Sweater weather

di Lucky_May
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** All I am ***
Capitolo 2: *** Is a man ***
Capitolo 3: *** I want the world ***
Capitolo 4: *** In my hands ***
Capitolo 5: *** I hate the beach ***



Capitolo 1
*** All I am ***


 

 

Quella sensazione sporca di sentire le mani sui fianchi, a quella Marine si era abituata da troppo tempo.

Come se non fosse capace di dare nient'altro se non il proprio corpo, perchè del suo cuore, del suo vecchio cuore, non era rimasto nulla.

Eppure non le dispiaceva, perchè infondo non aveva sentimenti, ma il suo cuore rimaneva lì, batteva e reagiva a quei tocchi delicati che le provocavano brividi lungo tutta la colonna vertebrale.

E credeva fosse quello l'amore: il non rifiutare un paio di mani che la esploravano in ogni lembo di pelle.

Anche quella volta tutto era cominciato da un bacio. Un bacio casto, uno che cercava invano di rimediare alle mancanze, ai vuoti, ai silenzi, alle dimenticanze, all'indifferenza. Era proprio quello il motivo per cui quelle dita le accarezzavano piano i fianchi, dandole un'illusione che, no, quella volta non sarebbe successo, anche se il suo cervello chiedeva pietà e cure, richiedeva il sollievo del contatto fisico, ma ancora una volta il ragazzo insinuava le sue lunghe dita sotto le coppe del reggiseno in seta blu, come per dire "tu non mi dai la tua presenza, ed io in cambio mi prendo il tuo corpo" con il retrogusto dolce di una possibilità di possedere il cuore della ragazza.

Un'utopia.

Ma a quel tempo, nessuno dei due lo sapeva, e a lei piaceva buttarsi nei buchi neri, nei taboo che erano le relazioni.

 

Si fermarono dopo interminabili minuti, sperando sempre in qualcosa di più, ma conoscevano i loro limiti. Dopotutto lui essendo alle sue prime armi, lei fingendolo, si dissero che avevano bisogno delle giuste circostanze. Lei annuì e si distanziò visibilmente da lui, aveva bisogno di respirare, di staccarsi. Qual era il punto di stare vicini se non per l'ebbrezza di sentire il brivido di piacere sotto la pelle? Almeno dalla sua parte, non c'erano sentimenti nemmeno lontanamente vicini all'amore.

 

«Non dovresti andare adesso?»

«Adesso? Nah. Posso rimanere ancora un po'.»

«Non vorrei che si arrabbiassero con te, per colpa mia, sai.»

«Non m'importa.»

 

Ma a lei importava, voleva sbarazzarsi della sua presenza, al più presto. Si sentiva già soffocare, inabile di staccarsi da lui.

Era semplicemente di routine, quel mix di sensi di colpa, di ansie e di amaro autoconvincimento che la facevano digrignare i denti. Il cuore che cercava di uscire dalla cassa toracica perchè le era impossibile controbattere, le era impossibile lottare contro quello che non voleva, alla fine lei era solo un burattino. Un corpo da toccare, da trattare come se fosse qualcosa di prezioso, qualcosa di speciale, di fuori dal normale. Ma non era così che voleva sentirsi. Voleva essere solo sè stessa, una ragazza normale, una di quelle che si poteva trovare il pomeriggio a camminare per le strade deserte del vicinato con le amiche, ad indossare ciò che andava di moda, le magliette corte e i pantaloni a vita alta. I piercing perchè con quelli si poteva essere alla moda, il gemello di qualsiasi altro umano ma allo stesso tempo fuori dal comune. I capelli colorati fino a rovinarli, fino a farli seccare come la paglia in quel caldo estivo degli anni '90. Persino avere una band, provare nel garage le canzoni in voga dell'estate, soffrire la calura ed il sudore in fronte, ma farne valere la pena perchè alla fine di quell'agosto sareste stati voi a salire sul palco della piazza principale e sareste stati sempre voi a catturare il pubblico.

Lei avrebbe potuto solo continuare a sognare e continuare con la sua farsa.

 

«A che pensi?»

«A te.»

 

E sapeva che mentire in quel modo l'avrebbe portata solo dove non voleva arrivare, a quel punto in cui avrebbe avrebbe sofferto anche lei, pur non avendo provato un briciolo di amore, unico sentimento: la pena.

Un tempo non si sarebbe definita così cattiva, così meschina. Non si definiva così neanche in quel momento, sentiva che infondo quella dolce parte di lei c'era ancora. Non trovava una ragione abbastanza valida da metterla in mostra. Più volte aveva anche provato a guardarsi dentro per accertarsi della sua presenza, cercando di tirarla fuori. Non ci era più riuscita.

Era anche per questo che tutti i suoi amici e le sue amiche l'avevano abbandonata, la sua più grande paura: la solitudine.

E si lasciava toccare anche nei momenti meno opportuni per non rimanere con sè stessa. Avrebbe significato conoscersi e prendere coscienza del fatto che non era più la stessa di un tempo. Non era ancora pronta.

 

Quando era finalmente arrivato il momento di sbarazzarsi del suo ragazzo, corse via trovando una qualsiasi scusa. Un altro bacio e si sarebbe intossicata della sua incombenza, del suo essere posseduta. E ancora una volta si sentiva cattiva, per aver rilasciato un sospiro di sollievo non appena la porta fu chiusa alle sue spalle.

Salì velocemente le scale, raggiungendo la fine del corridoio dove v'era la sua stanza, aprendo la porta facendo risuonare le campanelline alla fine del suo acchiappasogni.

Chiuse la porta e si buttò sul morbido letto di spalle, con le braccia aperte. Prese il cellulare dalla tasca posteriore dei suoi jeans e decise di disturbare la sua amica con le proprie lamentele. Si può considerare una persona che non si è mai vista "un'amica"? Era strano il modo in cui si erano conosciute, entrambi disperate e sole. L'amica era venuta in vacanza l'estate prima nella desolata città natale di Marine e con un pennarello nero indelebile aveva scritto sul bus il proprio numero con sotto una scritta in inglese: "Call me, I'm alone."

E la parte folle di Marine la spinse a registrare quel numero sul suo Nokia e a chiamarla la sera dopo aver trovato il numero.

Non se ne pentì mai.

Adesso parlavano del più e del meno, lei con la sua gomma da masticare, intenta ad ascoltare i racconti dell'amica, che conduceva decisamente una vita più dinamica della sua.

Le raccontava di come il ragazzo che le piaceva avesse invitato un'altra ragazza al ballo della scuola e di come il giorno prima invece l'avesse baciata. Sentiva dalla sua voce quanto fosse felice per quel bacio tanto atteso, anche se adesso non sapeva come comportarsi attorno a lui. Diceva di sentirsi in imbarazzo, di balbettare quando parlavano, che il suo cuore palpitava e riusciva a vedere le stelle in una stanza al chiuso quando i loro occhi si incontravano ai party in casa dei loro amici. Ma Marine non conosceva emozioni come "l'imbarazzo", sempre spavalda quando sapeva cosa voleva e se lo voleva, l'avrebbe ottenuto. Ai ragazzi faceva impazzire il suo atteggiamento innocente, quegli occhioni azzurri, quei brillantini che sempre portava sulle palpebre, quelle labbra carnose e quel sorriso che mostrava i suoi denti non perfettamente allineati. Tutto del suo aspetto urlava "innocenza", ma chi riusciva a intrattenerla per più di un pomeriggio avrebbe poi scoperto che quell'aspetto zuccherino dato dai capelli rosa era solo una maschera. Marine non lo definiva tale, era più un tentativo di ricordarsi di ciò che è stata. Odiava il colore rosa, ma se si fosse finta bambina ancora per un po', forse non sarebbe cresciuta tanto velocemente e avrebbe potuto essere reputata come adorabile ancora per un po'.

Era troppo presa dal suo flusso di pensieri misti alla voce della sua amica ancora dall'altro capo del telefono per sentire i passi che salivano le scale. Solo quando la porta si aprì e fece risuonare le campanelle dell'acchiappasogni nella stanza, Marine nascose il telefono sotto il cuscino senza neanche riuscire a chiudere la chiamata. Pressò il cuscino contro il telefono sperando che la madre non sentisse la voce della sua amica. Marine preferiva farsi prendere per pazza dalla madre piuttosto che rivelarle dell'unica amica che era riuscita a farsi. Sapeva già che scusa utilizzare.

 

«Con chi parlavi?»

«Da sola.»

 

La madre lanciò un'ultima occhiata minacciosa alla figlia prima di chiudersi la porta alle spalle, ma lasciandola comunque aperta. Era una visione che irritava particolarmente la ragazza, ma se avesse urlato dalla frustrazione, avrebbe solo peggiorato la situazione. Con un leggero sospiro estrasse il telefono da sotto il cuscino e se lo mise di nuovo all'orecchio, la sua amica ancora parlava, non si era resa conto di nulla.

 

«Scusa Kate, dovrei andare adesso, altrimenti mia madre rompe.»

«...Con quella camicia azzurr-.. Oh- vai Marine, tranquilla. Ci sentiremo un'altra volta.»

«Già. Ciao-ciao.»

 

Chiuse la chiamata, sbuffando e affondando la testa nel cuscino. Stava quasi per essere beccata dal suo peggior incubo, non voleva nemmeno pensare a quello che sarebbe accaduto dopo. Miriadi di domande, di spiegazioni, e infine sarebbero tutte inutili perchè le sarebbe comunque stato vietato parlare di nuovo con l'amica per chissà quanto tempo se non ... sempre. Perchè non solo sua madre ma chiunque la conoscesse sapeva che Marine non aveva amiche, troppo onesta per riuscire a mantenere un rapporto pacifico. Sempre pronta a dire la verità, anche quella più aspra e non era quello che le ragazze della sua età ricercavano. Marine assumeva una smorfia disgustata ogni volta che quei gruppetti di ragazze si complimentavano a vicenda su abiti che in realtà vestivano bene solo a modelle che loro non erano, ancora una volta, indossandoli solo per moda. Con i ragazzi invece era tutta un'altra storia, bastava mettere un po' di mascara sulle ciglia e far loro gli occhioni dolci per scroccare una sigaretta o qualche leccalecca. Le sue richieste variavano in base al tipo di rapporto che voleva avere con il diretto interessato. In ogni caso, tutti i ragazzi che conosceva erano interessati in lei, in altri casi, non era divertente abbastanza da uscirci un'altra volta, trovando qualche scusa per evitarli. Aveva cominciato anche ad avere una certa reputazione, alcuni ci credevano, altri no perchè "chi? Marine? Ma è così pura ed innocente!" e a lei andava bene così. Nessuno aveva il diritto di giudicarla per ciò che faceva con la sua vita. Solo il proprio ragazzo, ma sorprendentemente non lo aveva ancora fatto: gli aveva chiesto cosa ne pensasse delle voci che giravano tra i ragazzini sul suo presente e passato ma lui l'aveva rassicurata dicendole che con il suo corpo poteva farci ciò che voleva. Non ci diede molto peso, ma con il passare del tempo si rese conto solo quanto fosse distaccato il loro rapporto: la sua presenza era continuamente richiesta, necessaria, dovuta, obbligata, ma non la sua anima. Non sapeva come sentirsi al riguardo, ma a lei stava bene finchè aveva compagnia.

 

A Marine, la sua vita stava bene.

 

Tutto questo, ovviamente, finchè un giorno un uomo in camice bianco con un sorriso perfetto e smagliante, la fronte libera dai capelli pettinati accuratamente all'indietro con del gel e un paio di occhiali attaccati ad un cordino al collo, entrò in casa sua, il viso di sua madre coperto dalle sue stesse mani in un tentativo di nascondere le lacrime, la prese per mano dicendole: «Vieni tesoro, ti porterò in un posto migliore.»

 

Il manicomio.



Angolo scrittrice-
Salve a tutti! Sono una folle, sono tornata con un'altra storia, proprio qualche mese prima dei miei esami di maturità.
Spero che la mia nuova storia vi piaccia, sta volta niente elementi sovrannaturali, si parla di avvenimenti un po' più realistici.
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Nel prossimo capitolo vi introdurrò il secondo protagonista, perciò restate sintonizzati (?), seguite la storia e recensite, mi farebbe un grande piacere sapere sin da subito cosa ne pensate ♥
Saluti dalla vostra
Lucky_May






 

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Capitolo 2
*** Is a man ***


♥ ♥

 

Quando i cancelli di metallo nero si aprirono davanti ai suoi occhi, Marine si pentì subito di tutte quelle volte in cui, con i suoi amici più grandi alle spalle seduti sul bordo del marciapiede, cominciava a correre, con una lattina di soda in mano ed un Chupa Chups alla ciliegia nell'altra, dietro a dei bambini urlando a squarciagola per spaventarli quando erano troppo intenti a sussurare i nomi dei calciatori sulle loro figurine per potersele scambiare tra loro.

Il sentimento nacque dalla visione di un ampio cortile quadrangolare con un paio di altalene adagiate su un prato verde, la rugiada ancora visibile sulle punte dei ciuffi d'erba.

I bambini scorrazzavano da un lato all'altro, giocando a qualche gioco di cui Marine non sapeva le regole, o forse semplicemente non c'erano delle regole, prima di essere trascinata per entrambi gli avambracci verso un portone di vetro, le traiettoria delle pesanti porte visibile sulla pavimentazione in marmo segnata da degli angoli perfettamente di novanta gradi di sporcizia e polvere.

Marine non sapeva se sentirsi in prigione o in un orfanotrofio osservando la sua stanza spoglia di mura in cemento spoglio, solo due letti al centro e un armadio alla sua destra, poco più avanti una porta che divideva il bagno contenente l'essenziale per un'igiene decente. Sentì quasi le forze ed i sensi abbandonarla quando il vuoto della stanza penetrò nella sua mente come una memoria indelebile di ciò che Marine non era: pazza.

Lasciarono lì la ragazza, insieme al suo piccolo bagaglio con i primi vestiti che era riuscita a mettere dentro prima che gli stessi uomini che l'avevano portata nella stanza la strappassero via dalle braccia di quella che per Marine non era più la propria madre. Le promise di venirla a trovare una volta a settimana, nel giorno stabilito dal manicomio per le visite, ma Marine era ormai sorda al suono della sua voce e se avesse potuto avrebbe voluto essere anche cieca alla vista di quella donna, la stessa donna che falsamente l'aveva rinchiusa in quello che si prospettava essere un inferno solo per liberarsi dell'essere dai capelli rosa. Spostò con il piede il bagaglio sotto il letto, rifiutandosi di aprirlo e sistemare i suoi vestiti nell'armadio perchè quello avrebbe significato adattarsi, chinare il capo al volere della madre, arrendersi all'idea di dover rimanere in quel luogo per più del dovuto.

Si sedette sul letto con le gambe al petto, poggiando il mento sulle ginocchia e chiudendo gli occhi cercando di tranquillizzare il respiro che minacciava l'arrivo di una corrente di lacrime.

L'unico peso dal suo petto che era riuscita a togliersi prima di arrivare al manicomio è stato quello di chiamare il suo ragazzo e lasciarlo senza spiegazioni.

 

«Sei sempre stata una tipa difficile, ma pensavo ci fosse davvero qualcosa tra di noi.»

«Non è colpa mia.»

«Non è mai colpa tua, non lo è mai stata, già, che bambina. Ci si vede in giro.»

 

A quel punto Marina credeva che non si sarebbero mai visti in giro, ma si sentiva soltanto sollevata. Si sentiva incapace di ricordare i momenti felici, quelli che le ricordavano di avere ancora un cuore, si sentiva come se nulla fosse mai accaduto. Si chiedeva quando quella sensazione sarebbe mai passata, quando sarebbe mai tornata ad amare. Stava accadendo proprio ciò di cui aveva più paura: rimanere sola con i suoi pensieri. Se avesse continuato in quel modo non si sarebbe sorpresa se fosse diventata veramente pazza. Se avesse cominciato a comportarsi diligentemente si sarebbero accorti che si trovava lì solo per un inganno? L'avrebbero lasciata andare? Non era un pericolo per la società, se ne sarebbero accorti prima o poi, non aveva nessuna malattia mentale da curare, stava solo occupando un letto inutilmente. Stava letteralmente rubando delle cure mediche a qualcuno che ne aveva più bisogno di lei, ma ancora una volta si rese conto che non poteva far nulla a riguardo. Il singhiozzo di un pianto lasciò le sue labbra nello stesso momento in cui la porta della sua stanza venne spalancata da un altro paio di uomini con una sedia a rotelle, il sangue di Marine si gelò nelle vene. Una ragazza vi era seduta, la testa penzolante sulla sua spalla, gli occhi chiusi, la bocca leggermente dischiusa adornata da un piercing al centro del labbro inferiore, ciglia lunghe dolcemente poggiate sulle guance della ragazza mentre le sue palpebre riposavano un sereno sonno. I capelli ricci restavano scombinati un po' dappertutto sul suo viso, solo quando gli uomini la sollevarono dalla sedia per metterla sul letto accanto a quello di Marine, provocando un temporaneo risveglio, la ragazza si mosse per spostare le ciocche scure via dal volto, distendendosi meglio su un fianco per riprendere a dormire. Marine seguì ogni movimento con gli occhi dal momento in cui la ragazza, o meglio, gli uomini fecero la propria entrata nella stanza, non distogliendo lo sguardo neanche un attimo, quasi mancando le due figure maschili uscire portando con loro la sedia a rotelle. Marine non sapeva se sentirsi sollevata per la compagnia che avrebbe potuto distrarla dai suoi pensieri o se sentirsi a disagio per la presenza di una ragazza. Odiava il genere femminile, solo la sua amica Kate era riuscita ad essere un'eccezione. Se già il suo soggiorno in quell'edificio era una tortura, non voleva immaginarlo con una spina sul fianco come compagna di stanza.

 

L'ora di cena era giunta, il flusso di pensieri di Marine fu interrotto dalla suono della campanella.

 

«Oh perfetto, adesso mi sento a scuola.»

 

Sussurrò il pensiero tra sè e sè, scendendo da letto e aprendo la porta della propria stanza e seguendo la corrente di persone, ragazzini, tutti diretti verso lo stesso luogo che Marine non conosceva. La folla confluiva e si spintonava per entrare il prima possibile nella grande sala da pranzo, suppose la ragazza. Lunghi tavoli bianchi e file di scomode sedie beige occupavano l'intero spazio, tranne per un lato della stanza dove la cena era servita da giovani donne prive di sorrisi. Sembrava proprio una mensa scolastica. Prese in mano il suo vassoio osservandolo con disgusto e si sedette in un posto libero deciso dal fato. La cena consisteva in un piatto di pasta caldo nel quale Marine riconosceva qualcosa come ...bacon? Non era molto sicura; mezzo pezzo di pane ed una mela. Fece un profondo respiro in un tentativo di prendere coraggio ed iniziare a mangiare qualcosa del suo pasto, ma peggiorò soltanto la situazione, inalando i vari odori nella stanza, sentendo come la vita del suo pantalone le stringesse troppo lo stomaco, come il maglioncino bianco con una larga riga blu all'altezza del seno le portasse troppo caldo, rendendosi conto di quanto la stanza fosse grande ma lei avesse scarsa capacità a respirare. Ogni respiro era solo un altro brivido di nausea e cercò invano di contenere i suoi conati di vomito portandosi una mano a coprirsi la bocca inalando il familiare profumo della manica del proprio maglione che lasciava intravedere solo le punte delle sue dita. Lacrime si formarono nei suoi occhi e fu pronta ad asciugarle con l'altra manica, quando una mano le carezzò la schiena e pensava che il contatto fisico fosse l'ultima cosa che le servisse in quel momento ma allo stesso tempo sentendosi sollevata che qualcuno finalmente l'avesse notata.

 

«Va tutto bene?»

 

Era una voce femminile, calma ma acuta, con un tono di innocenza. Scosse la testa in dissenso e sentì la sedia accanto a lei strisciare via, con la coda dell'occhio vide la ragazza alzarsi. Si alzò anche lei seguendola fuori dalla mensa sentendosi già meglio al pensiero di uscire dalla stanza che la stava soffocando. Guardava le spalle della ragazza più bassa di lei di qualche centimetro, i lunghi capelli biondi le svolazzarono non appena spinse il portone di vetro che portava al cortile. Marine prese una profonda boccata d'aria non appena fu fuori dall'edificio, chiudendo gli occhi e lasciando le braccia lungo i fianchi allo stesso modo in cui un paio di lacrime scesero dai suoi occhi. Respirò a fondo l'aria fresca e notturna prima di riuscire a calmare il battito del suo cuore prima di voltarsi verso la fonte della voce.

 

«E' bella la tua acconciatura, un giorno ti andrebbe di farla anche a me?»

 

Marine portò istintivamente le mani ai suoi due piccoli buns rosa sulla sua testa e non riuscì a dire di no alla ragazzina dalla la pelle pallida quanto la luce della luna. Annuì con un un cenno del capo.

 

«Qual è il tuo nome?»

 

La ragazzina parlava lentamente, se Marine non fosse stata abbastanza vicina, e la notte così silenziosa, non l'avrebbe sentita parlare.

 

«Marine»

«Ileen»

 

Tese la sua mano verso Marine, neanche nel suo volto c'era ombra di un sorriso, ma prese comunque la sua mano e la strinse. La più piccola però non la lasciò andare e si rivolse alla ragazza sempre con lo stesso tono di voce, come se avesse paura di parlare a voce troppo alta.

 

«Vuoi tornare dentro?»

 

Anche questa volta Marine annuì senza pronunciare parola, l'atmosfera attorno a loro cominciava a spaventare anche lei, come se avesse paura che qualcuno le stesse ascoltando. Infondo Marine non sapeva cosa la circondasse, lei non era pazza e non aveva bisogno di rimanere in quel luogo, ma chiunque attorno a lei possibilmente soffriva di qualche malattia mentale considerata troppo pericolosa per camminare a piede libero. Voleva essere cauta con Ileen, se stava parlando a bassa voce un motivo doveva esserci e lei non voleva causare problemi. La ragazzina ricominciò a camminare verso la mensa con le dita intrecciate con quelle di Marine che sembrava tirare un sospiro di sollievo quando notò che la maggior parte delle persone presenti avevano lasciato la stanza. Non sentiva l'appetito e il suo pasto non era invitante perciò decise di mangiare solo la mela rossa. La sensazione della buccia era strana per Marine, da brava bambina viziata sua madre la serviva sempre tagliata e senza buccia, ma ora quella donna non era più qui, tantomeno nella sua vita, e nessun coltello era in vista, per motivi ovvi, pensò Marine.

Terminò la sua mela e sorseggiò dell'acqua prima di alzarsi e buttare il resto del suo pasto e dirigersi verso la sua stanza. Si voltò verso la ragazzina dai capelli biondi, ancora impegnata con la sua cena, titubante, prima di scrollare le spalle e cercare di ricordare la via di ritorno.

Quando entrò, l'altra ragazza era ancora nella stessa posizione, volta verso la finestra, solo la sua schiena visibile a Marine, ma adesso un lenzuolo copriva la sua figura.

Si sedette anche lei nella stessa posizione di prima sul suo letto, con le ginocchia al petto, rifiutandosi ancora una volta di cambiare i suoi abiti, nella speranza che da un momento all'altro qualcuno sarebbe entrato in quella stanza e l'avrebbe portata via da lì. Si addormentò con la consapevolezza che nessuno sarebbe apparso, ma i vestiti rimasero gli stessi di quella mattina in cui avrebbe dovuto andare al parco con i suoi amici ad impressionarli con le sue abilità sullo skate.

 

La mattina dopo si risvegliò a causa di vari rumori attorno a lei. Aprì gli occhi per trovare, finalmente, la ragazza dai capelli ricci sveglia, un pettine dai denti larghi in una mano e i capelli raccolti in una coda dell'altra. Il cielo fuori era coperto da nuvole, nella stanza non v'era molta luce, la lampadina pendente dal soffitto non era ancora stata accesa. Si mise seduta sul letto portandosi dietro l'orecchio le ciocche rosa scombinate nel sonno e si stropicciò il viso.

 

«Oh, buongiorno!»

 

Marine annuì, non era un tipo mattutino, ma non pensava che avrebbe risposto diversamente alla ragazza. La riccia era totalmente diversa da quella sulla sedia a rotelle della sera prima, effettivamente camminava stabilmente per la stanza sulle sue due magre gambe e sembrava affaccendata nella ricerca di qualcosa dentro il suo armadio. Tirò fuori un paio di orecchini d'argento a cerchio e se li mise, mettendo via i piercing sul resto delle orecchie e quello sul labbro in una scatoletta di cartone a fantasia floreale.

 

«Dovresti prepararti anche tu, oggi è il giorno delle visite.»

 

Marine roteò gli occhi. Come poteva rivolgersi in quel modo a qualcuno che non conosceva nemmeno? Nessuno sarebbe venuto a visitarla, già sapeva che la promessa che la donna le aveva fatto era solo scena e anche se non lo fosse stato, lei non voleva incontrarla. Si lasciò cadere nuovamente di schiena sul letto, le mani dietro la testa e gli occhi fissi sul soffitto.

 

«Non sei una di molte parole, uh?»

 

Ancora una volta, una ragazza la stava giudicando senza averla propriamente conosciuta, ma non fece molto caso alle parole della riccia, probabilmente anche lei non era un tipo gentile al mattino, la sua voce sembrava ancora quella di qualcuno che si era appena svegliato. La ragazza uscì dalla stanza in fretta senza dire una parola.

 

A Marine stava bene così.




Angolo scrittrice-
Eccoci qui con il secondo capitolo di Sweater weather!
Piccola parentesi, i nomi dei vari capitoli seguono il testo della canzone "sweater weather", perciò non considerate "is a man" come un errore grammaticale, perchè il senso dovrebbe essere "All I am is a man..." ecc.
So che lo scorso capitolo avevo detto che sarebbe apparsa Alex ma a quanto pare non era il momento giusto quindi mi sono limitata ad accennarla verso la fine, ma ormai siamo tutti ben pronti per accoglierla la prossima settimana nel terzo capitolo, quindi rimanete sintonizzati (?) ♥
Detto questo, spero vi sia piaciuto il capitolo e vi invito a recensire e seguire la storia per motivarmi a scrivere ed andare avanti con la storia ♥

(Vi allego una foto della nostra cara Marine con grandi occhi azzurri e capelli rosa, la mia bellissima e amata Allison Harvard ♥ )





Lucky_May

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Capitolo 3
*** I want the world ***


♥ ♥ ♥

 

Marine aveva ben capito da tempo di non essere più capace di provare sentimenti per un ragazzo, ma questo non escludeva le altre emozioni. Al contrario, a causa di quest'ultime si considerava una ragazza sensibile e forse in pochi le avrebbero creduto, troppo impegnati ad osservare la superficie, senza sapere che Marine in realtà era avvolta in una menzogna che era l'illusione di poter amare. I giorni passavano e le uniche azioni diverse dall'osservare il vuoto con le ginocchia al petto erano farsi una doccia, pranzare, cenare e dormire. Ebbe abbastanza tempo da notare ogni dettaglio nella propria stanza, troppo bianca per i suoi gusti. Fu per questo motivo che quando un'infermiera entrò nella sua stanza e la obbligò a scegliere una tra le attività ricreative e terapeutiche offerte dalla struttura, scelse proprio la pittura. Aveva notato che la sua compagna di stanza, di cui ancora non sapeva il nome, passava la maggior parte del tempo fuori dalla stanza, forse proprio a svolgere queste attività, forse impegnata con vari incontri con i dottori. Non che le importasse. Il primo incontro di Marine era fissato per il giorno successivo, perciò abbracciò le proprie gambe, portandosele al petto, rimanendo in silenzio per il resto della giornata, ricominciando ad osservare i muri spogli.

 

Il pomeriggio successivo, una giovane infermiera dai capelli color caramello raccolti in un elegante chignon annodato morbidamente sulla nuca, informò Marine dell'incontro di pittura. La sua compagna di stanza era uscita qualche minuto prima mentre la ragazza era posizionata davanti allo specchio del piccolo bagno alle prese con i propri capelli rosa, legandoli in due piccoli buns. Erano il suo emblema, l'unica cosa che le ricordava chi fosse e chi volesse essere, da dove provenisse, perchè fosse lì. Seguì l'infermiera attraverso i lughi corridoi illuminati dalla luce del primo pomeriggio, fastidiosi suoni di tacchi contro il pavimento le irritavano l'udito ma aprì e richiuse le sue mani più volte per evitare che il sangue confluisse al suo cervello, un modo per evitare l'ennesimo esaurimento nervoso. Attraversarono il cortile all'aperto per entrare nell'altra ala del manicomio, interamente dedicata al trattamento ricreativo dei pazienti. L'infermiera poggiò la mano sulla maniglia bianca della porta in plastica, anche quella provocò un rumore che infastidì le delicate orecchie di Marine e che attrasse l'attenzione su di sè. Una decina di testoline erano voltate verso la ragazza dai capelli rosa che adesso spostava il proprio peso da un piede all'altro, imbarazzata. L'infermiera poggiò una mano sulla sua schiena invitandola ad entrare e Marine ubbidì, ma non prima di essersi guardata intorno, cercando una tela libera, come quella davanti ad ogni persona lì presente. Notò un braccio pallido ed esile alzato in fondo alla stanza alla sua destra, vicino alla finestra. Apparteneva alla ragazzina bionda della mensa.

 

«Marine, mettiti accanto a me»

 

Ancora una volta, se la stanza non fosse stata così in silenzio, Marine non sarebbe stata in grado di udire la voce di Ileen. Si diresse verso la ragazzina, notando una donna matura seduta in uno sgabello accanto a lei. Altri ragazzi nella stanza avevano delle donne o degli uomini accanto a loro, Marine no. Si chiese quale fosse la loro funzione, ma non sembravano compiere nessun'azione, tranne quella a fianco di Ileen. La donna la stava scrutando dalla testa ai piedi, dopo si rivolse alla ragazzina.

 

«Conosci questa ragazza?»

«Si, è mia amica.»

 

Sul viso di Ileen non c'erano emozioni, nemmeno il più piccolo cenno. Aveva notato, la notte in cui si erano incontrate, che la ragazzina fosse particolarmente tranquilla ed inespressiva, ma nonostante questo, un brivido percorse la schiena di Marine alla parola "amica". Non sapeva cosa avesse portato Ileen a pensare che la ragazza dai capelli rosa fosse una sua amica, ma non si sentiva di negarle quello spiraglio di felicità nella vita della più piccola. Forse non sapeva cosa fosse un'amica, forse non ne aveva mai avuto una. Si voltò verso Ileen con occhi spalancati, incontrando quelli altrettanto spalancati della donna accanto a lei, ma la ragazzina era già impegnata con il suo pennello e del colore a tempera blu sulla sua tela. Forse anche la donna era sorpresa dalla loro amicizia quanto lo era Marine.

 

«Benvenuta Marine» Quello che sembrava il professore, parlò. «Accanto a te puoi trovare tutto ciò che ti serve, grafite, pennelli, colori a tempera, ad acquerello e ad olio, insomma divertiti come preferisci con i colori, se hai bisogno di qualsiasi cosa chiedi pure.»

 

«Si, ho bisogno di uscire da qui.» Avrebbe voluto dire, ma strinse i denti e ringraziò pacatamente.

 

Prese in mano il suo penello e decise di provare i colori ad acquerello, poggiando prima la mano sulla tela per assicurarsi che fosse quella adatta a quel tipo di colori. Cominciò a passare il pennello bagnato sulla superficie per poi riempirlo di onde dei colori più brillanti che le erano stati offerti. Aveva intenzione di appenderlo nella propria stanza, una volta terminato. Quel luogo aveva bisogno di un tocco di colore e Marine si sentì subito sollevata alla sensazione appagante del pennello sulla tela. Era immersa nel suo dipinto, quasi con un sorriso sulle labbra, immaginava di poter annegare nelle gocce d'acqua di troppo che scendevano lungo il piano inclinato, di poter annegare nei colori, di poter essere trasportata dalle onde che stava dipingendo, ma un rumore improvviso la fece risvegliare dal suo stato di trance. Un ragazzino infondo alla stanza aveva appena infilzato il proprio pennello nella tela, provocando uno squarcio al centro, la donna accanto a lui cercava di tenerlo immobile, ma il bambino si dimenava dalla presa della donna. Marine guardava la scena spaventata, come poteva una tela essere trattata in quel modo? Era al sicuro in quel luogo, dove le persone potevano attaccarla allo stesso modo in cui il ragazzino aveva attaccato la tela? La mano di Marine cominciò a tremare e dovette sedersi per calmare il ritmo del suo cuore e del suo respiro. D'un tratto si rese conto di quanto fosse sola e di come non potesse contare sull'aiuto di nessuno. Marine era sempre stata in compagnia di qualcuno, che fosse Kate anche se poteva solo sentire la sua voce, che fosse uno dei suoi tanti ragazzi anche se nella coppia entrambi avevano i propri scopi egoisti: lei non voleva soffrire la solitudine e il ragazzo in cambio poteva possedere il suo corpo. Ma adesso era sola. La stanza si fece più piccola attorno a lei e i conati di vomito cominciarono a prendere la meglio su di lei, insieme alle lacrime pronte a scendere lungo le sue guance. Lasciò il pennello cadere a terra e si maledì mentalmente perchè adesso tutta l'attenzione era rivolta a lei. Sentì le dita di una mano avvolgere il suo polso e si lasciò trasportare fuori dalla stanza, sapendo bene che chi la stava trascinando era Ileen, la sua amica. Riprese a respirare appropriatamente una volta che fu all'esterno. Il sole stava calando e il cielo era di una calma tonalità di rosa e arancione, con qualche nuvola sparsa.

 

«Grazie, i-io...» Marine tentò di parlare, ma le lacrime ed i singhiozzi glielo impedirono.

«Non è nulla, siamo amiche dopotutto.»

«Non ci conosciamo nemmeno-»

«Non è necessario, io ti ho aiutata, tu mi hai fatto una promessa, ci siamo sedute accanto più volte, non è questo quello che fanno le amiche?»

 

La ragazzina tirò la manica della propria maglietta bianca per coprirsi il pugno e cominciò ad asciugare le lacrime di Marine. Marine si chiese se fosse un angelo, vestita interamente di bianco, con i suoi lunghi capelli biondi ed il suo piccolo naso all'insù. Si chiese come fosse il sorriso della ragazzina, quando fosse stata l'ultima volta che aveva sorriso, se avesse mai sorriso. Tentò di calmare le lacrime fissando lo sguardo sul bianco della gonna della più piccola, avventurandosi in pensieri che fossero lontani da quanto la sua vita fosse un disastro, ripensando alla sera in cui Ileen l'aveva portata in cortile, anche quella volta vestita di bianco, cercando di capire il motivo per cui vestisse sempre di bianco, ma fu interrotta. La porta fu bruscamente spalancata dalla donna che era prima seduta accanto ad Ileen, mostrando un volto preoccupato, subito rimpiazzato da uno sorpreso.

 

«Ileen, non puoi uscire in questo modo, con una sconosciuta...»

«Stai tranquilla Joy, stavo aiutando la mia amica, non una sconosciuta.»

 

Le due ragazze rientrarono nella stanza, accompagnate dalla donna che Marine adesso conosceva come "Joy, la badante di Ileen", ogni persona che soffriva di qualche malattia particolare ne aveva sempre una al proprio fianco durante le attività giornaliere, per evitare scenate come quelle di quello stesso pomeriggio. Quando rietrarono nella stanza, la sensazione di terrore invase di nuovo il corpo di Marine, ma riprese comunque in mano il proprio pennello per terminare il proprio dipinto, ritrovando la calma interiore in poche pennellate. Tuttavia, la ragazza si sentiva come se tutto ciò non fosse giusto, al proprio posto. In qualche modo i due sgabelli in precedenza occupati dal ragazzino e dalla sua badante lasciavano un senso di disagio che rendevano Marine inquieta. Non era ancora abituata ad eventi del genere, nonostante chiunque nella stanza fece poco caso al fatto avvenuto, persino il professore stesso. Questi avventimenti la rendevano semplicemente più cosciente del luogo in cui si trovava, di quanto volesse andare via. Adesso le pennellate erano di un colore più scuro ai bordi, Marine si era sforzata di continuare ad utilizzare colori brillanti, ma fallì, il suo stato d'animo non combaciava con il giallo della luce del sole, colore prevalente in quel dipinto. Con l'espressione imbronciata di chi era troppo concentrato a definire le ombre, Marine non si accorse del gentile picchiettare sul lato del suo braccio.

 

«Marine?»

 

Si voltò, era la donna che la stava chiamando, la mano di Ileen ancora sul suo braccio. Lo sguardo passava da Joy alla ragazzina.

 

«Ileen vuole mostrarti il suo quadro.»

 

Marine annuì poggiando il pennello sul piccolo vasetto trasparente contenente l'acqua che ormai aveva assunto un colore giallognolo, dati i colori accesi del proprio dipinto. Si alzò dallo sgabello per mettersi accanto alla più piccola e quando poggiò lo sguardo sul quadro di Ileen spalancò gli occhi. La tela era completamente bianca sullo sfondo, raffigurava un prato di erba rossa e dei girasoli dai petali blu.

 

«E' stupendo. Mi piace molto come hai dipinto i ciuffi d'erba, anche il contrasto tra i colori, rende tutto più armonioso.»

 

La frase provocò un quasi invisibile sorriso sulle labbra di Ileen, ma nessuno nella stanza riuscì a notarlo.

 

 

Marine tornò nella propria stanza con la tela tra le braccia, prendendola tra le mani dopo essersi assicurata che i colori si fossero asciugati in ogni parte. Appoggiò il dipinto a terra, accanto all'armadio. Ogni oggetto nella stanza era ricoperto da una luce arancionata donata dal tramonto, le tende della stanza durante il giorno sempre fuori dalla traiettoria dei raggi di sole, non lasciando la possibilità di essere filtrati dal cotone bianco con dei ricami di vario colore. La notte, al contrario, coprivano i vetri della finestra, come se non si volesse accettare il calare del sole, l'innalzarsi della luna nel cielo stellato. Era sempre la sua compagna di stanza ad aprire e chiudere le tende, ne era quasi la padrona, ad un certo punto Marine cominciò ad avere paura di toccare le tende, pur di non essere rimproverata dall'altra ragazza o dover assistere ad una crisi di qualche tipo, non sapeva quale tipo di disturbo portava sulle sue spalle. Fu la voce squillante di quest'ultima ad interrompere i pensieri di Marine, ultimamente si facevano più rumorosi e fitti e non sapeva se le stessero tenendo compagnia o se le ricordassero soltanto quanto fosse sola.

 

«Ciao compagna di stanza!»

 

E Marine si chiese se la ragazza avesse sbagliato stanza, o se l'avesse sbagliata lei stessa, perchè mai aveva visto un sorriso così brillante e spiazzante sul viso della riccia. Per un attimo i suoi pensieri si zittirono e riuscì a godere del silenzio nella stanza senza che il suo cuore dolesse per la solitudine, perchè la ragazza era e le stava parlando. Per momenti interminabili osservò ogni dettaglio del viso della riccia illuminato dalle sfumature del tramonto, rendendo la sua pelle bronzata, e per la prima volta non provò invidia, ma ammirazione. Un paio di occhi verdi assottigliati dall'ampio sorriso, ma che brillavano di felicità, e Marine si chiese cosa ci fosse da essere così felice, come potesse essere felice in quel luogo, il suo piercing al centro del labbro inferiore, più carnoso di quello superiore, che mostrava un sorriso capace di lasciare le persone senza parole.

Ed in effetti, Marine si trovava proprio in quella condizione.

Portò la tela che aveva ancora tra le mani al petto, stringendola come se fosse il suo bene più prezioso e deglutì, cercando una frase qualsiasi da dire, ma era spaventata, e non sapeva se era intimidita dalla bellezza accecante della ragazza o se aveva cominciato ad essere sociopatica dopo l'evento nella sala del corso di pittura. Inconsciamente si guardò attorno, cercando una via di fuga.

Il sorriso della riccia svanì per lasciare spazio ad un'espressione preoccupata, ma allo stesso tempo serena.

 

«Che succede? Stai tremando, hai paura? Ti faccio paura?»

 

Concluse la domanda ridacchiando tra sè, muovendosi con la schiena in avanti e aggiustandosi il solito ciuffo di capelli che sempre le ricadeva davanti gli occhi. Marine avrebbe mentito se avesse detto che non guardava la sua compagna di stanza ogni momento che era all'interno della loro stanza. Ormai conosceva i suoi movimenti come se fossero i propri. Alcuni comportamenti le erano ancora sconosciuti, ma Marine diede la colpa al poco tempo che aveva trascorso dentro la struttura e ancora minore era quello che aveva passato insieme alla ragazza, di cui ancora non sapeva il nome.

Scosse la testa in risposta alla domanda della riccia, stringendo più forte il dipinto tra le braccia.

 

«Uh-uh, meglio così. Cos'hai lì? Una tela? Ti sei iscritta al corso di pittura?»

 

«Mi hanno costretta» avrebbe voluto dire Marine, ma annuì con un semplice cenno del capo alla domanda, nemmeno un filo di voce voleva scappare dalle sue labbra.

 

«E' un bel corso! Ma io ho deciso di iscrivermi a quello di cucito, sai preferisco disegnare ed inoltre posso tenere i vestiti che cucio per me! Ti faccio vedere il top che ho finito proprio oggi.»

 

Marine rimase immobile, ma la riccia le passò accanto per sedersi sul proprio letto con una gamba sotto l'altra, che invece penzolava dall'orlo del letto, spensieratamente. Poggiò la borsa colorata sul letto, probabilmente anche quella l'aveva cucita da sola essendo un insieme di stoffe diverse e di colori diversi, e ne uscì una maglia corta color senape con un ricamo nero che circondava le maniche e l'orlo della maglia.

 

«Che ne pensi?» Chiese sorridente, abbassando la maglia in modo da poter guardare l'espressione della ragazza dai capelli rosa.

 

Marine abbassò lo sguardo, imbarazzata, perchè non solo la ragazza doveva essere bella, ma anche brava.

 

«E' molto bella.»

 

Lo stesso sorriso di pochi minuti prima, forse ancora più felice, apparve sul viso della riccia.

«Allora ce l'hai una voce! Adesso posso vederlo?» Fece un cenno con il mento, indicando il dipinto custodito ancora tra le braccia di Marine.

La ragazza dai capelli rosa non sapeva se sentirsi presa in giro, perchè in passato Marine sarebbe stata una chiaccherona con i suoi amici maschi, avrebbe parlato di cose stupide fino a convincersi di essere stupida, mentre gli unici stupidi erano loro, illusi di poter guadagnarci qualcosa dalla presenza della ragazza.

Ma adesso i suoi amici maschi non c'erano più e Marine si ritrovava in una stanza di un manicomio, da sola, con una ragazza. E non sembrava riuscire a parlare. Qual era la vera Marine?

Voltò lentamente il dipinto, mostrandolo alla riccia.

 

«Wow! E' bellissimo! E poi è giallo, io sono innamorata del giallo! Ah, io mi chiamo Alex comunque»

 

Innamorata. Ecco cos'era la felicità nei suoi occhi. La ragazza era capace di amare, a differenza di Marine. Era quello il motivo per cui, nonostante fosse rinchiusa in un manicomio, fosse capace di sorridere, quando là fuori avrebbe potuto diventare una stilista famosa. Avrebbe potuto utilizzare tutti i materiali di tutte le maledette sfumature di giallo che voleva. Avrebbe potuto frequentare un corso avanzato, conoscere persone con sorrisi splendenti quanto i suoi, vendere i suoi vestiti, avere dei fan. Invece era rinchiusa in un manicomio dove doveva frequentare una stupida attività terapeutica di cucito, per evitare che lì dentro i pazienti diventassero più pazzi di quanto non lo fossero già, con una ragazza incapace di amare, di sorridere così felicemente come lei.

 

«Marine.»

«Va bene, ti chiamerò Selene.»

«...Selene?»

 

Alex scrollò le spalle.

 

In ogni caso, quando dopo cena ritornarono silenziosamente nella loro stanza e Marine si distese sotto le coperte, in contemporanea con la riccia, e raccolse tutto il coraggio in sè stessa per pronunciare un timido «Buonanotte, Alex» ricevette in risposta uno sguardo vuoto, confuso, come se quegli occhi verdi stessero guardando una sconosciuta. Come se non avessero mai parlato prima.

 

«Buonanotte...?»

 

A Marine stava bene così.



Angolo scrittrice-
E FINALMENTE SI SONO PARLATE.
Questo capitolo è uscito fuori leggermente più lungo ma va bene lo stesso (?)
Da questo capitolo il poi le cose si fanno complicate, vi ho lasciato qualche indizio durante il capitolo, chissà se siete in grado di coglierli, fatemi sapere nelle recensioni, sono aperta anche a critiche ♥
Seguite la storia e ci si vede al più presto!
Vi lascio con una foto di quella grande gnoccona di Alex-




Lucky_May

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Capitolo 4
*** In my hands ***


♥ ♥ ♥ ♥

 

Una stella cadente. Una striscia luminosa che attraversa il cielo per millesimi di secondo, e scompare. All'altezza della bocca dello stomaco Marine avvertì l'urgenza di esprimere un desiderio, di urlarlo via, ma qualcosa le disse di non farlo. Poggiò i piedi nudi sul pavimento freddo e si rese conto del vuoto nel letto accanto al suo, dove avrebbe dovuto dormire Alex. In effetti, se la sua compagna di stanza fosse stata lì, era sicura che la finestra sarebbe stata chiusa a quell'ora della notte. Ma la finestra e le tende erano spalancate, lasciando intravedere quell'angolo di ardente cielo blu, ricoperto di puntini luminosi, dove Marine poco prima aveva intravisto la stella cadente. E a chi avrebbe urlato il suo desiderio se nessuno era lì ad ascoltarla?

 

Dicono che i desideri non si avverano se rivelati a qualcuno, ma Marine è sempre stata sola.

 

E quando se ne accorse, era già troppo tardi. La stella cadente era sparita in un altro emisfero. Marine voleva la sua stella indietro, la sua chance, la sua via d'uscita.

Guardò il soffitto della sua stanza, delle lacrime stavano scendendo lungo le sue guance, occhi guizzanti in cerca della stella, come se il tetto potesse ridargliela indietro. Si affrettò anche verso l'armadio, spalancando le ante e cominciando ad urlare, in un vano tentativo di poter acchiappare tra le mani ciò che era troppo fugace per essere visto una seconda volta.

 

«Dov'è?! Dov'è?!»

 

La stanza smise di girare, le stelle di brillare, il cuore di correre, le lacrime di cadere, quando sentì una mano accarezzarle la schiena. Marine cadde sulle sue ginocchia alla realizzazione.

Nessuna stella era caduta quella notte, le finestre non erano aperte, il letto accanto al suo non era vuoto.

 

«Cosa cerchi a quest'ora?»

«L-La stella cadente...»

«Non ci sono stelle cadenti dentro gli armadi, torna a dormire»

 

La ragazza a cui apparteneva la voce aiutò Marine a rialzarsi e si rimisero sotto le coperte dei rispettivi letti. Chiusero gli occhi e dormirono, come se nulla fosse mai accaduto.

 

 

 

Il sole era splendente al centro del cielo azzurro, limpido, libero da nuvole. La finestra della stanza era spalancata, nonostante dei soffi di vento gelidi che la giornata d'inverno portava all'interno della camera.

Alex, agli occhi di Marine, sembrava più felice del solito, si muoveva velocemente, come se avesse dell'energia di troppo da dissipare. Ogni suo passo era quasi un saltello e il suo tono di voce si era sicuramente alzato di un'ottava. La ragazza dai capelli rosa riusciva quasi a vedere due soli dentro gli occhi verdi della riccia, se le avessero dovuto chiedere la definizione di persona solare, avrebbe risposto "Alex."

 

«Hey, Selene, qual è la tua malattia?»

 

La domanda sorse nel bel mezzo della splendente mattinata, Marine sapeva che prima o poi sarebbe arrivato anche per lei il momento di risponderle. Doveva ammettere, però, che anche lei era almeno un po' curiosa di sapere quale fosse la risposta dell'altra. Alex, in presenza di Marine, non aveva mai perso il controllo, come spesso era accaduto nelle sue lezioni di arte, o come accadeva altrettanto spesso nelle lezioni di cucito che Alex stessa le raccontava nel pomeriggio, non appena ritornava.

Inutile dire che Marine si era abituata, arresa, al modo in cui l'altra la chiamava. Nonostante la domanda colse di sorpresa la ragazza, sapeva perfettamente come rispondere: la pura verità.

 

«Non ho nessuna malattia.»

 

La risata della riccia riempì la stanza, e Marine non era nemmeno sorpresa della sua reazione. Una ragazza frivola come lei non poteva prendere le sue parole seriamente, in effetti, non la biasimava, era quasi impossibile che in un manicomio ci potesse essere una persona sana di mente, con tutti i controlli a cui i dottori sottoponevano i pazienti. Ma Marine ancora non aveva incontrato nessuno psichiatra. La risata era svanita e adesso Alex la guardava con un mezzo sorrisetto, come se si stesse trattenendo dal non scoppiare a ridere un'altra volta.

 

«E tu invece, qual è la tua malattia?» Chiese Marine lasciando penzolare le proprie gambe giù dal letto.

 

«Io? Io non ho nessuna malattia!» Alex scese dal letto e si sporse dalla finestra, chiudendo gli occhi, godendosi il calore dei raggi del sole che baciavano la sua pelle.

 

Se la loro stanza non fosse stata situata al primo piano, Marine si sarebbe preoccupata per l'incolumità della propria compagna, sospettando che potesse cadere di sotto.

Si sarebbe preoccupata, ma Marine non lo ammetterà mai, se non fosse stata distratta dalla bellezza della riccia.

Un sorrisino era dipinto sulle sue labbra e il vento muoveva i suoi soffici ricci. Il piercing brillava alla luce del sole e la ragazza dai capelli rosa quasi ne rimase accecata più volte, perchè non riusciva a togliere gli occhi di dosso da quel paio di labbra, stirate nel sorriso più sereno che le aveva visto addosso e per un attimo Marine credette anche alle sue parole.

 

«Impossibile»

 

Alex distolse lo sguardo dal sole per fissare gli occhi in quelli di Marine e sorrise.

Ipnotizzata da quel sorriso, non riuscì a contare i battiti cardiaci che aveva perso.

La riccia lasciò cadere le proprie braccia lungo i fianchi prima di sedersi sul letto al fianco di Marine.

 

«Lo stesso vale per te!»

 

Ma nessuna risposta lasciò le labbra della ragazza, affaccendata con i suoi pensieri. La vicinanza dell'altra non l'aveva infastidita, non le mancava il respiro, per una volta. Alzò gli occhi per incontrare lo sguardo della riccia. Ma ancora una volta i suoi pensieri si presero una pausa, così come il suo respiro e il suo cuore. Era così vicina e da quella distanza Marine poteva osservare ogni dettaglio della pelle dell'altra. Ma non aveva molto da commentare, nulla su cui soffermarsi per più di qualche secondo, nessuna imperfezione occupava il suo volto.

 

«Sei bellissima.»

 

Alex rispose con una risata, coprendosi il volto con le mani dalle dita lunghe e magre, aggiustandosi subito dopo la ciocca di capelli che le era caduta sul volto.

 

«Tu sei bellissima!»

 

E, onestamente, Marine lo sapeva. I ragazzi la guardavano con un certo luccichio negli occhi quando camminava con i suoi shorts a vita alta, una cinta di cuoio nero e la sua maglietta rossa più larga di varie taglie, annodata sopra l'ombelico, per lasciare intravedere un sottile lembo di pelle alla quale vista i ragazzi si leccavano le labbra. Marine nuotava tra gli sguardi e le occhiatine di coloro che inclinavano gli occhiali da sole lungo il dorso del naso, per guardarla dalla testa ai piedi, mentre sfilava lungo il viale principale del loro quartiere. Rimaneva con sguardo serio ed impassibile, la sua camminata lenta e, per quanto Marine volesse farla sembrare innocente, provocante anche quando i ragazzi affrettavano il passo per affiancarla nella sua passeggiata estiva sotto il sole cocente, nonostante la sua pelle bianca rischiava di bruciarsi, neanche fosse uno di quei vampiri che ultimamente si vedevano spesso in televisione. I complimenti non le erano mai piaciuti, tuttavia. Nemmeno le persone dirette, a dirla tutta. Preferiva il mistero, il dubbio e l'incertezza dietro gli occhi esitanti di coloro che la apprezzavano e che si soffermavano con gli occhi sul suo corpo più del necessario. E di solito i ragazzi erano proprio senza vergogna, volevano semplicemente arrivare dritto al sodo, facile e veloce, esattamente tutto ciò che Marine odiava. Patetici, pensava.

 

Ma la risata di Alex forse era contagiosa, o semplicemente era stupefacente anche quella e per la prima volta dopo un'infinità di tempo, si ritrovò a ridere. Ed ad apprezzare un complimento. Aveva fatto crollare un po' la muraglia attorno al suo cuore, perciò non appena smisero di ridere decisero di cambiare argomento. E parlarono, parlarono, parlarono, finchè Alex non venne richiamata dai dottori per fare dei controlli per una malattia che per quanto ne sapeva Marine, non esisteva.

 

 

 

Marine fu risvegliata da un continuo ticchettio alle finestre. Quando aprì gli occhi, al di là dei vetri, la luce lunare faceva risplendere la porzione di prato verde visibile da quell'angolazione, la pioggia brillante si poggiava leggiadramente sui ciuffi di erba verde sgargiante. Marine poggiò i piedi a terra per muoversi verso la finestra, osservò il pianto del cielo a bocca aperta, quella sera il cielo piangeva diamanti. Ogni goccia sembrava una luce in sè e la ragazza si ritrovò ad osservare le luci danzare nel cielo notturno. Marine credette anche che la pioggia fosse riuscita ad entrare nella stanza per quanto intensa fosse. Si sentiva lei stessa sotto quel pianto disperato, una richiesta d'aiuto da parte del cielo rivolta a nessuno in particolare, a tutti in generale. E prima che potesse accorgersene le sue mani erano umide, ma di lacrime vere, e il rumore della pioggia era stato sovrastato dalle sua stesse urla.

 

«Ridatemela!»

 

Marine stese le braccia davanti a lei, i palmi aperti come a richiedere indietro ciò che le avevano tolto.

 

«Ridatemela!» Urlò più forte.

 

Le lacrime imitavano la pioggia fuori dall'edificio, ma al contrario sul suo viso non la rendevano bella come la visione al di là della finestra. Le sue grandi lacrime non la facevano risplendere, la luce era assente nella camera, ma come il cielo era disperato allo stesso modo lo era Marine e nonostante le urla nessuno le stava ridando ciò che desiderava.

Il sonoro e vano pianto riempì lo spazio finchè un paio di dita si intrecciarono con quelle di Marine e le strinsero le mani. Si sentiva soddisfatta adesso, la ragazza dai capelli rosa. Il senso di vuoto e solitudine rimpiazzato da una sensazione di pienezza e di integrità.

 

«Ecco qua, adesso va meglio?»

 

La solita voce addormentata, ma con un effetto calmante, la fece tornare indietro in uno stato di coscienza. Venne di nuovo guidata fino al letto dove chiuse gli occhi e si addormentò, come se nulla fosse mai accaduto.

 

 

 

La mattina seguente, Marine si risvegliò con dei leggeri colpi alla porta. Dopo aver bussato tre volte ed atteso per circa cinque secondi, la porta si aprì rivelando la figura della solita infermiera dai capelli color caramello raccolti in uno chignon basso. La donna entrò silenziosamente, quasi scusandosi per la sua irruzione ad una così buon'ora. Marine si mise seduta sul letto, stropicciandosi gli occhi e passandosi una mano tra i capelli ormai di un rosa sbiadito. Non avrebbe mica potuto colorarsi i capelli in un manicomio, sarebbero prima o poi ritornati del suo colore naturale, biondo platino. Marine era troppo assonnata per notare che l'infermiera stava osservando ogni suo minimo movimento, come per aspettare il momento giusto per darle una brutta notizia. La ragazza si guardò attorno, ogni cosa era al suo posto, non che ci fosse molto dentro la stanza, il quadro era ancora appoggiato accanto all'armadio e persino Alex dormiva tranquilla con la schiena rivolta verso le due figure femminili, sotto le coperte. Di solito era già sveglia e pimpante nonostante fosse ancora troppo presto per qualsiasi essere vivente. Marine si era sempre svegliata con la finestra aperta, il fatto che adesso fosse chiusa le apportò un senso di soffocamento. Scese dal letto alzando la vecchia e rumorosa serranda il più lentamente possibile, avendo un po' di rispetto per la sua compagna ancora avvolta nel suo dolce sonno, al contrario delle brusche maniere con cui Marine veniva sempre risvegliata da Alex.

 

«Cosa c'è? E' cambiato l'orario dell'incontro di oggi per il corso di pittura?»

 

Marine prese un profondo respiro non appena la fioca luce illuminò la stanza, aprendo anche le ante della finestra, per far cambiare l'aria. Un profumo di pioggia le inondò le narici e il resto della camera. L'aria pulita libera da smog, dovuta al lontano ubicamento dell'edificio dal centro città, fece crescere in Marine un senso di leggerezza, poco prima di essere totalmente mandato in frantumi dalla frase dell'infermiera.

 

«No Marine, oggi avrai il tuo primo incontro con i dottori.»

 

Le braccia le caddero lungo i fianchi, divenne pallida quanto il cielo di quella grigia mattina ed ignorò il fievole pianto lamentoso della sua compagna di stanza, immotivato per la ragazza dai capelli rosa.

Le ultime parole che sentì prima di chiudersi in bagno per le ore successive furono quelle dell'infermiera che si rivolgeva ad Alex.

 

«Alex? Alex stai bene? Chiamate un dottore!»

 

Ma a Marine stava bene così.


Angolo scrittrice-

Brutta bestia il blocco dello scrittore... Ma in compenso in questo capitolo succedono un sacco di cose!
Tipo Marine e Alex che parlano un po' come vere amiche...
Chissà cosa accadrà nel prossimo capitolo!
Intanto, anche se in questo capitolo non l'ho nemmeno menzionata, vi lascio una foto di Ileen!




Vi ricordo di seguire la storia per non perdere gli aggiornamenti e di lasciare una recensione per farmi sapere cosa ne pensate!
Le recensioni motivano gli autori a scrivere più velocemente e a migliorare ♥

Lucky_May

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Capitolo 5
*** I hate the beach ***


♥ ♥ ♥ ♥ ♥

 

L'uomo in camice bianco, lo stesso che l'aveva portata via da casa sua -strappata dalla sua normale e comune vita- la trovò rannicchiata su sè stessa sul grigio e polveroso pavimento marmoreo del bagno della sua camera, con le dita tra i capelli, tirandoli cercando sollievo nel gesto, piangente fino a sentire le pulsazioni del suo cuore direttamente all'interno del suo cervello e la circolazione sanguigna passare per le vene che si trovavano attorno alle tempie. I suoi jeans chiari, a vita alta ma che le arrivavano poco più sopra della caviglia mostrando così le due sottili righe, una rossa e una verde smeraldo, dei calzini bianchi che stava indossando con un paio di scarpe da ginnastica, di una tonalità di rosso sbiadito per il troppo utilizzo, avevano una larga chiazza di lacrime più scura rispetto al tessuto del pantalone dove Marine aveva appoggiato la testa.

 

«Marine Jones?»

 

Strinse la presa attorno alle sue magre braccia, perchè non era quello il cognome con cui voleva essere riconosciuta.

 

«Non sono una Jones, non più.» Pensò Marine, senza muoversi dal punto in cui era rannicchiata. Ma il fatto che le sue nocche stessero diventando bianche per la forza che stava applicando nello stringersi -per evitare di cadere a pezzi- fece capire all'uomo, anche senza dire una parola, che in effetti, Marine Jones, fosse proprio lei.

 

«In piedi, signorina Marine, non sarà una lunga chiaccherata, te lo prometto, voglio solo sapere come va e come ti trovi qui dentro.»

 

La ragazza dai capelli rosa rilasciò la presa sulle proprie braccia alla realizzazione della sua stupidità. Se si fosse mostrata normale, quale era, il dottore avrebbe notato che non soffriva di nessuna malattia e l'avrebbe fatta tornare a casa. Improvvisamente Marine voleva alzarsi in piedi e raccontare tutto all'uomo in camice, che sembrava essere la sua unica ancora di salvezza, ma cercò di trattenere l'adrenalina e si asciugò le lacrime con le maniche della sua camicia a quadri rossa e blu, si alzò lentamente, portandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. L'uomo le sorrise dolcemente, occhi chiari e labbra carnose, i capelli sempre gli stessi, accuratamente pettinati indietro lasciando la fronte libera, con forse troppo gel. Marine doveva solo utilizzare le sue armi da ragazza carina per riuscire a convincere il dottore a lasciarla tornare a casa, non che ci fosse qualche effettiva malattia che la trattenesse lì, in ogni caso, non doveva nemmeno fingere. L'uomo le porse la mano, che Marine contemplò se prendere o meno-il gesto era poco necessario, secondo la ragazza- ma poi la afferrò titubante: «Carina e innocente, carina e innocente.» pensava.

 

Si sedettero uno di fronte all'altro, con una larga scrivania di legno di ciliegio lucido a dividerli, alle spalle una parete bianca con scaffali mezzi pieni di libri e altri scompartimenti con sportelli in vetro trasparente. La stanza non era accogliente, non lo era per niente. Marine odiava quell'azzurrino pallido, sbiadito e vecchio delle sedie con le rotelle su cui erano seduti. Odiava il grigio del telefono a cornetta impolverato per il poco utilizzo, posto ad un lato della scrivania. Odiava ogni piccolo dettaglio nella stanza, dal merletto bianco sopra il tavolino basso, con infinite scartoffie inutili poggiatevi sopra, alla tenda a bande verticali bianca che filtrava la già fioca luce naturale del cielo piovoso, eppure non riusciva a distorgliere lo sguardo da quelli, per non incontrare gli occhi dell'uomo.

 

«Allora, signorina Jones-»

«Mi chiami pure Marine.» Lo interruppe, cercando di risultare il meno acida ed odiosa possibile, nonostante il suo cognome fosse ciò che più ripudiava al momento.

Il dottore sembrò sorpreso dalla sua reazione, forse non era abituato a sostenere una conversazione con pazienti effettivamente sani di mente, in quel luogo.

«Va bene, Marine, come sono andati questi giorni in struttura?»

 

E come avrebbe dovuto rispondere? Avrebbe dovuto confidarsi con il dottore, dicendogli che gli mancava la sua vecchia vita, che sua madre l'aveva tradita, l'aveva abbandonata in un manicomio per motivi a lei sconosciuti, se non il puro odio che provava quando le scrutava il viso e disgustata le diceva quanto somigliasse al padre? Lo stesso padre che aveva abbandonato la propria famiglia, per un amore vero ed un po' di stabilità che non era riuscito a trovare nella donna con cui aveva concepito la piccola Marine diciassette anni prima? Ma adesso lei era sotto la custodia della madre ed il padre probabilmente non sarebbe mai venuto a sapere della condizione della sua piccola "streghetta", come la chiamava quando da bambina la prendeva in braccio e la faceva volare nel cielo prima di riprenderla tra le braccia. Marine non aveva mai biasimato il padre per essere scappato via da quella vita che lo opprimeva, da un lato per il suo lavoro, dall'altro per la situazione familiare in cui tutto ciò che la donna chiedeva ed esigeva da lui era il denaro. Si accorse di essersi persa nel suo flusso di pensieri solo quando il dottore la richiamò, lei alzò il suo sguardo azzurrino per incotrare gli occhi dell'uomo.

 

«Marine?»

«Si, mi scusi. Stavo solo pensando alle settimane passate qui.»

«Si? E' successo qualcosa in particolare?»

 

E Marine pensò di raccontargli di come il sorriso di Alex fosse più brillante di quello del sole, di come i suoi capelli sembrassero così soffici al tocco, di come il suo corpo fosse scolpito dagli dei in persona. Tutto di lei le ricordava l'oro. Ma non poteva raccontarglielo, non poteva. Tutto quello che provava nei confronti di Alex era pura ammirazione, ed in questo momento non voleva sembrare capace di provare sentimenti agli occhi del dottore. Carina ed innocente.

 

«Ho fatto amicizia! Si chiama Ileen, dipinge molto bene.»

«Oh! Molto bene, Marine. Quindi frequenti il corso di pittura?»

 

La ragazza annuì mentre con gli occhi seguiva il tratto dell'inchiostro della biro sulla carta bianca a righe. «La solita scrittura di un dottore» pensò Marine, che non sapeva nemmeno se stesse realmente scrivendo. Le sue dita cominciarono a giocherellare nervosamente con l'elastico nero che aveva trovato al bordo del lavandino quella mattina, probabilmente di Alex.

 

«Ne sono felice, Ileen è una brava ragazza. Allora, passando alle questioni serie, se non erro, non hai mai assunto farmaci, non te ne abbiamo ancora prescritti, correggimi se sbaglio.»

 

Le dita di Marine si fermarono di scatto, stirando il più possibile l'elastico con due dita, facendo ingiallire la pelle per la forza applicata. Aveva paura che l'avrebbero sottoposta ad una cura di cui non aveva bisogno, sapeva bene che effetti potevano avere dei medicinali assunti senza un'effettiva necessità. La sua salute era abbastanza in pericolo e per la seconda volta da quando era arrivata in quel luogo, aveva paura per la sua vita. Si chiese se alcune persone rinchiuse in quel manicomio come lei non fossero diventate pazze a causa delle medicine a cui erano sottoposte. Adesso Marine non voleva solo scappare da quel luogo per il senso di soffocamento o perchè semplicemente non apparteneva a quel mondo, ma perchè se non fosse riuscita a scappare e l'avessero costretta ad assumere dei farmaci, sarebbe probabilmente diventata pazza come tutti gli altri.

Se fosse rimasta in vita abbastanza da diventarlo.

Un brivido percorse l'intera figura dell'innocente ragazza davanti gli occhi del dottore.

 

«No, non ne ho mai presi.»

«E non ti abbiamo mai fissato un appuntamento con il nostro psicologo.»

«No.»

«Allora te ne fisso uno per domani, mi assicurerò che la tua infermiera venga a chiamarti domani mattina.»

 

Il dottore si alzò dalla sua sedia e Marine lo seguì con i suoi occhioni azzurri ed un battito cardiaco così rumoroso che era sicura potesse sentirsi in tutta la stanza. Prima che potesse capire il motivo per cui l'uomo si fosse alzato, pronunciò la frase che più Marine gradì del loro intero incontro.

 

«Signorina Marine, la visita è finita, può tornare nella sua camera. Spero di rivederla presto.»

 

«Io no.» Pensò istintivamente la ragazza, ma ogni parola cessò di esistere nella sua mente nel momento in cui sentì una mano in basso alla sua schiena, spingerla verso l'uscita.

Era davvero necessario quel tocco?

Il peso di quel palmo si triplicò non appena tra i pensieri di Marine si insidiarono spiacevoli memorie di indesiderate mani appartenenti a fantasmi della sua passata vita, scendere e scendere verso il suo appetitoso fondoschiena.

Il disgusto si trasformò sul suo corpo sotto forma di pelle d'oca, ritrovandosi ancora una volta in mezzo ad un incubo ad occhi aperti e ben cosciente, incapace di uscirne da sola.

Sopprimendo il bisogno di urlare fino a perdere il fiato, Marine non si rese nemmeno conto di non avere avuto la possibilità di spiegare al dottore come tutto fosse un malinteso e della sua integra, forse ancora per poco, sanità mentale. I suoi occhi urlavano urgenza non appena incontrarono quelli dell'uomo, ma non fece in tempo ad aprire la bocca che con un sorriso di cortesia, Marine si trovò una porta in faccia, con tanto di piccola folata di vento che le scompigliò le uniche due ciocche ai lati del suo viso che non appartenevano ai suoi buns.

 

«Signorina Marine?» sentì d'improvviso una voce alle sue spalle.

 

Quella che Marine cominciava a pensare fosse la sua personale infermiera, la aspettava al centro del corridoio con una cartella bianca stretta tra le mani.

 

«Si?» si voltò lentamente verso la donna, pugni stretti e labbro inferiore tra i denti, come a trattere delle urla o delle lacrime. Non poteva mica pretendere di ritornare alla sua camera da sola, magari schiarirsi un po' i pensieri, prendere una boccata d'aria, pianificare il prossimo passo da fare. No, forse non avrebbe mai potuto farlo. Forse mai più.

 

«La accompagno nella sua stanza.» il tono dell'infermiera sembrava quasi dispiaciuto. O forse provava solo pena per la ragazza ad un passo da un crollo mentale. Ma Marine doveva farsi forza e resistere: non poteva spogliarsi delle sue barriere davanti all'infermiera. Ancora qualche passo e sarebbe arrivata in stanza, doveva rimanere impassibile ancora per qualche futile secondo.

 

Poi le pesanti porte color menta sbiadito dal tempo alla fine del corridoio si aprirono, mostrando così due alte e robuste figure portare una sedia a rotelle. L'indiscutibile capello riccio di Alex le copriva il viso, rivolto verso il basso, quasi come se la ragazza stesse dormendo, ma Marine la riconobbe immediatamente. Con quel capello castano che brillava alla luce del sole come oro colato, o con la grazia delle sue forme, l'avrebbe riconosciuta anche in mezzo ad una folla di persone.

 

Spalancò la bocca, come per urlare il suo nome, per svegliarla da quel sonno sicuramente forzato da chissà quali farmaci, ma si fermò appena un attimo prima. Anche quello sarebbe stato mostrare emozioni e forse gridare non sarebbe stata la migliore scelta.

 

«I pazzi urlano, non tu, Marine.» pensò tra sè e sè, mentre sentiva lo sguardo dell'infermiera bruciare su un lato del suo viso.

 

Mantenne un passo lento fino alla porta della sua stanza, al contrario del suo veloce battito cardiaco che la implorava di controllare lo stato di salute della sua compagna. La pazienza era una delle sue migliori doti e riuscì a mantenere il controllo nonostante la vista dell corpo della ragazza gettato incerimoniosamente sul lettino, quasi fosse stato un cadavere.

 

Marine tremò al pensiero.

 

Non appena i due uomini furono fuori dalla stanza insieme all'infermiera, Marine scese dal suo lettino causando un inquietante scricchiolio a cui si era ormai abituata e scosse il braccio della ragazza leggermente.

 

«Alex?»

 

Si morse il labbro inferiore e la sua compagna non sembrava dare segni di vita, oltre al delicato respiro che Marine a volte ascoltava durante la notte, fino a far combaciare il proprio per riaddormentarsi dopo che un brutto sogno le avesse disturbato il sonno.

 

«Alex ma che ti hanno fatto?» chiese con voce lamentosa, sentendo ogni secondo di più le lacrime bruciare dietro gli occhi.

 

Marine la stava ancora scuotendo delicatamente, ma dopo un altro paio di volte si arrese, carezzando l'intero braccio della riccia, fino ad arrivare alle sue lunghe dita.

 

Poggiò la mano su quella, sospirando amareggiata con un nodo allo stomaco, portando gli occhi al cielo grigio di quella giornata, distratta dal movimento danzante delle scure foglie mosse dal vento, ma non abbastanza dal non accorgersi delle dita che si stavano naturalmente intrecciando a quelle della ragazza dai capelli rosa.

 

Il suo respiro si fermò per un attimo, ma quando si permise di lanciare uno sguardo alle loro mani lo rilasciò, e con quello, anche il nodo al suo stomaco si sciolse.

 

E forse le sue ginocchia erano doloranti in quella posizione e il collo le avrebbe fatto male dopo solo qualche ora, forse Marine aveva ancora paura dell'effetto delle medicine che avrebbe dovuto assumere il giorno dopo e si chiese se anche lei sarebbe prima o poi stata sottoposta a qualsiasi tipo di sonnifero stessero dando ad Alex, ma in quel momento...

 

A Marine stava bene così.



Angolo scrittrice-

A volte ritornano.
Ci vuole un certo mood per scrivere questa storia e... PER FORTUNA non sono stata nel mood per circa un anno, tranne che per quelle poche volte in cui ho scritto per appunto completare questo capitolo lol
CHISSA' COSA ACCADRA' NEL PROSSIMO CAPITOLO EH EH EH
Baci baci, sempre vostra
Lucky_May

 

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