Death be not proud

di Spoocky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Disclaimer: i personaggi riconoscibili appartengono a Patrick O'Brian ed agli aventi diritto, non guadagno nulla dalla pubblicazione di questo racconto.

Warning:
 descrizione dei sintomi del tifo petecchiale e le sue conseguenze.

Jack trattenne il respiro nello scendere la scaletta di legno che portava alla zona di quarantena. Si chiese se lo stesse facendo per paura del contagio o per l’ansia di cosa avrebbe potuto trovare all’interno ma non seppe darsi risposta. Solo quando superò l’ultimo dei gradini e poggiò il piede sulle travi della stiva finalmente si concesse di respirare.
Desiderò non averlo mai fatto: una zaffata abominevole gli investì le narici ed ebbe l’urto del vomito, un fetido miscuglio di sudore, vomito, piscio, ed altre amenità si confondeva con il salmastro della sentina producendo l’olezzo intollerabile che permeava l’ambiente. Provò pietà per i malati che vi erano ricoverati, ma non ebbe tempo di crogiolarsi nella malinconia perché Herapath, facente funzioni di assistente chirurgo, gli venne incontro con solerzia, sfilandogli con ferma premura la cassetta dalle mani.
Aubrey ne tenne solo una bottiglia, riservata ad un paziente in particolare.

Fece un rapido giro di visite ai convalescenti, stringendo mani, dispensando incoraggiamenti e sorrisi, ma con il pensiero fisso verso un solo uomo. Pur conoscendolo da una vita, non lo avrebbe riconosciuto se Herapath non glielo avesse indicato.

Thomas Pullings, primo tenente della Leopard, giaceva scompostamente nella sua branda, la febbre alta che lo tormentava da settimane lo aveva portato al delirio e si era agitato tanto da scoprirsi: la coperta che gli avevano steso addosso si era accartocciata tra le sue gambe, avvolgendogli una coscia e coprendogli a malapena il pube.
Non era la prima volta, a giudicare dalle abrasioni sui polsi e le braccia del giovane ufficiale, lasciate dalle corde usate come extrema ratio per contenere gli infermi.
In quel modo, però, il suo corpo devastato dalla malattia si offriva inerme allo sguardo addolorato del suo comandante.

Per prima cosa notò le cicatrici: quella rigonfia e frastagliata sulla coscia destra, squarciata da un proiettile di mitraglia, quella scura e allungata sulla spalla sinistra, colpita da una spada nel corso della stessa azione. Il fisico di un soldato, di un giovane combattente che la disidratazione e la denutrizione - causate dal vomito, dalla febbre, e dalla conseguente inappetenza - avevano logorato al punto che la pelle, arrossata dall’eruzione cutanea, era terribilmente tesa sulle ossa.
Le creste iliache affioravano dai suoi fianchi, evidenziando l’avvallamento del ventre incavato sopra il quale incombevano le costole, tanto evidenti sotto la pelle che avrebbe potuto contarle, e vide immediatamente la depressione causata dalle due che si erano rotte anni prima, mai guarite completamente.
I muscoli, solo il mese prima tonici ed elastici, erano atrofizzati e contratti, attraversati da brividi profondi che non facevano ben sperare sullo stato dei suoi nervi.
Lividi sparsi trapelavano sull’epidermide sottile, segni di piccole emorragie sottocutanee causate dallo sfogo.
Da vicino, poteva addirittura vedere le striature dello sterno e i delicati nodi delle spalle, su cui lasciò scorrere le mani dopo avergli rimboccato la coperta sul petto per restituirgli almeno un po’ di dignità.

Stando chino su di lui senti il sibilo, una specie di ronzio, che produceva respirando e gli si strinse il cuore nel petto: il suo incrollabile secondo non aveva nemmeno la forza di tossire.
Per prevenire il contagio, e dargli sollievo dalla febbre, Stephen gli aveva scrupolosamente rasato la testa e i miseri resti della sua folta capigliatura solleticarono il palmo di Jack quando accarezzò il suo capo febbricitante in un moto di compassione.
Il contatto della mano, sensibilmente più fredda, del capitano sulla sua pelle rovente fece rabbrividire Tom da capo a piedi ma non aveva le energie per reagire in altro modo, non mosse nemmeno le palpebre.
Aubrey fece scivolare la mano sulla tempia di Pullings e lasciò che si posasse sulla sua guancia scavata mentre i polpastrelli sfioravano lo zigomo sporgente nel tentativo di offrirgli un minimo conforto.
In effetti, Tom emise un lieve gemito per il sollievo di quel tocco mentre un altro brivido lo scuoteva da capo a piedi.
In quel momento, pur non avendo conoscenze in medicina, Jack comprese la necessità di sbarcare i convalescenti e l’apprensione di Stephen in merito. In quelle condizioni, Tom era fragilissimo: un alito di vento avrebbe potuto portarselo via quella notte stessa e la mattina dopo avrebbero potuto doverlo cucire nella sua branda, con una palla di cannone ai piedi.

Conoscendo il tenente, sapeva che avrebbe lottato fino all’ultimo respiro, ma era allo stremo delle forze e, per quanto lo schifasse l’idea dell’abominevole Grant come secondo, iniziò a tracciare mentalmente la rotta più breve per Recife.
Tom era ancora giovane ma già una risorsa inestimabile per la Marina e non sarebbe riuscito a convivere serenamente con il peso della sua perdita. Non sapendo che avrebbe potuto impedirla con una deviazione quasi irrisoria sulla tabella di marcia.
La sua coscienza, sempre ottimista a scapito dell’evidenza, gli sussurrò che non ci sarebbe stato alcun motivo di preoccupazione, ricordandogli che Pullings era giovane e forte, che si sarebbe ripreso in pochi giorni, che Maturin gli aveva detto che il peggio era passato, e lui decise di darle credito.
Con il cuore un poco più leggero stappò la bottiglia e versò una lacrima di vino in una tazza posta su uno sgabello accanto alla branda del malato.

“Se proprio ci tieni, sporca appena il fondo del recipiente.” Gli aveva raccomandato Stephen “E poi riempilo d’acqua per diluirlo: ha già il fegato ingrossato, congestionato in modo orripilante. Non mi sembra il caso di peggiorare la situazione.”
“Perché me lo lasci fare allora?”
“Perché anche tu hai bisogno di sentirti utile in questa terribile faccenda, fratello.”


Seguendo le istruzioni dell’amico, per una volta, bagnò appena il fondo della tazza e la riempì con la brocca che vi si trovava accanto. Poi se la fece ruotare agilmente nel palmo, per mescerne il contenuto. Una volta soddisfatto del risultato, vi intinse due dita e le premette con delicatezza sulle labbra riarse di Pullings, per invogliarlo a bere.

Dovette ripetere il processo per altre due volte prima che Tom aprisse finalmente la bocca e gli permettesse di aiutarlo a dissetarsi. Chiunque altro si sarebbe aggrappato disperatamente al bicchiere e avrebbe iniziato a deglutire compulsivamente, ma il giovane non era abbastanza forte e Jack dovette assisterlo, sollevandogli la nuca dal cuscino intriso di sudore e inclinando il recipiente, prestando attenzione al fatto che solo una piccola quantità di liquido scivolasse tra le sue labbra ogni volta.
Jack attese pazientemente che il malato finisse di bere prima di riadagiarlo sul guanciale.
Senza staccare una mano dalla sua spalla ripose la tazza sullo sgabello e, nel risollevarsi, si sorprese di vedere Pullings con gli occhi aperti che guardava nella sua direzione.
Strinse appena la presa sulla sua spalla ossuta e, alla cieca, cercò la sua mano sotto la coperta. Trovatala, l’avvolse nella propria, strofinandogli le nocche con il pollice.

Tom tremò di nuovo ed emise un sospiro: avrebbe voluto ricambiare la stretta ma le sue dita rifiutavano di cooperare. Gli occhi gli si riempirono di lacrime brucianti per la frustrazione, e il capitano si affrettò ad asciugargliele con il proprio fazzoletto.
Provò una grande vergogna, in quel momento, per essersi mostrato al suo superiore in un tale stato di debolezza. Non lo vedeva bene, perché la malattia gli aveva indebolito la vista, ma quelle macchie dorate che ne sovrastavano una blu non potevano essere ricondotte a nessun altro.
Quando la mano gelata che gli stringeva la spalla si spostò sulla sua fronte non ebbe più dubbi: il dottore aveva compiuto diverse volte quello stesso gesto ma, per quanto gradevole sulla sua pelle bollente, quella mano era più grande e ruvida, inspessita da strati di calli e piccole cicatrici.
Non avrebbe voluto che lo vedesse così.

Aubrey percepì il disagio del giovane ufficiale e gli sfiorò la testa con delicatezza: “Non avete nulla di cui vergognarvi, Tom: siete malato, non è colpa vostra.”
Pullings aprì la bocca e fece per parlare ma non produsse altro che un rantolo soffocato e due esili colpi di tosse.
“Shh.” Cercò di rassicurarlo Aubrey, tornando ad accarezzargli la fronte e strofinandogli il petto con l’altra mano “Il dottore ha detto che non dovete fare sforzi. Cercate di stare tranquillo: è tutto a posto. La nave e gli uomini stanno bene.”
Una spudorata menzogna, ma non gli pesò più di tanto perché a fin di bene.
“Coraggio,” riprese “il dottore ha detto che dovete bere molto, per tutta una serie di motivi che non sono certo di aver capito, ma sapete com’è. Ve la sentite?”
Debole com’era, Tom poté solo aprire e chiudere lentamente le palpebre per dare il suo assenso: aveva una sete terribile.
“Lasciate che vi aiuti, allora. Coraggio.” Di nuovo, gli resse la nuca mentre gli accostava la tazza alle labbra, versando un sorso alla volta e attendendo che deglutisse tra uno e l’altro. I brividi che continuavano ad attraversare il suo corpo prostrato non gli resero il compito facile.
Quando Tom scosse appena il capo nella sua mano per indicargli che non era in grado di reggere oltre, lo distese di nuovo nel suo giaciglio e usò il fazzoletto per asciugare il liquido che gli era colato sul mento e le labbra.

L’ unico uomo a bordo, eccetto Stephen, di cui Jack si sarebbe fidato come di sé stesso era fragile come appena nato, e gli suscitò una grande pena. Quel giovane avrebbe dovuto essere sul cassero a comandare di aumentare la velatura o sul ponte di batteria ad ispezionare i cannoni, sempre ligio al dovere nonostante la fatica, sempre con il sorriso di chi sta facendo il lavoro che ama e sa di farlo bene. Non avrebbe dovuto essere steso in quella branda, ridotto pelle e ossa, bruciante di una febbre che minacciava di portarselo via.

Solo quella breve visita aveva stancato Pullings al punto che riuscì appena a muovere le labbra per sussurrare un flebile: “Grazie.”
Aubrey lo accolse con un sorriso forzato e riprese ad accarezzare la testa del giovane: “Non c’è di che, Tom.” Vedendo che faticava a tenere gli occhi aperti, aggiunse “E’ meglio che vi lasci riposare, ora. Resterò qui mentre vi addormentate.”
Ebbe un tuffo al cuore, tuttavia, quando vide le palpebre calare sugli occhi spenti del tenente e non riuscì ad impedirsi di stringergli forte le spalle, per farglieli riaprire: “Tom!”
Grazie a Dio, le sue iridi verdi rispuntarono sotto le ciglia, con uno sguardo leggermente interrogativo nonostante la debolezza.
“Non arrendetevi, mi raccomando.” Lo incoraggiò Jack, con lo stesso tono fermo e perentorio che usava per dare gli ordini “Continuate a lottare, Tom. Tenete duro ancora un po’, coraggio. Andrà tutto bene: so che potete farcela.”
Cosa effettivamente avesse capito Pullings da quel discorso, dato il suo attuale stato di prostrazione, sarebbe stato impossibile da stabilire ma almeno una parte del messaggio doveva essere arrivata comunque, perché abbozzò un sorriso e sbatté di nuovo le palpebre in segno di assenso.
La testa del giovane sprofondò nel cuscino, gravata dal sonno pesante della malattia, Aubrey si sentì più tranquillo nel lasciarlo riposare. Gli riassestò addosso la coperta, assicurandosi che fosse ben riparato e dignitosamente coperto prima di raddrizzarsi.

La schiena gli si era irrigidita a causa dello stare curvo per tanto tempo e dovette stirarsela, insieme alle spalle, facendo scricchiolare alcune giunture nel processo.
“Perdio, signor Pullings.” Brontolò rivolto all’ufficiale addormentato “Sto proprio diventando vecchio!”
Gli sfiorò di nuovo una spalla, come gesto di commiato, e si diresse verso il cassero a capo chino, con la testa e il cuore oppressi da mille pensieri.
Ormai la decisione era presa in via definitiva: rotta verso Recife per sbarcare i malati. Non c’era un minuto da perdere.
Tom Pullings non aveva un minuto da perdere.

Salendo l’ultimo gradino che lo separava dal ponte, alzò lo sguardo e si trovò davanti il cielo azzurro.
Un gabbiano attraversò il suo campo visivo, e ripensò improvvisamente ad un componimento di Donne, letto anni prima, che gli restituì un po' di speranza per sè e per il suo giovane sottoposto, confinato in quel letto di dolore.
 
Death, be not proud, though some have called thee
Mighty and dreadful, for thou art not so;
For those whom thou think'st thou dost overthrow
Die not, poor Death, nor yet canst thou kill me.


From rest and sleep, which but thy pictures be,
Much pleasure; then from thee much more must flow,
And soonest our best men with thee do go,
Rest of their bones, and soul's delivery.


Thou art slave to fate, chance, kings, and desperate men,
And dost with poison, war, and sickness dwell,
And poppy or charms can make us sleep as well
And better than thy stroke; why swell'st thou then?


One short sleep past, we wake eternally
And death shall be no more; Death, thou shalt die.



Note: 

Il componimento citato alla fine è "Death be not proud"  del poeta inglese John Donne.
La traduzione, mia e di conseguenza opinabile, è la seguente: 

"Morte non essere orgogliosa, anche se molti ti hanno chiamata
Maestosa e terribile, perchè tu non sei così;
Perchè coloro che pensi di poter sottomettere
Non muoiono, povera Morte, e nemmeno puoi uccidere me.

Dal riposo e dal sonno, che sono solo tue immagini, 
Molto piacere [deriva]; e quindi da te molto di più ne deve fluire
E prestissimo i nostri uomini migliori se ne vanno con te, 
Riposo per le loro ossa, e liberazione dell'anima.

Sei schiava del fato, del cambiamento, dei re, e degli uomini disperati,
E t' intrattieni col veleno, la guerra, e le malattie,
Ma il papavero (l'oppio) o gli incantesimi ci fanno dormire lo stesso
E meglio del tuo colpo; perchè dunque t' inorgoglisci?

Dopo un brevissimo sonno, ci svegliamo in eterno
e la morte non sarà più; Morte, tu dovrai morire. 



 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Disclaimer: la pubblicazione è senza scopo di lucro e guadagno solo le parole dei recensori.

Buona lettura ^^


Poco dopo la visita del capitano, finalmente la febbre di Tom cominciò a scendere un poco per volta. Finché, a notte fonda, aprì gli occhi e chiese un bicchier d’acqua con la voce ferma e una coerenza incompatibile con uno stato di delirio.
Immediatamente l’infermiere mandò a chiamare Stephen, che si precipitò dabbasso ancora in camicia per trovare il giovane ufficiale tremante e in un bagno di sudore.
Il termometro confermò che la temperatura fosse scesa a 98.6°* .

Lo lavarono da capo a piedi, per rinfrescarlo, e gli cambiarono le coperte.
Non per la prima volta, Herapath notò la particolare delicatezza con cui Maturin passava la spugna bagnata sul corpo prostrato del tenente, la dolcezza con cui gli posava una mano sulla fronte per saggiarne il calore, e il tono affettuoso con cui gli parlava. Era chiaro ai suoi occhi come, nonostante fin dall’inizio dell’epidemia il dottore si fosse dedicato anima e corpo alla cura di tutti i suoi pazienti, la guarigione del signor Pullings gli stesse particolarmente a cuore.
Quando ebbero infilato la camicia da notte al malato, per evitare che prendesse freddo ora che la febbre era passata, e lo ebbero infine riadagiato nella sua branda, questi si addormentò di nuovo perché stremato dallo sforzo, per quanto minimo.
 

 

Pur sfebbrato, il tenente era ancora molto disorientato e, a causa dello stato di deperimento in cui versava, ancora non ragionava lucidamente: tremava come una foglia e sussultava ad ogni rumore, stancandosi per nulla. Più volte, tastandogli il polso, lo trovarono sottile e accelerato come quello di un topolino.

Allora Stephen relegò il proprio zelante assistente alla sua branda, con l’ordine tassativo di prestare conforto al malato e di avvisarlo al minimo cambiamento: “Il capitano mi informa che, entro due giorni, dovremmo avvistare la costa e potremo finalmente sbarcare i nostri convalescenti. Queste ultime ore, tuttavia, saranno critiche per la sopravvivenza di alcuni di loro. Il signor Pullings, tra questi. Sebbene la crisi sembri scongiurata non è ancora fuori pericolo. Badate vi prego che sia ben coperto e stategli vicino, se dovesse agitarsi. Le sue condizioni sono estremamente precarie, nonostante il miglioramento: ha bisogno di tutto l’aiuto possibile.”
Compito, questo, che il ragazzo svolse con la massima premura e responsabilità, assentandosi solo per accudire gli altri convalescenti o per sopperire ai propri bisogni fisici.

Per diverso tempo, sedette al capezzale del signor Pullings, tenendogli una mano e accarezzandone il dorso per tranquillizzarlo e farlo sentire meno solo. Gli parlava a bassa voce e lentamente, spiegandogli quel poco che sapeva sulla loro posizione e raccontandogli piccoli aneddoti di vita a bordo. Lo trattava con la stessa cortesia che aveva ricevuto da lui sia quando aveva ritenuto necessario dissuaderlo dall’imbarcarsi, sia durante la sua brevissima esperienza come gabbiere. Almeno per quello sentiva di essergli grato.

“Siete molto buono con me.” Sussurrò Tom il pomeriggio successivo, mentre Herapath gli premeva uno straccio umido sulla fronte per dargli sollievo dal caldo “Vi ringrazio.”
Il facente funzioni di assistente si concesse un sorriso: “Faccio solo il mio dovere, signore.”
“Comunque grazie. “ ribatté Pullings, sinceramente toccato dalla sua vicinanza.
 


Avvistarono finalmente la costa e Stephen si fece aiutare da Herapath ad esaminare i convalescenti, per decidere una volta per tutte chi dovesse sbarcare e chi no.
Per ultimo, visitarono Thomas Pullings.

Quando si accostarono al suo capezzale, il tenente stava dormendo, ancora scosso da sussulti sporadici dovuti quasi esclusivamente al logoramento dei nervi. Con un’ espressione indecifrabile, Maturin gli mise una mano sulla spalla e lo scosse dolcemente: “Tom. Tom, svegliatevi per cortesia.”
Il giovane aprì gli occhi con un gemito: “Dottore?”
Stephen forzò un sorriso, senza staccargli la mano dalla spalla: “Buongiorno, mio caro. Mi dispiace disturbare, ma devo visitarvi.”
Tom lo guardò di sottecchi, come se non avesse ben capito cosa gli stesse dicendo. Poi però annuì e sopportò con pazienza che gli sfilassero di dosso le coperte, nonostante la sensazione di freddo che ne conseguì.
“Riuscite a mettervi seduto?”
Pullings si puntellò con i gomiti sul fondo della branda e fece il gesto di sollevarsi ma ciò che restava dei suoi muscoli era troppo debole per sorreggerlo e ricadde sul cuscino con un gemito di frustrazione.
Volle ritentare ma senza risultato.

Prima che ci riprovasse, Stephen intervenne premendogli le spalle sul cuscino con fermezza: “Non fate sforzi inutili. Vi fareste solo del male. ”
Vergognandosi della propria debolezza, Tom nascose il volto nel guanciale e strinse forte i denti. Stephen ne ebbe compassione e cercò di rassicurarlo: “Siete stato molto malato, Tom, è normale che siate ancora debole. Ma non vi preoccupate: starete meglio presto.”
Inforcati gli occhiali, sollevò lentamente la camicia da notte del malato, che avvampò in volto e sembrò sprofondare ulteriormente nella branda, come a volersi nascondere.
Il medico gli lanciò un’occhiata ma prima che potesse fare nulla, Herapath iniziò a strofinare il bicipite contratto del giovane ufficiale, parlandogli a bassa voce per tranquillizzarlo, e questi si rilassò un poco.

Sfregandosi le mani per scaldarle, Stephen annuì all’assistente e appoggiò le dita sul ventre del paziente, palpandolo superficialmente.
Tom sussultò leggermente quando, esplorando i tessuti profondi, i polpastrelli del medico incontrarono il lobo inferiore del suo fegato ingrossato, che sporgeva dall’arcata costale destra poco più di un palmo sopra l’ombelico.
Ebbe la stessa infelice reazione quando, con l’aiuto di Herapath, lo fece voltare sul fianco destro e toccò la milza, trovandone il lobo inferiore appena più in basso di dove avrebbe dovuto essere. Pur ancora congestionati, gli organi stavano tornando lentamente alle dimensioni consuete, segno che la malattia stava retrocedendo anche se non con la rapidità che avrebbe auspicato.
Lo riadagiarono sulla schiena e Maturin gli appoggiò un orecchio sul torace, sentendo un raschio sottile nei polmoni e i piccoli sussulti che ancora producevano.

Si raddrizzò con un sospiro: nonostante fosse già convinto della necessità di dover sbarcare Pullings perché ricevesse le cure necessarie alla sua sopravvivenza, averne la conferma lo abbatté. Jack ci sarebbe rimasto malissimo, ma non voleva immaginare il dolore che avrebbe provato Tom quando lo avrebbe scoperto.
Non dopo che lo aveva sentito protestare di poter salire ancora sul ponte, quando ormai era tanto malato da non reggersi in piedi, poco prima che la febbre gli togliesse la lucidità. Dover rinunciare al proprio incarico, nonostante l’evidente stato di compromissione fisica, lo avrebbe distrutto.
Stephen si ritrovò a sperare, non del tutto irrazionalmente, che il suo cuore reggesse l’impatto.

Abbassata la camicia da notte, si attardò a palpare anche le gambe del malato, trovandole gonfie ed infiammate, come avveniva nell’ultimo stadio della malattia.
Lo avevano preso appena in tempo.
Gli rimboccò addosso le coperte e ne approfittò per tastargli il polso: lento, lentissimo, ma regolare e stabile. Almeno quello non destava preoccupazione.
Raccolse le sue mani emaciate e gliele incrociò sul petto, all’altezza del diaframma, coprendole con le proprie per un momento.

“Morirò, dottore?”
La domanda, posta a fil di labbra, lo colse completamente di sorpresa, e dovette sforzarsi per mantenere un contegno professionale: “No, mio caro ragazzo.” Riuscì a rispondere. “Vivrete più a lungo di Matusalemme e che possano cascarmi entrambi gli occhi se un giorno non vedrò la vostra insegna sventolare sull’albero di mezzogiorno!”
“Di mezzana.” Lo corresse Tom con un sorriso.
“E’ uguale!” Sbottò Stephen, notoriamente a disagio con i termini nautici.
“No. Ma se non altro avete azzeccato l'albero, è già qualcosa.”
“Oh, insomma! Voi marinai e le vostre fasciabubbole demoniache!”
Sentendo il termine “fasciabubbole”, sapientemente coniato da lui stesso e dall’amico William Mowett per essere propinato al buon dottore come scherzo, Pullings scoppiò a ridere.
Il riso si dissolse presto in un attacco di tosse e il suo torace sussultò violentemente sotto le mani di Stephen, che ordinò ad Herapath di passargli la tazza con l’acqua. Sorreggendo il capo di Tom nell’incavo del gomito, lo aiutò a bere.

Quand’ebbe finito, lo riadagiò sul cuscino, appoggiandogli una mano sul petto: “Cercate di riposare ancora un poco. Tornerò presto a trovarvi. E non preoccupatevi: ormai siete in via di guarigione.”
Lo guardò addormentarsi con il cuore stretto dall’ansia. Se fosse rimasto, fragile com’era, sarebbe morto in pochi giorni. Lasciarlo indietro sarebbe stato difficile per tutti: Jack, lo stesso Stephen, e i marinai erano cordialmente affezionati a Tom Pullings e viceversa. Lui ne avrebbe sofferto più di loro, probabilmente, perché già provato dalla lunga e grave malattia.
 

Il rapporto con la lista dei convalescenti che necessitavano di cure immediate, in ordine di gravità, iniziò dunque con il nominativo di Thomas Pullings.
Bussando alla porta del capitano Aubrey per consegnarlo, Stephen dovette ripetere a se stesso per l’ennesima volta che se davvero volevano il bene di Tom, quella era l’unica soluzione possibile. Come medico e come uomo era un fallimento, e accettarlo non sarebbe stato semplice, ma ormai non si poteva fare diversamente.



Note:

98,6° Farenheit sono 36,6° Celsius 

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Disclaimer: i personaggi riconoscibili e le ambientazioni appartengono ad O'Brian ed agli aventi diritto, così come la frase contrassegnata da asterisco (*) che è tratta dall' edizione italiana (pubblicata da Tea Editrice) de "L' Isola della Desolazione".

Eccoci anche all' ultimo capitolo di questo ennesimo catturone al povero Tom Pullings. Ringrazio di cuore chiunque abbia letto e soprattutto chi ha avuto la pazienza di lasciare un commento. Grazie mille!
Buona lettura ^^


Passarono un paio d’ore, dopo la visita ai convalescenti, prima che il capitano Aubrey si mostrasse di nuovo in infermeria accompagnato dal dottor Maturin, che però si fermò sulla porta.
Herapath stava piegando delle coperte pulite quando il rumore dei passi attirò la sua attenzione.
Il medico intercettò il suo sguardo interrogativo e gli segnalò di non interferire con un cenno della mano, e lui rimase al suo posto. Continuò però ad osservare con discrezione la scena che si svolgeva a pochi metri da lui.

Con il cuore stretto dal dispiacere, Jack si recò di nuovo al capezzale del suo secondo.
Sotto i rimasugli dell’esantema, l’arrossamento della febbre aveva lasciato il posto ad un pallore cadaverico, stemperato solo dalle profonde occhiaie che gli avvolgevano le palpebre. Aveva le mani incrociate sul petto e la testa leggermente voltata di lato, del tutto abbandonata sul guanciale perché il collo mancava della forza necessaria a sostenerla. Non fosse stato per i tremori che ancora lo scuotevano, avrebbe pensato che fosse spirato da poco.
Un artista avrebbe potuto prenderlo a modello per una scena di Compianto.
Nel prendergli una mano notò che gli avevano avvolto i polsi con delle garze per medicare le escoriazioni e rese grazie del fatto che le corde non fossero più necessarie. Strinse le dita gelate del tenente fra le sue, coprendole con l’altra mano e frizionandole fino a destarlo.

“Signore.” Lo salutò il giovane con un sorriso, mentre si sforzava di raddrizzarsi nella branda per rispetto del superiore e tirava un po’ su la testa.
L’agnello condotto al macello, pensò Aubrey, impietosito: “Ascoltatemi, Tom, per favore.”
Cercò di non far trapelare il rammarico che provava ma l’espressione corrucciata lo tradì davanti al secondo che ormai lo affiancava da anni e il sorriso svanì anche dal suo volto: “Qualcosa non va, signore? Ditemi, ve ne prego.”
“Vedete...” non sapeva davvero come dirlo e decise che tanto valeva venire al sodo “Abbiamo fatto scalo a Recife per sbarcare i convalescenti più gravi e farli ricoverare in un ospedale attrezzato, dove potranno ricevere cure che a bordo non siamo in grado di offrire. Il dottore mi ha fatto il vostro nome e ho dovuto dare il consenso. Mi dispiace.”
“Ah!” Se possibile, Pullings divenne di un grado più pallido e, con un grido strozzato, crollò sul cuscino, rabbrividendo violentemente e agitandosi.

Il tramestio fece sobbalzare Herapath, che si mosse per intervenire ma venne fermato di nuovo da un gesto del dottore. Gli bastò uno sguardo, comunque, per capire che non ci sarebbe stato bisogno del suo aiuto.
La fiducia che Aubrey ispirava ai suoi uomini era tanta e talmente profonda che gli bastò appoggiare una mano sul petto di Pullings e una sulla sua testa perché si immobilizzasse. Chino su di lui, iniziò a sfiorargli la fronte con le dita e gli parlo con un tono basso e tranquillo, spiegandogli la situazione e cercando di farlo ragionare: “Dispiace molto anche a me, non sapete quanto! Ma il dottore mi dice che avete bisogno di un ospedale e che se non vi sbarchiamo al più presto potremmo perdervi, capite?”
Gemendo, Pullings scosse il capo: la notizia lo aveva sconvolto tanto che stava piangendo.

“Shh, shh.” Jack gli accarezzò la testa, calmandolo un poco “Credetemi: mi piange il cuore nel farlo. Ma non abbiamo scelta. Rischiate di... diglielo tu, Stephen.”
“Mio caro, dispiace profondamente anche a me” spiegò il dottore, appoggiando una mano sulla spalla del tenente “e vedervi così mi spezza il cuore. Ma il capitano ha ragione: non abbiamo scelta. Se restaste a bordo, nelle vostre condizioni, potreste morire e siete troppo prezioso per sacrificarvi così...”
“Correrò il rischio.” Lo interruppe il giovane, per la prima volta nella sua vita “Voglio restare, signore. Vi prego.”
“Mi dispiace. Avete sentito il dottore.”
“Avrei voluto che ci fosse un altro modo, ragazzo mio, davvero.”

Quelle parole affossarono il povero Pullings definitivamente e si rilassò del tutto contro il fondo della branda, mentre le poche forze che aveva lo abbandonavano.
Seppellì il viso nel guanciale e continuò a lacrimare in silenzio, mentre Aubrey riprendeva a tenergli la mano: “Fatevi forza, Tom:  vi rimetteranno in sesto e tra qualche settimana tornerete a casa. Ci rivedremo in Inghilterra e avrete sicuramente altre occasioni di imbarcarvi con me. Per quanto mi dispiaccia dovervi lasciare indietro, preferisco questa prospettiva all’idea di perdevi per sempre.”
A quella, le sue dita si contrassero leggermente su quelle di Jack in un movimento spontaneo e deliberato piuttosto che in uno spasmo. Il capitano ricambiò la stretta senza dire nulla: non servivano parole per capirsi, quel semplice contatto parlava da solo.

Stephen osservò i due ufficiali con un sorriso indulgente e accarezzò la spalla di Pullings: “La malattia vi ha provato molto, Tom, più di quanto mi aspettassi: per poco non vi ha portato via. Grazie a Dio siete giovane e di buona costituzione, tutto quello di cui avete bisogno adesso è riposo assoluto e una dieta impossibile da mantenere in mare. Ma le buone suore sanno il fatto loro e vedrete che in un paio di settimane vi torneranno le forze. Coraggio.”
Con il volto rigato di lacrime, Tom annuì debolmente.
Jack gli appoggiò la mano libera sulla testa e Maturin gli deterse le guance con una pezza bagnata: fragile com’era, aveva bisogno di tutto il sostegno possibile.

Rimasero a vegliarlo finché la nave entrò in porto ed entrambi furono necessari in altri luoghi.
 


Era una splendida giornata di sole.
Il cielo era terso e una brezza leggera accarezzava le vele, rinfrescando il volto del capitano Aubrey mentre sorvegliava le operazioni d’attracco in piedi sul lato sopravvento del cassero.
Il dottore era da poco rientrato a bordo, dopo aver consegnato la posta ed affittato una barchetta che trasportasse i convalescenti fino alla banchina. Per non perdere tempo e non rischiare la velatura, infatti, la Leopard aveva dovuto mettersi alla fonda al largo di Recife. Inoltre, l’espediente dell’imbarcazione a nolo lo esonerava dal dover mandare a terra delle squadre di marinai, rischiando che la diserzione sfoltisse ulteriormente l’equipaggio, già decimato dall’epidemia.

Lasciò che il suo sguardo venisse catturato dai raggi solari che baluginavano sulle onde, creando quegli eleganti giochi di luce di cui mai si sarebbe saziato, mentre una folata di vento gli sollevava quei pochi capelli sfuggiti al nastro con cui li aveva raccolti.
Facendo scorrere il palmo sul corrimano, con lo sguardo fisso di fronte a se ed il volto contratto dall’ansia, Jack scese la scala e si andò a posizionare al centro del ponte, per osservare la squadra addetta all’allestimento della lettiga di tela che avrebbe consentito di trasbordare i malati.
Gli uomini lavoravano con solerzia sotto lo sguardo vigile dell’odiato Grant.
Solo a vederlo, lo stomaco di Aubrey si contrasse in uno spasmo e contrasse un pugno dietro la schiena, con la scusa di aiutarsi a tenerla dritta, pensando di essere costretto a collaborarci per i prossimi mesi.

“Magnifica giornata, signore. Non trovate?” Lo salutò il tenente, tutto giulivo per aver finalmente ottenuto il posto di primo ufficiale.
“Mpfh.” Grugnì Aubrey, per tutta risposta. Essendo il capitano, poteva permettersi simili uscite, e in quel momento ne fu particolarmente lieto.
Un’ angolo della bocca di Grant si contrasse a quella reazione, chiaramente ne era rimasto urtato e avrebbe voluto controbattere, ma la sua posizione di subordinato non glielo permetteva: “Saremo pronti in pochi minuti, signore.” Si limitò a spiegare, invece.
“Sarò più felice quando avremo finito, signor Grant. Non c’è un minuto da perdere.” Ribatté secco il capitano, senza disturbarsi ad essere cortese.
In procinto di dire qualcosa il tenente socchiuse le labbra, ma venne bruscamente interrotto dalla voce poderosa di Barrett Bonden: “Porco demonio! Goffo Davis, sottospecie di scimunito pidocchioso! Levati subito dai coglioni o ti spacco i denti con un calcio!”
Si udirono alcuni tonfi e grugniti vari, poi il possente timoniere fece la sua comparsa sul ponte.
L’attenzione di Aubrey fu catturata non tanto dalla sua persona, quanto dal fardello che stava trasportando con tanta cura e che gli fece dimenticare completamente lo sgradevole individuo al suo fianco.

Cullato dalle braccia robuste di Bonden, con il capo abbandonato sul suo petto, quello di Tom Pullings sembrava il corpicino di un infante. La camicia da notte immacolata e i piedi nudi non facevano che rafforzare quest’impressione. Con una delicatezza quasi impensabile per un uomo della sua stazza, il timoniere s’inginocchiò a terra e lo depose sulle travi del ponte, un poco discosto dagli altri convalescenti in onore del suo grado.
Joe Plaice si sfilò la giacca d’ordinanza e l’avvolse attorno alle spalle tremanti del tenente, che se la chiuse sul petto con una mano, come una coperta. Nel frattempo, un altro marinaio aveva piegato la sua per mettergliela sotto la testa a mo di cuscino.
Preservato Killick aleggiava nei dintorni con una brocca e si aprì a spintoni una breccia tra i compagni per offrire al poveretto una tazza di limonata fresca: “Limoni veri, signore, belli freschi di giornata. Sarebbe che il dottore li ha comprati di tasca sua apposta per voi che siete stati malati, signore. Bevetene un sorso, vi farà bene.”
Sopraffatto da tante premure, Pullings aveva le lacrime agli occhi e la voce rotta quando, restituendo la tazza di peltro a Killick, li guardò in volto uno ad uno e disse: “Grazie, signori, per la vostra gentilezza.”
“Dovere, signore.”
“Dovere, signore.”
“Dovere, signore.”
“Sarebbe che, per uno come voi, uno lo fa anche volentieri, no?”
Quella scena strappò un sorriso a Jack, che si sentì il cuore più leggero nel vedere gli uomini stringersi al suo secondo e trattarlo con lo stesso rispetto che avrebbero riservato a lui: Thomas Pullings stava diventando un grande uomo ed un magnifico ufficiale, la malattia sarebbe stata solo un piccolo intoppo sul suo percorso.

Si voltò verso Grant, nella speranza di condividere con lui la bellezza di quel momento, ma lo trovò che sogghignava, squadrando dall’alto in basso il corpo prostrato dell’altro ufficiale come se il solo fatto di non aver contratto il tifo dimostrasse la sua superiorità. Aubrey ebbe un moto di stizza per quell’atteggiamento e decise di dimostrare una volta per tutte dove stessero le sue simpatie:“Lascio l’operazione nelle vostre mani, signor Grant.”
Questo glielo avrebbe tolto dai piedi per un po’.

Recuperando il sorriso, Jack si diresse ad ampie falcate verso il cantuccio dove giaceva Pullings, con Bonden che gli faceva la guardia come un mastino particolarmente
possessivo, e gli si inginocchiò accanto, sollevandogli le spalle da terra ed estraendo un fazzoletto per asciugargli il sudore dalla fronte.

Il timoniere fece un verso sprezzante, badando di non farsi sentire dall’ufficiale di guardia: “Tsk! Ma avete visto come lo guardava, signore? Come guardava voi, cioè.”
“Sì l’ho visto, signor Bonden. Vi prego di trattenervi, però: non vorrei essere costretto a mettervi ai ferri.”
“Sissignore. Però per onestà ve lo devo dire, signore: fossimo stati a terra lo avrei gonfiato di botte.”
“Per favore, signor Bonden.” Intervenne Pullings, rabbrividendo “Non fate stupidaggini. Non per via di quell’uomo, almeno. Non ne varrebbe la pena.”
“Ben detto, Tom, sono d’accordo con voi. E’ un individuo sgradevole ma ci tocca sopportarlo.”
A mal in cuore il timoniere dovette desistere dai suoi propositi di violenza: “Sissignore.”
“Comportatevi con lui come avreste fatto con me, Bonden. E’ un ordine.”
“Sissignore. Croce sul cuore, signore.”
“Bene.”

Tutto il corpo di Pullings venne scosso da un attacco di tosse secca e Jack gli strofinò la schiena, accigliandosi quando sentì sotto il palmo le costole e le scapole che sussultavano, troppo nitide sotto il tessuto della giacca e il lino leggero della camicia.
Preservato Killick si materializzò alle sue spalle come un giocattolo a molla, munito di brocca e tazza. Ringraziato il famiglio, Aubrey sorresse la mano di Tom mentre si accostava il recipiente alle labbra e lo aiutò a bere.
Quand’ebbe finito dovette riadagiarlo a terra, perché solo stare seduto gli provocava le vertigini.
 


Giunse infine il momento fatidico di calare Pullings nella lettiga. Bonden ed Aubrey lo fecero insieme, ciascuno rifiutando di delegare ad altri quella responsabilità.
“Buona fortuna, Tom. Ci rivedremo presto.” Lo congedò Jack, stringendogli la mano per l’ultima volta.
A differenza di molti altri, il giovane ufficiale era troppo debole anche solo per alzare la testa e questo fu il suo unico sollievo mentre lo calavano lungo la paratia.
La tela gli nascondeva il volto e nessuno avrebbe visto che stava piangendo.

Poco dopo un tale Ayliffe ebbe qualcosa da ridire sul metodo di Stephen nel trattare i suoi pazienti e il tenente Grant lo riprese con particolare durezza: “Prendete il nome di quell’uomo!” strillò.
“Prenditelo da solo, vecchia scoreggia francese! E ficcatelo in quel posto! La disciplina non vale qui*.”

Gli altri invalidi disapprovarono quel comportamento tanto irrispettoso e mugugnarono tra loro contro il compagno irriverente.
Jack avrebbe dovuto intervenire in sostegno del suo ufficiale ma, date le circostanze, si guardò bene dal farlo, limitandosi a dissimulare una risata con una schiarita di gola, che il tenente interpretò come segno di disapprovazione verso il marinaio.
 


Stephen si calò nella barca, facendosi strada con attenzione tra i corpi stipati per sedersi al fianco di Pullings.
Al momento, il tenente lo preoccupava più di tutti: già indebolito dalla malattia aveva appena ricevuto un dispiacere enorme. Temeva che fosse troppo per lui e che non avrebbe retto.
Con la scusa di controllargli il battito, gli prese una mano tra le sue. Avrebbe voluto dire qualcosa per consolarlo ma non gli venne in mente nulla di sensato.
Camminando svelto accanto alla barella su cui lo avevano disteso, continuò a tenergli una mano sul polso, cercando di offrire quel poco di conforto che poteva, lungo tutto il tragitto dal porto all’ospedale.

Quando i due inservienti lo sollevarono dalla lettiga per metterlo a letto, Stephen gli resse la testa, appoggiandola sul cuscino con la stessa cura che avrebbe usato per un lattante. Gli stese addosso le coperte, lavate di fresco e profumate, e gli appoggiò le mani sul petto, avvolgendole nelle proprie mentre sedeva sul materasso accanto a lui.
Una mano pallida e delicata si posò lieve sulla fronte del giovane e, risalendo la manica del saio con lo sguardo, Maturin incontrò lo sguardo preoccupato della madre superiora, Suor Clarita: “Questo ragazzo vi è molto caro, vedo.” Gli disse, in Latino, con un forte accento portoghese.
“Lo è davvero, Madre. “ Le rispose lui nella stessa lingua “Tutti i miei pazienti mi stanno a cuore, ma lui è un vecchio amico.”
La donna annuì, comprensiva: “Non dovete preoccuparvi: avremo buona cura di lui. Ho visto uomini più deboli rimettersi in piedi in pochi giorni.”
“Ne sono certo, Madre. Tuttavia...”

Un gemito spezzò la sua frase. Sentendo le voci intorno a se, e più ancora l’assenza dell’onnipresente rollio della nave sotto di lui, Pullings si era scosso dal torpore in cui era scivolato e si stava guardando intorno, completamente smarrito.
Finalmente il suo sguardo si posò sul volto di Stephen e, riconoscendolo, si calmò un poco: “Dove sono?” sussurrò.
“Siete in ospedale, mio caro. A Recife.”
“Dio mio! No! No!” Seguì una sfilza di imprecazioni irripetibili, sussurrate a mezza voce a causa delle condizioni in cui versava.

Fortunatamente per lei, la suora – che parlava anche un po’ d’Inglese – capì meno della metà delle scurrilità proferite dal tenente, ma non le sfuggirono i brividi profondi che lo attraversarono né lo stato di grave agitazione. Chinatasi su di lui, aiutò Stephen a premerlo contro il cuscino.
“Non deve agitarsi tanto.” Le disse lui “Il suo cuore non è ancora in grado di reggere lo sforzo.”
“Abbiamo del laudano, dottore, e del latte di papavero: lo aiuteranno a dormire.”
“No, è ancora troppo debole. Un infuso di camomilla, piuttosto, o valeriana...”
“Con un cucchiaio di miele di tiglio.” Concluse lei, rassicurandolo definitivamente sulle sue capacità mediche “Ve la porto subito.”
Sparì in un fruscio di vesti, lasciandolo solo con il suo paziente.

Maturin ebbe una fitta al cuore vedendo che Tom aveva di nuovo le lacrime agli occhi. Non lo aveva mai visto stare così male e pregò Dio di non doverlo rivedere mai più in quelle condizioni: “Vedete di darvi una calmata, Thomas.” Lo riprese con un tono più brusco di quanto avrebbe voluto “Non vi fa bene agitarvi così!”
“Dottore?”
L’espressione di Stephen si addolcì mentre si rendeva conto che di fronte a lui non c’era più un ufficiale di marina, coraggioso e ligio al dovere, ma un giovane spaventato e solo, indebolito da una lunga malattia: “Sono ancora qui, mio caro.” Gli si sedette di nuovo accanto, prendendogli le mani “Non dovete preoccuparvi di nulla: cercate solo di riposare. Appoggiate la testa sul cuscino, su, e chiudete gli occhi.”
“No. Non voglio farlo.”
“Perché?”
“Perché quando mi addormenterò ve ne andrete e mi lascerete qui.”

Stephen rimase di sasso a quelle parole: per comportarsi così Tom doveva essere davvero distrutto. Sapeva che si stava comportando in modo infantile, un atteggiamento inaccettabile per un uomo adulto, ma non volle giudicarlo. Sapeva come, e meglio di chiunque altro a cosa portasse un logoramento nervoso come quello: doveva cercare di tranquillizzarlo almeno un po’.
“Intanto sono qui.” Gli rispose “E non me ne andrei se non avessi la certezza che foste in buone mani. Ve l’ho già detto e ve lo ripeto: lasciarvi qui mi spezza il cuore. Ma è per il vostro bene. Le sorelle si prenderanno cura di voi come io da solo non potrei fare e vi rimetteranno in piedi. Se foste rimasto a bordo non avreste avuto speranza.”

Pullings rabbrividì di nuovo ed emise un lungo sospiro, completamente scoraggiato. Era arrivato da solo alla stessa conclusione ma, per quanto fosse sensata, non riusciva ad accettarla serenamente.
Si lasciò sprofondare nel cuscino, cercando di concentrarsi sul calore delle mani del dottore, strette intorno alle sue. Nei giorni seguenti avrebbe sentito la mancanza di quel contatto, così come di quello del capitano. Gli sarebbero mancati gli scricchiolii, i cigolii e l’odore di muffa della Leopard - per quanto orrenda fosse - le imprecazioni dei marinai, il fischietto del nostromo e persino il grugno di Killick.
Ma sapeva di non avere scelta.

La monaca si avvicinò di nuovo al suo letto. Aveva in mano una tazza fumante che emanava un profumo molto dolce e in volto un sorriso materno. Solo guardarla in volto lo mise in soggezione ma lo fece anche sentire più calmo, per qualche motivo che non riuscì a capire.
Il dottore fece scivolare un braccio dietro le sue spalle e lo sorresse mentre lo aiutava a bere.
Come anticipato dal profumo, l’infuso era dolce e caldo. Man mano che beveva, quel calore sembrò sprofondargli nelle ossa, appesantendogli progressivamente il corpo e le palpebre.

In poco tempo, si addormentò con la testa sulla spalla di Stephen.
 


Seguendo Suor Clarita nel suo studio, Maturin sentì finalmente la tensione degli ultimi giorni abbandonarlo.
Aveva avuto la conferma di aver preso la decisione giusta per i suoi pazienti e avrebbe potuto guardare di nuovo in faccia Jack con la consapevolezza di aver fatto il suo dovere fino in fondo.
Si concludeva un momento difficile per tutti e non dubitava che, nel corso di quel viaggio, ne avrebbero avuti altri. Ma almeno quella crisi era stata superata.
Si sentì il cuore improvvisamente più leggero e, nonostante la stanchezza, ebbe il bisogno irresistibile di sorridere.

 
- The End -

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