se niente Denis. Vivi, e non soffrire più. Trova qualcosa che ti faccia battere il cuore a mille. Trova la via, perché so che la troverai. Devi solo avere tanta pazienza.
I due giovani si guardarono e Denis annuì, tristemente. Kuzma aveva ragione, ovviamente, eppure a lui sembrava tutto così complicato ed impraticabile. Lui era nato per essere triste di natura, per trascinarsi nella sua depressione che incanalava in una rabbia selvaggia e inarrestabile. Lui era Denis Shostakovich, il Fratello Ucraino, che picchiava per non piangere, che distruggeva per non autodistruggersi. Era Denis Shostakovich, con ben stretto in mano un biglietto per l’inferno.
-Usciamo, Kuzja? Penso di morire qui dentro.- brontolò e i due ragazzi uscirono all’aria aperta, nella gelida sera siberiana.
Cominciarono a camminare lungo la strada semi vuota, con una bottiglia di Stolychnaya da passarsi e pacchette di sigarette schiacciati nelle tasche degli skinny. Annoiati, soli, depressi e arrabbiati, Denis e Kuzma erano di quanto più esplosivo ci potesse essere. La gente lo capiva anche solo vedendoli avanzare per le strade, senza una meta, senza un porto dove attraccare, senza niente che non fosse la loro band e la loro passione per la musica che forse li avrebbe salvati, ma forse avrebbe anche potuto spedirli a marcire sotto un ponte. Incerti, abbandonati a loro stessi, instabili mentalmente, Denis e Kuzma calcavano le solitarie vie di Omsk come nuovi baronetti della disperazione, come rockstar già decadute, come cupi personaggi abbruttiti dal vizio che popolano i quartieri tristi dei romanzi di Dostoevskij.
-Ti ci vorrebbe una ragazza fissa, Den.- commentò Kuzma, passandosi una mano tra i corti capelli biondissimi.
-E dire addio alle scopate occasionali che sono il sale della vita?
Era sarcastico, ovviamente. Molto, troppo, sarcastico.
-Mi hai capito, ragazzo. Una che ti metta sulla retta via, che ti levi il vizio dell’autodistruzione. Che ti ami e si prenda cura di te.- Kuzma gli passò un braccio attorno alle spalle – Hai bisogno di amore, Denisoch’ka. E il mio non basta più.
Denis sospirò rumorosamente e si accese una sigaretta
-Come vuoi. Mi cercherò una ragazza. Ma chi vorrà mai stare con me, Kuzja? Sono un fottuto depresso. Non contengo la rabbia. Se la picchiassi? Se passassi le mie giornate in giro a piangere? Nessuna potrà mai avere il fegato di starmi al fianco.
-Io ce l’ho avuto.- Kuzma gli scompigliò la massa di capelli scuri spettinati ad arte – E le ragazze non sono tutte sgualdrine oche come credi tu. Ci sono anche le ragazze intelligenti e affezionate.
-Parli solo perché tu hai Valerya. A proposito, come sta?
Kuzma si rabbuiò per un attimo.
-Sta. È un po’ … instabile, in questo periodo. Ma si rimetterà presto.
-Come fai ad essere così positivo io non lo so.
-Cerco di lottare contro un mondo che fa schifo, Den. Cosa che dovresti fare anche tu invece di lasciarti andare.
I due giovani si guardarono e continuarono a fumare e a bere sotto l’impietosa luna di Omsk, guardandosi stancamente intorno. Sempre la stessa gente, sempre le stesse ragazze stupide, gli stessi ragazzi andati, tutto uguale, tutto fottutamente uguale. Così uguale che Denis non si rendeva nemmeno più conto del tempo che passava, sospeso in un limbo di alcol, fumo, sesso, risse e musica metal. Era sconvolto dalla ripetitività delle sue giornate, sconvolto da tutto quel mondo depresso e avvilente che era costretto a vivere. Sconvolto dalla vita, Denis si trascinava avanti come lo scarto di un mondo distrutto, come l’ultimo dei derelitti.
Era così preso dai suoi pensieri che ci mise un po’ a realizzare che la ragazza bionda gli stava parlando.
-Come, scusa?- disse, risvegliatosi di colpo.
-Ti ho chiesto se avete da accendere.- ripeté gentilmente la ragazza e Denis si ritrovò a guardarla meglio.
Era … bellissima. Ma non il bellissimo di Yulija, che andava bene per scopare e basta, o il bellissimo di Valerya, che era rimirare come fosse una bambola. No, quella ragazza era più che bella, più che meravigliosa: era angelica. Eppure c’era un tale dolore in quella bellezza da fare male. La magrezza eccessiva, i grandi occhi verdi tinti di una malinconia atavica, i lunghi capelli biondissimi che cadevano lisci circondando un viso affilato di rara tristezza, il sorriso mesto, tutto in quella giovane urlava sofferenza incredibile. E Denis era disperatamente attratto dalla disperazione.
-Certo. Tieni.- si affrettò a cavare di tasca l’accendino e le accese la sigaretta.
Tremò quasi quando lei gli sorrise, con quel sorriso così triste e nostalgico di qualcosa che non aveva mai visto.
-Ho sentito il vostro concerto.- mormorò la ragazza, e Denis si ritrovò a pensare che fumava in modo delizioso – Mi siete piaciuti moltissimo.
Per un attimo, Denis si sentì quasi fiero di sé stesso, e non lo era da così tanto tempo che aveva persino dimenticato come ci si dovesse sentire.
-Grazie.- rispose al suo posto Kuzma, sfoderando un sorriso smagliante – Se vuoi domani suoniamo sulla Kirova.
La ragazza sorrise graziosamente.
-Uno dei vostri testi diceva “Girl, are you really sure that not eat is the answer?”.
Lo disse quasi con noncuranza, abbassando le lunghe ciglia bionde.
-Sì!.- esclamò Denis – L’ho scritto io. Ti è piaciuto?
Lei non disse nulla. Si aggiustò il beanie nero sulla testa e si limitò a fare un sorrisino misterioso, appena accennato eppure velato da una certa malinconia
-Mi chiedevo solo se sapeste veramente di cosa state parlando. Solo questo.
Detto questo, chinò appena il capo, e scivolò via nell’oscurità.

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Capitolo 4
*** Yes, she smiled ***


CAPITOLO QUARTO: YES, SHE SMILED

I met a girl who never looked so alone
Like sugar water in your mouth lukewarm
She tied a cherry stem for me wiyh her tongue
We fell in love and now we’re both alone
[Pierce The Veil – Hell Above]
 
Quando aprì gli occhi, Sasha si rese conto di essere in ospedale. Sdraiata esangue su un lettino scomodo, intravedeva le luci asettiche che conosceva così bene, la flebo attaccata al braccio e il solito cerchio alla testa. C’era qualcosa di nuovo, però: ovvero, un grosso paio di occhi ambrati fissi su di lei.
Sfarfallò le ciglia e cercò di mettere a fuoco il ragazzo seduto accanto al suo lettino.
-Ti sei svegliata! Dio, ragazza, mi hai fatto prendere un colpo!
Lui.
Denis.
-D … Denis … - balbettò, aprendo del tutto gli occhi e distinguendo finalmente il giovane cantante, sudato e spettinato, con il solito chiodo di pelle posato distrattamente accanto e con gli occhi febbrili.
Ma cosa ci faceva all’ospedale con Denis? Erano insieme prima che lei svenisse, come al solito? E cosa stava facendo insieme a lui? Cosa …
-Eri al mio concerto.- offrì il ragazzo, sorridendole. E di nuovo, Sasha pensò che lui avesse un sorriso così bello, così sofferente, eppure così vero, così terreno. – Ti ho vista svenire. Ma cosa ti succede, Sasha?
Giusto. Il concerto dei My Girlfriend’s Depressed. Sasha chiuse per un attimo gli occhi, cercando di ricordare tutti i movimenti precedenti al suo svenimento, dovuto al fatto che non mangiava, che si voleva autodistruggere, che si odiava. Ricordava essere entrata in quel locale sulla Kirova molto presto, per essere in prima fila a vedere Denis. Ricordava una strana eccitazione che le correva sottopelle, ricordava il cuore battere e ricordava di aver sorriso quando le luci si erano spente ed era entrata quella buffa band metalcore, capitanata da quel ragazzo bello come un angelo. Si figurò di nuovo la prima canzone, che si chiamava Stay Alive, ma soprattutto ricordava Denis che incrociava il suo sguardo e le sorrideva. Sì, le sorrideva, come nessuno aveva mai fatto prima, un sorriso che voleva dire “sono contento di vederti”, “girl, stay alive”, “non sei sola in questa guerra”. Un sorriso che le aveva strappato una risata, un sorriso soffocato da quel giro di basso, da quel vocalizzo molto poco sensato ma così poetico all’orecchio. Ricordava come aveva pensato che forse Denis avrebbe potuto stare al fianco, come compagno di battaglia, come spalla, come amico. Ricordava tutto, ma poi era caduta per terra, svenuta, bella come una silfide a cui sono state tagliate le ali e la linfa vitale.
E poi, poi si era risvegliata al fianco di Denis.
-Non sto molto bene, in questo periodo.- mormorò. – Scusa se ti ho rovinato il concerto.
-Non dirlo nemmeno, splendore. Stai meglio, adesso?
Lei si ritrovò ad arrossire disperatamente quando lui le accarezzò i lunghi capelli biondi come quelli di un angelo caduto. Aveva la mano grande e callosa, una mano da chitarrista, quelle abituate a sanguinare sulle corde ripetendo assoli uno dopo l’altro, ma erano anche mani gentili, delicate. La sfiorarono con la stessa amorevolezza con cui avrebbe sfiorato la chitarra di Jimy Hendrix e Sasha si chiese se trattasse tutte le ragazze così o se fosse un trattamento che riservava a lei perché erano sofferenti allo stesso modo, perché erano già morti, perché erano a pezzi. E non era amore, non era amicizia, non era niente se non due ragazzi che si erano riconosciuti nella disperazione di quella Omsk lasciata a sé stessa. Si erano visti, e avevano deciso che avrebbero proseguito fianco a fianco fino a quando non sarebbero riusciti a fuggire da quella Siberia maledetta.
-Sì, ora sto meglio.- sussurrò lei, e guardò la flebo che ormai troppo spesso vedeva attaccata al suo braccio così esile. Erano momenti come quelli che avrebbe voluto scomparire per sempre, lasciarsi scivolare via nell’Irtys per non tornare più su e venire trascinata fino al mare che non aveva mai visto. – Denis? Hai mai visto il mare?
Lui sorrise e si scostò il vistoso ciuffo scuro dal viso.
-Ho visto solo il Mar Nero.
-Com’è?
-Bellissimo.- tacque per un secondo – Non hai mai visto il mare, Sasha?
Scosse la testa appena, e tremò quando lui le prese una mano tra la sua, con una delicatezza quasi impossibile per quelle mani da chitarrista.
-Immagina una distesa d’acqua della quale non puoi vedere la fine, che cambia continuamente colore. A volte è celeste come il nostro cielo estivo, a volte assume il colore dei tuoi occhi.
Sasha arrossì e abbassò le ciglia. Non poteva nemmeno immaginare di avere gli occhi del colore di un mondo a lei sconosciuto.
-Poi di notte diventa di un blu travolgente e ci si riflettono sopra le stelle. Al tramonto, si tinge di rosso, e sa di amori finiti o forse di amori che devono ancora cominciare. Il Mar Nero è meraviglioso, perché è come una persona. Ama, odia, piange, ride.
-Mi ci porterai un giorno?- disse Sasha, e forse non intendeva nemmeno dirlo, ma in quel momento, in quell’ospedale, con la mano intrecciata a quella di Denis tutto sembrava essere possibile.
-Sì, Sashen’ka. Ti ci porterò, e ti insegnerò a nuotare.
-Sarebbe meraviglioso.
Si sorrisero, e c’era tanta disperazione in quegli sguardi, in quei due ragazzi che avevano disimparato ad amare. Tanto orrore di incubi mai davvero sopiti, tante paure che non erano in grado di affrontare, tanta voglia di morire per mettere a tacere le voci che li perseguitavano. Le voci che li volevano morti e che facevano di tutto per mettere loro i bastoni tra le ruote.
Denis si sistemò meglio sulla sedia accanto a letto e le scostò i ciuffi dal viso smagrito, guardandola con un sorriso quasi dolce. Sasha lo guardava e avrebbe tanto voluto piangere, perché era sempre sola in quell’ospedale, era sola quando stava male, era sola e basta a combattere la sua depressione e la sua anoressia. Nessuno voleva stare al fianco di Aleksandra Bazarova e della sua bellezza malata e divorata da sé stessa. Nessuno, ma quello strano cantante sì, si era schierato al suo fianco, le aveva promesso che l’avrebbe portata a vedere il mare, l’aveva portata in ospedale mandando all’aria il suo concerto. Forse, finalmente, avrebbe trovato qualcuno. Forse, finalmente, qualcuno l’avrebbe salvata.
-Perché stai male?- le chiese lui, di punto in bianco. La guardò, con quei suoi occhi stupendi e si morse il labbro inferiore – Cosa ti succede?
-Conosci i demoni, Denisoch’ka?
-Fin troppo bene, Sashen’ka.
-Ti ricordi il dolore di Celan? Ti ricordi la malinconia di Tatjana?
-Ricordo la rabbia di Onegin. Ricordo la devastazione libidinosa di Baudelaire. Ricordo la dolcezza dissimulata dell’Achmatova.
-Se allora ricordi quello, capirai perché sto male.
I due ragazzi si guardarono e poi lei strinse più forte la mano di lui, e una singola lacrima le sporcò il volto eburneo, appena punteggiato da poche efelidi.
-E tu, ragazzo ucraino?
-Sono un cosacco che deve tornare a casa, ragazza siberiana.
-Perché non riesci ad arrivarci?
-Perché devo ancora trovarla, la mia casa. Ma guardo verso l’orizzonte e so che un giorno mi lascerò la Siberia alle spalle e finalmente sarò felice.
-Saremo felici insieme, allora.
-Perché?
-Perché verrò con te. Mi hai promesso che mi porterai a vedere il mare.
-Hai ragione. Allora sì, saremo felici insieme. Scapperemo lontano da questo inferno.
-Denis?
-Sì, Sasha?
-Non sei solo in questa guerra.
-Nemmeno tu. Compagni d’armi?
-Compagni d’armi.
Lui scoppiò a ridere e un pochino rise anche lei, rendendosi conto di quanto lui fosse in grado di smuoverle dentro il riso più di chiunque altro. Di quanto i suoi occhi ucraini la facessero arrossire. Di quanto lui fosse così bello, anche sudato e spettinato come era in quel momento.
Un’infermiera passò dicendogli che era ora di andare e di lasciare riposare la ragazza, così Denis si alzò e le sorrise ancora
-Torno a vedere come stai domani. Anzi, tieni, questo è il mio numero. Chiamami quando ti pare.- le diede un pezzetto di carta con un numero di telefono.
Sasha lo prese e lo ringraziò dolcemente.
-Vai adesso, non vorrei che ti venisse troppo tardi.
-Cerca di dormire, ragazza. Non voglio più vederti svenire a un nostro concerto.
Poi, come se nulla fosse, si chinò su di lei e le baciò la fronte. Lei arrossì selvaggiamente ma non disse nulla, guardandolo andarsene con quella sua andatura arrogante da bullo di periferia, il chiodo buttato su una spalla e l’aria dell’eroe scanzonato che avrebbe salvato il mondo quando avrebbe imparato a salvare sé stesso.
Sasha sorrise appena, chiudendo gli occhi.
Sì, sorrise.

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Capitolo 5
*** Sing with me ***


CAPITOLO QUINTO: SING WITH ME

Tell me why we live like this
Keep me safe inside
Your arms are like towers, towers over me
Cause we are broken
[Paramore – We Are Broken]
 
Alla fine, lo aveva chiamato. Non appena era uscita dall’ospedale aveva composto quel numero, ed era arrossita quando aveva sentito la sua voce dall’altro capo del filo. Non sapeva perché lo avesse fatto, ma aveva sentito un disperato bisogno di sentire la sua voce dolcissima. E così aveva chiamato, ed era rimasta di stucco quando lui le aveva detto che sarebbe andato a prenderla per portarla a casa. Così era lì, al freddo, ad aspettare che lui arrivasse. Stava male, Sasha, stava così tanto male da non sapere nemmeno più lei da che parte salvarsi: però era arrivato Denis, col suo sorriso, con le sue canzoni, e lei si sentiva così a casa quando era con lui. E così lo aveva chiamato. Arrossì ancora un pochino al pensiero di quel bacino che le aveva lasciato sulla fronte. Nessuno si era mai preoccupato  di trattarla con tanta premura, e invece lui, dal basso delle sue canzoni metalcore, era arrivato a curarla come una principessa. Sembrava che una piccolissima luce si stesse affacciando anche per lei in quell’oscurità che era diventata la sua vita però era così tanto tempo che i suoi occhi si erano disabituati alla luce che adesso stava provando un enorme dolore agli occhi.
-Hey, Sasha! Come stai, bellezza?
Si voltò e Denis era lì accanto a lei, con due caschi in mano e un sorriso stupendo stampato sul viso angoloso.
-Sto meglio, grazie.- mormorò lei, arrossendo un pochino quando lui la baciò tre volte sulle guance. Come se fossero amici. Come se ci tenesse davvero a lei. Come se per lui fosse una persona importante – Ma non dovevi venire in moto, potevo tornare a casa da sola, non …
-Sei ancora convalescente, non ti lascio scarpinare fino alla Kemerovskaya.
Si ricordava anche dove abitava.
La prese a braccetto, per sostenerla, e la accompagnò fino a una moto piuttosto vecchia e male in arnese. Sasha sorrise: sembrava l’inizio di qualche triste film d’amore destinato a finire male. Avrebbe tanto voluto poter avere anche lei la meravigliosa quanto melancolica storia come quelle che leggeva nei suoi romanzi di nicchia. Ma davvero l’avrebbe trovata insieme a quel ragazzo? O forse sarebbe morta prima, divorata dalla sua depressione, dalla sua anoressia? Inspirò il profumo di Denis, che era di fumo e colonia scadente, e pensò che sarebbe quello l’odore che avrebbe voluto sentire tutti i giorni tra le sue lenzuola. Ma forse si stava solamente ingannando. Sicuramente lui non si sarebbe mai innamorato di una ragazza anoressica che sveniva ai concerti. Non di una povera depressa che non aveva mai visto il mare. Non di lei, perché nessuno poteva amarla.
Salirono sulla vecchia moto e si immisero nelle grosse strade di Omsk, scivolando rapidamente in mezzo alle macchine, e lei si strinse a lui, per non cadere, forse per sperare di non doverlo mai lasciare andare. Gli posò la testa sulla spalla e lo strinse forte e le parve che lui ridesse. Non le importava. Voleva solo sentirlo terribilmente vicino a sé almeno per un attimo. Guardò le luci serali della grande città correre ai loro lati, mentre lui accelerava ancora, svoltava, prendeva i semafori proprio a rotta di collo e lei, lei non si era mai sentita così viva come in quel momento, vicino a lui, su quella moto cadente, a saettare per le strade della loro maledetta città.
-Cantiamo, Sasha?- le urlò lui, prendendo una curva troppo stretta.
-Cosa?!
Rise e cominciò a cantare quella canzone degli Asking Alexandria che piaceva tanto ad entrambi.
-So take take take, all that I’ve got got got, all I need is one more moment, all I want is to end this torment …
Cantava bene, con quella voce alta e melodiosa, cantava in quel modo che a Sasha piaceva così tanto. E alla fine decise di cantare con lui, anche se era stonata, anche se il suo inglese lasciava a desiderare. Ma cantarono insieme, ed era quello che contava, lasciarono fondere le loro voci, lasciarono uscire quel demone in mezzo alla velocità e alla musica metalcore che scorreva sotto pelle, si lasciarono andare liberi mentre la moto correva veloce. Lo strinse più forte, proprio come aveva sempre desiderato fare, lo strinse e cantò con lui e per la prima volta in vita sua, poté dirsi felice, felice come non lo era mai stata. Avrebbe tanto voluto che quel tragitto non finisse mai, avrebbe voluto rimanere aggrappata a lui per sempre, continuare a intonare quelle canzoni per lasciare i mostri rotolare fuori dalle loro bocche secche e liberare le loro menti soffocate da loro stesse. Lo avrebbe tanto voluto, ma poi lui frenò di fronte al suo palazzo e lei si ritrovò a togliersi il casco e a scendere, le guance teneramente arrossate e gli occhioni verdi luccicanti di qualcosa che sapeva di gioia e malinconia allo stesso tempo. Perché in fondo Sasha era fatta per essere malinconica la maggior parte del tempo, era fatta per la nostalgia, per la dolce tristezza, per la depressione soffocante ma raffinata.
Lui si tolse il casco e le sorrise, spettinandosi i capelli e lei pensò che fosse così dannatamente bello da fare male. Si guardarono qualche secondo in silenzio, non sapendo bene cosa fare ed era così strano per uno come lui rimanere senza parole. Denis era il tipo che non aveva nessun problema a portarsi a letto le ragazze che gli piacevano, a fare lo spaccone idiota, a conquistarle con due strizzate d’occhio e un sorriso affascinante. Ma lei, lei no, lei non poteva essere trattata come le varie Yulija, Anastasija, Marina, assolutamente no. Aleksandra meritava una dolcezza nuova, un calmare i suoi bollenti spiriti, un corteggiamento più delicato, più furtivo, più tenero e Denis non sapeva se era in grado di darle veramente quello che cercava. Ci provava, però. Ci provava ad essere quello che da tanto tempo aveva dimenticato di essere.
-Vuoi venire su? Ti offro un the.- mormorò lei, giocando con una ciocca di capelli.
-Sarebbe fantastico, grazie.
La seguì nel grosso palazzone popolare fino nel piccolo appartamento triste dove lei abitava, in mezzo a romanzi letti fino a essere consumati, a servizi da the di porcellana ormai impolverati e grossi vinili di musica metal straniera. Era una casetta che sapeva di antico, di triste, di quelle mogie piccole cose polverose che si accumulano in un angolo e che vengono sistematicamente dimenticate. Un po’ come Sasha: una cosina tanto carina ma messa sulla mensola da tutti e lasciata lì a impolverarsi. Eppure, per qualche strano motivo, Denis aveva deciso che le avrebbe levato di dosso tutta la polvere e l’avrebbe portata a splendere come prima. L’avrebbe tolta dalla mensola e messa sul comodino, per vederla ogni mattina.
Si sedette poco graziosamente su una poltrona e la guardò mentre metteva su il the con rapida efficienza. Era così bella, pensava il ragazzo, così tanto bella ma così tanto maltrattata dalla vita. E così tanto magra.
-Sasha … perché?
-Cosa?
Lei si voltò e gli sorrise, un sorriso dolcissimo e carico di dolore, il sorriso di una ragazza che ha disimparato a vivere ma che si trascina nell’esistenza tra una lacrima e l’altra.
-Perché sei così triste?
-E tu perché covi questa rabbia distruttiva dietro agli occhi?
Lui la guardò, e lei guardò lui. Fecero incontrare i loro occhi verdi e ambrati, e si riconobbero. Due ragazzi abbandonati che trovano la propria anima gemella nella disperazione dell’estrema periferia russa. Il cosacco e la fanciulla, come la più trita e ritrita delle favole contadine. Lui si alzò e le andò vicino, posandole una mano sulla spalla e lei tremò appena, perché di nuovo lui era vicino, così tanto vicino da farle male.
-Sono arrabbiato col mondo, ragazza, non c’è molto da fare. Sono un coglione qualunque che urla come un pazzo anche se nessuno lo può sentire, sono un cosacco che sta tornando a casa anche se non sa ancora dove sia, questa maledetta casa, sono un idiota che lotta e non la smette per la sua utopica Russia migliore che sa che non vedrà mai, sono un cantante che ha provato a salvarsi con la sua musica perché è l’unica cosa che gli rimane. Covo rabbia dentro di me perché sono fatto così, sono distruzione allo stato puro, sono un bastardo, sono tutto e sono niente. Sono semplicemente Denis, il ragazzo ucraino che sta sprofondando sempre di più nel suo odio. E tu chi sei?
Lei si passò una mano tra i capelli e gli posò delicatamente una mano sul fianco sottile, facendolo tremare. Sembrava che stessero per ballare come due crisalidi.
-Sono una ragazza caduta dal cielo, come ti avevo detto qualche giorno fa. Sono la mia depressione, sono una bambola che è stata riposta in un cassetto e dimenticata lì per sempre, sono un soffio di vento gelido che trascina via qualunque cosa nel suo passaggio,  sono una ballerina senza più palco che continua a danzare per le strade deserte di una città al macero, sono una ragazza che ha smesso di mangiare perché sta troppo male per farlo, sono un esserino sottile che cerca qualcuno che la leghi a questa terra e che non la lasci scivolare via. Sono la mia tristezza congenita, sono la nostalgia del mare che non ho mai visto.
Si guardarono di nuovo e poi lui l’abbracciò. Così, senza un perché, la strinse a sé con troppa forza, affondandole il viso nei capelli quasi bianchi, la strinse e lei si aggrappò di nuovo a lui, alle sue spalle, gli passò una mano nella massa scompigliata di capelli, si inebriarono a vicenda dei rispettivi profumi. Rimasero abbracciati nel salotto come due bambini spaventati dal temporale, come due angeli caduti dal paradiso, come due diavoli scacciati dall’inferno, semplicemente come due ragazzi che non avevano più niente se non la loro musica e la loro depressione. Lei lasciò qualche lacrima bagnarle il viso smagrito dai tormenti, chiuse gli occhi, lasciandosi travolgere dalle braccia di lui che si ostinavano a non volerla lasciare andare, come se per lui fosse davvero preziosa.
-Non ti lascio andare, Sasha.- mormorò lui, con la voce spezzata.
-Non voglio essere salvata, Denis.
Lui si allontanò da lei e la fece tremare. La strinse per le spalle gracili e la fissò, con quegli occhi tempestosi e irosi da cosacco ucraino. Lui era tempesta, lei era l’occhio del ciclone. Lui era il mare, lei era il cielo. Lui era fuoco, lei era aria. Insieme, erano la deflagrazione degli elementi.
-E allora cosa vuoi?
-Voglio il mare.
-Ti ci porterò.
-Voglio morire.
-Non lo permetterò.
-Perché, Denis?
-Perché voglio incontrare il tuo sguardo quanto canto. Voglio sentirti intonare le mie canzoni. Voglio vedere i tuoi capelli ondeggiare ai concerti. Voglio abbracciarti nel backstage. Perché ti voglio, Sasha.
Lei sbatté le lunghe ciglia e scosse la testa, allontanandosi da lui e tornando a dedicarsi al the. Lui rimase per un attimo immobile, prima di voltarsi verso di lei e pensare di nuovo che fosse troppo bella per quel mondo.
-Senti, non volevo offenderti. Non intendevo in quel senso. Era … mi dispiace.
-Non ti dispiacere.- lei si voltò e gli porse una tazza di the, con un sorriso mogio – Ho capito. È solo che … mi fa strano. Nessuno si era mai interessato a me così.
Denis prese la tazza e bevve un sorso di the, guardandola di sottecchi. Si chiese come mai quella ragazza meravigliosa fosse così sola nel suo dolore, come mai nessuno avesse mai pensato di soccorrerla. Di amarla come avrebbe meritato.
-Sei molto bella.- disse poi, candidamente.
-Anche tu sei molto bello.- rispose lei, e si sedette sul divano, quasi nervosamente, come se dovesse scappare da un momento all’altro. Scappare della vita.
-Facciamo i belli e dannati insieme.
Risero un pochino e lei pensò che quel “ti voglio, Sasha” era stata la cosa più stupenda che avesse mai sentito in vita sua. Anche lei lo voleva, disperatamente. Voleva il suo sorriso stupendo, la sua risata, la sua bellezza, voleva la sua sfacciataggine ma contemporaneamente la sua dolcezza un po’ da periferia, voleva la sua musica, voleva quel bacio sulla fronte e quelle cantate in moto. Lui le si sedette accanto e rimasero un pochino in silenzio, le ginocchia che si sfioravano e gli sguardi che si inseguivano.
Lei pensò a come sarebbe stato baciarlo. Anche lui stava pensando la stessa cosa. Eppure, nessuno dei due fece nulla, perché a loro bastava anche starsene semplicemente vicini, sentire il rispettivo calore corporeo.
-Scusa se prima sono stato inopportuno.- disse a un certo punto Denis, scostandosi il ciuffo dal viso.
Lui non chiedeva mai scusa, benchemeno a una ragazza.
-Non sei stato affatto inopportuno.- sussurrò lei, e in quel momento ebbe un disperato bisogno di stringerlo a sé, di sentirsi dire che sarebbe andato tutto bene, che c’era lui a difenderla dai mostri che la perseguitavano. – Possiamo essere amici, Denisoch’ka?
Lui le sorrise e si trattenne dal metterle quella ciocca fuggitiva dietro l’orecchio.
-Certo, Sashen’ka. Amici. Se mi prometti che mi lascerai lottare al tuo fianco.
-Lo farò, ma solo se tu mi prometti che lascerai che sia io a mettere un freno al tuo odio.
-Andata, bellezza.
E si sorrisero, con i loro sorrisi migliori, quelli luminosi, quelli liberi dalla tristezza, dalla rabbia, dai problemi, quei sorrisi sinceri e aperti che avevano quando erano bambini. Sembravano più giovani dei loro ventitre anni, in quel momento, coi visi luminosi e i sorrisi aperti.
Fu solo lo squillo del telefono di Denis a rovinare l’atmosfera di pace che si era instaurata nel piccolo appartamento. Lei lo guardò alzarsi e rispondere, cercando di origliare incuriosita la conversazione che sembrava prenderlo da morire. Lo vedeva sorridere, con gli occhi brillanti, era quasi estasiato, e lei si sentiva felice per lui. Un piccolo sorriso sorse anche sulle sue labbra quando lo sentì strillare di gioia e si chiese cosa potesse essere successo di così bello. Ma qualunque cosa fosse, sapeva che l’avrebbe resa felice: lui adesso era suo amico. Amico. Aveva dimenticato cosa volesse dire quella parola.
-Sasha! Sasha, non ci puoi credere!- urlò lui, lanciando il telefono sulla poltrona.
-Cos’è successo?
-Oddio, oddio, non ci credo, non ci credo.- lui cominciò a girare per la stanza, quasi in lacrime dalla gioia.
-Dai, non tenermi sulle spine, cos’è successo?- insistè lei, alzandosi a sua volta.
-Ci hanno chiamato per aprire il concerto dei Louna! Ti rendi conto?! Apriamo il concerto dei Louna!
-Denis, è stupendo!
-Ce l’abbiamo fatta, Sasha!
Lui l’abbracciò di slancio, prendendola in braccio e lei strillò, sentendosi pervasa da una felicità sconosciuta. Lo strinse, mentre lui la faceva girare per la stanza e tutto le sembrò così bello. Così perfetto. Così innaturalmente giusto stare tra le sue braccia e volteggiare con lui per la stanza. Così meraviglioso da non poterci davvero credere.
-Verrai con noi?- le chiese, con gli occhi luccicanti.
-Al concerto?
-Sì. Vieni nel backstage, ci aspetti lì, così poi ci godiamo il concerto dei Louna insieme. Ti prego, Sashen’ka, vieni.
Lei arrossì ma annuì, prendendogli una mano.
-Verrò e farò il tifo per te. E’ una cosa così bella, Denisoch’ka.
Lui l’abbracciò di nuovo e lei rise forte.

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Capitolo 6
*** Kiss me cossack ***


CAPITOLO SEI: KISS ME COSSACK

All the things that you are, beautifully broken,
Alive in my heart, and know that you are everything
Let your heart sing and tonight
We'll light up the stars

[Goo Goo Dolls – All That You Are]
 
Denis era felice. Anzi, no, felice era troppo poco: era esaltato. Il concerto che la sua band aveva appena tenuto in apertura dei Louna era stato, a suo parere, un successo. Non avrebbe mai creduto possibile che sarebbe stato lì, a capitanare i My Girlfriend’s Depressed di fronte a uno stadio pieno che applaudiva e saltava quando lui abbaiava “jump” nel microfono. Il suo sogno, finalmente sembrava essere sul punto di avverarsi. Un concerto. Uno vero, nello stadio di Omsk, a cantare le sue canzoni, a urlare l’anima, a saltare, a strillare, a vedere la gente reagire entusiasta alle sue parole. Non riusciva ancora totalmente a crederci. Lui, Denis Shostakovich, il ragazzo ucraino con problemi di contenimento della rabbia, lui, aveva attizzato la folla in delirio. Lui. Un buono a nulla totale che forse allora così buono a nulla non lo era. Lui. Il nuovo eroe generazionale.
Era finito anche il concerto dei Louna e loro erano usciti, sudati marci ed esaltati come non mai ma Denis, in quel momento, aveva occhi solamente per Sasha. Sasha che li aspettava pacificamente in un angolo, i capelli un po’ spettinati, segno che l’headbang non l’aveva lasciata indifferente, e un sorriso pallido dipinto sul visino smunto.
Lui le corse incontro e l’abbracciò stretta
-Hai visto, Sashen’ka?
-Siete stati eccezionali, Denisoch’ka! Tu sei stato meraviglioso. E il concerto … siete stupendi.
Lei ricambiò l’abbraccio e nascose il viso nella spalla di lui. Era sudato e puzzava, ma a lei non importava poi molto. Gli bastava averlo vicino, sentirlo accanto a sé, e averlo visto lì su quell’enorme palco le aveva scaldato il cuore. Le era sembrato così felice, così a posto con sé stesso, così convinto mentre cantava a pieni polmoni le sue canzoni che parlavano di depressione e anoressia. Aveva pianto un pochino quando lui aveva cantato quel pezzo “girl, are you really sure that not eat is the answer?” perché ci aveva messo una tale dolcezza in mezzo a tutto quel metalcore folle e scatenato da far commuovere. E adesso lui era lì, da lei. Da Sasha, la sfigata, anoressica, depressa, Sasha.
-Hai voglia di fare un giro, dolcezza?- le disse lui, allontanandola da sé ma senza lasciarle andare le spalle gracili.
-Dove vuoi andare?
-Non lo so. Hai presente “E’ nata una stella”? Facciamo come loro, andiamo a prenderci da mangiare in un 7-11 e poi giriamo sino al mattino.
Lei sorrise e lui anche.
Lei lo abbracciò di nuovo e lui ricambiò.
Poi, silenziosi come dei gatti, si presero a braccetto e scivolarono nell’oscurità. Denis, ancora, non riusciva a crederci. Perché per la prima volta in vita sua sembrava andare tutto bene. Aveva trovato un’amica vera, si era esibito in concerto come nei suoi sogni e adesso … adesso sembrava che la sua rabbia storica si stesse placando gentilmente sotto gli influssi di lei. Lei. La sua salvezza. La sua redenzione. La sua amica.
Per Sasha, invece, sembrava ancora tutto un sogno meraviglioso. Essere lì, con lui, essere amata, cercata, coccolata da un ragazzo caduto dal cielo, era tutto troppo bello per essere vero. Era tutto come nei suoi romanzi d’appendice. Era tutto come nei suoi sogni.
-Com’è essere lì sul palco, Den?
-Eccezionale. Io … non ci posso ancora credere. Ho suonato nello stadio. E quella gente saltava sentendo le mie canzoni. E io ero lì e … dio.
Lui le passò un braccio attorno alle spalle e lei rise, abbracciandolo con forza. Anche la luna sopra di loro sembrava sorridere a quei due ragazzi che stavano trovando loro stessi negli occhi dell’altro.
Cominciarono ad avviarsi per le strade bagnate dalla luna, in silenzio, stretti uno all’altra per non lasciarsi andare perché potevano essere i ragazzi più soli del mondo ma adesso che erano insieme erano tornati forti. Lui trovava in lei la calma che gli era sempre mancata, lei trovava in lui il sorriso che aveva perso anni e anni prima. Così continuarono per la loro strada, senza guardare veramente bene dove andavano, tenendosi a braccetto, gli occhi persi nel cielo stellato di Omsk, sigarette tra le dita e la voglia di rivalsa a luccicare nei loro visi pallidi. Per la prima volta in vita loro, stavano bene. Anche se erano stanchi, persi, talmente diversi, standosene vicini ad attraversare il ponte sul fiume sapevano di essere a posto con loro stessi. Bellissimi nelle loro imperfezioni, perfettamente giusti nei loro errori, non avrebbero lasciato che la maledetta Siberia li divorasse – adesso, adesso erano pronti a combattere fianco a fianco, schiena contro schiena, lui contro l’anoressia di lei, lei contro i demoni di lui.
Guardarono il fiume Irtys che lento scorreva sotto di loro, con la luna e le stelle riflesse dentro, e Denis pensò che un giorno avrebbe insegnato a Sasha a nuotare. L’avrebbe tenuta stretta per la vita e avrebbero sguazzato nel Mar Nero, poi lui si sarebbe messo a nuotare e lei gli si sarebbe ancorata alle spalle, lasciandosi trascinare. Poi lui l’avrebbe presa per mano e pian pianino anche lei avrebbe imparato a stare a galla da sola, come un silfide, come una nereide ferita. Era così bella, pensava il ragazzo, guardandola di sottecchi, con quei capelli biondissimi, quel viso smunto, quegli occhi così dannatamente verdi da fare male, quella pelle pulita e appena spolverata da un velo di lentiggini.
-Cosa vuoi fare, dolcezza?- chiese, spezzando quel silenzio quasi sacro che era calato tra loro. Ma lui era un profano, era quello che bestemmiava al cielo, era il bastardo che non aveva religione e nemmeno dei.
-Camminiamo, Denisoch’ka. Camminiamo fino alla fine del mondo.- disse lei.
Poi si voltò e lo prese per mano, intrecciando le loro lunghe dita. – Oppure fammi ballare.
-Non so ballare, Sashen’ka.
-Allora stringimi come se non dovessi più lasciarmi andare e poi andiamo a piedi fino alla fine della Siberia.
Lui obbedì, e la strinse forte a sé, lasciando che lei si aggrappasse alle sue spalle e rimasero così, stretti, col vento gelido della notte a scompigliare loro i capelli.
Erano entrambi così stanchi, così stanchi, ma lui aumentò la presa su di lei e la sollevò quasi da terra, per sentirla più vicina, per sentire il suo profumo di vaniglia.
-Andiamo in Ucraina, Sasha. Prendiamo il primo aereo e torniamo in Crimea.
-Sì, Denis, sì, andiamo.
-Laggiù è diverso. Saremo in Europa. Saremo più vicini a Parigi. Ti insegnerò a nuotare. Ad andare in bicicletta. A mangiare.
-Fallo, allora. Facciamolo. Andiamo.
Nessuno dei due, però, fece nulla, troppo disperati, troppo spaventati da quello che stava loro succedendo, troppo sconvolti dalla piega precipitosa degli eventi. Lui voleva portarsela via, altroche e lei voleva scappare con lui ma era ancora presto, dannazione, ancora così tanto presto, erano ancora bambini e già volevano scappare, erano due anime perse che sapevano di non poter fuggire ma che sognavano, sognavano così tanto di potersi salvare da quell’incubo che era la loro vita. Ma, di nuovo, nessuno dei due fece nulla.
-Sono stanca, Den.
-Anche io, dolcezza.
Denis le sollevò il viso con un dito e le sorrise, con uno di quei suoi sorrisi meravigliosi che avrebbe fermato un uragano.
-Hey, ragazza. Guardami. Va tutto bene. Un giorno ce ne andremo. Un giorno tornerai a mangiare come si deve.
-E tu un giorno imparerai a vedere le cose con calma.- chinò il capo – Andiamo fino alla fine del mondo a piedi, allora?
-Magari fino alla fine del mondo no, ma fino a quel 7-11 laggiù sì.
Lui rise e lei rise più forte.
 
-Den, sei ubriaco.
-No …
-Den …
-Un pochino. Ma non troppo. Non …
-Andiamo a dormire, io sono stravolta e tu non ti reggi in piedi.
Lei scoppiò a ridere, mentre lui barcollava visibilmente, la bottiglia di vodka vuota ancora in mano e un sorriso ebete stampato sul viso. Avevano passato la sera a bere e a bighellonare sul lungo fiume, cantando a squarciagola qualche vecchia canzone degli Sleeping With Sirens, bevendo e ridendo al cielo notturno e Sasha si era sentita così leggera, così contenta di essere lì a braccetto con Denis, così libera dalle sue catene. Si stava forse innamorando di lui? Non lo sapeva, ma decise che se quello era amore, allora era la cosa più bella del mondo. Non profumava di fiori d’arancio, non era stucchevole, non era arrabbiato, non era nulla di quello che leggeva nei suoi romanzi: era qualcosa di melancolico, che sapeva di sale, di mare anche se non l’avevano mai visto, che profumava di vodka e aveva in sottofondo dei breakdown distruttivi. Era amore metalcore, quello, che la gente comune non poteva capire.
-Andiamo in quel motel, Den, non ci arriviamo a casa così.
-Hic.- fu la risposta, seguita da un rumoroso rigurgito e da un paio di occhi annebbiati dall’alcol.
Lei scosse la testa e lo spinse delicatamente verso la porta di quel vecchio motel cadente.
-Sono … sono sobrio … possiamo … tornare a … casa … - biascicò Denis, cercando di bagnarsi le labbra con le ultime gocce di Stolychnaya.
-Sobrio, sì, certo. Attento!- lo afferrò prima che si spalmasse sulla porta a vetri del motel – Sei penoso, ragazzo ucraino.
Lui fece per ribattere ma in compenso cominciò a tossire.
-Vi serve una stanza?- la vecchietta incartapecorita nascosta dietro il bancone era emersa, squadrandoli da dietro gli occhialini a pincenez.
-Sì, grazie.
Sasha afferrò la chiave e spinse Denis verso il corridoio lurido, sporco di chiazze di vomito e di unto. Storse il nasino appena lentigginoso. Era un posto francamente penoso ma cosa ti potevi aspettare dalla più triste periferia di Omsk?
Infilò la chiave nella toppa e Denis barcollò pesantemente dentro la stanza, cadendo come un sacco di patate sul letto.
-Sono … sobrio …
-Den, smettila. Dovevi proprio berti una bottiglia di vodka da solo?- sbuffò Sasha, chiudendosi la porta alle spalle e trattenendo un conato a vedere la stanzetta lurida dove erano finiti. Era tutto così sporco, e così poco romantico. Romantico … come se lei sapesse il significato di quella parola. Come se lei avesse una vaga idea di cosa sia il romanticismo.
-Scusa … - Denis starnutì, e lei rise un pochino, a vederlo con quegli occhioni annebbiati. – Sasha … ti voglio bene …
-Anche io, stupido.- lei si chinò su di lui e gli tolse le scarpe e la maglietta sudata.
Arrossì a vederlo così, a torso nudo, ma lo spinse delicatamente sul letto.
-Dormi, adesso.
-Ma non ho sonno.
-Dormi, Denis, e smaltisci la sbornia.
Denis grugnì qualcosa ma si sistemò sul letto, rotolandosi un po’ prima di trovare la posizione. Sasha lo guardò, si tolse le scarpe a sua volta e si mise a letto con lui, nell’angolino. Aveva mai dormito con un ragazzo? No, mai, ma non le faceva effetto. Era Denis, dopotutto, il suo nuovo migliore amico. Veramente, Aleksandra Dmijtrievna Bazarova? Solo il tuo migliore amico?, le disse una vocina in testa che lei scacciò con un grugnito. Sì, al diavolo, per ora Denis era solo suo amico.
Il letto puzzava di muffa, e Denis sapeva di alcol e sudore, ma assurdamente Sasha si sentiva a posto con sé stessa. Anche quando sentì lui così terribilmente vicino, così caldo e affettuoso. Si voltò lentamente e incontrò quei grandi occhi ambrati che la fissavano, leggermente instupiditi dalla vodka.
-Sasha …
-Sì, Den?
-Ho freddo.
Lei sbuffò e gli aggiustò addosso la coperta un po’ sdrucita. E poi, lui la abbracciò, stringendola forte a sé. Lei rimase un secondo interdetta prima di ricambiare timidamente l’abbraccio. Rimasero qualche minuto in silenzio, stretti in quel letto lurido, i respiri che si fondevano, le fronti poggiate l’una contro l’altra finché lui non le mise una ciocca di capelli dietro l’orecchio e non sussurrò
-Sasha …
-Sì, Den?
-Ti amo.
Poi, con tutta la delicatezza del mondo, come se maneggiasse una bambola di cristallo, la baciò. Lei ci mise un attimo a realizzare, a capire di avere veramente quelle belle labbra sulle sue. Qualcuno la stava baciando. Qualcuno la voleva. E quel qualcuno era Denis, il cantante con problemi di contenimento della rabbia. Lui, che avrebbe potuto avere chiunque, aveva scelto lei, l’universitaria depressa e anoressica con i capelli troppo chiari. Si baciarono così, come due bambini spaventati dal temporale, stretti per non morire, si baciarono perché si erano riconosciuti nella devastazione, tra una canzone rock passata per radio e una bottiglia di vodka, eccoli lì, Denis e Sasha, che avevano cominciato ad amarsi di un amore metalcore, fondato sulla musica, sulla depressione, sulla voglia di fuga e sul bisogno di vedere il mare.
Si baciarono come fosse l’ultimo giorno delle loro vite, ma fu un bacio dolce, silenzioso, appena accennato, il bacio di due fantasmi soffocati dal cemento e dalla periferia, il bacio assurdo di due eroi generazionali che stanno tornando a casa.
-Denis … - sussurrò lei, quando si staccarono.
Ma ormai lui si era già addormentato, le braccia strette attorno alla vita di lei e un sorriso vago e infantile dipinto sul viso improvvisamente rilassato, come quello di un bambino.

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Capitolo 7
*** I love you ***


CAPITOLO SETTE: I LOVE YOU

They say that love is forever, your forever is all that I need
Please stay as long as you need
Can’t promise that things won’t be broken
But I swear that I’ll never leave
Please stay forever with me
[Sleeping With Sirens – If I’m James Dean, You’re Audrey Hepburn]
 
L’aveva baciata. Non era ancora così tanto ubriaco da non ricordarselo. Denis grugnì e si rigirò un po’ nel letto, allungando una mano per cercarla. Non la trovò e allora spalancò gli occhi, allarmato. Non c’era nessuno. Dio. L’aveva forse fatta scappare lui? Non poteva nemmeno processare una cosa del genere. Lui amava Sasha. Senza se e senza ma. Era completamente diversa dalle altre ragazze che aveva avuto, diversa da Yulija, da Anastasija, da Marina, da tutte quelle zoccole che volevano solo del grossolano sesso. No, lei era perfettamente imperfetta, era un angelo caduto, era una bambola di porcellana e lui se ne era così dannatamente innamorato da star male. E questo riportava alla domanda originale: lei dov’era?
Per un attimo ebbe il terrore che avessero fatto qualcosa e che lei si fosse spaventata. Ma era ragionevolmente vestito, fortunatamente. Si grattò la testa e cercò alla cieca il pacchetto di sigarette. Vuoto, ovviamente. Però, insieme al pacchetto trovò un bigliettino scritto con una graziosa calligrafia femminile
“Buongiorno, Denisoch’ka. Scusa se sono scappata, ma avevo i corsi all’università che iniziavano molto presto. Finisco a mezzogiorno, se vuoi ci possiamo vedere nel pomeriggio. Ti voglio così tanto bene, Sashen’ka.”
Denis si ritrovò a sorridere come un ebete e il cuore gli fece una giravolta nel petto. Certo che sarebbe andato a prenderla. Non ne aveva mai abbastanza di quegli occhi verdi da cerbiatto, di quel sorriso mogio e di quella voce dolce e soffocata.
Si passò una mano tra i capelli scompigliati, e ripensò a quel bacio dolce che si era scambiati. Era tutto quello a cui anelava perché lei era di quanto più prezioso gli restasse. Avrebbe combattuto per lei sino al giorno in cui avrebbe chiuso gli occhi per sempre. Non avrebbe lasciato che nulla la ferisse o gliela portasse via. Decise che gli piaceva essere innamorato: si sentiva pieno di qualcosa di sconosciuto ma di così dannatamente dolce. Quel qualcosa che lo metteva a posto con sé stesso e che calmava la sua rabbia infinita.
Il ragazzo si alzò dal letto vecchio e scricchiolante, infilandosi maglietta e scarpe. Sarebbe tornato a casa rimuginando su quel bacio, su quelle belle labbra, su quel sorriso pallido eppure così unico.
Uscì all’aria aperta, insipirando a pieni polmoni e sorrise al cielo azzurro. Forse, le avrebbe chiesto di diventare la sua fidanzata. Sì, non ragazza, fidanzata. Le avrebbe messo un anello al dito e l’avrebbe stretta a sé perché lei era quella che lo stava salvando da quell’inferno che era diventata Omsk. La voleva in mille modi diversi, la desiderava follemente con tutta la forza del suo passionale cuore ucraino.
Si diresse verso casa, un sorriso meraviglioso dipinto sul viso angoloso.
Lui voleva lei. Lei voleva lui. Cosa avrebbe mai potuto andare storto in quel momento, quando sembrava che finalmente le carte si stessero mettendo a posto? Già, cosa avrebbe mai potuto andare storto?
 
-Denisoch’ka!
-Sashen’ka!
Si abbracciarono forte quando si videro e lei arrossì. Chissà se lui si ricordava del bacio di quella notte, di quel “ti amo” appena sussurrato. Chissà se tra loro le cose sarebbero mai evolute. Chissà se lui l’avrebbe mai tenuta per mano come leggeva nei suoi romanzi.
Si guardono a lungo negli occhi, le mani che non ne volevano sapere di lasciarsi andare e si sorrisero, timidi come due bambini, impacciati, soli al mondo, due scrittori ottocenteschi che non riescono a sbarcare il lunario, due cosacchi persi nelle steppe, due Petrouska senza burattinaio infernale. Lui la trovava bellissima in quel momento, con i ciuffi biondi ai lati del viso smagrito dai tormenti e le lunghissime ciglia a ombreggiarle gli occhi. Lei lo trovava speciale, con la camicia slacciata e le collane d’oro sul petto nudo, l’aria arrogante e il sorriso assassino.
-Hey, ragazza.
-Hey, ragazzo.
-Come stai?
Lei chinò il capo e si sistemò il beanie in testa, dondolandosi sui piedi.
-Ho fatto qualcosa di sbagliato?- chiese lui, sollevandole delicatamente il viso con un dito.
-Oh no!- si affrettò a rassicurarlo lei, scuotendo la testa – Va tutto bene. È solo che … noi due … forse non te lo ricordi ma …
-Me lo ricordo.- la zittì lui e sospirò rumorosamente, passandosi una mano tra i capelli spettinati – E non ho intenzione di ritrattare.
-Di ritrattare cosa?
-Il fatto che ti amo.
La baciò. La prima volta in vita sua che diceva ti amo a qualcuno, dopo averne ricevuti migliaglia dalle ragazze che si scopava. La prima volta che baciava una ragazza dolcemente, senza aspettarsi niente in cambio. Si chiese che sapore avesse adesso la sua bocca e decise che sapeva di miele e di rose, di blinij ai lamponi, di struggenti acustiche, di chitarre in mano ad adolescenti suicidi, di romanzi di Pushkin abbandonati nella casa sull’albero, di mare salato, di lacrime gioiose piante da una ragazzina al primo concerto rock della sua vita. Ed era il sapore più buono che avesse mai sentito. Sentì le braccia di lei avvolgerlo e la prese per la vita, incapace di saziarsi di quella melodia metalcore perfettamente imperfetta. L’avrebbe cantata, una volta arrivato a casa avrebbe scritto il pezzo forte per i My Girlfriend’s Depressed, tutto basato su quelle labbra pallide.
Quando si staccarono per respirare lei gli posò la testa sul petto e intrecciò le loro dita lunghe e magre.
-Questa volta non ti puoi addormentare.- sussurrò.
-No.- rise lui e la strinse a sé, con tutta la forza che aveva. – Hey, dolcezza: guardami. Sei bellissima.
-Bella come la Crimea?
-Bella come il Mar Nero che ne lambisce le coste. Bella come la luna che illumina le sue spiagge. Bella come le canzoni dei Vivienne Mort da cantare per le strade delle cittadine di mare. Bella e basta, perché tu sei bellissima, Aleksandra Dmijtrievna, sei la ragazza stupenda che mi ha preso per mano e mi ha insegnato che esiste un paradiso oltre che l’inferno, sei la mia redenzione. Guardami negli occhi e dimmi che mi vuoi anche tu come ti desidero io.
Lei lo guardò, incatenando il verde con l’ambra e poi sorrise, con quel suo sorriso tristissimo e depresso, il sorriso di chi sta cercando disperatamente un motivo per restare in vita, il sorriso di Petrouska, il sorriso di Sonija, il sorriso di Sasha, la ragazza anoressica che aveva conquistato il cantante arrabbiato.
-Voglio nuotare, Den.- mormorò, spettinandogli i capelli.
-Nuoteremo.
-Voglio stare con te.
-Non ti abbandonerò mai.
-Come fai a dirlo, cosacco?
-Perché nemmeno l’inferno potrà tenermi lontano da te. E’ una promessa, dolcezza.
Lei abbassò lo sguardo e rise un pochino, prendendolo per mano. Lui non l’avrebbe mai più vista contenta come in quel momento, con gli occhi luccicanti di lacrime, un sorriso pallido sul viso e le labbra ancora arrossate.
-Ti amo, Sasha.
-Anche io ti amo, Denis.
-Dolcezza …
-Sì, caro?
-Andiamo a mangiare?
-Sei incorreggibile, ragazzo.
-Ma mi ami così come sono.
 
Andarono a mangiare delle vatrushke in una pasticceria di quartiere piccola ma deliziosamente ben tenuta. Seduti sulle poltroncine scarlatte, con davanti chai latte e vatrushke alla vaniglia, ridevano di cuore. E Sasha, Sasha mangiucchiava anche lei un po’ dei dolcetti tradizionali, guardando con dolcezza Denis che si ingozzava selvaggiamente. Stava bene anche lei in quel momento, col suo migliore amico, ragazzo, compagno d’armi accanto, perché per una volta stava bene con sé stessa. Si sentiva amata, apprezzata, voluta, cosa che non le era mai successa prima.
-Stai bene?- lui le sorrise, bevendo un sorso di the.
-Sto benissimo.- rispose lei, e per sottolineare le sue parole mangiò un pochino di vatrushka.
Vomitavomitavomita.
No.
Non adesso.
Resisti.
-Hey. Guardami. Ti prometto che andrà tutto bene.- Denis le accarezzò il viso col dorso della mano e le sorrise – Siamo insieme adesso, bionda. Il Mar Nero è sempre più vicino insieme alla nostra libertà. Voglio cantare così tanto in questo momento.
-Canta allora.- lo incoraggiò lei.
-Andiamo.
Lui si alzò e la prese per mano, sbafando l’ultima vatrushka e la trascinò fuori con sé. Capitombolarono per le strade, sentendo la fredda aria autunnale cominciare a spirare insieme alle loro risate squillanti. Si tenevano per mano e non volevano lasciarsi andare mentre correvano come dei pazzi in giro, e non gli importava che la gente li guardasse scuotendo la testa, erano insieme, erano innamorati e lui cantava, cantava a pieni polmoni quelle canzoni struggenti dei Pierce The Veil e la guardava sorridere  e pensava di essere il ragazzo più fortunato del mondo ad averla trovata. Perché l’amava, l’amava così tanto e si sentiva completamente rinnovato da quel sentimento che fino a quel momento aveva provato solo per la sua Ucraina. Ma ora aveva lei, aveva Sasha, e lui era un ragazzo nuovo.
-Denisoch’ka.- ansimò lei, quando finalmente si lasciarono cadere su una panchina, stanchi di saltare, cantare, urlare e farsi guardare male da tutta Omsk – Ho mangiato.
-Ho visto, amore.
-E non ho vomitato.
-Ho visto anche questo.
-Ed è solo grazie a te.
-No, dolcezza. È grazie a te, perché sei forte, sei la ragazza più forte che abbia mai conosciuto. Ce la farai, prima o poi, a uscire dall’inferno. Te lo prometto. Starò al tuo fianco ogni singolo giorno di questa guerra. Te l’avevo promesso: compagni d’armi, ragazza. Sino all’ultimo giorno delle nostre vite. Non ti posso promettere che le cose andranno sempre bene, perché litigheremo, avremo i nostri alti e bassi, penseremo che sarà ora di finirla, ma io ti prometto che non me ne andrò mai. Anche se dovessimo rompere, anche se succedesse l’impossibile, io sarò sempre al tuo fianco, non importa come. Ti amo, Sasha, e so di essere un coglione qualunque con problemi irrisolti, ma ti prometto che per te combatterò. Lo dicono anche gli Sleeping With Sirens, no? “Can’t promise that things won’t be broken, but I swear that I’ll never leave.” Ecco. Io farò lo stesso.
Lui l’abbracciò e lei si mise a piangere in silenzio.

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Capitolo 8
*** Be my girlfriend ***


CAPITOLO OTTO: BE MY GIRLFRIEND

So you can drag me through Hell
If it meant I could hold your hand
I will follow you cause I’m under your spell
And you can throw me to the flames
[Bring Me The Horizon – Follow You]
 
-E vorrei dedicare questa canzone alla mia ragazza.
Quando Denis lo disse, gli tremò la voce. Non avrebbe mai creduto possibile che lui, proprio lui, sarebbe finito a dedicare canzoni ad una ragazza, né che potesse mai avercela, una ra-gaz-za. Dio, come si sentiva adulto in quel momento. Adulto, responsabile, e ancora più bello di quanto già non si sentisse di solito: perché adesso ce l’aveva, la ragazza per cui cantare e quella ragazza se ne stava tra il pubblico, con il suo inseparabile beanie nero in testa e quei capelli assurdamente biondi.
Il pubblico fece un coro e lui si ritrovò a sorridere, come quando era bambino. Cercò lei nella folla e la intravide; per un attimo, gli parve che gli stesse mandando un bacio in punta di dita e questo gli diede un improvviso moto di gioia. Iniziò a sbraitare nel microfono, come in una bella canzone metalcore che si rispetti e sentì qualcosa scorrergli nelle vene – era più che l’emozione di poter finalmente tenere concerti anche fuori da Omsk, era più che la gioia di cantare, era … amore, forse? Non lo sapeva, ma era qualcosa di bellissimo che gli stava dando la forza di tirare avanti in quel mondo di belve, era qualcosa che gli stava dando un motivo per non arrendersi alla sua rabbia ma che lo voleva sul pezzo, lo voleva attivo, lo voleva straordinariamente vivo. E Denis era pronto ad esserlo, straordinariamente vivo per chi non lo poteva più essere. Era vivo mentre cantava quella canzone composta esclusivamente per lei, mentre cercava di farle sapere da quel palco che l’amava e che sarebbe morto per lei. Lasciava che fosse la musica a parlare per lui dove le parole venivano a mancare, lasciava che la sua voce e le sue canzoni in un inglese un po’ maccheronico le dicessero quello che provava, come un tune un po’ pop punk insieme a una track metalcore alla Asking Alexandria. Era la musica che scorreva nelle vene di Denis, era la sua vita, era la sua essenza più pura. Perché la musica salva, la musica lo aveva difeso strenuamente quando nessuno era lì per lui, c’era sempre stato quando tutto intorno era andato in pezzi. La musica gli aveva salvato la vita e lui le si era devoluto completamente, tanto quanto si stava devolvendo a Sasha e ai suoi capelli bianchi. Aveva due donne: Sasha e la musica metalcore che lo avevano salvato da sé stesso. Le due uniche cose per il quale avrebbe lottato sino all’ultimo giorno della sua vita.
Finì il concerto e si godette le urla della folla, cercando quel beanie nero che conosceva a memoria e incrociando per un attimo i suoi occhi smeraldini. Le sorrise e le mandò un bacio in punta di dita e gli parve che lei fosse arrossita. Era così bella quando arrossiva. E lui la amava così disperatamente. Amava la sua anoressia, la sua depressione, le sue paure e le sue insicurezze. Amava quel sorriso dolcissimo, quelle labbra sottili, quella malinconia nella voce soffice, quella nostalgia del mare che non aveva mai visto. Amava tutto di quella ragazza, ogni singolo sorriso, lacrima, bacio o idea. Era diventata tutto per lui e  non sapeva come avrebbe vissuto senza di lei. Ora che aveva scoperto cosa volesse dire amare, voleva farlo con tutta la forza del suo passionale cuore ucraino. E l’avrebbe fatto, fino  a consumarsi, fino a diventare cenere da lanciare nel Mar Nero.
 
Quella notte, Denis era rimasto a dormire a casa di Sasha, in quell’appartamento con le piccole cose tristi e i vinili metal stranieri. C’era un’intimità nuova nell’essere entrato così prepotentemente nella sua vita, un segreto sul punto di essere rivelato nel stare nella sua vasca da bagno, a mollo, in silenzio religioso dopo il rumoroso concerto appena finito. Denis sorrise, un sorriso vagamente ebete e chiuse gli occhi. Stava andando tutto perfettamente bene nella sua vita. Mosse un po’ l’acqua attorno a sé e sbatté le lunghe ciglia da ragazza, godendo in silenzio del silenzio della casa e dal calore dell’acqua. Lei era nella stanza affianco a preparare il letto, dopo avergli preparato il bagno e lui pensava a quanto fosse stato fortunato a trovare una ragazza così, che gli desse ancora voglia di vivere, di combattere contro i suoi demoni, di lottare per sé stesso e per lei. Si passò una mano tra i capelli scompligliati e sorrise di nuovo al vuoto, gettando indietro la testa. Era a casa sua, lui, con la sua violenza, la sua volgarità, la sua musica metalcore era entrato con rabbia in quella bolla di nostalgia e depressione che Sasha si era costruita attorno, per spazzarla via, per stringerla a sé e non lasciarla andare, per involarsi insieme nei cieli siberiani e, chissà, volare fino al mare. Sì, l’avrebbe portata in Ucraina. L’avrebbe salvata dalla sua anoressia. L’avrebbe protetta da sé stessa.
-Den? Posso entrare?
Sasha fece capolino nella stanza, con un sorriso triste e lievemente imbarazzato.
-Certo, dolcezza. Vieni. E non fare quella faccia imbarazzata, sono il tuo ragazzo, dovrai vedermi nudo prima o poi.
-Denis!
-Cosa, è vero!
Lei rise e rise anche lui, mentre lei entrava e si sedeva ai piedi della vasca, allungando una mano per accarezzargli i capelli umidi. Lo toccò e tremò appena perché doveva ancora realizzare che quel giovane uomo era suo, completamente suo. Lui si voltò verso di lei e le sorrise, con quel suo sorriso spettacolare, mettendosi seduto nella vasca. Aveva la pelle pallida e tatuata. Lei lo osservò quasi incantata dal vedere la sua perfezione, la sua mascella ben definita, i suoi capelli spettinati, il suo fisico sottile e perfetto, i suoi meravigliosi occhi ambrati. Era bellissimo. Era deliziosamente umano, terreno, verace, a differenza di lei e della sua bellezza eterea e quasi liquida.
Intrecciò le dita alle ciocche scure di capelli e sorrise ancora, con quel sorriso mesto e bisognoso di aiuto.
-Sei bellissimo, Denisoch’ka … - mormorò, timidamente.
-Vieni, tesoro. Fai il bagno con me. Assimiliamo le nostre rispettive nudità, torniamo a un grado primitivo dell’amore, osserviamo i corpi scolpiti dal dolore e dalle violenze autoinflitte. Vieni, amore mio, bagnati in questa fonte e inebriati del sapore di periferia che ci incrosta le pelli violate. Stai con me, dolcezza, e non mi lasciare andare. Ho bisogno di te per sapere chi sono, per ritrovare me stesso nella perdizione di questa Siberia che non sento mia. Vieni, Sashen’ka: non ti vergognare dell’uomo che ti ama con tutta la forza possibile. Non avere paura del cosacco tornato a casa dopo anni di peregrinazioni.
Denis spalancò le braccia e lei esitò un attimo, magrissima e bellissima.
-Quindi il cosacco ha trovato la sua casa.- sussurrò.
-Sì, l’ha trovata, e non la lascerà tanto presto.
-Ma l’Ucraina? Dove la lasci?
-Quando ti sarai tramutata in giglio ti metterò all’occhiello e ti porterò con me nella terra di mia madre. Spogliati, fanciulla.
-E questa casa è di tuo gradimento, cosacco?
-Lo è, ragazza meravigliosa. Vieni.
Lei arrossì mentre si spogliava lentamente e Denis guardò il suo corpo ossuto, completamente bianco. Era lo stesso corpo che potrebbe avere una silfide di fiume. Osservò le costole che si intravedevano sotto pelle, i seni piccoli e troppo acerbi, le membra lunghe e sottili. Era stupenda. Era di quanto più bello Denis avesse mai visto. Ed era sua.
Lei si passò una mano tra i capelli lunghissimi ed entrò in acqua, tremando appena, raggomitolandosi dall’altro capo della vasca, pudica e tremebonda. Lui sorrise e aprì le braccia, invitandola ad avvicinarsi e lei, timidamente, obbedì. Gli si accucciò in mezzo alle gambe, sentendo le sue braccia forti e tatuate stringerla, e posò la testa sulla sua spalla, annusando il suo odore di fumo e colonia scadente. Non c’era erotismo, non c’era sensualità: c’erano solo due amici, fratelli, amanti, compagni d’armi che si spalleggiavano e si amavano di un amore puro ed etereo, un amore letterario, quasi platonico. Lui, che era abituato a vivere in un mondo fatto di sesso, sesso e solo sesso, era terrorizzato all’idea di toccarla, di sporcarla col suo seme bastardo, di far del male alla porcellana che aveva come pelle. Lei, che aveva avuto una relazione sessuale solamente con una sua amica, sapeva a stento cosa fosse, ed era abituata al corpo morbido di una donna, ai suoi seni soffici, alle sue mani delicate. Non conosceva il corpo forte di un ragazzo, non conosceva le dita callose e violente. Ma conosceva Denis, in compenso.
Alzò i grandi occhi verdi su di lui e gli baciò le labbra. Un bacio a stampo, un bacio sincero e infantile, un bacio e basta per dirgli “grazie di aver cantato quella canzone per me”. “Mi sento al sicuro tra le tue braccia”. “Ti amo”. Lui ricambiò il bacio e la strinse più forte, la fece sedere a cavalcioni su di lui e le strinse la schiena ossuta, le accarezzò le scapole sporgenti, le scostò i lunghi ciuffi biondi dal viso magro.
Posarono fronte contro fronte, naso contro naso e chiusero gli occhi, toccando i rispettivi corpi per conoscerli, per tastarli, per esplorarli. Un corpo troppo magro, violato dalle vessazioni a cui era sottoposto dalla sua stessa padrona. Un corpo forte ma sottile che viveva sulla pelle la violenza delle strade di Omsk. Due corpi di due giovani ragazzi che si amavano, che si volevano, che si desideravano follemente in una Siberia oscura che li voleva morti. Due anime intrecciate. Due cuori che battevano all’unisono.
-Voglio sentire il battito del tuo cuore, Sasha.- sussurrò Denis e lei annuì, prendendogli una mano e posandosela sul cuore. Era un battito così lento, così tanto lento, come una melodia doom. Invece il cuore di lui era impazzito, come un trash metal selvaggio e scardinato. Insieme, creavano la canzone metalcore più bella di sempre.
Lei gli accarezzò la mascella definita, appena sporcata da un accenno di barba e lo baciò di nuovo, avvolgendogli le lunghe gambe attorno al bacino sottile. Stretti, come due bambini, rimasero così per un tempo indefinito e a lui venne quasi da piangere, a sentire lei così vicina al suo cuore, così fredda e meravigliosa nella sua algida bellezza russa.
-Sasha …
-Sì, Den?
-Hai mangiato?
-Sì.
-Hai vomitato?
Silenzio.
-Sasha?
-Sì, Den. Ho vomitato. Scusami.
Lui la strinse più forte e sentì le lacrime di lei bagnargli la pelle. Sospirò rumorosamente e le accarezzò lentamente la schiena ossuta, baciandole la spalla gracile. Non era arrabbiato con lei, più di quanto non fosse furioso con sé stesso per non essere già stato capace a salvarla dai suoi demoni. Ma l’avrebbe fatto, un giorno o l’altro lei avrebbe ripreso a mangiare senza vomitare, avrebbe messo su peso, avrebbe nuovamente sorriso come si doveva e non avrebbe avuto quella nostalgia dolorosa incastrata negli occhi smeraldini.
-Non importa.- mormorò lui, allungando le gambe e cullandola appena – Un giorno passerà, Aleksandra Dmijtrevna. Un giorno sorriderai di nuovo.
-Non lo so, Denis, non lo so più ormai.
-Invece sì che lo sai. Ci sono io con te, non ti abbandonerò, non adesso. Arriverai a domani, ragazza, perché ti ci trascinerò io.
Lei lo guardò, e lui pensò che anche con le lacrime i suoi occhi fossero stupendi.
-Ho una cosa per te.
-Cosa?
-Aspettami qui.
Lui uscì dalla vasca, gocciolante e lei lo guardò, ancora accucciata nell’acqua ormai fredda. Lo guardò e pensò che fosse suo. Il suo ragazzo. Il suo uomo. Il suo Denis.
Aspettò silenziosamente che lui tornasse in bagno, sempre completamente nudo, e teneva in mano un piccolo oggetto. Si inginocchiò per terra e glielo porse, con uno dei suoi sorrisi spettacolari che avrebbero illuminato l’inferno.
Lei guardò cosa avesse in mano e il suo cuore perse un battito. Un anello. Un anello fatto con la corda di una chitarra.
-Denis … perché?- sussurrò, prendendo timidamente l’anellino.
-Perché ti amo, Sasha.- rispose serio lui, prendendole la mano con forza e mettendole l’anello al dito – Ti amo tanto quanto la musica. Mi avete entrambe salvato la vita, mi avete strappato alla mia rabbia distruttiva, mi avete difeso dai demoni che mi infestano la mente da quando sono nato. Il metalcore, che mi ha abbracciato e detto “non mollare, ragazzo”. Tu, che mi hai stretto e mi hai urlato in faccia “salvami, ragazzo”. Voi due, che insieme siete stati il connubio salvifico per uno che non aveva più nulla. Sasha, dolcezza, stupenda Sashen’ka, te lo chiedo adesso una volta per tutte: vuoi essere la mia fidanzata?
Lei, per tutta risposta, scoppiò in  lacrime.
 

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Capitolo 9
*** Marina ***


CAPITOLO NOVE: MARINA

I won’t let you be the death of me
No, I refuse to let you bring me down
I won’t let you make me out to be
The one who’s in the wron
[Asking Alexandria – The Death Of Me]
 
Stava scrivendo una canzone su di lei. Chitarra imbracciata, registratore affianco, matita e quaderno, le parole stavano prendendo forma sulla carta. Quel “I’ll be the anchor for your crazy dreams” che stava a significare così tanto per loro, quel suo essere così terreno per lasciare che lei potesse sognare stando aggrappata ancora a quella Siberia maledetta. La amava, dio, come l’amava e avrebbe fatto di tutto per vederla felice, per farla mangiare di nuovo, per stabilizzare la sua depressione. Le avrebbe dato i suoi sogni e avrebbe fatto in modo che li avrebbe realizzati tutti perché era una ragazza speciale che meritava tutto e di più. Era la sua splendida Sashen’ka delle steppe che un giorno lui avrebbe portato in Ucraina a vedere il mare. Le avrebbe insegnato a nuotare e avrebbe visto quella sirena inabissarsi tra le onde del Mar Nero dove lui era nato.
Suonò qualche accordo di chitarra, e sorrise, fiero. Quella canzone si stava sviluppando bene e rapidamente, proprio come la loro storia d’amore – i suoi compagni di band ne sarebbero stati entusiasti: nel loro repertorio mancava la canzone drammatica da fare con le chitarre acustiche. E quella canzone parlava così tanto di lei, così tanto. Tra metafore azzardate e strani giochi di parole, si sviluppava tutto quello che la caratterizzava e che l’aveva resa la ragazza perfetta agli occhi del cosacco intrepido. L’avrebbe salvata da sé stessa, Denis se l’era ripromesso e avrebbe lottato sino all’ultimo giorno della sua vita per vederla contenta. Lui era un combattente, era un cosacco ucraino, era un eroe generazionale e non avrebbe lasciato che la Siberia distruggesse la sua donna. L’avevano fatto per la prima volta, la notte appena trascorsa e per Denis era stata un’esperienza completamente rivoluzionaria. Abituato a ragazze scafate e perverse, abituato a sesso spicciolo volgare e untuoso, abituato a volgarità di ogni genere, si era ritrovato per le mani una ragazza delicatissima che aveva avuto un solo rapporto in tutta la sua vita, e per di più con un’altra donna. Lui aveva fissato con terrore e fascinazione quel corpicino flessuoso e magrissimo, ossuto, terrorizzato di poterle fare male, di rompere quel cristallo preziosissimo, di incidere con troppa violenza quella pelle bianca come la neve, appena spruzzata da qualche lentiggine pallida. Però lei gli si era donata completamente, gli aveva avvolto le braccia attorno al collo e aveva sussurrato “mi fido di te, Denisoch’ka delle steppe”. Probabilmente le aveva fatto male, probabilmente non era stato all’altezza di quella bambola di porcellana, probabilmente era stato animalesco come al solito ma lei non aveva detto niente. Gli si era disperatamente aggrappata e aveva lasciato che lui la maneggiasse come meglio credeva. E lui, beh, lui aveva pensato di non essere stato mai così bene come quella volta, in mezzo alle insicurezze di lei e alla paura di farle troppo male. Aveva pensato che era stato tutto perfetto, sprofondato in quel corpo così ossuto, aveva pensato di essere finalmente riuscito a staccarsi da quel sesso sporco e volgare che aveva vissuto sino a quel momento. E vedere i suoi occhi verdi spalancati e un sorriso pallido dipinto sul viso era stato il premio migliore che potesse ricevere.
Si passò una mano tra i capelli scuri e sorrise, felice. Stava andando tutto perfettamente bene nella sua vita – la band, e Sasha, e il metalcore, e quel concerto … tutto troppo straordinariamente bene. La musica lo aveva salvato dalla sua mente malata, Sasha stava facendo tutto il resto, dandogli un altro motivo per non lasciarsi andare me per rimanere sempre in carreggiata. Anche perché in quel momento aveva un altro motivo per resistere in quell’inferno, e il motivo era la bellissima ragazza anoressica che gli aveva messo in mano la propria vita.
Coraggio, Denisoch’ka, ce la puoi fare, si disse. Sei o non sei un fottutissimo eroe della nuova generazione siberiana?
Si accese una sigaretta e posò la chitarra, alzandosi e andando alla finestra, guardando la distesa di palazzoni di stampo sovietico. Quella Omsk li avrebbe uccisi prima o poi. Quella città avrebbe richiesto il suo patto di sangue, e Denis lo sapeva perfettamente ma non poteva fare a meno di pensare che lui sarebbe riuscito a eludere la sorveglianza cupa di Omsk e che sarebbe fuggito a Mosca con la sua fidanzata. Diavolo, Shostakovich, glielo devi a quell’angelo di Sasha.
Quando suonò il campanello, un gran sorriso gli si dipinse sul viso angoloso. Sarà stata sicuramente Sasha. Corse ad aprire, ma il sorriso gli morì sul volto quando, al posto della ragazza, se ne trovò davanti un’altra. Che, purtroppo, conosceva bene.
-Marina.
La ragazza che gli stava davanti gli rivolse uno dei suoi volgari sorrisi da pescecane e sfarfallò i grandi occhi celesti pesantemente truccati.
-Ciao, Denis. Posso entrare?
Senza neanche aspettare una risposta, scivolò nell’appartamento in una sventagliata di lunghi capelli biondi palesemente tinti e di nauseante profumo alla vaniglia.
Denis la guardò, chiudendosi la porta alle spalle e un conato di nausea gli strinse lo stomaco. C’era stato un tempo in cui aveva trovato bellissima quella ragazza. In cui aveva adorato strapparle di dosso quelle tute da porno hip hop e farsela nei posti più impensati. In cui aveva apprezzato il trucco estremamente volgare, la sua voce arrochita dalle sigarette, la sua spigliatezza e il suo caratteraccio. In cui aveva trovato eccitante quella giovane bassa e scattante. Ma in quel momento, dio, in quel momento gli metteva nausea guardarla e pensare di averla voluta disperatamente, di averle fatto la corte. Gli metteva nausea il pensiero di aver posseduto quel corpo, di aver baciato quelle labbra piene, di esserci uscito insieme, di averla portata dappertutto. Odiava semplicemente il poter essere caduto così in basso da amare quella sgualdrina.
-Cosa vuoi?- disse, gelido, guardando quel sorriso sfacciato e arrogante, così diverso da quello timido e dolcissimo di Sasha.
-Passavo di qui e sono venuta a salutare.- rispose seraficamente Marina, stravaccandosi sul divano dove, dio, quante volte vi avevano fatto cose sopra.
-Non sei più molto la benvenuta qui.- commentò Denis – Ripeto: cosa vuoi? Ci siamo lasciati. Male, per di più.
-Ancora arrabbiato, Denisoch’ka?- lei scoppiò a ridere, con la sua risata grassa – Pensavo ci fossi passato sopra.
Lui roteò gli occhi al cielo. Certo che c’era passato sopra. Adesso che aveva Sasha al suo fianco l’ultimo suo pensiero era Marina. Ma questo non c’entrava col fatto che non voleva più vederla. Si passò una mano tra i capelli e si strinse nelle spalle
-Se te lo stessi chiedendo, sì, mi sono rifatto una vita. Non eri il mio mondo, Marina.
Lei si studiò le lunghe unghie fresche di manicure, sorridendo, ma un’ombra le oscurò il viso. Come se Denis non sapesse quanto lui fosse stato importante per lei. Come se non sapesse che per quanto stupida e maliziosa Marina lo aveva amato. Ma lui non aveva amato lei. Lui amava Sasha, punto e basta.
-Strano, Denis, perché mi era sembrato di esserlo.
Lo guardò, e in quei grandi occhi azzurri c’era una sottile voglia di vendicarsi. Ma vendicarsi di cosa? Di essere stata lasciata quando era sempre stata lei a lasciare? Di essere stata abbandonata dall’unico ragazzo che forse aveva amato?
-Beh, ti sbagliavi.- la guardò accendersi una sigaretta e sbuffò – E per la terza volta ti dico: cosa ci fai qui?
-Ho visto che sei diventato abbastanza famoso nel circondario.- cominciò Marina, alzandosi, in bilico sui tacchi vertiginosi. – Sono fiera di te, tesoro.
-Non mi chiamare tesoro.
-Mi ricordo che ti piaceva, all’epoca.
-Ma adesso non mi piace più.
I due si fronteggiarono, e Denis pensò che avrebbe tanto voluto che ci fosse Sasha lì con lui, Sasha, che gli dava una forza nuova, che gli ricordava di avere un angelo da riportare a casa e che non lo faceva risprofondare all’inferno dei piaceri carnali come stava tentando di fare Marina. Marina, che era eccitante, che era assurda, che era siberiana sin nel midollo e che sapeva vivere quella Omsk esattamente come voleva essere vissuta.
-Torna con me.
Lo disse convinta, mani sui fianchi, sorriso da copertina patinata, coda alta e vestiti scosciati. Così diversa da Sasha, tremebonda, sorriso timido e doloroso, capelli sul viso e vestiti di band metalcore americane. Così diverse ed entrambe parte integrante della vita tormentata del promettente cantante dei My Girlfriend’s Depressed.
-Non chiedermelo neanche, Marina. Tra noi è finita. Finita, capito?
Marina scosse la lunga coda tinta di biondo e si morse sensualmente il labbro inferiore.
-Raccontami di te, Denisoch’ka. Cos’hai fatto in quest’ultimo periodo?
-Non ti importa, ragazza.- Denis la fissò dritta negli occhi – Non ci torno con te.
-Perché no?- lei gli si avvicinò ancheggiando – C’eravamo divertiti, insieme. Eravamo stati una coppia esplosiva, era stato tutto così dannatamente bello vivere sulla pelle i nostri vent’anni. Lo so che mi vuoi ancora.
-No, Marina. Non ti voglio più. Ti ho voluta, lo ammetto, ma adesso sono cambiato. Mi nausea la tua volgarità, mi nausea tutto di te. Sono fidanzato, tanto per la cronaca.
Vide chiaramente Marina spalancare gli occhi e un piccolo sorriso gli piegò le labbra. Incassa, ragazzaccia di periferia. Incassa, tu che mi avevi rovinato.
-Non mi avevi mai chiesto di diventare la tua fidanzata.- sussurrò lei, abbassando appena lo sguardo.
-Perché non ti ho mai amato, è ora che tu te ne renda conto. Ho amato il tuo corpo. Ho amato la tua sfacciataggine. Ma non ho mai amato te. Mi dispiace, Marinoch’ka, ma tra noi è finita e finita per sempre. Ho un’altra adesso.
-Un’altra da fingere di amare? Un’altra da sfruttare? Un’altra da scoparti e poi abbandonare?
-Io non ho finto di amarti, ragazza. Eri tu che non avevi capito le mie intenzioni.
Forse lei avrebbe voluto piangere, ma Denis la conosceva bene e sapeva che non l’avrebbe mai fatto. Perché Marina Petrachenko non piange, fa piangere.
-Chi è lei?
-La ragazza che mi ha salvato la vita.
-E io cosa sono stata per te?
-Marina, per piacere …
-Torna con me.
-No.
Lei lo baciò. Così, senza preavviso, lo afferrò per la collottola della maglia e lo baciò e lui avrebbe voluto sprofondare. Ricordava fin troppo bene quelle labbra carnose al gusto di rossetto, ricordava tutta la perversione che si annidava nei loro vecchi baci e non voleva sprofondarci di nuovo dentro. Lui si era salvato, con Sasha. Aveva imparato a combattere, a tenersi la testa sulle spalle, a lottare per una vita migliore che non fosse un inferno di alcol, droga e sesso spicciolo. Aveva imparato cosa volesse dire amare veramente una persona e non voleva ricadere all’indietro nelle grinfie di Omsk accompagnato da Marina. Certo, avrebbe avuto una vita infinitamente più facile. Una ragazza sana, senza anoressia e depressione, divertimento ad ogni ora del giorno e della notte, risate, sfacciataggine, autodistruzione ma ormai quel tipo di vita aveva perso ogni attrattiva per Denis. Lui voleva Sasha, voleva insegnarle a nuotare e a sorridere e a mangiare come una persona normale. Anche ad andare in bicicletta. Voleva insegnarle che la vita era degna di essere vissuta e non sarebbe stata la sensualità di Marina a strapparlo da quell’esistenza difficile ma votata al salvataggio in extremis di un angelo platinato con un beanie nero sempre calcato in testa e le cuffie sulle orecchie.
Spinse lontano da sé la ragazza
-Basta, Marina Nikolaevna, accidenti a te! Ti ho detto che non ti voglio, scompari dalla mia vita!
-Invece sì che mi vuoi! Mi hai sempre voluta, Denis Alexandrovich, non mentire a te stesso, mi desideri, mi aneli!
La ragazza gli si scagliò contro, cercando di strappargli di dosso la maglietta, come facevano quando stavano insieme ed entrambi pensavano solo a distruggersi a vicenda. Lui fece per spingerla di nuovo via che la porta si aprì.
Ed entrò Sasha.

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Capitolo 10
*** Falling ***


CAPITOLO DIECI: FALLING

With every breath you take
I watch you slip away
You’re slowly killing yourself
I won’t give in
[Asking Alexandria – I Won’t Give In]
 
-Sasha … Sasha, ascoltami. Lei non è niente per me, non è mai stata niente. Io ho te e vedo solo te, okay? Per favore. Per favore.
Denis accarezzò lentamente i lunghi capelli della ragazza e lei si strinse le ginocchia al petto, annuendo appena.
-Non dubitavo della tua fedeltà, Den. Lo so che non mi tradiresti mai. Ma il concetto è un altro.
-Un altro? Cosa c’entra, amore? Io e Marina …
-Forse dovresti tornare con lei.
Sasha alzò i grandi occhi verdi su di lui, e c’era una tale tristezza, un tale dolore da fare male. Era qualcosa di primordiale, un male oscuro, una sofferenza antica che si trascinava da secoli nella polvere della periferia siberiana. Ed era tremenda, dio se era tremenda. Denis poteva percepire quella devastazione che stava mangiando viva la sua fidanzata e si sentiva colpevole. Come aveva anche solo potuto pensare lui, l’arrogante bullo di periferia, di proteggere quella ragazza caduta dal cielo?
-Sasha, cosa stai dicendo? Io amo e voglio te, non mi importa nulla di Marina. Ti prego, tesoro, credimi: io non ti tradirei mai, io desidero solo la tua felicità.
-Denisoch’ka, lo so.- lei si girò verso di lui, con quella sua aria malinconica e ferita – Non stavo affatto dicendo che tu mi abbia tradito o che tu preferisca Marina a me. Dicevo solamente che lei potrebbe fare la tua felicità. Lei è normale, Denis.
-Ma non è lei che voglio! Marina non farà mai la mia felicità perché sei tu, tu, Aleksandra Dmitrevna! Per favore, tesoro mio, cerca di capire che tu sei perfettamente normale, io ti voglio aiutare, voglio solamente stare con te fino alla fine dei miei giorni. Ti scongiuro, Sasha: ti amo.
Sasha sorrise appena, dondolando la testa e si appoggiò a Denis, ma i suoi occhi vagavano ormai verso lidi che il ragazzo non avrebbe mai potuto raggiungere. Era già persa, la ragazza caduta dal cielo. Era già andata via e lui, il cosacco, l’eroe, questa volta non sarebbe riuscito a riportarla indietro.
-Anche io ti amo, caro. Ma continui a non capire che io non sarò la tua felicità perché ti divorerò vivo, ti mangerò, farò in modo di distruggerti. Sono come la marea, Denis, mio Denis, che erode lentamente la roccia fino a consumarla.
-Ma io non sono una roccia, Sasha.- ribattè lui, prendendola per le spalle gracili – Io sono un cosacco ucraino e farò in modo di riportarti a casa, di tenerti ancorata a questo mondo infame. Non esiste che io ti lasci andare.
-Ma dovrai farlo prima o poi. Tutto finisce, ragazzo ucraino.
-Non noi. Lotterò per te, Sasha.
-I’m just gone beyond repair, Denis.
-I Mayday Parade? Davvero?
Si guardono e si sorrisero, con quella loro dolcezza ferita da una Omsk che li voleva morti. Poi lei si alzò, delicata come una libellula e si rinfilò la giacca, con quei movimenti lenti ed aggraziati propri di un cigno ballerino.
-Dove vai, Sasha?
-A perdermi, Denisoch’ka.
-Non te ne andare.
-Sono già andata, cosacco.
Detto questo, scivolò fuori dalla casa, lasciando Denis seduto sul divano, gli occhi spalancati a un sordo dolore che gli stringeva il petto e lo lasciava ansante e dolorante, il profumo di lei ancora nel naso e la sua voce dolce mista a quella roca di Marina nelle orecchie.
C’era qualcosa dentro di lui che gli urlava di corrergli dietro, ma rimaneva ancorato a quel divano senza riuscire a staccarsene e non sapeva come fare.
 
Un discreto numero di giorni dopo
 
-Non ci voglio andare.
-Ti prego, Sasha, vieni con me. Sei la mia fidanzata, non puoi mancare!
-Ti ho detto di no!
Denis non avrebbe mai pensato che Sasha potesse trasformarsi in quell’esserino piangente e strillante di fronte a lui. Avrebbe potuto aspettarselo, forse, visto come negli ultimi giorni, dopo l’episodio di Marina si fosse trasfigurata in una ragazza terrorizzata dalla propria ombra, ancora più allucinata di quanto già non fosse di solito. Ma Denis non si sarebbe arreso, non avrebbe lasciato che l’ansia e la follia la divorassero viva. Non la ragazza che aveva imparato ad amare di un amore tenero e affettuoso.
La prese delicatamente per le spalle ossute e cercò di incontrare i suoi grandi occhi verdi arrossati dal pianto.
-Stammi a sentire, Sasha. Va tutto bene. Sono i miei amici. Andiamo solamente a una festa, niente di che. Possiamo anche stare poco, ma ci devo andare, è importante per la band. Non mi fido a lasciarti in casa da sola, per favore non …
-Non voglio!- strillò lei, spingendolo lontano da lei e Denis si chiese quali demoni stessero divorando viva la sua bellissima ragazza siberiana. Quali mostri la stessero perseguitando, perché non l’aveva mai vista così vittima di sé stessa, così persa nel suo personale inferno – Vai via, Denis, ho paura, lasciami da sola!
-Amore, per piacere, non c’è niente che non vada. Non succede niente di strano. Dobbiamo solo andare …
-No! Vai via! Basta, devi lasciarmi andare, Denis, devi lasciarmi andare!
Lui la guardò, così bella, così eterea e così distrutta ma in quel momento non ci fu compassione nel suo cuore a dirgli di abbracciarla e di calmarla. Fu la rabbia a scavare nel suo cuore, ad agitarlo, a scatenarlo. Perché in fondo, Denis era anche quello. Era rabbia cieca, era furia, era distruzione allo stato puro e aveva sopportato, eccome se aveva sopportato, ma ora era giunto a un limite, un limite che nemmeno lui riusciva a riconoscere ma che sentiva dolorosamente suo. Aveva passato ormai quasi due settimane a starle dietro, a sentirsi urlare addosso frasi scomposte su quanto lui se ne sarebbe dovuto andare a cercarsi un’altra donna, a sopportare crisi di nervi continue, a impazzire per controllare che mangiasse e che non vomitasse, e tutto quello con risultati apparentemente disastrosi. Ma cosa ne poteva lui se ormai lei stava sprofondando sempre di più all’inferno e lui era troppo perso per riuscire a cavarla davvero fuori da quell’incubo?
Erano state le due settimane più lunghe e dolorose della sua vita, vissute tra il terrore di perderla, tra la rabbia che provava nei suoi confronti, tra l’amore che vacillava ma che voleva resistere indomito nel suo cuore da cosacco. Eppure in quel momento anche lui era stanco. Stanco di sopportare una ragazza che era ormai andata oltre ogni punto di riparazione e non stava facendo altro che divorare vivo la sua sanità mentale. Stanco di lottare per qualcosa che non riusciva a salvare, stanco di combattere contro demoni sempre nuovi e sempre più pericolosi. Denis era un eroe, certo che lo era, ma ogni tanto anche gli eroi hanno bisogno di piangere, di spezzarsi e lui con lei non poteva permetterselo. Non poteva farlo di fronte a Sasha, che era un fantasma troppo debole per poter resistere da solo in quel momento. Lui doveva essere forte per chi non poteva più esserlo. Ma dannazione, aveva resistito troppo a lungo. Adesso voleva prendersi una pausa, assaporare i frutti del suo sforzo. Ma qui frutti sembravano marcire ogni volta che gli veniva voglia di morderli.
-Sasha, basta, dannazione! La vuoi piantare?!
Lei lo guardò, spalcando gli occhi, si raggomitolò in fondo alla stanza, come una cerva ferita, i lunghi capelli sul viso e il terrore a snaturarle i dolci tratti slavi.
-Piantarla di fare cosa?- mugolò – Di salvarti da me stessa? Di fare il tuo bene cercando di allontanarmi da te? Di proteggerti, Denis?
-Tu non mi devi proteggere, maledetta idiota! Io sto cercando di aiutarti e tu non vuoi capirlo! Non sarai mai la fine, sei il mio inizio, la mia redenzione, sei la donna che amo e non posso permettere che la tua dannata depressione, la tua ansia, la tua follia, ti strappino via da me. Perché non ti vuoi convincere ad appoggiarti a me invece che strangolarti con le tue stesse mani?
-Perché tu non capisci.- singhiozzò lei – Io mi allontano da te proprio perché ti amo, perché voglio che tu sia felice. Non posso reggere che tu te ne vada, non posso reggere niente, sono solo un’infelice!
-Perché non mi fai essere la tua felicità?
-Io non ti voglio morto, Denisoch’ka delle steppe.- lei lo guardò, e lacrime di cristallo splendevano in quegli smeraldi che aveva al posto degli occhi.
-Non sarai mai la mia morte, Aleksandra.
-Invece lo sono già. Allontanati, ragazzo, lasciami da sola.
-Smettila!
Denis diede un pugno nel muro, sbucciandosi le nocche, ma non sentì il dolore tanta era la rabbia che provava verso Sasha.
-Mi consideri alla stregua di un completo idiota, dillo, Sasha.
Lei lo fissò con aria allucinata.
-Perché non ti fidi di me? Evidentemente mi consideri solo un coglione qualunque. Non reputi che con me tu possa essere felice e al sicuro. Dai, ammettilo, ragazza: ti piaceva il fascino del cantante ma alla fine hai capito che con me non potrai stare. Perché? Troppo ignorante, nullafacente, volgare? Troppo popolare per te?
-No, Denis, no! Cosa dici!
-Dico la verità, ragazza. In cosa ho mancato? Perché non riesci ad affidarti a me? Semplice: per il motivo detto prima. Io sono troppo poco per te, non riesci ad amarmi davvero perché hai paura che io possa ferirti.
Lei scoppiò in lacrime, e lui sentì la furia cieca scorrergli roboando nelle vene. Avrebbe voluto picchiarla. Prenderla per i capelli e sbatterla contro il muro, sputarle in faccia tutta la sua rabbia e poi stringerla tra le braccia e non lasciarla mai andare. Dannazione, lo stava distruggendo vivo. In quei giorni gli aveva fatto passare l’inferno, lo stava uccidendo lentamente come quella famosa marea di cui aveva parlato. Lo stava erodendo e lui non riusciva a sottrarsi e questo, questo lo mandava completamente in bestia.
-No, Denis, per favore, non è così! Io ti amo, mi fido di te, non capisci quello che davvero voglio dirti, non capisci che io voglio solo il tuo bene.
-E il mio bene è prendermi cura di te ma come posso farlo se mi allontani da te? Basta, Aleksandra, basta sceneggiate, basta pianti, basta crisi. Devi guarire, dannata ragazza, devi guarire e io sono qui per fartelo fare.
Lei singhiozzava ormai senza ritegno, fissandolo da dietro la cortina di capelli e in quel momento lui si rese conto di quanto fragile fosse, di quanto fosse ormai arrivata sul vertice del non ritorno.
Sospirò rumorosamente e si avvicinò lentamente a lei
-Okay. Okay, senti, parliamone, io …
-Va via, Denis. Per favore, vai via.
-Sasha …
-Fuori!
E fu con estremo orrore che Denis vide Sasha scagliargli dietro una scarpa urlando tutto il suo dolore incredibile, a stento contenuto in un corpo quasi invisibile.

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Capitolo 11
*** Farewell, my friend ***


CAPITOLO UNDICI: FAREWELL, MY FRIEND

So tomorrow I'm gonna break her heart
Tell her we've gone as far as we can go
And it kills me cos I know it's gonna hurt her
But it's my time to leave
She ain't done nothing wrong
She just ain't right for me
She deserves to find her happiness
And I only know one way to give her that
So tomorrow I'm gonna break her heart

[Danny Worsnop – Tomorrow]
 
Silenzio.
Le ultime settimane che avevano trascorso insieme erano state caratterizzate dal silenzio. Stavano spesso uno con l’altra, seduti su panchine, divani, pavimenti, a guardarsi negli occhi, a leggere canzoni, lei a sentire lui cantare, lui a guardare lei autodistruggersi. E Sasha ormai lo sapeva, la loro storia stava finendo. Sentiva un sordo dolore all’altezza del petto, qualcosa che la annichiliva perché non poteva pensare di perdere il suo migliore amico, il suo primo fidanzato, il suo cosacco, ma era decisa a lasciarlo andare. Era diventato tutto troppo pesante per lei. I concerti per il circondario, la gente che lo riconosceva, le ragazze che gli ronzavano attorno. La fama di Denis cresceva e lei non si sentiva pronta a reggere il peso di essere la sua fidanzata. Lei aveva bisogno di qualcuno che le si potesse dedicare tutti i giorni, e Denis, povero Denis, ci provava, ma lei non riusciva a sopportare più nulla. Doveva lasciarlo andare per il bene di entrambi.
Quindi anche quel giorno se ne stavano in silenzio, seduti sul suo divano, lei a pettinarsi distrattamente e lui a giocherellare con l’accendino.
-Sasha, devo dirti una cosa.- disse lui, rompendo quel silenzio pesante e nauseante.
Lei alzò la testa di scatto. Per un attimo, sperò che le dicesse “ti lascio”, perché non voleva farlo lei, non voleva spezzargli il cuore. Ma non fu così.
-Andiamo a Mosca.
-Uh?
-Io e la mia band. Andiamo a Mosca perché siamo stati contattati da una casa discografica molto grande per incidere il nostro primo disco. Quindi vado via. E tu vieni con me.
Si guardarono negli occhi, ambrati e combattivi quelli di lui, verdi e distrutti quelli di lei. Scappare insieme. Andare a Mosca. Lasciarsi alle spalle tutto.
Sasha rimase un attimo instupidita anche se per un attimo le venne voglia di ridere. Era sempre stato il loro sogno: fuggire insieme da Omsk, lasciarsi tutto alle spalle, andare in Ucraina, vedere Parigi, calcare le strade londinesi. Avrebbe dovuto afferrarlo al volo, saltargli al collo, urlare che sì, non vedeva l’ora di partire con lui e una piccola parte di lei le diceva di farlo, di aggrapparsi disperatamente alla speranza di poter guarire scappando nella capitale. Ma c’era un’altra parte che la teneva ferma e le ricordava che lei non sarebbe mai riuscita a lasciarsi alle spalle Omsk. Lei era fatta per rimanere lì in Siberia a soffrire, era fatta per morire in quelle contrade. Ci aveva pensato, a quella storia del mare e sapeva che intanto non avrebbe mai imparato a nuotare perché ne avrebbe avuto troppa paura. Sapeva che non avrebbe mai potuto vivere la vita che avrebbe voluto perché ormai la sua malattia aveva vinto la guerra.
-No, Denis.
-Come no? Sì, invece!- lui la fissò con occhi fiammeggianti – Hai capito cosa ti ho detto? Incido il disco. Vado a Mosca. Ti sposo. Ci trasferiamo.
Lei sorrise appena e chinò il capo, abbassando le lunghe ciglia bionde.
-Ho capito, caro. Ma non voglio. Non verrò a Mosca con te, non ti sposerò, non metteremo su famiglia. Io rimango a Omsk.
-Stai scherzando?
Denis spalancò gli occhi, mentre sentiva il terrore attanagliarlo. Lei sembrava un angelo in quel momento, bellissima ed eterea, eppure così lontana da lui, ormai persa nello spazio, impossibilitata a tornare giù a casa.
-Non sto scherzando, Denis.
-Ma Sasha, è l’occasione di una vita!- si alzò di scatto, sbattendo i piedi per terra – Ti salverai, te ne rendi conto, stupida ragazza? Ti porto lontano da questo inferno, ti renderò la donna più felice del mondo. Vivremo a Mosca, Sasha, a Mosca! Guarirai dall’anoressia, dalla depressione. Non ti dico che sarà facile, ma con calma ce la faremo, pian piano comincerai di nuovo a vedere il mondo a colori. Permettimi di salvarti.
-Non puoi più farlo, ragazzo.- lei si alzò a sua volta e lo fronteggiò, con lacrime agli occhi e un pallido sorriso già morto dipinto sulle labbra sottili – Ho deciso di essere troppo stanca per continuare a combattere. Mi arrendo. Bandiera bianca.
Le faceva malissimo dire quelle parole, quelle che si era ripromessa di non dire mai, ma non ce la faceva più a quel punto della sua vita, era troppo distrutta per poter pensare di resistere ancora. Era stanca, stanca morta. Vide gli occhi di Denis riempirsi di lacrime e si odiò, si odiò da morire per essere diventata la ragazza che faceva piangere il cosacco, ma ormai aveva preso la sua decisione. Voleva rinchiudersi da sola nel suo mondo e non uscirne più, anche se quello voleva dire deperire fino al consumo. Lei voleva solamente salvare Denis dalla distruzione: si conosceva, e sapeva che non avrebbe mai potuto fargli del bene, non in quelle condizioni disastrose nelle quali si ritrovava. If you want to live, you gotta let love die, cantava qualcuno, e lei aveva capito che per far vivere Denis doveva lasciare tramontare il loro amore. In quelle settimane seguite alla lite epocale era di nuovo finita in ospedale, e l’aveva vista l’aria distrutta di Denis, la sua stanchezza, il suo orrore nel vederla mangiata viva da quell’anoressia che lei non riusciva a combattere. Come una stupida, aveva pensato che grazie all’amore di Denis sarebbe riuscita a salvarsi, ma no, non poteva, perché ormai aveva superato il punto di non ritorno e non ci sarebbe stato niente che l’avrebbe salvata dai suoi demoni.
-Sasha, no. Ti scongiuro, no! Scappiamo a Mosca, lasciamoci alle spalle Omsk, per favore, non puoi mollare ora, non puoi!
Lui piangeva e lei sentiva le lacrime affiorare. Avrebbe potuto dirgli “vengo”, ma sarebbe morta comunque. Avrebbe potuto dirgli “salvami”, ma sarebbe svanita nel suo dolore lo stesso. Quindi tanto valeva lasciarlo libero. Tanto valeva spezzare la loro storia.
-E’ finita, Denis. Basta. Non reggo più questa situazione. Ti sono grata per tutto quello che hai fatto per me, per i momenti bellissimi, per le risate, per essermi stato dietro, per le promesse, ma devi capire che io non ce la faccio più. Ormai è arrivato il tuo momento di splendere e di far vedere al mondo chi sei. Io voglio svanire, e con te non potrei farlo. Ti ucciderei e basta, sarei un’ancora che ti soffocherebbe in fondo all’oceano. Beh, non ci sto. Ti voglio sapere in quella Hall of Fame, un giorno o l’altro e con me a fianco non ce la faresti mai. Quindi, sì, Denis, è un addio il mio.
Lo vide sbiancare e fremere di rabbia. Magari l’avrebbe presa a schiaffi, ma non avrebbe fatto altro che convincerla ancora di più a lasciarlo perdere. Stava risvegliando la belva che era in lui, non era la ragazza giusta, non era niente, era solo un fantasma anoressico che gli faceva del male.
-Sasha, tu proprio non capisci. Non capisci che ti amo, che sei tu quella che mi da la forza, che sei tu …
-Denis, io sono malata.
-E io ti voglio guarire!
-Sei caduto a pezzi in questo ultimo mese, ed è stata per colpa mia. Ti carico di troppo stress e tu adesso devi concentrarti sulla tua carriera musicale, devi diventare il nuovo eroe di una generazione di ragazzi metallari. Mi fido di te, Denis, e ho fiducia in ogni cosa che fai. Ma per favore, ti prego: lasciami andare.
Lui cadde di nuovo seduto sul divano, tenendosi il viso tra le mani e lei si sedette accanto a lui, accarezzandogli i capelli spettinati. Rimasero per quelli che avrebbero potuto essere ore o minuti in quella posizione, prima che lui alzasse lo sguardo su di lei. Aveva gli occhi gonfi di pianto, arrossati e distrutti. Lei si sentiva così straordinariamente in colpa di essere diventata la fanciulla che porta il cosacco alla distruzione.
-Quindi mi stai lasciando?- disse, e aveva la voce roca.
-No, Den, ti sto salvando.
-Mi stai uccidendo.
-No.
-Ti amo, maledizione, Sasha. Ti amo da morire, mi hai salvato da me stesso, sei stata la mia musa, il mio giglio, la mia migliore amica. Sei stata tutto per me,  non puoi abbandonarmi così, all’angolo della strada, senza niente altro addosso che la mia devastazione.
-Lo faccio per il tuo bene.
-Mi stai ammazzando, maledetta bastarda!
Lei non disse nulla, si limitò a stringerlo ancora, un’ultima volta, sentendo il suo profumo di fumo, colonia e musica metalcore e lui le affondò il viso nei capelli, lasciando calde lacrime ferirgli il viso bellissimo.
-Ti prego, Sashen’ka, vieni via con me …
-No, Denisoch’ka.- lei lo guardò negli occhi – E’ finita. Basta. Ti lascio libero.
-Non mi stai liberando.
-Allora vedila come se io stessi liberando me stessa.
Si guardono ancora negli occhi e poi lui si alzò, tremando, come se avesse la febbre.
-Sasha, non dirmi addio. Ti prego, non mi lasciare.
E lei si odiò, e avrebbe voluto piangere, disperarsi, morire, non lasciarlo mai andare ma poi si ricordò che lo stava facendo per il suo bene, si ricordò che lei lo amava da impazzire e che voleva solamente la sua felicità.
Quindi raccolse tutto il suo coraggio, tutta la poca forza di volontà che le rimaneva. Disse addio alla vita, all’amore, a tutto, disse addio a  tutto quello che l’aveva tenuta in vita sino a quel momento. Lo guardò nel profondo degli occhi, cercò di imprimersi nella mente la sua bellezza, il suo fascino, i suoi occhi celestiali e poi lo disse.
-Addio, Denis. Addio.
Lui, lui scoppiò in lacrime, come un bambino, pianse disperato ma lei era stata così ferma, così decisa, che non gli rimase che uscire di casa, come Petrouska, come una marionetta alla fine dello spettacolo, non gli rimase che guardarla negli occhi e capire che ormai l’aveva persa, che non era riuscito a riportarla a casa, che il cosacco aveva perso la sua ultima battaglia. Non gli rimase che capire che a quel punto della sua vita Sasha sarebbe diventata uno splendido, malato, ricordo e che lui non l’avrebbe mai più potuta salvare.
-Sasha, Sasha … - gemette, ma lei scosse la testa e gli chiuse la porta in faccia, con un sordo tonfo che rimbombò nel palazzone popolare di Omsk.
E quella, quella fu l’ultima volta che Denis vide Sasha.
 
Kонец – The End

 
E così la storia è finita.
So che il finale è orrendo ma penso che ormai non avrebbe più avuto senso trascinarla.
Grazie a chi ha letto, seguito e recensito, e soprattutto grazie mille a Chiara e Martina :DD
Spero che Sasha e Denis rimangano con voi per un po' di tempo, io non li dimenticherò mai, li amo tantissimo.
Un bacio
Charlie 

P.S. Se volete, ho pubblicato una nuova ff romantica originale "Just a Slave to rock'n'roll", se volete passare mi fate un regalo xx

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