Boba's Jobs

di FilippoA
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Merce che Scotta I ***
Capitolo 2: *** Niente di Personale ***
Capitolo 3: *** Sorelle per Scelta I ***
Capitolo 4: *** Sorelle per Scelta II ***
Capitolo 5: *** Sorelle per Scelta III ***
Capitolo 6: *** Sorelle per Scelta IV ***
Capitolo 7: *** Distrazione Fatale ***



Capitolo 1
*** Merce che Scotta I ***


Merce che scotta

parte I


 


 

Cominci a distinguere i singoli asteroidi che compongono la corona del gigante gassoso, li vedi mentre si rincorrono in una giostra senza fine, rimanendo apparentemente immobili; non puoi fare a meno di paragonarti ad uno di quei sassi, ingaggiato per l’ennesimo lavoretto sicuro – strano termine sicuro, lo usi quando la paga non è a rischio, ma se lo fosse il lavoro sapresti che non chiamerebbero te – senza alcuna percepibile progressione nella tua carriera. Carriera?

Proprio così – ti dici – nel tuo mestiere più che in altri la si fa, un lavoretto alla volta, un rischio alla volta fino a guadagnarsi il rispetto e la fama dalla galassia. Ti senti sprofondare sullo schienale consunto mentre il riflesso solare sul gigante gassoso fa oscurare a poco a poco lo schermo fotosensibile dell’abitacolo, così come i tuoi pensieri. Non ti sei arrogato il rispetto nel tuo ambiente per merito di piccoli passi, lo hai conquistato compiendo lavori che altri non avrebbero mai intrapreso. Ed ora? Cosa ti sei ridotto a fare?

Da quando hai accettato il lavoro ed eseguito il salto per l’Orlo Esterno ti porti un passeggero tedioso ed inopportuno, alimenta i tuoi dubbi e lascia affiorare perplessità che sino a poco tempo fa non erano mai state contemplate. Stai andando a recuperare i cimeli di una famiglia Neymodiana, più o meno legittimamente – non ha alcuna importanza quest’ultimo dettaglio, non ce l’ha mai avuta – presso questi “prestacrediti ambulanti” - così sono stati definiti dal committente – che fanno la cresta sulle difficoltà nelle altrui vite.

Non ti sono mai piaciuti i banchieri, né tanto meno questi banchi dei pegni, che prestano crediti in cambio di tesori, oggetti e cimeli che una volta ceduti si trascinano con sé memorie, affetti e ricordi i quali non torneranno più indietro. Ti guardi attorno, nel tuo abitacolo pieno di visori, pannelli e spie intermittenti; senti il rumore della pelle dello schienale che si piega contro la corazza mandaloriana, senti l’odore che permea l’aria della cabina di pilotaggio e ti ricordi la prima volta che lo percepisti, intrisa dell’umidità della pioggia. Ingaggeresti uno spietato cacciatore di taglie, non ti faresti scrupoli pur di riprenderti non un vecchio catorcio, ma una nave che traghetta dolci ricordi velati di un’amara nostalgia, da cui non riusciresti a separarti.

Forse stai cercando di darti una giustificazione, stai inconsapevolmente caricando d’importanza uno squallido lavoretto di routine per non sentirti immobile come un gelido, stupido asteroide che gira in tondo. Con frustrazione ti sporgi in avanti, il cuoio dei guanti scricchiola mentre serri la presa sul manubrio e la recalcitrante Slave I accelera in direzione del lato oscuro del pianeta permettendoti di seminare quello scocciatore che insediava i tuoi pensieri.

Il dispositivo di camuffamento stealth è attivo, non farai lampeggiare alcun puntino sul monitor di un pigro addetto alla strumentazione radar di questa banda di prestacrediti – continui ad usare quel termine sempre con un compiaciuto tono di disprezzo – ma sai anche che ci sono metodi per amplificare l’occhio nudo e scorgerti comunque. Non ci riusciranno. Lo Slave I spegne i motori, e l’abitacolo smette di tremare in assenza di quel ronzio. Lo schermo diviene più chiaro una volta entrato nel lato oscuro del pianeta; il disco di asteroidi sembra nettamente spezzato dalle tenebre, non s’indovina nessun proseguimento di quella corona presso il lato buio del pianeta e così come quegli asteroidi anche tu ti eclissi e ti avvicini inesorabile all’atmosfera.

La schiena viene percorsa da piacevoli vibrazioni mentre la visuale si annebbia ed in poco tempo ti immergi in una indistinta coltre di fumi e vapori indaco. Scorgi dei cicloni imponenti poco distanti, turbinii di gas che sembrano trivellare i cumuli di nuvole in scoppiettanti scintille di saette scarlatte che si ramificano arrampicandosi sulle anse del mulinello; durano solo brevi istanti, proiettano le ombre delle nubi più compatte ed illuminano i vapori che permeano l’atmosfera rifrangendo la luce elettrica. Prende a lampeggiare rumorosamente la spia del radar e così ti volti verso il monitor circolare, notando un punto piuttosto spesso presso il quadrante ad ore due. Il motore è ancora spento, ma ti basta orientare le derive a repulsione per correggere la traiettoria dello Slave I e così ti dirigi dritto alla meta.

Ti ritrovi sul limitare dello strato più spesso dell’atmosfera, oltre cui il cielo appare limpido, sereno, del colore del vespro e scorgi ad occhio nudo l’anello di asteroidi, il quale pare un curvo e frastagliato sentiero in mezzo ad un prato di piccole e timide stelle, la cui luce è ancora ottenebrata dal sole appena tramontato. Sospesa a miglia di altezza da quel mare di nubi in cui veleggi, si palesa quella che un tempo doveva essere una fregata del Clan Bancario: massicciamente modificata per ospitare più equipaggio, le derive sono appesantite da argani magnetici e l’hangar all’aperto per i droidi avvoltoi sembra esser diventata una stazione di atterraggio. Il tuo incedere è lento, stai planando sulla soffice superficie del mare di nubi ed ormai lo Slave I si trova sotto la fregata; tiri il manubrio e le derive si flettono e così la nave ruota, facendoti sdraiare sul sedile. Al tuo tocco sui comandi, il fondo della conchiglia della navicella si illumina dei motori che stabilizzano la quota, mischiando i gas di scarico incandescenti con quelli della superficie del mare.

Un fischio seguito da uno sbuffo accompagnano l’apertura dell’abitacolo e tolte le cinture prendi a camminare sul duracciaio scalfito ed arrugginito della tua nave, percorrendone il naso culminante coi cannoni laser. L’aria scuote la mantella logora che ti porti scoprendo più volte il tuo zaino a razzo su cui troneggia la testa di un missile. A tracolla penzola il tuo fido fucile blaster EE-3 ed oscilla nel vuoto quando raggiungi la sommità di quel trampolino che si affaccia su un mare di nubi spesso, agitate da lontani rombi di tempesta. Ti chini ad osservare quei lontani riflessi, luci e scoppi lontani che riecheggiano rifrangendosi nel gigante gassoso; una battaglia interiore nascosta agli occhi di chi può solo specchiarsi sull’impenetrabile coltre, eppure gli echi di quelle folgori ed i minacciosi rombi giungono sin lassù. Con soddisfazione ti paragoni a quell’atmosfera tormentata, affascinante ed inaccessibile a chi può solo osservare la tua imperscrutabile maschera e testimoniare la tua fredda violenza, lasciandoli del tutto ignari dei tuoi conflitti più intimi.

Improvvisamente tiri su il capo e sulla “t” della tua lucida visiera si specchia la scura sagoma stracciatellata di fanali e luci di segnalazione della fregata al limitare dell’atmosfera. Lo Slave I sotto ai tuoi piedi sembra affondare lentamente assieme ai dubbi, sepolti a poco a poco nella fumosa cortina. < A lavoro > La voce metallica e roca distorta dal casco agisce come una spintarella, come se non aspettassi altro prima di balzare dall’orlo della nave. In un bagliore scoppiettante lo zaino a razzo si accende e schizzi in alto. Una scia di fumo scintillante sale sottile, come se fosse un prolungamento del gigante gassoso che con un adunco dito volesse toccare la fregata. L’assordante ruggito degli ugelli che eruttano fiamme ti accompagna assieme al fischio del vento che si abbatte sulla tua visiera. In breve tempo superi in altezza la fu nave dei banchieri sfiorandone la prua e la potenza dello zaino a razzo si affievolisce permettendoti di atterrare sullo scafo della fregata, proprio sul bordo che si affaccia sull’hangar aperto. Atterri con un piede, un ginocchio ed una mano, attutendo la caduta. Lo zaino si è spento, l’orlo degli ugelli è ancora incandescente ed in un sospiro ti tiri su dritto con la schiena scossa dal mantello, imbracci il fucile e lo fai con calma, con la consapevolezza di essere piombato dal nulla nella vita di quella gente, segnandone la fine.

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Capitolo 2
*** Niente di Personale ***


Il tuo volto è completamente coperto di bianco, un uniforme velo di opaca crema che riverbera la luce del mattino senza far apparire lucidi i tuoi dolci lineamenti, ciononostante immagino le tue guance arrossarsi mentre una mano ti sfiora. Solo il tuo rossetto riesce a farmi distinguere i tuoi denti opalini dal resto del candido viso, incornicia quel sorriso imbarazzato: quella persona ti piace, almeno quanto piace a me scoprirti maldestra nel dissimulare le tue emozioni. Sei una regina fedele al tuo popolo, leale, sincera e per questo non riesci a mentire, persino il tuo trucco mi suggerisce d’essere nella ragione, mostrandomi due piccoli cerchi purpurei pitturati sulle gote. Sono sicuro che sono avvampate di rosso. Il versante della collina è scosceso, morbido, si tuffa nell’acqua cristallina, così limpida da conservare il vivido verde del riflesso del manto erboso, così come la tua tremula e rosea sagoma. Dinanzi ad un sole mattutino ancora fresco, scorgo lo specchiarsi di dozzine di scintillanti perle ricamate sulla stoffa, rosa, dalle pieghe di un lucido cangiante che ti fanno apparire come una gemma in procinto di fiorire che accoglie in seno dei suoi petali appena dischiusi lacrime di algida rugiada. Quando la croce del mirino si posa sulla persona accanto a te, mi sento stringere il cuore, immaginando il tuo viso rigato dal pianto mentre ti struggi disperata, scrollando quel corpo esanime che poco prima ti aveva carezzata. Non fraintendermi, cerco di non eliminare più del necessario già da un po’ ormai ed inoltre non sono geloso. Certo, non posso fare a meno di provare invidia per chi ha il privilegio di essere così in intimità con te, ma di certo non lo eliminerei – “eliminare” suona molto più professionale di “uccidere” – solo per motivi personali ed inoltre, anche se divenissi schiavo delle mie emozioni, non vorrei comunque essere foriero di tristezza nella tua vita. Vi osservo mentre ridete, vi spingete l’uno con l’altra docilmente, come per sgridarvi con poca convinzione per le allegre stupidaggini che vi raccontate. L’albero che si erge sulla sommità della collina non sembra badare al vostro appuntamento, proprio come la guardia contro la cui corteccia poggia la schiena. Vestito di una giubba di pelle ed una elegante quanto ingombrante tunica blu, si passa tra le dita il berretto che reca appena sopra visiera uno stemma di cui a questa distanza mi avvedo del riflesso. Quella guardia non ha mai visto una guerra, ne sono certo, eppure riponi in lui la più completa fiducia; non hai la tua scorta a proteggerti, questo appuntamento è segreto, un amore clandestino che oltre ai placidi laghi ed ai colli silenti non ammette testimoni, salvo forse il più fedele dei tuoi uomini. Preferisci un bravo amico ad un buon soldato. La tua mano si poggia sul telo purpureo che vi ospita, scorgo la presa farsi più forte aggrappandoti a quella stoffa, celando la tesa morsa che nell’ombra avrà strappato gli steli d’erba. Il tuo viso è reclinato in basso, il tuo sguardo vaga lontano in mezzo al lago; i tuoi occhi sembrano incontrare i miei, ma sono consapevole che sia una mera illusione. Mi stai chiedendo aiuto? Forza ragazzina, non scappare, sei coraggiosa, io lo so. L’Impero non mi avrebbe ingaggiato se tu non avessi avuto l’audacia di non chinare la testa dinanzi al tiranno più spietato, l’uomo che ha voltato le spalle alla propria terra natia, il suo popolo. Tu non tradiresti mai la tua gente e così non dovresti deludere nemmeno i tuoi sentimenti. I tuoi occhi si bagnano appena mentre il tuo sguardo deriva tra le sponde del lago, ma una mano si posa sulla tua spalla e ti volti. Stai tremando, non ti saresti aspettata di trovare quel viso così vicino al tuo; il tuo pugno si serra disperatamente, riesco a scorgere le nocche schiarirsi appena prima di essere coperte da una carezza. Le spalle si rilassano, hai smesso di tremare e mentre le ciglia si fanno pesanti le labbra si schiudono in un bacio e tu per la prima volta assapori l’amore. Ti osservo mentre emetti un lungo sospiro, senza ancora interrompere quel legame, come se ti fossi liberata di un peso opprimente, il tuo respiro fa ondeggiare appena i capelli che lunghi e biondi ti si parano davanti. Sollevi la mano e con una tenera carezza pettini dietro l’orecchio quella chioma dorata, per poi cingerla per la nuca. L’ancella si stringe a te in un abbraccio, le sue dita ti scivolano lungo i ricami del vestito, senti lo scampanellio delle perle mentre vengono sfiorate, come un ultimo allarme prima che le tue forme vengano carezzate. Il cerchietto rosso sul tuo viso si sbafa nella passione di quel bacio, la mano dell’ancella ti macchia la veste di bianco dopo aver cinto il tuo volto, ma niente ha più importanza. In un certo senso mi par d’essere affine alla tua guardia, che pare far finta di osservare da un’altra parte dopo essersi rimesso il cappello. Noto un sorriso compiaciuto nel suo viso, un’espressione soddisfatta, anzi, fiera. Chissà da quanto aspettava questo momento, non ci sarà stata volta che non abbia notato gli sguardi che vi scambiavate, il sorriso che illuminava il tuo volto dopo ogni vostro solitario incontro. < Niente di personale > Il boato riecheggia per qualche istante, degli uccelli che non avevo notato spiccano il volo. La canna del fucile è fumante, mi alzo e ti osservo, tra le braccia della tua amata appena prima che quest’ultima cominci a gridare disperatamente. Non hai sofferto, ne sono sicuro. Ti volto le spalle mentre la bionda continua a piangere, cullandoti nelle lacrime; i tuoi capelli sono castani, non li avevo scorti prima, ora traboccano lisci, scappati dal tuo copricapo di perle ormai sparse sui lembi vermigli del telo. S’affanna la guardia scendendo la collina, gli sfugge persino il berretto. Quelle grida lontane sembrano rimbombare nel mio casco, assordanti mi fanno piegare e così accendo lo zaino ed il razzo finisce per coprire qualsiasi altro rumore. Mi allontano nell’abbagliante suono della scia tonante che mi lascio dietro, libero di non doverti dire addio.

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Capitolo 3
*** Sorelle per Scelta I ***


Coruscant era sempre stata prolifica per i miei affari, garantendomi lavoretti per lo più semplici come lo spionaggio industriale, pedinamento, concussione o furti, ma operare su quel pianeta mi dava l’impressione di restarmene nel cortile di casa a sbrigare le faccende dei mocciosi che si contendevano i giochi migliori battibeccando tra di loro. Almeno immaginai fosse questo che fanno i bambini quando si ritrovano a giocare. L’incarico che mi apprestavo a svolgere riguardava il recupero di una bambina – la madre continuava a chiamarla “la mia bambina” - scappata di casa assieme ad un’amica piuttosto procace e ribelle per l’età che aveva. La twi’lek si muoveva agitata nella sua modesta casa piena di cianfrusaglie, per lo più monili e ricordi di famiglia e ad essi attingeva mostrandomi disegni infantili, persino un registratore ologramma fatto in casa, raffigurante una giovane che le somigliava. Notai come la madre era a disagio dinanzi alla mia maschera, non riusciva a capire se io provassi la minima compassione per lei, specchiandosi sulla mia visiera, scoprendosi disperata ogni volta che cercava una mia reazione; si rabbuiava riconoscendosi più stanca, invecchiata dal dolore. Non commentai sull’inutilità di quei disegni appiccicati alle pareti, né dei suoi braccialetti, né puntualizzai sull’età della figlia, ormai ventenne, scappata quando aveva solo una dozzina di anni. I lekku della donna pendevano lungo una veste semplice, succinta non per essere avvenente, ma solo per comodità, mostrando una carnagione rosea che diveniva più accesa quando parlava dell’amica della figlia. Non si sforzava di celare l’astio nei suoi confronti, anzi, prese a vomitare diffamazioni ben poco lusinghiere sulla ragazza e sulla sua discendenza di dubbia legittimità, fiorita in un bordello di Ryloth. Quando soppesai nella mano l’anticipo contenuto in una sacca, feci tintinnare i crediti al suo interno: non era nemmeno un terzo di ciò che la donna mi promise di darmi una volta compiuta la missione. Probabilmente non aveva altro, forse quando tornerò da lei si troverà costretta a vendere quella casupola malconcia, dovendo prima denudarla di tutti quei ricordi, di tutti i disegni che l’hanno tormentata in tutti questi anni ricordandole il fallimento come madre, la dipartita di una figlia che rinnega la sua famiglia. Mentre camminavo sul tetto di una zona industriale, pensai a quanto fu difficile per le due ragazze fuggire da Ryloth, comprarsi un passaggio ed infine, chissà dopo quante peripezie, infognarsi su Coruscant. Non avevano molti crediti e la merce più preziosa che possedevano è qualcosa di intrinseco, che non può misurarsi con un conto di crediti eppure non è nemmeno illimitata; a che età avranno cominciato a barattarsi – anzi, a svendersi – per sopravvivere? Smisi di indugiare su quei pensieri, mi diressi verso una vecchia industria siderurgica che appariva come una piramide troncata, al cui centro svettava una ciminiera spenta. Alcune rotaie magnetiche si snodavano dalle gallerie ai piedi della piramide, i carrelli vi poggiavano sopra come carcasse, per via della repulsione magnetica ormai spenta. Mi fermai sul ciglio del capannone e mi accucciai osservando quel luogo, divenuto ormai la sede di un malavitoso. Lavorare nella capitale aveva dei vantaggi, ed uno tra questi era la possibilità di usufruire dei vecchi committenti come veri e propri informatori. Nonostante mi pagavano per i miei servigi, non potevano fare a meno di vedermi sotto una luce differente una volta che li avevo liberati dai loro problemi, nutrendo una sorta di gratitudine e riconoscenza che sarebbero d’uopo mostrarsi ad un medico. Io non curavo le vite, io le spezzavo. Così affondando un piatto della bilancia, l’altro si ergeva e mi era grato per questo. Mi dissero come questo tale gestisse un intero settore di Coruscant tirando le fila della prostituzione, dello spaccio e del contrabbando di armi. L’aver raggiunto un tale successo denotava una grande ambizione, simpatie provenienti dal senato e complicità della sicurezza cittadina. Eppure non riuscivo ad evitare di vederlo come un bimbetto, tronfio ed orgoglioso, in cima ad uno scivolo nel mezzo di un cortile. Mi sorpresi di come quell’immagine fosse vivida nella mia mente, forse ho assistito nella mia gioventù ad una scena del genere. Me ne stavo ancora con Aurra, sorvolammo un distretto di schiavi e li vidi giocare nel cortile; li guardavo dall’alto verso il basso, loro perdevano tempo a trastullarsi mentre io mi guadagnavo la fama ed il rispetto dei cacciatori di taglie più spietati. Li disprezzavo. Rimasi accucciato nella notte inquinata dalle luci della città sempiterna, ed allora capii che ero invidioso di quei bambini, schiavi sì, ma liberi di giocare. La mia prima vittima, forse, fu proprio la mia infanzia. Ero pronto a vendicare la morte della fanciullezza delle due twi’lek. L’ingresso principale era sorvegliato da due umani, decisi che era meglio non cominciare ancora le presentazioni e così mi diressi verso le rotaie. Mi muovevo standomene basso con il capo in avanti, la mantella strusciava a terra mentre la testa del razzo non superava in altezza i vagoni che usavo come riparo. Ben presto imboccai una di quelle piccole gallerie in disuso, non era illuminata ed il percorrerla fu interminabile, cadenzato dal mio scalpiccio sul terreno cosparso di detriti e polveri di minerali ed ero accompagnato da un odore sulfureo e ferroso che permeava le pareti. Udii brusii rimbalzare per quella galleria cilindrica, forse parole, una conversazione lontana; distinsi risate e grida di dolore a poco a poco che mi avvicinavo a quelle che un tempo dovevano essere le fornaci. Mi appoggiai alla parete del condotto che portava il binario sotto un enorme secchio metallico, un tempo forse carico di minerali o semilavorati. La stanza era grande, illuminata, ma dal punto in cui provenivo mi si paravano dinanzi enormi rampe con un rullo trasportatore immobile, lasciandomi nell’ombra, ma senza un’opportuna visuale. Passai sotto quei macchinari arrugginiti, come fossero enormi fossili, facendo attenzione a non smuovere ora i ganci ora le catene che penzolavano inerti dall’alto. Superati quegli ostacoli, mi ritrovai ben coperto e libero di osservare la scena che si palesava oltre quel sipario di catene.

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Capitolo 4
*** Sorelle per Scelta II ***


Sorelle per Scelta II Quella che un tempo doveva essere una fornace è divenuta una sala del trono, con tanto di scranna alla parete. Il seggio alla parete era contornato da un sottile gradino che limitava il perimetro di un pozzo, anzi di una vasca; lo trovai insolito, immaginandomi che chi avesse voluto sedersi avrebbe dovuto compiere un balzo per superare quell’ostacolo. L’idea non mi apparve più così surreale quando mi avvidi di chi occupava quel posto: aveva la testa piccola, ma coperta da una peluria folta di un bianco avorio, sporco più che dorato; le mani erano sproporzionatamente grandi e dalle unghie adunche, ma la cosa che mi colpirono di più furono le gambe. Non le possedeva. Se ne stava raggomitolato su quella seduta mostrando una coda squamosa raccolta in tre spire che lo sorreggeva. Era arduo capire come fosse composto il suo vestito, si potevano scorgere solo le maniche di quel saio dal tessuto cangiante di un viola ed oro opulento, questo perché la chioma e la barba erano foltissime e pendevano lungo le spalle e coprivano l’intero addome. Era un thisspiasian, non c’erano dubbi, né ve ne erano altri sul perché i miei informatori si appellassero a lui come Il Verme. Nella vasca ai suoi piedi c’era un fluido nero in perenne moto, in subbuglio, sembrava ribollire mostrando guizzi lucidi ed ogni spruzzo sembrava squittire. Dinanzi al trono se ne stava una guardia armata di vibrolancia che teneva per un braccio un tipo piuttosto mingherlino, dalla schiena ossequiosamente ricurva che lo faceva apparire ancora più patetico. < Ormai non mi fai più neanche ridere… > commentò sprezzante Il Verme, socchiudendo quegli occhietti dalle sclere arrossate in mezzo alla folta peluria. Guardò altrove, come se la vista di quell’interlocutore lo infastidisse. < La prego, non capiterà più! > implorò quello. < Su questo non ho dubbi > senza guardarlo, fece un gesto con la mano. In brevi istanti la guardia mosse la lancia. Con sguardo incredulo il servo vide uscire dal proprio petto la punta della lancia, la bocca si spalancò in un lamento muto, annaspando; la guardia stese la gamba in un pestone alla schiena, sfilando la vittima ed al contempo lanciandola in avanti, lasciandola sprofondare in quella melma nera e stridente. Mi accorsi che non era un fluido come pensavo dianzi, bensì un informe sciame di voraci insetti che in breve tempo presero a banchettare sotto lo sguardo ora nuovamente divertito del Verme. < Un altro! > chiamò a gran voce sogghignando, quasi avesse parlato per quei parassiti ancora affamati. Mi appiattii contro la parete rimanendo nel mio nascondiglio quando mi accorsi di quanto fosse vicino il tunnel da cui ora stavano entrando una guardia con appresso due prigioniere. Erano loro! Entrambe avevano i polsi ammanettati dietro la schiena ed indossavano un collare metallico ciascuno, collegati tramite una catena. Fecero il loro ingresso seguiti da un whipid armato di blaster e grugnì dal suo muso oblungo e zannuto; a quel verso gutturale le due ragazze si fermarono, poco lontane da quella pozza nera di morte. Erano praticamente vestite uguali, o forse dovrei dire svestite poiché indossavano solamente una lunghissimo foulard trasparente arrotolato come una corda, passante attorno al corpo e strategicamente tenuto fermo da fibbie e cintole, allo scopo di coprire solo il necessario e di mostrare tutto il resto. Una di esse prese a singhiozzare guardando altrove dal banchetto dei parassiti, lasciando pendere i due lekku sul petto quasi del tutto nudo, mostrando un colorito mandarino. L’altra invece stava davanti, con un’espressione disgustata; non capii se nei confronti di quella scena orripilante o se in quelli del Verme. Se ne stava dritta con la schiena, con i lekku azzurri che le pendevano dietro le scapole e notai come una di quelle due appendici fosse monca, tagliata di netto. Ebbi modo di scoprire come quelle code che pendono da una testa twi’lek siano zone fortemente sensibili ed erogene, stavo quindi lì ad immaginarmi quanto fosse stata dolorosa una tale amputazione mentre il Verme prese a parlare. < Di nuovo voi due! Perché non sono sorpreso? > - fece retorico - < che hanno combinato stavolta? > Rispose il whipid con versi e grugniti che facevano sgocciolare bava dai mordi di quel muso, per poi lasciare alla pelliccia unta che rivestiva il petto il dover collezionarne i rigagnoli. L’arancione stava ancora frignando, mentre l’azzurra manteneva quell’aria d’indomita sfida, come se quell’aguzzino peloso stesse decantando gesta di cui andar fiera. Il Verme rise, le mani applaudirono un paio di volte e poi si chinò in avanti e continuò a sorridere, ma la voce era severa < Non impari mai Thassa! Non te la caverai con un taglio di capelli stavolta! > la guardia armata di vibrolancia rise a quella battuta, ma non smetteva di osservare le due ragazze. Non era certo attento che non facessero gesti inconsulti o improvvisi, no, era un altro tipo di sguardo. Le stava divorando con gli occhi, come se fossero già state date in pasto a quell’insaziabile vasca mortale, andando con lo sguardo a trapassare i tessuti trasparenti che coprivano le intimità di quelle. < E tu Rhyna! > - scosse il capo mostrando disprezzo, ma anche delusione - < questa è l’ultima volta che ti lascerai trascinare dalla tua amica! > - le mani dalle unghie aguzze mostrarono la pozza nera davanti ai loro occhi, e Rhyna poté ben capire il meschino gioco di parole nel momento in cui s’accorse di essere ancora incatenata a quella azzurra. Si mise a piangere, ma Thassa le si parò davanti. < Siamo sorelle noi! > puntualizzò con orgoglio, ma la voce tremula tradì la paura, forse l’irrequietezza. Ma io compresi ch’ella si obbligava ad essere forte. Forte per entrambi. Il Verme fece nuovamente quel gesto con la mano, con fare scocciato, come se stesse allontanando una mosca fastidiosa. Il whipid si fece da parte e l’uomo abbassò la vibrolancia. Sfiorò con la punta il sedere color mandarino, pungolandola, facendola sobbalzare. Nuovamente l’azzurra si volse difendendola, ma la lancia stavolta puntava lei, dritta alla gola. Thassa sollevò il mento, offrendosi con coraggio a quella morte, meno minacciosa d’essere divorata viva. Ormai era impossibile che qualcuno badasse a me. Si udii il meccanismo di carica dell’ EE-3 < La festa è finita >

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Capitolo 5
*** Sorelle per Scelta III ***


Si voltarono tutti di scatto, increduli. Me ne stavo in mezzo alla stanza con il fucile basso quando il whipid fece per sollevare il blaster; io sollevai il mio ancora prima che quello cominciasse. S’immobilizzo mentre mi osservava, vedendomi scuotere l’elmo in segno di diniego < Buttala a terra > la mia voce metallica era l’unica cosa, assieme allo stridente crepitio degli insetti, che si sentiva la dentro. Quella mefitica palla di pelo mollò l’arma a terra ed infine striscio alle mie orecchie quella voce viscida, crudele < Ma bene – fece Il Verme intrecciando le dita – abbiamo un cliente affezionato? > presi a camminare, lentamente, con la cappa che penzolava sopra il mio braccio; la canna del fucile puntava l’uomo con la lancia, il quale prese ad indietreggiare, lasciando cadere in un rintocco rimbombante quell’asta. < Non vale la pena rischiare la vita per due puttane > a quell’apostrofare, le due twi’lek si scambiarono un’occhiata, colma di frustrazione ed avvertii una certa vergogna, nei miei confronti. Mi portai accanto alle due ragazze e stavolta puntai l’arma contro il thisspiasian < Dici bene, datti retta > così gli feci ed egli in tutta risposta libero le mani da quell’intreccio e mi mostrò i palmi, vuoti, inoffensivi, accompagnati da un sorriso innocente. Mi portai dietro le due ragazze. Sparai un colpo ed un altro paio subito dopo. Rhyna sussultò quando le manette scivolarono via, ardenti, dai suoi polsi arancioni e la prima cosa che fece Thassa fu stringere le braccia attorno alla sorella. Osservai quell’abbraccio così disperatamente cercato, con la ragazza arancione che piangeva e l’azzurra che bisbigliava parole nella lingua di Ryloth. Quegli occhi pieni di lacrime si specchiarono nella mia visiera: era lei la figlia scomparsa, ed ora mi stava fissando colma di speranza con il mento poggiato sulla spalla della sorella. < Molto commuovente > intervenne Il Verme palesando il proprio disprezzo < Dopo tutto quel che ho fatto per voi… > - solo ora riuscii a scorgere i denti ingialliti di quell’essere - < Sarete date in pasto ai miei cygnat! > Il thisspiasian stava imprecando, ma can che abbaia non morde, lo so bene. Stavo tenendo d’occhio le due guardie quando Thassa che già era rivolta verso il Verme, rispose, senza sciogliersi da quell’abbraccio. < Hai finito di dettare le regole, Verme! > - la voce era euforica - < Striscia nel tuo buco e prega di non incontrarmi mai più! > così disse mentre accarezzava la sorella e ad ogni sua parola gli occhietti dell’uomo sul trono si faceva sempre più spalancati, ardevano di un rosso vivo < Taci puttana! > il crine della sua barba si mosse impercettibilmente. Sparò un colpo ed un altro ancora. Mi ritrovai a terra mentre quello puntava la pistola contro le ragazze. < NO! > udii quel grido, l’ultima cosa che ricordo di aver sentito mentre Thassa volse la sorella, frapponendosi tra lei ed il Verme. Altri colpi furono esplosi e poi solo buio. Ero supino, con lo zaino a razzo che mi faceva tenere scomodamente la testa reclinata all’indietro. In quella posizione innaturale il mio collo era esposto. Sentii toccarmi, riconobbi il metallo freddo; il whipid aveva raccolto il fucile e con la canna mi stava punzecchiando il bordo del casco, facendomi voltare il capo di lato. Grugniva in segno di assenso mentre io stavo a terra ai suoi piedi, immobile, con la corazza fumante ed annerita in più punti e la coscia destra con un foro ancora sfrigolante. Per aver perso i sensi, devono avermi colpito anche in testa. Non devo essere stato incosciente per molto tempo, probabilmente quasi un minuto. L’olfatto fu il primo alleato a venirmi incontro, ricordandomi di quanto fosse maleodorante quella guardia e di come la mia ferita fosse ben abbrustolita; le voci nel casco rimbombavano ovattate, non mi erano di aiuto, ed anche la vista era offuscata, ma riconobbi la sagoma delle due ragazze, i loro colori accesi. Thassa era riversa al suolo, tra le braccia di Rhyna che ancora singhiozzava. Due fori di blaster stavano ancora fumando dalla schiena azzurra e la sorella arancione stringeva la testa dell’altra. Ancora respirava, ma a fatica. L’altra guardia aveva imbracciato nuovamente la lancia e la puntava contro le twi’lek. Impiegai ancora qualche istante per capire cosa diamine fosse successo ed infine guardai di sottecchi dalla visiera Il Verme. Dalla folta barba spuntavano un altro paio di mani, meno sviluppate delle altre dalle unghie lunghe, quasi fossero atrofiche, rinsecchite: le dita nodose impugnavano una piccola pistola, ben nascosta dalla barba. Il thisspiasian stava sghignazzando, stava proprio ridendo a crepapelle. Il mio udito sembrò tornare giusto in tempo per farmi ricevere quello sbeffeggiamento, facendo riecheggiare quelle risa nel mio casco. Mi avevano privato del blaster, ma anch’io conoscevo qualche trucchetto. Strinsi il pugno e dal supporto dell’avambraccio spuntò una serie di dentellature metalliche, una vera e propria lama di sega coi denti a falce; feci per tirare un manrovescio ed in un baluginio metallico recisi i tendini appena sopra il tallone del whipid. Il tonfo sordo del suo corpo che si accasciava a terra era accompagnato dalle grida belluine. Con la mano libera presi il blaster che ancora stringeva in mano e gli torsi il polso mentre mi sollevavo in ginocchio: esplosi una serie di colpi e quello finì per stendersi a terra, con la pelliccia fumante e lorda. Non feci in tempo a girarmi che mi arrivò un colpo deciso, secco, sulla mano. Persi la pistola quando mi accorsi che la guardia con la vibrolancia mi aveva appena disarmato, colpendomi con quell’asta. Feci per alzarmi, ma una fitta mi pervase. La mia gamba era fuori uso e così rimasi con un ginocchio a terra. La guardia fece per infilzarmi e la mia mano stringe la picca deviandone appena la traiettoria; sentii uno strappo nella mia cappa mentre l’asta mi passava davanti. L’uomo invece si pose dietro di me e strattonò la sbarra metallica, tenuta orizzontale, alla mia gola. Dovetti usare ambedue le mani ma quel pezzo di metallo si incastrava perfettamente tra la gorgiera ed il mio casco. Il respiro stava venendo meno, quando mi accorsi che Il Verme davanti a me mi stava osservando; sollevò nuovamente la pistola, ma io fui più veloce. Abbassai una spalla, torsi il busto e mi feci schermo con la guardia appena prima che il thissipian prese a sparare. I lamenti dell’uomo mi scivolarono addosso, proprio come la sua presa attorno all’arma; mi scrollai di dosso quel peso morto e con un gesto repentino scagliai la vibrolancia.

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Capitolo 6
*** Sorelle per Scelta IV ***


< GHYYAAAAH! > Il Verme si contorceva dibattendo la coda tra gli insetti ai piedi del trono mentre tutte e quattro le mani cercavano disperatamente di sfilare quella lancia che pendeva dal suo torace, macchiando sempre più la barba in cui sembrava sparire. Mi feci forza e raccolsi il mio EE-3, imbracciando la cinghia a tracolla, per poi zoppicare verso le due twi-lek. Rhyna stava ancora piangendo quando Thassa aprì gli occhi < S-sorellina > le uscì con un filo di voce. La ragazza arancione parve riacquistare colore, e tra i singhiozzi < Thassa! Sei viva! - ingoio le lacrime – ora ce ne andiamo da questo posto, torniamo a casa > accarezzava con incertezza il viso azzurro, sempre più pallido, di quella a terra, quasi come provasse timore di mandarla in frantumi, vanificando ogni speranza. Anche Il Verme vide che la twi’lek, malgrado le ferite alla schiena, era ancora viva e ad un certo punto qualcosa cambiò nei suoi occhi, smise di lottare per sopravvivere. Conoscevo quello sguardo. L’espressione è quella di chi non ha più nulla da perdere, vuole andarsene togliendosi un’ultima soddisfazione, costi quel che costi. La sua mano andò sul lato del bracciale del trono < Come dicevo – un colpo di tosse lo interruppe, macchiandogli le labbra di sangue – è tempo di morire! > il pulsante venne schiacciato e dalle pareti della stanza si sentirono rumori di ingranaggi, echi interni ai muri. C’erano dei bocchettoni, affacciati sulla stanza, metallici, di grande sezione, con un coperchio a botola; la funzione che dovevano svolgere nell’acciaieria era quella di allagamento di sicurezza. Quando i coperchi si aprirono in un pesante cigolio, non fu acqua quella che uscì a cascata. Ondate di stridenti cygnat presero a rovesciarsi nella stanza, pervadendo ogni angolo. Mi strinsi alle twi’lek, mi presi sotto braccio Thassa e la sollevai. Le sue gambe cedevano, era più pesa di quanto immaginassi e la mia coscia bruciava dolente. La marea nera di insetti ci circondò, ma anziché attaccarci subito si diresse verso i cadaveri delle due guardie: li sovrastarono, divenendo un cumulo di lucide macchie nere che a poco a poco diminuivano di altezza e spessore. Il Verme rideva ancora ed io allungai il braccio. Vidi la sua faccia illuminarsi, sentii la vampata di calore sprigionarsi dal mio avambraccio mentre una lingua di fuoco esplodeva su di lui, consegnandolo alle fiamme. Molti cygnat bruciarono e diffusero l’incendio. Il thisspiasian ora gridava, gridava con una voce acuta e smorzata dalle braci, mentre i cygnat ardenti lo investirono come un torrente di magma. I bocchettoni però continuavano a far uscire quegli insetti e dovevamo tagliare la corda. Con Thassa sottobraccio zoppicai verso un canale, diverso da quello da cui ero provenuto, ormai inaccessibile. Rhyna correva invece, ma si girava costantemente dietro. Io sentivo il crepitio delle fiamme, lo stridore dei versi degli insetti ed il loro ticchettante scalpicciare. L’azzurra si lasciò cadere in un lamento ed io non riuscii a far altro che lasciarmela scivolare tra le mani. < Thassa! > la ragazza dalla pelle mandarino si accucciò su di lei. < Dobbiamo andare > interruppi io, rivolto verso il cunicolo da cui si scorgevano i riflessi dell’incendio. < Alzati, ce l’abbiamo quasi fatta! > così diceva Rhyna mentre cercava di sollevare la sorella, ma quella pose con fermezza una mano sul polso dell’altra. < No – disse con rassegnazione – io non ce la faccio > < Non dire sciocchezze! Ora ce ne andiamo come ce ne siamo venute! > singhiozzò Rhyna. < Torna a casa sorellina > < No! Io non ti lascio qui a morire! > gridava disperata mentre prese a scrollare l’altra, senza riuscire a sollevarla. Il calcio del mio fucile la colpì in testa. Un colpo secco che la tramortì, facendola afflosciare su se stessa. Thassa la guardava senza batter ciglio di quella mia azione, anzi, sorrise amaramente mentre la carezzava. Era come se le stesse dando la buonanotte, come forse ha fatto per tutti questi anni guardandola dormire serenamente. Gli insetti si stavano avvicinando ed io tirai fuori dalla cinta un implosore termico. Mi chinai su di lei e le strinsi la mano attorno a quell’esplosivo, con il pollice sopra il detonatore < Se lo fai esplodere troppo presto, ci crollerà tutto in testa > le dissi < devi darci un po’ di tempo > rimasi ad osservarla. Il suo viso era stravolto dalla stanchezza, dal dolore, eppure mi sorrise debolmente, socchiudendo gli occhi in segno di assenso. Mi chinai su Rhyna, me la issai sulla spalla e ripresi ad avanzare, zoppicando frettolosamente verso i dedali di quell’acciaieria. Volsi strada, un’altra strada ancora mentre mi facevo largo con la mano, scostando le catene che penzolavano dai soffitti ed infine mi ritrovai dinanzi a quello che doveva essere la bocca di fusione. Improvvisamente sentii le grida. Mi fermai per un istante e le sentii di nuovo. Ripresi a correre, come potevo. < Schiaccia quel pulsante! > avanzavo con la ragazza sulle spalle, mentre sentivo l’eco delle grida dell’altra. Basta così, premi il pulsante! Perché lo stava facendo? Mentre immaginavo quel cunicolo riempirsi di insetti, ricoprirla, mangiarla viva, compresi quanto quella ragazza aveva sofferto pur di aiutare la sorella, sia nella vita che sul punto di morte. Sollevai il capo e sulla mia visiera s’illuminò il riflesso della luce esterna: la ciminiera. Un boato assurdamente vicino irruppe, sordo, rimbalzando di parete in parete, proprio come la concussione sismica derivata dall’esplosione. Dalla galleria da cui provenivo si propagò un’esplosione distruttiva ma io accesi il mio zaino a razzo. Sulla mia visiera c’era il riflesso del cielo, sempre più vivido, mentre sotto di me scoppiava l’inferno. Il condotto della ciminiera si riempì di fiamme che quasi ci circondarono, ma infine riuscimmo a schizzar fuori da quell’incubo, lasciandoci alle spalle quella piramide che a poco a poco schizzava fiamme sbriciolandosi su se stessa. Alla fine decisi di non imporre lo sfratto alla madre ed alla figlia, che no, non volevo i loro spiccioli e che avevo trovato ben altri tesori nella magione de Il Verme. Non so di preciso perché inventai quella menzogna, forse non volevo che mi fossero riconoscenti, eppure quando mi lasciai quella casupola su Ryloth alle spalle e mi voltai, incontrai lo sguardo si Rhyna mentre abbracciava la madre. Ancora una volta mi osservava da sopra la spalla di una persona a lei cara. Mi fermai, le feci un cenno con il capo e proseguii per la mia strada. Bentornata.

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Capitolo 7
*** Distrazione Fatale ***


Distrazione Fatale


 


 

Il sole sta tramontando, ancora brillante filtra dalla vetrata in frantumi ed irraggia la tenda a listarelle che silenziosamente annuncia l’arrivo della sera, la brezza la fa ciondolare mentre sussurra attraverso la finestra esplosa. La luce vermiglia corre sul pavimento, gettando lunghe ombre indaco a partire dalla mobilia sfasciata che intralcia il terreno, scavalca i corpi immobilizzati dai fori di blaster che punteggiano il loro petto, ed infine tinge di rosso una soglia socchiusa.

Oltre la porta c’è un giaciglio, un cumulo di sacchi colmi di frutta secca su cui hai adagiato un telo. Distesa sopra quella stoffa chiara, la guardi mentre dorme, se ne sta l’ostaggio. Non le hai nemmeno chiesto il nome, forse te lo avevano detto i committenti, ma non lo ricordi; la tua memoria è buona, ma è selettiva e quindi – ti dici – non è rilevante ai fini del lavoro conoscerlo.

La camicetta ce l’ha ancora addosso, è un po’ sporca e sgualcita, ma ti lascia intuire che in altre circostanze la ragazza non si sarebbe aggirata in quel genere di locale, mostrando difatti un tessuto pregiato ed esotico. Ricordi di averci fatto caso mentre hai divelto la camicia, i bottoni rintoccarono a terra mentre la schiena della ragazza sprofondava tra i morbidi sacchi, spinta dal tuo peso. Osservi i seni che soffici pendono dal petto chiaro e liscio della ragazza dormiente, risali con lo sguardo sino a notare un segno sul collo: livido, escoriato. Per un attimo il pensiero di non essere riuscito a trattenerti, di aver esagerato, ti fa preoccupare. Non per la salute della tipa, no; ti preoccupa pensare che tu non sia in grado di misurare la tua forza, di far accadere qualcosa di imprevisto.

Ti chini lievemente in avanti, rimanendo seduto su una cassa ad un paio di metri da lei. La osservi ancora quando ti ricordi di averla trovata legata, un cappio al collo le teneva uniti i polsi dietro la schiena. Sollevato dall’esserti ricordato il colpevole di quell’ematoma, sospiri tornando ad osservarla, come a cercare altri segni che forse ti erano sfuggiti prima. La scruti osservando le cosce sode tranquillamente divaricate, non nascondono niente standosene poggiate su quel trono di sacchi. Un piede nudo ciondola pigro oltre il chiaro lenzuolo su cui giace; la pianta è sporca, presenta delle vesciche ed altre escoriazioni. Abbassi il capo lasciando vagare lo sguardo sul terreno del magazzino, spazi per i barattoli e le altre confezioni aperte, mezze cominciate, solo assaggiate; solo un tipo di barattolo, verde, si presenta sempre vuoto. Quante ne avrà mangiati? Riesci a contarne otto, ma potrebbero essercene altri in giro. La signorina è viziata, ne ha dovute assaggiare di cose prima di decidere cosa mangiare.

Ha avuto la forza di mostrarsi per quello che è nonostante la fame che la straziava, non ha mutato quel caratterino, non sono riusciti a piegarla abbastanza. Una ragazza bella, forse troppo giovane e viziata per te. Così come altre donne che hai incontrato, hai trovato dei difetti sufficienti per scartarle: riesci ad affibbiarne un paio per ciascuna e ti giustifichi così dal non doverle rivedere.

Forse una cosa in comune ce l’avete – sorridi nel pensarci – assaggiate ogni cosa che vi incuriosisce e poi la lasciate lì, andando alla ricerca di ciò che davvero vi piace, al costo di assaporare di tutto.

Davvero stai cercando ciò che più ti piace? Non riesci nemmeno ad immaginare il sapore che potrebbe avere, l’aspetto di quella persona e lo spazio che le daresti nella tua vita. Riprendi ad osservarla, la guardi su quel letto raffazzonato e non puoi fare a meno di paragonarla ad una di quelle scatolette lasciate aperte, appena assaggiate ed abbandonate lì assieme alle altre.

Non sai cosa sia l’amore, né lo cerchi. Un sentimento quasi inconcepibile, non sapresti nemmeno immaginarti che genere di persona potresti portarti appresso per più di una settimana. Hai sempre visto le donne come un’estensione della masturbazione, una piacevole distrazione che ti piace trovare nel tuo mestiere, un rischio che ti assumi nel mezzo di un lavoro o una gratifica alla fine di esso.

Boba... >

La sua voce è roca, ancora impastata dal sonno, esce dalle labbra appena dischiuse in un sorriso addolcito dagli occhi verdi della ragazza.

Devi riposare Iriel, riposa >

La tua voce è roca, distorta dal microfono del casco. Lei sorride, confortata dal vederti con quell’elmo in testa, il fucile in braccio a vegliare su di lei; a breve verranno a prenderla, la riporteranno a casa. Non ti abituerai mai a quel genere di sguardo, quell’espressione colma di gratitudine che le rasserena il volto prima di tornare a dormire. Non lo fai per lei, è solo lavoro. Non lo capiscono mai.

All’improvviso t’irrigidisci, la presa si fa ferrea sul manico del blaster e lo sguardo saetta su Iriel.

Ti sei distratto.

Ti sei ricordato il suo nome.

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