Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

di _Woodhouse_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Oggi è oggi col peso di tutto il tempo andato. ***
Capitolo 2: *** Io non ho mai perché diverso fui, sono, sarò. ***
Capitolo 3: *** E affamato vado e vengo... ***
Capitolo 4: *** Ho contato il tuo corpo ***
Capitolo 5: *** Chiara e oscura ***
Capitolo 6: *** E' oggi: tutto l'ieri andò cadendo. ***
Capitolo 7: *** Distante e dolorosa come se fossi morta ***
Capitolo 8: *** Prue. ***
Capitolo 9: *** Il serpente dell'attrazione ***
Capitolo 10: *** Prospettive. ***
Capitolo 11: *** Una sera ***
Capitolo 12: *** In gabbia ***
Capitolo 13: *** Silenzio. ***
Capitolo 14: *** ... o un vizio assurdo. ***
Capitolo 15: *** Wise men say only fool rush in... ***
Capitolo 16: *** I could lie ***
Capitolo 17: *** Sinners ***
Capitolo 18: *** Breeze ***
Capitolo 19: *** Limbo ***
Capitolo 20: *** Limbo, parte II ***
Capitolo 21: *** The night we met ***
Capitolo 22: *** Non può bastare ***
Capitolo 23: *** Devotion, save me now. ***
Capitolo 24: *** Wicked Game (pt.1) ***
Capitolo 25: *** Wicked Game (pt.2) ***
Capitolo 26: *** Can't take my eyes off you ***
Capitolo 27: *** Girl Crush ***
Capitolo 28: *** silhouettes of you ***
Capitolo 29: *** So Slow ***



Capitolo 1
*** Oggi è oggi col peso di tutto il tempo andato. ***


Capitolo 1.
 




La guardò, immerso completamente in quella contemplazione, attraverso lo schermo opaco del desktop.
Le ricadeva un boccolo castano sulla spalla d’avorio, era così in ombra, il mare si stendeva padrone dietro di lei, intorno a lei, attraverso il biancore trasparente del vestito che indossava. Lo guardava con uno sguardo brillante di dolcezza pacata, un po’ strizzato, ombroso anch’esso, perso e avviluppato nel tramonto. Gli zigomi sollevati, ingrigiti dalle ombre, erano quasi invisibili, ma le labbra sporgevano attraverso l’oscurità, così maliziose ma anche innocenti. Lo sguardo di Robb si fece una linea sottile, mutò in due pozze di languore, avvinte e incastrate a quelle labbra grigie nella foto, ma rosse di carne nella sua testa, come lui le conosceva.
Guardando quella foto si era consumato gli occhi per settimane, nell’attesa di rivederla intera, vera e pulsante. Un viaggio in Vietnam lo aveva costretto a separarsene per mesi, esattamente tre. Non vedeva la sua Jo da tre mesi, la sua immensa Josephine, la sua piccola, amata Jo.
Robb era un sentimentale ventiseienne dalle aspirazioni fulgide, dalla brama d’arte e sregolatezza. Era un fotografo prima che un uomo; un fotografo analitico, emotivo, dallo scatto spietato. Rubava gli attimi, li soppesava con cura ma d’istinto e si lasciava trascinare da quella sensazione di stordimento che il sentirsi padrone del tempo gli procurava ad ogni scatto. Robb fotografava per imprigionare, per gestire, in qualche modo, la vita e il suo svilupparsi incessante. Un attimo passato è un attimo perduto, irrecuperabile, irrimediabile. Dà la nausea pensare a quanto l’energia di un attimo sia soltanto energia sprecata, imprendibile, una particella di mondo che si stacca per sempre dalla crosta, un fiotto di saliva che era tuo, soltanto tuo e che l’attimo dopo s’infrange nell’atmosfera o s’impiglia nei capelli di un altro e non ti appartiene più. A pensare all’astuzia del tempo, noi mortali impazziamo, Robb impazziva. Lo terrorizzava non accorgersi di quanta vita in meno gli rimanesse, di quanto ogni attimo di vita potesse facilmente sfuggirgli via. Aveva paura della morte, più di tutto. Robb ammortizzava il suo terrore con una digitale alla mano, viaggiando per non perdere il mondo prima che la vita glielo sottraesse. A ventisei anni la paura della morte è ingiustificata, per molti, ma non per Robb, che aveva una brama di vita che non lo lasciava respirare. La guardò un'ultima volta, la foto di Josephine muta e grigia nello schermo, poi spense il Mac e uscì per la strada, curioso della notte di Hanoi, bruciante di scoperta,  assorbito dalla voglia di incasellare ancora qualche istante prima di andare via e di perdere, forse per sempre, l’odore umido di quella città.
 

 
***

 
Non era abituata, Josephine, alle attese. Non era abituata al mal d’amore, all’assenza che raffredda le ossa e che infiamma il costato. Stette tutta la notte vigile, aggrovigliata alle lenzuola, sperando che il tempo si annullasse o si precipitasse, qualsiasi cosa purché fosse subito giorno, purché fossero subito le 11 del mattino cosicché tutto potesse tornare al proprio posto permettendole di sedere sulle ginocchia spigolose di Robb e di baciarlo fino a svenire. Quella notte, Josephine, si consumò talmente di smania e desiderio che cadde addormentata prima di quanto si fosse aspettata.
Il giorno venne, Robb lo seguì.


–  Dio, quanto sei bella, –  le disse subito, prima di ogni gesto o saluto.
Se la strinse al petto con urgenza e dolcezza, inspirò dai suoi capelli l’odore che in quei mesi aveva soltanto immaginato. Josephine mugolò, piccola nelle sue braccia larghe, poi trovò i suoi occhi chiari, di un verde quasi giallo, così abbagliante, disarmante e si sentì morire di una strana nostalgia che però si confuse alla morsa calda che la scosse nel riscoprire il corpo di lui e che le fece desiderare di essere spogliata e amata.
Si spogliarono e amarono, dopo aver corso kilometri a bordo del fuori strada di Robb.
La giornata trascorse in un groviglio costante di braccia e gambe, infranto da schiocchi di labbra e risa libere, alte, grasse. Sfiancati dall’amore si addormentarono presto, quando il sole non aveva ancora nemmeno terminato il suo decorso. Nella notte Robb si svegliò diverse volte, per immortalare la pelle di Josphine in ben ottanta scatti, la guardò dormire per il tempo che restava e si sconvolse a pensare che in un anno, nonostante i periodi di separazione, ogni cosa della sua vita era stata assorbita da quella ragazza imperfetta lì distesa al suo fianco: Josephine che non era fotogenica per nessuna macchina fotografica, tranne che per le sua. Lui sapeva da che prospettiva guardarla, quali delle sue infinite espressioni cogliere, per poterle rendere giustizia. Avrebbe voluto poterla fotografare lui soltanto per impedire che un occhio disattento cogliesse l’attimo sbagliato, che sprecasse anche una sola delle sue espressioni infangandone la memoria, rendendo eterna una donna che non era Josephine, ma la versione sfocata di lei.
Guardandola, nuda e bianca com’era, pensò che fosse arrivato il momento di accartocciare e buttare via quel rapporto sfocato, per sostituirlo con uno più nitido, vivido di colori e di persone. Prese la decisione più tradizionalista della sua vita: introdurla nella sua famiglia. Farle conoscere chi l’aveva reso l’uomo che lei amava, farle conoscere il suo compagno per la vita, il fratello James, farle vedere la casa che l’aveva costretto e cullato per anni.
Tentò di scattare l’ottantunesimo scatto, ma il sonno lo travolse completamente e senza concessioni.
 
 
***

 
–  Stai calma, Jo, –  sospirò Robb esasperato e divertito.
–  Sono calma, –  ribattè Josephine, con gli occhi che la saettavano da una parte all’altra dell’abitacolo, iniettati di un’ansia crescente.
– Jo, –  fece lui, mettendo in quella piccola sillaba un grosso carico di rassicurazioni.
–  Spegni questo dannato stereo, –  sbottò lei, sporgendosi in avanti per spegnere lo stereo.
Robb sbuffò, sconsolato, ma senza smettere di sorridere. La osservava dimenarsi inquieta su quel sedile che mai come in quel momento gli era parso piccolo, uno spazio infinitamente stretto per l’ansia strabordante di Josephine.
Giunsero a St. Albans, il paese natio di Robb, e sostarono esattamente nel vialetto ben curato di casa sua.
Scesero quasi contemporaneamente dal fuoristrada, sbatterono le portiere praticamente all’unisono e da un estremo all’altro dell’auto si lanciarono uno sguardo carico di paura da un lato, carico di conforto dall’altro. Robb le andò in contro, le prese una mano e la guidò lentamente lungo le scalette, poi sotto il portico, senza guardarsi, oltrepassarono le piante rigogliose che si susseguivano fino alla porta d’ingresso e Robb, allora, guardò Josephine e le sorrise, sopraffatto da un'improvvisa gioia.

–  Suona il campanello, –  le ordinò dolcemente.
Lei deglutì un fiotto di saliva incandescente e annuì. Mentre compiva quel gesto così semplice eppure talmente impegnativo,  guardò ancora una volta Robb e il suo sguardo carico di aspettative le sferrò un colpo crudele all’altezza del fianco, facendole mancare il respiro. Quella sensazione di nostalgia per qualcosa di indefinito provata in aeroporto si ripresentò barbara, la invase d’insoddisfazione e di malinconia. Avrebbe voluto sorridergli e morire della sua stessa gioia, ma il fianco le doleva ancora.
Robb, in quel momento,  pensò che fosse troppo oppressa dall’ansia per poter rispondere al suo sorriso.
Nessuno dei due in quel momento capì cosa ci fosse di maledettamente sbagliato.

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Capitolo 2
*** Io non ho mai perché diverso fui, sono, sarò. ***


 
Capitolo 2.





Sedevano ad un lungo ed ampio tavolo di mogano, apparecchiato sobriamente, sebbene trasparisse un che di sofisticato dagli accorgimenti quasi impercettibili che la madre di Robb, la signora Draper, aveva apportato alla sua tavola. Gli abbracci e le cortesie si erano consumate all’ingresso, quando Robb aveva presentato ai due genitori la figurina timida di Josephine. La signora Draper l’aveva osservata molto, sorridendole  in una maniera che a Jo parve forzata. Il marito, il signor Ben Draper, si era prodigato in atti di autentica galanteria e aveva accennato più volte a quanto il figlio li rintontisse elogiandola. Josephine aveva assorbito con un silenzioso imbarazzo gli sguardi e i complimenti che le avevano rivolto. Si sentì colta da svariate fitte d’ansia per tutto il tempo del pranzo, pensando a come avrebbe fatto a risultare all’altezza delle aspettative dell’intera famiglia. Robb, di tanto in tanto, forse percependo il suo disagio, la scrutava con occhi pieni di comprensività e poi le regalava un sorriso tiepido.  Josephine, abbracciata da quegli sguardi fugaci, sospirava e riacquistava un po’ di sé. Il pasto venne consumato alquanto silenziosamente, smorzato talvolta da alcune domande di circostanza di Ben Draper.
Quando anche l’ultima portata fu terminata da tutti i commensali, Robb scattò in piedi e cominciò a portar via i piatti sporchi. Josephine lo guardò esterrefatta, sorpresa da quell’atteggiamento tanto ubbidiente, servizievole di Robb. Se lo era sempre immaginato un figlio un po’ sgangherato, di quelli che si sedevano a tavola troppo tardi e l’abbandonavano molto presto, lasciando i genitori esasperati.
Susan Draper si accorse dello sguardo un po’ sbilenco di Josephine, della sua aria stranita. Si ritrovò a pensare alle attrattive di quel visino troppo stretto sul mento, ma troppo largo sugli zigomi e in quell’espressione tanto incisiva capì cosa dovesse piacere di lei ad un uomo, ad uomo come Robb, per meglio dire.
– Robb, credo tu abbia sconvolto la povera Josephine, – scherzò Susan, senza staccare gli occhi indagatori dalla giovane donna.
– Perché mai? – domandò lui con falso disorientamento.
– Credo non ti facesse così collaborativo. E in effetti nemmeno io. – Susan lanciò il petardo d’ironia ai piedi del figlio, il quale lo raccolse prima irrigidendosi, poi palesando un malcelato imbarazzo che a Jo non sfuggì.
– Robb, non serve che ti sforzi. Mi hai già conquistata tempo fa, – fece allora Jo, finalmente padrona della propria voce.

I toni della conversazione l’avevano messa a proprio agio. Forse, pensò, non avrebbe deluso nessuno. Susan prolungò il suo sorriso fintanto da accogliere anche quest’ultima battuta, poi tornò ad assumere l’espressione indagatrice di prima. Robb ridacchiava sommessamente, mentre accatastava i piatti sporchi l’uno sull’altro. Josephine, sentendosi improvvisamente una stupida, si levò in fretta dalla sedia.

– Mio dio, lascia che ti aiuti. – Il suo tono era un po’ affannato, più per la mortificazione di non averci pensato prima che per la fretta dello slancio.
– Non serve, Jo. – Robb le indirizzò un’occhiataccia. – Sei un’ospite, –puntualizzò.
– Ti prego, – lo supplicò a denti stretti, per non farsi sentire da Ben, il quale nel frattempo era tutto concentrato su un tablet che non sembrava volergli dare molte soddisfazioni.
– Se ti fa stare meglio, – rispose scuotendo la chioma di un biondo dagli strani riflessi grigiastri.

Josephine sorrise appena, fissando intensamente i capelli un po’ malandrini di Robb. Era così buffo, nella sua aria studiatamente trasandata, da fotografo vagabondo. Mentre li aiutava a riassestare la sala da pranzo, Josephine rimase incantata guardando Robb, così sbarazzino, muoversi in una casa tanto impegnativa. La stranì un po’ vedere come in realtà quel posto gli calzasse tanto perfettamente. Quella casa lasciava emergere da lui la sua natura di bambino e ragazzo ben educato, forse un po’ viziato. Josephine ne rimase affascinata e forse Robb si accorse dello stupore dei suoi occhi e si pentì di non avere a portata di mano la sua digitale, per fermarla e imprigionarla, bellissima, nella milionesima delle sue imperfette espressioni.
***

– Quanti cavolo di libri avete? - domandò estasiata Josephine, affacciandosi agli scaffali della biblioteca di casa Draper.

– Dopo venticinque anni di imprenditoria editoriale, che ti aspettavi dai miei? – Robb strascicò le parole con un tono un po’ fiacco, mentre la osservava muoversi come una forsennata da un punto all’altro della biblioteca.
– Dimmi che ti sei curato di leggerne qualcuno, Robb. – Si voltò a guardarlo, con aria dolcemente canzonatoria, ma lo sguardo era spigoloso, quasi perentorio.
– Sì, no, forse. – La prese in giro lui, facendole cenno di avvicinarsi.
Josephine si mosse con studiata lentezza verso di lui, senza distogliere gli occhi dal suo viso, in attesa di una risposta.
– Puoi essere serio, per una volta? – lo rimproverò con una voce troppo stridula perché lui la prendesse sul serio. Quando lei fu abbastanza vicina, Robb si sporse in avanti per attirarla a sé. Josephine non oppose nessuna resistenza, se non con gli occhi, i quali ancora lo scrutavano, intenti e curiosi.
– Una media di cinque all’anno, – le sussurrò all’orecchio quando lei gli fu sulle cosce.
– Sei pessimo, Robb. – lo canzonò lei, addolcita dalle mani di lui sui fianchi.
Robb si rilassò completamente sulla poltrona e la fece adagiare contro di lui. Rimasero silenziosi ed immobile per molti istanti, fermi in quella posizione, finché Jo non tentò di richiamare la sua attenzione con voce molto bassa, carezzevole. Ma Robb, come le venne suggerito dal ritmo del suo respiro, si era profondamente assopito. Jo sforzò un po’ gli occhi per riuscire a guardarlo con la coda dell’occhio e le scappò un sorrisetto.
Iniziava a sentire caldo in quella stretta, quindi, attenta a non svegliarlo cercò di divincolarsi dalle sue braccia. Gli scivolò in mezzo alle cosce, quasi come fosse liquida, e si slanciò in avanti, sul pavimento. Sollevatasi da terra, si rimise in sesto la maglia aderente che adesso le ricadeva nuovamente morbida sui fianchi magri. Si avvicinò agli scaffali della libreria e sondò file di libri con le dita, studiandone con sguardi fuggevoli, le incisioni, i nomi degli autori, i titoli. Qualcuno le era noto, qualcuno lo aveva letto, altri l’affascinavano avvolti dal mistero dell’ignoto.
Le dita finalmente indugiarono su una vecchia copertina rigida e marrone. Il nome dell’autore le era talmente caro che sorrise di tenerezza. Sfilò il libro dalla sua cruna e lo cullò tra le mani, pronta ad aprirlo.
Pablo Neruda, “Cento sonetti d’amore” .
Ne aveva una copia decisamente più moderna nella libreria di camera sua, una copia più sgualcita anche, sebbene l’avesse consultata raramente e mai del tutto terminata. Eppure, quel tanto che aveva letto, aveva posizionato Pablo Neruda in una posizione privilegiata nella sua scala di predilezioni letterarie.<
Lo sfogliò lentamente, lasciando che le dita accarezzassero ogni pagina. In alcune c’erano segni di matita, tesi ad evidenziare versi specifici. Curiosa, si concentrò sui versi del primo sonetto tempestato di segni.

LXXVIII
 
Non ho mai più, non ho sempre. Sulla sabbia
La vittoria lasciò i suoi piedi persi.
Sono un pover’uomo disposto ad amare i suoi simili.
Non so chi sei. Ti amo. Non do, non vendo spine.

Qualcuno forse saprà che non intrecciai corone
Insanguinate, che combattei la burla,
e che di verità empii la marea della mia anima.
Ricompensai la viltà con le colombe.
 
Io non ho mai perché diverso
Fui, sono, sarò. E in nome
Del mio cangiante amore proclamo la purezza.


La morte è solo pietra dell’oblio.
Ti amo, bacio sulla tua bocca la gioia.
Portiamo legna. Faremo fuoco sulla montagna.


– Del mio cangiante amore proclamo…– rilesse Josephine, la voce venne fuori in un sospiro, appesantita dalla malia e da una sempre più familiare ed immaginaria fitta al fianco. Se lo toccò, quasi per constatare che fosse intero, che non ci fossero per caso degli artigli conficcati nella carne.
Si sentiva come intorpidita, mezza stordita dalla poesia e con riluttanza mise il libro al suo posto, con la promessa di tornare a leggere tutte le altre poesie cariche di segni. Probabilmente, qualcuno in famiglia divorava Neruda e lo massacrava e sgualciva con pieghe e segni quasi molesti. Un amatore appassionato della poesia. Jo si voltò a guardare Robb, che ancora si beava di quel riposo, e si domandò se non fosse opera sua, quella verve libresca. Se Neruda non fosse parte della sua media di cinque libri annui. Ce lo vedeva Robb appassionato di Neruda, anche se forse no. Forse no. Quella era poesia romantica e Robb era forse l’uomo più sentimentale che avesse mai conosciuto, ma il suo era un sentimentalismo puro, semplice, senza indugi, colorato, quasi felice.
Non avrebbe apprezzato, probabilmente, quell’oscurità di cui l’amore può nutrirsi. Non avrebbe compreso pienamente il legame struggente che rende l’amore fratello della morte stessa.
Robb amava dolcemente, in un modo che Josephine definiva luminoso. Tanto brillante da rischiarare le sue tenebre, abbagliante abbastanza da dare luce ad entrambi.

Jo guardò ancora quel libro e si concentrò a fissarlo per molto tempo. Stava cercando di ricordare dove avesse letto una certa frase che più o meno recitava: Un lettore, sottolineando, svela un po’ della sua anima. O una cosa del genere.

***
Robb, quella sera, portò Jo in giro per le strade, si fermarono in qualche locale, presero una birra in un chioschetto e ripresero a camminare, abbracciati in un modo che a vederlo pareva quasi indistricabile.
– Ti piace Neruda, Robb? – buttò lì, quando le saltò in mente la lettura pomeridiana.
Robb arricciò le labbra e corrugò la fronte, coinvolto in una diatriba con la sua mente, poi scosse la testa e Jo lo sentì sollevare le spalle e con lui dovette muoversi anche lei, tanto era stretta in quell’abbraccio.

– Non ricordo di averlo mai letto. Forse una volta, non mi ricordo. Non una memoria esattamente ferrea quando si tratta di poesia.
– Soltanto? – lo rimbeccò lei, giocosamente, con un pizzico di delusione sul fondo dello stomaco.
– Beh, non ho quasi mai una gran memoria, tranne che per una cosa. – E la guardò con tanto amore che Jo fu sul punto di baciarlo.
– Sarebbe? – chiese lei con la voce ridotta ad un sussurro.
– Conosco ogni parte di te, Jo. Ogni meravigliosissima parte. – Colse l’occasione per lanciarle un’occhiata un po’ maliziosa, che lei non ricambiò, persa com’era a guardargli le labbra. Voleva baciarlo e zittirlo. Non sapeva quale fosse la cosa che desiderava di più. Quella tenerezza a volte la stordiva e non sempre sapeva accoglierla come forse lui si aspettava facesse. Robb, all’improvviso, la liberò dall’abbraccio e si sfilò la digitale tascabile da una delle tasche interne del giubbino e Jo non ebbe il tempo di replicare, né di impedirglielo. Lui la sorprese, un flash spiazzante.
Non controllò nemmeno se la foto avesse colto ciò che aveva visto, si preoccupò soltanto di rimettere al suo posto la digitale,  di incorniciare il viso di Josephine tra le mani e di baciarla, dolcemente. Josephine rispose al bacio, sentendosi molle in quella presa, eppure il fianco le pulsava. Ignorò quella sensazione e lo pregò di tornare a casa.
Non persero tempo, quasi corsero pur di placare quella smania improvvisa. Giunti a casa, il desiderio si era in un certo senso assopito, come se il calore e ciò che rappresentavano quelle mura castrasse ogni pensiero proibito.
Quella notte, ad ogni modo, fecero l’amore dolcemente, brevemente, senza lussuria. Jo si raggomitolò vicino alla spalla nuda di Robb che, stanco, si lasciava lambire dal bacio del sonno.
Rimase a fissarlo per un tempo che le parve interminabile, poi si voltò di spalle e si abbracciò forte.
A volte, come quella notte, dubitava di meritare quell’uomo e la sua spietata dolcezza. Sentiva di amarlo teneramente e avrebbe tanto voluto dimostrarglielo, esplodendo di una passione di cui spesso si rimproverava di non bruciare.

“Io non ho mai perché diverso
Fui, sono, sarò.”


Come inchiostro, quei due versi, le imbrattarono di nuovo la mente.

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Capitolo 3
*** E affamato vado e vengo... ***


Capitolo 3.





Quella mattina, Josephine, si sorprese ritrovandosi lunga e distesa in quel letto che non riconosceva. Una breve confusione distorse il suo risveglio, poi si ricompose, ricordando e riconoscendo quella camera, la camera di Robb. Si strusciò contro il letto, cercando di trovare sollievo per i suoi arti intorpiditi. Robb, che le dormiva accanto implacabile – come sempre – nel suo sonno, emise dei mugolii indecifrabili. Jo gli scoccò un’occhiata, poi scosse la testa. Non riusciva a spiegarsi come un uomo potesse dormire tanto.
In camera di Robb c’era un buon odore di vimini e dalle foto appese in una disposizione bizzarra, nessuno avrebbe potuto non notare quanto di Robb ci fosse lì dentro. Quell’uomo era in grado di personalizzare qualsiasi cosa, persino lei stessa, che di personalità ne aveva più che a sufficienza.
Persino gli scaffali - e la disposizione dei manuali di fotografia su di essi – rivelavano le sue passioni e il suo modo confuso di immergervisi. Jo si rilassò sotto il getto d’acqua bollente, si lavò in fretta e vestendosi fece altrettanto, riservandosi la maggior parte del tempo per la cura del viso. Era ossessionata dalle occhiaie e dalle imperfezioni molto poco evidenti del suo viso, e tentava nella maniera più semplice possibile di attenuarle. Poi, applicò un filo di matita nera sulla rima inferiore degli occhi, e una linea più spessa di eyeliner sulla palpebra, un tocco di mascara e fu pronta. Osservò impazientemente Robb, che si rigirava sul letto come un bambino capriccioso che non ha voglia di alzarsi.

– Robb, accidenti! – sbuffò lei. – I tuoi penseranno che io sia una specie di dormigliona cronica come te se non ti dai una mossa.
– Va’ tu, – mormorò lui, senza nemmeno aprire gli occhi.
– Per l’amor di dio, mi vergogno a morte a rimanere da sola con loro, – rispose angosciosamente Jo, sperando di impietosirlo.
– Un minuto, solo un minuto. – Più che una promessa, suonò più come un “Fa un po’ come ti pare e lasciami dormire!”

Jo, indispettita, gli lanciò addosso la prima maglia che le capitò per mano e abbandonò la camera borbottando.
Decise di affrontare i padroni di casa, sperando che non si fossero occupati di preparare chissà quale colazione, consentendole così di liberarsi dall’impiccio con un semplice caffè. Poi si sarebbe rifugiata in biblioteca e avrebbe speso il tempo che il sonno di Robb le concedeva, tornando sulle pagine di Neruda.
In cucina e in sala da pranzo, però, non trovò nessuno, se non un biglietto che troneggiava sull’isola centrale della cucina in cui i signori Draper li avvertivano di essere partiti presto per poter presenziare ad un brunch fuori città.
Jo si sentì immediatamente sollevata, sebbene non riuscisse a capire perché non li avessero avvertiti il giorno prima. Non se ne curò oltre e, volendo approfittare di quella solitudine, si concesse uno studio più accurato degli ampi spazi di quella casa. Era una casa elegantemente arredata, forse un po’ troppo marcatamente anni ottanta, ma con delle modifiche evidentemente più recenti che saltavano all’occhio soprattutto nel grande salone. Il divano semicircolare la faceva da padrone, di un bianco lucente e niveo, aveva l’area di essere estremamente morbido. Jo, passandogli accanto, ne sfiorò la consistenza e si diresse verso il camino, il quale alternava, nella sua imponenza, granito nero e bianco in una dinamica di colori sofisticata.
Posizionate sulla superficie piana, superiore alla grotta del focolare, vi erano due piccole cornici che interrompevano l’aria impersonale della stanza. In una delle foto vi erano i signori Draper il giorno del loro matrimonio, bellissimi e con gli occhi di una brillantezza eccessiva perché non ci fosse sotto lo zampino dell’alcool. In un’altra foto c’era Robb, il suo Robb, e quello che dedusse fosse James, stretti in un abbraccio, entrambi molto poco sorridenti, come fosse stata una foto fatta di fretta, di malavoglia. In quella foto Robb appariva molto più puerile, avrà avuto al massimo vent’anni, mentre il fratello, di quattro anni più grande, appariva già profondamente indurito dagli anni: si sarebbe detto un trentenne.
Josephine notò che i due non si somigliavano moltissimo. Entrambi indubbiamente attraenti, emanavano due luci diverse. Robb una luminosità che lei conosceva profondamente, James, forse perché dai colori più cupi, pareva radicalmente più severo.
Guardando quella foto, si domandò quand’è che l’avrebbe conosciuto. S’irritò un po’, quasi in vece di Robb, per la mancata tempestività del fratello nel presentarsi a lei e nell’accogliere lui. Si strinse nelle spalle e fu subito sorpresa dalle mani di Robb che le si posarono sulle spalle, scuotendola.

– A che pensi? – le domandò con la voce ancora impastata di sonno.
– Non ti dà fastidio che tuo fratello non sia ancora venuto a salutarti?
– No, affatto. Si farà vivo uno di questi giorni. Sarà sicuramente impelagato in qualche vicendaccia aziendale.
– Tuo padre gli dà completamente carta bianca?
– Jamie possiede metà dell’azienda e ormai riveste la figura di capo, al suo interno. Papà non ha più molta voglia di lavorare, si sente vecchio. Spero di non sentirmi mai così. Credo che mi ucciderò quando accadrà.
Robb prese a divagare, colto dalla sua solita paura del tempo. Quasi gli mancò il fiato. Jo si voltò verso di lui e lo guardò severamente.
– Potresti evitare queste considerazioni? Mi metti una tale ansia. – Lo abbracciò, per placare l'inquietudine scaturitale da quelle parole.
 

***

Si sedette sulla poltrona provando un forte sollievo, come se avesse camminato per giorni e le gambe fossero sul punto di cederle.
Aveva ripreso in mano quel libro di sonetti, l’aveva sfogliato e aveva inghiottito parole, segni.
Delle croci sulle pagine ingiallite segnalavano probabilmente una preferenza, in scala d’intensità, pensò. L’onda della poesia, riflettè Jo, è letale e vibrante, trasporta, trascina, devasta e abbandona a riva quel che resta delle coscienze ordinarie degli uomini.
La poesia la spossava e denudava. Le passioni trovano giustificazione perché scritte: la poesia ammette i peccati e denigra chi non ha il coraggio delle proprie passioni. Jo voleva appassionarsi a qualcosa in maniera malsana, per poter essere grande e poetica, per poter essere giustificata da un verso.
Aveva desideri singolari sotto la chioma folta di onde.
Quando trovò il conforto morbido della poltrona, Jo acquistò anche la forza per rileggere quella poesia.
Il cuore si dibatteva in un tumulto che coinvolgeva il respiro e lo stomaco, spietatamente.

XI
Ho fame della tua bocca, della tua voce, dei tuoi capelli
E vado per le strade senza nutrirmi, silenzioso,
non mi sostiene il pane, l’alba mi sconvolge,
cerco il suono liquido dei tuoi piedi nel giorno.
 
Sono affamato del tuo riso che scorre,
delle tue mai color di furioso granaio,
ho fame della pallida pietra delle tue unghie,
voglio mangiare la tua pelle come mandorla intatta.
 
Voglio mangiare il fulmine bruciato nella tua bellezza,
il naso sovrano dell’aitante volto,
voglio mangiare l’ombra fugace delle tue ciglia
                                                                     
e affamato vado e vengo annusando il crepuscolo,
cercandoti, cercando il tuo cuore caldo
come un puma nella solitudine di Quitratùe.
 
Voglio mangiare l’ombra fugace delle tue ciglia… – ripeté scossa. – Mio dio.
Jo pensò che avrebbe potuto amare freneticamente un uomo capace di quelle parole, amarlo di un amore che non conosce sobrietà.
La fame.
La fame ci rende adrenalinici, vivi o rotti a metà.
Avrebbe potuto amare un uomo affamato. Avrebbe voluto provarla, quella fame che strazia.
Voglio mangiare l’ombra fugace delle tue ciglia… – ripeté un’altra volta, incapace di sottrarsi alla morsa spietata di piacere e dolore che quell’assembramento di parole le procurava.
 
E affamato vado e vengo annusando il crepuscolo?

Una voce dai toni sconosciuti le penetrò elettricamente le piante dei piedi e le schizzò vertiginosamente all’interno, contraendole le viscere, depositandosi come un macigno sulla bocca dello stomaco.
Jo quasi perse il controllo di se stessa, vinta da un grumo di paura e vergogna.
Si voltò con uno scatto, lasciando cadere il libro ai suoi piedi.
 
 
***


Stava forse deturpando con quelle unghie troppo appuntite un libro che dubito possa comprendere?
Li avrà vent’anni?
Tutta questa attesa e suspance per presentarci la prima ragazza semplice di Londra?

– Neruda? – Cerco di adottare un tono che non le faccia percepire pienamente la mia stizza.
Lei mi guarda con un cipiglio diverso, adesso. Forse l’ha percepita, la stizza.
– Sì. Già, – mi risponde sulle sue.
In quale frazione di secondo è diventata più grande?
La paura si è completamente diradata dal suo sguardo, e adesso mi guarda quasi altezzosamente, ma non senza nervosismo.
La sua mano aggrappata alla stoffa del vestitino la tradisce.

– Gradisci? – Rimango secco e piccato, posticipo di proposito il tempo dei convenevoli per il mio gusto privato di regalarle qualche altro minuto di disagio.
– Neruda?
– Ovviamente.
– Lo trovo… – Cerca quella definizione con aria seria. –affamato. – La sua voce si è abbassata di un tono.
Affamato?
– Affamato? – Sollevo un sopracciglio, con superbia. Mi piace farlo.
– Oscuro, anche, – aggiunge.
– Affamato e oscuro. Ma quello sono io. – La provoco con uno sguardo serio, ma la mia voce ha un tono sardonico che mi auguro colga.
– Molto piacere, Josephine. – Mi avvicino a lei e le porgo una mano.
Mi sta fissando, un po’ imbambolata. Adesso ha decisamente vent’anni. Qualcosa l’ha turbata, forse non mi trova educato.
Sopravvivrò.
Mi stringe la mano debolmente, per un istante brevissimo, e le sue labbra si piegano in quello che viene fuori come un sorrisetto tra il timido e il forzato.
Non mostra i denti ed è parecchio sintomatico. Le amanti passive lo fanno.
Avrei dovuto istruirlo meglio, quello sgangherato di Robb.

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Capitolo 4
*** Ho contato il tuo corpo ***


Capitolo 4.
Mi fanno male gli occhi per lo sforzo di mantenerli fissi e duri, impenetrabili.
Mi è decisamente bastato poco per capire che genere di persona ho davanti. Ed è esattamente uno di quegli uomini da cui non farsisovrastare, per principio. Il cipiglio saccente, il tono basso della voce sono il suo marchio di riconoscimento.
Come se non bastasse, la stanza, da quando lui vi è all’interno, ha assunto altri colori.
E’ come se un'ombra ed un’aria troppo pesante per i miei polmoni avessero fato il loro ingresso, oscurando la mia visuale.
Robb non mi ha avvertita.
No che non l’ha fatto. Avrei voluto essere pronta a questa conoscenza, all’impegno che sembra richiedere. James Draper è quel tipo di presenza che mantiene gli interlocutori in uno stato d’allerta. Lo sguardo, di un colore che non riesco a definire, scruta e analizza e contrasta con le espressioni del suo viso.

 Non intendo pranzare, cenare o fare proprio un bel niente di fronte a lui.

Mi parla, si presenta, ma mi rendo conto di essere imbambolata a decodificarlo, impegnata come sono a non lasciarmi intimidire. Sono sicura che in qualche modo io mi stia tradendo, altrimenti non mi spiego quel tono sardonico.


– Devi essere James, – dico col mio tono migliore, simulando un sorriso. – Il piacere è mio.
– Dov’è Robb? – Si guarda intorno, adesso.
Sembra che io sia diventata invisibile. Scruta la stanza come se volesse assicurarsi che tutto sia al suo posto.

– Si è svegliato da poco. Credo sia ancora sotto la doccia. – Abbozzo un altro sorriso, più aperto. Pensare alle abitudini scoordinate di Robb mi mette di buon umore. Un buon umore che non sembra condiviso da James.
Chissà se posso chiamarlo Jamie. James lo rende più imperioso di quello che già non appaia.


– Lo aspetterò qui. – E suona come un avvertimento.

E’ tutto qui, mi pare di capire. Ma qui dove esattamente?
Il mio posto dove dovrebbe essere?
Devo andarmene? Vuole che resti?
Andarmene sarebbe scortese, quindi indugio sul mio posto, torno a scrutare i titoli dei libri sugli scaffali. Di tanto in tanto guardo James. Si è seduto sulla poltrona, ha raccolto da terra il libro che avevo lasciato cadere e, sbuffando, lo poggia sul tavolinetto. La camicia, di un grigio madreperlato, inibisce i suoi movimenti; di fatti lo vedo arrotolarsi le maniche sui gomiti e rilassarsi. Lo sguardo è ancora vigile, però. Non mi guarda.
Fissa un punto di fronte a sé, concentratissimo.  Accavalla le gambe, poggiando la caviglia destra sul ginocchio sinistro. Congiunge le mani sul grembo e socchiude gli occhi in quello che sembra un tentativo di rilassarsi.
Entrambi rimaniamo muti.
Decisamente non siamo due tipi loquaci.
Non devo avergli fatto una buona impressione, comunque.
 Probabilmente si aspettava che gli chiedessi qualcosa, ma in verità credo non gliene importi un accidente.
 

***


Per quanto ancora intende far finta di interessarsi ai libri?
Scommetto che se avesse in tasca un cellulare, fingerebbe impazzita di sostenere un avvincente scambio di sms.
Mi chiedo cosa non le sia chiaro del mio atteggiamento.
Questo è il mio posto, il mio spazio. Questa è decisamente la mia poltrona e lei potrebbe andarsi a sedere sotto la finestra o uscire di qui. Tutto perché la smetta di molleggiarsi qui davanti. E’ molto silenziosa, perlomeno. Non disturba. Mi auguro prosegua con questa discrezione per tutto il tempo che dovrò condividerci gli spazi.

Dove diavolo è Robb? Sempre a farsi aspettare, come un provinciale.

Se sono qui a sorbirmi la seccatura di stare dai miei con un’estranea è solo per lui. Voglio vederlo.
Scoprire che progressi ha fatto. L’ho sempre sostenuto in questa sua avventura matta della fotografia. Credo abbia un talento autentico. Voglio solo sperare che non lo sfrutti a vanvera per fotografare una che ha il nome più sfruttato della letteratura rosa. Josephine. Che a pensarci si farà chiamare Jo. Non molto lungimiranti, i genitori. L’hanno condannata ad un appellativo mascolino.
Fortunatamente lei non ha nulla che ricordi un uomo. E’ molto femminile nella sua piattezza.
Veste bene, però. Quel vestito corto ma sbarazzino le dà un’aria elegante, sebbene non ci sia nulla di ricercato nel suo stile. Eppure ha molto l’aria di una bambina. Una bambina elegante.

Dove diavolo è il suo seno? Dubito riempia una seconda.
Avrei dovuto redarguire Robb sulla leggenda del seno a coppa di champagne.
Il vestito è comunque troppo largo sui fianchi perché io riesca a capire che genere di curve abbia.

Credo che non dovrebbe importarmene. E in effetti non me ne frega niente.


***


 Josephine e James rimasero in balia dei loro pensieri, entrambi sperando che Robb ponesse presto fine a quella situazione imbarazzante.
I due si osservarono ancora per dei minuti, prima che il loro comune desiderio irrompesse in biblioteca in tutta la sua stazza fresca di doccia. L’odore di bagnoschiuma alla peonia invase presto la stanza. Jo ne fu grandemente attratta e quasi senza pensarci si ritrovò a camminare verso di lui, alla ricerca di un contatto. James si alzò velocemente, eppure senza fretta, quasi fosse contenuto in una bolla.

– Jamie, accidenti a te. – Robb lo travolse accogliendolo con entrambe le braccia, in uno slancio spropositato.
– Sei dimagrito, Rebby.
– Non cominciare.
– A fare cosa, Rebby? – Jamie strascicò l’ultima parola, con un sorriso impunito che si dispiegava lentamente.
– Ti amo comunque, brutto nazista.
Robb continuò a stringere il fratello ancora qualche istante, mentre quest’ultimo aveva allentato la presa da un abbraccio che, da parte sua, era già piuttosto trattenuto.
Jo li osservò attentamente, intenerita. Vide robb eccitato per la gioia e s’irritò notando il distacco superbo con cui Jamie lo ricambiava. Le piacque, però, il nomignolo con cui si era rivolto a Robb. Il modo in cui lo aveva pronunciato le parve carico di un quantitativo di calore di cui non lo avrebbe creduto capace.
 
– Partita a biliardo? – La voce di James, fino a quel momento bassa e incolore, assunse una sfumatura di brio che a Jo non dispiacque.
– Oh, sì. – Robb si sfregò le mani, e negli occhi brillò un lampo guerrigliero. Jo rise debolmente.
– Vieni con noi? – Le domandò James, sorprendendola. Jo lo guardò e capì, dal suo sguardo disarmonico, che non c’era altro che una piatta e probabilmente falsa cortesia in quella proposta.

– Credo che rimarrò qui. Preferisco scoprire i segreti di questa biblioteca, –rispose ironicamente, forte della presenza di Robb. Vide lo sguardo di James acuirsi.
– Sicura, Jo? – chiese deluso Robb – Sono dannatamente sexy quando gioco a biliardo.
– Non vogliamo di certo che l’aria si surriscaldi troppo, – rispose lei sarcastica.

James, in silenzio, quasi fosse infastidito da quella conversazione ironicamente lasciva, quasi come se per lui fosse un dialogo troppo frivolo per meritare la sua preziosa attenzione, si diresse verso la porta, imponendo al fratello una tacita premura.
Jo ne fu irritata, ma cercò di nasconderlo posando un bacio leggero sulla guancia di Robb. Lui le sorrise e seguì a passi svelti il fratello maggiore.

– Ah, Josephine? – James, sulla porta, la chiamò.
– Sì?
– Sarebbe sensazionale se il posto dei libri, al mio ritorno, non fosse il pavimento.

Jo, mortificata, umiliata, pizzicata nel suo enorme orgoglio, non trovò le parole adatte a controbattere e si limitò ad annuire. Mantenne comunque un’espressione imperturbabile, gli occhi fissi sulla figura di James non ebbero tentennamenti, né un tremolio tradì il suo fastidio.
Jamie ne fu sorpreso, un po’ deluso, ma sorpreso.
Quando gli uomini di casa abbandonarono la stanza, Jo con sollievo cacciò via un grosso sospiro.
Sentì quasi la mente distendersi, tanto era stato lo sforzo che aveva compiuto per affrontare la personalità opprimente di James Draper.
 
 
***

Prendetevi tutto il tempo che volete. Lasciatemi qui, a morire sulle parole di quest’uomo.
Dov’è che ha messo il libro, quello lì? Ah, sì, eccolo lì sul tavolino.
Quasi m’intimidisce pensare di sedermi su questa poltrona. Prima è stato come se James volesse disporre dei paletti invisibili sulla sua proprietà.
Per l’amor di dio, temo davvero che una poltrona faccia la spia? O che possa costituire un reale problema sedermici sopra?
A volte mi sento così stupida.
Mi ci siedo su, quindi. Con alterigia, a volerlo specificare. Allungo la mano per acciuffare il bottino libresco da cui sono stata brutalmente separata e mi metto a cercare un’altra poesia, una di quelle con tanti segni e parole affamate.
Mi sfiora un pensiero, di quelli talmente ovvi che mi chiedo come abbia fatto a non pensarci prima.
Insomma, quelle sottolineature hanno tutta l’aria di essere opera di James. Sono linee severe, tracciate con foga e indelicatezza. Pare impossibile che un uomo così sostenuto sappia apprezzare un tipo di poesia tanto sinuoso. Certo è che nemmeno di me, lo si direbbe.
Noi esseri umani siamo un tale paradosso.
 
XX
 
Mia brutta, sei una castagna spettinata,
mia bella, sei bella come il vento,
mia brutta, della tua bocca se ne può far due,
mia bella, son freschi i tuoi baci come angurie.
 
Mia brutta, dove stan nascosti i tuoi seni?
Son minuscoli come due coppe di frumento.
Mi piacerebbe vederti due lune sul petto:
le torri gigantesche della tua sovranità.
 
Mia brutta, il mare non ha le tue unghie nella sua bottega,
mia bella, fiore a fiore, stella per stella,
onda per onda, amore, ho contato il tuo corpo:
 
mia brutta, t’amo per la tua cintura d’ora,
mia bella, t’amo per una ruga sulla fronte,
amore, t’amo perché sei chiara e perché sei oscura.
 
M’ipnotizza ancora una volta, quest’uomo morto dalle parole così vive. Vorrei che Robb fosse capace di parlarmi in questo modo, che mi amasse chiara e oscura. A volte sembra che chiuda appositamente gli occhi davanti alle mie colpe e ai miei difetti. Le mie macchie sulla pelle lo spaventano. Le mie occhiaie e i mie giorni grigi lo rendono reticente. Eppure mi ama, o si sforza per riuscirci. Non saprei dirlo esattamente.
Ma avrei voglia di sentirmelo dire, che mi ama brutta e bella, chiara e oscura, coi miei seni minuscoli come due coppe di frumento.
Mi stupisce che di una poesia così intensa, il sottolineatore appassionato, sia stato colpito da un’unica, piccola frase.
Dove custodisce ciò che assorbe da questi versi?
In quale mare gelido annega questi tizzoni roventi?
Vorrei contenere un mare simile per non sentirmi, adesso, così perdutamente esposta alle fiamme.

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Capitolo 5
*** Chiara e oscura ***


– Oh, ti prego, ti prego, non cambiare canale!
– Jo, non ho intenzione di vedere un solo altro minuto di questa idiozia melensa!
– A volte sei così ottuso! – sbottò Jo col suo solito tono troppo pacato.
- Da’ qua!
 
Robb le sfilò via dalle mani il telecomando, sogghignando come un ragazzino. Jo, infastidita, lo guardò in cagnesco, ma non menò le mani come lo stomaco le suggeriva. Semplicemente lo lasciò fare, ignorandolo con finta calma piatta. James, impegnato in una telefonata, camminava lungo il corridoio e dal salone si potevano sentire chiaramente i suoi ordini severi. Sembrava arrabbiato, ma la sua voce, notò Jo, rimaneva ferma. Robb, di primo acchito, si spazientì. Aveva trovato un documentario sulle abitudini culinarie dell’Arabia Saudita ed era pienamente deciso a capirci qualcosa. Scoccò un’occhiata malevola nei confronti di James, il quale, di tanto in tanto, faceva la sua apparizione sulla porta per poi sparire di nuovo, a piccoli passi, dietro gli stipiti.
Quando la figura del fratello gli si concesse nuovamente alla vista, Robb si mise ad osservarlo con attenzione. Erano mesi che non lo vedeva e notò in lui qualcosa che lo catturò completamente. I modi, la camminata, i gesti inconsapevoli: tutto di lui gli ricordò suo padre.

Quand’è che era diventato così sfacciatamente uomo? Così vecchio?
I suoi lineamenti dichiaravano un’età, ma le sue espressioni e la sua intera presenza delineavano una versione di Jamie più spigolosa, in un certo senso acre.
Il velo di barba di un castano troppo chiaro e ramato aveva soverchiato gli angoli ancora fanciulleschi del suo viso, restituendo un’immagine di lui più matura e cattiva.
Le spalle larghe, il busto snello e la muscolatura tenue patinati dalla camicia erano sempre le stessi, ma in un modo che gli parve più imponente. Si convinse del cambiamento in un arco di minuti che nel suo immaginario modificò, sebbene lievemente, l’immagine di James. Provò un sorprendente sentimento di nostalgia, stretto e soffocato da una sensazione di subordinazione che gli ricordò nitidamente quella che per gran parte della sua vita aveva provato per il padre.
Per la prima volta lo riconobbe come uomo, prima che come fratello.
Jamie, in un senso sottile e assurdo, si era perso, forse ormai morto, nelle linee dure di James Draper.
 

– Cos’avevate da urlare prima? – James interruppe i pensieri di Robb e fece rinsavire Jo dal suo stato di impasse.
– Jo voleva guardare un filmetto da donne.
– Non era un filmetto da donne.
– Accidenti, se lo era.
– Ma quanti anni avete?
James, con flemma e perentorietà, scoccò ad entrambi – e non senza goderne - un colpo che entrambi avvertirono basso, bassissimo. Robb si sentì colpito nel vivo, specie  dopo aver preso coscienza di quanto più adulto di lui fosse, ormai, il fratello. Jo, dal canto suo, potè sentire chiaramente le viscere dello stomaco contorcersi in un grumo d’irritazione e mal sopportazione.
– Quanta supponenza.
Lo disse. Lo fece. Morì centinaia di volte e resuscitò, pronta a morire tutte le volte che la vergogna avrebbe voluto ancora infliggerle.
– Scusa? – James intercettò gli occhi scuri e fugaci di Jo.
Li vide saettare, depositarsi sugli angoli, oltre di lui, chiedere soggiorno in un mondo a loro parallelo.
Li catturò nella morsa dei suoi, di un verde troppo scuro e liquido per sembrare tale.
Li pietrificò, impose loro di non divincolarsi dalla morsa dei suoi.
Pena la morte. O almeno così percepì lei.
 
 
 ***


Un passo falso e sei fuori dai giochi, pensò James. Avrebbe dovuto scandagliare bene le proprio risorse, Josephine. Riflettere a lungo e rispondergli come si conveniva e nessuno avrebbe subito spiacevoli conseguenze. James la scrutò, lupesco, pensando che non l'avrebbe certamente salvata l'aver usato un vocabolo tanto ben scelto, né l'avrebbe assolta la sua voce modulata, il modo in cui le sue labbra si erano arricciate intorno a quella parola.
Avrebbe dovuto sfruttare al meglio le armi in suo potere, la ragazzina, per rimediare a tanta impertinenza.
– Quello che ho detto.
– Ripetilo, per favore, – le intimò, levigando l’asprezza che normalmente avrebbe sfoggiato.
Lo sguardo di lei rimase immoto, ma James riuscì a scorgervi qualcosa che non avevo notato prima: un brillìo ironico, provocatorio.
Le mani, comunque, la tradirono ancora una volta, mentre ne premeva una attorno al polso di Robb. Questi pareva divertito, ma teneva gli occhi bassi.
– Ti affascinano le parole che non conosci? – le tremò il labbro superiore, quello più carnoso.
Un tremolio che attutiva il tono integerrimo della sua provocazione.
Bambina saccente.
– Ricordami quando ti ho concesso questo livello di confidenza.
La testa di Robb  scattò verso l' alto. Si mosse sul divano come se improvvisamente lo trovasse scomodo. Poi fissò James con lo sguardo appesantito da un misto di rimprovero e supplica. Josephine non se ne accorse, e non lo guardò nemmeno mentre abbandonava la presa sul suo polso.
Si era inorgoglita e James lo notò e d'un tratto la bambinetta era mutata in una donna. La vide spostarsi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio, prima di guardarlo sfacciatamente, senza veli. Nonostante i suoi sforzi, James notò quanto fosse intimidita da lui, dai suoi modi, da quella conversazione, ma puntuta, attenta a non palesarglielo.
– L’ironia che sembri non aver colto non necessita di un livello adeguato di confidenza. Una confidenza che, peraltro, non intendo ottenere.
 – Robb, dovresti tenerla buona, la tua bambina, – disse, serafico, ponendo l'accento sull'ultima parola. Rilassò il volto, senza smettere di guardarla. Poi, un ghigno affettato, acre, superbo gli piegò le labbra sottili. Capiva, suo malgrado, di dover smorzare i toni per il benestare del fratello, ma  la brama di ridicolizzare la presa di posizione di Josephine era stata incontrollabile.
Robb ridacchiò, fece una battuta a cui il fratello non prestò attenzione. Josephine, immobile, sorrise con scarsa convinzione, troppo determinata a guardarlo in cagnesco, ancora, finché in un attimo, mutò per l'ennesima volta, rivelando d'un tratto un corredo di lineamenti rilassati, lo sguardo placido. Un velo scuro le aleggiava sul viso, i suoi occhi apparvero a James più intensi e languidi, la pelle di un pallore grigio.

Josephine gli apparve ultraterrena nella sua calma.
Che magia era quella?
Era così diversa, in quel momento, così chiara e oscura.

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Capitolo 6
*** E' oggi: tutto l'ieri andò cadendo. ***


 

Capitolo 6.



Non riusciva a credere di aver sfidato in quel modo il fratello di Robb. Capì, suo malgrado, di essere stata inappropriata, sciocca e orgogliosa. Robb, come se non bastasse, dava l’impressione di esserci rimasto male, sebbene non ne capisse di preciso il motivo; lo intuì da come l’aveva osservata a lungo per tutto il pomeriggio, dalla sua aria taciturna. Nonostante quelle sensazioni, Jo aveva scelto di non indagare per non invadere le sue riflessioni, qualsiasi fossero.
Lì, seduto al suo fianco, mangiava silenziosamente, scomponendo i pezzi di pomodoro sul piatto con accuratezza chirurgica. Era evidente che non avesse appetito. A guardarlo di profilo, sospeso in quella che sembrava una dimensione strettamente privata, le parve bellissimo; fresco e giovane, con un tocco di fascino tenebroso che non le era mai dispiaciuto.
Voleva baciarlo, ma non erano da soli.
Stavano cenando in soggiorno con la famiglia Draper finalmente al completo.
Ben e James discutevano sommessamente d’affari, mentre Susan lanciava occhiate accorte in tutte le direzioni.
Jo notò il modo in cui il suo sguardo si era soffermato su Robb, le vide aprire la bocca, ma non ne venne fuori alcun suono.
Poi la guardò, abbandonando l’espressione vagamente corrucciata di un attimo prima.
 
 
– Jo, cara, perdona i miei ragazzi maleducati. Vediamo di fare un po’ di conversazione.
– Susan, non bacchettarci così davanti agli ospiti. – Ben rivolse a Jo un’occhiata divertita.
– Oggi Josephine ha fatto i capricci, mamma. Non credo abbia molto da raccontare.
– Robb! – Jo diventò paonazza.
– Cos’era quell’assurdità? Ah, sì. Credo potremmo intavolare una conversazione sul sensazionale successo cinematografico
“C’è posta per te!”. – Robb la prese in giro.
– Robb, non essere ridicolo, – lo rimbrottò lei. – Susan, perdonalo, ma tuo figlio non sa  distinguere un buon prodotto da uno cattivo.

Jo lo sollecitò con un’occhiata divertita, ma il suo viso era serio. Per qualche ragione, le piaceva l’idea di fare dell’ironia creando una contraddizione tra il visibile e gli intenti.
 
– E’ quello sarebbe un buon prodotto? Sono riuscito a sopportarlo quei due minuti giusto perché a Meg Ryan non si rifiuta mai una prolungata occhiata compiacente.
– L’uomo di cui mi sono innamorata era ben lungi dal darsi queste arie da adoratore e saggio conoscitore del bel sesso.
Gli posò una mano sul gomito. Lui, di rimando, le rivolse un’occhiata di traverso, insieme ad un ghigno estremamente sensuale stampato sulla bocca.

Jo, a quel punto, udì nitidamente uno sbuffo di puro scherno provenire dal posto di James. Istintivamente, lo trafisse con un'occhiataccia. Lui, però, stava compitamente tagliando e mangiando le sue verdure, senza neppure rivolgerle l’ombra di uno sguardo. In verità, sembrava non avere la minima considerazione per nessuno.
Tuttavia, Jo riuscì ad intercettare il ghigno formatoglisi fra i meandri non troppo insidiosi della barba.


– Jamie, ti ho sentito sbuffare. – Robb si avvicinò al tavolo trascinandosi dietro la sedia.
Assunse una posizione di sfida e un sorriso fanciullesco sbocciò sulle sue labbra piene, rosee.

– Ottimo. Adesso sappiamo con certezza che non ti occorre un otorino.

Quant’è posato, pensò Jo, borioso in una maniera nauseabonda.
 
– Jamie! – Susan ridacchiò, guardando ammirata il figlio maggiore.
Aveva una tale cotta per lui che a Jo fece quasi tenerezza.
– Mamma, sei sempre così civettuola con Jamie. Sei imbarazzante. – Robb le sorrise beffardo, lei strabuzzò gli occhi e nascose le labbra sotto una mano.
A Jo venne fuori un sorriso timido che si mutò in una smorfia indecifrabile, quando sentì la mano di Robb sulla coscia. La mano di lui e la sua pelle erano ad un collant di distanza. Jo fu travolta da un cocente imbarazzo: Robb era sempre così esplicito nelle sue intenzioni e Jamie, infido lupo, se ne accorse. Li fissò con aria indiscreta e le sembrò che fosse sul punto di dire qualcosa, qualcosa di molto fastidioso, ma tacque con la scia di una smorfia sardonica sul viso.
 
– Invece di startene lì a sogghignare in sordina, potresti farti sotto. Sempre così ritroso. – Robb lo provocò di nuovo.
– Non devi rimorchiare nessuno qui, puoi anche disinnescare l’aria da dannato, Jamie.
– Cerchi rogne, Rebby? 

James aveva cambiato espressione: lo fissava divertito, ma con una sfumatura di scontrosità nell’espressione.
Jo lo trovò affascinante, in quel momento, e per una qualche ragione desiderò guardargli le mani. Erano grandi e curate, nervose.
James, con le maniche già ai gomiti, si rigirò sul polso l’orologio. Jo non poté fare a meno di accorgersi di quanto quell’uomo fosse elegante, anche mentre si burlava degli altri. Pensò che fosse senz’altro quella, la cosa più fastidiosa.

– In un certo senso. Ho tanta voglia dei tuoi discorsi noiosi. – Robb lo sfidò facendo sfoggio di un sorriso impudente.
– Sbuffavo. E’ vero. Contento?
– Non vedo perché. Hai un fratello che rasenta la perfezione. – Addentò un boccone di pane, continuando a guardarlo.
– Non sbuffavo a causa tua, infatti. – Toccò ancora l’orologio e fece saettare gli occhi su di lei per studiarne la reazione che era ansioso avesse.
Tuttavia, lei si intimò di ignorarlo.
Dopotutto, si vergognava a morte di Susan e Ben. Che idea si sarebbero fatti di lei vedendola rispondergli malamente?
Sapeva che cedere le avrebbe restituito nient’altro che una figuraccia, specie se lui stava meditando – come temeva – di interdirla con una delle sue frasi taglienti, frasi a cui lei si sarebbe ritrovata a soccombere per evitare di rendersi ridicola.
Tutti, però, seguendo la scia dello sguardo di James, la stavano scrutando, come se si aspettassero effettivamente qualcosa, un cenno, un parola.
Robb strinse la stretta sulla sua coscia. E lei, a quel punto, non riuscì più a trattenersi. Anche le pareti le suggerivano di rispondere alla provocazione. Il punto era che Josephine non sapeva resistere davanti alla prospettiva di una schermaglia verbale e in quel momento si sentì un kamikaze.

– Ho qualcosa che non va sul viso? – gli chiese senza remora.
– Non fare l’innocente.
– Sbuffavi per me? ( Voleva davvero saperlo?)
– Perspicace. – Continuava a toccarsi l’orologio. Gli occhi erano severi, ma sulle labbra aleggiava un’ombra d’ironia.
– E sentiamo: perché? – La voce di Jo suonò più bassa e piccata di quel che avrebbe voluto.
Non voleva dare l’impressione di star prendendo sul serio quello scambio di battute.
– Perché trovo la tua ironia, – si passò un dito sulle labbra e proseguì, – spicciola.
– Jamie, non fare lo stronzo, – intervenne Robb in un tono troppo divertito perché l’altro potesse prenderlo in considerazione. Anzi. Parve dargli ulteriore slancio.
– Lascia fare a me, – lo rassicurò lei, mostrandosi disinvolta.   
– Spicciola? – ripeté le parole di James. – E’ il mio modo di scherzare con Robb. Non pensavo di trovarmi  al cospetto di una giuria.
– Ho la facoltà di giudicare e la sfrutto, – ribatté svelto.
– Credevo non avessimo un livello di confidenza tale.
– Sei rancorosa, vedo. Molti lo considerano un difetto. – Il suo tono si era fatto più altero.
– Molti o tu, Giudice Supremo?
Robb non riuscì a trattenere una risatina sommessa.
– Io per primo.

Jo ridusse gli occhi ad una fessura.
Avrebbe voluto scalfire tanta superbia audace e ostinata. Si ammutolì d'istinto: sotto l'energia di James la sala sembrava come raggrinzirsi, arricciarsi sulle pareti e i rumori, per un istante infinito, sembrarono cessare.
James emanava un’aurea che costringeva al silenzio e che incanalava le attenzioni di tutti su di lui. Il suo modo di fare inibiva, la inibiva.
Il suo sguardo era un giudice spietato.

– Jamie, Lascia stare Josephine, – intervenne dolcemente canzonatoria Susan.
– Mi era sembrato di capire che volessi fare conversazione, – fece lui, ancora concentrato a studiarla.
– Non che la tormentassi, caro.
– Ti ho tormentata, Josephine? – La sua domanda la colse di sorpresa.
– Niente affatto.
– Josephine è solo ben educata. – Susan si alzò e le strizzò un occhio.
–E’ orgogliosa, – puntualizzò lui.
 
Lo disse come fosse una sentenza incontrastabile. Come se la conoscesse tanto profondamente da non ammettere repliche.

– Puoi dirlo forte. – Robb si era rilassato e adesso guardava Jo amorevolmente.
Ma lei, suo malgrado, non riuscì prestargli la dovuta attenzione.

I suoi occhi tornarono a posarsi su quelli di James, i quali erano ancora lì, pronti per lei, densi; il pollice premuto sulle curva impertinente delle labbra.
Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso.
Sentì Susan che annunciava l’imminente arrivo del dolce. Sentì Robb scambiare delle battute con Ben.
Ma era tutto rumore ovattato.
Era incastrata nel caos oscuro del suo sguardo.

 
***


- Vieni qui.

Robb, sdraiato sul letto con un braccio allungato pronto ad accoglierla, invitò Josephine ad adagiarsi al suo fianco.
Prima di assecondarlo, Josephine si guardò allo specchio sistemandosi la treccia scomposta su una spalla. Si accoccolò contro il fianco di Robb, cinse il suo uomo con un braccio e schiacciò il naso sulla maglietta che lo divideva dalla sua pelle.

– Mi piace tua madre, sai?
– Perché è adorabile, – fece lui a voce bassa.
Ad illuminargli il viso solo la luce fievole dell’abatjour.
– Ieri pensavo di averle fatto una cattiva impressione.
– E’ solo diffidente. Probabilmente lo è ancora, ma sono sicuro che tu le stia simpatica.
– Lo dici per farmi piacere?
– Dico sul serio, Jo, – la rassicurò lui, accarezzandole la schiena. – Piuttosto mi preoccuperei di Jamie, – aggiunse, desiderando di rivederla inorgoglirsi. Adorava il modo in cui lo faceva. La scintilla che le attraversava le pupille.
– Preoccupatene tu, – non poté trattenersi dal rispondere.
– Suvvia, Jo! – La sua voce era uno strascico a causa del sonno. – Mio fratello è così. Non ti vuole male. E’ il suo modo di scherzare: gli piace mettere gli altri in difficoltà a suon di dialettica.
– E’ troppo spocchioso, e scusa se mi permetto. – Strinse le mani in due piccoli pugni e con uno di essi attraversò l’addome di Robb.
– Lo è, ma non è cattivo. Tu gli tieni testa e questo deve essergli piaciuto, quindi sta’ tranquilla.
– Ah, non lo so proprio. Parlare con lui è sfibrante, avvilente... spinoso.
- Dovevi usare sul serio tutte queste parole per dire che è antipatico?- Robb era divertito, ma masticò le parole e a Jo arrivarono quasi liquide.
– Hai sonno. Smettila di ciarlare, – lo rintuzzò lei, battendo un pugno leggero sul suo petto.
– Voglio che tu stia bene qui, – mormorò lui, scostandosi dalla stretta per poterla guardare in viso.
– Perché ci tieni tanto? – chiese lei, ricambiando lo sguardo con dolcezza.
– Ho tanti progetti per noi, piccola.

Lei abbozzò un sorriso tiepido, poi corse con le labbra sulla sua mascella, depositandovi baci brevi e ritmici.
Evitò appositamente di fargli altre domande perché non voleva sapere davvero cosa lui immaginasse per loro. Un pensiero la sfiorò, senza entusiasmarla. Il fianco riprese a pulsarle e da lì le scorse dentro il corpo quella bruciante sensazione di nostalgia, una nostalgia che non riusciva a spiegarsi.
Robb si beò della sua tenerezza e chiuse gli occhi.
Josephine lo vide cadere addormentato e sospirò. Si chiese se non avesse sbagliato ad invadere gli spazi di una famiglia che probabilmente non sarebbe stato molto a lungo ancora sua.
Quella notte mise in discussione ogni certezza che aveva accumulato da un anno a quella parte.
Voleva Robb ma non sapeva dirsi fino a che punto. Non riconosceva i limiti del suo sentimento per lui, ma li percepiva nitidamente.
Dei limiti esistevano e sentì che era sbagliato.
Eppure come faceva ad esserne così certa?
Che metri di paragone aveva? Come poteva misurare con tanta sicurezza il perimetro reale, l’intensità netta di quel sentimento?
Ma lei in fondo lo sapeva, cosa c’era che non andava. Lo sapeva e si sentiva talmente stupida.
Il pensiero le sfiorò la mente e la fece rabbrividire travolta da una scossa di biasimo. Leggendo Neruda, in quei due giorni, aveva creato, senza nemmeno rendersene davvero conto se non in quel momento, una barriera spessissima tra le sue aspettative e la realtà.
La poesia può essere letale quando tocca col suo pungiglione rovente i cuori più freddi. Il fuoco ha una metà di freddo e quello della poesia attecchiva senza riserve alla sua coscienza di pietra ruvida. Josephine si rimproverò per la sua debolezza, per la sua influenzabilità. Non poteva mettersi davvero a tirare le somme del suo rapporto spinta dall’onda inebriante ed intensa della poesia di un poeta; un uomo morto, per giunta. Un uomo imperfetto, da quel che ne sapeva.
Ci si può invaghire della parola scritta? Ci si può innamorare della mano che ha calcato un verso?
Josephine si fece queste e molte altre domande e arrivò a considerarsi definitivamente una sciocca.
No, non poteva essere semplicemente questo, semplicemente una poesia ben scritta. Semplicemente era impossibile. C’era dell’altro e lei lo sapeva. Non poteva ignorare la fitta al fianco, quel senso di perdita e nostalgia per niente di definito, quella stretta atroce allo stomaco che aveva provate la settimana prima in aeroporto e poi due giorni prima alla porta dei Draper, davanti all’entusiasmo disarmante di Robb. Non poteva ignorare niente di tutto questo, eppure guardando Robb sotto quella luce tenue, tenue come lui, come il dardo del suo amore, capì che non meritava quel metro e ottantré di tenerezza che le dormiva accanto. Era una persona contorta, storpia dentro senza nessun motivo preciso, storpia semplicemente perché qualcosa era andato storto, ad un certo punto. Qualcosa come una bambina spensierata che maturava in una donna spenta. Josephine si era spesso domandata come fosse stato possibile, quale evento o parola l’avesse trasformata nella donna che era. Un’anima zoppa, ricurva sul grembo.
E poi perché?
Forse ci si nasce, forse era già presagibile da quello sguardo che l’aveva sempre contraddistinta, anche da piccola.
Due bottoni di un nocciola tanto languido che a volte sembrava rosso, tanto denso a volte da sembrare corrotto, nero.
Come se fosse nata con una stilla di tenebra nel sangue, come se quella stilla, negli anni, si fosse propagata e conglomerata in altre centinaia di metastasi capaci di compromettere ed incancrenire il suo sguardo. Non lo aveva mai avuto, uno sguardo giovane. Meno che meno dopo quello che le era successo. Ma a lui non lo avrebbe mai raccontato, mai per intero, mai con tutti i dettagli. L’avrebbe vista con altri occhi, avrebbe capito troppo di lei per non esserne spaventato, spaventato quanto lo era lei. Perché forse anche lui avrebbe visto l’ombra del sangue marchiarla.
Non voleva essere rifiutata per un passato di orrori che non le appartenevano se non di riflesso, non voleva che il rifiuto facesse di lei una replicante e che quindi l’orrore le si infrangesse addosso.
Sospirò, si strinse tra le braccia e premette le labbra contro la spalla scoperta di Robb.
Si chiese come diavolo fosse possibile che un uomo dagli occhi giovani, rigogliosi di Robb potesse sentire il bisogno dei suoi, così lugubri che avrebbe voluto strapparseli via dalle orbite e sostituirli con due nuovi cocci di giovinezza. Forse, pensò, forse in realtà Robb non li aveva mai davvero amati, i suoi occhi. Proprio come faceva col suo neo sopra il labbro superiore, proprio come faceva con le imperfezioni della sua pelle troppo grigia nel suo pallore, proprio come faceva con ogni dettaglio fosco del suo corpo. Non avrebbe saputo definire cosa volesse davvero da quell’uomo.
Forse un amore totale, che non ammettesse disgusti malcelati. Un amore pronto ad accoglierla per intero, senza reticenze.

Poteva forse desiderarlo? Era in suo diritto? Chi era lei per meritarlo?



***

La mattina seguente Robb pregò James di permettere a lui e Josephine di assistere al torneo di scacchi che si sarebbe svolto al circolo di cui il fratello e il padre erano membri. Un circolo per lo più frequentato da imprenditori e dandy ereditieri. Alle dodici, con il consenso più che concesso di James, i tre salirono in auto diretti al circolo. Dietro di loro, più precisamente dietro la mercedes grigia di un modello che Jo non seppe riconoscere, l’audi nera di Ben e Susan Draper li seguiva. Josephine sedeva sul sedile posteriore e di Robb e James riusciva a scorgere soltanto i profili. Nessuno parlava e probabilmente questa era colpa di James, il quale concentrato com’era sulla strada inglobava l’aria nella sua bolla di gelo. Jo azzardò una domanda, incapace di sopportare quel silenzio gelido e quell’odore troppo intenso di dopobarba, non quello di Robb, che di barba ne aveva appena qualche sprazzo.

– Robb non mi aveva mai raccontato della tua passione per gli scacchi.

Si rivolse a James, anche se quando aveva formulato quella frase in testa le era sembrata più diretta a Robb. Il che non aveva senso, ma molto spesso si sentiva tradita dalle sue stesse parole.
– Non la definirei esattamente una passione. – Vide la mascella liscia di James contrarsi leggermente e pensò di averlo infastidito.
Un pensiero assurdo che poteva comunque rivelarsi vero, dato il soggetto.
– Credo si sia ritrovato a farlo senza nemmeno rendersene conto, ed oggi eccolo qui, – intervenne Robb.
– Ritrovato a farlo? Le cose si fanno perché lo si vuole, – disse lei, incolore.
– Mi piace farlo, ma non direi di esserne appassionato, – tagliò secco James.
– La verità è che a lui riesce tutto stramaledettamente bene. E di per sé la passione contiene la smania di migliorarsi. – fece Robb.

Jo guardò James per vederne l’espressione, ma a parte la curva di un sorriso compiaciuto, non gli vide fare né gli sentì dire alcunché. Robb parve accontentarsi di quello e anche Jo. Fino a che non le frullò nella testa una nuova domanda, una curiosità che doveva appagare.

– Non c’è davvero niente che ti appassioni? – chiese con voce un po’ incerta, nascondendosi dietro il sedile di Robb, per poterlo studiare di profilo cosicché lui non avrebbe potuto voltarsi a guardarla troppo facilmente.
– Sì che c’è, – fece lui secco, guardando la strada.
– Ah, davvero? – proruppe Robb incredulo. – Sembra sempre che tu faccia le cose perché devi o per tappare le tue ore buche.
– Sembra così?
– Ho molte foto che potrebbero dimostrarlo. Le tue espressioni passano dal disgustato, all’analitico per poi scadere puntualmente nel sadico. Credo di non ti aver mai visto sorridere giocando a scacchi, né facendo alcunché.
– Sarà come dici, – tagliò corto lui.
Jo si mosse inquieta sul sedile. Le pizzicava la lingua tanto voleva intrufolarsi nel discorso senza apparire invadente e inopportuna. Ma voleva fargli delle domande, vederlo inciampare nelle sue stesse parole.

– Non ti fa sentire incompleto? – gli domandò, con una strana calma nella voce.
– Non vedo perché dovrebbe.
– Una vita che passa senza una vera passione a cui aggrapparsi può definirsi vita?
Da che pulpito poi, pensò tra sé.
– Trovo più incomprensibile il fatto che ci si appassioni  a qualsivoglia stupidaggine.
Aveva davvero detto “qualsivoglia”?
– Basta anche una sola cosa, purché tu la creda profondamente tua. – Non si fece scoraggiare, Josephine.
– Io posseggo molte cose, – dichiarò lui, crudo.
– Non parlo di possesso, parlo di appartenenza, di coinvolgimento, – ribatté Josephine, quasi d’istinto.

La mascella di James si contrasse di nuovo e Josephine poté vedere chiaramente le sopracciglia di lui aggrottarsi, eppure in nessun modo lui tentò il contatto visivo.
–Jo, non confonderlo. – l'ammonì cautamente Robb, perplesso.
– Non mi confondo per così poco, Robb, – ci tenne a precisare l’altro. – Anzi, se permetti, vorrei darle un altro pretesto per covare del rancore nei mie confronti. – Josephine udì palpabile il tono provocatorio in quella frase che voleva far passare per innocua.
– Sarebbe? – fece lei, senza dare a Robb il tempo di rispondere.
– Vorrei rigirarti la domanda, – disse lui, con un tono più basso del normale.
Josephine lo vide inclinare lievemente il capo verso di lei e per un breve attimo uno dei suoi occhi di un verde troppo denso la puntò, poi tornò anch’esso sulla strada.
– Mi stai chiedendo se c’è qualcosa che mi appassioni?
– E’ quello che sto facendo.
– Ma tu non mi hai ancora risposto, – gli fece notare, con un tono tra il serio e il faceto.
– Non sono tenuto a farlo, – ribattè lui.
– Beh, nemmeno io.
– E questo è tutto, Josephine. – Si mosse sul sedile e lei sentiva, sapeva, percepiva che lui stava sogghignando.
Non riusciva a vedergli bene le labbra, ma ci avrebbe messo la mano sul fuoco.
Ma perché con quell’uomo non si poteva semplicemente conversare senza che un nonnulla diventasse un’estenuante diatriba senza nessun senso?

Josephine, ad ogni modo, si pentì di aver risposto a quel modo, e non perché volesse rivelargli le sue scadenti passioni, ma perché sapeva che così facendo non aveva fatto altro se non assecondare il suo gioco. Che non era mai un gioco – questo lo aveva capito – ma sempre un modo per aggirare e manipolare le conversazioni che in qualche modo lo infastidivano.
Si sporse per guardare Robb, ma lui non prestava loro molto attenzione giacché mani e occhi si occupavano con cura magistrale di regolare e manovrare le opzioni che la sua reflex offriva. Stava preparandola ad immortalare quella giornata al circolo. Non sarebbe riuscita ad evitare che la fotografasse: di questo ne era certa. Eppure l’idea non le dispiacque. Lui sapeva fotografarla, sapeva valorizzarla e non era mai riuscita a spiegarsi come.
In quel momento, si pentì un po’ dei pensieri che l’avevano martoriata per tutta la notte.
Quell'uomo era ancora il suo Robb.

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Capitolo 7
*** Distante e dolorosa come se fossi morta ***


Capitolo 7.


 
Quella giornata al circolo era trascorsa senza intoppi e si era conclusa con la sconfitta di James sulla scacchiera. Erano sulla strada di ritorno, Robb non faceva che passare la sua reflex a Josephine per mostrarle quella o l’altra foto e in tutto questo James non sentiva che il fischio assordante della disdetta.
Non sopportava di perdere, in nessun ambito. Essere secondo a qualcuno lo frustrava, senza mai però minare la sua solida autostima. Era sempre riuscito in tutto. Aveva conseguito una laurea in management studies e non aveva mai perso occasione di prodigarsi per il bene dell’impresa familiare. Tutto questo senza che mai nessuno lo avesse obbligato a farlo. Lui faceva sempre e soltanto ciò che aveva voglia di fare e senza nemmeno sforzarsi troppo. Zelante ed estremamente fortunato, non c’era cosa che volesse che non riuscisse ad ottenere.
Eppure, le poche volte in cui falliva nei suoi intenti, sentiva come dei pezzi d’intonaco staccarsi dalla parete cementata del suo ego.
Gli sarebbe passato, quel sentore. Gli serviva solo una doccia calda, poi avrebbe finalmente dedicato del tempo a suo fratello, salvo riuscendo a staccarlo da Josephine.
Aveva evitato di rivolgerle la parola per tutto il giorno, solo di tanto in tanto si era preoccupato di intercettarla con lo sguardo.
Ogni volta che gli era capitato di osservarla, però, non l’aveva mai vista sorridere. Forse una volta, e più che un sorriso le aveva visto fare un ghigno e lui aveva sentito che era per lui, per la mossa sbagliata che lo aveva condannato alla disfatta. Lei non lo aveva guardato, era rimasta con gli occhi bassi, riuscendo a stento a reprimere quel sorrisetto, quella sua piccola esultanza segreta.
La detestò per questo. Non riusciva a farsela andar bene. Non per suo fratello.
Avrebbe potuto essere anche la ragazza più per bene del continente, ma non gli sarebbe mai andata a genio.
Probabilmente nessuno, in famiglia, si sarebbe rivelato del suo stesso avviso, ma a lui non importava.
Temeva che una ragazza così fredda, di un’ironia che lui trovava priva di calore, avrebbe potuto oscurare gli entusiasmi del fratello. Un carattere così prezioso come quello di Robb non poteva e non doveva essere annientato. E non poteva fare a meno di pensare che lei l’avrebbe fatto, che l’avrebbe oscurato. Non riusciva a dare una logica a quelle sue considerazioni, e forse – forse – era troppo presto per dirsi certo di questo o quello, ma per il momento – e sapeva di non sbagliare – lui riteneva la sua idea una verità assoluta.
Era una specie di sensazione ancestrale, un presentimento irrazionale che gliela rendeva totalmente avversa. Non si sarebbe mai intromesso, comunque. Non avrebbe mai messo bocca su quella relazione, ma nemmeno poteva fingersene lieto.
 
***

Avevano varcato la porta di casa da una manciata di minuti, che già i signori Draper erano impegnati a darsi una ripulita per un ricevimento al quale avrebbero dovuto presenziare quella sera. Josephine, su un fianco, stava distesa sul letto di Robb. Il vestito blu che aveva indossato al torneo le fasciava ancora il corpo, mentre il suo sguardo navigava oltre la porta finestra.
D’un tratto sentì bussare e certa che fosse Robb biascicò con voce stonata il permesso di entrare.
La porta si schiuse senza molti preamboli, ma lei non si voltò. Attese un po’ maliziosamente che lui le piombasse addosso.
 
– Dove si è cacciato Robb? – sentì tuonare. Era James e si riscosse con enorme imbarazzo, balzando seduta.
I-io credevo fosse con te.
La voce le tremò un po’mentre lo guardava. Lui aveva quello sguardo serio e scocciato che la metteva sempre tanto in soggezione. Sentì montarle dentro un rivolo di irritazione.
– Probabilmente è di sotto, – suggerì.

 
James annuì, rallentato nei suoi movimenti. Chiuse la porta senza dirle nulla, ma lo fece con grande lentezza, come se qualcosa dentro la sua testa lo avesse rapito.
Quando lasciò la camera e si accinse a scendere le scale, James si riebbe da quella specie di stato di trance. Non pensava di trovarla lì distesa, lì distesa in quel modo, col vestito che a stento le copriva gli slip. Quando l’aveva trovata di spalle, quasi aveva stentato a riconoscerla. Come se quella schiena, quella spalla lasciata scoperta da una bretella ribelle, quella curva profonda dei fianchi, quelle cosce così tornite, quelle natiche così collinose che minacciavano di sgusciare via dal vestito – quel vestito che fino a poche ore prima era così morbido, così ondeggiante e così innocente – appartenessero al corpo di un’altra donna.
 

 
***

Quelle curve. Non riusciva a pensare a nient’altro mentre, seduto in salotto, beveva del tè aspettando che Robb lo raggiungesse col Mac. Voleva fargli vedere gli scatti rubati ad Hanoi e anche qualcos’altro che lo rendeva estremamente fiero di sé. James, comunque, non si rese conto del tempo che trascorse; era avvinto e costretto da quell’immagine.
Una curva tanto meravigliosa per una ragazza tanto fosca, priva di alcuna sensualità. Un culo che non l’avrebbe certamente resa migliore ai suoi occhi. Un culo così e Robb voleva fargli vedere delle foto invece di salire in camera e.
 Per l’amor di Dio, Jamie. Fermati qui. Fatti loro.
 

– Dunque, dunque!
La voce di Robb irruppe nei suoi pensieri decisamente poco galanti.
James gli fece cenno di sedersi, continuando ad occuparsi del suo tè.
– Fa’ vedere, ciarlatano.

Robb ignorò l’appellativo e gli si sedette vicino, posandosi il mac sulle gambe.
Il desktop era già completamente spalancato sulla prima foto di quella che si prospettava una lunga serie.
Ad invadere lo schermo, il viso concentrato di Jamie catturato dalla scacchiera: il pollice sulle labbra, i capelli castani a cui il sole donava delle sfumature di rosso, le sopracciglia spesse estremamente aggrottate e le labbra, di una carnosità lieve, sigillate in una linea dura. Ne seguì un’altra, di foto. Di nuovo James, stavolta contenuto in una panoramica più ampia che permetteva di vedere gli alberi dietro di lui, l’aderenza della polo blu sul petto, gli occhi adesso aperti, attenti, di un verde che in quella foto, con l’intervento del sole, virava al blu.
E poi un’altra e un’altra ancora. James sperò vivamente che non ce ne fossero ancora molte. Ebbe l’impressione di essere uno di quei prodotti in vendita alle aste online di cui occorre mostrare ogni singolo dettaglio. Non fece in tempo a commentare la cosa, che comparve in tutta nitidezza una nuova fotografia.
Questa ritraeva ancora lui, ma con lo sguardo rivolto altrove, posato su quello che era – non poteva crederci – il sorrisetto trattenuto di Josephine. Robb aveva rapito quel momento, quell’esatto momento. Aveva reso eterno quel maledetto sorriso, quella beffa impudente che si svolgeva sotto i suoi occhi, i quali gli parvero meno incattiviti di quello che aveva immaginato fossero.
Eppure, nonostante il fastidio enorme che quella circostanza continuava a procurargli, non poteva fare a meno di notare l’inebriante impatto visivo che quella foto regalava. Sembrava il fermo immagine della scena di un film; le espressioni naturali, la forza del blu dei loro abiti sul verde dei cespugli, la forza del biancore delle pelli su tutto il resto.
Lo sguardo basso di lei, in piedi accanto a lui che, seduto, cercava con gli occhi le sue labbra. 


Mi piace, – commentò senza riflettere.
– Aspetta che la veda Josephine, – fece Robb.
– In che senso?
– Qui è palese che le stavi facendo il malocchio col solo potere dello sguardo.
– E’ evidente che si stesse prendendo gioco di me, – gli fece notare, risentito.
– Lei non noterà questo, – Robb lo guardò con aria di chi la sa lunga, – Vedrà te che la stramaledici per la sua impudenza, – disse, e gli scappò una risatina.
– Probabilmente ero solo sovrappensiero, – tagliò corto James, mentendo.
– Senti, Jamie, – Robb si voltò verso di lui, – Devo chiederti un favore.
– Di’, – lo incitò seccamente l’altro.
– Potresti provare ad essere meno spietato con lei? 
La voce era evidentemente compromessa da una nota di reverenza mista ad imbarazzo.
– Insomma, io ti conosco, so come sei, ma lei no e si convincerà che non la sopporti, di questo passo.
– Si è sentita mancata di rispetto? – domandò James sollevando un sopracciglio.
– No, non che io sappia, ammise Robb.
- Forse tu. Tu ti sei sentito come se io le abbia mancato di rispetto?
– No, Jamie, no.
Robb scosse la testa, con un’aria che si appropinquava alla rassegnazione.
– Non vedo dove stia il problema, allora.
– Non c’è nessun problema reale, Jamie. Voglio che lei si senta a suo agio con noi e se tu ti ostini a volerla sopraffare non ci si sentirà mai. Robb tornò a guardare lo schermo del computer, come se avesse sferzato il suo colpo finale e non si aspettasse nessuna risposta.
– Non credo si senta sopraffatta. Altrimenti non adotterebbe quell’atteggiamento impertinente,– commentò James prima di tornare a sorseggiare il suo tè ormai troppo tiepido.

Fu sul punto di dirglielo, di dirgli che quella ragazza non gli piaceva.
Che per lui avrebbe voluto di meglio, qualcuno che lo riempisse d’attenzioni, qualcuno che emanasse calore, vita, spensieratezza.
Avrebbe voluto dirglielo che due labbra e un culo del genere non erano sufficienti a smorzare quel grigiore che le adombrava le guance, avrebbe voluto dirglielo che a furia di guardare quegli occhi ultraterreni, agghiaccianti nella loro stasi, si sarebbe consumato le iridi.
Avrebbe voluto dirglielo, ma poi con che motivazioni? Su quali basi avrebbe eretto quelle sentenze?
Poteva dirgli che semplicemente lo sentiva? Che lo presagiva? Che lo sapeva?
 
 
 

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Capitolo 8
*** Prue. ***



Capitolo 8.


 
 
Quella stessa sera, dopo aver mostrato le foto della giornata al fratello maggiore, Robb chiamò Spencer e Tracy, una coppia d’amici del posto.
Con loro aveva trascorso gli anni del liceo, e con Tracy aveva addirittura avuto una storia, ma niente di veramente importante considerato che in seguito alla rottura, Robb la spinse tra le bracciadell’amico Spencer.
In tutto ciò nessuno dei tre si era mai fatto cruccio del passato e adesso, dopo quasi nove anni, Tracy e Spencer erano praticamente una coppia secolare, di quelle che almeno in apparenza apparivano indistruttibili.
Robb desiderava vederli e presentar loro Josephine. Quella sera organizzò tutto.
Tracy aveva proposto un picnic sul lago e Josephine, sporta verso la cornetta, aveva acconsentito animosamente e così pure Robb.
Stabilito un itinerario, Robb telefonò anche a Roahd e Sierra Cohen, i gemelli Cohen, anche loro vecchi amici di liceo con cui aveva mantenuto rapporti assidui nonostante il suo trasferimento a Londra.
Entrambi furono contenti del suo ritorno dal Vietnam e accettarono senza indugi la proposta di Robb. L’intera comitiva si sarebbe incontrata quel venerdì, dopo soli due giorni. Robb ne era entusiasta. Voleva mostrarla, la sua Jo.
Voleva che tutti sapessero, che tutti l’associassero a lui.
L’idea della gita mise Josephine di buon umore e quella sera gli promise una notte indimenticabile.
James invece preferì tornare al suo appartamento in centro. Li avvertì solo quando fu alla porta col piccolo borsone che aveva portato con sé al suo arrivo. Josephine lo salutò di malavoglia, ma notevolmente sollevata, mentre Robb lo mandò al diavolo, definendolo un asociale scostante. Erano le undici di sera e i signori Draper non erano ancora rincasati. Quando James si chiuse la porta alle spalle, Robb, che nella sua testa rimescolava da ore le promesse lascive di Josephine, non perse tempo e se la caricò sulle spalle.
– Mettimi giù! – Gli urlò contro lei, poi gli morse una spalla ed ottenne soltanto il sapore amaro del cotone sulla lingua, perché lui parve non sentire nulla. Ed in fondo andava più che bene così.
Robb la trasportò su per le scale per poi sfrecciare lungo il corridoio, come se lei non costituisse nessun rallentamento, come se stesse sollevando una piuma. Josephine sentì una familiare adrenalina attraversarle lo sterno e il ventre, ogni fibra del suo corpo era in stato d’allerta, agognante di quel contatto che sarebbe di lì a poco avvenuto.
Ed avvenne.
Robb la gettò di peso sul letto e senza smettere di spogliarla con il solo sguardo, chiuse la porta dietro sé, con un calcio ben assestato. Si avvicinò al letto e finalmente la sovrastò. I loro corpi, premuti e costretti in quell’incastro di clavicole e seni e addome, si fecero bramosi. Le loro bocche sembravano lottare per catturarsi in una morsa che fosse definitiva. Si spogliarono con foga, come se i vestiti fossero incandescenti. Una scintilla di malizia feroce attraversò lo sguardo diRobb quando la vide completamente nuda sotto di sé, dopodiché non ci fu più niente. Niente che non fosse la pelle di lei.
Jo sorrise, ansante, di un sorriso che le lasciò sulle labbra una scia amara.
Perché?
Ma era una domanda talmente muta che nemmeno lei riuscì a sentirla perfettamente.
 
 
***

 
 
Quella notte, dopo aver disfatto ogni scorcio di quel letto e aver osservato Robb sprofondare nel sonno, Josephine si avvolse il lenzuolo intorno al corpo, si avvicinò alla porta finestra che dava sul balcone e la spalancò.
Era una notte di luglio, ma tirava un vento fresco che le sfiorò subito la schiena nuda. Josephine rabbrividì e rimase ferma, lo sguardo perso nel cielo nero, le mani attorno ad un lembo di lenzuolo stretto sui seni.
Sentiva il bisogno di piangere, ma non riusciva a capirne il motivo. Aveva sentito questo bisogno tutta la notte, proprio mentre lei e Robb stavano facendo l’amore. Quel pensiero le fece ancora più male e dovette lottare contro il pizzicore che cominciava ad investirle gli occhi.
Non voleva piangere perché piangere avrebbe reso quel dolore assurdo, reale. Non voleva piangere perché piangere significava purificarsi, e lei non voleva, non voleva far sembrare quella notte una macchia da lavare via.
E allora perché quell’asfissia che le assottigliava la gola e le scavava un buco nero e immenso nel petto?

Jo chiuse gli occhi, trattenne quelle lacrime e rientrò in camera. Si condusse lentamente verso la scrivania di Robb, divincolò le caviglie dalla coda del lenzuolo e si sedé davanti al desktop nero del Mac. Passò un dito sul cursore e decise di passare in rassegna le foto di quella giornata.
Voleva distrarsi, schiacciare i suoi pensieri. Jo notò che Robb aveva già rinominato tutti i files e li scorse con lo sguardo.
Quando in lista vide scritto “L’idillio” immaginò si trattasse di una foto di lei e Robb, e allora l’aprì e solo in quel momento si rese conto del sorprendente sarcasmo di Robb.
Nella foto erano rappresentati, in una disarmonia che faceva disgusto, lei e James.
Improvvisamente ricordò quel momento.
Quello in cui lo scacco matto e la faccia impossibile, feroce ed incredula di James le avevano regalato un minuscolo momento di godimento privato.
Al cospetto della foto, Jo si rese conto di non essere affatto riuscita a trattenere quel sorriso che era sicura di aver ben dissimulato. “L’idillio”. Quasi le venne da ridere, ma non lo fece, non riuscì più a farlo quando si accorse pienamente delle dinamiche di quella foto.
Lei e James, a guardarli attentamente, non erano loro, non davvero.
Sembravano due corpi sospinti l’uno verso l’altro come barche in balia della marea, barche senza timone che confluivano al centro dell’oceano, prua contro prua. Le braccia, le mani così vicine, le pelli di una tonalità così simile, il blu che li fasciava e poi annodava in un laccio invisibile, che a sforzarsi lo si sarebbe potuto vedere – e lei lo vide. Gli occhi di lui sulle labbra di lei seguivano l’orma del sole, anch’essa spiaggiata su di esse. Il disprezzo e lo scherno, in tutto quel continente di colori e linee, confinavano realmente, paradossalmente e brutalmente nell’idillio.
Eppure continuava ad esserci qualcosa, qualcosa che non cessava di screziare l’idillio trasparente. C’era qualcosa di crudelmente più concreto.
In quella foto non c’erano semplicemente lui e lei. Non c’erano semplicemente Josephine Fray e James Draper.
In quella foto c’erano il fascino spietato e poi un’ombra, nient’altro che un’ombra.
 
Josephine sentì il bisogno di tirarsi su e di uscire da quella stanza che ormai non odorava nemmeno più di sesso. Sentì un fastidio profondo, un’inquietudine che non riusciva a placare nemmeno trascinandosi su e giù per la stanza.
Senza nemmeno preoccuparsi di mettere qualcosa addosso, sicura com’era che tutti dormissero – erano ormai le tre di notte- si allontanò da quel nido, da quell’alcova e da quel computer. Si mosse per il corridoio buio, mollemente, attenta a non inciampare sui lembi del lenzuolo. Non si preoccupò nemmeno di accendere la luce, quella della luna che filtrava dalle finestre le era sufficiente. Ma non quanto aveva creduto.
Non se ne accorse nemmeno, non lo vide fino a quando non furono faccia a faccia, illuminati e resi visibili dal bagliore lunare.
Jo ebbe un sussulto dovuto alla paura e a qualcos’altro che in quel momento non seppe definire.
James non sembrava per niente scosso, quasi come se si aspettasse di trovarsela davanti.
Sapeva di dover dire qualcosa, di dover articolare un misero suono; anche un cenno sarebbe bastato. Artigliò ancor più strenuamente il lembo di lenzuolo che stringeva sul petto, perché si sentiva nuda, indecente, vulnerabile sotto quello sguardo così perfetto, così denso e diverso. Leggermente diverso da quello di sempre. Dentro vi scorse un’intensità che la rese sua vittima. La pelle, la barba appena accennata, visibile solo perché trafitta dai raggi di luna, quel petto che sembrava più spazioso. Fece un passo. Solo uno e si immobilizzò.
Voleva toccarlo.

***

Non riusciva a spiegarsi razionalmente quel momento, quello sconquassamento che lo colpì al centro dello stomaco.
Non si sarebbe mai aspettato di trovarla lì, sul pianerottolo, avvolta in un lenzuolo.
Quando era corso in auto per tornare alla villa - essendosi ricordato nel cuore del sonno della cartella coi resoconti che avrebbe dovuto presentare alla riunione del giorno dopo - James non avrebbe mai pensato di potersi trovare in quella situazione e in quelle condizioni.
Era come se quella di fronte a lui non fosse Josephine, ma una sconosciuta che in qualche modo le assomigliava.
Fu colto da quella stessa sensazione del pomeriggio, la stessa di quando l’aveva trovata sdraiata sul letto in quel modo che non credeva le appartenesse.

In quel modo così sinuoso, così sensuale.

La squadrò, muto. Gli occhi di lei fecero lo stesso. Quegli stessi occhi che non riusciva a sopportare, in quel momento erano, sì, ancora intrappolati in un velo lugubre, ma più liquidi, densi di una malia ipnotica, struggenti. Se avesse dovuto associarli a qualcosa, James li avrebbe associati alla morte.
Come la morte, quegli occhi non gli lasciavano vie di fuga, inghiottendolo.


 
– Josephine, – mormorò ipnotizzato.
– J-James. – La voce di lei non era che un sussurro.
 
Non riuscirono a dire altro. Sentivano solo il bisogno di guardarsi e di non sprecare quegli istanti così alieni da ogni altra cosa del mondo.
Entrambi pensarono a quella foto e si pensarono barche anche in quel momento.
Entrambi pregarono che quel momento non finisse, che quel contatto fatto di niente non cessasse.
Ma Josephine si mosse, rinsavì per prima da quella dimensione che li aveva intrappolati.
Neanche in quel momento riuscì a dire nulla, né un’espressione la scalfì. A James parve marmorea, granitica.
Non sapeva che chaos la stesse tramortendo in quel momento; un chaos che lei non riuscì a sostenere oltre, ritrovandosi così ad indietreggiare, per poivoltarsi spezzando definitivamente quel contatto visivo.
Si trascinò lontano da lui, lasciandosi seguire dallo strascico del lenzuolo e sentendo sulla schiena, in un punto in mezzo alle scapole, l’intensità del suo sguardo.

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Capitolo 9
*** Il serpente dell'attrazione ***


Capitolo 9.

 
 
Le prime ore di quel venerdì mattina giunsero sbiadite da un sole più cocente dell’ordinario.
Robb rassicurò Josephine spiegandole che nei pressi del lago avrebbero certamente trovato un’atmosfera più mite, vuoi per la consistente presenza di abeti ed ippocastani, vuoi per il venticello tiepido che soleva accarezzare la superficie del lago.
L’unico fastidio possibile, le disse, sarebbe stata forse un po’ d’umidità.
Josephine e Robb si trovavano ai margini del vialetto, con ceste e zaini già sistemati nel bagagliaio del fuori strada, non restò loro altro che attendere l’arrivo di Tracy, Spencer e dei Cohen. Robb indossava un paio di occhiali da sole, una maglia larga di un verde militare sbiadito, la sua consueta collana di legno e dei bermuda beige abbinati ad un paio converse, dello stesso colore ma più annerite. Jo, seduta sul muretto adiacente al cancello della casa, osservava il cielo, fasciata da un vestitino color pesca che – come la maggior parte di quelli che usava indossare – le comprimeva la vita per poi ricaderle largo sui fianchi. Aveva raccolto i lunghi capelli castani in una treccia, ma alcuni boccoli ostinati traboccavano fuori dai legamenti, così come il ciuffo che di solito le ricadeva sul viso coprendole l’occhio destro cercava di ribellarsi alla presa di una forcina assai inutile.
Robb la osservava da sotto le lenti scure, mentre lei fissava un punto nel vuoto.
Era sicuro che da un paio di giorni ci fosse qualcosa di diverso in lei, ma non riusciva a capirne il motivo. Forse il sesso dell’ultima volta l’aveva sconvolta. O forse era entrata in uno di quei suoi periodi oscuri, uno di quei periodi dal quale non riusciva mai a tirarla fuori senza doverci litigare.
Robb optò per l’opzione “postumi di un sesso fantastico”. Robb optava sempre per le soluzioni che più gli facevano comodo e in un certo senso si contentava di esser cieco di fronte alle brutture: ciò gli consentiva di sopportare le paure insidiose che minacciavano spesso di soffocarlo. Se da un lato questo atteggiamento gli permetteva di vivere con una buona dose di spensieratezza, dall’altro faceva di lui un uomo molto ingenuo.
E mai come in quel momento lo si sarebbe potuto reputare tale, mai come in quella sua fanciullesca idea di aver sconvolto Josephine facendole dono di una straordinaria notte d’amore.
Robb non era mai stato più lontano dai suoi pensieri.
 
Con una fetta di ritardo non indifferente spuntò dalla curva del viale la Jeep dei Cohen.
Dal suo interno vennero fuori anche Tracy e Spencer. Entrambi trafelati, gli corsero incontro. Lei, nonostante sfiorasse a fatica il metro e sessanta, era ancora la ragazza snella e prosperosa che tanto aveva fatto impazzire i ragazzi del liceo. I capelli che a quel tempo portava lunghissimi, adesso le incorniciavano il viso in un caschetto castano ed asimmetrico. Al fianco di Spencer, biondo e altissimo nella sua stazza dallo stampo americano, pareva ancora più bassa. Eppure insieme costituivano un duo capace di conquistare già dal primo momento.

– Draper! – gli urlò in un orecchio Tracy dopo esserglisi aggrappata alla schiena. Robb scoppiò a ridere.
– Tracy, dannazione, mi soffochi!
– E’ una cosa che le riesce decisamente bene. – Spencer spinse via Tracy e abbracciò Robb con una faccia talmente buffa che tutti risero.
–Ragazzi, mio Dio quanto mi siete mancati!
– Sei un cazzo di buffone vietnamita, Draper, – fece Spencer impegnato nel tentativo di strozzarlo.
– Possiamo salutarlo anche noi o volete monopolizzarlo? – La voce di Sierra Cohen, simile ad un miagolio stonato, s’impose facendo allontanare Spencer, il quale non perse occasione di burlarsi di lei inchinandosi teatralmente.
– Non farla incazzare, Spenk, –fece Roahd da dietro le spalle della sorella.
Sierra e Roahd, altissimi, slanciati e biondissimi, nonostante fossero gemelli, davano l’impressione di non somigliarsi affatto. I loro stili – di per sé – erano agli antipodi. Lei tanto colorata e trasandata da richiamare lo stile hippie, faceva sfoggio di un lungo strascico di capelli ricco di treccine.
Lui, più abbronzato e curato, aveva tutta l’aria di essere un tennista in vacanza. E in effetti lo era.
– Ragazzi, calma. Qui ce n’è per tutti. – Robb s’indicò privo di modestie e poi strinse in un abbraccio entrambi i fratelli. Sierra gli strizzò i capelli col suo solito modo mastino – troppo per una ragazza esile come lei - mentre Roahd si preoccupava di dirgli qualcosa di estremamente volgare all’orecchio. Josephine rimase immobile di fronte a quell’accorato scambio di saluti e abbracci.
Sorrise debolmente, attenta a non far trapelare l’imbarazzo che le procurava trovarsi in mezzo a tanta gente nuova.
 
– Tu devi essere Josephine! – Spencer, incapace di smentirsi, la inchiodò indicandola con un dito.
– Spenk! – Robb gli schiacciò la testa sotto un palmo. – Non aggredirla così!
– Io- io volevo solo salutarla.
– Sei sempre il solito, – Tracy scosse la testa con fare rassegnato. – Robb, sveglia su! Presentacela!
Robb si massaggiò la nuca con fare imbarazzato, poi cinse i fianchi di Josephine e le schioccò un bacio rumoroso sulla tempia.

– Beh, lei è la mia Josephine. E loro, be’, credo tu abbia capito chi sono.
Jo lo linciò con uno sguardo veloce e rivolse a tutti un cenno di saluto agitando la mano.
– Robb ha proprio rotto coi racconti su di te, lo sai vero? – Sierra le agguantò subito un braccio, mentre Tracy le si agganciò all’altro. – Non devi per forza stare con lui, te lo hanno mai detto? – fece quest’ultima con aria da pettegola.
– Hey, voi due! – urlò loro contro Robb.
– Lasciatelo urlare. Odia sentir parlare male di lui. A volte mi chiedo come faccio a contenere tutto quell’ego smisurato. – Jo si rivolse alle due ragazze con aria quasi cospiratoria.

Il peggio era passato. Josephine si rilassò notevolmente.
Dopo pochi istanti montarono tutti in auto.
 

 

 ***


 
L’aria qui è proprio come la descrivono. Sembra di rigenerarsi ad ogni respiro.
Sono sdraiata sulla riva del lago e ci ho anche affondato i piedi dentro.
La sensazione è straordinaria e l’acqua fredda ristabilisce l’equilibrio termico del mio corpo provato dal viaggio afoso.
Sto bene.
Robb e gli altri sgranocchiano qualcosa all’ombra di un albero a qualche metro da me. Li sento ridere forte e questo mi mette di buon umore. Questa giornata al lago, ad ogni modo, non trascorre come avevo immaginato e credo sia semplicemente perché quando l’ho immaginata non era ancora successa quella cosa lì. Non riesco nemmeno a definirla in termini, tanto mi ripugna.
Da quando quella cosa lì è capitata non riesco a togliermi dalla testa James e quei maledetti occhi che si ritrova.
Come può un uomo essere tanto fastidioso e conturbante allo stesso tempo?
Conturbante al punto di confondermi e ammutolirmi mezza nuda in un corridoio.
Il fatto è che non so spiegarlo, quel momento. E che fosse un momento l’ho realizzato soltanto la mattina dopo, perché io ero strenuamente convinta che in mezzo ci si fosse infilata un’abbondante parata di minuti. E invece, invece non è stato che un battito di ciglia.

“Josephine.”
“James.”

Tutto qui.

Eppure come faccio a comportarmi come se niente fosse con Robb?
Come faccio a togliermi dalla testa quella mascella contratta in quel modo così, così?
Come faccio a dimenticare la voglia che avevo di toccargli il petto?
Non riesco a distrarmi e questo perché mi sento in colpa. Insomma, non si dovrebbe mai voler toccare il petto del fratello del proprio uomo.
Ingiustificabile.
Scorretto.
Eppure.
 
“…Mr. Jamie…”
Spencer lo ha appena nominato ed improvvisamente il mio udito si sensibilizza.
Perché gli ha dato quest’appellativo?
“E’ tanto che non lo si vede”
“Lavora un casino”
Non riesco a sentire cosa risponde Spencer, la sua voce è un farfuglio.
Io non lo vedo da anni” La voce di Sierra mi raggiunge squillante.
“Come cazzo hai fatto a non vederlo?” Spenk ha alzato i toni di diverse spanne, è incredulo.
“Smettila di dire “cazzo”.”
“Ricordo che è un gran figo, questo sì. Va meglio?”
“ Che è mezzo sociopatico te lo ricordi pure?”
“Spenk!” Tracy lo ammonisce in un trillo.
“Che cazzo ho detto?”
“Non dire caz-“
“Tranquilla, Tracy. Sono anni che glielo sento ripetere.”
“Cazzo?” La domanda sonora di Spencer mi fa sorridere.
“Vuoi smetterl-“
“Che Mr. Jamie è sociopatico.” Roahd sembra esasperato.
Be’, ma è vero.”
“Un sociopatico scopa quanto lui di solito?” Roahd, improvvisamente, si accoda ai toni goliardici di Spencer.
“Mio fratello no-“
“E’ un sociopatico a cui piace divertirsi, se capisci che intendo. ” Spenk sembra aver appena svelato il segreto dei templari.
“Se è ancora come lo ricordo, chi se ne frega se è psicopatico.”
“SOCIOP-“  Ancora una volta sento la voce di Robb fallire nel suo intento.
Sierra, sta’ buona tu!”
“Non fare il fratello geloso.”
“Certe cose non puoi dirle davanti a me. Tipo dire che vuoi farti qualcuno.”
“Non l’ho detto!”
“L’hai sottinteso, però.”
“Chissà dov’è finita quella Sierra timida che conoscevo…” La voce di Spenk è una litania.
“Siete degli idioti.” Tracy si è rassegnata e la sua voce adesso li canzona giocosamente.

“Avete finalmente finito di sproloquiare su mio fratello?”
“Perché non gli hai detto di venire?”  Sierra sembra colta da un’illuminazione.
“Gliel’ho chiesto ieri al telefono. Ma a quanto pare oggi ha da fare.”
“Starà scopando.”
“Spe-“
“Sicuro.” sentenzia Roahd.

Sono divertenti, ma non riesco a riderne, perché quella che adesso mi stritola le viscere è una morsa a cui mi rifiuto di dare un nome.

 

***


Non poi così lontano da quella gita al lago, James rientrò al suo appartamento dopo esserci concesso una corsa anti-stress intorno all'isolato. Quando aprì la porta di casa, non si curò nemmeno di accendere la luce: aveva soltanto voglia di gettarsi sul letto, senza nemmeno preoccuparsi di lavarsi ed eliminare via il sudore che gli imperlava i tratti del viso, il petto e la schiena, che sentiva fastidiosamente umida contro la t-shirt grigia ormai completamente zuppa.
Lottò contro la stanchezza e quasi si costrinse a spogliarsi. Lo fece un po’ per tutta casa, con movimenti fiacchi, il volto contratto, gli occhi fissi verso il bagno. Si muoveva come un automa, perché in realtà era come se non stesse veramente governando i suoi movimenti, o almeno non razionalmente. In quegli istanti - come anche duranti quelli del corsa e quelli della notte prima e del giorno prima ancora – la sua mente era intrappolata e annichilita dal pensiero più orrido che gli fosse mai capitato di partorire. Da quando aveva incrociato Josephine sul pianerottolo di casa dei suoi, James era passato per varie tappe di pensiero. Prima c’era stata la negazione, la negazione del fatto che quel momento fosse realmente esistito. La seconda tappa fu pensare di esserselo immaginato, di essersi immaginato quell’alchimia di sguardi, di essersela immaginata diversa, un’altra donna, una donna che non fosse lei, comparsa lì per il suo piacere, per il suo unico piacere.
La terza dolorosa fase fu quella dell’accettazione, sebbene parzialmente deformata da tentativi blandi di rimozione. Tuttavia, la consapevolezza s’impose, tanto nauseante, pungente ed intrisa del fatto che quel momento era esistito a tal punto da renderlo cieco, intrappolato,sconvolto. Ad ogni modo, la terza fase – l’accettazione – aveva subito una sublimazione ed era sconfinata – senza che lui lo avesse consciamente desiderato -nella smania di replicare quell’attimo; rivoleva quella scossa, quella connessione sfiancante.
Forse rivederla avrebbe distrutto quel momento e lo avrebbe cancellato dalla sua mente, restituendogli la lucidità che gli sembrava di aver perduto, poiché gli era impossibile pensarsi razionalmente vigile quando sapeva di essersi più volte lasciato troppo andare con l’immaginazione; un’immaginazione tanto crudele e impietosa da fargli anche solo pensare alla possibilità di toccarla, di toccare Josephine. Di toccare la ragazza di suo fratello.
Sotto lo scroscio dell’acqua bollente, si convinse di aver sbagliato ad evitarla e quindi ad aver declinato l’invito di Robb. Ma quando questi l’aveva chiamato, l’allarme e l’urgenza di allontanare quella smania gli fecero proferire un “no” secco, senza ammissioni di replica.
Aveva mentito a Robb, propinandogli la scusa ridicola di aver affari da sbrigare, quando invece quel giorno sarebbe rimasto a dormire fino a tardi. Ma cos’altro avrebbe potuto dirgli?
Non ho intenzione di guardare negli occhi la tua fidanzata perché ho paura di esserne attratto? Perché ho desiderato toccarla? Perché ho immaginato di aggrapparmi con le dita ai suoi fianchi?
La sola idea di quella possibilità lo fece rabbrividire, così come il timore di doverla rivedere e non sapersi gestire. Cercava di rassicurarsi considerando la possibilità che la mente si stesse prendendo gioco di lui, facendo leva su quel piccolo momento di intesa che avevano condiviso unicamente per tormentarlo. Probabilmente, rivedendola, non avrebbe sentito nulla che non fosse la solita avversione nei suoi confronti. Tuttavia, per scoprirlo, sapeva di dover correre il rischio di affrontarla.
Solo, sperò che quando fosse successo, lei avrebbe avuto indosso qualcosa di più che un lenzuolo.
Un lenzuolo che adesso, a ripensarci, a ripensare al modo in cui le avvolgeva il corpo, gli fece contrarre i muscoli del basso ventre. Strinse le mani a mo’ di pugno e ne scagliò uno contro la parete del box doccia. Dovette inspirare più volte per trattenersi anche solo dal pensare all’eventualità di scoprirla da qualsiasi stoffa gli impedisse di vederla nuda, offerta a lui.
Poteva sentirsi più malsano e viscido? No. Perché nemmeno nelle sue brame più cariche di lussuria, si era spinto fino a tanto, fino all’impossibile, all’intoccabile. Aveva desiderato molte donne e senza troppi raggiri le aveva ottenute. Quando un desiderio gli s’insinuava in corpo, James non considerava nemmeno lontanamente l’idea di non saziarlo. Per lui, abituato ad ottenere qualsiasi cosa volesse, conquistare una donna non aveva mai costituito un problema. Era capace di una disturbante persuasione subdola, che gli permetteva di ottenere il massimo con il minimo sforzo.
Non era abituato a doversi preoccupare di debellare una voglia che minacciava di sbocciare.
Men che meno avrebbe mai immaginato che questa voglia gli venisse suscitata dall’insignificante fidanzata di Robb.
 
 
***
 
Non sapeva come giustificare quel suo atteggiamento, quella sua scelta avventata, priva di senso, che lo aveva spinto a mettersi in macchina e sfrecciare verso casa dei suoi genitori.
Varcata la soglia d’ingresso, capì di non volersi più tirare indietro. I genitori, come ogni venerdì pomeriggio, erano al circolo, quindi non si sorprese nel trovare la casa completamente assorbita dal silenzio. Decise che li avrebbe aspettati lì, suo fratello e lei. Evitarli era la cosa più stupida che gli fosse mai saltata in mente: quell’assurda idea di desiderare un contatto con lei non era altro che un’assurda idea. Doveva soltanto convincersi di quanto illusoria fosse quella sensazione, e per farlo doveva porsi faccia a faccia col presunto problema.
Percorse i corridoi della casa a grandi falcate prima di dirigersi speditamente verso le scale a chiocciola che lo condussero al piano sotterraneo, dove era situata la biblioteca, il solo posto che durante tutta l’infanzia aveva costituito una piccola isola che non c’è, il rifugio perfetto per contenere le aspirazioni e i desideri di un bambino troppo taciturno perché lo si potesse in alcun modo convincere a giocare coi coetanei del vicinato.
Quando giunse in biblioteca, controllato che niente fosse fuori posto, si lasciò andare sulla sua poltrona preferita, quella che ultimamente anche gli intrusi pretendevano di poter occupare, come se ci potesse appropriare delle cose altrui, così, senza permesso, senza indugi.
Affondò le dita sulla stoffa vellutata dei braccioli della poltrona come a tentare di trattenere quell’impeto di irritazione che lo percosse ripensando a Josephine che più volte in quei giorni si era presa la sfacciata libertà di occupare i suoi spazi, di toccare e tenere in mano per ore libri che in quella casa solo lui aveva toccato. Eppure, quando gli attraversò la mente l’immagine del libro di Neruda tra le mani e le unghie lunghe di Jospehine, si sentì scosso da una specie di scarica elettrica, da un nervosismo tale da fargli contrarre mascelle e pugni e da farlo sollevare dalla poltrona solo per raggiungere quegli scaffali e prendere in mano quel libro maledetto. Non seppe negare a quella copertina il solito sguardo di frustrazione e risentimento, perché per quanto lo amasse, per quanto sentisse che in certo qual modo quei versi avrebbero potuto appartenergli, quel libro non cessava di ricordargli l’unica donna che avesse mai amato, non cessava di essere un suo regalo né di rappresentare l’emblema materiale della loro fine. Di una fine che avevano sempre considerata inevitabile ma che non per questo si era rivelata meno dolorosa.
Il ricordo di lei, ad ogni modo, svanì dopo pochi istanti. Era passato molto tempo. Erano passate molte donne.
James cominciò a sfogliare con foga quelle pagine, spinto dalla smani di trovare la poesia a cui aveva pensato in quegli ultimi giorni, quella poesia che non riusciva a ricordare, ma di cui lo assillavano i versi.E poi eccola, non gli servì leggerla meglio per capire che fosse quella che cercava.
Doveva sottolinearne dei versi per non perdere quei frammenti di se stesso che sentiva di aver rischiato di perdere negli ultimi giorni, da quando la mente aveva deciso di farcirgli i pensieri di immagini indecenti, meschine.
Eppure quei versi parlavano di Josephine. Erano Josephine. E non quella che era sicuro di mal sopportare, ma quella che una notte aveva incontrato al chiaro di luna, bellissima e lugubre nel suo incanto.

XVI
Amo il pezzo di terra che tu sei,
perché delle praterie planetarie
altra stella non ho. Tu ripeti
la moltiplicazione dell’universo.

I tuo grandi occhi  son la luce che posseggo
Delle costellazioni sconfitte,
la tua pelle palpita come le strade
che percorre la meteora nella pioggia.


Di tanta luna furon per me i tuoi fianchi,
 
di tutto il sole la tua bocca profonda e la sua delizia,
di tanta luce ardente come miele nell’ombra


il tuo cuore arso da lunghi raggi rossi,
e così percorro il fuoco della tua forma baciandoti,
piccola e planetaria, colomba e geografia.


James si stupì di non aver mai preso seriamente in considerazione quei versi, i quali adesso gli parevano immensamente vivi, fatti di carne.
Sottolineò quelle parole come se fosse ipnotizzato dal ricordo che gli suscitavano. In quel momento, la sua lucidità malsana lo investì di suggerimenti che mai in altre circostanze avrebbe considerato tanto pericolosi. Ma questi lo erano nella maniera più infima e lui non poté che scagliarsi addosso il suo stesso rimprovero, il suo stesso giudizio perentorio. Tuttavia, gli fu immediatamente chiaro che c’era una parte di lui a cui non poteva intimare di tacere, un parte di lui che mai avrebbe pensato di dover biasimare. Il riguardo e la morale andarono a farsi benedire nel momento stesso in cui decise di chiudere il libro solo dopo aver inserito tra i fogli la matita con cui aveva sottolineato quei versi. Si augurò insanamente che arrivassero agli occhi di Josephine, permettendole così di leggervi un messaggio che lei sola - se davvero quel momento era significato la stessa cosa per entrambi – avrebbe potuto raccogliere, interpretare.
Combattuto in una maniera che faticava a comprendere, lasciò cadere il libro sul tavolino vicino la poltrona. Forse lei avrebbe capito, forse no.
In ogni caso avrebbe avuto le sue risposte, in un modo o nell’altro. Oppure, si sarebbe presto accorto di non volerle, semplicemente perché non interessato. Non fece in tempo ad accostarsi alla finestra che dava sulla serra, che sentì chiaramente la voce di Robb vibrare dal piano superiore.


 
 
 
– Jamie deve essere qui.
Robb le indicò la mercedes parcheggiata sul vialetto e inspiegabilmente Jo si ritrovò a pregare che si trattasse di un’allucinazione, purché non significasse che lui era lì. Si sentiva una stupida perché non riusciva a trovare un motivo abbastanza valido per cui avrebbe dovuto rifuggirlo o soltanto evitarlo o addirittura averne timore. Si sentiva una stupida perché aveva passato il pomeriggio a covare un fastidio irrazionale ogni volta che qualcuno lo nominava o anche soltanto accennava al fatto che in quel momento lui si stesse intrattenendo in un rapporto sessuale con chissà chi.
Il fastidio si era poi dissolto tra le maglie della curiosità, una curiosità che adesso la attanagliava, tanto era lo sciocco bisogno di sapere se esistesse davvero la possibilità che lui avesse trascorso la giornata a letto con una donna.
Eppure non avrebbe dovuto interessarle l'uso che James faceva della sua vita. Lui, per Jo, non era nient’altro che un uomo scostante e disturbante che aveva la fortuna di essere il fratello del suo Robb. Quel che faceva della sua vita non era affar suo in nessun modo.
Ma adesso che se lo trovava improvvisamente davanti, la rabbia insensata di qualche ora prima tornò ad incendiarle il petto. Lo guardò cercando nei suoi occhi tracce di passione consumata, appagamento o qualsiasi altro indizio fungesse d’ammissione.

– Pensavo non stareste tornati prima di stasera.
Nel tono della sua voce c’era qualcosa che assomigliava al suono di una lama appena sguainata dal fodero. James aveva i capelli scarmigliati, la barba molto più folta dell’ultima volta, ma curata, dai contorni ben definiti. Indossava dei vestiti che Jo credeva non usasse mai, sebbene fosse sciocco da parte sua pensare che un uomo che usasse indossare camicie e pantaloni laminati non potesse altresì trovarsi a proprio agio con una t-shirt e un paio di jeans.
Era sciocco pensarlo, ma vederlo in quel modo la stupì comunque. Le sembrò quasi un suo coetaneo, un ragazzo in t-shirt del tutto innocuo. Tuttavia, il suo sguardo duro e spigoloso come ogni altra cosa del suo viso, le ricordavano chiaramente che quello che aveva davanti non era un semplice ragazzo, ma un uomo psicologicamente impegnativo. Non la guardava e Jo non riusciva a capirne il motivo, né capiva perché fosse tanto desiderosa che lo facesse.

– Non ci eravamo attrezzati per la sera. Era meglio tornare a casa. E poi Jo era stanca.
Nonostante Robb l'avesse appena marcatamente nominata ed indicata, James ci mise qualche secondo prima di voltarsi a guadarla. Per un istante infinitesimale Jo ebbe come la sensazione che i loro sguardi stessero per agganciarsi come quella notte, ma si rese subito conto che il suo sguardo era denso del solito sprezzante sarcasmo. James aveva le labbra dischiuse, mentre continuava ad osservarla con un sopracciglio sollevato. Si sarebbe detta completamente rinsavita dal proprio stato confusionale nei confronti di James, se oltre al solito disappunto, se oltre al solito fastidio che provava al cospetto della sua aria superba e deliberatamente derisoria, non avesse nitidamente avvertito le contrazioni del proprio stomaco come un chiaro ed angoscioso allarme.
– Ti sei ustionata una spalla. – La avvertì senza nascondere quello che sembrava del sano disgusto.
– Succede. – Voleva spegnere la scintilla sadica che James aveva così radicata in quegli occhi devastanti.
– Succede a chi è sprovveduto.
– Non sono una sprovveduta e non credo che una scottatura mi ucciderà. Ma grazie.

Josephine si accostò a Robb senza meditarlo, naturalmente.

– Non riesci proprio a ridere di niente, – constatò l'altro con rassegnazione, avvicinandosi a lei e Robb.
– E con questo che vorresti dire? – Sollevò il mento per evitare che lui pensasse di poterla sovrastare fisicamente oltre che dialetticamente.
– Sei talmente noiosa.
Non sembrò nemmeno pensare a quello che le aveva detto e fece semplicemente convergere tutte le sue attenzioni su Robb, il quale lo guardò rassegnato senza risparmargli un’occhiata tesa a fargli capire di smetterla di parlarle in quel modo.
– Vado a fare una doccia, – disse Robb, scuotendo la testa.
Jo, con disappunto, si chiese se Robb non riuscisse davvero a vedere niente di sbagliato nel modo in cui suo fratello la trattava.

– Sali con me? – Le propose mentre si avvicina alla balaustra.
– Dammi un istante. Ho sete.
Robb fece spallucce e dopo qualche istante sparì dalla sua visuale. James fece per allontanarsi da lei, probabilemente senza capire che Jo aveva creato quel momento per parlargli, per riversargli addosso parte di ciò che aveva trattenuto per non mettere a disagio Robb.
 
– Dove te ne vai? – gli chiese senza riuscire a credere all’effettiva arroganza del proprio tono. Lui non si voltò nemmeno, si bloccò sul posto e infilò le mani nelle tasche dei jeans.
– Cosa vuoi? 
A seguito di un movimento estremamente impercettibile, Jo si ritrovò lo sguardo di lui addosso. Aveva l’aria indisponente ed era evidentemente pronto a mordere.
– Voglio che tu la smetta. – La voce di Jo era bassa, incisiva.
– Di fare cosa? 
Il  finto disorientamento di lui contribuì a renderla un cumulo di nervi; in ogni caso cercò di non manifestarlo.

– Di trattarmi come se fossi una scolaretta che puoi scegliere di sopraffare per il tuo solo divertimento.
– Mio dio, – la provocò, deciso a farla sentire ridicola.
– Stammi a sentire, James. Non so che idea tu abbia di me e sinceramente non mi interessa. Ma io ho ventitré anni e non sono una stupida, quindi non intendo lasciar credere ad un borioso del tuo calibro di potersi permettere tante libertà. La tua supponenza e la tua arroganza usale con le donne che ti porti a letto.

Non poteva davvero averlo detto e probabilmente nemmeno lui riusciva a crederci. Gli occhi di James si fecero neri di rabbia, mentre le si avvicinava con un fare a tal punto minaccioso che per un attimo Jo sentì l’istinto di indietreggiare, ma si sforzò di non assecondarlo.
James era ad uno soffio dal suo viso e per la prima volta Jo percepì tutta l’intensità del suo odore. Un odore forte di bagnoschiuma e profumo misti insieme.
Un odore che le attraversò le narici e le stritolò lo stomaco. Prese fiato, impegnandosi a ricambiare il suo sguardo intenso e severo con uno privo di indizi, granitico. Voleva che la temesse, non che pensasse di poterla schiacciare.

– Voglio che tu capisca bene una cosa, Josephine. – Lo vide deglutire prima di posarle una mano sulla spalla. Sembrava un gesto gentile, ma lei sapeva per certo che non lo era.
– Io con te sto cercando di trattenermi.
Era vicinissimo: il suo alito le sfiorò l’orecchio sinistro, il suo profumo era un pugno alla bocca dello stomaco.
– E se lo sto facendo  è perché mio fratello,  per qualche incredibile ragione, ti ama. – La sua voce era bassissima, roca, accattivante, ma il tono in cui aveva sibilato quelle parole possedeva un che di meschino. Quasi sadico.
– Non mi piaci per niente. Sei spenta e oscura in un modo che mi risulta insopportabile. Sono sicuro che Robb faccia soltanto finta di non accorgersene e chiunque potrebbe facilmente aprirgli gli occhi.
– Quel qualcuno saresti tu?
– In persona. – Tornò a guardarla negli occhi e i suoi occhi erano impietosi.
– Robb mi conosce meglio di quanto tu possa credere. Non pensare di poter esercitare alcun potere sui suoi sentimenti per me.
- Non fare quest’errore, Josephine.– Il suo era più un avvertimento, che un consiglio.
– Quale? Quello di sottovalutarti?
Jo voleva sfidare e sfilacciare la sua disgustosa presunzione.
- Quello di sottovalutare lui e sopravvalutare i suoi sentimenti per te.
– Tu credi di sapere tutto di tutti. E mi fai rabbia. – Nonostante le sue parole gli avessero reso i suoi veri sentimenti, quella con cui Jo si ostinva a proteggersi era un maschera di impenetrabile granito.
James sollevò ancora una volta un sopracciglio, ma stavolta nell’intento di palesare il proprio scetticismo. I loro sguardi continuarono a duellare senza sosta, gli occhi nelle orbite si dibattevano per evitare quella connessione che sembrava volersi ricostituire. Entrambi lo sentivano, era una sensazione semi-sconosciuta che entrambi temevano; che Jo temeva più di ogni altra cosa.
Chiuse gli occhi in uno scatto e, nell’istante in cui li riaprì, lui le aveva già voltato le spalle.
 
 
***

Quando giunse l’ ora di cena, Jospehine odiò l’idea di dover passare altro tempo con James. Sapeva che si sarebbe sentita esposta e non voleva dargli la soddisfazione di credere che temesse in qualche modo una sua intromissione tra lei e Robb. Voleva dimostrargli quanto ridicole fossero le sue non troppo velate minacce, e fargli capire che il rapporto che lei e Robb avevano costruito non era affatto vulnerabile come lui si ostinava a credere.
Si sedettero intorno al tavolo di mogano, evitando di proposito di guardarsi. Josephine era troppo arrabbiata con lui per riuscire a fronteggiare il suo sguardo, mentre James – contro ogni sua previsione – desiderava solo che il tempo si precipitasse così che sarebbe potuto andare via prima di cedere all’istinto di guardarla, prima che lei avesse potuto proferire anche solo una parola e prima che la sensazione dell’odore di lei nelle narici diventasse insopportabile.
Ad un certo punto della cena, Susan chiese a Robb e Josephine della loro giornata al lago; Robb raccontò allora degli ottimi stuzzichini di Sierra e di quanto fosse stato edificante ridere e giocare all’aria aperta come degli inguaribili liceali.
– Jamie si è perso una gran giornata, – fece Robb volendo risvegliare l’attenzione del fratello.
– Mi rifarò, sta’ tranquillo, – rispose James con un sorriso tiepido.
– Mi hanno chiesto tutti di te. Soprattutto Sierra. – Lo sguardo ammiccante di Robb provocò l’ilarità dei genitori, i quali cominciarono subito a guardare Jamie con aria complice.
– E’ come penso? – domandò Susan.
– Puoi giurarci, mamma. Ha fatto molti apprezzamenti su di lui. – Robb le fece l’occhiolino prima di rivolgersi direttamente a Jamie. – Potrei fare qualcosa se tu mi dicessi che t’interessa. E’ una gran bella ragazza, del resto.
Josephine trasalì. James gli scoccò un’occhiata seccata.

– Di chi accidenti stiamo parlando? – Una sfumatura di ironia gli colorò lo sguardo e Robb seppe di poter continuare.
– Sierra Cohen, dai! La sorella gemella di Roahd. Quella un po’ hippie, gambe mozzafi— Jo gli conficcò un gomito nelle costole. – gambe. Ha delle gambe, delle braccia. E se ho ben visto ha dei capelli.
– Spiritoso, – fece Jo guardandolo di sottecchi seppur evidentemente divertita.
– La ricordo vagamente. – James sovrastò la voce di Josephine, intento a non concederle spazio in quella conversazione. – Ma se mi dici che apprezza, farò uno sforzo per ricordarla meglio, specie le sue gambe. – Un sorriso impertinente gli distese le labbra.
– Lo sforzo vale la pena. – Lanciato il petardo, Robb posò immediatamente lo sguardo su Josephine per sorriderle sornione.
Lei a stento se ne accorse, e quantomeno fu in grado ricambiare il sorriso rivoltole con uno privo d’espressività. In realtà la sua attenzione si era dispersa nel momento stesso in cui aveva percepito nitidamente la provocazione di James. Quella puntualizzazione ridicola atta solo ad indispettirla.
Si sentì sul punto di lanciargli un’occhiataccia, ma si trattenne, poiché sapeva di non poter rischiare di incontrare i suoi occhi.
Non poteva rischiare semplicemente perché quello che sentiva in quel momento non le piacque. Non poteva guardarlo per il semplice motivo che in mezzo a tutto quello snervante conglomerato di irritazione che le si era piantato sul petto, sentiva chiaramente strisciare il serpente dell’attrazione.
Come accidenti aveva permesso che accadesse?
 

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Capitolo 10
*** Prospettive. ***


Capitolo 10.

 
I giorni a seguire passarono veloci. Il tempo per loro due e per la famiglia era finito. Nella vita di Jo e Robb tornarono ad affacciarsi le incombenze della quotidianità. Senza che se ne fossero resi conto, era già Mercoledì e soltanto il giorno dopo entrambi sarebbero dovuti tornare a Londra. Josephine doveva tornare ad affrontare lo studio, l’università e le responsabilità del suo primo anno fuori corso alla facoltà di giornalismo. Robb, dal canto suo, doveva incontrare il socio, Mark, con il quale gestiva uno studio fotografico. Il piano iniziale aveva previsto che entrambi rimanessero a St. Albans per circa due settimane, ma Mark aveva contattato Robb d’urgenza, informandolo di un’incredibile offerta lavorativa da parte di un’organizzazione di sfilate di moda.
Josephine, ad ogni modo, era impaziente di partire. Sebbene tornare a studiare non la mettesse di buon umore, l’idea di lasciare quella casa e allontanarsi dalla morsa di quella famiglia le regalava sollievo. Tuttavia, la sua smania principale era allontanarsi da James.
Nei giorni seguenti alla gita, si era fatto vedere di rado e per la maggiore aveva stazionato in biblioteca, riemergendovi dopo delle ore giusto per prendere il tè con la famiglia. Josephine aveva evitato di parlargli e anche lui era sembrato intenzionato ad ignorarla. Il suo atteggiamento era stato distaccato, a volte frugale, solo di tanto in tanto le era parso che lui la osservasse, ma non si era mai permessa di guardarlo. Una parte di sé temeva di risentire quella strana voglia di toccarlo, l’altra invece tremava di rabbia al pensiero che quegli sguardi potessero essere atti a perpetrare le minacce che le aveva rivolto giorni prima.

– Non dimenticare la scarpe sotto il letto, – lo avvertì riponendo gli abiti piegati all’interno della valigia.

– Figurati se le dimentico, – rispose Robb, sfilandole accanto con in braccio creme di vario tipo.
– Quanto pensavi saremmo rimasti? Anni? – la prese in giro.
Ognuna ha una funzione specifica. Sarà pur affar mio, no?

Robb la fissò per un istante, indeciso se rispondere o meno. A volte, quando scherzava era così seria che non riusciva a capire se fosse realmente arrabbiata.
Mentre riponeva gli obiettivi nella valigetta in cui stava custodita la reflex, continuava a scrutarla con aria indagatrice. C’era qualcosa in lei, certe volte, da cui lui si sentiva sopraffatto. Evitava di farle domande, impantanato in una sorta di soggezione che solo lei era in grado di procurargli. Non riusciva a capire di cosa avesse timore, ma il più delle volte rimaneva in silenzio, trattenendo le domande che aveva bisogno di rivolgerle. Quella era una di quelle volte. Ad ogni modo, scelse di azzardare, ma cautamente.
Contenta di tornare? – Adottò un tono monocorde, continuando a darsi da fare con la sua valigetta degli obiettivi.

– Tutto sommato sì. – Pareva rilassata, ma lontana, troppo concentrata sulla valigia. Robb le lanciò un’occhiata veloce e trattenne un sospiro.
Aspettò qualche istante, sperando che lei continuasse a parlare, ma lei non parlò.
– Mi spiace non aver potuto passare più tempo con gli altri. Magari appena avremo un week-end libero potremmo approfittarne per fare qualcosa con loro.
– Non ho quasi mai week-end liberi, – gli rispose sbiaditamente, e a lui sembrò più distante che mai. Era deluso, ma non rassegnato. Finché non gli avesse dato l’impressione di essere nervosa, lui avrebbe continuato a farle domande, non senza lottare contro la soggezione che queste situazioni gli incutevano.
– Solo perché non vuoi averne. Di solito rimani a fare quelle ricerche di cui non vuoi mai parlarmi, ma adesso che hai conosciuto la mia famiglia e i mie amici, non c’è ragione per cui tu non possa venire qui con me nei week-end.
– E’ la tua famiglia, Robb. Non è necessario che io l’incontri troppo spesso. – Fu secca. Si allontanò dal letto su cui era posizionata la valigia e il mucchio d’abiti e si diresse verso la cabina-armadio.
Robb s’irrigidì. Non sapeva cosa le stesse passando per la testa, ma qualsiasi cosa fosse, quel suo distacco gli gelava il sangue.
– Ti sei trovata male?
Non essere paranoico.

– E allora cosa? – sbottò lui, stavolta senza indugi.
Lei riemerse dalla cabina, gli rivolse uno sguardo rapido e si strinse nelle spalle.
– Allora niente. Ti ho detto di non essere paranoico.
Si accorse che evitava di guardarlo per più di qualche secondo e la cosa lo fece sbarellare. Cosa le frullava in testa? Perché doveva sempre comportarsi in quel modo ridicolo? Perché si ostinava ad escluderlo dai suoi pensieri? Con lei era tutto talmente vertiginoso. Ogni mattina si svegliava consapevole della possibilità di dover far fronte a una versione di lei che lui avrebbe preferito non facesse mai alcuna comparsa.
- Non dirlo più. – La voce gli uscì tremante di una crescente irritazione che non riusciva sempre a gestire con facilità.

– Cosa? – Jo gli passò vicino, e ancora una volta non lo guardò. La vide sporgersi accanto a lui per afferrare una colonia sullo scaffale. Erano vicinissimi e il suo odore freddo lo colpì. Senza potersi controllare, le afferrò il polso sollevato in aria e la strattonò verso di sé, riducendo la già minima distanza e costringendola a guardarlo.
– Non darmi più del paranoico.
Gli occhi di lei si sgranarono per un attimo, poi tornarono immobili e impenetrabili. A volte faceva fatica a sostenere il suo sguardo, tanto crudeli gli parevano quegli occhi.
– D’accordo. – Jo non oppose resistenza, si limitava a guardarlo.

– Cosa c’è che non va? – La voce gli uscì fuori roca.
–Non c’è niente che non va. Non ho detto che non mi piacciono i tuoi, ho detto solo che non è necessario che io venga con te ogni volta.
– Non ti ho chiesto di farlo ogni volta.
– Non vedo il motivo di questa discussione, allora.
Robb le lasciò andare il polso, rassegnato. Lei gli scoccò un’ultima occhiata e si scostò da lui, impadronendosi finalmente della colonia prima di tornare ad occuparsi della valigia. Entrambi non dissero nulla per dei minuti, poi Robb le si avvicinò lentamente, le cinse la vita da dietro e affondò il viso tra i suoi capelli.
– Non escludermi. Ti prego.
Jo si lasciò andare contro il suo petto chiudendo gli occhi. L’aveva rifatto. Si era lasciata sopraffare dalle onde di oscurità che periodicamente tornavano a soffocarla. Ogni volta lui ne soffriva, ma lei non poteva evitarlo.
– Scusami, – mormorò.
– Scusami tu. – La voce gli uscì fuori in un soffio prima che premesse le labbra contro i suoi capelli. – Non voglio costringerti a fare ciò che non vuoi.
– Lo so, sta’ tranquillo. – Si scostò lievemente da lui, poi sospirò. – Verrò ogni volta che potrò. Promesso.
Il sorriso di Robb si confuse tra i suoi capelli, ma senza contagiarla.

 
***
 

Si svegliò di soprassalto,  sudato e nudo. Le lenzuola umide erano aggrovigliate alle sue ginocchia e l’odore di fumo e alcol misti insieme lo colpì ancora prima che potesse aprire gli occhi. Accanto a lui, coi seni nudi schiacciati contro il materasso, dormiva profondamente una donna. Claire. Era sempre Claire da molte settimane ormai. Nonostante questo non riusciva ancora ad abituarsi alla sua presenza mattutina nel suo letto. James strattonò vigorosamente le lenzuola, cosciente che uno strattone non avrebbe in alcun modo intaccato il sonno di Claire. Si divincolò dalle lenzuola e si sollevò dal letto lasciandosi sfuggire un verso roco.
Senza niente indosso, raggiunse il bagno e si guardò allo specchio. Aveva un’aria sconvolta e aveva assolutamente bisogno di una doccia.
Mezz’ora dopo stava infilando la camicia color ghiaccio dentro i jeans scuri e aderenti. Dal letto si levò un mugolio sommesso, poi di nuovo il silenzio.
Passò più volte davanti alla finestra della cucina, sorseggiando una spremuta d’arancia. Il telefono prese a squillare, ma s’impose d’ignorarlo.
Era Robb. Robb che lo chiamava per dirgli che stava andando via, Robb che gli avrebbe chiesto se per caso non riuscissero a salutarsi. Fu dura non rispondere, ma riuscì ad ignorare la tentazione. Non voleva salutarlo. Non voleva vederla. Non dopo l’incubo che lo aveva tormentato tutta la notte. In quei giorni aveva fatto in modo di evitarla quanto più possibile e la cosa non gli era costata grande fatica. Tuttavia, di tanto in tanto si era sorpreso a guardarla con aria fin troppo incattivita, ma lei, per fortuna, aveva ricambiato gli sguardi molto raramente e sempre fugacemente. L’istinto di guardarla e il pensiero di quella notte sul pianerottolo, ad ogni modo, si erano fatti pian piano sempre più blandi, mentre l’avversione feroce verso di lei era aumentata incontrollabilmente quando durante il tè di qualche giorno prima aveva sorpreso Robb a guardarla con aria adorante e lei, in risposta, gli aveva concesso una misera occhiata spenta, prima di tornare cogli occhi sulla sua tazza. In quel momento aveva sentito il forte istinto di prendere da parte Robb e dirgli quello che pensava. Ma poi aveva prontamente cambiato idea: non sarebbe comunque servito a nulla. Robb avrebbe negato, perché probabilmente troppo innamorato per accorgersi del distacco col quale lei lo trattava. Ogni volta che ci pensava si sentiva invadere da una fiamma di rabbia. Come poteva un uomo come Robb stare accanto ad una donna priva di calore come quella? Con quale dignità sopportava il suo distacco? Dove accidenti aveva nascosto la sua dignità?
Era pronto ad uscire di casa, quando la voce di Claire, in quello che suonò come uno squittio, lo chiamò. Con scarso entusiasmo la raggiunse e si accostò ai bordi del letto.


- Non mi saluti? – Claire allungò le braccia verso di lui contorcendosi sul materasso. James dovette chiamare a raccolta tutte le sue energie per evitare di concentrarsi sui suoi seni.
– Sei bella, – le sussurrò sulle labbra. Lei sorrise maliziosamente e gli catturò un labbro tra i denti. Indugiarono in un bacio per qualche minuto, poi James si scostò e le diede una pacca sul sedere, guardandola lascivamente.
– Ti chiamo appena posso.
Fa che sia presto, – rispose lei rivolgendogli un’espressione dolce.
James si limitò ad ammiccare e poco dopo Claire sentì la porta d’ingresso chiudersi in un tonfo.
 
 
 
 ***
 

Probabilmente è già in ufficio, – disse Robb dopo l’ennesima chiamata senza risposta.

– Lascia perdere. Vi rivredete presto, comunque, – commentò Josephine, segretamente irritata.
Se n’è scordato, – rispose lui secco sollevando la valigia di Jo prima di infilarla nel cofano del fuoristrada.

– Questo perché è troppo concentrato su se stesso. – Lo disse quasi senza pensarci, mentre si apprestava ad aprire lo sportello dal lato passeggero.
– Non dire così.–La guardò con aria implorante e scosse la testa con aria contrariata.
– Sai che è vero.
– So che è vero, sì. – Entrambi chiusero le portiere dell’auto e Robb mise in moto.
Avevano da poco svoltato l’angolo del viale in cui si trovava la villetta dei Draper, quando Josephine alzò il volume della musica per evitare che Robb tentasse di imbastire una conversazione qualsiasi. Puntò il naso contro il finestrino e lasciò scorrere lo sguardo lungo il viale di alberi a schiera che si scioglieva al loro passaggio. Un sole tenue trafiggeva il vetro e le carezzava una spalla. Sospirò più volte, spostando di tanto in tanto lo sguardo verso Robb per assicurarsi che non abbassasse il volume. Ad un tratto lo sentì bofonchiare qualcosa, ma evitò di guardarlo. Poi, avvertì la mano di lui scivolarle sulle cosce scoperte e a quel punto le fu impossibile ignorarlo.
– Sei pensierosa.
– Non più del solito.
– Già.
Entrambi sembravano impacciati, ma Robb non si fece scoraggiare.
– Devo farti una proposta. So che non ti piacerà molto, ma mi vedo costretto.
- Arriva al nocciolo, – lo spronò lei, lievemente inquieta. Non le piacevano i preamboli.

– Si tratta di Sierra e Roahd, – fece ciondolare il capo, – più di Sierra, diciamo.
– Che è successo?
– Ieri mi ha mandato un sms. Non te l’ho detto subito perché, dopo la discussione che avevamo avuto, temevo che avresti reagito male.
– Quindi? – Jo arricciò le labbra in una smorfia di sospetto.
– Be’, giovedì prossimo sarà il suo compleanno – il suo e di Roahd. Ci ha invitati.
– Non possiamo tornare qui di giovedì!
– Lo so, - si precipitò a dire lui, – E dato che ci tiene alla nostra presenza mi ha detto di essere disposta e festeggiarlo sabato sera,  – le indirizzò un’occhiata scrutatrice e speranzosa.
– Mi pare che non ci abbia lasciato molta scelta. – Il suo tono era ironico, ma Robb vi colse anche qualcos’altro, qualcosa di molto simile al vetriolo .
Ad ogni modo, evitò di farglielo notare. Non aveva intenzione di litigare con lei.
– Sai chi mi ha chiesto d’invitare? – La voce  di Robb si fece più armoniosa, l’idea lo divertiva.
– Chi? – Jo fece saettare lo sguardo dal parabrezza a Robb, gli occhi divennero una fessura. Nella mente le era appena balenato un nome.
– Jamie. – Scosse la testa ridacchiando – Insomma, Jamie a una festa dei Cohen. Non so nemmeno se tentare di chiederglielo.
– Fa sul serio, quindi, – commentò lei con tono di scherno.
– E’ stato quell’idiota di Spenk a farle venire certe idee. So com’è fatto e so com’è fatta lei.
– Be’, credi che non accetterà l’invito?
– Non saprei. Dipende dalle sue priorità.
– Immagino. – Fece roteare gli occhi e tornò a guardare fuori.
 
 
 
 
***
 

Quella sera, James, appena rincasato compose il numero del fratello. Adesso che era al sicuro, lontano miglia da lui, poteva concedersi il lusso di chiamarlo e inventare qualche scusa da propinargli.

– Chi non muore si risente, – fece Robb dall’altro capo.
– Chiedo umilmente perdono. Ho dovuto letteralmente correre stamattina a causa di una riunione saltata fuori all’ultimo minuto.– Le labbra gli si piegarono in un ghigno furbo.
– Perché sento che non dovrei crederti?
– Perché sei un fratello degenere, forse?
– Lascia perdere. Sei perdonato. – Robb rise.
– Tutto ok il viaggio? – Incastrò il cellulare tra la spalla e l’orecchio e con le mani si liberò della giacca e della cintura.
– Tutto ok. Sono nell’appartamento di Jo. L’ho aiutata con le sue cose.
– Bene. Sento che sei stanco.
– Un po’, – sospirò, – Ascolta, c’è una cosa che devo chiederti.
– Dimmi, – disse bloccandosi e afferrando il cellulare con una mano.
– Ricordi la mia amica Sierra? Quella di cui ti ho parlato giorni fa? Gambe mozzafiato e tutto il resto?
– Quella che verrebbe volentieri a letto con me? – aggiunse con arrogante ironia.
– Quella. – fece, ridacchiando. – Ti ha invitato al suo compleanno. Il suo e del gemello. Sabato prossimo. – Prese fiato. – Non chiedermi né come né perché, devi solo darmi una risposta e cerca di non essere troppo snob.
– D’accordo.
– Cosa? Verrai? – Robb pareva incredulo.
– Non ho niente di meglio da fare, – ammise Jamie, divertito dalla palpabile incredulità del fratello.
– Accidenti. Jo non ci avrebbe scommesso un centesimo.
Al suono di quelle parole, James tornò immediatamente serio.
– Non molto acuta, – commentò lui, sprezzante.
– Sei in vivavoce, – tossicchiò Robb. – Jo, ecco… Jo ti saluta.
– Nemmeno per sogno. – La voce di Josephine attraversò il ricevitore come una stilettata, seppur distante.
– Buonanotte, Josephine. – E riattaccò. Si morse le labbra, irritato e divertito al tempo stesso. Eppure c’era qualcos’altro. La voce di Josephine gli piaceva esageratamente. Controvoglia, si accorse che non era la prima volta che gli capitava di pensarlo. Gli venne in mente il giorno in cui l’aveva vista per la prima volta e lei gli aveva propinato la sua opinione su Neruda. “Affamato” aveva detto. Scosse la testa per scacciare via il pensiero.
Tuttavia non poteva negarlo, nemmeno sforzandosi. C’erano delle cose di quella donna che possedevano un fascino che apparteneva solo a lei.

 
Un fascino spaventoso a cui, per giorni, aveva creduto di soccombere. Fortunatamente, pensò, era stato abbastanza accorto da evitarla e lei era stata inconsapevolmente e preziosamente eccellente nel palesare i suoi aspetti peggiori. Il modo in cui ignorava Robb, quell’espressione costantemente alienata e quegli occhi gelidi. Persino la sua pelle emanava un odore che ricordava una brezza glaciale.
Ad ogni modo, una volta a letto, si concentrò sugli impegni del giorno dopo; solo dopo molto si ricordò di non aver scritto a Claire. Non che si sentisse in obbligo di farlo, ma non gli piaceva essere scortese con una donna, né farla sentire dimenticata dopo averci passato una notte insieme. Tuttavia, quella notte non fece nulla per rimediare alla mancanza. Era molto sicuro di sé e del fatto che difficilmente lei avrebbe reso le cose complicate. Lentamente, i pensieri lo condussero negli abissi del sonno.
 

 
 
 
***


 
Trascorse più di una settimana dal quel giorno. Robb e Josephine erano di nuovo sulla strada per St. Albans. L’uno piuttosto impaziente, l’altra decisamente poco eccitata dall’idea di tornare lì dopo così poco tempo. La notizia che i signori Draper fossero in Grecia lasciando loro a disposizione l’intera casa non era bastata a rendergli quel ritorno gradito. Nonostante ciò, si era ripromessa di non lasciar trapelare le sue emozioni così da non infastidire Robb.
Il viaggio trascorse velocemente tra poche chiacchiere e molta musica. Giunti alla villa, entrambi fecero una doccia, poi Robb si lasciò cadere sul letto per un breve riposo prima di pranzo, mentre Josephine decise di andare in biblioteca.
L’idea di avere quella stanzona a sua completa disposizione, senza il rischio che nessuno potesse turbare la sua quiete, era estremamente piacevole. Una volta giunta  a destinazione, si fiondò senza pensarci verso il libriccino di poesie cilene e si gettò letteralmente e trionfalmente sulla poltrona. Sorrise con aria perfida, quasi come se James potesse vederla, e si rilassò sui cuscini. Il libro al tatto le parve più spesso della volta precedente, ma impiegò giusto qualche istante prima di capire che tra le pagine vi era nascosta una piccola matita smunta. La prese tra le mani e ci sfregò sopra le dita, poi lesse la poesia a cui probabilmente faceva da segnalibro. Vide che vi erano diverse sottolineature ed immaginò che fossero recenti.


XVI
Amo il pezzo di terra che tu sei,
perché delle praterie planetarie
altra stella non ho. Tu ripeti
la moltiplicazione dell’universo.
I tuo grandi occhison la luce che posseggo
Delle costellazioni sconfitte,
la tua pelle palpita come le strade
che percorre la meteora nella pioggia.


Di tanta luna furon per me i tuoi fianchi,
di tutto il sole la tua bocca profonda e la sua delizia,
di tanta luce ardente come miele nell’ombra

il tuo cuore arso da lunghi raggi rossi,
e così percorro il fuoco della tua forma baciandoti,
piccola e planetaria, colomba e geografia.





La lesse d’un fiato, sospirando. Si sentiva avvinta, vittima della malia di quei versi. Lo stomaco quasi le doleva al pensiero che un uomo potesse pensare a parole simili, le fitte furono più crudeli quando realizzò che James le aveva lette, apprezzate, sottolineate, contrassegnate. C’era qualcosa di profondamente simile all’energia di quei versi, nello sguardo di James. Anche quando le aveva detto quelle cose orribili, la sua voce e il suo sguardo le avevano procurato una sensazione molto simile a quella che stava provando in quel momento, attraverso quei versi. Il fiato le si spezzò in gola; si sollevò dalla poltrona rapidamente, lasciando che il libro raggiungesse il pavimento. Non vi badò. Aveva bisogno di tornare al piano di sopra.
Salì di fretta le scale, mentre l’adrenalina le scorreva bruciante in corpo. Raggiunse la camera, Robb sonnecchiava sul letto. Si spogliò in fretta e gli si mise addosso, a cavalcioni, stringendogli i fianchi fra le ginocchia. Prese a baciarlo sul petto nudo, già pronto per la sua bocca. Ci volle qualche secondo prima che Robb si riavesse dal sonno e capisse cosa stava succedendo. Quando Jo si accorse di averlo svegliato, corse con le labbra fino alla sua bocca, con smania e foga.
– Jo, – mormorò lui, ammaliato e improvvisamente vigile.

– Sta’ zitto e prendimi.
Non se lo lasciò ripetere. Le strinse le natiche tra le mani e ubbidì ai suoi ordini.

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Capitolo 11
*** Una sera ***




 
Capitolo 11.


Non riusciva a perdonarsi per quello che aveva fatto a Robb, ma ancor prima a se stessa. Aveva tradito entrambi nel momento stesso in cui, il giorno prima, gli aveva chiesto di fare l’amore. Si guardò allo specchio, dedita a mettersi il mascara, e si vide orribile. Orribile con quel tubino vintage nero e aderente. Orribile con quelle perle alle orecchie. Orribile con quel rossetto rosso sulle labbra. Orribile dietro quella maschera di trucco ed eleganza. Orribile dietro quel velo di sobrietà che emanava. Tutto in lei, in quel momento, le pareva ipocrita. A pochi passi da lei, Robb s’infilava una camicia bianca. Dei jeans sbiaditi gli aderivano morbidi sui fianchi e l’odore del suo bagnoschiuma intossicava l’intera stanza.
Jo guardò il riflesso del suo uomo attraverso lo specchio e si sentì meno colpevole. Lui le stava sorridendo, in quel suo modo fanciullesco e sensuale.
Sentiva di non meritarlo, quel sorriso, ma lo accolse spasmodicamente, lo inglobò come una benedizione, una grazia muta concessale inconsapevolmente.
Per quel giorno, decise di essersi torturata abbastanza.
Quando furono entrambi pronti e agghindati alla meglio si misero in auto.
Giunsero sul luogo della festa quando ancora non c’era che qualche persona sparsa per la vasta terrazza dei Cohen. Jo rimase affascinata dall’effetto che le pareti di stelle conferivano all’atmosfera di candele e musiche afro. Tavoli rotondi e ricolmi di stuzzichini e vasche di sangria costellavano l’intero spazio fermandosi a qualche metro dalla balconata. Sierra si avvicinò ai due con un grande sorriso stampato sul volto.
— Oh, eccovi!
— Tantissimi auguri. — Jo le sorrise e la strinse in un tiepido abbraccio.
— Auguri, stregaccia! — Robb e Sierra si abbracciarono e baciarono.
— Grazie, ragazzi. Perché non cercate Roahd mentre io vado a prendere altri CD?
— Vai, vai. Tranquilla, — la rassicurò Robb.
Sierra si allontanò di pochi passi, prima di bloccarsi e tornare a guardarli.
— Jamie? Non verrà?

Jo fece deragliare lo sguardo da Sierra ai tavolini, come se a guardarla qualcuno potesse capire cos’avesse in testa.
— Ti ho detto che verrà. Non cominciare.
D’accordo. D’accordo. Vado! Fate i bravi.

Una volta soli in mezzo a facce più o meno sconosciute, Josephine s’appese al braccio di Robb, si scambiarono un breve sorriso e lui le posò un bacio umido sulle labbra. Jo si sentiva nauseata da se stessa. Accoglieva i suoi sguardi e i suoi baci come se li meritasse davvero, come se, come se.
Fu in quel momento che lo vide. James era accanto ad uno dei tavoli vicini all’ingesso; la luce soffusa delle candele gli illuminava la barba e il viso. Aveva l’aria di essere rilassato, coi capelli umidi che nelle loro sembianze d’onda gli coprivano parte della fronte e di un sopracciglio. Fresco in quella camicia blu intenso che gli lasciava la gola scoperta. Josephine si sentì morire a quella vista. E mentre lei si illanguidiva, lui li trovò con lo sguardo, soffermandosi su di lei. Non capì se fosse per via delle luci di candela, se fosse per le stelle o per la malia della sera o se fosse di nuovo colpa della luna, ma voleva che lo sguardo di Josephine scavasse di nuovo dentro il suo. Si avvicinò ai due lentamente, senza staccare gli occhi da quelli di lei. Sentiva il corpo cantare elettricità. Era la notte che li fotteva? In quali creature fameliche li trasformava, la luce della luna?
Josephine sentì lo stomaco risucchiarle l’aria dai polmoni, dalla gola. Le sue mani lasciarono andare il braccio di Robb, ma la mente non ne aveva coscienza. Il suo corpo era alla deriva. Quando James fu ad un metro da lei, i loro sguardi divennero pozze di pece. Robb gli batté sulla spalla una pacca affettuosa, lui sorrise e disse qualcosa che sfuggì alla dimensione di suoni ovattati in cui Josephine era piombata. Non vedeva che le sue labbra adesso, si muovevano, svelavano i denti, si baciavano e poi si storcevano. Parlava e Robb rispondeva. Ma di Robb non sentiva più nemmeno l’odore, mentre bramava di respirare quello di James. In quel momento le parve dolorosamente distante, troppo distante affinché lei potesse saziare la voglia vergine e corrosiva che aveva di perdersi con il viso tra le pieghe della sua camicia. Come era potuto accadere? In quale istante quell’attrazione che aveva scoperto di provare per lui si era fatta così asfissiante? Sentiva di volere il suo corpo e l’energia famelica dei suoi occhi. Jo sentì le gambe affievolirsi e si vergognò della donna che era. Una donna vinta dal languore, dal desiderio carnale; una donna semplice, che a dispetto dell’antipatia e dell’avversione per la mente di uomo, ne desiderava comunque il corpo. La bocca. Le mani. Mani che a guardarle, a guardare il modo in cui venivano solcate dalle vene, parevano capaci di strappare via la pelle o di marchiarla a fuoco. Lui, ad ogni modo, aveva smesso di guardarla.

— Dov’è la festeggiata? — chiese rivolto a Robb.
Lui rise furbescamente. — Sono due, i festeggiati.

— Ho già incontrato Roahd, per la cronaca, — gli sfuggì un ghigno.
I due fratelli si guardarono con aria complice. Poi qualcuno piombò in mezzo ai tre. Era Sierra.
—Jamie! Sei venuto! — Fece come per abbracciarlo, ma si trattenne esibendo un sorriso da canaglia. — Oh, probabilmente nemmeno ti ricordi di me. Durante il liceo ti stavo sempre tra i piedi. O meglio, stavo tra i piedi di tua madre quando preparava i muffin. — Rise deliziosamente, tanto che sia Robb che James ne furono contagiati. Josephine fissava Sierra, evitando di guardare i due ragazzi.
— Mi ricordo di te, sta’ tranquilla, — disse James, poi le strinse le braccia tra le mani e a quel gesto lei si entusiasmo. — Lascia che ti faccia i miei auguri, — fece cenno di avvicinarsi a lei, — Posso?
Lei squittì qualcosa e si scambiarono un bacio sulle guance. A Jo parve di vederlo indugiare in quel bacio.
Sierra lo afferrò per un braccio e lui s’irrigidì. Non era abituato a lasciarsi toccare o a concedere troppe libertà a chi gli stava accanto, ma Sierra fu talmente sicura di quel gesto, tanto frizzante nell’intavolare una conversazione, che lui non ebbe di che dispiacersi. Robb, a quella vista, trascinò via Josephine con nonchalance, accennando ad alta voce ad una certa fame improvvisa. Jo rimase incatenata alla figura di quei due e qualcosa dentro di lei prese fuoco.
Robb la condusse verso i tavoli, le versò della sangria e si concentrò sugli stuzzichini. Lei si stupì di come potesse essere così sbadato, sbadato al punto di non accorgersi che lei non gli prestava attenzione, che il suo sguardo seguiva quello di un altro. Ma poi si sforzò di pensare a lui soltanto, gli si fece vicina, lo aiutò a scegliere il cibo più invitante, gli sussurrò frasi ridicole alle orecchie. A differenza di quel che avrebbe immaginato, sentì ricostituirsi la complicità, o almeno tornò visibile ai suoi occhi, ai suoi sensi traditori. Non voleva perdere quel momento, così gli infilò le dita tra i capelli e lo coinvolse in un bacio che gli incendiò lo sguardo.
— Tu non puoi comportarti così, signorina. — Con riluttanza, si costrinse ad allontanarsi dalle sue labbra.
Ah, no? Ti è forse dispiaciuto? — Jo gli lisciò una spalla, fingendosi offesa.Robb le portò le labbra ad un orecchio col respiro pesante.
— Non puoi farlo perché la civiltà in cui viviamo non approverebbe del sesso in pubblico.

— Come siamo irruenti, stasera. — Lo guardò teatralmente scettica, anche se scettica lo era davvero.
— Non l’avevi mai fatto prima. Mi hai preso in contropiede. — Si allontanò dal collo di lei e la guardò divertito.
— Non ho potuto farne a meno. — Prese un bicchiere di sangria e se lo rigirò in mano con aria noncurante. — Mi stavi così vicino e avevi un così buon odore. Ho dovuto farlo, mi dispiace. — Si strinse tra le spalle e prese un sorso dal bicchiere.
Robb si morse un labbro, senza riuscire a trattenere un sorriso.
— Sta’ attenta con l’alcol stasera. Ho paura di quello che potresti farmi se dovesse darti alla testa.
— Fossi in te non avrei paura.

- Jo, —sussurrò sentendo il bisogno di baciarla e magari di trascinarla con sé in disparte, lontano da occhi indiscreti, ma alle sue spalle vide affacciarsi le figure di Tracy e Spencer e capì di dover accantonare l’idea.
Sempre in ritardo, eh? — Li canzonò Robb. Spencer gli lanciò uno sguardo truce e Tracy lo ignorò beffardamente, mentre si avvicinava a stringere Jo.
— Sei una meraviglia stasera, — le disse.

— Confermo, — asserì Spencer.
— Sono solo esageratamente agghindata. — Jo sorrise ad entrambi.
—Jo non ama i complimenti, – commentò Robb guardandola.
— Non è vero. Mi piacciono. I complimenti piacciono a tutti, — fece lei, per poi tornare a sorseggiare la sua sangria. Si accorse di aver adottato un tono inadeguatamente distaccato solo quando lo vide molleggiarsi da una gamba all’altra. Ci fu un silenzio breve, poi Robb riprese.
— Ditemi che avete visto Roahd.
—Intendevamo chiederti la stessa cosa, – fece Spencer, accingendosi a versarsi della sangria. — Ne vuoi? — domandò rivolto a Tracy.
— No, qualcuno deve rimanere sobrio, — commentò lei stizzita.
— Non ho nemmeno cominciato!

— Stai per farlo, – Tracy incrociò le braccia sul petto, — Ti conosco, caro.
— Be’, staremo a vedere. Cara.

— Mi hai fatto il verso?
— Non COMINCIATE, — li pregò Robb. — Piuttosto, assaggiate le tartine.
—Riconoscerei le tartine di Sierra ovunque, — commentò Tracy, sporgendosi a prenderne una.
Spenk ne aveva già trangugiata una. — Sei vergognoso!

— Cazzo, se sono le tartine di Sierra! – fece lui, entusiasta, pronto a mangiarne un’altra.
Spencer, —lo ammonì Tracy.
— Che diavolo ho fatto adesso?

Robb afferrò la tartina dalle mani dell’amico. – — Credo che tu non debba dire “cazzo”, — ridacchiò.
Fa’ poco l’impertinente, tu, – fece lei offesa. — Jo, per favore, pensa tu a lui perché non credo di reggerli entrambi insieme.
— Perché non mi versi della sangria e lasci che Tracy insegni l’educazione a Spencer? – Il tono di Jo era ironico mentre gli porgeva il bicchiere. Robb si finse scandalizzato, ma l’assecondò.

- Se queste due si alleano siamo fregati, – commentò Spencer. Robb passò il bicchiere pieno a Jo.
- Josephine non ama le alleanze.
A quelle parole tracannò una lunga sorsata. – Dipende dall’alleato.
- Ah, non è vero. A te piace il vis à vis. Non sei una tipa da alleanze.
- Per Tracy potrei fare uno sforzo. – Sorseggiò dell’altra sangria e il suo sguardo si fece più liquido.

- Oh, te ne prego, Jo! – La voce di Tracy era una litania.
- Ecco, lo stai facendo. – Robb rise dando una gomitata d’intesa a Spencer.
- Cosa? – chiese Jo lanciandogli un’occhiataccia sospettosa.
- Hai sfoderato l’ascia di guerra per una battaglia che è come sempre solo tua. Fingi di volerti alleare a Tracy per non dover ammettere che ho ragione.
Jo si riempì un altro bicchiere di sangria, dandogli le spalle. Quando tornò a guardarlo, era lievemente infastidita.
- Ecco che fa la sua entrata in scena Miss. Permalosità. – Robb ridacchiò contagiando Spencer.

- Non sono permalosa e  non amo le sfide, né tanto meno quelle vis à vis.
- Sì, ma vacci piano con quella sangria. – le disse notando che stava per svuotare anche il quarto bicchiere.
- E comunque, di certo non mi alleerei con te, se ci tieni a saperlo. – disse lei, ignorando i suoi avvertimenti.
- Mi sei piaciuta, donna! – esclamò Tracy.
Robb scoccò un’occhiataccia all’amica e rise.
- Bene. Tu alleati con la tua nuova amichetta. Io ho Spencer.

- Ah, io me ne tiro fuori, amico. – fece questi, tracannando la sua sangria.
- Sei un… Jamie! Jamie, vieni qui, per favore. – Robb s’illuminò alla vista del fratello.
- Non puoi proprio vivere senza di me.
- Ho bisogno di te. Sei l’unico alleato possibile.
Jo ebbe un sussulto. James non era più in compagnia di Sierra. Adesso troneggiava in mezzo a loro, ma la sua presenza le fece meno effetto. Si sentiva molle nel corpo, ma agile, battagliera nella mente. Quella sangria, scoprì, era un portento.
- Indicami i nemici. – fece James, serioso.
- Josephine Fray e Tracy Stevens. Un serpente a due teste.
- Sarai tu un serpente! – proruppe Tracy.

Jo ingurgitò tutta la sangria che aveva nel bicchiere in una sorsata secca, stordente. James la squadrò con aria indagatrice. Adesso Jo lo fissava senza imbarazzo, probabilmente per via della sangria e quello che gli stava lanciando era uno sguardo spietato.
- Credo che una delle teste sia sbronza. – osservò James, laconico.
-
Jo lo trafisse con uno sguardo e fece scricchiolare il bicchiere tra le mani.
- E’ vero, odio le alleanze. – biascicò avvicinandosi a James – Voglio un duello per singolar tenzone. – incrociò le braccia sul petto, lo sguardo liquido le conferiva un’aria meno gelida. – Con il Signor James Draper.
James la guardò incredulo, poi si fece serio e si mosse verso di lei.
- Un vero gentiluomo non può battersi con un avversario che riversa in queste condizioni. – il suo tono era affettato ed arrogante.
- Non vedo nessun gentiluomo qui. – ribatté lei seria e imperturbabile, nonostante il suono alterato della sua voce.

Lui fece un passo in avanti, minimizzando la distanza tra i loro visi. Era infastidito, ma non riusciva a controllare quella sensazione piacevole che sentiva diramarsi nel suo petto. Una sensazione simile all’euforia. Sul suo volto si dispiegò un ghigno cattivo.
- Adesso mi vedi meglio?

Josephine cercò una risposta adeguatamente piccata nei meandri confusi della mente, ma l’impatto col profumo di James l’annientò.
- Sì. – fu l’unico suono che riuscì a proferire, poiché le altre forze le servivano per costringersi a non allungare la mano e toccarlo. Fu un sì che all’orecchio di James arrivò come un gemito opaco. Una resa dolce, inaspettata, destabilizzante. Sentì il corpo irrigidirglisi tra le corde di una nuova tensione, non più quella della battaglia, ma quella della resa, della più voluttuosa delle rese. Lei dischiuse le labbra e così anche lui, i loro sguardi aggrottati si stavano consumando. James dovette sforzarsi per riuscire a spezzare quell’incastro disturbante, ma lei non accennava a muoversi. L’alcol la rendeva sfrontata. James si fece indietro. Intorno a loro, Robb e gli altri stanziavano in un religioso silenzio.

- Tienila d’occhio o dovrai portarla a casa sulle spalle. – Ancora una volta fu sprezzante, e questo ridestò definitivamente Jo. James guardò il fratello fugacemente. – Raggiungo Sierra.
Josephine si sentì sopraffare da un sentimento che assemblava in sé rabbia, delusione e desiderio. Lui la disprezzava. Il che non era una novità, ma per i suoi sensi annebbiati lo fu. Lo disprezzò ancor di più per questo, per aver ancora una volta palesato il suo disinteresse. Ma disprezzò molto di più se stessa, perché in mezzo a quel disprezzo, a quell’astio irragionevole, era riuscita a collocare quell’ incomprensibile desiderio, che era suo soltanto e che non avrebbe voluto dover provare. Non per un uomo che la disprezzava. Non per un uomo che non poteva desiderare.
Robb le si accostò, mentre parlava con gli altri. Le loro voci non le interessavano, voleva soltanto poter spegnere quelle che sentiva nella testa. Voleva soltanto che il suo corpo smettesse di vibrare. Dovette innaffiarsi i sensi con fiotti di sangria, stando attenta a non dare nell’occhio. Arrivò Roahd, lo salutarono e baciarono, lei fece altrettanto o almeno così le parve. Robb non le stava più accanto, era preso dalla conversazione e quel gruppetto era diventato per lei un giubileo, tanto era il caldo e la vertigine. Con un bicchiere di sangria in mano, si allontanò da loro e si diresse verso la balconata. Un fresco pungente che prima non aveva avvertito, adesso le penetrava l’epidermide, la liberava dalle asfissie. Si appoggiò alla ringhiera e si lasciò pizzicare le gote dalla brezza.
Rimase muta e solenne. Da quella prospettiva, con la festa alle spalle, e i viali alberati che si spianavano al suo cospetto, il ritratto della sera appariva lancinante. Sorrise appena, di un sorriso insensato, rabbrividendo.
Tutto procedeva sordo e muto, la musica e le voci della festa sembravano esiliate fuori dalla bolla in cui lei si trovava.
Ad un tratto avvertì una presenza alle spalle e, poco dopo, una mano le si posò sulla vita.
- Ti avevo detto di non bere troppo. – Robb si appoggiò alla balconata, mettendosi al suo fianco.
- Sto bene. – disse lei sbrigativa, fissando il vuoto.
Lui fece una smorfia giacché non le credeva. Poi sospirò.
- Perché non torni di là? C’è una bella atmosfera. – sorrise cercando un contatto visivo che non giunse - Gli altri sono molto allegri stasera.

Jo spostò il viso di lato, come a voler godere meglio della frescura. Robb la guardò con le sopracciglia aggrottate, in attesa di una risposta.
- Qui si sta bene. Puoi rimanere con me, se ti va. – la sua voce era strascicata, gli occhi le lacrimavano d’ebbrezza.

- E’ il compleanno di Sierra, Jo. Non possiamo starcene qui appartati. – le mise una mano sul braccio.
- Allora tu va’, non preoccuparti. Io sto qui a guardare i viali.
Robb ritrasse la mano e si massaggiò la faccia. Josephine era sfiancante.
- Jo, ti prego. – mormorò.

- Cosa c’è di male? Chi mi proibisce di starmene qui? - emise un singhiozzo, ma subito tossicchiò per darsi un contegno.
- Non è questo il punto. Non è così che ci si comporta in occasioni come questa. – il tono di Robb suonò più alto e severo.
- Piantala. – disse seccamente.
- Piantala? – Robb era esasperato - Ti ho chiesto un cazzo di favore, per la miseria. Non mi sembra di averti domandato chissà che sforzo. Vorrei solo che per una volta tu sentissi di dovermi assecondare senza far storie. – la guardò preoccupato, ma i tratti del suo volto erano tesi e il nervosismo era palpabile.
- Non urlare. Non si fa.
- Faccio un po’ come mi pare. Non dirmi cosa fare e cosa no. – strinse i pugni e strizzò gli occhi per qualche istante, poi la guardò di nuovo, con aria supplice. – Per favore, lasciamo correre e vieni di là con me.
- Senti lo hai detto tu, no? Non sono affatto sobria e ho voglia di star qui senza tanta gente intorno.
- Certo, certo. – lui emise una risatina amara. – Adesso sei sbronza, nonostante io ti abbia più volte detto di mettere giù quella cazzo di sangria.
- Sen…
- No, senti tu. Non me ne importa se sei sbronza. – scosse la testa esasperato – Ti conosco abbastanza da sapere che ti comporteresti così anche da sobria. – sospirò e le scoccò un’occhiata accusatoria. – Tu fai sempre così.
- Così come? – adesso lo guardava, ma l’espressione sul suo viso  rimaneva fastidiosamente rilassata, alienata.
- Ti isoli e vaffanculo. Lo fai sempre. Continuamente. Non mi permetti di stare in mezzo agli altri a ridere, perché mi passa la voglia non appena vedo che ti allontani e ti metti a vagabondare. – si scompose i capelli con una mano – Ma lo sopporto. Lo sopporto sempre, perché so chi sei e mi stai bene, giuro, mi stai bene così.
- Sei contraddittorio. – lo sguardo di Jo si accese – Non è vero che ti sto bene così, altrimenti non staresti qui a dirmi come vorresti che mi comportassi.
- D’accordo, ok. Come non detto. – fece lui, rassegnato.
- No, adesso non puoi cavartela così. – gli si fece più vicina, lo sguardo di ghiaccio. – Eviti sempre le discussioni.
- Che dovrei fare? Litigare?
- Dovresti affrontarmi! Infiammarti per le cose che non ti vanno bene!
- Adesso che diavolo c’entra? Il discorso è che nei rapporti sociali fai schifo. – sbottò lui. – E costringi me a far schifo allo stesso modo, per venirti dietro.
- Chi te lo ha mai chiesto, vorrei sapere. – il tono che usò era sarcastico e Robb ne fu ferito.
- Non mi trascinerai in una litigata senza scopo solo perché non sei in grado di accettare quello che ti si chiede.
- Be’, mi spiace. – quello di Jo fu un sussurro, ma dentro di sé si sentiva ringhiare. Come sempre lui fingeva di farsi andar bene le cose di lei che non sopportava pur di non litigare, pur di non venire a patti con la realtà. Jo avrebbe voluto che, almeno per una volta, lui le parlasse spudoratamente, che lui le gridasse il suo dissenso, se proprio doveva. Tutto purché si preoccupasse di scuoterla.
- Tu non mi ami, comunque. – la voce di Jo tagliò l’aria, all’improvviso.

 Robb la guardò con gli occhi iniettati di furia.
- Io non ti amo? E adesso che cazzo c’entra? – adesso, stranamente, stava urlando.

- Se tu mi amassi, lo faresti interamente, senza clausole.
- Di che stai parlando? – si calmò, curioso.
- Del fatto che mi accetti solo quando va tutto bene, solo quando ti sto nuda addosso o cucino muffin. Ti sto bene solo quando canticchio o sorrido o sono divertita. Ti sto bene solo quando ho una buona giornata, e quando di notte non ho incubi. – il suo sguardo era amareggiato.
- Che cazzo vuoi dire, si può sapere? – Robb l’afferrò per le braccia, scrutandola con gli occhi sgranati.
- Sei veramente ottuso! Tu non mi ami, punto. – la voce di Jo ebbe un tremito – Se non ti sta bene il mio carattere di schifo che diavolo ci fai con me?
Robb sondò il viso di Jo con due occhi colmi di smarrimento.
- Non è come dici.

- Non metterci troppa enfasi, però. – schioccò la lingua con aria sarcastica. Robb le lasciò andare le braccia e le puntò un dito contro il viso.
- Non - scuoteva la testa – Non mi rovinerai questa serata. Puoi scommetterci. – così dicendo le voltò le spalle e si diresse nervosamente verso i tavolini. Jo non lo seguì con lo sguardo, tanta era la delusione che provava. Che si aspettava, poi? Che gridasse parole d’amore, versi appassionati?
Quando distolse lo sguardo da Robb, un schiocco di mani simile ad un applauso secco e cadenzato, la raggiunse di sbieco. Jo scattò con lo sguardo verso la direzione da cui proveniva e vide James che la guardava con aria di scherno, continuando ad applaudire.
- Uno spettacolo raccapricciante, devo dire. – commentò. – E’ finito troppo presto.

- Mi spiace immensamente. Va’ a sollazzarti altrove, adesso.
- Non ti va che io abbia assistito?
- Sei ancora qui? – Jo distolse lo sguardo da lui e lo puntò di fronte a sé.
- Questa zona della terrazza mi piace. Credo che mi ci tratterrò parecchio. – disse lui, appoggiando i gomiti alla balconata.
- Sei contento, vero?
- Di cosa, di grazia?
- Di averci visti litigare.
- In realtà ho decisamente apprezzato le opinioni di Robb. – la voce di James era sadica – A quanto pare, la pensa esattamente come me sul tuo conto.
- Tu non sai niente. – mormorò: l’alcol la stava infiacchendo, e con Robb aveva consumato le sue ultime energie.
- Vi ho sentiti, ho sentito tutto. – fece lui semplicemente – E’ evidente che Robb non è appagato dalla vostra relazione. Il resto lo sapevo già.
- Di che parli? – Jo lo fissò scocciata.
- Di te e del fatto che non ti importa niente di lui. – la trafisse con uno sguardo serio, cupo.
- Tu e le tue teorie. – bofonchiò lei.
- Mi stupisce che lui non se ne renda conto.
- Forse perché questa cosa è solo nella tua testa. – Jo si scostò dal marmo della balconata e lo affrontò frontalmente. Erano molto vicini, ma non abbastanza perché lei potesse placare il basso desiderio di respirare l’odore della sua camicia. Un desiderio che stava lì acquattato, nascosto dietro una siepe nella sua testa. Un desiderio stupido per cui aveva tracannato buona parte dei bicchieri di sangria di quella sera.
- Sarà.

Jo si afflosciò su stessa, uno strano senso di resa l’infiacchì. Era tutto troppo confuso per i suoi sensi.
- Sembro una persona arida? – chiese all’improvviso, tornando a guardare i viali bui. Era come se avesse dimenticato chi fosse il suo interlocutore, ma non le importò in quel momento. Era stremata.

James la guardò dapprima stupito, poi si fece guardingo ed infine sul suo viso comparve il solito ghigno sadico.
- Sì.- fece secco, ma poi la vide fare spallucce senza scomporsi. Aveva l’aria rassegnata, rilassata, sconfortata. James, inconsapevolmente, mosse un passo verso di lei. Le loro spalle si toccarono. – Non sempre. – mormorò, pentendosene subito.

- Quando non lo sarei? – Jo lo scrutò con la coda dell’occhio.
- Una donna che sa apprezzare Neruda non può essere del tutto arida. – la guardò con aria seria, una folata di vento tenue gli trascinò il suo odore sul viso. James aggrottò le sopracciglia. – E trovo assurdo che tu non sappia prenderti calorosamente cura del tuo uomo.
- Quella è poesia. – fece lei, in imbarazzo, sbrigativa.
- E la poesia non è forse il più straripante contenitore d’impulsi e passioni? – la voce di James era bassa, un soffio caldo che le sfiorò una guancia. Jo sentì un tumulto alla bocca dello stomaco.
- E’ vero. Ma si tratta degli impulsi del  poeta. – disse lei con la voce roca, stanca. – La poesia è una forma di esorcismo. C’è chi la usa per espiarsi, chi per lasciar andare un ricordo, chi per attenuare un dolore e poi c’è chi vi riversa dentro impulsi che materialmente non può liberare.
James la guardò più fittamente. Un riccio sparuto le sfiorava il collo scoperto, niveo. S’incupì.
- E che ne è del lettore? – domandò, con gli occhi sul collo di lei. Jo stavolta non lo guardò.

- Il lettore assorbe, giudica, s’immedesima. Dipende.
- Soltanto?
Il tono morbido e caldo della voce di James, la spinse ad incontrare i suoi occhi. Entrambi s’irrigidirono, consapevoli più che mai di quanto uno sguardo potesse metterli in pericolo.
- Che altro? – chiese lei.

- Non ti fa sentire nuda? – Jo avvertì un languore feroce alla gola.
- In un certo senso sì. – mormorò. – Neruda più di altri.
James la scrutò con occhi foschi, le labbra dischiuse.
- Ti fa sentire affamata? – il suo sguardo si era fatto provocatorio. Jo deglutì.

- Mi fa desiderare la fame. – ammise, sorprendendolo.
- Non la conosci? – nel suo sguardo era calata un’ombra. I loro sguardi si stavano consumando.
- No. – confessò fiocamente. Il respiro le si mozzò in gola. – Eppure… - si bloccò. L’acol l’aveva ammorbidita, ma era ancora abbastanza lucida da sapere di non volersi denudare oltre di fronte a lui. Lui che non era altro che un nemico, per lei.
- Prosegui. – le intimò con voce roca. La guardava strenuamente. – Eppure?
Lo sguardo che lui le rivolse la destabilizzò.
- Niente di importante. – disse rapidamente, prima di accorgersi che lui le stava guardando le labbra. A quel punto lei lo imitò. – Vorrei solo… - disse dopo una pausa, tornando a guardarlo negli occhi. – Vorrei solo che lui mi volesse per intero. Se non può farlo è perché non mi ama.

James le rivolse un’occhiata inquisitoria. Non riusciva a stare dietro ai suoi pensieri.
- Prima di pretendere, sei sicura di dare quello che chiedi? – domandò col solito tono saccente.
- Io accetto tutto di lui. – sospirò - Ma lui è diverso, non è come me. Anche i suoi difetti sono adorabili.
- Quindi lo ami? – domandò bruscamente.
- Sì. – fece lei.
- E la fame? – il  tono di James era spietato.

Jo lo guardò esterrefatta, poi dirottò lo sguardo verso l’orizzonte. Lui sogghignò arcigno, ma quando lei si voltò completamente, quel boccolo sul collo tornò a catturare la sua attenzione. C’era qualcosa di dolorosamente irresistibile in quell’immagine; James dovette praticarsi una specie di violenza costringendosi a non scansarle via quel boccolo per sostituirlo con le sue labbra.
- Posso non pensare, alla fame. – disse piano per poi riportare l’attenzione sul viso di James – Ma ho bisogno di sapere se è possibile che mi si ami interamente, senza riserve. – la voce di Jo lo raggiunse placida, ma straziante. James avvertì un bisogno disperato di toccarla.
- Robb non lo fa? – domandò in un sussurro.

- Lui mi rifugge quando - sospirò – … quando non sono chiara.
Le labbra di James si piegarono in un sorriso accennato, ma diverso da quelli che soleva rivolgerle. Jo lo trovò sensuale, maledettamente, pericolosamente sensuale e vide nel suo sguardo una scintilla a cui non riuscì a dare un significato.

- Quindi, per te, l’amore è tale se si è disposti ad accettare le brutture?
- No. Non quando si è disposti. L’amore divora tutto, si nutre della luce e dell’ombra. – disse lei d’un fiato. James le guardò le labbra e gli parve impossibile che provenisse da loro, quell’ardore.
- “T’amo perché sei chiara e perché sei oscura.” – recitò- E’ questo che vuoi? 
Jo sussultò. – Io… - si morse il labbro - Sì. – ammise in un sussurro.

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Capitolo 12
*** In gabbia ***


Capitolo 12.


Quando aprì gli occhi e si guardò intorno, Jo si ritrovò immersa nell’oscurità più totale. L’unica fonte di luce proveniva dal led del cellulare sul suo comodino. Faticò molto a capire dove fosse e come ci fosse finita, ma non si sorprese quando la sua schiena si scontrò contro quella di Robb. Si sollevò a fatica e si appoggiò contro la testiera del letto, si mise la mani tra i capelli e li scoprì umidicci di sudore, mentre sulla lingua avvertiva un saporaccio che le provocò un inaspettato capogiro seguito subito da un attacco di nausea. Inspirò ed espirò profondamente tenendo le mani premute contro la fronte, come se in qualche modo potessero contenere ed alleviare quel tremendo bombardamento all’interno della sua scatola cranica. Ad un tratto Robb si mosse e si voltò nella sua direzione. Jo cercò di capire se dormisse poggiandogli una mano sulla spalla in modo da poter percepire il ritmico su e giù del suo respiro, e quando si fu assicurata di non averlo svegliato riprese a reggersi la testa e a scuoterla per trovare sollievo. Esausta, tornò giù sul materasso posizionandosi il più possibile verso il bordo del letto, ma a quel movimento un braccio forte la trattenne e l’accostò al petto di Robb.
–  Stai male, piccola?
– Dio, ti ho svegliato…
– Non pensare a questo. Dimmi come ti senti.
– Un vero schifo, – ammise lei a denti stretti.
– Non ti farò la paternale. Ma non dirmi di non dirti che te lo avevo detto, – soffiò Robb tra i suoi capelli.
– Sono un’idiota, scusami. Ti ho pure fatto tutta quella stupida sceneggiata e ho iniziato persino a ciarlare come una stupida con quell’avvoltoio di James, – disse d’un fiato Jo, – Chissà per che razza di bamboccia brilla, romantica e logorroica mi avrà presa. Come se non lo infastidissi già abbastanza prima. Sono un’allocca… Come ho potuto… Mio Dio… non so davvero…

– Prendi fiato. – Robb la scuoté con le braccia – Eri… sei – non lo so! – sbronza. Non si sarà fatto nessuna idea orribile su di te. Peraltro è stato lui a riconsegnarti al sottoscritto.
– Io… – Jo cominciò a balbettare. – Io non ricordo niente del genere. Ho risposto ad una sua molestissima domanda e non ricordo più un accidente.
– Gli sei crollata addosso. Letteralmente. Per poco non gli strappavi la camicia. Quando ti ha portata da me sembravi più lucida, ma non la smettevi di arpionargli la camicia. – Robb ridacchiò lievemente, poi tornò serio. – Comunque spero che tra noi sia tutto ok. Sai, dopo…
– Oh, ti prego dimentica qualsiasi cosa, compreso il particolare disgustoso di me appesa a tuo fratello. Non so con che coraggio lo affronterò domani.
– Stanotte dorme nel suo appartamento; non è detto che ti capiterà in sorte di doverti mortificare tanto domani.
– Non sfottere. Non ora che non ho la forza di prenderti a pugni.

Tra le braccia calde e familiari di Robb, riuscì finalmente a riprendere sonno. Il mattino seguente fu devastante, il mal di testa ancora persistente non le permetteva di prestare ascolto ai discorsi tra Robb e i suoi genitori, il che la rese totalmente assente. Stranamente, i signori Draper non le rivolsero particolari domande sull’andamento della serata precedente, né alcun’altra domanda che richiedesse uno sforzo neuronale eccessivo. Oltre al mal di testa, però, non poteva non sentirsi aggredita dal pensiero della sua conversazione con James. Non che ricordasse molto, ma ricordava quanto bastava. Forse ricordava con troppa intensità gli sguardi e gli odori e quel movimento testardo e tamburellante che le era smaniato nello stomaco per tutto il tempo. Detestava l’atteggiamento di James, la sua arroganza, quel suo credersi detentore delle più recondite e assolute verità dell’universo, quell’asprezza nella voce… quel calore negli occhi. Lo conosceva da poco e del resto anche lui non conosceva lei, eppure sentiva aleggiare tra di loro un’avversità a dir poco tenace. Non ne conosceva il motivo, ma non riusciva a non pensare con angoscia al momento in cui avrebbe dovuto reincontrarlo. Sarebbero rimasti a St. Albans soltanto un'altra notte, pensò, non poteva accadere alcunché di allarmante né avrebbero potuto presentarsi chissà quali momenti d’imbarazzo tra loro. Doveva convincersi che temere la sua presenza era da sciocchi e da ingenui. Era ovvio che lui fosse consapevole della sua perentoreità innata, della sua natura oltraggiosamente disturbante. Ne era consapevole e s’impegnava a non cambiare. E lei, dunque, avrebbe dovuto impegnarsi a far crollare ogni suo presuntuoso convincimento.
Il momento segretamente temuto arrivò prima del previsto. James si era presentato alla porta del villino subito dopo pranzo, quando ancora erano tutti intenti a gustare il loro sorbetto. Entrò con spavalda lentezza, ripropose ancora una volta quel vezzo balordo del toccarsi il polso in cui era allacciato il suo patetico orologio virile. E lei non poté che stupirsi ed odiarsi, per aver nuovamente osservato e analizzato quel gesto e aver pensato a lui, ancora, in quella maniera paradossale e contraddittoria. Cosa stava a significare “patetico orologio virile”? Perché non poteva semplicemente pensare che fosse un orologio, perché obbligatoriamente trasformarlo in una sineddoche? Perché vilipendere (e apprezzare) un oggetto solo perché avrebbe  voluto vilipendere (ed apprezzare) colui a cui apparteneva?
Si ammonì e ricordò a se stessa che avrebbe anche potuto pensare contraddittoriamente a qualsiasi altro uomo che non fosse Robb, ma mai, mai più a James.
– Tesoro, tutto bene? Robb ci ha detto che Sierra è stata molto “affettuosa” ieri sera. Spero tu sia ben disposto nei suoi confronti. E’ una così brava ragazza, – fece la signora Draper, mentre preparava un bicchiere di sorbetto per il figlio maggiore.
– Mamma, per favore, – James sembrava divertito più che irritato e a Jo sembrò che non gli dispiacesse affatto sentirsi fare quelle domande. Sembrava piuttosto volesse fare il finto modesto, ma il suo sorriso irreparabilmente borioso lo aveva tradito come sempre.
– Non vedo cosa ci sia di male. Con noi puoi parlarne. Robb e Jo sembravano molto contenti del vostro affiatamento.
Jo? Perché mai aveva sentito il bisogno di metterla in mezzo a quella situazione? Sicuramente, adesso, lui non si sarebbe fatto sfuggire un’occasione tanto preziosa per metterla al suo posto.
- Oh, be’, se lo dicono Jo e Robb puoi star certa che la verità sta nell’esatto opposto delle loro constatazioni.
Ecco. Come non detto. Jo sapeva benissimo che quell’ultima frase era rivolta esclusivamente a lei,  ma ovviamente, l’irreprensibile James non avrebbe mai commesso un errore tanto leggero come quello di screditarla troppo palesemente. Lui era sottile e sapeva, non si sa come, che Jo era perfettamente in grado di recepire le sottigliezze. Anzi, era una specialista delle sottigliezze.
– Ad ogni modo, è molto carina e simpatica. Ma non ho intenzioni di perdere tempo in una relazione. Sono oberato di lavoro e di impegni più proficui. Un rapporto con una donna comporterebbe uno stress considerevole che non ho né voglia né tempo di addossarmi. – Si liberò finalmente dell’orologio e lo posò sul tavolo, poi assaporò una cucchiaiata di sorbetto.
– Dipende dalla donna, dal rapporto che decidi di instaurare con lei. Non deve essere per forza una seccatura. – Robb sembrava molto convinto delle sue parole e il suo chiaro riferimento al suo rapporto con Jo, non sfuggì né a lei né al fratello.
– Tu hai trovato la donna perfetta. Non fai altro che ribadircelo. – La guardò un istante, nel suo modo svagato e un po’ cattivo. – Certo, dovremmo ancora capire secondo quali criteri la reputi tale, ma suppongo dovremmo darti fiducia. – Ridacchiò sornione, per far sembrare la sua spiacevole battuta niente di meno che una provocazione goliardica e amichevole. Eppure Jo percepiva quell’astio in maniera opprimente. No, non c’era niente di goliardico e amichevole in quegli sguardi che le lanciava. C’era sempre e solo boria e crudeltà gratuite. Fu soprattutto per questo – oltre che per altri banali e comprensibili motivi – che Jo si sentì in dovere d’intervenire.
– Potresti farci tu il ritratto della donna perfetta. Non vediamo l’ora di sentirtela descrivere. Un uomo che ostenta tanto superbia deve avere le sue buone ragioni per parlare con sufficienza delle scelte altrui. – Jo mantenne il sorriso, sebbene la curva delle labbra accennava ad una sfida bella che dichiarata.
– Signorina, dovresti prenderla meno sul personale. – Il tono di James era ancora una volta deliberatamente snob. – Era una battuta. Ma come non detto: evidentemente non mi sbagliavo poi tanto sulle scelte opinabili di Robb in fatto di donne.
– James caro, su! Non essere sempre così sarcastico, altrimenti Josephine finirà col pensare che non la trovi simpatica.
Il sorriso pacato della signora Draper non intiepidiva affatto la situazione. Jo sapeva bene che lui non la tollerava sul serio. Lo sapeva perché lui gliel’aveva detto. Non era solo un’impressione, ma nessun altro, ovviamente, poteva saperlo. Nemmeno Robb che dal canto suo lanciava sorrisi  buffi e a tratti preoccupati al fratello, incerto se intervenire o meno, probabilmente per non rendersi ridicolo scendendo in difesa di Jo quando era probabile che si trattasse di una burla del fratello.
– Non sono sarcastico. Rispondo a tono. – Di nuovo quello sguardo disturbante. Jo non lo evitò, rimase con lo sguardo fisso sul suo.
– E dunque rispondi concretamente. Come sarebbe questa fantomatica donna perfetta?
– Non ne sono sicuro. Ho una sola certezza: deve essere esattamente il contrario di te. – Sogghignò divertito, ma il suo sguardo era carico di sottintesi poco carini.
– James, per l’amor del cielo! – Robb finalmente capì che il fratello stava esagerando. In ogni caso Jo non sentiva il bisogno di nessun soccorso da parte di chicchessia. Avrebbe risposto senza mezzi termini, proprio come ormai faceva James con lei.
– Sei una persona molto triste. Unicamente per questo non riderò di te e delle tue considerazioni adolescenziali.
James strinse gli occhi così duramente ed intensamente che Jo, per un istante ebbe quasi paura di lui: del resto non lo conosceva così bene da poter prevedere in che misura avrebbe potuto spingersi con i suoi “amichevoli insulti”.
Ma lui non disse nulla. Continuava a fissarla duramente. Tutti erano in silenzio, indecisi sul modo di reagire a quello scambio di battute. Robb cercò di alleviare la tensione complimentandosi con la madre sulla qualità del sorbetto che avevano appena gustato. Ma James continuava a fissare Jo duramente e lei non riusciva a sostenere più quello sguardo; non voleva demordere, davvero non poteva dargliela vinta, ma ero troppo da sostenere, troppo da capire, troppo cattivo ed intenso e.
Abbassò lo sguardo.
James, con uno scatto rapido, si sollevò dalla sedia, chiese scusa ai genitori e annunciò che sarebbe salito in camera a riposare. Josephine, vedendolo andar via, trasse un sospiro di sollievo. Era davvero troppo sopportare la sua presenza, dover essere sempre in allerta, riuscire a metabolizzare i suoi interventi insinuanti e scortesi, riuscire a fronteggiarlo e riuscire a guardarlo senza pensare a quella notte, a quel pianerottolo illuminato dalla luce della luna e di conseguenza ai loro sguardi incatenati in quel modo confuso e sbagliato.

 
***

Erano passate alcune ore dall’ora di pranzo. Josephine aveva appena finito il suo tè e adesso si accostava alla finestra notando come il cielo si fosse annuvolato, rendendo l’aria più fresca e malinconica.
Sentiva il bisogno di godersi quell’atmosfera in solitudine, camminando in silenzio. Ripose la tazzina vuota sul ripiano dell’isolotto in cucina e raggiunse il piano superiore per recuperare la sua borsa. Una volta abbandonata la stanza ed essersi specchiata in bagno, percorse a passi veloci il corridoio che separava le stanze da letto. Davanti ad una di esse rallentò. Era la stanza di James. A persuaderla ad indugiare lì davanti fu un impulso malsano scaturito dal vedere uno spiraglio aperto, un piccolo, minuscolo accesso alla vulnerabilità di quell’uomo impossibile. Non sapeva esattamente cosa stesse facendo, ma la brama irresponsabile di infilare la testa in quella fessura aperta sul buio era inoppugnabile. Avvicinò lentamente la mano verso la maniglia, e quando la raggiunse la strinse forte, col cuore impazzito nel petto ed una voce nella testa che le gridava di andarsene subito da lì.
Josephine non era mai stata una temeraria, né tantomeno una ribelle; eppure in quel momento era l’esatto opposto di se stessa. Era il suo stesso demone. Il bisogno mordente di vederlo dormiente e finalmente limpido e in un certo qual modo arreso era più forte di ogni ammonimento del suo corpo, più opprimente di ogni remora. Aprì piano la porta, millimetro dopo millimetro, e finalmente lo vide. Arreso, disarmato sul bianco delle lenzuola, trasandato come non lo aveva mai visto, innocente come non credeva potesse rivelarsi. Seducente, come un Dio adagiato sugli allori dell’Olimpo. Rimase a guardarlo per diversi minuti, respirando ansiosamente, trafitta dalla voglia di continuare ad osare e quella di scappare prima di essere colta in flagrante. La luce azzurrina che lo bagnava e lo rendeva quasi liquido cominciava ad ingrigirsi e qualcosa, nell’espressione di James, cambiò. Le ombre lo resero ancora una volta crudele, svilendo quell’armonia nel viso che era stata tanto preziosa da scovare. Le luci si stavano spegnendo, pensò, le stavano dicendo che lo spettacolo era finito.
Josephine, vattene.
E lei se ne andò. Si precipitò giù per le scale, informò frettolosamente Robb della sua passeggiata, e lo lasciò dietro le sue spalle, a smanettare al computer.
Camminò per molto tempo, non sapeva se fossero passati minuti o ore. Sapeva solo di doversi disintossicare dai suoi pensieri e dalle presenze nocive risiedenti in quella casa, in quella città, nella terrazza di Sierra e Roahd, in quel dannatissimo universo.
Camminava lentamente, senza una meta precisa, quando d’un tratto delle gocce cadute dal cielo la richiamarono alla realtà. Era molto lontana dal villino, e adesso avrebbe dovuto ripercorrere la strada di ritorno praticamente a passi da Hagrid. Fortunatamente non aveva fatto altro che proseguire sempre dritto, quindi non si preoccupò di non riuscire a ritrovare la strada verso casa.
La pioggia, come era prevedibile, prese a cadere giù sempre più forte, dunque non le restò altro che tentare di coprirsi il capo con la piccola borsa a tracolla che aveva con sé. Era già molto nervosa, quando un auto, all’improvviso, le tagliò la strada, impedendole di attraversare la strada da un marciapiede all’altro. Il modo brusco in cui aveva frenato proprio dinanzi a lei la allarmò, ma mai tanto potentemente come quando vide il finestrino calarsi e rivelarle il viso serio e stravolto di James.
– Sali, – le ordinò rabbiosamente.
– Neanche per idea. Come ti salta in mente di farmi prendere un colpo in questo modo?
– La smetti di fare la ragazzina? Sbrigati a salire in auto. – James sembrava incomprensibilmente arrabbiato, quando in realtà doveva – in teoria – averle appena rivolto una forma di cortesia.
– E se non volessi? – fece lei, inorgoglita e decisa.
– Jo. Dobbiamo parlare, maledizione.
Il tono un cui lo disse era del tutto nuovo, carico di un’energia inspiegabile che non gli avrebbe mai attribuito e a cui non attribuiva un valido significato. Eppure Jo si gelò, ghiacciata da una sorta di presentimento. Non voleva salire su quell’auto, adesso più di prima. E non c’entrava più niente l’orgoglio: adesso aveva paura.
Contrariamente al gelo che le aveva pietrificato la mente, si mosse come un robot e raggiunse lo sportello senza neanche rendersene conto. Un attimo dopo era in gabbia. Lui azionò il motore facendolo quasi ringhiare, ma a lei non sfuggì quel suono, secco e brutale: James aveva fatto scattare la sicura.

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Capitolo 13
*** Silenzio. ***


Capitolo 13.
 

Il temporale si scatenava furioso oltre i finestrini dell’auto. Il cielo era un velo opaco e oscuro, le case sembravano appassire, gli alberi parevano sul punto di venire risucchiati via dal vento dirompente, mentre la corsa dell’auto proseguiva come aliena, determinata e netta in mezzo a tutto quel marasma. Lo stesso marasma, specchio e gemello, di quello che torturava corpo e mente di Josephine.
Da quando aveva accettato il passaggio di James, pochi minuti prima, non aveva proferito parola, e non perché non avesse nulla da dire, bensì perché era così stracolma di parole, paure, accuse, insulti, domande, strepitii, da non riuscire a modulare neppure un lamento. Non riusciva nemmeno a guardarlo, James; solo di tanto in tanto si permetteva di rivolgergli un’occhiata fugace, sperando di rintracciare nel suo volto anche una sola traccia dei suoi pensieri, ma il risultato era ogni volta lo stesso: il profilo di James era granitico, indecifrabile. I suoi tratti le apparivano più duri ed imperturbabili che mai, eppure le sue mani, il modo in cui si imprimevano sul volante, rivelavano uno spasmodico tentativo di rimaner saldo, nonostante cosa? Rabbia? Nervosismo? Tensione? Voleva forse ucciderla?
- Vuoi uccidermi? – fu la domanda più intelligente che le guizzò fuori di bocca.
Silenzio.
Josephine prese a tamburellare con le dita sulle cosce, con lo sguardo fisso sul cruscotto.
- Non voglio sembrarti sciocca, anche se forse è troppo tardi. – fece seria – ma se non vuoi uccidermi occorre che tu mi dia una smentita piuttosto rapida.
Si voltò a guardarlo istintivamente e sul viso di lui trovò la stessa espressione di poco prima.
- Possibile che tu sia così imbalsamato? Hai forse perso l’uso della parola? Non hai insulti adeguati da rivolgermi? Se continui a stare zitto rischi che io diventi una rompi palle, e se mi impegno posso farti passare davvero un brutto quarto d’ora.
Silenzio.
- James.
Silenzio.
L’auto proseguiva, forse troppo velocemente considerato il maltempo, ma James sembrava sospeso in una bolla di cristallo infrangibile.
Arresa a quella condizione assurda, puntò lo sguardo oltre il finestrino: presto sarebbero arrivati a casa e quella stramberia sarebbe terminata e subito dimenticata. Solo dopo qualche secondo, però, Jo si accorse che le case erano sparite dalla visuale, e che oltre i vetri sfilavano solo alberi e sentieri. Jo ebbe un singulto.
- Perché siamo qui? Dove cavolo mi stai portando?
All’ennesima muta risposta, Jo perse la pazienza e urlò il nome di lui con autorevolezza e rabbia. A quel punto, inaspettatamente, l’auto frenò bruscamente. Di fronte a loro solo sterpaglie e cespugli, poco oltre uno scorcio di lago. In quel frattempo aveva smesso di piovere, sebbene il cielo sembrasse lontano dal placarsi definitivamente.
- Allora? Mi hai portato qui per uccidermi sul serio?- sbottò lei ironica e stizzosa.
- Davvero, Jo? – fece lui, sorprendendola. Il suo tono era sprezzante, anche se permeato del solito sapore sarcastico. – Davvero serve che ti spieghi perché siamo qui?
- L’unica risposta che posso darmi è che tu voglia farmi fuori. Quindi sì, serve che me lo spieghi.
Guardare James era più spossante del solito, in quel momento, i suoi occhi erano fuggevoli, ma ogni qualvolta osassero incontrare i suoi, l’intensità che vi risiedeva la lasciava col fiato mozzato. Era sfiancante averlo così vicino, così imponente, così incomprensibile, così affascinante e detestabile. Jo, ancora una volta, non poté gestire la morsa allo stomaco che le infliggeva la sua vicinanza. Dovette distogliere lo sguardo e stringere le mani sul grembo.
- Vieni. – le ordinò prima di abbandonare l’auto. Contrariamente ai mirabili propositi di non dargli tanto credito, sentì se stessa spingersi fuori dall’auto prima ancora che il suo cervello potesse inviare segnali al resto del corpo. Seguì James fino alla sponda del lago, poi piantò i piedi sul terreno fradicio e così fece lui. Entrambi non riuscivano a guardarsi, perché lui sapeva e anche lei, profondamente, sapeva. Sapevano entrambi. Ma era così difficile, così assurdo, e non poteva essere reciproco, né rilevante, figuriamoci prenderlo in considerazione o addirittura arrivare a parlarne. Finalmente, colti dalla medesima consapevolezza, si guardarono come era già accaduto una volta, quella volta sul pianerottolo di casa, con lo stesso coraggio e allo stesso tempo con lo stesso smarrimento; lui rifugiò le mani dentro le tasche dei jeans, e Jo le nascose all’interno delle maniche un po’ lunghe del cardigan beige che in quel momento s’intonava alle cromature dei suoi occhi.
- Josephine.- mormorò finalmente James, distogliendo lo sguardo da quello di lei, puntandolo chissà dove oltre il laghetto. – E’ inutile girarci intorno. Non posso essere paziente in quest’occasione.
- Di che stai parlando, James? – chiese seria, in bilico però, dentro di sé, tra la mordace curiosità e la paura.
- Ma a quanto pare a te piace girarci intorno. - fece lui brusco.
- Intorno a cosa, per la miseria? Intorno a cosa? Di cosa dovremmo parlare? Vuoi ribadirmi quanto io sia inadatta al tuo caro fratellino? Non serve. O forse vuoi rinnovarmi il tuo disprezzo gratuito?
- Fa’ la domanda giusta. – la incitò severo.
- Non so quale sia! – si mise le mani tra i capelli e prese a muoversi sul posto, irrequieta.
Lui si mosse verso di lei. – Falla! – suonò come un ordine.
Jo lo guardò arrabbiata.
- Tu mi porti qui, senza nessun motivo apparente, mi spaventi a morte, dici che dobbiamo parlare ed io dovrei sapere addirittura che domanda farti per far sì che tu dica anche solo una parola che mi aiuti a capire tutto questo? Sei davvero impossibile.
- Tu sei impossibile. – sbottò lui. – Credi che non mi sia accorto di prima?
- Prima? Prima quando?
- Prima. A casa. Quando mi hai spiato. – disse compiaciuto.
- Ma tu… Tu stavi… - Jo desiderò sprofondare in quel terriccio umido.
- No, non stavo dormendo.
- Assodato questo, cosa vuoi? Vuoi forse rimproverarmi per aver violato la tua privacy? – gli chiese a mo’ di sfida, abbozzando una sicurezza che in quel momento era lungi dall’appartenerle. Non poteva che affrontarlo di pancia, altrimenti lui sarebbe riuscito a metterla in imbarazzo fino a sovrastarla.
- Voglio che tu mi dica perché eri lì.
- Passavo.
Inconsapevolmente si avvicinarono l’uno all’altra, occhi contro occhi, respiro contro respiro.
- E passando, perché ti sei fermata ad osservarmi? – l’incalzò lui, feroce.
- Perché mi andava. – Jo voleva scappare. La rotta che aveva preso quella conversazione non le piaceva affatto. Il timore che lui potesse essersi accorto che in qualche modo lei fosse attratta da lui rischiava di farle perdere persino la facoltà di respirare.
- Ti andava di guardarmi? E perché?
Per Jo ogni domanda era una goccia che cadeva al centro della sua fronte, mentre le sue mani erano legate da corde tanto spesse e resistente da marchiarle i polsi.
- Queste domande non hanno senso!
- Rispondi, Josephine. – James non demordeva, nei suoi occhi si accese una piccola luce di tenera speranza, pronta a spegnersi, offerta alla disillusione repentina. Una luce così fanciullesca, dispersa ma non celata dall’incorruttibilità del suo sguardo severo. Jo scorse quella luce, tanto da rimanerne abbagliata, e abbastanza da incattivirsi, prima che quella potesse sopraffarla.
- James, ti ho solo guardato. – Ancora Jo -  Per il puro piacere di osservare qualcuno fare qualcosa. – Continua – Sciocca, stupida curiosità. – Osa. – Non potevo privarmi del gusto di vederti inerme come un bambino, sperando che tu russassi o facessi qualcosa che non si addica a quel tuo portamento da baronetto presuntuoso e borioso. – Di più – Sfortunatamente sei noioso in ogni contesto. Ma almeno mentre dormi non sei fast…
-Capisco. - fece lui, all’improvviso, lo sguardo spento, adesso, spaventosamente lontano, adulto e avvizzito. Jo ne fu annientata, avrebbe voluto poter tornare indietro e dire qualcos’altro, forse la verità, forse niente. Tutto pur di recuperare quella luce, tutto pur di annientarsi in lui e non da sola, non con quel dolore al fianco che aveva ripreso a pulsare, non con quel gelo nel petto. Tuttavia, non avrebbe potuto permetterselo comunque, anche tornando indietro. Dire altro avrebbe significato inciampare; la possibilità che i loro pensieri potessero coincidere era peggiore di qualsiasi cosa stesse provando in quell’istante: avrebbe significato inciampare e cadere, rotolarsi sulle rocce, massacrarsi sulle pareti di un dirupo troppo oscuro ed insidioso.
Ad ogni modo, dopo averla ammutolita, James le voltò le spalle come se lei fosse trasparente, e s’incamminò verso l’auto. Jo rimase immobile, fissandogli l’ampia schiena come pietrificata, senza un solo pensiero definito a darle man forte. Una folata di vento le pizzicò il viso, la stessa folata di vento che portò via James.
“Capisco?” le sue sinapsi avevano stazionato lì.
“Capisco”.  Cosa aveva capito? Aveva capito davvero? E poi cosa, ciò che lei aveva detto o ciò che le aveva letto negli occhi, nella voce? Aveva capito come aveva capito su quel pianerottolo? E lei lo aveva mai davvero capito? Cosa aveva capito, lei?
Chi era James Draper e cosa voleva da lei?
Adesso, probabilmente, non lo avrebbe saputo mai più. Lo aveva insultato, si era accanita come una fiera su di lei, per non inciampare, come se poi fosse scontato che sarebbe successo davvero. Aveva dato per scontato che lui volesse conoscere la verità che lei conosceva, ma se si fosse trattato di un’altra verità, era certa che da quel momento, non le era più concesso saperlo.
Cosa fosse successo quel pomeriggio, lei non sapeva ancora spiegarselo. Comprese solo dopo molto pensare di essere rimasta sola nel crepuscolo, in riva al lago, con le scarpe sporche di terriccio. In quell’esatto frangente vide l’auto di James tornare indietro e fermarsi di fronte a lei col motore ancora roboante. Dall’abitacolo una voce  fredda ed incolore, “ Ti accompagno”.
Jo
non se lo fece ripetere una seconda volta, prese posto sul sedile anteriore, allacciò la cintura e attese lo scossone dell’auto che ripartiva.
L’abitacolo era ovattato dei loro odori e per entrambi, in modi diversi, fu incomprensibilmente doloroso non poter osare sfiorarsi.
Quando furono dinanzi il cancelletto del villino, Jo, ad occhi bassi e con un accenno d’emicrania che non prometteva ore piacevoli, si accinse ad uscire dall’auto. Non appena i suoi piedi toccarono terra, la voce di James risuonò come un’eco gelida per tutto l’abitacolo.
- Non farti vedere mai più, se puoi.
Jo chiuse con veemenza la portiera e lo lasciò andare via. Era ancora troppo colma del suo odore per ricominciare ad odiarlo, ma aveva in mente di tornare a farlo presto e di non smettere finché avesse avuto respiro.

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Capitolo 14
*** ... o un vizio assurdo. ***


Capitolo 14.


Alla sera,  Josephine, dopo essersi concessa una doccia calda e una tisana allo zenzero, si stese di fianco a Robb. Entrambi fissavano il solitario bagaglio semi aperto, attraverso la luce fievole della camera.
- Vuoi che spenga la luce?
- Sì, per favore. – rispose Jo, con gli occhi lucidi. L’emicrania s’era alleviata, ma quella smania bollente no.  Tutti i pensieri si accavallavano. Il gelo del petto, il pulsare del fianco, il fuoco della rabbia, la speranza crescente, eppure la rassegnazione, e il lago, i suoi occhi, la pioggia, e poi le sue mani sul volante, quella luce negli occhi così calda, brillante, poi appassita, tutto spento, il gelo del nord e Robb al suo fianco.
L’amore così vicino che sbiadiva, mortificato, dietro tutto questo, che era difatti niente. Col giorno sarebbero tornati a casa e tutto avrebbe ripreso a scorrere lungo il proprio torrente, coi tempi di nuovo veloci, le tenebre del passato, il futuro incombente e il verbo costruire imperante, per lei e per loro: Jo e Robb. Senza nessuno intorno, senza interruzioni, né distrazioni, solo una tiepida, comoda, vita da vivere.
- Vuoi che ti abbracci? – le chiese timidamente Robb, nel buio.
- Sì.- sussurrò lei, con voce di bimba.
Robb se la strinse contro il petto, le posò un bacio sulla nuca e la coprì meglio col leggero lenzuolo stropicciato. Jo si sentì protetta, ma lontana. Non poteva ignorare i suoi pensieri, tantomeno le sensazione contrastanti che si fronteggiavano dentro la sua testa, percorrendole il corpo intero e devastandole lo stomaco. Non poteva sapere a cosa stesse pensando James in quel momento, ma si vergognò nel desiderare che lui pensasse a lei. Era sciocco e scorretto. Sciocco per troppi motivi, scorretto nei confronti di Robb. Non solo scorretto, ma anche crudele, egoista, aberrante e osceno. Se Robb avesse assistito a quella scena al lago, che idea si sarebbe fatto? Avrebbe visto forse più lontano di loro due, che tanto si erano osservati senza arrivare a capo di nulla? Troppa confusione per una mente sola.
Robb avrebbe voluto penetrarle i pensieri, sapere in quali e foschi anfratti della mente si fosse nascosta Josephine. Da quando era tornata dalla sua passeggiata pomeridiana, gli era parsa completamente assente. A tavola non aveva proferito parola e si era diretta al piano superiore senza dare la buonanotte ai suoi genitori. Per quanto sapesse quanto Jo potesse essere, a volte, scostante e aliena, quella sera le aveva letto in volto uno smarrimento profondo, insidiato soprattutto nel lago nerissimo del suo sguardo. L’aveva trovata pallida, più di sempre, e delle volte, in certi fugaci momenti, gli era sembrato che fosse sul punto di piangere. Adesso lei era tra le sue braccia, ma sapeva di stringere nient’altro che il suo involucro.
Sperò che quella notte passasse in fretta e che una volta tornati a Londra, avrebbe recuperato il suo sguardo e quindi tutta lei, per intero.


***
 
Il viaggio era stato più breve del solito e molto sereno, entrambi si erano dimostrati più ben disposti di quanto non fossero la sera prima. Robb, in special modo, si ritrovò con un gran sollievo nel cuore, vedendola sorridere lievemente contro i raggi del sole che le accarezzavano il viso, mentre con lo sguardo si affacciava al paesaggio oltre il finestrino. Quando l’ebbe accompagnata al suo appartamento, l’aiutò a disfare le sue cose sul lettino dalle lenzuola di fiori, e la lasciò dopo una buona mezz’ora. Sentendo i passi di Robb per le scale, Jo sospirò rumorosamente e si riversò a braccia aperte sul letto. Decise di rimanere a fissare il soffitto di legno e godersi quel tanto di solitudine che le rimaneva prima che la sua coinquilina, Polly, tornasse. Avrebbe poi dovuto almeno prendere un tè con lei e raccontarle un po’ di quei giorni dai “suoceri”. La convivenza era una convenienza amara, non perché Polly fosse invadente o inaffidabile, anzi, era una ragazza molto a modo, non straparlava e tante volte le si era dimostrata profondamente amica. Era per questo feeling di tranquilla empatia che entrambe, da sconosciute al primo anno di università, si erano ritrovate a condividere quell’appartamento poco comodo per ben tre anni e mezzo, rinnovandosi ad ogni contratto un consenso e un affetto reciproci.
Per quanto Polly fosse dunque la coinquilina più adatta al suo stile di vita, Josephine avrebbe tanto voluto non rivederla per settimane, quelle necessarie a metabolizzare quanto successo con James, rimettere insieme la sua testa mal ridotta e così proseguire nella routine pulita e pacata di sempre. Doveva lasciar andare via quelle sensazioni straripanti, quel tumulto e quel piccolo dolore ancora non identificato. Da quando aveva deciso di lasciarsi il travagliato passato familiare alle spalle, aveva preteso da se stessa calma placida; né gioie esuberanti, né dolori sfibranti, solo calma. Questo, ovviamente, combaciava ben poco con ciò che aveva sentito in quelle ultime settimane, a partire da quella connessione anomala con quel libro di poesie di Neruda, che le era parso da subito diverso dal suo e in realtà diverso da qualsiasi altro. Nessuna sottolineatura l’aveva mai scarmigliata tanto, mai nessun verso, nemmeno quei versi stessi, l’avevano mai resa tanto affamata. Ed infine, mai nessun uomo, l’aveva smarrita tanto e in così tanti modi confusi e mal assortiti.
Si morse le labbra, come per punirsi di quel piccolo pensiero fastidioso, e si arrese ai suoi doveri. Non poteva rimanere a letto per tutto il giorno, così si fece spazio sulla scrivania e si mise a rileggere gli ultimi articoli che aveva salvato al pc ai fini della sua ricerca sulle sorelle Bronte. Era ad Haworth da un paio d’ore, quando sentì la porta di casa aprirsi. Si sollevò dalla sedia e raggiunse in pochi passi l’ingresso.
- Jo cara!- esclamò sinceramente contenta Polly, quando la vide sbucare dalla camera.
Jo l’abbracciò velocemente e le tolse di mano uno dei tra sacchi della spesa che l’altra ragazza reggeva.
- Com’è andata? Problemi con quelli del piano di sopra? – fece Jo aiutandola a sistemare le provviste.
- Niente che non succeda di norma. – sospirò facendo spallucce. – Com’è andata a Nottingham?
-Il compleanno è stato piuttosto piacevole, il resto del tempo l’ho passato in totale relax. Quella casa è un’oasi silenziosa. – le rivolse un sorriso – Preparo un tè? Per me sarebbe già il terzo, ma ne bevo volentieri un’altra tazza.
- Se vuoi faccio io. – dichiarò l’altra richiudendo il cassetto delle leccornie.
- Siediti. Tu la spesa ed io tè. – sentenziò Josephine, cominciando ad armeggiare con il bollitore.
- E dimmi, alla fine cos’è successo tra quella ragazza e James? – domandò curiosa Polly, sporgendosi a prendere un biscotto. Jo ebbe un sussulto: sentir pronunciare quel nome la scuoteva più di quanto avesse mai sospettato. Si sentì improvvisamente rigida, come se in qualche modo assurdo, Polly, fosse a conoscenza di tutta quella confusa faccenda.
- Niente di rilevante. – si sforzò di dire – Lei mi è sembrata molto presa, ma lui, come ti ho detto, sembra non avere interesse nient’altro che per se stesso.
- Si è comportato male un’altra volta?
- Che vuoi dire? – La tazza che Jo teneva fra le mani tremò bruscamente.
Polly si strinse nelle spalle un po’ incerta. – Volevo solo sapere se avete avuto altri battibecchi.
 Jo riprese controllo di se stessa e si rimproverò mentalmente per quella reazione idiota.
- Oh! Certamente, certamente. – disse confusa ma secca. Polly si appropriò del suo tè, le parlò di alcune controversie avute con una delle sue colleghe e poi si congedò nella sua stanza.
- Ah! Quando vuoi possiamo andare in biblioteca: la nostra ala preferita è di nuovo agibile, quindi basta che tu me lo dica. Questa settimana ho zero impegni sociali.
Jo, già sulla soglia della sua stanza, annuì.
- Mi pare perfetto. Anch’io zero impegni sociali.
- Oh, be’, tu hai Robb, non dimenticarlo! – scherzò Polly.
– A parte Robb, s’intende. – mostrò un sorriso forzato.
Le due ragazze si sorrisero e si chiusero le porte alle spalle, entrambe coi loro pensieri, ma solo una con la coscienza a posto.

Erano ormai ore che rileggeva e rivedeva gli ultimi paragrafi della sua relazione sulle Bronte, e Jo si sentiva spossata, ma inesauribile. Ritornare a Londra e riprendere in mano i suoi impegni, anche se solo da poche ore, le aveva tolto di dosso un po’ di tutto quel peso ingombrante di cui James l’aveva caricata. Sentiva che nel giro di qualche giorno avrebbe dimenticato del tutto quegli avvenimenti che tanto l’avevano impensierita e che adesso le parevano privi di qualsiasi rilevanza.
Il cielo, aldilà dei vetri era limpido, e ciò la convinse ad abbandonare il laptop.
Prese la borsa, ancora intatta dal viaggio in auto, e ne rimescolò il contenuto alla ricerca del cellulare. Lo trovò subito e compose il numero di Robb. Con una mano ancora nella borsa, però, tastò qualcosa di più consistente del taccuino che le sembrava di aver scorto prima.
- Tesoro! – la voce di Robb esplose fuori dall’aggeggio, mentre Jo estraeva dall’ampia borsa quello che non era un taccuino, né niente di similmente innocuo.
- Hey…- mormorò lei ormai quasi dimentica di ciò che doveva dirgli.
Ti serve qualcosa?
Jo, tutto bene? Mi senti?

- Io… sì. Ecco, vedi…- la voce di Robb era ormai un suono ovattato adesso che tra le mani stringeva, inspiegabilmente, la copia delle poesie di Neruda di casa Draper.
La perplessità durò qualche istante, quel libro le scottava ancora le dita, ma riprese il controllo di sé.
- Stasera pensavo di rimanere a casa. Ho tanto da fare arretrato. – riprese Jo – però domattina andrò a studiare in biblioteca. Mi ha detto Polly che l’ala ovest è stata riaperta, quindi probabilmente andrò con lei. – continuava a fissare il libro come se fosse ipnotizzata – Se tu sei libero per pranzo, possiamo incontrarci al solito incrocio e andare a mangiare qualcosa insieme.
Robb rise. – Sei proprio buffa, a volte.
- Perché? Che ho fatto?
- Mi stai chiedendo alle cinque del pomeriggio di pranzare insieme domani. Serve tanto preavviso?- disse lui divertito.
Jo pensò che aveva ragione. Il motivo principale di quella chiamata era avvertirlo che non si sarebbero visti quella sera, e solo mentre parlava si era accorta di doverlo, per qualche ragione ignota, rassicurare che comunque avrebbe desiderato vederlo il giorno dopo.
- Hai ragione, scusa.- mormorò – Volevo solo assicurarmi che tu non prendessi impegni per pranzo. – le parve un’ottima escamotage per essere un’improvvisata.
- E purtroppo li ho. – disse lui – ma se per te non ci sono problemi faccio un salto in biblioteca intorno alle undici.
- Lascia stare, allora. Vorrà dire che ci vedremo appena finisci a lavoro.
- E invece no. Passo a darti un bacio e scappo via. – fece con tono malizioso. – Posso?
- Puoi, sciocco. Certo che puoi.
- Allora ci sentiamo dopo? Scrivimi quando vuoi.
- Anche tu.
- Un bacio, piccola.
- Un bacio.
Riattaccò, fece un gran respiro, e strinse convulsamente il libro tra le mani. Com’era finito nella sua borsa? Era certa di non avercelo messo, non avrebbe mai osato.
Lo sfogliò e si accertò che ci fossero le sottolineature e la pagine macchiate d’inchiostro e caffè. Trovò tutto quello che cercava. Si fece irrequieta e gettò il libro sul primo mobile che le capitò a tiro.
Quella era una vera e propria persecuzione.
***

Passarono i giorni e la routine di sempre riprese piede molto in fretta. Le giornate di Jo oscillavano tra l’appartamento e la sua adorata ala ovest della biblioteca. Andava spesso da sola e qualche volta con Polly. Faceva lì praticamente ogni cosa, dallo studiare all’ascoltare musica con gli auricolari. Si era sempre sentita protetta da quel posto fin dal primo anno di college e non era certa che avrebbe saputo rinunciarci.
Era un mercoledì piovoso di settembre e Jo stava percorrendo l’echeggiante ed infinito corridoio della biblioteca, quando all’improvviso sentì l’impulso di sollevare lo sguardo verso l’antica scalinata di marmo che portava al piano superiore. Lì, appoggiato alla balaustra, stretto in un completo blu scuro, stava appoggiato James. Si stava toccando il polso e la stava fissando oltre i limiti della buona educazione, e mentre lei sentì il respiro rimanerle incastrato in gola, lui sembrava tutt’altro che sorpreso. D’istinto, Jo, strinse tra le mani la stoffa della sua gonna e virò lentamente verso il corridoio a destra, per sfuggirgli. Aveva tanti pensieri per la testa, tanta nebbia e fumo e fuoco, ma una cosa le parve cristallina: lui sapeva dove trovarla. Il che presupponeva che lui, con una buona percentuale di probabilità, l’aveva cercata.

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Capitolo 15
*** Wise men say only fool rush in... ***


 
Capitolo 15.



Si perse tra gli scaffali, senza guardarsi indietro, con addosso la sensazione assurda che lui la stesse seguendo e che le fosse ad un passo di distanza. Si voltò di scatto, ma ovviamente lui non c'era. Cosa ci faceva lui lì? E non lì in una biblioteca di Londra, ma proprio lì in quella biblioteca, placido come se fosse certo di trovarla lì o come se la sua presenza non fosse rilevante. Delle due l'una.
Tuttavia, considerato il loro ultimo incontro e le parole serafiche e taglienti che le aveva rivolto in auto, era molto più logico che si trovasse lì per caso e che non avesse nessuna intenzione di trovarsela tra i piedi. Doveva per forza trattarsi di una casualità, una spiacevole, sfortunata casualità. Per entrambi.
Rimase ancora qualche minuto nascosta tra gli scaffali, poi si fece coraggio e si diresse verso il suo consueto tavolo di studio, su cui erano già chinati altri due ragazzi. Fece un sospiro di sollievo, quasi si aspettasse di trovarselo di fronte e iniziò a disporre i libri sul tavolo.

Ci aveva provato, chiunque lì dentro avrebbe potuto testimoniarlo, ma dopo quasi un'ora sulla stessa pagina capì che quella mattina non avrebbe portato a termine nemmeno  la metà dei compiti che si era prefissata; probabilmente non avrebbe nemmeno mai visto il retro di quella prima, unica pagina. Si era sforzata di non dare peso a quella circostanza, ma il pensiero che James fosse lì chissà dove, a pochi metri da lei, la rendeva irrequieta. Erano passate settimane da que ll'inquietante scena vicino al lago, dalla scoperta del libro di poesie nella borsa, dai deplorevoli pensieri che gli aveva rivolto, e per fortuna riprendere la routine londinese aveva depositato un velo spessissimo su quegli avvenimenti, rendendoli un sogno lontano o il ricordo di qualcun altro; trovarselo improvvisamente di fronte, però, aveva repentinamente sollevato il velo, ribaltando ancora una volta l'ordine dei suoi pensieri. Insomma, aveva ormai smesso da tempo di arrovellarsi con assillo sul come e sul perché quel libro fosse finito nella sua borsa, smettendo quindi anche di domandarsi se non fosse stato lui a infilarcelo. Come aveva potuto pensarlo, poi? Quell'uomo le avrebbe staccato un braccio, piuttosto che lasciare che lei avesse uno dei suoi libri. Ma quegli interrogativi, che credeva ormai sfumati, tornarono a tormentarla, insieme a quelli che si era posta per giorni e giorni riguardo quell'episodio al lago. Perché l'aveva portata lì? E perché diavolo era stata così orgogliosa e avventata da non lasciare che lui spiegasse il suo comportamento? L'avrebbe mai scoperto? E perché ad un certo punto le aveva espresso il desiderio di non rivederla mai più?
Chiuse il libro con un tonfo secco.
Decise di alzarsi per scaricare un po' di tensione passeggiando tra i corridoi, sperando di trovare un libro di narrativa o poesia che le regalasse qualche minuto di pace. Forse, poi, avrebbe ripreso a studiare con più facilità. Lasciò che le dita scorressero sui dorsi polverosi dei libri e sognò di perdersi in quell'immensa, labirintica, meravigliosa fila di scaffali. Un momento tanto leggero, spezzato, scaraventato fuori dalla finestra dalla vista di lui, lì, proprio di fronte a lei, come uno spettro materializzatosi dalla polvere. Rimase di sasso, lo fissò sforzandosi di appararire rilassata e gli andò incontro e anche lui si mosse verso di lei.

- James? - domandò con finta sorpresa.
- Josephine. - pronunciò con la sua solita faccia da schiaffi.
- Come mai da queste parti?
Cioè qui, proprio qui davanti a me?
Lui fece un'espressione scocciata, come se gli fosse stata rivolta la domanda più inconcludente di sempre.
- Affari, ovviamente. Ricordi la mia azienda, quella in cui si trattano fogli di carta stampata rilegati insieme, comunemente chiamati libri?
- Fa' come se non te l'avessi chiesto. - replicò indispettita. Era peggio di come lo ricordasse.
- Non ti offendere, su. - fece con un tono fastidiosamente accondiscendente - Perché non mi dici cosa ci fai tu, qui? Giocavi a nascondino con i tuoi amici immaginari? Spero di non aver interrotto nulla. - disse fingendo un'espressione di profondo rammarico.

Lei lo scrutò, inorgoglita e dimentica di essersi raccomandata di trattarlo con superiore distacco. Ma davvero, come aveva potuto pensare anche solo per un secondo di essere attratta da un uomo la cui idea di gentilezza era probabilmente concedere a se stesso di guardarsi allo specchio?

- Tranquillo, se n'erano già andati via. Nemmeno loro desideravano incontrarti. - fece lei laconica.
- Che gentaglia.- commentò incredibilmente serio, mentre si infilava le mani in tasca e si avvicinava a lei.
- E per la cronaca io qui ci studio. Sai quella cosa che si fa su quei fogli di carta stampata rilegati insieme, che i più chiamano libri?
Il tono sarcastico di Josephine si smorzò sul finale, quando all'improvviso venne colpita in pieno viso dal profumo destabilizzante di James. Per tutta risposta lui si limitò a schioccare la lingua e a guardare l'orologio.
- Meglio che vada. Non sia mai che io ponga impedimenti tra te e la tua istruzione.
Aveva davvero  citato Shakespeare o se lo era immaginato?
In ogni caso, si era già voltato, offrendole la visione esteticamente perfetta della luce del sole sui  capelli e le spalle di lui, lui così vicino agli sbuffi di polvere sospesi fra loro e gli scaffali.
Sembrava quasi un angelo.
Lucifero, ovviamente.


 
***

Entrambi, seppur in momenti differenti, si allontanarono dalla biblioteca riuscendo a pensare unicamente a quell'incontro. Josephine varcò l'uscita incomprensibilmente nervosa e contrariata. Non sapeva e si sforzava di non domandarsi apertamente se a darle più fastidio fosse stato il suo solito atteggiamento o il suo solito atteggiamento a dispetto di quello che era successo o che non era successo durante il loro ultimo incontro. Insomma, aveva creduto che rivedersi sarebbe stato diverso, non in meglio, certo, ma diverso, non quello scanzonato battibecco tra vicini di casa che si malsopportano. Era una sensazione inspiegabile e insensata, da cestinare completamente, ma non riusciva a non pensare a quanto avrebbe tanto voluto risentire l'intensità del suo disprezzo, piuttosto che quel blando olezzo di antipatia. Percorse il tragitto verso casa cercando di liberarsi di un pensiero tanto malato e contorto, sperando che con una tazza di tè quella mattinata da incubo potesse considerarsi archiviata.
Dal canto suo, James, seduto sul sedile della sua auto ancora ferma, compose il numero di Robb senza nemmeno capire il perché. Non era venuto lì per lui, non era venuto lì per trattenersi, né per niente che non si potesse risolvere dal telefono del suo ufficio. Era lì per se stesso, per quella parte di lui per cui aveva perso ormai ogni rispetto.


 
***

Era stesa sul letto con accanto una tazza ormai vuota, quando Robb le telefonò per dirle che quella sera avrebbero bevuto qualcosa insieme nel solito locale.
- A cosa devo questo slancio di giovinezza nel bel mezzo della settimana?
Non si concedevano mai serate di quel tipo se non nel fine settimana: un'iniziativa del genere di martedì sera non potè far altro che sorprenderla.
- Non possiamo certo rimanercene  a casa a guardare un film, mangiando pop corn...
- Ma è quello che facciamo sempr-
- ... con James seduto in mezzo a noi in camicia di Prada.
Josephine si bloccò.
- J-james? Che stai dicendo?
- Sì, Jamie è a Londra. E' arrivato stamattina per un incontro d'affari che si è prolungato troppo. Lo sai com'è, preferisce non stancarsi troppo e ripartire domattina.
- Sul serio? - Jo rivolse questa domanda più a James che a Robb.
- Già. - ridacchiò - Che damerino.
- Già. - rispose lei sovrappensiero.
- Ho pensato che potresti chiedere a Polly di unirsi a noi. Sai, per rendere il clima un po' più disteso...
Come se bastasse Polly.
- Certo. - fece Jo cercando di risultare completamente a proprio agio con quella situazione. - Le farà sicuramente piacere.
- Allora, siamo d'accordo. Passiamo a prendervi alle 9, va bene? - chiese spropositatamente allegro.
- Perfetto. A dopo. - fece sbrigativa.
- Fatti bella per me.
- Scemo.
Per chi altro sennò?

Jo si precipitò in camera di Polly per proporle - anche se avrebbe voluto supplicarla - il programma della serata. Fortunatamente, la ragazza accettò di buon grado, dicendosi curiosa di incontrare l'uomo più antipatico del regno.
- Sei pronta? - erano  le nove e sei minuti e Josephine era ancora chiusa in camera sua.
- Sì, questo maleditti-ssi-mo...
- Vuoi che ti aiuti con la lampo? - domandò Polly indovinando esattamente quale fosse il problema.
- Ti prego.- fece  Jo esasperata dopo aver improvvisamente spalancato la porta. - Robb ha iniziato a chiamarmi dieci minuti fa!
- Da quando è così fiscale? - chiese Polly sistemando la zip del vestito di Jo.
- Sono abbastanza sicura che ad esserlo sia suo fratello. - si posizionò di fronte allo specchio per colorarsi la labbra di rosso. - Ora che ci penso, potrei dedicarmi molto più scrupolosamente all'applicazione di questo rossetto... - mormorò sadicamente divertita.
A conti fatti, Jo non impiegò più tempo del solito e una volta pronte, le due ragazze si lasciarono il minuscolo appartamento alle spalle. Nei pochi minuti in ascensore, Jo sentì lo stomaco attorcigliarsi al punto da mozzarle il respiro. Provava un'agitazione incontrollabile all'idea di trascorrere quelle ore con lui e non riusciva a capacitarsene, soprattutto perché lo svolgimento della serata era già perfettamente prevedibile: avrebbe avuto un piacevole scambio di battute con Robb e Polly, ignorando James o interagendo con lui giusto il tempo di un paio di insulti.
Nel frattempo, in auto, James e Robb ascoltavano in silenzio una canzone alla radio. Robb, con gli occhi chiusi e la testa abbandonata sul poggia-testa si godeva il primo attimo di riposo dopo una giornata di lavoro, mentre James picchiettava le dita sul volante, spazientito.
Una volta fuori dalla porta dell'edificio, Jo e Polly trovarono ad aspettarle, lucida ed impeccabile, la mercedes scura di James.
Avrebbe dovuto aspettarsi anche questo.

- Scusateci! - fece Polly trafelata.
- Tranquilla. - la rassicurò Robb. - Lui è mio fratello James.
James si voltò per quanto possibile e le allungò una mano, accennandole un sorriso estramamente cordiale, tanto che Jo credette di esserselo immaginato. Polly e James scambiarono qualche convenevole e nemmeno per un secondo lui rivolse a Josephine l'ombra di uno sguardo.
- Scusaci, ancora. Avrai pensato malissimo di me ancor prima di conoscermi! - scherzò Polly, mentre James metteva in moto.
- Ma figurati. Sapevo perfettamente di chi pensar male. -  fece lui sardonico, fissando la luce rossa del semaforo.
Istintivamente, Jo fece guizzare lo sguardo dalle proprie mani allo specchietto retrovisore e, come asseccondando un richiamo,  gli occhi scuri di James fecero lo stesso, mentre dalla radio, nello stesso istante,  iniziò a propagarsi la voce sontuosa di Elvis.

Wise men say only fools rush in
But I can't help falling in love with you
Shall I stay?
Would it be a sin
If I can't help falling in love with you?


Quel momento, quell'incastro riflesso, l'abitacolo d'improvviso deserto pieno solo dei lori odori - così distinti e nitidi ai loro sensi - la morsa allo stomaco e quel calore violento alla gola e agli occhi, quello no, non lo avevano previsto. Fu imprevedibile, come ogni volta, come quella notte alla luce della luna, come quella volta alla festa di Sierra. Era davvero la malia della luna ad allacciare così i loro istinti o stavolta era solo colpa di Elvis?
Semaforo verde.
Maledizione, pensarono all'unisono.

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Capitolo 16
*** I could lie ***


Da leggere ascoltando When the party's over di Billie Eilish!



Di fronte a me le loro schiene, quelle di Robb e James, entrambe larghe ma profondamene diverse: rassicuranti le prime, avvolte da un cardigan blu dai contorni sfilacciati di proposito; spaventose le seconde, sotto l'imperiosa giacca borgogna intenso. Impossibile sostenerle insieme con un solo sguardo.
Ci sediamo tutti e quattro intorno ad un tavolino, io e Polly sul lato dei divanetti, gli altri due di fronte a noi, su delle sedie. James si guarda intorno picchiettando le dita sul tavolino probabilmente a tempo di musica, perfettamente rilassato, le gambe accavallate, la camicia scura appena sbottonata che gli lascia il collo così dolorosamente curvo e teso lateralmente, completamente esposto. I capelli sono leggermente più scarmigliati rispetto a questa mattina, ma non minano in nessun modo l'immagine impeccabile che emana, anzi. E' di un'eleganza talmente naturale da risultare paradossalmente innaturale, impossibile da sopportare, al punto che ho bisogno di distogliere lo sguardo.

- Ordiniamo? - Robb si rivolge a me e Polly porgendoci delle piccole brochures recuperate dal tavolo accanto.
- Io so già cosa prendere, grazie. - gli rispondo sorridendogli, allungando una mano sul tavolino affinché lui la raggiunga.
- Ovviamente. - risponde lui, roteando gli occhi mentre mi sfiora le dita.
Non guardo James, ma voglio farlo.
- Ti piace questo posto?- gli chiede Robb, giocando con le mie dita.
- Carino. - risponde l'altro, degnandoci della sua preziosa attenzione. Mi concedo di osservarlo per un attimo e vedo i suoi occhi scoccare un'occhiata fugace sulle nostre dita, per poi tornare  - non posso crederci - a sorridere ad un ragazza che lo osserva da un tavolo poco distante dal nostro. Il sorriso che lui le rivolge è diverso da qualsiasi altro sorriso gli abbia mai visto rivolgermi.
Ecco. E' questo, allora. E' questo che fa.
E' così che ci riesce, è così che appare al resto del mondo: seducente, irraggiungibile, irresistib-
- Scusa?
Una cameriera mi sfila accanto ed io la blocco, istintivamente.
La ragazza si ferma e tira fuori il taccuino.
- Ci siamo tutti? - chiedo, schiarendomi la voce.
- Sì, credo di sì. - fa Polly, un po' confusa, rimanendo ancora attaccata al suo menu come se aspettasse di ricevere un'illuminazione improvvisa.
- Credo che opterò per la solita birra. - dice buffando.
- Ti ho messo fretta? - le chiedo un po' a disagio.
- Ma che, non avrei saputo scegliere nemmeno se avessi studiato il menu tutta la notte. E' una cosa che non riesco proprio a fare.
Mi scappa un sorriso: che buffa.
- Tranquilla. - fa Robb liberandosi del menu come se scottasse. - Ti capisco, fosse per me prenderei tutto.
- Alcolizzato. - irrompe la voce di James. - Un bourbon, grazie. - dice rivolgendosi alla ragazza.
- Noioso. - ribatte Robb scuotendo la testa divertito. - Una rossa, per me, grazie.
Robb ci guarda come invitandoci ad ordinare.
- Un martini ed una guinness, per favore. - ordino anche per Polly, mettendo fine alla sua agonia.
- Torno subito! - esclama la ragazza col taccuino, per poi allontanarsi immediatamente.

- Qui per affari, dunque? - escordisce Polly rivolgendosi a James, sorprendendomi.
Robb nel frattempo torna a giocare con le mie dita o forse non ha mai smesso: in questo momento non lo so. James la guarda, finalmente completamente rivolto a noi. In contrasto col borgogna della giacca, i suoi occhi scuri sembrano ancora più conturbanti. E' decisamente il suo colore. Ma non è il genere di pensiero da fare. Cerco di mettere a tacere le mie inopportune considerazioni.

- Sì, a Londra ci sono diverse biblioteche interessate ad una nostra collana di grandi classici internazionali. Veri pezzi d'artigianato, se posso dirlo senza apparire autocelebrativo. - accenna un sorriso.

Autocelebrativo è un eufemismo, se si parla di lui.

- Che bello! Io e Jo siamo delle assidue frequentatrici di biblioteche. Conosci quella del nostro quartiere? E' grandissima e antichissima!
Nel frattempo arrivano i nostri drink. Io nascondo immediatamente il viso nella coppa del mio martini. Gli altri, attenti alla conversazione, si rigirano i rispettivi bicchieri tra le dita.
- Certo. Ci sono stato oggi.
Si porta il bourbon alle labbra e mi rivolge un'occhiata impercettibile. Lo stesso faccio io, ma mi sforzo di dirottare immediatamente lo sguardo su Polly.
- Allora vi sarete incontrati. - dice Robb indicandomi. - Anche Jo era lì stamane.
Fa oscillare lo sguardo da me a James, in attesa di una risposta.
Ci osserviamo per un breve istante, entrambi sorseggiando il nostro drink.
- No. - mentiamo insieme, tornando a guardarci, serissimi.
Non so nemmeno perché l'ho fatto, ma immagino perché lo abbia fatto lui: è ovvio che non voglia avere niente a che fare con me, nemmeno nei suoi stessi ricordi.


 
***
 
No.

E' la sua voce che mente insieme alla mia, sorprendendomi. Cos'è, si vergogna persino di avermi incontrato? La solita bambinetta, Josephine.
O la solita glaciale bugiarda. Le sue labbra rosso carminio sfiorano i bordi del bicchiere, mi guarda, allunga di nuovo la mano verso quella di Robb. Si sfiorano. Bugiarda.
Il suo vestito da bambolina non mi inganna. E nemmeno i capelli così sapientemente raccolti in uno chignon basso e morbido. Non sembra semplicemente più adulta, ma anche più...
- Ho rischiato grosso, quindi.
Voglio divertirmi. Lei lo capisce immediatamente e solleva un sopracciglio. Robb scuote la testa. Polly è incantata ad osservarci.
- Anch'io. La qualità della mia giornata sarebbe rovinosamente precipitata. - commenta quasi tra sé e sé.
- Addirittura. - sogghigno e torno subito serio. - Increndibile avere una tale influenza sulla vita delle persone.
- Non la metterei proprio così. Ma del resto, ti diverti in questo modo...
Sbuffa con ovvietà, roteando persino gli occhi. Impunita.
Robb le stringe più forte la mano, lei ricambia la stretta ma poi spezza l'intreccio, nascondendo la mano sotto il tavolo.
Sta stringendo i lembi del suo vestito, lo so. Perfetto.
Accenno un sorriso derisorio che sono certo le dia fastidio, forse più delle mie provocazioni dirette.
- Proprio non ci riuscite, eh?- ci ammonisce Robb. - Scusali, Polly, sono probabilmente le persone meno affini sulla faccia della terra. - ridacchia divertito.
E' il solo a divertirsi di questa constatazione. Josephine ha l'aria scocciata ed anche io.
- Lo vedo. - risponde la ragazza con un sorrisino nervoso. - Sono sicura diventeranno grandi amici un giorno.
- Come no. - commenta Josephine e mi piace da morire come lo fa.

 Mi alzo in piedi e porgo la mano a Polly, ignorando loro e me stesso.

- Mi concede questo ballo? - le faccio l'occhiolino. - Lasciamo un po' soli questi piccioncini.
- AH! - esclama Robb. - Vedrete che storia...
- Certo, cioè... Non è che io sia proprio una ballerina, eh.

Polly è in  imbarazzo ma si alza in piedi, posando una mano sulla spalla dell'amica che non ci guarda nemmeno, impegnata com'è a fissare un punto nel vuoto. Lo fa apposta?

- Che storia... - continua a commentare divertito Robb. - James Draper è il più inaspettato, impareggiabile ballerino della fottuttissima contea!
- Inaspettato? - mi fingo indicibilmente offeso. - Tsk!
Prendo a braccetto Polly. La carinissima Polly, mi tocca ammettere. La carinissima Polly e i suoi pantaloni scuri aderenti.
La conduco leggermente più in là del nostro tavolo, dove altre persone ballano una ballata romantica. La guardo, ma non riesco a scorgere il suo viso, dato che Robb le si è seduto accanto coprendo parzialmente la visuale. Sento una stretta al petto.
Inizio a ballare con Polly, mi concentro sui suoi occhi verdi, timidi. Non sono sicuro voglia davvero ballare con me, ma è troppo educata per rifiutarsi ed io sono troppo egoista per preoccuparmene adesso, adesso che vorrei soltanto...


Guardami.

 
 ***

Non riesco a sentirlo. Non riesco a controllare i miei sensi. Sono in una bolla in cui la voce di Robb non arriva, se non a tratti. Sono costretta a fingere o a fingermi morta. Cosa dovrei dirgli? Non ti sento perché tutti i miei sensi sono succubi della sua energia? Voglio guardarlo e mi detesto per questo. Come sono arrivata a questo?
Robb, d'un tratto si lascia andare sullo schienale e i miei occhi lo trovano immediatamente. Mi si spezza il fiato. Non posso essere davvero a questo punto, al punto di desiderare di essere al posto di Polly. Non può essere che io voglia così disperatamente sentire la sua mano sul fianco, il suo sguardo nel mio, il mio respiro infrangersi sul suo petto.


Guardami.


E' un pensiero così potente che ho paura mi sia sfuggito dalle labbra, anche perché i suoi occhi mi raggiungono in quell'esatto istante.
Cerco la spalla di Robb e vi lascio ricadere il capo, stringendogli la mano, fortissimo. James continua a guardarmi, avvicina Polly al suo petto e sono sicura, irrimediabilmente sicura, di vedere la presa sul fianco di lei farsi più stretta. Spezzo il contatto visivo nello stesso momento.
Non ce la faccio.
Lui non mi vede in quel modo. Probabilmente per lui non sono nemmeno una donna degna di questo appellativo. Ai suoi occhi qualsiasi altra creatura sembra apparire nettamente più interessante di me.

Ed è così che deve essere, spregevole stupida.

Voglio andarmene da qui, più precisamente voglio andarmene da me stessa, da questa nuova me  debole e languida. Io amo Robb, forse non incondizionatamente come dovrei, ma questo non dipende da lui. Dipende da me, perché io sono rotta, spezzata in testa. Il mio cuore non funziona come dovrebbe, al punto che anche lui prima o poi se ne accorgerà e si sbarazzerà di me. James aveva ragione: non merito l'amore di quest'uomo, perché oltre ad essere una persona insignificante e gelida, sono anche spietata e crudele. Come altro potrei definirmi dopo questa sera? Come altro potrei definirmi, in generale? Come posso pensarmi giusta e degna d'amore se trascuro un uomo perfetto come Robb per rotolarmi nei miei bassi istinti nei confronti di un uomo inqualificabile come James?
Il quale, per inciso, è suo fratello.

Mi alzo di scatto.

- Vado in bagno. - annuncio sbrigativa a Robb, il quale mi rivolge una strana smorfia che non mi trattengo a decifrare.
Mi divincolo dall'incastro di sedie e mi dirigo verso il bagno, ma per farlo devo necessariamente passar loro accanto. Mi muovo con lo sguardo basso, finché Polly mi intercetta con lo sguardo e mi rivolge un sorriso, ma lui non mi guarda nemmeno, forse non ha neanche notato la mia presenza. Gli sfilo alle spalle, avvertendo il baricentro del mio corpo sospingersi naturalmente verso di lui, ma riesco ad evitare di inciampare o perdere in qualche modo l'equilibrio, come accade sempre quando sono sui tacchi e per giunta in imbarazzo.
Raggiungo velocemente il bagno e più che appoggiarmi, mi riverso completamente sul lavandino, evitando appositamente di guardarmi allo specchio. Mi disprezzo troppo, adesso.
Lascio che il getto d'acqua scorra sui miei polsi e chiudo gli occhi, abbandonando la testa all'indietro.

- Cos'è, una pratica esoterica?

Non può essere.

Apro gli occhi di scatto e li punto sullo specchio, dove trovo disegnato il suo riflesso.

- Non ti ha insegnato nessuno a bussare? - gli chiedo cercando di manternere la calma, aggrappandomi alla manopola dell'acqua senza nemmeno riuscire a chiuderla.
- E' lo spazio comune, se non te ne fossi accorta.

Si sta avvicinando e nel giro di qualche secondo percepisco il calore del suo petto rovinosamente vicino alla mia schiena. Il suo sguardo, attraverso lo specchio, però, non cambia. James sembra imperturbabile, con le mani in tasca e l'aria di chi preferirebbe essere ovunque, fuorché qui. Dalla porta chiusa, filtra diluita la musica, mentre il mio udito percepisce nitidamente ogni scricchiolìo, ogni goccia d'acqua che precipita nelle tubature.

- E' simpatica, la tua amica.
Un angolo delle sue labbra si solleva brevemente, come in uno spasmo.
- Lasciami indovinare: stai per dirti colpito da come una come lei possa essere amica di una come me. - asserisco con ironica consapevolezza.
- Che acume.- commenta piegando la testa, fingendosi scettico.
Sto per replicare, ma sorprendentemente lui prosegue.
- Pensavo ne fossi sprovvista, considerato il numero di cose che sembri non capire.
Il suo sguardo si fa terribilmente serio, impercettibilmente cattivo, prima di proseguire.
- Insomma, mi sarei aspettato che me lo facessi recapitare a casa, magari con una bambola woodoo in mezzo alla pagine.
Il respiro mi si mozza in gola. Ho paura di aver capito, ma non può essere come penso. Che senso avrebbe?
- Di che parli? - domando con lo sguardo incastonato nel suo, mentre il suo profumo si espande intorno a me, imprigionandomi.
- Poco sveglia. - risponde - O molto bugiarda. - aggiunge inaspettatamente severo.
Vedo i miei occhi sgranarsi e i suoi annientarmi. Non posso abbassare la guardia con lui, devo modularmi, rimanere granitica. Mi schiarisco la voce.
- Qual era il tuo scopo? - domando ostentando una spavalderia che non mi appartiene.
- Ecco. Bugiarda, ovviamente. - ribatte, sprezzante. Vedo le sue spalle sollevarsi, i bassorilievi delle sue nocche palesarsi attraverso le tasche dei pantaloni. Mi toglie il respiro, soprattutto nei dettagli e non lo sopporto. Ma dopotutto, il diavolo è lì, nei dettagli. Nei suoi.

Rimango in attesa di una risposta, immobile.

- Josephine. - La sua voce è un soffio e assomiglia al velluto. - Secondo me lo sai.
Cerco di trattenere il respiro perché ho paura che anche il movimento più ingenuo azzeri la distanza che ci separa.
- No... - La mia voce si modula sul tono della sua, senza che io possa controllarlo. - ...non lo so.
- Smettila con questi giochetti. - mi ammonisce.
- Smettila tu! - ribatto voltandomi istintivamente di profilo, ma me ne pento. Lo sento sussultare o forse lo sto solo immaginando. Perché dovrebbe?

Lascio che il miei occhi tornino dai suoi, attraverso lo specchio. Vedere la sua figura stagliata dietro la mia e quel borgogna intenso sullo sfondo della mia schiena, mi procura un piacere indicibile quanto nauseante. Mi appare immenso, più alto che mai. Riempie la stanza, la assorbe e non esistono più nemmeno le pareti.

- Come non detto.
E sembra davvero che se lo aspettasse. Vedo una delle sue mani sgusciare fuori dalla tasca, sento il suo respiro riempirmi le orecchie e il suo petto sfiorarmi i capelli. Il suo sguardo non abbandona il mio nemmeno per un istante, consumandolo in un'ipnosi impossibile.
- Un giorno forse crescerai e smetterai di essere tanto bugiarda, cognata.

Cognata.
Perché sembra tanto un insulto?

- Ma senti chi parla. Se io sono bugiarda, lo sei anche tu, allora. Hai mentito anche tu, lì fuori, riguardo a stamattina.
Scelgo di attaccare, perché non sono capace di difendermi, non adesso.
E voglio sapere perché, nonostante sia sicura di conoscere perfettametne la risposta.
Lo vedo bloccarsi un attimo e distendere le labbra in un sorriso diabolico, ma tremendamente...
- Non è questo il genere di bugie di cui parlo. - sentenzia. - In ogni caso, sì: ho mentito, ma anche tu. Come sempre.
Ci scrutiamo in un duello di sguardi sfibrante.
- Non asseconderò i discorsi enigmatici con cui ti diverti a tormentarmi.
- Ti tormento? - mi domanda insinuante.
Da morire.
- Non cavillare. - ribatto perentoria, soffocando i miei stessi pensieri. - Piuttosto, perché non mi dici perché avresti mentito?
- E tu perché? - m'incalza svelto, col solito sogghigno obliquo stampato sul volto.
- Perché sono bugiarda, non lo sai? - rispondo piccata. - E tu?- ribadisco, approfittando del vantaggio che sembra io mi sia guadagnata.
Nel suo solito sogghigno, adesso, scorgo una punta di divertimento.
- Forse perché io e te... - la sua voce si abbassa di un tono e il suo respiro mi sembra più pesante, il volto improvvisamente deformato in un'espressione durissima. Rimango col fiato sospeso.

- Avete finito qui?

La voce di Polly spezza l'aria ed io vorrei tanto ucciderla.

La  mano di James, nel frattempo, raggiunge la manopola dell'acqua e interrompe definitivamente ogni rumore.
Chiudo gli occhi, vinta e avvilita, smarrita completamente nella sua nube oscura, finché finalmente torno a sentire il respiro defluire dalla mia gola.
- Sì, certo. - le rispondo frettolosa, ancora stordita.
-  La  signorina prima o poi smetterà di occupare il mio spazio vitale.
- Stavate forse litigando per il lavandino?
Polly ci scruta con aria canzonatoria ma divertita.
- Già. - diciamo insieme, di nuovo, con aria scocciata, non riuscendo ad evitare di incrociare i nostri sguardi sulla soglia della porta.

Bugiardi.





 

***

Quella notte Josephine non dormì. Aveva bisogno di Robb, di guardarlo, di immaginare l'amore, i suoi baci, il suo respiro. Aveva bisogno di sentire che ne aveva bisogno, che fossero insostituibili, il centro di tutti i suoi desideri. Lo osservò dormire, sfiorando di tanto in tanto le linee insidiose delle sue costole, incastrata negli occhi di un altro, nel ricordo del suo respiro, affogata, vittima masochista del piacere che le procurava il ricordo della tensione che si librava fra i loro corpi e della complicità che aveva avvertito, mentendo insieme a lui, due volte e senza ragione.
Era impantanata nelle sue parole, finalmente consapevole del fatto che lui aveva voluto farle avere quel libro di poesie, ma confinata - di conseguenza - in un cunicolo lastricato di interrogativi ancora più grandi. Non riusciva a capirci niente, specie in considerazione del fatto che lui si aspettava che lei capisse. Ma cosa avrebbe dovuto capire?
Josephine non si sentiva una bugiarda, mentre lui credeva lo fosse con una convinzione tale da farle perdere ogni certezza. Era una situazione incomprensbile nella stessa misura in cui era impensabile avere una coversazione decente con lui. Era già la seconda volta che si ritrovavano intrappolati in una conversazione impossibile da districare, simile al canto incrociato di due ubriachi. E come se non bastasse, quella sera, era arrivata Polly a privarla dell'unica risposta che avrebbe mai ricevuto da lui.
Ad ossessionarla più di tutto, però, era la questione del libro di poesie.
E se Neruda fosse l'ennesimo mezzo per insultarla? Forse dedicandosi con attenzione ad ogni pagina avrebbe capito. In fondo, James era un uomo peculiare e contorto e probabilmente stava utilizzando un metodo altrettanto peculiare e contorto per prendersi gioco di lei.
Questo pensiero la ridusse in un prisma di emozioni, in cui la rabbia, il fastidio, l'astio, e l'impotenza precipitarono in un abisso di infinito, incommensurabile piacere.
A quell'idea strinse con vigore la maglietta di Robb rischiando di svegliarlo, mentre una lacrima solitaria solcò le sue labbra distese in un sorriso incontrollabile.

A pochi isolati da Josephine, nel suo sterile appartamento londinese, James aveva trascorso la notte appoggiato alla testiera del letto, come in apnea. Si sentitva desolato, nauseato e al tempo stesso inspiegabilmente elettrizzato. Un mix così potente ed improbabile da rendere il sonno una dimensione irraggiungibile per chiunque, figurarsi per lui, che non aveva mai conosciuto un tale disequilibrio. Ed era tutta colpa sua, dei suoi occhi neri di strega, immancabilmente ipnotici e sfibranti; era colpa della sua voce così ultraterrena e al tempo stesso inspiegabilmente sinuosa, in grado di pronunciare l'offesa più bassa procurandogli un piacere altissimo; era colpa del suo profumo così freddo e scottante, inafferabile e del piacere tutto nuovo di mentire insieme a lei.
Eppure, lei non era quello, non soltanto: era soprattutto profondamente bugiarda, impossibile, sbagliata, fredda, il fantasma di una donna sognata.
Proprio per questo, per questa avversione sincera nei suoi confronti, non c'era una spiegazione al desiderio di averla intorno o di saperla da sola nella sua stanza, affamata di poesia, dedita a saziarsi delle stesse parole che affamavano e saziavano anche lui.

Una follia indecente che lo tramortiva, intossicandolo di sensi di colpa e di insopportabile piacere.

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Capitolo 17
*** Sinners ***


Capitolo 17.


So I run to the Lord
Please hide me, Lord
Don't you see me prayin'?
Don't you see me down here prayin'?
But the Lord said
Go to the Devil, the Lord said
Go to the Devil
He said go to the Devil
All on that day.
So I ran to the Devil
He was waitin', I ran to the Devil
He was waitin', ran to the Devil
He was waitin', all on that day.







Era stata una giornata da dimenticare quella, per James. Si era svegliato di soprassalto ancora prima del suono della sveglia e il resto della giornata lo aveva trascorso per gran parte con la testa china sulle scartoffie o di fronte al laptop. Nel giro di dieci ore aveva pensato di lincenziare Carol, la segretaria, all'incirca diciassette volte, esattamente ogni volta che aveva bussato, trafelata, per chiedergli l'ennesima conferma su quello o quell'altro. Ma ovviamente si era trattenuto dal farlo, nonostante  ne fosse fortemente tentato considerato che il compito di Carol avrebbe dovuto essere quello di facilitargli la vita, non di complicargliela. In più, non riusciva a concentrarsi, ma quello - certo - non dipendeva da lei.
Alle cinque del pomeriggio non aveva ancora nemmeno pranzato, ma non ne sentiva il bisogno da giorni, in realtà: mangiava per pura abitudine. Sentiva più che altro la necessità di bere, di rifugiarsi al club tutta la notte e godere dell'effimera perdizione che gli aveva sempre regalato.
Il club Limbo gli era sempre piaciuto, dalla prima volta che vi aveva messo piede con John, il suo amico più caro, ai tempi dell'università. In un modo paradossale e tutto suo, quel posto gli dava un senso di consolazione e libertà. E gli piaceva proprio per quell'atmosfera da speakeasy in grado di trasportarlo fuori dal tempo, in una dimensione che si intonava perfettamente a quella dei suoi sogni.
Quella sera vi si recò, senza nemmeno tornare a casa a cambiarsi. La camicia bordeaux leggermente sgualcita sul colletto gli liberava ormai del tutto la gola; in tasca un pacco di sigarette e sul volto l'immancabile sorriso obliquo.
Le luci soffuse, rosse, sinuose, lo avvolsero completamente, mentre si muoveva flemmatico tra i divanetti per raggiungere il grande bancone marmoreo. Il barman, vedendolo sopraggiungere e sedersi sullo sgabello di fronte a lui , lo accolse con un sorriso.
Arrivo, mimò con le labbra, mentre riempiva di cognac i bicchieri di due uomini in camicia e cravatta. Poliziotti, pensò James segretamente divertito. Avrebbe riconosciuto ovunque quella che lui definiva "la pacchiana eleganza maldestra degli agenti di polizia nelle notti di bisboccia".

– Chi si rivede! – fece il barman, rivolgendosi a James, il quale gli rispose con un'alzata di spalle e un sorriso accennato. – Il solito?
– Ci puoi scommettere.
James ruotò sullo sgabello, poggiando i gomiti sul bancone per godersi la vista dei tavolini illuminati da candele e lampade dal gusto retrò. La musica, intorno a lui, proveniva dall'elegante pianoforte al centro della sala, imponente ed illuminato da un'occhio di bue di calda luce gialla. Le note di Save my soul dei Big bad Voodoo Daddy, una di quelle musiche da speakeasy che lo facevano impazzire, s'infrangevano sulle pareti ricoperte di immagini di Humprey Bogart, vecchie copie di poster degli anni del proibizionismo e alcuni dipinti blasfemi rappresentanti passi biblici di discutibile interpretazione. James sollevò un angolo delle labbra, appagato, socchiudendo gli occhi  e inspirando l'aria, come se in qualche modo potesse respirare quell'atmosfera tanto perfetta al punto da renderlo - come ogni volta - schiavo e febriccitante.
– A te.
Il barman, Cole, attirò la sua attenzione e gli fece scivolare fino alle mani un bicchiere di bourbon finemente invecchiato – il suo preferito. Entrambi guardarono verso il pianoforte.
James si avvicinò il bicchiere alle labbra, senza smettere di fissare lo strumento nero al centro della sala.

– Non ci delizi stasera? – domandò Cole, indicando il pianoforte con un cenno del capo.
– Sono qui proprio per questo. – Il sorriso compiaciuto di James accese lo sguardo dell'altro, come se non aspettasse altro.

James abbandonò lo sgabello, come attratto da una forza invisibile, lasciando il bicchiere di bourbon dondolarsi tra le dita. Il suo sguardo incontrò quello liquido di Madison, la musicista, la quale sorrise e gli lasciò campo libero, sfilandogli accanto.

– Cerca di non esagerare o mi rovini la piazza.

Il respiro di liquirizia della donna lo inebriò, poi spalancò le braccia come a dire "rassegnati".
Posò il bicchiere sulla superfice liscia del piano, si accomodò sullo sgabello e lasciò che le dita accarezzassero i tasti, in un ritmo che si sarebbe potuto definire fin da subito dannato.
Dalla cassa armonica del grande strumento si propagò la malia scalpitante delle note di Sinnerman.
Perché era così che si sentiva: dannato, incastrato nel peccato, in fuga verso il fiume, verso il mare, verso Dio o chi per lui. Quello che James stava facendo non era semplicemente suonare ammutolendo chiunque intorno a lui, quello che stava facendo era pregare.
Era così che faceva, era così che si rivolgeva al suo aguzzino ogni volta che le sue certezze minacciavano di crollare. James non era un uomo religioso, la misericordia anelata dal resto della gente non gli importava. James aveva bisogno di credere nel suo personale dio spietato, per riversargli addosso il biasimo e la rabbia che altrimenti, se rivolta a se stesso, avrebbe rischiato di devastarlo. Era così che si sopportava. Da sempre.  E mai prima come di quel  momento della sua esistenza aveva avvertito tanto brutalmente il bisogno di sopportarsi. Di sopportare quei  pensieri sbagliati, che lo coglievano di sorpresa nei momenti più impensati, lasciandolo completamente stordito. Era sempre stato convinto che il peccato fosse molto più nitido, chiaro da individuare, rintracciabile nelle azioni, nelle parole pronunciate. Qualcuno una volta gli aveva detto "pensare non è peccato" ed era vero, o almeno lo era prima, prima di lei.

La musica si era conclusa.

Madison lo raggiunse con la sua camminata un po' scoordinata per via dei tacchi alti.
– Beviamo qualcosa insieme? – le propose.
– Perché no? – Si aggrappò al braccio che lui le porse e si diressero verso un piccolo divano di pelle scura. James lasciò che Madison si sedesse e fece cenno a Cole di servire ad entrambi il solito. In un attimo le fu accanto, passandole un braccio intorno alle spalle.

– Non ti fai vivo da due settimane. Cos'è, hai cambiato giro? – gli domandò Madison, scrutandolo in viso coi suoi occhi scuri dal taglio orientale.
– Per chi mi hai preso? - fece lui fingendosi offeso. – Non giro per locali come un adolescente o come quei due. – Le indicò i due in cravatta. I poliziotti.
– Che hanno che non va quei due? – chiese lei divertita.
James sollevò un sopracciglio, incredulo.
– Tutto?
– Sei tremendo, – fece lei, stringendo le labbra e  alzando gli occhi al cielo.
Lui sollevò le spalle come a discolparsi e le rivolse un sorrisetto maladrino.
– A proposito dell'essere tremendo, - proseguì, – Claire?
Nello sguardo di Madison emerse una punta di rimprovero. Nel frattempo arrivarono i drink, ma James preferì lasciare il suo sul tavolino e accendersi una sigaretta.
– Vuoi? – le chiese offrendole il pacchetto.
– Non fumo più, lo sai. Non cercare di fare il finto tonto, – lo rimbrottò.
– A proposito di cosa?  
– Uomo impossibile... – fece l'altra, rassegnata. – A proposito di Claire!
– Uhm. Come sta? – le domandò con aria innocente.

Claire. Era stato così preso dal lavoro, dai ripetuti spostamenti e dal recente odio smisurato verso la propria persona e verso quella di lei, che si era letteralmente dimenticato di richiamarla. Ricordava solo adesso di averglielo promesso e sapeva di essere nel torto, ma non poteva assumersi la colpa anche di questo. Era già scandalosamente e insopportabilmente pieno di colpe.

– Sta bene, ma lo sapresti anche tu se l'avessi richiamata.
James inspirò una boccata di fumo, per poi lasciarla defluire lentamente dalle labbra.
– Ero obbligato a farlo?
– No, certo che no. Ma sarebbe stato carino. Credevo ti piacesse, insomma, vi siete visti per quanto, due mesi?
– E con questo?
James sollevò un sopracciglio.
– Niente. Dico solo che avresti potuto farti vivo.
– Se è per questo anche lei, – fece lui, asciutto.
– E' diverso, James.
Lo guardò di traverso.
– Diverso? – sbuffò derisorio. – Se voleva vedermi avrebbe potuto chiamarmi. Ma voi donne siete così: blaterate tanto sulla parità dei sessi e poi rimanete ad aspettare la chiamata del principe come delle comuni provincialotte del tardo rinascimento.
– Sul serio? – gli domandò, incredula di fronte ad una simile faccia tosta. – Lasciamo perdere. Ho capito: non mi immischio.
– Ecco, questo lo trovo sensato, – disse lui, sarcastico.

Bevvero un sorso insieme e alla fine Madison accettò una boccata di sigaretta, ma solo una.
Conversarono del più e del meno, ridendo dei tempi in cui John ci provava spudoratamente con lei, ancora ignaro di non essere esattamente il suo genere.

– E in ogni caso avrei sicuramente scelto te. – Rise. – Non ne ho dubbi.
– Nemmeno io. Non capisco sinceramente perché tu abbia sentito il bisogno di specificare una cosa tanto ovvia, – disse lui.
– Be', in effetti, perché darti un altro motivo per autocompiacerti? – Scuoté la testa divertita. – Facciamo che con la tua perfomance di stasera te lo sei guadagnato.
– Mi sono particolarmente divertito, in effetti, – disse sovrappensiero, fissando un'abat-jour in lontanza.
– Divertito non lo sembravi, però. – Madison si morse un labbro, un po' incerta. – Eri strano.
– Spiegati.
– Sicuro che vada tutto bene? – Fece una pausa, scrutandolo come se avesse paura di una sua reazione. James non era esattamente il tipo da confidenze. – Sembri... stressato. Problemi a lavoro?


Sul volto di James si dipinse un'espressione imprecisa, in bilico tra l'ironia e l'amarezza.

– No, stiamo solo cercando di allargarci e questo comporta il triplo del lavoro. Sono semplicemente stanco, – precisò.

Ed era vero. Era molto stanco, stanco di detestarsi tanto. Stanco di non dormire per paura di sognare, stanco di aspettare un cenno, senza sapere nemmeno quale. E a che scopo, poi?

– Tanto stanco che è meglio che vada a casa o tra un po' non riuscirò nemmeno a guidare.
– Prometti di non sparire più per così tanto, però. Non trattare questo posto come se fosse una provincialotta del tardo medioevo.
– Rinascimento, – la corresse lui, sogghignando con impertinenza.
– Oh, quello che è! – Avrebbe voluto strozzarlo, ma invece gli lasciò un bacio sulla guancia, prima di abbandonare il suo posto accanto a lui.
– Buonanotte, Draper.
Le sorrise, sincero, spegnendo la sigaretta all'interno di un posacenere.
– Buonanotte, Madison.

Aveva sbagliato tutto, lo sapeva. Cosa gli era saltato in mente rivelandole di averle infilato il libro in borsa? Cosa aveva sperato di ottenere? Era in auto, con gli occhi che minacciavano di chiudersi. Da quando non dormiva decentemente? Una settimana? Era inutile fingere di non saperlo, di non tenere il conto dei giorni - cinque - trascorsi da quella sera. Eppure sembrava trascorso nient'altro che un soffio e questo per colpa degli incubi che lo assillavano tutte le notti, mostrandogli come un in loop psichedelico quel bagno dalla luce mozza e il riflesso dei suoi occhi nerissimi farsi sempre più scuri fino a risucchiarlo in una bolla di fumo. Poi, si ritrovava puntualmente al buio, ansante, incapace di scorgere uno scorcio di luce, fino a che un Robb tredicenne semplicemente non apriva la porta, sorridendogli: Jamie!


 
***


 
Aveva appena consegnato la sua relazione su Anne Brontë al professore di Letteratura inglese e già pensava a come passare il tempo libero che le era stato restituito. Si stava incamminando verso l'uscita, quando per i corridoi della facoltà, d'improvviso, avvistò Rebecca, un'ex compagna di liceo che seguiva dei corsi lì nonostante fosse iscritta ad un' altra facoltà. Si nascose dentro la prima aula aperta che le capitò a tiro e si schiacciò contro il muro, stringendo le gambe. Detestava incontrare i suoi compagni di liceo perché le ricordavano un tempo di cui lei voleva perdere ogni ricordo. Erano tutti uno spettro della vita che cercava di dimenticare, fatta di incomprensione e pettegolezzi. A quel tempo ognuno di loro aveva creduto di conscerla, sbagliando, mancando il punto. Josephine era sempre stata una ragazza schiva: non aveva mai preteso di essere accerchiata da decine di persone pronte ad adularla. No. Aveva sempre e solo preteso di non essere giudicata, perché nessuno di loro aveva gli strumenti necessari per farlo. Nessuno di loro sapeva.
Adesso, nella sua nuova vita fatta di compromessi con se stessa, Jo si sentiva lontana da loro e da quello che non sapevano e che lei si impegnava a non ricordare. Come poteva permettere allo sguardo di uno di loro di riportarla così indietro nel passato? Preferiva nascondersi come una codarda. Preferiva nascondersi, quando poteva. Tuttavia, avrebbe voluto potersi nascondere anche dai suoi pensieri, da quel filo invisibile che le si allacciava alle dita per trascinarla a quella sera, ripetutamente. Quella sera, lui e quel filo non erano altro che una versione tutta nuova di ciò che erano stati i suoi compagni di liceo: il promemoria che in lei ci fosse qualcosa di guasto.

Quando fu sicura di aver scampato il pericolo, Jo sgusciò via dall'aula, sapendo esattamente dove andare.


– Che ci fai qui? – Robb l'accolse tra le braccia, incredulo. Lei vi si accocolò brevemente, scansandosi subito dopo aver intercettato, dietro le spalle di Robb, lo sguardo curioso di Francis.
– Hey Jo! – fece questo sventolando tra le mani una lunga sequenza di negativi. Jo gli sorrise e prese per mano Robb, che confuso si lasciò trascinare fino alla camera oscura. Quando furono dentro, Jo chiuse la porta con uno scatto.

– Sono qui per questo.

Gli intrecciò le braccia intorno al collo e lo baciò, facendo aderire la schiena di lui alla porta chiusa. Si sollevò sulle punte per poter intensificare il bacio, mossa che  fece gemere Robb sulle sue labbra. In un attimo le loro posizioni si ribaltarono. Robb la sollevò per le cosce, facendole risalire sui fianchi la gonna e cominciò a baciarle le orecchie, la mandibola, la scollatura. Jo lo lasciò fare, abbandonando la testa all'indietro, sorridendo appagata.

– Credevo che non sarebbe successo mai più, – mormorò Robb tra un bacio e l'altro.
– Non stiamo per farlo, Robb, – disse lei sulla sua bocca. – Non con Francis dietro la porta.
– Ma tu non sei rumorosa, possiamo fare tutto quello che... - Le labbra di Jo lo catturarano di nuovo.
– Ma tu lo sei, – replicò lei, passandogli le unghie sotto la maglietta, sulla schiena.
– Tu mi vuoi morto, – sospirò, poggiando la fronte sul seno di lei, per poi abbandonare la presa sui suoi glutei e rimetterla giù. Jo si sistemò le pieghe della gonna con un gesto rapido.

– Stasera, – gli sussurrò all'orecchio.

Lui la guardò con aria incerta, un po' scettico.

– Non mi fido di te, mia cara.
– Sei un uomo senza fede, – fece lei mettendosi braccia conserte, teatralmente offesa.
– Ho avuto fede per quanto? Una settimana? Finisci puntualmente addormentata con quello stramaledetto libro in mano!

Non una settimana.
Cinque giorni.


– Non c'entra niente quel l-libro. – Deglutì. – Ero stanca, mi sono ridotta all'ultimo con quella relazione e ho dovuto fare le capriole per poterla consegnare oggi. – Gli occhi le saettarono da un punto all'altro della stanza, cercando appiglio. Non voleva pensare a  quella storia. Non con il respiro affannato di Robb ancora addosso.

– Sarà. Staremo a vedere.

Lo sguardo di Robb era ammiccante, mentre quello di Jo era invece già irrimediabilmente smarrito al pensiero di dover rinunciare ad una notte intera di poesia.

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Capitolo 18
*** Breeze ***



O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.


Cesare Pavese



Capitolo 18.

 
 

Robb osservava la città dalla finestra della piccola camera di Josephine, con lo sguardo penetrante, la testa brulicante di pensieri. La sua vita, da quando era tornato in Inghilterra, era semplicemente tornata al punto di partenza. Casa, lavoro, Francis, Mark, riviste di moda, qualche matrimonio, campagne pubblicitarie e Jo. Probabilmente l'unica cosa di cui fosse veramente felice, tralasciando il fatto che lei fosse un puzzle impossibile da mettere insieme. Si voltò a guardarla, chinata com'era sugli appunti di una lezione che detestava, nelle sue sembianze da fata, coi suoi boccoli scuri a circondarla.

E' lei? Era lei ciò che aveva sempre desirato? Era lei o come lei lo faceva sentire? Era quel modo di guardarlo, quell'audacia sfrontata che la coglieva nei momenti più impensati, il suo sguardo magnetico, il suo corpo caldo, infinito? Era lei, doveva essere lei, perché era l'unica cosa al mondo che lo tenesse coi piedi per terra, rendendolo capace di sopportare quella stasi, quell'insoddisfazione. Ma doveva resistere. Sapeva di non potersi permettere il genere  di progetti a cui prima dello studio fotografico riusciva a dedicarsi più frequentemente. Aveva delle responsabilità, non era più un ragazzino. Sperava soltanto che presto o tardi, una volta che si fossero fatti  un nome e avessero espanso la lista di clienti, avrebbe potuto finalmente concerdersi più autonomia e magari sarebbbe anche riuscito a combinare il lavoro con il viaggio. Se fosse dipeso esclusivamente da lui, se non avesse dovuto badare a cose materiali come il farsi una carriera per vivere, sarebbe fuggito via in qualsiasi momento. La routine diventava ogni giorno più soffocante e tutta l'aria che gli serviva la traeva dai respiri di Jo. Da lei così distante e vicina, in un modo tutto suo, perfetto e assurdo.

Jo si voltò e i loro sguardi s'incontrarono. Si sorrisero dolcemente. Robb la raggiunse e s'inginocchiò di fronte a lei, circondandole i fianchi con le braccia e sprofondando il viso sul suo ventre.

– Tornerai mai da me? – chiese.
– Sono qui, – disse Jo, accarezzandogli lentamente i capelli.
– Tu non sei mai qui, – disse lui guardandola. – Dove sei, Jo? Dove vai?

Jo lo guardò intensamente, spaesata. Aveva notato qualcosa?

– Forse non ci incontriamo. Forse te ne vai prima tu, poi ritorni proprio quando io sono appena andata via. – Sorrise. – Poi torno, però, no?
– Io non vado mai via, Jo, – disse Robb, la voce ridotta ad un sussurro. –Sono sempre qui che ti aspetto. Non lo sai?
– Lo so, Robb. Lo so.
Si lasciò ricadere su di lui, baciandogli la morbida testa bionda che profumava di posti lontani.
– Io voglio incontrarti, ho bisogno che tu sia qui. Non perderti nella tua mente, perditi in me piuttosto. Puoi? La sua voce era soffocata, la bocca premuta sulle sue cosce.
No, non aveva notato niente nuovo, ma solo la vecchia, solita, stralunata Josephine. Sospirò.

– Ci provo, ma ogni tanto ho bisogno di perdermi. Soffoco se non lo faccio, – disse.
– Ed io soffoco qui! Questa città mi soffoca. Ho bisogno di te per sopportarlo, – fece lui.
– Stai lavorando troppo, – disse, accarezzandolo con la dedizione di una madre.
– Non è questo. E' il lavoro che faccio. Sono i matrimoni e tutti quei fottuti modelli insignificanti. – Sospirò. – E' arrivare alla sera stanco, con le loro stupide facce che mi si affollano in testa. Mangiare e dormire e tutto d'accapo di nuovo. – Scosse la testa, strofinandola su di lei. – Mi manca viaggiare, conoscere nuove persone. Mi manca stare con i miei amici, mi manca sognare. E' stupido?
– No che non lo è, – disse Jo. – Non c'è qualcosa che ti darebbe sollievo, adesso?
Robb la strinse più forte. – Tu.
– Sii serio.
– Lo sono.
Jo si morse le labbra, guardandosi intorno, sentendo il cuore che le si appiattiva fino a farla soffocare. Robb riversava su di lei ogni aspettativa di felicità, ma questo non faceva altro che demolirla, proprio perché consapevole di non meritare tanto amore e fiducia. Gli doveva troppo e non riusciva nemmeno a quantificarlo. Pensò a tutte le cose che avrebbero potuto dargli il sollievo che agognava e che lei, con solo se stessa in mano, non poteva offrirgli.

– Non so... – mormorò, improvvisamente inquieta. – Potremmo trascorrere il week-end dai tuoi. Così potresti vedere anche i tuoi amici. – Smise di accarezzarlo, come sospesa. – Che ne pensi?
Robb sollevò il capo, incredulo. – Chi sei tu?
Jo rise, avvicinando il volto al suo. – E' un sì?
– Ne sei sicura? - Le prese il viso tra le mani e la guardò, sorridendo.  Jo annuì.
– Non lo avrei mai sperato, – disse lui, illuminato, baciandola. – In cambio di questa ardente dichiarazione d'amore ti prometto che spedisco James ad Honululu.

Il sorriso di Jo appassì. Non voleva sentire il suo nome, non in quel momento.

– Non dire sciocchezze, – disse Jo, forzando le labbra in un sorriso.

Si tirarono su e si abbracciarono a lungo, poi Robb la baciò, un bacio caldo e lento che le procurò la solita, terribile fitta d'incomprensibile nostalgia al fianco. Jo lo vide uscire dal suo appartamento, spedito e rinvigorito, e per quanto vederlo così la rendesse lieta, non potè fare a meno di pentirsi della proposta maldestra che gli aveva rivolto. Si chiese se non fosse il caso di ritrattare, trovare una scusa, ma si accorse  - e non senza rabbrividire - di non volerlo.
Si chiuse in camera e lasciò che lo sguardo vagasse, sforzandosi di non farlo ricadere sul cuscino, sotto cui ormai da giorni riposava placida la poesia bruciante di Neruda. Ma non riuscì a trattenersi e vi corse incontro. Sollevò il cuscino e prese il libro tra le mani. Per giorni non aveva fatto altro che rileggere i versi che James aveva sottolineato, cercandovi un'accusa, una minaccia, un'insulto, ma i suoi sforzi si erano rivelati vani. Si era invece ritrovata ogni volta indissoubilmente avvinta ad ogni poesia, provando uno scotimento che le chiudeva lo stomaco. Le venne il sospetto di essere semplicemente stupida e cieca. Se lui credeva ci fosse qualcosa da capire - era questo che aveva inteso o non aveva capito nemmeno questo? - dopo tanti giorni di lettura avrebbe dovuto ottenere quantomeno un indizio che la conducesse nella giusta direzione. Ed invece  dopo tanto scervellarsi si ritrovava con niente in mano. Tutto quello che era riuscita ad ottenere era uno smarrimento perpetuo, totalizzante, pericolosamente simile a quello che l'aveva travolta nemmeno una settimana prima e altre volte prima di allora. Questo pensierò la bloccò, facendole gettare il libro sul letto come se le avesse dato la scossa. Perché si allarmava tanto? Non ce n'era motivo. Era sicura che niente di quello che risiedeva in quei versi, il trasporto, l'estasi, l'amore puro e quello erotico, avesse niente a che fare con l'avversione, il fastidio, il disgusto che provava per lui
Forse, pensò, dipendeva semplicemente dall'intensità di quelle sensazioni, entrambe così violente  da procurarle turbamento con la stessa forza. Probabilmente il punto era quello. Era sempre stata moderata nei sentimenti, non c'erano mai stati scossoni, non più dopo la cosa da cui rifuggiva ormai da anni. Aveva poi sempre vissuto di passioni astratte, profonde rivolte alle cose che le piacevano: i libri, i boschi, la storia. Quando aveva conosciuto Robb si era sentita felice da pazzi, incapace di credere che tanta gioia toccasse tutta a lei. Realizzò che non c'era un precedente a tanto scotimento e che le venisse causato da una poesia o da un insulto non le importava. Questa consapevolezza la fece rabbrividire. Raccolse il libro e lo aprì dove aveva piegato l'angolo di una pagina.

Nuda sei semplice come una delle tue mani,
liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente,
hai linee di luna, strade di mela,
nuda sei sottile come il grano nudo.


Nuda sei azzurra come la notte a Cuba,
hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli,

nuda sei enorme e gialla
come l'estate in una chiesa d'oro.

Nuda sei piccola come una delle tue unghie,
curva, sottile, rosea finché nasce il giorno
e t'addentri nel sotterraneo del mondo.

come in una lunga galleria di vestiti e di lavori:
la tua chiarezza si spegne, si veste, si sfoglia
e di nuovo torna a essere una mano nuda.


Richiuse il libro fissando un punto nel vuoto, il cuore impazzito nel petto, un languore alla gola, dolce, corrosivo.
Le sue mani hanno toccato questa pagina, pensò inorridendo, ed è come se avessero toccato anche me.




 

***




Quella sera, James, arenato sul divano, si godeva il vento di settembre che, strisciando dall'ampia finestra del salotto, gli soffiava sul viso. John invece, in cucina, preparava la cena per entrambi.

– Potresti dare una mano, sai? – disse, sbucando dalla porta, intorrompendo la stasi di James.
– Ti aiuterò a mangiare, – rispose James sprofondando meglio tra i cuscini.
– Grazie del prezioso contributo. – Si sedette di fronte a lui, su di una poltrona. – Le costolette sono in forno. Impazzirai.
– Vedremo, – disse l'altro, facendo spallucce.
– Ti permetto quest'atteggiamento solo perché non mi fido di quello che cucini tu.
– Pensavo fosse un invito, il tuo. Gli invitati bivaccano, gli ospiti sgobbano. E' la regola.
– Va' al diavolo, Jamie, – disse l'altro, liquidando la discussione con un gesto della mano.
– Non ero io quello permaloso, una volta? – rispose James, d'un tratto sospettoso. Acuì lo sguardo per osservare meglio John.
– Sì infatti, sono solo delle stupide costolette. – Sospirò, poggiandosi allo schienale.
– Credo che il problema qui non sia io, né tantomeno le costolette, – osservò James.
– Sono io che faccio questo genere di osservazioni, di solito, – fece l'altro. – E ti anticipo che non c'e niente su cui indagare.
– Balle, – sentenziò James. – Hai litigato con Betty?
– Sì, come sempre, – disse. – Ti prego di non insistere.
James sollevò le mani in aria. – Come vuoi.

Lo osservò a lungo, mentre l'altro si massaggiava il viso e gli occhi, apparendogli stremato. Il suo incarnato chiarissimo era più pallido del solito e solo adesso notava quanto il suo sguardo fosse sfuggente e in alcuni istanti completamente assente. John era sempre stato un ragazzo vivace, pieno di iniziativa e di idee. Si erano conosciuti negli anni dell'università, grazie a degli amici in comune e forse proprio la loro profonda diversità, accompagnata da un reciproco rispetto, li aveva legati immediatamente. Col tempo, però, riuscivano a vedersi sempre meno a causa dei rispettivi impegni di lavoro, impelagati l'uno in vicende aziendali e l'altro tra i suoi appunti. Proprio in virtù del mestiere di John, James era riuscito ad aprirsi con lui in più di una situazione delicata: glielo aveva concesso in quanto psicologo, sedendosi sul lettino e lasciando che lui gli desse nient'altro che consigli - per quanto possibile - oggettivi. Ma se inizialmente era servito quest'escamotage, ideato dallo stesso John, per cavargli di bocca una serie di sfoghi che altrimenti lo avrebbe incenerito dall'interno, in seguito James si era mostrato più propenso ad aprirsi con lui in maniera spontanea, con o senza lettino. In linea di massima, si manteneva sulla superficie del problema, ma John si accontentava, comprendendo la profonda riservatezza dell'amico. Del resto, aveva intuito quanto lui fosse geloso dei suoi pensieri e delle sue emozioni, oltre che essere incredibilmente orgoglioso e incapace di ammettere una debolezza o una disfatta, anche la più triviale. John era un uomo molto dolce ed attraente, almeno quanto la sua ragazza, Betty, con cui stava ormai da tre anni e con la quale intratteneva una relazione simbiotica, ma farcita di litigi ed incomprensioni continue. James lo aveva sempre consigliato di buon grado, ma molto spesso era rimasto in silenzio, cercando di non pronunciarsi troppo sul loro rapporto, a suo avviso destinato a non durare per molto. Non lo pensava per un motivo particolare, ma piuttosto li considerava malassortiti al punto che non credeva possibile che una relazione con simili ritmi di litigio potesse spingersi molto lontano. Sono innamorato ed anche lei lo è. Era la frase più inflazionata, pronunciata da John ogni volta che credeva che tutto stesse per finire. James ogni volta annuiva, senza aggiungere una parola. L'amore non basta, pensava.

– Ho visto Madison l'altra sera, – disse d'un tratto.
– Sei stato al Limbo? – chiese John, guardandolo finalmente negli occhi.
– Sì, sono andato. Avevo voglia di suonare e di bere qualcosa, – disse James.
– Avresti potuto dirmelo! Lo sai che ormai senza di te non vado, – fece l'altro con un tono lamentoso.
– Non era programmato. – James gli scoccò un'occhiata malvagia. – E comunque, Betty non ti avrebbe dato il permesso così su due piedi.
– Sai essere così bastardo, – sospirò l'altro, d'un tratto rassegnato. – Ma hai ragione, – ammise.
– Cerco solo di non litigare, capisci? Non mi serve il suo permesso: mi serve che si incazzi il meno possibile!
James scuotè la testa, mordendosi le labbra.
– Che si incazzi, poi le passa! – disse. – Non puoi regolare la tua vita in base alle sue sfuriate. Ti ho detto mille volte cosa dovresti fare.
John si sporse sulla poltrona. – La tua tecnica è una vera schifezza. Non posso farla arrabbiare e fregarmene aspettando che le passi, mentre continuo a farla incazzare in un circolo infinito. Non funziona così. Non è un animale che puoi addestrare. E' fatta così, è tremenda, ma se voglio stare con lei devo fare un passo verso di lei.
– Molti passi versi di lei, – ridacchiò James. – Una maratona, direi!
John trattenne una risatina, ormai era abituato a commenti di questo tipo e non poteva dirsi completamente in disaccordo, ma James non capiva cosa volesse dire lottare, sacrificarsi per tenere in piedi un amore.

– Adesso smettila di fare il predicatore e dimmi che hai combinato al Limbo, – disse John, ammiccante.
– Te l'ho detto, – disse, poi si accese una sigaretta e ne inspirò il fumo. – Ho bevuto qualcosa, ho suonato un pezzo e ho chiacchierato un po' con Madison.
– Come sta? – chiese l'altro.
– Bene. Era più bella che mai, – disse, sollevando un sopracciglio con aria impercettibilmente maliziosa.
– Quella donna è il cruccio della mia vita, – fece John, ridacchiando.
– Ma piantala. – Il sorriso di James si confuse in una nube di fumo. – Mi ha fatto una ramanzina su Claire.
– Claire, la rossa? – chiese improvvisamente interessato. – La vedi ancora?
– No. E' per questo che mi ha rimproverato, – disse ponendo un accento ironico sull'ultima parola. – Dice che avrei dovuto richiamarla, che ci siamo visti per ben due mesi eccetera eccetera. Morale? Sono un bastardo che non l'ha più richiamata.
– Dicono sempre così, – sentenziò l'altro, incredulo di fronte alla sfacciataggine femminile.
– Non capisco cosa si aspettino. Tanto divertimento per un po' di settimane e poi cos'altro?
– Un maledetto anello al dito. Di quelli un po' pacchiani, magari, – disse John.
James sbuffò del fumo, divertito.
– Magari la richiamo, però.

In quel momento, sul tavolino, il telefono di James prese a squillare.

– Mamma?
John osservò l'amico parlare al telefono. Nell'arco di pochi istanti, notò, il suo volto aveva dato sfoggio di una serie di espressioni tutte contrastanti tra loro, impossibili da decifrare.
– D'accordo. Certo. – Si liberò della sigaretta, schiacciandola sul fondo del posacenere. – Non preoccuparti. Buona notte.
Nel frattempo, dalla cucina, il forno trillò.
– Prendi le birre in frigo. Si mangia! – disse John, scattando dalla poltrona, impaziente.
James si sollevò, sovrappensiero, e si diresse in direzione del freezer. Prese la confezione di birre e l'adagiò sul top della cucina. Guardò John e le sue mani che predisponevano le costolette su dei piatti, ma era ormai lontanissimo, improvvisamente angosciato ed incomprensibilmente impaziente.

Indovina chi viene nel week-end?
Non riesco proprio ad immaginarlo.


– Torna sulla terra! – La voce di John gli arrivò come da un posto lontano. – Tua madre sta bene? Qualcosa non va?
- Va tutto bene. - disse, sedendosi su di uno sgabello intorno all'isolotto della cucina. - Mi ha solo detto che questo week-end mio fratello sarà in città. - prese un sorso di birra. - Insieme alla sua fidanzata.
- Ah! Sembra una cosa seria. - disse John. - Come si chiama?
James bevve un sorso di birra, poi lo guardò fingendo un'aria indifferente. - Josephine.
– Com'è? Simpatica?
– Non la definirei simpatica, – disse serafico. – Non la definirei in nessun modo.
– Credevo l'avessi già conosciuta.
– Infatti. – James si sentiva spazientito. Non voleva in alcun modo e per nessun motivo parlare ancora di lei. – E' una ragazza qualunque che piace a mio fratello. Non c'è molto da dire.
– Niente di eccezionale, insomma, – commentò l'altro, osservandolo.
– Già.
Il tonfo secco del suo bicchiere sul tavolo annunciò che l'argomento era concluso.

Certo che non era niente di eccezionale. Non era particolarmente bella e di certo non era simpatica. Era solo una strega impertinente che risvegliava in lui un calore violento ed incontrollabile. Ma questo non poteva dirlo ed in realtà nemmeno pensarlo. Lei sarebbe arrivata il giorno dopo e avrebbe dovuto rivederla, sebbene forse, in qualche modo, avrebbe potuto evitarlo. Nessuno si sarebbe dispiaciuto troppo. Si accorse solo dopo molto pensare a delle scuse da propinare ai suoi che, in realtà, non c'era niente che potesse fare per starle lontano, semplicemente perché non c'era niente che volesse fare.




 
***


 

La facciata color avorio del villino dei Draper si palesò agli occhi di Josephine, emergendo all'improvviso da una cornice di alberi. Le mani le corsero sui bordi della gonna. La musica alla radio era semplicemente insopportabile, così come il sorriso di Robb che le guidava accanto. Era felice che lui fosse felice, ma che addirittura sorridesse tanto sfrontatamente in barba a quello che lei stava provando lo considerò una specie di affronto. Non c'era niente per cui agitarsi, pensò. Stava ingigantendo le cose. Una mano le corse sulla borsa, tastandola fino a percepire i contorni del libro al suo interno. Aveva deciso che lo avrebbe rimesso a posto, semplicemente.  con all'interno una bambola voodoo. Insomma, a conti fatti, stava assecondando un gioco malsano e senza senso, ideato da un uomo con cui non voleva condividere nulla.

– Ragazzi! – esclamò Susan Draper sulla soglia della porta, accogliendoli tra le braccia. – Tesoro! – aggiunse poi, prendendo il viso di Robb tra le mani. Lui le sorrise e le schioccò un bacio sulla guancia.
– Forza, entrate, siete giusto in tempo! – Prese per mano Jo, mentre li conduceva in giardino. – Ti trovo bene cara, – disse.
– Anche lei sta benissimo.
– Le giornate più fresche mi ringiovaniscono la pelle, – disse Susan.
– In tempo per cosa? – fece Robb, sovrapponendosi alla conversazione delle due.
– Per aiutare tuo padre col barbecue. Dio sa quanto detesti i fumi della carne!
– Non sia mai che i fumi della carne ti ingrigiscano i capelli!
– proruppe Ben Draper, accogliendoli in giardino.
– Ancora con questa storia? - fece Robb, abbracciandolo.
– Non ho ancora capito se ci creda davvero o sia una scusa ventennale per non aiutarmi col barbecue, – disse Ben, prima di rivolgersi a Josephine e prodigarsi in un baciamano.
– Come stai cara?
– Benone, Signor Draper, – disse lei.
– Signor Draper? Cielo, ragazza, chiamami Ben o ne sarò terribilmente ferito!
– Non le farei mai un torto simile!  
Jo si strinse nelle spalle, sorridendo e sentendosi in imbarazzo come la prima volta. Ben Draper era proprio un gentiluomo vecchio stampo e i suoi modi estremamente cordiali la mettevano paradossalmente in incredibile soggezione.
Dopo aver scambiato ancora qualche battuta coi padroni di casa, Jo e Robb raggiunsero la camera da letto per depositarvi i borsoni e per rinfrescarsi prima di dedicarsi completamente al barbecue e al pranzo.
Jo era in bagno quando sentì la voce di Robb al telefono.

Ne parlo con Jo, dai.

– Di cosa? – gli chiese, raggiungendolo, mentre lui infilava il telefono nella tasca posteriore dei jeans.
–Era Spencer. I ragazzi non sapevano del mio arrivo e avevano già organizzato una nottata di pesca tra uomini, – disse, l'aria delusa. – Li vedremo domani.
– Perché? – disse Jo, prendendogli le mani. –Sei uno stupido! Non sei qui per stare con me!
– Anche! – ribatté Robb.
– Anche, ma con me puoi stare ogni volta che vuoi. – Gli strinse le mani. –Vai, per favore.
– Ma tu...
– Io me la caverò.
– Be' in teoria, avresti un invito, – mormorò l'altro, sfregandosi la nuca con una mano. – Spencer mi aveva proposto di unirmi a lui e Roahd, aggiungendo che tu avresti potuto uscire con Sierra e Tracy. Sierra ha un po' di amiche...
– Non volevi che andassi con loro, per caso? – chiese Jo, con un accenno di sorriso sulle labbra.
– Perché dovrei? – Lo sguardo di Robb si fece sfuggente. Era in imbarazzo.
– Sei geloso, Robb? – fece Jo, insinuante, al suo orecchio.
– Come ti salta in mente? Mi conosci! Non sono per niente quel genere di persona. – Si schiarì la voce con un colpo di tosse. – Non volevo che pensassi che me ne infischiassi di te. Però se per te non è un problema...
Jo rise.
– Andrò con le ragazze e tu potrai passare una serata da vero duro con i tuoi amici. – Lo provocò, dandogli un pugnetto sul braccio.
Robb la guardò di sottecchi, lasciandosi contagiare dal suo sorriso, rilassandosi.
– Allora li richiamo. – Sfilò il cellulare dalla tasca, ma si fermò. – Non penserai di mettere una minigonna, per caso? – disse, fingendosi mortalmente serio.
Jo trattenne un sorriso ed iniziò a dondolarsi, allontanandosi da lui per raggiungere il corridoio. – Chissà.
Scomparve dietro la porta e Robb sorrise, beato.




Jo guardò il suo riflesso pallido allo specchio e le sue labbra truccate, in quel biancore, erano come tulipani. Si sistemò il vestito sui fianchi e lasciò che le balze della gonna a ruota roteassero un po'. Robb era già andato via, mentre i signori Draper dormivano da tempo. Corse giù per le scale, facendo attenzione a non far rumore coi tacchi, e raggiunse l'auto di Sierra, ferma sul vialetto.
– Jo!
Sierra e Tracy, sedute rispettivamente alla guida e sul sedile anteriore, la riempirono di chiacchere.
– Tieni! – disse Sierra d'un tratto, porgendole una maschera di pizzo nero.
Jo fece una smorfia di sorpresa. – E cosa dovrei farci?
– Devi indossarla, – disse Sierra, con un sorriso sornione e lo sguardo sulla strada.
– Ne ha data una anche a me! – fece Tracy, sventolandogliela di fronte. –Sarà eccitante! Anche se non sono abituata a certe cose!
– Mio dio, Tracy. – Sierra schioccò la lingua. – E' solo una serata un po' diversa da quelle che passi normalmente con Spencer. E menomale, direi!
– Oh, bruta!
– Ragazze, non capisco, – mormorò Jo, fissando la maschera che aveva tra le mani.
– Tranquilla. Ho pensato che sarebbe stato carino farvi provare uno dei miei tipici venerdì sera.
– Che sarebbero? – chiese Jo, guardandola di sbieco attraverso lo specchietto retrovisore.
– Una figata, – disse Sierra. – Una delle mie migliori amiche organizza eventi, serate, feste private e cose di questo genere. E niente, ogni weekend ci segnala gli eventi più interessanti tra qui e Londra e noi ovviamente andiamo!
– Stasera c'è questa festa in maschera, in pratica, – aggiunse Tracy, non propriamente entusiasta. – Le sue amiche ci aspettano lì.
– Sembra interessante, – disse Jo, sorridendo. L'idea solleticava sul serio il suo interesse.
– Lo sarà, fidati, – le assicurò Sierra, guardando fuori dal finestrino. –Eccoci arrivate.
Intorno a loro solo alberi e un vialetto illuminato dalle luci dei lampioni. Erano in una zona un po' fuori mano e la cosa angosciò sia Jo che Tracy, la quale non faceva altro che lamentarsi, già pentita di essere lì.
Le ragazze scesero dall'auto, guardandosi intorno. Jo si rigirò la maschera di pizzo tra le mani e il suo sguardo incontrò quello di Sierra.

– Indossala, su, – le disse, allacciando la sua maschera rossa dietro i capelli.

Josephine la imitò, legò lentamente i lacci scuri tra i capelli e osservò un po' intimorita l'ampio portone scuro che le si parò di fronte. Si trovavano al cospetto di un rudere sapientamente rimesso a nuovo, che proprio in virtù della sua facciata decadente, emanava un fascino irresistibile.
Jo sollevò il capo e i suoi occhi si posarono su quella che doveva essere l'insegna, sebbene sembrasse perlopiù un'iscrizione in pietra, solcata da poche lettere profondamente incise. Jo non poté trattenere un sorriso, stuzzicata.
L'aria frizzante di settembre le solleticò i capelli.
Erano di fronte al Limbo.

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Capitolo 19
*** Limbo ***


Capitolo 19.
Parte I

 
 

Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.


Cesare Pavese



La gonna di Jo ruotava, si librava in aria e le ricadeva sulla pelle, solleticandola. Le pareti scure intorno a lei vibravano di luce rossa, calda. La coppa di martini - l'ennesima - che teneva tra le mani, traballava e ondeggiava, inseguendo i movimenti dei suoi fianchi. La maschera di pizzo le pizzicava le guance e le narici, la bocca rossa lasciata scoperta, di tanto in tanto, si apriva in un sorriso, libero, inconsapevole. Gli occhi, scuri e liquidi più di sempre, incontrarono quelli di Sierra, vacui, ebbri. La musica, intorno a loro, risuonava con un sapore retrò dalle casse, avviluppandole nella sua morsa. Jo si sentì distante, lontana dal suo corpo, spettatrice di uno spettacolo di cui non era protagonista. Si vedeva danzare con una naturalezza impensata e si vide sorridere in estasi, con un guizzo di malizia tra le labbra. Chi era quella donna che si abbandonava così? Possibile che fosse lei? L'alcol la stava ingannando, questo era certo. Ma allora perché si sentiva finalmente viva, libera, liquida, imprendibile, sicura?  Non sentì nemmeno i capelli liberarsi dal nastro con cui li aveva acconciati, non li sentì dispiegarsi selvaggiamente sulle spalle, innaffiarle la gola, insidiarsi sulle labbra - tanto era distante, eppure incredibilmente vicina a se stessa. Si sbottonò i primi due bottoni del vestito, liberando un po' il petto d'avorio che teneva sempre castigato. La musica l'accarezzava e le scorreva dentro come una possessione, Sierra e la sua amica biondissima le ballavano di fronte, le prendevano le mani di tanto in tanto, le urlavano addosso qualcosa che non capiva, ma lei sorrideva comunque. Aveva perso di vista Tracy non sapeva più da quanto, forse dal primo momento, non se n'era resa conto: del resto, si era smembrata lei stessa, perdendosi di vista, finalmente leggera. Il movimento delle persone che la circondavano la scuoteva da un punto all'altro, facendola entrare in contatto con pelli, sudore, abiti ruvidi, unghie affilate. In circostanze normali si sarebbe sentita rabbrividire a tanto contatto casuale ed invasivo, ma quella circostanza era lontana dall'essere normale. Da quando non si lasciava andare così? L'acol l'aveva sempre piegata, illanguidita, ma nell'aria, questa volta, c'era qualcosa di diverso; l'atmosfera, le luci, gli odori anche, era tutto diverso, come fermo nel tempo o in nessun luogo. Sierra le tolse di mano la coppa e ne bevve il contenuto in un sorso, pulendosi poi le labbra col polso, in un gesto secco, selvaggio. La conturbante maschera rossa la rendeva come irrangiungibile, i capelli color grano le ricadevano addosso, ad onde, parendo sempre più neri, impossibili da distinguere dal resto. Il viso di Humphrey Bogart si dissolveva e si ricompenva a tratti, dalle pareti, giudicante e altero. Non l'approvava, forse.

Oh, ma sta un po' zitto.

Poteva anche urlarglielo contro, lui non avrebbe potuto riconoscerla, perché aveva una maschera da gran donna a celarle i tratti da bambina insignificante. Fottiti, Humphrey, mormorò.
Cercò di bere un sorso dal bicchiere che Sierra le aveva restituito, ma il rimbalzo del suo respiro dal fondo della coppa le suggerì che del suo martini non restava più niente. Si fermò, si guardò intorno cercando di intercettare il bancone con lo sguardo, con fatica, quando un improvviso silenzio la distrasse dai suoi intenti. La musica era cessata, le persone si stavano accalcando verso un lato della sala, privandola del loro calore. Fu catturata da quel flusso e si insinuò tra i respiri della gente, scostandola coi gomiti, finché non scorse il luccichìo del lucido pianoforte che troneggiava di fronte alla calca. Seduto in penombra, un uomo con una machera scura, iniziò a far vibrare la cassa armonica. Jo si sentì elettrizzata: aveva riconosciuto le primissime note di una canzone che aveva sempre amato, ma che non aveva mai sentito suonata col piano. Ne fu stregata e senza rendersene conto raggiunse il pianoforte. Ma chi era, lei? Perché non le importava del giudizio della gente? Si voltò di scatto e vide solo delle ombre nel buio trafitto di luce rossa della sala. Era tutto così opaco e diluito, e chi se ne importava di Bogart? Non si vedeva più nemmeno lui. Raggiunse il piano e si sedetta accanto al musicista. La maschera scura ed indecifrabile di lui si rivolse nella sua direzione.

– Che fai? – sentì domandarsi.

Lei gli sorrise, sollevò le spalle e scuotè i capelli, ormai indomiti; sulla schiena le corse un brivido d'euforia incontenibile. Quella era Fever e lei cominciò a cantare, come faceva di tanto in tanto, quando era sicura di essere da sola, con le cuffie nelle orecchie. In fondo, non c'era nessuno e lei non era più nemmeno lei. Chi avrebbe mai potuto giudicarla?
L'uomo dietro la maschera fu colto di sorpresa, ma le sorrise di rimando, incerto che lei potesse notarlo, dato che la maschera gli lasciava libere solo le labbra e la mandibola. La voce calda e voluttuosa di lei spinse le dita di lui a calcare i tasti del piano con maggiore intensità. I capelli scuri, da sirena, le cadevano sulle spalle come alghe, le mani con le piccole unghie rosse stringevano in mano la coppa di un drink, affusolate e diafane. La maschera di pizzo le sfiorava l'angolo del labbro superiore, pieno e rosso, impegnato a baciare quello inferiore in una danza seducente, tanto quanto la voce candida ma intensa che soffiava in quella danza di labbra.

When you put your arms around me, I get a fever that's so hard to bear.

Si voltò verso di lui ed indicandolo aggiunse You give me fever. Lui rise, avvertendo la vibrazione della sua voce e la curva delle bocca di lei, divertita e maliziosa. Jo voleva ridere, cantare, abbracciare quell'uomo, alzarsi e ballare, magari come aveva visto fare a Marylin Monroe in uno di quei film datati, ma le gambe non le reggevano nemmeno da seduta. Si voltò di nuovo verso il musicista mascherato, concentrato sui tasti. D'un tratto i loro sguardi, offuscati ed indefiniti, si incontrarono attraverso i loro sorrisi ironici, elettrici, solcati da una stilla d'audacia. Entrambi s'inebriarono di quel reciproco scambio.

...Moon lights up the night, I light up when you call my name.

La voce di lei lo stuzzicò, incatenandolo alla curva delle sue labbra, sinuose ed ammalianti.

Everybody's got the fever.

Una goccia di sudore le accarezzò la clavicola scoperta e lui s'inumidì le labbra.

Fever isn't such a new thing.

Jo lisciò il braccio dell'uomo, la sua camicia scura, senza nemmeno meditarlo, spinta com'era da quell'alchimia di voce e suono. Fever started long time ago.
L'uomo le rivolse un sorriso obliquo - che lei però non vide - avvinghiandosi con lo sguardo alla goccia di sudore che le scomparì oltre la debole scollatura del vestito. Lei parve sentire il suo sguardo invadente e lo guardò di nuovo, inducendolo ad incontrare i suoi occhi. Entrambi si sorrisero, con uno strano languore goliardico e pronunciarono insieme, lui in un sussurro, lei a voce più bassa, le battute finali. What a lovely way to burn.

Ci fu un attimo di silenzio, poi dall'oscurità si levarono degli applausi, soffocati repentinamente dalla musica che riprese a propagarsi, superba, dalle casse. Jo si ridestò da quella specie di sogno e si allontanò velocemente dal piano e dal musicista con l'inquietante maschera nera. Si dimenò di nuovo tra la folla, cercando con gli occhi la maschera rossa di Sierra, ma tutto intorno a lei era così liquido e le note di Sweet Dreams degli Eurythmics la fecero ripiombare nella malia da cui si era appena, per un attimo, scorporata. Una donna trovò la sua mano e la fece ruotare sul posto, invitandola a fare lo stesso. Entrambe proruppero in una risata. Poi il contatto tra le loro mani s'interruppe e Jo la perse di vista. Doveva trovare Sierra, la sua maschera rossa, ma il suo corpo non rispondeva, ipnotizzato dai bassi e dal ritmo lascivo di quella canzone. Jo si lasciò andare, e d'improvviso una delle sua mani venne carpita in una stretta delicata che la fece ruotare su stessa, di nuovo, come in un valzer. Quandò fu completamente voltata, il suo petto incontrò il torace ampio dell'uomo mascherato. Una folata di profumo investì entrambi. L'uomo sgranò gli occhi ed istintivamente le strinse il fianco. Si sorrisero, incomprensibilmente straniti. Lei gli fece scorrere la mano libera sul braccio, raggiungendo la sua spalla. Si ritrovarono a ballare un lento, in completa disarmonia con la musica che li intrecciava.
Quest'odore, pensarono entrambi, lei col naso vicinissimo alla sua gola, lui col suo sulla tempia di lei. Una morsa allo stomaco li colpì entrambi, e la stretta delle loro mani s'intensificò. Entrambi ebbero l'istinto violento d'inspirare l'odore dell'altro.  Lo fecero. Jo sentì le ginocchia cederle. Quel profumo lei lo conosceva e le faceva un effetto terribilmente simile all'effetto del profumo di...
Ma questo era colpa dell'acol, che la faceva flirtare con un uomo mascherato, che perdipiù le ricordava l'uomo che meno avrebbe desiderato incontrare. Era davvero ridotta a questo? A sentire il suo odore ovunque? Lo stesso pensiero colpì l'uomo.
Possibile che ormai il pensiero di lei lo assillasse al punto da ingannare i suoi sensi?

– Sei qui da sola? – le sussurrò all'orecchio.

Jo sussultò, la voce roca e confusa dell'uomo le parve terribilmente familiare. Così simile a.
– Sì, – soffiò.
Lui percepì a malapena la risposta, improvvisamente inquieto. Non poteva pensare a lei in quel momento. Eppure, c'era in quella ragazza qualcosa che gli aveva immediatamente ricordato Josephine, ma era impossibile che si trattasse di lei. Quei capelli selvaggi, la scollatura, l'audacia, la luce che aveva emanato durante l'esibizione.
La sua voce era calda e sensuale, eppure, in alcuni punti, così simile alla sua.
Ma quella non poteva essere Josephine.

– Quindi non sei fidanzata? – La voce roca e profonda di lui le solleticò le orecchie.
– Che importa? Non siamo forse in un limbo? – sussurrò lei al suo orecchio, la voce finalmente nitida.
Inconfondibile.

Il volto di lui si scostò immediatamente dalla chioma in cui si era perso con sempre maggiore intensità fino a quel momento. I loro sguardi s'incatenerono, gli occhi di lui saettarono sulle sue labbra rosse, finalmente vicine, incredibilmente riconoscibili adesso. Gli occhi di Jo scesero piano su quelle di lui, umide, socchiuse. Entrambi sentirono il respiro caldo dell'altro sul viso, ebbri, anelanti.
Si strinsero senza neanche volerlo, in uno scatto rapace, istintivo. Non può essere lei.
Il labbro superiore di Jo tremò, mentre uno strano, inquietante, sorriso obliquo curvò le labbra dell'uomo. In quell'istante, Jo si ridestò come da un sogno, un sogno che si stava trasformando lentamente in incubo.
Le mani di entrambi corsero sul viso dell'altro. E, in un istante, James le sfilò la maschera dal volto.
L'attimo dopo, Jo lo imitò, strappandogli la maschera scura con tanto impeto da spezzare l'elastico che la teneva su.
James la guardò gelido, gli occhi ferini, il sogghigno feroce sulle labbra.

– Tu.

Jo inorridì, si sentì rimbalzare lontana da lui, la testa le pulsava furiosamente.

– Tu!

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Capitolo 20
*** Limbo, parte II ***


Capitolo 19.
parte II


                          


 
I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.

Cesare Pavese

 






La musica, improvvisamente, si fece invadente, un tormento di bassi. Jo sentì le gambe venir meno e James, senza preavviso, l'afferrò per il braccio e la trascinò fuori attraverso un'uscita secondaria. Entrambi furono lieti di respirare l'aria rinfrancante della sera. Jo lasciò andare la schiena contro la parete ruvida e friabile del rudere, rilasciando un sospiro, ormai vinta dai capogiri, ma salda, determinata a non lasciarsi soverchiare da lui.

Si osservarono come due fiere pronte al duello, stringendo in un pugno l'uno la maschera dell'altra. Lo sguardo di James era quello di un predatore, aguzzo e feroce, intensificato dal sogghigno spaventosamente inquietante e malevolo che gli piegava le labbra. Jo non avrebbe saputo dire cosa lo rendesse tanto sprezzante e beffardo al tempo stesso, pronto a mordere. Lei, dal canto suo, forse per via dell'acol o forse perché punta dalla vibrazione sadica che percorreva i lineamenti dell'uomo di fronte a sé, sollevò il mento e sorrise, con aria beffarda. Atteggiamento che per un solo, brevissimo, istante lo destabilizzò.

– Mio dio, – sputò James con aria arrogante. – Tutto mi sarei aspettato, ma questo... – La squadrò da capo a piedi, con sdegno.
– Questo cosa? – La voce di Jo, arrochita e tagliente, ribatté immediatamente.
– La piccola, ingenua Josephine coi suoi vestitini da bambolina improvvisamente si rivela per quella che è. – La voce sardonica di lui la nauseò. – Una bambolina cattiva.

La mano di Jo ghermì convulsamente la maschera che teneva tra le dita: avrebbe voluto disintegrarla per sopperire, almeno in parte, al desiderio di disintegrare la faccia da impunito del suo interlocutore.

– Cattivissima! Ballare e cantare in un locale mi precluderà certamente la strada per il paradiso, che disdetta!

La testa, probabilmente per la veemenza della replica rivoltagli, ricominciò a pulsare e a vorticare insieme, facendole chiudere gli occhi solo per un attimo. La risata tetra e derisoria di lui, tonante nel silenzio della natura notturna, però, le diede la forza per non cedere a quelle ondate di stordimento. Con uno sforzo non indifferente, tornò a puntargli gli occhi dritti in mezzo alle iridi – quella sera, finalmente, profondamente verdi. Lui si accorse di quel piccolo cedimento e reagì assumendo un'aria, se possibile, ancor più tronfia.

– Non ti reggi nemmeno in piedi. Non raggiungeresti il bagno, figurati il paradiso.
– Queste battute di second'ordine le insegnano a Cambridge?
– E che ne sai tu di Cambridge, Birkbeck? – sbuffò con aria altera.
Jo lo trafisse col più truce degli sguardi. Come si permetteva?

– Sei solo un damerino! Cambridge o Birkbeck, tu rimani comunque un pallone gonfiato! – ribatté, perdendo il controllo della voce e sentendo la testa vorticarle sempre più furiosamente.
James mosse un passo verso di lei con uno scatto tale da farla sobbalzare. Le sue labbra erano di nuovo così vicine, arricciate in un sorriso obliquo, intelligente e meschino.

– E' questa che sei, non è così? – le disse tra i denti, protervo. – Una bugiarda che finge di non conoscere peccati. – Allargò le braccia teatralmente. – E guarda quanti ne hai commessi soltanto stasera, Josephine.

Le labbra di lei, come papaveri schiusi, soffiarono su di lui un vento caldo, come la luce che le diluiva lo sguardo scuro, rendendolo luminoso, vivido, intenso come non era mai stato prima.
E' questa che sei, non è così?
Scarmigliati, oscuri rampicanti, i lunghi capelli ondulati le ricadevano addosso come edera, confondendosi al nero intenso dell'abito e a quello della notte; mentre altri, umidi, si erano insinuati nella scollatura accennata e nivea, dall'aspetto inaspettatamente tornito, proprio come le curve che ricordava di aver scorto quel pomeriggio d'agosto, trovandola adagiata sul letto col vestito arricciato sulle cosce, inconsapevole della sua presenza sulla soglia della porta.
In quel momento, contro ogni previsione, James sentì irradiarsi nel petto un calore mordace.

– Sei ubriaca, senza contegno, – ruggì caustico. – Ti sei messa persino a flirtare con uno sconosciuto!
– Devi essere davvero abituato male per credere che quello fosse flirtare, – ribatté irridente.

James schioccò la lingua, guardandosi intorno come a convidere col mondo il suo dileggio.
– Tu non puoi nemmeno immaginare in che modo sono abituato.

Alla voce improvvisamente bassa e arrochita di James, il corpo di Jo rispose con un brivido. Una mano, al centro dello stomaco, le strinse le viscere al pensiero di lui e di quali o di chi potessero essere le sue abitudini.

– Nemmeno mi interessa.
– Secondo me sì.

Il respiro di entrambi si mozzò per un istante per ragioni diverse, ma profondamente intrecciate tra loro. James, inorridito dalla speranza che scoprì di nutrire, incattivì lo sguardò, restituendole il più tracontante dei suoi sorrisi.

– Chissà cosa ne direbbe Robb. Secondo te la penserebbe come te o come me?
Jo sentì crescerle nel petto un'ansia scalpitante.
– Robb non ti degnerebbe nemmeno d'attenzione, – fece sicura.
– Almeno sa che sei qui?
– Certo che lo sa e non gli importa. Perché a te, invece, importa tanto? – chiese stizzosa.
– Perché? – Ridacchiò, perfido. – Forse perché, per quanto non lo vorrei, tu sei la fidanzata di mio fratello? Che dici?

Per un attimo, quella frase suonò alle orecchie di entrambi carica di un significato diverso. Ma ricacciarono il pensiero da dov'era venuto, affinando lo sguardo.

– Come pensi che reagirebbe sapendo quello che hai combinato stasera?
– Lasciami stare, James, – mormorò, sconnessamente.

L'uomo, che camminava con le mani in tasca di fronte a lei, stretto nei pantaloni grigi e nella camicia di un punto di blu particolarmente scuro, la guardò con aria di scherno.

– Non fare la furba con me.
– I tuoi giochetti non mi interessano. – Era stremata, tutti i suoi sforzi erano tesi a mantenere un contatto visivo con lui che risultasse convincente e determinato.
James la derise con una smorfia e cominciò a muoversi con lentezza teatrale verso di lei, di nuovo.

– Pensi gli piacerebbe sapere che ti sei seduta accanto ad un avvenente uomo mascherato per duettare con lui una canzone come quella?
– Piantala, – mormorò, incastrata nel suo sguardo.
– Eri molto civettuola a quel pianoforte, lo sai?
Jo trattenne il respiro, stordita dai capogiri, dal suo odore improvvisamente potentissimo, dal tono sinuoso della sua voce. Gli sferrò un'occhiata torva.

– Strano però, credevo ti fosse piaciuta quella civittuola con cui hai duettato. L'hai persino presa tra le braccia per ballarci e chissà che altro avresti fatto con questa civetta, eh dongiovanni?

James aguzzò lo sguardo ed improvvisamente la vicinanza di lei gli risultò insostenibile. La sua bocca era piena, tesa verso di lui e la sua pelle, sotto il riflesso della luna, pareva pane bianco e morbido, d'addentare.

– Ti sarebbe piaciuto scoprirlo? – Non era quella la domanda che avrebbe voluto farle, dovuto farle, ma gli sfuggì dalle labbra come sfugge un singhiozzo, incontrollabilmente.

Jo lo fissò, incredula, incapace di sostenere ancora il suo sguardo troppo intenso; l'angolo dell'elegante mascella, improvvisamente contratta, le rivelò una tensione che cozzava con il suo volto imperturbabile.
– Mi sarei cavata gli occhi dalle orbite, piuttosto, – rispose, finalmente, dopo una manciata di istanti che parve ad entrambi una vita intera.

Di chi stavano parlando? Degli sconosciuti che avevano duettato e ballato vicino, sorridendosi, o di loro due? La corda su cui stavano duellando, scoprirono, era pericolosamente labile.
Dalle labbra di James venne fuori una risata cupa e con un gesto estenuante tirò fuori dalla tasca la maschera di pizzo nero di Josephine, per poi sventolarla con lentezza ipnotizzante sulle loro teste.

– Pensi gli piacerebbe sapere con che canzone hai deliziato tutti noi, stasera?
– Ho deliziato anche te? – domandò, salace, beffarda.
James sogghignò ferino, avvertendo quell'indesiderato calore corrodergli il costato.
– L'idea delizierà davvero poco il tuo fidanzato.
– E' ridicolo, – commentò lei.
Incalzante, lui proseguì, ignorando di proposito ogni parola pronunciata da Josephine.
– Gli piacerà da impazzire sapere con che lascivia mi hai accarezzato il braccio. Per comunicarmi cosa, poi? La febbre?
– Fai sul serio? – L'atmosfera fresca della notte divenne d'un tratto claustrofobica. L'energia emanata dai loro sguardi, il calore dei loro respiri che si mescolavano insieme, divennero un tormento peggiore di quello che si stavano regalando attraverso le parole.

– Per non parlare poi di quella storia del Limbo.

Jo voleva spingerlo via, prenderlo a schiaffi, aggrapparsi al suo collo fino a strozzarlo, ma la sua vicinanza e il tono delle sue accuse, quel gioco che faceva con gli occhi truci e il sorriso obliquo, non fecero altro che incrementare il senso di nausea pressante che provava.

- Cosa volevi dirmi, che lì dentro non importava che tu fossi fidanzata o meno? Eravamo nel limbo e nel limbo sarebbe rimasto quello che poteva succedere?

Le mani di Jo si mossero da sole, come manovrate da un burattinaio invisibile, contro la sua stessa volontà. L'impulso che la colse fu devastante. Gli piantò i palmi sul petto e lo spinse via, ma era evidentemente troppo debole e l'unica cosa che ottenne fu una risata.
Con uno strattone, James le ghermì i polsi, il sorriso fosco, gli occhi di nuovo scurissimi, il verde smarrito.

– Ti dà fastidio che ti dica chi sei davvero, non è così?
– Sei tanto tronfio che non hai pensato nemmeno per un attimo a come potrebbe reagire Robb all'idea del libro di poesie che mi hai messo in borsa? – La voce di Jo gli arrivò ultraterrena e gelida, come altre volte prima di quella sera.
Jo avvertì la pressione sui polsi scemare e una punta di delusione le rimescolò il sangue.
Perché non poteva semplicemente detestarlo, senza desiderare che.
Lui la stava osservando, muto ed impensierito, gli occhi vitrei. Le mani, ancora arpionate ai suoi polsi, si rassegnarono.

– E' un libro, sciocca. Vuoi davvero paragonarmi a te?
– Ammesso e non concesso che io stessi flirtando, James, io ti credevo uno sconosciuto. Tu, quel libro, lo hai dato a me in maniera deliberata.
– Cosa vorresti insinuare?

Forse aveva esagerato, forse si era lasciata scappare più di quanto avesse prima di allora ammesso persino a se stessa. Perché sì, lo aveva pensato, poche volte prontamente castrate, che lui attraverso quel libro, volesse sedurla.

– Cosa pensi che stia insinuando?

Cosa stava insinuando? Cosa stavano facendo, lì, l'uno di fronte all'altra, sputandosi in faccia cattiverie da minuti e minuti, senza darsi tregua? Perché se detestava tanto quell'aria soffocante che si creava standole così vicino, non muoveva un passo? Perché rimaneva saldo sui piedi, incapace di smettere di torturla e torturarsi? In tutto questo, riusciva, suo malgrado, persino a concentrarsi sui dettagli più insulsi, la sua clavicola pallida, la sua pelle bagnata dalla luce della luna. Cosa stavano facendo, lì, fermi nella notte blu? Blu, azzurra come la sua pelle così bianca che si sfumava e si faceva liquida ai suoi occhi, soverchiata dai raggi della luna.

Nuda sei azzurra come la notte a Cuba,

hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli,

Pensò a quei due versi con tanta intensità da non riuscire ad impedire alla sua mano di sfiorarle una ciocca di capelli, guardandola negli occhi senza più nessuna foschia, solo ipnotizzato, perso in quella malia, la solita, che era una stregoneria.
Jo lo guardò, stordita, e desiderò di nuovo mettergli le mani al collo, ma stavolta solo per sapere com'era, cosa si provasse a toccarlo.

Hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli, Josephine? – La voce di lui le arrivò come una carezza, cogliendo entrambi di sorpresa, facendoli sprofondare sempre più rovinosamente in quell'ipnosi. Per Jo fu come annaspare: aveva riconosciuto quei versi e non capì, non poteva capire, e tremò.

– James, che stai...

Le dita di lui abbrancarono strenuamente una ciocca dei suoi capelli e in uno scatto che la lasciò senza fiato, si scostò, lasciando che la ciocca le precipitasse di nuovo sul petto. Lo vide indietreggiare lentamente, con aria come trasognata, osservandola e puntellando con gli occhi le sue gambe, i suoi fianchi stretti nel vestito da bambola, bambola crudele, bugiarda che lo aveva di nuovo artigliato, disorientato coi suoi occhi foschi e la sua voce da strega. Le rivolse un ghigno, scuotendo la testa. Le mostrò di nuovo la maschera di pizzo scuro, sciupata dalle sue mani grandi e tornò ferino. Jo non riuscì a capire cosa fosse successo, lo fissava immobile, con le mani strette sui lembi del vestito, le gambe ormai molli, liquide, la testa stretta in una tenaglia.
James si rigirava il tessuto ricamato tra le mani, osservandolo come divertito.

– Questa la tengo. Può servirmi, che dici?
– Mi stai minacciando?
– Non sarei così drammatico.

Jo sospirò, non ce le faceva più. Si sciolse contro il muro, fino a sedersi per terra, infischiandosene del terriccio e dello sguardo incredulo e disgustato di James.
– Vattene, – sussurrò.
– Fai la vittima? – James capì che era sul punto di crollare, ormai sconfitta dall'acol, ma non riusciva a trattenere la smania di infliggerle tormento.
– Sto male, brutto sadico, – mormorò a denti stretti, con un filo di voce, non riuscendo più a capire nulla, stordita tra la voglia di strozzarlo e quella di toccarlo. Si guardò le gambe nude contro il terreno ruvido, ed erano blu , proprio come la notte di Cuba. Cosa si erano detti? Perché le infliggeva quella tortura? Non le importava, non in quel momento. Voleva dormire, soltanto, e chiedergli di non smettere, mai.
Lo sentì avvicinarsi, riconobbe le sue scarpe lucide, avvertì il suo corpo chinarsi su di lei. Il resto, da quel momento, fu oscurità.


 

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Capitolo 21
*** The night we met ***


Vi preannuncio che da questo capitolo la trama subirà una svolta importante.

 

Capitolo 20.

I don't know what I'm supposed to do
Haunted by the ghost of you
Oh, take me back to the night we met.
The night we met, Lord Huron
(da ascoltare, leggendo)


 
James si chinò lentamente su di lei, sondò il suo volto pallido, le ciglia scure che le solleticavano le gote, la bocca rossa appassita in un broncio. Sospirò pesantemente, le scostò una ciocca di capelli che le si era appiccicata sul mento, attento a non soffermarsi a sfiorarla, sebbene la tentazione fosse enorme. Ma non era così che voleva farlo, non per la prima volta, ammesso che ce ne sarebbe mai stata una. Una volta che avesse mai osato sfiorarla, avrebbe voluto saperla reattiva al suo tocco per poter capire se, in fondo, tutto quel maldestro scontrarsi e cercarsi significasse qualcosa, qualsiasi cosa e non fosse semplicemente un tormento tutto suo, nato dal niente, da un inganno della sua mente.

La prese tra le braccia e la trasportò fino all'auto, l'adagiò sui sedili posteriori sperando di non trovare, al suo ritorno, spiacevoli sorprese sparse sulla tappezzeria.
Aveva esagerato, si era accanito su di lei con furia cieca e stupida. Non importava quanto si mostrasse crudele ed imperturbabile: dentro di sé sapeva sveglia una concitazione violenta e priva di fondamenta che non trovava giustificazione. In fondo, non c'era un motivo concreto al moto di ferocia che lo coglieva in sua presenza, al sentore di menzogna che avvertiva tanto finemente emanato da lei. Probabilmente era davvero una brava ragazza, innamorata e sincera ed in effetti non aveva motivi concreti per dubitarlo; era mosso perlopiù da sensazioni, da valutazioni fatte dopo aver studiato gli atteggiamenti di lei nei confronti del fratello. Trovava intollerabile la freddezza, la condiscendenza con cui sembrava trattare Robb, così assorbito da lei da non accorgersi probabilmente di quanto le tenebre che le pesavano sugli occhi mortificassero la luce naturale che lui emanava.
Era abbastanza, però, per giudicarla tanto aspramente? E' vero, non gli era stata simpatica fin da subito, abbarbicata sulla sua poltrona con in mano uno dei suoi libri, né lei aveva fatto alcunché per mutare quella prima impressione, sempre ben disposta com'era a rifilargli battute al vetriolo o impertinenze sfacciate. Ma davvero tutto questo poteva giustificare il desiderio di confonderla e smarrirla?

La lasciò al sicuro dell’auto e, muovendosi a ritroso, attraversò l'entrata secondaria da cui erano sbucati fuori poco prima, raggiunse l'interno del rudere, il club Limbo, per cercare di capire con chi potesse essere venuta, sebbene una festa in maschera fosse quanto di meno opportuno ai fini di una ricerca di quel genere. In più, non era sicuro di conoscere chiunque l'avesse accompagnata. E Robb, in tutto questo, perché non era con lei?
Prima di lasciarla dormire sui sedili della sua auto, le aveva sfilato il cellulare dalla piccola tracolla di vernice che le penzolava dalla spalla ma, proprio come aveva preventivato, i suoi contenuti erano resi inaccessibili da una password di sicurezza. Con lo sguardo rintracciò John, ormai senza maschera, seduto sul divanetto che usavano occupare, Madison seduta al suo fianco con una benda da pirata sull'occhio e un uomo di spalle, probabilmente un dei tanti amici della musicista. Li raggiunse a grandi falcate.

– Ma dov'eri finito? – gli chiese John con un'espressione carica di sottintesi. – Eri con la cantante misteriosa?
– Sì, ma non è come pensi, – tagliò corto l'altro. – Madison, sai dove posso trovare un microfono?
– A che ti serve? – chiese la donna, alzandosi in piedi.
– Te lo spiego dopo. Adesso dammi una mano.
Madison annuì e si fece spazio tra la folla, con James alle spalle.
– Il dj ingaggiato per la serata dovrebbe averne sicuramente uno. – Ridacchiò e lo guardò mentre le si affiancava. – Gli è stato categoricamente vietato di utizzarlo per interagire col pubblico. Avresti dovuto vedere che faccia ha fatto quando gli è stato tagliato via metà del solito repertorio per adeguarsi alle esigenze del locale!

James non era interessato a quella storia, voleva risolvere l'impiccio con Josephine nel minor tempo possibile.
Raggiunsero la postazione del dj, conficcata nell'angolo adiacente al bancone e incorniciata da due grammofoni imponenti e massicci. Madison raggiunse il ragazzo che vi si celava dietro e gli disse qualcosa all'orecchio. James lo vide armeggiare con l'attrezzatura e dopo qualche istante mostrò il microfono. James se ne impossessò e chiese se tra la bolgia vi fossero gli accompagnatori di Josephine Fray, pregando loro di raggiungerlo ai grammofoni.
Nell'arco di pochi minuti, vide quella che riconobbe come Tracy, l'amica storica di Robb, avvicinarsi trafelata a lui.

– James, sei tu! – fece la ragazza, col fiatone. – Jo è con te? – Si guardò intorno, ancora inquieta. – Che paura mi è presa. Fortuna che sei qui! Sierra è completamente andata, la sua amica pure. Non mi danno proprio ascolto! Jo si è messa a cantare, puoi crederci? E insomma, poi non l'abbiamo più vista.
– Tranquilla. – James troncò di netto lo sproloquio affannato dell'altra. – E' nella mia auto ubriaca fradicia. La porto a casa.
Tracy sospirò.
– Grazie al cielo. Robb mi avrebbe fatta a fette se le fosse successo qualcosa. Ma poi perché si ostina a bere se non regge l'acol! – Scuoté la testa con aria solenne e contrariata.
– Tu vuoi un passaggio? – chiese. Madison gli circondò un braccio e guardò con la sua aria un po' trasognata Tracy, la quale ricambiò con un sorriso affettato, colpita dall'atteggiamento tanto disinvolto, da gatta della donna dagli occhi a mandorla.
– No, grazie. Meglio che resti con quelle due e le tenga d'occhio.

Tracy lo ringraziò ancora, poi si allontanò e sparì tra le sagome scarlatte dei festanti. Madison, ancora aggrappata a lui, lo guardò di sottecchi, insinuante.
– Chi sarebbe questa Josephine Fray che ti prendi la briga di accompagnare  a casa?
James schioccò la lingua, si diede una rimescolata ai capelli, stanco.
– La ragazza di mio fratello, quindi frena l'immaginazione.
– Frenare l'immaginazione? La situazione è più succulenta di quanto avessi sperato.
– Tu sei perversa, – rispose scandendo ogni parola, dandole un pizzico sulle dita per farla scostare.
– Non posso credere che certe idee non ti solletichino, – proseguì imperterrita, ridendo con quella sua risata vibrante e bassa.
James la ignorò, si limitò a scoccarle un'occhiata di sardonico rimprovero. – Salutami John e fa' la brava.
– Sì, sì.
Gli depositò un bacio sulle guancia e lo guardò allontanarsi a passi distesi.

 
La trovò ancora nella stessa posizione, completamente tramortita dal sonno e probabilmente dai liquidi che aveva ingerito. Come gli aveva ricordato Tracy, Jo non faceva che ubriacarsi alle feste, anche con modeste quantità di acol, finendo puntualmente tra le sue braccia. Si lasciò alle spalle l'arena che li aveva visti gladiatori per gran parte della serata, e guidò più dolcemente che poté per evitare che rigurgitasse  sui sedili o forse, molto più semplicemente, per non farla stare peggio.
Ridicolo, pensò, averne cura dopo averla aggredita a quel modo, incurante delle sue condizioni già precarie.

L'auto s'incuneò tra due dei cespugli di rovi che costeggiavano il vialetto dirimpetto alla casa di famiglia. Sempre tenendola fra le braccia, la condusse su per le scale di ciliegio, e poi in camera di Robb, facendo attenzione a far il minor rumore possibile, onde evitare che i genitori la scoprissero in quelle condizioni, tra le sue braccia, peraltro.
Nell'azzurro lunare della camera da letto, James si mosse a tentoni, l'adagiò sulle lenzuola intatte che parevano color dei lillà e accese il paralume, avendo cura di inclinarlo un poco per non accecarla. Le attraversò il corpo con lo sguardo, sedendosi appena sul bordo del letto, e si concesse una risata, scaturita dalla stanchezza e dalla situazione bizzarra in cui si accorse di ritrovarsi. Quella sera lei era stata caleidoscopica, inafferrabile, un mistero che lo aveva affascinato, un usignolo e poi una preda, da baciare prima e da sovrastare dopo, una volta denudata della sua maschera.
Chi era Josephine? Perché lo accendeva in quel modo? Non era uno stupido, e per quanto si sforzasse di tarpare le ali a certi pensieri che minacciavano di svolazzare liberamente nella sua testa e nel suo stomaco, non poteva negarsi la verità. Non poteva negare a se stesso il magnetismo di cui era vittima, un magnetismo incomprensibile e violento, esplosogli addosso in schegge e lapilli da un momento all’altro.
Quand’è che era cominciato tutto? Non ricordava il momento esatto, forse da subito, forse persino da prima di incontrarla. Si massaggiò gli occhi stanchi e si concesse di guardarla.
Era la sua pelle serica ad aver sedotto Robb? Cosa aveva visto in lei, lui così brulicante di vita, col viso pulito, il sorriso contagioso?
Forse, lei, con lui, nell'intimità, era un'altra, molto più simile a quella che lo aveva incantato da dietro un velo di pizzo scuro nemmeno un'ora prima. Nascosta dietro quella maschera, aveva irradiato una luce irresistibile, aveva sorriso, aveva sciolto la sua voce in stille cremisi che lui aveva assorbito con bramosia, in maniera vampiresca. Era stata calda, vibrante, seducente, libera.
Lì distesa sul letto, adesso, pareva corrucciata, molto più simile al ritratto che mostrava di sé ogni giorno, alla luce del sole. Ma alla luce della luna, innaffiata di alcol, lei cambiava, come una strega, un licantropo.
James ricordò che aveva avvertito quella stessa sensazione la sera che, poggiati alla balconata del terrazzo dei Cohen, lei gli aveva parlato con la voce bassa, fatta di mormorii, facendosi piccola, commovente. Gli aveva chiesto se la trovasse arida. Gli aveva espresso il desiderio di essere amata, chiara e oscura, in maniera totale.

Le sfiorò la mano con un dito, sovrappensiero, percorrendole i solchi azzurri delle vene sotto la pelle trasparente. Lei si mosse, mugolò qualcosa e James dovette ritrarsi, se lo intimò.
Fece per sollevarsi dal letto e allontanarsi da lei, ma qualcosa sul comodino illuminato catturò il suo sguardo. Quello, pensò carezzando il dorso ruvido di quello scrigno di versi, era il solo posto in cui riuscissero ad incontrarsi, inaspettatamente e smaniosamente. Quel libro di sonetti era come una foresta e i versi, le parole palpitanti, nient'altro che fronde e arbusti, dietro cui giocavano a celarsi, osservandosi attraverso le fessure dei rami come due creature selvatiche. Lei come una ninfa, trasparente e arborea, lo trafiggeva coi suoi occhi torbidi e trascinanti e lui non aveva altra scelta se non lasciarsi risucchiare da loro, inevitabilmente, come l'acqua che scende nel gorgo, muta.
Lo teneva sul comodino, pensò, e continuava a studiarlo, se l'era portato persino lì, per il week-end, forse per capirci qualcosa o semplicemente perché cercava ancora quella fame di cui gli aveva accennato il bisogno, sempre quella sera d'estate, su quel terrazzo. Qualunque fosse il motivo che la spingesse a non separarsene, James sentì spandersi nel petto un scossa di piacere che gli piegò le labbra in un sorriso trattenuto. Chiuse il libro con un tonfo, così da schiacciare tra le pagine quei pensieri infausti.
Nel farlo, però, notò qualcosa scivolare dai fogli, ondeggiare lenta e a zigzag, come sorretta da una bolla, per poi posarsi a terra, lieve come una foglia o una piuma. James si chinò per raccogliere quello che pareva un pezzo di carta qualunque, ma una volta tra le mani, comprese che si trattava di una fotografia. Ne studiò il retro, su cui, sbiadita, si stagliava una didascalia che, con molta probabilità, riportava una citazione:

Io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere.
Frays, 19 giugno 2008.


 
Si alzò in piedi e si avvicinò alla luce dell'abat-jour, curioso di capire e magari dare un senso a quella frase che gli risuonava in testa, familiare. Poi, nella foto, vide qualcosa che lo spiazzò. Un uomo e una donna, entrambi dai corti capelli bruni, sorridevano amabilmente, poggiati al manubrio di una sedia a rotelle su cui stava seduto, sorridente, un ragazzo dalle spalle larghe e l'aria sveglia, anche lui bruno ma con brillanti occhi verdi. Dietro di loro troneggiava il tronco possente e nervoso di un arbusto, probabilmente una quercia, constatò James. Oltre il tronco, una manciata di chiazze verdi e opache si stemperavano nel celeste sfocato della volta del cielo. In rilievo e nitidi, vi erano solo i personaggi della foto, ma uno in particolare catturò il suo interesse. Probabilmente ad impensierirlo avrebbe dovuto essere il ragazzone sulla sedia a rotelle, ma non poté fare a meno di stringere tra le dita le falde sdrucite dell'istantanea, quando il suo sguardo si posò su Josephine, seduta ai piedi del ragazzo, una spalla premuta sulle sue ginocchia, una salopette a vestirla. Portava i capelli più corti, sulle spalle, e forse per questo più spumosi. Avrebbe voluto scoprire se lo sguardo, ultraterreno e fosco della donna addormentata a pochi centimetri da lui esistesse già in quel giugno del duemilaeotto, ma la sua avidità non poté saziarsi, non in quel momento.
Josephine. I suoi occhi, il suo naso, la sua bocca, il suo viso tutto era ammutolito, deturpato, da un'incisione profonda. Una croce impietosa e netta aveva cancellato il volto di Josephine da quella fotografia, facendo calare le tenebre sul sole che rischiarava i volti sorridenti del resto di quella che, con tutta probabilità, era la famiglia Fray.

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Capitolo 22
*** Non può bastare ***


Capitolo 21. I

Vorrei poter soffocare
[...]
sul tuo volto, sulle tue membra struggenti
nel deliquio dei tuoi occhi profondi
perduti nel mio amore,
quest’acredine arida
che mi tormenta.

- Cesare Pavese
[grazie a Cassandra per lo spunto.]
 

La mattina seguente, Robb la trovò lunga e distesa sulle lenzuola sfatte, ancora completamente vestita da sera, il trucco degli occhi colato giù per le guance, il rossetto ormai del tutto sfumato. Poche ore prima, un messaggio di Tracy lo aveva avvertito dell'insolita situazione: Jo aveva bevuto un bel po', ma James si era incaricato di portarla a casa sana e salva.
Prima di rimettersi in viaggio per casa, trafitto dalle luci dell'alba, Robb aveva lasciato un messaggio sulla segreteria del fratello.

Grazie per esserti preso cura di Jo. A domani.

James lo ascoltò qualche ora più tardi, sorseggiando lentamente un caffè più amaro del solito. Sul top della cucina, lo fissava lo schermo del cellulare, offrendogli l'immagine della famiglia di Josephine: uno scatto, quello, rubato la notte prima, consapevole di non poter semplicemente infilare l'originale in tasca e fregarsene delle possibili conseguenze.
Lei non doveva sapere.
Chi era quel ragazzo sulla sedia a rotelle? James si era convinto fosse il fratello di lei e si chiese che cosa gli fosse capitato. Sapeva di aver peccato di curiosità, di aver invaso l'intimità di Josephine, ma non aveva potuto trattenersi: desiderava sapere, per riuscire finalmente, forse, a comprenderla.
Ma ovviamente una foto non poteva bastargli, né poteva bastare sapere, grazie ad una ricerca su google, da dove provenisse la citazione riportata sul retro della foto.
James scoprì perché gli era risultata subito tanto familiare: la citazione proveniva dalla Genesi e riportava le parole di Caino di fronte a dio. Non poté fare a meno di domandarsi il perché di una didascalia tanto infelice sul retro di una foto di famiglia. Ma del resto, non era l'unica nota infelice di quell'istantanea. Ad esser ancor più disturbante era il modo in cui il volto di Josephine era stato sfigurato. Perché conservare tanto gelosamente una foto in cui il proprio volto appare a malapena, tranciato via in quel modo, poi? Un pensiero solleticò James, ma era una supposizione che non poteva permettersi di fare: del resto non conosceva Josephine come credeva, come voleva. Pensò a lei, alla nottata trascorsa vicino a lei e sentì lo stomaco torcersi in una morsa al pensiero che per quanto fossero stati vicini come mai lo erano stati, per quanto si fossero sorrisi, corteggiati da sotto le maschere, per quanto si fossero poi sfidati, aggrediti, tutto quello che aveva davvero di lei era niente. Qualsiasi cosa attraversasse i loro sguardi quando si incrociavano, qualsiasi cosa provasse di fronte a lei, alle sue labbra, al suo odore, lei non era altro che fumo tra le sue mani. Per quanto vicini fossero, non lo sarebbero mai stati abbastanza. Era la prima volta che si concedeva di pensare a lei in quei termini, così apertamente persino di fronte a se stesso, ma che altro poteva fare? Arrendersi a se stesso e dare tregua allo sconquasso che gli metteva sottosopra lo stomaco era il minimo che potesse permettersi; del resto, lei, nonostante i suoi desideri, dormiva ancora avvolta nelle lenzuola del letto di Robb.


 

***


Non era bastato tutto il tè del mondo per ripulirla dai fiumi di martini che aveva tracannato la sera prima, né era bastata una doccia bollente per restituire vigore al suo corpo. Robb le aveva preparato un'abbondante colazione, ma non era comunque stata in grado di toccare cibo. Stare a letto, sì, l'aveva aiutata, ma non poteva essere tanto maleducata da passare l'intera mattinata chiusa in camera. Su suggerimento di Robb, avevano deciso di fare una passeggiata intorno alla casa e di rimanere poi seduti sulle scale del porticato, godendosi la calura del mattino. Lui aveva riso di lei, inconsapevole di quanto in realtà quello che lui considerava un episodio divertente, fosse per lei fonte d'angoscia ed inquietudine.
Robb le aveva chiesto di James, di come si fossero incrociati, e lei aveva mentito, confessando di non ricordarlo. Probabile, ma assolutamente falso. Ricordava tutto in maniera spaventosa: i dettagli, l'odore, il suono della sua voce, il suo sguardo da lupo. Le sue parole.
Robb, per distrarla dai capogiri, le aveva raccontato della nottata sotto le stelle, delle tende in prossimità del fiume, del numero esiguo di pesci catturati, della birra e delle risate, della magia di una notte come quella. Josephine lo aveva fissato duramente, cercando di trattenere le lacrime che le pizzicavano gli occhi già arrossati. Non aveva potuto controllare quella sensazione, quello stridìo che le aveva trapassato la mente, il petto, lo stomaco. La magia di una notte come quella era tutto ciò che avrebbe voluto dimenticare, lì di fronte allo sguardo dolce di Robb, così innocente e indecente nella sua cecità. Lui l'aveva accarezzata molto, sotto quel porticato, le aveva intrecciato i capelli e se l'era stretta al petto e Jo, più tardi, di fronte alla libreria dei Draper, pensò a quel momento con profonda tristezza.

Fu invece l'idea di James, di quello che era accaduto quella notte, a condurla dritta tra le scaffalature. Se prima di quella notte aveva pensato semplicemente di liberarsi di quelle poesie per il semplice motivo di mettere fine agli stupidi giochi mentali di James, adesso ciò che la spingeva a restituire quel libro alla sua antica dimora era il bisogno di mettere fine al gioco con cui lei stessa aveva preso a confondersi. Un gioco abietto e subdolo all'interno del quale una parte di lei stava rifilando un bluff all'altra. Doveva ricomporsi, dimenticare il suo respiro sul viso, le sue mani strette ai suoi capelli, la sua voce così profonda, di velluto, perfetta, capace di inghiottirla; doveva dimenticare di averlo desiderato tanto vicino da poterlo strangolare solo per poter sentire la sua pelle sotto le dita. Era un pensiero imbarazzante, sbagliato, crudele, eppure.
Fu inaspettatamente doloroso lasciarsi alle spalle quel libro, almeno quanto lo era pensare ai motivi che lo rendevano tale.
Tornò al piano di sopra, di corsa, senza nemmeno desiderare di trattenersi laggiù, tra i libri, sulla sua poltrona. Era tutto così suo, improvvisamente tutto così pregno di lui, che le mancò il respiro. Si abbandonò contro la parete, dando un ritmo al proprio respiro, cercando di riprendersi dall'ondata di nausea che l'aveva assalita. Raggiunge il corridoio, si guardò ad uno specchio e si toccò il volto con rabbia, urgenza. Si sprimacciò le guance, picchiò i palmi contro le tempie, poi s'impose decoro e si trafisse con occhi vitrei, attraverso il riflesso. Sbagliava sempre, ripetutamente, per quanto se lo proibisse. Sbagliare era nella sua natura. Desiderare ciò che non doveva, anche. Si sciolse la treccia che Robb le aveva abbozzato in giardino, districò le ciocche tra le dita con lentezza infinita, lasciandole ricadere sulle spalle, di nuovo, come rampicanti.

James li raggiunse per pranzo, durante il quale nessuno accennò all'accaduto della notte prima, non di fronte a Susan e Ben. La ignorò con tutte le sue forze e lei fece altrettanto. Si parlò di tutto, si rise molto anche, forzatamente, a volte. Jo riuscì a mangiare ben poco e con somma fatica, mentre Robb di tanto in tanto le carezzava il fianco, come a rassicurarla.
– Una nottata di pesca tra amici è quello di cui avresti bisogno anche tu, fratello, – disse ad un certo punto Robb. James gli sorrise beffardo. – Sì, a settant'anni, forse.
Ben tossicchiò. – Papà, tu sei un settantenne fuori dal comune. Certamente non ordinario come Rebby.
Robb rise. – Ordinario io? Ah, già, non frequento certe feste, dimenticavo.
Jo si voltò a guardarlo, la gola serrata. James accennò un sorriso obliquo, uno dei suoi, e non ribatté, puntò invece lo sguardo su Josephine, pallidissima, gli occhi truccati non riuscivano a nascondere il viola naturale che li incorniciava.
Lei gli scoccò un'occhiata fugace che lui non riuscì neppure a decifrare e che no, non gli bastò.

 


***  

Era una giornata calda, troppo calda per il mese di settembre e ne approfittarono per rimanere in giardino, dopo pranzo. Ben e Susan avevano preferito restare in casa a guardare la tv e Jo si era dileguata su per le scale, assicurando a Robb che li avrebbe raggiunti, presto o tardi. James, seduto su una sedia pieghevole, gli occhiali da sole e un libro in mano, era assorto nella lettura, placido. Robb lo aveva osservato per un po' e aveva chiuso gli occhi, abbandonandosi sul prato fresco.
– Jo mi ha detto che non ricorda nulla di ieri sera.
James si bloccò.
– Sapere che c'eri tu mi fa stare meglio.
– Non era da sola, in ogni caso, – osservò l'altro.
– Lo so, ma sai, be'... insomma, mi fa stare meglio.
James lo scrutò da dietro le lenti scure.
– Cosa non mi stai dicendo, Robb?
L'altro fece un sospiro lungo, profondo e aprì gli occhi.
– Niente. E' che lei è molto particolare, Jamie, a volte non riesco a capirla. Mi preoccupo, tutto qui.
Pronunciò quella frase a singhiozzi e questo non fece altro che acuire l'avidità di James. Pensò che, forse, quello era il momento giusto per rivolgergli le domande che avrebbero aiutato se stesso, a capirla.
– Cosa ti preoccupa esattamente?
– La sua testa, quello che pensa. Un giorno è una persona e il giorno dopo è l'ombra di se stessa.
Robb lo guardò. – Non lo so, Jamie. Vorrei scuoterla e farle dire tutto quello che mi tiene nascosto.
James si drizzò sulla sedia. – In che senso? Temi abbia dei segreti?
– No, non parlerei di segreti. Non so spiegartelo. Vorrei solo mi dicesse se ha un problema. Ieri si è ubriacata, per esempio. Lo so che è giovane, lo facciamo tutti. Ma da lei non te lo aspetti, mi capisci?
– Credo.
– Forse è solo il suo carattere ed io mi ostino a capirci qualcosa; forse dovrei solo prenderla così com'è. E lo faccio, ma poi succedono queste cose...
– Robb, è solo una sbronza. Credo tu stia esasperando la situazione, – commentò James.
– Non è la sbronza. – Sbuffò, spazientito. – E' lei e mi preoccupo per niente, probabilmente.
– Io credo di sì. Insomma, – James si inumidì le labbra, pronto, finalmente, a saggiare quel territorio inesplorato, – che problemi vuoi che abbia? Lo studio? – Fece una pausa. – La famiglia?
– No, nessuno che io sappia. Le piace quello che fa, non se ne lamenta. – Si massaggiò il volto, pensieroso. – Dei suoi so veramente poco, in realtà.
– Tipo?
– Tipo che hanno dei rapporti un po' tirati per via delle scelta di facoltà, ma non le hanno mai fatto mancare un penny.
– Tutto qui?
– Che altro? Nessun dramma, James, non è un romanzo.

Robb lo guardò di traverso.
James sollevò le spalle, voltando con finta indifferenza una pagina, tornando alla lettura con aria compassata.
Come sospettava, Robb non sapeva nulla di concreto sulla famiglia di lei. Come poteva essersi accontentato di quelle briciole? Come poteva semplicemente annuire e credere che lei fosse tutta lì? Come poteva non sentire il bisogno di conoscere tutto di lei, quando lui, invece, lo sentiva con tanta violenza? Rabbrividì a quel pensiero, dandosi conforto confezionando per l'occasione l'idea di averne bisogno per il bene di Robb, che era tanto sprovveduto da lasciarsi ingannare. Perché d'inganno doveva trattarsi, di menzogna e oscurità.

La vide arrivare, muoversi verso di loro, un vestito verde scuro, i capelli lunghi, il volto emaciato, gli occhi bassi, un libro in mano. Era sempre più vicina e lui si permise di osservarla, al sicuro delle lenti scure. Per un attimo, uno solo, sperò che lei si muovesse verso di lui, ma lei, inevitabilmente, raggiunse Robb, si chinò su di lui e gli lasciò una carezza sul viso. Lo accarezzava e gli mentiva, medusa crudele, strega impossibile. Poi la vide sollevarsi, raggiunse una sedia e se la trascinò di fronte a loro, il libro aperto sulle cosce, l'aria assorta. Josephine rilesse più volte lo stesso stralcio, ma non poté costringere i suoi sensi e la sua mente ad assecondarla, non di fronte a lui. Sollevò lo sguardo e scorse Robb assopito, e questo le bastò per cedere: lo guardò. Guardò la mano che stringeva un libro, la mandibola immobile, elegante, le labbra serrate, sempre velatamente ironiche, la sua pelle chiara, infinitamente mitologica, le stille d'oro sui suoi capelli bagnati dal sole. Lui si accorse dello studio a cui lo sguardo di lei lo stava sottoponendo e fu sfrontato nel togliersi gli occhiali scuri, rivelandole il suo sguardo affilato. Nessuno dei due si mosse, poi James sorrise, improvvisamente malevolo.
– Ingrata.
– Accompagnarmi è il minimo che potessi fare, dopo che mi hai... – Jo fece saettare lo sguardo da un punto all'altro, assicurandosi che Robb non avesse aperto gli occhi.
– Sta dormendo?
– Abbiamo dei segreti, noi? – fece lui, secco.
Lei strabuzzò gli occhi in un muto rimprovero. Poi, con un gesto lento del capo, fece segno di no.
Eppure li avevano, dei segreti, entrambi lo sapevano e fu dolce e disturbante comprenderlo, in quel momento. James le sorrise con quella sua solita smorfia delle labbra simile ad un insulto taciuto; la maschera di pizzo bruciava nella tasca dei pantaloni, poteva sentirla e poté sentire lei vibrare impercettibilmente sotto il suo sguardo, prima di spingere via la sedia e allontanarsi da lui, da lui soltanto. Quello, pensò, allontanarsi, sfuggire, era qualcosa che lei faceva per lui, solo per lui.

 
 
 

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Capitolo 23
*** Devotion, save me now. ***



Capitolo 21.
Parte II

 

Forgive my thoughts when I'm asleep.
Forgive these words I'm yet to speak.
I feel so ashamed.
[...]
Devotion save me now,
I don't wanna stray from the hallow ground,
I'll turn temptation down,
I'm asking you to take me to safety this time.


Devotion, Hurts


https://www.youtube.com/watch?v=UVTNiyHVLTs
*da ascoltare*


 

Josephine sentì di doversi allontanare: c’era qualcosa di onirico quel pomeriggio. Il mondo intero sembrava essersi assopito sotto i raggi aggressivi di quel sole settembrino, assopito come Robb, innocente, steso tra di loro, inconsapevole. Inconsapevole di cosa, poi? Cosa c’era da sapere? Niente, tralasciando tutto quello che le era accaduto nella testa dall’istante in cui aveva incrociato per la prima volta lo sguardo corrosivo di James. Cosa c’era da sapere? A parte quello che desiderava, a parte il piacere che le dava essere torturata dai suoi giochi mentali, a parte il brivido che le dava il pensiero di avere dei segreti con lui e mentire con lui, sfacciatamente, quasi all’unisono. Cosa poteva saperne Robb del modo in cui la faceva sentire la sola idea di leggere i versi che lui aveva letto e poi sottolineato, facendogliene dono? Cosa poteva saperne Robb, suo dolce amore, angelo dalle ciglia lunghe, di come litigare con lui la facesse sentire un giunco asservito, animale braccato e poi fiera, viva, pulsante?
In quel momento, quel pomeriggio, la sua presenza gli risultò soffocante, l’unica presenza vivida in un panorama sfocato, vivida come erano vividi i dettagli del suo corpo, del suo volto affilato, del suo fare da lupo. Avrebbe dovuto detestarlo oltre misura dopo il modo in cui l’aveva tormentata la notte prima: ultimo episodio tra gli innumerevoli che li avevano visti scontrarsi senza motivo alcuno, se non perché lui l’aveva voluto.
Corse a chiudersi in bagno, si piegò sul grembo, la testa avvolta in una nube grigia, un’antica angoscia a batterle nel petto. Ignorò la sua immagine allo specchio e si aggrappò al lavandino, col respiro sempre più corto, poi infinitesimale, rado. Era la solita: non poteva aver davvero pensato di essere sfuggita a se stessa, a quel marcio che le anneriva l’anima, non poteva aver pensato di meritare una vita diversa da quella a cui si era condannata. Avrebbe distrutto anche lui, anche loro, di nuovo, in un loop infinito, senza scappatoie, vorticoso, un cancro che si diramava dalle sue mani.
Finalmente vomitò.

 

 

Passarono minuti interminabili prima che si sentisse di nuovo, parzialmente, in forze. Si era abbandonata sul pavimento, sfinita, poi si era lavata intensamente, con forza, la bocca, le braccia, le gambe. Con gli arti ancora arrossati, Jo uscì dalla porta del bagno con sguardo greve, il passo sicuro, da soldato. Raggiunse le scale a chiocciola più in basso, per giungere nel luogo da cui era fuggita come una codarda solo poche ore prima. C’era una sola realtà, una sola inconfutabile versione di lei, quella che distruggeva, quella ripiombava in biblioteca per rimediare all’inutile tentativo di redenzione di quella mattina.

Il suo destino era desiderare e sbagliare e l’immagine di lui, lì, poggiato al muro come in attesa, fu un’amara conferma.
Si studiarono come due cavalieri prima di un duello, ruotandosi impercettibilmente intorno. James, poi, con passo felino, raggiunse la scaffalatura e iniziò a tastare i dorsi dei libri disposti in fila, una mano in tasca, lo sguardo sui piedi, meditabondo. Poi si bloccò e iniziò a tamburellare le dita su una costa in particolare, quella del libro da cui ogni male che le venisse da lui aveva avuto origine.


- E così che fai di solito con un regalo? Lo restituisci senza nemmeno avvisare?
Josephine trattenne il fiato solo per un istante, poi trovò il coraggio di affrontarlo.

– Non è un regalo, – ribatté.
– Ci attacchiamo alle parole? – La guardò, l’aria arrogante.
– D’accordo. Parliamo allora di prestito.
– Che non ho mai richiesto, – puntualizzò lei.
– Non a parole, forse. L’hai corteggiato molto, però.
– Questo è il genere di constatazioni che ami fare sulla base di niente, – sbuffò lei, senza ironia, dolorosamente distante.
–Ti sbagli, – fece lui, protervo. – Io osservo tutto e capisco molte cose, a volte prima di chiunque altro. Non ne faccio un vanto, credimi. E’ una dote innata, ma anche una condanna. – Fece una breve pausa, come catturato da un pensiero.
– Io ti osservo, Josephine.


Jo strizzò gli occhi, scrutandolo adesso indispettita. Lui sorrise, soddisfatto vedendola andargli in contro a passi rapidi.
– Questo, allora, me lo riprendo. – Allungò la mano sullo scaffale. – Così la finiamo con questa sceneggiata.
James se la ritrovò vicinissima e non lo aveva preventivato. Adesso il suo profilo era ad un soffio dalle sue mani, la guancia pallida, senza calore, le ciglia scure, la curva morbida e severa del suo labbro superiore, lì, tremendamente vicini.
–Tu parli di sceneggiate? – La mano di James, impietosa, si schiacciò su quella di lei, e spinsero di nuovo, insieme, il dorso di quel libro, riconsegnandolo alla sua fessura. Josephine cercò di ignorare la mano di James sulla sua, il suo odore così violento e pericolosamente vicino, ma non mosse un muscolo, non interruppe il contatto, né lo fece lui.
–Tu con tutte le tue finzioni? – James proseguì, mordace.
Lei si voltò, gli occhi ridotti a una fessura.
– Ancora con questa storia? Ti rendi conto che non fai altro che parlarmi come se mi conoscessi quando in realtà non sai niente di me?
– Dimmi che mi sbaglio, allora. Dimmi che tutto quello che c’è da sapere su di te è quello che vedo.– Un sorriso obliquo gli ferì il volto. – Quello che vede Robb.
Il cuore di Josephine iniziò una danza incontrollabile, finendole fin su per la testa. Non capiva come quell’uomo riuscisse a toccare punti tanto vulnerabili con tanta facilità. Lui non sapeva niente di lei, non poteva sapere, eppure, puntualmente, la feriva con parole spaventosamente simili alla verità.
– Perché non lo scopri da solo?
E’ quello che intendo fare, pensò, ma non lo disse; a lei disse soltanto: – Economizzo.
–Tormentandomi? – Nello sguardo furioso di lei, lui vide una supplica, mite e rarefatta.
– E’ così tremendo?
La voce di James la raggiunse come una carezza dalle dita di spine.
Le mani, ancora intrecciate, avvinte in un amplesso contro lo scaffale, si sciolsero.
– Il tormento che mi dai?
Jo piegò le labbra in una smorfia amara. – Sì, è insopportabile. Ma ti diverte, no?

Quella era un’altra cosa soltanto loro, il tormento che si scambiavano, furenti e affamati al tempo stesso. Quel pensiero, insieme alla voce di lei, bassa, un suono fattosi così intimo in quella vicinanza terrificante, gli rimescolò il sangue. Fu incontrollabile, ma una beatitudine straziante quando le dita raggiunsero i suoi capelli, ghermendoli in una stretta che avrebbe potuto spezzarli se solo avesse osato di più.
– Non pensi al tormento che mi dai tu?
Fu un soffio caldo la sua voce arrochita, feroce, stretta fra i denti; il suo respiro trattenuto, il suo petto che si spandeva di fronte a lei. I suoi occhi verdi, adesso così densi, ferini, erano screziati da un languore e una malinconia che la sorpresero e spaventarono molto più di ogni minaccia, insulto o accusa. Avrebbe dovuto allontanarsi, ancora una volta, di corsa, e poi nascondersi tra i rovi del giardino, confondersi, perdersi fino a farsi invisibile. Avrebbe dovuto. Ma preferì arrendersi alla brama di sfiorargli il petto, prima con un dito, poi con l’altro, lentamente, fino a sentirlo, attraverso il tessuto liscio della camicia, sotto l’intero palmo, pulsante, nervoso, finalmente reale, lo strascico di un sogno secolare.
– E’ così tremendo? – La voce di lei fu un sussurro, una resa dolcissima, il suo tocco un tizzone ardente posatogli sul petto.
– Il peggiore.

Il sospiro che scivolò dalle labbra di Josephine lo piegò e spinse le sue dita ad intrecciarsi ai suoi capelli spumosi, a quelle alghe oscure dal vago profumo di rosa selvatica e inferno. Lo inspirò bruscamente e fu doloroso sentirselo scorrere dentro, consapevole che non avrebbe potuto e dovuto concedersi altro; altro che non fosse la sua mano sul petto, i suoi capelli ancorati alle dita, il suo fiato sulla gola.
La desiderava e il solo pensiero di spingersi oltre quell’insperato seppur misero contatto gli torse le viscere. Avrebbe potuto finalmente stringerla, perdersi, forse schiacciarla, finalmente sentirla tutta sotto le dita, una volta per sempre arresa a lui. Ma ne sarebbe valsa la pena? Valeva forse la fiducia di suo fratello, sprofondare finalmente nei suo occhi e nelle sua pelle? Sarebbe equivalso a dannarsi, di fronte a se stesso e a dio, qualsiasi dio. Se solo lei fosse stata terrena, fatta di carne e ossa come tutte; se solo fosse stata meno irraggiungibile, meno distante, meno enigmatica, solo un po’ meno fosca, un po’ meno strega, solo. Se solo fosse scampato prima a quell’incantesimo, adesso, lei così vicina non gli sarebbe parsa un frutto proibito tanto irresistibile.
I loro respiri caldi, pesanti, si mescolarono in un anelito struggente. Josephine strinse con più forza le pieghe della sua camicia, mentre la mano di lui le strinse i capelli in una morsa serrata, indistricabile. – Forse dovrei andarmene via, – mormorò Josephine, guardandolo strenuamente, vittima dell’ipnosi che li aveva inghiottiti.
Jo vide la mandibola affilata di James serrarsi bruscamente.
– Forse.
– Andare da Robb. – La voce di Jo fu un fruscìo.
Il tormento sul volto di James mutò improvvisamente in una maschera inquietante, un sorriso bieco gli curvò la linea sottile delle labbra.
– Occorre che tu vada, fintanto che ti vuole.
Lei lo spinse via e lui arretrò con una risata tetra e il sorriso disteso, aperto, lo sguardo grifagno.
Jo sentì bruciarle il volto, gli occhi, le narici ancora piene di lui. Come aveva potuto abbassare la guardia in quel modo? Tra le tante cose di cui era fatta la sua natura, c’era anche un’ingenua e determinata disposizione al pericolo. E lui era pericoloso, mutevole, infido, deciso a confonderla.

– Di’ e pensa quello che ti pare. Vado da lui perché è quello che voglio. – Lo guardò duramente. – L’unica cosa che voglio.

James finse che la cosa non lo avesse toccato, nemmeno sfiorato. Le restituì un’espressione di puro dileggio.
– Io ti ho avvertita
– Sei pazzo, – sputò lei.
– Sai che non lo sono. – Rise. – Ho una dote, te l’ho detto.
– Oh sì, ce l’hai, – sentenziò lei, sarcastica e furente e dopo qualche istante, lui la vide sparire su per rampa di scale.

Quello, pensò, allontanarsi, sfuggire, era qualcosa che lei faceva per lui, solo per lui.
Qualcosa che avrebbe dovuto accadere in maniera definitiva, prima o poi. Non avrebbe più potuto concedersi tanto, una resa del genere, meravigliosa, sì, ma comunque rovinosa, sbagliata. Gli aveva dato un piacere insano sentirla così pulsante, anelante, aggrappata alla sua camicia. In quella stretta aveva sentito l’eco dei suoi stessi desideri e per un attimo, solo uno, aveva creduto che ne valesse la pena. Ma lei era solo perdita, un inciampo mastodontico. Capì, rigirandosi tra le mani il libro che li aveva tenuti tanto avvinghiati, che, per il bene di tutti, di Robb per primo, avrebbe dovuto scoprire cosa Josephine teneva nascosto tanto gelosamente. Perché un fratello sulla sedia a rotelle avrebbe dovuto essere qualcosa da nascondere all’uomo che si ama? Perché tanto mistero?
E’ vero, James aveva una dote. Aveva la dote di osservare troppo e capire altrettanto. Ma c’era invece una capacità che James non possedeva – forse per distrazione o semplicemente per natura: quella di porsi la domanda giusta.


 

***


Jo raggiunse Robb in cucina, trovandolo intento a mangiare un gelato. – Ma dov’eri finita?
– In biblioteca, perché?
Gli si fece vicina e gli circondò il petto con le braccia, incurante di qualsiasi cosa lui stesse facendo.
– Jo, tutto okay?
–Sì, certo. Non posso abbracciarti? – mugolò sul suo petto, gli occhi strizzati, l’odore di James ancora arpionato alle sue narici. Sospirò bruscamente e lui la strinse. – Certo, ovvio.
– Che tesori, – cinguettò la voce di Susan. Stava riponendo delle matasse in una scatola che aveva scaraventato su di uno sgabello, di fretta. – Scusate, ma…– E continuò ad affaccendarsi.
Josephine si scostò immediatamente da Robb, sentendosi improvvisamente gigantesca, pensandosi come un mostro enorme, ingombrante, in grado di calciarli via tutti. – Jamie, per favore, già che sei lì, prenderesti quelle sul divano? Non troverò mai il colore giusto!
James sbucò dal salotto, palesandosi alla vista di tutti. Jo si mortificò: estranea nefasta, indesiderata, bugiarda.
Voi tornate pure a fare quello che stavate facendo, per carità.
– Mamma, ma piantala.
E mentre la risata di Robb si fece spazio tra i suoi capelli, gli occhi di Jo incontrarono quelli di James. Fu un attimo e fu crudele, per mille motivi diversi, tutti maledettamente in linea con quello che era stato sul punto di accadere e che non era successo.
– Per la cronaca, domani sarò fuori città, – fece James, aiutando la madre a riporre la scatola di gomitoli sullo scaffale più alto della credenza.
– Mi strazi, fratello, – borbottò Robb, stringendosi contro Josephine. Una mano le cinse il fianco e lo stomaco di James si contrasse in uno spasmo. Abbozzò un sorriso.
– Ti procurerò del laudano, non preoccuparti.
– Il laudano è ancora in uso? – Lo sbeffeggiò l’altro, roteando gli occhi. James non gli prestò attenzione, guardò Josephine con aria sorniona, stranamente cordiale. Lei gli vide sfilare qualcosa incastrato tra la cintola e la schiena e sgranò gli occhi, paralizzata, incredula, d’improvviso furente, ancora, di nuovo per colpa sua.

–Hai dimenticato questo giù. Non vorrei te ne scordassi. – Le sorrise, affettato, sotto lo sguardo compiaciuto di Robb.
Jo esibì una smorfia forzata, lo schizzo di un sorriso, ringraziandolo con un fil di voce. Fu attenta a non sfiorargli le dita, mentre raccoglieva tra la mani, ancora, il loro primo, eppure ennesimo segreto. I sonetti d’amore di Pablo Neruda.

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Capitolo 24
*** Wicked Game (pt.1) ***



Capitolo 22.

parte I


It's strange what desire will make foolish people do.


(Wicked Game, Chris Isaak)




Lasciarono casa Draper dopo il tramonto mentre l'oscurità calava su quella giornata infernale, passata con la mente persa altrove, un altrove fatto di sensazioni, odori, parole che si affastellavano l'una sull'altra, confondendosi. Allora Jo tentava di rimettere tutto al proprio posto, le parole prima, gli sguardi poi, quel gesto e poi l'altro, l'odore sempre, anche dopo, dopo la colpa e la rabbia. Oltre il finestrino infranto dalle luci dei lampioni, una distesa d'alberi buii, accanto a lei il respiro stanco di Robb, la musica un brusìo appena accennato.
Proprio come qualche giorno prima, gli angoli del libro di sonetti bucavano il tessuto della borsa, si lasciavano accarezzare distrattamente. Ci aveva provato a liberarsi di quelle poesie, di James, di quel giochetto nauseante che lui aveva imbastito, sfidandola - adesso lo sapeva - a mantenere alta la guardia, se ci riusciva. E lei, alla fine, aveva perduto. Da quel gioco insidioso ideato e sceneggiato da uno stregone furbo e volitivo, lei ne usciva brutalmente sconfitta. Era arrabbiata con lui, per quel gesto inaspettato e sadico di restituirle il libro, ma la furia che provava nei suoi confronti era niente se paragonata a quella che nutriva per se stessa. Continuava a rivedersi, quasi si fosse scorporata da sé, nella luce debole della biblioteca, soggiogata dallo sguardo di James, una mano posata sul suo petto, gli occhi persi, il respiro corto. Ed era arrabbiata, arrabbiata perché era arrivata a tanto senza nemmeno accorgersene, arrabbiata perché capire James le pareva impossibile. Era attratto da lei come lo era lei da lui o voleva soltanto testarla, provarla, scoprirla?
Era arrabbiata Jo, perché sentiva di non riuscire a decifrare la realtà con lucidità. Comprendere i sentimenti di James nei propri confronti era sempre stato un gioco da ragazzi: era sempre stato perfettamente chiaro che lei non suscitasse in lui alcun sentimento, se non antipatia e sospetto, ma adesso, a fronte degli ultimi tesi e confusi episodi, tutte le certezze di Jo erano naufragate.
Eppure, per quanto cercasse di riacquistare equilibrio, di distarsi, di ridimensionare, ad assillarla da ore ed ore era sempre lo stesso, pericoloso interrogativo.

Di questo gioco sventurato, le vittime quante sono?


***


L'appartamento era curiosamente buio, le luci dei negozi filtravano dalle imposte, c'era nell'aria un'odore di deodorante alla lavanda e dalla porta del bagno arrivava una musica leggera, appena udibile. Polly probabilmente si stava concedendo un bagno caldo, quindi preferì non disturbarla e si limitò a comunicarle di essere in casa. In camera, lasciò finalmente cadere il borsone sul pavimento, mentre la tracolla contenente il libro finì su letto. Jo si guardò intorno smarrita, la testa aveva iniziato a dolerle da prima ancora di mettersi in auto e quella smania che non l'abbadonava, adesso che era da sola in mezzo alle proprie cose, si fece d'un tratto densa, soffocante. Corse alla finestra per spalancarla, l'aria frizzante le pizzicò violentemente il viso arrossato, fumante. Cercò tra i cassetti un pigiama pulito e della biancheria da indossare una volta che si fosse concessa la doccia calda di cui aveva un disperato bisogno.
Era in cucina, pronta a riempire un abbondante bicchiere d'acqua, quando qualcosa catturò la sua attenzione. Sul fondo del lavandino stazionavano due tazze sporche di caffè, in una - e questo fu il particolare interessante - galleggiava un accumulo di cenere.
Era chiaro che non molto prima del suo arrivo, Polly avesse avuto un ospite e l'idea le fece rizzare le orecchie. Un ragazzo? Tante volte Jo si era domandata se la timida Polly, dietro la faccia d'angelo, non nascondesse relazioni e avventure segrete. Erano fantasie che di tanto in tanto la solleticavano, anche se in tutta sincerità non ce la vedeva proprio ad inscenare teatrini simili. Per quanto non amassero scambiarsi confidenze troppo profonde, stentava a credere che Polly non le avrebbe parlato di un ragazzo, se ci fosse stato. E magari adesso c'era e gliene avrebbe parlato.
Si domandò se in quel caso, avrebbe ricambiato la confidenza con una delle sue, magari la più scottante, magari una confidenza da cui venisse fuori con quanto sconcerto e stordimento si sentiva attratta dal fratello di Robb.
Ci si poteva fare confidenze simili? A chi si potevano fare, in tal caso? E come le si poteva fare senza apparire mostri fedifraghi e senza cuore?

– Jo!
Ad interrompere il fiume di pensieri di Josephine, arrivò finalmente Polly, avvolta in un accappatoio, gli occhi arrossati.
– Il solito bagno caldo?
– Sì, mi spiace averti fatto aspettare. Suppongo ti serva il bagno. Ho fatto più velocemente che ho potuto.
Polly si strinse le falde di spugna contro il viso, aveva lo sguardo stranamente incerto e si molleggiava da un piede all'altro con smania.
Jo lo notò, ma non fece domande. Si limitò piuttosto a tranquillizzarla, raccontandole una versione romanzata e colma di lacune del weekend trascorso dai Draper. Polly l'ascoltava, ma pareva distratta. Jo incontrò più volte il suo sguardo inquieto, le labbra che si protraevano e ritraevano seguendo istinti indecifrabili.
– Qualcosa non va?
Jo non riuscì a trattenere la domanda, ormai irrimediabilmente innervorsita dall'atteggiamento dell'amica. Quest'ultima, dal canto suo, sgranò gli occhi.
– No, perché?
– Sei strana, irrequieta.
– No, è solo che...
Jo le andò incontro, sperando di metterla a proprio agio. Polly voleva assolutamente dirle qualcosa e con tutta probabilità stava solo cercando il coraggio di farlo. Forse, pensò, non si era poi tanto ingannata fantasticando di Polly e di una possibile frequentazione. Fu per questo che Jo si convinse di poter osare domandare di più.
– Vedi qualcuno, Polly?
– Qualcuno?
– Un ragazzo, uno spasimante, come dire... qualcuno.
Jo si mostrò conciliante, sperando di sciogliere le reticenze dell'amica.
– Cosa ti fa pensare che io veda qualcuno?
Polly si fece paonazza e prese a guardarsi intorno con circospezione, cercando forse gli indizi che avevano portato Jo a una simile deduzione.
– Be', sei strana, sembra tu voglia raccontarmi qualcosa.
Jo sorrise, un sorriso malizioso.
– Ho visto le due tazze e la cenere di sigaretta o quel che sia nel lavandino e ho pensato che magari avevi avuto un ospite speciale.
– Oh, no, Jo. In realtà, non so come dirtelo...
Jo drizzò le spalle, rimase in attesa.
– Un ospite c'è stato, ma non è come pensi tu.
– E com'è?
Jo abbozzò un sorriso che dissimulava solo maldestramente l'impazienza.
– E' passato, per poco. Sicuramente lo sai già e io sono soltanto una stupida.
– Chi?
– James.
Il sorriso tirato di Jo si tramutò in una linea dura. Guardò prima Polly, poi l'ambiente intorno, come per accertarsi che anche le pareti e gli utensili confermassero quanto appena sentito.
– E che voleva?
– Ha detto che lo mandava Robb, che aveva dimenticato qui qualcosa di suo.
– Suo di chi?
– Di James.
Si stava spazientendo, probabilmente senza ragione, ma l'idea che James fosse stato lì l'agitava oltre misura. Inoltre, non aveva senso.
– Robb avrebbe dimenticato qui qualcosa di James?
– Sì, ma in ogni caso non lo ha trovato.
Polly sembrava ancora sul chi vive e questo atteggiamento non fece che frustrare ulteriormente la pazienza di Jo.
– Credevo ne sapessi qualcosa.
– Robb deve avermelo detto. Mi sarà passato di mente.
Lo disse alla svelta, mentendo spudoratamente, per salvare le apparenze.
Quindi James era a Londra. Perché non dirlo? Aveva detto che sarebbe stato fuori città, ma aveva anche avuto cura di non rivelare dove.  Probabilmente non voleva far sapere troppi gli affari suoi e questo era comprensibile. Ciò che non lo era, era che lui fosse stato nel suo appartamento e che avesse persino bevuto del caffè con Polly, fumando le sue stramaledette sigarette. Robb non gli aveva menzionato niente del genere e per quante libertà avesse, non si sarebbe mai preso quella di inviare James in casa sua a frugare tra le sue cose senza, quantomeno, avvertirla.
– Ed eri così agitata per una sciocchezza simile? Va bene che io e lui non andiamo granché d'accordo, ma non è certamente un problema se viene qui, specie se per fare un favore a Robb.
– Lo so, lo so...
Quello di Polly fu un mormorio sommesso, pareva una bambina.
– Non è quello il punto. Credo, cioè, ho ragione di credere, o quantomeno penso di aver intuito che quella fosse una scusa. O almeno lo credevo prima che tu mi dicessi che Robb potrebbe avertene parlato...
– Una scusa? Che genere di scusa?
– Sono una stupida, lo sono senz'altro.
– Polly, per l'amor di dio, potresti arrivare al punto?
– Hai ragione, scusami, sembro un'adolescente.

Polly fece un sospirone e la guardò, negli occhi aveva una scintilla d'orgoglio.

– Ecco, Jo, credo che fosse una scusa per vedermi.


***

 

Sapeva che la mossa che aveva azzardato era stata avventata e inconfutabilmente sciocca, ma era anche l'unica possibile. Chiedere apertamente a Robb gli era parso fin da subito rischioso. Robb era distratto, stralunato, perso nel suo mondo, ma una richiesta simile lo avrebbe certamente insospettito. Chiedere a lei era ovviamente fuori discussione, mentre provare ad avvicinarsi ai suoi effetti personali si era rivelata un'impresa impossibile. Approdare nel suo appartamento approfittando della sua assenza e confidando nella presenza della coinquilina gli era sembrato, invece, il metodo più efficace per ottenere in fretta quello che gli serviva. E tutto quello che gli serviva era un indirizzo.
Per trovarlo aveva dovuto frugare tra le sue cose, toccare i suoi libri, le sue penne, aprire i cassetti, l'armadio e, sebbene non fosse strettamente necessario, accarezzare i suoi vestiti, la trapunta, i cuscini.
La ricerca, però, non aveva prodotto alcun risultato, o almeno non quello sperato. Aveva però avuto un ruolo nel ricordargli quanto indissolubile fosse il suo odore, aggrappato ovunque, persino alle tende, all'aria stessa.
Era servita, se non altro, a fargli sapere che Jo disponeva i libri senza criterio, che la sua calligrafia era piccola e tremenda, che le piacevano i Cranberries, Grace Kelly e Clark Gable, che amava i dipinti, specie quelli di boschi in bianco e nero, a colori, in penombra e in piena luce. Quella ricerca era stata illuminante, a modo suo. Adesso sapeva persino che Josephine collezionava nastri per capelli, così tanti che forse se ne fosse sparito uno non se ne sarebbe nemmeno accorta.
Cosa aveva pensato di ottenere con quella specie di indagine maldestra e catastrofica? Una volta che avesse trovato l'indirizzo che cercava, cosa pensava di fare? Indagare ancora, inscenare interrogatori, muoversi in sordina, fingere per scoprire i fantomatici segreti di Josephine? Si domandò come aveva potuto essere tanto impulsivo e irrealista da credere di poter trovare la famiglia di Josephine, fingersi un altro e cercare indisturbato dettagli che rivelassero cosa, poi? Il motivo per cui Josephine ometteva verità ingombranti come quella che aveva soltanto intuito da una fotografia?
Aveva pensato che un piano del genere potesse in qualche modo essere scaltro e geniale, rivelatore. A conti fatti, si era rivelato fallimentare fin dal principio, mettendolo già da subito in una posizione scomoda. Le possibilità che Polly non raccontasse della sua visita erano praticamente nulle, ma sperò comunque. Tuttavia, nel caso in cui le cose si fossero messe male,  aveva già pronta una giustificazione a cui nessuno avrebbe potuto muovere obiezioni. Nemmeno Josephine.  E questa probabilità, scoprì con amarezza, gli pareva semplicemente insopportabile.
Si lasciò cadere sul letto con ancora le scarpe ai piedi, maledicendo la persona impulsiva e sprovveduta che era diventato da quando lei era entrata nella sua vita. L'incapacità di comprenderla, la necessità di allontanarla da Robb, da se stesso e dalle loro vite, avevano annebbiato il suo giudizio, rendendolo uno stolto che adesso pensava persino di giocare a Sherlock Holmes pur di trovare un pretesto per liberarsi di lei e al tempo stesso, di avvicinarsi alla verità, avvicinarsi a Josephine.
Doveva ritrovarsi e ritrovare la ragione. Pensò che avrebbe potuto parlarne con John, raccontargli per sommi capi, in maniera blanda, quello che gli stava succedendo e provare, insieme a lui, a recuperare la ragione. Era uno psicologo, a qualcosa doveva pur servire. Ma James non fece nemmeno in tempo a partorire l'idea, che subito si pentì di essersi anche solo lasciato sfiorare da questa. In che mondo e in che modo avrebbe potuto raccontare di una stramberia del genere, fatta di illazioni, sospetti e deduzioni senza apparire un completo idiota? Spiegare i dettagli e le motivazioni che lo avevano portato a quel punto non sarebbe bastato ad evitare una pessima figura di fronte a chiunque. Doveva abbandonare del tutto quella specie di missione che si era prefissato e lasciare che Robb vivesse la sua vita come meglio credeva, e che importava se credeva di viverla con Josephine?
Fissando il soffitto buio, si promise che avrebbe deposto le armi e dimenticato l'intera, pericolosa faccenda che lo aveva irretito, intrappolato in una smania senza respiro.
Fu proprio in quell'istante, all'ombra di una promessa appena sussurrata, che il suono del telefono spezzò il silenzio, resistuendogli qualche istante dopo, come un tuono che trafigga il cielo, la voce bassa e gelida di Josephine.
– Che cosa diavolo vuoi da me?
James sospirò, un sorriso inopportuno gli ferì il volto.
– E' così che vi insegnano a rispondere al telefono dalle tue parti?
– Fai poco lo spiritoso. Cosa ci facevi nel mio appartamento?
Polly, ovviamente, aveva parlato. In fondo, non si era aspettato niente di diverso. Ma sapeva di poter gestire l'inconveniente.
– Come hai avuto il mio numero?
– Non è affare tuo. Rispondimi.
Anche se poteva soltanto immaginarla, Josephine non gli era mai sembrata tanto funestamente adirata.
– Non è affare tuo.
– Ah, no? Il mio appartamento non sarebbe affar mio?
– Non è solo il tuo appartamento.
James sentì il respirò di Josephine tremare fino a spegnersi completamente.
Attese qualche istante, i sensi completamente tesi a cogliere anche il più piccolo suono proveniente dall'altro capo. Non poteva sapere che Josephine aveva sperato in qualsiasi risposta che non fosse quella che lui le aveva appena dato.
– Quindi ti sei inventato tutta quella storia di Robb a che scopo?
Inventare, addirittura.
– Robb non mi ha accennato minimamentee al fatto che si fosse dimenticato qualcosa di tuo qui. Come lo chiami questo se non inventare?
– Magari non lo hai ascoltato attentamente. Sappiamo entrambi che fingi soltanto di dargli retta...
James si vergognò di quell'ennesima provocazione, eco di tante altre simili, utile soltanto ad inficiare la promessa che si era fatto solo qualche istante prima.
– A che scopo?
Tagliò corto Jo, il respiro adesso pesante.
– Hai chiesto a Robb?
– Rispondimi. Ti rendi conto di non essere nella posizione di fare domande?
– Basta semplicemente dire sì o no. Ti rendi conto che potrei pensare che invece di telefonare al tuo fidanzato per delle risposte, hai preferito chiamare me?
La voce di James arrivò a Josephine sarcastica ed insinuante.
– Non ho bisogno di risposte da lui. Mi avrebbe chiesto il permesso di spedirti in casa mia, da persona educata e rispettosa. Educata e rispettosa. Parole che ti ripugnano, suppongo.
James non riuscì a trattenere un sogghigno.
– Ammetti piuttosto di volergli tenere nascosto anche questo.
Jo ebbe un sussulto, nello stomaco un groviglio di nervi.
– Sei in grado di conversare col prossimo senza fargli perdere la pazienza?
– E tu?
Jo avrebbe voluto urlare, squarciare il cellulare con un mano per afferarlo per la collottola.
– Sei a Londra? – chiese all'improvviso.
– Sì e vorrei dormire, adesso, se permetti.

Si era aspettato un insulto, una raffica di improperi all'ennesima frustrante risposta che lui aveva avuto cura di rifilarle. Ma tutto ciò che ottene fu il suono che gli segnalava che la comunicazione era stata interrotta.
Ad essere frustrato, adesso, era lui. Lui che non capiva cosa si fossero detti davvero, a che conclusioni fosse arrivata lei, in che modo ne usciva lui da quella situazione.
Gli aveva chiuso il telefono in faccia, quella strega infida?
E che significava quell'ultima, dissonante, inaspettata domanda?

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Capitolo 25
*** Wicked Game (pt.2) ***


 
Capitolo 22.
Parte II




What a wicked game you played to make me feel this way.
What a wicked thing to do to let me dream of you.
What a wicked thing to say you never felt this way.
What a wicked thing to do to make me dream of you.

(Wicked Game, Chris Isaak)



Stava tremando.
Fissava quella porta di legno scuro, mentre sentiva la pelle formicolare e il respiro ottunderle i sensi, farsi una bolla invisibile. Era corsa lì, senza riflettere, in preda alla furia e ad una febbre incontrollabile che le aveva reso impossibile valutare cosa era o non era giusto fare. Si era sentita sfidata, oltraggiata, ferita, provocata oltre ogni sopportazione. Lei che non aveva mai nemmeno alzato la voce, che non aveva mai odiato nessuno al mondo se non se stessa, adesso era di fronte ad una porta chiusa, dopo aver corso, preso un taxi, salito a piedi rampe di scale mossa soltanto da una rabbia cieca che immaginò dovesse essere odio o qualcosa che gli si avvicinasse pericolosamente.
Adesso, però, si sentiva svuotata, scarica. Quella semplice porta le pareva intoccabile ed invalicabile, una mostruosità in grado di lanciare palle di fuoco se solo lei avesse mosso un altro passo. Oltre all’energia distruttiva che l’aveva condotta lì alla stregua di un incantesimo, anche le parole si erano esaurite. Aveva sentito chiaramente ogni insulto e accusa rimbombarle in testa, aveva sentito persino il tono in cui li avrebbe pronunciati ed era stata sul punto di ripeterli in taxi all’autista, come prima di un’audizione, stretta nella paura di dimenticare quella frase o quel gesto particolare che credeva le avrebbero regalato un’indicibile soddisfazione, un immenso senso di potere una volta che li avesse sentiti abbattersi su di lui, James.
Ora, invece, aveva dimenticato tutto. Sentiva chiaramente soltanto l’eco assordante del proprio respiro, il sudore che le schiacciava i capelli sulle tempie. Dalla tromba delle scale soffiavano spifferi d’aria gelida e dalla finestra opaca sul pianerottolo penetrava la luce gialla della luna, quella notte, immensa. Si rese conto di non aver prestato attenzione nemmeno a che ora fosse, a quanto tardi fosse, a quanto inopportuno si stava rivelando, ad ogni secondo, quel suo slancio. Parlare per telefono con James, si era rivelato – oltre che strano e inaspettatamente intimo – impossibile e snervante, molto più di quanto non fosse parlare con lui di persona. Avrebbe certamente potuto lasciar sbollire il nervosismo, quell’ondata di frustrazione che lui le aveva scagliato addosso, e aspettare un altro momento per pretendere da lui una spiegazione. Invece non ci era riuscita, ad aspettare. In realtà, l’idea di aspettare non l’aveva nemmeno sfiorata, perché era stanca e aveva la sensazione di aver aspettato non sapeva bene cosa per una quantità scandalosa di tempo. Solo adesso, mentre si stringeva come un’ossessa ai lembi del cardigan e si malediceva per aver indossato i jeans che sembravano soffocarle la pelle, capì di aver commesso un errore. Un errore a cui però avrebbe potuto rimediare non bussando mai a quella porta e girando i tacchi.
Tuttavia, rimase lì, pietrificata. La luce del pianerottolo si era spenta in automatico, all’improvviso e Jo si sentì senza appigli, avvolta dal buio, dagli spifferi, il sudore ormai freddo che le si addensava sulla schiena. Era terrorizzata, atterrita dalla possibilità che lui la umiliasse e al tempo stesso non riusciva a convincersi ad andarsene, abbandonando così i propositi che l’avevano portata alla sua porta. Se solo lui se ne fosse tornato a St. Albans quella stessa sera, le cose non sarebbero andate in quel modo e la distanza le avrebbe garantito il tempo e il modo per recuperare la calma e, di conseguenza, la lucidità. Inaspettatamente, un’indecifrabile sequela di rumori proveniente dall’appartamento, la raggiunse. I sensi di Jo si acuirono ed una delle sue mani, tremante, raggiunse la superficie liscia e fredda della porta. Lui era lì dietro, a pochi passi da lei, ignaro della sua presenza. Avrebbe voluto che ci fosse uno spiraglio o anche solo un foro minuscolo da cui osservarlo e studiarlo prima di affrontarlo. Ma con che coraggio gli sarebbe comparsa davanti? Con che forza avrebbe potuto argomentare e dare una giustificazione a quello che provava? Lui avrebbe riso di lei, l’avrebbe certamente ridicolizzata e lei non avrebbe saputo porre la resistenza richiesta, preda ingenua nella tana di un lupo tra i più feroci. Era certa che lui non le avrebbe mai dato alcuna spiegazione per quella visita al suo appartamento e non respirava, quello sì, al pensiero che lui le desse la risposta che temeva di più. Se lui era stato lì nient’altro che per Polly, con che armi avrebbe potuto difendersi, lei che era lì, da lui, nient’altro che per?
Doveva andarsene.

***


Gli aveva ammazzato il sonno, Josephine. Lei faceva sempre qualcosa di incomprensibile ed inaspettato e lui, dietro quel qualcosa, ci perdeva ogni volta il sonno e la sanità mentale. Era per questo che, bloccato sottosopra, avevo simulato interesse di fronte alla tv, per poi spegnerla; era per questo che aveva inviato sms che non avrebbe dovuto e ora fissava il laptop come in trance, lasciando che i nomi dei creditori gli sfilassero di fronte come formiche. Aveva fatto una doccia calda che avrebbe dovuto sciogliere la tensione e la stanchezza che gli costringevano i muscoli, mentre in realtà era servita soltanto a lavare via ogni traccia di sonno che avesse ancora in corpo. In quel momento avrebbe potuto girare Londra a piedi o scalare un paio di montagne, per quel che ne sapeva. E probabilmente, non sarebbe bastato. Era dolorosamente consapevole del fatto che l’unica cosa che avrebbe potuto spegnere quella smania, quell’energia, quello strano senso d’attesa era la stessa cosa che l’alimentava e da cui, lo sapeva, doveva rimanere lontano. Perché non poteva semplicemente chiederle della sua vita? Pretendere delle spiegazioni in quanto cognato, fratello del fidanzato o semplicemente da uomo che le moriva dietro? Per quanto il pensiero gli desse il voltastomaco, era così che si sentiva. Come uno di quelli che aveva sempre trovato patetici, ridicoli, succubi mediocri degli umori di una donna. A dargli conforto era la consapevolezza di esserne ossessionato per motivi che poco avevano a che fare con la passione. E’ vero, quando l’aveva vicina gli sembrava di non potersi impedire di toccarla, ma l’attrazione per una donna non era un ostacolo insuperabile, chiunque lei fosse. Il vero problema era che lei aveva portato caos e menzogna nella sua vita e in quella di Robb e, se per se stesso poteva vantare una corazza infrangibile, per il fratello, con il suo ostinato innamoramento, non poteva fare lo stesso.

Quando bussarono alla porta, James si sorprese della tempestività con cui quello che aveva reclamato per sé solo qualche minuto prima gli veniva finalmente in soccorso. Non aveva mai fatto niente del genere, non aveva mai preteso un palliativo, non aveva mai estorto la pace e il buio se non a se stesso, ma era da troppo che non dormiva bene, ed era da quello che gli pareva un secolo che aspettava. Aspettava senza tregua e non sapeva nemmeno cosa.
Quando Josephine gli apparì davanti, simile ad un fantasma temuto e inafferrabile, James fu tentato di chiuderle la porta in faccia, sicuro che se l’avesse riaperta, lei sarebbe sparita lasciandosi dietro soltanto uno sbuffo di fumo. Ma lei era lì, concreta, in carne e fiato. I suoi occhi scuri e liquidi sembravano immensi mentre lo fissavano.

– Jo?
Il suo nome gli venne fuori strangolato e stranamente mozzo. Lei lo notò: lui non aveva mai usato diminutivi con lei.
– Mi lasci sulla porta?
– Entra.
Jo fece un passo in avanti e venne come risucchiata dalla penombra e dalle pareti spoglie dell’appartamento di James. Intorno a lei troneggiavano pochi ed essenziali mobili massicci, scuri, dall’aria antiquata. In lontananza, contro il muro, stava una grande lampada la cui luce bagnava il profilo di James, i suoi capelli umidi, le braccia lasciate scoperte da una t-shirt scura, dal colore indecifrabile. Lui la fissava con un misto di sospetto e sorpresa nello sguardo, le labbra serrate, prive dell’abituale ironia.
Rimasero in silenzio per qualche istante, incapaci di gestire la situazione. Poi Jo schioccò la lingua e mutò lo sguardo serio in uno spietato.
– Ti chiederai perché sono qui.

James piegò leggermente le labbra.
– Se me lo chiedo…
– Ecco. Questo mi fa incazzare di più.
La voce di Jo esplose, tremante, scevra del solito placido gelo.
– Sei qui per quella storia del tuo appartamento?
– Certo.
– Ma non mi dire.

James si concesse di lanciare un’occhiata sui fianchi di Josephine, prima di quel momento sempre nascosti dagli abiti morbidi, da bimba. Adesso le fasciavano le cosce un paio di jeans aderenti, alti fino alla vita esile, stretti al punto che per la prima volta si rese conto di quanto sinuose fossero le sue curve. Josephine notò il modo in cui lo sguardo di James aveva indugiato sul suo abbigliamento e si pentì per l’ennesima volta di aver indossato quell’indumento che odiava, presa com’era dalla fretta. Istintivamente si strinse nel cardigan e sbottò.
– Sfotti, anche?
James la guardò finalmente negli occhi con la proverbiale espressione di dileggio che soleva dedicarle.
– Ne stai facendo un dramma. Arrivare fin qui, per giunta?
Mise le mani in tasca, l’aria disinvolta di chi trova noioso qualcosa o qualcuno. Jo si sentì bruciare di rabbia e scoprì che questa non si era esaurita, si era soltanto nascosta, fumando inosservata sotto la brace dell’imbarazzo. Gli si avvicinò, scattando in avanti. James la guardò divertito.
– Che sei venuto a fare a casa mia? Mi devi una spiegazione.
– Non devo niente a nessuno. Sbagli atteggiamento, come sempre.
Josephine fu sul punto di perdere la pazienza. Solo lui riusciva a farle ribollire il sangue a quel modo e questo la privava della solita forza retorica di cui si era sempre creduta detentrice.
– Cosa dovrei fare? Miagolare? Mostrare i miei ossequi?
James sbuffò con aria beffarda.
– Basterebbe un tono, come dire… cordiale. Saluti, domande. Esempio: come stai, James? Che arredamento sofisticato e blabla. Basterebbe che tu fossi meno tu e più un’altra. Una normale, tipo.

Josephine tossì una risata isterica.
– Allora, vediamo, se è solo questo, perché – cordialmente – non mi esponete le ragioni per cui siete passato nel mio appartamento quest’oggi, messere?
Lui le rivolse una smorfia di rassegnazione.
– Non ce la fai proprio. Ho detto che dovresti comportarti con gentilezza, non sfottere.
Come se lei fosse invisibile, le sfilò accanto e si diresse verso la camera da letto per recuperare una sigaretta. Quando fece ritorno ritorno con disinvoltura ostentata, Josephine perse il controllo di se stessa e con uno schiaffo colpì la mano di James, gettando per terra la sigaretta spenta.
Lui guardò prima la mano d’un tratto vuota, poi lei, con lentezza e con gli occhi buii, neri di rabbia.
Fu sul punto di ricoprirla di cattiverie, ma lei lo anticipò.
– Mi hai stancato, mi hanno stancato i tuoi giochi, i tuoi enigmi da quattro soldi. Mi ha stancato il tuo sarcasmo, il tuo sorrisetto saccente, la tua faccia arrogante. Non mi hai mai degnato di cortesia e l’hai sempre pretesa. Nemmeno mi conoscevi e già mi odiavi, lo sentivo, lo sento ancora. Pensavo che dopo il compleanno di Sierra avremmo potuto trovare un equilibrio, pensavo ci capissimo in qualche modo, pensavo che tu fossi normale, sotto sotto, e invece mi sono sbagliata. Sei cattivo, non te ne frega niente di nessuno, mi metti i libri in borsa, mi tocchi i capelli e fai stronzate che non capisco. Vieni nel mio appartamento mentre io non ci sono, metti Polly in difficoltà, menti e inventi storie su Robb che ti dice di fare questo e quello. Dio, merito di sapere cosa vuoi da me esattamente?
Gli aveva rovesciato addosso troppo e troppo in fretta, senza prendersi il tempo di riflettere. Dell’impeccabile discorso che aveva preparato in taxi, nel suo sfogo confuso, non c’era traccia. Si morse le labbra e attese con gli occhi in fiamme. Attese che lui reagisse, che finalmente rispondesse anche ad una sola delle sue domande. Lui, invece, si limitava a fissarla, gli occhi curiosi, rapaci, l’aria concentrata. Con un piede pestò la sigaretta abbandonata sul pavimento, senza smettere di scrutare Josephine.
– Hai ragione.
Josephine pensò di aver sentito male, ma attese, certa che lui le avrebbe teso l’ennesimo trabocchetto.
– Hai ragione su tutto, tranne sul fatto che non me ne frega niente di nessuno.
Il suo tono era basso, grave; il volto serio, l’aria di uno che cerchi di pescare un pensiero.
– Mi frega molto della mia famiglia, di Robb. Mi frega se una come te viene a dare fastidio. Mi frega se tu lo incanti e lo rendi un idiota incapace di vedere che lo tratti come una dama di compagnia.
– Ma come ti-
– Non è che ti odio. E’ che ti ho capita con uno sguardo.
– Sei un visionario.
Sputò lei.
– E tu sei finta. Mi avevi ingannato quella notte, al compleanno di Sierra. Non volevo dirtelo, ma dato che tiri in mezzo quella sera, mi vedo costretto.
Lui abbozzò un sogghigno amaro. Si guardavano senza sosta, studiandosi come gladiatori.
– Ingannato?
– Sì, con quella favola sull’amore, la poesia e il resto. Ho pensato che forse, sotto sotto, fossi una ragazza quasi dolce, con cui poter aver un dialogo e magari familiarizzare. Invece mi sbagliavo.
– Sei tu che hai ripreso a provocarmi, fingendo che quella specie di conversazione “normale” non fosse mai avvenuta! Non ci hai dato una sola possibilità!
– Fingi di non ricordare, non è vero?
Lui la scrutò con una serietà mortale nello sguardo. Jo ebbe l’impressione che lui volesse vederla disintegrarsi ai suoi piedi.
– Di che stai parlando?
Gli occhi di James avevano perso l’abituale ombra di sarcasmo e sembravano sul punto di scagliarle addosso tizzoni ardenti.
– Sto parlando di te che cercavi di commuovermi. – Le si avvicinò spinto dall’energia che gli dava, finalmente, sputarle addosso tutto quello che non era riuscito a dirle quella volta al lago e altre volte ancora. – Sto parlando di te che mentre mi parlavi di quanto volessi essere amata totalmente, ti aggrappavi alla mia camicia. Sto parlando di te che mi annusavi come se io non fossi lì, guardandomi come dovresti guardare Robb, come una donna non dovrebbe guardare… uno come me. Suo cognato o quello che è.

A quelle parole, Jo, si sentì impallidire. James la guardava con aria arrogante e cattiva, come se le stesse elencando la lista dei suoi peccati peggiori prima di mandarla al rogo.
– Che stai dicendo? Ero ubriaca, è probabile che non fossi nemmeno consapevole che si trattasse di te!
– Come al Limbo, no?
Josephine accolse la stilettata con un lento battito di ciglia: se l’aspettava.
– Un’altra volta con questa storia?

- Sei tu che hai preteso risposte. Sei tu quella che mi pregava di non lasciarla e di lasciare che annusassi la mia camicia.
– Mettiamo anche il caso che questa cosa sia accaduta. Ero ubriaca.
– E allora perché non sei andata a molestare il tuo innamorato, invece di torturare me, il tuo terribile nemico, il tuo odioso cognato? Non è così che fanno le persone sbronze? Non vanno forse ad importunare il malcapitato per cui hanno una cotta?
Lo sguardo di James la sfidava apertamente, carico di una furia che cozzava con l’espressione severa e compassata del volto. Erano vicinissimi e le cose che James le stava dicendo stridevano, ferivano, lasciavano senza fiato. Josephine ebbe pena di se stessa per tutte le volte che aveva creduto che lui volesse sedurla. Lui non era mai stato attratto da lei: adesso lo sapeva e capirlo le fece male in punti del corpo che non era sicura di conoscere. Era lei che aveva perso la testa per lui, era lei che lo voleva al punto di confondersi e credere che anche lui, a modo suo, la volesse. Cosa se ne faceva adesso delle spiegazioni? Cosa importava del libro di poesie? Quello, capì, doveva essere un modo per smascherarla, per estorcerle, forse, una confessione.
– Fossi stato un altro, avrei raccontato tutto a Robb e credimi se ti dico che mi avrebbe dato retta.
James la osservava, studiava le sue reazioni e sentì la rabbia montargli dentro con maggiore impeto, quando si accorse che lei rimaneva in silenzio, assente, come faceva sempre.
– Perché non glielo hai detto subito, allora? Volevi sbarazzarti da me, hai detto. Se lui ti avesse creduto la tua missione si sarebbe compiuta gloriosamente.
La voce di Josephine, il suo sguardo, la calma con cui aveva ripreso a respirare lo stranirono. Si sentiva inquieto e sentiva di aver detto troppo e non nel modo che avrebbe voluto. Si limitò a scoccarle un’occhiata sarcastica, mentre nel frattempo cercava di trovare una risposta alla domanda astuta di Josephine. Avrebbe dovuto prevederla, ma come sempre, di fronte a lei, i suoi riflessi rallentavano. Era complicato, se non impossibile risponderle. Non poteva certamente dirle che l’idea di raccontarlo a Robb non gli era balenata nemmeno, che voleva soltanto continuare ad osservarla, per capirla, per sapere se la donna di quella sera, sulla balconata, si sarebbe mai ripresentata. Aveva atteso con ferocia, con i sensi obnubilati che lei gli si abbandonasse tra le braccia proprio come quella sera d’estate, che gli arpionasse di nuovo la camicia, che gli chiedesse di più, una volta di più, senza alcol in corpo, stavolta. Ma lei non aveva mai più dato segni di cedimento, tranne quell’unica volta al Limbo, ancora una volta ubriaca e per di più convinta che si trattasse di un altro uomo. Aveva cercato di confonderla, di vederla inciampare, capitolare su di lui e aveva creduto fosse sul punto di farlo, in biblioteca. Gli serviva la certezza che lei lo volesse davvero, come l’aveva voluta lui, quella stessa sera, a quel compleanno. Mentre lei gli si stringeva contro e lo pregava di lasciarle inghiottire il suo profumo, lui se l’era stretta contro con troppo forza; e mentre le sussurrava all’orecchio che l’avrebbe riportata da Robb, aveva lasciato che le sue labbra le sfiorassero distrattamente i capelli e che le mani, traditrici, le carezzassero il collo scoperto, la nuca. Ma lei non l’aveva più guardato in quel modo, non gli aveva più parlato di poesia con la stessa intimità e lo stesso ardore. Lei, quella donna, era perduta. Per lui, almeno. Fu per questo, corroso da questa consapevolezza, che la guardò con tutta la protervia di cui era capace.
– Per non ferirlo e per prendermi gioco di te.
Jo gli sorrise in modo inconsueto, quasi dolcemente.
– Anch’io non gli dirò mai del libro di poesie e della tua ossessione per i miei capelli, tranquillo. Lo faccio per non ferirlo, per non dargli la pena di avere un fratello che pur di saziare le sue strane perversioni costruite su giochi di potere inutili ed infantili, si diverte a prendersi gioco della sua fidanzata. Siamo pari, che dici?
– Neanche lontanamente.
James sfilò dalla tasca un’altra sigaretta ed evitò scientemente di guardare Josephine. Sentiva lo sguardo di lei con un’intensità insopportabile. Insopportabile come le parole che lei gli aveva rivolto.
– Già. Devi ancora spiegarmi questa storia del mio appartamento.
– Ne sei ossessionata.
– Senti, sai che ti dico? Non me ne importa niente, davvero.
James le soffiò addosso una nuvola di fumo e lei storse il naso, scoccandogli un’occhiata torva.
– Me ne vado.
Jo fece per voltarsi, ma lui si schiarì la voce e le si avvicinò.
– Ero lì per Polly, ci vuole tanto a capirlo?
– Prevedibile, – disse Jo, secca e derisoria.
– Ormai mi conosci, allora.

Dalla bocca le uscì un lamento strozzato, una specie di risatina sommessa. James la vide voltarsi con le mani infilate nelle maniche del cardigan, sentì il suo profumo sfumare e si sentì schiacciato dall’entità delle cose che si erano detti, dal modo in cui lei non aveva reagito, dal modo in cui se ne andava e, soprattutto, semplicemente perché lei se ne andava. Avrebbe voluto ubriacarla, magari drogarla e garantirsi l’occasione di toccarla, ma non gli sarebbe bastato comunque. Aveva preferito rifilarle la scusa di Polly, quella che teneva in serbo per un’occasione come questa, piuttosto che dirle di quella fotografia che in quel momento gli pareva l’unico modo – discutibile, lo sapeva - per tenerla in pugno. Per tenerla e basta.

Lei si richiuse la porta alle spalle, confusa, tramortita dalla consapevolezza che era la sola a combattere una battaglia persa in partenza, inconsapevole che da qualche parte, in camera di James, si nascondeva il suo nastro preferito, quello color malva e coi bordi di sangallo. Discese le scale lentamente, assorbita da se stessa, e forse fu per questo che notò a stento la donna dai capelli rossi che le sfilò accanto.

 

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Capitolo 26
*** Can't take my eyes off you ***


Capitolo 23.

Parte I

Did I say that I loathe you?
Did I say that I want to leave it all behind?
I can't take my mind off you.
I can't take my eyes off you.

(The blower's daughter, Damien Rice)




Per settimane, Josephine non aveva più rivisto James. Aveva evitato Polly con ogni mezzo e, quando non aveva potuto, si era sempre mostrata distaccata, nel tentativo di non creare mai, in nessuna circostanza, un clima che spingesse l’altra a confidenze di qualsiasi tipo, specie se di tipo romantico. Si rendeva conto di essere puerile, ma viveva nel terrore che la coinquilina le parlasse di James, rivelandole che alla fine, dopotutto, uscivano insieme. Non sapeva nulla, in realtà. Non sapeva se lui si fosse più fatto vivo, se la stesse corteggiando o ignorando. Aveva avuto cura di non indagare e Polly, dal canto suo, non aveva mai nemmeno cercato di imbastire conversazioni che potessero virare sull’argomento.
A soccorrerla nell’impresa di saltare ogni ostacolo sul sentiero della propria serenità, era stato Robb. Nelle ultime settimane l’aveva coinvolta nell’organizzazione e nell’allestimento di una piccola mostra che si sarebbe tenuta quella domenica. Era stata travolta dall’entusiasmo del fidanzato, il quale l’aveva condotta più volte nell’attico prescelto, quello che corteggiava da mesi, aspettando che arrivasse il suo momento. Molte volte Josephine gli aveva suggerito di trovarsi un altro locale, ma Robb non aveva voluto sentire ragioni. In passato, mosso dalla smania di esprimersi, aveva accettato di esporre i suoi pannelli in vecchi magazzini inospitali, in locali dalle luci tremende o in appartamenti privati con pareti dai colori agghiaccianti; adesso, invece, mirava a ben altro. Il bisogno di rivelarsi attraverso i suoi scatti non si era sopito, ma era stato surclassato dall’esigenza di recidere i legami con la figura di artista naïf a cui era rimasto avvinghiato per troppo per potersi finalmente sentire adulto, nel mondo e per agganciare finalmente legami sostanziali con il florido e più borghese ambiente culturale cittadino. Adesso pretendeva da se stesso un salto qualitativo e, consapevole di non poter snaturare la propria percezione e la struttura netta e semplice dei propri scatti, privi di orpelli e lontani dalla deriva kitsch in voga, si era concentrato su come generare un’ atmosfera sofisticata che gli garantisse, se non altro, di ripulirsi dalle polveri dei vecchi magazzini che in passato lo avevano fatto sentire esatto, d’effetto. Jo si era sentita lieta di poter finalmente dare un significato al suo ruolo di partner, sostenendolo e aiutandolo nelle scelte, dissipando alcuni dei suoi dubbi, placando la sua apprensione. Sì, perché Robb reputava questo evento d’importanza capitale, considerandolo un punto di svolta per la propria carriera. Josephine era ammirata e al tempo stesso incapace di comprendere i motivi per cui il fidanzato riversasse in quest’occasione un quantitativo tanto esagerato di aspettative. Nonostante reputasse eccessiva la sua concitazione, gli aveva dimostrato piena fiducia e appoggio, ingoiando molto spesso commenti o battute infelici. L’entusiasmo travolgente di Robb l’attraeva e ripugnava contemporaneamente. Trovava mirabile la sua ambizione, la sua smania di fare meglio, ma non poteva fare a meno di mal sopportare il modo in cui Robb – a tal punto assorbito dal progetto – appariva alienato dalla realtà, cieco e sordo agli input esterni ai limiti dell’ottusità. Tutte le volte che questa sensazione l’assaliva, Jo la ricacciava indietro con grande diligenza e ostinazione. Gli doveva dedizione e pazienza e trovava terrificante e insopportabile l’arroganza con cui si perdeva in simili pensieri, ergendosi a giudice, quando era lei stessa, quella da processare.

Era lei quella che aveva preso a riempire le giornate fino all’orlo pur di non sentire; da quando il semestre era cominciato, aveva frequentato ogni singola lezione, anche quando le doleva il ventre e sudava freddo per il ciclo; aveva accettato di unirsi a gruppi di studio che fino ad allora aveva ostinatamente ignorato; aveva preso caffè con colleghe sconosciute, mangiato ogni giorno in mensa, presenziato a seminari a tema letterario, ecologico, politico, persino religioso.
Ignorava, ormai, ogni criterio di selezione e non leggeva un libro di piacere da una quantità di tempo che non aveva precedenti nella sua carriera di lettrice. Tutto il tempo libero che le rimaneva, lo impiegava per Robb, con Robb.
La notte, però, non le lasciava scampo e certi pensieri le assediavano la veglia e il sogno come un veleno lento e corrosivo, di quelli di cui non si conoscono gli effetti se non l’attimo prima di contorcersi dal dolore. Inoltre, con l’approssimarsi della mostra, Josephine si sentiva sempre più angosciata, consapevole che l’avrebbe rivisto. Erano passati circa due mesi ed era convinta di aver digerito le parole di James e i significati che vi si celavano dietro. Inoltre, lui non aveva dato più cenni di alcun tipo e l’unica volta in cui aveva accettato di tornare dai suoceri con Robb, lui non si era fatto vivo. Sapeva, suo malgrado, che James, di recente, aveva trascorso molto più tempo a Londra che a St. Albans, complice un progetto di ampliamento che avrebbe previsto una sede aziendale nella capitale; ma lui non era mai capitato sulla sua strada e questo rendeva il suo distacco completo. Josephine si diceva che le era servito spezzare quel filo che l’aveva quasi stretta a lui in una morsa di disprezzo e seduzione e considerava una cosa del passato l’influenza che lui aveva su di lei. Era angosciata all’idea di incontrarlo, ma ne era al contempo elettrizzata, perché proprio non vedeva l’ora di dimostrare a se stessa che lui non poteva più nulla, non valeva più nulla.


 

***


 

L’aria di Novembre le pizzicava la schiena scoperta e la musica la raggiungeva dall’interno dell’attico. Dentro si muovevano con disinvoltura e vanità gruppi di uomini perlopiù in tweed e donne con enormi anelli di cattivo gusto sulle dita. C’era, in alcuni di loro, una deliberata e ricercata sciatteria, che altro non era che un modo di atteggiarsi, di etichettarsi. Le chiacchiere e certi accenti rotondi, marcati, saturavano l’aria, insieme a riflessioni edulcorate da termini eccessivi, impattanti. Josephine era lì da mezz’ora e si sentiva già soffocare. Vedeva Robb assorbire con naturalezza le pose e le conversazioni, come se quell’abito nuovo di zecca, intarsiato di lustrini e luccichii superflui, gli calzasse perfettamente, come fosse suo da sempre. Lo osservò attraverso i vetri della porta finestra e stentò a riconoscerlo, stentò a riconoscere i suoi sorrisi, le sue espressioni. Sapeva di dover tornare dentro per reggiungere Tracy, Spencer e Sierra, pesci fuor d’acqua come lei in quel contesto altisonante e sofisticato che invece sembrava curiosamente, inspettatamente l’habitat naturale di Robb. Raccolse il respiro e si gettò di nuovo tra la gente e le fotografie di Robb, alle quali, adesso che tutto sembrava filar liscio, poteva dedicare un sguardo attento e rilassato. In molti dei panelli erano esposti dettagli di lei su cui durante l’allestimento aveva evitato di soffermarsi e da cui ancora adesso, mentre si muoveva verso il gruppo di vecchi amici di Robb, distoglieva lo sguardo. I tre ragazzi sostavano davanti ad un pannello di medie dimensioni, rappresentante una bambina vietnamita che, trionfante, mostrava all’obiettivo una lucertola a testa in giù. Fu tra una chiacchiera e l’altra che Jo, alla fine, lo vide fare il suo ingresso. James era, come sempre, impeccabile e le bastò un’occhiata fulminea per attestarlo; l’attimo dopo sorrideva e si scusava con gli altri, dicendosi costretta a raggiungere quelli del catering in cucina per controllare, accertarsi che tutto procedesse senza intoppi. Era quello il suo compito, si disse muovendosi in fretta per raggiungere il retro: doveva occuparsi dei ragazzi che sfilavano in sala coi vassoi carichi di flûtes colmi di prosecco, del rinfresco che sarebbe stato servito a minuti, controllare che fosse tutto in ordine, tutto pronto, tutto già predisposto. Ma nella penombra della cucina, Jo si accorse di respirare a malapena: lui era lì, tra quelle stesse pareti, e lei scoprì di non essere pronta ad affrontarlo. Le sembrava di non vederlo da una vita intera e adocchiarlo, anche solo per un istante, le aveva rivelato quanto in realtà subisse ancora troppo la sua energia. Si disse che non era così, che non poteva essere così e che le tremavano le mani semplicemente perché non si aspettava di trovarselo davanti all’improvviso. Tornò in sala e intercettò subito Robb, Spencer e James vicini, di fronte a una foto che da quella lontananza non riconosceva. Lo sguardo di Robb la raggiunse subito e così il suo sorriso e James, che era di spalle, quasi avesse percepito la sua presenza, si voltò a guardarla. Josephine stirò le labbra in un sorriso cordiale, rivolto ad entrambi, sperando bastasse come interazione per l’intero pomeriggio. Quando Robb le fece segno di raggiungerli, capì di aver sragionato a pensare che un sorriso potesse bastare. Con dei gesti del tutto scoordinati gli fece intendere che lo avrebbe raggiunto a breve e che aveva altro da fare. Lui le fece l’occhiolino e tornò a guardare la fotografia seguendo lo sguardo di Spencer, ma non quello di James, che invece si allacciò alla schiena scoperta di Josephine mentre si allontanava fino a raggiungere un pannello enorme che trionfava nella parete opposta, la più distante.



Quello sguardo denso, duro, incredibilmente malinconico era davvero il suo. Non sapeva come Robb ci riuscisse, ma quando si guardava attraverso una fotografia, una delle sue, le sembrava di osservare un’estranea dall’aria imperscrutabile. Questo, tuttavia, non cambiava di una sola virgola il disagio di trovarsi così esposta allo sguardo altrui. Non sopportava di vedersi tanto immensa, ingombrante, ma resisteva, si costringeva a mantenere lo sguardo fisso nel proprio, pur di evitare di voltarsi, spostarsi e incrociare la rotta di James. Si strinse nelle braccia e sospirò: quello era il punto più lontano e sebbene sapesse che prima o poi lui si sarebbe mosso e inevitabilmente avvicinato, non riusciva a risolversi, a muoversi, a concedersi uno sguardo rilassato sulla sala. Non poteva certo sapere che a niente valeva lo sforzo di evitarlo e che lui era ad un passo da lei, alle sue spalle, ammaliato dalle sue scapole seriche e trasparenti.

– Fata? Non so, non mi sembra appropriato.

Era la voce di James, quella. Josephine se lo ritrovò accanto e insieme a lui il suo profumo, inconfondibile, prepotente come sempre. Gli scoccò un’occhiata laterale, non sapendo come rispondere, che tono utilizzare, in che momento e in che fase fossero. Lui le pareva rilassato, le mani dietro la schiena, un dolcevita beige che si gli arrimpicava sulla gola, una giacca scura, la mandibola rasata di fresco, il profilo severo, le spalle immense.

– Robb mi dice spesso che è così che gli appaio: una specie di fata che muta natura a seconda del giorno.

Jo prese a parlare, scegliendo di mantenere, per sicurezza, un tono asettico.
James strinse lo sguardo continuando a fissare gli occhi malinconici di Josephine, quella nella fotografia.
– Ho sempre pensato che tu fossi più una strega, a dire il vero, – disse infine. Nella voce nessuna ombra di sarcasmo. Un tono che sorprese Jo e che faceva a pugni col concetto appena espresso. Fu per questo che non si impettì e che rimase anche lei con lo sguardo rivolto alla fotografia e disse soltanto:
– L’ho sempre pensato anch’io.
James scese a guardarle le labbra nere, al minimo della saturazione, chiuse, un piccolo neo sulla curva del broncio.
– Ma non è nemmeno “strega” che l’avrei intitolata, – disse, con un tono pensoso, la voce morbida, priva degli spigoli di sempre. Un tono che allarmò Josephine e che le irrigidì i muscoli.
– E come l’avresti intitolata, allora?

Il tono di Jo assunse, senza che lei potesse farci nulla, una sfumatura di ironico scetticismo. Ma lui, pur cogliendola, proseguì ad osservare il pannello in bianco e nero, lottando tra la malia che esercitava su di lui e il fastidioso bisogno di guardare Josephine, quella in carne ed ossa e colori. Aveva pensato che rivederla sarebbe stato molto più semplice adesso che il tempo e la distanza avevano trascinato via le sensazioni e le parole che mesi prima avevano finito per annebbiargli la ragione. Ma era stato un errore credere che bastasse questo per liberarsi di quel sortilegio. Era stato un errore mastodontico e lo capì mentre la sua voce lo raggiungeva, ricordandogli con spietata dovizia il potere di cui era capace. 

– L’avrei intitolata poesia,– disse alla fine, sorprendendola. C’era qualcosa di doloroso in quello che lui le aveva appena detto, ma non riusciva a capire perché e in che punto preciso sentisse male.
– Sembrerebbe un complimento, ma sono sicura che non lo è, – rispose, sulla difensiva, pronta a sentirgli uscire dalle labbra un' offesa qualsiasi.
James finalmente la guardò, ma lei no, non ancora.

– Non lo è. Non è niente. E’ così che ti vedo.

Jo sentì nitidamente lo sguardo di lui addosso e gli concesse una mezza occhiata distratta, per sincerarsi che davvero lui non si stesse burlando di lei. Ma lui aveva lo sguardo, l’aria, la postura seria. Quell’atteggiamento inaspettato non fece altro che metterla a disagio e le provocò nello stomaco fitte senza nome. L’idea che la colpì era che lui l’avesse declassata a interlocutrice qualsiasi, che lui l’avesse ridimensionata: le parlava senza sarcasmo, senza durezza, senza disprezzo. Le parlava e basta, senza intenzione e intonazione. Le parlava e le diceva una cosa come “poesia” senza che questa sembrasse avere legami con loro. Era una parola come un’altra, senza implicazioni e suggestioni e ed era forse la parola più crudele che le avesse mai rivolto.

– La poesia è implicita, - proseguì lui, – E’ un non detto che si ripete e che confonde, finché non lo rileggi, una, due, dieci volte.

Jo si voltò a guardarlo, trascinata da un istinto incontrollabile, ma lui aveva ripreso a guardare di fronte a sé, di preciso le ciglia scure della ragazza in fotografia.

– Alcune poesie arrivano immediatamente, non sempre serve rileggerle, – commentò lei, cercando di mostrarsi disinvolta, come una che fa un commento qualsiasi ad un commento qualsiasi.

– Di certe poesie ti colpisce qualcosa che non è legato al senso. A volte finisci col provare qualcosa senza aver capito una sola parola. E’ più che altro una questione di sensazione e non di senso.

Desiderarono guardarsi negli occhi, immediatamente, disperatamente, ma non lo fecero. Era una conversazione surreale, probabilmente sognata e Jo non capiva di cosa stessero parlando esattamente, ma era una questione di sensazione anche quella, e il senso era completamente inafferrabile.

– E che poesia sono io, alla luce di questo? – chiese infine e si morse una guancia.
James si concentrò sulla malinconia dei suoi occhi che lo fissavano spietati, senza vita, più scuri che mai.
– Sei implicita, incomprensibile, una sensazione che schiaccia il senso e che me lo rende completamente indecifrabile, – rispose, la voce bassa, carica di qualcosa che prima mancava.
– Intendi rileggermi o ti basta così? – domandò lei, senza pensare, come se le fosse sfuggita via la voce.

James dovette contrarre la mandibola e allargare le spalle per impedirsi di dire quello che gli era balenato nella testa. Qualcosa che aveva a che fare con il motivo per cui era lì, vicino a lei, sforzandosi di rimanere incolore, di trattarla come una persona qualsiasi, una a cui poter dire cose come quelle senza che la cosa avesse un peso, un valore. Era lì, dopo due mesi, per leggerla, studiarla, perché non aveva mai smesso, aveva soltanto atteso e studiato il suo silenzio, la sua indifferenza. Ma c’erano ancora troppe cose di lei che doveva afferrare e per farlo, doveva avvicinarla, disarmarla. La voglia di provocarla e stizzirla gli strisciava ancora nelle vene e minacciava di prendere il sopravvento ogni istante, ma aveva compreso che per arrivare a lei, ai suoi segreti, doveva snaturarsi, diventare un altro, per quanta fatica gli costasse.

– Intendo rileggere finché non vedrò anch’io la fata di Robb, – disse finalmente, prima di guardarla e lasciarsi guardare con aria confusa. Entrambi subirono come una stilettata lo sguardo dell’altro e si sforzarono di non sentirsi agganciati, di non pensarsi inafferrabili, di non sentire l’uno il profumo dell’altra, di non vedere tutti i motivi per cui sembrava insopportabile non sfiorarsi le mani un attimo soltanto.
Fu in quel momento che Robb puntò l’obiettivo su di loro e restrinse l’inquadratura fino a fissarla sui loro sguardi. Quello fu il primo momento in cui Robb vide oltre i suoi stessi occhi e a colpirlo fu una sensazione senza forma: una sensazione e non il senso.



continua...

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Capitolo 27
*** Girl Crush ***


    Capitolo 23.
II





I 've got a girl crush, hate to admit it but
I've got a heart rush, it ain't slowin' down
I've got it real bad, want everything she has
That smile and that midnight laugh she's giving you now

I wanna taste her lips, yeah, 'cause they taste like you
I wanna drown myself in a bottle of her perfume
I want her long blonde hair, I want her magic touch
Yeah, 'cause maybe then you'd want me just as much...


(Girlcrush, Harry Styles)





Quando Robb li raggiunse, Josephine riacquistò percezione della realtà e distolse in fretta lo sguardo da quello di James, ma farlo non bastò a spegnere la sensazione che sentiva addosso. Confusione, sorpresa e angoscia si dibattevano al centro del suo petto e avrebbe tanto voluto chiedergli perché, cos’era cambiato, cosa le era sfuggito, ma ingoiò lo smarrimento e dedicò a Robb sorrisi e carezze. Lui le baciò il dorso di una mano e, rivolgendosi al fratello, disse:
Fata è forse il mio pezzo preferito. Sapevo che avrebbe catturato la tua attenzione.
James abbozzò un sorriso e scoccò un’occhiata di sbieco alla fotografia. Josephine li osservò con imbarazzo: trovava insopportabile che si parlasse di lei.
– Josephine era in posa? – chiese James con aria interessata.
– No, è questo il bello, non trovi? – rispose l’altro, entusiasta, sfiorando il fianco di Jo.
– Le ho semplicemente detto: “guardami un istante” e lei si è voltata e non ha mosso un ciglio. Era il giorno prima che la portassi a conoscervi, quest’estate.
Jo tossicchiò e prese a guardarsi intorno, per questo le sfuggì lo sguardo fugace che James rivolse alla mano di Robb che spariva dietro di lei, all’altezza della schiena.
– A cosa pensavi, con quello sguardo lì? – fece ad un certo punto. Jo realizzò solo dopo qualche momento che era con lei che James stava parlando. Il suo tono era ancora una volta incongruo, corrotto, una nota stonata che le gelava il sangue, ma si sforzò di assecondarlo, di mostrarsi capace di trattarlo come lui la stava trattando: con angosciosa cordialità.
- Non ne ho idea, sinceramente, – disse infine. – Ma è possibile che fossi sull’orlo di un mancamento. Ricordiamoci che era Luglio, – scherzò, sorridendo appena.
James strinse lo sguardo un attimo solo e poi si rivolse a Robb. – E’ talento vero, allora. Hai trasformato una banalità in malinconia.
Robb s’inorgoglì e non seppe trattenersi dal sorridere e dal ringraziarlo e dal dire che era troppo, che stava proprio esagerando, ma che era vero, certo, che la fotografia fa proprio questo: coglie un momento, a volte lo estrapola dal contesto ed è compito di un occhio acuto stanarlo, ma era pur vero che Jo si prestava perfettamente. Lei era una musa.
Sullo sguardo di Josephine calò una nebbia fittissima. Immaginò di essere una zolla di terra alla deriva, coi confini frastagliati e con tutti i segni dello strappo ancora freschi, votati all’oceano. Era lei che si strappava via da Robb e James, perché non esisteva altra coppia in quel punto della sala che non fosse costituita nient’altro che dai due fratelli. L’avevano scaricata, parlando di lei come fosse uno spettro o, peggio, uno strumento, lo strumento per decifrare l’arte di Robb; lo strumento utile ad allacciarli più forte con stringhe d’ammirazione, gratitudine, vanità, crudeltà. Era stato crudele James a ridurla a niente, era stato crudele Robb a negarle persino la malinconia. Non poteva immaginare che uno di loro si stava solo sforzando di ridurla a qualcosa di diverso, fingendo che non fosse per quegli occhi in fotografia che aveva perso la rotta.
Josephine inventò una scusa e si allontanò per cercare rifugio sul retro, ma Spencer e Tracy pretesero le sue attenzioni e la trascinarono al banco dei rinfreschi.
– Dov’è Sierra? – chiese loro, cercando di rilassarsi.
– Fuori a fumare con un tipo indecente, – fece Tracy. – Sai quello col cappello brutto che gironzolava vicino a noi, prima? Hanno preso a dirsi stronzate sull’arte tribale, su come ci sia da svecchiare questa composta Inghilterra e cose così.

Spencer ridacchiò, ma si sentì in dovere di aggiungere:
– Sembrava un discorso interessante, ma è Sierra e non riesco a prenderla sul serio, capisci, no?

Jo annuì e abbozzò un sorriso.

– Sono felice che siate riusciti a venire, – disse dopo qualche istante passato a sorseggiare prosecco. – Robb teneva moltissimo a questa mostra e tiene molto a voi.
– Scherzi? Non ce la saremmo persa per niente al mondo, – disse Spencer, mentre Tracy annuiva solenne.

A quel punto le lasciò da sole, per raggiungere i fratelli Draper. Tracy approfittò del momento per riversare su Josephine lamentele su Sierra e sulle sue cattive abitudine, sul suo modo sconsiderato di affrontare situazioni e uomini.
– Non la smetterò mai di preoccuparmi per tutti. Deve essere questo il mio destino, – fece con voce lamentosa.
Jo riusciva a prestarle attenzione soltanto a tratti: si sentiva assediata, come se una folla scalpitante stesse facendo bagordi nella sua testa. Non riusciva a concentrarsi, sentiva con chiarezza soltanto un gomitolo di sensazioni desolanti incastrato in gola.
– Lascia fare, non puoi cambiare le persone, – si limitò a rispondere, vaga.
A Tracy bastò quel piccolo appiglio per proseguire.
– Non è così semplice. Ho sempre il terrore che accada qualcosa. Spencer, poi, è quello che mi dà più gatte da pelare. Sono stufa e so che finirò come mia madre, di questo passo.
– Cioè?
– Esaurimento nervoso, – disse con fare melodrammatico. Un tono che inasprì l’umore di Josephine e che la fece ripiombare nel disinteresse nei confronti dela conversazione. Nel frattempo, aveva dimenticato il proposito di non guardare in direzione di James e, imitando Tracy, prese a guardare in direzione dei tre. Si erano spostati e Fata era ormai cosa dimenticata, lontana, osservata, adesso, da occhi sconosciuti e di nessun significato.
I tre chiacchieravano con fare serio, adulto, attraversato di tanto in tanto da sprazzi di ilarità che coinvolgevano ben poco James. Josephine s’incantò a guardarlo, ad osservare le espressioni che gli piegavano i tratti, lo sguardo sempre profondamente intelligente, la sua intossicante avvenenza, le sue movenze sicure, d’altri tempi. Persa com’era in quella contemplazione, dimenticò che Tracy le era accanto farfugliando delle sue preoccupazioni. A scuoterla fu un’interruzione, un’invasione di scena. Un uomo slanciato in giacca e camicia e una donna altissima e dai biondi capelli di grano raggiunsero il gruppo. In particolare, entrambi si fiondarono con disinvoltura e calore su James, il quale appariva piacevolmente sorpreso. Anche Robb li accolse con gli occhi brillanti, un sorriso aperto e strette affettuose che acuirono la già avida curiosità di Josephine.
Tracy le afferrò un braccio e le si avvicinò all’orecchio come una specie di elfo pettegolo, preparandosi a sciogliere la lingua.
– Hai visto chi c’è?
– Chi? – fece Jo, fissa sulla donna che strappava dalle labbra di James un numero spropositato di sorrisi.
– Quello è il migliore amico di James, John Coleman, psicologo; e quella indovinerai di sicuro chi è.
– La sua ragazza?
Tracy proruppe in una risatina. – Certo che no. La sua ragazza è una certa Betty, ma non mi pare di vederla.
Josephine prese a battere il tacco scuro sul pavimento, in preda ad un tic montante, figlio dell’impazienza, della tensione, dell’atteggiamento completamente inedito che James sembrava avere di fronte a quella donna.
– E dunque chi è?– chiese infine.
– E’ l’ex di James. Robb deve averti raccontato di quella storia.
Josephine trattenne il fiato e l’altra probabilmente non notò il cipiglio altero che le era comparso sul viso, né la postura improvvisamente fiera, le schiena che si allargava.
– Affatto, – rispose, secca.
– Quel ragazzo è senza sangue, – replicò Tracy, incredula. – Vieni, raggiungiamoli.
Jo si sentì tirare per un braccio, ma oppose resistenza.
– E perché?
– E perché no?
La ragazza, col suo caschetto bruno e gli occhi insolenti, la fissava e si aspettava una spiegazione che non arrivò, perché Jo ne aveva solo una, una che non avrebbe mai proferito ad anima viva. Fu con grande riluttanza che la seguì e quando raggiunsero il gruppo, si strinse al braccio di Robb ed evitò di guardare apertamente chiunque altro, mentre Tracy salutava i due nuovi arrivati con prontezza e savoir-faire.
– John, Frances, lei è la mia ragazza, Josephine.
Robb si era comportato come conveniva, ma Jo pensò che avrebbe potuto strozzarlo. Strinse la mano ai due e vi scambiò qualche convenevole, sperando di apparire disinvolta almeno la metà di Frances. Era dunque questo il nome della donna che un tempo aveva ghermito il cuore di James, riuscendo quindi a guadagnarsi il suo rispetto, la sua stima, il suo trasporto. La osservò, dimentica di chiunque altro, studiò i suoi gesti naturalmente eleganti, le sue labbra piene, i biondi capelli che le ricadevano lisci sulle spalle, gli occhi magnetici, d’ambra, il corpo lungo, quasi androgino avvolto da pantaloni e dolcevita neri. Era essenziale, eppure tremendamente ammaliante.
– Cosa fai nella vita, Jo? – chiese John, riportandola alla realtà e, istintivamente, allo sguardo felino, scrutatore, di James.
– Studio giornalismo e sopporto Robb.
– Immagino la fatica, – rise l’altro.
– John fa lo psicologo ed è anche piuttosto scarso, – intervenne Robb, vendicativo, scatenando l’ilarità generale.
– Permalosi i Draper, eh?
James si schiarì la voce e Frances, accanto a lui, trattenne una risata. I due si guardarono e si si sorrisero con una complicità che avvelenò Jo.
Poi, la conversazione proseguì senza che nessuno la interpellasse più in maniera esplicita. Questo, pur alleggerendola di un peso, la trascinò in un turbinio di considerazioni sulla propria inadeguatezza, sempre, ovunque. Frances dominò la conversazione per gran parte del tempo, profondendosi nel racconto di aneddoti affascinanti sui suoi viaggi di ricerca e su certe recenti specie marine che l’avevano oltremodo impressionata.
– Non sai quanto ti invidio, – fece Robb, ad un certo punto.
– Ah, bene. Credevo che in famiglia foste tutti annoiati dalla scienza.
James piegò le labbra in un sogghigno e bevve un sorso di prosecco, scuotendo la testa.
– Beh, potremmo definirmi la pecora nera della famiglia, – disse Robb, cercando in Josephine una complice. Lei, però, continuava a scrutare attentamente Frances, affascinata e al contempo contrariata dalla familiarità con cui si muoveva al fianco di James e dal modo in cui le sue parole trovavano riscontro sul volto di lui.
– Buono a sapersi. Pensavo che la letteratura vi avesse corrotti tutti.
– Nessuno è più corrotto di James, in tal senso, – fece solenne Robb. – Forse solo Jo, che ormai è di famiglia, del resto.
Jo sollevò lo sguardo, sorpresa, restituendo un sorriso agli occhi caldi, luminosi di Robb. In quel momento altri occhi le piovvero addosso e lei li sentì con tale prepotenza, che non poté negarsi loro un solo istante di più. Fu allora che vide James guardarla col solito spietato cipiglio e farlo in maniera tenace, incurante di qualsiasi altra cosa, persino degli occhi di John che non l’aveva perso d’occhio un solo istante da quando era arrivato.
Jo ribatté con un cipiglio altrettanto severo, ostinato, non riuscendo però ad impedirsi di aggrapparsi con una mano alle pieghe di velluto del vestito. La tracotanza, l’insofferenza, il disgusto di James erano tornati alla ribalta e lei se li sentì vibrare sulla pelle, acidi, corrosivi, paurosamente rinfrancanti.

 

***

 

Il vino gli scorse in gola caldo e corroborante e la luce tenue del salotto restituiva pace ai suoi occhi stanchi. John gli sedette di fronte, sprofondando sulla poltrona.
– Lo so che avrei dovuto dirtelo, ma ero certo che l’avreste gestita bene.
James scuoté la testa e si arrotolò le maniche sugli avambracci.
– Frances ed io siamo in ottimi rapporti, non ho problemi a gestirla. Dico solo che avresti potuto risparmiarti certi sotterfugi imbarazzanti
– Quello che tu chiami sotterfugio, sul pianeta terra è chiamato sorpresa.
James si stropicciò il volto, emettendo uno sbuffo divertito.
– Dammi tregua, sono spossato. Avrei bisogno di una vacanza.
John gli versò dell’altro vino e lo guardò con aria corrucciata.
– Vorrei ricordarti che il tempo del sonno è tempo necessario, non è tempo perso che puoi invece sfruttare per fare quello che non riesci a fare di giorno.
– Ti prego, non ricominciare. So quello che faccio e adesso ho bisogno di impiegare il maggior tempo possibile per l’azienda.
Bevve un lungo sorso di vino e si lasciò andare sullo schienale, gli arti ormai liquidi, rilassati, le palpebre allentate dalla stanchezza e dal nettare scuro.
– E’ un vizio che avevi anche all’università. Ma non ricomincio, d’accordo, – fece John, rigirandosi lo stelo del calice tra le dita. – Piuttosto, sarei curioso di sapere com’è stato rivederla.
James gli scoccò un’occhiata seccata, poi socchiuse le palpebre e sospirò. La verità è che quella domanda aveva preso a farsela lui stesso già da ore, sorpreso com’era di aver affrontato Frances con tanta disinvoltura. Non la vedeva da più di due anni e ricordava chiaramente come la circostanza gli avesse messo sottosopra lo stomaco. Di quelle sensazioni non era rimasto che qualche vapore, per giunta diradato da quelle più pressanti, feroci, che lo avevano assalito di fronte ad altri occhi. Gli stessi occhi che gli si erano ostinatamente negati per tutta la durata della mostra, confondendolo, rimescolandogli il sangue nelle vene. Si era sentito impazzire, disarcionare dall’atteggiamento inaspettato ed impietoso che Jo gli aveva dedicato. Mai come in quell’occasione si era mostrata tanto vicina a Robb, né lo aveva mai toccato tanto e con tanta dedizione. A lui, teso ad intercettare ogni suo movimento, non aveva concesso che qualche occhiata intellegibile, fugace.

– Sono passati otto anni, John. Frances è acqua passata, – gli concesse, infine.
– Era entusiasta di rivederti, sai? Ma non credo ti pensi più in quel senso.
– Ho l’impressione che il solo a pensarci in quel senso sia tu.
– Sono l’ultimo dei romantici, che vuoi farci. – Bevve un sorso e poi proseguì: – A proposito, Robb sembra piuttosto felice con Josephine.
Sentir pronunciare il nome di lei, lo irrigidì, ma tentò di mascherare il disagio prodigandosi in espressioni di assenso.
– Credevo non ti piacesse, – commentò John.
– Su quali basi?
– Quando ti ho chiesto di lei, hai liquidato il discorso con indifferenza. Eravamo qui da me e ti aveva chiamato tua madre e…
– Ricordo, sì, – lo interruppe, brusco. – Be’, non c’è un granché da dire su di lei. Hai visto da te che non è granché socievole.
– Mi è parsa soltanto timida. Non ci conosceva.– Lo scrutò un attimo e proseguì: – A me sembra che tu non nutra grandi simpatie per lei e non capisco perché, è piuttosto carina, delicata, posata e mi sembra molto supportiva nei confronti di Robb.
James proruppe in una risatina sardonica.
– Che ho detto? – fece John, confuso.
– La tua ingenuità è patologica.
Certo che lo era, solo un ingenuo avrebbe potuto scambiare i suoi sguardi, la sua reticenza, tutto quello che faceva e diceva su Jo e per Jo per qualcosa che avesse un solo significato. Su questo, però, tacque.
– Perché? – chiese l’altro.
James si sollevò di scatto, recuperò la giacca abbandonata accanto a lui e la indossò.
– Vado a casa, muoio di sonno.
Gli si avvicinò e gli diede un pacca sulla spalla. L’altro grugnì degli improperi e disse:
– Vuoi fare l’enigmatico, Draper?
James, alla porta, ridacchiò. – Neanche per sogno. Ho sonno e nessuna voglia di pettegolare.
– Gesù! Non stavamo pettegolando. Stavamo conversando. - Prese un cuscino e glielo lanciò contro, ma mancò il bersaglio, ridendo fiaccamente. – Vattene!
– Buonanotte, pettegolo.

Più tardi, quella sera, rifletté sulle scelte prese nell’ultimo periodo e su Frances, sulla loro storia cominciata e finita nell’arco di sedici mesi, per motivi che al tempo gli erano parsi ingiusti, egoistici. Quando avevano ventidue anni, dopo una lunga amicizia, che per lui non era mai stata tale, si erano finalmente decisi ad intraprendere una relazione fatta perlopiù di lealtà e di lunghe notti passate a parlare dei rispettivi progetti. Era stata una di quelle lunghe chiacchierate a decretare il disfacimento della loro relazione. James era sempre stato a conoscenza delle ambizioni di Frances, della sua voglia di viaggiare e studiare all’estero, ma quando lei gli aveva comunicato che sarebbe partita per studiare e fare ricerca in Canada, soffrì comunque. Decisero di comune accordo di troncare e di rimanere amici, ma per molti anni il proposito non si era compiuto per via di un certo ventaglio di rancore e mestizia che ancora annebbiava la lucidità di James. Tuttavia, ormai da molto tempo pensava a lei con affetto e sincera amicizia, rimproverandosi per essere stato tanto infantile da confondere una profonda e mirabile esigenza in egoismo. Sapeva di essere lui l’egoista e di esserlo sempre stato. E questo non accennava a cambiare, ma anzi pareva lievitare, raggiungere dimensioni macroscopiche. Se in passato il suo egoismo aveva danneggiato chi intralciava il suo cammino, adesso ad esserne bersaglio era lui stesso e, di questo, ne aveva una cruda consapevolezza. Era per egoismo che aveva finito con l’ossessionarsi di lei ed era sempre per egoismo che aveva rivisto un paio di volte Clare, pur non provando per lei grande interesse e pur essendo consapevole che per lei quegli incontri significassero qualcosa di più. Era sempre per egoismo, per l’incapacità di soccombere agli eventi, che aveva innescato un domino di circostanze che lo vedevano costretto a scambiare sms superflui e superficiali con Polly. Lei era nel Derbyshire dai suoi e non faceva che raccontargli le sue giornate, nonostante lui rispondesse con dilazioni e inconcludenza. Era però riuscito a mantenere lo scambio ad un livello virtuale e lei, per fortuna, non aveva mai avuto l’ardire di chiedergli un appuntamento. Che avrebbe fatto a quel punto? Non aveva voglia di perdere tempo, non aveva voglia di vedere una donna solo perché si era invischiato in un ricettacolo di mosse e contromosse deleterie e controproducenti.
Era per egoismo e per lei, per Josephine – a cui aveva smesso di addossare tutte le proprie colpe – che si ritrovava adesso in balìa dello sguardo di una donna, una sguardo che, quella domenica, aveva rifuggito prima e cercato poi, senza trovarlo mai. Pensava di aver rovinato tutto – ma tutto cosa? - quella notte che lei lo aveva raggiunto. Pensava di averla spaventata, riportata bruscamente coi piedi per terra e strappata alla dimensione in cui pensava di averla intrappolata. Una dimensione che, lo sapeva, lui aveva finito con l’abitare e che gli pareva per la prima volta completamente desolata. Si convinse che dicendole quelle cose con tanta severità e schiettezza l’avesse semplicemente ricondotta tra le braccia di Robb e che i suoi tentativi di confonderla, dominarla, vederla capitolare, fossero stati vanificati. Di certo non poteva immaginare che altrove, Jo, ormai persa da giorni nel pensiero di lui e Frances, aveva ceduto alla curiosità di cercare tracce di lei sui social network. Non poteva nemmeno supporre che lei, una volta trovata, si fosse accorta di un particolare che le aveva spezzato il respiro. Frances, scoprì Jo, non era il solo nome della sirena bionda che l’aveva ammaliata alla mostra di Robb. Il suo nome completo era Frances Matilde Price e quel Matilde le si insinuò nella mente, con un' idea estremamente precisa ed insopportabile. 


 

Matilde, dove sei? Notai verso il basso,
tra cravatta e cuore, in alto,
certa malinconia intercostale:
era che d'improvviso eri assente.

M'abbisognò la luce della tua energia
e guardai divorando la speranza,
guardai com'è vuota senza te una casa,
non restano che tragiche finestre.

Tanto è taciturno il tetto ascolta
cadere antiche piogge sfogliate,
penne, ciò che la notte imprigionò:

così ti attendo come casa sola,
tornerai a vedermi e ad abitarmi.
Altrimenti mi dolgon le finestre.

Pablo Neruda

 

Curiosità che mi frulla in testa da un po':
come immaginate i personaggi?
In un cast ipotetico, a quali volti attribuireste la personalità e la fisicità di James, Jo e Robb?
Fatemi sapere, anche in privato. :)

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Capitolo 28
*** silhouettes of you ***


Capitolo 24.


I'm tired of living in the shadows.
These paper walls I can't break through.
I'm sick of standing by your window,
Tracing silhouettes of you.


Silhouettes of you, Isaac Gracie
https://www.youtube.com/watch?v=M-DOZ4XsMq0 
(da ascoltare)

 

Gli era capitato, nella vita, di non sapere dove andare, di non sapere cosa fare, perché farlo e se farlo. Gli era capitato di amare, farsi male, di volare, di precipitare. Insomma, gli erano capitate molte cose comuni che ad un certo punto aveva imparato a comprendere e a superare. Quello che gli stava capitando di fronte alla propria scrivania, quel giorno, invece aveva un sapore del tutto sconosciuto. Non c’erano precedenti, non esisteva niente di simile a quella sensazione di disorientamento e inquietudine che aveva preso a pungolarlo nei momenti più disparati. Un presagio, una spilla nel petto. Lo abitava da giorni l’eco di un ricordo che non si riesce a pescare. Robb non riusciva a concentrarsi sul lavoro, come molte volte gli era capitato nella vita. Eppure, la sensazione che lo trascinava via dai suoi obblighi non aveva contorni, né nome. Non riusciva a risolversi, a capire come raggiungere il nodo da cui tutto aveva origine, quale fosse la dimenticanza che lo attanagliava. C’era, però, qualcosa che conosceva con precisione: il momento esatto in cui era cominciato tutto. Un momento preciso, durante la mostra, un momento brevissimo che aveva soltanto pensato di catturare.
C’erano James e Josephine, le colonne della sua vita, pianeti lontanissimi l’uno dall’altro, improvvisamente vicini, ma distanti da lui, irraggiungibili. E poi c’era qualcos’altro, qualcosa che non comprendeva, ma che credeva di aver visto, come una specie di macchia lavata via da un battito di ciglia. E infine c’era questa puntura, questo spillo che di tanto in tanto gli pizzicava la pelle e gli chiedeva: Cos’era? Quella macchia, Robb, cos’era?

Un uomo meno buono, uno meno leale forse, un uomo meno innamorato dell’idea di James e Jo, avrebbe capito, probabilmente, che la macchia sparita via era qualcosa che lui, guardando la fidanzata negli occhi, non avrebbe visto in mille anni. Un uomo meno idealista, uno meno viziato anche, meno ossessivamente fiducioso, avrebbe potuto persino disegnarla la fune attorno a quelle sue colonne, ogni giorno un centimetro più vicine, pronte alla collisione.
Un giorno, forse, sarebbe diventato quell’uomo – o forse mai.

 

***


Erano scuri, i suoi occhi. Erano cavernosi, cerchiati, bui. Non avevano nulla dell’ambra, della sicurezza di quelli di Frances, anzi, Matilde. Era più piccola, più bassa, più insignificante di lei e non c’era niente, niente che avessero in comune: ne era certa.
Matilde. Lei non sarebbe mai stata quel genere di donna, la donna per cui un uomo come James sottolinea versi malinconici e nostalgici e questa era una consapevolezza che le strozzava la gola. Eppure c’era qualcosa che non tornava, c’erano quelle pagine, che gridavano il nome di un altra, tra le sue mani. Ma cosa poteva contare, in fondo? James, quella notte di mesi prima, era stato mortalmente chiaro. Lei era stata ambigua con lui e lui aveva voluto scoprire fino a che punto, intrappolandola con enigmi e trucchetti. Quello che aveva creduto li legasse, oltre il veleno e le schermaglie verbali, era una costruzione. Un derivato, un dagherrotipo, una proiezione della sua mente rotta. Rotta al punto, adesso lo sapeva – e faceva male, di partorire una passione insensata e sbagliata per un uomo che, dopotutto, si era rivelato migliore di lei. James agiva – seppur a modo suo – per amore. E aveva ragione quando diceva di averla capita con un solo sguardo, aveva ragione quando diceva che lei era buona solo a mentire, a disseminare caos; aveva ragione a non fidarsi di lei, a trovarla ripugnante, fastidiosa, bugiarda, bugiarda e strega. In fondo, aveva davvero ragione su tutto e la fata, quella di Robb, non l’avrebbe vista mai, semplicemente perché non era mai esistita.

 

***

 

Quella notte aveva fatto l’amore con Claire, a quel modo sfrontato e sbrigativo che era tipico dei loro congressi. Lei gli dormiva accanto, avvolta dalle lenzuola seriche e scure, i capelli rossi sparpagliati sul cuscino come lingue di fuoco. Era molto bella e sensuale, dolce anche. Ma non era sufficiente. Avrebbe voluto provare per lei un trasporto violento, esclusivo, ma era un’aspirazione terribilmente chimerica. Non sentiva il bisogno di lei e gli interessava raramente cosa avesse da dire. Non gli interessava molto neanche cosa aveva da dirgli Polly, che forse – forse  s’era rassegnata ai suoi prolungati silenzi. Aveva tra le lenzuola una donna appassionata e comprensiva, che lo raggiungeva persino a Londra nel cuore della notte pur di passare del tempo con lui, quello che lui le riservava. Aveva accanto una donna probabilmente innamorata che non gli bastava e che non gli sarebbe bastata mai. Avrebbe potuto allungare un braccio e sfiorarle la schiena, godersi la sua pelle sotto le dita, ma toccarla ancora, dopo l’amore, sarebbe stata una bugia. La sua vita era una bugia, le cose in cui aveva sempre creduto nient’altro che menzogne. Questo pensiero spingeva dentro di lui con assillo e violenza; lo feriva, lo piegava. Infine, quel braccio lo allungò. Sfiorò la schiena di Claire, un movimento leggero, il solletico di una piuma che comunque la svegliò. Si voltò a guardarlo, gli occhi stretti, il viso rilassato, un sorriso beato sulle labbra. Gli si fece vicina, gli accarezzò il viso severo, le spalle, il petto. Gli si strinse contro con forza, come se lui potesse sfuggirle da un momento all’altro. Poi gli baciò la gola, piano, con dolcezza e lui le sorrise.

– Non dormi? – gli domandò.

– No, ma tu continua. Non volevo svegliarti, – mormorò James sui suoi capelli, il volto contratto, nel petto una specie di veleno.
– A che pensi? – gli chiese, apprensiva, soffiandogli sulle spalle.
– A nulla, davvero. Solo un po’ di insonnia.
– Sai cosa diceva una mia vecchia professoressa, al liceo? – fece lei, ad un certo punto, la voce fievole, mutata.

Lui rimase in attesa.

– Amava parlare di filosofia e mitologia e di sesso. E una volta disse una frase a cui penso spesso ogni volta che esco con un uomo. E’ lì che capisco se è il caso di continuare.
– Che diceva? – fece lui, adesso curioso.

– Se dopo un amplesso ci si addormenta irrimediabilmente, allora si è fatto l’amore, altrimenti è stata una scopata.
– Uhm.

James trovò ridicola quella considerazione, sbagliata e soprattutto insensata, ma non obiettò, non gli interessava.

– Tu non ti sei addormentato, quindi…
– E’ stata solo una scopata, giusto?
– Per te sì, probabilmente.
– E questo lo sai perché te lo ha detto una vecchia al liceo?
Claire rise e lo strinse più forte.
– Non essere maleducato, era una professoressa che amavo moltissimo.
Lo baciò e poi aggiunse: – Vado a fare una doccia.

James la vide sollevarsi, trascinarsi giù dal letto, nuda e disinvolta. Sospirò e chiuse gli occhi, deciso ad addormentarsi, ma la voce di lei lo raggiunse di nuovo.
– Non ti chiederò se hai un’altra, perché potrei farmi male, – scherzò, mal celando una punta di delusione nella voce, – ma posso usarlo?

Quando si voltò verso di lei ci mise qualche secondo a scorgere il cassetto del comodino aperto e il nastro color malva tra le sue mani. Una sensazione violenta lo scosse e a lei, dolce e perfetta, disse:

– No.

Il tono che gli aveva distorto la voce era stato brusco, esagerato, ingiustificato. Una stilettata incomprensibile e bassa che lei ricevette con un tuffo al cuore. Claire ripose il nastro nel cassetto, si vestì in fretta, mise tutto in borsa senza cerimonie e poi gli disse soltanto:

– Faccio la doccia a casa mia, non preoccuparti.

Lui l’aveva osservata senza aprire bocca, mortificato, i capelli torturati dalle mani. Poi aspettò che lei si chiudesse la porta alle spalle e mormorò: Scusa. E avrebbe potuto anche aggiungere: No, non ho un’altra. Ma c’è, un’altra c’è.

Ma non aveva la forza nemmeno di pensarlo, figuriamoci lasciarselo sfuggire dalle labbra.

 

***


Alla fine una cosa giusta l’aveva fatta. Aveva restituito al mittente quel libello scottante, spinoso, senza ormai davvero più nessun significato che la riguardasse. Si lasciò alle spalle l’enorme portone di legno con una specie di fierezza irragionevole. Avrebbe tanto voluto vedere la sua faccia una volta che avesse scoperto che, alla fine, lei non era come aveva creduto e che quelle poesie poteva lasciarsele indietro. Si disse che quella follia fondata su non detti e supposizioni e deduzioni era giunta al capolinea. Era questo che la rendeva fiera, ed era quella fierezza a renderla, come sempre, cieca.

Qualche ora dopo, James raccoglieva dalle mani del portiere un pacchetto dai contorni nitidi e familiari, ma senza mittente né firma. Immediatamente gli fu chiaro cosa contenesse e da chi gli fosse stato recapitato, ma questo non servì ad impedirgli di strappare la busta gialla con urgenza e di lasciarne cadere i brandelli per le scale. Glielo aveva restituito, proprio come si era aspettato mesi prima, solo prima di comprendere che lei, forse, non desiderava farlo per motivi che al tempo gli avevano iniettato inaspettate scariche di adrenalina e soddisfazione. Ma alla fine, dopotutto, eccolo lì. James infilò la chiave nella serratura e si bloccò, emise un sospiro lento e profondo e ricacciò la chiave in tasca. Dopo qualche istante, lo stesso portone di legno scuro che Josephine si era lasciata alle spalle con orgoglio, vide allontanarsi James e quel senso di colpa che gli contraeva duramente il volto.
Ma tutta la colpa del mondo non bastava a fermare i suoi piedi sull’acceleratore, né a spegnere quel bisogno di sapere, di capire, di. Com’era finito in quella situazione, vittima del suo stesso gioco? Com’era possibile che fosse lei, d’un colpo, a manovrarlo, a manipolare le sue scelte? Lei col suo sguardo duro e perso. Il colletto della camicia gli premeva sulla gola: la liberò. Si accese una sigaretta e lasciò che il fumo riempisse l’abitacolo fino a stordirlo. Il sole stava calando, lasciando posto a un cielo grigio di nuvole dense e il telefono, abbandonato sul sedile accanto, prese a squillare. Quando sullo schermo apparì il nome di Robb, James si sentì improvvisamente svuotato dell’aria. Lasciò che il nome del fratello lampeggiasse sullo schermo fino a scomparire; ad ogni squillo James rallentava e quando il cellulare si fece muto, sterzò bruscamente a destra.

Quando Polly se lo vide comparire di fronte, stretto in una camicia grigia e con lo sguardo reso più intenso da un velo scuro di stanchezza, esplose in un sorriso imbarazzato. Non si aspettava di trovarselo lì e, a dirla tutta, da qualche tempo si era convinta di doverci mettere una pietra sopra.
Per questo rimase bloccata sulla porta, a disagio.
– Non mi hai più scritto, – gli disse.
– Però adesso sono qui, – le fece notare.
Lei si sforzò di non sorridere e di guardarlo con severità.
– Sei qui per me?
James ignorò la risposta involontaria che gli era affiorata in mente e sorrise con quanta più convinzione possibile.
– Sei Polly, giusto?
Le sorrise con malcelato compiacimento e lei, pur risentita, non riuscì a trattenersi dal ricambiare.
– Non so se ce l’ho ancora con te, – gli confessò, ironica.
– Intendi tenermi sulla porta finché non avrai un verdetto?
– Può darsi.
Lui si mise le mani in tasca e sospirò, le labbra piegate da un sorriso sardonico.
Un sorriso che durò il tempo di un battito di ciglia e che si spense nell’istante in cui la voce di Jo, profonda e sottile, lo raggiunse come uno schiaffo.

– In fretta, però. Si gela.

Polly, colta di sorpresa, lasciò andare la maniglia della porta, che si scostò fino ad offrire a James l’immagine di Jo con la testa china sul lavandino, intenta a lavare una mela. Non li guardava e si muoveva come se quella scena sulla soglia dell’appartamento le fosse familiare. Aveva i capelli serrati in una crocchia disordinata, un maglione ampio che le sfiorava le cosce ma le scopriva le spalle. James fu disorientato e colpito da come un’immagine così semplice potesse sembrargli tanto potente, surreale. Polly, un po’ in imbarazzo, annuì e gli fece cenno d’entrare e nella piccola cucina l’aria si fece satura. Josephine asciugò la mela con un foglio di carta assorbente e finalmente lo guardò, ma sul suo viso non c’era alcuna emozione o, almeno, nessuna che lui fosse in grado di decifrare. Gli si avvicinò con noncuranza, come se averlo lì rientrasse tra gli eventi dell’ordinario, gli sorrise semplicemente e gli posò una mano sul braccio, con una naturalezza e una familiarità tali da destabilizzarlo.
– Tutto bene? – gli chiese, la mela che passava da un palmo all’altro.
Lui la scrutò un istante brevissimo.
– Come sempre, – deglutì, stranito. – Tu?
– Adesso che avete chiuso la porta, molto meglio, grazie.
Lui le sorrise malevolo, di nuovo padrone di sé.
– Già così provata dai reumatismi?
Josephine, che si stava dirigendo in camera sua, si bloccò e una specie di disperazione improvvisa l’assalì. Avere James tra quelle mura, dopo averlo sentito flirtare con Polly, le aveva spezzato il fiato, ma aveva creduto di avere la forza necessaria per recitare ineccepibilmente il suo copione prima di correre in camera propria; ma il tempo si era dilatato e quei brevi istanti le gravavano sul petto come secoli. Fu per questo che non si voltò né ribatté, ma fece una risatina e si chiuse la porta alle spalle. Non era sicura che avrebbe potuto sopportare un attimo di più in quella cucina e, in verità, non aveva neppure la certezza di riuscire a ritrovare il respiro finché non avesse saputo James lontano da lì. Cos’era venuto a fare? Era davvero lì per Polly? Erano davvero a questo punto? Non era sicura di nulla e temeva – sperando – che quella visita avesse un qualche nesso con la restituzione del libro. Il punto è che non poteva sapere, né chiedere se lui fosse già a conoscenza dell’accaduto e questo dubbio la rendeva irrequieta. Certo, per quanto le era dato sapere, lui era lì per Polly, con la quale aveva dunque continuato a mantenere i contatti. Questo, però, non la sorprese: in cuor suo aveva sempre avuto la netta sensazione che Polly, pur evitando di parlarle della questione, si comportasse in realtà come se fosse sempre sul punto di rivelargliene i dettagli. Jo si allontanò dalla porta per non cedere alla tentazione di origliare, poi si abbandonò sul letto, la luce spenta, il respiro profondo che colmava la stanza. Lasciò che la mela scivolasse sulle lenzuola e attese: un rumore, un segnale qualsiasi.

Nel frattempo, James, in cucina, aveva chiarito la sua posizione con Polly, parlandole del periodo particolare che stava vivendo, specie sul lavoro, e di come per lui il tempo perdeva spesso consistenza e contorni. Le spiegò che non era stata una malvagità quella di rispondere ai suoi messaggi poco e male, ma non era riuscito a fare altrimenti. Lei si lasciò convincere facilmente, soprattutto perché non aveva motivi per dubitare della veridicità di quelle giustificazioni. D’altro canto, però, percepiva qualcosa in lui, qualcosa di insincero su cui cercò di sorvolare, perché lui era bello e aveva una buona posizione e lei non era mai stata tanto fortunata, ed era sempre e solo incappata in uomini senza scrupoli, senza un buon lavoro, senza una morale. Si disse che avrebbe potuto darsi una chance e che, dopotutto, James era il cognato di Jo e non avrebbe osato farle troppo male. Mentre lei lo perdonava, i sensi di James erano tesi tutti in un’unica direzione, volti a rintracciare un suono, un cenno, qualsiasi cosa potesse provenire da lei. Ma era come se quella porta poco distante da lui l’avesse risucchiata e catapultata su un pianeta lontano ed era come se di lei, nell’aria, si fosse persa ogni traccia. E non era per quello che lui era lì, non era per quel niente che aveva preso a far la commedia. Fu per questo che quando Polly gli chiese di rimanere a cena, per mangiare cibo take away
che lui detestava come il demonio l’acqua santa – James acconsentì immediatamente. Mentre Polly componeva il numero del ristorante indiano, James raggiunse la camera di Josephine e bussò due colpi netti e forti. Josephine balzò seduta, il cuore premuto sui timpani; si sollevò dal letto e si mosse nell’oscurità, con l’abitudine di un gatto o di una creatura notturna. Sospirò dietro il legno ruvido della porta e lui, sentendola, fece lo stesso.
Lei gli comparve davanti, il suo volto chiaro pareva spettrale circondato dall’oscurità, ma gli occhi, i suoi occhi non erano mai stati più languidi. Aveva probabilmente dormito o pianto o nessuna delle due, ma provò per lei un moto di tenerezza totalmente nuovo e spaventoso. E poi la odiò, odiò il cipiglio altero con cui lo fissava, quell’aria annoiata che le piegava i tratti, quelle sue spalle trasparenti, spigolose, abbacinanti.
– Invocavi i morti? – le chiese col solito atteggiamento beffardo.
– Che ti serve? – tagliò corto lei, brusca, a denti stretti.
Lui sbuffò con aria svagata.
– Stiamo ordinando indiano. Ti unisci a noi o preferisci rimanere coi tuoi amici spiriti?
– Sei in forma oggi, eh? – fece lei, sarcastica.
Ma le piaceva, le piaceva scandalosamente il modo in cui aveva ripreso a pizzicarla, come se quella terribile giornata alla mostra, che li aveva visti schiacciati da una finta cortesia senza colore, non fosse mai esistita. Lui, ad ogni modo, la scrutava con la solita aria grifagna e un po’ ironica che, ormai lo sapeva, dedicava solo a lei. Se un tempo le aveva fatto male scoprirsi indegna di un atteggiamento cordiale da parte di James, quella sera si aggrappò con ottusa tenacia alla linea obliqua e beffarda delle sue labbra e se ne vergognò immensamente.
– Non mi piace l’indiano, ma d’accordo, – concesse alla fine, come se non le importasse.
– Non piace neanche a me, – mormorò lui, controllando che Polly non lo sentisse.
Josephine sollevò un sopracciglio.
– Quindi mangeremo tutti indiano solo perché piace a Polly?
– Non vorrai certo dispiacerle, – fece lui, affettato.
Lei strinse la mano sulla maniglia ed evitò il suo sguardo.
– No, tranquillo. Sono abituata.
James mosse un passo verso di lei, come per caso o per caso davvero e desiderò che lei lo guardasse e che, con quegli occhi, gli dicesse una cosa qualsiasi che avrebbe potuto intendere solo lui.
– A cosa? A mangiare cose che non ti piacciono?
Lei gli scoccò un’occhiata, sopportando a stento la sua vicinanza, il fatto che fosse lì, nel suo appartamento che sembrava angusto e stretto adesso che c’era lui. Non era sicura che non si trattasse di un sogno.
– A cercare di non di non dispiacere gli altri, – disse, monocorde.
James sollevò il mento e serrò i denti, sperando di poter contenere ogni impulso e curiosità. Avrebbe voluto chiederle se tra i tentativi di non dispiacere non ce ne fosse uno che lui conosceva bene, uno che, se disatteso, lo avrebbe finalmente liberato e condannato al contempo. Ma ovviamente dovette trattenersi, fingere che quella piccola frase non gli avesse appena insinuato pensieri spregevoli, demoniaci. Ma chi era lei e perché una creatura così fosca e mutevole era dovuta capitare sul suo cammino?
– Non ne sono sicuro, – commentò, serafico.
Lei scoccò la lingua.
–Ah, è vero, scusa: sono una bugiarda.
Lui la guardò con una luce ironica negli occhi e la sua voce, incrinata sulla nota iniziale, le cascò addosso come un macigno, grave, profonda.
– Certo. Altrimenti come spiegheresti il pacchetto che mi hai lasciato in portineria?
Josephine deglutì a fatica, ma si finse impassibile.
– Sì, beh. Non avevo più spazio. Mi sono liberata del superfluo, – lo provocò deliberatamente. E lui fu colpito da una sensazione del tutto nuova, che somigliava alla rabbia, ma anche a qualcosa di diverso. Quella frase, così scrupolosamente crudele, suonò alle sue orecchie come una dichiarazione di guerra, ma gli arrivò allo stomaco alla stregua di una dichiarazione di tutt’altra natura. Ma del resto, tra di loro, esisteva un’eterna contrapposizione e commistione d’intenti e significati ed ognuno di questi li legava e separava attraverso combinazioni inaspettate, a volte improbabili.
– Perché, ti è dispiaciuto? – chiese all’improvviso e in quell’attimo si accorse che Polly li guardava e pregò che lui rispondesse in fretta, concedendole finalmente una risposta ad almeno una delle sue soffocanti domande. E per la prima volta lui rispose, senza pensare, senza che Polly, ormai vicinissima, potesse impedirglielo. Rispose in un soffio, con severità e disse soltanto: – Sì.
Quella risposta sconvolse entrambi e l’ombra che attraversò i loro sguardi, l’attimo prima che Polly sfondasse la loro gabbia invisibile, somigliava ad una muta, completa, disperazione.

Josephine non cenò con loro, ma si chiuse in camera e gettò la busta intrisa d’olio nel cestino. Il giorno dopo la camera avrebbe emesso tanfi barbari, ma non le importava. Quando la cena era arrivata, James aveva imposto la sua presenza sulla porta, per ottenere la prerogativa tutta maschia di pagare per tutti. Josephine lo detestò anche per questo, perché detestava certe sue costruzioni mentali, quel suo modo antico, trapassato, ammuffito di comportarsi. James possedeva la boria ostinata di certi uomini privilegiati ed era stata questa uno delle prime constatazioni che glielo avevano reso avverso. In fretta, però, aveva scoperto che dietro quelle buone maniere e quella austerità settecentesca e manierata, esisteva un uomo contraddittorio, contorto, volubile e pericoloso. E quella sera, questi due uomini che abitavano James, erano emersi a parti alterne. In James convivevano energie opposte, nel suo spirito abitavano in perfetta armonia Otello e Iago, Amleto e Claudio, Cristo e Satana, Eros e Thanatos. E lei non sapeva come e in che modo era finita col sentire una tale fascinazione per un uomo così gravosamente indefinibile, che l’aveva confusa con arti e incanti degni di uno stregone. Ma c’era in lui anche qualcos’altro, una luce calda e imprendibile, nascosta nei suoi particolari occhi verdi, occhi luminosi e oscuri al contempo, come non ne aveva visti di eguali in tutta la vita. C’era questo lampo nei suoi occhi, questa fiamma inafferrabile di poesia e misteri affascinanti, che la colpiva ogni volta con la potenza di un dardo incandescente, fino a consumarla. Era per tutti questi motivi e per quello sguardo che si erano scambiati subito dopo quel inaspettato ed inquietante che non poteva più stargli vicino. Ma era soprattutto perché lui era lì per Polly e perché, qualunque cosa significasse ciò che provava anche solo parlandogli, lei non era Matilde e – anche quando lui l'avesse ritenuta tale – James era, tra tutti gli uomini, il più inaccessibile.

Lui fissò la porta della camera di Jo per gran parte della cena, l’aria persa di uno che non ricordi dove si trova. Quando al termine della serata, Polly gli sfiorò le labbra, lui ricambiò per qualche istante, chiudendo gli occhi per spegnere un senso di colpa bruciante. Realizzò con livore che non aveva ottenuto altro che quell’istante sospeso in cui aveva visto negli occhi di lei qualcosa di simile alla sua stessa smania. A conti fatti, quella sera, non aveva ottenuto niente da lei, tetra donna impossibile che gli si negava e lo avvelenava come fa una medusa.
In auto, si abbandonò sul sedile e si lasciò accarezzare dai lapilli di gelo che filtravano dal finestrino. Afferrò il libro, che stava adagiato sul cruscotto, e nel buio dell’abitacolo, gli rivolse un sospiro spezzato. Rivolse lo sguardo alla finestra di Josephine, illuminata da una luce tiepida, ed ebbe la sensazione che l'ombra di lei lo stesse osservando. Quella specie di sogno buio e sfocato gli si infranse addosso in tutta la sua fatiscenza, quando vide Robb sbucare dal suo fuoristrada. Lei probabilmente era davvero alla finestra, ma non per lui. La sagoma scura di Josephine aspettava Robb
– lo stesso uomo che era suo fratello e che quella sera, per la prima volta, gli parve un nemico impietoso. In quel momento qualcosa dentro di James si spezzò; ripensò alla fotografia che aveva rubato a Josephine, ripensò al potere che la poesia e le parole avevano su di loro, ripensò ai suoi occhi in certe notti di luna, e quell’istante sancì l’inizio della caccia.
Del resto, lei era una strega potentissima.

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Capitolo 29
*** So Slow ***


 
Capitolo 25.
 


You keep dreaming and dark scheming
Yeah, you do
You're a poison and I know that is the truth
All my friends think you're vicious
And they say you're suspicious
You keep dreaming and dark scheming
Yeah, you do
I feel like I'm drowning
I'm drowning
You're holding me down and
Holding me down
You're killing me slow
So slow, oh-no
I feel like I'm drowning
I'm drownin
g.

(I feel Like I'm drowning, Two Feet)



Sarebbe cominciata immediatamente, la caccia.
Si sentiva egoista per questo?
Sì.
Si sentiva malvagio e senza anima, per questo?
Sì.
Sentiva che fosse sbagliato?
No.
O, almeno, non per lui. Gli sembrava assolutamente sbagliato, se la guardava dal punto di vista dell’etica, della morale, della lealtà; ma la sensazione che gli procurava nello stomaco, quella specie di ebrezza che lo assaliva al pensiero, come poteva non suggerirgli che fosse semplicemente giusto?
James amava Robb in modo spiccato e per qualche strana ragione sentiva verso di lui le responsabilità e i doveri di un padre; sebbene gli anni di differenza tra loro fossero pochi, aveva sempre sentito per il fratello una sorta di senso di protezione – lui che, in fondo, bambino non lo era stato mai. A James dicevano d’esser nato vecchio. E questo per via di quella serietà imperturbabile che gli incupiva lo sguardo, quella specie di fierezza d’altri tempi che gli irrigidiva la postura, gli sollevava il mento. Non era mai stato un bambino vivace, ma amava leggere, accudire i piccoli animali che trovava in giardino d’estate, osservare i nomi delle città sul mappamondo e immaginare avventure per mare, viaggi magnifici in terre lontane. A differenza di quanto ci sarebbe potuto aspettare da un bambino tanto curioso, James faceva domande molto di rado e preferiva aspettare che le risposte gli si svelassero in maniera del tutto casuale, alla stregua di una magia. Quando Robb era nato, gli dissero, James passava le ore a fissarlo e a toccargli le guance, pungolandole con le dita come se fossero plastilina. Gli era parso da subito qualcosa di estremamente fragile, di più fragile e mai, mai aveva sentito per lui – o per le attenzioni che gli venivano rivolte – gelosie di alcun tipo. Era nato vecchio, lo avevano detto. Rideva poco e aveva pochi amici, forse nessuno. Da adolescente passava i pomeriggi d’inverno suonando il pianoforte – strumento impostogli dalla madre – o trascrivendo spartiti e gli piaceva da morire, d’estate, leggere sulla spiaggia, sotto l’ombrellone, mentre Robb faceva capriole in mare e gli chiedeva di raggiungerlo e dimostrargli di saper fare meglio, se ci riusciva. In quei momenti era in pace e gli sembrava che la vita avrebbe avuto per sempre quel sapore salmastro. Robb – James ne aveva una viva consapevolezza – era sempre stato una gemma tra le alghe, un guizzo nell’acqua cheta. Rispetto a lui – taciturno e amaro – Robb splendeva naturalmente e aveva il dono particolare di farlo sorridere per davvero. Per questa speciale ragione, James non aveva mai davvero sopportato di vederlo accanto a Josephine. Lei così torva, trasparente e notturna. Come poteva lei così infinitamente opposta – sbagliata – averlo incastrato e domato in quel modo? Lei non era fatta per suo fratello. Josephine era fatta di un’altra materia, una materia bruna e calda, così simile – così angosciosamente simile a quella di cui era fatto lui stesso.
Erano fatti d’ombra, lui e Josephine. Lo sentiva profondamente, come si sente la sete o la fame. Non erano abbastanza, non per Robb, per cui adesso, per la prima volta da quando gli aveva visto aprire i piccoli occhi ambrati, provava una gelosia feroce. Quella fu per James una rivelazione traumatizzante. In un certo senso, prima di quella notte sotto la finestra di Jo, James non aveva mai davvero preso in considerazione il fatto che lei e Robb andassero davvero a letto insieme. Non aveva mai pensato a loro in quei termini, non aveva mai considerato quanto concreto fosse il fatto che al buio, lontano da lui, quei due si toccassero e gemessero l’uno nella bocca dell’altra. Ci pensò per la prima volta quando vide Robb sparire dietro il portone da cui lui era uscito con l’amaro in gola. Era stato quello il momento – quello l’istante in cui si era sentito diventare un altro uomo, un uomo deviato, storto, senz’anima. Gli era scoppiato nel petto un incendio dalla fiamme voraci e dai fumi angosciosi: voleva qualcosa che non gli apparteneva, e lo voleva in tutti i sensi. Non voleva più soltanto dominare la sua mente, non gli bastava più soltanto quello sfiancante duello cerebrale: la voleva per intero – fosse anche solo per vederla cedere. E si detestava per questo – avrebbe voluto annegare ogni volta che questa consapevolezza lo colpiva alla stregua di un nervo.

Ma non aveva davvero niente di lei, né la sua mente né tanto meno… il resto.
Il nodo era: come poteva anche solo riuscire a sfiorarla, senza tradire Robb e senza tradire quel vecchio bambino che si era promesso – con l’orgoglio di un cavaliere della tavola rotonda – di proteggerlo per sempre?
Un modo, capì, non c’era. C’era, invece, all’improvviso, una strega proveniente dalle nebbie dense di brughiera, che aveva prosciugato i mari, spento le estati, e ucciso il vecchio bambino.

 

 

***




Le si era incastrata la matita tra i capelli e il libro di storia moderna a cui si dedicava da ore pareva rilasciare fumi soporiferi. Si perdeva, infatti, più che tra le pagine, ad osservare il gioco delle nuvole attraverso la grande finestra della biblioteca. Il piano superiore della struttura, per quanto non la entusiasmasse, era dotato di trionfali finestre a volta che in quel periodo tetro dell’anno, le offrivano la possibilità di godere della seppur fiacca luce del sole. Era un pomeriggio di fine novembre e il grande tavolo di noce – circondato da un numero esiguo di persone – era bagnato da una malinconica luce azzurra, estraniante e confortevole al tempo stesso. Le ricordava i pomeriggi d’autunno in campagna dai suoi nonni, quell’atmosfera zefferilliana e perduta della vecchia dimora tra gli alberi a cui ormai pensava con nostalgia, perché i suoi nonni non c’erano più e perché apparteneva ad un’epoca in cui lei era ancora intatta. Josephine sospirò e, liberata la ciocca di capelli dalla matita, riprese a disegnare ghirigori sui bordi della pagina. Polly se n’era andata da poco, permettendole di tornare a respirare. Non era più a suo agio con lei: non ci riusciva. Ogni volta che la guardava o che quella provava a parlarle, Josephine sentiva montarsi dentro una specie d’ansia ruvida, che le raschiava lo stomaco. Temeva ogni instante che lei pronunciasse il suo nome, che si sentisse finalmente libera, dopo che James si era palesato a casa loro, di raccontarle, di chiederle persino consigli o intercessioni. Non voleva che si arrivasse a tanto, non riusciva neanche a pensarci.
Polly – era evidente – fremeva dalla voglia di parlarle di James e questo lo dedusse quella sera di giorni prima, dopo che lui aveva lasciato l’appartamento.
Che ne pensi? , le aveva chiesto con aria goffa, poggiata alla porta del bagno, mentre lei si lavava i denti. Josephine era rimasta di sasso e l’aveva guardata attraverso lo specchio con gli occhi vacui, continuando a muovere lo spazzolino. Aveva poi sollevato le spalle e sputato il dentifricio.
Lo so che non ci vai d’accordo, aveva proseguito, fraintendendo quei gesti, Ma io sono diversa, con me è diverso, no?
Jo pensò che sì, erano diverse e che sì, con lei era diverso. Ma quella constatazione pronunciata ad alta voce, da lei che non conosceva e non avrebbe mai potuto penetrare quella loro gabbia insana e affascinante, le fece ribollire il sangue. Uscendo dal bagno le aveva dato una pacca sul braccio e le aveva detto soltanto: Certo che è diverso, sta’ tranquilla.
Che non voleva dire niente – lo sapeva, non rispondeva a nessuna domanda con precisione e probabilmente era stata proprio questa vaghezza a farla desistere dal parlarle di lui. Eppure Jo sapeva che non c’era niente di approssimativo in quella frase minuscola, all’apparenza priva di senso; era atta unicamente a rimarcare il solo concetto che le interessava e che era quello che riguardava loro due soltanto – lei e James.
Si sentiva sporca quando certi pensieri la sfioravano e, per quanto cercasse di ricordare l’odore di Robb per aggrapparsi a lui in qualche modo, era un altro l’odore che l’ossessionava – sempre, in ogni luogo, anche con Robb accanto, anche in quel momento.
Fu come se lo avesse percepito, come se la sua energia fosse ormai a tal punto canalizzante, prepotente; si voltò di scatto e lo vide, la sedia che si scostava, la sua mano nervosa che sfiorava il legno di noce. Le si era seduto accanto e la guardava con un’espressione di puro dileggio sul viso. Josephine strinse convulsamente la matita tra le mani per sincerarsi di essere sveglia, di essere viva; poi smise di fissarlo, colpita dal pensiero che lo smarrimento nei suoi occhi fosse il motivo del godimento perverso di James. Lui, dal canto suo, finse che lei non gli fosse accanto e prese a sfogliare distrattamente un tomo rimasto incustodito. Che cosa stava facendo?
– Che cosa stai facendo? – La domanda le venne fuori con l’inevitabilità di un singhiozzo.
Lui si voltò leggermente e, a quella distanza ridotta, accarezzato da quella luce cobalto, il viso di James le parve dolorosamente brutale; perché era perfetto in un modo tragico. C’era qualcosa in lui, nel suo volto, che non aveva niente a che fare con la mera armonia della bellezza, ma che apparteneva, piuttosto, a quel fascino inafferrabile di un angelo caduto, di un lucifero tormentato, decadente, disarmonico.

– Guarda che Polly se n’è andata, – gli disse, soffocando certe elucubrazioni.
Lui prese a tamburellare le dita sulle pagine del tomo aperto e poi puntò lo sguardo fuori dalla finestra, confondendola.
– Lo so, – fece, semplicemente.
Josephine prese a tormentarsi la ciocca sfuggita alla treccia tanto che rischiò di staccarsela. Il silenzio devastante della biblioteca in quel momento sembrava impossibile da sopportare e lei si ritrovò a guardare strenuamente i pochi ragazzi rimasti seduti al tavolo, pensando che – forse – rimanendo avvinghiata a loro con lo sguardo avrebbe impedito che la abbandonassero.

– Lei mi dice tutto, non lo sai? – aggiunse. Una ciocca di capelli scuri gli ricadeva sulla tempia e Jo sentì un violento bisogno di scostarla, così, solo per il gusto di farlo.
– E’ una cosa positiva, suppongo, – fece lei, mentre le dita torturavano l’angolo di una pagina.

– Molto, – confermò James e non aggiunse, non poteva, che non era soltanto positiva, ma che era soprattutto utile. – Grazie a lei ti ho trovata facilmente, infatti.
Jo si sentì trattenere il fiato: non aveva idea di cosa stesse succedendo, specie perché lui continuava a guardarla, un braccio poggiato sullo schienale della sedia, gli occhi sfacciatamente puntati su di lei.
– E perché mi cercavi? – chiese, la voce leggermente incrinata.
– Per più di una ragione, – disse, infine, la voce inconfondibilmente insinuante, a quel modo che era tipico di lui.
Passarono alcuni secondi e lui cercò negli occhi di lei la scintilla che aveva sperato di veder guizzare, ma lei lo sfidava, come sempre, e rimaneva algida, lo sguardo intellegibile, in attesa. Tuttavia, se solo James avesse potuto decifrare il segreto dei suoi occhi, avrebbe scoperto dentro di lei un tumulto ingovernabile.
– La ragione principale è Polly, – proseguì. Jo spezzò l’angolo di carta e lo nascose subito tra le dita. - Capisci che sono un uomo impegnato e che messaggiare non è e non sarà mai tra le mie priorità.
– Vuoi che ti insegni a farlo? – gli disse, puntuta.
Lui sogghignò leggermente e con uno scatto avanzò con la sedia verso di lei. E fu una mossa avventata ed ingenua, perché entrambi si sentirono investiti da una folata di profumo che aveva dell’ ipnotico. Lo sguardo di James fu catturato dalla linea della mandibola di lei e pensò che gli sarebbe bastato niente per toccarla con le labbra e constatare se quell’odore, in quel punto, non avrebbe finito con l’ucciderlo.
– Voglio che mi consigli: sei o no mia cognata?
Josephine gli scoccò un’occhiata cinica ed ignorò lo stridore che aveva avvertito al suono di quella parola.
– Vuoi consigli da me su… Polly?
– Non esattamente. Voglio chiederle un appuntamento, uno vero, – fece una pausa per concedersi di studiare la sua reazione, – ma non ho idea di cosa le piaccia fare…
Jo si sentì vibrare e non sapeva perché quelle parole l’avvelenassero tanto – non voleva neanche pensarci.
– Non puoi semplicemente portarla a cena? – Fu secca.
– Io non faccio niente… semplicemente.
Dalle labbra di Jo venne fuori uno sbuffo beffardo.
– Perché mai dovrei darti dei consigli? Ricordavo non fossimo amici.
– L’ho sempre detto che sei rancorosa, – ribatté, gli occhi corrugati, un sorriso malandrino.
Josephine si sentiva completamente stordita, incapace di convincersi che quella conversazione stesse accadendo sul serio, che lui le stesse chiedendo davvero dei consigli su…. Polly. Cosa c’entrava Polly, con loro? Cosa significava quell’atteggiamento, l’ennesimo? Avrebbe voluto disintegrare la sua posa granitica e smascherarlo, vedere la sua vera faccia, le sue intenzioni reali;
i suoi comportamenti erano mutevoli e incongrui, si confondevano e contraddicevano, ma tutti, ognuno dei suoi gesti incomprensibili le si attaccava ai pensieri con ottusa tenacia. Si domandò, sfiorando con lo sguardo la curva della sua gola, se James fosse consapevole del potere che aveva su di lei, se avesse reale contezza della quantità di modi in cui la tormentava.


– Senti, d’accordo, che vuoi sapere? – fece d’un tratto, sbattendo le palpebre, – Cosa le piace fare? Cosa le piace mangiare? Vuoi che ti faccia un elenco?
C’era dell’impeto spropositato in quella raffica di domande e James se ne accorse con una punta di soddisfazione e si domandò se ad animarla non fosse per caso la gelosia. Era un pensiero folle, lo sapeva, ma non più folle di molti altri.
– Tu cosa vorresti fare? – le domandò, – Dove ti piacerebbe andare?
– Io e lei siamo diverse, non credo possa esserti utile sapere cosa farei io.
– Tu dimmelo lo stesso. – Lo disse con serietà mortale, aggrappato com’era all’idea di volerle sfilacciare la treccia, scioglierle i capelli e rivederli sotto forma di rampicanti e magari, magari, lasciare che lo solleticassero.
Lei lo guardò di sottecchi, come se li avvertisse, quei pensieri.
– Credimi, non avrebbe senso.
– Lascialo stabilire a me, – replicò lui.
Jo si lasciò andare contro lo schienale e lo guardò apertamente, voltandosi quasi completamente verso di lui e James, dal canto suo, ebbe il violento impulso di attirarsela addosso. Trattenne un sospiro.
– Io detesto le cene, se servono a conoscersi.
– Dimentica le cene. Cos’altro? – riprese lui, nel petto un’avidità sconsiderata.
– Mi piacerebbe essere invitata a teatro: quello vero, quello per cui dovrei rinunciare ad una settimana di mensa. O all’opera.

James le vide negli occhi una luce tenue, sfuggita alla cupezza delle pupille; una luce che gli ricordò di quella sera d’estate in cui lei, parlandogli d’amore e poesia, gli aveva svelato una porzione di sé, quella piccola porzione commovente e vibrante che aveva finito con l’infestargli i sogni.
– Insomma, per nulla pretenziosa, – fece sarcastico.
– Mi hai chiesto di non essere semplice, – ribatté lei, svelta, un po’ risentita.
– E come potresti?
Quelle parole gli sfuggirono di gola ed inspirò bruscamente quando si rese conto di come rischiavano di suonare. Josephine lo guardò con occhi immensi, persi, indecifrabili, ma le labbra le si schiusero, tradendola. Si sentiva ubriaco, come se d’improvviso gli fossero piombate addosso tutte le colpe e gli errori e i desideri.
– Robb non ti ci porta? – chiese all’improvviso, come per schiacciare ciò che era stato detto.
– Non credo gli sia mai saltato in mente, – rispose Jo, nella voce una vibrazione appena udibile.
– Dovresti suggerirglielo.
– Non voglio si senta in obbligo, – replicò in fretta, poi deglutì e aggiunse: – Dovresti portarla a cena, comunque: a lei piace andare a cena. E magari regalarle dei fiori.
– Non lo fanno tutti? – fece lui.
– A lei piace così, che importa?
Si guardarono con forza, senza capire perché. C’era qualcosa che volevano dirsi, ma non avevano le parole adatte per farlo, non le conoscevano e tutta la letteratura del mondo non avrebbe potuto soccorrerli, non in quel momento.
– Che fiori? - chiese James.
– Non lo so.
– Dammi spunto.
Josephine scuoté la testa e gli venne da sorridere.
– Ortensie, rose, viole, ce ne sono tanti. Prendile delle rose; a chi non piacciono?
James sbuffò.
– E’ letteralmente la fiera della banalità.
– Siamo tutti un po’ banali, – disse Jo, serafica.
E lui a stento riuscì a non dirle: Non tu.

Ma le disse solo: – Già.
Poi si sollevò lentamente, come fosse sovrappensiero e lei si accorse che c’erano ancora le grandi scaffalature e i tavoli e la gente intorno a loro: dov’erano stati?
Vedi che sei fai l’educata riusciamo a comunicare?
– Lascia perdere, – fece ruvida, ritornando a guardare il libro. Quando sentì che lui se ne stava oandando, quando capì che era davvero sul punto di sparire, di sfuggirle come sempre, una domanda le premette sulle labbra, schiudendole:
– Qual era l’altra ragione, James?
James sollevò un sopracciglio, scrutandola dall’alto, in piedi accanto a lei.
– Mi hai detto che eri qui per più di una ragione. Qual è l’altra? – domandò, sollevando il viso verso di lui.
– Ah, quello.
James la guardò con l’aria fosca da angelo caduto che tanto la spaventava e ammaliava e Jo, con orrore, lo vide afferrarle lentamente la treccia, stringerne la punta tra le dita. Si sentì gelare.
– Non è chiaro, Josephine? – domandò, la voce bassa, rauca.
Lei lo fissò con aria spaesata e mormorò:
– Lo è?
– Secondo me sì, – ribatté secco, le dita che sfioravano i capelli intrecciati come se fosse naturale, come se ne avesse il diritto.
– Non ti seguo, mi dispiace, – replicò, lo sguardo che rifuggiva quello di James.
– Non ti smentisci mai, – disse lui con un sogghigno un po’ amaro e le lasciò andare i capelli e lei se li sentì ricadere sulle spalle con un peso centuplicato.


Non si salutarono nemmeno, non ne avevano bisogno; Josephine non lo guardò sparire per le scale; non lo guardò affatto perché realizzò soltanto in quel momento, con lo sguardo rivolto al tramonto spento di novembre, che gli aveva consentito di toccarle la treccia a quel modo, come se fosse normale, senza chiedergli neanche perché, senza urlargli contro. Quello di cui lei si accorse con ritardo e con il cuore in gola, lui lo aveva sentito immediatamente, poiché si era aspettato una reazione violenta e lei non ne aveva avuta nemmeno una, non mentre lui le accarezzava i capelli. Lei glieli lasciava toccare sempre, come se in un certo senso non le appartenessero; perché era troppo sperare, troppo credere che lei, in fondo, lo volesse e che sentisse quel tocco suoi capelli al pari di un carezza sul viso.
 

 


Nei giorni successivi James non invitò Polly a nessun appuntamento, mentre Josephine passava i giorni con il fiato sospeso, in attesa che lui lo facesse. Fu anche per questa specie di ansia che evitò Robb – lo evitò soprattutto nelle lenzuola. Quando lui, di notte, le si stringeva contro, Jo avvertiva una morsa crudele arpionargli il fianco, il petto, la gola e le veniva da piangere ogni volta che lui la baciava, perché dentro di lei, in reazione a quel tocco, non si muoveva niente. Avvertita piuttosto un a mordace nostalgia, quella nostalgia di non si sa cosa che l’aveva sempre accompagnata. Una nostalgia che si placava quando James le parlava, la feriva, la toccava. Ma questo non riusciva a dirselo, non con le parole giuste. Era arrivata a quel punto senza rendersene conto davvero e probabilmente, la situazione non sarebbe degenerata così catastroficamente se Jo non fosse stata tanto suscettibile alla poesia e alla parola scritta, se non fosse stata così persa nei labirinti del non detto, dell’intricato ed intrigante gioco della parole e dei significati reconditi. Lo stesso lo si sarebbe potuto dire di James che, dal canto suo, però, non riusciva a subire l’energia nebulosa e inafferrabile di lei senza provare l’impulso di osare, ogni volta un filo di più, convinto che avrebbe riconosciuto il momento in cui si fosse rivelato opportuno fermarsi. James credeva che quel momento fosse lontano e fu per questo che gli sembrò giusto osare ancora – aveva soltanto iniziato, no? – regalando al fratello due biglietti per uno spettacolo teatrale che si sarebbe tenuto da lì a dieci giorni: Tristan et Iseut.

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