Quei giorni di marzo

di swimmila
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non era amore ***
Capitolo 2: *** Avrebbe potuto ***



Capitolo 1
*** Non era amore ***


Questa fanfiction nasce autonomamente rispetto a L’aria di Reesejordan. Tuttavia, la coincidenza temporale fra i due scritti mi rende piacevole il pensiero - solo quello e senza altra pretesa - di considerarla come l’altra metà della sua storia. 


Non era amore

Il sole cercava ombre in cui allungare un dolore altrimenti incontenibile.
Ce n’erano di splendide fra le paratie sbilenche del relitto spiaggiato, che penzolavano a sfioro sulla superficie dell’acqua com’egre speranze. Oppure, fra le concavità delle onde che fluide lambivano il tepore appena accennato della brezza di marzo coi loro dorsi convessi e sinuosi. Meno spettacolari, ma d’ineguagliabile effetto grottesco, se ne scovavano nelle infinite irregolarità che macchiavano la distesa di sabbia, calpestata da strascichi di vita sgualcita e sprimacciata dal solerte soffio del vento.
Poi, inatteso, un colpo di fortuna: un corpo macilento e rognoso; una pelle tirata su un costato affamato; zampe che sghembe seguivano rotte istintive; il fiuto ad annusare nell’aria odore di morto e a scartare il cammino quel poco che basta. Ce n’erano di anfratti ombrosi in quei morsi scarniti, in quei bocconi spolpati, in quegli incavi raschiati. E poi, quelle orbite sporgenti. Magnifiche. Sembravano sul punto di staccarsi dal cranio oscillando di voglia di struggersi al suolo. Dentro, nascondevano di certo, infossate, ombre ideali in cui diluire un dolore.
 
Oscar guardò l’orizzonte e vi lasciò a sciogliere un dolore altrimenti intollerabile.
Nelle orecchie gli strilli volteggianti dei gabbiani. Nella memoria l’eco senza fine di quella stupida bugia.
Parlavano di ritorno e di futuro, quei suoni striduli e liberi.
Risuonavano di lontananza e menzogna, quelle parole ancora strette nei denti.
Non riusciva a credere di averle pronunciate davvero. Che un conto è pensarle, le mostruosità. Un altro è dirle. E quando si dicono, si dà loro un corpo, si anima un’azione, si produce un effetto. Si rende mostro lo spirito e mostruoso il dolore.
E lei ora era divorata dal rimorso, dalla voglia di tornare indietro sui tasti del tempo per continuare a suonare e a tacere fino a che notte e senso non fossero scesi buoni sul loro silenzio.  
Oscar guardava il mare che sbirciava il sole che rifuggiva il chiarore. Ma il suo sguardo, cieco come una mente fissa, rivedeva ossessivamente le proprie dita sorvolare senza direzione su una musica furiosa che copriva un battito impazzito che aspettava nel petto l’infuso della sera.
E poi. Alla porta un bussare educato. Il suo cuore ad andare in frantumi. La musica a separarsi dal suono. Avrebbe voluto urlargli di andarsene, di allontanarsi da quella stanza dove l’irrequietezza faceva sconcia l’amore con la follia. Invece lo aveva invitato ad entrare e aveva continuato a suonare come se il dopo non dovesse accadere.
Aveva sorseggiato piano dalla tazza che lui le aveva servito, come se una volontà così ritrosa avesse potuto impedire al tempo di avanzare. Illusa. Il tempo non avanza, il tempo assiste immobile. E il calice dell’amarezza era infine giunto al fondo della feccia. E lei non aveva potuto fare altro che sputargliela addosso voltandogli vigliacca le spalle. Che non ce l’aveva avuto il coraggio di guardarlo negli occhi, altrimenti nemmeno un empireo di dèi fra i più potenti avrebbe potuto garantirle la calma impeccabile con cui invece aveva parlato; mentre grande è il potere della viltà che chiude gli occhi e dà fiato alla bocca. E dalla sua erano uscite, miserabili, poche e pacate parole con cui lo aveva rimosso dal suo fianco a partire da quel preciso momento. Un ventennio cancellato in un istante. Un abominevole portento.
Non era stata capace di risparmiargli le sue spalle meschine mentre metteva al muro le sue. Solo così aveva potuto continuare a infierire rivendicando con ineccepibile stoltezza la solitaria fierezza di un valore che aveva invece radice plurale.
Era stata brava la sua miserevole schiena a tenere il gioco alla fermezza codarda della voce.
Una brava, miserevole bugiarda. Come bugiardo è il dolore di questo sole che soffre e gioisce con gli stessi colori.
 
Il sole rincorreva ombre in cui sfogare un buio impenetrabile, ma riusciva solo a trovare oscurità violate da un flebile lucore.
Colava sanguigno, piangeva rubino, si scioglieva rossastro, si spandeva rubizzo, si smagliava vermiglio. Ma il nero restava sempre di poco imperfetto, rischiarato da una debole fiamma che accendeva ostinata la volontà più imbolsita.
Quel cane rognoso, che lì per lì era sembrato un ottimo posto dove cercare il fondo del cupo, si era alla fine rivelato un errore. Per quanti buchi smangiucchiati avesse nella carne ormai all’osso, per quanto infossata fosse la disperazione nello sguardo, seppur scheletrico quel costato che pareva smontarsi ad ogni passo, quella bestia nascondeva sotto il manto sparuto del pelo una luce soffusa che colpita dalle ombre del sole si accendeva irritante come una beffa.
Ma poi, inaspettato, un colpo di fortuna.
Avanzava sulla spiaggia allungando ombre senza fretta né strascichi. Un incedere umano che non sembrava né camminare né trascinarsi, solo un voler raggiungere un orizzonte che invece continuava incessantemente a spostarsi in avanti, un voler afferrare l’ineffabile che non si stancava di restare tale. Si muoveva con lo sconcerto di chi sogna di volersi liberare da se stesso ma urta continuamente nel proprio corpo.
Stupende, queste ambasce umane. Così floride di mutevoli pene da non trovarne mai una espressa uguale all’altra. Antri eccellenti in cui trovare notti infinite. E questa aveva tutte le caratteristiche dell’esemplarità.
Un vuoto senza fondo. Un dolore senza speranza. Un fiato senza aria. Un volere senza potere. Una distanza incolmabile. Un rimpianto rabbioso. Una nostalgia struggente. Un animo cieco. Un essere umano. Un’occasione imperdibile.
Il sole vi affondò lesto le sue ombre e trovò le tenebre perfette. Il buio assoluto.
 
Non era lontano da sé che davvero lo voleva. Ma vicino ormai non poteva.
Lo sapeva da tempo. Sapeva e taceva. Da vile egoista, da pavida abietta, da ingorda codarda.
Lo sospettava da tanto, lo dubitava da mesi, il giorno fingeva e la notte vedeva.
Il suo vellutato sorriso; la sua risata pulita; il suo sguardo tranquillo, ma fervente e profondo; la sua vibrante dolcezza; il suo spirito libero incatenato dal cuore. Vedeva di giorno e capiva di notte.
André l’amava. Ma lei non lo ricambiava.
Non poteva fargli questo. Non poteva continuare ad averlo accanto come se non avesse ancora capito. Non era giusto togliergli l’amore che avrebbe potuto trovare altrove. Per questo lo aveva allontanato. Per questo quel nuovo incarico che a giorni l’attendeva le era sembrato uno scivolo del destino per lasciarlo libero di cercare lontano la sua felicità.
Non sarebbe stato facile: André conosceva tutte le pieghe in cui lei aveva ordinato i suoi ultimi ventitré anni di vita. Gli avrebbe spezzato il cuore e lei avrebbe dovuto fare a meno del suo amico di sempre. Ma non era così sprovveduta da non sapere che esistono decisioni tremende e inevitabili; né così debole da tirarsi indietro.
E poi, non lo amava. E questo avrebbe reso il suo dolore un nemico già spacciato.
Non lo amava, no.
Che non era amore non potersi immaginare senza: era solo abitudine di averlo accanto.
Non era amore. Questa testa stordita. Questo vuoto dentro. Quest’anima ubriaca. Questa mente confusa. Questo respiro inceppato.
Era solo una schiena impaurita e bugiarda.  
Com’è bugiardo questo sole che finge di soffrire e invece gode.
Oscar distolse lo sguardo dal niente che vedeva e mosse passi incerti nel nulla che incontrava, lasciando il sole penzolare al suo fianco. Dalla direzione opposta un cane bastonato dal destino avanzava arrancando malfermo e guardingo. Sullo sfondo ambiguo di un tramonto focoso l’ombra rischiarata di una fiera e quella assoluta di un dolore ferino si incrociarono come spade sanguinanti di una stessa sconfitta. Per un attimo si voltarono a guardarsi, bestia e bestiale, quasi che l’una sperasse di vedere nell’altro un dolore più inconsolabile del proprio col quale consolarsi. Infine, dopo breve e riconsolata ponderazione, il cane voltò i suoi passi e li affrettò lontani da quell’inquietudine opprimente che gli aveva rizzato la peluria sparuta.

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Capitolo 2
*** Avrebbe potuto ***


Avrebbe potuto

La voce del mare cercava rabbiosa il ruggito straziato che l’aveva inquietata.
Dal nero fugace del respiro in superficie al buio perenne delle profondità immote, una corrente gelida l’aveva insidiata con la forza imponente di una insipida disperazione. E l’alito del mare si era a poco a poco increspato, incupito, agitato, confuso. Un senso di inquietudine crescente ne aveva gonfiato il soffio; un vuoto improvviso ne aveva dilatato gli spazi; uno struggimento indefinito gli aveva strappato un lamento; un desiderio conteso fra fuga e stallo lo aveva reso sgomento; un dolore sordo lo aveva spezzato; un buio compatto aveva chiazzato un riverbero esteso di pace.
Dai segreti fondali alle superfici apparenti, di pace era privo, il respiro del mare. Fino a che la sua voce si sollevò ad aspergere l’aria alla ricerca di quell’essere misero, quel ridicolo soffio, qualla vita meschina, un’irrisoria durata, un gretto imprevisto, un insulso nonnulla, una scialba minuzia.
Non si sarebbe fermata, la voce alterata del mare, fino a che non avesse sbattuto in quella vana infelicità che osava agitare il suo primordiale respiro.
 
Il nuovo Comandante della Guardia voleva cogliere l’autenticità dei suoi nuovi soldati irrompendo a sorpresa nelle loro camerate il giorno prima della sua attesa ufficiale.
E nella brama di sorprendere gli altri stava sorprendendo anche se stesso.
Il viso scolpito in rigore inflessibile, lo sguardo ghiacciato in risoluto dovere, il passo calmo e deciso scandito al ritmo di una assenza di fretta. O di mancanza di tutto.
Nel corridoio la voce ossequiosa e un tantino imbarazzata del Colonnello d’Agout urtava contro le pareti del silenzio in cui Oscar sembrava immersa. Il nuovo Comandante non sprecava parole. Non ce n’era una di troppo nelle rare che sceglieva, né lasciava equivoci in quelle che taceva. Che nel silenzio lei aveva sempre posto incondizionata fiducia. In vita sua non l’aveva mai sfiorata il dubbio che esistesse qualcosa che non si lasciava ascoltare, che non si faceva scoprire, che come un ladro s’intrufolava in testa dove si svelava nel tempo incessante bisbiglio, ininterrotto sussurro, fino a calzare sintattici ranghi, fino a infilare un senso indiscreto, fino a spiccare procaci parole.
E tutt’a un tratto, l’essere apparente era svanito in un nulla reale.
La mano del Conte stretta attorno al suo polso tremante. I frammenti di vetro sparsi per terra insieme al passato. Le lacrime, pronte da mesi, a recitare una parte ormai superata. Un addio a cucire i lembi già chiusi di una ferita guarita.
E tutt’a un tratto, l’apparente non essere era diventato essenza sfrontata.
Nel camino il fuoco pacato seguiva i suoi gesti che raccoglievano posati frammenti di vita da lasciarsi alle spalle. Per terra, il vino brindava con gocce rubine al calare di un giorno e all’avanzare di un altro. Dagli occhi, le ultime lacrime lavavano concrezioni di un nome rimosso, ripulivano residui ristagni di un’illusione svanita. E su quel fondo smacchiato il viso di André era emerso come da un restauro finito.
E ora, quell’apparente vuoto sentito per anni era diventato un vuoto reale in cui precipitare negli anni.
 
Sono il vostro nuovo Comandante e il mio nome è Oscar François De Jarjayes.
Ma avrebbe potuto dire sono il vostro solo Comandante senza letteralmente mentire. Perché Oscar François era letteralmente, indubbiamente, eternamente sola. E poco importava che quegli animi ruvidi avrebbero scambiato la sua irrimediabile solitudine per arrogante esclusività del comando.
Avrebbe potuto dire sono il vostro falso Comandante senza lontanamente sbagliare. Perché Oscar François era così brava a dire bugie che lei stessa ci credeva per prima. E poco importava se quegli uomini rozzi l’avrebbero presa per confesso impostore.
Avrebbe potuto dire sono il vostro vile Comandante senza commettere inesattezze. Perché Oscar François lasciava l’ingresso dell’anima appena velato da un impalpabile bisso, ma ne impediva l’egresso con strati densi, opachi e pesanti. E poco importava se quegli spiriti duri si sarebbero rifiutati di prendere ordini da un codardo.
Ma Oscar François era Comandante senza aggettivi, militare senza emozioni, disciplina senza mollezze e i visi anonimi e subordinati dei suoi nuovi soldati sfilavano immobili sotto il suo pavido sguardo ipocrita e solo.
Fino a che un colpo non le esplose nel petto.
 
Fino a che non avesse trovato quel dolore indicibile, quell’impavida pena, l’inarrestabile angoscia, l’immensa amarezza, lo spasmo inconsulto, il pianto impotente, il perpetuo rimorso che rendevano torbido e inquieto il fluire delle sue acque. Di questo andava vagando, quel mare che si era sinora scomposto solo per superiori motivi, per primitive ragioni, per ancestrali capricci. Ma da quando quell’essere avulso aveva attecchito con la sua gretta arroganza il suo respiro era sempre più spesso turbato da correnti nervose, il suo scorrere imbrigliato in un fluire vischioso.
Un vortice violento intorbidì gli strati dei suoi umori abissali e il respiro del mare si increspò di vittoria ormai certa. Innalzò le onde del suo furore per scorgere la futilità che rendeva ancora più sconosciuto il suo scorrere segreto.
E la sua onda rabbiosa si fece flutto atterrito.
 
Perché ti sei arruolato nei soldati della Guardia? Ho detto che non avevo più bisogno di te.
L’abitudine alla menzogna la teneva salda nella sua bugia come una condizione che si sentisse in dovere di onorare.
Il viso nitido e familiare di André, in mezzo a quella cortina confusa di fattezze sbiadite, era stato come una folgorazione. E del lampo era stato l’istantaneo sollievo che aveva sentito. Bugiarda. Del lampo era la fulminante felicità che l’aveva bruciata.
Nella riservatezza del suo nuovo ufficio il nuovo Comandante sbraitava falsamente contro uno dei suoi arditi soldati.
Era stata obbligata ad alzare in quel modo la voce, altrimenti avrebbe dovuto spiegare che quel respiro trafelato che le ansimava in gola erano salti incontrollati di gioia; che quell’affanno che le spezzava la voce erano sussulti impazziti del cuore; che quel ronzio che le ottundeva la mente era stordimento di insperato piacere.
André la guardava e parlava senza scomporsi, gli occhi fermi, la voce pacata, l’amore indiscusso.
Oscar gli agitava davanti i pugni che avrebbe dovuto rivolgere a se stessa, un silenzio sbigottito le penzolava dalla bocca spalancata. Che per un soffio non aveva perso tutto quello che senza merito possedeva e senza pietà ignorava. Per poco non era definitivamente sparita nella melma della solitudine vera, quella che non offre appigli né vie di ritorno.
Avrebbe potuto dire Perché non mi hai detto che ti saresti arruolato nei soldati della Guardia? Ho detto per caso che non avevo più bisogno di te? Che lui non le avrebbe fatto notare che sì, aveva detto proprio così, abituato com’era a riconoscere la verità anche quando lei la travestiva di paura. Ma Oscar era troppo impegnata a sedare il sollievo per disperdere energie dietro l’onestà.
E poi, non sapeva come dire ho bisogno di te; non so stare senza te; mi hai rapito l’anima; sei nei miei giorni, nel mio quotidiano; sei maledettamente mio in un modo che dovrai spiegarmi; dove credi di andare senza di me, ed io dove penso di andare senza di te. Non aveva mai infilato queste parole in questa sequenza. Non sapeva che ordine seguire, non sapeva che regole usare. Che la grammatica ha le sue leggi e lei pensava di conoscerle. Ora, invece, ricordava solo i dettami del silenzio. Ora, invece, era rimasta da sola nel suo ufficio mentre André era tornato al suo posto.
Fa come ti pare.
Il nuovo Comandante impartì quell’ordine senza che nemmeno lei capisse a chi fosse rivolto. Se a se stessa o al soldato che prendeva ordini solo dal suo cuore.
 
Due umanità turbolente e agitate, due inutili pene, due irriti dolori. L’aveva trovata, finalmente, l’origine di quel lamento straziante che si era infiltrato nel suo poietico fiato.
Due esseri strani dai confini confusi, non si capiva bene dove finiva l’uno e dove iniziava l’altro. Non era dato sapere se il dolore nasceva da uno e travasava nell’altro o viceversa. Sembrava un abbraccio tautologico di due sofferenze su cui il mare sbuffò infine il suo demiurgico soffio.
Che non osassero più intralciargli il fluire, che non lo agitassero ancora col loro apparente eterno dolore. Che eterna è una condizione che non appartiene a nessuna creatura. Persino lui, persino il mare, era destinato a sparire.
Il ritmo acquietato del suo respiro si ritirò dalle sponde dell’umana dolenza e tornò a inabissarsi nella segretezza delle sue ragioni. Attraversò tutti gli strati dei suoi umori, e man mano che scendeva il buio si richiudeva su di essi fino a diventare una pressione densa e compatta. Arrivato sul fondale, il respiro del mare si placò su un fondo di speranza. In superficie, le sue acque ondeggiavano sotto lo sguardo assonnato del sole.
Sembrava tornato tranquillo, ma era solo apparenza.
Stava solo aspettando il richiamo di un altro dolore.

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