Watson in pillole di K_MiCeTTa_K (/viewuser.php?uid=715352)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritorno a casa ***
Capitolo 2: *** L’ora del tè ***
Capitolo 3: *** Pensiero fisso ***
Capitolo 4: *** Sol minore ***
Capitolo 5: *** Questa non è vita ***
Capitolo 6: *** Big Brother is watching you ***
Capitolo 7: *** Qui pro quo ***
Capitolo 8: *** Guida pratica: come rovinare il Natale. ***
Capitolo 9: *** Pelle nuda ***
Capitolo 10: *** Ago e filo ***
Capitolo 11: *** Nube tossica ***
Capitolo 12: *** Amore e odio sotto le armi - prima parte - ***
Capitolo 13: *** Amore e odio sotto le armi - seconda parte - ***
Capitolo 1 *** Ritorno a casa ***
[ W: 500 |
C: John Watson ; Harriet Watson | Tag: preS1 ]
Ritorno a
casa
«Maman,
où sommes nous?» Watson non è sicuro d’aver capito, non rispolvera il
proprio francese da un po’. Inoltre il vagone è pieno, e lo schiamazzo generale
ha in parte coperto la vocina di quel bimbo che gli siede di fronte.
«Siamo
vicino la cattedrale di Saint Paul.» risponde la donna accanto, in un inglese
perfetto.
Alla
prossima stazione, realizza, dovrà scendere anche lui.
Una
bambina arriva d’improvviso e salta in grembo alla donna, le sfila il cappello
di paglia chiara da testa e prova ad indossarlo sulla propria, sparendo
completamente dietro le falde larghe. Il bambino ride di gusto e richiama l’attenzione
della piccola tirandola per il vestitino. L’uomo li osserva.
La
femminuccia quindi scende dalle gambe di quella che è sicuramente sua madre e
cerca di risalire sul sedile col maschietto, andando a condividere lo spazio a
sedere. La biondina è tanto piccola che si dà lo slancio posando le scarpette
contro il borsone già impolverato di John.
«Tiens-toi bien, Henriette.» la
rimprovera pacatamente la mamma. «Mi scusi.» aggiunge con un sorriso
rivolgendosi a Watson, il quale ricambia il cenno cercando di comunicare che
non c’è problema.
Intanto
i due piccoli hanno preso a giocare tranquilli tra di loro. Il fratello è
sicuramente più grande di un paio d’anni della femminuccia. Battono
ritmicamente le manine sottili in un gioco. Anche John giocava spesso con
Harry. Un angolo delle labbra dell’uomo si alza per l’ironia della somiglianza
dei nomi tra sua sorella e quella bambina, l’ha notato solo ora. Oh quanto
vorrebbe tornare a quando erano così piccoli. Cosa diavolo è successo? Da
quanto non ha sue notizie? Devono essere passati mesi dall’ultima volta che l’ha
cercata. Lei, dal canto suo, gli ha inviato un paio di lettere.
Come
starà? Prima di partire non ha avuto nemmeno il coraggio di salutarla, è
scappato mettendo tra di loro quanti più chilometri fosse possibile. Certo che
per essere un soldato pronto a sacrificare la propria vita, è davvero un
codardo.
Quella
piccola, dalla faccina sorridente col naso all’insù, avvolta in un vestitino
giallo dai fiorellini lilla, in questo momento tira le orecchie del bambino
accanto, che di rimando le pigia un dito sul naso imitando il verso di un
maialino. Scherzano e si intrattengono a vicenda.
Com’è
successo che John ha rinunciato ad avere tutto questo con la sorella, non
riesce a spiegarselo. Avverte un senso di vuoto allo stomaco e la consapevolezza
di essere stato un vero stronzo a lasciarla sola ad affogare nei problemi.
La
voce registrata lo avverte dell’arrivo imminente alla prossima fermata.
Si
alza, cerca di non dar fastidio con il suo borsone ingombrante.
«Au revoir.» lo saluta inaspettatamente
quella Henriette facendo anche destra-sinistra con la manina.
«Au revoir» risponde a sua volta
John, cercando di pronunciare al meglio le parole.
Mentre
si allontana zoppicando, pensa che potrebbe avere una nuova occasione ora che è
tornato a Londra. Il treno rallenta, le porte si aprono. Non rimanderà, in
giornata sentirà di nuovo la voce di sua sorella.
|
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Capitolo 2 *** L’ora del tè ***
[ W: 456 |
C: John Watson ; Mary Morstan | Tag: postS3 ]
L’ora del
tè
John
prende il bollitore dal mobile sopra al lavello. Apre l’acqua del rubinetto, la
fa scorrere sull’acciaio. Agita e gira il contenitore per sciacquarlo. Ora può
riempirlo con la giusta quantità di acqua. E per “giusta”, s’intende quella che
contiene in maniera agevole la sua tazza preferita e un’altra che prenderà a
breve dallo stesso mobile.
Accende
il fuoco, quello più piccolo, e ci posiziona sopra il bollitore. Mentre attende
che raggiunga la temperatura desiderata comincia appunto a tirare fuori le
tazze. La sua è insostituibile e speciale, ancor più dopo che s’è scheggiata
appena sull’orlo tondo del fondo, quel cordone sul quale si poggia.
Bisogna
affrettarsi a recuperare anche la teiera. La mette sul tavolo e la riempie con
due cucchiai di Earl Grey in foglie.
Va
al frigo, ne caccia del latte, che si sbriga a versare timidamente nella
propria tazza. Così, giusto un goccino. Nell’altra invece bisogna abbondare.
Posa il latte da dove l’ha preso e proprio quando l’acqua ha raggiunto l’ebollizione
tuffa una zolletta di zucchero in quel mare di latte, per sé invece lo
preferisce senza.
Il
bollitore suona in un fischio stridulo. Spegne il fuoco e con una presina si
aiuta a versare l’acqua nella teiera.
Intanto
che si devono aspettare i canonici tre minuti di posa, rimette in ordine la
roba che ha usato. Guarda infine sul tavolo con aria soddisfatta, sicuro di
aver preparato ogni cosa in maniera impeccabile. Le tazzine ci sono, i
cucchiaini anche. I tovaglioli li ha presi, tutto è stato disposto sul vassoio
pronto per essere portato nel salotto.
I
biscotti. Panico, dove sono i biscotti? Spalanca un paio di ante dei mobili
della cucina. Nulla, in uno scomparto ci trova addirittura tutt’altro,
elettrodomestici e un set di piatti. In un altro invece ci sono un paio di
buste di merendine, nulla di lontanamente adatto. Cosa se ne dovrebbe fare di
tutta quella crema e simil - pan di spagna? La
signora Hudson rabbrividirebbe al sol pensiero come sta facendo anche lui.
Sconsolato si decide a chiedere un aiuto repentino.
«Tesoro,
dove sono i biscotti?» alza un po’ la voce per farsi sentire fino alla stanza
accanto.
Silenzio,
poi rumore di passi.
«Sono
finiti. Però abbiamo ancora questa.» Mary compare radiosa nella stanza e si
avvicina al frigorifero. Apre lo sportello e tira fuori una torta al
cioccolato, con della panna montata sopra, che ha preparato due giorni prima e
che non hanno ancora terminato di mangiare.
Diamine
un momento felice sfumato via per dei biscotti. Avrebbe pagato oro per quella
droga allo zenzero che si accompagnava in maniera divina con il tè. Cristo, il
tè. Deve essere in ammollo da buoni sei minuti.
Sospira
afflitto. Mette su un sorriso.
«Mi
sembra ottimo, Amore.».
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Capitolo 3 *** Pensiero fisso ***
[ W: 515
| C: John Watson ; maestrina noiosa (come la definisce Sherlock nella 2x01) |
Tag: Johnlock ; postS1 ]
Pensiero
fisso
Avete
presente quando dite “entro a comprare solo una cosa, non c’è bisogno del
carrello”, e poi vi ritrovate con le braccia piene e un’imprecazione ferma
sulla punta della lingua, rivolta a voi stessi? Ecco, bene. Deve essere successo
proprio questo alla ragazza che è lì, nel reparto surgelati di Tesco. La vedo
armeggiare impacciata. Sembra carina, magari potrei propormi di darle una mano.
Cosa posso dirle? “Ho terminato il mio giro, poggia pure nel mio carrello la
tua roba. Ti accompagno alla cassa”? Naa, mica voglio passare per un suo
lacchè. Pensa John, pensa.
Un
tubo di patatine le sfugge dalle mani, oramai soverchianti di prodotti, e
rotola proprio nella mia direzione. Questo è destino.
«Oh,
mi scusi!» mi si avvicina mentre raccolgo la confezione da terra. «La ringrazio
tanto.» sorride, allaccio il mio sguardo al suo. Due occhi scuri, ma vispi.
«Si
figuri, piuttosto, si faccia aiutare.» colgo l’occasione, le donne con un po’
di gentilezza e galanteria capitolano sempre. «Sono John comunque, piacere.».
«Hanna.».
È
bastata una chiacchiera e un sorriso, e quando mi sono offerto di portare per
lei le buste, fino sotto casa sua, era già cotta. Mi ha detto «Dai, sali. Prendi
almeno un bicchiere d’acqua.» e non mi sono tirato indietro. Ho anche deciso d’ignorare
deliberatamente l’SMS che ho sentito arrivare sul cellulare. Devo farla finita
con queste giornate “Sherlock-centriche”.
«Entra,
ti presento Iago» mi indica un carlino mezzo addormentato nella sua cuccia, per
niente interessato a noi.
«Un
dormiglione.» commento seguendola in cucina. Poso la roba sulla tavola.
«È
davvero un tenerone. Mettiti comodo, io intanto preparo qualcosa, ti va un tè?»
mi aiuta a sfilare la giacca.
«Certo,
perché no.». Approfitto per dare un’occhiata in giro. «Hai proprio una casa
deliziosa.». Sul tavolino nel salone ci sono dei fogli, ne afferro uno. “Descrivi
la tua casa.” deve essere il titolo di un tema. «Sei un’insegnante?».
«Si,
hai trovato i temi dei miei bambini.» arriva con due tazzine fumanti. Si
accomoda sul divano, sedendosi di fianco a me. «Ti piacciono le maestre, John?»
domanda stuzzicante.
Non
mi faccio scappare quest’invito implicito e poso delicatamente le mie labbra
sulle sue.
Vorrei
approfondire il contatto. Porto una mano tra i suoi capelli neri. No, un
attimo, è bionda. Sbatto le palpebre un paio di volte per mettere a fuoco. Si,
non c’è dubbio, capelli chiari come la sabbia. John concentrati. Tzè, neri, ma
a chi diavolo pensi. Basta. Stupido! «Io non sono gay!».
«Cosa?»
Hanna si fa un po’ più lontana.
«Eh?»
mica l’avrò detto ad alta voce? Da come mi guarda probabilmente si, cristo. «Ehm,
dicevo che non sono Gary.» balbetto una scusa a caso.
«Ma
io non ho detto niente…» risponde lei che probabilmente non ci sta capendo un
fico secco peggio di me.
Meglio
farla finita, che cosa imbarazzante. «Scusa, s’è fatto tardi.» scopro l’orologio
per fare scena. «Devo proprio andare. Ma ci rivediamo.».
Imbocco
svelto la via per la porta, supero il cane, giacca alla mano. Un saluto
striminzito e mi richiudo la porta alle spalle.
Che
diamine, non ti sai godere neanche un bacio.
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Capitolo 4 *** Sol minore ***
[ W: 110 |
C: John Watson | Tag: postS2 ]
Sol
minore
L’archetto
si poggia sulle corde tese. La musica si dipana dalle dita affusolate che
danzano. Quei polpastrelli carezzano le note, prima morbide, poi più acute. Il
collo inclinato ad accogliere il legno sotto al mento. E i ricci che si muovono
ritmicamente sulla fronte pallida.
Watson è ancorato alla sua poltrona. In un abbraccio tiene al ventre la Union
Jack. Nella cassa toracica sente forte il riverbero di quel suono dolce.
Un Sol, un Si e un Re si amalgamano assieme. Gli arpeggi si susseguono
dinamici. L’armonia scema fino a terminare in maniera solenne.
John strappa via dalle orecchie le cuffiette dell’iPod.
Attorno a lui il silenzio. Il vuoto.
Un’assenza.
Dedicata
a R.
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Capitolo 5 *** Questa non è vita ***
Per
questa storia, che descrive delle scene durante la guerra, ho deciso di alzare
di un tono il rating.
[ W: 509 |
C: John Watson | Tag: GuerraAfghanistan ; preS1 ]
Questa
non è vita
«Non
aver paura. Ci penso io a te. Non ti lascerò morire. Tieni duro.» il Tenente
Watson continua a ripetersi, cercando di infondere coraggio al soldato che ha
tra le braccia. Se solo lo avessero avvertito delle condizioni dell’uomo si
sarebbe premurato di portare con sé qualcosa di più utile a fermare
l’emorragia. Qualcuno alle sue spalle annuncia che l’area è libera. Issato il
ferito su una portantina corrono verso il camion che li riporterà al campo
base.
Le
macerie la fanno da padrone in quella strada desolata. Il pericolo più alto è
quello di essere mirati da un cecchino. Quanti colleghi, amici, il dottore
aveva perso per questo motivo, non riusciva più a portarne il conto.
La
squadra avanza compatta. Il soldato si contorce dal dolore e tutti cercano di
farlo stare zitto. Ma come si fa a mantenere il silenzio? John fatica a non
urlare e piangere di fronte a tanto orrore. «Eccoci, ci siamo quasi. Guardami.»
gli ordina perentorio «Starai bene.» gli promette fissandolo negl’occhi ancora
scintillanti.
Sono
tutti a posto. Loro si sono posizionati sul retro dell’autocarro. Possono
partire.
Un
uomo si acquatta accanto a lui. John neppure sente cosa gli dice, concentrato
com’è a lavorare. Potrebbe essere importante? Ogni particolare potrebbe esserlo
in quegli istanti. Il dottore scorge i gradi sulle sue spalline, è un
sottufficiale, impugna un fucile di precisione. È quasi rassicurante avere un
tiratore scelto tra i buoni.
Cominciano
a muoversi, lenti. Fanno lo slalom fra alcuni detriti. Ripassano di fianco ad
una macchina che hanno incrociato quando sono arrivati, John la ricorda
perfettamente. Lì immobile. Chissà che fine ha fatto il proprietario, ma non è
difficile da immaginare. Nel migliore dei casi è morto, nel peggiore è
prigioniero da qualche parte. Certo, ci sarebbe anche l’opzione della libertà,
magari è vivo, ma costretto oramai ad allontanarsi da casa e molto
probabilmente con la famiglia dimezzata.
Ma
Watson è un medico, possibile che la sua mente reputi più dolce la morte che la
vita? D’altronde non sta cercando con tutte le forze di salvare l’uomo nelle
quali viscere affonda le mani? Affronta le sue giornate con la speranza di
rivedere sempre una nuova alba e un nuovo tramonto, ma il suo unico scopo è aiutare
quei soldati e il proprio paese. Solo questi desideri gli danno la forza di
andare avanti, ma John è seriamente convinto che questa non sia una vita degna
di essere chiamata tale.
Un
bambino sbuca da un vicolo che hanno appena sorpassato. Il Tenente lo vede
bene, piccolo, corre verso di loro. Dio, non è possibile. «Accelera.» intima a
chiunque stia guidando. «Veloce!» insiste. Il sangue gli si gela nelle vene. Il
tiratore si prepara a fare fuoco. «Non sparare!» gli grida Watson.
È
un istante. La deflagrazione è potente. John non saprà mai chi ha premuto il
grilletto, se uno dei loro o un nemico.
Quello che è certo è che altre vite sono state spezzate. Non potrà mai
cancellare dalla mente quelle iridi d’ossidiana del bambino che lo fissavano
prima di saltare in aria.
La storia
non riguarda in maniera diretta il telefilm e le sue dinamiche. E gli autori ci
hanno mostrato uno spezzone che riguarda la guerra di neppure 20 secondi all’inizio
della primissima puntata. Ho voluto in qualche modo colmare questo vuoto
immaginando un’esperienza che Watson potrebbe aver vissuto e che lo avrebbe
segnato irrimediabilmente.
Specifico che so che l’uomo è Capitano, qui l’ho immaginato ancora Tenente,
come se fosse ancora nel pieno del servizio e mancasse dell’altro tempo prima
del suo congedo.
Approfitto per ringraziare tutti i lettori e le altre persone che stanno
seguendo e lasciando una recensione alle storie.
A presto,
K.
|
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Capitolo 6 *** Big Brother is watching you ***
[ W: 473 |
C: John Watson ; Mycroft Holmes | Tag: inS2 ]
Big
Brother is watching you
− Dr. Watson, ci sono
novità? MH
− Assolutamente nulla da riferire. JW
---
− Cambiamenti? MH
− Nessuno. JW
*
− È uscito. MH
− Sono a lavoro, non saprei dirle. JW
− Non era una domanda. L’ho visto
uscire. MH
---
− Mi tenga informato, John. MH
---
− Dr. Watson? MH
− Anche la mia era un’affermazione:
sono a lavoro. Appena
torno a
casa, se ci fosse qualcosa di
anormale mi farò vivo. JW
*
− Non l’ho più sentita
ieri. MH
− Non ha pensato che potesse essere
un fatto positivo? JW
− Avevamo un accordo. MH
− Sherlock è solo andato a Scotland
Yard. JW
− Non faccia il suo nome, o capirà
tutto. MH
− Secondo me ha già capito. Non so se
se
ne è accorto, ma suo fratello è
un genio. JW
− Mediamente. Ci serve un codice per
comunicare. MH
− E cosa propone: “Sierra è in
vestaglia”? JW
− Non mi interessa com’è vestito. MH
− Ma è serio? JW
− No, non risponda. JW
− Allora? Sto aspettando. MH
− In questo momento sembra stare
bene. Se ci dovessero essere
cambiamenti l’avviso. JW
*
− Chi è venuto ieri
mattina? MH
− Ha idea di quante persone transitino
per l’appartamento con lo
scopo
di ingaggiarci. JW
− 13:19. Uomo in motorino, si è
trattenuto poco meno di trenta
secondi sulla soglia con
Sierra. MH
− Era solo il ragazzo che ci ha portato il
pranzo d’asporto. Non starà
forse
esagerando? JW
*
− Buonasera, sono tornato
dalla spesa
e penso abbia fumato un paio
di
sigarette in mia assenza. JW
− Ne è sicuro, Whisky? MH
− Credo di non aver inteso. JW
− Capisco che l’abbia voluto basso, ma
anche stupido mi sembra
eccessivo. Il codice: Whisky è
lei. MH
− La ringrazio per i complimenti
gratuiti. E comunque sì, sono
abbastanza sicuro. JW
---
− Mike (per farla contento), credo che
non le riferirò mai più nulla.
JH
− Per quale motivo? MH
− E comunque Mike è troppo simile al
mio nome. MH
− Ha anche il coraggio di chiedermi il
perché?! Prima vuole mantenere
il più assoluto riserbo e dopo
ci
manda Alpha, Bravo, Charlie e
un’altra dozzina di uomini a
mettere l’intera casa a soqquadro
per un pacchetto di Winston??
JW
− Mi preoccupo solo per la salute di
mio fratello. MH
− Anche io, infatti non si spaventi
quando le ritorna indietro
Tango
ammaccato. Era diventato
troppo insistente. JW
*
− John, non è trascorsa
neppure una
settimana, cosa ci fa al
tabacchi? MH
− Ma lei non ha nessuna crisi alla quale
far fronte, o un attentato da
sventare? JW
− Sono liberissimo quando si tratta di
tenervi entrambi d’occhio. MH
− Sa, forse ho trovato il nome in codice
più adatto per lei. JW
− E quale sarebbe, sentiamo. MH
− Big Brother. JW
Dopo la
storia precedente era giusto alternare qualcosa di più leggero.
Mi hanno
detto che devo lavorare di più sul mio umorismo. Se questo scritto non vi ha
strappato neppure un leggero sorriso me ne scuso, scrivo proprio per migliorare
giorno dopo giorno.
K.
|
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Capitolo 7 *** Qui pro quo ***
[ W: 545 |
C: John Watson ; Mrs Holmes | Tag: MissingMoment ; 3x03 ]
Qui pro
quo
La
signora Holmes entrò in soggiorno col necessario per apparecchiare la tavola di
Natale. Trovò Watson seduto di sbieco su una sedia, perso in chissà quali
elucubrazioni. Agli occhi della donna era palese che ci fosse della tensione tra
l’uomo e sua moglie. Non poteva sapere cosa fosse accaduto, e se ne preoccupò
come se John fosse per lei un altro figlio. Si dispiacque maggiormente al
pensiero del bambino che Mary stava portando in grembo.
Dal
canto suo, Watson, quasi non registrò l'ingresso dell’anziana signora nella
stanza. In mente stava ripetendo per l’ennesima volta le parole che voleva
rivolgere a Mary. Era seriamente propenso a gettarsi tutto alle spalle, eppure
sentiva il sangue ribollirgli nelle vene. Poteva veramente perdonare la donna
che aveva sposato, la madre di sua figlia? Quella questione per lui era
divenuta un tarlo. Sbuffò più o meno sonoramente, pensò di odiarla per avergli
mentito e ancora di più per aver messo in pericolo Sherlock.
«La
convivenza può essere difficile da gestire alle volte.» la signora cercò di
introdurre l’argomento. Magari, si convinse, compresa la fonte del problema
avrebbe potuto elargire qualche consiglio utile a farlo stare meglio.
John
fu come risvegliato dalla voce della donna «Oh, si…».
Pensò immediatamente ai primi giorni trascorsi al 221B. Non era evidentemente
preparato alle numerose stranezze del coinquilino. «Di certo. Ma oramai v’ho
fatto il callo.» concluse con una scrollata di spalle. Ricacciò in tasca la
pennetta usb che si stava rigirando tra le dita e si
alzò per rendersi utile. Prese la pila di tovaglioli e cominciò a distribuirli
accanto ai piatti che la madre di Sherlock aveva già disposto sul tavolo.
«Oh,
ma non si dovrebbe trattare di sopportare
bensì di comprendere e di conseguenza
accettare anche i difetti della
persona che abbiamo accanto, per costruire un rapporto sano e moderato.». Ragionò
sulle parole più adatte da utilizzare. «Sai, appena ho conosciuto quello che è
oggi mio marito, ho saputo di voler trascorrere ogni attimo della mia vita
accanto a lui. E se ci vedi ancora così innamorati dopo tanti anni è perché
continuiamo a sceglierci ancora, ogni nuovo giorno.»
Certo,
il discorso di quella, a John sembrò avere un tono un poco troppo romantico, ma
non ne fu particolarmente turbato. Si impegnò piuttosto a comprendere il motivo
per il quale la signora gli stesse dicendo quelle cose. In effetti il pensiero
di poter perdere, davvero questa volta, Sherlock, il quale sembrava ricercare
il pericolo senza curarsi minimamente di lui, non gli faceva chiudere occhio la
notte. Watson si decise comunque a rassicurare Mrs
Holmes. «Lei ha perfettamente ragione. Ma non si deve preoccupare, tra di noi è
tutto apposto.». Esprimendosi ad alta voce si rese conto che invece avrebbe
voluto dire tutt’altro. La signora Holmes gli offrì uno sguardo buono, e John
se ne sentì così rassicurato da concedersi di aprirle il proprio cuore. «È
stato terribile restare solo, qualche anno fa. Continuo a pensare che avrebbe
dovuto mettermi al corrente di tutto. Lo so, non sarei stato d’aiuto,
ciononostante avrei preferito stargli vicino. E so anche che in questo caso la
colpa non è completamente sua, ma lui mi ha fatto ugualmente morire di paura.»
parlò tutto d’un fiato.
«Ma
a chi si sta riferendo, caro?» chiese perplessa la signora Holmes.
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Capitolo 8 *** Guida pratica: come rovinare il Natale. ***
[ W: 579 |
C: John Watson ; Lestrade ; Mary Morstan ; Mrs Lestrade | Tag: postS2 ]
Guida
pratica: come rovinare il Natale.
Come
puoi esserti lasciato coinvolgere in questo modo, non ne hai idea. Sei una
persona abitudinaria, o almeno ti sei riscoperta tale da un po’ di tempo a
questa parte. Preferiresti di gran lunga trascorrere le vacanze di Natale a casa.
Se poi quello squallido bilocale che ti sei trovato puoi definirlo tale. In
ogni caso meglio lì che nel Dorset. Non che sia una
regione da disdegnare, solo che non sei per niente convinto che quella di
partire sia una buona idea. Ma non hai potuto rifiutare l’invito di un amico, o
per meglio dire la sua velata richiesta d’aiuto. Si, perché, come Sherlock ha
dedotto anticipatamente di almeno due o tre anni, la moglie di Greg ha tradito
l’ispettore, e ora i coniugi stanno cercando di rimettere assieme i cocci del
loro matrimonio. Greg ti ha chiesto di rendere meno squallido il suo Natale e
andargli a dare supporto. Alla fine ti sei ritrovato ad accettare e sei partito
con Mary al seguito.
La
bionda è stata dapprima una squisita distrazione, per tramutarsi poi in una
vera e propria àncora di salvezza. Questa è l’opportunità per introdurla in maniera
più seria nel tuo mondo, di far capire a te per primo e poi a lei che ci tieni
al vostro rapporto.
Mary
ha già incrociato Lestrade, e non ci ha pensato un attimo a seguirti in questa
vacanza. Tu invece non hai nessuna voglia di festeggiare, ti senti obbligato.
Quando poi tutti ridono e s’abbracciano e le luci, le canzoncine e il profumo
di spezie di un ottimo Christmas pudding appena sfornato t’arrivano addosso,
quasi rabbrividisci e capisci d’essere completamente fuori luogo.
Eccovi
qua, tutti raccolti intorno ad una tavola riccamente imbandita. Tu sei seduto
di fronte a Greg, e le due donne vi sono accanto. È Mary che più di te fa
conversazione, mentre il tuo amico sorride nervoso ed ogni tanto ti lancia
degli sguardi interrogativi. Cosa si aspetta, che tu possa usare le stesse
tecniche di Sherlock per dargli la sicurezza che la moglie si stia comportando
bene? Vorresti poterlo accontentare, ma tu non hai una sola cellula della
genialità del tuo ex coinquilino.
La
signora Lestrade ad un certo punto accende il televisore per cercare qualche
canale che possa farvi da sottofondo. Commedia vista e rivista. Un film d’azione
con tanto di sparatoria in atto, non propriamente in tema. Sport, tennis. Di
nuovo, questa volta rugby.
«Sapete
che John un tempo giocava a rugby?» Greg con la bocca piena e la forchetta a
mezzaria ti tira in mezzo ad una conversazione.
«Non
ci credo, non me l’avevi mai detto.» ti puntella col gomito Mary.
«Oh,
è stata una vita fa.» rispondi vago sperando di chiudere l’argomento e sviare
da te l’attenzione.
«Non
ti ci vedo proprio! Con quelle gambe corte poi…». Alle parole della tua ragazza
scoppiano tutti in una grossa grassa risata.
«Le
mie gambe hanno fatto vincere tante partite alla squadra.» rispondi in tono
severo, offeso. Quasi per dispetto ti rivolgi al padrone di casa «Come procede
la vita al distretto, avete chiuso qualche caso di recente?».
Vedi
Greg muoversi inquieto sulla sedia. Prende tempo, beve. Infine ti guarda dritto
negli occhi guadagnando coraggio. E prima che possa parlare già sai di aver
detto una stronzata, la tua ripicca ti si sta per rivoltare contro. «Lo sai
John. Le cose sono decisamente peggiorate da quando Sherlock è morto.». Cala il
silenzio. Lo stesso che ti avvolge oramai da quasi due anni.
|
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Capitolo 9 *** Pelle nuda ***
[ W: 113 |
C: John Watson ; Sherlock Holmes | Tag: Johnlock ; post3x01 - vago ]
Pelle
nuda
Sa qual è il
problema con i travestimenti, signor Holmes?
Per quanto ci si provi, è sempre un autoritratto.
Irene Adler
Era
seduto in terra al centro del salottino, di schiena alla porta, avvolto nella
sua coperta dalla sera prima, la quale dispettosa si è abbassata a scoprire le
spalle fin sotto una scapola. Eri sceso per la colazione ma ti sei bloccato a
guardarlo.
La tua mente ricorda quella stessa pelle rivaleggiare col
candore del lenzuolo a Buckingham Palace. Ora, invece, al chiarore del mattino,
dei segni perlescenti di un rosa tenue macchiano la
perfezione di quel corpo.
Egli ti ha provocato delle cicatrici nell’anima, ma le sue sono anche
tangibili. Eppure non puoi avere pietà di lui, siete soldati, ha compiuto delle
scelte per dovere.
Oh, John, sbagli. L’ho fatto per amore.
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Capitolo 10 *** Ago e filo ***
[ W: 502
| C: John Watson ; Mrs Hudson | Tag: inS1 ]
Ago e
filo
Watson
è un ottimo dottore e un eccellente chirurgo. Certo, in guerra le sue doti non
sono state utilizzate al massimo del potenziale: era piuttosto importante
evitare un’amputazione rispetto a rifinire i lembi di una cicatrice con dei
punti di sutura eseguiti alla perfezione. In ogni caso dovrebbe essere bravo a
cucire.
I
video illustrativi che sta cercando di seguire lo stanno solo confondendo,
tanto che non percepisce la differenza tra il punto indietro e quello invisibile.
Queste ultime sono appunto due tecniche che presume possano servirgli per
svolgere il lavoro.
Sbuffa
John, già si è arreso. Se solo avesse prestato un poco più attenzione alla
madre quando era intenta a rammendare qualche panno consunto.
Eccola
l’illuminazione. John potrebbe, con una certa vergogna s’intende, provare a
chiedere alla padrona di casa. Gli è sembrata tanto gentile e accomodante per
quel poco che la conosce. Ma come giustificare i suoi intenti? Perché mai si
sognerebbe di dire alla donna il motivo reale che lo sta spingendo ad imparare
a cucire.
*
«Venga,
si sieda qui che vado a prendere l’occorrente.» la signora Hudson l’ha accolto
dopo che egli si è trattenuto una buona mezz’ora sul pianerottolo a ragionare
sul da farsi. Approfittando dell’assenza del coinquilino alla fine è sceso con
un paio di calzini bucati.
«Mi
faccia un po’ vedere.» Martha inforca degli occhiali dalle lenti spesse e
analizza il foro sulla calza. «Un taglio netto.» commenta con un sorrisetto.
Watson deglutisce a vuoto rammaricato del fatto che la sua piccola truffa è
stata già scoperta.
L’uomo
è quasi sul punto di scusarsi, ringraziare e tornarsene da dove è venuto con la
coda tra le gambe, quando la signora senza scomporsi gli porge ago e filo.
«Potrei
occuparmi io di certi lavoretti, ma se insiste tanto a voler imparare…» lascia
la frase in sospeso facendo cenno a John di infilare anche il ditale.
Assieme
tendono la stoffa scura su un uovo di legno. Il dottore fa passare il filo
nella crune dell’ago e ne fa un nodo all’estremità. Non capisce cosa se ne
dovrebbe fare di quel ditale scomodo che invece di facilitarlo nel compito lo
sta solo intralciando.
«John,»
lo rimprovera bonariamente la signora «nel suo mestiere forse non è abituato,
ma questo la deve aiutare a spingere l’ago nel tessuto: così.» gli spiega
accompagnando i movimenti delle sue dita.
Dopo
un buon tè caldo e qualche esperimento, oltre che sui calzini, anche su degli
scampoli di stoffa, John può dirsi soddisfatto e si congeda prolungandosi in
affettuosi ringraziamenti.
Tornato
in camera ripone i calzini nel cassetto del comodino, togliendo di mezzo anche
le forbici che aveva usato per bucarli. Finalmente può concentrarsi sul suo
reale problema: la piega dei pantaloni.
Non
fa a tempo, per sua fortuna, a tirarne fuori dall’armadio neppure uno, che
sente i passi svelti del coinquilino che rincasa.
John
si sbriga ad uscire dalla stanza, rimpiangendo i tempi in cui gli
confezionavano uniformi su misura e non doveva fare i conti con quei quindici
centimetri di troppo.
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Capitolo 11 *** Nube tossica ***
[ W: 108 ;
108 | C: John Watson ; Mary Morstan | Tag: in4x01 ]
Nube
tossica
Fuma. Il
tavolo è tondo, e posso dire con certezza, senza l’ausilio d’un tacheometro, di
essere seduto nel punto più distante da Lei. A dividerci ulteriormente, un
grosso vaso verde petrolio poggiato al centro del piano, con dei fiori finti, e
il quotidiano dietro al quale cerco di ripararmi dalla nube tossica.
Con gesti nervosi picchietta la sigaretta contro il mio posacenere.
Portatelo, John. L’ho rubato
per te d’altronde.
Mio. Cos’è davvero mio se neppure la vita che sto vivendo
sembra appartenermi.
Non mi è concessa nemmeno l’aria per respirare.
Il cellulare mi avvisa dell’arrivo di un messaggio. La chiave per uscire dalla
prigione nella quale sono chiuso.
*
«Illuso»
asserisce Lei. È solo un sussurro, appena udibile. Forse l’ho immaginato.
Eppure sussulto ugualmente.
Mi vergogno. Il respiro mi muore in gola. So quanto io possa risultare
trasparente ai suoi occhi.
Che abbia veramente capito ogni cosa? Decisamente possibile.
Digito parole dolci in risposta
ad un'altra donna. Com’è accaduto altre volte prima di questa. Troppe. Anche
una volta sola lo sarebbe, troppo.
Ora che l’inganno
sembra svelato mi sento a disagio. L’esigenza che avverto di afferrare il
cellulare dalla tasca, sembra essere l’emozione più errata che abbia mai provato.
Eppure, Lei, continua a produrre cerchi di fumo corroborando la nube tossica
che mi attanaglia la gola, impassibile.
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Capitolo 12 *** Amore e odio sotto le armi - prima parte - ***
[ W: 518 |
C: John Watson ; Soldati ; Harriet Watson | Tag: GuerraAfghanistan
; preS1]
Amore e
odio sotto le armi
- prima
parte -
John
aveva riconosciuto il soldato quando gli era ancora lontano, era il solito
ragazzo che si occupava di smistare la posta. Era uno dei più giovani lì in
mezzo, e qualcuno tra i suoi superiori gli aveva concesso benevolmente di farsi
carico di impieghi di poco conto, roba che non lo avrebbe ridotto in fin di
vita prima che gli fosse spuntato qualche pelo in più sul petto, almeno.
Il
medico non era mentalmente pronto a ricevere un’altra lettera. Non quel giorno,
si era detto tra sé; non quando erano più di quarant’otto ore che non chiudeva
occhio per via di alcuni interventi urgenti che gli avevano prosciugato tutte
le energie. In realtà la stanchezza non era il reale motivo che lo stava
spingendo a cambiare volontariamente percorso. Il fatto era che, John Watson,
era bravo in molte cose, ma ce n’era una in cui sentiva di aver completamente
fallito: non aveva mai capito sua sorella.
Per
fortuna quella volta la sua coscienza non si era fatta viva, altrimenti dietro
le meningi avrebbe sentito la chiara accusa di non averci mai realmente provato
ad appianare il rapporto con Harry. Secondo lui erano totalmente diversi, come
il giorno e la notte, il dolce e il salato, il freddo e il caldo… insomma,
opposti inconciliabili.
Il
Capitano già stava imboccando la via per ritirarsi nella propria camera, e si
era voltato appena per accertarsi che il giovane soldato non lo stesse
seguendo. Per sua fortuna quello era intento ad abbracciare calorosamente un
altro uomo in divisa; non ne era certo, ma poteva trattarsi del Sergente al
quale doveva nascere un figlio, e forse gli era appena arrivata la lieta
novella.
Non
aveva compiuto che un’altra manciata di passi che qualcuno l’aveva chiamato.
«Capitano!» aveva detto la voce. John aveva provato con tutte le sue forze a
convincersi che non si stesse riferendo a lui. Con una certa disperazione aveva
anche alzato lo sguardo alla ricerca di altri che giravano lì con gagliardetti
simili ai suoi, ma nulla. «Capitano Watson!». Al richiamo del proprio nome l’uomo
non poteva fare nient’altro che arrendersi all’evidenza.
Ora
era in camera stanco morto, ma, ironia della sorte, non riusciva a riposare
affatto. Era seduto sulla branda, si era giusto messo un po’ più comodo nei
vestiti, e soppesava la consistenza della busta gialla.
Harry
l’aveva cercato qualche volta, ultimamente però il fratello si era sempre
negato a causa degli impegni. Non l’aveva mai richiamata. Lei allora gli aveva
scritto. A quel punto la faccenda era diventata così complicata, ingigantita
agli occhi di John, che aveva fatto ancora più fatica a pensare di mettersi in
contatto con la sorella. Per dirle cosa d’altronde? “Scusa, mi sono comportato come
uno stronzo?” oppure, meglio ancora “Scusa ma ho visto talmente tanta merda che
non posso rispondere alle tue domande su come
sto e cosa faccio altrimenti
chiameresti il Telefono Azzurro anche se non sono più un “piscia-a-letto””.
La
verità era che a quell’uomo grande, un Capitano dell’Esercito Britannico,
mancava tremendamente sua sorella, la sua metà opposta, e fremeva dalla voglia
di leggere cosa aveva da raccontargli quella volta.
Ho
cercato un corrispettivo inglese di Telefono Azzurro che è una Onlus italiana, e nonostante esistano effettivamente dei
numeri di riferimento per i diritti dell’infanzia, ho preferito lasciare
scritto questo perché è sicuramente più immediato per voi che leggete.
Approfitto
per ringraziare tutti voi che continuate a seguire e recensire la raccolta, ma
anche tutti i lettori silenziosi.
Buon continuo,
K.
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Capitolo 13 *** Amore e odio sotto le armi - seconda parte - ***
[ W: 541 |
C: John Watson ; Harriet Watson ; Clara | Tag: GuerraAfghanistan
; preS1]
Amore e
odio sotto le armi
- seconda
parte -
John
aveva preso ad aprire quella busta così diversa dalle precedenti. Era rigonfia,
e l'idea che Harry potesse avergli inviato qualcos’altro, oltre i soliti fogli scritti
a mano, lo incuriosiva e al tempo stesso lo faceva sentire in ansia.
L’uomo
aveva afferrato le pagine cominciando a leggere. “Ciao John, sono successe tante cose.” l’emozione era visibile
dalla grafia tremolante. “Avrei preferito
dirtelo di persona, ma sei lontano. Allora ho provato a contattarti per via
telefonica ma i tuoi superiori bastardi ti fanno lavorare come un somaro:
dicono che sei sempre impegnato.” Watson si sentiva decisamente colpevole,
ma non aveva arrestato la lettura frenetica. “Così alla fine mi sono decisa a inviarti un’altra lettera. Ma le altre
le hai almeno lette John, oppure sono così schiavisti che neppure te le
consegnano? Oddio, magari le leggono prima di dartele. Se è così allora VOI
SOLDATI DEL CAVOLO, SI DICO A VOI, LASCIATE IN PACE MIO FRATELLO!”. John si
era dovuto trattenere dal ridere troppo sguaiatamente. Amava quella pazza di
sua sorella che a modo suo cercava di proteggerlo urlando in una dannata
lettera. Tutto ciò però accresceva la consapevolezza in Watson di essere
davvero un pessimo fratello.
C’era
un secondo foglio. “Ho rimandato fino a
quando ho potuto, ma devo dirtelo: tra me e Clara è finita. Mi ha lasciata
John.”. Il soldato aveva dovuto rileggere la frase più volte prima di
capacitarsi del suo significato.
La camera di
Harriet aveva la porta aperta e John vi era entrato senza badare troppo ai
rumori che provenivano dal suo interno. Appena aveva alzato gli occhi se li era
dovuti coprire immediatamente. «Ragazze!» le aveva ammonite senza cattiveria.
Le due, Harry e Clara, erano una a cavalcioni dell’altra, sul letto. Il biondo
era sicuro di aver intravisto le mutandine della fidanzata di sua sorella
sbucare da sotto la gonna a campana, tirata rigorosamente su. Le pulzelle
avevano preso a ridere accompagnate da un sottofondo musicale che John aveva
già sentito da qualche parte. [1]
Clara alla fine
aveva salutato entrambi e, ricompostasi, era tornata a casa propria.
«Hamish,» così
aveva preso a chiamarlo scherzosamente Harry da un po’ di tempo «quella lì -
facendo segno verso la porta - la voglio sposare.». Lui l’approvava, almeno con
quella ragazza accanto Harriet era riuscita a restare sobria da qualche tempo.
«Se rimandi solo di un piccinino la partenza potresti esserci per la
cerimonia.».
Watson era andato
lì proprio a dirle che sarebbe partito per l’Afghanistan entro un paio di
settimane invece dei due mesi preventivati. Le poteva leggere la speranza negli
occhi «Lo sai, papà non ci sarà. Mi rimani solo tu…», e non aveva avuto il
coraggio di spezzarle il cuore.
“Mi rimani solo tu…”
continuava la lettera. Quasi un déjà-vu.
“Ti ho spedito il mio cellulare
nel caso non ti lasciassero usare il telefono della base. Se non vuoi
scrivermi, almeno ti prego chiamami. John Hamish Watson almeno chiamami.”. Finiva
così quella preghiera.
Watson,
messe da parte le carte, aveva pescato il cellulare dalla busta. Non avrebbe
avuto linea, non era un telefono satellitare, la sorella non doveva averci
pensato.
Il
Capitano però era felice di poter stringere quell’oggetto. Alla fine si era
addormentato con una certa colonna sonora, vagamente romantica, che era salvata
su quell’aggeggio. [1]
[1] La
canzone è “Kiss from a Rose” di Seal, John l’ha già sentita (sempre
nella finzione della ff) perché fa parte della
colonna sonora del film Batman Forever del 1995 diretto da Joel Schumacher
- Qui per il link della
canzone (Youtube)
- Qui per il link
del film (Wikipedia)
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