Être

di Department of Illusion
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Je suis ***
Capitolo 2: *** Tu es ***
Capitolo 3: *** Elle est ***
Capitolo 4: *** Nous sommes ***
Capitolo 5: *** Vous êtes ***
Capitolo 6: *** Ils sont ***



Capitolo 1
*** Je suis ***


                                                                           J E   S U I S



Aveva pensato a sua madre. Aveva subito pensato a sua madre. Non la sentiva da settimane e probabilmente erano venuti a tirarlo fuori di casa ora che aveva l’aveva ignorata abbastanza a lungo da ucciderla di dolore. Mentre attraversava il corridoio, però, si rendeva conto che quella con cui stavano bussando non era una violenza consona ad una rispettosa comunicazione di morte. Quando si era avvicinato allo spioncino i colpi erano diventati più veloci e forti e l’immagine della madre era andata sfumandosi sempre di più, rimpiazzata dalla sagoma nebulosa di qualcuno che avrebbe potuto avercela con lui. Qualcuno a cui aveva rubato il parcheggio. Qualcuno che non aveva pagato. Lo spazzino delle otto che gli diceva sempre di chiudere i sacchi della spazzatura. Françoise.
    Prima di poter distinguere i colori di qualcosa di conosciuto, il frastuono sul legno si era fatto così presente e impetuoso, così importante, che invece di spingerlo ad una ritirata l’aveva costretto ad un’azione, un’apertura, una risposta qualsiasi.
“Ti prego, ti prego, apri” aveva sentito ancora prima dello scatto della maniglia, la voce affannata e rotta dalla corsa, e poi aveva visto il ragazzo, voltarsi frenetico a guardare la strada.
“Per favore, cazzo, quelli mi ammazzano, ti prego” aveva detto facendosi più vicino, talmente veloce che le parole si erano accavallate l’una sull’altra in un bisbiglio disperato. Claude si era fatto indietro e l’altro non aveva esitato un momento, neanche nella sorpresa di quella strana concessione senza domande, si era infilato nella casa spingendolo di lato, si era sbattuto la porta alle spalle e si era accasciato per terra.
    Si era portato dentro un po’ di pioggia e l’attesa di un segno qualsiasi di salvezza o condanna, che si era appena trasformata in un’attesa più intensa, perché maggiormente piena di possibilità di vittoria, possibilità di non essere trovati, possibilità di vivere un po’ più a lungo di quello che si era aspettato. Era rimasto immobile, la schiena sulla porta, ad ascoltare i suoni della strada, e mentre si concentrava sulle vibrazioni nell’aria si era scordato di non piangere, come se per impiegare tutte le sue forze su un compito solo le avesse sottratte ad ogni autocontrollo, e le lacrime erano scese veloci, senza che se ne accorgesse. Claude si era seduto, a pochi passi da lui, il più piano possibile, assecondando il silenzio vitale per la riuscita del rifugio, sperando che quel silenzio bastasse per renderli trasparenti a chiunque lo stesse cercando.
    Erano rimasti fermi fino a che il telefono di casa non aveva squillato, quindici minuti più tardi, facendoli sobbalzare appena e Claude aveva guardato il ragazzo in cerca di un permesso di movimento e lui aveva annuito con le lacrime secche sul collo, così Claude si era alzato e aveva risposto, aveva detto che no, non aveva intenzione di tornare al vecchio gestore telefonico che ora assicurava offerte migliori. Poi aveva attaccato e si era inginocchiato di nuovo nel punto in cui si era seduto all’inizio.
“Ora te ne devi andare” aveva detto senza cattiveria.
“Cinque minuti. Giuro che me ne vado. Non mi hanno visto entrare, stai tranquillo.”
“Se ti hanno visto potrebbero pensare che ci conosciamo e tornare a cercarti da me.”
“Se mi hanno visto, farmi uscire adesso non ti servirebbe a niente.”
Claude si era chiuso in un silenzio preoccupato.
“Non mi hanno visto” aveva ripetuto il ragazzo con sicurezza, perché altrimenti la porta che li separava dalla strada sarebbe già stata distrutta, le stanze riempite di grida, i vetri delle finestre sul pavimento. Se l’avessero visto, quel corridoio non sarebbe mai riuscito a rimanere così tranquillo e intatto, così segreto da farlo sentire al sicuro in un posto che non conosceva.

Claude era scomparso in spazi invisibili attraverso le pareti, ma era tornato subito, gli aveva posato un bicchiere d’acqua accanto e l’aveva guardato a lungo.
“Non dirmi niente”, perché aveva letto nei movimenti del ragazzo un rilassamento, una fiducia, l’aveva visto sull’orlo di una confessione. Così lui aveva bevuto e basta, poi si era alzato ed era entrato nella prima stanza a destra, da dove era arrivato lo scrosciare dell’acqua e il suono di stoviglie pochi minuti prima, aveva posato il bicchiere nel lavandino ed era tornato nel corridoio.
“Alex” aveva detto mentre tirava su la zip della giacca a vento logora, “mi chiamo Alex” e il suono era rimbalzato sui muri come un insulto. Per quello che ne sapeva quella poteva essere l’ultima conversazione della sua vita, e non gli interessava se l’unico essere umano in grado di ascoltarlo avrebbe fatto finta di non sentirlo, voleva dire il suo nome, perché lo rendeva reale e tangibile, ancora lì, ancora vivo per tutti i minuti che gli restavano.
“Alex, hai lasciato il telefono a terra.”
“Ah. Grazie.”
Si era chinato e l’aveva rimesso in tasca, poi era uscito, con il cappuccio in testa tirato giù fino al naso, ed aveva corso veloce, il più veloce possibile.

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Capitolo 2
*** Tu es ***


                                                                               T U   E S



La seconda volta che bussa sono tre rintocchi così rapidi e leggeri che Claude non pensa neanche per un momento che possa essere la stessa persona di due settimane prima. Spalanca la porta senza alcun sospetto e prima di capire riconosce la giacca verde e rossa, i due colori così sbiaditi da sembrare della stessa sfumatura.
Alex lo guarda, senza paura negli occhi e gli sembra una persona diversa. Sembra qualcuno a cui è impossibile accostare una debolezza, qualcuno che non può essere scosso, in grado di essere cattivo quando ce n’è bisogno.
Claude cerca di non guardarsi intorno, di non superarlo con lo sguardo per controllare i bordi della strada, ma Alex sente comunque la preoccupazione sottile e sorride.
“Sono da solo.”
“Li hai uccisi tutti?”
E doveva suonare come una battuta, legata al suo nuovo atteggiamento spigliato e sicuro, ma suona come una semplice domanda e Claude se ne pente non appena sente le sue parole nell’aria.
Alex sorride di nuovo e ignora la pesantezza della frase. Alza solo le spalle.
“Sembra che io non gli interessi più. Almeno per ora.”
Claude annuisce appena e pensa a come l’avere di fronte a sé la possibilità della propria morte cambi drasticamente una persona. Si chiede se la renda più autentica, simile a se stessa, o se la paura, l’improvviso sgomento della propria fine, non annulli completamente la personalità di ognuno, rendendoci tutti un unico terrore, un universale aggrapparsi, un identico non voler morire.
“Volevo solo ringraziarti.”
“Sono contento che tu sia vivo.”
Anche se non lo conosce. Anche se non è questa la persona a cui ha salvato la vita.
“Volevo portarti qualcosa, ma non mi è venuto in mente niente.”
“Non c’è bisogno. Non ho fatto nulla.”
Restano in silenzio fino a quando Claude non si sposta appena.
“Vuoi entrare?”
“No tranquillo, stavo andando via.”
“Va bene.”
“Sei da solo?”
“Sì.”
Alex annuisce e non si muove. Claude si fa da parte e Alex entra.
Cammina sul tappeto stretto e lungo che copre le mattonelle chiare di tutto il corridoio, guarda le giacche appese alla parete e si ricorda di esserci stato seduto di fronte. Se le ricorda esattamente nella stessa posizione, come se nessuno le avesse toccate da allora.
“Vieni.”
Claude gli fa strada in una stanza grande e quadrata, gli indica il divano arancione di fronte al tavolino di vetro e Alex si siede. Le finestre sono piene di piante. La luce di mezzogiorno è riflessa dall’intonaco chiaro palazzo di fronte ed entra più leggera, come se fosse più tardi.
“Hai pranzato?”
“Sì.”
Claude sparisce per qualche istante e torna con una bottiglia d’acqua e una busta di patatine, la svuota in una grande ciotola di plastica viola e la mette in mezzo al divano. Si siede dall’altro lato. Accavalla le gambe sul tavolino e prende il telecomando, la tv si accende e sembra in pausa su un branco di pesci immobili, che di colpo ricominciano a muoversi, minuscoli e veloci, in una massa di colore uniforme.
    Alex guarda l’oceano nello schermo, sente la calma della stanza e Claude che beve dalla bottiglia, e pensa all’ultimo divano su cui è stato seduto, di pelle scura, secca, il tavolo basso ai suoi piedi pieno di soldi bagnati di birra.
    Claude lo sta guardando. Alex sente di dover dire qualcosa, non sa cosa, allora distoglie lo sguardo e ricomincia a guardare i pesci. Ascolta la voce del presentatore che parla della barriera corallina australiana, di come ha rischiato di sparire cinque volte a causa dei cambiamenti climatici e Alex pensa che cinque volte è un sacco, neanche lui riuscirebbe a salvarsi cinque volte. La voce profonda e impostata si mischia ai suoni della strada, ai clacson e ai campanelli di bicicletta, ai suoni della periferia, familiari e vicini, di madri che gridano e gente che ha cominciato a litigare alle otto di mattina. Gente che vive lì da sempre. Come se il resto del mondo non esistesse, o fosse qualcosa di troppo lontano da immaginare.
“Mi sembra di averti visto da qualche parte” dice Alex guardando il divano che li divide.
“Lavoro al supermercato. Quello accanto alla stazione.”
“Little Market?”
“No, non Little Market, quello di fronte.”
“Ah. Da quanto?”
“Saranno due anni.”
“Allora ti ho visto di sicuro.”
“Può darsi.”
Mangiano le patatine in silenzio e Alex si rende conto di non aver voglia di fumare. Beve anche lui dalla bottiglia e Claude fa una battuta su un pesce che sembra Frank Sinatra. Alex ingoia l’acqua appena in tempo per ridere senza sputarla sul tavolino.
    Claude sorride e Alex pensa al fatto che l’altro non gli ha ancora chiesto niente di quella sera, e non capisce se è per tatto o per paura, e ogni logica gli dice per paura, ma ha sempre di più l’impressione che sia delicatezza, un silenzio buono, quasi femminile, che lo assolve fino a che sarà all’interno di questa casa.

    Il telefono squilla e Claude si alza per rispondere. Il documentario è cambiato e i suoni della strada si sono spenti quasi del tutto. Alex controlla l’ora e si alza quando sente dall’altra stanza uno “stavo per chiamarti io”. Mentre si infila la giacca si chiede se c’è qualcuno nella sua vita a cui potrebbe dire la stessa cosa.
    Si affaccia alla porta della cucina e fa un gesto di saluto al ragazzo, che copre la cornetta con la mano e lo guarda.
“Te ne vai?”
“Sì, scusa, devo andare.”
“Va bene.”
“Grazie. Per tutto.”
“Quando vuoi.”

    Chiusa la porta dietro di lui, pensa al fatto che Claude gli ricorda qualcuno che conosceva, qualcuno di completamente diverso, ma pieno di un’accoglienza simile, inaspettata e senza giudizi. Qualcuno che aveva spinto via molto tempo fa senza spiegazioni. Qualcuno con cui avrebbe voluto scusarsi.
    Nello stesso momento, Claude pensa al fatto che Alex non gli ricorda nessuno. Al fatto che quasi tutti ci ricordano qualcuno che conosciamo, eppure non riesce a legare Alex a nulla di ciò che conosce. Si chiede se voglia dire qualcosa, qualcosa di buono o qualcosa che dovrebbe preoccuparlo. Non lo sa. Sa che non è preoccupato, e che Dana è molto più gentile al telefono che di persona, che domani dovrà ricordarsi di non trattarla male perché coprire il turno di un collega di lunedì con due ore di preavviso è una cosa che farebbe solo una persona con un cuore immensamente buono.

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Capitolo 3
*** Elle est ***



                                                                                                          E L L E   E S T


Claude si aspetta per tutta la settimana di vederlo al supermercato. Si aspetta che entri, che compri qualcosa di stupido che non gli serve e che poi venga alla cassa, che lo guardi dicendo hey, chi si vede, sapendo perfettamente che lo avrebbe trovato lì. Ma non succede.
    Succede invece che Alex bussa alla sua porta di domenica, probabilmente in un momento in cui sarebbe stato meglio che non bussasse alla sua porta, ma dopotutto le cose che vogliamo quasi mai accadono nel modo in cui le abbiamo immaginate.
Claude apre la porta e lo vede, resta immobile per un istante e poi incrocia le braccia mentre gli sorride.
“Ciao.”
Alex sta per rispondere ma vede qualcuno nel corridoio che si avvicina a loro e li guarda.
È una ragazza alta e bionda, con i capelli lunghi tirati in alto da un piccolo elastico. Alex si è sempre chiesto come le ragazze riescano a legarsi i capelli così stretti senza provare un fastidio insopportabile. La ragazza tocca il braccio di Claude e Alex fa un passo indietro.
“Scusa, pensavo fossi da solo.”
“Non ti preoccupare. Entra.”
La ragazza ed Alex si guardano, entrambi leggermente sorpresi.
“Non c’è bisogno. Volevo solo salutarti.”
“Non stavamo facendo niente comunque.”
“Non-” “Tranquillo” dice con un gesto con la mano che lo invita dentro. La ragazza si allontana.
Alex lo guarda confuso ed entra, seguendoli in cucina.
“Alex, lei è Françoise. Françoise, Alex.”
Si stringono la mano senza avvicinarsi. Lei si volta verso Claude come se Alex non ci fosse. Sembra arrabbiata.
“Pourquoi l'as-tu invité?”
Alex la guarda per qualche secondo prima di capire che i suoni che sente non sono ricollegabili a qualcosa che può capire.
“Non c’è bisogno di parlare francese.”
Il tono di Claude è freddo e di rimprovero, ma lei non sembra toccata dal cambio di atteggiamento.
“Il ressemble à un dealer.”
“C'est un ami. Arrête.”
“Depuis quand tu le connais?”
“J’ai dit stop, Françoise.”
Claude non grida ma la sua voce è bassa e aggressiva, vuole essere sicuro che lei non risponda e che la smetta di parlare francese. Lei fa per dire qualcosa, poi chiude la bocca e si siede al tavolo di fronte al lavandino, con le braccia incrociate davanti a sé.
“Come vi conoscete?”
Guarda Alex e Alex guarda Claude.
“Alex lavora da Little Market.”
“Non l’ho mai visto.”
“Ha appena cominciato.”
“Ah. E come ti trovi?”
Il ragazzo li guarda entrambi, poi si avvicina a Claude di pochissimo.
“Posso parlarti un momento?” chiede indicando il corridoio.
Claude resta un attimo in silenzio.
“Certo.”
Escono dalla stanza e Alex arriva di fronte al divano arancione quando Claude gli sfiora il braccio.
“Scusa. Non dovevo farti entrare, ero arrabbiato. Puoi andartene, non devi-”
“Non so come ti chiami.”
“Ah?”
“Non so come ti chiami. La storia è già ridicola di suo, se scopre che non so neanche come ti chiami di sicuro non migliora.”
“Merda. Hai ragione.” Gli tende la mano.
“Claude.”
Alex la stringe, si sorridono e tornano in cucina. Françoise li guarda entrambi e sospira.
“Sai giocare a monopoli, Alex?” chiede lei leggermente sgarbata indicando la scatola del gioco sul tavolo.
“Se non giocate in francese, direi di sì.”
La ragazza si ferma e gli sorride.
“Scusami. Sono stata scortese, non volevo” dice indicando la sedia vicino a lei.
“Non giochiamo in francese. È normalissimo monopoli.”
Alex si siede e la guarda aprire la scatola e dispiegare i vari pezzi.
“Ero sicuro che l’età minima per giocare a monopoli di domenica pomeriggio fosse settantacinque.”
Lei ride e sembra che si stia scordando lentamente di essere stata arrabbiata.
“Credimi, basta detestarsi abbastanza da preferirlo ad una conversazione” dice lei mentre dispone le pedine sul cartone colorato.
Alex sembra divertito dalla sua risposta e straordinariamente impermeabile al turbamento. Claude è quasi sicuro che potrebbero cominciare a lanciarsi piatti di ceramica pregiata e Alex resterebbe seduto senza scansarsi di un centimetro. Immagina che aver visto il confine della propria vita o di quelli che ti stanno intorno ridimensioni il concetto di importante e grave, di tutte le cose per cui c’è bisogno di alzarsi e quelle per cui si può tranquillamente rimanere seduti. Claude sente, senza sapere perché, che la gravità di Alex è qualcosa di più reale della loro. Appena un po’ più giusta. Ha voglia di prestargli un po’ di questo interesse per il futile, un po’ di questi drammi leggeri e fargli dimenticare, anche se per poco, che c’è qualcosa di diverso.
    Si siede di fronte a loro e li guarda distribuire le carte, li guarda discutere sulle case e gli alberghi e spera che gli capitino proprietà di poco conto. Fa attenzione a non comprare niente che possa farlo vincere e si scorda quando può di prendere i soldi del via. Alex e Françoise intavolano strategie meschine per battersi e Alex lo guarda spesso, probabilmente si è accorto che cerca di farli vincere, ma non dice niente. Sembra stanco. Claude vorrebbe portarlo sul divano e farlo dormire fino a che non gli sembrerà sveglio abbastanza da poterlo battere a monopoli giocando seriamente.

Françoise vince con solo cento dollari di differenza, anche se Alex è sicuro che abbia barato. Ma conta poco, perché ha barato anche lui e Claude si è alzato da un pezzo, ha fatto il tè e sta lavando i piatti da dieci minuti. Françoise si alza e si avvicina dicendo hai visto, ho vinto e lui risponde ho visto, con un filo di affetto nella voce. Alex beve il tè e si chiede se fossero più simili quando si volevano bene, se a Claude piaccia il fatto che i suoi capelli siano così biondi e tirati così stretti, se a lei piaccia il fatto che Claude non parli quanto lei o se abbia cominciato a darle fastidio. A lui piace. Che Claude parli poco, non per timidezza, ma perché sta bene senza parlare, perché sembra capire quasi sempre senza bisogno di chiedere. Così quando Alex si alza e gli porta la tazza, gli sembra che Claude sappia già che sta per andarsene. Gli fa un cenno di saluto con la testa e Françoise lo guarda.
“Te ne stai andando?”
“Sì.” Pensa ad una scusa credibile ma poi si accorge che non ce n’è bisogno.
“Va bene. Piacere di averti conosciuto.”
“Anche per me.”

Claude lo guarda uscire dalla cucina e spera che stia andando a dormire. Alex, mentre esce dalla casa, spera di non dover mai giocare a monopoli con qualcuno che ha smesso di amare.

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Capitolo 4
*** Nous sommes ***



                                                                             N O U S   S O M M E S


Lo riconosce subito. Quando lo vede con i capelli bagnati e le mani nelle tasche, riconosce lo sguardo nei suoi occhi, e non è la pioggia o il fatto che sia tardi, che gli ricordano una disposizione passata delle cose, così simile alla presente, ma l’unica cosa che distingue le due serate gemelle, il fatto che stasera Alex lo guarda, e gli chiede con tutte le parole che non pronuncia di non farlo entrare. E Claude riconosce subito quella consapevolezza tetra nei suoi occhi, la stessa che lo ha portato alla sua porta la prima volta, con una domanda disperata e il respiro corto. Riconosce subito Alex, l’Alex segreto, che ha conosciuto solo una volta, e che gli ha detto il suo nome con la speranza di essere ricordato da qualcuno.
E riconosce se stesso. La stessa esitazione, lo stesso timore che lo ha portato a chiedergli di andarsene la prima volta. Lo stesso buonsenso.
Tiene stretta la maniglia della porta e guarda il ragazzo di fronte a lui che stasera non implora e non ha voce.
Lo hanno trovato. Forse lo stanno cercando, forse sono a un passo da lui, allo svoltare della strada, forse sono ancora lontani, forse ancora non sanno dove cercare. O forse sono già qui. Proprio dietro le macchine che Claude conosce a memoria, dietro le finestre che non lo hanno mai spaventato.
Ma nello sguardo di Alex non c’è fretta, solo abbandono di ogni pretesa, di vita o di morte, di accoglienza o rifiuto. E Claude lo riconosce. Il motivo per cui ha aperto la prima volta, quel buio così accecante e violento, la presenza di una realtà altra da quella patina di senso che avvolge le cose mondane, un improvviso grido di paura pura, di paura ultima, una paura tragica e finale che gli ricorda il motivo per cui ha un lavoro, una ragazza e una tv, perché questa verità insostenibile va coperta, sempre, e il più a lungo possibile.
E ora Alex è pieno di questa verità, solo e pieno e Claude lascia andare la maniglia e gli prende la mano, trascinandolo dentro e chiudendo la porta con tutte le mandate possibili.
Lo tiene stretto, nel buio del corridoio, e sente il corpo del ragazzo teso e ghiacciato, rompersi in singhiozzi liquidi, e lo lascia piangere, per tutto il tempo necessario. Sente il nylon bagnato della giacca contro le braccia, uno sfregare freddo e finto, e lo stringe più forte.
Alex appoggia la fronte sulla sua spalla e respira a lungo l’odore della casa silenziosa. Quando Claude lo lascia andare restano uno di fronte all’altro ancora per un po’. Poi Claude sospira e Alex si allontana lentamente, cammina verso la stanza quadrata, e la luce che viene dalla cucina illumina poche cose, ma cose che gli bastano per riconoscere i contorni degli oggetti e per camminare fino a toccare il divano di tela. Si toglie la giacca e la lascia sul tavolo, guarda la pioggia bagnare il vetro pulito e le gocce sul piano unirsi in piccoli specchi d’acqua che riflettono la luce dei lampioni dalle finestre.
    Claude lo guarda dall’entrata della stanza, ascolta i suoni della strada e decide che il pericolo non è vicino. Che c’è tempo ancora per un paio di cose. Entra in cucina e sale in piedi su una sedia, sposta gli oggetti arroccati sulla mensola più alta e trova quello che stava cercando. Scende e rimette la sedia accanto al tavolo, rovista tra le posate e raggiunge Alex sul divano. Appoggia la bottiglia sul vetro e tira fuori il cavatappi dalla tasca.
“Questo vino costa duecentocinquantaquattro dollari.”
Infilza il tappo col la punta di metallo e avvita la spirale nel sughero.
“Fortuna che stai per morire.”
Il tappo scocca fuori dalla bottiglia con un suono basso e limpido che riempie la stanza. Claude sorride.
“Lascialo respirare” dice puntandogli il dito contro mentre si allontana di nuovo. Torna pochi istanti dopo con due tazze colorate e le riempie a metà di liquido chiaro e profumato. Alex immagina che la sala di un ristorante di lusso abbia più o meno lo stesso odore.
Appoggia le labbra al bordo della tazza e manda giù il vino lentamente.
“Cazzo.”
Sorride appena. Non è come bere, è come se stesse mangiando qualcosa. Qualcosa di denso e morbido allo stesso tempo.
Claude alza la tazza e tocca quella di Alex con un piccolo tintinnio.
“Grazie all’Alsazia” dice guardando l’etichetta scura della bottiglia.
Alex annuisce e alza la tazza anche lui. Bevono in silenzio. L’alcol fruttato gli riempie il corpo e Alex si ricorda di qualcosa a cui non pensava da anni. Delle notti d’estate in Ohio, di quando tutti andavano a dormire e lui usciva dalla sua stanza facendo attenzione a non far cigolare la porta, scendeva al buio le scale morbide di moquette e usciva sulla veranda, con i calzini che sfregavano contro il legno grezzo e umido, fino a che non vedeva suo nonno sul divano a dondolo e si avvicinava, lui gli faceva spazio sui cuscini logori e gli copriva le gambe con la coperta di lana. E non si dicevano mai una parola. Guardavano il lago e gli alberi a punta contro il cielo, mai nero come l’acqua, sempre luminoso di una qualche sfumatura di arancione, e suo nonno gli passava il bicchiere di whisky, lui ci intingeva la lingua e faceva una smorfia divertita. Non dirlo a tua madre, era la sola frase che diceva, e Alex rideva, il più piano possibile, e gli ridava il bicchiere. E una sensazione di avventura lo pervadeva tutto, il vento gli passava tra le braccia e guardava lo spazio intorno alla casa come qualcosa di nuovo e speciale, qualcosa che potevano vedere solo loro, esposti ma al sicuro, audaci osservatori della notte, protetti sotto il tessuto spesso della coperta.
    E ora la luce sul vetro, i lampioni e questo silenzio, il vino dolce e tiepido, lo riempiono di una calma sciocca e quasi serena, e pensa a chi lo cerca, pensa che stanotte non lo troveranno, forse domani, magari domani, ma adesso gli sembra appena meno importante, adesso è un po’ come essere su quella veranda, seduti al sicuro, per pochissimo, a guardare qualcosa di proibito, qualcosa come la precarietà del suo respiro, di questa notte, questa casa, queste finestre, e di Claude, che sulla strada gli ha preso la mano e l’ha chiuso in uno spazio segreto.
    Alex lo guarda e si chiede a cosa stia pensando, se pensi al pericolo in cui sono ormai immersi entrambi, o al vino, o all’Alsazia.
Alex non sa neanche dov’è l’Alsazia.
“Sei francese?” chiede posando la tazza.
“No. Mio padre è francese.”
Claude teme per qualche istante che gli chieda di parlare francese, ma non succede.
“L’hai comprato lì?” indica la bottiglia.
“L’ha comprato Françoise. Ha insistito per fare una gita di due giorni in un’enorme azienda agricola per turisti. Non sono riuscito a farla andare via senza che spendesse tutti i suoi risparmi.”
“Stiamo bevendo il suo vino?”
“Ho paura di sì.”
“Fortuna che sto per morire.”
Claude ride piano e pensa a Françoise. All’Alsazia e all’azienda agricola. Agli amici di lei e ai soldi che le piace spendere. Al fatto che dovrà spiegarle tutto questo. Non del vino, ma del fatto che ha accolto qualcuno che non conosce, qualcuno che non lavora da Little Market e che ha fatto qualcosa di pericoloso, che questo qualcosa probabilmente lascia tracce e lui ha lasciato che macchiasse tutto quello che li circonda. Dovrà spiegarglielo lentamente, molte volte, e lei non capirà se non forse alla fine, dovrà spiegarle che ha avuto tra le mani la vita di qualcuno, che ha visto la differenza tra qualcosa di vero e tutto il resto, che la differenza è così grande che quasi brucia, e che questo ha poco a che fare con il pericolo, la prudenza e la logica, ma ha molto a che fare con l’accecante e improvvisa voglia di esistere, di essere qui, di provare ad essere qui per davvero, chiedersi se si è stati, anche se per poco. Forse dovrà spiegarglielo in francese, di modo che si appiccichi alle parole un po’ di quella sonorità poetica che piace tanto a chi dice di amare la letteratura, di modo che lei possa ascoltarlo attenta, così da poter almeno raccontare di aver amato qualcuno di sensibile.
    Ma lentamente tutto sfuma, Françoise, l’Alsazia, la veranda e il lago, diluiti tra il resto delle cose che importano meno del previsto, e restano Alex, il divano, al massimo l’estensione di questa stanza, al massimo Claude che lo prende per mano di nuovo, lo porta in una parte della casa che non era mai esistita, ancora più segreta, quasi sotterranea, anche se salgono otto gradini prima di entrare in una seconda stanza quadrata, una stanza ovattata di poca luce celeste, quasi impalpabile.

Claude si era quasi scordato di questo Alex. Questo Alex che vuole vivere, questo Alex straordinariamente reale, che lo guarda a lungo e poi si avvicina, gli passa le dita sul cavallo dei pantaloni, traccia lunghe linee intorno alle cuciture della zip, fino a che non si scioglie ogni cosa, ogni gesto sembra cadere al suo posto, da dove aveva senso fin dall’inizio che fosse, e Claude decide che la nostra fine non ci rende tutti uguali, ma ci rende tutti diversamente egoisti, ci spinge verso le cose che ci fanno sentire presenti, mentre il riguardo per l’altro muore contro il desiderio di essere ancora. Claude pensa, appena prima che Alex lo baci, che i loro egoismi probabilmente coincidono e gli sembra di essere immerso in qualcosa di estremamente raro, qualcosa per cui sentirsi fortunati.

 

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Capitolo 5
*** Vous êtes ***



                                                                          V O U S   Ê T E S


Alex se ne va la mattina dopo, appena prima che il quartiere si svegli, raccoglie i suoi vestiti accanto al letto e scompare fuori dalla stanza. Claude lo sa prima di aprire gli occhi, che la casa è vuota, che Alex è corso via il prima possibile, ma stavolta non per paura, è uscito con un po’ più di coraggio, un po’ più di fiducia nello scorrere fortunato delle cose. E Claude si siede sul bordo del letto e sa anche lui che ora bisogna rimboccarsi le maniche e tornare a ciò che importa di giorno, che bisogna ricostruirsi addosso delle priorità ordinarie, e sorride quando si accorge che è un po’ più facile del previsto. Tutto quello che pesa sembra cedere nella leggerezza che lascia il pensiero di essere stati capiti, anche se per poco, così poco che potrebbe non essere mai successo, ma è una leggerezza salda, che rende l’agitarsi di tutto il resto quasi credibile, quasi innocuo.
    Così Claude si alza e lascia scorrere l’acqua della doccia sul suo corpo, pensa che ha finito il pane, che ha finito il tè, che praticamente manca tutto, che è assurdo lavorare in un supermercato e non avere mai niente, allora si veste e scende le scale, vede le poche dita di vino rimaste nella bottiglia sul tavolo mentre passa nel corridoio ed esce.
    Compra tantissime cose che non gli servono, spende trentasei dollari in tutto e torna a casa. Vede il cane dei vicini e la figlia più piccola rincorrersi per la strada mentre infila le chiavi nella serratura e saluta il padre affacciato alla finestra.
Entra in casa, posa la spesa sul tavolo e guarda la cucina luminosa di sole, silenziosa e ignara, quasi ridicola. La guarda fino a che non sente bussare alla porta e il suo respiro si ferma per un istante. Torna lento in corridoio e apre la porta.
Non è chi pensava che fosse e non è neanche qualcuno che conosce. Non è qualcuno che conosce fino a che uno dei tre uomini non scosta l’impermeabile e tira fuori una pistola dalla tasca interna, la tiene puntata contro di lui, nascosta alla strada dalla stoffa marrone. Claude si guarda intorno impercettibilmente, il cane e la bambina sono scomparsi, come ogni altro segno di vita circostante.
“Spostati.”
E Claude cerca di pensare svelto ad un’opzione diversa, ma la pistola si avvicina al suo corpo e lui si sposta, gli uomini entrano con passo pesante nella casa, la porta viene chiusa con violenza dall’ultimo che prende Claude per un polso e lo trascina verso le stanze. Il più alto indica al secondo le tazze sul tavolino, l’uomo annuisce e guarda la sala con più sospetto.
“Non è qui” dice Claude.
Si voltano tutti verso di lui, quello che gli stringe i polsi li stringe con appena più forza nella sorpresa. L’uomo alto si avvicina a lui fino a che non deve abbassare lo sguardo per sorridergli.
“Lo so” dice lentamente con un tono di voce così basso che sembra quasi sussurrare.
Si allontana ed entra in cucina, sposta gli oggetti che intralciano la sua ricerca ed esce veloce come era entrato. Sale le scale con il secondo uomo e Claude si sente violato per la prima volta da quando sono entrati, li vede salire i gradini che ha salito la notte prima, in modo così diverso da come li ha saliti lui, in modo così irrispettoso e sporco che agita i polsi e si libera con uno strattone dalle mani che lo tenevano fermo. L’uomo grida e lo afferra di nuovo, poco prima che Claude arrivi alla porta, poco prima che gli altri due scendano le scale di corsa e li raggiungano pieni di una rabbia che cresce. Lo spingono a terra, con la faccia contro il tappeto spinoso e ruvido e Claude sente di nuovo la voce del primo uomo.
“L’ha lasciato qui?” La figura si china per guardarlo negli occhi.
“Hey. Lo ha lasciato qui?” ripete posandogli la canna della pistola contro la tempia.
Passano sei secondi, il metallo si stacca dalla sua pelle e l’uomo si rialza, Claude sente lo sparo prima del bruciore alla gamba sinistra, del dolore pulsante e sempre più bagnato che gli invade i muscoli. È una sensazione così strana che non riesce nemmeno ad urlare.
“Lo ha lasciato qui?”
Sente le parole ma non le capisce più bene come la prima volta, sembrano suoni lontani e lui non ha la risposta che cercano. È quasi contento di non averla.
    Questi uomini sono l’emblema di ciò che conta per tutti. Questi uomini fanno parte del paradosso che li rende i meno egoisti, i più attaccati a quello che la collettività ha deciso importante.
Sono così poco che a malapena esistono. Meglio morti che così poco reali, pensa Claude mentre li guarda, con il dolore che si espande dalle gambe alla testa e rende le loro sagome nebulose ai suoi occhi, ancora più vaghe.
“Vous êtes rien” dice dopo un silenzio di cui non capisce la durata, non sa neanche se l’ha detto davvero, sa di sicuro che lo pensa e, di sicuro, pochissime altre cose. Spera che Alex sia lontano abbastanza. Spera che non l’abbiano trovato.
    Pensa a Chad Bennet, al primo anno di liceo, che gli dice di voler morire con una pallottola in testa, pieno di una convinzione sfacciata e adolescenziale, e lui che gli risponde Chad non dire stronzate, meglio morire nel sonno o sotto anestesia, e Chad che dice che non si muore nel sonno, che il corpo che muore si sveglia, appena prima di morire, mentre una pallottola in testa non la senti, è tutto troppo veloce. E Claude vorrebbe potersi dire una persona coerente, ma quello che sente è così fulmineo che ha appena il tempo di pensare che dopotutto Chad Bennet non aveva tutti i torti. Ma che magari essere coerenti non ha niente a che fare con il restare della stessa opinione, ha più a che fare con l’agire senza alcuno strappo tra quello che si crede e quello che si fa, e morire per qualcosa gli sembra far par parte di una coerenza superiore, conclusiva. Degna. E poi di colpo diventa troppo buio per pensare.

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Capitolo 6
*** Ils sont ***



                                                                                       I L S   S O N T


Françoise era arrivata cinque minuti in anticipo, come sempre, e Rachel, come sempre, le aveva scritto che era leggermente in ritardo. Si era seduta comunque ad uno dei tavolini tondi all’esterno del locale e aveva sorriso al cameriere. Aveva passato le dita sulla stoffa bianca della tovaglia e aveva guardato per un po’ il piccolo vaso di fiori al centro del tavolo, mentre il vento caldo le passava sulla pelle e lei si pentiva di non aver messo un vestito.
La piazza era piena di turisti. Due bambini correvano intorno alla fontana e Françoise riusciva a sentire le risate echeggiare acute fino all’inizio della strada.
   Rachel le aveva fatto un cenno con la mano da lontano ed era arrivata al tavolo senza fretta, con un sorriso familiare.
L’aveva baciata su una guancia e si era seduta davanti a lei.
“Non hai ordinato niente?”
“No, sono arrivata poco fa.”
“Ah, menomale. Lo sai che odio fare aspettare le persone.”
Françoise le aveva sorriso e avevano chiamato il cameriere, avevano ordinato due drink abbastanza costosi da farle sentire di buon gusto e nell’attesa Rachel le aveva raccontato di come la sorella del suo ragazzo fosse molto più simpatica di quello che credeva. Che magari l’aveva giudicata troppo in fretta, che solo perché non si truccava mai, anche se a suo modesto parere avrebbe decisamente dovuto, non significava per forza che fosse strana. Strana no, ma di sicuro, anche se simpatica, non assomigliava per niente a suo fratello, tanto che Rachel all’inizio si era chiesta se non fossero fratellastri. Ma non lo erano, erano proprio fratelli, anche se così diversi fisicamente, ma dopotutto chi era lei per giudicare, se erano fratelli erano fratelli.
Françoise aveva atteso con una strana esitazione la virata di argomento su di lei, il momento in cui l’ego finge di farsi da parte e si fa carico del ruolo di amica, interessata soprattutto a come va la vita dell’altra. Solitamente Françoise non aveva niente di particolare da raccontare, se non una stabilità monotona, di cui le sue amiche si dicevano gelose. Una calma sentimentale. Le chiedevano di Claude e lei non aveva niente di scandaloso da dire, perché Claude era una persona di sani principi, che non le aveva mai mancato di rispetto ed erano tutti così contenti che lei avesse trovato qualcuno di così onesto. E certamente era cominciato un periodo di stanchezza, ma insomma si volevano bene, e sì, litigavano più spesso, ma anche questo le pareva fosse diventato parte di qualcosa di stabile.
   Eppure ora non sapeva se raccontare una sua recente perplessità o se includerla nelle banali incomprensioni che fanno parte della normale vita di coppia.
I bambini avevano immerso le braccia nell’acqua fredda e avevano gridato, di gioia o di stupore.
“Claude è strano.”
Rachel aveva preso la cannuccia tra le labbra e l’aveva guardata con le sopracciglia aggrottate.
“Credo che si droghi.”
Le parole le erano uscite di bocca con tono assente. Non aveva staccato gli occhi dalla fontana, e non aveva visto lo sguardo di Rachel, tra lo scioccato e l’incredulo, che posava il bicchiere sul tavolo e spostava la sedia appena un po’ più vicina a lei.
“Parliamo di canne o roba pesante?”
“Non lo so. La settimana scorsa c’era questo ragazzo, è arrivato a casa sua e ha detto che lo voleva salutare, non voleva entrare perché c’ero anch’io. E non mi hanno detto come si sono conosciuti. Claude ha cercato di inventarsi qualcosa, poi se ne sono andati in un’altra stanza e sono tornati ridendo.”
“Erano fatti?”
“No, no, se ne sono andati per meno di un minuto, per dirsi qualcosa, per mettersi d’accordo.”
“Oh cazzo. E tu non l’avevi mai visto?”
“No, mai. Le persone che frequenta le conosco, si contano su una mano. Questo era diverso. Aveva i capelli cortissimi, sembrava che non dormisse da mesi, era vestito come un tossico.”
“E Claude non aveva paura?”
“Ma no, non sembrava pericoloso. Ci abbiamo giocato a monopoli.”
“Come?”
Françoise si era spostata appena sulla sedia.
“È stato un po’ con noi. Un’ora, forse due. Poi se n’è andato.”
“Hai giocato a monopoli col suo spacciatore?”
“Non lo so se è il suo spacciatore. Si guardavano come se si conoscessero.”
“Beh, certo che si conoscono.”
“No, come se... come se si conoscessero. Non so come spiegartelo. Come se fossero preoccupati l’uno per l’altro.”
Rachel si era allontanata di poco come per guardarla meglio. Poi aveva alzato le sopracciglia e aveva sospirato con perplessità.
“Beh, lo dicevo che era troppo perfetto.”
Aveva accavallato le gambe con fare tranquillo.
“In ogni caso poteva andarti molto peggio. Qualcosa doveva succedere prima o poi.”
Françoise aveva annuito appena, guardando la tovaglia bagnata intorno al suo bicchiere.
“Immagino di sì.”
“Vedrai che gli passa. Fanno tutti così, vogliono sentirsi trasgressivi.”
Si era stretta nelle spalle quasi scocciata.
“Daniel ha fregato il telefono a uno con cui va in palestra. L’ha venduto a un suo amico, l’ha scambiato con qualcosa, non lo so. Sono maschi, non puoi farci niente. Almeno Claude è gentile.”
“Macché, è stato uno stronzo. Ieri l’ho chiamato due volte e non mi ha ancora richiamata.”
“Ecco. Che ti dicevo. Lascialo perdere per un po’. E stasera io e te usciamo. Devi distrarti.”
Si erano strette la mano ridendo e Rachel aveva cominciato a parlare di un posto in cui doveva portarla assolutamente, un posto che faceva buona musica, non la solita roba da discoteca, il mese scorso era venuto anche uno famoso, un chitarrista jazz, e anche se c’è buona musica in fondo è proprio come essere in discoteca, c’è un sacco di gente che balla e tutto, ma in ogni caso lei ci andava per il barista, il barista era indescrivibile, era di una bellezza ridicola, ma non c’era bisogno che lo dicesse perché Françoise l’avrebbe visto quella sera e avrebbe capito. Così aveva smesso di parlare del barista e aveva cominciato a chiederle che avrebbe fatto quell’estate, perché lei aveva cominciato a pensare al Marocco o al Portogallo e se riuscivano ad organizzarsi sarebbe stato grandioso andare insieme, anche se certo avrebbero dovuto decidere in fretta, era già quasi aprile e si sa che prima si prenota più le offerte sono vantaggiose, per non parlare del fatto che sarebbe stato meglio affittare una casa se pensavano di rimanere più di una settimana, e lei sicuramente lo pensava, perché stare meno di una settimana è praticamente come non essere partiti.
   Alle orecchie di Françoise erano arrivate alcune parole dei ragazzi del tavolo accanto, le era parso di sentire qualcosa a proposito di una vacanza, qualcosa su un posto spettacolare, le era sembrato che stessero parlando proprio della stessa cosa, si era guardata intorno e aveva visto la gente, viva e chiassosa, circondarla in un parlare universale, tutti della stessa cosa, perfino i bambini della fontana, che erano scomparsi, sostituiti da nuovi bambini della fontana, anche loro eccitati riguardo a una vacanza, loro direttamente all’interno di una vacanza, un andare, un fare frenetico.
   Ma Rachel le aveva agitato una mano davanti agli occhi, aveva riso della sua distrazione e Françoise era tornata ad ascoltarla, a dirle che avrebbe dovuto parlarne con Claude, ma le sembrava che non ci fossero problemi, perché Claude dopotutto non aveva mai particolari obiezioni, anche se questo, certo, a volte le dava fastidio, ma Rachel diceva che doveva essere contenta di avere così tanta libertà, e magari era così. Magari era così.

Avevano pagato e si erano alzate, erano passate lente tra le chiacchiere, fino ai bambini che avevano toccato l’acqua anche loro, e Françoise, così vicina, aveva sentito di nuovo il grido nell’aria invadergli le orecchie, stavolta più profondo, quasi uno schiaffo, quasi un allarme, poi l’aria si era ricomposta dei suoni calmi del pomeriggio, del vociare, così denso, quasi una melma materna che la culla e la fa sentire protetta in qualcosa che conosce, una folla di menti comuni, impenetrabile, lei non deve far altro che lasciarsi trascinare, essere portata dal magma che ci rende tutti un'unica tranquillità sedata, un universale aggrapparsi, un identico gioco alla vita.

 

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