No *One di Iky (/viewuser.php?uid=10158)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Rosso ***
Capitolo 2: *** 2. Arancione ***
Capitolo 3: *** 3. Giallo ***
Capitolo 4: *** 4. Verde ***
Capitolo 5: *** 5. Azzurro ***
Capitolo 6: *** 6. Viola ***
Capitolo 1 *** 1. Rosso ***
lunedi rosso pride 1
NO
*ONE
(1)
LUNEDÌ
– ROSSO – BORN THIS WAY
«Nessuno,
Nessuno, tu sei Nessuno, tu non sei Niente».
Se
lo era sentito ripetere per tutta la vita. Il che era deprimente, dal
momento che era sulla Terra da “soli” 23 anni.
Eppure
era stato abbastanza. Abbastanza per sopportare, soprattutto per
crederci.
Si
sentiva vecchio, pesante. Nessuno: forse lo era davvero.
Un
outsider, qualcuno di anonimo di cui nemmeno ti accorgi se non per le
sottili divergenze, enormi piccoli particolari, sufficienti a
definirlo. Ad annullare tutto ciò che era. Ad essere un
Nessuno che
non contava Niente. Zero. Un valore Assoluto con cui era dovuto
scendere a patti.
In
realtà, se doveva pensarci (e Dio, quanto ci pensava
– sempre),
non sapeva bene quando era cominciata. Rievocava vagamente frammenti
opachi di memorie più recondite che, come vetri rotti,
facevano male
al sol raccoglierli.
La
sua era stata un'infanzia pressoché scontata: famiglia
banale, madre
casalinga, padre grigio impiegato, una sorella più piccola
di due
anni, Daisy.
La
amava follemente: quando era venuta al mondo, ricordava di non aver
mai smesso di osservarla nella culla e carezzarle la testa.
Era
rimasto folgorato dalla sua microscopica bellezza: così
piccola e
scintillante in tutto quel rosa. La sua cameretta gli
piaceva, ci stava intere giornate. Non capiva perché invece
lui
avesse tutto quel blu addosso: nelle pareti, nei vestiti, persino
nelle lenzuola che la mamma gli cambiava. Non che lo disturbasse, ma
lo trovava triste e banale. Bastava alzare gli occhi e il cielo era
blu, il rosa invece lo dovevi cercare.
E
a lui piaceva, ne era incuriosito.
Era
un bambino pieno di domande e si annoiava facilmente, anche dei
propri giochi: le macchinine, la palla, le armi giocattolo.
Così
rimaneva nella cameretta scintillante e studiava ogni
novità: le
bambole, i trucchi finti, i peluche, il set della mini cucina.
Non
sapeva perché, ma un giorno qualunque li aveva messi da
parte. Si
era annoiato di nuovo. O forse la mamma gli aveva detto di lasciare
stare Daisy e i suoi giochi.
Erano
da femmine.
Come
lo era la danza. A sei anni Daisy continuava a scintillava nel suo
tutù (rosa). Se ci ripensava adesso (e Dio, non smetteva mai
di farlo) si rendeva conto di quanto tutto fosse
banalmente
prestabilito: binari tracciati su un percorso solido.
Gli
veniva lo sdegno, si sentiva quasi soffocare, ma nell'infanzia ne era
rimasto solo affascinato.
Mentre
continuava a giocare con il pallone, Daisy esplorava nuovi livelli a
lui sconosciuti. Nessuno gli aveva mai vietato nulla però
qualcosa,
al tempo, gli
aveva suggerito che la danza
classica era qualcosa di inaccessibile, come le bambole e il rosa.
Erano cose da
femmine.
Un
confine
invalicabile, un autolimitazione silenziosa che gli ronzava nella
testa, insinuandosi senza troppe pretese: ancora e ancora.
Aveva
dunque
iniziato a mettere da parte anche quello,
senza
farsi più domande.
Si
era spento qualcosa,
sebbene la sua naturale
inclinazione in verità era solo rimasta sopita e dormiente:
una
scintilla fiammeggiante, rossa,
in fondo allo stomaco.
Normale,
Normale, Normale.
Andare
a scuola con una divisa dalla giacca blu.
Continuare
a giocare a calcio.
Uniformarsi.
Presto
ogni cosa aveva assunto i toni grigi di suo padre, che rincasava
sempre tardi: niente più colori, niente più rosa.
Persino il cielo era diventato scuro.
Non
si ricordava bene quando era cominciato.
La
solita partita del club, una colluttazione, un fallo; una rissa a
cui, come un attore da quattro soldi, partecipava perché era
Normale.
Poi
all'improvviso una sensazione diversa, insieme alle botte e al gusto
del sangue sul labbro spaccato.
Un
brivido lungo la schiena, il respiro smorzato, le mani anonime di un
avversario sulle spalle, il suo fiato sul collo, i corpi sudati, una
ginocchiata sulle palle che gli aveva fatto vedere le stelle.
Poi
il cartellino rosso
- di nuovo colore – e l'espulsione.
Sotto
la doccia fredda dello spogliatoio erano riaffiorate domande.
Che
succede? Che succede? Che mi succede?
La
prima erezione: dolorosa, piena di dubbi, fottutamente spaventosa.
Meglio
lasciar stare.
Lascia
stare.
È
fisiologico, è normale: è roba da maschi.
Ma
non era normale.
Lo
sapeva: il corpo non tradisce gli istinti, anche se fai finta di
niente.
Ogni
volta che cercava di annichilirsi, la scintilla bruciava più
forte.
Così
pian piano aveva iniziato a chiudersi, a rifugiarsi nella sua safe
zone, a rimanere statico e anonimo mentre Daisy (oh quanto era bella,
Daisy) continuava a danzare scintillante.
Eppure
aveva perso interesse per il ballo, il rosa, i vestiti e tutte quelle
cose strane.
Aveva
perso interesse per tutto.
Una
sola cosa gli contorceva le budella, spaccandogli il costato: Rendy
Maxwell.
Cristo,
se lo ricordava bene Rendy. Era il capitano della sua squadra.
Scontato,
banale, così dannatamente prevedibile come in un romanzo da
quattro
soldi. Invece no, era solo la dura e grigia realtà.
E
nascondere qualcosa che non capisci è impossibile.
Sì,
era stato banale, scontato, dannatamente prevedibile.
Come
la prima masturbazione dopo un allenamento al campo in un qualsiasi
giorno estivo.
Come
il pudore e la vergogna.
Come
il disgusto degli altri che avevano iniziato a capire prima di lui.
«Nessuno,
Nessuno, tu sei Nessuno, tu non sei Niente».
Per
l’ennesima volta era tornato a casa pieno di
sangue e
lividi.
Dopo
le offese, la rabbia, l'umiliazione, gli occhi di Rendy schifati
prima di colpirlo sul costato con un calcio non bastava più
isolarlo
durante le partite, causargli falli, lasciarlo in panchina. Si erano
spinti oltre.
Quel
giorno, uguale a tanti altri anonimi, non aveva pianto né si
era
difeso: basta che
finisca presto, basta che
finisca tutto.
Era
tornato a casa, sempre vuota e silenziosa, ed era corso in bagno:
aveva la faccia tumefatta.
Rosso,
graffi, sangue.
Ammutolito
e spento, non si riconosceva neanche.
Poi
gli occhi sul rossetto di Daisy, poggiato sulla mensola insieme ai
suoi trucchi.
Lo
aveva preso tra le dita tremanti; si era accorto di avere le nocche
sbucciate,
forse aveva
risposto, forse si era difeso... nemmeno lo ricordava, non gli
importava.
E
così, senza pensarci, aveva tolto il tappo e fatto roteare
il
rossetto sulle labbra.
Rosso
su Rosso: almeno era un colore. Non più grigio.
Eppure
qualcosa non andava. Non era normale.
Non
era lui, nemmeno con quel rossetto. Era di Daisy, non suo.
Chi
sei?
Furente
aveva spaccato il vetro dello specchio.
Non
lo sapeva.
Aveva
solo capito che,
in fin dei conti,
anche se era da maschi, il calcio gli piaceva: proprio ora che non
poteva giocare più.
Allo
stesso modo in cui gli piaceva Rendy.
Anche se era da femmine.
«Nessuno,
Nessuno, tu sei Nessuno, tu non sei Niente».
Forse
era davvero quella la risposta: era nato così e non sapeva
nemmeno
perché.
Note Autrice
Per la prima volta mi cimento in
un original.
Ci tenevo a partecipare alla challenge sul Pride Month con un piccolo
pezzo di scrittura e spero di essere riuscita nell'intento.
Ringrazio infinitamente Jinko che ha betato in modo delicato e
perfetto questa storia.
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Capitolo 2 *** 2. Arancione ***
2 ARANCIONE
(2)
MARTEDÌ
– ARANCIONE – I WILL SURVIVE
Durante
il liceo era stato anche peggio. Non perché qualcuno
effettivamente
lo bullizzasse: era più quella paura interna di castrazione
che lo
assillava giorno per giorno a renderlo colmo di ansia.
Potrebbe
succedermi ancora, non è normale –
continuava a ripetersi in ogni momento, intanto che costruiva muri
più saldi.
Circospetto,
camminava a testa bassa nei corridoi. Anonimo, come Nessuno.
Ma
non puoi fuggire da te stesso per sempre.
Si
sentiva perseguitato da quegli istinti bassi e orridi, dagli occhi
curiosi dei suoi compagni, dalle voci che sussurravano sghignazzanti
al suo passaggio.
Presto
si accorse di non saper mentire: allora meglio nascondersi, meglio
mantenere un profilo basso, meglio non attirare troppo l'attenzione.
Doveva
sopravvivere a tutti i costi.
L'unico
spazio in cui si sentiva a suo agio era sul divano di casa, quando
non c'era nessuno, e lui e Daisy guardavano qualche stronzata su
Netflix o giocavano alla Play.
Sentire
sua sorella ridere era una medicina calda, come la coperta arancione
su cui si avvolgevano di rito ogni venerdì sera.
«Sei
una schiappa, ti ho battuto di nuovo!» esclamava, portando
indietro
i riccioli castani.
Allora
anche lui veniva contagiato e rideva, fingendo di essere dispiaciuto.
Non le avrebbe rivelato che a volte la lasciava vincere
solo
per guardarla sorridere.
Daisy
però oltre ad essere bellissima era anche acuta;
lo conosceva bene, abbatteva facilmente tutti i suoi muri. A volte i
suoi occhi verdi lo spaventavano.
«La
mamma mi ha beccato a chattare con Mike l'altro giorno.
Avresti dovuto vederla, era sconvolta!»
«Mike?
E chi sarebbe questo Mike?» le aveva chiesto con un tono
incuriosito
e preoccupato.
Lei
aveva ridacchiato di nuovo, ma i suoi occhi erano ferrei e profondi.
«Oh
dai, siamo abbastanza grandi per amare chi vogliamo,
no?»
C'era
stato qualcosa in quella frase che sinceramente lo aveva scosso:
forse il modo in
cui l’aveva pronunciata,
forse perché lo aveva sfiorato leggermente con il gomito,
quasi a voler dire
io
so.
Si
era sentito colto in fallo, intrappolato in quella stupida coperta
arancione senza vie di fuga.
Doveva
sopravvivere a tutti i costi, non poteva permettersi di scoprirsi:
non con Daisy, tutti tranne che con lei. La amava, sarebbe stato
troppo perderla.
«Hai
solo quindici anni, mi sembra un po' presto per parlare di
amore»
aveva ripiegato allora, schernendola un po'.
Ma
Daisy era furba e poco arrendevole.
«Pensavo
che almeno tu mi avresti appoggiato» aveva sbuffato,
esageratamente
costernata.
«Oh
dai, Daisy... lo sai che ti appoggerei comunque».
Era
debole con lei, così l'aveva abbracciata stritolandola.
Daisy
si era messa a ridere, ma le sue mani si erano ancorate
forti
alla schiena.
«Vale
lo stesso per me. Sempre» aveva sussurrato fin troppo bassa;
poi
l'aveva guardato da vicino «Sarai per sempre il mio
fratellone,
qualsiasi cosa accada. Per sempre».
Daisy
aveva capito, era acuta e bella.
E
lui aveva avuto paura, si era congelato, non sapeva mentire.
Così
si era alzato e l'aveva lasciata sola nella coperta arancione,
fuggendo ancora una volta.
«Jackie!»
No.
Lui
era Nessuno.
Doveva
solo sopravvivere.
Non
c'era cura per la sua malattia: persino il sorriso di Daisy si era
spento.
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Capitolo 3 *** 3. Giallo ***
3 GIALLO
(3)
MERCOLEDÌ– GIALLO – OUTSIDE
Non
avrebbe mai dimenticato le settimane successive a quel
venerdì con
Daisy.
Erano
state le più brutte della sua vita ma,
se ci ripensava adesso,
erano state anche le più cruciali. Sentirsi
privato di
quell'angolo di pace lo aveva svuotato del tutto.
Rincasava
tardi, evitava le cene con scuse che sua madre assecondava,
benché
non ci credesse, con fiacchezza avvilente; suo padre invece... beh,
non c'era mai.
Spento
e perso, si muoveva tra le strade della città con le spalle
curve e
il cappuccio issato sul viso: anonimo, grigio, sfiorito.
Un
outsider che giocava perennemente sul filo del fuorigioco.
Fino
a che, gironzolando per caso, era arrivato a tracciare un percorso
abitudinario; zaino in spalla, si fermava da Starbucks
a prendere qualcosa di caldo, poi al parco su una panchina consunta
ad aspettare che persino il sole si spegnesse.
Fu
un giorno di quelli che una pallonata, dal campetto sterrato vicino,
lo colse alla sprovvista. L'aveva stoppata senza pensarci, prima che
facesse cadere rovinosamente il caffè, ormai freddo, sul
terreno.
«Hey! Tutto bene?
Mi dispiace!»
Un ragazzo dai
capelli chiari si era catapultato verso di lui, ansante.
Jack non aveva
nemmeno alzato lo sguardo; o forse sì, spinto da quella sua
naturale
curiosità, per poi sparire di nuovo nel suo cappuccio scuro.
Il tizio gli si era
fermato di fronte, così si era ritrovato ad osservargli le
scarpe da
tennis usurate e sporche di terriccio.
«Caspita però, era
uno stop notevole. Sono sicuro di aver calciato il pallone con tutta
la mia forza... e ne ho parecchia io, sai?» stava dicendo,
mentre
spostava il peso da una gamba all'altra.
Silenzio.
Jack non era più
abituato alle conversazioni, si sentiva in imbarazzo. E se avesse
detto qualcosa di inopportuno? O peggio, qualcosa che avesse tradito
quei minuscoli grandi particolari che avrebbero rivelato quello che
era?
Non sei normale.
Non sei Nessuno.
Niente.
Ma il ragazzo biondo
era piuttosto impertinente. Si lasciò andare sulla panchina
con un
esagerato sbuffo, le gambe all'aria, le braccia larghe. Quasi lo
sfiorò.
Jack si accovacciò
nell'angolo opposto.
«Ti vedo spesso da
queste parti. Abiti vicino?»
Silenzio.
«Io lo trovo un
posto magico, specie quando i mocciosi e i tizi che fanno jogging si
tolgono dalle palle e diventa tutto mio».
Jack sollevò appena
gli occhi.
La luce accesa del
tramonto irrorava le foglie e riempiva ogni spazio quieto
del parco, tuttavia a stupirlo
fu l'effetto sui capelli biondi di quel ragazzo
invadente.
Accecante
e luminoso. Giallo.
Per un attimo
incrociò il suo sguardo vivace: sembrava vittorioso
nell'aver
attirato la sua attenzione.
«Mi chiamo Drew,
piacere di conoscerti...» lasciò la frase in
sospeso, attendendo
risposta.
Non arrivò, ma Drew
riempì il vuoto con la sua risata.
«Non mi dispiace
una conversazione a senso unico. Mio zio dice sempre che sono
abbastanza loquace da sfiancare chiunque»
dichiarò, dopodiché
balzò in piedi con movimenti
plateali.
Jack non aveva
smesso di fissarlo,
come
ipnotizzato.
Drew fece scivolare
il pallone di cuoio sulla punta del piede, poi lo issò verso
l'alto
e lo afferrò tra le mani.
Sorrise ancora,
illuminato dalla luce fioca del sole.
«Ci
vediamo domani» disse, lo sguardo che guizzava sul bicchiere
di
Starbucks
sul quale saettava una scritta nera «No
One».
Jack arrossì,
imbarazzato.
Drew rise ancora,
limpido.
«Allora ciao,
Ulisse».
Jack trascorse i
giorni successivi a riscoprire il piacere di parlare.
Con Drew era facile,
quasi naturale. Dapprima rimaneva in silenzioso ascolto, eppure
ben
presto la sua curiosità e il suo spirito di scoperta si
riaccesero.
Quella panchina era
diventata
il suo nuovo piccolo spazio franco.
Drew gli raccontò
tutta la sua vita (sì, era davvero un tipo loquace) e le sue
passioni: una di queste era la letteratura, soprattutto quella
classica.
Jack ricordò di
esserne rimasto stupito, non se lo sarebbe mai aspettato.
Drew anche allora
aveva riso: «Sì mi piace la letteratura, oltre al
calcio. Non per
questo sono meno figo» gli aveva detto con molta schiettezza
«E poi
chi se ne frega di quello che pensano gli altri!»
Tuttavia
a
Jack quelle parole fecero un effetto
devastante.
Amare qualcosa non
ti definiva, anzi ti arricchiva: rimanevi comunque sempre te stesso.
Per lui non era
così. Aveva sempre vissuto nella paura del giudizio altrui.
Drew,
invece,
era esattamente il suo opposto.
Tutto ciò gli
causava un senso di angoscia, di invidia, ma anche di ammirazione e
liberazione.
Si
ritrovò sommerso da sensazioni potenti. Iniziava a
provare di nuovo
qualcosa
che non fosse solo grigio vuoto.
Ogni volta che Drew
gli si sedeva vicino, sbocciava.
Avevano preso
l'abitudine di sedersi insieme, dopo qualche calcio a pallone, con il
caffè in mano a guardare il tramonto; intanto Drew gli
raccontava di
qualche mito o poema.
Prima di rendersene
conto, Jack si era perso con lui nei viaggi di Ulisse.
«E
Polifemo urlò: Chi
mi ha accecato? Nessuno!»
narrava, alzando le braccia e imitando in modo buffo le vicende.
«No
One!No One!» ripeteva,
con aria melodrammatica «Per caso ne sai qualcosa,
Jackie?»
Jack non aveva
resistito ed era scoppiato a ridere.
Così erano
trascorsi giorni che presto si erano trasformati in settimane,
fino
a quando
Jack non aveva iniziato a rivelarsi, poco a poco,
togliendo
broncio e cappuccio scuro.
«Oh ma dai, hai gli
occhi verdi! Sai che non me ne ero mai accorto?» gli aveva
detto un
tardo pomeriggio Drew, avvicinandosi pericolosamente.
E Jack, che non
sapeva mentire per nulla, era arrossito fin troppo.
Ma Drew non si era
mosso di un centimetro.
Giallo.
I suoi capelli
solleticavano sulla fronte.
E le sue labbra
erano morbide.
Jack si alzò di
scatto, scaraventandolo a terra.
Era sconvolto,
agitato, un nodo allo stomaco, l'eccitazione sulla pelle, la paura
nel cuore.
Drew, a terra, si
toccava la bocca con le dita.
«Mi dispiace»
singhiozzò, per poi scappare e lasciarlo lì.
A casa, silenziosa e
spenta come sempre, Jack si accasciò appena varcato
l'ingresso, le
spalle contro la porta chiusa al mondo.
Nella penombra,
Daisy avanzò piano.
Non avevano parlato
molto da quel venerdì, piuttosto
Jack,
quando poteva,
la evitava.
Nonostante
ciò
adesso non aveva
nessun altro posto dove andare, era solo, vulnerabile, confuso,
perso.
«Jackie...»
mormorò bassa.
Lui alzò lo
sguardo: quanto era bella, quanto era scintillante. La amava e la
odiava con la stessa intensità.
Scoppiò a piangere,
una diga rotta in mille pezzi di vetro.
Daisy non esitò: lo
abbracciò
forte, in ginocchio.
«Ho
rovinato tutto».
Lei lo tenne più
stretto.
«L'ho baciato e
adesso... Cosa c'è che non va in me?!»
urlò in un singhiozzo basso
e affogato.
Daisy gli carezzò i
capelli, riccioli scuri come i suoi.
«Non c'è niente
che non vada in te, Jack... sei il mio fratellone» gli
mormorò,
asciugandogli le lacrime «quello che mi lascia vincere per
farmi
contenta» continuò, gli occhi lucidi.
Jack la guardò,
sconvolto. Poi deviò lo sguardo, in cerca ancora di una via
di fuga
ma lei non glielo permise. Lo riportò su di
sé, le
mani sulle sue guance umide.
«Non mi importa chi
o cosa ami!» esplose, gli occhi pieni di sale «Io
sarò sempre
qui».
Jack affogò il viso
nel suo collo, la sentì tremare.
«Non sei solo».
Poi chiuse gli occhi
e si lasciò andare.
Quella notte
rimasero abbracciati sul divano, in silenzio, sotto la loro coperta
arancione.
Solo dopo qualche
ora Jack parlò: «Credo che...mi piacciano i
ragazzi» soffiò,
fissando davanti a sé.
Daisy
intrecciò i piedi freddi ai suoi: «Mh
Mh» mugugnò,
per niente stupita, ma infinitamente grata per la sua
confessione.
«Basta che non
rientrino nei tuoi gusti discutibili... burro di arachidi e
noci»
continuò, il disgusto ostentato di proposito.
Jack sorrise. Per la
prima volta, davvero, dopo molto tempo. Libero.
Le diede una leggera
gomitata.
«Senti chi parla!»
«Hey!»
Risero ancora e
parlarono per il resto della nottata.
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Capitolo 4 *** 4. Verde ***
4 verde
(4)
GIOVEDÌ – VERDE –
I WANT TO BREAK FREE
Dopo il suo coming
out le cose andarono decisamente meglio.
Se
doveva definire
con un colore quella parte della sua vita, sarebbe stato decisamente
il verde smagliante (il colore preferito di Daisy).
Jack
aveva trovato
in sua sorella un'ancora di salvezza, un'amica e una confidente.
Forse
fin troppo.
Daisy
era una
rompiballe di prima categoria (non che non se l'aspettasse, eh) e
continuava a tartassarlo sull'esigenza di dover andar a chiarire con
Drew.
Oltre
al fatto che
era estremamente informata su tutto ciò che ruotava intorno
alla
comunità LGBTQ+: forum, locali, definizioni.
A
Jack tutte queste
cose facevano girare un po' la testa.
Onestamente
non
sentiva l'urgenza di gettarsi in un mondo nuovo, ora che era appena
uscito dai limiti che si era auto imposto.
L'importante
era
ricostruire quella dimensione che sentiva di aver trascurato e perso.
Si era talmente annichilito da non sapere più riconoscere le
cose
basilari: cosa gli piaceva? Cosa avrebbe voluto fare?
Si
sentiva spaesato
ma con un'energia esplosiva in corpo.
Aveva
ripreso ad
andare a scuola senza nascondersi sotto le felpe e i cappucci.
Aveva
iniziato a
parlare di più in classe, a scambiare appunti, opinioni,
semplici
chiacchiere. Con sua enorme sorpresa si rese conto che molti dei suoi
compagni non erano ostili, semplicemente non sapevano come
approcciarsi.
Pian
piano le sue
mura iniziarono a sgretolarsi. Aveva meno paura, anche se ogni tanto
l'ansia tornava preponderante.
Ma
Daisy era sempre
lì, ad accoglierlo con un sorriso nella loro coperta.
E
se le radici sono
salde, l'albero può crescere più forte; florido e
rigoglioso, verde
come le maglie e lo smalto di sua sorella.
Presto
non solo il
viso di Daisy divenne di conforto: volti sempre più
familiari, amici
con cui poter essere se stessi, arricchirono le sue giornate.
Non
toccava mai
l'argomento della sessualità, non ce n'era bisogno: se
doveva
trasparire, che fosse naturale allora. Tanto lui non sapeva nemmeno
mentire.
L'unica
cosa che
evitava come la peste era quel dannato parco, d'altro canto sua
sorella amava ricordarglielo continuamente.
«Secondo
me ti fai
troppe paranoie, Jackie. Se ha risposto al limone, un motivo ci
sarà.
Gli piacevi!»
«Daisy
smettila!»
Inutile
protestare,
era destinato a perdere con lei e ogni volta moriva di vergogna.
Però
quella piccola
dannata peste aveva ragione.
Non
c'era giorno in
cui Jack non pensasse
a Drew: i suoi capelli imbevuti di sole, il corpo
snello e muscoloso, le scarpe consunte, il sorriso sornione e
dannatamente bello. Le sue labbra morbide.
Ogni
tanto la
vergogna riaffiorava, specie nelle notti in cui si masturbava su
fantasie labili.
Loro
che giocavano a
calcetto d'estate, sporchi di terra, uno contro uno. Un contrasto che
diventava una baruffa allegra, i corpi che si toccavano sempre
più
curiosi, le spalle sul campetto sterrato, Drew sopra di lui, la
sua bocca sul collo, gli occhi che avevano smesso di
sorridere, bagnati di desiderio.
Jack
si sentiva in
colpa per tutto quello, sentiva che non era giusto.
Drew
lo aveva
aiutato in un momento delicato della sua vita e quella
gli sembrava la cosa più tremenda che potesse
restituirgli,
anche se era solo nelle sue fantasie.
Come
poteva
presentarsi ancora davanti a lui?
No,
meglio di no.
Avrebbe
continuato il suo viaggio proprio come No
One, senza
mai dimenticare la sua Penelope: sarebbe stato per sempre il suo
primo amore.
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Capitolo 5 *** 5. Azzurro ***
5 azzurro
(5)
VENERDÌ – AZZURRO
– QUEEN
La
fine del liceo e
l'inizio del college erano stati due eventi complicati.
Lasciare
il proprio
equilibrio e ricominciare non era stato facile, ma Jack non aveva
intenzione di ripiombare nel grigiore dei giorni passati.
Aveva
preso una
borsa di studio sportiva grazie al club di calcio e ora sapeva quello
che voleva. Soprattutto, sapeva chi era e nessuno avrebbe potuto
privarlo di ciò.
Gli
piaceva il
calcio, così come gli piacevano il blu e il rosa.
Andava
pazzo per il
burro di arachidi alle noci e per i film romantici da quattro soldi.
Era
un disastro in
cucina e si sarebbe ingozzato di roba cinese fino a morire.
Piangeva
sui fumetti
e continuava a leggere Omero.
Giocava
ancora come
un forsennato alla
Play,
anche se si cagava sotto con gli horror.
Ah
sì, e gli
piacevano i ragazzi.
Durante
il primo
semestre al college era comunque ritornata l'ansia, soprattutto
perché Jack era diventato inaspettatamente popolare tra le
ragazze:
era carino, gentile, giocava a calcio e aveva un bel fisico.
Non
ci volle molto
prima che si spargesse la voce del suo disinteresse verso il sesso
femminile.
Eppure
Jack,
inaspettatamente,
si era sentito sereno: non sapeva mentire, tanto valeva
non prendersi la briga nemmeno di dissentire.
Così,
un giorno come tanti, Connor, un suo compagno di squadra,
lo
pungolò negli spogliatoi: «O'Brian non
è che sei frocio?»
Jack
si ricordava
ancora bene il gelo che era calato nella stanza e l'ombra di terrore
nel cuore. Come quella nuova sensazione ardente: una fiamma esplosa
di orgoglio oltre la paura.
Dunque
si era voltato, ancora a petto nudo, e lo aveva fronteggiato:
«Perché,
sei
interessato Russ?» gli aveva risposto, schernendolo.
Connor
era
avvampato, furioso: «Come cazzo ti permet...»
Jack
lo aveva
affrontato dal suo metro e ottanta di altezza: «Beh, non sei
il mio
tipo».
Il
capitano li aveva
fermati prima che potesse esplodere la rissa. O almeno ci aveva
provato.
Quel
giorno Jack se
lo ricordava bene, perché
oltre all'orgoglio, all'espulsione per due giorni, al rispetto muto
dei suoi compagni di club, aveva provato un senso di liberazione non
indifferente.
Si
era seduto sulla
panchina, la faccia gonfia e l'occhio nero (poteva giurare di aver
ridotto Connor molto peggio), e aveva guardato il cielo di un azzurro
terso.
Limpido.
Leggero.
Poi
era scoppiato a
ridere.
Da
quel giorno Jack
aveva capito una cosa fondamentale: non sarebbe sceso a compromessi,
mai più.
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Capitolo 6 *** 6. Viola ***
6 VIOLA
(6)
SABATO – VIOLA -
SOMEWHERE OVER THE RAINBOW
Jack
guarda
l'orologio. Aspettare non gli piace molto, specie perché i
ricordi
riaffiorano come un fiume in piena.
Sospira,
portando
indietro i riccioli con un gesto veloce.
Poi
sorride non
appena in lontananza vede un volto familiare.
«Jackie!»
Daisy
saltella nel
suo vestito verde, ondeggiando una mano in aria.
Accanto
a lei, un
ragazzo biondo la spalleggia con in mano un bicchiere di
caffè
caldo.
«Finalmente,
pensavo di morire di vecchiaia» sbuffa, dopodiché
si solleva dal
bordo della fontana.
«Oh
dai, sapessi
che fila c'era da Starbucks»
gli risponde agguerrita Daisy, per poi sorridere una volta accortasi
che gli occhi di suo fratello non sono su di lei.
«Stai
bene in
quella maglietta viola» gli sta dicendo il ragazzo biondo.
Jack
arrossisce.
«Smettila
Drew, che
poi si imbarazza e non spiccica più parola».
«Daisy!»
«Però
ha ragione».
«Non
cominciare
anche tu!»
Inutili
proteste.
Jack sa che è debole con chi ama. Non gli dispiace poi
troppo, dal
momento che la sua lamentela finisce direttamente sulle labbra di
Drew.
«Mi
risparmiate
queste smancerie orrorifiche? Mi bloccate la crescita. E poi faremo
tardi alla parata».
Daisy
simula il disgusto tipico di una sorella orgogliosa.
Jack
sorride, mentre Drew gli prende la mano.
Nell'altra
tiene il
bicchiere di sturbucks.
Sopra
c'è scritto No
*One.
Adesso il
mondo è
un arcobaleno di
colori.
Note Autrice
Eccoci alla fine di questo piccolo viaggio. Non so se la
storia
è stata all'altezza delle aspettative, ma ci ho messo il
cuore.
Volevo rendere centrali i sentimenti e le sensazioni di Jack nel duro
processo di identificazione, scoperta, accettazione e rivalsa. Volevo
che fosse cruciale il rapporto con sua sorella Daisy, un amore che li
lega fin dalla nascita ma costellato anche di punti di sofferenza per
Jack (specie quando inizia a chiedersi chi sia). Tutta la parte
iniziale della storia ruota alla confusione di Jack nel riuscire a
trovare qualcosa che lo definisca, nel fallire, nel capire di essere un
outsider, fino a giungere al fatto che non importa... è
semplicemente sè stesso. Non vuole categorizzarsi, vuole
semplicemente navigare in questa vita a vele spiegate.
Il titolo oltre a ricollegarsi a Nessuno, al viaggio di Ulisse,
è anche un gioco di parole riferito al No*One... No, sono
Uno.
Sono Io.
Per questo alla fine sul bicchiere di Starbucks Jack si
identificherà con quel nome che ha adesso
un'accezione
diversa e l'ha accompagnato per tutta la vita. Ora è pronto
per
attraversare il cammino della Parata insieme ai due suoi più
grandi amori: Drew e Daisy.
Spero che questa original vi sia piaciuta. Io un po' a Jackie mi sono
affezionata e penso che lo porterò sempre con me.
Un bacio a tutti!
E buon Pride Month!
Non abbiate timore di essere voi stessi: non c'è gioia e
amore più grande!
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