La fragilità di un sogno

di Carme93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo unico ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 
 

 
Giugno 1896,
Asmara
 
 

Cipiglio fermo e occhi profondi, che scrutano alteramente, risaltano su un viso ormai incartapecorito, che affiora da un oscuro sfondo grazie a una luce proveniente da sinistra, tanto che una parte rimane in ombra. Tutto volto, potremmo dire; tutto in quell’espressione combattiva, meglio ancora.

Chissà se Francesco Crispi abbia mai avuto la possibilità di ammirare quel dipinto di Franz Von Lenbach, custodito al Kunsthistoriches di Vienna.

Chissà se Otto von Bismarck sia diventato esempio e modello di Crispi alla visione del suddetto dipinto o solo molti anni dopo, nel 1887, a Friedrichrush quando si incontrarono per la prima volta tessendo fatidici legami fra i loro paesi.

Giuseppe Balestrieri, giovane ufficiale dell’esercito italiano di stanza in Africa, non avrebbe saputo dirlo, dopotutto prima che la Storia lo travolgesse non era altro che un ragazzo del Sud – proprio come Crispi, ma questo sembravano dimenticarlo tutti -, un napulitan come dispregiativamente lo definivano i compagni e i superiori; con troppi ideali e sogni per la testa, un sognatore per suo padre che l’aveva spinto ad arruolarsi proprio perché imparasse a vivere in modo concreto.
Egli, nominato da poco Capitano, non era di certo uno sprovveduto: il padre, nobile decaduto, aveva preteso per il figlio la migliore delle educazioni e per contrastare la sua natura, da lui ritenuta eccessivamente romantica e sensibile, l’aveva inviato alla Scuola Militare di Modena e, in seguito, gli aveva concesso di recarsi a Vienna per qualche tempo. Avendo letto i migliori trattati tedeschi e quelli più antichi di ars bellica e di strategia, il giovane Capitano Balestrieri era pienamente consapevole degli errori compiuti in passato dai generali italiani e che, di fatto, continuavano a compiere: dividere l’esercito già numericamente inferiore a scapito della compattezza era una mossa fermamente riprovata, ma era proprio la strategia seguita a Custoza dal generale La Marmora, stoltamente imitato da Oreste Baratieri, fino a una manciata di mesi prima generale in carica dell’esercito italiano in Africa, e per un mero colpo di fortuna la decisiva battaglia di Adua non si era risolta in una totale disfatta; i comandanti italiani tendevano a esaltarsi troppo facilmente all’idea di compiere dimostrazioni energiche, che il più delle volte si rivelavano fallimentari; ma i loro difetti peggiori erano la dispersione del comando, le beghe e le gelosie che nascevano tra i capi.
Nonostante ciò erano riusciti a conquistare Adua e si preparavano a marciare su Addis Abeba, caduta la quale avrebbero potuto dire di aver conquistato l’Etiopia.


I tentativi di fondare delle colonie in Africa erano molto più antichi di quanto si credesse, poiché vi fu quello compiuto dal conte Camillo Benso di Cavour nel 1861 sulla costa della Nigeria e nell’isola portoghese del Principe, ma Inglesi e Francesi si erano nettamente opposti. Finalmente nel 1882 l’Italia aveva acquistato la Baia di Assab dalla Compagnia di Navigazione Rubattino, in seguito si era accordata con la Gran Bretagna per l’occupazione del porto di Massaua, possedimenti denominati in seguito Colonia Eritrea. A quel punto era iniziata la vera e propria avanzata italiana nel corno d’Africa, lenta e difficile, soprattutto più volte ostacolata dalla tenacia dei difensori indigeni - tenacia che il governo italiano si era ostinato a ignorare –, tanto da protrassi per più di quindici lunghi anni: la sconfitta di Dogali, pesante ferita inferta all’onore e all’esercito; l’accordo con l’Egitto per una parte della Somalia; il trattato di Uccialli del 1889, una delle cause che porteranno alla guerra successiva tra l’Italia e Menelik, imperatore d’Etiopia.
Le grandi potenze europee non erano rimaste a osservare in silenzio e non sempre avevano apprezzato le mire espansionistiche italiane, specialmente si vociferava che la Francia e la Russia avessero addirittura provveduto ad armare Menelik.
 
Francesco Crispi, però, forte del suo passato garibaldino, non bramava altro che emulare il suo mito Otto von Bismarck, cancelliere prussiano. Crispi non si era lasciato intimidire ed era andato avanti anche contro la volontà di molti e nonostante le difficoltà materiali nel mantenere un esercito adeguato nel continente africano. Non per nulla persistenti erano state le richieste del generale Baratieri di aiuti economici e di uomini. Crispi non aveva potuto rispondere munificamente quanto avrebbe voluto, benché non gli mancasse il supporto di re Umberto; certo che non avesse visto di buon occhio i successi altalenanti ottenuti dal generale prima della vittoria di Adua, perciò mentre Baratieri si lanciava in ultimo disperato attacco, di fatto non autorizzato, la mattina del primo marzo, il suo successore, Antonio Baldissera, era già in viaggio.
 
Questo quadro storico e politico non era oscuro a Giuseppe Balestrieri, che, nonostante il braccio ferito appeso al collo, quella calda mattina non aveva mancato di recarsi in quello stanzone polveroso in cui il Tribunale Militare aveva deciso di riunirsi: il generale Oreste Baratieri sarebbe stato posto sotto giudizio per non aver rispettato gli ordini avuti direttamente da Roma e per una serie di altre mancanze commesse durante gli ultimi avvenimenti.
 
Tutti i soldati si stavano stipando bramosi di assistere e comprendere che cosa sarebbe accaduto. Chi l’aveva amato e chi odiato in quei lunghi mesi di guerra, ma ognuno era in attesa che qualcosa accadesse, d’intuire quali sarebbero state le successive mosse del comando, mentre iteratamente si avvistavano navi battenti bandiera inglese nel mar Rosso, a pochissima distanza da Massaua. Nessuno era all’oscuro dello sfarzoso trionfo che era già stato celebrato a Roma, i contatti presi da Crispi con le maggiori potenze europee e di come la Triplice Alleanza fosse sempre più salda.
Il Capitano Balestrieri era particolarmente interessato all’esito del processo in quanto consapevole che la sua vita dipendesse dall’attuale generale in carica Antonio Baldissera: per Oreste Baretieri non altro che un testimone fin troppo scomodo di quanto avvenuto alle calende di marzo. La maggior parte degli ufficiali aveva perso la vita ad Adua e di certo non avrebbe potuto testimoniare. Nonostante la vittoria finale lasciasse presagire che Baratieri sarebbe stato assolto, vi erano stati alcuni episodi che non potevano essere ignorati dalle alte cariche militari, per quanto Baldissera, in un colloquio privato, avesse assicurato al giovane Capitano che il governo non desiderasse altro che chiudere la questione al più presto e concentrarsi esclusivamente sull’imminente presa di Addis Abeba – almeno era quello che lasciavano credere, benché la realtà fosse ben diversa – e sulla costruzione di un vero e proprio impero che avrebbe elevato l’Italia nel novero delle grandi potenze europee, non più una comparsa dello scenario internazionale.
Inoltre Baldissera gli aveva assicurato di non dover temere nulla da quel processo: Baratieri voleva chiudere la questione e ritirarsi come generale vittorioso. Questo era chiaro a tutti e Balestrieri stesso l’avrebbe compreso senza l’aiuto di Baldissera, ma si diceva che Baratieri fosse un uomo meschino, moralmente infido e fin troppo fortunato. E Adua l’aveva dimostrato. Perciò era meglio non fidarsi e assicurarsi di persona che la questione si chiudesse realmente.
 
L’ingresso di Oreste Baratieri nello stanzone ebbe l’effetto di zittire i soldati vocianti quasi più della giuria.

Il generale Bacci, avvocato generale dell’esercito, si alzò ed elencò le accuse rivolte a Baratieri: la scelta di attaccare senza autorizzazione da Roma, tagliando ogni contatto con la sede italiana di Massaua; abbandono delle truppe nel momento di maggior criticità; perdita ingente di uomini; evidenti e gravi errori strategici.

Si diceva che Baratieri avesse trascorso un giorno intero rinchiuso nella sede di Massaua per concertare una lettera da mandare a Roma per giustificare immediatamente alcune mancanze di cui inevitabilmente veniva ora accusato. Cosicché quando gli fu concessa la parola i soldati presenti sembrarono tendersi maggiormente e anche Balestrieri era decisamente curioso di sapere come si sarebbe difeso.

Baratieri si sistemò il monocolo sull’occhio e arricciò i baffi: era nervoso. Rispose punto per punto alle accuse rivoltegli e concisamente: l’occasione di attaccare si era profilata inaspettatamente e non aveva avuto la possibilità di chiedere direttive, inoltre non aveva preso la decisione da solo ma, in pieno spirito democratico, gli altri generali avevano dato il loro consenso – per di più il generale Giuseppe Edoardo Arimandi era stato quello più favorevole, arrivando persino ad accusare il proprio superiore di codardia! Lo stesso Arimandi che ad Amba Alagi aveva disobbedito agli ordini! -

Un forte mormorio si levò a quelle parole: non solo aveva tirato fuori un vecchio episodio – tanto che persino alcuni giudici si incupirono – ma aveva appena nominato uno di coloro che si era sacrificato ad Adua e di certo non era più in grado di difendersi.

A quel punto, ignorando totalmente le altrui reazioni, Baratieri riprese affermando di aver chiaramente dato ordine di posizionare i telegrafi ottici e i soldati incaricati aveva disobbedito.
Balestrieri si stancò presto di ascoltarlo, specialmente nel momento in cui iniziò a incolpare i soldati se l’esercito era quasi andato incontro a una sconfitta. Nulla di nuovo per i comandanti italiani insomma. Il giovane Capitano si diede dello stolto per essersi preoccupato talmente tanto da voler assistere a quella farsa giudiziaria, ma la verità era che Adua era stata la sua prima vera battaglia. Il suo battesimo di sangue. E se la strategia lo aveva sempre attratto e stuzzicato, non si poteva affermare altrettanto della guerra in sé e per sé. In più egli era perfettamente a conoscenza di quanto accaduto quel giorno: Baratieri si era creduto furbo dividendo l’esercito in tre parti, comandate rispettivamente dai generali Albertone, Arimandi e Darbomida, con una squadra di riserva guidata da Ellena. Lo scopo naturalmente era quello di prender di sorpresa il nemico, ma, aspetto su cui stavano glissando sia Baratieri sia il Tribunale, ai contingenti era stata consegnata una mappa approssimativa e sostanzialmente errata della zona. Questo avrebbe potuto essere fatale insieme all’impulsività e alla mancanza di compattezza dell’esercito. O meglio, lo sarebbe stato se non avessero avuto un colpo di fortuna. Le tre colonne avrebbero dovuto rincontrarsi e ricongiungersi sulla linea formata dai colli Rebbi Arienni, Monte Raio e Chidane Meret, peccato che quest’ultimo fosse ben più distante di quanto si fosse ritenuto. Albertone perciò si era ritrovato ben presto troppo distante dalle altre due colonne.
Il caso volle, però, che poco tempo prima Balestrieri avesse salvato un bambino indigeno durante uno scontro e che questi li avesse seguiti, così aveva avuto la possibilità non solo di avvertirli della trappola in cui stavano cadendo, ma anche di guidarli in modo che riuscissero a ricongiungersi con i compagni e ad attaccare alle spalle i nemici, evitando quelli in loro attesa.
Baldissera, appena preso il comando, pochi giorni dopo la battaglia, aveva saputo dettagliatamente che cosa fosse accaduto e di come Balestrieri e un’altra manciata di soldati fossero riusciti in seguito a ricompattare l’esercito costringendo gli Abissini a battere in ritirata. Baldissera aveva anche compreso il valore e la preparazione di Giuseppe Balestrieri, ponendolo sotto la propria ala protettiva. A quel punto il giovane, però, non sapeva che cosa aspettarsi.

Quel che certo, però, era che l’Italia, con molte perdite e sacrifici, era riuscita a conquistare l’Etiopia o almeno era sul punto di farlo.
Un nuovo impero presto sarebbe stato creato.


 
Il sogno di Crispi, il sogno di re Umberto.

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Capitolo 2
*** Capitolo unico ***


Capitolo unico
 
 


Agosto 1901,
Addis Abeba
 
 


Il chiarore dell’alba rischiarò lentamente l’interno di un edificio, sfiorando anche il viso di un uomo inginocchiato di fronte a un crocefisso: Giuseppe Balestrieri si fece il segno della croce e si alzò. Non era mai stato un tipo eccessivamente religioso, nonostante da piccolo fosse stato costretto a frequentare la scuola domenicale, ma, specialmente nei momenti più critici, gli dava un certo conforto pregare nel silenzio di quella piccola chiesa, Debre Maryam, costruita per volere dell’imperatore Menelik e consacrata al culto cattolico romano alla presa della città da parte degli Italiani.
Balestrieri uscì nel portico e, nonostante gli avesse visti già migliaia di volte, non poté trattenersi dal rimirare gli splendidi affreschi che lo decoravano. Non si poteva negare che gli Abissini, per essere una nobile stirpe di guerrieri, possedessero un certo gusto artistico.
 
In quella stessa chiesa, più di vent’anni prima, il Menelik era stato incoronato e di certo non avrebbe mai immaginato che sarebbe diventata un luogo di ritrovo spirituale per il nuovo governatore di Addis Abeba.
 
Il cielo era sempre più chiaro e presto il giorno sarebbe sorto. E quello non era un giorno qualsiasi. Balestrieri avanzò tra gli eucalipti di cui era ricco il monte Entoto, il polmone dell’Etiopia, e raggiunse un anfratto da cui di consueto osservava la capitale dell’impero italiano stendersi ai suoi piedi.
Addis Abeba era stata fondata per volontà della regina Taytu, moglie di Menelik. Prima della conquista non era altro che un villaggio di notevoli dimensioni, ora risaltava immediatamente agli occhi la mano occidentale: cardo e decumano si incrociavano nella zona centrale e nella luce soffusa si intravedevano molti edifici ancora in costruzione. L’occhio, però, era attratto da masse indistinte e caotiche apparentemente pronte a travolgere ogni cosa: alcune abitazioni erano circolari con il tetto spiovente o piatto e sporgente, alcune, sempre circolari, realizzate con fango, letame, legno e paglia ricavata dal teff, altre, in pietra, avevano una pianta quadrata o circolare con il tetto di terra, la cui particolarità era una brocca di ceramica rotta posta proprio in cima a esso per permettere al fumo prodotto dal focolare. Abitazioni tradizionali dei nativi che tenacemente resistevano agli invasori.
 
A noi. A me, pensò amaramente il giovane governatore.
 
Erano trascorsi a malapena cinque anni dalla decisiva e sanguinosa battaglia di Adua e in quel lasso di tempo fin troppi soldati si erano sacrificati.
Balestrieri sospirò al pensiero di quella guerra tragicamente infinita, mentre in Italia la gente credeva di avere un vero e proprio impero di cui vantarsi, tanto che alcuni millantavano di aver superato persino Gran Bretagna e Francia.
Eppure la realtà era ben diversa: non solo avevano impiegato più di tre anni a conquistare Addis Abeba, ma c’erano molte frange ribelli causa di continue rappresaglie.
 
Balestrieri sospirò nuovamente, decidendo di avviarsi: era il momento d’iniziare quella giornata. I suoi collaboratori sicuramente lo stavano attendendo.
Sfiorando le foglie degli eucalipti, il giovane non poté fare a meno di pensare quanto fosse bella quella terra che in quegli anni, grazie anche ai vari incarichi ricoperti,  aveva avuto la possibilità di visitare: i laghi, come quello di Tana, su cui si scorgevano spesso basse e sottili barchette di legno, tanto diverse da quelle a cui era abituato fin da bambino; le maestose cascate del Nilo Azzurro; le sorgenti calde, come quelle vicine di Filwoha, che aveva avuto modo di provare personalmente; fiumi in cui aveva visto per la prima volta i coccodrilli, addirittura in un’occasione tre, di grandezza impressionante, che circondavano un bianco airone. Si era sentito così piccolo e impotente di fronte alla potenza della natura che non aveva potuto non chiedersi come i suoi compagni non se ne accorgessero. Aveva persino tentato di chiedere a Baldissera, il quale, fissatolo con un sorriso divertito, l’aveva definito ‘un giovane dall’animo eccessivamente sensibile, ma intelligente e colto abbastanza per comandare’.

«Signor Governatore, l’attendono per la colazione».

Come aveva previsto un soldato era stato inviato a cercarlo. Balestrieri annuì distrattamente e lo seguì.

Sull’ultimo gradino della scala a chiocciola che portava all’ingresso dello spartano palazzo imperiale, una volta appartenuto a Menelik, trovò Nyala, il bambino, ora ragazzino, che li aveva salvati ad Adua. Da allora lo aveva seguito dappertutto finché non aveva deciso di tenerlo con sé per evitare che apparisse improvvisamente nei momenti più inopportuni e pericolosi. Il ragazzino aveva imparato abbastanza bene l’italiano anche se spesso mescolava parole in aramaico.
Non aveva idea del perché gli si fosse affezionato tanto, considerando anche che all’inizio si era mostrato molto brusco e scorbutico nella speranza di allontanarlo. Non era stata crudeltà, era giovane e fin troppo coinvolto dalla guerra e non gli mancavano gli attacchi di nostalgia: il mar Rosso non era mai abbastanza azzurro quanto il Mediterraneo, non era mai abbastanza limpido…  

Il palazzo del Menelik era diventato ora la sede del governo italiano in Etiopia, quella centrale continuava, però, a essere Massaua considerata decisamente più sicura. La struttura aveva una forma vagamente cilindrica e di gran lunga differente dai palazzi del governo in Italia, ma una tale scelta simbolica era stata considerata fondamentale da Balestrieri: la popolazione avrebbe compreso molto prima che gli Italiani si erano sostituiti al loro vecchio negus.

La colazione, come ogni altro pasto, veniva servita nella stanza più ampia del palazzo, chiamata da tutti salone benché non ne avesse l’aspetto. I collaboratori e i soldati, destinati alla difesa dell’area, come di consueto, lo attendevano per mangiare.

«Buongiorno» salutò e gli altri ricambiarono prontamente.

La colazione fu frugale: era difficile far arrivare rifornimenti dall’Italia sia per i lunghi tempi di viaggio sia perché le navi inglesi spesso ostacolavano le loro.
Balestrieri per conto suo si era abituato all’injera, pane acidulo tipico della zona, ma aveva sentito frequentemente i compagni lamentarsene.


Concluso il parco pasto, si diresse nuovamente all’esterno e fu immediatamente seguito da Nyala. Quel ragazzino era molto silenzioso e rispettoso. A volte si dimenticava anche di essere in sua compagnia, ma risultava sempre utile come traduttore.

Le scuderie si trovavano sul retro del palazzo e un servo aveva già provveduto a preparare i cavalli. Il palazzo distava otto chilometri dalla città.
Il governatore montò a cavallo e allungò una mano per aiutare Nyala a salire dietro di lui.
Considerato il suo titolo, Balestrieri non poteva mai muoversi da solo così anche quella mattina fu un piccolo drappello che si diresse al trotto verso Addis Abeba.

Lungo il tragitto incontrarono parecchi pastori anziani e bambini, che rivolsero loro sguardi timorosi. La verde montagna era puntellata da case in pietra con tetto sostenuto da un palo centrale che spuntavano tra gli eucalipti.
Poco fuori Addis Abeba superarono una donna carica di legna che doveva aver disceso la montagna a piedi. A Balestrieri salì un groppo in gola rammentando le contadine chine da mane a sera nei campi sotto il sole brucente. Il viso di quella donna era giovane e piacevole, ma contratto dalla fatica. Ella mantenne lo sguardo fisso a terra, mentre le passavano accanto. La maggior parte lo faceva per timore, ma talvolta coglieva occhiate di sfida. Nonostante tutto gli Etiopi erano un popolo orgoglioso e questo feriva Balestrieri, proveniente da una terra povera e bistrattata: si sentiva responsabile di quanto quella povera gente stava patendo benché si stesse limitando a eseguire gli ordini. Strinse le redini e rallentò. Avrebbe voluta aiutarla, ma non poteva: la sua posizione non glielo consentiva e, comunque, ella non avrebbe mai accettato il suo aiuto. Non l’aiuto dello straniero.

Sospirò e fece cenno ai suoi, che avevano rallentato a loro volta, di procedere. Balestrieri aveva progettato di compiere una rapida ispezione della città, visto che da lì a qualche ora sarebbe giunto Baldissera.
Una volta all’interno della città consegnò il cavallo ad alcuni soldati di ronda e procedette a piedi, concordando con i compagni che si sarebbero rivisti nella piazza centrale da lì a un’ora.
Ormai il sole brillava caldo e luminoso nel cielo. Arrivando in Africa Balestrieri si era aspettato di trovare un clima afoso ancor peggio di quello di casa, ma si era dovuto rendere conto che non tutte le zone erano uguali. Le temperature in Etiopia erano più che sopportabili, unico problema erano le frequenti piogge. Fortunatamente quel giorno il sole splendeva e non vi era neanche una nuvola all’orizzonte.
Il governatore s’incamminò lungo a via sperando che fosse tutto in ordine e pronto per accogliere Antonio Baldissera, non più semplicemente generale dell’esercito ma il braccio destro di Crispi in terra africana. Quel giorno la nuova chiesa di Addis Abeba sarebbe stata consacrata alla Madonna dell’Assunta, alla quale si attribuiva la vittoria finale e la presa della città.
In realtà la chiesa era ancora in costruzione e ben al di là della conclusione, anche perché Crispi pretendeva che fosse sontuosa affinché simboleggiasse la maestosità dell’impero italiano. Inoltre gli uomini locali, costretti a lavorare, non avevano fretta e vi erano profonde difficoltà di comunicazione più o meno volute. Nonostante ciò il governatore considerava ammirevole la testardaggine con cui procedeva l’ingegner Sebastiano Castagna, che aveva prestato a lungo servizio nell’esercito.
L’intero centro si poteva dire figlio del Castagna, che si era decisamente sbizzarrito principiando dalla pianta romana della città fino agli edifici progettati fin nei minimi particolari.  

La via principale era dedicata a re Umberto, ucciso un anno prima. La sua morte era stata un grosso problema per loro: il suo successore Vittorio Emanuele III non sembrava più molto entusiasta di quell’impresa africana. E come dargli torto? Gaetano Bresci si era recato in Italia dagli Stati Uniti per vendicare i morti di Milano del 1898. E la rivolta sedata a sangue dal generale Bava Baccaris era stata causata da una tassa sul macinato, tassa che dipendeva dalle spese eccessive richieste dal mantenimento dell’esercito in Africa. E la situazione in Italia nel frattempo non era migliorata. Il Governo aveva incoraggiato l’emigrazione verso la nuova colonia e, specialmente molta gente del Sud, aveva accettato nella speranza che veramente sarebbe stato un cambiamento epocale. La maggior parte se n’era pentita.

In mezzo a una seria di uffici, lungo la via Umberto vi era l’ampio cantiere della Chiesa dove gli operai stavano sgombrando in modo che Baldissera e il suo seguito potessero raggiungere la piazza principale senza smontare da cavallo. Lì vicino vi era quella che avrebbe dovuto essere la caserma. Andando avanti si trovava una scuola per i figli degli emigrati e le case, una per ogni famiglia – il premio per aver mollato tutto e seguito il glorioso sogno imperiale di Crispi -, con un appezzamento terriero sul retro.

La strada era affollata e ancor di più la piazza centrale, dedicata alla regina Margherita, in quanto fervevano i preparativi per la messa di consacrazione e ringraziamento che sarebbe stata celebrata all’aperto.
Balestrieri ne approfittò e si avvicinò al Capitano che sovrintendeva all’ordine pubblico. «Baldissera dovrebbe arrivare in mattinata» gli disse.

«Non si preoccupi, è tutto in ordine».

«N’è sicuro?».

«I miei uomini circonderanno tutta la città nuova. Non ci saranno interruzioni spiacevoli».

Balestrieri annuì e lo congedò. Non era convinto, ma non poteva farci nulla. D’altronde il Capitano Marchesi era molto più anziano ed esperto di lui e, nonostante la sua rapida carriera, sul campo per un soldato contava ancora l’esperienza.
Nyala lo tirò per la manica. Balestrieri si voltò verso di lui interrogativo.

«C’è Liya».

Una giovane donna con una veste colorata li fissava intensamente. Il governatore la conosceva bene e non era sicuro di essere contento di vederla proprio quel giorno: avrebbe potuto portare buone notizie, come no.
Ma che li aspettasse, fu subito evidente quando si mosse verso di loro appena il Capitano fu abbastanza lontano. Nyala era sempre contento di vederla e parlarle, probabilmente perché era un oromo come lei.

Balestrieri la salutò con un lieve cenno del capo. «Liya». Era poco più di una ragazzina e aveva splenditi e delicati lineamenti.

La ragazza fece un lieve inchino e pronunciò alcune frasi in aramaico che Balestrieri non comprese benché in quegli anni avesse imparato a comunicare in modo elementare. Si voltò verso Nyala e il ragazzino si affrettò a tradurre: «L’anziano Panya vuole vederla».

«Adesso?».

Nyala rivolse la domanda a Liya e poi rispose. «Sì».

«Dille che non è possibile. Andrò domani».

Il ragazzino obbedì, ma ella non sembrò felice e pronunciò una serie di frasi concitate.

«La sta aspettando».

Balestrieri non era per nulla contento, ma Panya era uno dei pochi anziani a benvolerlo. Annuì e precedette i due verso l’ala vecchia della città, quella ancora completamente in mano ai nativi.
La parte più spettacolare di quella zona era senz’altro il Merkato, una vasta zona commerciale all’aperto, popolato da gente di tutte le etnie intenta a vendere mercanzie, prodotti della terra, legna di eucalipto. Probabilmente c’era anche la donna che avevano incontrato arrivando in città. Ormai conosceva a memoria il luogo. E sebbene gli fosse stato consigliato più volte di non andarci senza soldati, egli di solito vi si avventurava in compagnia di Liya. Non aveva paura, tutti sapevano ormai che, quando era con la ragazza, il vecchio Panya lo attendeva. E per gli Etiopi la famiglia era fondamentale, così come il rispetto per gli anziani, per eccellenza portatori di saggezza. Balestrieri non era sicuro che fosse così, visto che, per esempio, suo padre, convinto sostenitore di Crispi, pensava ancora di trasferirsi in Africa nonostante gli avesse spiegato più volte la reale situazione. Panya, però, era veramente saggio.
Balestrieri seguì Liya dentro una casa realizzata con tronchi di legno e il tetto di paglia e, alla vista dell’anziano Panya, si chinò il capo in modo formale.

«Per quanto vorrei non posso trattenermi a lungo oggi, come saprà a breve arriverà il generale Baldissera» disse facendo cenno a Nyala di tradurre e sperando che lo facesse bene, non aveva alcuna intenzione di offendere il vecchio, ma di solito il ragazzino fortunatamente era bravo e affidabile.

«Dice che voi occidentali volete sempre guadagnar tempo, ma il tempo non si può raccogliere in orci» gli comunicò Nyala.
Si era sentito rivolgere tante volte quell’accusa che ormai c’era abituato. Di certo avevano una concezione della vita diversa. Lo stesso Nyala aveva difficoltà ancora ad adattarsi ai tempi da lui scanditi.
Non avendo altra scelta si accomodò in attesa che la moglie di Panya servisse il caffè. Quello era un vero e proprio rito. Il caffè veniva sempre servito dalla padrone di casa in piccole tazzine senza manico e non si fermava finché tutte non fossero state tutte piene. Il caffè veniva servito tre volte, ogni giro aveva un nome: Awel il tigrino, il primo; il secondo kale’i e il terzo bereka, benedetto. L’odore d’incenso, bruciato appositamente per l’occasione, pizzicò il naso di Balestrieri e di Nyala.
La prima volta che era stato invitato a quel rituale il giovane governatore per poco non aveva bevuto senza aspettare gli altri, ma Nyala l’aveva salvato in tempo dalla figuraccia.
 
Bevvero lentamente il primo giro e subito dopo la signora iniziò a riempire nuovavente tazzine le tazzine. Come prenderle poi! Balestrieri avrebbe mentito se avesse dichiarato di trovarlo semplice: il caffè era caldo e il calore naturalmente si propagava anche alla ceramica ed era un vero problema stringere la tazzina tra le mani.

«Quando permetterete agli uomini giovani e forti di tornare?» la traduzione di Nyala lo prese quasi di sorpresa e capì perché l’anziano l’aveva voluto lì. La risposta del Governo alle rappresaglie dei ribelli era stata quella di allontanare gli uomini, specialmente quelli più turbolenti, e portarli in campi di rieducazione oppure, se avevano compiuto dei crimini, messi ai lavori forzati nelle nuove piantagioni di cereali, orzo, sorgo e teff fuori dalla città. In zone più lontane persino di mais e cotone, mentre in Eritrea venivano impiegati nell’estrazione del salgemma.

«Non rientra nella mia giurisdizione» sospirò allora Balestrieri.

Terzo giro di caffè.

«La gente è scontenta. Le donne vogliono disturbare la cerimonia e far sentire la loro voce al vostro generale».

C’era da immaginarselo.

«Le forze militari sono spiegate al massino. Non fatelo, spareranno». L’avevano già fatto più volte ed egli come avrebbe potuto opporsi di fronte a Baldissera? Le azioni di forza erano quelle preferite nel corno d’Africa e la sua era solo una voce fuori dal coro.

«Parla con il tuo generale. Abbiamo bisogno dei nostri uomini. Noi non vogliamo la guerra».

Nyala gliel’aveva spiegato: per gli Oromo era importante l’armonia, che chiamavano gada, ossia l’assenza di conflitti sociali e clanici.
«Lo farò» concesse. «Ma voi invitate la vostra gente alla calma». Finì il caffè e accolse con sollievo il congedo.

Liya li accompagnò nuovamente fino alla piazza e poi si allontanò rapidamente.

«Signore, signore. Il generale è qui».

Balestrieri fece un cenno d’assenso al giovane soldato e si avviò verso l’ingresso della città. Una folla lo attendeva: Baldissera era lì.

«Ti devo parlare» lo accolse concitatamente quest’ultimo tirandolo in disparte, senza dargli neanche il tempo di salutarlo in modo conveniente.

Il giovane dubitava che fosse seccato per l’attesa, Baldissera era un tipo pratico, in più sembrava realmente turbato.

«Ho ricevuto il messaggio questa notte» iniziò Baldissera. «Francesco Crispi è morto tre giorni fa».

La notizia colse Balestrieri di sorpresa. «E…?».

«Sembra che sia una questione di ore e Vittorio Emanuele III affiderà l’incarico di formare il Governo a Giovanni Giolitti».

Balestrieri cercò rapidamente di comprendere quali sarebbero state le conseguenze: Giolitti, abile politico, era uno di quelli che non aveva mai approvato l’impresa africana; negli ultimi tempi la situazione in Italia era diventata sempre più turbolenta in quanto la gente, soprattutto le classi più umili, era insoddisfatta e di fatto la conquista africana era stato solo il miraggio di un bramato benessere.

«Ora che cosa accadrà?».

«Dimmelo tu, ragazzo. Dopotutto sei abbastanza intelligente da capirlo da solo».

«Giolitti ci inviterà a una politica di contenimento. Niente più supporti economici e militari. Finiremo per barricarci sulle nostre posizioni e diventeremo un bersaglio fisso per i ribelli».

«Esattamente».

«Il sogno di Crispi era così fragile da non sopravvivere nemmeno pochi giorni senza di lui?» sospirò il giovane sconvolto dal rapido succedersi degli eventi.
«Sopravvivrà finché noi resisteremo» replicò Baldissera. «Continueremo noi il suo sogno, ti pare abbastanza romantico?» lo derise.
Giuseppe Balestrieri alzò gli occhi al cielo, non riuscendo a non pensare a quello terso e luminoso della sua patria.
 


Quello non era il suo sogno.
 
 
 

Note al testo:

La Chiesa dell’Assunta. In realtà ad Addis Abeba c’è la chiesa di San Giorgio costruita per volere di Menelik per celebrare la vittoria sull’Italia ad Adua. Essendo andate le cose diversamente e immaginando la presa della città in agosto, ho ritenuto opportuno dedicare la chiesa alla Madonna. L’ingegner Castagna, caduto prigioniero ad Adua, fu realmente costretto a progettare la chiesa di san Giorgio, poi costruita da altri prigionieri italiani.
I campi di rieducazione e internamento purtroppo sono realmente esistiti. Molti furono fondati tra il 1887 e il 1990, ma molto probabilmente funzionarono solo dopo la conquista fascista.

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