No *One

di Iky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Rosso ***
Capitolo 2: *** 2. Arancione ***
Capitolo 3: *** 3. Giallo ***
Capitolo 4: *** 4. Verde ***
Capitolo 5: *** 5. Azzurro ***
Capitolo 6: *** 6. Viola ***



Capitolo 1
*** 1. Rosso ***


lunedi rosso pride 1
NO *ONE


(1)
LUNEDÌ – ROSSO – BORN THIS WAY





«Nessuno, Nessuno, tu sei Nessuno, tu non sei Niente».


Se lo era sentito ripetere per tutta la vita. Il che era deprimente, dal momento che era sulla Terra da “soli” 23 anni.
Eppure era stato abbastanza. Abbastanza per sopportare, soprattutto per crederci.
Si sentiva vecchio, pesante. Nessuno: forse lo era davvero.
Un outsider, qualcuno di anonimo di cui nemmeno ti accorgi se non per le sottili divergenze, enormi piccoli particolari, sufficienti a definirlo. Ad annullare tutto ciò che era. Ad essere un Nessuno che non contava Niente. Zero. Un valore Assoluto con cui era dovuto scendere a patti.
In realtà, se doveva pensarci (e Dio, quanto ci pensava – sempre), non sapeva bene quando era cominciata. Rievocava vagamente frammenti opachi di memorie più recondite che, come vetri rotti, facevano male al sol raccoglierli.
La sua era stata un'infanzia pressoché scontata: famiglia banale, madre casalinga, padre grigio impiegato, una sorella più piccola di due anni, Daisy.
La amava follemente: quando era venuta al mondo, ricordava di non aver mai smesso di osservarla nella culla e carezzarle la testa.
Era rimasto folgorato dalla sua microscopica bellezza: così piccola e scintillante in tutto quel rosa. La sua cameretta gli piaceva, ci stava intere giornate. Non capiva perché invece lui avesse tutto quel blu addosso: nelle pareti, nei vestiti, persino nelle lenzuola che la mamma gli cambiava. Non che lo disturbasse, ma lo trovava triste e banale. Bastava alzare gli occhi e il cielo era blu, il rosa invece lo dovevi cercare.
E a lui piaceva, ne era incuriosito.
Era un bambino pieno di domande e si annoiava facilmente, anche dei propri giochi: le macchinine, la palla, le armi giocattolo.
Così rimaneva nella cameretta scintillante e studiava ogni novità: le bambole, i trucchi finti, i peluche, il set della mini cucina.
Non sapeva perché, ma un giorno qualunque li aveva messi da parte. Si era annoiato di nuovo. O forse la mamma gli aveva detto di lasciare stare Daisy e i suoi giochi. Erano da femmine.
Come lo era la danza. A sei anni Daisy continuava a scintillava nel suo tutù (rosa). Se ci ripensava adesso (e Dio, non smetteva mai di farlo) si rendeva conto di quanto tutto fosse banalmente prestabilito: binari tracciati su un percorso solido.
Gli veniva lo sdegno, si sentiva quasi soffocare, ma nell'infanzia ne era rimasto solo affascinato.
Mentre continuava a giocare con il pallone, Daisy esplorava nuovi livelli a lui sconosciuti. Nessuno gli aveva mai vietato nulla però qualcosa, al tempo, gli aveva suggerito che la danza classica era qualcosa di inaccessibile, come le bambole e il rosa. Erano cose da femmine.
Un confine invalicabile, un autolimitazione silenziosa che gli ronzava nella testa, insinuandosi senza troppe pretese: ancora e ancora.
Aveva dunque iniziato a mettere da parte anche quello, senza farsi più domande.
Si era spento qualcosa, sebbene la sua naturale inclinazione in verità era solo rimasta sopita e dormiente: una scintilla fiammeggiante, rossa, in fondo allo stomaco.
Normale, Normale, Normale.
Andare a scuola con una divisa dalla giacca blu.
Continuare a giocare a calcio.
Uniformarsi.
Presto ogni cosa aveva assunto i toni grigi di suo padre, che rincasava sempre tardi: niente più colori, niente più rosa. Persino il cielo era diventato scuro.

Non si ricordava bene quando era cominciato.
La solita partita del club, una colluttazione, un fallo; una rissa a cui, come un attore da quattro soldi, partecipava perché era Normale.
Poi all'improvviso una sensazione diversa, insieme alle botte e al gusto del sangue sul labbro spaccato.
Un brivido lungo la schiena, il respiro smorzato, le mani anonime di un avversario sulle spalle, il suo fiato sul collo, i corpi sudati, una ginocchiata sulle palle che gli aveva fatto vedere le stelle.
Poi il cartellino rosso - di nuovo colore – e l'espulsione.
Sotto la doccia fredda dello spogliatoio erano riaffiorate domande.
Che succede? Che succede? Che mi succede?
La prima erezione: dolorosa, piena di dubbi, fottutamente spaventosa.
Meglio lasciar stare.
Lascia stare.
È fisiologico, è normale: è roba da maschi.

Ma non era normale.
Lo sapeva: il corpo non tradisce gli istinti, anche se fai finta di niente.
Ogni volta che cercava di annichilirsi, la scintilla bruciava più forte.
Così pian piano aveva iniziato a chiudersi, a rifugiarsi nella sua safe zone, a rimanere statico e anonimo mentre Daisy (oh quanto era bella, Daisy) continuava a danzare scintillante.
Eppure aveva perso interesse per il ballo, il rosa, i vestiti e tutte quelle cose strane.
Aveva perso interesse per tutto.
Una sola cosa gli contorceva le budella, spaccandogli il costato: Rendy Maxwell.
Cristo, se lo ricordava bene Rendy. Era il capitano della sua squadra.
Scontato, banale, così dannatamente prevedibile come in un romanzo da quattro soldi. Invece no, era solo la dura e grigia realtà.
E nascondere qualcosa che non capisci è impossibile.
Sì, era stato banale, scontato, dannatamente prevedibile.
Come la prima masturbazione dopo un allenamento al campo in un qualsiasi giorno estivo.
Come il pudore e la vergogna.
Come il disgusto degli altri che avevano iniziato a capire prima di lui.

«Nessuno, Nessuno, tu sei Nessuno, tu non sei Niente».

Per l’ennesima volta era tornato a casa pieno di sangue e lividi.

Dopo le offese, la rabbia, l'umiliazione, gli occhi di Rendy schifati prima di colpirlo sul costato con un calcio non bastava più isolarlo durante le partite, causargli falli, lasciarlo in panchina. Si erano spinti oltre.
Quel giorno, uguale a tanti altri anonimi, non aveva pianto né si era difeso: basta che finisca presto, basta che finisca tutto.
Era tornato a casa, sempre vuota e silenziosa, ed era corso in bagno: aveva la faccia tumefatta.
Rosso, graffi, sangue.
Ammutolito e spento, non si riconosceva neanche.
Poi gli occhi sul rossetto di Daisy, poggiato sulla mensola insieme ai suoi trucchi.
Lo aveva preso tra le dita tremanti; si era accorto di avere le nocche sbucciate, forse aveva risposto, forse si era difeso... nemmeno lo ricordava, non gli importava.
E così, senza pensarci, aveva tolto il tappo e fatto roteare il rossetto sulle labbra.
Rosso su Rosso: almeno era un colore. Non più grigio.
Eppure qualcosa non andava. Non era normale.
Non era lui, nemmeno con quel rossetto. Era di Daisy, non suo.
Chi sei?
Furente aveva spaccato il vetro dello specchio.
Non lo sapeva.
Aveva solo capito che, in fin dei conti, anche se era da maschi, il calcio gli piaceva: proprio ora che non poteva giocare più.
Allo stesso modo in cui gli piaceva Rendy. Anche se era da femmine.

«Nessuno, Nessuno, tu sei Nessuno, tu non sei Niente».

Forse era davvero quella la risposta: era nato così e non sapeva nemmeno perché.


Note Autrice
Per la prima volta mi cimento in un original.
Ci tenevo a partecipare alla challenge sul Pride Month con un piccolo pezzo di scrittura e spero di essere riuscita nell'intento.
Ringrazio infinitamente Jinko che ha betato in modo delicato e perfetto questa storia.


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Capitolo 2
*** 2. Arancione ***


2 ARANCIONE
(2)

MARTEDÌ – ARANCIONE – I WILL SURVIVE





Durante il liceo era stato anche peggio. Non perché qualcuno effettivamente lo bullizzasse: era più quella paura interna di castrazione che lo assillava giorno per giorno a renderlo colmo di ansia.
Potrebbe succedermi ancora, non è normale – continuava a ripetersi in ogni momento, intanto che costruiva muri più saldi.
Circospetto, camminava a testa bassa nei corridoi. Anonimo, come Nessuno.
Ma non puoi fuggire da te stesso per sempre.
Si sentiva perseguitato da quegli istinti bassi e orridi, dagli occhi curiosi dei suoi compagni, dalle voci che sussurravano sghignazzanti al suo passaggio.
Presto si accorse di non saper mentire: allora meglio nascondersi, meglio mantenere un profilo basso, meglio non attirare troppo l'attenzione.
Doveva sopravvivere a tutti i costi.
L'unico spazio in cui si sentiva a suo agio era sul divano di casa, quando non c'era nessuno, e lui e Daisy guardavano qualche stronzata su Netflix o giocavano alla Play.
Sentire sua sorella ridere era una medicina calda, come la coperta arancione su cui si avvolgevano di rito ogni venerdì sera.
«Sei una schiappa, ti ho battuto di nuovo!» esclamava, portando indietro i riccioli castani.
Allora anche lui veniva contagiato e rideva, fingendo di essere dispiaciuto. Non le avrebbe rivelato che a volte la lasciava vincere solo per guardarla sorridere.
Daisy però oltre ad essere bellissima era anche acuta; lo conosceva bene, abbatteva facilmente tutti i suoi muri. A volte i suoi occhi verdi lo spaventavano.
«La mamma mi ha beccato a chattare con Mike l'altro giorno. Avresti dovuto vederla, era sconvolta!»
«Mike? E chi sarebbe questo Mike?» le aveva chiesto con un tono incuriosito e preoccupato.
Lei aveva ridacchiato di nuovo, ma i suoi occhi erano ferrei e profondi.
«Oh dai, siamo abbastanza grandi per amare chi vogliamo, no?»
C'era stato qualcosa in quella frase che sinceramente lo aveva scosso: forse il modo in cui l’aveva pronunciata, forse perché lo aveva sfiorato leggermente con il gomito, quasi a voler dire io so.
Si era sentito colto in fallo, intrappolato in quella stupida coperta arancione senza vie di fuga.
Doveva sopravvivere a tutti i costi, non poteva permettersi di scoprirsi: non con Daisy, tutti tranne che con lei. La amava, sarebbe stato troppo perderla.
«Hai solo quindici anni, mi sembra un po' presto per parlare di amore» aveva ripiegato allora, schernendola un po'.
Ma Daisy era furba e poco arrendevole.
«Pensavo che almeno tu mi avresti appoggiato» aveva sbuffato, esageratamente costernata.
«Oh dai, Daisy... lo sai che ti appoggerei comunque».
Era debole con lei, così l'aveva abbracciata stritolandola.
Daisy si era messa a ridere, ma le sue mani si erano ancorate forti alla schiena.
«Vale lo stesso per me. Sempre» aveva sussurrato fin troppo bassa; poi l'aveva guardato da vicino «Sarai per sempre il mio fratellone, qualsiasi cosa accada. Per sempre».

Daisy aveva capito, era acuta e bella.
E lui aveva avuto paura, si era congelato, non sapeva mentire.
Così si era alzato e l'aveva lasciata sola nella coperta arancione, fuggendo ancora una volta.

«Jackie!»

No.
Lui era Nessuno.
Doveva solo sopravvivere.
Non c'era cura per la sua malattia: persino il sorriso di Daisy si era spento.


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Capitolo 3
*** 3. Giallo ***


3 GIALLO
(3)

MERCOLEDÌ– GIALLO – OUTSIDE





Non avrebbe mai dimenticato le settimane successive a quel venerdì con Daisy.
Erano state le più brutte della sua vita ma, se ci ripensava adesso, erano state anche le più cruciali. Sentirsi privato di quell'angolo di pace lo aveva svuotato del tutto.
Rincasava tardi, evitava le cene con scuse che sua madre assecondava, benché non ci credesse, con fiacchezza avvilente; suo padre invece... beh, non c'era mai.
Spento e perso, si muoveva tra le strade della città con le spalle curve e il cappuccio issato sul viso: anonimo, grigio, sfiorito.
Un outsider che giocava perennemente sul filo del fuorigioco.
Fino a che, gironzolando per caso, era arrivato a tracciare un percorso abitudinario; zaino in spalla, si fermava da Starbucks a prendere qualcosa di caldo, poi al parco su una panchina consunta ad aspettare che persino il sole si spegnesse.
Fu un giorno di quelli che una pallonata, dal campetto sterrato vicino, lo colse alla sprovvista. L'aveva stoppata senza pensarci, prima che facesse cadere rovinosamente il caffè, ormai freddo, sul terreno.
«Hey! Tutto bene? Mi dispiace!»
Un ragazzo dai capelli chiari si era catapultato verso di lui, ansante.
Jack non aveva nemmeno alzato lo sguardo; o forse sì, spinto da quella sua naturale curiosità, per poi sparire di nuovo nel suo cappuccio scuro.
Il tizio gli si era fermato di fronte, così si era ritrovato ad osservargli le scarpe da tennis usurate e sporche di terriccio.
«Caspita però, era uno stop notevole. Sono sicuro di aver calciato il pallone con tutta la mia forza... e ne ho parecchia io, sai?» stava dicendo, mentre spostava il peso da una gamba all'altra.
Silenzio.
Jack non era più abituato alle conversazioni, si sentiva in imbarazzo. E se avesse detto qualcosa di inopportuno? O peggio, qualcosa che avesse tradito quei minuscoli grandi particolari che avrebbero rivelato quello che era?
Non sei normale.
Non sei Nessuno.
Niente.

Ma il ragazzo biondo era piuttosto impertinente. Si lasciò andare sulla panchina con un esagerato sbuffo, le gambe all'aria, le braccia larghe. Quasi lo sfiorò.
Jack si accovacciò nell'angolo opposto.
«Ti vedo spesso da queste parti. Abiti vicino?»
Silenzio.
«Io lo trovo un posto magico, specie quando i mocciosi e i tizi che fanno jogging si tolgono dalle palle e diventa tutto mio».
Jack sollevò appena gli occhi.
La luce accesa del tramonto irrorava le foglie e riempiva ogni spazio quieto del parco, tuttavia a stupirlo fu l'effetto sui capelli biondi di quel ragazzo invadente.
Accecante e luminoso. Giallo.
Per un attimo incrociò il suo sguardo vivace: sembrava vittorioso nell'aver attirato la sua attenzione.
«Mi chiamo Drew, piacere di conoscerti...» lasciò la frase in sospeso, attendendo risposta.
Non arrivò, ma Drew riempì il vuoto con la sua risata.
«Non mi dispiace una conversazione a senso unico. Mio zio dice sempre che sono abbastanza loquace da sfiancare chiunque» dichiarò, dopodiché balzò in piedi con movimenti plateali.
Jack non aveva smesso di fissarlo, come ipnotizzato.
Drew fece scivolare il pallone di cuoio sulla punta del piede, poi lo issò verso l'alto e lo afferrò tra le mani.
Sorrise ancora, illuminato dalla luce fioca del sole.
«Ci vediamo domani» disse, lo sguardo che guizzava sul bicchiere di Starbucks sul quale saettava una scritta nera «No One».
Jack arrossì, imbarazzato.
Drew rise ancora, limpido.
«Allora ciao, Ulisse».


Jack trascorse i giorni successivi a riscoprire il piacere di parlare.
Con Drew era facile, quasi naturale. Dapprima rimaneva in silenzioso ascolto, eppure ben presto la sua curiosità e il suo spirito di scoperta si riaccesero.
Quella panchina era diventata il suo nuovo piccolo spazio franco.
Drew gli raccontò tutta la sua vita (sì, era davvero un tipo loquace) e le sue passioni: una di queste era la letteratura, soprattutto quella classica.
Jack ricordò di esserne rimasto stupito, non se lo sarebbe mai aspettato.
Drew anche allora aveva riso: «Sì mi piace la letteratura, oltre al calcio. Non per questo sono meno figo» gli aveva detto con molta schiettezza «E poi chi se ne frega di quello che pensano gli altri!»
Tuttavia a Jack quelle parole fecero un effetto devastante.
Amare qualcosa non ti definiva, anzi ti arricchiva: rimanevi comunque sempre te stesso.
Per lui non era così. Aveva sempre vissuto nella paura del giudizio altrui.
Drew, invece, era esattamente il suo opposto.
Tutto ciò gli causava un senso di angoscia, di invidia, ma anche di ammirazione e liberazione.
Si ritrovò sommerso da sensazioni potenti. Iniziava a provare di nuovo qualcosa che non fosse solo grigio vuoto.
Ogni volta che Drew gli si sedeva vicino, sbocciava.
Avevano preso l'abitudine di sedersi insieme, dopo qualche calcio a pallone, con il caffè in mano a guardare il tramonto; intanto Drew gli raccontava di qualche mito o poema.
Prima di rendersene conto, Jack si era perso con lui nei viaggi di Ulisse.
«E Polifemo urlò: Chi mi ha accecato? Nessuno!» narrava, alzando le braccia e imitando in modo buffo le vicende.
«No One!No One!» ripeteva, con aria melodrammatica «Per caso ne sai qualcosa, Jackie?»
Jack non aveva resistito ed era scoppiato a ridere.

Così erano trascorsi giorni che presto si erano trasformati in settimane, fino a quando Jack non aveva iniziato a rivelarsi, poco a poco, togliendo broncio e cappuccio scuro.
«Oh ma dai, hai gli occhi verdi! Sai che non me ne ero mai accorto?» gli aveva detto un tardo pomeriggio Drew, avvicinandosi pericolosamente.
E Jack, che non sapeva mentire per nulla, era arrossito fin troppo.
Ma Drew non si era mosso di un centimetro.
Giallo.
I suoi capelli solleticavano sulla fronte.
E le sue labbra erano morbide.
Jack si alzò di scatto, scaraventandolo a terra.
Era sconvolto, agitato, un nodo allo stomaco, l'eccitazione sulla pelle, la paura nel cuore.
Drew, a terra, si toccava la bocca con le dita.
«Mi dispiace» singhiozzò, per poi scappare e lasciarlo lì.

A casa, silenziosa e spenta come sempre, Jack si accasciò appena varcato l'ingresso, le spalle contro la porta chiusa al mondo.
Nella penombra, Daisy avanzò piano.
Non avevano parlato molto da quel venerdì, piuttosto Jack, quando poteva, la evitava.
Nonostante ciò adesso non aveva nessun altro posto dove andare, era solo, vulnerabile, confuso, perso.
«Jackie...» mormorò bassa.
Lui alzò lo sguardo: quanto era bella, quanto era scintillante. La amava e la odiava con la stessa intensità.
Scoppiò a piangere, una diga rotta in mille pezzi di vetro.
Daisy non esitò: lo abbracciò forte, in ginocchio.
«Ho rovinato tutto».
Lei lo tenne più stretto.
«L'ho baciato e adesso... Cosa c'è che non va in me?!» urlò in un singhiozzo basso e affogato.
Daisy gli carezzò i capelli, riccioli scuri come i suoi.
«Non c'è niente che non vada in te, Jack... sei il mio fratellone» gli mormorò, asciugandogli le lacrime «quello che mi lascia vincere per farmi contenta» continuò, gli occhi lucidi.
Jack la guardò, sconvolto. Poi deviò lo sguardo, in cerca ancora di una via di fuga ma lei non glielo permise. Lo riportò su di sé, le mani sulle sue guance umide.
«Non mi importa chi o cosa ami!» esplose, gli occhi pieni di sale «Io sarò sempre qui».
Jack affogò il viso nel suo collo, la sentì tremare.
«Non sei solo».
Poi chiuse gli occhi e si lasciò andare.

Quella notte rimasero abbracciati sul divano, in silenzio, sotto la loro coperta arancione.
Solo dopo qualche ora Jack parlò: «Credo che...mi piacciano i ragazzi» soffiò, fissando davanti a sé.
Daisy intrecciò i piedi freddi ai suoi: «Mh Mh» mugugnò, per niente stupita, ma infinitamente grata per la sua confessione.
«Basta che non rientrino nei tuoi gusti discutibili... burro di arachidi e noci» continuò, il disgusto ostentato di proposito.
Jack sorrise. Per la prima volta, davvero, dopo molto tempo. Libero.
Le diede una leggera gomitata.
«Senti chi parla!»
«Hey!»
Risero ancora e parlarono per il resto della nottata.


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Capitolo 4
*** 4. Verde ***


4 verde
(4)

GIOVEDÌ – VERDE – I WANT TO BREAK FREE





Dopo il suo coming out le cose andarono decisamente meglio.

Se doveva definire con un colore quella parte della sua vita, sarebbe stato decisamente il verde smagliante (il colore preferito di Daisy).
Jack aveva trovato in sua sorella un'ancora di salvezza, un'amica e una confidente.
Forse fin troppo.
Daisy era una rompiballe di prima categoria (non che non se l'aspettasse, eh) e continuava a tartassarlo sull'esigenza di dover andar a chiarire con Drew.
Oltre al fatto che era estremamente informata su tutto ciò che ruotava intorno alla comunità LGBTQ+: forum, locali, definizioni.
A Jack tutte queste cose facevano girare un po' la testa.
Onestamente non sentiva l'urgenza di gettarsi in un mondo nuovo, ora che era appena uscito dai limiti che si era auto imposto.
L'importante era ricostruire quella dimensione che sentiva di aver trascurato e perso. Si era talmente annichilito da non sapere più riconoscere le cose basilari: cosa gli piaceva? Cosa avrebbe voluto fare?
Si sentiva spaesato ma con un'energia esplosiva in corpo.
Aveva ripreso ad andare a scuola senza nascondersi sotto le felpe e i cappucci.
Aveva iniziato a parlare di più in classe, a scambiare appunti, opinioni, semplici chiacchiere. Con sua enorme sorpresa si rese conto che molti dei suoi compagni non erano ostili, semplicemente non sapevano come approcciarsi.
Pian piano le sue mura iniziarono a sgretolarsi. Aveva meno paura, anche se ogni tanto l'ansia tornava preponderante.
Ma Daisy era sempre lì, ad accoglierlo con un sorriso nella loro coperta.
E se le radici sono salde, l'albero può crescere più forte; florido e rigoglioso, verde come le maglie e lo smalto di sua sorella.
Presto non solo il viso di Daisy divenne di conforto: volti sempre più familiari, amici con cui poter essere se stessi, arricchirono le sue giornate.
Non toccava mai l'argomento della sessualità, non ce n'era bisogno: se doveva trasparire, che fosse naturale allora. Tanto lui non sapeva nemmeno mentire.
L'unica cosa che evitava come la peste era quel dannato parco, d'altro canto sua sorella amava ricordarglielo continuamente.
«Secondo me ti fai troppe paranoie, Jackie. Se ha risposto al limone, un motivo ci sarà. Gli piacevi!»
«Daisy smettila!»
Inutile protestare, era destinato a perdere con lei e ogni volta moriva di vergogna.
Però quella piccola dannata peste aveva ragione.
Non c'era giorno in cui Jack non pensasse a Drew: i suoi capelli imbevuti di sole, il corpo snello e muscoloso, le scarpe consunte, il sorriso sornione e dannatamente bello. Le sue labbra morbide.
Ogni tanto la vergogna riaffiorava, specie nelle notti in cui si masturbava su fantasie labili.
Loro che giocavano a calcetto d'estate, sporchi di terra, uno contro uno. Un contrasto che diventava una baruffa allegra, i corpi che si toccavano sempre più curiosi, le spalle sul campetto sterrato, Drew sopra di lui, la sua bocca sul collo, gli occhi che avevano smesso di sorridere, bagnati di desiderio.
Jack si sentiva in colpa per tutto quello, sentiva che non era giusto.
Drew lo aveva aiutato in un momento delicato della sua vita e quella gli sembrava la cosa più tremenda che potesse restituirgli, anche se era solo nelle sue fantasie.
Come poteva presentarsi ancora davanti a lui?
No, meglio di no.
Avrebbe continuato il suo viaggio proprio come No One, senza mai dimenticare la sua Penelope: sarebbe stato per sempre il suo primo amore.


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Capitolo 5
*** 5. Azzurro ***


5 azzurro
(5)

VENERDÌ – AZZURRO – QUEEN






La fine del liceo e l'inizio del college erano stati due eventi complicati.
Lasciare il proprio equilibrio e ricominciare non era stato facile, ma Jack non aveva intenzione di ripiombare nel grigiore dei giorni passati.
Aveva preso una borsa di studio sportiva grazie al club di calcio e ora sapeva quello che voleva. Soprattutto, sapeva chi era e nessuno avrebbe potuto privarlo di ciò.
Gli piaceva il calcio, così come gli piacevano il blu e il rosa.
Andava pazzo per il burro di arachidi alle noci e per i film romantici da quattro soldi.
Era un disastro in cucina e si sarebbe ingozzato di roba cinese fino a morire.
Piangeva sui fumetti e continuava a leggere Omero.
Giocava ancora come un forsennato alla Play, anche se si cagava sotto con gli horror.
Ah sì, e gli piacevano i ragazzi.

Durante il primo semestre al college era comunque ritornata l'ansia, soprattutto perché Jack era diventato inaspettatamente popolare tra le ragazze: era carino, gentile, giocava a calcio e aveva un bel fisico.
Non ci volle molto prima che si spargesse la voce del suo disinteresse verso il sesso femminile. Eppure Jack, inaspettatamente, si era sentito sereno: non sapeva mentire, tanto valeva non prendersi la briga nemmeno di dissentire.
Co, un giorno come tanti, Connor, un suo compagno di squadra, lo pungolò negli spogliatoi: «O'Brian non è che sei frocio?»
Jack si ricordava ancora bene il gelo che era calato nella stanza e l'ombra di terrore nel cuore. Come quella nuova sensazione ardente: una fiamma esplosa di orgoglio oltre la paura.
Dunque si era voltato, ancora a petto nudo, e lo aveva fronteggiato:
«Perché, sei interessato Russ?» gli aveva risposto, schernendolo.
Connor era avvampato, furioso: «Come cazzo ti permet...»
Jack lo aveva affrontato dal suo metro e ottanta di altezza: «Beh, non sei il mio tipo».
Il capitano li aveva fermati prima che potesse esplodere la rissa. O almeno ci aveva provato.
Quel giorno Jack se lo ricordava bene, perché oltre all'orgoglio, all'espulsione per due giorni, al rispetto muto dei suoi compagni di club, aveva provato un senso di liberazione non indifferente.
Si era seduto sulla panchina, la faccia gonfia e l'occhio nero (poteva giurare di aver ridotto Connor molto peggio), e aveva guardato il cielo di un azzurro terso.
Limpido. Leggero.
Poi era scoppiato a ridere.

Da quel giorno Jack aveva capito una cosa fondamentale: non sarebbe sceso a compromessi, mai più.


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Capitolo 6
*** 6. Viola ***


6 VIOLA
(6)

SABATO – VIOLA - SOMEWHERE OVER THE RAINBOW




Jack guarda l'orologio. Aspettare non gli piace molto, specie perché i ricordi riaffiorano come un fiume in piena.
Sospira, portando indietro i riccioli con un gesto veloce.
Poi sorride non appena in lontananza vede un volto familiare.
«Jackie!»
Daisy saltella nel suo vestito verde, ondeggiando una mano in aria.
Accanto a lei, un ragazzo biondo la spalleggia con in mano un bicchiere di caffè caldo.
«Finalmente, pensavo di morire di vecchiaia» sbuffa, dopodiché si solleva dal bordo della fontana.
«Oh dai, sapessi che fila c'era da Starbucks» gli risponde agguerrita Daisy, per poi sorridere una volta accortasi che gli occhi di suo fratello non sono su di lei.
«Stai bene in quella maglietta viola» gli sta dicendo il ragazzo biondo.
Jack arrossisce.
«Smettila Drew, che poi si imbarazza e non spiccica più parola».
«Daisy!»
«Però ha ragione».
«Non cominciare anche tu!»
Inutili proteste. Jack sa che è debole con chi ama. Non gli dispiace poi troppo, dal momento che la sua lamentela finisce direttamente sulle labbra di Drew.
«Mi risparmiate queste smancerie orrorifiche? Mi bloccate la crescita. E poi faremo tardi alla parata».
Daisy simula il disgusto tipico di una sorella orgogliosa.
Jack sorride, mentre Drew gli prende la mano.
Nell'altra tiene il bicchiere di sturbucks.
Sopra c'è scritto No *One.


Adesso il mondo è un arcobaleno di colori.




Note Autrice

Eccoci alla fine di questo piccolo viaggio. Non so se la storia è stata all'altezza delle aspettative, ma ci ho messo il cuore. Volevo rendere centrali i sentimenti e le sensazioni di Jack nel duro processo di identificazione, scoperta, accettazione e rivalsa. Volevo che fosse cruciale il rapporto con sua sorella Daisy, un amore che li lega fin dalla nascita ma costellato anche di punti di sofferenza per Jack (specie quando inizia a chiedersi chi sia). Tutta la parte iniziale della storia ruota alla confusione di Jack nel riuscire a trovare qualcosa che lo definisca, nel fallire, nel capire di essere un outsider, fino a giungere al fatto che non importa... è semplicemente sè stesso. Non vuole categorizzarsi, vuole semplicemente navigare in questa vita a vele spiegate.
Il titolo oltre a ricollegarsi a Nessuno, al viaggio di Ulisse, è anche un gioco di parole riferito al No*One... No, sono Uno. Sono Io.
Per questo alla fine sul bicchiere di Starbucks Jack si identificherà con quel nome che ha adesso un'accezione diversa e l'ha accompagnato per tutta la vita. Ora è pronto per attraversare il cammino della Parata insieme ai due suoi più grandi amori: Drew e Daisy.
Spero che questa original vi sia piaciuta. Io un po' a Jackie mi sono affezionata e penso che lo porterò sempre con me.
Un bacio a tutti!
E buon Pride Month!
Non abbiate timore di essere voi stessi: non c'è gioia e amore più grande!

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