I figli del domani

di moira78
(/viewuser.php?uid=16037)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Decisioni e consapevolezze ***
Capitolo 2: *** Confessione ***
Capitolo 3: *** Ritorno ***
Capitolo 4: *** In famiglia ***
Capitolo 5: *** Rapitori ***
Capitolo 6: *** Salvataggio ***
Capitolo 7: *** Visite ***
Capitolo 8: *** Pensieri ***
Capitolo 9: *** Rabbia ***
Capitolo 10: *** Verità ***
Capitolo 11: *** Timori ***
Capitolo 12: *** Lite ***
Capitolo 13: *** Sentimenti ***
Capitolo 14: *** Lacrime ***
Capitolo 15: *** Incubi ***
Capitolo 16: *** Disperazione e speranze ***
Capitolo 17: *** Incontri ***
Capitolo 18: *** Segreti e addii ***
Capitolo 19: *** Rivelazione ***
Capitolo 20: *** Lontananza ***
Capitolo 21: *** Il respiro della morte ***
Capitolo 22: *** Nascite e rinascite ***
Capitolo 23: *** Luci e ombre ***
Capitolo 24: *** Ritrovarsi ***
Capitolo 25: *** I figli del domani ***



Capitolo 1
*** Decisioni e consapevolezze ***


Riassunto delle serie precedenti:

Dopo il terremoto che scuote Nerima e uccide Nodoka e Obaba, una serie di vicissitudini porta alla formazione di coppie più o meno annunciate: Ranma e Akane che, alla fine dell'ultima serie, stanno per convolare (finalmente) a nozze; Mousse e Shampoo, che decidono di abbandonare per sempre il villaggio in Cina con le sue regole assurde e, nonostante la ritrosia iniziale di quest'ultima, si sposano per ben due volte (la seconda è definitiva): nell'ultima scena Shampoo era alla fine di una gravidanza (oggi ha una bambina di circa 3 anni); Nabiki e Kuno, che in qualche modo formano una coppia in cui lei ama soprattutto la dote pecuniaria del Tuono Blu (???); Ryoga e Ukyo, che capiscono di essere simili e alla fine cadono uno nelle braccia dell'altra, a scapito della povera Akari che finirà su una sedia a rotelle per via del terremoto, perderà Ryoga definitivamente e tenterà persino il suicidio: alla fine sembrerà rassegnarsi e sarà di grande aiuto nella riunione tra il maialino e la cuoca di okonomiyaki; infine c'è Kasumi, che finalmente sposa il dottor Tofu 'grazie' a una spiacevole parentesi in cui una losca donna di nome Mayumi tenta di mettersi tra i due: la gelosia che coglie inaspettatamente la maggiore delle Tendo, avvicinerà i due che convoleranno a giuste nozze e metteranno al mondo due gemelli (che oggi devono compiere 5 anni).

Link a Destini intrecciati: https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=130026&i=1
Link a Dove volano i miei desideri: https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=637636&i=1

Cap. 1: DECISIONI E CONSAPEVOLEZZE.
 
Odiava quel pavimento a piastrelle blu. E, a ben pensarci, odiava anche quelle pareti color bianco sporco. Odiava quell’ospedale.

Ma perché ci mettono tanto?!

La dottoressa e la sua infermiera le avevano chiesto qualche minuto per preparare la stanza ma ne erano già trascorsi cinque e le sembravano interminabili. Picchiettò con le dita su un ripiano lì accanto e prese una rivista da sfogliare.

“Sempre più donne giapponesi decidono di avere il secondo figlio a pochi anni dal primo. Da un recente studio si è appreso che le mamme nipponiche desiderano dare al loro primogenito un fratellino o una sorellina entro circa tre anni per garantire loro un rapporto più equo dal punto di vista dell’età. Il gioco è una fase dell’infanzia…”.

“Oh, al diavolo!”, borbottò gettando via il giornale.

Anche la loro mamma le aveva date alla luce nel giro di pochi anni ma il tempo dei giochi per loro si era ridotto drasticamente quando lei era morta: Kasumi ne aveva preso il posto nonostante la giovane età, lei aveva cominciato a tenere i conti e Akane… beh, doveva essere l’erede a cui lasciare la palestra.
 
“Signorina Tendo Nabiki?”.


Alzò la testa di scatto, interrompendo il flusso dei suoi pensieri; con un cenno, l’infermiera la invitò a entrare. Si alzò ma le gambe le sembravano improvvisamente diventate di piombo.
 
Dormi e sogna, bimba mia, il monte Fuji veglia il mondo…
 
“Signorina Tendo, andiamo”, insisté la donna inarcando le sopracciglia.
 
Un passo, una goccia di sudore.
 
Chissà se lei ha mai avuto un figlio, col lavoro che fa.
 
Qualcosa le saettò dentro. Un’immagine. Anzi no, un vero e proprio flashback.
 
Dormi dormi, bella bimba, le lanterne son già spente…
 
Mia madre stava cantando una ninna nanna ad Akane appena nata ed è assurdo che io lo ricordi, visto che avevo solo un anno. Eppure…
 
Fai la nanna, dolce amore, il sole sorge in poche ore…
 
Non avrebbe mai dimenticato l’espressione dolce e amorevole nei suoi occhi; la stessa che aveva con lei e anche con Kasumi, nonostante fosse già più grandicella. Quindi perché non avrebbe potuto a sua volta essere in grado di amare un bambino?
 
Io non amo nessuno. O amo in un modo tutto mio, come mi disse mia sorella qualche anno fa.
 
“Signorina Te…”.

“Ci ho ripensato”, disse asciutta, cominciando a raccogliere la borsa e le cartelle mediche che aveva portato.
 
“Come dice?!”.
 
“Ha capito benissimo. Terrò il bambino”.
 
“Ma la dottoressa Saki…”.

“Le dica di fare l’ostetrica, sono certa che guadagnerebbe meglio: lo sa che sempre più donne giapponesi decidono di avere il secondo figlio a pochi anni dal primo?”. Accennò alla rivista sul tavolino.
 
“Il suo comportamento non è assolutamente…”.

Nabiki le si avvicinò fissandola con le sopracciglia corrugate in un’espressione irata. “Il motivo del mio comportamento non la riguarda. Buongiorno”. Girò i tacchi e uscì.
 
Quando si trovò sul viale dell’ospedale, con le spalle alla struttura e il cancello davanti a sé, le sembrò di rinascere; inspirò a fondo l’aria tiepida e sorrise.
 
Kuno dovrà sposarmi per forza quando saprà che aspetto un figlio suo. E allora diventerò ricca.
 
                                                                                              ***
 
Era rimasta qualche minuto in contemplazione di quell’insulso bastoncino di plastica rosa, fissando la lineetta blu come se potesse farne apparire una seconda con la sola forza del pensiero. Ma quella dannata linea era rimasta tale e quale a prima, unica e ostinata a segnare il suo risultato. Aveva sbuffato sonoramente, allargando le braccia e riavviandosi i capelli sulla fronte.
 
Me li devo tagliare, stanno crescendo di nuovo.
 
Ora doveva uscire da quel dannato bagno e prendersi le proprie res… un momento! Quali responsabilità?! Mica era colpa sua! Anzi, per quel che ne sapeva la colpa poteva essere benissimo di Ranma!

“Baka”, mormorò alla stanza, che le rispose  col rumore secco di una goccia che cadeva dal rubinetto del lavandino e si infrangeva sulla ceramica.
 
Insomma, non poteva rimanere là dentro tutto il giorno, no? Doveva decidersi a uscire, o prima o poi sarebbe arrivato qualcuno a bussarle.
 
“Akane, tutto bene? Hai bisogno di aiuto?”. Wow, che tempismo!
 
“No, Happosai, grazie!”, esclamò calcando sull’ultima parola come se stesse fisicamente pestando il vecchiaccio.
 
Certo, ho proprio bisogno di un nanetto lascivo come te nella stanza da bagno!
 
“Va bene, allora torno di là, non farci aspettare troppo!”, disse con un sorrisetto nella voce. Akane se lo figurava con gli occhietti brillanti di speranza e le manine rugose che si strofinavano per l’impazienza.
 
“Arrivo subito”, rispose a denti stretti, battendo un pungo sulla porta chiusa come se potesse allontanarlo. Poggiò la fronte sul legno freddo, la staccò e la sbatté piano una, due, tre volte, il pugno ancora incollato alla porta. Per lo meno se n’era andato, aveva udito chiaramente i passi allontanarsi.
 
Non c’era neanche una donna in casa.
 
Kasumi, ormai se n’era fatta una ragione, era sposata e con prole e non poteva tornare a casa tutte le volte per ogni piccola sciocchezza; i primi tempi lo aveva fatto, preoccupatissima di lasciare una casa che nessun altro sapeva accudire come lei e portava i suoi manicaretti in contenitori di metallo che giungevano come una manna nei disastri culinari suoi e, diciamocelo, di tutti gli altri componenti della famiglia. Nessuno cucinava come Kasumi, o meglio, nessuno aveva mai cucinato tranne lei: obbligarla a restare con la sua famiglia e non preoccuparsi era stato doloroso ma necessario e aveva portato a disastri vari che, col tempo, si erano ridimensionati. Ora ognuno faceva la sua parte meglio che poteva, con l’impegno e le limitazioni che ciò comportava.
 
Se almeno Nabiki fosse qui!
 
Non che la seconda delle Tendo avesse lo stesso spirito materno di Kasumi, anzi tutto il contrario. Ma sapere di dover tornare in quel salotto in cui erano riuniti Soun, Ranma, Happosai e Genma la faceva impazzire.
 
La realtà è che mi stanno spiando come al solito.
 
Almeno non lo stavano facendo di nascosto, palesando chiaramente il loro interesse per il risultato di quel maledetto affare di plastica. Prendendo il coraggio a due mani, Akane fece scorrere la porta sulle guide, aprendola e cercando di fare meno rumore possibile: la irritava saperli tutti con le orecchie pronte a cogliere ogni suo minimo spostamento. Percorse i pochi metri che la separavano dalla sala principale con le gambe pesanti e le sopracciglia corrugate e, troppo presto per lei, si ritrovò a fissare quattro paia di occhi che sembravano volerle scrutare fin nell’anima.
 
Ma guarda, pendono dalle mie labbra…
 
Tanto valeva dirglielo subito, senza tanti giri di parole, così si sarebbe tolta quel peso e sarebbe tornata alle sue occupazioni più leggere: “Mi dispiace, non sono incinta”, dichiarò freddamente e, prima di poter vedere le loro facce deluse o ascoltare i loro commenti di disapprovazione, si voltò e si diresse in camera sua.
 
                                                                                              ***
 
Solitamente le piaceva parlare con Kasumi: proprio perché erano ai poli opposti trovava in lei il giusto compromesso tra la pesantezza della vita e la spensieratezza delle cose semplici. Quella mattina però non sapeva se sarebbe stata in grado di essere una buona compagnia, né di assorbire da lei qualcosa di positivo: doveva raggiungere Tatewaki prima di esplodere.
                                                                                          
“Oh guardate, bambini, c’è la zia Nabiki!”, cinguettò felice. Nel giro di pochi istanti, era attorniata dai due gemelli urlanti e saltellanti.
 
Non ora, non proprio adesso…
 
“Oh, bene, vedo che hai smesso di metterli al guinzaglio!”, commentò con un sopracciglio alzato, tentando di apparire disinvolta.
 
Nessuno si è mai accorto dei miei pensieri.
 
“Oh, Nabiki, si chiama ‘camminatore’ ed è una fibbia che li aiuta a imparare a camminare senza cadere!”, protestò Kasumi avvicinandosi.
 
E a me va benissimo così.
 
“Kasumi… hanno quattro anni! Camminano benissimo da un pezzo”. Indicò i suoi scatenati figli e rimase a guardarli per un istante di troppo, evidentemente, perché la sorella le domandò:
 
“Stai bene? Ti vedo pallida”.
 
Oh, non è nulla, ho passato la mattinata china sul water per la nausea; sai, capita alle donne incinte, e meno male che non se n’è accorto nessuno! Oh, a proposito, stavo per abortire…
 
“Nabiki?”.
 
“Tutto bene, ho solo mangiato qualcosa che mi ha fatto male; da quando non ci sei più tu in cucina, Akane si diverte più del solito ad avvelenarci”.
 
Kasumi si accigliò e le pose una mano sulla fronte, non sembrava per niente convinta. Evidentemente da quando era madre aveva sviluppato una sorta di sesto senso micidiale.
 
“Febbre non ne hai ma la tua pelle è fredda e il colorito continua a non piacermi. Passa allo studio appena puoi, ti faccio visitare da Ono”. Il tono era serio e non ammetteva repliche nella sua disarmante gentilezza.
 
Cara, vecchia Kasumi, ti preoccuperesti così per me sapendo cosa stavo per fare?
 
Le prese delicatamente la mano, sorridendo rassicurante. Un impeto di tenerezza nei confronti di Kasumi le fece venire in mente che, forse, tra gli effetti collaterali della gravidanza c’erano i sentimenti smielati.
 
Povera me, non posso sopportare una cosa simile! Meglio il vomito.
 
“Sorella, quante volte mi hai visto davvero malata? Mai. Quindi non preoccuparti, me la caverò anche stavolta: le conseguenze della cucina di Akane non durano molto se sto attenta a quello che mangio”.
 
Kasumi annuì e prese fiato per dire qualcosa, ma fortunatamente venne interrotta da uno dei gemelli che le tirava la gonna e Nabiki provò, suo malgrado, qualcosa di molto simile all’affetto per il piccolo Daiki.
 
Odio gli ormoni.
 
“Mamma, sta succedendo di nuovo”, la informò preoccupato, indicando due figure familiari.
 
Bene, ci mancava solo questa. Oggi non riuscirò a combinare nulla.
 
“Ni-hao!”, salutò un’allegra Shampoo agitando una mano cerimoniosamente, mentre con l’altra teneva Misaki in braccio. La mise giù per correre loro incontro e si chiese quanto avesse cercato tra i nomi giapponesi per trovarle un nome azzeccato come quello. Significava ‘bellezza che sboccia’ e Nabiki, pur non amando affatto i bambini,
 
stavo per uccidere mio figlio
 
non poteva fare a meno di rimanere affascinata da quella mocciosetta dai lunghi capelli corvini e dagli occhi di un azzurro così intenso che ricordava alcune rare rose blu che aveva visto di rado.
D’altronde anche Kasumi non scherzava affatto in tema di nomi: l’altro gemello l’aveva chiamato Akio, ‘lucentezza del marito’, e se di lucente quel bambino aveva solo gli occhiali metallici che riflettevano il sole, di Tofu possedeva tutte le caratteristiche. Lo guardò irrigidirsi e poi cominciare a balbettare il nome di Misaki mentre le lenti gli si appannavano vistosamente. Daiki continuava a tirare la gonna alla madre per attirare la sua attenzione ma Kasumi si limitò a sorridere al figlio, rassicurandolo che Akio era solo innamorato e si diresse verso la cinese per salutarla.
 
Scelse quel momento per accomiatarsi. “Bene, ragazze, io vi lascio. Date un’ occhiata ai due fidanzatini, che non si scannino come l’altra volta”. In realtà era stato Akio l’unico a subire i maltrattamenti di un’indignata Misaki, reticente all’amore acerbo del bimbo.
 
“Oh, vai già via?”, domandò Kasumi fissandola preoccupata. “Sei sicura…?”.

“Sorella, sto bene, davvero”.

“Vai dal tuo fidanzato, vero Nabiki?”, chiese Shampoo sorridendo e facendole l’occhiolino.
 
Bingo, amazzone.
 
“Oh, può darsi, ultimamente l’ho trascurato parecchio”, rispose con noncuranza. Fece un cenno di saluto e si godette per un breve istante il quadretto di Akio che continuava a balbettare come se fosse regredito all’età di due anni e di Misaki che si metteva in posizione di guardia sibilandogli di stare lontano.
 
Lui è come Tofu, ma lei è la copia di Shampoo.
 
Daiki si diede una manata sulla fronte, evidentemente disperato dalla piega presa dalla situazione e conscio che la madre continuava a chiacchierare allegramente con Shampoo permettendo tutto quello. Le scappò un sorriso e immediatamente le morì sulle labbra.
 
Continuo a odiare i bambini,
 
Ricominciò a camminare con passo svelto, diretta dal suo fidanzato
 
d’altronde stavo per assassinare il mio!
 
che doveva ascoltarla molto bene, perché aveva una novità che non poteva ignorare.
 
E allora, perché non l’ho fatto?
 
“Ma è evidente: mi serve per portare a termine il più semplice eppure importante passo della mia vita!”, bisbigliò alla via quasi vuota che portava a casa Tatewaki.
 
                                                                                              ***
 
Nella sua vita aveva visto tante cose belle: la luna piena in mezzo a un mare di stelle, l’oceano limpido o ruggente di onde, il tramonto rosso ammantare le montagne e prati ricolmi di fiori profumati in un tripudio di colori. Ma nulla gli sarebbe mai parso più bello di Shampoo che tornava a casa tenendo per mano Misaki. Si beò di quell’immagine per un minuto intero, prima che sua moglie cominciasse a investirlo di parole.
 
“Per strada ho incontrato Kasumi e Nabiki, e Akio ha cercato di nuovo di avvicinarla; era in adorazione, dovevi vederlo! Peccato che sia finita a mosse di karate un’altra volta, questa piccola peste l’ha picchiato ben bene e la madre l’ha portato via che piangeva, non si sa se per il dolore o per la delusione! Devo insegnarle che il karate non va usato con i coetanei più deboli! Hai tirato fuori le scorte di salsa di soia dal magazzino? Per stasera non ci basta quella che abbiamo e, a proposito, direi di aprire una mezz’oretta prima visto il bel tempo. Oh, mica sono nuvole quelle, vero? Fino a poco fa splendeva il sole!”.
 
“Io…”, fu tutto quello che riuscì a dire prima che Shampoo ricominciasse a parlare. Negli ultimi anni era diventata logorroica e aveva ricominciato a maltrattarlo come i primi tempi; certo, lo amava, ma gli eventi l’avevano segnata negativamente, conferendole un carattere spesso più insopportabile di quando era solo una ragazzina che voleva il suo ‘Lanma’.
 
“Mousse, mi hai sentito?! Bisogna cominciare ad apparecchiare i tavoli e tu devi aiutarmi. Ho intenzione di mettere quei centro tavola tanto carini che portò la mia bisnonna dalla Cina tanti anni fa; ti ricordi? Quelli con i fiori e le paillettes argentate! Non rimanere lì impalato, io devo chiudermi in cucina e ho bisogno che tu sia efficiente. Ahh, forse dovremmo assumere qualcuno che ci aiuti una volta per tutte!”.
 
Stavolta si limitò ad annuire, conscio che era impossibile anche solo pensare di inserirsi nella valanga di parole della moglie. Fu con un certo sollievo che si diresse nel magazzino del seminterrato a recuperare salsa di soia e centro tavola: in meno di tre minuti gli era venuta l’emicrania. Si chinò per tirare fuori una vecchia scatola polverosa e, rialzandosi, batté la testa contro un ripiano. Si massaggiò la parte lesa imprecando e sentì una risatina provenire da un angolo del magazzino.
 
“Esci fuori, piccola strega, e abbi il coraggio di ridere di me alla luce della lampadina!”, esclamò tirando una cordicella per accenderla; evidentemente la finestrella minuscola posta quasi sul soffitto non faceva molta luce, perché non aveva visto entrare la bambina.
 
La mia vista sta peggiorando. Di nuovo.
 
Misaki gli corse fra le braccia ridendo, bella come una piccola ninfa dei boschi, e Mousse aspirò profondamente il suo profumo infantile quando la strinse fra le braccia e cominciò a farle il solletico.
 
“No, papà! Ahahahahhahaha! Lo sai che non lo sopporto!”, pigolò contorcendosi.
 
“Ma io mi sto solo vendicando!”, rise baciandola tra i capelli e passando a farle il solletico sulla pancia, la parte più sensibile secondo Misaki. Tanto bastò per farla letteralmente morire dalle risate, un suono che amava e che lo rendeva felice nonostante Shampoo fosse diventata di nuovo scortese con lui e parlasse in continuazione.
 
Nonostante la sua vista avesse ricominciato a tradirlo.
 
D'altronde, Misaki sarebbe rimasta per sempre la sua unica figlia.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Confessione ***


Cap. 2: CONFESSIONE.


Casa Tatewaki si stagliava all’orizzonte come una minaccia e come una benedizione allo stesso tempo. Le sembrava che, come in sogno, ogni passo che faceva non la portasse affatto più avanti ma, al contrario, rimanesse intrappolata in una melassa che la teneva ferma sempre nello stesso punto.

Coraggio, Nabiki Tendo, questa è la tua grande occasione!

Nonostante la sensazione onirica di non spostarsi, alla fine arrivò al portone e suonò il videocitofono senza pensarci troppo; qualche istante dopo la vocina gracchiante di Sasuke domandò: “Si?”.
“Sono Nabiki”.

“Oh, signorina Tendo, le apro subito!”.

Ci fu un ronzio e poi il cancello scattò aprendosi. Mai le era sembrato così pesante e mai le era parsa così interminabile la sua corsa cigolante sulle guide.

Insomma, che mi prende?! Non ho sempre desiderato sposare un uomo ricco?

Attraversando il vialetto ripercorse gli eventi della mattinata e un tormento senza nome cominciò a pungerla all’altezza del petto. Uno sciabordio improvviso la fece sobbalzare per la sorpresa: era solo quel dannato coccodrillo che saltellava felice nel laghetto del giardino, neanche fosse una piccola carpa! Mormorò un’imprecazione a denti stretti e non tentò neanche un falso sorriso quando le venne incontro Tatewaki, con le braccia allargate e l’espressione radiosa.
“Oh, mio fiore giulivo, quale gradita sorpresa mi fai recandoti così improvvisamente nella mia umile di…”.


“Poche chiacchiere, Taichi, dobbiamo parlare”, tagliò corto. Ora capiva cos’era che le pungeva il petto: l’acidità di stomaco.
 

“Ma certo, vieni pure dentro, mia adorata. Parleremo con calma in salotto sorseggiando del buon tè proveniente da…”.


“Se hai anche un antiacido sarebbe il massimo”, sospirò superandolo e avviandosi all’entrata. Quel giorno non aveva proprio bisogno di altre smancerie, già era tanto per lei dover tenere in grembo

mio figlio

un marmocchio che, nella migliore delle ipotesi, da grande avrebbe straparlato come suo padre.

Se Tatewaki fu deluso dalla sua freddezza non lo diede a vedere, già le faceva strada con mille cerimonie.

“So benissimo dove si trova il salotto, non c’è bisogno che mi fai da guida!”, esclamò esasperata.

“Mio raggio di sole, ho ragione di pensare che qualcosa ti turbi pesantemente, oggi sei più irritabile del solito”.

Nabiki lo fissò per un istante, non sapendo se sarebbe scoppiata a ridere o se invece l’avrebbe ricoperto di insulti. Non fece nulla di tutto ciò, si limitò ad accomodarsi sul grande divano con un’espressione grave.
“Chiudi la porta, non voglio che ci sentano altri”.

Ci manca solo che quella pazza di Kodachi o quel ficcanaso di Sasuke si mettano ad ascoltare…

Kuno eseguì e le si sedette di fronte. “Faccio portare del tè alla vaniglia, mia pulzella? Viene direttamente dalle isole vergini del…”.
“La vuoi smettere di blaterare e mi ascolti?!”, sbottò gridandogli in faccia.

Lui sbatté le palpebre, evidentemente sorpreso e Nabiki cominciò a massaggiarsi le tempie in preda a un incipiente mal di testa. Senza parlare dello stomaco che sembrava preda di un boa constrictor.

“Ti ascolto, Nabiki, pendo dalle tue dolci labbra”, mormorò. Le parve offeso e prodigo allo stesso tempo.
Quest’uomo non mi odierà mai. Bene.

Non c’era un modo indolore o particolare di dirlo, tanto valeva farlo e basta: “Sono incinta. Mi devi sposare”, sentenziò guardandolo dritto negli occhi. “Devo vomitare”, soggiunse infine alzandosi e dirigendosi a gradi passi verso la stanza da bagno, non prima di aver scorto sul viso del ragazzo un'espressione sconvolta.

                                                                                              ***
“I ramen vanno al tavolo tre, gli spaghetti di soia al cinque e la zuppa di calamari al dieci! Muoviti!”. Mousse eseguì diligentemente, caricandosi le ciotole sulle braccia e tenendo in mano salse e spezie. Lo guardò allontanarsi e poi bloccarsi, correggendo la traiettoria che stava per portarlo dritto contro il muro.
Ha di nuovo problemi agli occhi.

“Mami, mami, posso aiutarti?”. Misaki, con tanto di grembiulino a fiori, la stava tirando per i pantaloni.

Sospirò, chiedendosi se, oltre a un aiuto in cucina, non le servisse anche una baby sitter. Prese un cestino contenente delle nuvolette di gamberi e si accovacciò alla sua altezza.
“Lo vedi quel tavolo con quei ragazzi che ridono? Ecco, porta loro questi”, disse indicando la sala.

La bambina annuì, felice, e prese il cestino come se tenesse in mano un tesoro di inestimabile valore. Shampoo la vide dirigersi al tavolo con eleganza
Quando era appena nata rideva sempre.

e posare le nuvolette in un angolo del tavolo dove riusciva ad arrivare stando in punta di piedi.

Era così piccola che la tenevo con un solo braccio.

Si inchinò elegantemente, strappando risate e applausi agli occupanti del tavolo e

Allora l’ho amata subito

uno di loro le scompigliò i capelli in una carezza.

anche se la sua nascita mi ha quasi uccisa e distrutto il mio corpo.

“Shampoo?”, la mano del marito sulla spalla e il suo richiamo appena sussurrato la strapparono dai suoi ricordi.

“Cosa? Che c’è?!”, ruggì.

“Perché stai piangendo?”.


“Non sto pian…”. Una lacrima le cadde sul grembiule e lei la fissò per qualche istante a bocca aperta. Si asciugò nervosamente gli occhi

Sapevo benissimo che non avrei mai più potuto avere figli, eppure ho continuato a provare

e gli indicò altri tre piatti. “Quelli vanno al tavolo sei”.

e provare e provare. Inutilmente.

“Sei sicura di stare bene?”.

Le aveva fatto la stessa, irritante domanda ogni volta che un medico le dava la medesima, insindacabile notizia:

“Non fare domande idiote e servi i clienti, siamo in ritardo”.

l'operazione che aveva dovuto subire in conseguenza dell'emorragia l'aveva danneggiata irreparabilmente. Inutile illudersi.

Mousse si allontanò con i piatti, camminando con la testa china. Quando aveva smesso di essere una moglie e una brava madre per colpa della sua ossessione di avere figli?
“Ancora, ancora!”, gridava felice Misaki saltellandole intorno.

Misaki è il mio miracolo, e rimarrà l'unico.

“Vai in camera tua, la mamma ha da fare”, le intimò freddamente.

E quando ho cominciato a odiarla per qualcosa che non mi ha fatto volontariamente?

Come sempre quando lei cambiava di umore in maniera così repentina, Misaki non protestò e non si mise a fare i capricci. Si limitò a fissarla per qualche istante con le labbra contratte e gli occhi lucidi di pianto prima di eseguire l’ordine.

Lo sente, anche se non sa. Oh, Kami…

Shampoo sospirò e sedette su una sedia portandosi le mani al capo, maledicendo se stessa e il destino crudele che le era toccato.
                                                                                              ***
Scorse i fogli con metodo, a cominciare da quelli datati più recentemente, andando a ritroso nel tempo.

“Non c’è niente che non vada in lei, signora, deve solo avere pazienza”.

Già, pazienza. Erano tre anni che aveva pazienza, tre anni che la famiglia li incitava a darsi da fare per mettere in cantiere l’erede del dojo Tendo: avevano addirittura fatto trasferire Genma in un’altra stanza perché i due sposini avessero un'alcova tutta loro dove ‘lavorarci in santa pace’. Ma, varcata la soglia di quella camera, venivano subito assaliti dalle domande e dalle richieste di metterci più impegno, perché se certe cose non si fanno con sentimento non vengono bene, perché Happosai era ancora in grado di allenare ma chissà fra qualche anno, perché… perché… perché.
Ne ho fin sopra i capelli di questa storia!

“Dannazione!”. Sbatté i fogli sul tavolo e si prese la testa fra le mani. Possibile che non potessero mai vivere come una coppia normale?

"Akane, posso entrare?". La voce di Ranma la fece sussultare. Si accinse a togliere velocemente di mezzo tutte le carte e a riprendere il controllo. Quando lui entrò, stringeva al petto i fogli e doveva avere sul volto un'aria colpevole, perché suo marito si accigliò.

"Stavo solo... facendo un po' di ordine".

Una scusa coi fiocchi, non c'è che dire!

"Akane...". Sapeva cosa voleva dire con quel tono, ne avevano parlato tante volte.

Oh, al diavolo!

Sbatté la pila di carte dentro un armadio e lo richiuse di scatto. Il cuore le martellava nel petto e si impose di fare respiri lenti.
 

Calma, Akane, calma...
 
Si aspettava le solite parole di circostanza, invece Ranma si limitò a cingerle la vita da tergo, poggiandole la testa sulla spalla. Rilasciò i muscoli tesi e assorbì il suo calore, concentrandosi sul respiro caldo in cima all'orecchio. Voleva parlare, ma temeva che sarebbe sbottata prima a urlare e poi a piangere dalla frustrazione.
 

Per cui tacque per lunghi minuti, godendosi il silenzio e quell'effimero momento da soli.
 

Fra mezz'ora saremo di là e ricomincerà la solita solfa. Non posso sopportarlo. Non più.
 
"Ti senti meglio?", chiese Ranma in un sussurro.
 
"Sì, grazie", rispose intrecciando le mani nelle sue. "Anche se sarebbe ancora meglio se fossimo a qualche migliaio di chilometri da qui".
 
Ranma ridacchiò. "Esagerata, basterebbe qualche centinaio! Almeno potremmo tornare più facilmente".
 

Questa è la mia casa, è la mia famiglia. Eppure non le sopporto più.
 
"La cosa che", cominciò. Poi prese un respiro e si schiarì la voce. "La cosa che mi distrugge è sentirmi così pressata da tutti. Certo che voglio dei figli, che voglio degli eredi, ma odio essere trattata come una specie di macchina che deve sfornare dolci a tutti i costi!".
 

Si stava di nuovo innervosendo e non era pronta alla reazione di Ranma. "Anche perché se i dolci sono come li fai tu di solito, non oso pensare...".
 

Quell'idiota stava ridendo?!
 
"Ranma!", strillò sciogliendosi dalla sua stretta e voltandosi, indecisa se scoppiare a ridere lei stessa o se picchiarlo selvaggiamente.
 

"Scherzavo, scherzavo! Volevo solo sdrammatizzare", si scusò arretrando e gesticolando in maniera convulsa.
 

"Non sono un oggetto. Sono stufa che gli altri decidano della mia vita", riprese, "Io... sto bene anche così, per il momento". Ecco, l'aveva detto.
 

Ranma diventò di nuovo serio e la prese gentilmente per le spalle. "Akane, io la penso come te. Siamo stati tanti anni a lottare contro le richieste dei nostri genitori, che abbiamo perso di vista quello che volevamo davvero. Ma ora che finalmente abbiamo una vita nostra non permettiamogli più di decidere per noi".
 

Akane lo fissò per qualche secondo: ancora si stupiva per l'intesa che c'era tra loro, dopo tanto tempo passato a litigare. Come al solito, bastava solo parlare per capirsi. "Allora facciamo un patto: da oggi in poi decidiamo noi, e guai a chi ci detta regole, sei d'accordo?".
 

"Patto stipulato", dichiarò lui baciandola brevemente, "e sigillato", concluse dandole un altro bacio.
 
Akane si rilassò del tutto: la tensione della giornata era svanita. "Cena?”, domandò abbracciandolo.


Ranma la guardò inorridito come se, invece di 'cena', avesse detto 'gatto'. “Intendo dire che andremo da Ucchan a prendere degli okonomiyaki! Basta che stiamo... lontani per un po'. Anche solo di pochi chilometri”.
 

Deve bastarmi, per ora.
 
“Ah, bene, allora cena!”, esclamò Ranma felice alzando un pugno in aria in segno di vittoria.
 
“Vorresti insinuare che Ryoga cucina meglio di me?!”, domandò piccata, conoscendo già la risposta.
 
“Certo, non cucina come Ukyo, questo devo ammetterlo, però... insomma, Akane, tu stai ancora imparando, no?”.
 
Tutto sommato decise che, per quella volta, l'avrebbe perdonato. Sorrise, pensando a come avrebbero litigato una volta e a quanto sarebbero stati meno sinceri e più impacciati.
 
“Sì, sì, certo... Andiamo, prima che il locale si riempia”, disse roteando gli occhi a guardare in aria.

“Con il mio metodo non avverrà”, dichiarò Ranma e, afferratala saldamente, uscì con un balzo dalla finestra cominciando a saltare di tetto in tetto.
Akane si accoccolò contro il suo petto, pensando per l'ennesima volta a quanto era stata fortunata a incontrarlo e cieca per tanti anni a non volersi lasciar andare.
 
Stiamo così bene quando siamo soli...
 
Improvvisamente pensò che, se avessero potuto davvero vivere lontani da tutto e da tutti, forse il bambino sarebbe arrivato più volentieri.
 
                                                                                              ***
Quando tornò in salotto, Kuno era in piedi davanti alla finestra con le mani intrecciate dietro la schiena. Una posa da vecchio, rifletté prima di rendersi conto che, molto probabilmente, essere stata preda dei conati subito dopo avergli chiesto di sposarla gli aveva dato un'interpretazione errata della sua proposta.
Dannazione, penserà che sposarlo mi disgusta!

“Ascolta, Taichi, stavo poco bene già da prima, non penserai mica...”.

Mi sto davvero giustificando con lui?!

“Oh, sì che lo penso, ma non perché sei corsa a vomitare subito dopo, tranquilla. Ti conosco fin troppo bene, Nabiki Tendo”.
Quella risposta la gelò.

Cosa sai, cosa conosci di me?

Kuno si avvicinò a lei, carezzandole prima il viso e poi il ventre con un'intensità che quasi la spaventò.

Quanto è diventato intelligente e maturo Tatewaki, senza che me ne accorgessi?

“So che ami tanto le cose belle che posso darti

Quanto?

e che continuerò a darti e a dare anche a nostro figlio”.

Vittoria! Ora si che...

“Ma non ti sposerò, Nabiki Tendo”.
                                                                                              ***
“Sono a casa!”. La voce di Kasumi gli arrivò alle orecchie come una musica e Ono fu veloce a rimettere in ordine i suoi strumenti e a richiudere la valigetta: aveva tutto quello che gli occorreva per il giro di visite del giorno dopo.

E ho gettato via quell'orrida lettera in modo che Kasumi non possa trovarla...

“Oh, Kasumi, bentornata, come è andata la…”. Fu interrotto dall’entrata irruenta dei suoi figli: Daiki gli si aggrappò ai pantaloni e cercava di avere la sua attenzione per raccontargli qualcosa, mentre Akio gli volò direttamente in braccio.

“Papà, sai cos’è successo, oggi?”.

“Papà, ho incontrato Mi-Mi-Misaki!”.

Già, ricordo quando io incontravo Ka-Ka-Kasumi…

“Bambini, non tormentate così il papà, ha lavorato tutto il giorno e sarà stanco!”. Sua moglie gli prese Akio dalle braccia e gli staccò gentilmente Daiki dai pantaloni.

“Non preoccuparti, cara. Mi fa piacere sentire cosa hanno da dirmi i miei diavoletti. Mmhh... vediamo un po’”, fece accovacciandosi all’altezza del bambino con gli occhiali e scrutandolo bene. “Qui abbiamo del sangue incrostato sul naso e un bel graffio sulla guancia. Shampoo dovrebbe insegnare a sua figlia a essere meno manesca!”.

“Sono bambini, che ci vuoi fare? Giocano e si fanno male”, cinguettò Kasumi con un sorriso.

Era solo una stupidaggine, no? Uno scherzo di cattivo gusto. E allora perché continuo a pensarci?

“Misaki non vuole che tu sei innamorato di lei!”, sentenziò Daiki facendo infuriare il fratello, che gli diede una spinta.

“Non è vero, è solo timida!”, rimbeccò piccato.

“Non è timida, è manolesca!”.

Forse avrei dovuto bruciarla.

“Si dice manesca. Ora lascia che il papà disinfetti le ferite di tuo fratello e vieni in cucina con me: devo preparare la cena”. Le parole di Kasumi ebbero un effetto calmante su Daiki, che seguì docilmente la mamma.

“Mi fai assaggiare il tofu fritto?”.

“Stasera faccio il sukiyaki, non cucino il tofu”.

“Allora mi fai assaggiare la carne mentre la prepari?”.

“Vediamo, magari un pezzettino…”.

Tuttavia si è trattato di un singolo episodio, inutile rimuginarci.

Ono rimase quasi incantato a fissare sua moglie e suo figlio dirigersi in cucina: era estasiato da quell’immagine che aveva desiderato per tanto tempo e che ora, magicamente, era divenuta realtà. Quasi non si accorse che Akio lo stava chiamando.

“Eh? Oh? Dimmi, figliolo”.

“Mi esce ancora sangue”.

“Ok, giovanotto, vieni, disinfettiamo queste ferite di guerra… cioè, d’amore, va bene?”. Prese per mano il figlio e cominciò a camminare con lui.

Domani ci farò su una bella risata.

“Userai il disinfettante che non pizzica?”.

“Certo che sì e ti metterò un cerotto con il panda disegnato sopra”.

“Voglio quello con le anatre!”.

“Vediamo se ne sono rimasti…”. Mentre frugava nell'armadietto, Tofu inspirò profondamente il profumo che già si sentiva provenire dalla cucina e si disse che nulla, nulla al mondo avrebbe mai potuto incrinare la loro felicità.

Era solo una stupidaggine, si ripeté.

Dalla cucina, Kasumi e Daiki scoppiarono a ridere.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Ritorno ***


 
Cap. 3: RITORNO
 
 
Sposare Nabiki Tendo sarebbe stato un errore, lo capì nel momento in cui lei aveva messo piede nel vialetto. Non era mai stato molto empatico, ma da qualche tempo a quella parte si era messo a osservare.
 
E a osservare si imparano molte cose.
 
Aveva imparato che a Nabiki piaceva fare l'amore poco prima dell'alba, ma che poi amava dormire fino a tardi ed essere servita a letto con una colazione abbondante.
Aveva imparato che la compagnia di Kodachi non la metteva esattamente di buon umore.
 
Ma soprattutto aveva imparato che non lo amava affatto.
 
Forse gli era affezionata o qualcosa del genere, ma non le brillavano mai gli occhi mentre lo guardava, come quando si ritrovava a fissare un gioiello, ad esempio. Anni prima aveva commesso un tragico errore che gli era quasi costato il perderla per sempre ma poi, con il tempo, l'aveva riconquistata. L'evoluzione del loro rapporto era stata lenta e costante, ma segnata sempre e comunque da richieste continue: cene raffinate, gioielli, vestiti e feste costose organizzate solo per lei. Non gli aveva più promesso le sue grazie in cambio, ma alla fine anche quel passo era stato naturale.
 
Ora sapeva perché Nabiki aveva varcato quella soglia: temeva di perderlo. O meglio, di perdere i suoi soldi.
 
Se n'era reso conto col tempo, in maniera sempre più netta e dolorosa, ma aveva accettato la situazione, nutrendosi di lei come un affamato in pieno deserto.
 
Ho talmente tanto bisogno d'amore che sto con una donna che non mi ama.
 
Quella consapevolezza lo frustrava e si malediva ogni giorno per la sua debolezza: non poteva farci niente, era stato così anche con Akane e la ragazza col codino, ma loro non avevano mai accettato veramente di stare in sua compagnia. Nabiki invece, se le si regalava un bell'anello o la si portava al ristorante francese, era felice di conversare e ridere con lui. E di fare l'amore anche una notte intera.
 
Continuava a ripetersi che, in una maniera tutta particolare e contorta, lei gli voleva bene; ma passare tutta la vita con lei? Legarsi in un rapporto che sarebbe durato tutta la vita senza quella passione che contraddistingue i matrimoni benedetti dall’amore vero, e per di più con un figlio in arrivo? No. Avrebbe dato il sostegno economico necessario a entrambi, sarebbe stato presente come padre per la sua creatura, anche se era rimasto scosso dalla notizia inaspettata. Ma non avrebbe unito la sua vita a quella di Nabiki con un vincolo tanto sacro.
 
"Possiamo vivere sotto lo stesso tetto, se vuoi, ma unirci in una cerimonia importante come…".

"Taci, ho capito benissimo. Me ne vado".
 
La vide alzarsi dal divano e camminare a passo deciso verso la porta chiusa.
 
"Nabiki, non voglio che ci lasciamo così, ascoltami almeno!", tentò disperatamente, mentre il cuore gli galoppava fin su, nella gola.
 
Non deve finire così.
 
"Che cosa vorresti spiegarmi, eh? Ti ho detto che sono incinta e tu ti rifiuti di sposarmi, non è già abbastanza? Sinceramente credevo che tu avessi un senso dell'onore più spiccato!".

La bloccò sulla porta, intrappolandola in mezzo alle braccia appoggiate su di essa: Nabiki sembrava quasi indifesa. "Allora dimmi che mi ami sinceramente e io cambierò idea. Guardami negli occhi, mentre lo fai".

Il volto di Nabiki rimase imperturbabile, ma si accorse chiaramente che stava trattenendo il fiato e comprimendo leggermente le labbra. Rimase a fissarlo per qualche istante, con gli occhi grandi spalancati su di lui come finestre aperte da una tempesta di vento.
 
Se distoglie lo sguardo e lo dice… che i Kami mi aiutino, mi accontenterei,
 
E lo fece, distolse lo sguardo, aprì la bocca, prese fiato
 
ma sarebbe giusto, così? Mi basterebbe?
 
e articolò un incerto: "Io…".
 
Si. Andrebbe bene così.
 
"Mi dispiace", mormorò infine, girandogli le spalle e aprendo la porta mentre lui lasciava cadere le braccia e la guardava andare via. I suoi passi riecheggiarono nel corridoio deserto come rintocchi solenni.
 
                                                                       ***
 
Versò il composto sulla griglia e utilizzò l'apposito strumento per dargli una forma tondeggiante; poi prese i vari ingredienti da alcune ciotole dove erano riposti e li lasciò cadere sull'okonomiyaki che già si andava rapprendendo.
 
"Wow, ma sei bravissimo! Quasi quasi spodesti Ucchan!", commentò Ranma osservandolo ammirato.
 
Ryoga alzò gli occhi sorridenti su di lui e sollevò il lato destro della bocca in un ghigno. "Sai benissimo che sono costretto a fare del mio meglio: la palestra mi costa un occhio della testa e le iscrizioni non sono tantissime".
 
"Il tuo è un impegno davvero oneroso, ti ammiro tantissimo. E dovresti ammirarlo anche tu, Ranma", dichiarò Akane riempiendolo d'orgoglio.
 
"Ma io lo ammiro! Dico solo che se la cava egregiamente anche in cucina. E quando tornerà Ukyo?".
 
"Ne avrà ancora per qualche mese". Ryoga girò la sua creazione per farla cuocere qualche istante dall'altro lato, poi la rimosse dalla piastra con una paletta e la ripose nell'apposito cartone che ne manteneva calore e fragranza. "E una, tu come la vuoi, Ranma?".
 
"Verdure e maiale", rispose calcando sull'ultima parola e facendogli l'occhiolino.
 
Il ragazzo si incupì e lanciò un'occhiata ad Akane che, puntualmente, sospirò e disse: "A proposito. È così tanto tempo che non vedo P-chan… chissà che fine ha fatto!".

"Magari ha trovato una fidanzata e due lavori che lo tengono impegnato tutto il g… ahia!".

"Oh, scusami Ranma, mi è sfuggito l'attrezzo, ehehehe!", sibilò raccogliendo la spatola che, dopo aver rimbalzato sulla testa di quell'idiota con un rumore sonoro, era ricaduta sul piano di lavoro.
 
"Voglio dire, vedrai che magari ha tirato su una bella famigliola e si è stabilito da qualche parte", si corresse massaggiandosi la testa e guardandolo di sottecchi.
 
Si ripromise di tirargli qualcosa di più pesante, se ci avesse riprovato.
 
Come al solito, quando la conversazione verteva su Ukyo, a Ryoga tornava in mente il momento preciso in cui gli aveva dato la notizia che sarebbe partita per usufruire di una borsa di studio. Era un crudele riavvolgere la stessa pellicola più e più volte.
 
"Londra? Ma saranno… centomila chilometri da qui e…!".

"Sono meno di diecimila, testone. Con quindici ore d'aereo sono di nuovo qui!", gli aveva risposto accarezzandogli i capelli.

 
Diecimila chilometri, quindici ore. Gli sembrava lo stesso un'eternità.
 
Mi manchi.
 
"Ehm... Ryoga?".
 
Tre mesi senza te e già mi sento perso.
 
"RYOGA?!".
 
Ė quindi più importante il tuo studio di me?
 
"P-chaaaan! Stai bruciando il mio okonomiyaki!".
 
"P-chan? Dove?".
 
Guardò prima Ranma che gesticolava furiosamente, poi Akane che si guardava intorno; infine abbassò gli occhi sull'ammasso bruciacchiato che fumava sulla griglia.
 
"Oh, scusa Ranma, te lo rifaccio".
 
"Insomma dov'è che hai visto P-chan? Mi stai prendendo in giro?".

"Ma è proprio di fronte ai tuoi occ...".
 
"Perdonami, oggi sono particolarmente maldestro!", esclamò Ryoga raccogliendo il tegame che aveva centrato Ranma in pieno viso. Il codinato grugnì qualcosa e lui notò soddisfatto l'intenso color carminio che aveva assunto il suo naso.
 
Per lo meno la rabbia aveva spazzato via parte della malinconia che lo stava nuovamente avvolgendo.
 
"Ranma, ti odio, giochi con i miei sentimenti!". Akane gli rifilò un pugno nello stomaco e il suo sorriso si allargò.
 
"Oh, a proposito: il maiale è finito".
                                                                       ***
 
Nabiki camminava veloce e aveva quasi il fiatone; con i nervi a fior di pelle, nella sua mente si affollavano domande prive di risposte.
 
Non ho saputo mentire a Tatewaki. Perchè?!
 
Bastava così poco, le aveva messo praticamente su un piatto d'argento il matrimonio; le sarebbe stato sufficiente mentire e fare un po' di moine come al solito e la fortuna di Tatewaki sarebbe stata sua per sempre.
 
Cosa si è bloccato dentro di me?
 
Una persona le passò vicino, la urtò ed esclamò qualcosa che lei non udì. Non capiva cosa le fosse preso, probabilmente aveva sbagliato qualcosa e lui non se l'era bevuta: aveva fallito.
 
Sono incinta. Mi devi sposare. Devo vomitare. Idiota!
 
Lui aveva detto che non era stato l'accostamento infelice di quelle frasi a portarlo alla sua decisione, ma Nabiki era convinta che fosse stata una goccia fondamentale: un vaso era traboccato e lei non riusciva a capire di cosa fosse riempito.
Gli era sempre stata accanto, gli si era concessa e nemmeno le dispiaceva troppo, passava con lui quasi tutto il suo tempo libero; certo, gli chiedeva delle cose in cambio, ma quale donna non l'avrebbe fatto? Si sentiva come una principessa e lui era il suo principe prodigo di attenzioni. Dove aveva sbagliato, allora?
Mai, mai avrebbe pensato che un uomo che le portava personalmente la colazione a letto, che la conduceva sottobraccio nei migliori locali, che la esortava a scegliere il gioiello più luminoso in vetrina, si sarebbe rifiutato di sposarla.
Si era offerto di mantenere lei e suo figlio, ma questo a lei non bastava: voleva essere l'erede diretta dell'immensa fortuna di Kuno e senza un matrimonio probabilmente sarebbe andato tutto al marmocchio che teneva in grembo e lei ne avrebbe usufruito solo di riflesso.
 
Avrei dovuto abortire.
 
Il caso maligno le pose davanti agli occhi una scena in tema con le sue disgrazie: una coppia tubava felice all'angolo di una strada, lui con la mano ad accarezzare il ventre prominente della donna.
 
"Senti come si muove, caro?".

"Oh, ma è meraviglioso!".
 
Trattenne una smorfia di disgusto. Solo Kasumi poteva sopportare una cosa simile: ingrassare, vomitare e avere giramenti di testa continui mentre qualcosa ti si muove dentro. Quello era davvero un dono? Una maledizione, piuttosto! Specie se non serviva a niente, neanche a farsi sposare da un ricco rampollo.
 
Se interrompessi la gravidanza potrei fingere di averlo perso e tutto tornerebbe come prima...
 
Avrebbe continuato con i suoi regali, dopo? O l'avrebbe lasciata perché non si sentiva amato, l'idiota? Nella migliore delle ipotesi avrebbero fatto i fidanzatini tutta la vita, ma lei non sarebbe mai stata proprietaria di niente.
 
Dannazione!
 
Doveva fare qualcosa, ma si impose di rifletterci con calma, analizzando punto per punto i pro e i contro che comportava quella gravidanza indesiderata.
 
                                                                       ***
 
"Fermati qui, Katsunishiki, siamo arrivati". Alzò lo sguardo sull'insegna della palestra e il suo cuore prese a battere forte.
 
E così è qui che allena il mio Ryoga.
 
Quattro anni senza vederlo le parvero un'eternità e Akari si chiese per l'ennesima volta come sarebbe stato se fossero rimasti fidanzati.
 
Dalla palestra provenivano i rumori inconfondibili di un allenamento e incitò Katsunishiki ad avanzare per poterlo guardare per un po' dalle ampie vetrate.
 
Quante volte mi hai spiata da lontano credendo che io non ti vedessi...
 
Era come lo ricordava, il suo Ryoga, con i muscoli del torace in evidenza e le gambe forti fasciate da una tuta aderente; le gocce di sudore gli imperlavano la fronte e si staccavano in piccole scie quando si muoveva facendolo apparire ai suoi occhi bello come un dio.
 
Potrei stare qui a guardarlo per ore.
 
Dopo qualche minuto Ryoga si fermò, trasse un lungo respiro e si passò un asciugamano sul viso; Akari scelse quel momento per incitare il suo maiale ad avanzare.
 
                                                                       ***
All'inizio credé di avere le allucinazioni: il lavoro al negozio di okonomiyaki sommato agli allenamenti in palestra gli stavano pesando non poco; senza contare che quella sera Ranma l'aveva fatto infuriare davvero con la storia di P-chan e della carne di maiale!

Ma dovette ricredersi perché Akari era lì, di fronte a lui e gli stava parlando. Non era un'allucinazione dovuta alla stanchezza.
 
"Ciao, Ryoga".
 
"A... Akari, che sorpresa!". Non sapeva cosa dirle, era troppo frastornato per formulare un pensiero coerente.
 
Lei sorrise inclinando leggermente la testa: "Ti trovo bene".
 
"Anche io, sei... in  forma!".

Che diavolo gli prendeva?! Era imbarazzato a parlarle: dopo tanto tempo che si era limitato a osservarla da lontano non gli sembrava vero poter udire di nuovo il suono della sua voce.
 
"Ho sentito che Ukyo è partita per una borsa di studio".

Ryoga la fissò a bocca aperta. "E tu come lo sai?!". Non si capacitava che si fosse spinta fin lì per lui.
 
"Beh, ho il telefono e con Akane e Ranma ci siamo sentiti spesso", spiegò con semplicità.
 
"Ah... oh, ma certo, che stupido che sono, ehehehe!". Si portò una mano dietro la nuca, ridendo scioccamente. Era davvero a corto di argomenti.
 
"Ryoga, sono qui per chiederti un grosso favore". Improvvisamente divenne seria e Ryoga smise di ridere; c'era un'espressione più matura sul suo volto: niente a che vedere con il normale passare degli anni, quella maturità sapeva di lacrime e dolore. Improvvisamente le parve molto più grande della sua età.
 
"Certo, tutto quello che vuoi, Akari". Per un attimo gli parve che il lampo di un sorriso le attraversasse il volto, ma invece di esserne felice ebbe un brivido lungo la schiena.
 
Ma che diavolo mi prende? Ė solo Akari, la mia sfortunata, dolcissima Akari...
 
"Allenami".
                                                                       ***
 
"Ma guarda che bei marmocchi", commentò Izumo fissando la finestra dietro la quale l'allegra famigliola era riunita intorno al tavolo della cena.
 
La donna restrinse gli occhi e l'espressione sul suo volto si indurì ulteriormente. "Quello è il bastardo che ha avuto il coraggio di scaricarmi quattro anni fa. Ha rifiutato me preferendo quella sciacquetta insipida. E dire che avevo circuito mica male quella decrepita della madre". Mentre parlava si accese una sigaretta e soffiò volute di fumo che si dispersero nell'aria.
 
"Come mai questo tuffo nel passato? Non è nemmeno ricco!", domandò circospetto.
 
"Avevo voglia di rivedere l'uomo che mi ha spezzato il cuore e ridotto di nuovo a fare la ballerina in quello schifo di locali. Ricco o no, si trattava sempre di una scappatoia".
 
"Non prendermi per il culo, Mayumi, sputa il rospo". Non credeva proprio che si fosse spinta fin lì solo per scrivere lettere minatorie.
 
Lei lo guardò, scintille di astuzia ferina le illuminarono gli occhi di una luce malata. "In effetti avevo una mezza idea di vendicarmi". Fece un sorriso storto.
 
"Ah, ora ti riconosco! Che vuoi che faccia? Spavento a morte sua moglie? O preferisci che pesti lui?".
 
Mayumi si mordicchiò l'unghia del pollice con cui teneva la sigaretta, come riflettendo. "Nahh... direi di fare le cose in maniera più... rifinita".
 
"E cioè?".
 
"Rapiamo i marmocchi".
                                                                      
***
 
Mousse giaceva profondamente addormentato accanto a lei e Shampoo lo stava fissando già da qualche minuto. Non si era resa conto che si stava accarezzando il ventre con un movimento lento e meccanico. Si fermò, sospirando, e recuperò la camicia da notte che era finita ai piedi del letto.
 
Stupida papera, se la dorme lui!
 
Nonostante i problemi che l'affliggevano, continuava a cercarlo quasi ogni sera con ardore, con rabbia, come se la propria sterilità fosse colpa sua e dovesse fare il possibile per darle quel figlio che lei anelava.
 
Si vestì e andò nella cameretta decorata di rosa dove Misaki dormiva abbracciata al suo orsacchiotto preferito. Adorava i suoi capelli che sembravano aver rubato la notte al cielo: le ricordavano così tanto quelli di Mousse!
 
Di mio non ha nulla. Non il lilla dei capelli,non il castano degli occhi, non i tratti del volto, anche se continuano a dirmi che il suo carattere è identico al mio.
 
Molte volte aveva sentito parlare di depressione post-partum. Ma mai aveva letto qualcosa sulle conseguenze devastanti che aveva su una donna una situazione come quella che si ritrovava a vivere.
 
Quando l'hai avuta sapevi benissimo che nulla sarebbe stato più lo stesso, visto che ti sei svegliata dopo giorni di coma.
 
Quei capelli così scuri, così lunghi…
 
Identica a Mousse. Dopo tutto quello che ho passato io.
 
Come poteva amare e odiare allo stesso tempo una creatura così innocente?
 
Non l'hai nemmeno allattata subito, per questo non la senti tua.
 
Ma era stata lì per lei quando aveva messo i primi dentini; aveva sofferto con lei quando la notte si svegliava in preda alle coliche; e aveva riso con lei quando aveva imparato a farlo a soli pochi mesi di vita. Doveva accettare il fatto che Misaki era la stessa bambina che aveva visto dopo essersi svegliata
 
L'emorragia mi ha quasi uccisa e della sua nascita non ricordo praticamente nulla.
 
e che lei aveva amato subito: era assurdo attribuirle colpe che non aveva.
 
Ma è proprio quello che sto facendo, rivedo in lei quello che ho perso invece di ciò che ho avuto.
 
Cadde in ginocchio, con la testa fra le mani, tentando di non singhiozzare. Era così confusa, anche dopo anni, che temeva non avrebbe mai smesso di tormentarsi. Controllò il respiro, mise una mano sul petto per placarsi e si alzò per accarezzare Misaki
 
mia figlia
 
sui capelli.
 
Devo amarla; la amo da sempre, ma devo imparare a non associarla mai più a ciò che ho perduto. E che non riavrò. Non deve più sentire né odio, né risentimento in me. E neanche io.
 
Un tonfo improvviso la fece voltare di scatto: vide Mousse massaggiarsi la fronte e ridacchiare imbarazzato: "Ehehe, è così buio questo corridoio! Meno male che non ho preso in pieno proprio lo spigolo!".
 
Si ricompose in fretta, cercando di nascondergli il suo turbamento. "Ssst! Parla piano, così la svegli!", gli intimò a bassa voce, uscendo dalla cameretta e richiudendo la porta dietro di sé. "Fammi vedere".
 
"Non è nulla, davvero! Piuttosto, come mai eri alzata?".
 
Oh, Mousse...
 
Lo ignorò e spostò lo sguardo da lui al punto luce che emanava una scia rosea in tutto il corridoio. "Domani torniamo dal dottor Hanata". Era talmente presa dal suo tormento interiore che non si era più curata della vista di suo marito: ultimamente urtava muri e oggetti quasi come faceva un tempo, quando aveva ancora i fondi di bottiglia da talpa.
 
"Ma no, non c'è bisogno! E  poi sai quanto costa un consulto da quello specialista. Questo mese abbiamo già da pagare…".
 
"Va bene, va bene, ho capito. Ma dal dottor Tofu ci vai senza storie, intesi?". Dalla sua espressione capì che il tono risoluto aveva avuto effetto su di lui. Gli concesse uno dei rari sorrisi che riusciva a incollarsi sulle labbra e lo precedette in camera da letto.
 
Improvvisamente si sentiva sfinita.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** In famiglia ***


Cap. 4: IN FAMIGLIA
 
Non c'era un modo facile per dirlo: era una cosa che andava fatta e basta. Così, senza pensarci troppo su. Aveva riunito tutta la famiglia, per non doverlo rispiegare da capo a ogni singolo membro; fortunatamente la suocera di Kasumi era in città, così lei e Tofu si erano potuti spostare lasciando i bambini a casa con lei.
La famiglia era al completo, riunita intorno alla tavola. Ranma e Akane litigavano in un angolo per un boccone che il poveretto si rifiutava, con le mani avanti e gli occhi di fuori, di mandar giù: evidentemente era l'ultimo manicaretto di sua sorella e doveva dire che il colore grigiastro di chissà-cosa era nettamente migliore dell'ultimo pasticcio agrodolce color verde bile che aveva cucinato solo una settimana prima; Soun e Genma sedevano vicini e quest'ultimo rubava, senza vergogna, un sakuramochi dietro l'altro dal piatto dell'amico, la cui unica reazione era un sopracciglio che si alzava e si abbassava inquieto; Kasumi e Tofu erano il ritratto della felicità: sembravano una coppietta al primo appuntamento mentre lei versava al marito the verde fumante e lui sorrideva, imbarazzato, con una mano dietro la nuca; Happosai fumava la sua pipa in maniera composta, senza cercare le gonnelle delle donne presenti: forse, nel suo mare di perversi difetti, era l'unico che subodorava qualcosa di grosso nell'aria.
"Bene, a quanto pare ci siamo tutti", commentò sedendo a capotavola e raccogliendo un coraggio che credeva di avere da sempre ma che, in realtà, pareva sfuggirle a ogni occhiata che lanciava alla sua serena famiglia. Stava per versare addosso a tutti loro un carico fumante di vergogna e responsabilità ma non riusciva a dispiacersene tanto quanto ne disperava lei per prima. Però sapeva prendersi le sue responsabilità e, come al solito, avrebbe tentato di trarre più profitto possibile persino da una situazione anomala come quella, anche se ancora doveva capire bene come.

"Allora, Nabiki, dev'essere una cosa importante se ci hai convocati tutti qui, quest'oggi". La voce di suo padre le accelerò un poco il battito cardiaco e contemporaneamente solleticò la sua ilarità: si sentiva come se stesse per confessargli che aveva deciso di donare tutti i suoi averi in beneficenza per rinchiudersi in un monastero cattolico sulle montagne.

No, non importante. Assurdo è il termine esatto.

Ora aveva tutti gli occhi puntati su di sé e avvertì la punta di un disagio mai provato in vita sua; molte persone l'avevano ascoltata con attenzione, in passato, con lo sguardo fisso e una mano al portafogli. Ora non avrebbe guadagnato nulla, anzi, forse avrebbe perso stima, credibilità e salute mentale.

Sarebbero stati i mesi più lunghi della sua vita.

Prese la tazza di the che Kasumi le aveva offerto silenziosamente e ne assaporò l'aroma e il calore quando la strinse tra le mani. Bevve un sorso, prendendo tempo e avvertendo, come un campo magnetico, la tensione dell'attesa che emanavano tutti intorno a lei.

Si concesse un respiro profondo, poi aprì la bocca e lo disse, senza alcuna emozione nella voce ferma: "Sono incinta".

Le persone intorno a lei divennero comici burattini manovrati da qualche clown infernale, ma dotato di un grottesco senso dell'umorismo: Akane lasciò cadere la poltiglia grigia sui pantaloni di Ranma con la mascella che, se non fosse stata articolata alla testa, sarebbe sicuramente precipitata a sua volta nel medesimo posto; Ranma, dal canto suo, era la perfetta imitazione di sua moglie, con l'unica differenza che aveva anche gli occhi strabuzzati come la bavosa occhiuta che aveva avuto modo di vedere in un libro sul mondo ittico; Happosai aveva semplicemente lasciato cadere la pipa sul ginocchio del signor Genma, il quale aveva interrotto ogni sua reazione di stupore per mettersi a saltellare su un piede tenendosi con una mano il ginocchio bruciacchiato; Kasumi invece aveva semplicemente mollato la presa sul bricco del the che, fortunatamente, era caduto in piedi sul tavolo schizzando tutt'intorno gocce bollenti e si era portata una mano sulla bocca mormorando qualcosa di inintelligibile; suo marito si era ritratto istintivamente per non bruciarsi e si era sistemato gli occhiali sul naso con un patetico 'oh' di circostanza.

Si azzardò a voltarsi verso suo padre solo dopo qualche secondo: sedeva immobile, le mani tremanti che artigliavano il tessuto dei pantaloni all'altezza delle ginocchia, gli occhi spalancati su di lei come due punti esclamativi che urlassero a gran voce. Fu invece in tono controllato ma tremante che le chiese: "Immagino quindi che il matrimonio tra te e quello sciagurato di Kuno Tatewaki sia imminente".

Non era una richiesta, si accorse quasi con orrore: era una verità inconfutabile nella mente di suo padre. La leggendaria freddezza di Nabiki si intiepidì innanzi a quell'equilibrio che stava spezzando per sempre, ma d'altronde la colpa non era sua.

Forse, invece, in gran parte lo è.

Era stato lui a respingerla, rifiutandosi di prendersi le proprie responsabilità,

Sono stata io ad allontanarlo, pretendendo solo oro e ristoranti di lusso,

lui a lusingarla e ad accontentarla per poi scappare a gambe levate dinnanzi alla responsabilità di un figlio.

io a concedermi a lui anima e corpo con l'intenzione di prendere dieci volte quello che potevo dare.

Sbatté la tazza sul tavolo, restrinse gli occhi e buttò fuori le parole come fossero pugnali lanciati per uccidere ogni pensiero colpevole che le era assurdamente affiorato in testa: "Non sposerò Tatewaki e alla fine della gravidanza darò il marmocchio in adozione. E questo è tutto".

Perché non ho il coraggio di fare il vile gesto ora.

Si alzò da tavola senza darsi neanche la pena di guardare gli occhi pateticamente esterrefatti di cui poteva sentire l'alone appiccicarsi sulla schiena, registrando solo il tonfo di Soun Tendo che, finalmente, sveniva.

                                                                                           ***

Ryoga fissava Akari con crescente ammirazione. Nonostante la sua condizione, aveva dimostrato di avere una forza di volontà talmente ferrea che non gli sembrava più la stessa ragazza che aveva tentato il suicidio solo pochi anni prima.
Aveva rifiutato fermamente la sedia a rotelle, preferendo andare in giro sulle forti spalle del suo maiale Katsunishiki come faceva quando ancora aveva l'uso delle gambe. Le sue braccia erano forti e toniche, si vedeva che le aveva allenate parecchio per compensare l'immobilità degli arti inferiori.

"Cosa vuoi che ti insegni? Sei già in forma e...".

Akari stirò in aria le braccia e lo guardò con un'intensità che quasi lo spaventò: "Queste. Devono essere imbattibili. Voglio che siano in grado di spaccare la roccia, se necessario; non come fai tu quando usi lo Tsubo detonatore, ma con la forza dei muscoli!".

Ryoga tacque, sopraffatto. Per un attimo immaginò un'Akari culturista con le braccia sproporzionatamente muscolose: decisamente grottesca. Scacciò la fantasia con una smorfia.

"E le mie gambe... se mi alleni, se... mi aiuti... forse io...". In contrapposizione al tono quasi rabbioso di poco prima, ora la voce della ragazza virava quasi al pianto. Non poteva ignorare la sua preghiera, per quanto sapesse che per le sue gambe c'era poco o niente da fare. Chi era lui per distruggere le sue illusioni?

"Lo farò!", disse accorato scattando in avanti e stringendo le sue mani nelle proprie con trasporto. "Farò tutto ciò che vuoi, mia dolce Akari!". Forse era stato un tantino esagerato nella sua dimostrazione di affetto e quasi temette di ricevere una spatolata di gelosia dalla sua fidanzata.

Ma Ukyo era lontana chilometri e Akari aveva gli occhi lucidi di gratitudine. Era un'amica preziosa, tutto qui, e i kami solo sapevano se non avrebbe mosso mari e monti per lei, specie dopo tutto quello che aveva passato.

"Grazie Ryoga, oh, grazie!", esclamò buttandoglisi fra le braccia e facendolo quasi cadere, nonostante fosse inginocchiato a terra. La parte superiore del busto era tonica e i muscoli guizzanti, anche se le gambe rimanevano inerti sul tatami: era certo che sarebbe diventata imbattibile, più forte di qualsiasi artista marziale in piena salute. Lui avrebbe fatto in modo che lo fosse.

                                                                                              ***       

"Ma che scenetta commovente! La nonnina che difende i due nipotini!", cantilenò Izumo vedendo la vecchina indietreggiare nell'inutile tentativo di fare da scudo ai bambini che, per quanto piccoli, erano già più alti di lei.

"Ti avverto, razza di energumeno, fai un altro passo e ti scateno addosso tutta la forza della mia tecnica marziale preferita!", strillò la mummia.

Izumo scoppiò a ridere: Mayumi gli aveva spiegato che l'unico che masticava un po' le arti marziali era proprio Ono Tofu, e al momento non era in casa, quindi stava bluffando. Avevano seguito attentamente i movimenti  della famiglia e quel pomeriggio, poco dopo l'arrivo della vecchia, l'ex di Mayumi con la moglie erano usciti lasciando i marmocchi con la nonna; non potevano credere di aver avuto tanta fortuna. Entrare, poi, era stato un gioco da ragazzi: era bastato far finta di avere bisogno del dottore e chiedere di attenderne il ritorno.

"Inutile che mi prendi in giro, nonna, so che sei più innocua di questi ragazzini. Ma tranquilla, se ti sposti da sola non ti farò del male". Allungò una mano per prenderla per un braccio e si ritrovò addosso una furia scatenata in miniatura.

"Lascia stare la nonna!", strillava la piccola peste graffiandogli il viso e mordendogli un braccio.

"Brutto figlio di...!", sbraitò scrollandoselo di dosso con uno strattone e mandandolo a terra. Il gemello lo attaccò a sua volta. Bene, acchiapparli sarebbe stato più facile del previsto.

"Non fare male a mio fratello!", strepitò, ma stavolta Izumo fu pronto e lo placcò al volo, recuperando con il braccio libero il primo bambino che si stava già rimettendo in piedi.

"Akio, Daiki! Tornate qui!", diceva la vecchia attaccandoglisi alla gamba e mordendolo: per essere una vecchia con la dentiera ne aveva di energie, la maledetta! Aveva promesso di non fare del male a nessuno, perché quando si tratta di vecchi e bambini si rischia la galera se gli torci un capello, ma dannazione! Quei tre piccoletti gli stavano dando sui nervi e, comunque, non si rischiava il carcere anche coi rapimenti? Calciò l'aria violentemente finché l'anziana piattola non volò letteralmente addosso al muro e uscì più in fretta che poté con i due gemelli strillanti tra le braccia.

Quando raggiunse Mayumi nel vicolo, la sua faccia era contratta in una smorfia tale che sembrava un demone: "Razza di imbecille, dovevi per forza fare tutto questo casino per portarli via?! Ti avrà sentito tutto il quartiere, e ringrazia il cielo che non si è affacciato nessuno! Eppure si tratta di una vecchietta e due bambini!". Senza tante cerimonie, sbatté una pezza piena di cloroformio sulla faccia dei marmocchi e per un attimo giurò che lo stesse per fare anche con lui.

Finalmente le due belve tacquero. "Oh, non stressarmi, io che ci guadagno in tutto questo?!".

"La mia eterna gratitudine", lo liquidò lei indicandogli il via libera in una strada laterale.

"Non provarci con me, Mayumi...", la avvisò in tono pericoloso.

"Ti pagherò non appena avrò deciso quanto posso chiedere a questa specie di famiglia come riscatto. Tranquillo. Ora andiamo al nascondiglio e non rompere. E non svegliarli!".

I due mocciosi pendevano inerti e non si sarebbero svegliati molto presto di certo, visto che Mayumi aveva usato tutta la boccetta di cloroformio; i vecchi metodi erano quelli che funzionavano sempre. Se tutta la storia fosse andata per il verso giusto e avessero tirato su qualche yen, forse avrebbe potuto procacciare qualche altro incarico a Mayumi al night club e si sarebbero rimessi in pista. Prima però aveva bisogno di una ripulita e di vestiti nuovi: così come era conciata non l'avrebbero presa neanche per battere le strade.

                                                                              ***

Non era andata poi tanto male. Alla fine si erano verificate più o meno le reazioni di stupore che aveva previsto, compreso lo svenimento di suo padre, che ora borbottava frasi inintelligibili con una pezza umida sulla fronte.

"Mia figlia... ragazza madre... mi vendicherò... ucciderò...". Nabiki sbuffò: non voleva che Tatewaki fosse costretto a sposarla con le maniere forti. Una cosa era obbligarlo a prendersi le sue responsabilità, ma una volta declinate non era certo il caso di chiedere l'elemosina!

Sei stata la prima a volerlo obbligare con la storia del bambino, ammettilo.

"Oh, al diavolo, devo mettere qualcosa sotto i denti!", dichiarò alzandosi per recarsi in cucina. Kasumi la seguì in silenzio mentre scovava dei biscotti secchi dalla credenza e ne addentava uno; l'acidità di stomaco si placò un poco.

"Ti ho delusa, vero?", chiese a Kasumi senza guardarla. Avvertì il sussulto della sorella alle sue spalle.

"E perché? Un figlio è una benedizione".

Certo, cosa mi potevo aspettare di diverso da lei?

Non sapeva perché stesse cercando l'approvazione di Kasumi, in realtà. Anzi sì.

Kasumi fa le veci della madre che non ho e mi comporto con lei come farei con mia madre. Ma io di solito non mi preoccupo del giudizio altrui, quindi perché mai dovrei...

"Kuno non vuole sposarti?", le domandò strappandola alle sue elucubrazioni.

Ci siamo.

"No, perché secondo lui non lo amo e non vuole legarsi con un vincolo tanto sacro, bla, bla, bla... Sai come è fatto, no? Però si è offerto di essere presente sia fisicamente che economicamente per me e il bambino. Come se questo bastasse!".

"Ed è vero che non lo ami?". Sperava che non le avrebbe fatto quella domanda e che si sarebbe concentrata sulla seconda parte della sua frase, ma non si poteva sfuggire a Kasumi. Si voltò verso di lei, cercando di prendere tempo.

"Il fatto è che lui pretende... insomma, vuole un amore incondizionato che... oh, al diavolo, non lo so!". Kasumi continuava a sorriderle gentilmente e la cosa, non seppe perché, la mandò ancora di più in bestia.

Fu lo squillo del telefono a salvarla. Almeno aveva una scusa per uscire da quella cucina.

"Pronto, qui casa Tendo", disse col fiatone. Si accigliò, poi spalancò gli occhi e quasi fece cadere la cornetta. Si augurò che suo padre fosse vigile e che Ranma e Akane non fossero usciti nel frattempo: erano in piena emergenza.

                                                                                              ***

Akane provava una stretta al cuore. Poco prima era scoppiata una bomba, ora era letteralmente esploso tutto il loro mondo. Suo padre stava appena riprendendo i sensi dopo la notizia che Nabiki era incinta e la stessa figlia si era precipitata nella stanza con Kasumi al seguito gridando che Akio e Daiki erano stati rapiti.
Il dottor Tofu e Kasumi si erano chiusi nella stanza delle visite per controllare che la povera signora Tofu, aggredita dal malvivente, non avesse nulla di rotto e ora si trovavano tutti lì, in sala d'aspetto, con l'irreale silenzio che regnava a ricordare che i due gemelli non c'erano. Si domandò come sua sorella e il dottore fossero riusciti a mantenere una parvenza di calma: suo padre era un fiume di lacrime e lei non riusciva a smettere di mangiarsi le unghie, vizio che non ricordava di aver mai avuto.

"Cosa ti ha detto di preciso la signora Tofu?", domandò Ranma a Nabiki per l'ennesima volta.

Lei alzò gli occhi al soffitto: "Insomma, Ranma, te l'ho già detto! Un energumeno è entrato qui con la scusa che aveva bisogno del dottore e ha portato via i bambini picchiandola. Non ricorda molto, poverina, era sconvolta".

"Non dovremmo stare qui fermi ad aspettare, dovremmo uscire fuori e cercarli SUBITO! E anche chiamare la polizia!".

"La polizia l'ha chiamata Kasumi prima di uscire, ma le hanno detto che bisogna andare direttamente in centrale con la descrizione del rapitore", spiegò pazientemente sua sorella, "ed è esattamente questo che stanno cercando di capire dalla madre di Tofu, se si ricorda come è fatto".

"Sì, ma io non riesco a stare fermo qui senza fare niente!". Akane avrebbe voluto dirgli di darsi una calmata, ma neanche lei riusciva a rimanere immobile, le sembrava  di sentirsi in trappola ogni minuto di più che i gemelli erano lontani da quella casa.

"Figliolo, calmati, ora, e anche tu Soun, vedrai che li ritroveremo sani e salvi!". Incredibile ma vero, la voce della ragione veniva da Genma Saotome, ma sembrava tanto una frase di circostanza come le altre. Persino Happosai rimaneva silenzioso in un angolo con la sua pipa spenta stretta fra le labbra.

Dopo un tempo che parve infinito, Tofu uscì dalla stanza, pallido e serio. Nessuno fiatò.

"Abbiamo la descrizione e ora andremo alla polizia, noi tre. Voi non potete fare molto". Sembrava essere invecchiato di dieci anni.

"Col cavolo che non faremo niente! Io esco a cercarli! Mi dica come è fatto quest'uomo!". Come al solito Ranma aveva modi rozzi ma efficaci. Affiancò suo marito e si fece spiegare chi dovevano cercare.

"Sua madre non ha per caso visto in che direzione sono andati?", domandò Akane conoscendo già la risposta. Tofu scosse la testa.

"Vi prego, non mettetevi in pericolo anche voi", pregò la vecchia signora uscendo dalla stanza con Kasumi. "Se solo avessi potuto fermarli...".

"Coraggio, mamma, tu non potevi fare nulla contro un uomo grande e grosso, lo sai. Vedrai che andrà tutto bene", la consolò Kasumi. Aveva gli occhi rossi e gonfi, ma il suo dolore era composto come si aspettava. Tutta la rabbia e la frustrazione che doveva provare, in quanto madre privata dei propri figli, la sentiva scorrere dentro di sé come un fiume in piena: avrebbe trovato i suoi nipoti a costo della vita. Lo disse ad alta voce e sua sorella le fece un sorriso triste: "Fate attenzione, vi prego. Nabiki, vorrei che tu tornassi a casa, invece".

La sorella roteò lo sguardo e rispose: "Io rimarrò qui da voi, invece, perché qualcuno deve stare vicino al telefono. Non so se sappiano bene con chi hanno a che fare, ma almeno se chiederanno un riscatto ci sarà qualcuno a rispondere".

Uscirono da casa insieme e, mentre Kasumi, Tofu e la vecchia madre si recavano alla stazione di polizia, loro si divisero in due gruppi.

"Io vado con Akanuccia", esordì Happosai.

"E perché, di grazia, non vai con mio padre e Soun?", chiese Ranma alzando un sopracciglio.

"Razza di testone!", si infervorò lui, "se venisse a piovere non sareste che due donzelle indifese in cerca di un rapitore grande e grosso, lo capisci?!".

"Brutto vecchiaccio, e chi ti dice che verrà a piovere? Non è che per caso farai di tutto per bagnarmi?!", lo redarguì Ranma.

Akane si spazientì: "Ma vi sembra questo il momento di litigare? Smettetela immediatamente e muoviamoci, una buona volta! Papà, signor Genma, voi andate di là, noi setacceremo l'altra parte della città. Ci vediamo qui fra un'ora, va bene?". Nessuno ebbe da ridire e, per una volta, fu lei a dettare legge.  Pregava solo che i bambini stessero bene e che quella brutta storia finisse nel migliore dei modi.

                                                                                                              ***

L'emicrania, la nausea, l'agitazione. Non capiva più quali fossero sintomi della sua condizione e quali quelli della preoccupazione che l'attanagliava. Aveva incontrato Kasumi e i suoi gemelli solo il giorno prima, e ora loro chissà dove e con chi erano.
Camminava in tondo da almeno un quarto d'ora rimuginando su chi diavolo potesse farsi venire in mente di rapire i figli di sua sorella e del medico della cittadina e quasi le stava per venire in mente qualcosa. Poi il telefono squillò spaventandola a morte.

Calmati, Nabiki Tendo, sei troppo sulle spine. Eri qui per questo, no? Quindi rispondi e stai calma. Magari è solo un paziente che chiama.

Ma qualcosa dentro di lei urlava a gran voce che era il rapitore a chiamare. Si vide come in sogno alzare la cornetta, e sentì una voce profonda che le diceva: "Ciao mammina".

Ebbe un brivido.

Già, mammina. Io. Però si riferisce a Kasumi...

"Cosa vuoi da me?", chiese senza negare la propria identità.

"Oh, solo un milioncino di yen, cinquecento a marmocchio".

Nabiki strinse la cornetta con la mano sudata: "Non dispongo di una tale cifra. E non azzardarti a torcere un capello ai miei figli". Era una strana sensazione quella di calcare su 'miei figli'.

Destino strano, il mio.

"Oh, il maritino non guadagna abbastanza? Beh, non mi riguarda. Fatteli prestare, vendi tua madre, vai a battere le strade. Ma trova quei soldi e fammeli avere entro domattina: ti richiamerò presto per dirti il luogo. Non parlarne con nessuno e vieni da sola o potrei accidentalmente smarrire chissà dove i tuoi marmocchi".

"Brutto pezzo di...". Si rese conto troppo tardi che, se voleva fingere fino in fondo di essere Kasumi, quell'imprecazione era quantomeno fuori luogo.

"Oh, e un'altra cosa: non ti venisse in mente di andare alla polizia o potresti farti molto male. Ti tengo d'occhio". Nel momento esatto in cui riagganciò con un rumore secco, la porta d'ingresso si aprì facendola sussultare una seconda volta.

Era sola nello studio e aveva appena parlato con il rapitore. Prima di poterselo impedire, le sfuggì un grido.

                                                                                              ***

Shampoo udì una donna gridare e si mise istintivamente in posizione di guardia. Anche Mousse e persino Misaki la imitarono.
Si comporta già come una piccola amazzone.

"Chi va là! Lo studio è chiuso, non sapete leggere?".

Shampoo si accigliò: conosceva bene quella voce.

"Nabiki Tendo? Cosa ci fai qui?", domandò entrando e invitando marito e figlia a rilassarsi.

"Ma dico, siete ciechi?! C'è un cartello grande così là fuori, possibile che...?" Forse si era accorta del tono che stava usando, perché tacque e si ricompose.

Ciechi eh? Razza di reginetta dei miei stivali!

"Ci dispiace, Nabiki, non credevamo che ci fossi tu. Che succede al dottor Tofu, comunque?", chiese Mousse fin troppo gentilmente.

La media delle Tendo si accigliò per un istante, come se stesse riflettendo sull'opportunità di dire o non dire qualcosa. Alla fine parlò e, per una volta, Shampoo rimase senza parole.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Rapitori ***


Cap. 5: RAPITORI
 
 
"Cosa ti ha detto?". Mayumi non stava più nella pelle: più che i soldi, le interessava la vendetta e non c'era niente di meglio che servire freddo quel piatto. Certo, se avesse potuto rapirli appena nati sarebbe stato meglio, ma anche un tantino difficile, visto che si trovava in carcere, a quei tempi.
 
"Dice che non hanno una cifra simile", rispose Izumo.
 
"Oh, forse non loro, ma di certo il nonno può aiutarli: ha una palestra di arti marziali e ultimamente pare che gli affari vadano abbastanza bene. Quindi non c'è da preoccuparsi. La madre era in pena? Com'era la sua voce?". Aveva un bisogno quasi fisico di sapere quanto male aveva fatto a quella gatta morta che le aveva soffiato forse l'unica possibilità di una vita normale.
 
All'epoca lavorava in uno squallido supermercato, ma già si esibiva nei night club per arrotondare: era lì che aveva incontrato Izumo. La loro relazione era stata ambigua fin da subito e, dopo l'occasione persa con Tofu, non aveva avuto altra scelta che seguire quel protettore perché intanto il supermercato aveva chiuso e lei era rimasta per strada. Letteralmente. Dai club privati al marciapiede il passo era stato breve e ora non vedeva l'ora di vendicarsi di quell'idiota che le aveva bruciato l'ultima occasione di migliorare quello schifo di vita. Dopo l'ultima retata era finita in galera per sei mesi e, se il rapimento rischiava di riportarcela, poco le importava: meglio al fresco che uccisa da qualche cliente particolarmente zelante. Izumo non era garanzia di sicurezza, neanche in quel campo.
 
"Beh, mi sembrava piuttosto scossa, stava quasi per prendermi a parolacce!", ridacchiò il socio riscuotendola dai suoi pensieri e mandandola in confusione.
 
"Parolacce? Quella non direbbe una parolaccia neanche se la prendessero a bastonate sul deretano. Sei sicuro che fosse lei al telefono?". Si ricordava benissimo quella Kasumi, anche se l'aveva vista per pochi minuti: non era tipo da parolacce, assolutamente no!
 
"Mi ha risposto una donna e sembrava preoccupata, chi altri poteva essere?!".
 
"Beh, ad esempio la sorella violenta che fa l'artista marziale o quell'altra, come si chiama...?".
 
"Senti, a me non frega un piffero di chi cacchio mi abbia risposto al telefono, chiaro?! Io voglio solo che entro domattina qualcuno di questa dannata famiglia venga a portarmi i soldi!". Izumo si spazientì e Mayumi tentò di reprimere un'ondata di soggezione: per la maggior parte del tempo era un bonaccione che si faceva manipolare senza grossi problemi, ma sapeva anche che, quando si arrabbiava, poteva diventare pericoloso e non voleva testare questa possibilità.
 
"Va bene, ora calmati e non urlare: più questi due rimangono addormentati, più tempo avremo noi per studiare le prossime mosse senza intralci". Scoccò un'occhiata ai marmocchi rannicchiati in un angolo lurido della cantina e si chiese se fosse il caso di coprirli perché non prendessero freddo; se si fossero ammalati poteva essere un problema.
 
Per il riscatto voleva scegliere un luogo in cui lei e quella Kasumi potessero rimanere da sole per un po': i soldi erano importanti, ma Mayumi voleva anche cambiare qualche connotato a quell'odiosa faccia da santarellina senza essere interrotta.
 
                                                                                              ***
 
Kasumi fissava il poliziotto con ansia crescente: la lentezza con cui stava rileggendo i suoi appunti era esasperante. Lei stessa prendeva la vita con calma, ma in quel particolare momento si sentiva una specie di leonessa in gabbia in attesa di ritrovare i suoi cuccioli; il senso di irrealtà e di distacco stava rischiando di sommergerla.
 
"Quindi oggi, nel primo pomeriggio, questo tizio si è presentato al vostro studio mentre eravate assenti e, con la scusa di avere bisogno del dottore, ha malmenato sua madre e rapito i suoi figli, è così?".
 
"Esatto, agente", disse piano la signora Tofu, la schiena curva. Sembrava invecchiata di decenni.
 
Suo marito invece annuì distrattamente. Le sembrava impaziente anche lui e il continuo sistemarsi gli occhiali sul naso le indicò che stava dando anche i primi segni di nervosismo: era almeno la terza volta che facevano quel riassunto e ogni volta le sembrava che le dessero una stilettata al cuore.
 
Improvvisamente, l'agente fece una domanda strana: "Avete dei nemici? Persone che vi hanno esplicitamente minacciato?".
 
Kasumi sussultò quando Ono si alzò in piedi sbattendo una mano sulla scrivania: "Non potete uscire a cercarli e basta?". Allungò un braccio verso di lui e lo indusse a sedersi. "Scusatemi...", biascicò togliendosi gli occhiali e cominciando a pulirli.
 
"Calmati, figliolo", gli intimò la madre mettendogli una mano sul braccio. Se fosse crollato, non era sicura di poter sostenere tutto da sola.
 
"Signori Tofu, prima di mandare fuori i miei colleghi ho bisogno di sapere dove cercare e se indirizzarmi verso qualcuno in particolare, proprio per ottimizzare...".
 
"Qualche giorno fa ho ricevuto una lettera da una donna che conoscevo", disse Ono facendola sobbalzare.
 
Il poliziotto alzò un sopracciglio, interessato: "Una donna?".
 
"Una certa Mayumi. Qualche anno fa... insomma, lei voleva diventare la mia fidanzata ma io la rifiutai. Mi ha scritto che si sarebbe vendicata e altre stupidaggini simili, ma non ho dato peso alla cosa".
 
Kasumi si portò una mano al petto, nel tentativo di calmarsi: che poteva fare una donna come quella, da sola, a due bambini? Giusto?!
 
"Sarebbe molto utile vedere questa lettera, è ancora in suo possesso, presumo, come mai non l'ha portata subito in centrale?".
 
"Le ho già detto che non mi sembrava potesse essere una minaccia seria! E comunque io... l'ho distrutta". Abbassò la testa, come travolto dal senso di colpa. Kasumi non sapeva bene come sentirsi nei suoi confronti, era troppo sorpresa da quell'ultima rivelazione.
 
"Bene. Abbiamo le descrizioni dei bambini e quella del rapitore. Devono richiamarvi per stabilire il luogo del riscatto, quindi manderò dei colleghi a mettere sotto controllo il vostro telefono per rintracciare la chiamata. Intanto terremo gli occhi aperti".
 
"Terrete gli occhi aperti? Tutto qui?". La voce di Kasumi si alzò di un tono: ora sì che avvertiva una punta di panico.
 
"Tesoro, hanno detto che degli agenti controlleranno il telefono...", tentò la signora Tofu, ma Kasumi quasi non la sentì.
 
"Beh, signora, non sappiamo niente di questa persona, se è schedato non possiamo che fare dei confronti con le foto, ma la descrizione non è molto accurata e non sappiamo neanche se sia davvero un complice di questa Mymi...".
 
"Mayumi, si chiamava Mayumi, ispettore. Lì fuori ci sono i miei bambini, e non hanno ancora cinque anni. Confido...", la voce le tremò e si accorse che l'aveva alzata di un'ottava. Guardò gli occhi spalancati di suo marito e si costrinse ad abbassarla. Un po'. "Confido che li troviate presto, sani e salvi". Girò sui tacchi e uscì fuori, all'aria, respirando a grandi boccate, mentre le lacrime bollenti finalmente le ricadevano giù per le guance.
 
Voleva i suoi bambini a casa, al sicuro nei loro letti, voleva preparare loro la cena e se quello era un incubo voleva svegliarsi  immediatamente. Quasi gridò quando una mano le si posò su una spalla.
 
"Mi dispiace, tesoro. Non volevo farti preoccupare e non credevo proprio che fosse una minaccia. Magari non c'entra nulla con tutto questo. E sono certo che li troveranno, ricordati che lì fuori ci sono anche Soun, Ranma e gli altri".
 
Avrebbe voluto dirgli che doveva avvisarla di quella lettera, che forse sarebbero dovuti andare anche loro a cercarli, che probabilmente quel poliziotto non avrebbe alzato un dito per ritrovarli. Avrebbe voluto gridare al Cielo che le ridesse i suoi bambini ora, subito. Ma non fece nulla di tutto questo e si limitò a gettarsi fra le braccia di suo marito, piangendo.
 
                                                                                              ***
Daiki si svegliò di soprassalto, sentendo il pancino vuoto.
 
Non abbiamo cenato, stasera? Oh...
 
Di colpo si ricordò l'incursione di un omone sconosciuto, le grida della nonna e il rapimento. Si alzò di scatto e gli girò la testa; tentò di calmarsi, ricordando gli avvertimenti del papà che gli spiegava che rimanere lucido in situazioni di pericolo era fondamentale per la sopravvivenza. Lui aveva quasi cinque anni, quindi era abbastanza grande da non aver paura e sicuramente anche suo fratello... a proposito, dov'era Akio?
 
Eccolo lì.
 
Dormiva su un fianco, nel buio di quella strana stanza umida
 
una cantina?
 
e dal rumore esterno stava anche piovendo. C'era un'unica candela accesa su un vecchio scaffale e dai finestroni ogni tanto arrivava la forte luce dei lampi: il viso del fratello era sofferente e gli occhiali gli erano caduti di lato. Si alzò in piedi con cautela perché gli faceva male un po' dappertutto; non sapeva se fosse per aver dormito per terra o magari lo avevano percosso.
 
"Akio, svegliati per favore!", esortò con voce bassa. Non sapeva dove fosse il rapitore, né se poteva sentirlo e non voleva rischiare.
 
"Mmmmh mamma...".
 
"Sono io! Apri gli occhi!". Il corpo del fratello era innaturalmente caldo e Daiki capì che aveva la febbre: aveva bisogno della medicina di papà e della minestra di mamma, ma al momento erano soli in un magazzino umido con il temporale fuori. Si sentì di nuovo piccolo e le parole di suo padre non avevano più senso.
 
"Dove sono papà e mamma? Ho freddo, sto male, voglio andare a casa!".
 
"Shhh, non urlare, ti prego!", lo supplicò sull'orlo delle lacrime a sua volta. "Dobbiamo uscire da questo pasticcio adesso e se il rapitore ci sente è la fine, capisci?".
 
Akio tremava forte, ma annuì con gli occhi lucidi: "Dove siamo?".
 
Daiki si guardò di nuovo attorno. Le mura di legno marcio terminavano con dei finestroni in cima: "Sembra un magazzino. Vedi quelle grosse finestre su in alto? Se riusciamo ad aprirle possiamo scappare".
 
Il fratello alzò gli occhi, li strizzò, poi un fulmine illuminò la stanza e lui si rannicchiò su se stesso, tremando ancora più forte: "Non si apriranno mai, guarda come sono lontane!", piagnucolò.
 
Daiki si accigliò: aveva ragione, l'unica maniera sarebbe stata quella di rompere il legno ma avrebbe fatto rumore. Dovevano essere sicuri di aprire un varco abbastanza grande da sgusciare fuori senza ferirsi. Si guardò attorno, in cerca di qualcosa di grosso ma lo stanzone era pressoché vuoto, a parte qualche scatola di cartone. Alzò lo sguardo all'ennesimo lampo e lo vide: una delle finestre era un poco aperta e se riuscivano ad arrivarci potevano sgusciare fuori, anche se il varco era un po' stretto.
 
"Guarda!" Indicò al fratello.  "Prendiamo un po' di queste scatole".
 
Akio lo aiutò a impilarle e, grazie ai rudimenti delle arti marziali che aveva appreso da papà, Daiki riuscì ad arrampicarsi fino in cima. "Akio, dammi la mano!".
 
"Ma io non posso, non sono capace di arrampicarmi", piagnucolò il fratello.
 
Daiki sospirò rumorosamente: "Dai, è come fare le scale di casa!", tentò. Akio cominciò a salire, incerto, ma ricadde quasi subito.
 
"Mi sembra di svenire, non ce la faccio".
 
Il bambino si morse il labbro inferiore: voleva piangere, urlare, voleva la mamma e il papà. Ma sapeva, in un angolo recondito del suo cervellino, che tra i due lui era stato sempre quello più forte. Lui era quello che seguiva il papà negli allenamenti, lui era quello che si arrampicava sugli alberi o correva in mezzo alla strada costringendo la mamma a imbragarli con il 'camminatore' come fossero cagnolini, come diceva la zia Nabiki. Forse, rifletté, perché era più grande di tre minuti - a detta della mamma - e quindi era il fratello maggiore. Doveva essere forte.
 
"Akio, ascolta, io vado a cercare aiuto! Tu fai finta di stare male e non farli arrabbiare". Il fatto che stesse male davvero rendeva le cose più semplici.
 
"No! Non lasciarmi da solo, ho paura!", gridò Akio cominciando a piangere.
 
"Ssst! Non farti sentire! Io farò velocissimamente, la prima persona che incontro la porto qui e ti salviamo!".
 
"Ma... ma... se siamo lontani e perdi la strada?".
 
Non ci aveva pensato: non avevano mai girato per la città da soli, ma lui non era come lo zio Ryoga e si sarebbe di certo ricordato dove si trovavano. Inoltre sapevano già leggere qualche scritta e ne avrebbe memorizzata una lì vicino.
 
"Fidati del tuo fratellone!", esclamò battendosi un pugno sul petto e tentando di ignorare le mille preoccupazioni che gli si affacciavano alla mente.
 
Akio rabbrividì, forse per la febbre, e annuì con le lacrime che gli rotolavano sulle guance. Non poteva fallire, o sarebbe stata la fine. Con stoico coraggio, il piccolo Daiki Tofu si arrampicò fin sulla finestra, tentando di ignorare la paura e gli ansiti preoccupati del fratellino, e si infilò nella piccola apertura.
Se il magazzino era umido, al confronto la pioggia di fuori gli parve freddissima. Chiuse per un attimo gli occhi e valutò l’altezza fino a terra: forse era poco più alto dell’albero su cui era solito arrampicarsi e poi scendere con un balzo; prese un respiro profondo e si lasciò andare, tendendo i muscoli delle gambe per assorbire l’impatto. Se non fosse stato per la pioggia ce l’avrebbe fatta, invece scivolò e si ferì il ginocchio sull’asfalto.
 
“Accidentaccio!”, imprecò stringendoselo al petto. Poi si tirò in piedi e fece un cenno di ok ad Akio al di là del vetro. Sorrise al fratellino sparuto e piangente e cominciò a cercare un riferimento per orientarsi.
 
                                                                              ***
 
Akari guardava fuori dalla finestra da un po’. La camera era comoda e accogliente, ma avrebbe preferito condividerla con Ryoga.
 
Ho tante cose da dirgli, tanti sogni infranti da raccontargli…
 
Invece lui era scappato con un futon al piano di sotto come se fosse inseguito dai demoni, dicendole che se aveva bisogno di qualcosa poteva chiamarlo, mi raccomando, ora io vado a dormire, ‘notte! Pensava forse che gli avrebbe fatto delle avances o qualcosa di simile?
 
Non che mi sarebbe dispiaciuto, in realtà.
 
Anni prima, quando li aveva rivisti in occasione di un compleanno dei bambini di Kasumi, era stata contenta nel rendersi conto che Ryoga e Ukyo erano felici. Poi aveva saputo che la cuoca di okonomiyaki sarebbe partita per un viaggio-studio in Europa e qualcosa era scattato in lei.
 
Lo lascia solo per inseguire i suoi sogni. Io ho rinunciato a lui e Ukyo lo abbandona.     
 
Sapeva che non era esattamente così, e in un angolino recondito del suo cuore sapeva che aveva bisogno di una scusa, un pretesto per riavvicinarsi a Ryoga
 
alla vita
 
e quella era l'occasione perfetta. Dopotutto, Akari Unryu non era una santa e non voleva vivere il resto della sua vita da sola.
 
                                                                                              ***
                                  
 
Lì vicino c'era la stazione della metropolitana, poi si girava a destra e c'era il capannone. Daiki memorizzò queste informazioni mentre correva sotto la pioggia: sembrava che tutti gli adulti fossero rintanati nelle loro case e chi poteva biasimarli, con un tempaccio del genere, in piena notte per giunta?
 
Decise che avrebbe dovuto bussare a qualche porta, suonare i campanelli, solo così avrebbe potuto incontrare qualcuno. Alla prima porta non rispose nessuno.
 
Che sfortuna!
 
Decise di bussare a una casetta di legno e gli aprì un uomo grande e grosso con una barba nera come la notte: "Che vuoi ragazzino?!", lo apostrofò facendolo indietreggiare.
 
"Io... io... mio fratello è stato rapito, mi deve aiutare, deve chiamare la polizia!", pianse.
 
L'omone emise un singulto come se avesse mangiato troppo, inarcò un sopracciglio e si attaccò a una bottiglia che teneva in mano, bevendo lunghi sorsi. "Non mi scocciare, non ho tempo per gli scherzi!", concluse sbattendogli la porta in faccia.
 
Daiki rimase a fissare l'uscio chiuso come se non capisse cosa fosse, poi corse ancora nella pioggia, fradicio di lacrime e di acqua.
 
"Ma insomma, possibile che in questo posto non ci sia nessuno?! Aiuto, aiuto! Qualcuno mi aiuti!", gridò con quanto fiato aveva in gola, cadendo sulle ginocchia e singhiozzando.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Salvataggio ***


  
 
 
Cap. 6: SALVATAGGIO
 
 
 
Mayumi lanciò un gridolino, poi mormorò una parolaccia. Izumo, che le stava camminando alle spalle, le sbatté sulla schiena: "Che cavolo ti prende?!", sbottò.
 
"Ne è scappato uno", ribatté asciutta, sull'orlo di una crisi di nervi.
 
"Merda, come è possibile?". L'uomo la superò e si avvicinò al bambino rimasto, che tremò e si rannicchiò su se stesso. Lo tirò su di peso e lo scrollò rudemente: "Dove sta tuo fratello, rispondi!".
 
"N-non lo s-so, mi sono svegliato e... lui è sparito!".
 
"Piccolo bugiardo, non ti credo!", gridò Mayumi fuori di sé. Poi vide la pila di cartoni e capì. "Quel piccolo mostriciattolo, ecco come è scappato!".
 
Izumi lasciò andare l'altro diavoletto che prese a frignare e Mayumi ebbe l'impulso di picchiarli entrambi: sapeva che dovevano stare più attenti.
 
"Vado a cercarlo, non sarà andato lontano. Da quell'altezza magari si è anche rotto una gamba", disse Izumo tornando indietro per uscire.
 
Mayumi si avvicinò al bambino: "Smetti di piangere e dimmi la verità, da quanto è andato via tuo fratello? Rispondi!".
 
Anche lei avrebbe voluto una vita normale e dei marmocchi, magari. E tutto quello che le stava accadendo era un'ingiustizia bella e buona. Quel Tofu avrebbe pagato per tutto, anche se era responsabile solo in parte: aveva bisogno di incolpare qualcuno per la sua misera vita e quel dottorino di periferia con la sua moglie perfetta era il capro espiatorio che le serviva. Ma ora uno dei gemelli era fuggito e chissà se lo avrebbero ritrovato. Stava andando tutto da schifo.
 
"Tirati su e mettiti quella coperta, mi servi in salute perché i tuoi genitori paghino il riscatto!", disse con rabbia. Sperava solo che Izumo trovasse l'altro marmocchio o poteva anche lanciare l'allarme e farli scoprire. E lei, a ben pensarci, non voleva tornare in galera. La galera era più sicura dei marciapiedi ma non voleva passare il resto dei suoi giorni dietro le sbarre.
 
Meglio morire che ritrovarsi nuovamente rinchiusa.
 
                                                                                              ***
 
 
Misaki tirò il vestito a sua madre, ma sia lei che il papà avevano già rizzato la testa, in ascolto: avevano sentito anche loro le urla.
 
Ed eccolo lì Daiki, tutto sporco di fango e con un ginocchio sanguinante: "Mi-Misaki? Shampoo-san?", disse appena li vide, balbettando come il suo gemello quando la vedeva.
 
"Dov'è tuo fratello?", chiese papà, inginocchiandosi per vedere come stesse. Il bambino si strofinò gli occhi e con l'altra mano indicò un punto dietro di loro.
 
A quel punto si misero tutti a correre e arrivarono in una strada con una grande costruzione di legno.
 
"Sembra abbandonato. Sei sicuro che Akio sia qui?", domandò sua madre a Daiki.
 
"Ci hanno rapiti, lui ha la febbre e io sono scappato arrampicandomi sui cartoni per chiedere aiuto!", spiegò confusamente.
 
Rimasero tutti lì fermi per un attimo e Misaki si chiese cosa stessero aspettando, poi si sporse da dietro la mamma, che le stava facendo scudo col proprio corpo non capiva da cosa. O da chi.
Anche papà si irrigidì e si mise in posizione di guardia, mettendosi davanti alla mamma e a Daiki stesso.
 
"Vi consiglio di non muovervi da lì", disse una voce profonda; Misaki non capiva a chi appartenesse perché mamma la stava bloccando con un braccio dietro alla sua schiena e non si poteva spostare neanche un po'.
 
"Non è onorevole mettersi a parlare con una pistola in mano", disse papà e quello si mise a ridere.
 
"Onorevole?! E chi vuole essere onorevole? Andatevene pure con il moccioso, ma non fate un altro passo o vi sparo. E da questa distanza potrei beccarvi tutti, senza scherzi".
 
"Mousse". La voce della mamma vibrava come non l'aveva mai sentita. Sembrava... spaventata, per quanto suonasse assurdo.
 
"Va bene, ce ne andiamo, dicci solo se l'altro bambino sta bene".
 
"Lo scoprirete quando la vostra amica pagherà il riscatto. Ora sparite e se provate ad andare alla polizia vi cercherò e vi ucciderò uno a uno, a costo di evadere e farmi ributtare dentro dopo". La voce tuonava come il temporale e Misaki provò rabbia e paura allo stesso tempo. Voleva scappare, ma voleva anche attaccare quell'uomo e urlargli che non doveva parlare così al suo papà.

"Non sono da solo e siamo tutti armati, non vi conviene seguirmi. Ora ci sposteremo da qui e telefoneremo alla vostra amica per dirle dove portare i soldi". Misaki capì che quell'uomo era più pericoloso di mamma quando si arrabbiava o di papà quando lottava contro il suo amico Ranma. In realtà pensò che era più pericoloso di tutti gli adulti che aveva conosciuto fino ad allora.

Da dove si trovava avvertì un movimento improvviso, poi sentì delle urla e un rumore forte, come un tuono. Ma aveva smesso di piovere e sua madre e suo padre avevano chiuso l'ombrello: sarebbe stato un problema se avesse ricominciato ora perché dovevano avere le mani libere e non potevano certo rischiare di trasformarsi come al solito! Poi capì che il rumore non era un tuono, ma uno sparo. E a quello ne seguì un secondo.
 
                                                                                              ***
Ranma imprecò, frustrato: aveva smesso di piovere da poco eppure era riuscito a bagnarsi innescando la trasformazione. Quel cerebroleso di Happosai si era distratto per colpa di un mucchio di biancheria stesa su un balcone e gli era saltato in testa  blaterando che, con quel tempaccio umido, quei tesorini si sarebbero rovinati! Ranma, che non era preparato, era scivolato dritto in una pozzanghera di discrete dimensioni e quando Akane lo aveva aiutato a uscirne era già diventato donna.

"Ma non le tappano le buche da queste parti?! Vecchiaccio maledetto, se ti prendo ti ucc...!".

"Ssst!", gli aveva intimato Happosai tornando accanto a loro. Ranma stava per colpirlo duramente, poi sentì anche lui le voci.
"Sono... Mousse e Shampoo?", bisbigliò Akane guardandolo negli occhi.

Ranma annuì. C'era però una terza voce a parlare e quello che diceva era agghiacciante. Happosai indicò i balconi dei piani più alti intorno a loro, ma Ranma era già saltato su ignorando le proteste di Akane; lui e il maestro si mossero silenziosamente di tetto in balcone fino a trovarsi alle spalle del rapitore: per fortuna Akane non li aveva seguiti e per fortuna il vecchiaccio non aveva indugiato su altri panni stesi. Deglutì a vuoto nel vedere la pistola.
"Userò un happo daikarin, tieniti pronto, Ranma".

Gli lanciò un'occhiata, allarmato: l'happo daikarin avrebbe fatto un rumore infernale e rischiava di far partire un colpo all'uomo. Quello scemo di un maestro aveva già acceso la miccia e Ranma fu lesto a saltare.

O la va, o la spacca.

                                                                                              ***
Akane decise di non essere d'intralcio, anche se il suo istinto le urlava di correre da suo marito che, in forma femminile, era molto più vulnerabile considerando che c'era anche Happosai con lui e non era sicura che volesse proteggerlo. Poi ebbe un'idea: dalla conversazione aveva capito che Akio era in un capannone poco distante e decise di raggiungerlo; girò intorno al luogo in cui stava avvenendo lo scontro con il rapitore, pregando che non accadesse nulla di irreparabile e giunse all'edificio.

Li vide sbirciando tra le assi di legno marcio: Akio e una donna che sembrava sul punto di picchiarlo. Tanto bastò per farle vedere rosso e, senza ragionare, ruppe un asse con un pugno ed entrò con un balzo. Gli occhi della sconosciuta saettarono da lei al nipotino e in un secondo lo afferrarono da dietro.

"Ti avviso, ho una pistola e gliela sto puntando alla schiena. Se fai un altro passo premo il grilletto!".

Akane non aveva visto alcuna pistola ed esitò un istante per cercare di capire se stesse bluffando; non poteva permettersi di sbagliare, in gioco c'era la vita del bambino: "Zia... Akane...", piagnucolò  guardandola disperatamente.
"Stai zitto, marmocchio, o ti sparo davvero!".

Akane studiò attentamente il volto di suo nipote, chiedendogli disperatamente la verità con gli occhi. Forse lo immaginò o forse Akio fece davvero un piccolo cenno di diniego col capo, fatto sta che Akane saltò. Come si aspettava, la donna ne fu momentaneamente distratta, magari aspettandosi che scattasse in avanti e, nonostante non fosse molto in alto, scorse la mano vuota; le rifilò una ginocchiata in pieno volto e afferrò Akio fra le braccia mentre quella cadeva all'indietro con un grido.

Lo strinse a sé con un nodo in gola quando si accorse che bruciava di febbre e guardò la rapitrice rialzarsi col volto macchiato di sangue.

"Brutta sgualdrina!", strillò gettandosi verso di lei. Akane spostò velocemente il bambino dalla sua traiettoria e si preparò a lottare. La cosa si risolse brevemente, perché lei era un'artista marziale, la rapitrice no. Tuttavia non si sentì troppo in colpa quando le affondò un pugno nello stomaco facendola espirare violentemente e crollare a terra esanime.

Attese qualche istante, per essere sicura che fosse svenuta davvero, si assicurò che respirasse e strinse Akio: piangeva forte ora e tremava per la febbre. Akane si tolse la felpa e gliela mise addosso, rabbrividendo. Se lo strinse al petto e corse fuori con lui, più veloce che poteva.

                                                                                              ***
Ranma riuscì a calciare via la pistola sfruttando l'effetto sorpresa e poco dopo arrivò la bomba di Happosai che, per fortuna, colpì solo l'uomo e non anche Daiki che era stato lesto a togliersi di mezzo. L'energumeno era stordito e tossiva per via del fumo, ma gli fu addosso quasi subito; lui si difese come sapeva fare, ma le braccia e le gambe più corte non gli erano certo d'aiuto.

Maledetto Happosai!

"Ti salvo io Ranmuccia mia!", strillò il vecchiaccio in questione cominciando ad attaccare l'uomo a sua volta.

"Non chiamarmi Ranmuccia!", ribatté senza smettere di colpire.

Registrò vagamente la voce di Mousse che borbottava: "Beh, a quanto pare non c'è più bisogno di noi".

"Andiamo a salvare Akio, Mousse-san!", disse Daiki.

"Fate come dice lui, qui non c'è altro da fare", concluse Ranma mentre Shampoo gli si accostava seguita da Misaki.

"Non dovresti portarla con te a quest'ora di notte", osservò mentre il rapitore crollava finalmente a terra . "Si fanno brutti incontri".

Shampoo calciò ulteriormente la pistola, probabilmente le ricordava un passato spiacevole. "Nabiki ci ha detto del rapimento e ci siamo messi alla ricerca dei gemelli".

Ranma lo guardò confuso, poi udì Mousse esclamare: "Shampoo, hai trovato Akio!". Negli occhi spalancati dell'amazzone vide riflessa la sua stessa confusione e quando si voltò vide invece Akane che stringeva un fagotto fra le braccia. C'era del sangue.

Corse da lei, chiamandola a gran voce, seguito da Happosai.

"Sta bene", disse sua moglie, "ma ha la febbre alta, l'ho coperto con la mia felpa".

"Stai sanguinando", le rispose indicando la mano che stava macchiando la maglietta in questione.

"Oh, non me ne sono accorta: ho dovuto rompere un asse di legno. Nel magazzino c'è una donna. Ora è svenuta ma non vorrei che scappasse".

Ranma sorrise: la sua Akane stava facendo progressi e lui ne era davvero orgoglioso.
 
                                                                                              ***

Nabiki si svegliò di soprassalto e istintivamente afferrò il telefono cominciando a dire "Pronto", quando si rese conto che erano delle chiavi nella toppa a girare. Il cuore le martellava nel petto: come diavolo aveva fatto ad addormentarsi? Si sentiva così stanca, dannazione!

Se chi era in procinto di entrare stava usando delle chiavi, però, non poteva essere pericoloso, a meno che non le avesse rubate. Provò un sollievo enorme quando vide entrare Kasumi con un fagotto tra le braccia, seguita  da uno dei gemelli, dal dottor Tofu e da tutti gli altri. C'era persino Shampoo con Misaki addormentata in braccio.

Non ci fu bisogno di parlare, Akane le si accostò per raccontarle l'accaduto mentre Kasumi e il dottore si occupavano di Akio. "Non hanno fatto nemmeno in tempo a mettere sotto controllo i telefoni, ma la polizia era nei paraggi quando abbiamo incontrato il rapitore: si erano messi a controllare tutti i magazzini abbandonati della zona per individuare il luogo del rapimento e quello dove erano i gemelli era il prossimo sulla loro lista. Li hanno arrestati e Mayumi non è nemmeno dovuta andare in ospedale. Il suo scagnozzo è stato ammanettato prima che Ranma e gli altri potessero dargli una lezione, peccato...".

Akane aveva parlato tutto d'un fiato: si vedeva che era felice di aver contribuito al salvataggio e che quella storia fosse finita bene. Lei invece si sentiva come avvolta in una nebbia fitta. Sollievo, stanchezza, il pensiero di come sarebbe stata la sua vita d'ora in avanti, tutto si mescolò in un turbinio di emozioni così avulse da lei che temette di esserne inghiottita. Era come se fosse stata risucchiata nel corpo e nella vita di qualcun altra. Aprì la bocca per raccontare che il rapitore aveva telefonato, giusto per tornare coi piedi a terra, e fu allora che il mondo divenne tutto nero e svenne.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Visite ***


 Cap. 7: VISITE
 
Shampoo posò delicatamente Misaki nel lettino, come se si trattasse di una reliquia. La baciò con dolcezza all'angolo della bocca e si ripeté che lei era il suo miracolo: poco importava che non avrebbe mai avuto un fratello o una sorella.
 
Akane le era sembrata in imbarazzo quando aveva confessato la cosa, mentre Tofu la visitava nel suo studio. A quanto pareva aveva dato la notizia alla sua famiglia giusto quel pomeriggio e reputava non ci fosse nulla di male che lo sapessero anche lei e Mousse. D'altronde, entro qualche mese se ne sarebbero accorti comunque. Shampoo era rimasta scioccata e per un attimo aveva persino riflettuto sul fatto che lei e Ranma non avessero ancora pensato a un erede; fino a poco tempo prima quell'idea l'avrebbe fatta inorridire, ora le pareva solo bizzarro che pensasse ad altri invece che a se stessa.
 
Ma si era risposta da sola: se si fosse soffermata sulla questione, forse sarebbe impazzita. Nabiki era quello che di più lontano da una madre potesse esistere eppure lei poteva rimanere incinta. Si portò le mani alle tempie, riflettendo che avrebbe dovuto parlare con qualcuno di quella situazione: non poteva passare la vita a piangersi addosso ogni volta che vedeva una donna in stato interessante o, peggio, biasimare la sua bambina per quello che le era successo. Razionalmente sapeva che la colpa non era né sua, né di nessun altro. Semplicemente era andata così e lei doveva farsene una ragione. Doveva ritenersi fortunata di essere sopravvissuta e di avere una famiglia.
 
"Vieni a dormire, Shampoo?". La voce di Mousse la riscosse: dovevano pensare alla sua vista. Quella sera le era parso di essere tornata indietro di anni, quando il marito scambiava le persone o gli oggetti per la sua figura. Doveva smettere di essere egoista e cominciare a pensare a chi amava, solo così, forse, avrebbe trovato un po' di pace interiore.
 
"Sì, andiamo a dormire", disse seguendolo.
 
                                                                                                              ***

Nabiki si svegliò con la luce del sole che le feriva gli occhi. Aveva un mal di testa lancinante e le veniva da vomitare. Akane era seduta accanto a lei e c'era un vassoio sul comodino. Sorrideva. Nabiki avrebbe voluto picchiarla. Odiava quella situazione, odiava che le prestassero mille attenzioni solo perché era incinta, in quel momento sentì di odiare persino sua sorella.
 
"Non dovresti tenere lezione in palestra ai tuoi marmocchietti?", domandò, sperando di toglierle perlomeno quel sorriso dalla faccia.
 
"Ho già fatto lezione, sono quasi le undici di mattina". Il sorrisetto rimaneva e Nabiki si immaginò mentre si alzava e glielo toglieva lei con un sonoro ceffone. Non voleva essere amata, non c'era niente da amare, stava per abortire e non meritava tutte quelle attenzioni perché non aveva chiesto lei di rimanere incinta.
 
"Porta via quella roba, mi sento male solo a sentirne l'odore", ribatté duramente. Finalmente il sorriso di Akane si spense e la sorella la guardò con preoccupazione. Nabiki si sentì ancora peggio.
 
"Ma il dottor Tofu ha detto che devi mangiare e mi ha anche dato l'indirizzo di una collega ginecologa che dovresti vedere per...".
 
"Ho detto che non voglio niente, non voglio la colazione, non voglio medici e soprattutto non voglio la vostra pietà!", gridò sentendosi avvampare per la rabbia crescente. Sperò che tanto bastasse a far andare via Akane, dispiaciuta o almeno piccata, ma sapeva che non avrebbe funzionato.
 
"Insomma, smettila di comportarti come una bambina! Volente o nolente aspetti un bambino, Nabiki, e devi prenderti questa responsabilità perché ora il corpo non è più solo tuo. Devi nutrirti e avere cura di te... di voi", si corresse con uno strano tremolio nella voce.
 
In quel momento, Nabiki ebbe bisogno di dire qualcosa di cattivo: per ferire la sorella, per purificarsi, forse solo per scaricare la tensione accumulata. "Stavo per abortire e forse ho fatto male a tirarmi indietro all'ultimo momento. Forse...".
 
Lo schiaffo che ricevette la destabilizzò: aveva appena immaginato di farle la stessa cosa. Non ne fu sconvolta tanto perché era discretamente forte, quanto perché  Akane le aveva appena detto che doveva avere cura di sé, poi che faceva? La schiaffeggiava? L'autocontrollo tornò e la rabbia sfumò d'incanto. Quasi quasi le avrebbe riso in faccia.
 
"Sapevo che eri fredda e calcolatrice, Nabiki Tendo, ma non ho mai dubitato della tua umanità. Mai, mai avrei pensato che saresti stata capace di un gesto tanto basso, anche solo col pensiero. Mi vieni a dire che volevi sbarazzarti di qualcosa che io e Ranma cerchiamo da tanto tempo di... di... avere...", aveva cominciato a singhiozzare e Nabiki realizzò quanto la sua frase potesse averla ferita, "Hai idea della tensione a cui ogni mese siamo sottoposti quando tutti vogliono sapere se abbiamo l'erede oppure abbiamo di nuovo fallito? Sarebbe dovuto toccare a me, non a te, io almeno avrei saputo apprezzare un dono simile!".
 
Scappò via senza che lei potesse ribattere e, per una volta, Nabiki stessa non sapeva cosa rispondere. Si massaggiò le tempie per un minuto intero, nel tentativo di riprendere il controllo delle sue emozioni e lo sguardo le cadde sul vassoio: c'era un foglietto con l'indirizzo di uno studio medico, probabilmente quello della collega del dottor Tofu di cui aveva tentato di parlarle Akane. Lo prese in mano e se lo rigirò tra le dita come se fosse una specie di meteorite sconosciuto, poi, lentamente, si alzò dal letto per vestirsi.
                                                                                              ***

Akari stava facendo delle flessioni su un solo braccio mentre Ryoga la osservava dall'altro lato della palestra, dove stava allenando la sua classe di studenti. Eseguì un kata particolarmente complesso che prevedeva l'uso delle gambe e rimase incantata a guardarlo mentre cercava di spiegare ai ragazzi come fare.
 
Come vorrei poterlo fare anch'io!
 
Scosse la testa, decisa ad andare avanti e quasi sussultò quando udì la voce di Ryoga: "Bene, ora cambia braccio. Tieni la schiena più dritta". Pose una mano sulla colonna vertebrale per arcuarla gentilmente e Akari avvertì come una scossa.
 
Oh, Ryoga, sapessi quanto ti amo...
 
Si concentrò sul suo esercizio, sapendo che nel pomeriggio sarebbe dovuta rimanere ad allenarsi da sola con Katsunishiki perché Ryoga avrebbe dovuto aprire il negozio di Ukyo.
 
Fa due lavori. Se io fossi sana lo aiuterei, cucinerei per lui e...
 
Si stava di nuovo perdendo in sogni inutili e non andava bene. Non doveva illudersi, Ryoga non era il suo fidanzato, non lo sarebbe stato mai, perché amava un'altra donna.
 
La vita è ingiusta. E crudele.
 
"Bene, abbiamo finito per oggi, potete andare!", dichiarò il ragazzo arretrando di qualche passo per vedere a che punto fosse lei.
 
Devo prendere tempo. Voglio rimanere con lui il più possibile.
 
"Ryoga, mi insegneresti il Bakusai Tenketsu?".
 
"C- cosa?!". Ryoga parve sconvolto dalla sua richiesta e la guardò come se non sapesse bene chi fosse.
 
"Sì, per far esplodere le cose. Voglio essere forte come un uomo!", dichiarò mostrando i muscoli.
 
"Akari, quella tecnica è molto pericolosa e non serve  'a far esplodere le cose', ma a rimuovere potenziali ostacoli in caso di pericolo". Le stava facendo la predica.
 
"Beh, ma potrei aiutare il nonno quando fa lavori di ristrutturazione oppure dargli una mano quando deve spaccare la legna", lo supplicò.
 
Ryoga si portò due dita alla fronte, come riflettendo, poi annuì. "Va bene, te lo insegnerò, ma dovrai essere molto prudente. Non è una tecnica che possa usare una ragazza come te".
 
Akari si sentì ribollire dentro, come se l'avesse appena schiaffeggiata. Ryoga dovette essersi accorto della gaffe perché aprì e chiuse la bocca per spiegarsi, ma non ne uscì alcun suono.
 
"Come me come? È perché sono una ragazza? O perché sono invalida? O tutte e due le cose?!". Lui si era inginocchiato per poter stare alla sua altezza e forse fu il fatto di non sopportare questa ulteriore accortezza da parte sua che lo fece. Lo afferrò per la maglietta e lo baciò.
 
Ryoga rimase fermo come un pezzo di ghiaccio, senza ricambiarla ma senza nemmeno ribellarsi. Eppure quando aveva dovuto rifiutarla, qualche anno prima, l'aveva fatto senza remore.
 
Quando si staccarono, lui le mise le mani sulle spalle, come per tenerla a distanza. "Akari, questo non è giusto. Tu sei la mia migliore amica e io non voglio farti del male; mi spaventa insegnarti tecniche potenzialmente pericolose, tutto qui, non c'entra il fatto che tu sia... Insomma, se vuoi lo farò ma presta attenzione quando lo usi, d'accordo?".
 
Akari era confusa: cosa non era giusto? Il bacio che gli aveva rubato ( e di cui non aveva neanche fatto cenno) o il fatto che l'accusasse di non volerle insegnare il Bakusai Tenketsu? E perché diavolo aveva dovuto ribadire il concetto che era la sua migliore amica?
 
Lo sapevo, no? Quindi perché mi ostino a illudermi?
 
Si limitò ad annuire: "Tranquillo, starò attenta".
 
Ryoga parve soddisfatto. "Bene, ora vado al locale. Ci vediamo più tardi". La guardò per qualche secondo con apprensione, poi andò via. E lei rimase di nuovo sola, con i suoi dubbi e le sue incertezze.
 
                                                                                              ***

 
"La ringrazio per avermi ricevuto nonostante quello che è successo ieri sera. Come stanno i bambini?". Mousse scese dal lettino del dottor Tofu e lo guardò armeggiare con i suoi strumenti nella borsa da medico. Era una macchia indistinta e colorata.
 
"Oh, molto meglio, grazie. Akio non ha più la febbre e Daiki ha solo un ginocchio sbucciato. Devo ringraziare te e gli altri se ho i miei figli a casa sani e salvi e quei due delinquenti in prigione".
 
Mousse scosse la testa: "Lo avrebbe fatto chiunque, in fondo anche io so cosa significa avere dei figli e sono un artista marziale. Non sopporto che si possa far del male a dei bambini indifesi".
 
Il dottore fece una smorfia che doveva essere di certo un sorriso, ma lui non riusciva a distinguerlo. Poi si avvicinò: "Mousse, la tua miopia è di nuovo peggiorata quasi di nove decimi, inoltre ci sono anche altri problemi legati alla visione corretta della luce. Non è un problema che si risolva con un paio di occhiali".
 
Il ragazzo deglutì, a disagio: "E... quindi?", riuscì solo a dire.
 
"Ho il nome di alcuni bravi oculisti. Posso fornirti qualche indirizzo".
 
Mousse scosse la testa. "Sono già stato dal dottor Hanata, ma non possiamo permetterci le sue consulenze. Sono troppo costose e poi parla anche di un'operazione. Non l'ho detto a Shampoo. Speravo che lei potesse aiutarmi con qualche tecnica speciale".
 
Tofu sospirò: "Purtroppo tecniche del genere, applicate a un punto del corpo così delicato come gli occhi, non sono state tramandate fino a noi. E il tuo caso è delicato. Però posso fare una ricerca tra i miei colleghi e vedere se qualcuno può esserti d'aiuto".
 
Mousse sorrise: "Grazie, dottore, significherebbe molto per me poter evitare l'operazione".
"Nel frattempo è il caso che usi di nuovo gli occhiali o le lenti a contatto".
Gli diede un foglio con le indicazioni e lo salutò con una pacca sulla spalla. Mousse sospirò e decise di non rivelare a Shampoo la gravità della situazione.
                                                                                              ***

Un battito cardiaco. Veloce, forse il doppio del proprio.
"Secondo quanto mi ha riferito e guardando l'ecografia ci troviamo alla nona settimana. Questo è un periodo molto delicato, non deve affaticarsi troppo. Deve sentirsi molto stanca, signorina Tendo".
 
"Sì, già... non avrebbe qualcosa per la nausea?". Non voleva consigli, voleva solo che quella tortura finisse.
 
La dottoressa le sorrise e Nabiki desiderò che sprofondasse: non ne poteva più di ricevere quei sorrisi, di circostanza o meno, le aumentavano la nausea.
 
"Le posso prescrivere un infuso di zenzero per alleviare questo sintomo, ma dovrà farci l'abitudine, almeno per il prossimo mese. Cerchi di mangiare poco e spesso, magari del riso in bianco o dei biscotti secchi".
 
Nabiki annuì, chiedendosi come avrebbe fatto quando sarebbe stata delle dimensioni di una balena come Kasumi ai tempi della gravidanza dei gemelli: "È uno solo, vero?".
 
La dottoressa si fermò con l'ecografo a mezz'aria: "Come, scusi?".
 
"Il mar... il bambino, è uno solo?".
 
"Oh, sì, c'è un solo feto. Guardi, vede il cuoricino?" Le indicò un punto sullo schermo e Nabiki lo guardò distrattamente. Sembrava una lumaca ripiegata su se stessa con un cuore gigante. Fece una smorfia.
 
"Somiglia a una chiocciola", disse cercando, senza troppo successo, di mascherare il disprezzo.
 
La donna rise: "Oh, sì, ma vedrà intorno al quinto mese quando faremo la morfologica e sarà tutto più definito! Potremo addirittura vedere il viso e...".
 
"Sì, sì, va bene, ma senta, io non voglio fare tutte queste visite. Non posso permettermele, capisce? Quindi verrò poco prima del parto, così mi dirà cosa devo fare".
 
Stavolta lo sguardo della dottoressa si indurì e a Nabiki diede la netta impressione di essersi finalmente resa conto di come stavano effettivamente le cose.
 
Nabiki Tendo non voleva un bambino.
 
Nabiki Tendo stava facendo un grosso sforzo per portare avanti quella gravidanza indesiderata.
 
E Nabiki Tendo avrebbe dato in adozione quel piccolo intruso. Di questo, però, se ne sarebbe occupata a tempo debito.
 
"Mi dispiace, ma dovremo rivederci più spesso. E nelle ultime settimane dovrà fare  dei monitoraggi per verificare lo stato di salute del bambino ed eventuali contrazioni anticipate". Aveva parlato con tono duro, autorevole e Nabiki si rilassò. Era esattamente così che voleva essere trattata, da madre irresponsabile. Perché non voleva essere madre. Perché voleva essere libera e fredda. I sentimenti erano per le persone deboli e non facevano guadagnare soldi.
 
"Beh, vedrò cosa fare. Abbiamo finito per oggi?", chiese con una nota d'impazienza nella voce.
 
"Sì", con sua grande soddisfazione la dottoressa non sorrideva più e sembrava arrabbiata e delusa. "Ora le scrivo le ricette di quello che deve assumere e l'appuntamento per la prossima volta, poi potrà andare".
 
Finalmente!, avrebbe voluto esclamare, ma non le andava di deteriorare troppo i rapporti con quella donna o sarebbe stata costretta a cercarne una nuova. Meglio mantenere i rapporti tiepidi per i mesi successivi, finché non si fosse liberata del fardello.
 
Poi sarebbe tornata libera, come se nulla fosse successo.
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Pensieri ***


 
Cap. 8: PENSIERI
 
"Perché non me ne hai parlato?". Ono Tofu smise di scrivere la ricetta che stava preparando per un paziente e rimase con la penna a mezz'aria, scrutando sua moglie.
 
"Di cosa parli, tesoro?", domandò osservandola riporre alcuni strumenti nell'armadietto dei medicinali. Come ogni sera, aveva messo a letto i gemelli e lo stava aiutando a riordinare lo studio.
 
"Parlo della lettera di quella donna. Se non l'avessi sottovalutata, forse avremmo potuto evitare questa spiacevole situazione".
 
Il dottore si accorse che il sorriso di Kasumi era diverso dal solito, come se cercasse di sforzarsi a mantenerlo fermo. Capì che i suoi nervi erano stati messi a dura prova a causa del rapimento dei bambini e che lo riteneva in parte responsabile: gli sembrò di essere tornato ai tempi in cui Mayumi lo aveva baciato in mezzo alla strada e lei si era ingelosita. All'epoca però, quella brutta parentesi aveva portato qualcosa di buono avvicinandoli. Ma in ciò che era accaduto di recente non c'erano lati positivi, se non forse l'arresto di quei due loschi figuri. Persino sua madre aveva dovuto concedersi una vacanza alle terme per riprendersi dallo shock.
 
Ono si tolse gli occhiali lentamente, strofinandosi gli occhi con due dita: "Hai ragione, non avrei mai dovuto fare finta di nulla. Ma non volevo che quella donna si permettesse di spaventarci o di rientrare nelle nostre vite. Purtroppo ha avuto modo di farlo lo stesso e ne hanno fatto le spese i nostri bambini. Mi dispiace".
 
Kasumi non rispose, ma gli parve che l'atmosfera fosse improvvisamente più leggera. Evitò di aggiungere altro finché lei non ebbe finito di mettere a posto la stanza. Il sorriso era sparito dal suo volto e si stava avvicinando: "Devi farmi una promessa", gli disse seriamente, "d'ora in poi non dovrai più nascondermi nulla. Anche se ti sembra una cosa sciocca è necessario che ne parliamo come farebbe una famiglia, d'accordo?".
 
Fu lui a sorridere per primo, poi si alzò dalla sedia, le riavviò i capelli sulla fronte e la guardò dritta negli occhi: "Te lo prometto. Parola d'onore", poi la baciò delicatamente.
 
Finalmente sorrise anche Kasumi.
 
                                                                                              ***
 
Ryoga osservava l'okonomyaki che cuoceva sulla piastra da un pezzo. Forse si stava bruciando, così lo girò per l'ennesima volta, strappando un commento contrariato al cliente che era in attesa.
 
Perché Akari lo aveva baciato, così, di punto in bianco? Non sapeva nemmeno lui come avesse fatto a mantenere l'autocontrollo, diviso com'era tra l'affetto e il rimorso che provava per lei e i sentimenti che nutriva per la sua fidanzata lontana.  La sua cara, sfortunata amica era tornata per chiedergli aiuto e lui era felice di poter fare qualcosa per alleviare le sue pene. Era certo che non fosse tornata con il secondo fine di riconquistarlo, Akari non era quel tipo di persona e sapeva benissimo che lui era innamorato di Ukyo.
 
Allora perché lo aveva baciato? Forse per ringraziarlo del fatto che le aveva promesso di insegnarle il Bakusai Tenketsu?
 
"Pensa di cuocerla ancora a lungo quell'okonomiyaki?". La voce dell'uomo che aveva di fronte gli parve provenire da un'altra dimensione.
 
Un'amica che ringrazi sentitamente, però, lo avrebbe baciato sulla guancia o abbracciato. Akari lo aveva baciato sulle labbra e lui aveva avvertito il suo disperato bisogno d'affetto. Possibile che lo amasse ancora?
 
"Se non le dispiace vorrei mangiarla entro l'anno corrente...".
 
Ryoga capì improvvisamente che Akari non l'aveva dimenticato e, a quel punto, doveva mettere le cose in chiaro. Di nuovo. Avrebbe dovuto girare il coltello nella piaga ribadendole che era innamorato di un'altra.
 
"Credo che stia bruciando".
 
Ryoga scosse la testa con vigore: e se si sbagliava e l'avesse fatta soffrire ancora senza un motivo concreto?
 
"Come no? Non vede il fumo che esce?! Ehi?!".
 
Finalmente Ryoga tornò al mondo reale e si accorse del fumo nero che saliva dall'okonomiyaki che aveva appena carbonizzato, perso com'era nei suoi pensieri. "Oh, mi scusi, glielo rifaccio subito!".
 
"No, grazie, me ne vado al ristorante cinese all'angolo. Mi è passata la voglia di mangiare okonomiyaki, per questa sera", dichiarò l'uomo accigliato. Si calcò il cappello in testa e uscì a pesanti passi.
 
Ryoga sospirò: doveva fare attenzione, Ukyo non sarebbe stata contenta se al suo ritorno avesse trovato il locale fallito. O un fidanzato in compagnia di un'altra donna. O entrambe le cose.
 
                                                                                              ***
 
Ranma soppesò la busta della spesa cercando di capire se aveva dimenticato qualcosa riportato nella lista di Akane. Non voleva tornare indietro e rischiare che si mettesse ai fornelli da sola: negli ultimi anni era migliorata molto in cucina, ma bisognava prestare attenzione a quello che faceva, perché lo scambio di ingredienti era sempre in agguato.
 
La continua pressione dei loro parenti, poi, non faceva che peggiorare la situazione: Akane deve imparare a cucinare se vuole nutrire bene Ranma e i nostri nipoti. Dovete darci almeno tre eredi! Akane deve essere una moglie perfetta. Poteva capire il desiderio di vederli sistemati per occuparsi della palestra, ma ora stavano davvero esagerando e la povera Akane si portava addosso un peso tremendo, forse ancor più di quello che avvertiva lui. Se solo sua madre fosse stata ancora viva, ci avrebbe pensato lei a mettere in riga Soun, Happy e quel testone di suo padre.
 
Ma, a parte Nabiki che aveva ben altre gatte da pelare, erano soli contro le loro famiglie e persino Kasumi aveva rinunciato a pregarli di smetterla con tutte quelle pressioni. Ranma sapeva di non essere stato il fidanzato perfetto: la loro relazione era stata parecchio turbolenta prima del matrimonio e finalmente, ora che avevano trovato un minimo di serenità, ci si mettevano gli altri a rendere l'aria irrespirabile.
 
Affittasi.
 
Ranma sbatté le palpebre, pensando di aver letto male.
 
Affittasi urgentemente, prezzi modici, ammobiliata, ottima per giovani coppie.
 
Non si stava sbagliando. La casetta dei Tanaka, i vecchi signori che abitavano a circa un chilometro dal dojo, era stata messa in affitto. La testa gli divenne leggera, come immersa in un vortice di pensieri la cui parola d'ordine era "fuga". Strinse il manico della busta e fece un passo in direzione della casa, poi tornò sui suoi passi. Si fermò, voltandosi e guardando avidamente quella costruzione modesta eppure graziosa.
 
Chiuse gli occhi per un istante, poi prese una decisione.
 
                                                                                              ***
Shampoo osservò Mousse con i suoi nuovi occhiali e sospirò. Non erano spessi come quelli che portava qualche anno prima, ma era certa che avrebbero dovuto esserlo. Nonostante le lenti, Mousse continuava a sbagliare il percorso tra i tavoli, rischiando di rovesciare i piatti o di sbattere contro i clienti. Quella situazione non le piaceva per niente, la rendeva nervosa, specie quando le veniva nascosta la verità.
 
"Il dottor Tofu mi ha detto di mettere gli occhiali per un po', poi la vista dovrebbe migliorare da sola", le aveva detto quella mattina. Ma lei non se l'era bevuta e ora lo osservava barcollare incerto mentre Misaki avanzava più sicura di lui con i piattini degli antipasti omaggio tra le mani.
 
Controllò gli ordini e i tavoli e decise che poteva assentarsi per qualche minuto: "Vado un attimo in cucina a controllare la zuppa. Ve la cavate, voi due?", chiese ad alta voce.
 
"Certo, Shampoo!" e "Sì, mamma!", risposero all'unisono padre e figlia. Se la situazione non fosse stata così grave, avrebbe sorriso.
 
Si chiuse in cucina, girò effettivamente la zuppa con un mestolo e, mentre aggiungeva delle spezie, afferrò il telefono con l'altra mano. Il dottor Tofu rispose al terzo squillo e lei si scusò per l'orario.
 
"Oh, Shampoo, chiami a proposito! Ho trovato il nome di un collega che conosce una tecnica speciale per interrompere il processo degenerativo agli occhi di Mousse".
 
L'amazzone strinse la cornetta con forza e lasciò cadere il mestolo a terra: "Processo... degenerativo?".
 
Il dottore tacque per un attimo, poi assunse un tono desolato: "Mi spiace, pensavo te ne avesse parlato. Ma non devi temere, forse non è necessario che si operi, basterà solo...". Shampoo non udì altro, tirò con forza la cornetta e scaraventò il telefono contro la parete, furiosa.
 
Stava ancora ansimando di rabbia quando entrò Mousse, seguito quasi subito da Misaki: "Che cosa è successo, Sha...?".  Ma lei non lo lasciò finire e gli si avventò contro afferrandolo per i vestiti.
 
"Perché non mi hai raccontato nulla? Perché mi hai nascosto la verità?!".
 
"Ma... Sha... Shampoo, a cosa...". Il suo balbettio confuso la fece arrabbiare ancora di più e lo spintonò fino a farlo cadere a terra. Misaki urlò e il chiacchiericcio in sala cessò. Ma non le importava. Aveva perso il controllo, definitivamente.
 
"Lavoro dalla mattina alla sera, mi sbatto per far andare avanti questo locale e tu non hai neanche la decenza di raccontarmi che stai diventando cieco?! Ma cosa credi, che nascondendo le cose queste spariscano magicamente? Hai idea di cosa accadrebbe se perdessi la vista? Perché non mi hai detto nulla?".
 
Mousse la fissò per un attimo, costernato, poi si sistemò gli occhiali che gli erano scivolati dal naso e, senza neanche provare a rialzarsi, abbassò il capo e disse: "Mi dispiace, Shampoo. Non volevo farti preoccupare".
 
"Non volevi farmi preoccupare? E pensi che sia meglio che io ti veda, giorno per giorno, peggiorare sotto ai miei occhi?". Misaki aveva cominciato a singhiozzare, di certo spaventata, e Shampoo si scagliò anche contro di lei: "E tu che hai da frignare? Sono io che dovrei piangere, tu e tuo padre mi avete rovinato la vita!". Mentre stava ancora terminando la frase, Shampoo sapeva già cosa sarebbe successo: mentre si pentiva di quelle parole senza neanche aver finito di pronunciarle, Mousse si sarebbe alzato da terra e l'avrebbe schiaffeggiata. E avrebbe fatto bene. Infatti accadde proprio quello e lei gli offrì la guancia, chiudendo gli occhi, senza fiatare. Udì i clienti borbottare qualcosa e lasciare il locale. Udì Misaki singhiozzare disperata e avrebbe solo voluto stringersela al petto e allattarla come quando era più piccola. E avrebbe voluto dire a suo marito quanto era pentita. Ma si sentiva anche sollevata, dopo aver tirato fuori tutto quel veleno gratuito. Che i kami la perdonassero, ora che si era sfogata era calma come l'acqua di un lago cheto.
 
Mousse mormorò delle parole di conforto alla bambina, poi la spinse dolcemente fuori insieme a lui e chiuse la porta con un rumore forte. Shampoo cominciò ad iperventilare, le mancava il respiro, le tremavano le mani. Cadde in ginocchio e si nascose il viso tra le mani, piangendo sommessamente sul pavimento della cucina, tra i resti del telefono che era andato in mille pezzi come la sua vita.
 
                                                                                              ***
 
Tatewaki Kuno guardava fuori dalla finestra da un po', riflettendo. Aveva fatto bene a rifiutarsi di sposare Nabiki Tendo? La ragione gli diceva di sì, perché era più che certo che non ci fossero i sentimenti adeguati ad un'unione così importante. Perlomeno da parte di Nabiki. Lui amava la sua fidanzata. Non come aveva amato Akane e la ragazza col codino, ma in maniera diversa, più consapevole, meno romanzata: si trovava bene con Nabiki, adorava quando sorrideva davanti a un bell'oggetto o quando parlava con la sua sicumera, ma soffriva perché non si sentiva ricambiato. I suoi gesti non erano mai dettati da un sincero affetto, o almeno lui non se n'era mai accorto.
 
Nabiki Tendo aveva sempre un secondo fine, che fosse un gioiello o una cena in qualche locale costoso. Una volta gli aveva parlato della sua intenzione di iscriversi all'università per laurearsi in scienze della finanza e gestire al meglio il patrimonio che un giorno sarebbe stato suo. Non sapeva far altro che parlare di soldi. Eppure stavano bene insieme, parlavano degli stessi argomenti, avevano letto gli stessi libri, anche se quelli di poesia lei non li aveva mai neanche aperti. Ma era sempre lui a dover intavolare un discorso che non coinvolgesse un acquisto imminente o un viaggio da organizzare in qualche città esotica. Le aveva promesso che avrebbero viaggiato, che un giorno sarebbe stata sua moglie, ma non pensava che le cose sarebbero state così veloci.
 
Kuno voleva una famiglia, prima o poi, ma non così presto, non per mezzo di un ricatto. Sono incinta, devi sposarmi, gli aveva praticamente sbattuto in faccia lei e si era sentito come violato. Ci si sposa per amore, anche in anticipo se necessario, rimandando viaggi e sogni: non voleva essere il padre assente e svitato che aveva avuto la sfortuna di avere lui. Ma così suo figlio sarebbe diventato il mezzo per far avere a Nabiki la posizione e i soldi cui tanto anelava ed era tutto sbagliato.
 
"A volte vorrei essere povero", mormorò sul vetro.
 
"Povero per colpa di quella Nabiki Tendo? Sposala e lo diventerai di certo, dilapiderà tutti gli averi dei Kuno con la scusa del marmocchio che aspetta".
 
"Kodachi, non ti permetto di chiamare marmocchio mio... mio figlio". Aveva detto quelle parole per la prima volta e si rese conto di quanto lo amasse già. Molto più di quanto lo amasse sua madre, sicuramente.
 
"Santo cielo, fratello! Se volevi farti incastrare da una donna ci sei riuscito. Hai avuto il fegato di rifiutarla, quindi, per favore, non tornare sui tuoi passi, se vuoi ancora guardarti allo specchio. Provvederai al mar... a tuo figlio in qualsiasi altra maniera che non sia sposare quell'arpia!".
 
Kuno si accigliò riflettendo sulle parole della sorella: "Io non credo che sia cattiva. Credo che sia solo molto, molto infelice. Non sa o non vuole amare, e questo deve essere terribile".
 
La risata fragorosa di Kodachi gli ferì le orecchie: "Ma che idiozia! Sapevo che eri troppo stupido per poterti trovare una donna decente, visti i precedenti, ma innamorarti di una come Nabiki Tendo e non vedere la sua cattiveria è davvero troppo!".
 
Tatewaki si voltò finalmente a guardarla: "E tu? Pensi di essere meno cattiva? Non mi risulta che tu abbia mai avuto uno straccio di spasimante, sorella".              
 
"Oh, al diavolo!" Kodachi se ne andò stizzita, sbattendo la porta.
 
Perlomeno la discussione con Kodachi gli aveva aperto gli occhi. Ora sapeva cosa doveva fare.
 
                                                                                              ***
 
Akane spalancò gli occhi e rimase a guardarlo con una mano coperta dal guanto da forno e una pentola nell'altra: se non fosse stata attenta le sarebbe caduta, visto come l'aveva inclinata pericolosamente.
 
"L'affitto è davvero basso, potremmo permettercelo senza problemi con quello che guadagniamo con la palestra. E non siamo neanche troppo lontani da qui. Sarebbe perfetto!".
 
"Oh, Ranma! Sarebbe... un sogno!". Finalmente Akane posò la pentola e cominciò a metterci dentro alcune verdure senza tagliarle: Ranma registrò la cosa senza darle troppo peso.
 
"Però non dobbiamo dire nulla finché non sarà tutto fatto. La signora Tanaka e il marito si trasferiscono dai figli a Kyoto, perché sono molto anziani e hanno lì i nipotini, ma non vogliono vendere la casa fino a che non saranno sicuri che a loro non serva più", spiegò mentre sua moglie lo guardava avidamente come se volesse  fuggire in quel preciso istante.
 
"Quindi c'è la possibilità che tornino sui loro passi?", chiese preoccupata, mentre accendeva il fuoco sotto alla pentola alla massima potenza.
 
Ranma fece per dirle qualcosa, ma riprese il discorso per tranquillizzarla: "Per il prossimo anno di sicuro no e comunque ci diranno le loro intenzioni con largo anticipo, così che possiamo cercare un'altra casa, se vogliamo. E poi non siamo nemmeno troppo lontani dal dojo: abbastanza vicini da venire qui per allenare gli allievi ma non troppo distanti per le abitudini di Soun, Happy e mio padre. Nessuno di loro vorrebbe venire fin lì ogni giorno, piuttosto se ne stanno qui a giocare a shogi".
 
"Oh, Ranma, mi gira la testa, è tutto così improvviso! E quando possiamo trasferirci?".
 
"I Tanaka andranno via non appena troveranno degli affittuari. Se firmiamo subito il contratto di locazione e versiamo l'anticipo, facciamo loro un grosso favore, in pratica".
 
Akane si accigliò: "Non mi avevi parlato di un anticipo".
 
"Abbiamo dei soldi da parte, lo sai. Ho parlato con la signora e le basta quella cifra. Potremmo andare stasera stessa a concludere la cosa".
 
Sua moglie rimase in silenzio, come assorbendo quella notizia, poi si tolse il guanto da forno e scrutò fuori dalla porta della cucina: "Tuo padre e il mio sono già ubriachi, Nabiki è in camera sua e Happosai non si vede, quindi se usciamo nessuno sentirà puzza di bruciato".
 
Ranma ridacchiò: "Il vecchio sarà in giro a rubare bia... puzza di bruciato!".
 
"Cosa?".
 
Ranma si avventò sulla pentola e spense il gas appena in tempo. Le verdure erano annerite e sfrigolavano: "Hai dimenticato che per bollire i cibi serve l'acqua?", chiese ad Akane , ma in realtà non gli importava.
 
"Hai ragione, è che ero distratta da quello che mi hai detto! Ora lavo la pentola e...". Ma lui non la lasciò finire. La afferrò per la vita e saltò fuori dalla finestra con lei.
 
"Lascia stare la cena, abbiamo un contratto d'affitto da firmare", esclamò strizzandole l'occhio e ricambiando il suo abbraccio, pieno di gioia. Non si era mai sentito così libero.
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Rabbia ***


Cap. 9: RABBIA
 
"Devi concentrarti, adesso. Raccogli tutte le tue energie e fai confluire il tuo qi nell'indice".
 
Akari aggrottò le sopracciglia, guardandosi il dito come se da esso dipendesse la sua vita. La mano le tremava. Non sapeva se fosse per la vicinanza di Ryoga o se per lo sforzo di fare quello che le aveva appena detto.
 
"Ora prova a toccare questa pietra, pensa che vuoi farla esplodere".
 
Piantò il dito ma alla piccola roccia che avevano preso per allenarsi non accadde nulla. Akari sospirò e rilassò le spalle: "Non ce la farò mai, forse avevi ragione tu: non è per me".
 
Ryoga le si inginocchiò accanto: "Non dire sciocchezze, non ho mai affermato niente del genere! Ora riproviamo".
 
Akari annuì e si predispose a ritentare. Non sapeva se voleva davvero imparare quella tecnica. Sapeva solo che voleva stare vicina a Ryoga il più possibile, anche se era sbagliato. Lui non si sarebbe innamorato di nuovo di lei. Non avrebbe mai tradito la cuoca di okonomiyaki tra le braccia della quale, qualche anno prima, era stata proprio lei a gettarlo. No, era sbagliato. Sarebbero finiti insieme comunque, lei aveva solo accelerato le cose.
 
E se invece la sua lontananza avesse minato i loro rapporti? Se allenandosi con lei Ryoga stesse rivalutando i propri sentimenti? Forse se continuava a stargli accanto e gli faceva capire quanto tenesse a lui qualcosa sarebbe cambiato. Ma Ukyo sarebbe potuta tornare da un momento all'altro. Senza pensarci glielo domandò, di getto.
 
"Cosa?". Ryoga sembrava confuso.
 
"Ti ho chiesto quando tornerà Ukyo".  Abbassò lo sguardo, vergognandosi ma nello stesso tempo desiderosa di saperlo.
 
Quando pensò che ormai non avrebbe più risposto, lui invece parlò: "Deve prolungare il soggiorno perché le hanno offerto di studiare le ricette francesi e italiane, quindi dovrà spostarsi ancora. Pare che abbiano scoperto le sue doti culinarie, così...". Ryoga fece spallucce e Akari avvertì il suo dolore come fosse tangibile.
 
In quel momento la odiò. Odiò Ukyo per averle promesso di farlo felice e poi essere andata così lontana da lui. Non lo aveva abbandonato ma gli stava facendo del male.
 
Istintivamente, toccò la pietra che andò in mille pezzi con un'esplosione sonora.
 
"Ce l'hai... ce l'hai fatta! Ci sei riuscita!", esclamò il ragazzo che amava, sorridendole. Sorrideva grazie a lei, era soddisfatto dei suoi risultati molto più di quanto fosse orgoglioso per la sua fidanzata.
 
"Sì, ci sono riuscita grazie a te!", gli disse sorridendogli a sua volta e buttandogli le braccia al collo con l'intento di baciarlo di nuovo. Lui però fece una cosa inaspettata: si spostò, afferrandola saldamente ma tenendola a distanza di braccio.
 
"Ora riprovaci, dai", le disse come se niente fosse accaduto. Di nuovo, come se non stesse per baciarlo. Akari ripensò a Ukyo e fece esplodere una seconda pietra.
 
                                                                                              ***
 
"La mia bambinaaaaaa!". Il piagnisteo di Soun Tendo andava avanti da mezz'ora, tanto era il tempo che avevano impiegato a caricare il carrettino di legno con le loro poche cose.
 
Akane si tappò le orecchie: "Papà, non vado a trasferirmi in Cina, andremo qui vicino, te l'ho spiegato!", disse per almeno la quindicesima volta.
 
"Ma non state bene qui? Cosa vi manca?". Akane serrò le labbra a quella domanda. Fin da quando avevano annunciato che sarebbero andati ad abitare in un'altra casa, sua moglie aveva sempre tergiversato sulla reale motivazione. Nonostante tutto, non voleva ferire i sentimenti di suo padre.
 
"I figli non sanno mai apprezzare gli sforzi dei loro genitori, sono degli ingrati", s'intromise Happosai.
 
"Stai zitto, vecchiaccio!", lo ammonì Ranma. Non conveniva caricare troppo Akane o sarebbe esplosa malamente, prima o poi. Anche lui era arrivato al colmo della sopportazione, dopotutto.
 
"Il maestro ha ragione, Ranma. Vi abbiamo offerto la stanza più bella della casa e vi siete rifiutati di darci un erede. Ora, per di più, ve ne andate come due fuggiaschi, cosa dovremmo...". Scoccò un'occhiata di fuoco a suo padre che raramente dava ragione ad Happosai.
 
"Adesso basta". Il tono di Akane sembrava controllato, ma vibrava di una rabbia repressa e ribollente. Ranma si affrettò a rispondere per lei.
 
"Ci state sempre alle calcagna, come fossimo macchine sforna-eredi e non esseri umani, come dovremmo sentirci?!".
 
"Che impudenza, come se non ti avessi dato tutto, da mia figlia alla mia palestra!", sbottò Soun riprendendosi magicamente dal pianto.
 
"Tu non gli hai dato nulla!", scattò Akane e Ranma capì che non l'avrebbe più fermata. Pazienza, se l'erano cercata. "Sono stata io a decidere, perché nessuno, neanche mio padre può impormi le cose! Ho scelto io di sposare Ranma e non tu con le tue idee antiquate del matrimonio combinato. Lavoriamo nella tua palestra perché noi amiamo le arti marziali. Se avessi voluto fare la ballerina o il medico me ne sarei andata con Ranma molto tempo fa!".
 
Soun se ne stava lì, con gli occhi spalancati cercando di capire se sua figlia, che ora urlava a pieni polmoni, fosse o meno posseduta da un demone. Ranma incrociò le braccia e rimase calmo, comunicando così che era d'accordo con lei su ogni singola parola.
 
"Le vostre imposizioni", sillabò fuori controllo, "mi hanno stancata! Avremo un figlio quando lo decideremo, se lo decideremo. Se vorrà lavorare nella tua dannata palestra dopo di noi lo farà, altrimenti gli lascerò fare ciò che desidera. Perché sarà libero, libero come l'aria, mi hai sentito? E se non ti sta bene riprenditi pure il dojo, mi cercherò un lavoro altrove! Ma farò la mia vita, la nostra vita senza più. Una. Singola. Interferenza. Senza più i vostri occhi da falco puntati su di noi come fossimo i vostri burattini! Andiamo, Ranma!".
 
Lui rimase per un attimo fermo, sopraffatto suo malgrado da tutto quell'impeto, poi tirò su il carrettino e si avviò senza alcun cenno di saluto. Akane lo precedette a passo di marcia e Ranma si concesse solo un ultimo sguardo agli occhi spalancati di suo padre, Soun e Happosai, domandandosi se avrebbero mai rimesso piede a casa.
 
                                                                                              ***
 
 
Ono Tofu era assolutamente convinto che la storia del rapimento fosse superata. O meglio, lo era stato fino a quella mattina, quando il telegiornale aveva riportato la notizia del suicidio, in cella, di una giovane detenuta che era stata arrestata per prostituzione, rapimento di minori e un breve periodo nel traffico di stupefacenti.

Kasumi era rimasta gelata davanti alla televisione che avevano installato all'ingresso dello studio, con un'espressione spaventata sul volto, poi aveva spento velocemente: "Oh, che sbadata, ho dimenticato di portare i bambini a fare una passeggiata stamattina: c'è un così bel sole!". Nonostante il tono spensierato, aveva avvertito una nota stonata nella sua voce e dal canto suo non era riuscito a replicare nulla, perché era sconvolto.

Non avrebbe mai voluto la morte di nessuno, nemmeno di Mayumi. Si era impiccata al montante del letto a castello che divideva con un'altra detenuta, in quel momento fuori per l'ora d'aria, usando un lenzuolo. Il cronista si era lanciato nel racconto dei particolari del suicidio con una voce monotona e distaccata che sembrava raccontare di un evento senza alcuna importanza.

Sobbalzò allo squillo del telefono e rimase sorpreso quando udì la voce di sua madre: "Oh, caro, hai sentito? Terribile,vero?".

"Sì, mamma, è davvero brutto quello che le è accaduto. Nonostante il male che ci ha fatto meritava un'altra possibilità", disse bisbigliando come se si trovasse a una veglia funebre.

Avevano parlato per un po', ricordando gli eventi che avevano portato quella donna malvagia nelle loro vite. Sua madre si era detta dispiaciuta per aver sbagliato clamorosamente persona e anche per aver contribuito, forse indirettamente, all'infelicità della stessa Mayumi.

"Non colpevolizzarti di nulla, mamma: una come lei si sarebbe comunque rovinata da sola e non avrebbe mai potuto essere felice". Riattaccò il telefono pensando che forse, dopo qualche anno di galera, poteva anche cambiare registro e trovare la sua strada. Ma non ne era poi tanto sicuro.

Però ora non aveva tempo di compiangere quella triste vita che aveva deciso di interrompere in malo modo i suoi giorni sulla terra. Doveva parlare con Kasumi non appena fosse rientrata, perché ora aveva la certezza che ci fosse ancora qualcosa di irrisolto tra loro due.
 
                                                                                                              ***
 
Ryoga rilesse la lettera di Ukyo altre tre volte prima di decidere di riporla in un cassetto. La sua parte preferita era la fine: "ti amo, testone". Quella frase gli strappava spesso un sorriso, anche quando gli parlava al telefono, le rare volte in cui riusciva a chiamarlo. Glielo ripeteva spesso quando litigavano e poi facevano pace.

La frase che non gli piaceva era quella che conteneva il numero di settimane che avrebbero ancora dovuto passare divisi. Non sopportava più la sua lontananza e doveva capire cosa volesse esattamente da lui Akari. Si era reso conto del suo tentativo di baciarlo di nuovo, e aveva cercato ancora di fare finta di nulla. Ma prima o poi avrebbe dovuto affrontare la realtà.

La sua Akari stava cercando di riconquistarlo approfittando della lontananza della sua fidanzata, che i kami lo perdonassero per quel pensiero cattivo. Forse lei stessa soffriva per essere diventata così diversa dall'Akari di un tempo, ma era compito suo riportarla sulla retta via.

E quello sarebbe stato l'allenamento più importante, per lei.

Le avrebbe parlato chiaro, ormai non aveva più dubbi in merito. Se poi avesse voluto rimanere ad allenarsi non le avrebbe assolutamente rifiutato nulla, ma senza alcuna falsa speranza. Scese le scale con decisione e rimase per un attimo senza parole.

Lei era di spalle, i lunghi capelli legati in una coda, e stava cuocendo degli okonomiyaki: dall'odore sembravano deliziosi. "U... Ucchan?", la chiamò prima di poterselo impedire. Quando lei si voltò sorridendogli capì che il suo errore era stato grossolano, anche perché lei era seduta sul dorso del fedele Katsunishiki e aveva dei lineamenti completamente diversi da quelli di Ukyo.

Se rimase offesa dal sentirsi chiamata col nome di un'altra non lo diede a vedere, sorrise anzi ancora di più: "Ti sto preparando degli okonomiyaki, caro, non è difficile come pensavo! Credo di essere abbastanza brava da aiutarti nel locale e...".

"Akari", la interruppe, "dobbiamo parlare". Il sorriso svanì dal volto della ragazza.
 
                                                                                                              ***
 
Nabiki udì ogni singola parola della sorella, che stava gridando come se volesse far crollare le pareti con la forza della voce.  Con un sorrisetto malizioso, annuì anche se lei non poteva vederla. Aveva fatto bene a farsi sentire e un giorno di quelli sarebbe passata nella sua nuova casa per tessere le lodi di ciò che aveva detto.

Anche lei amava la sua famiglia ma non sopportava le imposizioni, solo che era sempre stata molto più indipendente di Akane e soprattutto non doveva ereditare la palestra. Meno aspettative significava meno gatte da pelare, anche se con la storia della gravidanza e la sorella minore lontana si aspettava che suo padre tornasse all'attacco con la questione "matrimonio con lo stolto che ha osato metterti in questo stato prima di sposarti".

Sarebbe stata una bella lotta... e a proposito di lotta, cos'erano quei rumori concitati e quelle voci che sentiva provenire dal piano inferiore? Akane aveva fatto marcia indietro per finire il suo discorso, forse? Si affacciò dalla finestra della sua camera e ciò che vide le fece alzare gli occhi al cielo.

"Oh, no... fine della tranquillità", si disse contrariata, cominciando a scendere le scale.

Arrivò appena in tempo per vedere suo padre sferrare un pugno in pieno volto a Tatewaki. Era raro vederlo realmente in collera e dal sangue che vide schizzare doveva esserlo parecchio, specie dopo il "saluto" ricevuto da Akane.

"Me lo merito, signor Tendo, ma vorrei comunque vedere Nabiki non appena lei avrà finito con le sue rimostr...". Si interruppe quando l'uomo lo afferrò per il bavero, stringendo così forte da strozzarlo con il colletto.

"Sono qui. Papà, non c'è bisogno che lo uccidi, non vale la pena farsi arrestare per omicidio di primo grado". Suo padre lo gettò a terra come fosse un sacco dell'immondizia e le chiese perché diavolo fosse scesa.

Kuno approfittò di quel momento per parlarle: "Nabiki, ci ho ripensato. Nostro figlio non deve rimanere senza una famiglia stabile, quindi ci sposeremo. Ho già organizzato...".

"No", disse sorprendendo persino se stessa.

Soun, che stava cominciando ad assumere un'espressione di sollievo, voltò lo sguardo verso di lei e Nabiki si preparò a una nuova disputa. Non ne aveva voglia, voleva solo dormire, ma temeva di non avere molta scelta.

"Dico, siete impazzite tutte quante? Prima Akane mi urla contro e ora tu rifiuti di sposarti nelle condizioni in cui ti trovi?". La voce del padre vibrava come se avesse da dire ancora molte cose, ma Nabiki non lo lasciò continuare.

"Oggigiorno molte donne allevano i figli da sole o li danno in adozione, cosa che intendo fare io. Quindi non c'è assolutamente bisogno che sposi un uomo che mi ha rifiutata".

"Io non ti ho rifiutata senza un motivo, Nabiki, ti ho ben spiegato che...", tentò Tatewaki.

"Tu sta' zitto!", lo ammonì all'unisono con suo padre.

"Non puoi declinare così le tue responsabilità! Ah, fortuna che almeno Kasumi è stata assennata, non riconosco più né te, né Akane! Cosa penserebbe tua madre? Se ci fosse lei le cose andrebbero molto diversamente!".

Quello era un colpo basso. Nabiki strinse le labbra, improvvisamente avvertiva uno strano affanno e il petto si sollevava con pesantezza a ogni respiro: "Nostra madre", sillabò con la stessa rabbia della sorella, "ci avrebbe comprese molto più di te".

Registrò l'espressione di suo padre che divenne costernata e poi triste. Lo vide cadere in ginocchio mentre Genma e Happosai gli correvano vicino. Tatewaki rimase inebetito. Il tutto durò solo qualche secondo, ma per Nabiki Tendo fu abbastanza: girò i tacchi e se ne tornò da dove era venuta, giurando a se stessa che sarebbe scesa al piano di sotto molto più raramente del solito, d'ora in avanti.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Verità ***


Grazie ancora di cuore alla mia fidatissima beta Tiger Eyes per le sue puntuali correzioni e osservazioni.
 
 
Cap. 10: VERITÀ
 
Quando Kasumi rientrò era ora di pranzo.
 
"Mamma, posso rimanere fuori ad allenarmi?", chiese Daiki tirandole la gonna. Per lui allenarsi significava arrampicarsi sull'albero in giardino o fare dei piegamenti sulle braccia per emulare suo padre.
 
"Certo, ma vieni non appena ti chiamo per il pranzo", rispose con un sorriso.
 
"Posso rimanere a guardarlo?". Akio rimaneva spesso in giardino con la scusa di osservare il fratello, nella speranza che Misaki passasse con Shampoo da quelle parti. Forse era accaduto un paio di volte, ma la ferrea speranza del bimbo non si era mai esaurita.
 
"Sì, tesoro, vi chiamerò non appena è pronto in tavola".
 
Rientrò in casa con un'ansia crescente nel petto, che si placò solo quando riuscì a scorgere i figli dalla finestra. Anche dalla cucina poteva vederli, tuttavia...
 
"Il pranzo è già pronto, l'ho lasciato in caldo". La mano di Ono si posò sulla sua spalla all'improvviso e lei sobbalzò un poco.
 
"Hai avuto il tempo di preparare il pranzo?", chiese stupita.
 
"L'ultimo paziente è andato via più di mezz'ora fa, così ne ho approfittato per precederti in cucina", spiegò alzando le spalle. Kasumi sapeva che suo marito era bravo a cucinare, avendo vissuto da solo per tanto tempo. Tuttavia i suoi pasti erano sempre frugali anche se era migliorato molto durante la sua gravidanza e il primo anno dopo la nascita dei gemelli, quando era stata impegnata con due bambini appena nati. Ora era praticamente bravo come lei.
 
"Grazie, caro, allora chiamo i bambini", fece per voltarsi ma lui la trattenne gentilmente.

"Prima dovremmo parlare", le disse.

Kasumi lo guardò attenta, cercando di capire se fosse preoccupato, triste o nervoso. Le parve che il suo volto riassumesse tutte quelle emozioni allo stesso tempo.

"Quando sei andata via ho capito che la storia di Mayumi e del rapimento non era ancora chiusa del tutto. Parlamene, tesoro, sei ancora arrabbiata con me?".

Kasumi sospirò, a disagio. Era abituata a sorridere sempre, sorvolando sulle questioni o affrontandole una volta sola con ferma dolcezza. Aveva imparato a comportarsi così dopo la morte della mamma, quando ne aveva preso le veci per le sue sorelle più piccole. Il suo carattere era molto simile a quello di sua madre ed aveva sempre tentato di emularne il più possibile i tratti per loro, ma anche per suo padre e... per se stessa. Le sembrava che, così facendo, sforzandosi di essere simile a lei, l'avrebbe avuta sempre vicina. 

E aveva tentato di fare lo stesso anche dopo il rapimento dei suoi bambini, ma non era riuscita a dissimulare bene come al solito. Dopotutto, avevano rischiato la vita i suoi stessi figli e lei li amava sopra ogni altra cosa al mondo.

"Oh, mi dispiace che le sia accaduto...", cominciò, poi gli occhi le si riempirono di lacrime e lanciò ancora un'occhiata alla finestra per vedere se Akio e Daiki stessero bene, prima di coprirsi il volto con le mani.

Ono l'abbracciò: "Va tutto bene, cara, anche a me dispiace un po', però...".

"Invece non mi dispiace affatto, santo cielo!", esclamò improvvisamente, sciogliendosi dall'abbraccio e guardandolo negli occhi. Suo marito indietreggiò, evidentemente colpito dalla sua veemenza. "La verità è che non ho mai sopportato quella donna, fin da quando ti mise gli occhi addosso e la sopporto ancora meno da quando si è permessa di mettere le sue mani sui miei bambini!".

Suo marito la guardò senza parlare, con l'espressione seria e composta di chi non vuole interrompere ma accusa il colpo ad ogni parola.

"Io... non riesco ad essere serena, perché l'evento di stamattina mi ha solo evocato ricordi negativi e non sono riuscita a sentirmi dispiaciuta. Mi ha anche ricordato che non riesco a perdonarti del tutto per quello che è accaduto. Mi ripeto in continuazione che se mi avessi parlato di quella dannata lettera, forse tutto questo non sarebbe accaduto! Temo di essere diventata una persona orribile, perché provo risentimento e non riesco a perdonare come una volta le persone che amo".

Ono deglutì rumorosamente: di certo lo aveva sconvolto con parole quali "non la sopporto" e "dannata lettera". Non poteva biasimarlo, lei stessa era sconvolta da ciò che provava. L'odio era rimasto un sentimento sconosciuto per tutta la sua vita, fino a quando Mayumi non aveva osato toccare ciò che più amava: la sua famiglia. Allora qualcosa dentro di lei si era spezzato per sempre e Kasumi Tendo aveva conosciuto l'oscurità.

"Non sei una persona orribile, tesoro, sei solo umana. Ammetto che un po' mi ha destabilizzato conoscere questo tratto di te, ma allo stesso tempo ti amo di più".

Kasumi tremò, mentre le lacrime le rigavano le guance. Provava, forte e deciso, il senso di colpa. Ma si sentiva anche svuotata, come se avesse buttato fuori del veleno e ora fosse nuovamente pura.

"D-davvero?", chiese, incredula.

"Sì, perché stai facendo i conti con un momento difficile e sei stata abbastanza forte da ammettere ciò che provi, anche se va contro la tua natura. È sempre complicato accettare le proprie debolezze  e tu sei stata molto forte".

Il suo sguardo sincero, innamorato nonostante tutto, la fece piangere ancora più forte. Si nascose il viso tra le mani e singhiozzò: "Oh, mi vergogno così tanto! Odiare una persona che è morta...". Aveva detto odiare? Era veramente arrivata a dire quella parola? Sussultò non appena se ne accorse, ma di nuovo non provò altro che sollievo.

"Anche io la odio", disse Ono improvvisamente, sorprendendola. "Mi sono ripetuto più volte, da stamattina, che sono un medico e dovrei solo dispiacermi quando una vita si spezza. Ma anche io non sopporto che si tocchino i miei bambini, o comunque le persone che amo. Quella donna ti ha fatto soffrire in più di un'occasione e ha fatto stare in pena anche me. Forse, col tempo, riuscirò a perdonarla, ma attualmente non è la sua morte a farmi cambiare idea. Anche io sono umano, dopotutto". Sorrise, e Kasumi lo imitò, asciugandosi gli occhi.

Si sentiva davvero più leggera: "Grazie, ora va molto meglio. Per quanto riguarda noi... passerà, ho solo bisogno di tempo. Sono certa che non mi nasconderai più nulla", disse sinceramente baciandolo con dolcezza. Guardò i suoi bambini fuori e si rese conto che il desiderio  di Akio, dopotutto, era stato esaudito.

***

Shampoo spinse i vestiti nella valigia nell'intento di farli entrare meglio e si volse a guardare Misaki, che la scrutava timidamente dalla porta.

"Vieni ad aiutarmi", le disse con un sorriso.

La bambina sorrise a sua volta e si mise a spingere la biancheria in un angolo. L'amazzone guardò il visino intento, le manine piccole ma forti, i capelli che le ricadevano sulle orecchie e fu invasa di nuovo da quel sentimento d'amore che pareva spezzarla in due. 

Aveva fatto pace con lei e suo marito, piangendo con loro, pregandoli di perdonarla per la sua frase dettata soltanto dalla fatica e dalla preoccupazione. Non pensava assolutamente quelle cose, ma sapeva di avere bisogno di aiuto per risolvere i conflitti interiori che l'avevano portata a quel punto. La nascita traumatica di Misaki che le aveva tolto per sempre l'opportunità di avere figli, la vista di Mousse che peggiorava... e, forse, a monte di tutto, la mancanza della sua bisnonna che le facesse da guida nei momenti difficili: tutto aveva giocato un ruolo fondamentale che le aveva logorato i nervi. Non le rimaneva che riprendere le fila della sua vita, una ad una.

"Tesoro, hai visto la mia valigia grande?", le urlò Mousse dall'altra stanza.

"Ora ti aiuto a cercarla", rispose di rimando, facendo cenno alla bambina di seguirla. "Andiamo a cercare la borsa di papà".

In Cina, fortunatamente a qualche miglio di distanza dalla loro città natale, viveva un collega del dottor Tofu, che poteva intervenire efficacemente sugli occhi di suo marito. L'amicizia che lo legava al dottore giapponese avrebbe permesso loro di pagare una cifra irrisoria e, soprattutto, forse Mousse non avrebbe avuto bisogno di un'operazione che poteva anche rivelarsi pericolosa. Il medico conosceva molti modi di intervenire sul ki per risolvere problemi fisici e Shampoo era intenzionata a chiedergli se poteva lenire anche i dolori interiori operando sulla mente. Qualcuno avrebbe obiettato che erano tecniche superate e obsolete, ma lei era certa che si trattasse di uno dei pochi esperti di medicina cinese che le conoscevano ancora e le sapevano applicare al meglio. Non per niente era anziano quasi quanto quel vecchiaccio maniaco di Happosai.

Tirò fuori la valigia di Mousse dal ripostiglio e fecero i bagagli tutti e tre, come una vera famiglia. Quel viaggio avrebbe risolto i loro problemi in tutti i sensi, se lo sentiva. 

"Bene", disse Mousse spegnendo le luci del locale e appendendo fuori un cartello che diceva 'chiuso a tempo indeterminato', "andiamo a salutare i nostri amici". Non avevano detto a nessuno le loro intenzioni, anche perché la decisione era stata presa in tempi molto brevi, ma non volevano neanche dare l'impressione di essersi dati alla fuga. Sarebbero passati a salutare tutti, con la promessa di tornare non appena Mousse avesse risolto il suo problema agli occhi.

***

"Sono felice che abbiate preso questa decisione, mi spiace solo aver fatto quella gaffe, l'altra sera...". Ono Tofu era ancora sconvolto dalle rivelazioni di sua moglie, anche se comprendeva perfettamente i suoi sentimenti, ma era stato ben felice di vedere Shampoo e Mousse sereni e in partenza.

"Oh, non lo dica nemmeno. Il problema era nostro e ci siamo chiariti, la ringraziamo di cuore, anzi, per quello che sta facendo per noi", disse Shampoo sorprendendolo. L'amazzone era stata sempre molto testarda e orgogliosa. Era cambiata molto, negli anni, questo sì: non era più la ragazzina folle che correva dietro a Ranma per tutta Nerima cercando di accaparrarselo con ogni mezzo, lecito e non. Però, dopo il parto di Misaki, era diventata stranamente nervosa e irascibile, pronta a scattare per qualunque cosa. Avevano pensato tutti che si trattasse di depressione post-partum, il che poteva essere abbastanza normale, ma quando anche lui, da medico, aveva tentato di parlarle, lei si era richiusa a riccio. Ranma e Akane gli avevano raccontato di volerla andare a trovare in ospedale, dopo la nascita della bambina, ma lei si era rifiutata e quel periodo era rimasto sempre un po' avvolto nel mistero per tutti. Tofu si era domandato spesso se ci fossero state complicazioni, ma non aveva insistito ed era sempre stato discreto, volendo rispettare la privacy della coppia.

"Sono contento di avervi potuto aiutare. Il dottor Ning ha già ricevuto la tua cartella clinica, Mousse, e ti aspetta a braccia aperte".

Il ragazzo annuì e vide Shampoo tormentarsi le mani e mordersi il labbro, prima di dire: "Il dottor Ning... cura qualsiasi malattia? Voglio dire... ha poteri anche sulla mente?".

Si rese conto che le era costato molto fare quella domanda, tanto più che si era accertata che Kasumi, poco distante con i bambini, non potesse udirla. Le sorrise, professionale e paterno al contempo: "Il dottor Ning è un luminare, nel suo campo, è intervenuto su difetti fisici, malattie del corpo e della mente e non mi stupirebbe se avesse anche un rimedio per le vostre maledizioni, ora che ci penso! Provate a chiederglielo, di certo non guasta. Non voglio dire che fa miracoli, è un uomo e ha i suoi limiti, ma di sicuro è il migliore nel suo campo". Non sapeva se effettivamente avesse la possibilità di guarire dalla maledizione di Jusenkyo, ma aveva volutamente inserito le malattie mentali al centro della frase e rivolto l'attenzione ad altro per toglierla dal suo imbarazzo e darle al contempo un'informazione importante. 

Il viso di Shampoo si illuminò e Ono capì di aver fatto centro. 

***

Akane rifletteva sul concetto di libertà da quando avevano messo piede nella casa nuova. Erano soli. Davvero soli. La casa era abbastanza pulita, ma aveva necessità di alcuni aggiustamenti nella disposizione dei mobili e le loro cose non erano ancora tutte al loro posto. Quella mattina aveva saltato gli allenamenti per sistemare tutto, ma Ranma se n'era andato senza neanche chiederle se volesse aiuto. Quando era tornato, però, si era messo a riordinare anche lui e poi avevano cucinato insieme: ora era stremata.

Si accasciò sul futon della loro camera da letto nuova e guardò il soffitto per qualche istante prima di chiudere gli occhi. Aveva urlato contro suo padre, sfogando una rabbia repressa che non credeva di avere e forse aveva anche fatto bene. Ma sentiva di aver esagerato. Da quando era morta sua madre, l'uomo aveva sempre cercato di proteggere lei e le sue sorelle, a modo suo. A modo molto suo. Ad esempio, combinando il suo matrimonio. Certo, alla fine era andata bene: se veramente lei e Ranma non fossero stati fatti l'uno per l'altra si sarebbe ribellata molto più duramente e non avrebbe mai ceduto. Ma era stato un caso fortunato. Non ci si innamora a comando. E non si facevano i figli a comando. Né le analisi e i test di gravidanza con tutta la famiglia in attesa del verdetto come in uno show televisivo di dubbio gusto. Come aveva potuto permetterlo? Come era arrivata a farsi sopraffare così da quella che doveva essere la sua famiglia e proteggerla, e invece violava i suoi più intimi diritti? 

Akane pensò di sapere il motivo: in casa non c'erano donne a parte Nabiki. E lei, occupata com'era a raggirare Taichi e a divertirsi con i suoi soldi, aveva perso interesse per quel gossip che in altri tempi l'avrebbe coinvolta completamente. Si limitava ad ammiccamenti e commenti sulle notizie da rivendere, ma non faceva mai sul serio: aveva in ballo qualcosa di più grosso, ovvero farsi sposare dal rampollo di casa Kuno. E, sospettava, sarebbe stata disposta persino a farsi mettere incinta volutamente. Era davvero questo che era accaduto? E quando lui aveva rifiutato era rimasta così sconvolta da non volerne più sapere di quella creatura innocente? E dire che lei, a volte, avrebbe voluto tanto essere al suo posto e avere figli. A volte, non sempre, in effetti ancora non si era decisa pienamente su quel punto. Come aveva detto a Ranma stava bene anche così e non le dispiaceva aspettare ancora un po': in fondo era giovane e stava ancora affinando le arti marziali. Talvolta, però, le montava dentro il timore che il suo corpo avesse qualcosa di sbagliato, visto che non rimaneva incinta neanche provandoci e il desiderio di avere un figlio diventava più forte. Per poi svanire quando tornavano a farle pressione.

Sentì Ranma entrare nella stanza ma non si disturbò ad aprire gli occhi. Aveva bisogno di riposare qualche minuto, invece se lo ritrovò steso accanto: "Dormi?", le chiese.

Scosse la testa, sorridendogli: "Hai finito di riassettare la cucina?".

"Sì, mancano solo alcune stoviglie da riporre e i nostri vestiti", disse indicando una pilla di scatoloni poco distante.

Akane sospirò: "Per fortuna che avevamo poche cose, non riesco a immaginare cosa sarebbe accaduto se...".

Ranma la interruppe all'improvviso, con un bacio che le mozzò il fiato. Si strinse a lui, incapace di sottrarsi. Quando finalmente il bacio finì, mormorò: "Ranma...?".

"Siamo soli, no? Completamente. Sarebbe il caso di... uhm, approfittarne, non trovi?". Akane non poté fare a meno di ridere: dopo tanti anni, il baka arrossiva ancora e sembrava in imbarazzo.

"Beh, direi che si può fare", decise rotolando su di lui e dicendosi che, forse, non era poi così stanca. "Alla fine, non...". La sua frase fu interrotta da un urlo che la riportò indietro nel tempo di parecchio.

"Ayaaaaa Lanma!". 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Timori ***


Cap. 11: TIMORI
 
"Ayaaaaa Lanma!", gridò Shampoo saltando al collo di Ranma e avvinghiandosi come l'edera.

Akane strinse i pugni, una vena cominciò a pulsarle sulla fronte mentre suo marito biascicava scuse incomprensibili e tentava, in maniera neanche troppo veemente, di far staccare Shampoo da quell'abbraccio inopportuno.

Scoccò un'occhiata a Mousse, che rimase in disparte guardando a terra, evidentemente frustrato. Richiamò sua moglie una volta sola, debolmente, ma si arrese all'ennesimo "Ai len" di Shampoo rivolto a Ranma.

Ad Akane parve di essere tornata ai tempi del liceo, quando scene come quella erano all'ordine del giorno e lei moriva dalla gelosia. Allora, non poteva fare altro che sfogare la rabbia tirando pugni e colpi di cartella al suo fidanzato. Ora, invece, poteva farsi sentire davvero.

Si schiarì rumorosamente la voce e Ranma balbettò: "Akane, non è come pensi!".

"Ah, no? E come sarebbe allora?! Vuoi per caso che vada a prendere dell'acqua fredda per calmare i vostri bollori?", chiese sarcastica, sperando che avere una gatta sulla faccia bastasse a farlo staccare da Shampoo.

La cinese le lanciò uno sguardo pieno d'odio e aumentò la stretta su di lui, che gemette contrariato: probabilmente lo stava strozzando, ora. "Lanma è mio", disse, "io e lui avremo presto un bambino".

L'urlo le morì in gola. "Bugiarda!", gridò quando finalmente riuscì a parlare.

"Esatto, sei una bugiarda", intervenne un'altra voce, "sono io che avrò un bambino da Ranma, non tu!". Akane si voltò e riconobbe sua sorella Nabiki, con la pancia prominente. Si avvicinò ai due e cominciò a urlare contro Shampoo.

Ma lei non udiva più nulla. Le ronzavano le orecchie, si sentiva sul punto di svenire. Che razza di storia era mai quella? Shampoo e Nabiki che rivendicavano la paternità di Ranma? E dov'era la piccola Misaki?

"R-Ra...", riuscì a soffocare prima di perdere i sensi.

Si risvegliò nel suo letto, in piena notte. Il braccio di Ranma era sopra al suo corpo nudo e il cuore le martellava nel petto. Si costrinse a prendere dei respiri profondi per calmarsi e la sua mente confusa ripercorse gli eventi della giornata.

Shampoo era stata effettivamente a casa loro e aveva urlato il nome di Ranma come ai vecchi tempi. Ma solo per salutarlo: era in partenza per la Cina, con Mousse e la piccola Misaki.

Evidentemente lo stress accumulato e la lite con Nabiki avevano contribuito a farle fare quello strano sogno. No, incubo. Si alzò, recuperando la camicia da notte che era finita ai piedi del letto e rabbrividì mentre la indossava. Andò in bagno per prendere un bicchiere d'acqua, poi tornò a letto. Ranma mugugnò nel sonno e l'afferrò nuovamente. Akane si lasciò cullare dal suo calore e dal suo respiro regolare, e si addormentò qualche minuto dopo.

                                                                                              ***

Akari aveva gli occhi spalancati nel buio. Da quando Ryoga le aveva fatto quel discorso, era dovuta venire a patti con i sentimenti contrastanti che la stavano sommergendo. Voleva la sua amicizia. Voleva il suo amore. Voleva essere leale. Eppure, voleva riconquistarlo. In barba a Ukyo o a qualsiasi altra donna fosse anche a un solo chilometro di distanza.

Perché? Perché semplicemente lo amava. E per riprendersi la sua vita. Quella vita che una maledetta trave aveva spezzato un giorno di qualche anno prima, distruggendo tutti i suoi sogni. Essere un'artista marziale di prim'ordine senza l'uso delle gambe non l'avrebbe portata a niente e sarebbe comunque rimasta sola. Lei e i suoi amati maiali. Ma Akari voleva di più, aveva diritto di essere felice e il sacrificio che aveva fatto, quando aveva praticamente consegnato Ryoga a Ukyo su un piatto d'argento, le si stava rivoltando contro. I bei gesti non l'avrebbero resa felice. Niente e nessuno avrebbe potuto. Mai più. Ryoga le aveva detto chiaro e tondo che erano amici. Che gli era molto, molto cara ma le cose non erano cambiate e il suo cuore apparteneva sempre alla cuoca di okonomiyaki. Voleva che rimanesse, per allenarsi, per avere compagnia; ma non doveva illudersi o provare a prendere un posto che non le spettava.

Se avesse potuto, sarebbe corsa via. Invece era rimasta. Era per forza dovuta rimanere, visto che Katsunishiki non era lì vicino. Il suo sorriso aveva vacillato solo un po' ed era riuscita ad annuire, proponendo poi a Ryoga di assaggiarle, almeno, le sue okonomiyaki.

Lui lo aveva fatto di buon grado e si erano messi a chiacchierare di cucina e ingredienti, stemperando il discorso serio di poco prima.

Si domandò, per l'ennesima volta, se rimanere o meno. Se fosse andata via sarebbe stato come ammettere la sconfitta, dandosi per vinta definitivamente.  Non che così cambiasse molto, ma non era ancora pronta all'addio finale. Sì, perché il giorno che se ne fosse andata non sarebbe mai potuta tornare. Aveva tentato disperatamente di abituarsi all'idea che lei e Ryoga sarebbero stati sempre e solo amici, data la presenza di Ukyo. Ma non ci era riuscita. Aveva bisogno, se non di sperare, di salutarlo ancora per un po'. Poi si sarebbe imposta di non tornare mai più. Non sapeva cosa avrebbe fatto della sua vita, ma di certo era inutile flagellarsi accanto a un uomo che non l'amava e lei non avrebbe sopportato uno strazio ulteriore per il suo cuore ferito.

Ancora qualche giorno, si disse. Ancora un po', per fare il pieno di lui. Poi sarebbe tornata al suo gelo perenne.

                                                                                              ***
Quella mattina, Nabiki era rimasta in camera ad ascoltare i rumori che provenivano dalla palestra. Aveva udito distintamente Ranma prima e Akane subito dopo tenere la loro lezione.

Lei invece doveva occuparsi delle pratiche per l'adozione, innanzitutto cercando di capire come funzionasse quel mondo a lei oscuro, ma le nausee mattutine, la stanchezza perenne e i lamenti di suo padre la dissuadevano ogni volta dal lasciare la sua stanza per più di qualche ora al giorno. Tuttavia, qualche minuto prima, aveva sentito lui e Genma parlottare della possibilità di andare in città per controllare che il vecchiaccio non combinasse guai: da quello che aveva capito, Happosai aveva trovato un quartiere dove veniva stesa una grande quantità di biancheria e voleva "andare a pesca". I suoi allievi, evidentemente, si sentivano responsabili delle sue malefatte o erano già stati avvisati dalle forze dell'ordine di ruberie le cui tracce portavano, guarda caso, proprio al dojo Tendo. Non sapeva bene se rischiassero la galera, in quanto presunti complici, ma di certo il loro maestro pervertito non avrebbe pagato alcuna multa gli avessero spiccato.

Per una volta, a Nabiki quelle questioni non importavano più di tanto: voleva solo recarsi al piano di sotto senza incorrere nei piagnistei di suo padre che la supplicava - o la minacciava a seconda dell'umore - di sposarsi con Kuno. Inoltre, non gli perdonava il colpo basso di aver tirato in ballo sua madre. Nei suoi sogni, desiderava ardentemente averla vicina, ora che anche Kasumi viveva per conto suo. Forse, se ci fosse stata lei, la sua storia con Kuno sarebbe andata diversamente. Forse, ora non si sarebbe trovata incinta.

Troppi forse, doveva smettere di fare la sentimentale e pensare alla realtà e al presente. Al diavolo i suoi ormoni impazziti.

Attese che il suo vecchio bussasse alla porta per comunicarle che sarebbe uscito e lo rassicurò sul fatto che non le sarebbe successo nulla a rimanere sola per qualche ora. Era incinta, non invalida, al massimo avrebbe avuto un attacco di vomito assolutamente controllabile; si sarebbe rimessa a letto o avrebbe spiluccato dei biscotti. Fine della storia.

Quando, finalmente, udì richiudersi la porta principale, si sentì leggera come una piuma.

                                                                                              ***

Aveva cambiato idea repentinamente, ma non sarebbe tornato indietro. Era bastata una breve conversazione con sua sorella per farlo tornare sui suoi passi, e riconoscere l'errore che stava commettendo.

Non sposare Nabiki Tendo sarebbe stato un atto di egoismo bello e buono. Si sentiva ferito dal comportamento di Nabiki, che pareva volerlo sposare solo per i suoi soldi, nessun uomo vorrebbe accanto a sé una donna solo per un mero motivo economico. Sì, c'era chi si accontentava per i più svariati motivi: la vecchiaia, la solitudine, il timore di morire senza nessuno vicino... ma lui era giovane e aveva una vita intera davanti! Ma c'era una creatura innocente, che era anche sua, che non aveva alcuna colpa di quello che accadeva tra loro. E lui non si sarebbe tirato indietro come aveva fatto suo padre, rifugiandosi lontano e abbandonando lui e Kodachi come se non fossero mai esistiti. Per poi tornare col suo corredo di pazzie e idee strambe. No. Lui ci sarebbe stato per suo figlio, a costo di essere infelice accanto alla donna che si era scelto.

Infelice... eppure innamorato. Suo malgrado, non riusciva a non amarla, quella Nabiki fredda e calcolatrice che voleva dare in adozione il bambino. Ma quello non glielo avrebbe permesso. Mai.

Mentre tornava al dojo, si augurò mentalmente di non trovare altri in casa se non Nabiki. Non poteva affrontare ancora suo padre, aveva bisogno di parlare in pace con lei. Da lontano, vide due figure allontanarsi da casa Tendo e sorrise tra sé: la fortuna era decisamente dalla sua parte!

                                                                                              ***
"Stanotte ho avuto un incubo", gli disse Akane con finta noncuranza. Gli era parsa stranamente tesa, quella mattina, ma non capiva il perché. Certo, erano stati mesi difficili, ma ora erano finalmente soli.

"Che genere di incubo?", le chiese mentre affettava le patate e controllava che non mettesse lo zucchero al posto del sale.

"Ho sognato che Shampoo aspettava un figlio da te. E anche Nabiki". Lo disse con una tale serietà che Ranma non riuscì a impedirsi di scoppiare a ridere.

Akane si accigliò, evidentemente contrariata: "Beh, non c'è niente da ridere! Sembrava vero".

"Qualsiasi sogno o incubo sembra vero, mentre lo fai", le spiegò mentre si asciugava gli occhi che sprizzavano lacrime. Le allungò una cipolla, spiegandole come tagliarla.

Lei l'afferrò con rabbia: "Lo so che sembra vero e non lo è, ma... mi ha fatto anche pensare".

Ranma la guardò di sottecchi mentre studiava la cipolla come se potesse darle delle risposte. Finalmente afferrò il coltello e iniziò a inciderla cautamente.

"Ovvero...?", si azzardò a chiederle, di nuovo attento.

Akane tacque per qualche istante, poi i suoi occhi cominciarono a riempirsi di lacrime man mano che la cipolla veniva fatta a pezzi: "Ho pensato che se io non riuscissi mai a darti un figlio potresti stancarti di me, e magari interessarti ad altre donne. Non dico subito, ma con gli anni".

Il ragazzo col codino sgranò gli occhi, incredulo. "Questa è la considerazione che hai di me?", le disse, risentito.
Sua moglie parve colpita da quelle parole, perché lo fissò asciugandosi gli occhi con il braccio. "Era solo un'ipotesi", tentò.

Ranma si accigliò. Evidentemente, tanti anni passati a prenderla in giro, a litigare, e tutto quello che era successo dal terremoto in poi, non avevano fatto altro che aumentare l'incertezza e il senso d'inadeguatezza in Akane. Doveva spiegarle come stavano le cose, senza mezzi termini e con decisione. Fece un passo verso di lei e la abbracciò da dietro, lasciando scivolare le braccia appena sotto al seno. La sentì rilassarsi al suo tocco.

"Ascoltami bene, perché non lo ripeterò. Se io avessi voluto mettermi con Shampoo o con Nabiki, o con qualunque altra delle mie fidanzate e non fidanzate, lo avrei fatto tanti anni fa! Se sono rimasto con te e alla fine ci siamo sposati è perché era te che volevo. E la sai una cosa? Anche a me piacerebbe avere dei figli, un giorno, ma voglio anche invecchiare accanto a te e se non ne avremo non me ne importerà un fico secco! Ti è chiaro?"

Akane si passò di nuovo la manica sugli occhi, anche se ormai era lontana dalla cipolla e si girò per abbracciarlo. Ranma la strinse a sé, mentre lei gli mormorava, piano, quanto lo amasse.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Lite ***


CAP. 12: LITE

Grazie come sempre, Tiger Eyes, per aver corretto le mie sviste ed eliminato il superfluo!

Nabiki avrebbe voluto urlare. Più di quanto aveva fatto Akane. Più di quanto avesse fatto chiunque altro. Ma era così stremata che si rassegnò all'idea di sciropparsi tutta la filippica di Kuno. Tanto, alla fine, sarebbe bastata una frase detta con sufficienza per liquidarlo.

"Ti prego, devi ascoltarmi", disse con calore.

Lei roteò gli occhi e si lasciò cadere sul tatami, appoggiando la testa sul gomito. "Ti ascolto", sbuffò pizzicandosi la base del naso con due dita: le stava tornando il mal di testa. Feroce, per di più.

Lo udì prendere fiato e tentò di scollegare il cervello, mentre parlava. Con scarso successo.

"Nabiki Tendo, sono sempre convinto che sposarti senza che il sentimento che ci lega sia reciproco sia poco corretto. Tuttavia, devo ravvedermi che esiste una creatura che non ha colpa di tutto ciò ed è il figlio che stiamo per mettere al mondo. Io e Kodachi siamo cresciuti senza l'affetto di una vera famiglia, quindi so quanto sia crudele tutto ciò. Ho, quindi, intenzione di prendermi le mie responsabilità. Voglio che il bambino abbia un padre e una madre".

"Li avrà, ma non saremo noi. Lo darò in adozione", ribatté prontamente Nabiki, con tono stanco.

"Tu non farai nulla del genere, te lo impedirò". Il tono veemente del ragazzo le fece spalancare gli occhi per la sorpresa. Si era aspettata una preghiera lacrimevole, una dichiarazione d'amore struggente nei suoi confronti. Invece lo sentiva blaterare di responsabilità e famiglia.

"Questo bambino è anche mio, se te lo fossi scordato. Io non darò il mio consenso all'adozione. Piuttosto lo alleverò da solo, anche se preferirei che fossimo noi due. Nabiki, non volevi i miei soldi? Bene, li avrai. Non dovrai mai alzare un dito, solo stare a casa con il bambino", continuò Kuno.

"Io non voglio stare a casa dietro a un bambino!", si ritrovò ad alzare la voce, il cuore che le martellava nel petto. Ora capiva. Capiva che, ancora più dei soldi, teneva alla sua libertà. Voleva andare a fare spese, cenare nei migliori ristoranti, viaggiare: che vita sarebbe stata essere ricca ma rimanere tappata in casa con un marmocchio urlante e bisognoso di cure?

Non era pronta alla reazione di Kuno, che sbatté un pugno sul tavolino: "Ti stai comportando come una mocciosa, Nabiki Tendo, e questo mi delude molto. Non me lo aspettavo da te. Sapevo perfettamente che eri viziata, ma questa creatura non ha colpa ed è nostra responsabilità...".

"Stavo per abortire", sputò lì per il solo gusto di fargli del male, di porre fine a tutto. Akane ne era rimasta sconvolta e si era allontanata, forse avrebbe funzionato anche con lui. Se quell'azione ripugnava così tanto le persone, tanto sarebbe bastato per liberarsi di Tatewaki una volta per tutte.

Lo vide impallidire, poi fece una cosa che per la frazione di un secondo la spaventò: le si avvicinò con un braccio alzato, nel chiaro intento di schiaffeggiarla. Rimase serio, gli occhi piantati nei suoi, la mano che tremava, le labbra serrate come per impedirsi di urlare. Deglutì vistosamente un paio di volte, il pomo di Adamo fece su e giù. Poi, parve ritrovare la calma: "Non picchierò la madre di mio figlio", dichiarò abbassando il braccio e voltandole le spalle.

Nabiki, che era rimasta in silenzio ma non aveva mai abbassato lo sguardo, cominciò a provare una sensazione spiacevole allo stomaco, diversa dalla solita nausea. Possibile che fosse una velenosa punta di senso di colpa?

"La mia opinione, dunque, non conta? Non sono forse io che ho nella pancia...?".

"Oh, non propinarmi le solite stupidaggini del tipo: il corpo è mio e me lo gestisco io. Cresci, Nabiki, e sii responsabile delle tue azioni e dei tuoi errori. Sono disposto a darti tempo, a lasciarti riflettere con calma, ma non ti consentirò di dare via mio figlio come se fosse un fardello di cui liberarsi. Se sarò costretto, ricorrerò ai miei avvocati". Detto questo, si alzò e fece per andarsene.

Nabiki aprì la bocca: non poteva lasciargli l'ultima parola, non doveva essere lui a guidare la situazione, diamine! Frustrata, scattò in piedi: "Quindi quello che sento io non ha alcun valore? Non eri tu quello che diceva di amarmi, fino a qualche tempo fa?". Si odiò per quelle parole, ma si trovava su un terreno sconosciuto e non aveva altri argomenti.

"E cosa senti, Nabiki Tendo, dimmelo". Kuno voltò di nuovo il viso verso di lei, senza però fare nemmeno il gesto di girarsi per tornare indietro. "Tu non ami che te stessa e i soldi. Se non hai alcun tornaconto nelle situazioni più disparate, lasci agli altri la briga di occuparsene, oppure li sfrutti finché non ti rimane più nulla da prendere. Non credevo che fossi così povera dentro, me ne accorgo solo ora. Pensavo che avrei potuto amarti anche se tu non mi avessi mai ricambiato, ma la tua freddezza ucciderebbe i sentimenti dell'uomo più determinato. Mi chiedo cosa possa aver visto in te, in questi anni".

Dopo di questo, se ne andò davvero. Nabiki respirava pesantemente, sull'orlo di una crisi di nervi. Attese che si fosse allontanato a sufficienza, poi urlò con quanto fiato aveva in gola e rovesciò tutto quello che aveva a portata di mano, rompendo vasi, piatti e soprammobili.

La leggendaria, fredda e calcolatrice Nabiki Tendo aveva ufficialmente perso la calma e non gliene importava un fico secco.

***

Kasumi sparecchiò la tavola in silenzio, guardandosi attorno. I bambini erano in cortile con Ono e la nonna, e sentiva distintamente le loro voci attraverso i vetri della cucina. Aveva chiesto di poter rassettare da sola, rifiutando l'aiuto del marito e della suocera, per avere un po' di tempo per sé.

Il sentimento nocivo, che pareva averla avvolta da quando era ricomparsa Mayumi, stava ritirandosi poco a poco per lasciare di nuovo posto alla calma e alla gioia. La brutta esperienza vissuta e i timori che le avevano affondato gli artigli fin nel profondo del cuore stavano svanendo per lasciare il posto solo a un pessimo ricordo.

Aveva parlato di nuovo con Ono, quando i bambini non erano presenti, e aveva scoperto di non essere più in collera. Aveva risentito fortemente anche lui della situazione, avrebbe dato la sua vita piuttosto che vedere i figli nelle mani di quei delinquenti, aveva pagato lo scotto del suo stesso errore. Si era ripetuto mille volte che, se avesse allertato le autorità o almeno se stesso, quel giorno non avrebbero lasciato Akio e Daiki da soli con la nonna, offrendo ai rapitori la possibilità di agire su un piatto d'argento.

Kasumi aveva avvertito il dolore dell'uomo, e quello stesso dolore l'aveva fatta sentire in colpa per il risentimento che provava. Erano una coppia, si amavano e avrebbero affrontato mille sfide nelle quali la responsabilità poteva ricadere sull'uno o sull'altro a seconda delle situazioni. Ma se non erano capaci di superarle, allora, voleva dire che non erano abbastanza affiatati. Invece loro lo erano e lei ne era consapevole ogni giorno di più.

Il senso di completezza che l'avvolgeva quando erano a tavola tutti insieme, o quando guardavano i bambini giocare o li mettevano a letto leggendo una favola a testa, era ciò che di più gratificante potesse avere una donna. Kasumi Tendo Tofu non poteva desiderare altro. Sperava che le cose si sistemassero anche per le sue sorelle, anche se Akane era già a buon punto. Nabiki, invece, la preoccupava più di tutti: non aveva avuto modo di parlarle molto dopo il suo annuncio, visto quello che era successo, ma si ripromise di andarla a trovare.

Si tolse il grembiule e raggiunse la sua famiglia sotto al sole, in cortile, sorridendo davvero per la prima volta dopo tanto tempo.

***

Mentre tornava a casa a piedi, Akane si fermò guardandosi alle spalle. Doveva parlare con suo padre e scusarsi con lui, ma a quanto pareva quel giorno non era in casa. Non che fosse entrata, ancora non se la sentiva di affrontare Nabiki. Ma, passando per il dojo, non aveva udito le solite risate sguaiate di Soun e Genma che giocavano a shogi o rincorrevano Happosai.

Probabilmente sono fuori città.

Aveva litigato praticamente con tutti e, anche se aveva le sue buone ragioni, quella era la sua famiglia e dovevano chiarirsi. Una parte di lei avrebbe voluto che fosse suo padre a fare il primo passo, scusandosi per gli errori commessi e per averla trattata quasi come una macchina sforna-bambini ogni dannato mese. Allora, lei si sarebbe detta dispiaciuta di aver urlato a quel modo e tutto sarebbe tornato come prima.

Cosa gli impedisce, di farlo? L'orgoglio, la testardaggine o la convinzione di essere nel giusto?

Sospirò, chiedendosi se dovesse aspettare ancora qualche giorno per presentarsi a casa dopo l'allenamento dei bambini. Lanciò un ultimo sguardo indietro e vide Kuno uscire a grandi passi dal portone principale. Sembrava furioso e si allontanò senza neanche vederla. Akane sbatté le palpebre. Se aveva litigato con Nabiki non li aveva sentiti urlare, d'altronde non si era messa ad origliare ed era rimasta a una certa distanza dall'ingresso. Strinse le buste della spesa combattendo contro l'impulso di vedere cosa diavolo fosse successo e fece un altro paio di passi verso casa.

Nabiki sarà furiosa. O vittoriosa. O infastidita.

Eppure, non fu per semplice curiosità che riempì quasi di corsa la distanza che la separava dal dojo e si fermò sulla porta, con una mano alzata per bussare. Doveva davvero bussare a casa sua? E cos'erano quei rumori? Un urlo la fece muovere contro la sua volontà e Akane aprì la porta schivando per un pelo un vaso pieno d'acqua, che si schiantò sulla parete a fianco della porta.

"E tu che diavolo ci fai qui?!".

"Nabiki, ma sei impazzita?". Mai, mai nella sua breve vita aveva visto la sorella maggiore perdere il controllo così. L'aveva vista arrabbiata, ma sempre con una padronanza che le aveva permesso di ribaltare la situazione a suo vantaggio. Nabiki analizzava le situazioni e trasformava la frustrazione in un'idea brillante. Non si metteva a lanciare vasi e a urlare come una furia scatenata.

Akane capì che, per una volta, doveva essere lei la più matura. Posò le buste con attenzione e si avvicinò alla sorella, togliendole gentilmente di mano un soprammobile di legno che sembrava volesse scagliare chissà dove. Aveva il viso arrossato ed era spettinata, sembrava sull'orlo dello svenimento.

"Credo che dovresti sederti", le disse prima di poterselo impedire.

La reazione di Nabiki fu immediata: "Smettila di trattarmi come una malata! Io sto benissimo!", gridò barcollando subito dopo.

"Sì, sì, certo che non sei malata, ma intanto sediamoci e raccontami cosa diamine è successo, vuoi?". Cercò di usare un tono calmo e conciliante e questo parve colpire Nabiki, che obbedì perplessa. Poi, incredibilmente, scoppiò a ridere.

Akane la guardò per un istante, inarcando un sopracciglio con aria interrogativa: "Il mondo va alla rovescia, parola mia. Tu fai la parte di Kasumi, io vengo colta da crisi isterica e Tatewaki si mette a fare le paternali sulle responsabilità genitoriali".

Ora capiva: Kuno doveva aver saputo dell'adozione e, forse, di qualcos'altro. Guardando Nabiki così nervosa e, incredibile ma vero, sconfitta, Akane venne colta da un'improvvisa empatia. Certo, non avrebbe avuto le sue reazioni e, nonostante tutto, avrebbe accolto l'arrivo, seppur per lei prematuro, di un figlio. Soprattutto dopo tutto il tempo che aveva passato a tentare di averlo. Ma non erano tutti Akane Tendo.

"Nabiki, se per te era un tale peso portare avanti questa gravidanza... perché non sei andata fino in fondo?". Le tremò la voce, ma dovette chiederlo. D'altronde, chi era lei per giudicare i motivi di una donna di fronte a una decisione così drastica? In cuor suo, sperava che, nel caso di Nabiki, ci fosse quella componente di umanità che sapeva essere, anche se ben nascosta, nella sua natura.

Lei la guardò e sul suo volto lesse prima lo stupore, poi la serietà di una profonda riflessione, infine qualcosa che le parve sfiorare il disgusto: "Perché sono una vigliacca".

Akane sorrise e le mise una mano sulla sua, sapendo che Nabiki non avrebbe gradito una manifestazione di affetto simile. Ma non poté farne a meno. La sorella si limitò a voltarsi dall'altra parte, sembrava voler calmare i nervi ma non si sottrasse al suo tocco.

"A quanto pare per far adottare un bambino devono essere consenzienti entrambi i genitori e Tatewaki vuole mettere di mezzo i suoi avvocati. Devo raccogliere più informazioni e verificare le mie possibilità", disse con tono determinato.

"Fai pure tutte le ricerche che vuoi, Nabiki. Ma non chiuderti subito la porta, perché potresti pentirtene. Ora lui è una cosina piccola e silenziosa, senza volto. Ma una volta nato... potresti anche amarlo". Akane non sapeva da dove le venissero quelle parole. Lei non aveva ancora figli e, per quanto ne desiderasse in futuro, era a digiuno di istinto materno provato sul campo. Ma, evidentemente, era latente in lei da sempre, come in ogni donna, e bastava evocarlo per capirne il potenziale.

"Tatweaki ha detto che non amo che me stessa e i soldi", rispose con un sorrisetto sghembo.

"E tu a chi credi, a lui o a te stessa? Tu sai chi sei, Nabiki, e forse, invece di metterti una maschera da donna infallibile, ogni tanto dovresti lasciare che i sentimenti trovino spazio dentro di te. Ti potresti anche stupire di quanto ti rendano forte, alle volte".

Nabiki alzò un sopracciglio, evidentemente perplessa: "E queste perle di saggezza così profonde da dove ti vengono? In questi ultimi anni penso sempre più spesso che tu abbia sbagliato strada, dovresti fare la psicanalista", disse con tono semiserio.

Akane rise: "Non sopporterei di avere a che fare con donne esaurite tutto il giorno: meglio fare kata e tirare pugni!", dichiarò alzandosi. Mentre andava alla porta, disse a Nabiki che sarebbe tornata per fare pace anche con suo padre, ammesso che lui la ascoltasse senza tirare fuori nuovamente argomenti spiacevoli.

"Lo preparerò io alla tua visita, tranquilla. Sai una cosa? Anche Kuno stava per schiaffeggiarmi quando gli ho detto che avevo intenzione di abortire".

Akane rimase a guardarla senza dire nulla. Probabilmente si meritava uno schiaffo come quello che le aveva dato, o probabilmente no. Di sicuro non avrebbe voluto che glielo desse Kuno.

"Forse devo valutare la possibilità di smetterla di raccontare quella vicenda, o rischio la pelle prima che cominci a vedersi il pancione", aggiunse sua sorella con una risatina.

Akane sorrise e l'abbracciò, di slancio. Sentiva dentro di sé che quello era il modo di Nabiki per dirle che era pentita, che avrebbe cercato di essere migliore di così e che la ringraziava. Magari si sbagliava, ma prima di uscire fece un'ultima cosa, sperando di aprire il suo cuore, quel cuore che probabilmente si era indurito dopo la morte della loro mamma. Le pose la mano sul ventre e mormorò: "Abbine cura, è pur sempre una parte di te".

Chiuse la porta sulla sua espressione di stupore e si avviò verso la sua nuova casa.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Sentimenti ***


CAP. 13: Sentimenti

"Ora sei in connessione con la parte più profonda di te stessa. Osserva. Respira e osserva. E adesso amala. Non hai nulla da perdonarle. Il tuo corpo ti ha tradita, ma lei non ne ha colpa. Ha lottato, è sopravvissuta. Lo ha fatto per la meravigliosa bambina che aveva da accudire. E questo è il suo merito più grande".

Shampoo si lasciò cullare dalla voce calda e tenera dell'uomo, a tratti così profonda che non si sarebbe detto che provenisse da un fisico così minuto e ultracentenario, forse anche più del vecchio Happosai.

"Concentrati sull'amore per tuo marito e tua figlia: tu ne sei l'artefice. Tu hai donato la vita al legame più forte che c'è tra voi, Shampoo. Abbandona i sensi di colpa e la rabbia".

Sentì le lacrime pungerle gli occhi e la gola chiudersi. Lasciò che sgorgassero, ma erano meno numerose delle volte scorse. Forse, al pari di Mousse, anche lei stava guarendo. Quell'uomo era davvero meritevole della sua fama.

Quando aprì gli occhi si ritrovò davanti il suo sguardo sorridente e la sua buffa barbetta bianca lunga fino alla pancia. "Bene, figliola, direi che ormai manca poco, sia per te che per tuo marito. State guarendo quasi allo stesso tempo. Incredibile come siate in sintonia."

Anche Shampoo sorrise: fino a qualche anno prima non lo avrebbe creduto nemmeno lei, eppure quel ragazzo quasi cieco con cui era cresciuta era davvero la sua perfetta metà.

"Vorremmo comunque rimanere ancora per un po'. Misaki si sta allenando volentieri con quel ragazzino che è rimasto orfano... come si chiama?".

"Wei Qi. Così lo hanno battezzato gli abitanti del villaggio quando sua madre morì di parto: significa "fortunato", volevano fosse di buon auspicio per lui. Povero ragazzo, nonostante non abbia mai conosciuto né lei né suo padre, ha avuto più genitori di qualsiasi altro bambino, dato che lo hanno cresciuto a turno", raccontò il vecchio guaritore.

Shampoo si accigliò: "Mi spiace, non avevo idea che la sua storia fosse così triste. Ha solo un anno più di Misaki ma sembra già un piccolo adulto".

L'uomo sgranò gli occhi: "Ma la sua storia nasce triste per poi diventare più gioiosa di quella di chiunque altro! Ha l'amore di tanti uomini e donne che lo considerano come un figlio e anche di tanti fratelli e sorelle che lo trattano da tale. La sua famiglia è la più numero sa che io conosca. Dobbiamo continuare a lavorare sui punti di vista, vero, Shampoo?".

"Ha ragione", si schernì l'ex amazzone con una risatina. Chiuse gli occhi e si preparò nuovamente ad entrare in sintonia con la sua anima.

***

Ukyo guardò fuori dalla finestra mentre sfogliava distrattamente il libro di ricette che aveva davanti. I mesi passati all'estero erano stati elettrizzanti, aveva imparato tantissime cose nuove e non solo sulle culture dei luoghi che aveva visitato, ma anche sulle diverse tipologie di cucina. Al suo ritorno avrebbe allargato il commercio di okonomiyaki proponendo specialità francesi, inglesi e italiane. O forse avrebbe dovuto adeguare i suoi okonomiyaki ai gusti esotici di quei luoghi? Ancora non lo sapeva, ma non vedeva l'ora di provarci. Da qualche settimana, però, era in pensiero per Ryoga: le mancava, ogni giorno, ma ultimamente lo sentiva come in apprensione per qualcosa. Le loro chiacchierate non finivano mai sulla distanza che li separava o sul suo eventuale ritorno, eppure lei sentiva che avrebbe voluto dirle di tornare. C'era un che di diverso nel suo tono di voce, come se le nascondesse qualcosa.

Forse erano sciocchezze, o probabilmente era solo stanca di stare lontana da casa ed era ora che tornasse in Giappone. Avrebbe avuto ancora un mese da poter passare in quell'esclusivo albergo italiano, lavorando fianco a fianco con uno chef col quale scambiava i segreti della cucina nipponica. La sua borsa di studio l'avrebbe coperta per un altro mese e avrebbe anche guadagnato qualcosa per acquistare degli ingredienti speciali da portare con sé.

Ma la sera prima aveva colto la cocente delusione nella voce del suo fidanzato, quando gli aveva comunicato di avere quattro settimane in più da passare in Italia, e che non sarebbe partita con il volo della mattina dopo come aveva preventivato.

Qualcuno bussò leggermente alla porta, riscuotendola dalle sue riflessioni. "Avanti", disse in giapponese e si ritrovò di fronte allo sguardo confuso del suo collega. "Scusa, ero distratta", spiegò nel suo italiano stentato.

"Però ho capito lo stesso che il tuo era un invito a entrare", rispose quello, ripetendo un paio di parole nella sua lingua affinché lo comprendesse meglio.

Ukyo sospirò. "Se rimanessi qui ancora un po' imparerei meglio l'italiano. E le tue ricette, Marco", concluse sorridendo.

Il cuoco di accigliò: "Hai un altro mese, infatti. Ieri mattina ne sembravi felice. Ora, invece...".

"Ho un locale da gestire, a casa. E un fidanzato a cui manco e che mi manca. Devo tornare", disse, improvvisamente conscia che non sarebbe rimasta.

Marco non ne parve sconvolto. Ukyo aveva più volte avuto l'impressione che si fosse infatuato di lei, in quelle poche settimane, nonostante avesse almeno sette anni in più. Ma la stupì quando disse: "Quello è il tuo posto, allora. Ti manderò il mio nuovo libro di ricette quando uscirà, a fine anno".

"Grazie", rispose lei semplicemente, abbracciandolo e cominciando a pensare a tutte le cose che avrebbe dovuto mettere in valigia in una sola sera.

***

Tu-Tum

Tu-Tum

Un cuore che batte.

Tu-Tum

Tu-Tum

Un essere vivo

Questo sentivi mentre un'infermiera sorridente passava l'ecografo sul tuo ventre gonfio, impiastricciato di un gel freddo e appiccicaticcio.

"Guardi, si vedono i piedini e le manine!"

Ma il tuo sguardo rimane fisso al soffitto: una, due, tre ombre... vetture che passano per la strada e attraverso la luce del sole che filtra dalle tende.

"Vuole sapere il sesso?"

Ti chiedi perché quella donna si ostini a tormentarti, hai l'impulso di strapparle quel maledetto aggeggio dalle mani e scagliarlo con violenza sullo schermo dove tuo figlio viene fedelmente riportato.

"Signora?"

Stringi i pugni, ti mordi le labbra fino a sentire il sapore del sangue sulla punta della lingua.

"Signorina. E non m'interessa il sesso, lo darò in adozione."

Fulmini con lo sguardo l'infermiera che sbatte le palpebre un paio di volte, mentre il sorriso beota che si era incollata sulla faccia muta in un'espressione di perplessità, poi di delusione.

"Oh..."

Già, 'oh'.

Nabiki si svegliò, madida di sudore. Non aveva mai fatto quella maledetta ecografia, perché l'aveva rimandata più e più volte, nonostante fosse ormai entrata nel quinto mese e fosse assolutamente necessario fare un visita per controllare che tutto procedesse bene. Non lo aveva mai sentito muoversi e ormai si era convinta che fosse morto.

Ma continuava, imperterrita e instancabile, a consultare avvocati e libri di testo per cercare un vincolo, una scappatoia che le permettessero di darlo in adozione, casomai fosse nato. Tra lei e Tatewaki si era scatenata una lotta a distanza, fatta di silenzi, visite inaspettate e litigate sulla soglia di una porta che veniva quasi sempre sbattuta, dall'uno o dall'altra.

Suo padre si era ormai rassegnato a quella storia, forse già abbastanza soddisfatto di aver fatto pace con Akane. A volte le sembrava che la sua famiglia avesse paura di lei. Con la gravidanza non si era trasformata in una di quelle donne amabili e addolcite come la rotondità del loro stesso ventre, ma in una specie di arpia presa in trappola. Più le parole di Akane di qualche tempo prima le riecheggiavano nella mente, meno sentiva di voler amare quell'essere nel suo ventre.

Non poteva, non voleva amare. Amare faceva male, portava solo sofferenza, lo aveva ben constatato quando sua madre...

Nabiki scattò a sedere sul letto, con una mano che andava automaticamente alla pancia e gli occhi spalancati.

"Che diavolo era?!", chiese alla stanza vuota.

Possibile che...

Sentì un'altra torsione, come un movimento involontario all'altezza dell'intestino, ma che non era nell'intestino.

Il marmocchio aveva deciso di prenderla a calci proprio nel momento in cui realizzava che il suo odio era semplicemente il timore di soffrire per amore, come era successo alla morte della mamma.

Quindi era vivo.

Quindi era così che succedeva. Scoprivi una verità inconfutabile e tuo figlio si faceva sentire.

Tuo figlio?!

"Io non ho un figlio, non l'ho deciso io", disse rivolta al proprio ventre, sicura di essere impazzita. Il feto rispose con un altro movimento, stavolta più forte. Forse aveva riconosciuto la sua voce.

Nabiki si portò le mani al viso, terrorizzata e si ributtò sul letto. Non doveva succedere, non doveva provare quella sensazione di sollievo, di apertura, di speranza. Doveva impedirsi di amare di nuovo. Erano più di quindici anni che scacciava certi sentimenti con decisione, in favore di questioni più concrete che portassero solo il bene della famiglia. E non l'avevano mai delusa.

Si rizzò a sedere e corse in bagno appena in tempo per rigettare una bile giallognola e disgustosa, simile al colorito della loro mamma quando la malattia...

Bastò quel pensiero a farle salire in gola un altro conato, a vuoto. Non aveva mangiato nulla la sera prima e non voleva mangiare neanche quella mattina. Ma il marmocchio continuava con i suoi colpetti, forse chiedendo a gran voce che le mandasse giù qualcosa.

Stava tentando di affamare lui o se stessa? O i propri sentimenti? Non lo sapeva più.

"Tutto bene, tesoro?". La voce di suo padre quasi la spaventò.

In tutti quei mesi, da quando avevano discusso per via del bambino e del matrimonio, si era tenuto alla larga, come osservandola da lontano. Non era mai entrato in bagno quando lei si sentiva male, anche se aveva avvertito più di una volta la sua presenza e la sua preoccupazione vicino alla porta.

Senza attendere una risposta, le mise una mano sulla fronte, attendendo che lei si raddrizzasse. Poi la sostenne gentilmente per le spalle, accompagnandola al lavandino perché si rinfrescasse. Nabiki non ebbe le forze per opporsi a quel calore, a quel contatto che minacciarono di soffocarla. Suo padre non la toccava così da quando era piccola.

"Mi ha preso a calci", disse improvvisamente.

"Davvero? Ma questa è...".

"Cosa, una bellissima notizia?", concluse acidamente, interrompendo l'espressione di gioia dell'uomo. Non le fece piacere farlo, e quella consapevolezza la spaventò, se possibile, ancora di più.

Si sciacquò la bocca e si bagnò il viso.

"È arrivata Kasumi con Tofu e i bambini. Ha portato uno dei suoi manicaretti. Perché non scendi a mangiare con noi?".

Nabiki era sicura che suo padre avesse espresso a sua sorella maggiore la propria preoccupazione per la scarsa alimentazione di quegli ultimi giorni e le avesse chiesto di fare qualcosa. Più volte Kasumi aveva tentato di parlarle, un po' come aveva fatto Akane, ma non era riuscita ad aprire alcuna breccia nel suo cuore. Almeno, così sperava.

"Non ne ho voglia. Penso che tornerò a dormire". Quelle strane sensazioni che sentiva la indurirono ulteriormente. Doveva ergere una barriera più forte e non permettere più che nessuno la toccasse o la inducesse a mangiare.

"Ma...".
"Cosa? Rischio di svenire? Di fare del male a tuo nipote? Beh, non me ne importa un fico secco, chiaro?!". Mentre registrava vagamente l'espressione costernata dell'uomo, girò i tacchi e si chiuse in camera.

Chiuse gli occhi, sedendosi sul letto. Sentì i passi di suo padre risuonare stanchi attraverso il corridoio. Ora sarebbe andato dagli altri e avrebbe detto loro, tristemente, che lei si rifiutava di mangiare e che era molto preoccupato. Forse sarebbe salita Kasumi con un contenitore caldo e lei l'avrebbe scacciata in malo modo.

Non era passato che qualche minuto che il suo timore si realizzò. Non bussò neanche, ma aprì la porta come se nulla fosse.

"Da quando in qua...". La voce le morì in gola quando vide Daiki porgerle un piatto fumante.

"Mamma ha detto che se non mangi sale pessonalmente a sculacciarti", disse sbagliando l'avverbio ma non il verbo. Rifletté, confusamente, che forse gli avevano ripetuto più volte quell'ultima parola, a lui di certo sconosciuta, perché la riferisse in modo corretto.

"E tu pensi di fare la spia se non mangio?", chiese inarcando un sopracciglio.

"Fare la spia è brutto come scuccialare", affermò sbagliando finalmente il termine.

Suo malgrado, a Nabiki venne da ridere ma si trattenne. Non avrebbe certo cacciato via malamente suo nipote di poco più di quattro anni, ma non si sarebbe fatta vedere fragile nemmeno da lui. "E tu sai cosa vuol dire sculacciare?"

Daiki ci pensò su un attimo: "No, ma la mamma mi ha detto di dirlo a te questa volta e poi di dimenticarlo. Dice che è meglio parlare, ma quando una persona è adulta e fa come i bambini, dirlo non fa male".

Stavolta rise apertamente, divertita: "E tu cosa ne pensi, credi che dovrei mangiare?". Parlare con quel piccoletto le trasmetteva una strana serenità. Sapeva che lui sarebbe stato sincero ma non l'avrebbe giudicata o rimproverata.

Il bambino parve riflettere, poi fece una cosa che la stupì. Le si avvicinò e le toccò la pancia. Il marmocchio scelse quel momento per dare un altro calcio e Daiki dovette sentirlo, perché sussultò: "Lì dentro c'è il mio cuginetto, vero?"

Come era capitata in quella situazione? Kasumi sapeva come sarebbe andata a finire, era per quello che aveva mandato avanti suo figlio invece di salire personalmente o mandare Tofu?

"Sì", rispose cercando di mantenere un tono neutro.

"Mamma mi racconta che quando ero nella pancia con Akio lei aveva sempre fame, e anche quando non l'aveva mangiava perché così dava da mangiare anche a noi", spiegò in tono serio, accarezzandole la pancia come se stesse conversando anche con il futuro cugino.

Quella era la mattina delle sorprese. E Nabiki fu, a dir poco, sorpresa di scoprirsi improvvisamente certa che il bambino sarebbe stato un maschio. E che avrebbe voluto che somigliasse a quel suo nipotino così intraprendente e coraggioso, che solo qualche tempo prima aveva affrontato indicibili pericoli per salvare suo fratello.

Ma non voleva disfarsene? Si chiese mentre cominciava a mangiare. Il primo boccone le parve spalancare una porta nel suo stomaco e Nabiki divorò tutto il piatto in pochi minuti, sotto lo sguardo soddisfatto di quel diavoletto di Daiki.

***

Akari chiuse gli occhi, concentrandosi. Ryoga era lì, accanto a lei, ne poteva avvertire il respiro. Le aveva spiegato tante volte come convogliare il proprio ki per dirigerlo verso le gambe, ma fino ad allora non era riuscita a muovere neanche un dito del piede.

D'altronde, i medici erano stati chiari, cosa avrebbe potuto fare se non affidarsi alla scienza? Eppure, ogni volta che tentava di fare per le gambe lo stesso che faceva per la mano destra quando usava il Bakusai Tenketsu, le pareva di avvertire una sorta di formicolio. Forse i collegamenti neuronali danneggiati tentavano di ricomporsi, magari era solo questione di tempo.

Dopo cinque minuti si arrese e si tirò a sedere, frustrata. "Niente da fare, è tempo sprecato".

"No, che non lo è. Se ci credi succederà, Akari!". Lei lo fissò. Da quando Ukyo gli aveva comunicato che sarebbe rimasta ancora all'estero sembrava più nervoso del solito e i suoi allenamenti finivano sempre più spesso con un muro da riparare o uno Shishi Hoko Dan che rompeva il vetro di una finestra.

Le si avvicinò con gli occhi che brillavano e lei quasi si spaventò. "Pensa a quel momento, concentrati sulla trave. E convoglia la tua rabbia nelle gambe".

Era qualcosa di simile proprio allo Shishi Hoko Dan che le stava proponendo? "Ma... ma il mio ki...".

"Si tratta della stessa cosa. Usa la rabbia", ringhiò fuori di sé.

Akari fu certa che stesse pensando a lei. Non sopportava più la sua lontananza, e di certo non sopportava più di sentirsi trascurato in favore dei suoi studi. Si sentì contagiata da tanto rancore e, improvvisamente, tutto venne a galla.

Il terremoto, la trave, le urla. Akari, seduta a terra con le gambe inerti, si puntellò sui pugni tentando di sollevarsi. Ryoga, il tentativo di suicidio, l'ospedale. E poi Ukyo, l'addio all'amore della sua vita. Un ringhio quasi animalesco le vibrò nel petto, scuotendola fin nel profondo del proprio essere. Ryoga, Ukyo, lei, con le sue speranze inutili.

Gridò forte e una luce improvvisa l'accecò. Udì distrattamente anche l'urlo di stupore di Ryoga e, come risvegliandosi da un incubo, si ritrovò sulle punte dei piedi, i muscoli delle braccia e del collo contratti, le gambe che sembravano attraversate da milioni di spilli incandescenti. Durò solo qualche istante, poi crollò al suolo, nel solco che lei stessa aveva creato sotto di sé.

Si guardò le gambe e i piedi, incredula, e cercò Ryoga con lo sguardo. "Io... io...". Le tremava la voce, era sul punto di piangere e nello stesso tempo avvertiva una speranza ardente avvolgerla come un manto benefico.

Ryoga, chiaramente sconvolto, l'abbracciò di slancio e lei cominciò a singhiozzare sul suo petto. "Ce l'hai fatta, ce l'hai fatta, piccola Akari. Non piangere", le ripeteva con voce rotta.

Fu allora che accaddero due cose. Come in sogno, alzò il viso madido di lacrime verso quello di lui e lo baciò con una passione di cui non si credeva capace. E si rese conto, turbata e furente, di udire la porta della palestra spalancarsi e una voce tristemente nota blaterare: "Sono tornata, testone! Ora proveremo insieme la pizza italiana al posto degli okonomyia...", per poi spegnersi di botto.

Capì la portata di quello che era accaduto solo quando, frastornata e delusa, si ritrovò da sola sul pavimento mentre Ryoga correva via gridando il nome della fidanzata che, evidentemente, aveva deciso di anticipare il rientro proprio a quel giorno.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Lacrime ***


CAP. 14: Lacrime

Ukyo bussò alla porta di casa Tendo con le lacrime che l'accecavano. In palestra non c'era nessuno e desiderò ardentemente che fosse Ranma ad aprirle la porta. Lo sperava con tutto il cuore. Il suo più caro amico avrebbe capito e forse avrebbe anche voluto dare una lezione a quell'idiota di Ryoga.

Con sua grande delusione, però, dalla porta fece capolino Nabiki.

Fantastico, proprio l'ultima persona che mi ci voleva! Era quasi meglio Soun Tendo...

"Scusami, io... non volevo proprio piombare così qui, ma...". Si asciugò gli occhi, mettendo a fuoco la figura della ragazza e dovette sbattere le palpebre un paio di volte prima di rendersi conto che non si sbagliava. Nabiki Tendo aveva una pancia prominente come se fosse incinta. No, non come se fosse. Era sicuramente incinta.

"Ah...", riuscì solo ad articolare stupidamente, indicandole il ventre, in un gesto che le parve subito alquanto maleducato.

"Sì, già, bentornata Ukyo Kyonji. Come vedi sono in avanzato stato di gravidanza, sono sola in casa e ho la schiena a pezzi. Tu come mai stai piangendo? Il viaggio o il ritorno non sono andati bene?".

Non seppe perché, ma quelle frasi sconclusionate la fecero ricominciare a piangere, come se avesse aperto una diga.

***

Ryoga rientrò nel suo dojo trascinando sulla strada la spatola che Ukyo gli aveva tirato dietro. Il rumore della lama contro l'asfalto era ruvido e costante e lui trasse quasi soddisfazione dal senso di fastidio che quel suono irradiava nel suo corpo fino ai denti.

La sua fidanzata aveva rimandato per mesi il suo rientro, di settimana in settimana, ed era passato così tanto tempo che ormai non si aspettava più il suo ritorno tanto a breve. Soffriva molto per quella situazione, soprattutto considerando il fatto che Akari sembrava più che determinata a rimanere con lui a lungo. Aveva chiarito la situazione qualche tempo prima, ribadendole che erano e sarebbero rimasti solo amici, e doveva darle atto che la ragazza s'impegnava nei suoi allenamenti senza più tentativi di seduzione. Fino a mezz'ora prima. Nell'esatto momento in cui Ukyo aveva deciso di porre fine al suo viaggio di studio attraverso l'Europa.

Sentiva l'entusiasmo che trasudava dalla sua voce, vibrante di emozioni quando gli raccontava delle nuove ricette che stava imparando e delle possibili applicazioni per suoi okonomiyaki: "Faremo un sacco di soldi se imparo abbastanza, e magari apriremo delle filiali a Tokyo!". Ryoga non se la sentiva di spegnere la sua allegria e la rassicurava sempre che se la sarebbe cavata, anche se gli mancava.

Akari era diventata, sì, più discreta, ma lo guardava spesso con occhi talmente innamorati che lui non riusciva a fare altro se non aiutarla nel suo intento di rafforzare le braccia. Poi, in maniera tacita ma condivisa, gli allenamenti avevano preso una piega differente ed entrambi sapevano che stavano facendo un estremo tentativo di ridare vita alle sue gambe.

E ci erano riusciti, Kami del Cielo, Akari era stata in piedi per almeno un paio di secondi! Ryoga era orgoglioso di essere riuscito a tenerla vicino senza più fraintendimenti e aver contribuito a quel risultato. Poi Ukyo gli aveva fatto quella sorpresa e lui, l'eterno disperso, il tenero maialino di Akane che non avrebbe mai voluto deludere nessuna delle donne della sua vita, si era ritrovato improvvisamente investito da un senso di colpa che non meritava. Aveva solo cercato di fare il bene dell'una, tranquillizzandola anche se odiava saperla lontana a tempo indeterminato, e dell'altra ponendo dei limiti che l'avrebbero fatta soffrire, ma supportandola comunque nel suo intento.

Se fosse stato un uomo più duro ed egoista, forse tutto quel dannato caos non sarebbe accaduto e lui non si sarebbe ritrovato con la spatola della sua fidanzata in mano, a flagellarsi con quel rumore odioso come se se lo meritasse e dovesse espiare un vero tradimento. La sollevò da terra e vi si specchiò, chiedendosi prima come Ukyo avesse fatto a farla passare ai vari check-in degli aeroporti e poi chi diavolo fosse quel tipo così provato dalla fatica e dai pensieri che vi si rifletteva.

Aveva lavorato al locale di Ukyo la mattina e in palestra la sera e viceversa, alternando due attività perché tutto filasse alla perfezione; si era sacrificato per il bene di due donne e l'unico ringraziamento che aveva ricevuto era stato un bacio dalla donna che considerava solo un' amica e una spatolata in testa da quella della sua vita. Decisamente, aveva sbagliato qualcosa. E non di poco.

***

Nabiki ascoltò lo sfogo di Ukyo con una pazienza che non credeva di possedere. Evidentemente quei mesi di gravidanza l'avevano temprata, almeno nello spirito, visto che invece il corpo era già pieno di acciacchi che sembravano aumentare di giorno in giorno.

"Beh, ma scusa, ti sei chiesta se magari non sia stata Akari a baciarlo contro la sua volontà?". Ukyo, che si stava asciugando gli occhi, si fermò con il fazzoletto davanti al viso, riflettendo.

"Ma perché era nel dojo di Ryoga a baciare il mio fidanzato?!".

"Da quello che mi hanno raccontato Ranma e Akane pare che sia venuta qui per farsi allenare da lui".

"Da quanto tempo?".

Nabiki rifletté per qualche istante: "Da quando me l'hanno riferito saranno passati due, forse tre mesi".

Ukyo restrinse gli occhi a due fessure: "Mi stai dicendo che Akari sta qui da almeno due mesi e magari dorme nel mio locale?!".

Nabiki pensò che all'ennesimo "mio" calcato da Ukyo avrebbe vomitato, invece alzò gli occhi al cielo e fece spallucce: "Ambasciator non porta pena, mia cara. Come vedi io ho ben altre gatte da pelare".

La cuoca parve colpita da quella frase, perché smise di recriminare istericamente su cosa avesse o non avesse fatto Akari in compagnia di Ryoga durante quelle settimane e mise a tormentarsi le unghie: "Beh, quindi tu...".
"Oh, tranquilla, anche se sei venuta a piangere sulla porta di casa mia e hai trovato me non devi ricambiare il favore pensando che io debba sfogarmi con qualcuno. Ma se vuoi soddisfare la tua curiosità, ho tentato prima di abortire e poi di darlo in adozione e sono in conflitto con quell'idiota di Kuno che vorrebbe sposarmi e giocare alla famigliola felice. Comunque Ranma e Akane sono andati a vivere nella casa che apparteneva ai Tanaka, in fondo alla strada. Saranno felici di rivederti".

Nabiki aveva visto distintamente le diverse emozioni alternarsi sul volto di Ukyo: orrore, sgomento, confusione e ora una specie di cupo rammarico, anzi... compatimento. Odiava essere studiata come una specie d'insetto al microscopio. Stava imparando a gestire dei sentimenti che non conosceva e non voleva che altri toccassero i suoi tasti interni o sarebbe andata in pezzi.

Forse Ukyo comprese, perché si alzò e fece per accomiatarsi.

Fatti gli affari tuoi, Nabiki Tendo.

"Comunque Ranma mi ha raccontato che Ryoga ha lavorato molto in questi mesi". Ukyo rialzò improvvisamente lo sguardo.

Ti stai impicciando di cose che non ti riguardano.

"Ha tenuto sempre aperto il tuo locale, cucinando in maniera egregia. Ho assaggiato anche io un paio dei suoi okonomiyaki e non hanno nulla da invidiare ai tuoi, temo che l'allievo abbia superato il maestro", la schernì.

Nessuno ti pagherà la consulenza, lo sai, vero?

E il suo dojo ha avuto nuove iscrizioni, sempre stando a ciò che mi ha raccontato Akane. Certo, non ha tanti allievi come il nostro, però...".

"Grazie".

Nabiki fece finta di non capire e di non scorgere il sollievo nel suo sguardo: "Di cosa?".

La cuoca tacque, limitandosi al fantasma di un sorriso, poi si voltò ma prima di aprire la porta si lasciò sfuggire, le parve suo malgrado, un: "Abbi cura del tuo tesoro, vale più di qualsiasi somma di denaro".

Quando la porta si chiuse, Nabiki allargò le braccia, esasperata, e si lasciò cadere sul tatami. "Ecco fatto, mi mancava la perla di saggezza del giorno. Beh, in tal caso avrei bisogno di un po' di contante, pensi di riuscire a farmelo avere in qualche modo?", disse ironica, rivolta alla sua pancia.

Non era la prima volta che le capitava di parlare con quel figlio indesiderato e, anche se il più delle volte il tono era quello di una polemica malcelata, doveva ammettere, almeno con se stessa, che la cosa non le dispiaceva. Lui almeno non replicava e, al pari di Daiki, non le faceva alcuna morale, ma si limitava ad ascoltarla in silenzio senza mai contraddirla.

Tutti gli uomini dovrebbero essere così.

Si rese conto, a malapena, che stava squillando il telefono e quando rispose rimase per un attimo interdetta: "Cosa ti ha indotto a telefonare e non a venire qui direttamente per farmi uno dei tuoi soliti discorsi sulla responsabilità?", chiese al suo ex fidanzato.

"Questa volta si tratta di un motivo, se possibile, più serio. E concreto. Ho trovato una famiglia disposta all'adozione". A Nabiki, per poco, non cadde il telefono dalle mani.

***

Ranma mise in bocca il riso con aria circospetta, cominciando a masticare con una lentezza esasperante. Akane rimase rigida per quasi un minuto intero prima di sbottare: "Oh, insomma, parla! Giuro che non mi offenderò!". La sua autostima era ai minimi storici per quanto concerneva la cucina, ma era decisa a migliorare. Lo doveva a se stessa, a Ranma, al loro matrimonio e a quel figlio non ancora concepito che non voleva certo rischiare di avvelenare in fase di svezzamento.

Ranma finì di masticare attentamente, concedendosi ancora qualche secondo per inghiottire e aprì la bocca per parlare con un'espressione seria ma composta che la fece ben sperare. Fu allora che decisero di bussare alla porta.

Forse mettere tra il dojo e casa nostra un chilometro non è sufficiente. Continuiamo a essere interrotti nei momenti più assurdi.

"Vado io", si arrese Akane facendo spallucce. Quando aprì la porta rimase per un attimo impietrita dallo stupore.

E a interromperci è quasi sempre mio padre, il vecchiaccio o un'ex fidanzata di Ranma. La prossima chi sarà, Kodachi?

"Ukyo, bentornata!", cercò di dissimulare con un sorriso il più possibile sincero. Capì istantaneamente due cose: l'amica non si era bevuta il falso benvenuto e aveva pianto di recente.

"Mi... mi dispiace, so che siete da pochi mesi nella nuova casa, ma io sono appena tornata e avrei... un piccolo problema di sistemazione", esordì torcendosi le mani.

In quel momento Ranma le arrivò alle spalle ed esclamò: "Ehi, Ucchan, che sorpresa! Che è successo? Quel maiale ne ha combinata un'altra delle sue?".

Akane gli lanciò un'occhiataccia che sperò lo facesse tacere mentre Ukyo stava, evidentemente, combattendo contro altre lacrime : "Diciamo che l'accoglienza non è stata proprio come mi aspettavo. Sono anche passata al dojo, ma non voglio disturbare ulteriormente Nabiki. Oh, e non vorrei disturbare nemmeno voi, ma mi basta un angolino con una coperta, come vedete anche la mia valigia è piccola. Solo... per stanotte, finché non riordino le idee".

Guardò Ranma e, per una volta, lui tacque intendendosi con lei alla perfezione. In poche parole, Ukyo aveva detto loro che era accaduto qualcosa di tanto grave da indurla ad andare fino al dojo dove aveva trovato una Nabiki incinta e non del tutto lucida. Probabilmente sfinita dal viaggio, chiedeva solo un posto dove recuperare le energie e farsi una dormita senza dare disturbo.

Stavolta il sorriso di Akane fu genuino: "Ukyo, sai che sei sempre la benvenuta. Non abbiamo una camera per gli ospiti ma la zona giorno è abbastanza grande e abbiamo dei futon e delle coperte", poi, come ricordandosi di qualcosa, aggiunse: "e ho anche cucinato! Stavo giusto chiedendo a Ranma cosa ne pensasse del mio riso".

Si voltò a guardarlo, attirando anche l'attenzione di Ukyo e finalmente Ranma si espresse: "Beh, posso dire che stavolta, avendo messo il sale e non lo zucchero, il risultato è a dir poco sorprendente. Il condimento non è ben amalgamato con il riso, ma tutto sommato ha un sapore... accettabile". Akane si mise a saltellare battendo le mani, sentendosi come la concorrente di uno di quegli show culinari in cui il giudice dà il proprio parere al piatto che gli è stato presentato dal concorrente in gara.

"Bene, grazie ragazzi, perché tra il jet lag e le emozioni di oggi sono letteralmente sfinita...", concluse Ukyo accasciandosi in ginocchio. Temendo che stesse sul punto di svenire, lei e Ranma la fecero accomodare a tavola sostenendola insieme. Mangiarono quasi in silenzio, chiacchierando del più e del meno e non toccando mai argomenti quali il viaggio, il ritorno o Ryoga.

Quando Ukyo si accomiatò chiedendo di poter fare un bagno prima di dormire, Ranma le si accostò e parlò a bassa voce: "Credi che lo abbia trovato in compagnia di Akari?".

"Non lo credo. Ne sono sicura. E a giudicare da come sta, direi che ha visto qualcosa che non avrebbe voluto vedere".

Ranma deglutì rumorosamente: "Tu... credi che... loro due...".

"Non voglio neanche pensarlo!", ribatté veemente, sentendosi avvampare solo ad immaginarlo. "Ma di sicuro non stavano chiacchierando allegramente. Magari erano abbracciati, oppure si stavano baciando. Posso solo fare delle supposizioni".

Ranma sospirò e tornò in cucina per rigovernare. Akane lo seguì. Quando si diedero la buonanotte, però, avvertì in Ukyo una profonda tristezza, emanata dal suo intero essere come un'aura. Disse a Ranma di andare in camera da letto ad attenderlo e si accostò all'amica. Gli occhi rossi e gonfi le indicarono che aveva pianto ancora, probabilmente in bagno da sola: "In frigo c'è del latte. Sentiti libera di fare come se fossi a casa tua. Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno io sono qui", disse ponendole una mano sulla spalla.

Ukyo si voltò a guardarla con un sorriso triste e, dopotutto, Akane poté constatare che non aveva ancora pianto tutte le sue lacrime.

***

Ryoga e Akari tornarono al locale di Ukyo nel più assoluto silenzio. Lei in groppa al suo fedele Katsunishiki e lui poco più avanti, voltandole le spalle. Poteva sentire il peso del suo sguardo sulla nuca, ma era arrivato a un punto tale che, pur tenendo tantissimo ad entrambe, non era più disposto a dare loro letteralmente in pasto i suoi sentimenti e a farsi strapazzare il cuore come se fosse di pezza. La verità è che era furioso con tutte e due e gli bastava una sola parola per sbottare. Parola che, puntualmente, arrivò.

"Ryoga, mi dispiace, io non credevo...", iniziò Akari con una vocina che lo avrebbe commosso, in un altro momento.

"Non credevi cosa?!", sbottò voltandosi e facendo sussultare sia lei che il maiale. "Ne riparliamo al locale, non ho voglia di farmi sentire in mezzo alla strada".

La ragazza lo guardò come se avesse davanti un oni a due teste, ma tacque e lo seguì all'interno. Il silenzio intorno a loro era assordante e a Ryoga parve che dovessero implodergli i timpani. Provava il bisogno impellente di urlare, sfogarsi su Akari, su Ukyo e su chiunque altro osasse incolparlo di qualcosa o chiedergli un favore. Dopo tanti anni a comportarsi come un bravo ragazzo e come un fidanzato devoto, scaricando i nervi solo nei combattimenti contro Ranma, ora sentiva che aveva decisamente sbagliato qualcosa. Aveva dovuto raccogliere tutto il coraggio del mondo per rifiutare Akari su una sedia a rotelle e, poco tempo prima, per spiegarle che tra loro non ci sarebbe mai stato null'altro che una tenera amicizia. Ora sentiva che l'avrebbe distrutta con una parola se avesse aperto bocca e tentò di rimanere calmo.

"Credevo di essere stato chiaro con te", esordì facendo abbassare la temperatura della stanza di colpo: era stato persino più gelido di quanto avesse pensato.

Sul volto di Akari lesse lo sgomento totale, ma la cosa non lo colpì più di tanto. "Ho fatto finta di nulla, ti ho parlato a quattrocchi e non è servito a niente. Ho continuato a vedere nei tuoi occhi il desiderio di avvicinarti a me mentre ti allenavo: ti ho visto illuderti, farti del male e farne anche a me, che non potevo darti quello che cercavi. Ho apprezzato con tutto il cuore lo sforzo che hai fatto qualche anno fa, quando hai parlato con Ukyo per riavvicinarla a me, ma l'Akari che vedo oggi non è che l'ombra di quella di una volta. Ho avuto quasi l'impressione che tu abbia... approfittato della sua assenza per cercare di avermi!".

Aveva colpito nel segno e lo sapeva: lo vide nei suoi occhi colpevoli e spalancati, colmi di lacrime e di risentimento. Non poté sostenere quegli occhi, perché temeva che non ne avrebbe avuto la compassione necessaria e quel nuovo se stesso lo spaventava a morte. Stava facendo i conti con un lato della sua personalità che la lontananza da Ukyo e i sotterfugi di Akari, insieme con la stanchezza degli ultimi mesi, non credeva di possedere.
Si voltò, dandole le spalle e sentendola vibrare per i singhiozzi repressi: "Hai avuto quello che volevi, Akari", continuò abbassando la voce, "ora devo chiederti di andartene perché io possa mettere le cose in chiaro con la mia fidanzata. Domattina chiamerò tuo nonno e ti farò venire a prendere".

"No", ribatté lei con tono palesemente furioso, "sono venuta qui da sola e tornerò a casa da sola".

"Stanotte resti qui, e non discutere come una bambina capricciosa!", le intimò alzando nuovamente la voce. "Non fare la vittima, perché sei molto più forte di quanto tu stessa non creda. Non hai bisogno di me, ma di un buon allenatore che ti aiuti a rafforzare le tecniche che già conosci. Di qui a un mese sarai di nuovo in piedi e potrai andartene a zonzo a qualunque ora del giorno e della notte, senza più compiangerti per un amore impossibile come se fosse la soluzione ai tuoi problemi! Camminare di nuovo: è questo che devi fare per te stessa, è questa la tua ragione di vita, adesso. Ma, fino a domani, sei sotto la mia responsabilità, quindi comportati da persona adulta e aspetta domattina. Buonanotte".

Detto ciò, chiuse a chiave la porta per essere certo che Akari non se la svignasse e salì al piano di sopra, sicuro che la ragazza sarebbe andata nella sua stanza con l'aiuto di Katsunishiki. Si chiuse in bagno e aprì l'acqua al massimo, appoggiandosi al lavabo e guardandosi allo specchio come aspettandosi di veder spuntare delle corna rosse da demone sulla sua fronte.

Si sentiva svuotato e, dopo tutto il veleno e la rabbia riversati sulla sua dolce Akari, si sentiva anche sollevato e orripilato allo stesso tempo. Il suo corpo tremò violentemente e, per la prima volta dopo tanti anni, Ryoga Hibiki pianse.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Incubi ***


CAP. 15: INCUBI

Quando Nabiki gli aprì la porta, si pentì di avergli risposto al telefono: con la sua famiglia alle terme sperava di rilassarsi un po', complici le provviste che Kasumi le aveva procurato per non obbligarla a cucinare, invece aveva dovuto fare i conti prima con una cuoca di okonomiyaki che si sentiva tradita e ora con il padre del marmocchio che le pesava in grembo.

Decisamente era stata una giornata storta.

"Come state, innanzitutto?", le chiese lui educatamente, facendole inarcare un sopracciglio. Neanche era nato e già parlava al plurale.

"Oh, stai tranquillo, il tuo marmocchio è sano come un pesce, sta molto meglio di me che ho la schiena perennemente a pezzi", rispose cercando di essere più acida possibile.

Sorprendentemente, il suo ex fidanzato parve invece sorpreso ed emozionato al contempo, e disse: "Vuoi... vuoi dire che è un maschio?".

Nabiki lo fissò. Ricordava bene quando l'ecografista le aveva chiesto se volesse sapere il sesso, durante l'ultima visita: lei l'aveva liquidata con un gesto, sottolineando che aveva poca importanza perché l'avrebbe dato in adozione, ma non aveva potuto ignorare la strana sensazione avvertita alla bocca dello stomaco. Come se il cuore avesse accelerato di un paio di battiti e le fosse salito in gola. Era furiosa per questa reazione non prevista, ma lo era stata ancora di più quando la donna, con un chiaro intento provocatorio, le aveva comunicato che, comunque, era un maschietto sano.

Quel ricordo le rovesciò addosso, ancora più pesantemente, lo sfinimento della giornata. Eppure, c'era qualcos'altro che la disturbava. Sicuramente si trattava della presenza di Tatewaki a casa sua.

"Sì, è maschio, contento? Ma non credo che t'interessi, visto che sei qui per parlarmi della famiglia che lo vuole adottare, ti pare?".

Lui sorrise, enigmatico, poi si sedette senza essere stato invitato. Aveva una borsa con sé e ne tirò fuori dei fogli: "Ho deciso che era inutile continuare a farci la guerra", proseguì fornendole una spiegazione che non aveva richiesto, ma che lei ascoltò lo stesso avidamente, "e quindi ho perlomeno cercato qualcuno che mi ispirasse fiducia. Si tratta di una famiglia facoltosa, che...".

"Non m'interessa chi siano! Sono disposti a prenderselo? Bene, dimmi solo dove devo firmare e dove sta la fregatura, perché non me la bevo". Nabiki si stava spazientendo: la stanchezza, gli ormoni di quella gravidanza indesiderata che le confondevano le idee e ora quell'idiota che le raccontava un mucchio di balle. Provava un senso di agitazione crescente e sperò che fosse tutto vero. Una volta dato il via alle pratiche di adozione si sarebbe sentita molto più leggera, almeno mentalmente.

Kuno fece una smorfia: "Sapevo che i particolari non ti sarebbero interessati, ma per rispondere alla tua seconda domanda: no, nessun inghippo, Nabiki. Ho solo riflettuto, ancora una volta, sul mio passato e sugli errori che ha fatto la mia famiglia. Vorrei ancora che abbia i suoi genitori naturali al fianco, ma non desidero che viva nell'infelicità, tra avvocati e liti. Quindi ho deciso che dovrà avere una famiglia, qualunque essa sia, ma una vera famiglia, che lo ami e che lo cresca come un bambino desiderato. Tutto qui". Tacque per un istante e per fortuna non la guardò, perché Nabiki gli credette. Che fosse dannata se ne sapesse il motivo, ma capiva quel suo strambo desiderio di dargli un futuro stabile dopo aver conosciuto il preside. "Per rispondere alla tua prima domanda, invece, devi solo firmare in questi spazi. Ecco".

Nabiki deglutì. Aveva la gola secca e l'agitazione si trasformò in panico: i moduli erano gli stessi che era riuscita a trovare anche lei, solo che in questi c'era il nome di coloro che avrebbero adottato il bambino e i vari timbri degli avvocati. Si avvicinò al foglio che gli porgeva Kuno col cuore in gola: "Voglio crederti, Tatewaki, ma sappi che ti terrò d'occhio. Ho i miei contatti e basterà una sola mossa sbagliata da parte tua e io...".

"Tu cosa? Quale mossa potrei fare? Tornare all'attacco per chiederti di sposarmi e allevare insieme nostro figlio? Legalmente non posso obbligarti a nulla di tutto ciò, mi sorprende che proprio tu, così ragionevole, ti preoccupi di questo. Ma, se ne hai bisogno, ti dirò anche un'altra cosa. Non darò mai mio figlio a una donna che non ha il minimo senso materno, anche se l'ha generato, e tutto l'odio e il risentimento che ho sentito trasudare da te in questi mesi hanno raggiunto il culmine quando mi confessasti di volertene liberare. A differenza tua io amo già questa creatura, fin da quando so che esiste e farò di tutto per renderla felice. Costi quel che costi".

Nabiki si sentì in trappola. Tutto filava, tutto era coerente. Kuno rinunciava a suo figlio pur di renderlo felice e di allontanarlo da una madre che lo avrebbe odiato ogni giorno della sua vita. Ma allora perché rimaneva col braccio a mezz'aria? Perché scrutava quel foglio con finta nonchalance cercando febbrilmente il nome della famiglia adottiva?

"Il cognome della sua famiglia è qui", annunciò lui cogliendola in fallo, sventolando un secondo foglio che teneva stretto in mano, "ma visto che non t'interessa ti ho fornito solo quello delle firme".

"Bene, vedo che mi conosci alla perfezione", riuscì solo a rispondere in maniera sconclusionata, mentre le orecchie le ronzavano e la vista le si annebbiava. Stava forse per perdere i sensi proprio ora, a un passo dalla vittoria? E perché continuava a pensare al foglio con il nome della famiglia che lo avrebbe adottato? Non aveva certo intenzione di andarselo a riprendere dopo qualche anno, o di ripensarci!

La mano le tremò tanto che strinse la penna con tutte le sue forze per non mostrarlo a Tatewaki, ma lui se ne accorse comunque: "Cosa c'è, Nabiki? Non dirmi che ci stai ripensando", accennò con una nota quasi divertita nella voce.

"Non dire idiozie! Sono abituata a leggere prima di firmare", rispose con voce più stridula di quanto volesse. Spinta da quell'insinuazione mise la prima firma. Spense il cervello, maledicendo se stessa per quegli attimi di debolezza, e mise anche la seconda e la terza. Libera, finalmente era libera. O, perlomeno, lo sarebbe stata di lì a pochi mesi.

"Devo firmare altro?", chiese sentendosi come se la sua coscienza si fosse appena distaccata dal corpo e lei fosse diventata una semplice osservatrice della scena.

"No", ribatté lui, asciutto, rimettendo metodicamente a posto il tutto. Il silenzio che seguì rischiò di travolgerla e Nabiki sperò ardentemente che si sbrigasse ad andarsene, perché non si fidava delle proprie reazioni. Per un attimo si vide nell'atto di saltargli addosso, strappargli i fogli dalle mani e farli in mille pezzi, gridandogli che nessuno poteva prendersi il suo marmocchio senza permesso, ma si rese conto dell'assurdità della cosa. Era stata lei, proprio lei a volere tutto ciò. Perché ora si sentiva così perduta?

Ormai non controllava più il proprio corpo, così si accasciò sul tatami, alludendo a una stanchezza estrema. Kuno si avviò alla porta e le diede il colpo di grazia, quando disse: "Spero che non dovrai pentirtene mai, Nabiki Tendo. Per me è stata una decisione molto dolorosa e sono consapevole delle conseguenze. Ma tu, tu hai questo figlio dentro di te e lo vedrai non appena nascerà. Cercherà il tuo seno e troverà solo due braccia che lo porteranno lontano dalla sua madre naturale. Ti auguro di non spezzarti in due, quando accadrà. Buona notte".

Quando la porta si chiuse, a Nabiki parve quella dell'inferno che si richiuse su di lei.

***

Dopo aver pianto tutte le sue lacrime, Ukyo credette che non sarebbe mai riuscita a dormire. Invece, lo sfinimento fisico e mentale ebbe la meglio su di lei e crollò in un sonno pesante e senza sogni. Si svegliò la mattina dopo udendo il rumore di qualcosa che cadeva e s'infrangeva in mille pezzi.

"Oh, no, che imbranata!", esclamò la voce di Akane.

La cuoca fu per un attimo sconvolta, non ricordando assolutamente nulla della sera prima: non era ancora in Italia? O al suo negozio di okonomiyaki? Era tornata? Si portò una mano alla fronte, stravolta, sentendosi come un'ubriaca con i postumi di una sbronza che non si era mai procurata. O forse sì: la sua sbronza si chiamava Ryoga e aveva un retrogusto amaro di nome Akari. Fu colta da una rabbia cieca e si chiese quanto fosse stanca la sera prima per non aver picchiato a sangue l'una e l'altro.

"Mi dispiace, ti ho svegliata!", si scusò Akane, costernata.

"Oh, non preoccuparti, il sole è già alto e io ho delle cose da fare", disse con un'aria così minacciosa che l'amica si scostò come se temesse di scottarsi.

"Hai, ehm... dormito bene? Vuoi la colazione? Stavo proprio cercando di prepararla, ma...".

Ukyo la guardò e vide che aveva una scopa in mano e la paletta nell'altra. Dopo essersi imposta come ospite, doveva perlomeno mostrarsi riconoscente. "Facciamo così, tu raccogli i cocci di quello che ti è caduto e io improvviso un okonomyaki per colazione per ringraziarvi dell'ospitalità. Ranma è già andato via?".

"Sì, mezz'ora fa. Ha mangiato il riso che è avanzato da ieri, deve essermi proprio riuscito bene!", si compiacque lei.

Ukyo le sorrise, grata che la chiacchierata leggera le stesse facendo sbollire un po' la rabbia: "Sono certa che diventerai bravissima. Comunque non voglio approfittare troppo della tua ospitalità, preparo la colazione e vado via. Devo comunque risolverla, questa faccenda, ti pare?".

Akane annuì: "Va bene, tanto più che fra poco devo andare anche io per allenare i bambini", poi si morse le labbra come se si stesse impedendo di dirle qualcosa, quindi la invitò a seguirla in cucina. Lavorarono in silenzio, ognuna immersa nel proprio compito. Mentre mangiavano gli okonomiyaki improvvisati, finalmente le parlò: "Ukyo, ti ricordi quando io e Ranma eravamo fidanzati?".

Ukyo alzò gli occhi dalla sua colazione, spiluccata senza convinzione, e la guardò, sorpresa. Non si aspettava una domanda simile e non capì dove volesse andare a parare: "Certo che me lo ricordo. Litigavate sempre, beh... il più delle volte a causa mia e delle altre fidanzate di Ranma".

"Esatto. E ti ricordi quante volte mi sono dovuta sentir dire da Ranma: 'non è come pensi!', prima di spedirlo in orbita?". Finalmente, Ukyo capì e qualcosa si aprì nel proprio cuore. Non troppo, appena uno spiraglio, eppure...

Akane la guardò in silenzio e sorrise, evidentemente leggendole sul volto la comprensione: "Non voglio impicciarmi degli affari tuoi, Ukyo, ma prima di condannare Ryoga, senti cos'ha da dire. Ti potrebbe anche sorprendere".

La cuoca sospirò, segretamente felice di non essere partita in quarta poco prima: "Va bene, gli concederò un minuto quasi intero prima di tirargli un pugno, ma dovrà spiegarmi per filo e per segno perché non mi ha avvisata che Akari era da noi", concesse.

Akane fece spallucce: "Magari non voleva farti preoccupare senza motivo".

Lei non rispose, ma si sentì di nuovo stanca all'idea di affrontarlo. Avrebbe dato via il suo stesso negozio per tornare indietro nel tempo a una settimana prima, quando viveva ancora nella beata ignoranza. Ma amava quel testone di Ryoga e, attualmente, lo odiava anche a sufficienza per alzarsi senza finire la propria colazione: "Dai a Ranma la mia, non ho più fame. E... Akane? Grazie. Di tutto, a te e a Ranma. Vado a riprendermi la mia vita".

Forse era stata troppo plateale, ma era proprio quello che aveva intenzione di fare. Akane la seguì sulla soglia e colse il suo sguardo pieno di apprensione. S'incollò sulla faccia un'espressione fiduciosa e alzò il pollice, comunicandole senza parlare che sarebbe andato tutto bene. Quando girò l'angolo e si ritrovò da sola, perse completamente questa convinzione.

***

Ryoga si era svegliato da un sonno tormentato e pieno di incubi. Akari che correva via, Akari che moriva, Ukyo che lo pugnalava a morte, Ukyo che lo lasciava per sempre e altre varianti sul tema. Il futon era zuppo di sudore e s'immerse nella vasca da bagno dopo aver sbirciato silenziosamente Akari, rannicchiata e ancora dormiente.

Si sentiva svuotato. Rimanevano la rabbia e il dolore di essere arrivato a trattare così una delle sue migliori amiche, tra l'altro bisognosa di aiuto. Ma non riusciva a perdonarla, non del tutto. Non era stata corretta con lui e la cosa peggiore era che nemmeno Ukyo lo era stata. Provava il desiderio impellente di partire, andarsene in un viaggio di allenamento e mollare tutto per un po', per depurarsi da tutto quel dolore.

"Forse lo farò", bisbigliò alle mattonelle del bagno, "non appena Akari sarà andata via". Chiuse gli occhi, concedendosi ancora qualche attimo di pace e chiedendosi se la sua fidanzata sarebbe tornata a casa pronta a fargli guerra. In tal caso, lo avrebbe trovato pronto ad affrontarla.

Quando scese giù, trovò Akari, su Katsunishiki, intenta a preparare la colazione e il peso sul petto si allentò un po' all'idea che fosse abbastanza rilassata da mettersi a cucinare, piuttosto che fuggire. Quando si voltò e incrociò il suo sguardo, dissero la stessa frase nel medesimo istante: "Mi dispiace".

La sua rabbia scemò del tutto e rimase solo l'amarezza. Ryoga scosse la testa: "Nonostante i tuoi errori, non avevo il diritto di trattarti così male. Ma sono così stanco di tutta questa situazione che ho riversato la mia frustrazione su di te".

La ragazza fece cenno al suo maiale di spostarsi e sedette sul bancone vicino a lui: "Ne avevi tutto il diritto. Sono venuta qui con la speranza di riaverti, visto che Ukyo era lontana", confessò lei e a Ryoga parve sentir defluire il sangue dal proprio volto, mentre avvertiva il dolore pulsare all'altezza del petto. Aprì la bocca per dirle qualcosa, anche se non sapeva bene cosa, ma lei lo mise a tacere con un gesto: "Fammi finire, per favore. Dopo aver rinunciato a te, ho cominciato a sentire il peso dei giorni passati senza poter camminare, senza un futuro e soprattutto... ero ancora innamorata di te".

"Ma tu sapevi benissimo che il mio cuore appartiene a Ukyo, perché hai voluto farti... farci del male?", chiese alla fine.

"Volevo davvero che mi allenassi, ma quando ho capito che lei ti aveva abbandonato per i suoi studi, dopo che le avevo detto di starti sempre accanto, non ci ho visto più! L'ho odiata e volevo dimostrarti che io, pur con il mio difetto fisico, ci sarei sempre stata per te. Così... ho osato più del dovuto e, nonostante i tuoi ammonimenti, ogni volta che ti sentivo parlare al telefono con Ukyo e lei rimandava il suo ritorno, vedevo la delusione dipinta sul tuo viso. Mi sono ripromessa che avrei camminato di nuovo e sarei finalmente stata alla pari con lei, lottando per il tuo amore".

"Ma... Akari...". Ryoga non aveva più parole, non si aspettava un cambiamento così drastico in Akari, così dolce e arrendevole. E così, disperatamente, innamorata di lui. Una parte del suo cuore tremò, ma non le permise di prendere il sopravvento.

"Ora capisco che non sarei mai stata sua pari, anche se avessi camminato. Perché il tuo cuore è solo suo e non sarà mai mio, qualunque cosa io faccia". Scorse le lacrime nei suoi occhi, ma non osò parlare. "Mi dispiace, Ryoga, sono una persona orribile, prometto che non vi disturberò più, se vuoi le parlerò e...".

Lui scosse la testa, commosso nonostante tutto dalla sua confessione sincera. "Tu mi sarai sempre molto cara, Akari, e voglio esserti amico. Sono felice di averti aiutato a fare quel kata e se tornerai a camminare sarò il primo a gioirne. Ma ho anche capito che devo essere più fermo se voglio che le persone che amo mi capiscano e non mi feriscano. Ti fa onore esserti resa conto del tuo errore. Ti prego, ritorna ad essere la dolce Akari che ho conosciuto e non l'opportunista che il dolore ti ha fatto diventare. Tu sei migliore di così". Mentre le diceva queste parole, le si avvicinò, le asciugò gli occhi e le posò un leggero bacio sulla fronte. Fu allora che, in una sorta di diabolico deja-vu, la porta si aprì.

***

Ukyo faceva passi lenti e calcolati, combattuta tra il desiderio di fuggire nuovamente in Europa e quello di correre a strozzare Akari e Ryoga. Nonostante la notte di sonno, si sentiva scombussolata e temeva di scoprire una verità che l'avrebbe dilaniata. E se Akane avesse avuto torto e avessero davvero avuto una storia? Non poteva pensarci, la sola idea le provocava una rabbia e un dolore incommensurabili.

Lei era partita per studiare e lui l'aveva tradita? Doveva immaginare che qualcosa non stesse andando bene, l'aveva pur avvertito nella sua voce. Mentre si arrovellava, con la testa china, urtò qualcuno e si scusò automaticamente. Quando alzò lo sguardo, si accorse che era un uomo anziano che le fu subito familiare.

"Mi scusi, signorina, saprebbe indicarmi l'Ucchan?", chiese e finalmente capì di avere davanti a sé il nonno di Akari. Essendosi incontrati velocemente in ben altra occasione, qualche anno prima, l'uomo non si ricordava certo il suo volto, ma dopo le opportune presentazioni fecero la strada insieme.

"Quindi... è venuto a prendere sua nipote?", tentò lei, con il cuore che le martellava nel petto.

"Sì, Ryoga mi ha chiamato ieri dicendomi che l'allenamento era terminato e che preferiva tornasse a casa in compagnia. Mi sono così preoccupato per lei, in questi ultimi anni, e non mi pare vero che abbia trovato degli amici fantastici come voi".

"Già, sì", rispose lei distrattamente. Quindi se, a sua detta, l'allenamento era terminato, voleva dire che Ryoga non la voleva più sotto al suo stesso tetto? O cercava solo di rimediare all'errore commesso per poi tornare, piangente e pentito, al suo cospetto?

"Signorina Ukyo, non è per caso questo, il suo locale?". Non si era accorta di essere già arrivata e per un attimo il cuore parve volerle scoppiare in petto. Ukyo ebbe l'impulso irrefrenabile di scappare a gambe levate, ma sospirò e si preparò ad affrontare la realtà. La porta si aprì su un Ryoga leggermente chinato su Akari, intento a darle un bacio sulla fronte.

Ukyo vide tanti puntini neri danzarle davanti agli occhi e si sentì sul punto di svenire.

***

Nabiki aveva quasi quattro anni ma sua madre non sarebbe stata alla sua prossima festa di compleanno, perché era morta da poco e ora la stavano seppellendo. Si guardò attorno sconvolta e vide suo padre, Kasumi e Akane in un angolo, che piangevano in silenzio mentre la bara veniva calata nel terreno.

Anche lei avrebbe voluto piangere ma era bloccata. Qualcosa le si annodava in gola dolorosamente, ma lei lo teneva stretto e immobile perché, se lo avesse lasciato andare, sarebbe impazzita. L'autocontrollo era la sua unica arma e la piccola Nabiki sapeva che era indispensabile per poter andare avanti.

Gli altri stavano singhiozzando e sentiva che stava per soffocare: trattenere quel pianto era come stare in apnea e a breve sarebbe morta anche lei, perché le mancava l'aria. Annaspò, portandosi le mani al collo e si sentì trascinare giù, nella terra, a sua volta. Se fosse morta, almeno, avrebbe smesso di soffrire e pregò che accadesse presto.

Invece si svegliò nel suo letto con un urlo strozzato e il viso bagnato, ansimando nel tentativo di respirare più ossigeno possibile. Lo sguardo andò automaticamente al suo ventre e, d'istinto, vi posò le mani, mentre nuove lacrime vi cadevano sopra, sorprendendola oltre ogni dire.

Erano quasi vent'anni che non piangeva e ora ne ricordava anche il motivo ben preciso. In realtà lo aveva sempre saputo, custodito nel cuore come un segreto prezioso e innominabile. Nabiki si rifiutava di amare, e con gli anni aveva imparato a nascondere i propri sentimenti perché provarli significava soffrire, venire a patti con la parte debole di se stessa che impediva alla ragione di prevalere. Aveva tramutato l'affetto per la sua famiglia nel bisogno impellente di fare soldi, per il benessere proprio e degli altri, come se il denaro fosse la chiave di volta della felicità.

Ma, a forza di indossare quella maschera, era diventata arida e debole, invece che rafforzarsi, e non era stata neanche in grado di accettare l'esistenza di suo figlio. Così come non era stata in grado di accettare l'amore di Kuno. Teneva seppelliti nel suo cuore, proprio come dei cadaveri, sentimenti da cui rifuggiva e che temeva. Ma ora, a distanza di tempo, tutto era risalito in superficie e minacciava di soffocarla, anche se doveva ammettere che quelle lacrime appena versate le avevano recato un minimo sollievo.

Si alzò dal letto di scatto, ripetendosi ostinatamente che non era così, che erano gli ormoni di quella maledetta gravidanza a parlare per lei, ma sapendo già che stava ancora mentendo a se stessa. Mentre dentro di sé la lotta tra le due Nabiki imperversava furiosa, lei tentava di ricomporsi, cionondimeno arrivò ad alzare la cornetta del telefono e a comporre un numero. Quando Kasumi le rispose, fu con una voce ferma che non avrebbe mai creduto di avere che le comunicò: "Ho dato in adozione mio figlio".

***

Ryoga non pensava che fosse possibile sognare eventi accaduti di recente in maniera così nitida, ma era proprio quello che gli era appena accaduto. Uscì dal sacco a pelo e volse il viso al sole caldo di quel primo mattino lontano da casa, assaporandone i raggi come per scrollarsi di dosso le ultime ore. Ma ce le aveva incollate addosso come una melma appiccicosa e gli incubi della notte glielo avevano solo confermato.

Aveva rivissuto l'entrata di Ukyo e del nonno di Akari nell'esatto istante in cui posava un bacio fraterno sulla fronte della sua amica. Aveva visto, come al rallentatore, la fidanzata spingerla giù dal bancone, dove era seduta, facendola rovinare miseramente a terra e urlarle di lasciar stare il suo locale e il suo uomo.

Mentre il vecchio aveva soccorso la nipote, Ryoga si era parato di fronte a Ukyo e le aveva dato uno schiaffo. Nel suo incubo, lo schiaffo era diventato un pugno ed era sprizzato il sangue. Il ragazzo si chiese se la parte sadica che pareva essersi risvegliata dentro di sé lo avrebbe annientato. Lo schiaffo, Ukyo, se lo era meritato, comunque, e probabilmente se lo sarebbe dato da sola se avesse saputo come stavano le cose e non fosse stata così accecata dalla gelosia.

Si era scusato personalmente con Akari e il nonno e li aveva visti andare via dopo aver promesso loro che sarebbe andato a trovarli al più presto. Poi si era voltato verso Ukyo, che era rimasta congelata con la mano sul viso e gli occhi spalancati: "Come... come ti permetti?! Non solo mi hai deliberatamente tradita mentre ero via, ma la difendi anche?".

"Adesso basta!", aveva tuonato con voce abbastanza alta da farla smettere di parlare all'istante. Lei sussultò come se l'avesse schiaffeggiata di nuovo. Ryoga aveva taciuto per qualche secondo, respirando profondamente per ritrovare un autocontrollo che pareva essergli stato strappato via dal bacio di Akari e dalla spatola della fidanzata il giorno prima. Quando si era sentito di nuovo in grado di parlare aveva piantato gli occhi nei suoi, grandi e belli come li ricordava e come li aveva sognati in ben altre notti.

"Sei partita per un viaggio-studio che si è protratto nei mesi più di quanto mi avessi detto. Ogni volta che telefonavi e rimandavi, io incassavo il colpo, anche se mi mancavi più dell'aria che respiravo. Mi dicevo che era per il tuo bene, e che se eri felice meritavi di fare quell'esperienza. Poi è arrivata Akari, disperata e bisognosa di aiuto e io volevo solo te, perché avevo capito che la mia migliore amica era cambiata e voleva riavermi al suo fianco. Le ho parlato, le ho detto che per me esistevi solo tu e più Akari mi guardava con amore, più io desideravo solo prenderti tra le mie braccia e non lasciarti andare mai più".

Vide le lacrime spuntare nelle sue iridi, insieme alla consapevolezza che le si dipingeva, evidente e implacabile, sul volto. Le labbra le tremarono ma Ryoga non smise.

"Ho fatto due lavori, occupandomi della mia palestra e del tuo locale, e nel frattempo dovevo aiutare Akari e impedirle di farsi illusioni su di me. Quando chiamavi tentavo di non farti capire il mio profondo disagio, ma evidentemente mi sono fatto carico di troppi impegni perché ieri sera, quando finalmente Akari si è rimessa in piedi per un istante e mi ha baciato per la gioia, tu sei arrivata e qualcosa mi si è spezzato dentro. Io, che mi ero tanto prodigato per non fare soffrire né te né lei, ero vittima di un tragico equivoco che mi condannava come se fossi colpevole. Ho urlato contro Akari, le ho detto parole che non sembravano uscire dalla mia bocca e l'ho cacciata. Stamattina ho tentato di farmi perdonare e di ristabilire la nostra amicizia e tu hai compiuto un'azione riprovevole, provocandone una altrettanto riprovevole in me. Non ho mai gridato contro una donna e non le ho mai alzato le mani, a meno che non fosse quell'idiota di Ranma-chan. Grazie a voi due e ai vostri comportamenti sbagliati sono diventato una specie di sconosciuto persino a me stesso. Ed è per questo che ora me ne vado".

Non aveva mai parlato così a lungo, ma finalmente la rabbia se n'era andata e si sentiva svuotato. Ukyo gli aveva solo chiesto, con un bisbiglio quasi indistinto, dove sarebbe andato e lui le aveva risposto che aveva bisogno di un lungo viaggio di allenamento. Doveva ritrovare se stesso, ed era la pura verità. Nonostante fossero stati lontani a lungo, aveva bisogno di disintossicarsi da tutta la negatività che, stanchezza ed equivoci tra loro tre, avevano contribuito a far crescere in lui come una nube tossica.

Si rese conto che Ukyo gli mancava, ma la libertà e la leggerezza di quel mattino lo stavano già rigenerando. Forse, tuttavia, non sarebbe ritornato troppo presto.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Disperazione e speranze ***


CAP. 16: Disperazione e speranze

Come sempre, un grazie di vero cuore alla mia insostituibile beta Tiger Eyes, che non solo scova i miei refusi, ma mi ha anche suggerito come rendere migliore questo capitolo: GRAZIE!


Kasumi s'intrattenne con suo padre e il signor Genma solo per pochi minuti, prima di annunciare che sarebbe salita a salutare Nabiki. Aveva imparato a non far trasparire i sentimenti negativi, lo faceva da una vita, e affrettò il passo solo quando si trovò quasi alla fine della rampa di scale.

La voce della sorella minore trasudava panico e disperazione, così aveva deciso di uscire senza neanche rigovernare la cucina. Se quello che le aveva detto corrispondeva al vero e si era pentita, difficilmente si sarebbe potuti tornare indietro. Eppure c'era qualcosa che non le tornava: come aveva fatto a procedere all'adozione così, da un giorno all'altro? A quanto ne sapeva, Nabiki brancolava ancora nel buio e aveva Kuno ad ostacolarla.

Bussò piano e le rispose una voce più composta di quella che aveva sentito al telefono. Sua sorella era seduta sul letto, con una mano sulla pancia.

"Mi sta già prendendo a calci per quello che ho fatto", esordì con un tono triste e ironico al contempo. A Kasumi parve la brutta copia della solita Nabiki.

Sedette accanto a lei, posandole una mano sulla spalla: "Non hai detto niente a nessuno, vero?", le chiese.

"No, e spero non l'abbia fatto tu".

Scosse la testa: ci aveva visto giusto. "No, ho visto papà abbastanza tranquillo e sono salita con una scusa. Mi spieghi cos'è successo?".

Vide Nabiki deglutire più volte, come se temesse di piangere e le si strinse il cuore: nonostante tutto, la sua sorellina continuava a rifuggire i sentimenti come fossero un veleno. Finalmente parlò e lo fece con voce bassa e leggermente tremante.

"Ieri è venuto Tatewaki con dei fogli. Ha detto che ha trovato una famiglia disposta ad adottare il bambino e me li ha fatti firmare. Da quel momento ho gli incubi, anche da sveglia. Fine della storia".

Kasumi aprì la bocca per parlare ma le uscì solo un "oh" poco convinto. C'era qualcosa di strano, in tutta quella storia, e stava cercando di cogliere la nota stonata. "Come mai ti ha portato proprio lui i documenti per l'adozione? Non era contrario?".

Nabiki si strofinò le mani sul viso, come se avesse dormito poco e fosse molto stanca: "Ha detto che preferisce che il bambino stia con una famiglia che lo ami, piuttosto che con una madre che lo ripudia e che pensa solo ai soldi. O, perlomeno, questo è il riassunto della filippica che mi ha rifilato. Credo che mi odi".

"E a te dispiace?", chiese, anche se non era certo quello il punto focale della situazione.

"Di Tatewaki non m'importa nulla", dichiarò con una smorfia che la fece apparire poco sincera, "ma di questo bambino... non so, mi ci ero abituata, ormai. Forse ti sembrerò stupida, ma qualche volta mi ci sono messa persino a parlare, ti rendi conto?!".

Kasumi sorrise all'espressione sconvolta della sorella: "È del tutto normale che una madre parli col proprio bambino mentre è ancora nella pancia, credimi. Io lo facevo sempre con i gemelli ed è un modo di comunicare molto importante, che aiuterà ancora di più il neonato a...".

Vide i lineamenti di Nabiki mutare e si bloccò, per poi concludere in tono piatto: "...riconoscere la voce della sua mamma". Se le cose fossero rimaste così, l'unico ricordo che avrebbe avuto quella creatura della propria madre sarebbe stato qualche tratto ereditario. Il colore degli occhi, forse, o dei capelli, o la forma del naso. Non l'avrebbero mai saputo.

"Non posso più tornare indietro", mormorò Nabiki con l'aria sconfitta e le spalle curve. "Dannazione, l'ho perso prima ancora di rendermi conto che...". Le si spezzò la voce e tirò su col naso, deglutendo di nuovo per impedire alle lacrime di uscire. Kasumi sentì il proprio cuore stringersi alla vista della sua sorellina così fragile, così vulnerabile, come la ricordava appena in tenera età.

"Se avessi pianto prima queste lacrime, forse non sarebbe accaduto, non trovi?", le disse gentilmente, circondandola con il braccio.

"Io non sto piangendo, capito?! Oh, al diavolo!". Si alzò di scatto, sciogliendosi dall'abbraccio e le voltò le spalle.

"Non devi vergognarti di me, Nabiki. Sono tua sorella maggiore e ho conosciuto la tua sofferenza quando eravamo piccole e la mamma è mancata". Le spalle della ragazza sussultarono a quella frase, e Kasumi seppe di aver toccato un nervo ancora scoperto in lei. Come in tutti loro, d'altronde. "Poi ti è successo qualcosa e ti sei messa una maschera impenetrabile. Hai scelto di nascondere i tuoi sentimenti e di indurire il tuo cuore, dedicandoti all'economia della famiglia più che alla tua felicità".

"La mia felicità era fare soldi", dichiarò con voce arrochita ma secca.

"Lo hai sempre pensato, ma non era così. Speravo che fidanzarti con Tatewaki ti avrebbe ammorbidita un po', ma non ti ho mai sentita dire che ne eri innamorata. Ho di nuovo sperato che questa creatura inaspettata ti addolcisse, ma l'hai rifiutata subito. Ora, finalmente, vedo la Nabiki che vorrei aver sempre voluto vedere, anche se stai continuando a fare resistenza", concluse alzandosi e abbracciandola di nuovo da dietro, facendo scivolare una mano sulla pancia prominente. "E forse questo mio nipotino non è veramente perduto".

Kasumi sorrise sinceramente quando Nabiki si voltò di scatto a guardarla: "Che vorresti dire?".

Finalmente, Kasumi aveva capito cosa le stonasse di più in tutta quella storia, ed era giunta a una conclusione così semplice che si stupì di non esserci arrivata prima. O che non ci fosse arrivata la sua scaltra sorellina.

Quando le rivelò la sua teoria, Nabiki si lasciò ricadere sul letto, imprecando contro se stessa.

***

Akane osservò Ukyo lavorare come al solito, ma con movimenti leggermente diversi. Si vedeva che aveva acquisito delle competenze, e non solo dagli ingredienti nuovi che stava usando. Sembrava... più matura.

"Ho dovuto chiudere per qualche giorno per riorganizzare il negozio, ma da oggi si ricomincia a pieno regime. Introdurrò nuove ricette e magari chiederò a Konatsu se vuole tornare ad aiutarmi con i clienti, se dovessero aumentare come spero".

Lei e Ranma non avevano fatto alcun cenno a Ryoga o alla sua assenza, ma suo marito doveva aver deciso che quello era il momento giusto, perché chiese: "Ma quel maiale del tuo fidanzato che fine ha fatto? Ti ha lasciato qui a fare tutto il lavoro?". Akane gli rifilò una gomitata.

Ukyo, però, non si era scomposta, anche se le sue mani avevano tremato per un attimo e l'impasto si era un po' versato: "Lui è... partito per un viaggio di allenamento".

"Ma, scusa, mica sarà partito con Akari?!". Stavolta Akane accompagnò la gomitata a un pestone sul piede che lo fece sussultare e imprecare.

Ukyo servì loro gli okonomiyaki e fece un sorriso triste: "Tranquilla, Akane, so bene che il mio migliore amico ha la leggerezza di un elefante, ma è anche vero che con voi posso confidarmi, visto che siete stati così ospitali con me. Ora, forse, posso parlarne senza uscire di testa".

"Non devi sentirti in obbligo, noi ci saremo sempre e comunque, lo sai". Lanciò un'occhiataccia a Ranma che annuì.

"Sì, scusami, Ucchan, sono stato indelicato. Non devi raccontarci nulla, se non vuoi".

La cuoca però si ravviò i capelli e sospirò, cominciando a raccontare: "Mi sono comportata molto male con Ryoga e lui ha perso la calma, facendomelo notare. Lì per lì pensavo fosse impazzito, ma poi mi sono resa conto che aveva ragione. E ho fatto una cosa riprovevole: ho spinto Akari giù dal bancone, pur sapendo che sarebbe caduta".

Akane cercò di soffocare l'ansito che seguì a quella confessione, ma Ranma si lasciò sfuggire un "accidenti!" di stupore senza alcuna remora.

"Mi vergogno molto del mio gesto, ma ero satura e ho perso calma e ragione. Andrò a scusarmi personalmente con lei e con suo nonno, nei prossimi giorni. Il problema è che ho sbagliato anche con Ryoga e sono stata troppo cieca ed egoista per accorgermene. Non mi sorprende che lui sia esploso e mi abbia tirato uno schiaffo quando me la sono presa con Akari".

Stavolta, nessuno dei due trattenne l'esclamazione di stupore e Ranma cominciò a emanare un'aura minacciosa: "Non avrebbe dovuto, tu...".

"Me lo sono meritato. Lo avrei fatto da sola, se avessi potuto. Ma, a parte la storia di Akari, io l'ho abbandonato con la responsabilità del negozio e della sua palestra, rimandando il mio ritorno senza chiedermi se lui avesse o meno bisogno di me, dando per scontato che andasse bene così e che lui se la sarebbe cavata".

"Ma ti ha tenuto nascosto il fatto che Akari fosse qui, o sbaglio?".

"Ranma!", intervenne Akane, esasperata. Stava dando voce alle sue stesse curiosità, ma lei non si sarebbe mai sognata di essere così invadente.

"Tutto ok, Akane. Ranma ha ragione: ha sbagliato anche lui, ma in buona fede. Non voleva che mi preoccupassi, anche se alla fine ha fatto peggio. Akari si è fatta delle illusioni e lui voleva solo aiutarla. Io non c'ero e lui aveva troppe responsabilità sulle spalle. Come se non bastasse, ho frainteso tutto per via di un bacio rubato e le cose sono precipitate. Era inevitabile. Qualcuno la chiama pausa di riflessione e io credo che lui se la meriti tutta. Sono speranzosa che tornerà da me, alla fine". La voce le tremò su quell'ultima frase. Era evidente che non ci credeva molto nemmeno lei.

Akane le sorrise, rassicurante. L'okonomiyaki, che avevano appena assaggiato, a lei sembrò una delizia esotica: "Quanto è vero che i tuoi okonomiyaki sono diventati persino più buoni di prima, sono certa che lui tornerà. Ti ama, e una volta sbollita la rabbia sarà di nuovo da te".

"Grazie Akane", rispose lei con un sorriso e le lacrime agli occhi. "E ora, che ne dite di provare il tiramisù, come dolce?".

***

Nabiki sentiva tutti gli occhi su di sé e si maledì ancora una volta per essersi lasciata trascinare dai sentimenti. C'era un motivo per cui li aveva rifuggiti per tutti quegli anni e ora se lo stava ricordando dolorosamente: creavano solo sofferenze e problemi.

Dopo che Kasumi era andata via, aveva deciso che era ora di uscire dalla propria stanza per farsi vedere in giro, per mangiare e per prendere aria: nonostante avesse cercato di dissimulare il proprio disagio, che ora si era tramutato comunque in un certo sollievo, non poteva non accorgersi degli sguardi indagatori di suo padre, Genma e Happosai. Era sicura che, a modo loro, avessero subodorato che era successo qualcosa di importante, ma erano le ultime persone con cui voleva parlarne, fosse anche solo per avvalorare la tesi di Kasumi.

Sapeva che la sorella non l'avrebbe mai tradita e avrebbe mantenuto segreto il suo crollo. Se avesse avuto, per un solo istante, la sua lucidità, lei che era sempre stata la mente della famiglia forse non avrebbe sollevato tutto quel polverone. Per fortuna la loro conversazione era rimasta nelle quattro pareti della sua stanza, perché nei loro occhi non leggeva che sospetti e dubitava che si fossero messi a origliare come ai vecchi tempi.

Kasumi non aveva fatto cenno alla sua aria derelitta e agli occhi evidentemente rossi e cerchiati, anche se poteva avvertire che l'aveva davvero sconvolta, ma era rimasta composta e aveva fatto un ragionamento che non faceva una piega. Nabiki si era data una manata mentale sulla fronte che, se fosse stata vera, le avrebbe lasciato il segno per settimane.

Idiota, stupida superficiale che non era altro. Come aveva potuto non pensarci prima?

"Tu... sei certa di quello che mi stai dicendo?", aveva chiesto a Kasumi con una vocina tremante e colma di speranza che non le apparteneva affatto.

"Ovviamente non posso averne la certezza matematica, ma direi che è l'unica spiegazione plausibile, ti pare?". Nel suo tono non c'erano né rimprovero, né giudizio, ma la calma ragionevolezza che l'aveva sempre contraddistinta. E che avrebbe dovuto contraddistinguere anche lei.

Si era sentita talmente sciocca, ad essersi esposta così, anche se di fronte a Kasumi, che avrebbe voluto solo sprofondare. Sua sorella le aveva sorriso, rassicurante, come se le avesse letto nel pensiero, poi aveva sussurrato, come per non sconvolgerla ulteriormente: "Sono felice che tu stia ritrovando il tuo cuore, sorellina".

Quindi aveva cambiato discorso, chiedendole se le servisse qualcosa e si era congedata senza dire altro. Nabiki non aveva parole di gratitudine adatte, e anche la vergogna si era pian piano affievolita.

Ora, non avrebbe dovuto fare altro che aspettare.

"Io esco", disse, sentendo i tre uomini voltare il capo nella sua direzione come fossero una cosa sola. Fuori, all'aria aperta, le parve finalmente di respirare.

***

Akari concentrò il suo ki sulle gambe, ancora una volta. Non voleva portare in superficie il timore che, senza Ryoga, non ci sarebbe più riuscita. Sapeva che non era vero e che doveva a se stessa più fiducia. Katsunishiki era di fronte a lei ed emise un grugnito che le parve d'incoraggiamento: lui, almeno, le sarebbe rimasto sempre fedele. Per il momento non voleva parlarne a suo nonno, non voleva dargli false speranze, ma non avrebbe mollato gli allenamenti.

Doveva sforzarsi di concentrarsi sul suo obiettivo e non pensare ai giorni passati, alla cocente delusione, alle speranze deluse, alla verità che aveva deliberatamente ignorato e al lato oscuro che la stava quasi per sopraffare. Sarebbe risorta insieme alle sue gambe e avrebbe avuto la sua vita. Anche senza Ryoga. Lui non sarebbe mai stato suo e lei non avrebbe mai dovuto comportarsi in quella maniera. Poteva capire la reazione di Ukyo.

In un impeto di rabbia, la sua aura esplose sollevando steli e zolle d'erba e sentì i muscoli delle gambe tendersi come non le capitava da anni. Sfruttò quel momento per piegarle e tirarsi in piedi. Allargò le braccia per bilanciarsi e il suo maiale nero le fu accanto, aiutandola a sostenersi. La potenza accumulata scemò ma tentò di tenersi in piedi, ricadendo miseramente al suolo dopo quasi un minuto.

"Forse dovresti prima rinforzare i muscoli, perché ti tengano meglio". La voce di suo nonno la riscosse e lei alzò il viso, ansimante e sudata, per incontrare il sorriso emozionato di suo nonno. Katsunishiki batteva le zampe come in un applauso.

Per la prima volta dopo tanto tempo, Akari Unryu sentì la speranza e il calore avvolgerla come un abbraccio confortevole: coloro che amava e che la amavano erano sempre stati accanto a lei e non doveva cercare altrove.

***

Akane accolse il termine dei suoi allenamenti con il gruppo dei bambini con un sospiro di sollievo. Aveva dormito poco e male, e si disse che forse poteva dipendere dalla nuova cucina di Ukyo. Gustosa, sì, ma completamente diversa da quella cui erano abituati. Ranma aveva russato sonoramente tutta la notte, invece, e lei si ripromise di farsi dare qualche lezione dalla cuoca di okonomiyaki, magari chiedendole di insegnarle a usare qualcuno dei nuovi ingredienti e accostamenti scoperti in Europa.

Per quanto la riguardava, forse, non era ancora pronta a sapori così esotici e fece una smorfia quando sentì lo stomaco brontolare in protesta al digiuno forzato di quella mattina. Magari poteva entrare in casa e mangiare una ciotola di riso. L'atmosfera stranamente silenziosa che l'accolse le indicò che forse aveva scelto il giorno sbagliato per fare colazione a casa di suo padre, ma ormai era abituata agli alti e bassi di quegli ultimi tempi.

Trovò suo padre intento a parlare a bassa voce con Genma e Happosai, mentre di Nabiki non c'era traccia. Brutto segno. "Akane, bambina mia!", le si fece incontro Soun con le lacrime agli occhi.

Lei ricambiò brevemente il suo abbraccio, poi gli rivolse uno sguardo interrogativo. "Beh, ecco, vedi...", cominciò con voce tremante e Akane pensò a mille cose che potevano essere andate storte con la gravidanza della sorella, non ultima una disgrazia.

"Nabiki ha deciso di uscire di casa ed è da ieri che è molto strana. Non mi stupirebbe se stesse finalmente riuscendo nel suo intento di far adottare il bambino", annunciò il vecchio maestro, con le braccia conserte e un'espressione grave sul volto rugoso.

Rimase di stucco, gli occhi sgranati che andavano da suo padre, ormai sciolto in lacrime, a Genma, che annuiva con tetra serietà. Aprì bocca per parlare ma non ne uscì alcun suono. Voleva gridare contro Nabiki, scuoterla come un fuscello e obbligarla a tirare fuori quel suo cuore di ghiaccio per studiarlo e capire cosa fosse andato storto durante quei vent'anni, perché fosse così diversa da lei e Kasumi.

Certo, Nabiki era quella che faceva quadrare i conti, che pensava freddamente ai soldi, ma sapeva che avrebbe dato un braccio per la sua famiglia, anche se a modo suo. E, per quanto non accettasse la gravidanza, anche quel bambino era la sua famiglia e non capiva come avesse potuto dare seguito alla sua intenzione di darlo via una volta nato. Era assolutamente convinta che, col passare dei mesi, avrebbe sviluppato l'istinto materno e si sarebbe affezionata a quella creatura; che quel suo diniego iniziale, che le aveva sconvolto tutti i piani, si sarebbe trasformato in accettazione e amore.

Invece non era andata così, e Akane pensò che l'aridità di Nabiki era ben più grave di quanto avesse immaginato. Scosse la testa, svuotata di ogni energia, e chiese di potersi sedere a mangiare qualcosa: aveva bisogno di recuperare un po' di forze per pensare più lucidamente. Mentre mangiava, seduta alla tavola che per tanto tempo aveva visto le famiglie riunite, Akane fu colta da un senso di vuoto enorme: davanti a lei c'erano solo suo padre, Genma e Happosai, con espressioni gravi e pensierose e lei sentì le lacrime salirle agli occhi: Kasumi viveva a casa di suo marito e aveva la sua vita; Nabiki si rintanava per giornate intere in camera sua, prigioniera di una gravidanza indesiderata; Nodoka era morta durante il terremoto e con lei anche quella vecchia volpe di Cologne; Shampoo e Mousse erano tornati in Cina; diamine, in quel momento persino le idiozie di Kuno le mancavano: ma anche lui era cambiato profondamente. E poi Ukyo, Ryoga, lei e Ranma, da soli in un'altra casa...

"Tesoro?", la voce di suo padre risuonò allarmata alle sue orecchie e Akane si rese conto che stava per perdere i sensi.

"Akanuccia!", intervenne il vecchio maestro sostenendole la testa mentre si accasciava, suo malgrado, a terra. Non fece il minimo tentativo di approfittare della situazione e ad Akane parve triste persino questo. Forse era semplicemente impazzita.

Riuscì a rimanere vigile, anche se il respiro era affannato e le lacrime cominciarono a scorrerle lungo le guance senza che lei potesse impedirlo.

"Mi dispiace, tesoro, non volevo caricarti di altre preoccupazioni", le stava dicendo suo padre, tamponandole la fronte con una pezza umida. L'acqua fredda la rinfrancò leggermente.

"Non è niente, scusami tu. È che stamattina non ho fatto colazione e devo essermi stancata più del solito. La casa mi è parsa così vuota e ho avuto nostalgia del passato, di quando qui dentro regnava il caos più totale".

"Eravamo più felici, vero?". Genma stava scendendo le scale e aveva in mano un sacchettino che Akane riconobbe immediatamente: era la medicina che anni prima Ranma le aveva dato quando si era ammalata e le era salita la febbre. Deglutì, ripensando al sapore, ma non osò rifiutarla.

"Funziona anche come energetico, non a caso la tramandiamo nella famiglia Saotome da generazioni", spiegò l'uomo porgendogliela con un bicchiere d'acqua.

"Ma ha una data di scadenza questo vostro medicinale portentoso?", domandò Soun, preoccupato.

"Le tradizioni millenarie non hanno scadenza e ne ho presa una io stesso una settimana fa per un problema allo stomaco. Come vedi, sono ancora vivo!", ribatté lui, piccato.

Akane sorrise ed ebbe cura di inghiottire velocemente la pastiglia per non avvertirne troppo a lungo l'aroma disgustoso sulla lingua.

"Figlia mia, eri davvero più felice tanti anni fa, quando le cose tra te e Ranma non andavano bene?", le chiese suo padre con apprensione.

Akane rifletté per qualche secondo, non volendo ferire nessuno ma tentando di dare voce ai suoi sentimenti: "Non dico questo, no. Sono felice con mio marito, ora, in questi ultimi anni". Sorrise nel pronunciare 'mio marito'. "Ma mi manca stare tutti insieme ogni giorno, e non solo durante le feste e i compleanni. Mi manca il calore di una famiglia unita, mi mancano le persone che non ci sono più...". Si morse il labbro e vide Genma abbassare il capo, ricordando certamente la sua povera moglie. "Soprattutto mi manca la spensieratezza di quei giorni, durante i quali la mia unica preoccupazione era che Ranma non si facesse ingannare da Shampoo o da Kodachi. Forse penserete che sono impazzita, ma in questo momento se arrivasse lei in persona a spargere rose nere per casa reclamando 'il suo adorato Ranma', mi verrebbe da ridere!".

Tacque, rendendosi conto che la stavano fissando con espressioni caute e costernate. Lei stessa era sconvolta.

"Sei maturata molto, Akane", disse infine suo padre, con voce tremante. "Tutti abbiamo dovuto vedercela con situazioni gravi e prendere decisioni importanti, ma passare dall'adolescenza all'età adulta può spaventare, specie quando ci sono responsabilità così grandi da sostenere. Per questo ti capisco, figlia mia. E, forse, capisco un po' di più anche Nabiki, nonostante il suo comportamento mi ferisca molto".

"Credo proprio sia questo il punto", ammise lei con voce tremante. "Nonostante i momenti felici, mi rendo conto che ognuno di noi ha la sua vita, adesso, e vorrei che tutto andasse bene come allora. O quasi". Si sforzò di sorridere e si asciugò gli occhi. "Grazie, zio Genma, mi sento già molto meglio".

Si alzò e si avviò verso la porta, tra le proteste degli altri che volevano riposasse ancora qualche minuto. "Sto bene, davvero. Papà, ti prometto che parlerò con Nabiki, appena possibile, per capire se quello che teme Happosai sia vero o no".

L'uomo scosse la testa e le prese le mani: "No, figlia mia. Non voglio che tu ti faccia carico di tutti i problemi di Nabiki. Come Kasumi, anche tu hai la tua vita, adesso, ed è giusto che te la goda. Tua sorella è abbastanza grande per prendere le sue decisioni e io non ho più le forze per lottare contro di lei. Sarà quel che sarà, accetterò la sua volontà per terribile che possa essere. Magari, dopo, sarà più felice, e nonostante detesti l'idea di perdere un nipote, voglio che le mie bambine siano serene".

"Oh, papà", riuscì solo a dire Akane prima di scoppiare nuovamente in lacrime, abbracciandolo e sfogando tutta la sua frustrazione. Nonostante stesse soffrendo di fronte alla resa così innaturale dell'uomo, dentro di lei prese piede un sentimento di ribellione che la indusse, per un momento, a cercare sua sorella e scuoterla per le spalle finché non fosse rinsavita. Ma aveva ragione lui: non poteva, e neanche voleva, farsi carico di tutto. Doveva pensare alla sua, di famiglia, al suo Ranma, alla sua casa e alla palestra. Ci sarebbe sempre stata per i suoi cari, ma non così, non con lo spirito di sacrificio che la induceva a salvare quel bambino a ogni costo: avrebbe avuto qualcun altro che lo avrebbe amato, anche se non era la sua madre naturale. E, forse, sarebbe stato persino più felice.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Incontri ***


CAP. 17: INCONTRI


Mentre Katashi Buta (1) s'impegnava a piegarle ritmicamente le gambe, Akari rifletté che incarnava proprio la forza e la solidità di un maiale che lei tanto ammirava. Alto, massiccio e con le narici leggermente divaricate, era più simile a Katsunishiki che non al tenero P-chan. I suoi occhi azzurro chiaro incontrarono ancora una volta il suo sguardo per chiederle tacitamente se andasse tutto bene.

La ragazza annuì, cercando di percepire il minimo cambiamento, fosse anche una sensazione di solletico a quelle gambe che, ormai da anni, non avevano più la minima sensibilità. Ciò che aveva provato quando era riuscita a mettersi in piedi convogliando il ki era più che altro un senso di formicolio, come se fossero due pezzi di legno quasi estranei al suo corpo. Sperava ardentemente che il nonno avesse ragione e che le sedute di fisioterapia l'aiutassero davvero a rinvigorire i muscoli ormai atrofizzati.

"Sei stanca, Akari?". Come i suoi modi, anche la voce di Katashi era gentile, in contrasto con la sua corporatura imponente e rassicurante. La ragazza sorrise: "Un po', ora preferirei concentrarmi sulle braccia".

Il ragazzo scosse la testa: "Da quanto tempo non provi quella tecnica che ti ha permesso di alzarti in piedi già in due occasioni?".

Lei ci pensò su un attimo: "Direi da un paio di settimane, quando ho deciso con il nonno che dovevamo rinforzare le gambe. Mi sembrava inutile sprecare altre energie prima".

"Giusto, giusto, ma forse adesso potremmo anche riprovarci, che ne dici? Dopotutto l'allenamento che abbiamo fatto è stato intensivo, posso già sentire il tono muscolare particolarmente migliorato".

Akari deglutì, a disagio. Temeva di non riuscire a concentrarsi con uno spettatore che non fosse Ryoga e non voleva fare una figuraccia.

Da quando in qua mi vergogno e mi preoccupo di quello che possono pensare gli altri?

La ragazza s'interrogò sul senso di sicurezza che quel ragazzone alto e cordiale le ispirava e si diede mentalmente della stupida. Stava forse cercando, inconsciamente quanto inutilmente, un sostituto dell'unico che avesse mai amato nella vita? Non poteva certo essere la sua vaga somiglianza fisica e anagrafica con i maiali a farglielo guardare con occhi diversi.

Potrebbe trattarsi della speranza che rappresenta per me, o più semplicemente del colore così strano dei suoi occhi.

Si accorse che Katashi le stava palpando le gambe e arrossì.

Sta saggiando i muscoli, quindi niente idee strane. È un professionista e, soprattutto, non può minimamente interessarsi a una come me.

"Allora? Ci proviamo?", esclamò con un sorriso contagioso. Akari non riuscì a dirgli di no.


***

Ryoga riemerse dal cumulo di rocce con un potente Bakusai Tenketsu. Ansimando, prese grandi boccate d'aria e rifletté su quanto avesse rischiato.

Rintanato in una caverna dopo la pioggia notturna, aveva vagato nelle viscere della terra per ore e aveva perso la testa: mille pensieri gli si erano affollati nella mente e invece di provare con uno tsubo detonatore aveva dato vita a uno Shishi Hoko Dan che aveva rischiato di ucciderlo, seppellendolo vivo.

Volse lo sguardo al cielo, godendosi il sole e il vento leggero, mentre l'istinto alla vita gli faceva ringraziare tutti i Kami di essersi tratto d'impaccio letteralmente per miracolo.

Cosa gli era saltato in testa? Perché era così disperato e aveva commesso un errore tanto grossolano?

Interrogò il suo cuore inaridito e rievocò le immagini di tanti anni prima. Akane, il suo primo amore. Akane, che amava tanto quel maialino nero e se lo stringeva al petto senza sapere nulla della sua identità. E poi Akari, la sua dolce e sfortunata Akari, che lo amava proprio per quella sua natura di porcellino e che gli aveva regalato l'emozione di far battere di nuovo il suo cuore.

E poi c'era Ukyo.

Con lei era diventato adulto. Con lei aveva condiviso ogni briciolo del suo cuore e ogni centimetro del suo corpo, rendendola donna al contempo. Erano cresciuti insieme, in un momento delle loro vite in cui sembrava tutto perduto.

Tutte. Tutte, lo avevano tradito. Ora non aveva più nulla.

Tre donne, di cui una sposata con colui che aveva ritenuto per anni suo nemico; un'altra che aveva avuto la vita distrutta dal terremoto e che aveva continuato ad amarlo mentre lui non la corrispondeva più; e l'ultima, che lo aveva abbandonato quando ne aveva più bisogno.

Ryoga chiuse gli occhi, cercando di scindere gli eventi per analizzarli meglio, dopo averne preso debita distanza in tutti quei giorni lontano da casa. In realtà, quella perduta era una sola e ormai era sicuro che non fosse colei che amava; perlomeno, non amava Akane che come una carissima amica, un'amica che custodiva lo struggente ricordo di un primo amore impossibile e platonico.

Le altre due donne erano per lui, invece, ancora un dolce tormento.

Era ancora più che certo che il suo cuore appartenesse a Ukyo, ma l'arrivo di Akari, così determinata a riconquistarlo, lo aveva scombussolato non poco. Se la cuoca di okonomiyaki non fosse tornata o lo avesse lasciato, forse avrebbe accettato ciò che gli offriva così incondizionatamente. Ma sarebbe stato corretto? Akari non meritava di essere una seconda scelta o, peggio, una sorta di ripiego. Akari meritava un amore vero, totale, disinteressato, perché a dispetto della sua condizione fisica e del suo maldestro tentativo di riaverlo, era una persona speciale.

In conclusione, dentro di lui, in ogni singolo battito cardiaco e in ogni goccia del suo sangue, rimaneva la piccola Ucchan. La stessa che se n'era andata per studiare, rimandando il suo ritorno tante volte. La stessa che lo aveva caricato della responsabilità del suo locale mentre doveva far fronte ai suoi impegni con la palestra e al ritorno di Akari. La stessa che, in un impeto di gelosia, aveva compiuto un gesto tanto basso che Ryoga non lo avrebbe mai creduto possibile.

Eppure, solo in quella radura che si trovava chissà dove sulla cartina del Giappone, l'avrebbe baciata fino a toglierle il respiro, le avrebbe strappato i vestiti di dosso e l'avrebbe amata fino allo sfinimento, per dimostrarle la rabbia, il dolore e la tenerezza accumulati per tanti mesi in cui non l'aveva avuta accanto.

Con un sorrisetto ironico, Ryoga cominciò a camminare, dandosi da solo del pervertito e chiedendosi se, quando le ferite si fossero finalmente rimarginate, sarebbe stato abbastanza coraggioso da chiederle di sposarlo.

Ora, però, aveva qualcosa di più importante da fare e sperò che il suo orientamento, migliorato negli anni, lo assistesse per condurlo dove voleva arrivare.

***

Ukyo si sentì come doveva sentirsi il suo fidanzato quando ancora si perdeva ovunque. O, forse, doveva dire il suo ex fidanzato. Non sapeva cosa Ryoga provasse per lei in quel momento, né dove si trovasse, ma di sicuro tra loro qualcosa si era spezzato per sempre.

E la colpevole era lei.

Si fermò a chiedere indicazioni a un contadino che stava zappando il terreno e le seguì minuziosamente, sperando di non perdersi davvero. La fattoria non doveva essere, ormai, molto lontana.

Durante quei lunghi giorni, aveva avuto modo di riflettere e si era resa conto, in modo ancora più chiaro, di quanto avesse sbagliato. Certo, aveva tutto il diritto di inseguire i propri sogni e di studiare all'estero ma non si era mai, una sola volta, chiesta cosa ne pensasse davvero Ryoga. Aveva dato per scontato il suo appoggio totale, senza rendersi conto dei suoi sentimenti e delle responsabilità che gli lasciava sulle spalle. Il suo locale, la palestra che non poteva certo abbandonare e, non ultima, la sua lontananza che doveva essergli costata molto. Si era illusa che i suoi "non preoccuparti" al telefono fossero sinceri, autoconvincendosi che Ryoga fosse semplicemente felice per lei e se la cavasse alla grande. Non si era mai soffermata sulla mole di lavoro che stava sopportando mentre lei studiava allegramente per l'Europa.

Le aveva tenuto nascosto l'arrivo di Akari e questo era sicuramente discutibile, soprattutto considerando che poteva lasciar pensare male il fatto che vivessero sotto lo stesso tetto. Ukyo aveva cercato di capire il punto di vista del ragazzo, che non voleva allarmarla inutilmente, visto che la stava solo allenando, ma non poteva togliersi dalla testa che avrebbe dovuto esserne informata. Tanto più che Akari, evidentemente più disperata di quello che avesse dato a vedere negli anni precedenti, aveva tentato un maldestro riavvicinamento, trasformandosi in una persona sconosciuta, così diversa da quella che le aveva raccomandato la felicità di Ryoga.

Eppure... forse la felicità di Ryoga era stata effettivamente l'ultima cosa a cui aveva pensato mentre continuava a rimandare il suo ritorno, spostandosi da un luogo all'altro. Non voleva dire che avesse ragione a volerlo riconquistare, ma di sicuro Ukyo avrebbe potuto tornare prima, o persino chiedergli di raggiungerla e chiudere palestra e locale per un po'.

Alla fine dei giochi, la colpa era distribuita tra tutti e tre, ma forse lei era quella che aveva fatto gli errori più grossi, distruggendo il rapporto che aveva con il fidanzato e la propria umanità. Si era rivista mille volte nell'atto di spingere Akari, invalida, giù da quel bancone e ogni volta la vergogna la sopraffaceva. Certo, l'aveva scoperta mentre lo baciava senza remore, ma non era certo quello il modo di reagire: avrebbe potuto urlare, discutere, forse persino schiaffeggiarla per gelosia, ma ciò che aveva fatto era un colpo così basso che non solo non si addiceva a un'artista marziale rispettabile, ma neanche a una persona perbene. Aveva approfittato del suo problema alle gambe per farle del male volontariamente.

Scosse la testa, continuando a guardare il terreno e si sorprese da quello che vide quando, finalmente libera dalle sue elucubrazioni, alzò lo sguardo. Era arrivata a destinazione e la fattoria si stagliava davanti a lei, immersa nel verde. Akari si trovava fra le braccia di un ragazzo robusto e sembrava sconvolta e Ryoga lo stava colpendo con un pugno proprio in quell'istante.

Convinta di sognare per la mole di assurdità che le si paravano innanzi, Ukyo rimase spiazzata per un attimo. Nonostante ciò, cominciò a correre verso di loro.

***

La Rosa Nera si sentiva emarginata come non le era mai successo in vita sua. Ora che il suo adorato Ranma era sposato con la sua peggior rivale e suo fratello si era bevuto il cervello a causa di quella sciacquetta della sorella maggiore, non le rimaneva che la ginnastica ritmica. Era stata all'estero, aveva migliorato le sue capacità e vinto premi, ma a parte i complimenti sporadici di Tatewaki e del suo caro padre durante le rare volte in cui li andava a trovare, non era stata tenuta in gran considerazione.

Tutta la vita di suo fratello ruotava intorno a Nabiki Tendo e a quel bambino che avevano, disgraziatamente, concepito. Tatewaki era sempre molto misterioso in proposito e quando, qualche giorno prima, gli aveva chiesto spiegazioni dopo averlo visto in compagnia dell'avvocato di famiglia, lui non solo non le aveva risposto, ma era uscito di casa con aria grave e dei fogli in mano. Sicuramente per andare da lei.

Le sorelle Tendo le avevano rovinato la vita, togliendole prima il suo uomo e ora il suo unico fratello. Ma Kodachi Kuno, adesso, aveva le idee chiare e sapeva che era ora di uscire di scena elegantemente, fosse mai che qualcuno avesse sentito la sua mancanza, prima o poi.

Diretta alla meta, camminava a testa alta, certa che la sua decisione fosse la più giusta che avesse mai preso in vita sua. Quasi inciampò in un mucchietto di vestiti e borse della spesa: quando si accorse di chi stava per calpestare, rimase di stucco: "Akane Tendo?!", ansimò.

***

Nabiki chiuse a chiave la porta della propria stanza. Non lo aveva mai fatto in vita sua, perché sapeva che, casomai, era la sorella minore ad essere oggetto delle attenzioni e dei tentativi di spionaggio della famiglia.

Stavolta, però, non voleva rischiare che qualcuno scoprisse cosa aveva acquistato. Le sue uscite, ufficialmente, erano atte a rimpinguare il proprio guardaroba che scarseggiava di vestiti larghi o premaman, come li si etichettava di solito. Non solo le serviva qualcosa da indossare subito, ma anche da tenere nell'armadio per i tre mesi successivi, nei quali la sua pancia avrebbe raggiunto dimensioni più ragguardevoli.

La parte più complicata era stata uscire e prendere la metropolitana nelle sue condizioni. Non riusciva a camminare per lunghi tratti, ma era stata fortunata e aveva trovato posti a sedere sui mezzi e panchine lungo il tragitto per i negozi e aveva potuto riposare e concedersi anche una bibita fresca in un bar. Era necessario che si allontanasse il più possibile dai luoghi che era solita battere con le sue amiche per lo shopping ordinario, anche se ormai tutte sapevano della gravidanza, perché non voleva incontrare nessuno che la conoscesse e potesse farle domande, incluse le commesse dei negozi che frequentava.

Non voleva consigli, complimenti, gridolini o persino mani che avrebbero potuto sfiorarle la pancia con sorrisi beoti stampati sul volto. Non era assolutamente pronta a essere trattata come una futura mamma felice e contenta. Stava facendo i conti con sentimenti troppo nuovi e contrastanti e aveva bisogno di tempo e di equilibrio se non voleva impazzire. Le bastava godersi le nuove sensazioni da sola con il suo bambino che la prendeva a calci, parlandogli e confidandogli timori e incertezze lontano dagli occhi e dalle orecchie del resto del mondo.

Tolse dalle buste quell'abbigliamento così insolito per lei e lo ripose storcendo il naso, rimpiangendo i jeans e gli shorts a cui era abituata e rassegnandosi a somigliare sempre di più a una specie di balena con le gambe. Poi, si dedicò alla confezione a causa della quale aveva deciso di chiudere a chiave la porta.

Non sapeva realmente come sarebbe andata a finire tutta quella storia, ma mentre si appoggiava la tutina azzurra al pancione, chiedendo al figlio non ancora nato se gli piacesse, si sentì bene come non le capitava da tempo. Da molto, moltissimo tempo.

***

Per essere un ragazzone grande e grosso, Katashi sembrava terrorizzato dal sangue e dalle ferite. Ogni volta che Ukyo tentava di avvicinarsi con il cotone imbevuto di disinfettante, lui si scostava come se scottasse e alla vista del rosso sulle sue dita, il colorito aveva virato al grigio-verdognolo.

"Chiudi gli occhi e fai finta che qui ci sia solo acqua", gli suggerì, poco convinta.

Lui deglutì, obbedendole, ma sembrava sul punto di vomitare. O di svenire. O entrambe le cose. Certo, la sua faccia era un disastro su cui spiccavano gli occhi di quel colore così particolare: di un azzurro così chiaro che sembrava trasparente, non era come i lampi di cielo di Ranma, né come il colore marino di quelli mezzi ciechi di Mousse.

Ukyo si domandò da quando in qua si concentrava sui colori degli occhi dei ragazzi e si ricordò, per l'appunto, di averne puntati sulla schiena un paio di color nocciola. Non capiva la reazione eccessiva di Ryoga e, anche se non dava a vederlo, artigli di ghiaccio le affondarono nel cuore quando immaginò che fosse una scenata di gelosia. E, comunque, perché si trovava lì anche lui?

"Ahi, ahi!", si lamentò Katashi, sfuggendo alle sue cure.

"Vuoi che ti metta qualche cerotto?", domandò Akari dal suo angolino, ma lui scosse la testa. La ragazza era rimasta in disparte, sconvolta. Ukyo l'aveva chiaramente vista tra le braccia del ragazzo. In piedi. Quindi, doveva essere sopraffatta dalle emozioni più diverse, incluso lo shock del pestaggio che aveva subìto quello che, da quanto aveva urlato per fermare un inarrestabile Ryoga, era solo il suo fisioterapista. Il quale non la stava abbracciando contro la sua volontà, ma sostenendo.

"Sono... costernato. Mi dispiace tanto, io credevo...". La voce non sembrava neanche più la sua.

"Per favore, non ne parliamo più. Ci siamo chiariti già una decina di volte, no? Guarirò, amico, anche se non so in quanto tempo", lo interruppe Katashi alzandosi in piedi. "Ora torno a casa. Akari, ti dispiace se ci vediamo la prossima settimana? Hai avuto troppe emozioni, per oggi. E anche io", si schernì facendole l'occhiolino.

"Tornerai?", gli chiese con una speranza dipinta sul volto che fece pensare a Ukyo che tenesse a lui più di quanto immaginasse.

"Certo che tornerò. E indosserò un camice da fisioterapista con su un cartellino con le mie credenziali. Tanto per non dare più adito a fraintendimenti".

Lei sorrise e la tensione parve allentarsi un poco, anche se Ukyo avvertì chiaramente quella di Ryoga, mista a vergogna, emanare da lui come un'aura. Si concesse di guardarlo di sottecchi e le si strinse il cuore a vederlo così a causa di Akari. Di nuovo.

Quando Katashi si fu accomiatato, rimasero loro tre, in un silenzio imbarazzato nel quale intervenne solo il nonno di Akari, per avvisare che andava a preparare il pranzo.

Ukyo decise di prendere in mano la situazione. Non erano forse le donne, in caso di stallo, ad avere più coraggio e determinazione degli uomini?

"Bene, vi lascio parlare. Se eri qui probabilmente volevi parlare con lei, giusto?". Non si aspettava il tocco di Ryoga, che con un gesto deciso la bloccò per il braccio.

"No, resta. È vero, sono venuto fin qui per parlare con Akari, proprio come te. Non c'è nulla che tu non possa ascoltare".

Ukyo si risedette come un automa, terrorizzata da quello che stava per ascoltare. Per quanto ne sapeva, Ryoga poteva benissimo essere tornato da Akari per dichiararsi. La sola idea la fece sentire come se stesse per morire.

***

"Bene, bene, ma guarda chi si vede di nuovo in giro! Colei che ha rubato il mio uomo con l'inganno!". Kodachi era furiosa e si accorse a malapena dello sguardo incendiario che Akane le aveva rivolto.

"Io non ti ho rubato nessuno, tantomeno con l'inganno!", rispose la scellerata con voce stanca e provata. Chissà cosa ci faceva là, mezza svenuta in mezzo alla strada con tutti quei pacchi.

"Oltre ad essere bugiarda ti sei anche rammollita, Akane Tendo? Cos'è, non riesci più neanche a portare la sporta della spesa?", ribatté velenosa, cercando di nascondere il suo stupore nel vederla in quello stato. Come minimo era ammalata, su questo non aveva dubbi. E il suo Ranma meritava una ragazza forte come lei, non certo una così debole.

"Non sono cose che ti riguardano", le rispose sfacciatamente, tentando di rimettersi in piedi con tutte le buste. D'istinto, Kodachi gliele afferrò e le tenne con un dito dietro la spalla, come se pesassero non più di un grammo l'una.

"Come vedi sono sempre io la più forte" e si lasciò andare a una delle sue risate. Sperava che Akane ne ricordasse bene il suono, perché non l'avrebbe più sentita, a breve.

"Ridammele!", s'inalberò l'odiosa rivale, ma nel suo maldestro tentativo di afferrarle riuscì solo a cadere per terra.

Kodachi rimase spiazzata, tanto che smise di ridere. Akane Tendo stava peggio di quel che credesse e si piegò sulle ginocchia per guardarla meglio: sudava ed era pallida come un lenzuolo: "Di solito sono le mie pozioni magiche a mettere ko le persone. Che diavolo hai fatto per ridurti in queste condizioni pietose?".

Per tutta risposta, Akane si portò una mano alla bocca, avanzò carponi fino a un angolo tranquillo e vomitò, scossa da un singolo conato. Kodachi quasi lasciò cadere le buste e capì che, chiunque le avesse viste in quel momento avrebbe pensato che, finalmente, la Rosa Nera era riuscita ad avvelenare la sua antagonista.

***

Quando Akane riaprì gli occhi vide un soffitto bianco.

Dove diavolo sono?

"Oh, ti sei svegliata, finalmente". Il dottor Tofu era accanto a lei e Kasumi stava mettendo a posto qualcosa nell'armadio alle sue spalle.

"Cosa è successo? Ero uscita a fare la spesa...". Si sentiva confusa, aveva un sapore amaro in bocca ma si ricordava l'incontro con Kodachi. "È stata lei? Mi ha colta di sorpresa?".

Kasumi si avvicinò e le prese la mano: "Akane, Kodachi ti ha portata allo studio dicendo che eri svenuta, ci sembrava sincera". Scambiò un'occhiata con il dottore, che annuì. "Se avesse davvero voluto farti del male non sarebbe corsa qui, non credi?".

Si accigliò, sospettosa.

Mi ha derisa perché ha visto che non riuscivo neanche a portare la spesa. Non è stata lei...

"Non mi sono mai sentita così male in vita mia", ammise suo malgrado.

"Già, me ne sono accorta anch'io. E non si dica che la colpa è stata mia, perché se davvero avessi voluto avvelenarti non staresti qui a parlare, adesso". Kodachi apparve sulla porta, le braccia incrociate e l'espressione severa di chi sia stata accusata ingiustamente.

"Già, hai ragione, ti chiedo scusa. Di certo uno dei tuoi intrugli sarebbe stato più efficace". Poi si ricordò delle parole di Kasumi e aggiunse: "Comunque, grazie per avermi portata dal dottor Tofu".

Kodachi fece un sorrisetto di sbieco: "Sia mai che il mio adorato Ranma mi accusi di tentato omicidio alla sua cara sposa! A breve dovrò dirgli addio e voglio che il nostro saluto sia romantico e speciale!", aggiunse con aria sognante.

Per un istante, Akane si dimenticò del proprio malessere: "Che cosa vorresti dire, Kodachi?".

"Che ho intenzione di sparire dalla circolazione. Per sempre. Mi rimpiangerete. Tutti!". Kodachi aveva sputato quelle parole con disprezzo e vide eguali espressioni di stupore anche sui volti di sua sorella e del dottor Tofu. Che diavolo si era messa in testa quella pazza? Non voleva mica...

La sua risata, che solo poco tempo prima aveva quasi rimpianto, le trapanò il cervello e Akane credette di svenire di nuovo: "Cosa ti sei messa in testa, razza di stupida?!". Gridò, invece, "ricordati che hai un fratello e un padre e sei giovane! Hai una vita davanti e non è certo per Ranma che devi pensare a...".

Kodachi smise di ridere, guardandola come se le fosse spuntata una seconda testa. Sbatté le palpebre un paio di volte e poi riprese a ridere più forte di prima. Kasumi e Tofu, ormai evidentemente spiazzati, si guardavano senza capire e Akane sentì montare la rabbia: "Non c'è niente da ridere!", s'infuriò.

"Oh, Akane Tendo, non credevo che un giorno ti saresti preoccupata per me! Ma, d'altronde, la Rosa Nera è un tesoro nazionale a cui è difficile rinunciare, me ne rendo conto. Però ormai ho preso la mia decisione e andrò a vivere all'estero con mio padre".

Fu il suo turno di sbattere le palpebre, come per metterla a fuoco: aveva, quindi, travisato le sue parole? Da come si era espressa sembrava davvero fosse intenzionata a bere lei stessa uno dei suoi veleni.

"Pensavi forse che avrei messo fine alla mia preziosa e brillante vita? Come sei ingenua, Tendo, io ho ben altri progetti! Portare la mia eccellente persona laddove possa essere maggiormente apprezzata e non ci siano fratelli impazziti, marmocchi in arrivo o donne che attentino alla fortuna dei Kuno".

Akane sospirò di sollievo: non faceva una piega, Kodachi si era semplicemente stufata di starsene a Nerima senza più ricevere attenzioni e voleva trovare la sua strada: "E dove ve ne andrete?".

"Oh, Akane, ma in California, naturalmente! La terra del sole e delle palme tanto care al mio papà! La storia tra Tatewaki e tua sorella lo ha definitivamente convinto che io sono l'unica figlia degna di attenzioni, e ha detto che mi porterà in giro per tutta l'America del sud e anche negli Stati Uniti! Oltre che stella della ginnastica ritmica potrei rischiare di diventare persino una star di Hollywood, mentre voialtri marcite in questa cittadina dimenticata dai Kami, ma ci pensi?". E scoppiò a ridere di nuovo.

Akane scosse la testa: l'ego di quella ragazza era così enorme che rischiò di esserne soffocata, ma in qualche modo era felice per lei. Forse avrebbe trovato davvero la sua strada, anche se non quella che le suggeriva il suo cervellino così lontano dalla realtà. Glielo augurava davvero, nonostante tutto.

"Beh, visto che mi hai presa dalla strada e portata qui quando mi sono sentita male, non me la sento di inveire contro di te perché ci hai insultati tutti, Kodachi Kuno, ma anzi ti ringrazierò di nuovo". Le tese la mano e la ragazza la guardò come se ne avesse orrore.

"Non sono tua amica, Akane Tendo", chiarì altezzosa, "ti ho già spiegato come mai ti ho soccorsa e non è stato certo per pietà. Ti vedrò sempre come colei che mi ha rubato il mio adorato Ranma".

Sorrise, quasi divertita: "Ma certo", le concesse.

Kodachi cominciò a far roteare il nastro, spargendo rose nere ovunque. Se quello era il suo commiato, Akane se ne rallegrò.

"Addio abitanti di Nerima, godetevi la vostra misera vita relegati qui, la Rosa Nera volerà presto per terre più consone al suo valore!". La risata l'accompagnò fino a che non fu fuori dalla clinica.

Akane ridacchiò: "Credo fosse il suo modo per salutarci e dirci che le mancheremo. Oppure no".

"Già, lo credo anch'io", convenne Kasumi.

Il dottor Tofu batté le mani, riportandola al problema principale, mentre sua sorella impugnava la scopa e iniziava a spazzare le rose nere canticchiando come se nulla fosse: "Bene, Akane, ma ora veniamo a noi. Quando eri svenuta ti abbiamo fatto dei prelievi, ma mentre aspettiamo i risultati voglio capire un po' meglio i tuoi sintomi, va bene?".

"Crede... che io sia malata?", domandò tremante, sperando che bastasse qualche medicinale a rimetterla in sesto.

Kasumi smise di spazzare e si voltò verso di loro: ancora una volta, il suo sguardo incontrò quello del dottore e, per la prima volta, Akane si preoccupò davvero.



(1) Letteralmente maiale (Buta) massiccio (Katashi). Se ho sbagliato chiedo scusa, non conosco il giapponese e mi affido ai vocabolari online.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Segreti e addii ***


CAP. 18: SEGRETI E ADDII


Akio sospirò tristemente mentre osservava Daiki appendersi con le braccia su quell'attrezzo che usava sempre il papà e cominciare a tirarsi su con un verso di fatica.

Perché si affannava tanto a fare quell'esercizio se era così difficile? Non era meglio disegnare con i colori nuovi come faceva lui? Voleva fare un disegno bellissimo per Misaki, per quando fosse tornata: gli mancava tantissimo.

Un rumore di passi lo fece voltare e girò il capo per guardare chi fosse, sistemandosi gli occhiali sul naso. La zia Akane sembrava più triste di lui. No, non triste... come si diceva? Preoccupata. Non sapeva bene la differenza, ma era la stessa faccia che avevano gli adulti quando c'era qualche problema da risolvere e la medesima che aveva avuto suo fratello quando erano stati rapiti e si trovavano soli, al freddo, in quel magazzino.

"Ciao, zia Akane", la salutò posando il pastello.

"Ciao, tesoro, cosa stai disegnando di bello?". La sua voce era strana, come quando si sta per piangere.

"Sto facendo un disegno per Misaki. Tu sai quando torna?", chiese, speranzoso che lei avesse qualche notizia in più rispetto ai suoi genitori che non facevano altro che rispondergli: "Presto, non ti preoccupare".

"Non lo so, Akio, ma sono sicura che un giorno tornerà insieme a Shampoo e Mousse".

Il bambino abbassò il capo, deluso: almeno era stata sincera e non aveva detto un generico "presto".

"Cos'hai, zia Akane? Perché piangi?", domandò, curioso.

"Non sto piangendo, sono solo... pensierosa".

Akio inclinò la testa da un lato, riflettendo: "Vuoi dire che sei preoccupata?".

"Voglio dire che...". Sua zia non finì la frase e si morse il labbro.

"Hai un problema?", cercò d'indagare. "Hai la stessa faccia di quando gli adulti hanno un problema e non sanno che fare".

La zia ridacchiò, ma era una risata strana, smozzicata: "Sai, un problema è una cosa fastidiosa, che richiede una soluzione. Quello che ho io... non richiede una soluzione. Ma non so come affrontarlo".

Akio si sentì più confuso di prima. Se non era un problema da risolvere cosa mai poteva essere? "Che significa 'affondarlo'?".

Lei rise di nuovo e gli sembrò fosse davvero divertita stavolta: "Non 'affondarlo', tesoro, quello si dice di una nave o una barca. Ho detto 'affrontarlo'. Si affrontano i problemi, ma anche le situazioni impreviste. E io non credevo di avere... quello che ho. Non so come dirlo a tuo zio e come fare da ora in avanti".

Il bambino cercò di dare un senso alle parole di sua zia, ma gli sembrò che parlasse un'altra lingua o semplicemente che non volesse dirgli le cose come stavano. La guardò e il suo viso, ora, gli sembrava uguale a quello di alcuni pazienti del papà, che arrivavano allo studio con la febbre o altre malattie: "Sei malata?".

A quella domanda, la zia Akane fece una cosa strana: lo abbracciò improvvisamente e cominciò a piangere. A piangere davvero.

***

"Sono venuto a sapere come stai, ma vedo che te la cavi alla grande. Sei riuscita di nuovo ad alzarti in piedi, vero?".

Akari annuì: "Sì, il nonno mi ha vista mentre mi allenavo e mi ha suggerito di fare fisioterapia per rinforzare i muscoli. Oggi sono riuscita a stare dritta per un minuto intero!".

Ukyo ascoltava la conversazione tra Ryoga e Akari sentendosi un'estranea. Stava cercando di metabolizzare la scenata di gelosia del suo ex fidanzato e il fatto che fosse andato lì apposta per vedere come stesse Akari, e si chiese se sarebbe riuscita a scusarsi. Sì perché, per quanto si odiasse per il gesto compiuto, non aveva assolutamente accettato il tentativo di Akari di approfittare della situazione in sua assenza.

I due continuavano a parlare ma lei si estraniò dalle frasi fatte, dai convenevoli e dal chiacchiericcio, che le risultava insopportabile, sugli allenamenti e la fisioterapia di Akari. Forse era una cattiva persona, perché avrebbe pur dovuto sentire pietà e interesse verso di lei, specie ora che la speranza di tornare a camminare era più concreta che mai. La verità era che questa prospettiva la terrorizzava: se Akari avesse ripreso a camminare sarebbe stata sua pari e Ryoga avrebbe potuto sceglierla.

Quel ragionamento le fece venire la pelle d'oca: lui non era certo il tipo da preferire una ragazza a un'altra per le prestazioni fisiche, eppure il fatto che Akari potesse offrirgli le stesse cose che gli aveva dato lei per anni la terrorizzava. Era una contraddizione assurda, ma era così.

"Mi dispiace". Quelle due semplici parole ebbero l'effetto improvviso di destarla dalle sue elucubrazioni, riportandola alla realtà. Ukyo sbatté le palpebre e vide Akari, pur seduta su una sedia, inchinarsi leggermente. Era sicura che quelle scuse non fossero rivolte a lei, ma dovette ricredersi subito. "Voglio fare le mie scuse ad entrambi, visto che ho la fortuna di avervi qui tutti e due".

"Akari...", cominciò Ryoga e Ukyo avvertì una punta di rabbia al solo pensiero che lui potesse contraddirla. Fu Akari stessa, però, a interromperlo.

"No, lasciami parlare, per favore. Ho agito come una persona meschina, approfittando della lontananza della tua fidanzata per avvicinarmi a te. Ho abusato della tua bontà e della tua disponibilità per impormi e questo non è da me". Abbassò lo sguardo, in evidente imbarazzo. Ukyo si chiese se avesse letto nei suoi pensieri di poco prima.

Ancora una volta, quando Ryoga parlò, Ukyo fu fermamente convinta di sentire frasi che non le sarebbero piaciute, incluso il fatidico "non preoccuparti, non è successo niente" o, peggio "non è stata colpa tua". Invece fu sorpresa dalla sua risposta sincera.

"Ero molto frustrato, Akari, non lo nego". Si voltò verso di lei per la prima volta dall'inizio della conversazione, facendola sussultare. "La lontananza di Ukyo mi pesava molto, ma non avevo il coraggio di dirglielo, visto che era così entusiasta del suo viaggio". Alla ragazza parve di cogliere una nota di disprezzo nel suo tono, ma poteva essere benissimo la propria immaginazione a giocarle brutti scherzi, assieme alla visione distorta della realtà. "Ho cercato di ignorare il tuo atteggiamento e quei baci che mi hai rubato quando meno me lo aspettavo, ma non è servito a niente".

Ukyo inghiottì il boccone amaro di sapere che i baci erano stati più di uno e cercò di dominare le proprie emozioni.

"Non volevo illuderti in alcun modo, Akari", continuò Ryoga, "e nello stesso tempo non volevo ferirti. Non è stato facile, per me, e alla fine sono semplicemente esploso". Doveva riferirsi a una lite che era avvenuta tra loro.

"Avevi ragione ad essere arrabbiato. Quelle cose che mi hai rimproverato... erano vere. Non ho mai accettato veramente la mia condizione e volevo disperatamente fare una vita normale accanto a colui che...", le scoccò un'occhiata imbarazzata e Ukyo distolse lo sguardo, a disagio, "...insomma, lo sai. Non credevo che sarei mai diventata quel genere di persona, mi vergogno di me stessa".

Ryoga le prese le mani e Ukyo tese i muscoli per alzarsi e andarsene, ma rimase congelata sulla sedia, impotente e con il cuore sempre più a pezzi.

"Io ti voglio bene, Akari, sei una delle mie amiche più care e i Kami solo sanno cosa darei perché tu torni ad essere quella di prima. Ma stai già affrontando le cose nel migliore dei modi, quindi ritrova il rispetto per te stessa e perdonati per questo errore. Io l'ho già fatto".

Fissò il ragazzo che amava così disperatamente e si rese conto che non stava dicendo tutta la verità. Forse, le ferite che Akari gli aveva inferto gli bruciavano ancora, ma voleva che lei fosse tranquilla e continuasse per la sua strada. Oppure, semplicemente, si stava innamorando di nuovo di lei e non voleva che le rimanessero sensi di colpa.

"Grazie, Ryoga", rispose accorata, stringendo a sua volta le mani di lui.

Ukyo scattò in piedi: non poteva sopportare oltre, il suo corpo fremeva dal desiderio di fuggire, allontanarsi da quei due il prima possibile. "Bene, io accetto le tue scuse e ti faccio di cuore le mie. Nessuna persona al mondo, e in particolare un'artista marziale, dovrebbe mai abbassarsi a compiere gesti come quello che ti ho rivolto io. Ti chiedo umilmente perdono, non sapevo quello che facevo". S'inchinò, sperando che Akari non notasse la sua urgenza di andarsene.

Con sua sorpresa, la ragazza le sorrise e disse: "Lo avrei fatto anche io se si fosse trattato del mio fidanzato. Ne avevi tutto il diritto".

Ukyo scosse la testa con vigore: "No, invece! Io, tu...".

"Hai colpito l'inerme paralitica con una spinta facendola rovinare al suolo. Questo è il gesto disdicevole che ti rimproveri, vero? Convengo con te che non sia proprio il massimo, ma vista la situazione me lo meritavo e mi ha aiutata a scuotermi, a farmi capire che dovevo concentrarmi sugli allenamenti per rimanere in piedi e affrontare chiunque senza più cadere. Quando sarò pronta, potremmo scontrarci in una sfida amichevole, che ne dici?". Le tese la mano e Ukyo la guardò, come inebetita.

Mentre gliela stringeva, suggellando il patto, si rese conto che aveva davanti una ragazza straordinaria, nonostante tutto, e che forse era stata persino peggiore di lei, in alcuni momenti.

"Bene, visto che tutto è chiarito e ci siamo riappacificati, io me ne andrei", disse Ryoga alzandosi a sua volta. Lo fissò, ancora una volta. Era tutto lì? Non doveva dire altro ad Akari? O a lei?

"Buona fortuna, ragazzi, sono felice che siate venuti qui. Vi prometto che la prossima volta vi accompagnerò alla porta!". Quella frase le strappò un sorriso sincero. In fondo al suo cuore, Ukyo glielo augurò e si disse che, forse, non era diventata cattiva come temeva.

***

Ranma si deterse il sudore con un asciugamano e si chiese ancora una volta dove diavolo fosse finita sua moglie. Quando si stava per decidere a telefonare a casa Tendo la vide in lontananza. Gli apparve subito stanca e sembrava parlasse tra sé e sé. Si accigliò, man mano che si avvicinava e scorgeva i tratti del suo viso aggrottati in una smorfia che poteva essere egualmente di preoccupazione o di dolore.

"Ehi, che ti è successo?", le chiese correndole incontro.

Akane alzò il viso per guardarlo e a Ranma parve che si risvegliasse da un sogno: "Io... ho dimenticato la spesa da Kasumi", disse.

Ranma scosse la testa, più che certo che quello fosse il problema minore: "Non importa, la recupererò io più tardi. Ma tu cos'hai? Sembri malata".

"Io... io... rientriamo in casa, per favore, ho un po' freddo". Ranma aprì la bocca per risponderle ma lei era già entrata. Lui era in canotta e pantaloni e non sentiva affatto freddo, ma poteva darsi che l'allenamento avesse contribuito a scaldarlo. Tuttavia, la temperatura era abbastanza mite e Akane non era mai stata particolarmente freddolosa.

Quando la raggiunse, come prima cosa le mise una mano sulla fronte e lo colpì il fatto che fosse gelata. La voltò gentilmente e la guardò in viso: "Che ti ha detto il dottor Tofu? Non tenermi nascoste le cose, Akane, si vede che non stai bene".

Lei schiuse le labbra, inspirando ed espirando più volte come se cercasse le parole giuste, poi esordì: "Kodachi è in partenza, non è ancora passata a salutarti?".

Ranma sgranò gli occhi, convinto di aver sentito male: cosa c'entrava adesso quella pazza della Rosa Nera? E perché Akane non rispondeva alle sue domande? Ebbe l'impulso irrefrenabile di scuoterla per le spalle e per poco non lo fece. Gliele strinse leggermente, però, fissandola intensamente negli occhi: "Akane, perché cambi discorso? Cosa ti è successo?".

Improvvisamente, gli parve che lei smettesse di respirare e annegasse e il cuore gli balzò nel petto, mentre l'adrenalina gli scorreva nelle vene preparandolo all'emergenza. Poi i suoi occhi riacquistarono lucidità e sua moglie fece una specie di risatina forzata, sciogliendosi dalla sua stretta: "Nulla di grave, Ranma, davvero, non devi preoccuparti! Ho... ho avuto un calo di zuccheri perché stamattina ho saltato la colazione e a pranzo abbiamo mangiato di corsa. Il dottor Tofu mi ha raccomandato solo di alimentarmi più regolarmente".

Ranma si accigliò: non era mai stato molto empatico di natura, ma qualcosa gli suonava falso ed era più che determinato ad avere spiegazioni. Se Akane non gliele avesse volute dare, le avrebbe chieste direttamente a Tofu.

"Bene, vado a recuperare la spesa. Te la senti di rimanere da sola?", le chiese infilandosi la casacca rossa.

"Certo che sì, non ti preoccupare! Te l'ho detto, non è nulla. Intanto io metto a bollire l'acqua per...".

"Scusate, è permesso?". La voce di Kasumi interruppe Akane e il pensiero che gli si stava formando in testa. Ovvero, che sembrava persino felice che lui uscisse.

"Oh, Kasumi, grazie, non dovevi! Stava per venire Ranma". Si affrettò ad andarle incontro per prenderle le buste, ma lui fu più veloce.

"Grazie, Kasumi. Akane mi ha detto che non è stata bene ed è passata allo studio. Ma non mi ha voluto dire granché...". Il sorriso dolce di Kasumi le si congelò sul volto e colse il suo sguardo serpeggiare velocemente verso la sorella minore.

"Oh, come si è fatto tardi! Devo preparare la cena anche io. Vi auguro buona serata, ci vediamo presto". Si accomiatò con una velocità degna di suo padre quando voleva evitare qualche problema, ma di certo non poteva afferrare Kasumi per la collottola e obbligarla a rimanere.

Così, si voltò per l'ennesima volta verso Akane, che stava facendo un cenno di saluto con la mano ed esclamò spazientito: "Insomma, vuoi spiegarmi cosa diavolo succede?!".

***

La luna apparve pallida nel cielo che si andava oscurando pian piano e Ukyo la fissò pensando che somigliava un po' a lei. Sentiva i passi di Ryoga a poca distanza e, nonostante camminassero nella stessa direzione, sembravano lontani anni luce. Anche lei era diventata un pallido ricordo per il suo fidanzato, probabilmente.

Per un attimo, valutò l'idea di lasciarsi trascinare dalla tristezza, di piangere, di gridare o persino di pregarlo ma non fece nulla di tutto ciò. Un moto di ribellione la costrinse a fermarsi. Con sommo disappunto, notò che Ryoga proseguiva per la sua strada, come se non gli importasse nulla che lei non fosse più al suo fianco.

"Non ho intenzione di prendermi tutta la responsabilità!", disse in tono perentorio e a testa alta.

Ryoga si voltò per guardarla e per un attimo le parve che non capisse. Poi la comprensione calò sul suo volto e lui fece un piccolo sorriso che le sembrò tagliente come una lama. Le diede di nuovo le spalle e riprese a camminare come se nulla fosse.

Ukyo si sentì intrappolata in un bivio, o sull'orlo di un precipizio, o in qualunque altro orribile cliché rappresentasse un momento decisivo della propria vita. Se non avesse parlato, probabilmente lo avrebbe perso per sempre, ma d'altro canto l'orgoglio le impediva di fare il primo passo. Tuttavia...

"Insomma, mi molli così?! Come se fossi un sacco della spazzatura che non ti serve più e che ti getti alle spalle?". Non solo lo aveva detto, anzi, gridato, ma aveva anche battuto un piede a terra come una bambina frustrata. Evviva le vie di mezzo.

Non si era aspettata la reazione di Ryoga: pensava che, dopo essersi umiliata così, lui sarebbe come minimo scoppiato a ridere o l'avrebbe addirittura presa tra le braccia. Invece si girò verso di lei, furioso: "Che cosa vuoi che faccia?!", urlò.

Sbatté le palpebre, quasi spaventata, e fece un passo indietro. Sconvolta, scosse leggermente la testa, incapace di parlare.

"Vuoi che ti abbracci e ti baci, o ti prenda su questo dannato prato per dimostrarti quanto mi sei mancata e pace fatta?! Hai idea di cosa ho dovuto soffrire io, mentre tu non c'eri?".

La bocca le si spalancò da sola ma non provò neanche a parlare. Quello non era il suo dolce, tenero e timido Ryoga, ma un clone sostituito da una banda di alieni particolarmente cattiva.

"Ho cercato di capirti, di comprendere le tue ragioni, assecondandoti e sperando a ogni telefonata che ti decidessi a tornare. Poi è arrivata Akari e l'ho sperato ancora di più, perché sapevo cosa stava accadendo e mi auguravo che col tuo ritorno si mettesse finalmente il cuore in pace. Ma tu rimandavi, e rimandavi e poi rimandavi ancora, tutta contenta per le cose che scoprivi e io non avevo cuore di contraddirti...". S'interruppe improvvisamente, come se si fosse ricordato di qualcosa. "Abbiamo già avuto questa conversazione, mi pare", concluse come svuotato.

Ukyo deglutì più volte, cercando di dominarsi per riuscire a parlare prima che lui accennasse ad andarsene di nuovo: "Quindi... è finita?".

Ryoga piantò gli occhi nocciola nei suoi e lei credette di morire.

***

Rimase a guardarla per quasi un minuto intero, cercando di fare ordine nel suo cuore e nella sua mente. Sarebbe stato così facile prenderla fra le braccia, baciarla e non lasciarla più andare. Poteva lasciare che la rabbia smaltisse col tempo, mentre tornavano alla loro routine quotidiana, nel calore del locale e della loro stanza al piano di sopra.

Ma Ryoga sapeva che quella rabbia, se l'avesse lasciata decantare, avrebbe pian piano avvelenato le loro giornate. Ne sarebbero conseguite altre liti, discussioni, o persino silenzi inquietanti. Il loro rapporto era sempre stato spensierato e sincero e lui non voleva che ci fossero punti oscuri. Mai più.

Non poteva permettere che il sentimento che li univa fosse inquinato da un dissapore simile.

"Ho bisogno di tempo, sono ancora troppo ferito. Mi dispiace", disse semplicemente.

Nell'oscurità incipiente, poté vedere gli occhi di Ukyo brillare come due stelle e ricordò un altro dei motivi per cui si era innamorato di lei.

"Tornerai?", gli chiese con voce più ferma di quanto si aspettasse.

Fu la domanda che lo fece capitolare. Perché, nonostante tutto, Ryoga aveva bisogno del suo contatto, della sua vicinanza, di sentire ancora la vibrazione tra loro. Le si accostò e ci volle tutta la sua forza di volontà per porre le mani sul suo viso, asciugandole le lacrime senza attirarla a sé e stringerla.

"Non lo so". Essere sincero gli costò molto di più che dirle una bugia. Non sapeva se avrebbe prevalso l'amore o sarebbe rimasta l'amarezza e non voleva procurarle false illusioni, tantomeno darle a se stesso. Solo quando le ferite fossero guarite, anzi, se fossero guarite, solo allora avrebbe concesso a quell'amore di tornare a unirli.

Avvertì distintamente la risolutezza di Ukyo andare in frantumi e la ragazza crollare sotto la potenza dei singhiozzi. Allontanò le mani e le diede le spalle, sussultando come colpito da una scossa elettrica quando udì il suo flebile: "Ma io ti amo".

"Fai attenzione, sulla strada del ritorno", fu l'unica sciocchezza che gli uscì di bocca e che ebbe il potere di farla piangere più forte.

Il vento si portò via la risposta della donna che amava e sulla quale ora nutriva tanti dubbi. E si portò via anche il suo flebile: "Perdonami" che, fu certo, se anche le fosse arrivato non sarebbe affatto servito a consolarla.

***

Akane aprì gli occhi di soprassalto, giusto qualche minuto prima che suonasse la sveglia. La disattivò e si mosse con movimenti lenti e studiati, con il senso di colpa che le opprimeva lo stomaco in una morsa.

No, non ora...

Si alzò con cautela, scoccando un'occhiata alla figura di Ranma ancora arrotolata nelle coperte. Russava leggermente e lei accelerò un po' il passo fino ad arrivare in bagno. Chiuse la porta con cautela, aprì l'acqua al massimo e s'inginocchiò davanti al water, in attesa che succedesse l'inevitabile.

Difficile essere silenziosi, in questi casi.

Attese che i puntini neri smettessero di danzarle davanti agli occhi e si lavò il viso. Si vestì e riaprì la porta, con cautela. Ranma dormiva ancora e quella mattina i suoi allievi sarebbero arrivati circa due ore dopo, quindi voleva lasciarlo riposare mentre lei faceva quello che andava fatto.

Sarebbe stato triste accomiatarsi dai bambini e avrebbe anche dovuto parlare con suo padre perché trovasse un sostituto. E ancora non aveva parlato della questione a suo marito.

Odiava mentire a Ranma: le uniche bugie che gli aveva mai detto in vita sua erano che non era affatto gelosa, anni prima, quando Shampoo o qualche altra fidanzata gli si attaccava come una cozza allo scoglio. Ma stavolta era diverso. Stavolta gli stava tacendo una verità troppo grande e la sera prima aveva dovuto faticare non poco per convincerlo che andasse tutto bene. Lui aveva mangiato la foglia, era evidente, ma a un certo punto si era arreso e forse rassegnato ad aspettare che lei fosse pronta a dirgli tutto.

Stava quasi per uscire dalla stanza quando si scatenò il finimondo e tutti i suoi piani di fuggire alla sua lezione mattutina senza svegliare il marito andarono in fumo.

***

Konatsu guardò il telefono come se fosse un apparecchio che non aveva mai visto in vita sua. Da quando si era trasferito in quella minuscola casa, grazie ai risparmi accumulati, non aveva più avuto contatti con la sua famiglia d'origine e gli unici che lo chiamavano erano i suoi creditori, che non riusciva più a pagare con i lavoretti occasionali.

Oppure la signorina Ukyo, che gli chiedeva come stesse e gli faceva gli auguri durante i compleanni o altre festività. Da quando si era fidanzata e lui aveva deciso di eclissarsi discretamente, non lo aveva certo dimenticato ma le telefonate si erano fatte via via più rade e lui si era rassegnato ad andare avanti con la sua vita senza quel sorriso che amava tanto.

A quell'ora del mattino, potevano essere accadute solo due cose: una disgrazia o una richiesta d'aiuto. Quando rispose, Konatsu scoprì che si trattava di entrambe.

***

Akane stava correndo. Che i Kami la proteggessero, stava letteralmente scappando.

Era riuscita a esclamare in un'unica parola la frase: "Iovadoagliallenamenticivediamodopociao!", mentre Kodachi s'incollava a suo marito in un turbinio di petali neri.

La sera prima, la scusa dei saluti della Rosa Nera era stata la prima stupidaggine che le era venuta in mente, nonostante sapesse che sarebbe accaduto. Quella mattina, Kodachi l'aveva salvata da una spiegazione che ancora non riusciva a dare a Ranma e, per la prima volta in vita sua, fu ben lieta di lasciarlo con una delle sue ex pretendenti. Mise a tacere la punta di gelosia crescente, dicendosi che lui era suo marito e se la sarebbe scrollata di dosso in pochi secondi e approfittò del momento.

Non voleva pensare allo sguardo stupefatto di Ranma, che aveva colto di sfuggita, invece dovette concentrarsi per rallentare. Non aveva fatto colazione e l'aspettava l'ultimo allenamento. Sperava solo di farcela senza vedere di nuovo i puntini neri.

***

"Ho bisogno di tempo, sono ancora troppo ferito. Mi dispiace".

"Tornerai?". Ukyo non aveva potuto fare a meno di chiederlo, con voce tremante e nuove lacrime che si aggiungevano alle prime.

Ryoga l'aveva guardata per un lungo istante, pensieroso, poi aveva fatto un gesto che le aveva riacceso la speranza nel petto come una fiamma bruciante: le sue mani le si erano posate sulle guance, asciugandole le lacrime, carezzandola leggermente. Era rimasta immobile, godendosi quel tocco tanto desiderato e sperando che non finisse mai. La sua risposta, invece, fu come un pugnale: "Non lo so".

Ukyo riviveva quel momento da ore e, anche adesso che il sole era alto, la notte sembrava non avere mai fine. Sentiva l'oscurità avvolgerla come un manto e desiderava solo dormire. Dormire finché lui non fosse tornato. E se Ryoga avesse deciso di non farlo, tanto valeva dormire per sempre.

Guardò il suo locale, non riconoscendolo, cercando la presenza di colui che l'aveva riempito con le sue risate, i suoi scherzi e i suoi baci rubati vicino alla piastra degli okonomiyaki e capì che stava sprofondando in un baratro di depressione e disillusione che poteva esserle fatale.

Così, fece la prima cosa che le venne in mente. Alzò il telefono e cercò aiuto da un vecchio amico, qualcuno che non l'avrebbe mai abbandonata.

Non avrebbe sopportato di rimanere ancora da sola.

***

Akane si limitò a mostrare i kata ai piccoli, che già li conoscevano bene, senza proseguire negli esercizi. Il dottor Tofu le aveva proibito di fare attività fisica intensa, consentendole brevi passeggiate all'aria aperta ma raccomandandole di riposare quando ne avesse sentito il bisogno.

In quel momento, Akane avrebbe voluto stendersi e riposare, magari dopo aver mandato giù una ciotola di riso fumante.

Non solo aveva saltato di nuovo la colazione, ma si era persino messa a correre e ora stava tenendo una lezione di arti marziali. Cercò di tranquillizzarsi dicendosi che presto avrebbe riposato, anche prima di quanto avesse voluto, in realtà.

Devo parlare con papà. Ma ancora devo dirlo a Ranma, e lui dovrebbe saperlo per primo.

Lo immaginò tra le braccia di Kodachi, dove lei stessa lo aveva lasciato, e la testa cominciò a girarle.

Forse avrei dovuto dirglielo, ieri sera. Ma ero troppo sconvolta. Non ero pronta.

"Sensei?". La voce allarmata di uno dei suoi piccoli allievi la riscosse e lei gli disse di continuare con il kata, sentendo la sua stessa voce provenire da molto lontano.

Non avrei dovuto mettermi a correre così. Sono stata una stupida, sto rischiando...

Stavolta, le voci allarmate erano più di una e Akane si rese conto, confusamente, che stava perdendo i sensi.

No, non adesso...

Fu il suo ultimo pensiero coerente prima dell'oscurità.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Rivelazione ***


CAP. 19: RIVELAZIONE


Ranma capì che era successo qualcosa quando vide Soun, Genma e il maestro Happosai farsi largo nel gruppo di bambini che formavano un capannello intorno a qualcosa. Anzi, a qualcuno. Precisamente ad Akane, ne fu certo prima ancora di vederla, pallida e svenuta.

"Saotome-san, la sensei...", cominciò uno dei piccoli allievi, ma lui lo scostò leggermente e prese sua moglie tra le braccia.

"Akane, Akane mi senti?". La scosse gentilmente, dandole dei leggeri schiaffetti sulla guancia e maledicendo il tempismo inopportuno di Kodachi.

Come aveva predetto sua moglie, la Rosa Nera si era presentata con i suoi odiosi petali al seguito, dandogli un patetico addio lacrimevole di cui ricordava, forse, metà dei concetti sconclusionati.

La sua priorità, ora, era far rinvenire Akane, guardarla negli occhi e scoprire cosa diavolo gli nascondesse. Finalmente, si riebbe e sbatté le palpebre: "R-Ranma?", mormorò per poi guardarsi intorno.

"Bambina mia, non morireeeeeeee!", strepitò Soun facendo tappare le orecchie a tutti. Fortunatamente, suo padre lo tirò un po' indietro spiegandogli che sua figlia non stava morendo, ma che bisognava lasciarla respirare. I piccoli furono più obbedienti e si ritirarono in un angolo della palestra.

"Bambini, per oggi penso che possiate andare. Vi avvertiremo noi quando...", cominciò Ranma, ma fu interrotto da un gesto di Akane, che lo pregò di aspettare.

"Devo dirvi una cosa e devono sentirla anche loro. Datemi solo un minuto per riprendermi, va bene?", spiegò mettendosi seduta con le ginocchia al petto.

Ranma si accigliò: "È così grave?", bisbigliò assicurandosi che solo lei lo sentisse.

Lo sapeva, aveva intuito che fosse malata, ma ora che finalmente poteva sapere ebbe paura. E non capiva perché volesse parlarne davanti a quel pubblico così vasto.

Akane lo fissò per un istante, poi distolse lo sguardo. Il cuore gli si fermò quando aggiunse: "Lo so, avrei dovuto dirtelo ieri sera, ma non ho potuto".

"Ebbene, Akanuccia, vuoi farci morire di preoccupazione o cosa?!", s'intromise il vecchio Happosai.

"Bambina miaaaaaaa!", ricominciò Soun tendendole le braccia e preparandosi a soffocarla in un abbraccio dei suoi.

"Amico mio, così la fai stare di nuovo male, lasciale un po' d'aria. Falla parlare, eh?", lo ammonì gentilmente suo padre, placcandolo poco prima che la stritolasse.

Anche lui si guardò attorno e, a parte i bambini che si erano educatamente ritirati poco lontano, erano tutti lì vicino a lei. Qualche secondo dopo, comparve persino Nabiki, seguita dalla sua ormai prominente pancia. Stava sgranocchiando un biscotto e guardò verso di loro, sorpresa: "Che succede? Akane sta male?", chiese con la sua solita aria falsamente noncurante.

Ranma sospirò all'unisono con sua moglie e, nello sguardo che si lanciarono, c'erano le parole: "Non saremo mai veramente soli".

Come eco a questo pensiero, Akane disse: "Mi sarebbe piaciuto dirlo prima a te, quando eravamo da soli. Ma ho mancato la mia occasione e questo è il nostro karma. Perciò ascoltatemi tutti: da oggi in poi non potrò più allenare nessuno per un bel po' di tempo. Aspetto un bambino".

Ranma smise di respirare e, apparentemente, tutto si fermò intorno a loro. Udì distintamente il rumore del morso che Nabiki diede al biscotto e il silenzio che seguì: immaginò che non avesse il coraggio di masticare, perché non sentì altro.

Akane ebbe appena il tempo di sorridergli leggermente, con le gote appena arrossate, in quell'espressione che, quando erano fidanzati, gli faceva pensare spesso a quanto fosse carina. E a quanto poco coraggio avesse per non dirglielo. E che oggi gli faceva ringraziare gli dei di essere riuscito a sposarla. Le orecchie gli ronzarono e non ebbe le forze di fare nulla, mentre due paia di piedi di medie dimensioni e il corpo di un nanerottolo gli saltavano sopra, lo scavalcavano e si precipitavano verso di lei.

Sbatté la faccia a terra e avvertì la rabbia montargli dentro: quel momento doveva essere riservato a loro due soli, come quando le aveva chiesto di sposarlo e avevano trovato pace solo in cima a una scala. Stava per diventare padre... oh, kami, padre! E avevano avuto il coraggio di scavalcarlo, pestarlo e lasciarlo indietro. Avrebbe voluto essere arrabbiato con Akane, per il momento pessimo che aveva scelto, per non averglielo detto la sera prima. Ma la verità era che aveva un nodo in gola e voleva solo abbracciarla, lontano da tutto e da tutti, vivendo quelle emozioni in pace, piangendo con lei, se avesse voluto, senza occhi indiscreti.

Si tirò su, risoluto, e incontrò gli occhi di sua cognata, con una mano sul ventre. Mentre gli sorrideva, incoraggiante, facendogli l'occhiolino e un breve gesto verso Akane, Ranma immaginò a come potesse apparirgli sua moglie nel bel mezzo di una gravidanza. Fu quel pensiero a farlo muovere. La raggiunse, quasi la strappò alle braccia di suo padre e al chiacchiericcio degli altri due e la strinse a sé. Poi corse fuori con lei, saltando sui tetti e allontanandosi per la distanza necessaria a rimanere da soli.

Era certo che Nabiki avrebbe impedito agli altri di raggiungerli, per una volta.

***

Kodachi raggiunse suo padre sulla pista che ospitava il loro jet privato. Sarebbe stato un viaggio molto lungo ma lei, la Rosa Nera, aveva deciso di viaggiare leggera. Non capiva come mai quegli smidollati di suo fratello e di Sasuke continuassero a sbuffare e a lamentarsi come se le sue valigie pesassero chissà quanto.

"Oh, my darling! Finalmente sei arrivata!" Si lasciò cullare nell'abbraccio paterno per poi guardare per l'ultima volta quella città dove aveva vissuto per tanto tempo, e dove il suo cuore aveva cominciato a battere.

Ranma Saotome era un capitolo chiuso, lo capiva perfettamente, anche se accettarlo era stato lungo e doloroso. Nonostante il suo impegno costante e il suo amore incondizionato, Akane Tendo era riuscita a irretirlo e a sposarlo. Molte volte aveva pensato di mandare all'aria quel vincolo assurdo, ma era stata fermata fin dai primi tentativi, poi si era detta che non valeva la pena dannarsi tanto l'anima per un uomo che aveva fatto la sua scelta. Odiava ammetterlo, ma Ranma era stato così chiaro che il suo orgoglio ne era rimasto profondamente ferito e aveva tentato con tutte le forze di odiarlo, pur fallendo miseramente.

Nonostante ciò, il suo amor proprio l'aveva avuta vinta e Kodachi aveva preferito dedicarsi alla ginnastica artistica, grazie alla quale aveva avuto soddisfazioni ben prevedibili, viste le sue eccellenti doti. Sperava che questo avrebbe attirato l'attenzione di quell'uomo che ormai sembrava perduto, invece aveva saputo da suo fratello che si era persino trasferito in un'altra casa con la sua sciatta moglie. Quando aveva incontrato Akane Tendo in mezzo alla strada in preda a uno svenimento, il suo primo pensiero era stato quello di approfittarne per toglierla di mezzo.

Ma Kodachi era diventata un'osservatrice acuta, in quegli anni, e aveva imparato anche a riflettere. Con un rapido ragionamento aveva compreso che mettersi nei guai il giorno prima della partenza per un viaggio che l'avrebbe resa finalmente celebre nel mondo intero non era affatto conveniente. E se anche fosse rimasta a Nerima e avesse avuto Ranma per sé cosa avrebbe ottenuto? L'uomo che amava, certo, ma anche una vita piatta e senza sbocchi. Grazie a suo padre e a quell'aereo, invece, avrebbe raggiunto la fama e sarebbe stata apprezzata ovunque. Pensandoci bene, forse valeva la pena rinunciare a Ranma con una prospettiva simile, senza contare che, a breve, avrebbe avuto ai suoi piedi qualsiasi uomo ricco e famoso desiderasse.

Ma aveva voluto dare l'addio a quell'amore di gioventù, così dolce e così amaro, sperando di portarne sempre un dolce ricordo e che lui portasse con sé per sempre quell'ultimo bacio che aveva voluto imprimergli sulle labbra e nella memoria. Perché Ranma Saotome doveva sapere cosa aveva perso e doveva rimpiangerla.

Guardò suo fratello, che le stava facendo mille raccomandazioni e rifletté sulla possibilità di confessargli che Akane Tendo era incinta, poi pensò che già aveva la sua gatta da pelare con la storia della gravidanza di quell'approfittatrice di Nabiki e tacque. D'altronde, non era difficile capirlo, visto che se ne andava in giro in preda alle nausee e agli svenimenti, tanto che se l'era dovuta accollare fino a casa del dottor Tofu. A ben pensarci non sapeva perché, oltre a non ucciderla, l'avesse aiutata, ma in un certo senso voleva lasciare un bel ricordo di sé al suo adorato Ranma, anche se ora avrebbe avuto ben altro a cui pensare.

Non capiva come una donna potesse desiderare di rovinare il proprio corpo con una gravidanza, sottoponendosi anche a sofferenze indicibili e accollandosi l'onere di occuparsi di un moccioso urlante. Una parte di lei capiva il diniego di Nabiki Tendo e, prima che potesse impedirselo, fece a Tatewaki, che le aveva chiesto per l'ennesima volta se fosse sicura di voler andare così lontano con il loro padre, la domanda che aveva sempre evitato: "E tu, sei sicuro di quello che stai facendo?".

Lui la guardò con un sorriso sornione: "Se permetti, questa è la mia vita. Ad ognuno la sua".

Kodachi proruppe in una risata genuina, domandandosi se spargere i suoi petali neri mentre salutava suo fratello e un lacrimevole quanto patetico Sasuke, ma decise che, gli ultimi petali che fossero caduti sulla città di Tokyo, sarebbero stati quelli che aveva lasciato a casa del suo primo amore.

***

Akane sperò che quella fuga romantica non sarebbe finita con uno dei suoi attacchi di nausea. Ranma era stato molto precipitoso e se in passato volare sui tetti in braccio a lui le aveva regalato ebbrezza ed emozione, ora sperava che non si sarebbe messa a vomitare all'improvviso.

"Ranma, fermati, per favore", lo implorò avvertendo già un sapore amaro in bocca.

Si fermarono nei pressi del parco giochi, deserto a quell'ora del mattino, e lei si svincolò dalle braccia di suo marito per riprendere fiato e capire cosa sarebbe accaduto. Ebbe un paio di conati ma, fortunatamente, il suo stomaco vuoto non si rivoltò. Sussultò quando sentì la sua mano carezzevole sui capelli.

"Perdonami, Akane, però...".

Scosse la testa con vigore, impedendogli di continuare: "Sei tu che devi scusarmi. Avrei dovuto parlarti ieri sera, quando eravamo da soli e non l'ho fatto. E queste sono le conseguenze". Un altro conato la interruppe e lui fu lesto a sostenerla.

Akane tentò di ricomporsi, maledicendo l'esigua quantità di succhi gastrici che aveva deciso di porre fine al pathos del momento. Le sfuggì una risata soffocata: "Non sono un bello spettacolo, vero?".

"Invece sei la cosa più bella che io possa desiderare di vedere in questo momento".

Seppur commossa dalle parole di Ranma, Akane si voltò sorpresa, non prima di aver recuperato un fazzoletto dalla tasca per pulirsi la bocca e riacquistare un minimo di decenza: "Cosa c'è di bello in una donna che vomita?", domandò intuendo già la risposta, ma volendola ascoltare da lui.

"Il motivo per cui questo accade", fu la disarmante risposta di suo marito.

Quando aveva saputo dal dottor Tofu che i risultati dell'analisi del sangue erano positivi e indicavano una gravidanza, Akane si era sentita spiazzata. Si vergognava anche solo a pensarlo, ma l'aveva sfiorata il pensiero che fosse in trappola. Quella sensazione le aveva stretto una morsa intorno a stomaco e cuore, ma poi aveva riconosciuto, chiaro e semplice, il senso di colpa e aveva capito: nonostante non fosse il suo pensiero principale, la sua natura di donna aveva temuto che ci fosse in lei qualcosa che non andasse e sperava di fugare presto ogni dubbio.

Ma non era solo questo. Per tanto tempo la sua famiglia l'aveva pressata, trattandola come un forno difettoso che non si decideva a sfornare un dolce e la sua prima reazione era stata quella di rifiutare l'idea di una gravidanza per il semplice gusto di non darla vinta a loro. Suonava complicato, macchinoso e forse persino perverso, ma tali erano stati i danni che aveva subito con quelle pressioni continue.

Ci aveva messo un giorno intero a capire e a metabolizzare tutto questo, riuscendo finalmente a sentirsi felice di essere sul punto di diventare madre e persino ad apprezzare le nausee che la tormentavano. Ora doveva solo spiegarlo a Ranma.

Ranma, che la guardava con gli occhi lucidi. Ranma, che le sorrideva come se non si aspettasse spiegazioni.

"Io... non ero pronta a una notizia così importante. Mio padre e Happosai... non hanno fatto altro che starci alle calcagna per mesi e io... avevo bisogno di tempo per...". Avrebbe voluto che le parole formassero delle frasi di senso compiuto, che esprimessero appieno i sentimenti meravigliosi che provava, ma forse non ce n'era neanche bisogno.

Ranma le asciugò una lacrima e lei ne asciugò una a lui. Ricordava di averlo visto piangere solo quando era morta sua madre, e fu lieta che almeno ora avesse un motivo felice per farlo. Cominciarono a ridere e nello stesso tempo piangevano, il che era assurdo come un arcobaleno durante la pioggia, ma Akane sentì anche che era profondamente giusto.

Si baciarono, si abbracciarono e, per una volta, nonostante non fossero molto lontani da casa, nessuno li disturbò.

***

Ukyo tirò su la saracinesca del locale e lo guardò per qualche istante, come se cercasse di riconoscerlo. Aveva deciso che sarebbe andata avanti, nonostante tutto, e che si sarebbe dedicata anima e corpo proprio a quello che l'aveva tenuta lontana da casa per tanto tempo e le aveva fatto perdere Ryoga.

Forse, un giorno, lui sarebbe tornato e lei lo avrebbe scorto da lontano, con il suo zaino e la solita bandana gialla e nera. Oppure non sarebbe mai accaduto. In ogni caso, Ukyo non avrebbe mollato, anche se ci fossero stati dei giorni in cui avrebbe preferito strapparsi il cuore dal petto e morire.

"Va tutto bene, signorina Ukyo?", disse una vocina alle sue spalle.

Si voltò verso uno dei suoi amici più cari, certa che sarebbe stato bello lavorare di nuovo con lui. Ma stavolta non l'avrebbe sfruttato, né umiliato in alcun modo: "Chiamami Ukyo e smettila con tutte queste formalità. Entro domani perfezioneremo la tua collaborazione con un contratto vero e proprio e avrai le tue ferie e i tuoi giorni di riposo, va bene?".

"Ma, signorina Ukyo, io non ho bisogno...".

"Non ho sentito", disse sorridendogli e mettendosi una mano a coppa dietro l'orecchio, in attesa della risposta giusta.

Lui, impeccabile e persino ordinato nei suoi vestiti femminili, sorrise a sua volta: "Sì, Ukyo. Grazie".

"Bene, ora mettiamoci al lavoro!", concluse, battendo le mani e andando dietro al suo bancone.

***

Nabiki si sentiva immersa in una bolla da cui poteva osservare ciò che accadeva all'esterno, ma rimanere comunque invisibile agli occhi degli altri.

Ranma e Akane erano tornati e suo padre, Genma e Happosai si erano gettati su di loro come un'unica entità, seguiti timidamente dal gruppo di allievi di Akane che si volevano congratulare con la loro sensei. Udiva le loro parole e i loro auguri, le loro risate e la loro gioia e ricordò quando aveva annunciato la propria gravidanza.

Sguardi freddi, rabbia, litigi. Tatewaki che tornava da lei per chiederle di sposarlo dopo il primo rifiuto. La sensazione di portare un fardello insopportabile.

Nessuno le aveva sorriso, tutti avevano considerato quella gravidanza scomoda e inopportuna, e lei era in cima alla lista.

Ma era normale, Akane era sposata e cercava un erede da tempo. La lontananza dalle pressioni dei tre uomini le aveva fatto bene, evidentemente.

Lei non era sposata. Quando avrebbe voluto farlo, quell'idiota del suo fidanzato l'aveva rifiutata con la scusa dei sentimenti nobili che dovrebbero unire due persone in un vincolo tanto sacro e altre sciocchezze simili. Poi era tornato con il capo cosparso di cenere e lei si era fatta scudo con il suo orgoglio. Quindi la loro unione era passata in secondo piano e tutti i pensieri di Kuno si erano concentrati su quel bambino non ancora nato.

Nabiki Tendo era diventata un involucro, suo malgrado, che avrebbe sfornato un marmocchio da dare in adozione di lì a pochi mesi.

Quella mattina aveva preparato una valigia, in gran segreto, ed era pronta per fuggire lontano con il suo ventre in costante crescita. Giusto per essere sicura di non dover rinunciare all'unica cosa di cui le importasse nella vita. Giusto per premunirsi, in caso Kasumi si sbagliasse.

Ma ora le mancava il coraggio.

Lei, che era stata sempre indipendente e che non aveva bisogno di altro se non di guadagnare soldi. Lei, che rifiutava ogni forma di amore e si era sempre occupata del lato pratico della vita.

Ora aveva bisogno di quell'appoggio familiare che la rassicurasse che tutto sarebbe andato bene.

Rifletté vagamente sulla possibilità di andare a vivere da Kasumi, ma l'appartamento sopra alla clinica non poteva ospitare altre persone e lei sarebbe stata di troppo.

Doveva farsi coraggio e approfittare di quel momento per defilarsi discretamente.

Non aveva fatto i suoi auguri alla sorella, né a suo cognato e non avrebbe salutato suo padre. Pazienza, magari avrebbe scritto assicurandosi di occultare la provenienza delle sue lettere.

Salì in camera sua per l'ultima volta, per recuperare la valigia, sperando di continuare a non essere notata.

***

Ad Akane girava la testa: tutto era così bello e nuovo, che non le importava più di essere al centro dell'attenzione. Suo padre aveva chiamato tutti, persino Kuno Tatewaki, e ora erano tutti a tavola, serviti da Kasumi che si era offerta di cucinare come ai vecchi tempi. I gemellini non facevano altro che farle domande sul cuginetto in arrivo e lei inventava storie su come sarebbe stato e come avrebbe giocato con loro.

"Qualcuno va a chiamare Nabiki in camera sua?", domandò la sorella maggiore portando un grosso vassoio.

Akane si guardò attorno, sgomenta: come aveva fatto a non accorgersi della mancanza di Nabiki? Era stata così presa dal chiacchiericcio e dalle congratulazioni che non se n'era neanche resa conto: "Vado io", disse alzandosi in piedi.

Ranma la costrinse a risedersi: "Tu non vai da nessuna parte. Vado io".

Alzò gli occhi al soffitto: "Ranma, per favore, non cominciare a trattarmi come se fossi malata, va bene? Ho mangiato e riacquistato le forze, non mi gira la testa e non ho la nausea, quindi sono perfettamente in grado di salire una rampa di scale per andare a chiamare mia sorella".

"Però...", tentò lui, ma lo zittì dolcemente.
"Mi riguarderò, stai tranquillo, ma se pensi che passerò nove mesi seduta ti sbagli di grosso, Ranma Saotome, quindi abituati all'idea, va bene?". Aveva usato un tono fermo ma leggero e si compiacque di ricevere un sorriso arrendevole da suo marito.

Guardò la sua famiglia riunita a tavola dalla cima delle scale e, mentre si avvicinava alla porta della stanza di Nabiki, Akane pensò che le cose sarebbero andate sempre bene, da allora in poi.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Lontananza ***


CAP. 20: LONTANANZA


Nabiki si trovava di nuovo sul treno che l'aveva portata fin nella città di Tomioka. Sperava di poter prendere un altro mezzo che la conducesse più lontano dalla prefettura di Gunma, ma le fitte al bassoventre stavano già ricominciando e aveva capito di non poter più aspettare: doveva cercare un ospedale se non voleva perdere suo figlio.

L'unica ragione che l'aveva spinta a fuggire.

Il dolore la trafisse ancora una volta, crebbe d'intensità e divenne una lama rovente che le tolse il respiro. Ora era su una barella, con una signora anziana sconosciuta al fianco, colei che l'aveva soccorsa e chiamato l'ambulanza.

"A occhio e croce siamo al quinto mese. Contrazioni regolari. Dobbiamo procedere con una dose di magnesio per fermarle". Le voci dei medici erano lontane e Nabiki aprì la bocca per pregarli di salvarlo, di non far nascere quel bambino così prematuramente, perché sapeva bene che non sarebbe sopravvissuto.

Sarebbe tornata a Nerima senza fardello e priva di problemi. Che bella prospettiva! Il cuore le si spezzò e Nabiki riemerse dal sogno, che era anche un ricordo, con un urlo strozzato.

Si portò una mano al petto, cercando di orientarsi: dov'era, ancora in ospedale? O nella sua stanza?

"Mia regina! Tutto bene?".

Rilasciò l'ansito che aveva trattenuto e ricordò, improvvisamente, dove si trovasse già da qualche mese.

***

Akane guardava la pioggia da dietro i vetri appannati e si chiese se anche dove si trovava sua sorella stesse piovendo. Ma temeva che non si trovasse così vicina.

Poteva udire le incitazioni di Ranma ai suoi allievi provenire dalla palestra e appoggiò la fronte sul vetro freddo, accarezzandosi il ventre appena pronunciato.

A Nabiki doveva mancare poco, a meno che non avesse già avuto il bambino in anticipo. Le si strinse il cuore a saperla lontana e in procinto di avere un figlio: si chiese se, alla fine, avesse proceduto con l'adozione o meno.

Il senso di colpa la travolse. Non aveva più parlato con Nabiki, non volendosi intromettere nella sua vita, e ora si pentì di non averlo fatto.

"Akane, tesoro, bevi un po' di questo tè, ti farà bene". La voce di suo padre la fece voltare.

"Hai avuto notizie da Kuno?", chiese, ansiosa, prendendo la tazza che l'uomo le porgeva.

Lui, però, scosse la testa: "Sia lui che Sasuke stanno conducendo delle ricerche nelle prefetture più a sud, ma pare che non ci siano notizie neanche lì".

Akane lasciò ricadere le spalle, ricordando il biglietto così scarno che aveva trovato in camera di Nabiki: "Non cercatemi. Starò bene".

"Razza di stupida!", esclamò stringendo la tazza come se potesse riversare in quel tè tutta la sua frustrazione.

"Come, tesoro?". Suo padre era l'immagine stessa della disperazione, con quel viso scavato dalle preoccupazioni. Sembrava invecchiato di dieci anni, da quando Nabiki era sparita. E da quando lei aveva nuovamente messo in chiaro le cose con lui.

"Nulla, papà. Non ho detto nulla". Si rinchiuse nel proprio mutismo, sperando che l'uomo non approfittasse di quel momento per ricominciare con la storia dell'erede della palestra, ma non lo fece. Odiava vederlo così addolorato, ma non avrebbe mai permesso che suo figlio fosse manipolato ancora prima di nascere. Quella catena d'imposizioni era stata spezzata mesi prima, quando aveva scoperto di essere incinta e aveva quasi rifiutato l'idea, timorosa di quello che avrebbe potuto fare la sua famiglia. Poi, Nabiki era fuggita e le loro vite erano state gettate nel caos.

Quando ormai era passato del tempo dalle prime ricerche, suo padre, Genma e Happosai avevano riunito lei e Ranma e le sue speranze che ci fossero notizie relative alla sorella erano svanite già dalla prima frase: "Dobbiamo parlare seriamente di questo nipotino", avevano detto.

"No", era stata la sua risposta immediata.

"No cosa, figliola? Se non abbiamo ancora...".

"No a tutto, signor Genma. Mio figlio, o mia figlia, sarà libero di scegliere il suo futuro. Se vorrà occuparsi della palestra lo farà. Se vorrà fare il pasticcere lo farà. Se vorrà diventare un medico studierà. Questo è quanto".

Suo padre aveva cambiato espressione: era chiaramente arrabbiato, ora: "Akane, non ti permetto...".

"Siamo noi che non vi permettiamo!", era intervenuto Ranma, facendola sentire soddisfatta e appoggiata nella lotta.

"Tu stai zitto, Ranma. Non hai potere decisionale", lo aveva interrotto suo padre, furioso.

"Sì che ce l'ho, è anche mio figlio! Non è una bambola di cui potete disporre a vostro piacimento".

Era seguito un silenzio teso, pesante e Akane aveva visto suo padre alzarsi in piedi lentamente, come se temesse di perdere la poca pazienza rimasta: "Con Kasumi non ho voluto insistere, perché nei suoi geni e in quelli di Tofu non c'è una predisposizione. Ma voi due!". Il pugno aveva sbattuto sul tavolo, per sottolineare quelle parole. "Voi due siete la promessa delle arti marziali indiscriminate e siete una coppia! Rappresentate l'ultima generazione! Questo bambino potrebbe diventare persino più forte di voi!".

L'ardore negli occhi di suo padre, quella mano che aveva sbattuto sul tavolo che ora tremava. Ad Akane era parso pronto a crollare o a esplodere da un momento all'altro. Aveva cercato di essere più dolce ma ferma possibile. "Papà, ascoltami. Per te cosa conta di più? Avere un nipote imbattibile o un nipote felice?".

Lui aveva chiuso le palpebre, incredulo: "Cosa?".

"Non mi pare una domanda difficile". Akane aveva cercato di contenere la rabbia che stava montando, se non altro perché non voleva nuocere a suo figlio.

"Io sono il capofamiglia, la guida di questa casa!", aveva detto l'uomo, alzando le braccia come ad indicare quelle quattro mura. "Se non vi avessi guidato, voi due sareste ancora due ragazzini indecisi che non si decidono a...".

"Ed è su questo che si sbaglia!", era intervenuto nuovamente Ranma. "Io e Akane saremmo finiti insieme comunque. L'unico merito che avete avuto voi in questa storia è stato quello di farci incontrare. Nessuno dei vostri tentativi ci ha mai avvicinati, siamo stati noi a volerlo, anche se in modo un po' controverso".

Akane sorrise: suo marito aveva espresso a parole ogni suo pensiero.

"Ragazzo, ti ho dato un tetto e una delle mie figlie in moglie, porta rispetto e sii riconoscente", aveva ammonito agitando un dito davanti alla faccia di Ranma, che non si scompose minimamente.

"E quindi, ora, vuole mio figlio come ricompensa?", era stata la sua risposta ironica.

Suo padre aveva alzato un braccio per colpirlo, ma Genma lo aveva fermato: "Aspetta, amico mio. Forse stiamo davvero esagerando. Anche io vorrei che questo nipote fosse l'erede della palestra, ma...".

"Vuoi tradirmi anche tu?!", la rabbia si era rivolta ora verso l'amico di sempre, che, incredibilmente, al momento sembrava quello con più sale in zucca.

Akane si alzò in piedi: "Smettila, papà, e ascoltami. Anzi, ascoltaci". Aveva preso per mano suo marito, inducendolo ad alzarsi e a starle al fianco, mentre parlava. "Sono molto felice che tu mi abbia dato la possibilità di incontrare Ranma, davvero, e sono certa che per lui è lo stesso. Ma la vostra anacronistica pretesa di obbligare noi figli a sottostare a matrimoni combinati o a prendere le redini della palestra è assurda e persino immorale. Un figlio è un dono e prendersi cura di lui significa anche e soprattutto rispettare i suoi sentimenti. Quando ho saputo di essere incinta non ho avuto il coraggio di parlarne a Ranma, e sai perché? Non solo perché non me l'aspettavo e non ero preparata, ma specialmente perché sapevo a cosa sarebbe andato incontro. A pretese, a imposizioni, a un futuro già scritto e deciso. A volte mi trovo a invidiare Nabiki che ha avuto il coraggio di fuggire, anche se immagino che lei abbia avuto motivi diversi".

Suo padre aveva avuto un lampo negli occhi e lei capì che, se non fosse stata incinta, forse l'avrebbe persino schiaffeggiata. "Speravo aveste capito che non volevamo più imposizioni quando ci siamo trasferiti nella nuova casa, ma evidentemente mi sbagliavo", aveva continuato. "Quindi, sappiate una cosa, papà, signor Genma e Happosai". Aveva spostato lo sguardo sul vecchio maestro che fumava la sua pipa ad occhi chiusi, come se si fosse estraniato dalla conversazione: Akane sapeva che, in realtà, stava ascoltando molto attentamente. "Nostro figlio deciderà da solo e crescerà libero da ogni catena. Io e Ranma ci assicureremo che abbia tutto ciò che gli serve: cibo, vestiti, libertà e... soprattutto amore".

"...qualcuno che le sia amico?".

Akane sbatté le palpebre, sbalzata fuori da quel ricordo doloroso e importante al contempo: sapeva che suo padre non l'aveva ancora perdonata del tutto, ma dopo qualche settimana di lontananza i rapporti tra loro erano quasi tornati quelli di una volta. "Scusa, papà, non ti ho sentito, ero sovrappensiero, puoi ripetere?".

"Ti chiedevo se ricordi qualcuno che sia stato molto amico di Nabiki".

Lei scosse la testa: "Abbiamo provato a rintracciare tutte le sue compagne di liceo, ricordi? Ma nessuna di loro ne sa niente. Anche se...". Ebbe come il flash di una vecchia conoscenza di sua sorella ma respinse l'idea, scartandola come assurda: con lui c'era stata più una lotta che un'amicizia e, soprattutto, non ne avevano notizie da anni.

"Cosa? Che ti è venuto in mente, figlia mia?!", chiese lui scuotendola per le spalle.

"Niente, papà, niente, un'idea balzana, davvero. Perché non prendi un po' di tè anche tu, adesso? Sembri molto stanco".

L'uomo lasciò ricadere le braccia sui fianchi, sconfitto, e Akane provò pena per lui. Si chiese, per l'ennesima volta, dove diavolo si fosse cacciata sua sorella, che sembrava essere stata inghiottita dalla Terra.

***

"Sei sicura di non avere contrazioni?".

Nabiki ci pensò su un attimo e ricordò il sogno. Forse le aveva sognate o forse erano reali, non poteva saperlo: molti incubi che faceva erano piuttosto vividi, ultimamente.

"Hai preso le vitamine ieri? E ti sei ricordata di mettere l'orologio sul comodino? No, a quanto vedo. Lo sai che se hai le contrazioni di notte devi chiamarmi e contare il tempo tra una e l'altra, e inoltre...".

"Kashao, ti prego, stai zitto un attimo, ho mal di testa a furia di...".

"Mal di testa? Vuoi che ti misuri la pressione? Ho l'apparecchio nell'armadio e...".

"Kashao, per favore, taci un secondo!", sbottò portandosi le mani alle tempie.

Lui tacque per quasi un minuto intero e Nabiki cercò di nascondere il dolore per una vera contrazione. Ogni tanto ne aveva qualcuna sporadica ma, nonostante fosse ormai quasi alla fine della gravidanza, non erano mai regolari. Guai se lui avesse saputo una cosa del genere, si sarebbe precipitato al più vicino ospedale trascinandola e rischiando di farle fare decine di viaggi a vuoto.

Non capiva come un uomo potesse essere persino più ferrato di lei in un tema come quello, anche se era laureato in medicina. Ancora non si era ripresa neanche dal suo incontro in quell'ospedale, mesi prima: quale era stata la sua sorpresa quando si era resa conto che era un tirocinante! Erano rimasti a fissarsi per un minuto buono prima di esclamare all'unisono: "Tu?!".

E così, Nabiki aveva scoperto che Kinnosuke Kashao, che una volta aveva battuto in un'improbabile sfida a suon di yen, a seguito del grande terremoto aveva subito, un po' come tutti, un grande cambiamento. Aveva perso la sua famiglia e si era aggirato tra le rovine per giorni, aiutando le persone che incontrava, dimentico del suo palazzo ormai ridotto in macerie. Come la sua stessa vita. Il racconto di come aveva scoperto il vero valore delle cose semplici l'aveva colpita, perché per lei il terremoto non era stato sufficiente. Per lei c'era voluto il primo calcio di quel figlio indesiderato. Solo allora si era risvegliata dal suo torpore, anche se a lui aveva raccontato ben poco.

Nabiki provava un segreto sentimento d'inferiorità di fronte a quel ragazzo, ormai uomo, che aveva acquistato valore dedicandosi agli altri e decidendo di studiare medicina, investendo anche il suo denaro in opere di bene. Si era aperto a lei parlandole con entusiasmo della sua personale esperienza, ma Nabiki non aveva avuto lo stesso coraggio.

Cosa avrebbe potuto dirgli? Che lei si era fidanzata con un ragazzo ricco pur di fare la bella vita e che da quando era rimasta incinta non aveva fatto altro che cercare modi per liberarsi da quel fardello?

"Perché non mi chiami Kinnosuke", domandò con aria triste.

Nabiki lo fissò: "Perché sai benissimo che ti mentirei".

Kashao l'aveva invitata a vivere con lui, specie ora che si doveva riguardare, e oltre che a riceverla con piacere nella sua nuova casa, sarebbe stato anche un valido supporto. Non voleva soldi. Non voleva riconoscenza. Lo faceva perché le era affezionato e, anche se era una ragazza madre, la rispettava ed era stato felice di rivederla.

Ma, dopo qualche tempo, aveva capito che Kinnosuke non era completamente disinteressato. Kinnosuke si era innamorato di lei.

***

Akane arrivò da sua sorella proprio quando il temporale stava aumentando d'intensità. Quando Kasumi le aprì la porta, si affrettò a farla entrare e a riporre l'ombrello: "Akane, tutto bene? Come mai sei venuta da sola?".

"Ranma è agli allenamenti e ho dovuto faticare non poco per convincere papà a lasciarmi venire qui senza essere accompagnata. Tranquilla, sto bene. Non diventarmi apprensiva anche tu, d'accordo?", disse facendole l'occhiolino.

Lei si tranquillizzò e la fece accomodare nell'appartamento al piano di sopra. "Ono e i bambini stanno imparando anatomia nello studio", ridacchiò, poi aggiunse: "Oggi ancora non si sono visti pazienti, credo sia per colpa del maltempo. Volevi parlare con me, vero?".

Akane annuì. Come al solito, sua sorella aveva capito tutto al volo: "Vorrei parlarti di Nabiki".

Negli occhi di Kasumi passò un lampo di speranza: "Avete sue notizie?", chiese infatti.

"No, purtroppo, ma mi chiedevo... lei si è sempre confidata con te, in passato. Possibile che non ti abbia mai parlato della sua intenzione di scappare?".

Kasumi scosse la testa, poi si sedette e le fece cenno di fare altrettanto. "Non me ne ha mai parlato, no. Ma credo di sapere perché lo abbia fatto. Non ho voluto dirlo a nessuno perché non credo sia determinante ai fini del suo ritrovamento, ma a questo punto penso che lei non voglia affatto che avvenga".

Akane si accigliò, senza capire: "Naturalmente l'ha fatto per un motivo valido, ma tu davvero sai perché?".

"Oh, ne sono quasi sicura. Credo non volesse perdere suo figlio dopo aver firmato i documenti per l'adozione".

***

Ukyo mescolava l'impasto del ciambellone da circa mezzora. Lo faceva senza attenzione, con un gesto meccanico teso a scaricare la tensione.

Era il giorno libero di Konatsu e lei era sola.

La pioggia cadeva incessantemente, scoraggiando gli avventori, così aveva deciso di provare una delle ricette di dolci italiani che le aveva inviato Marco in una delle sue ultime lettere: in lui aveva trovato un amico di penna eccezionale che, pur nel suo giapponese stentato, l'aggiornava sulle ricette che non aveva avuto modo d'imparare in Europa e le dava anche notizie sulla sua vita. Si stava per sposare con una cameriera sua collega e sperava tanto che lei potesse partecipare al suo matrimonio, magari accompagnata dal suo fidanzato, com'è che si chiamava?

"Ryoga", disse alla stanza vuota e all'impasto che non aveva più un singolo grumo già da qualche minuto, "si chiama Ryoga ed è un benemerito idiota. L'idiota più grosso e stupido che io abbia mai incontrato, l'idiota...". Scoppiò a piangere senza preavviso, come un temporale che minaccia di arrivare da ore ma non si scarica mai.

Non era la prima volta che le accadeva, ma di solito succedeva di notte, quando non poteva tenere la mente impegnata in alcun modo e si svegliava dopo un sogno vivido con le guance madide di lacrime.

Si appoggiò al bancone, scossa dai singhiozzi, sperando che non entrasse nessuno proprio in quel momento. Non accadde e Ukyo si rese conto di quanto fosse sola. Konatsu e Marco erano presenze lontane, come appartenenti ad un'altra dimensione. Ranma, Akane e gli altri erano tutti presi dalla sparizione di Nabiki, avvenuta misteriosamente qualche mese prima e il mondo intero sembrava essersi dimenticato di lei.

Se aveva fatto un errore, nella sua relazione, lo stava pagando davvero caro. Fin troppo caro. Non sapeva esattamente quali fossero i sintomi di una depressione, ma li riconobbe nel suo corpo, nella sua mente e non solo per i chili persi durante quei mesi e per la tristezza del suo cuore. Sentiva l'anima lacerata e non c'era nulla, né le persone, né il lavoro che la risollevassero, per quanti sforzi s'imponesse di fare.

Più cercava di tirarsene fuori, più veniva risucchiata dalle sabbie mobili.

Sbatté il pungo sul bancone e fu proprio allora che sentì il suo mondo dondolare e inclinarsi, in un movimento lento, appena percettibile ma costante.

Forse si sarebbe lasciata affondare, prima o poi, perché era così stanca!

Istintivamente, e senza alcun interesse particolare, alzò gli occhi al soffitto, cogliendo il dondolio del lampadario. Magari essere sepolta nel suo locale poteva rappresentare una fine dignitosa, ma dubitava che sarebbe accaduto. Perlomeno non con quella stupida scossetta.

Si asciugò gli occhi distrattamente, maledicendosi perché stava perdendo se stessa perché aveva bisogno di un'altra persona. Non lo avrebbe mai creduto possibile, lei, la fidanzata carina di Ranma che si era travestita da maschio e aveva mosso mari e monti per un ragazzo che la considerava solo un'amica. Lei, la granitica Ukyo Kuonji che si era innamorata di un eterno disperso.

Ora, quella dispersa era proprio lei.

***

"Cos'è stato?", saltò su Akane, poggiando una mano sullo stipite.

"Sembrava una scossa di terremoto", rispose sua sorella accigliandosi, "ma era piccola. La struttura è antisismica, tranquilla. Dopo l'ultima volta...".

Annuì. Dopo l'ultima volta, ogni piccola scossa sembrava enorme, ma la maggior parte degli abitanti di Nerima che era sopravvissuta si era premunita di ricostruire gli edifici crollati a norma, anche con grossi sacrifici.

"Probabilmente Ono e i bambini non l'avranno neanche sentita al piano terra", commentò Kasumi, affacciandosi brevemente dalle scale.

Akane rifletté su quello che aveva scoperto da poco su Nabiki, e si chiese come avesse fatto a non accorgersi del suo cambiamento. Neanche suo padre, il signor Genma o Happosai avevano mai sospettato nulla.

Tanto più che, a parte rari casi, Nabiki rimaneva sempre rinchiusa nella sua stanza e non parlava con nessuno. Le visite che le faceva Kuno sembravano essersi diradate ed erano spesso turbolente, a quanto le avevano riferito. Nessuno voleva più parlare con l'introversa ragazza, che sembrava schiava della sua stessa gravidanza.

"Come potevo sospettare che, in realtà, si stesse innamorando del suo bambino", commentò Akane con un lieve sorriso. "Ma se la tua tesi su Kuno è giusta, perché è scappata?" .

Kasumi la fissò sorridendo a sua volta, ma tristemente: "Perché nessuna di noi due ne era sicura. Io ho cercato di tranquillizzarla, e tante volte mi sono ripromessa di parlarne con il suo ex fidanzato, ma sentivo di non dovermi intromettere nelle loro vite. Se Nabiki voleva davvero tenere il suo bambino doveva farlo personalmente. In molte occasioni ho tentato di convincerla a discuterne con lui, ma sai com'è fatta. Impenetrabile ma anche tanto fragile...". La voce di sua sorella si spense.

Forse si era pentita di non aver fatto di più. Forse sperava che le cose sarebbero cambiate, o forse aveva già perso quella speranza. Di certo, erano tutte impotenti e Nabiki aveva preso le redini della sua vita nel momento in cui aveva deciso di andarsene da casa.

Akane le augurò silenziosamente buona fortuna, a lei e al suo nipotino che, forse, era già nato.

***

"Voglio che controlliate ogni muro e ogni angolo di questa casa, va bene? Mia moglie sta per partorire e ha bisogno di restare tranquilla!".

Nabiki chiuse la porta su quella frase concitata piena di stupidaggini e diede un giro di chiave, con il mal di testa che ora le artigliava senza pietà le tempie e la nuca. Respirò a fondo quando arrivò un'altra contrazione e si chiese se dovesse davvero cominciare a tenere il tempo.

Di sicuro, se il parto era imminente come cianciava il suo sedicente "marito" ai vigili del fuoco, non era stato per colpa di quel leggerissimo movimento tellurico di poco prima. Udì uno degli uomini rassicurare Kashao sul fatto che, se la casa era stata costruita secondo i criteri antisismici, anche una scossa forte non l'avrebbe danneggiata, e al massimo sarebbero potuti cadere degli oggetti.

Su una cosa, però, aveva ragione: voleva rimanere tranquilla. Ciononostante accese la televisione per capire dove fosse situato l'epicentro e scoprì che, secondo gli esperti, era nei pressi di Tokyo, dove però il movimento era stato solo appena percepito dalla popolazione.

Nessun danno, nessun allarme. Bene.

Nabiki spense la televisione, chiedendosi quanto fossero preoccupati a casa sua.

Se n'era andata all'improvviso, lasciando solo un messaggio vago e senza dare più notizie. Ma non voleva rischiare che Kuno la trovasse e le facesse dare via suo figlio, una volta nato. Era arrivata l'ora di parlare seriamente con Kashao, superando le proprie riserve, di fidarsi di lui e di farsi portare lontano, di far sparire le sue tracce.

Se fosse riuscito nell'intento di farle tenere il bambino, forse l'avrebbe anche sposato.

Nabiki prese in mano l'orologio sul comodino quasi distrattamente, riaprì la porta e attese che Kashao entrasse in camera sua per dire qualche altra stupidaggine a proposito della sua salute o della sua sicurezza.

Dovevano parlare molto seriamente.

***

Ranma-chan starnutì mentre Akane le porgeva un asciugamano.

"Va bene, ho portato via l'ombrello, ma possibile che non ce ne fosse un altro in casa?", domandò contrariata a suo marito.

"Non mi andava di cercarlo", borbottò guardando altrove.

Akane sospirò, scuotendo la testa di fronte alla sua testardaggine. Era sempre troppo preoccupato per lei, specie da quando era incinta.

"E poi, sai, abbiamo sentito la scossa e...".

"Ranma, non era una grossa scossa e lo sai bene. Non puoi solo stare più tranquillo? Sono venuta da Kasumi per parlare un po' con lei, papà non te l'ha detto?".

Lui la guardò, i lineamenti femminili erano contratti in un'espressione addolorata: "Ma piove e tu...". Lasciò cadere la frase, forse sapendo che, se avesse continuato con la storia che doveva starsene riguardata, si sarebbe guadagnato una rispostaccia.

"Ranma, te l'ho ripetuto mille volte. Non mi succede nulla se vado in giro mentre piove, purché io abbia un ombrello. E non mi succede nulla se c'è una scossa di terremoto e io mi trovo al sicuro in una casa antisismica. Non mi succederebbe nulla neanche se decidessi di andare a nuotare in piscina o di fare una passeggiata per i negozi del centro prendendo il treno".

Per tutta risposta, lui mise su un'espressione imbronciata che lo fece sembrare una bambina offesa: ad Akane venne in mente che, se avessero avuto una femmina, probabilmente avrebbe potuto somigliare proprio alla versione femminile di Ranma in quel momento.

"Ecco qua l'acqua calda", esordì Kasumi portando la teiera piena e porgendogliela con un sorriso.

I gemellini scelsero proprio quel momento per uscire dallo studio con il loro papà: "Ciao zia! Ciao zio! Oh, che bello, ti stai trasformando!".

Ranma rispose con un grugnito: "Già, è sempre divertente, vero? Per voi, almeno". Adorava i suoi nipotini, ma sopportava a malapena di essere oggetto di tante attenzioni in quelle situazioni imbarazzanti, anche se per i bambini era un gioco. Akane si chiese come avrebbe fatto quando fosse nato il bambino.

"Avete sentito il terremoto?", chiese Daiki saltellando vicino alla mamma.

Akane incontrò lo sguardo del dottor Tofu, che si strinse nelle spalle: "Non era una grande scossa, ma l'abbiamo avvertita anche al piano terra. Nulla di cui preoccuparsi, la casa è solida", aggiunse, certamente a beneficio dell'intera famiglia.

Nonostante le precauzioni prese, i timori si erano riaccesi in ognuno di loro: poteva leggerlo negli occhi di Ranma, di Kasumi e di suo marito.

Per l'ennesima volta, si domandò dove fosse Nabiki e avvertì un'urgenza che somigliava pericolosamente a un cattivo presagio.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Il respiro della morte ***


CAP. 21: IL RESPIRO DELLA MORTE


Il dolore la stava uccidendo.


Quando anche l’epidurale aveva finito il suo effetto, a Nabiki Tendo parve di morire e si ritrovò per un unico, orribile istante a rimpiangere di non aver portato a termine l’aborto nove mesi prima. Scacciò quel pensiero con un brivido e non ebbe neanche il tempo di rammaricarsene troppo perché un’altra, lancinante fitta si irradiò dai reni fino alla schiena. Qualcosa le si torse nel ventre

mio figlio

e parve volesse strapparle via fino all’ultima goccia di sopportazione. Una lama di luce entrò dalla finestra.

È il tramonto…

Una voce disse: “Su, tesoro, ce la puoi fare!”. Chi era? Kasumi? No, forse si trattava semplicemente di un’infermiera. La spirale di dolore la trascinò in uno stato semicosciente e Nabiki faticò a capire dove finisse il sogno e dove cominciasse la realtà.

“Poverina, è in travaglio da tutta la notte…”.

Nabiki spalancò gli occhi, ma aveva la vista annebbiata e non capì chi avesse parlato.

Tutta la notte? Allora non è il tramonto, ma l’alba…

Aveva la netta sensazione di essersi sempre trovata lì, in quella stanza in preda a quel dolore, durante l'intero arco della sua vita. Non aveva altri ricordi. Non aveva altre priorità se non far nascere quel bambino.

E fuggire via con lui.

***

IL GIORNO PRIMA


Quando avvertì la scossa di terremoto, Akane ebbe la presenza di spirito di spegnere il gas sotto la pentola, attendere che Ranma la raggiungesse e uscire cercando di non inciampare. Sentiva la terra muoversi sotto i suoi piedi e si aggrappò a suo marito per non cadere. Lui la sostenne, incitandola sottovoce a sbrigarsi e ad avere coraggio.

Ma, stranamente, si sentiva tranquilla.

Sapeva che non sarebbe accaduto nulla di male e infatti, quando si ritrovarono in giardino e udirono scattare i primi allarmi, la casa era ancora al suo posto. I vicini erano tutti in strada e si guardavano l'un l'altro, attoniti.

Nessuno parlò, finché una signora che ogni mattina faceva footing e passava sotto alle loro finestre interruppe quel silenzio irreale con una risatina stridula: "Credo che sia caduta la lampada ad olio. Devo controllare che non inneschi un incendio", disse trascinando con sé i due figlioletti di circa dieci anni.

Ranma tese i muscoli e Akane capì che era pronto a seguirla, ma lei lo trattenne, indicandogli un punto alla sua sinistra. Nonostante tutto, qualcuno non aveva ricostruito la propria casa secondo i criteri di sicurezza.

Ranma cambiò rotta e si precipitò verso l'uomo anziano che, fortunatamente, non era stato completamente sepolto dai detriti e aveva una ferita che le parve superficiale sulla tempia. "Sto bene, sto bene. Ma la mia casa...".

"Stia tranquillo, l'aiuteremo a ricostruirla", promise lei senza pensare. "Portiamolo dal dottor Tofu", propose poi.

Lui annuì e fece salire l'uomo sulle sue spalle, incamminandosi a passo svelto."Stammi vicina", le intimò.

"Vorrei fermarmi un attimo da papà, per vedere come stanno tutti. Ti raggiungo...".

"No. Se come immagino la palestra è ancora in piedi, tirerai dritto con me. Telefoneremo agli altri appena arrivati da Kasumi, va bene?".

Akane strinse le labbra, ma non ebbe il coraggio di ribadire. Le passò per la mente il pensiero di raggiungerlo accompagnata da suo padre, ma conoscendolo si sarebbe messo a controllare minuziosamente che nella nuova casa e nel nuovo dojo, ricostruiti da Kuno Tatewaki anni prima, non ci fossero crepe.

Per quella volta, in effetti, non se la sentiva di andare per strada da sola con il rischio che potesse caderle qualcosa addosso che non fosse pioggia. Valutò se fermarsi direttamente al dojo in ogni caso, ma non voleva lasciare suo marito da solo, così si predispose a seguire Ranma fino allo studio del dottor Tofu.

***

Nabiki tentò di soffocare l'urlo nel cuscino e controllò l'ora. "Dannazione", sibilò tra i denti. Trenta minuti. Era ora che facesse una doccia e allertasse Kashao, sperando che non si mettesse a fare il pazzo.

Ebbe giusto il tempo di uscire dal bagno, infilare l'accappatoio e piegarsi sotto l'effetto di un'altra contrazione. Poi dovette appoggiarsi al muro e ripararsi dagli oggetti che cominciarono a cadere dall'armadietto dei medicinali.

Era stata veramente fortunata: le contrazioni in sincrono con il terremoto, non poteva davvero chiedere di meglio! Probabilmente il karma la stava punendo per non aver accolto la notizia dell'arrivo di quel figlio con gioia, mesi prima.

Nabiki cercò di mantenere la lucidità e rifletté seriamente sulla possibilità di essersi sbagliata: forse il parto non era così poi imminente.

La scossa durò parecchi secondi e lei si sedette sul letto, cercando di evitare la lampada che era andata in mille pezzi e il comodino rovesciato. La porta si spalancò e, contemporaneamente, sentì qualcosa di viscoso scenderle per le gambe, inondando la coperta.

"Mia regina, tutto bene? Oh, a quanto pare ti sei spaventata parecchio, oppure non ti sei asciugata per bene, con quell'accappatoio così piccolo". Nabiki alzò gli occhi al Cielo, chiedendosi quanto ancora sarebbe stata lunga la sua punizione.

"Razza di stupido, si sono rotte le acque! E le contrazioni...". Odiò doverlo dire, se avesse potuto si sarebbe recata a piedi all'ospedale più vicino, se non altro per non dover sopportare la reazione esagerata di Kashao. Invece, stranamente, lui si mantenne calmo e annunciò che avrebbe fatto una telefonata, inducendola a vestirsi velocemente.

Quando fu di rientro, le contrazioni erano arrivate a una ogni quarto d'ora e il pavimento ricominciò a dondolare. Nabiki inciampò e lui la sostenne: "Forza, vieni con me".

Un rumore assordante si stava avvicinando inesorabile e lei si tappò le orecchie: "Che diavolo è?!", urlò sempre più innervosita dalla piega che stavano prendendo le cose.

"Non ti preoccupare, è tutto sotto controllo. Aspetta!". Per una ragione a lei sconosciuta, cominciarono a salire le scale, invece di scenderle, e Kashao la schiacciò per un attimo contro la ringhiera, stringendola forte per evitarle una caduta rovinosa. Quando, finalmente, la terra si fermò di nuovo, ricominciarono la loro ascesa e il rumore divenne insopportabile. Confusa, dolorante e furiosa, Nabiki lo vide spalancare la porta della terrazza su cui si era appena posato un dannato elicottero.

"Che diamine vuoi fare?! Non penserai che io salga su quel coso!", urlò per farsi sentire nel frastuono infernale.

"Non vorrai che ti trasporti via terra con il terremoto? O che ti porti in uno stupido ospedale di provincia?". Nabiki aprì la bocca per ribattere che l'ospedale di provincia le andava più che bene, ma una nuova contrazione la fece piegare in due.

Alcuni infermieri scesero dal mezzo a l'aiutarono a salire su una barella, caricandola sul mezzo nonostante le proteste.

"Kinnosuke Kashao, questa me la pagherai!", gridò, odiandosi per essersi fidata di lui.

***

Kuno Tatewaki camminava nervosamente per il salone da almeno mezzora. Sasuke stava facendo il giro della casa per controllare che non ci fossero stati danni, ma nel frattempo si erano verificate altre scosse e lui era sempre più nervoso.

La verità era che non sopportava l'idea che quell'incosciente di Nabiki si fosse dileguata con suo figlio in grembo e stesse correndo chissà quali pericoli. Dove si trovava in quel momento? Aveva già partorito? E il bambino dov'era? In un luogo sicuro?

Si passò le mani tra i capelli, frustrato, rendendosi conto che la preoccupazione che lo attanagliava era per il bambino quanto per lei. Che gli dei lo fulminassero in quel preciso istante, non aveva smesso un solo istante di amarla.

Oh, l'aveva anche odiata, certo, e forse ora la odiava anche più di prima, ma non poteva smettere di pensare a lei come all'unica donna della sua vita. Se solo lui si fosse accontentato, oggi avrebbero potuto essere una famiglia. E se solo anche lei lo avesse amato un po', avrebbero persino potuto essere felici.

Ma lei non amava nessuno. Era inspiegabilmente sparita mesi prima e Tatewaki era arrivato a due conclusioni, entrambe terribili a loro modo: o Nabiki aveva deciso di disfarsi del bambino in qualche maniera illegale, visto lo stato avanzato in cui si trovava, oppure si era redenta e voleva tenerlo con sé.

In ogni caso, lui li avrebbe persi per sempre. Entrambi.

Si passò le mani sul viso, per la prima volta in vita sua si sentì molto vicino alla disperazione.

"Padroncino?". La voce del ninja era alterata e comunicava urgenza.

"Cosa c'è, Sasuke? Ci sono crepe nei muri?", chiese senza interesse.

"No, nessuna crepa, ma non è questo che sono venuto a dirle!". Quasi ansimava.

Finalmente gli prestò attenzione e lo guardò, era davvero trafelato: "Quindi? Parla una buona volta!".

"L'abbiamo trovata! Sta per avere il bambino!".

Tatewaki rimase senza fiato.

***

Ryoga Hibiki aveva il peggior mal di testa che gli fosse mai capitato in vita sua. Ma il dolore peggiore era al braccio destro: aveva la netta impressione che fosse passato per un tritacarne e cercò di convincersi che era ancora attaccato al suo corpo.

In realtà, temeva che fosse ormai a brandelli.

Era buio, non capiva neanche in che posizione fosse, se sdraiato o in piedi. Quello che sapeva è che la terra aveva tremato, come era accaduto qualche anno prima, e che quella dannata costruzione in pietra stava per abbattersi su un bambino col suo cane.

Nella sua mente erano passate in un lampo le immagini del precedente terremoto: quel ragazzino morto e tutte quelle vittime innocenti sorprese nelle loro case o per strada. Il suo corpo si stava già muovendo, mentre gli gridava di stare attento e si gettava su di lui spingendolo lontano, sperava abbastanza da evitargli danni.

E quel muro di mattoni si era abbattuto, implacabile, su di lui.

Il suo salvatore.

Era così che succedeva nei film, no? L'eroe si getta sull'innocente, lo salva e poi viene recuperato quasi indenne. Quindi ritrova la sua bella e tutti vivono felici e contenti.

Ma Ryoga non era in un film e ogni volta che provava a urlare sentiva la sua voce gracchiare per via della gola piena di polvere. Riusciva a tossire, quindi significava che non era tanto schiacciato da non potersi muovere, ma l'aria filtrava ben poco e a breve sarebbe stato in debito di ossigeno.

Chiuse gli occhi e ripensò a Ukyo, in quel prato di fronte alla fattoria di Akari, alla fresca aria notturna e alle sue lacrime. Voleva davvero lasciarsi morire là sotto o doveva, magari, cercare di uscire prima di rimanere soffocato? Incrementò la sua aura, mentre sentiva il braccio bruciare come ferro rovente, segno che forse, nonostante tutto, non era solo carne morta.

"Aiuto... aiutatemi". La voce gli arrivò flebile e sofferente e sembrava quella di una persona molto anziana. L'energia che stava accumulando scomparve improvvisamente e Ryoga si mise in ascolto.

"Chi c'è?", riuscì a chiedere prima di avere un altro accesso di tosse.

Non udì la risposta e imprecò tra i denti, poi ripeté la domanda. Deglutì con forza, trattenendosi e rimase in ascolto. Nulla.

Se c'era qualcun'altro sepolto a poca distanza, sferrando un attacco energetico avrebbe rischiato di ucciderlo. Forse avrebbe potuto provare con il Bakusai Tenketsu ma poteva innescare un crollo ugualmente fatale.

Se solo il dolore al braccio fosse diminuito, forse avrebbe potuto pensare lucidamente, ma più passavano i minuti e più diventava insopportabile: se fosse continuato ad aumentare avrebbe perso i sensi di nuovo.

"C'è nessuno?", urlò, stavolta senza tossire.

Gli rispose solo il silenzio e Ryoga capì, con orrore, che la differenza tra la vita e la morte l'avrebbero fatta altre persone.

***

Ad Akane girava la testa a causa della mole di eventi che li aveva travolti: prima il terremoto, poi l'arrivo da Tofu, dove altri feriti non gravi stavano giungendo alla spicciolata; la telefonata a casa, dove per fortuna tutto andava bene; infine, il telefono aveva squillato di nuovo.

Kasumi si era affrettata a rispondere, mentre lei e Ranma cercavano di intrattenere i gemelli, che si erano ritrovati con mamma e papà improvvisamente molto impegnati con le emergenze. Sua sorella era sbiancata, poi aveva gridato: "Nabiki! Papà dice che hanno trovato Nabiki, è all'ospedale di Tokyo e sta per partorire!".

Guardò suo marito e si diedero un'occhiata intorno: nonostante il caos in aumento, Tofu se la stava cavando egregiamente. Kasumi richiamò a sé i figli e le disse: "Andate voi, io non posso muovermi. E, per l'amor del Cielo, tenetemi informata. Va bene?".

E così erano partiti e Akane si ricredette sulla parola "caos". Da quello controllato dello studio di Tofu, erano ora in mezzo alla marea di persone che si riversava nell'ospedale centrale. C'era gente che si tamponava piccole ferite, e che immaginava avrebbe aspettato ore prima di decidere di andarsene e medicarsi per conto proprio. E c'erano medici e infermieri che spingevano barelle correndo.

"Come può una donna partorire qui dentro? Non ci sono medici a sufficienza!", chiese a Ranma, alzando la voce per sovrastare la confusione.

"Io non...", Ranma s'interruppe per bloccare un'infermiera che si stava recando alla reception. Chiese di Nabiki Tendo.

"Lo vede o no quanta gente c'è?! Dovrà aspettare!", ribatté quella, raccogliendo delle cartelle e avviandosi verso una meta sconosciuta.

Akane lo guardò, disperata: "Proviamo a seguire le indicazioni per ginecologia, forse la troveremo da soli".

Ranma annuì e cominciarono ad avviarsi, finché non si scontrarono, quasi, con suo padre e Genma.

"Figlia mia, non riesco a trovare nessuno che mi sappia dire dove è stata portata Nabiki!", si lamentò l'uomo, prendendola per le spalle.

"Lo so, papà, ma è comprensibile. Stiamo andando al reparto di ginecologia, là forse sarà più facile ottenere indicazioni".

Rinunciarono a prendere gli ascensori, troppo affollati per tentare anche solo di mettersi in fila, e Akane rifiutò l'offerta di Ranma di essere portata sulle spalle per due rampe di scale. Finalmente, le indicazioni li portarono dove volevano e lì sembrava esserci meno confusione.

"Le emergenze maggiori sono in Pronto Soccorso, probabilmente oggi non ci sono troppe partorienti, per fortuna", commentò Genma battendo una mano incoraggiante sulla spalla di suo padre.

Stavolta fu Akane ad avvicinarsi ad un'infermiera per farle il nome di sua sorella.

La donna guardò la cartella che teneva in mano, poi alzò il volto verso di lei con un sorriso: "Oh, sì, è nella stanza 257 con suo marito!".

Akane pensò di aver capito male o che l'infermiera avesse sbagliato, ma non ebbe modo di replicare nulla.

"Di quale marito sta parlando?", chiese Kuno Tatewaki, seguito a poca distanza dal suo fedele Sasuke.

***

Ukyo si trovava davanti a un tempio ed era vestita da sacerdotessa.

Teneva in mano un grosso batacchio e stava suonando ritmicamente un gong. Solo che il suono non era quello di un gong ma quello di una specie di trapano a percussione, che gli stava trapassando il cervello.

"Ti prego, smettila!", le urlò tappandosi le orecchie con le mani.

Lei si fermò a metà e lo guardò con un'espressione gelida: "No, smettila tu!". Poi, riprese.

Ryoga rimase allibito: "Smettila di fare cosa? Ho detto, SMETTILA DI FARE COSA?!", gridò con quanto fiato aveva in gola, per sovrastare il rumore.

La donna che amava gettò il batacchio lontano in un gesto di stizza, ma il rumore continuò, imperterrito.

Udì comunque le sue parole: "Di lasciarmi sola. Di morire!".

Ryoga raggelò.

Morire?

"Ma io non sto affatto...". Prima ancora di terminare la frase, ebbe l'impressione di schizzare in alto come il tappo di una bottiglia di gassosa. Gli girò la testa.

Lo scenario era cambiato, Ukyo era sparita e si trovava sopra a delle rovine.

Guardando meglio gli venne in mente qualcosa: lui era già stato lì, forse prima ancora che le rovine deturpassero il paesaggio.

C'erano degli uomini che lavoravano con delle attrezzature molto rumorose e Ryoga, finalmente, capì da dove veniva quel frastuono infernale. Tentò di avvicinarsi, di scendere per vedere meglio e gli bastò pensarlo per essere accontentato.

La realtà lo colpì come un macigno. Anzi, più precisamente come una costruzione in pietra.

Un ragazzino con un cagnolino in braccio stava in piedi, in disparte, pregando gli uomini di sbrigarsi perché là sotto c'erano suo nonno e il tizio che aveva salvato lui e il suo cane.

Finalmente, dal cumulo di macerie estrassero due corpi.

E uno era il suo.

***

"Akane, si sta facendo buio, perché non torni a casa con mio padre? Rimango io con Soun".

Lei scosse la testa: "No, preferisco rimanere. Quell'infermiera è stata tanto gentile da procurarmi questa lettiga per riposare stanotte".

Ranma la guardò, preoccupato: non gli piaceva l'idea che passasse la notte all'addiaccio nelle sue condizioni, ma doveva riconoscere che si trovava anche in un luogo dove le esigenze di una donna incinta erano messe al primo posto. L'ospedale era un posto solido e antisismico e quella lettiga era veramente comoda, nonostante tutto.

Inoltre, era inutile lottare contro sua moglie, perché quando si metteva in testa una cosa era quella e basta.

Sorrise leggermente, poi si alzò: "Bene, vado a cercare qualcosa da mangiare. Tu devi mangiare, e anche tutti noi. Sarà una lunga notte".

Akane ricambiò il sorriso e lui la baciò a fior di labbra prima di scendere al piano di sotto, ripensando alla scena assurda di Kuno Tatewaki che si ritrovava di fronte a Kinnosuke Kashao, mentre Nabiki cacciava entrambi dalla sua stanza e inveiva con frasi colorite verso il suo presunto marito, maledicendolo mentre le doglie l'attanagliavano.

Scosse la testa: quei due erano andati a chiarirsi chissà dove, e sperava che non ne sarebbe scaturita una rissa.

Dalle indicazioni del piano terra scoprì che il bar si trovava poco distante dal Pronto Soccorso e sperò che non avessero finito le provviste, vista la mole di persone che ancora lo affollava.

In realtà, ora sembrava finalmente tutto più calmo e aleggiava una sorta di rassegnazione tra coloro che erano rimasti in attesa: una mamma col suo bambino stretto tra le braccia, un uomo anziano che si tamponava una ferita alla fronte, una donna di mezza età che non faceva che controllare l'orologio a muro e pregare.

Ranma distolse lo sguardo: immaginare le storie di tutte quelle persone dopo le scosse del pomeriggio lo avrebbe fatto impazzire, così si diresse al bar, dove per fortuna trovò abbastanza provviste per tutti.

In seguito, avrebbe riflettuto con ironia e terrore al pensiero che ebbe quando si perse sulla via del ritorno. Pensò che si era smarrito nell'Ospedale Centrale di Tokyo come avrebbe fatto quel porcellino di Ryoga Hibiki.

La barella, spinta a tutta velocità da medici e infermieri, rischiò di travolgerlo e Ranma per poco non fece cadere la busta con la cena.

Lo riconobbe all'istante, per via di quella sua bandana dal colore bizzarro che avrebbe individuato tra mille.

Tentò di chiamarlo, ma gli mancò la voce quando udì uno dei medici gridare: "Presto, è in arresto cardiaco!".

La barella sparì dietro le porte di un reparto e Ranma vide due frecce: una indicava la Rianimazione, l'altra i piani superiori.

Alla fine, aveva ritrovato sia Ryoga che la sua strada.

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Nascite e rinascite ***


CAP. 22: NASCITE E RINASCITE

Ogni tanto fai spavento prendi tutto e non ti fermo

Amor che nulla hai dato al mondo Quando il tuo sguardo arriverà Sarà il dolore di un crescendo Sarà come vedersi dentro

Quando quest’alba esploderà Sarà la fine di ogni stella Sarà come cadere a terra

Amor che nulla hai dato al mondo Quando l’estate arriverà Sarà il dolore di un crescendo Sarà come riaverti dentro

Ogni tanto penso a te Sposti tutti i miei confini

Amor che bello darti al mondo

(“Ogni tanto”
– Gianna Nannini)



Ukyo non capì se, a svegliarla, fosse stata la scossa di assestamento o il rumore ritmico del telefono che squillava.

Guardò l'orologio sul comodino: mezzanotte.

Di solito a quell'ora era ancora sveglia a rassettare la cucina e a riflettere sulla propria vita, ma quella sera era crollata prima del solito e si domandò chi diamine fosse.

Il cuore accelerò i battiti. A quell'ora potevano solo essere cattive notizie, specie dopo la giornata che si era appena conclusa.

Afferrò la cornetta con mano tremante e fu sorpresa di sentire la voce di Ranma.

Seppe che si trattava di Ryoga prima ancora che iniziasse a raccontare. Non Akane, non qualcuno della famiglia.

Ma il suo Ryoga.

"Vengo subito", riuscì ad articolare con una voce che non le sembrava più appartenere.

Si sentì come se fosse una marionetta che compiva delle azioni meccaniche, non dettate da alcuna volontà: sciacquarsi il viso, vestirsi in tutta fretta, uscire dal locale e chiudere bene a chiave. Correre nelle notte.

Chiuse la mente, impedendosi di pensare, di immaginare, di sperare o di temere.

Finché fosse rimasta fredda, pensava la piccola Ukyo, forse non sarebbe successo nulla di brutto.

***

"Datemi qualcosa, vi supplico!", gridò Nabiki all'infermiera.

Quella si accigliò e incrociò le braccia: "Signorina Tendo, finché la dilatazione non avanza è inutile fare l'epidurale. Bisogna attendere che...".

"Un corno! Mi sto spezzando in due e voi non fate nulla per evitarlo!", ruggì. In un angolo del suo cervello si chiese che fine avessero fatto quei due imbecilli di Kashao e Tatewaki.

Appena ne fosse stata in grado, avrebbe impalato il primo per averla portata proprio all'Ospedale Centrale di Tokyo, dove ovviamente l'avevano subito rintracciata, e per di più con un dannato elicottero che l'aveva fatta vomitare tre volte prima dell'arrivo a terra. Poi, avrebbe sotterrato vivo il secondo per essersi presentato lì come se avesse tutti i diritti del mondo e, soprattutto, per averla messa incinta procurandole tutto quel dolore.

Sperava non si uccidessero a vicenda, perché voleva farlo personalmente, con le proprie mani.

"Come sta la mia partoriente preferita?". L'arrivo del ginecologo di turno le fece venire in mente che, dopotutto, forse avrebbe potuto sterminare l'intero genere umano maschile, magari risparmiando giusto qualche familiare.

***

Kuno Tatewaki era frustrato.

Avrebbe voluto combattere, scaricare la rabbia e la tensione accumulate contro quel pivello, invece aveva dovuto rinfoderare il bokken con un gesto di stizza.

Quel tipo strano, chiamato Kinnosuke Kashao, era un medico praticante e gli stava raccontando una storia assurda riguardante una sfida che aveva sostenuto contro Nabiki anni prima, e di cui lui non era a conoscenza.

Ora stava blaterando di redenzione dalla sua vecchia vita, di amore, di matrimonio e di riconoscimento del piccolo. Era sbiancato quando aveva appreso che lui era il padre del bambino, ma si era ripreso subito e aveva mostrato immediatamente le sue intenzioni.

"Tu non adotterai nessuno. Il bambino è già stato dato in adozione, con documenti ufficiali firmati da me e da sua madre".

La faccia pulita e ridicolmente giovanile di Kashao si contrasse in una smorfia: "Che cosa?!".

"Hai sentito bene, bamboccio. Ti sono grato per esserti preso cura di Nabiki fino ad oggi e di averla portata qui sana e salva, ma è ora che tu esca dalla sua vita", disse cercando di rimanere lucido e di non perdere la pazienza.

L'altro inarcò un sopracciglio e Kuno ebbe l'impulso di spaccarglielo con un pugno. Sapeva che avrebbe sanguinato abbondantemente.

"E cosa ti fa pensare che io voglia separarmi da Nabiki, ora che l'ho ritrovata?", domandò con aria candida.

Non ci vide più. In due passi era di fronte a lui, lo afferrò per il colletto e lo tirò a sé, parlandogli a pochi centimetri da quel naso perfetto che si ritrovava: "Nabiki è la mia donna e quello che sta per mettere al mondo è mio figlio. Tu sei di troppo, ti è chiaro ora?".

Stava aggredendo un uomo disarmato, un medico per di più e senza essere attaccato a sua volta. Tatewaki sapeva che non era affatto onorevole, ma aveva il cervello obnubilato dalla gelosia e non era in grado di controllarsi, al momento.

Il ragazzo sorrise, non sembrava per nulla impaurito dalla situazione e a Kuno parve un sorriso triste e rassegnato: "Tu l'ami ancora, vero? E magari ti sei pentito di aver fatto adottare tuo figlio e vuoi sistemare le cose".

Lo lasciò andare di colpo, rendendosi conto all'improvviso che aveva dato per scontato che avrebbero dovuto combattere per lei. Decise di lasciarlo parlare senza violenza, e di riacquisire così la sua dignità di sempre.

Kashao, però, non parlò subito. Si mise le mani nelle tasche e prese ad osservare l'orizzonte. Tatewaki represse un moto di stizza e impazienza e si dispose ad attendere.

"Quando Nabiki è tornata nella mia vita, per puro caso mesi fa, io ero un uomo completamente diverso da quello che aveva conosciuto. Lei no, lei era sempre la stessa, nel bene e nel male. Se la conosci sai di cosa parlo. Non mi ha mai spiegato per bene come fosse stata la sua vita, sapevo solo che era sola ed era incinta, così decisi che sarebbe stata con me e non solo perché sentivo l'obbligo morale come medico. Ma anche perché tenevo a lei molto più che in passato. Lei non mi ha mai dato la minima speranza: mi chiama Kashao, accetta il mio aiuto, ma mi tiene alla larga. Tu non hai nulla da temere. Mi dispiace solo per il vostro bambino: dovrebbe stare con voi, non con una famiglia sconosciuta".

Kuno lasciò cadere il bokken. Improvvisamente si sentì svuotato, debole. Era la prima volta in vita sua che un avversario, invece di fargli ribollire il sangue, entrava così profondamente dentro ai suoi sentimenti, alle sue paure. Kashao gli aveva parlato di Nabiki, ma aveva toccato corde che lui stesso non credeva di avere. Se fosse stato un po' più sensibile, forse, avrebbe persino pianto come una femminuccia. Quell'uomo eccezionale che aveva davanti meritava molto più di lui di stare accanto a Nabiki.

Ma, forse, lei non avrebbe scelto nessuno dei due.

Comunque decise che gli doveva la verità.

La pura, nuda verità.

***

Ukyo vide Ranma nel corridoio e gli si gettò tra le braccia. Non come avrebbe fatto qualche anno prima, con l'intento di sedurlo o di incastrarlo in un appuntamento. Ma con la disperazione di chi sente che la sua vita sta per cambiare.

Si aggrappò al suo amico d'infanzia, facendogli una domanda muta con gli occhi.

"È ancora in rianimazione. Il cuore...", Ranma deglutì, evidentemente a disagio, "il cuore si è fermato almeno tre volte mentre lo portavano qui. Ogni volta lo hanno fatto ripartire, ma è rimasto molto a lungo senza ossigeno. I danni...".

"Come è successo? È stato per via del terremoto, vero? Si riprenderà, vero?!". Faceva domande a raffica, senza senso logico. In realtà voleva solo sapere se sarebbe sopravvissuto e se tutto sarebbe tornato alla normalità.

Ranma la prese per le spalle: "Ascoltami, Ukyo: è rimasto sepolto tra le macerie per parecchio tempo ed era in debito di ossigeno. Per questo il cuore si è fermato. Ma ora stanno cercando di stabilizzarlo e di capire se ci siano danni permanenti e soprattutto... se se la caverà".

Su quell'ultima frase, Ranma distolse lo sguardo e le mani da lei.

Ukyo si sentì cadere, senza più sostegno, sprofondare in un abisso senza fine.

Avrebbe perso Ryoga o, nella migliore delle ipotesi, lui avrebbe avuto danni al cervello.

In un film di terza categoria la protagonista si sarebbe messa a urlare strappandosi i capelli ma lei sentì, stranamente, una calma innaturale pervaderla come una coltre di gelo. Si mosse come un automa e sedette su una panca.

Le pareva di non avere più sentimenti, di essere un guscio vuoto e senza vita.

Ukyo Kuonji si sentiva morta.

***

Nabiki riemerse dall'oscurità e dalla nebbia. Le contrazioni si erano arrestate da circa un'ora e i medici le avevano detto che non c'era nulla da temere, che sarebbero ricominciate quando il bambino fosse stato pronto.

Non vedeva proprio l'ora...

Non sapeva che ore fossero, non capiva se fosse giorno o sera, ma vide una figura confusa all'entrata e riconobbe Kashao.

"Cosa ci fai qui?", esordì.

Lui non rispose ma le si avvicinò: "Come ti senti?", le chiese.

"Come se mi avessero passata dentro a un tritacarne e poi mi avessero riempita di botte. Più o meno lo stesso che farò con te quando uscirò di qui", rispose piccata.

Incredibilmente, lui le sorrise: "Sono certo che le cose si sistemeranno, Nabiki. Portarti qui non è stato un errore così grave: hai ritrovato un grande uomo. Probabilmente quello che ti farà davvero felice".

Non capiva, probabilmente quell'idiota aveva preso tanti colpi in testa da Kuno da essersi rincitrullito del tutto: "Che diavolo vai cianciando?!". Lui fece un gesto che neanche suo padre, tremante e pieno di ansia, era riuscito a fare quella sera: le si avvicinò e le accarezzò una guancia con una tenerezza tale che qualcosa di sconosciuto si aprì, anzi, si riaprì nel suo cuore.

Quella carezza le ricordò sua madre.

Era da quando lei era viva che nessuno lo faceva in quel modo, con quella dolcezza struggente che le annodò la gola per un istante. Volle scacciare quella mano, invece si beò di quel tocco tentando di non darlo a vedere.

"Forse non lo sai, ma cambierai, Nabiki Tendo. Questo bambino, questo miracolo, ti ha già cambiata e presto te ne accorgerai. È solo questione di tempo. Addio, cara". La baciò sulla fronte, lievemente, un altro gesto cui non si seppe ribellare.

Sulla soglia si arrestò per un istante, poi si voltò di nuovo verso di lei come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa: "Voglio solo che tu sappia un'ultima cosa, mia cara".

Quando ebbe parlato, confermando quello che aveva sempre saputo, Kashao uscì silenziosamente dalla stanza e, probabilmente, dalla sua vita.

***

Akane si svegliò nel bel mezzo della notte e la prima cosa che vide furono Genma e suo padre addormentati sulle sedie del corridoio, uno appoggiato all'altro.

Sorrise, poi si alzò in cerca di Ranma, ma probabilmente era ancora due piani sotto con Ukyo: si augurò che fosse un buon segno e che Ryoga se la cavasse. Suo marito le aveva detto frettolosamente che il loro amico era stato ricoverato d'urgenza in seguito alle ferite riportate in un crollo durante una scossa di terremoto. Ma era corso via quasi subito, lasciando la busta con la cena e dicendo che sarebbe andato a telefonare a Ucchan.

Pensò che forse doveva scendere anche lei a vedere cosa stesse accadendo, ma un lamento attirò la sua attenzione. Nabiki aveva ancora le doglie e poche ore prima, quando aveva telefonato a Kasumi per aggiornarla, il parto sembrava ancora lontano.

Il grande orologio a muro segnava le tre del mattino e Akane rabbrividì: per qualche motivo, le ore notturne centrali le incutevano sempre un terrore ancestrale.

Trovò Kuno, con il volto segnato dalla stanchezza, vicino al letto di Nabiki: "Sono venuti a controllarla?", chiese al ragazzo.

"Sì, dieci minuti fa. Ma ancora non è il momento. Si lamenta nel dormiveglia ed è esausta". Anche la sua voce era stanca e Akane trattenne l'impulso di fargli un milione di domande. A partire dall'adozione di quel bambino non ancora nato.

Era come se Kuno e Nabiki avessero eretto, ognuno dalla sua parte, una cortina insormontabile attraverso la quale era impossibile vedere o scorgere il benché minimo indizio.

"Dov'è Kashao?", chiese invece.

"Se n'è andato. Gli ho promesso che gli darò notizie non appena Nabiki avrà partorito". Lo sguardo dell'ex Tuono Blu del Furinkan era fisso su sua sorella e la voce suonava monotona, quasi automatica. Ancora una volta, Akane si trattenne dal fare domande troppo specifiche.

Tranne una.

"L'ami molto, vero?", chiese sorridendo e posandogli una mano sulla spalla.

Finalmente, Tatewaki parve ravvivarsi e la guardò. Ci mise qualche istante per rispondere, come se stesse cercando le parole adatte in quell'ora così avanzata della notte in cui tutto, anche i pensieri, erano più lenti: "Credo di non aver mai smesso, nonostante tutto. Ma forse non servirà a niente".

Avrebbe voluto dirgli che era certa che sarebbe andato tutto bene, che tutto si sarebbe sistemato.

Ma non era certa di niente. E non voleva mentirgli con frasi fatte. "Coraggio", riuscì solo a dire, senza troppa convinzione.

"Vai a riposare, Akane Tendo. Durante i primi mesi bisogna essere prudenti", rispose lui sorprendendola. Annuì e lanciò un'ultima occhiata a Nabiki prima di tornare alla sua comoda e calda lettiga. Genma e suo padre russavano sonoramente. Ranma non era ancora risalito e la preoccupazione le attanagliò il cuore.

Quella notte non sarebbe mai finita.

Ciononostante, si riaddormentò quasi subito.

***

C'era un luce molto forte di fronte a lui.

Ryoga seppe che, se fosse andato verso quella luce, tutto si sarebbe sistemato e non avrebbe più conosciuto alcuna sofferenza.

Ma c'era qualcosa di terribilmente storto, in tutto ciò, perché sapeva anche che alle sue spalle, dove regnava invece la penombra, stava lasciando una parte molto importante della sua vita.

Forse stava lasciando proprio la sua stessa vita.

Qualcuno stava piangendo e lo pregava di fare qualcosa, poi gli faceva delle domande e lui ne fu dapprima urtato. Ora che finalmente stava per trovare un po' di pace, osavano disturbarlo con un interrogatorio?

"Perché non hai usato una delle tue stupide tecniche per tirartene fuori? Perchè?!", chiese la voce a volume più alto.

Ryoga la riconobbe: era Ukyo, la sua Ukyo.

Perché? Perché c'era qualcun altro sepolto vicino a me e avrei rischiato di ucciderlo!

La sua risposta, però, fu un pensiero potente che non aveva suono.

"Perché?!", domandò infatti di nuovo, come se non avesse udito.

Ryoga era tra due fuochi e capì che il desiderio di raggiungere quella luce, così calda e rassicurante, dove non c'erano il dolore al braccio e la difficoltà a respirare, stava diventando bruciante, irresistibile.

S'incamminò, volò, fluttuò, non seppe bene, ma qualcosa o qualcuno lo strattonò indietro, facendolo imprecare.

"Che altro c'è, ancora? Non potete solo lasciarmi in pace?!".

Quando si girò vide di nuovo il suo corpo e la cosa gli parve curiosa e terribile al contempo. Era steso su un letto d'ospedale, attaccato a ogni tipo di tubo, tubicino e macchinario. Il braccio destro era l'unico in cui non erano infilati aghi perché era una massa informe coperta di bende. Sperò che ci fosse ancora qualcosa, sotto a quelle bende, ma rifletté che non era poi così importante.

Dove aveva intenzione di andare, non gli sarebbe più servito.

Se solo avesse potuto proseguire verso la luce...

Una consapevolezza gli trapanò il cervello: poteva scegliere. Qualcuno o qualcosa glielo stavano comunicando, forte e chiaro, o forse era solo la sua immaginazione.

"Ti prego, non lasciarmi. Io ti amo".

Quella frase ebbe due effetti devastanti: gli fece avvertire il battito del proprio cuore, come se non fosse più fatto solo d'aria, e gli provocò un dolore fisico immenso, come se tutte le ossa del proprio corpo si fossero spezzate.

Ci sono appena precipitato dentro. Di nuovo.

Vide il volto madido di lacrime della ragazza e capì di essere ormai troppo lontano dalla luce, e di aver fatto la sua scelta proprio in quell'istante.

***

Nabiki aveva appena realizzato che era giorno e che l'epidurale grazie alla quale aveva portato avanti il travaglio senza quasi dolore si era esaurita e sarebbe stata l'ultima.

"Ascoltami, tesoro, un'ultima spinta. La testa è quasi fuori: uscita quella sarà tutto finito, va bene?". Guardò l'infermiera come se fosse impazzita.

"Quasi fuori?! E fino adesso cosa ho spinto a fare?", esclamò indignata.

"Tuo figlio stava scendendo nel canale del parto, ma ora dobbiamo farlo uscire", le rispose l'ostetrica di fronte alle sue gambe spalancate.

"Allora datemi qualcosa, o non rispondo più di me!", ruggì rimpiangendo che non ci fossero né Kuno né Kashao a cui cavare gli occhi.

Per tutta risposta, la donna sorrise con lo sguardo, e forse anche con la bocca, anche se non la vedeva a causa della mascherina: "Sta per arrivare la contrazione. Spingi più forte che puoi, va bene?", disse con un tono calmo che le ricordò Kasumi.

La contrazione fu come una scarica elettrica milioni di volte più potente delle precedenti e Nabiki fu certa che sarebbe morta. Dissanguata, spezzata in due come un fuscello. Urlò e spinse, non poté farne a meno.

Come fanno le donne a volere dei figli? A farne anche più di uno?

Quando ormai era certa che il limite della sopportazione avesse raggiunto livelli insostenibili accadde qualcosa d'inaspettato: il dolore sparì come per incanto e lei si sentì improvvisamente vuota e sfinita.

Ci furono alcuni, terribili secondi di silenzio, poi udì la voce di suo figlio che faceva il suo primo respiro sulla Terra.

Ansimante, sollevò un poco la testa per guardarlo.

Fategli un bagno prima, stava per dire all'infermiera, non vedete che è sporco? Poi, quando la donna glielo mise tra le braccia, Nabiki Tendo non fece più caso al sangue e alla placenta che ricoprivano il corpicino tremante come una seconda pelle. Provò qualcosa di molto simile al sentimento che le si era presentato quando lo aveva sentito scalciare per la prima volta dentro di sé: era come un mal di pancia, ma

quello che sentivo per mia madre,

piacevole e doppiamente intenso,

prima che lei morisse e io smettessi di amare.

che le sollevava gli angoli della bocca in un sorriso e le faceva riempire gli occhi di lacrime.

Ora capisco perché pensavo sempre a mia madre quando parlavo del bambino: l'amavo esattamente come amavo lei.

Una goccia, due, e il neonato smise di piangere, come incuriosito, e la fissò con gli occhi semichiusi.

Si ritrovò a tentare di capire da chi avesse preso quelle iridi così chiare, poi si ricordò che tutti i bambini, appena nati, hanno gli occhi chiari.

“Bene, quindi tu saresti il maschiaccio che mi distruggeva a suon di calci, vero?”, domandò con voce malferma. Il bimbo emise un gemito, come in risposta e lei provò il desiderio intenso di stringerselo al petto.

Lo fece, nutrendosi di quel contatto come se ne fosse stata affamata per anni.

“Signora...? Lasci che lo laviamo e lo vestiamo e poi potrà...”.

“Silenzio, non vede che sto parlando con mio figlio?”, ingiunse con tono deciso.

MIO figlio.

“Bene, vedi di non diventare violento come tua zia, ma neanche fuori di testa come tuo padre. Prendi esempio da me e andrà tutto bene...”. Sospirò, poi lo porse all'ostetrica che la stava guardando con gli occhi spalancati.

“Beh? Cosa c'è? I bambini vanno educati fin da piccoli. Riportatemelo presto. Vestito e profumato, io credo che mi riposerò un po'... sono distrutta”. Non appena finì la frase, chiuse gli occhi e precipitò nell'oblìo.

Quando li riaprì, Kuno Tatewaki era sulla sedia di fronte al letto, con suo figlio in braccio.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Luci e ombre ***


CAP. 23: LUCI E OMBRE


La luce obliqua che entrava dalle finestre le indicò che era pomeriggio.

Alla faccia di riposarsi un po'.

Tornò a guardare le due figure addormentate di fronte a sé e il suo primo impulso fu di gridare.

Ma come si permette...?!

Si tirò su a fatica, facendo leva sui gomiti, e rimase basita da quanta debolezza la affliggesse; aprì la bocca e fece per urlargli contro: che ci fai qui? Chi ti ha dato il permesso di entrare e di tenere in braccio il bambino? Poi vide le braccia di Kuno allacciate strettamente sul corpicino del neonato, in modo che non cadesse durante il sonno, e si rese conto che anche il piccolo dormiva beatamente. Aggrottò le sopracciglia, tentando di metterli a fuoco meglio e le tornò quella sensazione che dal ventre si irradiava fin su, nel cuore, oltre l'anima, passando per gli occhi.

Stava fissando l'immagine del proprio figlio e di suo padre beatamente addormentati.

I soliti ormoni che mi fanno pensare cose assurde.

La pervase una serenità perfetta, la certezza che fosse giusto così e che quell'immagine le sarebbe rimasta negli occhi fino alla fine dei suoi giorni: non vedeva più in Tatewaki colui che rimaneva nell'attesa spasmodica delle foto di Akane e della ragazza col codino, colui che aveva cercato di violentarla, colui che aveva rifiutato di sposarla,

e poi è tornato chiedendotelo qualcosa come decine di volte

colui che l'aveva trattata duramente quando aveva saputo che avrebbe voluto dare quel figlio in adozione.

Vedeva un giovane uomo, affascinante e già innamorato del figlio, che lo proteggeva anche nel sonno e probabilmente era lì anche per lei.

Appunto, gli ormoni. Giusto?

“Idiota, sembri quasi innocente visto così”, mormorò tentando di alzarsi. Voleva raggiungerlo ma le gambe le parevano fatte di burro e di forza nelle braccia ne aveva pochissima. Voleva togliergli il bambino e smetterla di pensare a lui come ad un potenziale protagonista di quei sentimenti: era già tanto, per lei, provarli per la creatura che aveva appena messo al mondo.

Per cui non capì come mai, nonostante le sue intenzioni, una volta raggiunto a fatica Kuno, si fosse chinata su di lui per baciarlo. La sensazione fu la stessa di quando, da ragazzina, aveva annusato un fiore, i kami la fulminassero se ricordava qual era, prima di porgerlo a sua madre: lo aveva sfiorato con le labbra prima di avvicinarlo al naso e la sensazione era stata di consistenza vellutata e profumo intenso.

Un movimento e un gemito strozzato le indicarono che il ragazzo si era svegliato

Oh dei, ho persino chiuso gli occhi, povera me!

e lei si allontanò tanto velocemente che ricadde di peso sul letto.

Avrei potuto finire per terra... la mia fortuna non ha mai fine...

Si ritrovò a fissare i suoi occhi spalancati e la palese espressione di stupore. Aveva baciato Tatewaki altre volte, in passato, ma l'intensità del contatto di poco prima le stava ancora facendo girare la testa. O forse era solo la debolezza.

“Non farti strane idee, ho partorito da poche ore e ho gli ormoni in subbuglio”, disse prontamente. Lui aprì la bocca per parlare e il bambino scelse quel momento per cominciare a piangere.

“Io... mi hanno detto che quando ti fossi svegliata avresti dovuto allattarlo”, rispose avvicinandosi per porgerglielo. Nabiki si chiese confusamente dove avesse imparato a maneggiarlo con tanta destrezza: neanche per un istante temette che potesse farlo cadere.

Quando lo riprese tra le braccia fu come rinnovare il terremoto interiore che l'aveva colta qualche ora prima: il bambino era morbido e profumato e lei sentiva trasudare senso di protezione da tutti i pori. Lo avvolse stringendoselo al petto e si rese conto di non avere la minima idea di come fare per allattarlo. Fu il bambino a trarla d'impaccio, muovendo la testolina in direzione del suo seno sinistro e lei non dovette far altro che scoprirsi e porgerglielo. Quando succhiò, Nabiki strinse i denti: non era esattamente un procedimento indolore, eppure sapere che quella creatura indifesa stava prendendo da lei il nutrimento le riempì nuovamente il cuore. Per quanto tempo era rimasto arido come il deserto?

Quanti tipi di amore sto scoprendo in un giorno solo!

“Ehm... posso parlarti?”. La voce di Kuno le ricordò che lui era lì e la stava guardando.

“Voltati, non voglio che mi guardi”.

“Perdonami, ma eravate bellissimi; l'immagine di te che allatti nostro figlio mi ricorda uno di quei dipinti della Madonna di...”.

“Ė mio figlio”, rettificò irrigidendosi; il piccolo dovette sentirlo, perché smise di succhiare. Lei lo sollecitò con un dito, avvicinandogli il capezzolo, e lui riprese.

“No, Nabiki. Ė anche mio e ho intenzione di riconoscerlo; sono qui per rinnovarti la mia richiesta di sposarmi. Ho fatto tanti errori nella mia vita ma il più grande è stato quello di essere egoista: anche se non mi ami, e sappi che ora ho dei dubbi su questo, il bambino ha diritto ad una famiglia. Abbiamo il dovere di dargliela”.

Nabiki lo fissò per parecchi istanti, chiedendosi chi fosse lo sconosciuto che le parlava e che diavolo le avesse preso poco prima. Ora lui aveva addirittura dei dubbi sui suoi sentimenti! Come se lei non sapesse benissimo…

Cosa? Cosa so e cosa non so? Cosa sto nascondendo a me stessa?

"Il… latte materno è un nutrimento essenziale, insostituibile per il bambino. Le ricerche hanno confermato che quello artificiale può portare malattie quali il diabete e una serie di allergie, quindi cerca di allattarlo sempre al seno se vuoi che cresca sano e forte", spiegò voltandosi nuovamente.

Ma che...?!

Fu il turno di Nabiki di alzare lo sguardo e incollare gli occhi spalancati sulla sua schiena: prima le parlava del futuro del bambino e del proprio egoismo, poi la erudiva sulle qualità del latte materno illustrandole i pro e i contro.
"E queste perle di saggezza da dove ti vengono?", domandò cominciando a cullare leggermente il bambino.

Kuno si schiarì la voce: "Mi sono documentato. Ho letto libri e seguito trasmissioni sui bambini. Avevo un figlio in arrivo e non volevo essere impreparato".

Nabiki non sapeva più cosa rispondere: Tatewaki l'aveva stupita, in passato, ma vederlo così maturo e responsabile

ne sa praticamente più di me in fatto di neonati

la sconvolse. Pensava freneticamente a una risposta da dare ma non trovò parole adatte: si limitò a fissare intensamente la creatura che suggeva il latte da lei come se potesse darle una risposta.

Che cosa mi hai fatto? Dovevi essere solo un incidente di percorso, e invece...

"Perché non me lo hai detto subito?", domandò all'improvviso.

Tatewaki si girò e la fissò con un'espressione interrogativa, ma qualcosa le suggerì che, invece, aveva capito benissimo la sua domanda.

"Kashao mi ha detto tutto, ma già lo sospettavo. Perché non mi hai detto che la famiglia adottiva del bambino eri tu?".

Lui si mise le mani in tasca e sorrise: "Perché ero sicuro che non avresti voluto. Qualcosa mi diceva che preferivi fosse lontano dalla tua vita, che magari avresti temuto il mio riavvicinamento con lui al seguito. Ma c'è anche un altro motivo, ed è un po' l'esatto opposto di questo".

Nabiki alzò le sopracciglia, non capiva dove volesse andare a parare. Poi, un'idea cominciò a farsi strada e ne ebbe la conferma.

"Volevo punirti, farti soffrire, capire cosa si prova a strapparsi qualcuno dal cuore con la forza". Tatewaki lo disse con rabbia, come se avesse tentato lui stesso di farlo, ma invano.

Lei non rispose, per la prima volta in vita sua non sapeva cosa replicare. La verità era che qualcosa stava già cambiando dentro di lei prima di quel giorno fatidico, e probabilmente lui se n'era anche accorto.

"Non credevo che lo avresti mai amato, ma la tua fuga e l'immagine che ho davanti in questo momento parlano da sole". Le sorrise, un sorriso disarmante e dolce.

Nabiki continuò a non sapere cosa dire, ma avvertì un dolore sordo al seno destro e, istintivamente, vi posizionò il bambino perché succhiasse anche da quel lato. Il sollievo fu quasi immediato.

Sono come una mucca che dev'essere munta.

Il pensiero le strappò un sorriso involontario.

"Come lo chiamerai?", chiese Kuno improvvisamente, spezzando la tensione che si era creata nella stanza.

Quella domanda però la disorientò: aveva letteralmente dimenticato che doveva dare un nome a suo figlio. Se non era una pessima madre lei…

"Sinceramente non ci ho pensato", rispose. Poi, decise di mettere in chiaro le cose: "Sappi che se sono tornata qui la colpa è solo di quell'imbecille di Kashao. Io volevo fuggire col bambino e tenerlo con me". Deglutì, sapendo che si era scoperta, e continuò: "Kasumi aveva avuto il sospetto che tu lo avessi adottato e quando me l'ha detto mi sono chiesta come mai non ci avessi pensato da sola. Da tempo mi stavo rendendo conto di volerlo tenere perché mi stavo affezionando a lui e questa tua punizione... beh, mi ha dato una bella scossa".

Non alzò gli occhi per vedere il suo sorrisetto soddisfatto, ma ne intuì la presenza e si accigliò.

"Sì, avevo subodorato che ti stesse accadendo qualcosa, quel giorno. Qualcosa di molto importante. Ma ero anche infuriato con te e sono stato più duro di quanto avrei voluto. Comunque, se vuoi riconoscerlo dobbiamo trovargli un nome: devono registrarlo al più presto. Inoltre ricorda che, quando gli cambierai il pannolino, devi usare…".

"Non serve che tu me lo spieghi: visto che sei tanto informato lo farai tu".

Che aveva detto?!

Lo vide spalancare gli occhi lentamente e guardarla con uno stupore molto simile a quello di poco prima quando lo aveva

accidenti a me!

baciato. Ancora un po' e gli occhi gli sarebbero rotolati sul letto e caduti direttamente in grembo. "Spero che tu abbia anche preso informazioni su come fargli il bagnetto, perché io non ne so niente. Inoltre, dimmi se hai qualche idea per il nome perché io brancolo nel buio".

"Que… questo v-vuol dire che… che…?!".

Nabiki alzò gli occhi al soffitto. "Non balbettare come uno scemo. Sì, ti sposo, contento? Dobbiamo dare o no un futuro a questo marmocchietto che mi sta distruggendo nonostante non abbia ancora i denti? Fai piano, Haru…". Si interruppe.

Mi sono tradita.

"Haru? Allora ci avevi pensato al nome! Mi piace, significa 'luce del sole'! Comunichiamolo subito alle…".

"È il primo nome che mi è venuto in mente!", mentì. In realtà, ci aveva pensato quando aveva visto proprio il sole filtrare dalle finestre, mentre stava nascendo.

"…infermiere e poi fissiamo una data per il matrimonio. Ora avviso Sasuke e…".

"Piano, Taichi, con calma! Una cosa alla volta per piacere!". Le cose stavano procedendo più velocemente di quello che avrebbe creduto, ma come mai non riusciva a sentirsi irritata? Le sembrava quasi di esserne… felice.

Kuno le si avvicinò e le prese una mano. La guardò negli occhi con un'intensità tale che si ritrovò per un attimo a trattenere il fiato. "Ti giuro, Nabiki Tendo, che darò a te e a mio figlio ogni soffio del mio cuore, ogni attimo della mia vita e ogni respiro…".

"Ho capito, dacci un taglio!". Voleva usare un tono freddo ma, al contrario, stava ridendo.

Mi sto rammollendo.

Inoltre lui era a distanza di bacio e non andava bene.
"Ora, che ne diresti di chiedere se mi portano qualcosa da mettere sotto i denti? Sto morendo di fame…".

Lui s'impettì e dichiarò che le avrebbe portato un pranzo luculliano. Rimase sola con il suo Haru solo pochi istanti perché, subito dopo che Kuno fu uscito, entrò tutto il resto della sua famiglia.

***

Ryoga era frustrato: avrebbe voluto parlare ma riusciva a biascicare solo suoni incomprensibili. Inoltre il braccio destro, o quel che ne rimaneva, stava ricominciando a torturarlo.

Non posso chiedere che leniscano il mio dolore. Non posso parlare con la mia Ukyo che sta piangendo da stanotte sul mio letto. Se devo vivere così, meglio tornare a morire.

Perché ne era sicuro: doveva essere morto. Almeno in un paio di occasioni aveva smesso di sentire il dolore, aveva visto il proprio corpo dall'alto come si raccontava in un'inquietante libro occidentale che gli era capitato tra le mani durante uno dei suoi viaggi. Non ricordava in quale dannata biblioteca lo avesse scovato, se si trovasse ancora in Giappone o fosse persino arrivato in Cina quella volta, ma ne era rimasto sconvolto.

Fa male, brucia come l'Inferno.

"Ghaaaa maaaaaa", gli uscì dalle labbra. Si sentiva come un vecchietto rimbambito e gli venne da piangere.

"Come, tesoro? Hai male da qualche parte?".

Ryoga chiuse gli occhi e si limitò ad annuire.

"Vado a chiamare un medico perché ti dia un antidolorifico. Torno subito!", gli disse Ukyo carezzandogli i capelli ancora lerci di terra.

Quando fu uscita dalla stanza, Ryoga sperò che il cuore si fermasse di nuovo, ma stavolta definitivamente.

Aveva sempre desiderato vivere, anche quando era infuriato con Ukyo: le arti marziali, l'amore, la luce del sole o il semplice colore del cielo erano motivi più che sufficienti sui quali non si era mai soffermato realmente con attenzione, ma che sapeva essere sempre stati presenti, anche nei momenti più bui.

Ora si sentiva solo un relitto inutile, incapace di essere felice e soprattutto di rendere felice una donna. In quelle condizioni non serviva a niente e a nessuno. La sua aura aumentò e si chiese se avrebbe scatenato uno Shishi Hokodan che lo avrebbe ucciso: sperava di sì.

Mentre i medici parlavano con Ukyo, spiegandole che ancora non potevano sapere quanto duraturi sarebbero stati i danni subiti dal suo cervello, pensavano che dormisse. Bisbigliavano e lui aveva tenuto gli occhi chiusi, ascoltando mentre il cuore accelerava a ogni parola. Non sapevano se il braccio sarebbe rimasto al suo posto o se si sarebbe resa necessaria un'amputazione; non sapevano se, qualora non si fossero presentate infezioni e avesse potuto tenerlo, avrebbe funzionato come prima. Non sapevano se avrebbe parlato, camminato, coordinato i movimenti. Era troppo presto per tutto: il coma e la mancata affluenza di ossigeno al cervello potevano averlo trasformato in una specie di brutta copia del vecchio Ryoga.

Le lacrime gli punsero gli angoli degli occhi e avvertì il calore dell'aura aumentare a dismisura. Per fortuna gli era rimasto quello.

Si preparò a lanciare l'ultimo Shishi Hokodan della sua vita ma, proprio in quel momento, entrò un medico seguito dalla sua ex fidanzata.

Aveva fatto decisamente troppo presto.

***

Akane si lasciò cadere sul letto sentendosi improvvisamente sfinita. Nonostante la buona notte di sonno era esausta a causa delle tante emozioni.

Vedere Nabiki col suo bambino l'aveva riempita di gioia, soprattutto quando Kuno stesso aveva annunciato il loro prossimo matrimonio: si augurava di tutto cuore che fossero felici, loro tre, e che sua sorella avrebbe finalmente ritrovato la gioia di vivere attorniata dalle persone che amava.

Incluso quel bambino che, si vedeva lontano un miglio, era già la cosa più importante della sua vita.

Non le avevano lasciato vedere Ryoga, ma gli occhi pieni di lacrime di Ukyo erano stati sufficientemente eloquenti: "Stava per lanciarsi addosso uno Shishi Hokodan, quando sono rientrata. Credo non abbia più voglia di vivere".

Ad Akane si era stretto il cuore e Ranma aveva promesso alla sua amica che sarebbe andato a darle il cambio quella sera stessa, perché riposasse. Dubitava che Ukyo se ne sarebbe tornata a casa così facilmente, ma sperava che almeno avrebbe riposato un po'.

Il suo amico, sempre così dolce e combattivo, ora lottava per parlare e non si sapeva se avrebbe recuperato mai le facoltà linguistiche, quelle intellettive e l'uso del braccio destro, che pareva avessero ricucito per puro miracolo e grazie all'abilità di un chirurgo molto bravo.

"Akane, perché piangi?", le domandò Ranma entrando e scuotendola dai suoi pensieri.

Lei, che non se n'era nemmeno accorta, scosse la testa: "Niente, tutta questa giostra di emozioni... la felicità per Nabiki, la preoccupazione per il povero Ryoga... mi scoppia la testa".

Ranma le si avvicinò e la strinse in un abbraccio: Akane intuì che cercava conforto a sua volta: "Hai ragione, anche a me. Ma cerchiamo di essere obiettivi: Nabiki sta benone e sta riprendendo le fila della sua vita; abbiamo un nipotino stupendo, il nostro bambino in arrivo e la nostra casa è ancora in piedi, a parte qualche oggetto rotto. In quanto a Ryoga...", la voce gli si spezzò per un attimo e lei colse la nota bugiarda nel suo tono, quando aggiunse: "...sono certo che si riprenderà perfettamente, anche prima di quanto immaginiamo. Lui è un testone ed è molto forte, sono sicuro...".

Poi tacque e Akane non seppe se era per trattenere le lacrime o perché non sapeva più cosa inventarsi per convincersi. Rimase con il viso affondato nella sua casacca, cullata dal loro caldo abbraccio.

***

"È permesso?", chiese Ukyo bussando leggermente alla porta.

"Entra, chiunque tu sia!", rispose una voce a metà tra il divertito e l'esasperato.

Quando entrò, Nabiki stava allattando il piccolo Haru ed era sola nella stanza. L'immagine le riempì il cuore, nonostante tutto il dolore che l'affliggeva.

"Mi spiace, non volevo disturbarvi", esordì sorridendo.

"Ma no, figurati, dopo l'ondata emozionale di papà e del resto della famiglia e le elucubrazioni di Tatewaki almeno con te posso parlare con più tranquillità. Siediti", le accennò con il mento alla sedia vicino al letto.

Ukyo guardò il bambino e fu travolta da una tenerezza disarmante: gli occhi le si riempirono di lacrime e soffiò un lieve: "È bellissimo".

"Ehi, ehi, lo so che è il bambino più bello del mondo, ma non dovrebbe far piangere tutti quelli che lo vedono!", scherzò Nabiki.

Ukyo tentò di ricomporsi, asciugandosi gli occhi. Non si era mai sentita così fragile: "Scusami, Nabiki, è che sto attraversando un momento un po' particolare e questo bimbo così innocente e dolce apre davvero il cuore alla speranza".

Il sorriso di Nabiki si aprì, autentico e comprensivo: "Tranquilla, so a malapena cosa sia successo a Ryoga ma si vede che sei distrutta. E se il mio Haru ti dà un po' di conforto puoi tenerlo un po' in braccio, così mi riposo qualche istante, che ne dici?", le propose.

Ukyo aprì la bocca per parlare e riuscì solo a balbettare sillabe incomprensibili: "Ma... ma... io... se...non...".

"Tranquilla, se non l'ho fatto cadere io che non sono la mamma dell'anno puoi farcela di sicuro anche tu!", la incoraggiò lei con una risatina.

Allungò le braccia con prudenza, preparandosi a sostenere il suo peso con cura e si stupì di quanto fosse leggero e morbido. Istintivamente lo avvicinò al petto per contenerlo e scoprì che avrebbe tanto voluto averne uno suo e di Ryoga, un giorno. Inghiottì le lacrime che seguirono a quel pensiero e guardò le guance piene, l'espressione beata, la piccola goccia di latte all'angolo della boccuccia carnosa: "È... è... accidenti, oggi biascico come Ryoga". Scosse la testa, maledicendosi per quel paragone e cercando ancora una volta di frenare le lacrime.

Lo cullò leggermente, assorbendone la tenerezza infinita, poi lo ridiede alla madre: "Sarà meglio che non veda la mia faccia distrutta, ma quella rilassata e felice della sua mamma", disse obbligandosi a sorridere.

Nabiki riportò il piccolo al seno e la fissò con un'espressione seria: "È così grave, Ukyo? Non temere, puoi dirmi quello che ti senti. Io sto bene, il bambino anche e forse la mia vita si sta davvero aggiustando. Quindi sfogati pure, se ne hai bisogno: l'hai già fatto qualche mese fa e mi hai anche ascoltata, ricordi? Potremmo quasi diventare amiche", concluse con una nota divertita nella voce.

Ukyo capì che stava cercando di metterla a proprio agio e, soprattutto, che era cambiata tantissimo grazie a quel figlio meraviglioso che stringeva tra le braccia. Così, le raccontò tutto, asciugandosi gli occhi di tanto in tanto e cercando di non piangere troppo.

Nabiki sospirò: "L'unico consiglio che posso darti è di continuare a fargli sentire che gli sei vicina, che tieni a lui e che deve vivere per questo. Ma potrebbe non bastare".

La cuoca alzò gli occhi per guardarla: "Non capisco, il mio amore non gli basta?".

La media delle Tendo si mordicchiò il labbro, come in cerca delle parole adeguate: "Non voglio dire che lui non tenga a te, altrimenti non sarebbe vivo, tutt'altro. Ma in questo momento si rende ben conto dei suoi limiti nel parlare, nel muoversi. Ti ricordi quando, per insultare Ranma, gli davano del mezzo uomo? Beh, maledizione di Jusenkyo a parte credo che sia l'insulto peggiore che si possa fare ad un uomo e Ryoga adesso si sente esattamente così. Il fatto che tu gli sia vicino ma che lui non abbia niente da offrire a te, né a se stesso, lo sta corrodendo dentro e ha bisogno di ritrovarsi. Nel suo caso, si tratta di recuperare l'uso corretto della parola e del braccio. Tu puoi aiutarlo, certo, ma il suo orgoglio potrebbe risultarne ferito. Deve fare questo percorso da solo, con l'aiuto di medici, fisioterapisti, insomma...".

Ukyo si alzò di scatto e fece rumore con la sedia. Il bambino, che era quasi addormentato, emise un vagito di protesta e lei si scusò: "Perdonami, ma mi hai appena fatto venire in mente una cosa. È stato davvero illuminante parlare con te: ora so cosa devo fare, almeno spero".

Nabiki le sorrise, cullando il bambino che parve non aver risentito troppo di quell'interruzione: "Bene, felice di esserti stata d'aiuto. Allora fai quello che ti detta il cuore e non esitare. Io ci ho messo un po' a farlo e ho rischiato di perdere tutto. Tu devi farlo in tempo, sia per te che per lui".

La cuoca di okonomiyaki, spinta da un impulso di gratitudine, tenerezza e ammirazione per quella nuova Nabiki, fece una cosa che non avrebbe creduto possibile nemmeno in un milione di anni: si chinò su di lei e le posò un leggero bacio sulla fronte. Abbassò gli occhi verso il neonato e gli disse: "Bacerei anche te, ma so che i bambini piccoli possono baciarli solo la mamma e il papà". Gli tirò un bacio con la mano e sorrise a una evidentemente perplessa Nabiki.

"Grazie, tornerò a trovarvi a casa tra un po' di tempo, quando vi sarete un po' ambientati". Fece un cenno di saluto e si richiuse piano la porta alle spalle.

Ora doveva fare una telefonata molto importante e poi parlare con i medici.

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Ritrovarsi ***


CAP. 24: RITROVARSI


Ukyo sbuffò per l'ennesima volta mentre si detergeva il sudore dalla fronte. Quella scarpinata sotto al sole cocente di agosto si stava rivelando sfiancante e si chiese, ancora una volta, perché non avessero semplicemente fatto una telefonata alla fattoria di Akari.

Semplice, mia cara, volevano che venissi qua tu.

La cuoca apprezzava davvero le buone intenzioni dei suoi amici, ma rischiava di stramazzare al suolo colta da insolazione, nonostante l'ampio cappello di paglia e la borraccia, ormai quasi vuota, di cui si era dotata. In quel momento voleva trovarsi ovunque tranne che in quella campagna assolata.

Bugiarda.

Aveva giurato a se stessa che avrebbe atteso notizie da Akari pazientemente, senza mai forzare le cose e, soprattutto, senza mai presentarsi a casa sua. Ma ora l'avevano obbligata quasi con la forza a recarsi lì e secondo Ukyo era davvero una pessima idea.

Forse perché non hai il coraggio di rivederlo...

Non sapeva cosa fosse accaduto tra quei due, durante quei lunghi mesi, e forse non voleva neanche scoprirlo. Avrebbe retto al dolore ancora meno che al sole forte e la consapevolezza l'avrebbe bruciata, annientata.

Il cuore accelerò fino a emulare il ritmo pressante di un tamburo quando, finalmente, vide la fattoria in lontananza con delle figure che si muovevano.

Avvertì l'aura potente e distruttiva del Bakusai Tenketsu e fu colta dal terrore. Poi sentì un'esplosione e vide frammenti di roccia volare ovunque.

Fu allora che cominciò a correre, con un misto di paura e di speranza.

***

"Forza, Ryoga, ancora una volta!", lo incitò Katashi come se stesse facendo il tifo.

Lui lo guardò di sbieco, domandandosi di nuovo perché continuasse a dare corda a quel tizio che gli sembrava sempre un po' fuori di testa.

Forse perché è quello che ha rimesso in piedi Akari e ha tirato fuori la maggior parte del vecchio Ryoga?

Vide la sua vecchia amica sorridere, appoggiata a un bastone, con i pugni chiusi e gli occhi brillanti, in un muto incitamento.

"Voi due non me la raccontate giusta. Quel bacio che ho visto ieri, al fienile...".

"Smettila di pensare al fienile e fai come ti dice Kata-kun!", ribatté lei, con il viso improvvisamente color del fuoco. Anche la faccia del ragazzo s'incendiò e ora sembrava davvero urtato.

Ryoga fece un sorrisetto malizioso: "Kata-kun, eh?", insinuò prima di alzare il braccio destro, tremante e poggiare il dito indice sulla roccia.

Inutile cercare di evitarlo, prima o poi devo provarci.

Ripensò alla vecchia Obaba, che gli aveva insegnato il Bakusai Tenketsu qualcosa come secoli prima; ripensò a Ukyo, che piangeva sul suo letto di ospedale quando ancora non riusciva a parlare; e ripensò a quando lo aveva condotto, impotente e mezzo storpio, da Akari e Katashi perché riacquistasse le sue facoltà.

Non era riuscito a protestare, se non emettendo lamenti privi di senso e per giorni si era rifiutato di seguire le indicazioni del ragazzo. Akari lo aveva redarguito, severa e implacabile, ricordandogli quanto lui l'avesse aiutata nel suo recupero e dichiarando che ora toccava a lei sostenerlo perché tornasse quello di una volta. Lo doveva a se stesso e alla sua Ukyo. Ma doveva ascoltare Katashi, fare quello che gli diceva e avere fiducia nelle sue stesse forze.

Ryoga ci aveva messo giorni per uscire dalla sua depressione e l'unica cosa che riusciva a creare erano spaventose ondate di Shishi Hokodan, che prontamente cercava di frenare per non nuocere a chi gli stava attorno. Se solo fosse potuto rimanere da solo e annientarsi!

Poi, inaspettatamente, le parole avevano ricominciato a fluire dalle sue labbra e un giorno aveva udito una conversazione telefonica di Katashi Buta: stava parlando con i medici di Tokyo e riferiva i suoi progressi, dicendosi fiducioso. Un paio di volte aveva portato con sé degli infermieri per le medicazioni al braccio e Ryoga era rimasto stupito dal lavoro fatto dal chirurgo: cicatrici a parte, sembrava quasi come nuovo.

Muoverlo e usarlo, però, era tutta un'altra storia e, una volta riacquisita la parola, Ryoga aveva cominciato a maledire il suo inutile braccio destro. Una sera, Akari lo aveva schiaffeggiato senza preavviso: "Non sento altro che lamenti da parte tua! Non è da te! Ti sei salvato da un crollo che ti ha quasi ucciso, hai salvato anche altre due persone, sei circondato da chi ti ama e ti sta cercando di aiutare! Finalmente puoi parlare e camminare come prima, a differenza mia che ancora mi appoggio a questo dannato bastone e ancora hai di che protestare! Vuoi davvero lasciarti morire? Bene, esci di qui e suicidati pure con il tuo Shishi Hokodan, forza! Stavolta non ti fermerò. Anche io sono crollata, tanti anni fa, ma ero un po' più in svantaggio di te, se ben ricordi. Avanti, fuori di qui, vai a ucciderti, Ryoga Hibiki!". Lo aveva quasi spinto fuori, finché lui non l'aveva abbracciata e si era messo a piangere come un poppante, singhiozzando e tirando fuori tutta l'amarezza che lo stava avvelenando. Aveva sentito la ragazza rilassarsi e accarezzarlo piano, accogliendo la sua sofferenza e qualcosa era finalmente cambiato in lui, anche se non del tutto.

Finalmente, dal suo dito s'irradiò il Bakusai Tenketsu. Dal suo dito destro e lui si sentì così orgoglioso che avrebbe voluto abbracciare sia Akari che Katashi, ma i due sorridevano e guardavano qualcosa alle sue spalle. Ryoga si girò e vide Ukyo, con l'espressione stupita e le lacrime agli occhi.

Senza pensarci due volte, le corse incontro e abbracciò lei.

***

Shampoo stava sistemando i festoni quando udì la voce del piccolo Akio balbettare il nome di Misaki. Si voltò e vide Wei Qi accorrere, come a proteggere la sorella acquisita. Daiki raggiunse il fratello e qualche istante dopo comparvero Tofu e Kasumi.

L'ex amazzone li guardò e sorrise loro: sarebbero stati i primi con cui avrebbe parlato e, soprattutto il dottor Tofu, si meritava la verità dopo averli aiutati così tanto.

"Shampoo, che bello rivederti!", le si fece incontro Kasumi, abbracciandola brevemente: "Come state? E Mousse?".

"Stiamo benone e Mousse non ha quasi più bisogno delle lenti a contatto. Devo ringraziare con tutto il cuore tuo marito per averci mandato dal dottor Ning".

"Ne sono felice, Shampoo", esordì il medico. "E questo giovanotto? Non ce lo presenti?", chiese accarezzando il capo del bambino.

"Lascia stare mia sorella!", stava dicendo a un perplesso Akio nella sua lingua madre.

"Va tutto bene, Wei Qi, Akio è amico di Misaki", lo ammonì lei in cinese. "Scusate, sto cercando di insegnargli il giapponese ma quando è impaurito o arrabbiato se lo dimentica".

Kasumi sorrise e accarezzò a sua volta il piccolo. Nessuno dei due le chiese nulla, nessuno fece riferimento al fatto che lei era tornata con due bambini invece che con la sola Misaki. Anche se avessero capito la frase di Wei che chiamava Misaki 'mia sorella', era certa che non avrebbero fatto commenti. Forse lo avrebbe fatto Ranma, ma non i discreti coniugi Tofu.

"Chi è lui?", chiese invece Akio, evidentemente urtato e ingelosito.

"Tesoro, perché non cercate di fare amicizia?", mediò Kasumi, diplomatica.

"Sì, Akio: siete tutti quasi coetanei, cercate di giocare insieme", intervenne il dottor Tofu.

Shampoo si avvicinò e si abbassò vicino ai bambini. Mise una mano sul capo del bimbo e disse: "Lui è Wei Qi e viene dal villaggio in cui siamo stati con Misaki. Adesso è nostro figlio, il fratellino della tua innamorata", aggiunse facendo l'occhiolino ad Akio, che arrossì.

"Fratellino? E come sarebbe a dire che viene dal villaggio? Non viene dalla tua pancia come Misaki?", s'intromise un curioso Daiki.

"Daiki!", lo redarguì Kasumi, "non fare domande così indiscrete, non è carino".

Shampoo rise di cuore: "Ma no, lui è curioso e diventerà uno studioso come il papà, vero?", domandò direttamente al ragazzino. "Almeno ho l'occasione per parlarne finalmente con qualcuno".

Si tirò in piedi e fece cenno a Kasumi e Tofu di seguirla qualche passo più lontano dai tre bambini, che facevano amicizia a modo loro: "Dottor Tofu, non so come ringraziarla per averci fatto conoscere il dottor Ning. Grazie a lui ora Mousse vede quasi perfettamente e sta pescando le decorazioni in uno sgabuzzino scarsamente illuminato. E io posso finalmente parlare di quello che mi è accaduto con serenità, accettandolo".

"Shampoo, non devi...".

Lei scosse la testa, sorridendo: "Devo, posso. Voglio. Fa parte del modo in cui sto imparando a venire a patti con la realtà. Quella realtà che mi ha quasi fatto perdere la ragione e la mia meravigliosa famiglia. Abbiamo adottato Wei Qi perché era orfano, seppur amato da tutti gli abitanti di quel villaggio e noi volevamo un altro bambino. Ma non avremmo mai potuto averlo, perché io ormai sono sterile. Quando è nata Misaki ho avuto un'emorragia e le complicazioni hanno reso necessaria un'isterectomia".

L'ansito di Kasumi e le sue mani sulla bocca le indicarono che l'aveva sconvolta, ma poi la donna si ricompose e le parve che cercasse le parole adatte da dire, mentre Tofu manteneva un'espressione grave: "Sei stata molto forte, Shampoo. Come una vera amazzone. E hai due bambini stupendi".

Lei avvertì nel petto una gratitudine enorme, per quelle parole sincere: "Grazie per non avermi detto che ti dispiace o altre stupidaggini simili. Ormai posso sopportare tutto, anche le frasi fatte, ma apprezzo molto più che mi si facciano notare le cose belle che ho, piuttosto che quelle che ho perso. Il dottor Ning mi ha insegnato questa grande lezione, ma ho dovuto impararla io per prima".

"Il suo talento è davvero sconfinato, e sono veramente felice che abbia supportato entrambi come mi aspettavo", disse Tofu.

"Adesso sono pronta a dirlo a tutti quelli che mi chiederanno di Wei Qi e senza uscire fuori di testa. Voglio parlarne con le persone che mi sono accanto, perché più ne parlo e più mi sarà facile accettare questa realtà. I figli sono quelli che si crescono, non necessariamente quelli che si procreano".

Kasumi aveva le lacrime agli occhi e l'abbracciò discretamente: "Hai ragione, Shampoo, e i tuoi bambini sono fortunati ad averti".

Commossa, l'amazzone strinse brevemente la maggiore delle Tendo prima di esclamare: "Bene, ora abbiamo da preparare la festa per una nascita, o sbaglio?".

Akane e gli altri sarebbero arrivati a momenti.

***

"È allacciata bene?", chiese Akane girando la testa per guardare la fascia che Ranma le stava sistemando sulla schiena.

"Così bene che sarà difficile liberarti, più tardi", rispose lui ridacchiando.

Lei alzò gli occhi al soffitto alla battuta del marito, e si affrettò a offrire il seno ad Asuka che stava muovendo la testolina in modo inequivocabile.

"Il profumo del domani", le sussurrò Akane, riferendosi al significato del nome che avevano scelto. Inspirò i suoi radi capelli e sentì odore di latte.

"Le prossime dovranno avere nomi altrettanto belli", mormorò Ranma accostandosi per guardarla mentre allattava.

"Le prossime?!", trasalì lei.

"Certo. Sono sicuro che, come tuo padre, io avrò solo bellissime figlie femmine", dichiarò impettito.

Akane scoppiò a ridere: "E se nascesse un maschio?".

"Sarà bello come il papà", rispose senza scomporsi.

"Ma quanto siamo modesti! Intanto per ora abbiamo da recuperare parecchie ore di sonno con questa piccola peste e da festeggiare come si deve il suo arrivo. Prendi la borsa con il cambio, per favore?".

"Agli ordini!".

Akane guardò suo marito caricare sulla spalla il borsone color glicine e si concesse una panoramica di quella casa che presto sarebbe stata troppo piccola per loro tre: un minuscolo nido felice che a breve li avrebbe visti traslocare in una più grande, a poca distanza. Le dispiaceva lasciarla, ma se volevano allargare la famiglia mentre una bambina cominciava a gattonare avrebbero dovuto adeguarsi.

Camminarono lentamente, fianco a fianco, mentre Asuka sonnecchiava e poppava attaccata al suo corpo: Akane si godette quel contatto, pensando che presto sarebbe diventata più pesante e avrebbe dovuto passare alla culla.

Quando passarono davanti al dojo vide uscire Soun, Genma e Happosai seguiti da Kuno e Nabiki, che spingeva una carrozzina affiancata da Sasuke, carico come un mulo. Akane pensò che dovevano esserci pannolini, vestiti e giocattoli per un reggimento intero di bambini nelle scatole e nelle borse che quasi lo nascondevano alla vista.

"Figliola, ma guarda un po' che coincidenza!".

Furono circondati in pochi secondi e lei lanciò un'occhiataccia al vecchio maestro quando, "per vedere questa meraviglia", non mancò di adocchiare il suo seno nudo.

"Sappi che per me una donna che allatta è sacra e rappresenta un mero interesse spirituale", esordì seriamente, mentre Kuno annuiva come se fosse d'accordo.

"Quindi vuol dire che anche un essere libidinoso come te riesce a guardare il seno di una donna senza pensare a cose spinte?", gli chiese Ranma senza preamboli.

"Ma per chi mi hai preso, razza di maleducato?", blaterò lui inalberandosi.

"Su, su, ora non litigate per questo", tentò di calmarli Genma.

Akane si fece un po' da parte e si mise a parlare con Nabiki. Dallo sguardo assonnato e dalle occhiaie pronunciate capì che non era messa meglio di lei: "Kuno dice che i primi mesi è normale. Beh, forse anche i primi anni".

Lei alzò un sopracciglio: "Mi pare che sia più ferrato di te in fatto di sonno dei bambini".

"Oh, è una specie di biblioteca infantile. Sto imparando più in fretta da lui che dai libri che mi obbliga a leggere ogni sera". Il tono voleva essere polemico, ma ad Akane parve solo una madre felice, seppur stanca. Proprio come lei.

"Beh, sorellina, pare proprio che alla fine abbiamo avuto tutto quello che chiedevamo, non credi?", le domandò.

"E anche se non l'abbiamo chiesto è arrivato per migliorarci", concluse lei guardando Haru che dormiva nella culla.

Camminarono qualche passo indietro rispetto agli uomini, che parlavano tra loro animatamente di arti marziali, bambini e vecchi pervertiti.

"Più le cose cambiano, più rimangono le stesse", commentò Nabiki spingendo piano la carrozzina e sistemando la cappottina per riparare il piccolo dal sole.

"Hai proprio ragione", ribatté Akane calzando delicatamente una cuffietta rosa sulla testolina di Asuka.

***

Shampoo si stava divertendo davvero. Nabiki e Akane, con la sua piccola festeggiata, erano arrivate da poco e mancava solo l'ultima coppia, che tutti attendevano con ansia.

I rinfreschi erano su un tavolo in bella mostra e i tavoli decorati di rosa. I bambini più grandicelli giocavano in un piccolo angolo attrezzato con giocattoli e palloncini e i neonati sembravano talvolta guardarsi attorno stupiti.

Eppure l'avvertiva, nel profondo del suo petto. Il dottor Ning l'aveva avvisata, e le aveva detto che sarebbe stato del tutto normale.

Il dolore e il desiderio irrealizzato sarebbero rimasti dentro di lei per tutta la vita, emergendo in alcuni momenti e restando silenti in altri. Ma non l'avrebbero ferita troppo se si fosse concentrata su ciò che aveva.

Mousse, Misaki. I suoi amici.

"Ehi, Shampoo, devi aver avuto una gravidanza lampo laggiù, in Cina! Questo giovanotto è persino più grande di Misakli!". La frase di Ranma ebbe l'effetto di congelare sul posto ogni singolo partecipante alla festa, bambini compresi.

Mousse, Tofu e Kasumi si volsero simultaneamente a guardarla e per un attimo restò in silenzio. Poi, dalle viscere più profonde del suo essere scaturì qualcosa che mai si sarebbe aspettata: una risata.

Cominciò prima piano, poi notò le occhiate perplesse dei suoi amici e quella piena di rimprovero di Akane verso suo marito e le risa cominciarono a farle lacrimare gli occhi. Forse pensavano che fosse impazzita, ma la realtà era che quello che aveva appena detto Ranma le risultava davvero comico e che lei era di nuovo pronta a raccontare la sua storia.

Ecco il suo miracolo: le persone amate e la frase sconclusionata di un vecchio amore avevano trasformato il dolore in ilarità.

Quando finì di spiegare gli eventi, tra facce sconvolte e piene di comprensione, la porta si aprì di nuovo e comparvero Akari, incredibilmente in piedi e sorretta da un bastone, Ryoga e Ukyo teneramente abbracciati.

"Bene, questi sì che sono dei miracoli!", commentò battendo le mani. "Ora siamo davvero pronti a festeggiare!", concluse invitandoli ad entrare con un grosso sorriso.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** I figli del domani ***


RINGRAZIAMENTI

Cercherò di essere breve, so che i ringraziamenti sono la parte meno letta ma sento di doverli fare di tutto cuore, perché senza determinate persone questa storia non avrebbe mai visto la luce. O sarebbe rimasta incompleta a vita. O avrebbe avuto degli errori. Parlo innanzitutto di Tiger Eyes che non solo è una beta eccezionale, spietata (in senso buon eh!) e puntuale, ma vera e propria fonte d'ispirazione per me: da lei ho imparato molto più di quanto lei stessa si attribuisca e sarà sempre la mia sensei. Parlo di tutti coloro che mi hanno seguita e hanno impiegato anche tempo a commentarmi: la dolcissima Laila e l'onnipresente Fenris, e anche il meno presente ma non meno gradito Mimmuzzu. Chi con paragrafi interi e chi con poche parole, mi hanno dato la spinta a terminare questo lavoro per cui mi sembrava di aver perso interesse. Ringrazio quelli che hanno lasciato commenti solo ad alcuni capitoli, sottolineando comunque aspetti interessanti. Ringrazio anche tutti quei lettori silenti che mi hanno seguita senza commentare e anche coloro i quali, fuori dai denti, mi hanno confessato di non amare i sequel: avete tutta la mia comprensione, leggere 3 storie per capirci qualcosa della trama è un impegno vero e proprio. Non ci sarà un sequel, non più. Se, e sottolineo SE (come diceva Mina) ci sarà mai una storia correlata avrò cura di lasciarla sganciata da questo polpettone lunghissimo che è la trilogia "Le ombre del destino", in modo da renderla alla portata di tutti. Non sono stata affatto breve, lo sapevo... sorry. Buona lettura di finale!



CAP. 25: I FIGLI DEL DOMANI


11 ANNI DOPO

Ukyo si stiracchiò beatamente, lanciando un'occhiata alla sveglia. Aveva ancora un po' di tempo per guardare suo marito addormentato e fare nuovamente la stima della sua vita, come ogni mattina. Si passò una mano tremante sul ventre e inspirò per calmare il battito accelerato del suo cuore.

Va tutto bene.

Cercò di concentrarsi sull'ironia degli eventi che, ad ogni compleanno di un bambino, li portavano inevitabilmente a riunirsi, mentre durante il resto dell'anno si vedevano a malapena.

Eppure c'era stato un periodo delle loro vite in cui si vedevano praticamente ogni giorno, combattendo, lottando per Ranma, sfidandosi. Era stato un periodo spensierato, felice anche se sconclusionato e ora sembrava lontanissimo nel tempo.

Siamo cresciuti. Tutti.

Ora, 15 anni dopo, a praticare le arti marziali in modo continuativo erano rimasti solo Ryoga, Ranma e Kuno. Le donne erano diventate mamme ed erano rimaste a occuparsi di altre faccende persino più impegnative che dare lezioni o allenarsi.

Shampoo si occupava a pieno regime del suo ristorante, ma l'aveva vista spesso dare qualche lezione a Misaki, che aveva i geni dell'amazzone e voleva apprendere tutte le tecniche della madre. Il fratellastro, Wei Qi, invece, pareva più attratto dalla medicina alternativa e Ukyo aveva pensato spesso che dipendesse dalle sue origini tormentate.

Anche Akane si allenava spesso con Asuka, ma con l'arrivo delle altre figlie si era fermata per un lungo periodo di tempo. Ultimamente, le aveva raccontato che Ranma stesso si era incaricato di insegnare delle tecniche alla ragazzina e persino le piccole Ayaka e Kana, che avevano appena 8 e 5 anni, seguivano con molto interesse.

E lei, Ukyo Kuonji Hibiki? Se tutto fosse andato bene anche lei avrebbe allenato un figlio o una figlia, oppure gli avrebbe insegnato i segreti della cucina giapponese e di quella italiana. A occhio e croce, avrebbe avuto 5 anni.

Ma non era andata così.

Qualcosa era andato brutalmente storto qualche anno prima e la sua gravidanza tanto desiderata si era interrotta dopo poco più di 4 mesi, 125 giorni per l'esattezza. Ricordava ancora il dolore: mentale, fisico, psicologico. Si sentiva spezzata in due e non avrebbe mai capito il motivo.

La sua dottoressa aveva parlato di "casi più frequenti di quanto immaginasse", anche sotto i 30 anni, ma a lei sembrava orribile. Che fossero frequenti o no, la natura non avrebbe dovuto permetterli perché il dolore di una madre rimane sempre lo stesso, ogni singola volta.

Non aveva voluto sentir parlare di bambini per molto tempo e, quando finalmente si era sbloccata, le era parso di averlo fatto più che altro per Ryoga. Ryoga, che le aveva chiesto di sposarla dopo anni di convivenza quando aveva saputo che era incinta. Ryoga, che le aveva gridato di non dire sciocchezze, quando lei aveva sostenuto che rimanere sposati non aveva più senso, perché ormai non sarebbe più stata madre. Ci si sposa per amore, non solo per i figli, e ne avremo altri, vero? Quelle parole avevano riecheggiato nella sua testa, ricordandole quanto si amassero e quanto avessero lottato per essere felici.

Ma ora?

"A che pensi?". La voce di Ryoga la fece trasalire e si sentì all'improvviso come se le stesse guardando dentro. La fissava, invece, con un sorriso dolce che la fece sentire quasi in colpa: come aveva potuto pensare, anche solo una volta, che l'avesse sposata solo per avere figli?

"A nulla", rispose scuotendo la testa e restituendogli il sorriso.

Lui le toccò il naso con l'indice, in un malizioso rimprovero: "Bugiarda, stai di nuovo facendo cattivi pensieri, non è vero?".

Ukyo sospirò: le leggeva davvero dentro. D'altronde, amarsi significava anche quello.

"Tesoro, sta andando tutto bene stavolta, non hai motivo di avere paura. Tra l'altro non ti fa bene".

Facile a dirsi.

"Lo so, so che non è come l'altra volta, però... cerca di capirmi, può comunque succedere di nuovo, no?".

Ryoga si accigliò e la guardò ancora più intensamente: "Ascoltami bene, Ucchan. Non accadrà. E se accadesse io sarò qui, a piangere e a risollevarmi con te. Qualunque cosa accada, brutta o bella nelle nostre vite, noi l'affronteremo insieme. Lo abbiamo promesso quando ci siamo sposati".

Lei annuì, e la speranza tornò a invaderla come una luce benefica dopo una notte buia. D'altronde, ne aveva passate molte: il primo terremoto le aveva portato l'amore. Il secondo glielo aveva fatto quasi perdere e poi ritrovare ancora. Ciò che era accaduto dentro di lei 5 anni prima non era stato altro che un terzo sisma, più forte degli altri.

Lo abbracciò di slancio, ricacciando indietro le lacrime: "Voglio dirlo a tutti", mormorò.

Lui la allontanò per guardarla: "Davvero? Lo farai?".

"Sì, stavolta non aspetterò che le cose vadano male. Anche perché non andranno male. Parlerò con Shampoo, che ha avuto una sorte ben peggiore della mia. Mi metterò a chiacchierare con Akane e civetterò con Kasumi che ha avuto 3 figli e mi saprà dare tutti i consigli. Mi comporterò da futura mamma".

Ryoga l'abbracciò con calore, carezzandole la schiena e baciandola. E, per la prima volta in tanti anni, pensò davvero che sarebbe andato tutto bene.

***

"Ricordami ancora una volta perché ci troviamo in questa situazione!", blaterò Misaki stritolandogli il torace mentre lui pedalava più veloce della luce.

"Perché mia madre ha dimenticato il regalo per Asuka e tu, come baby sitter saltuaria di mia sorella, sai dove si trovano i suoi vestitini di ricambio", ansimò pensando che gli sarebbe esploso il cuore. O un polmone. O entrambi.

"Perché i bambini fanno disastri quando si rischia di fare tardi?", si lamentò lei facendogli alzare gli occhi al cielo.

"Perché Eri non è una bambina, ma un disastro su due piedi!", ridacchiò Daiki ripensando alla sorellina treenne che si rotolava nel fango con il suo abitino rosa.

Misaki, misericordiosamente, tacque per qualche minuto. Poi gli sibilò in un orecchio: "Qualcuno ci sta seguendo".

"Lo so. Sta usando l'Umisen-ken di zio Ranma ma non troppo bene, per mascherare la sua presenza". Frenò di colpo, giacché erano arrivati e Misaki venne proiettata in avanti. Daiki sorrise ammirato quando la vide atterrare senza problemi dopo un salto mortale in aria. La gonna le si sollevò e lui rise di gusto alla sua espressione furiosa.

"Screanzato, pervertito!", gridò arrossendo.

"Beh, almeno ho offerto uno spettacolo degno di nota a mio fratello", ribatté guardando un punto in cima al muretto. "Puoi uscire fuori, ora, Akio".

"No, grazie, non mi piace vedervi flirtare", sbottò rivelandosi e saltando giù agilmente.

"Non mi riferivo a quello spettacolo. Anche perché non stiamo affatto flirtando, vero Misaki?". Lei però si stava sistemando il vestito e si era già avviata verso la porta d'ingresso.

"Vedi di recuperare il regalo, io cerco i vestitini di Eri".

Quando fu sparita dietro la porta, udì Akio avvicinarsi ma non ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi. Poteva avvertire la sua sofferenza vibrare nell'aria come una scarica elettrica: "Se continui a rifiutarla le farai solo del male".

"Io non la amo, e tu lo sai".

"Ma lei ti adora e io non sopporto di vederla soffrire per te", insisté Akio.

"Kami del Cielo, fratello, tutti adorano lei invece. È la ragazza più carina di Nerima, persino Wei Qui che è il suo fratellastro arrossisce quando le passa davanti. Ma amare è un'altra cosa e tu lo sai bene".

Il ragazzo si tolse gli occhiali per pulirli, in un gesto che gli ricordava sempre suo padre. Non era giusto che le cose andassero così, non lo era per nulla. Sua madre aveva raccontato loro di come, tanti anni prima, la loro zia Akane fosse stata un po' come Misaki: non era tanto la sua bellezza, più delicata di quella quasi provocante della ragazza, ma il suo carisma a renderla tanto desiderabile. Tanto che, finché non si era fidanzata con lo zio Ranma, ogni mattina orde di ragazzini la sfidavano per poter uscire con lei. Avevano riso di gusto ai racconti dei genitori e degli zii sulle storie di come i fratelli Kuno e Shampoo si contendessero l'amore di Akane e Ranma e di come persino Ryoga avesse un'ammirazione sfrenata nei confronti di sua zia.

La loro mamma aveva avuto un solo corteggiatore, ma anche la sua storia con il loro papà era stata a suo modo tormentata, seppur con meno colpi di scena. Certo, ricordava ancora con terrore la brutta faccenda del rapimento di quando erano piccoli, ma già da allora era ben chiaro quanto i caratteri suo e di Akio fossero diversi.

Praticamente identici fisicamente, amavano le arti marziali in modo differente. Lui cercava di apprendere le tecniche più distruttive di zio Ranma e di Ryoga, suo fratello preferiva le tecniche di meditazione del loro papà e, sporadicamente, quelle meno aggressive dello zio.

"Potresti innamorarti di lei, un giorno", riprese Akio guardando a terra e giocando con un sasso.

"Insomma, smettila di essere così arrendevole! Va bene, Misaki ha un debole per me invece che per te, che l'ami come un disperato, ma se fosse lei un giorno a innamorarsi di te? Perché non puoi lottare per lei?!".

"Perché siamo come il giorno e la notte! Lei somiglia molto di più a te!", sbottò Akio alzando la voce.

"Ma potrebbe essere un vantaggio, vi completereste a vicenda!", buttò lì, sapendo che entrambi potevano avere ragione.

"Al cuor non si comanda", concluse lui tristemente.

Daiki non ci vide più, si lanciò verso il fratello e lo prese per le spalle: "Insomma, reagisci! Non puoi comportarti così, o rischi di perderla prima ancora di averla conquistata. Ti ricordi cosa ci ha raccontato papà? Per la sua indecisione e timidezza stava per perdere la mamma!".

Akio teneva lo sguardo basso. "Io non...".

"Ah-ehm, scusate?". La voce di Misaki li interruppe e vide il fratello arrossire violentemente. "Daiki, il regalo?".

"Ci vado io", si offrì Akio marciando, sempre a testa bassa, dentro casa e facendo sfumare così la possibilità di rimanere qualche minuto solo con lei.

Daiki scosse la testa, contrariato. Ormai suo fratello si era arreso ma non avrebbe lasciato le cose così. Un giorno avrebbe parlato chiaro con Misaki, anche se questo avrebbe significato spegnere la luce che le si accendeva negli occhi ogni volta che lo guardava. Avrebbe dato non sapeva cosa perché quella luce fosse rivolta al suo fratellino.

***

Akane appese il festone e si allontanò di qualche passo per controllare l'opera. Chiuse gli occhi e ricordò il momento in cui, circa 15 anni prima, Ranma le aveva chiesto di sposarla in cima a una scala mentre preparavano la festa di compleanno dei suoi nipotini.

Si voltò a guardare il dojo deserto e per un attimo le sembrò di essere tornata indietro nel tempo, quando loro erano solo due fidanzati incoscienti e inconsapevoli dell'amore. Ora avevano tre figlie splendide, come aveva predetto un giorno Ranma stesso e suo padre, Genma e il vecchio Happosai facevano a gara per fare i nonni e i maestri di vita, a seconda delle occasioni.

Improvvisamente, i tre entrarono chiacchierando tra loro dei dolcetti e di chi dovesse mangiarli per primi e lei rivide la scena di una serata di Natale di quando aveva 16 anni. Come in un incredibile dejà-vu, osservò l'entrata di Ryoga e Ukyo, mano nella mano e le parve di avere una visione di loro, molto più giovani, che si contendevano Ranma, uno per combattere e l'altra per sedurlo.

Entrò Nabiki e la vide giovane e sfacciata mostrare a Kuno le foto della ragazza col codino chiedendo soldi in cambio. Poi sbatté le palpebre e sua sorella indicava al figlio Haru qualcosa alle spalle di Kuno, scoppiando a ridere.

Fu la volta di Kasumi, materna come sempre a fianco dei suoi ragazzi che avevano quasi la stessa età di lei e Ranma quando si erano conosciuti e con la piccola Eri che le trotterellava intorno, nel suo abitino appena cambiato. Rivide Kasumi con il grembiule e un vassoio di tè mentre tutti erano riuniti a tavola, un giorno in cui Ranma l'aveva fatta infuriare e ogni singolo componente della famiglia si concentrava sul loro litigio. Lei, la maggiore, a cui nessuno chiedeva mai nulla se non il pranzo o la cena. Kasumi, la donnina di casa su cui nessuno poneva mai veramente l'attenzione ma che aveva sempre una buona parola per tutti.

Ed ecco Shampoo, coi capelli corti ma la faccia ancora sbarazzina, seguita da quella figlia così bella che accecava come la luce del sole, un marito che aveva cominciato ad amare solo dopo anni di disprezzo e un secondo figlio adottato che sembrava volersi trovare ovunque tranne lì, in mezzo a tutta quella gente. Le pareva ancora di scorgere il piglio deciso e arrogante della piccola amazzone viziata che si strusciava su Ranma come una gatta, anche quando non era trasformata, correndogli dietro per tutta Nerima con la sua bici per le consegne. Eppure i suoi lineamenti erano più distesi, più sereni. Si vedeva lontano un miglio che era felice, nonostante tutto ciò che le era accaduto.

Trattenne un ansito quando si fece avanti una Kodachi che aveva poco a che vedere con la giovane ginnasta in body che cercava di avvelenare tutti. Ora era una donna perfettamente truccata, con i capelli raccolti e l'espressione severa di chi non ha mai trovato l'amore. Provò quasi pena per lei, quando scoccò un'occhiata altezzosa a suo marito, che era appena entrato con Asuka, Ayaka e Kana.

"Alla fine è riuscita a legarti definitivamente a sé con la prole, a quanto vedo", disse acidamente guadagnandosi le occhiate indignate di Ranma e di suo fratello Kuno.

"Chi è questa?!", sbottò Asuka e Akane adorò sua figlia per l'espressione oltraggiata di Kodachi.

Si avvicinò a grandi passi e Ranma le mise una mano attorno alle spalle, tirando a sé anche le loro figlie: "Si chiama Kodachi ed è vostra zia. Questa, Kodachi, è la mia famiglia e Akane è mia moglie. Il nostro legame lo abbiamo deciso noi, senza che nessuno ci obbligasse".

Su quella frase, mentre Kodachi come ogni rara volta in cui tornava dai suoi viaggi cominciava a decantare i suoi grandi risultati come stella della ginnastica in giro per il mondo, lei e Ranma si scoccarono un'occhiata. Quasi simultaneamente, si girarono a guardare i rispettivi padri e scoppiarono a ridere di cuore.

"Perché ridete?", domandò Kana.

Akane si asciugò le lacrime che a forza di ridere le sprizzavano dagli occhi e rispose: "Oh, nulla, tesoro, un giorno te lo racconteremo!".

***

"Ehm... è permesso?". Nabiki si voltò alla voce nota e inarcò le sopracciglia per lo stupore.

"Akari Unryu e Katashi Buta!", esclamò, poi lanciò un'occhiata significativa al ventre prominente della ragazza e si ricordò di quando, qualche mese prima, Ryoga e Ukyo avevano dato la notizia che i coniugi Buta avrebbero presto avuto prole.

"Il termine è fra un mese ma mi sento già a pezzi! Dove posso sedermi?", chiese Akari sorridendo. Se qualcuno l'avesse vista in quel momento, con un pancione di otto mesi e solo leggermente claudicante, non avrebbe mai detto che era stata per anni paralizzata dalla vita in giù.

Nabiki le porse una sedia e si mise a chiacchierare per un po' con Katashi: "Se non fosse stato per Ryoga non l'avrei mai conosciuta", dichiarò lui con occhi sognanti.

"Beh, se non fosse stato per te non avrebbe mai camminato", ribatté Nabiki.

"Ryoga ha cominciato a guarirla prima di me. Ma sono felice di averlo sostituito!", disse prima di scoppiare a ridere.

Akari si alzò, accomiatandosi con il marito per andare a salutare gli altri e finalmente Nabiki vide da lontano l'ultima persona che mancava. Gli andò incontro, allontanandosi dal caos: erano più di dieci anni che non lo vedeva, anche se lo aveva sentito spesso per telefono e si erano addirittura scritti.

"Ho sempre dimenticato di dirti una cosa molto importante, ma volevo farlo di persona", esordì mentre lui la guardava così intensamente che si sentì quasi a disagio.

"Cosa, Nabiki?", le domandò riavviandosi il ciuffo di capelli in un gesto simile a quello di suo marito.

"Grazie, Kinnosuke Kashao", disse dal più profondo del cuore, inchinandosi. Non credeva che avrebbe mai fatto un gesto simile nella sua vita.

"Ma... Nabiki, ti prego, non... non ce n'è bisogno, sono passati tanti anni!", balbettò lui, ora a sua volta a disagio.

"Se tu non mi avessi ospitata e poi portata quasi di forza all'ospedale di Tokyo su quel tuo trabiccolo volante, oggi forse non avrei la mia famiglia", continuò mettendo un braccio attorno alle spalle di Haru, che l'aveva raggiunta e guardava lo sconosciuto con curiosità.

"Lui è il signore che ti ha portata all'ospedale come mi hai raccontato?", chiese guardandolo con tanto d'occhi.

"Già, è proprio lui", rispose Nabiki, sorprendendosi di udire la voce di Tatewaki all'unisono con la propria.

"Wow, forte!" esclamò il suo ometto con un sorriso enorme, riempiendola d'orgoglio.

Nel frattempo, suo marito si stava inchinando ringraziandolo a sua volta e Kashao si grattò la nuca in evidente imbarazzo.

"Oh, ma che sorpresa! Come stai, Kashao?". Akane arrivò, trafelata e con la paletta per tagliare la torta in mano: "Ora che ci siamo tutti possiamo spegnere le 11 candeline di Asuka, che ne dite?", propose allegramente.

Gli uomini s'incamminarono parlando tra loro, con Haru che faceva domande più o meno imbarazzanti sulla sua nascita. Per un attimo, a Nabiki parve che il suo bambino avesse due papà e idealmente voleva pensare che fosse così: Kashao era stato quanto di più vicino a un marito e a un padre premuroso potesse chiedere, quando era lontana da Nerima.

"Non ha ancora trovato l'amore, vero?", le chiese Akane mentre camminavano qualche passo dietro di loro.

"Non lo so, ma credo di no. Mi dispiace per lui, però sono certa che arriverà il momento, d'altronde è ancora giovane, no?". Nabiki aveva ancora addosso il suo sguardo carico d'amore, che non lasciava spazio ad alcun dubbio. Sperava di tutto cuore che la dimenticasse prima possibile, l'ultima cosa che voleva era che soffrisse per qualcosa che non avrebbe mai potuto avere.

"Tutti siamo ancora giovani, sorellina", dichiarò Akane impettendosi.

"Oh, certo, così giovani che abbiamo ancora tanto tempo per avere altri figli", buttò lì guardandola di sottecchi.

Incredibilmente, sua sorella arrossì: "Cosa? Oh, no, per ora va bene così, io e Ranma abbiamo deciso che tre è il numero perfetto e Asuka sta cominciando ora gli allenamenti, mentre Ayaka ha solo 8 anni e Kana è ancora molto pi...".

Nabiki, che sapeva come l'avrebbe presa, scoppiò a ridere, lieta di averla messa in difficoltà anche solo per pochi secondi: "Io non parlavo di te, ma di me", disse tutto d'un fiato.

Akane si fermò, guardandola con la bocca spalancata: "Tu...?".

"Oh, no, non ancora! Ma direi che ho pagato il mio pegno e ora posso concedermi il lusso di desiderare di diventare di nuovo madre. Volevo dedicarmi ad Haru completamente, come per ripagarlo del fatto di non averlo accettato durante i primi mesi in cui l'aspettavo. Dopo un anno dalla sua nascita mi sono detta: ok, Nabiki, è un bambino felice, non risente affatto della tua negatività passata, ti stai dedicando a lui anima e corpo, ora rilassati. Me lo sono ripetuta anche quando ha compiuto due anni e tre anni. Non voglio aspettare che ne compia 12 per essere finalmente pronta, quindi mi butterò nella mischia e vedremo cosa succede".

Inspiegabilmente, Akane l'abbracciò e Nabiki si rese conto che sua sorella si era commossa fino alle lacrime. Non ne capiva completamente il motivo, ma la sua nuova apertura nei confronti dei sentimenti le riservava sorprese continue e doveva tutto a quel bambino che somigliava a lei e a suo marito in maniera incredibile.

"Ehi, calma, non vorrai che tutti pensino che ti ho fatta piangere io, vero?", scherzò cercando di ricacciare indietro il nodo che aveva in gola, "Andiamo da mia nipote, abbiamo una torta da tagliare e dei regali da consegnare!".

***

"Bene, eccoci qui. Questa è la scuola di arti marziali indiscriminate Tendo-Saotome e voi... siete gli allievi, i figli del domani, la nuova generazione. Molti di voi sono qui per un legame di parentela e ci conoscono bene, altri hanno sentito parlare della nostra palestra e si vogliono mettere in discussione. Ma credo che solo alcuni di voi proseguiranno questo percorso, magari perché scopriranno di volere altre cose dalla vita".

Akane distolse lo sguardo da Ranma, che parlava con una serietà e una calma che raramente gli aveva visto in volto. Gettò uno sguardo ad Asuka e Ayaka, altrettanto seri e giurò a se stessa che avrebbe accettato qualsiasi loro decisione, anche se avrebbe significato non avere eredi diretti. Kana era ancora troppo piccola, ma spesso si divertiva a emulare i loro movimenti e, se fisicamente le ricordava Ranma-chan con quei riflessi rossi nei capelli, il piglio deciso era inequivocabilmente il suo di quando era ancora una ragazzina. La cosa più divertente, però, era vedere Ranma gonfiarsi d'orgoglio per le sue tre splendide figlie femmine: alla fine aveva avuto ragione lui e Akane non poteva che esserne a sua volta orgogliosa e felice.

Guardò Daiki e Akio, quest'ultimo che sembrava aver deciso di partecipare alle lezioni solo per stare vicino a Misaki, la quale non aveva occhi che per il gemello. Anche Wei Qi non sembrava convinto della sua scelta, ma la sua naturale curiosità per le tecniche marziali, seppur per quelle meno aggressive come nel caso di Akio, lo aveva portato a confrontarsi con se stesso.

Infine, il piccolo Haru, che sembrava un Kuno in miniatura con gli occhi di Nabiki, pareva fremere dalla voglia di impugnare un bokken. Tutti gli altri bambini erano vicini di casa oppure venivano da più lontano e si trovavano lì per imparare le tecniche leggendarie che avevano fatto parte della sua vita e di quella di Ranma, nonché di tutti i loro amici.

"Sappiate che tecniche come il Moko Takabisha, lo Shishi Hokodan o l'Hiryu Shoten-Ha non sono ancora alla vostra portata e, per molti di voi, non lo saranno mai", stava dicendo Ranma come eco ai suoi pensieri, "ma solo i più decisi e i più integri, sia a livello fisico che mentale potranno impararle".

Il fuoco si accese negli occhi di Misaki e di Daiki, mentre sua figlia Asuka sorrise come se sapesse che sarebbe arrivata al livello di suo padre senza ombra di dubbio. Akane ne fu inorgoglita, ma si domandò se la sua estrema sicurezza non le sarebbe stata d'ostacolo.

"Ora vi divideremo in due gruppi: i più giovani si alleneranno con mia moglie Akane, mentre gli altri staranno con me. Nessuno vi obbliga a imparare le arti marziali e non dovete farlo né per dovere, né per stare vicino a qualcuno, perché non funziona così". Lo vide guardare brevemente in direzione di Akio, poi si portò una mano al petto: "L'amore per le arti marziali indiscriminate viene da qui, e io e Akane lo sappiamo bene. Quindi non barate o ce ne accorgeremo". Finalmente, Ranma sorrise e guardò lei.

"Che ne dici, cominciamo?", le domandò facendole l'occhiolino.

"Sì, Ranma, cominciamo", rispose ricambiando il sorriso, sentendosi felice e completa.

Si diedero le spalle, concentrandosi sui rispettivi allievi, dividendosi il dojo come era stato deciso dal destino più di 15 anni prima.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3792932